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ANGELO DE GUBEHNATIS
RICORDI BIOGRAFICI
PAGINE ESTRATTE
STORI* CONTEMPORftMEft LEÌTERARIH IT^LII^N^
SERVIGIO DELLA GIOVENTÙ
FIRENZE
Tipografa Editrice dell'Associazione
Via Valfonda, 70
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A SOFIA BESOBRÀSOFF
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Augclo Do Gubcrnatis.
RICORDI BIOGRAFICI
PAGINE mum DALLA STORIA CONTEMPORANEA LETTERARIA ITALIANA
IN SERVIGIO DELLA GIOVENTÙ
DA
ANGELO DE GUBERNATIS
PROEMIO
Imprendo opera assai malagevole e piena di rischi; il so; ne
per questo rinuncio al mio proposito; anzi, quanto meglio m'av-
veggo come ardua e perigliosa sia V intrapresa, e più mi s' accre-
sce l'animo di tentarla, non perch'io presuma soverchiamente delle
mie forze, ma perchè comprendo che può bastare la volontà ad
evitare i prementi opposti scogli, fra i quali, per lo più, in simili
viaggi, si naviga, per non convertire il ricordo in un panegirico
e nemmeno in un libello, per non farsi troppo timidi assentatori
0 detrattori troppo insolenti, per non rimanere né curvi né al-
tieri ma ritti nel cospetto di quegli uomini per più ragioni, seb
bene diversamente, e in vario grado insigni, de' quali mi propongo
qui di ragionare, con animo sereno e con mente tranquilla.
Non io piglierei la parola, se dovessi far paga la sola curiosità
iV un pubblico vago di novellette o le voglie appassionate d'alcuna
parte politica avida di scandali, o 1' ambizione d' oscuri autorelli
bisognosi di nomea o il volgare dispetto di qualche letterato in-
vido e maldicente; 1' uflìcio mio non vuol essere quello delle gar-
rule volanti gazzette, che nascono, vivono e muoiono spesso dei
loro pettegolezzi di un giorno. S' io mi riposo per qualche ora
da' miei viaggi molto solitarii nel mondo de' miti e delle parole,
per rientrare a favellar brevemente con gli uomini del mio tempo
e della mia terra, nessun altro desiderio mi vi spinge se non un
sentimento di riverenza modesta, di grato ricordo, verso quelli fra
i nostri vivi che mi sembrano aver lasciato una maggiore im-
pronta di sé nelle nostre lettere, per le quali il giovanile mio in-
gegno s'accese un giorno di sacro entusiamo. Questo entusiasmo
mi dura e mi conforta nelle poche ore d' ozio che i miei proprii
studii mi concedono; e come dura in me, che pure ebbi, nella rapi-
da vita, la mia parte di travagli e d'amarezze, vorrei che s'accendesse
nella nuova gioventù che ci vien dietro ed in cui sono riposte
tutte le nostre migliori speranze. Io vorrei dire a'giovani come mi
offenda la irriverente leggerezza, con la quale tanto spesso li odo
manifestare il loro parere sui nostri grandi; essi son nati col brutto,
mi perdonino la brutta parola ma risponde anche troppo alla cosa,
col brutto cancro della politica in corpo; essi non hanno ancora
appreso a leggere, intendo a legger con la testa (eh' è altra cosa
dal riunire e cogliere materialmente le parole con gli occhi) e già
hanno una loro esclusiva opinione politica e religiosa, secondo la
quale loro opinione poi trinciano i più assoluti giudicii sull' arte
e sulla letteratura, nate e fatte soltanto, a dar loro retta, per co-
lorire la loro peculiare idea, il loro privilegiato sistema, e le ra-
gioni sovrane della loro parte. Tutto ciò mi è disgustoso fino alla
nausea, tanto che provo il bisogno di ricrearmi in un mondo diverso
che mi s' affaccia oramai ne'soli ricordi e nelle speranze lontane. Io
spero non essere un lodatore troppo sospetto del passato; che mi pare
di far, secondo che le povere mie forze il comportano, la mia modesta
e diminutiva parte di trapelo, per muovere innanzi l'immenso carro
che porta al mondo il benefìcio della luce. Ma, per questa ragione
stessa, io sento spesso e vergogna e dispetto dell' attitudine dis-
graziata che piglia fra noi una parte soverchia della nostra gio-
ventù, la quale stima d' instaurare sapientemente la vil-a affettajido
un superlativo disprezzo per tutto ciò che non bestemmi cinica-
mente al pari di essa. Il cinismo è brutta cosa sempre, poiché
annunzia come tutte le facoltà più belle dell' uomo siano spente;
ma se il cinismo d' un vecchio, che ha patito molti disinganni e
dolorato molto, si può chiamare sventura, il cinismo d'un giovine
ributta ed è un vero sacrilegio. Sì, è un sacrilegio, poiché, in qua-
lunque religione si nasca, la natura dà ad ogni uomo che nasce
in custodia una sacra fiammella, perché egli la educhi, la alimenti
e comunichi, con essa, la sua parte di luce, di fuoco, di vita al
— 7 -
mondo; e s' ei la lascia ostinguere, prima ch'essa si espanda in
benefici incendii operosi, egli è un colpevole suicida. Io non ho bi-
sogno di dire ai giovani qual forma essi abbiano a dare alla loro
fede; ogni fede, pur che non divenga superstiziosa e idolatra, pur
che profondamente sentita, pur che sincera, pur che tollerante delle
fedi diverse o -gareggiante con esse solo nella grandezza delle opere,
ogni fede, io ripeto, può riuscir feconda di bene. E avere una
fede non vuol dire ascriversi ad una sagrestia, ad una camarilla,
ad una setta, ad un campanile, ma educarsi e scaldarsi nel cuore
e nella mente un ideale, moltiplicarsi nel sentimento, nel pensiero
nelle opere, vivere tutta intiera la vita. Ai giovani che, sulle note
in Msetto dei canti disperati del grande Recanatese, mi dicono: la
vita è un lungo e continuo e inutil tormento, io m'affretto a ri-
spondere: voi bestemmiate; voi non sapete ancora che cosa sia la
vita; voi non avete ancora dato alle vostre membra tutta l'agilità,
la sveltezza, la potenza della quale esse sono capaci , e che può
fornire a voi la bella e grande virtù del coraggio; voi non avete
ancora amato quanto si può amare né la vostra famiglia né la
vostra patria, né la bella ridente natura che vi circonda né la
vostra tenera sposa, né 1 vostri figli carezzanti, né l'arte, né la
scienza divina; voi non avete ancora provate le superbe ebbrezze
dell' intelletto che indaga mondi inesplorati e che agita in sé stesso
e produce fra i viventi nuove splendide forme ideali. Queste gioie
che voi non conoscete ancora le potrete conoscere, se il vogliate;
né allora voi vi dorrete più del peso della vita; e 1' esempio del
Leopardi mi giova appunto per citarlo contro di voi; la natura lo
fece disgraziatissimo; egli nacque informe, non potè viver tutto,
ebbe debolissimo il corpo; pur ne cavò tutte le scintille eh' ei potè;
studiò; amò invano; pensò molto, forse troppo, alle sue miserie e le
cantò; quindi si spense, non avendo potuto aggrapparsi a nulla di
solido nella vita, per ripigliare le forze d' Anteo, e rinnovare la lotta.
La sua vita fu una faticosa elegia, non perchè la vita gli sem-
brasse veramente cosi orrenda, com'ei l'ha cantata, ma perchè
orrendo parevagli il non poterne godere in tutta la sua pienezza;
s' egli teme la vecchiaia e n' ha orrore, ei non ci dice altro con
ciò se non eh' ei teme gli fuggano le forze necessarie per godere
la vita; assistere al giocondo spettacolo della vita e non poterne
sentir la dolcezza è il supplizio di Tantalo, supplizio, senza dub-
bio, crudele. Ma non è quello a cui siete chiamati voi, o giovani,
nei quali abbonda la forza e deve abbondar la speranza ; vivete
dunque, e spiegate liberamente tutta la vostra potenza vitale; di-
venite leoni, ripudiando ogni viltà; il non esser vile è una prima
condizione necessaria per riuscir grande. Poiché , io deploro
più che ogni altra cosa la mollezza che vi rende inerti, fatui, e
studiosi de' commodi vostri; parrai suprema disgrazia la tendenza
di molti fra voi ad ambire importanti cariche dello Stato prima
che abbiate durata alcuna lunga e seria fatica per conseguirle ; e
di studiare non più per la sete insaziabile della scienza, ma per
arrivare più presto al momento desiderato in cui non dovrete
studiar più ; di consegnare alla stampa ogni vostro esercizio let-
terario, e domandar premio di quest'audacia per cui meritereste
forse castigo. Perciò avviene che di nessuno scritto vostro si pigli
più cura l'età vostra non senza ragione diffidente, e che non ne
rimanga traccia alcuna nel tempo. A male siffatto, pur che il vo-
gliate, vi sarà agevole opporre un rimedio, ed io, per aiutarvi a
trovarlo, ed invogliarvene, mi sono proposto di scrivere i presenti
Ricordi, d'alcuni viventi uomini di lettere, ne'quali potrete, se non
altro, apprendere come la gloria durevole non si consegua altrimenti
se non durando, senza fine, nello studio e nel lavoro, e, ancora, per-
chè non vi accada di rimpiangere soverchiamente 1 vostri morti,
educarvi anzi tutto, al rispetto de'più benemeriti tra i vivi.
RICORDI BIOGRAFICI
ALESSANDRO MANZONI
Sentir. . . e meditar ; di poco
Esser contento*^; da la meta mai
Non torcer gli occhi; conservar la mano
Pura, e la mente ; de le umane cose
Tanto sperimentar, quanto ti basti
Per non curarle ; non ti far mai servo ;
Non far tregua coi vili ; il Santo Vero
Mai non tradir ; né proferir mai verbo
Che plauda al vizio, o la virtù derida... (1)
Chi segnava, or sono sessantasei anni, con nome all'Italia oscu-
ro, questo intiero programma di filosofia stoica, nella sua sempli-
citcà cosi eloquente, è vivo e glorioso per dirci come le promesse
della giovinezza generosa, volendo, si possano mantenere invio-
late per una lunga vita. E la vita del grande lombardo che il
mondo onora, è, invero, tersa come il più limpido cristallo, nel
quale può e deve la odierna gioventù specchiarsi, riverente e si-
cura.
(1) A Giulia Beccaria, Versi, in morte di Carlo hnhonati.
— 10 —
Mi è più d'una volta accaduto d'avvertire come il Manzoni ab-
bia una facoltà tutta sua propria di comunicare una parte del
proprio spirito, della propria maniera, del proprio stile alle per-
sone che, dopo avere usato famigliarmente con l'uomo, o nel di-
fetto di questo, co'suoi scritti, ragionano di lui o con lui. Scrit-
tori anche originalissimi depongono, inconsapevoli e come amma-
liati, la loro propria, più o manco, naturai veste, per conformarsi
al gusto elegantemente disinvolto, affabilmente malizioso, dignito-
samente simpatico del Manzoni, tosto che s'appressano a lui o ad
alcun soggetto che, per poco, il riguardi. Accingendomi pertanto
a discorrere intorno alla vita dell'uomo insigne, per quanto se
n'è manifestata al di fuori, avrei bisogno anch'io, come quel chieri-
chetto, di ricevere da Milano un po'di quel certo che, indefinibile
e tutto manzoniano, quod facit ita. Ma, poiché questa fortuna
non fu a me, nella vita, riserbata, debbo anch'io rimanermi con-
tento del poco, e, per non far peggio, ridurmi a raccogliere in-
torno al nostro comune maestro, quelle testimonianze che gli
resero quanti ebbero la ventura di mirarne dappresso le sem-
bianze venerate, udirne i discorsi sapienti, far tesoro di quegli
affettuosi consigli ch'egli non nega ai giovani, quando i giovani
gli sembrino forniti di qualche luìnen Dei e predestinati a diven-
tar uomini.
E, per incominciar bene, domando scusa a quell'anima eletta di
Giulio Carcano se, a rappresentar ne'giorni presenti il nostro
grande intemerato, io mi valgo di alcune belle parole sorprese in
una lettera, ch'egli usava la cortesia d'indirizzarmi il 27 febbraio
scorso <4 II Manzoni è ancora più grande come pensatore e come
uomo che come scrittore ; il Vero é la sua vita, la sua poesia, la
sua fede; il Buono la sua coscienza, la sua forza invincibile. Egli
compirà, tra pochi di, gli ottantasette anni, e la sua mente è
cosi viva, pronta e integra, come lo potè essere il giorno dopo
che scrisse l'ultima pagina dei Promessi sposi. »
Nacque Alessandro Manzoni il di 8 marzo dell'anno 1785 (1),
in Milano, da Pietro Manzoni e da Giulia Beccaria, figlia del ce-
lebre autore del libro Dei delitti e delle piene, sposatasi al Man-
zoni, il 12 settembre 1872, essendo auspice di quelle nozze il conte
Pietro Verri (2). D'ambe le parti era nobile il parentado; e in en-
(1) E non 1784 come scrivono i biografici francesi.
(2) Cl'r. Cantù, Beccaria e il diritto penale.
— 11 —
tranibe lo fami,i>lie si contava qualche autore; alla famiglia Man-
zoni aveva appartenuto la [)oetessa Francesca, morta nel 174.S a
Cereda presso Lecco, autrice di parecchie tragedie sacre, socia di
più accademie, e di un'opera inedita, che s'intitolava : Storia di
tutte le donne erudite di ogni secolo e di ogni nazione. Io lascio
ai fisiologi e psicologi il determinare quanto sangue, quanti nervi,
e quanto fluido vitale de'maggiori paterni e materni sian passati
nell'organismo del neonato meraviglioso fanciullo ; certo la natura
non lavora a caso, e il prodigio apparente non è altro se non il
risultato naturale di leggi costanti e immutabili le quali nella va-
rietà delle combinazioni creano effetti diversi. Ma non è da me
il penetrar questi misteri solenni della natura, quando è già
troppo più di quello che le mie modeste forze comportino, il mi-
surare l'altezza dell'ingegno e dell'animo dell'uomo vivente, nelle
sue esterne manifestazioni.
I primi studii Alessandro Manzoni intraprese in Milano, e ter-
minò in Pavia, avendo nella sua fanciullezza perduto il padre, e
stando lontano dalla madre, che s'era raccolta a vivere in Parigi,
dove l'esser figlia del Beccaria e le distinte sue qualità personali
le avevano agevolmente schiuso i saloni della splendida società
d'Auteuil, ne' quali gli ultimi campioni della filosofia francese del
secolo decimottavo solean convenire a geniale ritrovo. La Cabanis
e M.""^ de Condorcet, Volney e Garat, Tracy e Fauriel, rinfre-
scavano ancora il frizzo volteriano, ma non senza il presentimento
di una nuova vita ideale, la vita della scienza edificatrice, che s'an-
nunziava, malgrado lo strepito rovinoso e inconsciente delle guerre
napoleoniche. Il giovinetto IManzoni, come molti de' giovani di
quel tempo intesi agli studii, secondando la sua naturai disposizione
al motto spiritoso, s'innamorò facilmente, alla prima, d'una filosofia e
letteratura tutta motteggio; e, poiché dello spirito n'aveva d'avanzo,
gli dovette riuscir facile aggravar di nuovo ridicolo le forme esterne
d'una religione caduta allora in dispregio. Ma l'incredulità era al
di fuori soltanto; a non credere l'avea portato la tendenza uni-
versale del secolo decimottavo, non la sua intima persuasione ;
egli negava, e certamente, quando ai motti altrui aggiungeva il suo,
non intendeva, non credeva di dare alla sua negazione quella forza
distruttiva ch'essa pareva contenere. Il giovine Manzoni era for.se ma-
lato anch'esso di una gran malattia morale, comune pure a molti gio-
vani dell'età nostra, una malattia funesta, a non guarirsene in tempo;
questa malattia è l'ipocrisia del vizio, che arriva al suogrado estremo
di miseria, quando essa crede invece di arrivare al sommo del sublime^
— 12 —
per quella che i tedeschi chiamano espressivamente die selbsi-ironìe
(l'ironia contro sé stesso). La smania deplorevole di parere inge-
gnosi ci rende facilmente tristi ; neghiamo sbadatamente quelle
cose, che, pur fatta astrazione d'ogni fede religiosa, ci sono più
sacre, pur di lanciare una frase che faccia fortuna, e di renderci
piacevoli alla brigata che c'incorona oggi, per evitarci forse do-
mani come uomini di moralità sospetta e sopra i quali non si può più
contare. Il giovane Manzoni dovette bere egli pure a quella fonte vele-
nosa, non tuttavia in tal forma e in tal copia da perdervisi. Era
in lui una virtù riposta che lo chiamava a risorgere, e, quali siano
poi state le occasioni particolari della sua vita che lo abbiano risve-
gliato a parlare ed operare intieramente da uomo fra i veri vi-
venti; noi non dimentichiamo che, quindicenne, egli già cantava in
un sonetto inedito, ad una Laura misteriosa e forse immaginaria,
come la gentilezza e nobiltà d'animo di lei le avessero inspirato
l'amore, e come egli avrebbe amato esser nobile e gentile, per una
semplice e delicatissima ragione, espressa in un verso che dice
molto in poco, come tutto ciò che Manzoni suol dire :
Per ch'io non posso tralasciar d'amarti.
I biografi sono molto discordi nel determinare l'anno della conver-
sione del Manzoni dall'ateismo alla fede. Ed io, per non aggiunger
maggior confusione alla loro, lascierò stare la cronologia, che è poi, in
una simile questione, cosa molto indifferente. La conversione del Man-
zoni non avvenne in un solo giorno, per colpo d'una bacchetta ma-
gica; l'amore, che fece altri miracoli, deve, senza dubbio, aver fatto
anche quello di risvegliare più presto Alessandro Manzoni alla
fede; ma oltre che era in lui abbondante la materia prima, la ma-
teria generosa ed infiammabile, si può aggiungere che quanto
egli durò ad amare, tanto durò pure a convertirsi; né io vorrei
parergli irriverente sostenendo ch'egli, già tanto vicino alla per-
fezione, va tuttora operando la sua Conversione per dar ragione
a sé stesso, e avvicinarsi di più a
... Quei ch'eterna ciò che a Lui somiglia (1)
(1) Yeì'si in morte di Carlo Imhonati.
— 13 —
e nel Quale, all'età di 21 anno, egli mostrava già palesemente di
credere, come nel tìne del sonetto a Francesco Lomanaco, scritto
nel suo ventesimo anno, ad imitazione del Filicaia, è agevole pre-
sentire il futuro poeta civile.
E fu pure nell'anno 1805 ch'egli, recatosi a Parigi per vivere presso
la madre, conobbe il Fauriel, lo frequentò alla Maisomiette, presso
la Condorcet, gli divenne amico ; fu nel 1806, che gli lesse i suoi
versi per la morte dell'Imbonati, e nel 1807 che gli diede a leg-
gere il poemetto d' Urania; in que' tre anni, in somma, che
nacque veramente all'Italia il nuovo Manzoni.
Egli avea ad operare in sé una duplice conversione, morale l'una,
letteraria l'altra; i suoi versi ci rivelano ch'egli ha già vinto il
più nella prima battaglia ; l'ateo è scomparso ; della seconda bat-
taglia siamo ancora alle prime scaramuccie ; gli esemplari de' clas-
sici italiani, i carmi foscoliani e pindemontiani, i versi dell'asti-
giano, i poemi di Parini e di Monti sono ancora troppo freschi
alla memoria del giovine poèta, perchè egli osi troppo disco-
starsene, innovando; li imita dunque, o piuttosto, li ricorda tutti,
ma il contenuto già fa scoppiare il contenente; i pensieri premo-
no, e domandano una forma più disinvolta, più larga, più commoda;
egli se ne preoccupa; ne' versi per l'Imbonati ha promesso di riu-
scire un uomo, e non ruppe mai la fede data agli uomini; nel poe-
metto d' Urania, ha espresso il suo desiderio di diventar vate sacro
d'Italia, cantando :
profondo
Mi sollecita amor che Italia un giorno
Me de'suoi vati al drappel sacro aggiunga,
Italia, ospizio delle muse antico,
e si preoccupò quindi nel cercare quella foruìa originale, che do-
vea permettergli di divenire in breve l'autore degli Inni sacri.
« I due amici, scrive Sainte Beuve (1), nel suo ritratto di Fau-
riel, andavano fra loro discorrendo del fine supremo di ogni poesia,
delle false immagini delle quali era anzi tutto necessario spo-
gliarsi, della bella e semplice arte che si dovea far rivivere... La
poesia deve uscire dal cuore^ bisogna sentire, e saper esprimere
(I) Portraits contemporaina.
— 14 —
i propri sentimenti con sincerità. Era quello il primo articolo
della riforma poetica meditata tra Faiiriel e Manzoni. » E l'ami-
cizia di Fauriel fu nella vita del Manzoni una delle sue migliori
fortune, non solo perchè l'amicizia fra due giovani onesti e di
cuore è sempre feconda di bene, ma perchè osservando l'effetto
che i suoi propositi e le sue idee novatrici facevano sull'animo e
sull'ingegno del Fauriel, e discutendo coH'amico i suoi dubbi egli
arrivava più presto e più sicuramente a trovare quel giusto punto,
che tal volta rimane velato da un illusione la quale per eufemismo
ci compiacciamo chiamare poetica, tal altra da quella inerzia della
mente che ci fa spesso arrestare al primo aspetto d'una questione^
che non è sempre il vero e di rado può essere l'aspetto completo.
Urtandosi le idee, sfavillano, si provano, e si misurano; al lampo
di quella luce, se ne scorge la forza, l'estensione e l'eflìcacia reale;
poiché le buone, ad ogni nuovo urto, mandano sempre qualche
nuova e più viva e più schietta scintilla, e resistono ; le fittizie
si stancano e diventano presto inerti, e incapaci di sostenere qual-
siasi nuova prova. Perciò, quanto io sento e deploro l'oziosità di
molti se non di tutti i monologhi accademici, tanto parmi che si
debba far coraggio ai giovani studiosi perchè si raccolgano spesso
a discutere intorno ai loro studii, per provarsi o darsi luce a vi-
cenda, nella ricerca del vero. La intolleranza delle opinioni altrui
dipende in gran parte dall'assoluta persuasione, nella quale, per
difetto di discussione, siamo noi tutti che la sola opinione buona
è la nostra; proviamoci invece a discuterla, e, oltre che 1' acco-
steremo forse di più a quella verità, della quale ci presupponiamo
i sacri e privilegiati depositarli, apprenderemo pure un po' di
quella benedetta virtù che non è mai troppa, avuto riguardo
alle frequenti tentazioni che abbiamo di farne a meno, io voglio
dire un poco più di modestia.
Nel 1808, Alessandro Manzoni si sposava con Luigia Enrichetta
Blondel figlia d'un banchiere ginevrino. La luna di miele fu lunga
e piena di gioie , ed a quella benedetta luna di miele l' Italia va
debitrice de'gioriosi Inni sacri, destinati a festeggiare, secondo il
rito cattolico, le nozze de'due sposi redenti.
Poiché, quando il Manzoni dall'ateismo era già passato alla fede,
la sua donna dalla chiesa di Calvino si raccolse nel seno della
chiesa cattolica. Per quanto simili conversioni individuali provino
poco 0 nulla in favore della chiesa, che il Manzoni nella Morale
Caltolica ha con tanta sincerità difesa, e non sembri rigorosa-
mente necessario d'essere devoto cattolico per mantenersi buon
— 15 —
Cristiano, e neppure d'essere Cristiano per credere alla virtù e
praticarla, noi dobbiamo benedire quell'unione d'anime in una fede
che parve loro la migliore, poiché da quella credenza nel meglio,
riposto, a suo credere, nel cattolicismo, derivò il Manzoni le più
alte inspirazioni dell'arte sua. Manzoni ateo od anche protestante
non ci avrebbe dato mai né gli Inni sacri, né fra Cristoforo, né
il Cardinal Borromeo ; e, perdendo questo, avremmo forse, ad es-
sere schietti, perduto il meglio di lui, Manzoni ha voluto serbarsi
cattolico fino allo scrupolo; e per noi questo é il so'o vero modo
onesto di credere, quando si crede, d'arrivare all'entusiasmo e di
farlo sentire. A lui parve che gli mancasse il più, mancandogli la fede
nel sovrannaturale ; e s' aggrappò come un naufrago disperato
alla Croce che divenne sua vera tavola di salute. Egli umiliò la
superbia dell'intelletto alla fede, e disse a sé stesso : più in là non
domanderai; dove l'occhio umano non vede più nulla, il tuo orgo-
glio deve pure cadere; cercò pertanto rifugio ne' libri Santi, e da
quelli, come i primi Cristiani, tolse coraggio e forza di credere
senza discutere, ammirando sovra ogni cosa nel mondo la religione
perchè sovra ogni cosa nel mondo la religione ha virtù di con-
solare.
Ma non era da prevedersi che la conversione del giovine poeta
avesse a passare senza rumore. Ne' versi per l'Imbonati, il Man-
zoni ci fa già sentire ch'egli ha provato 1' acre morso insidioso
della calunnia, quand'egli canta:
Nò l'orecchio tuo santo, io vò del nome
Macchiar de' vili, che oziosi sempre,
Fuor che in mal far, contra il mio nome armaro
L'operosa calunnia, A le lor grida
Silenzio opposi, e a l'odio lor disprezzo.
Il buon cattolico, pochi anni dopo, invece di disprezzo avrebbe
forse scritto perdono; ma il Manzoni di 21 anno, non è ancora
arrivato, alla sua serenità buddhistica, alla sua calma olimpica,
alla sua eccellenza cattolica. Egli combatte ancora. Gli Inni sacri
vengono a provare chi egli ha vinto.
Sorge allora nuovamente e si propaga la calunnia, cercando ad
una conversione naturalissima le più remote e strane cagioni; ma,
-per difetto d'alimento, è obbligata, in breve, a cadere ; la sdegnano,
la ripudiano, l'atterrano quegli stessi che speravansi più pronti
alla credulità, e il credente Manzoni, tra l'altre consolazioni, potò
— 16 —
allora provar quella di vedersi animosamente difeso da un grande
che non divideva senza dubbio i sentimenti religiosi da lui pro-
fessati, ma che aveva una fede illimitata nella sincerità del gio-
vine poeta indegnamente calunniato. « Foscolo, scrive Silvio
Pellico a Nicomede Bianchi, (1) vedeva in Manzoni un giovine lette-
rato di grandi speranze, l'onorava e lo difendeva contro chi bef-
favasi della religiosa credenza a cui Manzoni era di recente pas-
sato, dando le spalle all'ateismo. Foscolo chiamava que' beffatori
i fanatici della Filosofia, vantandosi esso di sprezzare non i cre-
denti, ma i soli ipocriti ».
E un solo sincero credente poteva immaginare e comporre gli
Inni Sacri; dopo la prima edizione, l'Autore li ha riveduti e cor-
retti, ma non per mutarne lo spirito; l'artista ripuli l'opera sua
al di fuori, ma l'anima era dentro e vi rimase quale il Manzoni,
inspirato dai libri santi e dagli inni sacri della Chiesa ve l'aveva
soffiata la prima volta. È probabile che il Manzoni, in età più
matura, avrebbe vestito di forme più lucide e più popolarmente
eleganti gli Inìii Sacri, come, in ftitto d'eleganza, l'Ode famosa
del Cinque Maggio li ha facilmente superati, e come forse li vin-
ceranno gli inni inediti di Manzoni (vuoisi che il Manzoni abbia
portato gli Inni sacri al numero degli Apostoli) nati in un tempo nel
quale l'ingegno del Manzoni era arrivato alla sua perfetta maturità.
Ma, quali sono, gli Inni Sacri hanno creato in Italia una nuova for-
ma di poesia, il contenuto della quale che si giudicò, in quei
tempi, romantico, era semplicemente biblico. Il Manzoni ha il gran
merito d'avere liberato in Italia la poesia cristiana dalle forme
convenzionali ereditate dal paganesimo; forme convenzionali per
noi moderni, che ci studiamo d'imitarle, mentre invece per gli
antichi erano proprie, naturali, e frutto spontaneo e necessario
di quella civiltà. Egli restituì ai poeti d'Italia la loro libertà, e,
col proprio esempio, disse loro: essendo cristiani, inspiratevi da
Cristo; essendo moderni, diffondete la parola di Cristo con la lin-
gua vostra, ch'è la lingua del cuore.
Per questo rispetto, gli Inni Sacri segnano nella storia della
nostra poesia una vera rivoluzione, della quale sarannno sentiti
per sempre, ed invano si dissimulerebbero, i benefici effetti. Io
non chiamo, senza dubbio, tali i numerosi inni nati di poi in va-
(1) Pellico, Epistolario.
— 17 —
rie parti d'Italia ad imitazione di que'primi che avean fatto for-
tuna; gli imitatori avevano ne'loro esercizii dimenticato l'essen-
ziale, cioè che per cantare la religione bisogna portarla nell'anima;
essi lavoravano a soggetto come gli antichi istrioni, sul modello
degli Inni Sacri, ma per istemperare i primi colori, stancare le
prime immagini, e dir poco in molto, come il Manzoni avea detto
molto in poco. E questo carattere distintivo della poesia manzo-
niana parmi pure creare il suo difetto principale; poiché lo stu-
dio di restringere un gran senso in brevi parole, fa si che talora
queste brevi parole siano adoperate ad esprimere più che natu-
ralmente esse non potrebbero, e a diventar talora semplici for-
mole astratte; il che se prova la potenza del poeta nel concen-
trare le sue idee, impedisce per altro che la sua poesia riesca
popolare, e le toglie molta parte di quell'impeto lirico e di quel
calore che si comunica, tanto necessario ad ogni poesia, ma alla
lirica religiosa in modo specialissimo. Manzoni giovine fece opera
di vecchio, costringendo in un linguaggio matematico le verità
della religione che gli erano nuovamente apparse in modo lumi-
noso; si direbbe ch'ei volesse porsele innanzi, ed estrinsecarsele
in una forma più precisa per potersi meglio persuadere della loro
realtà e più durevolmente contemplarle ed adorarle. Ma ci sembra
di non rischiar troppo, dicendo come Manzoni vecchio, innamorato
com'egli è e maestro nelle bellezze del linguaggio popolare, se do-
vesse oggi cantar la religione, sceglierebbe una via opposta a
quella ch'ei tenne in gioventù, escludendo ogni parola equivoca
che il popolo non potesse comprendere da sé, ed ogni trasposi-
zione men naturale di parole, per riuscire subito al desiderato
effetto di dare al popolo un canto che non muoia appena recitato,
che si diffonda senza bisogno di interpreti, e che consoli vera-
mente chi si muove a cantarlo.
Ma l'Autore degli Inni Sacri sarebbe forse in Italia passato in-
discusso e inglorioso, se altri suoi componimenti successivi non
l'avessero portato d'un tratto alla celebrità.
Noi sappiamo da Salute Beuve, che il giovine Manzoni medi
tava a Parigi un lungo poema sopra la fondazione di Venezia
ma, se di quel tentativo letterario non ci è pervenuta altra noti
zia, è lecito supporre che fin d'allora, leggendo le storie di Ve
nezia, abbia il Manzoni trovato il germe del suo Conte di Car
magnala, cui pose la mano a Milano nel 1816, e terminò a Pa
rigi nel 1819, dopo averlo fatto leggere al suo Fauriel, al quale
venne dedicato in attestato di cordiale e riverente aynicizia. Fau-
RicoRDi Biografici 2
- 18 —
riel era stato il padrino dei primi lavori poetici del Manzoni,
avea tenuto al fonte battesimale il primo fi'utto delle nozze di lui
con la Blondel; era giusto che il primo lavoro nel quale il Man-
zoni annunziava e discuteva pubblicamente la sua riforma lette"
raria, gli fosse dedicato. Il Conte di Carmagnola era la prima
tragedia italiana che facesse a meno delle famose unità di luogo
e di tempo; il poeta non solo le mette da parte, ma, in un discorso
che nella nostra storia letteraria segna un movimento importante,
indica con molta chiarezza le ragioni che lo indussero a intro-
durre nel teatro italiano una così ardita novità. In Italia, come
accade spesso, non se ne diedero per intesi, se non dopo che in
Francia, Inghilterra e Germania si fece caso di. quella pubblica-
zione, come d'un grande avvenimento.
Col suo Conte di Carmagnola, dieci anni prima che apparisse
VHernaìii di Vittor Hugo, il nostro Manzoni inaugurava la scuola
romantica. E in Francia e in Italia, ove la tragedia classica regnava
assoluta ed inviolabile, dovette parere quel primo tentativo un
atto di grande temerità; l'Inghilterra, invece, che aveva avuto il
suo Shakespeare e che battagliava allora intorno al gran nome
di Byron, e la Germania che aveva applaudito agli ardimenti di
Schiller e di Goethe, non poteva far altro se non coronare di un
verde lauro glorioso il capo del giovine e felice novatore lom-
bardo. Allora il Manzoni incontrò la sua massima fortuna lettera-
ria, avendo avuto la consolazione ineffabile per un uomo di let-
tere, d'esser letto, compreso e pubblicamente applaudito da un vero
grande, da Volfango Goethe. Dalle lodi che i vecchi saliti in fama
sogliono con modesta liberalità consentire agli scrittori nascenti,
questi devono più spesso argomentare della bontà dell'animo dei
vecchi, che fidare soverchiamente nel proprio valore e, boriosi,
impancarsi fra gli immortali. Io non potrei quindi biasimare ab-
bastanza que'nostri giovani, i quali per quattro righe di compli-
mento messe per gentilezza squisita in carta da qualche letterato
in fama, se ne fanno arma contro la indifferenza del pubblico e contro
la tentazione de'critici a scoprirvi difetti, e fors'anco a disapprovar
l'opera loro. Certe lodi generiche fritte all'ingegno d'un giovane, od
ai suoi studii, o al suo buon gusto, e certi incoraggiamenti a pro-
seguire per una via felicemente intrapresa, lasciano il tempo che
trovano, e .se provano cortesia in chi di lodi siifatte è generoso,
provano piccolo ingegno in que'giovani che se ne tengono paghi,
per riposare sulle loro prime e per lo più molto innocenti e poco
sudate fatiche. Ma il Cr(jethe fece assai più che restituire un com-
— 19 —
plimento al Manzoni. Egli lesse il Conte di Carmagnola del
Manzoni, senza che questi ne sapesse nulla, lo lesse, lo studiò,
se ne persuase, e spontaneamente ne scrisse una lunga, meditata
analisi nella Rivista di Stoccarda, Ueher Kunst uncl AUerthitm.
Un genio divinò l'altro, e prossimo ad abbandonare la scena olim-
pica del mondo, il vecchio Giove tedesco ci assicurò che l'Olimpo,
alla sua scomparsa, non sarebbe rimasto deserto, e che la vita
dello spirito non si sarebbe fermata. Parini benedice Foscolo;
Foscolo difende Manzoni, e Goethe se lo pone sul suo proprio piede-
stallo. Lo stesso Manzoni dovea poi benedire alla sua volta Mas-
simo d'Azeglio e Giuseppe Giusti; così gli spiriti magni si seguono
e si legano in alleanze magnanime, e, per una vicenda gloriosa,
l'ideale si eterna. Il Goethe notò, fra l'altre cose, come nel suo
discorso sulle unità, il Manzoni, sebbene tratti un argomento noto
e già risoluto in Germania, vi dice, dal suo punto di vista, come
uomo d'alto ingegno, e come italiano, cose nuove ed importanti
a conoscersi anche dai tedeschi; e quindi esamina, singolarmente,
le numerose bellezze della tragedia. E in vero, per quanto si po-
trebbe desiderare che il soggetto fosse più interessante, il dialogo
più drammatico, il verso più colorito e più poetico, il tutto più
caldo, più rapido e più animato, la verità e dignità de'caratteri,
l'ordine con cui l'azione è svolta, la morale che lo governa, la
passione del quinto atto e l'inarrivabile bellezza del coro che de-
plora le discordie italiane, oltre alla felice dimostrazione della tesi
letteraria che l'autore s'era proposto di risolvere, tutto dimostra
un ingegno armonico e sicuro, un grande maestro dell' arte, e
un' anima grande in cui la sola virtù doma le passioni, le pone
in equilibrio, e le adopera provvidamente per i suoi fini ideali,
che per quanto molte[!lici sono sempre concordi. Già il Goethe
osservò contro il critico del Qimrterlij Revìew, come « nella tra-
gedia del Manzoni {Il Conte di Carmagnola), quel coro che tanto
esalta ed inlìamma giungerebbe inefficace se non avesse a com-
mento i due primi atti; e così la commozione della scena finale,
senza la preparazione degli ultimi tre atti, sarebbe o debole o
nulla. Un ode non si regge da sé; deve muovere da un elemento
agitato. » E questo elemento agitato, oltre che nel dramma, si
trova nell'amor patrio caldo e generoso del poeta e nelle passioni
politiche del tempo in cui il coro della battaglia di Maclodio fu
scritto. Quel leggiadro componimento letterario ch'è la France-
sca da Rimini di Silvio Pellico destò l'entusiasmo per due soli
versi. L'uno è quello in cui Paolo dice alla bella cognata ch'egli
— 20 —
l'ama disperatamente, un modo d'amare, per dire il vero, che non
dovrebbe infiammar tanto i grandi attori i quali recitano tal par-
te, e alla loro volta infiammano di sacro fuoco gli spettatori, i
quali non pensano più che tanto, in quel punto, che l'amore di-
sperato, l'amore senza speranza, la disperazione non è il grado
massimo dell'amore, ma si invece quello che prepara molto filoso-
ficamente all'indifferenza; col che non intendo senza dubbio appuntar
que'versi del Pellico, ma sì il modo troppo eroico con cui sono detti.
Ogni amatore sa che, a quel punto in cui riesce a destar la pietà
nell'animo d'una donna gentile, ei può dire che la vittoria è sua,
e Paolo, quando ha detto e ripetuto che egli ama Francesca, e
quindi s'abbandona ad un lamento che lo mostra disperato alla
sua bella donna, non ha più nulla ad aggiungere per farla sua
veramente. L'altro verso è una esclamazione, un'evocazione, un
grido di risurrezione lanciato all'Italia:
Polve d'eroi non è la polve tua?
verso che tocca sempre le fibre del patriota italiano, e che, detto
bene, non si può riudire senza fremere.
Ma il coro della Battaglia di Maclodio dice ben più, e quanti
si rallegrano dell'Italia una, come in Mazzini il suo più costante
apostolo, devono salutare in Alessandro Manzoni il suo illumi-
nato profeta. Si pensi al tempo in cui que' versi furono scritti;
dopo la signoria francese, l'austriaca opprimeva le genti lombarde
nel nome della santa e paurosa Alleanza; Manzoni lombardo vede
l'Italia divisa e discorde, e Jo straniero in casa; e animato dal
soffio di Dante; afferma l'unità della patria, la fratellanza degli
italiani:
Siam fratelli, siam stretti ad un patto
e domanda loro, contro chi essi impugnino le spade, e
Qual è quei che ha giurato la terra
, Dove nacque far salva, o morir?
Manzoni, poco più che trentenne, ha già fermate tutte le sue
idee più originali: in ogni suo scritto egli ne svolge una princi-
pale, ed accenna alle altre non secondarie, ma ch'egli riserva come
addentellato per futuri edifìcii che la sua mente architettonica ha
già combinati.
— 21 —
Nel coro del Car^magnola, egli ha detto che gli italiani
D'una terra son tutti, un linguaggio
Parlan tutti...
e queste parole servono di tesi alla futura lettera sull' Unilà della
lingua.
Il Conte di Carmagnola fu tradotto in prosa francese dallo
stesso Fauriel; e fra i suoi critici francesi giova rammentare il
Chauvet che, nel Lijcée frangais, con una critica rispettosa com-
battè il sistema drammatico del Manzoni, poiché quella critica
diede occasione alla lunga e sapiente lettera dello stesso Manzoni
al Chauvet sulle unità drammatiche e sopra l'eleuiento storico in-
trodotto nella drammatica, che apparve nel 18"23.
Il Goethe aveva notato, circa la distinzione di caratteri storici ed
ideali fatta dal Manzoni nel Conte di Carmagnola : « Non vi sono,
propriamente parlando, personaggi storici in poesia; solo, quando il
poeta vuol rappresentare il mondo morale che ha concepito fa a
certe individualità ch'egli incontra nella storia l'onore di pigliare
ad imprestito i loro nomi per applicarli agli esseri ch'egli ha
creati. » Il Manzoni, rispondendo nel 18:21 al Goethe, confessa
candidamente che la distinzione di personaggi storici e ideali era
stata un suo sbaglio, e che lo avrebbe evitato nel nuovo lavoro
al quale attendeva. Ma, neW Adelchi, ancora, malgrado il suo stu-
dio d'attenersi scrupolosamente alla storia, il Manzoni non potè
impedire che il personaggio del figlio di Desiderio, ossia il più
importante, riuscisse quasi esclusivamente ideale, e che in Adelchi,
meglio del rozzo principe longobardo, i suoi intimi amici ricono-
scessero il nobile, gentile e pio cavaliere lombardo, l'autore stes-
so (1). Il Goethe considerava la poesia drammatica da un punto
di vista opposto a quello in cui il Manzoni si compiacque. Il Goethe
poneva il colorito storico nel fondo, e su questo fondo credeva le-
cito al poeta d'inventare; il Manzoni volle, nel dramma, essere esatto
fino allo scrupolo e cavare la poesia dalla storia, piìi tosto che alcuni
firofili della storia da una viva poesia. Scrivendo intorno sdVAdel-
chi, il Goethe si esprime così: « Se il. Manzoni si fosse persuaso
(1) Cfr. l'opuscolo intitolato: Interesse di Goethe per Man^nni, ov'ò
riferita una conversazione fra Cousin e Goethe intorno :il Manzoni.
22
in tempo essere diritto inalienabile del poeta il modificare a suo
talento le, tradizioni favolose, e trasformare in favolosa tradizione
la storia, avrebbe cansata la dura fatica, che dovè certo durare
per fondar la finzione, fin nei più minuti particolari, sopra stori-
che incontrastabili prove. Ma, poich'egli è a queste cure portato,
come manifestamente appare, dall'indole dell'ingegno suo, noi
confessiamo da codesto suo sistema provenire un genere di poesia
tutta propria di lui, e che nessuno potrà imitare. » Nulla di più
giusto, per quanto parmi, di questa osservazione del Goethe. Il
Manzoni che ha presentito tante cose nuove e grandi nel mondo
dell'arie, e che ha imparato tante cose sapienti dal popolo, non mi
sembra aver allora posto mente al modo con cui il popolo è poeta, e
crea le sue epopee. Ed è a meravigliare come il suo ingegno pe-
netrantissimo, nell'accostarsi al personaggio di Carlomagno, e
nello scorgere la doppia figura di lui, la storica e la leggendaria,
non abbia sentito che la figura leggendaria, lavorata in più secoli
dalla immaginazione popolare, fosse la sola che potesse tentare un
grande poeta a rappresentarla. Il poeta tragico ed epico deve ap-
prendere dal popolo il modo con cui si possa creare poeticamente
sopra un fondo storico ; il popolo non è punto infedele alla storia,
nell'essenziale, ma ingrandisce le proporzioni dei personaggi sto-
rici e li idealeggia col trasformarli in eroi conformi a que'tipi
universali che la tradizione gli pose nella mente, e ch'egli colo-
risce secondo i nuovi aspetti locali ne'quali li raffigura. E la tra-
gedia e il poema non può far a meno che rappresentare degli eroi;
per dare la notizia degli uomini, basta la nuda cronaca; e ogni
studio che facciamo per porli artisticamente in evidenza, porta in
sé qualche cosa di soggettivo, che distrugge la realtà dell'oggetto
storico da noi contemplato. Con la preoccupazione scrupolosa della
verità storica, ogni creazione poetica riesce impossibile ; e il poe-
ta si rivela solamente in que'punti ne'quali lo storico si nasconde;
tutto diviene anacronismo, inconseguenza, eccezione al poeta che
voglia rappresentare drammaticamente, nella sua realtà, un fatto
storico, incominciando dalla parola ch'è sempre contemporanea a
noi e non mai ai personaggi che se ne servono, fino al modo
sempre convenzionale in cui si è costretti a lasciar svolgere
l'azione.
Per quanto s'ami dunque il vero, non si può escludere la finzione
dall'opera d'arte; sopprimendo la finzione, ogni forma artistica deve
cadere.
Ora io non comprendo per quale scrupolo, avendo sacrificato il
— 23 —
più si ponga una specie di religiosità per conservare i caratteri
della verità, a quello clie nell'arte importa meno. Non si può appli-
care la fotografia ad una storia sulla quale è sempre lecito il di-
scutere ; e quando pur si potesse, l'arte avrebbe poco merito in
una simile riproduzione. Si avrebbe, nel migliore de'casi possibili,
la negativa d'un ritratto, ma non il ritratto a mano coi tocchi di
un grande maestro. Ed io temo assai che uno de' motivi per cui
si arrestò cosi presto la mano del Manzoni, intenta a crear poesie
originali, sia pure stata la sua propria critica, sempre vigile a
rammentargli il pericolo che l'invenzione riesca una menzogna. Ep-
pure. neW Adelchi, ciò che v'ha di meglio trovato è quanto riguarda
il personaggio stesso ideale d'Adelchi; i passi più belli sono quelli nei
quali le reminiscenze della storia cedono il campo all'immagina-
zione del poeta, che inventa, narra e descrive, per non parlare
del coro stupendo d'Edmengarda, e de'robusti dodecasillabi, in
parte forse mutilati, che rappresentano agli italiani gli orrori delle
invasioni barbariche :
•< Col novo signore rimane l'antico,
L'un popolo e l'altro sul collo vi sta;
Dividono i servi, dividon gli armenti.
Si posano insieme sui campi cruenti
D'un volgo disperso che nome non ha.
Di Adelchi e d'Edmengarda che il Manzoni ci offre illuminati
da una luce tutta ideale, noi possiamo dire; se non furono tali,
avrebbero potuto essere ; quel secolo diede pure dei santi e delle
sante alla Chiesa; sul fine d'Adelchi la storia è incerta; egli
avrebbe pure potuto finire in un convento, vedendo come:
Una feroce
Forza il mondo possiede, e fa nomarsi
Dritto. . .
Versi memorabili che servivano benissimo a darci il carattere
del nono secolo, e al tempo stesso, flagellavano, dopo la fallita
rivoluzione del 1821, gli eccessi della Santa Alleanza. Quanto
agli altri personaggi che il Manzoni disegnò conformemente alla
storia, può invece domandarsi se la storia altrimenti consi-
derata e studiata non li lascierebbe, qualclie volta, risultara
diversi. La tragedia, secondo la poetica manzoniana, dovrebbe
— 24 —
riuscire un quadro storico e la forma drammatica servire d'un
pretesto per mettere sotto gli occhi un' età remota, derivan-
done l'occasione a velare consigli e insegnamenti civili ai presenti.
Convien dire che il Manzoni si è servito in modo meraviglioso di
queste occasioni ch'egli s'è create per comporre cori inimitabili;
ma, quanto piìi il coro manzoniano si innalza, e più si sente come
la tragedia stessa corra troppo dimessa sulle umili traccie della
storia; si direbbe che il Manzoni fa a fidanza con que'personaggi
cli'egli non ha creduti degni di venir idealeggiati, in un modo non
troppo dissimile da quello che usano i grandi attori tragici, i quali
stimano avere tanto più risalto, quanto meno splendida siala turba
de'fratelli d'arte che li circonda.
Il coro manzoniano è 11 principale, al quale s'inchinano i perso-
naggi del dramma che gli fanno corona. E queste considerazioni
nascono tanto più naturali, dopo la lettura del discorso sopra alcuni
punti della storia longobarda, aggiunto a.\V Adelchi, discorso il qua-
le, mentre inaugura sapientemente la critica storica in Italia e rende
cosi un nuovo grande servigio agli studiosi italiani, fa un pessimo
servigio al Manzoni stesso, come poeta, distruggendo l'efficacia di
queW ArMcJii che si propone d'illustrare. Chi legge V Adelchi, senza
aver letto il Discorso, per quanto appaiano pallidi alcuni de' per-
sonaggi tolti alla storia, finisce per sentir simpatia per i casi di
Edmengarda, di Adelchi e del re Desiderio, per temere che i
Franchi passino veramente le Alpi, per abborrire i traditori che
aprono la via al nemico invasore, e per odiar questo nemico. Un
lettore non prevenuto da veruna discussione finisce, in somma, di
commoversi. Ma, in chi legga il Discorso critico dell'autore, ogni
pietà svanisce, il guelfo Carlomagno e i papi, odiatori della spur-
cissima Langodardorimi gens appaiono nel loro buon diritto, gli
italiani che stanno a vedere indifferenti la rovina della gran casa
di Desiderio fanno la cosa più naturale del mondo, onde il coro stesso
diviene una postuma sublime superfluità patetica; in conclusione, la
scienza storica del Manzoni fa quanto può per ammazzare il Man-
zoni poeta; e se non vi riesce non può dire questa volta di non
averlo fallo a imsta. Fortunatamente per noi, non è necessario
leggere uniti i due lavori; l'Adelchi, preso da sé senza quello che
l'autore ha voluto mettervi e trovarvi prima e dopo averlo scritto, ma
non forse mentre lo scriveva, è sempre un bellissimo lavoro dramma-
tico, pieno di versi forti e leggiadri, e di efi^etti stupendi; del discorso
poi è inutile il ripetere che il Manzoni, novatore in tutto, vi ha
insegnato con l'esempio come la storia oramai vuol'essere studiata.
— Só-
li Manzoni dedicava l'Adelchi alla sua moglie Enrichetta Luigia
Blondel « la quale insieme con le affezioni coniugali e con la sa-
pienza materna potè serbare un animo virginale »
Il Collie di Carmagnola e VAdelcJii, provati sul teatro non
ebbero fortuna, ma più pel deliberato, irriverente proposito di una
parte filo-classica del pubblico a farli cadere e pel modo barbino con
cui furon recitati, che pel giudizio spassionato d'un pubblico intelli-
gente. Il Carmagnola hi recitato in Firenze, nell'agosto del 1828, al
teatro Goldoni. Giambattista Niccolini ne scrive, nel modo seguente,
all'attrice Maddalena Pelzet, a Milano : « Vi compiego due lettere,
una del Marchese Gino Capponi pel Barone Trechi e una del Mon-
tani per la Principessa Pietrasanta. Troverete nell'uno e nell'altra
ogni bontà e gentilezza ; vi avverto che il primo è romantico per
la vita, e passionato ammiratore del Manzoni, la cui tragedia
ebbe sulle scene l'effetto che prevedevamo, quantunque la Corte
e i Romantici facessero di tutto perchè riuscisse. Senza la pre-
senza della prima, la cosa sarebbe andata peggio di quello che andò;
per tre atti non si fece che ridere e sbadigliare ; il coro e il
quinto atto piacquero ; i filodrammatici si fecero, per dirla, alla
fiorentina, corbellare moltissimo » (1). Il Montani alle premure
del quale presso Filippo Berti ed i suoi filodrammatici, nel difetto da
lui lamentato fin d'allora di « una compagnia stabile, già da lungo
tempo desiderata » e presso il maestro Romani per la musica del
coro, si dovette, in gran parte, l'esperimento scenico della prima
tragedia manzoniana, con animo più benevolo scriveva invece, in-
torno alla prima rappresentazione lìeW Antologia del mese di no-
vembre di quell'anno : « senza lo spirito di parte, che, dopo avere
con epigrammi, biglietti anonimi ecc., cercato di sgomentare gli
attori, si mostrò cosi deciso di turbare con risa e bisbigli il pa-
cifico giudizio degli spettatori, essa avrebbe avuto un esito abba-
stanza felice. La seconda rappresentazione riuscita cosi ti^anquilla
(1) È giusto tuttavia riferirò le parole che, sembrando correggersi,
lo stesso Niccolini scrive alla Pelzet intorno alle tragedie del Manzoni,
nel febbraio del 1829 : » Le sue tragedie, quantunque non siano per la
scena, almeno secondo le nostre abitudini, contengono tante bellezze
che il plauso dell'Europa meritamente lo corona su tutti. Voi sapete
qual concetto io abbia fatto sempre di questo veramente grand'uomo ;
ciò che vi scrivo a Milano ve l'ho detto a Firenze. »
al confronto della prima, gli applausi clie non mancarono né al-
l'una né all'altra, mi fanno dir ciò con piena fidanza ».
Qualche cosa di peggio avvenne al teatro Carignano di Torino,
quando la Compagnia Reale vi rappresentò l'Adelchi. Il Pellico ne
scrive a Pietro Giuria : « spiacemi che si abbia voluto rappresen-
tare la bella ma non rappresentabile tragedia di Adelchi, e spia-
cemi la vile irriverenza del pubblico » e, in altra lettera allo
stesso « non me ne duole per Manzoni, il quale non s'affligge di
ciò, ma per la bruttezza di quegli scherni ». Cosi due famosi
tragici d'Italia si trovarono d'accordo a giudicare non atte alla
scena le tragedie Manzoniane ; e due pubblici d'Italia mancarono
di rispetto al loro autore. Si dovrà ora dire senza appello la sen-
tenza? Io noi credo ancora, e parmi anzi che, più di molte trage-
die alfierjane e niccoliniane, le tragedie del Manzoni, e VAdelchi
in ispecie, intese e rappresentate bene, possano commuovere non
solo ma suscitare entusiasmo. E vei"0 che il gridarci ora, ne' no-
stri gaudii unitarii, che siam fratelli, può parere un pleonasmo;
ma se non meniamo più le mani fra noi, facciamo del nostro me-
glio, per continuare a bisticciarci; e se i nostri padroni di fuori se
ne sono iti, abbiamo ancora tanto da ftire per ritornar padroni
di noi stessi, che la morale civile di Manzoni può tornare non
inutile anche oggi. Aspettiamo adunque che in Roma s'instauri
un teatro drammatico veramente nazionale perchè l'Italia raccolta
in Roma ripari il fallo commesso, in due nobili provincie italiane,
dai padri nostri.
Fra il. Conte di Carmagnola e VAdelchi, a crescere la fama del
giovine poeta lombardo, e renderla mondiale, uscì nel 18-21 la ce-
lebre ode II cinque maggio. Lo stesso argomento fu pure tentato
da tre grandi poeti francesi, Delavigne, Bèranger, Lamartine;
nessuno, per confessione de' francesi stessi, arrivò all'altezza del
nostro. Egli è che nessuno era forse, più di lui,
Vergin di servo encomio
E di codardo oltraggio.
Il poeta sentiva allora pienamente il suo diritto d'elevarsi a
giudice del potente scomparso dal mondo de' vivi ; e la sua voce
si fa epica e solenne, come quella della giustizia finale de'popoli
nella storia, che giustizia di Dio.
Il Cinque Maggio è l'antitesi dell'ode del Monti sulla Battaglia
di Marengo. I due grandi poeti vi si sentono rivali. Il Monti
27 - ,
aveva amato il Manzoni fino ai versi in morte dell'Imbonati, e al
poemetto à' Urania; ma, dopo il bando dato dal Manzoni al vec-
chio mondo mitologico, il vecchio e il giovine bardo non s'intesero
più. L'incruenta guerra fu nascosta, ma non tanto che non ne giun-
gesse qualche novella al mondo; cosi fu detto che Manzoni avesse
pronta un' ode satirica contro l'uso della mitologia della poesia
moderna, e se ne citarono due versi :
Pensa, o figliuol di Giove, almo Sminteo,
Che s'enorme è la colpa, un solo è il reo.
Il reo di lesa mitologia doveva evidentemente essere il Manzoni.
Leggo poi nelle Memorie di Mario Pieri, la cui malattia cro-
nica era, come ben disse il Tommaseo, il furoì^ della gloria, i suoi
sfoghi innocenti contro il Signor Capo-Romantico, Alessandro Man-
zoni, a cui il corcirese fa carico, fra l'altre cose, d'aver osato chiamare
il sermone del Monti in difesa della Mitologia il venlotiesimo bui-
lettino del Classicismo, alludendo al ventottesimo bullettino di Na-
poleone I, che fu l'ultimo, e di esser solito a recitare « per lo
senno, a mente, gli interi Canti » del poema del Grossi, / Lom-
bardi alla prima crociala.
Ma il trovarsi capo d'una scuola letteraria opposta a quella del
Monti, non impediva al Manzoni di venerar nel Monti il suo an-
tico maestro, e di questa sua venerazione il documento più lumi-
noso, è la nota quartina scritta pel ritratto del Monti, dopo la
morte di lui :
Salve, 0 iivino, a cui largì natura
Il cor di Dante, e del suo duca il canto !
Questo fia 'l grido dell'età futura ;
Ma l'età che fu tua, tei dice in pianto I
L'iperbole del secondo verso si spiega facilmente con la tene-
rezza che si versa nel quarto.
E intanto il Manzoni proseguiva in letteratura l'opera sua ri-
voluzionaria, imprendendo, nel 1823, a scrivere il suo romanzo im-
mortale.
Il Fauriel venuto in quel tempo a Milano, ove si trattenne in-
torno a due anni e il Grossi divenuto famigliarissimo del Man-
zoni, (nella casa del quale andò poi ad abitare) videro nascere e
crescere quell'opera meravigliosa^ e non poterono rimaner tanto
t — 28 —
segreti, che non ne penetrasse al di fuori qualche notizia, e non
fosse perciò grandissima l'aspettativa. Nel 18:25, il Cousin ne
portava in Germania la notizia al Goethe, aggiungendo che il ro-
manzo di Manzoni volgerebbe sulla storia lombarda del secolo
decimosesto (egli volea dire decimosettimo).
Il 25 aprile 1826, il Niccolini da Firenze domanda al Bellotti a
Milano notizie del Romanzo di Manzoni ; e il Bellotti gli risponde:
« Del romanzo di Manzoni altra notizia non posso darvi se non che
fra un mese si comincierà la stampa del terzo ed ultimo tomo, es-
sendo già finiti i due primi, che però l'autore non vuol dar fuori
se non insieme con l'altro. Sicché non penso che prima del lu-
glio si potrà leggere »
La Biblioteca italiana, del settembre 1827, si esprime cosi: « La
sola notizia che l'autore dell' Adelchi e degli Inni sacri scriveva
un romanzo, nobilitò la carriera e trasse alcuni chiari intelletti
ad entrarvi » (si allude alla Sibilla Odatela del Varese, al Ca-
stello di Trezzo del Bazzoni, al Cabrino Fonduto del Lancetti). —
Ed ecco il titolo con cui il capolavoro del Manzoni apparve la
prima volta : / Promessi Sjjosi, storia milanese del secolo XVII,
scoperta e rifofta da Alessandro Manzoni, Milano, 1825 e 1826,
presso Vincenzo Ferrarlo, voi. 3. in 8. (di pag. 1136 complessi-
vamente, prezzo lire 12 ital.)
Il Manzoni sapeva che il suo romanzo era l'expectatus gentium,
e siccome, fra gli altri doni, il suo mirabile ingegno ha quello di
antivedere tutte le obbiezioni che potranno essergli fatte, dono
ch'ei deve, per dire il vero a sé stesso, pel lungo uso di meditare
a fondo e per ogni verso i soggetti ch'egli imprende a trattare, egli
previde come il più possibile de' casi quello che i critici trovas-
sero il suo romanzo al di sotto della grande aspettazione. E però
quella bella e spiritosa trovata di far che la gente di Renzo non si
trovi contenta della sposa ch'egli ha menato fra loro « Il parlare
che quivi s' era fatto di Lucia, buon tempo prima eh' ella vi ar-
rivasse ; il sapere che Renzo le aveva tanto penato dietro, e sem-
pre fermo, sempre fedele ; forse qualche parola di qualche amico
parziale per lui e per ogni cosa sua, avevano fatta nascere una
certa curiosità di veder la giovane, e una certa aspettazione della
sua bellezza. Ora sapete com'è l'aspettazione: immaginosa, corriva,
sicura ; alla prova poi difficile, sdegnosa : non trova mai il suo
conto, perchè, in sostanza, non sapeva quello che si volesse ; e
fa pagare senza pietà il dolce che aveva dato senza ragione.
Quando comparve questa Lucia, molti i quali credevano che ella
— 29 —
dovesse avere le chiome proprie d'oro, e le f?uancie proprio di
rosa, e due occhi l'uno più bello dell'altro, e che so io ? comin-
ciarono a levar le spalle, ad arricciare il naso e a dire : « è ella
questa ? Dopo tanto tempo, dopo tanto parlare, s'aspettava altra
cosa ! Che è poi ? Una contadina come tante altre. Eh ! per di
queste e delle meglio, ce n'è da per tutto » Venendo poi ai par-
ticolari, notavano chi un difetto chi un altro ; né mancarono di
quelli che la trovarono tutta brutta.
Siccome però nessuno le andava a dir sul viso a Renzo queste
cose ; cosi non c'era gran male, fin lì. Chi lo fece il male, che
allargò lo sdruscito, furono certi tali che gliele rapportarono ; e
Renzo; che volete? gliene seppe amaro assai. Cominciò a rumi-
narvi sopra, a farne di gran piati, e con chi gliene parlava, e più
a lungo nel suo sé : E che cosa ne importa a voi ? E chi vi ha
detto di aspettare ? sono io mai venuto a parlarvene ? a dirvi che
la fosse bella ? E quando me lo dicevate voi, v'ho io mai rispo-
sto altro, se non ch'ell'era una buona giovane ? È una contadina!
V'ho io detto mai che vi avrei menato qui una principessa "? Vi
dispiace ? Non la guardate. Ne avete delle belle donne ; guardate
quelle »
Il Manzoni avea preveduto quello che avvenne ; né gli servi
l'essere accorto, poiché o le sue parole allusive al romanzo non
furono comprese, o non se ne volle far caso. Il fatto sta, che i due
giornali più reputati d'allora, la. Biblioteca Italiana e Y Antologia,
e dietro di essi un numero infinito di riviste minori si accinsero
a provare al Manzoni ch'egli l'aveva sbagliata. Tutti incominciano
il loro duello di parole con un inchino cavalleresco all'uomo glo-
rioso, ma per pigliarsi quindi tutta la libertà di colpirlo per ogni
verso, e, per finire il duello in termini onorevoli ad ambe le
parti, conchiudono che la colpa non fu dello scrittore, ma solo del
genere al quale egli ha voluto sacrificarsi. Il Tommaseo, neir^;2-
tologia del ottobre 18'27, scrive : « L'autore degli Inni Sacri e
{\q\V Adelclii si è abbassalo a donarci un romanzo ; ma volle che
fosse un romanzo il più possibile degno di lui » ; più oltre : « se
quel libro è fatto pel volgo, è tropp'alto , se .per gli uomini culti,
è tropp' umile », e, infine, con un po' di bisticcio : « per gustare
molte espressioni, molti tratti e lo spirito dominante dell'opera,
bisognerebbe aver conosciuto l'autore dappresso. Si conosce più il
libro dall'autore, che non l'autore dal libro » Per fortuna del Man-
zoni, i milioni di lettori che con gusto ineffabile leggono e rileg-
gono i Promessi Sposi non hanno bisogno d'incomodare l'autore
— 30 —
per farsi spiegare il libro ; se da altre molestie egli non ha po-
tuto liberarsi nella sua vita letteraria, da questa almeno di met-
tere i pioìlini sugi i alla sua prosa trasparentissima crediamo ch'egli
sia andato immune più di qualunque altro autore italiano passato
e presente. Il critico della Biblioteca lialiana, dopo essersela presa
col romanzo storico, e aver modestamente indicato al Manzoni
quello ch'egli avrebbe fatto nel caso di lui, soggiunge: « bello è
questo romanzo, ma il Manzoni potea fare ancora di più » E an-
che Domeneddio potea far l'uomo con le ali e permettergli di vo-
lare, e pure s'è contentato che stesse ben ritto su due piedi sopra
la terra e guardasse in alto.
Il caso de' Promessi Sposi deve umiliar molto l'orgoglio di
certi critici ed estetici dalle regole fisse e dalle riserve prudentis-
sime, i quali invece della penna tengono in mano il fuscellino. Vi
era allora guerra guerreggiata fra classici e romantici ; i roman-
tici trovarono il loro capo-scuola il Manzoni troppo sereno, troppo
calmo e troppo riservato; un romantico cosi poco soggetto al mal
di nervi come lui poteva riuscir sospetto e meritava d'essere guar-
dato a vista ; i classici, dal lato loro, sostenevano che quanto v'ha
di grande in Manzoni è classico puro. Io son tentato, per questo
verso, di dar ragione ai classici, poiché se il Manzoni pensava,
per dire il vero, assai poco ai classici quando scriveva, ciò avve-
niva per una sola ragione semplicissima; i grandi classici furono
tutti ingegni novatori e sovranamente originali; ed egli n'era uno.
Ma poiché lo stesso Tommaseo avea pur detto che i difetti del
romanzo rivelavano un grande ingegno, e le bellezze un ingegno
divino, il pubblico ebbe la debolezza di porre grande amore an-
che a que'difetti; le donne specialmente che, quando leggono, sanno
leggere meglio di noi, in quelle pagine, gustarono anche le mi-
nuzie e se ne compiacquero tanto che le fecero parer deliziose a
tutti (1). I critici trovavano troppo villani i protagonisti di quel
(1) Mi giova citare a proposito del romanzo, uu brano di lettera del
Belletti al Niccoliiii'del 2 agosto 1827: « Le donne di Toscana lo leg-
gono con piacere ? poiché di lai genere di scritture alle donne princi-
palmente ed al popolo non idiota e non letterato si vuol lasciare il giu-
dizio, essen'lo principalmente diretto al loro trattenimento e vantaggio ».
E Pietro Giordani, scrivendo nel dicembre \%2~ a Francesco Testa:
« Non mi meraviglio che in tutta Europa piaccia molto il libro di Man-
zoni, e ne godo. In Italia vorrei che fosse letto a Dan usque ad Nephtali,
— 31 —
romanzo; le donne e que'lettori che non sanno leggere una pagina
sublime senza commuoversi, s'intenerirono, invece, pei loro casi,
e compromisero cosi in un modo indecente la causa de'critici che
attendevano invece dal Manzoni eroi di toga e di spada. Il
pubblico è cieco, e andando al tasto piglia talvolta dei dirizzoni
contrarli ad ogni legge di buona creanza, poiché si trova qualche
volta nel caso di pestare per la via i piedi a qualche creduto gen-
tiluomo; qui, come sempre, ha ragione il più forte, e, innanzi al-
l'insolenza del pubblico insensato che ne Promessi Sposi trovava
bello ogni cosa o almeno compiacevasi di tutto, la critica dovette
andare a nascondersi. I tipi del romanzo manzoniano diventarono
proverbiali, la morale di quel romanzo divenne la morale di tutti
quelli che ne hanno una, ed ogni scrittore italiano avrebbe desiderato
potere sbagliarsi, componendo un romanzo simile. Al primo sbaglio
di Manzoni l'Italia va debitrice degli sbagli successivi di Tommaso
Grossi e di Massimo d'Azeglio, di Cesare Cantìi e di Francesco Guer-
razzi. I Promessi Sposi furono occasione del bel libro storico che il
Cantù scrisse sulla Lombardia nel secolo decimoseUimo; l'episodio
della Signora di Monza, tanto criticato e pur letto con tanto gusto da
tutti, fece la provvisoria fortuna del romanzo di quell'uomo vanissimo
e letteratissimo di Giovanni Rosini « il padre della monaca ringramma-
tichita di Monza » secondo l'efficace espressione del Tommaseo, il
quale Rosini poi, con la compiacente ingenuità, propria di molti
chiarissimi, anche a costo di dirlo ai muri e alle panche, non si
stancava mai di ripetere: « il Manzoni non mi sa perdonare che
la mia Monaca abbia sotterrati i suoi Sposi ».
Quando il Manzoni, nell'autunno del 1827, viene a passare alcuni
mesi a Firenze, nel Gabinetto di Giampietro Vieusseux, sacro
focolare degli studii, si prepara una festa letteraria in suo ono-
re (1); tutti i letterati vogliono vederlo ed essergli presentati,
e tutti , dopo averlo conosciuto , sono obbligati a convenire
che la statura morale e intellettuale dell' uomo ha dello straor-
dinario. Il Capponi, il Niccolini, il Leopardi, il Giordani, il Mon-
tani, il Pieri ed altri uomini insigni allora convenuti a Fi-
vorrei che fossa riletto, predicato in tutte le chiese, e in tutte le oste-
rie, imparato a memoria ». Io domanderei, per lo meno, che i signori
Ministri della pubblica istruzione si degnassero di farlo leggere e spie-
gare per intiero nelle scuole liceali.
(1) Cfr. Vannucci, Ricordi intorno alla vita e alle opere di Niccolini.
— 32 —
renze, come al più geniale ritrovo dell'arti belle, provarono tutti
alla presenza dell'uomo insigne un sentimento d'ammirazione. Il
Leopardi, il Niccolini, il Pieri non consentono ai principii letterari!
dello scrittore; ma, tuttavia, il primo, nel settembre 1827, scrive da
Firenze allo Stella: « Io qui ho avuto il bene di conoscere perso-
nalmente il signor Manzoni e di trattenermi seco a lungo; uomo
pieno di amabilità e degno della sua fama ». Il medesimo pres-
sapoco, nel febbraio 1828, il Leopardi scrive da Pisa al Papado-
poli; e nel giugno dello stesso anno, scrivendo al padre, soggiunge:
« Ho piacere che abbia veduto e gustato il romanzo cristiano di
Manzoni. E veramente una bell'opera; e Manzoni è un bellissimo
animo e un caro uomo ».
Il Niccolini, dal canto suo, scrive al Bellotti: « Il Manzoni è qui,
ed ho imparato a conoscerlo di persona; voi sapete che i buoni
si credono volentieri grandi; ma non temo che l'affetto m'inganni
reputandolo il primo ingegno d'Italia », e quindi soggiunge: « io
che intimamente conosco l'autore e che sono stato la persona con
la quale ei più conversasse in Firenze, posso far fede che la sua
pietà è scevra di superstizione, e che non ama i frati ».
E Mario Pieri, nelle sue memorie « La seconda persona ch'io
conobbi (la prima era stata il Leopardi) e che pur vidi la prima
volta in casa Vieusseux, e poscia frequentai alla locanda delle Quat-
tro Nazioni, Lungarno (1), dove albergava con tutta la sua fami-
glia, cioè, madre, moglie e sei figliuoli, per quei tre o quattro
mesi ch'ei si trattenne in Firenze, fu appunto il signor Alessan-
dro Manzoni, corifeo del Romanticismo. Nulladimeno, non imporla,
io diceva: la sua fisionomia palesa, a chi l'osserva, animo gentile
ed alto ingegno. In Milano, io non l'avea cercato mai, per non
rompere la vita solitaria ch'egli amava di condurre in mezzo alla
sua famiglia, la quale, secondo allora si diceva, offeriva il modello
(1) Io colgo l'occasione per avvertire quanto sarebbe conveniente che,
ad onorare vivo il più grande de'nostri viventi, il Municipio di Firenze
ponesse in quel luogo a spese del pubblico un'iscrizione la quale dicesse
pressapoco cosi : « Qui Alessandro Manzoni, posata la mano gloriosa
sull'ultima pagina del libro immortale ile' Promessi Sjwsi veniva a cer-
care in aure più lievi, refrigerio alle membra affrante, e nel colloquio
geniale di alcuni grandi italiani degni di lui, plauso, premio, riposo
alio spirito affaticato, nell'autunno dell'anno 18::-^7 ».
— 33 —
delle ottime famìglie. Egli è agiato de'beni di fortuna, ma non
gode salute né egli, né la sua donna. È uomo religioso, dicono, e
galantuomo. Peccato che sia invaso dalla romanticomania ».
Giuseppe Montani, dopo aver conosciuto il Manzoni, scrive:
« Quest'uomo che voi udite chiamare, con affetto diverso, capo
de'novatori letterarii d'Italia, è un uomo dell'antichità, semplice,
schietto, pieno di calma, come s'addice alla vera grandezza. »
Pietro Giordani, si lagna, in una sua lettera, di non aver po-
tuto godere abbastanza della conversazione di Manzoni in Firenze
« poiché tanti cercavano di occuparlo ».
Del Capponi è noto il rispetto ch'egli dimostrò sempre al Man-
zoni, ed io stesso fui testimonio della gioia viva che illuminò il
suo volto, quando, or sono sette anni, ebbi ad annunziargli il de-
licato pensiero nato in alcuni ammiratori del Manzoni, di offrire
per l'ottantesimo compleanno dell'uomo immortale, un album con-
tenente i ritratti d'uomini gloriosi che vissero oltre i novant'anni,
con l'augurio ch'egli possa arrivare felicemente ai cento. Il Man-
zoni, del resto, ricambia perfettamente la stima che gli professa
il venerando patrizio fiorentino, al quale Giuseppe Giusti, dopo
aver veduto Manzoni in Milano, scriveva: « Potete credere fer-
missimamente che la stima che (il Manzoni) fa di voi gareggia
con quella che voi fate del suo libro. »
E le arti del disegno non tardarono ad occuparsi de'personaggi
del Romanzo manzoniano, sicure di incontrare per tal via il gu-
sto del pubblico e di tentare cosi piìi facilmente i compratori; più
tardi, i Promessi Sposi formavano oggetto d'un dramma popolare
che, or sono forse vent'anni, fu rappresentato per più sere a To-
rino; ed ispirarono una lodata opera in musica al maestro Petrella.
In Milano, qualche vecchio ricorda ancora il mirabile effetto
che una comitiva di cavalieri vestita nel costume di Don Rodrigo
e de'suoi Bravi produsse alla splendida festa da ballo che il conte
ungherese Bathyany vi diede la sera del 28 gennaio 1828, nel
palazzo ch'egli abitava alla Porta Orientale. E tutte le serve dei
preti diventarono Perpetue; e tutti i preti muniti di una Perpetua
diventarono Don Abbondii; e cosi l'un dopo l'altro tutti i personaggi
manzoniani ci riuscirono cosi famigliari, che giureremmo quasi di
averli conosciuti e trattati tutti. Quanto poi aireflìcacia morale di
quel libro, credo che bastino, per darne un'idea, le seguenti pa-
role, nelle quali Giuseppe Giusti, scrivendo, nel 1845 a
(iuel tal Sandro de'Promessi Sposi,
KicoRDi Biografici 3
— 31. —
candidamente si confessa. « Quel Padre Cristoforo con tutto ciò
che vien dopo è un gran refugio per me, quando mi sento freddo
e inaridito, quando m'accorgo che non mi può sciogliere dal tor-
pore che mi lega tutto, altro che una foga di pianto bene sparso.
Quel libro m'ha trovato sempre suo in ogni luogo, e mi rammen-
terò sempre che una volta, sepolto nei sensi fino agli occhi, in
quelle pagine che erano lì, non so come, riebbi la parte migliore
di me ». E, divenuto famigliare del grande Lombardo, il Giusti
seguitava a scrivergli: « Signor Sandrino, la non sia cosi avaro
de'suoi consigli a chi lo tiene come un padre. Noi siamo di quelli
che guardando verso di lei sanno di guardare in su, e questo
guardare in su non ci fa dolere il collo, e quando ce lo facessero
dolere, sopporteremmo il dolore in grazia dell'amore che le pro-
fessiamo ». Quanti giovani italiani vorrebbero poter scrivere il
medesimo al Manzoni, e confidargli in confessione appassionata
tutte le loro peccata, non già per averne l'assoluzione, ma per
essere sgridati amorosamente da lui, che quando sgrida fa tanto
bene, sì che la tentazione -verrebbe di non rispondergli mai altro se
non questo antico motto trasformato « batti . io t'ascolto ». Se non
che, egli può rispondere a noi tutti: io ho già battuto; tocca ora
a voi, se m'avete ascoltato, di operare in guisa ch'io possa ascol-
tar le novelle delle vostre opere virtuose.
E il Manzoni, prima di conoscere il Giusti per le sue lettere e
di persona, aveva imparato a far gran conto degli scritti di lui;
fin dal 181'3, il Grossi, che viveva col Manzoni (come il Giusti dal
1845 in poi visse quasi sempre col Capponi) scriveva al Giusti
che il Manzoni andava « matto del fatto suo ». E l'Azeglio, scrivendo
nel 1814 del Manzoni e del Grossi allo stesso Giusti, soggiungeva:
« Ammiratori più caldi di loro non li avete davvero, e Manzoni
specialmente sa a mente mezze le cose vostre ». Alfine, il Man-
zoni stesso, gli conferma apertamente da sé quella stima, con le
seguenti parole, con le quali in una lettera del novembre 1845 al
Giusti, termina una sua parabola: « Dunque lavora, che fai sul
tuo; e accresci l'entrata della padrona, agl'interessi della quale
prendo una gran parte, anche per il gran bene che le ho voluto
in gioventù ». Nel novembre 1843, il Manzoni aveva scritto al
Giusti la sua prima lettera, ove mi paiono singolarmente notevoli
le parole seguenti: « in quelle poesie che da una parte amo ed
ammiro tanto, deploro amaramente ciò che tocca la religione, o
ch'è satira personale ». Il Giusti se ne difende, manifestando il
— 35 —
dubbio che il Manzoni abbia prese per sue certe poesie che girano
ipocritamente sotto il suo nome.
Nel 1845, Giuseppe Giusti arriva felicemente a Milano con
Giambattista Giorgini, che il Giusti scrivendo al Grossi, chiamava
allora « giovane pieno zeppo d'ingeno ». I due giovani sono ospi-
tati per un mese in casa Manzoni; l'anno dopo, il Giorgini sposava
Vittorina Manzoni, la figlia del grande poeta; il Giusti, nel mese
di giugno 1846, ne scrive al Grossi: « Uno che ha le qualità di Gior-
gini e che sente di possedere una gemma come quella ragazza,
può far molto per sé e per gli altri ». E, dopo aver conosciuto il
Manzoni di persona, il Giusti lo descrive cosi al prof. Vaselli:
« E un gran galantuomo, che ha coscienza di sé senza orgoglio;
che, quando giunsero a Milano gli ultimi rumori di Romagna,
aveva le smanie addosso, come le potreste avere tu e Checco, e
forse anco un tantino di più. E fermo nei suoi principii, ma am-
mette, anzi cerca la libera discussione, ed io n' avrei a sapere
qualcosa. Crede, senza odiare i miscredenti; è amico dei preti e
dei frati, come può esserlo chi ci ha dipinto il padre Cristoforo
e Don Abbondio. Docile a correggere e a lasciarsi correggere i
suoi scritti come uno scolare di grammatica, ingenuo nel modo di
vivere, di conversare e d'amare, come se avesse sedici anni. Ar-
gomentando, invece di salire alle nuvole, di mettersi in gala, si
tiene terra terra, vestito dei panni fatti in casa di maestro Buon
senso, vero segno d'avere imbroccata la via ».
Questa lettera ci mostra come se il Manzoni non prese parte alla
vita politica non le è rimasto tuttavia indifferente. Il Corriere Mer-
cantile annunziava pure, nel gennaio del 1848, come appena corse
in Milano la novella che i birri avevano ftitta una perquisizione
in casa di Cesare Cantù reduce dal congresso di Venezia, una
delle prime visite alla casa dello storico che s'era salvato in
Piemonte, fu quella di Alessandro Manzoni.
Il Manzoni ha l'animo repubblicano ; perciò, nel 18ì8, il Giusti
gli può scrivere: « Credo che sia tua l'osservazione che il partito
repubblicano ha, sul partito costituzionale, il vantaggio di dire
ciò che sente alla faccia del sole, senza ricorrere a mezzi termi-
ni, per tirare dalla sua chi la pensa diversamente.» Ma egli s'astiene
dalla politica militante nel 1848 come nel 1859 ; onde il Giusti,
dopo gli avvenimenti, torna a scrivergli: « Tu hai fatto vedere
di saperla lunga a non volere essere Deputato, quanto a scrivere i
Promessi Sposi. » Nel febbraio del 1860, il Manzoni fu eletto Senatore
del regno di Vittorio Emanuele ; si presentò in senato per pre-
— 36 —
star giuramento alla costituzione e al re che inauguravano l'unità
d'Italia; ma quindi si ritrasse nuovamente a vivere nella sua
veneranda solitudine.
Noi tutti dobbiamo rispettare la prudenza che trattenne il Manzoni
dal partecipare altrimenti che col desiderio alle vicende politiche le
quali ci portarono al nostro risorgimento ; egli, in tal guisa, con-
servò pura e intatta la sua gloria di poeta morale e civile. Non si
sentiva uomo d'azione; egli era nato soltanto per sentire e meditare,
e versare nel mondo le più belle fra le armonie che il suo cuore e la
sua mente avevano insieme cantate. Ad altri le opere; egli si contentò
d'esser primo a gridare l'allarme, in un tempo nel quale il farlo era
pericoloso; e la sua parola suonò quindi poi sempre generosa.
Egli avea cavallerescamente brandita la penna, e si mantenne in
tutta la sua vita cavaliero senza macchia e senza paura. Perciò
la sua vecchiaia gloriosa è senza pentimenti e senza rimorsi.
Egli non vuol dire tuttavia, col suo esempio, che convenga ai
giovani tutti restar dalle opere, ma avvertire particolarmente gli
uomini di studio come le loro diverse abitudini comportino male
il tumulto della vita degli afRiri, per i quali, bisogna esser fatti
ed allevati a posta. Nell'azione, le convenienze sociali e politiche
obbligano spesso a transazioni e concessioni che non si possono
facilmente consentire da chi ha posto molta cura nel formarsi dei
principii ed è geloso di custodirli intatti. Del resto, ricordiamo pur
sempre che, scritte nel 18-21, le generose ottave del Manzoni per l' Unilà
ìlaliana; erano ancora opportune nel 1848, e più ancora nel 1859:
Già le destre hanno stretto le destre;
Già le sacre parole son poste ;
0 compagni sul letto di morte,
0 fratelli su libero suol.
Chi potrà questa gente risorta
Ancor scindere in volghi spregiati ; •
E a ritroso degli anni e dei fati.
Risospingerla ai prischi dolor ?
Una gente che libera tutta,
0 fla serva tra l'Alpe ed il mare;
Una d'arme di lingua, d'altare.
Di memorie, di sangue e di cuor.
0 stranieri, nel proprio retaggio
Torna Italia, e il suo suolo riprende.
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0 stranieri, strappate le tende
Da una terra che madre non v'ù.
Non vedete che tutta si scote
Dal Cenisio alla balza di Scilla?
Non sentite che infida vacilla
Sotto il peso de'barbari piò?
10 odo altri più numerosi assai (per tacere del guelfofago Settem-
brini che danna addirittura fra gli scrittori reazionari il Manzoni),
far eco al buon marchese Giancarlo Di Negro che compiangeva il
Manzoni come poco prolifico in poesia. E certo non è cosa allegra
che chi sa fabbricar diamanti ne sia avaro. Ma, oltre che nessuno ha
detto che tutto quanto il Manzoni scrisse debba vedere la luce in sua
vita, bisogna tener conto di quello scrupolo che pone il Manzoni nella
ricerca del vero, il quale scrupolo arresta qualche volta a mezzo
le sue più alte inspirazioni ; e poi mi bisogna qui citare due no-
bilissimi versi che fanno parte d'un componimento inedito del
Manzoni, sopra L'innesto del vainolo; essi dicono così:
E sento come il più divin s'invola
Né può il giogo patir della parola.
Più il pensiero del poeta s'innalza, e più la materia fonica di-
viene inerte e incapace di farsene messaggiera.
11 genio di Goethe si divertiva a rapire la luce divina a Gio-
ve, per abbassarla e costringerla artisticamente nelle forme pla-
stiche della terra ; il genio di Manzoni, desta invece il fuoco la-
tente della terra, per sollevarlo, in una luce ideale, fino a Dio ; il
Goethe imprigiona lo spirito, il Manzoni lo emancipa; e quando
si studia di rappresentarlo emancipato, se lo vede talora scio-
gliere e svanire nell'ideale infinito.
Tuttavia, chi ripensi ai dolori domestici che il Manzoni ha pa-
titi dalla pubblicazione ùe'Promessi Sposi in poi, e al deserto che
si fece nella sua casa, per la morte della sposa, della madre, dei
figli, degli amici suoi più diletti, non potrebbe neppur trovare
strano che il Manzoni avesse cessato di occuparsi di studii e di lavo-
rare. Ma ciò neppure può dirsi; che, fra le cure agricole spese in-
torno alla sua proprietà di Brusuglio, nel tempo stesso che provvedeva
a commentare eloquentemente con la Storia della Colonna infame
il processo degli Untori, del quale era bello che il grande nipote
del grande Beccaria, inorridito, narrasse le infamie, egli intendeva
a correggere, secondo il modello del vivente linguaggio toscano.
— 38 —
la lingua adoperata nel suo romanzo, e in premio forse di questa
laboriosa fatica otteneva più tardi l'onore di venire ascritto al-
l'xVccademia della Crusca (1). Completato così finalmente il roman-
zo, e discorso sul romanzo storico e scritto il dialogo sull'Inven-
zione, egli si accinse quindi con ogni cura a studiare e pesare
per ogni verso la questione dell'unità della lingua italiana.
Nell'estate del 1832, il Manzoni si trova a Genova per i bagni di
mare; Pietro Giordani, uomo che lo stesso suo amico Leopardi
chiamava un po' ficcanaso, prega il suo amico F. Grillenzoni a
Genova, perchè « veda un poco se è vero che Manzoni siasi dato
a studii di purismo, e in che forma. » Nell'ottobre del I8i5, dopo
aver passato un mese col Manzoni, il Giusti, scrivendo di lui, an-
nunzia ch'egli « scrive un'operetta sulla lingua » e aggiunge : « im-
maginate se abbiamo parlato di questa gran faccenda, e se ab-
biamo stacciati vocaboli. » Nel 1850, scrivendo allo stesso Man-
zoni, il Giusti s'esprime cosi : « A quest'ora dovresti aver finito
quel tuo lavoro sulla lingua, nel quale, se bene mi ricordo, in-
tendi a stabilirne l'unità fissandone la sede, a sfrascarla del so-
prappiù e ridurla più uniforme e semplice come fu fatto della
francese. »
Nella lettera a Giacinto Carena finalmente il Manzoni rivela
da sé stesso il suo pensiero, protestando ch'egli si trova « in
quella scomunicata, derisa, compatita opinione, che la lingua ita-
liana è in Firenze, come la lingua latina era in Roma, come la
francese è in Parigi ; non perchè quella fosse, né questa sia ri-
stretta a una sola città ; tutt'altro : e quali lingue furono mai più
diffuse di queste ? ma perchè, conosciute bensì, e adoperate in
parte, e anche in gran parte, in una vasta estensione di paese,
anzi di paesi, pure, per trovar l'una tutt'intera, e per trovarla
sola, bisognava andare a Roma, come, per trovar l'altra, a Pa-
rigi; » Il Manzoni reca un monte di belle ragioni, a difesa del-
l'ardita sua tesi, e vi ritorna sopra con argomenti rinforzati nella
Relazione al Ministro della pubblica istruzione, Emilio Broglio,
per avvisare, invitato, ai mezzi d" aiutare e rendere più universale
in tutti gli ordini del popolo la notizia della duona lingua, da lui
' (1) È nelle mie mani la befia lettera non priva d'umorismo, con la
quale il Manzoni ringrazia l' illustre Accademia dell'onore conferitogli;
stava fra le carte d'un segretario defunto dell'Accademia, dagli eredi
del quale l'ho acquistata, salvandola così dal rischio molto imminente
di finire nelle mani di qualche droghiere.
~ 39 —
proposta ai suoi colleghi nella commissione, Ruggiero Bonghi e
Giulio Carcano, ove insiste a gridare che la lingua esiste in
Firenze e che bisogna solamente farla muovere di qui/ perchè si
spanda per l'Italia tutta; nella lettera intorno al libro De Valgari
eloquio diretta a Ruggiero Bonghi, ove intende a provare col te-
sto alla mano che per Volgare Illustre Dante non ha inteso wìta
lingua, ma il solo linguaggio o piuttosto stile che s'adopera nella
poesia ; nella lettera al Bonghi medesimo, in cui propone alcune
norme da seguirsi nella compilazione del novo vocabolario dell'uso
di cui sostiene l'opportunità; nell'Appendice alla Relazione intorno
all'Unità della lingua e ai mezzi di diffonderla, ove, dopo avere
risposto al Lambruschini, vice presidente della commissione, per
la sezione fiorentina, che un po'per far piacere all'Accademia
della Crusca e al suo arciconsolo e un po' perchè davvero si tro-
vasse in Toscana troppo esclusivo il sistema proposto dal Man-
zoni, avea portato la questione sopra un campo alquanto diverso
da quello in cui il Manzoni l'avea posta, egli riscalda la discus-
sione, eccitando i toscani, che sanno parlare, a mostrare anche
di saper scrivere in difesa della loro lingua, l'unità della quale,
come un vero credente, egli sempre aspetta. « Ventun'anno fa
[l'Appendice è dell'anno 18G9], tra vari pareri (non erano allora,
né potevano esser altro) intorno all'assetto politico che convenisse
meglio all'Italia, ce n'era uno che moltissimi chiamavano utopia,
e qualche volta, per condescendenza, una bella utopia. Sia lecito
sperare che l'unità della lingua in Italia possa essere un'utopia
come è stata quella dell'unità d'Italia. »
A proposito della quale unità della lingua, il Giusti scriveva :
« ogni obiezione che potessi farti, io so che te la sei già fatta da
te. » Lo stesso, levandomi il cappello, oserei ripetere io, se non
fosse insolente con un tant'uomo ogni risposta non provocata da
domanda. Ma, poiché fra le più grandi consolazioni della mia
vita di studioso, posso contar quella d'avere, quando si pubblicò,
ricevuta dalle mani benedette dello stesso Manzoni la sua Appen-
dice alla Relazione, che nella nostra storia letteraria segnerà
sempre una gran pagina, io mi permetterei di proporre alcuni
dubbi, che protesto subito non somiglieranno neanche per ombra,
a quelli del famoso abatino Alessandro Salvagnoli di dimenticata
memoria. Convengo, anzi tutfo, subitissimo, della necessità di
dare per fondo alla lingua comune paesana, la lingua parlata a
Firenze ; e convengo della grande utilità che si pubblichi un vo-
cabolario della lingua fiorentina; ma, dopo avere conceduto il più
- 40 -
incomincìerei a trovarmi disagiato se il più dovesse diventare il
tutto. E quindi dubito : 1° Clie i mezzi coi quali si provvede ora
alla compilazione del vocabolario non siano i più sicuri ; poicliè
mi domanderei^ prima d'ogni cosa, se siano tutti fiorentini di Fi-
renze i Compilatori, e se nel loro così detto e in buona fede
creduto pretto fiorentino non ci siano per caso de'resti di pisano,
sanese, lucchese, pistoiese o clie so io appreso nell'infanzia;
quindi seguiterei a domandare la fede di nascita delle loro donne
di servizio, e dei loro contadini se ne lianno, e con chi abbiano
praticato e chi sia stato il loro primo maestro, e la loro prima
innamorata, e che letture abbiano fatto, tutte, parmi, questioni
importantissime a risolversi per decidere quanto fiorentino di
Firenze sia penetrato nel loro proprio esclusivo vocabolario del-
l'uso.
Dopo questo primo dubbio, che riguarderebbe piuttosto la dif-
ficoltà di far bene il vocabolario da stamparsi che la impossibilità
di riuscirvi scegliendo a ciò i mezzi più opportuni, passo al dubbio
2". Dato e concesso che il 7iovo vocabolario della lingua riesca
delia massima autenticità fiorentina e ci reclii proprio il meglio
di questa graziosa parlata cianesca, raggentilita sulle labbra di
uomini del gusto di G. B. Giorgini, io domaderei, non al Manzoni,
notoriamente sospetto;, come lombardo, di eccessiva parzialità nella
questione, ma ad ogni fiorentino che veda più in là del Campanile di
Giotto : ditemi, con una mano, non sul vostro, ch'è grande, ma sul
cuore di questo popolino ; credete voi che possa bastare una lin-
gua tutta diminutivi e vezzeggiativi, tutta eleganze e morbidezze,
tutta finezze ed arguzie a far parlare così tutto intiero il popolo
italiano? Certo la lingua qui e' è, e sceltissima, ma si muove e
s'alza poco, e di rado sì scalda. Se Firenze fosse rimasta la ca-
pitale del regno, se il meglio d'Italia fosse qui convenuto per lungo
tempo, se i centocinquanta mila fiorentini fossero diventati cin-
quecento mila italiani, crederei anch'io, che Firenze avrebbe, col
tempo, dato all'Italia tutta la sua lingua e che l'Italia se ne sa-
rebbe contentata; gli italiani venuti a rubargliela qui sul posto, e a
farsene ricchi, fra la ricchezza di casa loro e quella presa da-
gli altri, r avrebbero scialata come grandi signori. La lin-
gua di Roma divenne lingua d' Italia, quando il meglio degli
italiani si ridusse a Roma, e divenne lingua universale nel
mondo antico, quando il mondo antico regalò alla città di
Romolo tre milioni d'abitatori. Così si dica di Parigi; nessuno
avrebbe pensato in Francia a pigliarne per modello la lingua^
— 41 —
prima che la Corte non vi si trasferisse e la PVancia intiera non
la popolasse, e vi portasse ciò che essa aveva di meglio in sé. Ma io
vedo che il dubbio minaccia di addormentarsi in una dissertazione;
perciò lo troncherò li, per dir cosa certissima e assai più grata,
cioè, che, per quanto la proposta di Manzoni si discuta intorno
all'estensione, quanti sono sinceri s'accordano nel convenire che
non vi è lingua nazionale possibile senza VuM consisiai; le capi-
tali d'un regno possono occorrendo trasportare le loro tende tre
volte ogni dieci anni ; le lingue s'abbarbicano ove son nate ; pos-
sono metter molti rami nell'alto e abbracciar cosi molto paese^ ma
non mai schiantarsi dal loro suolo nativo per decreto ministe-
riale; quindi, volenti o nolenti, anche da Roma, bisognerà ricor-
darsi qualche volta che sulle rive dell'Arno fiorirono come in un
solo cespite, il Divino Poema, l'amoroso sonetto e la gaia novella,
e che quando si vuole ancora sentir ben parlare bisogna darsi il
disturbo di far qualche cosa di meglio che passaì''e, per la stazione
di Firenze.
In ogni modo poi, bisogna ammirare il Manzoni, il quale,
avendo assistito, in Milano, alla vecchiaia del Monti, il quale,
come tutti sanno, spese gli ultimi anni della sua vita a far
guerra ingegnosa ma ingenerosa alla lingua e letteratura toscana,
volle invece consacrare da Milano stesso gli anni suoi cadenti a
difendere, per amor della patria, e della giustizia (che ha servite
sempre e non nominate mai) i diritti di questa gentilissima fra
le Provincie d'Italia, ove se è desiderabile altra operosità, altra
energia ed altra virtù, la grazia naturale è pur tanta e tanto
l'ingegno, e cosi democratico il costume, che se tanti pregi riu-
niti, quando s' è vicini, si possono forse dissimulare, lontani si
debbono solamente rimpiangere.
Ed io avrei qui finito di dire, nella somma, quello che ho cre-
duto di sapere intorno alla vita e alle opere del Manzoni, ma il
fascino ch'esercita su di me quest'uomo meraviglioso il quale
scriva 0 parli, spira sempre virtù, è così grande, ch'io non vorrei
più staccarmene. Io mi rammento, con che ardore e desiderio in-
tenso, mentre in fatto di ortodossia non trovo d'essere stato
mai altro che un povero cristianello annacqualo (del che né mi
scuso, né mi vanto) senza sapere a chi, nò con quali parole, ma non
certamente con le solite, pregavo a Torino, quando vi si ordinò
un triduo solenne a fine d'invocare da Dio la guarigione di Ales-
sandro Manzoni la cui vita versava, or sono più di tre lustri, in
grandissimo pericolo ; si temeva proprio di perderlo, e noi stu-
42 —
denti, che avevamo dal filosofo rosminiano Vincenzo Garelli, uomo
esemplare per bontà d'animo e nobiltà di mente, appreso non solo
a leggerlo ma a venerarlo, con inquietudine dolorosa chiedevamo
a quanti potevano darcene, le ultime novelle di Milano. Quando
alfine i bollettini della malattia dell' illustre infermo diventarono
più sereni, il nostro cuore s'allargò ad una gioia spensierata, e,
con noi, credo che allora abbia dato un grande respiro l'Italia
tutta. Alessandro Manzoni ha, in Italia, spirato al nostro secolo
la nuova vita letteraria ; e parrebbe naturale che, come egli ha
guidati i primi passi del secolo neonato, così avesse a benedirlo
e sostenerlo anche negli ultimi. Per questa considerazione spe-
cialissima, noi invocheremmo la natura benigna affinchè si de-
gnasse privare i figli nostri che leggeranno le future gazzette della
curiosità di leggere per molti e molti anni alcun nuovo inutile
caso di longevità, a fine di riservar loro in compenso per molti e
molti anni ancora la consolazione di sapersi accompagnati da Ales-
sandro Manzoni, quanto piìi sia possibile, fin presso la soglia del
secolo futuro; il decimonono in Italia fu proprio suo; egli lo allevò,
egli Io scaldò, egli lo mantenne glorioso; cosi potesse egli conse-
gnarlo, benedicendo, all'eternità, alla quale il suo nome appartiene.
II.
GINO CAPPONI.
Tal fall un peu de bìen, c'est mon raeilleur ouvrage. Io non
so quanto fosse sincero l'avveduto autore di questo motto dive-
nuto famoso, nel proferirlo, la prima volta, al semplice mondo. Ma,
se l'autore del Candide poteva forse trovare alla sua vita ine-
guale e diversa, un motto più espressivo e caratteristico, noi ce
ne serviremo liberamente qui. trovandolo molto opportuno per
comprendere in una sola sentenza la funzione sociale di certi uo-
mini esemplari, 1 quali, ponendo una loro estetica tutta sapiente
e però tutta buona nel fare, come altri si studia di adoperarne
una simile nel dire, trasfondono nella vita la parola dell'arte, non
tanto solleciti di accrescer gloria a sé stessi, quanto di suscitare
intorno a sé un mondo migliore.
Uno di questi uomini, anzi il più eminente fra quanti n'abbia
la patria nostra ammirati nell'età nostra, è, fuor d'ogni dubbio,
il marchese Gino Capponi, Mecenate toscano, degnissimo dell'an-
tico etrusco cantato dal Venosino, non disceso da re, ma più che
da re, da eroi, quali furono, nella famiglia, il primo Gino, Neri e
il popolarissimo Piero, per merito de'quali, successivamente, Pisa,
prima divisa e contraria si raccolse a vivere con Firenze in un
solo consorzio politico, fu ritardata di oltre un mezzo secolo a Firenze
la tirannia pervertitrice de' Medici, e liberata la patria fiorenti-
na dalla servitù d'un principe straniero. Al nuovo Gino toccarono,
senza dubbio, tempi meno eroici in sorte; ma s'egli non potè rin-
novare le imprese guerresche e politiche degli avi, non solo al-
cuno vorrà dire ch'egli abbia servito la patria men bene di essi,
ma troverà al confronto della ignavia del secolo in cui nacque e
— 44 —
della società in mezzo alla quale s'educò l'animo e l'ingegno di
lui, che il marchese Gino Capponi ha fatto cose mirabili. Io so
che a lui non pare punto così, e che gli sembra anzi d'aver fatto
come nulla e pubblicato cosi poco da non desiderare d'essere giu-
dicato come scrittore se non per quello ch'ei potrà lasciare di
inedito dopo la sua morte. Ma io, convinto della verità delle pa-
role ch'egli mi rivolge in una sua lettera. « La vita pubblica
sia di fatti o sia di scritti si manifesta da sé medesima » credo
trovare in quanto egli operò e scrisse per il pubblico una serie
abbastanza lunga di fatti generosi e di nobili scritti, perchè non
debba premermi mettere gli uni e gli altri in rilievo, tanto più
nella scarsità de'nuovi esempii e de'nuovi esemplari.
Il giorno 14 di settembre di quest'anno (lo dico ai fiorentini,
che non vi avessero posto mente) il marchese Gino Capponi com
pira l'anno suo ottantesimo, essendo egli nato in Firenze il 14 set-
tembre 170^, nel suo attuale palazzo di via San Sebastiano, dal mar-
chese Roberto Capponi e dalla marchesa Maria Maddalena Fre-
scobaldi.
La sua prima istruzione letteraria venne curata da un giovine
prete pedagogo dapprima, poi da due padri delle scuole Pie, il padre
Canovai per le matematiche, e il padre Battini per il greco, final-
mente, per le lettere italiane, da quel famoso letterato ed antiquario
che fu l'abate Zannoni. Il Capponi ricorda sempre con vivo affetto
i suoi primi maestri (1), ma che a lui stesso quella prima educa-
ci) Ecco quanto mi scriveva, in proposito, l'illustre uomo in una sua
lettera del 4 giugno scorso. « Mi corre obbligo dichiarare che dei miei
maestri non posso io altro che lodarmi tanto che alle volte mi pare che
abbiano tirato quasi come suol dirsi dalia rapa sangue. Un precettore
giovano prete ch'ebbi a tre anni e prima che io giungessi a tredici in-
fermò di una terribile malattia e dopo due anni moriva sempre giovane
qui in casa, mi fece pigliare amore agli studj. Mancato questi non andai
agli Scolopj, ma feci più anni un corso di matematiche sotto al P. Ca-
novai in Cella sua ; era l'uomo più singolare ch'io mi abbia mai cono-
sciuto, sapeva d'ogni cosa, andava in furia per ogni cosa, piangeva di-
rotto por ogni cosa che a lui destasse o tenci^ezza o ammirazione. Sopra
tutti i popoli amava gli Inglesi, odiava i Francesi perchè invasori; delle
idee del passato secolo avea fatte sue tutte quelle che potesse un Frate,
rigido a so stesso e infaticabile nel consolare chiunque potesse, dagli
intimi a' sommi. Quell'ampia sua stanza in San Giovannino mi rimane
Sempre memoria carissima ; e pure un'altra cella di frate ricordo con
- 45 -
zione ed istruzione non paresse tutta buona, si può argomentare,
in parte, da una lettera del Foscolo alla sua Calliroe di Losanna,
scritta nel maggio dell'anno 1820, ove, parlandosi del Capponi, si dice.
« La sua è un'anima alta, gagliarda, indipendente, ma dolce ed equa
ad un tempo; ed ha uno spirito pensatore e fornito di tanta origina-
lità naturale da aver potuto riconoscere e rompere da sé stesso in
pochi anni i ceppi di una falsa educazione, e gli stolti pregiudizii di
preti ignoranti, e di nobili sfaccendati. » E a chi sa leggere fra le li-
nee sarà stato agevole il riconoscere in molti passi del frammento del
Capponi suW educazione la condanna del sistema d'educazione, secon-
do il quale lo scrittore stesso era stato allevato. De'gesuiti egli scrive
fra l'altre cose: « essi nacquero a contenere l'umanità e non a
promuoverla, a sorreggere le istituzioni vecchie, non a fondare
le nuove. » Intorno ai libri ad usum delfini pronuncia la se-
guente sentenza: « Oggi ninno si porrebbe a scrivere libri per i
gentiluomini e per le duchesse; si scrive per l'uomo; e l'educa-
zione ch'era per lo innanzi un privilegio di pochi, dei prediletti
dalla fortuna, si riconobbe alla fine (e a Dio ne rendiamo grazie)
come un diritto, un bisogno, un vincolo dell'umanità. » Del Rous-
seau osa scrivere « egli solo conobbe che le cesoie dei critici,
l'aritmetica degli economisti, e la carila eunuca dei filantropi
nulla facevano se in cuore de'popoli non si destasse un affetto
che alla generazione decrepita rendesse quasi la vigoria dei se-
coli primitivi » (1). Dei Gracchi: « Illustri per nascita, per equi-
tà popolari, nel grande animo comprendevano l'istinto dei molti
amore, quella del P. Baitini, famoso por una sua molto derisa Apologia
dei secoli barbari; egli era erudito di qualche ampiezza ma di nessuna pro-
fondità, inquisitore feroce a parole, ma poi, nel fatto, la miglior pasta
d'uomo che fosse nel mondo ; si andava li ai primi studj del Greco in-
sieme col Bagnoli che tardi si voltò a quella lingua ; e quante pazzie
si dicesse per fare andare in collera il Maestro non saprei contare, ma
egli sempre ci voleva più bene che mai. Dopo di questi, l'Abate Zannoni
era ottimo iniziatore al mondo classico. Mi correva obbligo dire come
io dei miei maestri non avessi altro che da lodarmi ».
(1) Della sua visita alla Roma dei Papi fatta nel 1829, Gino Capponi
rimane scanda'eggiato. Nel maggio di quell'anno, il Giordani ne scrive
al Cicognara « Gino è ritornato da Roma ben sano e forte ; benché ivi
abbia talvolta sofferto fors'anche per la stagione sempre infesta. Lo ha
poco edificato lo spettacolo di tanti vizi, ignoranze, corruttele, miserie
della città sacrosanta. »
— 46 —
e la sapienza dei pochi, forze rivali e inconciliabili; ed essi ten-
tarono comporre la lite, insinché il ferro patrizio che squarciò
quei generosi petti, divise Roma per sempre. » Il grande eroe
delle scuole, l'ammirato conquistatore Macedone non è per lui al-
tro se non il « ladro innanzi a cui la terra tacque; » e queste
che divennero le sue non erano certamente le idee de'suoi pa-
renti e di tutti i suoi maestri ; ma, su per giù, doveano invece esser
quelle del suo intimo amico della prima giovinezza, Giam^battista
Niccolini, per cui, se più tardi soltanto egli ruppe intieramente i
ceppi, possiamo essere sicuri che egli aveva incominciato a scuo-
terli fin dal tempo nel quale egli stava ancora o piuttosto s'agitava
sotto la disciplina scolastica. In ogni modo, poi, abbiamo una evidente
prova di fatto che, sedicenne appena, Gino Capponi distinguevasi in
modo singolare fra i giovani studiosi della società toscana. Nell'anno
1804, i due giovinetti fratelli Balbo, Cesare e Ferdinando, avevano
fondato a Torino una società letteraria intitolata i Concordi ; qua.t-
tro anni dopo, il contino Cesare, dicianovenne, veniva, per ragione
di pubblico udicio, mandato a Firenze, ove non tardava a conosce-
re il giovinetto Capponi e a sentire per lui una così grande am-
mirazione, che, scrivendo al suo amico conte Carlo Vidua a To-
rino, gli proponeva di creare il sedicenne Gino Capponi membro
onorario della società de'Concordi. E allo stesso Gino professò poi
sempre il Balbo tanto amore e tanto rispetto, che a lui volle de-
dicato un gran numero di suoi lavori (1). Certo non è a darsi
una eccessiva importanza, avuto riguardo alla generosa facilità
con la quale i giovani accade/nici sogliono scambiarsi simili onori,
neppure a questi onori massimi conferiti dai Concordi al Capponi;
ma, se si pensi che qui non può neanche entrar l'ombra del so-
spetto che i Concordi volessero far la corte a un titolato, che ti-
tolati eran pure il Balbo ed il Vidua, e se si consideri la natu-
rale serietà del proponente e della persona a cui la proposta ve-
niva diretta, bisogna dire che il giovine patrizio fiorentino, per
meritare tanta considerazione, avesse fatto a sedici anni più che
profittare degli esercizii della scuola, ed addestrato già egli stesso
l'ingegno a più libere e più virili battaglie. Poco dopo, tro-
viamo ascritto il Capponi alla società de'Georgofili. Nel 1818, lo
sappiamo in viaggio per Francia ed Inghilterra, ove una lettera
(1) Cfr. le Memorie sulla vita e gli scritti di Cesare Balbo pubblicate
da Ercole Ricotti. Firenze, Le Mounier.
— 47 -
del Niccolini lo presenta ad Ugo Foscolo; il Capponi viaggiava
allora per istruirsi, e per respirare un'aria meno soporifera di
quella che ci avvolge non sugli aperti colli, ma ne'saloni e crocchi
toscani e particolarmente fiorentini; è il fiorentino Niccolini che,
nel dicembre del 1818, scrive al fiorentino Capponi allora a Pa-
rigi, in questa forma: « sono d'accordo ch'egli è meglio folleg-
giare coi lombardi che dormire coi toscani. Se l'inerzia e la su-
perstizione avessero un palazzo, com'è stato finto del sonno e del-
l'Invidia dai poeti, io certamente lo metterei in Firenze > (1). Né
l'amicizia del Capponi pel Niccolini dovea rimaner sterile. Appena
ei giunge a Londra, con 1' aiuto del Foscolo, trova il Murray,
presso il quale stampa a sue spese, senza nome d'autore, la pri-
ma edizione di quella allegoria drammatica ch'è il Nabucco del
Niccolini. Gli epistolare del Niccolini e del Foscolo provano ad
evidenza il generoso interesse e le molte cure che il giovine Me-
cenate fiorentino pose a questa pubblicazione del timido autore
ùéiVArnaJdO) cosi ardito sempre nello scrivere, e sempre cosi
pronto a sgomentarsi per gli effetti possibili de'suoi scritti ap-
pena pubblicati./ In quel tempo, sull'amicizia e stima reciproca
del Capponi e del Niccolini non erano ancora passate ombre :
« Benché più giovine di me, scriveva il Niccolini al Capponi nel
18:20, avete senno maggiore e il viaggiare vi ha fatto esperto
E degli vizi umani e del valore. »
L'amicizia loro era nata nelle scuole, e si protrasse quindi per
quasi quarant'anni, cordiale e feconda di bene. Né vi fu, può dir-
si, lavoro drammatico del Niccolini che non sia passato prima
per le mani del Capponi, mani ostetriche per eccellenza, e che
paiono fatte a posta per levar dal buio nobili ingegni, mani orto-
pediche, abilissime a raddrizzare ogni maniera di storture in
quelle piante ideali, che non siano nate rachitiche, ma solo da
una falsa educazione viziate (2). Il Niccolini ed il Foscolo, il Man-
(I) Il giudizio del Niccolini combina con quello del Giusti, che scri-
vendo a Massimo d'Azeglio, gli dice, molti anni dopo: « Qua l'inno del
giorno è lo sbadiglio ».
('2) Nò il Capponi rivedo soltanto i lavori inediti de'suoi amici, e ne aiuta
la stampa, ma li difende pubblicati. Da una lettera dell'anno 1827 del
Niccolini aUa Pelzet rileviamo che il Capponi ha risposto per le rime
ad un libello manoscritto della famosa IMichieli contro il Foscarini, pas-
satogli dal conte Cicognara.
— 48 —
zoni ed il Giusti, il Leopardi ed il Colletta, il Balbo, l'Azeglio, il Tom-
maseo, per citare i soli esempii più illustri, ebbero tutti dal conversare
più 0 men vivo e lungo ch'essi fecero col marchese Gino Capponi
a sentir beneficio: onde se non vi fu uomo agli uomini di lettere
più benefico di lui, non ve n'è forse neppure alcun altro che ab-
bia dai letterati, gente nella massima parte, per invidia, ingrata,
raccolte più solenni e più schiette dimostrazioni d'affetto riverente.
Io ho già accennato alle testimonianze di devota amicizia rese al
Capponi dal Balbo; il candido e lodato Gino della Palinodia del
Leopardi a Gino Capponi, è, nella mente e nel cuore d'ogni let-
tore italiano ; Y ortopedico del Giusti
Che acceso alla beltà del vero
Un raggio se ne sente nel pensiero
e ciò che in sé cape e sente sa pure intendere in altri, a cui
come al più vivo fra tutti i toscani il giovine autore della Terra
dei morti si rivolgeva per pigliar forza a drizzar meglio la punta
de'suoi strali arohilochei contro un grande ma lieve bestemmia-
tore di Francia, sta sempre di casa in via San Sebastiano, ove
' ai pochi che non si sono stancati de'suoi beneficii continua a pre-
star servigio d'opere e di consigli. Le lettere a stampa del Foscolo
attestano con quale confidenza il poeta dello Zante poneva nelle
mani del Capponi la sua versione dell'Iliade, aflinchè il dottissimo
fiorentino le desse l'ultima mano; del Colletta tutti sanno che al
Capponi, al Niccolìni e al Giordani (I) leggeva la sua storia del
. Reame di Napoli, come a giudici inappellabili, in fatto di buon
gusto letterario, alle sentenze de'quali si rimetteva intieramente
nella lunga e paziente revisione del proprio lavoro. E quando il Col-
letta mori, il corcirese Mario Pieri ebbe a notare nelle sue memorie:
« Intorno a questo tempo, passò di questa vita in Firenze il ge-
(1) E noto come il Giordani rivendicasse a sé solo quasi tutto il me-
rito della correzione dell'opera del Colletta. Ma ciò non può recar me-
raviglia in un uomo che, nel novembre del 1838, poteva scrivere inge-
nuamente ad un amico : « Un solo piacere potrei avere, di conversare
con uomo che avesse cuore eguale al mio, e testa più alta e più am-
pia. Ma questo divertimento non l'ho avuto mai. )> Eppure quest'omino
avea conosciuto il Monti e il Manzoni, il Byron e il Leopardi, il Capponi
e il Niccolini !
— 49 —
nerale Colletta napolitano, autore d'una storia famosa; ed il suo
<i,-eneroso amico marchese Gino Capponi, dopo averne raccolto con
tenera sollecitudine gli estremi sospiri, e mandatene le spoglie
mortali a Varramista magnifica villa e campagna di casa Cappo-
ni in quel di Pisa (1), volle provvedere alla futura fama di lui,
pubblicandone a proprie spese l'opera colle stampe, e corredandola
eziandio della vita di lui. »
Se il Capponi non fosse dunque stato in vita sua altro che l'amico
operoso, caldo e intelligente d'alcuni grandi italiani, egli merite-
rebbe già, per questo solo, un titolo alla nostra viva riconoscenza.
La presenza del Capponi in Londra temperava per alcun tempo
le amarezze dell'esigilo al Foscolo ; come esuli vivevano in To-
scana il Colletta ed il Leopardi ; il primo nel 25 febbraio del 1S29
scriveva da Livorno al Leopardi : « Era meco il Capponi, venuto
da Firenze per consolare la mia solitudine. » Il più assiduo visi-
tatore di G. P. Vieusseux in Firenze era il marchese Gino Capponi,
onde il Leopardi, nel luglio del 1828, potea scrivere da Firenze al
Giordani : « Io non veggo altri che Vieusseux e la sua compa-
gnia ; e quando questa mi manca, come accade spesso, mi trovo
come in un deserto. » Il saper amare efficacemente come il Cap-
poni sa, è virtù di poche anime elette ; l'avere per amico un tal
uomo è un sentirsi raddoppiare insieme il vigore dell'intelletto e
quel calore interno dell'anima, che fa salire e prorompere, nelle
sue più splendide manifestazioni, l'ingegno.
Il Capponi poteva egli stesso creare ; preferì una parte più mo-
desta ma non meno grande aiutando ingegni più impazienti del
suo a rivelarsi nella loro forma più naturale, più alta e più com-
pleta. Ma fu particolarmente sovra il Niccolini e, più tardi, sovra
il Giusti che si versò, di continuo, intenso e sollecito, il calore
della sua virtuosa amicizia. E il Niccolini gli corrispose {ler lungo
(1; In quella campagna, oltro a tutti i suoi amici di Toscana, il Cap-
poni avea ricevuto parecchi altri uomini illustri fra i quali il Manzoni,
il Lamartine, il Cobden, Cfr. Tommaseo, Ricordi storici di G. P. Vieus-
seux. Firenze, Cellini 1869. — Quanta cura il Capponi avesse posto a
quel luogo prima di divenir cieco e quanto l'amasse, si può argomen-
tare da una lettera del Niccolini, del maggio 1840. « Il Pieri non ha
fatto che lodare le bellezze di Varramista, e di questa ammirazione non
sentiva il Capponi consolazione ma sconforto non potendo ornai più ve-
dere che colla memoria quei luoghi creati può dirsi da lui. »
ItlCORDl BlOGRAKICI 4
— 50 —
tempo, nel rendergli onore, e nel prendere la parte più affettuosa
alle sventure di lui. Mentre egli era in viaggio, nell'anno 1810,
il Niccolini lo proponeva qual membro dell'Accademia della Cru-
sca, onore che fu tuttavia conferito al Capponi solo alcuni anni
(li poi (1), e rallegrandosi con lui ch'egli fosse degli occhi « pie-
namente guarito » gli raccomandava di risparmiarseli. ]Ma il male
che aveva allora dato i primi sintomi delle sue future rovine dovea
riapparire vent'anni dopo, in conseguenza di troppo continuata ed
attenta lettura, in tutta la sua gravità irreparabile. Il Niccolini
si mostra nelle sue lettere pieno d'inquietudine per i progressi
che fa la malattia, intorno alla quale tiene informati gli amici.
Cosi sappiamo da lui che nella primavera dell'anno 1810, già fatto
cieco, il Capponi consulta il Regnoli ; nella primavera dell'anno
seguente, il Niccolini scrive a Giovanni Morelli di Bergamo, per
combinare un viaggio a Monaco di Baviera che il Capponi e il
Morelli avrebbero fatto insieme, per consultarvi il celebre oculi-
sta Walther. Reduce il Capponi di Germania, nel luglio del 18il,
il Niccolini scrive con verità e poesia, allo stesso Morelli, a Ber-
gamo: « Farmi che dal suo viaggio il Capponi abbia ricavato
alcun frutto d' utilità, e dalle parole del valente medico tede-
sco , io ho aperto 1' animo a qualche speranza. Il Capponi ha
cominciato a far la cura prescrittagli, ma del vantaggio ch'egli
ne tragge non ardisco interrogarlo, perchè i benefìzi del tempo
son lenti ed incerti, e la mente del Capponi rifugge da que-
sto doloroso argomento, né vuol egli andare incontro al do-
lore d'una speranza che rimanga delusa; quindi al peggio si è
rassegnato, e questa desolata pace non brama che da' suoi amici
gli venga turbata Ad ogni modo, egli si è confortato per un
mese l'anima afflitta coli' ottima sua compagnia e conversando
con quei grandi ingegni (lo Schelling, il Gorres, il Dòllinger, il
Thiersch, il Philipps), che sono gloria di Germania e luce d'Eu-
ropa. Dei loro detti ha fatto tesoro, una specie di provvisione
a mantenere ed accrescere la vita del pensiero, cosa rilevante
per tutti, ma più per quelli a cui sono quasi chiuse le pagine del
mondo fisico e rimangiano soltanto gli occhi dell'intelletto. » Nel
settembre 1843, essendosi il Capponi fatto operare ad un occhio
dall'oculista francese Germier, rinascono ne' suoi amici alcune
speranze, e il Niccolini torna a scrivere al Morelli : « il nostro
(1) Il Capponi è ora il presidente deirAccademia della Crusca.
- 51 -
amico... crede che potrà migliorar tanto da poter camminare senza
pericolo, e rivedere le care sembianze delle sue dilette figlie ; io
l'accerto che in questo affare egli ha proceduto colla massima pru-
denza, né potea far a meno di tentare questa cosa, perchè stava in
procinto di perdere quel poco di bagliore che gli restava, e la
membrana osservata dal Walther minacciava di estendersi su
tutta la pupilla. Non posso dirgli quanta sia l'espettazione di tutti,
e credo che non vi sarebbe persona la quale non baciasse la
mano del Germier, se il Capponi torna a rivedere, o per dir me-
glio a rivivere. » Nell'ottobre di quello stesso anno, le speranze
si mantengono ancora, onde il Niccolini, scrivendo ad Andrea Maf-
fei che desiderava essere consigliato da lui intorno alla sua ver-
sione tuttora inedita del Wallenstem, gli risponde : « se vi piace,
mandatemi qualche scena, ch'io mi farò aiutare dal Capponi, il
quale (ve lo annunzio con una gioia ineffabile) v'è gran speranza
che possa ricuperare la vista; egli si farà leggere il Wallenstein
da un giovine che, quantunque non intenda pienamente il difi:i-
cilissimo linguaggio germanico, pur lo pronunzia assai bene ;
sapete che il Capponi lo conosce ; faremo qualche cosa per voi in
quanto saremo capaci » Nel gennaio del 1844, il Niccolini torna
a scrivere al Maffei : « Il Capponi vi saluta; vorrei potervi dire
che ha raquistato la vista, ma pur vi è sempre luogo a sperarlo ;
se gli uomini nei quali è ingegno e virtù dovessero esser felici
quaggiù, chi lo meriterebbe più di lui? »; al 1 marzo 1844 quando
il Niccolini, scrivendo al Centofanti, chiama Gino Capponi « il
nostro egregio ed infelice amico, il fior degli uomini sapienti e
dabbene » tutte le speranze sembrano già perdute.
Né il Niccolini amava soltanto nel Capponi l'amico e l'uomo
nobilissimo, ma teneva pure in gran conto l'uomo di lettere, che,
in una sua lettera a Pietro Zambelli, diceva anzi tener « in concetto
di gran scrittore » ; e ad uno scopo civile i due amici lavoravano
per le lettere con mezzi diversi, e con uno stesso amore di bene.
Quando il Capponi a Parigi medita, nel 1819, un giornale da pub-
blicarsi in Firenze, è al Foscolo e al Niccolini che si rivolge per
assicurarsene il concorso ; quando, nel 1828, il Capponi vuole com-
piere la più nobile delle vendette toscane sopra l'autore della Pro-
posta, proponendo che l'Accademia della Crusca voti unanime per
un monumento a Vincenzo Monti, è al Niccolini che si rivolge per
raggiungere il suo generoso intento ; quando il Niccolini si mette
a fare profondi studii sulla Divina Commedia per pubblicarne poi
nel 1837, in Firenze, la miglior lezione, è il Capponi il suo oc-
cliio destro, destinato a vedere quello che a lui, ingegno d'aquila, e
al Becchi ed al Borghi, astri minori, può essere sfuggito (onde poi,
nel 1813, dall'inglese Lord Vernon, non modesto fondatore deh'or-
dine di Dante^ il Capponi e il Niccolini si vedevano, non senza sorri-
derne, proclamati insieme cavalieri di Dante !) E della loro società
letteraria, fattasi in quegli anni più intima e più stretta, troviamo
pure ricordo in una lettera diretta nel 1868 da F. L. Polidori ad
Atto Vannucci, ove, fra l'altre cose, si legge : « Ricorderò sem-
I)i'e con particolarissima compiacenza quelle dotte conversazioni
che si tenevano nelle domeniche presso il Capponi, tra il tocco e
le tre (1839, sino alla pubblicazione dell'Arnaldo"), e alle quali
assistevano più assiduamente, e piuttosto come uditori che altro,
Giuseppe Molini, Fruttuoso Becchi (finché vìsse) ed io medesimo...
Il Niccolini e il Capponi, oltre a quella della forte dialettica, da-
vano prove di memoria tenacissima ; questi col recitar lunghi
brani originali di Omero, dall'Ariosto ecc.; l'altro con un diluvio di
autorità e di citazioni d'autori in tutte le lingue soprannominate. »
Ma la pubblicazione deW Aìmaldo venne a dividere i due amici,
non tanto per intolleranza che vi fosse dall'una parte e dall'altra pel
fatto delle opinioni contrarie, quanto per una scena disgustosissi-
ma che si narra avvenuta, a proposito di quello opinioni, in casa
dello stesso Niccolini. Noi non sappiamo quanto sia veridica l'es-
posizione di un certo dialogo che si figura avvenuto in quella
casa fra il Capponi, il Centofanti e il Niccolini, nel libello di
un Mirecourt italiano; ci pare che vi sia nata alcuna confusione
di date, e da questa prima confusione ci facciam lecito di dubi-
tare che la immaginazione del libellista (1) abbia largamente sup-
]i!ito in questo come in altri casi al difetto della memoria; ma,
anche accettando quel dialogo come storico, non ci sembra di do-
verne inferire altro se non un motivo di amaramente deplorare
(1) Il noto libellista veniva colpito ne'seguenti versi del Giusti:
Non ti capaciti com'io resista
Al turpiloquio d'un libellista,
Glie nel farnetico ciarlìo d'ades'-'o,
Ruttando inlamio rutta sé stesso^*
Is'oii vedi il misero lerirti apposta
l'or sete inutile d'una risposta,
Cercar coU'animo grullo e mendicO;
Lo vanaglorie di tuo nemico?
— as-
ini eccesso del Niccolini che lo fece trascendere ad atto più che
villano, e la magnanimità del Capponi che, offeso dall'autore del-
V Arnaldo, non volle rispondergli altrimenti che con lo stendergli
la mano, dicendo: « Tu resterai ghibellino, noi guelfi; ma saremo
amici. »
Perduta l'amicizia del Niccolini, il Capponi potè consolarsi nel-
l'affetto figliale che gli dimostrò il Giusti, ir Giusti conosceva il
Capponi fin dall'anno 1836; ma la loro amicizia incominciò vera-
mente a divenire operosa solo dal 18ii, anno dal quale il poeta,
per quanto potè, fece vita comune col patrizio. Nel 18i8, egli ne
scriveva al Vannucci: « wSono quattr'anni che siamo sotto l'istesso
tetto. Della mente e dell'animo di quest'uomo non ne parlo per-
chè siamo troppo uniti, e tra noi non istà bene lodarsi, molto più
che posso rimettermene al parere del Montanelli (1), che lo am;i
di molto, al parere del Panattoni che lo chiamò Patriarca
(1) Nelle HJemorie sitW Italia e specialmente sulla Toscana dal 1811
al 1840, il Montanelli giudica cosi il Capponi: « A Gino Capponi la na-
tura etrusca era stata prodiga dei suoi doni, comecliè bella e maestosa
la persona, gl'istinti generosi, e l'ingegno gli avesse largito agile, robu-
sto, atto ad ogni maniera di discipline, e d'ogni tipo di bello poetico o
morale gustatore squisito . . . Mancava a Gino, in mezzo a siffatto com-
plesso di belle qualità, la potenza che conclude, la virtù che riduce ad
atto le idee: onde come due politici in lui rinvenivansi; l'uno dal di-
.scorso accademico, energico, tuonante, esaltabile, immune d'ogni gret-
teria di parte. Adente nell'avvenire deirumanità, guardatore dall'alto (^
senza piagnisteo pedantesco dei mali transitorii che accompagnano lo
rivoluzioni; l'altro della pratica, impicciato, sgomentone, aggirabile.
Idcentesi ostacolo di puerili riguardi e nella contesa delle parti procliv<>
a compagnia di rimorchiati più che di progressivi, benché progressivo. Al-
tezza di pensiero, impotenza d'azione facevano il contrasto che colpiva
nel carattere del Capponi. E diventato cieco nel mezzo della virilità. Li
cecità in lui quella potenza accresceva. » Lo stesso Giusti, scrivendo
al Capponi nel 184G, osa dirgli: « Io t'amo a preferenza di molti che fi
vengono d'intorno più per onorare sé stessi che per onorarti ! Vorrei
che tu stossi o solo o con p chissimi, perché ho sdegno di sapere abu-
sata la tua bontà, la tua natura schietta e generosa. » Quello che va-
leva ai tempi del Giusti vale ancora adesso, per ciò che spetta le in-
sidie tese al nome del Capponi da una certa razza di raggiratori pao-
lotti, la quale, per coprire le proprie vergogne, mette innanzi il nome
illibato di Gino Capponi, innanzi al quale ogni arma dirt'tta a ferire
deve si)untarsi.
— 54 —
della libertà, e al parere del Guerrazzi, che, quattr'ajini sono, gii
dedicò un libro {l'Isabella Orsini). Non dirò nemmeno quanto bene
m'hanno fatto le sue parole, i suoi consigli, il suo esempio. » In
una sua lettera del 1845, il Giusti scolpiva il Capponi in queste
brevi parole: « Il signore è uomo, e l'uomo è umano. » Scrivendo al
Capponi stesso, diceva ch'ei parlava a lui come alla sua propria
coscienza. E, nell'ottobre del 1844, dipinge al vivo il sentimento
religioso che si prova non pur nel cospetto degli uomini grandi,
ma di tutto ciò che loro appartiene e che si vorrebbe con gene-
roso comunismo far nostro, mentre gli scrìve: « Se non fosse
stato il timore di distrarvi dalle vostre occupazioni, avrei ronzato
di continuo intorno al vostro uscio. » Le parole di Gino Capponi
pesano poi tanto nell'animo del Giusti, che egli si mette a studiare il
latino solamente per l'effetto che gli fece un tanto meglio detto in.
un certo modo da Gino Capponi, quando il Giusti confessava di
non ne saper più nulla. Scrivendo infine al Grossi nel giugno del
1846, il Giusti gli descrive cosi la vita ch'ei mena nel palazzo
Capponi: « Posso dire di essere con Gino da Pasqua in poi, e
oramai veggo che passerò con lui una buona parte dell'estate. Ce
ne stiamo soli qui in questi stanzoni che basterebbero a un po-
polo; a me basta il padrone di casa, e Dio volesse che io bastassi
a lui. Credi a me che quest'uomo, più si conosce e più se ne sente
il valore e il dolore di vederlo si dimezzato e quasi superstite a
sé stesso. Egli di famiglia illustre davvero, egli ricco, dottissimo^
di mente alta, d'altissimo cuore, sano, forte, bello, nel fiore del-
l'età, vedilo ridotto a una battaglia con sé medesimo per non ce-
dere alle disgrazie che gli sono piovute sopra e che ne farebbero
un disperato, se non fosse chi è. Quando si veggono di tali cose,
non abbiamo più diritto di lamentarci sul conto nostro. » Allude
qui, oltre alla cecità, al dolore che il Capponi provò acerbissimo
per la perdita della tenerissima sua figlia Ortensia (1); l'altra sua
amabile figliuola, la marchesina Marianna, andava quindi sposa al
marchese Francesco Parinola, la morte del quale avvenuta nel 1860
fu al Capponi come una seconda cecità. Gino era al Giusti come padre
(I) « Era la figlia che conosceva cos'i bene suo padre, era quella che
vedeva per lui, era la mano che sapeva così bene consolare gli affanni
paterni e rasciugare i nobili sudori di quella fronte. » Ignazio Cantù,
L'Italia scientifica. Dalie sue nozze con la marchesa Riccardi Vernaccia
che l'aveva lasciato vedovo nella prima gioventù, il Capponi ebbe due
sole figlie.
— O.) —
per l'affetto, e come maestro ne'consigli letterari!; la raccolta di
Proverbii del Giusti s'ampliò e si purgò fra le mani del Capponi, cosi
la raccolta de'suoi versi, cosi il suo discorso intorno alla Vita e alle
opere del Parini. « Voi che sapete, scrive il Giusti al Capponi,
con quanta docilità, anzi con quanta allegria mi sono arreso ai
vostri suggerimenti e a quelli di altri pochi galantuomini come
Voi, non vi meraviglierete se io desidero più una lavata di capo
fatta amorevolmente e in nome del vero, che non di quelle ap-
provazioni buttate là senza garbo né grazia, che disgustano sem-
pre chi non presame di sé, o almeno lasciano il tempo come lo
trovano. » Ai giovani d'adesso una simile modestia parrebbe so
non una viltà, una mortificazione eccessiva; ma, poiché pare a me
che i giovani abbiano torto a pensarla così, reco loro l'esempio
del Giusti, che, per essere esempio illustre, dovrebbe anche riuscii-e
più eloquente. La sera del 1" aprile 1850, Gino Capponi accom-
pagnava agli eterni riposi le spoglie mortali del giovine amico
spiratogli fra le braccia, che giovane, cornee ben dice il Prassi,
egli aveva incoraggiato, e adulto ospitato in sua casa e consigliato
amorevolmente più anni. Dopo il Giusti, il Capponi vedeva spe-
gnersi successivamente il suo Niccolini, il buon Thouar e il fido
Giampietro Vieusseux, il qual nome ci riconduce a parlare di
un'altra serie di beneflcii prodigati da Gino Capponi alla Toscana
ed al suo tempo.
Convien perciò riportarsi alle condizioni letterarie della Toscana
innanzi al 1820. Se non era il soggiorno del subalpino Alfieri e
del greco Foscolo in questa beatissima e ridentissima fra le terre
d'Italia, nessuna menzione si farebbe, per quel tempo, della storia
letteraria di questa provincia, che pareva morta ad ogni vita
ideale. L'ingegno dell'Alfieri e l'anima ardente del Foscolo contri-
buirono a scaldare la mente di Giambattista Niccolini, il quale
alla sua volta comunicò una parte del proprio maschio vigore al
Capponi. Il Niccolini ed il Capponi erano forse i due soli ingegni
virili che si fossero allora volti alle lettere in Toscana, con pro-
posito d'innalzarne il culto e di spirarvi la vita novella. Preoccu-
pati dal desiderio di far gloriose le lettere alle quali s'eran vota-
ti, l'uno cerca d'infondere nell'opera d'arte il sentimento umano,
l'altro di agitare la vita libera ed operosa del pensiero in mezzo
al suo popolo. L' uno cerca il coraggio di adoperare uno stile
maschio, nel suo predecessore astigiano; in sé stesso, i buoni
sentimienti; nella storia, le idee ispiratrici; l'altro viaggia, per ve-
dere come altrove si pensa e si vive per provvedere affinchè si
— :)G —
pensi e sì viva meglio anche tra noi. Il Capponi ha fatto conoscenza
delle riviste inglesi, e si persuade della forza d'un giornale ben fatto
per dirigere l'opinione pubblica; egli conosce pure i giornali dei
letterati italiani, e sa che con una letteratura da soli letterati
non si risveglierà mai un popolo alla coscienza di sé e de'suoi
bisogni. Medita dunque, stando nel 1819 a Parigi, una rivista da
pubblicarsi al suo ritorno in Toscana, con intendimenti nuovi, con
l'aiuto de'più vivi e valenti tra gli scrittori civili della sua terra,
e con que'mezzi materiali che la sua generosità non mai stanca è
disposta a fornire. Ne scrive al Niccolini ed al Foscolo; il primo
gli risponde il l" dicembre: « A richiamare l'intelletto a più no-
bili occupazioni sarebbe veramente vantaggioso il giornale che voi
meditate; ma giudicate voi se nelle attuali circostanze ne sia pos-
sibile l'esecuzione. E ciò non sia detto per iscoraggirvi, e per di-
struggere questo idolo della vostra mente generosa; nil desperan-
dimi duce Teucro, auspice Teucro. Tenteremo, e, se non potremo
far del bene agli altri, lo faremo per noi. Nelle scienze almeno il
Ridolfi potrà fare qualche cosa; ma conviene perfettamente iso-
larsi dalla canaglia che, al pari delle arpie, tutto contamina. »
Nell'aprile dell'anno 1820. il Niccolini torna a scrivere al Capponi
in Parigi.- « Voglia il cielo che possiamo riuscire nello scopo che
vi siete prefisso, e che il giornale abbia luogo. » Quella lettera
finisce con un memorando poscritto: « Un certo Vieusseux gine-
vrino ha messo qui un gabinetto di lettura, ove sono i più ac-
creditati giornali d'Europa. »
Alla sua volta, nel marzo di quell'anno medesimo, il Foscolo
scrive al Capponi in Parigi promettendogli articoli pel suo futuro
giornale. Intanto il Capponi ha lasciato la Francia per visitare,
prima di tornarsene in Italia, la Fiandra, l'Olanda e la Germania;
le paludi olandesi gli danno l'ipocondria, « e le faccie de'mercanti,
pe' quali non ha mai sentito grande amore, gli hanno ispirato
un'antipatia invincibile d'ora in poi per tutte le fisionomie mer-
cantili dell'universo. » (1)
Chi avrebbe mai detto allora al Capponi che al suo rimpatrio
la più simpatica figura che gli si sarebbe affacciata sarebbe stata
appunto quella d'un mercante? Anzi, che un mercante forestiero sa-
rebbe stato l'uomo più atto a far tesoro de"suoi più elevati pen-
sieri ed a tradurli in opere vive? Ma la lettera del Foscolo a Cal-
(1) Epistolario di Ugo Foscolo,
- 57 -
liroe ci fa pure sapere che il Capponi era « fisionomista quanto
Lavater », e però ei non dovette tardare molto ad accorgersi che
in quell'uomo d'affari, in quel « signor Pietro, come gli piaceva
chiamarlo con amorevole e tra signorile e popolare fomiglia-
rità (l) », batteva un cuor generoso e splendeva un'anima intel-
ligente. Conosciuto pertanto il Vieusseux, lodato il suo gabinetto,
ammirata la rara operosità dell'uomo, inteso com'egli stava per
imprendere la pubblicazione d'una rivista rispondente in gran
parte a'desiderii che il Capponi stesso aveva concepito, il grande
patrizio fiorentino stimò miglior consiglio incoraggiare un solo
giornale che sciuparne due. Ceduto pertanto prontamente il suo
disegno, i suoi consigli, i suoi scritti ed i suoi multiformi aiuti
al Vieusseux, lo pose in condizione di convertire in breve VAìi-
Lologia nel primo periodico d'Italia, e di riunire intorno ad esso
e al gabinetto di lettura gli studiosi non pure di Toscana ma di
tutta la penisola; che, tacendo de'pochi toscani, il Foscolo ed il
Leopardi fra gli altri, lo Sclopis ed il Tommaseo, il Montani ed il
Mazzini, il Romagnosi ed il Lambruschini, il Pepe ed il Poerio,
il Libri ed il Matteucci da quelle pagine raccolsero splendore, e a
quelle pagine ne diedero.
Di quel sacro consorzio Gino Capponi potea dirsi il Padre, il
Montani il Figliuolo, e Giampietro Vieusseux lo Spirito Santo.
Il Tommaseo faceva poi al Montani da valente Cireneo, togliendo
con onore sopra di sé que'pesi che il Montani aggravato non poteva
portare da solo e de'quali la carità del buon Vieusseux era sempre
pronta a sollevarlo. II Capponi ora è solo, il Montani è morto, è
morta V Antologia; ma la vita comunicata allora alle lettere in To-
scana si risente anche oggi nel segreto comune rimpianto di quei
tempi migliori. E in verità, se si raffronti la vita letteraria di
Firenze in quel glorioso più che decennio della vecchia Antologia,
la vita odierna potrebbe sgomentarci. Non erano allora agli studi i
gli aiuti presenti; istituti superiori in Firenze quasi non erano;
le biblioteche lamentavansi più povere assai e di men facile ac-
cesso che oggi non siano; poche e misere anche le scuole per la
prima istruzione; malagevole e pressoché impossibile ogni com-
mercio letterario; scarse e povere di notizie le gazzette; il governo
addormentato e il popolo più addormentato del governo; e pure
alcune vigili e modeste lampade solitarie stavano continuamente
(2) Tommaseo, Ricordi dì n, p. Vieusseux.
— :>s —
accese, e intorno a quella scarsa luce si accendevano, in alcuni
giovani, sublimi entusiasmi, sorgevano propositi magnanimi, si
fecondavano opere immortali. Un solo patrizio e un solo mercante
bastavano allora a chiamar gente nelle sale di un modesto gabi-
netto, a discorrervi delle cose dello spirito, mentre all' intorno si
moltiplicava invano una materia oscura, senza nome e senza for-
ma. Ora i tempi sono diversi; la luce si spande per tutto; ogni
uomo che nasce, ai primi passi che tenta fuori di casa, trova aperta
una scuola; il giornale va per le mani de'fanciulli; la biblioteca
circolante mette il libro nelle mani degli operai; i mezzi dell'istru-
zione sono prodigiosamente accresciuti ; ma la stessa facilitcà con la
quale l'istruzione generale si può acquistare dispensa i più dal du-
rare qualsiasi fatica per procacciarsene una maggiore e particolare ;
la superficialità del sapere si scambia per vera scienza; scienza vera
0 non si cerca piìi affatto, o da pochissimi e più pel servigio che
essa ha da rendere a chi la professa che per sacro amore di essa
e del paese cui ha da servire. E questo male s'avverte e si la-
menta forse più che altrove in Firenze, ove la gioventù, più an-
cora che viziata dal disordine improvviso di tumultuose passioni,
si trova snervata da una lunga abitudine d'inerzia che la fa svo-
gliata, di maniera che le si attribuirebbe diflìcilmente l'energia
necessaria ad imprendere alcuna nuova opera gagliarda e genero-
sa. Le buone istituzioni che Firenze serba appartengono al suo
passato; delle pubblicazioni periodiche le quali continuano a farle
onore, l'una è V Archivio Storico italiano fondato da Gino Capponi,
dopo la soppressione della vecchia Antologia, l'altra è la Nuova Anto-
logia, migrante ora verso Roma, e nata, per virtuosa reminiscenza, in
Firenze capitale, col concorso e patrocinio di quello stesso Gino
Capponi che aveva col Vieusseiix fondato l'antica. De' Gabinetti
letterarii esistenti in Firenze, l'ottimo è pur sempre quello che
Giampietro Vieusseux stabiliva e ordinava, con pensiero allora
originale, in Firenze, or sono più di cinquant' anni, ch'egli sta-
biliva e ordinava a profitto degli italiani, e non per cagione
di dare un falso lustro e belletto alla città di Firenze, di che far
sterile pompa agli occhi degli stranieri. Ed io insisto alquanto su
questo punto, perchè parmi che i nuovi reggitori di Firenze in-
tendano alla rovescia l'utile della città al loro governo affidata; io
voglio pur credere che essi amino più della propria, la prosperità
fiorentina; ma essi mi sembrano mal provvedere a questa prospe-
rità con fumi inani, e con salamelecchi graziosi ad ogni nuovo
principe o potente straniero cui gusti, per i suoi commodi, sver-
— no —
nare piuttosto a Firenze die a Roma od a Napoli. Sta bene esser
cortesi col forestiero, ma non è cortesia la servilità, la quale può
invece ingenerar sospetto che si voglia riuscir venale. Oltre a que-
sto, io non vorrei che troppi stranieri ripetessero più la sentenza
proferita da un inglese che visitava la città nostra nello scorso
inverno, e notava l'affaccendarsi de'signori fiorentini a spendere
in sontuosi festini più che i loro risparmii, per avere il gusto di
leggere e far leggere nelle gazzette locali, convertite in bullettini
della moda e del bel mondo, ogni loro prodezza; « i fiorentini sono
ridicoli nelle cose serie, e serii nelle cose ridicole. » Il giudizio è
alquanto impertinente, e per molti fiorentini ingiusto, ma si di-
rebbe che quanti hanno il mandato di reggere questa città pon-
gano ogni studio nel fare che Firenze sei meriti. Essi sono, per
dire il vero, intentissimi a difendere e a far difendere l'onore della
città; la loro sollecitudine continua è che il forestiero il quale ar-
riva a Firenze vi trovi oggetto continuo di svago, e che il fioren-
tino, rivedendo numerosi forestieri passeggiare per le vie di Fi-
renze, si diverta e si conforti in quella vista al pensiero che sono
tornati i bei tempi. Ma, poiché il forestiero non ha la virtù di
scemare i nuovi dazii comunali per far tornare al prezzo di una
volta il pane, il vino e la carne nella città aggravata, né di or-
dinar copie di antichi ritratti, o fotografie di monumenti, o rose
e piccioni in mosaico ad ogni sfaccendato che giri quanto il giorno
è lungo per le vie e per le piazze fiorentine, in attesa di qualche
Creso di Londra o di Pietroburgo che lo voglia occupare a far
nulla presso di sé; io invocherei per Firenze un minor numero
di distrazioni pel forestiero e un numero maggiore d'occupazioni
pel cittadino; io vorrei che si pensasse meno a procacciare cir-
censi al popolo che a trovargli il mezzo di guadagnarsi abbon-
dantemente il pane ; ad aprirgli ofiicine che a fargli de' discorsi
olimpici ; a preparare in Firenze una generazione di uomini che
a mantener gli uomini eternamente ftmciulli.
Questo fu il pensiero continuo dei Capponi e de'Ridolfì, de'Lam-
bruschini, de' Thouar e de' Vieusseux nella prima metà di que-
sto secolo ; questo ancora dovrebbe essere il pensiero di quanti in
Firenze hanno amore alla cosa pubblica e si preoccupano sul serio per
le condizioni future della città. I dotti discorsi che si fanno nelle sale
del Circolo Filologico sono splendidi tutti e tutti applauditi ed, amo
crederlo, tutti degni di plauso; ma badate che, per correr dietro ai
colori della parola miniata che s'applaude, non vi resti, troppo spesso,
dopo l'applauso, in mano nulla più dell'aria che con le mani avete
— co —
scossa ; badate di non opporre ai serii lavori de' Georgofili le vane
pompe di una nuova Accademia letteraria ; alle ricerche speri-
mentali dello Schiff le vuotaggini d'orazioni con fervorini estetico-
politici, i quali, uditi, garbino alle gentili signore che non saprebbero
leggerli. Nelle riunioni del giovedì, che avevano luogo un tempo
nel Gabinetto di Vieusseux, le donne non solevano intervenire, ed
era l'orse un male ; che la presenza della donna, anzicliè guastare
in simili convegni, dà al conversare una eleganza ed una grazia
desiderabilissime, e facilmente trascurate in un consorzio di soli
uomini non tutti solleciti egualmente del decoro o della misura.
Ma da quelle conversazioni si usciva più istruiti che da un in-
tiero corso di lezioni pubbliche di professori chiarissimi ed eloquen-
tissimi. Una parola rotta ma viva d'un uomo eminente era talora ra*^-
colta da un giovane oscuro; quella parola si meditava in silenzio,
e si convertiva talora in un proposito gagliardo, in una bell'aziont^
o in un bel libro. Perchè nulla di simile piìi in Firenze? E egli
mai possibile che chi disse Gino Capponi l'ultimo de' fior eniini now
abbia calunniato Firenze ? Che fanno ora le buone madri fioren-
tine ? Come vive e che pensa dunque la nuova gioventù ? Sono
sempre là quelle sale gloriose del palazzo Buondelmonti ; per ora
almeno sono ancora in piedi e parlano sempre, e minacciano chi
vuol toccarle ; che mi dicono esser proposito del Consiglio d'Arte
del nuovo Municipio buttar giù anche quel monumento, rammen-
tatore molesto di glorie invidiate e non più imitabili nella spen-
sierata ignavia presente ; ma io dico a' giovani, ne' quali ancora
più spero ; quelle sale sono sempre là ; ed è vivo, e buono e
destro e volonteroso il nipote di colui che da quelle sale ha co-
municato tanta vita al pensiero italiano ; andate, chiedete ospi-
talità, cercate il bene anco voi, tentatelo come potete, svegliate
i vostri amici increduli e incerti e non permettete che vada per-
duto per sempre un grande e nobile esempio. Son troppi anni che
la Toscana vostra dorme ; se la vita è in voi, spiratela anche al
di fuori ; nella gentilezza infondete la forza; ove sono infinite le
memorie, imparate senza fine ; ove si sono fatti miracoli, conti-
nuate a farne ; io non credo che colui il quale fu chiamato l'ultimo
de' fiorentini potrebbe aver consolazione maggiore di quella d'ap-
prendere, che con lui non si spegnerà ogni pensiero vigoroso,
ogni retto sentire, ogni magnanimo ardimento in quella terra per
cui egli è passato beneficando.
Io tacerò qui di Gino Capponi uomo politico, non perchè io tema
d'incontrare nella sua vita politica pure ini sol fatto che scemi
— 61 —
prestigio alla grandezza del suo nome, ma perchè questi son Ri-
cordi letterarii, e, per apprezzar convenientemente la condotta
d'un uomo politico, giova discutere pure la condizione de' tempi,
degli uomini e de'governi, a'quali si riferisce l'opera sua, cosa che
mi porterebbe qui troppo lontano dal mio istituto. Basti che la
sua autorità in Toscana fra gli uomini politici fu sempre gran-
dissima; che, innanzi al suo Sovrano, egli tenne in ogni tempo
contegno di libero cittadino, pur sempre studioso di conciliare,
quando si potesse con decoro d'entrambi, le ragioni del principe con
quelle del popolo; che i piemontesi D'Azeglio, Balbo e Gioberti si
valsero in più occasioni utilmente de' consigli di lui; che egli fu
guelfo, ma non mai papista, e, anche meno, gesuita; che nel 1848
fu in Toscana presidente del consiglio de' Ministri; che, fuggito
il Granduca, prese primo parola in Senato per dire che, quando
il principe non si lascia trovare, ha dritto il popolo di darsi quel
reggimento che più gli giovi; che, nel 1859, egli si presentò risoluto
al Granduca per invocarne le concessioni richieste dal popolo ; che,
partito il Granduca, fu eletto presidente della Consulta di Stato
nel Governo provvisorio ; che il popolo lo elesse suo deputato, e
lìnalmente il Re d'Italia senatore del Regno. Mi piace finalmente,
e piacerà, senza dubbio, anco ai lettori udir raccontare dal prof.
Giuseppe Tigri un fatto che ci rappresenta al vivo l'italiana fie-
rezza del Capponi « Nel 1852, mi pare (scrive vanii il Tigri il 3
giugno scorso), si sapeva pur troppo in Firenze che dovevano en-
trarvi gli Austriaci. Una tal mattina uscivano da una seduta del-
l'Accademia Colombaria, posta di là d'Arno, il prof. Giuseppe Ar-
cangeli segretario della medesima e il marchese Gino. Questi sa-
liva il Ponte Vecchio al braccio dell'Arcangeli; allorquando odono
un lungo suonar di tamburi. Il Capponi allora dice all'Arcangeli:
Son loro ? — e l'altro : — Pitr troxjpo ! E il Capponi : Almeno
non li vedrò ! Queste parole mi sembran sublimi. Egli cieco, quasi
preferiva la sua cecità per non vedere in viso gli oppressori della
sua patria; son parole degne d'un Capponi ! »
Lasciando agli storici futuri di giudicare particolarmente gli atti
del Ministero toscano nel 1848, io amo qui solo ricordare pel mio
proposito come la promulgazione della Legge della guardia civica,
(Uè occasione il 17 settembre del 184-7 ad uno scritto politico di
Gino Capponi, il primo e l'unico a stampa ch'io conosca di lui per
la ragione politica. Esso s'intitola : Alcune parole sulla Legge della
Guardia civica.
La legge era timida, e il Capponi, che lo sentiva, civrebbe forse
— (-.2 —
potuto avvertirlo; ma si contenta, con moderato consiglio, di scri-
vere : « bene usarla è nostro debito ; ufficio del tempo e del buon
Principe migliorarla. » Qui parla l'uomo disciplinato nella lettura
della politica de' classici ; più su parlava l'uomo del suo tempo,
abbandonandosi alla piena di un nuovo ed urgente afletto : « Chi
abbia conosciuto, chi abbia compresa questa nostra gioventù tanto
generosa, tanto buona, tanto amorosa di quei principii che noi
giovani solevamo troppo sovente porre da banda ; chi l'abbia ve-
duta questa gioventù Domenica scorsa nell'ebbrezza dei gridi, e
nella folla, assicuratrice di una libertà senza limiti, quegli dirà
la fiducia essere ben posta, e che da essa può venire all'istituzione
forza e non venirne pericolo. »
Ed eccouìi cosi arrivato a discorrere in succinto del Capponi
come scrittore. Quanto all'opera principale di lui speriamo ch'essa
si faccia aspettar molto tempo, essendo volere del Capponi, che si
pubblichi solo dopo la sua morte. Questo lavoro monumentale sarà
una nuova btoria di Firenze, della quale i due soli capitoli fmqui
pubblicati neW Archivio Storico e nella Nuova Antologia, come
saggio, tratti dalla storia del secolo decimoquarto, annunziano la
tranquillità d'uno storico antico che scrive come un classico, che
lavora su documenti editi ed inediti come un erudito, e che pensa
come un lilosofo. Così vorremmo che la Storia di Firenze del Cap-
poni fosse da lui protratta fino a' di nostri, perchè l'ultimo vo-
lume e il più prezioso ci parrebbe quello che contenesse le pro-
prie Memorie di lui e del suo tempo ; com'egli ha molto letto, cosi
ha molto pensato, molto veduto, e conosciuto molti uomini e molte
cose ; e la sua memoria essendo sempre fresca e possente, egli
varrebbe con la sua amabile eloquenza a far passare innanzi ai no-
stri occhi molte perdute immagini luminose ed a rianimarci nel pen-
siero per varie figure da lui sorprese sul vero la figura intiera
di un secolo. Io mi rammento una sera passata nel suo palazzo.
Interpellato non so più se dal Lambruschini o dal Giuliani (coi quali
e col Tabarrini, l'Antinori ed il Farinola (1) avevo avuto l'onore
di sedere alla sua mensa ospitale) intorno ad un fatto particolare
della vita di Antonio Rosmini, essendo egli d'umor lieto, incominciò a
parlare, e parlò solo, e parlò per quasi un'ora e sempre del Rosmini
e delle relazioni del Rosmini con Roma, con tanta abbondanza
(I) Il marchese Paolo, garbato i^eiitiluomo; ligiio della Marianna Cap-
poni sopra ricordata.
- 63 —
d'eloquio, e tanta copia d'incidenti e d'argute osservazioni che
quanto fu a tutti l'udirlo delizioso passatempo^ tanto poi c'increbbe
il pensare che quella stupenda pagina di storia contemporanea dal
Capponi cosi felicemente improvvisata non si fosse potuta rac-
cogliere in iscritto, per conservarla intatta e mirabile com'era
uscita della viva voce tonante del venerando Gino. Trovandosi allora
più ospiti in casa, il Capponi aveva amabilmente consentito, in
(|uella sera, a rallegrarci insieme tutti, parlando non tanto di sé,
quanto d'un ricordo che gli errava nella limpida e vasta mente.
Ma, di consueto, non è questo il suo costume, quando l'ospite è
uno solo. Allora è cura sua, invece di rispondere, tentare quegli
argomenti ne' quali spera che più si compiaccia il suo interlocu-
tore, per farlo quindi liberamente e abbondantemente parlare. Cosi
egli raggiunge insieme più scopi, quello di rimuovere il discorso
dai luoghi oziosi e comuni, quello di compiacere il suo ospite col
farlo parlare di sé o delle cose che più gli stanno a cuore, quello
di farlo parlare più animato, col portarlo sopra argomenti ben
noti ed accetti, e cosi ottenere una conversazione più piacevole.e
studiar meglio l'animo e l'ingegno dell'interlocutore. Usando una
simile assai rara urbanità verso i suoi ospiti, il Capponi ha pure
il gran vantaggio di poterli conoscere più presto e più addentro;
onde è agevole l'indovinare quanto interesse potrebbero avere i
ricordi intorno alle persone più notevoli dal Capponi conosciute
nella lunga sua esistenza, ov'egli volesse dettarli per la conso-
lazione de' suoi concittadini. E, in questo desiderio, forse troppo
tardi espresso, io ritorno agli scritti di lui.
Essi sono più assai che non paiano. Sparsi come si trovano
neir Antolopia, nell' Archivio Storico, negli Atti de' Georgoflli, e
in separati opuscoli, potrebbero, insieme raccolti, formare più
d'un volume. Né la varietà degli argomenti trattati, dal dignitoso
discorso intorno alla lingua, inserito weW Antologia del gennaio 1828
ove si predica concordia fra letterati e si dimostra la possibilità
di rendere illustre il linguaggio popolare, alle pratiche Cinque
Letture di economia toscana, dalle sapienti e memorabili Lettere
al prof. Pietro Capei sulla Storia del Longobardi (1) all'affettuosa
(I) Un consiglio agli editori italiani. Sulla ^ìloria de' Longobardi e,
in ispecie, sulla questione della condizione de' vinti Romani sotto i Lon-
gobardi furono scritto in Italia parecchie monografie importanti, ed, in
opere storiche voluminose, parecchie pagine dottissime. Ci parrebbe do-
— (34 —
necrologia scritta nel 1868 in onore e compianto del Capei medesimo,
dalla vita del Colletta al Frammento sull'Educazione, è la mani-
festazione continua d'uno stesso ingegno sempre virile e colto, e
non di rado originale, di un animo sempre alto ed umano, di uno
scrittore sempre castigato, sostenuto e di gusto squisito. Io mi at-
terrò qui tuttavia a rilevare soltanto alcuni passi del libro sul-
V Educazione e delle Letture d'Economia, come quelli che po-
tranno servire a meglio completarci la figura dell'uomo. Il fram-
mento snlV Educazione fu, per la prima volta, pubblicato a Lu-
gano, nel 1811, senza nome d'autore; il Capponi s'era, prima di
quel tempo, occupato molto col Ridolfi a profitto dell'istruzione
elementare e popolare,; il frammento prova ad evidenza quanto
profondamente egli conoscesse, e quanto largamente intendesse
l'arte dell'educare, ossia l'arte di trar fuori l'uomo dal fanciullo :
« Noi, scrive egli, figliuoli d'una rivoluzione che molti vecchi er-
rori levò di seggio, e all'uomo concesse maggior balia di sé me-
desimo, cerchiamo in noi stessi le più intime cagioni dei nostri
vjzii e de' nostri mali : e quella severità di analisi che tutte im-
putava le miserie dell'umana società agli ordini che la reggevano,
ora si adopra a investigarne più addentro le cause negli elementi
che la compongono. » La sentenza è vera e profonda, e merita di
venir meditata anche oggi dai cittadini del regno d'Italia, più
pronti ad accusare d'ogni lor male l'imperfetto Governo ch'essi
si diedero, che sé stessi d'avere preparato e reso quasi necessario
e inevitabile questo Governo.
Il Capponi vuole saviamente che nella educazione si secondino,
sovra tutto, la natura ed i bisogni dell'età fanciullesca ; quindi
egli fa una raccomandazione giustissima che noi giriamo ai no-
stri legislatori perchè, a costo di scontentare, quanti sono, i nostri
metodisti, normalisti, precettisti e pedagogisti, si riformi senza
troppo indugio nel senso indicato dalla ragione, « La natura dei
fanciulli siccome quella dei popoli, tutta poetica da principio, tardi
si volta all'analisi ; e però l'educazione di quelli come di questi,
cominciata dalla poesia, bene si compie con la grammatica ed al-
vesse rendere un buon servigio agli studiosi di storia ed a sé stesso, l'editore
che raccogliesse in un solo volume il discorso del Manzoni, gli scritti spe-
ciali dello Sclopis, del Balbo, del Capponi, del Capei e di altri sulla que-
stione, oltre a parecchie pagine estratte dall'opera del Vesme e del Fossati,
dalle storie del Troia, del Ranieri, ecc. attinenti alla questione medesima.
— 65 —
tre scienze consimili. Quindi è che l'insegnamento della gramma-
tica ideologica mi piacerebbe fosse dato per ultimo ne'ginnasi e
ne'licei, e come preparazione agli alti studii delle università. »
Deplora il Capponi che, nell'insegnamento, « la vanagloria del-
l'arte voglia in tutto sostituirsi alla efficacia della natura ; direb-
besi che all'umana specie, mentre si rivendicano i diritti, si nie-
ghi il valore. » E più oltre « siffatti metodi, col promuovere la
fredda ragione a discapito del sentimento, conducono gli intelletti
a una precoce maturità, che poi bentosto diventa una precoce vec-
chiezza. A me sembra che i fanciulli egli adolescenti si degradino
con l'apparire omaccini; e dico essere nelle forze giovanili tanto
maggiore promessa, quanto elle più sentano sé stesse incompiute. »
Egli preferisce l'educazione all'istruzione. « La notizia di molte
cose diffuse tra molti sparsamente ed a minuto, io non credo che
basti a fare scienza vera né profittevole; laddove una sola idea
morale che abbia destato un affetto, basta ella sola a fecondare le
menti di tutto un popolo, di tutto un secolo. » Alle madri mae-
stre dà consigli preziosi: « Le cose udite, non le insegnate for-
mano l'animo de'fanciulli. Io non credo pertanto che s'avvantaggi
l'educazione col fare in tutto della famiglia una scuola ; e, quando
la madre, per non uscire dall'arte, comprime in sé la vivacità del
sentimento materno, pigliando aspetto di maestra, e, ubbidiente
essa pure ad una legge che non è lecito alterare, usa col bambino
un tale contegno, come se ella ogni volta dicesse a lui — av-
verti a me ch'io ti educo ; — allora essa perde sopra l'animo dei
figli suoi l'autorità dell'affetto. » Biasima poi con ragione l'istru-
zione troppo puerile che suolsi impartire ai fanciulli, per mante-
nerli più lungamente e- forse per tutta la vita cosiffatti : « Un
gran numero degli educatori moderni, coi frivoli raccontini e i
drammi pimmei e l'inevitabile cerimonia pel giorno onomastico
del babbo, direbbesi quasi che si studino a mantenere l' uomo
perpetuamente fanciullo, giardinieri che non sanno educare altro
che i gracili steli degli inutili fiorellini, e impediscono la querce
che gli offenderebbe con l'ombra. A tal che da tutta questa let-
teratura infantile l'uomo avrà poco e debole frutto. »
Delle cinque Letture d'economìa toscana la prima (1824) di-
scorre intorno al rinvilio dei prezzi nelle principali derrate; per
riparare a tale inconveniente economico, incoraggia la cura di
certe coltivazioni trascurate, de'pascoli abbandonati, e raccomanda
uno studio maggiore nella produzione de'vini, affinchè se ne mi-
gliori la qualità, sì che possano meglio conservarsi ed esportarsi.
Ricordi Biografici 5
— 66 —
Nella seconda lettura (1830) discorre delle condizioni dell'econo-
mia agraria toscana sul line della dominazione medicea e sul prin-
cipio della Lorenese, deplorando la stupida servile ammirazione
di una parte degli italiani per tutto ciò cli'è straniero^ e l'orgo-
glio ignorante d'un'altra parte che attribuisce ogni merito, ogni
gloria, ogni privilegio della natura e dell'arte all'Italia. Nella
terza lettura (1833), il Capponi discorre sui vantaggi e svantaggi
economici e morali del sistema toscano di mezzeria, svolgendovi
le idee più deuiocratiche. « Cadde l'industria in Toscana, cadde
la repubblica. Le proscrizioni, le fughe dispersero molti cittadini;
le proprietà si raccolsero, non dirò tra pochi, sempre il nostro
suolo fu libero da questo flagello; ma scemò al certo il numero
de'proprietarii, come si addice a monarchia. » E prevede fin d'allora
que'mali che ora si deplorano gravissimi ne' villaggi campestri tosca-
ni: « Che fare dei lavoranti a giornata? Dei pigionali? questione fra
tutte, la più importante, che un giorno potrebbe anche divenir tre-
menda. La terra non basta alle braccia, le quali chiedono e chie-
deranno di coltivarla; ognuno sente la necessità d'accrescere tra
di noi le manifatture; necessità ch'è sentita anche dall'agricoltore,
per l'aiuto vicendevole che questa e le altre industrie tra loro si
danno. » Sulla necessità di svolger maggiormente le industrie
nelle campagne toscane torna il Capponi nella sua quarta lettura
(1834), mentre poi biasima l'agricoltore, il quale, contrariamente al
principio economico della divisione del lavoro, vuol fardi tutto un
poco e finisce col far tutto ma'e, il manifattore, il mercante, lo specu-
latore, il vinaio, il setaiolo; « dall'opera agraria sopraccaricandola
di tanti ulizi che ignora, di tante faccende incompatibili, voglia-
mo trarre ogni cosa; e poi ci lagniamo che la terra renda poco? »
La quinta lettura tratta una delle questioni capitali dell'economia.
« Della vera e dell'apparente distruzione dei capitali, » e condan-
na, com'è facile a prevedersi, le dottrine de'Sansimoniani. Due
anni dipoi, cioè nel 1830, il Capponi stendeva per l'inglese
Bowring alcuni appunti sulle condizioni dell'economia agraria to-
scana, e il Bowring li traduceva pel suo Rapporto intorno alle
condizioni economiche di alcuni Stati d'Italia, compilato per com-
missione del Ministero britannico e pubblicato a Londra nel 1837.
Vitae et non scholae dìdicit scriveva il Niccolini del Capponi,
raccomandandolo al Foscolo; e come il Capponi avea imparato
dalla vita più che dalla scuola così egli nella vita volle e seppe
porro tutto se stesso; ultimo rampollo di una stirpe illustre, sde-
gnò riuscirne l'ignavo Augustolo; perciò la più bella pagina non
— G7 —
pure della genealogia dei Capponi, ma della storia contempora-
nea toscana è rimasta la sua; di molti fu rumorosa la gloria, di
nessuno più legittima la stima universalmente acquistata. Atti
eroici egli non ha, ch'io sappia, compiuti; ma visse bene, operando
e promuovendo il bene, per ottant'anni; chi ha fatto meglio e più
di lui, domandi la corona; quanto a me, s'io fossi del popolo fioren-
tino, non vorrei, senza dubbio, lasciar passare il 14 settembre
senza mostrare d'essermi ricordato che vive ancora, in pensosa
ed austera solitudine, non l'ultimo, se così piace alla benigna na-
tura, ma il migliore de'cittadini di Firenze.
III.
RAFFAELLO LAMBRUSCHINI
^ La prima gioventù di Raffaello Lambruschini fu oscura ; la sua
estrema vecchiaia è quasi deserta. La sua propria modestia tolse
al Lambruschini la gloria ed i vantaggi degli splendori precoci ;
la nostra presente ingratitudine gli toglie, in parte, la gloria ed i
vantaggi degli splendori senili.
Raffaello Lambruschini conterà fra poco 84 anni. Egli nacque
a Genova il 14 agosto dell'anno 1788, da Luigi Lambruschini ed
Antonietta Levrero ; fece i primi studii nella sua città natale, e fu
quindi avviato alla carriera ecclesiastica. Nell'anno 1801, suo padre
pose stanza in Livorno; quattro anni di poi il giovine abate si recava
a Roma per compiervi gli studii ecclesiastici, quindi a Orvieto,
presso uno zio paterno, vescovo in quella città, da non confondersi
con un altro zio cardinale, personaggio che divenne poi famoso nella
storia della reazione pontificia; ed, in quel tempo, il giovine Raffaello
potè pure valersi, per gli studii, dei consigli e della guida del cele-
bre Angelo Mai. Gli avvenimenti politici dell'anno 1812 tra-
volsero pure e compromisero 1' abate Lambruschini, che dovette
esulare in Corsica. Di ritorno dall'esiglio, ei rivide Roma ed Orvie-
to; ma, per ritornare nel 181G a vivere fra i suoi, che intanto si
erano raccolti in una loro villa di recente acquistata, detta San
Gerbone (l), presso Figline nel Valdarno Superiore, edificata, per
quanto pare, nel secolo decimoquarto dalla famiglia Franzesi, di-
(I) Soggiorno, scriveva Mario Pieri, ben più da poeti e pittori, che
da freddi economisti.
— 69 —
venuta nel decimoquinto proprietà dei Serristori, ed infine dei celebri
Salviati. In questa villa della sua famiglia, e poi sua, Raffaello
Lambruschini vive da più che mezzo secolo operando il bene, e
dividendo le sue sapienti cure educative fra le tenere piante del
suolo, destinate a ben vegetare, ed i fanciulli, le tenere piante
della casa, allevate da lui a ben vivere.
Il nome di Raffiiello Lambruschini non sarebbe tuttavia forse uscito
mai dall'operoso, ma necessariamente limitato campo delle sue pri-
vate beneficenze, ove, sopra il suo trentottesimo anno, il mode-
sto agronomo di San Gerbone non avesse avuto la buona sorte di
incontrarsi in quell'editore esemplare che fu Giampietro Vieusseux.
Come quell'incontro sia avvenuto, ci narrano il Tommaseo e il I.jam-
bruschini medesimo ne'singoli ricordi consacrati da essi al loro com-
pianto benefattore. Al Lambruschini, scrive l'illustre dalmata.
« non pareva né disagio, né vergogna venire dalla sua solitudine
di Figline a Firenze e seduto tra gli scolari, ascoltare le lezioqi
che dava di botanica il prof. Passerini. Lo additò il Passerini al
Vieusseux, come idoneo all'opera del giornale ideato; e questi
andò a visitarlo. Cercando (mi diceva egli, anni dopo) un agro-
nomo, ho trovato un uomo. Non Giornale de'coììtadini come voleva
dapprima il Vieusseux, ma propose il Lambruschini che Agrario
s'intitolasse. » Udiamo ora le parole stesse del venerando solitario
di Figline. « Ecco un bel giorno veggo apparire persona che cerca
di me. Uomo già provetto, ma non vecchio ; gentile e franco di
quella gentilezza e di quella franchezza benevola e disinvolta che
viene dall'animo buono e dall'aver lungamente usato con ragguar-
devoli persone. Era il Vieusseux. lo lo accolgo come si accoglie
chi ci entra subito nell'animo, chi, non mai conosciuto, pur ci
pare aver conosciuto sempre. Si parla; e un Giornale Agrario è
il soggetto del conversare, perchè era il fine della visita. Io
espongo le difl3coltà dell'opera ; il Vieusseux le appiana ; ed io
prometto esporre i miei pensieri in una lettera a lui. La mia
lettera è stampata nel fascicolo 69 (MV Antologia, settembre del 18-25.
Era quello il primo scritto eh' io mandassi alle stampe , e avevo
toccato il trentottesimo anno d'età. Oggi a stampare non si aspetta
tanto (1).» Accettata la proposta del Vieusseux dal Lambruschini
(1) Il venerando nomo cel perdoni, ma sembra a noi ch'egli potesse
risparmiarsi questo ioutile frizzo, il quale, in ogni modo, riesce men
bello inteso qui da Ini. Noi possiamo ammirare la modestia che
— 70 -
la pubblicazione del Giornale Agrario, come tante altre nobili
imprese letterarie tornate poi ad onore de' nostri studii, fu
discussa e ordinata nel palazzo di Gino Capponi, insieme con
Lapo de'Ricci e il marchese Cosimo Ridolfì. Il primo fascicolo del
Giornale Agrario vide la luce in Firenze sul principio dell'anno
1827. Era preceduto da Due parole ai letlori, del Lambruschini,
le quali la Biblioteca italiana del maggio 1827 annunziando, si
affrettava a trovare scritte « con intendimento e con una unzione
omiletica »; pretesto a tale giudizio dell' austriacante giornale
essendo stata un'esortazione ai parroci di campagna, con la quale,
conchiudendo il proemio, il Lambruschini tentava innamorarli di
più delle cure campestri, perchè meglio istruissero e guidassero
il campagnuolo ignorante. Il Lambruschini aveva, giovinetto, as-
sunto il sacerdozio per compirne la missione evangelica e non
per godere delle larghe prebende che a lui nipote di due prelati
potenti poteano esser facilmente riservate ; e la sua missione di
prete egli non tradi mai, neppur quando parve agli Evangelici
volersi staccare dal cattolicismo romano, per iniziar quelle rifor-
me che rendono ora famosi i nomi dei Dòllinger e dei Padri Gia-
cinti (1), riforme che si sarebbero forse operate fin d'allora in
ritenne per tanti anni il Lambruschini dal versare nel pubblico i te-
sori del suo lucido e bene misurato e ben nutrito ingegno, ma a patto
che lo stesso Lambruschini ci permetta di desiderare che il suo esem-
pio sia seguito da pochi; poicliè, innanzi ai 38 anni, si può trovar
tempo a studiare, scrivere opere più che mature, invecchiare e morire;
la vita del Leopardi, fra tante altre, informi.
(\) Trovo la notizia di questo fatto, esposto con benevolenza, nel
primo volume delle Memorie sull'Italia e specialmente sulla Toscana
del Montanelli, Torino 1853. Lo zelante moderato F. A. Gualterio av-
vertì tosto il Lambruschini delle parole scritte dal Montanelli, invi-
tandolo a spiegarsi. Il 24 Giugno 1853, il Lambruschini diresse al Gual-
terio una lettera che fu nello stesso anno pubblicata a Genova dal Pel-
las, ove il Lambruschini protesta non aver mai voluto separarsi dalla
Chiesa cattolica (non dice tuttavia dalla romana) ; ma sul fine del 2. voi.
delle Memorie, il Montanelli che intanto avea avuta notizia della lettera
scritta per suggestione del Gualterio, reca in prova delle tendenze ri-
formiste del Lambruschini sei pagine di ricordo scritte in francese dal
testimonio Carlo Eynard alle quali rinvio per sua istruzione e per giu-
stificazione del Montanelli, il lettore; dovere d'imparzialità m'impone
tuttavia qui l'obbligo di soggiungere le parole che lo stesso Lambru-
— 7L —
Italia, per l'autorità grande del solo Lambruschini, se la comme-
dia lil)eralesca rappresentata da Pio IX appena assunto al pon
ti Acato, non avesse a un tratto riaccostato alla Chiesa cattolica
romana i nuovi dissidenti, e se gli errori commessi dalla demo-
crazia italiana dopo il tradimento dei prìncipi mascherati da
demagoghi non avesse alienato dalle novità, e quindi dal desi-
derio delle riforme, quei liberali di parte moderata, fra i quali era
pure il Lambruschini, liberali sinceri, nell'animo, ma timidi e fa-
cili a stancarsi all'opera, e che, del resto, s'erano sempre tenuti
paghi di promuovere quella ch'essi battezzavano col nome di
agitazione legale, e che si potea forse dir meglio, in piii casi,
agitazione per non parere.
Il Lambruschini era prete, e prete si mantenne così nella con-
dotta della sua vita come ne' suoi scritti, sempre : del che nes-
suno che abbia in pregio gli uomini d'un sol carattere potrebbe
non lodarlo ; la religione è in cima d'ogni suo pensiero ed affetto ;
ogni altra cura diviene a lui secondaria, ed alla religiosa aeve ri-
maner sottomessa. È questo, senza dubbio, un modo elevato di con-
siderare la vita, ed è il suo ; merita pertanto rispetto chi 1' ha
costantemente osservato, e chi da quel principio che pose salde
radici nell'animo di lui seppe trarre tanta e cosi generosa eloquenza.
Ma, come noi rispettiamo volentieri i moderati finché, per eccesso
di moderazione, non trascendano all'intolleranza d'ogni moto più
rapido, più ardente, più vitale, che possa farsi intorno ad essi,
cosi, rispettando il principio de' principii che governa pure al
di fuori tutta l'esistenza del Lambruschini, non desideriamo poi che
esso sia esagerato a nostro danno, e finisca col dannare come re-
scliini mi scriveva da San Gerbone a' 6 di giugno di quest'anno: « una
diceria senza fondamento, la quale io già ribattei in quella lettela me-
desima scritta da me al Gualtiero che ella cita. Io intendo parlare del
concetto die si 'ice aver io espresso intorno al concilio di Trento. Io
non ho qui presente un esemplare di quella mia lettera al Gualterio ;
ma mi ricordo bene aver anzi io dichiarato di non potersi trattare di
riforme nella Chiesa cattolica se non movendosi appunto dalle dottrine di
essa (i Dòllinger e i Padri Giacinti non dicono punto diverso). Vorrei aver
qui una copia di quella scrittura per far vedere come io abborrivo da
da ogni irregolare novità. Discuiendo su questo tema potrei bene io
aver parlato del Concilio di Trento con quella onesta e Aliale libei'tù
che includo la riverenza (nessuno ciò pose in dubbin\ od è concessa al
Teologo e al buon cattolico. Ma nulla più. »
— 72 —
probi e come perduti, quanti, sinceri essendo, credono di dovere
procedere più sciolti e per vie più ardue, nella ricerca del vero.
Nelle opere educative del Lambruschini torna spesso il prezioso
consiglio che, per arrivare d'ogni cosa a formarsi un criterio pros-
simo al vero, convien vedere e osservare, provare e riprovare.
È, per l'appunto, quanto s'adoprano di continuo a fare quelle scienze
positive, contro le quali in una recente dispiacevole polemica sol-
levatasi in Firenze, intorno alla probabile prima discendenza del-
l'uomo, il Lambruschini lanciava l'anatema. E, per questa volta, il
sacerdote cristiano ci sembra avere oltrepassato i limiti del suo
mandato religioso ; poiché nessuna religione, a' suoi principii,
predica intolleranza, e quella in cui fummo allevati forse meno
d'ogni altra ; perchè dunque questo pronto sgomentarsi per ogni
antico idolo che si venga a rovesciare? Voi dite bene che la reli-
gione è innata nel cuore dell'uomo; ^a quella eh' è innata, quella
nessuno la può toccare ; ciò che si sfrantuma è invece l'esterno
dell'edifìcio ; fuori delle anguste forme della rivelazione lo spirito
s'alza e si muove di più; ed è pure in questo agile spirito che
voi ponete il vostro fondamento religioso, ed è di esso che v'aiu-
tate per innalzare a gi-ado a grado il vostro Dio. Voi non potete
rassegnarvi a pensare l'uomo sollevato a un'altezza quasi divina
da una forma ed esistenza primitiva quasi brutale; preferite per-
tanto negare il progresso, confessandovi decaduti da un essere
più alto e più perfetto di voi ; ma vediamo ed osserviamo, ma
proviamo e riproviamo la storia e la natura, vi si può opporre
con parole vostre, e se non arriveremo ancora a r.onchiudere che
il vero, l'ultimo vero è trovato, ci saremo accostati di molto ad
esso, rimuovendo anzi tutto dalla nostra via quanto si prova e
quanto si può provare falso; o, se si preferisca invece non pene-
trar nulla di nulla, e chiudere gli occhi per creder tutto adorando,
anche una tale libertà si vuol concedere e rispettare, a patto che
non si debba poi tutti fare il medesimo, e che chi ha sguardo
d'aquila possa, volendo, dall'alto delle sue rupi solitarie, conti-
nuare ad appuntarlo fieramente nel sole.
Ma, nel Giornale Agrario, il Lambruschini non faceva altro, in
somma, se non esercitare nobilmente un suo nobile diritto, quando
preposto a scrivere di cose agrarie, con pensiero originale che gli
era venuto su dal cuore, ei si proponeva "non solo d'istruire ma
eziandio di educare il contadino, rivolgendosi pure alla carità in-
telligente de'buoni parroci, perchè in quest'opera di luce e d'amore
gli dessero o piuttosto gli crescessero forza.
— 73 —
La Biblioteca ilaliana, anche per quella volta l'avea dunque
sbagliata; e le Omelie del Lambruschini, oltre agli scritti di lui
competentissimi intorno all'allevamento de'bachi, e ad altri argo-
menti speciali d'agronomia, trattati da maestro, insieme coi dia-
loghi del De Ricci e coi consigli agricoli del Ridolfi, fecondati
poi in altre opere a profitto dell' agricoltura, ebbero per risul-
tato che il contadino si trovi ora forse men villano qui che al-
trove; non piccolo vantaggio, chi consideri la difficoltà quasi di-
sperata dell'impresa di dissodare un terreno non tanto vergine
quanto ribelle ad ogni maniera di coltura.
Il Lambruschini era nato coltivatore per eccellenza, egli avea
incominciato per coltivar bachi, e trattone fuori della buona seta ;
continuò, coltivando fanciulli, e ne trasse fuori degli uomini. Fu
il Vieusseux il quale, come primo l'aveva avviato a scrivere, l'av-
viò pure ad educare, affidandogli l'educazione ed istruzione del
maggiore de' suoi nipoti, e dando cosi principio a quell'Istituto, da
cui uscì la Guida dell'Educatore. Il manifesto della Guida uscì il
20 novembre del 1835; la prima dispensa ne apparve nel gen-
naio 1836. Cito queste date, perchè importano nella storia della
nostra coltura, il Lambruschini essendo stato il primo a inten-
dere, ampliare, commentare, applicare, fecondare fra noi, per mezzo
del suo giornale, i metodi educativi del Pestalozzi, del Girard e
del Naville, il primo a scrivere in modo pratico, alto e continuato,
d'educazione. Dopo di lui, si fecero più tentativi analoghi, che gio-
varono essi pure al progresso dell'insegnamento fra noi ; ma la
spinta l'avea data il Lambruschini, con lo studiar prima nel si-
lenzio dell'osservazione e degli esperimenti la questione educativa,
e quindi esporla nel modo più signorilmente disinvolto ed affet-
tuoso ai meno intendenti.
« L'abate Lambruschini, scrive il Tommaseo riferendosi all' anno
1830, uso a riguardare con occhio amorevole l'intelligenza gracile
dell'infante e la civile moralità dell'intera nazione, il Lambruschini
che ne'suoi recenti discorsi ai novelli maestri applica rettamente
al primo insegnamento il principio dell'Aquinate e del Rosmini
intorno alla natura della mente umana, procedente sempre dal co-
mune e indeterminato al particolare e al definito; e che sopra
l'arte del leggere a senso, dappertutto falsata, dice cose di quella
feconda semplicità che concilia il vero col bello in cara armonia;
il Lambruschini già sin d'allora sui più pronti e ragionevoli spe-
dienti dell'insegnare a leggere iniziava quelle proposte che viene
nella sua vivace vecchiezza continuando. » Chi desideri ora tro-
— 74 —
vare in breve spazio raccolti i principali principii insegnativi che
da quarant'anni viene il Lambruschini diffondendo per mezzo dei
suoi libri e giornali nelle famiglie e nelle scuole d'Italia, cerchi
del bel volume uscito di recente in Firenze (1), dedicato a Gino
Capponi, comprendente quattro Bialoglii che intorno hW Istruzione
l'Autore suppone di fare con alcuni amici per riassumersi, nella
sua villa di San Gerbone, e le sei lezioni, da lui recitate all'Isti-
tuto di Studii Superiori, negli anni 1868 e 1869 come professore
di pedagogia. Inaugurando ottuagenario una cattedra alla quale
la scarsa carità del governo italiano lo costringeva per giustifi-
care uno stipendio che egli aveva diritto di ricevere come ispet-
tore generale delle scuole elementari, ma che il governo non cre-
deva potergli più attribuire, avendo, pe'soliti raggiri degl'imi che
comandano ai potenti, un bello, no, anzi, un brutto giorno, soppresso
l'impiego, scusavasi l'esordiente non già, come si suole, della po-
ca, ma della troppa esperienza, non già come suolsi^ della gioventù
ignara, ma della vecchiaia fatta uggiosa e disutile. Eppure i mae-
stri e le maestre che erano presenti alle conferenze della vecchia
loro Guida, ebbero a sentirsi ringiovanire nel mirare il caro vec-
chio onorato, curvo della persona, ma dritto, alto e sovrano sem-
pre col pensiero che spaziava libero e sereno in mondi così pieni
di poesia, che quel suo corso di pedagogia è riuscito ad un tempo
un'eloquente Poetica.
