Skip to main content

Full text of "Ricordi biografici; pagine estratte dalla storia contemporanea letteraria italiana, in servigio della gioventù"

See other formats


h-/:' 


»'€-?  .:à 


'1*. 


■»  IT  n  it  gilif 


c 


i?B  jiji  g  Ji'tf 


ANGELO    DE    GUBEHNATIS 


RICORDI  BIOGRAFICI 


PAGINE    ESTRATTE 


STORI*  CONTEMPORftMEft  LEÌTERARIH  IT^LII^N^ 


SERVIGIO   DELLA   GIOVENTÙ 


FIRENZE 

Tipografa    Editrice   dell'Associazione 
Via   Valfonda,  70 

187-J 


p- 


G 


7 


;)86142 


A  SOFIA  BESOBRÀSOFF 


/ 


./k- ^> 


■J^    ^ye,     CU&    (u    ryiGìJic    (c    ??ie 

c/g   /kìguc   'yu(cc^  /ai(j    voa/ca  c/ec/ccaU 
r/yUe.jU    CJticoic/ù.    - 


'(C 


Augclo    Do    Gubcrnatis. 


RICORDI  BIOGRAFICI 


PAGINE  mum  DALLA  STORIA  CONTEMPORANEA  LETTERARIA  ITALIANA 

IN    SERVIGIO    DELLA    GIOVENTÙ 

DA 

ANGELO   DE   GUBERNATIS 


PROEMIO 

Imprendo  opera  assai  malagevole  e  piena  di  rischi;  il  so;  ne 
per  questo  rinuncio  al  mio  proposito;  anzi,  quanto  meglio  m'av- 
veggo come  ardua  e  perigliosa  sia  V  intrapresa,  e  più  mi  s'  accre- 
sce l'animo  di  tentarla,  non  perch'io  presuma  soverchiamente  delle 
mie  forze,  ma  perchè  comprendo  che  può  bastare  la  volontà  ad 
evitare  i  prementi  opposti  scogli,  fra  i  quali,  per  lo  più,  in  simili 
viaggi,  si  naviga,  per  non  convertire  il  ricordo  in  un  panegirico 
e  nemmeno  in  un  libello,  per  non  farsi  troppo  timidi  assentatori 
0  detrattori  troppo  insolenti,  per  non  rimanere  né  curvi  né  al- 
tieri ma  ritti  nel  cospetto  di  quegli  uomini  per  più  ragioni,  seb 
bene  diversamente,  e  in  vario  grado  insigni,  de'  quali  mi  propongo 
qui  di  ragionare,  con  animo  sereno  e  con  mente  tranquilla. 

Non  io  piglierei  la  parola,  se  dovessi  far  paga  la  sola  curiosità 
iV  un  pubblico  vago  di  novellette  o  le  voglie  appassionate  d'alcuna 
parte  politica  avida  di  scandali,  o  1'  ambizione  d'  oscuri  autorelli 
bisognosi  di  nomea  o  il  volgare  dispetto  di  qualche  letterato  in- 
vido  e  maldicente;  1' uflìcio  mio  non  vuol  essere  quello  delle  gar- 
rule volanti  gazzette,  che  nascono,  vivono  e  muoiono  spesso  dei 
loro  pettegolezzi   di  un   giorno.   S' io  mi   riposo  per  qualche  ora 


da'  miei  viaggi  molto  solitarii  nel  mondo  de'  miti  e  delle  parole, 
per  rientrare  a  favellar  brevemente  con  gli  uomini  del  mio  tempo 
e  della  mia  terra,  nessun  altro  desiderio  mi  vi  spinge  se  non  un 
sentimento  di  riverenza  modesta,  di  grato  ricordo,  verso  quelli  fra 
i  nostri  vivi  che  mi  sembrano  aver  lasciato  una  maggiore  im- 
pronta di  sé  nelle  nostre  lettere,  per  le  quali  il  giovanile  mio  in- 
gegno s'accese  un  giorno  di  sacro  entusiamo.  Questo  entusiasmo 
mi  dura  e  mi  conforta  nelle  poche  ore  d'  ozio  che  i  miei  proprii 
studii  mi  concedono;  e  come  dura  in  me,  che  pure  ebbi,  nella  rapi- 
da vita,  la  mia  parte  di  travagli  e  d'amarezze,  vorrei  che  s'accendesse 
nella  nuova  gioventù  che  ci  vien  dietro  ed  in  cui  sono  riposte 
tutte  le  nostre  migliori  speranze.  Io  vorrei  dire  a'giovani  come  mi 
offenda  la  irriverente  leggerezza,  con  la  quale  tanto  spesso  li  odo 
manifestare  il  loro  parere  sui  nostri  grandi;  essi  son  nati  col  brutto, 
mi  perdonino  la  brutta  parola  ma  risponde  anche  troppo  alla  cosa, 
col  brutto  cancro  della  politica  in  corpo;  essi  non  hanno  ancora 
appreso  a  leggere,  intendo  a  legger  con  la  testa  (eh'  è  altra  cosa 
dal  riunire  e  cogliere  materialmente  le  parole  con  gli  occhi)  e  già 
hanno  una  loro  esclusiva  opinione  politica  e  religiosa,  secondo  la 
quale  loro  opinione  poi  trinciano  i  più  assoluti  giudicii  sull'  arte 
e  sulla  letteratura,  nate  e  fatte  soltanto,  a  dar  loro  retta,  per  co- 
lorire la  loro  peculiare  idea,  il  loro  privilegiato  sistema,  e  le  ra- 
gioni sovrane  della  loro  parte.  Tutto  ciò  mi  è  disgustoso  fino  alla 
nausea,  tanto  che  provo  il  bisogno  di  ricrearmi  in  un  mondo  diverso 
che  mi  s'  affaccia  oramai  ne'soli  ricordi  e  nelle  speranze  lontane.  Io 
spero  non  essere  un  lodatore  troppo  sospetto  del  passato;  che  mi  pare 
di  far,  secondo  che  le  povere  mie  forze  il  comportano,  la  mia  modesta 
e  diminutiva  parte  di  trapelo,  per  muovere  innanzi  l'immenso  carro 
che  porta  al  mondo  il  benefìcio  della  luce.  Ma,  per  questa  ragione 
stessa,  io  sento  spesso  e  vergogna  e  dispetto  dell'  attitudine  dis- 
graziata che  piglia  fra  noi  una  parte  soverchia  della  nostra  gio- 
ventù, la  quale  stima  d' instaurare  sapientemente  la  vil-a  affettajido 
un  superlativo  disprezzo  per  tutto  ciò  che  non  bestemmi  cinica- 
mente al  pari  di  essa.  Il  cinismo  è  brutta  cosa  sempre,  poiché 
annunzia  come  tutte  le  facoltà  più  belle  dell'  uomo  siano  spente; 
ma  se  il  cinismo  d'  un  vecchio,  che  ha  patito  molti  disinganni  e 
dolorato  molto,  si  può  chiamare  sventura,  il  cinismo  d'un  giovine 
ributta  ed  è  un  vero  sacrilegio.  Sì,  è  un  sacrilegio,  poiché,  in  qua- 
lunque religione  si  nasca,  la  natura  dà  ad  ogni  uomo  che  nasce 
in  custodia  una  sacra  fiammella,  perché  egli  la  educhi,  la  alimenti 
e  comunichi,  con   essa,  la  sua  parte  di  luce,  di  fuoco,  di  vita  al 


—  7  - 
mondo;  e  s' ei  la  lascia  ostinguere,  prima  ch'essa  si  espanda  in 
benefici  incendii  operosi,  egli  è  un  colpevole  suicida.  Io  non  ho  bi- 
sogno di  dire  ai  giovani  qual  forma  essi  abbiano  a  dare  alla  loro 
fede;  ogni  fede,  pur  che  non  divenga  superstiziosa  e  idolatra,  pur 
che  profondamente  sentita,  pur  che  sincera,  pur  che  tollerante  delle 
fedi  diverse  o -gareggiante  con  esse  solo  nella  grandezza  delle  opere, 
ogni  fede,  io  ripeto,  può  riuscir  feconda  di  bene.  E  avere  una 
fede  non  vuol  dire  ascriversi  ad  una  sagrestia,  ad  una  camarilla, 
ad  una  setta,  ad  un  campanile,  ma  educarsi  e  scaldarsi  nel  cuore 
e  nella  mente  un  ideale,  moltiplicarsi  nel  sentimento,  nel  pensiero 
nelle  opere,  vivere  tutta  intiera  la  vita.  Ai  giovani  che,  sulle  note 
in  Msetto  dei  canti  disperati  del  grande  Recanatese,  mi  dicono:  la 
vita  è  un  lungo  e  continuo  e  inutil  tormento,  io  m'affretto  a  ri- 
spondere: voi  bestemmiate;  voi  non  sapete  ancora  che  cosa  sia  la 
vita;  voi  non  avete  ancora  dato  alle  vostre  membra  tutta  l'agilità, 
la  sveltezza,  la  potenza  della  quale  esse  sono  capaci ,  e  che  può 
fornire  a  voi  la  bella  e  grande  virtù  del  coraggio;  voi  non  avete 
ancora  amato  quanto  si  può  amare  né  la  vostra  famiglia  né  la 
vostra  patria,  né  la  bella  ridente  natura  che  vi  circonda  né  la 
vostra  tenera  sposa,  né  1  vostri  figli  carezzanti,  né  l'arte,  né  la 
scienza  divina;  voi  non  avete  ancora  provate  le  superbe  ebbrezze 
dell'  intelletto  che  indaga  mondi  inesplorati  e  che  agita  in  sé  stesso 
e  produce  fra  i  viventi  nuove  splendide  forme  ideali.  Queste  gioie 
che  voi  non  conoscete  ancora  le  potrete  conoscere,  se  il  vogliate; 
né  allora  voi  vi  dorrete  più  del  peso  della  vita;  e  1'  esempio  del 
Leopardi  mi  giova  appunto  per  citarlo  contro  di  voi;  la  natura  lo 
fece  disgraziatissimo;  egli  nacque  informe,  non  potè  viver  tutto, 
ebbe  debolissimo  il  corpo;  pur  ne  cavò  tutte  le  scintille  eh'  ei  potè; 
studiò;  amò  invano;  pensò  molto,  forse  troppo,  alle  sue  miserie  e  le 
cantò;  quindi  si  spense,  non  avendo  potuto  aggrapparsi  a  nulla  di 
solido  nella  vita,  per  ripigliare  le  forze  d'  Anteo,  e  rinnovare  la  lotta. 
La  sua  vita  fu  una  faticosa  elegia,  non  perchè  la  vita  gli  sem- 
brasse veramente  cosi  orrenda,  com'ei  l'ha  cantata,  ma  perchè 
orrendo  parevagli  il  non  poterne  godere  in  tutta  la  sua  pienezza; 
s'  egli  teme  la  vecchiaia  e  n'  ha  orrore,  ei  non  ci  dice  altro  con 
ciò  se  non  eh'  ei  teme  gli  fuggano  le  forze  necessarie  per  godere 
la  vita;  assistere  al  giocondo  spettacolo  della  vita  e  non  poterne 
sentir  la  dolcezza  è  il  supplizio  di  Tantalo,  supplizio,  senza  dub- 
bio, crudele.  Ma  non  è  quello  a  cui  siete  chiamati  voi,  o  giovani, 
nei  quali  abbonda  la  forza  e  deve  abbondar  la  speranza  ;  vivete 
dunque,  e  spiegate  liberamente  tutta  la  vostra  potenza  vitale;  di- 


venite  leoni,  ripudiando  ogni  viltà;  il  non  esser  vile  è  una  prima 
condizione  necessaria  per  riuscir  grande.  Poiché ,  io  deploro 
più  che  ogni  altra  cosa  la  mollezza  che  vi  rende  inerti,  fatui,  e 
studiosi  de'  commodi  vostri;  parrai  suprema  disgrazia  la  tendenza 
di  molti  fra  voi  ad  ambire  importanti  cariche  dello  Stato  prima 
che  abbiate  durata  alcuna  lunga  e  seria  fatica  per  conseguirle  ;  e 
di  studiare  non  più  per  la  sete  insaziabile  della  scienza,  ma  per 
arrivare  più  presto  al  momento  desiderato  in  cui  non  dovrete 
studiar  più  ;  di  consegnare  alla  stampa  ogni  vostro  esercizio  let- 
terario, e  domandar  premio  di  quest'audacia  per  cui  meritereste 
forse  castigo.  Perciò  avviene  che  di  nessuno  scritto  vostro  si  pigli 
più  cura  l'età  vostra  non  senza  ragione  diffidente,  e  che  non  ne 
rimanga  traccia  alcuna  nel  tempo.  A  male  siffatto,  pur  che  il  vo- 
gliate, vi  sarà  agevole  opporre  un  rimedio,  ed  io,  per  aiutarvi  a 
trovarlo,  ed  invogliarvene,  mi  sono  proposto  di  scrivere  i  presenti 
Ricordi,  d'alcuni  viventi  uomini  di  lettere,  ne'quali  potrete,  se  non 
altro,  apprendere  come  la  gloria  durevole  non  si  consegua  altrimenti 
se  non  durando,  senza  fine,  nello  studio  e  nel  lavoro,  e,  ancora,  per- 
chè non  vi  accada  di  rimpiangere  soverchiamente  1  vostri  morti, 
educarvi  anzi  tutto,  al  rispetto  de'più  benemeriti  tra  i  vivi. 


RICORDI    BIOGRAFICI 


ALESSANDRO  MANZONI 

Sentir. . .  e  meditar  ;  di  poco 

Esser  contento*^;  da  la  meta  mai 
Non  torcer  gli  occhi;  conservar  la  mano 
Pura,  e  la  mente  ;  de  le  umane  cose 
Tanto  sperimentar,  quanto  ti  basti 
Per  non  curarle  ;  non  ti  far  mai  servo  ; 
Non  far  tregua  coi  vili  ;  il  Santo  Vero 
Mai  non  tradir  ;  né  proferir  mai  verbo 
Che  plauda  al  vizio,  o  la  virtù  derida...  (1) 

Chi  segnava,  or  sono  sessantasei  anni,  con  nome  all'Italia  oscu- 
ro, questo  intiero  programma  di  filosofia  stoica,  nella  sua  sempli- 
citcà  cosi  eloquente,  è  vivo  e  glorioso  per  dirci  come  le  promesse 
della  giovinezza  generosa,  volendo,  si  possano  mantenere  invio- 
late per  una  lunga  vita.  E  la  vita  del  grande  lombardo  che  il 
mondo  onora,  è,  invero,  tersa  come  il  più  limpido  cristallo,  nel 
quale  può  e  deve  la  odierna  gioventù  specchiarsi,  riverente  e  si- 
cura. 


(1)  A  Giulia  Beccaria,  Versi,  in  morte  di  Carlo  hnhonati. 


—  10  — 

Mi  è  più  d'una  volta  accaduto  d'avvertire  come  il  Manzoni  ab- 
bia una  facoltà  tutta  sua  propria  di  comunicare  una  parte  del 
proprio  spirito,  della  propria  maniera,  del  proprio  stile  alle  per- 
sone che,  dopo  avere  usato  famigliarmente  con  l'uomo,  o  nel  di- 
fetto di  questo,  co'suoi  scritti,  ragionano  di  lui  o  con  lui.  Scrit- 
tori anche  originalissimi  depongono,  inconsapevoli  e  come  amma- 
liati, la  loro  propria,  più  o  manco,  naturai  veste,  per  conformarsi 
al  gusto  elegantemente  disinvolto,  affabilmente  malizioso,  dignito- 
samente simpatico  del  Manzoni,  tosto  che  s'appressano  a  lui  o  ad 
alcun  soggetto  che,  per  poco,  il  riguardi.  Accingendomi  pertanto 
a  discorrere  intorno  alla  vita  dell'uomo  insigne,  per  quanto  se 
n'è  manifestata  al  di  fuori,  avrei  bisogno  anch'io,  come  quel  chieri- 
chetto, di  ricevere  da  Milano  un  po'di  quel  certo  che,  indefinibile 
e  tutto  manzoniano,  quod  facit  ita.  Ma,  poiché  questa  fortuna 
non  fu  a  me,  nella  vita,  riserbata,  debbo  anch'io  rimanermi  con- 
tento del  poco,  e,  per  non  far  peggio,  ridurmi  a  raccogliere  in- 
torno al  nostro  comune  maestro,  quelle  testimonianze  che  gli 
resero  quanti  ebbero  la  ventura  di  mirarne  dappresso  le  sem- 
bianze venerate,  udirne  i  discorsi  sapienti,  far  tesoro  di  quegli 
affettuosi  consigli  ch'egli  non  nega  ai  giovani,  quando  i  giovani 
gli  sembrino  forniti  di  qualche  luìnen  Dei  e  predestinati  a  diven- 
tar uomini. 

E,  per  incominciar  bene,  domando  scusa  a  quell'anima  eletta  di 
Giulio  Carcano  se,  a  rappresentar  ne'giorni  presenti  il  nostro 
grande  intemerato,  io  mi  valgo  di  alcune  belle  parole  sorprese  in 
una  lettera,  ch'egli  usava  la  cortesia  d'indirizzarmi  il  27  febbraio 
scorso  <4  II  Manzoni  è  ancora  più  grande  come  pensatore  e  come 
uomo  che  come  scrittore  ;  il  Vero  é  la  sua  vita,  la  sua  poesia,  la 
sua  fede;  il  Buono  la  sua  coscienza,  la  sua  forza  invincibile.  Egli 
compirà,  tra  pochi  di,  gli  ottantasette  anni,  e  la  sua  mente  è 
cosi  viva,  pronta  e  integra,  come  lo  potè  essere  il  giorno  dopo 
che  scrisse  l'ultima  pagina  dei  Promessi  sposi.  » 

Nacque  Alessandro  Manzoni  il  di  8  marzo  dell'anno  1785  (1), 
in  Milano,  da  Pietro  Manzoni  e  da  Giulia  Beccaria,  figlia  del  ce- 
lebre autore  del  libro  Dei  delitti  e  delle  piene,  sposatasi  al  Man- 
zoni, il  12  settembre  1872,  essendo  auspice  di  quelle  nozze  il  conte 
Pietro  Verri  (2).  D'ambe  le  parti  era  nobile  il  parentado;  e  in  en- 


(1)  E  non  1784  come  scrivono  i  biografici  francesi. 

(2)  Cl'r.  Cantù,  Beccaria  e  il  diritto  penale. 


—  11  — 

tranibe  lo  fami,i>lie  si  contava  qualche  autore;  alla  famiglia  Man- 
zoni aveva  appartenuto  la  [)oetessa  Francesca,  morta  nel  174.S  a 
Cereda  presso  Lecco,  autrice  di  parecchie  tragedie  sacre,  socia  di 
più  accademie,  e  di  un'opera  inedita,  che  s'intitolava  :  Storia  di 
tutte  le  donne  erudite  di  ogni  secolo  e  di  ogni  nazione.  Io  lascio 
ai  fisiologi  e  psicologi  il  determinare  quanto  sangue,  quanti  nervi, 
e  quanto  fluido  vitale  de'maggiori  paterni  e  materni  sian  passati 
nell'organismo  del  neonato  meraviglioso  fanciullo  ;  certo  la  natura 
non  lavora  a  caso,  e  il  prodigio  apparente  non  è  altro  se  non  il 
risultato  naturale  di  leggi  costanti  e  immutabili  le  quali  nella  va- 
rietà delle  combinazioni  creano  effetti  diversi.  Ma  non  è  da  me 
il  penetrar  questi  misteri  solenni  della  natura,  quando  è  già 
troppo  più  di  quello  che  le  mie  modeste  forze  comportino,  il  mi- 
surare l'altezza  dell'ingegno  e  dell'animo  dell'uomo  vivente,  nelle 
sue  esterne  manifestazioni. 

I  primi  studii  Alessandro  Manzoni  intraprese  in  Milano,  e  ter- 
minò in  Pavia,  avendo  nella  sua  fanciullezza  perduto  il  padre,  e 
stando  lontano  dalla  madre,  che  s'era  raccolta  a  vivere  in  Parigi, 
dove  l'esser  figlia  del  Beccaria  e  le  distinte  sue  qualità  personali 
le  avevano  agevolmente  schiuso  i  saloni  della  splendida  società 
d'Auteuil,  ne'  quali  gli  ultimi  campioni  della  filosofia  francese  del 
secolo  decimottavo  solean  convenire  a  geniale  ritrovo.  La  Cabanis 
e  M.""^  de  Condorcet,  Volney  e  Garat,  Tracy  e  Fauriel,  rinfre- 
scavano ancora  il  frizzo  volteriano,  ma  non  senza  il  presentimento 
di  una  nuova  vita  ideale,  la  vita  della  scienza  edificatrice,  che  s'an- 
nunziava, malgrado  lo  strepito  rovinoso  e  inconsciente  delle  guerre 
napoleoniche.  Il  giovinetto  IManzoni,  come  molti  de'  giovani  di 
quel  tempo  intesi  agli  studii,  secondando  la  sua  naturai  disposizione 
al  motto  spiritoso,  s'innamorò  facilmente,  alla  prima,  d'una  filosofia  e 
letteratura  tutta  motteggio;  e,  poiché  dello  spirito  n'aveva  d'avanzo, 
gli  dovette  riuscir  facile  aggravar  di  nuovo  ridicolo  le  forme  esterne 
d'una  religione  caduta  allora  in  dispregio.  Ma  l'incredulità  era  al 
di  fuori  soltanto;  a  non  credere  l'avea  portato  la  tendenza  uni- 
versale del  secolo  decimottavo,  non  la  sua  intima  persuasione  ; 
egli  negava,  e  certamente,  quando  ai  motti  altrui  aggiungeva  il  suo, 
non  intendeva,  non  credeva  di  dare  alla  sua  negazione  quella  forza 
distruttiva  ch'essa  pareva  contenere.  Il  giovine  Manzoni  era  for.se  ma- 
lato anch'esso  di  una  gran  malattia  morale,  comune  pure  a  molti  gio- 
vani dell'età  nostra,  una  malattia  funesta,  a  non  guarirsene  in  tempo; 
questa  malattia  è  l'ipocrisia  del  vizio, che  arriva  al  suogrado  estremo 
di  miseria,  quando  essa  crede  invece  di  arrivare  al  sommo  del  sublime^ 


—  12  — 
per  quella  che  i  tedeschi  chiamano  espressivamente  die  selbsi-ironìe 
(l'ironia  contro  sé  stesso).  La  smania  deplorevole  di  parere  inge- 
gnosi ci  rende  facilmente  tristi  ;  neghiamo  sbadatamente  quelle 
cose,  che,  pur  fatta  astrazione  d'ogni  fede  religiosa,  ci  sono  più 
sacre,  pur  di  lanciare  una  frase  che  faccia  fortuna,  e  di  renderci 
piacevoli  alla  brigata  che  c'incorona  oggi,  per  evitarci  forse  do- 
mani come  uomini  di  moralità  sospetta  e  sopra  i  quali  non  si  può  più 
contare.  Il  giovane  Manzoni  dovette  bere  egli  pure  a  quella  fonte  vele- 
nosa, non  tuttavia  in  tal  forma  e  in  tal  copia  da  perdervisi.  Era 
in  lui  una  virtù  riposta  che  lo  chiamava  a  risorgere,  e,  quali  siano 
poi  state  le  occasioni  particolari  della  sua  vita  che  lo  abbiano  risve- 
gliato a  parlare  ed  operare  intieramente  da  uomo  fra  i  veri  vi- 
venti; noi  non  dimentichiamo  che,  quindicenne,  egli  già  cantava  in 
un  sonetto  inedito,  ad  una  Laura  misteriosa  e  forse  immaginaria, 
come  la  gentilezza  e  nobiltà  d'animo  di  lei  le  avessero  inspirato 
l'amore,  e  come  egli  avrebbe  amato  esser  nobile  e  gentile,  per  una 
semplice  e  delicatissima  ragione,  espressa  in  un  verso  che  dice 
molto  in  poco,  come  tutto  ciò  che  Manzoni  suol  dire  : 

Per  ch'io  non  posso  tralasciar  d'amarti. 

I  biografi  sono  molto  discordi  nel  determinare  l'anno  della  conver- 
sione del  Manzoni  dall'ateismo  alla  fede.  Ed  io,  per  non  aggiunger 
maggior  confusione  alla  loro,  lascierò  stare  la  cronologia,  che  è  poi,  in 
una  simile  questione,  cosa  molto  indifferente.  La  conversione  del  Man- 
zoni non  avvenne  in  un  solo  giorno,  per  colpo  d'una  bacchetta  ma- 
gica; l'amore,  che  fece  altri  miracoli,  deve,  senza  dubbio,  aver  fatto 
anche  quello  di  risvegliare  più  presto  Alessandro  Manzoni  alla 
fede;  ma  oltre  che  era  in  lui  abbondante  la  materia  prima,  la  ma- 
teria generosa  ed  infiammabile,  si  può  aggiungere  che  quanto 
egli  durò  ad  amare,  tanto  durò  pure  a  convertirsi;  né  io  vorrei 
parergli  irriverente  sostenendo  ch'egli,  già  tanto  vicino  alla  per- 
fezione, va  tuttora  operando  la  sua  Conversione  per  dar  ragione 
a  sé  stesso,  e  avvicinarsi  di  più  a 

...  Quei  ch'eterna  ciò  che  a  Lui  somiglia  (1) 


(1)  Yeì'si  in  morte  di  Carlo  Imhonati. 


—  13  — 

e  nel  Quale,  all'età  di  21  anno,  egli  mostrava  già  palesemente  di 
credere,  come  nel  tìne  del  sonetto  a  Francesco  Lomanaco,  scritto 
nel  suo  ventesimo  anno,  ad  imitazione  del  Filicaia,  è  agevole  pre- 
sentire il  futuro  poeta  civile. 

E  fu  pure  nell'anno  1805  ch'egli,  recatosi  a  Parigi  per  vivere  presso 
la  madre,  conobbe  il  Fauriel,  lo  frequentò  alla  Maisomiette,  presso 
la  Condorcet,  gli  divenne  amico  ;  fu  nel  1806,  che  gli  lesse  i  suoi 
versi  per  la  morte  dell'Imbonati,  e  nel  1807  che  gli  diede  a  leg- 
gere il  poemetto  d'  Urania;  in  que' tre  anni,  in  somma,  che 
nacque  veramente  all'Italia  il  nuovo  Manzoni. 

Egli  avea  ad  operare  in  sé  una  duplice  conversione,  morale  l'una, 
letteraria  l'altra;  i  suoi  versi  ci  rivelano  ch'egli  ha  già  vinto  il 
più  nella  prima  battaglia  ;  l'ateo  è  scomparso  ;  della  seconda  bat- 
taglia siamo  ancora  alle  prime  scaramuccie  ;  gli  esemplari  de'  clas- 
sici italiani,  i  carmi  foscoliani  e  pindemontiani,  i  versi  dell'asti- 
giano, i  poemi  di  Parini  e  di  Monti  sono  ancora  troppo  freschi 
alla  memoria  del  giovine  poèta,  perchè  egli  osi  troppo  disco- 
starsene, innovando;  li  imita  dunque,  o  piuttosto,  li  ricorda  tutti, 
ma  il  contenuto  già  fa  scoppiare  il  contenente;  i  pensieri  premo- 
no, e  domandano  una  forma  più  disinvolta,  più  larga,  più  commoda; 
egli  se  ne  preoccupa;  ne'  versi  per  l'Imbonati  ha  promesso  di  riu- 
scire un  uomo,  e  non  ruppe  mai  la  fede  data  agli  uomini;  nel  poe- 
metto d' Urania,  ha  espresso  il  suo  desiderio  di  diventar  vate  sacro 
d'Italia,  cantando  : 

profondo 

Mi  sollecita  amor  che  Italia  un  giorno 
Me  de'suoi  vati  al  drappel  sacro  aggiunga, 
Italia,  ospizio  delle  muse  antico, 

e  si  preoccupò  quindi  nel  cercare  quella  foruìa  originale,  che  do- 
vea  permettergli  di  divenire  in  breve  l'autore  degli  Inni  sacri. 
«  I  due  amici,  scrive  Sainte  Beuve  (1),  nel  suo  ritratto  di  Fau- 
riel, andavano  fra  loro  discorrendo  del  fine  supremo  di  ogni  poesia, 
delle  false  immagini  delle  quali  era  anzi  tutto  necessario  spo- 
gliarsi, della  bella  e  semplice  arte  che  si  dovea  far  rivivere...  La 
poesia  deve  uscire  dal  cuore^  bisogna  sentire,  e  saper   esprimere 


(I)  Portraits  contemporaina. 


—  14  — 

i  propri  sentimenti  con  sincerità.  Era  quello  il  primo  articolo 
della  riforma  poetica  meditata  tra  Faiiriel  e  Manzoni.  »  E  l'ami- 
cizia di  Fauriel  fu  nella  vita  del  Manzoni  una  delle  sue  migliori 
fortune,  non  solo  perchè  l'amicizia  fra  due  giovani  onesti  e  di 
cuore  è  sempre  feconda  di  bene,  ma  perchè  osservando  l'effetto 
che  i  suoi  propositi  e  le  sue  idee  novatrici  facevano  sull'animo  e 
sull'ingegno  del  Fauriel,  e  discutendo  coH'amico  i  suoi  dubbi  egli 
arrivava  più  presto  e  più  sicuramente  a  trovare  quel  giusto  punto, 
che  tal  volta  rimane  velato  da  un  illusione  la  quale  per  eufemismo 
ci  compiacciamo  chiamare  poetica,  tal  altra  da  quella  inerzia  della 
mente  che  ci  fa  spesso  arrestare  al  primo  aspetto  d'una  questione^ 
che  non  è  sempre  il  vero  e  di  rado  può  essere  l'aspetto  completo. 
Urtandosi  le  idee,  sfavillano,  si  provano,  e  si  misurano;  al  lampo 
di  quella  luce,  se  ne  scorge  la  forza,  l'estensione  e  l'eflìcacia  reale; 
poiché  le  buone,  ad  ogni  nuovo  urto,  mandano  sempre  qualche 
nuova  e  più  viva  e  più  schietta  scintilla,  e  resistono  ;  le  fittizie 
si  stancano  e  diventano  presto  inerti,  e  incapaci  di  sostenere  qual- 
siasi nuova  prova.  Perciò,  quanto  io  sento  e  deploro  l'oziosità  di 
molti  se  non  di  tutti  i  monologhi  accademici,  tanto  parmi  che  si 
debba  far  coraggio  ai  giovani  studiosi  perchè  si  raccolgano  spesso 
a  discutere  intorno  ai  loro  studii,  per  provarsi  o  darsi  luce  a  vi- 
cenda, nella  ricerca  del  vero.  La  intolleranza  delle  opinioni  altrui 
dipende  in  gran  parte  dall'assoluta  persuasione,  nella  quale,  per 
difetto  di  discussione,  siamo  noi  tutti  che  la  sola  opinione  buona 
è  la  nostra;  proviamoci  invece  a  discuterla,  e,  oltre  che  1'  acco- 
steremo forse  di  più  a  quella  verità,  della  quale  ci  presupponiamo 
i  sacri  e  privilegiati  depositarli,  apprenderemo  pure  un  po'  di 
quella  benedetta  virtù  che  non  è  mai  troppa,  avuto  riguardo 
alle  frequenti  tentazioni  che  abbiamo  di  farne  a  meno,  io  voglio 
dire  un  poco  più  di  modestia. 

Nel  1808,  Alessandro  Manzoni  si  sposava  con  Luigia  Enrichetta 
Blondel  figlia  d'un  banchiere  ginevrino.  La  luna  di  miele  fu  lunga 
e  piena  di  gioie ,  ed  a  quella  benedetta  luna  di  miele  l' Italia  va 
debitrice  de'gioriosi  Inni  sacri,  destinati  a  festeggiare,  secondo  il 
rito  cattolico,  le  nozze  de'due  sposi  redenti. 

Poiché,  quando  il  Manzoni  dall'ateismo  era  già  passato  alla  fede, 
la  sua  donna  dalla  chiesa  di  Calvino  si  raccolse  nel  seno  della 
chiesa  cattolica.  Per  quanto  simili  conversioni  individuali  provino 
poco  0  nulla  in  favore  della  chiesa,  che  il  Manzoni  nella  Morale 
Caltolica  ha  con  tanta  sincerità  difesa,  e  non  sembri  rigorosa- 
mente necessario  d'essere  devoto  cattolico  per   mantenersi    buon 


—  15  — 

Cristiano,  e  neppure  d'essere  Cristiano  per  credere  alla  virtù  e 
praticarla,  noi  dobbiamo  benedire  quell'unione  d'anime  in  una  fede 
che  parve  loro  la  migliore,  poiché  da  quella  credenza  nel  meglio, 
riposto,  a  suo  credere,  nel  cattolicismo,  derivò  il  Manzoni  le  più 
alte  inspirazioni  dell'arte  sua.  Manzoni  ateo  od  anche  protestante 
non  ci  avrebbe  dato  mai  né  gli  Inni  sacri,  né  fra  Cristoforo,  né 
il  Cardinal  Borromeo  ;  e,  perdendo  questo,  avremmo  forse,  ad  es- 
sere schietti,  perduto  il  meglio  di  lui,  Manzoni  ha  voluto  serbarsi 
cattolico  fino  allo  scrupolo;  e  per  noi  questo  é  il  so'o  vero  modo 
onesto  di  credere,  quando  si  crede,  d'arrivare  all'entusiasmo  e  di 
farlo  sentire.  A  lui  parve  che  gli  mancasse  il  più,  mancandogli  la  fede 
nel  sovrannaturale  ;  e  s' aggrappò  come  un  naufrago  disperato 
alla  Croce  che  divenne  sua  vera  tavola  di  salute.  Egli  umiliò  la 
superbia  dell'intelletto  alla  fede,  e  disse  a  sé  stesso  :  più  in  là  non 
domanderai;  dove  l'occhio  umano  non  vede  più  nulla,  il  tuo  orgo- 
glio deve  pure  cadere;  cercò  pertanto  rifugio  ne' libri  Santi,  e  da 
quelli,  come  i  primi  Cristiani,  tolse  coraggio  e  forza  di  credere 
senza  discutere,  ammirando  sovra  ogni  cosa  nel  mondo  la  religione 
perchè  sovra  ogni  cosa  nel  mondo  la  religione  ha  virtù  di  con- 
solare. 

Ma  non  era  da  prevedersi  che  la  conversione  del  giovine  poeta 
avesse  a  passare  senza  rumore.  Ne'  versi  per  l'Imbonati,  il  Man- 
zoni ci  fa  già  sentire  ch'egli  ha  provato  1'  acre  morso  insidioso 
della  calunnia,  quand'egli  canta: 

Nò  l'orecchio  tuo  santo,  io  vò  del  nome 

Macchiar  de' vili,  che  oziosi  sempre, 

Fuor  che  in  mal  far,  contra  il  mio  nome  armaro 

L'operosa  calunnia,  A  le  lor  grida 

Silenzio  opposi,  e  a  l'odio  lor  disprezzo. 

Il  buon  cattolico,  pochi  anni  dopo,  invece  di  disprezzo  avrebbe 
forse  scritto  perdono;  ma  il  Manzoni  di  21  anno,  non  è  ancora 
arrivato,  alla  sua  serenità  buddhistica,  alla  sua  calma  olimpica, 
alla  sua  eccellenza  cattolica.  Egli  combatte  ancora.  Gli  Inni  sacri 
vengono  a  provare  chi  egli  ha  vinto. 

Sorge  allora  nuovamente  e  si  propaga  la  calunnia,  cercando  ad 
una  conversione  naturalissima  le  più  remote  e  strane  cagioni;  ma, 
-per  difetto  d'alimento,  è  obbligata,  in  breve,  a  cadere  ;  la  sdegnano, 
la  ripudiano,  l'atterrano  quegli  stessi  che  speravansi  più  pronti 
alla  credulità,  e  il  credente  Manzoni,  tra  l'altre  consolazioni,  potò 


—  16  — 
allora  provar  quella  di  vedersi  animosamente  difeso  da  un  grande 
che  non  divideva  senza  dubbio  i  sentimenti  religiosi  da  lui  pro- 
fessati, ma  che  aveva  una  fede  illimitata  nella  sincerità  del  gio- 
vine poeta  indegnamente  calunniato.  «  Foscolo,  scrive  Silvio 
Pellico  a  Nicomede  Bianchi,  (1)  vedeva  in  Manzoni  un  giovine  lette- 
rato di  grandi  speranze,  l'onorava  e  lo  difendeva  contro  chi  bef- 
favasi  della  religiosa  credenza  a  cui  Manzoni  era  di  recente  pas- 
sato, dando  le  spalle  all'ateismo.  Foscolo  chiamava  que'  beffatori 
i  fanatici  della  Filosofia,  vantandosi  esso  di  sprezzare  non  i  cre- 
denti, ma  i  soli  ipocriti  ». 