Ma, per poter determinare in una forma così ordinata e lette-
rariamente perfetta i suoi pensieri pedagogici, dovette il Lambru-
schini far lungo esperimento di sé non pur nell'arte educativa,
istruendo egli medesimo, promuovendo, dirigendo, sorvegliando
in Toscana scuole d'ogni maniera, per il popolo, per i fanciulli,
per le donne; ma nell'arte dello scrivere ancora; nella quale arrivò,
in breve, a tanta fama di eccellenza che, per quanto si rileva da una
lettera nei dicembre del 1846 dal Giusti indirizzata al Capponi,
lo stesso Giusti, sopra un solo cenno che aveva dato il Lambru-
schini al Criorgini (2) rimediava da cima a fondo con lievissimi toc-
(1) II titolo del libro è il seguente: Bdla istituzione, dialoghi di Raf-
faello Lambruschini, con la giunta d'alcune lezioni dette nell'Istituto'di
Studii Superiori in Firenze.
(2) Il Giorgini figura pure presso il Lambruschini in un'altra occa-
sione, della quale abbiamo più sopra lasciato ricordo. « Un jour, scrive
il citato Charles Eynard, pendant l'hiver de 1845, Giorgini, entrant
- 75 -
chi il piglio troppo confidenziale deWa. Rassegnazione, e l'Accademia
della Crusca non pur accolse, sebbene tardi, quantunque non toscano,
il Lambruschini tra i suoi socii residenti, ma volle ancora onorarlo
con la dignità di arciconsolo. Le conoscenze del Lambruschini in
fatto di economia pratica, pubblica e privata (alla quale ei dedicava
pure buon numero di scritture pregevolissime) gli meritarono nel
1848 la fiducia del popolo clie lo volle suo deputato all'Assemblea
toscana (1), come già gli avean meritato per tempo quella de'Geor-
gofili, in mezzo ai quali lavorò con onore e seguito per lunga
serie d'anni; e piìi tardi lo fecero degno di sedere nel Senato del
Regno d'Italia,
Il Lambruschini vive ora ritiratissimo. Nella nostra fanciul-
lezza, ciascuno di noi s'è educato il cuore e scaldato a poesia
l'ingegno nelle Letture per i fanciulli e nelle Letture giova-
nili ch'egli stesso avea scritto per tirarci su galantuomini; e
gli altri libri per la fanciullezza pubblicati negli anni appresso in
Italia, quelli in particolare di Pietro Thouar, spirarono tutti più
0 meno dalla mente e dal cuore del nostro primo, più caldo, e
più operoso educatore; dimenticare que'beneficii ricevuti nella no-
stra prima età sarebbe ora sconoscenza indegna, e, poiché la gra-
titudine vuoisi che piaccia anco a Dio, non potendo off"rire altro
omaggio al nostro solitario antico benefattore di Figline, volgia-
mo a lui almeno un pensiero d'affetto; chi ci ha insegnato cosi
bene a fare i primi passi non si trovi solo nella sua età cadente,
a tentare, sulla terra che gli fugge, i suoi passi estremi; mille
mani di giovani buoni e gagliardi sian pronte a rialzarlo caduto,
e mille cuori ben fatti mostrino figliale sollecitudine a consolarlo
afflitto; egli ci ha chiamati a sé e ha riscaldato il cuore di noi
fanciulli; non assideriamogli nel dolore l'estrema vecchiezza, colla
nostra presuntuosa indifferenza, e, peggio ancora, col nostro sto-
cliez Montanelli, nous dit: Vous ne savez pas: Lambruschini m'écrit
qu'il va venir à Pise et m'envoyo en attendant un mémoire sur les abus
qu'il Youdrait réformer dans l'Église. Figurez-vous qu'il se propose
tout simplement de rayer de l'Histoire Eccl^siastique tous les actes du
Concile de Trente, et de reprendre l'Église à cette epoque, où les abus
n'étaient point encore stereotipe.? par le dit Concile, et il m'engage à
le communiquer à mes coUégues de la Faculté de Théologie ! »
(1) Il Lambruschini votò sempre con la parte moderata, per la quii le
scrisse pure nel giornale La Patria.
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lido disprezzo; ei non può, senza dubbio, avere gli ardimenti nostri;
ma nulla oseremmo ora forse noi s'egli non avesse durata molta
pazienza a tenerci su ritti nella prima età; la quercia quando è
adulta sfida i fulmini e gli uragani; ma non si alzerebbe però se,
nel suo primo germogliare, non l'assistesse alcuna mano benefica
e vigorosa per non lasciarla piegare alla furia dei primi venti
contrarli.
IV.
CESARE CANTU
Calomniez, calotimiez, il en resterà toujours quelque chose ; è
ancora del Voltaire questa sentenza; e nessuno ne ha sentito più di
Cesare Cantù la verità e l'amarezza.
La calunnia lo perseguita nella vita da quarant'anni e, dov'essa
fu tanto operosa, dovea finalmente mantener vivo alcuno de'suoi
mostricini. Innanzi alla calunnia, la vittima calunniata può appi-
gliarsi a più d'un partito, ma sempre con la certezza di non uscir-
ne mai perfettamente sana ; cliè non tutti hanno la fede e il san-
gue freddo del gaio Humbug, per ripetere allegramente con lui :
« La calomnie c'est comme la rougeole; quand elle sort, on en
guérit; quand elle rentre^ on en meurt »; ma, quando la rosolia vien
fuori, è, invece, attaccaticcia e si propaga, e guai a non sapersene
ben riguardare in tempo o a farle pigliare aria. Tuttavia, confesso
che il paragone di Humbug mi piace, e che, se molti anco nel
nostro paese la pensassero a quel modo, la merce della calunnia
subirebbe un gran ribasso e sul mercato dell' opinione si scon-
terebbe male.
Altri partiti rimangono ancora all'uomo calunniato. Il meno
pio, ma il più efiìcace, il più pronto, il più naturale consiglio.
quando si conosce il calunniatore, parrebbe l'andargli sopra come
si può e il castigargli al primo incontro, poco cavallerescamente ,
r ignobile ceffo mendace; giustizia che falla di rado, poiché,
in regola generale, chi ha ragione è sempre tre volte più forte
di chi ha torto; giustizia all'americana; ma, noi altri in Europa,
siamo più innanzi di così; il barbaro medio evo ci ha insegnato
cortesia; all'uomo stesso che disprezziamo e che ci fa schifo, dob-
— 78 -
biamo, per riguardi sociali, gettare pulitamente un guanto di
sfida, e provocarlo, accademicamente, come un nostro uguale, ad una
gara d'armi; se il nostro calunniatore, dopo averci a suo agio
tolto l'onore, avrà pure la fortuna insolente di toglierci la vita,
egli rimarrà un fior di gentiluomo, ed, a difendere l'onor nostro,
provvederanno poi i nostri figli deserti, se la fame concederà
loro di maturarsi fino all'età non cristiana delle vendette.
Né l'uno né l'altro de'due partiti maneschi piacque al signor Cantù,
quantunque è assai probabile che, s'egli, fin dai primi attacchi, si fosse
fatto un po' di giustizia con le sue mani, per cacciare i tafani
da sé, questi non gli avrebbero posto un assedio così perverso,
così regolare, e cosi ostinato, come hanno fatto con grande mole-
stia e detrimento di lui.
Esclusa la giustizia sommaria , rimangono i tribunali , ove
il calunniato ha per lo più lo svantaggio d' essere esposto ad
una nuova e peggior berlina, poiché il calunniatore, per non re-
stare al disotto, si trova costretto a torturare la sua vittima, fru-
gandone tutte le debolezze più occulte e malignando su tutte.
Rassegnarsi dunque al silenzio? Ma il silenzio s'interpreta
troppo spesso per segno di consenso o per segno di paura; il
savio Humbug tuttavia tacerebbe.
Opporre parole a parole ? Ma se il libello che calunnia si legge
da mille, l'apologia si legge da uno. Pure al Cantù parve an-
cora ottimo partito quello di assumere egli stesso la propria di-
fesa; se non che, egli non seppe sempre difendersi bene ed a
tempo. Anzi tutto, ei non pesò, in ogni tempo, con mente ab-
bastanza serena , il valore e l' importanza delle accuse che gli
erano dirette, così che talora trattò come calunniosi certi giudizii i
quali ei poteva o riceversi in pace come avvisi salutari, o facil-
mente rivolgere in proprio onore e vantaggio. Il Cantù si dolse
egualmente de'cattolici che lo accusavano come eretico, e de'libe-
rali che lo trattavano come uomo in ritardo col proprio tempo;
non esaminò sempre se le opere proprie non offrissero qualche
appiglio 0 pretesto a questa varietà di giudizii e, nel rilevare invece
que' giudizii stessi, per provare ai clericali ch'ei non dissentiva
da loro, e ai liberali ch'egli avea sempre pensato liberalmente,
pose in maggiore evidenza la propria apparente contradizione. E
dico apparente, a studio; poiché, il Cantù poteva benissimo rima-
nere, al pari d'altri illustri scrittori italiani che l'acre morso della
calunnia non ha mai offesi, buon guelfo e buon patriota ad un
tempo; gli scritti di lui non rendevano specie d'un uomo muta-
- 79 -
bile, ma solo, di una ragione che si studia di porsi in equilibrio
col vero e di un animo appassionato che s'innamora del bello e
si disgusta del brutto ovunque il trovi. Fu l'avvocato, fu il pole-
mista che contribuì a crescere nemici allo scrittore, e lo espose
in breve alle più nere calunnie.
Nel render conto pertanto di quello che il Cantù scrisse e di
quello ch'ei fece nella sua vita di più rilevante, ho a distinguere
in lui, per essere pienamente giusto, due uomini essenziali; lo
scrittore glorioso ed il suo non sempre felice apologista e riven-
dicatore.
Il Cantù fu sempre buon credente e buon italiano ; tutta la
sua vita n'é continuo documento; ed i giovani lettori saranno
pronti, io spero, a persuadersene, leggendo queste poche pagine e
meglio ancora , ritornando con animo sereno , sopra le opere
tutte dello storico di Brivio. E pure, sarebbe assai diHìcile, su
dieci italiani che ragionino insieme del Cantù, il trovarne due
soli disposti a rendergli giustizia; egli s'è alienato, con le sue fre-
quenti sferzate al -pubblico, dal quale si chiama, quasi in ogni suo
nuovo lavoro, indegnamente offeso, quel pubblico stesso che ne
compra, ne legge e n'ha in pregio gli scritti. Con l'esagerarsi fin
da principio il numero, l'acrimonia e l'ostinazione malvagia de'suoi
nemici, egli ha forse contribuito a crearsene dei nuovi, ed a la-
sciarsi credere brontolatore infinito, astioso ed insocievole.
S'egli avesse invece fatto tacere ne'suoi lavori storici e lette-
rari ogni suo privato risentimento, avrebbe reso più sereno e più
autorevole il proprio giudizio, tolto a'malevoli il pretesto di molte
nuove accuse ch'essi fondano non tanto sugli scritti originali e
fondamentali del Cantù, quanto sulle querimonie soggettive alle
qualij egli, mal dominandosi, tratto tratto s'abbandona; querimo-
nie ora dirette contro gli amici ora contro gli avversarli, che
stancano naturalmente avversarli ed amici, e condannano ora il
Cantù ad un ingrato isolamento Egli poteva invece riserbare ad
uno scritto solo, efl^lcace, ben nutrito di fatti, la propria, unica e
completa apologia diretta a confondere i suoi veri calunniatori, e
con ciò avrebbe ottenuto il grande vantaggio di ferire i soli veri
malevoli e non gli immaginarli e non gli innocenti, di sfrondare
alcune delle sue opere di digressioni personali men convenienti,
di farsi, finalmente, un merito di una difesa che gli si è voltata
invece, in manifesto danno.
Già fin dall' anno 1830, m\ Messaggiere Torinese, Angelo
Brofferio dava un po' vivamente al Cantù un consiglio, che de-
— 80 —
ploriamo non sia stato seguito: « che vuol egli il Canta ? acqui-
star fama senza ostacoli e senza beffe ? Salire alla gloria senza
calunnie e senza persecuzioni? E in che mondo cred'egli di es-
sere?... Cessi, cessi una volta da queste puerili lamentazioni. E
egli beffato, calunniato? Cammini per la sua via, e senza chi-
narsi a guardare, schiacci col piede gl'immondi vermi che si agi-
tano nel fango. » Dolevasi fin d'allora il Cantù d'esser fatto pas-
sare per libertino dagli uni e per retrogrado dagli altri, mentre
egli non è veramente né l'uno né l'altro; e questo è pure il suo
lamento odierno; giusto lamento, ma che, rinnovato, stuzzica sol-
tanto con suo danno i vespai, mentre bastavano largamente i suoi
libri e la condotta della sua vita a giustificarlo, come certamente
il giustificheranno nell'avvenire, quando tacerà ogni dispetto con-
tro la persona, cui si attribuisce ora il torto di risentirsi, e se ne
avranno solo più fra le mani gli scritti, utili tutti e sempre ge-
nerosi.
In una sua poesia giovanile alla Malinconia, il Cantù le inneg-
giava cosi:
Dove quell'ermo vertice
Lungi dal mondo tace.
Chiesi al tuo pie seguace
Pensieri e libertà:
' ' ' 0 dove il muschio e l'edera
Sul mio castello erranti,
L'ire, le laudi, i pianti
Copron d'un'altra età.
Presso quell'ermo vertice, presso quel castello, che ha nome
Brivio, e sorge sulla destra dell'Adda, nel Milanese, nacque l'S di-
cembre 1807, Cesare Cantù, primo frutto delle nozze di Celso
Cantù con Rachele Gallavresi. La povertà dell' asse paterno ob-
bligò il fanciullo Cesare a vestir l'abito ecclesiastico per godere
d'un benefìcio, in grazia del quale egli potè mantenersi in Milano
agli studii per parecchi anni. Ma, non pur diciottenne, depose quel-
l'abito, non sentendosi inclinato pel sacerdozio, e andò professore di
grammatica nel Liceo di Sondrio, trasferito dopo quattro anni in
quello di Como, ed a venticinque anni in quello di Milano, dopo
avere, nel suo 22" anno perduto il padre, e preso sopra di sé la
grave cura della madre, de' numerosi suoi fratelli minori e delle
— 81 —
sue sorelline, per provvedere quindi all'educazione e al colloca-
mento di tutti.
In età di ventun'anno, il Cantù aveva pubblicato a Como, per
i tipi dell' Ostinelli, la sua novella patria, in ottava rima, in
quattro canti, Algiso o la Lega Lombarda, la quale egli de-
dicava alla lombarda gioventù cui stringe amore del loco na-
tio, e che fu da' più autorevoli giornali di quel tempo, ono-
rata con larghi encomii; il poeta vi rivelava il nobile inge-
gno (1), il cittadino il cuor generoso. Un anno di poi seguiva la
pubblicazione della Storia di Como (in dieci libri) sulla quale in-
formando il Tommaseo noiV Antologia del fascicolo di dicembre del
1830 si riassumeva cosi: « Sarebbe difficile fra le storie munici-
pali trovare storia più piacevole a leggersi e più saggiamente
scritta di questa. L'esattezza de'fatti, la rapidità e la chiarezza
della narrazione, la morale eccellente, concorrono a far di que-
st'opera un titolo d'onore e all'autore e alla patria; » e fin d'al-
lora il Cantù prometteva di non « sozzare la penna con giullerie
e con garriti che rechino gaudio ai maligni cui troppo, giova ve-
der gl'Italiani ringhiosi venire alle prese fin nel mansueto regno
delle lettere. » Il Cantù era allora alle sue prime scaramuccie col
pubblico, e incominciava a tingere d'acri umori la vergine sua
penna. Nello stesso anno 1829, girava anonimo per Como un ser-
mone del Cantù, inteso a flagellare i Comaschi per l'onore di una
lapide da essi decretata a Giuditta Pasta, mentre non se n'era
ancora posta alcuna al Volta; facil indignano versus; l'Italia vi
è chiamata ruvidamente meretrice invecchiata; e si termina il
sermone cosi:
Pargoleggiar co'suoi balocchi in pace
Il Lombardo lasciamo, e torniam noi
Nel silenzio pensante. Io volontario
Esulo alla Cavargna. Ivi il curato
Ha paga da curato, e il fenajuolo
Da fenajuolo, equo compenso il merto ;
Là grido ai ceppi e niun la crede invidia ,
Là fino al di della speranza io dormo.
(1) La Biblioteca italiana lo prenunziava fin d'allora « scrittore non
ordinario. »
Ricordi Hiografici 6
— 82 —
In altro sermone, che s'intitola il feWraio del ISSI si cantano
le speranze e i disinganni delia patria, gli amori e gli sdegni; il
poeta vi si finge un vecchio soldato d'Italia, e dice ad un amico :
Fa conto
D'un braccio uso a ferir tedesche spalle.
D'un cuor che conta al par servaggio e tomba.
E, in quel memorabile anno 1831, il giovine Cantù C(>llabo-
rava pure all' Indicatore Lombardo, e v' imprendeva, a M anni,
la pubblicazione di quel suo dotto commento alle pagine sto-
riche de' Promessi Sposi, che s' intitola: La Lombardia nel se-
colo XVIII, una vera storia aneddotica e sociale di quel tempo.
Il Canti] dedicava pure questo nuovo suo libro ai Giovani Lom-
bayxli, con le parole seguenti che acquistano importanza anche
maggiore, per l'anno in cui furono scritte e pubblicate: «Questo
commento l'offro a voi, giovani Lombardi miei coetanei che, pieni
di speranza voi stessi, le speranze alimentate della patria. Benché
nuovo, benché d'un vivente, benché d'un cittadino, accoglieste con
plauso il racconto de' Promessi Sposi, e ben avete inteso che non
è scritto come la comune de'romanzi, per acquistare la lode di un
momento, ed ingannare la noia, castigo di chi non fa nulla; ma
0 vi presenti nelle scene storiche l'aspetto del passato, o vi riveli
-nelle scene di passione l'aspetto di tutti i tempi, vi fu chiaro come
ogni idea vi sia subordinata ad un concetto grande; tolga su
certe verità la non curanza che è peggio dell'errore; formi in
chi legge una persuasione efficace, operosa. Il mio commento vi
convincerà ognor più siccome in quell'opera la piì.i scrupolosa ve-
rità storica vada congiunta all'interesse, alla vivacità del racconto,
a tanta dose di sapienza riposta e di sapienza popolare. Giovani
Lombardi, coetanei miei, io avrò ottenuto il mio fine se quel li-
bro che divoraste per diletto, ora lo rileggerete per istruzione,
affine d'impararvi a pregiar quanto si meritano la libertà civile,
l'uguaglianza dei diritti, a divenire indulgenti col giorno d'oggi
confrontandolo col passato; e compiangendo i traviamenti della ra-
gione umana, operare a rinvigorirla col sapere e colla medita-
zione. » Fu dopo aver letto quel libro, e i primi capitoli dell'opera
sul Parini, che il famoso poliziotto ed invido letterato trentino
Paride Zaiotti ebbe a sclamare che Cesare Cantù faceva due
passi verso la gloria e tre verso la galera. E lo Zaiotti stesso si
incaricò quindi di farlo arrestare nel 1833, come compromesso per
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delitto d'alto tradimento, per avere il Cantù contribuito a salvare
alcuni cittadini dall'Austria perseguitati: ma, se la ragione poli-
tica entrava per una parte in (luell'arresto, l'invidia del letterato
c'entrava pel rimanente. \J Indicatore Lombardo turbava i sogni e
più gli aflFari dello Zaiotti; e ClqW Indicatore il Cantù era principale
e poderosa colonna. Oltre all' opera sulla Lonibardia, aveyano in
esso veduto la luce alcuni lavori critici del Cantù stesso, per quel
tempo, arditi e originali; erano dessi: un Discorso intorno a Lord
Byron, uno studio su Vittore Hugo e il Roynanticismo, ed i Saggi
sulla letteratura tedesca, ne'quali ultimi si nota fra gli altri, per
la sua larghezza, il consiglio « a non dispregiare la letteratura
di qualsivoglia paese per la sola ragione dell'esser forestiera, e
stravagante dalle consuetudini nostre, ma a cercare in ciascuna
quel che v'ha di più acconcio a giovare alla nazionale. » Nel 1833,
videro pur la luce i primi capitoli della ricca monografia : L'abate
Partili e il suo secolo, alla quale doveano succedere, secondo il
pensiero del Cantù, altre monografie speciali sul Beccaria, sul
Verri, sul Tamburini e su Giuseppe II. La sola opera sul Beccaria
potè tener dietro a quella sul Parini, nell'anno 186'2 (1); le altre
monografie fornirono, invece, copiosi materiali sàVà Storia Universale
e alla Storia dei cento anni. La Rivoluzione della Valtellina nel 1029,
preludio all'opera più tardi riveduta ed ampliata, che s'intitola
Il Sacro Macello di Valtellina, episodio della riforma religiosa, e
altri scritti storici e letterarii del Cantù videro ancora sparsa-
mente la luce attorno al 1833, ossia nei primi cinque lustri del-
l'operosa sua vita; io qui lo rammento a quegli immemori italiani,
i quali non riconoscono al Cantù altro merito da quello in fuori
d'aver compilato una voluminosa Storia Universale. Egli incominciò
con la storia municipale di Como, cui fece seguire più tardi la
Storia di Milano e la storia di Venezia. Allargando quindi il suo
disegno, concepì la Storia degli italiani; conosciuta bene la storia
d'Italia, provvide a metterla in relazione con la storia del mondo;
egli alfine compilò, si, ma sopra sé stesso, sopra i materiali del
proprio sapere, con prodigiosa alacrità d'ingegno accumulati. Chi
rise pertanto, di recente, sopra uno scherno alquanto buffonesco
(1) Fu dedicata al conte Sclopis; la stampa e i dotti giuristi furono
unanimi a diro un gran bene di questo bel libro apparso nel 186:2, in Fi-
renze pei tipi del Barbera.
— Sè-
di briosa ma lieve romana effemeride, la quale raffrontava il Cantù a
que'tali cuochi, i quali mettono a bollire nel primo mattino un
bel pezzo di bove per servire del brodo, e poi avendo bisogno di
altro brodo aggiungono acqua senza fine, rise inconsideratamente.
Se il Cantù si fosse contentato di lavori sparsi, s'ei non raccoglieva
mai i proprii innumeri dìsiecta memhra, tutti ammirebbero,
senza dubbio, la originalità, versatilità, ed inesausta ricchezza del
suo sapere. Perch'ei si diede la pena per noi, dopo avere faticato in
infiniti e diligenti lavori speciali, di riassumersi, ed ha pure il
merito raro, dopo essersi riassunto, invece di dormire sopra i
proprii allori, di allargare e rendere più evidenti certi punti spe-
ciali della sua immensa enciclopedia storica, ecco i gazzettieri, i
quali non fanno essi stessi quasi mai altro in lor vita, scagliar-
glisi addosso e gridare ai quattro venti che Cesare Cantù ha la-
vorato sempre e continua a lavorare con le sole forbici. Ma il
Cantù lasci dire e continui, per quanto ei può, l'opera sua feconda
di bene; il fatto stesso che i nuovi libri da lui tagliati su panno
vecchio, con le sole forbici, come si dice, continuano a vendersi
e a divulgarsi rapidamente, le deve assicurare che il pubblico
stesso s'incarica di vendicarlo. Lasci dire, io ripeto, e non rac-
colga con le mani sue, che il lavoro più che altro ha santificate,
il fango che gli si getta addosso dagli invidiosi infingardi.
Ogni uomo di lettere deve essere preparato a questo genere di
battaglie. Il non aver nemici è il privilegio di que'soli che non
danno molestia ad alcuno; ma, à la guerre comm' à la guerre;
chi adopra l'armi a ferire, non deve meravigliarsi di trovarsi in-
contro numerosi nemici e dolersi per qualche scalfittura; Cristo
stesso^ ove non avesse osato assalire di fronte i Farisei, e fla-
gellato i mercanti del Tempio, non avrebbe forse mai patito il sup-
plicio della croce; l'essenziale è di ferir bene, di ferir giusto, di
ferir forte, di ferire a tempo, di ferire chi sei merita, di ferire
non per vanità personale offesa, ma per la passione generosa di
tutti i buoni, e poi non fermarsi ad ascoltare gli improperii che
vi possano scagliar dietro i vinti sconcertati nelle loro opere mal-
vagie; un proverbio turco dice: « Chi si ferma a buttar sassi con-
tro ogni cane che gli abbaia dietro, non arriverà mai al fine del
suo viaggio »; e mi sembra che dica bene.
Ho accennato all'arresto del Cantù, avvenuto per zelo polizie-
sco dello Zaiotti, allo scorcio del 1833. S' erano incoati fin dal
1832 in Lombardia numerosi processi politici; in uno di questi il
giudice processante Paride Zaiotti, nuovo Vatinio, trovò pure il
— 85 —
modo d'involgere il Cantù (1). Il di 11 novembre del 1833 la casa
dello storico veniva perquisita, le carte di lui si manomettevano,
il giovine capo di casa veniva da agenti di polizia tradotto in
carcere. La prigionia del Cantù si protrasse Ano al 14 ottobre
del 1834, inaspritagli dal giudice letterato, col privarlo de'mezzi
di leggere buoni libri e, speravasi pure, di scriverne; ma gli occhi
d'Argo della polizia non poterono al Cantù impedire non solo di
meditare nuovi lavori, ma di metterli, in parte, e come poteva,
in opera. Volumi di sola erudizione non sarebbe il Cantù riuscito
a compiere in carcere; ma l'erudizione storica che egli avea già
acquistata, gli era più che sufficiente per potere stendere un ro-
manzo storico, ove fosse pure deposta una protesta contro gli or-
rori della processura austriaca. Apprendiamo da Mario Carletti,
il quale pubblicò intorno al Cantù un intiero volume di Notizie
Mografìciie e MMiografiche (2), che il Cantù scrisse in carcere
sul rovescio delle carte geografiche di Buffler quelle parti della
Marglieriia Pusterla che la memoria avrebbe men fedelmente
ritenute. L'editore Sanvito di Milano, imprendendone nel 1854
la trentasettesima edizione, aggiungeva altri particolari che mi
giova riferire con le proprie parole di lui: « In quella atroce
solitudine, il Cantù trovò modo di farsi dell'inchiostro col fumo
della candela; penna cogli steccaden^i; e su carte stracce scrisse
il romanzo. Egli ricordavasi del fatto in generale e dei tempi;
mancavangli i nomi proprii e le date sicure, talché i perso-
naggi nacquero con tutt'altri nomi, siccome variarono alcune cir-
costanze di fatto, allorché, sprigionato, potè limare il suo lavoro,
e dopo lunga dimora alla censura di Vienna, perché la censura
milanese non credette poterlo ammettere, il diede alla stampa.
Questi fatti non son noti al pubblico, eppure a noi non paiono
indifferenti per intendere molte parti del lavoro, nel quale l'au-
tore volle ritrarre, o, forse non volendo, ritrasse i proprii dolori
e le proprie consolazioni sotto figura altrui, mentre Pellico avea
in persona dipinte le sue. » Questo racconto dell'editore milanese
avea per me dell'incredibile; scrissi pertanto all'illustre personaggio
(1) Da quel tempo in poi scrìve il Ranalli, nella Storia degli avverti'
menti d'Italia, il buon-governo dia aveva nel tirolese Salvotti e in Pa-
ride Zaiotti due ferocissimi inquisitori, d'ogni detto o atto pigliava
ombra.
(2) Coi tipi di Giuseppe Mariani 1858.
— 86 —
stesso, di cui qui mi occupo, pregandolo di volermi chiarire quel dub-
bio; compiacente al mio desiderio, ei mi poneva sotto gli occhi alcuni
fogli superstiti di quella carta straccia scarabocchiata in carcere ; in
que'fogliacci logori dal tempo, io lessi con grande stento ma con viva
sodisfazione, la traccia del Galantuomo, alcuni versi patriottici, una
lamentazione in prosa, alcuni accenni alla Margherita Pusterla e
alcune vigorose parole di protesta contro gli oppressori della pa-
tria. Il giovine lettore non dimentichi poi che, nel quinto capitolo
della Margherita Pusterla, si trova già quell'ottima fra le pre-
ghiere insegnate, nell'infanzia, a molti di noi, la quale dice cosi.
« Buon Gesù, che amaste la patria sebbene ingrata, e piangeste
prevedendo i mali che le sovrastano, guardate pietoso alla mia,
sollevatene i mali, convertite coloro che colle frodi e colla forza
la contristino; alimentatele la fiducia del bene; e fate ch'io possa
divenire un giorno cittadino ])robo, onorevole, operoso ! » Non
si negherà, è sperabile, animo coraggioso, ad uno scrittore che,
appena uscito di carcere, insegna ai fanciulli italiani a pregare in
tal forma.
Liberato dal carcere, perchè, secondo le conclusioni del tribu-
nale, « essendo insorti dei dubbi sul professor Cantù in fatto di
alto tradimento, la successiva investigazione non gli ha compro-
vati », egli ricerca festoso i suoi cari^ e canta la gioia del rive-
derli in un lungo componimento in versi, intitolato La Libera-
zione:
Voi piangete, o fratelli, o sorelle,
Come il di che fui svelto a';niei lari?
Questo è pianto di gioia, ma quelle,
Strida furon di duol, di terror.
Io tacente, col volto dimesso,
A me stesso, a'miei cari pensava.
E partirmi, e lasciarvi, sicuro
Di lasciarvi ai bisogni, all'ambascia ?
Né veder su alcun giorno futuro
Del ritorno la speme brillar !
- 87 -
Se soffersi I L'udrete al loquace
Focolar delle placide sere,
Abbian essi il perdon; noi la pace
Qui raccolti al domestico aitar.
Chi rammenti come il governo dell'intiera famiglia Cantù, com-
posta di nove figli e della vedova madre^ era allora affidato al
solo Cesare, può facilmente immaginarsi lo sgomento e la deso-
lazione che quell'arresto cagionò, e facilmente comprendere ancora
per qual ragione il Cantù, uscito, dopo dodici mesi, dal carcere, non
abbia pensato a menar vanto di quel martirio, ma desiderato in-
vece, sebbene invano, di riacquistar tutti i suoi diritti di cittadino.
Dal carcere egli s'era domandato più volte :
Ai fratelli, anzi miei figli.
Chi più il pan dividerà?
E, liberato di carcere, rallegravasi al pensiero ch'e-'li avrebbe
di nuovo potuto provvedere loro quel pane, col frutto del proprio
insegnamento, al quale era giustizia il richiamarlo ; ma l'Austria
gli tolse invece, e non glie la restituì più mai, la facoltà di insegna-
're, accordandogli appena, dopo tre anni, per sentenza di tribunale,
una tenue pensione annua, in riconoscimento de'servigi già prestati.
Il governo riparatore italiano, nel 1859, né restituiva l' alto im-
piego al Cantù, né altro glie ne affidava; nel tempo stesso in cui ve-
niva pur tolto altrimenti al Cantù l'ufficio di segretario dell'Istituto
Lombardo, ch'egli da alcuni anni copriva. Nel marzo dell'anno 1863,
i professori dell'Università di Bologna stendevano e firmavano una
bella ed onorevole petizione al ministro della pubblica istruzione, ove
facean voto, perchè la cattedra di storia vacante in quell'Ateneo
venisse affidata a Cesare Cantù, storico illustre, quali potessero es-
sere le sue opinioni politiche e religiose; il ministro considerò la
questione del solo lato politico ed oppose alla petizione de'profes-
sori bolognesi un energico rifiuto (1). Ora, dove il governo stesso"
mostrasi cosi immemore e così partigiano, è egli meraviglia che il
pubblico dimentichi talora i servigi resi agli studii dal Cantù? Inter-
pellato quindi da me il Cantù, sugli ultimi ufflcii da lui sostenuti
(1) Tre anni di poi quella stessa cattedra di storia negata allo sto-
rico Cantù si concedeva dal governo italiano ad un eccellente improv-
visatore di versi.
presso il governo italiano, con lettera del 22 febbraio di quest'an-
no, rispondevami semplicemente: « Il governo non mi lia mai
adoprato neppure a voltar le pagine d'un libro; fin a ieri che mi
nominarono in una consulta archeologico- storica ! E, in que-
sta occasione, mi esibirono, se volevo, una cattedra. A 05 anni ! »
Rimasto senza impiego, e vissuto quindi sempre lontano dagli
agi e privilegii burocratici, il Cantù dovette allora provvedere a
mantenere sé ed i suoi, coi proprii scritti. Le cure da lui prodigate
in casa, per l'educazione de'suoi fratellini e delle sue sorelline, gli
poterono servire di guida per comporre qualche libro d'educazione.
Perciò, nell'anno della prigionia, con la Margherita Pusterla, ro-
manzo pervenuto ora alla sua trentottesima edizione, (pubblicatosi
per la prima volta nel 1838, perchè trattenuto quasi tre anni negli
ufficii di polizia a Vienna) nacque pure il Galantuomo, libro di
morale popolare, che, (pubblicatosi nel 1835), insieme col Buon
fanciullo e col Giovinetto, altre operette popolari del Cantù, fu pure
stampato più volte, in un numero straordinario d'esemplari (intorno
a centomila); e in quegli anni egli scrisse ancora, molto assiduo,
per Y Indicatore Lonibardo, pel Ricoglitore italiano, mutato poi nella
Rivista Europea di Milano. Io ricordo, fra gli altri suoi saggi giova-
nili, quello su Cìiatecaibriand (che il Cantù avea conosciuto di per-
sona, in un suo viaggetto per la Svizzera e per la Francia, fatto nel
18.30), quello sul Romagnosi, (di cui professa vasi discepolo), un Pa-
rallelo delle lingue d'Europa e dell'India, apparso nel primo fascicolo
della Rivista Europea (Milano, 1838). Tutti questi scritti il Cantù
pubblicava in Milano, sorvegliato di continuo dalla polizia austriaca,
che lo avea segnato nel suo libro nero. Io potei aver sotto gli
occhi un singolare documento della polizia austriaca dell'anno
1836; il 21 febbraio di quell'anno il Commissario di polizia in
Chiari mandava al Deputato politico (erano, per eufemismo, chia-
mate cosi dall'Austria le sue spie), una nota di 20 compromessi
politici, fra i quali, in prima linea, Cesare Cantù e Gabriele
. Rosa, con l'istruzione seguente : « Si descrivono qui in seguito i
nomi degli individui stati ultimamente arrestati per imputazione
di alto tradimento, poi dimessi per difetto di prove legali e con
dichiarazione di desistenza. S. M. si è degnata di permettere loro
clementissimamente di aggirarsi in tutta la Lombardia, ma di or-
dinare ad un tempo che sia continuata la politica loro sorve-
glianza, che abbia a continuare altresì il divieto loro già intimato
di associarsi a persone processate per alto tradimento od anche
soltanto sospette in linea politica e di avere relazioni dirette od
— 89 —
indirette con esse loro. Qualora pertanto taluno dei detti individui
capitasse in codeste parti e specialmente in questo comu)ie, ne
sarà dato immediatamente avviso a questo uOìzio, tenendo rigo-
rosamente ma cautamente sorvegliati i di lui passi e le sue rela-
zioni per farne poi circostanziato rapporto per le determinazioni
che risultassero del caso. »
La persecuzione molestò, irritò spesso il Cantù, non valse a
togliergli il coraggio di proseguire per l'onesta via intrapresa ; e
n'è prova la dedica della sua Storia Universale, incominciata a
pubblicarsi nel 1836: quella dedica suonava così: « Alla mia pa-
tria un pensiero indipendente, una franca parola, un affetto ope-
roso, desiderando ch'ella gradisca e. comprenda questa storia so-
ciale ».
Il Cantù avea concepito il disegno del suo lavoro monumentale
in prigione ; aveva, uscito di carcere, incominciato a ordinarne i
materiali ed a stenderlo, quando s'incontrò in Milano con Giu-
seppe Pomba che andava, appunto, in traccia d' un compilatore
per una storia universale ch'ei desiderava di pubblicare ; volle la
fortuna del Pomba ch'ei s'imbattesse, anzi che in un compilatore,
in uno storico e in un eloquente scrittore. Nella prefazione alla
nona edizione torinese della Storia Universale, intrapresa nel 1862,
gli editori Pomba confessavano essi stessi che delle edizioni prece-
denti avevano collocato 60,000 esemplari, malgrado le difficoltà del
commercio librario nella divisa Italia, l' istruzione meno diffusa,
ed il costo rilevante di un'opera tanto voluminosa. L' editore
s'arricchì con quel solo libro; l'autore vi guadagnò tanto da vi-
vere indipendente. In un'opera di quella mole era inevitabile qual-
che disarmonia accidentale di giudizii, lo scrittore, non potendo,
naturalmente, fonderla d'un solo getto, e scrivendola non meno col
cuore che con la testa; onde, se, per un verso, le crebbe calore ed at-
trattiva, non seppe sottrarsi, per l'altro, alle fugaci impressioni del
momento, le quali essendo mutabili e diverse, gli fecero in alcuni
casi esporre giudizii men temperati e meno atti ad acquistargli
popolarità, se da que' soli giudizii parziali e non dalla somma
del lavoro e degli intendimenti posti dapprima in esso si voglia
solamente giudicarne l' autore. I malevoli colsero appunto quel-
l'opportunità per fare all'autore un po' di torto; e poiché ve
ne sono fra'liberali non manco che fra' codini, il Cantù si trovò attac-
cato ad un tempo da due campi opposti, e non seppe sopportare l'in-
contro di que' due fuochi incrociati sopra di lui; rispose, or di qua or
di là; ma la risposta di lui fu semi)re men valida della botta; e, mentre
— 90 —
forse nessuno avrebbe badato all'offesa, le si diede importanza a
misura che ne dava ad essa il Cantù, il quale, non riuscendo sem-
pre felice schermidore, parve, a chi s'occupava di simili contese,
esser rimasto vulnerato. Ma, mentre i letterati disputavano, il
pubblico leggeva e s'istruiva sull'opera del Cantù a cui erano ri-
serbate pertanto al suo arrivo in Torino pel Congresso Scientifico
del 1840, le più vive e schiette dimostrazioni di stima. Da Torino
Cesare Cantù passava in Toscana; di qui a Roma; di Roma a
Napoli, ove il giornale l' Omnibus ne annunziava allora 1' arrivo
nei termini seguenti : « È tra noi da pochi giorni il cavaliere (1)
Cesare Cantù, il cui ingegno peregrino e la gloriosa audacia di
imprendere opere sostenibili appena da un'assemblea di dotti, qual
è la Storia universale, son troppo cari alle lettere perchè aves-
simo qui bisogno di promover con parole la pubblica gioia di
averlo tra noi. Quando ricordiamo la sua età di non trentacinque
anni, e vogliamo paragonarla alle cose fatte e a quelle che col
tempo può fare, possiam ben credere che egli sarà il Muratori
del nostro secolo. A vederlo si modesto e cortese, ad udirlo nei
suoi placidi ragionamenti, tu diresti che egli non ebbe mai il
tempo d'invanire, cioè di oscurar la gloria acquistata sui libri
colla presenza e veduta della persona... Egli, neppur come viag-
giatore, cangiò il suo sistema di studi; si leva tre ore prima di
giorno. . . » Ad un critico eminente della Revue Britannique che,
parecchi anni dopo, domandava stupefatto al Cantù come mai egli
avesse trovato tempo a far tanto e da sé solo, il Cantù rispon-
deva con un solo motto di una eloquente semplicità: « io non
ho mai fatto altro ». Nel vero^ dai 17 anni ai 65, la vita di lui
(1) Cavaliere era egli fin d'allora, per decorazione ricevuta dal duca
di Lucca e da Carlo Alberto, come più tardi nel 1847, per proposta del
Guizot, egli veniva decorato dal re Luigi Filippo. II deputato Pinzi volle
escludere dal Parlamento italiano il Cantù perchè cavaliere della Co-
rona di Ferro; n'ebbe la più formale smentita dal Cantù stesso; ma
non per questo consenti a disdirai, parendo ai più l'offendere un ga-
lantuomo così agevoi cosa come ardua e impossibile invece Io scoprir
sé stesso in fallo ; prema charitas incipit ab ego, diceva quello; così
1 giornali liberali italiani furono unanimi, al tempo del Concilio Vati-
cano, nell'annunziare, che il Cantù vi assisteva come storiografo; nes-
suno si diede poi briga di accogliere la smentita, poiché si seppe che
quella notizia era ìalsa.
— 91 —
fu spesa tutta intorno agli studii e per gli studii ; egli non s'è
distratto un solo giorno dall'opera sua ed oggi stesso non ne sem-
bra stanco ancora, poiché odo annunziato un nuovo suo libro che
ci offrirà i ritratti di Illustri italiani. Ammiriamo ed imitiamo ;
è un coraggio che vale ben quello di alcuni eroi più famosi, ai
quali bastò sacrificare sé stessi un giorno, per acquistare quella
gloria, che al Cantù si oserebbe disputare dopo una intiera, diu-
turna e consapevole vita di patimenti.
In Toscana egli ebbe pure onorate accoglienze, ma poco durarono
per avere egli osato dissentire apertamente dall'autorità di alcuni di
questi grandi (ai quali, in vero, egli mancò spesso di riverenza); per
avere nel Tasso riconosciuto un grande imitatore, meglio che un
poeta originale; per avere affermato contro la Crusca che nessuna
lingua si viene formando su per i dizionarii. Così egli non tardò ad
alienarsi l'animo di molti toscani, i quali non trovando più altro
ad osservargli, facili come sono al vivace motteggio, si mossero
a cercare nello studio che il- giovine storico poneva all'eleganza
del vestire, e alla cortesia de'modi particolarmente con le signore,
alimento ai loro frizzi ingiocondi; e il Niccolini che quanto era
grande e generoso nell'amare, tanto poi negli sdegni intemperante
e disordinato, vendicavasi, chiamando il Cautù niente meno che
barattiere della letteratura (mentre in una lettera del 5 maggio
1838, non pubblicata dal Vannucci, e diretta dal Niccolini al Cantù,
lo stesso Niccolini si dichiarava ammiratore ed amico dello sto-
rico, e ne celebrava la sapienza e il nobile ingegno), e scrivendo
di più nell'aprile 1843, ch'egli andava a^te busca d'anelli dal Pa2Kt
e dall'Imperatore, ingiuria atroce se avesse avuto alcun fonda-
mento di vero. Della visita all'imperatore io non so proprio nulla;
né saprei a qual anno riferirla, né la trovo ricordata in alcun
luogo, neppure fra gli scritti che lo calunniano; può quindi negarsi
recisamente; quanto ad un colloquio avuto col papa Gregorio XVI,
ce ne informa il Cantù stesso nel quinto volume della sua Storia dei
Cento Anni, ma per riferirci soltanto che il papa si vantava d' esser
cittadino veneto e non suddito austriaco. L' autore dell'Affiso avea
serbato memoria di papa Alessandro III e nel suo odio contro l'Au-
stria, non vedea, pur troppo, speranza di salute in altri che in un
nuovo pontefice il quale si ponesse a capo di una nuova lega italiana;
era quello un errore politico, ma poteva bene essere un error genero-
so; e, in ogni modo, non c'era allora merito maggiore ad esser ghi-
bellino che guelfo; quello che giova qui ritenere soltanto é che Cesare
Cantù, quantunque accusato di una vanità morbosa, né dal papa
— 92 —
Gregorio né dal vivente Pio nono non ricevette nulla mai, né
anelli, né ciondoli, né rosarii tampoco !
Importa poi rilevare, che all'ingrossarsi de'tempi, Cesaro Cantù
fu de'primi a far sentire la parola del libero cittadino italiano,
dapprima al Congresso scientifico di Milano con l'illustrazione di
Milano e del suo territorio, che riaperse di più gl'occhi all'Austria
già sospettosa; al Congresso di Marsiglia ov' ebbe 1' onore di se-
der vice presidente e pronunziò nobili parole per l'Italia (1); a quello
di Genova, ove portò la questione delle strade ferrate, nel senso
della emancipazione italiana (2); alfine a quello di Venezia, ove la pa-
rola di lui, com'ebbe a notare il conte Fiquelmont, testimonio oculare,
nel suo libro scritto con intenzione poliziesca su Lord Palmerston e
il Continente, fu scintilla che accese l'incendio della rivoluzione. « Nel
corso della seduta, scriveva il Fiquelmont, si era notato che il sig.
Cantù, milanese, storico noto per opere giustamente stimate dal pub-
blico, pensionato dall' Imperatore d' Austria (i nostri lettori sanno
ora che pensione fosse quella) era stato il solo che avesse dato
pretesto ad agitazione in seno alla sua Sezione. Il pubblico at-
tendeva adunque con impazienza il discorso che egli doveva leg-
gervi ; fosse intenzione, o fosse che la sua Sezione (quella di geo-
grafia e di st ria) dovesse essere l'ultima, ultimo egli parlò. Egli
inseri nel suo discorso alcune frasi indirizzate agli italiani partecipi
del movimento ; vi adoperò tutta la sua eloquenza a celebrare il
pontificato di Pio IX, il quale nella sincerità d'un cuore che voleva
il bene avea accettato le idee liberali. Le sue parole furono accolte da
applausi frenetici che si ripeteano a ciascuna frase che li eccitava.
Quel momento fu un avvenimento ; da quell'istante Venezia entrò
pienamente e apertamente nelle vedute della rivoluzione che si
preparava per tutta l'Italia ».
I discorsi del Cantù erano stati due; l'uno sulla direzione da
darsi alle strade ferrate per meglio unire i paesi d'Italia, e dove
si chiamava Pio nono « eroe di bontà e di riconciliazione, che pose
la croce alla testa del progresso » ove si parlava « a nome di
(1) Il discorso di congedo fatto da Cesare Cantù finiva con le parole :
« Deh possiamo, fra non molto, riabbracciarci, colle memorie dell'ami-
cìzia e e olV entusiasmo delle speranze compite! »
{2) Nel ricordo di G. H. Giuliani ci accadrà pure di ritrovare il Cantù
come il più coraggioso difensore della libertà, nel Congresso di Genova,
ove il delegato Sardo, principe Alberto Della Marmora, voleva infrenarla.
— 93 —
fratelli, da fratelli a fratelli »; si lodava il governo Sardo per la
libertà accordata agli oratori nel congresso di Genova; si augurava
già che la valigia delle Indie potesse passar per l'Italia, si mostrava
il vantaggio degli italiani delle diverse provincie ad accomunare
i loro destini. Il secondo discorso del Cantù, dovea riassumere
i lavori della sua sessione , ed è probabilmente quello a cui
allude, nell'opera sua, il Fiquelmont. (1) Finché il Congresso
durò, finché il Cantù rimase a Venezia, egli si trovò piena-
mente sicuro ; l'Europa civile tutelava la santità inviolabile dei
congressi scientifici, né l'Austria volea mostrarsi più intollerante
degli altri governi che li aveano lasciati lavorare in pace. Ma la
tempesta dovea aggravarsi sul capo di Cesare Cantù appena egli
facesse ritorno in Milano. La polizia lo avea già ammonito per
la parte da lui presa nel congresso di Marsiglia; per una peti-
zione del giugno 1847 al Viceré a lui attribuita, nella quale chie-
devansi riforme amministrative in Lombardia; e per una propo-
sta di casse di mutuo soccorso per i poveri, fatta dal Cantù in
unione "con Stefano Franscini, e dal governo accusata come prò-
motrice d'idee comunistiche. Il governo austriaco aveva ancora
fatto 0 almeno tentato di peggio contro il Cantù. Da alcuni do-
cumenti pubblicatisi negli krcMvi triemiaii delle cose d'Italia si
rileva la corrispondenza scambiatasi fra il Sedlinszki, ministro di
polizia a Vienna ed il Torresani, direttore della polizia a Milano,
intesa a combinare le vie di togliere al Cantù quell'onore ch'ei
non avrebbe mercanteggiato mai. Intanto, non potendosi altro, si
tentò insinuar neW Allgememe Zeitung e poi si fece riprodurre
(l) Anche di que'discorsi si volle tuttavia dai malevoli far carico al Cantn;
si disse e si stampò che il Cantù avea detto a Venezia essere la Repub-
blica giustamente perita di quella morte alla quale essa stessa avea condotto
altri popoli, staccando dal suo discorso una sola frase giusta ma inoppor-
tuna per ingrandirne il senso e attribuirle presa da sé un solo significato
odioso; ecco le parole autentiche lette dal Cantù in quell'occasione: « In un
Congresso aperto nell'antica regina dell'Adriatico, nella patria di Marco
Polo, nella città che, al pari delle ricchezze, ambiva i monumenti del-
l'arte, e gli adunava, sia santamente, allorché salvava su queste isole
l'antica indipendenza, sia violentemente, allorché esercitava il diritto
fdella conquista, di cui poi doveva esser vittima; in città siffatta era
impossibile non prendesse straordinaria importanza la più giovane se-
zione dei nostri Congressi, quella di geografia ed archeologia ».
— 94 —
dalle Gazzette ufficiali del Lombardo- Veneto che la Storia Uni-
versale di Cesare Cantù era niente più che una traduzione raffaz-
zonata di quella tedesca di Gio. Mùller, stolida accusa alla quale
risposero in Germania due editori tedeschi, l'uno imprendendo
l'edizione di una traduzione tedesca della Storia Universale del
nostro Cantù, per uso de' cattolici, l'altro facendola tradurre in
tedesco per uso de'protestanti. Appena tornato di Venezia, il Cantù,
richiamato alla polizia, venne severamente rimproverato per la
condotta da lui tenuta nel Congresso di Venezia, e gli fu in pari
tempo soppresso il soldo della pensione di maestro di grammatica.
Il 17 gennaio del 1848 un conoscente ammoniva il Cantù aver in-
teso un magistrato scagliarsi contro i malcontenti, e dichiarato
come tutto si soffocherebbe, ove se ne arrestassero da 10 a 12
tra i più influenti ed un de'primi il Cantù, il quale da un gior-
nale di paese contiguo era stato accusato per illegali pubblicazioni.
Il 21 gennaio l'arciduca Ranieri spiccava un ordine allo Spaur
governatore della Lombardia perchè nel giorno stesso fossero tra-
sportati a Lubiana sotto Mona scorta, Alberto Battaglia, Cesare
Stampa Soncino, Cesare Cantù e Gaspare Belcredi, come politi-
camente pericolosi. « La sera del 21, scrive lo stesso Cantù, in
un suo foglietto pubblicato in que' giorni a Torino ed intitolato
Semplice informazione, tornavo a casa mia, quando vitli dietro
questa, appostate guardie ; guardie sulla mia porta. Tirai innanzi
difilato, senza che mi conoscessero ; poi, in parte sperando fosse
paura, non irragionevole in quel tempo, in parte esitando qual
valesse meglio lo spatriamento o un processo tante volte invocato,
circuii l'isolato e tornai. Ma rividi ancora le guardie; rividi quel-
l'apparato di baionette e di spade contro un uomo di penna, che
un semplice usciere avrebbe tradotto al tribunale ; e, pensando a
sanguinosi atti recenti, cedetti al consiglio proverbiale ».
Ripatriato il "25 marzo 1848, dopo le gloriose giornate di Milano,
ch'egli stesso descrisse in cinque lettere appassionate, il governo
provvisorio non mostrò accorgersi della presenza del Cantù e lo
lasciò intieramente da banda, fino al 5 agosto, quando il Cantù
si trovò quasi solo a tener quieta la città e a difendere il re Carlo
Alberto. Anche di ciò vi fu tuttavia chi volle accusare il Cantù,
dandogli colpa d'aver contribuito a salvare Carlo Alberto, per Io
studio di una regia decorazione. Quanti avevano applaudito al re
sabaudo ne' giorni della sua fortuna erano buoni italiani; chi
osava, ne' giorni sinistri, accostarsi al re tradito dalla fortuna,
diveniva un cortigiano, un traditore. Oh lievità di giudizii umani!
— 95 —
II Cantù con le sue Cinque lettere sulla sollevazione di Milano s'era
alienato i Piemontesi, ch'egli incolpava de' ritardati soccorsi agli
oppressi lombardi ; si alienava i lombardi col difendere i piemon-
tesi, quando non la volontà, ma la fortuna era venuta meno ai
condottieri sabaudi ; il pigliare a sostener la causa de'deboli e de-
gli sventurati è sempre un consiglio pieno di rischi; e il Cantù,
che ripone una specie di onorevole compiacenza in queste insolite
battaglie si condanna da sé stesso a partecipar la sorte degli op-
pressi, in difesa de' quali sorge talora con animo indignato e con
parola commossa a parlare.
Tenuto lontano il Cantù dal governo della cosa pubblica, egli
provvide ne' priini commovimenti del libero reggimento milanese,
a governare l'educazione popolare per mezzo della stampa. Il gior-
naletto La guardia nazionale fa scritto quasi per intiero da lui,
per tutto un mese; e, inteso dai primi di luglio al -4 agosto 1848,
a tener preparata la città ad una nuova estrema difesa, raccomandava,
in forma disinvolta e popolare, cordggio, concordia, operosità e forza
di sacrificio. Il pubblico erario intanto essendo esausto , il Cantù
dettava per VEco della Borsa un articolo intitolato : Il Prestito,
ove si esortavano tutti i cittadini ad offrire quel che era in loro
potere; il Vimercati (1) ci informa sull'accogliraentc) che fece al-
lora il popolo al buon consiglio: « Ninno fu sordo a quella voce,
specialmente nelle classi meno agiate ; la vecchierella offeriva la
sua piletta dell'acqua santa, la giovinetta i suoi orecchini, la fidan-
zata che non avea altro da offrire faceasi tagliare i suoi be' ca-
pelli, e vendendoli ne dava il ritratto all'amante perchè il recasse
al pubblico Erario ». Son ancora di quel tempo i preziosi Trat-
tenitnenti dì Carlamì)rooio da Montevecchia, una serie di foglietti
come dice l'avvertenza posta a pie del primo di que' trattenimenti,
dove un uomo, estranio a influenze di governo e a turbolenze di.
fazioni avrebbe cercato coltivare il buon senso del popolo, insinuarvi
quelle idee di ordine e di saviezza die valgono sotto qualsiasi re-
gime, ma che più sono importanti nella presente libertà. Ragio-
natore più savio di questo Carlambrogio non si dà ; e il popolo
milanese che ne udì or sono ben più di vent'anni i consigli, ne
avrà forse fatto il suo prò. Intanto s'avverta come il Cantù sappia
conformarsi ai tempi ne' quali ei vive; non già ch'ei muti bandiera
0 carattere, ma perchè adatta con disinvoltura il suo linguaggio
(1) V Italia nei suoi confini e l'Austria nei suoi diritti:
— 96 —
alla varia intelligenza e alle varie tendenze del popolo per cui
scrive. Quando l'Italia era in fasce, egli badava a tirar su il buon
fanciullo, il giovinetto, il galantuomo ; quando il galantuomo s'oc-
cupò di politica, gli pose vicino Carlambrogio da Monteveccliia ;
guida tranquilla, forse troppo, ed alla mano ; quando ei s'avvide
come la questione industriale ed operaia stava per divenire più im-
portante od almeno più urgente della letteraria, dimenticò per un
momento i suoi dotti arcliivii e si fece a pubblicare il libro del
Buon Senso e del Buon Cuore e il Portafoglio dell'operaio, ove
egli versa tutto un tesoro di consigli affettuosi e sapienti. È
vero che le Lettere giovanili del Cantù non vinsero nel 1835 il
concorso al premio liorentino che fu invece decretato al Gian-
netto del Parravicini ; è vero, che, in un recente concorso napo-
letano, al Buon senso e buon cuoì^e fa negato il premio e accor-
dato solo un po' di incoraggiamento all'autore novellino perchè
' prosegua e faccia meglio ; è vero che il Portafoglio dell'operaio
non fu finqiiì proposto per le scuole del popolo da alcun ministro
né approvato, eh' io sappia, da alcun Consiglio provinciale scola-
stico. Ma ciò non toglie che a chi mi domandasse: quali sono i me-
glio condotti libri di educazione popolare pubblicati flnqui in Italia, io
non rispondessi sempre : per ora, le tre opere del Cantù: se alcuno
fra noi n'ha scritti o letti de'migliori, e più adatti, li faccia cono-
scere; per ora lo scrittore popolare meglio ispirato, più prossimo
al popolo, più ricco d'affetti generosi e di utili consigli a me pare
ancor sempre il signor Cantù. Io non sono, intendiamoci, punto
d'accordo con lui nel modo con cui egli presenta al nostro popolo
le novità politiche d'Italia ; deploro anzi vivamente ch'egli lo av-
vezzi a considerare come uno de' suoi malanni la rivoluzione (1),
(1) A pag. 15 del Portafoglio delV Operaio , dopo aver parlato della
floridezza di certe provincie lombarde, soggiunge « ora ahimè cessata
affatto per le sventure dell'agricoltura e dell'Italia » perchè sventure ?
Che i preti possano scrivere così, sta bene, ma che il Cantù, il quale
scrive tutto un libro da liberale e da galantuomo sei guasti poi da se
con una sola parola di dispetto, deploro vivamente. Malanni sì, furono
certe guerre, certi tumulti cittadini, il brigantaggio, le frequenti muta-
zioni di ministeri, e a questi soli mali poteva accennare il Cantù ; ma col
chiamarli tutti genericamente sventure nazionali svia il giudicio popo-
lare, e lo porta a conclusioni fallaci. A pag. 190 egli si duole che il
governo italiano colle scuole turbi la quiete eie coscienze: rimpiange i
tempi « in cui era terra dei morti quell'Italia, che nel gergo dei
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che ci ha finalmente messo fuori di casa lo straniero, mentre
se un rammarico si può avere è questo soltanto che la rivolu-
zione il popolo non 1' abbia fatta lui e da sé solo per darsi un
governo raen burocratico e più democratico, raen costituzionale
e più cittadino, meno solenne e più naturale. Nessuno non può
associarsi al Cantù nel lamentare i balzelli che opprimono e im-
pediscono al presente tanta parte della vita italiana; ma, se si può
desiderare sul serio un governo mighore, ed è obbligo e diritto
d'ogni buon cittadino il contribuire a prepararlo, nessun amico del
popolo può fargli credere che lo stato presente sia la conseguenza
logica e necessaria della indipendenza e libertà acquistata al paese.
Si commisero errori molti e da molti ; alcuni governanti fecero
anzi peggio che sbagliare; pensarono poi tutti alla corona del-
l'edificio prima che alla base ; presunsero creare dal nulla e crea-
rono in modo fittizio cose fittizie e senza il consenso della parte
vitale della nostra società ; la costituzione italiana nacque pertanto
viziosa ; il governo non rende l'uno per cento di quello che costa
al cittadino; ma, per fortuna, come questi mali si potevano im-
pedire da principio, se il popolo avesse preso maggior parte alla
rivoluzione politica che ci ha chiamati ad un nuovo risorgi-
mento nazionale, cosi si possono ancora, volendo , rimediare.
Il Cantù ebbe torto di lasciare in un libro destinato al po-
polo travedere talora la sua disperazione; egli ha troppo inge-
gno per non comprendere, che può piti una parola a sconfor-
tare che dieci a consolare. Il suo libro è buono nel suo insie-
me, onesto, liberale; ma vi sono alcune parole, poche per fortuna,
0 sinistre od equivoche , le quali possono turbare il lettore
popolano, ed io prego vivamente il Cantù a volerle ricercare
diligentemente ne' suoi libri popolari, per cancellarle via egli stesso
con mano generosa dalle future edizioni. Egli ha terminato la
prefazione del suo Portafoglio, con le seguenti parole « Ed io,
da non invidiabili casi relegato allo scrittoio, invece di utilizzarmi
nel fondaco o al telaio fra il popolo, da cui nacqui e con cui ho
sentito, amato, odiato, sperato, non ho mai disertata la causa di
nuovi apostoli inneggiasi come risorta. » E dire che il Cantù k\ egli stesso
uno de' precursori di questo risorgimento, ch'egli, burbero benefico, sembra
ora deridere ! — Del resto, ci piace avvertire come s'egli talora sembra
vedere in Italia più male che bone, finisce pur conchiudendo che, se il
bene non c'è, ci potrà essere; il cuore trionfa sulle ragioni di quella
parte, alla quale sebbene voglia il male d'Italia, il Cantù teme dispiacere.
Ricordi Biografici 7
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questo, per quanto me ne punissero i forti e i sapienti, per quanto
sangue vivo dovessi sudare trascinando la croce su per questo
Calvario. Ed ora dal vertice con indomabile affetto rivolgo ancora
la parola a questo popolo, esposto a sistematica adulazione, a
sciagurate ispirazioni di ira, di vilipendio, di denigrazione, al
ripudio d'ogni autorità, alla sfiducia in sé stesso e negli altri, a
divorare col frutto della scienza anche l'albero della vita. E desi-
dero seguitare, anche dopo morto, a consolarlo, e predicargli la
necessità di sapere e di produrre, ad insinuargli coraggio e ras-
segnazione,lavoro e dignità >> nobili parole, alle quali ogni onesto
lettore risponde con un largo respiro del cuore e con un viva.
Ripigliamo intanto la vita dello scrittore. Terminata la campagna
lombarda del 1S48 in modo funesto, noi abbiamo già avvertito come il
Cantù fosse de'pochi a difendere, con suo rischio, e salvare dall'ira
lombarda il re Carlo Alberto ; il G agosto il Cantù lascia Milano
con numerosa comitiva di profughi lombardi: ma, giunto a No-
vara, i cittadini, per lo sfregio fatto in Milano a Carlo Alberto,
si voltano inospitalmente contro i rifugiati, onde il Cantù pre-
ferisce riparare da quelle discordie in Isvizzera. Nel luglio 1849,
l'Austria pubblica un'amnistia: il Cantù, che intanto aveva avuto
il dolore di perdere la sua sorella prediletta, torna egli pure
a casa; poco dopo la polizia lo arresta, come escluso dall'amni-
stia e continuante a cospirare. Trattavasi in quei di la pace
a Milano ; onde il Boncompagni e il Gallina sos[)endono le trat-
tative per questa violenza; il Cantù viene allora mandato ai con-
tini, e si reca a Ginevra. Il 12 agosto si pubblicano le amnistie ,
il Cantù domanda s'egli sia questa volta compreso fra gli amni-
stiati; gli si risponde in modo evasivo; pur egli si risolve a tornare;
il Commissario di Menaggio.. il 26 settembre 1840, scrive pertanto in
questa forma all'amministrazione comunale di Sala: « La interesso
a verificare e riferire se sia comparso in cod. comune il professore
Cesare Cantù, il quale, approllttando dell'amnistia stata accordata
dal proclama 12 p. p. agosto, è rientrato in questo stato, per la
via di Chiavenna ed ha esternata l'intenzione di villeggiare per
qualche tempo in queste parti Nel caso che il suddetto professore
si trovasse od avesse in seguito a comparire in comune. Ella
vorrà attivare sul medesimo una virtuale sorveglianza, notificando
sollecitamente ogni importante emergenza. » Tutta questa è nuda
storia, la quale ci prova, per lo meno, in modo evidente come
Cesare Cantù (ino ai 43 anni di sua vita sia stato particolarmente
inviso all'Austria. Seguitiamo. Fra il 1840 e il 1850, il Cantù vive a
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Milano e pubblica il Panni, V Ezzelino, la Letieratura ilaliana, e la
SLoria degli ilaliani. Ciascuna di queste opere, per i sentimenti antl-
tedeschi e per l'odio che vi si professa al governo militare, poteva es-
sere cagione al Cantù di gravi molestie. Nessuno, tuttavia, gli sa
tener conto di quel coraggio, ad eccezione del generoso tri-
buno piemontese, l' oratore Angelo Brofferio , in una lettera
del quale, del 18 febbraio 1855 al Cantù, leggo queste memo-
rabili parole : Mentre qui facciamo sucide gazzette, voi conti-
nuate a far buoni libri. Parole analoghe in onore del Cantìi il
Brofferio aveva proferito nel parlamento subalpino e ripeteva
nel suo giornale, per far intendere come ci volesse più coraggio
in Cantù per iscrivere come egli scriveva sotto il cannone au-
striaco, che a qualche fuoruscito nel bandire la sua crociata
contro l'Austria, dal sicuro rifugio dei portici torinesi. Ma quello
che dovea tornare a sola gloria del Cantù gli si appose, invece,
a colpa, per la malevolenza di chi studiavasi di perderlo, e per la
poca prudenza che, al solito, ei pose nella propria timida difesa. La
commissione milanese di censura, con relazione del 10 luglio 1854,
firmata Salvi, proibiva la coraggiosa opera r'el Cantù su Ezzelino
da Romano. Il 29 luglio 1855, il luogotenente di Lombardia confer-
mando altro suo decreto del 22 giugno, in una informazione al Diret-
tore di polizia in Milano, conchiudeva: « sarà da ordinarsi al sig.
Cesare Cantù di astenersi dal diffondere nell'interno della Monar-
chia i 20 esemplari rimastigli dell'opera Ezzelino da Romano, a
sensi delle norme vigenti, mentre nulla si oppone alla distribu-
zione di essi fra i suoi amici e corrispondenti all' estero ».
Il 16 dicembre del 1856, il conte Pullè, capo della commissine
milanese di censura, richiama l'attenzione del governo austriaco
sulla Storia degli Italiani, con le seguenti parole : « Le dispense
58 e 59 ora innalzate (sic) sembrerebbero confermare il sospetto
che il Cantù miri precipuamente col tessuto di questa storia a
mettere in discredito ed in disprezzo i sovrani di Casa d'Austria
e con essi anche quelli di Toscana e di Napoli, in favore della
causa dei popoli oppressi della penisola »; ed aggiunge: « La com-
missione fa riflettere che la storia di Cantù conta nel solo Lom-
bardo-Veneto qualche migliaio di abbonati, ed ha quindi un este-
sissima diffusione » Finquì dunque lo storico di Brivio non ha
ancora tradito il suo paese, per amoreggiare con l'Austria. Ma il
maggiore scandalo nella polizia austriaca lo destano i fascicoli G9
e 70 di quella storia. Il revisore abate Restani fa un lungo ela-
borato per dimostrare tutte le proposizioni false, sovversive, ini-
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que, che que' fascicoli contengono; gli appunti del Restani ebbi
sott'occhi ; sono invidi, maligni , minuziosi, sofistici ; lo stesso
revisore, proponendo che fosse proibita l'opera del Cantù La let-
teratura italiana per via d'esempli, fra gli altri carichi al compila-
tore, in pur quello d'aver osato introdurre fra gli esempii di sa-
tire, un brano ove si raffigura una ballerina accolta come regina
alle mense regali. Le pratiche poliziesche pel divieto di quelle due
opere durano quasi due anni, dal 1857 al 1859. Il Cantù, intanto,
interpone ricorso, perchè il divieto alla pubblicazione sia tolto,
promette correggere in un'appendice que' punti della sua storia che
gli siano dimostrati erronei, e consente, con troppa sommissione, a
tener conto di que' nuovi documenti giustificativi che le autorità
competenti stimino potergli comunicare. Lagnasi egli delle pretese
eccessive della censura milanese; ricorda che la napoletana gli è
stata più benigna; nega l'ostile intendimento de' proprii scritti ;
per suo intercessore finalmente invoca, nel 1857, l'arciduca Massi-
miliano, il quale il 26 maggio di quell'anno, gli fa pertanto scri-
vere: « Sua altezza imperiale s'interessa tanto più a tale ver-
tenza, in quanto non dubita punto che Ella, signor Cavaliere,
nel progresso dell'opera stessa propugnerà i gran principii della
nostra Santa Religione e dell' ordine sociale con quel distinto
ingegno da sua Altezza imperiale apprezzato come una delle
nostre glorie patrie. » Ognuno sente qui l'arte incipiente d' un
sovrano seduttore. L'Arciduca Massimiliano giunto in Milano,
fa cercare del Cantù allora segretario dell' Istituto Lombardo;
l'Austria ha mandato il suo arciduchino ad esplorare il terreno,
ai più irrequieti promettendo riforme ; una delle riforme dovrebbe
essere il rendere indipendente dall' autorità viennese l' istruzione
pubblica per sottoporla all'autorità dell' Istituto lombardo ; il Cantù,
con una facilità eccessiva , si lascia pigliare a queir amo ; gli piace
il disegno e viene incaricato di stenderlo; per darne lettura all' ar-
ciduca deve recarsi a Monza ove il granduca villeggia. La polizia
perseguita i libri del Cantù; il principe ne onora l'autore, che di
quegli onori s'invanisce; quindi dispetti polizieschi; quindi, ven-
dette d'occulti nemici; quindi s'inventa e s'accredita tutto un piano
di cospirazione politica, combinato fra l'Arciduca e il Cantù, per
dare, col pretesto di emanciparlo dall'Austria, il Lombardo Veneto
nella piena balia di Massimiliano. (1) Que' rumori non dispiacciono
(1) Pretesti, ina nulla più clie pretesti, ad accreditar quelle voci non
mancavano; il seguente rapporto che la polizia austriaca a Milano fa-
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punto a Massimiliano che se ne serve come di un hallon d'essai, per
tentare insieme la volontà di Milano e quella di Vienna. Ma Milano
ride smania, protesta, svillaneggia il Cantù, né colpevole né inno,
cente, troppo credulo e vano soltanto ; Vienna s'acciglia. I giornali
lafariniani e cavouriani piemontesi pigliano sul serio quelle voci
e le riproducono, rincarando le ingiurie contro il Cantù, nel fatto
federalista, in apparenza ligio ad un arciduca austriaco. Il nostro
storico si trova allora esposto alle ire di tutti. Scrive replicata-
mente all'arciduca Massimiliano, perchè faccia egli stesso smen-
tir quelle voci ; l'Arciduca, il 30 e il 31 gennaio del 1859 gli
fa rispondere dal suo segretario, barone de Pont, che non badi a
ceva il 14 agosto 1858 ci dà la chiave dell'origine di quelle accuse; io
lo pubblico qui per intiero; ogni lettore può rilevarne al più che le pa-
role dal Cantu pronunciate in quel giorno furono quelle di un liberale
che la pensava con la propria testa e non con quella del Lafarina e del
Cavour, quelle d'uno storico troppo guelfo, quelle d'un politico di mode-
rati consigli che si fidava forse troppo d'un principe, ma non mai quelle
di un cattivo italiano, d'un manutengolo politico, d'un disertore. Il Cantù
non era unitario; ecco il suo maggior delitto; ma unitarii non eran nep-
pure Ferrari a Cattaneo e nessuno pensò mai ad ascriver loro a delitto
un tal sentimento. Ecco ora il rapporto poliziesco nella sua autenticità :
« 14 Agosto 1858.
Ieri sera vi era alla Società d'incoraggiamento il nominato Cantù a
leggere i fogli. Vi erano pure il prof. Butti prete, il dottor Viglezzi
dell'ospedale che leggeva la storia del Cantù, il sig. Peluso, il sig. Su-
sani padre.
Cominciarono a discorrere di tante cose, e dopo altri discorsi di po-
litica e di letteratura il sig. Peluso disse che il sig. Manzoni poeta
aveva fatto belle poesie e belle prose, ma finalmente non aveva fatto
niente di patriotico. Il prof Butti disse che nel coro del Carmagnola
vi era più patriottismo che in tutto il Leopardi. Qui dissero chi un
verso, chi un altro, per provare e per negare. Allora il sig. Cantù, che
era stato in silenzio come se leggesse, diede su e disse se non si ricor-
davano il suo inno per i piemontesi nel 1821. Pare che nessuno lo cono-
scessero (sic), o che solo si ricordasse di averlo letto. Allora egli si pose
a recitarlo quasi tutto, o almeno quello di cui si ricordava a memoria.
E gridava come un disperato quando diceva:
0 stranieri strappate le tende
Da una terra che patria non v'è;
Non sentite che tutta vacilla
Sotto i passi dei barbari piò '{
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quelle fandonie e calunnie, ma il Cantù insiste ancora, e più viva-
mente; allora il 3 febbraio il futuro proconsolo di Napoleone IH
al Messico gli fa scrivere un'ultima lettera, della quale ebbi fra
le mani l'originale, e che dice precisamente così: « Pregiatissimo
signor cavaliere, L' A. I. R. è rincrescente di non potere nulla
per la soddisfazione eh' Ella domanda sulle dicerie sparse. La
polizia sa nulla sull'autore della calunnia. Il sig. Poi non avrebbe
azzardato tal passo per tentar gli animi. Ogni ulterior passo di V. S.
in proposito spiacerebbe a S. A. I. R. Abbi (sic) pazienza. Passate
queste velleità di guerra, tornerà la ragionevolezza ed il suo paese
riconoscerà la verità. Da molestie per parte del Ministero si tenga
Stavano tutti molto attenti e molto lodarono quei versi, e dopo ne
presero occasione di discorrere di politica. Il sig. Peluso diceva che era-
no belle parole, ma che era impossibile di unire gli italiani come le
acque che si uniscono nel Po, che erano troppo diversi, che si odia-
vano, che si era veduto nell'ultima rivoluzione, dove i milanesi dete-
stavano cordialmente i piemontesi.
Il Cantù, dopo altre cose diceva che allora si erano odiati in grazia
della fusione che aveva l'aria di un intrigo, e che pareva di volere
sforzare le volontà. E che non era bisogno di fusione, ma bastava che
i varii stati d'Italia si unissero fra loro in una federazione, dove cia-
scuno conservasse il suo governo, ma con diritto di modificarlo ; solo
avessero uno esercito federale per reprimere, se mai qualche stato di-
venisse pericoloso agli altri.
Il Susani domandò: Sì ! e se ci assalirebbero i nemici?
E il Cantù rispondeva: Bisognerebbe che le potenze fossero d'ac-
cordo, e lo diverrebbero facilmente giacché toglierebbero via un peri-
colo continuo di un incendio. Allora dichiarerebbero l'Italia neutrale come
la Svizzera e il Belgio che non potrebbe nò far guerra, nò esserlo fitta.
E il dott. Viglezzi domandò: Cosa ne faremo dei Tedeschi?
E il Cantù rispondeva: Lei sa che il Gioberti vi provvede col dire,
di essi non parliamo come se non ci fossero.
Risero tutti, e il Cantù continuava: ma sul serio io credo che l'Au-
stria si adatterebbe senza troppa fatica a dar al Lombardo Veneto una
certa qual indipendenza.
Come quella del principato di Neuchatel ? disse il sig....
No : come quella della Lombardia austriaca prima di Giuseppe lì",
rispose il Cantù; si sarebbe dipendenti dall'impero perchò gli si pa-
gherebbe un grosso tributo. Affari esteri non vi sarebbero perchò
vi è la neutralità. Per l'interno si regolerebbero secondo i patti della
federazione. A cano del paese potrebbe benissimo mettere un suo arci-
— 103 —
guarentito. L'opinione dei paesi esteri non può che essere favorevole
a chi tanto onora l'Italia. Aggradisca, sig. Cavaliere, i sensi della più
distinta mia considerazione — B."" de Pont. » Sembra egli abba-
stanza eloquente questo scritto? Qual bisogno ha più il Cantù di
difendersi, quando egli possiede un documento così palese della
perlidia poliziesca e della viltà di Massimiliano? L' Austria avea
finalmente vinta la sua partita col Cantù; non potendo sot-
tomettere il ribelle, lo avea disonorato. E il peso di quella calun-
nia aggrava anche ora iniquamente il capo canuto di Cesare
Cantù. Egli ebbe un bel protestare allora ; Brofferio poteva
bene scrivergli il 7 febbraio da Torino che la dichiarazione di lui
avea fatto ottimo effetto. Al Cantù non si volle prestar fede, e da
duca. Questo potrebbe farsi "più facilmente adesso che c'è l'atcidaca
Massimiliano che ce n'avrebbe molta voglia, e che è amato da suo Ira-
tello. Benché austriaco prenderebbe amore al paese; per puntìglio non
vorrebbe che fosse inferiore ajrli altri dltalia. Cosi si avrebbe l'indi-
pendenza in tutti gli altri Slati e una semi-indipendenza per noi altri
che non abb amo 100,000 uomini per cacciar costoro.
Il Viglezzi rifletteva che così l'Italia non avrebbe mai nessuna impor-
tanza sulla bilancia europea.
Non otterrebbe piti il primato che le compete secondo il Gioberti,
di?se il prof. Butti.
Cosi si seguitò a discutere: anche altri vi presero parto, e non si
venne a nessuna conclusione. »
Qui finisce il rapporto, e finisco pur io, soggiungendo soltanto una
breve osservazione. A Torino, nel 1859, si sognava e s'ambiva un solo
regno dell'Alta Italia sotto la casa di Savoia; le cose andarono meglio
e s'ebbe anche il resto, e fu gradito volentieri. Cantù, rimasto fedele
all'idea federale, alla lega italiana del 1848, non previde allora abba-
stanza; tuttavia quanti liberali d'adesso si atteggierebbero a martiri
della libertà italiana se avessero nel 1858 osato parlare come il Cantù!
Ma egli seppe mal destreggiarsi nei torbidi paduli della politica olio
chiamano militante, e vi si lasciò, da chi gli volea male, colare a
fondo; ò egli giusto ch'egli rimanga eternamente vittima d'una sola
iniqua calunnia? Io taccio poi qui un riscontro che parmi degno d'esser
considerato. Nelle elezioni politiche del 1805, Francesco Dall'Ongaro, gen-
tile poeta e caldo patriota, scriveva un libello umoristico contro Cesare
Cantù; quel libello non calunniava, ma prestava fido orecchio alla
calunnia. Pochi anni dopo dovea Io stesso Dall'Ongaro cader vittima
dell'umorismo di gazzette petulanti e pettegole. Questo esempio parmi
un avviso salutare ai letterati anche famosi di reciproca tolleranza.
HoiVe miìv , cras tìht.
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quel giorno egli ha il dolore di vedersi segnalato alla pro-
pria patria come un disertore. Egli che aveva pensato, amato,
temuto, patito un'intiera vita per l'Italia, egli doveva, per la se-
conda volta in sua vita, ne'giorni delle supreme allegrezze citta-
dine, venir cacciato dal giocondo festino degli italiani ritornati a
sé stessi. Alcune parole troppo dispettose, alcune lettere scritte per
difendere i suoi proprii lavori dalle persecuzioni poliziesche , alcune
visite imprudenti fatte al vanissimo principe promettitore di li-
bertà bugiarde, parvero ragione sufficiente a troppi degli italiani
per sciogliersi a un tratto da qualsiasi obbligo di simpatia, di
rispetto, di gratitudine verso il signor Cantù. Si dimentica che
egli regalò ad una intiera generazione la quale non sapeva allora
ove trovare libri che fossero scritti per lei, un'ampia, ricca e
animata biblioteca storica; si dimentica d'aver pianto e palpitato
sopra un romanzo di lui, che unisce la immaginazione e il vigore
drammatico d'un Victor Hugo con la morale d'uno scrittore man-
zoniano; non si vuol più ricordare d'avere imparato in parte da
lui i doveri del galantuomo italiano ; si mostra d' ignorare che
egli ha patito il carcere, la destituzione, l'esiglio per la causa
della libertà; e gli si domanda come ad uno straniero: che vieni
a fare tu, fra noi, cittadini liberi e indipendenti? Lo si proscrive;
poi si fanno anche le meraviglie di trovarlo lontano da noi; lo si
affligge ogni giorno con insulti volgari e poi si muove femmineo
lamento se la parola frizzante e nervosa di lui viene a ferirci.
Diamo pace, e pace avremo; anzi più che dar pace, domandiamo
perdono ad un uomo , il quale ci ha insomma fatto bene , ed al
quale non abbiamo, dal giorno in cui ci ritrovammo padroni di
noi stessi, saputo rendere altro che male. Ed io mi rivolgo ai
giovani particolarmente, i quali non hanno ancora ne' sterili
rancori della politica , covata la nera ingratitudine ; io domando
al loro cuore ben fatto , e alla loro intelligenza non adombrata
dai tetri pregiudizii di una pertìda e mutabile ragion di Stato:
Sommando tutta la vita politica del Cantù, vi sembra egli d'aver
sotto gli occhi l'esempio d'un buon italiano"? (1) Sommando la vita
(1) Aggiungo ancora un fatterello significante. Quando gli unitarii ita-
liani cedevano Nizza alla Francia, il federalista Cantù dalla Camera dei
deputati scriveva al Cavour queste precise parole: « Sig. Ministro, Vo-
tando, io domanderò in che lingua si voterà a Nizza. Se il sì suona,
che cosa mi risponderà Lei? C. Cantù » II Cavour scriveva, in forma di
responso sibillino, sotto le parole prettamente italiane del Cantù nient'al-
tro che questo: « Est quoque silentio tuta merces. Cavour. »
— 105 —
letteraria del Cantù, vi sembra egli che n'esca la figura di un
operoso, limpido, caldo, versatile, ingegnoso, benefico scrittore?
Io son certo di udirvi unanimi rispondere che, sebbene il suo rab-
bioso guelfismo che gì' impedisce di ragionar filosoficamente tutta
la storia non vi garbi (e non garba neppure a me), vi sembra cosi
appunto. Or bene, riparate voi l'ingiuria fatta al Cantù dalla ge-
nerazione che vi ha preceduti; difendetelo voi per quanto egli fu
ingiustamente perseguitato : ricordatelo voi per quanto egli fu
ingiustamente dimenticato ; e lasciate dire chi speri, con un sol
motto, distruggere il virtuoso vostro proponimento; nessuno, cre-
detelo, de'lievi derisori del Cantù sarebbe stato capace di sacrificarsi
per voi com'egli ha saputo fare, e molti poi di quelli che lo con-
dannano non conoscono forse la decima parte di quello ch'egli ha
scritto. (1)
(1) In queste pagine stesse, parecchie opere del Cantù non furono
ancora ricordate: tali la Scorsa d'un lombardo negli Archimi dì Yene-
zia; gli Eretici d'Italia (una storia in tre volumi in ottavo, delle sette
e riforme religiose in Italia); due Memorie premiate, l'una a Napoli
Sull'origine della lingua italiana, l'altra a Modena sulla Libertà d'in-
segnamento, numerosi opuscoli, una Storia della letteratura latina, per
le scuole, im' Antologia militare, in tre parti, premiata dal Ministero
della guerra, e altri scritti minori. In tutti questi scritti, l'ingegno dello
scrittore e l'animo del patriota si rivela ; in alcuni il pensatore non è
sempre all'altezza dello scrittore, non essendo sempre intieramente
libero il suo pensii^ro. Alla romana congregazione dell'Indice le reticenze
e la riverenza dello storico Cantù per i dogmi chiesastici piacquero ; e
tanta sommessione fece pur credere che i Gesuiti dirigessero la mente
del Cantù mentre egli scriveva la Storia Universale ; egli portò, in vero,
talora il suo guelfismo fino al bigottismo, che rende partigiano lo scrit-
tore ; si può esser guelfi per principio ; non si può esser bigotti che
per ispirilo partigiano o per cecità di mente. Non potendosi sospettare
il Cantù d'ignoranza rimane solo a deplorarsi ch'egli non abbia altri-
menti concepita possibile la democrazia che per mezzo d'una ristretta
teocrazia.
V.
NICCOLÒ TOMMASEO
Il giovine lettore avrà forse giù avvertito come una delle qua-
liià più costanti e più caratteristiche degli uomini più originali,
sia quella di far parte da sé stessi. Ingegni mediocri possono
spesso conseguir fama, indovinando soltanto le vie della fortuna.
Non avendo essi nulla di proprio che rilevi molto conservare, as-
sumono facilmente una veste popolare, ossia il costume, l'ingegno,
il carattere che sa adattarsi e piacere ai più; sono affabili ed
alla mano con tutti; hanno per tutti una parola gentile; consen-
tono e non dissentono; si guardano dall' urtare come dall'essere
urtati; la folla li respinge, ed essi si ritraggono frettolosi; la folla
li trascina, ed essi se ne lasciano portar via come in trionfo;
facili sempre a rimorchiarsi, rassegnati, in ogni caso, a trovar
sempre che ogni cosa va pel suo meglio nel migliore de'mondi
possibili ; si direbbero ingenui, se più spesso non fossero furbi, i
quali riescono ad anticiparsi in questa vita una certa forma di
beatitudine. E, per simil gente, come l'eccletismo è un commodino
letterario, così l'elasticissimo governo costituzionale appare il
più commodo fra tutti i governi, perchè è pur quello che meno
esclude, ch'ha più larghe braccia, eh' è più capace di espedienti,
che tollera e simula e dissimula e contiene e nasconde di più;
governo d'oro, se per farsi d'oro, non ci avesse inondati di carta.
Niccolò Tommaseo, in mezzo all' Italia costituzionale, serba an-
cora fede al concetto repubblicano; in mezzo allTtalia svogliata ed
incredula, serba ancora fede ostinatamente cattolica; in mezzo al-
l'annacquata, smorta, uniforme letteratura delle gazzette, serbasi
ancora scrittore accurato, ed indipendente, che non somiglia a nes-
- 107 —
suno, e a cui nessuno forse può somigliare. Per queste cagioni
adunque e per altre che il lettore rileverà da sé, il Tommaseo
vive ora solo, ed impopolare, per quanto scriva egli pure libri
destinati al popolo.
Nacque Niccolò Tommaseo a Sebenico in Dalmazia, di Gerolamo
Tommaseo e di Caterina Chessevich, nell' anno 1803. (*) De' suoi
primi studii egli stesso c'informa nel suo volume di Memorie poeti-
che (1) « Sui nov'anni entrai a studiare quella che chiamano ret-
torica in un seminario, aperto anche a'secolari, dove insegnava un
Vicentino, il cui vivace ingegno riscosse l'ingegno mio, m'ispirò
l'amor dell'Italia. Superati alla fine i dirupi delle Muse, vo'dire la
prosodia, più del verso italiano ini piacque il latino, forse perchè
Virgilio parevami maggior cosa dell'Ariosto e del Tasso, e del-
l'Omero, del Monti e di altri minori. Di Dante, tranne l'eterno
convito, il maestro ci lasciava digiuni; e fin del largo fiume ario-
stesco ci dava a centelli. Di buona prosa italiana quasi niente;
Cicerone sempre, e sempre le orazioni. » Egli ricorda pure un
suo verso scolastico d'allora, nel quale, con potenza già scultoria,
rappresentasi il carattere d'Attilio Regolo:
Oscula despiciens natorum; et mente sua stat.
Il Tommaseo dura tre anni in quel seminario fra esercizii di
poesia e di composizione latina, né mancano i ludi scenici ne'quali
il giovinetto dalmata calzando, come attore, il coturno, ha una
volta il piacere di far piangere il Rettore del seminario, recitando
V Eustachio del Palagi. Que'tre anni sono tuttavia a lui già « solitarii
nella comune convivenza, amari per affetti compressi, per anghe-
rie patite, per invidiuccie di colleghi, per sonni brevi, per tristo
cibo, per dolori corporei piccoli ma pungenti » ed invece di gemere
un'elegia patetica, egli medita allora un dramma che rappresenti
in una forma vivente i mali da lui patiti; ma al principio della
terza scena s'arresta. Da questi primi appunti panni già possibile
il presentire lo stile a colpettini scultorii che dovrà poi dare ca-
rattere a tutti gli scritti del Tommaseo, nella mente del quale le
idee sorgono per lo più sotto la forma drammatica dell'antitesi.
(*) Veggasi , in proposito la lettera di Niccolò Tommaseo che trovasi
al fine di questo Ricordo.
\ì) Venezia, cui tip; del Gondoliere, 1838.
— 108 ~
A dodici anni egli scrive, contro Napoleone caduto, sestine e
sonetti che vengono appesi alle botteghe parate a festa e che gli
valgono il sonetto di un valentuomo, tutto inteso a glorificarlo.
Dai dodici ai quattordici anni, egli studia filosofia, ma con disgu-
sto; onde i/nprovvisa contro di essa de'quinarii col ritornello:
Il ciel ti fulmini.
Filosofia!
E, per passatempo, traduce Virgilio in dialetto veneziano.
Altri due fatterelli relativi a quegli anni importano qui essere
riferiti, l'uno perchè ci conferma come l'ingegno del Tommaseo fosse
più vago di forza che d'eleganza, l'altro perchè ci mostra come il
giovine dalmata fosse naturalmente predisposto a divenire un cri-
tico. E egli stesso che parla: « Più di tutti i precetti rettorici
potè in me l'osservazione fatta da mio zio sopra due maniere di-
verse di stife di due persone che vivevano seco: Nell'uno, mi dis-
s'egli, è più eleganza: nell'altro più forza. E me ne rammento
come se l'avesse dett' ieri; e sulla forza pigiò più che sulla ele-
ganza: si che senza giudicare qual delle due fosse meglio, avviò
l'intendimento mio, incerto, per saldo cammino. — Un altro eser-
cizio, nocevole all'animo, è forse un po'giovato all'ingegno. Capi-
tatemi certe terzine d'uno che m'era stato collega malignuccio e
causa di molti tedii, presi, non per fiele, ma per mal umore, a
cercarvi col fuscellino ogni difettuzzo, e in ogni verso ne ritrovai,
quasi ad ogni parola. — Cotesto aguzzare gii occhi a notare il
falso 0 il disadorno o il superfluo negli scritti altrui mi giovò
quindi a vederlo ne'miei. » A quattordici anni egli incomincia a
sentire e a cantare la natura; un'impressione provata gli fa tro-
vare, a proposito d'una fonte scoperta nel podere d'un amico, fra
gli altri, i seguenti pittoreschi endecasillabi:
. Has Pomona suo benigna gressu
Solet floridulas beare terras.
Fructus ipse frequens Deam recentes
Vidi candidulo sinu gerentem
Huc e ceruleo volare Olympo.
In un viaggetto fatto a Zara, sente arringare avvocati e prende
amore all'avvocatura; reduce a Sebenico, egli si risolve ad un viag-
gio in Italia, col proposito palese di ritornar poi a Sebenico a difen-
— 1011 —
der cause, ma col segreto presentimento di rimanere invece in Italia
a farvi il letterato. « M'imbarcai, egli scrive, per l'Italia, giovanetto
ignaro degli usi del mondo, più timido che selvaggio, orgogliosa-
mente modesto, chiuso in me, e tutto armato di punte per respingere
l'affetto altrui e la bellezza delle cose di fuori; ma educato a quella
gentilezza d'animo inconsapevole di sé che ispirano gli esempi
continui della virtù e del pudore. »
A Padova conosce Sebastiano Melan che gli diviene ad un tempo
maestro ed amico, e « che voleva nello stile quelli che potentemente
chiamava verhorum jacula. » Conosce pure e visita spesso Giuseppe
Barbieri, cui dedica, sedicenne, alcuni esametri latini pieni di vigore
e d'eleganza. Fa molte, varie, disordinate, in parte buone ed utili, in
parte indigeste e sterili letture; incomincia a spogliare pazientemente
autori latini per trarne giunte al lessico del Porcellini ; e, in pari
tempo, va cercando nella storia ecclesiastica del Calmet, per appun-
tarseli, tutti i soggetti tragediabili « Ma il cuore, prosegue egli, pa-
tiva, rinchiuso in sé stesso; e però poco poteva aprirsi a nuova
luce l'ingegno. Orgogliosamente timido, ignaro e sprezzante di
modi che simulano gentilezza e benevolenza, desideravo esercitare
l'affetto, e non sapevo se non con pochi ; 'e tra il rispetto e lo
spregio, tra il sospetto e la tenerezza non vedevo alcun mezzo.
Fanciullo in molte cose, in poche uomo, in altre decrepito. Tale
ero, passato di poco il sedicesim'anno, quando conobbi Antonio
Rosmini che nel suo ventitreesimo anno studiava di teologia
l'anno quarto quand'io '1 secondo di legge. — Io non l'ho amato
in sul primo ; tropp'alta era in lui la mente, e la virtù troppo se-
vera; quel che potevo comprendere di quella, o di questa speri-
mentare, mi sbigottiva. Ed egli m'amava già, e m'apprezzava
oltre a quanto io valessi e sia valuto mai : che m'era vergogna.
Vergogna forse più superba che umile, ma profìcua. »
In quell'anno medesimo, il Tommaseo scrive, in uno stile lam-
biccato e contorto, un libriccino per provare che Cristo è l'otti-
mo degli amici. Nessun ideale ancora lo tenta; egli è sempre alla
rettorica. A 17 anni compone un'epistola latina per laurea d'amico,
ove son notevoli i seguenti esametri ne'quali l'autore fa già di
sé tale ritratto che può servirgli anche oggi, dopo più che mezzo
secolo :
Vestis si crassa, aut defluit aequo
Rusticius, nil discrucior. Puerilia curo
Interduni;, ignarus cum magnis vivere. Inanis
— 110 —
Leges nil moror offlcii, aut suffragia lauduni.
Panca, et parva loquor....
Mobilis, impar
Ipse mihi, raro laetus
Placidiis vultu, sed pronus ad iram,
Et minimis angor. Momento at protinus horae
Nubila diffugiunt animo intempesta sereno.
Continua l'autobiografia: « Nella dipartenza del buon Rosmini
che, finito il corso, ripatriava, sebbene io non l'amassi di tene-
rezza, piansi. Egli mi scrisse un'epistola in versi, piena di vero
affetto; la quale io sciagurato mi misi a rivedere con severità fe-
roce, e le censure mie gli mandai per risposta. Il demone della
critica sovente mi prese cosi pe'capelli, e fece talvolta parere tri-
stizia quel ch'era in me vanità scolaresca, o grettezza di studii,
od ostentazione di libertà, o sdegno e sospetto d'ogni non vera
grandezza ». Da un altro giovine, ch'era pure amico al Rosmini,
morto consunto, il Tommaseo confessa d'aver appreso il gusto degli
studii filologici, delle etimologie, dei paragoni di lingua con lingua.
Nell'inverno del 18:20, scrive « certe lettere sacre, inzeppandovi
al solito le eleganze, come si ficca il ramerino in un lacchezzo di
agnello »; e, a questo punto, egli soggiunge nelle sue Memorie, un
buon consiglio : « Io sarei dottissimo se sapessi il milionesimo
delle cose lette ; e molto debbo aver letto anco in questi primi
anni a giudicare dai molti volumi comprati con cieco desiderio di
amante. Ma dai libri io appresi piuttosto a coniare il metallo di
impronta mia che a far tesoro del già meglio coniato. E questo
è bene in parte ; in parte è gran danno ; bene là dove si tratta
delle opinioni ; là dove de'fatti, male. Della qual distinzione, fac-
cia senno chi n'è ancora in tempo. I fatti raccolga, le opinioni
non curi ; perchè in queste parlano gli uomini, in quelli Dio. »
A 18 anni, il Tommaseo frequenta il teatro, legge l'Alfieri, tenta
una tragedia, la vittima del qual tentativo sarebbe stata Semira-
mide, se l'autore non si fosse fermato al primo monologo ; traduce,
in gran parte, il Cid di Corneille in versi italiani : tenta epistole,
saflìche e satire; traduce Lucrezio; si erudisce nel greco con
Amedeo de'Mori; stende sulla carta alcuni suoi pensieri estetici,
che lasciano già sperare il futuro autore del Dizionario d'Esteti-
ca; legge Werther ed Ortis, e lascia Padova per tornare in fa-
— Ili —
miglia; in viaggio, un grave amore lo incoglie; nell'autunno
scrive molti sonetti amorosi, un misto, per quanto parmi, di
stentata nudità alfieriana, di petrarchevole sdolcinatura, di dispe-
razione foscoliana e di propria virilità sdegnosa.
Tornato in Italia, il Tommaseo compie il quart'anno di legge a
Venezia sotto maestro privato, ciò essendo concesso dagli istituti
dell'Ateneo padovano ; ma, in verità, egli non si occupa seriamente
d'altro che d'amori e di versi ; il che torna quanto a dire ch'egli
vive ozioso. Compone due tragedie; « i'avevo, scriv'egli, schele-
trita ancor più che l'AUìeri non facesse. Melpomene, e ridottala a
contentarsi di tre per.sonaggi. »
Passato l'inverno in ozio infingardo a Venezia, il Tommaseo,
ricondottosi nella primavera a Padova, vi intende un attore, la
cui voce potente per vibrazioni e inflessioni nuove, e tratte dal
petto profondo, gli diviene maestra di stile.
Nella state di queir anno, concorre , indottovi dal Rosmini, ad
una cattedra di grammatica nel ginnasio di Rovereto; fra i temi
proposti ve n'è uno sul modo con cui il maestro può inspirare la
religione ai fanciulli; il Tommaseo serba copia del componimento
scritto in quell'occasione; io qui ne reco un brano a prova che
lo scrittore italiano, malgrado un po'di ridondanza Bartoliana era
allora quasi che formato. « La disciplina non rimessa, non dura ..
viene infrenando gli eccessi, i difetti adempiendo ; e fa simile a
maestoso fiume la vita, che vien tra sponde ombrate e fiorenti;
limpido, uguale sonante e nel 1 Oceano che l'aspetta non finisce ma
posa. Gl'insegnamenti non escano ma trabocchino dal cuor pieno.
I rimbrotti rigurgitati non paiano da inceso animo, ma piovuti da
mente serena »; pel tema di latino, egli scrive una dissertazione
in lingua latina sui verbi impersonali, cosa veramente superiore
all'età dello scrittore e all'entità del concorso; tuttavia, come av-
viene, a Rovereto si vogliono contentare di meno; il Tommaseo
non vince il concorso.
Nel diciottesimo anno, il nostro dalmata scrive pure tre inni
latini in onore di Sant'Anastasio, il cui corpo è venerato a Zara,
una serie di elegantissimi esametri in lode della villetta di Giu-
seppe Barbieri a Torreglia, e pubblica un volumetto di versi la-
tini, con un saggio di traduzione latina del primo canto della
Divina Commedia.
Nel febbraio del 18:22, il Tommaseo s'addottora in Legge, e, per tesi
di laurea assume di provare : la legge naturale stendere la sua san-
zione alla vita avvenire. « Que^a esercitazioncella retturica, prose-
— 112 —
gue egli a scrivere di sé, mi meritò le congratulazioni d'un de'miei
professori, legista non più forte di me, ma arguto e facile inge-
gno, Luigi Mabil. E questa mi fu occasione, tornato in Italia,
di rivederlo e approfittar de'suoi colloquii e de'libri. Per lui co-
nobbi V Antologia di Firenze, e appresi ad amarla ; né forse (se
questo non era) più tardi mi Scirei proferto di scrivere in essa. »
Tornato a Sebenico, contrae amicizia con un suo giovine conter-
raneo, Antonio Marinovich (1), ricco d'ingegno, di cuore, e di li-
bri, liberalmente imprestati al Tommaseo, il quale, intanto, fra
lettura e lettura, traduce un po'd'Iliade dal greco, continua a far
versi latini, francesi, ed a pigliare appunti; uno di essi, riferentesi
all'età di vent'anni, parmi che meriti esser qui rilevato, poiché il
giovine ignoto scrittore ventenne, ed il critico, ora fatto venerando^,
vi si ritrovano in ima mirabile identità d'aspetto : « Falsamente si
crede che tuttociò che giova apparentemente sia diritto, e tutto
ciò che apparentemente spiace sia dovere. Anzi é diritto, preci-
samente parlando il dovere, E il diritto é dovere anch'esso: »
Non so, in vero, se oggi il Tommaseo, malgrado l'affievolita re-
miniscenza degli O/fìcii di Cicerone, direbbe altrimenti la stessa
inezia.
A vent'anni ancora, ei legge e compendia il saggio del Grassi sui
sinonimi. « Dai sinonimi del Grassi, egli perciò scrive, di lì a sette
anni dovevano nascere i miei; dalle idee raccolte nella lettura del
Cartesio i miei aforismi della scienza prima; dall'Emilio gli scritti
varii; dagli esercizii lirici e tragici, i componimenti drammatici
e lirici de'seguenti anni. » Fra i sinonimi, ossia il dramma in-
nocente delle parole, compone due atti di una nuova satanica
tragedia, intitolata Caino, poiché, com'egli dice, l'anima sua, in
quel tempo, caineggia; il che non gli toglie tuttavia di comporre
piamente un opuscolo contro il Lamennais, il quale negava alla
Chiesa molta parte di quella autorità ch'essa suole attribuirsi.
L'anima di lui é in continua tempesta, agitata fra l'amore e lo
sdegno; e lo scrittore pure si conforma a quello stato dell'animo.
« Troppo sovente, scriv'egli con molta verità di sé stesso, l'ispi-
razione fu in me soffocata dalle arguzie dell'ingegno, che, invi-
ziato dall'arte, si caccia importuno tra l'affetto e le cose. E dei
(Ij A lui è dedicata una novella intitolata: Due ^«c?', edita a Milano
nel 1831, che il Tommaseo diceva tradotta dairillirico ma che viene
attribuita a kii stesso.
— 113 —
gambetti che diede l'ingegno all'affetto mio, non vi saprei dire
il numero. » Uggioso a sé ed a'suoi, abbandona, allora, nuova-
mente, e definitivamente, la famiglia in pianto, per tornare in Ita-
lia, a tentarvi la fortuna delle lettere.
Dal marzo al giugno del 1823 egli vive a Padova, ove compo-
ne, per mandato commessogli, un volumetto di pregliiere euca-
rìstiche; accetta quindi per soli quindici giorni l'ospitalità del
Rosmini a Rovereto che glie 1' aveva offerta per sempre ; poi
torna a Padova; scrive dieci ditirambi e dieci cantici sul mare.
Al fine dell'estate divien giornalista; e qui nuovamente importa
udire le parole stesse della copiosa autobiografia: « Le povere cose
che segnate del nome mio per lo spazio circa d'un anno comparvero
nel giornale trevigiano, attestano l'inesperienza dell'ingegno e la
fiducia soverchia dell'animo. Quali cagioni mi movessero a cen-
surare acerbamente qualch'uomo degno di stima e qualch'altro
degno di pietà, non potrei dire senza entrare in particolari te-
diosi, i quali, lavando in parte me, macchierebbero altrui. Meglio
chiamarsi in colpa e confessare che a scrittore di ventun anno
non era lecito di levarsi giudice delle opere altrui. Ma quell'eser-
cizio conducendomi a molte e svariate letture che di mio arbitrio
non avrei mai durate, per varie serie d'idee mi venne agitando
l'ingegno ; unica forse utilità ch'io traessi dal decenne lavoro. Ma
i danni furon parecchi ; l'abito critico che spegne e intepidisce il
senso poetico; l'orgoglio esercitato sopra misere cose, e però
tanto più caparbio ; le animosità per meschina cagione eccitate,
le quali deste una volta non s'addormentano mai. »
Avendo inteso la Sposa di Messina del Carrer, ch'egli allora cono-
sce e frequenta, pare al Tommaseo di poter far meglio, e vi si prova;
ma la sua tragedia non viene rappresentata; tuttavia rincresce a lui
nel 1838 d'essersi voluto, per vanità, far emulo d'un giovane a cui
egli sentiva di dover soltanto gratitudine ; ma con cui, alcuni anni
dopo, ritornava, tuttavia, a guastarsi.
Medita allora un nuovo giornale sotto il titolo: Piccola Gal-
leria cV Amenità letterarie; poi, essendo per due mesi a Sebe-
nico, un altro giornale ancora il quale dovrebbe dividersi in
cinque parti, morale, evangelica, estetica, storica, politica, dome-
stica^ e pel quale prepara anzi un discorso molto rettorico intorno
alla moneta. « 11 buon Marinovich, seguita l'autore stesso, lettolo,
mi fece amorevolmente intendere ch'ell'era una cria; e sorridendo
mi disse una parola sapiente, che allora mi parve amara a man-
dar giù: — e' ci vorrebbe dietro agli scrittori (come dietro a
Ricordi Biografici 8
— 114 —
quell'oratore antico) un flauto che li aiutasse a intuonare giusto.
— Voi vedete che non poteva esser uomo volgare chi pensò questo
motto, il quale, rimastomi fisso in mente, mi fu sempre più dalla
esperienza illustrato. E conobbi come lo sbagliare l'intonazione,
0 l'azzeccarvi, è quel che distingue l'uomo sano e maturo, dal
ragazzo, dallo sciocco, e dal matto. »
Nel suo 21^* anno, il Tommaseo giunge a Milano, ed è presen-
tato allo Stella, che gli dà lavoro; scrive per esso gli Enimmi
storici: immagina una nuova Proposta contro quella del Monti,
compendia il Galateo del Gioia, discorrendo egli stesso in modo
inurbano sull'urbanità;, fino al 23° anno svariatissime sono le sue
letture e le impressioni, e i tentativi di scritti diversi; fra i quali
egli, ai romantici più avverso che amico, incomincia pure un ro-
manzo intitolato romanticissimamente: Una notte, e di cui il Tom-
maseo stesso ci reca alcuni frammenti di una pazza sensualità.
Quasi nel tempo stesso pubblica un libriccino : Il Perticari confu-
tato da Dante (1), che potei ritrovare e leggere. Sono 68 pagine di-
vise in due parti, la prima parte in sei sezioni, la seconda in quattro;
ogni sezione é suddivisa in brevi paragrafi ; alcuni de'quali di due
righe appena. Il giovine autore vi palesa già un'alta opinione di sé :
« Contro le opinioni del Perticari, dic'egli ai Lettori, ch'io stimo
come valentissimo scrittore e come ottimo letterato, non però come
pensatore profondo, né come giusto giudice delle toscane eleganze, io
non pubblico che brevi cenni; poiché la questione è dall'un lato
sì chiara, dall'altro si frivola che non meritava di più. Posso dire
con tutta certezza che chiunque avrà la sofferenza di leggermi ne
sarà pienamente convinto. » Il giovine, oscuro, Tommaseo confuta
l'illustre Perticari per via di brevi sentenze, recise, inamabili, impe-
riose, e le conchiude in quattro brevi ammonimenti, i quali trascrivo:
« I. Altro è desinenza altro è parola. Altro è parola, altro è frase.
Altro è frase, altro è stile. Altro è pronuncia, altro è lingua (cose
tutte che, molto probabilmente, il Perticari sapeva da sé). IL II
fiore dell'Italiano è il Toscano; senza lo studio de'toscani modelli
non può nel nostro secolo attingersi la migliore eleganza (propo-
sizione forse men felice ; l'eleganza ciascuno che abbia gusto può
darsela da sé; nel toscano si cerca non il fiore, ma il succo ve-
getativo del patrio linguaggio). IH. Gioverebbe all'Italiano, oltre
al proprio dialetto conoscer di pratica un de'più belli in fra'dia-
(1) Milano, coi tipi de'fratelli Sonzogno.
— 115 —
letti toscani; perchè non tutte le eleganze di questi dialetti fu-
rono consegnate alle carte; e perchè nella lingua parlata l'ele-
ganze son vive. IV. A parila d'ingegno e di studio (e bisognava
anco aggiungere di cuore) un Toscano sarà sempre più puro, più
dolce, più elegante scrittore eh' altro qualsiasi italiano. » — Un anno
dopo, il Tommaseo ripiglia la stessa questione in mi' Apjjeìidice
all'opuscolo: Il Perticari confutato da Dante o sia Risposta dì
N. Tommaseo ad un articolo della Biblioteca italiana (1).
Seguita il giovane letterato Dalmata a tradur Virgilio, immagina
cento Tavolette satirico-morali ad imitazione delle Esopiane, e ne
scrive una sola, spoglia autori italiani per far giunte alla Crusca,
scrive sentenze alla Rochefoucault e intanto patisce la miseria e la
ftime. Allora, sdegnando ricorrere per aiuto al padre, sempre a lui
liberale, si rivolge di nuovo all'ospitalità del Rosmini, prima sde-
gnata, e si profferisce collaboratore -àW Antologia. « In sul partire
per Rovereto, scrive egli stesso, ricevo una lettera della madre di
Alessandro Manzoni, la qual mi pregava di passare da lei ; e ciò per
prestarmi (la intenzion sua era altra che di prestito) tanto da fare
il viaggio. Accettai il danaro, e conservo 1^ lettera, come cara me-
moria; e m'è dolce rammentare d'avere destata, se non meritata, la
compassione affettuosa del primo poeta e del primo filosofo, viventi
d'Europa; di due cristiani. » Giunto, dopo un viaggio molto stra-
pazzato, a Rovereto, viene dal Rosmini accolto con grande amo-
revolezza. « Più in grado, egli dice, d'approfittare de'coUoquii del
Rosmini, m' indirizzai in quel soggiorno a nuovi studii. Pensai
un romanzo, non condotto ad esecuzione; ma il pensiero era notabile
per ciò solo che i concetti e i voleri e le sorti della seguente mia vita,
sono ivi chiaramente indicate, vaticinate. Poi mi diedi a leggere
San Tommaso con amore, e a far le sue scintille di molte idee mie ;
poi a scrivere preghiere appropriate allo stato del mio spirito;
[loi a notare le bellezze o bruttezze morali de' vecchi Latini,
giudicandole con le norme d'una morale più alta. » Compie pure
allora nuovi studii su Dante e traduce in parte le serate del De
Maistre.
Nel marzo del 1826, ritorna col Rosmini a Milano, e vi pro-
segue i suoi studii di lingua, a ciò aiutandosi pure col tradurre
dal greco in purgato italiano; tenta pure in que'giorni « un ro-
Milano, coi tipi doTratclli Sonzogno, 1826.
- 116 -
manzo critico sul fare dello spagnuolo Don Gerondio, dove tar-
tassare un pò la piccola letteratura del tempo. » (1)
« Lo scrivere neW Antologia di Firenze, prosegue egli, mi diede
occasione a studii varii di storia, di filosofia, di economia, di stati-
stica, di estetica; e nel rendere altrui conto delle idee altrui con-
veniva, bene o male, render ragione a me delle mie; conveniva, sopra
le cose, delle quali idee ed opinioni non avevo, acquistarle. L'ufl?ìcio
di critico dovrebbe spettare ad uomini che dalla sperienza propria
possan trarre norme all'educazione d'altrui; a me, la critica (e
non a me solo) servi ad educare me stesso; e giudicando, appresi
a metter giustizia. E forse educando me stesso, per via d'insegna-
mento mutuo, aiutai qualche poco all'educazione altrui. »
Nel 1827, il Tomimaseo impara a conoscere Michele Sartorio e Sa-
muele Biava, e gode spesso de'colloqui del Rosmini, e del Manzoni
« Col quale conversando, egli scrive, più cose imparai, e più (ch'è
il più difficile) disimparai che non avrei fatto a lungamente studiare
ne'libri, e a lungamente ragionare con altri letterati chiarissimi.
Tra la dolcezza degli accennati colloqui, e la lettura dei canti po-
polari della Grecia (che m'innamorarono) e di libri e di gazzette
francesi, e la traduzione di parecchi opuscoli rettorici di Dionigi,
e la compilazione de'sinonomi, mi corse serena la primavera e la
state. Chiamato a Firenze dal buono e di molti benemerito Vieus-
seux, scrissi prima di lasciare Milano, i pensieri sul sublime, dove
lo stile e le idee cominciano un poco a raffermarsi, comincia a tro-
var parole meno inadeguate l'atTetto. Le dipartenze mi furono
consolate di lacrime e mie, ed altrui ; né la cordialità lombarda
m'escirà mai dal pensiero. » Su quest'invito a recarsi in Firenze
ci informa pure il Tommaseo in altra sua operetta (2) : « Quando,
per un proposito ostinato, non senza prenunziare a me stesso in-
felicità, ebbi lasciata la professione delle leggi e i modesti ma si-
(1) Sulla caccia di Arriano tradotta dal Tommaseo, la Biblioteca ita-
liana del maggio 1827 scriveva: « Se questo sia veramente il carat-
tere dello stil d' Arriano, seguace perfetto di Senofonte, non oseremmo
affermarlo; ma ben vogliam dire che la versione del Tommaseo ne
piace, ed è tale da leggersi assai volentieri. Ma perchè il signor Tom-
maseo sì acerbo nemico d'ogni pedanteria, lia credute necessarie tante
note airumile trattatalo della Caccia? E in una di queste note un lungo
inutilissirao brano del Firenzuola, al sol flne di poter dire che la mi-
tologia è opportunissima dove si tratti di cani ! »
(2) Ricordi di G. P. Vieiisseux. Firenze. Tip. Cellini, "2. ediz.
- 117 —
curi agi della casa paterna per inutilmente seguire la via delle
lettere, senza avere né i pregi e neanche certi difetti che conci-
liano allo scrittore la grazia degli editori e del mondo, chiesi al
Vieusseux adito nel suo giornale^ io, giovane ignoto, e senza al-
trui intercessione, ebbi pronto l'assenso, e di lì a non molto chia-
mata a Firenze ; alla qual debbo il poco che nell'arte dello scri-
vere sono. »
A Firenze, egli fa studii sulla lingua parlata, stende ogni giorno
una facciata del Dizionario de' Sinonimi, traduce, annota dal greco ,
compone inni sacri e morali sul fare manzoniano, prepara saporiti
proemii alle strenne della stamperia Pezzati, medita una edizione
di classici italiani, un Nuovo giornale delle dame, un periodico
ila intitolarsi : Effemeridi romantiche composte da tre classicisti,
comincia una commedia intitolata Non arrossire della virtù, rac-
coglie sulle montagne pistoiese proverbii e canti popolari toscani,
fa la conoscenza di Gino Capponi il quale, ei dice, gli era stato nascosto
per cinque anni, da parecchi chiarissimi corpi opachi, legge e
scrive finalmente molto per V Antologia, ove si firma con le iniziali K.
X. Y, «I nuovi studii sulla lingua parlata, confessa egli nel 1838, la
tema di cadere nell'affettazione, e la cura d'una certa allentata armo-
nia, mi allontanavano più e più dalla precisone, alla qual pure la
natura mia e i primi studii dovevano ravviarmi. Della qual facon -
diosità rilassata son prova i due discorsi stampati negli scritti varii:
dell'educazione considerata come scienza, e Difetti e sventure del
letterato dovute all'educazione ch'egli ha patita, discorsi scritti da
me nel 1828. »
Un articolo d'anonimo, che sembra offensivo all'imperator Niccolò
di Russia ed altro del Tommaseo, ove il Regno Austriaco del Lom-
bardo Veneto, sotto il velo del nome di Acaia, viene ferito, avendo
il giornale reazionario di Modena La voce della libertà gridato alto
allo scandalo e alla ribellione, portano la soppressione òeW Antologia ;
ed il Tommaseo, che con generoso e raro coraggio, s'accusa del-
l'uno come dell'altro articolo, deve, nel 1834, lasciar la Toscana e
riparare in Francia.
A Parigi egli diviene amico di Alessandro Poerio, patisce più di
un amore, scrive molti versi e molte prose, scrive italiano e fran-
cese, continua a tradurre Virgilio, immagina e in parte compone
romanzi storici, su Castruccio Castracani, la contessa Matilde, e il
Duca d'Atene, pubblica un lavoro sull'educazione a Lugano (1834, ri-
stampato nel 183G) prepara una seconda edizione del Dizionario
de'Sinonimi (la prima edizione era uscita nel 1832), stampa e com-
— 118 —
menta le carte degli ambasciatori veneti relative alla storia di
Francia, pubblica a Venezia il suo primo commento della Divina
Commedia, concepisce l'idea di fondare a Parigi una biblioteca di
opere proibite in Italia, scrive cinque libri Dell'Italia, « libro più
d'amore che d'ira » com'ei lo defini più tardi, e raccoglie materiali
per altri lavori. L'amnistia del 1838 trova il Tommaseo in Corsica,
ov'egli ha fatto buona raccolta, sul fine del 1839, di canti popolari
corsi come già di toscani ; allora egli, ricco d'esperienza e di studii,
rimpatria; aggiunge ai canti popolari toscani e corsi anco gli illirici
ed i greci e li pubblica tutti insieme a A^enezia, (ove ha fermata la
sua stanza] in quattro volumi ; pubblica pure quattro volumi di
Nuovi scritti, ov'entrano parecchi lavori di lui già noti ma rior-
dinati ad un nuovo fine estetico, cioè Le Memorie poetiche. La
bellezza educatrice, e il Dizionario estetico, ove si raccoglie la
miglior parte de' suoi primi giudizi! letterarii ; e le Scintille proi-
bite dalla censura austriaca per gli scritti che contengono relativi
ai Dalmati e agli Slavi. Il romanzo Fede e bellezza dà luogo a
qualche viva polemica, ed il valore letterario di esso viene molto
discusso (il Cattaneo particolarmente lo riduce a'suoi minimi ter-
mini); l'autore v'introduce in iscena sé stesso in forma di un nuovo
Ortis su cui sembra essere passato invano un po' d'acqua bene-
detta.
Si seguono studii letterarii di varia natura, articoli, spogli,
commentarli, prefazioni, note educative.
Ed in tale attitudine studiosa lo sorprende l'anno 1847. Ma lo
studioso insieme pensa, e il pensatore agita, anche non volendo,
sé e gli altri. Da un' opera d'intrepido, ingegnoso e colto re-
pubblicano veneto, (1), rilevo che, fin dal 1846, Niccolò Tommaseo
si reca a Padova, per concertarsi col patriota conte Leoni, sul
modo d'incominciare nella Venezia l'agitazione nazionale.
Il :20 luglio del 1847, quando Riccardo Cobden, arrivato a Ve-
nezia, vi era già stato festosamente accolto, il Tommaseo gli
spedisce uu indirizzo , ove si contengono le seguenti parole ,
le quali possono allora valere come una protesta contro l'Au-
stria : « Io non parlo di quelle nazioni dove il pacifico desi-
derio del meglio è punito come misfatto, dove la manifestazione
di più voleri concordi è vietata come uno sforzo di lesa maestà,
(1) Vi7tgt ans d'ecoil, par Marco Antonio ancien émigré venitien. Paris,
libraire intcfnatiunalc, 1800.
— 119 —
dove l'uomo non perviene ad avere quasi mai particella di auto-
rità nel Municipio, non che nello stato senza aver dato al gover-
nante cosi vergognose guarentigie di sé che lo rendano impotente
a ben fare, e indegno d'alzare la voce a prò dei fratelli » (1). Il
30 dicembre dello stesso anno, il Tommaseo legge all'Ateneo Ve-
neto un discorso, intorno alle lettere italiane in relazione con la
Censura austriaca. Il Tommaseo stesso c'informa di quell'avveni-
mento nella sua breve narrazione dei fatti accaduti in Venezia dal
21 dicembre 1847 al 10 gennaio 1848: « per dare ad altri un sag-
gio del da farsi, il sig. Tommaseo, che non legge nelle accademie,
chiese di leggere all' Ateneo Veneto un discorso intorno allo stato
delle lettere italiane ; le quali egli riguardò nelle relazioni eh' esse
hanno con la Censura austriaca ; e conchiuse proponendo una
istanza, acciocché la legge austriaca, la quale ha assai parti buone,
avesse più retta esecuzione, e maggior compimento. Le sue parole
ebbero più che accademica accoglienza e l'istanza ebbe soscrit
tori in numero notabile per paese a tali atti non uso. Egli inviò
il suo Discorso agli uffizi di Censura in Venezia ed a Vienna ;
l'inviò al Barone di Kùbeck » La narrazione del Tommaseo
si conchiude, il 10 gennaio 1848, con un caldo appello a tutti
i veneti perchè si stringano non in un solo partito 'moderato,
ma in opinione legale animata d'affetti, termine alquanto vago
col quale sperasi un po' ingenuamente o di persuadere l'Au-
stria ad associarsi alla rivoluzione de' Veneti o di addormentarla.
Quanto a me, i maschi fatti di Milano valgono tutte le parole
femmine dettesi in que' giorni a Torino , Venezia e Firenze ;
rispetto i prudenti ma prediligo i forti ed i magnanimi; la poli-
tica di FaMu's cunctator venero, ma non l'amo ; e di Fabii tempo-
reggiatori più che di generosi imprudenti é ingombro il mondo. Il
Tommaseo scrive egli pure come l'Azeglio un discorso per pro-
muovere l'eguaglianza civile degli ebrei; ed il 15 gennaio del 1848
indirizza una lettera ai vescovi, nella quale li invita a rammen-
tare al Principe « le promesse date, nel quindici, d'un Governo
nazionale all'Italia, d' un Viceré non suddito agli aulici dica-
steri ; di Deputati rappresentanti non per ischerno i diritti e
il) L'intiero indirizzo, per chi lo voglia consultare, trovasi nell'opera
dei signori prof. Alberto l'Irrera e Avv. Cesare Finzi, intitolata: La vita
ed i tempi di Daniele Manin.) Venezia, tip. Antonelli.
— 120 —
le necessità dell'Italica ; di Censori obbligati a permettere che i
difetti e gli errori del Governo sieno pubblicamente additati ;
rammenti queste promesse, che sono le condizioni della nostra
sudditanza, e ne chiegga 1' adempimento. » Il coraggio del Tom-
maseo viene molto ammirato ; l'Austria s'allarma ; il 18 gennaio
fa prendere il Tommaseo insieme con Manin, e li processa in-
sieme. L'Austria ne fa cosi due martiri della libertà italiana. Ma
io avanzo qui una semplicissima ipotesi ; poniamo che l'Austria,
invece di sgomentarsi a quelle parole, fosse stata più accorta;
le avesse accettate ; che sarebbe avvenuto ? il Veneto sarebbe
stato legato per sempre alla sudditanza verso l'Austria, per de-
dizione quasi volontaria de' suoi proprii capi. Chi avrebbe al-
lora magnificato come liberatori della patria Daniele Manin, e
Niccolò Tommaseo? (1) Ora io sono ben lontano dal volere
inferire che il Manin e il Tommaseo non siano stati entram-
bi due grandi patrioti, ma avvertire come fossero imprudenti
e pericolosi i loro mezzi, e tali che se l'Austria li accettava, la
loro riputazione ne avrebbe patito assai come dovea, dieci anni
dopo, patire grave detrimento, in Lombardia la fama di Cesare
Cantù, per esserglisi attribuito un disegno conforme a quello che
avrebbe contentato nel principio dal 1848 il Manin ed il Tom-
maseo, per essersi questa volta l'Austria, resa più prudente, guar-
data bene dal mettere in carcere il Cantù, provocando nuovi disor-
dini in Milano, e per aver anzi lasciato credere che l'arciduca Mas-
similiano sarebbe divenuto volentieri un re indipendente del Lom-
bardo-Veneto. Cosi cadde in disgrazia de'nuovi liberali il Cantù, il
quale gli uni facevano autore di quel disegno, gli altri stimavano
non alieno dell'accettarlo. Io non so ora se vi siano due giustizie
per la storia; ma se, per avventura, ve ne fosse una sola, io doman-
derei a' miei buoni contemporanei se sia conveniente il giudicare i
fatti che accadono dalla sola norma fallace del vario successo, e se
(I) Questa ò, del resto l'opinione professata dallo stesso Tommaseo,
in una sua lettera diretta da Corfù ad un amico a Firenze nel novem-
bre del 1850: avvertito comfì Pio nono avesse interceduto presso l'Au-
stria pel Tommaseo quando egli era in prigione soggiunge: « Meglio
era per que' di Vienna se ascoltavano allora Pio IX. Forse il moto di
Venezia non nasceva; elio dal forzare le carceri fu preso il primo ardi-
mento. »
— 121 —
non convenga tenere miglior conto dell'onestà de' propositi che della
loro accidentale fortuna.
Quanto ai sentimenti liberali del Tommaseo non possono es-
ser dubbi, e che noi siano neppure all'Austria, lo si può eviden-
temente rilevare dalla relazione che il Direttore generale della
polizia di Venezia stende il 28 gennaio intorno agli studii, al-
l'animo e alle opinioni di lui, dalla quale togliamo i seguenti
passi « Niccolò Tommaseo spiegò mai sempre un carattere pieno
d'orgoglio, di spinta opinione di sé stesso. Intollerante di ogni
subordinazione e insolente disprezzatore di quei che non parteci-
pano alle guaste sue massime politiche, egli viene risguardato
per un luminare della letteratura, e le sue relazioni tanto al-
l'estero, che nella Monarchia sono estesissime. Qui fino a questi
ultimi tempi visse piuttosto ritirato occupandosi di lavori lette-
rari. Le sue tendenze sovversive si studiò egli di cuoprire col
manto della religione, e della filantropia, e la Censura avrà avuto
Irequente occasione nella revisione dei di lui scritti di accorgersi
come egli con perseveranza tentò di deludere in tal guisa la di lei
intenzione. Nell'anno 1843 poi voleva pubblicare colle stampe in lin-
gua illirica un Opuscolo intitolato : IshHze, che sotto il specioso
annunzio di promuovere la coltura della lingua illirica conteneva
principi, la cui tendenza manifesta era di spargere il malcontento,
e di promovere un sovvertimento dell'attuale ordine di cose. Non
ne ottenne però il permesso dalla Censura. Durante il suo sog-
giorno all'estero egli si era mostrato un deciso nemico del Go-
verno Austriaco, e se dopo il suo ritorno in questi stati si è im-
posta una certa riserva, non si potrebbe inferirne, che avesse
rinunziato alle antecedenti sue massime ». La Polizia ha intanto
fatto perquisire la dimora del Tommaseo prigioniero, ingiungen-
dogli quindi d'apporre la sua firma ad ogni carta sequestrata; il
Tommaseo vi si rifiuta energicamente e detta invece una lunga,
viva, eloquente protesta contro quell'arbitrio poliziesco. (1)
Un servigio men lieto resero invece gli editori dei processi
del Tommaseo e del Manin, alla ftxma d'entrambi i patrioti, mo-
strandoli più timidi, più pacifici, e più solleciti di sé stessi che
la pubblica voce, dopo il loro trionfale scarceramento, non li
abbia poi reputati ; il Manin particolarmente non può dirsi abbia
(1; Si legge nella citata opera dei signori Errerà e Pinzi, a pag. XCI
e XCII.
— 122 -
ecceduto sempre per soverchia generosità nelle sue varie de-
nuncie relative al Tommaseo, le risposte del quale spirano in-
vece una nobiltà e una grandezza ammirabile per quanto risguarda
gli altri imputati. Ma quanto a sé stesso, per un repubblicano
qual egli fu ed è e si professa, ei mostra in tale occasione d'es-
sersi presa una cura eccessiva della sicurezza di un Regno che
ogni buon italiano ed egli stesso non dovea desiderar durevole.
Ma io non insisterò su questo punto, come su nessuno che tocchi
troppo dappresso la politica, non solo perchè questa co'suoi perfidi
avvolgimenti mi uggisce, quanto ancora perchè sono impaziente di
ritornare all'uomo di lettere, del quale un brano del quarto inter-
rogatorio ci offre pure alcuna notizia. « Se io cercassi lucri o
vantaggi, detta a'suoi giudici il Tommaseo, non sarei qui. Negli
Stati Romani mi fu profferta la direzione di tre giornali e una
cattedra; in Piemonte la direzione di un altro giornale; in To-
scana due cattedre. Potevo anche prima rimanermene in Francia,
e, scrivendo in quella lingua eh' è la lingua del mondo, aver fama,
ricchezza e titoli puramente acquistati. Ma io dal mio esigilo di
Francia ho riportato non ricchezze, non croci ; ho riportato cosa,
che alle dame inglesi non è lecito nominare ; ma che nelle car-
ceri nominare si può, ho riportato questi calzoni che ho indosso,
che mi costano otto franchi, cioè tre fiorini ; e dal 1839 al 1848
ogni inverno li porto, e, in pena della mia cupidigia e ambizione
e fellonia, son venuto a finire di logorarli nelle ' carceri di Vene-
zia. » Qui il Tommaseo sembra sfogarsi più tosto contro que'libe-
rali italiani che lo calunniano venduto, che contro i suoi giudici,
i quali non hanno certamente mai pensato a sospettarlo di vena-
lità ; che, se un simile sospetto si fosse potuto accogliere sul conto
del Tommaseo, non avrebbero essi lasciate sfuggire le occasioni
d'adoperarlo per i loro fini.
Finito il processo, lo stesso Tribunale criminale di Venezia emette
il voto che il Manin e il Tommaseo siano rilasciati come innocenti;
il 17 marzo 1848 s'ordina dal tribunale la immediata scarcerazione
de' due illustri prigionieri, quali usciti, vengono portati a spalle
di popolo per le vie di Venezia. Il processo colpiva più il Tom-
maseo che il Manin ; e la liberazione avvenne, propriamente, per-
chè il tribunale stesso, noverandone lungamente i motivi, avea
già sentenziato non esservi luogo a procedere ; ma il buon popolo
veneziano, col risoluto suo contegno, affrettò la scarcerazione de' due
prigionieri, come un giorno avea veramente liberato dal carcere
il suo vero liberatore Vettor Pisani.
— 123 —
Il 22 marzo, che fu il primo giorno eroico di Daniele Manin,
viene proclamato il governo provvisorio della Repubblica, com-
posto di otto membri presieduti dal Manin ; primo degli otto
si trova eletto Niccolò Tommaseo. Come il governo provvisorio
cadesse l'S giugno, non approvando l'alleanza col Piemonte nella
guerra contro l'Austria, come il 21 giugno il Tommaseo incorag-
giasse con risolute parole il Generale Pepe a muoversi ed operare
con le sue genti, come il governo si ricostituisse con Manin e
Tommaseo, ministro della pubblica istruzione e dei culti dopo l'in-
felice esito della campagna sabauda, come il Tommaseo si recasse
due volte invano a Parigi per implorare il soccorso della repub-
blica francese, come la repubblica di Venezia, sia caduta con glo-
ria, come, dopo la capitolazione, il Tommaseo emigrasse a Corfù,
ad ogni lettore è noto.
Dal 18i9 al 1850 ci sono guida sicura pel nostro Ricordo tre
altri volumi di scritti autobiografici dello stesso Tommaseo, intito-
lati : Il secondo esigilo (1); io continuo dunque ad attingere notizie
da essi.
Sbarcato a Corfù, il Tommaseo riceve invito a tornare in To-
scana, ove pare die il sempre benefico Marchese Capponi od al-
cun altro uomo liberale gli abbia fatta offrire ospitalità; ma
egli ringrazia e rifiuta. Nel mese di ottobre del 1849, il Tom-
maseo stende un indirizzo in francese all'Arcivescovo di Parigi ,
per ringraziarlo delle generose parole da lui pronunciate in di-
fesa di Venezia caduta, e narrare in succinto le ultime vicende
dell'eroica città. Ma le memorie sue in disteso di quegli ultimi
due anni il Tommaseo scrive per serbarle inedite e da pubblicarsi,
forse, un giorno, postume. Prepara un volume di versi inediti e di
lettere di Alessandro Poerio ; e fa stampare a Firenze le opere
inedite del Gozzi.
Nel Giugno del 1850, indirizza ad un corcirese queste parole utili
a rammentarsi oggi ai cattolici intolleranti d'Italia « Au moment
où je tenais sans trop la vouloir une place, que l'obligeance des
Autrichiens avait laissè vacante, j'ai tachè de corriger quelques
actes d'intolérance liliputienne auxquels on se laissait aller; et
(entre autres choses) j'ai consenti que certaines cérémonies de
l'Église d'Orient eussent Dieu en plein air tout aussi bien que cel-
(1) Milano, Fr. Sanvito, 18G-2, con ritratto dell'autore.
— 124 —
les de la religion qu'on se plait à appeler dominante. Au demeu-
rant, j'avoue ne pas trop comprendre ce que c'est qu"une religion
dominante, à moins qu'elle ne mette le symbole de la foi sur la
pointe des bayonettes, et qu'elle ne se serve de l'Evangile de
St. Jean pour en faire des cartouclies. »
Nel luglio del 1850, il Tommaseo giudica le cose toscane, e,
fra l'altro, osserva: « I giornali fiorentini si accordano nel do-
lersi del Governo ; e certamente n'han d'onde. Ma dolersi è poco,
ed è troppo; troppo al mal umore che cresce; poco all'effetto,
anzi nulla, anzi peggio che nulla. Gl'Italiani si son messi a can-
tare vittoria, e il nemico a picchiarli ; ora belano, e il nemico
ripicchia e picchierà sempre più sodo, finché o non si taccia o non
si faccia davvero. Quand'io nel quarantasette (nell'autunno di quel-
l'anno il Tommaseo avea fatta una scorsa in Toscana) sentivo per le
vie di Firenze cantare: Siamo Italiani, Siam giovani e freschi, E
de' TedescM paura non s ha, sentivo in me un misto di vergogna,
di sdegno, di ribrezzo ; e già me li vedevo sull'Arno. I miei pre-
sentimenti, il più sovente dulorosi, non mi hanno ingannato quasi
mai. Certamente non e' è da disperare della Toscana, ne di gente
nessuna al mondo, allorché si rammenta quel che patirono e fecero
i Toscani sotto Mantova, e i Veneziani a Marghera e sul ponte
e nella indigente e inferma città. Ma non si può non riguardare
le cose dal lato contrario, non ripensare come Firenze fosse go-
vernata dai Medici al Fossombroni, e più là ; come le stesse isti-
tuzioni materialmente liberali di Leopoldo I, e le tolleranze sba-
date del secondo, concorressero a fiaccarla e invanirla... (i) Trattasi
di attenuare l'elemento fiorentino, e far venire a galla il vecchio
elemento toscano ; finché ciò non si faccia, non avrete Toscana ;
e vuol dire che non avrete Italia ; perchè la Toscana, per la qua-
lità della sua stirpe e per le memorie e per il posto che tiene
nella penisola pur non giovando, nuoce ; e non accrescendo alla
vita, la spegne >. Parole ch'io cito, poiché anche oggi, dopo più
fi; Nel novembre 1852, egli scrive « Che Alessandro Manzoni sia di-
morato in Toscana senza toccare Firenze, è atto de^uo di quella no-
bile vita. I Cigni non si tuffano nella broda dei Ninci. E certe omissioni
sono esempi più splendidi di certi fatti. » Nell'aprile del 1853, parlando
del Ridolll « egli è più esule nella sua patria ch'io in terra greca ; e me
ne duole per Firenze ancora più che per esso ».
— 125 —
che vent'anni, mi paiono ancora opportune e memorabili. Solo
chi non ama questo paese, può addormentarvisi, e rassegnarsi a
patire che il cuore d'Italia s'agghiacci, e consolarsi che in Toscana
si rida ancora, e vi si rida bene, e solamente vi si rida. Io non
vorrei tampoco che vi si piangesse ; ma mi sentirei più sicuro
come italiano se questa sedotta e seducente Toscana fremesse un
poco di più, se qui dove sono le più belle parole fossero pure le
più belle opere ; se i giovani di questo suolo beato, per i quali
sto qui pure scrivendo, fossero meno solleciti a mostrare le argu-
zie del loro ingegno che la capacità del loro cuore, la magnani-
mità del loro carattere, e quel calore interno che non solo crea gli
entusiasmi ma li fa durare ; quando io penso che con cento to-
scani di gran cuore e d'ingegno corrispondente, si potrebbe rifare ,
davvero, questa nostra Italia che finora abbiam solamente e ne-
cessariamente disfatta, e rivoltata, non cesso di dolermi dell'edu-
cazione eunuca che nelle scuole, ne'giornali e nel costume pubblico
e privato riceve pur sempre questa gioventù, e di desiderare ar-
dentemente che sorga qui alcuna voce assai più autorevole, più
accetta, più intima della mia, la quale evochi finalmente fuora
questa bella fanciulla dormiente da secoli e la ritempri a nuova
e più gagliarda vita.
Nell'ottobre 1850, il Tommaseo annunzia da Corfù ad un amico:
« Ho scritto nn libro sul papa-re, poi un'altro sul metro delle
canzoni cantate dal popolo greco, ove ragiono lungamente del nu-
mero, cosa che voi, e non molti altri, sentite nell'anima; e voi, con al-
tri non molti, leggerete questo, ch'è il frutto di trent'anni, se non d'e-
sperienza felice, d'osservazione amorosa. Poi sto scrivendo d'un Cor-
cirese (il Delviniotti) ch'è morto, per aver luogo a dire delle corri-
spondenze tra Grecia ed Italia, e per pagare un tributo d'ospitalità a
questa terra E compite queste e altre cose simili, e riposato-
mi degli occhi [da un anno, la vista gli s'era grandemente inde-
bolita e l'avea condotto vicino alla cecità presente] se io non ca-
sco morto (che sarebbe assai comoda cosa) scriverò di Venezia.
Lascio già i documenti ordinati, che sono pur troppi, e appunti
moltissimi, e serviranno a chi li ritrova e non isdegni di attin-
gerci... E Venezia stessa, ch'io amo tanto non è a me l'universo. »
Nel vero, mentre egli pensa più che ad altro a difendere il
nome di Venezia, volge spesso ancora il pensiero a tutta l'Italia,
alla Grecia, alle isole .Ionie, alla Francia, agli Slavi. Quanto a
Venezia, ei trova che o l'idea della repubblica non si dovea mai
porre innanzi, o, posta, non abbandonarsi, in evidente opposizio-
— 1^26 —
ne con la politica conciliante, sabaudo-unitaria, piaciuta alcuni
anni dopo al suo glorioso collega Manin.
Nel novembre del 1850 ei scrive ad uno de'suoi parenti ; « Io
non posso, nella condizione che i tempi mi han fatta, umiliarmi
dinanzi a principi né a privati: non posso nella mia infermità,
vivere dell'ingegno. Fatto che io abbia i miei conti, e veduto
quel che mi resta, mi bisognerà rifuggirmi in qualche solitudine
dove il vitto costi meno di qui ; forse privarmi di lettore e di co-
pista, e dire addio ai fogli e ai libri. Superfluo avvertire (perchè
credo si sappia da tutti) che dalle vicende di Venezia io non ho
avuto che danni, e che non ho mercanteggiato l'ingegno, ma
trattone l'occorrente alla vita per non iscomodare mio padre, e
non sentire querele della mia lontananza. » (1)
Nel febbraio del 1851, il Tommaseo manda, invitato, nel Veneto
un discorso intorno alla Riforma degli studii; nell'anno niedesimo,
l'Accademia della Crusca pensa a nominarlo suo membro corri-
spondente; il 17 settembre del 1851, ^egli propone a un editore'
l'opera sul verso e sul numero dei greci, italiani ed illirici, e
un volume di versi, diviso in tre parti : L'universo, l'mnmiità,
l'anima; il 25 dicembre al suo stesso editore, che gli proponeva di
tradurre in italiano l'opera francese di lui Roma ed il mondo che
la Civiltà Cattolica s'era aff'rettata ad assalire, ei propone invece
un libro nuovo: Delle due potestà, innanzi a Roma tiene sem-
pre un contegno pieno di dignità e di nobile fierezza, ove ribadisce
(1) È pure interessante, a questo riguardo, il brano seguente estratto
da una lettera che da Corfù il Tommaseo mandava in Francia,
nel marzo del 1851 : « Vous me demandez quelles sont mes res-
sources; je vais vous les dire. Mon pére m'avait laissé de quoi vivre;
et vous savez qua pendant mon premier exile mes petits revenus et
mes travaux littéraires me permirent de tenir le front haut devant
rois et princes. Ma modeste fortune, quoiquefort entamée suffisnit pour
m'affranchir de tout.joug. .l'ai pu servir la cause de Venise sans lui de-
mander aucun salaire. Pendant mon séjour ù Paris, je payais à La
Uepublique quatre francs par jour; ce qui aurait f'té ma dépense, à
moi, homme prive demeurant à Venire Les frais de mon humble ré-
présentation ont été enregistrées dans la Gazette officielle, et dans un
compte rendu imprimé par moi, d'où il resulto que mon séjour d'envi-
ron six mois à Paris n'a couté à Yenise que sept cents francs, y com-
pris les frais de voyage et le logement, et la nourriture d'un ouvrier
tailleur, qui avait été ministre dans les premiers teraps. »
— 127 —
la sua sentenza che il regno de'preti sarà vittima e scherno non
tanto de'suoi sudditi quanto dei suoi difensori, e conchiude; « La
separazione delle due potestà si farà tosto o tardi (che le gene-
razioni nel cammino della verità sono istanti) ; ma badate, o preti,
che la non si faccia dopo scandali e discordie e bestemmie, delle
quali in non piccola parte cadrebbe su voi la vergona e il ri-
morso. »
Il 21 maggio 1852, egli scrive: « Sento le forze non solo
degli occhi, ma di tutta la persona venir meno; mi rincresce-
rebbe sopravvivere penosamente a me stesso: ma anche a questo
son già preparato,; » ma ch'ei non sia morto lo si vede, nel
giugno, dal seguente ritratto che, invece di necrologia, dedica
a Mario Pieri suo denigratore : « Il poveretto si credeva uomo
antico; ed era una mezza lagrima di Gian Giacomo rappresa en-
tro una mezza presa di tabacco di Melchior Cesarotti, e sbattuta
omeopaticamente per sett'anni in una tinozza d'acqua salmastra.
Ma le sue buone intenzioni guadagnarono due perpetue felicità
alla sua vita; di tenersi amatore de'classici ch'e'non capiva; e
d'assaporare tutte le mattine la gloria ch'e'si frullava da sé, come
i frati la cioccolata ; » quel poderoso ingegno del Guerrazzi, in
simil genere di brevi ritratti, maestro, non avrebbe potuto dir nulla
di più forte e di più vivo.
Nel luglio del 183^, il Tommaseo prepara per gii editori lombardo-
veneti un memoriale sulla Nuova Legge Austriaca di Censura da
presentarsi al Governo, ma prega di modificarne lo stile, sempre
cosi fatto che tradisce il suo autore, non ch'ei tema la re-
sponsabilità, ma perchè non vorrebbe scemare le probabilità d'un
onesto accoglimento alla proposta quando s'indovinasse che fosse
provenuta da lui, il pregiudicato dell'anno 1849. Letto il quarto
volume dell'opera dell'arci -moderato Gualterio, il Tommaseo scrive
a Firenze: « chi si crede egli, il nobil uomo, di gabbare con
quella sua loquacità da sensale in favore della infallibilità e im-
peccabilità di re Carlo Alberto, e di que'suoi servitori che lo
trassero a cosi misera rovina ? » ; nell'agosto, ha combinato con
l'editore Reina una nuova edizione triplicata del Dizionario este-
tico, e ricevuto invito a rifugiarsi in Piemonte; ma non sa qual
partito pigliare. « Non giova, scriv'egli, sperare rinfranco dai la-
vori dell'ingegno, ch'io potrei stampare in Piemonte, dove adesso
non corrono se non cose politiche ; e la politica sopportata in
Piemonte non è comportabile a me ; poi, giudicando io, come fo,
le cose piemontesi con la severità che credo debita alla mia co-
— U8 —
scienza, ini peserebbe dovere il pane a uomini del Piemonte, seb-
bene io distingua, e ogni uomo ragionevole distingue, tra la na-
zione e il governo, tra il 48 e le condizioni odierne. »
Il 17 dicembre 1852 (si avverta la data) il Tommaseo scriveva
già al Vieusseux : « Pare che la Savoia voglia scappare dalle
budella al Piemonte, ed entrare in corpo a Luigi Napoleone. Chi
sa che, per non fare la guerra, e' non proponga in un congresso
di prendersi la Savoia, e di dare al Piemonte un pezzo di Lom-
bardia, e all'Austria, in cambio, un pezzo del Papa... »
Nell'aprile 1853, il Pomba di Torino desidera il Tommaseo diret-
tore dell'impresa di un nuovo Dizionario della lingua italiana; il
2 settembre 18 V3, rinnovate più vivamente le istanze perchè sire-
casse in Piemonte, il Tommaseo risponde al Vieusseux, mediatore :
« Voi capite bene che io non vò in Piemonte per fare il giornalista, né
spoliticare in nessuna maniera ; ma se il dovere o l'onore m' im-
ponessero, 0 se la dura necessità mi stringesse a scrivere qualche
cosa, io non intendo privarmi da me stesso di tale facoltà, né con-
fermare con la mia rassegnazione un sospetto non giusto. »
Gli ultimi mesi del soggiorno del Tommaseo in Corfù, vengono
funestati dal supplizio d'un romagnuolo condannato a morte dai
tribunali Greci, ( e dai Corciresi stessi compianto ) per aver
ucciso in una contesa un Jonio insultatore al nome italiano ; il
Tommaseo si interpone invano per ottener grazia ; poi si leva a
protestare, poi scrive un libro che consegni ai posteri queir in-
famia e la rimproveri agli indifferenti contemporanei. Se prima
egli era incerto sul lasciare le isole o rimanervi, quel tetro av-
venimento lo persuade finalmente ad accettare 1' invito de' Pie-
montesi; ma, come muoversi? ei non é più solo; egli cieco, ha
ora con sé moglie e figliuoli, ed i legni da guerra non ricevon
donne, ed i soli legni da guerra inglesi potrebbero liberarlo da
quel soggiorno divenuto intollerabile. Questi ostacoli lo fanno in-
dugiare ; alcuni mesi dopo, il 7 aprile 1854 egli può finalmente
scrivere al Vieusseux che s'imbarca sovra un piccolo legno a vela.
In altra lettera scritta nel giorno stesso al suo editore di Mi-
lano, a proposito d' un articolo malevolo uscito allora nel Crepu-
scolo contro un libro di Letture italiane ordinato dal Tommaseo,
ei muove questo amaro lamento « Non credo con lei che ne' bia-
simi di cotesto giornale invidia entri, dacché nulla è in me da
invidiare ; né l' ingegno poco e stanco, né la vita povera e oscura,
né il nome calunniato. Avranno forse quei giudici miei assai bene
considerato che quel po' eh' io ho di mio potendomi da un di al-
— 129 —
r altro venir meno, e non mi restando che i frutti del mio inge-
gno dimezzati dalla mia infermità e dalla mia imperizia del traf-
ficare, se i biasimi ultimi soprav^vengono, a privarmi anco di
questo poco, può giungere stagione in cui io non abbia di che
sdigiunare i miei figliuoli, e di che pagare un ragaz-^o, che mi
guidi cieco a scaldarmi al sole. »
Nel maggio 1854, il Tommaseo ha già preso stabile dimora in Pie-
monte, ove appena giunto, tutta la società colta di Torino s'è affret-
tata a fargli dimostrazioni d' onore. Editori, direttori di giornali e
d'istituti scolastici vanno a gara in Torino nel desiderar l' opera del-
l'illustre proscritto, che naturalmente non può corrispondere al desi-
derio di tutti, ma riesce, senza dubbio, a persuadersi come il Piemonte
non s'è stancato e non può stancarsi nel virtuoso esercizio dell'ospi-
talità. E, come il paese mostrasi ospitale, il Tommaseo riceve dai go-
vernanti piemontesi, in più occasioni, offerte onorevoli e delicate,
ch'egli rifiuta non senza gratitudine, né senza sentire, meglio che in
passato, simpatia e stima per quel popolo di cui egli può questa
volta considerare dappresso le qualità e pesarle. Il piemontese
non guadagna ad esser guardato in fretta e di lontano; splendori
che abbaglino esso non ebbe e non avrà forse mai ; ma a chi lo
pratichi molto, a chi lo sorprenda nella sua vita interiore, esso
permette spesso di conchiudere : l'esterno figurino è duro e
grottesco; ma l'uomo che c'è sotto ragiona e sente ed opera
bene; il Tommaseo l'avrà certamente provato (1); ed al suo soggiorno
in Piemonte egli deve forse l'avere nell'agosto del 1855 accettato il
programma unitario di Giuseppe La Masa.
Intanto il Tommaseo stesso non istà in ozio; e una sua lettera al
Vieusseux dell'agosto 1855 ci può dare un' idea della sua incessante
operosità : « Dopo più di trent' anni che non facevo versi latini,
mi sono divertito a tradurre la Francesca da Rimini, che mi dice
d' esser contenta di me; e oggi stesso, tra il correggere i miei
esametri e il mandare a Stresa trascritti i passi di Giobbe, ai quali
la vita del Rosmini è comento e tra lo scrivere a voi e ad altri
parecchi, e tra il correggere le mie preghiere e il far visite, e il
ripetere a mente Virgilio e Dante e i Salmi e degli inni della
(1) Egli, per sua ziatura un po' querulo, dopo tre anni di soggiorno
a Torino scrive ad un amico di Firenze. « Non già ch'io sia scontento
del soggiorno di qui ; pente onesta e che mi lasciano in pace ; e chi
m' hanno dato un po' noia non ò roba di qui. »
Ricordi Biografici
— 130 —
Chiesa, ho mandato al Valerio un articolo sopra un nuovo libro
promesso dal Sega, eh' io ho la mania di credere un uomo che
pensa e di voler ne' suoi scritti imparare, e un altro articolo al
Mannucci (Direttore del Giornale dell' Arte e delle Industrie, mio
compianto cognato, pel quale il Tommaseo scrisse parecchie appen-
dici letterarie) sulla cattedra di Sanscrito che qui minacciano di
buttare a terra. Le quali faccende non mi vietarono leggere il Di-
ritto, e un pò' del Giornale Agrario, e di molto della regola dell'Isti-
tuto Rosminiano e un giornale francese sul metro, e un opuscolo
del Leoni sulla civiltà; e de' proverbi toscani, e dalla grammatica
sanscrita, e d' una storia delle rivoluzioni di Serbia; e correggere
delle stampe, e dormire più d'un'ora fra giorno, dopo dormito quasi
nove ore la notte. Ho anche letto una vita dell' Azeglio con pia-
cere, perchè a me piace l'Azeglio; e nelle Letture del Thouar
due scene della Malattia d' una bambola, che sono una delizia.
Chi è quel Carducci che fa quelle note a Virgilio, dove i raffronti
delle traduzioni diventano un bel comento? Per compire l'esame
di coscienza di quest'oggi, vi dirò che ho fatto dire a mente alla
mia Caterina de' versetti fatti apposta per lei; e a voi, protestante
ma tollerante, dirò che ho sentito la messa. »
Nel novembre del 1856, gli studenti dell'Università di Torino,
ai quali associavasi pure l'oscuro autore di questi Ricordi, allora
studente d'ultimo anno nel Liceo di San Francesco da Paola, co-
stituiti in libera associazione letteraria e politica, si riunivano
ogni sera in tre sale del remoto palazzo Antonelli in Vanchiglia
nelle quali avevano iniziato una specie di gabinetto letterario. Si
tentarono dapprima discussioni letterarie fra gli studenti stessi,
ma con esito infelice; allora fu da alcuni esternato il desiderio
d'udire in quelle sale la libera parola d'alcuni uomini eminenti,
che non fossero professori ufficiali; si voleva, in certa guisa, ten-
tare, a spese nostre, un principio d'università libera fuori dell'uni-
versità governativa; con tale scopo vennero pregati Niccolò Tom-
maseo, Terenzio Mamiani, Giuseppe La Farina e Giacomo Lignana,
il primo a volerci parlar di cose letterarie, il secondo di filosofìa,
il terzo di storia, il quarto di filologia; il Lignana fece una lezione
di raffronto fra il Ràmàyana ed i Nibelunghi, il La Farina im-
provvisò un'eloquente lezione sull'Italia dopo Carlomagno, il Ma-
miani fece l'esposizione del suo sistema ontologico; il Tommaseo
commentò Dante. Nelle memorie del Secondo Esiglio, ritrovo la let-
tera ch'egli scrisse allora al nostro intercessore presso di lui;
egli vi dice, fra l'altre cose « dite chiaro che io non pos'-:o da loro
— 131 —
prendere danaro; che, come animale di struttura semplice, non
ho organi da ricevere siffatto alimento né da digerirlo. Ma, essendo
io povero e avaro del tempo, bisognerà che paghino la vettura,
e diano qualcosa a chi deve sedermi accanto con un foglio-
lino di sunto 0 per leggere qualche tratto ch'io non sappia a mente.
Non senza ripugnanza acconsento, e con presagi sinistri... » Per
fortuna, quella volta egli avrà trovati fallaci i suoi presagi; quando
di fatti, vedemmo il cieco venerando entrar nella sala destinata alle
lezioni, un sentimento di profonda commozione s'impadroni di noi
tutti, che scoppiò quindi in un lungo e prolungato applauso; quando
egli incominciò a parlare con voce spezzata e pur viva e solenne,
si fece un silenzio profondo intorno a lui; quando egli ebbe fmito.
lo seguitò un batter di mani fìtto ed appassionato; egli non ne intese
di certo altro che il suono; nla s'egli avesse potuto guardarci negli oc-
chi avrebbe compreso che quel plauso non era de'soliti, e che la gioia
di destare la riconoscenza in qualche giovine di cuore può compen-
sare qualche lieve disturbo e confortare di certe amarezze, delle quali
i giovani, del resto, non avevano proprio alcuna colpa.
Resasi, per la morte del dalmata Paravia, vacante la cattedra di
eloquenza italiana nell'Università italiana, il primo pensiero de' Pie-
montesi si volge al dalmata Tommaseo, che è pronto a dichiarare non
l'accetterebbe; vissuto fino allora del suo, mette égli una specie di no,
bile orgoglio a mantenersi, anco cieco, senza aiuti governativi, i quali,
per quanto corrispondano a' servigi resi, ai più, e forse a lui stesso,
paiono pur sempre privilegi. Nel 1857, egli raccomanda invece a
tal cattedra il prof. Domenico Capellina, che, dopo molti ostacoli,
ottiene finalmente di esser nominato. Nel 18^8, vengono al Tom-
maseo fatte nuove premure perch'egli consenta di parlare come
vuole e quando vuole e di quello ch'ei vuole come professore ai
giovani studenti del Collegio delle Provincie; anche questa volta
egli rifiuta; ma in ogni modo egli sarà, io spero, rimasto convinto
che se alcuno a lui fu ingrato, nessun piemontese peccò d'ingra-
titudine 0 ricusò di rendergli onore; anzi egli avrà osservato co-
me nessuna occasione si lasciò passare in Piemonte per attestargli
affetto ossequioso ; ed io rammento sempre il piacere provato un
giorno, in cui egli, inaspettato, entrava nella scuola di lettere del-
l'Cniversità di Torino, mentre il prof. Vallauri vi faceva la sua le-
zione di eloquenza latina; tutti i nostri sguardi si volsero allora
prima verso l'ospite venerando, quindi verso il nostro eloquente
maestro, il quale, come signóre di tutte le latine eleganze, interpre-
tando il nostro sentimento, interruppe il suo commento per rivol-
— 132 —
f.ersi, in felicissimo latino, al Tommaseo dargli, e con uno splendido
encomio, il benvenuto.
Nel giugno 1858, il Tommaseo sembra già prevedere quello che
il Piemonte farà in breve dell'Italia. Ecco le sue parole. « Avere
l'Italia, senza esserne assorbita (foss'anco la sola Lombardia), gli è
un triangolo con quattro lati. Se pare che certuni, di certi paesi,
disperati e stucchi, stendano le mani al Piemonte, al fatto li vo-
glio; pagare le imposte sue e ì suoi debiti, improvinciar^si pili
d'ora, avere manicipii più schiavi di quel che ora siano sotto il
Papa; vedersi soggetti a Italiani, che parrebbe più strano del ser-
vire a'Tedeschi. Ma la questione sarebbe decisa dal ferro; voi di-
te, e lo dico anch'io. Tutti stanno col forte. Il Piemonte conqui-
sti se può, se no, smetta. Conquisti e libererà ». E cosi fece in-
fatti e il Tommaseo aiutò l'opera egli stesso col lavorare nella
Commissione pel lìionumento da erigersi a' la memoria di Daniele
Manin, da cui era partita la parola d'ordine del risorgimento uni-
tario italiano. jNel febbraio del 1859, torna in campo il pericolo
del baratto della Savoia; il Tommaseo ne scrive al Yieusseux;
« Voi non potete di costì giuJicare di che tristo augurio in fatto
di moralità civile sia l'uscita del Cavour contro il De Viry, che
toccava del sospettato baratto della Savoia, e gli risposero lui es-
sere deputato della Nazione e non d'una provincia ; e soggiun-
gendo esso che cotesta è una finzione, gridarono bestemmiato lo
statuto come menzogna, e schiamazzarono, e il conte gli con-
sigliò di levarsi dal seggio di giudice. Di questo baratto diceva il
Costa di Beauregard: "Vogliono vendere la fanciulla e la culla ».
In mezzo agli avvenimenti del 1859, il Tommaseo spera, dispera,
brontola, consiglia, sconsiglia; dice benissimo quando il cuore di-
rige la testa ; dice per dire quando la testa fa tacere il cuore. Nel
maggio, egli scrive da Torino al Yieusseux in questa forma : « io
dico, che il Piemonte non creperà italianandosi : anzi si riftira,
prevenendo la corruzione dei suoi giornali e del suo Parlamento.
Se non che il pericolo è urgente ; e quello che dianzi pareva anco
a noi un sogno di perfezione, ideale, quando se ne parlava con
Alessandro Manzoni che sempre lo accarezzò, mi diventa il ri-
medio unico a mali tanto più da temere, che li aggraverebbe la
vergogna dall'aspettazione delusa. Non vi spaventate voi se vi dico
che questo rimedio è l'unità ; che, se non possiamo ottenerla, dob-
biamo proporla per discarico di coscienza ; se non come frutto del
passato, come germe dell'avvenire che i tempi, più presto che noi
non crediamo, matureranno. » Dopo Villafranca, egli torna invece
— 133 —
a diffidare del Piemonte e a scrivere al Vieiisseux, « Io, per me,
ho sempre desiderato, e in questa settimana lo stampo, che Fi-
renze abbia a essere centro. » Ma egli torna a modificare alquanto
le sue idee dopo la lettura dell'opuscolo II Papa e il Congresso,
quando scrive l'opuscolo; Il segreto dei fatti palesi seguili nel 1859,
ove sono più, in vero, le inutili pensate querimonie, che le pa-
gine riscaldate dall'affetto di un cittadino fiducioso ed ardente.
E con tale opuscolo stampato in Firenze, ove il Tommaseo aveva
intanto trasportato i suoi penati, finisce la vita politica di lui :
continua la letteraria, ma stanca ed intermittente ; dignitosa sem-
pre. Egli continua a scriver lettere ed articoli, a riordinare fram-
menti, a comporre prefazioni, a raccogliere sentenze, ad incorag-
giare opere di pietà, ad accendere qualche scintilla di entusiasmo
in quegli ingegni giovanili che a lui si rivolgono ; e questa
parte, nella operosa esistenza di lui, amareggiatagli, invero, molto
più dal proprio carattere facilmente disdegnoso che dalla malignità
degli uomini e della sorte, è forse la più bella e la più mirabile
da lui sostenuta nella vita, sulla quale io ho qui dovuto intrat-
tenere minutamente il lettore perch'essa si compone di più pezzi
minuti, come le opere dell'illustre dalmata. Il caso volle che il
Tommaseo , per gli avvenimenti del 1847, avesse pure una pagina
nella storia, e perch'egli, quando il cuore lo trasporta, come scrive
cosi opera bene, quella pagina riusci eloquente ; ma, com' egli
stesso confessa nelle sue numerose Memorie autobiografiche, egli
si trovò fra i negozi della repubblica più tosto trascinato che non
trascinasse e subi la gloria della politica molto più che non la
cercasse. Tolta quella pagina che appartiene alla storia, e degna,
in tutto, dell'uomo che s'era accusato per la vecchia Antologia, il
resto della vita poliedrica del Tommaseo si compone di piccoli ine-
guali frammenti, e, per tirarne una conclusione, conviene prima
metterne insieme i molti e per sé insignificanti particolari; avvi-
cinando faccietta a faccietta, si riesce a comporre un tutto che,
malgrado il gran numero di piccoli angoli sporgenti e di piccole
punte dissidenti che il poledrio irregolare ci presenta, non manca
d'una certa unità armonica.
Spicca anzi tutto dallo studio delle opere di lui, le operate, come
le scritte, una figura propria ed originale ; il tempo e gli ambienti
ne' quali egli visse poterono modificare lievemente alcune parti
del suo carattere come del suo stile e smorzare, talora, l'angolo-
sità di certe sue forme particolari ; ma l'intiera natura dell'uomo
e dello scrittore non è certo di pasta frolla.
— 134 —
L'uomo appare un po'istrìce; ed anche l'ingegno del Tommaseo
è tutto a punte; non ispazia, non abbraccia, non vola; ora è fu
scello che^ a costo di trovarle fra le immondizie, va in traccia di
perle ignorate ; ora spillo, aculeo, dente, saetta che squarcia, morde
e ferisce; ora tizzoncello che desta piccole fiamme latenti ; ora lampo
che guizza pel cielo, per l'innocente e vago capriccio di brillare e far
pompa di colori inattesi e diversi. Cosi parmi fatto l'ingegno di lui,
e, quando la volontà lo regge, e quando alcuna vena d'affetto generoso
s'associa pure alla volontà, è certamente ingegno benefico; diciamolo
ora ad onore del Tommaseo; egli volle quasi sempre adoperar l'inge-
gno di critico od a svegliare qualche altro ingegno ed animo ge-
neroso, od a scoprire bellezze recondite, od a confondere qualche
superbo vigliacco. Ma le sue lacrime, i suoi sorrisi, i suoi motti, i
suoi strali, escono a stento ; non si seguono, si staccano troppo,
si lasciano troppo contare e pesare; e, qualche volta, nell'esser pe-
sati, si sciolgono e si smarriscono. Non vi è fiume d'eloquenza
nello stile di lui , la sua prosa sembra più alla rupe dalla quale
l'acqua scaturisce, che all' acqua stessa dalla rupe sgorgante. La
rupe è scura ed orrida ; ma ora getta lingue di fuoco, ora fre-
schi, limpidi zampilli. Ma quel fuoco rado si dilata; e l'acque
di quegli zampilli intermittenti sono scarse e non si scavano
alcun letto , e non trasportano alcun grande naviglio ; esse ba-
stano ad estinguere la poca sete di un momento, ad un vian-
dante smarrito che, a caso, in un momento propizio, le ritrovi,
ma non a fecondare una intera landa inaridita; si possono rac-
cogliere nel cavo della mano, con isperanza di trovarvi in fondo,
non di rado, alcuna lucida gemma; si possono raccogliere in ameno
stagno, in cui diguazzare un istante e staccarne qualche splendida
ninfea; si può ammirare in quel grazioso getto d'acqua il riflesso
di tutti i colori dell'iride ; ma è raro che la piccola fonte si volga
in agile ruscello che cammini lontano. I pochi fiori che stanno in-
torno alla rupe solitaria possono rinfrescarsi e allegrarsi un minuto,
e, trasportati quindi altrove, su terreno più fecondo, vegetar bene;
ma né di fiori s'appaga il tempo edace né ogni fiore apre il suo
calice quando cade quella parca stilla di rugiada ; un largo volume
d'acque domandano i nostri campi per prosperare, e le nostre
industri officine per avvivare un lavoro fecondo. La parola dell'uomo
di lettere deve scorrere sempre com'onda benefica. La rupe solitaria
è invece immobile, e se ne sta accigliata; essa non chiede e non
vuole nulla per sé ; si direbbe che sdegni quegli uomini stessi ai
quali;, a spizzico^, lascia gustare da cinquant'anni una parte de'tesori
— 135 -
ch'essa racchiude; sono spiccioli d'oro ma spiccioli, e li consente
una mano avara. Beato tuttavia quel giovine a cui la mano be-
nefattrice, una volta, almeno, si stende !
Ed io pure posso chiamarmi tra i fortunati che un giorno il
cieco veggente beneficò. Ero nel mio anno diciassettesimo; la let-
tura dei drammi di Shakespeare e di Schiller m'aveva innamorato
della poesia drammatica ; la lettura delle Storie della Corsica e
dei Canti Popolari di queir isola raccolti dal Tommaseo, mi ave-
vano colorito nella mente giovanile il mondo popolare corso in im
aspetto singolare; ignoravo che il Revere avesse scritto un Smìi-
piero ; composi anch'io il mio primo dramma in versi su quell'ar-
gomento. Finitolo, scrissi, con riverenza di discepolo, al Tommaseo,
mandandogli il lavoro manoscritto, e pregandolo di volerlo degnare
d' uno sguardo; passarono quasi quindici giorni senza alcun ri-
scontro, ed io avevo già messo 1' animo in pace sul mio povero
tentativo, quando un ignoto mi fa sapere ch'egli ha da rimettermi
una lettera del Tommaseo; ritiro avido e geloso ciò che m'appar-
tiene ; apro la lettera con quel moto febbrile che ogni lettore può
facilmente immaginarsi, ricorrendo agli anni studiosi della sua
adolescenza. La lettera incominciava epicamente, col rallegrarsi che
il giovinetto autore incominciasse là dove molti scrittori provetti
sarebbero sfati lieti di poter finire, e continuava, consolando dav-
vero il giovine studioso, con l' assicurarlo che egli aveva bene
l'appresentati i costumi corsi, e superato una grande difficoltà nel
presentare, in modo nuovo, pur dopo esempii famosi, la follia del-
l' eroina; la lettera terminava, tuttavia, con due rimproveri ; l'uno
faceva carico al giovinetto autore dell'aver messo in iscena un
]ìrete brigante, aizzando cosi 1' odio contro una casta già troppo
odiata ; l' altro d' aver scelto per la scena un argomento atto a
rinfocolare gli sdegni ornai spenti fra Genova e la Corsica. È passata
da quel tempo quasi un' età della mia vita, e però parmi poterne qui
parlare come della vita d' un altro uomo; quelle lodi non inorgo-
glirono punto il giovinetto autore; quelle censure invece lo per-
suasero ; gli sarebbe stato assai facile far stampare allora e recitare
in Torino il dramma lodato; e l'età stessa dell'autore poteva allettar
facilmente gli impresarii a tentarne la prova scenica; egli nascose
invece il proprio manoscritto, e cosi ben lo nascose che non saprebbe
ora pili dove ritrovarlo. Le parole del critico venerato avevano fatto
il loro effetto; avevano al giovane studioso cresciuto coraggio, non
vanità; egli continuò quindi a studiare, con più' ardore : e, s' ei
non ha potuto far più di qn'dlo che fere, non può dire, in verità,
— 136 —
che l'abbia sciupato alcuna lode prematura o eh' ei l'abbia fatto
a posta. Benché adunque il Tommaseo, nel pubblicare, circa dieci
anni dopo, in un giornale, un frammento di quella lettera ol
diciassettenne autore di un dramma intitolato il Saynpiero, abbia
creduto di poter modificare considerevolmente il suo primo giu-
dizio, negando all' uomo quelle lodi che non avevano punto inva-
nito il fanciullo, io desidero eh' egli si tenga sicuro che 1' uomo
non gli professa minor riconoscenza per quella lettera che fu la
prima di letterato in fama a lui scritta, ed alla quale egli deve
soltanto l'incitamento ricevuto a proseguire più volonteroso e più
ardente negli studii intrapresi. Quella lettera gli permette ora e gli
permetterà sempre di noverare il Tommaseo fra i benefattori suoi,
né il confessare di dovergli gratitudine gli pesa, per quanto possa
parere ora al Tommaseo, d' aver mal collocati i suoi antichi be-
neflcii, e che la giovine pianticella, ch'egli pure contribuiva ad
educare, sia poi tanto male cresciuta.
E i beneficati dalle parole del Tommaseo se volessero tutti confes-
sarsi al pari di me, sarebbero moltissimi ; molti essi sono, in ogni
modo, al confronto de' pochi ai quali 1' acre linguaggio di lui ha
talora potuto recar danno. Tra questi pochi, il più disgraziato fu il
Foscolo a cui il Tommaseo era stato, anco quando ei l' imitava,
irriverente in gioventù, e per tutta la vita, poi, mostravasi, oltre mi-
sura, acerbo. La mente del Tommaseo, vaga com' è di minuzie inav-
vertite, considera spesso delle cose l'aspetto infimo, per dargli ri-
lievo; il critico n'ha facilmente il vantaggio sopra il suo avversario,
poiché lo piglia dal suo lato più debole, anziché investire il toro
per le corna ; ma, di quella facile vittoria non può egli stesso
sperare gran gloria. E poca gloria s'accrebbe di certo al Tom-
maseo, per aver egli così lungamente mantenuto il suo pun-
tiglioso cipiglio col Foscolo ; egli volle soltanto nel giudicare il
poeta dello Zante chiedere soccorso al solito arguto ingegno, dove
gli era necessario sovra ogni cosa pigliar consiglio dall' animo
liberale ; egli gettò così qualche ombra sulla fama del Foscolo, ma
offuscando, in parte, la propria. Meglio per lui se al Foscolo, al
Niccolini, al Carrer e ad altri fra' più simpatici e generosi scrit-
tori d' Italia, de' quali alcuno forse 1' aveva offeso, egli cristiana-
mente perdonava, invece di covare per lungo tempo piccoli ran-
cori per isfogarli in piccole vendette, nelle quali, s'ei tornava a far
prova d' un ingegno non mai posto in dubbio , a chi gli cercava
animo largo, aperto all' amore ed alla pace, egli poteva, troppe
Volte metter freddo.
— 137 —
La vita privata del Tommaseo è degna d'ogni rispetto e l'inge-
gno di lui manda veri lampi. Ma il critico forse punge o sol-
letica talora, più che non indaghi e comprenda; e più che en-
trar neir autore,, egli costringe 1' autore a sé stesso ; le parole gli
stentano all'uscita, e se, uscendo, scattano e saltano, saltando
troppo, talora cadono ; perciò, se talora, a proposito di cose volgari
gli accade di dirne delle sublimi, a proposito di cose sublimi, ne dice,
alcuna volta, delle volgari; l'ingegno gli lampeggia sempre, e
non vi è pagina di lui che non mandi qualche luce ; ma, di rado
quella luce divien calore. La penna del Tommaseo non fu mai
né stolta nò vile ; ma sovente si è compiaciuta di far effetto.
più che di riuscir efficace, di sorprendere più che di persuadere,
di dir bene e singolarmente più che di dir giusto e di dir tutto ;
il Tommaseo confessa egli stesso d' aver molto amato in gioventù
il Bartoli ed il .Segneri, due famosi parolai; e il loro concettoso
secentismo s' è in parte ammodernato, spezzato prima e poi serrato,
e fatto più denso nello stile articolatissimo, e sentenziosissimo,
ma freddamente nervoso di Niccolò Tommaseo.
Io non proporrei dunque il Tommaseo come modello unico di
scrittore ad alcun giovine studioso; tuttavia, poiché alcuna volta
gioverebbe loro saper dire certe cose minute com'egli le dice, e come
nessuno può dirle, in alcuni casi, meglio di lui, anche lo stile del
Tommaseo parmi destinato a divenir classico nella nostra lettera-
tura. Imitar sempre nello scrivere la maniera di lui non si po-
trebbe senza cadere nel manierato e senza trovarsi spesso impac-
ciati con una forma che non risponderebbe o non basterebbe all'im-
peto espansivo delle nostre idee e al calore de'nostri sentimenti; ma,
in quanto, sentimenti e idee, talora sminuzzandosi, piglino in noi un
carattere non dissimile da quello che dà una fisionomia speciale agli
scritti del Tommaseo, certo nessuno potrà mai esserci, in tal parte,
miglior maestro di lui, poiché nessuno scrittore adoperò mai uno
stile più individuale, più suo, come nessuna natura d'uomo fu mai più
scolpita, più gel03a, più costante, più inalterabilmente dignitosa di
quella che costituisce, nelle sue molte virtù e ne'difetti che da tali
virtù di rado si scompagnano, l'originalità di Niccolò Tommaseo; i
difetti dell'uomo son pure in parte i difetti dello scrittore; le virtù
dell'uomo che sono molte più, e quello che importa, molto più ope-
rose, splendono mirabilmente in ogni scrittura di lui. Se alcuno può,
quindi, con ragione ripetere il vieto adagio deWoìnma mea mecmn
porto, quest'uno è certo l'illustre letterato di Sebenico; egli ha in
sé il suo paradiso e il suo inferno, e se la vita gli é stata un
— 138 -
purgatorio, anche questo è, pur troppo, il fatto suo, che gli uomini
sarebbero stati a lui molto più pii, s'egli si fosse mostrato a sé
stesso molto più umano. Ma ciò non riguarda più noi; la sola cura
nostra è qui di misurare il bene ch'egli ha fatto lavorando per le
lettere da cinquant'anni; questo bene non si può registrar tutto; ma.
percorrendo il solo Dizmiario d'Estetica è lecito argomentarlo; il
fare abilmente di mosaico, mettendo insieme per mezzo secolo tutto
ciò che, nella divisa Italia, le lettere hanno prodotto di più degno,
soffiando, quantunque più col pensiero che con l'affetto, un po' di
vita moderna nelle vecchie produzioni accademiche, e un po' di
gusto antico nelle moderne novità, non mi pare che sia stata cosi
piccola impresa da impedirci d'ammirare ora l'uomo di alto e fine
ingegno e di fermo ed austero carattere che solo ha saputo du-
rarvi per tanto tempo. Non sono assoluti i suoi giudizii, la sua
critica non è tutta la critica, la sua estetica nqn è tutta l'este-
tica; ma il giudice ha sano giudizio, il critico fine discernimento,
l'estetico ragiona la bellezza che prima ha sentita, e lo scrittore
sa scrivere. Ce ne sarebbe d'avanzo per leggerlo; e, se si ag-
giunga, che, in tempi assai difficili e servili, la parola del Tomma-
seo suonò sempre libera, ce ne sarà pure d'avanzo per imitarlo.
{*) Il venerando Niccolò Tommaseo, dopo la lettura del Ricordo che lo
riguardava, indirizzavami una lunga e nobilissima lettera, della quale m'è
lecito pubblicar la parte seguente, e mi faccio lecito notare in parentesi
que' punti ne' quali parmi che lo scrittore abl)ia attribuito alle mie pa-
role un senso che non volevano avere :
« Dal libro del Signor Canini Ella colse una particolarità, nella quale
la memoria a lui fece fallo ; né intorno ad altro, clie a certi particolari
di fatto verserà questa lettera.
Egli dice che nel 1847 io ero ito a Padova, per un moto da tentarsi,
a intendermi col conte Carlo Leoni. Non è per l'appunto così. Nella state
di quell'anno io proposi una petizione da fare pubblicamente al Governo
austriaco acciocché fosse attuata la legge censoria continuamente vio-
lata da esso ; e, partendomi per mie faccende alla volta di Toscana,
lasciai al Sig. Avv. Manin quel foglio sottoscritto da me, raccogliesse
altri nomi, e però lo mostrasse anco al conte Leoni. Questi per sue ra-
gioni non sottoscrisse, né altri, né lo stesso avvocato Manin ; onde a
me venne necessita di leggere in accademia : e ne seguì le cose ch'Ella
narra a un dipresso. Dunque senza contare la mo?sa dei fratelli Ban-
— 139 —
diera, e altri segni clie diede Venezia di vita (i quali non è luogo qui
né a lodare né a condannare), il fatto è che Venezia non attese la voce
del Sig. Cantù per destarsi nell'autunno dell'anno medesimo. [Codesto io
non ho affermato mai : amo, e stimo troppo i veneziani e la virtù loro
propria, per suggerire ad altri o lasciar suggerire a me che occorresse
ai Veneziani per insorgere la parola d'un solo uomo, veneziano o no
ch'ei fosse; io dissi che la parola di Cantù fu scintilla che accese l'in-
cendio; al Tommaseo che può insegnarmi la proprietà toscana delle
parole non isfugge che accendere un incendio vale fatalo piii vivo e non
già destarlo. Ho poi troppa fede nell'opera spontanea che deve prestare il
popolo .alla rivoluzione, che dal popolo solo può alimentarsi, perche io
supponga che un uomo solo basti a preparare una rivoluzione grande
e generosa come quella di Venezia è stata ; per la parte, del resto,
presa dal Cantù, al congresso di Venezia io mi rimisi alla relazione
del Fiquelmont, che non dovea di ^erto professare molta simpatia al
Cantù] Io Le so grado. Signore, eh' Ella abbia con calore di pietà ri-
verente difeso il nome dello storico tanto ingegnosamente operoso; ma
debbo soggiungere che le parole da lui dette in congresso (come poi
seppi, io che ne ero lontano e da ogni pompa rumorosa rifuggo), più
che eccitare, o irritarono o accuorarono non dico se a torto o a ra-
gione, parecchi veneziani che di stimoli esterni sentivano non aver di
bisogno A onore d'esso Sig. Canini dirò che, prima ancora del 47, egli a me
si mostrava caldo d'amore patrio; e che, senza farsi sentire al Congresso,
nell'autunno di quell'anno stampava versi vaticinanti assai chiaro le
vicende imminenti. Elia, Signore, sentenzia, [non sentenzio; ripeto col pro-
verbio che i fatti son maschi e le parole femmine] al paragone delle cin-
que giornate milanesi, femminee le parole che in Venezia e in Firenze e
i)i Torino allora suonarono. Di quel che a me spetta, non entro ; ma
dico che alla mossa di Milano fu primo impulso la parola d'un deputato
al Consiglio provinciale, il qual deputato aveva pure un titolo a pro-
fi^-rirla, e la temperò, con lodi all'Austriaco ch'io non avrei scritte e
nondimeno le giudico più prudenti che vili, [né in me cadde mai in
mente di accusare di viltà i discorsi allora proferiti] e credo che di
quell'atto gl'Italiani a lui debbano gratitudine. Or la proposta di somi-
gliante petizione era stata, circa sei mesi innanzi, fatta in Venezia con
parole più altere e con più pericolo dello scrivente ; la quale se non
ebbe effetto, non è del proponente la colpa ; nò, se lo avesse sortito, ne
verrebbe a lui lode grande, e non certamente a lui solo.
Ella, Signore, disprezza, [non disprezzo, compiango ; me ne appello ai
lettori che lessero quelle mie parole] come timide, le parole dettate dal
Sig. Avv. Manin e da me nella carcere innanzi a' giudici nostri. Io non
ho letto l'esame del mio compagno [?] ; e però non ne parlo : ma mi
tenni in debito di rileggere il mio per conoscere se avessi a arrossirne;
e confesserò che, senza trovarci nulla d'eroico e d'ammirando, non
credo d'avere a vergognarmene punto, [Ho forse io detto qualche cosa
— 140 —
di simile ? Ho forse detto che il Tommaseo siasi in quella occasione con-
tradetto ? Parvemi solo che egli allora confermasse troppo l'assenza in lui
d'ogni proposito rivoluzionario] e vorrei che in tutte le carceri e fuori
avessero parlato così tutti quelli che si presero e ottennero il salario e la
corona di martiri. Ma l'assunto e mio e del Sig. avv. Manin, concorde in ciò
meco, era presentare all'Austria la questione ne' termini delle sue leggi
stesse. Delle altrui intenzioni, non note, io non posso rendere testimo-
nianza ; quanto a me, so che dall'Italia mi parevano più sicuramente
imitabili gli esempi di Daniele 0' Connell, e di Riccardo Cobden, e del
Signor Deak, e degli altri che prima o poi da quel ch'era riconosciuto
per giusto dagli stessi avversarli, tolsero armi a combattere i divieti
non giusti; che l'Italia mi pareva immatura a resistenza unanime-
mente efficace senza implorare l'assistenza straniera, rischiosa e assai
volte vituperosa. Checché sia di questo parere, io, nella carcere, non
contradissi a me stesso ; anzi avrei contraiJetto, parlando altrimenti ;
avrei aggravata la condizione e del Sig. Avv. Manin e degli altri o ac-
cusati o sospetti ; che non mi pareva atto né savio né onesto. Quanto
a me, rammentandomi il proverbio che i cenci vanno all'aria, e senten-
domi in -Venezia, non per affetto mio ma nel fatto, straniero e solo ; pre-
vedevo senza sgomento la fine, e tal»no de'miei esaminatori mi faceva
già intendere che io sarei stato la vittima.
Ella dice : se l'Austiia avesse presi in parola que'due [io credo averne
parlato con maggior rispetto] e consentito ai miglioramenti legali richie-
sti da essi, la fama loro ne avrebbe patito. A cotesto mi lasci rispondere
assicurandola che la mia non ne avrebbe patito punto, perchè, anco chia-
mato dall'Austria a mettere in atto i miglioramenti voluti, io le avroi reso
grazia dell'onore ricoverandomi in fretta nella mia solitudine. [Di ciò nes-
suno dubita; il Tommaseo che non volle mai nulla ricevere dal governo
italiano, avrebbe tanto meno potuto ricevere dal governo austriaco ; ma
nelle mie parole non vi era nulla di allusivo a cotesto; io non dico che il
Tommaseo avrebbe fatto danno alla sua fama d'onest'uomo se l'Austria
accorta accettava il concordato di Manin e di Tommaseo, ma solo notato
quello che penso e credo, cioè ch3 i patrioti unitarii Cavouriani invece di
ammirarli, li avrebbero forse perseguitati ; e da questa opinione che, os-
servando e ragionando, mi sono formata, parmi che niente potrebbe rimuo-
vermi; né io col professarla arditamente ho inteso di far torto ad alcuno,
bensì deplorare la importanza eccessiva che nella nuova Macchiavellica
Italia si attribuisce alla ragione del fatto compiuto.] E i conoscenti del Sig.
Avv, Manin credo che le risponderebbero il somigliante [Lo credo facil-
mente, e, nel crederlo, me ne compiaccio] Ma ella soggiunge : e allora le
speranze d'Italia si dileguavano; il Veneto restava ai Tedeschi. E non è egli
restato per anni sedici e più. ? [C'è restato, sì ma per forza, dopo una
ditesa eroica, non per dedizione.] E chi glie l'ha tolto? Di quel che se-
guì in tutta Italia allora, e di quello che segue e seguirà, non mi
pare eh' Ella sia grandemente contento: ma né delle sue né delle mie
— 141 —
opinioni si tratta qui ; né io intendo se non appurare i particolari de' fatti.