E  un  solo  sincero  credente  poteva  immaginare  e  comporre  gli 
Inni  Sacri;  dopo  la  prima  edizione,  l'Autore  li  ha  riveduti  e  cor- 
retti, ma  non  per  mutarne  lo  spirito;  l'artista  ripuli  l'opera  sua 
al  di  fuori,  ma  l'anima  era  dentro  e  vi  rimase  quale  il  Manzoni, 
inspirato  dai  libri  santi  e  dagli  inni  sacri  della  Chiesa  ve  l'aveva 
soffiata  la  prima  volta.  È  probabile  che  il  Manzoni,  in  età  più 
matura,  avrebbe  vestito  di  forme  più  lucide  e  più  popolarmente 
eleganti  gli  Inìii  Sacri,  come,  in  ftitto  d'eleganza,  l'Ode  famosa 
del  Cinque  Maggio  li  ha  facilmente  superati,  e  come  forse  li  vin- 
ceranno gli  inni  inediti  di  Manzoni  (vuoisi  che  il  Manzoni  abbia 
portato  gli  Inni  sacri  al  numero  degli  Apostoli)  nati  in  un  tempo  nel 
quale  l'ingegno  del  Manzoni  era  arrivato  alla  sua  perfetta  maturità. 
Ma,  quali  sono,  gli  Inni  Sacri  hanno  creato  in  Italia  una  nuova  for- 
ma di  poesia,  il  contenuto  della  quale  che  si  giudicò,  in  quei 
tempi,  romantico,  era  semplicemente  biblico.  Il  Manzoni  ha  il  gran 
merito  d'avere  liberato  in  Italia  la  poesia  cristiana  dalle  forme 
convenzionali  ereditate  dal  paganesimo;  forme  convenzionali  per 
noi  moderni,  che  ci  studiamo  d'imitarle,  mentre  invece  per  gli 
antichi  erano  proprie,  naturali,  e  frutto  spontaneo  e  necessario 
di  quella  civiltà.  Egli  restituì  ai  poeti  d'Italia  la  loro  libertà,  e, 
col  proprio  esempio,  disse  loro:  essendo  cristiani,  inspiratevi  da 
Cristo;  essendo  moderni,  diffondete  la  parola  di  Cristo  con  la  lin- 
gua vostra,  ch'è  la  lingua  del  cuore. 

Per  questo  rispetto,  gli  Inni  Sacri  segnano  nella  storia  della 
nostra  poesia  una  vera  rivoluzione,  della  quale  sarannno  sentiti 
per  sempre,  ed  invano  si  dissimulerebbero,  i  benefici  effetti.  Io 
non  chiamo,  senza  dubbio,  tali  i  numerosi  inni  nati  di  poi  in  va- 


(1)  Pellico,  Epistolario. 


—  17  — 

rie  parti  d'Italia  ad  imitazione  di  que'primi  che  avean  fatto  for- 
tuna; gli  imitatori  avevano  ne'loro  esercizii  dimenticato  l'essen- 
ziale, cioè  che  per  cantare  la  religione  bisogna  portarla  nell'anima; 
essi  lavoravano  a  soggetto  come  gli  antichi  istrioni,  sul  modello 
degli  Inni  Sacri,  ma  per  istemperare  i  primi  colori,  stancare  le 
prime  immagini,  e  dir  poco  in  molto,  come  il  Manzoni  avea  detto 
molto  in  poco.  E  questo  carattere  distintivo  della  poesia  manzo- 
niana parmi  pure  creare  il  suo  difetto  principale;  poiché  lo  stu- 
dio di  restringere  un  gran  senso  in  brevi  parole,  fa  si  che  talora 
queste  brevi  parole  siano  adoperate  ad  esprimere  più  che  natu- 
ralmente esse  non  potrebbero,  e  a  diventar  talora  semplici  for- 
mole  astratte;  il  che  se  prova  la  potenza  del  poeta  nel  concen- 
trare le  sue  idee,  impedisce  per  altro  che  la  sua  poesia  riesca 
popolare,  e  le  toglie  molta  parte  di  quell'impeto  lirico  e  di  quel 
calore  che  si  comunica,  tanto  necessario  ad  ogni  poesia,  ma  alla 
lirica  religiosa  in  modo  specialissimo.  Manzoni  giovine  fece  opera 
di  vecchio,  costringendo  in  un  linguaggio  matematico  le  verità 
della  religione  che  gli  erano  nuovamente  apparse  in  modo  lumi- 
noso; si  direbbe  ch'ei  volesse  porsele  innanzi,  ed  estrinsecarsele 
in  una  forma  più  precisa  per  potersi  meglio  persuadere  della  loro 
realtà  e  più  durevolmente  contemplarle  ed  adorarle.  Ma  ci  sembra 
di  non  rischiar  troppo,  dicendo  come  Manzoni  vecchio,  innamorato 
com'egli  è  e  maestro  nelle  bellezze  del  linguaggio  popolare,  se  do- 
vesse oggi  cantar  la  religione,  sceglierebbe  una  via  opposta  a 
quella  ch'ei  tenne  in  gioventù,  escludendo  ogni  parola  equivoca 
che  il  popolo  non  potesse  comprendere  da  sé,  ed  ogni  trasposi- 
zione men  naturale  di  parole,  per  riuscire  subito  al  desiderato 
effetto  di  dare  al  popolo  un  canto  che  non  muoia  appena  recitato, 
che  si  diffonda  senza  bisogno  di  interpreti,  e  che  consoli  vera- 
mente chi  si  muove  a  cantarlo. 

Ma  l'Autore  degli  Inni  Sacri  sarebbe  forse  in  Italia  passato  in- 
discusso e  inglorioso,  se  altri  suoi  componimenti  successivi  non 
l'avessero  portato  d'un  tratto  alla  celebrità. 

Noi  sappiamo  da  Salute  Beuve,  che  il  giovine  Manzoni  medi 
tava  a  Parigi  un  lungo  poema  sopra  la  fondazione  di  Venezia 
ma,  se  di  quel  tentativo  letterario  non  ci  è  pervenuta  altra  noti 
zia,  è  lecito  supporre  che  fin  d'allora,  leggendo  le  storie  di  Ve 
nezia,  abbia  il  Manzoni  trovato  il  germe  del  suo  Conte  di  Car 
magnala,  cui  pose  la  mano  a  Milano  nel  1816,  e  terminò  a  Pa 
rigi  nel  1819,  dopo  averlo  fatto  leggere  al  suo  Fauriel,  al  quale 
venne  dedicato  in  attestato  di  cordiale  e  riverente  aynicizia.  Fau- 

RicoRDi  Biografici  2 


-  18  — 
riel  era  stato  il  padrino  dei  primi  lavori  poetici  del  Manzoni, 
avea  tenuto  al  fonte  battesimale  il  primo  fi'utto  delle  nozze  di  lui 
con  la  Blondel;  era  giusto  che  il  primo  lavoro  nel  quale  il  Man- 
zoni annunziava  e  discuteva  pubblicamente  la  sua  riforma  lette" 
raria,  gli  fosse  dedicato.  Il  Conte  di  Carmagnola  era  la  prima 
tragedia  italiana  che  facesse  a  meno  delle  famose  unità  di  luogo 
e  di  tempo;  il  poeta  non  solo  le  mette  da  parte,  ma,  in  un  discorso 
che  nella  nostra  storia  letteraria  segna  un  movimento  importante, 
indica  con  molta  chiarezza  le  ragioni  che  lo  indussero  a  intro- 
durre nel  teatro  italiano  una  così  ardita  novità.  In  Italia,  come 
accade  spesso,  non  se  ne  diedero  per  intesi,  se  non  dopo  che  in 
Francia,  Inghilterra  e  Germania  si  fece  caso  di.  quella  pubblica- 
zione, come  d'un  grande  avvenimento. 

Col  suo  Conte  di  Carmagnola,  dieci  anni  prima  che  apparisse 
VHernaìii  di  Vittor  Hugo,  il  nostro  Manzoni  inaugurava  la  scuola 
romantica.  E  in  Francia  e  in  Italia,  ove  la  tragedia  classica  regnava 
assoluta  ed  inviolabile,  dovette  parere  quel  primo  tentativo  un 
atto  di  grande  temerità;  l'Inghilterra,  invece,  che  aveva  avuto  il 
suo  Shakespeare  e  che  battagliava  allora  intorno  al  gran  nome 
di  Byron,  e  la  Germania  che  aveva  applaudito  agli  ardimenti  di 
Schiller  e  di  Goethe,  non  poteva  far  altro  se  non  coronare  di  un 
verde  lauro  glorioso  il  capo  del  giovine  e  felice  novatore  lom- 
bardo. Allora  il  Manzoni  incontrò  la  sua  massima  fortuna  lettera- 
ria, avendo  avuto  la  consolazione  ineffabile  per  un  uomo  di  let- 
tere, d'esser  letto,  compreso  e  pubblicamente  applaudito  da  un  vero 
grande,  da  Volfango  Goethe.  Dalle  lodi  che  i  vecchi  saliti  in  fama 
sogliono  con  modesta  liberalità  consentire  agli  scrittori  nascenti, 
questi  devono  più  spesso  argomentare  della  bontà  dell'animo  dei 
vecchi,  che  fidare  soverchiamente  nel  proprio  valore  e,  boriosi, 
impancarsi  fra  gli  immortali.  Io  non  potrei  quindi  biasimare  ab- 
bastanza que'nostri  giovani,  i  quali  per  quattro  righe  di  compli- 
mento messe  per  gentilezza  squisita  in  carta  da  qualche  letterato 
in  fama,  se  ne  fanno  arma  contro  la  indifferenza  del  pubblico  e  contro 
la  tentazione  de'critici  a  scoprirvi  difetti,  e  fors'anco  a  disapprovar 
l'opera  loro.  Certe  lodi  generiche  fritte  all'ingegno  d'un  giovane,  od 
ai  suoi  studii,  o  al  suo  buon  gusto,  e  certi  incoraggiamenti  a  pro- 
seguire per  una  via  felicemente  intrapresa,  lasciano  il  tempo  che 
trovano,  e  .se  provano  cortesia  in  chi  di  lodi  siifatte  è  generoso, 
provano  piccolo  ingegno  in  que'giovani  che  se  ne  tengono  paghi, 
per  riposare  sulle  loro  prime  e  per  lo  più  molto  innocenti  e  poco 
sudate  fatiche.  Ma  il  Cr(jethe  fece  assai  più  che  restituire  un  com- 


—  19  — 
plimento  al  Manzoni.  Egli  lesse  il  Conte  di  Carmagnola  del 
Manzoni,  senza  che  questi  ne  sapesse  nulla,  lo  lesse,  lo  studiò, 
se  ne  persuase,  e  spontaneamente  ne  scrisse  una  lunga,  meditata 
analisi  nella  Rivista  di  Stoccarda,  Ueher  Kunst  uncl  AUerthitm. 
Un  genio  divinò  l'altro,  e  prossimo  ad  abbandonare  la  scena  olim- 
pica del  mondo,  il  vecchio  Giove  tedesco  ci  assicurò  che  l'Olimpo, 
alla  sua  scomparsa,  non  sarebbe  rimasto  deserto,  e  che  la  vita 
dello  spirito  non  si  sarebbe  fermata.  Parini  benedice  Foscolo; 
Foscolo  difende  Manzoni,  e  Goethe  se  lo  pone  sul  suo  proprio  piede- 
stallo. Lo  stesso  Manzoni  dovea  poi  benedire  alla  sua  volta  Mas- 
simo d'Azeglio  e  Giuseppe  Giusti;  così  gli  spiriti  magni  si  seguono 
e  si  legano  in  alleanze  magnanime,  e,  per  una  vicenda  gloriosa, 
l'ideale  si  eterna.  Il  Goethe  notò,  fra  l'altre  cose,  come  nel  suo 
discorso  sulle  unità,  il  Manzoni,  sebbene  tratti  un  argomento  noto 
e  già  risoluto  in  Germania,  vi  dice,  dal  suo  punto  di  vista,  come 
uomo  d'alto  ingegno,  e  come  italiano,  cose  nuove  ed  importanti 
a  conoscersi  anche  dai  tedeschi;  e  quindi  esamina,  singolarmente, 
le  numerose  bellezze  della  tragedia.  E  in  vero,  per  quanto  si  po- 
trebbe desiderare  che  il  soggetto  fosse  più  interessante,  il  dialogo 
più  drammatico,  il  verso  più  colorito  e  più  poetico,  il  tutto  più 
caldo,  più  rapido  e  più  animato,  la  verità  e  dignità  de'caratteri, 
l'ordine  con  cui  l'azione  è  svolta,  la  morale  che  lo  governa,  la 
passione  del  quinto  atto  e  l'inarrivabile  bellezza  del  coro  che  de- 
plora le  discordie  italiane,  oltre  alla  felice  dimostrazione  della  tesi 
letteraria  che  l'autore  s'era  proposto  di  risolvere,  tutto  dimostra 
un  ingegno  armonico  e  sicuro,  un  grande  maestro  dell'  arte,  e 
un'  anima  grande  in  cui  la  sola  virtù  doma  le  passioni,  le  pone 
in  equilibrio,  e  le  adopera  provvidamente  per  i  suoi  fini  ideali, 
che  per  quanto  molte[!lici  sono  sempre  concordi.  Già  il  Goethe 
osservò  contro  il  critico  del  Qimrterlij  Revìew,  come  «  nella  tra- 
gedia del  Manzoni  {Il  Conte  di  Carmagnola),  quel  coro  che  tanto 
esalta  ed  inlìamma  giungerebbe  inefficace  se  non  avesse  a  com- 
mento i  due  primi  atti;  e  così  la  commozione  della  scena  finale, 
senza  la  preparazione  degli  ultimi  tre  atti,  sarebbe  o  debole  o 
nulla.  Un  ode  non  si  regge  da  sé;  deve  muovere  da  un  elemento 
agitato.  »  E  questo  elemento  agitato,  oltre  che  nel  dramma,  si 
trova  nell'amor  patrio  caldo  e  generoso  del  poeta  e  nelle  passioni 
politiche  del  tempo  in  cui  il  coro  della  battaglia  di  Maclodio  fu 
scritto.  Quel  leggiadro  componimento  letterario  ch'è  la  France- 
sca da  Rimini  di  Silvio  Pellico  destò  l'entusiasmo  per  due  soli 
versi.  L'uno  è  quello  in  cui  Paolo  dice  alla  bella  cognata   ch'egli 


—  20  — 

l'ama  disperatamente,  un  modo  d'amare,  per  dire  il  vero,  che  non 
dovrebbe  infiammar  tanto  i  grandi  attori  i  quali  recitano  tal  par- 
te, e  alla  loro  volta  infiammano  di  sacro  fuoco  gli  spettatori,  i 
quali  non  pensano  più  che  tanto,  in  quel  punto,  che  l'amore  di- 
sperato, l'amore  senza  speranza,  la  disperazione  non  è  il  grado 
massimo  dell'amore,  ma  si  invece  quello  che  prepara  molto  filoso- 
ficamente all'indifferenza;  col  che  non  intendo  senza  dubbio  appuntar 
que'versi  del  Pellico,  ma  sì  il  modo  troppo  eroico  con  cui  sono  detti. 
Ogni  amatore  sa  che,  a  quel  punto  in  cui  riesce  a  destar  la  pietà 
nell'animo  d'una  donna  gentile,  ei  può  dire  che  la  vittoria  è  sua, 
e  Paolo,  quando  ha  detto  e  ripetuto  che  egli  ama  Francesca,  e 
quindi  s'abbandona  ad  un  lamento  che  lo  mostra  disperato  alla 
sua  bella  donna,  non  ha  più  nulla  ad  aggiungere  per  farla  sua 
veramente.  L'altro  verso  è  una  esclamazione,  un'evocazione,  un 
grido  di  risurrezione  lanciato  all'Italia: 

Polve  d'eroi  non  è  la  polve  tua? 

verso  che  tocca  sempre  le  fibre  del  patriota  italiano,  e  che,  detto 
bene,  non  si  può  riudire  senza  fremere. 

Ma  il  coro  della  Battaglia  di  Maclodio  dice  ben  più,  e  quanti 
si  rallegrano  dell'Italia  una,  come  in  Mazzini  il  suo  più  costante 
apostolo,  devono  salutare  in  Alessandro  Manzoni  il  suo  illumi- 
nato profeta.  Si  pensi  al  tempo  in  cui  que'  versi  furono  scritti; 
dopo  la  signoria  francese,  l'austriaca  opprimeva  le  genti  lombarde 
nel  nome  della  santa  e  paurosa  Alleanza;  Manzoni  lombardo  vede 
l'Italia  divisa  e  discorde,  e  Jo  straniero  in  casa;  e  animato  dal 
soffio  di  Dante;  afferma  l'unità  della  patria,  la  fratellanza  degli 
italiani: 

Siam  fratelli,  siam  stretti  ad  un  patto 

e  domanda  loro,  contro  chi  essi  impugnino  le  spade,  e 

Qual  è  quei  che  ha  giurato  la  terra 
,  Dove  nacque  far  salva,  o  morir? 

Manzoni,  poco  più  che  trentenne,  ha  già  fermate  tutte  le  sue 
idee  più  originali:  in  ogni  suo  scritto  egli  ne  svolge  una  princi- 
pale, ed  accenna  alle  altre  non  secondarie,  ma  ch'egli  riserva  come 
addentellato  per  futuri  edifìcii  che  la  sua  mente  architettonica  ha 
già  combinati. 


—  21  — 

Nel  coro  del  Car^magnola,  egli  ha  detto  che  gli  italiani 

D'una  terra  son  tutti,  un  linguaggio 
Parlan  tutti... 

e  queste  parole  servono  di  tesi  alla  futura  lettera  sull'  Unilà  della 
lingua. 

Il  Conte  di  Carmagnola  fu  tradotto  in  prosa  francese  dallo 
stesso  Fauriel;  e  fra  i  suoi  critici  francesi  giova  rammentare  il 
Chauvet  che,  nel  Lijcée  frangais,  con  una  critica  rispettosa  com- 
battè il  sistema  drammatico  del  Manzoni,  poiché  quella  critica 
diede  occasione  alla  lunga  e  sapiente  lettera  dello  stesso  Manzoni 
al  Chauvet  sulle  unità  drammatiche  e  sopra  l'eleuiento  storico  in- 
trodotto nella  drammatica,  che  apparve  nel  18"23. 

Il  Goethe  aveva  notato,  circa  la  distinzione  di  caratteri  storici  ed 
ideali  fatta  dal  Manzoni  nel  Conte  di  Carmagnola  :  «  Non  vi  sono, 
propriamente  parlando,  personaggi  storici  in  poesia;  solo,  quando  il 
poeta  vuol  rappresentare  il  mondo  morale  che  ha  concepito  fa  a 
certe  individualità  ch'egli  incontra  nella  storia  l'onore  di  pigliare 
ad  imprestito  i  loro  nomi  per  applicarli  agli  esseri  ch'egli  ha 
creati.  »  Il  Manzoni,  rispondendo  nel  18:21  al  Goethe,  confessa 
candidamente  che  la  distinzione  di  personaggi  storici  e  ideali  era 
stata  un  suo  sbaglio,  e  che  lo  avrebbe  evitato  nel  nuovo  lavoro 
al  quale  attendeva.  Ma,  neW Adelchi,  ancora,  malgrado  il  suo  stu- 
dio d'attenersi  scrupolosamente  alla  storia,  il  Manzoni  non  potè 
impedire  che  il  personaggio  del  figlio  di  Desiderio,  ossia  il  più 
importante,  riuscisse  quasi  esclusivamente  ideale,  e  che  in  Adelchi, 
meglio  del  rozzo  principe  longobardo,  i  suoi  intimi  amici  ricono- 
scessero il  nobile,  gentile  e  pio  cavaliere  lombardo,  l'autore  stes- 
so (1).  Il  Goethe  considerava  la  poesia  drammatica  da  un  punto 
di  vista  opposto  a  quello  in  cui  il  Manzoni  si  compiacque.  Il  Goethe 
poneva  il  colorito  storico  nel  fondo,  e  su  questo  fondo  credeva  le- 
cito al  poeta  d'inventare;  il  Manzoni  volle,  nel  dramma,  essere  esatto 
fino  allo  scrupolo  e  cavare  la  poesia  dalla  storia,  piìi  tosto  che  alcuni 
firofili  della  storia  da  una  viva  poesia.  Scrivendo  intorno  sdVAdel- 
chi,  il  Goethe  si  esprime  così:  «  Se  il.  Manzoni  si  fosse  persuaso 


(1)  Cfr.  l'opuscolo  intitolato:  Interesse  di  Goethe  per  Man^nni,  ov'ò 
riferita  una  conversazione  fra  Cousin  e  Goethe  intorno  :il  Manzoni. 


22  

in  tempo  essere  diritto  inalienabile  del  poeta  il  modificare  a  suo 
talento  le,  tradizioni  favolose,  e  trasformare  in  favolosa  tradizione 
la  storia,  avrebbe  cansata  la  dura  fatica,  che  dovè  certo  durare 
per  fondar  la  finzione,  fin  nei  più  minuti  particolari,  sopra  stori- 
che incontrastabili  prove.  Ma,  poich'egli  è  a  queste  cure  portato, 
come  manifestamente  appare,  dall'indole  dell'ingegno  suo,  noi 
confessiamo  da  codesto  suo  sistema  provenire  un  genere  di  poesia 
tutta  propria  di  lui,  e  che  nessuno  potrà  imitare.  »  Nulla  di  più 
giusto,  per  quanto  parmi,  di  questa  osservazione  del  Goethe.  Il 
Manzoni  che  ha  presentito  tante  cose  nuove  e  grandi  nel  mondo 
dell'arie,  e  che  ha  imparato  tante  cose  sapienti  dal  popolo,  non  mi 
sembra  aver  allora  posto  mente  al  modo  con  cui  il  popolo  è  poeta,  e 
crea  le  sue  epopee.  Ed  è  a  meravigliare  come  il  suo  ingegno  pe- 
netrantissimo, nell'accostarsi  al  personaggio  di  Carlomagno,  e 
nello  scorgere  la  doppia  figura  di  lui,  la  storica  e  la  leggendaria, 
non  abbia  sentito  che  la  figura  leggendaria,  lavorata  in  più  secoli 
dalla  immaginazione  popolare,  fosse  la  sola  che  potesse  tentare  un 
grande  poeta  a  rappresentarla.  Il  poeta  tragico  ed  epico  deve  ap- 
prendere dal  popolo  il  modo  con  cui  si  possa  creare  poeticamente 
sopra  un  fondo  storico  ;  il  popolo  non  è  punto  infedele  alla  storia, 
nell'essenziale,  ma  ingrandisce  le  proporzioni  dei  personaggi  sto- 
rici e  li  idealeggia  col  trasformarli  in  eroi  conformi  a  que'tipi 
universali  che  la  tradizione  gli  pose  nella  mente,  e  ch'egli  colo- 
risce secondo  i  nuovi  aspetti  locali  ne'quali  li  raffigura.  E  la  tra- 
gedia e  il  poema  non  può  far  a  meno  che  rappresentare  degli  eroi; 
per  dare  la  notizia  degli  uomini,  basta  la  nuda  cronaca;  e  ogni 
studio  che  facciamo  per  porli  artisticamente  in  evidenza,  porta  in 
sé  qualche  cosa  di  soggettivo,  che  distrugge  la  realtà  dell'oggetto 
storico  da  noi  contemplato.  Con  la  preoccupazione  scrupolosa  della 
verità  storica,  ogni  creazione  poetica  riesce  impossibile  ;  e  il  poe- 
ta si  rivela  solamente  in  que'punti  ne'quali  lo  storico  si  nasconde; 
tutto  diviene  anacronismo,  inconseguenza,  eccezione  al  poeta  che 
voglia  rappresentare  drammaticamente,  nella  sua  realtà,  un  fatto 
storico,  incominciando  dalla  parola  ch'è  sempre  contemporanea  a 
noi  e  non  mai  ai  personaggi  che  se  ne  servono,  fino  al  modo 
sempre  convenzionale  in  cui  si  è  costretti  a  lasciar  svolgere 
l'azione. 

Per  quanto  s'ami  dunque  il  vero,  non  si  può  escludere  la  finzione 
dall'opera  d'arte;  sopprimendo  la  finzione,  ogni  forma  artistica  deve 
cadere. 

Ora  io  non  comprendo  per  quale  scrupolo,  avendo  sacrificato  il 


—  23  — 
più  si  ponga  una  specie  di  religiosità  per  conservare  i  caratteri 
della  verità,  a  quello  clie  nell'arte  importa  meno.  Non  si  può  appli- 
care la  fotografia  ad  una  storia  sulla  quale  è  sempre  lecito  il  di- 
scutere ;  e  quando  pur  si  potesse,  l'arte  avrebbe  poco  merito  in 
una  simile  riproduzione.  Si  avrebbe,  nel  migliore  de'casi  possibili, 
la  negativa  d'un  ritratto,  ma  non  il  ritratto  a  mano  coi  tocchi  di 
un  grande  maestro.  Ed  io  temo  assai  che  uno  de'  motivi  per  cui 
si  arrestò  cosi  presto  la  mano  del  Manzoni,  intenta  a  crear  poesie 
originali,  sia  pure  stata  la  sua  propria  critica,  sempre  vigile  a 
rammentargli  il  pericolo  che  l'invenzione  riesca  una  menzogna.  Ep- 
pure. neW Adelchi,  ciò  che  v'ha  di  meglio  trovato  è  quanto  riguarda 
il  personaggio  stesso  ideale  d'Adelchi;  i  passi  più  belli  sono  quelli  nei 
quali  le  reminiscenze  della  storia  cedono  il  campo  all'immagina- 
zione del  poeta,  che  inventa,  narra  e  descrive,  per  non  parlare 
del  coro  stupendo  d'Edmengarda,  e  de'robusti  dodecasillabi,  in 
parte  forse  mutilati,  che  rappresentano  agli  italiani  gli  orrori  delle 
invasioni  barbariche  : 

•<  Col  novo  signore  rimane  l'antico, 

L'un  popolo  e  l'altro  sul  collo  vi  sta; 
Dividono  i  servi,  dividon  gli  armenti. 
Si  posano  insieme  sui  campi  cruenti 
D'un  volgo  disperso  che  nome  non  ha. 

Di  Adelchi  e  d'Edmengarda  che  il  Manzoni  ci  offre  illuminati 
da  una  luce  tutta  ideale,  noi  possiamo  dire;  se  non  furono  tali, 
avrebbero  potuto  essere  ;  quel  secolo  diede  pure  dei  santi  e  delle 
sante  alla  Chiesa;  sul  fine  d'Adelchi  la  storia  è  incerta;  egli 
avrebbe  pure  potuto  finire  in  un  convento,  vedendo  come: 

Una  feroce 
Forza  il  mondo  possiede,  e  fa  nomarsi 
Dritto. .  . 

Versi  memorabili  che  servivano  benissimo  a  darci  il  carattere 
del  nono  secolo,  e  al  tempo  stesso,  flagellavano,  dopo  la  fallita 
rivoluzione  del  1821,  gli  eccessi  della  Santa  Alleanza.  Quanto 
agli  altri  personaggi  che  il  Manzoni  disegnò  conformemente  alla 
storia,  può  invece  domandarsi  se  la  storia  altrimenti  consi- 
derata e  studiata  non  li  lascierebbe,  qualclie  volta,  risultara 
diversi.    La    tragedia,    secondo  la  poetica    manzoniana,    dovrebbe 


—  24  — 
riuscire  un  quadro  storico  e  la  forma  drammatica  servire  d'un 
pretesto  per  mettere  sotto  gli  occhi  un'  età  remota,  derivan- 
done l'occasione  a  velare  consigli  e  insegnamenti  civili  ai  presenti. 
Convien  dire  che  il  Manzoni  si  è  servito  in  modo  meraviglioso  di 
queste  occasioni  ch'egli  s'è  create  per  comporre  cori  inimitabili; 
ma,  quanto  piìi  il  coro  manzoniano  si  innalza,  e  più  si  sente  come 
la  tragedia  stessa  corra  troppo  dimessa  sulle  umili  traccie  della 
storia;  si  direbbe  che  il  Manzoni  fa  a  fidanza  con  que'personaggi 
cli'egli  non  ha  creduti  degni  di  venir  idealeggiati,  in  un  modo  non 
troppo  dissimile  da  quello  che  usano  i  grandi  attori  tragici,  i  quali 
stimano  avere  tanto  più  risalto,  quanto  meno  splendida  siala  turba 
de'fratelli  d'arte  che  li  circonda. 

Il  coro  manzoniano  è  11  principale,  al  quale  s'inchinano  i  perso- 
naggi del  dramma  che  gli  fanno  corona.  E  queste  considerazioni 
nascono  tanto  più  naturali,  dopo  la  lettura  del  discorso  sopra  alcuni 
punti  della  storia  longobarda,  aggiunto  a.\V Adelchi,  discorso  il  qua- 
le, mentre  inaugura  sapientemente  la  critica  storica  in  Italia  e  rende 
cosi  un  nuovo  grande  servigio  agli  studiosi  italiani,  fa  un  pessimo 
servigio  al  Manzoni  stesso,  come  poeta,  distruggendo  l'efficacia  di 
queW ArMcJii  che  si  propone  d'illustrare.  Chi  legge  V Adelchi,  senza 
aver  letto  il  Discorso,  per  quanto  appaiano  pallidi  alcuni  de' per- 
sonaggi tolti  alla  storia,  finisce  per  sentir  simpatia  per  i  casi  di 
Edmengarda,  di  Adelchi  e  del  re  Desiderio,  per  temere  che  i 
Franchi  passino  veramente  le  Alpi,  per  abborrire  i  traditori  che 
aprono  la  via  al  nemico  invasore,  e  per  odiar  questo  nemico.  Un 
lettore  non  prevenuto  da  veruna  discussione  finisce,  in  somma,  di 
commoversi.  Ma,  in  chi  legga  il  Discorso  critico  dell'autore,  ogni 
pietà  svanisce,  il  guelfo  Carlomagno  e  i  papi,  odiatori  della  spur- 
cissima  Langodardorimi  gens  appaiono  nel  loro  buon  diritto,  gli 
italiani  che  stanno  a  vedere  indifferenti  la  rovina  della  gran  casa 
di  Desiderio  fanno  la  cosa  più  naturale  del  mondo,  onde  il  coro  stesso 
diviene  una  postuma  sublime  superfluità  patetica;  in  conclusione,  la 
scienza  storica  del  Manzoni  fa  quanto  può  per  ammazzare  il  Man- 
zoni poeta;  e  se  non  vi  riesce  non  può  dire  questa  volta  di  non 
averlo  fallo  a  imsta.  Fortunatamente  per  noi,  non  è  necessario 
leggere  uniti  i  due  lavori;  l'Adelchi,  preso  da  sé  senza  quello  che 
l'autore  ha  voluto  mettervi  e  trovarvi  prima  e  dopo  averlo  scritto,  ma 
non  forse  mentre  lo  scriveva,  è  sempre  un  bellissimo  lavoro  dramma- 
tico, pieno  di  versi  forti  e  leggiadri,  e  di  efi^etti  stupendi;  del  discorso 
poi  è  inutile  il  ripetere  che  il  Manzoni,  novatore  in  tutto,  vi  ha 
insegnato  con  l'esempio  come  la  storia  oramai  vuol'essere  studiata. 


—  Só- 
li Manzoni  dedicava  l'Adelchi  alla  sua  moglie  Enrichetta   Luigia 
Blondel  «  la  quale  insieme  con  le  affezioni  coniugali  e  con  la  sa- 
pienza materna  potè  serbare  un  animo  virginale  » 

Il  Collie  di  Carmagnola  e  VAdelcJii,  provati  sul  teatro  non 
ebbero  fortuna,  ma  più  pel  deliberato,  irriverente  proposito  di  una 
parte  filo-classica  del  pubblico  a  farli  cadere  e  pel  modo  barbino  con 
cui  furon  recitati,  che  pel  giudizio  spassionato  d'un  pubblico  intelli- 
gente. Il  Carmagnola  hi  recitato  in  Firenze,  nell'agosto  del  1828,  al 
teatro  Goldoni.  Giambattista  Niccolini  ne  scrive,  nel  modo  seguente, 
all'attrice  Maddalena  Pelzet,  a  Milano  :  «  Vi  compiego  due  lettere, 
una  del  Marchese  Gino  Capponi  pel  Barone  Trechi  e  una  del  Mon- 
tani per  la  Principessa  Pietrasanta.  Troverete  nell'uno  e  nell'altra 
ogni  bontà  e  gentilezza  ;  vi  avverto  che  il  primo  è  romantico  per 
la  vita,  e  passionato  ammiratore  del  Manzoni,  la  cui  tragedia 
ebbe  sulle  scene  l'effetto  che  prevedevamo,  quantunque  la  Corte 
e  i  Romantici  facessero  di  tutto  perchè  riuscisse.  Senza  la  pre- 
senza della  prima,  la  cosa  sarebbe  andata  peggio  di  quello  che  andò; 
per  tre  atti  non  si  fece  che  ridere  e  sbadigliare  ;  il  coro  e  il 
quinto  atto  piacquero  ;  i  filodrammatici  si  fecero,  per  dirla,  alla 
fiorentina,  corbellare  moltissimo  »  (1).  Il  Montani  alle  premure 
del  quale  presso  Filippo  Berti  ed  i  suoi  filodrammatici,  nel  difetto  da 
lui  lamentato  fin  d'allora  di  «  una  compagnia  stabile,  già  da  lungo 
tempo  desiderata  »  e  presso  il  maestro  Romani  per  la  musica  del 
coro,  si  dovette,  in  gran  parte,  l'esperimento  scenico  della  prima 
tragedia  manzoniana,  con  animo  più  benevolo  scriveva  invece,  in- 
torno alla  prima  rappresentazione  lìeW Antologia  del  mese  di  no- 
vembre di  quell'anno  :  «  senza  lo  spirito  di  parte,  che,  dopo  avere 
con  epigrammi,  biglietti  anonimi  ecc.,  cercato  di  sgomentare  gli 
attori,  si  mostrò  cosi  deciso  di  turbare  con  risa  e  bisbigli  il  pa- 
cifico giudizio  degli  spettatori,  essa  avrebbe  avuto  un  esito  abba- 
stanza felice.  La  seconda  rappresentazione  riuscita  cosi  ti^anquilla 


(1)  È  giusto  tuttavia  riferirò  le  parole  che,  sembrando  correggersi, 
lo  stesso  Niccolini  scrive  alla  Pelzet  intorno  alle  tragedie  del  Manzoni, 
nel  febbraio  del  1829  :  »  Le  sue  tragedie,  quantunque  non  siano  per  la 
scena,  almeno  secondo  le  nostre  abitudini,  contengono  tante  bellezze 
che  il  plauso  dell'Europa  meritamente  lo  corona  su  tutti.  Voi  sapete 
qual  concetto  io  abbia  fatto  sempre  di  questo  veramente  grand'uomo  ; 
ciò  che  vi  scrivo  a  Milano  ve  l'ho  detto  a  Firenze.  » 


al  confronto  della  prima,  gli  applausi  clie  non    mancarono   né  al- 
l'una né  all'altra,  mi  fanno  dir  ciò  con  piena  fidanza  ». 

Qualche  cosa  di  peggio  avvenne  al  teatro  Carignano  di  Torino, 
quando  la  Compagnia  Reale  vi  rappresentò  l'Adelchi.  Il  Pellico  ne 
scrive  a  Pietro  Giuria  :  «  spiacemi  che  si  abbia  voluto  rappresen- 
tare la  bella  ma  non  rappresentabile  tragedia  di  Adelchi,  e  spia- 
cemi la  vile  irriverenza  del  pubblico  »  e,  in  altra  lettera  allo 
stesso  «  non  me  ne  duole  per  Manzoni,  il  quale  non  s'affligge  di 
ciò,  ma  per  la  bruttezza  di  quegli  scherni  ».  Cosi  due  famosi 
tragici  d'Italia  si  trovarono  d'accordo  a  giudicare  non  atte  alla 
scena  le  tragedie  Manzoniane  ;  e  due  pubblici  d'Italia  mancarono 
di  rispetto  al  loro  autore.  Si  dovrà  ora  dire  senza  appello  la  sen- 
tenza? Io  noi  credo  ancora,  e  parmi  anzi  che,  più  di  molte  trage- 
die alfierjane  e  niccoliniane,  le  tragedie  del  Manzoni,  e  VAdelchi 
in  ispecie,  intese  e  rappresentate  bene,  possano  commuovere  non 
solo  ma  suscitare  entusiasmo.  E  vei"0  che  il  gridarci  ora,  ne'  no- 
stri gaudii  unitarii,  che  siam  fratelli,  può  parere  un  pleonasmo; 
ma  se  non  meniamo  più  le  mani  fra  noi,  facciamo  del  nostro  me- 
glio, per  continuare  a  bisticciarci;  e  se  i  nostri  padroni  di  fuori  se 
ne  sono  iti,  abbiamo  ancora  tanto  da  ftire  per  ritornar  padroni 
di  noi  stessi,  che  la  morale  civile  di  Manzoni  può  tornare  non 
inutile  anche  oggi.  Aspettiamo  adunque  che  in  Roma  s'instauri 
un  teatro  drammatico  veramente  nazionale  perchè  l'Italia  raccolta 
in  Roma  ripari  il  fallo  commesso,  in  due  nobili  provincie  italiane, 
dai  padri  nostri. 

Fra  il.  Conte  di  Carmagnola  e  VAdelchi,  a  crescere  la  fama  del 
giovine  poeta  lombardo,  e  renderla  mondiale,  uscì  nel  18-21  la  ce- 
lebre ode  II  cinque  maggio.  Lo  stesso  argomento  fu  pure  tentato 
da  tre  grandi  poeti  francesi,  Delavigne,  Bèranger,  Lamartine; 
nessuno,  per  confessione  de'  francesi  stessi,  arrivò  all'altezza  del 
nostro.  Egli  è  che  nessuno  era  forse,  più  di  lui, 

Vergin  di  servo  encomio 
E  di  codardo  oltraggio. 

Il  poeta  sentiva  allora  pienamente  il  suo  diritto  d'elevarsi  a 
giudice  del  potente  scomparso  dal  mondo  de'  vivi  ;  e  la  sua  voce 
si  fa  epica  e  solenne,  come  quella  della  giustizia  finale  de'popoli 
nella  storia,  che  giustizia  di  Dio. 

Il  Cinque  Maggio  è  l'antitesi  dell'ode  del  Monti  sulla  Battaglia 
di  Marengo.  I  due    grandi    poeti  vi  si    sentono    rivali.    Il    Monti 


27  -  , 


aveva  amato  il  Manzoni  fino  ai  versi  in  morte  dell'Imbonati,  e  al 
poemetto  à' Urania;  ma,  dopo  il  bando  dato  dal  Manzoni  al  vec- 
chio mondo  mitologico,  il  vecchio  e  il  giovine  bardo  non  s'intesero 
più.  L'incruenta  guerra  fu  nascosta,  ma  non  tanto  che  non  ne  giun- 
gesse qualche  novella  al  mondo;  cosi  fu  detto  che  Manzoni  avesse 
pronta  un'  ode  satirica  contro  l'uso  della  mitologia  della  poesia 
moderna,  e  se  ne  citarono  due  versi  : 

Pensa,  o  figliuol  di  Giove,  almo  Sminteo, 
Che  s'enorme  è  la  colpa,  un  solo  è  il  reo. 

Il  reo  di  lesa  mitologia  doveva  evidentemente  essere  il  Manzoni. 

Leggo  poi  nelle  Memorie  di  Mario  Pieri,  la  cui  malattia  cro- 
nica era,  come  ben  disse  il  Tommaseo,  il  furoì^  della  gloria,  i  suoi 
sfoghi  innocenti  contro  il  Signor  Capo-Romantico,  Alessandro  Man- 
zoni, a  cui  il  corcirese  fa  carico,  fra  l'altre  cose,  d'aver  osato  chiamare 
il  sermone  del  Monti  in  difesa  della  Mitologia  il  venlotiesimo  bui- 
lettino  del  Classicismo,  alludendo  al  ventottesimo  bullettino  di  Na- 
poleone I,  che  fu  l'ultimo,  e  di  esser  solito  a  recitare  «  per  lo 
senno,  a  mente,  gli  interi  Canti  »  del  poema  del  Grossi,  /  Lom- 
bardi alla  prima  crociala. 

Ma  il  trovarsi  capo  d'una  scuola  letteraria  opposta  a  quella  del 
Monti,  non  impediva  al  Manzoni  di  venerar  nel  Monti  il  suo  an- 
tico maestro,  e  di  questa  sua  venerazione  il  documento  più  lumi- 
noso, è  la  nota  quartina  scritta  pel  ritratto  del  Monti,  dopo  la 
morte  di  lui  : 

Salve,  0  iivino,  a  cui  largì  natura 

Il  cor  di  Dante,  e  del  suo  duca  il  canto  ! 

Questo  fia  'l  grido  dell'età  futura  ; 

Ma  l'età  che  fu  tua,  tei  dice  in  pianto  I 

L'iperbole  del  secondo  verso  si  spiega  facilmente  con  la  tene- 
rezza che  si  versa  nel  quarto. 

E  intanto  il  Manzoni  proseguiva  in  letteratura  l'opera  sua  ri- 
voluzionaria, imprendendo,  nel  1823,  a  scrivere  il  suo  romanzo  im- 
mortale. 

Il  Fauriel  venuto  in  quel  tempo  a  Milano,  ove  si  trattenne  in- 
torno a  due  anni  e  il  Grossi  divenuto  famigliarissimo  del  Man- 
zoni, (nella  casa  del  quale  andò  poi  ad  abitare)  videro  nascere  e 
crescere  quell'opera  meravigliosa^    e   non  poterono  rimaner  tanto 


t  —  28  — 

segreti,  che  non  ne  penetrasse  al  di  fuori  qualche  notizia,  e  non 
fosse  perciò  grandissima  l'aspettativa.  Nel  18:25,  il  Cousin  ne 
portava  in  Germania  la  notizia  al  Goethe,  aggiungendo  che  il  ro- 
manzo di  Manzoni  volgerebbe  sulla  storia  lombarda  del  secolo 
decimosesto  (egli  volea  dire  decimosettimo). 

Il  25  aprile  1826,  il  Niccolini  da  Firenze  domanda  al  Bellotti  a 
Milano  notizie  del  Romanzo  di  Manzoni  ;  e  il  Bellotti  gli  risponde: 
«  Del  romanzo  di  Manzoni  altra  notizia  non  posso  darvi  se  non  che 
fra  un  mese  si  comincierà  la  stampa  del  terzo  ed  ultimo  tomo,  es- 
sendo già  finiti  i  due  primi,  che  però  l'autore  non  vuol  dar  fuori 
se  non  insieme  con  l'altro.  Sicché  non  penso  che  prima  del  lu- 
glio si  potrà  leggere  » 

La  Biblioteca  italiana,  del  settembre  1827,  si  esprime  cosi:  «  La 
sola  notizia  che  l'autore  dell'  Adelchi  e  degli  Inni  sacri  scriveva 
un  romanzo,  nobilitò  la  carriera  e  trasse  alcuni  chiari  intelletti 
ad  entrarvi  »  (si  allude  alla  Sibilla  Odatela  del  Varese,  al  Ca- 
stello di  Trezzo  del  Bazzoni,  al  Cabrino  Fonduto  del  Lancetti).  — 
Ed  ecco  il  titolo  con  cui  il  capolavoro  del  Manzoni  apparve  la 
prima  volta  :  /  Promessi  Sjjosi,  storia  milanese  del  secolo  XVII, 
scoperta  e  rifofta  da  Alessandro  Manzoni,  Milano,  1825  e  1826, 
presso  Vincenzo  Ferrarlo,  voi.  3.  in  8.  (di  pag.  1136  complessi- 
vamente, prezzo  lire  12  ital.) 

Il  Manzoni  sapeva  che  il  suo  romanzo  era  l'expectatus  gentium, 
e  siccome,  fra  gli  altri  doni,  il  suo  mirabile  ingegno  ha  quello  di 
antivedere  tutte  le  obbiezioni  che  potranno  essergli  fatte,  dono 
ch'ei  deve,  per  dire  il  vero  a  sé  stesso,  pel  lungo  uso  di  meditare 
a  fondo  e  per  ogni  verso  i  soggetti  ch'egli  imprende  a  trattare,  egli 
previde  come  il  più  possibile  de'  casi  quello  che  i  critici  trovas- 
sero il  suo  romanzo  al  di  sotto  della  grande  aspettazione.  E  però 
quella  bella  e  spiritosa  trovata  di  far  che  la  gente  di  Renzo  non  si 
trovi  contenta  della  sposa  ch'egli  ha  menato  fra  loro  «  Il  parlare 
che  quivi  s'  era  fatto  di  Lucia,  buon  tempo  prima  eh'  ella  vi  ar- 
rivasse ;  il  sapere  che  Renzo  le  aveva  tanto  penato  dietro,  e  sem- 
pre fermo,  sempre  fedele  ;  forse  qualche  parola  di  qualche  amico 
parziale  per  lui  e  per  ogni  cosa  sua,  avevano  fatta  nascere  una 
certa  curiosità  di  veder  la  giovane,  e  una  certa  aspettazione  della 
sua  bellezza.  Ora  sapete  com'è  l'aspettazione:  immaginosa,  corriva, 
sicura  ;  alla  prova  poi  difficile,  sdegnosa  :  non  trova  mai  il  suo 
conto,  perchè,  in  sostanza,  non  sapeva  quello  che  si  volesse  ;  e 
fa  pagare  senza  pietà  il  dolce  che  aveva  dato  senza  ragione. 
Quando  comparve  questa  Lucia,  molti  i  quali  credevano  che  ella 


—  29  — 
dovesse  avere  le  chiome  proprie  d'oro,  e  le  f?uancie  proprio  di 
rosa,  e  due  occhi  l'uno  più  bello  dell'altro,  e  che  so  io  ?  comin- 
ciarono a  levar  le  spalle,  ad  arricciare  il  naso  e  a  dire  :  «  è  ella 
questa  ?  Dopo  tanto  tempo,  dopo  tanto  parlare,  s'aspettava  altra 
cosa  !  Che  è  poi  ?  Una  contadina  come  tante  altre.  Eh  !  per  di 
queste  e  delle  meglio,  ce  n'è  da  per  tutto  »  Venendo  poi  ai  par- 
ticolari, notavano  chi  un  difetto  chi  un  altro  ;  né  mancarono  di 
quelli  che  la  trovarono  tutta  brutta. 

Siccome  però  nessuno  le  andava  a  dir  sul  viso  a  Renzo  queste 
cose  ;  cosi  non  c'era  gran  male,  fin  lì.  Chi  lo  fece  il  male,  che 
allargò  lo  sdruscito,  furono  certi  tali  che  gliele  rapportarono  ;  e 
Renzo;  che  volete?  gliene  seppe  amaro  assai.  Cominciò  a  rumi- 
narvi sopra,  a  farne  di  gran  piati,  e  con  chi  gliene  parlava,  e  più 
a  lungo  nel  suo  sé  :  E  che  cosa  ne  importa  a  voi  ?  E  chi  vi  ha 
detto  di  aspettare  ?  sono  io  mai  venuto  a  parlarvene  ?  a  dirvi  che 
la  fosse  bella  ?  E  quando  me  lo  dicevate  voi,  v'ho  io  mai  rispo- 
sto altro,  se  non  ch'ell'era  una  buona  giovane  ?  È  una  contadina! 
V'ho  io  detto  mai  che  vi  avrei  menato  qui  una  principessa  "?  Vi 
dispiace  ?  Non  la  guardate.  Ne  avete  delle  belle  donne  ;  guardate 
quelle  » 

Il  Manzoni  avea  preveduto  quello  che  avvenne  ;  né  gli  servi 
l'essere  accorto,  poiché  o  le  sue  parole  allusive  al  romanzo  non 
furono  comprese,  o  non  se  ne  volle  far  caso.  Il  fatto  sta,  che  i  due 
giornali  più  reputati  d'allora,  la.  Biblioteca  Italiana  e  Y Antologia, 
e  dietro  di  essi  un  numero  infinito  di  riviste  minori  si  accinsero 
a  provare  al  Manzoni  ch'egli  l'aveva  sbagliata.  Tutti  incominciano 
il  loro  duello  di  parole  con  un  inchino  cavalleresco  all'uomo  glo- 
rioso, ma  per  pigliarsi  quindi  tutta  la  libertà  di  colpirlo  per  ogni 
verso,  e,  per  finire  il  duello  in  termini  onorevoli  ad  ambe  le 
parti,  conchiudono  che  la  colpa  non  fu  dello  scrittore,  ma  solo  del 
genere  al  quale  egli  ha  voluto  sacrificarsi.  Il  Tommaseo,  neir^;2- 
tologia  del  ottobre  18'27,  scrive  :  «  L'autore  degli  Inni  Sacri  e 
{\q\V Adelclii  si  è  abbassalo  a  donarci  un  romanzo  ;  ma  volle  che 
fosse  un  romanzo  il  più  possibile  degno  di  lui  »  ;  più  oltre  :  «  se 
quel  libro  è  fatto  pel  volgo,  è  tropp'alto ,  se  .per  gli  uomini  culti, 
è  tropp'  umile  »,  e,  infine,  con  un  po'  di  bisticcio  :  «  per  gustare 
molte  espressioni,  molti  tratti  e  lo  spirito  dominante  dell'opera, 
bisognerebbe  aver  conosciuto  l'autore  dappresso.  Si  conosce  più  il 
libro  dall'autore,  che  non  l'autore  dal  libro  »  Per  fortuna  del  Man- 
zoni, i  milioni  di  lettori  che  con  gusto  ineffabile  leggono  e  rileg- 
gono i  Promessi  Sposi  non  hanno  bisogno  d'incomodare  l'autore 


—  30  — 
per  farsi  spiegare  il  libro  ;  se  da  altre  molestie  egli  non  ha  po- 
tuto liberarsi  nella  sua  vita  letteraria,  da  questa  almeno  di  met- 
tere i pioìlini  sugi  i  alla  sua  prosa  trasparentissima  crediamo  ch'egli 
sia  andato  immune  più  di  qualunque  altro  autore  italiano  passato 
e  presente.  Il  critico  della  Biblioteca  lialiana,  dopo  essersela  presa 
col  romanzo  storico,  e  aver  modestamente  indicato  al  Manzoni 
quello  ch'egli  avrebbe  fatto  nel  caso  di  lui,  soggiunge:  «  bello  è 
questo  romanzo,  ma  il  Manzoni  potea  fare  ancora  di  più  »  E  an- 
che Domeneddio  potea  far  l'uomo  con  le  ali  e  permettergli  di  vo- 
lare, e  pure  s'è  contentato  che  stesse  ben  ritto  su  due  piedi  sopra 
la  terra  e  guardasse  in  alto. 

Il  caso  de'  Promessi  Sposi  deve  umiliar  molto  l'orgoglio  di 
certi  critici  ed  estetici  dalle  regole  fisse  e  dalle  riserve  prudentis- 
sime,  i  quali  invece  della  penna  tengono  in  mano  il  fuscellino.  Vi 
era  allora  guerra  guerreggiata  fra  classici  e  romantici  ;  i  roman- 
tici trovarono  il  loro  capo-scuola  il  Manzoni  troppo  sereno,  troppo 
calmo  e  troppo  riservato;  un  romantico  cosi  poco  soggetto  al  mal 
di  nervi  come  lui  poteva  riuscir  sospetto  e  meritava  d'essere  guar- 
dato a  vista  ;  i  classici,  dal  lato  loro,  sostenevano  che  quanto  v'ha 
di  grande  in  Manzoni  è  classico  puro.  Io  son  tentato,  per  questo 
verso,  di  dar  ragione  ai  classici,  poiché  se  il  Manzoni  pensava, 
per  dire  il  vero,  assai  poco  ai  classici  quando  scriveva,  ciò  avve- 
niva per  una  sola  ragione  semplicissima;  i  grandi  classici  furono 
tutti  ingegni  novatori  e  sovranamente  originali;  ed  egli  n'era  uno. 

Ma  poiché  lo  stesso  Tommaseo  avea  pur  detto  che  i  difetti  del 
romanzo  rivelavano  un  grande  ingegno,  e  le  bellezze  un  ingegno 
divino,  il  pubblico  ebbe  la  debolezza  di  porre  grande  amore  an- 
che a  que'difetti;  le  donne  specialmente  che,  quando  leggono,  sanno 
leggere  meglio  di  noi,  in  quelle  pagine,  gustarono  anche  le  mi- 
nuzie e  se  ne  compiacquero  tanto  che  le  fecero  parer  deliziose  a 
tutti  (1).  I  critici  trovavano   troppo  villani  i  protagonisti  di  quel 


(1)  Mi  giova  citare  a  proposito  del  romanzo,  uu  brano  di  lettera  del 
Belletti  al  Niccoliiii'del  2  agosto  1827:  «  Le  donne  di  Toscana  lo  leg- 
gono con  piacere  ?  poiché  di  lai  genere  di  scritture  alle  donne  princi- 
palmente ed  al  popolo  non  idiota  e  non  letterato  si  vuol  lasciare  il  giu- 
dizio, essen'lo  principalmente  diretto  al  loro  trattenimento  e  vantaggio  ». 
E  Pietro  Giordani,  scrivendo  nel  dicembre  \%2~  a  Francesco  Testa: 
«  Non  mi  meraviglio  che  in  tutta  Europa  piaccia  molto  il  libro  di  Man- 
zoni, e  ne  godo.  In  Italia  vorrei  che  fosse  letto  a  Dan  usque  ad  Nephtali, 


—  31  — 

romanzo;  le  donne  e  que'lettori  che  non  sanno  leggere  una  pagina 
sublime  senza  commuoversi,  s'intenerirono,  invece,  pei  loro  casi, 
e  compromisero  cosi  in  un  modo  indecente  la  causa  de'critici  che 
attendevano  invece  dal  Manzoni  eroi  di  toga  e  di  spada.  Il 
pubblico  è  cieco,  e  andando  al  tasto  piglia  talvolta  dei  dirizzoni 
contrarli  ad  ogni  legge  di  buona  creanza,  poiché  si  trova  qualche 
volta  nel  caso  di  pestare  per  la  via  i  piedi  a  qualche  creduto  gen- 
tiluomo; qui,  come  sempre,  ha  ragione  il  più  forte,  e,  innanzi  al- 
l'insolenza del  pubblico  insensato  che  ne  Promessi  Sposi  trovava 
bello  ogni  cosa  o  almeno  compiacevasi  di  tutto,  la  critica  dovette 
andare  a  nascondersi.  I  tipi  del  romanzo  manzoniano  diventarono 
proverbiali,  la  morale  di  quel  romanzo  divenne  la  morale  di  tutti 
quelli  che  ne  hanno  una,  ed  ogni  scrittore  italiano  avrebbe  desiderato 
potere  sbagliarsi,  componendo  un  romanzo  simile.  Al  primo  sbaglio 
di  Manzoni  l'Italia  va  debitrice  degli  sbagli  successivi  di  Tommaso 
Grossi  e  di  Massimo  d'Azeglio,  di  Cesare  Cantìi  e  di  Francesco  Guer- 
razzi. I  Promessi  Sposi  furono  occasione  del  bel  libro  storico  che  il 
Cantù  scrisse  sulla  Lombardia  nel  secolo  decimoseUimo;  l'episodio 
della  Signora  di  Monza,  tanto  criticato  e  pur  letto  con  tanto  gusto  da 
tutti,  fece  la  provvisoria  fortuna  del  romanzo  di  quell'uomo  vanissimo 
e  letteratissimo  di  Giovanni  Rosini  «  il  padre  della  monaca  ringramma- 
tichita  di  Monza  »  secondo  l'efficace  espressione  del  Tommaseo,  il 
quale  Rosini  poi,  con  la  compiacente  ingenuità,  propria  di  molti 
chiarissimi,  anche  a  costo  di  dirlo  ai  muri  e  alle  panche,  non  si 
stancava  mai  di  ripetere:  «  il  Manzoni  non  mi  sa  perdonare  che 
la  mia  Monaca  abbia  sotterrati  i  suoi  Sposi  ». 

Quando  il  Manzoni,  nell'autunno  del  1827,  viene  a  passare  alcuni 
mesi  a  Firenze,  nel  Gabinetto  di  Giampietro  Vieusseux,  sacro 
focolare  degli  studii,  si  prepara  una  festa  letteraria  in  suo  ono- 
re (1);  tutti  i  letterati  vogliono  vederlo  ed  essergli  presentati, 
e  tutti ,  dopo  averlo  conosciuto ,  sono  obbligati  a  convenire 
che  la  statura  morale  e  intellettuale  dell'  uomo  ha  dello  straor- 
dinario. Il  Capponi,  il  Niccolini,  il  Leopardi,  il  Giordani,  il  Mon- 
tani,   il    Pieri    ed    altri    uomini    insigni   allora    convenuti  a  Fi- 


vorrei  che  fossa  riletto,  predicato  in  tutte  le  chiese,  e  in  tutte  le  oste- 
rie, imparato  a  memoria  ».  Io  domanderei,  per  lo  meno,  che  i  signori 
Ministri  della  pubblica  istruzione  si  degnassero  di  farlo  leggere  e  spie- 
gare per  intiero  nelle  scuole  liceali. 

(1)  Cfr.  Vannucci,  Ricordi  intorno  alla  vita  e  alle  opere  di  Niccolini. 


—  32  — 
renze,  come  al  più  geniale  ritrovo  dell'arti  belle,  provarono  tutti 
alla  presenza  dell'uomo  insigne  un  sentimento  d'ammirazione.  Il 
Leopardi,  il  Niccolini,  il  Pieri  non  consentono  ai  principii  letterari! 
dello  scrittore;  ma,  tuttavia,  il  primo,  nel  settembre  1827,  scrive  da 
Firenze  allo  Stella:  «  Io  qui  ho  avuto  il  bene  di  conoscere  perso- 
nalmente il  signor  Manzoni  e  di  trattenermi  seco  a  lungo;  uomo 
pieno  di  amabilità  e  degno  della  sua  fama  ».  Il  medesimo  pres- 
sapoco,  nel  febbraio  1828,  il  Leopardi  scrive  da  Pisa  al  Papado- 
poli;  e  nel  giugno  dello  stesso  anno,  scrivendo  al  padre,  soggiunge: 
«  Ho  piacere  che  abbia  veduto  e  gustato  il  romanzo  cristiano  di 
Manzoni.  E  veramente  una  bell'opera;  e  Manzoni  è  un  bellissimo 
animo  e  un  caro  uomo  ». 

Il  Niccolini,  dal  canto  suo,  scrive  al  Bellotti:  «  Il  Manzoni  è  qui, 
ed  ho  imparato  a  conoscerlo  di  persona;  voi  sapete  che  i  buoni 
si  credono  volentieri  grandi;  ma  non  temo  che  l'affetto  m'inganni 
reputandolo  il  primo  ingegno  d'Italia  »,  e  quindi  soggiunge:  «  io 
che  intimamente  conosco  l'autore  e  che  sono  stato  la  persona  con 
la  quale  ei  più  conversasse  in  Firenze,  posso  far  fede  che  la  sua 
pietà  è  scevra  di  superstizione,  e  che  non  ama  i  frati  ». 

E  Mario  Pieri,  nelle  sue  memorie  «  La  seconda  persona  ch'io 
conobbi  (la  prima  era  stata  il  Leopardi)  e  che  pur  vidi  la  prima 
volta  in  casa  Vieusseux,  e  poscia  frequentai  alla  locanda  delle  Quat- 
tro Nazioni,  Lungarno  (1),  dove  albergava  con  tutta  la  sua  fami- 
glia, cioè,  madre,  moglie  e  sei  figliuoli,  per  quei  tre  o  quattro 
mesi  ch'ei  si  trattenne  in  Firenze,  fu  appunto  il  signor  Alessan- 
dro Manzoni,  corifeo  del  Romanticismo.  Nulladimeno,  non  imporla, 
io  diceva:  la  sua  fisionomia  palesa,  a  chi  l'osserva,  animo  gentile 
ed  alto  ingegno.  In  Milano,  io  non  l'avea  cercato  mai,  per  non 
rompere  la  vita  solitaria  ch'egli  amava  di  condurre  in  mezzo  alla 
sua  famiglia,  la  quale,  secondo  allora  si  diceva,  offeriva  il  modello 


(1)  Io  colgo  l'occasione  per  avvertire  quanto  sarebbe  conveniente  che, 
ad  onorare  vivo  il  più  grande  de'nostri  viventi,  il  Municipio  di  Firenze 
ponesse  in  quel  luogo  a  spese  del  pubblico  un'iscrizione  la  quale  dicesse 
pressapoco  cosi  :  «  Qui  Alessandro  Manzoni,  posata  la  mano  gloriosa 
sull'ultima  pagina  del  libro  immortale  ile' Promessi  Sjwsi  veniva  a  cer- 
care in  aure  più  lievi,  refrigerio  alle  membra  affrante,  e  nel  colloquio 
geniale  di  alcuni  grandi  italiani  degni  di  lui,  plauso,  premio,  riposo 
alio  spirito  affaticato,  nell'autunno  dell'anno  18::-^7  ». 


—  33  — 
delle   ottime   famìglie.    Egli  è  agiato  de'beni  di  fortuna,  ma    non 
gode  salute  né  egli,  né  la  sua  donna.  È  uomo  religioso,  dicono,  e 
galantuomo.  Peccato  che  sia  invaso  dalla  romanticomania  ». 

Giuseppe  Montani,  dopo  aver  conosciuto  il  Manzoni,  scrive: 
«  Quest'uomo  che  voi  udite  chiamare,  con  affetto  diverso,  capo 
de'novatori  letterarii  d'Italia,  è  un  uomo  dell'antichità,  semplice, 
schietto,  pieno  di  calma,  come  s'addice  alla  vera  grandezza.  » 

Pietro  Giordani,  si  lagna,  in  una  sua  lettera,  di  non  aver  po- 
tuto godere  abbastanza  della  conversazione  di  Manzoni  in  Firenze 
«  poiché  tanti  cercavano  di  occuparlo  ». 

Del  Capponi  è  noto  il  rispetto  ch'egli  dimostrò  sempre  al  Man- 
zoni, ed  io  stesso  fui  testimonio  della  gioia  viva  che  illuminò  il 
suo  volto,  quando,  or  sono  sette  anni,  ebbi  ad  annunziargli  il  de- 
licato pensiero  nato  in  alcuni  ammiratori  del  Manzoni,  di  offrire 
per  l'ottantesimo  compleanno  dell'uomo  immortale,  un  album  con- 
tenente i  ritratti  d'uomini  gloriosi  che  vissero  oltre  i  novant'anni, 
con  l'augurio  ch'egli  possa  arrivare  felicemente  ai  cento.  Il  Man- 
zoni, del  resto,  ricambia  perfettamente  la  stima  che  gli  professa 
il  venerando  patrizio  fiorentino,  al  quale  Giuseppe  Giusti,  dopo 
aver  veduto  Manzoni  in  Milano,  scriveva:  «  Potete  credere  fer- 
missimamente che  la  stima  che  (il  Manzoni)  fa  di  voi  gareggia 
con  quella  che  voi  fate  del  suo  libro.  » 

E  le  arti  del  disegno  non  tardarono  ad  occuparsi  de'personaggi 
del  Romanzo  manzoniano,  sicure  di  incontrare  per  tal  via  il  gu- 
sto del  pubblico  e  di  tentare  cosi  piìi  facilmente  i  compratori;  più 
tardi,  i  Promessi  Sposi  formavano  oggetto  d'un  dramma  popolare 
che,  or  sono  forse  vent'anni,  fu  rappresentato  per  più  sere  a  To- 
rino; ed  ispirarono  una  lodata  opera  in  musica  al  maestro  Petrella. 

In  Milano,  qualche  vecchio  ricorda  ancora  il  mirabile  effetto 
che  una  comitiva  di  cavalieri  vestita  nel  costume  di  Don  Rodrigo 
e  de'suoi  Bravi  produsse  alla  splendida  festa  da  ballo  che  il  conte 
ungherese  Bathyany  vi  diede  la  sera  del  28  gennaio  1828,  nel 
palazzo  ch'egli  abitava  alla  Porta  Orientale.  E  tutte  le  serve  dei 
preti  diventarono  Perpetue;  e  tutti  i  preti  muniti  di  una  Perpetua 
diventarono  Don  Abbondii;  e  cosi  l'un  dopo  l'altro  tutti  i  personaggi 
manzoniani  ci  riuscirono  cosi  famigliari,  che  giureremmo  quasi  di 
averli  conosciuti  e  trattati  tutti.  Quanto  poi  aireflìcacia  morale  di 
quel  libro,  credo  che  bastino,  per  darne  un'idea,  le  seguenti  pa- 
role, nelle  quali  Giuseppe  Giusti,  scrivendo,  nel  1845  a 

(iuel  tal  Sandro  de'Promessi  Sposi, 

KicoRDi  Biografici  3 


—  31.  — 
candidamente  si  confessa.  «  Quel  Padre  Cristoforo  con  tutto  ciò 
che  vien  dopo  è  un  gran  refugio  per  me,  quando  mi  sento  freddo 
e  inaridito,  quando  m'accorgo  che  non  mi  può  sciogliere  dal  tor- 
pore che  mi  lega  tutto,  altro  che  una  foga  di  pianto  bene  sparso. 
Quel  libro  m'ha  trovato  sempre  suo  in  ogni  luogo,  e  mi  rammen- 
terò sempre  che  una  volta,  sepolto  nei  sensi  fino  agli  occhi,  in 
quelle  pagine  che  erano  lì,  non  so  come,  riebbi  la  parte  migliore 
di  me  ».  E,  divenuto  famigliare  del  grande  Lombardo,  il  Giusti 
seguitava  a  scrivergli:  «  Signor  Sandrino,  la  non  sia  cosi  avaro 
de'suoi  consigli  a  chi  lo  tiene  come  un  padre.  Noi  siamo  di  quelli 
che  guardando  verso  di  lei  sanno  di  guardare  in  su,  e  questo 
guardare  in  su  non  ci  fa  dolere  il  collo,  e  quando  ce  lo  facessero 
dolere,  sopporteremmo  il  dolore  in  grazia  dell'amore  che  le  pro- 
fessiamo ».  Quanti  giovani  italiani  vorrebbero  poter  scrivere  il 
medesimo  al  Manzoni,  e  confidargli  in  confessione  appassionata 
tutte  le  loro  peccata,  non  già  per  averne  l'assoluzione,  ma  per 
essere  sgridati  amorosamente  da  lui,  che  quando  sgrida  fa  tanto 
bene,  sì  che  la  tentazione -verrebbe  di  non  rispondergli  mai  altro  se 
non  questo  antico  motto  trasformato  «  batti .  io  t'ascolto  ».  Se  non 
che,  egli  può  rispondere  a  noi  tutti:  io  ho  già  battuto;  tocca  ora 
a  voi,  se  m'avete  ascoltato,  di  operare  in  guisa  ch'io  possa  ascol- 
tar le  novelle  delle  vostre  opere  virtuose. 

E  il  Manzoni,  prima  di  conoscere  il  Giusti  per  le  sue  lettere  e 
di  persona,  aveva  imparato  a  far  gran  conto  degli  scritti  di  lui; 
fin  dal  181'3,  il  Grossi,  che  viveva  col  Manzoni  (come  il  Giusti  dal 
1845  in  poi  visse  quasi  sempre  col  Capponi)  scriveva  al  Giusti 
che  il  Manzoni  andava  «  matto  del  fatto  suo  ».  E  l'Azeglio,  scrivendo 
nel  1814  del  Manzoni  e  del  Grossi  allo  stesso  Giusti,  soggiungeva: 
«  Ammiratori  più  caldi  di  loro  non  li  avete  davvero,  e  Manzoni 
specialmente  sa  a  mente  mezze  le  cose  vostre  ».  Alfine,  il  Man- 
zoni stesso,  gli  conferma  apertamente  da  sé  quella  stima,  con  le 
seguenti  parole,  con  le  quali  in  una  lettera  del  novembre  1845  al 
Giusti,  termina  una  sua  parabola:  «  Dunque  lavora,  che  fai  sul 
tuo;  e  accresci  l'entrata  della  padrona,  agl'interessi  della  quale 
prendo  una  gran  parte,  anche  per  il  gran  bene  che  le  ho  voluto 
in  gioventù  ».  Nel  novembre  1843,  il  Manzoni  aveva  scritto  al 
Giusti  la  sua  prima  lettera,  ove  mi  paiono  singolarmente  notevoli 
le  parole  seguenti:  «  in  quelle  poesie  che  da  una  parte  amo  ed 
ammiro  tanto,  deploro  amaramente  ciò  che  tocca  la  religione,  o 
ch'è  satira   personale  ».  Il  Giusti  se  ne  difende,    manifestando   il 


—  35  — 

dubbio  che  il  Manzoni  abbia  prese  per  sue  certe  poesie  che  girano 
ipocritamente  sotto  il  suo  nome. 

Nel  1845,  Giuseppe  Giusti  arriva  felicemente  a  Milano  con 
Giambattista  Giorgini,  che  il  Giusti  scrivendo  al  Grossi,  chiamava 
allora  «  giovane  pieno  zeppo  d'ingeno  ».  I  due  giovani  sono  ospi- 
tati per  un  mese  in  casa  Manzoni;  l'anno  dopo,  il  Giorgini  sposava 
Vittorina  Manzoni,  la  figlia  del  grande  poeta;  il  Giusti,  nel  mese 
di  giugno  1846,  ne  scrive  al  Grossi:  «  Uno  che  ha  le  qualità  di  Gior- 
gini e  che  sente  di  possedere  una  gemma  come  quella  ragazza, 
può  far  molto  per  sé  e  per  gli  altri  ».  E,  dopo  aver  conosciuto  il 
Manzoni  di  persona,  il  Giusti  lo  descrive  cosi  al  prof.  Vaselli: 
«  E  un  gran  galantuomo,  che  ha  coscienza  di  sé  senza  orgoglio; 
che,  quando  giunsero  a  Milano  gli  ultimi  rumori  di  Romagna, 
aveva  le  smanie  addosso,  come  le  potreste  avere  tu  e  Checco,  e 
forse  anco  un  tantino  di  più.  E  fermo  nei  suoi  principii,  ma  am- 
mette, anzi  cerca  la  libera  discussione,  ed  io  n'  avrei  a  sapere 
qualcosa.  Crede,  senza  odiare  i  miscredenti;  è  amico  dei  preti  e 
dei  frati,  come  può  esserlo  chi  ci  ha  dipinto  il  padre  Cristoforo 
e  Don  Abbondio.  Docile  a  correggere  e  a  lasciarsi  correggere  i 
suoi  scritti  come  uno  scolare  di  grammatica,  ingenuo  nel  modo  di 
vivere,  di  conversare  e  d'amare,  come  se  avesse  sedici  anni.  Ar- 
gomentando, invece  di  salire  alle  nuvole,  di  mettersi  in  gala,  si 
tiene  terra  terra,  vestito  dei  panni  fatti  in  casa  di  maestro  Buon 
senso,  vero  segno  d'avere  imbroccata  la  via  ». 

Questa  lettera  ci  mostra  come  se  il  Manzoni  non  prese  parte  alla 
vita  politica  non  le  è  rimasto  tuttavia  indifferente.  Il  Corriere  Mer- 
cantile annunziava  pure,  nel  gennaio  del  1848,  come  appena  corse 
in  Milano  la  novella  che  i  birri  avevano  ftitta  una  perquisizione 
in  casa  di  Cesare  Cantù  reduce  dal  congresso  di  Venezia,  una 
delle  prime  visite  alla  casa  dello  storico  che  s'era  salvato  in 
Piemonte,  fu  quella  di  Alessandro  Manzoni. 

Il  Manzoni  ha  l'animo  repubblicano  ;  perciò,  nel  18ì8,  il  Giusti 
gli  può  scrivere:  «  Credo  che  sia  tua  l'osservazione  che  il  partito 
repubblicano  ha,  sul  partito  costituzionale,  il  vantaggio  di  dire 
ciò  che  sente  alla  faccia  del  sole,  senza  ricorrere  a  mezzi  termi- 
ni, per  tirare  dalla  sua  chi  la  pensa  diversamente.»  Ma  egli  s'astiene 
dalla  politica  militante  nel  1848  come  nel  1859  ;  onde  il  Giusti, 
dopo  gli  avvenimenti,  torna  a  scrivergli:  «  Tu  hai  fatto  vedere 
di  saperla  lunga  a  non  volere  essere  Deputato,  quanto  a  scrivere  i 
Promessi  Sposi.  »  Nel  febbraio  del  1860,  il  Manzoni  fu  eletto  Senatore 
del  regno  di  Vittorio  Emanuele  ;  si   presentò   in  senato  per   pre- 


—  36  — 

star  giuramento  alla  costituzione  e  al  re  che  inauguravano  l'unità 
d'Italia;  ma  quindi  si  ritrasse  nuovamente  a  vivere  nella  sua 
veneranda  solitudine. 

Noi  tutti  dobbiamo  rispettare  la  prudenza  che  trattenne  il  Manzoni 
dal  partecipare  altrimenti  che  col  desiderio  alle  vicende  politiche  le 
quali  ci  portarono  al  nostro  risorgimento  ;  egli,  in  tal  guisa,  con- 
servò pura  e  intatta  la  sua  gloria  di  poeta  morale  e  civile.  Non  si 
sentiva  uomo  d'azione;  egli  era  nato  soltanto  per  sentire  e  meditare, 
e  versare  nel  mondo  le  più  belle  fra  le  armonie  che  il  suo  cuore  e  la 
sua  mente  avevano  insieme  cantate.  Ad  altri  le  opere;  egli  si  contentò 
d'esser  primo  a  gridare  l'allarme,  in  un  tempo  nel  quale  il  farlo  era 
pericoloso;  e  la  sua  parola  suonò  quindi  poi  sempre  generosa. 
Egli  avea  cavallerescamente  brandita  la  penna,  e  si  mantenne  in 
tutta  la  sua  vita  cavaliero  senza  macchia  e  senza  paura.  Perciò 
la  sua  vecchiaia  gloriosa  è  senza  pentimenti  e  senza  rimorsi. 