Per questo m'è forza soggiungere che^ quand' Ella fa me repubblicano
senz'altro, se non sbaglia, risica di fare che sbaglino que' lettori del suo
giornale che pigliano le cose in digrosso. [Io confido, per dire il vero, che i
miei lettori non patiscano di cosi fatta infermità]. Io non proclamai la re-
pubblica di San Marco; ma, consentita dalla città di Venezia e sul primo da
altre, credei che il disdirla, il segretamente disfarla, il consentire vilmente
che altri la disfacesse, era vergogna, vergogna non scui^ata dalla spe-
ranza d'alcuna utilità ; e lo provavano le calamità del Piemonte, e la
necessità a ripararle del soccorso straniero. Né nel primo esilio io co-
spirai per repubblica, né nel secondo. Però gli sbagli (per non dir altro)
di certi re e imperatori, o de' loro settatori sottomano cospiranti con-
tr'essi e in cuore nemici, resero a taluni la repubblica desiderabile,
(ma non credo la rendano con ciò solo possibile) ; io non ci ho che ve-
dere. Anzi desidero che i leali amici e consiglieri de' re facciano desi-
derabili i re. Io mi riserbo il privilegio di compiangerli ondanti e ca-
duti. E pei'ò avrei amato ch'Ella, Signore, avesse sul cadavere di Mas-
•similiano d' Austria trovato una qualche pia parola. [Non si trat-
tava per me di parlare della tragedia messicana che avrei comiìianta
sicuramente anch'io, ma non potevo giudicare di tutta la vita d'un principe
dal solo suo fine; la storia, potrebbe notarmi lo stesso Tommaseo, non
è un'elegia].
L'assunto del libro mio Roma e il Mondo, così come quello della con-
futazione che feci giovanissimo del Lamennais, proponente per criterio
del vero l'autorità del genere umano, non era quale Ella dice. Anzi io
dimostrava che nel Trattato sulla Indifferenza in fatto di religione, non
disapprovato allora da Roma, era tolto alla società cattolica quel che
volevasi dare alle tradizioni de'popoli, che son brani di verità, impos-
sibili a farsi norma costante della privata e della pubblica vita. Nel li-
bro sulla potestà materiale de'sacerdoti, io desideravo serbato al Sommo
Sacerdote cattolico un luogo dov'egli non dipendesse dai re, e dove i
re e i servi loro non l'avessero dinanzi giudice terribile perché inerme,
e suddito più rispettato che principe Quella setta che della Chiesa vuol
fare una Corte o una Loggia o una Vendita o altro ricettacolo di tri-
viale pedanteria, colle sue furberie goffe, e col riso sardonico spruzzante
schiuma e fiele, e colle imbecilli speranze nei re della terra, trasse le
cose al punto che sono : ma non può far si che Pio IX nella storia del
secolo non rimanga più alto di tutti i monarchi e de' loro ministri o
nemici. Quel libro io scrissi in lingua francese; né riconosco la tra-
duzione da me non approvata né vista, apposta a me stesso da un tale
con stupida malignità.
Né il Sig. Marchese Capponi, benevolo a me da molti anni, mi prof-
ferse l'ospitalità di Toscana ; nò poteva egli allora a me profferirla.
Nò io mai fui offeso da Ugo Foscolo, che usci d'Italia prima ch'io ci
venissi ; né credo ch'egli abbia pur Ietto il mio nome, nonché miei
— 142 —
scritti. [Di codesto io non parlai] Ammirai e ammiro Io stile potente suo;
non lo credo uomo da proporre in esempio a uomini italiani [ed in ciò io
con molti altri italiani, dal Tommaseo mi permetto dissentire] appunto
perchè ho conosciuti troppi e amici suoi e ammiratori, e dal loro labbro
veridico troppo seppi della sua vita, e troppo ne dice egli stesso. E
quando il sig. Giuseppe Mazzini una mia qualche parola non irriveren-
temente severa macchiò col gallicismo calunnioso di insinuazioni cat-
toliche, mi tenni in debito di citare i tanti luoghi ove il Foscolo giu-
dica sé medesimo troppo severamente. Né a Luigi Carrer io debbo al-
tra gratitudine se non di colloqui, che mai non sono sterili a chi vo-
glia farne suo prò ; ma con lodi larghissime commendai lui ben più
che egli me ; e anche dopo saputo quel ch'egli nell'assedio di Venezia
aveva e detto e operato sul conto mio, che l'onore di Venezia con
miei danni e pericoli difendevo, ristampai le sue lodi, e in una scelta
di prosatori diedi luogo a più passi d'una sua orazione, soggiungen-
dovi note accennanti a qualche menda, più parcamente che non facessi
esaminando altri scrittori di più splendida fama.
Un errore di fatto Ella ha commesso. Signore, ma per mia colpa, fa-
cendomi nato del 1803, come io stesso credevo allora che scrissi: ma
so adesso che all'anno settantesimo pochi mesi mi mancano. Altri er-
rori e colpe, più gravi delle notate da Lei, dovrei io confessarle; io
che, sebben giudicato un po' querulo di mia natura, so discernere
quanto da Lei ci corra ad altri miei giudici, i quali io non degnai di
risposta, né degnai muovere querela di detti e di fatti crudeli alla mia
desolata vecchiezza.
E s'Ella trovava e poteva leggere tutto quello ch'io scrissi e innanzi
e dopo il 1859 (non ha visto che il meno e di male e di qualità), usava
forse anco all'ingegno maggiore o indulgenza o commiserazione. Del-
l'aver io, stampando una lettera a Lei diretta, omessone qualche cosa,
non rammento le ragioni, né ho tempo a rileggermi : certo non maligne
né abiette. La ragione in genere di tali omissioni, è il tralasciare ch'io fo le
parole che concernono la persona singola, e non contengono osserva-
zioni che possa applicare a sé talun altro di coloro che leggono. Posso
di questo vantarmi, ch'io non ho avvertitamente mai né scuorati i gio-
vani né piaggiati [E codesto io credo pienamente ed è per queèta ra-
gione ch'io sento dovergli molta gratitudine]. E in prova di sincerità e
insieme dell'attenzione con cui, accuorato e occupato, lessi lo scritto
di Lei, noterò che nel passo di Giovenale è corso un errore di stampa,
e che invece di versus s' ha a leggere: facit indignano versum Qualem-
cumque Ipotesi. Spero che indegnazione Ella, Signore, non sentirà in que-
sta lettera del suo
Firenze, 10 Luglio 1872.
Bev.
Tommaseo.
VI.
FRANCESCO DOMENICO GUERRAZZI
A Giuseppe Mazzini, quello ch'ei sentiva fremere tuòW Assedio di
Firenze pareva ingegno di poderoso Titano; ed, in vero, nessun
italiano meritò meglio del Guerrazzi questo alto paragone. Egli
carpiva, nascendo, or sono 07 anni, i fulmini a Giove olimpico ;
e non glie li ha resi ancora ; di tempo in tempo, dalla sua soli-
tudine fantastica del Fitto di Cecina, scote la testa canuta, e ne
lascia tuttora cadere alcuno fra i disavvezzi ed attoniti suoi con-
cittadini. Il vecchio leone ha perduto l'ornamento regale della
sua prima criniera, ma non ha ritirato ancora gli artigli; la
preda ch'egli afferra tiene sempre e non lascia più andare; guai
dove tocchi; che non solletica, ma graffia; guai dove addenti;
che va giìi fino ai visceri.
E questo Titano, avendo pure imparato a leggere e scrivere,
doveva, per la sua potenza, apparire scrittore insolito, in mezzo
a quest'Italia de'reboanti classici, delle belanti Arcadie e delle
soporifere Accademie ; lo sdegno di Dante e la malizia di Mac-
chiavelli, s'erano impromessi in fasce nell'anima del Livornese, e
Giorgio Byron , come vide adulti e maturi gli sposi bene as-
sortiti, li sfasciò per guidarli al talamo col ghigno pronubo del
suo vago Don Giovanni, Ma, un giorno, a questo bel demonio
Dio inspirava l'amore, e allora, in mezzo alle fiamme prorompenti
dall'anima tenebrosa di lui, si destò un forte grido di dolore per
la patria schiava, s'accese un for-te desiderio e una speranza viva
di liberarla; il Guerrazzi sentì di non poter da solo combattere e
vincere una intiera battaglia contro gli oppressori della sua pa-
tria; volle almeno scrivere un libro, che preparasse all'Italia i
— 144 —
suoi futuri combattenti; e V Assedio di Fii-enze fu quel libro, che
nella nostra storia politica non meno che nella letteraria vivrà
pertanto immortale.
Vediamo ora come siasi prodotto in Toscana questo singolare
fenomeno, questa tempesta viva in un'acqua morta, questo ma-
schio bambino nato con gli occhi aperti, con la voce tonante, e con
le braccia d'un ercolino in mezzo ad una generazione un po' para-
litica e dormigliosa, la quale, fra il sonno, trovava tuttavia an-
cora, come per miracolo, la forza di celiare in buona lingua.
Nacque Francesco Domenico in Livorno di gente antica data al-
l'agricoltura ed alla guerra; l'avo di lui, Donato, aveva perduto
ogni suo avei'e servendo il principe CTirlo di Borbone per l'im-
presa di Napoli ; il padre Francesco fu abile intagliatore, avendo
avuto per maestri nelle arte del disegno due francesi famosi, il
pittore Fabre e lo scultore Corneille. C'importa, ora trattandosi
d'uomo di ingegno singolare, per giudicar bene del figliuolo, fare
un pò di conoscenza col padre.
Del padre suo il Guerrazzi ragiona cosi nelle sue Memorie (1):
« Fino dai primi anni del vivere suo, mio padre si mostrò taci-
turno e mesto, malinconia che di mano in mano crebbe in cupezza;
costumò tenere stanza appartata dalla famiglia e quivi stette solo
intere giornate; silenzioso durò talora con noi perfino un mese,
e i nostri pranzi spesso si assomigliarono a quelli dei cen obiti. Solo
che il padre mio sollevasse le ciglia, ogni giovanile gaiezza ve-
devi andare in bando, non già per paura, che né noi l' avevamo,
né egli voleva incuterci, ma proprio perchè gli portavamo rive-
renza. — Oltre modo egli si dilettò nella lettura di libri gravi, e
sopra questi portava certi suoi giudizii che io a vero dire non
partecipo ma che pure riferisco perchè mi paiono singolari. Di
Tito Livio soleva dire : quando gli storici di un popolo grande in-
cominciano ad usare pompa di parole, segno è certo che i gT-andi
fatti declinano; l'orgoglio del passato somministra certe misure
della miseria presente. Di Tacito mi parlò una volta all'orecchio; co-
stui scrisse storia col pugnale; valeva meglio piantarlo nel cuore dei
tiranni e morire. Non so come sostenesse che la lettura del Macchia-
vello era sopra ogni altra etlìcace a rendere gli uomini onesti:
forse perchè i buoni ingegni conoscendo le nostre infermità si sen-
tono disposti a medicarle, e imparano a guarirle; gli stolidi poi non
{[) Livorno, Poligr. ital. 1848, lettera a G. Maz/ini.
— 145 —
intendono nulla, neppure apprendono nulla in bene né in male. Il
Botta, a suo credere, scriveva la storia da Cardinale (e voleva
dire il Bembo) e la pensava da Curato di campagna. I libri poi
che leggeva e rileggeva fino a consumarne parecchie edizioni fu-
rono Dante e Plutarco; come uomo naturale, amava oltre misura
Dante però che gli paresse figliuolo di sé; e, in secolo guasto,
levarsi a tanta altezza di cuore e di mente egli teneva per mira-
colo e non gli davano noia le roccie e le frane di cotesta alpe
smisurata; ma, come uomini civili, citava sempre gli eroi di Plu-
tarco perchè, quantunque favoriti dai tempi, presentavano meglio
lo esempio della dignità umana, nella quale faceva consistere il
precipuo fondamento dell'ordine dello Stato. Quasi ad ogni istante
rampognava: Pompeo avrebbe detto così. Catone avrebbe fatto in
tale e in tale altra maniera, e se noi con bocca da ridere gli os-
servavamo come né Pompei né Catoni ci fossimo, egli stringen-
dosi nelle spalle si contentava rispondere : uomini erano e mor-
tali come siete voi. »
Un giorno, il fanciullo Guerrazzi tornava da una rissa nella quale
avea riportate parecchie battiture, e se ne lagnava col padre: il
padre, senza informarsi della ferita, gli percosse il viso dicendo :
« quando si temono ferite, non si va alla guerra. »
« Con indefesso e quotidiano insegnamento, seguita il Guer-
razzi nelle sue Memorie, il valoroso uomo ci ammaestrava in
due cose del pari buone e che io, suo figliuolo, ho del pari ot-
timamente appreso; l'odio per qualunque servitù, e l'odio per
qualunque tirannide; né padroni mai, né servi. » Un giorno, il
maestro decretava ingiustamente la corona d'imperatore ad uno
scolaro che a tutti i condiscepoli ne pareva indegno; il Guer-
razzi strappa la corona immeritata e la fa in pezzi, gridando
« delle corone acquistate con frode, padre Maestro, ved'ella che
cosa se ne fa ? » Il maestro ne muove lamento al padre del Guer-
razzi ; il quale promette trovare un rimedio; « e il rimedio, se-
guitala Lettera autobiografica, fu questo; ordinata una nuova co-
rona la fece dorare e la mandò alla scuola; e a me, che, presago
di guai, mi apparecchiavo a obiettargli Timoleone, Trasibulo, e
gli altri suoi predilettissimi, non fece neppure una parola. » —
« Ci ammoniva spesso a conservarsi rigidi osservatori della pa-
rola data, avendo per costume dire: parola detta e sasso lanciato
non possono più ritirarsi indietro; e questa parola, egli aggiun-
geva, bisogna osservar principalmente quando la diamo a noi
stessi ; avvegnaché la stima propria molto più ci stia a cuore che
Ricordi Biografici 10
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l'altrui; e quando l'uomo si pone in istato di poter rimprove-
^ rarsi giustamente la mancanza di parola, si apparecchia a soppor-
tare in pace che anche altri gliela rinfacci; della stima propria
non può l'aomo fare a meno, dell'altrui si » — « In fatto di re-
li'T-ione, conchiude il Guerrazzi, non appresi nulla dal padre mio ;
quando udiva parlare del Creatore, delle magnificenze della crea-
zione, e della vita futura soleva dirmi : tu sei nato poeta, e i poeti
e i pittori hanno bisogno di stemperare molte tinte sopra la ta-
volozza. Degli uomini moderni stimò Napoleone fino al Consolato,
e Tipoo-Saib, e questo, perchè lesse che intorno al gradino del
Trono aveva fatto disporre gemme a modo di caratteri, i quali
suonavano in questa sentenza : Meglio vale vivere un giorno come
un none, che cento anni come una pecorai »
E però il giovine Guerrazzi divenne leone. Dal ritratto del padre
è agevole il riconoscere quanto il figliuolo, per certe parti, gli so-
migli. Dapprima gli somigliò l'uomo, e poi, per quella corrispon-
denza che si nota sempre fra l'uomo e lo stile d'uno scrittore,
quando l'uomo sia veramente originale, nello scrittore si manifesta-
rono alcuni caratteri singolari, ch'egli ripete dall'indole sua, in-
formata a quella del padre. Il padre amava la grandezza antica
e gli antichi citava con predilezione; il Guerrazzi, alla sua volta,
a rinforzare e rendere più elHcaci i suoi argomenti letterarii e
civili, trae frequenti esempii dalle storie di Grecia e di Roma.
Il padre usava si)artanamente e, si può dire pure, alla romana,
della parola; quindi, parmi, que'brevi ritratti, que'gruppi scolpiti,
quelle sentenze incisive che rendono, spesso, cosi maschia e cosi
piena di rilievo la prosa del Guerrazzi.
Ma lo stile del Guerrazzi non si manifesta in un solo aspetto;
oltre a ciò che esso contiene d'intimo, di proprio e chiamo pro-
prio anco quello che il padre gli comunicò, esso presenta pure alla
sua superfìcie alcune tacche lasciategli da' varii innesti più o meno
riusciti, che la scuola prima e poi la vita, educatrice suprema del-
l'uomo, operò sopra di lui.
Quando lo scrittore è tranquillo, e scrive senza calore, la sua
propria virtù rimane nascosta, ed egli col suo stile vezzeggia
volentieri periodi magistrali e solenni conciossiacché. Egli si ram-
menta allora, senza volerlo, il suo primo maestro che fu il padre
Spotorno; e i giovani imitatori dello stile guerrazziano che, gi-
rando qualche conciossiacché alla maniera guerrazziana, credono
conseguir Aima ancor essi di scrittori originali, si rendano accorti
che nel Guerrazzi imitano quello che meno gli appartiene. E,
- 147 -
quando, per portare più in alto la loro rettorica, le danno
come contrappeso, alcuna bestemmia guerrazziana, sappiano che
imitano ancora il Guerrazzi in quella parte ov'egli è forse meno
imitabile, in quella parte, dove lo scrittore dimentica più il suo
ufficio, per isfogare quello che in altri potrebbe chiamarsi un cieco
istinto plebeo, ed in lui è satanico studiato disdegno d' una cosa
gentile che gli appare in quell'istante nella forma di una igno-
bile debolezza. Egli ha traversato nella vita, ore tremende, nelle
quali senti al grado massimo la sua potenza: invece di misurarla
per dominarsi, volle talora lasciarci intendere di che sarebbe ca-
pace quella potenza, se gli piacesse farne abuso; egli ebbe, tutta-
via, la tentazione di dirci: io sono un forte; badate che potrei di-
ventare un furbo violento. Preferirei talora che il Guerrazzi della
forza dell'ingegno si fosse servito sempre ad un fine buono, né solo
al fine generale, che in lui fu sempre alto, ma anco a' fini speciali,
dietro i quali correndo talora più pronta la mente del giovine let-
tore, può facilmente fuorviarsi.
Ma, per tornare al padre Spotorno, ecco in qual modo l'illustre
discepolo me lo descrive in una sua felicissima lettera del 2(3 feb-
braio «rigido, e forse un zinzino pedante; dopo il 500 egli aveva
fatto la serrata del Consiglio. E'm'insegnò la lingua, come s'ingras-
sano i Luci; uno imbuto in gola, poi giù una ramaiolata di
Bembo, di Casa, di Baldassarre Castiglione, e via discorrendo. Si
sdegnò meco, e con Livorno perchè mi trovò in tasca taluno dei
romanzi della Radcliffe ; io mantenni tuttavia sempre cara me-
moria di lui. »
Come que'romanzi gli fossero venuti fra le mani, lo stesso
Guerrazzi ci narra nelle sue Memorie: « Comunque io discerna
ottimamente che rimanendo alla sua scuola, (intende quella dello Spo-
torno) noi saremmo diventati pedanti solennissimi, pure quel pren-
derci quasi per la gola e costringerci a trangugiare a dosi doppie
Pandolfini, Castelvetro, Speroni ed altri predilettissimi suoi, in ul-
timo ci fruttò assai, almeno in quanto alla lingua. Il padre mio ve-
deva con mestizia che io non mi mostrava vago della lettura a se-
conda del suo desiderio; ed, in vero, come invogliare un fanciullo a
leggere mettendogli in mano il Cavalca? Traiano Boccalini narra
come un poeta per avere sbagliato la misura di un verso fu con-
dannato da Apollo a leggere la presa di Pisa nel Guicciardino;
pena che in Parnaso sembra che equivalga alla galera ; per me ,
se Spotorno durava, anziché leggere le poesie della Bella Mano,
mi sarei dato alla disperazione. Mio padre dunque un bel giorno
— 148 —
mi chiamò nella sua stanza e additandomi una cassa mi favellò:
Apri questa cassa, la roba che contiene è tutta tua. Remosso il
coperchio, ammirando, la trovai piena di libri, e sai quali libri?
Le opere tutte del Voltaire, del Montesquieu, del Bacone, e poi
Ariosto, Passavanti, i romanzi della Radcliffe, le Mille e una
Notte, i Mille e un Giorno, la storia dei Filibustieri, Omero, Os-
sian, e Viaggi, storie Naturali, di costumi ec. ec. — Io per me
credo che se il Diavolo avesse suggerito la scelta a mio Padre
non avrebbe eletto peggio o forse meglio per operare una rivo-
luzione nel mio cervello. Cominciai di fondo e tanto in me s'ac-
cese inestinguibile il desiderio di leggere, che nella sera mi spen-
zolava col torace fuori della finestra per cogliere l'ultimo raggio
della luce morente; e, nella notte, mandato per forza a giacermi,
quando io sentiva addormentata la famiglia, mi alzavo pianamente,
e acceso il lume tornava a leggere ; intemperanza che mi ha of-
feso alquanto la vista e dato l'abitudine invincibile degli studii
notturni. Terminati i Viaggi e i Romanzi mi accostai a Voltaire; lo
bevvi e lo ribevvi fino a colorarne le ossa come avviene agli ani-
mali che si nudriscono di rabbia; dopo mi attentai a deliberare
i più gravi, li presi, li lasciai, finché, dopo qualche mese, li in-
tesi, e mi affezionai anche a cotesti ; allora si posero a molinarmi
in testa un ballo infernale Bacone il gran cancelliere d'Inghil-
terra, che teneva per la mano Messere Ludovico Ariosto, il Frate
Passavanti che veniva dietro a Voltaire ; nei moti veloci, la gonnella
bianca della Radcliffe si mescolava con la toga rossa del presi-
dente di Montesquieu; stetti per acquistarne una infiammazione
cerebrale: non mi riusciva più condurre una cosa di un solo co-
lore : gli aforismi terminavano in epigrammi, i racconti paurosi
in considerazioni poetiche, un discorso teologico sopra i sette
peccati mortali colla descrizione delle bellezze di Alcina; pure il
ribollimento del caos si quietò e ne sorse uno impasto di appas-
sionato e di sarcastico, di fidente e di scettico, di dommatico e di
analitico, di pauroso e d'intrepido, di lusso orientale d'immagini e
di formule severe di 'raziocinio, di esitanza e d'impeto, di scorag-
giamento e di forza convulsa e di altre moltissime non contra-
rianti ma in antitesi fra loro che hanno colorato i fantasimi usciti
dal mio cervello. »
Questa confessione del Guerrazzi è preziosa; ma ei non ci dice
quello che più forse importava, come, cioè, occorreva un'anima
simile alla sua, per subire tante e così diverse impressioni dalla
lettura, e per informarne di tanta varietà l'ingegno; come le corde
— d49 —
sensitive erano molte in lui ; e come le più pronte a muoversi do-
vevano essere le irritabili.
Ma né l'educazione domestica, né le diverse letture bastarono
a improntare tutto il carattere del Guerrazzi e ad indirizzarne in
modo definitivo l'ingegno.
Gli anni passati per lo studio della legge all' Università di
Pisa finirono per darlo all'Italia qual é. A Pisa, più che la scuola
del celebre giurista Carmignani, egli frequentò con zelo quella
del medico Francesco Pacchiani. « La natura, mi scrive egli, si era
divertita a piovere su quel capo talenti e ingegno a Corbellini ; ed
egli li aveva buttati via a palate. » (1) A Livorno avea il Guerrazzi
già contratto amicizia con Carlo Bini; a Pisa ebbe per compagni
di studii Guglielmo Libri, del quale molti anni dopo egli assu-
meva la difesa per le stampe, e Lavinio Spada, più tardi, mini-
stro delle armi di Pio nono. « Ma chi scosse, prosegue la lettera
a me diretta, su l'anima mia come sopra lo scudo d'Yrminsul, fu
Byron. »
E su questo incontro ei si diffonde pure con calde parole nelle
sue Memorie : « Corse voce in quel tempo essere giunto a Pisa
un uomo portentoso, di cui favellava la gente in mille ma-
niere, e tutte opposte , e moltissime assurde ; dicevanlo sangue
di Re; potentissimo di averi, d'indole sanguigno, per costume fe-
roce, negli esercizii cavallereschi maestro, genio del male ma più
che umano intelletto; aggirarsi come il Satano di Giobbe pel
mondo a spiare se alcuno avventuroso vivesse e calunniarlo a
Dio; era Giorgio Byron; desiderai vederlo; mi parve Apollo del
Vaticano. Se costui è un tristo, pensai fra me. Dio è un inganna-
tore, negando risolutamente che il Creatore avesse voluto riporre
un' anima mala in sembianze tanto formose. Lavinio Spada mi
procurò alcuni volumi dell'opere del Byron. Giuseppe mio, se
questa volta salvai la mia povera intelligenza dalla vertigine
delle sensazioni fu miracolo vero. Non ho veduto la cascata del
Niagara, né la valanga delle Alpi, non so che cosa sia Vulcano,
(1) Di lai scrive il Guerrazzi nelle Memorie: «Morì come un romano;
visse come un cìnico. Presso a morte, l'Arcivescovo di Firenze mando-
gli sovvenzione di danari; egli li rifiutò, favellando : « ringraziate Mon-
signore della umanità sua e ditegli che pel viaggio al quale mi appa-
recchio, le vetture non costano, i locandieri non chiedono — tutto si
trova pagato. »
— i50 ~
ma contemplai furiosissime tempeste, il fulmine mi scoppiò vicino,
e non pertanto tutti gli spettacoli noti come gli sconosciuti, io
penso non sieno da paragonarsi a gran tratto con lo sbigottimento
che produsse in me la contemplazione di cotesta anima immensa.
Cotesta era la poesia che io aveva presentito ma non saputa definire,
cotesto l'esercito sterminato di tutte le facoltà del cuore e della
mente; lo universo intero stemperato sopra la sua tavolozza,
l'antica e la moderna sapienza, Dio accanto a Satana; e quegli a
paragone di questo comparisce più pallido, dolori, angoscie senza
nome, misteri non sospettati, abissi del cuore intentati, lacrime e
riso, a pienissime mani gettati sopra coteste sue pagine immor-
tali. Cotesta era la poesia che io aveva sognato e che adesso
vedeva ridotta a realtà. Tempo non mi pareva da fare considera-
zione se tanto oro fosse tutto di coppella; me ne empiva cupidis-
simamente le bolge e il seno e per molti anni non ho veduto, e
non ho sentito se non a traverso Byron. »
Non ci volea di più perchè anco il giovine Guerrazzi, alla sua
volta, sfidasse gli uomini della sua terra e del suo tempo Egli inco-
minciò pertanto con lo scrivere intorno al Byron tali ottave, che,
stampate a Livorno, dovettero passare molto tormentate per lo
scorticatoio della regia censura. Quattordicenne , fu bandito, per
un anno, dall'Università di Pisa per avere osato leggere ad alta
voce agli altri studenti le gazzette che recavano le novità di Na-
poli ; apparsogli quello un abuso di potere, si recò tosto a Firenze
per chiedere giustizia al presidente del così detto buon Governo,
Aurelio Puccini, e, scusandosi questo di non poter far nulla in suo
favore, il fiero fanciullo gli rispose. « Io vi compiango, signore,
se occupando un posto, dove^ anche senza volere, fate del male, e al
mal fatto non potete riparare, neanche volendo, la vostra coscienza
vi consente di rimanervi. » Dopo un'anno, egli tornò all'Università
di Pisa, ma sorvegliato e molestato non poco, aiutando a fargli
la polizia alcuno de'professori. Sommando tuttavia quel periodo
rilevante della sua vita, il Guerrazzi lo sbriga in poche, troppo
poche, parole: « istruzione nulla, persecuzione molta, fastidio de-
gli uomini e della vita, tristezza crescente. » Intanto però egli era
già divenuto scrittore. Rammentai le ottave a Byron; ma queste
erano state precedute da una tragedia intitolata da Priamo, in
proposito della quale egli mi scrive: « Il professor Carmignani,
dandole addosso, disse che apparteneva alle tragedie come Priapo
ai Numi. E siccome il professore mi parve, ed era, maligno, gli
rovesciai nell'impeto dell'ira e dei miei la o 16 anni una rannata
~ 151 —
bollente sul capo, ch'ebbe a strabiliarne,, e m'increbbe; però che
feci promessa a me stesso di non rispondere mai più a critiche
letterarie, e 1' ho mantenuta per tutta la mia vita. » Dopo il
Priamo, apparve il dramma in versi i Bianchi e ì Neri che i
livornesi ebbero il torto di fischiare, quando si rappresentò
al teatro Carlo Ludovico, rimuovendo cosi per sempre dal teatro
il Guerrazzi che vi avrebbe forse portato effetti e caratteri inat-
tesi. Altri versi scrisse e stampò il Guerrazzi in piccole strenne
di quel tempo, ed in minute parziali raccoltine; ma non possono
aver qui per noi alcuna singolare importanza, poiché né il Guerrazzi
se ne rammentò di poi, né si ricordano più da alcuno, né li gusta-
rono molto gli stessi lettori ch'ebbero quelle primizie verseggiate
d'un ingegno, il quale meritava poi l'onore di venir salutato come
il poeta della prosa italiana.
Un piccolo animo e un piccolo ingegno, innanzi alle prime
prove infelici de'suoi saggi letterarii, si sarebbe avvilito ed ac-
casciato; il Guerrazzi non s'allegrò di certo delle sue prime di-
sfatte ; ma, incominciò per sentirne sdegno, e quindi si scatenò ;
a'suoi dolori cercò sfogo in un libro, ov'egli potesse menare il
flagello sugli uomini; il fatto storico gli fu pretesto, per velare
le persone che doveano cader vittima della punta insanguinata
della sua penna; e, perdendosi nel passato, egli potè pure, a sua
posta, crescere le tinte scure, fare più orrida la scena, più spa-
ventevole il racconto, più violenta l'imprecazione. Verso il suo
anno 22", il Guerrazzi si manifestava pertanto all'Italia con la Balta-
glia di Benevento. Richiesto da me intorno alle impressioni imme-
diate che avessero dato quel tono al primo suo stile, il Guerrazzi
compiacevasi rispondere così : « Impressioni violentissime, due : il
mare arruffato; e la irresistibile frenesia di buttarmici in mezzo (1);
dopo questa, smania del pan irresistibile di vedere baruffe popo-
lari, donde guadagnai di parecchie ferite, da una delle quali
scampai per miracolo dopo lunghissima infermità; la cicatrice,
che mi rimane, è lunga quattro dita; e non meno chele baruffe,
i morti e i feriti, di cui la immagine mi perseguitava; ma tanto
(l) Frenesia assai naturale ad un poeta, in uno stato di esaltazione,
innanzi ad un mare agitato ; ma il Guerrazzi non solo non cor.^e mai
pericolo d'affogare, essendo, come il suo maestro Byron, abile nuotatore;
salvò invece due che s'annegavano ; l'ano semprevivo, l'alt'^o che finì poi
con l'annegarsi davvero; erat in fntìs.
— 152 —
é, non mi poteva reprimere da correre ad ogni caso novello. Ella
saprà che Carlo Bini fu proditoriamente ferito a morte; la ferita,
comecché in apparenza guarisse, gli cagionò poi fine immatura;
il feritore (per soprannome Pitti) fu a volta sua ferito, e stando
allo Spedale gli si sviluppò il tetano; di ciò informato, volli an-
dare a vederlo, e condurci Carlo; ma questi, a mezze scale mutò
consiglio e tornò addietro; io lo vidi; pareva un arco da violino;
posava unicamente i calcagni e la nuca; pativa pene d'inferno;
non ci ebbi gusto, né dispiacere; pensava al detto: chi di coltello
ammazza, di coltello convien che pera. »
Il Guerrazzi cerca tuttora avidamente il male; lo palpa e ne
freme; quindi ne fugge inorridito; poi lo ripensa, e mescola insieme
tutti i colori della fantasia turbata che possono servir a mostrare
il male in tutta la sua tetra evidenza; ed, affinchè il punto nero
spicchi di più, vi spande qua e là intorno qualche fiore lucente;
l'effetto pittorico riesce grande, l'effetto morale deplorevole; e lo
senti il Guerrazzi stesso, quando, nel 1852, ebbe a scrivere della
Battaglia di Benevento che quel libro era ardentissimo ma non
di 'bella fiamma, poiché vi traspira dentro certo sgomento punto
naturale alla età in cui egli lo dettava, e un alito di dubbio, che
appena si perdona agli uomini, i quali sviati dalle decezioni si
sentono sazi di vita; fra tutti ì tristi peccati, pessimo. Dopo que-
sta condanna, che onestamente l'autore provetto e glorioso fa del
suo libro giovanile, poco altro mi rimane ad aggiungere in pro-
posito. Come rivelazione di un alto ingegno malato, il libro può
sempre avere una grande importanza per uno studio psicologico,
pel fascino funesto ch'esercita su molti giovani, in ispecie, dopo
' che, per V Assedio di Firenze, il nome del Guerrazzi suonò ono-
rato per tutta Italia; e, per la forma originale e nuova con cui
questo romanzo, uscito alcuni mesi prima de' Promessi Sposi, è con-
cepito e scritto, la Battaglia di Benevento ha pure la sua impor-
tanza nella storia letteraria; essa ci presenta una prosa poetica
agitata, che può agitare lino al delirio chi la legge; non è lecito
dire che sia benefica, ma si può bene assicurare che il giovane
autore, poco piiì che ventenne, il quale si rivelava capace di tan-
to, doveva essere un potente, al quale bisognava far posto. Non
è più qui l'amore disperato di Ortis che manda un lamento e si
spegne; é una tremenda Erinni che si vendica; ama anch' essa,
ma a suo modo, e porta via il pezzo dove ha lasciato l'impronta
d'un bacio, e soffoca ciò che sembra voler carezzare; il bello essa
ci lascia apparire un istante solamente a fine di persuaderci che
- 153 —
il brutto è assai più. Musa inamabile per ogni scrittore; e guai
per l'Italia se il Guerrazzi non ne avesse mai ascoltata alcun'al-
tra. Egli l'ha certamente ascoltata troppo; ma non è ad essa, per
nostra fortuna e sua, che andiamo debitori del suo capolavoro.
Finqui lo scrittore freme dunque per sé, ma non ancora per la pa-
tria; fra la Battaglia di Benevento e l'Assedio di Firenze si forma la
coscienza del cittadino; ma non è la sola. Altre fiere passioni conti-
nuano a tumultuare nell'anima del Guerrazzi. L'immagine di By-
ron durando sempre a sedurre i giovani ingegni, che facevano
corona al Guerrazzi, a Livorno si bironeggia. Il medico e fisico
Piero Guerrazzi, stanco della vita la gitta via con disperato disde-
gno ; e Carlo Bini nell' annunziare all'amico Francesco Domenico
quella fine infelice di un caro congiunto, fra l'altre cose, il l"
agosto 1830, gli scrive, con quel suo stile colorito, splendido,
robusto, foscoliano, che innamora e trascina. « Come vivi, Fran-
cesco? Se io faccio la somma risponderò per te : malamente,
fratello, malamente assai. Ed io ti dirò: pazienza, Francesco;
e tu riprenderai: pazienza pur troppo, perchè la pazienza è
l'unica veste che il padre Adamo lasciasse ai suoi nudi figliuoli;
ma però la bevanda è amara, e non ispegne la sete. Ed io
ti domanderò da capo. Come vivi Francesco? ti rode sempre
queir ansia profonda, misteriosa, di cui non seppi e non osai
mai penetrare la causa? e ti cavalca sempre lo spirito un diavolo
nero, onde cosi per tempo s'inaridisce la giovinezza dell' anima
tua? 0 fratel mio Francesco! ogni qualvolta io penso alle tue an-
gustie, e alle mie, ed al fatalismo di tante turpitudini umane, in
verità mi prende lo sdegno d'essere un uomo vivo, e bestemmio
forte, e andrei più oltre se potessi; e se il male fosse tutto in un
nodo. — Mi dici e sento dirmi da tutti, che sei fermo pur sem-
pre nell' idea d' emigrare in Inghilterra. Io non istarò a dirti se
tu faccia bene o male ; che ne so io ? che ne sai tu ? che ne sa
tutto il mondo ? Per me ho veduto troppo sovente che le cose
buone e cattive sono fatte dal Caso e l'uomo non si travaglia che
per essere il suo stromento. — Ma quando sarai lontano, fra gli
stranieri, e non avrai più nulla di tuo che le passioni e le memo-
rie d'un tempo passato, allora il tuo pensiero sia italianamente
generoso e colla forza dell' immaginazione scaldati sempre al no-
stro sole, animatore perenne del genio e del valore italico, e ti
risovvenga di una gente dolorosa d'Italia nostra, di questa cara
armonia di tutta la natura, e cingi sovente le tue immagini del-
l' ala dei tuoi affetti — e considera 1' anima tua come sacra a te
— 154 —
solo — e non adorare altro Dio che la tua volontà, e allora!
concetti ti sorgeranno nella mente come le stelle in Cielo , liberi
e splendidi di bellezza divina, brillanti di eterno movimento. —
Io mi dimenticava di una gran cosa. Hai veramente coraggio?
Odi una nuova, che ne ha di bisogno, e che cosi ad un tratto ti
farà venir freddo. Martedì sera, 27 di luglio, alle ventiquattro, il
bravo ed infelice Pietro Guerrazzi seppe vincere il tremendo in-
teresse della vita, e si ammazzò di pistola nella Spezieria del Vil-
loresi. Ha patito gli spasimi della morte circa 40 minuti; poi è
spirato, ed ora veramente riposa. Sì veramente riposa, ne mi chia-
merai poco umano se parlo così, perchè, se tu lo avessi veduto
come me negli ultimi giorni, tu avresti pianto e maledetta la sua
misera vita. » Io ho riferito qui cosi lunghi brani della lettera
del Bini, perchè nel Bini parmi poter riconoscere una forma del-
l'Ortis redivivo, in ispirito, carne ed ossa. La lettera è scritta
per consolare il giovine Guerrazzi, mandato per sei mesi a con-
fino, a Montepulciano, (1) a motivo dell' elogio di Cosimo del Fante
ch'egli, per invito proditorio, avea recitato all'Accademia Labro-
nica di Livorno; ogni lettore comprende che , nella compagnia di
un simile confortatore, il quale attribuisce al caso ogni umana
vicenda e ripone nel suicidio il supremo rifugio degli infelici, per
quanto egli stesso sia virtuoso, ed, anima tutta buona, serbi in
cuore gelosamente 1' amor della patria, non è ad attingere alcuna
privata virtù o alcun civile coraggio. Né consolatore più benefico
poteva riuscire al Guerrazzi l'altro suo amico Antonio Benci, let-
terato egregio, ma con 1' anima dal dubbio agghiacciata, che il
Guerrazzi in un suo scritto giovanile sopra le sepolture di S. Ia-
copo, fa parlare cosi intorno alla fossa ch'ei s'era ordinata prima
di morire. « Oh come ella è riuscita bellina l precisa nei lati e
negli angoli, sicché mi tornerà attillata alla vita come un vestito
da sposo. Per questa volta mi sono mostrato incontentabile; per-
chè, capisci bene, Francesco; non si può dire al becchino come al
sarto: portala via e fammene un' altra; questa veste deve durare
un pezzo : fino a quando ? fino al giorno del giudizio. Prima di
mettermi a letto, per non levarmi più. Dio mi concesse di rive-
derla; la terra scavata accanto a lei formava un arginello tutto
(1) A Montepulciano il giovine Guerrazzi ricevette visita notturna di
Giuseppe Mazzini, che già cospirava per la indipendenza e libertà
d'Italia.
— 155 —
coperto di un'erbetta verde che era un incanto a vederla. Oh bel-
lina la mia fossa! Oh come me ne innamorai cento e più doppii!
Come vi riposerò io bene dentro, e come io farò onorevole figura
tutto fasciato di verde! »
Tal maniera di pensare e di sentire intorno alla vita non poteva
non comunicare anche alla latteratura, di cui il Guerrazzi fu in Italia
capo -scuola una specie di sudor freddo preparato da una vampa mal-
sana. Quella letteratura, la quale faceva capo un tempo , all' Indi-
catore Livornese, valse bene a dirozzare la città di Livorno, ed a
mostrare come in Toscana si possa scrivere con grazia e scrivere
forte ad un tempo, quando lo scrittore che scrive è anche uomo
che pensa; ma essa, più che dar moto alla giovine Toscana, non mi-
rava direttamente ad altro che a metterle la febbre addosso; solo
più tardi s' accorse il Guerrazzi che dalla febbre avrebbe potuto
nascere il malessere, dal malessere lo scontento, dallo scontento
l'agitazione per uscirne, e per instaurare vita nuova; allora il let-
terato potente si fece, per amor della patria, chirurgo spietato.
« Scopo supremo per me, scriv'egli al Mazzini, alludendo all' As-
sedio di Firetize, era tentare se scintilla alcuna restasse nel corpo
della patria per accendere di vita le presenti e le future genera-
zioni. Non mi pareva che corresse stagione di badare come le ac-
conceremmo il manto o la corona; la questione era quella di
Amleto essere o non essere. Tutto il mio concetto sta in questi
versi di Francesco Petrarca:
Che si aspetti non so, né che si agogni '
Italia che i suoi guai non par che senta.
Vecchia, oziosa e lenta
Dormirà sempre e non fla chi là svegli?
La man le avess'io avvolta entro i capegli!
Quindi riputai carità adoperare tutti i tormenti praticati dagli
antichi tiranni, e dal Santo Uffizio, ed altri ancora più atroci in-
ventarne per eccitare la sensibilità di questa patria caduta in mi-
serabile letargia; io la feriva e nelle ferite infondeva zolfo e pece
infuocati; la galvanizzava, e Dio solo conosce la mia tremenda an-
sietà quaodo le vedeva muovere le labbra livide e gli occhi spenti. »
Nelle pagine deWIndicaiOì-e, il Guerrazzi avea la prima volta im-
parato a trattar le armi; ma egli stesso fu più tardi pronto a
sconsigliare i giovani da simili periodiche battaglie, per ragioni
che importa siano dai giovani tuttora meditate e ritenute . « Voi
mietete il vostro grano in erba; fiori voi cogliete, non frutti.
— 156 —
Costretti ogni giorno a concepire e a produrre, le vostre crea-
zioni di un' ora durano la vita di un minuto; più spesso nascono
morte. Il vostro pensiero nelle continue emanazioni si spossa,
come le membra dell' etico si disfanno per quotidiani sudori; io
vedo uscire dalle vostre menti cose superbe, vane, snervate, mal
connesse e viete, e mille volte ripetute; che se i giornali non fos-
sero, voi le fareste gravi, profonde, durature, e , come di onore a
voi, cosi di conforto e di gloria alla patria che in voi confida.
Senza grande fatica di vita nulla concessero gl'immortali a noi
uomini. Le vostre carte effimere paionmi responsi delle Sibille,
scritti sopra le foglie, che il vento disperde e nessuno raccoglie.
Guaritevi dalla febbre di volere ogni giorno intorno agli orecchi
il ronzio della fama; confidate il nome vostro non all'ala dello in-
setto, ma a quella dell' aquila ; che, se è bello ottenere onoranza
dai contemporanei, divino è poi conseguirla dai posteri. » Belle e
memorande parole.
Soppresso l' Indicalore per uno scritto sull' Esule di Pie-
tro Giannone, il Guerrazzi erasi volto a lavori di maggior
lena e più studiati, che gli permettevano di afillarvi tutto l'in-
gegno. Finalmente ei si trovò maturo , per iscrivere l' Asse-
dio. Come il titano Prometeo, legato alla rupe, impreca sublime-
mente a Giove, i travagli della vita politica maturano nel titano
Guerrazzi l'amor patrio, e gli aggiungono coraggio a sfidar l'ira
de'suoi persecutori. Vi son nature cosiff'atte che operano cose
grandi per la forza della contradizione.
Reduce dal principio del 1831, dal confino di Montepulciano, il Guer-
razzi non si quietò, ma recossi presto invece a tentar novità in Fi-
renze, ove speravasi con l'intimorire il Granduca, obbligarlo a dare
al popolo la costituzione; la parte moderata che era della congiura,
con le sue incertezze ed i suoi indugi, la fece fallire; il Guerrazzi che
s'accorse in tempo, come a Firenze si nicchiava, fu pronto a restituirsi
in Livorno, per impedirvi almeno ogni sterile moto; ciò non tolse,
tuttavia ch'ei fosse dapprima precettato di ridursi in casa al calare
del sole, e poco dopo venisse gettato in prigione « tra omicidi, donne
di mala vita e facinorosi d'ogni maniera; » nò egli seppe poi mai la
vera cagione di quel suo primo arresto, come neppure della sua libe-
razione, non essendoglisi nemmeno fatto l'onore di processarlo.
Nel 1834, il Guerrazzi veniva finalmente chiuso nel forte Stella
di Portoforraio, fra i 'prigionieri di Slato. « Allora, scrive egli
nelle sue Memorie, mi accomodai a passare il tempo con pro-
fìtto per la patria e per me ».
— 157 —
Ed in quella prigione nacque {'Assedio di Firenze. L'Autore non
ha vinto ancora intieramente la lotta con sé medesimo; 1' introdu-
zione del romanzo ci prova sempre che l'uomo è ancora tutto là con
le sue passioni, co' suoi odii, con le sue memorie paurose; ma
in mezzo agli sfoghi d'un' anima sdegnosa, in mezzo al buio in-
fernale d'un immenso naufragio, che sembra disperato, brilla tratto
tratto un fievole raggio di fede; mentre tutto egli sembra vo-
ler gettar via, premere, calpestare, flagellare ogni cosa, a un
tratto si sente ancora battere il cuore, e vede un breve lembo
di cielo sereno; vi appunta lo sguardo e vi riconosce una stella;
cessa allora un momento di maledire, e accenna di voler spe-
rare; quindi ei può ancora scrivere: « Dentro di me si levò una
voce che disse: Non sempre Dio si penti d'aver creato l'uomo. Tu
vivi in un secolo che vinse in tristezza il paragone d'ogni piìi
vile metallo. Ricerca per le storie, e troverai i tempi secondo il
tuo cuore. Circondati di memorie. Dalla virtù de'morti prendi ar-
gomento di flagellare le infamie dei vivi. Le opere famose dei
trapassati ti daranno speranza dei posteri: imperciocché nulla dura
eterno sotto il sole, e la vicenda del bene e del male si alterna
continua su questa terra. Tu vivrai una vita di visioni degli anni
passati e dei futuri ». È evidente che quest'uomo il quale dà quasi
sempre ragione ai morti assenti, e quasi sempre torto ai vivi che
lo circondano, non è nato per ftire il cortigiano; ma, se questa è
virtù, che impedisce all' uomo di curvarsi, riesce virtù sterile e
cieca, quando nessuna fede viva la sostiene lungamente; si che,
dopo avere un istante intraveduto il risorgimento della patria
schiava, e fatto saltare il coperchio della cassa di Lazzaro dor-
miente, il Guerrazzi torna, spietato, a rinchiodarvelo, con una sola
sentenza, che vuol scelleratamente essere ultima. « Non confidate
nella speranza; ella è la meretrice della vita ». Conveniva in-
vece ai giovani dire 1' opposto; la disperazione vi conduce all' in-
differenza, e questa all'inerzia, e questa alla viltà, e questa, oc-
correndo, al delitto; bisognava invece dire ai giovani: credete,
sperate, a costo anche d' illudervi e d' ingannarvi e d' esser
traditi dagli uomini e dalla fortuna; lottate, poiché la vitto-
ria é de' prodi che resistono e non de' timidi che disertano al
primo sbaraglio e s' abbandonano; la speranza é segno d' a-
more, e senz' amore é inutile la vita. Che importa a me il sa-
pere come si chiami la cosa da voi amata? pur che sia grande e
degna, pur che vi chiami a salire più alto, pur che v'inviti ad
amplessi più ideali, l'amore sarà sempre la vostra salute. Amate
— 158 —
la natura, 1' umanità, la patria, l'arte, la scienza, la famiglia, la
virtù, la donna; pur che l' oggetto de' vostri amori sia sempre
un' alta e serena Beatrice, voi poggierete sempre più alto e con
voi si rialzerà pure la fortuna della patria vostra infelice. Ma ciò
che non ha detto nell' Introduzione, il Guerrazzi lo dirà nel ro-
manzo stesso, lo ripeterà nell'Appendice, ove s'accuserà da sé di
aver calunniata la speranza. A misura ch'ei procede nel libro, e
che r ingegno suo prodigioso gli rappresenta vivi al pensiero,
belli, intrepidi, valenti, gli eroi che difesero la libertà fiorentina,
egli si sente allargare il cuore al desiderio, alla speranza, alla
fede. Come il pittore s'innamora della Madonna ch'egli stesso finge
sulla tela, il Guerrazzi nel ridar vita ai personaggi storici del suo
romanzo, se ne compiace, s'illude, li ricerca e spera ancora ritrovarli
vivi nella nuova Firenze, e fra loro operare e combattere eroica-
mente egli stesso, poiché, per credere, davvero, nell'eroismo, conviene
sentirsi in petto un'anima che ne sia capace. Il Guerrazzi finisce
pertanto il suo libro con l'accendere la lampada della speranza, ed
aggiunge: « Io nascondo la lampada sotto il moggio. Quando ap-
parirà r aurora da ben tre secoli desiderata, allora la riporrò a
splendere sul candelabro: dove le fosse venuto meno l'umore, io
la riempirò col rriio sangue ». Scrivendo al Mazzini, ei dice aver
voluto nell'Assedio, rimescolare insieme cielo, terra e inferno. In-
cominciò davvero con l'inferno, continuò con la terra, fini col cielo.
Il libro sale sempre; alle immagini Bironiane sottentrano man mano
le bibliche e le dantesche,- all'inno della morte l'inno della risurre-
zione: « Sul granito, egli canta, era cresciuta una messe degna di lui;
aveva lo stelo di acciaro forbito, la spiga a guisa d'impugnatura di
spada. Un angiolo uscirà tra poco dal tempio e griderà con gran voce:
Mettete dentro la vostra falce, perchè l'ora del mietere é venuta,
perocché la ricolta della terra si secca. — A che dunque l'angiolo
indugia? La ricolta non pure è matura, ma la terra è stanca di
sopportarla ». Qua e là qualche ombra di dubbio sorge ancora;
l'anima dello scrittore non s' è tutta quietata; tratto tratto ei si com-
piace troppo nel giuoco di Penelope; ma, in questa battaglia fra
il cuore e l'ingegno, combattuta nell'Assedio di Fwenze, ha vinto
il cuore; altri renda a lui lode delle pagine ove 1' ingegno del li-
vornese prodigò tesori; egli n'era ricco e no fa prodigo; di tanta
liberalità avea merito, più ch'egli stesso, la creatrice natura; ma,
in questo io si veramente 1' ammiro che, nato ed educato al dub-
bio, egli abbia saputo domare un giorno sé stesso, a segno da ar-
rivare a credere almeno tanto, che bastasse a scaldare in altri una
— 159 —
fede inspiratrice di pensieri e di filiti magnanimi ; che, nato al-
l'odio, siasi meravigliosamente educato all'amore. Qualunque sia poi
il giudizio ch'altri voglia portare deW Assedio di Firenze come d'o-
pera letteraria per rispetto all'ai'te e alla storia (della quale l'arte
si giova, in esso, più per aver pretesto di colorire uomini e
cose vive del nostro tempo e di Firenze nostra , che per re-
carci il vero carattere d'un secolo e d'un popolo passato), in que-
sto io spero d' aver consenzienti i critici d' ogni ragione, che il
Guerrazzi, come scrittore, ha la virtù rara d'educare all' amore
degli uomini e delle cose grandi. Per questa parte, se bene lo
scopo immediato del romanzo fosse particolarmente politico, esso,
ove si legga con qualche prudenza, potrà aver sempre un' effica-
cia di bene, come libro educativo, e più che altrove, in Toscana,
dove la tempra un di forte insieme e gentile, è rimasta gentile
soltanto, ed ove gioverà pertanto far suonare, per lunga stagione
ancora, voci maschie e potenti, affinchè essa ripigli nerbo, agilità
e gagliardia di moto ne'pensieri, negli aflfetti e nelle opere.
L'Assedio di Firenze, potrà, se 1" autore suo ci vorrà dire il
più, offrir modo ad uno de^ commenti più interessanti che siansi
mai scritti d'alcuna opera letteraria; a farlo qual è, giovarono, io
gran parte, la conoscenza riflessa della società toscana, e partico-
larmente fiorentina, che il Guerrazzi avvicinò e trattò, e poi le
molte e forti impressioni che l'autore provò nel tempo in cui gli
venne scritto l'Assedio. Di alcune di queste impressioni c'informa
egli stesso nella sua Lettera autobiografica al Mazzini: « Tu sappi
ancora, Giuseppe, che, mentre scriveva lo Assedio, nel giro di po-
chi mesi perirono per la più parte le persone sopra le altre a me
dilettissime. Mori l'unica donna che amai, fulminata nel cuore, e
questa morte così percosse la mia salute, che ancora me ne ri-
sento. — Mi abbandonò mio padre e con le mie mani gli chiusi
gli occhi. Lo feci trasportare a Montenero, e sotto il portico della
Chiesa gli davo modesta sepoltura. Sopra la sua lapide incisi:
Hic intus
Francisci Guerraiii
insontes cineres
expectant postremum Dei judicium
sine pavore
... Supremo dolore! un giorno trovai sfregiata cotesta iscrizione.
— Morirono Angiolo Angiolini, Alamanno Agostini, dei quattro
carcerati a Portoferraio rimaneva io non bene fermo di salute, e
— 160 —
Bini percosso da tale malattia che non dava speranza di rilevar-
si, ed egli sentiva prossimo il suo fine e lo desiderava. Certo va-
leva meglio morire che viver com'egli viveva. Dio lo esaudì e lo
accolse nella sua pace. Di tanti amici rimanevami Tommaso Bar-
gellini, amico della mia infanzia, ch'ebbe per me cuore di madre,
ed egli pure mi mancò al maggior uopo: morì, atrocemente assas-
sinato, mio fratello Giovanni, lasciandomi per retaggio due orfani.
— Ormai la mia vita mi apparve la via di Pompei; ad ogni passo,
a destra mi volgessi od a sinistra, io incontrava una tomba. Pal-
pitante e lacero, con gli artigli dei persecutori nel petto, mi di-
batteva scrivendo l'Assedio di Firenze. Sapevo che avrebbe frut-
tato nuove ingiurie, e le fruttò; non le curai, presagendole; non le
curai, sopportandole. Ora, non parti questa immensa fede, o Giu-
seppe? » Io l'ho già detto: ammiro nell' ingegno del Guerrazzi la
natura grande e benigna; nelle pagine calde d' amor patrio del-
y Assedio, ammiro invece l'autore stesso, avendo egli dovuto lot-
tare per vincere l'anima scettica e il riso mefistofelico, e le remi-
niscenze troppo dolorose della vita, alle quali concede bene qua e
là ancora lo sfogo di qualche breve parentesi, ma non la miglior
parte e la più generosa dell'opera.
Scrivendo il 25 dicembre dell'anno 18i7, al Mazzini, il Guerrazzi
chiudeva la sua lettera con queste parole: « Vieni, prima che la mia
vita cessi, come un rivo tra i sassi, nei giorni del Sole. Io per aspet-
tarti mi soffermo sopra il limitare della morte, che invoco. Impo-
tente a stringere la spada come il Bardo normanno, mi ti porrò al
fianco nel giorno della battaglia vicina; m'avanza qualche immagine
di poeta nella testa, qualche affetto nel cuore da potere innalzare un
ultimo canto — o la requie — o il trionfo dei valorosi ». Egli promette
qui evidentemente di tornare a servire la letteratura politica, dalla
quale, fra la pubblicazione àQ\\' Assedio e la lettera al Mazzini s'era
quasi intieramente rimosso, per occuparsi de'proprii negozii e per'
indulgere genio, scrivendo l'Isabella Orsini e la Veronica Cibo,
storie di sangue, nelle quali si può trovare la condanna del vizio
e della colpa, ma si pone forse una cui a soverchia nel rivestir
l'uno e l'altra di una specie di terrore poetico, che può sedurre
al male qualche cervello debole e infermo, in cui la volontà del
bene vacilli. Ma son pure di quel tempo e bastano come segno di
quanto si passava nell'animo del Guerrazzi, l'elogio della contessa
Amelia Caiani Carletti, ove s'insegna il modo d'educare la donna
italiana, ed ove trovo, fra l'altre, questa sentenza che « il fine di
ogni disciplina, e di qualsivoglia istituto, anzi pure della stessa
- 161 —
famiglia^ sia l'amore di patria, anzi pensiero e palpito di questa
umana creta, finché le si concede argomentare e sentire », e i
Nuovi Tartufi, ove, unicamente dominato dal pensiero rivoluzio-
nario, il Guerrazzi condanna con fiere parole i mezzi troppo lenti,
coi quali i liberali moderati di buona fede speravano raggiungere,
a grado a grado, lo scopo supremo della indipendenza e libertà ita-
liana, e gl'impostori si studiavano invece guadagnar tempo, per
rendere più improbabile il conseguimento d'un bene ritardato. Ei
non riconosce in vero questa differenza, e lo stabilirla sarebbe in-
vece stata desiderabile giustizia; egli obbedisce all'impeto istantaneo
che lo muove, e mira al solo scopo immediato di rendere impos-
sibile il sistema che gli par dannevole; non si cura di sapere se
fra i difensori di quel sistema vi sia pure gente onesta, di mente
e di cuore; si scaglia contro tutti, insieme confusi, come autori, che
a* lui sembrano di una politica esiziale; e tutti li flagella; 1' inge-
gno suo rivoluzionario, educato alla scuola di Macchiavelli, non
ripugna dal sacrificare la giustizia in particolare, quando si tratti
di provvedere a quella che si chiama giustizia universale, come
-se s'I potessero distinguere dal savio due giustizie. E di questo
vizio politico è incancrenita Italia tutta, ove la rabbia delle parti
è tanta, che, pel trionfo, dicono gli uni, dell'idea democratica, pel
trionfo, dicono gli altri, del principio d'ordine, l'una e l'altra s'e-
scludono, come impossibili, isolando così sempre le forze vitali
dello stato, col metterle fra loro in sospetto ed in guerra mici-
diale, per amore della libertà, rinnegando l'ordine, e per amore
dell' ordine rinnegando la libertà, rinnegando, in conclusione, ad un
tempo e 1' uno e 1' altro di questi beni che non possono stare di-
visi. Cosi, come l' antico greco chiamava barbaro ogni popolo
straniero che non parlasse la propria lingua, e si negava con esso
ogni contatto, togliendo cosi a sé stesso, intorno a sé, ogni nuova
via di più largo respiro , noi , facendo peggio , nella terra no-
stra, ci dividiamo miseramente come stranieri, e peggio che stra-
nieri, come selvaggi intenti a vicenda a distruggerci. La ragione
politica sembra scusarci dello stare stiletti alla parte nostra, come
molluschi alla conchiglia; in tal guisa soltanto, diciamo a noi, la
parte nostra s'afforza, e noi medesimi dalla parte nostra possiamo
sperar forza e sostegno. Ma, ciechi ed incauti che siamo; non ci
rendiamo accorti come il nostro proposito di difender la parte è
una tacita renunzia a difendere il tutto; e come mirando le parti
a distruggersi reciprocamente e non mai a comporsi, non lascie-
ranno poi crear nulla di grande e d'intero. In letteratura, guer-
KlCORUI DlO(iRAKICI 11
— 16^, —
razziaci e manzoniani si combattono e si accusano ogni giorno fra
loro come fatali alla patria; in arte, é delitto per gli uomini nuovi
riconoscere ancora qualche merito alle Accademie; e per gli Ac-
cademici è delitto il procedere per vie nuove e proprie allo studio
della natura; in politica, basta il professar fede, non dico repubbli-
cana ma democratica, per non dover trovare amici fra i prudenti
guardiani della costituzione, e, viceversa, l'esser devoti al princi-
pio parlamentare, basta perchè si dica addirittura da chi s'aggira
fra il popolo: badate è gente da pagnotta; le tasse che voi pagate
servono a ingrassar questi gaudenti; perciò son moderati; perciò non
vorrebbero altro governo che questo; in religione, chi non va in
chiesa, fugge, come il contagio, il devoto che sente il bisogno di
raccomandarsi con l'anima a Dio; chi frequenta la chiesa, invece,
evita, come libertino, ogni uomo che basti a guidarsi e consolarsi
da sé con 1' umana prudenza e saviezza nelle varie vicende della
vita. La nostra intolleranza scema cosi le forze nostre, tenendole fu-
nestamente divise. Non ci basta serbare liberamente i nostri gu-
sti, i nostri principii, i nostri propositi, non ci basta adoperarci
ciascuno, ne'limiti della decenza, a cercar simpatia alle idee che
professiamo; sull'esempio del Sillabo pontificio, imbevuti di quello
stesso principio cattolico, in cui non abbiamo più fede, noi pure
gridiamo : o con noi o contro di noi; e ciò che sta contro di noi
vogliamo estirpare non pur nel principio, ma nella persona. E im-
possibile, aggiungiamo, che il tale abbia tal fede e possa rimaner
uomo onesto, a meno ch'egli non appartenga all'ordine degli im-
becilli; e, nell'un caso e nell' altro, è buona cosa farne a meno,
rimuoverlo, sopprimerlo. « Abbasso la pena di morte » ripetia-
mo tutti volenterosi e unanimi, ma a patto di mantenerci, per i
rasi riservati, il diritto di applicarla non solo ai nostri nemici,
ma ai nostri avversarli, non solo ai nostri avversarli, ma ad ogni
dissidente da noi. Così intendiamo la nostra fratellanza nazionale;
e a questa maniera vogliamo serbarci unitarii; ma, se altro patto
non ci tenesse che questo, l'Italia avrebbe dovuto a quest'ora di-
ventare un camposanto. Domandate alla maggior parte degli stessi
nostri illustri viventi che opinione essi abbiano gli uni degli altri:
sarà gran mercè se, su dieci, se ne troverà uno indulgente e bene
disposto a riconoscere altrui il proprio singolare valore, indipenden-
temente dalle opinioni ch'egli professi. Parrebbemi invece omai
tempo che si ritornasse in Italia ad amare di nuovo, un poco, ideal-
mente, il bello pel belio, il grande pel grande, il bene pel bene, senza
stringerci invidiosamente alle persone, come siamo soliti a fare, per
— 163 -
negare poi il bello, il grande, il bene, col solo pretesto che quella tal
persona era troppo bassa per divenirne capace, e i suoi principii
troppo diversi da quelli che a noi paiono soli infallibili, per po-
ter dare alcuna importanza a quella maniera di predicazione. Ei
sarebbe certamente molto desiderabile che ogni uomo di genio, il
quale scrive, fosse ad un tempo un grande scrittore, un santo ed
un eroe; ed è verissimo che chi è tutto buono, tutto grande, può
meglio di qualsiasi altro, dire e fare bene e grandemente; la sin-
cerità dello scrittore dà allo scrittore un calor vìvo e naturale
che si comunica meglio, perchè si sente piìi presto. Ma non si
deve sconoscere che, come anche un vigliacco in determinati mo-
menti può sorprenderci con un atto eroico, che dobbiamo am-
mirare, sia, per sé stessa, degna d' ammirazione ogni opera
buona bene inspirata, se anche l'autore di essa, per lo più,
pensi ed operi il male. L' opera buona, che la provvida natura
inspira, consideriamo, e allo scrittore teniamone conto, solo in
quanto sia tale, e possa giovarci. Questo modo di render giu-
stizia a chi scrive, sarà anche un mezzo di invogliare un
maggior numero di scrittori ad ambire quel premio; né io
sono poi tanto scettico per credere che alcun uomo possa in-
differentemente dire e fare il bene senza accogliere nella mente,
anche per poco, il pensiero che il bene sia veramente un bene, e
da questo pensiero, anche fuggitivo, non sentir poi vantaggio mo-
rale alcuno. La virtù nella massima parte vien da natura, ma in
alcuna parte, si forma con l'esercitar quella poca o molta che la
naturaci ha data; accettiamo, pertanto, dagli scrittori, quali essi
siano, con riconoscenza, le oneste parole; con l'assicurare così
a noi una letteratura sana, finiremo pure educando a poco a
poco gli scrittori stessi. Io vedo alcun lettore sorridere ed odo
sussurrarmi. Voi vorreste cosi avvezzare gli scrittori all' ipo-
crisia. Non all'ipocrisia, ma al pudore. Senza pudore non vi è
arte, come non vi è principio di onestà possibile. Io credo che
ogni scrittore si studii di rivelarsi al di fuori nel suo miglior
aspetto; non dispregiamo questo studio; non è tutto di vanità
e d' ipocrisa ; è ancora un sentimento di nobiltà che si desta in
lui, pudico, e che lo innalza; senza questo sentimento io temerei
che molti di quelli, i quali ammiriamo ora come grandi puri-
tani ne' loro scritti, condannati a scoprirsi nella loro nudità fal-
lace, domanderebbero grazia. La somma del male nella vita del-
l'uomo è già troppo grande per sé, perchè la intemperanza de'nostri
giudizii, intolleranti ed esclusivi, debba ancora compiacersi nel rap-
— 164 —
presentarsi, con maligno sofisma, lo stesso bene come un nuovo
maleficio.
Ora, se questo vizio dell' intolleranza, deplorevolissima fra le
miserie nostre nazionali , nelle cose letterarie può riuscir
tanto funesto, per quella corrispondenza naturale e indissolubile
eh' ebbero sempre la letteratura e la vita civile d' un popolo,
e più che altrove in questo secolo, e più che mai neh' Italia
nostra, ove la letteratura servi essenzialmente agli scrittori come
strumento politico, dovea pure tornar rovinoso ai nostri moti di
nazionale risorgimento. E in Toscana, fra l'altre provinole d'Italia,
si lamentarono particolarmente gli efietti di questa rabbia delle
parti politiche; che, come il Capponi ed il Guerrazzi bene uniti e
concordi avrebbero salvata, discordi, invece, perdettero la Toscana
miseramente e la ritornarono nella sua prima servitù. La patria
l'uno e l'altro amavano; entrambi erano bene disposti a servirla;
ma ciascuno di essi volle mantenersi geloso de' suoi mezzi, l'uno
col non volere abbastanza, 1' altro col voler troppo, e in questo
studio eccessivo di ciò che essi mettevano di proprio é di perso-
nale neir azione politica, mal difesero la patria, si che, quand' essa
risorse, furono lasciati in disparte entrambi; i loro nomi si ricor
darono, 1' opera loro non si curò ; si rese omaggio al leale e ve-
nerando carattere dell'uno, all'ingegno fremente e poderoso dell'al-
tro ; ma 1' uno si trovò troppo timidamente contentabile, l'altro
troppo audacemente intrattabile. Così i due uomini più grandi
che la Toscana possedesse, poiché il vecchio Niccolini viveva
alieno oramai da ogni cura politica, il Capponi e il Guerrazzi,
non lasciarono quasi orma di sé stessi nell' ultimo stadio della no-
stra vita politica. Associati, sarebbero stati in Toscana onnipotenti;
divisi, rimasero due individualità singolari, senz' effetto politico.
Ma, per riassumere gli ultimi anni della vita del Guerrazzi, la
nuova prigionia sostenuta dopo la pubblicazione della lettera al
Mazzini, il mandato quindi ricevuto per ben due volte dal Governo
di domare la rivoluzione livornese, il suo ministero, 1' opera sua
come triumviro e come dittatore, la sua quarta iniqua prigionia,
il suo famoso iniquissimo processo politico, il suo esigilo, il suo
refugio in Corsica nel 1853, sono fatti che appartengono alla
storia non meno che alla biografia (1).
(1) I documenti di questa parte della vita del Guerrazzi si trovano
copiosi in due grossi volumi di scritti politici del Guerrazzi, pubblicati
a Milano dal Guigoni nel 1862.
— 165 —
Il soggiorno del Guerrazzi in Corsica fruttò alle nostre let-
tere la Beatrice Cenci, parto mostruoso d' ingegno trapotente,
e d'uomo perseguitato dalla patria, che si vendica liricamente,
al suo modo antico, raffigurando il trionfo del male; V Asino
seconda vendetta, umoristica, contro la patria obliosa ed aggirata;
il Pasquale Paoli, racconto storico, ove l'autore si getta in mezzo
ai fatti storici eh' ei narra abilmente e sui quali sentenzia come
un giudice vivo ed ardente, terza vendetta, generosa, contro la
patria ingrata, all'amplesso della quale vorrebbe ritornasse l' isola
gloriosa che diede i natali a Sampiero ed al Paoli.
Il Guerrazzi crede, e il suo diligente biografo Ferdinando Bosio (1)
studiasi dimostrare come col Pasquale Paoli il Livornese sia en-
trato nella sua seconda maniera. A me sembra meno esatta que-
sta distinzione. Le opere del Guerrazzi, senza dubbio, non offrono
tutte una forma medesima; ma esse trattano pure generi e sog-
getti diversi che renderebbero impossibile all'autore, se pure il
volesse, l' adoperare un medesimo stile. Le opere giovanili del
Guerrazzi sono, per la massima parte lavoro di passione e d'im-
maginazione; quindi recano pure uno stile concitato, immaginoso
e smagliante di colori; le opere, sian politiche sian letterarie
scritte in età più matura, sono in gran parte lavoro di riflessione,
e però richiedevano pure uno stile più meditato, più grave, e, se
così può dirsi, più storico. Ciò non può costituire una maniera
diversa, in uno scrittore, ma solo una diversa direzione data al-
l'operoso ingegno. Anche oggi, quando il Guerrazzi torna a scrivere,
come neir età giovanile, alcuna pagina fantastica, rimette sulla sua
tavolozza, sebbene alquanto impalliditi, i colori magici di quel
tempo e li rimescola insieme come una volta. Si questo parmi ben
notevole nell' ingegno del Guerrazzi, che a qualunque genere let-
terario ei s'accosti, lo trasforma ad immagine sua, portandovi e
lasciandovi la sua viva e originale impronta. Cosi, quando ei
s' accinse a scrivere un romanzo, creò una nuova forma di ro •
manzi; quando, studioso del Principe di Macchiavelli, volle an-
ch'egli scrivere il suo trattato politico, ma destinarlo insieme al
Pìnncipe ed al popolo, non seppe resistere alla tentazione d'avvi-
vare i consigli con la frequente figura del consigliere appassionato;
quando scrive libri umoristici come L'Asino e il Buco ìiel muro,
(1) F. D. Guerrazzi e le sue opere, studio critico del cav. Ferdinando
Bosio, Livorno, tip. Zecchini, 1865 ; un voi di 35U pag.
— 166 —
non si dimentica d' aver letto Sterne, ed Heine, ma si ricorda
anche più d'esser Guerrazzi; quando imprende a narrare le gesta
del Paoli, del Pelliccioni, del Sampiero, del Doria, di Ferruccio, e
d'altri grandi italiani, s'attiene bene al fatto storico, ma col pro-
posito deliberato che il lettore dia particolarmente retta al nar-
ratore, non meno diligente, che esperto nel maneggio degli uomini
e degli affari. Per questo carattere vivo e^ deciso di personalità
che hanno le opere tutte del Guerrazzi, è agevole il riconoscere
come sia vano lo sforzo de' piccoli ingegni i quali studiano le orme
di lui, sperando arrivar presso alla grandezza di quel nome. Ma
l'autore lascia, dietro di sé, a'suoi imitatori, niente più che l'ombra
sua; la luce ei la porta tutta con sé e per sé.
Dal soggiorno in Corsica, a quello in Genova, dal soggiorno in
Genova al rimpatrio in Livorno nel 1862, da questo rimpatrio al
suo presente volontario confino nel tetro Fitto di Cecina, non trovo
nella vita pubblica del Guerrazzi più alcun fatto che mi sembri
degno di particolare ricordo ; egli s' adoperò eflìcaceraente per
l'annessione della Toscana al Regno unito d'Italia, e, per ri-
spetto a quest' unità monarchica ch'egli aveva non solo accettata,
ma promossa, protestò virilmente contro la cessione di Nizza alla
Francia; fu Deputato più volte al Parlamento; nell'ultime elezioni
politiche non venne rielette, ed è a me cagione d'ingrata meravi-
glia il vedere che la città di Livorno non siasi ricordata sempre
del cittadino, che in questo secolo le crebbe maggior gloria, fra
tutti ; non fu mai ministro del Regno d' Italia né tampoco mem-
bro del Consiglio superiore di pubblica istruzione; il governo
del granduca avea fatto offrire al Guerrazzi una cattedra di let-
teratura neir Università di Pisa ; il Governo italiano non gli
offerse mai nulla; 1' Accademia della Crusca, per proposta del
Giusti, lo nominava suo membro, e il Piovano Arlotto, ricono-
scendo fiorentino di lingua e d'origine il Guerrazzi, lo chiamava
a battagliare in lingua toscana nelle proprie pagine ; 1' Italia
Una si ricordi ora, dunque, almeno, se non può altro, come,
fra tanti che in Italia scrivono, nessuno ha mai scritto, nessuno
scrive più italiano del Guerrazzi, di cui, anche pel verso della lin-
gua, tutte le opere possono sempre considerarsi come una fonte
viva di studio.
Ma, se r Italia unita non s'è curata di rendere alcun onore
all'immortale autore àeW Assedio, s'è ben compiaciuta di occuparsi
molto e troppo de' negozi privati di lui, e di levarne scandalo. Io
ho già avvertito di non voler entrare con lina-ua indiscreta nei
— 167 —
fatti privati d'alcuno ; ciò eh' è pubblicamente palese e giudicato
e provato non bello, io deploro; ina non è uflìcio mio il proces-
sare la vita privata di quegli uomini insigni, ai quali desidero
soltanto che sia reso onore per la parte di bene, ch'essi fecero alle
nostre lettere e alla nostra coltura.
Tre volte , nella sua vita, il Guerrazzi fu accusato come
uomo avido di subiti ed illeciti guadagni; la prima volta ei
si scolpò, presso il Mazzini, con questo racconto: « Talete, per
quanto io lessi, era preso a dileggio dai suoi amici perchè, so-
vente assediato dalla miseria non sapesse riparare ai bisogni
supremi della vita : un giorno egli disse che non gli consen-
tiva r animo, distrarsi dalle speculazioni della filosofia per at-
tendere a cosi basso intento, com'è la pecunia, e si vantò
farsi ricco quante volte gliene prendesse vaghezza. Irriso dagli
amici per cosiffatta iattanza, ei si propose provare con l'opera
la verità delle parole. Avendo mercè le sue osservazioni astrono-
miche conosciuto come in cotesto anno una grandissima arsura
avrebbe desolato il contado di Mileto. acquistò quanto olio potè tro-
vare^ dandolo in pegno agli amici perchè ne pagassero il prezzo
per suo conto. Fallito il raccolto, il costo degli olii crebbe a dis-
misura, e siccome la siccità fu generale così gli riuscì guadagnare
immensa moneta sopra cotesto negozio. Raccolti i danari e con-
vertitili in talenti d'oro, convitò gli amici a cena, distribuì a cia-
scuno un talento, avvertendoli ch'ei non si curava conservarli, e
che riassumeva lietissimo la pristina povertà. Due cose io feci di-
verse da Talete ; la prima fu che mi tenni soddisfatto di onesta
fortuna e la seconda che non la donai dopo cena. »
Nel processo politico che il Guerrazzi subì sotto la restaurazione
granducale, non potendogli far carico, come speravano, d'abuso di
potere, i suoi accusatori studiarono sorprendere in fallo il Guer-
razzi, per abuso della pubblica pecunia, commesso nella sua qua-
lità di ministro ; ma si trovò invece che nel tempo del suo mi-
nistero, egli avea invece rimesso « del suo, più del doppio dello
stipendio » (1).
Nella recente lite promossa al Guerrazzi dal suo proprio pa-
rente signor Sanna-Sanna, per abuso di titoli fiduciarii, i tribu-
nali non pervennero a formarsi un criterio sufficiente, per ri-
conoscere la colpa dell' accusato, il quale, alla sua volta, non
(1) Op. IJosiOi op. lìt. pag. Wò'ri.
— 168 —
riuscì, con altro processo intentato al parente accusatore, a
convincerlo di diffamazione ; la lite sembra ora terminata in-
nanzi ai tribunali ; non è definita ancora presso la coscienza del
pubblico, che ha voluto intervenir giudice in questo negozio; del
quale io avrei volentieri taciuto, se l'ultima impressione ricevuta
dal pubblico rispetto al Guerrazzi non fosse quella dello scandalo
che la lite nefanda ha provocato in Italia. Io desidero di cuore
che questo sia soltanto uno de' troppi disgraziati affiiri che nel
commercio de' privati si osservano, i quali, sebbene siano molto im-
brogliati, non suppongono poi necessariamente né broglio, né chi
imbrogli. Ho uopo, in ogni maniera, di consolarmi in questa fidu-
cia, perché ho bisogno di credere, e voglio credere, e credo, in
somma, alla sincerità delle meste parole con le quali l'illustre so-
litario di Cecina mi chiudeva la sua lettera già citata del 20 feb-
braio : « Declinante nella vita, con le sostanze dimezzate là, dove
gli altri le crebbero, stanco di mente, di cuore offeso, mi sono ri-
tirato in questo eremo, dove vivo in compagnia del mare, delle
foreste scarmigliate dal vento, e della malaria, invocando, e non
potendo ottenere, pace » (*).
(*) Ricevo da Livorno la lettera seguente che per debito d' impar-
zialità, pubblico, quantunque mi sembri che le cagioni di lagno mosse
dal Guerrazzi, e, in nome di lui dall'egregio Mangini, contro il mio Ri-
cordo che riguarda l'illustre livornese, siano insussistenti. Molti lettori
mi dissero aver io esaltato troppo il Guerrazzi, e gli amici del Guer-
razzi si dolgono invece ch'io gli abbia reso cattivo servigio; ove sono
due scontenti, temerei quasi d'esser solo, io, terzo, ad avere un
po'di ragione. Del Guerrazzi non potevo fare un santo, e noi feci; né po-
tevo prestar l'orecchio a'suoi derisori e calunniatori, e noi feci; tenni
la via di mezzo, e questa via mi studierò d'osservare quanto mi sia
possibile, sperando che sia la giusta. Paiovi moderato per questo solo
che mi studio render giustizia ad ogni parte; non domando scusa ad
alcuno di questa, che, se è colpa, a me par felia;-, culpa. Il Guerrazzi scrive
che chi vuol conciliare 1' inconciliabile è stolto o traditore. Ma inten-
diamoci sul punto delle cose inconciliabili. Se tutto ciò che non si so-
miglia dovesse combattersi, gli Italiani dovrebbero fra loro sbranarsi;
io, senza voler la confusione dell'arca di Noè, amo che il bello e il buo-
no, per quanto diversi, s'accostino e si mettano in armonia, ne posso
accordarmi col Guerrazzi che vorrebbe tutto il mondo foggiato ad im-
magine sua od annientato ed in ciò veramente fa consistere la pub-
blica sua democrazia. Comprendo e sento anch'io i movimenti di sdegno
— 169 —
improvviso; non capisco e non amo e detesto i rancori. Lo sdegno può
talora sollevare ad atti magnanimi; il rancore partorisce pensieri non
buoni. Il Guerrazzi deponga una volta quel fiero broncio che lo fa parere
inamabile; se alcuni uomini vili gli han fatto ingiuria, non è poi tutta
vile quest'Italia, e in ogni suo angolo più riposto battono ancora cuori
generosi e splendono nobili ingegni, per far pregio di quanto in lui è
grande. Ma, s'io ammiro l'ingegno di lui, scongiuro poi quanto posso i
giovani a non seguirne tutte le traccio, alcune delle quali mi paiono
condurre lo spirito a sicuro traviamento. E il Guerrazzi stesso ponen-
dosi la mano sul cuore, che ci si afferma e crediamo egli abbia otti-
mo, dovrà egli primo convenire e deplorare che ogni suo scritto non
sia sempre stato generoso, e che il diavolo nero troppo spesso sia stato
il suo signore e padro'ne. Non si può goder di tutte le compiacenze a
questo mondo ; il Guerrazzi stesso che odia la setta de' moderati ne do-
vrebbe esser persuaso; non si può servire con parole sataniche il genio
del male e pretendere la simpatia di quanti adorano, invece, per quanto
imbecille paia, il genio del bene. Bisogna scegliere; o scrivere per odio,
0 scrivere per amore. Quando si scrive per odio, si può sgomentare il
lettore ma non intenerirlo, né dargli coraggio ; il Guerrazzi 1' ha molte
volte dimenticato, e fece male. Né io vorrei traviare la mente di alcun
giovine, per lo studio di piaggiate la grandezza di lui che pure amo ri-
conoscere. Ecco ora la lettera del Mangini:
« Chiarissimo Signore,
« Nella Rivista Europea pubblicata il 1" agosto corrente ho letto il
Ricordo biografico di F. D. Guerrazzi, e con quante lodi proseguite de-
gnamente questo mio concittadino e maestro.
Ma sopra alcuni punti di quella vostra breve scrittura non ho po-
tuto consentire con voi; senza che io voglia farvene critica troppo se-
vera, avvegnaché parlando del Guerrazzi e delle sue fortunose vicende,
e dei giudizii spesso ingiusti e maligni di cui fu segno, non sempre il
vero sia stato universalmente fatto palese, e più volte ne sia stato par-
lato, meno per iscienza propria, derivata da serena intimità d'antica
amicizia^ che per vaghe notizie, raccolte da fogli volanti, o da dicerie
sparse dai molti avversarli politici.
Infatti coloro, e non son molti, che vissuti in lunga dimestichezza con
esso lui, ne conoscono bene le qualità morali, mai hanno conosciuto il
satanico studiato disdegno di cosa gentile che gli comparisca nella
forma d' ignobile debolezza; né mai si sono accorti che egli, sentendosi
forte contro gli emuli suoi abbia mai voluto fare presentire come avesse
potuto diventare un furbo violento [alcuni scritti di lui pur contengono
tale minaccia], mostro di specie rara in questa nostra umana natura.
La Toscana del 1848 non andò perduta perchè non fossero uniti Cap-
poni e Guerrazzi. Vi fu un Ministero Capponi, ma tutti sanno come
poco durasse, inesperto a procedere in quel subito agitarsi del popolo
— 170 —
a nuovith; e Io stesso Capponi usci d'ufficio convinto, egli pel primo,
come in nulla avrebbe potuto* giovare al paese, restando. Dire adunque
che la Toscana ruinò, tornando alla sua prima servitù, per discordie
fra Guerrazzi e Capponi, è un cattivo servigio che si rende alla sto-
ria e al nome di questi uomini egregi. Neppure è vero che Niccolini
fosse in quel tempo arnese smesso, non avendo giammai cessato lo il-
lustre poeta di tenere vivo negli italici petti lo amore di quella vera
libertà cui repugnano i falsi accorgimenti di potenza usurpatrice, vuoi
civile, vuoi chiesastica [il sig. Mangini non avverti bene le mie parole;
io parlo del Niccolini nel i859, nell'ultimo nostro stadio politico, e non
del Niccolini di dieci anni prima].
Dopo avere parlato dell'uomo politico e dello scrittore preclaro^ Voi ,
Signore, dell'uomo privato prendete a discorrere; e dite come tre volte
sia stato accusato il Guerrazzi per uomo avido di subiti e illeciti guadagni.
Avvertite, Chiarissimo Signore, che se talvolta da alcuno con ingiu-
►sta eJ assurda censura si è voluto fargli un addebito per essersi ado-
perato a formarsi un censo che lo rendesse superiore al bisogno, spesso
suasore di mali e cagione dei brutti passi nel cammino della viltà, a
nessuno è mai venuto in mente l'accusa di guadagni illeciti; né di que-
sto egli ha mai dovuto scusarsi, né col Mazzini, né col Governo re-
staurato della Toscana, né Analmente nelle liti col Sanna. [Io non ho
creduto e ripeto che non credo ai guadagni illeciti, ma è singolare che
si neghi anche l'accusa fattane al Guerrazzi: oli sa si credevano leciti,
che bisogno aveva il Guerrazzi di scolparsi tre volte in tempi diversi
della sua agiatezza ? Il mae-^tro di grammatica ha insegnato a me ed
avrà anco insegnato al Guerrazzi che: excusatio non -petita, fit accusatio'].
Voi avete voluto inopportunamente toccare questa piaga sanguino-
lenta. Meglio informato, avreste scritto in diverso modo, annunziando,
come i tribunali sentenziassero in ultimo che Guerrazzi possedeva le-
gittimamente i titoli di cui parlate. Avreste potuto aggiungere come in
quel malaugurato processo Guerrazzi desistesse non per timore di suc-
combenza ma per amore del nipote, divenuto figlio adottivo, e per
amore de'ligli di lui; famiglia carissima in mezzo alla quale vive^ co-
gliendo dal sorriso e dalle carezze dei nipotini i conforti che non trova
spesso nella patria disamorata. [Io credo aver detto abbastanza per
mostrare che non avevo dato retta ai nemici del Guerrazzi; e solo mi
meraviglio ch'egli si dolga amaramente di me, per avere, non potendo
tacere d'un fallo notorio, voluto interpretarlo nel modo più benevolo.
Io termino quindi con un solo augurio; che gli altri nemici de'quali il
Guerrazzi si duole, e a motivo de'quali egli tinge co,-ì1 spesso nel fiele
la sua penna^ non siano niente più feroci di me, che non lo metto,
senza dubbio, sugli altari, ma che lo desidero di cuore molto più ono-
rato ch'egli non sia e molto più contento, ch'egli non si mostri.] »
Livorno, agosto \%12. ^
D. Ant. M.^.NGi!yi.
VII.
ANDREA MAFFEI.
La parte orientale dell' Italia superiore che dava all' antica
Roma tre de' suoi più grandi scrittori con Livio padovano, Vir-
gilio mantovano e Catullo veronese, fra tutte le regioni della
penisola, fu nel secolo nostro la più ricca di veri poeti.
Il Monti ferrarese, il Foscolo di famiglia veneziana, il Pinde-
monte, il Betteloni, la Bon-Brenzoni e l' Aleardi Veronesi, il
Revere ed il Dall' Ongaro istriani, il Tommaseo dalmata, il Car-
rer ed il Canini Veneziani, il Cabianca vicentino, lo Zanella
padovano, il Gazzoletti ed il Prati trentini attestano mirabil-
mente come sia in quella parte d' Italia innato il sentimento
della poesia, e di una poesia piena di grazia, voluttà e melodia
che si potrebbe dir greca, se il Petrarca ed il Bellini non fossero
pur nati in Italia. E, in quella regione d' Italia privilegiata dalle
Muse, nacque pure Andrea Maffei.
Oriundo di Verona, di quella stessa nobile famiglia, che diede
nel secolo passato all' Italia il marchese Scipione l' autore della
Vero?ia illustrata e della Merope, nacque, or volge l'anno settan-
tesimo, il principe de' nostri poeti-traduttori, a Riva di Trento sul
lago di Garda, luogo nativo della madre sua. Gli studii elementari
compì a Bologna sotto il chiaro letterato Paolo Costa, che lo in-
namorò, per tempo, delle classiche eleganze. Quindi il padre lo
spediva per due anni a Monaco di Baviera, presso uno zio, il
padre Giuseppe MafFei, autore del noto Compendio della storia della
letteratura italiana. In Baviera^, il giovinetto Andrea si erudi nel
tedesco^ dopo avere, non pur trilustre, appresa^ in Italia, l' arte
— 172 -
de' versi; del qual ultimo fatto egli stesso ci informa, in un canto
indirizzato al conte Matteo Thunn :
Quante care memorie alla mia prima
Gioventù mi richiamano i pensieri
Or che ti volgo, o mio gentil, la rima !
Tu sciolto ancor non eri
Dalla tenera infonzia, ed io di poco
Il mio decimo terzo anno varcava;
E già del sacro foco
Qualche splendor la diva
Creatrice del bello in me destava.
Pallida aurora che di sol fu priva !
E m' inspirava la trilustre Musa
Le valli che la tua ròcca paterna, ,
Quasi invitta reina, han circonfusa.
Era la neve eterna
Che v' inghirlanda le nevose creste,
Era il roseo mattin che vi colora
I boschi e le foreste
Gaia materia al canto.
Poi che gli afifanni non m' aveano ancora
La trista ammaestrato arte del pianto.
Il padre fu ben sollecito a ricordargli il vecchio adagio: carmina
non dant panem (1): ma di non averlo ascoltato, il poeta non si
pente; onde, pur fra i travagli della vita^. può consolarsi cantando :
Voce amica era quella, e pur fallace !
Chi per avido intento ama la Musa,
Pianga i giorni perduti e il lungo errore.
Ma chi stanca ha la vita e triste il core,
Chiegga a lei ciò che il mondo gli ricusa.
Ed ai mali otterrà conforto e pace.
Se il MafFei avesse passato tutta la sua adolescenza in Italia, e
s'egli avesse appreso il tedesco alcuni anni più tardi, non avremmo
(1) Il soggetto del primo canto del bel poema contemporaneo Alberto
di Francesca Lutti, distinta alunna del Maffei, fu forse inspirato alla
valente poetessa da un episodio della vita del maestro.
— 173 —
ora forse le sue traduzioni; il soggiorno di Monaco lo spinse in-
vece, a divenire traduttore precoce ; e le lodi accordate a' suoi
primi saggi, lo incoraggiarono a perseverare per molti anni in
queir unica via. Tutta la potenza del suo ingegno poetico fu
pertanto concentrata allo studio di tradur bene nella nostra favella
i grandi poeti stranieri; la fantasia, l'affetto, il gusto, tutte, in
somma, le proprie qualità di poeta ei pose in servigio de' capo-
lavori che, encomiato alle prime prove, egli proseguiva ad inter-
pretarci. Ma vennero anco per lui, nella vita, malgrado il largo
censo, e il nome illustre, i giorni amari, e i dolori inattesi e
profondi. Allora il cuore pieno d' angoscia ebbe bisogno d' altro
sfogo che il conforto di diffondere gli altrui lamenti, e gemette,
invece, per sé, in versi dolorosi. Se non che egli domandò invano
alla sua musa tutta l'agilità che essa gli avrebbe, senza dubbio,
consentita negli anni primi, e sentì perciò talora rispondergli lenta
ed affaticata quella parola che egli avea trovata sempre cosi
obbediente nel rendere eleganti i pensieri e gli affetti de' poeti
d'oltremonte. Questo contrasto con la sua musa fatta ritrosa, il
poeta ci rappresenta assai felicemente in un suo elegante sonetto
dell' età matura, ov' ei risponde a chi gli domanda per qual mo-
tivo non abbia creato di suo :
Forse ne' tuoi verd' anni impeto e vena
Al crear ti fallirò? e non sapesti
Che dar con lenta diuturna pena
Al pensiero non tuo l'itale vesti?
Rispondo: S'io m'avessi ingegno e lena.
Se vanni al proprio volo agili e presti,
Non so ; ma i fonti eterni, onde la piena
Sgorga d' ogni saver, mi furo infesti.
Non osai, peritoso, alzar le penne,
Pure attendendo che 1' età matura
Valide le facesse ed animose.
Ma l'età le inflacchi; ne mi sorvenne
Che dal cespo di maggio escon le rose,
Non dalle glebe che dicembre indura.
Tuttavia questo, come parecchi altri sonetti (1), ne' quali il poeta
sfoga un affetto profondamente sentito, rivelano abbastanza quanta
(1) Si ti'ovano nel primo de' tre volumi di Versi editi ed mediti del
cav. Andrea Maffei, pubblicati da Felice Le Monnier, Firenze 1858-1860.
- 174 -
capacità di poesia in lui fosse, e ci dicono pur la vera cagione
per cui egli riuscì cosi poetico traduttore de' grandi poeti.
Studiando col prof. Paolo Costa; il Maffei avea, tra i classici
posto amore specialmente a Dante, e quindi al grande imitatore
dell'Allighieri, Vincenzo Monti. Il Monti poi ammirò egli special-
mente come traduttore dell' Iliade. Sopra questi esempii, avendo
pur appresa in Germania la lingua tedesca, tolse quindi a fare,
poco più che trilustre, una parafrasi poetica degli Idilli di Salo-
mone Gessner, che indi a pochi mesi dovea veder la luce in Mi-
lano. Ma, intorno al modo con cui il giovinetto Maffei fu intro-
dotto nella repubblica delle lettere, giova udire l' interessante
racconto, che, in una introduzioncella, premessa all'ultima edi-
zione degli Idilli di Gessner, dei Poemi di Moore, e dell'Arminio
e Dorotea di Goethe tradotti dal Maffei (1), ci fa il signor Eugenio
Checchi: « S'era in sul principiare dell'anno mille ottocento di-
ciotto. Il libraio Stella di Milano, un bel vecchione tagliato al-
l'antica, uno dei pochi che a que'lumi di luna non confondessero
r arte tipografica e libraria con la pirateria marinaresca, se ne
stava un bel giorno seduto sur una vecchia poltrona a braccioli,
con la testa china sopra i suoi scartafacci, quando alzati gli occhi,
vide entrar nella stanza un giovanetto sconosciuto. Era un gio-
vanetto leggiadro e simpatico: aveva neri i capelli e per natura
inanellati; svelta e signorile la figura, l'aria timida e imbaraz-
zata, come di chi abbia a dire qualche cosa e non l'osi; ma insieme
alla timidezza e all' imbarazzo, su quel viso quasi infantile avresti
potuto leggere un non so che, che somigliava a una maturità di
senno, a una severità di pensieri, quali a sedici anni si trovano in
uno su diecimila. Dopo poche parole così in aria, si dovette venire
all' argomento ; e il giovane arrossendo cavò di tasca un mano-
scritto, e fece capire che erano versi, versi scaturiti proprio dal
suo cervello. Sorrise lo Stella; né avendo cuore di rimandare li
per li con Dio il nuovo arrivato, disse glie li lasciasse pure ; li
farebbe vedere a qualcheduno dell' arte ; tornasse per la risposta
fra qualche giorno. E il giovanetto tornò ; e lo Stella serio serio
volea persuaderlo a confessare di chi fossero quei versi che Vin-
cenzo Monti, al quale gli aveva mostrati non si stancava di lodare,
non come opera di fanciullo, ma d'uomo fatto e maturo alle disci-
pline letterarie. Il giovanetto rispose con voce commossa che quei
(1) Firenze, Successori Le Monnier, 186S.
- 175 —
versi erano suoi, e che nessuno ci aveva messo le mani ; e cosi
dicendo qualche lacrima di stizza gli bagnava le gote. Credette lo
Stella di cascar dalle nuvole ; abbracciò il giovanetto, lo condusse
difilato in casa del Monti, il quale lo accolse con 1' affetto di un
amico, la tenerezza d' un padre, con l'amorevolezza d'un maestro. »
Ed al Monti Andrea Maffei si rivolge più tardi nella forma se-
guente in un suo sonetto commemorativo :
Sacro a me come padre ; e se la vita
Io non ebbi da te, di miglior dono
Che la vita non s'a, grato io ti sono :
Sprone all' opre mi fosti, esemplo, aita.
Quando gli Idilli del Gessner tradotti dal Maffei adolescente
vennero pubblicati, coi tipi del Pirotta, in Milano, nel 1818, i
giornali si trovarono unanimi nella lode del giovine poeta tren-
tino. La Biblioleca ilaliana battezzò quella versione con l'appella-
tivo di una bella infedele, ma, per insistere compiacente a mostrare
le numerose bellezze che l' ingegno del traditore poeta vi avea
sparse a piene mani. E il libro lodato fu presto venduto e ristam-
pato più volte di seguito, di maniera che il suo autore si trovò
celebre a 16 anni. Come mirabile artefice di versi, vivo il Monti,
dopo il traduttore dell'Iliade, ei veniva ricordato come primo;
perciò la Biblioteca italiann, nell'aprile dell'anno 18:27, prenunziando
la pubblicazione della Sposa di Messina, si esprimeva cosi : « Noi
sentiamo che il cav. Maffei adempirà in parte questo difetto, pub-
blicando fra poco la Sposa di Messina, tradotta con quella eleganza
di versi armoniosi che oramai tra'crescenti poeti sembra quasi
in Italia riservata a lui solo »: il Monti stesso poi, nel 1823, s'as-
sociava il Maffei, per tradurre alcune parti dell'episodio: Matilde
e Toledo della Tunisiado di Ladislao Pirker patriarca di Vene-
zia, facendone in alcun modo il proprio competitore. E lo stesso
Monti ancora l'aveva già prima animato a tradurre la Messiade
di Klopstock, la quale egli smesse a metà del lavoro, preso dallo
scrupolo di non riuscir traduttore abbastanza fedele. Tuttavia i
frammenti che di quella versione pubblicò dapprima la Biblioteca
itai.na ed il saggio che ne fece quindi conoscere Achille Mauri
premettendovi un suo discorso intorno a Klopstock, fecero desi-
derare il rimanente. Morto il Monti, la palma, come ad artista del
verso, fu conceduta al Maffei, né solo dal volgo, ma dagli stessi
poeti. Basti citare fra gli altri il Niccolini, che, nel novembre
— 176 —
del 1810, scriveva ad Andrea Maffei : « Chi può nell'Italia venir
con voi a paragone di versi ? » e, nel marzo del 1844, torna a
scrivergli, che egli sa fare i versi « meglio di qualunque altro in
Italia. »
Intermessa la versione della Messiade di Klopstock, il Maffei
si volse a tradurre un poeta più rispondente al proprio genio, nel
quale l'affetto è armonia. Si dedicò pertanto ai drammi di Fe-
derico Schiller, e, da prima, alla Sposa di Messina, come quella
forse che riteneva maggiormente delle forme classiche che il Maffei
aveva allora più famigliari. La Sposa di Messina apparve in Milano
nel 1827, preceduta da discorso di Francesco Ambrosoli, il suo en-
comiatore nella Biblioteca italiana. La miglior lode di questo la-
voro giovanile del Maffei trovasi, parmi, nel conto che ne faceva
il poeta Platen, grande stilista, il quale, ragionandone col Nfc-
colini, non dubitò di affermare che gli paresse più bella in ita-
liano che nell'originale tedesco (1).
Nella sua prefazione alla versione del Paradiso perduto del Mil-
ton, il Maffei ci comunica il principio che egli ha sempre professato
e seguito come traduttore: « Tanto in questa, egli scrive, come nelle
altre mie traduzioni dal tedesco e dall' inglese, mi sono studiato, per
quanto le mie forze bastarono, di indovinare come i grandi poeti
stranieri, se per nostra ventura fossero nati italiani, avrebbero si-
gnilicato i loro pensieri. Dove ho trovato la frase e la parola acconce
ad esprimere originalmente il concetto originale, non mi giovai d'al-
tri partiti ; ma credetti buon officio, anzi carità fraterna di chi tra-
duce la poesia in poesia, lo scostarmi non dal pensiero, non dalla
immagine, ma dalla espressione, ogni qualvolta mi si presentava
incerta, oscura, o repugnante all'indole della nostra favella. » E nes-
suno vorrà dire che questo non sia il miglior modo di tradurre
in versi da una lingua straniera, quando non solo non si accetti
la sentenza di Voltaire « les poétes ne se traduisent pas », ma si
tema che il tradurre in prosa scemi troppa poesia all' originale,
mentre io mi trovo, invece, ostinatissimo nella singolare opinione
che il modo più sicuro di rendere al poeta straniero, quando esso
sia originale, il suo, sia il recarlo tradotto in una prosa poetica ;
la traduzione in prosa mi sembra una bilancia sicura dell'origi-
nalità di un poeta straniero ; un poeta mediocre, la cui arte con-
siste tutta nel velare, con un pò" di grazia., immagini note sotto
(1) Cfr. Vannucci, Ricordi della Vita e delle opere del G. B Niccolini.
- 177 -
un falso aspetto di novità, riesce intraducibile in prosa; un grande
poeta invece si ama veder rivestito della sua veste più semplice,
più naturale, più propria, più vicina ad esso, che la prosa sola può
dare. Il traduttore in versi, o è un verseggiatore infelice, e scortica
addirittura il povero autore ; o verseggia con la maestria di un
Andrea MafFei, e ci fa un italiano del poeta inglese o tedesco, come
confessa appunto di aver voluto fare il MafFei. Egli può andar,
senza dubbio, superbo di avere ottenuto l'arduo suo intento, e af-
fratellati in una forma sola poeti disparati, come Byron e Klop-
stock, Schiller e Shakespeare, Milton e Goethe ; d'aver trovato
uno stile suo poetico ornato, elegantissimo e forzatolo ad accogliere
in modo portentoso i più alti e divers-i poemi della musa straniera.
Ma ciò che in un poeta costituisce il carattere, il suo stile poetico,
difficilmente si rende da un traduttore in versi, che s' innamori
d'un poeta solo, e quello intenda, e di quello s'investa, e più che
farselo suo, si faccia egli di lui ; ci pare poi impossibile a rendersi
da chi ami insieme e coltivi e traduca più d'un poeta.
Si citano l'Eneide del Caro e Vlliade del Monti come opere
d'arte perfette; certo chi le legga, senza conoscere gli originali,
può di quella lettura appagarsi ; vi è un'aura virgiliana nell'una
ed un'aura omerica nell'altra che lega insieme e dissimula le stesse
infedeltà ; ma Omero e Virgilio non vi sono.
Cosi, nelle versioni del MafFei, vi è un'aura di Schiller e di
Byron, ma Schiller e Byron non rivivono in esse.
Io confesso schietto che molte parti delle versioni dei drammi
di Schiller trovo più attraenti dell'originale, per quanto può esser
concesso ad un italiano di giudicarne ; il Platon si pronunciò sulla
Sposa di Messina ; e lo stesso giudizio si potrebbe forse ripetere
per la Giovanna D'Arco, per la Maria Stuarda, e pel Don Carlos.
É dunque merito immenso pel MafFei l'essere riuscito, in que' com-
ponimenti meglio rispondenti all'indole di lui più portata alla lirica
che alla drammatica, a tradurre non solo ma ad emulare e talora
vincere il suo autore. Ma, oltre che Schiller non è tutto là den-
tro, in que' componimenti stessi vi sono parti ove il MafFei è pre-
sente, ma Schiller non si ritrova. Noi gli dobbiamo grazie, in
ogni modo, per la fatica durata, nelle sue versioni, che, divenute
classiche, ci hanno reso famigliari i grandi poeti settentrionali, i
quali 0 non tradotti o tradotti senza splendore di forma avremmo
forse ignorati; ed io, più d'ogni altro, che, riscontrando, gio-
vinetto, la Giovanna D'Arco di Schiller tradotta dal MafFei, col
testo originale, ho incominciato ad imparare quel po' di tedesco
Ricordi IJiograkici ''2
— 178 -
di cui ora mi valgo, avrei mala grazia a lagnarmi che il Maffei
abbia tradotto in quella forma che a lui die gloria, ed a me van-
taggio. Ma, s'io credo fermamente che non si potrebbe tradurre in
verso meglio di quello che il Maffei abbia fatto, voltando in nostra
lingua Schiller, Milton e Moore, e s'io sono convinto che il Maffei
aggiunse una grande ricchezza alla nostra letteratura poetica nazio-
nale con le sue versioni, torno a conchiudere che il suo esempio
non mi sembra imitabile da altri, a meno che si ritrovi chi ab-
bia il genio elegante del poeta di Riva, il quale sappia, assimi-
landolo a sé, dare l'attrattiva di un poema originale italiano al
poema straniero, cosi cìie se il poema straniero si trasforma, cer-
tamente non si deformi. Ma, perchè, a chiarire una simil que-
stione, può valer meglio un esempio che tutta una discussione, io
chiedo licenza di recare un saggio tolto dalla bella scena di ricon-
ciliazione fra i due fratelli Cesare ed Emmanuele nel primo atto
della Sposa di Messina. La scena, nell'originale, principia cosi:
Don Cesare: Tu sei il fratello più vecchio; parla tu; io cedo,
senza vergona, innanzi al primogenito.
Don Manuel : Di' tu qualche cosa d'amabile ed io volentieri se-
guirò il nobile esempio che mi dà il più giovine.
Don Cesare : No, perchè io mi riconosco come il [)iù colpevole,
o mi sento più debole.
Do7i Manuel: Chi conosce Don Cesare, non gli attribuisce pic-
colo animo; s'egli fosse più debole, parlerebbe più orgoglioso.
Don Cesare : Non hai tu di me minor concetto ?
Don Manuel: Tu sei troppo superbo per esser vile, ed io lo son
troppo per mentire.
Don Cesare : Il mio nobile cuore non sopporta il dispregio. Tut-
tavia tu, anche nel più forte invelenirsi della pugna, hai fatto
onesto pensiero di tuo fratello.
Don Manuel: Tu non vuoi la mia morte; io n'ho prove. Un
monaco ti si propose, per uccidermi a tradimento ; tu hai punito
il traditore.
Don Cesare: Se io t'avessi prima conosciuto cosi leale, molte
cose non sarebbero avvenute.
Don Manuel: E se avessi saputo che il tuo cuore era così di-
sposto alla pace, io avrei pure risparmiato molti afflmni alla madre.
Don Cesare: Tu mi fosti dipinto molto più orgoglioso.
Don Manuel ■■ E la maledizione de' grandi che gl'infimi abusino
del loro orecchio aperto.
— 170 —
Don Cesare: Si, si. La colpa è tutta de' servi...
Don Manuel: Che lianno disgiunti in acre odio i nostri cuori...
Don Cesare: Che spar.<ero voci inique...
Don Manuel: Ogni cosa avvelenarono con una falsa interpre-
tazione. . .
Don Cesare: Alimentarono la piaga, la quale dovean sanare...
Don Manuel : Avvivarono la fiamma, che potevano spegnere.
Don Cesare : Noi eravamo sedotti, ingannati. . . .
Don Manuel: Cieco strumento delle altrui passioni.
Don Cesare : Se ciò è vero, tutto il resto è menzognero.
Don Manuel : E falso ; la madre lo dice ; credilo !
Don Cesare : Io voglio dunque stringere codesta mano fraterna.
Don Manuel: Ed io non ho al mondo cosa alcuna più cara.
(I due fratelli si stringono vivamente la mano).
La scena drammatica nel testo tedesco è forse più incalzante e
caratteristica ancora; ed ecco ora quale aspetto diverso essa pi-
glia nella versione poetica del Maffei :
Cesare Tu se' d'anni maggior, parla primiero.
Io cedo al primo nato.
Emanuele Ove tu parli
Un'amica parola, io non rifiuto
Seguir l'esempio del minor fratello.
Cesare No; più di te m'incolpo, e di men forte
Animo mi conosco.
Emanuele Oh chi potrebbe
Fiacco accusarti e povero di cuore !
Se tu lo fossi, più superba fora
La tua favella.
Cesare È questo, è veramente
Questo il concetto che di me ti fai?
Emanuele Non asconde viltà la tua grand'alma,
E la mia non discende alla menzogna.
Cesare Anzi, nobile tu, mentre più calde
N'agitavano l'ire, hai del fratello
Nobilmente sentito.
Emanuele ' E tu non brami
La mia morte. Io lo seppi: un eremita
La sua man ti profferse a trucidarmi;
— 180 —
Tu^ generoso, il traditor punisti.
Cesare Se tale io ti sapea, molte sventure
Non sariano avvenute.
Emanuele E se la mite
Indole che palesi io divinava.
La genitrice non avria sofferto
Tanti travagli.
Cesare Più superbo molto
Tu mi fosti dipinto.
Emanuele E doloroso,
Che la voce degl'infimi sussurri
All'orecchio de' grandi.
Cesare E di costoro
Tutta la colpa.
Emanuele I vili han suscitato
Le comuni discordie, avvelenando
Poche incaute parole.
Cesare E la lerita
Che doveano sanar, n'esacerbaro.
Ingannati noi fummo,
Emanuele Lo stromento
I Di private vendette. ' ■ ' .
Cesare Empi son tutti...
Emanuele E menzogneri. Lo dicea la madre;
Osi crederlo tu ?
/ Cesare Stringere io voglio
La .fraterna tua destra:
Emanuele E la più cara
Cosa eh' io m'abbia.
Evidentemente, nella versione del Maffei, questa scena acquista
in solennità quello che perde in naturalezza, ed ih eleganza quello
che perde in rapidità. Sarebbe stato agevole all'ingegno del Maffei
il far qualche cosa di diverso ; ma, ei non volle .; egli s'adagia
troppo volentieri e troppo bene nelle sue belle armonie, per rifiu-
tare questi ozii alla sua musa canora ; perciò, ove il poeta straniero
canta, l'italiano canta meglio ; ove il poeta straniero parla, l'italiano
canta ancora; e ciò poteva bene allettar l'orecchio del lirico Pla-
ten; ma, s'io non m'inganno, rende men facile l'intendimento delle
bellezzfi drammatiche riposte nell'originale, mentre, per un altro
compenso, poi, ne vela, col prestigio di un verso sempre nobile e
— 181 —
casto, le poche trivialità sfuggite all'autore inglese o tedesco,,
ch'egli abbia impreso a tradurre.
Ma, basti di ciò, in un ricordo biografico. La pubblicazione della
Sposa di Messina del MafFei, universalmente lodata tosto che ap-
parve, destò l'invidia di un oscuro letterato, il signor Antonio Caimi.
il quale incominciò a denigrare il lavoro del poeta trentino, per
pubblicare, nel novembre dell'anno 1828, egli medesimo, una sua
pessima e barbara traduzione, che fu accolta tra i fischi e le ri-
sate, press' a poco come il tentativo fatto, or sono tre anni, dal
grammatico italo-franco Luigi Dèlatre, nella Gazzetta d'Italia, di
superare il MafFei, mostrandogli come s'avesse a tradurre in versi
un passo della Maria Stuarda. Un altro critico, noto per l'inge-
gno pronto e vivace, per la varietà delle letture fatte e ricordate,
ma, più ancora, per le ardite intemperanze e la briosità scapigliata
delle sue polemiche, il signor Vittorio Imbriani, che si mise nelle
lettere senza alcun ideale, e però le serve a capriccio, dopo essersi
provato invano a scalfire il granito, sul quale posa immortale l'im-
mensa figura di Goethe, si diverti a novellare che l'Aleardi porta
una maschera, che lo Zanella è un uomo da nulla, che il Mafif'ei , il
quale da cinquant'anni traduce con lode autori tedeschi, non sa di te-
desco, e che noi tutti, i quali abbiamo la debolezza di compiacercene,
siamo vii gregge ignaro d'ogni arte. Il pubblico tuttavia, avendo
già fatto giustizia sommaria di quelle bizzarie di una mente, per
dire il vero, molto più sviata e balzana che trista, dimenticandoli;
io qui, quanto al MafFei, ripeterò soltanto, come, se infedeltà si
trovano nelle sue versioni, le ha egli stesso volute, per quel prin-
cipio che ha professato apertamente nella sua prefazione al Milton,
e per la difficoltà di far sempre bene corrispondere la colta frase
de' nostri classici da lui studiata, alla semplice e naturale espres-
sione de'poeti stranieri. Quanto, in questo studio, lo scrupoloso
MafFei si tormentasse, possiamo rilevarlo dall'epistolario del Nic-
colini pubblicato da Atto Vannucci, ove assistiamo particolarmente
alle smanie che il nostro poeta elegantissimo provava nella lunga ed
ardua fatica di voltare in italiano il Waltenstein, la più famigliare,
se cosi può dirsi, delle tragedie Schilleriane, fatica che dovea pur
riuscire funesta alla salute deiregregio traduttore, il quale, nel
vero, pubblicato il Waltenstein, si trovò come esausto di forze. Ma,
nell'agosto del 1844, cercato e trovato refrigerio ai bagni di Reco-
aro, potè quindi rimettersi tosto all'opera del tradurre, che non si
discontinuò fino all'anno 1857 in cui diede alla luce in Torino la
prima edizione del suo Paradiso perduto, ristampato sei anni dopo.
— 182 —
in Firenze, la città cortese che l'avea più volte ospitato, e cui
egli dedicò pertanto questo suo insigne lavoro di poesia (1) Undici
anni avea egli posti a voltare nel suo magistral verso italiano le
vergini armonie del gran cieco britanno, e più volte la mano stanca
gli era caduta sul libro immortale, disperando egli di condurre al
suo fine la nobile impresa; e dell'opera incominciata, interrotta, e
ripresa e alfine compiuta ei canta con efficacia in quattro sonetti
che vanno innanzi all'edizione fiorentina del poema di Milton. For-
tunate tuttavia quelle interruzioni, poiché l'Italia dovette lOiO la
versione dei poemetti del Moore, il Paradiso e la Peri, dedicato
a Francesco Ha^ez, La luce dell'Harem, gli Amori degli Angeli
dedicati al Giusti, e Gli adoratori del fuoco dedicati al Verdi, che
non tolgono nulla d'essenziale e aggiungono qualche nuovo splen-
dore alle bellezze dell'originale. Ai poemetti di Moore seguivano del
Byron la Sposa D'AUdo dedicata al Correnti, Il sogno dedicato al
Gazzoletti, il Prigioniero di Chillon dedicato al Vela, la Parisina
dedicata a G. Bertini, il Sardanapalo, il Fallerò, i Foscari, il Caino,
il Manfredo e il Cielo e Terra; ed ora s'annunzia di prossima
pubblicazione il canto sull'Italia del giovine Aroldo; dello Schiller
ancora molte romanze e liriche scelte; di Goethe, parecchie romanze,
la prima e la seconda parte di quello scoglio insuperabile che è il
Faust, ed il graziosissimo romanzetto in versi che narra i casi di
Arminio e Dorotea, la cui traduzione apparsa dapprima nelle appen -
dici della Perseveranza , alle lettrici di questo giornale veniva
quindi dedicata nella sua seconda edizione; da altri poeti diversi, pa-
recchie liriche le quali trovarono posto nel primo volume de' Versi
editi ed inediti del MafFei stampati nel 1858 dal Le Monnier. Un' ul-
tima e veramente grata sorpresa ci riserba ora finalmente il Maffei
con la versione delle Odi d'Aììacr eonte, che si pubblica, in questi
giorni stessi, a Milano in isplendida edizione bodoniana, illustrata
dai primari pittori viventi d'Italia. Al glorioso discepolo del Monti
le grazie della Musa greca dovettero esser sempre famigliari, e non
v' è a dubitare che le sue anacreontiche non siano per riuscire
cosa intieramente leggiadra, se anche forse meno bacchica e gio-
viale che non fosse 1' acre melodia dell' amabile vecchio cantore
(1) La dedica suona così: « Alla cittk di Firenze, sede prima della
risorta civiltà, dell'arte rigenerata, della cristiana poesia, questo sacro
poema volto nell'idioma di cui fu madre, nudrìce, custode, umile omaggio
di riverenza, d'affetto, il traduttore consacra. »
, — 187 —
ufficiale, ma fatta a preghiera d'un'accademia che sempre si mantenne
indipendente dai Governi non mi nego autore : ripeto tuttavia che in
quei momenti di riconciliazione nessuno avrebbe scritto in modo più
libero. Altri versi né per Francesco, né per Ferdinando, nò per Fran-
cesco Giuseppe furono da me dettati, nò prima né dopo il nostro ri-
scatto — Dacché presi la penna in mano non vergai verso per sovrani
e manco per gli austriaci; e, ch'io sappia, del mio amore all'Italia e del
mio sospiro di vederla libera dallo straniero, nessuno ha mai dubitato.
Tutti invece seppero come io fossi cacciato di Venezia, dopo ritornati gli
Austriaci, dal Generale Governatore Gorgoskj, come nemico di quel governo
ed amico de'suoi nemici ; e questi erano Mauri, Grossi, Correnti, Somma.
Gazzoletti, Venturi ecc., ai quali dedicava i miei lavori, abborrendo dai
principi e dai Mecenati — Nel 53, se ben mi sovviene, il Governatore di Mi-
lano Burger cercava un traduttore all'inno così detto nazionale austriaco;
un tale gli suggerì il mio nome, e il Governatore mi spedì a Riva un di-
spaccio invitandomi a quella vei sione. Rifiutai, allegando infermità d'oc-
chi, e rimandai l'inno originale. Il Governatore perù, sicuro della mia
adesione, ne scrisse a Vienna, e conviene che qualche gazzetta mi an-
nunciasse come traduttore di quell'inno. Saputolo, protestai, e mandai la
mia protesta alla Gazzetta dì. Milano, la quale per ordine del Gover-
natore, si rifiutò di stamparla. Nessuno tuttavia ne ha fatto caso e
creduto che i pessimi versi di quella traduzione fossero miei. S' Ella
svolge il volume delle mie poesie originali pubblicato dal Le Monnier,
legga le pag. 22, 23, 29, 50 72, 73, 81, 101, 117, e l'inno che il Go-
verno provvisorio d'allora m'invitò a scrivere per la solenne benedi-
zione delle bandiere; non troverà che lamenti per l'italiana schiavitù e
dettati in momenti pericolosi. Dal punto che potei ragionare fino a
miei settant'anni passati, fui sempre liberale nel vero senso della pa-
rola, ed ho sempre ringraziato Dio per due cose: per possedere un
censo bastevole a menar vita indipendente e per non essere ambizioso ».
Io non aggiungo qui altro ; solamente confermo il mio convincimento '
che se l'Austria ha blandito qualche volta il gentile poeta di Riva, non
riuscì a farlo suo mai, ed a toglierlo all'Italia ch'egli invece ha can-
tala sempre con amore, e di cui vide con gioia il risorgimento, e dalla
quale risorta ebbe mille prove di affetto rivei'ente, quando, or sono due
anni, un crudel morbo venne a travagliarlo, e dimostrazioni di gioia
quando la notizia della ricuperata salute si divulgò. Il Maflfei vive ora
molto ritirato a Riva di Trento, dove l'aere nativo gli giova; e que-
sta necessità della salute è l'amor delle sue valli, Io tiene pure, per
forza, lontano, per molta parte dell' anno, da Milano, dove risiede la
splendida, colta e vivace dama, eh' egli s' era scelta a compagna, la
contessina Carrara Spinelli, la quale meriterebbe ancor essa una pa-
gina nella storia letteraria contemporanea, per l'ospitalità che con-
cede nel suo elegante circolo a' più accetti fra gli artisti^e letterati lom-
bardi, ad alcuno de' quali essa aprì pure la via degli agi e degli onori.
vili.
GIULIO GARGANO.
Nessuna letteratura moderna offerse tanta varietcà di forme
quanta nel secolo nostro ne presentò a noi l'italiana. Dopo che si
smesse in Italia di scrivere alla maniera uniforme de' classici, per
dar ragione alla nota sentenza del Buffon intorno allo stile, ogni
nostro scrittore d'ingegno apparve nell'aspetto suo proprio, che agli
altri dovea, perciò, a motivo di quel carattere individuale, che s'im-
pronta negli scritti, apparire fornito d'originalità. Poiché, se vi
furono anche nel secolo nostro scuole letterarie fra ijoi, non tutto
il carattere di tali scuole è rappresentato dai soli fondatori ; e
convien ricercarlo ancora nell'opera de' più distinti fra i loro nu-
merosi seguaci, Gosì, quando diciamo che l'Azeglio, il Grossi, il
Gantù, il Garcano, appartengono, come autori di romanzi, alla
scuola del Manzoni, giova poi avvertire che, se tutti, per qualche
anello ideale si ricongiungono con l'autore de' Promessi Sposi,
che dapprima li scalda, e li accoglie quindi al ritorno fra le sue
larghe braccia, ciascuno procede poi disinvolto per una propria
via, secondando quella facoltà dell'animo o dell'ingegno che gli è
più naturale, ed amplificando in qualche forma alcuna di quelle
virtù che il Manzoni compose e temprò in una sola e sovrana
armonia estetica. La fonte letteraria è bensì una sola ; ma ogni
limpido ruscello, che ne deriva, percorre, abbellisce ed allegra
nuovo e proprio e non troppo circoscritto paese.
La natura avea posto nel cuore di Giulio Garcano una vena
copiosa d'affetti gentili, ed egli la versò tutta ne' suoi scritti let-
terari! : pr-r modo che. sotto quest'aspetto suo particolare, nessun
— 189 —
altro scrittore lo arrivò. Vi è pure chi lo imita, ma nessuno io
trovo che lo emuli ; poiché fra lui ed i suoi imitatori corre la
differenza che passa fra il dolce e lo sdolcinato, fra l'affetto e l'af-
fettazione, fra il sentimento ed il sentimentalismo. La virtù sim-
patica del suo stile è tutta nel candore dell'anima ben fatta e de-
licata di lui. E, poiché ciò ch'è simpatico si cerca e si ritrova, é
naturale che, per un verso, il Carcano nelle opere del Manzoni
studiasse il modo di dire con bella semplicità le parole dell'affetto,
per cercar quindi la compagnia dell'uomo venerando a cui il mondo
intelligente s'inchina; e, per l'altro, il Manzoni ponesse grande
amore all'autore deW Angiola Maria. La fede cristiana che guidò
il maestro, appassiona pure il discepolo, e di questa simpatia che
la comunanza del sentimento religioso accresce fra il discepolo e
il maestro, é pubblico documento II Libro di Dio, bel carme che,
nel marzo del 1866, Giulio Carcano dedicava ad Alessandro Man-
zoni. Il carme s'intona coi versi seguenti :
Quando m'accogli nella tua dimora,
0 poeta del vero e della fede,
E, intento all'alte tue parole, io miro
Il venerando tuo capo canuto :
Il mio cor sente de' colloqui amici
La segreta virtù, che nutrir sai
Di quanto è bello e grande ; e questa patria,
Aspettata da te libera ed una.
Or donna del suo lido e di sua sorte.
Meglio amar parmi, e con più forte affetto.
Essa fu il tuo pensiero ; e tu sarai
La sua gloria più pura l Ma s'io t'odo
Lamentar che di Dio, come chi '1 nega.
Sorge nemico chi n'abusa il nome,
Per fare inciampo al suo disegno eterno,
Mi ritorna nell'animo un desìo.
Che ancor non seppe il riverente labbro
Significar. — Perchè, (parla il mio core)
Colui che primo, un di, nel procelloso
Mattin del secol nostro, agl'inspirati
Inni segnò le vie del ciel, cantando
La benefica fede e i suoi misteri,
Non desta ancora l'immortal suo verso.
Per ricordar che d'ignavi intelletti
— 190 —
Non ambisce l'ossequio, o di ragione
Al guardo fugge la divina ; e solo
All'alme persiiase si concede.
Guida de' forti a non fallibil segno ?
Io non divido, al certo, né gli sgomenti, né gli augurii del Car-
cano, poiché ne' diritti della ragione ho una fede assai più grande
ch'ei non le consenta ; ma comprendo come il cattolico sincero e
convinto non solo possa, ma debba scrivere cosi, e mi dolgo quasi
che non iscrivano il medesimo quanti fanno professione d'esser
cattolici. Poiché; allora, ci troveremmo innanzi a soli pochi vera-
mente onesti cattolici che rispetteremmo, togliendosi invece la
maschera a quegli altri troppo piìi numerosi, i quali fanno pompa
dì una religione che serve solamente d'insegna a quelle virtù che
non hanno, o di strumento a procacciarsi que' beni materiali che
agognano. Tuttavia, debbo ancora affrettarmi ad aggiungere come
non sia il cattolicismo che abbia fatto grandi scrittori il Manzoni
ed i suoi imitatori, né il loro zelo per la religione non più domi-
nante, sia l'autore principale della loro gloria, se pure ne sia
■ stata l'occasione, e abbia loro, in certo modo, indicata ima cosa
molto importante, cioè la scelta del soggetto. Ma, essi mi paiono
grandi, a dispetto del cattolicismo e non a motivo di esso; di ma-
niera che, malgrado un po' d'intolleranza scientifica, il Carme di
Dio, riusci un bel lavoro poetico, come, malgrado l'inutile conver-
sione alla religione cattolica del giovine inglese Arnoldo, il perso
naggio men naturale, meno delineato e più posticcio del romanzo.
r Angiola Maria riusci e rimane tuttora il più pregiato fra que' ro-
manzi nostri, che chiamano intimi. E, s' io voglio poi trovare un
riscontro fra il racconto del Carcano e quello d'tilcun altro scrittore,
io non debbo certamente cercare il modello ne' romanzi del cattolico
abate Chiari, ma nel Vicario di Wakefield, del protestante Gold-
Smith, che, senza dubbio, il Carcano, già in possesso della lingua
inglese, ebbe presente quando s'accinse a scrivere la sua Angiola
Maria. E così come il suo maestro, il Manzoni, sull'esempio del pro-
testante Walter Scott, fondava in Italia il romanzo storico, con un
nuovo esemplare originale e perfetto, cosi il Carcano sull'esempio
del protestante Goldsmith introduceva felicemente in Italia il ro-
manzo intimo, dandogli carattere italiano.
La famìglia dei Carcano é milanese e delle più antiche. Ottone III
imperatore, neh' 896, diede a Landolfo da Carcano, arcivescovo,
giurisdizione sulla città e su tre miglia in giro : ma i cittadini
— 191 —
gli si opposero colle armi e lo cacciarono « e di buona ragione,
mi scrive lo stesso Giulio Carcano, perchè aveva comprata la di-
gnità, e in penitenza fece poi inalzare chiese, e monasteri. » Un
altro Landolfo, mandato vescovo a Como da Arrigo IV, fu ca-
gione d'una guerra partigiana e rabbiosa tra milanesi e comaschi;
e un episodio di questa lotta civile è la patetica novella di Tom-
maso Grossi, Ulrico e Licia.
Giulio Carcano nacque in Milano il 7 d'agosto dell'anno 1812.
Studiò come alunno del Collegio Longone in Milano, dall'anno 18r^4
al 1830, avendo per maestro di lettere classiche l'abate Clemente
Baroni, colto poeta e latinista, e autore di un libro di racconti
giovanili. Nel 1831, si recò a studiar legge nell'Università di
Pavia. Essendo ancora studente, nell'anno 1834, pubblicava la sua
lodata novella in ottava rima Ida della loì-re. Nel 1833 si lau-
l'eva in legge. Nel 1837 perdeva uno de'suoi più cari amici in
Rinaldo Giulini , del quale scriveva lungamente nella Rivista
Europea dell'anno 1838. Nel 1839 dava alla luce l'Angiola Maria.
Seguivano quindi, nel 1840, le Prime poesie, e nel gennaio 1843,
la versione del Re Lear di Shakespeare, dedicata al Niccolini,
ch'egli avea già conosciuto in Firenze, ed al quale egli era
caro (1). Cito la dedica del Carcano, perchè egli (al pari di
Andrea Maflfei) ama le dediche e sa farle con grazia. La de-
dica può aver duplice fine , secondo chi la fa ed il modo con
cui la fa, buono o tristo. Chi dedica il suo lavoro a potenti, per
ossequio servile , mendicando con abiette lodi que' favori che
r opera per sé stessa non basterebbe a procacciargli , è uomo
spregevole; chi si giova della dedica o per pagare un debito di
riconoscenza, o per dare sfogo ad ogni altro sentimento gen-
(1) Cfr. l'opera del Vannucci, Ricordi della Vita e delle opere di G.
B. Niccolini nel voi. 2" della quale, a pag. 338, sembra tuttavia essere
incorso un errore di data nel pubblicare una lettera del Niccolini al
Maffei. Secondo quella lettera che porta la data del giugno 1844, il Nic-
colini farebbe ringraziare, per mezzo del Maffei, il giovinetlo amico
(il Carcano) del suo proposito di dedicargli il Re Lear, mentre la de-
dica a stampa del Carcano reca la data del 2 gennaio 1843. Sembra
che sia stato scambiato dal Vannucci un 2 per un 4 ; e la prova di ciò
è un'altra lettera del Niccolini dell' Il ottobre 1843, nella quale il Nic-
colini annunzia al Mafl'ei , ch'egli spedisce tre esemplari dell' A/--
naldo, l'uno per lo stesso Maffei gli altri due per Giulio Carcano, già
bene a lui noto, e per Felice Belloiti.
— 192 —
tì\e, prova animo delicato e modesto. Io amo le dediche del Car-
cano. Vi è in tutte una simpatia che vince non la persona
soltanto alla quale egli si propone di render onore, ma ogni lettore
nato a ben sentire. Dei dieci drammi di Shakespeare che il Car-
cano ha tradotto fra il 1843 ed il 1854, dopo il Be Lear, apparve
VAmleto dedicato a Cesare Correnti, compagno di studii e di spe-
ranze al Carcano, col quale pure scrisse nel Ricordo di letteratura
intitolato II presagio, che si pubblicava in Milano innanzi l'an-
no 1840, il Giulio Cesare ad Andrea M allei, la Giuliella a Giu-
seppe Montanelli, il Macbeth al Guerrieri Gonzaga, il Riccardo III.
al Grossi, Y Otello a Giuseppe Mongeri, La tempesta a Iacopo Ca-
bianca, Il Mercante di Venezia ad Angelo Fava, V Arrigo Vili ad
Antonio Gazzoletti. Oltre a questi sei drammi di Shakespeare, già
pubblicati, il Carcano ne ha tradotti altri sei, i quali attendono so-
lamente un editore.
Nell'aprile nel 1843, il Carcano dedicava alla sua sorella i sette
Racconti semplici; nel 1844, assumeva l'ufficio di vice-bibliotecario
a Brera; nel 1848, dopo aver presa viva parte all'insurrezione mi-
lanese contro gli austriaci, sedeva, segretario del governo prov-
visorio di Lombardia, e sosteneva a Parigi in nome di quello
stesso governo una missione diplomatica. Il maresciallo Radetzki
naturalmente lo destituiva nell'anno seguente, ed il Carcano era
allora costretto a rifugiarsi in Svizzera; al quale esigilo si rife-
riscono alcune pagine d'un racconto che, alcuni anni dopo, lo stesso
Carcano pubblicava nella Rivista Contejnjyoranea. Nel 1851, l'autore
àeW Angiola Maria, aveva pubblicato un altro suo racconto intimo,
intitolato : Damiano, storia d'una povera famiglia, pieno di pas-
sione e d'interesse, ed ove una parte della vita cittadina di Milano
è descritta con molta verità. Nel 1856, si pubblicarono le sue Dodici
novelle, un vero modello nel genere della novella morale e patetica.
Nel 1857, il Carcano rivelavasi, ad un tempo, autore tragico distinto,
e previdente patriota con lo Spartaco, a cui, nel 1800, seguiva l'Ar-
doino, lavoro ben più fedele alla verità storica e ben più vera-
mente drammatico e più notevole, in somma, di quelle scene dia-
logate in sonorissimi versi imprecanti alla Roma papale che le
dotte platee dell'odierna Italia continuano ad applaudire come tra-
gico capolavoro. Una terza tragedia, Valentina, in pure parte del
secondo volume di Poesie edite ed inedite di Giulio. Carcano pub-
blicate dal Le Mounier (Voi. 1" 1861, voi. ^2M870). Oltre a que-
sti lavori originali del Carcano, voglionsi ricordare parecchie sue
prose robuste e scritte con garbo, cioè, alcuni discorsi storici, alcune
— 193 —
prefazioni a lavori da lui messi in ordine (fra gli altri, un'Anto-
logia lìoetica giovanile intitolata : La Primavera, Milano, F. Co-
lombo ed. 1857, e le lettere dell'Azeglio a sua moglie Luisa Blon-
del) due volumi di Memorie di grandi e Memorie d'Amici (Dante,
Tasso, il Borromeo, Muratori, l'Agnesi, Passeroni, i due Verri,
Napoleone I, Foscolo, Monti, Grossi, Bellotti, Cavour, D'Azeglio,
Rinaldo Giulini, Gottardo Calvi ed Emilio Dandolo), e recentissime,
alcune iVò^e d'estetica lette all'Istituto Lombardo,(ove egli siede come
segretario,) nelle quali si dimostra come, senza ideale, nessuna este-
tica sia possibile. E di estetica nessuno può, di certo, esser miglior
giudice dell'autore déW Angiola Maria, non meno innamorato e
capace del bello che del buono. Perciò, nel 1859, egli veniva eletto
segretario dell'Accademia di belle arti e professore d'estetica in
quell'Accademia medesima; dal quale ufficio, passava, nell'anno
seguente, provveditore, agli studii per la provincia di Milano, e,
nell'anno 1868, (assai troppo tardi) membro del consiglio superiore
dell' istruzione pubblica, per decreto del ministro Emilio Bro-
glio, che r avea pur nominato insieme con Ruggiero Bonghi,
membro della commissione per gli studii intorno al Vocabolario
della lingua italiana, presieduta dal Manzoni. E maggiori onoranze
malgrado la disinvoltura, che la nuova Italia pone nel mettere
in disparte i suoi vecchi gloriosi, non sarebbero forse mancate
al Carcano s'egli le avesse ambite, se anzi la sua grande mode-
stia non se ne fosse mostrata schiva. Io ammiro poi grandemente
questo scrittore che, molto compiacendosi nello stile patetico, ed
avendo egli stesso sicuramente molto patito, senza di che non
avrebbe saputo far piangere, come seppe, i suoi lettori, non mosse
mai un lamento sopra di sé, e non fu mai ad alcuno maligno. Ed an-
che ora piacemi, nella sua prosa, sentire quel calore e quell'entusia-
smo che si desidera invano negli odierni scritti giovanili. Nel dedi-
care alla sua figlia Maria (frutto gentile delle sue nozze con la si-
gnorina Giulia Fontana) le Memorie de Grondi, il 22 maggio 1869,
egli scriveva queste parole: « ho riuniti diversi miei scritti, dettati
in tempi diversi (cioè dal 1838 al 1867), prima e dopo il benedetto
giorno della nostra indipendenza dallo straniero, sempre collo stesso
intendimento e desiderio, quello di tener viva la fiamma dell'amor
della patria; che ben fu chiamato, non so più da chi, la carità ci-
vile. Poiché, ogni volta ch'io scrissi, ho voluto conservar fede alla
tradizione del pensiero italiano. Ora, la nostra patria è unita; e a
questo gran bene non saranno d' inciampo né rancori politici, né
pretensioni, né dubbi, nò altre difficoltà nella nuova sua via;
RjcoKDi Biografici 13
— 194 —
che sembrano le ultime orme lasciate qui da un passato in-
fausto. »
Tutti gli scritti del Carcano sono conformi all' ideale che
dell'uomo di lettere ei s'è formato; e la stessa anima che
spira negli uni si ritrova negli altri, sebbene più piena e sicura
nelle prose, più incerta e più languida nelle poesie, le quali
tuttavia rende attraenti l'affetto costante, che le muove. Il Car-
cano ebbe egli pure, come scrittore, i suoi momenti che oserei chia-
mare eroici, senza di che non gli sarebbe stato certamente possibile
il rendere certe bellezze de' drammi di Shakespeare ; ma la sua
corda è la sensitiva; e quand'egli l'ha toccata, fu sempre felice. Chi
ha letto le Memorne d'un fanciullo, la Povera Iosa, e la Benedetta
dapprima ne' Racconti semplici e poi nelle Dodici novelle, chi ha
pianto suir Angiola Maria e su alcune pagine del Damiano, deve ri-
conoscere al Carcano come scrittore una potenza più che ordinaria
a significare il dolore. Ma, io lo ripeto, ei può significarlo cosi,
perchè o l'ha provato prima, o pure se ne sentì capace, ch'è una
virtù estetica a pochi concessa.
Se non che, dopo aver fatto versare una lacrima sugli infelici, egli
stesso la terge, per non lasciar entrare nell'anima d'alcun lettore lo
sconforto; nel dipingere il male, egli non vuole che si dimentichi
come il bene è possibile, e però dalla religione attinge tutte quelle
oneste e pie parole che sono atte a consolare. Egli non vuol dissimu-
larci le miserie della vita, ma si sgomenterebbe se alcuno tra quelli
che ascoltano il racconto di lui ne perdesse il coraggio e la fede.
h' Angiola Maria ci mostra questo studio continuo dello scrittore a
rappresentarci il male ed a confortarci con le immagini del bene.
La vita non ce la raffigura lieta, ma, all'infuori dell'ignobile
Arpagone, nessuno de' personaggi del suo romanzo, neppure lo
stesso deputato politico, è deliberatamente tristo. Ciascuno ha le
sue debolezze, ma nessuno ama propriamente il male; gli stessi car-
rettieri che, nel mirabile capitolo intitolato 11 ritorno, attentano
all'onore della povera giovinetta fuggitiva, nell'udire la pia men-
zogna del vecchio mendicante chg, per salvarla, la grida sua figlia,
rimangono confusi e, scusandosi come possono, abbandonano la
ritrosa fanciulla al suo destino. Il Carcano non vede il suo mondo
dietro vetri appannati; osserva, e, che osservi bene, lo provano le
sue belle descrizioni ed i ben riusciti quadretti di genere, come
quello, per esempio, della bottega dello speziale nel primo libro, e
delle alunne della crestaia nel libro secondo (\e\V Angiola Maria,
e la figura della pegnataria nel Damanio ma, se il suo pensiero.
— 195 —
divenutone malinconico, comunica pure una certa tinta elegiaca al
racconto, al fine della selva oscura, in cui s'è messo, come ai viag-
giatori delle novelline popolari, gli appare un lumicino, che s'in-
grandisce a misura ch'ei s'avanza, in fino a eh' ei vede sorgere
un palazzo d'oro tempestato di gemme, un palazzo infinito, un pa-
lazzo incantato, il palazzo delle fete, ossia, per uno scrittore catto-
lico, com'egli é, il tempio della fede immortale, che raccoglie e ri-
covera sotto la sua volta serena ogni mobile pellegrino smarrito,
e gli queta le insonnie superbe della mente — o per farlo brutal-
mente dormire, — o per farlo divinamente sognare.
IX.
MICHELE AMARI.
Il valido popolo che seppe far la tremenda vendetta del Vespro
dovea pur trovare, un giorno, presso di sé, uno storico generoso
che ne tramandasse degnamente la memoria ai posteri. Passarono
da quel tempo alla narrazione dell'Amari ben 559 anni, ma il li-
bro moderno è scritto da tale che non solo ha bene studiato e
compreso i fatti eh' egli espone ed interpreta, ma che fa spesso
sclamare a chi lo legge: questi è l'uomo da rinnovare nell'età no-
stra, fatta ragione all'ordine più civile de'tempi, la fiera impresa
del popolo del quale egli ridesta la memoria. Basta a persuader-
sene ricordare le gravi parole con le quali Michele Amari ter-
minava la sua prefazione all'edizione parigina della Guerra del
Vespro Siciliano apparsa nell'Aprile del 184o: « E forse, egli scri-
veva allora, perchè son nato in wSicilia e in Palermo, io ho po-
tuto meglio comprendere la sollevazione del 1282, si com'essa
nacque, repentina, uniforme, irresistibile, desiderata ma non tra-
mata, decisa e falla al girar d'uno sguardo. » Queste parole non
scolpiscono soltanto il popolo del Vespro, ma si ancora l'animo
gagliardo e risoluto e la ferrea volontà dello storico, onde pote-
vano molto ragionevolmente far paura a Ferdinando Borbone, come
pronostico della rivoluzione palermitana del 1848.
Michele Amari nacque in Palermo il 7 di luglio dell'anno 1806,
gli spiriti rivoluzionari eredando per tempo dal padre, che, get-
tato in un carcere nel 1822, a lui giovinetto sedicenne raccoman-
dava la madre, due fratellini e due sorelle, e forse la cura di ven-
dicarlo. Il giovine Michele dovette pertanto interrompere gli studii
— 107 —
bene intrapresi (ai quali avevagli aggiunto coraggio e forza il con-
siglio del celebre Domenico Scinà che frequentava la casa paterna)
per assumere, nel 1821, un umile impiego. Lottò sei anni fra
que'travagli domestici, unicamente intento a ^^rovvedere ai biso-
gni della sua famiglia, e, nelle ore libere, ad esercitarsi in caccie
montane, per crescere forza ed agilità alle membra ed acquistare
singolare destrezza al tiro, pel giorno sperato della siciliana ri-
scossa. E fra quelle cure ogni libro gli si chiuse, dal Macchiavelli
in fuori. Che cercava egli mai presso il segretario Fiorentino?
La malizia forse? Chi conosce l'Amari sa bene come non vi sia
uomo più leale e più schietto di lui, e sulla parola del quale si
possa più sicuramente e più lungamente contare. Che vi cercava
egli dunque ? Senza dubbio egli studiava il rovescio della meda-
glia in quella mente formidabile. Egli voleva vedere se quella
forza paurosa e quella terribile sapienza che il Macchiavelli in-
segnava al principe, non si fosse potuta adoperare con maggior
vantaggio ed onestà a favore del popolo, per armarlo alla propria
vendetta. Ma, come mutare in atto un simile pensiero, vivendo
una vita tutta solitaria e selvaggia, lontano dal culto di quelle
arti gentili ch'egli sapeva bene essere strumento essenziale di ci-
viltà, e però di risorgimento ad ogni gran popolo? Alternò quindi
l'esercizio delle armi e della caccia (nella quale egli si diletta pure
al presente, ma non più in verità minaccioso ad alcuno, fuor che
a qualche imprudente beccaccino in ritardo) con quello delle let-
tere, neir amore delle quali quindi fortemente s'accese. Ripigliò
pertanto lo studio della lingua inglese, che riconosceva necessaria
come strumento per acquistare una miglior conoscenza delle glo-
riose istituzioni britanne, ed intanto, come esercizio di traduzione
e come saggio del proprio valore in quella lingua, nell'anno 1832,
diede alle stampe in Palermo una sua versione del Mannion di
Walter Scott. L' illustre poeta e romanziere scozzese era allora
venuto a Napoli per cercarvi inutilmente ristoro alla salute af-
franta dal soverchio lavoro; ebbe notizia della versione dell'Amari,
e il 1° febbraio (poco più di sette mesi prima di morire) al gio-
vine traduttore siciliano indirizzava dal Palazzo Caramanica, ove
egli dimorava, una curiosa lettera di ringraziamento, nella qua-
le, dopo aver lodata la veri/ prelly translation del poema, ch'egli
stesso dice aver quasi dimenticato, augura al traduttore ch'ei
possa vendere il libro tradotto come fu venduto l'originale, e ac-
quistarsi cosi quella stessa popolarità, la quale egli, autore, con
minor merito ebbe la buona sorte di conseguire. Ma, mentre
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l'Amari studia l'inglese, l'animo di lui è rivolto alla Sicilia; egli
traduce un' elegia sulle rovine di Siracusa, di Tommaso Stewart
che era venuto a farsi monaco in Sicilia; quindi spinto dal proprio
genio e dai consigli di Salvator Vigo e dello Scinà si dedica in-
tieramente agli studii di storia siciliana, per congiungerli quanto
si potesse con le questioni urgenti della politica contemporanea.
Nel 1834, egli pubblica pertanto un primo lavoro storico nelle Ef-
femeridi Scientifiche Siciliane sulla Fondazione della Monarchia
de'Normanni in Sicilia, per dimostrare a un pubblicista napo-
letano l'autonomia della Sicilia da Napoli; e nell' anno seguente
viene ricevuto nell'Accademia di scienze e lettere di Palermo.
Quindi concepisce il pensiero di una Storia Generale della Sicilia,
che abbandona nel 1836, per imprendere la storia particolare
della Guerra del Vespro. Ma qui giova udire le parole stesse del-
l'autore, che si leggono nella prefazione all'edizione fiorentina del
1851: « l'esempio degli scrittori della terraferma che incoraggia-
vano la generazione presente col racconto di antiche glorie ita-
liane, mi spinse a provarmici anch'io. Il problema era di gridare
la rivoluzione senza che il vietasse la censura. Pensai dunque,
che i fatti del 1812 avrebbero dato ombra alla censura, senza ri-
cordare al popolo altro che divisioni, miserie, debolezze; e però
messi da canto il lavoro incominciato, del quale erano raccolti
tutti i materiali e steso il primo abbozzo. L'argomento novello
mei dettava quella nobile tragedia del Niccolini, leggendo la quale
mi sentiva correre un raccapriccio infino alle ossa, e piangea di
rabbia ripetendo:
Perchè tanto sorriso di cielo
Sulla terra del vile dolor?
Né altro soggetto si potea trovare più acconcio allo scopo mio;
cinque secoli e mezzo d'antichità da opporre alla censura, una ri-
voluzione preparata, com'io credea (1), terribile, vittoriosa, nella
(I) Il libro poi dimostrò il contrario, riducendo la figura romanzesca
di Giovanni da Procida al suo mediocre valore storico, malgrado le op-
posizioni che incontrò la teoria molto positiva dell'Amari presso i si-
gnori Ermolao Rubieri, Salvatore De Renzi, Antonio Cappelli e Vincenzo
Di Giovanni che difesero la gloria dei Procida. Quanto al Niccolini che
aveva idealeggiata quella figura sopra la scena, mi piace il notare co-
me non solo non volesse male all'Amari dell'avere osato demolire il
suo eroe, ma scrivesse il 24 settembre 1842 le seguenti parole: « Io non
cedo ad alcuno nella stima e l'afifetto verso l'Amari. »
— 109 —
quale si erano dileguati gli odii municipali, che lacerarono la Si-
cilia innanzi il 1282, tacquero allora^, e poi s'erano scatenati di
nuovo fin oltre il 1820. La coscienza o la vanità mi disse che il
libro potea giovare alla cosa pubblica, e, persuaso di ciò, affron-
tai il pericolo che pure vedea chiaramente. Questa è la somma
delle astuzie mie. Altri poi si credè dipinto in questo o quel per-
sonaggio del Vespro, mi accusò di avere falsato la storia per fare
cotesti ritratti; come se la viltà di una bugia avesse mai potuto
stare insieme con quel dritto zelo che mi ispirava, o se non
avessi saputo la verità essere più eflicace di qualsivoglia inven-
zione; 0 finalmente come se certi brutti ceffi dovessero scontraf-
farsi per farli rassomigliare l'uno all'altro. E sovvienmi della
semplicità del generale Majo, luogotenente-generale di Sicilia, che,
sgridato dai suoi padroni per la pubblicazione del mio libro, di
che egli era innocentissimo, pensò di sfogare il dispetto sopra di
me, e domandavami per esordio « perchè mi fosse venuto in capo
di fare il letterato » e rincalzava l'orazione col dir ch'erano falsi
al certo i fatti narrati, perchè il popolo non avea mai vinti i sol-
dati stanziali. Alla prima parte del sermone non v'era che repli-
care. All'ultima, che celava una buona dose di paura, io [risposi
per le rime: che i tumulti si reprimono talvolta, ma né forza né
disciplina di soldati mai valse contro una rivoluzione. « E crede-
rebbe, io soggiunsi, che questi granatieri, queste artiglierie (noi
eravamo nel palagio reale di Palermo) sarebbero ostacolo al po-
polo di laggiù, se si levasse davvero, se corresse qui disperata-
mente, come fece il 31 marzo 1282, e spezzò queste porte; ed Er-
berto d' Orleans ebbe a ventura di poter fuggire? » Mi guardò
costernato, senza dire né si né no; e dopo cinque anni e pochi
mesi, fuggiva di notte da quelle medesime stanze cinte di bastioni,
afforzate di un grosso presidio. »
L'opera usci a Palermo nel 1841, col vago titolo : Un periodo
delle istorie siciliane del secolo XIII; in Francia assunse invece
il suo titolo vero: La Guerra del vespro siciliano, e nella prefa-
zione del 1843 l'autore disse aperto la ragione per la quale pre-
ferì la narrazione di quel fatto particolare: « Scelsi il Vespro Si-
ciliano come il più grande avvenimento della Sicilia del medio
evo; il che se si chiamasse amor municipale, sarebbe mal detto;
perchè la Sicilia parmi assai grande per una città; l'amor del
proprio paese, il rammarico de'suoi mali, e il desiderio della sua
prosperità, comunque possan portarla gli eventi, non si dee con-
fondere con l'egoismo di municipio che dilaniò un tempo l'Italia;
— 200 -
passione funesta, dileguata per sempre, io lo spero, insieme con
l'ambizione di tirannide d'ogni popolo italiano sopra l'altro. Guar-
dando il Vespro da vicino, lo trovai più grande; si dileguarono
la congiura e il tradimento; l'eccidio si presentò come comincia-
meuto e non fine di una rivoluzione; trovai l'importanza nella ri-
forma degli ordini dello Stato; nelle forze sociali che la rivolu-
zione creò; nei valenti uomini che spinse per ventanni tra i com-
battenti e i negozi politici; vidi estendersi in altri reami e per-
petuarsi in Sicilia, e fors' anche nel resto d'Italia, gli effetti del
Vespro. Donde potea bene accendersi in me il severo zelo della
verità storica; e poteva io difendermi dall'inganno delle mie pas-
sioni nell'esame de'fatti, ancorché punto non mi sforzassi ad oc-
cultarle nelle parole, »
Questi i generosi intendimenti dell'opera e nessuno negherà che
l'Amari sia stato fedele al suo proposito. A lui poi, come ad altri
due illustri siciliani che lamentiamo prima del tempo estinti, lo
storico Giuseppe La Farina e il critico Paolo Emiliani Giudici,
dobbiamo speciale ammirazione per aver saputo guardarsi, in
mezzo al culto quasi idolatrico del papato che fece traviare nel
nostro secolo tanti nobili ingegni italiani, dal far eco al plauso
delirante delle plebi abbagliate o sedotte, col serbare intatta là
severità del loro libero giudicio, sopra le opere per lo più ambi-
gue e non di rado inique del pontificato. Quanto ai mezzi adope-
rati dall'Amari nel comporre il lavoro che lo rese tanto glorioso,
giovano pure venir considerati, perchè non s'affidino i giovani
che basti l'opportunità politica ad assicurare poi lunga o splen-
dida vita ad alcuna pubblicazione. La Guerra del Vespro Siciliano
ebbe sette edizioni, e fu tradotta in inglese sotto gli auspicii di
Lord Ellemere, in tedesco dall'annoverese dottor J. F. Schròder;
e tentò due plagiarli francesi H. Possien et J. Chantrel a ripro-
durla sfacciatamente sotto il loro nome col titolo: Les Vépres
Sìciliennes, trasformata soltanto a significato guelfo. La prima
edizione aveva fatto gran rumore per gli intendimenti politici che
le venivano attribuiti; ma tali intendimenti non bastano, perchè,
mutati affatto i tempi, l'opera si ristampi, si divulghi e si legga
con viva compiacenza. L'economia delle parti che compongono la
narrazione, l'ordine con cui numerosi fatti prima ignoti, dal-
l'Amari per la prima volta sono recati alla luce, dopo lunghe ed
ostinate ricerche da lui fatte negli Archivii di Palermo, di Na-
poli e di Parigi, lo studio dell'arabo intrapreso per poter meglio
illuminare tutto quel periodo delle storie siciliane, nel quale gli
— 201 —
Arabi o dominarono la Sicilia o vi lasciarono traccie della loro
dominazione, e una certa cura perchè il libro divenisse insieme,
pel lato della forma, anche un' opera d' arte, son tutte ragioni
molto rilevanti che contribuirono grandemente a mantenere la
popolarità di un lavoro accolto, al suo primo apparire, con una
specie di entusiasmo presso i liberali italiani e di sgomento nella
repjgia borbonica. Certo chi domandasse ad un purista o ad uno
stilista se la prosa del Vespro sia tutt'oro filato e benedetto, li ve-
drebbe appartarsi l'uno e l'altro per farsi in fretta e di nascosto
(l'Amari è socio corrispondente della Crusca) il segno della croce
come al ricordo di un mezzo eretico; ma ciò non toglie che l'Amari
nello scrivere sia accurato e piacevole artista; si direbbe ch'ei rubi
nella sua storia una certa lucida e graziosa ingenuità di racconto
ai cronisti del trecento, e la prudente gravità dell'osservazione
alle storie fiorentine del Macchiavelli, derivando poi da sé stesso
oltre al sapere, il rapido impeto, la cara vivacità, il nerbo efficace,
il nobile coraggio, l'anima simpatica, la parte, in somma, che me-
glio si comunica; io non so, in vero, se tutte queste qualità ba-
stino a formare uno scrittore veramente classico, ma sono, o mi
paiono, al certo, esuberanti, se ci contenteremo di venire ammae-
strati da uno scrittore che molto pensa, molto sa e molto ama,
e, come opera virilmente, cosi parla da uomo. Rammentiamo, per
esempio, una sola pagina del libro del Vespro; essa basterà a
darci la misura della potenza di Michele Amari come scrittore.
« Immemori di sé medesimi, egli scrive nello stupendo sesto ca-
pitolo, e come percossi dal fato, gli animosi guerrieri di Francia
non fuggiano, non adunavansi, non combatteano: snudate le spade
porgeanle agli assalitori, ciascuno a gara chiedendo: Me, me pri-
mo uccidete » sì che d'un gregario solo si narra che, ascoso sotto
un assito, e snidato coi brandi, deliberato a non morir senza
vendetta, con atroce grido si scagliasse tra la turba de'nostri di-
speratamente, e tre n' uccidesse pria di cader egli trafitto. Nei
conventi dei Minori e dei Predicatori irruppero i sollevati, quanti
frati conobber francesi trucidarono. Si lavaron le mani nel san-
gue degli uccisi. Gli altari non furono asilo; prego o pianto non
valse; non a vecchi si perdonò, non a bambini né a donne. I ven-
dicatori spietati dello spietato eccìdio di Agosta, gridavano che
spegnerebbero tutta semenza francese in Sicilia; e la promessa
orrendamente scioglieano scannando i lattanti su i petti alle ma-
dri, e le madri da poi, e non risparmiando le incinte; ma alle
siciliane gravide di francesi, con atroce misura di supplizio, spa-
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rarono il corpo, e scerparonne e sfracellaron miseramente a' sassi
il frutto di quel mescolamento di sangui d'oppressori e d'oppressi.
Questa carnificina di tutti gli uomini d'una favella, questi esecra-
bili atti di crudeltà, fean registrare il vespro siciliano tra i più
strepitosi misfatti di popolo, che vasto è il volume, e tutte le na-
zioni scrisservi orribilità della medesima stampa e peggiori, le
nazioni or più civili, e in tempi miti e anche svenevoli; e non
solo vendicandosi in libertà, non solo contro stranieri tiranni, ma
per insanir di setta religiosa o civile, ma ne'concittadini, ne'fra-
telli, ma in moltitudine tanta d'innocenti, che spegneano quasi
popoli intieri. Ond'io non vergogno, no, di mia gente alla rimem-
branza del Vespro, ma la dura necessità piango che avea spinto
la Sicilia agli estremi; insanguinata co'supplizj, consumata dalla
fame, calpestata e ingiuriata nelle cose più care; e si piango la
natura di quest'uom ragionante e plasmato a somiglianza di Dio,
che d'ogni altrui comodo ha sete ardentissiraa, che d'ogni altrui
passione é tiranno, pronto ai torti, rapido alla vendetta, sciolto in
ciò d'ogni freno quando trovi alcuna sembianza di virtù che lo
scolpi; si come avviene in ogni parteggiare di famiglia, d'amistà,
d'ordine, di nazione, d'opinion civile o religiosa. »
Ma quel racconto non gli fu perdonato dai padroni di Napoli. Il
re Ferdinando secondo si credette rappresentato in re Carlo
D'Angiò, e il suo degno ministro Del Carretto in Guillaume
r Estendard ; il libro venne proibito; l'editore accusato e tratto
a morire nell'isola di Ponza; il censore dimesso dall'impiego;
l'autore invitato a recarsi a Napoli; ma egli, prevedendo il fine
di quella citazione, salpò invece alla volta di Francia, e si ridusse
a Parigi, ove trovò accoglienza ospitale, e cortese assistenza negli
studii, ch'egli prosegui con alacrità mirabile, fra gli altri, presso
il Buchon, il Letronne, il Michelet il Thierry, il Villemain (allora
ministro della pubblica istruzione), l'Hase, il Reinaud, il Le Nor-
mand, il Longperrier, ed altri uomini insigni. A Parigi, l'Amari
apprese pure l'arabo; ne sentiva il bisogno per valersi de' nume-
rosi documenti arabi che valgono ad illustrare la storia siciliana;
e r apprese in modo da divenire egli stesso il primo, senza
dubbio, degli arabisti italiani, ed uno fra i primissimi arabisti
viventi d' Europa ; attese pure con profitto in Parigi presso il
professor Hase allo studio del greco moderno. Gli insegnò l'arabo
il Reinaud, del quale egli scriveva poi un affettuoso ricordo
nella Ricista orientale di Firenze, e lo aiutò pure nel primo
anno de' suoi studii arabici il barone Mac-Guckin De Slane. Con
— 203 —
tutti questi aiuti ed altri più che l'operosità sua instancabile avea
saputo procacciarsi, l'Amari si trovò finalmente in condizione di
poter preparare agli studiosi una Storia dei Musulmani in Sicilia,
della quale sono ora pubblicati i due primi volumi e la metà del
terzo, essendo d'imminente pubblicazione l'ultima parte che com-
pierà il grandioso lavoro. Dalla prefazione al primo volume di
questa storia edito nell'anno 1854 in Firenze dal Le Mounier, è
lecito argomentare quanta pazienza di ricerche, quanta ostina-
zione di proposito abbia dovuto mettere in opera l' Amari per
riuscire al compimento dell'ardua sua impresa; e l'esempio suo
ci parrà tanto più degno d'ammirazione, quando si pensi che men-
tre lavorava cosi intensamente su materiali spesso indigesti e di
difficile interpretazione per colmare una importante lacuna nella
storia dell' isola sua nativa, mosso dal solo desiderio e dalla sola
speranza di venire in servizio della verità storica, dovea pure
lottare ogni giorno non per vincere, ma per rendere meno dura
la povertà che il necessario esigilo gli aveva imposta. Ma la
stessa preparazione di materiali storici richiedeva un dispendio
assai superiore ai piccoli mezzi di sostentamento che, nella sua
condizione di esule, l'Amari riusciva stentatamente a procacciar-
si; e a questo bisogno dello studioso sovvennero in parte alcuni
amici, come egli stesso ci confessa sul fine della prefazione al
primo volume della Storia de Musulmani, ove, dopo avere pro-
fessata la sua gratitudine alla Società orientale tedesca, che prov-
vide splendidamente alla pubblicazione della Biblioteca aràbico-
sicula, che l' autore avea raccolta e ordinata con pazienza da
Benedettino (1) prima d' imprendere a scrivere il nuovo suo libro;
al munifico duca di Luines per la carta comparata della Sicilia
eh' egli preparò in società con 1' Amari e col Dufour e fece poi
incidere e pubblicare a sue spese (2); al dottor Dozy, per i do-
cumenti che gli comunicò da Leida, ad Alfonso Rousseau in
Tunisi, al dottor Weil in Heidelberg, al Gayangos in Madrid, al
Cherbonneau in Costantina, al Wright, al conte Francesco Mini-
scalchi eminente orientalista veronese, e ad alcune altre persone
egregie che corrisposero gentilmente alle sue richieste relative
alla storia dei Musulmani ; conchiude con le parole seguenti che
meritano di tener qui posto, per l' importanza dell' opera a pro-
ci) Quest'opera monumentale fu pubblicata a Lipsia nel 1856 e 1857.
(2) Questo bel lavoro fu pubblicato a Parigi nel 1859.
— 204 —
muovere la quale gli aiuti erano diretti. « Mentre io studiava in
Parigi, scriv' egli, risegnato lo impiego nel Ministero di Palermo
e lo stipendio di quello che m' era unico mezzo di sussistenza;
parecchi amici dal ISié al 1846 mi soccorsero di danaro, da rim-
borsarsi col prezzo dell' intrapreso lavoro. Il fecero per benevo-
lenza verso di me, e zelo per un' opera che speravano illustrasse
la storia del paese; tra i quali se alcuno partecipava le mie
opinioni politiche e altri allora vi si avvicinava, altri non era
meco legato che di privata amistà; né questa associazione ebbe
mai indole né scopo politico, foss'anco di mera dimostranza. L'as-
sociazione fu promossa dal barone di Friddani e da Cesare Airoldi
la secondarono in Sicilia Mariano Stabile, amico mio dalla
fanciullezza, il principe di Granatelli e altri amici, e lo Sta-
bile si incaricò di riscuotere il danaro in Sicilia, e, riscosso
0 no, me ne somministrava. Io accettai la profferta. Soscris-
sero Cesare Airoldi, Massimo d' Azeglio, la signora Carpi, il
barone di Friddani, la famiglia Gargallo, Giovanni Merlo, Do-
menico Peranni, il marchese Ruffo, il duca San Martino, il prin-
cipe di Scordia, il conte di Siracusa, Mariano Stabile,' il signor
Troysi, e quegli che primo mi avea confortato agli studii storici
tanti anni innanzi, il carissimo mio Salvatore Vigo; i nomi dei
quali ho messo per ordine alfabetico. Non tutti fornirono la stessa
somma di danaro; poiché chi pagò in una volta tutte le cinque
quote di ogni messa, le quali si doveano fornire successivamente;
e chi fu richiesto d' una o due quote, e non fu sollecitato per le
altre ; i particolari del qual conto van trattati tra me e i soscrit-
tori, e al pubblico non ne debbo dir altro che il benefìcio e la
gratitudine mia. Mutato alla fin del 1846 il disegno della pubbli-
cazione, e intrapresa questa dall' editore signor Le Mounier, io
non ho altrimenti usato, d' allora a questa parte, il comodo che
mi aveano offerto sì liberalmente i soscrittori. » Il primo volume
della StOìHa di Miisulmaìii apparve in Firenze nel 1854, il secondo
volume nel 1858, la prima parte del terzo, solo dieci anni dopo,
del qual ritardo 1' autore stesso ci rende ragione nella breve av-
vertenza premessa al terzo volume « uscito il primo volume nel
1854, lo segui il secondo nel 1858, e nello stesso anno erano già
composte in caratteri da stampa 54 pagine del presente volume.
Ma ritornato in Italia per causa de' grandi avvenimenti del 1859,
io non mi chiusi in uno scrittoio. Qualche ufììcio pubblico eser-
citato, qualche altro lavoro dato alla luce, mi distoglieano sì fat-
tamente dalla storia dei Musulmani in Sicilia, che ho potuto ap-
— 205 —
pena un po' nel 186-2 e un po' dal 1865 in qua, scrivere il rima-
nente del quinto libro, il quale termina 1' assetto della domina-
zione normanna. » Le altre opere dell' Amari son le seguenti:
Note alla Storia costituzionale di Sicilia di Niccolò Palmieri
(Losanna, 1847, Palermo 1848), La Sicile et Ics hourbons (Parigi
1849) Solwan al Mota, ossia Conforti politici di Ibn Zafer, arabo
siciliano del XII secolo (Firenze in italiano, Londra in inglese,
185:2), Description de Palerme par Ibn Haucal tradotta dal^
r Arabo, nel Journal Asiatique (1845) Voyage en Side de Moìiam-
ìued Ibn Djodair, nello stesso (1846-1847), altri scritti minori
nello stesso, nella Revue Archéologique, nell' Archivio storico,
nella Nuova Antologia, nella Rivista Orientate, nella Rivista
Sicula, una memoria sulla cronologia del Corano, premiata nel
1858 ùdàY Institut di Francia che 1' anno innanzi l' avea nominato
suo membro corrispondente, i Diplomi arabi del Regio Archivio
fiorentino, pubblicati in Firenze nel 1863. Ma tre volte fu l'Amari
distolto da' suoi cari studii per attendere di proposito al governo
della cosa pubblica, la prima nel 1848, la seconda nel 1860, la terza
nel 1862. Scoppiata la rivoluzione del 1848, il nostro storico lascia
Parigi e corre a pigliare il suo schioppo di cittadino a Palermo.
L'arrivo suo è festeggiato; gli si offre una cattedra di giurispru-
denza civile all'università, e un posto al parlamento siciliano, e
finalmente il portafoglio delle finanze. L'Amari tenta tosto nego-
ziare un prestito nella Francia repubblicana ; ma i francesi, che
sono ora cosi pronti a sollevare alte grida d'ingratitudine contro
r Italia che non presta il suo oro affinchè la Francia ce lo resti-
tuisca in forma di mine subalpine o di nuovi chassepots da spe-
rimentarsi su petti italiani, non corrisposero in alcun modo al-
l'aspettativa, cosi che si dovette contare sopra le sole risorse
siciliane. Come ministro delle finanze l'Amari non percepì in Si-
cilia alcuno stipendio, e si tenne pago della modesta ospitalità
che un suo fratello gli offriva. Nel 1849 poi, vedendo minacciata
la fortuna della patria, si reca in Francia sullo steamer Porcu-
pine, fornitogli dall'ammiraglio inglese Parker, con una missione
politica; pubblica a Parigi presso il Franck un'opuscolo storico-
politico, intorno ai Borboni e alla Sicilia; ma, trova piìi che
freddo il governo di Francia, e legate dai Tories le mani del più
benevolo fra i ministri d' Inghilterra. Fallita la sua missione,
torna a Palermo il 14 aprile 1849, per assistere soltanto al
trionfo della reazione borbonica, e fuggirne sull' Odin a Malta,
il giorno 22 dello stesso mese. Da Malta egli fa ritorno in Fran-
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eia, scampando a fatica dal naufragio dello steamer francese; e
si riduce nuovamente a Parigi, per continuarvi i lavori intermessi.
Dieci anni dopo, gli avvenimenti politici d'Italia richiamarono
di nuovo in patria l'Amari; il i maggio del 1859, il governo prov-
visorio toscano gli affidava la cattedra della lingua araba a Pisa,
per invitarlo poi nel dicembre dello stesso anno ad inaugurare il
corso di lingua e letteratura araba nell'Istituto di studii superiori
^ di perfezionamento in Firenze. Nel giugno 1860, l'Amari rag-
giungeva in Sicilia Garibaldi già vittorioso, che pose tosto l'emi-
nente siciliano a capo del ministero dell'istruzione e de' lavori
pubblici, e nel mese d'agosto, a capo di quello degli esteri. Il no-
stro patriota dava quindi col proJittatore De Pretis e co' suoi col-
leghi le proprie demissioni, avendo Garibaldi rifiutato la loro propo-
sta di provocare in Sicilia un plebiscito che dichiarasse l'annessione
dell'isola al Regno d' Italia. Nell'ottobre di queir anno medesimo,
il prodittatore Mordini, con infelice pensiero, nominava l'Amari
storiografo della Sicilia, titolo servile che lo storico del Vespro na-
turalmente ricusava, non parendogli conforme ne alla condizione
mutata de' tempi né agli ordini liberi del paese. Più tardi l'Amari
prendeva parte importante ai lavori della commissione incaricata
di proporre il migliore ordinamento amministrativo dell' isola ;
veniva eletto senatore del Regno, e, nell'anno 1862, chiamato a far
parte come ministro della pubblica istruzione, di quel gabinetto,
Minghetti-Peruzzi, che cadde poi malamente, per la Conven-
zione di settembre d' infelice memoria.
Nel suo alto e speciale ufficio meritò lode l'Amari per la one-
sta, serena e catoniana fermezza che vi dimostrò, e pel carattere
aperto e deciso di cui egli spiegò in quella occasione tutta la
forza. Neil' amministrazione del proprio ministero impedi gli abusi
che da lungo tempo vi si tolleravano, diminuì le spese, soppresse
molti privilegi, non ascoltò preghiere d'amici o minacele di nemici,
ogni qualvolta gli fosse consigliata cosa che gli paresse illiberale
ed ingiusta, e, rara avis tra i ministri italiani, non mutò mai la pro-
pria parola data. E ciò nondimeno, anco ministro, seppe mostrarsi
amabile; non alterò la semplicità del suo costume, né la benignità
dell'animo; l'amico mio Vincenzo Riccardi disse bene in una sua
bella poesia che i forti son miti; l'Amari ancor esso ha la sapiente
moderazione della forza (1). Reduce nel settembre del 1804 da
(1) Lo rappresentò bene, por qucst' aspetto, il signor Gustave Dugat,
nel primo volume della sua Hstoire des Orientaìistes de l'Europe du
— 207 —
Torino, ripigliò stanza in Firenze in una modesta solitaria ca-
setta ora distrutta, che faceva angolo all' estremità della via Ca-
vour e della via del Maglio. In quella casetta io lo visitai per la
seconda volta; la prima visita l'avevo fatta ufficialmente al mini-
stero, di ritorno da Berlino, onde il ministro mi aveva richiamato
con sollecitudine quasi paterna. Io non posso dimenticare quello
stanzino e la dolce impressione che vi provai nell' ammirar tanta
naturale modestia in tanta vera grandezza. Benevolo coi disce-
poli (1), affabile coi colleghi, leale con gli avversarli. Michele
Amari è uno di que' pochi uomini che si lasciano amare e.l am-
mirare intieramente, e de' quali, se ne avessero, poiché non sono
al certo stoffa da far santi, sto per dire che si amerebbero anche
i difetti, non potendo essere altro che un movente generoso quello
che li spingesse, per avventura, a qualche eccesso. Ma dell'Amari,
per fortuna, io non seppi mai altre novelle, a meno eh' io non
volessi farmi addirittura indiscreto narrando com' egli sappia ren-
der felice l'amabile e più che colta signora la quale, in compenso
d'una lunga vita solitaria, laboriosa e travagliata, lo premia nei
tardi ma vegeti anni con le piìi soavi e sante gioie domestiche,
ed aggiungendo come una viva consolazione m' inondi il petto
paterno, quando m' è dato di vederlo così tenero, cosi attento, cosi
A7/ au XIX siede (Paris Maisonneuve. 1868), ove scrive dell'Amari:
« On ne sait pas ce qu'il faut le plus admirer dans sa vie politico-
littéraire: De l'homme d'État aux vues élevées et conciliantes, ou de
rorientaliste tìdèle, qui revient avec empressement à ses travaux de
prèdilection, aussitòt que son action politique n'est plus nécessaire à
son pays. Michel Amari est une des nobles flgures de la revolution
italienne. Il a su joindre h l' energie du caractére une intelligence
d'elite, une grande aménité de raoenrs. Bienveillant, doux, dans ses
relations d'une sìmplicité antique, on l'a vu, après avoir éfé ministre
des flnances en Sicile, venir reprendre sa modeste chambre à Paris et
demander au travail le pain quotidien. D'une aptitude remarquable
pour les travaux historiques, il saisit vite la portée politique des
institutions qu'il étudie. Douè du sens philosophique, il a jeté sur
l'histoire musulmane en Sicile de vives lumières. »
(1) L'Amari è ora professore pensionato; pur tuttavia continua ad
onorare l' Istituto di studii superiori, insegnandovi spontaneamente
l'arabo; dalla sua scuola uscirono, fra gli altri, due distintissimi
alunni, il signor Buonazia, e Celestino Schiapparelli l'editore del voca-
bolista latino-arabico.
— 208 ~
provvido padre alla vispa e cara nidiata di fanciulli che gli pigola
e gli vezzeggia graziosamente intorno (1).
(1) Qui finirebbe il Ricordo dell'Amari, ma io domando licenza al gio-
vine lettore di fargli ancora un'altra non breve confidenza che riguarda
me particolarmente. Così com' io sono, io mi devo veramente tutto a
me stesso e allo sforzo continuo che vado pur sempre facendo per di-
venire a'miei occhi migliore. Ho, senza dubbio, gra1,itudine a molti; poiché
dall'esempio di molti ho cercato derivar il maggior profitto mio, ma io
ve' dir questo, che nella vita non incontrai né alcun pedagogo che mi
guidasse, né alcuna provvidenza che facesse per me. Non ho mendicato
alcun favore mai, né altri lo mendicò in nome mio ; mi trovai più volte
la strada chiusa e l'apersi, ma, nel modo più naturale, abbattendo, supe-
rando gli ostacoli con quelle poche forze che la natura può aver consentito
all'ingegno. Perciò nella mia gratitudine non si vedrà, spero, alcuna servi-
lità; l'animo riconoscente me la inspira, non alcun altio fine men degno.
In questi giorni stessi esce a Londra la mia Mitologia zoologica» ed io ho
dedicato questo che mi sembra il meno inutile de' miei lavori scienti-
fici a due ex-ministri italiani, ai quali mi professo gratissimo. Michele
Amari e Michele Coppino. Mi giova significar qui i motivi di tanta gra-
titudine : Nel 1863, io ero a Berlino intentissimo a'miei studii indiani, e
stavo per domandare al Ministero licenza di rimanere ancora un altro
anno all'estero, quando mi giunse lettera dell'Amari con la quale egli
mi significava come si fosse disposto di nominarmi professore straor-
dinario di lingue ariane nell' Istituto di Studii superiori di Firenze,
dove urgeva di provvedere a quella cattedra. Quella lettera inaspettata
mi turbò; scrissi al Ministero, come la modestia mia allora mi consigliava,
ed avvertii la troppo grande povertà del mio sapere ; il ministro Amari
mi riscrisse, incoraggiandomi ad accettare, con parole piene di bene-
volenza, le quali diedero, senza dubbio, una forte scossa alla mia in-
certa volontà. Partì tosto la mia nomina ; ed io mi disposi prontamente
al ritorno. Prima che tornassi a Torino, alcuni burocratici del mini-
stero avevano intanto gridato e fatto gridare allo scandalo in un notis-
simo giornale torinese ; si avvertiva come avessi da soli tre anni la-
sciata l'università, e come mi fossero già state concesse in due soli anni,
tre promozioni (da incaricato di ginnasio a professore reggente di gin-
nasio, e finalmente a titolare del Liceo di Lucerà, oltre l' invio a Ber-
linoj ; era troppo gran salto quello che mi si voleva far fare ad un
tratto. Avvertito in Torino del rumore sollevato per la mia nomina,
scrivo all'Amari pregandolo o di lasciarmi ripartire per l'estero o di
porre al concorso la cattedra da me non ambita, perché, se, per av-
ventura, fra i malcontenti, si fosso trovato alcuno che potesse dare mi-
glior saggio di so, quegli, com'era giusto, ottenesse il posto. L'Amari mi
— 209 —
riscrive tosto di recarmi senza timore a Firenze, e che, dal lato suo, egli
è perfettamente tranquillo d'aver fatto buona scelta; che, in ogni modo,
poi non si può far concorso per un posto di straordinario. Nel primo anno
del mio insegnamento, la fortuna m'arride, le mie lezioni sono gradite
dal pubblico, e l'Amari ministro, informatone pure in via privatissima
da un suo valente amico, il signor Vito Beltrani che in quel primo
anno m'aggiunse singoiar coraggio, mi affida con sua lettera incorag-
giante, che, nell'anno successivo, sarei eletto professore titolare. Cadde
nel settembre 1864 il ministero Minghetti-Peruzzi ; al ministro Amari
successe il barone Natoli. Ma, frattanto, nell'animo mio, s'andava agitando
una sorda e tremenda battaglia d'affetti. Io aveva 24 anni e da dieci anni
avevo sempre unicamente studiato, senza occuparmi di politica; mio padre,
uomo di rigidi e santi costumi, che, per un verso, mi aveva invitato a pensare
liberamente sulle cose della religione ed era stato primo a rivelarmi i prin-
cipi! astronomici del Dupuis, professava in politica i principi! più asso-
luti. La mia natura si ribellava bene ad essi, e come incominciai a scri-
vere, nella vita di Santorre Santa Rosa deposi le mie prime proteste
contro lo spergiuro de' principi e nella mia tesi di laurea presi a com-
battere il potere temporale de' papi ; ma quell'impeto di giovanile ri-
bellione era in breve soffocato dalla cura severa di studii gravi ed ur-
genti, ai quali tutto il mio tempo fu dedicato. Nel 1864, venne a chie-
dermi ospitalità un giovine mio conterraneo che io non conosceva
ancora, laureato in legge nell'università di Torino; dicevasi giovanilmente
illuso, pieno d'ammirazione per me, e voleva, convivendo meco, apprendere,
in che modo si possa, essendo così giovine, durar lungamente al lavoro. Gli
apersi le braccia ed il cuore. Era giovine di bell'animo e di vivace ingegno,
ma confuso; aveva fatto molte letture ma disordinate ; s'era battuto con
Garibaldi al Volturno, avea molto letto le storie della Rivoluzione fran-
cese" del 1789 e 93, e ammirava grandemente quegli eroi desiderando
riprodurli ; ne' momenti poi d'impazienza, ne' quali mi vedeva perdurare
allo studio, mentr'egli, male avvezzo, non vi potea reggere, mi trovava
freddo, apatico, tepido amico della libertà ; frequentava le riunioni della
Società democratica, e tornato in casa mi recitava i discorsi che avrebbe
voluto farvi e non vi avea fatti, perchè interrotto da altri oratori ; fi-
niva poi spesso col dirmi che degli scrittori i quali non sanno suggel-
lare con l'opera que' principii che professano, egli poteva far poca
stima. Io sentiva che la frecciata veniva a me, ed una segreta vergogna
veniva sempre a pungermi. Ma pur, che fare ? Se una guerra fosse in
que' giorni scoppiata, certo io sarei i)artito senz'altro pel campo col mio
giovine amico; guerra non v'era; che potevo io allora fare, per convin-
cere me stesso che non mi mancava il coraggio? Io mi tormentavo dun-
que in questi pensieri segreti, quando 1' amico mio partì per Torino
ed arrivò in Firenze un celebre profugo rivoluzionario straniero. Era
un bel parlatore; lo udivo spesso in una riunione di stranieri che fre-
quentavo ; egli s'era avveduto come l'ascoltassi compiacente; non sa-
RicoKDi Biografici l'i
— 210 —
peva ancora chi fossi ; domandò di me. Incominciò alfine una sera a
rivolgermi in disparte la parola ; s'accorse che qualche cosa d'insolito
s'agitava entro di me; mi chiese perch'io non fossi Massone. Risposi
« perchè detesto tutte le società segrete, ed amo rispondere in pubblico
d'ogni mio atto, che di nessun atto mio voglio poter arrossire ». E poi,
aggiunsi « quello che i Massoni fanno non mi par serio abbastanza, o se
sia serio veramente niente impedirebbe loro di rinunziare a quelle loro
pompe orinai divenute ridicole ». Su questo punto^ il fuoruscito non pa-
reva troppo dissentire da me ; ed anche sull'argomento delle società
segrete volle pure concedermi un poco di ragione, ma per insistere
quindi vivamente, che, in certi casi, ove si trattasse di preparare una
immediata ed efficace rivoluzione, non si poteva far a meno di cospi-
rare. « Ed a die prò, domandai io, la rivoluzione ? Per sostituire la re-
pubblica alla monarchia ? È una parola che si sostituisce ad un'altra e
nulla più, è un equivoco dove non si trasformi la società stessa ». « E
a questo appunto intendiamo noi; per questo una società segreta si ordina;
noi non facciamo questione di forme politiche; la sola questione sociale ci
occupa e ci importa; noi vogliamo la rivoluzione sociale ». Il discorso
s'accese allora e si protrasse a lungo su questo argomento; io tornai a
casa con la febbre. Provai a mettermi in letto; non trovai il sonno; balzai
e passeggiai due ore, interrogando sempre la mia coscienza; io volevo,
con giovanile abbandono, sposar la rivoluzione; ma sentivo, al tempo stesso,
ch'io non potevo, durando in un simile proposito, ricevere il pane da quel
governo, che, come ogni altro governo^ nel mio fervore di neofita miravo
a distruggere ; non volli esser vile; lanciai, in quella notte stessa, la mia
sfida insolente al governo dando le mie demissioni, e per incominciare
il primo atto rivoluzionario, improvvisai l'inno La sociale, che si stampò
alla macchia, ed invitai i colleghi che la pensavano come me, a fare il
medesimo eh' io avevo fatto. Io ero audace^ senza dubbio, nel muover
loro un somigliante invito, ma non comprendo oggi ancora perchè tanti
ne siano rimasti offesi. Io vituperavo pur que'soli che avendo il mio pro-
posito di minar lo stato se ne lasciassero tranquillamente beneficare; evi-
dentemente di tali non ve n'erano fra essi ; peggio dunque per me che ri-
manevo solo; ma in che li offendevo io dunque se essi tali non erano? E fui
abbandonato, deriso, calunniato; s'inventò che per dispetto contro il Mini-
stero che non m'aveva voluto far titolare, io avessi tentato quel passo ;
mentre il vero è che il Ministero m'incoraggiava sempre nel modo più
lusinghiero, e che, s'io rimanevo pochi altri mesi appena in cattedra,
m'avrebbe, secondò !a promessa, fatto titolare nell'anno stesso ; si volle
da altri vedere in quell'atto un mio dispetto municipale di piemontese
pel trasporto della capitale a Firenze, e non si considerò punto come,
essendo io professore a Firenze, avrei dovuto più tosto rallegrarmi che
dolermi di veder Firenze divenir capitale ; e non so che altre matte
ragioni s'andarono inventando per condannare quella mia giovanile te-
merità. Quella però che mi sentii più spesso sussurrare all'orecchio è
— 211 —
ch'io avevo fatto quel colpo di testa, per sola ambizione. Oh vanità di
jTjudizii umani, pensavo io allora, e ripenso oggi ancora; dunque un
giovane che a 24 anni siede onorato e blandito sopra una cattedra uni-
versitaria, a cui tutto sorride nel principio della sua carriera, di cui
tutti richieggono, con curiosità, e che lo stesso Gino Capponi si degna
di visitare nel modesto suo studio, per dar coraggio ad un giovane in-
telletto in cui si spera forse troppo, questo giovine, dico, che in una
sola notte abbandona gli onori, i commodi della vita, lo splendore della
vita pubblica, per farsi povero operaio, ed umile, oscuro gregario d'una
società segreta, questo giovine sarà un ambizioso ? Io ho taciuto molti
anni, ma io non ho ancora dimenticata la ingiustizia^ delle accuse, delle
quali io sono stato vittima. Voi potevate bene chiamarmi illuso, ed anche
compiangermi come un fanciullo, ma disprezzarmi per quell'atto, no,
senza essermi ingiusti. Io non posso dunque ricordare quell'abbandono quasi
universale in cui fui lasciato, senza sentire sempre al cuore, sdegno non
già, ma sì una grave pena; e, per questo appunto che i più mi fuggirono
come maledetto, sento maggiore la riconoscenza verso que'pochii quali
mostrarono invece di comprendermi e di compatirmi, e più particolar-
mente verso l'Amari, il quale, inteso appena come io avessi dato le mie
demissioni, non pur non se ne offese, egli che pur era stato il primo ad
eleggermi, ma corse sollecito al mio studio, e m'abbracciò lungamente
ed in silenzio con le lajrrime agli occhi. Egli sentiva bene di non istrin-
gere fra le sue braccia un vile. Sarebbe ora troppo lungo il dire quello
ch'io ho veduto e più quanto che ho sofferto in quegli anni; certo, che,
se, per un verso, non veniva a salvarmi dall'abisso la donna che ora
mi è dolce compagna, e per l'altro la mia volontà di risorgere non mi
richiamava a' miei libri come a suprema ancora di salvezza, a quest'ora
0 la mia ragione si sarebbe smarrita, come veramente finì pazzo quel
povero amico mio che si figurava d'essere un altro Mirabeau, o mi sarei
perduto negli ultimi eccidii lacrimevoli di Parigi ; poiché, fremo nel
dirlo, e nel ripensarvi, quella società segreta, della quale mi furono
allora aperti i misteri, venne poco dopo a confondersi con quella molto
più formidabile Internazionale, che riempie ora il mondo de'suoi pregiudi-
zi e delle sue rovine. Ma, io lo ripeto, la mia compagna e i miei libri mi
salvarono. Ritirandomi con orrore dalla scena politica, e salvandone que'soli
principii che m'erano come innati, provvidi a riconquistare da capo col
lavoro la mia cattedra perduta. Chiedere scusa non avrei potuto senza
viltà; e di che poi? d'avere compiuto un atto che mi pareva e che
mi par sempre ancora sia stafo unicamente onesto? volli più tosto ri-
cominciare da capo, e rimettermi in via con la bissacela dell'oscuro sol-
dato sulle spalle. Nel 1866, feci pertanto un corso libero di lezioni sulla
mitologia vedica, un piccolo frammento del quale è il libretto sui
Miracoli del Dio InrJra nel Rigveda ; nel 1867, un altro corso di epopea
comparata, un saggio del quale sono Le fonti vedìche dell'epopea e Gli
studii sull'epopea indiana ; nello stesso anno, pubblicai la mia Memoria
- 212 —
sui viaggiatori nelle Indie Orientali, la mia Piccola Enciclopedia in~
diana in due volumi, e La Rivista Orientale. Per crescere onore a me
l'Amari consentì allora di scrivere nella mia Rivista ; e Mich 'le Cop-
pino allora ministro e già mio maestro nell'Università di Torino, dopo
avere, con molta benevolenza, assistito alla prima delle mie lezioni li-
bere sull'epopea indiana, mi fece dichiarare alla seconda che dette le-
zioni d'ora in poi sarebbero state ufficiali. Così ripresi il mio posto
volontariamente perduto, dopo una viva e non breve battaglia, con la
virtù del lavoro; e, mentre in questa battaglia ostinata che combattevo
da solo, stando sempre ritto, mi vidi da molti che un tempo mi si di-
cevano amici voltar crudelmente le spalle, e sentii in più occasioni le
insidie che i malevoli m'aveano teso per impedirmi di risorgere, debbo
benedire Mich-ìle Amari e Michele Coppino, di cui l'uno sostenne, l'altro
premiò il mio coraggio perseverante, inspirandomi entrambi nell'animo
un sentimento di viva riconoscenza che potrà estinguersi, con la vita
soltanto, e ch'io ho tentato significare come potevo meglio, dedicando
loro quel libro mio intorno al quale parami d'avere speso le mie cure
migliori.