Egli  non  vuol  dire  tuttavia,  col  suo  esempio,  che  convenga  ai 
giovani  tutti  restar  dalle  opere,  ma  avvertire  particolarmente  gli 
uomini  di  studio  come  le  loro  diverse  abitudini  comportino  male 
il  tumulto  della  vita  degli  afRiri,  per  i  quali,  bisogna  esser  fatti 
ed  allevati  a  posta.  Nell'azione,  le  convenienze  sociali  e  politiche 
obbligano  spesso  a  transazioni  e  concessioni  che  non  si  possono 
facilmente  consentire  da  chi  ha  posto  molta  cura  nel  formarsi  dei 
principii  ed  è  geloso  di  custodirli  intatti.  Del  resto,  ricordiamo  pur 
sempre  che,  scritte  nel  18-21,  le  generose  ottave  del  Manzoni  per  l' Unilà 
ìlaliana;  erano  ancora  opportune  nel  1848,  e  più  ancora  nel  1859: 

Già  le  destre  hanno  stretto  le  destre; 
Già  le  sacre  parole  son  poste  ; 
0  compagni  sul  letto  di  morte, 
0  fratelli  su  libero  suol. 

Chi  potrà  questa  gente  risorta 

Ancor  scindere  in  volghi  spregiati  ;  • 
E  a  ritroso  degli  anni  e  dei  fati. 
Risospingerla  ai  prischi  dolor  ? 

Una  gente  che  libera  tutta, 
0  fla  serva  tra  l'Alpe  ed  il  mare; 
Una  d'arme  di  lingua,  d'altare. 
Di  memorie,  di  sangue  e  di  cuor. 

0  stranieri,  nel  proprio  retaggio 
Torna  Italia,  e  il  suo  suolo  riprende. 


-  37  — 
0  stranieri,  strappate  le  tende 
Da  una  terra  che  madre  non  v'ù. 
Non  vedete  che  tutta  si  scote 
Dal  Cenisio  alla  balza  di  Scilla? 
Non  sentite  che  infida  vacilla 
Sotto  il  peso  de'barbari  piò? 

10  odo  altri  più  numerosi  assai  (per  tacere  del  guelfofago  Settem- 
brini che  danna  addirittura  fra  gli  scrittori  reazionari  il  Manzoni), 
far  eco  al  buon  marchese  Giancarlo  Di  Negro  che  compiangeva  il 
Manzoni  come  poco  prolifico  in  poesia.  E  certo  non  è  cosa  allegra 
che  chi  sa  fabbricar  diamanti  ne  sia  avaro.  Ma,  oltre  che  nessuno  ha 
detto  che  tutto  quanto  il  Manzoni  scrisse  debba  vedere  la  luce  in  sua 
vita,  bisogna  tener  conto  di  quello  scrupolo  che  pone  il  Manzoni  nella 
ricerca  del  vero,  il  quale  scrupolo  arresta  qualche  volta  a  mezzo 
le  sue  più  alte  inspirazioni  ;  e  poi  mi  bisogna  qui  citare  due  no- 
bilissimi versi  che  fanno  parte  d'un  componimento  inedito  del 
Manzoni,  sopra  L'innesto  del  vainolo;  essi  dicono  così: 

E  sento  come  il  più  divin  s'invola 
Né  può  il  giogo  patir  della  parola. 

Più  il  pensiero  del  poeta  s'innalza,  e  più  la  materia  fonica  di- 
viene inerte  e  incapace  di  farsene  messaggiera. 

11  genio  di  Goethe  si  divertiva  a  rapire  la  luce  divina  a  Gio- 
ve, per  abbassarla  e  costringerla  artisticamente  nelle  forme  pla- 
stiche della  terra  ;  il  genio  di  Manzoni,  desta  invece  il  fuoco  la- 
tente della  terra,  per  sollevarlo,  in  una  luce  ideale,  fino  a  Dio  ;  il 
Goethe  imprigiona  lo  spirito,  il  Manzoni  lo  emancipa;  e  quando 
si  studia  di  rappresentarlo  emancipato,  se  lo  vede  talora  scio- 
gliere e  svanire  nell'ideale  infinito. 

Tuttavia,  chi  ripensi  ai  dolori  domestici  che  il  Manzoni  ha  pa- 
titi dalla  pubblicazione  ùe'Promessi  Sposi  in  poi,  e  al  deserto  che 
si  fece  nella  sua  casa,  per  la  morte  della  sposa,  della  madre,  dei 
figli,  degli  amici  suoi  più  diletti,  non  potrebbe  neppur  trovare 
strano  che  il  Manzoni  avesse  cessato  di  occuparsi  di  studii  e  di  lavo- 
rare. Ma  ciò  neppure  può  dirsi;  che,  fra  le  cure  agricole  spese  in- 
torno alla  sua  proprietà  di  Brusuglio,  nel  tempo  stesso  che  provvedeva 
a  commentare  eloquentemente  con  la  Storia  della  Colonna  infame 
il  processo  degli  Untori,  del  quale  era  bello  che  il  grande  nipote 
del  grande  Beccaria,  inorridito,  narrasse  le  infamie,  egli  intendeva 
a  correggere,    secondo  il  modello  del  vivente  linguaggio   toscano. 


—  38  — 

la  lingua  adoperata  nel  suo  romanzo,  e  in  premio  forse  di  questa 
laboriosa  fatica  otteneva  più  tardi  l'onore  di  venire  ascritto  al- 
l'xVccademia  della  Crusca  (1).  Completato  così  finalmente  il  roman- 
zo, e  discorso  sul  romanzo  storico  e  scritto  il  dialogo  sull'Inven- 
zione, egli  si  accinse  quindi  con  ogni  cura  a  studiare  e  pesare 
per  ogni  verso  la  questione  dell'unità  della  lingua  italiana. 

Nell'estate  del  1832,  il  Manzoni  si  trova  a  Genova  per  i  bagni  di 
mare;  Pietro  Giordani,  uomo  che  lo  stesso  suo  amico  Leopardi 
chiamava  un  po' ficcanaso,  prega  il  suo  amico  F.  Grillenzoni  a 
Genova,  perchè  «  veda  un  poco  se  è  vero  che  Manzoni  siasi  dato 
a  studii  di  purismo,  e  in  che  forma.  »  Nell'ottobre  del  I8i5,  dopo 
aver  passato  un  mese  col  Manzoni,  il  Giusti,  scrivendo  di  lui,  an- 
nunzia ch'egli  «  scrive  un'operetta  sulla  lingua  »  e  aggiunge  :  «  im- 
maginate se  abbiamo  parlato  di  questa  gran  faccenda,  e  se  ab- 
biamo stacciati  vocaboli.  »  Nel  1850,  scrivendo  allo  stesso  Man- 
zoni, il  Giusti  s'esprime  cosi  :  «  A  quest'ora  dovresti  aver  finito 
quel  tuo  lavoro  sulla  lingua,  nel  quale,  se  bene  mi  ricordo,  in- 
tendi a  stabilirne  l'unità  fissandone  la  sede,  a  sfrascarla  del  so- 
prappiù  e  ridurla  più  uniforme  e  semplice  come  fu  fatto  della 
francese.  » 

Nella  lettera  a  Giacinto  Carena  finalmente  il  Manzoni  rivela 
da  sé  stesso  il  suo  pensiero,  protestando  ch'egli  si  trova  «  in 
quella  scomunicata,  derisa,  compatita  opinione,  che  la  lingua  ita- 
liana è  in  Firenze,  come  la  lingua  latina  era  in  Roma,  come  la 
francese  è  in  Parigi  ;  non  perchè  quella  fosse,  né  questa  sia  ri- 
stretta a  una  sola  città  ;  tutt'altro  :  e  quali  lingue  furono  mai  più 
diffuse  di  queste  ?  ma  perchè,  conosciute  bensì,  e  adoperate  in 
parte,  e  anche  in  gran  parte,  in  una  vasta  estensione  di  paese, 
anzi  di  paesi,  pure,  per  trovar  l'una  tutt'intera,  e  per  trovarla 
sola,  bisognava  andare  a  Roma,  come,  per  trovar  l'altra,  a  Pa- 
rigi; »  Il  Manzoni  reca  un  monte  di  belle  ragioni,  a  difesa  del- 
l'ardita sua  tesi,  e  vi  ritorna  sopra  con  argomenti  rinforzati  nella 
Relazione  al  Ministro  della  pubblica  istruzione,  Emilio  Broglio, 
per  avvisare,  invitato,  ai  mezzi  d" aiutare  e  rendere  più  universale 
in  tutti  gli  ordini  del  popolo  la  notizia  della  duona  lingua,  da  lui 


'  (1)  È  nelle  mie  mani  la  befia  lettera  non  priva  d'umorismo,  con  la 
quale  il  Manzoni  ringrazia  l' illustre  Accademia  dell'onore  conferitogli; 
stava  fra  le  carte  d'un  segretario  defunto  dell'Accademia,  dagli  eredi 
del  quale  l'ho  acquistata,  salvandola  così  dal  rischio  molto  imminente 
di  finire  nelle  mani  di  qualche  droghiere. 


~  39  — 
proposta  ai  suoi  colleghi  nella  commissione,  Ruggiero  Bonghi  e 
Giulio  Carcano,  ove  insiste  a  gridare  che  la  lingua  esiste  in 
Firenze  e  che  bisogna  solamente  farla  muovere  di  qui/ perchè  si 
spanda  per  l'Italia  tutta;  nella  lettera  intorno  al  libro  De  Valgari 
eloquio  diretta  a  Ruggiero  Bonghi,  ove  intende  a  provare  col  te- 
sto alla  mano  che  per  Volgare  Illustre  Dante  non  ha  inteso  wìta 
lingua,  ma  il  solo  linguaggio  o  piuttosto  stile  che  s'adopera  nella 
poesia  ;  nella  lettera  al  Bonghi  medesimo,  in  cui  propone  alcune 
norme  da  seguirsi  nella  compilazione  del  novo  vocabolario  dell'uso 
di  cui  sostiene  l'opportunità;  nell'Appendice  alla  Relazione  intorno 
all'Unità  della  lingua  e  ai  mezzi  di  diffonderla,  ove,  dopo  avere 
risposto  al  Lambruschini,  vice  presidente  della  commissione,  per 
la  sezione  fiorentina,  che  un  po'per  far  piacere  all'Accademia 
della  Crusca  e  al  suo  arciconsolo  e  un  po' perchè  davvero  si  tro- 
vasse in  Toscana  troppo  esclusivo  il  sistema  proposto  dal  Man- 
zoni, avea  portato  la  questione  sopra  un  campo  alquanto  diverso 
da  quello  in  cui  il  Manzoni  l'avea  posta,  egli  riscalda  la  discus- 
sione, eccitando  i  toscani,  che  sanno  parlare,  a  mostrare  anche 
di  saper  scrivere  in  difesa  della  loro  lingua,  l'unità  della  quale, 
come  un  vero  credente,  egli  sempre  aspetta.  «  Ventun'anno  fa 
[l'Appendice  è  dell'anno  18G9],  tra  vari  pareri  (non  erano  allora, 
né  potevano  esser  altro)  intorno  all'assetto  politico  che  convenisse 
meglio  all'Italia,  ce  n'era  uno  che  moltissimi  chiamavano  utopia, 
e  qualche  volta,  per  condescendenza,  una  bella  utopia.  Sia  lecito 
sperare  che  l'unità  della  lingua  in  Italia  possa  essere  un'utopia 
come  è  stata  quella  dell'unità  d'Italia.  » 

A  proposito  della  quale  unità  della  lingua,  il  Giusti  scriveva  : 
«  ogni  obiezione  che  potessi  farti,  io  so  che  te  la  sei  già  fatta  da 
te.  »  Lo  stesso,  levandomi  il  cappello,  oserei  ripetere  io,  se  non 
fosse  insolente  con  un  tant'uomo  ogni  risposta  non  provocata  da 
domanda.  Ma,  poiché  fra  le  più  grandi  consolazioni  della  mia 
vita  di  studioso,  posso  contar  quella  d'avere,  quando  si  pubblicò, 
ricevuta  dalle  mani  benedette  dello  stesso  Manzoni  la  sua  Appen- 
dice alla  Relazione,  che  nella  nostra  storia  letteraria  segnerà 
sempre  una  gran  pagina,  io  mi  permetterei  di  proporre  alcuni 
dubbi,  che  protesto  subito  non  somiglieranno  neanche  per  ombra, 
a  quelli  del  famoso  abatino  Alessandro  Salvagnoli  di  dimenticata 
memoria.  Convengo,  anzi  tutfo,  subitissimo,  della  necessità  di 
dare  per  fondo  alla  lingua  comune  paesana,  la  lingua  parlata  a 
Firenze  ;  e  convengo  della  grande  utilità  che  si  pubblichi  un  vo- 
cabolario della  lingua  fiorentina;  ma,  dopo  avere  conceduto  il  più 


-  40  - 
incomincìerei  a  trovarmi  disagiato  se  il  più  dovesse  diventare  il 
tutto.  E  quindi  dubito  :  1°  Clie  i  mezzi  coi  quali  si  provvede  ora 
alla  compilazione  del  vocabolario  non  siano  i  più  sicuri  ;  poicliè 
mi  domanderei^  prima  d'ogni  cosa,  se  siano  tutti  fiorentini  di  Fi- 
renze i  Compilatori,  e  se  nel  loro  così  detto  e  in  buona  fede 
creduto  pretto  fiorentino  non  ci  siano  per  caso  de'resti  di  pisano, 
sanese,  lucchese,  pistoiese  o  clie  so  io  appreso  nell'infanzia; 
quindi  seguiterei  a  domandare  la  fede  di  nascita  delle  loro  donne 
di  servizio,  e  dei  loro  contadini  se  ne  lianno,  e  con  chi  abbiano 
praticato  e  chi  sia  stato  il  loro  primo  maestro,  e  la  loro  prima 
innamorata,  e  che  letture  abbiano  fatto,  tutte,  parmi,  questioni 
importantissime  a  risolversi  per  decidere  quanto  fiorentino  di 
Firenze  sia  penetrato  nel  loro  proprio  esclusivo  vocabolario  del- 
l'uso. 

Dopo  questo  primo  dubbio,  che  riguarderebbe  piuttosto  la  dif- 
ficoltà di  far  bene  il  vocabolario  da  stamparsi  che  la  impossibilità 
di  riuscirvi  scegliendo  a  ciò  i  mezzi  più  opportuni,  passo  al  dubbio 
2".  Dato  e  concesso  che  il  7iovo  vocabolario  della  lingua  riesca 
delia  massima  autenticità  fiorentina  e  ci  reclii  proprio  il  meglio 
di  questa  graziosa  parlata  cianesca,  raggentilita  sulle  labbra  di 
uomini  del  gusto  di  G.  B.  Giorgini,  io  domaderei,  non  al  Manzoni, 
notoriamente  sospetto;,  come  lombardo,  di  eccessiva  parzialità  nella 
questione,  ma  ad  ogni  fiorentino  che  veda  più  in  là  del  Campanile  di 
Giotto  :  ditemi,  con  una  mano,  non  sul  vostro,  ch'è  grande,  ma  sul 
cuore  di  questo  popolino  ;  credete  voi  che  possa  bastare  una  lin- 
gua tutta  diminutivi  e  vezzeggiativi,  tutta  eleganze  e  morbidezze, 
tutta  finezze  ed  arguzie  a  far  parlare  così  tutto  intiero  il  popolo 
italiano?  Certo  la  lingua  qui  e'  è,  e  sceltissima,  ma  si  muove  e 
s'alza  poco,  e  di  rado  sì  scalda.  Se  Firenze  fosse  rimasta  la  ca- 
pitale del  regno,  se  il  meglio  d'Italia  fosse  qui  convenuto  per  lungo 
tempo,  se  i  centocinquanta  mila  fiorentini  fossero  diventati  cin- 
quecento mila  italiani,  crederei  anch'io,  che  Firenze  avrebbe,  col 
tempo,  dato  all'Italia  tutta  la  sua  lingua  e  che  l'Italia  se  ne  sa- 
rebbe contentata;  gli  italiani  venuti  a  rubargliela  qui  sul  posto,  e  a 
farsene  ricchi,  fra  la  ricchezza  di  casa  loro  e  quella  presa  da- 
gli altri,  r  avrebbero  scialata  come  grandi  signori.  La  lin- 
gua di  Roma  divenne  lingua  d'  Italia,  quando  il  meglio  degli 
italiani  si  ridusse  a  Roma,  e  divenne  lingua  universale  nel 
mondo  antico,  quando  il  mondo  antico  regalò  alla  città  di 
Romolo  tre  milioni  d'abitatori.  Così  si  dica  di  Parigi;  nessuno 
avrebbe  pensato  in  Francia  a  pigliarne    per    modello    la    lingua^ 


—  41  — 

prima  che  la  Corte  non  vi  si  trasferisse  e  la  PVancia  intiera  non 
la  popolasse,  e  vi  portasse  ciò  che  essa  aveva  di  meglio  in  sé.  Ma  io 
vedo  che  il  dubbio  minaccia  di  addormentarsi  in  una  dissertazione; 
perciò  lo  troncherò  li,  per  dir  cosa  certissima  e  assai  più  grata, 
cioè,  che,  per  quanto  la  proposta  di  Manzoni  si  discuta  intorno 
all'estensione,  quanti  sono  sinceri  s'accordano  nel  convenire  che 
non  vi  è  lingua  nazionale  possibile  senza  VuM  consisiai;  le  capi- 
tali d'un  regno  possono  occorrendo  trasportare  le  loro  tende  tre 
volte  ogni  dieci  anni  ;  le  lingue  s'abbarbicano  ove  son  nate  ;  pos- 
sono metter  molti  rami  nell'alto  e  abbracciar  cosi  molto  paese^  ma 
non  mai  schiantarsi  dal  loro  suolo  nativo  per  decreto  ministe- 
riale; quindi,  volenti  o  nolenti,  anche  da  Roma,  bisognerà  ricor- 
darsi qualche  volta  che  sulle  rive  dell'Arno  fiorirono  come  in  un 
solo  cespite,  il  Divino  Poema,  l'amoroso  sonetto  e  la  gaia  novella, 
e  che  quando  si  vuole  ancora  sentir  ben  parlare  bisogna  darsi  il 
disturbo  di  far  qualche  cosa  di  meglio  che  passaì''e,  per  la  stazione 
di  Firenze. 

In  ogni  modo  poi,  bisogna  ammirare  il  Manzoni,  il  quale, 
avendo  assistito,  in  Milano,  alla  vecchiaia  del  Monti,  il  quale, 
come  tutti  sanno,  spese  gli  ultimi  anni  della  sua  vita  a  far 
guerra  ingegnosa  ma  ingenerosa  alla  lingua  e  letteratura  toscana, 
volle  invece  consacrare  da  Milano  stesso  gli  anni  suoi  cadenti  a 
difendere,  per  amor  della  patria,  e  della  giustizia  (che  ha  servite 
sempre  e  non  nominate  mai)  i  diritti  di  questa  gentilissima  fra 
le  Provincie  d'Italia,  ove  se  è  desiderabile  altra  operosità,  altra 
energia  ed  altra  virtù,  la  grazia  naturale  è  pur  tanta  e  tanto 
l'ingegno,  e  cosi  democratico  il  costume,  che  se  tanti  pregi  riu- 
niti, quando  s'  è  vicini,  si  possono  forse  dissimulare,  lontani  si 
debbono  solamente  rimpiangere. 

Ed  io  avrei  qui  finito  di  dire,  nella  somma,  quello  che  ho  cre- 
duto di  sapere  intorno  alla  vita  e  alle  opere  del  Manzoni,  ma  il 
fascino  ch'esercita  su  di  me  quest'uomo  meraviglioso  il  quale 
scriva  0  parli,  spira  sempre  virtù,  è  così  grande,  ch'io  non  vorrei 
più  staccarmene.  Io  mi  rammento,  con  che  ardore  e  desiderio  in- 
tenso, mentre  in  fatto  di  ortodossia  non  trovo  d'essere  stato 
mai  altro  che  un  povero  cristianello  annacqualo  (del  che  né  mi 
scuso,  né  mi  vanto)  senza  sapere  a  chi,  nò  con  quali  parole,  ma  non 
certamente  con  le  solite,  pregavo  a  Torino,  quando  vi  si  ordinò 
un  triduo  solenne  a  fine  d'invocare  da  Dio  la  guarigione  di  Ales- 
sandro Manzoni  la  cui  vita  versava,  or  sono  più  di  tre  lustri,  in 
grandissimo    pericolo  ;  si  temeva   proprio  di  perderlo,  e  noi    stu- 


42  — 

denti,  che  avevamo  dal  filosofo  rosminiano  Vincenzo  Garelli,  uomo 
esemplare  per  bontà  d'animo  e  nobiltà  di  mente,  appreso  non  solo 
a  leggerlo  ma  a  venerarlo,  con  inquietudine  dolorosa  chiedevamo 
a  quanti  potevano  darcene,  le  ultime  novelle  di  Milano.  Quando 
alfine  i  bollettini  della  malattia  dell'  illustre  infermo  diventarono 
più  sereni,  il  nostro  cuore  s'allargò  ad  una  gioia  spensierata,  e, 
con  noi,  credo  che  allora  abbia  dato  un  grande  respiro  l'Italia 
tutta.  Alessandro  Manzoni  ha,  in  Italia,  spirato  al  nostro  secolo 
la  nuova  vita  letteraria  ;  e  parrebbe  naturale  che,  come  egli  ha 
guidati  i  primi  passi  del  secolo  neonato,  così  avesse  a  benedirlo 
e  sostenerlo  anche  negli  ultimi.  Per  questa  considerazione  spe- 
cialissima, noi  invocheremmo  la  natura  benigna  affinchè  si  de- 
gnasse privare  i  figli  nostri  che  leggeranno  le  future  gazzette  della 
curiosità  di  leggere  per  molti  e  molti  anni  alcun  nuovo  inutile 
caso  di  longevità,  a  fine  di  riservar  loro  in  compenso  per  molti  e 
molti  anni  ancora  la  consolazione  di  sapersi  accompagnati  da  Ales- 
sandro Manzoni,  quanto  piìi  sia  possibile,  fin  presso  la  soglia  del 
secolo  futuro;  il  decimonono  in  Italia  fu  proprio  suo;  egli  lo  allevò, 
egli  Io  scaldò,  egli  lo  mantenne  glorioso;  cosi  potesse  egli  conse- 
gnarlo, benedicendo,  all'eternità,  alla  quale  il  suo  nome  appartiene. 


II. 


GINO  CAPPONI. 


Tal  fall  un  peu  de  bìen,  c'est  mon  raeilleur  ouvrage.  Io  non 
so  quanto  fosse  sincero  l'avveduto  autore  di  questo  motto  dive- 
nuto famoso,  nel  proferirlo,  la  prima  volta,  al  semplice  mondo.  Ma, 
se  l'autore  del  Candide  poteva  forse  trovare  alla  sua  vita  ine- 
guale e  diversa,  un  motto  più  espressivo  e  caratteristico,  noi  ce 
ne  serviremo  liberamente  qui.  trovandolo  molto  opportuno  per 
comprendere  in  una  sola  sentenza  la  funzione  sociale  di  certi  uo- 
mini esemplari,  1  quali,  ponendo  una  loro  estetica  tutta  sapiente 
e  però  tutta  buona  nel  fare,  come  altri  si  studia  di  adoperarne 
una  simile  nel  dire,  trasfondono  nella  vita  la  parola  dell'arte,  non 
tanto  solleciti  di  accrescer  gloria  a  sé  stessi,  quanto  di  suscitare 
intorno  a  sé  un  mondo  migliore. 

Uno  di  questi  uomini,  anzi  il  più  eminente  fra  quanti  n'abbia 
la  patria  nostra  ammirati  nell'età  nostra,  è,  fuor  d'ogni  dubbio, 
il  marchese  Gino  Capponi,  Mecenate  toscano,  degnissimo  dell'an- 
tico etrusco  cantato  dal  Venosino,  non  disceso  da  re,  ma  più  che 
da  re,  da  eroi,  quali  furono,  nella  famiglia,  il  primo  Gino,  Neri  e 
il  popolarissimo  Piero,  per  merito  de'quali,  successivamente,  Pisa, 
prima  divisa  e  contraria  si  raccolse  a  vivere  con  Firenze  in  un 
solo  consorzio  politico,  fu  ritardata  di  oltre  un  mezzo  secolo  a  Firenze 
la  tirannia  pervertitrice  de'  Medici,  e  liberata  la  patria  fiorenti- 
na dalla  servitù  d'un  principe  straniero.  Al  nuovo  Gino  toccarono, 
senza  dubbio,  tempi  meno  eroici  in  sorte;  ma  s'egli  non  potè  rin- 
novare le  imprese  guerresche  e  politiche  degli  avi,  non  solo  al- 
cuno vorrà  dire  ch'egli  abbia  servito  la  patria  men  bene  di  essi, 
ma  troverà  al  confronto  della  ignavia   del  secolo  in  cui  nacque  e 


—  44  — 

della  società  in  mezzo  alla  quale  s'educò  l'animo  e  l'ingegno  di 
lui,  che  il  marchese  Gino  Capponi  ha  fatto  cose  mirabili.  Io  so 
che  a  lui  non  pare  punto  così,  e  che  gli  sembra  anzi  d'aver  fatto 
come  nulla  e  pubblicato  cosi  poco  da  non  desiderare  d'essere  giu- 
dicato come  scrittore  se  non  per  quello  ch'ei  potrà  lasciare  di 
inedito  dopo  la  sua  morte.  Ma  io,  convinto  della  verità  delle  pa- 
role ch'egli  mi  rivolge  in  una  sua  lettera.  «  La  vita  pubblica 
sia  di  fatti  o  sia  di  scritti  si  manifesta  da  sé  medesima  »  credo 
trovare  in  quanto  egli  operò  e  scrisse  per  il  pubblico  una  serie 
abbastanza  lunga  di  fatti  generosi  e  di  nobili  scritti,  perchè  non 
debba  premermi  mettere  gli  uni  e  gli  altri  in  rilievo,  tanto  più 
nella  scarsità  de'nuovi  esempii  e  de'nuovi  esemplari. 

Il  giorno  14  di  settembre  di  quest'anno  (lo  dico  ai  fiorentini, 
che  non  vi  avessero  posto  mente)  il  marchese  Gino  Capponi  com 
pira  l'anno  suo  ottantesimo,  essendo  egli  nato  in  Firenze  il  14  set- 
tembre 170^,  nel  suo  attuale  palazzo  di  via  San  Sebastiano,  dal  mar- 
chese Roberto  Capponi  e  dalla  marchesa  Maria  Maddalena  Fre- 
scobaldi. 

La  sua  prima  istruzione  letteraria  venne  curata  da  un  giovine 
prete  pedagogo  dapprima,  poi  da  due  padri  delle  scuole  Pie,  il  padre 
Canovai  per  le  matematiche,  e  il  padre  Battini  per  il  greco,  final- 
mente, per  le  lettere  italiane,  da  quel  famoso  letterato  ed  antiquario 
che  fu  l'abate  Zannoni.  Il  Capponi  ricorda  sempre  con  vivo  affetto 
i  suoi  primi  maestri  (1),  ma  che  a  lui  stesso  quella  prima  educa- 


ci) Ecco  quanto  mi  scriveva,  in  proposito,  l'illustre  uomo  in  una  sua 
lettera  del  4  giugno  scorso.  «  Mi  corre  obbligo  dichiarare  che  dei  miei 
maestri  non  posso  io  altro  che  lodarmi  tanto  che  alle  volte  mi  pare  che 
abbiano  tirato  quasi  come  suol  dirsi  dalia  rapa  sangue.  Un  precettore 
giovano  prete  ch'ebbi  a  tre  anni  e  prima  che  io  giungessi  a  tredici  in- 
fermò di  una  terribile  malattia  e  dopo  due  anni  moriva  sempre  giovane 
qui  in  casa,  mi  fece  pigliare  amore  agli  studj.  Mancato  questi  non  andai 
agli  Scolopj,  ma  feci  più  anni  un  corso  di  matematiche  sotto  al  P.  Ca- 
novai in  Cella  sua  ;  era  l'uomo  più  singolare  ch'io  mi  abbia  mai  cono- 
sciuto, sapeva  d'ogni  cosa,  andava  in  furia  per  ogni  cosa,  piangeva  di- 
rotto por  ogni  cosa  che  a  lui  destasse  o  tenci^ezza  o  ammirazione.  Sopra 
tutti  i  popoli  amava  gli  Inglesi,  odiava  i  Francesi  perchè  invasori;  delle 
idee  del  passato  secolo  avea  fatte  sue  tutte  quelle  che  potesse  un  Frate, 
rigido  a  so  stesso  e  infaticabile  nel  consolare  chiunque  potesse,  dagli 
intimi  a' sommi.  Quell'ampia  sua  stanza  in  San  Giovannino  mi  rimane 
Sempre  memoria  carissima  ;  e  pure  un'altra  cella  di  frate  ricordo  con 


-  45  - 

zione  ed  istruzione  non  paresse  tutta  buona,  si  può  argomentare, 
in  parte,  da  una  lettera  del  Foscolo  alla  sua  Calliroe  di  Losanna, 
scritta  nel  maggio  dell'anno  1820,  ove,  parlandosi  del  Capponi,  si  dice. 
«  La  sua  è  un'anima  alta,  gagliarda,  indipendente,  ma  dolce  ed  equa 
ad  un  tempo;  ed  ha  uno  spirito  pensatore  e  fornito  di  tanta  origina- 
lità naturale  da  aver  potuto  riconoscere  e  rompere  da  sé  stesso  in 
pochi  anni  i  ceppi  di  una  falsa  educazione,  e  gli  stolti  pregiudizii  di 
preti  ignoranti,  e  di  nobili  sfaccendati.  »  E  a  chi  sa  leggere  fra  le  li- 
nee sarà  stato  agevole  il  riconoscere  in  molti  passi  del  frammento  del 
Capponi  suW educazione  la  condanna  del  sistema  d'educazione,  secon- 
do il  quale  lo  scrittore  stesso  era  stato  allevato.  De'gesuiti  egli  scrive 
fra  l'altre  cose:  «  essi  nacquero  a  contenere  l'umanità  e  non  a 
promuoverla,  a  sorreggere  le  istituzioni  vecchie,  non  a  fondare 
le  nuove.  »  Intorno  ai  libri  ad  usum  delfini  pronuncia  la  se- 
guente sentenza:  «  Oggi  ninno  si  porrebbe  a  scrivere  libri  per  i 
gentiluomini  e  per  le  duchesse;  si  scrive  per  l'uomo;  e  l'educa- 
zione ch'era  per  lo  innanzi  un  privilegio  di  pochi,  dei  prediletti 
dalla  fortuna,  si  riconobbe  alla  fine  (e  a  Dio  ne  rendiamo  grazie) 
come  un  diritto,  un  bisogno,  un  vincolo  dell'umanità.  »  Del  Rous- 
seau osa  scrivere  «  egli  solo  conobbe  che  le  cesoie  dei  critici, 
l'aritmetica  degli  economisti,  e  la  carila  eunuca  dei  filantropi 
nulla  facevano  se  in  cuore  de'popoli  non  si  destasse  un  affetto 
che  alla  generazione  decrepita  rendesse  quasi  la  vigoria  dei  se- 
coli primitivi  »  (1).  Dei  Gracchi:  «  Illustri  per  nascita,  per  equi- 
tà popolari,  nel  grande  animo  comprendevano  l'istinto    dei  molti 


amore,  quella  del  P.  Baitini,  famoso  por  una  sua  molto  derisa  Apologia 
dei  secoli  barbari;  egli  era  erudito  di  qualche  ampiezza  ma  di  nessuna  pro- 
fondità, inquisitore  feroce  a  parole,  ma  poi,  nel  fatto,  la  miglior  pasta 
d'uomo  che  fosse  nel  mondo  ;  si  andava  li  ai  primi  studj  del  Greco  in- 
sieme col  Bagnoli  che  tardi  si  voltò  a  quella  lingua  ;  e  quante  pazzie 
si  dicesse  per  fare  andare  in  collera  il  Maestro  non  saprei  contare,  ma 
egli  sempre  ci  voleva  più  bene  che  mai.  Dopo  di  questi,  l'Abate  Zannoni 
era  ottimo  iniziatore  al  mondo  classico.  Mi  correva  obbligo  dire  come 
io  dei  miei  maestri  non  avessi  altro  che  da  lodarmi  ». 

(1)  Della  sua  visita  alla  Roma  dei  Papi  fatta  nel  1829,  Gino  Capponi 
rimane  scanda'eggiato.  Nel  maggio  di  quell'anno,  il  Giordani  ne  scrive 
al  Cicognara  «  Gino  è  ritornato  da  Roma  ben  sano  e  forte  ;  benché  ivi 
abbia  talvolta  sofferto  fors'anche  per  la  stagione  sempre  infesta.  Lo  ha 
poco  edificato  lo  spettacolo  di  tanti  vizi,  ignoranze,  corruttele,  miserie 
della  città  sacrosanta.  » 


—  46  — 
e  la  sapienza  dei  pochi,  forze  rivali  e  inconciliabili;  ed  essi  ten- 
tarono comporre  la  lite,  insinché  il  ferro  patrizio  che  squarciò 
quei  generosi  petti,  divise  Roma  per  sempre.  »  Il  grande  eroe 
delle  scuole,  l'ammirato  conquistatore  Macedone  non  è  per  lui  al- 
tro se  non  il  «  ladro  innanzi  a  cui  la  terra  tacque;  »  e  queste 
che  divennero  le  sue  non  erano  certamente  le  idee  de'suoi  pa- 
renti e  di  tutti  i  suoi  maestri  ;  ma,  su  per  giù,  doveano  invece  esser 
quelle  del  suo  intimo  amico  della  prima  giovinezza,  Giam^battista 
Niccolini,  per  cui,  se  più  tardi  soltanto  egli  ruppe  intieramente  i 
ceppi,  possiamo  essere  sicuri  che  egli  aveva  incominciato  a  scuo- 
terli fin  dal  tempo  nel  quale  egli  stava  ancora  o  piuttosto  s'agitava 
sotto  la  disciplina  scolastica.  In  ogni  modo,  poi,  abbiamo  una  evidente 
prova  di  fatto  che,  sedicenne  appena,  Gino  Capponi  distinguevasi  in 
modo  singolare  fra  i  giovani  studiosi  della  società  toscana.  Nell'anno 
1804,  i  due  giovinetti  fratelli  Balbo,  Cesare  e  Ferdinando,  avevano 
fondato  a  Torino  una  società  letteraria  intitolata  i  Concordi  ;  qua.t- 
tro  anni  dopo,  il  contino  Cesare,  dicianovenne,  veniva,  per  ragione 
di  pubblico  udicio,  mandato  a  Firenze,  ove  non  tardava  a  conosce- 
re il  giovinetto  Capponi  e  a  sentire  per  lui  una  così  grande  am- 
mirazione, che,  scrivendo  al  suo  amico  conte  Carlo  Vidua  a  To- 
rino, gli  proponeva  di  creare  il  sedicenne  Gino  Capponi  membro 
onorario  della  società  de'Concordi.  E  allo  stesso  Gino  professò  poi 
sempre  il  Balbo  tanto  amore  e  tanto  rispetto,  che  a  lui  volle  de- 
dicato un  gran  numero  di  suoi  lavori  (1).  Certo  non  è  a  darsi 
una  eccessiva  importanza,  avuto  riguardo  alla  generosa  facilità 
con  la  quale  i  giovani  accade/nici  sogliono  scambiarsi  simili  onori, 
neppure  a  questi  onori  massimi  conferiti  dai  Concordi  al  Capponi; 
ma,  se  si  pensi  che  qui  non  può  neanche  entrar  l'ombra  del  so- 
spetto che  i  Concordi  volessero  far  la  corte  a  un  titolato,  che  ti- 
tolati eran  pure  il  Balbo  ed  il  Vidua,  e  se  si  consideri  la  natu- 
rale serietà  del  proponente  e  della  persona  a  cui  la  proposta  ve- 
niva diretta,  bisogna  dire  che  il  giovine  patrizio  fiorentino,  per 
meritare  tanta  considerazione,  avesse  fatto  a  sedici  anni  più  che 
profittare  degli  esercizii  della  scuola,  ed  addestrato  già  egli  stesso 
l'ingegno  a  più  libere  e  più  virili  battaglie.  Poco  dopo,  tro- 
viamo ascritto  il  Capponi  alla  società  de'Georgofili.  Nel  1818,  lo 
sappiamo  in  viaggio  per  Francia  ed  Inghilterra,  ove  una  lettera 


(1)  Cfr.  le  Memorie  sulla  vita  e  gli  scritti  di  Cesare  Balbo  pubblicate 
da  Ercole  Ricotti.  Firenze,  Le  Mounier. 