X.
PIETRO GIANNONE.
Quasi ogni grande popolare rivolgimento politico de' tempi mo-
derni ebbe il suo poeta popolare; Rouget de l'Isle, Chénier, Vi-
ctor Hugo in Francia, Kòrner, Herwegh e Freiligrath in Germa-
nia, Riga in Grecia, Riego in Ispagna, Petòfi in Ungheria, Re-
leieff in Russia, Mickiewicz in Polonia, hanno, in parte, precorsa,
in parte accompagnata col canto la redentrice rivoluzione della
loro patria. Il simile accadde nel secol nostro in Italia, ove due
furono le grandi rivoluzioni, quella degli anni 1820 e 1821, e
quella del 1848. E, come quest'ultima contò in Alessandro Poerio
ed in Goffredo Mameli due vati eroi, cosi quella del 1820 e 1821
suscitò parecchi poeti che, per la massima parte, nelle carceri o
nell'esiguo scontarono il delitto d'avere molto amata e svegliata
per tempo dal suo sonno di schiava la patria. Il nome di ciascuno
di questi poeti è ora sacro all'Italia ; e quasi ogni provincia della
penisola diede allora il suo e taluna più di uno e di due; Napoli
Gabriele Rossetti, il Piemonte Silvio Pellico e l'avvocato Ravina, la
Toscana Bartolommeo Bestini, la Lombardia Alessandro Manzoni,
Carlo Porta, Tommaso Grossi, Giovanni Berchet; le Marche Gia-
como Leopardi; l'Emilia Pietro Giannone.
Due soli di questi antichi precursori della libertà d'Italia son
vivi; dell'uno ho già detto quello che l'animo commosso di rive-
renza mi dettava. Dirò poche ma egualmente sentite parole del-
l'altro.
Or volge intorno al secondo sopra l'anno ottantesimo, nasceva Pie-
tro Giannone in Campo Santo presso Modena, di esule padi'e na-
- 214 —
poletano che morì, mentre egli era ancora bambino, e di madre egual-
mente napoletana. Gli anni dell'infanzia e della fanciullezza egli passò
fra le montagne dell'Apennino, che divide la provincia di Modena
dalla Toscana, a Pievepelago, ed in quelle libere aure si destarono
insieme il libero italiano e l'inspirato poeta. Egli ricorda ancora
quelle montagne, in una specie di sua Selva poetica, che si con-
serva tuttora inedita, intitolata Le 7nmembranze. Que'versi furono
scritti dal Giannone a sfogo di malinconia, nel 1821, mentr'egli era in
prigione a Modena, e scritti su le mezzane dell'impiantito del carcere,
col carbone; poi mandati a memoria; poi cancellati; poi trascritti
dalla fida memoria sulla carta, negli anni dell'esigilo. In que'versi
scorrevoli ed abbondanti e talora vivi, che vogliono tuttavia essere
considerati meglio pel merito della sincera trasparenza che nella loro
singolare ed improvvisa creazione hanno serbata, che per qualche
loro singoiar pregio letterario, egli ricorda cosi le materne mon-
tagne : •
Quant'orma in me lasciar, quanto desio
' 1 I' I luoghi alpestri in cui
Vissi fanciullo, e ch'io
Veggio ancor, sì colpito in cor ne fui !
Non sol l'aure serene,
I sonori torrenti, i cheti fonti,
Le selve d'un orror sacro ripiene.
Gli antri, le valli, i monti.
Ma le nevi, ma i venti e le tempeste.
Ma i tuoni ripercossi infra le rupi,
II lungo urlo de' lupi,
E fin le storie degli antichi estinti
Dalle tombe respinti
. ' A spaventar colpevoli impuniti;
Fin delle lamie immiti
Le cruenti malìe,
E delle madri pie
La trepid'ansia di sottrarre i figli.
Agli oscuri perigli,
Tutto alla fantasia,
L'ali impennava e strada al cor s'apria.
Né la natura soltanto, ma la madre gli fu pure, oltre che amante
ed amabile educatrice, gentile inspiratrice di carmi, avendogli essa
— 215 —
rivelato i cari secreti delle muse ; egli perciò, dalla prigione, la
rammentava cosi:
Sposando intanto il suon dell'arpa ai carmi
Del vate della bella avignonese
E di lui che cantò gli amori e l'armi.
Di tanto ardor m'accese
Quella gentil che gli occhi al di m'aperse,
Che d'allor tutto quanto a me s'offerse
Mi parea palpitar d'arcana vita ;
E de' futuri casi
Presentendo il venir, la mente ardita
Parea crearli quasi.
Ma dall'Ariosto col gusto de'carmi, il giovinetto Giannone avea pure
appreso l'amore dell'armi, e poiché Marte e Venere si sorrisero
6'empre, anche il precoce giovinetto modenese, in mezzo alle battaglie
sostenute negli anni 1808 e 1809, come volontario, tra le guardie
cosi dette dipartimentali, armatesi contro le bande brigantesche
le quali infestavano allora l'Apennino, e poi, nell'esercito napo-
leonico, all'assedio di Mantova, cercò ed ottenne piìi d'un sorriso
dalle belle. A quel tempo risale pure la conoscenza che il Gian-
none fece di Ugo Foscolo, ch'egli dovea pili tardi rivedere come
esule a Londra. Caduto il Regno d'Italia, Pietro Giannone lasciò
la milizia e si volse in traccia di miglior fortuna alla terra de'suoi
padri ; in Napoli s'incontra col gentilissimo cantore della Pia
Bartolommeo Sestini, e col fatidico Gabriele Rossetti, allora Di-
rettore del Museo delle Statue, entrambi portentosi improvvisa-
tori. Incomincia con l'ammirarli e, dotato di memoria prodigiosa,
fra le grandi meraviglie degli astanti (colti ufficiali di marina
e d'animo assai liberale, che frequentavano il Rossetti), ricorda
per intiero ed a puntino, appena uditili, i loro più bei canti im-
provvisati. Così ci furono conservate le stupende ottave improv-
vise del Rossetti su Annibale alle Alpi e Tullia die spinge il coc-
chio sul padre Tarquinio (1). Ma un giorno che il Giannone si
(I) È pure alla memoria del Giannone che si deve la vita e la popo-
larità di quel pateticissimo canto che Francesco Mirelli, conte di Consa
e principe di Tcora (padre di quell'altro principe di Teora che morì
pure in duello a Napoli, or sono pochi annij ferito, credevasi mortai-
— 210 —
reca al Museo delle statue, ove si trovavano già il Rossetti ed il
Sestini, questi due valenti poeti avendo avvertito la facilità con
cui il loro amico scriveva versi, gii si mettono intorno e gli fanno
premura perchè improvvisi anco lui ; il Giannone per un po' si
schermisce, avvertendo com'egli avrebbe dovuto esercitarsi assai
prima in quell'arte, e aggiugne che s'egli avesse solo alcuni anni
innanzi intesi lor due, forse gli sarebbe bastato l'animo di tentar
quella sorte ; ma il Rossetti non lo lascia tranquillo, *e vuole ch'ei
provi, e, senz'altro, lo porta innanzi alla statua del Gladiatore mo-
ribondo, gridandogli : « A te, improvvisa » Il Giannone messo sul
punto, lo vince, fra gli applausi degli amici, che lo assicurano egli
potrebbe oramai fare co' versi quello che più gli piacesse. E al-
lora 1 tre amici improvvisano insieme con bella gara, e con mi-
rabile successo in private adunanze ; fra le altre cose, essendo per-
venuta loro la notizia che lo Sgricci a Roma avea improvvisato
anche tragedie con cori, ne improvvisano una ancor essi, ed è un
nuovo Bruto Primo (il soggetto era stato scelto dagli ufficiali
della regia marina !); occorrono quattro personaggi, e vien eletto
quarto il modenese Morselli, che improvvisa egli pure con rara
facilità ; il Giannone sostiene la parte di Tiberio Bruto, e oltre a
ciò, improvvisa e canta i cori de' guerrieri ; il Bestini recita il
Tito Bruto e canta i cori delle donne. L'uditorio applaude anche
a quell'arduo esperimento.
Ma, intanto altre più gravi cure sopravvenivano; la rivoluzione
mente, in duello, dal marchese Crescimanno palermitano, improvvisava
fra le lacrime degli astanti e della madre, credendosi vicino a morte.
Dolcissime fra le altre e mirabili come improvviso le seguenti tre stro-
fette :
Quando verrà sul colle
La nova primavera,
Teco a vagar la sera
Sul colle io non verrò.
E quando il sol dal monte
In sua beltà si estolle,
Mi chiamerai dal colle,
Né ti risponderò.
Volgi su l'erta rupe,
Madre diletta, il passo,
A piangere sul sasso.
Nel quale io dormirò.
— 217 —
napoletana s'apprestava, ed era imminente ; trattavasi soltanto di
comunicare il fuoco sacro de' carbonari alla provincia; il Sestini
si recò pertanto in Sicilia, il Rossetti percorse il napoletano ; il
Giannone s'avviò verso la Lombardia passando per Roma. L'Eterna
città era allora piena del nome dell'improvvisatore Sgricci, uomo
d'ingegno straordinario, ma d'animo basso e vile, che non alzò
mai il suo improvviso a cantare la patria, che anzi in parecchie
occasioni vituperò e tradì la sua patria codardamente. Il Gian-
none ebbe il coraggio di presentarsi come improvvisatore al Tea-
tro Valle di Roma, su la scena stessa de' trionfi dello Sgricci,
per ricordare la grandezza di Roma ai Romani e la necessità di
farla risorgere. Dagli spettatori di quell'Accademia, fu serbata
memoria fra l'altre di una strofa che, accolta allora con frenetici
applausi dall'uditorio, onorava insieme il coraggio civile del poeta
che cantava e del pubblico che applaudiva. La strofa improvvisa
diceva così:
Benché l'Aquila regina
Sia volata ad altro lido.
Pur vi resta ancora il nido,
E potrà tornarvi ancor.
E v' è tornata di fatti.
Lasciata Roma, si recò il Giannone in Lombardia, per mettersi
d'accordo con quei liberali intorno all'attitudine da pigliarsi in-
nanzi agli avvenimenti di Napoli; ma giunto a Lodi vi fu, a mo-
tivo della sua provenienza da Napoli, arrestato all'albergo, e guar-
dato a vista. Ma, per fortuna, la provvida madre di lui, avendo
trovato modo di sottrarre tutte le carte assai compromettenti che
egli recava nella sua valigia, egli venne semplicemente bandito e
respinto al confine àe' felicissimi ciommii, e costretto a rientrare
nel Modenese, dove, appena giunto, per delazioni private, fu
messo in carcere. Liberato poco dopo, per non farsi come dice-
vasi, luogo a processo, egli rimaneva incerto sul partito da eleg-
gersi tra la fuga o il rischio d'una seconda prigionia, quando il
passaggio per Modena dell'esercito tedesco condotto dal Frimont
che marciava contro i costituzionali di Napoli risolvette quei
dubbi, ricacciandolo, come supposto autore dell'inno di Rossetti Sei
pur bella cogli astri sul crine, in prigione, ove rimase un anno,
ed ove scrisse, fra l'altro, quelle Rimembranze che ho di sopra
rammentate, dove si leggono molti versi coraggiosi fino alla te-
merità. Il poemetto, per esempio, incominciava cosi :
— 218 —
Se l'ira d'un potente
Col carcere severo
Per me chiude il presente
E gli atti inforsa dell'età futura,
Corri almen nel passato, o mio pensiero,
E non t'infreni il volo
Di troppo osar paura.
Dante vi era già cantato come profeta dell'unità italiana :
Deh, sommo Dio ! ch'ami l'Italia tanto.
Concedi alfin che il suo maggior poeta
Abbia non solo il vanto
Di suo legislator, ma di profeta f
Ei lesse nel futuro
Certi i presagi di più lieta sorte
». E d'un guardo sicuro
Donna di sé la vide ed una e forte.
/ I suoi versi immortali
Meditando, la mesta
Che a compirne il pensier già s'aflatica.
Animosa ridesta
' Gran parte in sé della virtude antica.
Già con ardir felice
Crede al suo vate e spera
Che il mistico vestir di Beatrice
Sarà la sua Bandiera.
E con questa fede viva nel risorgimento italiano per cui veniva
a congiungersi nel 1821 col Manzoni, e alcuni anni dopo con
Giuseppe Mazzini, uscito nel 1822 di carcere, andava, scacciato
dal tiranno di Modena, in esiglio. Visitava, improvvisando, la
Francia e poi l'Inghilterra, ove disponevasi ad aiutare il Foscolo
ne'suoi lavori sopra la Divina Commedia, e per la larga ospita-
lità degli inglesi (delle signore inglesi, in ispecie le quali appren-
devano l'italiano senza averne né voglia né bisogno, unicamente
per venire in aiuto ai nostri esuli) stava per farsi una condizione
abbastanza agiata se non del tutto indipendente, quando un fiero
morbo l'assalse, per cui, divenutogli incomportabile il clima di
Londra, dovette nuovamente riparare a Parigi, ove, salvi gli anni
passaci in Corsica (1832 e 1831), visse poi di continuo lino al 1848,
— 219 —
onoratissimo fra gli esuli repubblicani, che lo elessero prima vice-
presidente e poi presidente dell'associazione italiana. Stando a
Parigi, il Giannone ordinò e spedi in Italia la legione italiana
dell'Antonini, composta di cinquecento uomini, alcuni dei quali
perirono poi nelle battaglie del 1848, altri nella difesa di Vene-
zia, altri furono incorporati nell'esercito toscano ; ordinata e spe-
dita la legione, venne egli stesso in Italia; a Modena lo elessero
bibliotecario; ma non parve a lui quello il tempo di seppellirsi
fra i libri, e però egli si condusse in Toscana, ove il Montanelli
ed il Guerrazzi lo elessero segretario dell'ambasciata toscana a Pari-
gi. Rovinate le sorti d'Italia, il Giannone rimase in esigilo, tino al
1861, anno in cui, provveduto di una modesta pensione nazionale
che, con pensiero gentile, il Dittatore dell'Emilia Carlo Luigi Fa-
rini gli avea fatto decretare nel 1859, venne a vivere in Firenze
il resto de'suoi giorni, affranto forse più dai patimenti lunghi e
diversi, che dagli anni già molti. Chi abbia letto l'Esule sa quali e
quanti siano stati que'patimenti: e quanto maggiori essi furono, piìi
deriverà cagione d'ammirare un uomo che in una vita cosi lunga
e dolorosa non si piegò mai a nessuna viltà, non perdette mai la
fede nella risurrezione della patria e, come potè, ridonò coraggio
a chi l'avea perduto, ne aggiunse a chi poco ne avea, ed esule,
consolò gli esuli non solo, ma infiammò la speranza nel petto degli
italiani rimasti in patria. Rammentiamo le date, che nel caso no-
stro, sono preziose; il poema dell'Esule che die principalmente gloria
al Giannone, fu composto in gran parte a Osambray (paesello fran-
cese fra Dieppe e Beauvais) innanzi l'anno 1825. Il 21 giugno 1827
l'autore lo dedicava da Londra ad un anonimo amico italiano che
faceva ritorno in Italia; lo stampava nel 1829 a Parigi presso il
De Laforest, poco innanzi che apparissero presso lo stesso editore
le Fantasie di Berchet, e accompagnavalo di note divinatorie
piene di eloquente coraggio. L'Esule fu ristampato in Firenze,
presso la Tipografia del Giglio nell'anno 1868, con ritratto del-
l'autore e dedicato al generale Garibaldi. Gli amici editori vi
premisero le seguenti adatte parole che mi giova qui riprodurre:
« L'Esule fu per molti il Credo della fede nazionale ; la gioventù
sentì fremersi il cuore di altissimo entusiasmo, e anelò alle re-
dentrici battaglie, da cui doveva il popolo italiano uscire libero e
forte. Garibaldi stesso confessa di avere in sua gioventù attinto
a questo libro gran parte di quel patrio amore, che lo ha fatto me-
raviglioso fra le genti. La missione del libro, più che oziosamente
letteraria, era tutta emancipati'ice ; era la missione dell'alere
— 220 —
flammam, nella quale, dopo Alfieri e Foscolo, l' Italia ebbe altri
apostoli nel Berchet, nel Niccolini, nel Leopardi, nel Guerrazzi,
nel Giusti. Con questi forti del pensiero e della parola il cantore
àeW'Esule s'associa. Il Vendicatore, pari ad un tetro fantasma,
ci passa dinanzi fiero, implacabile. Esso ha un atto di giustizia
da compiere ; e, quando quest' atto è compiuto, egli sparisce a guisa
di una visione che per un tratto di tempo ci tenne l'anima occu-
pata sotto il peso di un incubo arcano e spaventoso. » Nelle pa-
role premesse dall'autore alla seconda edizione dell'Esule, egli
confessa d'avere spesso sacrificato al cittadino il poeta, subordi-
nando l'arte alla politica. Ciò vuol dire che questo poema non
vuol esser giudicato alla stregua ordinaria de'componimenti lette-
rarii, ma pur non toglie che sia sparso qua e là di bellezze arti-
stiche di prim'ordine, perchè il poeta trae la maggior nobiltà del
suo ingegno dall'eccellenza dell'animo, che sola è capace d'arri-
var talora a dir cose sublimi. E cosa tutta sublime mi sembra
una delle poesie inedite del Giannone che accompagna la seconda
edizione àeWEsule. Fu scritta nel 1833 a Bastia, per consolare
Massimo de'Conti Caccia nella" morte della sorella Chiara, e s'in-
titola : La Visione. È scritta come le Visioni del Varano in ter-
zine; ma, se quelle son belle, questa del Giannone mi sembra
bellissima, onde mi dolgo che pochissimi in Italia ne abbiano finora
notizia, e manifesto il voto che i futuri compilatori di antologie (in
ispecie d'antologie femminili) ne facciano lor prò, affinch'essa di-
venga popolare. E un sincero credente che vi canta; e la fede
del poeta se anche non abbia la virtìi di portare a credere chi
consideri altrimenti il principio, le ragioni e il fine della vita,
solleva certamente ogni lettore in un mondo morale e in un mondo
poetico altissimo, ove l'animo e l'intelletto insieme soavemente si
riposano. Io recherò qui intanto le ultime terzine della Visione,
sicuro che esse invoglieranno il giovane lettore a cercare le al-
tre. L'anima della Chiara apparsa in visione al poeta, si congeda
cosi da lui :
e la beata
Che al volto mio del mio pensier s'accorse,
La bella faccia verso me levata.
Col riso che si ben s'accorda al pianto
Di persona dolente e rassegnata,
« Deh I mi dicea, non t'ammirar di tanto.
Che in ciel nasce e si svolge ogni buon seme,
E la pietade è puro seme e santo:
— ^221 —
Né quivi, allora che per voi si geme,
Nostra felicità però minora;
Posson gioia e pietà vivere insieme.
Questo ripeti alla mia dolce suora.
Questo ripeti al padre ed al germano,
Questo alla madre mia ripeti ancora.
Non scenderà questa certezza invano
Per consolarli e crescer la costanza
Che lor bisogna nel viaggio umano.
Di'lor che ferma e certa è la speranza
Di riunirci, e lungo par, ma, corto
Non solo, un punto è '1 tempo che ne avanza.
Vive quassù chi sulla terra è morto;
Quindi d' ogni caduco incarco sgombra
L' alma in essa non cerchi alcun conforto :
Che tutto quanto il cor dell' uomo ingombra,
Tranne quel senso che gl'intima il bene,
E vano sogno, anzi, d' un sogno è l' ombra.
La gloria stessa che dall'opre viene.
Se per meta non ha 1' utile altrui,
Soltanto a danno suo dall' uom s'ottiene.
Quanto fia meglio il poter dire: « Io fui
L' oppresso, e questi 1" oppressor mio crudo :
Giudica tu fra me. Signore, e lui. »
Oro, onori, poter son vano scudo
Fuor le leggi del tempo, ed il mortale
Convien che scenda alla sua tomba ignudo.
Sudar per essi ad altro, oimè ! non vale.
Che a contristar chi Dio ti fé simile
E a far maggior di te chi t' era eguale.
Tu dunque, e qualunque altra alma gentile.
Non r obliate, e dal viaggio mio.
Raccolto avrò pel ciel frutto non vile. »
Parlando, in me d'udir crescea desìo.
Ma tacque ; e d' un tal riso indi ridea
Che offria l' impronta d'un estremo addio.
E in quel punto si lunge a me parea.
Che l'occhio intento la scorgeva appena:
Eppur neir atto immota io la vedea.
L'aria intorno men lucida e serena
Si fea più sempre, ed era il suon cessato.
— 222 —
Che pria s'udì con armonia si piena;
E già quel dolce aspetto a me celato
Erasi, come se il coprisse un velo :
Oimè ! sovra la terra era io tornato,
E la beata era rimasta in cielo !
Qui fantasia ed affetto si sono alzati insieme; il poeta canta
veramente inspirato, perchè l'uomo interiore lo inspira. E que-
st'uomo è tutto buono; il Vannucci che fin dal 1848, gli dedicava
i suoi Martiri della Libertà Italiana, e che in capo a molti dei
capitoli del suo bel libro, cita i brani più appropriati (ìeW Esule, in
una nota, lo chiama uomo angelico, e dice averne avuto tali
prove, che non può pensarvi senza sentirsene commosso. Ed il
volto di Pietro Giannone, e la sua parola, spirano quella stessa
bontà che vien fuori dalle sue opere, dalle scritte come dalle ope-
rate. Perciò quella serenità di pensiero che anco in mezzo ai tra-
vagli d'una malattia lunga e tormentosa, mai non lo abbandona.
Giovine italiano che arrivi nella città di Dante, giovine fioren-
tino che passeggi le vie glorio'se della tua città, concedimi di la-
sciarti un ricordo: se t'imbatterai ne' dintorni dell'Annunziata in
un cieco di alto, severo e maestoso aspetto, che, in silenzio, per
non turbarne le gravi e pensose malinconie, un servo guida, sco-
priti ; quegli è Gino Capponi. Se t'incontrerai presso il Gabinetto
del fu Giampietro Vieusseux in un vecchio ricurvo, di cui la mente
s'inalza a Dio, quanto il capo già stanco sembra chieder riposo
alla terra, scopriti ; egli è l' educatore Lambruschini. Se nelle
prime ore del pomeriggio passeggerai il Lungarno alle Grazie, e
vedrai da una povera casetta uscire con un bastoncello in mano
un vecchio cieco venerando, e attraversare la via, e accostarsi al
parapetto e costeggiarlo, come chi cerchi un resto di luce e di
calore al sole, scopriti; egli è il letterato Tommaseo. Se nelle tue
passeggiate, ti accadrà d' arrivare fino al parterre di porta San
Gallo, muovi innanzi altri due passi, verso il Mugnone e soffer-
mati sul così detto Ponte Rosso ; volgendoti a destra, riposa lo
sguardo sulla prima casa che subito ti si affaccia e che costeggia
la via Faentina ; dal secondo piano di essa si sporge un terraz-
zino ornato di fiori; le imposte ne sono quasi sempre socchiuse;
di là entra un tenue filo di luce nella stanza, ove abita Pietro
Giannone. Quel tenue filo di luce gli porti pure un vostro pio
saluto, 0 giovani gentili; egli non può, pur troppo, più discendere
su la via a rendervene grazie; ma, credetelo, egli vi ama, e in voi
— 223 —
spera e dalla sua cameretta, in cuor suo, ogni giorno vi benedice;
miei giovani valenti, cercate la benedizione di un cosi santo vec-
chio; essa fa bene; egli è, finalmente, di que'pochi i quali potreb-
bero, se al valore non aggiungessero pure una pudica, innata
modestia, con serena coscienza, ripetere, variando il motto dei
predicatori cattolici, a ciascuno di noi: fate quello che dico, poi-
ché quello che dico, io 1' ho anche fatto.
XI.
ATTO VANNUCCI.
Vivendo in Piemonte io ho creduto per qualche tempo il Van-
nucci un romano; non so ben come, ma credo quella maschiezza e vi-
rilità severa e tacitesca della sua prosa me lo facessero creder tale;
non conoscevo ancora la Montagna Pistoiese, né avevo allora av-
vertito come, se la Toscana fa pochi miracoli, li sa far grandi; ora
invece mi persuado assai bene come una eccezione quale il prosa-
tore Vannucci potesse sorgere naturalmente accanto a quell'altra
grande eccezione che fu il poeta ùeìY Atvialclo. La natura è so-
vrana nella sua virtù privilegiata de' contrasti; essa che creò la
donna presso l'uomo, dovea pure nella terra delle arti gentili
educare i più forti ingegni d' Italia.
Il primo a ftirmi amare lo storico generoso de' martiri fu un in-
felice ed eletto ingegno genovese, morto nel 1860, sul fiore degli
anni, l'abate Luigi Chicchero, che lo aveva avuto a maestro e
che ritraeva in parte nelle sue prose della nobiltà e fierezza che
spirano in quelle del suo istitutore (1).
Fra Pescia e Firenze era prima dell'anno 1840 una specie di via
crucis degli studii liberali; ogni capelletta aveva il suo degno mi-
nistro e il suo santo; a Pescia faceva capo il Giusti, a Firenze
Gino Capponi, e per la via s'incontravano Giuseppe Arcangeli,
Atto Vannucci, Enrico Bindi (non traviato ancora in quel tempo
(1) Veggasi fra gli altri scritti di lui, il proomio alla Storia del Ri-
sorgimento della Grecia di Mario Pieri, nell'edizione di Torino.
22
dall'ambizione di una mensa arcivescovile), Giuseppe Tigri, e gli
altri che alimentavano con essi ad una 1' amor delle lettere con
quello della patria. Il collegio Fortiguerri di Pistoia, e il collegio
Cicognini di Prato non erano meno focolare di buoni sentimenti
italiani che di forti studii.
Atto Vannucci, l'uomo in Toscana che, dopo il Capponi, meglio
riproduce le tre virtù che Ugo Foscolo ammirava nel giovine Nic-
colini, cioè i santi costumi, l'anima italiana ed il nòbile ingegno, è
nato a Tobbiana in quel di Pistoia il 1" dicembre dell' anno 1808.
Nella sua città nativa iniziò e compì i suoi studii letterari sotto la
disciplina del valente Silvestri. Lo accolse da prima il seminario, ma
noi fece suo; come egli sciolse veramente il volo all'ingegno, divenne
impaziente di ogni vincolo religioso che gli contendesse il libero
esercizio della parola, e fu tra que'pochi generosi liberti, i quali, ri-
vendicandosi a sé stessi, non serbarono impronta alcuna di quella
untuosità, caratteristica di una cosi gran parte dell'ateo clero ita-
liano. Nell'anno ventesimo terzo egli fu eletto professore di umane
lettere, e piìi tardi di storia nel collegio Cicognini di Prato, ove
cooperò pure elìicacemente a quella modesta ma considerevole e co-
raggiosa intrapresa che fu l'edizione de'classici latini dell'Alber-
ghetti, intorno alla quale, oltre al Vannucci, lavoravano l'Arcangeli,
il Tigri ed il Dindi d'una volta. Per quanto una edizione di classici
latini sembri ora una cosa molto umile e preSsapoco insignifi-
cante, può anch'essa avere la sua importanza secondo la mente di
chi la dirige e prepara, e l'ordine tenuto nelle note e ne' discorsi
proemiali che accompagnano i testi più antichi, e il tempo ancora
in cui l'edizione si produce. Sotto il governo Lorenese erano in
fiore (e ripullulano ora sotto il nuovo regno de' Paolotti) nelle
scuole i testi latini annotati, ad uso del buon giovinetto cristiano,
dai fratelli delle Scuole Pie; l'editore Alberghetti, di Prato, ebbe
allora il coraggio d'imprendere a ristampare que'testi medesimi
ad uso del giovinetto italiano. Da que'discorsi proemiali trasse
poi quindi animo il Vannucci a proseguire i suoi studii critici
sulla letteratura latina, frutto de'quali è quel prezioso volume di
Studii storici e morali intorno alla letteratura latina (1), che
(1) La prima edizione apparve a Torino nel 1854; una seconda edizione
molto ampliata e attentamente riveduta dall'autore ne pubblicò a To-
rino stessa l'editore Ermanno Loescher nello scorso anno.
Ricordi Biografici 15
— 226 —
educò a liberamente sentire tanta parte de'nostri giovani studiosi
delfantichità. Il Vannucci scopre al giovine lettore 1 pregi e i
difetti dello scrittore, ma, più ancora, con linguaggio magnanimo,
le virtù ed i vizii che ogni grande scrittore latino rivela. Il suo
libro è però tra gli ottimi lavori educativi che si possono sempre
con piena sicurezza metter fra le mani de'giovani, i quali da
quella lettura usciranno certamente più colti, ma , ciò che massi-
mamente importa, più onesti e generosi. Il Vannucci studiò sempre
l'antico; ma, più che per un gusto d'archeologo, per innamorare
la crescente generazione di quelle maschie figure che l'antichità
ci ha conservate intatte, e per frustare a sangue la prepotenza
de'nuovi padroni e l'ignavia de'nuovi servi, sotto specie di flagel-
lare antiche infamie e codardìe. La sua parola toglie le immagini
di lontano; ma egli ha lo sguardo intento negli occhi de'suoi gio-
vani ascoltatori, a cercare entro di essi il sussulto di un' anima
che internamente si ribella ad ogni viltà. Ed un valore educativo
ebbero poi tutte le altre opere del Vannucci ; cosi la sua me-
moria anonima intorno alla vita e alle opere di Giuseppe Mon-
tani (1) (l'Ercole della vecchia Antologìa), ove la tenerezza del
rimpianto non gli impedisce d'adoprar linguaggio virile, per ram-
mentare le cagioni nefande che condussero la soppressione di quel
giornale glorioso; gli scritti dettati per la Guida dell'Educatore,
fra i quali è un'opera intiera, che uscì poscia in due edizioni delle
quali l'ultima notevolmente accresciuta (±), cioè i Primi tempi
della libertà fiorentina, ove la parola armata, suona sempre ita-
liana, vuoi per la forma (che gli meritò l'onore di essere eletto fra
gli accademici della Crusca), vuoi pel sentimento; ed è spesso dal
Vannucci lanciata a traverso la storia come un fulmine; gli scritti
deposti yìqW' Arcliivio Storico; gli articoli scritti nel 1848 pel gior-
nale di Giuseppe La Farina intitolato 1' Alba; i discorsi proferiti
come deputato al Parlamento Toscano e come oratore del Governo
presso la Repubblica romana; i Martiri della libertà italiana, una
specie di storia del nostro eroismo (3) che fece battere fortemente
il cuore ai nostri vecchi patrioti, i quali vedevano ricordate con am •
(1) Capolago 1843.
(2) Firenze, presso Felice Le Monnier, 1853 e 18G1.
(3) Ebbe finora cinque edizioni ; l'ultima ò di quest'anno, e uscì a
Milano nella Biblioteca Utile del Treves, in un grosso e fitto volume di
000 pagine. .
— ^27 —
mirazione le loro sofferenze per la patria e il martirio de'loro com-
pagni, ed ai giovani che traevano dai magnanimi esempii de' pa-
dri propositi virili; la erudita, eloquente, talora inspirata Sfo-
ria dell' Italia antica, (i) intrapresa a stamparsi in Firenze fin
dall' anno 1846, e compiuta in terra d' esigìio (ove fu cacciato
dagli avvenimenti del 1849 ; (2) costretto a fuggire i processi di
Toscana, cercò rifugio ora in Francia, ora in Inghilterra, ora
nel Belgio, ora nella Svizzera, dove negli anni 1852 e 1853 pro-
fessò storia universale, finalmente in B' rancia per la seconda
volta, fino al 18Ò6, anno in cui ripatriò a Firenze); la Rivista di
Firenze, fondata nel 1857 e protratta fino al 1850, con l'intento
medesimo che si propone l'odierna Rivista Europea, di seguire in
Italia e fuori l'ingegno e il pensiero italiano; i due volumi di
Ricordi della vita e delle opere di G. B. Niccolini (3) di cui egli
era insieme l'alunno, l'amico e il confidente più intimo, e più de-
gno; e finalmente i Proverbi latini illustrati, ai quali, già aguzzi
per sé, egli drizzò più ancora la punta per farne uno strumento
di educazione civile. Qual vita or dunque meglio spesa di questa
del Vannucci? E qual meraviglia se, dopo tanto ostinato lavoro
fatto con animo sempre agitato da speranze e timori, da sdegni
ed amori tremendi, l'illustre storico pistoiese ora ne senta al-
quanto la gravezza, e rifugga, sdegnoso insieme e verecondo, da
ogni nuovo cittadino tumulto, e da ogni troppo viva preoccupazione
politica?
Inaugurato per sempre il governo nazionale in Italia, egli fu
successivamente eletto bibliotecario della Magliabecchiana, pro-
fessore di letteratura latina all'istituto di studii superiori, se-
natore del regno, commendatore dell'ordine di SS. Maurizio e
Lazzaro, ed in questi ultimi giorni, delegato governativo alla sopra-
intendenza amministrativa dell'istituto di studii superiori, insieme
(1) La prima edizione vide la luce in Firenze presso la Poligrafia
italiana, 1846-1855; la seconda, dedicata ad Ariodante Fabretti, in Fi-
renze presso il Le Monnier, 1863 e 1864. Una terza edizione molto ac-
cresciuta, con numerose e interessanti illustrazioni eseguite dal Cavetti,
n'esco ora per dispense a Milano presso la tipografia già Domenico
Salvi.
(2) Il Pitrè ricordò pure ne' suoi Profili che il Vannucci a Roma fu
imprigionato dai francesi; tale notizia non ha fondamento.
(3) Firenze, Le Monnier, 186G.
— 228 —
con Federico Menabrea e con Carlo Burci. Ebbe in sua vita numerosi
e caldi amici; gloriosi fra gli altri il Niccolini alla memoria del quale
egli inalzò un degno monumento, ed il Giusti il quale, nel 1844,
stimandosi in fin di vita, voleva a lui solo raccomandata la pro-
pria memoria : « Se qualcuno ha da parlare, gli scriveva, parla
tu come sei solito; almeno sapranno il vero; » questo parmi il
più boli' elogio che possa farsi di uno scrittore ; ed il Vannucci
l'ha ben meritato, egli che avea scritto per tempo sulla sua ban-
diera il bel motto di Ugo Foscolo ; vUam impendere vero.
XII.
ANTONIO RANIERI.
Anche l'amicizia ha nelle lettere i suoi fasti gloriosi, ed in
questi fasti risplende purissimo il nome di Antonio Ranieri, al
quale, se alcun altro proprio merito insigne non s'aggiungesse,
potrebbe bastare la gloria d'avere, col suo fido affetto, temperato
le estreme amarezze alla vita d'un grande italiano. Quella specie
di calma e direi quasi serenità con la quale il desolato genio re-
canatese s'accostò al sepolcro, è merito particolare de' sentimenti
soavi che seppe svegliare in esso il giovine e tenerissimo amico
napoletano, quasi riconciliandolo, per mezzo dell'amicizia, col destino
e con gli uomini. Belle opere scrisse il Ranieri, ma, sovra ogni cosa,
egli seppe compiere nella sua vita, con rara modestia, un'opera tanto
buona che quasi si può dir grande. Egli fece, per più di sei anni, da
infermiere attento e devoto non pure alle membra affrante e cor-
rotte, ma allo spirito malato del suo ospite moribondo; non pur la
sua casa, non pur le sue cure e più tardi anco quelle della propria
sorella (Paolina di nome, come la sorella amatissima del Leopardi),
ma egli comunicò all'infelicissimo poeta una parte del proprio alito
vitale, una gran parte e forse la migliore di sé stesso. E come
accade talora nelle infermità, e in quella massima delle infermità
mortali nomata vecchiezza, che il corpo infermo si rinfreschi, si
ristori ed in alcun modo ringiovanisca al contatto d'un corpo ve-
geto, fresco, e pieno di giovinezza, cosi vi fu un momento nel
quale il Leopardi al tepore delle aure primaverili di Capodimonte
e del Vesuvio, ma, più ancora, al calore dell'amicìzia del suo buon
Ranieri, si credette riserbato ad invecchiare. Il Ranieri^ al contra-
— 230 —
rio, avendo a sostenere con la propria una vita consunta come quella
del Leopardi, invecchiò troppo presto egli stesso, e ne derivò uno
scetticismo precoce, e un disdegno non naturale degli uomini e
delle, cose, che lo fece parere misantropo anche allora ch'egli
scrisse od operò per uno scopo di filantropia. I biografi del Ranieri
attribuiscono al viaggio di lui in Inghilterra il disegno dell' Orfana
della Nunziata; ma fra il viaggio in Inghilterra e la pubblica-
zione dell' O/'/ana passarono ben dieci anni, e fra questi dieci anni
stanno pure i sei passati col Leopardi. Se è dunque probabile che
una reminiscenza de' pii istituti inglesi abbia determinata nel Ra-
nieri la scelta del soggetto, l'anima che dentro vi spira ha sen-
tito il gelido soffio di Leopardi moribondo. In quelle pagine s'im-
para pur troppo ad odiare l'uomo, più che ad amarlo ; le mostruo-
sità vi si succedono e si somigliano ; l'umana natura vi si mostra
in tutta la sua escrescenza morbosa. Si dirà ; il soggetto lo ri-
chiedeva , l'Ospizio de' Trovatelli è il rifugio di tante miserie ; ma
IDur vorrei domandare : è egli possibile che tutti, assolutamente
tutti, là entro fossero un tempo malvagi? E egli ragionevole che
in una scena così animata di figure qual è quella che il Ranieri,
nel suo romanzo, ci presenta, di buono non si avesse a presentare
altro che una monaca francese, una suor Geltrude ? Io comprendo
lo scopo di mostrare gli orrori di un mal governato ospizio,, aflln-
chè vi si ponga riparo, e comprendo pure come, in tempi di ser-
vitù, sia stato assai nobile il coraggio di colui che tenne in mano
il flagello a percuotere gli schiavi giacenti, afilnchè^risorgessero.
Ma, per risorgere, bisognava pur credere. E le pagine del Ranieri,
quante sono, non lasciano adito a fede alcuna. Lo scrittore mostra
animo coraggioso nell'accusare la patria ignava, nello scoprire le
turpitudini de' grandi fortunati, ma non manda poi un solo grido
che conceda a'suoi napoletani oppressi di sperare nella loro resur-
rezione morale e politica. Il disprezzo, infine, col quale egli parla
dei calabresi tutti non è degno d'un uomo dell'alto intelletto del
Ranieri. Gli studenti per lui son tutti inetti e vili ed ei non pensa
che da quelle file egli stesso è uscito con tant'altri illustri e ge-
nerosi ne' quali ora egli può compiacersi con legittimo orgoglio,
e tanto compiacersene da porre, poi, con eccesso contrario, Napoli
al di sopra di tutte le altre città italiane, e, con l'immaginazione
accesa, figurarsi, contro il vero, ch'essa in Italia sia « tesoro del-
l'odio di tutti gli odierni pigmei. » Già il Giusti, che lo avea
l'anno innanzi conosciuto a Firenze in casa di Gino Capponi,
scrivendo nell'anno 1844 al Ranieri, gli dava fraternamente que-
— 231 -
sto consiplio : « Senza intaccare la dignità d'uomo onesto e dotato
di molto ingegno, quale siete di certo, rimettete un po' di quel-
l'indole sdegnosa che s'adonta d'ogni minimo che. » Ora, io posso
ingannarmi, ma sembrami che molta parte di quella sdegnosa al-
terezza che rende talora inamabili le stesse bellezze negli scritti
del Ranieri sia derivata dai principii filosofici ch'egli dopo la morte
del Leopardi ha professati. Stoico anzi tutto, avresti detto che
nell'autore del De Officiis egli ponesse da prima il suo modello
di scrittore ; e quindi sposati que' principii della saviezza antica
con lo scetticismo dell'amico recanatese, la verità tradusse a con-
seguenze tal fiata paradossali, tal altra sofistiche. È bello, per
esempio, in un italiano d'allora lo sdegno contro la viltà delle no-
stre plebi che mendicavano spesso l'oro dal forestiero in premio
di certi loro lazzi bestiali ; ma né tutta la plebe d'Italia era co-
siffatta, né tutto il popolo d'Italia era plebe, né tutti i forestieri
che venivano a spirar le benefiche aure del cielo italiano erano
« rea canaglia settentrionale, droghieri, spazzacamini, soldati a
mezza paga » come il Ranieri chiama gli inglesi tutti viaggianti
in Italia, né selvaggi orsi male imitanti i vezzi di Francia, quali
i Russi gli apparvero. Quest'odio cieco, questo non misurato di-
sprezzo verso il forestiero, gli fa pure immaginare nel suo ro-
manzo casi inverosimili ; tale, per esempio, quella principessa
russa che sposa d'improvviso il giovine pittore Camillo e fugge
con esso in Russia, come se la Russia fosse stata il più sicuro e
naturai rifugio a due sposi di quella fatta, mentre è noto come
secondo le leggi e più secondo il costume vigente in Russia al
tempo dello tzar Niccolò, nessuna nobile titolata poteva unirsi in
matrimonio con alcuno che titolato non fosse (1). Non poche stra-
nezze, pur troppo, si ricordano di alcuni Russi in viaggio; ma,
poiché nessuna di tali stranezze essi potrebbero permettersi in
patria senza pagarne il fio, o, almeno, senza destare molto scan-
dalo fra la loro gente, il costume della quale è onesto e civile, più
assai che in Italia ed in Francia non si creda, essi vengono in
occidente per dare sfogo a tutti quegli umori malsani che in pa-
(1) Ebbi sotto gli occhi la corrispondenza inedita fra la contessina
Sceremetieff di Mosca e il celebre pianista Teodoro Dòhler, del tempo
nel quale ì due giovani erano fidanzati; pel veto dello tzar, il matri-
monio fu impossibile finché il Duca di Lucca non ebbe creato il Dòhler
barone.
— 232 —
tria doveano contenere ; e noi, non che sdegnarci del privilegio
che accordano alla terra nostra, eleggendola a tempio de' loro di-
sonesti piaceri, con la curiosità e cupidigia nostra li allettiamo e
li tratteniamo. Ove il nostro costume fosse più severo, non è vero
che alcun matto straniero ardirebbe venir qua a sfidare quel pu-
dore civile che lo rende, in vece, contegnoso fra i suoi concitta-
dini. Mentre adunque è ingiustizia grave il fare un fascio solo di
tutti gli stranieri nostri visitatori, confondendoli come fa il Ra-
nieri intemperantemente, in un solo disprezzo, sarebbe cosa giusta
il fare a noi stessi la nostra parte di torto, pel modo di compor-
tarsi di alcuni di essi fra noi. L'esser trattati meglio o peggio
non dipende soltanto dalla varia moralità ed educazione di quelli
che hanno a trattare con noi, ma si ancora dalla varia attitudine
che serbiamo noi stessi innanzi al contegno altrui. Il Ranieri non
sa misurar sempre le sue parole; e però anche scrivendo col Frate
Rocco una specie di Galateo civile ad uso degli italiani, cede
più spesso ai moti improvvisi del cuore sdegnato contro qualche
eccesso particolare, anzi che moderare le menti italiane a quella
civile saviezza, che sola può far degno un popolo e grande uno
Stato. Il suo frate Rocco dice al popolo napoletano: « andate,
dunque, e lavorate, e, insieme col lavoro conquistate l'orgoglio o
l'alterezza d'un gran popolo; e fatevi voi alle logge ed alle rin-
ghiere inglesi a veder danzare i loro buffoni. » E vero che,
dopo aver cosi desiderata la vendetta d'Italia con l'umiliazione
del popolo inglese, frate Rocco si rammenta d'essere uomo di
chiesa, ma troppo tardi, per soggiungere ipocritamente: « 0
piuttosto;, poiché Gesù predicò tutti gli uomini fratelli, amate ed
onorate loro, com'è giusto ch'essi amino ed onorino voi; » troppo
leardi, io dico, e la correzione non può avere molta efficacia, dopo
l'impressione che il lettore ha dovuto ricevere dalle prime parole
che gli parlavano alla fantasia ed ai sensi. Come poi sperasse il
Ranieri far laborioso e grande un popolo cui egli in quel suo galateo
civile sconsigliava dal cibarsi di carne, io non arrivo ad intendere.
L' operaio inglese è robusto ed attivo, olire che per altre meno
materiali ragioni, ancora perch'egli è un eccellente carnivoro; con
l'erbe e le radici pitagoriche si potrebbe creare un manso popolo
d'agnellini, ma non di certo una gente leonina, quale l'italiana
dovrebbe farsi, per ritornare alla sua latina grandezza e supe-
rarla forse. Io non so poi come l'uomo camperebbe d'erbe sé
stesso, quando lasciasse, non potendo distruggerli, moltiplicare al-
l'infinitO; per quella carità che il Ranieri raccomanda verso tutte le
— 233 —
innocenti creature di Dio, e quando dovesse alimentare una turba
sterminata d'animali domestici posti sotto la provvidenza di esso.
E vero clie l'autore si scusa nella prefazione dello strano consiglio
dato nel libro, avvertendo d'aver pure voluto, per esso, rendere il
popolo più rassegnato a privarsi d'un sostentamento, che la scarsità
della pecunia non gli concederebbe di procurarsi; ma, oltreché il
povero popolo che non può mangiar carne, non può neppur leg-
gere il libro del Ranieri, il consiglio piglia un aspetto derisorio,
che non conveniva, senza dubbio, alla gravità del libro educativo
che il Ranieri s'era proposto di scrivere. Quantunque io non
ignori dunque punto di quante lodi siano stati colmati in vario
tempo i due libri d'invenzione del Ranieri, la Ginevra oV Orfana
della Nunziata {{) e il Frate Rocco (frammenti morali), e per ciò
che riguarda la toscana elegantissima dicitura (che meritò al
Ranieri il titolo di corrispondente della Crusca), e per lo stile robu-
sto e colorito, e per la potente immaginativa io sia lieto d'annove-
rarmi fra gli ammiratori dell'ingegno del Ranieri come scrittore,
io non potrei dir troppo gran bene della morale che vien fuori
da quelle due opere di lui. Certo è consolante pel Ranieri il po-
tersi oggi persuadere che il libro suo valse ad aprire gli occhi
de'governanti sulle nefandità, da lui denunziate, che si commette-
vano nell'Ospizio napoletano della Nunziata. E se il libro non
avesse avuto altro merito che quello d'affrettare di qualche anno
le inevitabili riforme di un istituto di benificenza pessimamente
governato, sarebbe già per questo solo da benedirsi. Ma non te-
nuto conto dello scopo filantropico che informa tutto il libro^ esso
si presenta pure alla critica come lavoro d'arte e come opera edu-
cativa. Sotto questo rispetto giova pur considerarlo. E, incomin-
(1) Nella notizia intorno alla Ginevra, premessa dall'autore all'edi-
zione di Milano, il Ranieri narra: « Un dì (correva, credo, il cinquan-
totto) camminando pensieroso per la via della Nunziata, ed avendo la
mente rivolta assai lontano dalle care ombre della mia giovinezza (fra
le quali la Ginevra fu la carissima), un bravo architetto, il cavalier
Fazzini, mi chiamò per nome, dal vestibolo dell'Ospizio, ch'era tutto in
restauro. E mostrandomi un esemplare del libro, ch'aveva nelle mani
(e che, a un tratto mi sembrò come una cara larva che tornasse a sa-
lutarmi di là donde mai non si torna);, m'invitò di venir dentro, e di
riscontrare se tutto era stato attuato secondo l'intendimento del vo-
lume perseguitato.
_ 034 ~
ciando dal genere, non posso consentire coi biografi del Ranieri che
lo fanno creatore, senz'altro, del romanzo sociale; la Ginevra (1) ten-
ne dietro di un decennio aW Oliviero Tioist di Carlo Dickens, che,
apparso a Londra nel 18^8, il Ranieri aveva letto molto proba-
bilmente nel suo viaggio in Inghilterra, seguito sullo scorcio
del 1830. Anche Oliviero nasce nell'Ospizio de'trovatelli, e ne
vien levato per essere, come la Ginevra, sottoposto ai più duri
lavori e ad orribili trattamenti; ma questa somiglianza generale
del soggetto non scema poi, in modo alcuno, il merito particolare
dell'invenzione del Ranieri; le tinte del nuovo quadro gli appar-
tengono intieramente, così come i caratteri secondarli e il rilievo
felicissimo de'costumi non solo ma de'discorsi napoletani. Quanto
al carattere dell'eroina, esso non mi sembra delineato con mano
abbastanza franca e sicura; si può anzi dire che essa propria-
mente non ne ha alcuno; quando, per lo meno, essa potrebbe ri-
velarlo, noi fa; è una vittima che subisce diverse impressioni, e,
all'infuori di un pò di scetticismo, non ne accoglie alcuna impronta
particolare nell'indole sua. L'opera poi ha merito molto diverso
nella terza e quarta da quello che osservo nella prima e seconda
parte. Al fine della seconda parte, la tesi del Ranieri è più che
dimostrata; e il romanzo poteva bene, con l'aggiunta di lievi
tocchi, finir li, e lasciare nell'animo di chi legge una forte unica
impressione; l'autore invece lo protrae imprudentemente a danno
della sua propria tesi, poiché fa trovare alla Ginevra fuori del-
l'ospizio casi molto più feroci e crudeli di quelli che nell'ospizio
essa aveva già esperimentati; la violenza che le fa il prete Se-
rafino, e il calcio che le dà l'amante Pittore Camillo per
farla annegare nel Tevere sono due episodii inverosimili e
mostruosi che non hanno più nulla che fare con l' orfana
della Nunziata e possono solamente persuadere il lettore come
(1) Nella Notizia intorno alla Ginevra, leggo: « Fra il 1830 e ill831
esule ancora imberbe, capitai in Londra, o, più tosto, mi capitò in Lon-
dra alle mani un aureo lavoro di un altro esule, assai più ragguarde-
vole e provetto di me, il conte Giovanni Arrivabene, nel quale egli mo-
strava particolarmente tutto quanto quella gran nazione, ha trovato in
fatto di pubblica beneficenza, per lenire, se non guarire del tutto quelle
grandi piaghe che le sue medesime instituzioni le hanno aperte nel
fianco. Alcuna volta il cortesissimo autore, più di frequente, il suo giu-
dizioso volume, mi fu guida e scorta nelle mie corse per quegli ospizii. »
- 235 -
anche fuori di quegli ospizii vi siano belve umane ; onde la
Ginevra e con essa il lettore deve arrivare alla disperata e
funesta conclusione che il supremo bene per l'uomo sulla terra,
è la solituìine, e il male supremo ogni contatto con gli altri uo-
mini. La Ginevra del Ranieri ebbe tre edizioni; ma la prima
(Capolago, 1839) fu quasi intieramente distrutta per opera dei
preti e gesuiti napoletani, che bruciarono quanti esemplari pote-
rono trovare del libro, dolenti di non poter bruciare al tempo
stesso l'autore (1), il quale tuttavia fecero sostenere in carcere
per quarantacinque giorni; la seconda edizione, che usci decimata
e molto scorretta fu in breve esaurita; la terza vide la luce a
Milano nel 18G-2 presso il Guigoni, ornata di sei incisioni, dise-
gnate da sei tra i nostri migliori pittori, il Palizzi, il Morelli, il
Pagliano, il Vertunni, il Celentano ed il Carrillo.
Ma non solo come amico del Leopardi e come autore della Gi-
nevra avrà posto il Ranieri nella nostra storia letteraria; egli è
pure autore di uno de'meglio pensati, meglio ordinati e meglio
scritti libri di storia.
Già fin da quando egli studiava giurisprudenza nell'Università
di Napoli egli s' era innamorato particolarmente degli studii sto-
rici. Ricercato dalla polizia borbonica per alcuni scritti giovanili
ne' quali già ferveva intenso 1' amor della patria e della libertà,
riparò affatto giovinetto in Bologna da prima, ove fu caro al
Costa, al Pepoli e al Marchetti, quindi in Toscana, ove, nell'an-
no 1828, conobbe per la prima volta il Leopardi, e con esso il
Colletta ed il Niccolini, che gli aprirono per tempo, 1' adito alle
pagine dell' Antologia. Egli era nato (il dì 8 settembre dell' anno
1809 (1) ) di famiglia assai benestante ; onde non gli mancarono i
(1) Nella citata notizia del Ilanieri intorno alla sua Ginevra, par-
lando del prete Angelo Antonio Scotti, si narra: « qxxa^io iwete cortese,
cli'era come il Gran Lama di tutta l'innuraerabile gesuiteria extra mu-
ros, per mostrarsi di parte, corse co'suoi molti neofiti, tutte le libre-
rie della città, bruciando il libro ovunque ne trovava copia. Poscia, in
un suo conventicolo dei Banchi Nuovi, sentenziò solennemente, ch'era
bene di bruciare il libro, ma che, assai migliore e più meritorio, sa-
rebbe stato di bruciare l'autore a dirittura. »
(2) Cosi i cenai biografici intorno al Ranieri ingeriti nell'introduzione
premessa da Gustavo Brandes alla sua bella versione tedesca dello poe-
sie di Leopardi (tlannovcr, Rumpler, 18G9). Il Dizionario dei Contem-
— 23G —
mezzi né d' attendere con qualche agio agli studii, né d' impren-
dere viaggi opportuni per compierli, come piìi tardi d'assistere il
Leopardi e d'erigergli a proprie spese in Posilipo un degno mo-
numento. Dalla Toscana il Ranieri, esule volontario, si recò in
Francia, ove frequentò le lezioni di Guizot, di Villeraain, di
Cousin, divenne amico di Lammenais e di Constant ed assistette
alla Rivoluzione di Luglio, nella quale anzi rimase egli stesso
ferito. Passato di Francia in Inghilterra per istudiarvi le istitu-
zioni britanniche, d'Inghilterra in Germania (a Gottinga e Ber-
lino), per frequentarvi i corsi di filosofia della storia, ritornò in
Italia ricco di cognizioni e d' esperienza. Toltosi compagno il
Leopardi nel suo ritorno a Napoli, fra le lodi unanimi degli amici
di Toscana e del Niccolini in ispecie, col quale il Ranieri avea
pure communi le opinioni politiche (I), intese con Carlo Troya,
ma con dottrina ghibellina, mentre il Troya vi cercava per tutto
il trionfo del principio guelfo, ad illustrare quel periodo originale
della nostra storia che intercede fra Teodosio e Carlo Magno; e
però scrisse la Storia d' Italia dal quinto al nono secolo. « Il
poranei di Vapereau, e i Profili biografici del Pitrè danno invece come
anno di nascita del Ranieri, il 1806, certo per un facile scambio tipo-
grafico di un 9 in un 6.
(1) I] Vannucci, nel primo volume de' suoi Ricordi della Vita e delle
opere G. B. Niccolini, scrive: « Sui nuovi guelfi deliranti e sui sagre-
stani belanti, egli più che con altri sfogavasi con Antonio Ranieri, il
quale, per la tempra del suo libero ingegno, e per le dottrine storiche
raccolte con lungo studio e con profonde meditazioni, più che altri era
atto a vedere la falsità e i mali effetti della nuova merce che si an-
dava spacciando alla povera Italia. Col Ranieri aveva consuetudine e
corrispondenza d'affetto e di studi fino da quando questi, esulando, si
trattenne giovinetto in Firenze, e si fece compagno e fratello confor-
tatore di Giacomo Leopardi, pel quale spese tanto tesoro di affettuose
e instancabili cure a sorreggerlo nelle ineffabili miserie che crudel-
mente gli travagliarono 1' animo e il corpo. Il Niccolini che per lungo
tempo conversò con ambedue ogni giorno, alla vista di tanta e così
gentile pietà, amò più che mai il magnanimo giovane che già gli era
carissimo per la schietta indole, per la rara cultura e pel vivo e nobile
ingegno. E allorché il Ranieri condusse il Leopardi a Napoli per ten-
tare di salvarlo in quejl' aria piena di salute e di vita, ei gli seguiva
ambedue coli' affettuoso pensiero, e il giovane amico lo ragguagliava
particolarmente delie sue trepidazioni, e delle nuove speranze etc. »
— 237 —
libro strozzato due volte altrove, scrive il Ranieri nella notizia
premessa alla seconda edizione milanese dell'opera sua, apparve
dato alle stampe in Brusselle (1841). Ma non fu appena pubblica-
ta, che due grandi tempeste mi si rovesciarono addosso, né si
discerneva qual fosse la più furiosa. La Compagnia di Gesù mi
flagellò di articoli; e quattro de' Reverendi Padri, in ossa e in
polpe, si recarono nel cospetto di Ferdinando secondo e gli rap-
presentarono (sono proprie loro parole) : U seno squarcialo della
religione; di quella religione della quale, a grande studio, non
era detta una sillaba sola nel libro. Il libello fu dato al supersti-
zioso Monarca; e s' imbambolavano gli occhi di quegli innocenti
e mansueti compagni di Gesù, pensando che, dato il libello (eh' io
serbo) all'emulo di Filippo secondo, ne seguisse un monitorio,
s' appendessero i cedoloni, ed un salutare sanbenito mi menasse
presto a purificarmi in Campo de' Fiori. Ferdinando si rimise del
libello in Delcarretto. Il quale, sia giustizia anche a lui, se mera-
vigliosamente amoroso del re assoluto (el rey nelo), e di quell'ara -
mazzar concitato di Salerno, del Vallo e di Catania, non però
gran fatto tenero delle pretensioni e dei supplizi clericali, messe,
con grande scandalo del padre Rootham, quel libello nel dimenti-
catoio. Ma questo scroscio era nulla al diluvio di accuse, di ca-
lunnie, di motteggi, di contumelie, onde, parlando e scrivendo mi
si precipitarono addosso tutte le innumerabili o stupide o ipocrite
scimmie de' pochi grandi ingegni traviati dalle irrepugnabili dot-
trine di sette secoli di avita sapienza; i quali esse prendevano, o
fingevano di prendere, letteralmente (1). E per acconciarsene con
le potestà del tempo, innalzavano un' assurda confederazione alla
germanica, con, di più, il Papa capo e l' Austria consorte, all' al-
tezza d' una seria e salutifera soluzione. » Qui ancora il Ranieri
(1) Come poteva il Ranieri dolersi degli attacchi della parte avversa,
se, con evidente intemperante personalità, egU l'avea ferita nel più illu-
stre de' suoi rappresentanti, sul fino del fibre, «iecondo ov'egli scriveva :
« e però sarebbe da desiderare che cessasse 1' ipocrite zelo di alcuni,
che, nutrendo nel fondo del loro petto pensieri alieni da ogni vivere li-
bero e civile, vanno, quasi sfogo all'impeto loro contro quello straniero
medesimo che trionfa in Italia sulle ali delle loro teoriche, spargendo
tanto loro veleno contro ai Longobardi, per avventura loro progeni-
tori: Questo veleno dovrebbero sputarlo contro a certi altri stranieri,
verso i quali si mostrano più che agnelli mansueti. » ?
-- ^23S —
vitupera insieme tutta la scuola guelfa, della quale erano pur se-
guaci tanti suoi nobili amici; ed alla stima che di lui facevano
gli amici guelii di Toscana ei dovette pure, appena pubblicato il
libro, (che Gino Capponi, nella sua prima lettera al Capei definisce
« lavoro di poca mole ma non di poca sostanza, pregievole per assai
beli' arte di composizione ist(^irica e per franchezza di stile »),
l'onore di essere invitato a professare pubblicamente la storia
nell'Ateneo Pisano; che se una visita di Leopoldo al coronato
suocero di Napoli indusse in breve il timido granduca a riti-
rare l'invito, non sarà meno onorevole per i guelfi di Toscana
l'aver essi pensato a chiamare fra loro un ghibellino perchè in-
terpretasse alla nuova generazione di studenti la storia d' Italia ;
ed il Ranieri storico, per amore del vero, ne avrebbe forse do-
vuto nelle sue recenti reminiscenze, far conto migliore. Ma, la-
sciando codesto, è a lamentarsi, senza dubbio, che il Ranieri non
siasi allora, nel ferver degli studii, e nel pieno vigor dell' intel-
letto condotto a professare in Pisa; chi legge la Storia d' Italia
del Ranieri ammirerà non solo la lucida intuizione del vero nei
fatti storici, e l'abilità con la quale questi vi sono coordinati, ma
si ancora la nobiltà della mente che li giudica e la disinvoltura
elegante dell'esposizione. Nei Prolegomeni di una introduzione
allo studio della scienza storica ove egli pone sovra gli altri il
principio che i fatti individuali, benché di numero sterminati devono
essere accuratamente ed infaticabilmente studiati, non però per
sé stessi, ma come effetto dei generali e come scala per montare
a quelli; e nel ragionamento un po' sofistico intorno al modo di
considerare le azioni umane rispetto alla coscienza ed alla storia
egli palesa qual profondo filosofo della storia avrebbe potuto di-
venire, educando di continuo l'ingegno all'osservazione storica.
Ma la cattedra gli fu negata; e da quel tempo in poi fino agli
ultimi rivolgimenti italiani, il Ranieri visse più tosto ritirato, fra
le cure del foro, e lo studio di proseguire la sua storia fino ai
tempi di Lorenzo il Magnifico, non inerte, ma, neppure molto
operoso. L' arrivo di Garibaldi alle porte di Napoli finalmente lo
riscosse (1); ed egli, tornato vivo fra i vivi, venne fatto segno a
pubbliche onoranze di popolo e di re. Le regie fu pronto a rifiutare.
(1) Il G seti. 18G0, il Ranieri fa il primo de'sessanta patrioti napoletani che
luandarono ud invitare il generalo Garibaldi a pigliar possesso di Napoli.
— 239 —
come la Gran Croce de' Santi Maurizio e Lazzaro, un posto al
Consiglio di Stato, ed il titolo di senatore; elesse invece di rap-
presentare i suoi concittadini in parlamento , di professare filoso-
fia della storia nel patrio Ateneo, e, per incarico di Garibaldi, di
sovrintendere al Reale Albergo de' poveri, pel quale ufficio egli
non volle tuttavia ricevere onorario alcuno. Anima alta e sdegno-
sa, intelletto vivo e capace, amò sempre poco sé stesso e moltis-
simo invece la patria. Non seppe frenare in ogni tempo la parola
incontinente, che talora, pertanto, suonò ingiusta, vile non mai;
e, in ogni modo si può fare per lui una rara conclusione : gli
scritti suoi sono assai nobili, ma egli è assai più nobile de' suoi
scritti.
XIII.
GIOVANNI ARRIV ABENE
Noblesse oMige; ogni patrizio sei dice o se lo sente dire ; ma
raro accade che un tal consiglio divenga operoso di bene. Il più
delle volte gli obblighi della nobiltà sono intesi dal patrizio in
modo ch'egli li riduca alla sola tutela de'suoi minacciati privilegi.
E però, in omaggio a quella sentenza, ei si guarderà studiosa-
mente da qualsiasi contatto con quegli ordini sociali ch'egli stima
inferiori. Non è dunque ^olo interdetto ad ogni patrizio che senta
altamente della nobiltà de' suoi natali il macchiare con ibridi pa-
rentadi il suo blasone avito ; ma egli deve; in ogni atto, in ogni
gesto, in ogni suo motto mostrarsi distinto ; e mostrarsi distinto,
vuol dire operare, condursi, favellare in modo diverso .da quello
«he il popolo osserva. Così, se il popolo ami molto la patria, questo
amore parrà a gran parte del patriziato cosa volgare ; ond'esso, per
distinzione, l'amerà poco ; se il popolo per la redenzione della pa-
tria sacrificherà il maggior numero de' suoi figli, quel patriziato,
per distinzione, se li terrà tutti a casa ; se il popolo parli e vesta
all'italiana, quel patriziato, per distinzione, parlerà e vestirà
alla parigina. Cosi il volgo de' nobili; perchè hanno anch'essi il
loro volgo, e tanto più misero de' volghi plebei, in quanto essi
vantano un'educazione ricevuta e ricchezze ereditate, eccellenti
mezzi, per i quali qualche lazzero disgraziato sarebbe divenuto vera-
mente un gentiluomo. Il lazzero è, senza dubbio uomo vizioso; ma
quanto più di lui il ricco patrizio in ozio che, non pago di colti-
vare i vizii proprii, sveglia, specula, mercanteggia, diffonde gli
altrui. Il lazzero è analfabeta; ma peggio che analfabeta è il pa-
— 241 —
trizio ozioso; poich'egli ha imparato a leggere, unicamente per
mantenere, con la sua curiosità indiscreta, in deplorevole favore,
una sozza letteratura scandalosa, che incomincia pudicamente con
Dafni e Cloe e finisce sfacciata e brutale con qualche Panier des
ordures (1). Altro non si legge in certi circoli ultra-aristrocratici;
la dama elegante s'è fermata al Journal des demoiselles ; e al
Còde du Cérémoniel; il cavaliere è andato un poco più in là;
ma trovò Dumas figlio troppo grave e drammatico ; Paul de Kock
di una scurrilità troppo fuggitiva ; Balzac quasi noioso ; al di là di
Balzac sorgono le colonne d'Ercole pel giovine lettore patrizio di
buon gusto. Cosi, io ripeto, il volgo blasonato. Quando pertanto
da questo volgo escono fuori uomini come i piemontesi Alfieri,
Balbo, Azeglio, Sclopis, Lamarmora, Collegno, Sanquintino, Ve-
snie e simili, i milanesi Beccaria, Verri, Manzoni, Litta, Porro,
Arconati, Borromeo, Belgioioso, e i degni di loro, i fiorentini
Capponi, Ridolfi, Strozzi, Albizzi, Ricasoli, Torrigiani, Passerini
e gli altri non pochi che serbano qui ricordo del loro nome an-
tico per crescergli lustro; quando Venezia ci conserva gloriosi i
nomi de' Giustiniani e dei Bembo, Genova quello dei Boria e dei
Pallavicini, Bologna quello de' Gozzadini, Pesaro quello de' Ma-
miani, Siena quello dei De Gori, Perugia quello dei Conestabile,
e così via scendendo verso il Mezzogiorno d'Italia, ove tuttavia
decresce la nobiltà in quella proporzione stessa con la quale s'ac-
crescono il numero e la boria de' titolati; quando ci troviamo
innanzi a tali splendide eccezioni di un ceto tanto innamorato
de' suoi vizii e pregiudizii da ambirne il privilegio, inchiniamoci
ed ammiriamo. Poiché, se è sempre, in qualsiasi condizione della
vita, malagevole ad ogni uomo l'acquistar vera dignità morale, è
uopo di una gran forza di volontà e di carattere ad ogni patrizio
italiano per divenire qualche cosa di meglio che un uomo frivolo
ed elegante, e per servire con devozione una società nella quale
egli si muove, mentre egli aveva invece appreso dall'aio com'essa,
rinnovando il miracolo del duplice sogno di Giuseppe Ebreo, s'ag-
girasse e s'inclinasse eternamente ai piedi di lui solo.
Il grosso del patriziato mantovano non è diverso, pur troppo,
da quello dell'altre città italiane; poiché, se non mancano neppure a
que'nobili gli ambiti quarti di nobiltà, manca tuttavia alla maggior
(1) È tale il titolo d'una novità francese che intesi domandare da un
patrizio napoletano in una libreria di Firenze.
Ricordi Biografici
242
parte di essi ciò che forma la nobiltà intera. Gioverebbe pertanto
ch'essi meditassero particolarmente la vita del loro concittadino
Conte Giovanni Arrivabene e da lui apprendessero come nobiltà
vera si mantenga e s'acquisti.
Nacque il conte Giovanni Arrivabene in Mantova nell'anno 1787
di assai ricca famiglia ; ma, come Vittorio Alfieri, anch'egli fino
all'anno 27" della sua vita condusse vita scioperata ed inutile. La
caduta del Regno d'Italia lo scosse. La sventura che abbatte i più,
lui all'incontro fece sorgere due volte ; la prima volta in patria,
la seconda in esigilo. Atterrata in Italia ogni libertà, ed imposto
il giogo austriaco al Lombardo-Veneto, egli incominciò allora a
sentire la patria, a soffrire per essa^ a tormentarsi nel desiderio
della sua salvezza. Le vie di tentarla potevano esser molte ; ed
egli colse quelle che una più pronta occasione gli offeriva ; aveva
egli già fatto conoscenza coi fratelli Camillo e Filippo Ugoni e
con Giovita Scalvini di Brescia, con Giovanni Berchet, Giu-
seppe Pecchio e Federico Gonfalonieri di Milano ; a questi s'erano
quindi aggiunti in Brescia il Mompiani, in Milano, il Breme, il
Borsieri, il Porro ed il Pellico. L'esempio di questi patrioti lo
incitò ; e, naturalmente disposto al bene, egli volle imitarli nella
più salutare di tutte le opere pie, dando opera ad istruire il po-
polo, fondare a proprie spese in Mantova, come avea già fatto il
Gonfalonieri a Milano ed il Mompiani a Brescia, ima scuola di
mutuo insegnamento, che fu, in breve, frequentata da quasi due-
cento fanciulli, e eh' egli visitava ogni giorno, sebbene dimorasse
in villa, alla sua Zaita, che dista da Mantova sei miglia lombarde.
« Quei giorni, scriv'egli nel pregioso Libretto delle sue Memo-
7ne intorno a quegli anni, furono i più felici della mia vita. I
piaceri l'uomo li deriva da varie sorgenti, quasi tutte più o meno
impure; la felicità ei non l'attinge, che alla fonte purissima del
bene operare ». Il favore che incontrarono in Lombardia quelle
scuole popolari, le quali davano naturalmente ai promotori, av-
versi al nuovo governo, un'autorità singolare sopra il popolo, de-
terminò l'Austria a farle chiudere; l'Arrivabene supplicò due volte
il viceré perchè gli fosse concesso di tenere aperta la sua, ma
indarno. « Ritornai a Mantova, prosegue egli, andai .alla scuola.
I fanciulli stavano ansiosi, come accusati i quali aspettano la
sentenza che li deve assolvere o condannare; e quando udimmo
che non v'era più speranza, che forza era separarci per sempre,
fu un pianto universale. » Per consolarsi di quel dolore, l'Ar-
rivabene fece con lo Scalvini un viaggio in Toscana; nella
— -243 —
quale occasione, egli dovea pure levare dal collegio di Siena il
figlio maggiore del conte Porro, primo introduttore dei battelli
a vapore in Italia, insieme col Gonfalonieri, per menarselo alla
Zaita, ove il padre, con altri due suoi figli e con Silvio Pellico
loro precettore sarebbe venuto nel settembre di quell'anno (1820)
a ritirarselo. Il Pellico era già stato a Mantova nel 1816; egli
accompagnava allora il Breme, per aiutarlo a mettere in iscena una
tragedia dal titolo Ida, che ebbe sorti infelici; il Pellico ed il
Breme erano stati raccomandati all'Arrivabene dal noto viaggia-
tore Acerbi, che dovea più tardi diventare famoso ne' fasti della
Biblioteca italiana. Nel settembre del 1820, il Pellico ed il Porro
co' suoi figli furono ospitati per quindici giorni alla villeggiatura
deli'Arrivabene ; quell'ufficio cortese gli dovea costare prima il
carcere e poi l'esiglio; ma gli diede pure la gloi'ia. « Un giorno,
narra l'Arrivabene, mentre Porro e i figli erano nel giardino,
Pellico ed io stavamo in una stanza seduti sopra un sofà. Parla-
vamo dell'Italia, del modo di rigenerarla. Tutto ad un tratto, Pel-
lico esclama: Arrivabene, per rigenerare Italia voglionvi società
secrete, bisogna farsi carbonari. — Sarebbe pazzia, replico im-
mediatamente io ; sai bene che fu promulgata non ha guari una
legge che condanna a morte i carbonari. Si può giovare all'Italia
senza affigliarsi ad alcuna setta. Gli usciti nel giardino entrarono
in casa; il nostro dialogo fu interrotto e non fu mai poscia ri-
preso. » Verso il 6 ottobre il Porro ed il Pellico ripartivano per
Milano; il 13, il Pellico vi fu arrestato. Nel febbraio del 1821, il
Gonfalonieri invita l'Arrivabene, sotto pretesto di parlargli del-
l'affare de' battelli a vapore, ma, in verità, per mettersi d'accordo
con esso intorno all'attitudine che i lombardi avrebbero dovuto
pigliare innanzi alla rivoluzione piemontese prossima a scoppiare.
L'Arrivabene arriva in Milano e trova il Gonfalonieri gravemente
infermo; si reca insieme col Borsieri in campagna dal Pecchio,
a tre miglia da Milano, ove si ritrovavano pure Benigno Bossi e
Carlo Gastiglia ; vi si fanno molti discorsi politici, ma senza de-
liberar nulla; presso a scoppiare la rivoluzione in Piem.onte, il
Pecchio richiede l'Arrivabene di danaro per mandarlo ai piemon-
tesi che stanno per insorgere ; l'Arrivabene trova a tal uopo mille
lire. Scoppiata la rivoluzione in Alessandria, l'Arrivabene si ferma
altri tre giorni in Milano ; quindi fli ritorno a Mantova, senza
essersi più ritrovato co' suoi amici politici. L'ultimo venerdì del
mese di maggio 1821, egli viene arrestato alla Zaita, e condotto
ai Piombi di Venezia, e quindi innanzi alla Gommissione, presieduta
— 244 —
dal conte Gardani di Mantova, essendo giudice inquirente il fiimoso
tirolese Salvotti. La polizia ignorava allora quello che l' Arrivabene
avea fatto in Milano; egli era solamente chiamato a rispondere della
canzone di Rossetti da lui comunicata in Mantova ad altre persone,
il che egli confessò con imprudente lealtà, d'aver fatto, e de'discorsi
da lui tenuti col Pellico alla Zaita. « Pellico, soggiunse il Salvotti,
terminando il suo interrogatorio, le ha confidato alla Zaita di es-
sere carbonaro ; era dovere in lei di denunziarlo al governo ; ella
noi fece ; quindi ella è reo del delitto di non rivelazione. » La
risposta dell' Arrivabene fu notevole e degna, in tutto, d'un uomo
onesto e di un gentiluomo. « Come denunziare, sclamò egli con
isdegno, tradire l'amico, l'ospite ? Che leggi sono queste ? Le più
immorali del mondo. Mi condannino pure. Mi trovassi mille volte
in simil caso, farei mille volte lo stesso. Pellico non mi ha poi
detto essere egli carbonaro, ma bensì che volea o convenia farsi
tale. Ciò è si vero ch'io ne l'ho sconsigliato. Si sconsiglia mai
uomo dal commettere azione ch'egli abbia già consumata ? Dun-
que anche secondo la legge io non sono reo. Questa forza i sud-
diti a rivelare al governo i carbonari ; ma essa non va tant'oltre
da costringerli a denunziare i discorsi sulla carboneria che essi
sieno per udire, o il desiderio che una persona manifesti di en-
trare, 0 che altri entri nella setta. » Cosi, difendendo sé 'stesso,
l'Arrivabene difendeva pure egregiamente l'amico ; e l'essere stato
sincero, raro caso ne' processi politici, a lui giovò. La sua pri-
gionia si protrasse bensi ancora per sette mesi ; che dai Piombi
egli venne trasferito alla Prigione di San Michele di Murano, a
passarvi la state e l'autunno ; ma gli si usarono molti riguardi
nel tempo della prigionia ed egli;, vi ebbe agio d'occuparsi, leg-
gendo, focendo estratti, improvvisando versi, deponendo sulla
carta i propri pensieri. In uno di questi, egli rivolgevasi in tal
modo a sé stesso : « La compassione tu l'hai sentita come si sen-
tono le passioni ; tu hai sempre amato i tuoi simili ; non hai mai
odiato i tuoi nemici ; né li odii pur ora, sebbene tu li vegga in-
sultare al tuo infortunio. » Né queste erano certamente vane pa-
role. Essendo in prigione, egli ebbe il dolore d'apprendere che
s'era trovato in casa sua in Mantova, fra le sue carte, una let-
tera di Giovita Scalvini a lui diretta, e che, per cagione di quella
lettera, lo Scalvini era stato arrestato. « Nel 1819, scrive l'Arri-
vabene, dovea recarsi a Milano l'Imperator d'Austria. Il gover-
natore della Lombardia avea incaricato Monti di scrivere una
cantata per quell'occasione. Scalvini e Monti si vedeano soventi.
— 245 —
Scalvinì onorava in Monti il poeta ed amava l'uomo ; che, se egli
avea molti difetti, avea pure ottimo cuore (1). Monti facea caso
della perspicacia e del fino giudizio critico di Scalvini. Questi va
un giorno da Monti, il quale sdegnato gli dice : — Sai, il gover-
natore mi sforza a scrivere una cantata per l'arrivo dell'Impera-
tore. Si fanno giuoco di me, sanno bene ch'io non amo l'Impera-
tore.— In onta di questa ripugnanza. Monti compose la cantata.
In quella fatai lettera, Scalvini mi dava conto di ciò. » Il Monti
faceva cosi le spese della sua misera condizione di poeta ufficiale ;
il genio che si rende servile si castiga da sé; per un sorriso del
principe esso perde l'amore del popolo ; ma, per fortuna, l'età no-
stra, con tutte l'altre anticaglie, si mena via anche i poeti di corte;
e però allontana il pericolo che futuri poeti cedano i loro liberi
estri a cantar le volubili fantasie di effimeri signori, i quali val-
gono ora solamente più, ciascuno per sé, come semplici mortali,
stimabili quando sanno, con virtù propria, meritarsi quella stima,
ma non sono più né eroi divini, né eroici semidei atti a svegliare
furori pegasei ed olimpici nei Pindari novelli. Coi re costituzio-
nali e coi presidenti di repubbliche conservatrici, i menestrelli di
corte hanno smesso ogni loro poetica baldanza; non potendo essi
più concedersi il lusso di certe immagini epiche, a poco a poco,
per lungo silenzio, divengono fiochi ; e per ricominciare il loro bel
canto debbono porgere nuovamente ascolto alle prime voci solenni
ed auguste della natura.
Ma, per tornare al nostro prigioniero, nella sua prigionìa di
San Michele, oltre il conforto di ricever lettere e libri, ed alcuna
rara visita, egli ebbe pur quello di potere conversare con due
(1) Con questo giudizio dell' Arri vabeno intorno a Vincenzo Monti com-
bina pure quello che trovo nel principio delle Memorie di Alessandro
Andryane il generoso francese, che, per la indipendenza d'Italia, incon-
trò gli orrori dello Spielberg. « Come tutti i grandi poeti, il Monti era
semplice e buono ; le sue parole, per poco che discorreste con lui, vi
lasciavano travedere il candore e l'innocenza dell'anima sua; lui, che
avevano dipinto come si timido e riguardoso, sentii parlar con forza
contro le vessazioni e la tirannia del governo austriaco e de' suoi agenti ;
lo sentii aprire il proprio cuore intorno al Confalonicri e a' suoi com-
pagni, e compiangere, in termini degni del suo genio, Pietro Borsieri,
giovine poeta di sì belle speranze, diceva egli, e che avrebbe fatto onore
alla patria. »
— 2-i6 —
suoi nobili compagni di sventur^i, il conte Laderchi e Piero Ma-
roncelli. Alfine gli viene annunziato ch'è riconosciuta la sua in-
nocenza, ch'egli è libero, ch'egli può abbandonare subito l'isola di
San Michele. Bisogna aver provato, nella vita, pur qualche cosa
che somigli ad una prigionia per comprendere l'allegrezza che
invade l'animo d'un uomo, quando egli apprende che ha riacqui-
stato la sua libertà perduta; è una gioia folle, che inebbria e
quasi accieca il povero carcerato che ritorna a respirar libere aure
ed a veder volti umani; cosi la molta luce toglie quasi la vista a
chi vien fuori dalle tenebre, ed il raggio del sole arde colui che
uscì da una fredda spelonca. L'Arrivabene, nel sentirsi libero, non
credeva certamente che fosse vero, e non capiva più in sé; ma,
egli seppe pur tanto dominarsi da impedire le troppe dimostra-
zioni di una esterna allegrezza, per non offendere i suoi due com-
pagni sventurati, che rimanevano in carcere mentre egli ne par-
tiva. E qui mi occorre di rammentare uno de'più nobili tratti
della vita dell'Arrivabene il quale solo basterebbe al più splendido
elogio di tutto l'uomo. Erano le due pomeridiane quando il conte Car-
dani annunziò al prigioniero ch'egli era libero; il prigioniero volle
spontaneamente rimanere in carcere fino all'indomani, e però pas-
sare ancora in un misero letto, in una misera stanza, in un luogo
di pena, una intiera lunga notte; qual ragione gli facesse eleg-
gere quel mesto partito ci ha detto egli stesso con quella ingenua
semplicità che è propria delle anime grandi : « In quel momento
di esitanza e di silenzio che seguì alle parole del Conte
(Cardani), la mente mia, con quella rapidità di operare che è ma-
raviglioso attributo delle menti umane, aveva considerato la si-
tuazione mia e quella dei miei compagni, visto quanto sarebbe
stato brutto il non saper aspettare con moderazione un po' di
buona fortuna, il mostrare un'impazienza eccessiva a dividermi
da essi, che rimanevano nella miseria; quanto bello invece il con-
secrare qualche ora a consolarli. » È peccato che lo Smiles non
abbia Conosciuto questo mirabil esempio, quando scrisse il suo bel
libro sopra il Carattere. Ma, perchè s'apprezzi meglio l'animo
delicato e gentilissimo dell'Arrivabene, udiamo come raccontasse
quel fatto, uscito di prigione, il Maroncelli. « Diflìcilmente, ei
lasciò scritto, s'incontrano sulla terra anime più pure, più inna-
morate del bene, più abneganti di sé stesse, di quella di Giovanni
Arrivabene; tale è il giudizio di Pellico, di Porro, di Confalonieri,
e tale e il mio. — Gli fu letta la sentenza di libertà, se non
erro, il 17 dicembre 1821, a due ore dopo mezzodì. V era ben
— 247 —
tempo per chiudere il suo baule, andare a pranzo alle cinque,
indi spandersi nelle società ed al teatro, due cose di cui il
suo animo conversevole dovea patire sete immensa. No ; gli
parve di passar ivi la notte; parlava già di notte a due ore po-
meridiane. Il seguente giorno parti; le prime famiglie nobili di
Venezia con cui era imparentato, la principessa Gonzaga, l'egre-
gio presidente conte Cardani di Mantova che lo aveva assolto, lo
invitarono a pranzo supplicandolo come di una grazia. Ei fu ri-
conoscente a tutti ma disse al presidente Cardani, suo compa-
triota: Ella piuttosto faccia a me un'ultima grazia — Subito, e
quale ? nulla posso negarle. — Mi conceda di rientrare nella mia
prigione per poter dare le consolazioni dell'uomo libero a chi re-
sta ancora nella sciagura. Andrò a pranzo nell'isola di San Mi-
chele. — Quel gentile sentì quale e quanta era la brama di quell'a-
nimo cavalleresco e concesse ; con quali lagrime vi fosse accolto
lo sa il mio cuore che le versa anche in questo momento; lo sa
il suo cui certo non isfugge ogni più sfumato cenno di grato
sentire. » Simili fatti si narrano? se si può, si imitano; ma non
si commentano; il sublime non si spiega.
Uscito dalla prigione di San Michele, l'Arrivabene si trattenne
altri due giorni in Venezia, ove ebbe festevoli accoglienze presso
la Teotochi-Albrizzi, la principessa Gonzaga, e il Conte Cardani.
In casa di quest'ultimo egli udì recitare per la prima volta l'inno
di Manzoni II cinque maggio ed ebbe la triste novella che erano
stati arrestati il Confalonieri, il Pallavicini ed il Castiglia. Gli
si strinse al cuore pensando alle nuove vittime, ma non meno al
pericolo che il suo nome s'implicasse in que'nuovi processi, e che
appena uscito dal carcere, egli fosse costretto a rientrarvi. Tor-
nato a Mantova, il suo arrivo vi fu festeggiato dalla città e dal
contado ; i mantovani sentivano bene che ritornava in mezzo a loro
un benefattore.
Nel gennaio del 1822, l'Arrivabene si recò a Milano, per esplo-
rare più dappresso gli intendimenti del governo : vede la con-
tessa Confalonieri che lo invita a fuggire subito d'Italia; ma
non gli sembra che il pericolo sia tanto imminente e però si trat-
tiene alcuni altri giorni a Milano, ove egli riceve pure dimostra-
zioni d'affetto e d'onore. Un episodio di quel soggiorno dell'Arri-
vabene merita qui di venir riferito; è breve, ma significativo:
« Io camminavo, scrive l'Arrivabene, da un lato della Corsia dei
Servi; passava dall'altro Ermes Visconti insieme ad altra per-
sona. Attraversano entrambi la strada e vengono a me. Visconti
— 248 —
si congratula meco del vedermi libero, e poscia mi presenta il
suo compagno, il quale mi fa pure le più cordiali dimostrazioni
di gioia. Questi era Manzoni. » E cosi questo gran reazionario
de' Settembriniani s'ha da ritrovar sempre in mezzo a liberali (1).
Incerto per alcuni mesi, fra il restare e il partire, all'annunzio
avuto dell'arresto di Mompiani e di Borsieri, l'Arrivabene final-
mente, nell'aprile del 1822, si risolve a partire; toglie in impre-
stito sole quattromila lire da restituirsi tosto con la vendita di
un po' di grano e di bestiame de'suoi proprii poderi e fugge con
lo Scalvini e con Camillo Ugoni nel canton Grigione assistito
da guide fidate e devote e da eccellenti amici. Le ansie provate
in quel viaggio piene di pericoli sono descritte con molta verità
e vivace evidenza dall'Arrivabene nel volumetto delle sue Me-
morie. Dal Canton Grigione pa;^sò egli a Ginevra, ove conobbe
Bonsteten, Pellegrino Rossi e il Sismondi, che gli prestò una
particolare assistenza; dalla Svizzera domandò finalmente passa-
porti per la Francia e per l'Inghilterra. Il 10 agosto 1822 egli
arriva a Parigi; nello stesso mese legge nella Gazzetta di Mi-
(1) In una nota alle sue memorie l'Arrivabene soggiunge intorno al
Manzoni: « Nella sua prima giovinezza fu anch'egli ciò che si chiama
nn esprit fori; egli però non rimase lungamente in questa condizione.
Narrasi clie un giorno, trovandosi egli a Parigi passasse per caso di-
nanzi alla Chiesa di S. Rocco. Dei canti di religione melodiosi e soavi
giunsero al suo orecchio. Egli entrò nel santo luogo e ne usci tutto
commosso, cattolico, e cattolico fervente. Ma il sentimento religioso
non Ila soffocato in lui né l'amore delia patria, né l'amore della libertà.
Tutti questi affetti ei li ha sparsi ne'suoi scritti e da'suoi scritti li ha
fatti penetrare nell'animo della gioventù italiana. » E l'Andryane, nel
citato capitolo delle sue Memorie: « Manzoni, che imparai in appresso
a conoscere sì bene, a tanto ammirare per tutto ciò che me ne disse
il suo amico Gonfalonieri, mio compagno di sventura, e per tutto ciò
che ne lessi, ricuperata che ebbi la libertà. La speranza di trovarmi
con lui non si avverò; me ne dolsi nel carcere, e me ne dorrò sem-
pre;... perocché gli uomini che al par di lui riuniscono il genio alla
modestia, gli slanci sublimi del poeta alle umili virtù della pietà son
rari su questa terra, e in un secolo in cui la mente troppo spesso s'inalza
sulle ruine del cuore... Ancor più rari coloro clie possono, come lui, dir
coscienziosamente che non hanno adoperato l'alto ingegno di cui Dio
li forniva, se non per ispirare agli uomini l'amor della religione e del
vero. »
— 249 —
lano l'atto d'accusa di delitto d'alto tradimento dirotto dalla Com-
missione di Milano contro di lui e contro altri otto contumaci, e
l'intimazione di comparire innanzi ad essa entro il termine di
sessanta giorni, con minaccia del sequestro de'beni, se non si pre-
sentasse nel termine prescritto. Provvide allora con l'aiuto dello
avvocato Teste a far passare legalmente tutti i suoi beni in mani
amiche, nelle quali, osserva l'Arrivabene, sarebbero rimasti, se la
forza non avesse fatto violenza alle leggi. Verso il fine dell'anno
1822, l'Arrivabene riparava in Inghilterra; nell'autunno del 1823, fu
posto il sequestro sopra i beni di lui; il 21 gennaio 1824, egli veniva
condannato a morte in contumacia. Le memorie dell'Arrivabene
si conchiudono qui con le seguenti parole memorabili, scritte a
Brusselle nel gennaio del 1838 : « Posto io al contatto di una
maggiore piìi variata parte dell'umanità, e trovatala migliore che
non mi fosse parsa da prima, veduta di lontano a traverso la
nebbia dei pregiudizii nazionali, io sentii per questa e special-
mente pei miseri, un pii^i intenso amore. E lo spettacolo del
mondo esterno, e delle foggie diverse della società sviluppò la
mia mente; e l'attività intellettuale che regna nei paesi in cui
vissi, il bisogno di una occupazione che distraesse il pensiero dal
considerare le care cose perdute, quello della pubblica stima, tutto
ciò mi spinse a far uso di questa mente, conducendo a termine
alcuni lavori letterarii, i quali non furono forse affatto inutili al
mio paese, e dai quali derivai piaceri purissimi. Per essi princi-
palmente alcune teorie estreme, perchè create dalla sola immagi-
nazione non confrontata colla esperienza, entrarono nei limiti del
possibile, del praticabile ; e l'animo mio, senza rinnegare i sacri
principii di libertà, di giustizia, d'indipendenza nazionale si apri
alla tolleranza delle altrui sincere opinioni. Per essi, dopo una
lotta colle antiche abitudini, la quale, adir vero, non fu né lunga,
né dura, io presi quella di contentarmi del poco, e guardare piut-
tosto ai più miseri di me, compiangendoli, anziché ai più fortu-
nati, invidiandoli. Alle mie vicissitudini infine io sono debitore di
un bene che non può essere tenuto mai troppo in pregio da chi-
unque faccia caso della sua dignità d'uomo. Venuto a vivere in
paesi liberi, io mi trovai in una posizione politica franca, schietta,
sincera, perchè in armonia colle mie opinioni, le quali io potei
liberamente manifestare senza pericolo, o modificare o mutare,
per solo intimo convincimento, senza tema di essere tacciato di
ipocrisia o di viltà. »
Cosi l'Arrivabene ebbe la forza morale non al certo comune
— 250 —
di lasciarsi ammaestrare anziché avvilire dalla sventura; egli
sentì in esiglio come in mezzo ad un popolo civile straniero non
i suoi titoli, non le sue sventure avrebbero bastato a dargli con-
siderazione; potevano creargli intorno, al primo suo arrivo, una
aureola simpatica, ma non dargli autorità. Espulso dalla sua pa-
tria, egli si domandò se non fosse possibile adoperarsi a fare il
bene anche nelle sue condizioni d'esule e meritare la stima dei
suoi ospitatori, indipendentemente da ogni riguardo politico per la
sua persona. Giunto a Londra, si ricordò de'suoi poveri di Man-
tova, e incominciò a studiare in che modo fosse ne'pii istituti in-
glesi governata e trattata la poveraglia.
A Dino Carina, giovine e compianto economista che , nel pub-
blicarne un volume di Scritlì morali ed economici (1), scrisse
egregiamente della vita e delle opere del Conte Giovanni Arri-
vabene, l'Arrivabene soleva dire che i quattro anni da lui vis-
suti in Inghilterra eran bastati ad attaccargliil contagio del lavoro.
E, in vero, dal 1822 in poi l'esule illustre non ismise di lavorare,
e, quello che più importa, non lavorò mai per sé, ma per solle-
vare le miserie dell'afflitta umanità. Egli non è di quegli econo-
misti che si ridono delle leggi morali: queste anzi egli pone
come base necessaria e come principio alle leggi economiche ; la
giustizia è la moderatrice delle sue dottrine come de' suoi atti ;
perciò si debbono in lui egualmente ammirare la sapienza del-
l' uomo e la bontà dello scrittore. Non vi sono splendori nel suo
stile, come non vi è pompa nella sua maniera di vivere ; ma egli
prosegue innamorato alla ricerca del vero e al compimento del
bene; e in questo amore perseverante seppe grandeggiare. Ho
già rammentato nel Ricordo di Antonio Ranieri 1' operetta del-
l' Arrivabene intitolata Beneficenza della città di Londra, il primo
volume della quale (è in due volumi) pubblicato a Lugano nel
1828, ottenne il piìi lusinghiero suffragio, nelle lodi che gli rese
Pellegrino Rossi nella Reviie de Genève. L' anno seguente l'Arri-
vabene visitò le colonie dei mendicanti vagabondi neh' Olanda e
nel Belgio, che egli descrisse in francese; nel 1832 pubblicò a
Lugano un opuscolo sui mezzi pili projyri a migliorare la con-
dizione degli operai, ove consiglia l'aumento del prezzo delle
mercedi e la diminuzione delle spese che 1' operaio incontra, rac-
(1) Firenze. Civelli, 1870.
— 251 —
comandando poi come suprema salute lina isiruzìone per quanto
è possibile divulgata. Nel 1833, l'illustre economista Senior si ri-
volse all' amico suo Arrivabene, per avere la statistica del comune
di Gaesbek, nel Belgio, ove l'Arrivabene avea intanto fermato
la sua sede, ospitato e confortato dalla famiglia Arconati; l'Arri-
vabene si mise all'opera, e il lavoro di lui, che parve un modello
nel genere, meritò l'onore d'essere inserito negli Atti del par-
lamento britannico. Nello stesso anno, egli imprendeva a tradurre
in italiano gli elementi di economia politica del vecchio Mill; e nel
1836 pubblicava tradotte in francese e riordinate le lezioni d'eco-
nomia politica del Senior. Nel 1838, l'Austria proclamò l'amnistia
per i condannati politici; all' Arrivabene sarebbe forse stato pos-
sibile il ritorno condizionato in patria, ma non già il vivervi
senza sospetto e lo scrivervi ed operarvi liberamente. Avvezzo
oramai al civile reggimento del Belgio, egli desiderò rimanervi
e rendervisi utile, in fino a che la sua prima patria non fosse
veramente restituita in libertà. Per potere con più efficacia ope-
rare chiese ed ottenne diritto di cittadinanza nel Belgio, ove il
concorso benefico del nuovo cittadino fu ben presto sentito. Nel 1841
fece una corsa ne' luoghi che 1' avevan veduto nascere; nel 1843,
si ritrovò a Torino col Pellico. Soddisfatto cosi a quel primo biso-
gno del cuore, si dedicò di nuovo tutto a promuovere buone leggi
ed utili istituzioni nella sua seconda patria, troppo sapendo egli
come, alla lunga, il bene trionfi e pigli terreno più profondo e più
vasto che il breve spazio in cui fu gettato il primo seme bene-
fico. Nel 1846, in occasione di una grande carestia, egli suggerisce
ottimi provvedimenti, che vengono presi, per alleviarne i mali ;
nel 1847, promuove con altri il Congresso economico di Bruxel-
les; il Congresso pone le basi della Societcà economica del Belgio,
della quale l'Arrivabene viene eletto presidente ; questa Società
rese poi grandi servigi alla libertà per l'ostinazione con la quale
propose e difese le leggi del libero Scambio. E a questa Società
e all'Arrivabene in particolare si deve se il Belgio fu liberato da
quella gran piaga della vita economica italiana ch'è il dazio-consu-
mo. La Società di mutuo soccorso fra gli operai del Belgio elesse
r Arrivabene suo consigliere sorvegliante, la Società centrale
belgica d" agricoltura, suo vicepresidente, e, per i grandi servigi
da lui resi all'agricoltura nel Belgio, gli fece nel 1860 coniare
una medaglia inscritta al suo nome qual tèmoignage d' eslime et
de reconnaissance ; il Brabante lo proclamava nel 1850 suo con-
sigliere provinciale; il Consiglio d'igiene nominava l'Arrivabene
— 252 —
presidente della deputazione incaricata di presentare pubblici rin-
graziamenti al ministro dell' interno Rogier, per i servigi da lui
resi all'igiene pubblica; e l'Arrivabene estensore dell'indirizzo, vi
lasciava scritte queste nobili e giuste parole: « In nessuna epoca
della loro istoria i belgi non furono proclivi all'adulazione e lo
debbono essere ancor meno oggi che hanno il bene di vivere sotto
istituzioni che permettono loro di biasimare la condotta degli
uomini pubblici, per quanto alta sia la posizione loro, come di
applaudire alle buone azioni e ricompensarle. Egli è soltanto
quando il biasimo è permesso che la lode può avere gualche lu-
singa per gli animi elevati e pei noUli cuori. » Nel Belgio, l'Ar-
rivabene promesse ancora o meglio tentò dirigere ad utile scopo
l'emigrazione de' proletarii nella repubblica di Guatimala; pro-
mosse una società di panificazione economica, che, nel 1869, tentò
pure di far vivere in Italia; fu esaminatore negli esperimenti di
licenza dell'Istituto di commercio in Anversa; e, in somma, par-
tecipò nel modo più benefico alla vita pratica e morale del popolo
presso il quale egli avea, nella sventura, trovato rifugio. La fama
della considerazione della quale l'Arrivabene godeva presso i Bel-
gi, passò i confini del piccolo stato del buon re Leopoldo. Gli
economisti inglesi gli fecero frequenti dimostrazioni di onore;
l'Istituto di Francia lo elesse suo corispondente; il conte Cavour
gli mandò il 10 novembre 1852 le insegne di cavaliere mauriziano,
concludendo la lettera di partecipazione con le seguenti parole:
« Permettete che nel felicitarmi, io vi dica francamente che non
ho mai, da che sono ministro, firmato con maggior piacere un
Decreto, quanto feci segnando quello che vi collocherà sul petto
una patria beneficenza. »
Venne finalmente il 1859, e 1' Arrivabene, che sentiva come
quello fosse veramente l' anno della grande risurrezione d' Italia,
accorse sollecito in Piemonte. « Era un giocondo spettacolo,
così Dino Carina nello scritto citato, quello che si godeva a To-
rino del 59 e del 60. Quivi convenivano italiani d'ogni regione e
nelle liete speranze dell'età che si apriva erano dimenticate le
amarezze del passato. Tacevano le ire di parte, erano sospesi i
privati risentimenti; i migliori d'ogni provincia, esuli illustri,
valentuomini che avevano sofferto nelle prigioni di stato, cele-
brati sapienti, gli uni agli altri sol noti per le opere dell'ingegno
0 per la fama delle forti virtù, s'incontravano, si stringevano la
mano e confondevano insieme ricordi ed affetti, desideri e spe-
ranze. Sotto i portici di Po e di Piazza Castello era una festa
— 253 —
continuata ed i buoni piemontesi facevano gli onori di casa con
una cordialità senza pari. » Disponevasi 1' Arrivabene a concor-
rere in un collegio di Lombardia per aver l'onore di sedere come
Deputato nel primo Parlamento italiano, quando il Re prevenne
il desiderio di lui eleggendolo membro del senato ove l' illustre
economista Mantovano fu relatore di parecchie leggi importanti,
e presidente venerato di molti ufflcii. Institiiitasi poco dopo il suo
arrivo in Torino una società economica italiana, egli ne fu eletto
presidente; ricostituitasi la stessa con nuovi elementi in Firenze,
la presidenza veniva riconfermata all' Arrivabene. Il governo lo
eleggeva pure a presiedere la consulta di statistica, la commis-
sione incaricata di preparare un disegno di legge per l' imposta
sulla ricchezza mobile, e 1' ambasceria italiana che nel 1866 do-
veva recarsi al cospetto del nuovo Re de' Belgi, per esprimere le
condoglianze del Re d'Italia, nella morte di Leopoldo primo e
salutare l'ascendimento al trono del successore, tutti uffici d'onore
che l'Arrivabene, senza averli ambiti, sostenne con modestia de-
corosa. Liberata Mantova alfine dal giogo austriaco, nel 1866,
l'Arrivabene faceva ritorno alla sua città natale ed a' suoi campi,
ove, appena cessato il rumore delle feste che si fecero all' esule
concittadino che ritornava, egli intese subito alle sue consuete
opere di beneficenza, incominciando col fondare e mantenere a
sue spese, presso la sua villa di Roncoferraro, un asilo rurale;
poiché, qualunque aria respiri, cittadino o agricoltore, prigioniero
o libero, in Italia o in paese straniero, l'Arrivabene sente il biso-
gno d'amare, e di operare secondo ch'egli ama; e mentre a molti
sembra peso soverchio una patria sola, egli che n' ebbe due le
può amare entrambe, come potrebbe andare superbo di avere ad
entrambe fatto onore molto più ch'esse a lui.
XIV.
TERENZIO MAMIANI.
Tra le città delle Marche e delle Romagne nessuna s' illustrò
nel secolo nostro, per uomini insigni quanto la piccola e graziosa
Pesaro,
Pesaro gentile,
Picciola si, ma gloriosa e cara
, Alla gran madre Italia. (1)
Il conte Francesco Cassi, traduttore della Farsaglia di Lucano,
il conte Giulio Perticar! arguto, erudito, elegantissmio letterato,
Gioacchino Rossini e il conte Terenzio Mamiani della Rovere
ebbero i loro natali a Pesaro, che neppur oggi può dirsi priva di
studiosi, quando alle lettere vi attende ancora il coltissimo tra-
duttore del poema di Lucrezio, professore Giuliano Vanzolini, ed
alle scienze fisiche e naturali vi recano prezioso contributo i la-
vori del professor Luigi Guidi.
Il conte Mamiani novera gli anni col secolo, e come il secolo
non dà ancora segno di stanchezza e procede operoso al suo de-
stino, il filosofo pesarese prosegue le sue battaglie ideali e si af-
fatica nobilmente a salvare, fra le molte rovine che il tempo viene
accumulando intorno a noi, non già quello eh' è destinato a perire,
ma r amore e il culto del bello che giova a noi più che ad altri
mantenere immortali. ÌN'el vero, mentre una gran parte della gio-
(1) Mamiani, Inno a San Terenzio.
— 255 —
ventù romana dorme tuttora di sonno ignominioso, il Mamiani,
invece di posare sopra i suoi ben meritati allori, mostrasi non pur
senatore assiduo ed eloquente, provvido consigliere di Stato e
della pubblica istruzione, ufflcii proprii della veneranda età senile,
ma si ancora, con animo giovanile, nobile promotore di società filoso-
fiche e letterarie, e direttore animoso d'una rivista bimensile intito-
lata: La filosofia delle scuole ilaliaìie, nella quale egli continua il
pensiero della prima sua opera filosofica che trattava del Rinno-
vamento della filosofia antica italiana e di quella Accademia di
filosofia italica eh' egli pure fondava a Genova in casa della
Bianca Rebizzo, donna esemplare di cui parlerò più difìTusamente
nel Ricordo di G. B. Giuliani, nell'anno 1850; oltre a questo,
egli ripigliava nello scorso inverno l'insegnamento della Filo-
sofia della Storia nell'Ateneo di Roma, eh' egli avea già per
tre anni con molta eloquenza comunicato nell'Ateneo Torinese,
innanzi che il conte di Cavour lo invitasse ad assumere il porta-
foglio della pubblica istruzione. Perch'egli abbia riassunto l'antico
ufficio in Roma mi vien fatto palese da una sua lettera dello
scorso gennaio ov' egli non reca altra cagione se non il desiderio
di provarsi a « suscitare una larga e vigorosa vita intellettuale
nella città che fu capo del mondo » Desiderio degno di un'anima
grande, com'è quella del Mamiani, dalle opinioni filosofiche e dalle
politiche ancora del quale puossi bene, con molta reverenza, dis-
sentire, ma a cui conviene saper rendere questa suprema giustizia
che non v'è libro ch'ei scriva od ufficio ch'egli adempia, il quale
non sia mosso da un pensiero alto e generoso. Mentre, nel vero,
dai più si combatte per dividere, il nostro filosofo è inteso conti-
nuamente ad associare in platonica armonia gli aff'etti, le opinioni,
i sistemi più avversi. Nessuna meraviglia pertanto eh' egli sia
filosofo eccletico e politico unitario conciliatore ; eh' egli voglia
bene alla metafisica e non voglia male alle scienze sperimentali ;
ch'egli voglia bene al re e non voglia male al papa. In qualche filo-
sofo e politico volgare un tal modo di vedere darebbe forse sospetto;
in lui non ci offende punto; il segreto di questo privilegio, che lo
libera dal biasimo che incoglie, per solito, quelli che stanno so-
spesi, è nel convincimento di quanti hanno meditato su le opere
del conte Mamiani e conosciuto l'uomo egregio, che non lo può
vincere paura o viltà, ma si che lo domina costante un sentimento
divino dell' arte. Egli è innamorato delle linee eleganti, simme-
triche e concentriche, e ingegnosamente al suo centro ideale che,
per fortuna, sta molto in altO; conduce ed assimila quante più può
— :?56 —
linee diverse e fuggenti. Di Platone dicono che fosse graiKle poeta
prima di riuscire filosofo divino; del Mamiani può ripetersi die
in lui è sempre l'artista quello che tempera e misura ed ordina
le dottrine eh' egli viene professando come filosofo e come politico.
Vuoisi che Platone, ne' suoi viaggi in Italia, abbia derivata dagli
antichi italiani molta parte della sua sapienza filosolìca, ed è notis-
simo il libro del Vico che tratta dell'antica sapienza italica; il Ma-
miani si professa ammiratore e seguace del Vico; ma dal filosofo napo-
letano differisce pel culto religioso ch'egli ha della forma estetica la
quale il Vico ha bene sentito, ma non seppe come scrittore far sua
propria; la sostanza del pensiero di Terenzio Mamiani è italica; la
forma è attica, ma s'allenta ne'giri lenti e larghi del periodare roma-
no. L'oratore e lo scrittore ci danno aspetto d'un greco togato; i loro
movimenti sono graziosi e venusti, ma regolati sempre dal con-
tegno decente e solenne d' un antico quirite ; egli carezza il suo
lettore e il suo ascoltatore con la musica di parole soavi, elette,
spesso anche vivaci ed immaginose; ma le parole briose e saltel-
lanti hanno il loro correttivo nella severità del periodo grave-
mente impaludato, che le riduce poi tutte ad un solo tono armonico.
Io fui tra i fortunati uditori delle lezioni di filosofia della storia,
che il conte Mamiani, dopo averle meditate in sé, improvvisava
nell'Università di Torino, innanzi 1' anno 1860; non tenuto conto
dell' alta e sapiente interpretazione eh' egli vi faceva della storia
umana, egli veniva pur considerato da noi come un insigne maestro
di eloquenza ; incominciava umile e dimesso, come un tenue filo
d' acqua che minaccia di perdersi in mezzo a quelle erbe stesse
che lo aveano veduto nascere; ma, a poco a poco, il piccolo volume
s'ampliava e, d'onda in onda, si vedeva crescere maestoso e sonare
stupendamente in fiume reale dalle acque limpidissime; e noi, per
correre dietro all' incanto irresistibile della parola soave, scorre-
vole, e infine ampia e solenne del Mamiani, tanto insolita ci
sembrava, in un cattedratico, quella eloquenza, trascuravamo spesso
il contenuto, preoccupati dagli splendori di una forma nella quale
non sappiamo che il Mamiani abbia emuli.
De' meriti del Mamiani come uomo politico scrisse già il pro-
fessor Giuseppe Saredo ivq' Contemporanei del Pomba(l); del filo-
sofo parlò con molta competenza il prof. Luigi Ferri, nel secondo
volume del suo saggio in francese sulla storia della filosofia mo-
(1) Torino, 18G0,
— 257 —
derna italiana (1); rinviando a que' due lavori critici e biografici
il mio giovine lettore, io soggiungerò qui ancora alcune parole
intorno all' uomo di lettere.
Dalla dedica che nell'ottobre dell'anno 1834 il Mamiani faceva
da Parigi (ove gli avvenimenti del 1831, per la parte da lui presa
nel governo provvisorio di Bologna, lo avevano costretto ad esu-
lare) del suo bel libro sul Rinnovamento della filosofìa anlica
Ualiana (2), rilevo che, cinque anni innanzi, ossia nell'anno 1829, il
Magistrato di Pesaro aveva già fatto coniare una bella e ricca me-
daglia d' oro, in onore del suo concittadino Terenzio Mamiani, in
occasione di un discorso da lui detto ne' funerali di monsignor
Olivieri. Le prime dimostrazioni allo scrittore eminente gli furono
dunque, per un caso non ordinario, fatte nel suo proprio luogo na-
tivo. Del non aver tuttavia ritrovato quel discorso giovanile del Ma-
miani nel volume delle Pinose letterarie eh' egli rimandò benedette
alla luce in Firenze (oj debbo argomentare ch'ei lo comprenda ora
tra quegli scritti suoi giovanili che nella prefazione ad esso libro ha
condannati, discorrendo delle condizioni delle lettere in Italia innanzi
al suo primo esigilo: « le lettere cadevano in tale grettezza, che nelle
prose del Giordani si appuntavano parecchie mende di stile, ma nes-
suno accusava la tenuità de' concetti e la critica angusta e slom-
bata (4). Il Colletta era stimato dai più uno storico sovrano e poco
meno che un Tacito redivivo, ed altri istituivano paragone tra il
Guicciardini e il Botta, tra il Goldoni ed Alberto Nota; tali erano al-
lora il gusto e il criterio comune. Pochi grandi intelletti non man-
cavano neppure a quei giorni. Basti ricordare Bartolini nella scul-
tura; Leopardi e Niccolini nella poetica; Rossini, Bellini, Doni-
fi) Paris, 1869. — Dopo la pubblicazione del Ferri il Mamiani diede
ancora alla luce un lavoro notevolissimo di alta filosofìa, intitolato:
Medilazioni Cartesiane.
(2) Parigi, 1834.
(3) Firenze, Barbera 1867.
(4; Il Giordani, alla sua volta, il 30 luglio 1832, scrive intorno al
Mamiani a F. Grillenzoni : « Ella che ha visto i nuovi inni sacri di Ma-
miani (ch'io non ho visto) sa dirmi dov'agii sia? I suoi primi non mi
parvero gran cosa. E assai buono e gentil giovane; ma non mi parve
mai che potesse aver impeto nò profondità. » Certo ei non aveva la
furia del Piacentino, ma quanto a profondità gli poteva dare dei punti.
Il Giordani avrà probabilmente conosciuto il Mamiani per mezzo di
Leopardi che gli era amico e parente.
Ricordi Biogkafici 17
— 258 —
zetti nella musica. — A questa maniera io ed i coetanei miei
fummo allevati agli studii ; e io scribacchiavo versi e pedanteg-
giavo la mia parte senza pur dubitare un momento che rassomi-
gliassi alle oche piuttosto che ai cigni, e il saper mio era tutto
in frasucce rubacchiate ai testi di lingua e in alcun passo d' au-
tori latini tenuto a mente, e in poche generalità sconnesse e mal
definite su tutto quanto lo scibile. Ma non appena 1' esilio mi
astrinse a lasciare l'Italia e fui spettatore d'altro ordine di civiltà
e uditore d'altri maestri, subito mi si apri dentro 1' animo 1' oc-
chio doloroso della coscienza ed ebbi della mia ignoranza una
paura ed una vergogna da non credere. »
Pur non è qui a credere sulla parola al Mamiani; in un mo-
mento di sincerità eccessiva gli avvenne di dire de' suoi versi
scritti innanzi al suo esigilo troppo più male eh' essi non meritas-
sero, e eh' egli stesso forse noi pensi. Io mi ricordo aver letto nella
notevole prefazione al volume delle sue Poesie (1), alcune parole
da lui scritte che tradiscono un resto di tenerezza ben giustificata
per i primi cinque inni sacri opera dettata in giovanissima età ;
ecco in qual forma ne ha discorso egli medesimo: « Io poneva
tanto pregio nei dilicati fiori dell' eleganza, e più ancora nel sa-
per cogliere la forma ideale delle cose e ciò che vi si può sem-
pre scoprire di grande e di nobile, eh' io non disperava di cir-
condare di luce omerica persino le monachelle e le penitenti na-
scoste e chiuse negli eremi ; né da me era fuggito qualunque
soggetto più arido e, direi quasi, mortificato della mistica e del-
l'ascetica; avvisando a quell'arte medesima con che il divino
Coreggio trasmutava la sua Maddalena in una delle tre fanciulle
eh' ebbero altari ed incensi nella piccola Orcoraeno. Letti quegli
Inni da alcuno intendente, per questo propriamente li censurò
che i personaggi ivi verseggiati non erano Sante e Santi cri-
stiani, ma Iddìi e Dee simili a Diana, a Vesta, ad Apollo. La
stimai una grossa iperbole; tuttavolta, io ci vidi dentro qualche
parte di vero, e non so scusarmene interamente nemmanco oggi;
e s' io dicessi : o felix culpa, sentirei di commettere una profani-
tà. » In queste parole si contiene il miglior giudicio degli Inni
Sacri, ove, come in molti altri componimenti del Mamiani, la un-
zione è bensì Cristiana, ma l'intendimento artistico è tutto pagano;
di maniera che l'Autore ci fa pensare ad un nuovo Callimaco ri-
(1) Firenze^ Le Monnier 1857.
— 250 —
vestito da Virgilio, tuffato nel sacro Giordano e ribenedetto da San
Tommaso da prima e poi dal frate Cavalca, Come il filosofo, come
il politico, fu sempre eccletico anche il poeta; ma, a modo; poiché
egli non volle già intendere che tutto il bello come il brutto,
s' avesse a foggiare in una sola nuova forma mostruosa; avvertì
il bello ov' era e ne fece suo prò, e poi lo scaldò con sentimenti
civili ed italiani; egli vorrebbe fors' anco che si aggiungesse re-
ligiosi; ma i suoi angioli ed i suoi santi non sono abbastanza
diafani ed ideali, perchè ci inspirino maggior reverenza delle
gaie ninfe e de' vivaci genii d* Ellenia, ne' quali veramente e non
senza ragione il pensiero immaginoso di lui s' è ricreato.
Il Mamiani poteva, senza dubbio, seppellire nell' obblio le sue
Canzoni giovanili, le quali, con improvvida cura, invece, ristampò
nell'anno 1857 (1); ma fra i Jiwenilia vi è pure quella popolare
patetica romanza che s' intitola : Il menestrello Ualiano, e si tro-
vano i robusti dieci sonetti sui monumenti di Santa Croce in Fi-
renze, la dedica de' quali reca la data del 20 novembre 1828 da
Torino.
Ma l'esigilo veramente ritemprò il gusto del Mamiani e lo af-
finò; lontano dalla piccola patria-campanile, egli intravide tutta
la maestà della patria grande; lontano dalle brighe delle piccole
(1) Vi sono fra l'altre due canzoni, l'una del 1824, all'imperatore
Alessandro I, l'altra del 1828 all'imperator Niccolò I, nelle quali, per
amor della Grecia cristiana, il poeta invoca lo tzar contro gli ottomani ;
nella seconda di queste canzoni son versi di tal sorta: ai parla a Niccolò:
M' odi, e benigno dal Sarmazio trono
M' arridi, e d'ogni ver santo ch'io scopra
Lieto raccogli il suono.
Non bella sempre arte di pace splende,
E talvolta è virtute
Infiammarsi di sdegno e stringer l'armi.
L'autore di questi versi puerili dovea, a mo' d'ammenda, trentasei anni
dopo, pronunziare al Parlamento subalpino un mirabile e profetico di-
scorso nel quale si difendeva con calore il conte di Cavour per la parte
da lui fatta prendere al Piemonte in Crimea e poi al Congresso di Pa-
rigi, pronosticandosi l' imminente risurrezione di Italia. — Tra le can-
zoni, ve n'ha pure una dell'anno 1826 che descrive i vezzi della giovine
poetessa Caterina Franceschi divenuta poi celebre col nome di Fer-
rucci, l'illustre latinista di Pisa; le Muse hanno già da lungo tempo
perdonato al Mamiani questo altro delitto di lesa maestà apollinea.
— 260 —
scuole letterarie e dalla loro inclustre e minuta faccenda per in-
ventare sopra vieti stampi favelle strane e diverse, egli senti sola-
mente più l'eco solenne della grande duplice lingua naturale, l'an-
tica e la moderna, della magna parens; e però liberate le sue
prose ed i suoi versi da molti impacci, fissata la sua mente ad un
ideale grandioso, cantò poi e scrisse per tutta la vita con una
sola fede nell'animo e con un solo principio estetico nella mente;
Ebbe egli pure i suoi rari intervalli d'abbattimento e, se può dirsi,
di traviamento morale; l'AwsoHZO, per esempio, idillio eroico, ch'ei
si meraviglia e in parte si duole di veder poco letto e meno ap-
prezzato, non si direbbe cosa sua ; parrebbe scritto dopo una let-
tura agitata delle poesie di Byron; vi regna lo scontento; vi si
maledice alla vita, cosa insolita nel Mamiani che l'amò sempre,
poiché seppe pure renderla feconda di bene; tuttavia, anco in esso
vi sono momenti di sdegno magnanimo.
Ecco in qual modo si esprime l'esule Ausonio:
Borioso il guardo
Ohinan su me gli strani, e lor trofei,
', Di molto sangue e d'innocente aspersi,
Lor non sane dovizie e lor venture
Mi ostentano beati. Alcun mi stringe
"La destra e parla: — 0 da quel suol venuto
Bello e gioioso che gli aranci infronda,
, Nido gentil di veneri e d'amori,
Fa'ai nostri orecchi udir qualche melode
Recente e cara, e i facili gorgheggi
(Che il puoi tu sol) dell'uscignuolo imita.
, Dio de'miei padri, e sostenuto ài dunque
Nel tuo furor che tempo si volgesse
In cui sì fatto si terria sermone
Al disceso da Roma !
Ma il nome del Mamiani come poeta gli resterà veramente per
gli Inìii sacri, genere di poesia ch'egli, pur venendo dopo il
Manzoni, seppe trattare in una forma originale. Essi hanno rari
impeti, ma contengono spesso alti pensieri, e felici descrizioni ;
l'autore è cosi fatto, che ha bisogno di riscaldarsi, a grado, a
grado per arrivare al punto in cui egli troverà effetti singolari;
e lo sciolto è tal metro che poteva concedergli l'ozio necessario
per salire senza scosse improvvise al momento agitato della crea-
— 261 —
zione. Egli confessa bene d'avere nella sua giovinezza recitato
versi per improvviso; e si può facilmente credere, considerando
con quanta facilità e abbondanza egli discorra; ma se le parole
non gli fecero difetto, gli potè talvolta venir meno il fuoco che
dovea accenderle : che, se in prosa si può incominciare parlando,
e finire tonando, la poesia, la lirica in i specie, non offre gli
stessi vantaggi, e se non erompe tosto calda ed inspirata non at-
trae e non si sopporta. I carmi od inni del Mamiani, a motivo
del metro ch'egli coltivò con molto studio ed onore, richiedevano
quella calma meditativa, che gli era appunto naturale; e però ri-
mangono, nel genere loro, eccellenti esemplari di poesia, perchè
intieramente conformi all'indole particolare, agli studii e agli
amori del poeta, che vagheggiò sempre l'antico, servendosi del
moderno. Gli inni saci'i del Mamiani furono pubblicati a Parigi,
a spese dell'autore, con l'aiuto di alcuni amici i quali s'erano
adoperati a trovare soscrittori; tra questi amici, fin dall'anno
1833, troviamo in Piemonte, il Pellico ed il Gioberti (1). È noto
poi il bell'elogio del Mamiani che il Gioberti lasciò scritto nel se-
condo volume del suo Pìnmato: « Qual amatore di sapienza e di
eleganza non conosce e non ama Terenzio Mamiani? Si può egli
essere filosofo piìi penetrativo ed austero, poeta più religioso e
verecondo, più fervido e assennato adoratore della patria? Per-
sino in quel suo stile virgiliano e purissimo, leggiadro senza mol-
lezza, decoroso senza affettazione, e signorile senza arroganza,
trovi il ritratto del suo animo e della sua mente. » E il Gioberti
era buon critico.
Per un solo discreto vulume di versi il Mamiani regalò alla
letteratura italiana più di dieci volumi di prose ; taccio delle filo-
sofiche, non potendo io salire alle altezze ontologiche e metafisiche
nelle quali il Mamiani ama di frequente lasciare liberamente spa-
ziare il nobilissimo ingegno; non già che il nostro filosofo s'in-
volga in quel nebuloso linguaggio in cui la maggior parte degli
scrittori filosofici suole nascondere piuttosto che rivelare le pro-
prie cosi dette speculazioni , ma se io debbo far voto perchè i li-
bri di filosofia siano tutti scritti con quella forma nitida e venu-
sta che sa dare ai proprii il Mamiani, gli argomenti eh' ei tratta
a suo grand'agio sono troppo elevati, perchè la mia mento possa
(1) Cfr. nell'Epistolario del Pellico, una lettera da lui scritta al padre
G. G. Bogliiio.
— 202 —
lungamente sostenersi dietro i lunghi voli metafisici ch'egli fa pi-
gliare, nelle ore tranquille e solitarie delle meditazione, al suo
neo-platonico intelletto. Io comprendo gli slanci poetici della di-
vinazione che si edifica un mondo tutto ideale al di fuori del sen*
sibile ; ma i sogni per essere belli ed illudere non devono essere
troppo lunghi ; e io non comprendo la metafisica altrimenti che
come un viaggio fantastico nell'ignoto, dal quale si ha poi sempre
fretta di tornare alla poetica realità della vita; il giuoco delle
bolle di sapone stanca pure il fanciullo.
Intendo invece e gusto meglio le Prose letterarie del Mamiani;
esse sono più presso a noi e parlano di cose che convengono me-
glio alla nostra natura la quale può solamente speculare nell'ozio,
ma nel tumulto della vita operosa, ha uopo, sovra ogni cosa, di
manifestare la sua virtù operativa sopra oggetti immediati e pre-
senti, 0 almeno non troppo remoti dai bisogni più urgenti della
nostra vita civile. Ammiro quegli ingegni i quali s'alzano sopra
tutte le considerazioni del tempo e dello spazio, per imprendere
peregrinazioni divine nell'infinito; ma, se in questo mare senza
sponde il possente ingegno del Leopardi naufragava, chi può spe-
rare di veder tornare fra noi come uomini vivi gli ardimentosi
pellegrini di quel mondo sublime, che da lontano par qualche cosa
e, cercato dappresso, non si trova più, e si dissipa in parvenze vane,
prive d'ogni sostanza ?
Ma io m'arresto per timore che alcuno non mi faccia carico di
voler combattere quella filosofia alla quale ho già confessato can-
didamente che la mia mente non sa arrivare ; diciamo dunque
alcune altre parole delle Prose letterarie, che mi sembra d'aver
meglio comprese.
Nella Btngata di San Martino, frammento di una biografia che
reca la data dell' anno 1838, 1' autore coglie 1' cccasione per isti-
tuire una critica sottile delle lettere italiane in quel torno di
tempo. Quello che a me sembra più notevole in tale scritto è la
condanna del vezzo de' nostri letterati di ordinarsi facilmente in
iscuole, per le quali sopra un ingegno originale troviamo poi
centinaia d' imitatori, i quali ne sciupano l' opera. Lo schizzo che
il Mamiani vi fa delle nostre varie scuole letterarie, sebbene talora
volga in caricatura, mi sembra assai felice : ma il poema roman-
tico che segue, intitolato : Il Castello d'Ivrea, mostra ad evidenza
quanto l'arte sia più malagevole della critica; l' autore -pittore
rimpasta sulla sua tavolozza i colori di Hoffmann, di Byron, di
Hugo e di Harlincourt, e dal rimpasto vien fuori un mostricino;
— 263 —
il Mamiani lo produce, per verità^ col solo fine di burlarsi della
scuola romantica, eh' era allora in voga in Francia, e che il
Guerrazzi trapiantò in Italia; ma l'imitazione potevasi fare, mi
sembra, con miglior garbo. Lavoro più notevole, e un vero e
importante capitolo di storia critica della letteratura italiana, è la
prefazione stesa a Genova dal Mamiani per la edizione de' Poeti
italiani dell' età media, ossia dal cinquecento al settecento, che il
Baudry pubblicava a Parigi nell' anno 1818 ; essa reca il tono
grave d' una lezione accademica, ma ha di proprio la novità e ìa
franca disinvoltura de'giudizii, sebbene talvolta si potrebbe desi-
derare che ogni autore venisse considerato e pregiato secondo i
suoi molteplici aspetti, e non sotto quello peculiare che incontra
o no il gusto finissimo del critico. Cosa tutta bella ed eloquente è
r elogio del Re Carlo Alberto, scritto dal Mamiani a Genova nel-
r agosto del 1849, per mandato onorevole di quel Municipio. Al
Re Carlo Alberto il Mamiani avea nell'Inno a San Giorgio profe-
tato la guerra pel riscatto d' Italia :
Poi nel gran dì che allo stranier per sempre
Chiuse fian l'Alpi, e sol una Simiglia
Dal Tanaro all' Greto il ciel rischiari
Nel feroce antiguardo e presso a tale
Sceso d' Emanuelli e d'Amadei
Commiste andran Liguri insegne e Sarde,
A i bei rischi di guerra e di ventura
Sol fian leggiadre di valor contese
Meritate quassù d' alti diademi.
Per questi versi, il Re Carlo Alberto, contro il parere, anzi il
divieto espresso del Conte Solaro della Margherita, avea dato or-
dine perchè al Mamiani fosse conceduta la facoltà di rientrare in
Piemonte. Sedendo ministro di Pio nono a Roma nella primavera
del 1848, e poi nell' agosto dello stesso anno a Torino come uno
de' presidenti (con Gioberti) della Società della Confederazione
italiana egli avea servita lealmente la causa costituzionale dei Re
Sabaudi, ai quali desiderava più ampio regno, che sollecitasse il
compimento dell' unità italiana. Nessuno poteva quindi a Genova
lodare Carlo Alberto con maggiore sincerità. E però le parole di
lui riuscirono calde e piene d'efficacia, non meno che di dignità,
e da mettersi fra i più nobili esemplari che si conoscano nella
letteratura degli Elogi. I due discorsi proemiali alVAccademia di
— 264 —
filosofia italica da lui letti in Genova nel novembre degli anni 1850
e 1851, servono a darci il carattere del Maraiani come filosofo e
di tutta la sua scuola, nello studio che vi si pone a dimostrare
come la filosofia italica intenda all'armonia di ogni facoltà, come
il colmo della scienza sia il trovare accordo fra i contrari, come
la massima dignità nella vita dell' uomo appartenga alla filosofia,
e come la filosofia dovrebbe essere la sola legislatrice. Il Manzoni
si contenterebbe del buon senso ; ma il buon senso, come il Man-
zoni stesso lo ha detto, deve spesso stare nascosto per paura del
senso comune; e così avviene pure che si estimi dai filosofi ne-
cessario, ci si perdoni la parola meno rispettosa, il fare un po' di
rettorica speculativa, per mandare vestite in abiti più pomposi e
solenni, quelle ragioni ovvie che, senza la guida scolastica od
accademica d' alcuna filosofia, saprebbero guidare, senza troppo
strepito, al difuori di qualsiasi preoccupazione de' sistemi, i negozii
della vita cosi della privata come della pubblica. Non privo di
affettazione è 1' elogio di Antonio Rosmini, recitato dal Mamiani
nella ricordata Accademia, il quale tuttavia merita un riguardo
specialissimo per le abbondanti lodi con le quali il filosofo Pesa-
rese prosegue il Roveretano, che avea pur censurato severamente
il libro del Mamiani Bel Rinnovamento della antica filosofìa ita-
liana; volgendosi allo spirito di Antonio Rosmini, egli vi si
esprime in' questa forma: « E ancora che tu fossi altrettanto schivo
di cogliere lodi e riscuotere omaggi, quanto eri ambizioso e sol-
lecito di meritarli, forte mi grava che tu potessi a qualche segno
ingannevole reputarmi ingrato o non abbastanza riconoscente
a' tuoi benefizi; posciachè io voglio e debbo chiamare di cotal
nome e la gran fama che procurasti al sapere italiano e le dot-
trine sostanziose e molteplici che ò attinte ne' tuoi volumi e quegli
insegnamenti profondi che tu m' imparasti scrutando e censurando
dottissimamente un libro mio giovanile ed informe ; e ben ti dico
che quanto ò di poi profittato nelle razionali contemplazioni, se
pure alcun minimo che ò profittato, io il debbo per intero al sin-
dacamento esatto e minuto che far ti piacque di quel mio scarta-
bello. » Mettiamo pure che qui il Mamiani pecchi per modestia
soverchia, e che un libro di oltre cinquecento facciate da lui
preparato in più anni, e dal quale egli s' ebbe pure come filosofo i
primi onori, sia mal chiamato uno scartabello; ma, poich'è più facile
il trovare chi si vanti che non l'imbattersi in chi domandi scusa,
specialmente poi quando chi si scusa, sia uomo vago del suo buon
nome^ e degno di quel nome, la modestia, anco eccessiva, del Mamiani
— 2G5 —
provetto e glorioso può insegnare ai giovani, la paura non già né l'in-
fingimento, ma quella modestia opinione intorno a sé stessi, che è
necessaria sempre a progredire, che sola è prova di senno, e che fini-
sce poi sempre per conciliar simpatia. Lo scritto che s'intitola Della
Scienza politica in Francia è un'estesa ed accurata analisi del-
l' opera del conte De Carnè sulla Storia del Governo rappresen-
tativo in Francia dal 1789 al 1848. Due lettere dirette nel 1842
da Parigi ad un Torinese, difendono l'italianità e l'eleganza della
nostra letteratura ; ed esse non potevano trovare apologista più
degno del Mamiani, sebbene vi si trovino certi inutili rimpianti,
come, per mo' d' esempio, che i Promessi Sposi del Manzoni sot-
tostiano « in proprietà e in fiori di bel parlare all' ultimo dei no-
vellieri del cinquecento. » Il Liuto è una singolare e ingegnosa
ma freddamente erudita divagazione filosofico-letteraria nel trecento,
sulle traccie di Guido Cavalcanti che anzi n' é supposto autore ;
ma 1' arte del Mamiani ne tradisce il vero autore dalla prima al-
l' ultima pagina. L' elegante discorso intorno a Carlo Troya, letto
dal Mamiani nell' adunanza solenne dell'Accademia della Crusca
del 2 di settembre 1860, in occasione del suo ricevimento nel seno
della medesima, termina con queste parole inspirate : « Questi
nostri Appennini non si frappongono ora più alla pupilla eterea
di Carlo Troya ; e forse gode egli un prospetto e una scena de-
gnissima della vista degli immortali. Forse in questo punto che
noi parliamo, scorge annullato per sempre e non col ferro o col
sangue, ma per l'efilcacia tremenda dell'universa riprovazione, un
reggimento iniquissimo che altri chiamò la negazione di Dio;
scorge gran parte della famiglia italiana cancellare in un giorno
solo le discordie e separazioni di venti secoli ; e il più generoso
rampollo dei Berengarj salutato monarca della primogenita dello
nazioni civili. » Il Mamiani possiede mirabilmente l'arte de' fer-
vorini che provocano l'applauso; come accademico, come profes-
sore, come oratore, come ministro se ne valse frecj[uentemente e
con suo grande vantaggio. Cosi il discorso col quale il Mamiani
ministro apriva l'Accademia scientifico-letteraria di Milano si con-
chiudeva, stupendamente, raccomandando ai giovani tre cose delle
quali la risorta patria italiana ha necessità suprema : armi, sa-
pienza, e virtù. Né per tali discorsi soltanto si distinse il Mini-
stero del Mamiani; ma egli colse pur l'occasione, e cosi l'avessero
secondato i colleghi e i successori di lui, per purgare la lingua
burocratica da ogni barbarie, e ridarle una linda veste italiana;
le sue note ministeriali hanno, per questo riguardo, un pregio
— 266 —
singolarissimo. 1 Rimesso dal Mamiani il portafoglio della pubblica
istruzione nelle mani del Re, l' illustre Pesarese, come « veneratore
d'ogni perfetta bellezza e adoratore dell'arte divinamente inspirata »
veniva destinato ambasciatore d' Italia ad Atene ; e di là egli in-
dirizzava due lettere elegantissime e ripiene di poesia^sopra l'Acro-
poli e le Antichità d'Atene ; e sosteneva poi gii studii archeo-
logici del giovine Antonino Salinas (ora distinto professore di
numismatica nell'Ateneo di Palermo) che il Ministro Amari gli
aveva particolarmente raccomandato. Dopo 1' ambasciata dAtene,
e quella di Berna, fu il Mamiani due volte vice-presidente del
Senato, ministro degli studii sotto il governo provvisorio della
nuova Roma redenta, e relatore in Senato della celebre legge sulle
garanzie. In ogni atto della sua vita pubblica, come ne' suoi scritti
egli avvertì sefnpre di recar decoro e buon gusto. Lo scrittore è
artista, sebbene talvolta conduca 1' arte fino all' artificio ; cosi il
gentiluomo è cortese, sebbene talvolta la cortesia divenga in lui
alquanto cerimoniosa; egli ha, come ogni uomo originale, i difetti delle
sue buone qualità, le quali mi parvero sempre molte ed invidiabili;
è diffìcile, in vero, trovare un ingegno più limpido, un animo più
affettuoso, un senso più delicato e squisito del bello, una sapienza
più vereconda , alcuno finalmente che nelle sue manifestazioni
esterne adoperi una più gentile estetica di quella che nella vita e
negli scritti adopera il conte Terenzio Mamiani della Rovere.
XV.
PIETRO SELVATICO ESTENSE.
Dopo un patrizio poeta, piacerai rammentare un patrizio arti-
sta. Se Roberto d'Azeglio fosse ancora in vita, invece di un solo
insigne critico d' arte, avrei dovuto presentare due patrizii che, se
bene per vie diverse, coltivarono entrambi con onore nella nostra
letteratura un genere che, dopo il secolo decimosesto fino a que-
sti ultimi tempi, era rimasto assai negletto. Che, se molti letterati
anco nell'età nostra scrissero d'arte e in ispecie delle arti del di-
segno, assai pochi furono quelli ai quali si potesse dagli artisti
concedere autorità di ragionarne. I discorsi accademici del Gior-
dani, il libro sul Bello del Giordani, le lezioni d'estetica del Nic-
colini, dell'Emiliani-Giudici, dell' Aleardi, di Antonio Tari e di Vin-
cenzo De Castro, le Lettere a Maria di Giovanni Prati sulla mo-
stra di Torino, il volume di Francesco Dall'Ongaro sull'arte alla
mostra di Parigi, il libriccino di Augusto Conti sul Duprè furono
opere letterarie meritamente pregiate, e probabilmente resteranno
tutte nella nostra letteratura ; ma, se esse aiutano l'inspirazione
dell'artista, e valgono certamente ad elevarla, non bastano poi
ad illuminarlo ne' segreti della sua tecnica, ed a raddrizzarvelo
ov'egli abbia errato. A ciò occorre che, prima di scrivere, il cri-
tico abbia appreso almeno un poco in che modo l'arte si faccia o,
come si usa dire, conosca almeno la grammatica artistica. Un cri-
tico d'arte che si fidi al solo suo gusto, mi dà immagine di quel
maestro di canto, il quale si fidasse al solo suo orecchio, senza
aver appreso la musica. E con ciò non voglio punto dar ragione a
que'pittori e scultori i quali tacciano d'incompetenza ogni giudizio se-
— 268 —
vero che sìa proferito sull'opera loro da'letterati, i quali tuttavia sono
sempre riconosciuti competentissimi quando abbiano parlato dell'o-
pera loro in termini lusinghieri. Chi ci loda, per l'ordinario, ha sem-
pre ragione, e chi ci biasima sempre torto; è una verità antica ma che
pure non invecchia mai. Io credo invece che anco il letterato, quando
sia uomo d' iogegno e di gusto, possa giudicar rettamente di tutto
ciò che forma la parte ideale di una composizione,ed accorgersi pron-
tamente di certe sproporzioni, di certe stonature, di certe scon-
venienze che guastano l'impressione. Ma il letterato non è poi
atto a rendersi ragione de'mezzi adoperati dall'artista nell'opera
sua; che alla critica di questa parte importante di ogni composi-
zione, deve soccorrere una scienza speciale la quale non s'acqui-
sta, se non esercitando l'arte stessa, o, almeno, tenendo minu-
tamente dietro, nello studio de' pittori, degli scultori, degli archi-
tetti, al processo de' loro lavori. E' in tal modo che i Cavalcasene,
i Boito, i Dalbono, i P. Giusti, gli Azeglio, i Selvatico poterono,
come critici d'arte, farsi valere per i nostri artisti non meno che
per i nostri letterati.
Il marchese Pietro Selvatico Estense nacque figlio unico di fa-
miglia non ricca ma discretamente agiata a' 27 d'aprile dell'an-
no 1803. Il professor Ludovico Menin, che avea attitudine
alle scienze non meno che alle lettere, e che era stato pro-
fessore di fisica nel seminario padovano, prima di occupare la
cattedra di storia nell'Università di Padova, si recava in casa
Selvatico, per ammaestrarvi il giovine Pietro nelle scientifiche e
nelle letterarie discipline. E lo stesso maestro istruì il Selvatico
fino all'età di dicìanove anni, educandone particolarmente il gusto
all'amore dell'antiche eleganze. Ma fin dalla sua età di undici anni
il giovinetto Pietro avea spiegata una forte inclinazione alle arti
del disegno, e vi si era dedicato con amore, se bene il suo primo
maestro non fosse de' migliori. Ma, in breve, egli ebbe la ventura
di conoscere il celebre pittore di quadri storici Giovanni Demin,
che era venuto a lavorare in Padova, e d'istruirsi alla sua scuola,
di maniera che si trovò presto in condizione di potere dipingere
egli stesso quadri di una considerevole grandezza. Ma, più ancora
che alla pittura, spingevalo l'indole del suo ingegno all'architettu-
ra, nella quale egli si erudi quindi particolarmente per la intrinsi-
chezza, nella quale visse col valente architetto Joppelli. Il suo
studio fu allora rivolto a mettere in armonia fra di loro le arti
della pittura e della architettura; alla prima domandò che fossero
studiate le leggi della prospettiva e della geometria; alia seconda
— 269 —
che osservasse ne'siioi prospetti quella eleganza, quella finitezza,
quel buon gusto nel disegno che si ricerca con ragione dai pittori.
Il Selvatico intraprese quindi lunghi viaggi per amore dell'arte,
in Italia da prima, ch'egli corse e ricorse più volte, osservando,
discutendo sopra i monumenti e sopra la loro storia, non meno
che sopra le scuole ove l'arte s'insegnava. Dopo l'Italia visitò an-
cora gran parte di Europa, e ne ritornò ricco di dottrina, e sovra
tutto di alcune nuove idee pratiche ed originali, con le quali
egli s'accostò, forse primo in Italia, a trattare scientificamente la
critica d'arte. Dichiarò guerra alle accademie com'esse erano or-
dinate fra noi, e all'educazione tutta convenzionale che gli artisti
vi ricevevano ; insistette con sapiente ostinazione sulla necessità
di dare la scienza come fondamento all'arte ; combattè animoso
contro tutto ciò che nell'arte si presenta come ozioso e falso, pre-
dicando primo la necessità di una stretta alleanza fra l'arte e
l'industria. Era a prevedersi che una tal novità di critica avrebbe
suscitato vive polemiche, e le suscitò di fatti ; e fu fortuna ; poi-
ché da quelle battaglie nelle quali, rispondendo, con vivacità, a'suoi
oppositori, il Selvatico, che difendeva i diritti della ragione e del
buon senso, sorti sempre vincitore, dobbiamo ripetere le riforme,
che lentamente si e con molta difficoltà, ma che pur, di grado in
grado, si vanno pure operando nelle nostre scuole artistiche.
Il Governo della Venezia sperando forse vincere con l'alletta-
mento d'un lucroso duplice impiego accademico il temuto riforma-
tore, chiamò nel 1850 il Selvatico a reggere l'Accademia Veneta,
ed a coprirvi il posto di estetica e di storia d'arte, poi, nel 1855,
a supplire per un anno alla cattedra di architettura rimasta va-
cante, poi finalmente ancora a visitare, come ispettore, le scuole
di disegno nelle provincie venete. Io so che da alcuno si fece ca-
rico al marchese Selvatico per avere accettati quegli uffici i acca-
demici, rnentr'egli aveva sempre avversato le Accademie, e che lo
si accusò pure di poco amor patrio per averli accettati dall'Au-
stria. Ma, al primo degli appunti de'suoi avversarli, probabilmente
accademici offesi dalle teorie riformatrici e sovra tutto dalle vive
polemiche del Selvatico, il nostro critico può rispondere ch'egli
entrò in un'Accademia appunto per mettere in atto le sue idee
e sostituire di fatto un insegnamento scientifico dell'arte ah' in-
segnamento empirico ch'era prima in vigore; al secondo appunto
egli opporrà che, nell' anno 1858, quando gli parve che il Go-
verno volesse avversare i suoi principii d'arte, e quando, di più,
si richiesero da lui, come da ogni capo d'ufficio, poliziesche infor-
— 270 -
mazioni sovra la condotta politica de' maestri e degli alunni, abban-
donò sdegnato ogni maniera d'ufflcii, e tornò alla pace della vita pri-
vata e a' suoi poveri campi, ove, oltre al dolore di veder tuttora
schiavo il suo luogo nativo in mezzo all'allegrezza di tutta l'Ita-
lia liberata, provò ancora quello di rimanere, per tre anni, a mo-
tivo di una cataratta, privo della vista, onde dovette rinunciare
alle sue occupazioni predilette, a' suoi studii più geniali. Ma que-
gli anni dolorosi gli furono almeno confortati dalle più vive e pre-
ziose dimostrazioni di amicizia. Tra gli amici del Selvatico io ne
rammenterò qui uno solo, perchè quel solo che ho conosciuto mi
parve ed era uomo grande; io voglio dire il conte Andrea Cit-
tadella Vigodarzere. Io dirigeva, nell'anno 1869, da Firenze la
Rivista Contemporanea di Torino, ed abitavo sulla Piazza Santa
Maria Novella. Un mattino (si era nel mese di gennaio) odo pic-
chiare all'uscio, ed apro io stesso ; veggo entrare un gentiluomo
distinto, che, pur nella sua età senile, serba l'elegante disinvoltura
di un bel cavaliere ; mi porge con tutta cortesia uno scritto del
Selvatico e fa per congedarsi. Ma il suo volto m'ha colpito ed at-
tirato ; io lo prego d' indugiare un istante e di sedere ; egli
consente; ed io lo guardo come alcuno che desideri indovinare
chi egli sia ; ringrazio dello scritto del Selvatico, ed esprimo
la mia riverenza per l'eminente critico padovano; egli conferma;
io vorrei ch'egli dicesse di più, desideroso di persuadermi d'un
caro presentimento che ho già nell'anima ; egli parla con tanta
grazia, con tanto spirito, e con un gusto cosi perfetto ch'io
m'accorgo bene di stare innanzi ad un uomo d' ingegno su-
periore; alfine mi faccio coraggio, e dico; « è al conte Citta-
della Vigodarzere ch'io ho l'onore di parlare ? » Il conte s'alza
e soggiunge in fretta « il mio nome è solamente quello d'un
povero uomo di buona volontà »; quella risposta mi fa temere un
istante ch'io mi sia ingannato, ma pur sento bene di non essermi
ingannato in questo ch'io sto presso ad un uomo grande, e, nel
salutarlo, gli faccio intendere che in ogni modo, scriverò al mar-
chese Selvatico per sapere chi egli sia, poiché innanzi a nessun
uomo ho provato fino allora un sentimento di riverenza più sim-
patica e più religiosa ; allora il conte : « non istia a scrivergli, ed
a Lei, buon signore, basti il sapere che il mio nome è Andrea ».
Cosi l'interessante enigma fu sciolto (1). Io non avevo mai visto
(1) Per meglio assicurarmene volli tuttavia scriverne particolarmente
al Selvatico, il quale il 1" di febbraio del 1859, si compiaceva rispon-
— 271 —
il Cittadella, né alcun ritratto di lui, né pur sapevo ch'ei fosse in
Firenze ; ma nella sua persona, nel suo sguardo, in quella nobile
figura io aveva letto, come per inspirazione, il suo nome e l'es-
sere suo. Seppi poi ch'egli abitava sulla stessa Piazza di Santa
Maria Novella, e in quella casa, ove sorge ora l'Albergo della Mi-
nerva. Dopo quel primo singolare ritrovo, lo rividi naturalmente
alcune altre volte, e lo amai e lo venerai più e più sempre come
uomo che aveva in sé assai più del divino che dell'umano; e se
la morte non era così pronta a rapircelo, io avrei goduto del pia-
cere ineffabile di conversare con quel cavaliere incomparabile, come
di nna fra le supreme felicità della vita concesse a noi popolo di
sognatori; ma cosi non volle il suo destino ed il mio, onde a me
non resta se non il dolore di rimpiangere amaramente una per-
dita che all'Italia ed a Padova in ispecie fu crudele, ed il conforto
di richiamarmi con la memoria ai pochi ma dolci colloquii avuti
dermi nella forma seguente : « Chiarissimo Professore, Precisamente
Ella ha indovinato ; la persona che La trattava sì piacevolmente è il
mio amicissimo (siamo intimi da 40 anni) Conte Andrea Cittadella Vi-
godarzere Senatore del Regno, ed uomo ammirando sotto tutti gli aspetti.
Riccamente agiato, fu sempre di una beneficenza fruttuosa e larga per
la sua Padova. Studiosissimo della legge e della letteratura, fecondò
quegli studj col fertile ingegno, ed è quindi scrittore in prosa e poesia
forbito, elegante, dotto. A questo si aggiunge una rettitudine intemerata,
una sincerità ed un amore proficuo alla sua numerosa famiglia che Io
rende modello de' padri. Educò presso di sé i suoi otto figli, e fece cari
esempii di cultura e di gentilezza quelli già adulti, il maggior de' quali
ha già 26 anni. Ha un solo difetto : una gran propensione per due sorta
di aristocrazie...; quella dell'onestà e l'altra dell'ingegno, e un gran
disprezzo per la famosa dai magnanimi lombi, se, come il solito, è
impastata di grulleria, d'ignoranza e di cocciutaggine. Eppure questo
vero tipo del buon cittadino non venne dal suo paese convenevolmente
apprezzato ; e, quando le sorti nostre mutarono, i quattro soliti che^
nella baraonda, si impongono ai 40,000, gonfiati da quella vescica diplo-
matica che si chiama il ; quei quattro, dicevo, che avean pur tante
volte ricorso per aiuto al mio amico, gli voltaron le spaile, e ci mancò
poco che non gli gridassero il crucifige. Se non che la parte sana del
paese, rincacciò nel pantano le rane, e gli si rese giustizia: meno male:
almeno una volta. Ci vada, Egregio signore... » e qui il marchese Selva-
tico si degnava aggiungere alcune amabilità a mio riguardo, facen-
domi sapere come il conte Cittadella abitasse a sole tre porte dalla
mia dimora.
— 272 —
insieme, ne' quali tornò sempre onorato il nome del marchese
Selvatico, cui io doveva l'onore del primo incontro col Cittadella.
Dopo tre anni di sofferenze, il Selvatico, essendosi sottoposto
ad una operazione che riuscì felicemente, ebbe la fortuna di racqui-
star la vista e di poter fare ritorno agli studii ch'egli avea con
vivo rammarico intermessi, e prender parte a commissioni ed uf-
flcii ai quali, per risolvere questioni d'arte, fu invitato dalla fidu-
cia del Governo italiano e dal Municipio di Padova. Se non che
mi sembra il Governo avrebbe potuto e dovuto fare assai più per
dimostrare al primo critico d'arte che vanti l'Italia quell'ossequio
ch'egli s'è ben meritato, e che i giovani artisti educati sopra i
libri del Selvatico gli consentono unanimi. Mi sembra almeno,
per dire un esempio, che, in un consiglio della pubblica istru-
zione, ove siedono meritamente a giudicar d'arte i Mamiani, i
Carcano, gli Aleardi, i Prati, i Coppino, i Tenca, i Giorgi-
ni, i Villari, i Bertoldi, ed altrettali valentuomini, degnissimi
dell'onore che lor venne conferito, sarebbe al suo posto anche un
Selvatico ; né mi pare che il Ministero della pubblica istnizione
si dovrebbe rovinare se sopra i dicianove milioni di lire ch'esso
ha da spendere annualmente per l'istruzione, allargasse il misero
fondo di trenta mila lire stanziato pel suo maggior Consiglio a
fine di circondarsi di alcuni nuovi consiglieri, i quali non vi an-
drebbero certamente a far numero, ma a crescergli utilità e pre-
stigio. L'Istituto Veneto, col nominare, come dicesi, suo membro
effettivo, il marchese Selyatico, gli attestò rispetto e gratitudine
in nome della Venezia; il Municipio di Padova, col lasciarlo ar-
bitro nella Direzione gratuita ch'egli generosamente assunse di
una scuola comunale di disegno a vantaggio degli artigiani, at-
testa assai bene l'ossequio che esso deve al suo illustre concitta-
dino. Resta che l'Italia tutta si ricordi come la modestia, il ri-
serbo, il decoro che un uomo eminente possa volontariamente im-
porsi non iscusano punto della loro indifferenza e trascuranza i
lontani ; che quanto meno egli non cerca gli onori, questi de-
vono tanto più cercar lui. (1)
(1) Soggiungo qui una tavola de' più notevoli ediflcii ideati e diretti
dal Selvatico come architetto, e de' lavori principali da lui pubblicati
come critico :
Lavori architettonici:
1. La facciata della Chiesa di S. Pietro in Trento, di stile gotico or-
natissimo, tutta di marmi paesani.
- 273 -
2. Altare maggiore con apparato, per la chiosa di Mezzolombarda
(Tirolo) stile lombardesco.
3. Chiesa od edicola mortuaria, per la famiglia dei Conti Pisani,
nella villa di Vescovana (Padovano) ; stile inglese elisabetiano.
4. Chiesetta di stile gotico, pel giardino di Fonteviva (Padovano)
della famiglia Cittadella Vigodarzere.
5. Uno dei grandi altari di marmo, con colonne e molto ornamento
per l'Arcipretale di Legnano (stile del cinquecento avanzato).
6. Due casini di campagna, di stile inglese, sui colli vicentini.
Principali lavori letterarii a stampa :
1. La Cappellina degli Scrovegni in Padova, ed i freschi di Giotto
in essa contenuti, con molte incisioni in rame su disegni dello stesso
Selvatico. Padova, 1836 (un voi. in 8" di pag. 280), stupendo modello
d'opera descrittiva.
2. Sull'educazione del pittore storico odierno italiano, Pensieri, Pa-
dova 1842. Un voi. di 800 pagine, opera che parve in quel tempo
rivoluzionaria, e che nella storia dell'arte nostra meriterà sempre una
pagina importante.
3. L'architettura e la scultura in Venezia. Milano, Ripamonti 1847.
Un voi. di 500 pag.
4. Storia estetico-critica delle arti del disegno. Venezia 1852-56.
Due voi., l'uno di 630, l'altro di 1000 pagine. È una scelta delle lezioni
fatte dal Selvatico nell'Accademia Veneta, e vi si rende manifesto che il Sel-
vatico per entrare in un'Accademia non vi portava idee accademiche.
5. Scritti d'arte. Firenze, Barbera, 1859. Un voi. di pag. 400. Ogni
studioso d'estetica lo ebbe fra le mani ed ebbe occasione di ammirare
non meno la eleganza dello scrittore che la sapienza del critico.
6. Arte ed Artisti. Padova 1863. Un voi. di pag. 500.
7. L'Arte nella vita degli artisti, Racconti. Firenze, Barbera 1870.
Un voi. di pag. 500; ha l'attrattiva di un romanzo storico, e getta molta
luce sopra alcuni punti della vita artistica del trecento e del cinque-
cento, della Venezia in ispecie.
8. Guida di Venezia )
9. Guida di Padova \ ^"® ^®^' modelli di guide artist. municipali.
10. Il disegno elementare e superiore ad uso delle scuole, opera
premiata al Congresso pedagogico di Venezia ; un voi. di 300 pag. con
litografie, che reca il succo di tutte le migliori idee professate nella
sua lunga e laboriosa carriera artistica e letteraria dal marchese Pie-
tro Selvatico.
Ricordi Biografici 18
XVI.
FEDERICO SCLOPIS.
Era per me, a dirla col beniamino de'nostri scrittori, una ten-
tazione tentante, tener qui discorso del conte Federico Sclopis,
ne'giorni ne' quali tutto il mondo civile teneva rivolta la mente
al Congresso arbitrale di Ginevra, od attendeva ch'esso, per la
parola autorevole del proprio presidente, desse suprema sentenza
del dritto e del torto nell'ardua e tormentata questione anglo-ameri-
cana àeW Alaliama. Ma, se, per un verso, è probabile che i miei
lettori avrebbero letto con maggior curiosità il presente breve
Ricordo, or sono alcuni mesi, io credo ch'essi e lo Sclopis non
disprezzeranno le ragioni che mi determinarono a tralasciare
quell'occasione. In que' giorni lo Sclopis ci dava specie d'un po-
tente, al quale si concede, per solito, la lode in ragione della po-
tenza che gli si riconosce. Un semplice privato assunto ad un
tratto alla dignità di giudice conciliatore fra due potentati stra-
nieri, acquista egli stesso una certa maestà regale. E poiché non
vi è maestà imperante che non veda formarsi intorno a sé, pic-
cola 0 grande ch'essa sia, una corte, anche lo Sclopis dovette ac-
corgersi, ne'giorni più gloriosi della sua vita, ch'egli poteva con-
tare sopra un certo numero di cortigiani. Io ho applaudito, come
ogni amico del progresso, al trionfo della giustizia ch'ebbe la sua
sanzione solenne nella sentenza del tribunale di Ginevra; ma non
ho creduto opportuno parlare di lui in que'giorni. Che se fu, in
gran parte, suo merito il definitivo componimento della questione
([e\V Alabama, se fu per riguardo alla molta dottrina e alla fama
di lui che i colleghi del Congresso arbitrale gli conferirono la
— 275 -
presidenza, se il Re d'Italia nel deputare lo Sclopis a far parte
di quel Congresso ebbe la più felice ispirazione, conviene in que-
sti casi far la sua parte alla fortuna, che mise in quell'occasione
lo Sclopis in particolare evidenza presso il suo sovrano. In ogni
modo poi la gloria conseguita dallo Sclopis a Ginevra era la con-
seguenza fortunata di quella grande e legittima considerazione
ch'egli s'era acquistata come storico, giureconsulto e uomo di
stato, per arrivare alla quale egli avea invecchiato nella medita-
zione e nel lavoro. (1) Egli poteva non pigliar parte in questa prima
serie di Ricordi consacrati ai più illustri veterani viventi della
nostra letteratura, ove non avesse avuto altro titolo che il trionfo
di Ginevra; vi avrebbe invece preso posto onorevolissimo, anche
senza quel trionfo, che venne solamente a confermare al mondo
civile quell'insigne valore che in casa nostra eravamo già in ob-
bligo da lungo tempo di riconoscergli.
(1) Terminato felicemente il Congresso, lo storico Cesare Cantù sten-
deva un bell'indirizzo in onore dello Sclopis, che veniva tosto coperto
in Lombardia da un gran numero di firme; e il Re d'Italia indirizzava
allo Sclopis, che, come cavaliere dell'Annunziata, gli divenne cugino,
la onorevole lettera seguente :
« Caro conte Sclopis,
« Per corrispondere al desiderio espressoci da due grandi nazioni,
risolute di trovare nelle decisioni d'un Consiglio d' arbitri il componi-
mento pacifico di una causa che resterà celebre nella storia del diritto
delle genti, Noi vi abbiamo nominato a sedere giudice in quel tribunale
di cui i colleghi vostri vi vollero presidente. Il lustro che dal vostro
nome riceve la Facoltà di giurisprudenza torinese, i meriti acquistati
nelle cariche della magistratura giudiziaria, nei piìi alti uffici ammini-
strativi e politici dello Stato, la fiducia inimitata che poniamo nel vo-
stro carattere e nella devozione vostra per la nostra Persona, ci gui-
darono nella scelta. E voi fra il plauso universale, vinte con prudente
accorgimento e con 1' autorità morale del Consesso da voi presieduto,
difficoltà gravissime, poteste annunziarci compiuta un'opera che le na-
zioni salutano come esempio di civiltà. Della parte distinta che face-
ste alla patria nostra in un fatto di tanta importanza Ndì vi ringra-
ziamo come di segnalato servizio, e del compiacimento nostro deside-
riamo che abbiate larga testimonianza nell' espressione dei sentimenti
dell'animo nostro.
« Firenze, 22 settembre 1872.
« Affezionatissimo Cugino
« Vittorio Emanuele. »
— 276 -
Il principio generale che governò la intera vita dello Sclopis
parmi riassunto ad evidenza, sebbene con soverchia modestia, nelle
seguenti parole, le quali raccolgo da una lettera ch'egli degnavasi
indirizzarmi il 23 febbraio 1872: « Io non posso essere conside-
rato che come un uomo di buona volontà; non ho perdonato a
fatica per dimostrarla. Ho serbato la mia fede senza maledire il
mio tempo; ho amato ed. amo la libertà schietta e feconda che
7ion si scosta dalla giustizia. » Massimo d'Azeglio, che gli era
stato compagno di scuola, e che chiamava lo Sclopis suo caro
amico d'infanzia (1), suo caro vecchio amico, trovava spesso in
lui un consigliere fido ed una di quelle figure che, per mutare
d'uomini e di tempi, non si trasformano e si lasciano sempre" ri-
conoscere; di maniera che. mentre altri volti che v'aveano prima
illusi, si alterano, nel lungo osservarli, a segno da riuscirvi
strani e paurosi, quelle figure, apparentemente fredde, che ritro-
vate sempre fedelmente le stesse, vi confortano di mille delusioni,
e vi assicurano essere nel mondo ancora qualche cosa di buono
che persiste. Lo Sclopis, ch'io sappia, nella sua carriera pubblica
non ha corso mai; è sempre andato di passo; ma è andato sempre
avanti, e però egli potè far tanta strada, e lasciarsi indietro tanti altri
che avevano corso fuori tempo con lena affannata. Egli non operò
mai per impeto, ma per interno convincimento e per volontà stu-
diata; in questo suo contegno pubblico egli rivelò mirabilmente
uno de'tratti caratteristici del popolo piemontese. E, pure cercando
la libertà ed unità d' Italia, egli rimase piemontese nel carattere,
nel costume, nel tratto, nel linguaggio. Non grazioso, ma non inele-
gante, non slanciato ma neppur tardo, non violento ma energico,
non spiccato ma distinto, ecco le qualità eminenti dello Sclopis
come scrittore e come oratore, le quali tanto meglio ci appaiono
nello scrittore determinate, quanto meglio rispondono al nobile e
saldo carattere dell'uomo. La vecchia divisa della nobiltà piemon-
tese, frangar non flectar, lo Sclopis può, senza riguardi, farla sua,
perocché egli certamente non l'ha tradita mai.
Il conte Federico Sclopis s'accosta ora al suo anno 75". Torino
gli diede i natali. Nel 1818, l'università lo proclamava dottore in
legge; l'anno seguente lo aggregava al suo collegio di giurecon-
(1) V. gli Scritti postumi di Massimo d'Azeglio pubblicati dal distinto
genero di lui, Marchese Matteo Ricci, letterato egregio ; Firenze, Bar-
bèra, 1871.
— 277 —
sulti; il ministro degli interni conte Prospero Balbo, il padre di
Cesare, riconoscendo il singolare ingegno del giovine Federico, lo
pigliava, chiamandolo presso di sé, sotto il suo particolare patrocinio.
I due Balbo e lo Sclopis non presero alcuna parte diretta ai
moti rivoluzionarii dell' anno 1821, del che io non posso né vo-
glio far loro torto, come non voglio né posso scusameli, igno-
rando le vere cagioni, che suppongo tuttavia onorevoli, per le quali
si tennero al di fuori d'un fatto così importante, come, veduto di
lontano, ci appare ora la rivoluzione di quell'anno eroico.
S'io debbo argomentarne da certi giudizii che trovo sparsi nelle
opere dello Sclopis, la principal cagione sarebbe stato l'aborri-
mento che lo Sclopis aveva in comune coi Balbo per ogni moto
rivoluzionario; è un principio di politica, che si può trovare esa-
gerato, poiché senza certe scosse e senza certi rimedii eroici i
mali estremi rado si correggono, ma che giova rispettare in chi
lo professa non per ragione de'suoi commodi, ma per una persua-
sione ragionata.
Finché durerà nel mondo la brutta necessità della guerra,
durerà pure l'altra brutta necessità delle rivoluzioni. Finché
avremo presso di noi o al disopra di noi una forza armata, inti-
meremo sempre la guerra o grideremo la rivoluzione. Togliete
le armi al vicino ed al padrone, e diverremo tutti mansueti agnel-
lini che ci perfezioneremo ne' beati ordini della pace. Questo è
l'ideale ultimo d'ogni uomo che ami l'uomo; ma perchè trionfi più
sollecito, prima di predicarlo ai popoli, gioverebbe innamorarne i
principi. Lo Sclopis che si astenne dai moti del 1821 fu inspirato,
io credo, dallo stesso principio politico che lo guidò nel 1872 come
presidente del Congresso arbitrale di Ginevra.
Della lunga, troppo lunga, pace, che seguì in Piemonte fra il
1821 e il 1848 ebbero sovra tutto a sentir beneficio gli studii sto-
rici, che in nessuna provincia d' Italia furono coltivati con più
ardore e maggiore diligenza. Scrissero in quel tempo, (oltre a
Carlo Botta) tutti piemontesi, il Cibrario, Santorre e Piero di Santa
Rosa, il Balbo, il Ricotti, il Sauli, il Saluzzo, il Vesme, il Fossati, e
altri più che contribuirono essenzialmente a dare in Italia un se-
rio indirizzo alla letteratura storica; ed anche oggi piacerai os-
servare come in Piemonte gli studii storici trovino singolare f;x-
vore, il quale parmi degno di nota, come indizio di una speciale
attitudine dell'ingegno piemontese, studioso di fatti più che di pa-
role, e di quest'ultime solamente in quanto esse possano giovare
a colorire, a determinare, a rilevare, a staccare i primi.
— 278 —
I primi scritti ch'io conosca di Federico Sclopis sono le sue le-
zioni sopra i Longobardi in Italia, la prima delle quali preparata
nel 1825, fu letta nel 1827 all'Accademia delle scienze di Torino,
ed esaminata poi minutamente da Pietro Capei neW Antologìa del
mese di settembre dell'anno 1830. Da quel punto s'accese la lunga
guerra incruenta sulla gran questione storica de'Longobardi, nella
quale, dopo che il Manzoni avea gettato il guanto, diedero poi
battaglia in Piemonte, oltre lo Sclopis, il Balbo, il Ricotti, il Ve-
sme ed il Fossati, in Toscana il Capponi ed il Capei, nel Napole-
tano il Troya ed il Ranieri. Lo Sclopis rispose al Capei ^eW An-
tologia del fascicolo d'ottobre nell'anno medesimo. Innanzi il 1830
egli avea già pubblicato nella stessa Antologia tre gravi lettere
dirette a Giuseppe Grassi sopra le illustrazioni dei papiri greco-
egizii pubblicate dal prof. Amedeo Peyron, del quale come lo Sclo-
pis fu de' primi in Italia a parlare convenientemente, cosi, ne fu
in Italia presso che il solo degno encomiatore, dopo che ne lamen-
tiamo la morte.
Fra il 1830 e il 1833, lo Sclopis preparava i materiali d'un'opera
poco nota, ma non meno forse importante di quella ormai popo-
lare del Cibrario ^wW Economia pubblica nel medio evo; io voglio
dire la Storia dell' antica legislazioìie nel Piemonte (1). L'autore
pone ogni sua fiducia nella virtù di una buona legislazione, e a
stornare il pericolo degli improvvisi rivolgimenti consiglia al
principe le buone leggi. Ma per bene conoscere le leggi da farsi
conviene anzitutto sapere quali leggi si abbiano, e per quali ca-
gioni e con quali opportunità quelle leggi abbiano avuto princi-
pio. Considerata sotto questo aspetto la storia della legislazione
si confonde con la storia politica ; di qui ognuno comprende age-
volmente il pensiero liberale che mosse lo Sclopis a scrivere dap-
prima la storia della legislazione piemontese, affinchè il principe
si rendesse avveduto come la diversità de'tempi e delle condizioni
politiche dovea portare una mutazione di leggi. Nella lettera che
ho più sopra citato, lo Sclopis mi scrive ancora : « Debbo avver-
tire che ho veduto più d' una volta il mio nome collocato fra i
Ministri che compilarono lo Statuto largito dal Re Carlo Alberto;
ciò non è esatto; io feci soltanto parte del primo Ministero costi-
tuzionale presieduto da Cesare Balbo, in qualità di Guarda-Sigilli
(1) Torino, Bocca, 1833; un voi. in-8 di pag. xxxn-490.
- 279 —
Ministro di Grazia e Giustizia. » Ma se lo Sclopis non ha compi-
lato lo Statuto, con le sue due Storie della legislazione, la pie-
montese e l'italiana, ne fu principale promotore; la sola conclu-
sione alla quale si può arrivare, terminata la lettura delle due
opere capitali dello Sclopis, è questa: conviene che il principe ri-
conosca il diritto del popolo a ricevere una nuova legge, affinchè
la giustizia divenga « sicura, pronta ed uguale per tutti i sud-
diti. »
Ma tradirei il mio ufficio di scrittore veridico quale mi studio
di essere, ove dessi alle due opere dello Sclopis, e alla prima in
ispecie, una importanza politica maggiore ch'essa per sé non ab-
bia. La storia dell' antica legislazione del Piemonte è sovra ogni
cosa, un bel libro storico bene condotto, pieno di fatti, redatto su
documenti sicuri e scritto con una forma un po' grave, ma pure
non priva di una certa venustà. La notizia di certe usanze e con-
suetudini tratta dagli statuti municipali è sommamente istruttiva;
e, per l'anno in cui vide la luce la Storia dell'antica legislazione
in Piemonte, poteva considerarsi come un nuovo elemento sommini-
strato alla storia italiana, che fino allora avea quasi sempre distinto
la vita politica di un popolo dalla sua vita privata e sociale, come
se si trattasse di tre popoli diversi. Il Muratori stesso nel secolo
passato avea confinato in dissertazioni speciali la notizia degli usi,
costumi, consuetudini medievali, invece di farne suo prò per co-
lorire una vera storia. Ma il secolo passato era specialmente eru-
dito, come il nostro è specialmente critico; è toccato ora a noi
il mettere in ordine gran parte de'materiali raccolti dai nostri
avi, con una pazienza che pochi italiani hanno ancora serbata; lo
Sclopis però per la sua storia confessa di dover molto ai vecchi
eruditi piemontesi; ma egli deve a sé stesso tutto il merito d'aver
soffiata la vita in una materia storica la quale giaceva quasi
inerte.
La Storia dell'Antica legislazione in Piemonte, che avea fatto
persuasi i concittadini dello Sclopis aver essi a contare sopra uno
storico e giureconsulto d'insigne valore, dava quindi animo allo
Sclopis d'intraprendere il suo lavoro più vasto e piìi importante,
sul quale veramente si posa la fama più che italiana ed oramai più
che europea della quale egli gode. Il primo volume della Storia della
legislazione italiana apparve in Torino, presso l'editore Pomba
nel 1840, il secondo nel 1844, il terzo nel IS'.y. Nel 1861 tutta
l'opera fu pubblicata a Parigi in traduzione francese, curata dal
sig. Curio Sclopis di Petreto, un corso ; nei 1803, lo Sclopis im-
— 280 —
prese una seconda edizione riveduta dell'opera sua fondamentale,
alla quale nel 18G4 egli aggiungeva finalmente un nuovo volume
diviso in due parti che tratta con libero e severo linguaggio, come
una speciale ed ampia monografia storica, le vicende della legi-
slazione italiana dal 1789 al 1848. L'opera è dedicata alla memo-
ria della contessa Gabriella Peyretti di Condove, che era stata madre
allo Sclopis. Nella prefazione che lo Sclopis premise nel 1860 alla tra-
duzione francese dell'opera sua, egli scrive : « Le circostanze dei
tempi in cui pubblicai i due primi volumi (1840-44) assai giova-
rono a procurare ad essi benigna accoglienza dal pubblico. Comin-
ciava allora a spingersi in alto nella mia patria il sentimento di
nazionalità ; eravamo stanchi dell'oppressione straniera ; più non
si voleva sopportare l'umiliazione di udire chiamarsi l'Italia terra
dei morti, ovvero semplice espressione geografica. Quando un po-
polo é conscio del suo diritto e della sua forza, egli è in procinto
di rivendicare l'uno coll'altra. »
Nella prefazione dell'autore alla prima edizione, egli indicava già
a'suoi lettori uno de'pregi che mi sembrano caratteristici in ogni
opera dello Sclopis, ma particolarmente in questa sua Storia della
legislazione italiana: « Lasciare che i fatti parlino da sé, senza
cerchiarli di considerazioni atte a preoccupare l'animo del lettore,
mi è ognor sembrato, non che pregio, stretto dovere dello storico ».
Umile fatica in apparenza, ma che ad essere condotta con qualche
efficacia domanda il concorso di una mente bene ordinata e limpida
e di un gusto squisito e di un fine buon senso, che sappia dar rilievo
ai fatti importanti e i minimi lasciare nell'ombra, concatenare
quelli che si continuano e gli accidentali tenere isolati, e final-
mente alzare di qualche tono il colorito di que' passi i quali gio-
vino alla dimostrazione della tesi generale, che deve servire di
fondamento ad ogni opera letteraria, si che si possa trarne sem-
pre alcuna utile conclusione. Nessuna di queste qualità manca agli
scritti dello Sclopis, ove si può desiderare alcun maggior calore, ed
un impeto più vivo, ed una eloquenza, s'io possa esprimermi cosi,
meno sentenziosa, ed una maggiore abbondanza giovanile, ma do-
ve la storia si trova sempre fedelmente ritratta ad un alto fine
morale e civile. La storia non è per lo Sclopis una lettera morta,
ma una tradizione che si svolge di continuo : « La strada, egli
scriveva nel 1840, per la quale cammina l'umanità non è mai in-
terrotta, epperò tutti gli avvenimenti si collegano insieme, e quello
che sarà non può essere altro che la conseguenza, se non talora
la ripetizione, di ciò che è e che fu. Il passato è la causa dell'av-
— 281 —
venire. Fallace presunzione è quella di rigettare le tradizioni dei
tempi andati, che sono le fonti da cui rampollano molti migliora-
menti futuri. — Senza affetti alla famiglia e senza eredità di ri-
cordanze non vi è patria. Sventurato chi s'infastidisce dei rac-
conti del popolo di cui è parte. Per quanto si aspiri al progresso,
non si dee dimenticare che tutti i secoli e tutti i popoli concor-
rono a compiere i destini imposti all'umanità. Non è lecito nò agli
uomini né alle nazioni di disprezzare nessuna parte di quei pe-
riodi che formano la loro vita. » Lo Sclopis non è uno di que-
gli uomini che trascinino dietro di sé col loro esempio e con la
loro parola le moltitudini; egli opera e parla con troppo severa
tranquillità e con una calma troppo serena per agitare e traspor-
tare chi lo ascolta o chi lo legge; ma, io lo ripeto, si è ben con-
tenti di ritrovarlo sempre al suo posto, ed in un posto sempre
elevato, uguale a sé stesso, per quanto mutino le cose intorno a
lui ; egli amava l'ordine e la libertà or sono cinquant'anni; egli ama
l'ordine e la libertà oggi ancora nello stesso modo; egli pose in quel
modo la sua prima grande questione, e per tutta la vita fu intento a
dimostrarla. Né i demagoghi né i retrogradi lo distolsero da'suoi
pensieri e dalla sua politica, un po' troppo lenta se si voglia, e
un po' troppo raccomandata alla provvidenza larghissima di Dio
e alla provvidenza ristrettissima de' principi, e però non abba-
stanza fiduciosa nell'opera de' singoli cittadini, ma pur costante-
mente progressiva. Le qualità dell'uomo si riscontrano pure nei
suoi libri ; la Storia della legislazione dello Sclopis, non è una
di quelle opere che attraggano a sé un gran numero di lettori e
si divulghino presto e facciano una impressione molto viva ; ma,
letta bene, è atta non solo ad istruire sopra un gran numero di
fatti presso che ignorati, ma a persuadere della giustezza di tutto
un ordine d'idee importanti. Molti libri possono aver destato mag-
gior plauso popolare, ma pochi dureranno e si consulteranno quanto
la Storia della legislazione italiana dello Sclopis. Come nei
giorni affannosi si ricorre non all'amico potente, non all'amico
glorioso, non all'amico splendido^ ma all'amico del cuore, al
l'amico provato, così, se, per un piacere effimero, si leggeranno
molti altri libri con più diletto di questo, nelle ore serie, quando
la mente ha uopo di un nutrimento sostanzioso, torna riposata
sopra questi volumi, e vi ripiglia vigore a meditazioni solenni.
Uomini e libri simili formano il fondo serio e durevole d' una
nazione come d'una letteratura ; essi custodiscono gelosamente
entro di sé quanto é più funesto ad un popolo come ad un indi-
- 282 —
vìduo il perdere, la forza del proprio carattere. Ora nelle opere
dello Sclopis, come in quelle di Vittorio Alfieri e di Cesare Balbo,
si conservano le più nobili virtù dell'ingegno e dell'animo subal-
pino ; onde esse offrono, oltre ad una singolare importanza per la
storia del nostro diritto, e pel suo avvenire, una nota caratteri-
stica specialissima, la quale merita di venir considerata da quanti
non considerino come assoluta la necessità di studiare la nostra
letteratura dal solo aspetto della politica unitaria, costituzionale,
romana ed apostolica.
Nel ì 845, l'autore della Storia della legislazione italiana veniva
eletto socio corrispondente dell'Istituto di Francia, il quale poi,
nel 1869, conferiva allo Sclopis i massimi onori eleggendolo suo
socio estero, come successore di Lord Brougham. E poiché sono
sul punto degli onori de'quali lo Sclopis venne fatto segno, ram-
menterò come nel 1847, lo Sclopis, già avvocato generale, fosse
eletto presidente della Commissione superiore di censura (una
specie di tribunale d'appello per la stampa), ove sedevano il Balbo,
il Buoncompagni, il Cibrario, il Ghiringhello, il Moris, il Saul),
il Ricotti ed il Tonello, e poi presidente della Commissione inca-
ricata di compilar la legge sulla stampa; come nel marzo del 1848
assumesse, supplicato da Cesare Balbo, il portafoglio di grazia e
giustizia, tenendo il quale iniziava con un memorabile memoran-
dum^ quelle trattative, in senso liberale, con la Santa Sede, che
più tardi doveano essere riprese dal conte di Cavour; come nel
1841), già deputato al Parlamento di uno dei Collegi di Torino,
fosse eletto Senatore del Regno ; come nel 1860 , gli si con-
ferisse la dignità di Ministro di Stato; come dal 1861 al 1864 te-
nesse con onore la presidenza del Senato, alla quale rinunciò
sdegnoso, dopo la disgraziata e improvvida Convenzione di set-
tembre; come l'Accademia delle scienze di Torino e la deputazione
sopra gli studii di storia patria lo eleggessero loro presidente;
come nel 1868, il Re d'Italia, conferendogli le insegne dell'Ordine
supremo dell'Annunziata, nello stringere parentela con l'insigne
suo suddito piemontese gli desse la più alta prova di riverente
simpatia; come finalmente lo stesso suo re lo deputasse a rap-
presentare l'Italia nel congresso arbitrale di Ginevra, la sentenza
finale del qual congresso, se sodisfece sovra ogni cosa la giusti-
zia, appagò in modo particolare quell'Inghilterra, le cui sapienti
istituzioni politiche il conte Federico Sclopis avea sempre studiate
ed ammirate. E poiché il discorso è caduto sopra l'Inghilterra,
sebbene io potrei ricordare ancora altri parecchi pregevoli lavori
— 283 —
storici pubblicati dallo Sclopis in vario tempo, in ispecie, negli
atti dell'Accademia di Torino ;fra i quali, notevolissime, le Ri-
cerche storiche e critiche sopra Y Esprit des lois di Montesquieu)
e nell'Archivio storico toscano, (ai quali si devono ancora ag-
giungere lo studio storico in francese intorno a Maria Luisa
Gabriella di Savoia Regina di Spagna (i), e due memorie pub-
blicate negli atti dell'Istituto di Francia sulla dominazione fran-
cese in Piemonte sotto il primo impero, e sopra il cardinale
Giovanni Morone), piacemi conchiudere la breve notizia presente
con un cenno intorno alle Ricerche storiche dello Sclopis sopra
Le relazioni politiche tra la dinastia di Savoia ed il governo
Britannico dal 1240 al 1815 (2), poiché questa sapiente ope-
retta, nota a pochissimi, dovette servire di utile vade-mecum
a Massimo d'Azeglio nel suo viaggio diplomatico in Inghilterra,
ed attrarre al piccolo Piemonte non poca di quella simpatia che
si dovea tosto far più viva nella maggiore frequenza delle rela-
zioni internazionali fra il Governo inglese ed il subalpino, creata
dalla guerra d'Oriente. « Freno ai potenti, protezione ai deboli,
vi scrive lo Sclopis, tale dovrebbe essere l'epigrafe della bandiera
sovrapposta all'edifizio politico qualificato di equilibrio europeo. »
E troppo evidente che il buon piemontese, dettando queste parole
ineleganti, ma espressive, pensava alle misere condizioni d'Italia,
all'iniquo trattato di Vienna ed alla necessità di lacerarlo. Tre
anni dopo il Conte di Cavour al Congresso di Parigi gli faceva
il primo strappo, con l'aiuto specialmente di quell'Inghilterra, che
il conte Sclopis avea col suo libro contribuito a renderci parti-
colarmente benigna. Così, per conchiudere, se i servigi resi all'Ita-
lia dello Sclopis, non sono di quelli per cui si coniino medaglie o
si decretino monumenti, mi sembrano pur sempre tali che uno sto-
rico imparziale ne debba pigliar nota e tenere un gran conto. Né
crederei finalmente ingannarmi troppo affermando che all'anima
nobilmente dignitosa di Federico Sclopis il premio più dolce sarà
una tal forma di gratitudine; le dimostrazioni della piazza de-
stano un grande clamore, ma sono effimere; una pagina onorevole
di storia ifbn fa nessun rumore, ma si conserva e viaggia
lontano.
(1) Firenze, Civelli 1866.
(2) Torino, Stamperia Reale 1853.
XVII.
SILVESTRO CENTOFANTI.
Silvestro Centofiinti ebbe non il suo quarto d'ora, ma il suo
quarto di secolo glorioso. Fra il 1825 e il 1850 il nome di Silve-
stro Centofanti andò quasi sempre congiunto con quello di Gino
Capponi e di Giambattista Niccolini. Ora egli vive in Italia quasi
ignorato, e certamente dimenticato da troppi fra quegli stessi ita-
liani che un tempo gli resero onori solenni come a precursore
inspirato del nostro risorgimento civile e letterario. Le ragioni di
questa obliosa trascuranza possono esser molte; io dirò qui soltanto
le due che mi paiono principali; l'avere il Centofanti mantenuto
fede sino al fine a quella filosofia cristiana che egli professò da
principio ; l' aver preveduto da lontano i nuovi eventi d' Italia per
temerli quasi vicini; ma, sovra ogni cosa, io ne accuso qui la in-
gratitudine de' giovani. Io non seguo la filosofia del Centofanti; io
non credo a tutti que'miracoli di civiltà ch'egli attribuisce alla sola
virtù spirituale del cristianesimo; io non vedo nel mondo altra prov-
videnza per l'uomo che l'uomo stesso; ma io so far ragione de'terapi
ne' quali l'idea del Centofanti si manifestò; io non dimentico che
l'idea guelfa era allora idea italiana (non la sola però); io ammiro
nel Centofanti uno de' piìi eloquenti interpreti di quella idea. Io
non accetto il duro motto che il Centofanti assume in una sua ode
saffica scritta per il primo anniversario de' morti a Montanara e
Curtatone il 29 maggio 1851 : né sto, né corro, poiché credo che
sia deil'uomo prudente, in certi casi, lo stare fermo, e dell'uomo
generoso in certi altri il correre ; é, del resto, il Centofanti stesso,
che in un suo canto consacrato ai martìri, ha scritto:
— 285 —
Ognor fu seme
Di libertade il sacrificio^ e Italia
Sol dai martiri suoi la vita aspetta.
E il Centofanti che tante volte ha precorso col suo pensiero i
novi tempi non dovea certamente sgomentarsi troppo se questi,
arrivassero clamorosi e pieni di tempesta. Nella sua gioventù per
l'inaugurazione del monumento di Dante in Santa Croci;, il Cen-
tofanti avea cantato cento generose ottave, che terminavano cosi:
Ma in cor mi resta una dolcezza infusa.
Una speranza che non par lontana :
E a consacrarla, con ardente affetto
Grido il nome di Dante, e i fati affretto.
Dov'egli s'afifrettava col pensiero, qual meraviglia che altri s'af-
frettassero con le opere ? Nel Preludio al corso di lezioni su Datile
Alighieri, che fu pubblicato in Firenze nel 1838, egli, dopo avere,
in due pagine sapienti, trattato della commedia italiana quale do-
vrebbe essere, invitava i giovani a scrivere la coììimedia polilica,
e, nello stesso discorso, rivolgendosi al Niccolini, il Centofanti si
esprimeva cosi : « Ch' ei senta vivamente il suo secolo, che gli
arda in petto un'anima altamente italiana, ne rendono testimo-
nianza i suoi libri, e lo riconosce con riverenza la patria. Se altri
si crede forte a scrivere con piìi bellezza, impugni la penna e lo
provi. E nondimeno gli esprimerò anco pubblicamente il mio de-
siderio, eh' egli nelle ultime sue tragedie condescenda con ragio-
nato impeto ad una creazione piìi libera » Dopo, privatamente, in-
sieme con Gino Capponi, il Centofanti dava coraggio al Niccolini,
perchè scrivesse ed, infine, perchè pubblicasse V Arnaldo. Nella
Strenna Fiorentina del 1841, il Centofanti avea dedicati questi
versi a G. B. Niccolini :
Pari all'altezza del divino ingegno
Iddio ti diede il core,
E di viver sei degno
Nella gloria contento e nell' amore.
Le corone che lieta a me tesséa
Co' purpurei suoi fior speranza audace
Inaridirsi io veggo, e in fredda pace
Quelle gioie superbe al cor disdico;
E mia gloria e dolcezza esserti amico.
— 286 —
Pubblicato V Arnaldo, il Niccolini il 28 settembre 1843 dolevasi col
Centofanti del rumore che ne facevano il Nunzio apostolico e l'Ar-
civescovo, e soggiungevagli : « Mi son state di conforto tutte le
parole di lode che mi avete scritto, tenendovi in pregio per l'al-
tezza dell'animo e dell'ingegno. Credo che qui non vi siano che
voi e il Capponi che possano giudicarmi con cognizione di causa
e imparzialmente, seppure il cor non v'inganna, che ad ambedue
vi fa dire del mio lavoro quelle cose che non merita. » Cosi nella
nostra moderna letteratura si vide il caso singolare che due scrit-
tori guelfi furono i principali sostenitori di un fiero poeta ghibel-
lino ; ed al Niccolini che s' intimoriva per le molestie che l'Arnaldo
poteva recargli essi consigliavano animo forte e conseguente. Ma,
quando poi si trattava di mettere in opera i sentimenti di quel-
r Arnaldo, de' quali il Capponi e il Centofanti erano stati padrini,
essi, come guelfi, si ritrassero ; e da quel punto incominciarono a
destarsi alcuni malumori fra il Niccolini ed i suoi due illustri
amici, i quali malumori tuttavia furono oltre misura esagerati dal-
l'autore della Biografia del Capponi presso i Conlemx)Oranei del
Pomba, quando noi abbiamo a stampa nella raccolta del Vannucci
parecchie lettere non pur gentili ma aflettuose del Niccolini al
Centofanti, scritte dopo lo scioglimento di quel glorioso triumvi-
rato civile insieme e letterario. Il Niccolini arrivò anzi nell'agosto
del 1847 fino a lodare la canzone del Centofanti a Pio nono : « Non
so dirvi, gli scrive, quanto mi piaccia la vostra canzone a Pio IX,
dove ho letto queste sante parole :
Regni alfin carità, regni queir una
Che dell' eterno è figlia,
E che è ragione a tutti, e a Dio somiglia.
Siate benedetto f »
Ardita precorritrice di quella del Settembrini è la critica che
fin dal 1837 il Centofanti instituiva nel suo Preludio al corso di
lezioni intorno a Dante Alighieri intorno alla scuola del Manzoni :
« Il Manzoni ed il Grossi, scriveva egli, con qualche temerità e forse
non senza alcuna malizia di linguaggio, entrati con facoltà diverse
e con affetto concorde nel nuovo arringo, meritarono i suff'ragi del
pubblico; ma se il primo fu già salutato rigeneratore dell'italiana
poesia, e col prestigio di questa idea accresciuto oltre la sua naturale
grandezza, comparisce ora anche minor di sé stesso ai subiti ammi-
ratori delle sue opere. Chiamai in colpa questa scuola di non aver
corrisposto all'alta aspettazione che avea risvegliato in tutti i no-
— 287 —
bili pensatori; la quale, anziché diffondere le grandi idee, anziché
educare le grandi forze che più efficacemente debbono contribuire
all'ordinamento della società futura, sembra insegnare una rasse-
gnazione infeconda, una tranquilla abnegazione di sé, che facil-
mente potrebbe degenerare in una codarda indifferenza o passività
sotto le soperchierie più insolenti, e, i più mostruosi disordini....
Se tu m' insegni poetando la bellezza del sacrificio, e mi rendi for-
tissimo ad avverarla col sangue ; se quando la terra è in balia di
prepotente scelleratezza, e mi falliscono i conforti degli uomini, tu
schiudi la solinga mia anima a una segreta comunicazione col
cielo, e la ricrei con quella parola che é vita ; non io dirò poco
umana la tua sapienza poetica, né mi crederò inutile cittadino
quando son pieno della forza di Dio, per istar contro agli oppres-
sori della mia patria. Per queste ragioni può la scuola, di cui ora
parliamo, purgarsi da quella taccia di passività non civile, di che
altri l'ebbe notata; o parere cosi felicemente disposta a conciliare
in efficace armonia civiltà e religione, eh' ella possa farlo senza
trasmutarsi in un' altra. Ma i desideri non soddisfatti di questi
critici procedono tutti da un falso modo di vedere le cose. Parlano
del Manzoni come s'egli avesse voluto essere il rinnovatore del-
l'arte in Italia (il Centofanti mi scuserà s'io venuto tanto più
tardi di que' critici ch'egli condanna, credo ancora il medesimo,
ma, in questo, diverso da que'critici ch'io penso avere il Manzoni
pienamente raggiunto il suo intento (I), non parendomi poco me-
(1) Non sarà inutile il soggiungere qui un esempio illustre che tolgo
da una nota al notevole studio intorno a Massimo d'Azeglio, che Marco
Tabarrini premise alla edizione degli Scritti politici e letterarii dell'Aze-
glio curata dal Barberà (Firenze, 1872). « Un giorno il d'Azeglio, discor-
rendo coll'editore G. Barbera, dello stile e della lingua, gli disse presso
a poco cosi: quando io scrissi la prima volta per illustrare la Sacra
di S. Michele, mi posi al lavoro dopo aver fatto raccolta di modi ita-
liani i quali mi pareva che dovessero fare un grande effetto sui lettori,
e ne riempii più che potei il mio scritto. Andato in quei giorni a Mi-
lano, offrii a Manzoni una copia della Sacra, e lo pregai di notarmi
ciò che gli fosse parso errore o difetto nello stile. Assunse di buon grado
l'incarico ; e dopo alquanti giorni essendomi fatto rivedere, il Manzoni
mi fece per l'appunto notare quei passi che a me parevano i più belli
e studiati richiamandomi alla maggiore semplicità di dire. E coteste
note accompagnate dalle sue osservazioni verbali, mi aprirono un nuovo
orizzonte nell'arte dello scrivere e del dipingere. »
— 288 —
rito quello dell'illustre milanese che insegnava col suo proprio
esempio a scrivere naturalmente, il che nessuno scrittore di prosa
italiana aveva fatto con tanta efficacia prima di lui); ed il Man-
zoni non pose mai sistematicamente (e questo ancora parmi, an-
ziché un suo torto, un merito in lui grandissimo) il problema di
questa innovazione, non ci diede dottrine sue proprie, non esempi
che servissero all'alto scopo. Fece un nobile tentativo, e meritò
che altri lo reputasse degno di concepire e di eseguire un diffi-
cilissimo divisamento. » Io volli qui riferire tutto il giudizio,
che mi è sembrato alcun poco intemperante, del Centofanti so-
pra il Manzoni, a dimostrare anzitutto come il signor Settem-
brini non abbia detto nulla di nuovo quando, più per farsi sin-
golare che per dire il vero, aggrediva di recente da una cattedra
universitaria italiana la immensa gloria del Manzoni ; e poi per
confermare con un nuovo esempio come il guelfo Centofanti s' ac-
costasse anco questa volta al ghibellino Niccolini, al quale pure
la gloria crescente del Manzoni sembrava recar molestia. Il
Centofanti accusava di soverchia timidità la scuola manzoniana
quasi che unico intento di essa fosse il raccomandare agli italiani
di sopportare con evangelica rassegnazione i tiranni della patria,
mentre nelle opere del Manzoni non vi è nulla che giustifichi
una simile opinione. Egli è poeta cristiano, come il Centofanti
cristiano filosofo; ma l'amor platonico o cristiano che dir si vo-
glia degli uomini, non toglie all'uno ed all'altro italiano di sde-
gnarsi a tempo contro ciò eh' è iniquo. In ogni modo poi non fu
più passivo il Manzoni del Centofanti ed abbiamo sicure prove che
il Manzoni all' ingrossar de' tempi si accese di giovanile entu-
siasmo e tradì il segreto pensiero animatore di tutti i suoi scritti,
mentre al Centofanti, a torto forse, si fece carico da molti, perchè
mostrasse poi un certo sgomento a trattare quelle armi stesse
ch'egli aveva contribuito ad affilare, e al sopraggiungere de' grandi
commovimenti della patria non palesasse queir animo stesso col
quale li aveva affrettati. Io amo bene della vita politica del Cen-
tofanti ricordare che, in più occasioni, prima del 1848, egli aveva
invocato il risorgimento d' Italia ; che il Gioberti passando per
Pisa e presentando al popolo il Centofanti avea voluto che il po-
polo gli gridasse un viva solenne, come ad uomo ch'era onore e
gloria della filosofia italiana; che all' arrivo del generale D'Aspre
in Toscana coi diciotto mila imperiali, il Centofanti insieme co' due
colleghi nel triumvirato pisano, fu pronto il 5 maggio dell'anno 1849
a dimettersi d'ufficio; che il 10 aprile del 1851, egli evocava co-
— 289 —
raggiosamente il proprio sdegno contro gli impostori, i gesuiti
e i fautori tutti di un morto passato :
Volgo di spettri ! e di cotanta speme
Tu dannar di peccato ovver d' oblio
Vuoi la dolcezza che dentro ci freme
Complice Iddio ?
E me pur tenti con insidia accorta
Usando r arti di tua falsa scuola ■•?
E incarcerata esser ti credi o morta
La mia parola "?
Anco a' miei piedi 1' aquila si posa
Con r iracondo fulmine immortale.
Che al tuo fetor si scosse, e procellosa,
S' alzò suir ale....
se non che, dopo tanto sdegno, parrebbe che fosse la cosa più
naturale il brandir l' arme ; ed, invece, il Centofanti con quella
rassegnazione stessa ch'egli avea stimato un tempo di dover
condannare nel Manzoni, (1) .lasciava cadere -la sua generosa
(1) li signor A. Buccellati che, di recente, lesse un lungo , diligente
ed onesto dicorso nell'Istituto Lombardo, intorno al progresso morale,
civile e letterario nelle opere di Manzoni , ripubblicò in nota una let-
tera molto significativa diretta dal Manzoni a Giorgio Briano, da Lesa,
7 ottobre 1848, per dich'arare le vere ragioni che lo fecero rinunziare
uir onore di rappresentare come deputato, nel Parlamento Subalpino, il
collegio di Arena. Credo utile inserirla qui come prezioso documento
biografico che aggiunge molta luce ad una pagina del mio Primo Ri-
cordo :
« Lesa, 7 ottobre 1848.
« Carissimo Signore,
(( La ringrazio cordialmente e faraigliarmente (il coraggio me l'ha
dato lei, come il desiderio) d'avermi colla sua gentilissima lettera data
un'occasione di ringraziarla della benevolenza che lo è piaciuto di di-
mostrarmi in una maniera così solenne e- troppo onorevole per me. De-
tratte lo lodi che essa le ha suggetite, e che so di non meritarmi, ri-
mane però la benevolenza medesima, e di questa, ne prendo possesso,
giacche me la posso godere senza illusione e senza superbia, pensando
che anche le buono intenzioni bastano, in certa maniera, a meritarla.
Ricordi Biografici 19
-- 290 —
ode saffica pigliando licenza da suoi lettori con questa strofa in-
felice :
E benigna qui volga o ria stagione,
L* alma sicura ho nella fronte espressa ;
E pei morti a Novara e a Curtatone
Vado alla Messa.
Il Centofanti tonò ancora una volta pubblicamente nell'anno 1857,
nell'Ateneo italiano di Firenze in difesa della patria oppressa, leg-
gendovi un discorso applauditissimo che lo rese nuovamente sospetto
al granduca, intorno al processo della formazione delle nazionalità,
il qual discorso merita di venir comparato col saggio dettato dallo
« Ma abbia pazienza, non finisce qui. Per quanto io veda come possa
essere strano, in questa urgenza e gravità di cose, il parlare di un
uomo inconcludente, e il parlarne lui medesimo, e a persona sicuramente
occupatissima, bisogna che io mi giustiflclii con lei, e la convinca che
queir inetto, contro- il quale ella insorse tanto cortesemente, fu scritto
non solo con verità, ma con proprietà, rigorosa, relativamente (veda
che la mia modestia non è senza limiti) alle qualità che si richiedono
in uomo pubblico. Per non toccarne che una, ma essenzialìssiraa, quel
senso pratico dell' opportunità, quel saper discernere il punto o un punto
dove il desiderabile s'incontri col riuscibile, e attenercisi, sacrificando
il primo, con rassegnazione non solo, ma con fermezza, fin dove è ne-
cessario (salvo il diritto s'intende), è un dono che mi manca, a un se-
gno singolare. E per una singolarità opposta, ma che non è nemmeno
un rimedio, perchè riesce, non a temperare, ma impedire, ciò che mi
pare desiderabile, mi guarderei bene dal proporlo, non che dal soste-
nerlo. Ardito finché si tratta di chiacchierare tra amici, nel mettere in
campo proposizioni che paiono, e saranno paradossi, e tenace non meno
nel difenderle, tutto mi si fa dubbioso, oscuro, complicato, quando le
parole possono condurre a una deliberazione. Un utopista e un irreso-
luto sono due soggetti inutili per lo meno in una riunione dove si parli
per concludere; io sarei l'uno e l'altro nello stesso tempo.
« Il fattibile le più volte non mi piace, e dirò anzi, mi ripugna ; ciò
che mi piace, non solo parrebbe fuor di proposito e fuor di tempo agli
altri, ma sgomenterebbe me medesimo, quando si trattasse non di va-
gheggiarlo 0 di lodarlo semplicemente, ma di promuoverlo in effetto,
d'aver poi sulla coscienza una parte qualunque delle conseguenze.
« Di maniera che, in molti casi, e singolarmente ne' più importanti,
il costrutto del mio parlare sarebbe questo: nego tutto e non propongo
— ^:m —
stesso Centofanti dieci anni innanzi (1) intorno al Diritto di na-
zionalità in universale e di quello della nazionalità italica in
par^ticolare. Del qual saggio l'autore stesso ci ragguaglia nel breve
proemio dal quale egli volle che fosse preceduto. « Questo egli
scrive, non doveva essere un libretto, ma tre o quattro articoli
nel Giornale pisano, L' Italia. Procedendo nel mio lavoro sentii
la necessità di condurre meco i lettori alle fonti, non da tutti
conosciute bene, del diritto, esponendone brevemente quella dottrina,
ch'io credo essere l'unica vera; di far loro scoprire nell'idea
immutabile di esso la forma necessaria e legittima dell' ordine
pubblico ; di porre cosi fondamenta giuridiche più certe alla na-
zionalità dei popoli, e di preludere con la virtù di questa ragione
eterna all' adempimento di que' destini eh' ella conteneva fin da
nulla. Chi desse un tal saggio di sé, è cosa evidente che anche i più
benevoli gli direbbero: ma voi non siete un uomo pratico, un uomo
Xiosilivo: come diamine non vi conoscevate? dovevate conoscervi ; quando
è così, si sia fuori degli adari. E non fo io bene, anzi non fo il mio
dovere a dirmelo da me, e a tempo? Le par che basti? C'è dell'altro.
Il parlare stesso è per me una difficoltà insuperabile. L'uomo di cui
ella ha voluto fUre un deputato, balbetta, non solo con la mente e in
senso traslato, ma nel senso proprio e fisico, a segno che non potrebbe
tentar di parlare senza mettere a cimento la gravità di qualunque adu-
nanza; che in una circostanza cosi nuova e terribile per lui, non riu-
scirebbe certamente a più che al tentare.
« Queste confessioni, ho potuto farle cosi spiattellatamente a lei in
privato; quando avrò a fare la mia lettera di scusa alla Camera (giac-
ché il Collegio d'Arena é stato così crudelmente buono per me), sarà
una faccenda più imbrogliata,' giacché certe cose ridicolo, è ridicolo an-
che il dirle espressamente in pubblico.
« È una cosa dolorosa e mortificante il trovarsi inutile a una causa
che è stata il sospiro di tutta la vita, ma ipse fecit nos et non ipsi
nos ; e non ci chiederà conto dell'omissione, se non nelle cose alle
quali ci ha data attitudine. Io non posso far altro che raccomandar
questa causa a chi ha e l'ingegno e gli altri mezzi necessari per aiu-
tarla efficacemente, e farei con grande istanza questa raccomandazione
a lei, se ce ne fosse bisogno.
« Gradisca in ultimo l'espresso attestato dell'alta stima e dell'affet-
tuoso ossequio che va sottinteso in ogni verso di questa lunga lettera.
« Alessandro Manzoni. »
(1) Pisa, Nistri 1847.
— 202 —
principio nel suo chiuso volume. Molta storia, in pochi cenni;
dottrina, nuova in parte nei libri, antichissima nelle ragioni delle
cose : qua con forinole severe, là con abbondanza di affetto ; talvolta
come professore avvezzo ad insegnare il vero, sempre come ita-
liano che unicamente vive all' adorata patria, e come cittadino
che sodisfa ad un sacro dovere. Aprendo il mio insegnamento
universitario nel decorso anno scolastico 1846-47, trattai della
nazionalità delle filosofie; poi ebbi opportunità di parlare della
nazionalità italica in una lezione, alla quale fu gran concorso di
ascoltatori, e nella quale confutai la dottrina del padre Taparelli
su questo argomento. Le idee contenute nel presente opuscolo non
sono adunque fatte note al pubblico ora per la prima volta; quan-
tunque io ora le pubblichi in forma pili durevole e quasi in teatro
più vasto. Della nazionalità contro l'opinione del Taparelli indi scris-
se da pari suo l'esimio Gioberti {Il Gesuìla moderilo) ; \o che mi
ha tenuto incerto s' io più dovessi dare alle stampe quella mia
lezione, stenograficamente conservatami per cura del bravo giovine
corso signor Vincenti. La medesimezza del tema ha fatto nascere
nella mente del filosofo piemontese e nella mia pensieri talvolta
identici. »
Qui evidentemente il Centofanti è in un campo opposto a quello
de' Gesuiti ; dieci anni prima di quella sua lezione, egli avea tut-
tavia proferita una grave sentenza contro la Riforma e sull' auto-
rità suprema del pontefice sedente in Concilio, per la quale egli
dovea poi nell'anno 1869 trovarsi d'accordo con quegli stessi
Gesuiti da lui combattuti nel 18i7, e predicanti l' infiillibilità del
papa. Ecco le parole scritte dal Centofanti nell' anno 1837: « Una
questione religiosa, piena di destini, piena di sublimi speranze, e
quale mai non trattarono i secoli decorsi, si agiterà nell'Europa.
Ma come conciliare il mistero con la ragione, 1' autorità umana
con la divina, il passato con l'avvenire, i moderni tempi con loro
medesimi, chi al Vaticano non si rivolga ? Come non pensare al
catolicesimo, quando tutte le genti son congiunte da vincoli di
comuni interessi, e ogni moto dell'incivilimento è macchinazione
di umanità; e tutto porta a feconda universalità di ragioni e di
affetti ? 0 Roma ! città fatale ed eterna ! città dei Cesari e dei
pontefici, della libertà e civiltà pagana e del Cristo ! Certamente
i cieli a nuove glorie ti serbano. E quando le mie ceneri ripo-
seranno sotto umile pietra, forsechè Italia mia ed il mondo si
leveranno a una voce che in ogni parte si spanderà dai sette tuoi
colli, e in te le nazioni celebreranno i comizi del religioso pen-
— 293 —
siero, e dal gran concilio vedrai uscire il cristianesimo trionfante
a consacrare la civiltà della terra. Con quella religiosa avrà la
sua ultima soluzione anco la questione politica. »
Per la discordia che si palesò quindi in Italia tra i fatti poli-
tici e le idee guelfe, i più fervidi scrittori guelfi, gli apostoli più
ardenti del papato seppero ritrarsi a tempo dall'agone poli-
tico, e, per questo riserbato contegno del quale si dovrebbe loro
soltanto dar lode patirono pure un oblio più ingiusto, quello dei
servigi eh' essi aveano reso agli studiosi coi loro scritti e con
la loro parola. Io sento una viva pena nel dover confessare
come di uno de'più bei lavori del Centofanti, il suo citato Pre-
ludio al corso di lezioni su Dante Alighieri, dedicato alla Patria
di Dante Alighieri feconda d'ingegni, di memorie magnifica,
bellissimo flore dell' italica civiltà, e scritto particolarmente pei
giovani xooeti italiani, V unico esemplare che giaceva da 34
anni alla Biblioteca magliabecchiana, ora nazionale di Firenze,
fino a questo giorno, era rimasto intonso, e ch'io primo ebbi l'o-
nore di tagliarne le carte e di leggervi. Cosi della terza parte del
celebre discorso del Centofanti sopra la letteratura greca le carte
neir esemplare della Biblioteca nazionale erano, pur troppo, in-
tonse, prima di oggi. E pure io non so d'alcun professore di let-
tere e di filosofia, o d'alcuno scrittore che siasi nel secol nostro
comunicato ai giovani con affetto più eloquente, con sapienza più
affabile. Io ho parlato con parecchi valentuomini che furono già
discepoli al Centofanti, e tutti me ne ragionarono con sentimento
di profonda ammirazione. Vi era qualche cosa di giovanile ne'leg-
giadri impeti della sua gagliarda eloquenza; negli stessi suoi anni
cadenti egli serba ancora gran parte di quel fuoco gentile che
comunicava ai giovani nel pieno vigor della vita. Gli intervenuti
alle feste pisane nel terzo centenario della nascita di Galileo Ga-
lilei nell'anno 1864 ricordano sempre le parole vivaci con cui l'il-
lustre professore chiudeva allora il suo discorso intorno a Gali-
lei e alla Inquisizione: « La coscienza dell'umanità, gridava l'uomo
venerando, ha pronunziato il suo decreto contro quel tribunale di
sangue. La terra si muove; la legge del progresso ci è guida; e
il nome e l'esempio di Galileo Galilei ci sono auspicio grande e
conforto ad accrescere le glorie della risorta Italia, e a compiere
le più difiicili imprese. » Peccato che la vista gli si sia ora per
modo offuscata, ch'egli non possa più attendere alle lettere ed alla
filosofia con quella solerzia ch'ò sempre ancora nel suo valido e
potente, intelletto.
— 594 —
Silvestro Centofanti è nato l'S dicembre clell'anno 1794, in quella
stessa città di Pisa che fu poi principal teatro della sua gloria.
Alla sua Pisa volava pure con desiderio il pensiero del Cento-
fanti anco quando egli avea dimora in Firenze, onde, nel 1837,
egli ne scriveva cosi: « Non iscorgi là oltre questi gioghi un iso-
lato monte, che rimpicciolisce e ti si vela nella distanza? È il
monte Pisano! Verso il quale, o giovane, quando il cadente sole
mi vibra incontro gli allungati suoi raggi io fisamente riguardo,
e spesso in un dolce e melanconico pensamento mi arresto. Sotto
quel monte apersi nascendo i miei occhi a questo italiano sole :
là riposano le benedette ossa dell'amato mio genitore (Giuseppe).
E una cara lusinga pur mi consola che in quella illustre città,
dov'io studioso giovinetto colsi i primi fiori sul difficile cammino
dell'esistenza, e piansi le mille volte vaneggiando fra i sublimi
fantasmi di gloria, qualche gentile amico mi ricordi seco stesso
con desiderio! Che un'anima che mi fece più belle le speranze
dell'età giovanile e tanta poesia mi creò nel cuore e nella mente
con un sorriso di amore, che tollerò le furie delle mie ardenti
passioni, e le placò con virtuosa dolcezza, non mi abbia al tutto
dimenticato I Che nel silenzio delle estive notti, discorrendo i
giorni vivuti e meditando i futuri, ella, quando più si avvicina
di sentimenti a quel Dio che la formò sì pietosa, ritrovi anco me
nel suo petto! » Primi maestri gli erano stati i sacerdoti Giu-
liano Giusti, V. Pellegrini e P. Morosi, poi in letteratura il Car-
della, in diritto il Carmignani e il Guastini, in ebraico ed in greco
il proprio zio Cesare Malanima, da cui probabilmente egli derivò
pure, con la molta sapienza di greco, quell'amore infelice di
comparazioni fra le assonanze ebraiche e le elleniche delle quali
è troppo gran copia nel bel libro sulla Letteratura greca, che
ne ricevette alcun detrimento. Addottoratosi in legge nella prima
gioventù, venne in Firenze nel 1822, e vi rimase quasi vent'anni,
intento, sovra tutto, con Guglielmo Libri e Vincenzo Antinori allo
studio de'codici palatini e al riordinamento degli Archivii Medi-
cei. Nell'anno 1837, Silvestro Centofanti imprese un corso di let-
ture pubbliche sopra la Divina Commedia, facendogli andare in-
nanzi quel Preludio più volte citato, mirabile per varietà di
affetti, altezza di pensieri, vastità di dottrina e poetica eloquenza.
Alla prima lezione si notavano, fra gli altri intervenuti, Gino
Capponi, Giambattista Niccolini, Giuseppe Barbieri, Francesco
Puccinotti, Lorenzo Mancini, il Sismondi, e una gran folla di
giovani che erano accorsi a raccogliere le inspirate parole del
— 295 —
novo oratore, il quale rimembrando forse 1' ospitalità del pro-
fessore Melchior Cesarotti, della quale il corcirese Mario Pieri
non cessava di lodarsi presso i suoi amici di Firenze, al giovane
italiano rivolgevasi pubblicamente con questo caldo e confidente
invito : « A te, o giovane, concedano largamente i cieli quel
che a me diedero scarsi, o non senza provvidenza negarono:
conservino alto e invincibile quel che a me ancora ferve costan-
temente nel petto; il libero amore del vero, l'incorrotto sentimento
del diritto, la santissima carità della patria. E, ove studio e de-
siderio di questa nobile Italia ti conduca nella città in cui nacque
Dante Alighieri, su i fiorentini colli è il quieto albergo, da me
scelto alla pace del mio viver solingo. E qui potrebbe esserti
scorta non la superba vaghezza delle rare ed illustri cose, ma di
quei primi e semplici affetti che son dolcezza ai magnanimi. AI
di fuori troverai villa di rustico aspetto; dentro, ingenui volti e
ridenti, e in festa di una ospitalità fratellevole. Vedrai una vene-
randa madre, a cui la schietta bontà nativa è ornamento che ba-
sta (Rosalia Zucchini, madre al Centofanti), due buone ed aflTet-
tuose sorelle, un tenero giovinetto (Leopoldo Tanfani), in cui vor-
rei la miglior parte di me, vivendo, trasfondere, e lasciar, mo-
rendo, il continuatore della scientifica e letteraria mia vita. Sede-
rai a mensa frugale nella cara espansione degli alterni discorsi,
ove ciascuno è lieto e contento in una comune soddisfazione. Alla
quale se mancherà la gioia di un volto desiderato (il fratello Vin-
cenzo, professore d'ostetricia a Siena) in questo desiderio istesso
sentiremo il piacere della persona, e nel caro nome cercheremo
ragionando un ristoro a quella mancanza. E la sera udirai le voci
della religiosa preghiera. Accanto alla villa siede in breve giar-
dino una cappelletta; e agli odorosi efiìuvii dei fiori ben si con-
fondono neir aria le preci e i sospiri dell' uomo, e volano, inno
di terrestre benedizione, all'Eterno. Ma il tempio veracemente
aperto ai bisogni arcani della mia anima è l' immensità beata
di questo cielo d' Italia. » Io so che queste calde parole parranno
a molti assai troppo ingenue, e che ogni confidenza fatta, senza
bisogno, al pubblico, riesce a troppi ridevole. Ma io so ancora
che i soli a riderne son quelli che hanno inaridita nel proprio
cuore la fonte di qualsiasi affetto, e che provano sempre una
certa molestia quando altri esprima affetti de' quali essi non pos-
sono pili sentirsi o non furono mai capaci. A me piace invece nel
Centofanti questo giovanile abbandono, questo sfogo oblioso di una
piena di sentimenti che ha bisogno di espandersi e comunicarsi ;
— 200 —
ed io vorrei che i giovani imitassero più presto questo eccesso
di affettuosa espansione, che 1' altro brutto eccesso di una politica
circospezione, di una fine avvedutezza, di un'apatica freddezza in
ogni cosa. Il fuoco può bruciare, ma il "suo principale ufBcio é
quello di scaldare e di alimentare la vita; il ghiaccio invece è la
morte e si risolve in pigri umori infecondi.
Quando il Centofanti intraprese in Firenze il suo corso di lezioni
sopra r Allighleri e la Dwina Coìmnedla, avea già con una sua
tragedia intitolata, come quella di Sofocle, da Edipo Re (1) acquistata
buona nominanza come poeta; le lezioni su Dante governate da
un' alta filosofia letteraria gli diedero credito come professore ;
per il che, dopo alcuni contrasti, riordinandosi 1' Ateneo Pisano,
egli venne nel 1841 eletto alla cattedra di storia della filosofia.
Nelle lettere che il Niccolini scrisse al Centofanti in quegli anni,
noi abbiamo la più esatta notizia di quanto risguarda la vita let-
teraria del Centofanti, in que' primi anni del suo insegnamento
universitario. L' undici novembre del 1841 , il Niccolini scrive da
Popolesco al Centofanti tuttora in Firenze : « Mi ha contristato
moltissimo 1' udire dalla vostra lettera non liete novelle sul vo-
stro affare, e non so come si osi proporvi una viltà, quasi fosse
piccola ingiuria il negarvi giustizia; alla cattedra fondata dal Go-
verno avete il migliore dei diritti, quello che danno gli studi e
r ingegno. Non si è dubitato della capacità di persone senza ta-
lenti e dottrina, di tanta miseria intellettuale da fargli ridicoli
anche al bestiame che nutrono le mangiatoie dei Seminari, e si
ardisce escludervi dall'Università, ove ragliano timidamente que-
(1) Firenze, Formigli 1829. '^eW Antologia di quell'anno medesimo,
Niccolò Tommaseo, più giovane del Centofanti di parecchi anni, ne scri-
veva così: « Moltissimo noi dobbiamo aspettare da questo giovane in-
gegno, s' egli vorrà, come saviamente promette, appigliarsi d' ora in-
nanzi a soggetti più prossimi alle nostre idee, a' nostri costumi; e non
si esercitar più, per modestia soverchia, sopra argomenti trattati da
Sofocle. » Quest'ultima osservazione è un po' ambigua; e se il Cento-
fanti, scelse di poi in una sua trilogia tuttora inedita, la Sforziade,
secondo il consiglio del critico, un tema nazionale, non sembra aver
avuto mai una singoiar simpatia pel suo primo critico, se dobbiamo
argomentarne da una certa lettera intemperante con la quale il Niccolini
rispondeva al Centofanti nell'agosto del 1844. -- Oltre alla Sfor:mde il Cen-
tofanti conserva presso di sé gran copia di scritti inediti, de' quali
si desidera la pubblicazione; tra questi, per quanto intendo, le proprie
Memorie.
— 207 —
sti inetti buffoni in abito talare. » Alfine il Centofanti veniva
eletto, e la sua prolusione alla Storia dei sistemi della filosofìa era
accolta con entusiastici evviva al nuovo professore, cui veniva
offerta una corona d' alloro ; al qual atto indicando la statua di
Galileo, egli soggiungeva con la modestia dell' uomo grande : « A
me no, ponetela sul capo del rigeneratore della filosofia moderna.
Egli è il primo filosofo che abbia il mondo. » E il due maggio
48i2, il Niccolini scriveva al suo acclamato amico di Pisa: « L'esito
della vostra prolusione è stato quale me ne dava certezza il vo-
stro ingegno, e vi desiderava il mio cuore ; ma quel che più mi
consola è 1' udire dalla lettera che avete scritta al Capponi che,
non ponendo mente agli emuli, vi occuperete interamente del-
l' argomento : correndo quest' Oceano , lascerete a schiamazzar
sulla riva questi miserabili, e nella vita dell'intelletto piena d'a-
more e di luce vi dimenticherete quasi che esistano; così l'Italia
avrà un libro pari all' altezza del subietto, e a quella della vo-
stra mente. Ricevuto il discorso stampato, il 9 maggio 1842, il
Niccolini torna a scrivere al Centofanti. « Ho letto la vostra pro-
lusione con quella cura che alla grandezza dell'argomento e del-
l' ingegno che prese a trattarla è richiesta. L' esordio non può
essere più bello e caldo d' affetti virili ; il rimanente è con sa-
pienza ordinato, serbando i limiti in tutto, lo che è segno di
vera forza. Insomma tutto il discorso ha la severa bellezza del
vestibolo d' un nuovo tempio che sorge alla gloria del nome ita-
liano. Gli amici vi salutano ; vi abbraccia coli' anima il vostro
Niccolini. — Il Capponi consente nella mia opinione, e vuole
eh' io vi dica mille cose di riverenza e d' affetto. »
E in quella alta opinione, intorno al valore del Centofanti come
sovrano e inspirato filosofo della storia e della letteratura conveni-
vano quanti italiani e stranieri si recavano in quegli anni a Pisa
col solo scopo di ascoltarvi l'illustre cattedratico, "^q' Rivolgimenti
italiani, il Gualterio lasciò scritto che il Centofanti era « l'idolo
della gioventù e la gloria maggiore dell'Ateneo pisano,» che « il
Montanelli medesimo riveriva in lui più il maestro che l'amico »
e che « all'influsso delle lezioni sue, al fascino della sua eloquenza
devesi in modo principale l'incremento della opinione liberale nella
gioventù toscana » Pubblicatosi il saggio del Centofanti Sulla vita
e le opere di Vittorio Alfieri, il Niccolini, nel gennaio del 1843
scriveva all'autore di esso : « Mi sembra un lavoro pieno di ma-
schia e sincera filosofia, e dettato in uno stile veramente splen-
dido ed efiicace. Ridetevi di quelli che vi rimproverano d'avervi
— 298 —
messo, com'essi dicono, troppa metafisica. Nulla può ordinarsi ed
intendersi pur nella storia della letteratura senza la guida della
ragione. Ma questa piscis non est omnium, e nell'Italia, sia detto
fra noi, vi è una gran miseria intellettuale. Seguitate a onorare
la patria e il secolo coi vostri scritti. »
Più diffusamente e con maggior calore torna a scrivergli
il Niccolini, dopo pubblicata la seconda parte del saggio, nel lu-
glio di quell'anno medesimo e conchiude : « Io sarei infinito nello
scrivere, se volessi notare in questa lettera tutte le cose che mi
piacciono nel vostro discorso. Se nel secolo non fosse un superbo
fastidio d'ogni cosa, non si dovrebbe da qui innanzi fare un'edi-
zione delle opere dell'Alfieri senza che fosse preceduta dal vostro
mirabile saggio, nel quale non è il farfallesco volo d'uno spirito
superficiale, ma la filosofìa con passi tardi; vere incessu paiuit
Dea » Il 1" marzo 1814, il Niccolini scrive al Centofanti d'avere
letto ed ammirato le due lezioni di lui sul platonismo in Italia;
il 21 maggio lo prega, anco a nome degli amici, di astenersi dalle
lezioni, per curare soltanto la minacciata salute; il 1" aprile 1846
gli fa cortesi premure, a nome dell'editore Le Mounier affinchè
termini il suo importante saggio sopra la vita e le opere di Plu-
tarco. E in questi saggi di filosofia letteraria io non conosco
scrittore italiano che abbia arrivato per amabile eloquenza, e per
altezza di concetti il Centofanti. Talora i fatti stessi non gli si
presentano in tutta la loro reale evidenza e però alcuni di essi
sopra i quali egli fonda una parte del suo sistema e delle sue
dottrine meritano ancora di venire discussi. Ma, quando la
moderna critica accetti il fatto storico, raro accade che il lu-
cido e vivo ingegno del Centofanti non ne sorprenda il suo aspetto
più luminoso. Se pertanto la critica di lui possa talora aver er-
rato ne'particolari, ne'generali apparve per lo più una divinatrice
sapiente, aperse nuovi orizzonti e suscitò fecondi entusiasmi.
Tale mi sembra pure il pregio principale del bel libro premesso
alla Raccolta de'poeti greci tradotti, ch'è una vera storia della lette-
ratura greca da'suoi principii fino alla caduta di Costantinopoli,
lumeggiata a grandi tratti, ma ove si getta pur molta luce in
certi periodi oscuri o meno studiati dalla letteratura ellenica, pre-
zioso lavoro di sintesi storica e filosofica, che si rivela come
frutto di un'analisi lunga e laboriosa; tal pregio finalmente os-
servo ancora nel saggio critico su Pitagora, scritto, per invito
di Niccolò Puccini, che avea provveduto ad innalzare nella
sua sontuosa villa presso Pistoia un tempietto in onore dello
— 290 —
antico fondatore della filosofia italica. Il Centofanti entra in
mezzo animoso e pur temperato, a comporre, ove si possa, la lite
fra i sostenitori del mito di Pitagora ed i suoi avversarli, e nel
far la critica di entrambi i sistemi dice spesso cose vere e profonde;
conchiude poi come conchiuderò pur io, avvertendo il giovine ita-
liano di por mente allo stupendo motto inscritto sul frontone del
tempio di Pitagora, dove, con la sapienza pitagorica sembra pure es
sersi voluto riassumere l'ideale della vita dell'illustre filosofo pisano :
ALETHEUEiN KAi EUERGETEiN, dire ìl vero ed operare il lene (1).
(1) Dopo i suoi trionfi come professore, che terminarono con I' anno
1848, il Centofanti non ne potè aver altri maggiori; prese parte alle cose
politiche degli anni 1848-49; tornato il Granduca, gli fu soppressa la
cattedra, ed il Centofanti si trovò eletto più a motivo d onore che d'ufficio,
ispettore delle biblioteche toscane; dopo il 27 aprile 1859, egli veniva
chiamato a far parte della Consulta di Stato, poi eletto presidente della
Sezione di filosofìa, e filologia dell'Istituto di studii superiori, e final-
mente Senatore del Regno e Rettore dell'Università di Pisa.
XVIII.
MICHELANGELO CAETANL
• L'Italia nostra venera quattro ciechi veggenti. Di Gino Capponi,
di Niccolò Tommaseo e di Silvestro Centofanti ho già fatto breve
ricordo. Restami a rammentare Michelangelo Caetani, Duca di
Sermoneta. Vi sono altri duchi in Italia; ma di quelli nessuno
mai scriverà; io non sono invece il primo, biografo del Sermo-
neta. Parecchi giornali politici, illustrati ed artistici m'hanno già
preceduto nel dir le lodi del primo cittadino di Roma. Non vedo
tuttavia che alcuno fìnqui abbia tenuto il debito conto dell'uomo
di lettere, e l'opportunità che mi si offre di ragionare particolar-
mente intorno allo scrittore coltissimo, mi offre pure l'occasione
di toccare novellamente degli altri meriti singolari d'un patrizio,
nell'età nostra, per più riguardi, insigne.
Don Michelangelo Caetani è, in verità, uno de' patrizi! più ti-
tolati d'Italia; al tempo stesso, principe, duca, marchese, barone,
grande di Spagna di prima classe e, da due anni in qua, collare
del supremo ordine dell'Annunziata, nella gerarchia araldica tiene
un posto naturalmente molto invidiato dagli affacendati sollecita-
tori di vanità fastose. Ma tanto splendore, tanta pompa di titoli
mi dice quasi che nulla intorno ai meriti proprii del nobile duca ;
io godo invece nel poter notare come nel Caetani sembri passata
intatta l'anima d'un grande Quirite antico; né l'anima soltanto,
ma, direi pure, il contegno e l'aspetto. Ne' severi ed armonici li-
neamenti del maschio suo volto si direbbe risplendere tutta l'an-
tica maestà latina; nella brevità serrata, viva, potente e non di
rado sentenziosa ed epigrammatica del suo linguaggio si è spesso
tentati d'indovinare l'antico oratore romano.
— 301 —
Nato dal principe Enrico, il 20 marzo 1804, Michelangelo Cae-
tani visse ritiratissimo fra gli studi artistici e letterari! i primi
anni della sua vita. Il professore Emilio Sarti, uomo di lettere
eruditissimo nella lingua greca, gli fu, per tempo, compagno ed
amico; e, giovinetto ancora, il Caetani. s'innamorò per modo della
Divina Commedia, che dal sacro volume trasse poi, nella sua vita
di studioso, le supreme consolazioni come pure la fama di letterato
egregio. Incominciò egli col leggerlo, continuò con l'intenderlo,
finì col farlo intendere agli altri, in quello stesso modo naturale
col quale l'aveva inteso egli stesso, senza altra guida che quella
d'un ingegno penetrante, e di quel metodo d'interpretazione che
il padre Giuliani ordinò poi in un sistema sapiente e popolare, spie-
gando cioè Dante con Dante. Tre notevoli saggi egli pubblicò, quale
interprete di alcuni passi speciali della Divina Commedia, uno per
ciascuna cantica, cioè dell'S" e 9° canto ^leWIìiferno, della MateUla
nel 28" canto del Purgatorio, e dell'imagine dell'aquila nel 18'' canto
del Paradiso. Mandando due di queste memorie il 13 marzo 1857
al prof. Giuliani in Genova, il Caetani scrivevagli nella forma se-
guente: « In esse rinverrà come da me siasi sempre proceduto
nella interpretazione del Poema sagro con quei giusti precetti da
Lei nel suo Libro valorosamente dimostrati necessari. Il lavoro
mio, si nell'uno che nell'altro scritto, (com'Ella potrà tosto cono-
scere, nel riguardarlo) non è fatto per mia gloria, nulla, o quasi
nulla essendovi di mio, ma per gloria e intelligenza maggiore di
Dante, che in tutto il corso di mia vita ho cercato rendere, por
quanto è stato in mio potere, più conosciuto e meglio inteso ».
Il discorso del Caetani sull'ottavo e sul nono canto dell'Inferno,
ove egli tenta ingegnosamente di mostrare come l'Angelo il quale
forza i Demoni a lasciar entrar Dante nella città di Dite, non sia
altrimenti un Angelo ma Enea, ebbe gli onori di una traduzione
tedesca; nel discorso sulla Matelda, il Caetani raffigura sotto quel
nome non già la celebre castellana di Canossa, ma la santa Ma-
tilde de' conti d'Hingelheim, donna d'Arrigo l'uccellatore e madre
d'Ottone il Grande (1); nel breve, ma ingegnoso e convincente,
scritto sopra l'immagine dell'aquila nel Paradiso di Dante, si di-
mostra finalmente come nelle stelle di Giove, i principi beati, fer-
(1) Veggasi pure intorno a tale questione, per l'opinione contraria, un
dialogo di Salvatore Betti: La Matelda della Divina Commedia, Roma,
tip. delie Belle Arti, 1858. (Estratto dal Giornale Arcadico).
— 302 —
mandosi sopra la lettera emme, rappresentata con la grafia del se-
colo XIII, trasformino la lettera in un'aquila simbolo d'impero e
di quella monarchia dall'Alighieri augurata. Ma il maggior ser-
vigio per lo studio della Divina Commedia lo rese il Caetani, col
magnifìco suo libro intitolato: La materia della Divina Com-
media di Dante Allighieri dichiarata in sei tavole, della quale
si fecero finquì due edizioni romane, la prima nel 1855, la seconda
nel 1872. La seconda edizione reca per epigrafe questa terzina
di Dante :
0 abbondante grazia, ond'io presunsi
Ficcar lo viso per la luce eterna
Tanto che la veduta vi consunsi I
II Caetani perdette, per intiero, la vista nell'anno 1865. — Nel
prologo del libro si espone con efficace brevità l'allegoria morale
che si può ricavare dalla Divina Co^Jimed/a, seguendo le dottrine
professate dal sommo poeta nelle varie sue opere. Segue una di-
ligente esposizione delle sei tavole; una tavola descrive l'universo,
secondo che viene raffigurato dal poeta, tre tavole ci rappresen-
tano l'inferno dantesco, una tavola il purgatorio, e una tavola il
paradiso. Conchiude l'autore la parte commentizia del libro, con
l'indicazione del senso allegorico delle singole principali figure
dantesche, lavoro che, nella sua brevità, si può considerare come
una vera e completa introduzione allo studio della Divina Coìti-
media, per quanto ne risguarda il supremo intento morale ed
ideale, o filosofico. Il merito dell'interprete in questo stupendo la-
voro del Caetani è il principale ; ma non è poi da trascurarsi il
merito dell'artista che ha disegnato con mirabile finitezza queste
tavole.
Il disegnatore fu il Caetani stesso, valentissitjio cultore delle
arti del disegno. Come la penna, il Caetani trattò, con grazia, la
matita, il pennello e lo scalpello. Fu particolarmente ammirata,
fra gli altri suoi lavori di scoltura, una statuetta di marmo, rap-
presentante un amore legato ad un tronco, con gli occhi rivolti
al cielo, quasi dolente di essere stato fatto prigione ; intimo amico
e caldo ammiratore del grande scultore Pietro Tenerani, e uomo
egli stesso di alto e versatile ingegno, si comprende agevolmente
com'egli potesse anco nell'arte scultoria lasciare buon nome di
sé. Lo stesso affetto per 1' arte mosse il Caetani a disegnar molto
in oreficeria, per rialzare un'arte già gloriosa in Italia, e per
venire in aiuto al suo amico, il gioielliere Fortunato Pio Castel-
- 303 -
lani tutto inttìnto al risorgimento dell' arte del Cellini. Per con-
siglio e guida del duca di Sermoneta, il Castellani tentò primo
quelle imitazioni de' gioielli greci ed etruschi, che gli diedero
nominanza europea. « Noi siamo lieti, scriveva il signor G. Giuc-
ci, nella Roma Artistica dell' anno 1871, di salutare in questo
nobile concittadino il restauratore dell'arte, il maestro dei nostri
migliori Orafi, fra i quali primeggia il nome di Fortunato Castel-
lani, mancato ai vivi, e del di lui figlio Augusto, che segue con
lode le onorate orme del padre. Dalla loro ofiicina nel 1859 usci-
rono le due mirabili spade d' onore, dopo la guerra d' Italia dai
patrioti romani offerte a Napoleone e al Re Vittorio Emmanuele.
Fu il Duca di Sermoneta, che ne ideò il modello, fu il Castella-
ni, che r eseguì in oro con preziose gemme incastonate. »
Né qui finiscono le attitudini svariate dal più nobile fra i nobili
romani. Che, per tacere delia sua qualità privatissima di eccellente
amministratore del suo patrimonio privato, che lo raccomanda come,
pubblico amministratore , risuonano unanimi in Roma le lodi at-
tribuite al Duca di Sermoneta, come a comandante del Corpo dei
Vigili, nel quale ufi:lcio sedendo per trent'anni, egli provvide effica-
cemente ad una buona istruzione de' militi, e ad ottener le più
perfette macchine idrauliche per l' estinzione degli incendi. I suoi
sensi liberali son finalmente noti non pure a Roma ma all' Italia
tutta, poiché non s'ignora com'egli, qual presidente della Commissio-
ne Romana, presentasse al Re d'Italia il plebiscito del popolo di Roma,
come il popolo di Roma lo eleggesse suo deputato e, come, infine,
qual deputato, come pure nel rinunciare all' onore di sedere in
Parlamento, egli abbia dato prove manifeste d'animo veramente
romano, risoluto ed indipendente. Ma non erano questi sentimenti
egualmente noti all'Italia prima del 1870. Perciò a rendersene
persuasi converrà farsi raccontare dai romani stessi quanta molestia
dessero al governo papale gli arguti epigrammi del Duca di Ser-
moneta, i quali avevano pur sempre il privilegio di diventar po-
polari. Trovo poi, e qui li reco, in parecchie lettere che il Duca
di Sermoneta scrisse e spedì da Roma o dalla provincia, innanzi al
1870, ad un amico fidatissimo, segni non dubbi, del suo animo libe-
rale e del suo civile coraggio. Nel 1863, egli, scrivendo ad un amico,
esprimevasi così: « Ma, ben più che l'età, mi è grave l'iniquità per
tanti anni sofferta e veduta soffrire, la quale é il più pesante carco
che si abbia l'umana vita. Qual meraviglia poi se questo negli uomini
talvolta addiviene, che
Fa così cigolar le lor biJancie.
- 304 —
Cotesto cigolar si è quello che spiace agli orecchi de' tiranni. »
Poco innanzi, egli avea scritto allo stesso amico che il lettore
riconoscerà agevolmente .- « Continui dunque valorosamente in
cotesti suoi nobilissimi lavori, e sotto un si libero cielo con la
benedizione, e con l'ammirazione di tutti gli uomini di buon gu-
sto, e^ honae voluntatis. Io debbo contentarmi di ammirarlo da
lungi come un infelice abitatore della Gran cerchia infernale, che
dicesi Limbo, e sarei ben lieto se mi fosse dato dalla sorte di
poterlo visitare col nostro Allighieri nel nobile castello sette volte
cerchiato d' alte mura in cui Ella é coi Spiriti Magni; ma in
quella vece sono in mezzo alla ignavia, con la brutta compagnia
della vecchiezza, che tanto si prova più grave quanto meno lo
spirito è sodisfatto. » Dopo la catastrofe di Mentana, il 26 dicem-
bre 1867, il Caetani tornava a scrivere: «... l'affetto nostro si
è formato e mantenuto per la Dio grazia, nel campo delle lettere
belle e non in quello della politica bruttissima che ora tenta gua-
stare il nostro bellissimo Giardino d' Italia. Lusinghiamoci pure
che il fine di tutte queste cose sia così lieto e cosi prospero al
paese nostro come è desiderio di tutti i buoni, e che 1' anno che
giunge e che io a Lei auguro felicissimo sia pure per compiere
i voti di tutti gli italiani bonae voluntatis. »
Si comprende pertanto come ad uomo che pensava e parlava
liberamente in tempi ne' quali non era lecito il farlo senza peri-
colo possano garbar poco adesso le tergiversazioni d' un governo
che ha fatto, pur troppo, della questione romana poco più che
una questione burocratica, di un governo indeciso, privo d'inizia-
tiva e di coraggio, erede di una politica da principotti ignavi e
non già da fieri romani, e non già da Italiani vivaci, rivendicati
in libertà. Il Caetani ha perduto il lume della vista materiale, ma,
per fortuna sua e diremmo nostra s'egli fosse ascoltato, non an-
cora quello della vista ideale onde, sebbene con la pupilla spenta,
egli vede sempre più lontano assai di parecchi reggitori nostri, i
quali, malgrado gli occhiali ora inglesi, ora prussiani, ora, se
bene non sia più di moda, parigini, che fanno le viste di pro-
varsi perchè la diplomazia non strilli troppo, per ciò che risguar-
da il nostro avvenire si mostrano affetti da incurabile miopia.
Milano ha il suo Manzoni, Torino il suo Sclopis, Firenze il suo
Capponi, Roma può vantarsi del suo Duca • di Sermoneta, per
molti riguardi uomo grande ed originale; di questa originalità
ho recato parecchi indizii; piacerai aggiungerne un altro ancora
intorno alla prediletta delle sue opere, della quale fin qui ancora
— 305 _
non feci motto. Dalle sue nozze con una signora polacca, la contessa
Calista Rzewuska, che Io lasciò vedovo nel 184-2, il Caetani ebbe
due fls'li. Onorato principe di Teano, nato nel 1842, Ersilia, nata
nel 1840, che nel 1S')9 sposò il conte Giacomo Colombo Lovatelli
di Ravenna, ora deputato in Roma. La contessa Ersilia Lovatelli
figlia del Duca di Sermoneta, già dotta, sull'esempio della gloriosa
Clotilde Tambroni, nelle lettere greche e latine, è pure la prima
valorosa italiana che abbia (in qui studiata ed appresa sul serio
la lingua sanscrita.
RicoRui Biografici 20
XIX.
GIAMBATTISTA GIULIANI.
Narra la cronaca, e credo narri il vero, che un giorno il padre
Giuliani camminava, assorto in sue profonde meditazioni, per la
campagna Toscana, quando lo vide passare un amico e lo chiamò
tre volte per nome; ma fu vano grido, poiché il padre Giuliani
seguitava diritto per sua via solitaria. Allora l'amico non sapendo
pili a qual magica virtù raccomandarsi per trattenere il pensoso
viandante dal suo fatale andare, incominciò :
Per me si va nella città dolente...
e volea ben dir più, ma non n'ebbe uopo, che il padre Giuliani a
quel primo amoroso grido si era intanto già volto, e come dal
disio chiamato traevasi sollecito là onde il lieto grido gli era
primamente venuto. Questo aneddoto potrebbe servire un giorno
qual motto epigrafico, chi imprendesse a scrivere la vita del più
chiaro fra i viventi spositori di Dante, e può valere, io spero, a
me di scusa, se, quantunque ei non sia vecchio ancora, dopo ram-
mentato nel venerando Duca di Sermoneta uno de'più diligenti
interpreti del divino Poema, per naturale associazione d'idee, pongo
ora il nome del dantista Giuliani nella prima serie de' miei Ri-
cordi.
Nacque Giambattista Giuliani il 2 giugno 1818 nel Comune asti-
giano di Canelli, da Paolo Giuli^ii e da Maddalena Ghione. Della
madre ei dice con efficace verità di linguaggio che la conobbe sol-
tanto € per desiderarla e piangerla sempre »; il padre invece potè
— 307 —
seguitare fino all'anno 1862 con animo lieto i trionli del figlio.
Al vecchio padre allude con molta delicatezza di sentimento il
seguente grazioso sonetto (flnqui inedito) di Giovanni Prati, im-
provvisato più che composto in Canelli il 29 agosto dell'anno
1856, quando i compaesani del Giuliani erano venuti a fare una
serenata al loro illustre conterraneo, decorato delle insegne di
San Maurizio e Lazzaro, in un tempo nel quale non era ancora
facile né si pronto il riceverle.
Padre buon, padre dotto, padre santo.
Crocefisso con garbo e con giudizio,
Nel gran giron di Lazzaro e Maurizio,
Per le nuove postille al divin Canto.
Il Re che d'Alighier non sa poi tanto.
T'ha battuto la spalla in suo servizio,
E tu, grato al colpetto e al benefìzio ,
Offri in gloria di Dio questo uman vanto.
Ed ai musici accordi or fa buon viso.
Che se non son veracemente quelli
Che Dante ritrovò nel Paradiso,
Son però nati nella tua Canelli ;
Poi guarda il Vecchio che t'è accanto assiso,
Che ben vai cento nastri e cento occhielli.
Degli studii rettorici continuati in Asti, il Giuliani non serbò, per
fortuna, altro ricordo che il celebre motto d'Alfieri: volli, sempre
volli, fortissimamente volli. E dallo studio della filosofia fatto in Pos-
sano tolse ad amare particolarmente le scienze matematiche ed
i suoi istitutori Somaschi, nell'ordine de'quali entrò quindi egli
stesso, per assumerne l'abito e professarne la regola dal 20 di lu-
glio 1836 in poi, facendo sempre con iscrupolo il suo debito di
religioso per quanto la vivacità dell'indole sua e un ardente biso-
gno di espandersi e di comunicarsi, gli abbiano poi forse fatto
più d'una volta sentire il peso di un voto pronunciato in un'età,
nella quale nessun uomo può ancora dirsi libero e sicuro manteni-
tore delle date promesse. Non potendo altro, volle almeno il Giuliani
che la religione, anzi che farle torto, venisse in aiuto alla libertà;
e, ricorrendo tutta la sua vita, è agevole persuadersi, come, se
egli, per dovere, ebbe a serbarsi buon sacerdote cattolico, per nobile
istinto, per educazione s^ia propria, per potenza d'affetto, e pel
culto da lui professato a Dante, riusci sovra ogni cosa un caldo
e bene inspirato scrittore italiano.
— 308 —
Ho detto che egli incominciò con le matematiche, ed in queste
ottenne in breve fama di dotto. Dicianovenne fu chiamato ad in-
segnar tutta la filo.sotìa e in ispecle matematiche e fisica nel Col-
legio dementino di Roma. Nel qual tempo, ad accrescere la pro-
pria erudizione egli frequentò pure nell'Università della Sapienza,
le lezioni di matematica del Calandrelli e di Barnaba Tortolini,
e quelle di fisica di Saverio Barlocci, di cui poi narrò la vita.
Sul finire del 1839, il Giuliani si recò a professar fdosofia nel
liceo di Lugano. Nel settembre del 1840, sedette ancli'egli, pre-
scelto dai propri i colleghi luganesi, e dal proposto Ponta, fra i
dotti del Congresso torinese degli scienziati, ove conobbe, fra gli
altri, il Cantù, il Cibrario, il Paravia, ed il tisico Botto. Nel 18il,
pubblicò in Lugano, presso la Tipografìa Veladini, un Traiialo
elementare di Algebra ad uso di quel Liceo, che lo adopera tut-
tora, molto lodato in quel tempo, e del quale fa pure onorevole
menzione VLlalia scientifica d'Ignazio Cantù. Nel dedicare questo
suo primo lavoro al proposto D. M. G. Ponta, il Giuliani si
esprime ne'termini seguenti ch'io rilevo, perchè si renda palese
lo studio ch'egli poneva fin da quel tempo per riuscire scrittore
elegante : « Non sì tosto intesi a parlar di Lei, che forte m'in-
vogliai di conoscerla, e come prima la conobbi ne fui preso d'am-
mirazione e di amore. I quali affetti non mi venner meno col
tempo e per conversare che io facessi con Lei, anzi viemmag-
giormente s'accrebbero, perocché ognora più amabili e preziose
mi venivan parendo le sue rare prerogative. Tanto che le posso
affermare senza ombra di adulazione, che Ella troverà si al-
tri più degno del suo amore e la cui stima le torni più gradita,
ma non già che al pari di me, l'ami e l'onori. » Il Giuliani potè
bene col tempo, ne'suoi frequenti viaggi in Toscana, divenire
scrittore più disinvolto e più ricco, ma ciò che nello stile rivela
il carattere dell'uomo, ossia il movimento dell'animo si trova già
nelle citate parole della dedica di or sono più che trent'anni, tal
quale lo osserviamo negli scritti dell'età matura dell'eminente
dantista. Prima di offrirci i suoi pensieri il Giuliani ha bisogno
di vestirli, adagiarli, cullarli; perciò non accade mai ch'egli li
mandi fuori brulli ed ignudi, come i figliuoli di nessuno; essi
hanno a rivelar sempre di chi son nati, e possono sempre far fede
d'esser nati non solo legittimi ma di nobile ed onorata stirpe.
Le fatiche dell'insegnamento e le molte veglie protratte nello
studio, strinsero tuttavia il dotto giovane Somasco^ verso l'ago-
sto di quell'anno stesso 1841 a cessare dall'insegnamento e, dopo
— 300 —
aver soggiornato alcuni mesi in Cherasco, a far ritorno in Roma,
per ritrovarvi la voce, la freschezza, la vigoria perduta, ed ar-
restare i progressi d'una minacciosa consunzione che pareva vo-
lerlo condurre nella primavera della vita al sepolcro. Né il clima
di Roma bastò; i medici consigliarono il soggiorno di Napoli, più
con la certezza ch'egli andrebbe a morirvi, che colla speranza di
vedernelo tornare in buona salute; ed egli stesso era oramai così
disperato delle cose sue, che de'suoi più cari oggetti, prima di
porsi in viaggio, avea fatto parte a'suoi migliori amici, perchè
essi almeno lo ricordassero. L'aria balsamica di Napoli fece invece
il miracolo di guarirlo. Ed in Napoli egli ebbe modo di conoscere
l'illustre Carlo Troya e Giuseppe De Cesare, che presero a ben
volergli e lo fecero anzi accogliere tra i socii corrispondenti del-
l'Accademia Pontaniana, Basilio Puoti (1), la poetessa Giusep-
pina Guacci e Pasquale Borelli che sotto il nome di Lallebasque
avea pubblicato a Lugano in sei volumi la Genealogia del pensiero.
Egli potè quindi tornare in Roma nel 1843, più che mai risoluto di
consacrarsi agli studii danteschi. A Dante avea il Giuliani già
volto la mente fin dal 1839 in Roma, ove un amicissimo del Duca
di Sermoneta, il dotto padre Luigi Parchetti avevagli lungamente
e con amore ed ammirazione ragionato del divino Poeta. Da una let-
tera del prof. P. A. Paravia diretta nel marzo del 1841 da Torino al
Giuliani, allora in Cherasco di Piemonte, rilevo poi come fin da quel
tempo il nostro dantista s'occupasse di questioni dantesche, se bene
mostrasse di farlo più per conto d'amici che pel proprio (2), servendo
particolarmente qua! mediatoreal padre Ponta, dantista di valore. Ma
il fuoco non si tocca, senza sentirne il calore; e il Giuliani, più che
sentirne il calore, fu infiammato del fuoco di Dante. Mentre per-
tanto, giovane egli stesso, ammaestrava nelle lettere latine i gio-
ii) 11 Puoti, che d'altro non s'occupava all'infuori del dettato, e che ne
sentenziava, scriveva poi nel 1845 al Giuliani in Genova: « Non solo io
lessi con molto piacere il suo discorso che ebbe la cortesia di man-
darmi, ma 'subito le scrissi per lodarglielo, essendomi paruto ben con-
dotto e in alcuni luoglii di rcolta caldezza. Mi congratulo ora un'altra
volta con lei', e mi gode l'animo di poterle dire che ella sarù'un giorno
tra'i nostri migliori dettatori. »
(2) Dallo stesso importante carteggio del Paravia al Giuliani, che sarà
ben degno un giurno di venir pubblicato, tolgo la notizia che nel 1840
e r8'4l, il Giuliani si occupò ancora intorno alla biogralia del canonico
Moschini,-1a quale vide in quel tempo la luce.
— 310 —
vani maestri della congregazione Somasca, discorrendo con let-
terati ed artisti egregi fu irresistibilmente attratto al culto delle
lettere. Conobbe e frequentò lo scultore Tenerani ed il Finelli, il
Podesti ed il sassone celebre dipintore Vogel di Vogelstein, del
Tenerani particolarmente e del Vogel divenendo intrinseco. Nel
Museo di Dresda si conserva un bellissimo ritratto del giovine
padre Giuliani, in abito talare, opera del Vogel, di cui il Giu-
liani illustrò poi nel ISi'ó, il quadro rappresentante la Divina Com-
media, come l'anno innanzi egli avea degnamente scritto so-
pra la Deposizione di Cristo dalla Croce, alto-rilievo operato
in marmo da Pietro Tenerani. Letto quel discorso, il Gior-
dani, buon giudice in cose d' arte, scriveva rallegrandosi col
Tenerani ch'avesse trovato un lodator degno ; e colmavalo di lodi
nel Giornale arcadico, Salvator Betti. Il discorso sul quadro di
A'ogel meritò al Giuliani le più ampie lodi del Niccolini (1) e di
Dionigi Strocchi, fra gli altri. Ma questo non fu il primo scritto
del Giuliani che trattasse materia dantesca: già nel 1844, egli
aveva messo a stampa tre notevoli discorsi l'uno Della riverenza
che Dante Allighieri portò alla somma Autorità Pontificia, un
altro sul Veltro allegorico del poema sacro, che, secondo il Giu-
liani, seguito poi da molti, fu il papa Benedetto XI ; il terzo Dei
pregi e di alcune nuove applicazioni dell' Orologio di Dante
immaginato da M. G. Pouta. Sul primo lavoro dettava un bel-
r articolo Felice Romani, nella Gazzetta Piemontese del 20 di-
cembre ISM, e Pietro Giordani il 25 gennaio 1845 scriveva al
Giuliani: « Cortese e riverito signore, Anch'io ho sempre tenuto
che Dante fosse avverso alle persone che tennero il papato nei
suoi tempi; ma che nella fede egli fosse cattolico perfetto, e osse-
quiosissimo al pontilicato, senza il quale vedeva che sarebbesi
disfatta l'unità cattolica; » e il celebre Carlo Witte dal suo canto
scriveva al Giuliani da Halle il 2 gennaio 1845 : « Devo ai favori
del signor de Vogel una copia delle dotte di lei illustrazioni sul-
r insigne quadro di questo illustre professore, ed il signor Vela-
dini gentilmente mi donò l'opuscolo Sulla riverenza di Dante ecc.
Se nella prima di queste opere, 1' oggetto di cui tratta concorse
cogl' insigni meriti per rendermene gratissima la lettura, con non
minore soddisfazione lessi la seconda che vittoriosamente resti -
(1) Veggasi r Opera più volte citata del Vannucci sopra il Nic-
colini. - .
' — 311 —
tuisce all' Allighieri il vanto di cattolico ortodosso. Ella non
ignora, per quanto ho veduto, che oltre ai sogni del Foscolo e
del Rossetti, alcuni dei miei compatriotti credono di onorar la
memoria del divino poeta, accoppiando il suo nome con quelli di
Pietro Valdo, di Huss e di Lutero. Quantunque io sia acattolico,
ho sempre creduta falsissima una tale opinione, la quale invece
di farci conoscere nella Divina Commedia il più squisito flore del
medio evo, esalante quanto di più santo e di più sublime nacque
nei cuori di tante generazioni, ce la trasporta in un secolo tutto
differente, e deve di necessità far crollare i fondamenti della gran
fabbrica del poema, con somma sapienza gettati dall' autore sul-
r immutabile dottrina della Chiesa, e sulle credenze del suo tem-
po. » Cito e passo. Letti i primi lavori danteschi del Giuliani,
Carlo Troj'a sul fine del suo opuscolo : De' viaggi di Dante a
Parigi e dell' anno in cui fa pubblicaia la Cantica dell' Lifer-
no, ebbe nel 18-4Ó a conchiudere: « Questi fatti desidero sieno
presenti a' Comentatori di Dante, fra' quali uno s' accinge ad
illustrarlo con corredo e di buon giudizio e di opportuna eru-
dizione. Parlo del P. Giambattista Giuliani, somasco, di cui
m' è noto il valore. » Nello stesso anno 1845, incominciò in-
fatti il Giuliani a comunicar molte sue note all' abate Bru-
none Bianchi che in queir anno stesso le allogò, stroncandole,
al loro posto, con parole di molta lode pel Giuliani nell'edizione della
Divina Commedia pubblicatasi dal Le Mounier. E, sebbene, nella
seconda edizione, per incauta gelosia di mestiere, il Bianchi abbia
poi trovato il suo tornaconto nel sopprimere affatto il nome del
Giuliani, pur ritenendo le note, la lode che ne viene al Giuliani,
ne è tanto più grande. Il primo Saggio poi di un nuovo com-
mento della Co/Y media di Dante Allighieri che si pubblicò nel 1845
a Genova (ove intanto, come maestro di lettere ai Somaschi, egli
s' era condotto) finì per assicurare interamente la fama e l'auto-
rità del Giuliani, il quale, se in lui la modestia non agguagliasse
il valore, potrebbe bene menar vanto, d' aver nel mondo dante-
sco, a pena vi pose il piede, conseguito la gloria. Le idee gran-
di, per lo più, sono semplici; il Giuliani ne indovinò, ne colori,
ne divulgò particolarmente una. Allora, come accade, parve ch'e-
gli facesse la cosa più facile e più naturale del mondo ; ma nes-
suno vi s'era provato con quell'animo risoluto, prima di lui ; nes-
suno riuscì poi meglio di lui nell'intento. Aprendomisi un giorno,
egli mi disse: « Negli studii la mia norma si fu questa; poche
cose, e quelle studiare bene a fondo.» Quando studiava matematiche.
— 312 —
egli compose uno de'più lodati trattati d' algebra ; come studioso di
Dante, egli Io illustrò tutto; come studioso del linguaggio toscano
vivente, fece, egli solo, non toscano, quanto non era ancora stato
fatto e forse non sarà fatto mai da toscano alcuno. L' age qiiod agis
nessuno lo intese e lo praticò meglio di lui; religioso fece il debito
suo; cittadino italiano del pari; Dantista glorilìcò il suo poeta; to-
scanista (se la parola non esiste, domando umile licenza d'inventar-
la), dal. popolo toscano cercò e trovò nel linguaggio la poesia; e,
se dopo ciò, sembri ancora- ad alcuno, che il Giuliani abbia fiitto
poco, mi si dica, se molti uomini di lettere abbiano in Italia operato
assai più ed assai meglio. Il Giuliani è quasi conterraneo del-
l'Allìeri; perciò quella sua lunga e potente ostinazione ad un
punto luminoso, lindi' egli lo arrivi; egli non salta sopra il suo
soggetto, ma vi entra; e l'entrarvi domanda sempre «tempo.
Quel saggio ottenne il suffragio lusinghiero d' alcuni ingegni
famosi; ricorderò per prima una lettera inedita del Niccolini, onde
rilevo il seguente giudizio: « Senza arrogarmi talento e dottrina che
bastino airulìicio di giudice in cosi diflìcil materia, candidamente
le dirò che le sue spiegazioni mi capacitano, poiché, senza tor-
mentare il testo del Poema, Ella ne trae quel senso ch'essendo il
più naturale, io tengo per vero, e quel tanto arzigogolarvi, il
quale si fa per molti, io lo reputo oltraggio allo schietto ingegno
dell' Alighieri, e perdita di tempo. Se le cose vanno di questo
passo, e ogni verso di Dante divien speculazione di ciurmatore,
quel Grande verrà in odio a quanti hanno fior d' intelletto e
sanno che la religione stessa può cangiarsi in superstizione. Ma
il mondo è un briaco a cavallo ; i nostri padri pei tristi maestri
che avevano tennero Dante in dispregio; or tocca ai sapienti
come V. S. di provvedere con as-ennati commenti che non si fac-
cia disputa sopra ogni sua parola e che quella poesia, rimanendo
oppressa da note e da questioni non perda la sua efficacia nell'ani-
mo nostro. » Il conte Giovanni Marchetti, l' illustre autore della can-
tica: Una notte di Dante, da Bologna, scriveva il 10 maggio del-
l'anno 184G al Giuliani: « Ho letto attentamente, e con piacer som-
mo, il suo Saogio. Ripeto ciò che nell' altra mia già le scrissi ;
cioè che a me piacque assaissimo il suo pensiero di spiegar Dante
principalmente con Dante stesso. Ora le soggiungo che, a mio
giudizio. Ella pone egregiamente ad effetto il suo proposito. Giu-
stissime le interpretazioni; belle e veramente filosofiche le consi-
derazioni. Quanto ingegno, quanta dottrina, quale e quanto pro-
fondo studio del divino Poeta ! Io me ne congratulo con Lei ben
— 313 —
ili cuore; e vivamente desidero di veder presto l'intera sua opera
pubblicata per le stampe. »
Il soggiorno di Genova era in quel tempo uno de'più desiderabili
per un uomo di lettere, percliè un egregio Mecenate patrizio ed una
donna d' ingegno e di cuore raccoglievano intorno a sé quanti
nobili intelletti la città di Genova accogliesse e le attiravano di
fuori numerosi visitatori. Il patrizio era il buon Marchese Gian
Carlo Di Negro, verseggiatore mediocre, ma caldo ed appassionato
amico di letterati ed artisti, ch'egli invitava ospitalmente nella
sua splendida villetta, e che accompagnava nella loro vita con
tutto il suo affetto operoso. Egli mori a Genova il 31 agosto
dell' anno 1857, in età di anni 85; e ne scrissero degnamente le
lodi Antonio Crocco, scrittore de' migliori, e il Giuliani stesso al
Di Negro ed al Crocco amicissimo (1). La chiara gentildonna
era la Bianca Rebizzo lombarda (la morte della quale fu compianta
in nobili versi dall'Aleardi), ch'ebbe in Genova Ano a questi ul-
timi anni non pure fama di donna insigne per le qualità dell'ani-
mo e dell'ingegno, entrambi atti ed intenti a indovinare ed a
rilevare il bene ove si contenesse e si celasse, ma che esercitò
pure un potere efficacissimo nella vita pubblica genovese dell' ul-
timo ventennio. In casa della Rebizzo, il Giuliani conobbe la prima
volta, fra gli altri, Vincenzo Ricci, Lorenzo Pareto, Antonio Crocco.
In casa della Rebizzo ancora, si fondò il 5 gennaio dell'anno 1850,
promossa da Terenzio Mamiani, Antonio Crocco, Vincenzo Ga-
relli, Giambattista Giuliani e Gerolamo Boccardo, V Accademia di
filosofia italica, da me già toccata nel Ricordo del Mamiani. Nel
resoconto delle Adunanze preparatorie di quell'Accademia estratto
dalla Rivista Italiana, che nel 1850 Domenico Berti dirigeva in
Torino, io leggo :« Il primo tema di quelle scientifiche disputazioni
veniva proposto dal P. Giuliani, il quale dichiarava di vuler par-
lare della filosofia di Dante, soggetto che credeva conforme a una
delle intenzioni dell'Accademia, di ravvivare, cioè, e di illuminare
le tradizioni ed i pensamenti dell' antica scienza italiana. » E
come in un'Accademia italiana fu primo il Giuliani a promuovere
la discussione sopra il divino poeta, cosi egli era stato primo nel
settembre del 18i6 a dare dritto di cittadinaaza in un congresso
(1) Veggasi l'elogio del Di Ntgro nel!' irnpor'tante volume del Giu-
liani: Arte, Patria e Religione, Prose, pubblicato dai successori Le Mou-
nier nel 1870.
— 314 —
di scienziati a Dante (1), ingegnandosi originalmente a dimostrare
come la Divina Cotnmedia fosse il piìi antico e sicuro monu-
mento della storia d'Italia, e arrivando fino ad osservare, entrato
animosamente nelT arringo politico, che i tempi erano mutati, e
che nessun italiano avrebbe oramai più chiamato Alberto tedesco
ad inforcare gli arcioni d' Italia, quando si aveva un Alberto
italiano. Il discorso fu interrotto da vivi applausi; Alberto La-
marmora, commissario politico, sorse allora a protestare contro
r intrusione di Dante ne' congressi ; Cesare Cantù, il presidente
San Quintino e Luigi Cibrario difesero con calorosa eloquenza il
Giuliani, il nome del quale divenne allora tosto popolare. Il Ci-
brario e il Sauli d'Igliano poi furono pronti, dopo quel discorso, a far
nominare il Giuliani corrispondente dell' Accademia delle scienze di
Torino, e il marchese Luigi Serra, capo della Riforma degli studii
in Genova, a farlo eleggere dottore collegiate della facoltà di
filosofia e lettere nell' Università di Genova. Intanto s' accostava
la grande agitazione politica d'Italia degli anni 1847 e 1848.
L' elezione di Pio nono dava cuore al Giuliani, come agli altri
migliori ecclesiastici d' Italia, di manifestare i proprii sentimenti
liberali, ed egli non tralasciò alcuna occasione di farlo, quando
stimò che fosse di pubblica utilità qualsiasi sua pubblica dimostra-
zione. Mentre pertanto noi lo troviamo nei 1847 sempre intento a
spiegare Dante con Dante, ch'ei s'era già messo tutto a mente, ed in
istretta corrispondenza epistolare col Batines sopra la bibliogra-
fia dantesca, delia quale occupavasi allora il nobile visconte fran-
cese, il Gioberti scrivendogli da Parigi il 18 dicembre del 1847, po-
teva rallegrarsi con lui « come illustre fra coloro che onorano ad
una la religionae la scienza, la patria ed il chiostro; accoppiamento
raro, e pur tale che la nostra povera Italia non sarà certa della sua
redenzione, se non quando le verrà dato di vederlo frequente-
mente. » Avendo il Giuliani riconosciuto con un suo discorso del
1840 pubblicato in Roma, ov'egli era tornato, nel Veltro di Dante
un pontefice, quando appunto l' Italia inebbriavasi al grido di viva
Pio IX, il commentatore di Dante parve allora investito egli
stesso come d'uno spirito profetico. Nel 1847, egli sali nell'universitii
di Genova la cattedra di filosofia morale, e fu, in breve, profes-
(1) Veggansi, oltre alle relazioni ufficiali di quel memorabile congres-
so, la lettera di F. Scolari sopra alcuni scrìtti inediti intorno alcune
opere di Dante, Venezia settembre 181G.
-- 315 —
sore acclamatissimo, tanto più per le frequenti allusioni eh' ei
veniva facendo alla novità de' tempi e alle speranze risorgenti
d' Italia. Alle prime larghezze usate dal re Carlo Alberto alla
stampa, fu nominata in Genova, come in Torino, una giunta su-
periore di Revisione, più a permettere moderandole che ad impe-
dire le manifestazioni del patriottismo irrompente ; sulla proposta
del procuratore del Re conte Alessandro Pinelli, il Giuliani fu da
Carlo Alberto eletto revisore insieme con Lorenzo Costa, Antonio
Crocco, e Giuseppe Morrò, i quali, distolti da altre cure non meno
gravi, lasciarono al Giuliani quasi tutto il carico della revisione. Co-
me revisore, trovossi pertanto il Giuliani a contatto con ogni maniera
di pubblicisti, fra gli altri, dell'avv. Antonio Papa, direttore del Cor-
riere Mercantile che in quei giorni affermava il suo credito presso i
liberali, di Goffredo Mameli, l'autore della Marsigliese italiana e di
Gerolamo Boccardo, allora giovanissimo, il quale per avere la-
sciato correre il 18 gennaio 1848 un'espressione come questa:
« coir Austria non si può, non si vuole, non si deve trattare, »
diede occasione ad una nota diplomatica austriaca, ed attrasse
al Giuliani un acre ritnprovero da parte del Governatore di Ge-
nova. Poi il ministro San Marzano domandò che il Giuliani fosse
rimosso d' ufficio; ma avendo il Pinelli, gnaro dei tempi, difeso
con calore il suo revisore, il nostro Dantista imbarcato nel mare
magnum della politica, tirò innanzi, finché non fu bandita, con lo
Statuto, la legge della libera stampa, e il Giuliani potè ritrarsi
sodisfatto d" avere bene adempiuto al suo debito di buon cittadino.
Onde i Genovesi che già gli professavano stima ed affetto, lo
stimarono ed amarono più, e a dargliene pubblico documento, fe-
cero per due volte disegno d' eleggerlo loro Deputato. Se non
eh' egli rinunciò a quell'onore, e per non avere ancora raggiunto
i trent' anni richiesti dalla legge, e perchè essendo ancora sem-
pre legato alla sua Congregazione, non poteva allora avere il
pieno esercizio de' suoi diritti civili (1). Né però si ritrasse dalla
(1) Il giornale La Legge, diretto a Torino da Giuseppe Massari, pub-
blicando nel suo numero del IO dicembre 1848 la lettera con la quale
il Giuliani rinunciava all'onore della deputazione, accompagnavala con
le seguenti parole: « Il P. Giuliani è uno di quegli uomini fatti per
onorare i partiti e le assemblee a cui fossero per appartenere, e noi
neir ammirare la sua modestia non possiamo non manifestare il nostra
rammarico per la sua risoluzione. »
— 316 —
vita politica: che anzi, a pena si sparse in Genova la notizia
delle Giornate di Milano e della cacciata degli Austriaci il 25 di
marzo 1848, corse col popolo nella chiesa di San Lorenzo a can-
tarvi il Te Deum, e invitato quindi dal clero e dagli astanti, sali
sul pulpito e improvvisò un discorso pieno di fuoco patriottico, nel
quale s'eccitava il re Carlo Alberto a spronar analmente il suo de-
striero di guerra, a trasportare la sua reggia ne'campi lombardi,
a recarsi a Monza per pigliarvi la corona d'Italia, e al popolo geno-
vese si volgevano queste parole; « Oh bravo popolo di Porteria! un
secolo già è trascorso dacché tu rintuzzasti la tedesca rabbia; il
tuo nobile esempio riscaldò tutta quanta Italia, e là dove Italia
pareva più morta, dovea spiegarsi piìi vigorosa la vita. iMa no,
che non furono essi i prodi Milanesi soli alla grand' opera; erano
gli spiriti nostri che rinfiammavano que' petti ; erano quelle osti-
nate volontà la volontà di tutta Italia ». (1)
(1) Merita di venir letta e considerata la seguente lunga lettera (ine-
dita) che l'illustre dantista Federico Ozanam scriveva in que' giorni al
Giuliani : . , '.
« Paris, le 27 avril.
« Mon Rr'vérend Pére,
« Je vois avec regret que tous les Italiens n'ont pas le coeur si fidòle
que vous, et, qu'un de vos compatriotes qui s'était ciiargé de mes com-
missions pour vous, m'a manqué de parole. Il y a bientòt un mois qu'un
jeune Génois, auditeur de mes lecons publiques, vint me voir avant de
retourner chez lui et me promit de vous aller trouver de ma part,
et da vous porter un petit écrit dont je vous adressais l'hommage. Je
devais aussi m'excuser d'ètre demeuré si longtemps sans vous ferire,
sans répondre à votre aimable lettre et ìi votre plus aimable discours.
En eflfet, les grands événements dont Paris vient d'avoir le spectacle,
ont multiplié plus que jamais mes occupatioas et mes devoirs, et j'ai
douté un moment si, au lieu d'écrire en Italie, je ne serais pas obligé
d'y aller. Maintenant l'ordre se raffermit, et la sécurité renaissante nous
permei de donner quelques heures a la lecture et à l'amitié. J'en pro-
nte pour vous remercier d'abord de votre beau travati sur l'Ange de
Tenerani, Je trouve dans dans cet écrit touto l'élégaace , touto
la délicatesse de l'admit-able statue que vous louez. Il faut un sentiment
exquis des beautés de l'art pour pouvoir en parler avec tant d'abondan-
ce, sans se répéter jamais, sans fatiguer l'attention da lecteur. iMais sur-
tout. mori Révérend Pére, comment vous expiimerai-je combien m'a
touclié le passage où vous nqìpclez notrc vi.?ite à l'atelier du grand
- 317 —
Recatosi nel maggio del 1848 in Genova il Gioberti, gli furono
dalla' città fatte le più festose accoglienze; il Giuliani ebbe col
Crocco e il cav. Boselli incarico di accompagnarlo, e il Giuliani
ancora fu invitato dal Comitato nazionale ad esprimere in adu-
nanza solenne al Gioberti le congratulazioni dei genovesi tutti.
L'allocuzione del Giuliani parve felicissima, e il Gioberti la gradi
tanto, che la sera stessa, facendosi gran ricevimento al Casino
di nobiltà, ed il popolo essendosi affollato sotto i balconi per ac-
clamare al nome di Gioberti,' il filosofo torinese, non potendo rin-
graziare da sé, per esscrglisi resa fioca la voce, pregò il Giuliani
di parlare al popolo per esso: dal quale nuovo impegno seppe il
Giuliani trarsi con tanta destrezza, che, in breve, il popolo col
nome del Gioberti confuse nelle sue acclamazioni quello del Giuliani.
scuipteur ? Je vous en voudrais uà peu des louanges extrémes que vo-
tre acDÌiié me donne en passant. Cependant il m'est bien doux de voir
(ixé dans votre gracieux récit un de ces heureux momens de mon sé-
jour à Rome, tfop tòt envolés au gre de mas desirs. Vous me rendez
cette beare que je croyais enfuie pour toujours, le'plaisir d'Un long en-
tretien avec vous et avec l'excellent Tenerani ; enfln VAnge que nous ne
nous lassions pas de regardcr, sa belle téte plelne de foi, ses flottantes
draperies qui ne font qu'effleurer la terre, et ses grandes ailes qui re-
demandent le ciel. L'artiste clirétien a été plus inspiré qu'il no pensait.
Au moment où tout le passo semble p^^rir, il convenait de nous faire
descendre du ciel l'Ange de la Résurrection.
Laissez-moi vous felicitar aussi de votre Discours prononcé à S. Lau-
rent de Gènes pour remercier Difu de la délivrance de Milan. Je suis né
à Milan, et quoique .l'aie été conduit bien jeune en France, le lien du
sol natal est si fort, que cette victoire m'a touché corame une victoire
nationale, et je ne puis vous dire avec quelle ardeur j'ai dévoré les
journaux italiens. Dès lors vous pouvez juger le plaisir que m'a fait vo-
tre patrior/ique et religieuse allocution. Vous avez retrouvé la voix des
croisades. Pie IX n'est plus seul, co«)me on se plaisait à le dire, puis-
qu'il trouve dans le clergé mèrae de si f^loquens interprètes de ses des-
se] ns. Le R. P. Lacordaire, qui se connaìt en (^loquence et à qui j'ai com-
muniqué ce discours, a voulu qu'on en publi.lt un fragment dans le jour-
nal qu'il dirige, L'Ère noiwelle. On a dù vous envoyer le numero du
journal, mais vous avez probablement souri de l'erreur du typographe
qui a remplacé S. Laurent par S. André. Du reste, ne jugez pas le jour-
nal dont il s'agit par ct;tte bévue. C'est une feuille que nous avons fon-
dée le P. Lacordaire, l'abbé Maret et moi, pour dófendre les intéréts ca-
tboliques dans ceite società nouvellc qui doit sortir des révolutions de
— 318 —
Soppressa intanto nell'ottobre del 1848 all'università di Genova,
la facoltà di lettere e filosofia, veniva al Giuliani offerta la catte-
dra di sacra eloquenza nell'università di Torino; ma, potendo egli
ottenere la cattedra stessa in Genova, la preferì, (1) tanto più che
egli sperava che si confermasse la notizia della assunzione all'ar-
civescovato di Genova dell'abate Ferrante Aporti, il quale avea-
gli dichiarato di volerlo per suo segretario. Non confermatasi
questa nomina, il Giuliani si rivolse nuovamente tutto agli studii
suoi prediletti, in ispecie dopo ch^^ la misera disfatta di Novara
tolse agli italiani ogni altra speranza di prossimo risorgimento.
Io ebbi modo di leggere una lettera che stans pede in uno il Giu-
liani scrisse da Genova al vecchio suo padre in Canelli, il io giugno
dell'anno 1849; quella lettera è uno dei documenti più autentici delia
l'Europe. Il uous a paru que ì'Univers, compromis par ses fautes, par
l'attachement de quelques uns de ses ródacteurs à la monarchie déchue,
ne suffisait plus au service du Christianisme en des temps si nouveaux.
Nous avons cru que Pie IX avait été susci té pour nous ouvrir des voies
jusqu'ici inconnues, et nous l'y suivons avec confiance : c'est assez vous
dire combien notre journal est occiipé de Rome et de l'Italie. Nous se-
rions très reconnaissans si vous vouliez nous donner votre opinion sur
les affaires italiennes, tant pour l'Etat que pour l'Eglise.
Je vous enverrai par la poste deux exemplaires d'un petit écrit que
je publiai avant la revolution de février sur les dangers de Rome et
ses espérances. Le jeune voyageur qui m'a manqué de parole devait
vous remettre cette offrande qui ne m'acquitte pas envers vous. Je re-
cois de vous des fruits dorés d'Italie et je vous rends un de ces fruits
sauvages qui mùrissent mal sous le pale soleil du Nord. Du moins vous
trouverez dans ce peu de pages la preuve de mon chaleureux amour
pour votre pays, et du long souvenir que j'ai gardé de son afifectueux
accueil.
Si vous écrivez au R. P. Penta, veuillez me rappeler a sa mémoire,
et lui faire parvenir un des deux exemplaires que je vous adresse. Je
me recommande à ses prières et aux vòtres, et je suis avec un respec-
tueux mais tendre attachement,
Votre bien dévoué serviteur et ami
A. F. OZA-NAM.
(1) Il Programma de'suoi corsi di sacra eloquenza prova quanto lar-
gamente e quanto liberalmente il Giuliani intendesse il nuovo officio
affidatogli, nel quale si condusse poi in modo da procacciarsi ampie lodi ad
un tempo presso il Governo Sardo, presso l'arcivescovo Charvaz e presso
il chiericato e la cittadinanza genovese.
— 319 —
nobiltà del carattere del Giuliani, e della sua modestia. Avevano
detto al padre del Giuliani che il figlio Giambattista avea, dopo
il mutarsi delle cose politiche, perduta ogni sua autorità in Ge-
nova; e il figlio, dall'ufficio postale, sopra il primo fogliaccio ve-
nutogli tra le mani, rispose con questa bella e che a me pare no-
tevolissima lettera:
Carissimo padre.
Io non so d'aver mai avuto influenza alcuna in Genova, né al-
trove ; ma credete, che se, per ventura, n'ebbi qualche poco, ora
l'avrei massimamente. Il mio pensare è sempre lo stesso, e non
posso ricevere danno veruno, perchè sono tranquillo nella dignità
della mia coscienza e nell'amore dell'Italia e dell'umanità. Io non
ricevetti mai offesa né olTesi mai alcuno, e di nulla temo, se non
del pubblico danno ; il resto lo confido alla Provvidenza. I maligni
e gli stolti son molti, e di questi mi compiango e quelli non curo.
Fui richiesto all'Università di Torino come professore di Etica,
e starebbe da me solo l'acconsentirvi; ma son risoluto a rimanere
in Genova, dove ho molti amici e mi trovo meglio assai che in
Patria mia. Questo vi dico perchè viviate pur tranquillo sul fatto
mio. Quel pochissimo che io sono, io lo devo a me stesso, e nes-
suno mei potrebbe togliere mai. Le ricchezze e gli agi della vita
disprezzo più d'ogni altra cosa; e finché io abbia un tozzo di pane
da sbramarmi la fame, starò contento. Bensì vorrei che l'Italia po-
tesse risorgere al posto a lei conveniente fra le nazioni del mondo;
ma poiché oramai questa suprema consolazione mi scema, ritorno
con maggior cura a'miei studii, e in questi passo la mia vita as-
sai lietamente. Nulla mi riesce nuovo, leggendo le istorie e me-
ditandole; e vedo bene che l'umana nequizia trionfò in ogni tempo,
e che i buoni, i savi e valenti non furono quasi mai voluti in-
tendere. Cosi ora siamo condannati a rattristarci d'un male acni
non si può riparare, e sdegnarci di tanta cecità e superbia umana.
Quanto a me d'altra parte son pieno di tutta gioia dentro al mio
cuore, poiché ho l'intimo sentimento di non aver in nulla mancato
alla gloria e al nome d'Italia, e questo pensiero basta a sostenermi
fra la nostra presente sventura e mi ricreerà per tutta la vita. 0
(•aro padre, state pur sicuro che io in ogni qualunque avvicendar
di fortuna mi troverò sempre costante ne' miei pensieri ed affetti,
e non muterò quello stato dove Iddio e la mia coscienza mi rende-
ranno felice. Io son giunto a quello che io non mi sarei mai so-
— 320 —
guato d'ottenere, e posso dire d'aver toccato l'ultimo termine de'miei
desiderii. Perciò ogni altra grandezza che mi possa avvenire è un
di più che non cerco e rifiuterei di secondare. Eccovi l'animo mio,
e son lieto di aprirlo a voi, caro padre, che mi sapete intendere
e amare. Se tutto mi mancasse, son certo che non mi mancherà
mai il vostro amore; e l'amore d'un padre è tanto grande, che non
v'ha cosa paragonabile sulla terra. Mantenetemi questo amore,
beneditemi alcuna vulta dal profondo del vostro cuore, ricorda-
temi con quali-he sospiro, e persuadetevi che io sono perla vita,
il tutto vostro figlio Giambattista. »
Questa lettera vale un libro : che in essa puoi leggere tutta la
vita di un uomo esemplare. Però focendo qualche violenza alla
modestia deiramico, volli qui pubblicarla, aftinché da questa in-
tima confidenza argomenti il giovine lettore quanta fede meriti
pure il pubblico uomo di lettere quando scrive d'alta morale, di
religione, di filosofia e di civile sapienza.
E da questo punto incomincia la parte più nota all'universale
della vita pubblica del Giuliani. Avvertirò solo ancora come il
volume di Pinose, pubblicato a Genova dal Giuliani nel 1851 fosse
dedicato a Cesare Balbo, che in due sue lettere, pel Giuliani ono-
revolissime, miOstrò di gradire particolarmente quell'omaggio.
Ma, due anni dopo, una nuova malattia sopravvenuta e il sempre
fervido amore di Dante trasse il Giuliani a peregrinare in Toscana,
e gli fece pigliare amore singolarissimo a questo nativo linguaggio,
nò ai nudi vocaboli soltanto, ma alle loro svariate, eleganti, co-
lorite foggie di intrecciarsi, sì ch'egli potesse in breve nelle sue
celebrate lettere sul vivente linguaggio della Toscana, delle quali
fu primo il Prati a incoraggiare vivamente la pubblicazione (i),
rendere non pur la parola viva, ma le vive persone, il pensiero,
il costume, la vita naturale, in somma, di questo bel popolo. Cia-
scuno che abbia alcuna pratica del popolo campagnuolo sa quanto
costi il farlo parlare di quello che più ci preme sapere, e come
prima d'arrivare al punto, sia necessario di porre al popolano del
contado un lento e regolare assedio. Convien quindi, quando si
conosce la difllcoltà per noi cittadini di sorprendere i segreti di
quel volgo, ammirare la costanza e l'ingegno del Giuliani che
(1) Nell'anno 1858, dopo averne in Firenze fatta lettura ai chiaris-
simi Letterati toscani P. Fanfani, G. Milanesi e A. Gotti, che si piacquero
d'approvarle, il Giuliani pubblicò la prima edizione delle sue Lettere a
Torino presso il Franco.
— 321 —
tanto perseverò nelle sue investigazioni, e cosi felicemente, da
somministrare alla lingua d'Italia il più prezioso e il più poetico
contributo di materiali popolari autentici, degni di esser fatti ri-
fiorire nella colta lingua dell'arte. E nel tempo stesso in cui egli
studiava la lingua viva del popolo, il Giuliani non perdeva di vi-
sta il suo poeta; che anzi egli primo, egli solo linqui riscontrò
la lingua di Dante col vivente linguaggio popolare toscano, e il-
luminò l'uno con l'altro, recando infine il risultato de'suoi inge-
gnosi raffronti, in un notevolissimo discorso da lui letto nella
scorsa estate all'Accademia della Crusca, che l'aveva l'anno in-
nanzi nominato suo socio, come già fin dal 1861 il Giuliani era
socio della commissione pe' Testi di lingua in Bologna.
Allo stesso ordine di studii del Giuliani si riferisce il veramente
aureo volumetto uscito prima a Bologna nel 1809, poi a Firenze
nel 1871, e che ora si ristampa con nuove importanti aggiunte
presso i successori Le Mounier, sotto il titolo: Moralità e poesia
del vivente linguaggio toscano. Nessuno degli italiani scrittori
contemporanei, onorò, in somma, la Toscana più di Giambattista
Giuliani, che studiò sempre di rilevare quanto di buono accoglie
il popolo toscano, quanto di bello si accoglie nel suo linguaggio,
e di rendere aperto all'intelligenza universale il maggior poeta del
mondo moderno. Il eguale quantunque si dicesse florentinus naiione
non rnoribus, resterà pur sempre la maggior gloria che Firenze
possa vantare. Dopo i primi saggi, il Giuliani non posò più dallo
studio della Divina Commedia; del che fanno fede parecchi scritti
da lui pubblicati in quest'ultimo ventennio d'argomento dantesco,
fra i quali vengono prime per ordine di tempo. Le Norme di
commentare la Divina Commedia, tratte dall' Epistola di Dante
a Cangrande della Scala, scritto originale e intieramente in-
dovinato, che il Giuliani dedicò nel 1856 agli illustri dantisti
tedeschi Carlo Witte e Goff'redo Blanc, e che gli valse, oltre
a molte lodi stampate, una bella lettera dell'illustre Ampère,
dalla quale rilevo le seguenti parole : « Dans tout ce que con-
tient votre volume, j'ai retrouvé la mèrae élévation de pensée,
la raème noblesse et la mème élégance de style. Ce que vous y
avez inséré de votre Dante commentò par lui mème m'a surtout
attaché. Aprés tant de commentaires sur Dante, vous avez su en
faire un nouveau, dont l'idée est bien ingénieuse, et je crois par-
faitement vraie. Ce que vous nous en donnez fait bien désirer que
vous le publiez tout entier ». E a poco, a poco, il Giuliani é sem-
pre venuto sodisfacendo il desiderio de' primi lodatori de' suoi
Ricordi Biografici 21
— 322 —
scritti ; infatti nel 1861 apparve il Metodo di commentare la Di-
vina Commedia, un volume dedicato al Capponi, nel 1863, La Vita
nuova e il Canzoniere con bellissimi commenti, ristampati con
nuove aggiunte nel 1808, e poi varie monografie sopra canti spe-
ciali, come quello della Francesca dedicato al Caetani, dell'Ugolino
dedicato al Gramantieri, suUlT, 12' e 13'' canto dell'Inferno nelle
Memorie dell'Accademia di Modena, sul 32° dell'Inferno nell'An-
nuario della Società tedesca di Germania, sugli ultimi canti del
Purgatorio nuovamente dedicati al Caetani; le quali sono altret-
tanti capitoli dell' intero commento che il Giuliani ci lascierà
della Divina Commedia. Finalmente con la parte presa dal
Giuliani nelle feste del glorioso Centenario dantesco in Firenze, a
Ravenna pel discoprimento delle ceneri, a Dresda per la com-
memorazione della morte di Dante, ove rappresentò il Governo
italiano e il municipio di Ravenna, con la sua frequente cor-
rispondenza coi Dantisti italiani e stranieri, e più particolar-
mente come applaudito espositore della Divina Commedia nel luogo
stesso nativo di Dante, all'Istituto di Studii superiori, egli assicurò
a sé stesso nella storia della letteratura dantesca un posto immor-
tale. Non è qui luogo di dire dopo quanti contrasti egli sia riu-
scito a conseguire un posto che gli venne offerto per giustizia e gli
si impediva per invidia. Piacemi invece conchiudere, che l'invidia
tacque poi ch'egli l'ebbe conseguito e si rese palese come nessuno
avrebbe potuto in Firenze con più amore e con più sapienza glo-
rificare il Divino Poeta, ch'egli va dicendo essere, dopo Dio, il
suo massimo benefattore.
Pregato finalmente il Giuliani da me, affinchè volesse darmi di sé
alcun cenno scritto, ecco le preziose note che ottenni dalla sua genti-
lezza: « Ne'miei libri, come nelle mie lezioni, fu sempre uno l'inten-
dimento, di far cioè che la letteratura sia un ministerio di civiltà,
che le arti del Bello servano al miglior bene della nostra Italia,
ed a vantaggiarla sopra le altre nazioni per la nobile virtù del
sentimento.
« Fra le molte e diverse contraddizioni degli uomini mi raccolsi
in me stesso francheggiandomi nella dignità del silenzio e della
vita. Sta come torre ferma, che non crolla, Giammai la cima per
soffiar de' venti, Che sempre l'uomo in cui pensier rampolla Sovra
pensier da sé dilunga in segno: Questi versi mi furono ognora
presenti all'animo e guida sicura. Negli studi aspirai perciò sem-
pre al meglio, e del resto fu continua mia cura di poter rendermi
degno sacerdote cattolico e cittadino italiano.
— 3-23 —
« Dell'amicizia feci sostegno e consolazione alla mia vita ; e
tlagli amici riconosco gran parte della felice condizione in che mi
ritrovo.
« Fui nemico ognora d'accattar brighe anche letterarie con chic-
chessia; e tenni ferma la mia dignità, eziandio allora che mi si vo-
leva imporre indebitamente l'altrui volere. Imparai più a tacere che
a parlare : e con soavità di modi e con prontezza di prestarmi agli
onesti desideri degli altri, se non vissi sempre libero da gravi
dispiaceri, non ho perduto mai la dolce serenità di mente. Quando
mi si diceva che io aveva de'nemici, noi credetti mai, perché sa-
pevo e sento di non aver offeso e invidiato alcuno, se non in quanto
desideravo di pareggiarlo nel fare il bene e farlo il meglio pos-
sibile ».
Evidentemente, le virtù dello scrittore si compenetrano qui tal-
mente con quelle dell'uomo, che le une lasciano argomentar le
altre; l'ingegno dello scrittore piglia lume dal carattere dell'uomo
che è virilmente buono. Dell'interprete di Dante si accolgono le
opinioni nette, sicure, aggiustate ; dell' uomo, amante ed amabile
compagno della vita, si pregia l'amicizia benefica.
XX.
FRANCESCO DALL'ONGARO.
Nel Dìritlo dell'I 1 gennaio, fu letto, con viva commozione, il
seguente articoletto, che recava qual firma, la iniziale C. Ogni let-
tore intelligente ha potuto riconoscervi lo stile di Cesare Correnti,
il quale, quando il cuore gli detta, scrive sempre bene: « Anche
DairOngaro è morto. Morto ieri a Napoli, secondo i medici, d'im-
provviso, ma per chi sa i segreti, avvelenato a sgoccioli. Il corpo
è morto, perchè l'anima sua non voleva e non poteva rassegnarsi
a morire. Anno, era stato chiamato a dar un corso di letteratura
drammatica nell'Università di Napoli, città su tutte le altre a lui
diletta. Vi dettò splendide lezioni, confortato da numeroso e rive-
rente concorso di giovani. Non ha molto, gli fu intimato d'an-
darsene e di rimettersi a Firenze ad una scuola di declamazione,
ove da più anni non trovava uditori e né tampoco un'aula. Pro-
fessore nomade non voleva essere ; né gli pareva degno accettar
l'elemosina d' una cattedra in partibus. Struggevasi dentro tanto
più che fuori sorrideva. Aveva trapiantata la famiglia sua — una
sorella e i nipoti erano la sua famiglia — a Napoli, né gli pareva
facile levar la tenda domestica e portarsela in collo chi sa dove.
Poi amava Napoli e vi si sentiva amato: non da tutti. Dio guardi!
ma da tali, che potevano infiorargli il crepuscolo vespertino colle
delizie della poesia e dell'arte. Perciò domandò grazia di tempo ;
e prima che i due mesi concessigli fossero finiti, usci di stenti.
Non sappiamo, se a qualcuno dorrà d'avere amareggiati gli ultimi
anni d'un uomo, che, venticinque anni fa, l'Italia contava già fra
le sue glorie. Questo sappiamo, che pochi più di lui amaron d'a-
— 325 —
more l'arte e la patria. Fu dei primi, quand'erano ancora a scuola
dei gesuiti i grandi uomini della bancocrazia, a parlare d'Italia al
popolo. Il suo Fornareito die le mosse al nuovo teatro nazionale.
I suoi Storìielli furono applauditi, imparati a memoria;, e cantati
da quegli stessi forse che lo chiamarono poi a scherno Stornelli-
sta, e a cui par ringrandire gridando : abbasso i ferravecchi del
quaranVotto. Egli se n'è ito, lo stornelUsta del quarant'oUo, povero,
scorato, senza trovar tempo di finire quella eh' egli argutamente
chiamava ioìlelte de la guilloiiine, un'ultima edizione ordinata dei
suoi molti scritti. Siamo più che certi che altri qui dirà : furono
troppi. Furono, diciamo noi, come il cuore e le occasioni voleva-
no. Ma, prima di pensare al giudizio, pensiamo ai funerali. L'arte
che Francesco Dall'Ongaro adorò, e gli artisti napoletani, dai quali
ei soleva pigliare gli auspicii d'un imminente rifiorimento della
pittura italiana non lasceranno, speriamo, senza consolazione d'af-
fetto la sua famiglia, e il suo sepolcro. Ci si serra il cuore, pen-
sando agli ultimi giorni di questo valent'uomo umiliato, sconfes-
sato, traboccante sotto il peso, prima non sentito, d'una vecchiezza
ch'egli indarno aveva immaginato consolata d'onori, e rispondente
alle liete promesse della bene augurosa giovinezza. Ma, al postutto
noi preferiremmo ancora un anno di codesta agonia, irradiata, se
non altro, dai ricordi immacolati della poesia e riscaldata dal pre-
sentimento primaverile dell'arte rediviva, a dieci anni di quello
stillicidio bilioso, che per tant' altri è tutta la fatica e la gloria
della vita. » Questo scritto, nella sua brevità, è eloquentissimo,
perchè dà la nota vera del sentimento profondo che occupò l'ani-
mo degli onesti italiani, a pena corse la triste novella che Dal-
l'Ongaro non era più. A che dissimularlo? Dall'Ongaro morì con-
dannato a morte dagli uomini stessi della sua terra. Non fu guerra né
di coltello né di pugnale, ma avvelenate punte di spilli italiani che
gli arrivarono finalmente al cuore. Ci si dice: egli aveva molti
nemici; e sia pure; non si può entrare nel campo letterario per
darvi onesta battaglia, senza contare di trovarsi a fronte una ca-
terva di gente intesa a ferirvi; senza questa condizione non vi
sarebbe buona battaglia; né il vincere riuscirebbe glorioso; ne-
mici vi hanno ad essere, e quanto più serrati e compatti e visi-
bili siano, meglio; si drizzeranno l'armi a quel solo segno, si re-
spingeranno i colpi degli avversarli, finché si cada o si vinca;
Siam tutti, quanti combattiamo con la penna, sacri alla morte o
alla vittoria. Ma, per quanto sono numerosi e violenti i nemici,
tanto più devono aver cuore gli amici, e rendere forte chi com-
— 326 —
batte, e sostenerne il coraggio. Dall'Ongaro ebbe nemici accaniti
ed amici timidi, che lo abbandonarono ne'giorni dolorosi, mentre
egli invece era sempre stato per gli altri intrepido fino all'impru-
denza. Invece di difenderlo, com'era loro debito, gli amici lo di-
sertarono, quando lo videro assalito con più ostinata malignità.
Nel Veneto, del quale Dall'Ongaro era una vera gloria, per la li-
berazione del quale egli avea lungamente scritto ed operato, e per
cui avea pure sostenuto un lungo e doloroso esigilo, al suo ritorno
in Venezia nel 1866, gli fu quasi negata ospitalità; e temettero i suoi
stessi antichi ammiratori di compromettersi dandogli il loro voto
per mandarlo in Parlamento. Il Dall'Ongaro parve abbastanza glo-
rioso perchè a qualche patrizio veneto potesse piacere accoglierlo
un istante nelle sue sale dorate e presentare l'illustre am.ico a'curiosi
invitati venuti a posta per rimirarlo; ma, quando si parlò di tratte-
nere il Dall'Ongaro in Venezia con qualche ufficio pubblico, anche
modestissimo, poiché le ambizioni del nostro amico erano limita-
tissime, gli ammiratori si ritrassero sgomenti, e obbligarono l'in-
felice patriota a ritornarsene in Firenze, ove gli era fatta da pa-
recchi anni una guerra guerreggiata per obbligarlo a partirne.
La cattedra di letteratura drammatica in Firenze era stata creata
per lui sotto il governo provvisorio toscano ; essa poteva annettersi
facilmente all'Istituto di Studii Superiori; e il Dall'Ongaro non
desiderava di meglio; non si volle; poteva restare annessa almeno
all'Accademia di belle arti, e il Dall'Ongaro se ne contentava; non
si volle ; lo si confinò invece a dar lezioni presso una modesta
scuola di declamazione, il cui vecchio direttore, particolarmente
avverso al 'Dall'Ongaro, riusci ad alienargli gli stessi giovani alunni
della scuola, perchè non ne frequentassero le lezioni. Perciò av-
venne molte volte, ed io che scrivo ne fui testimonio oculare, che
il Dall'Ongaro recatosi per far le sue lezioni non trovò in Firenze
alcun uditore e dovette tornarsene indietro umiliato; altre volte,
ch'egli dovette far la sua lezione di letteratura drammatica a -i
0 5 uditori che il caso avea riuniti presso la sua cattedra. Qual
coraggio doveva egli ancora avere il Dall'Ongaro per occuparsi sul
serio delle sue pubbliche lezioni? E pure egli non ismise dall'inse-
gnamento, se non quando l'insegnare gli divenne impossibile; al-
lora, non volendo né potendo rimanere in ozio, ingegnossi pure con
altre vie, di rendersi utile; così intraprese per due anni consecu-
tivi in casa d'un illustre staniero, l'ungherese Francesco Pulszky,
attualmente Direttore del Museo di Pesth, a fare un commento
estetico e popolare della Divina Coììimedia per gli stranieri e le
— 327 —
straniere di passaggio in Firenze; cosi recossi, invitato dagli ar-
tisti di Milano, più volte in quella città, per farvi pubbliche ap-
plaudite letture letterarie ; così mandò parecchie corrispondenze
italiane al giornale francese L'Opinion Natìonale; così intese fe-
licemente a restituire sulle scene italiane le grazie comiche di Mo-
nandro col Fasma e col Tesoro; così continuò a scrivere novelle,
ballate e stornelli; così visitò quanto potè studii d'artisti, per rac-
comandarne le opere; accolse, incoraggiò e presentò egli stesso
giovani poeti, giovani letterati, come il Manfredi di Rapisardi e
il mio proprio Re Naia (di una parte del quale egli compiacevasi
dire ch'era stato l'ostetrico) possono farne ampia fede, ed, insomma,
cercò tutte le vie d'essere utile agli altri, quando più sentiva il
peso della ingratitudine de' suoi antichi beneficati verso lui stesso.
Io ho l'animo troppo commosso dal vivo dolore che mi lascia la
notizia improvvisa della morte di Francesco Dall'Ongaro per po-
terne ora scrivere tranquillamente. Ma io non vorrei che si di-
menticasse da chi ha ufficio di farsi provvidenza agli uomini di
studio, come se il Dall'Ongaro era professore ufficiale da soli dodici
anni, e non lascia né moglie né figli, era pur 1' unica provvi-
denza della sua degna sorella Maria e de' suoi nepoti, e da più di
trent'anni volgeva continuamente le sue cure ad istruire con le-
zioni pubbliche e private, non meno che co' suoi scritti, la gio-
ventù italiana; come, negli anni d' esigilo, tutto il suo pensiero
fu volto di continuo all'Italia, né credette umiliarsi, facendo in
Brusselle e in Parigi semplici lezioni di lingua italiana o spiegando
elementarmente la Divina Commedia ai forestieri; come la casa
di lui povero fosse sempre aperta a' suoi compagni di esigilo nei
giorni nei quali mancava loro il pane ; come dello stesso animo
ospitale egli desse ancora prova in Firenze verso i poveri emi-
grati veneti, ch'egli accoglieva liberamente alla modesta sua mensa;
come, infine, sarebbe sacro dovere del governo, eh' ebbe il torto
di amareggiare le ultime ore della vita^ al Dall'Ongaro e di affret
tarne incosciamente il fine, ripararlo almeno, pigliando sotto la
sua tutela la desolata famiglia del poeta infelicissimo.
Il Dall'Ongaro avrebbe potuto presentare anch'esso al governo
italiano i suoi titoli di martire della libertà italiana, e carpirne
una larga pensione per godersela, come tanti altri, in qualche
canonicato ufficiale ; egli avrebbe bene avuto il dritto, per i titoli
che la sua gloria di poeta e letterato gli dava, di chieder forte
in una sola volta, una cattedra universitaria per sedervi fra
tanti altri men degni che vi arrivarono per vie politiche, e con
— 328 —
industri brighe. Non fece né 1' una cosa né l'altra. Provò a ri-
maner contento del modestissimo ufficio che il Ricasoli gli aveva
affidato in Firenze, ufficio rimunerato con tre mila lire italiane,,
sopra le quali le tasse governative facevano ancora un grave
sconto. E bene, anche quelle tre mila lire gli furono invidiate, e
calunniate; e per l'invidia di quelle egli dovette subire in pub-
blico r umiliazione di vedere inquisito ne' pubblici fogli ogni suo
passo. E stata una mostruosa indegnità; e, per quanto possa
dar noia a chi se ne rese colpevole 1' udire una voce stridula
nel facile coro de' plaudenti; per quanto possa increscere di ve-
dere un volto accigliato in mezzo a tante oziose bocche sorriden-
ti; per quanto possa dolere ricevere una frustata fra tanti cachinni
d' approvazione, io oserò pure di dire alto ciò che penso e ciò
che sento intorno alla nuova letteratura fanfullesca la quale mi-
naccia d'invadere la stampa italiana. Io mi rivolgo dunque ai
giovani di cuore per domandar loro sul serio ove credono essi
che da noi s' andrebbe quando continuasse a molti e per molto
tempo a piacere nel nostro paese una letteratura cosi goffamente
ed uflicialmente scandalosa; lieve nella forma, ma il cui fine finale
è pur quello di sciupare anche quel resticciuolo di affetto che in
Italia ci era rimasto, per consumarlo in tanto spirito vanissimo
ed ammorbante. Guardino i giovani ai primi effetti di quella morti-
fera letteratura; un uomo d'ingegno, uno splendido e simpatico
scrittore lombardo, disertando la sua prima, generosa, libera fede
politica, va a sequestrarsi nelle appendici della Gazzella Ufficiale
per far eco al Fanfulla, che, fra gli altri suoi perditempi, avea
pure avuto la fantasia di gettare il ridicolo sopra la sana lette-
ratura che, da alcuni anni in qua, alcuni scienziati italiani vanno
tentando a prò del popolo nostro, per rialzarne con l' istruzione
la dignità morale. È letteratura noiosa ci si dice ; dunque si sop-
prima. E di che cosa oramai non si sente più noia e non si ride
più in Italia ? La patria, la libertà, l'arte, la scienza sono diven-
tate anch' esse parole ridicole. Non vi è per quella letteratura
più altro di sacro che Momo in livrea co' suoi sfaccendati adoratori.
Ma per questa via, non si metteranno no, per Dio, i giovani ita-
liani che hanno ancora un po' di cuore. Essi non si lascino dun-
que, io li scongiuro, per quell'amore che abbiamo comune alla terra
nostra, non si lascino tentare al facile riso inverecondo; fuggano, e
detestino, sovra ogni cosa, il contatto pericoloso d' ogni zingaro let-
terato che dica loro sfacciatamente di non aver più fede e bandiera
alcuna. Ogni studioso, ogni artista, ogni scrittore, ogni cittadino
— 329 —
ogni uomo deve averne una; se no, egli diviene una ladra pianta
parassita, che si propaga a danno della società e che giova estir-
pare. Quanto a me, se le forze m' assistano, non mi mancherà
certamente mai il coraggio di resistere contro l'invasione d'un ali-
to pestifero che minaccia, pur troppo, le sorgenti della vita italiana.
Ma, per tornare, al povero amico che la calunnia e la perse-
cuzione hanno pur troppo precipitato nel sepolcro, ecco ancora
alcuni brevi cenni che potranno servire alla sua biografia. Egli
era nato presso Oderzo nel Friuli, neh' anno 1808, da minuti ed
onesti commercianti; avea fatto i primi studii in Venezia al Se-
minario della Salute, gli universitarii all' Università di Padova,
ove s' era pure erudito alquanto nelle lingue orientali. Presi gli
ordini sacri, si diede per tempo, al privato insegnamento e al
giornalismo, fondando con Pacifico Valussi, che più tardi gli
divenne cognato, il giornale letterario la Favilla, uno di que'gior-
nali che convien ricordare come precursori del risorgimento ita-
liano. Nel 1838, compose per Gustavo Modena, che lo fece viva-
mente applaudire il celebre suo dramma II Fornaretlo, la prima
protesta scenica contro la pena di morte; seguirono poi altri
drammi, 1 Dalmati, Marco Cralievic' , L' iillimo de' Baroni, la
Bianca Cappello (tragedia scritta per Adelaide Ristori) Fasma e
il Tesoro (commedie di stile greco, scritte per l'attore Tommaso
Salvini, che le fece particolarmente piacere e che difese poi sem-
pre nobilmente il suo poeta contro gli attacchi degli invidi col-
leghi). Mentre poi egli si faceva valere come scrittore drammatico,
diveniva ancora popolare come lirico, specialmente per le sue
hallate, nelle quali si confonde felicemente il carattere slavo con
r italiano, e per 1 suoi stornelli, genere popolare di poesia ch'egli
ha primo introdotto con successo nella letteratura. Avendo detto
libere parole nel 1847 in Trieste nel banchetto offerto a Riccardo
Cobden, fu proscritto da quella città. La parte presa dal Dall' On-
garo, in Venezia e Roma particolarmente, alle cose del quaran-
totto, fu vivissima. In Venezia, sotto 1' assedio pubblicò il gior-
naletto: Fatti e parole per sostenere il coraggio degli assediati
che lo leggevano avidamente. Quindi andò a Roma qual commis-
sario del generale Garibaldi, per armarvi la prima legione italia-
na; s' intende da sé che in quel tempo il Dall' Ongaro avea già
deposto r abito ; né ciò solo, ma egli avversava con calore la po-
litica guelfa de'Giobertiani. In Roma, il Dall' Ongaro sedette pure
fra i rappresentanti del popolo. Caduta Roma nelle mani de' fran-
cesi, egli riparò nella Svizzera fino al 1852, onde l'Austria
— 330 —
lo fece finalmente cacciare. Ramingò allora nel Belgio ed in
Francia fino all'anno 1859, in cui, venuto in Toscana, il Ri-
casoli lo fece da prima arrestare qual mazziniano, ma per dar-
gli in breve la libertà e la cattedra, dopo un colloquio avuto col
poeta. Questa è la rete d' una biografia, ma non può essere na-
turalmente la biografia stessa. Io non mi sentirei ora 1' animo
posato abbastanza per iscriverla ; ma poiché in queste pagine io
mi occupo di soli scrittori viventi, né mi aspettava così presto
il dolore di perdere l'amico, ho voluto almeno dargli qui l'estremo
saluto, come a persona viva che mi sta sempre innanzi agli occhi
col suo volto dogale, col suo lieve, onesto sorriso umoristico, e di
cui sento ancora il calore che gli spirava dall'anima e gli passava
in una stretta di mano significativa ed in una parola sempre bene-
vola anche nel motto arguto. Col tempo, la storia letteraria darà
il loro posto d' onore alle opere dell' ingegno di Francesco Dal-
l'Ongaro; intanto, mi sembrò giusto che la pagina d'un contem-
poraneo lasciasse durevolmente scritto come se 1' ingegno del-
l' autore del FotmareUo, di Fasma e degli Stornelli era vivo ed
arguto, il cuore di lui era caldo ed appassionato, buono e delicato,
semplice e generoso. (1)
(1) Dal mio carteggio privato scelgo cinque lettere direttemi dal com-
pianto amico, in diverso tempo, le tre prime nell'anno 1864, l'ultima
alla vigilia stessa del giorno che lo rapiva per sempre all'afifetto degli
amici ed alla persecuzione de'nemici. Le pubblico qui nella loro genui-
nità, quantunque privatissime, perchè provano, sovra ogni cosa, la bontà
dell'animo dello scrittore infelicissimo. La prima lettera risponde ad un
disegno di programma manoscritto, per la fondazione di un giornale che
meditavo nel 1864, da intitolarsi: Il Prometeo, al quale desideravo come
collaboratori Carlo Cattaneo, Giuseppe Ferrari, Filippo De Boni, Ausonio
Franchi e il Dall'Ongaro. Nella qualità caratteristica dei collaboratori e nel
titolo del giornale io desideravo fossero affermate le tendenze agitatrici
del giornale e la manieria un po'vulcanica col quale doveva essere scritto.
La seconda lettera si fonda sopra un equivoco. Un amico aveva detto al
Dall'Ongaro ch'io scrivevo di lui per i Contemporanei del Pomba. Ciò
non era vero allora; ma io sono contento di avere in tal modo potuto
apprendere che non gli sarebbe riuscito discaro l'essere ricodato da
me. La terza lettera ragiona della commedia il Tesoro. La quarta let-
tera annunzia dolorosamente la sentenza che lo caccia da Napoli. L'ul-
tima lettera, che somministrava materia ad un'errata corrige della Ri-
vista Europea ed alla sua piccola cronaca degli Italiani all'estero, non
può ora esser letta per intiero senza una viva emozione.
— 331 —
Caro amico,
Perugia, 4 luglio, (1864).
Ho ricevuta la tua lettera e il programma del giornale. Nella tua fretta
giovanile mi sembra che non hai bene scelto né il nome ch'è troppo
ambizioso, né la forma per rendere accettabile il tuo programma alla
maggior parte degli uomini a cui ti proponi ricorrere. Avrei comin-
ciato dallo scriverne al Cattaneo perchè prendesse egli stesso possibil-
mente la briga di formulare alcune idee che sarebbero state conformi
alle tue, e avrebbero avuto per gli altri maggior autorità che non pos-
sono avere venendo da te o da me. Io conosco l'uomo. Bisogna dirgli
che si vuol fare un Politecnico settimanale. Sarebbe il vero, poiché lo
spirito sarebbe lo stesso: portare la smcerità nelle lettere, nella scienza
e nell'arte. Preferirei il titolo umoristico Fra Sincero al tuo Prometeo.
Ricorda il verso di Orazio: ex fumo dare lucem. Mi piacerebbe anche il
titolo: Luce ed amore, oppure porrei queste due parole come epigrafe
al semplice titolo Arte che riunisce nel suo sommo concetto lo scopo
del vero e del bello, della verità o dell'affetto,
Non intendo già di farti un contro progetto: ma di persuaderti a non
operare con troppa fretta in cosa sì grave. Fra non molti giorni sarò
di ritorno a Firenze, e ne parleremo. Ma bada di non pregiudicare col
fatto. A voler fondare qualche cosa bisogna preparare le fondamenta.
Studio un po'Perugia e le sue cronache per dettare poi qualche lettera.
Gli amici ti risalutano — tu saluta i nostri, e sta sano.
Tuo affezionati s Simo
Da.ll'Ong.\ro.
Caro amico,
Firenze, 23 Agosto, (1864).
Grazie della lettera ascolana. È ricca di fatti e, raccorciata qua e là,
mi gioverà a coordinare le varie parti del mio libretto.
Mi dice il Baratta che tu hai posto mano alla mia biografia. Bada
veh ! A tutii quelli che me ne richiesero, risposi no. A te che non me
ne chiedi, non posso oppormi, ma vi sono certi punti scabrosi nei quali
vorrei poter intervenire indirettamente. Scrissi una lettera al Quinet,
che non fu pubblicata in Francese, ma bensì tradotta senza nome d'au-
tore nella Ragione del 1857, 1858. Fa di trovarla: forse ti darà la
chiave di un certo fatto della mia vita sociale.
In francese fu pubblicata dal Poivin a Bruxelles nel 1." volume della
sua opera: l'Égliae et la morale par Dom Jacobus. Vedi le note: 404 —
408 — 411 e segg. Se non hai la Ragione ti manderò questo volume del
Poivin.
— 332 -
Nella Ragione hanno soppresso credo il mio nome, ponendo solo un
membro della Costituente romana. Un periodo di questa epistola fu ci-
tato a strazio nell'Osservatore Romano dell'aprile decorso. Ma i flitti
non si distruggono colle ciarle.
Lascio Firenze domani, e per Livorno e Genova vo a Torino poi a
Milano — quindi forse a Napoli.
Cura valetudinem, et have bene.
Caro amico,
Da.ll'Ongaro.
Napoli, 20, (1864).
Ti ringrazio delle tue lettere specialmente dell'ultima che contiene
gli appunti giudiziosi die fai al mio Tesoro.
'Alla maggior parte di questi provvidi nella recita ch'ebbe luogo ri-
tardata, ma con esito felicissimo I versi dell'ombra dopo il li atto
furono soppressi alla recita. L'epilogo non è insolito nelle commedie
greche e latine in bocca de'principali personaggi: è un po'di civette-
ria, e un po' di vendetta: qualche volta può parer necessaria. Sbagli
molto se credi il publico del teatro de'florentini indegno del titolo di
Ateniese. Non conosco publico più garbato, e più pronto a gustare la
minima allusione. Credimi, non fu adulazione. Negli altri paesi, si ac-
comola tutto sostituendo Italia a Napoli: ma in verità auguro a tutte
le città d'Italia, l'atticismo napoletano.
Un'altro appunto non comprendo. È Lisia che sa per udito esser morta
Bacchide: Telessi fu presente e racconta ciò che vide. Né Bacchide po-
teva essere una meretrice volgare — nò poteva morir come tale, se
educò Telessi, com'è. È un'egoista — annoiata della vita, come le gre-
che dopo Alessandro. E la nutrice è Ateniese — e non le disdice il par-
lar elegante — purché l'eleganza sia d'un'ancella addetta a un Etèra.
È il realismo che contrasse all'ideale di Telessi e di Lisia, amanti.
Per altri paesi qualche po'di spiegazione nel tuo senso, sark neces-
saria. Qui, fu tutto compreso al primo slancio. Credo che t'inganni
quanto al carattere di Doro. Egli sa tutto e non dice nulla finché
crede possibile l'esito previsto e voluto dal padre. S'egli avesse par-
lato — dov'era il merito di Lisia, che posto al bivio, antepone al-
l'amore, la carità di figlio? A me importava rilevare il servo per la
sua fedeltà, e il padrone per la spontaneità del suo rispetto a'comandi
paterni. Codesta è la filosofia dell'intrigo. — E non fu sbagliata, né
fraintesa.
Il Salvini (Lisia) dovette a fatica frenare le lacrime durante la
ceremonia funebre. — E V Alberti — sotto l'impressione di quella sce-
na, fece chiamar sul palco scenico un architetto, e tutto commosso gli
ordinò una cappella per il proprio padre, morto da cinque anni. — Il
meglio del mio trionfo ò codesto.
— 333 —
Ora Doro è malato — e c'è sospensione nelle recite — ma saranno
riprese fra poco — e il Tesoro, avrà l'esito brillantissimo della Fasma,
che ebbe già 16 recite, e sempre più affollate. Ora metto insieme la
terza commedia — la Collana — ■ alla quale auguro la stessa fortuna.
Sarei già di ritorno, se non mi avessi scritto le scuole aprirsi più
tardi all'Accademia. Ma dentro il mese sarò con voi — e daremo corpo
al giornale (1).
Gli azionisti di cui ti parlò Villari — sono m fieri, ma sicuri. L'avrei
annunziato in qualche articolo — ma a che prò — in mezzo a questo
frastuono? Bisogna scegliere il momento opportuno — massime in que-
sta Parigi d'Italia.
Non ricordo di aver parlato di pitture aquilane più antiche di Dante.
Più antiche ve n'è ad Assisi e bellissime. Aquila ha sculture antichis-
sime nella facciata della Basilica di Colle-maggio.
Saluta gli amici — e annunzia il mio ritorno, e l'apertura del mio
corso per la fine del mese.
Va da mia sorella, e dille del motivo della sospensione alle recite.
Dall'Ongaro.
Caro de Gubernatis,
J4 Die. Napoli, (1872).
Grazie cordiali per la tua lettera affettuosa. Il fatto è compiuto: io
son rimesso a Firenze; dove il mio corso, alla scuola di declamazione
è perduto. Ma forse « Hoc crat in votis » del Consiglio superiore. I
miei amici e colleghi hanno dato il voto, il ministro lo mette ad ese-
cuzione, senza pure motivar le ragioni, e senza communicarmelo diret-
tamente. Altro che Consiglio de' X. Inquisizione bella e buona, é giudicio
e condanna « ex informata conscientia. »
Io non posso far ciò che il decoro vorrebbe. Mi sarà d' uopo piegar
la testa, appena la mia salute affatto rovinata me lo consenta. Ritra-
sportare la casa non posso: dovrò per la prima volta privarmi, quando
più n' ho mestieri, delle cure affettuose de' miei !
Ho le bozze della prima parte dei mio studio. Bada non è la prima
ma la 43™a lezione. Ma ciò va in nota. Io vorrei e te ne prego che
tutto intero l'articolo sia pubblicato nel medesimo numero. Senza ciò
non ha senso, e non servirebbe allo scopo. Tu intendi. Fa dunque un
miracolo, e stampa tutto, mandandomi al più presto le copie a parte.
Fammi mandare colle bozze anche il Ms.
(1) Allude alla Civiltà Italiana da me diretta, che usci felicemente il l" gennaio
1S56, e visse dodici mesi agitatissimi.
— 334 -
Il fascicolo che ricevetti è bellissimo e ricco: massime la parte bi-
bliografica e critica. E buone soii pure le tue biografie: solo a quella
del non avrei fatto mane ire quasi del tutto la parte politica,
per la quale avrei potuto fornirti assai documenti inediti ancora. Ma
o^gimai è fatto.
Se farai menzione di me, fa tacere un poco il tuo cuore, e sii calmo.
Sai ch'io sono sempre il maledetto per que' Signori, e mi hanno sacri-
ficato all'altare della conciliazione ! Non occorre maravigliarsene troppo
a questi lumi di luna.
Saluta la principessa. Io vo migliorando lentamente, ma le affezioni
gastro-enteriche sono tenaci. Non posso lavorare.
Sta sano.
Tuo
' ' - , Dall' Ongaro.
P. S. Non conoscevo punto il bel volumetto de' tuoi drammi, né di
questi avevo letto che la seconda parte di Re Naia. Grazie anche di que-
sti. Ne farò una lezione per la futura annata. ;
Mio caro amico, -
Napoli, 9 Genn., 1873.
Ti ringrazio con tutto il cuore delle affettuose parole colle quali an-
nunziasti il mio ritorno a Firenze. Hai trovata la vera formula del-
ì'uhase. Non potrò mai dimenticare questo tratto della tua amicizia.
Aspetto le copie separate, che spero avranno una numerazione spe-
ciale ed una copertina qualunque.
Parecchi errori son corsi pur troppo, come avviene quando non si ha
il testo presente, e non si può rivedere una seconda volta. Ad uno però
di questi errori sarà necessario fare una errata corrige : quello alla pa-
gina 285 — alia metà della pagina, dove il periodo comincia : La lingua
Io avrò certo scritto lingue in plurale. Sarebbe stato meglio gl'idiomi:
ma non bisogna lasciare la sgrammaticatura clie mi sarebbe tosto no-
tata da chi tu sai. Non so perchè tu abbia corretto: la lingua discesa
da' Vedi. Io aveva «scritto la lingua de'Vedi. Accetto la versione Casmira:
benché non sono pochi gl'indianisti che vogliono esistesse nella Battriana
la lingua madre, dalla quale sarebbero derivati i due rami ano e se-
mitico. Ma in ciò io mi rimetto a te come maestro e donno.
La mia salute non va beae. Questi catarri dello stomaco sono lenti a
vincere. Ho due mesi di congedo per curarmi. Vedremo se basteranno.
E ci vedremo a Firenze. Se no, verrai a trovarmi a Napoli.
Nei due drammi aggiunti alla trilogia di Re Naia, il tuo verso corre
più franco: l'azione è più energica, e non mi meraviglio che Rossi sia
stato un bel Dasarata. Mi sembra però che tu abbia dato a quelle donne
un linguaggio troppo modernamente appassionato — anche considerando
— 335 -
il fatto in sé stesso. Bharata si acconciò con tanta nobiltà a tenero il
vicariato di Rama. Ma queste sono questioni da poco. Tu hai acclimato
i costumi indiani nelle scene italiane, e questo è un gran che.
Mi mandano da Boston alcune delle mie novelle colà ristampate e
proposte come testo di lettura nelle scuole italiane degli Stati Uniti,
dalla Università di Cambìùdge. Il Longfellow non sarà stato straniero
a tale proposta per me, se non lucrosa, onorevole. Potrai accennarlo
nel fascicolo futuro. Quelle povere novelle, che non furono manco annun-
ziate in alcun giornale d'Italia !
Fa per me una visitina alla Dora d'Istria, e falle i miei saluti ed au-
gurj, congratulandoti con essa de' suoi dotti articoli. E ricordami con
rispettoso affetto alla tua signora.
Tuo
Fr. Dall' Ongaro.
— Aggiungo qui finalmente la lettera con la quale la buona ed infe-
lice sorella del poeta mi narrava le ultime ore di lui: « Il nostro caro
era qui a Napoli, come forse Lei lo vide da ultimo in Firenze^ deperito
molto; ma non accusava mai forti sofferenze; non aveva dei dolori fisici;
non aveva febbre ; ma deperiva sempre; le sofferenze morali erano
molte (chi non lo sa?j, quando venne la notizia della morte del nostro
fratello Giuseppe, avvenuta il 25 novembre. Volevamo celarla a lui,
come avevamo celato la malattia, ma, al funesto annunzio, come repri-
mere il grido di dolore della figlia Marietta che da più anni dimora
con noi ? La intese, se ne addolorò, e pensò, col suo solito gran cuore,
che un'altra famiglia rimaneva quasi priva di sostegno. Pochi giorni di
poi, venne il decreto del trasloco suo a Firenze, che temeva sempre,
ma si ostinava a non creder possibile; si sentì da questo estremamente
umiliato. Il Rettore Settembrini lo confortò a domandare una proroga
del resto necessaria per il suo mal essere, e fu il Settembrini stesso
che la domandò; egli reagiva con tutta la sua forza; scrisse a varii suoi
amici, per essere coadiuvato a render possibile una sua idea, che da
qualche tempo aveva nella mente di pubblicare una Rivista europea ar-
tistica-industriale, vana speranza; non ebbe il tempo di ricevere le ri-
sposte.
Ultimamente ricevette da un certo Gentili, credo calabrese, dei versi,
che molto gli piacevano, poi un bellissimo volume pure di versi, che
certo lei conoscerà, di Alessandro Arnaboldi lombardo, de'quali diceva
un gran bene ; ne leggeva ora l'uno ora l'altro componimento agli amici
0 studenti che venivano a visitarlo ; diceva che gli era di conforto a
sperare per l'Italia la comparsa di questi scrittori; pensava a scrivere
un articolo, per farli maggiormente conoscere; voleva parlare insieme
di Gentili, Arnaboldi e Rapisardi, che venne a visitarlo negli ultimi
giorni con le sue Ricordanze; ma nemmeno per questo fece in tempo.
Si fece un consulto che sparse poca luce sopra il suo male; il dottor
— 336 —
Vitarelli, ch'era alla cura, mi domandava s'egli aveva avuto altre scosse
morali; ma egli s'affrettava a dire di no, e, pure deperito, parlava di
cose da farsi, e di uscire. Venne il giorno 9 gennaio; ricevette il pacco
di quei fascicoli che Lei gli spediva, estratti dalla sua Rivista Europea;
fu contento che avessero le copertine. La tremenda mattina del 10
andai, come di solito, in camera; era ancora a lotto; mi dis!<e che
aveva dormito un po' meno del solito, ma che stava bene. Mi disse che
avrebbe preso del latte e glie lo portai.... Si vestì, venne nella stanza,
dove era preparato per la colazione; prima che venisse portata si alzò
da sedere per ritornar nella sua camera; mi parve di vedere un poco
di cambiamento nella fisionomia, e lo seguii; erano le 11; gli domandai
se si sentiva male; egli rispose che si sentiva oppresso, e il ventre più
gonfio del solito; ma, tutto sarebbe passato; gli portai del brodo, pen-
sando al latte preso e forse non digerito; egli era sul canapè, e non
potè prenderlo; chiamai il nipote Luigi, che, per fortuna, ora è con noi;
lui pure domandò: « cosa ti senti ?» — « Qualche dolore al ventre; do-
lori acuti no » rispose; ma, per l'oppressione lo consigliammo a ri-
mettersi a letto; lo fece senza voler spogliarsi del tutto. Gigi disse :
« vado a chiamare il dottore » — « Va pure, va prima dal dottor Te-
sta, è più vicino, » — Mi disse lui stesso che cosa dovevo preparare per
quando sarebbe arrivato; facevo fare tutto senza uscire mai di ca-
mera; tremavo, ma non sapevo perchè; si porta il tutto quanto era
ordinato; gli dico di mettere il cataplasma; « oh! non occorre più
gridò, oh! sono atroci, e si toccava lo stomaco che era divenuto molto
gonfio » « mi sento svenire! » disse; prendo aceto, acqua di Colonia,
tutto; egli va indietro con la testa, muove le 'labbra, ma non esce una
sola parola! Io da una parte dal letto, la Manetta dall'altra: « Fra-
tello! Zio! » Si crede uno svenimento; gli apro i denti chiusi; ma
nulla; egli resta immobile prima cogli occhi aperti; poi li chiuse da
sé; si spera sempre; arriva il medico; lo guarda; da quello sguardo si
accresce il mio terrore, e lui, la cara anima mia, sempre tranquillo!
Arriva Gigi disperatissimo per non aver avuto l'ultimo sguardo! Non
più ! ecco tutto ! Io non so scrivere, ma ho voluto dirle, signor An-
gelo, come passò quel tremendo momento. Ora non ne posso più. »
XXI.
FRANCESCO DE SANCTIS.
Sopra la tomba di Francesco Dall'Ongaro disse alcune parole
commuoventi il De Sanctis. La tomba del gentile e vivace poeta
friulano non poteva esser meglio onorata che pel tributo di lodi
resogli dal più illustre fra i critici napoletani, del quale mi viene
così pOrta naturale occasione di lasciare qui un breve ricordo.
Ma, prima d'incominciare, giovami richiamare la mente del let-
tore sopra un altro di que'fatti caratteristici che ci presenta la
nostra storia letteraria.
Come nel settentrione d' Italia, e particolarmente nel veneto,
trovammo il maggior numero di distinti poeti italiani contempo-
ranei, nel mezzogiorno riscontreremo i nostri più noti critici e
filosofi. Siciliano era l'Emiliani-Giudici autore di una pregevole storia
civile e filosofica della nostra letteratura. Meridionali sono il De
Sanctis, il Settembrini, il Bonghi, il Villari, lo Spaventa, il Fio-
rentino. E, dove si scrive generalmente peggio la nostra lingua,
là fiorirono nel secol nostro, insigni stilisti, a incominciare con
Basilio Puoti ed a finire con 1' abate Vito Fornari e con Ferdi-
nando Ranalli. Chi imprendesse pertanto a scrivere una Geografia
letteraria d'Italia potrebbe comporre un'opera non pure curiosa e
piena di fatti singolari, ma importante per lo studio psicologico
delle razze che concorsero a formare il presente popolo italiano, e
che gli danno però tanta varietà d'aspetti, d'istinti e d'ideali.
Muovendi) dalla letteratura latina s'incomincierebbe a domandare
fino a qual punto la dolcezza di Virgilio e la grazia di Catullo
rechino un carattere veneto, fino a qual punto la facilità di Ovi-
HiooRD! Biografici ?2
— 338 —
dio e l'abbondante loquacità di Cicerone tradiscano un carattere
napoletano, e perchè Catone, Varrone, Sallustio e Tacito ritengano
più di tutti gli altri scrittori latini della rude fierezza dell'agreste
Lazio, e perchè finalmente Giulio Cesare, quantunque romano,
essendo stato educato in Grecia, e avendo percorso il mondo ab-
bia preso quella larghezza e gentilezza nel dire e nel fare che è
propria di ogni uomo, per natura bene dotato, che abbia molto
veduto e che sappia conformare a sé stesso il bello ed il buono
ch'egli viene osservando. Una storia letteraria italiana, concepita
sotto questo aspetto singolare, avrebbe, parmi, la sua utilità, e
però io m'induco a proporla, nella speranza che alcuno de'miei
giovani lettori s'induca un giorno a tentarla.
Quale può essere ora, nel caso nostro speciale, la ragione na-
turale che produsse tanti critici insigni nella bassa Italia? Ne
dobbiamo noi riferire il merito alle tradizioni filosofiche della Ma-
gna Grecia, ed alla -presenza in essa di un popolo ellenico il cui
genio si contemperò con quello delle razze italiche? Se conside-
riamo come i più originali tra i pensatori italiani, da San Tom-
maso a Bruno, Telesio, Campanella, Vico, Genovesi, Filangeri,
Galluppi, i veri fondatori, in somma, di una filosofia italiana, fu-
rono napoletani, saremmo tentati a crederlo. Ma vi è forse una
ragione più intima nel processo stesso di quella filosofia e di
quella critica, la quale, chi ben la consideri, è più inventrice che
ragionatrice, è più poesia che logica; la vivacità del genio napo-
letano rileva perfettamente la immagine delle cose che osserva, e
questa immagine rilevata nel campo della universa speculazione può
divenire alta filosofia, e, adoperata al giudizio degli accidenti partico-
lari, può riuscire critica eccellente. E tale mi sembra appunto la cri-
tica di Francesco De Sanctis. Egli non ha propriamente né una co-
scienza universale, né un supremo sistema ideale che informi i suoi
giudizii letteraria Tutta la sua critica si compone della somma di
casi speciali, talora specialissimi, da lui osservati con vivo e pe-
netrante ingegno, e poi combinati in una critica più generale, per
girare nell'animo de'suoi lettori od ascoltatori, un intiero ordine
d'affetti e d'idee. Perciò, nell'apparenza di un filosofo astratto e
distratto, che nulla vede, nulla cura di quello che gli accade in-
torno, egli é un osservatore diligentissimo e un combinatore fe-
licissimo di numerosi, minuti casi osservati. Talora gli accade bene
di dare soverchia importanza ad un fatto minimo, di colorirlo con
troppa vivacità, di estenderne gli effetti oltre i limiti ne'quali si
produce ed opera; e però di trascinare pure talora in quella sua
— 339 —
foga, oltre il giusto segno, il giovine mondo che gli si affida. Ma,
per lo più, in quell'impeto, egli indirizza i giovani al vero, nel
modo più persuasivo ed efficace, invitandoli ad osservare insieme
i fatti, e deducendone poi conseguenze vive, che paiono tanto più
legittime, in quanto ciascuno sente agevolmente ch'ei le potrebbe
trarre da sé. Questo sembra a me il merito principale della cri-
tica di Francesco De Sanctis, e quello, in somma, che le dà vera-
mente peso e gravità. Che se gli splendori della parola e l'origi-
nalità dello stile sono in lui pregi invidiabili, e se basterebbero
certamente a sedurre, non varrebbero, per sé soli, a persuadere
lungamente e rendere operoso il discepolo. E il De Sanctis non
cura punto di sorprendere il suo giovine mondo con belle parole;
queste egli non cerca, e, perché, non le cerca, vengono fuori ta-
lora, nella loro stessa ineleganza, piene di vivacità e di energia;
egli si direbbe anzi da chi gli parlasse tranquillamente di cose
volgari, uomo privo d'ogni eloquenza; il petulante Petruccelli della
Gattina potè quindi arrivare un giorno a chiamarlo ebete. Reca-
tevi dal De Sanctis, parlategli della pioggia e del vento, doman-
dategli nuove della salute sua e dategliene della vostra, mettetevi
in complimento, narrategli le vostre miserie burocratiche, e le
vostre brighe accademiche, invitatelo finalmente a dirvi il vostro
parere per iscritto sopra il vostro primo sonetto, e voi correrete
rischio di rìdurvelo ad uno stato che se non è ancora l' imbecil-
lità, non se ne discosta di molto; ma, se invece d'intorpidirne
con la noia l'ingegno, avrete virtù di eccitarlo, toccando alcuna
delle sue corde sensitive, facendo scattare alcuna delle sue molle
segrete, allora udrete, simile ad una mina, esplodere la eloquenza,
tutta scoppi e fiammelle vive, del ridesto oratore, prorompere coi
suoi amori, con le sue furie, e picchiare, senza riguardo, intorno
a sé come il basiono'ccchia della novellina popolare. Bazza allora
a chi tocca.
Non già, intendiamoci ch'ei meni il flagello sulle persone; ma,
questo io intendo dire, che egli va dritto al suo segno, come se
le persone non ci fossero; ed è forse questa l'unica via per cui
si può arrivare a dire liberamente tutto il vero. Poiché se, nella
critica, conta molto la conoscenza del carattere di un uomo per
giudicare dello scrittore, non conta invece niente affatto il riguardo,
che le convenienze personali comandino al critico, per trattenerne
il giudizio. Il De Sanctis, sotto questo aspetto ancora, fu ed è cri-
tico incolpabile; egli non vide mai innanzi a sé altra maestà al-
l'infuori del vero, sé stesso obblió sempre, e del suo pubblico si
— 340 —
curò solamente iu quanto egli ne ricercò i sentimenti riposti,
spesso dissimulati, per renderli palesi, e svergognarli se inonesti,
infiammarli se generosi. La virtù dello scrittore, per questa ispi-
razione, riuscì mirabile, in ogni tempo.
Francesco De Sanctis è nato nel 1818, a Morra nel principato
Ulteriore, e fu erudito nelle lettere italiane e latine dallo zio
Carlo De Sanctis in Napoli, nella filosofia dal Fazzini. S'avviava
agli studii legali quando gli fu consigliato di frequentare lo studio
del marchese Basilio Puoti. Ma qui giova udire lo stesso De
Sanctis che nel gustosissimo suo saggio critico sopra l'ultimo dei
Puristi, consacrò al maestro un vivace ed affettuoso ricordo,
«e Avevo, egli scrive, sedici o diciassette anni — Avevo letto
moltissimi libri e di ogni materia; scrivevo versi e prose, im-
provvisavo anche, e tutti mi lodavano, e il maestro mi chiamava
penna d'oro, ed io una superbia che mai la maggiore; mi tenevo
seriamente il più istrutto uomo di Napoli. Avevo parte copiato,
parte riassunto Obbes, Leibnitz, il mio favorito, Spinosa, Carte-
sio, Maleranche, Ahrens, Genovesi, Beccaria, Filangieri e tanti
altri, come portava il caso, senza disegno né ordine; di storia, di
romanzi e di tragedie era pieno il capo, e tutto ci rimanea, per-
ché avevo grande memoria. Mi avvenne che un giorno Francesco
Costabile mi propose di menarmi alla scuola del marchese Puoti.
— A che fare? — diss'io. E lui: — ad impararvi l'italiano. Mi
parve un'off"esa. Ma molti miei amici ci andavano, e tutti me ne
cantavano meraviglia, e ci andai pur io. La chiamavano scuola
di perfezionamento. Vi si andava a compier gli studii. Moveva
■tutti un desiderio di maggior cultura e di stare a paro con gli
altri. Già quel palazzo magnatizio, quelle superbe scale, quel ser-
vitore in guanti, quella sala magnifica tappezzata di libri innal-
zava l'animo, lo tirava in una regione più elevata. Non so che di
signorile spirava colà che cacciava in fuga tutte le rozze memo-
rie del seminario. Quel di che ci andai io, eravamo parecchi a
far l'esame di ammissione. Il Puoti volle sapere i nostri studii, e
il dove, e il come, tutto minutamente; ci fé tradurre un brano di
Cornelio Nipote. Dal suo modo di scrivere parrebbe uomo grave
e compassato; ma era tutt'altro. Amenissimo, vivacissimo, pieno
di motti e di lazzi alla napoletana, non insegnava, non si met-
teva in cattedra, conversava raccontava spesso, si divertiva e di-
vertiva; non ci era aria lì nò di scuola, né di maestro; parca
piuttosto un convegno di amici, un'accademia sciolta da regole e
da formalità Ai provinciali avveniva spesso di chiamarlo maestro
— 341 —
e se ne turbava; voleva esser detto marchese. Per primo atto
correvano a baciargli la mano, ma la ritirava vivamente e di-
ceva: — non si bacia la mano che al Papa. — Non volea si di-
cesse la scuola, ma lo studio di Basilio Puoti: né le sue voleva si
chiamassero lezioni, ma esercitazioni. In effetti proprie e vere le-
zioni non erano, o spiegazioni o teorie, ma esercitazioni nell'arte
dello scrivere, traduzioni, componimenti, letture mescolate di aned-
doti, di riflessioni, di giudizii, d'impeti di collera, di scuse ama-
bili, si che era un piacere a vederlo e a sentirlo; tuttociò che
scuola 0 maestro o studente ha di convenzionale, era scomparso.
Ano le proverbiali panche, sostituite da eleganti sedie. Il marchese
non solo sdegnava di esser detto maestro, ma non ne aveva l'aria
e le maniere; pareva piuttosto un amico, maggiore di età e di
esperienza e di studii, che stava lì compagno e guida ne'nostri
lavori, e sentiva il parer nostro e ci diceva il suo, e poneva tutto
in discussione, quello che diceva lui e quello che dicevamo noi.
Talora avveniva che il torto l'aveva lui, e lo riconosceva di buona
grazia e diceva : — ho preso un granchio a secco. — Né questa
libertà di discussione generava anarchia, essendoci differenze ge-
rarchiche naturali, tanto più efficaci, quanto meno imposte dai
regolamenti. Il marchese era a tutti caro e rispettato, perchè
amava i suoi giovani, così li chiamava, non studenti né discepoli
ed era il loro protettore, il loro padre. Ci erano attorno a lui un
gruppo di veterani, giovani stati lì da cinque o sei anni, e che il
marchese scherzando chiamava gli Anziani di Santa Zita. Il loro
giudizio era molto autorevole, e quando parlava l'un di essi si
faceva silenzio, l'irrequieto marchese per il primo, e si stava a
bocca aperta. Ci erano anche gli Eletti, giovani che occupavano
un posto distinto, e questo nome si dava per consenso di tutti a
quelli che facevano un lavoro Indovinato, componimento o tradu-
zione. Anche il giudizio di questi aveva una certa autorità, ed i
nuovi e inesperti si lasciavamo volentieri guidare da loro. Così
nasceva una disciplina naturale, fortificata da una costante corte-
sia di modi, che rendea tollerabili anche i più severi giudizil. Il
marchese soleva dire che le lettere servono a raggentilire e no-
bilitare l'animo; ed era una grazia, quando si spassava con di
bei motti e proverbii alle spese di qualche povero provinciale ca-
pitato li 0 non bene in arnese, o goffo di modi, o presuntuoso
parlatore. Si può pensare quale impressione incancellabile pro-
duceva tutto questo su quei rozzi animi. Era tutta una rivolu-
zione morale. Dopo pochi mesi io mi sentiva un altro uomo. —
— 342 —
Né questo solo. In quella scuola i principali attori erano i giovani.
Il marchese, come ho detto, non faceva discorsi o lezioni, non
insegnava grammatica o rettorica : parlava cosi alla buona, e
faceva notare più per esempli che per teoriche i pregi e i difetti
degli scrittori, aggiungendovi, come l'occasione portava, avver-
tenze grammaticali o di lingua o di rettorica. Chi ne vuole un'im-
magine vegga i Faiii di Enea, co' suoi commenti. Il lavoro era
tutto nostro, e serio e assiduo. I poltroni poco ci duravano e an-
davano via perseguitati da una di quelle esclamazioni, che il poco
paziente marchese si lasciava sfuggir di bocca, quando non giun-
geva a contenersi e ad esclamare — non mi fate dire la parola
disonesta. — Vi si andava tre volte la settimana. Un giorno era
consacrato alla lettura e all' esame de' componimenti, favole, let-
tere, dialoghi, sogni, dissertazioni, dicerie, racconti storici, no-
velle, di rado qualche poesia. Dopo la lettura, il marchese do-
mandava a due 0 tre il loro parere, i quali ragionavano prima
del concetto, poi dello stile e della lingua. La discussione era
chiusa da uno degli Eletti o degli Anziani, che ne discorreva
ampiamente, il marchese riassumeva le diverse opinioni e dava
un giudizio terminativo. Essendo la più parte giovani colti e
adulti, le discussioni riuscivano spesso brillanti e animate. Né
minor gara era negli altri due giorni, destinati alla traduzione e
alla lettura dei classici. Si traduceva non più che due periodi di
Cornelio Nipote, né ci era esercizio più acconcio ad addestrare
in tutte le finezze della lingua e neh' organamento del periodo.
Letta la traduzione, scoppiavano da tutte parti osservazioni sopra
i difetti, quando non era seppellita di un colpo sotto qualche
scherzo del marchese, come: — basta così; l'avete fatta tra gli or-
rori della digestione. — Di quante se ne leggevano, il marchese
sceglieva una che gli sembrava migliore e sopra quella faceva la
correzione, sicché ne uscisse un lavoro perfetto, che ciascuno
scriveva nel suo quaderno. Il giovane sul cui lavoro era caduta
la scelta, se ne usciva quella sera con la tèsta più alta. Non é a
dire che diligenza metteva il marchese in queste correzioni :
spesso stava una mezz' ora ad acchiappare una parola o una frase
che non voleva venire, e tutti a suggerirgli, e lui a dar col pu-
gno sulla tavola e a gridar : — no I — con una delle sue favorite
esclamazioni. Oimè ! Talora la frase tanto cercata non veniva,
e si finiva per stanchezza con una rappezzatura, e il marchese
levava la spalla e se ne consolava dicendo : non é poi il Van-
gelo. »
— 343 —
La citazione fu lunga, ma sembròmmi molto opportuna non solo
perchè ci dà una pagina vivacissima di storia letteraria italiana,
ma, ancora, perchè il metodo scolastico famigliare del Puoti dovea
poi essere imitato ed allargato dallo stesso De Sanctis, divenuto
in breve, a Napoli, emulo applaudito del maestro, e dal professor
Pasquale Villarl, già discepolo del Puoti e poi del De Sanctis,
che innanzi il 1848 contava pur già tra i suoi migliori scolari Ca-
millo De Meis, Saverio Arabia, Agostino Magliano, Giuseppe De
Luca, Carlo Parone, Enrico Capozzi, Achille Vertunni, Diomede
Marvasi, Ferdinando Flores, Francesco Montefredine, Bruto Fab-
bricatore, Giovanni e Giuseppe Novi, Nicola Marselli, Lorenzo
Greco, G. Cammarota, Luigi La Vista, ed altri più nobili ingegni.
Dello studio del De Sanctis toccò, in termini generali, il Villari
nella sua Prefazione agli scritti di Luigi La Vista (1), e come egli
stesso fosse tentato ad entrarvi e come vi splendesse fra tutti il
compianto La Vista: « Quando egli leggeva o parlava, i compa-
gni lo ascoltavano quasi con devozione; un silenzio profondo si
faceva nella scuola, ed il maestro, immobile sulla cattedra, lo
guardava con una compiacenza che non poteva nascondere. » Il
De Sanctis avea fatto il suo tirocinio come insegnante per due
anni nel collegio militare della Nunziatella, fra l'anno suo diciot-
tesimo ed il ventesimo. Egli ci racconta come in esso, un giorno,
invece della solila lezione, abbia fatto una gran lettura né già
degli abborrili trecentisli. « Lessi Cloridano e Medoro, e la pazzia
di Orlando, e la morte di Clorinda, e il duello di Argante e
Tancredi, e alcuni brani del Sanile, e la conversione dell'Innomi-
nato con infinito diletto di quegli svelti giovinetti, tutt' orecchi,
e con l'anima tutta fuori, nel volto, ne' gesti, nelle esclamazioni.
Era una festa, e corsero cosi quattro o cinque ore, e nessuno se
ne accorgeva, e si sarebbe tirato per non so quanto altro tempo,
salvo che io venni rauco e non potei più andare innanzi. » Era
una infrazione al regolamento: ma quanto salutare 1
Dal Collegio militare il De Sanctis, ventenne, si lanciò nel campo
del libero insegnamento, formando una scuola il cui nome resterà
fra le più gloriose tradizioni delle lettere napoletane. Ad ogni
anno egli, come le forze in sé, così intorno a sé vedeva crescere
la gioventù studiosa. Lo si osteggiò sempre, ma specialmente poi
(1) Memorie e scritti di Luigi La Vista raccolti e pubblicati da Pa-
squale Villari, Firenze, Lo Monnier 1863.
— 344 —
quando dalla grammatica e dalla rettorica, egli volle passare al-
l'estetica ed alla critica letteraria. Il compianto nostro amico
Nicola Gaetani Tamburini che scrisse degnamente del De San-
ctis (1) riassunse così gli ultimi corsi da lui fatti in Napoli, in-
nanzi all' anno 1848.
« Il De Sanctis, salito al concetto della forma, oltrepassava la
rettorica e s'incontrava nell'estetica, di cui promise un corso nel
nuovo anno scolastico. Sopravvennero aspre censure. Si diceva
che estetica era filosofia e non letteratura. Nella prolusione il De
Sanctis fu più volte interrotto. Vi era numeroso e scelto udito-
rio. Il primo interruttore fu Silvio Spaventa, che dicendo il De
Sanctis parergli la lotta fra classici e romantici ormai esaurita e
vicina a conciliazione, gridò vivamente no, no, mostrandosi fin
d'allora cosi esclusivo in letteratura, come più tardi fu in politi-
ca. In certi punti della prolusione il Puoti mostrava a segni d'im-
pazienza la sua disapprovazione; ma fu facilmente disarmato da-
gli elogi cordiali che gli fece in ultimo il grato discepolo. Il
Bozzelli ruppe il ghiaccio, prendendo la parola e dimostrando che
per il meglio della gioventù era utile rimanere nella rettorica e
lasciare 1' estetica ai filosofi. Il De Sanctis tenne fermo : e vivi
applausi dell'uditorio, soprattutto de'giovani, lo incoraggiarono nella
sua via. Cominciarono dunque le sue lezioni di estetica, e com'egli
diceva, della forma e della letteratura. La forma era per lui la
cosa già concepita e rappresentata nella mente, come lo stile era
la sua progressiva formazione ed esplicazione. Rigettò dunque
r idea e il concetto astratto come elemento letterario, conside-
rando egli fuori della forma ed estranea alla letteratura la verità
e la moralità del concetto. Combatteva perciò quei discepoli di
Hegel, che abusavano della dottrina del maestro, e dalla natura
e qualità del concetto argomentavano la bontà di un'opera d'arte.
Rigettò le arbitrarie distinzioni de' generi di letteratura, e quelle
di prosa e poesia, considerando per esempio il poema epico, la
storia, il romanzo, la vita, la memoria come una sola e medesima
forma variamente esplicata; giunse ad una storia accessoria della
forma dell' umanità secondo le leggi generali dello spirito nel suo
cammino progressivo. E quando di trasformazione in trasforma-
zione venne a' nostri tempi, ed indicò l'ultimo aspetto della forma
neir elemento musicale e nel sentimento, destò tale entusiasmo
(l) Milano 1866,
- '345 -
ne' giovani, ciie per qualche tempo non potè continuare, e il di
appresso dovè ripetere la lezione. Uscendo dalle teorie, nel quinto
anno cominciò un corso di letteratura applicata, prendendo ad
esame i più grandi scrittori, da Omero al Manzoni. Mostrò fin
d'allora quella rara attitudine alla critica, che poi ha reso chiaro
il suo nome. Sono rimaste celebri nella sua scuola le lezioni so-
pra Omero, Virgilio e Dante, il suo studio su Shakespeare e
l'Ariosto, alcune sue lezioni sugli Orazii di Corneille, sull'Aga-
mennone d'Alfieri, e sul Cinque maggio del Manzoni. Al sesto anno,
continuando queste lezioni, pose mano ancora ad un corso su la
storia della critica da Aristotile ad Hegel, dove ricomparivano
storicamente le teorie già da lui esposte ed esaminate ne' primi
anni. Il De Sanctis aveva appena venti anni; i suoi discepoli
erano quasi tutti suoi coetanei. Giovane tra giovani, studiavano
insieme, si formavano insieme, e non si lasciarono più. I mi-
gliori furono alla sua scuola sempre Ano al 48. Questi formavano
e guidavano i venuti di fresco, ed era tutta la scuola una famiglia.
Il martedì e il sabato erano giorni destinati alla lettura ed
esame de' componimenti. Ciascuno avea la parola; vi era pub-
blica ed animata discussione. Il De Sanctis riassumeva, e pro-
nunziava il giudizio E si faceva con modi si gentili e amorevoli,
che non fu mai caso, che un giovane si offendesse delle cen-
sure, anzi ringraziava il compagno che lo aveva biasimato. Se-
gregato Napoli dal mondo intellettuale, in tanta scarsezza di li-
bri e di ajuti, il De ^ Sanctis si andò formando a poco a poco,
salendo dalle più umili regioni grammaticali fino all' estetica.
Meditava perciò più che non leggeva, e quindi le sue idee anche
non nuove hanno un' impronta originale, e si sente che sono
uscite immediatamente dalla meditazione. Facendo però ogni
anno un corso nuovo, e abusando del cervello, nell'ultimo anno
parve minore di sé, sentivasi stanco, oppresso da lavoro intellet-
tuale. Mescolato nelle agitazioni politiche dopo la fatale giornata
di maggio cercò riprendere i suoi studii, e tenne di nuovo scuola,
ma per pochi mesi. Si richiedeva da lui un esame di catechismo:
i rigori della Polizia crescevano. L' ultimo atto della scuola fu
una riunione di giovani per rendere pietoso ufficio di lagrime al
loro compagno Luigi La Vista, morto combattendo il 15 Maggio.
Dopo un discorso commovente del De Sanctis, si separarono me-
stamente. »
Noi rileviamo da queste notizie del Tamburini come il De
Sanctis, quantunque divenuto avversario del Puoti, gli rendesse
— 346 —
onore. « La missione del Marchese, lasciò scritto lo stesso De
Sanctis, era finita, lo scopo ottenuto, e quando io, suo discepolo,
uscii a dire in pubblica accademia che il purismo non avea più
ragione d' essere, perchè aveva già vinto, e che la quistione non
era più di lingua, ma di stile, il brav' uomo se ne compiacque ed
accettò la teoria per buona. Ma quando fui a tirarne le conse-
guenze, si ribellò, o piuttosto chiamò me un ribelle. Nondimeno
gli ebbi sempre tale riverenza e devozione che gli screzii lette-
rarii non furono sufficienti a farmi cader dal suo animo, e presso
a morte, veggendomi accanto al suo letto, disse : — tu sai eh' io
ti ho sempre amato. » Dopo di ciò non può recar più meraviglia
il seguente racconto del Villari : « Un giorno moriva il Marchese
Basilio Puoti, ed intorno al cadavere di quel vecchio venerando,
di quel cittadino benemerito, la gioventù napoletana s' affollava
numerosa e mesta. Ninno poteva dimenticare il disinteresse d'una
vita generosamente spesa a promuovere lo studio delle lettere.
Tutti i suoi più eletti discepoli, fra cui alcuni erano uomini d'in-
gegno e dottrina, gareggiarono nel tesserne 1' elogio. Ma i più
sonori periodi, le più pure frasi del trecento non potevano cavare
una lacrima sola dall' uditorio. V era in quella sala stivata di
gente, un glaciale silenzio che già irritava, vedendo come ninno
sapesse trovare un solo pensiero, una sola parola che commovesse
una moltitudine di giovani già tanto disposta a commoversi. In
questo punto s' udì la voce di Francesco De Sanctis, con generale
sorpresa di tutti i Puristi, i quali credevano che la diversità delle
opinioni letterarie avesse potuto generare nel suo animo senti-
menti raen che benevoli. Ben presto, però, 1' uditorio tutto si
trovò dominato, e cominciava a seguir l'oratore con segni di mal
repressa approvazione, che finivano in un sentimento di univer-
sale ammirazione. D De Sanctis non aveva accattato frasi e pe-
riodi, non aveva fatto del Puoti un essere immaginario, non aveva
pronunziato lodi ampollose ed esagerate; ma lo descrisse quale
era stato veramente, buono, operoso, disinteressato, amante di
sacrificare tutta la sua vita ai giovani. Egli dette il giusto valore
ai suoi lavori letterarii, e lo dipinse occupato, insino all'ultima
ora, del bene altrui, chiamando e amando i giovani come suoi
figli. Non è descrivibile la profonda impressione che fece sull'udi-
torio questo raggio di luce di verità che usciva improvvisamente,
diradando e dileguando quella nebbia di pedanteria che affogava.
Trovarsi fuori delle artificiose convinzioni, in un momento in cui
ognuno aveva tanto bisogno di sentire, fu un supremo conforto
— 347 -
per tutti. E quel giorno, io rammento d'aver veduto molti e molti
puristi^ accanto al cadavere del loro maestro, sentirsi dal cuore
forzati ad essere unanimi, nel dare la palma a Francesco De
Sanctis che s'era fatto capo dei loro oppositori. »
Per la parte presa da Francesco De Sanctis ne' rivolgimenti
napoletani dell'anno 18i8, nel qual anno, come segretario gene-
rale della pubblica istruzione, egli aveva compilato i disegni di
legge su l'istruzione primaria e secondaria, sulla scuola normale
e sul consiglio superiore degli studii , perseguitato dal restaurato
governo dispotico, cercava asilo in Cosenza, ove raccoglievasi a
scrivere il saggio critico sopra le opere drammatiche di Federico
Schiller, eh' egli, arrestato, andava, nella primavera del 1850, a
terminare in Napoli nelle prigioni del Castello dell'Ovo, ove rimase
tre anni come sepolto, avendo per sola sua compagnia una gram-
matica tedesca^ con l'aiuto della quale apprese il tedesco, e potè
quindi, in breve, tradurre parecchie poesie di Schiller e di:Goethe,
e intendere, e, in parte, tradurre la Storia della poesia di Rosen-
kranz e la logica di Hegel. Liberato, dopo tre anni, senza giudi-
zio, e intimatogli di recarsi in America, il De Sanctis si rifugiò
invece a Malta, e di là a Torino, dove si ricordano ancora le ori-
ginali eloquenti lezioni da lui improvvisate sopra la Divina Com-
media, per la fama delle quali fu tosto il De Sanctis invitato al.
Politecnico di Zurigo, per insegnarvi 1' estetica e la letteratura
italiana. Il lavoro di lui sul Petrarca e parecchi de' suoi saggi cri-
tici datano da quel tempo, in cui egli seppe mantenere intatta la
dignità delle lettere italiane innanzi ad una gioventìi straniera.
Con qual confidenza ei potesse parlare a' suoi giovani ce ne fa fede
la prolusione da lui letta al secondo de' suoi corsi nel Politecnico
di Zurigo; e tal confidenza ci dice quanto addentro fosse il mae-
stro penetrato nell'animo de' discepoli. Le cerimonie cinesi si
usano tra gli indifferenti ; tra gli amici si parla invece una lingua
schietta e naturale. Le pagine seguenti ci provano come il De
Sanctis continuasse con felice successo a Zurigo gli stessi prin-
cipii pedagogici che lo avean reso meritamente popolare in Na-
poli. « Secondo 1' ordinamento dell' Università politecnica federale,
questi studii non sono obbligatorii. Sono obbligatorie quelle lezioni
solamente di cui avete necessità per 1' esercizio della vostra pro-
fessione: tutto l'altro è lasciato a vostra libera elezione. Come in
un altr' ordine d'idee la legge vi obbliga a non Aire il male, ma
non a fare il bene, cosi voi siete obbligati a studiare per vivere,'
per provvedere a' vostri bisogni materiali; ma quanto alla vostra
— 348 —
educazione intellettuale e morale, voi non avete alcun obbligo le-
gale. Il governo ve ne dà i mezzi ; se non volete giovarvene , se
non sentite come uomini 1' obbligo morale di educare la vostra
mente ed il vostro cuore, sia pure : vostro danno e vergogna.
« In effetti, con le sole lezioni obbligatorie, qualunque tu sii che
te ne possi contentare, tu non sei ancora uomo, tu sei, permettimi
eh' io te lo dica, un animale bello e buono. Un animale ragione-
vole, mi risponderai, che sa la matematica, la fisica, la meccanica.
Certamente, e perciò anche un animale colpevole, che ti sei ser-
vito della ragione unicamente a scopo animale. In effetti, ditemi
un po', miei giovani, quando costui avrà passata la sua giornata
a lavorare per procacciarsi il vitto, empiutosi il ventre, inumidita
la gola, fatta una bella digestione; in che costui differirà dal suo
mulo o dal suo asino, che anch' egli ha passata eroicamente la sua
giornata tra il lavoro e la mangiatoia? Un giorno confortavo allo
studio delle lettere un mio giovane amico di Napoli, il quale stette
un pezzo muto a sentir le mie belle ragioni; poi, come a chi
fugge tutto a un tratto la pazienza — sai, mi disse, che ti credevo
un po' più uomo? Che diavolo? Bisogna ben ragionare. Credi tu
che una terzina di Dante mi possa toglier di dosso i miei debiti,
0 che tutti gl'inni del Manzoni mi dieno un buon desinare? Filo-
•sofia, letteratura, storia, a che prò? per finire in uno spedale? Oibòf
io studierò il Codice, farò un beli' esame e sarò fatto giudice. Che
bisogno ha un giudice di Dante o del Petrarca? — Come vedete,
è questo un magnifico ragionamento dal punto di vista asinino.
E costui non aveva ancora diciotto anni ! E parlava già a questo
modo! Crebbe rozzo, salvatico, plebeo; divenne giudice; ed oggi
questa bestia togata divide il suo tempo tra le condanne a morte,
ai ferri, all' ergastolo de' suoi stessi compagni, ed i buoni bocconi.
« Non credo che sia questo l'ultimo scopo che l'uomo si debba
proporre, e che Dio ci abbia data l' intelligenza per provvedere alla
pancia, come ha dato gli artigli e le" zanne alle belve. Voi siete
in un'età, nella quale, impazienti dell'avvenire, ciascuno se lo fi-
gura a sua guisa. Quali sono i vostri sogni ? che cosa desiderate
voi ? Fare l' ingegnere ? è giusto : ciò dee servire alla vostra vita
materiale. Ma, e poi? Oltre la carne vi è in voi l'intelligenza, il
cuore, la fantasia, che vogliono esser soddisfiitte. Oltre l'inge-
gnere vi è in voi il cittadino, lo scienziato, l'artista. Ciascuno
si fa fin da ora una vocazione letteraria. Né vi maravigliate.
Poiché la letteratura non è già un fatto artificiale ; essa ha sede
al di dentro di voi. La letteratura è il culto della scienza, l'entu-
— 349 —
siasmo dell'arte, l'amore di ciò che è nobile, gentile, bello; e vi
educa ad operare non solo per il guadagno che ne potete ritrarre,
ma per esercitare, per nobilitare la vostra intelligenza, per il
trionfo di tutte le idee generose. Questo è ciò ch'io chiamo vo-
cazione letteraria; e voi m'intendete, o giovani, voi, ne' quali
l'umanità ogni volta si spoglia delle sue rughe e si ribattezza a
vita più bella.
« Ben so che molti oggi non hanno della letteratura la stessa
opinione. Lascio stare coloro che ne fanno una mercanzia e di-
cono: poiché in un secolo industriale e commerciale siamo per
nostra disgrazia letterati, facciamo bottega delle lettere; e ven-
dono parole, come altri vende vino o formaggio. Non vo' pro-
fanare questo luogo, né spaventare le vostre giovani menti, mo-
strandovi nudo questo meretricio traffico dell'anima. Ben vo' par-
larvi di alcuni altri. A quello stesso modo che certi sostituiscono
oggi la civiltà alla libertà, soddisfattissimi che loro si promettano
strade ferrate e traffichi e industrie e qualcos' altro di sottinteso ;
così alcuni non osano di difendere la letteratura per sé, e la na-
scondono sotto il nome di coltura. Se raccomandano questi studi,
gli è perché dilettano ed ornano lo spirito, compiono l'abbiglia-
mento, vi fanno ben comparire. Leggono, come vanno a teatro, per
divertirsi; fanno provvi^^ione di aneddoti, di motti, di argomenti*
per acquistarsi la riputazione di uomini di spirito ; quello che lo-
dano ne' libri, biasimano nella vita. E se qualche pover' uomo ac-
coglie seriamente quello che legge e vi vuol conformare le sue
azioni, gli é un matto, una testa romanzesca, un sentimentale, e
che so io. No, miei cari. La letteratura non è un ornamento so-
prapposto alla persona, diverso da voi e che voi potete gittar via;
essa é la vostra stessa persona, é il senso intimo che ciascuno ha
di ciò che è nobile e bello, che vi fa rifuggire da ogni atto vile
e brutto, e vi pone innanzi una perfezione ideale, a cui ogni anima
ben nata studia di accostarsi. Questo senso voi dovete educare. E
che? I cinque sensi che abbiamo comuni con gli animali sono ne-
cessari, e questo sesto senso, per il quale abbiamo in noi tanta
parte di Dio, sarebbe un lusso, un ornamento, di cui si possa far
senza? Non cosi è stato giudicato da' nostri antichi: che in tutti
i tempi civili l'istruzione letteraria è stata sempre la base della
pubblica educazione. Certo se ci è professione che abbia poco le-
game con questi studi, è quella dell' ingegnere ; e nondimeno lode
sia al governo federale, il quale ha creduto che non ci sia pro-
fessione tanto speciale e materiale, la quale debba andai'e disgiunta
~ 350 —
da una istruzione filosofica e letteraria. Prima di essere ingegneri
voi siete uomini, e fate atto di uomo attendendo a quegli studi
detti da' nostri padri umane lettere, che educano il vostro cuore
e nobilitano il vostro carattere.
« Non posso meglio conchiudere il mio dire, che parlandovi di
un uomo, il quale vi potrei proporre come tipo di quella perfetta
concordia eh' esser dee tra lo scrivere e l' operare. Alessandro
Manzoni, a cui dobbiamo tante dolci ore passate nella lettura del
suo romanzo, ha sortito da natura una eguaglianza d' animo, per
la quale tutte le sue facoltà si temperano e si accordano. Vi è in
lui la calma e la serenità dell'uomo intero, che lo distingue dal-
l' infelicissimo Giacomo Leopardi, anima scissa e discorde. Questa
musica o misura interiore è visibile ne' suoi scritti e nella sua
vita; trovi in lui la modestia del pensiero congiunta con la tem-
peranza dell'azione. Esempio raro di uno spirito semplice e sano
in una età gonfia e malata, dove gli scrittori o ti fanno pallide
copie della realtà, come il Rosini, o trascendono in pazze e tumide
fantasie, come il Guerrazzi. Il tipo manzoniano è un accordo del
reale e dell' ideale in quella giusta misura che dicesi vero. A quelli
i quali affermano che la letteratura vi porta fuori del reale in un
campo fantastico e immaginario, e che vi toglie il giusto criterio
delle cose nella pratica della vita, si potrebbe rispondere con l'esem-
pio del Manzoni, in cui il senso storico o reale è tanto profondo.
Sono falsi o incompiuti quei poeti che guardano le cose da un lato
solo, e di quello fanno la misura e la ragione del loro ideale.
Quantunque il Manzoni sia ne' particolari dell' invenzione e dello
stile mente affcitto italiana, pure nei fondamenti del suo mondo
poetico è umano, o, come oggi dicesi, cosmopolita. Vede le cose con
la serenità di un Iddio che abbraccia con vista amorosa tutto il
creato; non ci è uomo o cosa ch'egli non alzi in un certo spirito
universale di carità e d'amore, e in che è posta la sua idea reli-
giosa; e in mezzo alle misere querele di quaggiù risuona la sua
voce sempre amica e pacata :
« Siam fratelli, slam stretti ad un patto f
« Di che nasce quella sua universalità che gli fa guardare le
cose nella loro interezza con sì squisite transazioni, con si giuste
gradazioni, di modo che non ci è altezza tanto superba, e sia an-
che Napoleone, che non sia levata in quella sfera superiore e ri-
dotta al suo giusto valore. Attirati soavemente in questo mondo
— 351 —
sereno, sentiamo tranquillar le tempeste dell'animo, raddolcire i
nostri cuori, fuggir da noi tutte le cattive passioni. Sicché pos-
siamo dir del Manzoni quello che fu detto di Schiller, che, se non
è il più grande dei poeti, è il più nobile, il più simpatico, quello
a cui vorremmo più rassomigliare. »
Io riempio così questo Ricordo di citazioni, ma non ho ancora
finito. Potrei dire ora come il De Sanctis nel 1860 ritornasse a
Napoli, com'egli governasse e riordinasse il Principato Ulteriore,
sua provincia nativa, come, per offerta del Conforti, tenesse alcun
tempo il portafoglio della pubblica istruzione, e, in soli otto giorni
di ministero, licenziasse 3'2 vecchi professori universitarii, ricosti-
tuisse, con nuova legge, l'università, fondasse il liceo Vittorio Ema-
nuele nell'antica dimora de'Gesuiti, decretasse una pensione alla im-
provvisatrice Giannina Milli, e preparasse una legge sull'istruzione
primaria e secondaria; come sedesse nel primo Parlamento ita-
liano qual deputato del collegio di Sessa, e venisse dal Mamiani
fatto membro della commissione intesa a proporre una legge ge-
nerale sulla pubblica istruzione, come il conte Cavour lo invitasse
a sedere nel Consiglio della corona qual ministro della pubblica
istruzione, osservando che il De Sanctis era il napoletano del quale
avea sentito dire il minor male da' suoi concittadini; come nel suo
ministero egli passasse volentieri sopra i regolamenti, per aprire
la via al vero merito e combattesse, sovra ogni cosa, contro la
burocrazia, e primo deliberasse che fossero mandati all'estero i
giovani dottori meglio promettenti afSnchè si perfezionassero negli
studii e si addestrassero a professare nelle università.
Caduto il De Sanctis dal ministero, per la viva polemica che gli
armò contro il professor Carlo Matteucci in parecchi giornali, ma
specialmente nella -Monarchia Nazionale, d'infelice memoria, con-
tinuò egli a pigliar viva parte alle battaglie parlamentari, nelle
quali, a grado a grado, tornò quindi ad accostarsi ai banchi del-
l'opposizione democratica, dai quali fece talora suonare alte verità
del tenore di questa : La modestia della nostra politica estera
deve essere compensata dall'audacia della nostra politica interna.
Al giornale L'Italia da lui, in gran parte, fondato, e poi diretto,
volle che servisse quale programma il motto : Né malve né rom-
picolli. Ma la politica per mestiere non mi è sembrata mai il suo
proprio fatto. Chiamano buona politica quella che sa meglio transi-
gere coi prjncipii; ora un buon critico qual è il De Sanctis non può
contenersi nei giudizi politici altrimenti che ne'letterari. In un paese
e con un governo intieramente democratico, anche il De Sanctis
— 352 —
potrebbe e dovrebbe senza dubbio occuparsi di politica ; poiché la
politica cesserebbe allora di essere un'arte, un mestiere, un affare,
un privilegio, una specialità di pochi faccendieri, e tornerebbe in-
vece naturale, tranquillo, modesto e indiscusso esercizio dei di-
ritti e doveri d' ogni buon cittadino, sottintesa, universale par-
tecipazione a tutto quanto concorra spontaneamente a costituire
la vita vitale e non eflimera e non sovrapposta di un gran popolo.
10 mi sono quindi sinceramente rallegrato col De Sanctis, quando
intesi che, lasciate là le brighe della mediocrità politicante, risaliva
in Napoli la deserta sua cattedra di letteratura, e tornava a met-
tersi indiretto, immediato contatto conia gioventù studiosa per mezzo
de' suoi libri e più ancora per mezzo delle sue lezioni. I suoi Saggi
critici e la sua Storia della letteratura italiana, vanno per le mani
di tutti i giovani e non hanno uopo di essere maggiormente divul-
gati. Noterò solo quanto alla seconda, come essa stia, nella mia opi-
nione, molto al di sotto dei primi; il De Sanctis è buon critico,
quando egli fa la sua critica a sbalzi, quando, fra una critica e l'altra,
egli si riposa, quando fissa un oggetto e ne penetra il midollo, prima
di discuterlo. Ma s'egli dovesse riassumersi tutto, legare le sue
felicissime intuizioni e riflessioni parziali in un solo ordinato si-
stema di critica generale, scolorirebbe i particolari senza dare un
tono continuo e conforme all'intiera opera sua. Nel suo ingegno si
possono distinguere bene due facoltà potenti; l'una è penetrativa,
l'altra è plastica. Queste due facoltà hanno bisogno, in lui, d'ope-
rare immediate l'una sull'altra; se l'una perde il calore dell'im-
pressione, all'altra non riesce più di trovare il calore della rappre-
sentazione. Il De Sanctis non mi sembra adatto a comporre opere
di lunga lena; la sua impazienza lo obbliga a sacrificare talora,
per soverchia stanchezza, il più al meno. Egli è più ritrattista
che storico, più poeta che logico; i suoi ritratti m'innamorano;
le sue considerazioni sopra periodi letterari di lungo corso, m'ap-
paiono spesso vaghe ed indeterminate. Egli non può far rivivere
innanzi a sé i secoli come sa invece risuscitare la figura di certi
uomini e di certi scrittori da lui studiati a parte. La sua critica
ha bisogno per riuscir vivace di contemplare innanzi a sé og-
getti vivi e parlanti, per così dire, uno alla volta. Se essi parlano
tutti insieme, il critico li confonde, con grave danno della verità,
a meno ch'essi, nel parlare insieme; non dicano tutti il medesimo,
nel qual caso l'eloquenza del De Sanctis diviene insuperabile. E
un simile caso gli avvenne di recente a Napoli, ed egli lo colse.