—  47  - 
del  Niccolini  lo  presenta  ad  Ugo  Foscolo;  il  Capponi  viaggiava 
allora  per  istruirsi,  e  per  respirare  un'aria  meno  soporifera  di 
quella  che  ci  avvolge  non  sugli  aperti  colli,  ma  ne'saloni  e  crocchi 
toscani  e  particolarmente  fiorentini;  è  il  fiorentino  Niccolini  che, 
nel  dicembre  del  1818,  scrive  al  fiorentino  Capponi  allora  a  Pa- 
rigi, in  questa  forma:  «  sono  d'accordo  ch'egli  è  meglio  folleg- 
giare coi  lombardi  che  dormire  coi  toscani.  Se  l'inerzia  e  la  su- 
perstizione avessero  un  palazzo,  com'è  stato  finto  del  sonno  e  del- 
l'Invidia dai  poeti,  io  certamente  lo  metterei  in  Firenze  >  (1).  Né 
l'amicizia  del  Capponi  pel  Niccolini  dovea  rimaner  sterile.  Appena 
ei  giunge  a  Londra,  con  1'  aiuto  del  Foscolo,  trova  il  Murray, 
presso  il  quale  stampa  a  sue  spese,  senza  nome  d'autore,  la  pri- 
ma edizione  di  quella  allegoria  drammatica  ch'è  il  Nabucco  del 
Niccolini.  Gli  epistolare  del  Niccolini  e  del  Foscolo  provano  ad 
evidenza  il  generoso  interesse  e  le  molte  cure  che  il  giovine  Me- 
cenate fiorentino  pose  a  questa  pubblicazione  del  timido  autore 
ùéiVArnaJdO)  cosi  ardito  sempre  nello  scrivere,  e  sempre  cosi 
pronto  a  sgomentarsi  per  gli  effetti  possibili  de'suoi  scritti  ap- 
pena pubblicati./ In  quel  tempo,  sull'amicizia  e  stima  reciproca 
del  Capponi  e  del  Niccolini  non  erano  ancora  passate  ombre  : 
«  Benché  più  giovine  di  me,  scriveva  il  Niccolini  al  Capponi  nel 
18:20,  avete  senno  maggiore  e  il  viaggiare  vi  ha  fatto  esperto 

E  degli  vizi  umani  e  del  valore.  » 

L'amicizia  loro  era  nata  nelle  scuole,  e  si  protrasse  quindi  per 
quasi  quarant'anni,  cordiale  e  feconda  di  bene.  Né  vi  fu,  può  dir- 
si, lavoro  drammatico  del  Niccolini  che  non  sia  passato  prima 
per  le  mani  del  Capponi,  mani  ostetriche  per  eccellenza,  e  che 
paiono  fatte  a  posta  per  levar  dal  buio  nobili  ingegni,  mani  orto- 
pediche, abilissime  a  raddrizzare  ogni  maniera  di  storture  in 
quelle  piante  ideali,  che  non  siano  nate  rachitiche,  ma  solo  da 
una  falsa  educazione  viziate  (2).  Il  Niccolini  ed  il  Foscolo,  il  Man- 


(I)  Il  giudizio  del  Niccolini  combina  con  quello  del  Giusti,  che  scri- 
vendo a  Massimo  d'Azeglio,  gli  dice,  molti  anni  dopo:  «  Qua  l'inno  del 
giorno  è  lo  sbadiglio  ». 

('2)  Nò  il  Capponi  rivedo  soltanto  i  lavori  inediti  de'suoi  amici,  e  ne  aiuta 
la  stampa,  ma  li  difende  pubblicati.  Da  una  lettera  dell'anno  1827  del 
Niccolini  aUa  Pelzet  rileviamo  che  il  Capponi  ha  risposto  per  le  rime 
ad  un  libello  manoscritto  della  famosa  IMichieli  contro  il  Foscarini,  pas- 
satogli dal  conte  Cicognara. 


—  48  — 
zoni  ed  il  Giusti,  il  Leopardi  ed  il  Colletta,  il  Balbo,  l'Azeglio,  il  Tom- 
maseo, per  citare  i  soli  esempii  più  illustri,  ebbero  tutti  dal  conversare 
più  0  men  vivo  e  lungo  ch'essi  fecero  col  marchese  Gino  Capponi 
a  sentir  beneficio:  onde  se  non  vi  fu  uomo  agli  uomini  di  lettere 
più  benefico  di  lui,  non  ve  n'è  forse  neppure  alcun  altro  che  ab- 
bia dai  letterati,  gente  nella  massima  parte,  per  invidia,  ingrata, 
raccolte  più  solenni  e  più  schiette  dimostrazioni  d'affetto  riverente. 
Io  ho  già  accennato  alle  testimonianze  di  devota  amicizia  rese  al 
Capponi  dal  Balbo;  il  candido  e  lodato  Gino  della  Palinodia  del 
Leopardi  a  Gino  Capponi,  è,  nella  mente  e  nel  cuore  d'ogni  let- 
tore italiano  ;  Y ortopedico  del  Giusti 

Che  acceso  alla  beltà  del  vero 

Un  raggio  se  ne  sente  nel  pensiero 

e  ciò  che  in  sé  cape  e  sente  sa  pure  intendere  in  altri,  a  cui 
come  al  più  vivo  fra  tutti  i  toscani  il  giovine  autore  della  Terra 
dei  morti  si  rivolgeva  per  pigliar  forza  a  drizzar  meglio  la  punta 
de'suoi  strali  arohilochei  contro  un  grande  ma  lieve  bestemmia- 
tore di  Francia,  sta  sempre  di  casa  in  via  San    Sebastiano,    ove 

'  ai  pochi  che  non  si  sono  stancati  de'suoi  beneficii  continua  a  pre- 
star servigio  d'opere  e  di  consigli.  Le  lettere  a  stampa  del  Foscolo 
attestano  con  quale  confidenza  il  poeta  dello  Zante  poneva  nelle 
mani  del  Capponi  la  sua  versione  dell'Iliade,  aflinchè  il  dottissimo 
fiorentino  le  desse  l'ultima  mano;  del  Colletta  tutti  sanno  che  al 
Capponi,  al  Niccolìni  e  al  Giordani  (I)  leggeva  la  sua    storia  del 

.  Reame  di  Napoli,  come  a  giudici  inappellabili,  in  fatto  di  buon 
gusto  letterario,  alle  sentenze  de'quali  si  rimetteva  intieramente 
nella  lunga  e  paziente  revisione  del  proprio  lavoro.  E  quando  il  Col- 
letta mori,  il  corcirese  Mario  Pieri  ebbe  a  notare  nelle  sue  memorie: 
«  Intorno  a  questo  tempo,  passò  di  questa  vita  in  Firenze  il  ge- 


(1)  E  noto  come  il  Giordani  rivendicasse  a  sé  solo  quasi  tutto  il  me- 
rito della  correzione  dell'opera  del  Colletta.  Ma  ciò  non  può  recar  me- 
raviglia in  un  uomo  che,  nel  novembre  del  1838,  poteva  scrivere  inge- 
nuamente ad  un  amico  :  «  Un  solo  piacere  potrei  avere,  di  conversare 
con  uomo  che  avesse  cuore  eguale  al  mio,  e  testa  più  alta  e  più  am- 
pia. Ma  questo  divertimento  non  l'ho  avuto  mai.  )>  Eppure  quest'omino 
avea  conosciuto  il  Monti  e  il  Manzoni,  il  Byron  e  il  Leopardi,  il  Capponi 
e  il  Niccolini  ! 


—  49  — 
nerale  Colletta  napolitano,  autore  d'una  storia  famosa;  ed  il  suo 
<i,-eneroso  amico  marchese  Gino  Capponi,  dopo  averne  raccolto  con 
tenera  sollecitudine  gli  estremi  sospiri,  e  mandatene  le  spoglie 
mortali  a  Varramista  magnifica  villa  e  campagna  di  casa  Cappo- 
ni in  quel  di  Pisa  (1),  volle  provvedere  alla  futura  fama  di  lui, 
pubblicandone  a  proprie  spese  l'opera  colle  stampe,  e  corredandola 
eziandio  della  vita  di  lui.  » 

Se  il  Capponi  non  fosse  dunque  stato  in  vita  sua  altro  che  l'amico 
operoso,  caldo  e  intelligente  d'alcuni  grandi  italiani,  egli  merite- 
rebbe già,  per  questo  solo,  un  titolo  alla  nostra  viva  riconoscenza. 

La  presenza  del  Capponi  in  Londra  temperava  per  alcun  tempo 
le  amarezze  dell'esigilo  al  Foscolo  ;  come  esuli  vivevano  in  To- 
scana il  Colletta  ed  il  Leopardi  ;  il  primo  nel  25  febbraio  del  1S29 
scriveva  da  Livorno  al  Leopardi  :  «  Era  meco  il  Capponi,  venuto 
da  Firenze  per  consolare  la  mia  solitudine.  »  Il  più  assiduo  visi- 
tatore di  G.  P.  Vieusseux  in  Firenze  era  il  marchese  Gino  Capponi, 
onde  il  Leopardi,  nel  luglio  del  1828,  potea  scrivere  da  Firenze  al 
Giordani  :  «  Io  non  veggo  altri  che  Vieusseux  e  la  sua  compa- 
gnia ;  e  quando  questa  mi  manca,  come  accade  spesso,  mi  trovo 
come  in  un  deserto.  »  Il  saper  amare  efficacemente  come  il  Cap- 
poni sa,  è  virtù  di  poche  anime  elette  ;  l'avere  per  amico  un  tal 
uomo  è  un  sentirsi  raddoppiare  insieme  il  vigore  dell'intelletto  e 
quel  calore  interno  dell'anima,  che  fa  salire  e  prorompere,  nelle 
sue  più  splendide  manifestazioni,  l'ingegno. 

Il  Capponi  poteva  egli  stesso  creare  ;  preferì  una  parte  più  mo- 
desta ma  non  meno  grande  aiutando  ingegni  più  impazienti  del 
suo  a  rivelarsi  nella  loro  forma  più  naturale,  più  alta  e  più  com- 
pleta. Ma  fu  particolarmente  sovra  il  Niccolini  e,  più  tardi,  sovra 
il  Giusti  che  si  versò,  di  continuo,  intenso  e  sollecito,  il  calore 
della  sua  virtuosa  amicizia.  E  il  Niccolini  gli  corrispose  {ler  lungo 


(1;  In  quella  campagna,  oltro  a  tutti  i  suoi  amici  di  Toscana,  il  Cap- 
poni avea  ricevuto  parecchi  altri  uomini  illustri  fra  i  quali  il  Manzoni, 
il  Lamartine,  il  Cobden,  Cfr.  Tommaseo,  Ricordi  storici  di  G.  P.  Vieus- 
seux. Firenze,  Cellini  1869.  —  Quanta  cura  il  Capponi  avesse  posto  a 
quel  luogo  prima  di  divenir  cieco  e  quanto  l'amasse,  si  può  argomen- 
tare da  una  lettera  del  Niccolini,  del  maggio  1840.  «  Il  Pieri  non  ha 
fatto  che  lodare  le  bellezze  di  Varramista,  e  di  questa  ammirazione  non 
sentiva  il  Capponi  consolazione  ma  sconforto  non  potendo  ornai  più  ve- 
dere che  colla  memoria  quei  luoghi  creati  può  dirsi  da  lui.  » 

ItlCORDl   BlOGRAKICI  4 


—  50  — 
tempo,  nel  rendergli  onore,  e  nel  prendere  la  parte  più  affettuosa 
alle  sventure  di  lui.  Mentre  egli  era  in  viaggio,  nell'anno  1810, 
il  Niccolini  lo  proponeva  qual  membro  dell'Accademia  della  Cru- 
sca, onore  che  fu  tuttavia  conferito  al  Capponi  solo  alcuni  anni 
(li  poi  (1),  e  rallegrandosi  con  lui  ch'egli  fosse  degli  occhi  «  pie- 
namente guarito  »  gli  raccomandava  di  risparmiarseli.  ]Ma  il  male 
che  aveva  allora  dato  i  primi  sintomi  delle  sue  future  rovine  dovea 
riapparire  vent'anni  dopo,  in  conseguenza  di  troppo  continuata  ed 
attenta  lettura,  in  tutta  la  sua  gravità  irreparabile.  Il  Niccolini 
si  mostra  nelle  sue  lettere  pieno  d'inquietudine  per  i  progressi 
che  fa  la  malattia,  intorno  alla  quale  tiene  informati  gli  amici. 
Cosi  sappiamo  da  lui  che  nella  primavera  dell'anno  1810,  già  fatto 
cieco,  il  Capponi  consulta  il  Regnoli  ;  nella  primavera  dell'anno 
seguente,  il  Niccolini  scrive  a  Giovanni  Morelli  di  Bergamo,  per 
combinare  un  viaggio  a  Monaco  di  Baviera  che  il  Capponi  e  il 
Morelli  avrebbero  fatto  insieme,  per  consultarvi  il  celebre  oculi- 
sta Walther.  Reduce  il  Capponi  di  Germania,  nel  luglio  del  18il, 
il  Niccolini  scrive  con  verità  e  poesia,  allo  stesso  Morelli,  a  Ber- 
gamo: «  Farmi  che  dal  suo  viaggio  il  Capponi  abbia  ricavato 
alcun  frutto  d'  utilità,  e  dalle  parole  del  valente  medico  tede- 
sco ,  io  ho  aperto  1'  animo  a  qualche  speranza.  Il  Capponi  ha 
cominciato  a  far  la  cura  prescrittagli,  ma  del  vantaggio  ch'egli 
ne  tragge  non  ardisco  interrogarlo,  perchè  i  benefìzi  del  tempo 
son  lenti  ed  incerti,  e  la  mente  del  Capponi  rifugge  da  que- 
sto doloroso  argomento,  né  vuol  egli  andare  incontro  al  do- 
lore d'una  speranza  che  rimanga  delusa;  quindi  al  peggio  si  è 
rassegnato,  e  questa  desolata  pace  non  brama  che  da'  suoi  amici 
gli  venga  turbata  Ad  ogni  modo,  egli  si  è  confortato  per  un 
mese  l'anima  afflitta  coli'  ottima  sua  compagnia  e  conversando 
con  quei  grandi  ingegni  (lo  Schelling,  il  Gorres,  il  Dòllinger,  il 
Thiersch,  il  Philipps),  che  sono  gloria  di  Germania  e  luce  d'Eu- 
ropa. Dei  loro  detti  ha  fatto  tesoro,  una  specie  di  provvisione 
a  mantenere  ed  accrescere  la  vita  del  pensiero,  cosa  rilevante 
per  tutti,  ma  più  per  quelli  a  cui  sono  quasi  chiuse  le  pagine  del 
mondo  fisico  e  rimangiano  soltanto  gli  occhi  dell'intelletto.  »  Nel 
settembre  1843,  essendosi  il  Capponi  fatto  operare  ad  un  occhio 
dall'oculista  francese  Germier,  rinascono  ne'  suoi  amici  alcune 
speranze,  e  il  Niccolini  torna  a  scrivere  al  Morelli  :    «    il    nostro 


(1)  Il  Capponi  è  ora  il  presidente  deirAccademia  della  Crusca. 


-  51  - 

amico...  crede  che  potrà  migliorar  tanto  da  poter  camminare  senza 
pericolo,  e  rivedere  le  care  sembianze  delle  sue  dilette  figlie  ;  io 
l'accerto  che  in  questo  affare  egli  ha  proceduto  colla  massima  pru- 
denza, né  potea  far  a  meno  di  tentare  questa  cosa,  perchè  stava  in 
procinto  di  perdere  quel  poco  di  bagliore  che  gli  restava,  e  la 
membrana  osservata  dal  Walther  minacciava  di  estendersi  su 
tutta  la  pupilla.  Non  posso  dirgli  quanta  sia  l'espettazione  di  tutti, 
e  credo  che  non  vi  sarebbe  persona  la  quale  non  baciasse  la 
mano  del  Germier,  se  il  Capponi  torna  a  rivedere,  o  per  dir  me- 
glio a  rivivere.  »  Nell'ottobre  di  quello  stesso  anno,  le  speranze 
si  mantengono  ancora,  onde  il  Niccolini,  scrivendo  ad  Andrea  Maf- 
fei  che  desiderava  essere  consigliato  da  lui  intorno  alla  sua  ver- 
sione tuttora  inedita  del  Wallenstem,  gli  risponde  :  «  se  vi  piace, 
mandatemi  qualche  scena,  ch'io  mi  farò  aiutare  dal  Capponi,  il 
quale  (ve  lo  annunzio  con  una  gioia  ineffabile)  v'è  gran  speranza 
che  possa  ricuperare  la  vista;  egli  si  farà  leggere  il  Wallenstein 
da  un  giovine  che,  quantunque  non  intenda  pienamente  il  difi:i- 
cilissimo  linguaggio  germanico,  pur  lo  pronunzia  assai  bene  ; 
sapete  che  il  Capponi  lo  conosce  ;  faremo  qualche  cosa  per  voi  in 
quanto  saremo  capaci  »  Nel  gennaio  del  1844,  il  Niccolini  torna 
a  scrivere  al  Maffei  :  «  Il  Capponi  vi  saluta;  vorrei  potervi  dire 
che  ha  raquistato  la  vista,  ma  pur  vi  è  sempre  luogo  a  sperarlo  ; 
se  gli  uomini  nei  quali  è  ingegno  e  virtù  dovessero  esser  felici 
quaggiù,  chi  lo  meriterebbe  più  di  lui?  »;  al  1  marzo  1844  quando 
il  Niccolini,  scrivendo  al  Centofanti,  chiama  Gino  Capponi  «  il 
nostro  egregio  ed  infelice  amico,  il  fior  degli  uomini  sapienti  e 
dabbene  »  tutte  le  speranze  sembrano  già  perdute. 

Né  il  Niccolini  amava  soltanto  nel  Capponi  l'amico  e  l'uomo 
nobilissimo,  ma  teneva  pure  in  gran  conto  l'uomo  di  lettere,  che, 
in  una  sua  lettera  a  Pietro  Zambelli,  diceva  anzi  tener  «  in  concetto 
di  gran  scrittore  »  ;  e  ad  uno  scopo  civile  i  due  amici  lavoravano 
per  le  lettere  con  mezzi  diversi,  e  con  uno  stesso  amore  di  bene. 
Quando  il  Capponi  a  Parigi  medita,  nel  1819,  un  giornale  da  pub- 
blicarsi in  Firenze,  è  al  Foscolo  e  al  Niccolini  che  si  rivolge  per 
assicurarsene  il  concorso  ;  quando,  nel  1828,  il  Capponi  vuole  com- 
piere la  più  nobile  delle  vendette  toscane  sopra  l'autore  della  Pro- 
posta, proponendo  che  l'Accademia  della  Crusca  voti  unanime  per 
un  monumento  a  Vincenzo  Monti,  è  al  Niccolini  che  si  rivolge  per 
raggiungere  il  suo  generoso  intento  ;  quando  il  Niccolini  si  mette 
a  fare  profondi  studii  sulla  Divina  Commedia  per  pubblicarne  poi 
nel  1837,  in  Firenze,  la  miglior  lezione,  è  il  Capponi   il  suo    oc- 


cliio  destro,  destinato  a  vedere  quello  che  a  lui,  ingegno  d'aquila,  e 
al  Becchi  ed  al  Borghi,  astri  minori,  può  essere  sfuggito  (onde  poi, 
nel  1813,  dall'inglese  Lord  Vernon,  non  modesto  fondatore  deh'or- 
dine  di  Dante^  il  Capponi  e  il  Niccolini  si  vedevano,  non  senza  sorri- 
derne, proclamati  insieme  cavalieri  di  Dante  !)  E  della  loro  società 
letteraria,  fattasi  in  quegli  anni  più  intima  e  più  stretta,  troviamo 
pure  ricordo  in  una  lettera  diretta  nel  1868  da  F.  L.  Polidori  ad 
Atto  Vannucci,  ove,  fra  l'altre  cose,  si  legge  :  «  Ricorderò  sem- 
I)i'e  con  particolarissima  compiacenza  quelle  dotte  conversazioni 
che  si  tenevano  nelle  domeniche  presso  il  Capponi,  tra  il  tocco  e 
le  tre  (1839,  sino  alla  pubblicazione  dell'Arnaldo"),  e  alle  quali 
assistevano  più  assiduamente,  e  piuttosto  come  uditori  che  altro, 
Giuseppe  Molini,  Fruttuoso  Becchi  (finché  vìsse)  ed  io  medesimo... 
Il  Niccolini  e  il  Capponi,  oltre  a  quella  della  forte  dialettica,  da- 
vano prove  di  memoria  tenacissima  ;  questi  col  recitar  lunghi 
brani  originali  di  Omero,  dall'Ariosto  ecc.;  l'altro  con  un  diluvio  di 
autorità  e  di  citazioni  d'autori  in  tutte  le  lingue  soprannominate.  » 
Ma  la  pubblicazione  deW Aìmaldo  venne  a  dividere  i  due  amici, 
non  tanto  per  intolleranza  che  vi  fosse  dall'una  parte  e  dall'altra  pel 
fatto  delle  opinioni  contrarie,  quanto  per  una  scena  disgustosissi- 
ma  che  si  narra  avvenuta,  a  proposito  di  quello  opinioni,  in  casa 
dello  stesso  Niccolini.  Noi  non  sappiamo  quanto  sia  veridica  l'es- 
posizione di  un  certo  dialogo  che  si  figura  avvenuto  in  quella 
casa  fra  il  Capponi,  il  Centofanti  e  il  Niccolini,  nel  libello  di 
un  Mirecourt  italiano;  ci  pare  che  vi  sia  nata  alcuna  confusione 
di  date,  e  da  questa  prima  confusione  ci  facciam  lecito  di  dubi- 
tare che  la  immaginazione  del  libellista  (1)  abbia  largamente  sup- 
]i!ito  in  questo  come  in  altri  casi  al  difetto  della  memoria;  ma, 
anche  accettando  quel  dialogo  come  storico,  non  ci  sembra  di  do- 
verne inferire   altro  se  non  un  motivo  di    amaramente  deplorare 


(1)  Il  noto  libellista  veniva  colpito  ne'seguenti  versi  del  Giusti: 

Non  ti  capaciti  com'io  resista 
Al  turpiloquio  d'un  libellista, 
Glie  nel  farnetico  ciarlìo  d'ades'-'o, 
Ruttando  inlamio  rutta  sé  stesso^* 

Is'oii  vedi  il  misero  lerirti  apposta 
l'or  sete  inutile  d'una  risposta, 
Cercar  coU'animo  grullo  e  mendicO; 
Lo  vanaglorie  di  tuo  nemico? 


—  as- 
ini eccesso  del  Niccolini  che  lo  fece  trascendere  ad  atto  più  che 
villano,  e  la  magnanimità  del  Capponi  che,  offeso  dall'autore  del- 
V Arnaldo,  non  volle  rispondergli  altrimenti  che  con  lo  stendergli 
la  mano,  dicendo:  «  Tu  resterai  ghibellino,  noi  guelfi;  ma  saremo 
amici.  » 

Perduta  l'amicizia  del  Niccolini,  il  Capponi  potè  consolarsi  nel- 
l'affetto figliale  che  gli  dimostrò  il  Giusti,  ir  Giusti  conosceva  il 
Capponi  fin  dall'anno  1836;  ma  la  loro  amicizia  incominciò  vera- 
mente a  divenire  operosa  solo  dal  18ii,  anno  dal  quale  il  poeta, 
per  quanto  potè,  fece  vita  comune  col  patrizio.  Nel  18i8,  egli  ne 
scriveva  al  Vannucci:  «  wSono  quattr'anni  che  siamo  sotto  l'istesso 
tetto.  Della  mente  e  dell'animo  di  quest'uomo  non  ne  parlo  per- 
chè siamo  troppo  uniti,  e  tra  noi  non  istà  bene  lodarsi,  molto  più 
che  posso  rimettermene  al  parere  del  Montanelli  (1),  che  lo  am;i 
di    molto,    al    parere    del    Panattoni    che    lo    chiamò    Patriarca 


(1)  Nelle  HJemorie  sitW Italia  e  specialmente  sulla  Toscana  dal  1811 
al  1840,  il  Montanelli  giudica  cosi  il  Capponi:  «  A  Gino  Capponi  la  na- 
tura etrusca  era  stata  prodiga  dei  suoi  doni,  comecliè  bella  e  maestosa 
la  persona,  gl'istinti  generosi,  e  l'ingegno  gli  avesse  largito  agile,  robu- 
sto, atto  ad  ogni  maniera  di  discipline,  e  d'ogni  tipo  di  bello  poetico  o 
morale  gustatore  squisito  .  .  .  Mancava  a  Gino,  in  mezzo  a  siffatto  com- 
plesso di  belle  qualità,  la  potenza  che  conclude,  la  virtù  che  riduce  ad 
atto  le  idee:  onde  come  due  politici  in  lui  rinvenivansi;  l'uno  dal  di- 
.scorso  accademico,  energico,  tuonante,  esaltabile,  immune  d'ogni  gret- 
teria di  parte.  Adente  nell'avvenire  deirumanità,  guardatore  dall'alto  (^ 
senza  piagnisteo  pedantesco  dei  mali  transitorii  che  accompagnano  lo 
rivoluzioni;  l'altro  della  pratica,  impicciato,  sgomentone,  aggirabile. 
Idcentesi  ostacolo  di  puerili  riguardi  e  nella  contesa  delle  parti  procliv<> 
a  compagnia  di  rimorchiati  più  che  di  progressivi,  benché  progressivo.  Al- 
tezza di  pensiero,  impotenza  d'azione  facevano  il  contrasto  che  colpiva 
nel  carattere  del  Capponi.  E  diventato  cieco  nel  mezzo  della  virilità.  Li 
cecità  in  lui  quella  potenza  accresceva.  »  Lo  stesso  Giusti,  scrivendo 
al  Capponi  nel  184G,  osa  dirgli:  «  Io  t'amo  a  preferenza  di  molti  che  fi 
vengono  d'intorno  più  per  onorare  sé  stessi  che  per  onorarti  !  Vorrei 
che  tu  stossi  o  solo  o  con  p  chissimi,  perché  ho  sdegno  di  sapere  abu- 
sata la  tua  bontà,  la  tua  natura  schietta  e  generosa.  »  Quello  che  va- 
leva ai  tempi  del  Giusti  vale  ancora  adesso,  per  ciò  che  spetta  le  in- 
sidie tese  al  nome  del  Capponi  da  una  certa  razza  di  raggiratori  pao- 
lotti,  la  quale,  per  coprire  le  proprie  vergogne,  mette  innanzi  il  nome 
illibato  di  Gino  Capponi,  innanzi  al  quale  ogni  arma  dirt'tta  a  ferire 
deve  si)untarsi. 


—  54  — 
della  libertà,  e  al  parere  del  Guerrazzi,  che,  quattr'ajini  sono,  gii 
dedicò  un  libro  {l'Isabella  Orsini).  Non  dirò  nemmeno  quanto  bene 
m'hanno  fatto  le  sue  parole,  i  suoi  consigli,  il  suo  esempio.  »  In 
una  sua  lettera  del  1845,  il  Giusti  scolpiva  il  Capponi  in  queste 
brevi  parole:  «  Il  signore  è  uomo,  e  l'uomo  è  umano.  »  Scrivendo  al 
Capponi  stesso,  diceva  ch'ei  parlava  a  lui  come  alla  sua  propria 
coscienza.  E,  nell'ottobre  del  1844,  dipinge  al  vivo  il  sentimento 
religioso  che  si  prova  non  pur  nel  cospetto  degli  uomini  grandi, 
ma  di  tutto  ciò  che  loro  appartiene  e  che  si  vorrebbe  con  gene- 
roso comunismo  far  nostro,  mentre  gli  scrìve:  «  Se  non  fosse 
stato  il  timore  di  distrarvi  dalle  vostre  occupazioni,  avrei  ronzato 
di  continuo  intorno  al  vostro  uscio.  »  Le  parole  di  Gino  Capponi 
pesano  poi  tanto  nell'animo  del  Giusti,  che  egli  si  mette  a  studiare  il 
latino  solamente  per  l'effetto  che  gli  fece  un  tanto  meglio  detto  in. 
un  certo  modo  da  Gino  Capponi,  quando  il  Giusti  confessava  di 
non  ne  saper  più  nulla.  Scrivendo  infine  al  Grossi  nel  giugno  del 
1846,  il  Giusti  gli  descrive  cosi  la  vita  ch'ei  mena  nel  palazzo 
Capponi:  «  Posso  dire  di  essere  con  Gino  da  Pasqua  in  poi,  e 
oramai  veggo  che  passerò  con  lui  una  buona  parte  dell'estate.  Ce 
ne  stiamo  soli  qui  in  questi  stanzoni  che  basterebbero  a  un  po- 
polo; a  me  basta  il  padrone  di  casa,  e  Dio  volesse  che  io  bastassi 
a  lui.  Credi  a  me  che  quest'uomo,  più  si  conosce  e  più  se  ne  sente 
il  valore  e  il  dolore  di  vederlo  si  dimezzato  e  quasi  superstite  a 
sé  stesso.  Egli  di  famiglia  illustre  davvero,  egli  ricco,  dottissimo^ 
di  mente  alta,  d'altissimo  cuore,  sano,  forte,  bello,  nel  fiore  del- 
l'età, vedilo  ridotto  a  una  battaglia  con  sé  medesimo  per  non  ce- 
dere alle  disgrazie  che  gli  sono  piovute  sopra  e  che  ne  farebbero 
un  disperato,  se  non  fosse  chi  è.  Quando  si  veggono  di  tali  cose, 
non  abbiamo  più  diritto  di  lamentarci  sul  conto  nostro.  »  Allude 
qui,  oltre  alla  cecità,  al  dolore  che  il  Capponi  provò  acerbissimo 
per  la  perdita  della  tenerissima  sua  figlia  Ortensia  (1);  l'altra  sua 
amabile  figliuola,  la  marchesina  Marianna,  andava  quindi  sposa  al 
marchese  Francesco  Parinola,  la  morte  del  quale  avvenuta  nel  1860 
fu  al  Capponi  come  una  seconda  cecità.  Gino  era  al  Giusti  come  padre 


(I)  «  Era  la  figlia  che  conosceva  cos'i  bene  suo  padre,  era  quella  che 
vedeva  per  lui,  era  la  mano  che  sapeva  così  bene  consolare  gli  affanni 
paterni  e  rasciugare  i  nobili  sudori  di  quella  fronte.  »  Ignazio  Cantù, 
L'Italia  scientifica.  Dalie  sue  nozze  con  la  marchesa  Riccardi  Vernaccia 
che  l'aveva  lasciato  vedovo  nella  prima  gioventù,  il  Capponi  ebbe  due 
sole  figlie. 


—   O.)   — 

per  l'affetto,  e  come  maestro  ne'consigli  letterari!;  la  raccolta  di 
Proverbii  del  Giusti  s'ampliò  e  si  purgò  fra  le  mani  del  Capponi,  cosi 
la  raccolta  de'suoi  versi,  cosi  il  suo  discorso  intorno  alla  Vita  e  alle 
opere  del  Parini.  «  Voi  che  sapete,  scrive  il  Giusti  al  Capponi, 
con  quanta  docilità,  anzi  con  quanta  allegria  mi  sono  arreso  ai 
vostri  suggerimenti  e  a  quelli  di  altri  pochi  galantuomini  come 
Voi,  non  vi  meraviglierete  se  io  desidero  più  una  lavata  di  capo 
fatta  amorevolmente  e  in  nome  del  vero,  che  non  di  quelle  ap- 
provazioni buttate  là  senza  garbo  né  grazia,  che  disgustano  sem- 
pre chi  non  presame  di  sé,  o  almeno  lasciano  il  tempo  come  lo 
trovano.  »  Ai  giovani  d'adesso  una  simile  modestia  parrebbe  so 
non  una  viltà,  una  mortificazione  eccessiva;  ma,  poiché  pare  a  me 
che  i  giovani  abbiano  torto  a  pensarla  così,  reco  loro  l'esempio 
del  Giusti,  che,  per  essere  esempio  illustre,  dovrebbe  anche  riuscii-e 
più  eloquente.  La  sera  del  1"  aprile  1850,  Gino  Capponi  accom- 
pagnava agli  eterni  riposi  le  spoglie  mortali  del  giovine  amico 
spiratogli  fra  le  braccia,  che  giovane,  cornee  ben  dice  il  Prassi, 
egli  aveva  incoraggiato,  e  adulto  ospitato  in  sua  casa  e  consigliato 
amorevolmente  più  anni.  Dopo  il  Giusti,  il  Capponi  vedeva  spe- 
gnersi successivamente  il  suo  Niccolini,  il  buon  Thouar  e  il  fido 
Giampietro  Vieusseux,  il  qual  nome  ci  riconduce  a  parlare  di 
un'altra  serie  di  beneflcii  prodigati  da  Gino  Capponi  alla  Toscana 
ed  al  suo  tempo. 

Convien  perciò  riportarsi  alle  condizioni  letterarie  della  Toscana 
innanzi  al  1820.  Se  non  era  il  soggiorno  del  subalpino  Alfieri  e 
del  greco  Foscolo  in  questa  beatissima  e  ridentissima  fra  le  terre 
d'Italia,  nessuna  menzione  si  farebbe,  per  quel  tempo,  della  storia 
letteraria  di  questa  provincia,  che  pareva  morta  ad  ogni  vita 
ideale.  L'ingegno  dell'Alfieri  e  l'anima  ardente  del  Foscolo  contri- 
buirono a  scaldare  la  mente  di  Giambattista  Niccolini,  il  quale 
alla  sua  volta  comunicò  una  parte  del  proprio  maschio  vigore  al 
Capponi.  Il  Niccolini  ed  il  Capponi  erano  forse  i  due  soli  ingegni 
virili  che  si  fossero  allora  volti  alle  lettere  in  Toscana,  con  pro- 
posito d'innalzarne  il  culto  e  di  spirarvi  la  vita  novella.  Preoccu- 
pati dal  desiderio  di  far  gloriose  le  lettere  alle  quali  s'eran  vota- 
ti, l'uno  cerca  d'infondere  nell'opera  d'arte  il  sentimento  umano, 
l'altro  di  agitare  la  vita  libera  ed  operosa  del  pensiero  in  mezzo 
al  suo  popolo.  L' uno  cerca  il  coraggio  di  adoperare  uno  stile 
maschio,  nel  suo  predecessore  astigiano;  in  sé  stesso,  i  buoni 
sentimienti;  nella  storia,  le  idee  ispiratrici;  l'altro  viaggia,  per  ve- 
dere come   altrove  si  pensa  e  si  vive  per    provvedere  affinchè  si 


—  :)G  — 

pensi  e  sì  viva  meglio  anche  tra  noi.  Il  Capponi  ha  fatto  conoscenza 
delle  riviste  inglesi,  e  si  persuade  della  forza  d'un  giornale  ben  fatto 
per  dirigere  l'opinione  pubblica;  egli  conosce  pure  i  giornali  dei 
letterati  italiani,  e  sa  che  con  una  letteratura  da  soli  letterati 
non  si  risveglierà  mai  un  popolo  alla  coscienza  di  sé  e  de'suoi 
bisogni.  Medita  dunque,  stando  nel  1819  a  Parigi,  una  rivista  da 
pubblicarsi  al  suo  ritorno  in  Toscana,  con  intendimenti  nuovi,  con 
l'aiuto  de'più  vivi  e  valenti  tra  gli  scrittori  civili  della  sua  terra, 
e  con  que'mezzi  materiali  che  la  sua  generosità  non  mai  stanca  è 
disposta  a  fornire.  Ne  scrive  al  Niccolini  ed  al  Foscolo;  il  primo 
gli  risponde  il  l"  dicembre:  «  A  richiamare  l'intelletto  a  più  no- 
bili occupazioni  sarebbe  veramente  vantaggioso  il  giornale  che  voi 
meditate;  ma  giudicate  voi  se  nelle  attuali  circostanze  ne  sia  pos- 
sibile l'esecuzione.  E  ciò  non  sia  detto  per  iscoraggirvi,  e  per  di- 
struggere questo  idolo  della  vostra  mente  generosa;  nil  desperan- 
dimi  duce  Teucro,  auspice  Teucro.  Tenteremo,  e,  se  non  potremo 
far  del  bene  agli  altri,  lo  faremo  per  noi.  Nelle  scienze  almeno  il 
Ridolfi  potrà  fare  qualche  cosa;  ma  conviene  perfettamente  iso- 
larsi dalla  canaglia  che,  al  pari  delle  arpie,  tutto  contamina.  » 
Nell'aprile  dell'anno  1820.  il  Niccolini  torna  a  scrivere  al  Capponi 
in  Parigi.-  «  Voglia  il  cielo  che  possiamo  riuscire  nello  scopo  che 
vi  siete  prefisso,  e  che  il  giornale  abbia  luogo.  »  Quella  lettera 
finisce  con  un  memorando  poscritto:  «  Un  certo  Vieusseux  gine- 
vrino ha  messo  qui  un  gabinetto  di  lettura,  ove  sono  i  più  ac- 
creditati giornali  d'Europa.  » 

Alla  sua  volta,  nel  marzo  di  quell'anno  medesimo,  il  Foscolo 
scrive  al  Capponi  in  Parigi  promettendogli  articoli  pel  suo  futuro 
giornale.  Intanto  il  Capponi  ha  lasciato  la  Francia  per  visitare, 
prima  di  tornarsene  in  Italia,  la  Fiandra,  l'Olanda  e  la  Germania; 
le  paludi  olandesi  gli  danno  l'ipocondria,  «  e  le  faccie  de'mercanti, 
pe'  quali  non  ha  mai  sentito  grande  amore,  gli  hanno  ispirato 
un'antipatia  invincibile  d'ora  in  poi  per  tutte  le  fisionomie  mer- 
cantili dell'universo.  »  (1) 

Chi  avrebbe  mai  detto  allora  al  Capponi  che  al  suo  rimpatrio 
la  più  simpatica  figura  che  gli  si  sarebbe  affacciata  sarebbe  stata 
appunto  quella  d'un  mercante?  Anzi,  che  un  mercante  forestiero  sa- 
rebbe stato  l'uomo  più  atto  a  far  tesoro  de"suoi  più  elevati  pen- 
sieri ed  a  tradurli  in  opere  vive?  Ma  la  lettera  del  Foscolo  a  Cal- 


(1)  Epistolario  di  Ugo  Foscolo, 


-  57  - 
liroe  ci  fa  pure  sapere  che  il  Capponi  era  «  fisionomista  quanto 
Lavater  »,  e  però  ei  non  dovette  tardare  molto  ad  accorgersi  che 
in  quell'uomo  d'affari,  in  quel  «  signor  Pietro,  come  gli  piaceva 
chiamarlo  con  amorevole  e  tra  signorile  e  popolare  fomiglia- 
rità  (l)  »,  batteva  un  cuor  generoso  e  splendeva  un'anima  intel- 
ligente. Conosciuto  pertanto  il  Vieusseux,  lodato  il  suo  gabinetto, 
ammirata  la  rara  operosità  dell'uomo,  inteso  com'egli  stava  per 
imprendere  la  pubblicazione  d'una  rivista  rispondente  in  gran 
parte  a'desiderii  che  il  Capponi  stesso  aveva  concepito,  il  grande 
patrizio  fiorentino  stimò  miglior  consiglio  incoraggiare  un  solo 
giornale  che  sciuparne  due.  Ceduto  pertanto  prontamente  il  suo 
disegno,  i  suoi  consigli,  i  suoi  scritti  ed  i  suoi  multiformi  aiuti 
al  Vieusseux,  lo  pose  in  condizione  di  convertire  in  breve  VAìi- 
Lologia  nel  primo  periodico  d'Italia,  e  di  riunire  intorno  ad  esso 
e  al  gabinetto  di  lettura  gli  studiosi  non  pure  di  Toscana  ma  di 
tutta  la  penisola;  che,  tacendo  de'pochi  toscani,  il  Foscolo  ed  il 
Leopardi  fra  gli  altri,  lo  Sclopis  ed  il  Tommaseo,  il  Montani  ed  il 
Mazzini,  il  Romagnosi  ed  il  Lambruschini,  il  Pepe  ed  il  Poerio, 
il  Libri  ed  il  Matteucci  da  quelle  pagine  raccolsero  splendore,  e  a 
quelle  pagine  ne  diedero. 

Di  quel  sacro  consorzio  Gino  Capponi  potea  dirsi  il  Padre,  il 
Montani  il  Figliuolo,  e  Giampietro  Vieusseux  lo  Spirito  Santo. 
Il  Tommaseo  faceva  poi  al  Montani  da  valente  Cireneo,  togliendo 
con  onore  sopra  di  sé  que'pesi  che  il  Montani  aggravato  non  poteva 
portare  da  solo  e  de'quali  la  carità  del  buon  Vieusseux  era  sempre 
pronta  a  sollevarlo.  II  Capponi  ora  è  solo,  il  Montani  è  morto,  è 
morta  V Antologia;  ma  la  vita  comunicata  allora  alle  lettere  in  To- 
scana si  risente  anche  oggi  nel  segreto  comune  rimpianto  di  quei 
tempi  migliori.  E  in  verità,  se  si  raffronti  la  vita  letteraria  di 
Firenze  in  quel  glorioso  più  che  decennio  della  vecchia  Antologia, 
la  vita  odierna  potrebbe  sgomentarci.  Non  erano  allora  agli  studi i 
gli  aiuti  presenti;  istituti  superiori  in  Firenze  quasi  non  erano; 
le  biblioteche  lamentavansi  più  povere  assai  e  di  men  facile  ac- 
cesso che  oggi  non  siano;  poche  e  misere  anche  le  scuole  per  la 
prima  istruzione;  malagevole  e  pressoché  impossibile  ogni  com- 
mercio letterario;  scarse  e  povere  di  notizie  le  gazzette;  il  governo 
addormentato  e  il  popolo  più  addormentato  del  governo;  e  pure 
alcune  vigili  e  modeste    lampade  solitarie  stavano  continuamente 


(2)  Tommaseo,  Ricordi  dì  n,  p.  Vieusseux. 


—  :>s  — 

accese,  e  intorno  a  quella  scarsa  luce  si  accendevano,  in  alcuni 
giovani,  sublimi  entusiasmi,  sorgevano  propositi  magnanimi,  si 
fecondavano  opere  immortali.  Un  solo  patrizio  e  un  solo  mercante 
bastavano  allora  a  chiamar  gente  nelle  sale  di  un  modesto  gabi- 
netto, a  discorrervi  delle  cose  dello  spirito,  mentre  all'  intorno  si 
moltiplicava  invano  una  materia  oscura,  senza  nome  e  senza  for- 
ma. Ora  i  tempi  sono  diversi;  la  luce  si  spande  per  tutto;  ogni 
uomo  che  nasce,  ai  primi  passi  che  tenta  fuori  di  casa,  trova  aperta 
una  scuola;  il  giornale  va  per  le  mani  de'fanciulli;  la  biblioteca 
circolante  mette  il  libro  nelle  mani  degli  operai;  i  mezzi  dell'istru- 
zione sono  prodigiosamente  accresciuti  ;  ma  la  stessa  facilitcà  con  la 
quale  l'istruzione  generale  si  può  acquistare  dispensa  i  più  dal  du- 
rare qualsiasi  fatica  per  procacciarsene  una  maggiore  e  particolare  ; 
la  superficialità  del  sapere  si  scambia  per  vera  scienza;  scienza  vera 
0  non  si  cerca  piìi  affatto,  o  da  pochissimi  e  più  pel  servigio  che 
essa  ha  da  rendere  a  chi  la  professa  che  per  sacro  amore  di  essa 
e  del  paese  cui  ha  da  servire.  E  questo  male  s'avverte  e  si  la- 
menta forse  più  che  altrove  in  Firenze,  ove  la  gioventù,  più  an- 
cora che  viziata  dal  disordine  improvviso  di  tumultuose  passioni, 
si  trova  snervata  da  una  lunga  abitudine  d'inerzia  che  la  fa  svo- 
gliata, di  maniera  che  le  si  attribuirebbe  diflìcilmente  l'energia 
necessaria  ad  imprendere  alcuna  nuova  opera  gagliarda  e  genero- 
sa. Le  buone  istituzioni  che  Firenze  serba  appartengono  al  suo 
passato;  delle  pubblicazioni  periodiche  le  quali  continuano  a  farle 
onore,  l'una  è  V Archivio  Storico  italiano  fondato  da  Gino  Capponi, 
dopo  la  soppressione  della  vecchia  Antologia,  l'altra  è  la  Nuova  Anto- 
logia, migrante  ora  verso  Roma,  e  nata,  per  virtuosa  reminiscenza,  in 
Firenze  capitale,  col  concorso  e  patrocinio  di  quello  stesso  Gino 
Capponi  che  aveva  col  Vieusseiix  fondato  l'antica.  De'  Gabinetti 
letterarii  esistenti  in  Firenze,  l'ottimo  è  pur  sempre  quello  che 
Giampietro  Vieusseux  stabiliva  e  ordinava,  con  pensiero  allora 
originale,  in  Firenze,  or  sono  più  di  cinquant'  anni,  ch'egli  sta- 
biliva e  ordinava  a  profitto  degli  italiani,  e  non  per  cagione 
di  dare  un  falso  lustro  e  belletto  alla  città  di  Firenze,  di  che  far 
sterile  pompa  agli  occhi  degli  stranieri.  Ed  io  insisto  alquanto  su 
questo  punto,  perchè  parmi  che  i  nuovi  reggitori  di  Firenze  in- 
tendano alla  rovescia  l'utile  della  città  al  loro  governo  affidata;  io 
voglio  pur  credere  che  essi  amino  più  della  propria,  la  prosperità 
fiorentina;  ma  essi  mi  sembrano  mal  provvedere  a  questa  prospe- 
rità con  fumi  inani,  e  con  salamelecchi  graziosi  ad  ogni  nuovo 
principe  o  potente  straniero  cui  gusti,  per  i  suoi  commodi,   sver- 


—  no  — 

nare  piuttosto  a  Firenze  die  a  Roma  od  a  Napoli.  Sta  bene  esser 
cortesi  col  forestiero,  ma  non  è  cortesia  la  servilità,  la  quale  può 
invece  ingenerar  sospetto  che  si  voglia  riuscir  venale.  Oltre  a  que- 
sto, io  non  vorrei  che  troppi  stranieri  ripetessero  più  la  sentenza 
proferita  da  un  inglese  che  visitava  la  città  nostra  nello  scorso 
inverno,  e  notava  l'affaccendarsi  de'signori  fiorentini  a  spendere 
in  sontuosi  festini  più  che  i  loro  risparmii,  per  avere  il  gusto  di 
leggere  e  far  leggere  nelle  gazzette  locali,  convertite  in  bullettini 
della  moda  e  del  bel  mondo,  ogni  loro  prodezza;  «  i  fiorentini  sono 
ridicoli  nelle  cose  serie,  e  serii  nelle  cose  ridicole.  »  Il  giudizio  è 
alquanto  impertinente,  e  per  molti  fiorentini  ingiusto,  ma  si  di- 
rebbe che  quanti  hanno  il  mandato  di  reggere  questa  città  pon- 
gano ogni  studio  nel  fare  che  Firenze  sei  meriti.  Essi  sono,  per 
dire  il  vero,  intentissimi  a  difendere  e  a  far  difendere  l'onore  della 
città;  la  loro  sollecitudine  continua  è  che  il  forestiero  il  quale  ar- 
riva a  Firenze  vi  trovi  oggetto  continuo  di  svago,  e  che  il  fioren- 
tino, rivedendo  numerosi  forestieri  passeggiare  per  le  vie  di  Fi- 
renze, si  diverta  e  si  conforti  in  quella  vista  al  pensiero  che  sono 
tornati  i  bei  tempi.  Ma,  poiché  il  forestiero  non  ha  la  virtù  di 
scemare  i  nuovi  dazii  comunali  per  far  tornare  al  prezzo  di  una 
volta  il  pane,  il  vino  e  la  carne  nella  città  aggravata,  né  di  or- 
dinar copie  di  antichi  ritratti,  o  fotografie  di  monumenti,  o  rose 
e  piccioni  in  mosaico  ad  ogni  sfaccendato  che  giri  quanto  il  giorno 
è  lungo  per  le  vie  e  per  le  piazze  fiorentine,  in  attesa  di  qualche 
Creso  di  Londra  o  di  Pietroburgo  che  lo  voglia  occupare  a  far 
nulla  presso  di  sé;  io  invocherei  per  Firenze  un  minor  numero 
di  distrazioni  pel  forestiero  e  un  numero  maggiore  d'occupazioni 
pel  cittadino;  io  vorrei  che  si  pensasse  meno  a  procacciare  cir- 
censi al  popolo  che  a  trovargli  il  mezzo  di  guadagnarsi  abbon- 
dantemente il  pane  ;  ad  aprirgli  ofiicine  che  a  fargli  de'  discorsi 
olimpici  ;  a  preparare  in  Firenze  una  generazione  di  uomini  che 
a  mantener  gli  uomini  eternamente  ftmciulli. 

Questo  fu  il  pensiero  continuo  dei  Capponi  e  de'Ridolfì,  de'Lam- 
bruschini,  de'  Thouar  e  de'  Vieusseux  nella  prima  metà  di  que- 
sto secolo  ;  questo  ancora  dovrebbe  essere  il  pensiero  di  quanti  in 
Firenze  hanno  amore  alla  cosa  pubblica  e  si  preoccupano  sul  serio  per 
le  condizioni  future  della  città.  I  dotti  discorsi  che  si  fanno  nelle  sale 
del  Circolo  Filologico  sono  splendidi  tutti  e  tutti  applauditi  ed,  amo 
crederlo,  tutti  degni  di  plauso;  ma  badate  che,  per  correr  dietro  ai 
colori  della  parola  miniata  che  s'applaude,  non  vi  resti,  troppo  spesso, 
dopo  l'applauso,  in  mano  nulla  più  dell'aria  che  con  le  mani  avete 


—  co  — 

scossa  ;  badate  di  non  opporre  ai  serii  lavori  de'  Georgofili  le  vane 
pompe  di  una  nuova  Accademia  letteraria  ;  alle  ricerche  speri- 
mentali dello  Schiff  le  vuotaggini  d'orazioni  con  fervorini  estetico- 
politici,  i  quali,  uditi,  garbino  alle  gentili  signore  che  non  saprebbero 
leggerli.  Nelle  riunioni  del  giovedì,  che  avevano  luogo  un  tempo 
nel  Gabinetto  di  Vieusseux,  le  donne  non  solevano  intervenire,  ed 
era  l'orse  un  male  ;  che  la  presenza  della  donna,  anzicliè  guastare 
in  simili  convegni,  dà  al  conversare  una  eleganza  ed  una  grazia 
desiderabilissime,  e  facilmente  trascurate  in  un  consorzio  di  soli 
uomini  non  tutti  solleciti  egualmente  del  decoro  o  della  misura. 
Ma  da  quelle  conversazioni  si  usciva  più  istruiti  che  da  un  in- 
tiero corso  di  lezioni  pubbliche  di  professori  chiarissimi  ed  eloquen- 
tissimi.  Una  parola  rotta  ma  viva  d'un  uomo  eminente  era  talora  ra*^- 
colta  da  un  giovane  oscuro;  quella  parola  si  meditava  in  silenzio, 
e  si  convertiva  talora  in  un  proposito  gagliardo,  in  una  bell'aziont^ 
o  in  un  bel  libro.  Perchè  nulla  di  simile  piìi  in  Firenze?  E  egli 
mai  possibile  che  chi  disse  Gino  Capponi  l'ultimo  de'  fior eniini  now 
abbia  calunniato  Firenze  ?  Che  fanno  ora  le  buone  madri  fioren- 
tine ?  Come  vive  e  che  pensa  dunque  la  nuova  gioventù  ?  Sono 
sempre  là  quelle  sale  gloriose  del  palazzo  Buondelmonti  ;  per  ora 
almeno  sono  ancora  in  piedi  e  parlano  sempre,  e  minacciano  chi 
vuol  toccarle  ;  che  mi  dicono  esser  proposito  del  Consiglio  d'Arte 
del  nuovo  Municipio  buttar  giù  anche  quel  monumento,  rammen- 
tatore molesto  di  glorie  invidiate  e  non  più  imitabili  nella  spen- 
sierata ignavia  presente  ;  ma  io  dico  a'  giovani,  ne'  quali  ancora 
più  spero  ;  quelle  sale  sono  sempre  là  ;  ed  è  vivo,  e  buono  e 
destro  e  volonteroso  il  nipote  di  colui  che  da  quelle  sale  ha  co- 
municato tanta  vita  al  pensiero  italiano  ;  andate,  chiedete  ospi- 
talità, cercate  il  bene  anco  voi,  tentatelo  come  potete,  svegliate 
i  vostri  amici  increduli  e  incerti  e  non  permettete  che  vada  per- 
duto per  sempre  un  grande  e  nobile  esempio.  Son  troppi  anni  che 
la  Toscana  vostra  dorme  ;  se  la  vita  è  in  voi,  spiratela  anche  al 
di  fuori  ;  nella  gentilezza  infondete  la  forza;  ove  sono  infinite  le 
memorie,  imparate  senza  fine  ;  ove  si  sono  fatti  miracoli,  conti- 
nuate a  farne  ;  io  non  credo  che  colui  il  quale  fu  chiamato  l'ultimo 
de' fiorentini  potrebbe  aver  consolazione  maggiore  di  quella  d'ap- 
prendere, che  con  lui  non  si  spegnerà  ogni  pensiero  vigoroso, 
ogni  retto  sentire,  ogni  magnanimo  ardimento  in  quella  terra  per 
cui  egli  è  passato  beneficando. 

Io  tacerò  qui  di  Gino  Capponi  uomo  politico,  non  perchè  io  tema 
d'incontrare  nella  sua  vita  politica  pure  ini  sol    fatto    che    scemi 


—  61  — 
prestigio  alla  grandezza  del  suo  nome,  ma  perchè  questi  son  Ri- 
cordi letterarii,  e,  per  apprezzar  convenientemente  la  condotta 
d'un  uomo  politico,  giova  discutere  pure  la  condizione  de'  tempi, 
degli  uomini  e  de'governi,  a'quali  si  riferisce  l'opera  sua,  cosa  che 
mi  porterebbe  qui  troppo  lontano  dal  mio  istituto.  Basti  che  la 
sua  autorità  in  Toscana  fra  gli  uomini  politici  fu  sempre  gran- 
dissima; che,  innanzi  al  suo  Sovrano,  egli  tenne  in  ogni  tempo 
contegno  di  libero  cittadino,  pur  sempre  studioso  di  conciliare, 
quando  si  potesse  con  decoro  d'entrambi,  le  ragioni  del  principe  con 
quelle  del  popolo;  che  i  piemontesi  D'Azeglio,  Balbo  e  Gioberti  si 
valsero  in  più  occasioni  utilmente  de'  consigli  di  lui;  che  egli  fu 
guelfo,  ma  non  mai  papista,  e,  anche  meno,  gesuita;  che  nel  1848 
fu  in  Toscana  presidente  del  consiglio  de'  Ministri;  che,  fuggito 
il  Granduca,  prese  primo  parola  in  Senato  per  dire  che,  quando 
il  principe  non  si  lascia  trovare,  ha  dritto  il  popolo  di  darsi  quel 
reggimento  che  più  gli  giovi;  che,  nel  1859,  egli  si  presentò  risoluto 
al  Granduca  per  invocarne  le  concessioni  richieste  dal  popolo  ;  che, 
partito  il  Granduca,  fu  eletto  presidente  della  Consulta  di  Stato 
nel  Governo  provvisorio  ;  che  il  popolo  lo  elesse  suo  deputato,  e 
lìnalmente  il  Re  d'Italia  senatore  del  Regno.  Mi  piace  finalmente, 
e  piacerà,  senza  dubbio,  anco  ai  lettori  udir  raccontare  dal  prof. 
Giuseppe  Tigri  un  fatto  che  ci  rappresenta  al  vivo  l'italiana  fie- 
rezza del  Capponi  «  Nel  1852,  mi  pare  (scrive vanii  il  Tigri  il  3 
giugno  scorso),  si  sapeva  pur  troppo  in  Firenze  che  dovevano  en- 
trarvi gli  Austriaci.  Una  tal  mattina  uscivano  da  una  seduta  del- 
l'Accademia Colombaria,  posta  di  là  d'Arno,  il  prof.  Giuseppe  Ar- 
cangeli segretario  della  medesima  e  il  marchese  Gino.  Questi  sa- 
liva il  Ponte  Vecchio  al  braccio  dell'Arcangeli;  allorquando  odono 
un  lungo  suonar  di  tamburi.  Il  Capponi  allora  dice  all'Arcangeli: 
Son  loro  ?  —  e  l'altro  :  —  Pitr  troxjpo  !  E  il  Capponi  :  Almeno 
non  li  vedrò  !  Queste  parole  mi  sembran  sublimi.  Egli  cieco,  quasi 
preferiva  la  sua  cecità  per  non  vedere  in  viso  gli  oppressori  della 
sua  patria;  son  parole  degne  d'un  Capponi  !  » 

Lasciando  agli  storici  futuri  di  giudicare  particolarmente  gli  atti 
del  Ministero  toscano  nel  1848,  io  amo  qui  solo  ricordare  pel  mio 
proposito  come  la  promulgazione  della  Legge  della  guardia  civica, 
(Uè  occasione  il  17  settembre  del  184-7  ad  uno  scritto  politico  di 
Gino  Capponi,  il  primo  e  l'unico  a  stampa  ch'io  conosca  di  lui  per 
la  ragione  politica.  Esso  s'intitola  :  Alcune  parole  sulla  Legge  della 
Guardia  civica. 

La  legge  era  timida,  e  il  Capponi,  che  lo  sentiva,  civrebbe  forse 


—  (-.2  — 
potuto  avvertirlo;  ma  si  contenta,  con  moderato  consiglio,  di  scri- 
vere :  «  bene  usarla  è  nostro  debito  ;  ufficio  del  tempo  e  del  buon 
Principe  migliorarla.  »  Qui  parla  l'uomo  disciplinato  nella  lettura 
della  politica  de'  classici  ;  più  su  parlava  l'uomo  del  suo  tempo, 
abbandonandosi  alla  piena  di  un  nuovo  ed  urgente  afletto  :  «  Chi 
abbia  conosciuto,  chi  abbia  compresa  questa  nostra  gioventù  tanto 
generosa,  tanto  buona,  tanto  amorosa  di  quei  principii  che  noi 
giovani  solevamo  troppo  sovente  porre  da  banda  ;  chi  l'abbia  ve- 
duta questa  gioventù  Domenica  scorsa  nell'ebbrezza  dei  gridi,  e 
nella  folla,  assicuratrice  di  una  libertà  senza  limiti,  quegli  dirà 
la  fiducia  essere  ben  posta,  e  che  da  essa  può  venire  all'istituzione 
forza  e  non  venirne  pericolo.  » 

Ed  eccouìi  cosi  arrivato  a  discorrere  in  succinto  del  Capponi 
come  scrittore.  Quanto  all'opera  principale  di  lui  speriamo  ch'essa 
si  faccia  aspettar  molto  tempo,  essendo  volere  del  Capponi,  che  si 
pubblichi  solo  dopo  la  sua  morte.  Questo  lavoro  monumentale  sarà 
una  nuova  btoria  di  Firenze,  della  quale  i  due  soli  capitoli  fmqui 
pubblicati  neW Archivio  Storico  e  nella  Nuova  Antologia,  come 
saggio,  tratti  dalla  storia  del  secolo  decimoquarto,  annunziano  la 
tranquillità  d'uno  storico  antico  che  scrive  come  un  classico,  che 
lavora  su  documenti  editi  ed  inediti  come  un  erudito,  e  che  pensa 
come  un  lilosofo.  Così  vorremmo  che  la  Storia  di  Firenze  del  Cap- 
poni fosse  da  lui  protratta  fino  a'  di  nostri,  perchè  l'ultimo  vo- 
lume e  il  più  prezioso  ci  parrebbe  quello  che  contenesse  le  pro- 
prie Memorie  di  lui  e  del  suo  tempo  ;  com'egli  ha  molto  letto,  cosi 
ha  molto  pensato,  molto  veduto,  e  conosciuto  molti  uomini  e  molte 
cose  ;  e  la  sua  memoria  essendo  sempre  fresca  e  possente,  egli 
varrebbe  con  la  sua  amabile  eloquenza  a  far  passare  innanzi  ai  no- 
stri occhi  molte  perdute  immagini  luminose  ed  a  rianimarci  nel  pen- 
siero per  varie  figure  da  lui  sorprese  sul  vero  la  figura  intiera 
di  un  secolo.  Io  mi  rammento  una  sera  passata  nel  suo  palazzo. 
Interpellato  non  so  più  se  dal  Lambruschini  o  dal  Giuliani  (coi  quali 
e  col  Tabarrini,  l'Antinori  ed  il  Farinola  (1)  avevo  avuto  l'onore 
di  sedere  alla  sua  mensa  ospitale)  intorno  ad  un  fatto  particolare 
della  vita  di  Antonio  Rosmini,  essendo  egli  d'umor  lieto,  incominciò  a 
parlare,  e  parlò  solo,  e  parlò  per  quasi  un'ora  e  sempre  del  Rosmini 
e  delle  relazioni    del    Rosmini    con  Roma,  con    tanta   abbondanza 


(I)  Il  marchese  Paolo,  garbato  i^eiitiluomo;  ligiio  della  Marianna  Cap- 
poni sopra  ricordata. 


-  63  — 

d'eloquio,  e  tanta  copia  d'incidenti  e  d'argute  osservazioni  che 
quanto  fu  a  tutti  l'udirlo  delizioso  passatempo^  tanto  poi  c'increbbe 
il  pensare  che  quella  stupenda  pagina  di  storia  contemporanea  dal 
Capponi  cosi  felicemente  improvvisata  non  si  fosse  potuta  rac- 
cogliere in  iscritto,  per  conservarla  intatta  e  mirabile  com'era 
uscita  della  viva  voce  tonante  del  venerando  Gino.  Trovandosi  allora 
più  ospiti  in  casa,  il  Capponi  aveva  amabilmente  consentito,  in 
(|uella  sera,  a  rallegrarci  insieme  tutti,  parlando  non  tanto  di  sé, 
quanto  d'un  ricordo  che  gli  errava  nella  limpida  e  vasta  mente. 
Ma,  di  consueto,  non  è  questo  il  suo  costume,  quando  l'ospite  è 
uno  solo.  Allora  è  cura  sua,  invece  di  rispondere,  tentare  quegli 
argomenti  ne'  quali  spera  che  più  si  compiaccia  il  suo  interlocu- 
tore, per  farlo  quindi  liberamente  e  abbondantemente  parlare.  Cosi 
egli  raggiunge  insieme  più  scopi,  quello  di  rimuovere  il  discorso 
dai  luoghi  oziosi  e  comuni,  quello  di  compiacere  il  suo  ospite  col 
farlo  parlare  di  sé  o  delle  cose  che  più  gli  stanno  a  cuore,  quello 
di  farlo  parlare  più  animato,  col  portarlo  sopra  argomenti  ben 
noti  ed  accetti,  e  cosi  ottenere  una  conversazione  più  piacevole.e 
studiar  meglio  l'animo  e  l'ingegno  dell'interlocutore.  Usando  una 
simile  assai  rara  urbanità  verso  i  suoi  ospiti,  il  Capponi  ha  pure 
il  gran  vantaggio  di  poterli  conoscere  più  presto  e  più  addentro; 
onde  è  agevole  l'indovinare  quanto  interesse  potrebbero  avere  i 
ricordi  intorno  alle  persone  più  notevoli  dal  Capponi  conosciute 
nella  lunga  sua  esistenza,  ov'egli  volesse  dettarli  per  la  conso- 
lazione de'  suoi  concittadini.  E,  in  questo  desiderio,  forse  troppo 
tardi  espresso,  io  ritorno  agli  scritti  di  lui. 

Essi  sono  più  assai  che  non  paiano.  Sparsi  come  si  trovano 
neir  Antolopia,  nell'  Archivio  Storico,  negli  Atti  de'  Georgoflli,  e 
in  separati  opuscoli,  potrebbero,  insieme  raccolti,  formare  più 
d'un  volume.  Né  la  varietà  degli  argomenti  trattati,  dal  dignitoso 
discorso  intorno  alla  lingua,  inserito  weW Antologia  del  gennaio  1828 
ove  si  predica  concordia  fra  letterati  e  si  dimostra  la  possibilità 
di  rendere  illustre  il  linguaggio  popolare,  alle  pratiche  Cinque 
Letture  di  economia  toscana,  dalle  sapienti  e  memorabili  Lettere 
al  prof.  Pietro  Capei  sulla  Storia  del  Longobardi  (1)  all'affettuosa 


(I)  Un  consiglio  agli  editori  italiani.  Sulla  ^ìloria  de'  Longobardi  e, 
in  ispecie,  sulla  questione  della  condizione  de'  vinti  Romani  sotto  i  Lon- 
gobardi furono  scritto  in  Italia  parecchie  monografie  importanti,  ed,  in 
opere  storiche  voluminose,  parecchie  pagine  dottissime.  Ci  parrebbe  do- 


—  (34  — 
necrologia  scritta  nel  1868  in  onore  e  compianto  del  Capei  medesimo, 
dalla  vita  del  Colletta  al  Frammento  sull'Educazione,  è  la  mani- 
festazione continua  d'uno  stesso  ingegno  sempre  virile  e  colto,  e 
non  di  rado  originale,  di  un  animo  sempre  alto  ed  umano,  di  uno 
scrittore  sempre  castigato,  sostenuto  e  di  gusto  squisito.  Io  mi  at- 
terrò qui  tuttavia  a  rilevare  soltanto  alcuni  passi  del  libro  sul- 
V  Educazione  e  delle  Letture  d'Economia,  come  quelli  che  po- 
tranno servire  a  meglio  completarci  la  figura  dell'uomo.  Il  fram- 
mento snlV Educazione  fu,  per  la  prima  volta,  pubblicato  a  Lu- 
gano, nel  1811,  senza  nome  d'autore;  il  Capponi  s'era,  prima  di 
quel  tempo,  occupato  molto  col  Ridolfi  a  profitto  dell'istruzione 
elementare  e  popolare,;  il  frammento  prova  ad  evidenza  quanto 
profondamente  egli  conoscesse,  e  quanto  largamente  intendesse 
l'arte  dell'educare,  ossia  l'arte  di  trar  fuori  l'uomo  dal  fanciullo  : 
«  Noi,  scrive  egli,  figliuoli  d'una  rivoluzione  che  molti  vecchi  er- 
rori levò  di  seggio,  e  all'uomo  concesse  maggior  balia  di  sé  me- 
desimo, cerchiamo  in  noi  stessi  le  più  intime  cagioni  dei  nostri 
vjzii  e  de'  nostri  mali  :  e  quella  severità  di  analisi  che  tutte  im- 
putava le  miserie  dell'umana  società  agli  ordini  che  la  reggevano, 
ora  si  adopra  a  investigarne  più  addentro  le  cause  negli  elementi 
che  la  compongono.  »  La  sentenza  è  vera  e  profonda,  e  merita  di 
venir  meditata  anche  oggi  dai  cittadini  del  regno  d'Italia,  più 
pronti  ad  accusare  d'ogni  lor  male  l'imperfetto  Governo  ch'essi 
si  diedero,  che  sé  stessi  d'avere  preparato  e  reso  quasi  necessario 
e  inevitabile  questo  Governo. 

Il  Capponi  vuole  saviamente  che  nella  educazione  si  secondino, 
sovra  tutto,  la  natura  ed  i  bisogni  dell'età  fanciullesca  ;  quindi 
egli  fa  una  raccomandazione  giustissima  che  noi  giriamo  ai  no- 
stri legislatori  perchè,  a  costo  di  scontentare,  quanti  sono,  i  nostri 
metodisti,  normalisti,  precettisti  e  pedagogisti,  si  riformi  senza 
troppo  indugio  nel  senso  indicato  dalla  ragione,  «  La  natura  dei 
fanciulli  siccome  quella  dei  popoli,  tutta  poetica  da  principio,  tardi 
si  volta  all'analisi  ;  e  però  l'educazione  di  quelli  come  di  questi, 
cominciata  dalla  poesia,  bene  si  compie  con  la  grammatica  ed  al- 


vesse  rendere  un  buon  servigio  agli  studiosi  di  storia  ed  a  sé  stesso,  l'editore 
che  raccogliesse  in  un  solo  volume  il  discorso  del  Manzoni,  gli  scritti  spe- 
ciali dello  Sclopis,  del  Balbo,  del  Capponi,  del  Capei  e  di  altri  sulla  que- 
stione, oltre  a  parecchie  pagine  estratte  dall'opera  del  Vesme  e  del  Fossati, 
dalle  storie  del  Troia,  del  Ranieri,  ecc.  attinenti  alla  questione  medesima. 


—  65  — 
tre  scienze  consimili.  Quindi  è  che  l'insegnamento  della  gramma- 
tica ideologica  mi  piacerebbe  fosse  dato  per  ultimo  ne'ginnasi  e 
ne'licei,  e  come  preparazione  agli  alti  studii  delle  università.  » 
Deplora  il  Capponi  che,  nell'insegnamento,  «  la  vanagloria  del- 
l'arte voglia  in  tutto  sostituirsi  alla  efficacia  della  natura  ;  direb- 
besi  che  all'umana  specie,  mentre  si  rivendicano  i  diritti,  si  nie- 
ghi  il  valore.  »  E  più  oltre  «  siffatti  metodi,  col  promuovere  la 
fredda  ragione  a  discapito  del  sentimento,  conducono  gli  intelletti 
a  una  precoce  maturità,  che  poi  bentosto  diventa  una  precoce  vec- 
chiezza. A  me  sembra  che  i  fanciulli  egli  adolescenti  si  degradino 
con  l'apparire  omaccini;  e  dico  essere  nelle  forze  giovanili  tanto 
maggiore  promessa,  quanto  elle  più  sentano  sé  stesse  incompiute.  » 
Egli  preferisce  l'educazione  all'istruzione.  «  La  notizia  di  molte 
cose  diffuse  tra  molti  sparsamente  ed  a  minuto,  io  non  credo  che 
basti  a  fare  scienza  vera  né  profittevole;  laddove  una  sola  idea 
morale  che  abbia  destato  un  affetto,  basta  ella  sola  a  fecondare  le 
menti  di  tutto  un  popolo,  di  tutto  un  secolo.  »  Alle  madri  mae- 
stre dà  consigli  preziosi:  «  Le  cose  udite,  non  le  insegnate  for- 
mano l'animo  de'fanciulli.  Io  non  credo  pertanto  che  s'avvantaggi 
l'educazione  col  fare  in  tutto  della  famiglia  una  scuola  ;  e,  quando 
la  madre,  per  non  uscire  dall'arte,  comprime  in  sé  la  vivacità  del 
sentimento  materno,  pigliando  aspetto  di  maestra,  e,  ubbidiente 
essa  pure  ad  una  legge  che  non  è  lecito  alterare,  usa  col  bambino 
un  tale  contegno,  come  se  ella  ogni  volta  dicesse  a  lui  —  av- 
verti a  me  ch'io  ti  educo  ;  —  allora  essa  perde  sopra  l'animo  dei 
figli  suoi  l'autorità  dell'affetto.  »  Biasima  poi  con  ragione  l'istru- 
zione troppo  puerile  che  suolsi  impartire  ai  fanciulli,  per  mante- 
nerli più  lungamente  e-  forse  per  tutta  la  vita  cosiffatti  :  «  Un 
gran  numero  degli  educatori  moderni,  coi  frivoli  raccontini  e  i 
drammi  pimmei  e  l'inevitabile  cerimonia  pel  giorno  onomastico 
del  babbo,  direbbesi  quasi  che  si  studino  a  mantenere  l' uomo 
perpetuamente  fanciullo,  giardinieri  che  non  sanno  educare  altro 
che  i  gracili  steli  degli  inutili  fiorellini,  e  impediscono  la  querce 
che  gli  offenderebbe  con  l'ombra.  A  tal  che  da  tutta  questa  let- 
teratura infantile  l'uomo  avrà  poco  e  debole  frutto.  » 

Delle  cinque  Letture  d'economìa  toscana  la  prima  (1824)  di- 
scorre intorno  al  rinvilio  dei  prezzi  nelle  principali  derrate;  per 
riparare  a  tale  inconveniente  economico,  incoraggia  la  cura  di 
certe  coltivazioni  trascurate,  de'pascoli  abbandonati,  e  raccomanda 
uno  studio  maggiore  nella  produzione  de'vini,  affinchè  se  ne  mi- 
gliori la  qualità,  sì  che  possano  meglio  conservarsi  ed  esportarsi. 