11 16 novembre dello scorso anno (1§72), dovendo egli leggere
— 353 —
all'Università di Napoli il discorso inaugurale degli studila vedo-
vasi al fianco un venerando consesso di antiche parrucche colle-
giali, e ritta dinanzi una gioventù impaziente di vivere, e sma-
niosa di strappare alla scienza il segreto della vita. Il De Sanctis
mise suìla bilancia quello che la vecchia Università co' suoi me-
dioevali ordinamenti poteva dare con quello che la novità dei
tempi e dei destini fotti all'Italia richiedeva, e, dopo avere mostrato
il contrasto fra la scienza e la vita, con riscontri efficaci, con-
chiudeva : « Oggi la vita si sente attinta da un malore incognito;
la cui manifestazione è l'apatia, la noia, il vuoto, e corre per
istinto colà dove si parla di materia e di forza e come ristaurare
l'uomo fisico, e come rigenerare l'uomo morale. Letteratura e fi-
losofia, scienze mediche e scienze morali, tutte prendono quel ri-
flesso e quel colore. Rifare il sangue, ricostituire la fibra, rialzare
le forze vitali, è il motto non solo della medicina ma della peda-
gogia, non solo della storia ma dell'arte, rialzare le forze vitali,
ritemprare i caratteri, e col sentimento della forza rigenerare il
coraggio morale, la sincerità, l'iniziativa, la disciplina, l'uomo vi-
rile e perciò l'uomo libero. Le università italiane, oggi sono come
tagliate fuori dal movimento nazionale, senz'alcuna azione sullo
Stato che si dichiara essere neutro, e con piccolissima azione
sulla società di cui non osano interrogare le viscere. Divenute
fabbriche di avvocati, di medici e di architetti, se intenderanno
questa missione della scienza odierna, se usando la libertà che
loro è data, affronteranno problemi attuali e taglieranno sul vivo,
se avranno l'energia di farsi esse capo e guida di questa restau-
razione nazionale, ritorneranno quali erano un tempo, il gran
vivaio delle nuove generazioni^ centri viventi ed irraggianti dello
spirito nuovo ». Leggendo di recente questo discorso inaugurale
del De Sanctis, il marchese Gino Capponi gridava con eloquente
semplicità : mi ha propyno rapito il cuore. Io vorrei ora che lo
rapisse anco ai nostri ministri della pubblica istruzione, ai nostri
rettori e soprintendenti, ai nostri presidi e ai nostri professori
d'università, perchè si persuadessero come la scienza al di fuori
della vita, la scienza contro la vita, la scienza che non crei la vita,
è una sterile superfluità. Un tempo le università italiane aprivano
la via del progresso; ora sembrano quasi chiuderla; vi si distilla
lungamente ancora da molte cattedre il vieto trattato, e con quel-
l'oppio distillato s'addormentano gli ingegni invece di eccitarli. La
scienza dicono i piìi, è come la politica; per esser buona non deve
aver cuore; ma, poiché si può ancora discutere se la fredda politica
Ricordi Biografici • 23
— 354 —
sia la migliore, cosi faremo bene intanto a dar retta al De Sanctis,
il quale, dopo avere per tutta la sua vita mostrato in che modo
un uomo possa, per mezzo dell'insegnamento, moltiplicarsi, può
ora, con l'autorità dell'esperienza acquistata, raccomandare il pro-
prio esempio.
XXII.
LUIGI SETTEMBRINI.
S'io dovessi ragionar qui soltanto del Settembrini come di uomo
politico, che ha molto e nobilmente patito per la causa della li-
bertà, il mio compito sarebbe molto agevole. Chi scriverà un
giorno la storia de'nostri tempi e racconterà gli ultimi fatti del
governo borbonico dovrà, senza dubbio, consacrare al Settembrini
una pagina gloriosa, poich'egli non solo ha conosciuta la sven-
tura, ma rà sostenne lungamente e con dignità. A me invece
giova qui solo considerare questa pagina in quanto essa è venuta
a riflettersi di frequente nelle opere dello scrittore.
Luigi Settembrini nacque nell'anno 1812, in Napoli, ove il padre
di lui Raffaele esercitava liberamente ed onestamente l'avvocatura.
I suoi stiidii secondarli fece egli in Maddaloni; perduto il padre, a
quindici anni, dovette Luigi, come primogenito, prov\'edere a so-
stentare gli orfani fratelli. Lottò parecchi anni con la povertà; nel
1835, avendo vinto per concorso un posto nel Liceo di Catanzaro
vi si recava coi fratelli, e con la moglie, da lui sposata in quell'anno.
Ma per le vicende che si riferiscono a questo periodo della sua
vita udiamo lui stesso (1): « Io mi son uno che ho vissuto sempre
fra i libri, dai quali sventuratamente ho cavato pochissimo frutto
e molti dolori; nel mondo porto uVia faccia di mezzo balordo, e parlo
(1) Nella Difesa di Luigi Settomhrini scritta per gli uomini di buon
senso, dedicata alla gran Corte Criminale di Napoli, Firenze, 1850,
Tip. ital.
— 356 —
poco perchè non so parlare. Aveva ventitré anni, e dopo un esame
in concorso fui eletto professore d'eloquenza nel liceo di Catan-
zaro. Dopo tre anni e mezzo nel 1839 fui accusato insieme con
altri di appartenere alla giovine Italia, e condotto in Napoli fui
gettato in un criminale, dove stetti per ventisei mesi senz'altra
compagnia che le mie sventure e quelle della povera mia fami-
glia. Fui giudicato dalla Commissione di Stato, tribunale che fa-
ceva spavento pel processo segreto, l'avvocato officioso, la pro-
cedura breve, e il presidente Girolami; ma, conosciuta la nostra
innocenza, ci assolveva. Allora il ministro di polizia che ci vo-
leva condannati, diceva al Re, che la Commissione era stata in-
giusta nei rei; e però proponeva di far rivedere il processo, e
mandar noi provvisoriclmente in galera. Il re giusto non permise
si violasse il giudicato, comandò che ciascuno di noi tornasse al
suo paese; ed io perchè napolitano rimasi in Napoli. Uscii Anal-
mente nel 1842 dopo tre anni e mezzo d'immeritata prigionia,
dopo quindici mesi che fui assoluto. Non ho cuore di ricordarmi
quello che ho patito in quei terribili tre anni e mezzo, perchè la
memoria dei grandi dolori è sempre un dolore; e farei piangere
ognuno se narrassi quello che pati la povera moglie mia, la quale
mi diede una figliuoletta mentre io era in criminale e non po-
tetti vederla e benedirla; la quale sofFerì ogni dolore, ogni più
crudele angoscia, parlò per me ai giudici, ai ministri, al re : sof-
feriva più di me, e mi nascondeva le sue sofferenze per non ac-
crescere le mie. Ritornato fra gli uomini vivi, mi furon chiuse
tutte le vie per procacciarmi un pane onorato, mi fu negato di
aprire uno studio di letteratura, si volle che io vivessi soltanto
per soffrire, si tollerò che andassi correndo ed insegnando per
le case altrui. Strascinai questa vita sino al 1818 dividendo i
pensieri e gli affetti tra la mia famiglia ed i miei studii. »
Ad aprire uno studio di letteratura allettavalo 1' esempio del
Ruoti, seguito quindi con tanta gloria dal De Sanctis. E del Ruoti
anco il Settembrini ci lasciò ricordo come il De Sanctis, nelle
sue Lezioni di Letteratura, ma, dal modo con cui egli lo fece, il
giovine scrittore può rilevare la grande differenza che passa tra
i due critici. Il De Sanctis diviene tutto memoria, per dar rilievo
alla sola figura del maestro venerato; il Settembrini sembra in-
vece preoccuparsi, sovra ogni cosa, dal pensiero di ricordare sé
stesso. « Un giorno parlavamo di quei gloriosi del 99, ed ei mi
disse di avere un libro prezioso, una Bibbia che suo zio prete
portò a leggere a quei condannati, ed essi leggendo in quella si
— 357 —
prepararono a morire. E levatosi prese quella Bibbia, e la baciò,
e l'aprì, e la baciai anch' io. Quando pubblicò il suo Vocabolario
napolitano, ebbe una fiera e villana critica, lo me ne sdegnai,
e scrissi un dialogo bene impepato, che intitolai il Gozzi, con-
tro quel critico. Lo lessi a lui ed all'ab. Vito Fornari; vi fe-
cero alcune osservazioni, e me lo lodarono. Dunque io lo farò
stampare. No, disse il Marchese, non voglio, anzi te lo proibisco.
Non voglio che tu prenda inimicizie per me. Di poco sei uscito
di prigione, e non devi mostrarti vivo. Io feci il voler suo. Piansi
amaramente, quando mori nel 1847, e h^a le migliaia che lo ac-
compagnarono al sepolcro, io volli portarne la bara su le spalle,
— Se voi, 0 giovani, volete il vero ritratto del Puoti, ve lo ha
fatto Francesco De Sanctis nell' Ultimo dei Puristi; qualche parte
vi manca — Questa parte l' aggiungo io. Quante volte egli dice-
va : Se capissero quello che fo ! Lo dirai tu dopo la mia morte.
Io vorrei che gli italiani parlassero come il Macchiavelli ed ope-
rassero come il Ferruccio. » Cosi Y io entra volentieri in iscena,
e non solo ne' sentimenti ma nella persona del critico. Tutti ab-
biamo letto con dolore le sconvenienti parole scritte dal Settem-
brini contro i Promessi Sposi « il libro della Reazione; » e pure,
ad intenerirci, egli ha osato conchiuderle, col parlarci della visita
da lui fatta al Manzoni. « Quando sono stato a Milano ho voluto
prima di ogni altra cosa e prima di vedere il Duomo , ho voluto
visitare il Manzoni. Ma io lo avrei abbracciato e baciato quel santo
(perchè qui santo, se tre righe più in su, egli avea dichiarato che
Manzoni era un brav' uomo, ma non già un santo da mettere sugli
altari?) vecchio, se la riverenza non mi avesse trattenuto. Oh potes-
s'io ridire senza guastarle tutte le parole che egli mi disse! e v'era
presente il mio amico prof. Antonio Casotti (!!). Uscii col cuore
profondamente commosso, e lieto dicevo tra me; l'ho pur ve-
duto quest'unico uomo, quest'unico artista, questo Manzoni che
io fin da piccino ho amato sempre, e riverito. » E appena ve-
dutolo , e tornato a Napoli si provò a demolirlo, e non po-
tendo infine trovar buone ragioni, per giustificare le sue matte
accuse, diede in queste parole spavalde: « Cosi penso, cosi dico;
gridi pure chi vuole gridarmi contro. Se io m' inganno lo vedrà
il Millenovecento l » Alcune carte dopo, conchiudendo il suo libro,
egli si raccomanda alla giustizia di un tempo ancor più lontano,
perchè si dia ragione ad una sentenza eh' egli s' immagina di
avere inventata, e che, in fin de' conti, è una freddura : « Chi
vuole civiltà può trovarla soltanto dove splendono e scambievole
— a )8 —
mente si danno luce tra loro la filosofia e l'arte. — lo dunque
non intendo di profetar l'avvenire, ma di additare la via per la
quale a me pare dovranno camminare le generazioni future. Molti
diranno no, e mi biasimeranno, e forse anche si sdegneranno
delle mie parole, ed io, sorridendo, risponderò loro: Il Duemila
vedrà chi ha il torto ! » Il miles gloriosus viene cosi pur troppo
a turbare di frequente la serietà della critica del Settembrini; ma
questo miles che si vanta non è. per fortuna, un uomo dappoco.
Si preferirebbe, senza dubbio, eh' ei lasciasse ad altri la cura di
esaltarlo, e eh' egli non confondesse i diritti del cittadino all'am-
mirazione universale, con quelli dell' uomo di lettere, che, per
quanto letto, ed acclamato, merita ancora di venire discusso. Ma
poiché le piccole debolezze sono più diflìcJli a correggersi che i
grossi vizii, poiché, se contro di questi si può armare una forte
volontà, verso le prime si usa per lo più una indulgente tolleranza,
pigliamo l'uomo qual'è, ed anzi ai molti meriti dell' uomo condo
niamo una parte dei difetti che si rilevano nello scrittore.
Dopo la lettura dei Casi di Romagna, il Settembrini lanciò
anonima all'Europa, nell'anno 1817, la sua coraggiosa Protesta
de' popoli delle due Sicilie, che l'anno di poi il Ricciardi voltava
in francese e stampava a sue spese a Parigi. Caduto il sospetto
sopra di lui come autore della Protesta, egli riparava in seguito
per alcun tempo a Malta; di là ritornato nel 1848 a Napoli, vi
era invitato da Carlo Poerio ministro della pubblica istruzione,
a dirigerne gli affari; durò in udìcio un mese e mezzo; il Boz-
zelli, succe-^sore del Poerio, lo pregò di restare; il 21 maggio, ei
rinunziò; il BozzeHi gli volle far dare una pensione; egli rispon-
deva con la seguente lettera la cui prima parte gli fa grande
onore: « Sento il dovere di ringraziarla che Ella presentando al
Re la mia rinunzia ha proposto che mi si dia una pensione di
quaranta ducati al mese; e la prego di ringraziare in mio nome
la Maestà del Re che generosamente ha approvata questa pro-
posta. Ma ella mi permetta che io le dica di non potere ac-
cettare la munificenza del Principe, perchè io sono stato in
ufliCio un mese e mezzo, non ho reso alcun grande servizio , e
non merito pensione. Non disprezzo un benefizio reale; ma io
sono avvezzo a lavorare, ed esserne compensato; un dono mi
umilia, e mi fa vile a me stesso. Se V. E. vuole che io abbia un
soldo, e che io lo accetti, mi faccia lavorare come e dove le pare;
ed io le posso promettere di servire esattamente ed onestamente.
JjE prego di far noti a Sua Maestà questi miei sentimenti, e di
— 359 —
fargli leggere la dichiarazione che io scrissi quando rinunziai al
mio ufficio; affinchè il Re vegga quale uomo io mi sono, non quel
tristo che la malvagità degli uomini ha voluto dipingere con neri
colori ». Lo invitò allora il ministro delle finanze ad occupare
un posto; egli rispose che non poteva accettarlo, perchè non sa-
peva affatto di finanza e in tutta la sua vita non aveva studiato
che letteratura. Egli apriva allora, di fatti, secondo il suo voto,
in Napoli uno studio di letteratura; ma, per breve tempo; eletto
deputato da' suoi concittadini dovette rifiutare, perchè non s'era
ancora accettata la sua rinunzia al ministero, senza la quale ac-
cettazione riusciva nullo il voto de' suoi elettori. Disciolta la ca-
mera, al Settembrini fu consigliato di fuggire; egli non credette
cosi grave e così imminente il pericolo; si ritrasse il G maggio
1849 ad abitare ima villetta di Posilippo. Il 23 giugno egli fu ar-
restato in linea di prevenzione e per ordine di S. E. il Ministro
dell'Interno. Condannato a morte nel 1851, gli fu commutata la
pena nell'ergastolo, ove rimase fino al 1859. In quegli anni egli
compi la sua pregevole traduzione .delle opere di Luciano (l) ;
quanto al modo ch'ei tenne ed all'occasione, è importante udire
le proprie parole con cui lo stesso egregio traduttore ce ne in-
forma nel suo Discorso intorno la vita e le opere di Luciano :
« Ero io, egli scrive, da due anni nell'ergastolo di San Stefano,
quando ci venne il mio diletto amico Silvio Spaventa, il quale
portò seco un volume contenente alcune opere di Luciano tradotte
in francese dal Belin de Ballu. Lo lessi, mi piacque, mi ricordai
degli studi della mia giovinezza ; e mi parve che il riso e l'ironia
di Luciano si confacesse allo stato dell'anima mia. Per non per-
dere interamente l'intelligenza, che ogni giorno mi va mancando
(il Settembrini scriveva queste melanconiche parole nel settembre
del 18)8 dall'ergastolo di Santo Stefano), per non perire intera-
mente alla memoria degli uomini, mi afferrai a Luciano, e mi
proposi di tradurne le opere nella nostra favella Ebbi il nudo
testo emendato dal Weise, e cominciai a lottare disperatamente
con mille ostacoli senz'altro aiuto che un piccolo lessico manuale;
ma pervenuto più oltre del'a meta del lavoro, ebbi l'edizione Bi-
pontina. Per cinque anni vi ho lavorato continuamente fra tutte
le noie, i dolori, e gli orrori che sono nel più terribil carcere,
in mezzo agli assassini ed ai parricidi: e Luciano, come un amico
(11 Firenze, Le Monnier, 1861-1862. in 3 voi.
- 360 —
affettuoso, mi ha salvato dalla morte totale della intelligenza. Il
mio Silvio, che ha veduto questo lavoro nascere e venir su con
tante fatiche, mi ha aiutato de' suoi consigli, e, ragionando meco,
mi ha suggerito col suo solito acume parecchie osservazioni che
io ho espresso in questo discorso. La sua amicizia mi è conforto
unico nella comune sventura; io l'amo con amore di fratello ed am-
miro in lui un alto cuor'e ed un alto intelletto. E se queste carte
un giorno potranno uscire dal carcere ed essere pubbliche, io vo-
glio che dicano al mondo quanto io amo e quanto io pregio que-
sto mio amico. Eppure altri pensieri ed altri dolori crudeli lace-
ravano l'anima mia, ed io, non che attendere a questi studii, non
avrei potuto durare la vita, se Antonio Panizzi, Direttore del Mu-
seo britannico, non avesse con amore di padre preso cura del mio
povero figliuolo, e fotti a me grandi e singolari benefizii. Qua-
lunque sia questa mia fatica, per suo benefizio io potei farla, e
però a lui è dovuta, ed a lui l'offro, e la consacro. » Raffaele
Settembrini, il protetto del Panizzi, dovea poi, come ufficiale della
marina inglese, divenire, nel 4 859, salvatore del padre; il Pitrè ha
narrato questo commuovente episodio nel suo volume di Nuovi
profili Mogy^afici di contemporanei (1), ove egli ci dà pure un ri-
tratto fisico del Settembrini; della vita del quale non resta altro
ad aggiungersi, fuor ch'egli vive dal 1800 in Napoli, ove coperse
da prima l'ufficio d'ispettore degli studii, e da alcuni anni pro-
fessa letteratura italiana all'università; ch'egli segue in politica,
non senza calore partigiano, la parte moderatissima; e che fu da
parecchi ministri della pubblica istruzione adoperato in frequenti
ufficii importanti.
Per quanto ristretta sia ora la parte politica che il Settembrini
sostiene, il suo passato è degno di ogni rispetto, e nessuno tro-
vasi meglio di me disposto a rendergliene onore. Ma se in ma-
teria politica ei può parlare alto, duolmi non potergli riconoscere
la stessa autorità come uomo di lettere, duolmi non poter dire a
que'giovani ai quali egli si volge con parola cosi frequente e si-
cura: fidatevi. Era mio primo proposito combattere, come il Buc-
cellati, il Gelmetti, il Tedeschi hanno già fatto, le matte opinioni
divulgate dal Settembrini con le sue Lezioni di letteratura ita,-
liana, sopra il Manzoni; ma avuto tra le mani tutto il libro, me
ne cadde l'animo; io speravo che quella sfuriata del Settembrini
(I) Palermo, 1R68, p 153, 154,
— 361 —
fosse un caso strano; invece mi dovetti persuadere che l'opera sua
è piena di simili sfuriate, e leggendola mi spiegai pure il tono
presuntuoso di parecchi fanciulli delle provincie meridionali, ai
quali perchè brilla qualche lampo d'ingegno, par lecito metter su
cattedra e posarsi sopra un piedistallo per dire al volgo: se voi
non vi siete accorti di me, parlerò tanto io che vi manderò per-
suasi come una sola mediocrità audace valga più di cento in-
gegni modesti e laboriosi; ciò che importa è sapersi far largo, è
dir le cose tali e quali, schiettamente, come vi saltano per lo
capo, senza darsi alcuna briga di esaminare se per caso non fos-
sero volgari sciocchezze, se, per caso la prima parola non facesse
a pugni con l'ultima, se tutto lo splendido alto discorso non si
risolva in un infinito e vano sproloquio. Il dire ora che tutta
l'opera del Settembrini è uno sproloquio sarebbe cosa ingiusta, e
che a lui dovrebbe parere villana. Un certo fondo di studii se-
veri al Settembrini non manca; che, se egli non ne potesse recare
altri documenti, la sua versione del Luciano fatta in carcere ba-
sterebbe a provarlo. Anche dal lato della conoscenza letteraria
può dunque riconoscersi un certo pregio nel contenuto materiale
delle Lezioni del Settembrini; ma, oltre a questo, esse contengono
un pregio generale, il quale se non è nuovo, come l'autore s'im-
magina, riesce efficace per la ostinazione che mette il Settem-
brini nel confermarlo, voglio dire la immediata corrispondenza
ch'egli cerca di continuo fra le lettere e la vita. Certo la vita
può essere intesa assai più largamente e profondamente ch'ei non
sappia, e la corrispondenza ch'egli trova nella storia fra la mani-
festazione letteraria e la vita è di rado precisa (egli vede per tutta
la nostra storia letteraria, come il Ferrari per tutta la nostra storia
civile, quasi unicamente guelfi e ghibellini, papato ed impero) ma
nessuno può negare che sull'animo.de'giovani 1 insistenza che pone
il Settembrini nel rendere, in certo modo, la vita dell'individuo re-
sponsabile delle qualità dello scrittore non sia per riuscire benefica.
Per questa parte adunque del contenuto ideale che inspira gene-
ralmente tutta l'opera del Settembrini, e gli fa scrivere qua e là
alcune pagine di vera e sentita eloquenza, le sue Lezioni di let-
teratura ilatiana meritano un riguardo; ma tradirei alla mia fede
di libero scrittore se aggiungessi che, il valore del critico corri-
sponde nel libro a quello del patriota, e che il Settembrini sia,
quanto alla forma, uno scrittore imitabile. Egli vi parla anzi tutto
di molte cose che egli conosce molto imperfettamente, e di altre
che non conosce punto, come per dire un esempio, là dove egli
— 362 —
insegna ai giovani che Berchet « tradusse dall'indiano il dramma
la Sacuntala » confondendo così un articolo che il Berchet scrisse
sopra il dramma indiano, con una traduzione che egli non ha mai
fatta e che non poteva fare; e, per citarne un altro più grave, là
dove egli chiama pummente medilativa la filosofia d'Aristotile, il
più grande osservatore della natura che abbia avuta l'antichità.
Lo stile del Settembrini diviene ora lirico per un entusiasmo falso
e convenzionale, ora volgare per un'affettazione di sincerità non
chiesta e p'ena di fatuità. Rechiamone un esempio; egli parla del
Sydereus Nimc'iis, ed incomincia col dirci che è una festa, ima le
tizia, una nuova rivelazione, una felice tiovella che scende dal cielo;
quante parole inutili, dove bastava esporre semplicemente il ti-
tolo dell'operetta, e quindi, come se non bastasse, procede in que-
sto strano e ridicolo linguaggio: « Solenni e letizianti sono le pa-
role onde incomincia, nelle quali io sento tutta la poesia della
scienza che sorge bella, lieta, sorridente come una vaga fanciulla,
che entra cantando nella festa della vita. » E pure Galileo non
cantava punto, e invitava soltanto, con severa semplicità, i suoi
coUoghi a studiare le proposte contenute nel suo trattatello:
« Magna equidem in hac exigua tractatione singiilis de natura spe-
culantibus inspicienda confemplandaque propono.» Ecco uno di quei
molti casi ne'quali la parola esagerata e falsa del Settembrini è
sproporzionata e non corrisponde punto alla realtà del soggetto.
Poco innanzi egli ci preoccupava colla solita persona dell'autore
per darci una notizia che forse il gesto del cattedratico innanzi
ad un publico napoletano avrà reso drammatica, ma che lascia
invece più che freddo e indifferente l'animo del lontano e tran-
quillo lettore. « Quando visitai Pisa la prima volta, vidi il cam-
panile; ed entrai nel duomo, un sagrestano mi disse additandola:
Eccovi la lampada di Galileo; e^li era seduto li... su quello scanno.
Io tremai e veramente lo vidi sedere su quello scanno. »
rsè il Settembrini mi sembra più felice quando dai giudizii let-
terari! speciali risale a generali contemplazioni sulle fasi della
storia e sulle ragioni dell'arte. Egli è vago e indeterminato;
mette insieme de' pezzetti, e poi li cuce, li raffazzona senza gar-
bo, dimenticando pure talora nella pagina seguente ciò che egli
avea detto nella precedente ; egli va innanzi con immagini, pallide
per lo più, che converte in definizioni, e invece d' insistere so-
vr' esse per dimostrarle, con facile capriccio, ne lascia una
per pigliarne un' altra, creando nell' insieme una prima impres-
sione di scrittore vivace, ma inetto poi a svolgere, con mente
-_ 3G3 —
filosofica , le sue tesi mobilissime. Vediamolo alia prova. « La
letteratura è un occìiio dello scibile umano; — la letteratura (.^
larte nella parola; — la parola è la pyima veste del pensiero; —
l'arte è (con la scienza e la religione), uno de' tre raggi di una luce
unica; — l'arte è una creazione àeWo spirito; — l'arte è l'armonica
rappresentazione del vero in una forma sensibile; — la letteratura
è specchio di tutta la vita. » Quanta speciosità senza cervello ;
tutte queste definizioni immaginose della letteratura e dell' arte
il Settembrini ce le mette in un mazzo in sole due pagine, ove
abbiamo un occhio, clie è raggio, ctie é specchio, che è arte, che
è creazione e rappresentazione nella prima veste del pensiero; dopo
di ciò, si formi chi può un' idea ben determinata della lettera-
tura. Ma seguitiamo. « Ogni arte ha la sua parola; questa j?}er-
sonalità dell'arte è il suo vero pregio; la forma non è come ve-
stito che possa adattarsi a molti; ma è come la pelle che nasce
col corpo. » Niente più che pelle? Niente più elastica, intima, pe
netrante della pelle? Dunque uno scrictore senza forma. Vico per
esempio, alla mente del Settembrini dovrebbe rappresentarsi come
una specie di San Bartolomeo scorticato vivo? Procediamo in-
nanzi. « La Letteratura come ogni altra disciplina, va studiata
viva, cioè nella sua storia; e fuori la storia non si può, che sa-
rebbe come chi per conoscere 1' uomo osservasse il cadavere (an-
che lo studio del cadavere è possibile , per conoscere l'uomo; il
confronto non regge). Bisogna considerare prima i pensieri, i
sentimenti, le azioni, che costituiscono la vita; e poi come tutta
questa vita passando a traverso il lucido cristallo della fantasia
si riflette in vari colori, e ci si presenta nella luce della paro-
la. » Vi son due modi di considerar la letteratura; cercar la
letteratura nella s'orla, o la storia nella letteratura. Il Set-
tembrini che tien conto del primo solo modo rends impossi-
bile lo studio di parecchie antiche letterature, nelle quali sol-
tanto si possono trovare alcuni indizii storici; la letteratura in-
diana, la biblica, la omerica, la scandinava informino. Cercar poi
i pensieri, i sentimenti prima de' fatti, prima della parola che
tramanda tali fatti, come vorrebbe il Settembrini, è possibile sol-
tanto ai metafisici. Anche là pertanto dove il Settembrini s'acco-
sta più al vero, non lo arriva, per quel solito difetto di logica
che gli impedisce di riuscire non solo uno storico della letteratura
italiana, ma neppure un critico grave e coerente. Egli non con-
templa mai con fermezza il suo oggetto, e però se lo lascia fa-
cilmente sfuggire; ogni oggetto diviene al suo sguardo un mobile
— 364 —
prisma, di cui girano fra le sue mani le facciette. moltiplicando e
confondendo i riflessi. « Il popolo italiano, egli ci dice, ha avuto
due vite, due civiltà, due religioni, due lingue. » Abbiamo dunque
bene inteso che si tratta di due; e poco più sotto: « L'intera vita
nostra (si tratta dunque di noi italiani], si distingue in tre pe-
riodi; l'antico greco-latino (che c'entrano qui i greci?), il mondo
di trapasso, ed il nuovo italiano. La civiltà greco-latina, è un splen-
dore di bellezza e di potenza, che si manifesta nell'arte dei Greci,
e neir impero dei Romani. » Sempre la stessa indeterminatezza,
e la confusione in un solo discorso di due civiltà eh' egli stesso
vuole distinte; ma tanto ci voleva per offrirgli il destro di dare
il carattere della vita in Grecia ed in Roma, al momento in cui
apparve il Cristianesimo. « Godere era il grande bisogno e il
grande studio dell' uomo, e si cercava godere in questa terra in
parte; e poi che fu esaurito (ma se si cercava godere solo in
parte, come mai un cosi pronto esaurimento?) il piacere onesto,
si cercò il disonesto, lo scellerato, l' infame, il piacere dal san-
gue, dalla vergogna, e persino dal dolore (quanta rettorica; ov'e-
rano e quali, ed in qual tempo que' greci che il Settembrini ri-
copre di tanto obbrobrio?) I deboli servirono ai piaceri dei forti,
come la donna ed il fanciullo (qui siamo in Grecia) ; i vinti di-
ventavano servi e cose, e pasto di fiere per sollazzo dei vincitori
(qui si passa a Roma). I Greci della natura e dell'uomo usarono
pel piacere; i Romani venuti di poi, e forti e ristucchi (di che?),
ne abusarono. Fedele immagine di questa vita è l'arte antica ».
Ma quale arte ? quella di Omero, di Pindaro, di Pericle, di Tuci-
dide, di Demostene, di Ennio, di Virgilio, di Livio, di Tacito ?
Come si può egli, dopo avere fatto un quadro così infelice, cosi
falso della vita, venire a calunniar tutta l'arte, dicendo ch'essa
la rappresenta? Ma era necessario al Settembrini quella scena,
per preparare l'avvenimento del cristianesimo : « Quando la terra
fu esaurita, e quando fa spremuto il piacere anche dal dolore, la
terra non bastò più all'uomo, e bisognò uscirne. Necessariamente
surse allora una nuova idea appunto quando l'antica aveva com-
piuto il suo corso ed era giunta al godimento dal dolore; e que-
sta idea fa il Cristianesimo. 11 Paganesimo affermò la terra, il
Cristianesimo la negò, e distrusse quanto vi era di male e di
bCìie. 11 Cristianesimo ha avuto due momenti; nel primo negò e
distrusse tutto, nel secondo riconosce il bene anche su la terra
(ma se avea distrutto ogni cosa I), e cerca di riconciliare la terra
col cielo ». Tanta confusione, tanto lieve arbitrio di giudizii non
— 365 —
pure sovra alcuna cattedra, ma neppure sulle panche di alcuna
scuola di rettorica si dovrebbero permettere. Ma il Settembrini
prosegue impavido : « Il trapasso dalla civiltà antica alla moderna,
che si chiama medio evo^ è appunto quel primo momento; periodo
scuro e di distruzione, che comincia quando questa distruzione
apparisce forte e generale con Costantino imperatore ». Con sif-
fatta leggerezza presunse il Settembrini avere dato ad un tempo
il carattere della civiltà antica, del primitivo cristianesimo, e del
medio evo. Ma alla pag. 61 del primo volume egli ha probabil-
mente già dimenticato quanto avea scritto sulle prime facciate del
libro: « Il mondo antico comincia dall'inno di guerra di una tribù
0 di un popolo, comincia à-àW atfermazione delle forze dell'uomo ;
il mondo nuovo comincia dall'amore, dalla voce di un'anima che
su questa terra desolata e maledetta incontra un'altra anima, co-
mincia à?L\\' afférmazione della donna (ma se il Cristianesimo ne-
gava la terra, come poteva cominciare affermando la donna?).
Nel mondo antico, la donna era serva dell'uomo o almeno inferio-
re ; nel mondo nuovo, il Cristianesimo depresse l'uoìno, lo fece
servo, l'agguagliò alla donna (ma, se la donna l'aveva atlermata !)
anzi abbassò l'uno e l'altra alla condizione delle creature irragionevo-
li, per modo che il buon Francesco D'Assisi nell'esagerazione della sua
umiltà, diceva: Frate cane, frate lupo, frate sole, e suor luna (ma
come non ha compreso il Settembrini la poesia di queste espressioni
sulla bocca di San Francesco, e il sentimento tutto panteistico che lo
muoveva, per cui egli vedea intorno a sé viva e parlante, e animata
di un senso intimo conducente ad un supremo ideale l'universa
natura? e come si poteva da una sola parola immaginosa di un
poeta ispirato e pieno d'amore, giudicar cosi lievemente quel fatto
immenso che, piaccia o non piaccia, fu nel mondo il Cristianesi-
mo?). Tutti furono sery? innanzi a Dio, e però tutti si trovarono
eguali tra loro, non più l'uomo soggetto all'uomo, non più la
donna serva dell'uomo, ma eguale,, perchè dotata anch'ella di un'a-
nima immortale e di ragione (ma se il Settembrini ci aveva detto
poche righe più su che il Cristiane^Èimo avea abbassato l'uomo e
la donna alla condizione delle creature irragionevoli l). Quando
l'uomo cominciò a risentirsi libero e levò il capo (ma se uomini e
donne col Cristianesimo eran diventati tutti servi), con meraviglia
si trovò a fianco la donna sua conserva ed eguale, e facendo libero
sé, fece libera anche lei ». Io non ho coraggio di proseguire; non
mai in Italia fu parlato, a senso mio, dalla cattedra più speciosamen-
te di cose storiche e letterarie, e con maggior vanità e contraddi-
— 366 -
zione di giudizio; il Settembrini non ordina e compone lo sue
parole in un discorso ragionato, ma le tira su alla ventura, le
une dopo le altre, pressapoco come si levano le ciliegie dal paniere
del fruttaiuolo ; la prima tenta la vista e la mano ; se ne vuol
staccare una, e ne vengono dietro molte altre; la cil'egia che sta
sopra pare sana; quelle che giacciono satto, se non son agre,
hanno la magagna. Un compratore prudente ritirerebbe la ma-
no; il Settembrini abbranca invece e mette le ciliegie in bi-
lancia, ed ammonta, ammonta, contento d'averle a cosi buon mer-
cato. E allo stesso buon mercato le rivende quindi, anzi le dona
liberalmente, bastandogli spesso la popolarità del nome di donatore
splendido. Ora il nome del Settembrini,, in quanto significhi devo-
zione alla patria fino alla virtù del sacrificio, rimarrà, senza dub-
bio, intatto ed onorato, ed anche più in là dell'anno mille nove-
cento e dell'anno diLe mil'J, ne quali egli spèra che si vedrà il
compimento de' suoi oracoli letterari!; ma, se il tuono dell'Apollo
Delfico gli garba, io dubito fortemente che i suoi responsi richia-
mino 0 meglio trattengano molta gente seria intorno al suo tripode.
A Luigi Settembrini uscito dall' ergastolo borbonico, ogni uomo
onesto e di cuore farà sempre di cappello; quanto alla sua ditta-
tura letteraria, senza attendere la giustizia de' secoli, la si può fin
d'ora ridurre al suo giusto valore; il Settembrini è uomo colto,
immaginoso, e che, dove un affetto caldo e sincero lo muove, sa
pur riuscire eloquente; non è tuttavia né un grande pensatore,
né un osservatore profondo, né uno scrittore poderoso. Ho pro-
vato anch'io un certo dispetto alla lettura del capitolo da lui scritto
contro il Manzoni; leggendo l'intiera opera di lui me ne sono
tuttavia consolato; quando un critico non può essere preso intie-
ramente sul serio, non vai la pena, parmi, di discuterne gli apprez-
zamenti particolari; lo spolvero dell'ingegno di un cattedratico
può spesso attrarre, ma di rado fa breccia profonda nell'animo
de' suoi ascoltatori ; ciò che s' acquista con poca fati 'a, si abban-
dona pure con molta facilità.
xxiir.
RUGGIERO BONGHI.
La serie dei critici napoletani contemporanei non pur non si
chiude coi due scrittori rammentati ne' due ricordi che hanno
preceduto il presente, ma, a pena può dirsi aperta. Io non in-
tendo tuttavia seguitarla sino al fine, senza interromperla, poi-
ché, come il giovine lettore ha potuto avvertirlo, non è mio di-
segno ordinare il mio soggetto come in un trattato, per libri,
capitoli e paragrafi, né numerare, con ridicola pretesa, per or-
dine di merito, gli scrittori de' quali mi sono proposto lasciare
alcun ricordo, ma trattare singolarmente di ciascuno, come se ne
offre a me l'occasione. Per questo carattere di spontaneità che
ogni ricordo porta con sé, a me riesce più agevole considerare
ogni scrittore indipendentemente per sé, senza preoccuparmi della
necessità di misurare il mio discorso, secondo un piano generale
prestabilito, al quale io debba conformar quindi e sacrificare ogni
mio studio speciale. Una sola idea sì mi muove sempre e governa,
quella di dire con decente coraggio il vero e quella di proporre,
ov'io abbia la ventura d'incontrarli, nobili esempii a' miei giovani
concittadini. Ma, serbandomi fedele a questo primo principio in-
spiratore, il quale, come mi pose nell'animo il desiderio d' inco-
minciare, così vi mantiene il coraggio di proseguire nell'opera
mia, io mi riserbo poi una perfetta libertà di moto nell'ordine
con cui vengo presentando gli scrittori viventi che hanno ope-
rato od operano più direttamente sopra la coltura nazionale,
come rivendico a me stesso ed adopero una libertà pienissima
nel dire quel che, umile scrittore, ma osservatore attento di quanto
— 368 -
concorre a creare una vita italiana in Italia , io ne possa
pensare.
Ora intanto mi preme rammentare alla gioventù italiana il nome
e le opere eli tre uomini d'ingegno, tutti tre napoletani, i quali
hanno meglio smentito, col proprio esempio di una operosità mi-
rabile, l'accusa che. l'italiano delle provincie meridionali si è par
troppo meritata, come beatissimo di quel dolce far niente, che
per inf\imia nostra, divenne proverbiale. Il Bonghi, il Fiorelli ed
il Villari sortirono da natura, forte, largo e vivo ingegno; ma il
più essi lo debbono a sé stessi, per averlo di continuo esercitato
e reso operoso. Appartengono essi ora all'Italia ufficiale; sono
uomini di governo; il potere li tenta e in parte e forse troppo li
occupa; come uomini politici, essi rassomigliano a' più; ma dai
politici volgari in questo differiscono ch'essi possono iàv discen-
dere un po' di luce ov' é molta e fìtta tenebra. Se il governo fosse
più civile, se l'autorità avesse de' suoi doveri un'idea più elevata,
se vi fosse maggior nobiltà colà ó^ove si puote ciò die si vuole,
anche i consiglieri sarebbero migliori, e certe titubanze che, per
quanto vogliano parere atti di singolare prudenza, assumono, per
noi spettatori impazienti, misera specie di viltà, cesserebbero.
Qualunque governo sorgesse poi in Italia, dovrebbe sempre tene
gran conto d'uomini intelligenti e capaci quali il Bonghi, il Fio-
relli ed il Villari si rivelano; dico anzi di più, uomini cosi fatti,
traendosi dietro la moltitudine potrebbero, se volessero, mutare
essi stessi, in parte, il governo; i rivolgimenti si fanno dal basso,
ma si pensano e si governano dall'alto; perciò sarà sempre deside-
rabile, se alcun mutamento della forma politica vedrà il tempo no-
stro in Italia, che le nostre più nobili intelligenze vi concorrano,
per impedire l'anarchia degli analfabeti.
10 suppongo ora un'alleanza che parrà impossibile ; e quanti
sanno come il Bonghi ed il Villari siano teneri 1' uno dell' altro
sorrideranno, senza dubbio, al mio augurio; ma, oltre che la po-
litica ci ha avvezzati a conversioni molto più miracolose di quelle
che io prenunzio, io ho voluto solamente indicare come ne' cata-
clismi politici le montagne si possono incontrare e farsi atto di
ossequiosa riverenza.
11 Bonghi, il Fiorelli, ed il Villari sono in Italia tre figuro che
si staccano e che meritano perciò di venire considerate a parte.
Ruggiero Bonghi ha compiuto quarantasei anni nello scorso
mese di marzo. Giovinetto, egli si consacrò tult) allo studio della
filosofia e del greco; a diciott'anni egli avea già consegnato alle
— 3G9 —
stampe la sua traduzione del trattato di Plotiuo sul Bello, a di-
ciannove anni un frammento della storia della filosofia platonica
in Italia. A vent'anni egli si collocava senz' altro fra i meglio
promettenti ellenisti e filosofi italiani pel suo volgarizzamento e
commento del Filebo o Dialogo Bel sommo hene di Platone (1).
Il volume contiene la seguente dedica: « A Clemente De Curtis.
avolo suo dilettissimo, Ruggiero Bonghi a dimostrazione di anim-»
grato per essere venuto in soccorso a lui ed alle sue sorelle nel-
l'immatura morte del padre, questo primo frutto di giovanili studi
offre e consacra. > Il principio della carriera d'un giovine che
incomincia con la riconoscenza verso i suoi benefattori è sempn».
simpatico. E il Bonghi seppe evidentemente conciliarsi, con la
prima pagina del suo libro, la benevolenza de' suoi lettori. La pre-
fazione è scritta in modo impacciato ed accademico; ma qua e là
ne vien pur fuori il carattere dello • seri tto;^e: ne recherò, per
saggio, un breve passo, sicuro, che ogni lettore ritroverà nel!e
linea sentenziose del giovinetto Bonghi il concettoso e pure spi-
gliato polemista de' giorni nostri: « A dire quante e quali diffi-
coltà ci sia stato mestieri di superare per compiere con alcuna
apparenza di bene il nostro divisamento, sarebbe inutile e noioso
discorso, e forse potrebbe parer cagionato o da soverchio deside-
rio di lode 0 da tema soverchia del biasimo altrui. Né a discor-
rere di quanti e quali aiuti ci siamo forniti, recherebbe alcun
prò; che, ove non si vedesse dal libro medesimo, punto non var-
rebbe di Eversegli procurati. »
Il Bonghi vi spiega già quella destrezza tutta sua peculiare nel
prevedere l'obbiezione e combatterla prima che gli sia presentata,
arte nella quale egli è maestro; anzi il suo valore di polemista
consiste specialmente in questa facoltà mirabile di studiar tutte
le cose dal loro punto di vista contradditorio. Io non ne ho fatto
la prova; ma scommetterei che se presentassi all'ammirazione
del Bonghi il diritto di una medaglia, egli me la rivolterebbe
subito per vederne il rovescio. Provatevi nella discussione a mo-
strargli come -una cosa sia in realtà; egli vi risponderà mostran-
dovi come essa potrebbe non essere; né ciò per alcuna malignità
di natura, ma per naturale disposizione d'ingegno, che si com-
(1) Napoli, 1817, Slamp. Uoirirido, un vo!. in-8. di pn-^^ 3'>2. - I,a
prefazione reca la da!a del 14 ottobre ll^'iG.
Ricordi Biografici 24
— 370 —
piace di contrasti, di differenze, di distinzioni; se gli create un
effetto di luce, egli vi opporrà un effetto di ombra; se voi sol-
leverete delle ombi'e ei vi gettertà sopra luminosi sprazzi di
luce.
La prefazione del Filebo termina con ringraziamenti a Costan-
tino Margaris, egregio ellenisla ed a Saverio Baldacchini, se-
condo padre, i quali confrontarono col testo greco il volgariz-
zamento del Bonghi, e incuorarono il giovine traduttore a
pubblicarlo. Dalia stessa prefazione rileviamo come il Bonghi di-
segnava fin d' allora di pubblicare una completa traduzione dei
dialoghi di Platone, e dalle note, che occupano quasi duecento
pagine del volume, come egli era già famigliare con tutta la let-
teratura platonica, e come conosceva, fln da quel tempo, il tedesco
e ringlese, onde egli poteva entrare in polemica con l'autoiùtà di
Schleiermacber, Kleuker, Gòtz, Hiilsemann, Sydenham ed altri in-
terpreti de' dialoghi platonici. Molte di quelle note potranno oggi
parere superflue e forse troppo minuziose; ma esse sono pur sempre
un bel documento degli studii profondi fatti da un giovine non pur
ventenne, in un tempo e in un paese ne' quali gli studii erano
depressi e non conducevano a nulla. Alla nostra odierna frettolosa
gioventù può essere profittevole il pigliar fra le mani il FUeVo
del Bonghi; dalla lettura di un tal libro, essi comprenderanno
sopra quali solide fondamenta si posò la fama d'uomo dotto che
nessuno nega al Bonghi, per quanto sembri a molti che egli
r abbia compromessa, servendosi della propria dottrina, per riu-
scire un giornalista diverso dagli altri. E quanto diverso ! Non
dico per le opinioni ch'egli sostiene. Esse possono, pur troppo,
mutarsi secondo i venti, e però appaiono di rado sincere. Il Bon-
ghi ditrìcilmente riesce a scaldare alcuno de' suoi lettori; il freddo
ch'egli sente lo fa pure sentire; il suo mobile scetticismo lascia
indifferente chi ha il piacere di leggerlo. Ma questo piacere non
può essere dissimulato. Il Bonghi ha primo, in Italia, convertito
r articolo di giornale in un lavoretto d' arte ; e, cosa veramente
meravigliosa, egli è forse il solo artista in Italia, che possa
creare un'opera d'arte ogni giorno. Son miniature, per lo più;
ma esse recano sempre 1' aspetto di un piccolo tutto finito. E in
questo sforzo quotidiano dell'ingegno a dir qualche cosa di vivo
e di nuovo, alcana volta vengono pur fuori verità luminose, alle
quali, se il loro ostetrico potesse pur dare una coscienza sicura
e ardente che comunicasse loro con la vita il calore, si accoste-
rebbero forse numerosi credenti. Ma lo scrittore scettico fa scet-
— 371 -
tico il lettore. Il pubblico assiste compiacente allo spettacolo artistico
che dà ogni giorno il Bonghi^ ma molto più curioso di vedere come
il Bonghi dirà questa o quell'altra cosa, che sollecito di seguirlo,
dopo averlo inteso parlare. Il Bonghi non ha potuto pubblicare la
sua traduzione completa dei dialoghi di Piatone; egli ha seguitato
pertanto a comporre dialoghi per conto proprio, i quali se non
hanno sempre la serenità di quelli del filosofo salutato col nomo
di divino, ne ricordano talora il sapore artistico. Egli fa parlare
i suoi avversarli come gli talenta, e quindi si dà il gusto di con-
fonderli con la sua dialettica; quando questa gli fa difetto, licenzia
pubblico ed avversarli con uno zuccherino sofìstico; ed il giorno
dopo ricomincia da capo, vegeto, alacre, fresco, malgrado le notti
agitate ch'egli passa ballottato sulle strade ferrate, ed i giorni pieni
di cure, che lo fanno correre dall' università, ove egli professa la
storia ant;ica, al ministero della pubblica istruzione, ove siede tra i
più operosi membri del consiglio superiore, dal ministero al parla-
mento, ove egli entra in tutti gli ufiicii, in tutte le più impor-
tanti commissioni, relatore predestinato, dal parlamento alla po-
sta, per inviare articoli e corrispondenze ai due grandi giornali
quotidiani ch'egli dirige da Roma, La Perseveranza di Milano,
r Unità Nazionale di Napoli. Scrive il primo d'ogni mese per la
Nuova Antologia, la rassegna politica la quale, qualunque sia il
peso che si voglia dare alle opinioni che vi si professano, è pur
sempre lo scritto più importante e più attraente che si pubblichi
dalla più nobile e incipriata delle riviste italiane; assiste regolar-
mente in Firenze al Consiglio della Società delle ferrovie romane,
pubblica libri, s'occupa molto de' proprii affari e trova ancora il
tempo e la grazia per fare dello spirito ne' saloni eleganti delle
gentili signore. Vero prodigio di versatile operosità! — Gran pec-
cato però che una sola viva e potente volontà non lo diriga ed
infiammi !
Ma a quarantasei anni è oramai difHcile ch'egli muti costume.
Torniamo piuttosto indietro, per seguir brevemente le traccie del
suo passato.
Pubblicato il Fileho. sopravvennero le agitazioni politiche, alla
quali il giovine Bonghi prese parte vivissima, dapprima compro-
mettendosi presso il governo col cercare nel 1847 di attrarre al
movimento italiano la nobiltà, poi pigliando parte nel 1848 alle
dimostrazioni pubbliche, stendendo in casa Filangieri la domanda
per una costituzione, pubblicando il giornale II Tempo, con Carlo
Troia, Saverio Baldacchini e Stanislao Gatti, seguendo, come primo
— 372 -
segretario, l'ambasciata per la lega italiana. Dopo il 15 maggio,
giorno nel quale fu sconfìtto in Napoli, il partito costituzionale, il
Bonghi si dimise, venne in Toscana, vi studiò, e scrisse nel Na-
zionale. Cacciato di Toscana, per avere sconsigliato, in un articolo,
il matrimonio della principessa toscana con un figlio di Ferdinando,
si recò nel 1849 a Torino, e di là sul Lago Maggiore, ove, co-
nobbe il Rosmini ed il Manzoni, del quale divenne amico, e si
trattenne fino al 1859, studiando e lavorando, e combinando e scom
binando affiiri. I due volumi delle Opere di Platone nuovamente tra-
dotte da lui, editi a Milano da Francesco Colombo, recano la dedica
seguente: « Questo volgarizzamento delle opere di Platone da Antonio
Èosmini desiderato Ruggiero Bonghi intitola ad Alessandro Manzoni
sperando die la memoria di tanto amico glielo deva rendere accetto ».
Ma, prima di questo lavoro, il Bonghi aveva pubblicato la sua ver-
sione de* primi sei libri della metatìsica di Aristotile, e le Lettere
critiche : Perchè la letteratura italiana non è popolare in Italia,
le quali meriterebbero ora di venir ristampate. Nel 1858, la fa-
coltà di lettere di Pavia propose il Bonghi al governo austriaco
'come professore di filosofia; il governo lo invitò; il Bonghi si
credette tuttavia in dovere di ricusare. Nominato invece a quella
stessa cattedra dal Casati, accettò, fece i)er alcuni mesi lezione, e
le sue Lezioni di logica pubblicò a Milano nel 1860, dedicandole ai
propri scolari. Nel 1860, eletto deputato di Belgioioso, recossi, per
consiglio di Cavour, a Napoli, a fine d'aiutarvi il movimento; vi
fondò il Nazionale, e dopo l'arrivo di Garibaldi, come j^ì'^i^no eletto
della città si mosse in deputazione a pregare il Re Vittorio Ema-
nuele d'entrare nel Regno. Eletto quindi professore di filosofia nel-
l'Università di Napoli dal ministro De Sanctis, ricusò; creato dal
Farini nel 18G1 segretario del Consiglio di Luogotenenza, e rimasto
soli 36 giorni in ufiìcio, fece quindi ritorno a Torino, e venne rie-
letto deputato dal collegio di Manfredonia. Nel 1803 fondò il giornale
la Staìi'ipa che ebbe corta, misera e burrascosa vita. Nel 186 !■ fu
eletto professore di greco presso l'Università di Torino, e non
prese stipendio e non fece lezione; nell'anno seguente professore
di latino presso l'Istituto di Studi Superiori, e membro del Consiglio
superiore. In quel tempo egli attese pure a pubblicare col Del Re
la versione del Dizionario delle antichità del Rich. Nel 1866, passò
a Milano per dirigervi la Perseveranza. Nel 1867, pubblicò presso
il Barbera un importante volume di quasi mille pagine dedicato
alla Venezia lihsì'a e intitolato: La Vita e i tempi di Valentino
Pasini, lavoro pressoché di sola compilazione ma che. fatto da un
— 373 —
uomo del sapere e dell'ingegiK? del Bonghi, getta molta luce sopra
un periodo importante della nostra storia politica e finanziaria. Nello
stesso anno 1887, il Bonghi fu eletto professore di storia antica nel-
l'Accademia scientifico-letteraria di Milano, e il collegio d'Agnone lo
deputò suo rappresentante al parlamento. Nel 1870, Agnone e Lu-
cerà lo rielessero deputato; ed il Bonghi optò per Lucerà. In questo
arido sunto di notizie cronologiche chi conosce il Bonghi lo rico-
nosce; mal potrebbe invece giudicarlo chi non avesse altra notizia
dell'ingegno e dell'indole di lui, nato per le mobilissime e molte-
plici battaglie dell'ingegno, e non per la sola fredda esposizione
catteiratica di una scienza della quale egli prim.o, forse, col suo scetti-
cismo difi^ida. Egli è pertanto così solerte deputato come professore
molto intermittente; egli ha già mutato cinque cattedre ; potrebbe
ancora mutarne altre, le attitudini dei suo ingegno essendo così
svariate: ma nessuna basterebbe ad occuparlo tutto; ogni minuto
deve avere per lui la sua cura, e diversa: egli porta un senso
pratico nella speculazione filosofica, e uno spirito filosofico ne' ne-
gozii ordinarii della vita; ove egli incontra un'acqua stagnante,
getta una pietruzza per agitarla ed esplorarne il fondo ; ove scorge
tempesta, spinge tranquillo la sua navicella quasi voglia mostrare
dalla calma del pilota che non vi è pericolo; battagliero allegro
ed agilissimo, pieno di accorgimenti, e sempre attento a non pre-
sentare ignudo il petto 0 il fianco al nemico, ed a ferire ritraendo
prontamente la mano; il nemico di lui può divenire da un minuto
all'altro un amico, in virtù della contradizione che sa conciliare
l'inconciliabile, e della gioconda lievità delle battaglie che, per lo
più, sono battaglie finte. Si può quindi non temer troppo il Bon-
ghi qual nemico politico, come non conviene far conti troppo lunghi
su l'amico: le posizioni che mutano lo travolgono facilmente;
egli non sta mai li, piantato, immobile, su due piedi, ma si tiene
lieve, lieve su la punta d'un sol piede a fine di potere, quando girano
gir eventi, girare con essi. Ognuno intende ch'io parlo delle sole atti-
tudini dell'uomo politico, dell'uomo pubblico, che dell'uomo privato
io non ne so nulla, e quel poco ch'io ne so, me lo proverebbe sol-
tanto uomo di cuore L'elastica natura dell'ingegno del Bonghi ci
toglie di poter dire di lui quello che, del resto, può affermarsi di
assai pochi; ch'egli sia, cioè^ nel dire e nel fare tutto d'un pezzo;
egli mi offre più tosto l'aspetto di un caleidoscopio,, in cui, minuti
pezzettini, agitandosi e combinandosi senza fine, creano innumeri
effetti graziosi e sorprendenti. Il Bonghi non ci rappresenta
adunque alcun ideale, ed io sono lontano dal proporlo ad esempio
— 374 —
come un modello di tutte le virtù politiche, ma contemplo in lui
con ammirazione la prodiga ricchezza della natura, la quale diede
all'ingegno del Bonghi ogni più felice attitudine. Peccato che
questo mirabile artista non possa darci altro che voci di testa e
non ci abbia mai, e non prometta oramai più di farci sentire al-
cuno di que' gagliardi e generosi si di petto, che fonno alzare
da' suoi scanni l'umile platea, e la rendono capace di entusiasmi
operosi e magnanimi.
XXIV.
GIUSEPPE FIORELLI.
Non vi è forestiero che visiti Napoli e non ne parta con una
benedizione sulle labbra al nome del Fiorelli. Uomini dotti se ne
trovano in ogni parte d'Italia, ma tali dotti che, vivendo fra le
rovine del passato, non dimentichino il presente, e non s'inselva-
tichiscano affatto, sebbene in Italia siano men rari forse che al-
trove, non si possono dire frequenti. Napoli lia la fortuna di pos-
sedere nel Fiorelli il più amabile forse de' suoi dotti. Chi consideri
lo stato di brutale servaggio in cui erano tenute in passato le
provinole meridionali, non pregierà mediocremente la disinvolta
e distinta eleganza che il Fiorelli serba nel suo costume, e quella
sua socievolezza, ch'è indizio ad un tempo d'animo gentile e di
coltivata educazione. Chi lo vede, chi gli parla, chi tratta con lui
non si meraviglia ch'egli sia pure uomo di gusto finissimo nelle
cose d'arte; chi sa vivere con decoro, chi sa porre anzi tutto
l'estetica nella vita, è giudice d'arte raramente fallace; ed il Fio-
relli ha conseguito lode d'uomo che sa sorprendere il bello nella vita
dell'arte, poich'egli, anzi ogni cosa, ha saputo e sa vivere. Io non
dirò cosa nuova per alcun italiano, affermando che il Fiorelli non
solamente ha saputo disseppellire 1' antica Pompei, ma farci rivi-
vere in essa. Egli ha rimesso la vita tra quelle ruine, delle quali
ha interrogato ogni segreto, non per custodirlo geloso nella sua
mente, come usa il volgo degli eruditi, ma per rendere partecipe
tutto il mondo de' vivi al piacere ineffabile da lui provato nel pas-
seggiare in quella necropoli che fu già luogo di delizia alla an-
noiata potenza degli ultimi Quiriti. Il Beulé nel suo libro intito-
~ 37() —
lato: Ledrame du Vtsuvc, ha detto alla Francia, o, per la Francia,
al mondo qual conto si debba fare dei servigi resi dal Fiorelli alla
scienza, per la ostinazione, operosità e intelligenza piena di risorse
da lui mostrata nel promuovere, nel dirigere, nell'illustrare gli scavi.
Si può ancora aggiungere che, fra Giuseppe Fiorelli e Giulio Miner-
vini, non rimase quasi nessuna antichità inesplorata sopra il suolo di
Napoli, di quante n'hanno saìvate i secoli o discoperte gli scavi, o se
alcun monumento rimane a descriversi, ai due migliori discepoli di
que'due insigni archeologi napoletani è riservata l'opera di compierne
l'illustrazione, io voglio dire a Giulio De Petra e ad Ettore De Rug-
giero, il primo de'quali sotto il patrocinio speciale del Fiorelli, il se-
condo sotto quello del Minervini seppe arrivare aduna tale eccellenza
da poterne continuare la tradizione gloriosa, quando l'opera de'mae-
stri verrà meno. Ma tra il Fiorelli ed il Minervini, che sono in Napoli
considerati come rivali, il primo, per la sua prontezza operosa, per la
sua vivace amabilità, per la sua destrezza sagace, ha molti vantaggi
sopra il secondo che, nel vero, gli ha ceduto molta parte del campo.
Il comm. Giuseppe Fiorelli è nato in Napoli il di 8 giugno dell'anno
1823; a 23 anni egli sedeva già come vice-presidente al congresso de-
gli scienziati di Genova. Venne quindi eletto ispettore degli scavi di
Pompei, e rimase in ufficio fino all'anno 1849, dopo il qual tempo, a
motivo della parte da lui presa ai rivolgimenti di Napoli, ridotto a
condizione privata, sostenne con nobile coraggio la insolita povertà
col farsi per tre anni semplice manovale di muratore; fincli'egli, sotto
il patrocinio del conte di Siracusa il solo liberale fra i principi Borbo-
nici, potè migliorare alquanto il suo stato; nel 1860, egli ripigliava
quel posto che le vicende politiche italiane gli aveano fatto lasciare.
Innanzi all'anno 1860, intanto, il Fiorelli aveva già pubblicato le sue
Osservazioni soj)ra alcune monete rare di ciilà greche {}) , illustrato
alcune Monete inedite delC Italia antica, diretto fra il 1846 e il 18')1
gli Annali di Numismatica, descritte le antichità del gabinetto del
conte di Siracusa (18'3), le iscrizioni osche di Pompei (1854), i vasi
fìttili dipinti rinvenuti a Cuma. Dopo quel tempo, oltre ad una serie
copiosa di articoli dettati per raccolte numismatiche ed archeologiche,
si distinguono tra le pubblicazioni del Fiorelli il G-lornale degli scavi
di Pompei, e il Catalogo del Museo Nazionale di Napoli, ch'egli ha
intieramente riordinato nel suo duplice ufficio di Direttore e di So-
printendente degli Scavi, per i quali cumulati ufficii, a fine di sfug-
gire all'accusa di camorrista ufficiale, egli dovette rinunciare nel
(I) Napoli, 1843, in-8 ; egli aveva allora appena vent'anni..
- 377 -
1861, alla cattedra di archeologia che gli era stata conferita nell'Uni-
versità napoletana. Il Fiorelli ha sottratto tesori alla terra avara che
li ricopriva; con questa stessa attitudine di conquistatore egli visita,
percorre, conquista quella parte di Napoli archeologica diesi nascon-
de tuttora gelosa all'occhio dell'osservatore. A Napoli si dice che al
senatore Fiorelli piace il potere e che, acquistatolo, egli se ne serve;
poiché non ho inteso dire ch'egli ne abusi, é desiderabile soltanto
ch'ei n'abbia molto; il potere di fare il bene non è mai troppo. Così
a nessuno dorrà l'intendere che in grazia delle arti e delle premure
del Fiorelli, la cassetta del re siasi aggravata di una passività annua
di lire 50,000, quando s'intenda che quelle annue 50,000 lire^ invece
di mantenere qualche altro parassita ad una corte che n'é* già sa-
zia ed ingombra, servirà soltanto a promuovere gli scavi di Ercola-
no, dal cui risorgimento l'arte e la storia antica attendono nuovis-
sima luce. Io termineròjntanto i cenni presenti con alcune parole
che scrisse di recente sopra il nostro archeologo il Beulé nel libro
citato. « Non loderò, egli dice né la sua modestia, né il suo disin-
teresse, né la sua passione per le cose antiche, poiché tali qualità
sono tanto necessarie per ogni dotto, che gioverebbe soltanto con-
dannarne l'assenza; ciò ch'è più raro è che il Fiorelli seppe imporre
a quanti fanno parte della sua amministrazione l'adempimento dei
doveri ch'egli stesso pratica. Tutti gli ufficiali del Museo di Napoli
divennero scrupolosi e discreti verso gli stranieri, perseguitati dap-
prima da sfrontati mendicanti; i guardiani di Napoli furono ordinati
militarmente, sono attenti e stipendiati, e si riputerebbero disono-
rati 0 destituiti, ove accettassero qualsiasi regalo. I Napoletani si
stupiscono nel trovarsi divenuti migliori; ma, quando le mani
restano pure, le antichità si conservano meglio. — Finalmente
il signor Fiorelli fondò a Pompei una scuola archeologica simile
alla nostra scuola d'Atene, ove giovani uscenti dalle uni-
versità italiane e raccomandati da un concor.-o speciale hanno
loro stanza, i loro libri e lavorano in comune, secondano il Fio-
relli, sorvegliano gli scavi, ne pubblicano i risultati in un Boi-
leliino, ove i signori De Petra e Brizio si sono spesso distinti. »
Segue quindi nel libro del Benlé una minuta descrizione dei
metodi perfezionati dal Fiorelli introdotti negli scavi, e vi s'in-
coraggia il direttore stesso a portare d'ora in poi la sua attenzione
operosa, i suoi studii, il suo ingegno sopra Errolano. E deside-
rabile ora che il Fiorelli possa secondare il desiderio espresso dal
Beulé, e che la città di Napoli e il governo lo secondino; poiché
egli non è uno di que'funzionarii chr- domandino dieci per resti-
— 378 -
taire uno; ma si contenta invece di ottenere uno per restituir dieci;
se tutti gli impiegati somigliassero al Fiorelli, l'opera del governo
sarebbe più agevole, più semplice, più economica ed alquanto
più gloriosa. Finché i singoli cittadini non siano responsabili de-
gli atti che ora s' attribuiscono al governo, vera vita nazionale
non risorgerà in Italia, ed i Fiorelli rimarranno fra noi rare
ed invidiabili eccezioni. Conviene, pertanto, che ogni cittadino il
quale si sente capace, assuma in sé una parte di quelle funzioni
che ora sono abbandonate al cieco capriccio inconsciente di un
governo incerto, il quale si ritiene spesso irresponsabile.
XXV.
PASQUALE VILLARI.
Il De Sanctis è critico per immagini, il Settembrini critico per
affetti, il Bonghi critico per contradizioni, il Villari solo potrebbe
dirsi un vero critico induttivo, ossia tal critico che trae le idee
dai fatti e non i fatti dalle idee, e che i fatti considera nell' am-
biente in cui si producono. Egli sarebbe dunque 1' ottimo de' cri-
tici, se, talora, non gli accadesse di confondere il fatto particolare
col fatto generale, non esagerasse l' importanza dell' aneddoto, non
moltiplicasse ed allargasse di soverchio le illazioni che dall'osser-
vazione minuta de'ftitti si possono trarre. Ogni filosofo positivo è
necessariamente eccletico, poiché indipendentemente dalle ragioni
tutte delle scuole filosofiche, delle sette religiose, delle parti poli-
tiche, egli studia storicamente ogni fatto come e dove si presenta,
e può quindi riconoscere una parte di vero e di bello sotto tutte
le forme dell'attività umana. Il critico è pertanto sopra una via
giusta, anzi sopra l'unica via additata all'umana ragione; se non
che, oltre al pericolo che si corre nel metodo induttivo di tra-
sportare il semplice fenomeno al valore di legge, vuol essere pure
inteso con discrezione il procedimento che la mente umana deve
tenere nell'osservazione. La migliore delle osservazioni si fa spesso
per la sola prima intuizione de' fatti; nella prima intuizione, il
fatto talora si presenta in tutto il suo splendore, in tutta la sua
interezza; esaminatelo più dappresso, più addentro, in tutte le sue
parti; e spesso vi sfuggirà la prima e vera impressione del tutto,
perchè la mente s' è arrestata in un punto speciale, che sembrò
distruggerla,, e, cosi, per dare soverchia importanza a tal punto.
— 380 —
che talora non è altro se non una macchietta sul vetro traspa-
rente, si perde 1' occasione di sorprendere una legge generale ed
mia verità di ordine superiore II Villari é nel vero come filosofo
induttivo; ma quando egli porta fino allo scrupolo l'osservanza
del suo metodo, gli accade alcuna volta di comprometterlo. In ogni
modo però dell'esagerazione di una sua bella qualità nessuno farà
mai carico al Villari come critico. Bensì chi lo conosce lam.enterà
elle un uomo della sua mente, nella condotta della vita, segua con
troppo scrupolo que'principii ch'egli professa nella critica, onde a
molti, egli che diede, in più d'una occasione, prove non dubbie
di coraggio sembra spesso uomo timido, egli che ha propria ener-
gia sembra lasciarsi governare più spesso dalla volontà altrui, egli
che ha ingegno per tentare e ostinazione per compiere utili no-
vità, ne perde spesso l'opportunità, con la politica di Fabiiis cun-
clator.
Il Villari ebbe in Italia un momento di popolarità straor-
dinaria; non ne seppe approfittare punto. S'era nel 1866. L'Italia
si sentiva addolorata so^to il peso delle sue sconfitte, ma più an-
cora avvilita sotto il peso della sua mediocrità. Il Villari intuì in
quella occasione il bisogno della nazione, ed osò nel suo opuscolo
Dù chi è la colpa? chiamare in colpa la nazione tutta e invitarla
con forte e virile linguaggio a mutare indirizzo. L' ha essa mu-
tato? Io non credo; la nostra mediocrità dura; le poche ecce-
zioni che si possono citare, non bastano a consolarci della vita
pedestre che conduciamo, priva d'iniziativa, priva d'entusiasmo.
L'Italia naviga nel tempo, a caso, come una nave senza bussola.
Nessuno per ora le dà molestia, ma non è suo merito, se i suoi
nemici non le mettono le mani addosso. Essa non fa nulla per
vantaggiare la sua condizione, per porsi più alto, per dire prima
a sé stessa e poi al mondo 1' hic incipit vita nova. E noi pos-
siamo tornare ora a domandare : Di chi è la colpa? Al che
pur troppo è pronta ancora la risposta: la colpa è di tutti,
e del Villari prima che degli altri , del Villari che poteva in
que' giorni porsi a capo di un nuovo indirizzo nazionale e non
volle, del Villari e de' cittadini italiani più generosi e più valenti
che, invece di gettare tutta la loro energia nella vita pubblica,
si ritrassero, si concentrarono in sé e s' appagarono di scuotere
mestamente il capo, riconoscendo che le cose in Italia non vanno
punto bene. Se il Villari avesse allora osato, se il Villari volesse
osare anche oggi troverebbe molti seguaci disposti, anche fuori
del Parlamento, a promuovere in Italia non tanto agitazioni pò-
— 381 —
litiche, quanto, quel fervore di vita economica, civile, intellettuale,
che solo può ricondurre l' Italia a vera, propria, originale gran-
dezza. Ma, per ciò, è necessario che il Villari mostri maggior
fiducia in sé stesso, si preoccupi meno di quello che diranno i
suoi avversarli, derivi coraggio dalla giustizia della causa eh' ei
rappresenta e la sostenga gagliardamente e generosamente sino
al fine. Egli è troppo uomo di buon senso per commettere im-
prudenze; ma, se pur gli avvenisse di errare, non s'arresti per
deplorare l'errore, non se ne intimidisca, e prosegua risoluto fino
al compimento dell' opera sua. Il Villari ha il passo sicuro; ma
perde un tempo prezioso a considerare se il terreno in cui egli
mette il piede non presenti alcun pericolo, e così, s' ei va diritto,
procede con una lentezza che, oltre all' essere contraria allo
slancio naturale del suo carattere, gli toglie il modo di fare ne-
gli anni maturi e gagliardi della vita quelle opere che sarebbe
stato lecito aspettarsi da un uomo cosi felicemente dotato della
facoltà di appassionarsi e di governare le proprie passioni. Il
Villari vuole certamente il bene, lo prevede, lo prepara; ma più
con lo studio d' impedire una sconfitta, che con la necessaria, viva,
operosa impazienza d'assicurarsi il trionfo. Di maniera che egli,
dopo avere dato promessa larghissima di sé, si vede spesso co-
stretto a contentarsi di mediocri risultati, al conseguimento dei
quali non era punto necessario lottare tanto né sciupare tant'arte.
Il critico guasta l'uomo, quell'uomo stesso che rende cosi sim-
patico il critico. Il timore di perdere gli toglie la forza di vin-
cere, quando ei lo potrebbe agevolmente, se con maggior fiducia
in sé stesso e nel concorso degli uomini che dividono con lui
opinioni e simpatie, egli muovesse più risoluto e con impeto più
franco alla meta.
Quello che il Villari sappia come storico è noto; la sua auto-
rità nelle questioni distruzione pubblica è indiscussa; il suo bel
libro sul Savonarola, che ebbe già una tradu/.ione tedesca, un'al-
tra inglese, mentre una terza francese se ne prepara ora in
Francia, le lezioni sulla storia italiana e particolarmente fioren-
tina da lui fatte nell'Università di Pisa e nell'Istituto di studii
superiori, come pure l'eccellente indirizzo pratico ch'egli dà ai
giovani i quali si avviano agli studii storici e che si rivolgono
a lui per consiglio, gli danno autorità fra tutti gli storici venuti
su in Italia dopo l'anno 1848; le cure da lui prodigate alla scuola
normale superiore di Pisa, che si può dire opera sua, e poscia
all'Istituto di studii superioi'i, ove siedo come preside della facoltà
— 382 —
di lettere e di cui valse più di ogni altro a rialzare l'autorità
scaduta presso il paese e presso il governo, il libro di lui sopra
l'istruzione pubblica in Inghilterra e in Iscozia, steso dopo aver
preso parte come giurato per la sezione italiana alla mostra uni-
versale di Londra nel 1862, la parte sostenuta da lui come giurato
nella mostra universale di Parigi nel 18G7, l'opera di lui nel Con-
siglio superiore di pubblica istruzione, nel cui ministero sedette
pure come solerte e intelligente segretario generale sotto i mini-
stri Bargoni e Correnti, e poi nel Consiglio Comunale di Firenze,
e parecchi giudiziosi articoli dal Villari pubblicati in materia dì
pubblica istruzione, lo hanno fatto prenunziare come l'ottimo fra
i predestinati ministri della pubblica istruzione nel nostro paese.
Ma il Yillari deve ancora far qualche cosa di più per assicurare
il paese, ch'egli saprà trascinarlo coraggiosamente ad utili e grandi
e, se occorrano, rivoluzionarie riforme. L'opinione pubblica lo se-
conda; ma egli deve mostrare animo pari all'altezza delle cose che
dal suo ingegno, agitato nella calma, abbiamo dritto d'attenderci.
Pasquale Villari è nato in Napoli nell'ottobre dell'anno 1827. Lo
istruì nelle lettere il Rodino, nella fìsica il Palmieri, nelle matema-
tiche il De Angelis. Dopo essersi per alcun tempo e di mala voglia
esercitato alle affettate eleganze accademiche del Puoti, entrò nello
siudio del De Sanctis, ove conobbe quel giovine Luigi La Vista,
il Carlo Bini delle provincie meridionali, alla fama del quale- il
Villari stesso provvide poi egregiamente, pubblicandone gli scrìtti
presso il Lemonnier e discorrendo in una calda prefazione del
compianto suo generoso e grande compagno ed amico. « Noi lo
aspettavamo, scrive il Villari, alla fine della sua lettura, quando
tutto pieno degli autori studiati, egli veniva passeggiando con
noi, e con la sua vìva eloquenza, riandava e ravvivava ogni cosa
letta e pensata. In una mezz'ora, giudicava un grandissimo numero
di scrittori; passava d'età in età, di nazione in nazione, abbrac-
ciando col suo sguardo sicuro le grandi epoche, esponendo la storia
politica e letteraria, ripetendo bratìi d'oratori, di poeti, di storici
e filosofi; e questi suoi discorsi erano a noi lezione più utile di
quella, che potevamo ricevere da tutti i nostri professori. L'ami-
cizia, la giovinezza, la bontà sua facevano penetrare nel no-
stro animo tutte le sue idee, e ne svegliavano in noi delle al-
tre. Io ricordo quei giorni, nei quali incerto ancora dell' in-
dirizzo de' miei studii, annoiato delle grammatiche, dei dizio-
nari e della rettorica, ero tormentato d;d bisogno di sentire
e di pensare, né sapevo io stesso dove rivolgermi Allora mi
— 383 -
bastava confondermi fra quei giovani che circondavano Luigi
La Vista, il quale non mi conosceva, ma pure mi tollerava;
e non appena l' avevo udito parlare, che tornando a casa, in-
fiammato dalle sue parole, io leggevo, studiavo, scrivevo, tutto
pieno d'ardore. La sua modestia, poi, era uguale al suo ingegno.
Un giorno egli aveva letto alla scuola un lavoro, da cui mi pa-
reva vedere, che la sua ammirazione per gli scrittori francesi,
cominciasse a farlo trasmodare Non avevo il coraggio di dirglielo,
io, poco più giovane (il La Vista era nato a Venosa il 29 gennaio
1826, e morì a Napoli combattendo per la libertà il 15 maggio
1S48), ma assai meno di lui e degli altri avanzato negli studii.
Pure mi feci animo, e, dopo molta trepidazione, gli parlai franco.
Temetti d'aver troppo osato; ma egli mi salutò, stringendomi for-
temente la mano. Se non che, non si tornò mai più su quel di-
scorso, di cui, però, sempre mi rammentavo; onde, non appena
mi vennero nelle mani i suoi fogli, cercai subito se v'era alcuna
memoria di quel dialogo. Difatti vi era, e concludeva, dicendo di
me, a questo proposito: « Amico singolare, stimatore indipen-
dente, lodatore accorto, censore, più che gentile, amoroso; egli
mi riprende amandomi, e mi ammonisce stimandomi ». Pensi di
me ciò che vuole il lettore, se trascrivo io stesso le lodi fattemi
da un amico. Ma a che vale un'affettazione di modestia? Io ne
sono super'oo, e mi pare di meritarle; perchè io avrei voluto di-
struggere il mio essere nel suo, e quasi nascondendomi in lui,
crescere la sua gloria colla mia oscurità. »
Giunto l'anno iSìl, un giornalista s'era assicurata l'opera del
La Vista; il La Vista guadagnò in quel giornale le sue prime lire
e le ultime. Non sapea qual uso migliore farne, e pensava man
darle in regalo al proprio padre, quando il Villari gli presentò
uno scritto sopra un quadro di Domenico Morelli, che più tardi
dovea divenirgli cognato e riuscire il primo pittore di Napoli.
« Lo stile di quello scritto, scrive lo stesso Villari, era falso, la
lingua esagerata e scorretta; non vi poteva essere pregio alcuno
nel lavoro di chi aveva cominciato a lasciare una via per pigliarne
un'altra. Pure io sentivo molto le lodi che facevo all'autore poco
conosciuto del quadro; e questo affetto vivo e sincero, fece si che
Luigi trovasse da lodarmi, e se ne compiacesse grandemente. Io
gli lasciai quei fogli, acciò li rileggesse, per darmene un giudizio
più ponderato ed imparziale. Una sera ero al teatro, e fui chia-
mato; uscii fuora, e trovai Luigi che, tutto confuso, mi lasciò
— 384 —
nelle mani un involto. Erano le bozze del mio lavoro già stam-
pato. Così, aveva speso mia parte del suo primo guadagno. »
In tal forma il Villari come sentiva l'amicizia, era pur degno
di farla sentire. Sfuggito poi, dopo la restaurazione del dispotismo
borbonico nel 1849, alla persecuzione che colpiva quanti aveano
preso alcuna parte un po' viva ai rivolgimenti napoletani, e rifu-
giatosi a vivere fra mille privazioni, col resticciuolo del patrimo-
nio domestico, in Firenze, egli dovea in quest'ultima città trovar
conforto nel silenzio di minute e diligenti investigazioni storiche.
Ed in queste ricerche fu il Villari così ostinato ch'ei non tralasciò
nulla di quello ch'ei volesse e che si potesse sapere in quegli argo-
menti che egli imprendeva a studiare. Cosi si spiega come il primo
lavoro serio del Villari , il primo volume della Storia di Giro-
lamo Savonarola e de' suoi tempi abbia ad un tratto assicurata
la fama di lui tra gli storici ed il suo libro sia parso degno di
venir riscontrato coi migliori che possiede in tal genere l' In-
ghilterra, maestra nell' arte di scrivere le storie. Il Gibbon, il
Roscoe, il Robertson, il Macaulay, il Grote non avrebbero scritto
meglio, ove la scelta del loro soggetto fosse caduta sopra il Sa-
vonarola, ed in Italia possiamo affermare che la sola Storia del
Vestirò SicUìano di Michele Amari e la Storia delie Compa-
gnie di Ventura di Ercole Ricotti possono essere paragonate, nel
secolo nostro, per intrinseco merito storico, alla monografia del
nostro napoletano.
Il Villari nella sua prefazione rende giustizia a' suoi predeces-
sori, ma ne fa pure giustizia; acquistando una profonda erudizione
nella storia fiorentina, egli avea pure edu^'ato l'ingegno suo alla
critica, cosiceli' egli apparve ad un tratto narratore informatissimo
e giudice temperato; oltre di questo la maggior parte dell'opera
parve ed è scritta veramente con vigore artistico. 11 Villari non
è scrittore nò eleg;ujte, né ricco; e la povertà del suo dizionario
è cagione che il suo stile riesca talora monotono e scolorito. Ma
dov'egli reca un'idea originale, djv'egli spiega un affetto nobile,
lo stile di lui s'alza naturalmente, eJ acquista un calor naturale
simpatico che affascina e trasporta. Il di dentro passa allora di
fuori, non vestito d'altro che della propria bontà la quale può
splendere per sé sola. Alieno dalle forme vano, il Villari preferi-
sce non vestire le sue idee al mandarle fuori col belletto ; egli
sacrifica perciò le grazie al culto del vero, quando teme che il
soverchio studio della parola possa offuscarlo ud alterarlo. Non
potendo egli dunque sempre governare la sua eloquenza come è
— 385 —
sicuro di poter governare i proprii afletti e pensieri, lascia questi
e quelli più tosto camminare pedestri in abito succinto e bor-
ghese, anziché permettere che diano aspetto d'alcuna caricatura.
Scrivendo i due volumi della Storia del Savonarola, egli fu tut-
tavia più volte eloquentissimo, poiché avea tanta padronanza dei
fatti che risguardavano il suo eroe, ch'ei se lo vedeva vivo in-
nanzi e parlante, e, come se lo vedeva egli stesso, lo rappresen-
tava altrui. Ora attendiamo, con impazienza, dopo un dodicennio
dalla comparsa del secondo volume del Villari sopra il Savona-
rola (1), dallo stesso storico una monografia, degna della sua pri-
ma, intorno a Niccolò Macchiavelli. Nelle simpatie del Villari pel
Savonarola, i lettori hanno appreso ad amare col grande frate
cittadino, lo storico generoso che 'ne raccontava la vita; il libro
sul Savonarola e' illuminò pure la parte simpatica del carattere
di Pasquale Villari; che cosa ci dirà a suo tempo l'opera dello
stesso scrittore sul Machiavelli ?
Intanto nel primo suo decennio di vita pubblica, il Villari ci ha
detto quello ch'ei potrebbe e quello ch'ei non dovrebbe riescire,
piuttosto che quello ch'egli è veramente. Egli non s'è ancora spie-
gato tutto ; egli vale, senza dubbio, assai più che non siasi palesato ;
egli s'espose talora a giudizii meno benevoli, per non avere di-
spiegato tutta la propria energia, per non avere fatta valere tutta
quella autorità, cosi diilicile ad acquistarsi col solo proprio merito,
e di cui tuttavia egli meritamente gode. Io considero adunque come
appena principiata la vita del Villari e m' auguro di vivere tanto
per poter tornare un giorno a scrivere di lui, attestando eh' egli
avrà fatto assai più che splendidamente promettere e che, anzi,
egli avrà mantenuto oltre le promesse ed oltre l'aspettativa.
(1; 11 primo voi. erasi pubblicato nel 1859, il secondo noi 1861.
Ricordi oiqiìrakici
XXVI.
EMILIO FRULLANI.
Se la vita pubblica dovesse essere unica norma del valore e del
carattere di un poeta, nessun poeta forse parrebbe sfuggire più
alla critica di Emilio Frullani, poiché di nessuno sembrerebbe
possibile il dir meno che di lui, la sua vita pubblica riducendosi
a pochi fatti, che non hanno, alla prima veduta, alcun valore sin-
golare per la biografia di un poeta. Com'egli fosse nato in Fi-
renze verso il fine del primo decennio di questo secolo da Leo-
nardo Frullani e Maddalena Ombrosi, che ebbero diciannove figli,
come studiasse leggi a Pisa, come perdesse nel 1824 il padre Leo-
nardo, accademico della Crusca, grande ammiratore d'Alfieri, mi-
nistro delle finanze di Ferdinando III, nel suo tempo per più riguardi
insigne ; come venisse impiegato neh' Avvocatura Regia , come
perdesse nel 1834, il fratello Giuliano, matematico di gran merito,
professore nell'Università di Pisa fin dall'anno suo diciottesimo,
poi Direttore del Nuovo Ullizio del Catasto, e del Corpo degli in-
gegneri d'acque e strade, membro della Società dei 40, e cultore
lodato delle letterarie eleganze; come perdesse, l'un dopo l'altro,
tutti i suoi fratelli; come egli fosse giovine avvenente, caldo ama-
tore, e amasse riamato; come perdesse nel 1844 la dolce sposa
ventenne (marchesa Claudia Bevilacqua) morta sul parto di una
figlia che fu di poi e resta l'unica consolazione del poeta, ed alla
quale egli fece per molti anni, nello stesso tempo, da padre e da ma-
— 387 —
dre (1); come nel 1819 perdesse la propria madre, per le spoglie
mortali della quale dovendo ottenere ospitalità nei chiostri di San
Marco ove già posavano quelle del padre Leonardo, del fratello
Giuliano, della sposa Claudia, dovea umiliarsi a domandarla al
generale tedesco Wimpffen, ond'egli allora cantava fremendo :
E quella mesta sotterranea sede
Più non ricetta il cittadin che muore;
Lo stranier lo contende, o se il concede
La pietra sepolcral costa rossore;
come infine egli perdesse altri molti cari parenti ed amici, e li
piangesse con lagrime amare.
Io potrei ancora aggiungere che il Frullani prese viva parte
ai due risorgimenti italiani, quelli del 1848 e 1859; ch'egli se-
dette nel 1859 deputato di Fiesole all'assemblea toscana, e, nello
stesso anno, fu della Commissione istituita pel riordinamento delle
Università Toscane, e venne eletto a presiedere la Commissione
giudicatrice delle opere drammatiche pel premio annuo fondato
dal governo provvisorio toscano; che nell'agosto del 1860, fu eletto
deputato al parlamento italiano; che la Città di Firenze lo no-
minò suo Consigliere, e l'Accademia della Crusca suo membro
corrispondente. Ma questi modesti onori conseguiti assai tardi da
(1) Andrea Maffei consolava il Frullani, pochi anni dopo quella sven-
tura, col bel sonetto che segue:
Mesto, Emilio, è il tuo verso, e pur non quanto
Suona afifannoso, e sconsolato il mio.
Fu lungo, è vero, il tuo vedovo pianto.
Pure un conforto ti concesse Iddio :
La fanciulletta che spira al tuo canto
L'idioma del cor. Fui padre anch'io,
Ma di un flio vital che piansi infranto
Quasi all'istante che per ine s'ordìo.
Ed or ch'io son di pie cure e d'affetto
Più bisognoso, i tardi anni trascino
Senza una mano che mi asciughi il ciglio;
Mentre tu, nell'amor di un angioletto,
Li rinnovi sereni, e sullo spino
Dello stesso dolor ti cresce un giglio.
— 388 —
Emilio Frullarli possono provare soltanto il grado di credito che
egli, per la fama delle lettere e per la sua civile condotta, ha ot-
tenuto fra i suoi concittadini, ed, al piìi, dimostrarci ancora che
quelle dimostrazioni le quali egli non aveva ambite sotto il go-
verno dei Lorenesi, non gli spiacque accettare, senza averle sol-
lecitate, dal governo nazionale italiano. La modesta apparenza
della vita del Frullani potrebbe quindi disperare un biografo; e
per me che tento qui, sovra tutto, di considerare le opere degli
scrittori in relazione colla loro vita e col loro carattere, per tra-
mandare, se si può, alla generazione che sorge, alcuna memoria
viva del mondo letterario in cui mi volgo, dovrebbe sembrare,
per questa volta, fallita la prova, se, per mia fortuna, le stesse
poesie del Frullani raccolte in un volume e pubblicate nell'anno
1863 in Firenze dal Le Mounier non mi permettessero di sor-
prendere la nota caratteristica che fece di lui il primo fra i poeti
viventi della Toscana. Che son questi versi per fa massima parte?
che cosa dicono? Io non vi trovai quasi altro che elegie ed epi-
talamio Ebbene essi rispondono intieramente alla vita del nostro
poeta. Dotato di animo affettuoso, amò; l'amore fu presto deso-
lato dalla morte ; amò il padre, amò i fratelli, amò la sposa, amò
la madre e quando tante care persone gli furono rapite per sem-
pre, pianse e scrisse piangendo. Nato come ogni toscano al facile
riso e alla vita gaia, l'uno e l'altra presto il dolore in lui con-
tenne. Così ancora, se gli parli, troverai che la facezia del Frul-
lani si smorza facilmente in un sorriso pieno di malinconia. Era
nato ancor esso per ridere alla vita gioconda. Questa gli si velò
invece di un mantello funebre. Egli ha sempre innanzi agli occhi
quel velo. Egli sente tuttora nel cuore il gemito delle madri or-
bate di figli, dei figli orfani, degli sposi derelitti; e i suoi versi
più eloquenti son quelli appunto che ci rappresentano le scene
dolorose delle famiglie, nelle quali entrò la morte, a rompere il sa-
cro legame degli affetti. Se Emilio Frullani non avesse veramente
sofferto tanto, né il dolore gli avesse insegnato a dir cose sublimi
per semplice verità, egli resterebbe sempre un poeta elegante, ma
il verso di lui non avrebbe quella virtù di commuovere, che ora
invece lo distingue particolarmente. Chi ha letto la canzone del
Frullani, intitolata Le tre anime, scritta per la morte di tre donne>
e che, al mio debole parere, è la più perfetta e commuovente ele-
gia che sia stata scritta, nel secolo nostro, in Italia, e ch'io ri-
produrrei qui tutta, se non sapessi come il Frullani s'accinge a
pubblicare presso il Le Monnier un altro volume di versi da lui
— 389 —
scritti dopo l'anno 18G3 (tra i quali sarà pure una novella in ot-
tava rima, di soggetto amoroso ed elegiaco ad un tempo, e di
stile popolare che sente la cara ingenua semplicità fatta più ele-
gante della leggenda popolare italiana del quattrocento) : chi ha
letto, ripeto, il canto delle Tre anime potè trovar condensata
in un solo componimento tutta la mirabile virtù poetica del Frul-
lani nel sentire in sé, nel comprendere in altrui, e nell'esprimere
sentito 0 compreso il dolore ; poiché bisogna esser poeta per sen-
tire il dolore diversamente dal volgo, che raramente ne penetra
i segreti; dico volgo e non già popolo ; che il popolo anch' esso
ha 1 suoi grandi poeti, i quali non mettono in rima le loro alle-
grezze e le loro pene, ma le rappresentano con una potente e
immaginosa varietà di linguaggio. Ora pare a me appunto che il
Frullani esprima il verso del dolore con quella verità di rappre-
sentazione che ritroviamo nel linguaggio popolare quando il po-
polo ha cuore. Il Frullani avea scritto e, credo, pubblicati versi,
quasi ventenne; e molti ne deve avere scritti, senza dubbio, innanzi
all'anno 1844; (1) la sua musa è facile, e lo deve avere secon-
dato più volte in mezzo al tripudio di una vita gaia e spensie-
rata; ma egli incominciò soltanto negli anni maturi: a sentirsi
veramente poeta, e, quando un grande dolore lo toccò più forte-
mente di quelli che 1' avevano prima visitato, egli fece gemere
anzi che cantare il verso. Il primo componimento che apre il vo-
lume delle Poesie di Emilio Frullani incomincia così:
Quand'io nell'ore che il dolor misura,
Al dubbio passo della morte anelo,
A me scende una bella creatura
Coronata di luce in bianco velo,
E ragionando della mia sventura
Con quel linguaggio che si parla in cielo.
Mi dice con pietà: « Del tuo dolore
Canta l'istoria come detta il core ».
(1) Ne'Ricordi che il Vannucci scrisse del Niccolini leggo ancora come
nel febbraio del 1827, VAntonio Foscarini rappresentavasi in Firenze
per la seconda volta; gli amici del poeta, fratelli Giuliano ed Emilio
Frullani, Cosimo Ridollì, Ferdinando Tartini, Camillo Lapi, Piero Guic-
ciardini, ch'erano in teatro, raccolsero dalla voce dngli attori tutta la
tragedia e la stamparono. Il Niccolini rispondeva tosto al Frullani rin-
graziando.
— sgo-
li dolore evoca ad un tempo e lima il genio; secondo la leggenda
indiana, la prima strofa fa insegnata agli uomini a cantare dal
disperato lamento di un hoMla, a cui un cacciatore aveva ucciso
la dolce compagna. Anche il Frullaui^ perduta la sposa, trovò un
tono insolito a' suoi versi e, meglio che rimatore felice, meglio
che facile e colto verseggiatore, si senti al fianco una musa severa
e gentile inspiratrice di carmi che sentono talora l'afflato divino.
Le ottave intitolate Un Anima, scritte dal Frullani nel 1844, spi-
rano una gentilezza dolorosa, e una mesta melodia che sa di cielo
0, per lo meno, di quella beatitudine di cui l'ideale nostro ci fa
supporre che il cielo sappia. Quanta soavità, per esempio, in que-
st'ultima ottava che ci descrive la dipartita della cara donna, ap-
parsa in immagine al vedovo poeta, squallida, in bianca veste, col
Crocifisso sovra il seno; dopo avergli lungamente parlato per
consolarlo, essa rivola alla sua sede immortale :
Qui tace; e mentre il varco alla parola
Mi niega il pianto e 1' alta meraviglia.
Dal mio tremulo braccio ella s' invola,
' E, lontanando, nuovo abito piglia;
Già r incarnato appar della viola.
Sul labro il riso, il riso in sulle ciglia ;
^ Rinnovellata delle forme care
Sovra le penne d' angelo dispare.
Questa poesia potrà forse apparire convenzionale ad un lettore
scettico. Ma ogni poeta vuol essere giudicato secondo quello
eh' egli stesso crede e sente, e non già secondo le opinioni re-
ligiose 0 politiche che il lettore possa professare. Quanto dob-
biamo chiedere al poeta è eh' egli ci rappresenti in modo vivo
la sua fede, s' egli ne ha una; e tanto ha fatto il Frullani, nelle
poesie di lui che abbiamo a stampa, ove domina sempre lo stesso
sentimento religioso. Non è del resto in queste immagini tolte
alle credenze religiose che consiste la forza vera del nostro poeta,
si bene in quella sua potenza singolare nel porci sotto gli occhi
le scene dolorose della vita domestica. Nella rappresentazione di
queste scene io non gli conosco emuli fra i moderni poeti d' Ita-
lia. Vediamo, per esempio, con che affetto, morta la sposa, egli
si strugge di dolore sopra la figlia orfanella :
Allor che al seno, o pargoletta mia,
Ti stringo, e m'apri l'infantil sorriso^
— 391 -^
Ed io per trista rimembranza e pia.
Ti vo bagnando di lagrime il viso;
Quasi presaga d'un dolor tu sia.
Intento il guardo mi rivolgi e fiso,
E par che cerchi, se d' intorno il giri.
La profonda cagion de'miei sospiri.
Poi se in pianto ti sciogli, ahi f con quel pianto
Dir sembri: « Io son di mia sciagura accorta,
Io non ho madre che mi vegli accanto;
La madre mia, nel darmi vita,... è mortai »
I primi dolori furono i proprii; egli fece quindi anco suoi quelli
degli altri che somigliavano ai proprii e li rappresentò con pari effi-
cacia in ottave così spontanee che si direbbero improvvisate dal po-
polo, se non fossero classicamente perfette per giacitura e nobiltà di
verso. Finge, per esempio, il poeta, che il defunto conte Giulio
Dainelli, venga in forma d' angelo a posarsi lieve al fianco della
vedova sua donna, a raccomandarle i figli ed a confortarla ; la
donna gli risponde che egli sarà sempre con lei, sempre nel suo
pensiero, poiché il dolore ch'Ella proverà manterrà presente
l'immagine di lui come s'egli ancora vivesse; e in questo dire
la vedova donna si rasserena alquanto:
E poi che al volto ella men triste apparve
L'ombra sorrise innamorata e sparve.
Sono ombre, intendo, ma quando la poesia sa animarle di tanto
affetto, esse ci appaiono come persone vive, e si possono ancora
far parlare e meritano ancora di venire ascoltate.
Muore Ada Costantini, nata Benini; il poeta ci descrive con
verità quella scena dolorosa :
La moribonda dal funereo letto
Leva a fatica i lumi attorno, e vede
La dolce suora, il suo padre diletto,
In disperato duol gemerle al piede.
Desio di vita le rinasce in petto
Innanzi a lor, che amò con tanta fede;
E, al tumulto dell' anima, sul santo
Viso, lenta venia stilla di pianto.
Poi raccomanda in suon languido al pio
Levita, che le sta vigile allato
— 392 —
Onde nell' ora del tremendo addio
Il cor le regg'a in sì misero stato ;
E faccia forza alla bontà di Dio
Che le accordi il perdon d'ogni peccato.
Sì che l'anima mova al suo Signore
Suir ali della fede e dell' amore. .
E fatta delle man pietosamente
Croce sul petto^ che viepiù si grava
In tronchi accenti, con pupille spente
Sola con 1' uom di Dio si confessava. . .
Muore di parto nel 1858 Ottavia Mannelli, e il poeta raccoglie
ancora una volta le sue forze per descrivere le gioie della madre
che vede la propria creatura e la desolazione della morte im-
provvisa che tien dietro a quella prima allegrezza. Il Frullani
fa vibrare qui le corde più potenti della sua lira. La giovine
madre bacia la sua creatura, i parenti, lo sposo; quindi s'asso-
pisce, vegliata dalla madre; si sveglia indi a poco, e non è più
quella;
Di subito terror gli animi assale
La miseranda vista e paurosa;
Corronle appresso i suoi; s'ode un ferale
Iterar di lamenti « Oh figlia, oh sposa! »
Tutto è scompiglio attorno al nuziale
Talamo per la misera affannosa;
La medie' arte d' ogni aita è spoglia,
Speranza in fuga, e morte in sulla soglia;
Ma quell'Anima intanto Iddio prepara
Al dubbio passo dell' ora tremenda ;
E perchè, fatta dal patir più cara.
All' amplesso di Lui più presto ascenda,
È suo voler che dell' addio 1' amara
Scena tutta Ella veggia ed oda e intenda;
Ed attonito e muto a quel dolore
Resti il guardo ed il labbro, e pianga il core.
Squallida ai piedi del funereo letto
Sta la misera madre inginocchiata.
La madre sua che amò con tanto affetto,
E teme aver non abbastanza amata;
Sta genuflesso il genitor diletto
Che, istupidito dal dolor, la guata;
— 393 —
E del braccio il suo fido le circonda
Prono su Lei, la testa moribonda.
E or dell' uno, or dell' altro al freddo volto,
Sulla convulsa man, sul seno affranto,
Sovra il crine per gli omeri disciolto.
Sente Ella i baci sconsolati e il pianto ;
Ode i singulti di chi al ciel rivolto
Salvarla implora, oppur morirle accanto,
E di chi prega almen forza d' offrire
In tremendo ol<)causto il suo martire.
Ed ecco, ahimè I rapidamente giunge
Il sacerdote, e dei solenni accenti
Tra il mesto suon la benedice, ed unge
Del sant' olio i pie freddi e i labbri spenti,
E mentre Ella più ognor si ricongiunge
A Dio con la preghiera dei morenti,
Ascolta la sua nata, che nei grami
Vagiti par la veggia e a sé la chiami.
Al rimembrar la figlia, all' amarezza
Dell' abbandono, gittò un grido, come
Guizzo di corda tesa che si spezza,
E ratta con le man corse alle chiome.
Indi più volte con materna ebbrezza
Articolar tentava il caro nome ;
Ma quel dal labbro, che lento s'apria.
In un sospir con l' anima fuggia.
Il vagito della neonata era un grido di morte ; la figlia segue
la madre al cielo :
Ma già di cielo in ciel, di stella in stella.
Velocissima l'anima saliva.
Quando d' appresso un'Angioletta bella
Trovossi, che amorosa la seguiva.
La sospirata sua figlia era quella.
Cui vuol pietà di Dio, che seco viva.
Baciolla ancor ; dell' ali la coverse
E neir eterno sol con lei s' immerse.
Chi ha negato alla nostra poesia la virtù di esprimere il dolore
non ha che a leggere le ottave di Tommaso Grossi e queste di
— 394 —
Emilio Frullarli, per convincersi del contrario. La lingua nostra
e tanto piìi la nostra poesia che ha il vantaggio d' aggiungere,
nel ritmo melodico, il fascino della musica alle altre sue naturali
attrattive, quando le si faccia dire tutto quello eh' essa può, non
teme confronto alcuno. Ma, per dire, bisogna prima sentire. Ed
è il sentimento che, pur troppa, si spiega di rado dai nostri poeti,
più vaghi di sorprendere con versi reboanti o da organetto, con
liori rettorici o fantasticherie da malati, che di colorire le poe-
tiche realtà della vita. Poco osserviamo, poco amiamo la natura,
e però rappresentiamo altrui una natura fittizia, di convenzione,
accademica o teatrale che non è punto quella che si anima in-
torno a noi ; pochi affetti educhiamo in noi stessi, impazienti di
parere subito gente di spirito e uomini serii, e però non ne
comprendiamo piìi alcuno. Il Frullani è tra i pochi toscani che
non abbiano arrossito di farsi scorgere a piangere ; perciò egli
è pure de' pochissimi poeti toscani che abbiano la virtù di inte-
nerirci. Egli ha secondato anzi tutto il suo naturale istinto af-
fettuoso ; ma conviene aggiungere, eh' ei non sarebbe riuscito a
tanta efficacia, ove, per una diligente educazione letteraria, non
avesse appreso a rendere tersa, limpida ed elegante la sua frase
poetica, esercitato al bello stile da quel Luigi Borrini accademico
della Crusca, di cui la vecchia Antologia fiorentina recava, nel 1821,
parecchi saggi poetici. Il Borrini non aveva al certo dimenticata
l'Arcadia e i Frugoniani; ma era scrittore castigato, studioso di
melodia e di eleganza, e il proprio gusto comunicava al giovine
suo amico e discepolo Emilio Frullani, il quale rifece poi un nuovo
stile a sé da' vari i moderni poeti d'Italia, e dalla poesia popolare
cogliendo, come 1' ape da fiori diversi, il miele più eletto. Cosi
egli potè ammirare ed amare d'amicizia Andrea MafFei e Giulio
Carcano presso Giovanni Prati; accostarsi con ammirazione alle
magnificenze della poesia straniera e pure serbar fede e riverenza
speciale al nome di Dante, in onore del quale primo il Frullani,
neir anno 1863, nel Consiglio comunale di Firenze, proponeva pure
che fosse solennemente celebrato quel Centenario al quale l'Italia
tutta concorse nel 1865 come ad una festa nazionale. Nella stessa
occasione del centenario dantesco, il Frullani, in società con Gar-
gano Gargani, dopo avere fatto ricerche diligenti e raccolti gii
opportuni documenti, pubblicava una relazione sulla casa di Dante
in Firenze, la quale conchiudevasi con la proposta del seguente
schema di deliberazione : « Considerando esser provato, che la
casa nel popolo di San Martino, in faccia alla Torre della Ca-
■ ^ 395 —
stagna, ed alla via in antico de' Sacchetti, ora de' Magazzini, casa
di proprietà del nobile signor Luigi Mannelli Galilei, fu 1' abita-
zione di Dante Alighieri; considerando che tutto quanto risguarda
il divino poeta e filosofo deve esser sacro agli Italiani ed a Fi-
renze specialmente; il Municipio decreta: Sarà acquistata in pro-
prietà del Municipio di Firenze la casa già abitata da Dante Ali-
ghieri, per restituirla possibilmente nel suo pristino stato, offrendo
al nobile signor Luigi Mannelli Galilei una conveniente indennità.
Ed avuto riguardo che la Torre della Castagna, situata in faccia
a detta casa, è monumento singolarissimo della storia patria, per
esservi stata all' epoca di Dante la prima sede del governo libero
della città di Firenze, sarà pure procurato che detta Torre venga
conservata nella sua integrità e riparata con opportuni ristauri. »
Avendo il 17 marzo 1866 la Giunta Municipale di Firenze isti-
tuita una commissione speciale pel compimento delle ricerche sto-
riche sulla casa di Dante, il presidente di questa commissione
Emilio Frullani leggeva al Consiglio comunale, nella riunione del
10 marzo 1868, il Rapporto della commissione, che confermava gli
studii precedenti, e, di più, dimostrava che la casa detta di Dante
si estendeva al tempo del divino poeta fino alla via di Santa Mar-
gherita, onde proponevasi al Municipio fiorentino l' acquisto delle
due case, perchè vengano possibilmente restaurate nel loro carat-
tere primitivo.
La figlia, i pochi amici, i libri, dei quali come di rari autografi
egli s'è fatta, nel suo proprio palazzo, una bella e copiosa raccolta,
sono i soli conforti che restino agli anni cadenti del gentile poeta,
il quale se avesse avuto maggiori ambizioni avrebbe potuto far
parlare molto di sé; ma egli amò invece la vita raccolta come la
poesia intima. La sua fu quasi sempre poesia d'occasione; male
occasioni solenni egli lasciò volentieri passare ; e le modeste in-
vece raccolse per vestirle di colori poetici; egli non accettò oc-
casioni comandate, come non ne cercò alcuna; cantò invece quelle
ch'egli sentì. L'epica tromba non era da lui né l'inno bacchico;
gli piacque invece il giocondo sorriso d'Anacreonte ed il pianto
soave di Tibullo. Ora egli aperse pertanto il libro degli Amori,
ora quello de' Tristi, secondo cheli tempo volgeva; non precorse
il futuro, non si accasciò e intorpidì sul passato; disse invece a sé
stesso come l'uscignolo del bosco, e gli altri l'intesero, la pena
0 r allegrezza de' singoli giorni e de' singoli minuti.
XXVII.
ALEARDO ALEARDI.
10 non so a quale poeta non abbiano accostato l'Aleardi; da
Virgilio, a Dante, al Petrarca, all'Ariosto, al Marini, al Foscolo,
al Pindemonte, al Leopardi, al Niccolini, al Giusti, al Prati, al
Mamiani, al Marchetti quasi tutti i nostri poeti, dall'uno o dal-
l'altro de' critici che scrissero dell'Aleardi, furono nominati, per
poterci dire che poeta sia egli stesso, e conchiudere poi strana-
mente con la solita sentenza ch'egli è poeta unico nella sua ma-
niera, e che nessuno gli somiglia, sebbene egli somigli a tanti.
Per non far sorridere alla mia volta l'Aleardi con qualche nuovo
raffronto, richiamando in memoria qualche altro poeta pittore di-
menticato, come, per esempio, Claudiano fra i latini, Poliziano
fra gli italiani, che potrebbero forse ancora essere compresi nella
serie, io non lo avvicinerò ad alcun altro che a sé stesso, per
quanto io ho saputo leggere i suoi versi, e per quel poco che mi
sembra di sapere di lui e della sua vita.
11 più, del resto, e il meglio, ce lo ha già detto egli stesso nelle
Due pagine autobiografiche premesse alla raccolta de' suoi Canti,
edita nel 1861, presso il Barbèra. Egli avea diciott'anni , quando
il conte Giorgio suo padre, sorpresolo in flagrante delitto di poe-
sia, lo trasse un giorno seco all'aperto per dirgli che egli s' era
messo sopra una mala via; il figlio obbediente fu pronto a rispon-
dere : « Farò come ti piace > ma non rattenne un sospiro. Frat'
tanto, ricorda il poeta, « un capraio che scendea per un sentiero
in mezzo al prato declive; alcune capre che venute in faccia a noi
si fermavano a guardarci con occhio fisso; quella barchetta che
— 397 —
passava sul lago come un moscerino con l'ali tese sopra un cri-
stallo; quel profumo di Salvator Rosa che usciva da certi roveri
vecchi ; quell'aria di idillio virgiliano che saliva dai campi, mi
rapivano l'anima, mio malgrado, nelle regioni della poesia. Una
vocina di non vista persona, che avea del flauto, si prossiraava
cantando non so che versi paesani, finché uscì dalla svolta del
torrentello una fanciulla di sedici anni, di que' bei sangui là, con
al braccio il paniere, onde avea forse recato da mangiare a suo
padre nelle vicine cave di Tagliapietra. Era messa come una figu-
rina del Zuccacelii ; era gentilina e languida come una vergine
del Guido. Nel passare mi volse il suo occhio ceruleo dicendo con
disinvolta modestia: « Siorìa ; » e non ci volle altro. La mia fan-
tasia correva le quattro plaghe dei venti, e immemore della pro-
messa data pocanzi, vestiva, a suo modo, di canto involontario e
segreto tutta quella bellezza animata e inanimata della eterna na-
tura. » Ecco in qual modo il quadro divenne nella mente del-
l'Aleardi un poema, il pittore divenne un poeta, ed il poeta si fece
specialmente ammirare nelle descrizioni. Poche parti d'Italia sono
più pittoresche delle valli trentine ; e dai piedi di quelle valli , mi-
rando r Italia, cantarono Ipolito Pindemonte e Cesare Betteloni,
Andrea Maff'ei e Antonio Gazzoletti, Giovanni Prati ed Aleardo
Aleardi, tutti poeti coloritori. L'Aleardi ce ne assicura per sé egli
stesso con quest'altro ricordo: « Se io per avventura era nato a
qualche cosa, ero nato al pittore ; e per questo se qualche cosa ci
è di non cattivissimo nella roba mia, è tutto pittura; e per que-
sto co' pittori me la intendo, e mi vogliono bene. Il mio vecchio
maestro di disegno che avevo a sett'anni, l'ultimo, credo, dei ni-
poti di Giambettino Cignaroli, voleva a ogni costo persuadere mio
padre ad avviarmi a quest'arte. Mi tremola ancora in mente la
ricordanza di un giorno, che tra lo scherzoso e il serio, il bra-
v' uomo gli si pose in ginocchio a pregarlo di questo ; parmi di
veder ancora i suoi pochi capelli d'argento che in queir istante
gli svolazzavano. Probabilmente non sarei riuscito a nulla; ma
sarei stato di certo più contento ; avrei avuto fra mano un' arte
cara, che occupa molte ore anche materialrtiente; avrei menato
vita casalinga, raccolta; non sarei ito girovagando, e col pretesto
di cercar poesia non avrei trovato tante altre cose che m' hanno
costato poi tanta amarezza. Non avendo dunque potuto adoperare
il pennello, ho adoperato la penna. E appunto perciò sono sovente
troppo naturalista, e amo troppo perdermi nei particolari. Sono
come uno che camminando proceda a beli' agio, e si ferrài ogni
— 398 —
tratto a considerare lo sprazzo di luce che penetra tra gli alberi
del bosco, 1' insetto che gli si posa sulla mano, la foglia che gli
cade sulla testa, una nebbia, un' onda, una striscia di fumo, i
mille accidenti in somma pei quali è co?i ricco, vario, poetico il
creato, e dietro i quali s' intravvede sempre quel gran che ar-
cano, eterno, immenso, benigno, non fiero mai, né crudele, come
altri ce lo vorrebbero far credere, che si nomina Dio. »
Da questa pagina ogni lettore può rendersi accorto che 1' Ale-
ardi sa meglio di noi tutti quello eh' egli è, e quanto potremmo
dirgli per avvertire certe singolarità, anco certi difetti della sua
maniera poetica, egli se lo disse già in segreto e non 1' ha nep-
pure voluto dissimulare al pubblico. Egli passa facilmente dal
determinato all' indeterminato, dall' atomo all' universo, dal reale
appena percettibile all'infinito ideale; egli leva dal mare le perle
ad una ad una; egli coglie ad una ad una le margheritine dei
prati; egli novera ad una ad una le stelle del cielo; egli ascolta
ad una ad una le voci del creato; poi sente la monotonia e la
stanchezza di quelle distinzioni e occupazioni minute e si lascia
andare alle confuse reminiscenze di tutto il passato, alla divina-
zione incerta di tutto l' avvenire, alla contemplazione vaga di
tutto il presente. Egli non é stretto vigorosamente ad un solo
suo oggetto, eh' ei domini; e le cose minutissime, come la sua
libellula danzaìiie, egli sfiora tutte, sovra nessuna insistendo;
ei non può quindi come artista significare né i profondi amo-
ri, né i profondi dolori, sebbene come uomo egli abbia cono-
sciuto inliis et in cute gli uni e gli altri. Nella sua poesia
vi sono accenti d' amore, di dolore, di sdegno, ma non vi è
tutto l'amore, non vi è tutto il dolore, non vi è tutto lo sdegno,
di cui egli è forse capace; egli legge nel molteplice libro della
natura una pagina al giorno, e poi chiude il volume e lo con-
templa tutto insieme, prima d' averlo percorso e penetrato da
capo a fondo. Egli dà quindi molte note vere ; ma, non concer-
tandole in una sola potente elìxace armonia, non potè suscitare
queir entusiasmo che altri poeti i quali hanno osservato meno
bene di lui la natura e che sentono pure meno virilmente di lui.
Nacque Aleardo (1) Aleardi in Verona l'anno 1814 di padre patri-
zio e (li madre plebea; dal padre conte Giorgio, uomo di carattere
(1) Gaetano fu il nome con cui egli venne battezzato; ei lo depose
lìn dalla sua gioventù per chiamarsi Aleardo.
— 399 —
antico, apprese quella nobiltà di costume che penetra in tutto il
suo dire e in tutto il suo fare e che lascia distinguere facilmente
il gentiluomo in mezzo a mille che non sian tali; dalla madre
Maria, donna di cuore delicato e di alto ingegno, il disprezzo alle
false nobiltà, alle caricature ridicole, e l'amore del popolo.
Nelle prime classi del ginnasio di S. Anastasia egli parve in-
gegno tardo ed indolente, tinche non potè rompere il velo che gli
ricopriva le veneri de* classici; appena gli riusci di gustare le
bellezze di Virgilio, fu vinto agli studii, e vi colse anco nelle
scuole invidiati allori. Le gioie della vita campestre operarono il
resto. Studiò fisica e filosofia con lo Zamboni; quindi, per conten-
tare il padre che lo voleva avvocato, Aleardo recossi a Padova
per dare opera alla giurisprudenza. Ma come il Prati, il Somma,
il Gazzoletti, il Guerrieri-Gonzaga, il Fusinato, che in quel giro di
tempo 0 poco dopo, studiavano ancor essi la legge a Padova, l'Alear-
di, nell'Ateneo padovano, diede soltanto ragione alla burlesca defini-
zione dello studente resa popolare dal Fusinato. Gli amori, i carmi,
i piccoli dispetti alla polizia austriaca erano la gran cura di quegli
anni; tuttavia pervenne anco l' Aleardi ad addottorarsi in ambe leggi.
Tornato però alla sua città natale, e fatta la pratica dell'avvocatura
presso il Grassotti glie ne fu di poi conteso l' esercizio. Egli aveva,
intanto, già perduto il padre, e se non era di sua sorella Beatrice,
Caterina del medico Luigi Carli, il quale gli fu come secondo padre,
della Bon Brenzoni alla quale egli insegnò l'arte de' versi, e da
cui tolse egli stesso argomento e coraggio alla poesia, e di alcuni
amici del cuore (fra i quali quel Cesare Betteloni, che morendo
per suicidio lasciava 1' Aleardi erede di una sua villetta e tutore
del figlio Vittorio, a vantaggio del quale, con raro esempio, l'A-
leardi rinunciava al legato dell'amico, quando gli fu noto che pesa-
vano sugli averi del proprio pupillo alcuni debiti), certo la vita in
quelle condizioni, in quel tempo, con promesse cosi scarse per l'av-
venire, gli sarebbe parsa amara ed insopportabile. Ma la Musa
venne spesso a dargli conforto, a sorridergli, e a fargli balenare
la speranza di anni migliori per la patria; ed in quella speranza di
risurrezione furono scritti parecchi de' suoi carmi innanzi il 18i8.
La maggior parte di essi andò dispersa o perduta; si recitavano
ne'crocchi d'amici o di vaghe donnine a Verona, a Padova, a Vene-
zia; (1) alcuni erano pure mandati a memoria; ma ad assai pochi
(I) In quel tempo, l'Aleardi, aveva pure già fatto la sua corsa in To-
scana, ove fm dal 1810 Giambattista Niccoliui, come nove anni dopo
— 400 —
concesse l' Aleardi la sua licenza per la stampa. La gloria non
credo gli spiaccia punto, quando pigli la forma di una vivace e
leggiadra fanciulla o di una superba e gentile matrona che venga
con le sue dita trasparenti a coronargli il fronte d'alloro; ma se
egli dovesse, come un mimo, andarla a mendicare presso il gran
pubblico, io credo ancora che più tosto che acconsentire a quella
vana mostra di sé, egli darebbe volentieri alle fiamme tutti i suoi
versi. E molti o ne arse egli stesso o dalla propria sorella, temente
delle persecuzioni poliziesche dell' Austria, ne lasciò ardere. Tra
questi era un poema drammatico in cinque canti, tratto dalla sto-
ria veneta e intitolato Bragadino. Cosi per una sua novella sopra
Andrea del Castagno, pubblicata in una strenna, che parve cosa ere-
tica ad alcuni intriganti piissimi, la strenna accusata al vescovo
fu messa all'indice e l'autore venne perseguitato. Tuttavia si salva-
rono di quel tempo i seguenti componimenti : Il Matrimonio, sciolti
per le nozze della Nina Sarego-Alighieri che nel 1841 andava sposa
al Gozzadini, ove il poeta descrittivo rivela già con verso melo-
dicamente robusto, gran parte della sua potenza, e palesa già quel-
l'arditezza lussureggiante di epiteti e d'immagini, della quale sem-
bra a taluno ch'egli abbia abusato come ne abusarono, senza alcun
dubbio, i suoi numerosi e pedestri imitatori; così di una carovana
vi si canta che s' avventura sulle perfide sabbie, come solco di
vivi entro il deserto; il mare prima della navigazione degli uomini
è chiamato vergine di remo; cosi, alfine, con similitudine mal ri-
spondente alla tremenda solennità del caso vaticinato, la terra che
precipiterà un giorno decomposta nell'abisso, immemore dei balli
intorno al sole, è paragonata, ad alcione,
che mentre passa al volo,
Sia fulminato da infallibil arco;
E cada con la infranta ala battendo
Sul bruno fiutto d'un ignoto mare.
2.0 VArnalda di Roca poemetto storico, tolto dalla Storia Veneta
del secolo decimosesto, pieno di bei versi e di stupenda poesia di
affiato bironiano, ma non abbastanza vivace e concentrata al mas-
Giuseppe Giusti, gli avea posto affetto. Nel settembre del 1840, il Nic-
colini Scriveva all'Aleardi^ promettendogli di mandargli il ritratto di
Dante del Bargello dipinto da Giotto.
— iOl —
Simo effetto drammatico perchè abbia potuto lasciare, nel tempo,
quella viva impressione che ha fatto invece la fortuna di un altro
poemetto contemporaneo, di tenore egualmente bironiano, VEdme-
negarda del Prati; 2.° il Monte Circello dell'anno 1844; 5." Le
prime storie del 1846; 5." Le lettere a Maria del i847. Questi sciolti
dell' Aleardi sono ora ben noti a tutta l'Italia che ha appreso a salu-
tare, in essi, il suo più gentile poeta. Ma quando apparvero, ebbero
eco nel solo Veneto. Il Prati nelle sue Passeggiale solitarie ci
presentava già l'emulo suo nella difficile arte di pulire il verso; ma
s'ignorava dai non veneti il vero valore del poeta; fu appena
nell'anno 1857 che apparvero a Torino gli sciolti di lui: Un'ora
della mia giovinezza, le Prime storie, le Lettere a Maria. Il Mondo
Letterario diretto dal veneto Guglielmo Stefani ne parlò ne' ter-
mini più onorevoli; altri giornali posero tosto attenzione ai canti
dell' Aleardi; la gioventù d'allora se li divorò e mandoUi a me-
moria. In breve il nome dell' Aleardi suonò su tutte le bocche, e
quando s' intese che il geniale poeta, a motivo de'suoi sentimenti
verso l'Austria, tanta parte de' quali aveva manifestato già ne'suoi
versi, era stato arrestato e tradotto nelle prigioni boeme di
Josephstadt, fu un dolore vivo e sincero in tutta la gioventù
studiosa, come fu poi una grande allegrezza quando giunse, dopo
Villafranca, la novella che l' Aleardi era libero. Io ricordo non
aver contenuto la mia parte di gioia; ero in una villa presso il
campo di battaglia di Montebello; scrissi e stampai nello stesso giorno
in Voghera e mandai tosto all' Aleardi in Brescia un inno fe-
stoso, ch'egli non ha mai ricevuto. Io tuttavia ho creduto di
rammentare questo fatterello per me cosi insignificante, volendo
esprimere di che natura fosse la simpatia che sentiva in que-
gli anni la gioventù piemontese pel gentile poeta che avea con
tanta nobiltà cantato i dolori e le speranze della patria, in un
luogo ed in un tempo in cui 1' oppressore poteva facilmente
arrivarlo e fare aspra vendetta di quel generoso ardimento. Jose-
phstadt fu l'ultima stazione della ma crucis politica dell'Aleardi;
tra i compagni dell'ultima sua prigionia egli ebbe il disgusto di
trovarsi vicino nel proprio carcere, insieme col suo caro amico
il conte Agostino Guerrieri, un traditore, un'antica spia dell'Au-
stria, un certo Cesconi, per la cui delazione e di un altro misera-
bile, egli avea nel 1852 provato le dure e fetide prigioni di Mantova,
dalle quali sarebbe uscito per andare, come già altri compromessi, al
patibolo, se, protraendosi lungamente il suo processo, non giun-
geva da Vienna l' amnistia a liberare i prigionieri superstiti. Il
Ricordi Biografici 26
— 402 —
Cesconi soffriva doppiamente, e per la libertà perduta e per
l'umiliazione di aver presso di sé l'uomo ch'egli avea voluto
perdere. Il Cesconi era povero, e dovea contentarsi del gramo
cibo del prigioniero; la tavola dell' Aleardi, quantunque parca, era
tuttavia conforme a' suoi mezzi ed alla sua condizione; l'unica
vendetta che l' Aleardi, come l'occasione gli si presentò, prese
del suo nemico, fu invitarlo a dividere il suo pranzo e la sui
cena. Il compianto Gaetani Tamburini che ci ha fatto conoscere
questo commuovente episodio (1), lo conchiudeva con hi se-
guenti parole: « Quell'uomo duro e superbo, egoista, siliceo, che
non sapeva cosa fosse una lagrima, il giorno che liberati si
separarono, tocco da qualche cosa d'insolito, pianse come una
fonte. »
L'Aleardi avea sfuggito per miracolo il carcere nel 1848; poi-
ché, arrestati il Manin e il Tommaseo, tra le carte de' quali
s'eran dovute trovare parecchie lettere compromettenti dell' Aleardi,
r arresto del poeta veronese ne sarebbe venuto in conseguenza.
Egli riparò dalla tempesta che minacciava, a Roma, allora feb-
brilmente agitata dalle prime liberali riforme di Pio Nono. Scop-
piata la rivoluzione a Milano e a Venezia, l'Aleardi ripatriò, per
far parte della Consulta di Stato, nella quale, con altri due mem-
bri, egli ebbe a preparare la legge elettorale. Fu mandato quindi
a Parigi con Tommaso Gar, ambasciatore della giovine repub-
blica francese. Ma l'Aleardi e il Gar cercavano invano ne' capi
del governo francese dei repubblicani ; i loro dispacci da Parigi,
che l'Odorici ha pubblicato nel recente suo libro sopra la vita e
gli scritti del Cibrario, toglievano alla Repubblica delle Lagune
quasi ogni speranza di un intervento amichevole della Francia.
I due inviati vedendo disperata 1' opera loro si ritrassero, e ce-
dettero il campo al Tommaseo che non ebbe di certo miglior
fortuna, L'Aleardi fa un motto della sua missione, e di un suo
dialogo significativo col Lamennais nelle poche parole premesse
alla sua ode intitolata II Comunismo e Federico Basliat. Il
Lamennais ed il Bastiat, dicevami egli un giorno, sono i soli
due uomini veramente grandi ch'io abbia conosciuto in Francia.
Reduce da Parigi, veniva 1' Aleardi in Toscana a confortarsi dei
patiti disinganni nell' amicizia di Gino Capponi e di Giuseppe
(1) Rivista contemporanea , agosto 1867, Torino.
— 403 —
Giusti. Arrivati gli austriaci in Firenze, egli si rifugiava a Ge-
nova per alcun tempo, finché inteso che il vecchio suo tutore e
secondo padre il Dottor Carli era moribondo a Legnago, sfidava
le ire dell'Austria rientrando nel veneto, ove come già sappia-
mo, nel 1852 , veniva per colpa di spionaggio arrestato e tratto
in carcere a Mantova.
E noto quali oneste accoglienze abbia avuto l'Aleardi a Bre-
scia, nel 1859, al suo ritorno da Josephstadt, e come parecchie
città lo facessero loro concittadino, e Lonato lo mandasse suo
deputato al parlamento. In Brescia si fermò egli fino all'anno 1864,
sedendovi come vicepresidente di quell'Ateneo e presidente della
Pinacoteca Tosi; nella patriottica città d'Arnaldo, egli scrisse
pure il profetico canto dei Sette soldati e il coraggioso canto po-
litico al venturo pontefice. Sul principio dell'anno 1864, l'Aleardi
veniva finalmente eletto professore d' estetica nell' Accademia di
Belle Arti, degno successore del Niccolini e dell' Emiliani Giudici;
il favore con cui sono ora accolte le sue lezioni dal pubblico elettis-
simo che si affolla ogni giovedì per ascoltarle ne provano, dopo
quasi nove anni di esperimento, il loro intrinseco valore. L'Aleardi
legge le sue lezioni, nitidamente trascritte, (la lindura é uno
de' suoi caratteri; nella persona, nei modi, nel linguaggio di lui
la ritrovi sempre); ma le legge come se le dicesse, con un tim-
bro metallico di voce ed un garbo che affascina. Ma il legger bene
e con voce melodica non basterebbe, senza dubbio, per mantenersi
fedele nessun pubblico, meno d' ogni altro poi il fiorentino cosi
pieno di mobilità. Lo trattiene l'Aleardi sovra tutto, col far della
critica descrittiva in modo seducente. Egli aveva già illustrato
nel 1854 in Verona la vita e le opere del pittore Paolo Morando so-
prannominato il Cavazzola, incise a contorni in litografia da Lo-
renzo Multani; prosegui pertanto in quella via connettendo le sue
illustrazioni speciali all'idea d'una storia generale dell'arte. Egli
illumina con vivezza tizianesca i capolavori della pittura e della
scoltura; talora la luce n' è piìi viva che una critica severa po-
trebbe forse richiedere, e la sua lezione diviene qualche volta un
inno; ma beata la gioventìi fiorentina che può una volta alla set-
timana andare ad ascoltare inni siffatti e lei disgraziata se nel-
r ascoltarla non sa cavarne alcun profitto. L'Aleardi agita innanzi
al pensiero de'giovani immagini di bello, insegna loro col proprio
esempio, a sentire, a colorire, a vivificare ; il poeta può, talora, far
dire all'artista più che l'artista non abbia voluto dire; ma che
importa? se quel di più che il poeta aggiunge è una buona idea
— 404 —
la quale può essere fecondata da qualche giovane artista il quale
sia pronto a capire il motivo per cui il poeta l'ha messa fuori?
Quell'arte un po' battagliera che piacque all'Aleardi nei suoi
versi gli piace ancora, per quanto parmi, nelle sue lezioni d'este-
tica ; e cosi egli può passare vivificando tra i vivi ; cosi egli la-
scerà alcuna preziosa orma di sé, dove sarà passato.
XXVIII.
ANSELMO GUERRIERI - GONZAGA.
Ex wigiie leoìiem, dice il proverbio latino, e dice bene. Basta al-
cuna volta un solo verso per dare la misura d'un intiero poeta. E in
Italia noi contiamo parecchi poeti, non so se troppo modesti o troppo
orgogliosi, i quali hanno pubblicato tanto che basti, perchè si vegga
quanto essi avrebbero potuto dettar leggi di buon gusto, e tuttavia
non abbastanza per lasciare nella loro vita letteraria alcuna traccia
luminosa e profonda del loro passaggio. Ogni provincia d' Italia
potrebbe contare sicuramente due o tre ingegni cosi fatti, ratte-
nuti non si sa troppo se da inerzia propria o da timore o da
disprezzo del pubblico, o da cagioni esterne, a palesare tutto il
loro valore. Dilettanti d'arte, sorridono a fior di labbro, sulle ap-
plaudite prodezze della gente di mestiere che s' arrabatta senza
fine a procacciarsi sollecita col frutto del meno pudico e pur la-
borioso ingegno, un nome, un grado, un posto, tutto che può,
nella arruffata baraonda della repubblica letteraria. Quanto con-
trasto fra questo molto e minuto popolo affannato, e que' tran-
quilli, si direbbero indififerenti e sibaritici, ingegni, i quali lanciano
un bel verso capriccioso, tra una voluta di fumo del loro sigaro
ed un'altra, tra una facezia ed un sospiro, senza curarsi più che
tanto di raccoglierlo, e quasi paurosi che altri l'abbia ascoltato e
possa ridirlo. Io potrei fare una lunga enumerazione di tali inge-
gni italiani; ne rammenterò due soli, pregandoli giovine lettore
di cercar gli altri da sé, por salutarli rispettosamente come con-
viene, e mettersi poi sopra una via diversa da quella eh' essi
hanno percorsa. Gli uomini di stato inglese colgono, con gioia.
— 406 —
le prime ore d'ozio che concede loro l'altalena politica, per ri-
tornare agli antichi loro amori letterarii, e rifarsi vivi in quel
mondo geniale. In Italia la politica non solo non incoraggia gli
studiosi, ma li distrae e spesso li ammazza. Il Messedaglia ed il
Correnti erano, per esempio, poeti squisiti ed eleganti scrittori
in loro gioventù; qual frutto rimarrà ora del loro ingegno nella
nostra letteratura? La politica li ha fatti suoi e li, ha tolti a
loro stessi. Oggi vediamo il Fiorentino eh' era buon filosofo
diventarci cattivo politico. Il Tenca, dal giorno in cui incominciò
a politicare, cessò di scrivere ; e tutti sanno com' egli sapesse
scrivere. Io potrei moltiplicare gli esempii, per conchiudere sol-
tanto in un modo, col deplorare cioè sempre che la politica in
Italia, di alta scienza ch'essa era, sia divenuta quasi che un me-
stiere volgare, e ci abbia rapito un gran numero di belle intelli-
genze, le quali avide di un potere che non conseguirono o ten-
nero invano, perdettero o almeno fecero dimenticare, pur troppo,
gran parte di quel credito che nessuno poteva loro togliere, per-
chè acquistato naturalmente col loro proprio ed esclusivo valore.
La politica ebbe, tuttavia, in questi ultimi due anni, due di-
sertori che mi piace segnalare. L' uno è un toscano, è Giamba-
tista Giorgini, il genero di Alessandro Manzoni, che messo a
riposare da' suoi elettori politici si diede a pubblicare il Novo
vocabolario della lingua, italiana o fiorentina che si voglia poi
chiamare. Egli avea pubblicato in gioventù un volume di versi
italiani, che furono lodati, ma ch'io non potei ritrovare, poiché
r esemplare eh' era della Biblioteca nazionale sembra esserne
scomparso. Fu poi applaudito professore di diritto, ed è tuttora
membro del Consiglio superiore di pubblica istruzione. L'ingegno
non gli abbonda, ma gli sovrabbonda; ama l'arte, e la intende;
uomo di gusto finissimo, adopera quel gusto squisito non meno
nel conversare che nello scrivere; di coltura varia ed elegante,
di memoria tenace, affascina facilmente. Tanto ingegno e tan-
t' arte adoperati ad un grande monumento letterario, avrebbero
forse fatto del Giorgini il primo fra gli scrittori toscani viventi.
Che n'è invece? e che sarà del nome di lui fra cinquant' anni ?
La prefazione al Vocabolario, è senza dubbio, lavoro gustosissimo,
ma con la prefazione di un' opera inspirata dal Manzoni, e che
il Giorgini lasciò poi eseguire, egli sa come, da altri, la sua parte
di gloria, s' egli ci tenesse, il che , pur troppo, non sembra, sa-
rebbe molto diminutiva. Tuttavia anche il poco che ci rimane di
lui lo dobbiamo a un felice lucido intervallo che gli lasciarono le
— 407 —
cure pojitiche. Ora il governo si ricordò, un po'tardi, per dire il
vero, che fra tanti senatori il Giorgini non ci avrebbe sfigurato,
ed ecco un serio pericolo che ci minaccia di vedere rapito per
sempre alle lettere un ingegno ch'era tutto nato per esse, e che
nel seno di esse non avrebbe trovato, al certo, que' disinganni
che gli riserbò invece la politica, come sarebbesi, di certo, sola-
mente più riconosciuto consorte di altissimi ingegni. Le lettere,
finalmente, che hanno il dovere d'educare altrui, offrono poi sem-
pre-, esercitate sul serio, il vantaggio d'educar prima d'ogni
altro lo scrittore stesso, di dargli una fede e di mantenergliela;
vantaggi che non s'incontrano, senza dubbio, coltivando soltanto
il conversare brioso d'un salone elegante, ove si può, senza ri-
guardo, dire per dire , pur che si dica bene , e far dello spirito
anche a proprie spese, o pure il mobile armeggio della scena
politica, che ho intesa definire più d'una volta 1' arte di cedere e
di far cedere, arte d'imposture, insomma, se si voglia acqui-
starvi credito d' artisti consumati.
Meno affacendato politico e più amoroso e frequente amatore
della poesia e dei buoni studii mostrossi invece il marchese An-
selmo Guerrieri-Gonzaga mantovano. Egli ha scritto in sua gio-
vinezza molti versi, ma pochi ne stampò. I primi pubblicati, s'io
non m'inganno, erano epitalamici, e rimontano presso il quarto
lustro della sua vita. Scrisse ancora per la vecchia gloriosa Ri-
vista Europea di Milano, e poi, se la memoria mi basta, per un
giornale franco italiano, che pubblicavasi dopo il 1850 a Parigi.
Qiiindi tacque fino al 1862, in cui pose mano a stampare presso
il Bernardoni di Milano una sua versione italiana del Faust di
Goethe. Dal 1872 ad ora successero più che alti'i dieci anni di
silenzio. Ed ora lo vediamo al tempo stesso, presso i due primi
editori di Firenze, il Le Mounier ed il Barbera, dar nuovo segno
di vita, e di bella vita. Quali siano le cagioni per le quali il
Guerrieri-Gonzaga ha tanto tardato a farsi valere al pubblico, non
so s'io indovino; ma questo non ignoro, che, appena uscito dalle
mani del celebre Giuseppe Barbieri (discepolo egli stesso e quindi
successore del Cesarotti), che avea ammaestrato a Padova il gio-
vine patrizio mantovano, questi fu e parve tosto alla eletta dei
giovani buongustai del suo tempo poeta elegante II Carcano che
gli dedicava uno de' suoi lavori gli rendeva pubblico omaggio in
Milano, ove il Guerrieri Gonzaga erasi, tuttavia, condotto, per
attendervi particolarmente alle discipline giuridiche. Quando il
rivolgimento politico del 1848 lo sorprese, il Guerrieri-Gonzaga
— 408 —
avea appena 29 anni; tuttavia egli venne tosto chiamato a far
parte del governo provvisorio lombardo, in nome del quale reca-
vasi quindi a Parigi con missione analoga a quella che vi aveva
pure condotto pel governo veneto il poeta Aleardl. Restaurata la
tirannide austriaca in Milano, il Guerrieri-Gonzaga scontò con
l'esiglio e col sequestro de'beni il delitto d'essere stato tra i po-
chi patrizi! lombardi che avevano cooperato con vigore ai moti
rivoluzionarli del 1848 e 1849, nella sua qualità di mantova-
no essendosi pure adoperato come mediatore fra i liberali lombardi
ed i veneti, il Manin sovra gli altri, col quale egli aveva diretta
corrispondenza. Fino al 1860 sembra, in somma, che il Guerrieri-
Gonzaga siasi essenzialmente occupato a fare la grande politica
che dovea comporre a libertà, unità, indipendenza l'Italia; e che
(sovra tutto, negli anni d' esiglio) siasi molto adoperato per
attrarre le simpatie francesi all'Italia. Tornata la patria a sé stessa
restava solamente piìi a fare la politica interna, che poteva es-
sere grande o piccola, secondo gli uomini che l'avrebbero diretta;
fu piccola; ed io non posso abbastanza rallegrarmi perchè il Guer-
rieri-Gonzaga vi abbia, sebbene deputato, preso una parte molto
secondaria, e siasi invece rivolto di nuovo ai primi suoi studi i
giovanili. Il volume che il Le Mounier ha pubblicato in questi
giorni contenente la versione riveduta della prima parte del Fausto
e l'Ermanno e Dorotea tradotto in ottava rima resterà, per ora, il
suo principale monumento di gloria. Né é in verità piccolo me-
rito pel Guerrieri l'aver degnamente emulato il Maffei ; e più an-
cora l'aver saputo salire all'altezza colossale di Goethe. Le due
ristampe delle versioni del Faust di Goethe uscirono nello stesso
tempo in Firenze, presso lo stesso benemerito editore, senza che
un traduttore avesse conoscenza delle correzioni dell'altro. E un
avvenimento singolare, ed onorevole, per quanto parmi, non meno
per l'editore che per i due emuli traduttori. Qualunque sia ora il
giudizio che dell'uno e dell'altro traduttore possa portarsi, la
conclusione sarà pur sempre una sola, ch'essi hanno vinto en-
trambi. Ma perchè vegga almeno per un indizio il lettore come
ciascuno sa vincere in modo originale gli recherò un breve sag-
gio delle due versioni. Prendiamo il principio della scena degli
allegri compagnoni nella cantina di Auerbach a Lipsia; esso suona
letteralmente tradotto, cosi : « Frosch. Nessuno vuol bere? Nes-
suno ridere ? V'insegnerò io a fare il grugno. Oggi voi siete come
paglia bagnata, e pure solete pigliare fuoco come zolfanelli. Bran-
der. Sta in te; tu non c'inventi né una sciocchezza, né una
— 409 —
porcheria. Frosch (gli versa sulla testa un bicchiere di vino).
Eccotele entrambe. Brander. Due volte porco! Frosch. Voi lo vo-
levate, e cosi doveva essere. SiebeL Alla porta chi disturba; con
pieno petto cantate in giro, trincate ed urlate; sii, olà, olà !
AUmayer. Povero me, son rovinato. Ehi là! del cotone! costui mi
lacera gli orecchi. SiebeL Quando la volta risuona, si sente al-
lora bene la vera forza del basso. Frosch. Cosi va bene; e fuori
chi se r ha per male ; tara f lara ! là ! AUmayer. Tara, lara, là
Frosch. Le gole sono accordate. » Il Maffei traduce :
Frosch
Più non si ride? non si bee? Volete
Voi che v'insegni a farmi
Que'visacci dell'armi?
Zolfanelli di solito voi siete,
Oggi fradicia paglia.
Brander.
La colpa non è tua? Cosa che vaglia
Dire 0 far non ci sai;
Né gofferìa, né porcheria.
Frosch.
{gli getta un bicchier di vino in testa)
Tu n'hai
L'una e l'altra.
Brander.
Majale
E poi majal !
Fì'osch.
Tal quale
Tu m'hai voluto.
Siebel.
Fuori,
Fuori gli arruffaloin !
Si canti e cionchi a squarciagola! A tondo.
La tazza, e grida e chiasso I
Ohi là! là!
AUmayer.
Tristo me ! dove m'ascondo ?
Bambagia in cortesia ! Col suo guaito
Questo cane mi lacera Cadilo.
— 410 —
Siebel.
Se rintrona la volta è prova chiara
Che forte è il contràbljasso .
Frosch.
Sta bene, e chi si duole
Via di qua! Tara, làra!
AUmayer.
Tara, làra t
Frosch.
Accordate or son le gole.
E il Guerrieri Gonzaga alla sua volta:
Frosch .
Cos'è, né ber, né ridere — compari, oggi volete?
A far le bruite smorfie — v'insegnerò, sapete !
Voi sempre arzilli e vispi — voi come zolfo ardenti I
Oggi mi avete l'aria di tizzi semispentì.
Brancier.
' Sta in te ; se tu desideri vederci in allegria.
Su presto una goffaggine, presto una porcheria.
Frosch
(versandogli del vino sul capo).
Eccovi r una e l'altra!
Brander.
Sei un porco sguaiato !
Frosch.
Quale voi mi voleste, tale mi son mostrato !
Siebel.
Fuori di qua cJii litiga — Trinchiam, cantiam la bella
Canzon, gridiam, trinchiamo cantiam Ronda-Dinella
Olà, su ! su !
Allmmjer.
Me misero ! codesto sussurrone
Mi lacera gli orecchi, portate del cotone!
Siebel.
Quando la vòlta echeggia, commossa al gran fracasso,
Capisci allor la forza fondarnental del basso.
Froscli.
Benone, ed alla porta colui che non ne vuole.
A tara lara là !
— 4-11 ~
Altmayer.
A I tara lara là l
Frosch.
Finalmente, accordate mi paiono le gole. (1)
(1) Pel comodo del lettore, aggiungo qui ancora, ed è giustizia il
farlo, la traduzione in versi di Giuseppe Rota (Milano, Gnocchi, 1859),
che dopo lo Scalvini , ma prima del Maffei e del Guerrieri-Gonzaga,
avea pubblicato una versione completa della prima parte del Faust, ed
inoltre, tradottane per la prima volta la parte seconda:
Fì'osclt,
Per bacco! nessun bee, nessun sghignazza.
Smettete orsù quel piglio austero, o ch'io...
Altre fiate solfanelli ardenti,
Oggi mi rassembrate umida paglia.
Brander
Tua mercè, sozio mio. Nulla di bello
Oggi non rechi in mezzo, oggi non hai
Cosa di goffo o di salace in bocca.
Frosch
(gli versa un bicchier di vino sulla testa)
Eccoti d'ambedue.
Brander
Porco in belletta.
Frosch
Qual asin dà in parete, tal riceve.
Siebel
Esca di qua chi di litigi è vago.
Cantate tutti in giro a gola piena
Tracannate, gridate oh, uhi, oh !
Altmayer
Lasso! io basisco; oh! datemi cotone;
M'è tanaglia alle orecchie il mariolo.
Siebel
Dall'eco della volta ha testimonio
Il verace valor del contrabasso
Frosch
Così, così si vuol pigliare il mondo.
Qualunque è permaloso esca di quinci.
Oh tara, lara.
AUmayer
Oh, tara lara là !
Frosch
Ecco le strozze concordate in tempra.
— A\2 —
A voler giudicare da questi pochi versi, è evidente che entrambi
i traduttori hanno reso il carattere della scena originale, con più
parsimonia, il MafFei, con più libertà, il Guerrieri-Gonzaga. En-
trambi studiano la frase toscana, e nel trovarla, accade loro di
alterare alquanto il senso vero della parola speciale del testo;
entrambi sono studiosi di melodia, e per trovarla il Guerrieri
Gonzaga mette talora qualche riempitivo, il Matfei dà talora ec-
cessiva nobiltà al parlare plebeo; ma entrambi, insomma, creano
una nuova poesia originale, senza olìendere nelle cose essenziali
il carattere del poema che traducono. Perciò io, ripeto, vincono
entrambi ; e in una nuova edizione eh' essi vorranno, speriamo,,
rivedere insieme, vinceranno anco meglio. Come il Maffei tradusse
in iscìolti quel perfetto idillio domestico ch'è la novella di Goethe:
Ermanno e Borotea, cosi lo volse in eleganti ottave il Guerrieri
Gonzaga. Ma, in questa prova, parmi che quest'ultimo non regga
al confronto del suo predecessore, non già per difetto di fedeltà,
ma perchè l'essersi impacciato neh' ottava, gli comandò talora al-
cune rime men naturali, men disinvolte, che non convengono per-
fettamente all'indole popolare della novella, e ne elevano di troppo
lo stile che voleva invece essere famigliare e dimesso. Così fin
dalla terza ottava, dove il testo dice umilmente, in un dialogo fra
marito e moglie, Donna (Frau), il Guerrieri per rimar la parola
con un affettato s' addice, volta Genitrice ; nella prima ottava, per
trovar la rima alla voce contrade si fanno tornare in campo le
viete voci citlade, pleiade, e cosi si toglie la principale attrattiva
del poema tedesco ch'è una mirabile e cara semplicità. Una mag-
gior libertà d'introdurre eleganze rettoriche in modo che non
paiano tali, avrebbe, invece, avuto il Guerrieri Gonzaga, ove si
fosse trattato di tradurre l'alto e culto stile epico o tragico. E
poich' egli s'accinge ora veramente a darci una versione dell' //Z-
genia di Goethe, in tal prova, oltre al non avere a temere nella
lingua nostra un emulo traduttore come il Maffei, egli potrà più
facilmente adattare al testo straniero lo stile elevato, che egli
sembra avere particolarmente famigliare. Ne può ftir fede il saggio
inedito seguente, che contiene la preghiera d'Ifigenia a Diana, con
cui termina il primo atto dell'originale, saggio eh' io debbo alla
squisita amabilità dell'autore, il quale, venuto tardi a spiegarci il
suo valore, ebbe ancora la modestia d' incominciare con traduzioni
(l'editore Barbèra ha pure pubblicata in questi giorni una dili-
gente versione, che il Guerrieri Gonzaga ccmdusse a termine, del
notevole lavoro critico biogralico di un celebre deputato tedesco,
- 413 —
il Treistscke, sul conte di Cavour), mentre chi sa quanto egli
possa e quanto egli valga fa voti perchè egli ci sia pure liberale
di sue prose originali^ cosi bene scritte come robustamente pensate.
Hai le nubi, o pietosa Diana
Per nascondervi in sen gì' innocenti.
Per sottrarli alla sorte inumana
Li trasporti sull'ale dei venti,
Della terra per l'ampia distesa,
Per gli spazi infiniti del mar,
Dove giunger non possa l'offesa
Che 1 lor capi voleva immolar.
Tu sei saggia ; al tuo spirto è presente
Ciò che fu ; tu contempli il futuro ;
0 Diana, il tuo sguardo clemente
Sovra i Tuoi si riposa sicuro;
Come a sera il tuo lume sovrano
Sulla terra posando si vien.
Oh ! non far eh' io mi lordi la mano.
Non dà il sangue mai requie, nò ben;
*
L' altrui sangue anche a caso versato
Va del triste uccisor sulla traccia ;
Dell'ucciso lo spettro adirato
Gli sta sopra con tetra minaccia ;
Lo spaventa, infelice lo rende.
Che i Mortali han de' Numi il favor:
Là dall'alto alle sparse lor tende
Mandan sempre un sorriso d'amor.
E son lieti, che il fragile dono
Della vita concedono a loro;
Che un istante del cielo ove sono
Lor discopron l' eterno tesoro ;
Si che gli uomini insieme con essi
Ne contemplin l'aspetto divin.
Un istante brevissimo ammessi
Ad un gaudio che mai non ha fin.
XXIX.
GIUSEPPE REVERE.
Il 13 marzo dello scorso anno l'egregio critico Francesco D'Ar-
cais, nel giornale L'Opinione, faceva agli amici delle lettere la piìi
grata sorpresa. Il più poderoso tra i lirici viventi d'Italia, il poeta
Giovanni Prati vi lasciava pubblicare dal signor D' Arcais due
splendidi suoi nuovi sonetti, dedicati a Giuseppe Revere, i quali
suonavano cosi:
Del greco Olimpo e de' latini altari,
Se la luce da te non è partita,
Revere, né il buon canto, onde i più rari
Men aspra e nuda fan parer la vita;
Alla dorica in grembo arpa sopita
Cerca i lieti tuoi di, cerca gli amari (?) :
L'anima chiusa in dignità romita.
Pur non tacendo, puoi salvar del pari.
Vedi : tal faccio anch' io, delle Camene
Ultimo sacerdote e primo amante :
Né m'è dolce dormir su la mia fama.
Il volgo è volgo; ma l'età che viene
Noi loderà del non tradito istante;
A Delfi, a Delfi il nostro iddio ci chiama.
— 415 —
IL
Prendiara la via di Delfi, anima schiva,
E di qua trafugando i patrii numi,
Lasciam le raandre pascolar la riva
Facile e pingue degli ausonii fiumi.
Noi la Sorte segnò quando alla diva
Aura schiudemmo i pargoletti lumi.
Tu sul mar glauco, io presso una sorgiva
Di pallid' acque, cui fan ombra i dumi.
Noi la Sorte segnò, sin quando parve
Su gli spettri salir nostra persona;
Or son altri i saliti e noi le larve.
Badisi al calle, e non curiam costoro ;
Hassi a cercar la delfica corona,
E non pasto di zebe in greppia d'oro.
Questi due sonetti ci dicono molto del Prati , ma ci rivelano
pure gran parte del carattere di Giuseppe Revere. In che modo,
un uomo di cui ogni opera letteraria recava lo stampo di un in-
gegno alto ed originale, è poi cosi mal noto all' universale, e in
una patria che, appena costituita, fece onore e posto non pure
a' suoi figli più generosi e valenti, ma anco a' suoi più umili fac-
cendieri, quasi unico, fra i nostri illustri italiani, continua solo,
senza alcuna meta fissa, senza alcuna sede certa, a vagabondare
per le terre d'Italia? Che lo agita, che lo spinge fuor d' ogni cen-
tro, e si direbbe quasi fuor d'ogni umano consorzio? In che gli
spiacque l'età sua, il suo popolo? Certo vi è plebe molta anco in
Italia; pur meno qui che in ogni altra contrada; e chi ebbe il
raro dono di fare splendere il proprio ingegno nel nostro paese
ove il sole risplende più lieto e più glorioso, ha debito d'alimen-
tarsi il coraggio per fortificar l'animo ad amare la vita ed a ser-
virla. Alle altezze di Delfo possono salire i soli intelletti potenti,
ma non già |;er trafugarvi i patrii numi, come il Prati fa invito
sdegnoso al Revere, ma sì per ritornare, con la luce del genio,
a vivificarli tra noi, che abbiamo posto fede in essi ed abbiam
diritto di richiedere ch'essi ancora ci mantengano fede. Il Revere
è ormai vecchio, ma bontà di natura, per usare una frase a lui
famigliare, pieno ancora di tanto vigore di corpo e di mente, che
basti a farci sperare per lui im.i vifu ]iin:-;a e potente di opere. Egran
— 416 -
tempo ch'ei non logora più l'ingegno nella tortura del lavoro quo-
tidiano; dai giorni tumultuosi in cui egli serviva in Torino con ar-
ticoli politici il giornale La Concordia^ or sono più di cinque
lustri (veggasi che cosa lasciò scritto sul Revere d'allora il Torelli
ne' suoi Ricordi Politici {1), egli riposò il nobile intelletto molto
più eh' ei non 1' abbia affaticato. Cosi avviene che or siano
più di dieci anni ch'egli tace, non per alcuna stanchezza o ste-
rilità d' ingegno (chi l'accosta ne può sperimentare ogni giorno
la poetica e prestante vivezza), ma per una certa inerzia sdegnosa,
che gli rende lenta la mano a sfogare sulla carta la pienezza e
novità de' pensieri che gli si volgono pur sempre nella mente
agile e gagliarda. Se la cronaca dice ora il vero, il Revere sa-
rebbe intento a comporre un libro sul fare de' suoi Bozzetti Al-
pini e delle sue Mar-ine e Paesi, intorno all'Egitto, da lui visi-
tato, nell'anno 1869, in compagnia di Ubaldino Peruzzi, Ruggiero
Bonghi, Cristoforo Negri ed altri insigni italiani, per l'apertura del
canale di Suez. Saranno pagine, senza dubbio, scritte con ele-
gante sapore di lingua e piene di sortite umoristiche e di fantasie
vivaci. Ma intanto che il libro minaccia di lasciarsi covare i nove
anni sacramentali consigliati, in un giorno di malinconica pedan-
teria, dal poeta latino, polche il Revere ha formata per ora la
*;ua stanza in Roma, io vorrei almeno che la studiosa gioventù
l'omana gli si facesse riverente intorno per indurlo più spesso a
parlare ed a sentire, nel colloquio col giovine mondo che gli sorge
presso animoso, anco una volta in sé quel calore ardente che gli
aveva infiammato gli operosi anni giovanili. Il vae soli fu uno
de'motti più sapienti dell'antichità, sacra o profana eh' essa voglia
poi nomarsi. E il genio stesso che, per creare cose grandi ha uopo
di battere le ali in regioni sovrane a quelle del volgo, mal si reg-
gerebbe ove non discendesse alcuna volta a terra, per rinnovarvi
le sue forze, e derivarne quel senso della realtà, senza il quale
nessuna opera d'arte può avere lunga vita.
Chi ha letto i sonetti del Revere ne conosce pure il luogo na-
tivo; che il sonetto alla nativa Trieste è uno de' suoi più belli. In
Trieste, città alacremente mercantile, e pur madre e ospitatrice
di nobili ingegni, (l'avvocato Domenico Rossetti, sapiente illustra-
tore delle opere minori di Petrarca, basterebbe, nel secolo nostro.
(!) Ricordi Politici di Giuseppe Torelli publjlicali per cura di Cesare
Paoli; Milano, Paolo Carrara 1873.
- 417 —
a farle onore, come dell'ospitalità triestina ebbero molto a lodarsi
tre chiari poeti veneti, il Gazzoletti, il Somma, il Dall'Ongaro che
r hanno per molti anni sperimentata), nacque Giuseppe Revere di
padre lombardo e di madre friulana nell'anno 1812. In Trieste compi
egli la sua prima educazione letteraria; voleva quindi il padre avviare
il figlio Giuseppe alla mercatura, alla quale intendono tuttora in Trie-
ste due fratelli del Revere (ingegni colti e vivacissimi carissimi al
poeta insieme con una sorella che dimora essa pure in Trieste); ma
il giovinetto spiegò sì presto e in modo così vivo l' amor suo alle
lettere, che ben tosto la famiglia di lui risolvette lasciarlo andare per
la sua via e venirgli anzi in aiuto, quand'egli ebbe a recarsi per ra-
gione degli studii intrapresi a Milano. Le lingue antiche, (tra que-
ste allora pure l'ebraico, come più tardi ei delibava la grammatica
indiana, epenetrava, più che oltre la buccia, l'arabo odierno), il dritto,
la filosofia, la storia, la poesia, e gli amori furono le cure di quel
tempo; che non conviene, in un ricordo biografico, dimenticare
come il Revere, sia stato giovine, nel suo tempo, bellissimo, com' egli
è tuttora vecchio cosi poco barbogio da poter sempre in una corte
d'amore, con le amabili grazie della favella e l'eleganza della per-
sona, mettere meglio d' un giovine spasimante in serio imbarazzo.
Ma di ciò poco parlano i suoi libri, ed io non dirò altro. Basti
qui a dare un'altra nota del carattere di lui 1' aggiungere come
si possa quasi scommettere pel Revere, ch'egli, amando, ha do-
vuto ricordarsi sempre d'appartenere al sesso forte ; e però che
egli, sebbene col cuore piagato, non vinse coi piagnistei ma con
la bravura, e che non discinse mai dal suo fianco la spada ; ond'egli
potè mantenere a tutta la sua poesia quel nerbo, e a tutta la sua
vita pubblica quella vigorosa e fiera maschiezza che lo distingue
in modo particolare da tutti i poeti del suo tempo.
Non conosco tuttavia alcuno de' suoi carmi giovanili, i quali dai
titoli dovrei giudicare cosa tutta delicata e, non dirò femminea,
ma tale da piacer più ad animi gentili che ad animi forti ; intendo
d' un carme intitolato : Un pensiero malinconico, certi ritmi biblici,
alcune odi, una canzone per la Fiducia in Dio del Bartolini (1)
(1) Quest'ultima ho potuto aver tra le mani e ripubblico come una
vera curiosità e rarità letteraria ; trovasi in fine una variante che gli
occhi d'Argo della censura di quel tempo non aveano permesso fosse pub-
blicata; sotto una forma ancora alquanto impacciata che ricorda un po' il
tenore delle antiche laudi spirituali, splendono qua e là pensieri novi e
vigorosi, oltre che vi esulta già fieramente l'anima del libero patriota:
Ricordi Biografici 27
— 418 —
e altri componimenti poetici, dispersi^ per la massima parte, nelle
Strenne di quel tempo, le quali io potrei ora difficilmente rintrac-
ciare. Ma qui convien rammentare una virtù peculiare dell' inge-
gno del Revere, voglio dire una mirabile facoltà imitativa ; fu tempo
in cui egli dovette ammirare l' Impeto dei primi Canti lirici del Prati
che risalgono com'è noto, innanzi allarmo 1840: e seppe quindi
in altri suoi canti congeneri, alcuni frammenti de' quali, inediti,
mi caddero un giorno fra le mani, così bene imitarli che si di-
rebbero del Prati stesso ; cosi il primo sonetto del Revere sorgeva
Per la fiducia iu Dio
Statua in marmo di Lorenzo BartoUni
Figlio de' tempi! i noverati giorni
Meni qual pianta inaridita e china,
Nulla stella a te ride
Sul cammin della vita pellegrina,
Né per Alba novella fla che torni
La gioia ad allietar il tuo sembiante;
Lungo duol ti precide
Tutta speranza, e dello sguardo errante
Covri il Ciel, che per te sordo si voi ve:
Senza parola è 1' avvenir sull' anima
Che la nostra sorregge afflitta polve.
Alla viola del tramonto unita
Va la rosa gemmata degl' albori ;
Né meriggio ha per 1' uomo
Su cui sparga la sorte i lieti tiori,
Sospirati da questa orfana vita.
Un inno lamentoso a Dio solleva
11 pargolo non domo
Ancor dal nembo che ì fratelli aggreva,
Che l'aura prima a lui nunzia è d'alTanni:
Ahi, t' eran meglio le materne viscere
Che il truce aspetto de' sicuri danni I
Così ai poveri nati dalla creta
Tocca un'amara eredità di pianto,
E con tristo pensiero
Fortuna, or mostra e or cela il proprio vanto,
Né per vendetta mai non si fa quota;
Langue il disio di men feroce sorte
In noi proni all' impero
— 410 —
ad emulare il sonetto del Prati. A Milano, quasi appena giunto,
erasi il Revere stretto d'amicizia con Giovanni Torti, il virtuoso
discepolo del Parini, e con Tommaso Grossi, l'amico di Manzoni.
Qual meraviglia pertanto che, innanzi il 1838, egli s'accostasse in
Milano, alla maniera lombarda de'suoi maestri e l' imitasse"? Se non
che, presso ai discepoli del Parini, il Revere imparava pure a co-
noscere quelli del Romagnosi, Carlo Cattaneo fra gli altri, da cui
apprendeva, secondando poi, sovra tutto, la sua libera e fiera na-
tura, l'arte di scrivere una prosa potente. NeW Indicatore lom-
Della ignavia, peggior d'ogni empia morte,
Tace il carme sonante a Dio gradito;
Che primi fur ministri all' Ineffabile
La cetra e l' inno del cantor rapito.
E te, fanciulla, con la fronte vòlta
Ove tempo non è, non è misura,
Qual mai speranza affida,
Che spregiatrice d'ogni umana cura
Ed in muto pregar ,ti stai raccolta ?
Sì acerba d'anni alla sembianza eletta
Più non fla che sorrida
Ventura né che gaudj a te prometta ?
Ma tu taci: or comprendo il tacer pio,
Non ha gaudio quaggiù, la vita è cenere
Se non l'affranca la fiducia in Dio.
Come le intatte membra tu componi
Alla sacra quiete dell'Eterno!
E consolata fede
Tal fa di te santissimo governo
Che i nostri tu dispetti infausti suoni....
Ma chi di sculto marmo a me favella?
Se in te vita non siede.
Chi volle all'arte la natura ancella
Chi l'opera d'un Dio t'impresse in volto,
Chi die lena a que'polsi, al seno il palpito.
Sì che in tempio di gloria un sasso è vólto?
Umilemente inginocchiata, il duolo
Che l'aspetto gentil t'adombra appena.
Dal divin raggio è sperso
Dell'alta idea, che l'universo affrena ;
Te fra'beati del fiammante stuolo
Al certo vide quei che ti scolpìa,
E tutto al ciel converso
— 420 —
bardo, apparvero i primi articoli del Revere. Intanto, Massimo
d'Azeglio col suo Niccolò de'Lapi, e l'Assedio di Firenze del
Guerrazzi, non potendo dire all'Italia oppressa come dovesse in-
sorgere, con patria carità s'erano accordati a rappresentare il do-
lore con cui essa era caduta e la disperata difesa fatta per non
cadere; la caduta d'alcuna monarchia non poteva parlare al cuore
del popolo italiano così vivamente come la rovina della repubblica
fiorentina procacciata dalle armi di un papa e di un imperatore,
fatte più formidabili dalle discordie cittadine e dalle ambizioni di una
A te lo spiro animator largìa:
Tanto delTarte al generoso affetto
Il nume assente, che all' eccelso artefice
Maggior copia di sé trasfonde in petto.
Tale ei ti vide, allor che innanzi al trono
Dell'Inconcusso placida ti prostri,
E di santa onestade
Velati gl'occhi amabilmente mostri,
Ivi la bianca fede in dolce suono
Salutando te va « sempre ben giunta »
E nostra inferma etade
Per te s'affida, in te gli sguardi appunta;
Meglio per te s'infronda il paradiso,
Né bufera mortai turba il sidereo
Lume, che folgoreggia a te sul viso.
Ma il pie degl'anni calca i monumenti
Ed all'erba gli adegua, e fra le arene
Gli storiati avanzi
Manda sepolti! Ecco la prisca Atene
Fatta polve dai secoli furenti,
E lor prede lugubri rovinose,
Ch'eran templi poch'anzi
Sue veci ne favellaa dolorose;
L'arti greche vagaron pellegrine,
E a que'lidi ove or geme il mesto cantico.
Sol rispondon le indomite marine.
Ahi ! perchè il tempo vorator gli eserapii
Ingoia d'ogni splendida virtude?
Perchè scuro ne toglie
Sin le memorie delle età cadute?
Ognor più baldo per novelli scempi
Sovra gl'imperj affranti egli grandeggia,
Ne tramuta le spoglie.
— 421 —
casa potente. Si sognava, innanzi il 18i9, l'Italia redenta in forma
d'una repubblica confederata e non ancora di un regno unito;
Mazzini era bensì unitario, ma Cattaneo, Ferrari, Montanelli scri-
vevano per la federazione ; Carlo Alberto era allora un tiranno come
gli altri; né era ancora sorto il conte di Cavour a volere l'Italia
indipendente e monarchica con Roma capitale. La storia degli ul-
timi anni della repubblica fiorentina seduceva pertanto gli scrittori;
il Guerrazzi e l'Azeglio avevano intessuto sopra di essa due romanzi
storici; il Revere volle fare un passo più in là, e trarne due drammi
E qual turbo indomabile veleggia
A far bruna per duci la stanca terra,
E de' monti crollando i gioghi aorei,
Par si rintegri nell'acerba guerra.
E te pur coglierà l'iroso artiglio,
Ma rimoto è l'insulto a ch'ei ti danna.
Salda or vivrai ne' cori,
Come l'amor della natia capanna
In chi vuota la coppa dell'esiglio ;
E forse ancora per voler del nume
I vanni struggitori
Su te non batteran lor fredde piume;
Qui ti starai d'Italia vantamento,
E allo stranier che i nostri lutti visita
Tu di scola sarai, d'ammonimento.
E temprando l'ognor facile accusa;,
Ne sarà pio di lacrima e sospiro,
Che l'eccellenza antica
Non per anco mandò l'ultimo spiro;
Così riedesse la fugata musa
Vendicatrice del presente oblio
Nell'incesso pudica
(l) Coronata di stelle e sacra a Dio
Non serva agli odj, né corrusca d'armi,
Opra è delira in concitato sonito
All'ombra de' cipressi aderger carmi. .
(Ij Variante non gradita dalla Censura:
Folgoreggiante d'immortal desio,
Svestiti gli odi e ritemprate l'armi,
A risvegliar col concitato sonito
La sopita virtii dei primi carmi.
42-2 —
storici, nei quali gli attori di quel tempo parlassero ciascuno nella
loro propria persona e nel loro proprio linguaggio. Il dramma sto-
rico non fu certamente in Italia introdotto dal Revere; prima di lui
il DairOngaro aveva creato il suo Fornaretlo, e, s' io non erro,
alcuni scrittori lombardi avevano già pubblicato o rappresentato
alcuni loro drammi storici; Victor Hugo avea pure avuto pronta-
mente alcuni imitatori sul nostro teatro. Ma, come nessuno vorrà
dar nome di storiche a quelle bugie drammatiche che si chia-
mano VAìigelo e la Lucrezia Borgia del poeta francese, cosi a vo-
ler cercare la storia ne' drammi storici usciti in Italia prima del
Fornaretlo del Dall' Ongaro e prima del Lorenzino de' Medici
del Revere, la veneranda Clio dovrebbe prima ricoprirsi.
Il Revere fece poi quello che nessuno prima di lui aveva fatto,
quello che nessuno seppe più fare dopo di lui; oltre al rendersi,
nelle cronache contemporanee, una esatta ragione de'luoghi e dei
tempi ne'quali si movevano gli uomini da lui rappresentati, volle
superare la suprema difficoltà di farli parlare in buona lingua to-
scana, lievemente tinta di colore antico. Studiò pertanto nella lin-
gua viva di questo popolo (in ispecie nel dramma I Piagnoni e
gli Arrabbiati, uscito la prima volta in Milano nel 1843, ove questo
studio è cosi manifesto, che ad ogni buon giudice riesce aperto
come il Revere, dopo avere sudata la sua vittoria, sia uscito dalla
prova con gli onori del trionfo), e la riscontrò quindi negli scrit-
tori con le varie foggie di dire appropriate a quel tempo e che
il tempo nostro ha dismesse. Cosi riportò le due volte, nel Loren-
zino de'Medici, e no.' Piagnoni ed Arrabbiati, una duplice vittoria,
quella di risuscitarci un periodo importante di storia italiana con
fine civile in robusta forma drammatica, e quello di dare alla no-
stra letteratura drammatica due splendidi saggi di bello stile ita-
liano, due opere che si possono oramai considerare come classiche.
Nella prefazione alla prima edizione del Lorenzino, che reca la
data per noi venerabile del primo marzo 1839, da Milano, trovo già
alcune parole mirabilmente ardite : « Considerando, ei vi dice, alla
nostra presente condizione, non iscrissi il mio dramma per la
scena; esso è vero di troppo, né il teatro il comporterebbe; io lo
direi un continuo conflitto colle consuetudini d'oggidì, un ritratto
troppo severo d'una vita perduta, di passioni attutate, di credenze
infiacchite. » E più oltre : « Non più il dramma dell'individuo, né
le vicende d' un grande sceverate da quelle del popolo, ma una
manifestazione di tutte le idee fondamentali di quel tempo, accioc-
ché da esse si possa giungere alle leggi, al principio da cui fu-
- 4^23 -
rono generate; e, nel concetto, più presto sintetico che analitico;
imperocché abbiam mestieri di fabbricare e non di distruggere.
Egli è per ciò che nulla non debbe andar perduto, ma servire di
indizio al dubbioso avvenire. » Sopra lo stesso concetto egli in-
siste ancora poco dopO;, dicendo : « Non è la vita d'un uomo, ma
sì quella d' un popolo il dramma eh' io credo acconcio al nostro
tempo. » Prevenendo la vanissima discussione che i critici classi-
ficatori, secondo che il tempo comportava, avrebbero fatto sopra
il genere drammatico del Lorenzino, ei la rimuoveva accorta-
mente con queste poche assennate parole : « Alcuni critici diranno
che io ho inventata la storia, altri che la ho posta in dialogo, e
con una miseria di parole vorranno pormi al bando di tutte le due
scuole, quella de'classici e de'romantici, com'essi le chiamano. Io
dichiaro di aver seguito quella del cuore ; una ed eterna ; e con-
fesso d'ignorare quel che si vogliano dire con le altre. » Il Lo-
renzino e i Piagnoni ed Arrabbiati conseguirono molte lodi nella
stampa letteraria di quel tempo e procacciarono al Revere nuove
ed illustri amicizie; fra i suoi più autorevoli estimatori fu pure
il Tommaseo, cui egli, un po' per una certa conformità di senti'
menti nella ragione politica, un po' per antico debito dì gratitudine,
un po', finalmente, per naturale riverenza a letterato cosi insigne
e venerando, volle poi dedicata da Genova, nel 1858, la nuova
edizione di tutti i suoi Drammi storici {Lorenzino de' Medici —
/ Piagnoni e gli Arrabbiati, Sa^npiero — Il Marchese di Bed-
mar; egli meditava pure un dramma sulla morte di Giuseppe
Alessi, il battiloro di Palermo; ma non se n'ebbe altra notizia),
che curava in Firenze, nell'anno 1860, l'editore Felice Le Mou-
nier. « Il vostro nome, egli scrive, i patimenti illibati del vostro
intelletto, la comunanza di casi, e la fede incrollabile che voi te-
nete a quanto v'ha di generoso e di diritto ne' vasti campi del
pensiero, conferiranno per fermo a fugare da me le sterili iro-
nie della mia vita sconfidata. Parlando con voi, mi parrà di ra-
gionare ancora con le vereconde fantasie della mia giovanezza. »
Terminando la sua prefazione il Revere dava alcuni savii consigli
ai giovani autori ed attori, facendoli precedere dalle seguenti parole
sempre rivolte al Tommaseo: « Io non saprei dire se i tempi e
l'animo mio mi consentiranno di darmi ancora a tal maniera di
opera; ma da che parlo con voi, uomo intero e cotanto mio amo-
revole, io vorrei che l'autorità dei vostro nome, e l'esempio che
date all'Italia del modo verecondo onde s'abbiano a professar let-
tere, mi rincorasse a parlar pure a'giovani scrittori ne'quali ferve
^ 42i —
il generoso proposito dì provvedere alle necessità del nostro tea-
tro. Qiial tristo governo alcuni comici abbietti e autori dozzinali
facciano spesso dell'arte non dirò io qui, poiché la debita rive-
renza all'arte medesima noi consentirebbe; d'altra parte il gran
parlare che ora si fa intorno alla riforma del nostro teatro, e le
cure di giovani attori ed autori i quali sentono nobilmente la ver-
gogna della nostra miseria e s'industriano di porvi riparo con ge-
nerosa perseveranza, è chiara prova delle nostre grame condi-
zioni. » Nessuna meraviglia pertanto che, nello scorso anno, trat-
tattandosi in Roma di costituire una commissione la quale studiasse
anco una volta queste misere condizioni del teatro nostro dramma-
tico, per avvisarne ai rimedii, chi avea letto e pregiato secondo
il merito i Drammi storici del Revere, e la prefazione che va
loro innanzi, ascrivesse a suo dovere d'invitare l'insigne poeta
triestino ad assumerne la presidenza, la quale nessuno avrebbe,
di certo, potuto tenere con miglior senno e con più autorità
di lui, a cui i voli fatti sulle alture del Pindo non hanno punto
privato della facoltà di vedere praticamente e realmente le cose
per farne quindi un giudizio proporzionato, quantunque, senza
dubbio, men gretto, men passionato, men vile di quello che po-
trebbe forse metterci in giro venale la cosi detta gente di me-
stiere, per la quale l'arte è oramai divenuta cosa tutta meretricia.
Come non destinava il Revere alla scena, la quale pur volle ri-
vendicarseli, il Lorenzino e i Piagnoni e gli Arrabbiati (il Lo-
renzino fu rappresentato, ridotto, parecchie sere al Teatro Cari-
gnano di Torino dalla Compagnia Reale; i Piagnoni e gli Arrab-
biali si rappresentarono in altri teatri monchi e contraffatti); così
scrisse di proposito per la scena e fece piacere, il Sampiero, il
Marchese di Bedmar e la Vittoria Atfia.ni I due primi di questi
due drammi sono stampati nel citato volume del Le Mounier; \'Al-
fiani né ho letta né vidi rappresentare; ma per fortuna era in
teatro un crìtico di buon gusto, del quale possiamo fidarci, il si-
gnor Eugenio Camerini che ce ne lasciò un ricordo nel volume
dei suoi Profili leiterarii (1). E un dramma domestico; l'espia-
zione della colpa d'una giovane donna ; il Camerini ci fa sapere
che il dramma: «piacque universalmente, se ne levi alcuni pochi
che dissero: Se ci piace, abbiamo mentito » Il Camerini ci de-
scrive minutamente il carattere della protagonista; e soggiunge:
(1) Firenze, Barbera 1870.
— 425 —
« Tutti gli altri caratteri sono ben delineati, ma con pochi e ga-
gliardi tratti, come Revere sa fare. » Egli ci dà pure la notizia che
il Revere ha pure altri due drammi del genere deWAlfìanì, Sandro
setaiolo e Le sventure d'un pittore tuttora non rappresentati ed
inediti.
Ma ne' drammi non è tutta la vita letteraria del Revere ; i suoi
sonetti Sdegno ed affetto (Milano 1845) Nuovi sonetti (Capolago,
18-46), / Nemesìì {Tov'mo 1851), Persone ed ombre (Genova 1862),
gli diedero posto fra i più vigorosi sonettisti d'Italia. I primi
erano dedicati ad un amico; l'amico era veramente Pietro Borsie-
ri, l'amico di Gonfalonieri, di Pellico e d'Arrivabene. Gli ultimi
sonetti rivelano una nuova forma di poesia, e si direbbe un nuovo
poeta, una specie di Heine italiano, ringagliardito. Un editore
farebbe ora assai bene a salvare dal pericolo che vadano per-
duti, raccogliendoli in un solo volume, tutti i sonetti del Revere,
ai quali se ne dovrebbero aggiungere alcuni altri ch'io ebbi il
piacere di pubblicare TieW Italia Letteraria giornale ebdomadario
da me diretto in Torino, per cinque mesi, nel 1862, Anch'esso
venne a morire nelle Veglie letterarie che Pietro Dazzi, sostituito
quindi da Enrico Montazio, pubblicava nello stesso tempo in Fi-
renze; ed una diecina forse di sonetti inediti i quali credo si po-
trebbero da alcun destro editore, con un assedio fatto con un po' di
garbo, ottenere dalla amabile ritrosia dell'autore. Cosi sarebbe desi-
derabile che un editore di grido provvedesse aduna decorosa ristampa
del volume àa' Bozzetti Alpini, divenuto introvabile e dell'altro Mari-
ne e paesi, che gli fa mirabile contrasto. L'uno ci dà in vero la vita
alpigiana, l'altro la marinaresca; le alpi e le marine della Liguria
percorse il Revere con la libertà disinvolta di uno studente in
vacanza, con la pratica degli uomini e delle cose che può
avere un uomo il quale ha passato i quarantanni imparando a
conoscere tutta la vita a sue proprie spese, col sapore umoristico
di uno Sterne innamorato di Heine, e di un Heine nato in Ita-
lia. E come si spiega qui ancora la destrezza del Revere ad inve-
stirsi del carattere delle cose ora lette, ora osservate ! come ei sa
far l'erudito quando sì caccia tra i libri ! com'egli é uomo del suo
tempo quando alza la testa per guardare in viso gli uomini ! come
egli è piemontese a Torino ! e come si sente ch'egli è nato sul
mare a Genova! E la nostra letteratura non aveva prima del Re-
vere alcun altro libro che somigliasse a questi Bozzetti Alpini,
a queste Marine, a questi Paesi, i Profili e paesaggi ùìGìm^q^'^q
Torelli accennavano già al genere, ma non l'arrivarono. Le no-
- 426 —
stre storie letterarie non avevano ancora nessun capitolo, per
quest'i italiani ReiseUlder ; ora ne scriveranno uno a posta pel
Revere e per i suoi imitatori; non già che il Revere ci abbia
dato opera perfetta; il Camerini gli ha già detto quello che gli
manca, né io verrò qui ad allargare un giudizio che vorrei più
tosto restringere; ma egli ha creato fra noi e mostrato possibile
un nuovo genere letterario, il quale tuttavia domanda tanto mag-
giore studio di forme eleganti, e tanta maggior ricchezza di pen-
sieri originali, quanto più ne appaiono lievi i soggetti.
I giorni più splendidi della Rivista Contemporanea di Torino
furono quelli ne' quali vi scriveva Giuseppe Revere. Aveva egli
preso parte vivissima ai casi politici del 1848 e del 1849. Durante
le cinque giornate di Milano, lasciato il giornale La Concordia
di Torino, recavasi egli prontamente sul Ticino, aiutatore di quei
moti gloriosi che conferirono alla pronta liberazione della città.
Tenne quindi suo debito fermarsi in Milano, ove le cose politiche
pigliavano indirizzo diverso da quello che il Revere, uomo di fede
repubblicana, avrebbe sperato, e vi conobbe Giuseppe Mazzini ed
ebbe parte neW Ralla del Popolo. Un anno innanzi egli aveva pub-
blicato nella Rivista Europea di Milano una narrazione storica
sulla Cacciata degli SpagnuoH, lavoro ch'egli aveva dovuto inter-
rompere a cagione delle molestie che gli venivano dalla revisione.
Nello stesso anno, il Revere aveva pure composto in robusti
sciolti un carme politico intitolato Marengo, per la statua di Na-
poleone che dovea rizzarsi sulla pianura di tal nome, ma ei non
potè pubblicarsi se non nel 1848 a Milano. In Milano, il Revere
fu con Pietro Maestri e Carlo Cattaneo fra quelli che sottoscris-
sero la protesta contro la fusione col Piemonte, prima che fosse
compiuta la liberazione della Lombardia. Il giorno della tornata
degli austriaci il Revere fu costretto a lasciar Milano e riparare
col Maestri nella Svizzera. Di là corse a Venezia, ov' egli ebbe
qualche dissidio politico con Manin, che lo forzava ad andarsene,
insieme con altri compagni, dichiarando nella sua Gazzetta come
quell'allontanamento non offendeva punto il patriottismo di que-
gli italiani, ma richiedevasi perchè la loro politica pareva sover-
chiamente audace ; poi lo stesso Manin lo richiamava da Ravenna.
Da Venezia il Revere accorreva in Toscana, e di qua a Roma
minacciata dall' intervento francese; e vi rimaneva fino alla caduta
della città. Rifugiavasi quindi a Genova, ove, a motivo degli umori
che serpeggiavano per la città e delle opinioni repubblicane del
poeta triestino, il Revere non era dal governo accolto con sover-
— 427 —
chia amorevolezza; passò alcun tempo a confino in Susa, fin che
potè nel 1851 fare ritorno a Torino, dov'ei non ebbe più a soffrire
molestia alcuna. Ed a Torino pubblicò tosto i suoi fieri sonetti
politici / Nemesii, preceduti da una prefazione nella quale ei ra-
gionava con eloquenza delle condizioni dei suoi tempi e di quelle
della poesia. Dettava poco dopo alcuni versi in morte del prode
soldato Giuseppe Lions, e dava principio ad un suo poema in
isciolti intitolato: Giovanni da Grado , che non vide ancora la
luce, e di cui alcuni frammenti appena furono pubblicati nella
Rivista Contemporanea di Torino. Ma non furono gli sciolti che
diedero fama al Revere, e che crebbero pregio alla Rivista tori-
nese quand'ei vi scrisse ; lo sciolto del Revere è pieno di senso
e spesso anche di vigore, ma esso ha di rado quell'ondeggiamento
armonioso e solenne che gii dà tanta maestà e tanta attrattiva
quando è lavorato con piena maestria ; il Revere che, talvolta, per
eccessivo studio di toscana eleganza, non solo adorna, ma orpella
la sua prosa, nella poesia ed in ispecie nello sciolto sdegna alcuna volta
di elevare le parole all'altezza de' suoi pensieri e de' suoi sentimenti,
così che gli accade talora d'ingenerare un poco di monotonia, di
stemperare soverchiamente i suoi colori, di sminuire i suoi effetti:
costretto però nella brevità serrata del sonetto, lo aguzza come frec-
cia, e s'abbandona però meno oziosamente a quegli agi che, vinti,
rendono lo sciolto il più diiHcile, come secondati, lo fanno invece
sembrare il più comodo dei versi italiani. La fortuna della Rivista
Contemporanea fecero invece alcuni saporitissimi Procacci di To-
rino ch'egli scriveva mensilmente sotto lo pseudonimo di Cecco
d'Ascoli, pieni di notizie, ma più di sali, eruditi e non pesanti,
briosi e non leggeri, mordaci e non villani. La Rivista Contempo-
ranea contava in quegli anni, tra' suoi scrittori, filosofi come il Ro-
smini ed il Mamiani, critici come il Tommaseo, il De Sanctis, il Cop-
pino; ma, senza far torto ad alcuno di questi nomi gloriosi, si può
affermare che la lettura più gradita erano gli scritti umorìstici del
Revere, che insieme coi Procacci di Torino alternava la pubbli-
cazione di altri due lavori di maggior conto 7 Bozzetti Alpini e Le
Mem,orie di Anacleto Diacono che rimasero interrotte. Nessuno ave-
va prima del Revere e meglio diluì rappresentati alcuni de'caratteri
più curiosi della vita piemontese ; certe scene de' costumi torinesi
e delle valli pedemontane sono da lui sorprese e riprodotte sul vivo.
Così, tornato il Revere a Genova nel 185G, percorsa la riviera
ligure, egli con lo stesso vivace pennello coloritore e con la stessa
malizia umoristica ed ironia lacrimosa od elegia scherzosa ci dà
— 428 —
i quadri della vita del Genovesato; quadri senza cornice; poiché
vi s'incomincia a parlare dell'ardito, gagliardo genovese, e si fi-
nisce col pompeggiarvi tutta la maestà sovrana dell' uomo, s' in-
comincia ad esaminarvi un minuto insetto o mollusco ignorato e
si termina col magnificare gli splendori di tutta la creazione;
quadri mobili come la fantasia, come la vita vagabonda del poeta,
nato con l'istinto più naturale all'uomo, con l' istinto della libertà,
e liberamente vissuto; egli potè quindi riuscire anco liberissimo
scrittore, e, nella piena libertà de'suoi moti, trovar forme originali,
e renderle classiche prima che popolari nella nostra letteratura.
Gioverebbe ora nondimeno che alcun ministro avveduto e sa-
piente della pubblica istruzione, con queir arte discreta che sa
vincere anco la ritrosia de'più schivi, s'adoperasse, poiché il Re-
vere è in Roma a trattenerlo in qualche ufficio al quale ei non
potesse, senza parer cattivo cittadino, rifiutarsi. Un Governo
provvido andrebbe esso stesso in traccia degli uomini che hanno
meglio onorato con le opere dell'ingegno la patria, per far loro
spontanea dimostrazione di onore, né già soltanto con vani cion-
doli, (il Revere fu, in quest'anno, nominato commendatore)
ma provvedendo agli agi della loro età provetta con valersi
de'loro preziosi consigli. Io mi sono già meravigliato che un
Guerrazzi, ed un Selvatico non sedessero ancora Consiglieri presso
il Ministero della pubblica istruzione; la stessa meraviglia mi reca
il non vedere nel Consiglio stesso un Cantù, un Tommaseo, un
Revere, ed altri tra i piìi benemeriti nostri vecchi scrittori. E a
questo proposito, considerando l'importanza e quasi l'onnipotenza
che ha oramai acquistata il Consiglio superiore nel Ministero
della pubblica istruzione, e la misera retribuzione che vi ricevono
i pochi e ben degni Consiglieri, (gli uni mille e gli altri due
mila lire all'anno) mi permetterei un duplice voto, perché il nu-
mero presente de' Consiglieri fosse almeno accresciuto del doppio,
e perchè il loro stipendio fosse alquanto piìi decoroso e conve-
niente alla suprema dignità dell'utticio. Sovra diciannove milioni
di lire che si spendono attualmente per la pubblica istruzione
quando si destinasse un modesto centinaio di mila lire pel Con-
siglio superiore, tribunale ora d' appello, ora di cassazione per
le diverse questioni che s'agitano nella pubblica istruzione, nes-
suno griderebbe al certo contro lo sperpero del pubblico da-
naro, e s' avrebbero solamente Consiglieri più assidui, più ope-
rosi oltre che il loro numero essendo accresciuto, gli ufiicii
sarebbero assai meglio distribuiti, mentre, invece, al presente.
— 129 —
0 un solo consigliere è invitato a riferire sopra stiidii eh' egli
non ha mai fatto, o pure il Consiglio è obbligato, per difetto
di competenza, a scaricare gran parte del suo lavoro sopra
persone estranee al Consiglio stesso, mancandosi cosi ad ogni
maniera di convenienze, poiché si usurpa, con nessuna delica-
tezza, il tempo degli studiosi e si pubblicano i segreti del Con-
siglio. Nel Consiglio invece, perchè avesse vera competenza ed
autorità, ogni ordine anco specialissimo di studii dovrebbe essere
degnamente rappresentato; e, come per la lirica il Prati e l' Aleardi
vi siedono ora giudici autorevolissimi, cosi il Revere, il Giaco -
metti ed il Gherardi Del Testa dovrebbero, per quanto me ne
sembra, giudicarvi di cose drammatiche; ed ogni altro ordine spe-
ciale di studii meriterebbe l'onore d'essere rappresentato con pari
dignità. Quando il Consiglio superiore fosse in tal modo costi-
tuito diverrebbero superflue tutte quelle speciali, spesso va-
nissime, commissioni aggiudicatrici di premii per concorso ; le
quali pullulano in quasi ogni Città di Italia, e nel seno
stesso del Consiglio superiore si costituirebbe, secondo le op-
portunità, ogni commissione, composta d'uomini i quali avreb-
bero lunga pratica delle materie sopra le quali dovrebbero portar
giudicio e nomi superiori ad ogni invidia. Io m' auguro che un
futuro ministro della pubblica istruzione renda pago questo voto,
dal compimento del quale mi riprometterei grandi vantaggi per
maggior decoro delle scienze, delle lettere e delle arti fra noi.
Intanto amerei che il Revere fosse fin d'ora chiamato a far
parte del Consiglio superiore, perchè non tardasse oltre a servir
dell' opera sua prestante queir Italia redenta a libertà, alla quale
nel tempo dell' oppressione la parola di lui scritta o parlata
aveva servito di stimolo potente ad insorgere. Lo scetticismo
si vince, in gran parte, col calore dell' opera; il riposo prolun-
gato cagiona freddezza; e sebbene il riposo del Revere sia grave
di pensieri, e possa maturare nel tempo opere gagliarde, mag-
gior consolazione ci darebbe il vivere , poiché gli anni non
sembrano ancora dargli peso, un campione così poderoso im-
pegnato in battaglia viva e continua contro i pregiudizi!, gli
errori, le piccole" e le grandi viltà del tempo. È sempre utile
il contemplare un uomo che sa tenersi dritto fra tanta mol-
titudine che si piega al soffiare de' venti; che serba genti-
lezza e dignità nella forza; che sdegna il plauso volgare ^ i
facili guadagni, i facili compromessi ed ogni maniera di caricature
sia nella vita, sia nell'arte che la deve rappresentare. Egli adora
- 430 —
la libertà ed il vero; simili adoratori fanno agevolmente paura
ai trafflcatori di piccole bugie, le quali sono poi le mamme delle
grandi, ed a quei sapientoni che e' insegnano l'arte costituziona-
le, io vorrei quasi dire paolotta, di ceder sempre, troppo simili
a que' giunchi, i quali oggi si lasciano piegare per ogni verso e
domani si trasformano in ignobile verga flagellatrice. Il Revere
rimase quasi solo ai duri travagli in mezzo a tanta coramodità
di nuova vita; parecchi de'suoi amici che la fortuna secondò ed
ai quali essa diede molta vernice, che par lustro, provano ora al •
cun imbarazzo nel cospetto d' un uomo eh' essi sentono quanto
valga più di loro, che ha fatto tanto per la patria e che rimase
modestamente a terra, mentre essi, enfiati palloni, sono saliti a
pompeggiarsi nell'Olimpo. E nessuno di essi diedesi briga d'invi-
tarlo all' opera. E pure, se l' Italia ha uopo d' alcuna cosa, essa
parmi abbisognare, sovra tutto, di cittadini e di scrittori come il
Revere, di cittadini che dimentichino i loro privati vantaggi e
mantengano fede alla fede che hanno data alla patria, di scrittori
originali che sacrifichino ancora al vero ed al bello, e non de-
pongano un istante il pensiero che le lettere o non hanno ad
essere o devono avere una virtù educatrice. Coi burattini e coi
saltimbanchi si può far ridere e divertire la platea; nessuno lo
pone in dubbio; ma l'arte in mezzo a loro s'arresta e si vela per
pudore. Que' realisti impudichi, i quali vorrebbero che l'arte di-
cesse tutte le iniquità che passano loro per la mente e che si
ridono, o giovani, del vostro ideale, se non sono già tali, potreb-
bero anche riuscir pessimi cittadini, nella loro stupida indifferenza
ad ogni gloria, ad ogni grandezza paesana, ad ogni progresso
civile. Giova pertanto guardarcene e stringerci invece fortemente
intorno a que' pochi veri sacerdoti dell'arte ogni parola de' quali
può essere per noi animatrice di estri fecondi o di opere genero-
se; il Revere è uno di que' pochi sacerdoti superstiti; ripigliamo
in mano i troppo dispersi suoi scritti e preghiamo cha il bello e
fiero Iddio della sua giovinezza torni presto a ridestarlo al fu-
rore dell' opera.
XXX.
GIOVANNI PRATI.
Se della gloria di Giovanni Prati si dovesse argomentare dalle
sole vituperose parole che ne scrissero i gazzettieri^ nessuna gloria
ilovrebbe forse apparire più incerta e più discussa di quella del poeta
di Dasindo. Ma, per fortuna, le gazzette hanno la vita d'un giorno,
(né si chiamano inutilmente effemeridi) e, per quattro livree sca-
vezzate recalcitranti all' uomo che ne ha talora vergheggiato a
sangue il dosso inverecondo, non vi fu alto ingegno in Italia
che non abbia nell' età nostra onorato il Prati, né vi è lettore
delle opere di lui, che, terminata la lettura, non abbia sentito
in sé alcuna fiamma di quel sacro fuoco febeo che accende il
genio del Prati e che gli assicura, senza contrasto, il primo posto
fra i nostri lirici viventi. Io so che il Manzoni soleva dire come
tra i poeti d'Italia il Prati era quello che aveva maggior vena e
potenza; lo pregiavano pur molto Giuseppe Giusti, Giuseppe Mon-
tanelli, Luigi Carrer, Giovanni Berchet, Silvio Pellico, Cesare
Balbo, Giuseppe Barbieri, Andrea Cittadella Vigodarzere, Filippo
Cordova, per tacer de' vivi; e conviene veramente avere anneb-
biato l'intelletto o l'animo malvagio per negare all'ingegno del Prati
una virtù sovrana. All'ingegno ho detto; avrei pur voluto dire all'a-
nimo. Ma noi posso intieramente; non volendo nascondere la ragione
che armò contro di lui le ire de'suoi contemporanei e che le fece poi
crudelmente ingiuste. La opinione che s' ha dell' uomo nocque un
poco a quella che si deve avere del poeta. Non che l'uomo sia quale
una stupida tradizione lo va predicando da molti anni ; che già
fin dall'aprile del 1843, il Pellico scriveva da Torino al conte Luigi
Porro: « Il merito poetico di Prati é qui valutato da molti, ma
gli ha altresì suscitato fra i letterati alcuni nemici acerrimi (tra
questi ricordo come uno de'più maledici il poeta Felice Romani). Co-
storo hanno la bassezza di far circolare versi anonimi contro di
lui, pieni non di critiche, ma di accuse turpi ». Io ho già teiitato
ribattere le indegne accuse in una specie d'inno biografico giova-
nile che pubblicai in onore del Prati nell'anno 1861, nella raccolta
dei Contemporanei italiani del Pomba; né mi giova qui insistervi.
Cosi parmi che siasi indegnamente abusato in Italia della qualità
che serba il Prati di poeta cortigiano per accusarne la viltà come
cittadino, mentre una cosa sola è a deplorarsi che l'Italia redenta
non redima il poeta dall'ufficio di cantare tuttora ufficialmente pt;r
la corte, invece di lasciarlo, come poeta nazionale, cantare libera-
mente inspirato le speranze e le glorie della sua patria risorta.
Finché non vi era una patria indipendente, non solo non doveva
parere indecoroso, ma utile e bello che un poeta osasse far suo-
nare liberi canti nella dispotica Reggia sabauda, per ricordarle
ch'essa era chiamata alla liberazione d'Italia. Non dimentichiamo
che il Prati, fin dal 1843, quando il re Carlo Alberto era ancora
nelle mani de' potenti gesuiti, incaricato di scrivere versi per una
fanfara militare, v'inseriva già queste ardite profetiche strofe :
Tutti all'Alpe e sul Ticino,
Ci raccolga un tal peusier;
« Carlo Alberto e il suo destino »
< Sia la voce del guerrier.
Tutti Siam d'un sol paese.
Solo un sangue in noi traspar;
A ogni tromba piemontese
Mandi un eco e l'alpe e il mar !
E il Prati non perdette quindi alcuna occasione per raccoman-
dare ne' suoi canti l'Italia ai principi Sabaudi; tutto il volume
de' suoi Canti Politici basta a provarlo. Una sola insigne mala
fede potrebbe quindi mettere il Prati in voce di volgar menestrello
di corte (1). Ma s'ei fu calunniato dalla rabbia delle parti politiche
(1) Errori, per difetto di tatto politico, ei n'iia pure commessi, non
già per poca italianità di sentimenti ; io mi dolsi già di lui per un canto
contro Felice Orsini: intendo ora che nel Trentini non si perdona al
Prati un suo brindisi, in onore dell'Imperatore d'Austria, fatto o per
dir meglio voluto fare nell'ultimo suo viaggio in patria; non già che non
— 433 ^
avverse a quella ch'ei segue di suo buon diritto, ne deve pure
in molta parte incolpare sé stesso. Non le sue opinioni, ma il
modo superbo e intollerante con cui egli le manifestava, lo fecero
nel 1848 in Firenze segno all' insulto de' demagoghi toscani; e, se
non lo salvavano e non lo soccorrevano in più modi alcuni gene-
rosi amici (Emilio FruUani vuol esser ricordato tra gli altri) ei
non avrebbe potuto al certo riparare in Piemonte. Cosi non ci fa
più meraviglia la feroce ingiuria che fece al nome del Prati il
celebre attore Gustavo Modena, quando ci è noto che il primo
provocatore dell'insulto era stato il Prati stesso, con una strofa
epigrammatica, così disinvolta, come ingiusta e offensiva per
l'illustre e povero artista repubblicano al quale essa era stata
'liretta:
Repubblica tu sudi
Da capo fino ai pie ;
Ma in forza degli scudi
T'adatti a far da re.
Fu già pubblicata la risposta sanguinosa del terribile Modena:
« Raffaello dipinse Giuda sulla tela. Alfieri scrisse in versi per
la scena il Filippo li; Milton dipinse il diavolo ed il peccato ; io
dipingo sulla scena re e pitocchi, buoni e cattivi ; e se un poeta
mi dà a rappresentare una spia, un ruffiano, un'anima venduta,
dipingo Prati stesso: e che perciò? Tanto si attaccherà a me di
Prati quanto di Giuda a Raffaello ». Ad un errore un eccesso, ad
un motto offensivo un libello caUinnioso. E di questi supplizii fu
più volte vittima l'orgoglio del Prati, il quale, invece di trarne
occasione a mortificare alquanto la sua selvaggia natura, se ne
inviperì, e lanciò nuovi e più ardenti strali che gli suscitarono sul
ca[)0 sempre nuove e più fiere tempeste. Poiché, mentre egli, in
fin dei conti, dava sfogo ad umori improvvisi, che gli serpeggia-
vano nelle vene, e imprecava più per uno slancio poetico di elo-
quenza sdegnosa, che per animo deliberato di ferire alcuno nei
visceri vitali, i suoi nemici colpiti che n'avevano appena sfiorata
la pelle raccoglievansi in ordine di battaglia e, strette le file, e
si possa ancj fare da un italiano elio n'abbia molta voglia un brindisi
ad un principe austriaco, quantunque simili superfluità non ci sembrino
degne d'un grande poeta; ma, perchè veramente un poeta tridentino a
Trento è l'ultimi persona da cui si dovrebbe aspettare un brindisi per
un sovrano d'una terra che moralmente non gli appartiene.
Ricordi Biografics 28
— 434 —
avvelenate le punte delle loro spade, insidiavano ad ogni passo
della vita del poeta, e gli portavano via qualche brandello di cuore
lacerato. Compiangiamo la intrattabile superbia dell'uomo, ma
guardiamoci dal negare ammirazione al poeta, e, se conosciamo
l'uomo assai dappresso, non neghiamo amore anco a questo; poi-
ché, sotto la ruvida scorza, il Prati ha buono il cuore ed anima
spesso cosi semplice ed ingenua che si direbbe di fanciullo. Non
l'oro, non il fasto, non la pompa de' titoli lo tenta; e per quanto
egli abbia voce di poeta cortigiano, io affermo ch'egli disse il vero
quando, nelle sue strofe a Postumo cortigiano, cantò:
Poco il mio cor desia,
Né cederei, tei giuro.
Questa celletta mia
Per la magion d'un re:
com'ei dipinge al vivo il suo costume domestico quando prosegue:
Io facile mi stendo
In larghe giubbe oneste.
, 4 Che logore, poi vendo
Al figlio d'Israel.
Chi l'ha visto in casa sua sdraiato sovra una comoda poltrona,
nell'ampia veste da camera, fumare e sognar versi, lo riconosce,
come anche in queste altre due strofette che Orazio e Parini non
avrebbero forse sdegnate:
D'ogni potente albergo
Tu penetri le soglie
Col direpato tergo
E l'anima servii;
Me libero la nuda
Mia cameretta accoglie .
Col buon pensier che suda
Sul renitente stil.
La biografia del Prati non tornerò qui a scrivere, poich'io l'ho
già scritta distesamente nel 1861, e poiché parve al Prati stesso
abbastanza esatta da meritare ch'egli rimandasse volentieri ad
essa quanti lo richiesero quindi d'Italia e di fuori, per alcuni
cenni autobiografici; mi contenterò qui pertanto di riassumerne le
principali notizie, aggiungendo qua e là quel poco di più che ora
— 435 —
mi rimane a dire. Giovanni Prati nacque di nobile ed agiata fa-
miglia in Dasindo piccolo villaggio delle Giudicarle nella valle
del Sarca, nel Trentino, il 27 gennaio 1815. Suo padre ebbe nome
Carlo; sua madre Francesca Manfroni di Monforte era figlia di me-
dico valente e, per quanto me ne disse in Firenze, or volgono quattro
anni, lo stesso Prati, era l'ultima discendente di quella famiglia dei
Savonarola, dalla quale ora uscito il celebre frate Gerolamo. Fan-
ciullo, Giovanni Prati intese parlare della prigionia di Silvio Pel-
lico allo Spielberg e dice averne provata un'impressione dolorosa
e viva ; per gli studii ginnasiali fu mandato a Trento, ove riportò
sempre nelle classi il primo premio; ma il più egli apprese da sé,
nella lettura di Plutarco, Virgilio e Dante, e nelle sue corse au-
tunnali sui patrii monti, cacciatore di camosci ed esploratore di
mondi, ora sprofondato nelle nebbie del cielo germanico^ ora tutto
rapito nei lapislazuli del cielo d'Italia. Più in su, egli si perdeva
nella contemplazione di Dio, in cui i religiosi parenti, e alcuni
casi particolari della vita, che gli parvero provvidenziali, ne' quali
egli scampò da morte imminente, gli avevano insegnato a credere.
Perciò il canto di lui fu pio, ed egli desiderò pure che ogni va-
loroso poeta credente cantasse; perciò rivolto in una sua bella
poesia al Bertoldi che un giorno aveva tentato gli estri del Prati,
egli alla sua volta svegliava il genio dormente del gentile poeta
piemontese :
Ma tu, se una speranza
De' miei terror più intensa
Nel casto cor ti avanza,
È Dio che te la dà;
Quel gran tesor dispensa
Con invincibil fede;
Forte è il pensier che crede
Più del pensier che sa.
A quindici anni, il Prati aveva terminati i suoi primi studii e
lasciava il collegio di Trento, ove, lui partito, e venuto quindi in
gran fama, gli antichi reverendi padri maestri ebbero cura di
mettere in ordine in un ricco e distinto album i componimenti
scolastici latini ed italiani del loro ex-discepolo divenuto glorioso;
il Prati scrive tuttora con eleganza virgiliana il latino, come nella
lirica italiana egli non ha emuli. Nel novembre del 1830, Giovanni
Prati, per consentire al desiderio paterno, recavasi all'Università
— 43<^ —
di Padova, a fine di attendervi allo studio delle leggi. Ma più che
alla legge vi attese agli amori ed ai carmi. A 19 anni, egli ri-
tornava nella valle nativa, con titolo di dottore in utroque, senza
valore, e con valore stupendo di poeta, senza titolo. Intorno a
quegli anni o poco più in qua risale pure, se ho ben letto in
un'antica bibliografia, una novella in prosa, che il Prati pubblicava
in una strenna padovana, e che si vorrebbe ora veder rimessa in
luce da qualche diligente ricercatore di rarità bibliografiche. Il
giovine dottore sposavasi al suo ritorno in patria ad Elisa Bassi
di Trento, ch'egli aveva conosciuta presso Dasindo, ove la gentile
giovinetta soleva recarsi negli autunni a villeggiare con la sua
famiglia. Il 29 maggio 1839, il Prati perdeva la sua compagna,
che lasciavalo padre di un'unica figlia, Ersilia. Egli pianse ama-
ramente in bellissimi versi quella morte immatura; ma intorno
a sé, invece di voci di compianto, ebbe il dolore di veder crescere
e propagarsi, svegliata da' suoi nemici, una nera calunnia che lo
faceva iniquamente complice di quella sventura (1). Usci sconsolato
(1) Il Prati allude a quelle reità in due sue strofe:
Uno inventò la favola,
Un altro la dilluse;
Chi sparse il monosillabo,
Chi pronto lo conchiuse,
E dietro al dalli dalli
Gl'insulsi pappagalli
Sul trivio ancor cinguettano
Le ree stupidità.
Sino frugar nel tumula
Dove tu dormi, Elisa,
E ti compianser vittima
Da' miei tormenti uccisa ;
Sorgi dall'erma bara
Ombra sdegnata e cara
E del compianto ipocrita
Possa arrossir chi '1 fa.
Alia morte della prima moglie del Prati era presente Giuseppe Bar-
bieri; il Prati lo ricorda in un sonetto dedicato allo stesso Barbieri:
Ti rammenti quel dì, p irmi pur ieri ;
Che tu piangendo mi serravi al petto,
Quando frammezzo ai lugubri doppieri
Siedea la morte al maritai mio letto;*
— 437 —
dal suo Trentino, e chiese ai carmi conforto; parecchi, i più belli,
de' suoi Canti Lirici, sono di quel tempo. Seguiva quindi La Ed-
menegarda. Un luttuoso caso avvenuto in Venezia, del quale Ilde-
garde Manin, la sorella. di Daniele, era l'eroina e la vittima, diede
il soggetto. Ne uscì il più patetico e più elegantemente mosso dei
poemi che la musa di Byron abbia inspirato ai poeti d'Italia. La
Edmenegarda è tutta un'onda d'armonia, di poesia, d'affetto, dai
primi versi :
Per le vie più deserte, in doloroso
Abito bruno e con un vel sugi' occhi
Passa la bella Edmenegarda...
fino alla lettera d'Arrigo, con la quale si termina moralmente il
pietoso racconto, la lettura del quale appassionò allora molte fan-
ciulle, mise la pace fra molte pareti domestiche, confortò molti pri^
gionieri di Stato, e fu cagione soltanto di una mezza rivoluzione
nel seminario di Milano, ove i giovani chierici s' erano sollevati
contro il loro rettore che avea loro negata la lettura deW'Edme-
ìiegarda, onde fu mestieri aver ricorso per la licenza all'autorità
sovrana dell' arcivescovo di Gaisruk. (1) Nella prefazione che un
M'usciano allor nel delirante affetto
Disperate parole, empi pensieri :
E in quel cieco insanir dell'intelletto.
Unico e pio consolator tu m'eii.
(1) La sua prima vita poetica il Prati descrisse vivacemente nel com-
ponimento La mia cronaca di Poeta, ov'egli ci fa sapere che il Man:^oni,
il Torti, il Grossi furono padrini dell' Edmenegarda:
Senza sentir più redine,
Senza voler più freno
Corsi a Milan col rotolo
Di Edmenegarda in seno,
E a ricercar mi mossi
Manzoni, il Torti, il Grossi,
E assunto al tabernacolo
. Fissai la trinità.
Ed ella austera e candida
Come le sante cose,
Al novo catecumeno
Covò le prime rose.
— 438 —
valente critico scrisse all' edizione milanese delle Opere edite' ed
inedite di Giovanni Prati (1) leggo quanto segue: « Quando uscì
r Edmenegarda, sgorgata, direi cosi, più dal cuore degli amanti
che dal labbro del poeta, il Correnti, che s' infervora facilmente
alle parvenze del bello, scontratosi nel Tenca, giovine allora come
il Prati, gli disse Hàbemus pontiflcem; al che il Tenca, meno
impressionabile e già scrutante le ragioni dell'ammirazione este-
tica, rispose: Neppur per ombra. E in un giornale di mode egli
si mise a notomizzare la passione o la poesia che più rifuggono
dal coltello. Ebbe lode l'ardimento del giovine che si attraversava
alle fughe del buon gusto come quel general romano col suo
corpo disteso a terra al fuggire de' suoi soldati. E di qua il Tenca
continuò la guerra contro un poeta adorato dal flore della gio-
ventù italiana, e non sappiamo che fosse da ammirare maggioi'-
mente in lui, o l'acume di certe sue censure parziali, o la sua
impenetrabilità alle lusinghe di un verso che rompe tutte le
consegne dei critici, ed entra nel cuore. Il Tenca, sì onesto, in-
gegnoso, ed acuto, era come un disamorato che non intende o
ride le follie d'un cuore preso. »
h'Edmenegay^da fu il passaporto di Giovanni Prati quando egli
si recò a Milano e di là in line, per porvi stabile dimora, a Tori-
no. Gli anni che corsero fra il 1840 e il 1848 furono i più ope-
rosi della vita poetica del Prati. I suoi versi più popolari son di
quegli anni: I Canti Lirici, i Canti per il Popolo, Le Ballate,
le Memorie e Lacrime, i Nuovi Canti, le Passeggiate Solita-
rie, parecchi de' Canti politici, oltre alle Lettere a Maria in prosa.
Il poeta che i giovani hanno amato e quasi idolatrato è quasi tutto
in quei versi. Dopo il 1848, mescolatasi forse troppo nel giuoco la
politica, e voltosi il Prati a nuovi generi di poesia, de'quali danno
saggio il Conte Riga, il Rodolfo, VAriberto, l'Armando, divenne
Al Manzoni splendore del canto italiano, il Prati dedicava nell'ago-
sto 1849 da Torino la sua stupenda ode di sapore manzoniano in morte
di Carlo Alberto. « A Lei, venerato signor Manzoni, soggiungeva il
Prati, maestro solenne d'ogni concetto e forma di bellezza, e degno, tra
pochissimi, di consegnar alla posterità le glorie e le sventure d'Italia,
debb'essere raccomandata la tomba del Monarca. Io non vi ho deposto
che un fiore; ma la corona insigne debb'essere tessuta da lei. Tocca
alla musa ilei Cinrpu' Maggio di assidersi su quella lapide, e interro-
garla e scolpirne i responsi ».
(1) Milano, Gui^;oai, 1X6:2-1865, in cinque voi.
— 439 —
di moda il discuterlo, per conciiiudere solennemente: « Prati non
è più quello. Esso ci prometteva altro. La sua primavera non
ebbe estate » Ma diflldiamo un poco di tali critici; essi son forse
gli stessi che non hanno mai voluto riconoscere al Prati un sin-
golare valore poetico; sono gli stessi che l'hanno costantemente
predicato corruttore del buon gusto, per questo solo che egli
ha avuto il torto di mancar loro di rispetto, mostrandosi,
più che una volta, poeta originale. Al qual proposito si narra
una storiella graziosa. I critici classicofanti badavano a rac-
comandare al Prati di mettersi sulla buona via, di studiare i
classici, di seguirne le orme infallibili. Il Prati che aveva ap-
presa la lezione a memoria volle mettere alla prova la penetra-
zione de'suoi Mevii; e trasse fuori alcune sue poesie di sapore
classicissimo, assumendo il nome di Aulo Rufo. Allora i critici a
gridare eh' era nato il nuovo papa, e che il Prati poteva andarsi
a nascondere; si pensi com' essi rimanessero, quando si seppe che
Aulo Rufo era il Prati in persona. Ma le migliori nerbate se
1' ebbero i critici maledici dal Prati .nel prologo e nella licenza
del suo poemetto: Satana e Le Grazie, ove si spiega la più
maschia vigoria di linguaggio, di che il Prati abbia mai fatto
mostra, ed ove le muse dì Pindaro, d' Archiloco e di Byron, a
volta a volta, spiccano il volo, saettano, imprecano. Fra il 1848 e
il 1861. seguirono due libretti d'opera. La Marescialla d' Ancre
e La Vergine di Kent, il citato Satana e Le Grazie, il Conte di
Riga, il Vade Mecum degli italiani, Le Nuove Poesie, il Ro-
dolfo, VAriberto, nuovi Canti politici; e le nozze del poeta con la
egregia signora Lucia Arnaudon. Fra il 1861 e l'anno presente
uscivano / due sogni, due peregrinazioni fantastiche nel mondo
classico di Grecia e di Roma, che parvero uno zuccherino al lab-
bro buongustaio di Terenzio Mamiani, V Atvnando, alcuni sparsi
canti Lirici, e parecchi sonetti d'una nuova raccolta che il
Prati prepara sotto il titolo : Anima e mondo. Il Prati fu sul
fine dall'anno 18G1, per una sessione legislativa, eletto deputato
in Parlamento da un collegio politico del napoletano; è commen-
datore dì non so più quale tra i due ordini cavallereschi ita-
liani, ma forse d'entrambi, ed è membro del Consiglio Superiore
del Ministero di pubblica istruzione. Vive ora in Roma, solitario
in mezzo alla folla, silenzioso fra il tumulto, intento, ora a segui-
tare la sua nuova versione dell' Eneide, della quale diede saggi
mirabili, ora a cogliere nuove impressioni dal mondo esteriore
per foggiarle e colorirle in sonetti ciascuno de'quali riesce un qua-
— uo —
dretto animato ed eloquente. Odia e fugge il volgo profano; ma
in tal volgo gli accade spesso, nella sua trascuranza sdegnosa, di
confondere molti che non son volgo, verso i quali un contegno più
riguardoso e una maggiore urbanità non gli nuocerebbe punto;
ma egli è, pur troppo, incurante del proprio danno; e quando il
danno gli arriva, aduna i nembi, scatena i fumini, tona, e, in
questo spasso olimpico, stimandoci abbastanza vendicato scote
l'ampie spalle, acqueta il furore tremendo, e torna sereno come
un fanciullo al riso giocondo e a sussurrar, com' egli un giorno
ha cantato, tra le venerande cuffie delle nonne addormentate,
maliziose parolette nell'orecchio delle deste nipoti.
XXXI.
ARNALDO FUSINATO.
Quello che furono nel secol nostro, Giuseppe Giusti e Antonio
Guadagnoli per la Toscana, Gioacchino Belli per Roma, Angelo
Brofferio e Norberto Rosa per il Piemonte, Carlo Porta e il dottor
Giovanni Raiberti per la Lombardia, scrittori, tuttavia, di merito
assai diverso e da non collocarsi certamente in uno stesso ordine
altrimenti che per avere trattato tutti in una forma popolare la
satira, fu pel Veneto il Fusinato, di cui poco a' di nostri s' ode
più discorrere in Italia, sia perchè 1' attenzione del pubblico
è volta ora ad altro che a ricordare i nostri vecchi poeti
precursori, sia perchè veramente da troppi anni il Fusinato s'è
chiuso in un silenzio cosi profondo, che lo fece presso di molti
ritenere per morto, sia perchè un sentimento cavalleresco lo fa
abbastanza lieto de' trionfi poetici della beila Musa che da 17 anni
egli associò al proprio destino, per ambirne ancora de'propri; ma
di cui, fra gli anni 1843 e i864, nessun poeta fu più popolare
e più accetto nel Veneto, e la cui poesia è veramente caratteri-
stica.
Di padre avvocato oriundo bellunese nacque Arnaldo Fusinato
a Schio nel Vicentino, nel dicembre dell'anno 1817. L'umile Schio
che i fratelli Pasini, Alessandro Rossi ed il Fusinato hanno quindi
illustrata era sul principio di questo secolo intieramente priva di
scuole; cosicché a procacciare al piccolo Arnaldo settenne anco
— 442 —
la prima istruzione, dovette il padre collocarlo nel collegio Cor-
dellina di Vicenza, ove il fanciullo percorse non pur le ginna-
siali, ma le stesse classi elementari. Egli era un folletto, e fu tra i
più indisciplinati del collegio, ma come appena, sotto la disciplina di
due preti liberali, due uomini valenti,, Paolo Mistrorigo traduttore
d'Orazio, e Giuseppe Capparozzo poeta poco o punto noto fuori
del Veneto, ma nel Veneto assai pregiato e carissimo, fra gli
altri, a Luigi Carrer, egli potè accostarsi alle fonti della poesia,
e intendere le bellezze de' poeti, dagli antichi classici fino ai canti
patriottici ed appassionati di Giovanni Berchet, una parte della
tempesta che gli bolliva nell'animo irrequieto si sfogò provvida-
mente sopra i carrai. La febbre febea invase Arnaldo Fusinato
fin dall'età di dieci anni; ma, per tacere di un grave componimento
scolastico in sesta rima consumato sopra La morte dì Archimede,
egli non sali mai su'tripodi e si contentò di rimare alla buona i suoi
pensieri più capricciosi, per isfogo del proprio naturale da prima, e
poi, anche, quando egli potè avvedersi che essi confacevano pure al
naturale degli altri, pel sacro amor delia gloria; e, infine, per
volgere lo scherzo, che aveva fatto fortuna, in popolare ed intrepida
arma di guerra. Dal collegio Cordellina i versi meglio inspirati
alla musa del Fusinato furono certe epistole o capitoli che nomar
si vogliano, ch'egli indirizzava al padre, ogniqualvolta trovavasi
corto a quattrini ; il padre, che compiacevasi grandemente negli
scherzi poetici del suo Arnaldo, rado gli rifiutava la mercede del-
l'opera. Cosi avvenn'ì che il Fusinato sin da principio abbia in-
cominciato a cavare alcun profitto materiale da' suoi versi ; e,
appreso il modo, abbia quindi sempre cantato liberamente, ma
stampato, mercede pacta; cosi che egli sia ora uno de' pochissimi
poeti italiani il quale possa menare il raro vanto di aver co'suoi
soli versi guadagnato tanto da poter con quel solo guadagno, se
la sorte gli avesse negato quell'altre fortune che invece liberal-
mente gli arrecò, non già vivere con lautezza ma campare discre-
tamente. Che, per tacere del modo profumato con cui il bravo e
compianto Guglielmo Stefani, soleva nel Caffé Pedrocchi, remu-
nerare l'opera del Fusinato che gli apprestava poesie giocose (col
guadagno fatto per la pubblicazione del noto poemetto Lo studente,
il Fusinato potè, nel 1847, assistere in Venezia al Congresso degli
Scienziati, e far quindi un bel viaggetto in Germania), io mi con-
tenterò accennare come l'edizione di lusso delle poesie del Fusi-
nato uscita negli anni 1853-54, a Venezia coi tipi di Giovanni
Cecchini, illustrata da Osvaldo Monti, pubblicata a spese dello
— 443 -
stesso Fusinato, gii abbia fruttato un utile netto di oltre trenta
mila lire austriache (1).
Fu vera gloria? Io non so quello che ne diranno i posteri. Ma
questo intanto possiamo dir noi: che un simile trionfo è la
misura non fallace della popolarità di cui godette nel Veneto il
Fusinato. popolarità che non ebbe soltanto una singolare impor-
tanza per la nostra storia letteraria, ma che deve pure averne
una considerevole per la storia politica, se si pensi alle idee sov-
versive che le poesie di Arnaldo Fusinato hanno divulgato nel
Veneto, specialmente fra il 1847 e il 1864, anno in cui egli ab-
bandonava con la sua famiglia il Veneto, riparava a Firenze e
cessava quasi intieramente di scrivere, per attendervi alle sue
cure domestiche ed alla costruzione del Teatro delle Loggie sopra
le antiche Loggie del Grano e di una palazzina lungo il Mu-
gnone. Gli ultimi suoi versi son dell'anno 1865, ne' quali, per
illustrare un quadro plastico rappresentante Goldoni che parte
per la Francia, si termina patriotticamente col dare il buon viaggio
ai tedeschi che devono partire da Venezia e con l'invocare sulla
scena la tunica rossa del vecchio impresario.
Ma per tornare alla giovinezza di lui, compiute le classi del
ginnasio in Vicenza, il Fusinato passò per le classi liceali al Col-
legio de' Nobili annesso al Seminario Vescovile in Padova, ove
continuò ad erudirlo nelle lettere il Trivellato, distinto cultore
delle latine eleganze, traduttore in latino delle Anacreontiche del
Vittorelli. Entrò nell' Università di Padova per lo studio della
legge, l'anno seguente a quello in cui il Prati n'era uscito dot-
tore. Tra i suoi condiscepoli nell' Università si distinguevano, fra
gli altri, Guglielmo Stefani, Casimiro Varese traduttore àeWKleo-
nora di Biirger, Vittorio Merighi traduttore, s'io ben rammento,
di alcune poesie di Chatterton, Antonio Berti, Pietro Pedrazza,
Leonzio Sartori, Giuseppe Carraro. Quel ch'ei facesse all' Univer-
(1) Nel 1859, in Milano, non appena sgombrala dagli austriaci, si
stampò una contrafrazione, con la finta data di Lugano, che inondò
tutta l'Italia, per la modicità del prezzo a cui era venduta, ('on tutto
ciò, nel 1864, il tipografo Cecchini fece una ristampa di lusso con l'ag-
giunta di nuove poesie; e questa pure fu contraffatta a Milano. Final-
mente, l'editore milanese Paolo Carrara pubblicò nel 1868 in tipi decenti
l'ultima edizione, alla quale nel 1871 s'aggiunse coi medesimi tipi il vo-
lume delle Poesie politiche.
— 'ili —
sita, iì Fusinato, su per giù, ce Io ha descritto nel suo poemetto
Lo Studente; ma vi attese pur tanto agli studii da potere
superar sempre le prove degli esami ed inOne addottorarsi an-
ch'esso, e tornare a Schio, presso il padre per la pratica dell'av-
vocatura. Se non che il codice invece di estri causidici gli inspi-
rava, per reazione, estri poetici; ed egli fini per liberamente se-
condarli. Uscito anch'esso dall'Università, lo Stefani avea fondato
in Padova il suo Caffè PedroccM, giornale letterario che fece
per parecchi anni fortuna, servendo di focolare al fiore de' gio-
vani scrittori lombardo-veneti. Vi pigliavano parte, tra gli altri,
come poeti, Andrea Cittadella Vigodarzere, Giovanni Prati, Aleardo
Aleardi, Antonio Gazzoletti, Teobaldo Ciconi ; la stessa compagnia
recavasi in estate ai bagni di Recoaro, convertiti in una specie
di Accademia letteraria, con intervento di vaghe donnine, alle
quali si chiedevano sorrisi e si dicevano versi. Alfine anco il Fu-
sinato entrò nella gloriosa e vivace brigata. Il Cittadella avea
pubblicato nel Caffè Pedrocchi una poesia giocosa che faceva la
caricatura del bellimbusto sotto il titolo II leone himane. Quei
versi aveano fatto fortuna; tra gii altri, li avea pur letti il Fu-
sinato, e, a sua volta, trovati graziosissimi ; gii parve nondimeno
la caricatura fosse sbagliata e si pose egli stesso all'opera per ri ■
tentare quel soggetto medesimo; mandò pertanto al Prati la sua
Fisiologia del lion, che il Prati fece tosto pubblicare nel Caffè
Pedrocchi; quel primo saggio destò rumore (1). Anche a Milano
si lessero con molta curiosità que'versi, e Cesare Cantù che cre-
deva pseudonimo il nome di- Fusinato ne scrisse tosto allo Ste-
fani, per dirgli quanto si fossero gustati in Milano e per cono-
scere il vero nome dell' autore. Seguirono nello stesso genere
// Medico condotto, L'Occhiaia ai paesi piccoli. La Donna ro-
mantica, infine Lo studente di Padova, I tre ritraiti, ed altre
somiglianti fisiologie poetiche, le quali appena uscite nel Veneto
si ristampavano negli altri giornali letterarii italiani, ed a Vienna
nel Poligrafo italiano diretto dal signor Rosenthal, allora non
ancora affetto di rosentalografìte. Per merito di quelle ristampe,
la notorietà del giovine Guadagnoli veneto fu in breve grandis-
(i) Alcune delle date che si trovaao indicate a pie di pagina nella
edizione del Carrara sono sbagliate. Parecchie poesìe riferitevi all'anno
1846 risalgono invece a qualche anno innanzi. Cosi la. Fisiologìa del Lion
figura dopo parecchie altre poesie alle quali è invece andata innanzi.
— 445 —
sima anche fuori del Veneto^ Cosi che, quando egli nel 1847
giunse a Vienna per suo diporto, parecchi giornali si affrettarono
ad annunziarne in termini solenni l'arrivo, e parecchie famiglie
desiderarono l'onore di riceverlo. Egli passava invece i suoi giorni
in allegre brigate d'amici, fra i quali il Conte Zannetelli di Fel-
tre, guardia nobile italiana nella corte imperiale, lo stesso che
dovea poi, servendo come capitano nell'esercito italiano, fatto pri-
gioniero de'briganti nell'Italia meridionale, esser lacerato misera-
mente in pezzi. Nella guardia nobile italiana e nella ungherese
bollivano allora già sentimenti rivoluzionarii ; venuto fra loro il
Fusinato, e invitato a banchetto, 1 giovani ufficiali gli fecero pre-
mura perchè scrivesse versi ; egli compose un canto patriottico
ardentissimo, con cui s'invitavano gli italiani di Vienna a giurare
ch'essi avrebbero, primi, gridato l'allarme nel giorno imminente
della riscossa; i giovani veneti ed ungheresi sguainarono le loro
sciabole e giurarono; ma una spia era in mezzo a loro; il gene-
rale Ceccopieri comandante la guardia nobile, inteso lo scandalo,
non si contenne; la polizia si pose sulle traccie del Fusinato, il
quale, avvertito in tutta segretezza dal Zannetelli aveva avuto il
tempo di riparare frettolosamente alla sua città nativa. Poco dopo
il suo arrivo il Commissario distrettuale di polizia, un buon dia-
volaccio che, in fondo gli voleva bene, lo fa chiamare ; si mette
sul serio, e gli domanda ov'ei sia stato e che abbia fatto a Vienna.
Il Fusinato dice ogni cosa, ma tace naturalmente delia-scena presso
la Guardia nobile. Allora il Commissario gli dice quel ch'ei ne sa, e
come la polizia lo faccia richiedere, e come sarebbe in potere di lui
Commissario il perderlo: fortunatamente la polizia invece di iioela
Fusinato a Schio aveva scritto, per isbaglio poeta Fioravanti ;
ora esisteva veramente un Carlo Fioravanti, medico condotto
presso Schio, e poeta anch'esso, ma di cui il Commissario avrebbe
potuto in tutta coscienza assicurare che non era mai stato a
Vienna. Così la burrasca fu rimossa dal capo del Fusinato; che
quando la polizia viennese s'accorse dell'equivoco e tornò a seri-"
vere perchè il vero e proprio autore dello scandalo fosse arre-
stato, Arnaldo Fusinato era fuori di Schio con suo fratello Cle-
mente, alla testa di un battaglione di volontarii da loro raccolti,
e che fece bravamente il suo dovere a Montebello e poi a Vi-
cenza, nella stessa giornata in cui venne ferito presso la casa
Guiccioli Massimo d'Azeglio, che cadde assai presso al luogo in cui
combattevano i due fratelli Fusinato. Ferito pure il fratello Cle-
mente, Arnaldo lo accompagnava a Ferrara, e di là a Milano,
— 4iG -
Pavia, Genova, per ritornai- quindi per la via di mare alla difesa
di Venezia bloccata e servire come ufficiale tra i cacciatori delle
Alpi, comandati da quel Pietro Calvi che cadeva poi giustiziato a
Mantova. Durante l'assedio, nel febbraio 1840, era venuto a rag-
giungere Arnaldo Fusinato, una bella e distinta signora, la con-
tessa Anna Colonna di Castelfranco, la quale s'era innamorata di
lui « come donna, per fama, s'innamora » e sposatasi in quel mese
stesso, lo avea seguito in mezzo a tutti i pericoli e travagli del-
l'Assedio anco quando ei stava di guardia all'isola del Lazzaretto
vecchio; dal qual luogo, la vigilia della capitolazione, il 19 agosto
I849, il Fusinato mandava a Venezia uno de'suoi più bei canti,
con cui si dipinge al vivo il dolore e la disperazione della caduta
di Venezia, ardente di libertà, e oppressa dalla peste e dalla fame :
Ma il morbo infuria »
Ma il pan le manca.
' . Sul ponte sventola
Bandiera bianca !
In quella vita disastrosa ebbe principio la malattia che, due
anni dì poi, dovea trascinargli al sepolcro la giovine sposa, in
Castelfranco, dove Arnald ) Fusinato, caduta Venezia, e proclamata
l'amnistia, aveva intanto fermata la sua dimora. E di là incominciò
egli a preparare la seconda riscossa, sia coi versi comunicati ai
giornali : Il Vulcano e il Quel die si vede e quel che non si vede
di Venezia, il Pungolo, il Panorama e L'Uomo di Pietra Ai Mi-
lano, ove, affettando ipocrita resipiscenza, e pigliando nome ora
di Fra Fusina, ora di Don Fuso, trovò modo di far passare e
divulgare nel Lombardo- Veneto satire acerbissime contro il go-
verno. Nel tempo stesso ei volse pure la mente a comporre altre
poesie di genere romantico popolare, ballate nella massima parte,
le quali per l'affetto che spirano, pel modo drammatico con cui
sfogano l'affetto divennero care specialmente alle donne italiane,
che le declamarono quindi spesso ne'teatri, nelle accademie, nei col-
legii, e, intese declamare, le hanno poi sempre vivamente applaudite.
E una di .esse donne, innamoratasi finalmente nel Fusinato, com'egli
in essa, acconsentiva non pure ad unire il proprio destino a quello
del vedovo poeta, ma ad abbandonare per esso la religione de' suoi
padri. Erminia Fuà, una bellissima giovinetta israelita, già nota per
versi pieni di grazia e di vigore, ora tra le prime poetesse d'Italia,
lo attraeva a sé col fascino della bellezza e dell'ingegno, e gli di-
— 447 —
veniva dall'anno 1856 in poi compagna operosa e intelligente nella
vita, e cospiratrice accorta per la libertà della patria. Dal loro
rifugio di Castelfranco i Fusinato hanno tessuto molte fila di quella
tela che dovea preparare il risveglio dell'Italia superiore innanzi
all'anno 1859 e finalmente la liberazione del Veneto. Nel 1861,
Arnaldo Fusinato recavasi a conferire col generale Garibaldi a
Trescorre, per disconsigliarlo dalla spedizione di Sarnico; nel 1863,
in gran secretezza, alla reggia di Torino, per conferire con un
altissimo personaggio, a cui avevano fatto intravedere possibile
la liberazione del Veneto con l'aiuto di una insurrezione interna.
Nella mente del personaggio altissimo sottentrarono presto altri
pensieri, e ai Veneti non rimase altro che la breve gioia d'una
illusione, il più lungo dolore del disinganno, e delle nuove perse-
cuzioni, de' quali furono vittima alcuni de' Veneti più ardenti che
avevano creduto e sperato, e s'erano preparati ad insorgere; tra
i quali lo stesso fratello del Fusinato, che scontò col carcere la
sua impazienza. Tal parte ebbe la politica nella vita del nostro
poeta, il quale incominciò con l'essere gaio e fini col riuscir prode.
La sua poesia è facile e democratica, fatta per essere intesa da
tutti; giudicata col solo vaglio de' puristi, essa farebbe forse una
mediocre figura; ma il Fusinato non ha scritto per essi; quello
oh'ei volle dire l'ha detto; e quello ch'ei disse fu capito; ciò im-
portava; si rise quando ei volle far ridere; si pianse quando egli
volle intenerirci; lo scopo principale ch'ei s'era proposto fu rag-
giunto. Se i mezzi siano stati sempre tutti poetici sarebbe difficile
il dire, e inutile il ricercare; senza una letteratura disinvolta che
dica alla buona ed a tutti ciò che preme sia detto, non si prepara
nessuna insurrezione popolare; il Guadagnoli, a costo di riuscir
volgare, il Berchet, a costo di riuscire esagerato, avevano nello
stesso modo attratto a sé l'attenzione del popolo più che de' let-
terati.
XXXII.
PAOLO GIACOMETTI.
Il Revere fu di rado sulla breccia, ma le poche volte che vi
apparve si mostrò armato da capo a piedi col serio proposito e
con l'intima fiducia di vincere o almeno di meritar la vittoria.
Egli diede poche ma grandi battaglie; e ne ritornò con gli onori
del trionfo massimo, se non presso il facile e grosso pubblico , si-
curamente presso gli scarsi, difficili, gelosi, queruli buongustai. Un
prode guerriero che rimane invece da quasi sette lustri sulla
breccia, a dar minuta ma viva battaglia dalla scena è il Giaco-
raetti, di cui nessun poeta drammatico fu nel secolo nostro più
fecondo e, nella mirabile fecondità, più fedelmente stretto a' suoi
principii d'arte, in quanto l'arte sia strumento di patria civiltà.
Se un tale eccesso non tornasse anzi a tutto onore del Giacometti,
la critica potrebbe forse fargli carico d'avere in alcuno de' suoi
componimenti drammatici voluto dimostrar troppo l'intento mo-
rale delle sue tesi, usurpando alcuni degli ufiìcii più particolar-
mente proprii del trattatista. Ma il Giacometti stesso ha sempre
considerato il teatro come un mezzo civile ; però, ha egli scritto
nel suo proemio alla Morte oimle, (dramma il quale pur tenendo
dietro ad uno d'argomento consimile e non ispregevole di Gio-
vanni Sabbatini ha saputo dir cose nuove e con novissima efflca-
ciaj : f( Io sono d'avviso che le idee generose, comunque e dovun-
que esposte, possano dare qualche buon frutto e disporre, se non
altro, il terreno a ricevere l'altrui semente. P;!rmi, in oltre, che
sia debito d'ogni uomo onesto di difendere con tutte quelle armi
che sono in suo potere, la causa dell'umanità e di combattere ogni
— .i49 —
specie di oppressione » (1). Incominciò nel 1841 con la commedia.
Il Poeta e la Ballerina a svegliare l'Italia che versava oro sulle
ballerine corrutrici , V Italia d'eroi già madre, ora de'mimi come
grida in un suo sonetto improvvisato uno de' personaggi; nel
1845, con Le tre classi della società, il Giacometti vuol dimo-
strare le ragioni che tengono divisi i tre ceti sociali , e con-
chiude con queste parole: « Persuadiamoci che non è già il lusso
eccessivo e demoralizzatore quello che possa effettuare i disegni
della provvidenza nel ravvicinamento delle classi, ma lo possono
solamente l'amore, l'umanità, il benefizio ed un fermo proposito di
concorrere tutti a rendere prosperosa e grande la famiglia italia-
na. » Tutto ciò poteva, senza dubbio, esser detto con più elegante
vivacità, ma non al certo, con migliori intendimenti. Nel 1848, col
dramma Siam tutti fratelli, l'autore ritorna sulla tesi della com-
media precedente; un marchese Ippolito finisce con lo sposarvi
una popolana, dicendo : « I pregiudizii, le catene non esistono più
per me l io le infrango, le voglio infrangere. » Le Metamorfosi
politicJìe, dell'anno 1849, s' informano allo stesso concetto demo-
cratico e mettono in ridicolo i Gingillini del tempo. Nel 1850, Il
Fisionomista combatte un pregiudizio volgare a cui il Lavater
serve di pretesto e smaschera una nuova forma di Tartufi ; la
Donna nel 1850, rivendica la dignità del sesso debole ; la Donna
in seconde nozze nel 1851 (con queste due commedie, che sono
anche le meglio scritte, il Giacometti ha dotato il nostro teatro di
due veri capolavori), mostra i gravi danni che arrecano per lo più
nelle famiglie le seconde nozze quando s'hanno figli delle pri-
me; nello stesso anno, il dramma Dìclinazioni e voti rivela, i mali
che reca seco il celibato ecclesiastico (2); e il dramma II Milio-
nario e l'Artista mostra i vantaggi che può aver l'ingegno sopra
la ricchezza; nel 1852, la Corilla Olimpica rileva ì pericoli ai
quali vanno incontro le donne che fanno troppo parlare di sé,
mentre con la Moglie dell'Esule si glorifica la virtù della donna
(1) Nel proemio alla Donna, il Giacometti aveva già risposto ad un
simile appunto, con le parole di uno dei suoi personaggi: «Hai ragione;
chi come te ò così innanzi nella strada del vizio deve chiamare omelie,
e peggio ancora le parole dell'uomo onesto. >>
(2) Il Brofferio scrivendone nella Voce del deserto diceva: « Giaco-
metti con questo suo dramma poetico ed incisivo ha lanciato un guanto
di sfida al Concilio di Trento. »
Ricordi Biografici 29
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che nel silenzio opera il bene; la Trovatella di Santa Maria nel
1853 e La colpa vendica la colpa nel 1854 riescono, con diversa
conclusione, alla condanna degli amori illegittimi; nel 1861, la
Morte civile richiama la pietà pubblica sulla famiglia del condan-
nato, verso la quale la legge è così ingiusta; nel 1862, L'indo-
mani dell'ubbriaco inaugura felicemente quella serie di commedie
popolari nelle quali si è quindi fatto valere particolarmente in
Italia, con la Quaderna di Nanni, il Capitale e la Mano d'opera
e di recente l'AWici (scritto quest'ultimo in società con suo fra-
tello Quintino), il signor Valentino Carré ra; nel 1863, la Luigia
Sanfelice si propone di fare esecrare la dinastia borbonica a quella
parte ingannata del popolo napoletano che ancora la rimpiange.
Tutti questi lavori drammatici ebbero un determinato scopo mo-
rale ; ma puossi aggiungere come in tutti gli altri componimenti
assai più numerosi del Giacometti, oltre all'ingegno, si rivela
sempre il cuore del poeta, innamorato del bene. Egli non tralasciò
alcuna occasione per lanciar dalla scena alcuna protesta contro
il vizio 0 per inneggiare alla virtù, sia ch'ei magnifichi il genio
col Sofocle (la migliore delle sue tragedie;, col Torquato Tasso
0 con la Lucrezia Davidson , (stupenda scena drammatica , cui
manca solo in Italia l' attrice vaga d' idealità che sappia de-
gnamente rappresentarla), sia che, con la profetica Giuditta
scritta nel 1858 rappresenti la festa d' un popolo che si riven-
dica in libertà, sia finalmente che con la Elisabetta d'Lighilterra
l'autore si compiaccia nello scolpirci un grande carattere di prin-
cipe, e vi riesca mirabilmente. Il Giacometti è uno de' pochi poeti
drammatici italiani che sian dotati del potere d' accendersi poe-
ticamente fino all'entusiasmo; questa facoltà rende talora sover-
chiamente liriche le sue scene drammatiche, come tal altra volta
la schietta bontà dell' autore è'ii fa vagheggiare alcune scene
che peccano alquanto d' ingenuità ; ma , al tempo stesso , cono-
scendo il Giacometti perfettamente la macchina scenica, ei sa in-
trodurre tali scene in luogo e momento cosi opportuno che, rap-
presentate , riescono al loro effetto desiderato , se anche , lette ,
possano alcuna volta apparire un poco stonate.
Nacque Paolo Giacometti il 19 marzo 1816 a Novi Ligure, ove
il padre di lui Francesco Maria risiedeva in qualità di senatore,
reggente il consiglio di giustizia. Perduto neh' inftxnzia il padre ,
la vedova madre (Maria Nicoletta, figlia del chiaro giurecon-
sulto Paolo Costa , già capo del Direttorio , da non confondersi
naturalmente col romagnolo letterato dello stesso nome) si tra-
- 151 —
sieri coi cinque orfani figli alla villa paterna nel piccolo villaggio
detto Starla, lungo la Riviera di levante. Di là Paolo fu mandato
per lo studio delle umane lettere al Collegio Reale di Genova,
onde passò quindi all'Università per lo studio della legge. Ma la
poesia drammatica fin dal tempo in cui egli era ancora in Col-
legio lo attraeva fortemente a sé; ventenne, il 31 agosto 1836,
riportava in Genova un primo lieto successo drammatico con un
dramma in versi intitolato Rosilde. Da quel giorno, tutta la mente
del Giacometti fu rivolta alla scena, quantunque, per obbedienza
alla madre, egli continuasse a frequentare i corsi di legge. Ma in
breve fu costretto ad abbandonarli, per un grave disastro che subì
il piccolo patrimonio domestico. Vendutasi la villa paterna, la madre
del Giacometti avea dato a mutuo il danaro ricavatone presso un
certo canonico, che avea tenuto al sacro fonte il nostro Paolo.
Il canonico, ch'era dedito al vizio del giuoco, morì carico di de-
biti, e la famiglia del Giacometti si trovò per quella morte in
gravi strettezze. Fu risoluto che il giovine studente di legge, per
togliere più presto il peso di sé alla famiglia, rinunciasse alla
gloria del dottorato ed entrasse tosto nello studio d'un causidico;
con che voglia vi entrasse e vi facesse il suo tirocinio il nostro
gio^rine poeta pensi il lettore. Dopo il disastro nella fortuna una
più grave sventura domestica colpì il Giacometti; era già morto
l'unico suo fratello; due delle sue sorelle erano state collocate a
marito; altre due vivevano con parenti; la madre del nostro
poeta venne a morirgli tra le braccia. Dopo quella morte il Gia-
cometti senti dolorosamente la solitudine; l'arte sola lo consolò
In questo breve frattempo (fra il 1836 e il 1840) egli aveva in-
tanto già fatto rappresentare con molta fortuna quattro altre tra-
gedie: Luisa Strozzi, Paolo De Fornari, Godéberto re de' Lon-
gobardi, La famiglia Lercari. L'ultima di queste tragedie nella
quale, per la giacitura del verso, mi sembra ancora evidente l'i-
mitazione dell' Aristodemo del Monti, valse al Giacometti una let-
tera scrittagli il 20 giugno 1840 dal Niccolini, ove leggo: « Ho
esaminato il suo componimento, nel quale io trovo situazioni ed
effetti, copia d'immagini, insomma quello che mi piace in un ge-
nere di poesia, da cui ho sempre creduto che l'elemento lirico
non debba esser tolto, perchè nelle forti passioni vi ha mai sem-
pre poesia, di che sono esempio splendidissimo i Greci, e Shak-
speare e Schiller. Io non posso che bene augurarmi del suo no-
bile ingegno ». E pure di quel tempo un dramma in tre atti, in-
titolato: li Domenichino, il quale doveva [)0i offrir largo campo
— 452 —
d'ispirazioni e d'applausi a Luigi Taddei, al Ventura, a Gustavo
Modena^ a Luigi Domeniconi, e ad Alessandro Salvini, il valoroso
fratello di Tommaso. Seguiva quindi il trionfo del Pellegro Piala,
altro dramma pieno di passione e d'effetti scenici. Il giovine Gia-
cometti aveva oramai conquistato un posto onorevole fra i poeti
drammatici; ma. dato fondo agli ultimi poveri avanzi dell'eredità
domestica, egli incominciava in pari tempo a sentire il tormento
della povertà.
Le sue condizioni economiclie non rimasero ignote a S. E. l'o-
diatissimo governator Paolucci, il quale sperando, per tal modo,
allontanare dalla scena e dalle lettere uno scrittore ardito e pe-
ricoloso, pensò approfittarne, facendogli segretamente offerire l'im-
piego di segretario intimo di S. E. Il Giacometti, indovinando lo
scopo segreto di quell'offerta, fu pronto a ricusare, ed accettò
invece con trasporto l'offerta a que'tempi novissima che gli fece
l'eccellente compagnia dram-matica Giardini, WoUer e Belatti
di seguirla come poeta stipendiato della compagnia stessa con
l'obbligo di fornirle ogni anno cinque nuovi lavori drammatici.
Cosi visitò egli l'Italia, seguendo dapprima la compagnia a- Livorno,
quindi a Roma, ove sulle scene del teatro Metastasio il 23 no-
vembre 1841 apparve la prima volta la commedia II Poeta e la
Ballerina, che si ripetè per più sere in mezzo ad applausi frene-
tici, per far quindi il giro trionfale de' principali teatri della pe-.
nisola. Il Giacometti fu tuttavia allora accusato d'avere posta in
iscena la ballerina Cerrito, facendo pure una parodia del padre
di lei e d'avere raffigurato sé stesso nel poeta Leoni, accusa con-
tro la quale egli fa pronto a protestare allora, e protesta pure ■
nel proemio alla commedia stampata (1), al quale rinvio il lettore.
Seguivano, il dramma storico Cristoforo Colonibo, diviso in due
parti, (la prima rappresentata a Genova, la seconda a Ferrara) ;
la vivacissima commedia di tipo goldoniano: Quattro donne in
una casa, rappresentata la prima volta a Treviso, e che si con-
tinua tuttora a festeggiare dal pubblico, e Un poema ed una cam-
Male commedia rappresentata la prima volta a Bologna. Scaduto
il tempo del suo contratto con la compagnia Giardini, Woller e Be-
latti, il Giacometti impegnavasi, vantaggiate le proprie condizioni,
con la compagnia Domeniconi. Pel Domeniconi e per la Carolina
(1) V. Teatro scelto di Paolo Giacometti; Mantova 1859, Milano, San-
vito, 1859-1866.
— 453 —
Santoni, in voga allora di grandissima attrice, il Giacometti scrisse
la sua tragedia Isabella del Fiesco, che s'ebbe le più festose ac-
coglienze in Roma al teatro dell'Argentina, la sera del 23 maggio
1843. Dopo una notte di applausi e di lieti sogni. Paolo Giaco-
metti alzavasi allvalba per muovere all' ara nuziale ; un bel mat-
tino cui dovea quindi, per l'infedeltà della donna, seguire un
giorno tormentoso. In Firenze, il Giacometti visitò in quel-
r anno stesso il Niccolini ; ed in Torino conobbe il Paravia , il
Romani, il Bertolotti , il Brofferio , il Prati. Pel Doraeniconi,
il Giacometti scrisse ancora i seguenti lavori : Un testamento ,
FiescM e Fregasi, Per mìa madre cieca ; questo ultimo , rap-
presentato a Genova il 10 gennaio 1844, ei volle quindi dedi-
cato al suo amico il dott, David Chiossone , 1' autore della Suo-
natrice d'Arpa (al cui genere s'accosta anco questo lavoro del
Giacometti), che ne aveva scritto onorevolmente nel giornale ge-
novese L'Esperò. Terminato il suo contratto col Domeniconi,
con cui il Giacometti ebbe pure che dire intorno al falso modo
di recitazione che piaceva al capocomico, il nostro poeta rivolò
gioioso alla prime tende piìi popolari del Woller, del Giardini e
del Belatti che lo tennero nuovamente seco per un triennio (1845-
46-47) nel qual tempo il Giacometti scrisse dodici commedie; piac-
quero principalmente : Le tre classi della Società (Genova 2 set-
tembre 1845), Camilla Faà da Casale (Firenze, 29 ottobre 1846)
ripetuta quindi per 15 sere al teatro S. Benedetto di Venezia,
Carlo II Stuart (Verona 19 giugno 1847); meritano ancora di
venir citate: Paolo da Novi (Firenze 1845), La Benefattrice (Fi-
renze 1846), L'amico di tutu (Genova 1847), / misteri dei morti
Genova 1847). Domenico Righetti Analmente invitava il nostro
poeta a succedere ad Alberto Nota come poeta della Reale Com-
pagnia Sarda, lasciandogli facoltà di fermare la sede in quella
città che meglio gli piacesse ; il Giacometti elesse Firenze; inco-
minciò col Cola di Rienzo, tragedia che proibita a Torino (e pur
s'era nel 1848), fu invece permessa a Firenze, ove la rappresentò
con grande plauso la compagnia Internari e Colom berti al teatro
del Cocomero (ora Niccolini). La Compagnia Reale Sarda rappre-
sentò invece con lieta sorte II Patrim,omo dell'orfano, La Donna,
Il Fisionomista, e il Siaì7i tutti fratelli, che aveva poi, recitata a
Roma nel 1849 sotto la Repubblica, l'onore di venir replicata per
27 sere, e meritava che il papa Pio IX reduce da Gaeta, in
una sua enciclica, con sacro orrore, nominasse e scomunicasse
l'autore, reo d'avere introdotto sulla scena un gesuita scellerato
— 151 —
presso un buon curato di campagna. Ridottosi quindi il Giaco-
metti a Torino, otteneva di farvi rappresentare dalla Compagnia
Reale il Rienzi, e quindi La donna in seconde nozze. Corilla
(Jlimpica, Le metamorfosi politiche, Inclinazioni e voti, Gli edu-
catori del popolo, La moglie dell'esule, che troviamo, nella stampa,
dedicato alla sua seconda moglie Luisa nata Saglio, in cui Giaco-
metti vede ora riprodotto quel tipo perfettissimo di moglie che
egli aveva idealmente delineato nel 1852, egregia donna in cui
le qualità dell' animo e quelle dell'ingegno si trovano fra loro
in perfetta armonia per rendere beatamente operoso il vivere pre-
sente del nostro poeta.
Gravi dolori domestici lo costrinsero nel 1853 a lasciar Torino
ed impegnarsi a scrivere per la valente attrice Fanny Sadowski,
la quale fu prima a fare applaudire, rappresentandola il '-1 maggio
1853 al teatro Apollo di Venezia quella Elisabetta Regina d'In-
ghilterra, cui più tardi Adelaide Ristori dovea crescere nuovo
prestigio recandola trionfalmente sulle scene de'principali teatri
stranieri, non esclusi gli inglesi, ove l'opera del nostro concitta-
dino non solamente si applaudisce in italiano, ma si rappresenta
pure tradotta in inglese. (1) Seguirono quindi alcuni mesi di silen-
zio; il poeta era malato; un grave dramma domestico era arri-
vato alla sua catastrofe. Si rialzò, quantunque punto guarito, per
scrivere : La notte del Venerdì Santo (intitolato nella stampa La
trovatella di Saetta Maria) e La colpa vendica la colpa drammi
tetri e minacciosi, come lo stato dell'animo in cui si trovava in
quel tempo il Giacometti, il quale erasi intanto, sebbene infermo,
impegnato come poeta della compagnia di Giovanni Leigheb. Da
Treviso ove il 28 giugno 1854 erasi rappresentato il dramma La
colpa vendica la colpa, passava il Giacometti a Mantova che gli fa-
ceva le accoglienze più oneste, e visitava alla sfuggita quel Gaz-
zuolo, che dovea più tardi essere per lui luogo di pace, di riposo e
di nuove e sante affezioni domestiche. Quel poetico dramma elegiaco
ch'è la Lucrezia Davidson (la poetessa americana il cui meravi-
glioso cervello fu consunto dalla produzione eccessiva e precoce) fu
scritto a Brescia, dal letto, in m.eno di un mese, contro gli ordini del
medico che non voleva s'occupasse punto, ma per obbedire al capo-
(1) L'onore di venire tradotto in inglese, per cura della principessa
Della Rocca ebbe pure, di recente, il dramma di (liacometti La colpa
vendica la colpa.
- 455 -
comico che pagava e voleva essere servito esattamente; la sera del
13 dicembre 1854, la Lucrezia Davidson ottenne un completo trionfo
al Teatro Sociale di Brescia ; si ripetè quindi a Trieste per dodici
sere. Avendo disegnato di scrivere il Torquato Tasso (è interes-
sante il seguire in questi anni dolorosi della vita del Giacometti
la malinconica scelta de' suoi soggetti drammatici), e bisognando-
gli, in pari tempo, molta tranquillità, chiese ed ottenne dal capo-
comico la facoltà di ritrarsi a scrivere in Gazzuolo, ove ospita-
valo col figlioletto unica gioia rimastagli, (ch'egli dovea poi per-
dere ventunenne nel 1868 consunto da tisi), una famiglia cremonese
la famiglia dei Saglio, nella quale egli dovea poi trovare l'angelo
consolatore degli anni suoi cadenti. Il Tasso fu scritto come la
Davidson, per la massima parte, dal letto del poeta infermo; al
tempo fissato, ei l'ebbe pronto, e dovette^ richiedendolo il capoco-
mico, recarsi in persona a metterlo in scena a Mantova, nel cui
teatro Scientifico fu recitato nelle sere del 19 e 20 settembre 18ò5,
con molto plauso de' mantovani, e molto dispetto dell'I. R. Dele-
gato il quale urlava in tedesco « che non si sarebbe dovuto per-
mettere un dramma nel quale il signor Giacometti parlava d'Italia
e di libertà. » In seguito il Tasso trionfò sui maggiori teatri, per
opera, principalmente, di Ernesto Rossi e di Tommaso Salvini; a
Venezia poi, calata la tela del quart'atto, dove Eleonora muore, il
pubblico diede in tali scoppi d'applausi, che il Salvini e la Cazzola,
furono, per appagarlo, costretti a recitare una seconda volta da
capo r intiero atto. Il Torquato Tasso vinse poi il primo premio
al concorso governativo piemontese dell'anno 1857. E fu questo
l'ultimo lavoro scritto dal Giacometti pel capocomico Leigheb, da
cui si sciolse, per ordine de' medici, a fine di curare seriamente
in Gazzuolo la sua malferma salute. Il ritiro del Giacometti dalle
scene afflisse molti e si sparse pure la voce eh' egli era in fin di
vita e nella più squallida miseria; io era allora in Piemonte, e
mi ricordo essersi tal voce divulgata per modo ed aver preso tali
proporzioni da riassumersi finalmente in queste poche drammati-
che parole: Giacometti muore all'Ospedale. Erano menzogne
messe in giro da un iniquo speculatore, il quale volendo far suo
profitto delle simpatie che il pubblico italiano conservava pel Gia-
cometti, avea fatto stampare ne' giornali che l' autore del Tasso,
inferirlo, stremo di ogni soccorso, derelitto e poco meno che ma-
ribondo lottava colla miseria e col morbo nel meschino paese di
Gazzuolo. « Fu allora, scrive un gentile biografo inedito, che,
per ogni parte si aprirono sottoscrizioni e collette in prò dell'in-
— 456 —
fermo; fu allora che ogni giorno egli vedeva capitare al proprio
indirizzo somme di denaro, che egli si prendeva l'incomodo di
rimettere ai collettori, dichiarando, per farla finita, suU' Univer-
sale di Milano e sull'^lr^e di Firenze che « dignità e coscienza
non gli permetteva di accettarle, trovandosi egli ormai fermo in
salute e molto ben provveduto. » Ma le voci sparse e rapportate
dai giornali si diffusero ed ingrandirono a segno che Paolo ebbe
il conforto, concesso a pochissimi di leggere la sua necrologia, e
le iscrizioni dettate pe' suoi funerali, da un certo professore, uomo
assai ameno, il quale trovatolo poi vivo e sano, nientemeno che
ad un banchetto di nozze, fra i brindisi e gli evviva che si pro-
pinavano agli sposi, ebbe la bontà di leggere quelle sue epigrafi
che Paolo ascoltò assai volentieri col bicchiere alla mano. Della
quale avventura si fecero le più grasse risate. » Il Giacometti, il
7 maggio 1861, ossia, dieci anni dopo avere scritto la Donna in
seconde nozze, diveniva egli stesso sposo felice in seconde nozze
della signorina Luigia Saglio, nella famiglia della quale egli avea
trovata la più larga, provvida, cordiale ospitalità in Gazzuolo.
Col soggiorno definitivo in questa piccola terra del mantovano,
incomincia pel Giacometti un nuovo periodo di risurrezione fisica,
morale, intellettuale; gli è rinata la fede; gli é ritornato il corag-
gio ; la GiudUia scritta per Adelaide Ristori è il primo splendido
segno di questo risorgimento. Rappresentata la prima volta a Madrid
la sera del 10 ottobre 4857, poi nella primavera del 1858 a Parigi col
plauso universale della critica e del pubblico, scese nella primavera
del 1859 al teatro Carignano di Torino come un grido di guerra ;
io era presente a quella rappresentazione, e con me numerosi vo-
lontarii accorsi dalle vicine Provincie lombarde ed emiliane per
combattere la guerra dell'indipendenza; nel popolo d'Israele libe-
rato si riconobbe il popolo italiano ; l'entusiasmo degli spettatori
giunse al colmo. Anco la Giuditta riportava nel 1859 il primo
premio al concorso governativo piemontese. Seguivano con suc-
cesso trionfale, la Bianca Visconti (rappresentata la prima volta
il 21 gennaio 1860 dalla Ristori a Madrid), il Sofocle, il miglior
lavoro tragico di Giacometti, nel quale l'attore Salvini è stupendo,
la Morte Civile, dramma in cui Ernesto Rossi (al teatro di Fermo,
nel 1861) e Tommaso Salvini colsero molti applausi (il Salvini io
ripeteva al teatro Valle di Roma per ben 17 sere), L' indomani
dell'ubbriaco, commedia che al popolare teatro Gerbino di Torino
si ripetè per molte sere, e fu invece disapprovata da altri pub-
blici in guanti bianchi che si sentono nauseati ogniqualvolta l'at-
— 457 —
tore ha il cattivo gusto di travestirsi da popolano; V UUimo
dei Duchi di Mantova, dramma rappresentato la prima volta al
vecchio teatro Re di Milano il 28 settembre 1864 da Ernesto
Rossi ; la Luisa Sanfelice, Figlia e Madre, Le Storie intiìiie, la
Maria Antonietta , lavori scritti per la Ristori. Nel febbraio
del 1870 , la Maria Antonietta , rappresentata la prima volta
a Nuova York il 17 ottobre 1867, aveva già avuto 141 rap-
presentazioni, delle quali 62 nell'America del Nord, 15 nell'Ame-
rica del Sud, 7 in Olanda, 57 in Italia ; la Ristori incassò per
tali recite 898,627 lire ; se avesse dati i decimi d'uso all'autore, il
Giacometti potrebbe dirsi arricchito con la sola arte sua, col solo
frutto del suo ingegno; invece La Maria Antonietta h\ àÌYev ■
samente giudicata; parve a taluni critici una glorificazione della
monarchia; a difendere l'autore, sorse nella Gazzetta di Torino
del 1869 (4 aprile) il repubblicano dottor Timoteo Riboli, il me^
dico amico del generale Garibaldi. Il Michelangelo Buonarroti,
ultimo lavoro drammatico del Giacometti, affidato alle cure di
Tommaso Salvini, corona degnamente una carriera tutta gloriosa.
Rappresentato al vasto teatro affollato del Politeama in Firenze,
per parecchie sere, nello scorso giugno, fu bene accolto dal pub-
blico, che, riconoscendo in Michelangelo il grande artista e cit-
tadino casentinese, ammirò poi specialmente un dialogo difficilis-
simo fra Michelangelo e Vittoria Colonna, e la scena in cui
Michelangelo espone egli stesso il soggetto ed il senso delle sue
meravigliose statue di San Lorenzo.
Il Giacometti, oltre alle 76 produzioni drammatiche delle quali
egli è autore, compose pure gran numero di liriche fra le quali
citerò la Canzone alla Polonia, letta al meeting tenutosi nel
marzo 1863 a Casalmaggiore, presieduto dal Guerrazzi; il Cantico
di Sicilia dedicato al generale Garibaldi, che ricambiava nel 1862
a Parma il Giacometti, col dono del suo ritratto, recante la se-
guente iscrizione : al caro poeta della libertà italiana Paolo Gia-
cometti, G. Garibaldi; il Canto a Mantova libera, letto nel teatro
Andreani di quella città il 20 ottobre 4866, stampato da lui a
beneficio della Società operaia mantovana di mutuo soccorso,
della quale vuoisi considerar fondatore ; il Cantico d'Italia in Cam-
pidoglio (stampato molto scorrettamente nel fascicolo della Rivi-
sta italiana del 1871). Dettò pure alcune nobili prose , pei caduti
nella guerra di Lombardia (1.3 luglio 1859), in morte dell' inge-
gnere Attilio Mori, il nobile patriota mantovano (10 aprile 1864),
pei martiri di Belfiore (7 dicembre 1864), e tutte le appendici
— 458 —
letterarie critiche, umoristiche dell' intiero anno 18G7, scritte per
la Gazzetta di Mantova. Egli venne creato cavaliere de' Santi
Maurizio e Lazzaro sulla proposta del Cavour e del Maraiani; è
socio onorario di tutte le principali accademie filodrammatiche
italiane; quelle di Mantova ed una di Palermo s' intitolano dal
nome di lui. Il tramonto di una vita travagliatissima sorride al
generoso poeta, fiorito di vive, per quanto modeste consolazioni ;
sebbene egli abbia vissuto gran parte della vita fra il tumulto
della scena, egli fugge studiosamente ogni rumore; il suo tetto
domestico è divenuto il suo tempio; egli ha vissuto da sé tuttala
vita, conquistando palmo a palmo, col solo frutto del suo potente
e libero ingegno, una fama cospicua; e da sé vive ora in paci-
fico recesso, pago di un sorriso della sua dolce compagna, di una
carezza della sua figlioletta, del ricordo di un amico, delle proprie
reminiscenze artistiche e de' lieti augurii pel risorgimento di
quell'arte, alla quale egli diede in Italia, con l'opera sua calda
d'amor patrio, inspirata e civile, un im.pulso vigoroso.
XXXIII.
TOMMASO GHERARDI DEL TESTA.
Poiché ho discorso di uno tra i più illustri veterani del teatro
drammatico in Italia, mi giova proseguire col nome del più chiaro
fra i commediografi toscani, e, per la cara vivacità, amabile fre-
schezza, disinvolta naturalezza del dialogo, primo fra quanti nel
tempo nostro hanno rallegrato di sali comici la scena italiana.
Tommaso Gherardi del Testa è nato nel Pisano, studiò a Pisa,
visse molti anni a Firenze ove professò l'avvocatura, ove possiede
parecchi stabili ed ove servì pure, in anni memorabili, come uf-
ficiale della guardia nazionale ; ed ora egli ha per propria elezione,
e per le reminiscenze di una antica amicizia, dimora in una villa
del Pistoiese, la villa Sestini, che fu del celebre poeta Bartolomeo
Bestini ed ora è del Brunetti; a Pistoia una sorella di lui fu già
maritata al prof. Corsini. Questa triplice stanza eh' egli ebbe in
tre periodi diversi della sua vita in tre delle meglio parlanti pro-
vinole toscane, lo resero facilmente uno degli scrittori la cui lin-
gua comica senza avere le caricature di alcuna parlata ritiene
meglio della grazia e festività de' parlari toscani avendo al tempo
stesso dignità di lingua nazionale.
Nacque Tommaso Gherardi del Testa a Terricciuola piccola
villa dei colli pisani, ch'era di proprietà della sua famiglia, nel»
l'anno 1818. Dicono che fin dall'infanzia il nostro manifestasse
particolare attitudine alla drammatica, e che laureato a diciott'anni
in legge a Pisa e venuto a professare in Firenze, prediligesse le
cause criminali alle altre poiché esse, a detta dell'autore medesimo,
gli sembravano avere maggiormente del drammatico. Chi volesse in-
— 460 —
tanto sapere alcunché della vita universitaria del Gherardi potrebbe
ricavarne alcuna notizia probabile, quantunque indiretta, da un
romanzo poco noto fuor di Toscana, ma in Toscana tuttora assai
letto del Gherardi stesso, intitolato : Il figlio del bastardo ossia gli
amici di Università che, incominciato nel 1846 e pubblicato dap-
prima in una rivista fiorentina del ]8i7 e terminato nel ]848,
mentre il Gherardi del Testa stava sui campi di battaglia in Lom-
bardia, si pubblicò quindi in due volumi a Firenze dal tipografo
Mariani. Dovette al certo essere vita assai gaia; e l'agiata for-
tuna di cui il Gherardi ha poi sempre goduto gli permise pure
il lusso di vivere a modo suo, con piena libertà e disinvoltura, e di
trarne profitto per metterne pur molta, forse talora anche troppa,
nelle sue opere d' arte, molte delle quali se manifestano pur sem-
pre un fare scioltissimo, non si ricusano poi talora certe licenze
che in una società più distinta, ov' egli avesse amato frequentarla,
0 farne maggiore stima, avrebbe riconosciute meno conformi a
quel buon gusto del quale il Gherardi stesso diede come scrittore
alcuni saggi squisiti. Che, troppe donnine de' suoi racconti e delle
sue commedie parlano e intendono con facilità eccessiva la lingua
parlata da certe mezze signore fiorentine, pisane e pistoiesi;, ta-
luna delle sue dame, anche quando regna, come Adelaide, si espri-
me con una famigliarità che starà forse bene sulla bocca d' una
allegra borghesina, ma che non ci può sicuramente dare un' idea
superlativamente favorevole di una squisita gentildonna. Cosi
nelle Scimmie quella contessa Elisa, il personaggio più ideale
del componimento, che dà schiaffi alla sua cameriera non mi
sembra molto più distinta della propria cameriera che inventa
storielle sul conto della sua padrona. Il proverbio trito e vol-
gare: Dimmi con chi pratichi e ti dirò chi sei, dovrebbe sovra
tutto valere per gli autori drammatici, e, se ne' nostri vi è, per
lo più, molta volgarità di linguaggio con tanta vana pretesa di
signoria, la colpa vuol darsi particolarmente alla società che i
nostri signori autori frequentano. Il Gherardi non fu intiera-
mente immune dal vizio comune ; la sua commedia riproduce una
sola parte della società toscana nella sua vera e propria realtà, ma
non al certo la più attraente né la più comica. Vi abbiamo meno
donne che femminette, meno uomini che piccole macchinette le quali
si montano a ora fissa, e che lasciano spillare tanto spirito, quanto
importa l'ufficio provvisorio e meccanico che aflidò loro l'autore.
La prima commedia del Gherardi, Una folle ayvMzione, che
Adelaide Ristori, allora giovine attrice, contribuì molto a far
— 461 —
piacere, tentò le male lingue a novellare che essa era stata scritta
da altri. Non solo il Gherardi smenti tostO;, con altre commedie,
come Vanità e capriccio e Un viaggio per istruzione, quella poco
spiritosa invenzione; ma gli toccò poi niente meno che la sorte
di far passare come opera del Giusti le proprie satire: Il creatore
ed il suo Mondo e il Fallimento del Papa, nel tempo in cui le
poesie dell' Archiloco pesciatino giravano ancora manoscritte. Alla
prima commedia il fecondo commediografo pisano ne ha ora fatte
succedere altre quaranta all' incirca, delle quali alcune sono tuttora
molto applaudite, altre giunsero opportune a proclamare dalla
scena un'utile verità ch'era urgente il divulgare; tra quest'ulti-
me sono Le coscenze elastiche, coraggioso componimento per l'anno
in cui fu scritto, quando cioè, dopo l'annessione della Toscana al
Regno d'Italia, i vecchi paolotti e cortigiani e lacchè de' Lorenesi
si barcamenavano per carpire un impiego al governo nazionale.
Il Gherardi del Testa acquistò la sua prima fama con alcune lievi
commedie, ove dal sapore toscano del dialogo, e dal naturale svol
gimento di un semplicissimo intreccio in fuori, vi sono pochi al-
tri pregi a rilevare : tali furono II sistema di Giorgio, Il sistema
dì Lucrezia, Con gli uomini no7i si scherza. Il Padiglione delle
Mortelle e il Regno di Adelaide, per citare le più popolari e le
più finite (1). Della fama acquistata col gioviale ingegno si valse
(1) Il Teatro Comico dell'avvocato T. Gherardi del Testa fa pubbli-
cato dal Barbèra in Firenze fra l'anno 1856 e il 1872; esso comprende
flnquì i lavori seguenti : Con gli uomini non si scherza — Un viaggio
per istruzione — Il sistema di Giorgio — Il berretto bianco da notte —
L'anello della madre — Il sogno d'un brillante — Yanità e capriccio —
Un marito sospettoso — Il Regno d'Adelaide — Un' avventura ai ba-
gni — ' Gustavo III Re di Svezia — Amante e madre — Vendicarsi e
perdonare — L'eredità di un brillante — Il sistema di Lucrezia —
Armando ossia il canino della Cugina — Promettere e mantenere —
La perla dei mariti — La diplomazia nel matrimonio — Le due so-
relle — Manuela la zingara — Il matrimonio d'un morto — La Dama
e l'Artista — Un ballo in maschera — Le false letterate — Un brillante
in tragedia — > La mod>a e la famiglia — Linea retta e linea curva —
La scuola dei Vecchi o il Padiglione delle Mortelle — Una nuova li-
nea di strada ferrata — La pagheremo in due — Le scimmie — La
carità pelosa — « L' oro e V orpello — • Il vero blasone — L' improvvisa-
tore — Le coscienze elastiche — Tanto va la gatta al lardo che ci la-
scia lo zampino. Le commedie sono per la massima parte dedicate a
egli quindi per proseguire a scrivere la commedia sociale, essen-
dosi egli pure dovuto convincere che la morale sulla scena se non
é tutto, come scrisse un giorno^ con ischerno meno opportuno, il
poeta Braccio Bracci di Livorno, al quale il Gherardi dedicava il
suo Sistema di Lucrezia, è certamente mollo; poiché, se molti
spettatori anco disonesti non amano di vedere pompeggiata sulla
scena la loro disonestà, questo sentimento muove da un pudore
degno di tutt'altro che di riso e disprezzo. Un tal sentimento
vuol dire che, presentato a quello spettatore il vizio nel suo aspetto
deforme, la virtù nelle sue parvenze divine, egli si lascerà final-
mente attrarre da questa, e che, se la sua condotta non è ancora
morale, egli è pur dotato di un sufficiente senso di delicatezza
per rius('.ire infine a conformarvi anco il proprio costume.
Il quarto volume delle Commedie del Gherardi del Testa ap-
parso nel 1858 accenna già, con Le False Letterate, con La
Moda e la Famiglia e con Le Scimmie ad una nuova maniera
non già di scrivere commedie ma d'intendere l'ufficio dell'arte dram-
matica. II dialogo vi ha sempre la stessa invidiabile spontaneità e
piacevolezza, ma vi è un'idea morale che lo governa e gli accresce
dignità. Nel suo Vero Blasone poi e nella recentissima Vita Nuova,
commedia in cinque atti ch'ebbe già in quest'anno una cosi splendida
accoglienza sulle scene toscane, il Gherardi si mise risoluto per una
via, nella quale tanto maggiori allori raccoglierà quanti più fruttiferi
semi egli, con mano liberale, autorevole e benefica vorrà dalla
scena prodigare a beneficio di quella civile educazione del nostro
popolo italiano, ch'è ora nel cuore e nella mente d'ogni generoso
scrittore italiano. Nella dedica del Vero Blasone, il Gherardi del
Testa fa merito al Bellotti-Bon d'averlo ricondotto a scrivere pel
teatro ; se il Bellotti-Bon ebbe tanto potere, dobbiamo sapergliene
grado anche noi, poiché l'autore del Vero Blasone vi sembra
come autore drammatico arrivato alla sua perfetta nobiltà. Sopra
la vecchia commedia composta di scene brioijamente maliziose il
Gherardi del Testa ne ha ora intessuta una nuova a più larga
trama e con più alto concetto ; la sua commedia ora veramente
comici, quali la Ristori, la Fumagalli, il Salvini, il Domeniconi, il Cal-
loud, Bellotti-Bon, Amilcare Bellotti, a filodrammatici, ed autori dram-
matici quali il fu Giuseppe Pieri tragico , i! poeta tragico Braccio
Bracci, l'egregio commediografo Luigi Suner.
-- -ilJ-J —
castigai ridendo mores; si è fatta popolare senza divenire plebea,
si è fatta educatrice senza riuscir noiosa; non vi è piìi la sola
gaiezza di chi ama il riso pel riso ; né l'equivoco giudicio di chi
assolve e salva ancora dalla catastrofe le sole scùmnie che fanno
ridere; qui il cuore e l'ingegno vogliono contemperarsi; il Ghe-
rardi del Testa non ha rinunciato ad alcuni de' vantaggi che gli
offriva la sua prima commedia (non ritenendo naturalmente per
vantaggi certe licenze meno decenti da lui felicemente dismesse,
le quali quanto meglio garbano ai comici i quali si danno poi
anche la cura di caricarle, e alle più ineducate platee, tanto più
offendono lo spettatore ed il lettore di buon gusto), e intanto recò
nell'opera sua un nuovo elemento vitale, il calore dell'affetto;
l'intrigo lascia ancora a desiderare; la politica vi è quasi sempre
un poco troppo appiccicata; l'unità armonica non è ancora trovata;
il Gherardi non è riuscito a superare tutti gli ardui scogli che
presenta la commedia sociale; ma col ritornare coraggiosamente
sopra sé stesso, per trasformarsi sopra la scena, di gioviale buon-
tempone in maestro geniale, egli ha dato in Italia e particolar-
mente in Toscana un eccellente esempio ai giovani autori dram-
matici, che faranno bene quind'innanzi a mettersi animosi sopra
la stessa via maestra. Né il Gherardi tracciando a sé ed altrui una
nuova via, rende solamente omaggio al tempo che cammina, ma si
mostra ancora, con l'opera sua d'arte coraggiosa, quanto egli abbia
saputo adoperare con utile coraggio la vita. Egli fu sempre buon cit-
tadino ; e però le sue opere d'arte, quando si propongono uno scopo
sociale, sono ascoltate con riverenza ed esercitano un'efficacia oppor-
tuna. Egli non ebbe bisogno di convertirsi con le novità che i tempi
portavano, come fecero altri scrittori italiani di nascita e non di
animo, i quali a farsi perdonare la lunga loro servilità verso gli
stranieri, quando questi furono partiti, scagliarono lor contro
ogni maniera d'insulti inverecondi ; il Gherardi del Testa non
ebbe a far altro che tradurre sopra la scena i propri pensieri, ai
quali avevano degnamente corrisposto gli atti della vita. Già
prima dell'anno 1859 e come autore drammatico e come giorna-
lista, sotto il pseudonimo di Aldo, col quale presentossi a com-
battere, agile e vigoroso battagliero, in parecchi giornali e in
parecchie riviste liberali del tempo (ricordo, fra i più vivaci, lo
Scaramuccia, in cui scrivevano pure Celestino Bianchi, Cesare
Donati, Piero Puccioni, P. Ferrigni, Ferdinando Martini, Ghe-
rardo Nerucci), il Gherardi del Testa avea mostrato grand'animo
come scrittore. E prima dol 1849, egli avea pure fatto il suo do-
— 464 —
vere di cittadino combattendo contro l'austriaco a Montanara.
Faceva egli parte, come ufficiale, a San Silvestro delle schiere
condotte dal Giovanetti le quali rimasero quasi tutte prigioniere
degli austriaci. A un tratto si trovò solo e sperso; oppresso dalla
stanchezza, si lasciò cadere a terra e prese sonno. « La mattina
del 30 maggio 1848, scrive il Nerucci, mentre, destatosi, si ac-
cingeva a cercare una via, fu sopraggiunto da una squadriglia di
croati : di questi, uno gli tirò una baionetta nel ventre, ma lo
prese nella placca del cinturone. Siccome il croato rinnovava
l'assalto, il Gherardi tirò fuori la sciabola e si difendeva, quando
di dietro un ufflziale austriaco lo prese pel colletto del cappotto
e lo dichiarò prigioniero. Il Gherardi gli consegnò la sciabola,
dicendogli : Questa sciabola è di mio padre ed ha veduto le guerre
napoleoniche. Fu condotto a Theresienstadt, donde non tornò che
cogli altri ».
Onore ai superstiti della gloriosa legione de' prodi toscani di
Curtatone e Montanara; onore al prode scrittore che dal campo
di battaglia ha recato sul campo della scena lo stesso animo in-
trepido, non mostrando come troppi altri in Toscana hanno poi
fatto alcun pentimento, al ritorno del loro tirannello, di una
generosa imprudenza della loro giovinezza, e rendendo cosi pa-
lese come non il capriccio, non la vanità, non l'ambizione di su-
biti gradi li avea determinati al solo rischio di quell'intrapresa,
ma un nobile sentimento che trovava il proprio premio in sé stesso.
Il Gherardi del Testa ha quindi voluto serbarsi costantemente scrit-
tore nazionale ; e la sua commedia non ha, in verità, di straniero
altro che il primo stimolo che accende spesso gli estri poetici del
Gherardi, cioè quello de' vini forestieri de' quali, secondo la cro-
naca, egli è un ricercatore e collettore più che appassionato.
XXXIV.
GIUSEPPE TIGRI.
E poiché col Gherardi del Testa siamo ritornati a quella gen-
tile città di Pistoia, cui dedicammo alcune parole, ragionando del-
l'illustre Montalese Atto Vannucci, tratteniamvici alquanto, tanto
più che abbiamo per visitarla una lodata ed amabile guida nello
stesso egregio uomo di lettere da cui s'intitola il presente ricordo.
Il Tigri è de' più benemeriti scrittori pistoiesi, per ogni ma-
niera di diligenza da lui posta ad illustrare le tradizioni native
nel poemetto delle Selve, ricco di note preziose, che s'ebbero le
lodi dei celebri fratelli Jacob e Wilhelm Grimm, quand'essi ven-
nero insieme a visitar la Toscana; la letteratura popolare, parti-
colarmente pistoiese, nella bella raccolta di Canti che il Barbèra
ha già pubblicato in triplice edizione; la storia, la topografia,
l'arte pistoiese in una serie pregevole di pubblicazioni, fra le quali
la Memoria slorica intorno al palazzo pretorio o del potestà di
Pistoia (1), il libro su Pistoia e il suo territorio, Peseta e i suoi
dintorni (2), molto lodato specialmente dal prof. Domenico Capel-
lina nella torinese Rassegna Letteraria , oltre la Guida della
montagna pistoiese; parecchie biografie di chiari pistoiesi, e un
bel romanzo storico sopra la colta amata ed amante di Gino da
Pistoia. La Selvaggia de' Vergiolesi. Nessuno scrittore pistoiese
(I) Pistoia, 1848, un voi. in-4, di circa i'OO pag.
('2) Pistoia, 1854. con 8 incisioni, mia carta topografica e una pianta
'Iella città di Pistoia.
Ricordi Bioorakici 30
- 466 —
può al certo vantarsi d'avere co' proprii scritti meglio illustrata
la sua città nativa. E se il Tigri non avesse già altri pregi come
uomo e come scrittore, per questo solo merito d'avere dato molto
lustro alla propria città, meriterebbe qui di venir considerato.
Nacque Giuseppe Tigri a Pistoia a' 22 dicembre 1806, di mo-
desta famiglia pistoiese; uno zio paterno andato in Russia pove-
rissimo sotto il primo impero , con la volontà , col lavoro e con
r ingegno vi conseguì 1' agiatezza e la dignità di consigliere di
governo; una nipote di lui che vive tuttora a Mosca, la signorina
Giulia de Baltus, è una valentissima pittrice e suonatrice di pia-
noforte. Alla pittura diedesi pure una sorella di Giuseppe Tigri , .
Emilia sposata in Firenze a Luigi Paglianti. (1) Coltivò pure
la musica il nostro Giuseppe; un chiaro anatomista è il fra-
tello di lui Atto , insigne cattedratico dell' università di Siena.
Così, per quanto umile sia stata la nascita de' Tigri, parecchi tra
essi hanno saputo nel secol nostro acquistarsi un blasone di no-
biltà. Il matrimonio, in seconde nozze, del padre di Giuseppe, il
signor Luigi Tigri con Barbera Begliomini. Il nostro Giuseppe fu
eletto a godere di un pio legato, ma in pari tempo a vestire per
tutta la vita un abito che forse gli era meno adatto e eh' egli pur
seppe portare rassegnato senza ambir tuttavia cariche ecclesiasti-
che le quali non gli sarebbe stato malagevole conseguire, con l'aiuto
di molti discepoli, amici e colleghi potenti; ch'egli non ha invece mai
(1) Per le nozze di sua sorella il Tigri componeva il seguente affet-
tuoso sonetto :
0 mia sorella, in questo di solenne
Apportator d'ogni tua gioia intera,
Odi qual porgo al cìei per te preghiera
Che sul labbro dal cuore intimo venne.
Di nostra madre la virtù, che ottenne
Un premio già su nell'eterna sfera,
In te discenda! Ah! tu la segui, e spero
Che il seren di tal di ti sia perenne!
Mesto è il pensier; ma gioie umanamente
Non t'aspettar senza mestizia almeno:
Più grande è il tuo gioir, più in cor si sente.
Il vedi? io pur mentre di gaudio ho pieno
Per te, dolce sorella, il cor, la mente,
Non freno il pianto or che ti stringo al seno I
28 Febbraio 1847.
— 467 —
voluto incomodare per sé. Tra questi il Limberti che fu già suo di-
scepolo in Prato e che divenne arcivescovo di Firenze, e il Bindi
suo collega, ora arcivescovo di Pistoia, non gli avrebbero certa-
mente negato i loro favori, quando non avessero conosciuto per
tempo i sentimenti liberali del nostro, e il poco suo studio di pog-
giar alto in una carriera che non era di sua elezione. Egli si volse
invece con amore agli studii; e, da prima, fece singolare profitto
come alunno del seminario vescovile di Pistoia, ov'era maestro
quel potente eccitatore d'ingegni, per dirla con l'Arcangeli, che fu
Giuseppe Silvestri, entusiasta di Dante e di Virgilio, 'della cui
bella scuola uscirono pure il Vannucci, il Bindi, e Giuseppe Ar-
cangeli di San Marcello pistoiese , che fin dall' anno 1828 si
legò col Tigri, più anziano d'un anno, di forte e vìva ami-
cizia, in ispecie dopo una grave e pericolosa malattia che l' Ar-
cangeli ebbe in convitto, nella quale il Tigri avea vegliato con
amore di fratello al letto di lui; l'Arcangeli moribondo in Prato
desiderava quindi pure presso di sé il 18 settembre 1855, come
suo amico prediletto a consolarlo il Tigri , il quale accorreva ,
malgrado l' infierire del morbo asiatico , del quale lo stesso Ar-
cangeli era rimasto vittima. Né l' amicizia mostratagli in vita
bastava all' animo affettuoso del Tigri ; cbs , mentre altri sedi-
centi amici dell' Arcangeli, col pretesto di raccoglierne gli scritti,
cercarono d'infamarne la memoria, con gran'Je sdegno de' buoni ,
fra i quali cito ad onore i nomi di Giampietro Vieusseux e di
Atto Vannucci, egli, invitato veniva, il 24 febbraio 1856, a reci-
tare nell'Ateneo Italiano di Firenze, del quale egli è socio , un bel-
l'elogio dell'estinto amico, ricco di notizie e d'affetto, ch'é quanto
di meglio sia finqui stato scritto in onore dell'insigne letterato di
San Marcello. Così il Tigri, prima ancora che le facoltà dello squi-
sito ingegno, fece valere quelle di un gran cuore; molti amici lo
conobbero alla prova; per i suoi fratelli e nipoti egli ha poi me-
glio di una volta fatto intiero sacrificio di sé. I molti lettori che
avranno quindi negli scritti del Tigri, oltre alla lingua eletta e lo
stile disinvolto, che sarebbe facile ad ogni scrittore toscano il far
valere, ma di cui ben pochi invece sanno fregiare i loro scritti,
avuto agio di riconoscere come qualità suprema, la gentilezza,
non se ne meraviglieranno pensando che egli, prima di scrivere
affettuosamente, fu affettuoso, prima di scrivere con garbo, senti
con delicatezza.
Quanto a'suoi sentimenti liberali, io ho provo certe ch'essi non
aspettarono il ftivore de'tempi per manifestarsi ; né il Tigri sa-
— 468 —
rebbe ora tanto stimato ed amato da quel cittadino intemerato
del Vannucci;, se egli si fosse mostrato tal uomo da mutar fa-
cilmente principii. Questo io so che quando il celebre storico Sis-
mondi ritrovavasi nel 1837 a Pescia il Tigri ragionava con esso
di comuni voti, di comuni speranze, e gli baciava quella mano
che scriveva la storia d'Italia, e meritava d'essere dal Sismondi
posto nel numero crescente di que'buoni, dai quali è lecito spe-
rar bene pel risorgimento d'Italia; né ignoro che il Guerrazzi fra
il 1838 il 1845 stava in corrispondenza letteraria col Tigri, né
già solamente per ringraziare il letterato delle sue gentilezze, si
ancora per manifestargli voti italiani; nel 1847 e 1848, il Tigri
dava fuori alcuni rispetti politici. L'usignolo o le prime riforme,
(18i7) L'addio della povera fanciulla Fivizzanese (1847) Il Co-
scritto di Venezia (1847), La festa delle bandiere a Qavinana
(1847), Il Rondinino Messaggero a Pontremoli (1847), nel quale
il poeta, dopo aver sognato Pio nono e Carlo Alberto uniti per
la difesa, d'Italia, conchiude, con popolare ardimento:
E se fallisse il sogno, ho speme in core
Che lo difenderà nostro valore.
Il rispetto II ritorno di Lombardia dello stesso anno 1847 si di-
stingue parimente per la sua chiusa ; il reduce descrive gli orrori
de'Tedeschi a Milano e soggiunge:
E se le madri fanno de'lamenti,
Que' lurchi li trafiggon gl'innocenti.
E se le madri de'lamenti fanno...
Oh Dio ! Speriam che al Cielo arriveranno.
Seguivano nel 1848 altri parecchi rispetti del Tigri, che reca-
vano i titoli seguenti : Le sette stelle, Unione e armi. Il fior
giallo, Il traditore, Le montaìiine dell' Appennino toscano. Le si-
ciliane, Il disertore, Le feste nazionali, L'arco-baleno, La via
di Bologna, La ghirlanda, Non te ne fidare, Il Capuano, E spero
di tornar. La buon'andata, Il 29 maggio a Curtaione, alcuni dei
quali erano degni di diventar popolari. Nello stesso anno 1848,
quando le signore fiorentine offrirono un Album a Gioberti, il
Tigri, invitato dalla signora Eleonora De Pazzi a scrivervi, vi
deponeva questi versi :
— 469 —
A Gioberti
Se invocato dall'Itala gente
Venne e vinse Re Carlo il guerriero.
Tua la gloria, o sublime Veggente,
Che primier gli schiudesti il sentiero.
Tua la gloria se amore e perdono
Risuonare sul Tebro si udi;
Si riscosse l'Italia a quel suono,
Di tre secoli i voti compi.
Quando il Gioberti arrivò a Pistoia, il Contrucci ed il Tigri
furono incaricati dalla città di andargli incontro fuor delle porte
per riceverlo.
Vengono nel 1849 gli austriaci in Toscana; il Tigri scrive un
rispetto contro gli stranieri, che finisce coi versi:
Ci rubano insultando e, Dio ne scampi I
Diserte ci faran le vigne e i campi.
Non do al certo questi versi come saggio del valore poetico del
Tigri che n'ha scritti di assai migliori ; il grazioso poemetto di-
dascalico delle Selve che s'ebbe già quando apparve nel 1844, la
prima volta, oltre quelle dei Grimra, le lodi del Tommaseo, del
Guerrazzi, del Vannucci, del Picei, e nel 1848 quelle del Gioberti
che ne chiamava elegantissimi i versi quanto dotte le note, e
nuovi e più larghi encomii dopo la ristampa che se ne fece nel
1869 dall'editore Paggi in Firenze, basta ad attestare il gusto
poetico del Tigri; ed inoltre sono Le Selve documento sincero
dell'amor patrio del Tigri, il quale toccando della morte del Fer-
ruccio, vi cantava:
Ma da mille oppresso.
Ma trafìtto e tradito, eppur non vinto.
La grand'alma esalava, e il suo sospiro
Si parve allor di libertà l'estremo.
Pur ne'fati era scritto (e un astro sempre
Benigno fra gli error la via ne scorse)
Che a quell'urna sovente ad ispirarsi
Venissero animosi itali figli :
— 470 —
E che, frementi nel pensier dell'onta
Invendicata, dell'antico eroe
Evocando lo spirto, alfin com'esso
L'armi brandite per la patria, e mille
A'mille aggiunti, concordi, volenti,
Una e libera alfine Italia fosse !
Salve, Gabinio suolo i E voi salvete ,
0 fortissimi spirti, e tu primiero
Di ferreo usbergo per la patria armato,
Magnanimo campion ! Palpiteranno
Di santo amor per te gl'itali petti
Infln che il sole sul terren risplenda,
Che ti fu campo glorioso e tomba !
Né questi son versi elegantissimi; il poemetto ne contiene, in ispe-
cie, nelle descrizioni, di assai più squisiti; ma io volli solamente far
vedere come, tratto tratto, fra il culto delle eleganze letterarie, il
cuore del buon cittadino abbia saputo mandare un grido generoso, e
come rivendicata l'Italia in libertà, egli non abbia già dovuto camuf-
farsi per riuscir liberale, ma semplicemente ftir meglio palese una
parte di que'sentimenti ch'egli non già traditi, ma avea dovuto spes-
so^ e non sempre potuto, nel tempo della servitù, tenere compressi.
Col Montanino toscano volontario nella guerra dell'indipendenza
italiana, racconto popolare, di cui si fecero già due edizioni, il Ti-
gri si rivelò sotto un aspetto nuovo, ma non inatteso, per chi
abbia osservato nella sua Raccolta dei Canti popolari toscani e
nelle sue Selve quanto egli ami, studii e intenda la natura. Io cedo
qui la parola ad un giudice assai competente, in fatto d'eleganze.
Augusto Conti, il quale scrivendone al Tigri, esprimevasi ne'ter-
mini seguenti : « Il vostro racconto mi è piaciuto straordinaria-
mente. Voi dipingete la natura, la natura bella, e con modi na-
turali, cioè vivi, reali, nella realtà, ideali ed eletti. Quando si
tien dietro a questo esemplare, oh come vien fatto di riaccostarci
a quella semplicità antica della Bibbia e d'Omero I Non si può far
a meno, perchè diventiamo scolari del medesimo maestro. A dirne
una : quell'amore campestre, quella fontana, quel dare a bere colla
brocca, quel bicchier d'acqua, da chi l'avete imparate voi quelle
bellezze vere? Dalla natura; e voi meritate gran lode, perchè ne
siete discepolo attento. Così quando voi mettete parole d'affetto in
bocca alla mamma del vostro soldato, e a'due innamorati, voi non
ve le create a capriccio, pigliate proprio le parole che s'odono
— 474 —
lassù in quelle vostre care montagne, come il cuore le detta; e
però io a sentirle, me ne commovo tutto quanto d'amore e di
compassione. E cosi que' fatti d' arme, narrati tal quali, come se
fossimo lì a udirli da chi ci è stato, e però sempre individuati,
mi son piaciuti oltremodo. Non vi nascondo per altro, che, talora^,
secondo me, voi divenite minore di voi stesso, quando lasciate la
natura, e vi ricordate un po' troppo di certe affettazioncelle scola-
stiche. » Gli stessi pregi di stile e la stessa bontà di intendi-
menti offre l'altro recentissimo racconto del Tigri Da volontario
a Soldato del quale il generale Menabrea ha reso onorevole giu-
dizio e che parecchie scuole di reggimento hanno già accolto
come libro di lettura. I signori giurati dell'ultimo Congresso pe-
dagogico di Venezia (gli stessi che fecero la bravata di mettere
all'indice il Portafoglio dell' operaio di Cesare Cantù, libro nel
quale vi sono bensì alcuni periodi male inspirati, ma tante belle
pagine che, in verità, non era lecito ai signori giurati esprimere
altro che un voto perchè l'illustre scrittore lombardo sacrificasse
egli stesso que'passi, i quali un fallace dispetto gli aveva pur
troppo consigliati; fortuna pel Cantù che mentre i signori mae-
stri giurati gli davano il bando solenne dalle scuole, l'illustre
Accademia delle scienze di Torino, offriva al Cantù quel posto
glorioso di socio non residente che si era reso vacante per la
morte di Alessandro Manzoni) dopo avere trovato ogni maniera
di pregi desiderabili nel racconto del Tigri, lo licenziava col con-
tentino d'una medaglia di bronzo, mettendolo in coda ad alcuni
altri autori premiati con medaglia d'argento, che meritavano
forse invece d'esser mandati a scuola.
Il libro di letture Contro i pregiudizii popolari, le supersti-
zioni, le allucinazioni e le ubbie degli antichi e massime dei
moderni, premiato dal Congresso pedagogico di Napoli del 1871,
ha evidentemente ancor esso uno scopo educativo ; sarebbe vana
pretesa quella di trovare in esso il valore di un lavoro scientifico;
ma è onesta ed utile pubblicazione, che basta, pel bisogno urgente
di quelle scuole alle quali in particolare si destina e si racco-
manda. Uno degli ottimi, tra i libri d'amena lettura che si pub-
blicarono in questi ultimi anni in Italia, è il romanzo sopra la
Selvaggia de'Vergiolesi, intorno al quale per non dire del solo
piacere eh' io stesso provai nel leggerlo, attratto non meno dal-
l' incanto dello stile, che dalla vivacità rappresentativa del rac-
conto e delle descrizioni, lascierò pigliar la parola ad Atto Van-
nucci che, poco dopo ricevuto il volume dell'amico, il 14 gennaio
— 472 —
1871, s'affrettava a scrivergli: « Questa volta la tua bella Sel-
vaggia si messe per la buona via e non le avvenne di capitar
male. Ieri arrivò a casa mia sana e salva, ed io le feci le più
liete e oneste accoglienze. Ella gentilmente mi condusse subito a
Vergiole, e con vive ed eleganti parole mi fece ammirare il bello
spettacolo dei colli che fanno corona a Pistoia, mi mostrò il pa-
terno castello, mi presentò a messer Lippo suo padre e a ma-
donna Adalagia sua madre, e poscia riconducendomi alla città mi
rallegrò colla festa dei fiori e delle armi, e m' invitò nelle sue
grandi case liete di lumi, di belle donne, di danze^, e di musiche,
dove mi fa carissimo di incontrare l'innamorato messer Guittoncino.
Festa magnifica che mi ha empito 1' anima di belli e dolci pen-
sieri. Questa Selvaggia coi suoi occhi soavi e pien d'amore, col
suo spirito poetico, coi suoi alti pensieri, colla sua conversazione
elegante chiama a sé l'attenzione che è diffìcile e penoso stac-
carsene. Ella conosce benissimo i costumi e le storie della sua
patria, e con molta disinvoltura le fa entrare nei suoi discorsi.
Anche quando le piglia vaghezza di fare qualche escursione ar-
cheologica, dalle rovine e dalle memorie trae fuori vecchie e
particolari notizie e sempre diletta col suo gentil modo di dire
tutto quello che vuole. » Non si poteva, con più ingegnoso scher-
zo, dir meglio e dire più giusto del libro del Tigri, il quale se
fosse men modesto di quello ch'egli è, avrebbe con questo solo
suo romanzo trovato modo di far rumore. Egli vive invece con-
tento della sua quiete, del posticino d' ispettore scolastico che il
governo italiano, con mano certamente non troppo prodiga, dopo
averlo incaricato dell' ufficio d' Ispettore straordinario in Sarde-
gna e di Provveditore agli studii in Sicilia gli consenti, nella
sua propria città nativa, e che l'invidia vorrebbe pur togliergli ,
mettendo la piazza a rumore, perchè il Tigri è prete. Ed io vorrei
pure che venisse il tempo in cui l'istruzione fosse tutta in mano
di laici; ma intanto, fra laici codini e preti onestamente liberali,
fra paolotti travestiti da burattini democratici, e preti dai quali
nessuno si attende e molti invece ricevono liberalità, mi accosto
con più sicurezza ai secondi. Poiché i primi sono retrogradi per
elezione, i secondi spesso per sola necessità di uno stato che fu
loro imposto da sole inevitabili condizioni domestiche.
E qui il discorso mi porta a dire di quello che il Tigri fece
per r istruzione.
Egli incominciò ad insegnar lettere in Pistoia nell' anno 1836,
quando vi aveva già pubblicata una lodata monografia sopra i
— 473 —
Plastici di queir Ospedale. Pregato dalla signora Nerucci nipote
del Niccolini, ad istruire i suoi due figli, con questi due discepoli,
(l'uno de' quali, il prof. Gherardo, ingegno pronto e vivace, ani-
mo indipendente, traduttore d'Esopo, e delle Letture sul linguag-
gio di Max Miiller, ed autore di un saggio originale sul Verna-
colo montalese, seppe quindi farsi valere singolarmente in alcuni
studi filologici), ebbe principio in Pistoia l' Istituto privato Tigri,
che rimase aperto fino all'anno 1850; da queir Istituto uscirono, fra
gli altri il Civinini, rimastovi tuttavia brevissimo tempo e nella
sua primissima età, i professori Antonio Gianni, e Torquato Ma-
bellini, (1) oltre al lodato Nerucci che lo lasciò soltanto, sedicenne ,
nel 1844, per recarsi a studiar legge nell' Università di Pisa. Re-
catosi l'Arcangeli nel giugno dell'anno 1837 a fare un viaggio di
due mesi, il Tigri fu invitato a sostituirlo nella cattedra di retto-
l'ica ed eloquenza italiana nel Collegio Cicognini di Prato, ov' era
passato come direttore il Silvestri, chiamando presso di sé l'Ar-
cangeli, il Vannucci, il Buonazia, il Camici. Fra i suoi 26 alunni,
il Tigri trovò allora il Nobili, il Garzoni, il Limberti, il Guasti ed
il Peruzzi, i quali gli proseguirono quindi sempre stima ed af-
fetto, sebbene per soli due mesi li abbia il Tigri ammaestrati. Al
fine dell'anno scolastico, il direttore Silvestri attestava come il
Tigri, aveva sostenuto l' ufficio di professore « con sua sodisfa-
zione, con decoro dello stabilimento e con utilità della scolare-
sca » aggiungendo che « ove egli fosse destinato a professare
pubblicamente le bolle lettere, vi si dedicherebbe con tutta 1' anima,
come a quello esercizio al quale mostra di essere dalla sua na-
tura chiamato. » Ciò non gli valse tuttavia a conseguire prima
dell'anno 1860 alcun ufficio governativo, altra prova indiretta
dell' opinione in cui egli era tenuto per le sue tendenze politiche
presso i Lorenesi e la loro corte. Non già eh' ei disturbasse in
alcun modo i sonni di quel governo ; egli era, anzi tutto, com' è
al presente assai modesto ne'suoi voti ; ma conoscendosi, per al-
tra parte, come il Tigri fosse incapace di salire al furore della
vendetta, si faceva a fidanza con la blanda mitezza del suo in-
(1) Pel fratello Mabellini Teodulo, celebre maestro di musica, il Ti-
gri sci-isse poi i libretti delle opere Matilde e Toledo, e Baldassar e
della Cantata pei parentali di Raffaello; per altro maestro, il libretto
della Zingarella, assumendo in questi lavori il pseudonimo di Giuseppe
De Toscani.
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gegno. Lo vollero pertanto,, con 1' abbandono, punire per la reità
de' suoi desideri!, speranzosi forse che nell' umiliata solitudine ei
sarebbesi ridotto a 'sentimenti più servilmente divoti. Il Tigri si
confortò, in parte, di quel!' abbandono, nella quiete degli studii,
nelle cure dell'educazione, nel farsi provvidenza ad alcuni de'suoi
più cari parenti, nell'aiutare alle loro letterarie intraprese que-
gli amici stessi che la fortuna avea meglio favorito, e nelle gioie
di una frequente corrispondenza epistolare. Il Tigri fu amico
devoto e seppe quindi pure inspirare a molti, sentimenti di ami-
cizia ; che, se l'amicizia altrui non fu poi sempre operosa come la
sua verso gli altri, questa differenza torna tutta in onore di lui.
Ho già avvertito come il Tigri sia stato in corrispondenza col
Sismondi e col Gioberti ; tra l'altre persone che gli fecero segno
d' onoranza nelle loro lettere citerò ancora, oltre il Guerrazzi, il
Silvestri, il Vieusseux che faceva in Pistoia grande assegnamento
sulla devozione del Tigri ai principii liberali, il Capponi, il Pe-
ruzzi, il Puccinotti, il Bonaini, il Tommaseo, l'Arcangeli, il Van-
nucci, pel quale il Tigri scrisse pure canti politici da servire al
libro àQ Martiri della libertà italiana, il Capellina, la Bon Bren-
zoni, l'Ugolini, l' Aleardi, il Maffei, il Giuliani, (col quale e col pro-
prio fratello Atto, nel 1861, egli intraprendeva un lungo viaggio,
per visitare la Svizzera, la Germania, 1' Olanda, il Belgio, l' Inghil-
terra, la Francia) il Witte, il Reumont, lo Schnakenburg ed altri
più. Il Tigri avrebbe agevolmente potuto valersi di quella corri-
spondenza, per mettersi presso i suoi concittadini in migliore evi-
denza; la modestia il rattenne ; ond' io posso ora, lui vecchio, e
lontano da qualsiasi desiperio ambizioso, venir primo a pubblicare al-
cuna lettera inedita direttagli da chiari ingegni italiani. Fin dall'an-
no 1838, quando l'abate Tigri illustrava il dipinto a fresco del Bez-
zuoli : La danza della prima giornata del Decamerone, il Niccolini
scriveva da Firenze alla sua nipote la signora Elisabetta Nerucci
in Pistoia : « Car. Bettina, Ho ricevuta e letta la bella descrizione
che del dipinto del mio amico Bezzuoli ha fatta il signor abate Tigri.
Rallegratevi con esso lui del suo elegante lavoro, il quale siccome io
uso di fare dei libri che tengo in pregio porrò fra gli opuscoli relativi
alle Belle Arti che nella Biblioteca di questa Accademia si con-
servano. » Nel 1857 il Tigri, con gentile pensiero fciceva regalare
all'Azeglio un ferro di picca discoperto fra i ruderi del castello
di Monte Murlo. L'Azeglio afFrettavasi a rispondere: « Stimatis-
' Simo signore, ler l'altro il signor Zobi mi consegnò per parte sua
un ferro di picca trovato nelle rovine di Monte Murlo e non so
— 475 —
come ringraziarla della sua singolare cortesia. M' è carissimo
questo ricordo tanto perchè mi vien da lei, quanto per essere
memoria di luoghi che ho visitati, e studiati con viva premura
quando preparavo materiali pel Niccolò de' Lapi. Anche senza
questa circostanza, tuttociò che mi rammenta quella cara Toscana,
ove, si può dire, ho aperti gli occhi alla luce, essendovi stato
portato bambino di pochi mesi, sempre produce in me piacevolis-
sima impressione. Ho dunque molti motivi d' aver caro il suo
dono, e vorrei poterlo ricambiare con qualche cosa di meglio che
uno sterile ringraziamento. Voglia almeno gradirlo, e tenerlo per
caldo e sincero; mi comandi ove valga a servirla, e mi creda con
distinto ossequio.
Torino. 27 maggio 1857.
Suo dev. servo
M. d' Azeglio.
Aggiungo ancora una lettera inedita del Manzoni al Tigri; il
Tigri, letta, nella primavera del 1868, la relazione del Manzoni
al ministro della pubblica istruzione, scriveva a Ruggiero Bon-
ghi direttore della Perseveranza e collega del Manzoni nella
commissione che doveva avvisare ai mezzi di diffondere in Italia
una lingua nazionale: (1) « Nella dotta relazione dell' illustre Ales-
(I) L'onorevole deputato e professore Ruggiero Bonghi, dopo aver letto
il Ricordo a lui dedicato nella Rivista Europea, mi faceva l'onore di
rispondermi con la seguente lettera, che il giornale politico la Nazione
pubblicava nel suo numero del 15 maggio. Per la stessa ragione per cui
il professor Bonghi crede gli potesse sfuggire il mio scritto che s' oc-
cupava di lui nella Rivista Europea, s'io non avessi stimato mio debito
fargli pervenire un esemplare del fascicolo che lo risguardava, sarebbe
a me avvenuto, e forse con maggiore probabilità, d' ignorare la lettera
da lui a me diretta nella Nazione, se il mero caso non mi faceva in-
contrare per via il signor Appel, corrispondente della Neue Freie Pres-
se, il quale, avendo letto per l'appunto nel!' ufficio della Nazione gli
stamponi della lettera dell'illustre critico e politico napoletano, apo-
strafavami, al primo incontro, con la interrogazione: « dunque in lite
col Bonghi ? » pel quale avvertimento, attesi pertanto la lettera pre-
nunziatami, e potei quindi prenderne conoscenza e mettermi cosi nel-
l'ambita condizione di passare anche agli occhi del Bonghi, per quello
che, anzi tutto, mi preme di essere, e poi di venire considerato, cioè per
un galantuomo, col ripubblicargli, secondo il suo desiderio, una lettera
— 476 —
Sandro Manzoni al ministro dell' istruzione pubblica intorno al-
l' unità della lingua e ai mezzi più appropriati a diffonderla, non
ho trovato proposto quello che a me è sembrato sempre il più
ch'egli, per una distrazione singolare, non s'era tuttavia curato di farmi
pervenire. La lettera del Bonghi dice così :
Gentilissimo Signore e Collega,
S'Ella non avesse avuta la cortesia di mandarmi il fascicolo della
Rivista Europea, nel quale le è piaciuto di discorrere di me e dei casi
miei, forse il suo scritto mi sarebbe sfuggito : poiché non sono curioso
di mia natura, non leggo se non i libri attinenti a' miei studii, e dove
scorgo il mio nome, soglio voltare la pagina, poiché mi pare che non
vi sia soggetto al mondo, il quale a me debba parere meno importante
che me medesimo.
Poiché questa volta mi son dovuto leggere ciò che altri ha scritto di
me, Le assicuro, che l'ho fatto mantenendo affatto libero il mio spirito,
e col proponimento di guardare soltanto, s' Ella a' suoi lettori presen-
tasse di me un concetto, il quale fosse atto a chiarir loro ciò che io mi
sono ; poiché Ella ha mostrato di credere, che questa sia cosa la quale
importi chiarire.
Ora, io voglio sperare, che ciò non Le sia riuscito, poiché s'io ras-
somigliassi al ritratto, sarei assai dissimile da quello che io immagi-
navo di essere, e che volevo essere.
Forse Ella stessa vorrà riconoscere d'avere errato, quando consideri
come i principali fatti della vita mia non si riscontrano punto con quei
tratti — non belli davvero — di carattere eh' Ella m' attribuisce ; poi-
ché quanto all'ingegno, gliene lascio parlare e sparlare a sua posta.
Secondo la sua dipintura, dunque, io sono un uomo, naturalmente scet-
tico, di opinioni mutabilissime secondo i venti, ed amico infido.
Ella é uomo di parte politica contraria alla mia ; ma mi sarei figu-
rato, che le relazioni di cortesia, nelle quali io sono stato .sempre con
lei, e le testimonianze di tutta la mia vita avrebbero impedito a chi si
sia di pronunciare di me un giudizio siffatto.
Scettico, Ella dice? Perché, dunque, come Ella scrive, a venti anni
ho lasciato patria, famiglia, studii, ogni cosa più cara per l'idea della
libertà e dell'indipendenza del mio paese? Ed ho vissuto continuamente
in esilio, e non ho mai piegato il capo, e non ho mai chiesto ai Bor-
boni di esser lasciato ritornare dove tutto mi chiamava e mi voleva?
Perchè l'ho fatto se non credo a nulla?
Di opinioni mutabilissime, aggiunge? Conosce Ella, mi dica, un uomo
il cui generale concetto politico, il cui criterio nella direzione delle so-
— 477 —
agevole a conseguire questo fine, vo' dire la istruzione data al-
l' esercito col mezzo di maestri toscani. Non dubito punto che,
quando il Manzoni diceva che l' idioma nazionale dovesse essere
cietà sia stato più costante e fermo dal giorno che presi giovane a scri-
vere il Tempo sin oggi? E spero ch'Ella non mi venga ad opporre —
poiché sarebbe indegno di Lei, — che io abbia una volta opinato che le
facoltà di Teologia si dovessero sopprimere, un' altra che non si doves-
sero! Se simUi bisticci son leciti nella Camera, non sarebbero leciti a
Lei, scrittore e professore.
Amico, infido, conchiude? E mi dica anche qui: — Sa Ella, quale
amico io abbia abbandonato mai, in una vita così piena di vicende come
la mia? Io credo di potere affermare, che non ho mai perso nella vita
politica un amico che avessi acquistato una volta; ne n' ho mai cercati
di nuovi.
Io m'ero sentito fare una censura affatto opposta sinora, e la credevo
più vera; ciò è dire, che la tenacità mia in alcune idee ed aderenze
fosse tanta da potersi giudicare persino biasimevole. Questo rimprovero
non mi piace, ma non m'offende. Il suo m'offende.
Quando Ella dice, che io sia un professore intermittente, ha ragione,
s'Ella intende, che essendo stato chiamato a professare sino dal 1859,
ho compiuto il quinquennio solo l'anno scorso, dopo il quale lo stipen-
dio nostro s'accresce d'un decimo. Ma s'Ella ha inteso, che, quando io
ho principiato un corso, manco di solito alle lezioni, erra; poiché mi
fo scrupolo di non mancarvi mai, e se l'orario dell'Istituto superiore non
è mutato da quello che era qualche anno fa, le mie lezioni durante
l'anno sogliono essere tre volte più numerose, quantunque tre volte meno
buone, delle sue.
Afferma, che della scienza che io professo io per il primo col mio
scetticismo diffido. L'accusa da un professore a un professore è grave.
E s'Ella conosce qualche mia parola, donde ha ritratto che io non ho
fede nella divina serietà della scienza, non ho fede nella scienza che
professo io medesimo, o in quella che professino gli altri, gliene avrò
grado.
Infine, ella la un' osservazione di tinta assai dubbia, poiché nota che
io m'occupi molto de'proprii affari. Certo tutti quelli che sanno — e
sono molti — come e quanto io me ne sia occupato, rideranno a sen-
tirlo dire. Ella deve avere franteso. L'unica volta che io sono entrato
nell'amministrazione d'una società industriale, è stato quando, per in-
carico dal Governo, ho assunto di rappresentarlo nell'amministrazione
delle strade ferrate Romane, ed aspetto con grandissimo desiderio che
il biennio finisca e l'ufficio con esso. L'ho accettato, perchè volevo toc-
care con mano o vedere co' miei occhi una materia della quale ero stato
— 478 —
il fiorentino, non volesse intendere il buon toscano. » Su questo
ultimo punto impegnavasi una polemica fra il Tigri ed il Bonghi
che sosteneva le opinioni del Manzoni, il quale tuttavia, pur dis-
forzato ad occuparmi più volte, e vederlo a proposito dell' esecuzione
di una legge che avevo difeso io stesso. Nel rimanente i miei affari si
riducono a ciò: col sudore della fronte, e con un lavoro, credo, onorato,
tentare di lasciare intatta ai miei figliuoli la piccola fortuna che mi ha
lasciato mio padre, liberandola da' debiti, ond'è stata gravata durante
il tempo del mio esilio e i primi anni di questa angosciosa vita politica,
nella quale si inganna bene chi crede che io viva e resti senza gran-
dissimo mio danno, rincrescimento e fastidio.
Io voglio sperare, signor mio, che Ella abbia preso, come molti, l'ap-
parenza del mio carattere per la sostanza. Certo v' ha in me un pro-
fondo disprezzo delle ragioni posticcie e delle asserzioni senza fonda-
mento, degli entusiasmi falsi e delle teoriche facili e lusinghiere. Con
quello spillo che secondo Lei Iddio m'ha messo nello spirito, foro tutte
le bolle che incontro per via, senza guardare in viso a chi scoppiano.
Certe volte — e forse ho torto — paio prendermi spasso delle opinioni
altrui e farne strazio e distenderle, se mi riesce, per terra l'una dietro
l'altra ; e mostro troppo di credere, come pur credo, che sono tanto
stolidi , ai miei occhi , quelli i quali credono tutte le cose umane
incerte, come quelli che le credono tutte inconcusse. Ma glielo dico in
fede mia, se v'è parola falsa, è questa ; che, perchè io nego fede e sti-
ma a tutte le cose piccole e a tutti gli uomini piccolissimi di queste
commosse società nostre, io neghi altresì stima e fede a tutte le grandi
cose dell'umana natu a e a coloro i quali l'onorano e la rilevano. Af-
fermo, che di questa fede e stima pochi n'abbiano più di me nella mente
e neir animo.
S' Ella ripubblicherà (juesta mia lettera nel prossimo fascicolo della
sua Rivista, farà debito di gentiluomo: io intanto prego il mio amico
Celestino Bianchi di stamparla nella JSazione, perchè le sue accuse non
restino un mese senza risposta, e trascurate le diano nuovo pretesto a
credere che io sia freddo, com'Ella scrive, e non distngua fra la lode
e il biasimo, anche quando viene da persona, come da lei, che io non
ho nessuna ragione di disistimare , quantunque d' ora in poi sarò sfor-
zato a credere, che non sia sempre ponderato in ciascun suo apprez-
zamento e giudizio.
Mi creda
Tutto suo, R. Bonghi.
Io debbo anzi tutto ringraziare il Bonghi de' modi perfettamente cor-
tesi ch'egli usa nel rispondermi ; nessuno al certo desidera più di me
— 470 ~
sentendo, volle assicurare, con sua privata lettera, il Tigri della
stima ch'egli ne faceva. La lettera è questa: ^< Chiarissimo Si-
gnore, Stavo per principiare una lettera al mio amico Bonghi
mantenere la polemica in tali termini; e specialmente con un pari suo;
ma poiché non vi sarebbe polemica senza dissensi, così mi rincresce
non poter accettare tutta l'interpretazione ch'egli dà ad alcune parti
dello scritto mio che lo risguarda. In generah^ m'accorgo, pur troppo,
chè,dov'io lodo senza riserbo, indovino sempre e ho pure la fortuna di
apparire uomo di spirito; dove getto invece qualche lieve ombra, rie-
sco facilmente leggiero o maligno; il Bonghi, in forma più discreta,
trova soltanto il mio giudizio non sempre ponderato. Io sperava invece
che il Bonghi sarebbe rimasto, all'ingrosso, abbastanza contento di me;
che, s'io non facevo, precisamente, di lui un eroe od un santo, rendevo
in somma, il debito omaggio all'ingegno suo ed alla sua persona Egli
ci assicura ora, poiché dell'ingegno ebbi a dire un gran bene, che avrei
potuto anco dirne un gran male e non glie ne sarebbe importato af-
fatto. Alla prova l'avrei voluto. Poniamo che io gli avessi preparato,
col mio Ricordo, gli elementi di una futura beatificazione, ma mi fossi
al tempo stesso, con insano capriccio, dato il gusto di comprenderlo
tra i poveri di spirito; dichiaro, anzi tutto, da me stesso, che il pub-
blico non m'avrebbe creduto, ma scommetto in pari tempo, che il Bon-
ghi non avrebbe tralasciato la buona occasione di farmi addosso una
formidabile scarica di piccola mitraglia per provarmi che m'ero al
tutto sbagliato; ed io so come sarei uscito malconcio da quel giuoco
per me fallito prima che intrapreso. Ma, ora che io l'ho, parmi, ser-
vito con discrezione per ciò che spetta le qualità dell'ingegno, il Bonghi,
trascurando tutti i meriti che gli riconosco, si lagna ch'io l'offesi col
giudicare il suo carattere d'uom pubblico, più dalle apparenze che dalla
sostanza. Al che mi permetto far osservare al Bonglìi ch'egli mi con-
cede troppo più che a lui convenga e che a me fosse lecito sperare,
quando egli ammette che io l'ho giudicato sopra le sole apparenze ;
poiché se un uomo privato vuol essere giudicato, senza dubbio, per
quello ch'egli è veramente, l'uora pubblico si può giudicare soltanto
per quello che ne appare, per quello ch'egli suol ftirsi valere al di fuori.
La lettera del Bonghi che io unisco al mio Ricordo perchè, s'egli crede
essersi con essa difeso da' miei assalti critici, il pubblico che ha letto
le mie parole possa, s'io lo merito, darmi torto, vale, invece, per me
come un prezioso documento che conferma parecchi de' miei giudizii.
Chi non riconosce, per esempio, il mio ritratto del Bonghi, in queste
parole? « Con quello spillo che, secondo Lei, Iddio m'ha messo nello
spirito, foro tutte le bolle che incontro per via, senza guardare in viso
a chi scoppiano ». Ecco, per l'appunto, uno di que' tratti caratteristici
- 480 —
intorno a (luella in cui Ella s'è compiaciuta di far menzione di
me. Quantunque non abbia l'onore di conoscerla di persona, con-
fidavo già nella bontà e imparzialità sua, eh' Ella non avrebbe a
ch'io ho colto negli scritti di lui, e per i quali ho creduto di potere
giudicare con qualche fondamento il polemista, il critico, l'oratore po-
litico, in ogni modo, però, sempre, soltanto, l'uomo pubblico. Ma nel
vedere il Bonghi armato di spillo e bene addestrato a stuzzicare o pun-
gere con esso, non m'accordo poi con lui a trovare che sian tutte bolle
e vesciche quelle ch'egli assale o tenta per via. A chi esplora ogni
giorno il cielo e l'orizzonte, il pronostico del tempo riesce, senza dubbio,
più agevole che ad un uomo indifferente ad ogni fase di luna o muta-
zione atmosferica ; il Bonghi tìnta egregiamente l'aria politica che tira,
e da essa misura, come fa il savio, i suoi negozii, non già i privati,
sopra i quali egli, molto a torto, crede che io abbia inteso muovergli
alcun appunto, ma que' negozii politici che formano la sua cura più
viva, più frequente, più operosa, per quanto io sia alieno, lo ripeto,
dal credere o dal desiderare che si creda egli regoli quella parte di
faccende pubbliche ch'è in suo potere come giornalista, consigliere e
deputato, pensando e provvedendo, in particolare, alle private. Il Bonghi
ebbe torto di supporre in più casi che ne' miei giudizii, io mirassi a
ferire l'onor suo come amico, come professore e come uomo di studii. Io
mi sono invece proposto solamente lo studio psicologico del Bonghi come
critico che si rivela nella vita pubblica. Ora, s'io parlo del Bonghi amico
o nemico, accenno distintamente all'amico o nemico politico, ed anzi lo
dichiaro. Egli mi risponde, in ogni modo, che credeva invece meritarsi
più tosto l'accusa d'essere amico troppo ostinato ; può darsi per i casi
generali; per molti casi speciali non già; e si capisce, ed egli capisce,
meglio che io non possa significarglielo, come non si tratta già di ami-
cizie personali, ma di sole adesioni od opposizioni di parte. Sì, non è
dubbio che il Bonghi fu in ogni tempo, intesa largamente la parola, un
liberale moderato; è quindi certissimo ch'egli non sarebbe mai stato
buono strumento per un tiranno con la natura indipendente e punto
servile ch'egli ha ; ma è non meno certo che nella parte politica nella
quale egli si è molto rigirato, egli ha mutato spesso consiglio. E sa-
rebbe così facile a me come lungo e noioso il provarglielo, con la sto-
ria più o manco segreta di tutte le commissioni ministeriali o parla-
mentari nelle quali egli cooperò, coi suoi discorsi in Parlamento, con
gli articoli di fondo della Perseoermiza e con le stesse meglio pensate
e pur sempre alcun po' contradditorie sue riviste mensili della Nuova
Antologia. Quando si ha uopo quasi ogni giorno di un obbiettivo per la
polemica, è impossibile che l'obbiettivo si mantenga sempre lo stesso,
a meno che non si voglia cadere nella monotonia; il Bonghi fugge, co-
— esi-
male eh' io esponessi francamente un parere opposto a quello che
Ella ha manifestato. La lettera ch'Ella m'ha fatto poi l'onore di
scrivermi, e il pregiatissimo dono che l'accompagna (1) hanno cre-
me ari,ista, la monotonia e va incontro all'inconveniente di ferir talora
non solo gente a cui egli non vuole nessun male ma i propri amici.
Ora io credo che i suoi amici politici sentirono maggior molestia per
qualche frizzo spiritoso lanciato loro, fra un complimento e l'altro^ dal
Bonghi che si accingeva a difenderli^ che da parecchi libelli de' loro av-
versarii. Egli potrebbe quindi, parmi, ripetere col Sainte Beuve: « J'ai plus
piqué et ulcere de gens par mes èloges que d'autres n'auraient fait par
des injures. » Ecco il senso preciso che avevano le mie parole, le quali
il Bonghi esagerò mostrando di credere che io potessi supporlo amico
infido. Egli è, lo ripeto, critico per antitesi ; e siccome le antitesi lo
tentano spesso, egli ne fa pure talora a carico della propria parte, o
contro sé stesso, ad un giudizio benevolo accostandone uno quasi ma-
ligno, e così offerendo aspetto di critico formidabile anche allora ch'egli
loda 0 difende. Io spero che il Bonghi, dopo questa completa dichiara-
zione del mio pensiero, non sentirà più alcuna ragione di chiamarsi of-
feso d'un giudizio che non lede punto l'onorabilità del suo carattere,
ma accentua invoce, per quanto parmi, soltanto una qualità singolare
del suo ingegno critico che penetra intimamente così bene lo scrittore
come l'oratore. Così sembrami aver torto il Bonghi quando egli raccoglie
come offensiva la qualifica che gli do scherzevolmente di jjro/'é'ssore m-
termittente, supponendo ch'io voglia denunciarlo come cattedratico che
non fa le sue lezioni. Io volli indicare soltanto che ora egli abbandonò
la cattedra ed ora la riprese, attratto dall'università al parlamento,
dalla scienza alla politica ; la mia frase non aveva altro senso o inten-
dimento; ed invano egli m'oppone che le sue lezioni sono tre volte più
numerose delle mie, nella falsa opinione nella quale egli è, quantunque
come relatore del bilancio della pubblica istruzione, egli abbia già do-
vuto persuadersi del proprio errore, che all'Istituto di Studii Superiori
si faccia una sola lezione invece di tre. Io non vorrei rispondere per
me, che, invece di tre lezioni obbligatorie, mi do il divertimento
di farne quattro alla settimana; ma credo sapere che quando il Bon-
ghi onorava come professore l'Istituto di Studii Superiori il maggior
numero de' professori soleva lar tre lezioni alla settimana ; in ogni
modo, a mia ricordanza, io non ne ho mai fatte meno di tre, dal (860
al 1865, e dal 1867 in poi ; e quando il Bonghi eia professore all'Istituto,
io non avevo la fortuna di essergli collega ; quindi le mie lezioni non
potevano essere né meno numerose, né certamente migliori delle sue,
per la semplice ragione ch'esse non erano affatto, nò molte né poche,
(1) Il racconto del Tigri « Il Montanino toscano » 2^ edizione.
Ricordi BiodRAFici 31
— 482 —
sciuta in me una tale fiducia. Dirò le mie ragioni il meglio che
potrò; ma la cosa di cui mi tengo sicuro è clie non durerò fatica
a conciliare in iscritto due sentimenti che vivono iti piena con-
cordia dentro di me ; un aperto dissenso e il distintissimo osse-
quio, di cui La prego di gradire anticipatamente il sincero at-
testato.
Milano, 25 marzo.
Suo obb. devot. servitore
Alessandro Manzoni.
Né solo il Tigri ebbe particolarissime e lusinghiere dimostra-
zioni di stima dagli uomini di lettere, ma i suoi libri ancora
fecero fortuna; tre edizioni ebbero già presso il Barbera i Canti
popolari toscani, due edizioni le Selve, due edizioni la Selvaggia,
tre edizioni napoletane e cinque pratesi il suo commento alle
Lettere scelte di Cicerone, nella pregiata Biblioteca de' classici
latini dell' Alberghetti, l' idea della quale era nata nella casa del-
l' avv. Benini di Prato : « Ultimo di tempo, scriveva la Rivista
delle Università, ma non di merito ci si presenta il prezioso vo-
lumetto della scelta di Lettere famigliari di Cicerone, fatta da
Giuseppe Tigri. Egli è da avvertire come al discorso sulle lettere
famigliari e sulla vita privata dell' Arpinate, viene aggiunta in
né buone ne cattive, essendo io in quel tempo, per rinuncia volontaria,
fuori d'impiego, e quindi dispensato dal grato dovere di far brillare ai
giovani qualche modesto raggio di luce orientale.
Scettico lo scrittore, io ho detto, ed ho supposto conseguentemente
scettico il professore. La possibilitù, di mutar più cattedre prova, senza
dubbio, anzi ogni cosa, una invidiabile versatilità d'ingegno e va-
stità di dottrina; ma, s'io non m'inganno, prova anche un poco che il
cattedratico non ama con amore intenso alcuna 'propria scienza, e che
non può quindi comunicarne alcuna con vera passione. Desidero di cuore
ingannarmi rispetto al Bonghi, e credere ch'ei possa portare calore in
ogni nuova disciplina ch'egli professi, e trattarle tutte con uguale se-
rietà, né diffidare mai d'alcuna; egli è uomo a cui non manca il potere
di far miracoli, s'egli voglia. Ma vuole? Ecco il problema, ch'egli solo
risolverà ; ed io faccio voto per me, per lui e, sovra tutto, pel mio
paese, aftìnch'egli, con alcuna completa opera scientifica che possa du-
rare, mostri com'io l'abbia mal giudicato, non già credendolo inetto a
fare cose grandi , ma attribuendogli animo inferiore a volerle com-
piere.
ordine cronologico una sugosa notizia sulla letteratura epistolare
italiana, scritta con assai criterio si nei precetti che ne' giudizi
portati sui nostri migliori epistolografi. Vi si legge la cronologia
della vita di Cicerone con la data corrispondente dell'anni di
Roma e con quella dell'era volgare, la data delle lettere ordinata
secondo i tempi con massima diligenza. Sono oltracciò corredate
di doppio indice, di quello cioè delle persone cui le lettere son
dirette, e dell' altro de' nomi geografici ricordati, a' quali fu posto
il vocabolo odierno corrispondente, e fattane la descrizione topo-
grafica. A meglio poi agevolare l' intelligenza delle lettere per
ciò che spetta al subietto, oltre alle note geografiche e storiche,
torna giovevolissima la conoscenza di ciascuna persona cui l'Au -
tore le dirigeva. Per lo che a ciascun nome, per ogni prima
volta che trovasi ricordato, fé apporre una breve nota biografica,
cosi che s' intendano certe frasi e certe parole che non sarebbe
stato sì facile spiegare senza conoscere il rapporto che poteva
esservi fra chi riceveva la lettera e lo scrivente. » Alcune im-
prese letterarie invece da lui disegnate, per difetto di soscrittori,
non poterono aver compimento; tale la Biografìa pistoiese, che
insieme col Bindi il Tigri volea scrivere, e che il Vannucci avea
prenunziata in termini di molta lode nella sua Rivista di Firenze.
Lamentiamo pertanto l'interruzione di un'opera, la quale dai saggi
biografici sul Contrucci, sull'Arcangeli, sul dottor Francesco Grassi
Bey, sulla Porzia de' Rossi, che il Tigri pubblicò separatamente,
potevamo riprometterci ampia, diligente, ricca di notizie e giu-
diziosa. Indirizzando, non ha molto, nel giornale La Gioventù
una lettera al Tigri il Tommaseo dicevagli : « Coli' esempio del
(lott. Grassi, ella ha opportunamente rammentato a' Toscani le glo-
riose benemerenze acquistate nello spazio de' secoli pellegrinando
non da avventurieri ambiziosi e cupidi, ma da cittadini di tutta
la terra, illustrando il nome d'Italia, la sua civiltà e la sua lingua
comunicando. E giova che gli Italiani rammentino come fosse di
famiglia pistoiese, trapiantata in quel di Napoli, la donna che Ber-
nardo Tasso ebbe moglie, Torquato ebbe madre. E io credo che
le più pellegrine bellezze della Gerusalemme, anzi che all'inge-
gno e agli insegnamenti del padre, Torquato le debba al cuore, e
alla memoria di sua madre. Bella la lettera che intorno all'educazione
de' figliuoli ella reca di Bernardo alla moglie; e tra' più belli dei
lirici suoi, i versi in cui Torquato ricorda la madre. E de' lirici
di Torquato insieme e del padre io vorrei vedere una scelta
acciocché non potendo leggere ogni cosa e non sapendo i più sce-
— 484 —
gliere da sé, gli italiani non ignorino la propria eredità, quasi
fossero gettatelli indigenti. Voglia bene al suo N. Tommaseo. »
E il Tigri non solo ha ragione di voler bene al Tommaseo, ch'egli
s'era pure obbligato col fornirgli parecchie voci toscane pel suo
gran Dizionario della lingua italiana, ma gli ha l'obbligo di vera
riconoscenza; poiché quando, nel Vocabolario dell'uso toscano, il
signor Fanfani assalì con ogni maniera di parole sconvenienti, il
gentil letterato suo concittadino, per isfogare lo sdegno concepito
nell'intendere che in un caffé di Pistoia si fosse parlato con poco
rispetto de'fatti suoi, de'quali discorsi il Fanfani accagionava senza
fondamento il buon Tigri, il Tommaseo, interponendo i suoi gene-
rosi ufflcii pregava il sig. Fanfani com' egli avrebbe cessato dallo
scrivere nel giornale II Borgìiini, dal Fanfani diretto , se questi
non avesse trovato il modo di riparare al torto fatto al nome del
Tigri, col quale venuto il Fanfani a spiegazioni, e persuasosi del
proprio errore affrettavasi ad aggiungere in fronte del suo Voca-
bolario la seguente avvertenza : « I lettori vedranno qua e colà per
questo Vocabolario, certe parole men che amorevoli verso 1' abate
Giuseppe Tigri, mosse dall' esser io stato fatto certo che egli avesse
già operato nemichevolmente contro di me, e contro la mia fama.
Ora per altro che persone degne di riverenza e di ogni riguardo
si sono messe di mezzo, e che tra me e il Tigri son passate verifica-
zioni tali che mostrano essere calunnie di commettimale, ciò che
pareva irrepugnabil certezza, io, così per ossequio alla verità e per
secondare le preghiere di esse rispettabili persone, come ancora
gli impulsi del mio cuore, che quanto è subito all'ira tanto è pron-
tissimo alla concordia e all'amore, dichiaro qui di essermi ricon-
ciliato col Tigri, e rincrescermi di avere usato parole acerbe con-
tro di lui, pregando il lettore che vi s'imbattesse a tenerle come
non scritte. Pietro Fanfani. »
Fortuna che il Tigri, forte nella sua coscienza di amico del bene
e di cultore del bello, non ha mai curato l'oltraggio de' suoi
nemici, ne' serbato ad essi rancore. Come ispettore scolastico in
Pistoia e San Miniato, come provveditore agli studii in Calta-
nissetta , ove introdusse gli esercizi militari per gli alunni , e
recitò un lodato discorso per la festa commemorativa dello Sta-
tuto, come bibliotecario della biblioteca Forteguerri di Pistoia ,
ch'egli in gran parte riordinò, e, come scrittore, studiossi sem-
pre di fare il dover suo; n'ebbe lode dai più, d'alcuni suscitò
r invidia. Scrivendo egli il 4 gennaio del passato anno al sig. Fi-
lippo Rossi-Cassigoli antico suo discepolo, per regalargli il ma-
— 485 —
noscritto della sua Selvaggia , per la ricca biblioteca di scrittori
pistoiesi che il Rossi-Cassigolì e carissimo amico, ha raccolto e or-
dinato in casa sua, il Tigri concludeva: « Una certa compiacenza
provo in me nel pensare che, fra tante vicende domestiche non
punto liete, delle quali ho dovuto occuparmi, fra 1' esercizio dei
pubblici ufiici, almeno ho tentato di richiamar con gli scritti, non
pure i miei concittadini, ma anche gli estranei ad onorare un
paese, dove sono stati e son sempre tanti elementi di prosperità
materiale, di vita intellettiva, tanti istituti di pubblica istruzione
e beneficenza, e non pochi oggetti preziosi di belle arti, da ren-
derlo assai più ammirato, e lo dirò pure, piiì gradito a chi vi
soggiorna, se fossimo in molti a giovarlo, o anche pochi e d'ac-
cordo. »
Semplici e veridiche parole, le quali la città di Pistoia gradirà,
senza dubbio, che siano ridette. Nessuno, in vero, ha parlato più
e meglio all'Italia di Pistoia dell'abate Tigri; negli scritti di lui
parecchi italiani hanno ricercata con desiderio la Montagna pi-
stoiese, nella sua storia, nelle sue consuetudini, nelle sue glorie
letterarie ed artistiche, nel suo vivo linguaggio. Il nome del Tigri
merita quindi di essere ricordato con amore a Pistoia, e poiché
le glorie cittadine son divenute, per la compiuta unità d'Italia,
glorie nazionali, nessun italiano passerà da Pistoia senza mandare
un gentile saluto all'autore delle Selve e della Selvaggia, all'illu-
stratore della città di Pistoia e della Montagna pistoiese, al be-
nemerito raccoglitore de' Canti popolari toscani, di cui l'Aleardi,
il Maffei, il Giuliani ed altri insigni italiani, ebbero pure agio di
pregiare nelle loro gite a Pistoia, l'ospitalità cordiale e l'amabile
socievolezza.
XXXV.
PIETRO FANFANI.
Il secolo decimosesto ebbe il suo Pietro Aretino ed il secolo de
cimonono corse pericolo di rivederne una nuova foggia nel nostro
Pietro pistoiese. Se nonché fra l'uno e l'altro ci sarebbe sempre
corso quasi quanto da un secolo all'altro. Nel suo tempo l'Are-
tino seppe farsi appellare il principe de'letterati ; il signor Fan-
fani intesi salutar da parecchi col nome di principe de'filologi ;
ma nel secolo decimosesto l'uomo sopraffaceva il secolo; nel no-
stro il secolo sopraffa l'uomo. Innanzi alle grandi cose che 11
tempo crea, gli uomini d'adesso doventan piccini. Così avviene che,
mentre il Fanfani, per una certa generazione di letterati è rimasto
un baccalare meraviglioso, per altri,, come per esempio pel signor
Salvi (non sicuramente per me che detesto gli estremi) fosse
nulla più che un arcifanfano (1). Il signor G. A. Scartazzini
presentando , con fretta singolarissima , ai lettori tedeschi in
una edizione fatta a Lipsia dal Brockhaus , il Cecco d'Ascoli
recente racconto storico del Fanfani uscì in questa solenne sen-
tenza: « Il Cecco d'Ascoli è fuo-r di dubbio uno dei più bei ro-
manzi che orna la moderna letteratura d'Italia. Vi fu chi lo pose
allato ai Promessi sposi, all' Ettore Fieramosca ed al Marco
Visconti, lo non dubito un momento di porlo al disopra di tutti
(1) Con questo titolo è intitolato un libro del Salvi, amico dell'Ar-
cangeli, contro il quale il Fanfani aveva avuto polemica per un e.
— 487 -
questi romanzi. — Quanto amabile quella Bice ! Essa vale due
buone Lucie : e quel prete di Settimello colla sua Simona para-
gonato al buon don Abbondio colla sua Perpetua! » Manzoni è
spacciato; il signor Scartazzini parlò, e basta. Ma io non intendo
ragionar qui del sig. Fanfani né sulla fede de' suoi troppo ingenui
0 troppo maliziosi panegiristi, né su quella delle memori e mor-
denti ciarle pistoiesi, o delle pagine iraconde del Nannucci, o di
quelle pepate del Salvi , o de' sanguinosi giambi del Carducci , o
delle nerbate filologiche di Alberto Buscaino-Campo e d' altre so-
miglianti pubbliche dimostrazioni d' afiFetto o d' odio che il nostro
solenne letterato s' ebbe nell' età sua.
Io mi contenterò invece di dire di lui per quello che ne dissero
a me i suoi propri scritti, avendo egli pure avuto cura di for-
nirci un saggio della sua autobiografìa, ch'ei lascerà forse pub-
blicare per intiero dopo la sua morte dal proprio cognato, il Co-
lonnello Icilio Capecchi, al quale il primo saggio è dedicato
« Avendo avuto, scriveva egli il (12 luglio 1871 al signor Emilio
Tanfani direttore ùeW Imparziale italico, giornale di Firenze re-
datto con onesti ma un po' arcadici intendimenti e ch'ebbe però
vita brevissima), e tuttora avendo avversari flerissimi, i quali si
ingegnano di dipingermi troppo diverso da quel che sono, ho re-
putato necessario il dipingermi da me stesso, e il descrivere ogni
mio atto (proprio?) mettendoci altresì delieta juveniutis meae et
ignorantias meas il tutto con parole di verità nuda nuda, con-
fortato ogni mio detto da testimonianze irrepugnabili. » Io se-
guirò dunque, principalmente, per la vita e pel carattere dell'uomo
la guida ch'egli stesso mi offre nel suo saggio a stampa, dolente
ch'ei mi offra in essa troppo scarse le occasioni di rilevare al-
cun fatto onorevole della sua vita (1).
Egli nacque nella campagna pistoiese il 21 aprile 1815 da Fran-
cesco Fanfani fattore e di Clementina Signorini vedova Pinzanti.
Trasferitasi la famiglia dalla fattoria a Pistoia, il fanciulletto
Pietro fu con due sue sorelle messo a scuola da certa Felice Peri
per impararvi la croce santa, le devozioni e la dottrina cristiana.
« Fin da bambino, scriv' egli, ero una birba sconsagrata, ed ero
il tormento di quella povera donna ; davo noja a tutti quegli al-
(1) Fa parte del volume recentemente pubblicato dal Fanfani in Fi
renze, sotto il titolo Bemocritus ridens.
— 488 —
tri ragazzi ; non istavo fermo un momento ; e sempre mi sentivo
dire che avevo l'argento vivo addosso; mettevo sottosopra tutta
la scuola. Eppure la buona Felice aveva pazienza, e si contentava
di dirmi, con quella voce nasina: Pietrino, sia buono, se no lo
dico alla mamma; o quando montava in bestia davvero : se no
gli do du' sculaccioni; ma non me gli dava mai. Presto leggevo
com'un dottore; sapevo le devozioni; sapevo la dottrina; ma cre-
scendo negli anni, diventavo sempre piìi saetta; e la Felice dovè
raccomandarsi che per l'amor di Dio mi levassero dalla sua scuola
come di fatto mi levarono, mettendomi poco appresso, affinchè mi
insegnasse a scrivere e qualcos' altro, da un discreto maestro di calli-
grafia, Francesco Pagnini, » (Il carattere grafico del Fanfani è ora
accurato, lindo e terso). In casa egli era lo stesso demonio che alla
scuola; ed egli racconta come facesse soprusi alle proprie sorelle,
entrando a mezzo con loro a far le fantocce, per iscaraventare
poi un bel giorno fanlocce, ninnoli, per poco ancìie le sorelle, fuor
della finestra. Sminuite a un tratto» le sostanze paterne a motivo
di una mallevadoria da lui fatta per un cognato, e riconosciuta
finalmente la necessità di porre un freno all' indole bizzarra del
fanciullo, si prese partito di affidarlo ad un cugino, don Burattini',
parroco a Capezzana verso Prato, ove Pietro Fanfani apprese il
suo primissimo latino, e fece stordire pel suo gran talento, ma con-
tinuò a farla da monello in modo che il prete, parendogli d'essersi
messo in casa il fistolo, scrisse in fretta e furia a Pistoia perchè
lo si rimenasse a casa; ove giunto il nostro ricominciò nuove
prodezze e le scontò questa volta con buone nerbate. Fu messo a
scuola dal canonico Niccolai, ov' ebbe a compagno Giovanni Be-
chelli, già professore d'anatomia a Pisa, ora commissario dello
spedale di Pistoia. Nel 18^26, Pietro Fanfani fu mandato al Semi-
nario; vi entrò il giorno dopo avere smaltita una sbornia, presa
ad un banchetto del cugino prete don Burattini, e fu ammesso
alle lezioni di Costantino Dolfl « buon prete, assai dotto, e valen-
tissimo ad insegnare. » « Là, in sul principio dell'anno, scrive il
Pantani di sé, mi saltò l'estro di farmi prete, e volevo lì su due
piedi mettermi il collare; il babbo però volle pigliar la cosa con
pace, domandò consiglio al rettore del Seminario e ad altri : tutti
conclusero parer loro che non fossi pasta da farne se non un
pretaccio: mi si lasciasse sfamar tal pensiero, dandomi parole e
non altro; e di ftitto il pensiero sfumò presto, che il conversare
con tanti ragazzi, parecchi de' quali piìi grandi assai di me, e più
birbe, mi cominciava a far nascere in testa pensieri nuovi, e
— 489 —
nuovi affetti, né andò molto che perdei l'innocenza di fanciullo.
Dato questo tracollo, l'animo mio divenne più cupo e piìi baldan-
zoso : non che io fossi tristo no, ma nel battagliare con la sorel-
lastra (poco più su il Fanfani ci dice che essa era oggimai ragazza
fatta, e bella ragazza), nel rispondere al babbo, e' era qualcosa
più che l'impeto naturale della mia fanciullezza. » Nell'autunno
del 1828, il Fanfani passò alla scuola di rettorica sotto la disci-
plina del canonico Silvestri « chiaro scrittore di cose italiane,
uno de' gran mariscalchi in latinità, valentissimo epigrafista la-
tino, degli ottimi precettori di questo secolo, dei pochi che il vero
mandato del maestro intendessero, de' pochissimi che fecero rivi-
vere il culto dell' Alighieri tra noi, e sapesse metter nel cuore
a' giovani l'amor de' buoni studj ; » ove egli stesso, per quanto
sbarazzino, profittò molto ed ebbe a suo condiscepolo quel Filippa
Pacini, che dovea poi riuscir principale decoro delle scienze ana-
tomiche in Firenze. Il Fanfani seguitò a studiar la filosofia sotto
il Mazzoni, le matematiche sotto il Corsini; nel 1830 fu ammesso
alla scuola medico-chirurgica dell' ospedale di Pistoia. « Da prin-
cipio, ei confessa, studiavo di volontà; e portava a casa meco
ossa e pezzi preparati, con ispavento e stomaco mirabile delle
mie sorelle, e de' genitori; ma questa regola di studiare, fu il
trotto dell'asino; e' mi piaceva la vita di svago; avevo ambi-
zione a saper far bene da spedalino; e per dire il vero ci riu-
scivo, che ben presto diventai uno de' più rompicolli — Per tutto
naturalmente ci voleva quattrini ; mio padre non poteva darmene,
se non pochissimi; ed io mettevo spesso sottosopra la casa, e
spesso impegnavo quel che io potevo... — Non si domanda se tra
tutti questi svaghi, e' era già cominciato a entrare quel delle
donne ; e' era pur troppo 1 e ben presto mi toccò a provare le
conseguenze dell'andare attorno ad esse con troppa sicurtà! Eia
povera mamma facevami da infermiera, mescolando le sue cure
ad amorevoli rimproveri ed ammonizioni... — Il mio modo di
vivere scapestrato era non solo di danno alla famiglia, ma d' in-
comodo altresì ad essa ed al vicinato. Avevo una stanza terrena,
dove la sera raccoglievo parecchi de' miei amici, e vi si faceva
di notte giorno, o ridendo o burlando, o giocando; e spesso nel-
r estate le nostre burle ed i nostri scherzi andavan a finir nel
Corso, con grande incomodo dei vicini, perchè incominciando le
nostre conversazioni alle 11 di sera, andavano naturalmente a
finire all' ore piccine, quando la gente a modo si ristora con un
po' di sonno. Mi ricordo tra l' altre che una sera al lume di
— 490 —
luna andai fuori per lungo tratto di via ignudo come Dio mi ha
fatto, e scontrai una brigata di uomini e donne, che mi fecero
la bajata. — Una sera tra l'altre, tornando a casa verso le due
di notte, vidi sopra un muricciolo una donna seduta, mi accostai,
mi disse essere una montanina smarrita, e me la condussi in
camera; la lucerna era sullo spengersi, ed a quella luce mori-
bonda non mi parve roba spregevole. La mattina appresso rac-
contai la preda, la dipinsi per cosa ghiotta e maravigliosa. Il Po-
tenti e gli altri si diedero a investigare ; trovarono questa donna,
e la fecero andare nello studio di Zebedeo Barbieri due giorni
dopo, mandando nel tempo stesso a chiamar me, che il Dottore
voleva vedermi. Vado; que' birboni erano tutti raccolti; e ad un
tratto mi mettono innanzi questa donna, che tosto riconobbi; una
sterpagnola del colore di chi ha sparso il fiele; sudicia, brutta;
la cameriera del Berni in poche parole. Le risa furono grandi;
se fu grande la vergogna e lo stordimento mio, lo lascio pen-
sare a chi legge; ed io fui per più giorni la favola del paese. »
Se il fanciullo prenunzia l'uomo, il Fanfani con tali principii, ch'egli
cinicamente ci racconta, mostrando cosi di non rammaricarsene,
non deve meravigliarsi se molti de' suoi lettori giudicano lui sopra
le sue proprie parole, che non valgono di certo a raccomandarlo.
— Di qui il saggio autobiografico salta all'anno 1841 nel quale,
convertito dal priore Andrea Fabbri, si mise, com' ei dice, sulla
retta via e si diede tutto allo studio delle lettere e de' Classici no-
stri che prima d'allora ei non avea gustato. Per gli anni fra il
1834 e il 1841 possono servirci le poche notizie seguenti del Pi-
trè (1) che le deve avere attinte direttamente dal Fanfani: « Il
padre di lui che per disgrazie patite volgeva a povertà, fu co-
stretto a cercargli una situazione nella milizia, e lo mise a fare
il soldato, dove stette venti mesi, nella segreteria di un colon-
nello. Morto il genitore ed avuto il congedo, riprese gli studi
medici, ma senza frutto, e li abbandonò nel 1838, per darsi solo
alle amene lettere »; sotto la disciplina del Fabbri, passò il Faur
fani due anni riposati nello studio de' Classici e nelle pratiche
religiose; « io me ne contentavo, egli scrive, se non quanto mi
pesava un poco quella mostra d' ipocrisia che facevo col povero
Fabbri, allorché usavo le pratiche religiose, mentre in cuore non
(1) Profili Biografici di contemporanei lialiani: Palermo, Lao 1864,
— 491 —
avevo vera religione; ma non mi bastava l'animo di disgustare
quel buon vecchio, che pure riverivo per santo : quando occorse
caso che ruppe da capo il filo della mia quiete, e mi precipitò da
capo nel vortice della passione amorosa. » Ritornato agli studii,
è importante udire dal Fanfani stesso, come, per virtù di sola
pazienza, egli arrivasse a quella ricca e minuta conoscenza ch'egli
ora possiede della lingua italiana. « L' ordine de' miei studii era
questo; la prima cosa un Canto di Dante, che io leggevo a voce
scolpita, fermandomi spesso a meditare e interpretare ; poi la let-
tura de' classici italiani, notando via via in un quadernuccio le
voci e le frasi più belle, i costrutti singolari, le proprietà di lin-
gua, le eccezioni alle regole stabilite dai grammatici ; i quali
quadernucci, arrivati al n." di 248, a dieci a dieci ne numerai
ordinatamente tutte le voci e frasi, e poi ne compilai un indice
generale alfabetico e per materie, il tutto legato in sei buoni
volumi di testo, e due d'indice, battezzato ogni cosa Spoglio filo-
gico; il quale spoglio è il primo mio tesoro linguistico, e mi te-
neva luogo di vocabolario. Anzi dirò che, se tanto o quanto ho
profittato negli studii di lingua, si dee in gran parte al non
aver io avuto allora il Vocabolario della Crusca, perciocché
privo di quello aiuto, ero costretto a pensare da me, a giudicare
col senno mio proprio , a scoprire col solo mio raziocinio ,
regioni per me nuove, senza bussola e senza carta. Alla let-
tura de' Classici succedeva lo studio delle teorie, delle gram-
matiche, trattati filologici, polemiche, critiche ecc. » Studiava
ed intanto, per campar la vita, lavorava copiando per conto
altrui, avendo pure acquistata una sufficiente destrezza nella pa-
leografia. Fra il 1843 e il 1845 incominciò pure a scrivere per
i giornali, in i specie « nella Rivista, giornale fiorentino diretto
dal Montazio (Enrico Vaitancoli), nel quale scrivevano l'Arcan-
geli, il Vannucci, ed altri valentuomini: io facevo, ei racconta,
scritti di critica letteraria, il più delle volte mordaci, ma con
molto brio, dicevano i lettori ; e qualcuno dei ritratti morali, come
il Pedante, t Accademico, il Tribuno della plebe, che al Vannucci
parve cosa da codini e ne rampognò fieramente Montazio; col
quale ben presto mi guastai, e contro lui scrissi l'epigramma di
Cerbero, e la Tirata per la Rivista sull'autore della quale, che
lo punse fieramente, furono fatte mille congetture, né mai si ap-
posero ». Nel 1847 il Fanfani pubblicava un giornale di Ricordi
filologici; nel 1848, egli andava con altri pistoiesi a battersi a
Montanara e C urtatone, e fatto prigioniero sul campo, veniva
- 492 —
tradotto con gli altri alla fortezza di Theresienstadt in Boemia.
Uscitone nel settembre, tornava in Toscana, ma per poco ; che,
sotto il ministero Gioberti, gli si offriva un posto onorevole a
Torino nel ministero della pubblica istruzione. Di là il pistoiese
Franchini divenuto ministro richiamavalo a Firenze, ove il Fan-
fimi, ottenuto un impiego seppe mantenerselo anco negli anni della
restaurazione lorenese. Negli anni 1851-52, il Fanfani pubblicava
un periodico mensile dal titolo: L'Etruria, tutto consacrato a
studii di filologia, di letteratura, di pubblica istruzione e di belle
arti. Seguiva aWEiruria il giornale II Passatempo, nel quale^
insieme col Fanfani scrivevano due altri begli ingegni, Raffaello
Foresi, ed Antonio Fantacci. Dal quale ritiratisi dopo aver fatta
bellissima prova, sul finire dell'anno 1857, ciascuno de' tre begli
umori, che s'era bene avvezzo alle carezze del pubblico, se ne
stava malinconioso, per dirla col Fanfani, come un corpo senza
flato, un arpa senza corde, una layiierna senza moccolo. I tre
passeggiavano lungo il Mugnone : Qui bisogna far qualcosa —
E che s'ha a fare ? — TJn giornale da noi tre, che sarà il gior-
nale de' ire F. (Foresi, Fantacci, Fanfani) — Sì, si — E che
nome gli si mette? Pensiamoci, e domani ci rivedremo. — Si
rividero; il Foresi avea trovato il titolo del Piovano Arlotto, già
vagheggiato un tempo dal Giusti per un suo giornale umoristico,
del quale egli stese poi solo il programma (che il Piovano Arlotto
dei tre F ha pubblicato in un fascicolo dell'anno 1858). Si volea da
prima un foglio settimanale; il Fanfani e il Fantacci, come impie-
gati, non potevano né volevano mettere in troppo gran rischio la pa-
ga ; il Foresi si presentò qual direttore ; e il prefetto oppose il suo
veto. « La legge voleva per i giornali l'approvazione del Prefetto;
ma si poteva però senza censura, e senza approvazione prefettizia,
stampare un opuscolo, purché passasse le 16 pagine. Ergo, dicem-
mo tutti d'accordo, si farà una pubblicazione di un'opera lettera-
ria in 12 fascicoli l'anno, di 48 pagine per fascicolo, e cosi bu-
cheremo la legge, faremo le fiche sul muso al Prefetto e come il
pipistrello saremo topo o uccello secondo l'occorrenza. Cosi chiotti
chiotti, senza che niun trapelasse nulla, preparammo la materia,
ed in capo a un mese demmo fuori in eccellente edizione (la cu-
rava Felice Le Mounier), il primo fascicolo che piacque univer-
salmente. Il Prefetto bisognò che ci stridesse, e si contentasse di
appostarci i suoi bracchi alle costole, per vedere se ci cogliesse
in fallo; ma noi la sapemmo lunga, si diceva quel che diavolo si
voleva, ma con tale accortezza che non c'era da mordere per i
— 493 —
signori bracchi. A farla corta il proposito del giornale fu ottima-
mente compreso da tutta l'Italia ; il nostro modo di piacevoleg-
giare e di scrivere andò a genio a tutti; ed il Piovano diventò
in poco tempo il cucco di tutti gli italiani, che avean sapore di
buone lettere, ed affetto all'Italia... ». Quanto al sapore di buone
lettere, il Fanfani dice il vero; il Piovano Arlotto è una delle
più gustose raccolte di ghiottonerie letterarie per i buongustai;
vi è sale amministrato con garbo: vi è fior di lingua viva; vi è
vivacità di polemiche, finezza di giudizii, amabilità di capricci f
quanto all'affetto per l'Italia, via, poteva anco esser più ; ne io
intendo poi il perchè se desso era tanto prima che l'Italia si fa-
cesse, ne sia finalmente rimasto cosi poco per il giorno in cui l' Italia
fu fatta. Quando il Fanfani annota in quella guisa le Storie fioren-
tine del Macchiavelli , o dedica in quel certo modo querulo i suoi
scritti ai presso che rugiadosi signori Pietro Dazzi, Augusto Alfa-
ni, Giuseppe Rigutini, oppure si rivolge A don Luca N..., per rim-
piangere quasi i bei tempi granducali (ì), oppure manda sollecito i
suoi quattrini al gìorndile internazionalista torinese V Anticristo, ri-
promettendosi quasi la salute della patria dai delirii di quel foglio
infernale; quando anche nella sua prefazione al Cecco d'Ascoli vuol
dare il suo graffio alla nuova Italia, scusandosi molto inutilmente di
non avervi messo furibonde declamazioni poliiiclie. « Tutte quelle
pazzie insomma, che piacciono al volgo cieco, il quale va in brodo
di succiole leggendole (in un romanzo?), ed urla bravo e batte
furiosamente le mani, se le vede rappresentate, o se le ode bria-
camente declamate da qualche Cetègo Prefetto o da qualche Bruto
Commendatore » (il Fanfani è fiaqui solamente ufliziale; sbraiti
un altro poco e sarà fatto commendatore), ei non mi dà aria di
ottimo cittadino. Egli siede intanto dal 1859 in qua biblioteca-
rio della Marucelliana, ufHrio pienamente conforme alla qualità
degli studii, ne' quali l'ingegno di lui si fa da trent'anni valere
singolarmente. L' Italia lo ritiene il meglio scrivente de' meglio
(1) a Tu che sei un gran codino, leggi qui, e consolati ricordando la
bontà de' tuoi antichi padroni. Questa satira la feci sotto la tirannia;
e benché ci sia ritratto chiaramente un ministro granducale allora po-
tentissimo, e tutti ce lo riconoscessero, ed io fossi impiegato ministe-
riale, non ebbi il più piccolo rimprovero. 0 sanctas gentesl eh, don
Luca? Addio, sai; veglimi bene ».
— 494 -
parlanti scrittori toscani; s' ei mette bocca nelle questioni di
lingua, in ispecie di lingua parlata, la sua parola è accolta con
ogni riguardo; quella stessa Accademia della Crusca, contro la quale
egli ha spezzato tante lancie, o per amore o per timore, ha finito con
l'aprirgli le sue porte e chiamarlo nel suo Cenacolo; i suoi libri,
quantunque non punto scevri di difetti anco gravi , se non si
trovano in ogni scuola, vanno tuttavia per le mani del maggior nu-
mero de' veri studiosi, particolarmente, il Vocabolario della lingua
italiana, ì\ Vocabolario dell'uso toscano, il Vocabolario della pro-
nunzia toscana, l'Antologia toscana ; sono ricercate parecchie delle
sue operette di minor mole non già di minor conto, fra le quali
gli Scritti capricciosi o Democrilus ridens, i Diporti filologici,
gli articoli diversi da lui inseriti ne'parecchi e tutti pregiati suoi
giornali, come i Ricordi filologici, VEtruria, il Passatempo, il
Piovano Arlotto, Il Borghini, L' Uìiilà della lingua, e i racconti
da lui scritti, più in vero a provare come s'ha a dire che come
s'ha a pensare ed a sentire (metto in questo numero non pure il
romanzo della Bambola e La Paolina , ma ancora , il signor
Scartazzini mei perdoni , lo stesso Cecco d'Ascoli).
Se la lingua deve avere i suoi operai, l'italiana non n'ebbe di
più solerte del Fanfani. Ma il signor Scartazzini bestemmia quando
fa alla Germania questo brutto complimento « Il Fanfani occupa
in Italia il medesimo posto che i celebri fratelli Grimm nella Ger-
mania. » Cosi pur fosse l Lo Scartazzini parla pure del Fanfani
come commentatore di Dante e s'esprime in questi termini : « Il
gran filologo occupa un posto eminentissimo fra i moderni dan-
tisti, e non solo fra i moderni ma eziandio fra i futuri, appo i
quali il nome del Fanfani sarà ricordato con venerazione e gra-
titudine, quando certi frannonnoli che oggidì con millanteria goffa
e ridicola pretendono sostener loro « il peso erculeo della lette-
ratura dantesca » soltanto perché sciupano carta ed inchiostri
senza fine saranno del tutto posti in oblio. » Non sappiamo dove
miri il prete Scartazzini col suo discorso, ma di questo possiamo
bene accertarlo che nessuno in Italia vuole detrarre in alcun modo
ai meriti molti che ha il Fanfani come letterato linguaio, e che
moltissimi vorrebbero avere ingegno pronto, vivace, arguto com' è
quello del Fanfani; ma che dal conceder tanto al venerarlo ci corre.
Il Fanfani si piccava, per esempio, nel Piovano Arlotto d'averla
fatta una volta all'ottimo Giampietro Vieussenx, coli' indurlo ad in-
serire mqW Archivio storico come scrittura del trecento un suo
centone di frasi di quel tempo, in forma di una Relazione del
— 495 —
viaggio di Arrigo VII in Italia. Il Vieusseux gli avea pagato 46
lire per copia di manoscritto e revisione di stampe, credendo in
buona fede che si trattasse d'un manoscritto antico e non di una
novissima soperchieria letteraria, quando il Fanfani stesso di-
chiarò allegramente la sua prodezza, la quale se mette in mo-
stra la destrezza del letterato all' antica , raccomanda mediocre-
mente il gentiluomo come il tempo nostro civile lo richiede.
Certo gli scritti del Fanfani vivranno, poich'essi sono una ricca
miniera di bei vocaboli, di belle frasi, di bei motti; la bocca del
pistoiese, quando non vomita ingiurie, è d'oro ; ma l'uomo non è
tutto nella favella ; io non ho letto una sola pagina del Fanfani,
che m'abbia tocco il cuore o fatto pensare; di molte invece mi
disgustai, e altre più disgustose se ne leggeranno quando verrà
fuori, se verrà mai, la sua intiera Autobiografìa, poiché, simile
in questo all'Aretino, il quale raccontava cinicamente da sé stesso
le proprie turpitudini, mordendo poi come cane rabbioso quanti
s'arrischiassero di chiamar turpe un' azione non bella da lui
stesso messa in piazza, ei ci promette alla sua volta di vendi-
carsi di quanti oseranno dir male de' fatti suoi. Ecco la nota ,
con la quale ei chiude il primo saggio della sua Autobiografia :
« Ora basta, perchè s'!entrerebbe nelle questioni con editori, nelle
brighe di famiglia, nelle guerre sostenute e combattute contro
chi si volle provar a dar di naso in tasca o al Piovano, o a qual-
cuno de'suoi; ed in altre cose gelose che non istà bene il pubbli-
carle essendo tuttora vive le persone, e potendone nascere degli
scandali (e potendo, quel che più monta, il signor biografo venire
meglio che una volta smentito sul viso). Quando avrò messo
il capo sotto la pietra del sepolcro verrà fuori ogni cosa; e chi
leggerà spero si abbia a dilettare, tanto bizzarre sono le cose che
racconto, e con tanto veri ed accesi colori mi è riuscito di dipin-
gere i ridicoli e tristi avversarii miei; i quali, od al tutto oscuri,
0 letterati di si poca fama che niun li ricorderebbe più di qui a
10 anni, io spero (abslt arroganiia verbo) di mandargli alla po-
sterità con quella fama che meritano. Si sveleniscano ora quanto
possono, che io non darò loro il gusto di rispondere; ma stien
certi che gli ho serviti, e gli servirò dell'altro se occorre, di
coppa e di coltello. » Io non so che speri il Fanfani da simili
minacele? Intimorire i forti? Non credo che il pensi. Far paura
ai deboli? E qual gloria ne potrebbe egli avere? Io non ho mo-
tivo alcuno di voler male al signor Fanfani dal quale, per verità,
m'ebbi finquì sole dimostrazioni di cortesia; ma sì sento viva
— 496 —
pena che un cosi raro e splendido ingegno, invece di levare alto
e libero il volo, si voltoli ed imbrachi in così bassi pantani ;
egli ha nome autorevole come letterato; non voglia ambire altre
glorie men pure. Lo scandalo non è un opera d'arte, ed egli n'ha
ornai già fatto troppo; né egli è poi tanto vecchio eh' ei non
possa, se il vuole, cancellare, invece di pompeggiarla, con la di-
gnità della vita e la bontà delle opere, la parte men confessabile
e meno bella del suo passato.
XXXVL
MICHELE COPPINO.
Venuto a questo punto de'miei Ricordi Mograflci, sento il bi-
sogno di riposarmene alquanto, con la speranza di riprenderli fra
poco, con miglior lena, per raccogliere in singoli gruppi regionali
i nomi de"molti gloriosi ingegni italiani, de' quali non ho ancor
potuto finquì tenere discorso. Nella nuova serie di Ricordi che
imprenderò, fra breve, mi muoverò da Roma e vi studierò parti-
colarmente le vicende della scuola letteraria romana, toccando da
prima del venerando segretario perpetuo dell' Accademia di San
Luca. In Lombardia mi resta a considerare una ricca scuola cri-
tica, nella quale dovranno splendere i nomi dei Ferrari e dei Cor-
renti, dei Tenca e dei Massarani, dei Zoncada e dei Mongeri, de-
gli Odorici e dei Rosa, oltre che ad aggruppare intorno ai critici
alcuni letterati in fama come i Rovani, i Curti, i Rota, i Belgioioso
ed i più valenti fra i giovani scrittori. Delle antiche provincie del
regno sardo i Bertoldi, i Regaldi, i Marenco, i Riccardi, i Bosio,
i Barrili, gli Uda, i Briano, i Rocca, i Pietracqua, i Carrera, i Ber-
sezio; i Carutti, i Berti, i Bertini, i Vesme, i Celesia, i Boccardo,
i Giuria, i Vegezzi-Ruscalla, i Ghiringhello, i Tola, gli Spano, gli
Alizeri ed altri ft-a i più valorosi promotori de' buoni studii in
Piemonte, in Liguria ed in Sardegna, verranno ricordati; e così via,
per ogni singola regione italiana, verrò raccogliendo quelle noti-
zie che, 0 per mio ricordo diretto, o per quello eh' io ne possa aver
inteso, mi sembrino più notevoli intorno ai superstiti più chiari
ingegni che nell'età nostra abbiano meglio conferito con l'esempio
loro 0 coi loro consigli, al progredimento degli studii fra noi.
Ricordi Biografici 32
— 498 —
Nel congedare fi'a tanto alla stampa la prima serie de' miei Ri-
cordi non saprei come meglio conchiuderli, che notando, in brevi
pagine, i nomi e le opere degli uomini egregi ch'ebbi la ventura
d'avere a miei maestri.
Alcuni d'essi non sono più in vita come Pietro Belletti che mi
avviò negli studii eie mentari e Francesco Barucchi egittologo in-
signe, nativo di Busca, autore di un importante lavoro sulla cro-
nologia egizia, già mio professore di storia antica nell'Università
di Torino. Don Luigi Botto che col vivace e drammatico racconto
delle gesta del popolo ebreo m'innamorò degli studii storici; Ago-
stino Lace che m' erudì, con dottrina ed affetto, nella grammatica
latina e Luigi Girelli, grande ammiratore di Cicerone fra i latini,
di Monti fra gli italiani, che m'insegnò con passione, le umane
lettere mi furono professori amorevoli; ma essi non pubblicarono
eh' io '1 sappia, scritti originali onde il nome loro possa venir
consegnato a questi frammenti di storia letteraria, (i)
Altri sette maestri miei lasciarono invece un'impronta durevole
non solo nell' animo mio per la bontà degli insegnamenti eh' io
ne ho ricevuti, ma ancora nella coltura del nostro tempo, vuoi
per i loro scritti, vuoi per l'opera solerte eh' essi prestarono al
risorgimento degli studii in Piemonte.
Essi sono Michele Coppino, Tommaso Vallauri, Ercole Ricotti,
Luigi Schiaparelli, Pier Luigi Donini, Vincenzo Garelli, F. G.
Baruffi.
Se del Coppino s'avesse a considerare il merito dalla mole de
gli scritti di lui confidati alla stampa, il mio ricordo dovrebbe ri-
dursi a queste poche sole parole: essi son tali che bastano a cre-
scerci il desiderio di leggerne altri, non già tanti che riescano a
saziarci. Quando Luigi Ghiaia dirigeva in Torino la Rivista Con-
poranea, il Coppino vi depose alcuni scritti d'arte e di critica let-
teraria, vivaci, arguti, gustosi, disinvolti, lievi e sorridenti nella
forma, gravi e profondi nella sostanza, pieni di pensieri più che
(I) Oltre ai professori titolari, ebbi ne'miei studii a pregiare l'inge-
gno di parecchi tra i profes?ori sostituti, fra i quali rammento per le
lettere G. S. Perosino, Vincenzo Lanfranchi, ed Andrea Gualdi, per la
geografìa Celestino Peroglio, ora titolare, per le matematiche Giuseppe
Bustico, per la filosofìa, Andrea Cappello, dottore di Collegio nell'Uni-
versità di Torino.
-- 499 —
di parole, che lo palesarono scrittore poderoso ed originale. Ma
furono, pur troppo, brevi lampi e fugaci. Le lettere d'allora in poi
non ebbero altra novella di lui fuori dell'università di Torino,
ov'egli professò per molti anni lettere italiane come successore di
Pier Alessandro Paravia e poi di Domenico Capellina, e fuori del
Ministero dell'Istruzione pubblica, ch'egli resse con operoso e prov-
vido consiglio nell'anno 1867. Da' suoi discorsi al Parlamento fu
•pure agevole il rilevare come non fosse possibile il riuscire ora-
tore cosi eloquente e così squisito, senza una lunga educazione
letteraria ed una singolare eccellenza d'ingegno, pronto a scher-
mirsi all'improvviso dai colpi degli avversarli, a cercar le vie
del cuore degli uditori, a tenerne desta l'attenzione con alcuna di
quelle sortite che l' ingegno ed il cuore naturalmente fanno, ma
che l'arte soia dirige, raffina e conduce al loro supremo effetto.