Ricordi  Biografici  5 


—  66  — 
Nella  seconda  lettura  (1830)  discorre  delle  condizioni  dell'econo- 
mia agraria  toscana  sul  line  della  dominazione  medicea  e  sul  prin- 
cipio della  Lorenese,  deplorando  la  stupida  servile  ammirazione 
di  una  parte  degli  italiani  per  tutto  ciò  cli'è  straniero^  e  l'orgo- 
glio ignorante  d'un'altra  parte  che  attribuisce  ogni  merito,  ogni 
gloria,  ogni  privilegio  della  natura  e  dell'arte  all'Italia.  Nella 
terza  lettura  (1833),  il  Capponi  discorre  sui  vantaggi  e  svantaggi 
economici  e  morali  del  sistema  toscano  di  mezzeria,  svolgendovi 
le  idee  più  deuiocratiche.  «  Cadde  l'industria  in  Toscana,  cadde 
la  repubblica.  Le  proscrizioni,  le  fughe  dispersero  molti  cittadini; 
le  proprietà  si  raccolsero,  non  dirò  tra  pochi,  sempre  il  nostro 
suolo  fu  libero  da  questo  flagello;  ma  scemò  al  certo  il  numero 
de'proprietarii,  come  si  addice  a  monarchia.  »  E  prevede  fin  d'allora 
que'mali  che  ora  si  deplorano  gravissimi  ne' villaggi  campestri  tosca- 
ni: «  Che  fare  dei  lavoranti  a  giornata?  Dei  pigionali?  questione  fra 
tutte,  la  più  importante,  che  un  giorno  potrebbe  anche  divenir  tre- 
menda. La  terra  non  basta  alle  braccia,  le  quali  chiedono  e  chie- 
deranno di  coltivarla;  ognuno  sente  la  necessità  d'accrescere  tra 
di  noi  le  manifatture;  necessità  ch'è  sentita  anche  dall'agricoltore, 
per  l'aiuto  vicendevole  che  questa  e  le  altre  industrie  tra  loro  si 
danno.  »  Sulla  necessità  di  svolger  maggiormente  le  industrie 
nelle  campagne  toscane  torna  il  Capponi  nella  sua  quarta  lettura 
(1834),  mentre  poi  biasima  l'agricoltore,  il  quale,  contrariamente  al 
principio  economico  della  divisione  del  lavoro,  vuol  fardi  tutto  un 
poco  e  finisce  col  far  tutto  ma'e,  il  manifattore,  il  mercante,  lo  specu- 
latore, il  vinaio,  il  setaiolo;  «  dall'opera  agraria  sopraccaricandola 
di  tanti  ulizi  che  ignora,  di  tante  faccende  incompatibili,  voglia- 
mo trarre  ogni  cosa;  e  poi  ci  lagniamo  che  la  terra  renda  poco?  » 
La  quinta  lettura  tratta  una  delle  questioni  capitali  dell'economia. 
«  Della  vera  e  dell'apparente  distruzione  dei  capitali,  »  e  condan- 
na, com'è  facile  a  prevedersi,  le  dottrine  de'Sansimoniani.  Due 
anni  dipoi,  cioè  nel  1830,  il  Capponi  stendeva  per  l'inglese 
Bowring  alcuni  appunti  sulle  condizioni  dell'economia  agraria  to- 
scana, e  il  Bowring  li  traduceva  pel  suo  Rapporto  intorno  alle 
condizioni  economiche  di  alcuni  Stati  d'Italia,  compilato  per  com- 
missione del  Ministero  britannico  e  pubblicato  a  Londra  nel  1837. 
Vitae  et  non  scholae  dìdicit  scriveva  il  Niccolini  del  Capponi, 
raccomandandolo  al  Foscolo;  e  come  il  Capponi  avea  imparato 
dalla  vita  più  che  dalla  scuola  così  egli  nella  vita  volle  e  seppe 
porro  tutto  se  stesso;  ultimo  rampollo  di  una  stirpe  illustre,  sde- 
gnò riuscirne  l'ignavo  Augustolo;  perciò  la  più  bella  pagina  non 


—  G7  — 
pure  della  genealogia  dei  Capponi,  ma  della  storia  contempora- 
nea toscana  è  rimasta  la  sua;  di  molti  fu  rumorosa  la  gloria,  di 
nessuno  più  legittima  la  stima  universalmente  acquistata.  Atti 
eroici  egli  non  ha,  ch'io  sappia,  compiuti;  ma  visse  bene,  operando 
e  promuovendo  il  bene,  per  ottant'anni;  chi  ha  fatto  meglio  e  più 
di  lui,  domandi  la  corona;  quanto  a  me,  s'io  fossi  del  popolo  fioren- 
tino, non  vorrei,  senza  dubbio,  lasciar  passare  il  14  settembre 
senza  mostrare  d'essermi  ricordato  che  vive  ancora,  in  pensosa 
ed  austera  solitudine,  non  l'ultimo,  se  così  piace  alla  benigna  na- 
tura, ma  il  migliore  de'cittadini  di  Firenze. 


III. 


RAFFAELLO  LAMBRUSCHINI 


^  La  prima  gioventù  di  Raffaello  Lambruschini  fu  oscura  ;  la  sua 
estrema  vecchiaia  è  quasi  deserta.  La  sua  propria  modestia  tolse 
al  Lambruschini  la  gloria  ed  i  vantaggi  degli  splendori  precoci  ; 
la  nostra  presente  ingratitudine  gli  toglie,  in  parte,  la  gloria  ed  i 
vantaggi  degli  splendori  senili. 

Raffaello  Lambruschini  conterà  fra  poco  84  anni.  Egli  nacque 
a  Genova  il  14  agosto  dell'anno  1788,  da  Luigi  Lambruschini  ed 
Antonietta  Levrero  ;  fece  i  primi  studii  nella  sua  città  natale,  e  fu 
quindi  avviato  alla  carriera  ecclesiastica.  Nell'anno  1801,  suo  padre 
pose  stanza  in  Livorno;  quattro  anni  di  poi  il  giovine  abate  si  recava 
a  Roma  per  compiervi  gli  studii  ecclesiastici,  quindi  a  Orvieto, 
presso  uno  zio  paterno,  vescovo  in  quella  città,  da  non  confondersi 
con  un  altro  zio  cardinale,  personaggio  che  divenne  poi  famoso  nella 
storia  della  reazione  pontificia;  ed,  in  quel  tempo,  il  giovine  Raffaello 
potè  pure  valersi,  per  gli  studii,  dei  consigli  e  della  guida  del  cele- 
bre Angelo  Mai.  Gli  avvenimenti  politici  dell'anno  1812  tra- 
volsero pure  e  compromisero  1'  abate  Lambruschini,  che  dovette 
esulare  in  Corsica.  Di  ritorno  dall'esiglio,  ei  rivide  Roma  ed  Orvie- 
to; ma,  per  ritornare  nel  181G  a  vivere  fra  i  suoi,  che  intanto  si 
erano  raccolti  in  una  loro  villa  di  recente  acquistata,  detta  San 
Gerbone  (l),  presso  Figline  nel  Valdarno  Superiore,  edificata,  per 
quanto  pare,  nel  secolo  decimoquarto  dalla  famiglia  Franzesi,  di- 


(I)  Soggiorno,  scriveva  Mario  Pieri,  ben  più  da  poeti  e    pittori,    che 
da  freddi  economisti. 


—  69  — 
venuta  nel  decimoquinto  proprietà  dei  Serristori,  ed  infine  dei  celebri 
Salviati.  In  questa  villa  della  sua  famiglia,  e  poi  sua,  Raffaello 
Lambruschini  vive  da  più  che  mezzo  secolo  operando  il  bene,  e 
dividendo  le  sue  sapienti  cure  educative  fra  le  tenere  piante  del 
suolo,  destinate  a  ben  vegetare,  ed  i  fanciulli,  le  tenere  piante 
della  casa,  allevate  da  lui  a  ben  vivere. 

Il  nome  di  Raffiiello  Lambruschini  non  sarebbe  tuttavia  forse  uscito 
mai  dall'operoso,  ma  necessariamente  limitato  campo  delle  sue  pri- 
vate beneficenze,  ove,  sopra  il  suo  trentottesimo  anno,  il  mode- 
sto agronomo  di  San  Gerbone  non  avesse  avuto  la  buona  sorte  di 
incontrarsi  in  quell'editore  esemplare  che  fu  Giampietro  Vieusseux. 
Come  quell'incontro  sia  avvenuto,  ci  narrano  il  Tommaseo  e  il  I.jam- 
bruschini  medesimo  ne'singoli  ricordi  consacrati  da  essi  al  loro  com- 
pianto benefattore.  Al  Lambruschini,  scrive  l'illustre  dalmata. 
«  non  pareva  né  disagio,  né  vergogna  venire  dalla  sua  solitudine 
di  Figline  a  Firenze  e  seduto  tra  gli  scolari,  ascoltare  le  lezioqi 
che  dava  di  botanica  il  prof.  Passerini.  Lo  additò  il  Passerini  al 
Vieusseux,  come  idoneo  all'opera  del  giornale  ideato;  e  questi 
andò  a  visitarlo.  Cercando  (mi  diceva  egli,  anni  dopo)  un  agro- 
nomo, ho  trovato  un  uomo.  Non  Giornale  de'coììtadini  come  voleva 
dapprima  il  Vieusseux,  ma  propose  il  Lambruschini  che  Agrario 
s'intitolasse.  »  Udiamo  ora  le  parole  stesse  del  venerando  solitario 
di  Figline.  «  Ecco  un  bel  giorno  veggo  apparire  persona  che  cerca 
di  me.  Uomo  già  provetto,  ma  non  vecchio  ;  gentile  e  franco  di 
quella  gentilezza  e  di  quella  franchezza  benevola  e  disinvolta  che 
viene  dall'animo  buono  e  dall'aver  lungamente  usato  con  ragguar- 
devoli persone.  Era  il  Vieusseux.  lo  lo  accolgo  come  si  accoglie 
chi  ci  entra  subito  nell'animo,  chi,  non  mai  conosciuto,  pur  ci 
pare  aver  conosciuto  sempre.  Si  parla;  e  un  Giornale  Agrario  è 
il  soggetto  del  conversare,  perchè  era  il  fine  della  visita.  Io 
espongo  le  difl3coltà  dell'opera  ;  il  Vieusseux  le  appiana  ;  ed  io 
prometto  esporre  i  miei  pensieri  in  una  lettera  a  lui.  La  mia 
lettera  è  stampata  nel  fascicolo  69  (MV Antologia,  settembre  del  18-25. 
Era  quello  il  primo  scritto  eh'  io  mandassi  alle  stampe ,  e  avevo 
toccato  il  trentottesimo  anno  d'età.  Oggi  a  stampare  non  si  aspetta 
tanto  (1).»  Accettata  la  proposta  del  Vieusseux  dal  Lambruschini 


(1)  Il  venerando  nomo  cel  perdoni,  ma  sembra  a  noi  ch'egli  potesse 
risparmiarsi  questo  ioutile  frizzo,  il  quale,  in  ogni  modo,  riesce  men 
bello    inteso    qui    da    Ini.    Noi     possiamo    ammirare    la    modestia    che 


—  70  - 
la  pubblicazione  del  Giornale  Agrario,  come  tante  altre  nobili 
imprese  letterarie  tornate  poi  ad  onore  de'  nostri  studii,  fu 
discussa  e  ordinata  nel  palazzo  di  Gino  Capponi,  insieme  con 
Lapo  de'Ricci  e  il  marchese  Cosimo  Ridolfì.  Il  primo  fascicolo  del 
Giornale  Agrario  vide  la  luce  in  Firenze  sul  principio  dell'anno 
1827.  Era  preceduto  da  Due  parole  ai  letlori,  del  Lambruschini, 
le  quali  la  Biblioteca  italiana  del  maggio  1827  annunziando,  si 
affrettava  a  trovare  scritte  «  con  intendimento  e  con  una  unzione 
omiletica  »;  pretesto  a  tale  giudizio  dell'  austriacante  giornale 
essendo  stata  un'esortazione  ai  parroci  di  campagna,  con  la  quale, 
conchiudendo  il  proemio,  il  Lambruschini  tentava  innamorarli  di 
più  delle  cure  campestri,  perchè  meglio  istruissero  e  guidassero 
il  campagnuolo  ignorante.  Il  Lambruschini  aveva,  giovinetto,  as- 
sunto il  sacerdozio  per  compirne  la  missione  evangelica  e  non 
per  godere  delle  larghe  prebende  che  a  lui  nipote  di  due  prelati 
potenti  poteano  esser  facilmente  riservate  ;  e  la  sua  missione  di 
prete  egli  non  tradi  mai,  neppur  quando  parve  agli  Evangelici 
volersi  staccare  dal  cattolicismo  romano,  per  iniziar  quelle  rifor- 
me che  rendono  ora  famosi  i  nomi  dei  Dòllinger  e  dei  Padri  Gia- 
cinti (1),  riforme  che  si  sarebbero  forse   operate    fin    d'allora    in 


ritenne  per  tanti  anni  il  Lambruschini  dal  versare  nel  pubblico  i  te- 
sori del  suo  lucido  e  bene  misurato  e  ben  nutrito  ingegno,  ma  a  patto 
che  lo  stesso  Lambruschini  ci  permetta  di  desiderare  che  il  suo  esem- 
pio sia  seguito  da  pochi;  poicliè,  innanzi  ai  38  anni,  si  può  trovar 
tempo  a  studiare,  scrivere  opere  più  che  mature,  invecchiare  e  morire; 
la  vita  del  Leopardi,  fra  tante  altre,  informi. 

(\)  Trovo  la  notizia  di  questo  fatto,  esposto  con  benevolenza,  nel 
primo  volume  delle  Memorie  sull'Italia  e  specialmente  sulla  Toscana 
del  Montanelli,  Torino  1853.  Lo  zelante  moderato  F.  A.  Gualterio  av- 
vertì tosto  il  Lambruschini  delle  parole  scritte  dal  Montanelli,  invi- 
tandolo a  spiegarsi.  Il  24  Giugno  1853,  il  Lambruschini  diresse  al  Gual- 
terio una  lettera  che  fu  nello  stesso  anno  pubblicata  a  Genova  dal  Pel- 
las,  ove  il  Lambruschini  protesta  non  aver  mai  voluto  separarsi  dalla 
Chiesa  cattolica  (non  dice  tuttavia  dalla  romana)  ;  ma  sul  fine  del  2.  voi. 
delle  Memorie,  il  Montanelli  che  intanto  avea  avuta  notizia  della  lettera 
scritta  per  suggestione  del  Gualterio,  reca  in  prova  delle  tendenze  ri- 
formiste del  Lambruschini  sei  pagine  di  ricordo  scritte  in  francese  dal 
testimonio  Carlo  Eynard  alle  quali  rinvio  per  sua  istruzione  e  per  giu- 
stificazione del  Montanelli,  il  lettore;  dovere  d'imparzialità  m'impone 
tuttavia  qui  l'obbligo  di  soggiungere  le  parole  che  lo   stesso   Lambru- 


—  7L  — 

Italia,  per  l'autorità  grande  del  solo  Lambruschini,  se  la  comme- 
dia lil)eralesca  rappresentata  da  Pio  IX  appena  assunto  al  pon 
ti  Acato,  non  avesse  a  un  tratto  riaccostato  alla  Chiesa  cattolica 
romana  i  nuovi  dissidenti,  e  se  gli  errori  commessi  dalla  demo- 
crazia italiana  dopo  il  tradimento  dei  prìncipi  mascherati  da 
demagoghi  non  avesse  alienato  dalle  novità,  e  quindi  dal  desi- 
derio delle  riforme,  quei  liberali  di  parte  moderata,  fra  i  quali  era 
pure  il  Lambruschini,  liberali  sinceri,  nell'animo,  ma  timidi  e  fa- 
cili a  stancarsi  all'opera,  e  che,  del  resto,  s'erano  sempre  tenuti 
paghi  di  promuovere  quella  ch'essi  battezzavano  col  nome  di 
agitazione  legale,  e  che  si  potea  forse  dir  meglio,  in  piii  casi, 
agitazione  per  non  parere. 

Il  Lambruschini  era  prete,  e  prete  si  mantenne  così  nella  con- 
dotta della  sua  vita  come  ne'  suoi  scritti,  sempre  :  del  che  nes- 
suno che  abbia  in  pregio  gli  uomini  d'un  sol  carattere  potrebbe 
non  lodarlo  ;  la  religione  è  in  cima  d'ogni  suo  pensiero  ed  affetto  ; 
ogni  altra  cura  diviene  a  lui  secondaria,  ed  alla  religiosa  aeve  ri- 
maner sottomessa.  È  questo,  senza  dubbio,  un  modo  elevato  di  con- 
siderare la  vita,  ed  è  il  suo  ;  merita  pertanto  rispetto  chi  1'  ha 
costantemente  osservato,  e  chi  da  quel  principio  che  pose  salde 
radici  nell'animo  di  lui  seppe  trarre  tanta  e  cosi  generosa  eloquenza. 
Ma,  come  noi  rispettiamo  volentieri  i  moderati  finché,  per  eccesso 
di  moderazione,  non  trascendano  all'intolleranza  d'ogni  moto  più 
rapido,  più  ardente,  più  vitale,  che  possa  farsi  intorno  ad  essi, 
cosi,  rispettando  il  principio  de'  principii  che  governa  pure  al 
di  fuori  tutta  l'esistenza  del  Lambruschini,  non  desideriamo  poi  che 
esso  sia  esagerato  a  nostro  danno,  e  finisca  col  dannare  come  re- 


scliini  mi  scriveva  da  San  Gerbone  a'  6  di  giugno  di  quest'anno:  «  una 
diceria  senza  fondamento,  la  quale  io  già  ribattei  in  quella  lettela  me- 
desima scritta  da  me  al  Gualtiero  che  ella  cita.  Io  intendo  parlare  del 
concetto  die  si  'ice  aver  io  espresso  intorno  al  concilio  di  Trento.  Io 
non  ho  qui  presente  un  esemplare  di  quella  mia  lettera  al  Gualterio  ; 
ma  mi  ricordo  bene  aver  anzi  io  dichiarato  di  non  potersi  trattare  di 
riforme  nella  Chiesa  cattolica  se  non  movendosi  appunto  dalle  dottrine  di 
essa  (i  Dòllinger  e  i  Padri  Giacinti  non  dicono  punto  diverso).  Vorrei  aver 
qui  una  copia  di  quella  scrittura  per  far  vedere  come  io  abborrivo  da 
da  ogni  irregolare  novità.  Discuiendo  su  questo  tema  potrei  bene  io 
aver  parlato  del  Concilio  di  Trento  con  quella  onesta  e  Aliale  libei'tù 
che  includo  la  riverenza  (nessuno  ciò  pose  in  dubbin\  od  è  concessa  al 
Teologo  e  al  buon  cattolico.  Ma  nulla  più.  » 


—  72  — 

probi  e  come  perduti,  quanti,  sinceri  essendo,  credono  di  dovere 
procedere  più  sciolti  e  per  vie  più  ardue,  nella  ricerca  del  vero. 
Nelle  opere  educative  del  Lambruschini  torna  spesso  il  prezioso 
consiglio  che,  per  arrivare  d'ogni  cosa  a  formarsi  un  criterio  pros- 
simo al  vero,  convien  vedere  e  osservare,  provare  e  riprovare. 
È,  per  l'appunto,  quanto  s'adoprano  di  continuo  a  fare  quelle  scienze 
positive,  contro  le  quali  in  una  recente  dispiacevole  polemica  sol- 
levatasi in  Firenze,  intorno  alla  probabile  prima  discendenza  del- 
l'uomo, il  Lambruschini  lanciava  l'anatema.  E,  per  questa  volta,  il 
sacerdote  cristiano  ci  sembra  avere  oltrepassato  i  limiti  del  suo 
mandato  religioso  ;  poiché  nessuna  religione,  a'  suoi  principii, 
predica  intolleranza,  e  quella  in  cui  fummo  allevati  forse  meno 
d'ogni  altra  ;  perchè  dunque  questo  pronto  sgomentarsi  per  ogni 
antico  idolo  che  si  venga  a  rovesciare?  Voi  dite  bene  che  la  reli- 
gione è  innata  nel  cuore  dell'uomo;  ^a  quella  eh'  è  innata,  quella 
nessuno  la  può  toccare  ;  ciò  che  si  sfrantuma  è  invece  l'esterno 
dell'edifìcio  ;  fuori  delle  anguste  forme  della  rivelazione  lo  spirito 
s'alza  e  si  muove  di  più;  ed  è  pure  in  questo  agile  spirito  che 
voi  ponete  il  vostro  fondamento  religioso,  ed  è  di  esso  che  v'aiu- 
tate per  innalzare  a  gi-ado  a  grado  il  vostro  Dio.  Voi  non  potete 
rassegnarvi  a  pensare  l'uomo  sollevato  a  un'altezza  quasi  divina 
da  una  forma  ed  esistenza  primitiva  quasi  brutale;  preferite  per- 
tanto negare  il  progresso,  confessandovi  decaduti  da  un  essere 
più  alto  e  più  perfetto  di  voi  ;  ma  vediamo  ed  osserviamo,  ma 
proviamo  e  riproviamo  la  storia  e  la  natura,  vi  si  può  opporre 
con  parole  vostre,  e  se  non  arriveremo  ancora  a  r.onchiudere  che 
il  vero,  l'ultimo  vero  è  trovato,  ci  saremo  accostati  di  molto  ad 
esso,  rimuovendo  anzi  tutto  dalla  nostra  via  quanto  si  prova  e 
quanto  si  può  provare  falso;  o,  se  si  preferisca  invece  non  pene- 
trar nulla  di  nulla,  e  chiudere  gli  occhi  per  creder  tutto  adorando, 
anche  una  tale  libertà  si  vuol  concedere  e  rispettare,  a  patto  che 
non  si  debba  poi  tutti  fare  il  medesimo,  e  che  chi  ha  sguardo 
d'aquila  possa,  volendo,  dall'alto  delle  sue  rupi  solitarie,  conti- 
nuare ad  appuntarlo  fieramente  nel  sole. 

Ma,  nel  Giornale  Agrario,  il  Lambruschini  non  faceva  altro,  in 
somma,  se  non  esercitare  nobilmente  un  suo  nobile  diritto,  quando 
preposto  a  scrivere  di  cose  agrarie,  con  pensiero  originale  che  gli 
era  venuto  su  dal  cuore,  ei  si  proponeva  "non  solo  d'istruire  ma 
eziandio  di  educare  il  contadino,  rivolgendosi  pure  alla  carità  in- 
telligente de'buoni  parroci,  perchè  in  quest'opera  di  luce  e  d'amore 
gli  dessero  o  piuttosto  gli  crescessero  forza. 


—  73  — 

La  Biblioteca  ilaliana,  anche  per  quella  volta  l'avea  dunque 
sbagliata;  e  le  Omelie  del  Lambruschini,  oltre  agli  scritti  di  lui 
competentissimi  intorno  all'allevamento  de'bachi,  e  ad  altri  argo- 
menti speciali  d'agronomia,  trattati  da  maestro,  insieme  coi  dia- 
loghi del  De  Ricci  e  coi  consigli  agricoli  del  Ridolfi,  fecondati 
poi  in  altre  opere  a  profitto  dell'  agricoltura,  ebbero  per  risul- 
tato che  il  contadino  si  trovi  ora  forse  men  villano  qui  che  al- 
trove; non  piccolo  vantaggio,  chi  consideri  la  difficoltà  quasi  di- 
sperata dell'impresa  di  dissodare  un  terreno  non  tanto  vergine 
quanto  ribelle  ad  ogni  maniera  di  coltura. 

Il  Lambruschini  era  nato  coltivatore  per  eccellenza,  egli  avea 
incominciato  per  coltivar  bachi,  e  trattone  fuori  della  buona  seta  ; 
continuò,  coltivando  fanciulli,  e  ne  trasse  fuori  degli  uomini.  Fu 
il  Vieusseux  il  quale,  come  primo  l'aveva  avviato  a  scrivere,  l'av- 
viò pure  ad  educare,  affidandogli  l'educazione  ed  istruzione  del 
maggiore  de'  suoi  nipoti,  e  dando  cosi  principio  a  quell'Istituto,  da 
cui  uscì  la  Guida  dell'Educatore.  Il  manifesto  della  Guida  uscì  il 
20  novembre  del  1835;  la  prima  dispensa  ne  apparve  nel  gen- 
naio 1836.  Cito  queste  date,  perchè  importano  nella  storia  della 
nostra  coltura,  il  Lambruschini  essendo  stato  il  primo  a  inten- 
dere, ampliare,  commentare,  applicare,  fecondare  fra  noi,  per  mezzo 
del  suo  giornale,  i  metodi  educativi  del  Pestalozzi,  del  Girard  e 
del  Naville,  il  primo  a  scrivere  in  modo  pratico,  alto  e  continuato, 
d'educazione.  Dopo  di  lui,  si  fecero  più  tentativi  analoghi,  che  gio- 
varono essi  pure  al  progresso  dell'insegnamento  fra  noi  ;  ma  la 
spinta  l'avea  data  il  Lambruschini,  con  lo  studiar  prima  nel  si- 
lenzio dell'osservazione  e  degli  esperimenti  la  questione  educativa, 
e  quindi  esporla  nel  modo  più  signorilmente  disinvolto  ed  affet- 
tuoso ai  meno  intendenti. 

«  L'abate  Lambruschini,  scrive  il  Tommaseo  riferendosi  all'  anno 
1830,  uso  a  riguardare  con  occhio  amorevole  l'intelligenza  gracile 
dell'infante  e  la  civile  moralità  dell'intera  nazione,  il  Lambruschini 
che  ne'suoi  recenti  discorsi  ai  novelli  maestri  applica  rettamente 
al  primo  insegnamento  il  principio  dell'Aquinate  e  del  Rosmini 
intorno  alla  natura  della  mente  umana,  procedente  sempre  dal  co- 
mune e  indeterminato  al  particolare  e  al  definito;  e  che  sopra 
l'arte  del  leggere  a  senso,  dappertutto  falsata,  dice  cose  di  quella 
feconda  semplicità  che  concilia  il  vero  col  bello  in  cara  armonia; 
il  Lambruschini  già  sin  d'allora  sui  più  pronti  e  ragionevoli  spe- 
dienti  dell'insegnare  a  leggere  iniziava  quelle  proposte  che  viene 
nella  sua  vivace  vecchiezza  continuando.  »  Chi  desideri  ora    tro- 


—  74  — 
vare  in  breve  spazio  raccolti  i  principali  principii  insegnativi  che 
da  quarant'anni  viene  il  Lambruschini  diffondendo  per  mezzo  dei 
suoi  libri  e  giornali  nelle  famiglie  e  nelle  scuole  d'Italia,  cerchi 
del  bel  volume  uscito  di  recente  in  Firenze  (1),  dedicato  a  Gino 
Capponi,  comprendente  quattro  Bialoglii  che  intorno  hW Istruzione 
l'Autore  suppone  di  fare  con  alcuni  amici  per  riassumersi,  nella 
sua  villa  di  San  Gerbone,  e  le  sei  lezioni,  da  lui  recitate  all'Isti- 
tuto di  Studii  Superiori,  negli  anni  1868  e  1869  come  professore 
di  pedagogia.  Inaugurando  ottuagenario  una  cattedra  alla  quale 
la  scarsa  carità  del  governo  italiano  lo  costringeva  per  giustifi- 
care uno  stipendio  che  egli  aveva  diritto  di  ricevere  come  ispet- 
tore generale  delle  scuole  elementari,  ma  che  il  governo  non  cre- 
deva potergli  più  attribuire,  avendo,  pe'soliti  raggiri  degl'imi  che 
comandano  ai  potenti,  un  bello,  no,  anzi,  un  brutto  giorno,  soppresso 
l'impiego,  scusavasi  l'esordiente  non  già,  come  si  suole,  della  po- 
ca, ma  della  troppa  esperienza,  non  già  come  suolsi^  della  gioventù 
ignara,  ma  della  vecchiaia  fatta  uggiosa  e  disutile.  Eppure  i  mae- 
stri e  le  maestre  che  erano  presenti  alle  conferenze  della  vecchia 
loro  Guida,  ebbero  a  sentirsi  ringiovanire  nel  mirare  il  caro  vec- 
chio onorato,  curvo  della  persona,  ma  dritto,  alto  e  sovrano  sem- 
pre col  pensiero  che  spaziava  libero  e  sereno  in  mondi  così  pieni 
di  poesia,  che  quel  suo  corso  di  pedagogia  è  riuscito  ad  un  tempo 
un'eloquente  Poetica. 

Ma,  per  poter  determinare  in  una  forma  così  ordinata  e  lette- 
rariamente perfetta  i  suoi  pensieri  pedagogici,  dovette  il  Lambru- 
schini far  lungo  esperimento  di  sé  non  pur  nell'arte  educativa, 
istruendo  egli  medesimo,  promuovendo,  dirigendo,  sorvegliando 
in  Toscana  scuole  d'ogni  maniera,  per  il  popolo,  per  i  fanciulli, 
per  le  donne;  ma  nell'arte  dello  scrivere  ancora;  nella  quale  arrivò, 
in  breve,  a  tanta  fama  di  eccellenza  che,  per  quanto  si  rileva  da  una 
lettera  nei  dicembre  del  1846  dal  Giusti  indirizzata  al  Capponi, 
lo  stesso  Giusti,  sopra  un  solo  cenno  che  aveva  dato  il  Lambru- 
schini al  Criorgini  (2)  rimediava  da  cima  a  fondo  con  lievissimi  toc- 


(1)  II  titolo  del  libro  è  il  seguente:  Bdla  istituzione,  dialoghi  di  Raf- 
faello Lambruschini,  con  la  giunta  d'alcune  lezioni  dette  nell'Istituto'di 
Studii  Superiori  in  Firenze. 

(2)  Il  Giorgini  figura  pure  presso  il  Lambruschini  in  un'altra  occa- 
sione, della  quale  abbiamo  più  sopra  lasciato  ricordo.  «  Un  jour,  scrive 
il  citato    Charles    Eynard,    pendant  l'hiver  de  1845,  Giorgini,    entrant 


-  75  - 

chi  il  piglio  troppo  confidenziale  deWa.  Rassegnazione,  e  l'Accademia 
della  Crusca  non  pur  accolse,  sebbene  tardi,  quantunque  non  toscano, 
il  Lambruschini  tra  i  suoi  socii  residenti,  ma  volle  ancora  onorarlo 
con  la  dignità  di  arciconsolo.  Le  conoscenze  del  Lambruschini  in 
fatto  di  economia  pratica,  pubblica  e  privata  (alla  quale  ei  dedicava 
pure  buon  numero  di  scritture  pregevolissime)  gli  meritarono  nel 
1848  la  fiducia  del  popolo  clie  lo  volle  suo  deputato  all'Assemblea 
toscana  (1),  come  già  gli  avean  meritato  per  tempo  quella  de'Geor- 
gofili,  in  mezzo  ai  quali  lavorò  con  onore  e  seguito  per  lunga 
serie  d'anni;  e  piìi  tardi  lo  fecero  degno  di  sedere  nel  Senato  del 
Regno  d'Italia, 

Il  Lambruschini  vive  ora  ritiratissimo.  Nella  nostra  fanciul- 
lezza, ciascuno  di  noi  s'è  educato  il  cuore  e  scaldato  a  poesia 
l'ingegno  nelle  Letture  per  i  fanciulli  e  nelle  Letture  giova- 
nili ch'egli  stesso  avea  scritto  per  tirarci  su  galantuomini;  e 
gli  altri  libri  per  la  fanciullezza  pubblicati  negli  anni  appresso  in 
Italia,  quelli  in  particolare  di  Pietro  Thouar,  spirarono  tutti  più 
0  meno  dalla  mente  e  dal  cuore  del  nostro  primo,  più  caldo,  e 
più  operoso  educatore;  dimenticare  que'beneficii  ricevuti  nella  no- 
stra prima  età  sarebbe  ora  sconoscenza  indegna,  e,  poiché  la  gra- 
titudine vuoisi  che  piaccia  anco  a  Dio,  non  potendo  off"rire  altro 
omaggio  al  nostro  solitario  antico  benefattore  di  Figline,  volgia- 
mo a  lui  almeno  un  pensiero  d'affetto;  chi  ci  ha  insegnato  cosi 
bene  a  fare  i  primi  passi  non  si  trovi  solo  nella  sua  età  cadente, 
a  tentare,  sulla  terra  che  gli  fugge,  i  suoi  passi  estremi;  mille 
mani  di  giovani  buoni  e  gagliardi  sian  pronte  a  rialzarlo  caduto, 
e  mille  cuori  ben  fatti  mostrino  figliale  sollecitudine  a  consolarlo 
afflitto;  egli  ci  ha  chiamati  a  sé  e  ha  riscaldato  il  cuore  di  noi 
fanciulli;  non  assideriamogli  nel  dolore  l'estrema  vecchiezza,  colla 
nostra  presuntuosa  indifferenza,  e,  peggio  ancora,  col  nostro  sto- 


cliez  Montanelli,  nous  dit:  Vous  ne  savez  pas:  Lambruschini  m'écrit 
qu'il  va  venir  à  Pise  et  m'envoyo  en  attendant  un  mémoire  sur  les  abus 
qu'il  Youdrait  réformer  dans  l'Église.  Figurez-vous  qu'il  se  propose 
tout  simplement  de  rayer  de  l'Histoire  Eccl^siastique  tous  les  actes  du 
Concile  de  Trente,  et  de  reprendre  l'Église  à  cette  epoque,  où  les  abus 
n'étaient  point  encore  stereotipe.?  par  le  dit  Concile,  et  il  m'engage  à 
le  communiquer  à  mes  coUégues  de  la  Faculté  de  Théologie  !  » 

(1)  Il  Lambruschini  votò  sempre  con  la  parte  moderata,  per  la  quii  le 
scrisse  pure  nel  giornale  La  Patria. 


-  76  — 
lido  disprezzo;  ei  non  può,  senza  dubbio,  avere  gli  ardimenti  nostri; 
ma  nulla  oseremmo  ora  forse  noi  s'egli  non  avesse  durata  molta 
pazienza  a  tenerci  su  ritti  nella  prima  età;  la  quercia  quando  è 
adulta  sfida  i  fulmini  e  gli  uragani;  ma  non  si  alzerebbe  però  se, 
nel  suo  primo  germogliare,  non  l'assistesse  alcuna  mano  benefica 
e  vigorosa  per  non  lasciarla  piegare  alla  furia  dei  primi  venti 
contrarli. 


IV. 


CESARE  CANTU 


Calomniez,  calotimiez,  il  en  resterà  toujours  quelque  chose  ;  è 
ancora  del  Voltaire  questa  sentenza;  e  nessuno  ne  ha  sentito  più  di 
Cesare  Cantù  la  verità  e  l'amarezza. 

La  calunnia  lo  perseguita  nella  vita  da  quarant'anni  e,  dov'essa 
fu  tanto  operosa,  dovea  finalmente  mantener  vivo  alcuno  de'suoi 
mostricini.  Innanzi  alla  calunnia,  la  vittima  calunniata  può  appi- 
gliarsi a  più  d'un  partito,  ma  sempre  con  la  certezza  di  non  uscir- 
ne mai  perfettamente  sana  ;  cliè  non  tutti  hanno  la  fede  e  il  san- 
gue freddo  del  gaio  Humbug,  per  ripetere  allegramente  con  lui  : 
«  La  calomnie  c'est  comme  la  rougeole;  quand  elle  sort,  on  en 
guérit;  quand  elle  rentre^  on  en  meurt  »;  ma,  quando  la  rosolia  vien 
fuori,  è,  invece,  attaccaticcia  e  si  propaga,  e  guai  a  non  sapersene 
ben  riguardare  in  tempo  o  a  farle  pigliare  aria.  Tuttavia,  confesso 
che  il  paragone  di  Humbug  mi  piace,  e  che,  se  molti  anco  nel 
nostro  paese  la  pensassero  a  quel  modo,  la  merce  della  calunnia 
subirebbe  un  gran  ribasso  e  sul  mercato  dell'  opinione  si  scon- 
terebbe male. 

Altri  partiti  rimangono  ancora  all'uomo  calunniato.  Il  meno 
pio,  ma  il  più  efiìcace,  il  più  pronto,  il  più  naturale  consiglio. 
quando  si  conosce  il  calunniatore,  parrebbe  l'andargli  sopra  come 
si  può  e  il  castigargli  al  primo  incontro,  poco  cavallerescamente , 
r  ignobile  ceffo  mendace;  giustizia  che  falla  di  rado,  poiché, 
in  regola  generale,  chi  ha  ragione  è  sempre  tre  volte  più  forte 
di  chi  ha  torto;  giustizia  all'americana;  ma,  noi  altri  in  Europa, 
siamo  più  innanzi  di  così;  il  barbaro  medio  evo  ci  ha  insegnato 
cortesia;  all'uomo  stesso  che  disprezziamo  e  che  ci  fa  schifo,  dob- 


—  78  - 
biamo,  per  riguardi  sociali,  gettare  pulitamente  un  guanto  di 
sfida,  e  provocarlo,  accademicamente,  come  un  nostro  uguale,  ad  una 
gara  d'armi;  se  il  nostro  calunniatore,  dopo  averci  a  suo  agio 
tolto  l'onore,  avrà  pure  la  fortuna  insolente  di  toglierci  la  vita, 
egli  rimarrà  un  fior  di  gentiluomo,  ed,  a  difendere  l'onor  nostro, 
provvederanno  poi  i  nostri  figli  deserti,  se  la  fame  concederà 
loro  di  maturarsi  fino  all'età  non  cristiana  delle  vendette. 

Né  l'uno  né  l'altro  de'due  partiti  maneschi  piacque  al  signor  Cantù, 
quantunque  è  assai  probabile  che,  s'egli,  fin  dai  primi  attacchi,  si  fosse 
fatto  un  po'  di  giustizia  con  le  sue  mani,  per  cacciare  i  tafani 
da  sé,  questi  non  gli  avrebbero  posto  un  assedio  così  perverso, 
così  regolare,  e  cosi  ostinato,  come  hanno  fatto  con  grande  mole- 
stia e  detrimento  di  lui. 