Si rammenti il suo discorso del lA dicembre, dopo la sciagura na-
zionale di Mentana ; le risa ironiche d'alcuni deputati della destra
interrompono l'oratore che rende conto della parte dolorosa presa
dal Ministero Rattazzi nel reprimere la inconsulta ma generosa
intrapresa garibaldina; l'oratore interrotto gela il sorriso sulle
labbra degli avversari con queste parole improvvise che se fos-
sero state pensate non potevano essere più giuste, se fossero state
scritte non avrebbero potuto dir meglio: « Signori, un Governo
qualunque, il quale avesse voluto aiutare quest'impresa, non avreb-
be trovato modo che un qualche cannone ripetesse la storia della
spedizione di Quarto? Non avrebbe trovato modo che qualche fu-
cile potesse rispondere degnamente a quelli che si dovevano spe-
rimentare sui petti italiani? Non avrebbe procurato che questi
concittadini nostri, combattenti per la grande idea della patria,
non dovessero sentire squillare la tromba che li chiamava alla
battaglia laceri e digiuni? » Duolmi poi non aver sotto gli occhi
le Parole al popolo italiano che il Coppino pubblicava presso il
Chiantore a Pinerolo nell'anno 1848, poiché il buongustaio che
lo ha letto, m'assicura che quell'opuscolo ariegga, per la forma,
le Paroles d'un Croyant di Lammenais « ma che deriva la sua
ispirazione da ben diversa e più alta fonte, poetica e a un tempo
filosofica rivelazione delle nostre condizioni nel 1848 e dell'avve-
nire morale che quindi si preparava. Sono pagine stupende, veste
e pensiero. Il libro è dedicato alla memoria di una buona e santa
donna, la signora Francesca Govone, la quale fu madre del povero
Generale cosi miseramente rapito alla vita e alle speranze che
avevan fatte concepire il suo ingegno incontestato e, la ben riu-
— 500 —
scita missione diplomatica a Berlino. Coi fratelli Govone crebbe,
si può dire, il Coppino; ed anche ne' suoi ultimi giorni, quando la
mente non era più lucida come una volta, lo sventurato generale
non aveva altri cui più volentieri comunicasse le sue impressioni,
i suoi dolori, le sue fantasie di malato. E 1' amicizia di cotesta
famiglia nata da fanciulli non si è smentita mai per volgere di
anni e di funeste vicende. Ed è uno dei più saldi puntelli onde
s'appoggia in Alba la candidatura del Coppino. » Chi mi comu-
nica tali notizie è tale che le può sapere; ed è fortuna che al-
meno gli amici del Coppino ed i suoi conterranei sappiano qual-
che cosa di lui e della sua vita, che, direttamente, da lui stesso,
non ci sarebbe verso di levar via una parola che lo riguardasse,
Egli, cosi caldo ed eloquente nel discorrere le sovrane ragioni del-
l'arte e della politica si fa gelido e muto, ove si tratti richiamarlo
a parlare di sé e delle opere sue, le quali per non essere mai state
messe in miglior mostra, per quanto poche, giacciono, nella mas-
sima parte, disperse ed ignorate. De' versi del Coppino, come di
quelli del Bertoldi e di alcuni altri poeti italiani incontentabili ,
può ripetersi l'adagio che il Manzoni trovò per i versi del Torti :
pochi ma buoni. Alcuni de'suoi versi giovanili mi rammento
aver letto in una miscellanea di prose e poesie pubblicata in
Torino nel I844 pel centenario di Torquato Tasso; altri più
originali e robusti ne pubblicò la citata Rivisla Contemporanea;
un suo poemetto in versi fu pubblicato pel disegno del monu-
mento a Carlo Alberto ideato dal Butti ; alcune altre poesie
del Coppino si pubblicarono in altre occasioni; sei ne mandò
fuori il Bosio nel secondo volume della sua pregevole rac-
colta di Poesie di illustri italiani contemporanei; vi è vigore
d'immagini e vena d'affetto , sebbene talora in esse, specie nelle
più lunghe, il poeta si stanchi un poco; i pensieri vi si agi-
tano ancora; ma la forma strascicata e non li segue più con la
stessa velocità. Ne' componimenti più brevi , il Coppino non ha
tempo d'affaticarsi; ed allora i suoi versi volano pienamente li-
beri e sciolti, come il lettore stesso può del resto giudicare dal
seguente sonetto:
• Primavera
Già di vergini fior ride l'aiuola,
In braccio al lido già palpita l'onda,
La rondinella al suo balcon rivola,
Gorgheggia l'usignuol tra fronda e fronda;
— 501 —
Ride la terra in variopinta stola.
Giovine sposa a' lieti di feconda;
Spirto di vita e amor per l'aria vola,
E il cor di gaudio arcanamente innonda.
Primavera, la mia patria rivedi,
E le poni sul crin serto di fiori,
E fiori in sen, fiori le spargi ai piedi.
Ah male i fior ! sopra il servii suo crine.
Se l'età nova non sa porre allori,
Fia meglio il secolar serto di spine.
E, qui, nella scarsità delle notizie ch'io potrei dare intorno alla
vita ed agli scritti del Coppino siami lecito il portar via di peso
un lungo brano di una lunga lettera tutta gustosa che mi scrive
un amico del Coppino, il quale, temendo far cosa indiscreta, io
non nomino, ma che spero il lettore vorrà indovinare da sé. Dico
spero, poiché se la riconoscenza m' avrebbe fatto scrivere senza
fine intorno al Coppino che, come maestro, mi die luce e come
ministro mi ritornò al mio ufficio perduto, la modestia di lui mi na-
sconde per modo la sua persona, che la miglior parte di questo Ri-
cordo dovrà cedere la parola ad un uomo d'ingegno e di cuore, il
quale conobbe molto dappresso come conterraneo, come letterato,
come ministro, come figlio, come amico il Coppino, e però sembrami
degno assai pili di me di rappresentarne, con pubblico discorso,
il carattere che si rivela nella sua vita e nelle sue opere. « In
quello, dice dunque l'ornato, veridico e cortese amico del Coppino
e mio, in quello che il Coppino fece letterariamente e politica-
mente ha mostrato il molto più di cui sarebbe capace ; e questo
sentono e confessano tutti, dallo scolare ch'egli inebriava con un
fiume d'eloquenza dalla cattedra di Torino, al Ministro che deve
in Parlamento schermirsi dalla sua abilissima opposizione; questo
è il segreto per cui in qualunque Consiglio o Commissione di let-
terati e d'artisti s'abbisogni d'uomo veramente dotto ed esperto
egli viene chiamato'; il segreto per cui a ogni combinazione mi-
nisteriale l'attenzione pubblica si porta sopra di lui e il suo nome
vien pronunciato fra i possibili al Governo; e, cosa altrettanto
strana che vera, eziandio quando il colore del Ministero da farsi
non è precisamente il suo; si direbbe quasi un desiderio generale
che ovvero egli si modificasse, ovvero gli altri si mutassero tanto
da potersi accordare in un comune Programma che gli schiuda
una seconda volta le porte del potere. Cotesta disposizione degli
— 502 —
animi verso il Ceppino si potrebbe riassumere in due parole : Si
lia fede in lui; meglio, in pochi uomini si ha tanta fede quanta
in lui. Ed è giusto: L'uomo del quale vi scrivo è, prima d'ogni
altra cosa, un'alta coscienza. In ogni passo della sua vita privata
e pubblica egli non ebbe mai in mira la sua propria persona, ma
sempre: il hene, e solamente: il bene. Ne volete una prova? Quando
cadde dal Ministero nel 1867, non solamente egli non provvide a
migliorare la sua condizione, ma nella sua carriera di professore
si lasciò danneggiare in guisa da perdere parecchi anni e dover
poi patire un indebito ritardo al conseguimento della sua pensione
di riposo. Ma in quel momento e in quella condizione di cose,
chiedere il giusto temette potesse interpretarsi per chiedere un
favore; e preferì il danno materiale all'essere, per quantunque
infondatamente, sospettato di non camminare in ogni sua bisogna
diritto come un filo di rasoio. In un mondo d'intrighi, di brighe,
di mutua ammirazione e di consorterie d' ogni colore, questo è
certo un merito singolare; ma non è sempre il miglior modo di
farsi strada, di sopraffare gli avversar], di strappare alle gazzette
partigiane l'applauso che meritate, di assidervi alto nella gloria
0 nel potere. Ciò che importa al Ceppino? Age quocl agis, e av-
venga che può; ecco la sua bandiera. Se per essa può giovare al
trionfo della verità e della giustizia, bene; se i tempi volgono av-
versi, egli se ne consolerà nel ritiro della sua villetta presso Alba,
coltivando le nascenti sue vigne e invitando spesso spesso a go-
derne i frutti, ancora scarsi, gli amici. Cosi la villa del Coppino,
se non lo ingrassa, almeno conforta l'animo suo da mi.serie e do-
lori che pure a lui non mancano, e serve di estivo ritiro alla sua
vecchia madre, la quale egli più tosto idolatra che non ami. Ciò
è tanto vero che gli amici sogliono di coteste due creature for-
marne nel loro pensiero una sola, né mai le considerano staccate
l'una dall'altra. A ogni vacanza parlamentare il figlio da Roma
corre a Torino o in Alba presso la madre, che a Roma non reg-
gerebbe di venire, e piti non l'abbandona che pei doveri dei di-
versi suoi uffici. E vedere come la trattai Come ne ascolta le pa-
role (1)1 Come le sorride amorevole, quando gli pare che i consi-
(1) Nel volume del Lessóna, Volere è potere, ove si leggono alcune
pagine consacrate a Michele Coppino come uno de'valorosi che, di umile
stato e col potere della sola volontà, si levarono gloriosi sopra il volgo,
— 503 —
gli di lei, pure rispettati, non siano tuttavia tali da potersi ac-
cettare I Del resto, cotesta amorevolezza egli non usa solamente
con la madre: ma con tutte le persone che hanno da trattare con
lui; essa c'è ne'suoi componimenti letterarj, c'è nelle sue orazioni
politiche, c'è ne'suoi discorsi famigliari, i quali ultimi, per di più,
sa condire di frizzi graziosi, d'una vivacità e brio che non par-
rebbero veri in uomo della sua calma e serietà, o gravità che si
voglia dire. Ma gravi o faceti, i discorsi e gli scritti d' ogni ge-
nere del Coppino sono sempre temperatissimi nella sostanza non
meno che squisiti e delicati nella forma. È difficile, no, è impos-
sibile che una sua parola, pure quando scalfisca, giunga mai a
ferire chicchessia. Ed ecco perchè alla. Camera Coppino è così
ascoltato e ben voluto. (1) » Entrando quindi il mio gentile cor-
rispondente a ragionare degli scritti che il Coppino vorrebbe con-
durre a termine, racconta: « Una sera ei promise condurre a fine
un poemetto: La Croce, bellissimo, nuovissimo di concetto, da pa-
recchi anni principiato e che ancora non ha terminato, né pro-
babilmente terminerà mai. Un'altra, diede parola di finire, e poi
mandare alla vostra Rivista Europea una certa sua novella in
verso. Pazzo voi però se la sperate ! Io vorrei invece aver ste-
nografato e potervi mandare un suo discorso improvviso che durò
un tre ore sopra Metastasio, prorottogli dall'anima a questa sem-
plice e casuale domanda fattagli un dopopranzo e pigliando il
caffè da mia moglie: È un Metastasiano Lei? Ma né io l'ho ste-
nografata, né egli se ne ricorda una parola ; se ne ricordasse pure,
non me la direbbe, sapendo l'uso che ne farei. Io spero invece
che un bel giorno compirà e stamperà lo studio sul Manzoni, un
magnifico lavoro per mio avviso e a cui mi pare ci tenga, perchè
glie ne venne offerto il destro di metter fuori molte e molte idee
trovo queste parole ineleganti ma caratteristiche: « Il salotto del Cop-
pino a colpo d' occhio rivela l'uomo ; le pareti son tutte tappezzate di
graziosi quadri, di cui egli tanto è ardente quanto intelligente amatore;
nel luogo pm in vista una grande fotografia mostra il Coppino in piedi
appoggiato al seggiolone deve siede la sua buona madre. L'ottima donna
vive sempre, felice nell'amore dell'ottimo figlio. »
(1) A conferma di queste parole leggasi pure la lettera con cui il
Lamartine rispondeva nella Rivista Contemporanea di Torino al critico
Coppino. Quella lettera fa onore a chi la scrisse e a chi meritò che gli
fosse scritta.
— 504 —
sue, tutte sue e nuove di conio. (1) » Ed a me cresce tanto più il
desiderio che questa mezza promessa si compia, poich'ebbi la ven-
tura d'ascoltare nell'Università di Torino la prima delle lezioni che
il Ceppino vi fece, come sostituto del Paravia, nel novembre del
1857. Egli vi trattava di Dante e di Manzoni rispetto al loro
tempo, ed alla parte che l' uno e l' altro genio sostenne come
scrittore civile nell' età sua. Non rammento più i singoli pen-
sieri svolti dall' eloquente cattedratico ; questo , invece so bene ,
che il suo discorso incominciò semplice e dimesso, come se vo-
lesse morire prima d' essersi spiegato ; ma , a grado a grado
ch'ei parlav'a, l'onda del suo discorso diveniva più ampia, più agi-
tata, più affascinante. Non un fiore rettorico in tutta la sua le-
zione, ma tuttavia una magnificenza di parola veramente degna
de'pensieri alti ed originali che parevano suscitarglisi nella mente
infiammata a misura ch'ei progrediva. Le ultime affettuose parole
dette su Manzoni erano rivolte particolarmente a noi giovani, che
ne abbiamo pertanto serbato lieto e devoto ricordo. La parola del
Coppino è scorrevole come un'onda armonica; spira poi in essa,
come nel volto del nostro maestro, una malinconia soave, di cui
qualche raro frizzo giocondo e qualche lieve sorriso temprano a
pena la monotonia. Ma quando alcun affetto più forte lo invade,
gli s'infiammano le parole che possono, al caso, divenir saette.
Astio ei non ha contro alcuno; ma sente egli pure le ire magna-
nime, e se bene la prudenza della vita gl'insegni a infrenarle, egli
non le dissimula però tanto, che qualche lampo di esse talora non
attraversi il pacato suo linguaggio. Come interprete di Dante, io
lo intesi seguire i varii toni dell'/n/erno dall'umorismo più fine,
agli impeti più solenni dello sdegno dantesco. Cosi come oratore
politico, egli, per lo più temperatissimo, ebbe momenti ne' quali
fece passare nel proprio discorso una parte de' male repressi e ge-
nerosi sdegni dell'animo concitato allo spettacolo di qualche insi-
gne viltà 0 perfidia. E qui mi convien di nuovo torre ad impre-
stito le parole dell'amico, per dire del Coppino come deputato di
Alba : « La sua naturale facondia, egli continua a scrivermi, ali-
mentata dalle grandi cognizioni che sapevamo essere in lui, fu
quello per lo appunto che coiìsigliò noi Albesi suoi concittadini ad
eleggerlo deputato invece del compianto Amedeo Ravina. Egli è
(1) Tra gli scritti inediti del Coppino trovasi pure una tragedia in-
titolata Stefania.
— 505 —
uomo a cui bisogna una tribuna, diceva io agli amici miei; di là
può spuntare ai nostro paese una bella e stabile gloria. E gli
amici mi dettero retta; e lo abbiamo eletto. Ignoro se abbiamo
reso un servizio a lui e alle lettere alle quali fa strappato; certo,
sentiamo di aver recato un vantaggio alla libertà e al paese. Sem-
pre poi fu eletto in seguito; ogni tentativo per soppiantarlo parve
sogno di mente inferma; a votare per lui accorrono in Alba elet-
tori che abitano Faenza, Lecce, Palermo; e accorrono a proprie
spese, senza speranza di compenso né vicino né lontano, per solo
amore al Deputato del loro cuore. Non vi sembra sia questa una
gran luce gettata sulla sua persona? — Del resto, per un figliuolo
del popolo (1), piemontese, e di una piccola città, prima del 1848
che cosa c'era da fare? Che d'importante si potrebbe notare?
Studiare, studiare di molto con la modesta ambizione di guada-
gnarsi, a lungo andare un tozzo di pane onorato: al più, per un
giovane d'ingegno, diventar professore di Rettorica per buscarsi
una cattedra e un po' di fama letteraria; ed oh, quanti ci slam
rotti il collo per cotesta via l E non dico che il Coppino l' abbia
cavato salvo, comecché col tempo diventasse Deputato e ministro,
cosa a cui non si sognava allora; che ci avrebbe fatto ridere di
noi medesimi se ci avesse pure un momento attraversato il pen-
siero 1 E neanco lo sognava il povero Coppino : che, del resto, di
sogni ne fece assai pochi nel mondo, avvezzo come fu di buon'ora a
temperare con la fredda speculazione del pensiero e con la espe-
rienza acquistata nella vita, gli ardori e gli eccessi della naturale
fantasia e i desiderii del cuore. Conobbe per tempissimo gli uo-
mini e vide che non c'era da farvi su di gran conti; e quindi pi-
gliò e piglia da loro quanto possono dare; non pretende di più.
Curiosissima a questo proposito una sua impressione di giovinetto!
(1) Michele Coppino nacque in Alba il 1 aprile 1822 di padre calzo-
laio e di madre sarta; il padre egli perdette in età di vent' anni (non
bambino come, male informato, affermò il Lessona); la madre, come sap-
piamo, è sempre viva. Ottenne per concorso un posto gratuito, nel Col-
legio delle Provincie, e potè così seguire il corso di lettere nell'Univer-
sità di Torino; laureato, lo si mandò ad insegnar rettorica a Demonte,
poi a Pallanza, a Novara, ove lo troviamo nel 1848, a Voghera, poi di
nuovo a Novara; nel 1850, per concorso, dottore collegiato dell'Univer-
sità di Torino, quindi, fino al 1861 professore liceale a Torino; infine
professore nell'Università torinese, e nel 1867 ministro della pubblica
istruzione, nel 1869 rettore dell'Università di Torino.
— 506 —
Era a Torino e studente di belle lettere; andava poco a scuola
dal Paravia e dal Vallauri,- studiava moltissimo da sé; e non
sempre nella sua cameretta; ma spesso per viali solitari^, alter-
nando la lettura e la meditazione. Un giorno, ecco a un tratto,
a pochi passi innanzi un uomo e una donna clie non avea prima
avvertiti, che non avvertivano lui; e proseguendo un discorso
che pareva da pezza e caldamente incominciato, l'uomo domandare:
« Ma dunque non c'è da sperare? » E la donna « negli uomini, no;
e va persuaso che gli uomini, quando non ti fanno del male, già
fanno assai e bisogna ringraziameli » Coppino passò oltre tacendo;
ma non dimenticò mai quella filosofia donnesca, la quale forse è
una gran verità. Non voglio dire con questo che abbia ragione
Guerrazzi, affermando gli uomini non valere il prezzo della corda
che li impicchi. Coppino ne trasse una lezione di cautela e di
temperanza ne' desiderii; non spinse la conseguenza di quelle pre-
messe alla disperata sentenza dell'illustre Livornese. » Dopo avermi
detto tanto egli stesso, il mio amabile e valoroso corrispondente
m'invita a 'proseguire. Io non ho tuttavia a dir altro, se non rin-
graziare lui stesso d'avermi, con le sue proprie parole, offerto il
modo di mostrar qui l'uomo che mi ha due volte beneficato nel
suo aspetto più autentico e più caratteristico.
XXXVII.
TOMMASO VALLAURI.
Io non so quali sentimenti volga verso di me nell'ora in cui
scrino l'uomo insigne che il presente Ricordo vorrebbe onorare.
Sono alcuni anni ch'io non ho più alcuna notizia di lui, ed io
temo che il profondo dissenso che mi separa da lui nella ragione
politica e religiosa e nella questione degli studii e del metodo
scientifico m'abbia pure privato di quell'affetto ch'egli non ne-
gava a me suo discepolo, di cui egli conosceva bene i sentimenti
opposti a suoi, ma gradiva lo zelo nello studio delle latine ele-
ganze, e l'animo sempre riverente, anco ne'suoi moti piìi liberi,
mentre incoraggiava con lodi lusinghiere l'ingegno. Io vorrei dun-
que almeno che la pagina la quale qui depongo valesse ad assi-
curarlo che non il tempo, la distanza, la fortuna, non il trovarmi
in campo avverso a quello in cui egli, con mio dolore, persiste,
valsero punto a scemare in me quella sincera gratitudine che gli
ho professata nel tempo in cui l'ebbi maestro, e che sono lieto
di potergli in modo più solenne, riconfermare lontano e con pa-
role che saranno, io spero, lette da molti. Quand'io frequentavo
nell'Università di Torino la scuola di Belle Lettere egli seppe
col veramente latino splendore della sua parola ornata e faconda,
nella quale egli non ha sicuramente emuli non pure in Italia ma
in Europa, innamorare l'ingegno mio delle grazie più squisite del
discorso latino, e per modo esercitarlo alle classiche bellezze del
dire, che non pure ne' componimenti latini scritti a mente ripo-
sata ci riuscisse quindi agevole il trarne profitto, ma non ci fosse
difficile, dopo averlo inteso, il discorrere con una certa dignità
— 508 ~
e proprietà di linguaggio nell'idioma de'padri nostri latini, pre-
cursori della moderna civiltà. Il Vallauri é il più magniloquente
di quanti sappiano nell'età nostra parlare latinamente; la sua
voce, del tutto proporzionata alla sua statura quasi gigantesca^
che fanno pure di lui l'uomo più cospicuo alla vista che passeggi
le vie di Torino, (1) è tonante ; quando s'ha il piacere di ascol-
tarlo improvvisare i ciceroniani suoi discorsi, lo si raffigura vo-
lentieri ancora in un romano paludamento, tanta è l'illusione che
desta negli uditori la sua parola coltissima, ampia, voluminosa.
Nel suo latino è pur forse passata alcuna fioritura degli scrittori
della decadenza, come Quintiliano e Seneca, come Floro, Lucano
e Claudiano ; ma que' fiori ornano e non guastano. Anche negli
scrittori della decadenza vi sono eleganze squisite, che meritano
di venir considerate, non per farne di tutte un solo centone,
come usavano certi grammatici medievali, e come usano an-
cora a' di nostri certi latinisti dozzinali, ma per rompere alquanto
la monotonia di uno stile imitato da una sola fonte, la quale per
quanto perfetta, non basterebbe a ravvivare da sola la lingua di
un moderno scrittore costretto pure, per la novità delle cose, a
girare talora in modo nuovo anco le parole. E per queste peri-
frasi nessun moderno latinista vince in destrezza il Vallauri, che
fu posto più volte, sia nelle sue Epigrafi, sia ne'suoi discorsi ac-
cademici, sia nelle sue lezioni alla prova d' esprimere, con frasi
antiche, idee e cose moderne. Io so che molti , a' di nostri, af-
fettano un insigne disprezzo per un simile esercizio dell'inge-
gno, quasi tosse vanissimo, e quasi fosse poi cosa agevole l'ac-
quistarvi vera eccellenza. Inutile noi credo, specialmente sopra
una cattedra che come quella di Torino s'intitolò sempre, non
so poi con quanta opportunità , di eloquenza latina ; osservo
poi come il riuscire a scrivere e parlare con tanta disinvol-
(1) A questo proposito, piacemi ricordare un aneddoto. Il mio pre-
sentatore per la laurea di lettere volle essere il Vallauri, il quale non
pure si degnò presentarmi, masicompiacque in quella occasione recitare in
onore del giovine candidato una speciale elegantissima oraft■^<^?c^fZ« che si
trova pure stampata. Era presente tutto il collegio de'professori e dot-
tori collegiati dell'Università di Torino; a un tratto del suo discorso
il Vallauri si chinò e mi pose una mano sul capo dicendo : Tantillum
adolescentem videtis, judices. I giudici risero di cuore, poiché non s'era
forse mai visto un cosi grande contrasto.
~ 509 —
tura, con tanta eleganza, con tanta maestà la prosa latina non
dev' essere impresa cosi facile, poiché de' molti che 1' hanno come
il Vallauri tentata, i più abbandonarono sfiduciati il campo , al-
cuni pochi s' accostarono alla eccellenza di lui , nessuno forse lo
potè arrivare, nessuno lo superò di certo. Dico di lui come pro-
satore; che tra i poeti latini ebbero fama bellissima nell'età no-
stra Filippo Schiassi, Lorenzo Costa, Diego Vitrioli, i due Fer-
rucci ed altri piìi.
Piacerai dunque rivendicare la gloria singolare che s'acquistò
tra i viventi latinisti il Vallauri come il piìi eloquente degli ora-
tori che parlarono latino; onde si comprende agevolmente quanto
buon giuoco egli avesse, quanto alle parole, nelle sue recenti po-
lemiche, contro il Ritschl ed altri insigni filologi tedeschi, i quali
s'avvisarono di rispondergli latinamente. Quanto alle parole io
dico, che quanto alle idee, irretito il Vallauri nelle tradizioni
della vecchia scolastica italiana, non sembrami abbia opposto ai
poderosi suoi avversarli alcuna di quelle profonde ragioni criti-
che, le quali hanno rinnovata, per intiero, la disciplina filologica
degli studii non pure in Germania, ma oramai in tutto il mondo
civile. Io mi dispenserò qui pertanto dal considerare il Vallauri
come critico, se bene di lui abbiamo a stampa una Historia cri-
tica della letteratura latina, se bene quasi tutti i suoi discorsi
accademici, i suoi scritti polemici, le sue edizioni di testi latini,
le sue stesse Novelle possano considerarsi come lavori fatti con
intendimento critico. Ma i principii che muovono, per lo più,
quella critica, sono cosi diversi dai miei, che, per dire dello scrit-
tore, dovrei pure spesso giudicare l'uomo, al quale io non posso,
e non voglio come discepolo, professar altro che ossequio ricono-
scente. Bensì voglio dolermi anche una volta del male che possono
su anime deboli fare, coi loro scherzi inconsulti, prolungati, esage-
rati, i giornali umoristici. Il Vallauri era innanzi il 4848 (1) con-
tato fra gli scrittori liberali. Nella sua Storia della poesia in
Piemonte (due voi. in ottavo), nella sua monografia sul Cavalier
Marino in Piemonte, nelle orazioni inaugurali dell'Università di
Torino, delle quali con alterna vicenda erano sempre' incaricati
(1) Egli è nato, s'io non erro, nel 1808, a Chiusa di Cuneo; fu di-
scepolo di Carlo Boucheron, e quindi suo successore, nella cattedra di
eloquenza latina dell'università di Torino, eh' egli occupa, con grande
onore, da oltre trent'anni.
— 510 —
il Vallauri ed il Paravia, ne'suoi lavori sopra le università pie-
montesi, e in ogni altro suo scritto di quel tempo rivelavasi un
animo se non impaziente, al certo ben disposto per le novità che
si preparavano in Italia. Con la libera stampa, apparvero pure i
giornali umoristici; uno di essi, il Fischietto incominciò ad as-
salire co'suoi frizzi il Vallauri il quale non seppe tollerarli filo-
soficamente. Il giornale V Armoìiia se n'avvide, ed incominciò a
menar l'incensiere ; il profumo di quell'incenso attrasse pur troppo
il Vallauri in sagrestia; ove i pretazzuoli l'hanno poi saputo trat-
tenere. Io non ho ora, pur troppo, piìi alcuna viva speranza ch'egli
ne esca. Ma, checché egli pensi delle cose d'Italia, gli estimatori
del suo valore gli sarebbero grati, s'egli non ne mescolasse più il
sacro e venerato nome ne'suoi scritti. Il suo dire elegantissimo (1)
piacerebbe assai più quando non fosse inteso ad offendere un sen-
timento che si è fatto universale nella coscienza italiana e che si
traduce nelle leggi liberali e nel progresso scientifico. Possiam
volentieri tornare indietro con lui, per assaporare le classiche bel-
lezze di una lingua antica, ed ascoltarlo con animo grato e rive-
rente, ma non possiamo poi tornare con idee viete a vivere la
vita del passato. Il discepolo ed il maestro a questo punto si sepa-
rano, quantunque l'ardentissimo voto del primo sarebbe che giunto
il Vallauri ad un' età nella quale sogliono aquetarsi le passioni,
egli si fermasse a benedire il giovine mondo che sorge a racco-
gliere l'eredità della vita, e che ha però uopo di creare intorno
a sé una vita simpatica, e generosa, e che gli si parlino le parole
della fede e del coraggio.
(1) Il Vallauri è pure socio corrispondente della Crusca.
XXXVIII.
ERCOLE RICOTTI.
M'onoro d'avere avuto tra i miei migliori maestri il primo tra
gli storici piemontesi viventi, 1' autore di una delle più belle e
posso dir classiche storie, le quali vanti la nostra letteratura, un
uomo del quale fu tutta degna la vita come ne son nobili e ge-
nerosi gli scritti. La sua dignità modesta ascose una parte del
grande valore di lui al suo nativo Piemonte; quanto men noto
dunque esso dev'essere all'Italia per la quale le opere del Ricotti
non sono forse divulgate secondo il loro merito, e che pur dove
giunsero non hanno messo in alcuna mostra la persona dello
scrittore, per recar solo intorno la notizia de'fatti che lo scrit-
tore si proponeva di narrare ì Si notano nel Ricotti le qualità
eminenti dell'ingegno piemontese, quando esso é bene dotato e
ben diretto: vigore, esattezza, sincerità. Il vigore può degenerare
nella rudezza e nello stento, l'esattezza nella pedanteria, la sin-
cerità nella indifferenza. Il Ricotti, per mezzo della coltura lette-
raria, temperò le virtù del proprio ingegno e non le lasciò vol-
tarsi in vizio. Nella sua parola viva vi è ancora qualche asprezza;
l'antico matematico ama ancora i suoi angoli, e ne lascia tuttora
alcuni ne'suoi accenti vibrati, stretti, schietti, incisivi. Negli
scritti, invece, gli angoli, le punte scompaiono ; lo scrittore non
s'adagia, né si consuma nelle vane parole; ma ne comprende in-
vece il potere, e se ne serve ad animare d'alcuna vita artistica
l'ignudo vero che dicono bene splenda per sé, ma che pur diviene
operoso soltanto se alcuno lo illumini e lo faccia valere. Leggasi
fra gli altri lavori del Ricotti il suo bel libro Della vita e degli
— 512 —
scritti di Cesare Balbo pubblicati dal Le Monnier, e chi conosce
il Ricotti pregierà senza dubbio la efficacia della educazione let-
teraria, in grazia della quale, un Aero soldato ed un severo ma-
tematico seppero trasformarsi in prosatore quasi elegante, per dir
bene le molte cose buone ch'egli aveva a dire intorno al grand'uo-
mo che incominciò con l'essergli patrono e guida negli studii
storici e ne'travagli politici, e finì col diventargli compagno ed
amico.
Nacque Ercole Ricotti in Voghera il 12 ottobre 181G; il dottor
Mauro Ricotti, autore d'alcune opere mediche, gli fu padre. Com-
piuti gli studii ginnasiali e filosofici in Voghera, egli passò nel
novembre del 1832 a studiar le matematiche all'università di To-
rino, sotto la disciplina de'celebri professori Plana, Bidone e Giulio;
a vent' anni egli conseguiva la sua laurea d'ingegnere. Sul prin-
cipio dell'anno medesimo (1836) l'Accademia delle Scienze di To-
rino aveva proposto per un premio il tema seguente: « Dell' ori-
gine, dei progressi e delle principali fazioni delle compagnie di
ventura in Italia sino alla morte di Giovanni de'Medici capitano
delle Bande Nere, e qual parte esse abbiano avuta al riordina-
mento della milizia italiana >. Il Ricotti si propose di concorrere.
Nel settembre del 1837, in età di ventun anno, presentava il suo
manoscritto, con 1' epigrafe : « Si mi caccia il lungo tema. Che
molte volte al fatto il dir vien meno ». Nel gennaio del 1838,
l'opera del Ricotti veniva premiata dall'Accademia. Essa conte-
neva allora soltanto la storia delle compagnie di ventura propria-
mente dette, ossia della milizia in Italia nei secoli XIV e XV. In
altri sei anni di lavoro il Ricotti compi l' opera sua col trattar
pure delle vicende della milizia italiana dal VI al XIV secolo, e
dal XV al XVIII, per modo ch'egli diede con essa alle nostre
lettere una completa storia della milizia italiana, degnamente pa-
rallela alla storia della legislazione italiana dello Sclopis. Pre-
miato dall'Accademia, il Ricotti si presentò al Balbo, che l'accolse
quindi sempre famigliarmente in sua casa; nel 1839, per una mo-
nografìa suir Uso delle prime milizie mercenarie in Italia, gli
divenne colléga nella Regia Deputazione di Storia Patria; nel 1840,
per una monografìa sulle Milizie dei Comuni Italiani, collega nella
Pteale Accademia torinese delle Scienze; nel 1843-44 fìnalmente
usciva tutta la Storia delle Compagnie di Ventura, in quattro vo-
lumi in ottavo; ma la stampa del quarto volume gli veniva sospesa
da lunga e tediosa malattia d'occhi, seguita da pericolosa infermità.
A queste ed altre difficoltà allude lo stesso autore sul fine della
— 513 —
prefazione alla seconcla edizione dell'opera che il Pomba pubbli-
cava nel 184') nella sua BiblioLeca di Oj)ere Utili: « Quanto a noi,
conchiude il Ricotti, persuasi come siamo che il più nobile uffl-
fìcio dopo Toperare sia quello d'istruire colla voce e cogli scritti,
ci riputeremmo abbastanza compensati della lunga fatica, dove la
vedessimo riuscire a qualche vantaggio della patria nostra. Con
questo intendimento lavorammo, non ostante ì gravi scoramenti
e la !;;al ferma salute, e mille altri ostacoli, con questo intendi-
mento lavoreremo, seppure la fortuna non ci volesse chiudere an-
cora questa via di esercitare le poche forze dateci dalla natura.
Che se tal fosse il volere di quella, ricordisi questa patria no-
stra, al cui incremento abbiamo sempre anelato di esporre tutto
noi stessi, che v'ha sovente tal complicazione di casi e di tempi,
per cui alcuni uomini non possono di sé manifestare al mondo
che una piccola parte ». Nella dedica punto servile che il Ricotti
faceva dell'opera sua fin dall'anno 1843, al Re Carlo Alberto, ri-
cordava la necessità di « riesaminare i fatti, riunirli, classificarli;
dedurne principii ovvii e fecondi; cercare alle guerre passate i
motivi degli ordini presenti ; cercarvi le regole della tattica, le
fondamenta della strategia; stabilir fermi nomi a chiare idee; ap-
prossimare lo studio quanto pili sia possibile all'applicazione pra-
tica ; rifondere in un corpo di dottrina il meglio di que' lavori
parziali; coordinarla ai precetti dell'alta amministrazione militare;
infine riassumere questa mole di studii sia in parecchi trattati,
sia in una serie di scuole saviamente collegate ; » e quindi sog-
giunge : « ecco l'impresa che, quando fosse nobilmente fornita^
potrebbe mutare l'aspetto di più di un esercito europeo! Forse la
presente età, troppo vicina a'grandi avvenimenti trascorsi, dovrà
trasmettere alla generazione avvenire questo grande lavoro. Pur
il compierne anche una piccola parte dovrebbe parere già opera
sufficiente a soddisfare i desiderii di qualunque animo amantissimo
del pubblico bene ; massime se le proprie fatiche conseguissero
l'intento di aprire ai giovani uffiziali eziandio in tempo di pace
un vasto campo dove studiare e perfezionarsi, e di preparare con
immenso vantaggio allo Stato una scuola perenne di ottimi uo-
mini di guerra ». Così lo storico Ercole Ricotti precorreva di
trent'anni il ministro Ricotti riformatore degli ordini militari in
Italia. Il Re Carlo Alberto, nel giugno del 184i, nominava non
tanto per la dedica, quanto per le lodi universali prodigate al li-
bro del giovine ingegnere che era entrato nel Genio civile e pas-
sato nel 1840 luogotenente del Genio militare, a cavaliere del
Ricordi Biografici 33
— 514 —
Merito Civile di Savoia. Nell'anno 4846^ il marchese Cesare Al-
fieri riordinando nell'università di Torino gli studii di legge, con
l'aggiunta di nuovi insegnamenti, creava le due nuove cattedre
di economia politica e di storia moderna. Quella di economia po-
litica fu affidata ad Antonio Scialoia, quella di storia moderna al
Ricotti, ch'esordi le sue lezioni nel novembre di quello stesso
anno. Ma il titolo di storia moderna, fu, scrive il Ricotti stesso,
nella sua vita del Balbo, a dissipare le paure del Re, modificato
in quello di Storia militare d' Italia, che era forse anche più si-
gnificativo. Nel 18-47, il Ricotti assunse il suo proprio titolo di
professore di storia moderna, oltre che ricevette l' incarico gra-
tuito d'insegnare per la prima volta in una università italiana
la geografia e la statistica, cattedra della quale egli divenne pure
titolare nel 1857 ed alla quale rinunciò, per serbare quella sola di
storia, nel 1859. Nell'ottobre del 1847, il Ricotti fece ancora parte
della Commissione superiore di revisione, insieme con lo Sclopis,
il Balbo, il Sauli, il Cibrario, il Buoncompagni, il Ghiringhello,
il Tonello ed il Moris. Nel novembre dello stesso anno, insieme
col Balbo e col Cavour, egli fondava il giornale II Risorgimento,
e lavorò quindi come membro della Giunta con essi a preparare
lo Statuto e la legge elettorale. Il Ricotti cooperò pure a formare
in Piemonte il primo ministero costituzionale, nel quale rifiutò il
posto di segretario generale, nel desiderio di condursi al campo,
dove fini per esser fatto prigioniero nel recare ordini da Milano a
Novara, poche ore prima dell'armistizio Salasco. Quando il suo
collega ed amico Balbo fu ministro, quando lo stesso Balbo nel
1851 venne nuovamente incaricato di formare un ministero, sia
per fierezza, sia per delicatezza, il Ricotti s'astenne dal vederlo,
non volendo sembrare né a lui né ad altri un adulatore, un bri-
gatore, od almeno un curioso. Non la persona cercò gli uftìcii
onorevoli, ma l'onorevole persona fu ricercata per gli ufficii. Fu
deputato di Voghera nel 1848, di Ventimiglia fra il 1849 e il 1853,
membro straordinario del Consiglio superiore di pubblica istru-
zione dal 1852 al 1859, membro ordinario dello stesso Consiglio
dal 1859 al 1866, senatore del Regno dall'anno 1862, rettore del-
l'università di Torino fra il 1862 e il 1865; non fu ancora mini-
stro della pubblica istruzione, ma lo potrà divenire quando si senta,
e si sentirà forse presto, in Italia il bisogno di rivedere al po-
tere uomini risoluti, energici, sinceri amici delle libertà costitu-
zionali, delle quali oltre che per gli atti della vita e per la parte
presa a compilare lo statuto piemontese, si mostrò il Ricotti degno
— 515 —
estimatore nella sua memorabile Storia della monarchia piemon-
tese, in sei volumi, e nella sua Storia della costituzione inglese.
Tra le opere scolastiche del Ricotti, rammento come pregevolissime
ed originali nel metodo e nell'esposizione : Il corso di lezioni so-
pra la Storia d'Italia dal Basso impero ai Comuni (un voi. in-8,
Torino, 1848), e la sua Breve storia d'Europa e specialmente
d'Italia (in due voi., Torino, 1850-51). Tra i Monumenta liistorice
patrice dobbiamo Analmente alla diligenza del Ricotti la pubbli-
cazione dell'opera in due volumi in foglio, intitolata : Liber Ju-
rium ReipuUicce Genuensis. Ne'giorni presenti si vive in fretta
e si dimentica presto; perciò accade che una vita operosa come
quella del Ricotti a pochi sia nota, e dai pochi stessi non si pregi
quanto essa vale; ma verrà tempo, io spero, in cui anco l' Italia
moderna vorrà ricordarsi di fare l'inventario delle sue glorie, ed
allora tra le glorie più utili e più sicure, per quanto prive di fa-
sto, collocherà in posto d'onore il grave professore di storia mo-
derna dell'ateneo torinese, il compagno ed amico del Balbo, lo sto-
rico della milizia italiana e della monarchia piemontese.
XXXIX.
LUIGI SCHIAPARELLI.
Come il professor Ricotti ha sostenuto per molti anni l' onore
degli studi! storici nell'università torinese, cosi il professor Luigi
Schiaparelli nelle scuole secondarie del Piemonte^ vuoi con l' in -
segnamento, vuoi con trattati, già numerosi, di storia ch'egli ha
consegnati alle stampe. Io l'ebbi professore per quasi quattro anni
nel Collegio di San Francesco da Paola in Torino e lo sperimen-
tai non pure dotto e benevolo, ma singolarmente atto a destare
ne' giovani l'amore degli studii storici. Egli soleva tracciarsi un
programma sempre molto più largo di quello che richiedesse il
Ministero, e quindi lo sminuzzava a noi in una specie di somma-
rio particolareggiato, ove tutti i fatti più singolari venivano ac-
cennati; mancava loro soltanto il calore ed il colore, mancava
il legame storico, ed a questo difetto suppliva ora con la viva
voce egli stesso, ora invitando i giovinetti di buona volontà a
preparare componimenti specialissimi sopra alcun tema, ch'egli
non imponeva ma proponeva, a svolgere il quale ci indicava pure
le principali fonti. Cosi, per merito dello Schiaparelli, avemmo
per tempo fra le mani, per la storia antica, le storie di Erodoto,
di Diodoro, di Pausania , di Arriano , di Dionigi d' Alicarnasso,
di Dione Cassio ed altre fonti dirette d'erudizione storica ; per la
storia del medio evo i volumi di Gibbon, le opere monumen-
tali del Muratori. Neil' insegnarci la storia romana, fin da quel
tempo, egli ci rendeva conto de' risultati della critica storica
tedesca e specialmente delle opinioni di Niebuhr e di Momm-
sen. Egli fu a noi pertanto professore zelantissimo, e dovea però
- 517 —
quindi riuscire trattatista egregio. La sua erudizione storica oc-
cupando un campo vastissimo, non potò naturalmente approfon-
dirne ogni parte ad un modo; onde, anche lodatissimi, 1 suoi libri
scolastici offrirono ed offrono ancora alcuni appigli alla critica (1);
se non che, ad un trattatista diligente e coscienzioso come lo
Schiaparelli , la critica (anzi che impermalirlo) pur che onesta,
è sempre la benvenuta; egli, dal fervido suo laboratorio, ove rac-
coglie, ordina, spiana da parecchi anni copiosi materiali storici
per la gioventù studiosa tien pur nota delle giuste osservazioni
che gli possano esser fatte e se ne giova per migliorare conside-
revolmente ogni nuova edizione de'suoi lavori, de' quali fu sempre
desiderata la ristampa, poiché tra i trattati di storia e geografia
che vanno per le nostre scuole non se ne conoscono di più ricchi
in minor volume, di meglio ordinati nella ricchezza, di quelli del
professore Schiaparelli. Cosi il solo Manuale completo di geogra-
fia e statistica ebbe già dodici edizioni; cinque edizioni si fecero
della Storia del Medio evo, quattro della Storia Greca, della Sto-
rìa Romana, della Storia moderna, tre della Storia Orientale,
due della Storia degli Ebrei. (2) Si comprende agevolmente da
questa breve statistica la nobile parte che lo Schiaparelli dovette
esercitare in quest'ultimo ventennio nella coltura storica delle
Provincie piemontesi, e cresce però tanto più il desiderio che le
opere di lui rifiutino o almeno discutano tutte quelle nozioni sto-
ri^'he meno accertate, delle quali il dotto professore saprebbe age-
volmente indicare la fonte, ond'egli le attinse, ma che gli studiosi
accolgono spesso e ripetono quindi con troppa credulità. Ne' suoi
(1) Iq ispecie, senza toccare di alcuQe inesattezze parUcolari, nella
parte antica e ideila euio-ratìa storica: per la quale ei s^^^ue ancora al-
cun^ traccie che l'o.dierna critica ha intieramente abbandonate. Cfr. al-
cuni capitoli della Storia Orientale, il 2" capitolo delia Storia Greca,
alcuni paragrafi della Storia degli Eterei, la nota della pag. 37 del primo
voi. della Storia Romana, il paragrafo (J7 del Manuale co'mpleto di
geografia e statistica.
(2j Lo Schiaparelli rese poi importanti servigi alla istruzione secon-
daria per la parte da lui presa nella pubblicazione di parecchie carte
murali per le scuole e di un atlante geografico, che venne dal prof. Ce-
lestino Pvroglio professore di geugralla e statistica nell'Università di
Torino giudicato superiore a tutti gli altri atlanti che vanno per le mani
de'uostri studiosi.
— 518 —
insegnamenti egli mostra maggior scetticismo critico che ne'suoì
libri; non potendo egli farsi interprete de' proprii manuali a tutti
gli scolari del regno è desiderabile pertanto che nelle successive
edizioni delle proprie opere egli temperi alquanto il tenore d'al-
cune affermazioni, in particolare nelle sue tre storie antiche, le
quali per ora, sembrano talora prendere un carattere soverchia-
mente determinato ed assoluto.
Luigi Schiaparelli è nato nell'anno stesso in cui nacque il Ri-
cottij ad Occhieppo inferiore, nel Biellese (1); compiuti con lode
gli studi secondarli nel Collegio di Biella, passò nel 1832, come
allievo del Collegio delle provincie ora Carlo Alberto, a studiare
nell'Università di Torino le lettere latine e le italiane presso il
Boucheron ed il Paravia, e vi si fece notare per alcune poesie
bernesche, delle quali si valse pure alcun tempo per dire alcuna
utile verità politica o letteraria. I suoi capitoli berneschi (fra gli
altri quelli sulla Cuccagna, sul Monte dì Pietà e sul Baretti che
si leggono in un curioso volume ch'ebbi già fra le mani intitolato
Componimenti originati e tradotti (2) ), che recitava egli stesso
nelle accademie letterarie istituite e dirette dal Paravia, erano
sempre dal numeroso ed eletto uditorio accolti con lieto plauso;
e subito dopo stampati e ristampati nelle appendici letterarie degli
scarsi giornali politici di quel tempo e delle strenne. Contempora-
neamente il professor Paravia affidava allo Schiaparelli il compito
onorevole di scrivere e pubblicare un sunto delle sue lezioni sulla
Epigrafia italiana, il quale , compiuto dallo Schiaparelli , veniva
quindi pubblicato r\.Q\X Annotatore Piemontese di Mich. Ponza ; cosi
quando usciva dall'Università, per merito de'propri scritti, lo Schia-
parelli erasi già acquistato buon nome, numerosi amici e special-
mente la benevolenza d'un personaggio eminente per intelligenza e
autorità nella Corte del Re Carlo Alberto, di Cesare Saluzzo, go-
vernatore dei principi reali e quindi del duca di Savoja, ora Re
d' Italia. Era il Saluzzo mecenate potente appresso il Re di tutti
quelli, che nelle arti belle, nelle lettere e nelle scienze avevano
conseguito alcuna fama, o davano speranza che l'avrebbero otte-
(1) Al suo conterraneo Quintino Sella ei dedicava la sua Geografia^
alla moglie del Sella, Clotilde Rey, la seconda edizione della Storia degli
Ebrei. La Storia moderna Io Schiaparelli ha dedicata al Berti, e la
Storia Greca al Coppino.
(2) Torino, 1841, tip. Canfari.
— 519 —
nuta; Cesare Saluzzo destinava tosto allo Schiaparelli un ufficio
nell'Accademia militare, delia quale era governatore supremo e
quasi in pari tempo (nel 1838), il Magistrato della Riforma ofFe-
rivagli la cattedra di professore di lettere nel R. Collegio di Sa-
luzzo. Lo Schiaparelli, avrebbe preferito a ragione il primo po-
sto; accettava però il secondo per non aver guai col colonnello
direttore degli studi dell' Accademia, che in suo cuore aveva de-
stinato quell'uffizio ad una sua creatura.
Alcuni mesi dopo, lo Schiaparelli passava a professare nel Col-
legio Reale di Asti, che era in quel tempo il piìi numeroso dello
Stato, dopo quelli della capitale. In Asti egli si consacrò partico-
larmente allo studio della Storia; e, già famigliare con le lingue stra-
niere moderne, merito raro in quel tempo, traduceva dal tede-
sco i Fatti principali della storia universale di G. Bredow, che
venivano pubblicati in due giusti volumi dal benemerito Giuseppe
Pomba nella Raccolta delle opere utili (1). Scosso quindi dalla
osservazione di Heeren, mancare ancora una storia degli Ebrei
prima della schiavitù di Babilonia, la quale si scostasse egual-
mente dallo scetticismo e dalla superstizione, si decise di tentare
la prova; e dopo un lavoro di parecchi anni aveva compiuto ap-
punto quel libro, accennato da Heeren, fatto intieramente, anzi
con troppa religiosità, sulle fonti, curato con diligenza e due volte
copiato di sua propria mano. Con tuttociò la sua Storia ebraica
non trovava un editore a patto alcuno : la traduzione di Bredow,
che era un protestante e un liberale, e i sentimenti di libertà, e
fraternità ed uguaglianza, che dominavano nella storia degli ebrei,
non che giovare allo Schiaparelli, lo avevano messo in sospetto
e mala vista ai chierici amministratori della pubblica istruzione,
alla polizia ed alla Curia ecclesiastica. Per cui, mandato ad inse-
gnare lettere latine ed italiane in Ivrea, e stato ad un pelo di do-
vere andare a respirare le aure poco salutifere di quel Castello,
quasi sfiduciato della sua carriera, pensava a ritirarsi dall' inse-
gnamento.
Ma, sovraggiunto il 1848, con la costituzione, le cose cambia-
rono: egli veniva immediatamente chiamato dal nuovo ministro
dell'istruzione, cav. Boncompagni, alla cattedra di Storia e geo-
grafia nel Convitto nazionale di Voghera, uno de' sei collegi di
(1) I fatti principali della storia universale, narrati da G. G. Bredow^
Torino 1841.
— 520 —
compiuto insegnamento, istituiti in quell'anno in surrogazione di
altrettanti, diretti fin allora dai Gesuiti. Alfine, essendosi egli fatto
notare per una monografia sull'ordinamento degli studi secondarli
in relazione con la legge Boncompagni, e inoltre come segretario
generale del Congresso pedagogico^ tenutosi nel 1849 in Torino
con grande solennità, era chiamato in queir anno stesso col me-
desimo uffizio di professore di Storia e di geografìa nell'ora Gin-
nasio Liceo Gioberti di Torino, che era allora il più frequentato
di tutto il Regno. Da quel punto non gli mancarono più editori
della Storia degli Ebrei (l), che 1' Aporti e Monsignor Losana,
stati sempre pieni di benevolenza per lo Schiaparelli, chiamavano
la più 'beila Storia degli Ebrei che noi possediamo; e cominciò
una serie di pubblicazioni storiche e geografiche, che essenzial-
mente si riassumono nel corso di storia generale dalle prime ori-
gini al 1872, pubblicato dal Vaccarìno (2) in sei volumi di storia
ed U710 di geografia, non tenuto conto di altri numerosi libri da
lui pubblicati di vario argomento. Il favore del pubblico non gli
mancò. Tutti quei libri ebbero parecchie edizioni, che sempre
l'autore corresse e migliorò efficacemente. Neppure il governo non
lo dimenticò del tutto, perchè, nel 18")2, sulla relazione di una
commissione scientifica incaricata di esaminare le pubblicazioni
dello Schiaparelli, sulla proposta del ministro Boncompagni fu no-
minato con decreto reale professore sostUuilo di storia antica e
di archeologia nella Università di Torino. Per la nuova legge
Casati lo Schiaparelli riusciva di pieno diritto professore straordi-
nario di geografia, e poi di storia antica; finché, nel 1863, egli vin-
ceva per concorso di titoli il posto di professore ordinario di
storia antica, uffizio che egli sostiene tuttora nell'Ateneo torinese.
Lo Schiaparelli è uomo diligentissimo nel suo uffizio, ma non
piaggiatore né degli scolari né dell' autorità, e sente tutta l'im-
portanza del mandato; amatore di quieto vivere e alieno dagli
intrighi ebbe in sua vita una sola polemica col Revere e col Ghiaia,
direttore della Rivista Contemporanea, la quale egli sostenne con
moderazione e fermezza, giurando però di non volerne avere altre
in avvenire; e tenne la parola. Non volle mai allontanarsi dalla
(1) Storia civile e politica degli Ebrei dalla loro origine alla schia^
vitù di Babilonia Torino, tipografia regia 18."j0, e seconda edizione 1870,
tip. Vaccarìno.
(2) Corso generale di storia antica e morfema, presso Vaccarino.
- 521 —
Università di Turino, quantunque gli fossero offerti con insistenza
posti di ordinario a Pavia ed a Bologna, anzi in quest' ultima
Università egli fosse nominato ordinario senza ch'ei lo sapesse^
quando egli era a Torino solamente straordinario. Oltre le ope-
re pubblicate, ha lo Schiaparelli pronto da più anni per la
stampa un buon volume di scritti sulla Archeologìa, un altro sulla
geografia anlica, ed altri due sulla storia dell' llalia antica; dei
quali in parte aveva incominciata né so perchè ne abbia sospesa
la stampa. I suoi scolari insistono specialmente perchè la Storia
dell'Italia antica non tardi a pubblicarsi; ma forse ei vorrà ri-
serbarlo per gli anni estremi della sua vita; anche dopo l' opera
del Vannucci, una storia simile è sempre ardua fatica, poiché è
molto più quello che non si sa intorno alla primitiva storia di
Italia di quello che si possa con alcuna sicurezza affermare. Né
l'indugio che frappone lo Schiaparelli può dirsi tempo perduto ;
poiché è tra le cose possibili che, mentre egli aspetta, s'arrivi a
sollevare il velo misterioso che ci nasconde i caratteri etnici del
popolo etrusco.
La vita dello Schiaparelli fu comparativamente a molte al-
tre, uguale e tranquilla; questo non vuol dire però che la sua
carriera sia stata sgombra di triboli e di spine, ma che egli
seppe levarseli dinanzi, senza troppo curarsene. Egli dovette anzi
superare assai difficoltà e pigliarsi in pace grandi e piccole per-
secuzioni, che cominciarono per lui appena uscito di collegio, e
eh' io rammento a conforto dei giovani d'ingegno e di buona vo-
lontà, che trovano continui ostacoli o nella invidia dei compagni,
0 nella sospettosa invidia di superiori, che non vogliono concor-
renti negli impieghi né uguali o superiori nella scienza che pro-
fessano; 0 semplicemente nel mal genio delle autorità, con cui
sono costretti ad avere relazioni d'inferiorità gerarchica o sociale.
Uscito appena di collegio, lo Schiaparelli vinceva, come ho detto,
un posto nel collegio delle provincie per la carriera dell'insegna-
mento: ma eravi allora la condizione espressa di vestire l'abito
ecclesiastico, e il vicario generale di Biella, che non lo vedeva
di buon occhio, dopo promesso di concederglielo, glie lo negava
in termini recisi ed assoluti, sperando con ciò di rovinarlo nella
carriera. Avvenne invece tutto il contrario, perchè il presidente
del Magistrato, che era pure un gi^andissimo codino, ma un uomo
retto, irritato dal procedere del vicario generale di Biella, dispen-
sava lo Schiaparelli da quell'obbligo irragionevole, ed estendeva
poi la fatta concessione a tutti i conc(jrrenti venuti dupo di lui.
— 522 —
Compiuto il corso di lettere, egli sarebbe stato lietissimo di pas-
sare come insegnante nell' Accademia militare di Torino, ufficio
destinatogli dal Governatore della medesima; ma il mal animo del
direttore degli studi lo obbligò ad optare per la carriera delle
scuole secondarie fuori di Torino, dove aveva tanti mezzi ed ajuti
di studiare e di farsi strada. In Asti il troppo famoso vescovo
Artico, credendosi offeso nel suo ineffabile orgoglio, tentò di as-
sassinare civilmente lo Schiaparelli con atroci calunnie, ma ven-
nero due lettere da Cesare Saluzzo, che sempre gli mantenne la
sua benevolenza e quasi amicizia, una al vescovo e l'altra al ma-
gistrato della Riforma di Torino ; e lo Schiaparelli non fu più
molestato, né dal vescovo, né da altri. La pubblicazione del Bredow
gli fruttò un' avversione decisa del magistrato della Riforma, che
gli ricusò l'aggregazione nella facoltà di lettere e filosofia. In Ivrea,
poi un bel mattino sull'alba, lo Schiaparelli si vide comparire di-
nanzi il capitano dei carabinieri, il quale senza complimenti gli
disse di essere venuto per ordine del conte Lazzari. Era questi
il direttore capo della polizia del regno, e il terrore dei liberali,
e lo Schiaparelli aveva pubblicato tre giorni prima una poesia
per la festa dell'Annunziata, che celebravasi nel collegio dagli
scolari, nella quale aveva fatto un invito alla gioventù, che non
piacque ai rappresentanti del Governo, i quali gli avevano prono-
sticato sventure (1) per le due ultime strofe, che non offro tanto
come saggio di alta poesia, quanto come un indizio degli antichi
sentimenti patriottici dello Schiaparelli :
« Santo del cielo e della patria amore
Deh! tu c'infondi negli ardenti petti;
Fa che a gagliardi affetti
La subalpina gioventù s'infiammi
E cessi al fine dai codardi voti
Che insultan gli avi e infamano i nipoti.
Ma operosa sorgendo, il suo avvenire
Dell'Alpi affidi al reggitor sovrano.
Che più non é lontano
Quel sospirato irrevocabil giorno
In cui dal voto universal chiamato
Ei fia d'Italia a rinnovare il fato.
(1) Ivrea, tipografia Eredi Franco 1847.
— 523 —
Ma non fu nulla. Il conte Lazzari, cui era noto lo Schiaparelli
pei suoi capitoli antichi, si era contentato di fargli un pò di paura.
Mandava a dirgli, che Carlo Alberto aveva veduto con piacere la
sua poesia, ma ch'egli avesse la cortesia di rimettere al messag-
giero tutte le copie, che di quella gli rimanevano, invitandolo ad
un tempo di non farne altre sullo stesso tuono. Neppure a Torino
non gli mancarono seccature. Nominato professore sostituito di
storia antica nell'Università, servi sette anni senza assegnamento
fisso, mentre ai suoi colleghi, meno anziani, un tal dritto veniva
concesso; e finalmente, dopo aver vinto il posto di professore or-
dinario nel 1863, riuscì ad un suo avversario di ritardarne la nomina
per altri quattro anni. Tutto questo però non turbò mai i sonni
né guastò le digestioni allo Schiaperelli, che venne finalmente a
capo di superare una dopo l'altra, tutte quelle piccole persecuzioni,
dopo averle sostenute con animo non rassegnato, ma tranquillo e
sicuro, non solo per la coscienza del sentirsi puro, ma ancora per
la fiducia, che non poteva mancargli, sarebbesi o prima o poi ri-
conosciuto il suo valore e fatta ragione a' suoi dritti. Ecco dunque
una vita modesta, se vuoisi, ma tutta egregiamente spesa; possiamo
poi consolarci nella sicurezza che lo Schiaparelli, simile alle querele
delle sue valli montane, con l'invecchiare è sempre venuto acqui-
stando nuova gagliardia d' ingegno ; di maniera che, come, per
lungo tempo, speriamo, gli studenti dell'ateneo torinese avranno
il vantaggio di sentir forte la mano della loro guida per le alpi
scoscese dell'antichità, cosi ancora, attendiamoci molti altri lavori
storici sempre più vigorosi e perfetti dalla operosa ed industre
officina dell' insigne trattatista biellese.
XL.
PIERLUIGI DONINI.
Il Donini non è punto vecchio, e pure può dirsi egli abbia già
vissuto due vite; nella prima, fu letterato cospicuo; nella seconda
egli si fa valere da oltre vent'anni come benemerito insegnante.
Il letterato m'attrasse alle lezioni del maestro. Se bene egli sia
stato in Torino professore sostituto di storia nel Collegio di San
Francesco da Paola, ch'io frequentavo, se bene egli professi al
presente lettere italiane e storia in una delle scuole tecniche, e,
come professore di lettere italiane e di storia egli abbia pure pub-
blicato in servigio delle scuole lodati e pregevoli trattatelli {An-
tichità romane, Torino 1852, Precetti di fatile epistolare, Torino
1856, Geografia generale, Torino 1857, Bel modo di scriver bene,
Torino 1862, Diritti e doveri del cittadino, Torino 1862, Scrittori
classici ad uso della gioventù. Torino 18G8 1873, Antologia sto-
rica italiana, Torino 1863. Storia d Italia ad uso delle scuole tec-
niche, Torino 1873), io ho ricercato particolarmente di lui come
interprete di Plauto. Egli era stato fino al suo tempo, e credo ri-
manga ancora, malgrado i nobili ma freddi tentativi de' signori
Giuseppe Rigutini e Temistocle Gradi, il miglior traduttore di
Plauto in Italia. Io lo pregai con alcuni miei compagni, fra il
quindicesimo e sedicesimo anno della mia vita, quando studiavo
filosofìa, di spiegarci privatissime in casa sua, alcuna commedia
di Plauto; al che egli acconsenti di buon grado, e mi pose dentro
le più vive bellezze della lingua de'coraici latini, ossia della lingua
parlata degli antichi romani. Il modo disinvolto, col quale egli ci
spiegava e ci animava Plauto, ce lo rese, in breve, così famigliare,
if-
— 525 —
■Ile, a mezzo del suo corsu plautino, intendevamo già cosi bene
il nostro testo, che si trattò un momento, nel carnovale del 1856,
(li tentare fra noi una rappresentazione del Trinummus; ma la
difficoltà di porlo convenientemente in iscena ce ne fece poi smet-
tere il pensiero. Cosi al Donini, come a lodato traduttore del carme
catulliano, che incomincia Peliaco quondam 2^rognaiae vertice pi-
niis raccomandai, in quello stesso anno, manoscritto un mio scar-
tafaccio, contenente tutte le poesie di Catullo da me voltate o me-
glio volute voltare in sesta rima italiana. Col suo esempio, e coi
suoi consigli il Donini mi die coraggio a coltivare con particolare
amore la lingua latina, e, s'io potei quindi con singolare profitto
seguire nell'Università di Torino le lezioni del Vallauri, oltre che
alla mirabile eloquenza del maestro ed alla volontà mia ardentis-
sima, ne debbo pure un po' di merito agli incitamenti amorevoli
ricevuti dal festivo traduttore di Plauto.
Nacque il Donini di poveri ma onesti parenti in Cremona il di
15 febbraio dell'anno 1821. I genitori, al solito, voleano farne un
prete, e però l'avviavano agli studii; ma ebbero il merito poi di
non distorglierlo da essi, anche quando si dovettero accorgere che
il figliuolo non avrebbe in alcuna maniera voluto pigliar gli or-
dini sacri. Ebbe il Donini a maestri tre valentuomini, Carlo Er-
cole Colla professore di rettorica nel ginnasio cremonese, uomo di
gusto assai squisito, Giovanni Pini latinista egregio e buon cultore
dell'epigrafia italiana, cui il Donini dedicava poi la prima delle sue
versioni plautine, i Menemmii, e Bernardo Bellini, scrittore fe-
condissimo, uom.o assai dotto nelle lettere latine e greche, col
quale si strinse di poi in parentela, menandone in moglie, s' io
non erro, la figlia; ed a cui il Donini dedicò pure una delle sue
commedie tradotte da Plauto. Le altre versioni di lui furono de-
dicate a Francesco Soldati, a Barlomeo Secco Suardo culto patrizio
bergamasco, a Francesco Robolotti distinto medico cremonese, a
Salvator Betti, ad Antonio Enrico Mortara [scTìUore, scrive il
Donini, cle'suoi tempi elegantissimo^ il quale educato alla sapienza
(ì.e'classici ridona all'italica lingua i fiori e le grazie deità beata
antichità), Angelo Mazzoldi, Giuseppe Saleri (giureconsulto, pre
sidente dell'Ateneo bresciano), Basilio Puoti, Giuseppe Del Chiappa,
Angelo Pezzana, Giuseppe Borghi, Alberto Nota, Pietro Giordani,
Camillo Ugoni, G. B. Niccolini. Tre commedie furono dedicate alla
memoria di tre grandi scrittori comici italiani, Ludovico Ariosto,
Niccolò Macchiavelli, Carlo Goldoni.
' Non pur ventenne, il Donini dava pubblico saggio del suo in-
— 526 —
gegno e de'suoi studii in un volume di Prose italiane (Cremona,
1840). L'anno seguente ei pubblicava tradotto il sopra ricordato
carme catulliano, ristampato nel 1854 a Torino in una strenna di
beneficenza. Fra gli scrittori toscani, piacendogli sommamente il
Redi, egli imprese nel 1842, ad imitarlo in un ditirambo intito-
lato Bacco in Lombardia, cui la stampa periodica di queir anno,
anche censurandolo^ mostrò di avere in pregio.
Fra tanto, poiché nelle scuole di rettorica di Lombardia s'in-
terpretavano a quel tempo due commedie latine, cioè i Captivi di
Plauto e gli Adelphi di Terenzio; poiché nel 1838, il Colla aveva
spiegato nella classe frequentata dal Donini gli Adelphi; poiché
quella era pure stata al Donini occasione di conoscere la versione
di Terenzio del padre Antonio Cesari, la quale alla sua volta gli
fece ricercare VAndria voltata in italiano dal Macchiavelli ed i
Menaechmi parafrasati ne' Lucidi dei Firenzuola, il Donini accolse
nell'animo il desiderio di tentare sulle commedie di Plauto il la-
voro medesimo che il Cesari avea, con sua gloria e delle lettere
italiane, intrapreso e compiuto sul teatro di Terenzio. Incominciò
coi Calativi; la cosa gli parve dura, ma non da arrestare un in-
gegno vivace e volonteroso come il suo; continuò con maggior animo
coi MenaecJmii, con la Mostellaria, col Rudens. Fatta vedere la
traduzione a' suoi maestri Pini e Bellini, n'ebbe conforti, anzi più
che conforti stimoli, chiamandoli essi un codardo s' ei non fosse
andato innanzi, E il Donini prosegui; ma, venuto sul punto d'intra-
prendere la stampa, mancava il meglio, cioè un editore che ne
sostenesse la spesa. In quel tempo i migliori Mecenati degli in-
gegni erano gli studiosi stessi, i quali, quando il programma di
un'opera sembrasse promettere alcun lavoro importante, s'associa-
vano ad essa prima che uscisse e le assicuravano in tal modo il
successo economico. Il sistema era eccellente, poiché, oltre all'in-
coraggiare gli ingegni anco oscuri, li liberava dalla tirannide degli
editori^ i quali divennero invece così difficili, quando non si debba
dire inumani, che tolsero quasi tutta per sé la mercede riserbata
un tempo agli scrittori. Il sistema delle associazioni avea per sé
più vantaggi; che si potevano per mezzo di esso, imprendere opere
lunghe e pubblicarsi adagio; cosi che gli scrittori avessero tutto
il modo di curarle e di rivederle; esse costavano, senza dubbio,
di più, ma stampandosi a fascicoli o volumi distinti non riusciva
troppo grave agli associati l'obbligo di pagai-ne il prezzo a rate;
ed, a motivo di quel prezzo alquanto meglio sostenuto, si poteva
poi curare un poco più lo splendore dell'edizione e premiare con
— 527 —
un equo compenso l'autore per le sue nobili fatiche. Si disse che
il sistema delle associazioni è caduto, poiché offriva un mezzo agli
speculatori di abusare della fiducia del pubblico^ il quale dopo es-
sersi associato per avere un'opera completa, veniva spesso ingan-
nato, ricevendone una sola parte. Ma il lamento prova due cose
sole, che ogni mezzo buono, adoperato da persone tristi in fin di
male, può riuscir cattivo; e che s'impresero talora a pubblicare
in Italia, col mezzo delle associazioni, opere di nessun valore per
la frode di qualche intrigante editore che le fece passare per buone,
per sorprendere a suo vantaggio la buona fede degli studiosi. Io
non veggo, in vero, che alcuna opera veramente importante sia
stata impresa col mezzo delle associazioni, ed interrotta poi per
sola colpa de' loro autori; si bene avvennero spesso tali interru-
zioni 0 quando l'opera stessa era cattiva, o quando alcun terzo si
pose fra l'autore ed il pubblico. Ma prima che tali inconvenienti
si lamentassero, erasi in Italia, per merito delle libere associazioni,
stampato un gran numero di opere degne e veramente notevoli
per la nostra letteratura. Il Donini trovò nella sola sua città e
provincia nativa trecento soscrittori per pagare le spese de'cinque
volumi in ottavo ne'quali si contengono le sue versioni plautine;
della qual benevolenza de'suoi concittadini il Donini si confessò
sempre gratissimo; ed anche oggi egli parla con singolare affetto
della sua terra natale.
Dopo la difficoltà della spesa, sorgeva quella della censura. La
censura milanese faceva tagli spietatissimi, così che l'opera plau-
tina ne rimanesse del tutto sfigurata. Il Donini si rivolse perciò
alla censura superiore di Vienna, la quale, meno zelante e più
giudiziosa della milanese, nella quale erano allora ì protoquamqiiam
il marchese Ragazzi e l'abate Cesare Rovida, ne permise la stampa
a condizione che l'opera si pubblicasse completa. Il biscottinista
abate Rovida, disfogò allora il suo mal animo contro il Donini,
facendo perdere tra gli scaffali della censura ben sei commedie,
le quali però il Donini dovette riscrivere da capo; e tentò, in al-
tri modi, ancora di nuocere all'opera del nostro cremonese. Ma
essendosi finalmente la revisione della medesima affidata all'abate
Mauro Colonnetti^ quello stesso del quale fa pure onorevole men-
zione^ ne'suoi Ricordi, Massimo d'Azeglio, egli non pure non ri-
tardò pili la pubblicazione dell'opera ma l'agevolò, e tanto affetto
pose al giovine interprete di Plauto, che lo sollecitò vivamente ad
entrare nell'insegnamento classico al quale )a versione plautina gli
avea singolarmente spianata la via. Il Donini, incitato pure dal suo
— 528 —
professor Colla, che iutanto lo adoperava nel Ginnasio cremonese
come sostituto, si condusse a Pavia per ottenere la laurea in filo-
sofia, senza smettere di scrivere; che dalla penna ei traeva tutti
i suoi guadagni, avendo, dopo il volgarizzamento di Plauto (1), in-
trapresa una versione del trattato delle opere e dell' elemosine di
San Cipriano (1846) e una Storia di Cremona, di cui usci la
prima parte nel 1848, e ch'egli non potè finire, poiché i casi del
1848 gli impedirono non solo di terminare l'opera, ma ancora di
laurearsi, e lo sbalestrarono, senza mezzi di fortuna, in Piemonte.
La versione plautina procurò al Donini il vantaggio d'entrare
in corrispondenza epistolare coi più chiari letterati del suo tempo,
quali un Mai, un Giordani, un Niccolini, un Puoti, un Pezzana,
un Borghi, un Ugoni, un Ronchini ; con Felice Romani tenne poi
strettissima famigliarità, come pure con Domenico Capellina, il
traduttore di Aristofane. Ma dopo aver fatto tanto nella sua gio-
ventù, ei non seppe poi valersene per salire in alto. Giunto in To-
rino, ebbe egli bene il conforto di non vedervi nuovo il suo nome,
in grazia del volgarizzamento plautino; ma. invece di far suonare la
tromba al suo arrivo, ei si contentò di andarsi a guadagnare mo-
destamente un pane, come scrittore del giornale II Risorgimento
diretto allora dal Conte di Cavour ove depose un' opera di storia
contemporanea, cioè i Commentarli della Rivoluzione Italiana
dal Marzo all'armistizio Salasco, la quale ebbe in que'dì come
tutte le scritture che iì pubblicarono intorno a questi avvenimenti
e lodi e biasimi.
Nel settembre del 1848 trattavasi dal Senato del Regno di or-
dinare il servizio stenografico per le discussioni della Camera vi-
talizia Il barone Manno, 1' avvocato Giovannetti, 1' ab. Ferrante
Aporti, il conte Luigi Cibrario fecero conferire al Donini un posto
di revisore degli stenografi presso la Camera dei Senatori ed egli
stette in quell'ufficio provvisoriamente 1' ottobre, il novembre, il
dicembre del 1848, definitivamente dal 1 gennaio 1849 al marzo
del 1852, cioè sin quando, per economia, si ridusse il numero dei
(!) Fu pubblicato fra il 1844 e il 1847, in Cremona, coi tipi del Ma-
nini, coi t'osto a fronte emandato da Angelo Mai. Il primo volume, ol-
tre ad una prefazione latina non inelegante del Donini, l'elogio di Plauto
dei prof. Eustachio Fiocchi, recitato neirUnivei'iiitù di Pavia, e la pre-
fazione elegantissima al testo plautino di Angelo Mai; essa reca pure
in fronte litografato il ritratto del traduttore.
— 529 —
revisori da quattro a due. Gli era in questo ufficio collega il suo
maestro Bernardo Bellini, il quale fu quindi mandato professore
a Cagliari ; il Donini venne trattenuto in Torino come professore
di Storia e geografia nei collegi torinesi, e nel 1852 egli pubblicò
la sua prima opera scolastica, cioè un volumetto distribuito in cin-
que libri intorno alle antichità romane; il Donini lo compilava
per gli alunni; di esso invece giovaronsi i maestri.
Entrato cosi il Donini nell'insegnamento vi si mostrò quindi
operosissimo. Stette sostituto quattro anni dal 1852 al 1856, né
fu occupato solo nella storia e nella geografia, ma anche nelle
lettere italiane e latine nei due collegi di S. Francesco di Paola
oggi Ginnasio Liceale Gioberti, e del Carmine, ginnasio e liceo
Cavour. Nel 1856 fu mandato professore di lettere italiane, storia
e geografia nel corso speciale detto di S. Barbara in Torino; nel
riordinamento dell'istruzione del 1850, fu nominato prof, titolare
di prima classe nella R, Scuola tecnica di Dora in Torino, nel
1861, 62, 63, 64 65 andò per conferenze magistrali in Urbino, Terni,
Reggio di Calabria, ed Aquila. Non essendovi per le materie sue
libri accomodati attese a compilarli, scegliendo il meglio dalle
opere de' più valenti e non facendosi bello delle fatiche loro, come
altri delle sue, per l' avidità di troppi moderni guasta-mestieri
che vogliono dall'anfora cavare l'orciuolo.
E pago del suo modesto ufficio d'insegnante nelle scuole tecni-
che di Torino egli vive tuttora, senza ambire onori ed uffìcii più
insigni; egli avea principiato in modo che chi gli avesse prono-
sticato nel 1847 una cattedra universitaria avrebbe sembrato me-
ritar fede ; il pronostico avrebbe fallito ; ma a farlo fallire con-
tribuì principalmente la modestia del Donini, che non solo sembra
ricercare le "" grandezze, ma studiosamente evitarle.
INCORDI Biografici 34
XLI.
VINCENZO GARELLI.
Tra gli scrittori italiani più seriamente educativi, io vo'dire
che abbiano fatto dell'educazione, in ispecie deW educazione emen-
datrice com'ei la chiama, una vera scienza, merita una specialis-
sima considerazione il prof. Vincenzo Garelli, al quale andiamo
già debitori delle opere seguenti : Delle colonie penali nell'arci-
pelago toscano (Genova, tip. Sordo-Muti), Delle località più, con-
venienti alle colonie penitenziarie (dissertazione premiata dall'Ac-
cademia delle scienze di Modena; Modena, tip. Soliani), Z)e;toj5e?m
e dell'emenda (opera premiata nel concorso Ravizza Firenze, tip.
Barbèra), Delle biblioteche circolanti ne'comuni rurali (tre ediz.;
Torino, tip. Artigianelli), De'lavori di campagna nella stagione
invernale (Torino, tip. Artigianelli), Norme e lezioni per l'am-
maestramento degli adulti (Torino, tip. Paravia), Compare Lo-
rcìizo 0 storia d'una buona famiglia (tre edizioni; Torino, tip.
Paravia), La forza della coscienza, storia di Policardo Davegnì
(Milano, Carrara), Il lascito Alberghetti in Lnola studiato ne' molti
suoi usi (Imola, Galeati). Tutti questi scritti sono l'opera d'un
solo dodicennio, di quest'ultimo dodicennio, nel quale, ritornata
l'Italia a sé stessa, era uopo ripopolarla d' uomini liberi , e però
onesti, invece che di bruti servili, e però più facilmente incli-
nati alla colpa. Il Garelli ha tardato fino all'autunno della sua
vita a stampare; ma 1' autunno ci ha portato frutti pienamente
maturi.
Ignoro l'anno preciso della nascita di Vincenzo^ Garelli ; ma
suppongo ch'esso cada sul fine del secondo decennio di questo se-
— 531 —
colo. MondOYÌ gli diede i natali; il padre di lui, d'origine campa-
gnuolo, ebbe sette figli maschi e quattro femmine ; il primogeni-
to, fatto prete, divenne provvidenza al nostro prof. Vincenzo,
ch'egli non pur campò con altri due suoi cari dalla miseria, ma
educò ed avviò agli studii ; ed il nostro, alla sua volta, poiché
giunse in età di essere utile, si fece educatore de'suoi fratelli mi-
nori, tra i quali é il professor Felice, notevole scrittore di cose
economiche ed agrarie, e, s' io non erro, ancora il dottore de-
putato di Mondovi, valente scrittore di cose mediche, segnatamente
per la cura delle acque; né prima ei tolse moglie (1) che non avesse
intieramente compiuto presso i suoi cari l'ufìacio educativo, piiì
ancora desiderato dal suo bell'animo che impostogli dalle condi-
zioni economiche della famiglia. Per vent'anni, il Garelli fu pro-
fessore di filosofia, cioè dall'anno 1839 all'anno 1859, nel quale venne
destinato a provveditore degli studii in Genova, onde passò quindi
con lo stesso ufficio a Torino, dove amato ed onorato ei si ritrova
pure al presente ; insegnò da prima per sei anni, privatamente, in
Torino, quindi per tre anni a Cuneo, poi a Genova, ove fu col
Mamiani e col Giuliani tra i benemeriti fondatori dell'Accademia
di filosofia italica, e finalmente a Torino.
Io fui quasi degli ultimi suoi discepoli; forse pure degli infimi;
ma non, al certo, de'meno attenti e de'più devoti. Gustavo, in ve-
rità, assai poco l'ontologia; mi parve sempre, anzi che una
scienza, una poesia astrusa; ma, quando si venne alla logica ed
all'etica, il Garelli seppe con l'aperta sua eloquenza mostrarmi e
farmi ammirare lo splendore del vero e lo splendore del buono.
Egli seguiva le dottrine del Rosmini, del quale si riteneva disce-
polo e da cui era amatissimo ; e, forse per amor del Rosmini,
amava anco più il Manzoni e ce lo faceva amare; cosi, ami-
cissimo di Agostino Ruffini, s' era innamorato del fratello di
lui Giovanni, ne'suoi romanzi : Lorenzo Benoni e Dottor Anto-
nio, ch'egli citava pure nelle sue lezioni di filosofia. E questo suo
bel modo di congiungere lo studio del passato con quello del pre-
(1) La moglie di lui fu Adele Pesci d'Ovada donna di squisito sentire
e di mente elevatissima, che lo rese padre di sei figli, tre figliuoli otre
figliuole che sono tutto il suo orgoglio e tutta la sua ricchezza. Egli
l'ha perduta in quest'anno e non se ne potrà consolare che nella dolce
illusione del ricordo.
— 532 —
sente e le lettere con la filosofìa cresceva grande attrattiva alle
sue lezioni, delle quali alcune ci andarono proprio al cuore. Egli
aveva facile ed abbondante la parola, ma scevra di qualsiasi fron-
zolo accademico e scolastico; diceva le sue lezioni più che non
le facesse tonare; onde c'intendevamo subito; e poi sentivamo che
esse gli si alzavano dal petto e che non gli uscivano soltanto dalla
testa; onde gli venivano fuori sempre calde, e però ci scaldavano.
Nella sua faccia aperta e cordiale, nella franca disinvoltura dei
suoi movimenti, nel suono simpatico e sempre naturale della sua
voce si diceva alla prima: è il volto, è la persona, è la voce di
un galantuomo. Qua e là poi lampeggiava l'ingegno vivace; ed in
ogni lezione scorgevasi la gravità della dottrina. Che il Garelli
sia stato tolto all'insegnamento è gran peccato; poich'egli era
sulla cattedra qualche cosa o meglio qualcheduno di vivo, una
bella individualità vivente, che col suo esempio e con la sua pa-
rola faceva vivere. Potesse ora egli almeno, con la sua autorità
di provveditore^ agli studii, infondere nella parte più educabile
degli insegnanti a lui sottoposti alcuna fiammella di quello Spi-
rito Santo, senza il quale ogni insegnamento è sterile. Potesse
egli spirare ad altri quella parola vitale che deve avere benefi-
cato tanti di noi. Egli si rifa, è vero, del non poter parlare più
dalla cattedra con lo scrivere e pubblicar buoni libri; ma la pa-
rola viva avea tanto maggior efficacia. Lo scrittore innanzi al
pubblico si misura, si contiene di più; e naturalmente si raffredda
un poco. E impossibile il ritrovar ne'suoi libri que'cari rabbuffi,
coi quali, in una bella sfuriata, ci arrivava addosso ne'momenti
agitati, ne'quali qualche cosa gli andava di traverso; e quello che
gli andava di traverso era sempre, naturalmente, alcunché di non
retto, 0 qualche stortura morale, o qualche stortura di ragiona-
mento. Fu lui, e ne sia benedetto, che primo m'aperse gli occhi
su quella brutta piaga che afliigge tanta parte dell'odierna gio-
ventù e ch'egli con frase espressiva chiamava Cipocrisia del vi-
zio, ossia l'affettazione di vizii che non s' hanno tanto per pa-
rere dappiù dell' età nostra. Quella lezione fece una gran luce nella
mia anima, e non l'ho dimenticata e non la dimenticherò mai, e vor-
rei che l'avessero intesa con me tutti i giovani italiani per ricordarla
e trarne profitto. Ma, poiché questo non poteva essere, ricerchino
essi almeno le opere a stampa del Garelli, ove troveranno davvero
di che edificarsi il cuore e la mente. Io ebbi il dispiacere a questi
giorni di trovarmi primo ad aver l'onore di tagliar le carte della
bell'opera di Vincenzo Garelli, Della pena e deWEmenda, nello
- 533 —
esemplare deposto alla Biblioteca Nazionale di Firenze; eppure
essa è un'opera premiata, e pubblicata in Firenze, e da tre anni
e da un celebre editore; il lettore si é forse lasciato spaventare
dal titolo? Il miglior modo di guarire da questo spavento, è aprire
il libro e leggerlo tutto; io restituisco pertanto, non più intonso,
alla Biblioteca il volume del Garelli, ma per ritornarvi fra un
mese a domandare quanti giovani l'avranno richiesto.
XLII.
GIUSEPPE FILIPPO BARUFFI.
Se è vero che dal buon discepolo si argomenta del buon mae-
stro, il nome del Baruffi sarebbe molto mal raccomandato da me,
che gli fui scolaro pessimo. L'avversione ch'io provai sempre dalle
prime scuole fino alle ultime per le matematiche, me ne rese as-
sai faticoso l'apprendimento. L'eccellente professor Pietro Fulche-
ris m'aveva tollerato per cinque anni nel ginnasio e, malgrado
la mia quasi perfetta ignoranza della scienza delle cifre, sempre
consentito di lasciarmi passare alla classe superiore, non volendo
egli che, a motivo di uno studio speciale per cui non mostravo
alcuna naturale disposizione, io fossi inutilmente ritardato nel
progresso degli altri miei studii prediletti. Passato al liceo, vi
trovai professore di filosofia positiva, come chiamavano allora
l'algebra, la geometria e la fisica, il Baruflì, il cui nome ed i cui
scritti m'erano già ben noti II Baruffi era un insegnante ama-
bilissimo ; che la molta dottrina ei soleva condire con piacevoli
racconti, e l'aridità dell'insegnamento rompere con alcune digres-
sioni letterarie piene d'attrattiva. Di queste io non perdevo sil-
laba. Ma disgraziatamente non era sopra di queste che si era
chiamati a rispondere negli esami di licenza liceale, ai quali per-
tanto mi presentai mal preparato, e fui quindi giudicato inferiore
alla prova. La mia impazienza di passare alla scuola di belle let-
tere nell'Università di Torino era vivissima; da tre anni, con
una serie di studii certamente superiori a quanti se ne sogliono
fare dai giovani in quell'età, io m'ero addestrato in modo singo-
lare, per sostenere con onore i miei studii univcrsitarii. Non
— 535 —
potei quindi e noi potevo né pure del resto, a motivo della grande
antipatia che provavo per la scienza del calcolo, attendere con la
cara richiesta allo studio delle matematiche ; avevo passato gli
altri esami con soddisfazione mia e degli altri miei maestri; mi
restava solo quello del Baruffi, che, per quanto benevolo ai gio-
vani, non mi seppe li per li perdonare ch'io mi fossi imbrogliato
neir esporre non so più qual legge di statica o di dinamica, la
quale egli trovava perfettamente semplice ed io invece perfetta-
mente indiavolata. Mi lasciò spropositare un poco, e poi perdette
la pazienza e mi congedò dichiarandomi ch'egli m'avrebbe negato
i suoi voti. Negarmi il voto in quella occorrenza voleva dire
farmi infelicissimo; voleva dire ritardarmi l'ingresso nella scuola
di belle lettere ; voleva dire obbligarmi a sudar le vacanze au-
tunnali sopra le odiatissime matematiche, mentre io avevo allora
sul mio telaio nientemeno che quella tragedia Sampiero, la quale
dovea pochi mesi dopo farmi troppo grande onore presso il Tomma-
seo, una versione completa delle odi di Orazio, degli Adelphi ùi Te-
renzio, del De Re Rustica di Catone, e di parecchie altre tradu-
zioni dal latino in italiano e dall'italiano in latino, oltre a' miei
studi! sopra i comici e novellieri del cinquecento e di storia lettera-
ria. Mi ritrassi dalla prova disperato; mi ritenevo intieramente per-
duto, poiché dicevasi che i voti una volta dati non si potevano,
senza offesa al regolamento, modificare. Pure il mio buon genio, che
m'ha sempre anco in momenti più difficili della vita, sostenuto il
coraggio, venne ad assistermi. Tolsi la penna e scrissi non so più
che, non so più come, ma certamente cose vere e sentite con vero
aflfetto al Baruffi, invocandone la clemenza ; poche ore dopo con-
segnata la mia lettera, mi giungeva la risposta seguente, la qua'e
io pubblico non per quello ch'essa dice di me, ma perchè mi sembra
il miglior testimonio ch'io possa recare della generosità dell'animo
del mio dotto e liberale maestro:
« Caro carissimo Angelo Degubernatis !
« Stia di lieto animo e corra pure animoso la carriera delle
lettere, alla quale il suo spirito ed il suo bel cuore la chiamano,
che la percorrerà sicuramente col più felice successo. Ciascheduno
ha una speciale vocazione; co-;ì vuole la provvidenza sovrana che
governa cosi sapientemente il mondo fisico come il morale. Quando
si è dotati di gran cuore, si è certi di ottenere lo scopo. S. Paulo
dice che la fede sola, benché atta a trasportare monti, locché
— 53G —
vuol dire probabilmente, anche quando ci dà la potenza di ten-
tare quasi l'impossibile, se va scompagnata dal più nobile degli
affetti, dalla carità, si è proprio un nulla. Ebbene l faccia il suo
esame di Magistero (ebbe da me la voluta promozione) e si dia
quindi con tutte le potenze dell'anima a' suoi studi favoriti, che
di fisici e di matematici e di scienziati d'ogni maniera non man-
cheranno mai. La ringrazio delle gentili espressioni di cui Le
piacque infiorare la sua bella letterina; mi conservi sempre il suo
prezioso affetto e mi abbia sempre nel novero felice de' suoi sin-
cerissimi amici.
Torino, il 23 giugno 57.
Il suo professore ed amico
« G. F. Baruffi. »
La mia riconoscenza al Baruffi fu tanta quanto era vivo il mio
desiderio di passare all' Università per attendervi, libero d' ogni
altra cura, alle lettere, quanto sarebbe stato vivo il mio dolore,
se, in osservanza al regolamento, il Baruffi avesse mantenuto il
suo primo voto micidiale. La lettera del Baruffi parmi ora molto
istruttiva, poiché da essa si rileva com'egli intendesse largamente
l'ufficio civile dell'insegnante; ed io vorrei pure che, leggendola,
molti presenti sacrificatori d'ingegni che han nome di professori
esattissimi, ne pigliassero norma e consiglio a più larghi giudi-
zìi. Se si leggesse un poco più nell'animo de'fanciulli, se si esplo-
rasse un po'meglio l'indole loro, quanto più efficace riuscirebbe
l'insegnamento, il quale, invece, sostenuto com' è ora per lo più
in una regione isolata ed assoluta, si comunica e penetra assai
male. Il regolamento è buono per guidare que' soli che non sa-
prebbero con la propria ragione guidarsi, in alcun modo, da sé
stessi; ma dove il giudizio naturale basta, il regolamento riesce
superfluo. Vi possono bensì essere burocratici i quali ne rieleg-
gano la materiale strettissima osservanza, e capi d' istituto che
lascino ancora dirigere ogni cosa dal solo regolamento, poiché la
loro testa piccina non vede e non intende nulla oltre i confini di
esso; ma gli uomini più intelligenti che siedono al governo, e
quello che più rileva la coscienza pubblica universale del paese
sono invece intentissimi a favorire la più Inrga interpretazione
ed anco^ ove occorra, infrazione della legge, quando se ne possa
sperare alcun frutto che compensi di quella provvisoria offesa non
- 537 -
allo spirito liberale e benefico, ma alla lettera necessariamente de-
finita della legge.
Già fin dall'anno 1844, Vllalia scientifica contemporanea d'Igna-
zio Cantù scriveva intorno al nostro Baruffi : « Il professore Ba-
ruffi da quindici anni in qua fa miracoli delle sue ferie autun-
nali; visita tutta l'Europa da Pietroburgo a Costantinopoli; visita
l'Asia, l'Egitto, tien nota delle cose vedute, poi trova ancor tempo
di intervenire ai congressi e prender parte alle discussioni. Cosi ^
gran profitto fa del resto dell' anno; l' incombenza di professore
straordinario di filosofia positiva (fisica e matematica elementare)
nella R. Università torinese, di professore ordinario delle stesse
facoltà nel Seminario arcivescovile, e di prefetto degli studii nel
Collegio di latinità presso San Francesco di Paola, non gli im-
pedisce di aggiungere una mano alla Società direttrice delle scuole
infantili, all'Associazione agraria, alla redazione dell' utile gior-
nale popolare che si pubblica a Torino col titolo : Letture d'I fa-
miglia, e alla cooperazione di molti giornali italiani e a varie So-
cietà patrie ed estere; che più? membro della R. Accademia di
agricoltura torinese fondò cogli auspici di essa un corso pubblico
e gratuito di fisica agraria, che è frequentato da numeroso udi-
torio. I suoi viaggi furono raccolti col titolo : Pellegrinazioni
autunnali ed opuscoli di G. F. Baruffi (Torino, 1841, 1843, 4 voi.
in -8). Avendo egli descritte le cose e le persone presenti dei luo-
ghi visitati, questa sua opera può consultarsi utilmente dagli ita-
liani che amano conoscere quei paesi. Della sua scienza astrono-
mica è prova un libretto intitolato : Dell' imminente apparizione
della gran cometa di Halles (Torino, 1835, in-8). » Altre notizie
biografiche intorno al Baruffi trovansi ancora nel Dizionario-
geografico-storico-statistico-commerciale degli Stati di S. M. il Re
di Sardegna, del prof. Goffredo Casalis (articolo Mondovì), nel
Rcpiertoire Jiistorique des contemporains (Paris, 1861), nel 18" vo-
lume dell' Annuaire de l'Institut des provinces (Paris, 1866) ; ma
le più diffuse e complete furono accolte nel volume di Giuseppe
Pitrè : Nuovi profili biografici di contemporanei italiani (Palermo,
1868). Da esse rileviamo che il Baruffi nacque col secolo a Mon-
dovi, di padre notaio, ch'ei vinse giovinetto un posto gratuito nel
Collegio delle provincie, che s'addottorò nelle scienze fisiche e na-
turali presso l'Università di Torino, che sedette nel Parlamento
subalpino come deputato di Mondovi nell'anno 1848, che il governo
francese lo decorò della Legione d'onore, (così egli è commenda-
tore de' Santi Maurizio e Lazzaro), per aver egli primo chiamato
— 538 —
l'attenzione generale sui bachi da seta selvaggi, occupandosi vi-
vamente nel trarre dal Bengala la Bonibix Cynthia che si nutre
di ricino (cosi il Baruffi discoperse a Galloro presso la Riccia la
nuova specie minerale chiamata Beì^zelina, in onore del chimico
svedese; egli stesso meritava poi che una specie di rigogolo di-
scoperta dal principe Carlo Bonaparte fosse in suo onore denomi-
nata Oriolus Baruffi); che nell' anno 1862, senza sua richiesta
(mentre egli stava in viaggio), il governo lo ringraziò e lo mise
a forzato riposo. Ma ei non cessò, col ritrarsi dall'insegnamento,
dal prestar l'opera sua benefica in servigio della scienza ; non vi
è in vero utile scoperta scientifica della quale egli, con moto
spontaneo, non si faccia a render conto ne' giornali torinesi, per
divulgarla. Egli era pure stato uno de'più antichi, de'più intelli-
genti, de più caldi, de'più ostinati promotori del taglio dell'istmo
di Suez, pel quale avea pubblicato numerosi articoli ed opuscoli,
e parlato più volte con calore ne'congressi; egli fu ancora de'primi
a scrivere contro le quarantene ne'porti di mare, cosi inutili per
allontanare le malattie credute contagiose, e cosi dannose al com-
mercio; di ritorno da'suoi lunghi e ardui viaggi, egli riportava
sempre in Italia e sosteneva e divulgava la notizia di qualche uso
civile, di qualche principio economico più liberale. Moltissimo fece
egli poi per la città e provincia di Torino, dove siede fra i più
solerti consiglieri comunali, ora incoraggiando con premii 1' edu-
cazione popolare, ora promuovendone con articoli e discorsi gli
studii agrarii e la coltura scientifica, dopo averne descritto i luoghi
e le istituzioni col piacevole, ornato, vivace stile delle Peregri-
ìtazioni autunnali e del viaggio Da Torino alle Piramidi, nelle
sue amene Passeggiate ne' dintorni di Torino. Tutti gli appella-
tivi coi quali s'accompagna per lo più, a Torino, il suo nome da
chi lo pronuncia, l'intrepido Baruffi, l'infaiicabile Baruffi, il dotto
Baruffi, il buon Baruffi, l'amabile Baruffi, gli convengono per-
fettamente; egli ha saputo meritarli tutti, associando in una lunga
vita onorata il coraggio alle opere, la bontà e la gentilezza al sapere.
E col nome dell'autore delle Pere^rma^zom, anche questa prima
peregrinazione della mia memoria nella storia letteraria contem-
poranea italiana oggi si compie. Il favore de'lettori che m'ha so-
stenuto finqui mi darà coraggio a riprendere in breve il presente
lavoro, per condurlo al suo termine secondo ch'esso venne da me
disegnato. Io ho provato un vero conforto nello scorgere come
— 539 —
l'onesto intendimento che mi mosse a scrivere sia stato dal pub-
blicOj e dai giovani particolarmente, per i quali tolsi in mano la
penna, interamente compreso. Si temeva da prima che non sarei
riuscito a conciliare quello che pareva inconciliabile, cioè il molto
rispetto dovuto agli ingegni, con la indipendenza del mio giudi-
zio nel considerare la vita, il carattere e le opinioni degli uomini
insigni, de'quali ho impreso a parlare. Una costante e rispettosa
benevolenza m'animò per tutti; ma dove mi parve che l'esempio
d'alcuno scrittore potesse riuscir dannoso ai giovani, non dissi-
mulai il mio timore. Alcun lettore mi domanderà forse ora qual
sia l'opinione mia dopo la riverenza con la quale ho toccato di
tante opinioni altrui fra loro opposte e contradittorie. S'egli non
ha potuto rilevarla, o piuttosto, s'io non ebbi la ventura di po-
terla svolgere, conchiuderò brevemente, che non mi volli preoc-
cupar troppo di sapere se uno scrittore fosse patrizio o popolano,
pur che serbasse decoro nella vita, se egli fosse monarchico o
repubblicano, pur che fosse buon cittadino, amante della patria e
della libertà, se egli fosse ateo o cattolico, pur che ponesse un
alto ideale nella vita. Ma cos'è questo benedetto ideale ? È tutto,
con qualsiasi nome vogliate poi chiamarlo; potete , anco, se vi
piace, significarlo col nome di Dio. È la coscienza dell'uomo che
penetra il mondo. Togliete a quanto vi circonda questa coscienza,
ed avrete intorno a voi materia inerte, scolorita, impotente; com-
parate, collegate insieme tutte quelle forme per sé mute, per sé
effetti minuti di cause minute, e, nell' armonia componitrice del
vostro intelletto sentirete il bello. Ogni uomo che possiede la ca-
pacità comparativa di sentire il bello, ha in sé il germe princi-
pale per crearlo; sentire il bello della natura è una prima forma
della creazione interiore che si opera nello spirito; educandosi
quel sentimento e ponendosi quindi in relazione con nuovi oggetti,
può tradursi e manifestarsi in una nuova forma originale, eh' è
il bello dell'arte. Le opinioni religiose e le opinioni politiche, che
informano pure le letterarie ed artistiche, sono sole forme secon-
darie e transitorie di un sentimento più universale, che separa,
con limite insuperabile, l'uomo dal bruto, il sentimento dell'ideale;
chi non n' è capace, chi lo nega e deride, vegeta ma non vive,
ma non risponde alla condizione principale, necessaria, della vita
umana, ch'è il progresso. Accostiamoci dunque, o giovani, alla
natura ; interroghiamola ogni giorno, ma mettiamoci dentro l'a-
nima nostra ; allora ne verranno fuori voci sublimi ; dalla mac-
china uscirà allora veramente il Dio, A scrutarla col solo mi-
— 540 —
croscopio, a dividerla col solo coltello anatomico, essa sì scompone
e distrugge, ma non si compone e crea al nostro pensiero, né
può parlare ; a immaginarla, per contro, a supporla, a figurarla
fuori della sua realtà, si suscitano vuote fantasime, che mandano
suoni ingannevoli; e la larva muta d'aspetto ad ogni momento in
cui si contempla, ad ogni nuovo osservatore che la considera,
finché vanisce del tutto. Il segreto della vita dell'arte sta nel com-
prendere intiera la vita della natura; ma per veder questa come
un tutto vivente, bisogna vivere in essa e raccoglierne attenta-
mente i colori ed i suoni. Noi siamo in Italia, in mezzo ad una
parte privilegiata di questo mirabile universo che ci avvolge; io
vorrei che la vita nostra da prima, e poi l'arte nostra riceves-
sero una loro più viva e più nobile impronta, immedesimandosi
meglio nelle bellezze del nostro cielo e del nostro suolo ; io vor-
rei tradotta nella vita e nell' arte nostra tutta quell'armonia di
linee estetiche, di colori vivaci, di forme originali, che fa sognare
come una terra ideale l'Italia allo straniero. Egli, mirando all'Ita-
lia, ci dice con secreto rammarico che ov'egli potesse vivere in
questa sede beata, sarebbe non solo artista più sapiente, ma
ancora uomo migliore; noi che vi siamo nati, mostriamoci dunque
degni di questa beatitudine, e non lasciamo più far miracoli ai
soli genii che la natura soltanto può creare, ma, per virtù d'edu-
cazione, concorriamo tutti a preparare sul nostro suolo una na-
zione cosi fatta, che lo straniero, discendendo un giorno a visitar
l'Italia come un sognato paradiso, possa pure mantenervi la sua
cara illusione, con l'incontrare in questo bel paradiso tali uomini
che diano sembianza degli Dei immortali.
.i^I^I^EIsriDIGE
APPENDICE
Nel tempo in cui questa prima serie di Ricordi sì pubblicava nella
Rivista Europea cioè dall'aprile 1872 al settembre 1873, quattro degli
scrittori ricordati venivano a mancare all'Italia, cioè Alessandro Man-
zoni, Raffaello Lambruschini, Pietro Giannone e Francesco dall' On-
garo. Del fine di Dall' Ongaro si diede notizia nelle note del Ricordo
stesso ; (\\x\ non mi rimane altro ad aggiungere che una vergogna del
governo italiano, il quale alla famiglia del poeta fece 1' elemosina di
trecento lire ! Il Lambruschini morì e fu sepolto nella sua villa di
Figline; sulla sua tomba parlarono G. B. Giuliani e Giuseppe Rigutini.
Raccogliamo qui ancora alcune notizie sul fine di Alessandro Manzoni
e di Pietro. Giannone,
ALESSANDRO MANZONI.
Il 22 maggio (1873) dovrà contare fra i giorni più nefasti della nostra
storia letteraria. La morte di Manzoni chiude in Italia un intiero ciclo let-
terario. Egli ha, tuttavia, vissuto tanto per vedere l'aurora del secolo
nuovo, dal suo genio profetata fin dall'anno 1815, col fraramenta«di una can-
zone patriotica pel proclama di Rimiiii, e per benedire la nuova gene-
razione che sorge, alla quale è affidata la gloria deir avvenire. Sembrava
un immortale, e si poteva oramai ripetere di lui quello che fu già detto
di Humboldt, la morte averlo dimenticato ; di una calma e serenità
quasi olimpica fino all'estremo, gli «nni sembravano soltanto crescergli
religioso prestigio e non gravezza. Fu infelice ne' figli ; la morte di
un figlio (Pietro) l'oppresso. E così, ad uno ad uno i nostri grandi se
ne sono quasi andati tutti: il Manzoni, sommo fra tutti, durava a no-
stra consolazione e gloria; ora non ci resta altro conforto che il ricor-
darlo. Lo assistettero i medici Gherini e Todeschini ; lo conf.5Ssò Don
Vitaliano Rossi, coadiutore della basilica di San Fedele in Milano. Il
lutto della famiglia Manzoni è ora lutto non solo milanese, ma nazio-
nale. Non si poteva perdere di più di quanto abbiamo perduto. Nella
terra detta del genio, il Manzoni restava a rappresentarlo. Ora ci è
forza abbassare le vele, in attesa di miglior vento che spiri altri genii
all' Italia. Io ho l'animo ancora troppo turbato da questa sventura na-
zionale, per poterne scrivere a lungo. Odo dire, che Manzoni avea vis-
s5uto più che non si viva d'ordinario. Cosi il volgo ragiona. Certo s'egli
fosse stato un uomo come noi, avrebbe vissuto abbastanza; ma egli avea
quasi tutte le perfezioni umane; noi abbiamo invece quasi tutte le umane
debolezze; ecco la gran differenza, per cui noi possiamo morire quando
che sia, senza lasciar dietro di noi lungo rimpianto, mentre sarebbe invece
stato necessario a noi tutti che un uomo come il Manzoni, un esempio
vivo della virtù assistita dal genio^ noa morisse mai. La sera del 22
maggio fu visto nel cielo d' Italia uno splendido tramonto di sole; il mat-
tino del 23 maggio nessuno ha visto nel cielo d'Italia sorgere alcun nuovo
sole che ricordasse l'antico; ecco il nostro dolore, per chi sa intenderlo.
Ed ora che Manzoni non è più, l' Italia ha uopo di consolarsi almeno
nella speranza che molta parte di lui sia ancora rimasta nelle sue
carte manoscritte. Dicono che vi si trovino molti versi (parlasi pure
d'un manoscritto di più pagine esistente a Brescia contenente un canto
giovanile di Manzoni, intitolato TI Trionfo della Libertà, scritto in età
di quindici anni) e i copiosi appunti sulla Rivoluzione francese, raffron-
tata con la natura degli ulLimi rivolgimenti italiani, oltre ad un ricco e
bene ordinato epistolario, nel quale si trovano pure le copie delle lettere
più importanti scritte da Manzoni ; preghiamo Giulio Carcano, il figlio
adottivo del pensiero di Manzoni, e la famiglia di Don Alessandro, perchè
quanto si può comunicare all' Italia della mente, dell'animo, della vita
del grande poeta milanese, ci possa esser fatto conoscere. Quello che
avvenne per l'Azeglio, dopo la morte del quale, / Miei ricordi, le confi-
denze del Torelli e gli epistolarii, ci permi>ero di conoscerlo ed ammi-
rarlo più dappresso, desideriamo vivamente e tanto più che si rinnovi pel
Manzoni, di cui sappiamo bene che dal 1827 in poi furono scarsi gli
scritti pubblicati, ma non ignoriamo ch'egli ha molto pensato, parlato
e scritto. OÉi lo accostò, e in Milano saranno molti quelli ai quali è
toccata una simile sorte, s'adoperi a conservarci un ricordo di quello
che egli ha inteso o veduto. Nessun genio seppe mai conservarsi in equi-
librio come quello del Manzoni; perciò non pare che siano a temersi
rivelazioni indiscrete. Egli ha detto e scritto ed operato solamente
quanto credeva che si potesse confessare senza alcun rossore. Perciò
ogni ricordo che sì pubblichi ora di Manzoni non po^rà far altro che
illuminare maggiormente la gloria di lui, la quale fu pur già tanta che
nessun altro Italiano forse ne avea mai goduta in vita una maggiore. Si
troverà ora bene qualche zucca accademica che, sotto il pretesto di reci-
tare un elogio funebre al Manzoni, incomincerà con l'aflfrettarsi a metter-
selo sotto di sé, per potcci dire: voi vedete, io A., io P., io C, ve lo
giudico in quattro parole; io che non ho mai pensato a nulla vi dirò
chiaro e tondo che Manzoni non è mai stato un gran pensatore; lui
che pensava invece ad ogni cosa, che tutto sapeva prevedere, dalle cose
grandi alle cose piccole, dal più al meno, dalle ragioni eterne e sovrane
dell'arte, fluo alle vuote insulsaggini de' suoi pedantini. Ma lasciamo lì
questa minuta pleba cru^chevaUnente letterata; e torniamo a riposare
il nostro pensiero nella speranza che quanti hanno amato e conosciuto
veramente Manzoni s'adopperanno a rendere al genio di lui quell'omag-
gio che merita ogni sovrano intelletto che abbia glorificata la sua
terra.
Intanto raccogliamo dai giornali le prime notizie che si poterono
avere intorno al suo fine. Egli spirò alle ore 6 e Ii4. Vuoisi che le ul-
time parole da lui proferito sian state queste: DeUrii! delirii! La sua .
malattia era un'affezione cerebrale, e fu definita dai medici una cerebro-
meningite acuta. Un presentimento del non lontano suo fine sembra
l'avesse fin dallo scorso anno, quando, accomiatandosi da lui il critico
napoletano Vittorio Imbriani, Manzoni gii ebbe a dire : « Signor Vit-
torio, è questa V ultima volta che noi ci vediamo. » Egli aveva amato
parecchi napoletani a incominciare con gli esuli del 99, Vincenzo Coco
e Francesco Lomonaco (a quest'ultimo egli dedicava il suo primo so-
netto che fu stampato), fino a De Sanctis, Bonghi, Baldacchini, Pisanelli
ed alcuni altri. Dopo la morte del figlio Pietro, che avvenne fra dolori atro-
ci, nella casa stessa del sommo poeta, gli amici intimi notarono con dolore
che le facoltà dell'intelletto incominciavano ad oflfuscarglisi ; alfine il Man-
zoni fu colto da una paralisi generale, che, cessata, lasciò molto aggravato
l'illustre infermo; il 15 maggio uscì il 1° bullettino sanitario de'medici
che suonava così: « Sintomi d' un'affezione cerebrale che decorse mite
dapprima e assunse carattere acuto in quest' ultimi giorni. » Il male
sembrò dare un po' di tregua all'illustre infermo la sera del 20 ; diven-
ne violento e lo precipitò il giorno 22. Il IG, Manzoni avea riacquistato
alcuna lucidità di mente, e scusavasi coi domestici d'averli il giorno
innanzi trattati un po' male, e chiedeva un libro, che recatogli fu da
lui riconosciuto; si provò a leggerlo, ma in breve gli si offuscarono
con la vi.sta le idee, e lo sorprese la febbre. Il Corriere di Milano ci
descrive così le ultime ore del Manzoni : « Ieri, (22) verso mezzogiorno,
volgendosi ad un tratto ai suoi di casa, egli disse: Quest'uomo decade,
precipita, chiamate il mio confessore Venne il confessore e con
questo si intrattenne per una mezz'ora, parlando con la solita sua mente
lucida e calma. Uscito di camera il confessore, Manzoni chiamò i suoi,
e disse loro: « Quando sarò morto, fate voi quello che faceva io ogni
giorno; pregate sempre per V Italia; pregate per il Re e la sua fami'
glia, tanto buoni con me! » Poco dopo cominciarono gravi sofferenze;
era soffocato dal catarro, stringeva affettuosamente le mani al dottor
Todeschini, e si lamentava affannosamente » Gli ultimi momenti
del poeta ci sono così descritti dalla Gazzetta Piemontese : « La lotta
fra la vita e la morte fu accanita, e l'agonizzante soffrì orribilmente.
Alle 6 di sera gli si apprestò la Estrema Unzione. Incominciare le preci
e subentrare alla smania una calma completa fu tutt' uno, e quando se
ne profferivano le ultime parole, quella grand'anima saliva a Dio. Spirò
alle sei e un quarto, e in quel supremo momento quella testa augusta
s'illuminò come di un raggio celeste: la scintilla del genio v' era stam-
pata ; il sublime « Ei fu » era scritto su quella fronte spaziosa, era
una cosa imponente. Morì seduto sul letto, anzi ritto sulla persona, e
quando rese l'anima a Dio, piegò il capo in atto di chi pensa, e rimase
così finché non lo si coricò. » Il direttore del Corriere di Milano,
avendo potuto penetrare nella stanza mortuaria, ne diede la seguente
dejjcrizione : « Il cadavere giace sopra im letto di ferro, dipinto in rosso;
il volto è pallido come cera e comporto ad una patriarcale serenità;
non una contrazione che accenni a spasimo ; la fronte è bellissima. Un
fazzoletto bianco tiene il mento naturalmente rialzato. Il corpo è co-
perio da una coltre bianca; un grosso crocifisso di avorio ed ebano è
deposto sul petto. Due candelabri accesi stanno a destra del letto, so-
pra un tavolo da notte. La stanza spaziosa è arredata con una sem-
plicità che colpisce. Le pareti sono tappezzate con carta a fiori, di
color bianco e gialliccio; nel centro del soffìttto è dipinto un mazzo di
grandi rose. In capo al letto è sospeso un quadretto sacro e un pic-
colo crocifisso. Nella parete a destra del letto è sospeso un ritratto ad
olio in piccole proporzioni e senza cornice, dell'amico più intimo di
Manzoni, il prof. Rossari, morto due anni fa; dallo stesso lato al di là
del caminetto, pende un bellissimo quadretto ovale della Sacra Fami-
glia, dipinto su rame; sulla parete di fronte, al di sopra di un piccolo
canapè coperto di stoffa di lana azzurra e bianca, si vede un imma-
gine della Vergine, contornata da una cornicetta dorata. Cinque o sei
poltroncine semplicissime sono disposte qua e là; verso una delle due
finestre, che occupano la quarta parete, è il seggiolone prediletto, fatto
all'antica e coperto di cuoio. Un modesto tavolino di noce, di forma
circolare e coperto da marmo giallo, sta in mezzo alla stanza. » Lo
scultore Giovanni Strazza che abita nella casa stessa di Manzoni, e di
cui s'era molto ammirato nell'ultima mostra milanese di belle arti un
magnifico busto del poeta, il giorno 23 fece il rilievo in gesso del volto
di Manzoni; il giorno 24 i fotografi milanesi Spagliardi e Silo rilevarono
il ritratto fotografico di Manzoni composto sul suo letto di morte, e nello
stesso giorno i medici municipali imbalsamarono il cadavere, che venne
quindi esposto al pubblico in una sala del Municipio di Milano trasfor-
mata in Cappella Ardente. Le prime dimostrazioni di lutto e d'amore alla
memoria di Alessandro Manzoni furono fatte naturalmente dalla Città
di Milano; le bandiere del Comune sventolarono tosto a lutto ai quattro
— VII —
angoli del palazzo Marino; furono decretati solenni funerali a spese del
Comune; si decretò di intitolar tosto dal nome di Alessandro Manzoni
la via del Giardino; di far pratiche presso i nipoti (i figli di Pietro,
cioò Renzo, Vittoria, Giulia ed Alessandra), per l'acquisto di quella
parte della casa del Manzoni, ove egli abitò, da convertirsi in archivio
storico municipale, e degli autografi da lui lasciati; si tìssò la somma
di lire venti mila per iniziare una pubblica soscrizione per un monu-
mento da erigersi in Milano alla memoria del grande poeta, alla cui
salma sarà dato un posto d' onore nel milanese Famedio, malgrado
la pronta, cortese ed onorevole offerta fatta dal sindaco di Firenze per
dargli sepoltura nel tempio di Santa Croce. Appena corse per l'Italia la
novella della morte di Manzoni, la commozione fu universale; la Casa
Reale, il Parlamento, il Senato, i Municipii, gli Istituti scientifici, le associa-
zioni politiche e letterarie, i giornali espressero unanimi il loro cordoglio
per la perdita immensa fatta dall'Italia. Anche i giornali esteri provvidero
tosto ad onorare la memoria del grande italiano ; la Neue Freie Presse
di Vienna gli consacrò un bell'articolo, riportando, fra gli altri, il se-
guente giudizio di Goethe sui Pronaessi Sposi: « L'impressione è tale
che si passa incessantemente dall'ammirazione alla commozione, e dalla
commozione all'ammirazione, e non si esce mai da questi due grandi
effetti ! » ; il Times e il Morning Post mandarono i loro corrispondenti
a Milano ; il direttore deW Athenaeum invitava per telegrafo il direttore
della Rivista Europea a scrivere una commemorazione su Manzoni, ed
altri giornali esteri ne hanno già scritto per dire la loro prima viva
impressione 0 si propongono scriverne distesamente; la famiglia di Wal-
ter Scott (che era stato un grande ammiratore (Ìq' Promessi Sposi, dei
quali soleva dire con modestia che Manzoni avea fatto un solo romanzo,
ma che quel solo valeva tutti i propri), si faceva rappresentare ai fu-
nerali di Manzoni, dall'ingegnere scozzese Mackenzie residente in Mila-
no, incaricato per telegrafo di quell'onore. 11 ministro di Francia in Italia H.
Fournier, scriveva tosto al genero di Manzoni, G. B. Giorgini, la lettera
seguente: « Rome, 23 mai 1873, Monsieur, J'apprends à l'instant la perte,
que l'Italie vient de faire d'Alexandre Manzoni. Personnellement je n'ai
pas eu l'honneur et la bonne fortune de connaìtre monsieur Manzoni. Je
n'ai pu qu'admirer son àme dans ses ècrits. Mais il me serabie que le
ministre de Franco en Italie a le droit de ressentir avec vous, Mon-
sieur, une douleur, qui vous est personnelle, et qui est nationale. Je
vous serre la main ». Tra le manifestazioni più significative di do-
lore in Italia notiamo le eloquenti parole di compianto con cui il pro-
fessore G. I. Ascoli aperse nell'Accademia scienfilico-Iettcraria la sua
consueta lezione di linguistica, una lezione speciale che G. B. Giu-
liani, professore di letteratura italiana e intei'prete della Divina
Commedia nell' Istituto di Studii Superiori in Firenze dedicò tosto al
Manzoni ; e il seguente telegramma spedito da Napoli al Sindaco di Mi-
lano: « Scuola De Sanctis esprime vivissim>T condoglianze per la morto
— vili —
del più antico, del più grande della vecchia generazione, Alessandro
Manzoni ; Francesco De Sanctis e sua scuola. »
I solenni funerali di Manzoni, ebbero luogo in Milano, il dì 29, nel Duomo,
celebrando la messa funebre l'arcivescovo. Tra gli arrivati a Milano per i
funerali, si notarono, oltre i principi sabaudi, e lo primarie autorità del re-
gno, Andrea MalTei, Giovanni Prati, Francesco De Sanctis, P. E. Imbriani,
Marco Minghetti, Angelo Messedaglia, Francesco Gabba, Antonio Caccianiga,
Gerolamo Boccardo, Nicomede Bianchi, Emmanuele Celesia, Anton Giulio
Barrili, Ferd. Coletti, Giovanni Banco, Erminia Fuà Fusinato, ed altre piii
notabilità Ictteriarc italiane. Innanzi alla bara furono proferiti i discorsi se-
guenti:
I. — Discorso del sindaco di Milano.
Signori,
Nel cospetto di questo feretro ogni parola vien meno. L'Italia risorta a
nazione vede a morire l'uno dopo l'altro i più grandi suoi figli.
L'uomo che nel nostro secolo la rappresentò più gloriosamente negli or-
dini del pensiero concretato nell'arte è asceso ad un'altra patria.
Ne rimangono a noi le opere immortali, una santa e incancellabile memo-
ria e queste misere spoglie attorno alle rpiali ci raccogliamo.
Alessandro Manzoni ! Dinanzi al suo nome, che dalla Europa ci era invi-
diato come quello del suo grand'avo Cesare Beccaria, noi ci inchinavamo
religiosamente commossi. Negli anni in cui l'Italia anelava costituirsi in unità
e libertà di nazione, allo straniero che ci voleva guasti ed inetti a softe mi-
gliore, noi potevamo opporre anche gii esempi e gli scritti di questo sommo.
E se la stìducia ci piombava talvolta più grave sull'anima, noi ripigliavamo
in lui lo smarrito coraggio.
Era il sentimento di mia forza [)acata che ci veniva dalle opere sue, quel
sentimento che esclude l'odio, perchè la giustizia a null'altro meglio si ispira,
fuorché a'I'amore, che sa perdonare a chi ofiende, perchè sente suo debito
di- combattere sempre e dovunque l'offesa, e che sa lungamente aspettare
perchè le grandi rivendicazioni non si compiono in un giorno.
Tutto in quest'uOiTio era armonia, la patria e la famiglia, il povero tìglio
del popolo ed il gran prigioniero di Sant'Elena si raccoglievano in lui in un
solo concetto illuminato e santificato da un principio superiore a tutte le cose
terrene, dall'infinito, da Dio.
E noi l'abbiamo perduto quest'uomo, (juesto vecchio venerando e sublime,
la cui casa si apriva a quanti ingegni più eletti ricercavano la sua parola
così pronta e vivace, quanto amorevole e sapiente.
Noi l'abbiamo perduto quest'uomo che, traendo ii lento passo per le nostre
vie, era segno agli sguardi riverenti, quasi timidi vorrei dire, dei nostri
concittadini. Questo uomo che in età tardissima aveva serbata intiera la lim-
pidità della mente e la forza della volontà, noi l'abbiamo perduto. Egli è
morto circondato di gloria e trafitto da un gran dolore domestico, da uno
— IX —
di quei dolori che non trovano pace fuorché nella fede inconcussa in una
vita celeste. Eppure, sino agli ultimi giorni, una voce segreta ci recava a
sperare che ancora per qualche anno l'avremmo avuto fra noi; ed ora, di-
nanzi a questo feretro ci guardiamo attoniti e quasi smarriti.
Fratelli di tutte le p:irti della gran patria, principi, rappresentanti delle
Camere legislative, della Reale Casa, del governo, dell'esercito, inviati delle
Provincie, dei Comuni, delie Universi tà, delle Scuole, delle Associazioni tutte,
a nome della città di Milano, di cui ho l'onore di esser capo, io vi ringra-
zio dal più profondo del cuore, lieto di vedere come l'Italia, fatta libera,
onori unanime la memoria dei suoi grandi.
Io ve ne ringrazio a nome di una città che sarà sempre particolarmente
superba di aver dati i natali ad Alessandro Manzoni, e che fra le sue mura
ebbe il dolore di perderlo.
E tu, 0 grandissimo e caro estinto, giunto al possesso di quel Dio
che atterra e suscita
che affanna e che consola,
prega per l'Italia, pel Re, per la tua Milano, per noi tutti irradiati dalla
luce del tuo genio e inspirati dalla tua grand'anima.
II. — Discorso del comm. G. Carcano.
Che cosa raduna oggi qui., intorno a questa spoglia d' un vecchio quasi
nonagenario, gli uomini che più onorano l' Italia, i figli di Vittorio Ema-
nuele, i rappresentanti della nazione e delle più illustri città, la famiglia
delle scuole, e insieme a loro gli operai, le donne, i figliuoli del popolo? —
E la divina luce del genio, è la virtù d'un intelletto, che come ha rinno-
vata una letteratura, rinnova una generazione. — E anch' io, qui, in tanta
solennità di compianto, adempio un dovere per me affannoso non meno che
sacro. Se l' animo altamente commosso non mi concede di dire tutto quello
che io sento, vincerò il mio dolore; che io non parlo solo per me, ma in
nome d'egregi uomini che, al riacquisto della nostra indipendenza, videro
segnato al primo onore (ìd loro consesso il nome d'Alessandro Manzoni.
A lui, che al culto della patria unì quello della scienza e della verità, non
permisero 1' età grave e 1' antica consuetudine di prender parte all' opera
nostra; ma io croio che la sua ispirazione sapiente abbia sostenuto od av-
vivato i nostri studi ; noi sapevamo di dovere mostrarci degni di quel nome
amato e venerato dall'Italia.
Sì; tutti lo hanno amato ; cittad ni e stranieri, il filosofo meditabondo, e
l'audace uomo di Stato, l'eroe popolare ed il Re; quelli che hanno potuto
stringergli la mano e sedere al suo fianco ; e quelli che per riverenza non
osarono varcare la sua domestica soglia.
Nella poesia e nella storia, nella scienza e nella vita, egli non cercò, non
sospirò che il vero. E fu quest'alto desiderio che lo condusse alla fede. —
Nella sua gloria modesta e vereconda, egli ci apprese, in tempi di servaggio,
quella virtù che non e morta rassegnazione, ma dignità e certezza costante
*«-
— X —
che giustizia e libertà devono trionfare. — Percliè una legge sola governa
la patria e l' umanità^ la creatura che passa e 1' infinito.
L' unità di questa terra noMra fa il lungo ed assiduo desiderio di tutta la
sua vita; egli lo disse, or fa qualche mese, accettando d'essere fatto citta-
dino di Roma.
E coir ultima sua parola all'armò, come colla sua intera vita, V unione
della fede coli' amor di patria, imponendo a' suoi cari di pregar Dio per
l'Italia. — Noi non lo vedremo più. Ma la sua grande anima respira nelle
sue pagine, e guiderà, come quella di un padre, la nazione. L'esule immor-
tale sarà la sua gloria più pura.
III. — Discorso del comm. Mauri.
La pietosa solennità di questo giorno dice d'Alessandro Manzoni tutto quello
che potrebbe la parola più devota ed eloquente : dice che in lui si è spento
un tal lume d' ingegno e di bontà, di cui tutti sentivano il beneficio ; dice
che la perdita di lui fu un lutto comune che da questa sua città nativa si
allargò a tutta Italia e sarà sentito in tutto il mondo civile.
Il grand' uomo apparteneva a tutta la nazione, anzi a quanti in ciascuna
contrada hanno intelletto del vero, del bello, del bene per quel carattere
d' universalità, onde sono improntati i pensieri e i sentimenti eh' egli vesti
di forme si splendide e peregrine nelle immortali sue pagine e tradusse in
tutti gli atti dell'immacolata sua vita: pensieri e sentimenti estranei ad ogni
studio di parte, ad ogni intento di sorta, atUnti al limpido fonte delle aspi-
razioni più spontanee dell'anima, e fecondati dal santo amore degli uomini
e di Dio. Ma del fatto ch'egli abbia appartenuto al Senato del Regno è da
tener conto per questo, che schivo d'ogni onorificenza, questa unica non
disdice, perocché gli porgeva modo di mostrarsi pubblicamente, qual fu sempre,
dovuto all'indipendenza ed unità d'Italia e d'assumere la sua parte di respon-
sabilità di quella politica, onde il grande intento fu conseguito.
La tarda età e salute cagionevole gli vietarono di esser frequente alle adu-
nanze di quel consesso, ma non si rimase dall' assistervi nelle adunanze
più solenni, quando traltavasi di render testimonianza a quei principi!,
che sono le base del nostro nazionale diritto, e che egli trasfuse in tutte le
sue opere.
E il Senato, che si gloriava annoverarlo fra i suoi membri, sentivasi
fortificato da lui in quei propositi di salda fermezza e di civile temperanza,
che sono il proprio carattere di queir Assemblea, e di cui gli scritti e la
vita di lui fanno la professione più autorevole. Sapevasi poi che egli pi-
gliava gran parte a tutte le deliberazioni del Senato, e fin da lontano s'as-
sociava a quelle che davano forte cemento all' unità nazionale. Non fuvvi
grand' alto della nostra vita politica in questo fortunoso periodo, a cui egli
non si sia unito con l'animo, se non col palese suffragio.
Singolarmente egli si rallegrò di quello per cui Roma fu restituita al-
rilalia, e, comunque giudicasse del modo con cui il gran fatto fu compiuto,
gioì come italiano e come cattolico della caduta del potere temporale dei
— XI —
papi, in cui aveva sempre ravvisata la piaga più dolorosa che abbia afflitta
e deformata la Chiesa di Cristo. Il Senato del regno custodirà con affettuosa
reverenza le nobili tradizioni che vanno congiunte ai nome di Alessandro
Manzoni; custodirà singolarmente quelle che fanno di lui uno degli stru-
menti più efficaci dell'educazione nazionale di quesi' epoca miracolosa.
Un illustre tedesco scriveva, non ha guari, che può trarsi ogni lieto pro-
nostico degli italiani, se si mostreranno degni della educazione politica rice-
vuta da Camillo Cavour: lo stesso è da dire, se si mostreranno degni del-
l' educazione letteraria e morale ricevuta da Alessandro Manzoni.
Cotesti nomi di due uomini, che si ebbero in si grande stima ed atTetto,
ben possono pronunziarsi insieme in questo giorno^ in questo luogo: ben
può qui emettersi il voto che delle future nostre generazioni si dica : —
Sono formato alla scuola italiana del Cavour e del Manzoni.
IV. — Discorso del cav. Ciampi.
Roma s'associa al dolore, che stringe gl'italiani, anzi il mondo civile,
con l'animo intorno al feretro dell' illustre estinto.
Egli condusse l'arte al sentimento del bene : nobilitò (;oloro che la profes-
sano; fece delle lettere umane strumento di patria; sacerdozio ; milizia.
Egli, con la mite parola, persuase; e la persuasione è arma di tJtti i tempi,
ma dei moderni più necessaria e più efficace.
Con la pittura del vero, dimostrò che non v' ha più grande sventura
della servitù, straniera, e che la virtù sola santifica i dolori meritati o im-
meritati d' un popolo, e eh' essa sola consiglia a sperare, ad operare, a
vincere, ad assicurare. la vittoria.
Roma commossa, stringe la destra alla genetrice di tanto figlio, a Milano;
ed augura che i semi gettati da Alessandro Manzoni sieno ancora fecondi ,
.e che gì' italiani qui convenuti segnino, innanzi alla sua tomba , un ulte-
riore patto di civile concordia.
Finalmente il ministro della pubblica istruzione, Antonio Scialoia, im-
pedito dall' intervenire ai funerali e però di parlarvi in onore di Man-
zoni, com'era suo proposito, scrisse al Visconti-Venosta la lettera se-
guente:
Roma, 21 maggio 1873.
Caro collega,
Continua la mia indisposizione, e il medico vuole che io non parta.
Non saprei dirvi quanto io sia dolente di questo impedimento, che
mi toglie l'opportunità di accompagnarvi per rendere un'ultima testi-
monianza di onore alla memoria del Manzoni. E parlo della mia pre-
— XII —
senza a Milano, la sola che a cagione della mia qualità ufficiale avrebbe
potuto aver un qualche valore. Non avrei potuto, né saputo fare altro.
Perciocché, quando all'annunzio della morte di un uomo un' intera na-
zione spontaneamente si leva in pianto ad onorarne la memoria, la sola
parte che un individuo può prendere a tanto lutto, è quella di unirsi
agli altri, e sospirando ripetere sommessamente: — Ei fu. —
Quest' uomo singolare, che assistette ai più grandi rivolgimenti del-
l'epoca, non iscrisse una sola riga, né fece un solo atto che non fossero
degni di ammirazione e di lode.
Purificando senza esagerazione con un ideale cristiano di fede e di
carità lo spirito nuovo del secolo XVlIi; egli, guidato da uno squisito
e affettuoso senso del reale, fu il più grande scrittore della nuova let-
teratura.
Senza mancare alla sua fede, egli ebbe in cima di tutti i suoi affetti
l'unità della patria. Ineffabbile gioia fu per lui vederla compiuta, e
mentre altri in nome della religione impreca all'Italia e al re, la pre-
ghiera di lui morente fu la sublime espressione dell'afTetto del patriota
credente, elevato a passione di artista.
Il terribile contrasto, che nella sua grande anima si risolveva in una
celestiale armonia di affetti, è momentaneo e passeggiero, ovvero è anta-
gonismo generatore di una virtù trasformatrice destinata a preparare
una nuova vita, una nuova letteratura e un'arte novella?
L'Italia non sa ancora profferire l'ardua sentenza; e prima che le
lettere e l'arte non diano alcuna cosa di grande che possa pareggiare
gV Inni, V Ermengarda, il Cinque maggio e i Promessi Sposi, è sgo-
mentata dal vedere sparire dalla terra la grande figura dell' uomo, del
quale pareva che non dovesse mai più contare gli anni. Essa non sa
quando un genio pari a quello che la lascia in pianto pos?a essere man-
dato da Dio a occuparne il posto.
Vi sarò gratissimo se, facendo le parti mie con l'egregio Sindaco di
Milano, voleste esprimergli questi miei sentimenti. Intanto gradite una
stretta di mano
Dal vostro aff. collega ed amico
A. SCIALOIA.
— Per altre notizie relative al Manzoni veggansi ancora specialmente
i fascicoli di luglio e d'agosto 1873, della Rivista Europea. Fra i titoli
del Manzoni come antico patriota, fu da noi dimenticato ne' Ricordi il
frammento della canzone pel proclama di Rimini, che risale all'anno 1815.
— XIII —
Alla Città di Milano
IN MORTE DI
ALESSANDRO MANZONI
Fra le tue mura gloriose il piede
Posi, Milano, e dimandai dov'era
Il precursor di nostra primavera,
Il cantor della patria e della fede.
Un vì'ator cortese, alla severa
Prontamente guidommi e onesta sede.
Che accolse il santo di Parìni erede ;
Cadeva il sol ; sinistra era la sera. (I)
GÌ' idoletti del tempio han nulla possa
Sul mio cor; ma se alcun genio l'attira
Trema l'anima mia tutta commossa.
L'orecchio intendo; fermo il pie; la lira
Credo a novo immortai canto già mossa;
Ahimè, gemendo, il sacro cigno spira !
Ang^elo De Gubernatis.
fi) Alessandro Manzoni abitava in Milano la prima casa della via del Morone; egli
vi spirò la grande anima nella sera del 22 maggio, circondato dagli amici più intimi e
dai parenti, fra l'ansio di tutta Milano, che eboe la gloria di dare i natali al piu gran
poeta italiano del secolo XVIII nel Parini, e ad uno de' pochi genii del secolo XIX ,
nel Manzoni.
II.
PIETRO GIANNONE.
Quello che pensassimo del Giannone, abbiamo scritto nel Ricordo
che gli fu dedicato. Temevamo quasi di non arrivare più in tempo
a parlarne, e però abbiamo posta una certa sollecitudine nello scri-
vere di lui. Nel leggere quelle pagine che gli richiamavano al pensiero
gli anni della sua giovinezza, 1' uomo venerando versò lacrime di te-
nerezza, e tornò con giovanile calore a riandare quel tempo perduto.
Egli si lagnava da un anno d'assoluta inappetenza; non vi era cibo
ch'egli gustasse; inghiottiva per obbedienza al medico, ma con pena,
come se ogni cibo gli fosse medicina nauseabonda. S'era quindi ri-
dotto, dalla testa in fuori, sempre animata e bella, ad uno schele-
tro. Passava lunghe ore abbattuto in una fredda solitudine, che gli
eia solo temperata dalle cure affettuose di una vecchia signora fran-
cese^ che vivea col Giannone da ben 43 anni ; quando qualche gio-
vine della sua Modena veniva a visitarlo, quando qualche amico si
recava alla sua remota dimora per chiedere novelle di lui, il volto
del Giannone s' illuminava tutto ed era commosso di gratitudine. Dole-
vasi egli della sua infermità che gli contendeva di tener dietro a
tanta parte di quello che la nuova gioventù italiana veniva operando, e
compiacevasi sempre quando gli cadesse sott' occhi qualche prosa vi-
rile 0 qualche verso inspirato de'nuovì poeti d'Italia. Ma il suo pensie-
ro tornava più spesso agli anni del 1821, del 1831, del 1848^ ne' quali
il suo cuore aveva più fortemente battuto per la patria, ed egli amava
pure intendere che il suo Esule non fosse ancora dimenticato da tutti.
L'imperversare della stagione in questi ultimi due mesi aggravò l'il-
lustre malato, il quale finalmente assalito da improvviso catarro che
venne ad impedirgli la digestione ed il respiro fu in brevi giorni tra-
scinato alla tomba. ?]gli spirò l'anima generosa nel pomeriggio del 24
dicembre. Lo visitammo il 23; gli stava presso al letto una gentile ni-
pote di Ciro Menotti, la figlia di Celestino Menotti, superstite fratello
del martire. Com'ella fu partita, egli volle spiegare a noi chi fosse quella
— XV —
vaga fanciulla, e, dopo aver lodato lei come buona quanto leggiadra,
amabile quanto felice verseggiatrice, si provò a ricordarci com' egli
avesse conosciuto ed amato i Menotti, e come Ciro fosse perito ; e vo-
leva ancora dir altro, ma in un mesto sorriso si assopì. Il giorno se-
guente, pochi minuti prima eh' egli morisse, tornammo a lui ; ci rico-
nobbe, ci strinse la mano, ci sorrise, ci ringraziò, e cortese fino all'e-
stremo momento, ci domandò scusa s'ei non poteva più parlare, s'egli
non poteva più intrattenerci discorrendo con noi : « scusate, caro, non
posso più : la mia testa se ne va. » Egli s' assopiva quindi per brevi
istanti, faceva brevi sonni agitati, e balbettava parole confuse ; ride-
standosi, gli occhi di lui si aprivano a stento, egli li volgeva intorno
errabondi, e quindi per uno sforzo estremo di volontà, li rendeva
espressivi, riconosceva le persone che gli stavano intorno, domandava
ancora perdono d'aver detto cose prive di senso, e, dopo aver nuova-
mente sorriso a tutti, ritornava ad addormentarsi. In questo modo
l'anima di Pietro Giannone, in pace col mondo, si partì, lasciando un
vivo rammarico in quanti poterono conoscerla ed ammirarla, ed un
esempio nobilissimo ed imitabile ai vivi superstiti. — Il trasporto, as-
sai troppo affrettato, della sua salma, avvenne il giorno di Natale ad
un'ora pomeridiana ; sulla tomba del grande patriota italiano disse
calde e commoventi parole l' illustre Atto Vannucci , il quale insieme
con Napoleone Giotti si fece quindi promotore di una soscrizione per
inalzare un piccolo monumento alla memoria dell'autore àeW Esule.
— Un gentile amico, un egregio letterato dell'Alta Italia ci scrive,
dopo aver letto il Ricordo del Revere.
« Mi pare ch'Ella faccia il Revero imitatore di Prati, o almeno che
dica com'egli sarebbe diventato degno imitatore del poeta tirolese; que-
sto sarebbe inesatto; il Revere scriveva poesie, poesie intendo roman-
tiche, di quelle che or si chiamano pratesche prima del Prati; il Prati
infatti gli diresse dei versi in cui con dignitosa e generosa modestia
confessa d' aver preso dal Revere
L'aria, l'abito, l'accento
Che sì novo sì svelò.
Al Torti, amicissimo del Revere, parvo il primo genere di lui troppo
ardito, ed il Revere s'accostò maggiormente ai classici. »
— La Storia della Repubblica di Firenze di Gino Capponi, che né" Ri-
cordi si dice dall' Autore venerando destinata a pubblicarsi postuma ,
sarà invece pubblicata verso il fine dell'anno, in due volumi in ottavo
dall'editore Barbera. — Dopo che fu scritto il Ricordo del Capponi, il
Gabinetto Vieusseux passò nel palazzo Ferroni. Nel palazzo Buondel-
monti si stabilì invece una compagnia d'Assicurazioni.
EROAXA-CORRIGE
p. 10 biografici francesi,
11 La Cabanis,
13 Loraanaco
14 parsuasione
15 chi egli ha vinto
17 pose la mano
23-24 Edraengarda
31 Francesco Guerrazzi
33 una lodata opera in musica al mae-
stro Petrella
35 pieno zeppo d' ingeno
40 domaderei
44 Cella
53 quella potenza, accresceva
62 col Tabarrini , l'Antinori
77 gaio llunibug
97 non può associarsi al CantU
120 non alieno del
122 quali usciti
133 poledrio
171 il Revere ed il Dall'Ongaro istriani
173 ne mi sorvenne
175 ricordato come primo
176 gli paresse
178 senza vergoua
187 contessina Carrara Spinelli
190 togliendesi invece
191 laureva
194 Damiano ma
198 la gloria dei Procida
202 Le Normand
211 quanto che ho sofferto
232 non che sdegnarci
243 rigenerare Italia
244 conte Gardani
262 delle meditazione
» Harlincourt
265 modestia opinione
267 il libro sul Bello del Giordani
319 Avevano detto al padre
330 Manieria un' pò vulcanica
» ricodato da lui
333 1» gennaio 1856
340 Maleranche
343 ed altri più nobili
389 negli anni maturi ; a sentirsi
399 Caterina del medico Luigi Carli , il
quale gli fu come secondo padre ,
della Ben Brenzoni
407 versione italiana del Faust
416 il Revere ha formata per ora
428 si spendono attualmente
429 preniii per concorso; le quali
467 ora arcivescovo di Pistoia
473 traduttore d'Esopo
484 Nella linea 12 dopo la parola Fanfani
il modo finclusive).
■» Rossi Cassigoli antico suo discepolo
485 che il Rossi Cassigoli e carissimo
amico ha
497 dei Zoncada e dei Mongeri
508 che fanno pure di lui
525 Barlomeo
535 e di storia letteraria
» offesa senza
537 cometa di Hallei
l''ggi biografi
» Là , Cabanis
» Lomouaco
» persuasione
» ch'egli ha vinto
» pose mano
» Ermengarda
» Giulio Carcano
» due lodate opere in musica ai mae-
stri Petrella e Ponchielli
i> pieno zeppo d" ingegno
>' domanderei
>< cella
» quella impotenza accresceva
» col Tabarrini, il Gotti, l'Antinori
» gaio llumbug di Laboulaye.
» non può non associarsi al Cantù
'> non alieno dal
» i quali usciti
» poliedro
» il Revere triestino ed il Dall'Ongaro
friulano
>, né mi sovvenne
» ricordato primo
» gli pareva
» senza vergogna
X contessa Giulia Carrara Spinelli
» Togliendo invece
» laureava
» Damiano ; ma
» la gloria del Procida
>. Lenormant
» quanto ho sofferto
>. anzi che sdegnarci
>> rigenerare l' Italia
» conte Cardani
!> della meditazione
» Arlincourt
» modesta opinione
» il libro sul Bello del Gioberti
» S'era detto al padre
>. Maniera un po' vulcanica
» ricordato da lui
>• 1" gennaio 1865
» Malebranche
» e parecchi altri nobili
>• negli anni maturi a sentirsi
>■ del medico Luigi Carli, il quale gli
fu come secondo padre , della Ca-
terina Boa Brenzoni
» versione italiana della prima parte
del Faust
» il Revere ha fermata per ora
» si spendono annualmente
» premii per concorso, le quali
» ora arcivescovo di Siena
» annotatore d'Esopo
sopprìmere tìno alla linea 15 alla parola
leg(/i Rossi Cassigoli antico suo discepolo
e carissimo amico
» che il Rossi-Cassigoli ha raccolto
» dei Zoncada e dei Mongeri, dei Mauri
e dei Fava
>' che fa pn:«! di lui
» Bartolomeo
» e sopra la storia letteraria
» senza offesa
» cometa di Hallev
INDICE ALFABETICO
de' nomi di persone nominate nel presente volume
Acerbi G 243
Agnesi Gaetana 193
Agostini Alamanno 159
Airoldi Cesare 204
Alberghetti 225,482
Alberti A 332
Aleardi Aleardo 171 ,267.272.
313, Ricordo 396-404, '408,
444, 474, 485.
Aleardi Giorgio. .396,398,399
Aleardi Maria 399
Alessandro I. (Tzarj.. .. 259
Alizeri Federico 497
Alfani Augusto 493
Alfieri Vittorio 55, 110, 111,
220, 242, 282, 297, 307, 312,
345, 386.
Alfieri Cesare 514
Amari Michele, rio. 196-212,
266, 384.
Ambrosoli Francesco... 176
Ampère 321
Anacreonte 182
Andriane Alessandro 245,
248.
Angiolini Angelo 159
Antinori f cav.) 62
Antinori Vincenzo 294
Antonini 219
Aporti ferrante 318, 520
Arabia Saverio 343
Arcanseli Giuseppe 61,224,
225,467,473,474, 483,486,491 .
Archiloco 439
Arconati (marchese) 251
Ariosto .52, 107, 148, 215, 345,
396,525.
Aristotile 362,372
Aristofane 528
Arlincourt 262, Appendice
XVI.
Arnaudon Lucia 439
Arnaboldi Alessandro. .. 333
Arriano 116,516
Arrivabene Giovanni 234,
rie. 240, 254, 425.
Artico 522
Ascoli G. I. app. VII.
Azeglio (Massimo D' ) 19,
31, 34, 47, 48, 61, 119, 130,
18S, 193, 204. 274, 276, 283,
287, 420, 421 ; 445, 474, 475,
527, app. IV.
Azeirlio ( Roberto D' 1 266,
268.
Azeglio ( Taparelli padre
L. D') 292
Bacone 148
Balbo Cesare 46, 48, 61, 64
277, 278, 282, 320, 431,
512, 514, 515, 516.
Balbo Ferdinando 46
Balbo Prospero 277
Baldacchini Saver. 370,371,
app. V.
Baltus (Giulia de') 466
Balzac 241
Bandiera (fratelli) 128
Baratta Francesco 331
Barbèra Gaspare 287, 372,
396, 407, 412, 465, 536.
Barbieri Giuseppe 109, 111,
294, 407, 430, 436.
Barbieri Zebedeo 490
Bargellini Tommaso 160
Barlocci Saverio 308
Baroni Clemente 191
Barrili A. G. 497, a^jp. Vili.
Bartolini L. 257, 417, 418
Bartoli Daniello 137
Barucchi Francesco. .. .498
Baruffi G. F. 498, rie. 534-538
Bassi Elisa 436
Bastiat 402
Bathiany (conte) 33
Batines 314
Battaglia Alberto 94
Battini (padre) 44,45
Beccaria Cesare 10, 37, 83,
340, ajìp. Vili.
Beccaria Giulia 9, 10, 11 , 13
Becchi Fruttuoso 52
Beiletti P 498
Belcredi Cesare 94
Belgioioso Carlo 497
Belin 359
Bellini Vincenzo. ..171, 257
Bellini B 525, 526, 529
Belli Gioacchino 441
Bellinzaghi Giulio, app.YUl
Bellotti-Bon Luigi 462
Belletti Amilcare 462
Ballotti Felice 28
Beltrani Vito 209
Bembo Pietro 147
Benci Antonio 154
Benini Ada 39
Benini (avvocato) 482
Berni 490
Bersezio V. 497, app. V.
Berti Filippo 25, 326
Berti Antonio 443
Berti Domenico 313, 497, 518
Berlini G 182, 497
Bertoldi Giuseppe 272, 435,
497, 500.
Bertolotti Davide 453
Besobràsoff Sofia 3
Betteloni Cesare 171, 397,
339.
Betteloni Vittorio 399
Betti Salvatore 301, 310, 525
Bozzuoli Giuseppe 474
Bianchi Brunone 311
Bianchi V. app. Vili.
Bianchi Celestino 463
Biava Samuele 116
BindiEnrico224, 225, 267,483.
Bini Carlo 149, 152, 160, 382
Blondel Luisa 193
Blondel Luigia Enrichetta
14, 18, 25.
Boccalini Traiano 147
Boito 268
Boncompagni Carlo 88, 282,
514, 519.
Bonghi Ruggiero 39, 193,
337, rie. 367-375, 379, 416,
475 e seguenti, app. V.
Bonaini Fr 474
Bonaparte Carlo 53S
Bon-Brenzoni Caterina 171,
339, 416, 475.
Bonsteten 248
Borbone Ferdinando (di) 196,
202, 237, 372.
Borromeo V 186
Borromeo (cardinale). . .193
Borghi Giuseppe. .. .52, 525
Borsieri Pietro 186, 242, 243,
245, 248, 425.
Borrini Luigi 394
Bosio Ferd 165,497,500
Bossi Benigno 243
Botta Carlo... 257, 277
Botto (fisico) 30S
Botto Luigi 498
Boucheron Carlo... 509, 518
Bowring 66
Bozzelli 358
Bracci Braccio 462
Brandes Gustavo 235
Bredow 519, 522
Breme (Ludov. di) 242, 243
Briano Giorgio 289, 497
Brizio 377
Brofferio Angelo 79, 99, 103,
440, 449, 453.
Broglio Emilio 38
Brougham ( lordi 282
Bruno 338
Buccellati A 260, 289
Buchon 202
Buffier 85
Buffon 188
Buonarroti Michelangelo457
Buonazia (padre) 473
Buonazia (tiglio) 207
Burattini (don) 488
Burci Carlo 228
Biirger (gov. ] 187
Bùrger 443
Buscaino Campo Alber. 487
Bustico Giuseppe 498
Butti 500
Butti (prof.) 101, 103
Byron 18, 48, 83, 143, 149,
"150, 151, 153, 177, 182. 260,
262, 437, 439.
Cabanis 11, ap20. XVI.
Cabianca Iacopo... .171,192
Caccia Massimo 220
Caccianiga A. app. Vili.
Caetani Michelangelo , rie.
300, 306, 322.
Caetani Enrico 301
Caimi Antonio 181
Caiani Amelia 160
Calandrelli 308
Callimaco 258
Calloud P 462
Calmet 109
Calvi Gottardo 193
Calvi Pietro 440
Camerini E 424,4i;6,438
Camici 473
Cammarota G 343
Campanella (Tom.) 338
Canini Marcantonio 118,138,
139, 171.
— XVIII —
Canovai (padre) 44
Cantù Cesare 10, 31, 35, rie.
77-105, 120, 139, 188, 275,
308, 314, 428, 444.
Cantù Ignazio.. 54, 308,537
CantU Celso 80
Capei Pietro... 63,64,238,278
Capellina Domen co 131,465,
474, 499, 471,528.
Capecchi Icilio 487
Capozzi Enrico 343
Capparozzo G 442
Cappelli Antonio 198
Cappello Andrea 498
Capponi Gino 25, 31, 33, 34,
rie. 43-68, 70, 74, 117, 123,
141, 164, 211, 222. 224, 230,
238, 278, 285, 286, 294, 297,
300, 304, 322, 353, 402, 474.
Capponi Roberto 44
Carcano Giulio 10, 39, rie.
188, 193, 272, 394, 407, app.
IV, IX, XVI.
Carcano Maria 193
Cardani (conte) 244, 246, 247
Cardella 294
Carducci Giosuè 130,487
Carena Giacinto 38
Carina Dino 250,252
Carletti Mario 85
Carli Luigi 399,403
Carlo Alberto 90,94,98, 127,
265, 278, 310, 316. 421,432,
438, 513, 518, 523:
Carmignani P.... 149,150,294
Carnè 265
Caro Annibale 177
Carpi (signora).... 204
Carrara Paolo 443
Carrara Spinelli Giulia, app.
XVI.
Carraro Giuseppe 443
Carrer Luigi 113,136,142,431,
442.
Carrera Valentino.. .450,497
Carrillo 235
Carutti Domenico 497
Casa Giovanni (della). .147
Casalis G 537
Casati Gabrio 372
Cassetti Antonio 357
Cassi Francesco.. ..... .254
Castellani F. P... 302, 303
Castelvetro L 147
Castiglia Carlo 186, 243, 247
Castiglione B 147
Caterina (santa) 130
Catone 338,227
Catullo 171,337, 525
Cattaneo Carlo. ... 101, 118,
330, 331,340,419,421. 426.
Cavalca 147, 259
Cavalcanti Guido 265
Cavalcasene 268
Cavetti 227
Cavour Cammillo 101, 104,
132, 252, 255, 259, 282, 283,
372, 413, 421,458,514,528,
app. XI.
Cazzola Clementina 455
Cecchini Giovanni 442, 443
Ceccopieri (gen) 445
Cecchi Eugenio 174
Celentano B 235
Celesia Emm. 497, app. VIII.
Cellini 303
Centofanti Silvestro 51, 52,
rie. 284-300.
Centofanti Vincenzo 295
Centofanti Giuseppe 294
Cerrito Fanny 452
Cesare Giulio 338
Cesari Antonio 526
Cesarotti Melchiorre 127,
295, 407.
Cesconi 401, 402
Cfaarvaz 318
Chatterton 443
Chateaubriand 88
Chantrel J 200
Chauveti £l
Chèuier 213
Cherbonneau 203
Chessevich Caterina.. .. 107
Ghiaia Luigi 498, 520
Chiari Abate , 190
Chiantore ed.. 499
Ciampi Ignazio app. XI.
Cibrario Luigi 277,278,282,
308, 314, 402, 514, 528.
Cicerone 107, 338, 482, 483.
498.
Ciccherò Luigi 224
Cleoni T 444
Clcognara (contej 47
Cignaroli Giambettino...397
Cittadella Andrea 270, 271,
272, 431, 444.
Civinini Giuseppe 473
Claudiano 396, 508
Cobden Riccardo 118, 140,
329.
Coletti Ferdinando Appen-
dice VIII.
Colombo F. R ;.372
Colonna Anna 445
Colonnetti Mauro ,527
Colla C. E 525, 528
Colletta Pietro 48, 49, 64,
235.
Condorcet (Madame de). 11
Contrucci Pietro.. .469, 483
Conti Augusto 267, 471
Gonfalonieri F. 186, 242,
243, 245, 246, 247, 248, 425
Constant 236
Ceppino Michele 208, 212,
272, 427, rie. 497-507, 518.
Corneille (scult.) 144
Corneille (trag.) HO
Corsini Paolo 459, 489
Cordova Filippo 430
Cornelio Nipote 340, 342
Correggio 258
Correnti Cesare 182, 187, 192,
324, 406, 438, 497.
Costa Lorenzo 315, 509
Costa di Beauregard 132
Costa Paolo (prof. ) 171, 174.
235.
Costa Paolo (giurec.).. .450
Costabile Francesco 340
Cousln 28, 236
Crocco Antonio 313, 315
Crescimanno (march.). ...216
Cuoco Vincenzo , app. V.
Curti P. A 497
Dal Bono 268
Dall' Ongaro Luigi inge-
gnere 336
DairOngaro Francesco 103,
171.267. rie. 324, 317,417,
jpp. VII, XVI.
Dair Onaaro Maria 327.335,
336, 422.
Dandolo Emilio 193
Daneo G. app. Vili.
Dante. 52, 107. 115, 129, 130,
143, 145, 174, 193, 285 293,
295, 296, 301. 302, 304, 307,
309, e se e;; 326, 3?7, 333,
345, 347, 348, 393. 435, 491,
504.
D'Arcais Fr 414
D'Aspre 288
Dainelìi Giulio 391
Dazzi Pietro 425.493
Deak 140
De Anerelis 382
De Boni Filippo 33')
De Castro Vincenzo. . ..267
De Cesare Giuseppe.. ..309
De Curtis Clemente 369
De Giibernatis Ana-elo 135,
208, 213, 256,270.271,326.
327. 330, 337. 401, 425, 45r>;
508, 516. 525, 532. 534. 535.
app. VIl-XIII.
Delatre Luigi. l«l
Delavigue 26
Del Carretto 202,237
Del Castagno Andrea. ..400
Del Chiappa G 525
Delfante Cosimo 154
Del Re G 372
De Luca Giuseppe 343
Delviniotti 125
De Maistre 115
De Meis Caramillo 343
Demin Giovanni 268
De Pietra Giuli 376,377
De Renzi Salvatore 198
De Rossi Porzia 483
De Ruggiero 376
De Sanctis Carlo 340
De Sanctis Francesco rie.
337. 355, 356, 357, 372, 379,
427, app. V, VII, Vili.
De Toscani Giuseppe. . .473
De Viry 132
Di Giovanni Vincenzo. .198
Di Negro Giancarlo. . 37,313
Diodoro 516
Dione Cassio 516
Dionigi d'Alicarnasso. . 116,
516.
Doehler Teodoro 231
Dóllinger 50,71
Domeniconi L. .. 452,453,462
Donati Cesare 463
Donini P. L. 498, rie. 524-
530.
Donizetti G 257
Dozv 203
Dufòur 203
Dugat 206
Dumas (figlio) 241
Dupuis 209
Elleraere (Lord) 200
Emiliani-Giudici Paolo 200,
267, 337, 403.
Erodoto 516
Errerà Alberto 119,121
Eynard Carlo 70,74
— XIX —
Fabro 144
Fabbri Andrea 490
Fabbretti Ariodante 227
Fanfani Pietro 320, 484, Hic.
4S6-496.
F"aufani Francesco 487
Fantacci Giovanni 492
Farini Carlo Luigi. .219,372
Parinola Francesco 54
Parinola Paolo 62
Fauriel 11, 13, 14, 17, 21 27
Fava Angelo 192
Fazzini farch. ) 233
Fazzini (ftlos.) 340
Ferri Luigi 256
Ferrari Giuseppe 101. 330,
361, 421, 497.
Ferrucci Michele 509,528
Ferrucci Crisostomo. ... 509
Ferrigni Pietro 463
Filangieri Gaetano. .338.340
Filangieri (Min.) 371
Fioravanti Carlo 445
Fiercutino Francesco 337,
406.
Fiocchi Eustachio 528
Fiorelli Giuseppe 368, Hic-
375-379.
Finelli 310
Finzi Cesare 119.121
Pinzi fDep.) 90
Firenzuola 116
Fiquelmont 92.93
Flores Ferdinando 343
Fontana Giulia 193
Porcellini 109
Foresi Raffaello 492
Foscolo Ugo 16. 19, 45. 47,
48, 51, 55, 56, 57, 66, 136,
141, 171, 193, 215, 218, 220,
226, 228, 311, 396.
Fossombroni 124
Fossati Spirito... 64,277, 878
Pomari Vito 337,357
Fournier app. VII.
Franscini Stefano 93
Franceschi Caterina 259
Franchi Ausonio 330
Prassi G 55
Freilgrath 213
Frescobaldi Marianna.. . 44
Friddani fBaron) 204
Frimont » 217
FruUani Emilio 184, rie. 386-
396 433
Frullani ' Leonardo. .386.387
FruUani Giuliano. ...386,389
Fulcheris Pietro 534
Fumagalli Amalia 462
Fusinàto Clemente.. 445,447
Fusinato Arnaldo 399, rie.
441-448.
Fusinato Fuà Erminia 441,
446, app. Vili.
Gabba Frane, app. Vili.
Gallina (Conte) 88
Galileo 293,297
Gallavresi Rachele 80
Gar Tommaso 202
Garat H
Garelli Felice 531
Garelli fDott.) 531
Garelli Vincenzo 42. 313, 498
rie. 530-533.
Gargallo Tommaso 204
Garibaldi 206, 219, 238, 329,
332, 372, 447, 457.
Garzoni 473
Gayangos 203
Gazzoletti Antonio 171, 182,
187, 192, 397, 399, 417, 441.
Gargani Gargano 394
Gatti Stanislao 371
Galuppi Pasquale 338
Gelmetti L 360
Genovese Antonio.. .338,340
Gentili Isidoro 335
Germier 50.51
Gessner 174,175
Glierini app. IV.
Gherardi Del Testa Tom-
maso 429, rie. 459-465.
Ghiringhello G. 282,497,514
Ghione Maddalena 306
Giacinto Padre 71
Giacometti Fran. Maria 450
Giacometti Maria N 450
Giacometti Paolo 429, rie.
448-459.
Giannone Pietro 156, rie.
213-224, app. Ili, XIV, XV.
Giardini (Capo Comico) 452,
453.
Gianni Antonio 473,303
Gibbon 384,516
Gioberti Vincenzo 61, 102,
103, 261, 263, 267, 288. 292,
317. 468, 469, 474, 492, app.
XVI.
Giordano Pietro, 30, 31, 33,
38, 45, 48, 49, 257, 267, 310,
525, 528.
Gioia Melchiorre 114
Giorgini Gian. Batt. 35, 40,
74, 75, 272, 400, Appendice
VIL
Giovanetti 464
Giovannetti 528,356
Girard 73
Girelli Luigi 498
Giotti Napoleone, app. XV.
Gì ucci G 303
Giuliani Gio. Batt. 62,92,255,
301 rie. 306-324, 474, 485,
531, app. Ili, VII.
Giuliani Paolo, 306, 307, 318,
319.
Giuliani Rinaldo 191,193
Giulio 512
Giuria Pietro 26,497
Giuseppe Secondo 83
Giusti Pietro 268
Giusti Giuliano 294
Giusti Giuseppe 19, 33. 34,
35, 38. 39, 47, 48, 49, 52, 53,
54, 55; 74, 106, 182, 220, 224,
228, 230, 396,402,431,441,
461.
GoethelS, 19,21.37,174, 177,
181, 182, 183, 347,408, 412.
Goldoni Carlo 257,525
Goldsmith 190
Gonzaga Principe 247
Gorgosky 187
Górre s 50
Gotti Aurelio app. XVI.
Covone Francesco 499
Gozzadini G 400
Gozzi Gaspare 123
Gradi Temistocle. ..,.. .524
Graraantieri 322
Granatelli Principe 204
Grassi Giuseppe 112,278
Grassi Francesco 483
Grassotti 399
Greco Lorenzo 343
Gregorio Decimosesto.. . 91
Grimm Fratelli 465,4(59
Grillenzoni F 38,257
Grossi Tommaso 27, 31, 34,
35, 54, 187, 188, 191, 193,
213, 28S, 393, 419, 437.
Grote 384
Guacci Nobile Giuseppina
309.
Guadagnoli Antonio 441, 444,
447.
Gualdi Andrea 493
Gualterio F. A. 70, 71, 127,
Guastini 294
Guasti Cesare 473
297.
Guerrazzi Donato 144
Guerrazzi Francesco, 144,
159.
Guerrazzi Francesco Dome-
nico (31 e app. XVI) 54,
127, rie. 143-171, 219, 220,
263, 350, 420, 421, 428, 468,
469, 474 510.
Guerrazzi Piero 153
Guerrieri Gonzaga Ansel-
mo, 192, 399 ne. 405, 414.
Guerrieri Agostino 401
Guicciardini Frane 257
Guicciardini Piero 389
Guidi Luio;i 254
Guigoni M 235
Guizot 90,236
Halley 537 app. XVI.
Base 202
Hayez Francesco 182
Heine 166, 425
Heeren 519
Hegel 344, 345, 347
Herwegh 213
Hoffmann 262
Hugo Victor 18, 83, 213, 262,
422.
Hùlsemann... . '. 370
Imbriani Paolo Em. a-pp.
Vili.
Imbriani Vittorio 181, app.'V.
Imbonati Carlo 9, 12, 13
loppelli (arch.) 268
Klenker 370
Klopstok 175, 176, 177
Rock (Paul dej 241
Kórner 213
Kiibeck (baron j 119
Laboulaye app. XVI.
Lace Agostino 498
Lacordaire 317
Laderchi (conte) 246
LafarinaG. 101,130,200,226
Lallebasque 309
Laraarmora .'Alberto 92,
314.
— XX —
Lamartine 26, 503
La Margherita (conte Sola-
ro) 263
La Masa Giuseppe 129
Lamljraschini Luigi 68
Lambruschini Raffaelle 39,
57, 59, 62, rie. 68-77, app.
III.
Lambruschini (vescovo). 68
Lambruschini (cardinale] 68
Lamraenais 112, 141. 236,
402, 499.
Lancetti 28
Lanfranchi Vincenzo.. .. 49S
Lapi Camillo 389
Lavater 57
La Vista Luigi 343, 345, 382,
383, 384.
Lazzari 522
Leigheb Giovanni. .454, 455
Le Monnier Felice 182, 187,
192, 203, 204, 298, 311, 392,
388, 407, 408, 423, 492, 512
Lenormant 202
Leoni Carlo 118, 130, 138
Leopardi Giacomo?, 31, 32,
48, 49, 57,101,213,220,230,
231, 232, 235, 236,257, 350,
396.
Leopardi Paolina 229
Lessona M 502, 505
Lettronne 202
Levrero Antonietta 63
Libri Guglielmo 57, 149, 294
Lignana Giacomo 130
Limberti 467, 473
Livio 144, 171
Loescher Ermanno 225
Lomonaco Francesco 13
ai'p. V, XVL
Longfellow 335
Longperrier 203
Lorena (Leopoldo) 238
Losana 520
Lovatelli Ersilia 305
Lovatelli Giacomo 305
Lucrezia ... .110, 254
Lucano 254, 50S
Luciano 359, 361
Luines (duca di) 203
Luigi Filippo 90
Lutti Francesca 172, 183,
184, 185.
Lutti Vincenzo 184, 185
Lutero. 311
Mabellini Torquato 473
Mabellini Teodulo 473
Mabil Luigi 112
Macaulav 384
MacchiaVelli 143, 144, 161,
165, 197, 201, 385, 493, 525
Mackenzie, app. VII.
Maestri Pietro 426
Maffei Andrea 51, rie. 171-
188, 192, 337, 394, 397, 408,
409, 410, 411,412, 485, app.
VIII.
Maffei Giuseppe 171
Maffei Scipione 171
Magliano .agostino 343
Mai Angelo 68, 52S
Majo ( generale) 199
Malebranche , . . .. 340
Malanima Cesare 294
Mameli Goffredo 213, 315
Mamiani Terenzio 130, rie.
254-267,313, 351, 395, 427,
439, 458, 531.
Mancini Lorenzo 294
Manfroni Francesca. .. .435
Mangini Antonio 168, 169,170
Manin lldegarde 437
Manin Daniele 119, 120, 121,
122, 123, 126, 132, 138, 139,
140, 402, 408, 437.
Mannelli Galilei Luigi.. 395
Manno Giuseppe 528
Mannucci Michele 130
Manzoni Alessandro, Ricor-
do 9-43. 48, 82, 101, 102,
115, 116, 124, 132, 183,188,
189 190, 193, 213, 2lS, 247,
243, 264, 278. 286, 287, 238,
289, 290, 29L 304, 345, 348,
350, 351, 357, 366, 372, 406,
419, 430, 437, 438,471. 474^
e seg , 4S7, 500, 504, 531,
app. Ili, XIV.
Manzoni Francesca 11
Manzoni Renzo, app. VII.
Manzoni Pietro (padre). IO
Manzoni Pietro [figlio) app.
VII.
Manzoni Vitt., Giulio, Ales-
sandro, app. VII.
Marchetti Giovanni 235, 312,
396.
Marenco Leopoldo 497
Maret 317
Marini G. B 396
Marinovich Antonio 112, 113
Maroncelli Piero 246
Margaris Costantino. .. .370
Marselli Nicola 343
Martini Ferdinando 463
Marvasi Diomede 343
Maspero Paolo 184-186
Massimiliano (Arcid.) 100,
101, 102, 103, 120, 141.
Massari Giuseppe 315
Massarani Tulio 497
Matteucci Carlo 57,351
Mauri Achille... 175,184,187
app. X.
Mazziiii Giuseppe 20, 57, 142,
143, 144, 154, 155, 158, 160,
164, 167, 218, 426.
Mazzoni 489
Mazzoldi Angiolo 525
Mazzucato (Maes.) 186
Melan Sebastiano 109
Menandro 327
Menabrea Federigo.. 228,471
Menin Ludovico 268
Menotti Ciro app. XIV.
Menotti Celestino app.Xiy.
Merlo Giovanni 204
Merighi V 443
Messedaglia Angelo 406,
app. Vili.
Metastasio 503
Michelet 202
Michiel Giustina 47
Milanesi Gaetano 320
Milli Giannina 351
Milton 176,178
INlinervini Giulio 376
Min ghetti Marco rtpp. Vili.
Minischalchi Francesco. 203
Mirelli Francesco 215
Mistrorigo 442
Mickiewicz 213
Modena Gustavo. 329, 433.
452.
Molini Giuseppe 52
Momrasen.... 516
Mompiani 242, 24S
Mongeri Giuseppe . . 192,497
Montani Giuseppe 25, 31, 33,
57, 226.
Montanelli Giuseppe 53.70,
75, 192. 219, 297, 421, 431.
Montazio Enrico 52, 2S6, 425,
491.
MonterredineFrancesco.343
Montesquieu 14S
Monti Osvaldo 442
Monti Vincenzo 26, 27. 41,
48, 51, 107, 114. 171. 174,
175, 177, 182, 244, 245, 451.
Moore 174,178,182
Morando Paolo 403
Mordini Antonio 206
Morelli Giovanni 50
Morelli Domenico 235
Mori Amedeo 110
Mori Attilio 457
Moris 282,514
Morone Giovanni 2S3
Morosi P 294
Morrò Giuseppe 315
Morselli 216
Mortara A. E 525
Moschini (Can. ^ 309
MùHer Gio 94
Mailer Max 473
Multani Lorenzo 403
Muratori Ludovico 90, 193,
279, 516.
Murraj' , 47
Nannucci 487
Napoleone primo, 108, 146
193, 426.
Napoleone terzo 123
Natoli fbaroDe) 209
Naville 73
Negri Cristoforo 416
Nerucci Gherardo, 463, 464,
473, app. XVI.
Nerucci Elisabetta 474
Niebuhr 516
Niccolini G. B. 25, 30, 31,
32, 46, 47, 49, 50, 51, 52,
53, 55. 56, 66, 91, irì6, 164,
170, 175, 176. 181, 191, 198,
220, 224, 225, 227, 228, 235,
236, 2.57, 267, 284, 285, 286,
294, 296, 297, 298, 396, 310,
312, 389, 399, 403, 451,453,
473, 474, 525, 528.
Niccolò (tzarj 117, 231, 259
Nobili 473
Nota Alberto. . .257, 453, 525
Novi Giovanni 343
Novi Giuseppe 343
Obbos 340
O'Connel Daniele 140
Odorici Federico. ..402, 497
Olivieri (raonsig ) 257
Ombrosi Maddalena 386
Omero 52, 107, 148, 177, 345,
470.
— XXI —
Orazio 434, 442
Orsini Felice 432
Ovidio 337
Ossian 14S
Ozanam 316, 317, 318.
Pacchiani Francesco. .. T49
Pacini Filippo 489
Pagliano E 235
Paglianti L 406
Paggi (edit.) 469
Pagnini Francesco 4Sg
Palagi 107
Palizzi F 235
Pallavicini Trivulzio 186,247
Palmerston 92
Palmieri 382
Palmieri Niccolò 205
Panattoni (avv. j 53
Pandolfiiii 147
Panizzi Antonio 360
Paoli Cesare 416
Papa Antonio 3i5
Papadopoli fconte) 32
Paravia Pier Alessandro
131, 308,309,453,499, 506,
510, 512.
Parchetti Luigi 309
Pareto Lorenzo 313
Parini Giuseppe 19, 82, 83,
419, 434, app. XIII.
Parker (ammiraglio).. . 205
Pasini (fratelli) 441
Passavanti 148
Passerini (prof.) 69
Passeroni Carlo 193
Pasta Giuditta SI
Pausania 516
Pazzi Eleonora (de)... .468
Peochio Giuseppe 242, 243
Pedrazza Pietro 443
Pellegrini V 294
Pellico Silvio l'^ì, 19, 20, 85,
213, 242, 543, 244, 246, 251,
251, 425, 431, 435.
Peluso 101, 102
Pepoli Carlo 235
Pelzet Maddalena 25, 47
Pepe Gabriele 57, 123
Peranni Domenico 204
Peri Felice 487
Peroglio Celestino 498, 517
Perticari Giulio 114, 1 15, 254
Peruzzi Ubaldino 416, 473,
474 app. VIL
Pesci Adele 531
Pestalozzi 73
Petofl 213
Petrarca 155, 171, 215. 347,
348, 396.
Petrella Enrico 33
Petrucelli della Gattina 339
Peyretti Gabriella 280
Peyron Amedeo 278
Pezzana Angelo 525,528
Pezzati Il7
Philippis 50
Picei Giuseppe 469
Pieri Mario 27, 31, 32, 48,
08, 127, 224. 295.
Pietrasanta (principessa). 25
Pietracqua Luigi 497
Pindaro .' 439
Pindemonte Ippolito, 171,
396, 397.
Pinelli Alessandro 315
Pini Giovanni 525,526
Pio nono 92, 120, l4l, 149,
263, 286, 314.
Pirker Ladislao 175
Pisanelli, app. V.
Pitagora 298.299
Pitrè Giuseppe 227, 236, 490,
537.
Plana Giov 512
Platen 176,177,180
Platone 256.369,371
Plauto 524,525,526,527,528
Plotino 369
Plutarco 145,435
Podesti .310
Poerio Carlo ed Alessan-
dro 57, 117, 123, 213, 358.
Poivin .331
Poi 102
Polidori F. L 52
Poliziano 396
Pomba Giuseppe 89, 128, 279,
513, 519.
Pont (barone). 101,103
Ponta D. M. G. 308, 309,
310, 318.
Porro (conte) 186, 242, 243,
246, 492.
Porta Carlo 213,241
Possien H 200
Potenti 490
Prati Giovanni 171, 267, 272,
307, 320, 394, 390. 397, 399,
401, 414, 4l5, 418, 419, Ri-
cordo 430, 441, 443, 444,
453, npp. Vili, XV.
Prati Carlo 435
Prati Ersilia. . . 436
Puccini Aurelio 150
Puccini Niccolò 298
Puccinotti Francesco 294,
474.
Puccioni Piero 463
Pulszki Francesco 326
Puoti Basilio 308, 337, 340-
47, 356, 357. 382, 525, 528.
PuUò (conte) 99
Quinet 331
Quintiliano 508
Radclille 147, 148
Raffaelli 473
Ragazzi 527
Raiberti Giovanni 441
Ranalli Ferdinando 85, 337
Ranieri Antonio 64, rre.229-
240, 250, 278.
Ranieri Paolina 229
Ranieri (arciduca) 94
Rapisarcli Mario. .. 327, 335
Ravina Amedeo 213, 504
Rebizzo Bianca. ... 255, 313
Redi Fr 526
Regaldi Giuseppe.. .87, 497
Regnoli (prof.) 50
Reina l27
Reinaud 202
ReleiefT. 213
Restani (abate; 99, 100
Reumont Alfr 474
Revere 135, 171, riV; 414-431,
448, 520, app. XV, XVI.
Riboli Timoteo 457
Ricasoli Bettino 328
Riccardi Vincenzo 497
Riccardi Vernaccia (mar-
chesa J 54
Ricciardi Giuseppe 358
Ricci Vincenzo ■. .313
Ricci (Lapo de') 70, 73
Ricci Matteo 276
Rich 327
Ricotti Ercole 46 277, 278,
384, 498, rie. 511-516, 518.
Ricotti Mauro 512
Ridolfl Cosimo 56, 59, 64, 70
73, 124, 389.
Riego 213
Riga 213
Rigatini G. 493, 525, a-pp. Ili
Ristori Adelaide 329. 454,
456, 457, 460.
Ritschl ..'. 509
Robertson 384
Robolotti Francesco. ... 525
Rocca Luigi 497
Rodino 382
Rogier 252
Romani Felice 310, 432,453,
528.
Romagnosi Domen, 57, 419
Ronchini Amedeo o2S
Rosa Gabriele 88,497
Rosa Norberto 441
Rosa Salvatore 397
Roscoe ..384
Rasenkranz 347
Resini Giovanni. .. .31. 350
Rosmini Antonio 62. 63, 73.
109, HO, 111, 113. 115, 116^
129, 264, 372, 427.
Rossari, apj). VI.
Rossetti Domenico 416
Rossetti Gabriele 213, 215,
216, 217, 244, 311.
Rossi Ernesto 334, 455, 456,
457.
Rossi Alessandro 441
Rossi Pellegrino. ..248 ,250
Rossi Vitaliano, apu. IV.
Rossi Cassigoli 484
Rossini Gioacchino. ...254
Rota Giuseppe.... 411, 497
Rousseau Alt' 203
Rousseau Giang. ...45. 127
Rouget de l'isle '.213
Rovani Giuseppe 497
Rovida C 527
Rubieri Ermolao 198
Ruffini Agostino 531
Rufflni Giov 531
Ruffo (marchese) 204
Rzewuska Calista 305
Sabbatini Giovanni 448
Sadowski Fanny 454
Saglio Luisa. .. .454,455,456
Sainte-Beuve 13,17
Salinas Antonio 266
Salvi (Censore) 99
Saleri Giuseppe 525
Sallustio 338
Saluzzo Cesare. .518,519,522
Saluzzo A 277
Salvini A. L 452
Salvini Tommaso 329, 332,
452, 455, 456, 457, 462.
— XXII —
Salvi 406,487
Salvagnoli Alessandro.. 39
Salvotti 85,244
San Marzano 315
San quinti no 3 14
Santoni Carolina 453
San-Martino (Duca) 204
Sanna-Sanna 167
San Tommaso, 73, 115, 259.
338.
Santarosa Pietro 277
Santarosa Santore. . 209,277
Sanvito 85
Saredo Giuseppe 256
Sarego Alighieri !S'ina..400
Sarti Emilio 301
Sartorio Michele 116
Sartori Iieonzio 43
Sauli 277.283,314
Savonarola . . 381,384.385.435
Scalvini Giovita 242, 244.
245, 248, 411.
Scartazzini G. A. ...486,494
Schiaparelli Luigi.. . 498,515
Schiaparelli Celestino... 207
Schiff Maurizio 60
Schiller 18, 176, 177, 178, 182,
347, 351, 451.
Schelling 207
Schleiermacher 370
Schnackenburff 474
Schroeder .1. t 200
Scialoja Ant. 514, app. XI.
Scinà Domenico 197,198
Sclopis Ca'-'.o 279
Sclopis Federico 57, 64, 83,
>■!>. 274-285, 304. 512.
Scordia (princ.) 204
Scotti Ang. Ant 235
Scott Walther 190, 197 app.
vn.
Secco S jardo B 525
S^dl'nszki • 93
Sega 130
Segneri 137
Selvatico Pietro, rie. 267-
274, 428.
Sella Quintino 518
Sella Rey Clotilde 518
Seneca 508
Senior 251
Sestini Bartolomeo 213,215,
216, 217, 459.
Settembrini Luigi 37, 286,
i 288, 337, rie. 355-367,379.
Settembrini (Padre) 355
Settembrini RaflF. (tiglio ) 360
Sgricci 216,217
Schiassi Filippo 509
Signorini Pinzauti Clemen-
tina 487.
Silvestri Giuseppe 225, 467,
473, 474, 489.
Siracusa (conte di) 204
Sismondi 248,294,468,474
Skakespeare. . 18,177, 194,451
Slane 212
Sofocle -...296
Soldati Francesco 525
Somma Antonio . 187,399,4i7
Smiles 246
Spada Lavinio 149
Spaur 94
Spano Gio 497
Spagliardi. app. VI.
Spaventa Silvio .344,359,360
Spaventa Bertrando 337
Speroni. 147
Spinoza 340
Spotorno G. B 146,147
Stabile Mariano 264
Stampa Soncino Cesare. 94
Stefani Guglielmo 401, 442,
443, 444.
Stella F. A 32,114,174
Sterne 166,425
Strazza G. app VI.
Strocchi Dionigi 310
Suner Luigi 462
Susani ,.. . 101, 102
Svdenham '. 370
T'abarrini Marco 62.287
Tacito 144
Taddei L 452
Tamburini Gaetani Nicola
344, 345, 402.
Tamburini 83
Tanf ni Leopoldo 295
Tanfani Emilio 487
Tari Antonio 267
Tartini Ferdinando 389
Tasso 91,107,193,455,483.500
Teano (On. princ. di).. 305
Tedeschi Paolo 360
Telesio 338
Tenca Carlo 272, 406, 438,497
Tenerani Pietro 302,310
Teotochi-Albrizzi ( contes-
sa) 247
Teora (Principe di) 215
Terenzio 526
Testa (Dottor) 336
Testa Francesco 30
Teste 249
Thierry 202
Thiersch 50
Thouar Pietro. .55,59,75,130
Thuun Matteo 172
Tigri Giuseppe 61.225, rie.
464-486.
Tigri Luigi 466
Tigri Atto 466
Tigri Emilia 466
Todeschini, app. IV, VI.
Tola Pasquale 497
Tommaseo Gerolamo.. . . 107
Tommaseo Niccolò 29, 30,
31, 49. 57. 69, 73, 81, rie.
106-143. 171, 222, 296, 300,
402, 423, 427, 428, 474, 483,
434, 535
Tonello 282
Torelli Giuseppe 416, 425,
app. IV.
Torresani 93
Torti Giovanni 419, 437, 500,
app. XV.
Tortolini Barnaba 308
Tracy 11
Trechi (barone] 25
Treitschke 413
Treves Em. 226. app. VI.
Trova Carlo 64, 236. 265, 278,
3(59. 311, 371.
Trovsi 204
ITda (fratelli) 497
Ugolini F 474
Ugoni Camillo 242,248,525,
528
Ugoni Filippo 242
Valerio Lorenzo 130
Vallauri Tommaso 131, 498,
506, rie. 507-511, 525.
Valussi Pacifico 329
Vannucci Atto 31, 52, 53,
91, 176, 181, 1S4, 191, 222,
rie. 224-229. 236, 283, 310,
389, 465, 467, 469. 471. 473,
474, 491, 521, app. XV.
Vanzolini Giuliano 254
Vapereau 235
Varano Alfonso 220
Varese 28
Varese Casimiro 443
VaiTone 333
Vaselli (prof.) 35
Vauvenargues 183
Vela Vincenzo 182
Veladini 310
Venturi 187
Ventura Giovanni 452
Verdi Giuseppe 132
Vernon (lordj 52
Verri Pietro 10, 83
— XXIII —
Vertunnl 235
Vesrae Carlo 64, 277, 278, 497
Vico G. B 256, 3:^8
Vidua Carlo 46
Vieusseux Eugenio. .60, 73
Vieusseux. Giampietro 31,
32, 49, 55. 56. 57, 58, 59,
60, 69, 73; 116, 117. 128,
129, 132, 467, 474, 494.
Vigliezzi 101, 102, 103
Vigo Salvatore 193
Villari Pasquale 337, 346,
368, rie. 379-386.
ViUeraain 202, 204, 236
Vimercati 95
Vincenti 292
Virgilio 107, 108, 115, 129,
130, 171, 177, 259, 357, 345,
396, 399, 435.
Visconti-Venosta Emilio ,
185, app. XI.
Visconti Ermes 247
Vitarelli 336
Vitrioli Diego 509
Vittorio Emanuele II, 275,
372, 447.
Volney 11
Volta 81
Voltaire.... 43, 77, 148, 176
Vogel di Volgelstein. ..310
Walther 50, 51
Weil 203
Weise 353
Wimpffen 387
Witte Carlo... 310, 321, 474
Zalotti Paride 82, 83,84,85
Zambelli Pietro 51
Zamboni 399
Zanella Iacopo 171, 181
Zannetelli 445
Zannoni (abate) 44, 45
Zobi Antonio 474
Zoncada Antonio 497
Zucchini Rosalia 295
INDICE DE' RICORDI
Proemio l'aa. 5
1. Alessandro Manzoni » 9
^11. Gino Capponi » 13
III. Raffaello Larabruschini » 68
IV. Cesare Cantù » 77
V. Niccolò Tommaseo » 106
VI. Francesco Domenico Guerrazzi » 1 43
VII. Andrea Maffei » 171
Vili. Giulio Carcano » 188
IX. Michele Amari » 196
X. Pietro Giannone » li 13
XI. Atto Vannucci » 224.
+XII. Antonio Ranieri » 'J29
XIII. Giovanni Arrivabene » ^40
j. XIV. Terenzio Marni ani » :ì54
XV. Pietro Selvatico Estense » 267
XVI. Federigo Sclopis . » ^74
XVII. Silvestro Centofanti » 284
XVIII. Michelangelo Caetani » 300
^XIX. Giambattista Giuliani » 306
■vXX. Francesco Dall' Ongaro » 324
XXI. Francesco De Sanctis 337
XXII. Luigi Settembrini » 355
XXIII. Ruggiero Bonghi » :!67
XXIV. Giuseppe Fiorelli • » 375
XXV. Pasquale Villari » 379
XXVI. Emilio Frullani » 386
XXVII. Aleardo Aleardi » 396
XXVIII. Anselmo Guerrieri-Gonzaga » 405
XXIX. Giuseppe Revere » 414
4. XXX. Giovanni Prati » 431
XXXI. Arnaldo Fusinato >^ 141
XXXII. Paolo Giacometti » 448
XXXIII. Tommaso Gherardi del Testa » 4.59
XXXIV. Giuseppe Tigri » i6o
XXXV. Pietro Fanfani » 486
XXXVI. Michele Coppino » 497
XXXVII. Tommaso Vallauri » 507
XXXVIII. Ercole Ricotti » 511
XXXIX. Luigi Scliiapareili » 516
XXXX. Pierluigi Donini » .524
XXXXI. Vincenzo (barelli » 530
XXXXIl. Giuseppe Filippo Baruffi » 534
Conclusione » 538
PQ Gubernatis, Angelo de, conte
4-057 Ricordi biografici
G8
PLEASE DO NOT REMOVE
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