Esclusa  la  giustizia  sommaria ,  rimangono  i  tribunali ,  ove 
il  calunniato  ha  per  lo  più  lo  svantaggio  d' essere  esposto  ad 
una  nuova  e  peggior  berlina,  poiché  il  calunniatore,  per  non  re- 
stare al  disotto,  si  trova  costretto  a  torturare  la  sua  vittima,  fru- 
gandone tutte  le  debolezze  più    occulte  e  malignando  su  tutte. 

Rassegnarsi  dunque  al  silenzio?  Ma  il  silenzio  s'interpreta 
troppo  spesso  per  segno  di  consenso  o  per  segno  di  paura;  il 
savio  Humbug  tuttavia   tacerebbe. 

Opporre  parole  a  parole  ?  Ma  se  il  libello  che  calunnia  si  legge 
da  mille,  l'apologia  si  legge  da  uno.  Pure  al  Cantù  parve  an- 
cora ottimo  partito  quello  di  assumere  egli  stesso  la  propria  di- 
fesa; se  non  che,  egli  non  seppe  sempre  difendersi  bene  ed  a 
tempo.  Anzi  tutto,  ei  non  pesò,  in  ogni  tempo,  con  mente  ab- 
bastanza serena ,  il  valore  e  l' importanza  delle  accuse  che  gli 
erano  dirette,  così  che  talora  trattò  come  calunniosi  certi  giudizii  i 
quali  ei  poteva  o  riceversi  in  pace  come  avvisi  salutari,  o  facil- 
mente rivolgere  in  proprio  onore  e  vantaggio.  Il  Cantù  si  dolse 
egualmente  de'cattolici  che  lo  accusavano  come  eretico,  e  de'libe- 
rali  che  lo  trattavano  come  uomo  in  ritardo  col  proprio  tempo; 
non  esaminò  sempre  se  le  opere  proprie  non  offrissero  qualche 
appiglio  0  pretesto  a  questa  varietà  di  giudizii  e,  nel  rilevare  invece 
que'  giudizii  stessi,  per  provare  ai  clericali  ch'ei  non  dissentiva 
da  loro,  e  ai  liberali  ch'egli  avea  sempre  pensato  liberalmente, 
pose  in  maggiore  evidenza  la  propria  apparente  contradizione.  E 
dico  apparente,  a  studio;  poiché,  il  Cantù  poteva  benissimo  rima- 
nere, al  pari  d'altri  illustri  scrittori  italiani  che  l'acre  morso  della 
calunnia  non  ha  mai  offesi,  buon  guelfo  e  buon  patriota  ad  un 
tempo;  gli  scritti  di  lui  non  rendevano   specie  d'un   uomo  muta- 


-  79  - 
bile,  ma  solo,  di  una  ragione  che  si  studia  di  porsi  in  equilibrio 
col  vero  e  di  un  animo  appassionato  che  s'innamora  del  bello  e 
si  disgusta  del  brutto  ovunque  il  trovi.  Fu  l'avvocato,  fu  il  pole- 
mista che  contribuì  a  crescere  nemici  allo  scrittore,  e  lo  espose 
in  breve  alle  più  nere  calunnie. 

Nel  render  conto  pertanto  di  quello  che  il  Cantù  scrisse  e  di 
quello  ch'ei  fece  nella  sua  vita  di  più  rilevante,  ho  a  distinguere 
in  lui,  per  essere  pienamente  giusto,  due  uomini  essenziali;  lo 
scrittore  glorioso  ed  il  suo  non  sempre  felice  apologista  e  riven- 
dicatore. 

Il  Cantù  fu  sempre  buon  credente  e  buon  italiano  ;  tutta  la 
sua  vita  n'é  continuo  documento;  ed  i  giovani  lettori  saranno 
pronti,  io  spero,  a  persuadersene,  leggendo  queste  poche  pagine  e 
meglio  ancora ,  ritornando  con  animo  sereno ,  sopra  le  opere 
tutte  dello  storico  di  Brivio.  E  pure,  sarebbe  assai  diHìcile,  su 
dieci  italiani  che  ragionino  insieme  del  Cantù,  il  trovarne  due 
soli  disposti  a  rendergli  giustizia;  egli  s'è  alienato,  con  le  sue  fre- 
quenti sferzate  al  -pubblico,  dal  quale  si  chiama,  quasi  in  ogni  suo 
nuovo  lavoro,  indegnamente  offeso,  quel  pubblico  stesso  che  ne 
compra,  ne  legge  e  n'ha  in  pregio  gli  scritti.  Con  l'esagerarsi  fin 
da  principio  il  numero,  l'acrimonia  e  l'ostinazione  malvagia  de'suoi 
nemici,  egli  ha  forse  contribuito  a  crearsene  dei  nuovi,  ed  a  la- 
sciarsi credere  brontolatore  infinito,  astioso  ed  insocievole. 

S'egli  avesse  invece  fatto  tacere  ne'suoi  lavori  storici  e  lette- 
rari ogni  suo  privato  risentimento,  avrebbe  reso  più  sereno  e  più 
autorevole  il  proprio  giudizio,  tolto  a'malevoli  il  pretesto  di  molte 
nuove  accuse  ch'essi  fondano  non  tanto  sugli  scritti  originali  e 
fondamentali  del  Cantù,  quanto  sulle  querimonie  soggettive  alle 
qualij  egli,  mal  dominandosi,  tratto  tratto  s'abbandona;  querimo- 
nie ora  dirette  contro  gli  amici  ora  contro  gli  avversarli,  che 
stancano  naturalmente  avversarli  ed  amici,  e  condannano  ora  il 
Cantù  ad  un  ingrato  isolamento  Egli  poteva  invece  riserbare  ad 
uno  scritto  solo,  efl^lcace,  ben  nutrito  di  fatti,  la  propria,  unica  e 
completa  apologia  diretta  a  confondere  i  suoi  veri  calunniatori,  e 
con  ciò  avrebbe  ottenuto  il  grande  vantaggio  di  ferire  i  soli  veri 
malevoli  e  non  gli  immaginarli  e  non  gli  innocenti,  di  sfrondare 
alcune  delle  sue  opere  di  digressioni  personali  men  convenienti, 
di  farsi,  finalmente,  un  merito  di  una  difesa  che  gli  si  è  voltata 
invece,  in  manifesto  danno. 

Già  fin  dall'  anno  1830,  m\  Messaggiere  Torinese,  Angelo 
Brofferio  dava  un  po'  vivamente  al  Cantù  un   consiglio,   che    de- 


—  80  — 
ploriamo  non  sia  stato  seguito:  «  che  vuol  egli  il  Canta  ?  acqui- 
star fama  senza  ostacoli  e  senza  beffe  ?  Salire  alla  gloria  senza 
calunnie  e  senza  persecuzioni?  E  in  che  mondo  cred'egli  di  es- 
sere?... Cessi,  cessi  una  volta  da  queste  puerili  lamentazioni.  E 
egli  beffato,  calunniato?  Cammini  per  la  sua  via,  e  senza  chi- 
narsi a  guardare,  schiacci  col  piede  gl'immondi  vermi  che  si  agi- 
tano nel  fango.  »  Dolevasi  fin  d'allora  il  Cantù  d'esser  fatto  pas- 
sare per  libertino  dagli  uni  e  per  retrogrado  dagli  altri,  mentre 
egli  non  è  veramente  né  l'uno  né  l'altro;  e  questo  è  pure  il  suo 
lamento  odierno;  giusto  lamento,  ma  che,  rinnovato,  stuzzica  sol- 
tanto con  suo  danno  i  vespai,  mentre  bastavano  largamente  i  suoi 
libri  e  la  condotta  della  sua  vita  a  giustificarlo,  come  certamente 
il  giustificheranno  nell'avvenire,  quando  tacerà  ogni  dispetto  con- 
tro la  persona,  cui  si  attribuisce  ora  il  torto  di  risentirsi,  e  se  ne 
avranno  solo  più  fra  le  mani  gli  scritti,  utili  tutti  e  sempre  ge- 
nerosi. 

In  una  sua  poesia  giovanile  alla  Malinconia,  il  Cantù  le  inneg- 
giava cosi: 

Dove  quell'ermo  vertice 
Lungi  dal  mondo  tace. 
Chiesi  al  tuo  pie  seguace 
Pensieri  e  libertà: 

'    '  '  0  dove  il  muschio  e  l'edera 

Sul  mio  castello  erranti, 
L'ire,  le  laudi,  i  pianti 

Copron  d'un'altra  età. 

Presso  quell'ermo  vertice,  presso  quel  castello,  che  ha  nome 
Brivio,  e  sorge  sulla  destra  dell'Adda,  nel  Milanese,  nacque  l'S  di- 
cembre 1807,  Cesare  Cantù,  primo  frutto  delle  nozze  di  Celso 
Cantù  con  Rachele  Gallavresi.  La  povertà  dell'  asse  paterno  ob- 
bligò il  fanciullo  Cesare  a  vestir  l'abito  ecclesiastico  per  godere 
d'un  benefìcio,  in  grazia  del  quale  egli  potè  mantenersi  in  Milano 
agli  studii  per  parecchi  anni.  Ma,  non  pur  diciottenne,  depose  quel- 
l'abito, non  sentendosi  inclinato  pel  sacerdozio,  e  andò  professore  di 
grammatica  nel  Liceo  di  Sondrio,  trasferito  dopo  quattro  anni  in 
quello  di  Como,  ed  a  venticinque  anni  in  quello  di  Milano,  dopo 
avere,  nel  suo  22"  anno  perduto  il  padre,  e  preso  sopra  di  sé  la 
grave  cura  della  madre,  de'  numerosi  suoi  fratelli   minori  e  delle 


—  81  — 
sue  sorelline,  per  provvedere  quindi  all'educazione  e   al    colloca- 
mento di  tutti. 

In  età  di  ventun'anno,  il  Cantù  aveva  pubblicato  a  Como,  per 
i  tipi  dell'  Ostinelli,  la  sua  novella  patria,  in  ottava  rima,  in 
quattro  canti,  Algiso  o  la  Lega  Lombarda,  la  quale  egli  de- 
dicava alla  lombarda  gioventù  cui  stringe  amore  del  loco  na- 
tio, e  che  fu  da'  più  autorevoli  giornali  di  quel  tempo,  ono- 
rata con  larghi  encomii;  il  poeta  vi  rivelava  il  nobile  inge- 
gno (1),  il  cittadino  il  cuor  generoso.  Un  anno  di  poi  seguiva  la 
pubblicazione  della  Storia  di  Como  (in  dieci  libri)  sulla  quale  in- 
formando il  Tommaseo  noiV Antologia  del  fascicolo  di  dicembre  del 
1830  si  riassumeva  cosi:  «  Sarebbe  difficile  fra  le  storie  munici- 
pali trovare  storia  più  piacevole  a  leggersi  e  più  saggiamente 
scritta  di  questa.  L'esattezza  de'fatti,  la  rapidità  e  la  chiarezza 
della  narrazione,  la  morale  eccellente,  concorrono  a  far  di  que- 
st'opera un  titolo  d'onore  e  all'autore  e  alla  patria;  »  e  fin  d'al- 
lora il  Cantù  prometteva  di  non  «  sozzare  la  penna  con  giullerie 
e  con  garriti  che  rechino  gaudio  ai  maligni  cui  troppo, giova  ve- 
der gl'Italiani  ringhiosi  venire  alle  prese  fin  nel  mansueto  regno 
delle  lettere.  »  Il  Cantù  era  allora  alle  sue  prime  scaramuccie  col 
pubblico,  e  incominciava  a  tingere  d'acri  umori  la  vergine  sua 
penna.  Nello  stesso  anno  1829,  girava  anonimo  per  Como  un  ser- 
mone del  Cantù,  inteso  a  flagellare  i  Comaschi  per  l'onore  di  una 
lapide  da  essi  decretata  a  Giuditta  Pasta,  mentre  non  se  n'era 
ancora  posta  alcuna  al  Volta;  facil  indignano  versus;  l'Italia  vi 
è  chiamata  ruvidamente  meretrice  invecchiata;  e  si  termina  il 
sermone  cosi: 

Pargoleggiar  co'suoi  balocchi  in  pace 
Il  Lombardo  lasciamo,  e  torniam  noi 
Nel  silenzio  pensante.  Io  volontario 
Esulo  alla  Cavargna.  Ivi  il  curato 
Ha  paga  da  curato,  e  il  fenajuolo 
Da  fenajuolo,  equo  compenso  il  merto  ; 
Là  grido  ai  ceppi  e  niun  la  crede  invidia , 
Là  fino  al  di  della  speranza  io  dormo. 


(1)  La  Biblioteca  italiana  lo  prenunziava  fin  d'allora  «  scrittore  non 
ordinario.  » 

Ricordi  Hiografici  6 


—  82  — 

In  altro  sermone,  che  s'intitola  il  feWraio  del  ISSI  si  cantano 
le  speranze  e  i  disinganni  delia  patria,  gli  amori  e  gli  sdegni;  il 
poeta  vi  si  finge  un  vecchio  soldato  d'Italia,  e  dice  ad  un  amico  : 

Fa  conto 
D'un  braccio  uso  a  ferir  tedesche  spalle. 
D'un  cuor  che  conta  al  par  servaggio  e  tomba. 

E,  in  quel  memorabile  anno  1831,  il  giovine  Cantù  C(>llabo- 
rava  pure  all'  Indicatore  Lombardo,  e  v'  imprendeva,  a  M  anni, 
la  pubblicazione  di  quel  suo  dotto  commento  alle  pagine  sto- 
riche de'  Promessi  Sposi,  che  s' intitola:  La  Lombardia  nel  se- 
colo XVIII,  una  vera  storia  aneddotica  e  sociale  di  quel  tempo. 
Il  Canti]  dedicava  pure  questo  nuovo  suo  libro  ai  Giovani  Lom- 
bayxli,  con  le  parole  seguenti  che  acquistano  importanza  anche 
maggiore,  per  l'anno  in  cui  furono  scritte  e  pubblicate:  «Questo 
commento  l'offro  a  voi,  giovani  Lombardi  miei  coetanei  che,  pieni 
di  speranza  voi  stessi,  le  speranze  alimentate  della  patria.  Benché 
nuovo,  benché  d'un  vivente,  benché  d'un  cittadino,  accoglieste  con 
plauso  il  racconto  de' Promessi  Sposi,  e  ben  avete  inteso  che  non 
è  scritto  come  la  comune  de'romanzi,  per  acquistare  la  lode  di  un 
momento,  ed  ingannare  la  noia,  castigo  di  chi  non  fa  nulla;  ma 
0  vi  presenti  nelle  scene  storiche  l'aspetto  del  passato,  o  vi  riveli 
-nelle  scene  di  passione  l'aspetto  di  tutti  i  tempi,  vi  fu  chiaro  come 
ogni  idea  vi  sia  subordinata  ad  un  concetto  grande;  tolga  su 
certe  verità  la  non  curanza  che  è  peggio  dell'errore;  formi  in 
chi  legge  una  persuasione  efficace,  operosa.  Il  mio  commento  vi 
convincerà  ognor  più  siccome  in  quell'opera  la  piì.i  scrupolosa  ve- 
rità storica  vada  congiunta  all'interesse,  alla  vivacità  del  racconto, 
a  tanta  dose  di  sapienza  riposta  e  di  sapienza  popolare.  Giovani 
Lombardi,  coetanei  miei,  io  avrò  ottenuto  il  mio  fine  se  quel  li- 
bro che  divoraste  per  diletto,  ora  lo  rileggerete  per  istruzione, 
affine  d'impararvi  a  pregiar  quanto  si  meritano  la  libertà  civile, 
l'uguaglianza  dei  diritti,  a  divenire  indulgenti  col  giorno  d'oggi 
confrontandolo  col  passato;  e  compiangendo  i  traviamenti  della  ra- 
gione umana,  operare  a  rinvigorirla  col  sapere  e  colla  medita- 
zione. »  Fu  dopo  aver  letto  quel  libro,  e  i  primi  capitoli  dell'opera 
sul  Parini,  che  il  famoso  poliziotto  ed  invido  letterato  trentino 
Paride  Zaiotti  ebbe  a  sclamare  che  Cesare  Cantù  faceva  due 
passi  verso  la  gloria  e  tre  verso  la  galera.  E  lo  Zaiotti  stesso  si 
incaricò  quindi  di  farlo  arrestare  nel  1833,  come  compromesso  per 


—  83  — 
delitto  d'alto  tradimento,  per  avere  il  Cantù  contribuito  a  salvare 
alcuni  cittadini  dall'Austria  perseguitati:  ma,  se  la  ragione  poli- 
tica entrava  per  una  parte  in  (luell'arresto,  l'invidia  del  letterato 
c'entrava  pel  rimanente.  \J Indicatore  Lombardo  turbava  i  sogni  e 
più  gli  aflFari  dello  Zaiotti;  e  ClqW Indicatore  il  Cantù  era  principale 
e  poderosa  colonna.  Oltre  all'  opera  sulla  Lonibardia,  aveyano  in 
esso  veduto  la  luce  alcuni  lavori  critici  del  Cantù  stesso,  per  quel 
tempo,  arditi  e  originali;  erano  dessi:  un  Discorso  intorno  a  Lord 
Byron,  uno  studio  su  Vittore  Hugo  e  il  Roynanticismo,  ed  i  Saggi 
sulla  letteratura  tedesca,  ne'quali  ultimi  si  nota  fra  gli  altri,  per 
la  sua  larghezza,  il  consiglio  «  a  non  dispregiare  la  letteratura 
di  qualsivoglia  paese  per  la  sola  ragione  dell'esser  forestiera,  e 
stravagante  dalle  consuetudini  nostre,  ma  a  cercare  in  ciascuna 
quel  che  v'ha  di  più  acconcio  a  giovare  alla  nazionale.  »  Nel  1833, 
videro  pur  la  luce  i  primi  capitoli  della  ricca  monografia  :  L'abate 
Partili  e  il  suo  secolo,  alla  quale  doveano  succedere,  secondo  il 
pensiero  del  Cantù,  altre  monografie  speciali  sul  Beccaria,  sul 
Verri,  sul  Tamburini  e  su  Giuseppe  II.  La  sola  opera  sul  Beccaria 
potè  tener  dietro  a  quella  sul  Parini,  nell'anno  186'2  (1);  le  altre 
monografie  fornirono,  invece,  copiosi  materiali  sàVà  Storia  Universale 
e  alla  Storia  dei  cento  anni.  La  Rivoluzione  della  Valtellina  nel  1029, 
preludio  all'opera  più  tardi  riveduta  ed  ampliata,  che  s'intitola 
Il  Sacro  Macello  di  Valtellina,  episodio  della  riforma  religiosa,  e 
altri  scritti  storici  e  letterarii  del  Cantù  videro  ancora  sparsa- 
mente la  luce  attorno  al  1833,  ossia  nei  primi  cinque  lustri  del- 
l'operosa sua  vita;  io  qui  lo  rammento  a  quegli  immemori  italiani, 
i  quali  non  riconoscono  al  Cantù  altro  merito  da  quello  in  fuori 
d'aver  compilato  una  voluminosa  Storia  Universale.  Egli  incominciò 
con  la  storia  municipale  di  Como,  cui  fece  seguire  più  tardi  la 
Storia  di  Milano  e  la  storia  di  Venezia.  Allargando  quindi  il  suo 
disegno,  concepì  la  Storia  degli  italiani;  conosciuta  bene  la  storia 
d'Italia,  provvide  a  metterla  in  relazione  con  la  storia  del  mondo; 
egli  alfine  compilò,  si,  ma  sopra  sé  stesso,  sopra  i  materiali  del 
proprio  sapere,  con  prodigiosa  alacrità  d'ingegno  accumulati.  Chi 
rise  pertanto,  di  recente,  sopra  uno   scherno   alquanto   buffonesco 


(1)  Fu  dedicata  al  conte  Sclopis;  la  stampa  e  i  dotti  giuristi  furono 
unanimi  a  diro  un  gran  bene  di  questo  bel  libro  apparso  nel  186:2,  in  Fi- 
renze pei  tipi  del  Barbera. 


—  Sè- 
di briosa  ma  lieve  romana  effemeride,  la  quale  raffrontava  il  Cantù  a 
que'tali  cuochi,  i  quali  mettono  a  bollire  nel  primo  mattino  un 
bel  pezzo  di  bove  per  servire  del  brodo,  e  poi  avendo  bisogno  di 
altro  brodo  aggiungono  acqua  senza  fine,  rise  inconsideratamente. 
Se  il  Cantù  si  fosse  contentato  di  lavori  sparsi,  s'ei  non  raccoglieva 
mai  i  proprii  innumeri  dìsiecta  memhra,  tutti  ammirebbero, 
senza  dubbio,  la  originalità,  versatilità,  ed  inesausta  ricchezza  del 
suo  sapere.  Perch'ei  si  diede  la  pena  per  noi,  dopo  avere  faticato  in 
infiniti  e  diligenti  lavori  speciali,  di  riassumersi,  ed  ha  pure  il 
merito  raro,  dopo  essersi  riassunto,  invece  di  dormire  sopra  i 
proprii  allori,  di  allargare  e  rendere  più  evidenti  certi  punti  spe- 
ciali della  sua  immensa  enciclopedia  storica,  ecco  i  gazzettieri,  i 
quali  non  fanno  essi  stessi  quasi  mai  altro  in  lor  vita,  scagliar- 
glisi  addosso  e  gridare  ai  quattro  venti  che  Cesare  Cantù  ha  la- 
vorato sempre  e  continua  a  lavorare  con  le  sole  forbici.  Ma  il 
Cantù  lasci  dire  e  continui,  per  quanto  ei  può,  l'opera  sua  feconda 
di  bene;  il  fatto  stesso  che  i  nuovi  libri  da  lui  tagliati  su  panno 
vecchio,  con  le  sole  forbici,  come  si  dice,  continuano  a  vendersi 
e  a  divulgarsi  rapidamente,  le  deve  assicurare  che  il  pubblico 
stesso  s'incarica  di  vendicarlo.  Lasci  dire,  io  ripeto,  e  non  rac- 
colga con  le  mani  sue,  che  il  lavoro  più  che  altro  ha  santificate, 
il  fango  che  gli  si  getta  addosso  dagli  invidiosi  infingardi. 

Ogni  uomo  di  lettere  deve  essere  preparato  a  questo  genere  di 
battaglie.  Il  non  aver  nemici  è  il  privilegio  di  que'soli  che  non 
danno  molestia  ad  alcuno;  ma,  à  la  guerre  comm' à  la  guerre; 
chi  adopra  l'armi  a  ferire,  non  deve  meravigliarsi  di  trovarsi  in- 
contro numerosi  nemici  e  dolersi  per  qualche  scalfittura;  Cristo 
stesso^  ove  non  avesse  osato  assalire  di  fronte  i  Farisei,  e  fla- 
gellato i  mercanti  del  Tempio,  non  avrebbe  forse  mai  patito  il  sup- 
plicio  della  croce;  l'essenziale  è  di  ferir  bene,  di  ferir  giusto,  di 
ferir  forte,  di  ferire  a  tempo,  di  ferire  chi  sei  merita,  di  ferire 
non  per  vanità  personale  offesa,  ma  per  la  passione  generosa  di 
tutti  i  buoni,  e  poi  non  fermarsi  ad  ascoltare  gli  improperii  che 
vi  possano  scagliar  dietro  i  vinti  sconcertati  nelle  loro  opere  mal- 
vagie; un  proverbio  turco  dice:  «  Chi  si  ferma  a  buttar  sassi  con- 
tro ogni  cane  che  gli  abbaia  dietro,  non  arriverà  mai  al  fine  del 
suo  viaggio  »;  e  mi  sembra  che  dica  bene. 

Ho  accennato  all'arresto  del  Cantù,  avvenuto  per  zelo  polizie- 
sco dello  Zaiotti,  allo  scorcio  del  1833.  S' erano  incoati  fin  dal 
1832  in  Lombardia  numerosi  processi  politici;  in  uno  di  questi  il 
giudice  processante  Paride  Zaiotti,  nuovo  Vatinio,  trovò   pure  il 


—  85  — 
modo  d'involgere  il  Cantù  (1).  Il  di  11  novembre  del  1833  la  casa 
dello  storico  veniva  perquisita,  le  carte  di  lui  si  manomettevano, 
il  giovine  capo  di  casa  veniva  da  agenti  di  polizia  tradotto  in 
carcere.  La  prigionia  del  Cantù  si  protrasse  Ano  al  14  ottobre 
del  1834,  inaspritagli  dal  giudice  letterato,  col  privarlo  de'mezzi 
di  leggere  buoni  libri  e,  speravasi  pure,  di  scriverne;  ma  gli  occhi 
d'Argo  della  polizia  non  poterono  al  Cantù  impedire  non  solo  di 
meditare  nuovi  lavori,  ma  di  metterli,  in  parte,  e  come  poteva, 
in  opera.  Volumi  di  sola  erudizione  non  sarebbe  il  Cantù  riuscito 
a  compiere  in  carcere;  ma  l'erudizione  storica  che  egli  avea  già 
acquistata,  gli  era  più  che  sufficiente  per  potere  stendere  un  ro- 
manzo storico,  ove  fosse  pure  deposta  una  protesta  contro  gli  or- 
rori della  processura  austriaca.  Apprendiamo  da  Mario  Carletti, 
il  quale  pubblicò  intorno  al  Cantù  un  intiero  volume  di  Notizie 
Mografìciie  e  MMiografiche  (2),  che  il  Cantù  scrisse  in  carcere 
sul  rovescio  delle  carte  geografiche  di  Buffler  quelle  parti  della 
Marglieriia  Pusterla  che  la  memoria  avrebbe  men  fedelmente 
ritenute.  L'editore  Sanvito  di  Milano,  imprendendone  nel  1854 
la  trentasettesima  edizione,  aggiungeva  altri  particolari  che  mi 
giova  riferire  con  le  proprie  parole  di  lui:  «  In  quella  atroce 
solitudine,  il  Cantù  trovò  modo  di  farsi  dell'inchiostro  col  fumo 
della  candela;  penna  cogli  steccaden^i;  e  su  carte  stracce  scrisse 
il  romanzo.  Egli  ricordavasi  del  fatto  in  generale  e  dei  tempi; 
mancavangli  i  nomi  proprii  e  le  date  sicure,  talché  i  perso- 
naggi nacquero  con  tutt'altri  nomi,  siccome  variarono  alcune  cir- 
costanze di  fatto,  allorché,  sprigionato,  potè  limare  il  suo  lavoro, 
e  dopo  lunga  dimora  alla  censura  di  Vienna,  perché  la  censura 
milanese  non  credette  poterlo  ammettere,  il  diede  alla  stampa. 
Questi  fatti  non  son  noti  al  pubblico,  eppure  a  noi  non  paiono 
indifferenti  per  intendere  molte  parti  del  lavoro,  nel  quale  l'au- 
tore volle  ritrarre,  o,  forse  non  volendo,  ritrasse  i  proprii  dolori 
e  le  proprie  consolazioni  sotto  figura  altrui,  mentre  Pellico  avea 
in  persona  dipinte  le  sue.  »  Questo  racconto  dell'editore  milanese 
avea  per  me  dell'incredibile;  scrissi  pertanto  all'illustre  personaggio 


(1)  Da  quel  tempo  in  poi  scrìve  il  Ranalli,  nella  Storia  degli  avverti' 
menti  d'Italia,  il  buon-governo  dia  aveva  nel  tirolese  Salvotti  e  in  Pa- 
ride Zaiotti  due  ferocissimi  inquisitori,  d'ogni  detto  o  atto  pigliava 
ombra. 

(2)  Coi  tipi  di  Giuseppe  Mariani  1858. 


—  86  — 
stesso,  di  cui  qui  mi  occupo,  pregandolo  di  volermi  chiarire  quel  dub- 
bio; compiacente  al  mio  desiderio,  ei  mi  poneva  sotto  gli  occhi  alcuni 
fogli  superstiti  di  quella  carta  straccia  scarabocchiata  in  carcere  ;  in 
que'fogliacci  logori  dal  tempo,  io  lessi  con  grande  stento  ma  con  viva 
sodisfazione,  la  traccia  del  Galantuomo,  alcuni  versi  patriottici,  una 
lamentazione  in  prosa,  alcuni  accenni  alla  Margherita  Pusterla  e 
alcune  vigorose  parole  di  protesta  contro  gli  oppressori  della  pa- 
tria. Il  giovine  lettore  non  dimentichi  poi  che,  nel  quinto  capitolo 
della  Margherita  Pusterla,  si  trova  già  quell'ottima  fra  le  pre- 
ghiere insegnate,  nell'infanzia,  a  molti  di  noi,  la  quale  dice  cosi. 
«  Buon  Gesù,  che  amaste  la  patria  sebbene  ingrata,  e  piangeste 
prevedendo  i  mali  che  le  sovrastano,  guardate  pietoso  alla  mia, 
sollevatene  i  mali,  convertite  coloro  che  colle  frodi  e  colla  forza 
la  contristino;  alimentatele  la  fiducia  del  bene;  e  fate  ch'io  possa 
divenire  un  giorno  cittadino  ])robo,  onorevole,  operoso  !  »  Non 
si  negherà,  è  sperabile,  animo  coraggioso,  ad  uno  scrittore  che, 
appena  uscito  di  carcere,  insegna  ai  fanciulli  italiani  a  pregare  in 
tal  forma. 

Liberato  dal  carcere,  perchè,  secondo  le  conclusioni  del  tribu- 
nale, «  essendo  insorti  dei  dubbi  sul  professor  Cantù  in  fatto  di 
alto  tradimento,  la  successiva  investigazione  non  gli  ha  compro- 
vati »,  egli  ricerca  festoso  i  suoi  cari^  e  canta  la  gioia  del  rive- 
derli in  un  lungo  componimento  in  versi,    intitolato  La    Libera- 


zione: 


Voi  piangete,  o  fratelli,  o  sorelle, 
Come  il  di  che  fui  svelto  a';niei  lari? 
Questo  è  pianto  di  gioia,  ma  quelle, 
Strida  furon  di  duol,  di  terror. 

Io  tacente,  col  volto  dimesso, 
A  me  stesso,  a'miei  cari  pensava. 


E  partirmi,  e  lasciarvi,  sicuro 
Di  lasciarvi  ai  bisogni,  all'ambascia  ? 
Né  veder  su  alcun  giorno  futuro 
Del  ritorno  la  speme  brillar  ! 


-  87  - 
Se  soffersi  I  L'udrete  al  loquace 
Focolar  delle  placide  sere, 
Abbian  essi  il  perdon;  noi  la  pace 
Qui  raccolti  al  domestico  aitar. 

Chi  rammenti  come  il  governo  dell'intiera  famiglia  Cantù,  com- 
posta di  nove  figli  e  della  vedova  madre^  era  allora  affidato  al 
solo  Cesare,  può  facilmente  immaginarsi  lo  sgomento  e  la  deso- 
lazione che  quell'arresto  cagionò,  e  facilmente  comprendere  ancora 
per  qual  ragione  il  Cantù,  uscito,  dopo  dodici  mesi,  dal  carcere,  non 
abbia  pensato  a  menar  vanto  di  quel  martirio,  ma  desiderato  in- 
vece, sebbene  invano,  di  riacquistar  tutti  i  suoi  diritti  di  cittadino. 

Dal  carcere  egli  s'era  domandato  più  volte  : 

Ai  fratelli,  anzi  miei  figli. 
Chi  più  il  pan  dividerà? 

E,  liberato  di  carcere,  rallegravasi  al  pensiero  ch'e-'li  avrebbe 
di  nuovo  potuto  provvedere  loro  quel  pane,  col  frutto  del  proprio 
insegnamento,  al  quale  era  giustizia  il  richiamarlo  ;  ma  l'Austria 
gli  tolse  invece,  e  non  glie  la  restituì  più  mai,  la  facoltà  di  insegna- 
're,  accordandogli  appena,  dopo  tre  anni,  per  sentenza  di  tribunale, 
una  tenue  pensione  annua,  in  riconoscimento  de'servigi  già  prestati. 
Il  governo  riparatore  italiano,  nel  1859,  né  restituiva  l'  alto  im- 
piego al  Cantù,  né  altro  glie  ne  affidava;  nel  tempo  stesso  in  cui  ve- 
niva pur  tolto  altrimenti  al  Cantù  l'ufficio  di  segretario  dell'Istituto 
Lombardo,  ch'egli  da  alcuni  anni  copriva.  Nel  marzo  dell'anno  1863, 
i  professori  dell'Università  di  Bologna  stendevano  e  firmavano  una 
bella  ed  onorevole  petizione  al  ministro  della  pubblica  istruzione,  ove 
facean  voto,  perchè  la  cattedra  di  storia  vacante  in  quell'Ateneo 
venisse  affidata  a  Cesare  Cantù,  storico  illustre,  quali  potessero  es- 
sere le  sue  opinioni  politiche  e  religiose;  il  ministro  considerò  la 
questione  del  solo  lato  politico  ed  oppose  alla  petizione  de'profes- 
sori  bolognesi  un  energico  rifiuto  (1).  Ora,  dove  il  governo  stesso" 
mostrasi  cosi  immemore  e  così  partigiano,  è  egli  meraviglia  che  il 
pubblico  dimentichi  talora  i  servigi  resi  agli  studii  dal  Cantù?  Inter- 
pellato quindi  da  me  il  Cantù,  sugli  ultimi  ufflcii  da  lui  sostenuti 


(1)  Tre  anni  di  poi  quella  stessa  cattedra  di  storia  negata  allo  sto- 
rico Cantù  si  concedeva  dal  governo  italiano  ad  un  eccellente  improv- 
visatore di  versi. 


presso  il  governo  italiano,  con  lettera  del  22  febbraio  di  quest'an- 
no, rispondevami  semplicemente:  «  Il  governo  non  mi  lia  mai 
adoprato  neppure  a  voltar  le  pagine  d'un  libro;  fin  a  ieri  che  mi 
nominarono  in  una  consulta  archeologico- storica  !  E,  in  que- 
sta occasione,  mi  esibirono,  se  volevo,  una  cattedra.  A  05  anni  !  » 
Rimasto  senza  impiego,  e  vissuto  quindi  sempre  lontano  dagli 
agi  e  privilegii  burocratici,  il  Cantù  dovette  allora  provvedere  a 
mantenere  sé  ed  i  suoi,  coi  proprii  scritti.  Le  cure  da  lui  prodigate 
in  casa,  per  l'educazione  de'suoi  fratellini  e  delle  sue  sorelline,  gli 
poterono  servire  di  guida  per  comporre  qualche  libro  d'educazione. 
Perciò,  nell'anno  della  prigionia,  con  la  Margherita  Pusterla,  ro- 
manzo pervenuto  ora  alla  sua  trentottesima  edizione,  (pubblicatosi 
per  la  prima  volta  nel  1838,  perchè  trattenuto  quasi  tre  anni  negli 
ufficii  di  polizia  a  Vienna)  nacque  pure  il  Galantuomo,  libro  di 
morale  popolare,  che,  (pubblicatosi  nel  1835),  insieme  col  Buon 
fanciullo  e  col  Giovinetto,  altre  operette  popolari  del  Cantù,  fu  pure 
stampato  più  volte,  in  un  numero  straordinario  d'esemplari  (intorno 
a  centomila);  e  in  quegli  anni  egli  scrisse  ancora,  molto  assiduo, 
per  Y Indicatore  Lonibardo,  pel  Ricoglitore  italiano,  mutato  poi  nella 
Rivista  Europea  di  Milano.  Io  ricordo,  fra  gli  altri  suoi  saggi  giova- 
nili, quello  su  Cìiatecaibriand  (che  il  Cantù  avea  conosciuto  di  per- 
sona, in  un  suo  viaggetto  per  la  Svizzera  e  per  la  Francia,  fatto  nel 
18.30),  quello  sul  Romagnosi,  (di  cui  professa  vasi  discepolo),  un  Pa- 
rallelo delle  lingue  d'Europa  e  dell'India,  apparso  nel  primo  fascicolo 
della  Rivista  Europea  (Milano,  1838).  Tutti  questi  scritti  il  Cantù 
pubblicava  in  Milano,  sorvegliato  di  continuo  dalla  polizia  austriaca, 
che  lo  avea  segnato  nel  suo  libro  nero.  Io  potei  aver  sotto  gli 
occhi  un  singolare  documento  della  polizia  austriaca  dell'anno 
1836;  il  21  febbraio  di  quell'anno  il  Commissario  di  polizia  in 
Chiari  mandava  al  Deputato  politico  (erano,  per  eufemismo,  chia- 
mate cosi  dall'Austria  le  sue  spie),  una  nota  di  20  compromessi 
politici,  fra  i  quali,  in  prima  linea,  Cesare  Cantù  e  Gabriele 
.  Rosa,  con  l'istruzione  seguente  :  «  Si  descrivono  qui  in  seguito  i 
nomi  degli  individui  stati  ultimamente  arrestati  per  imputazione 
di  alto  tradimento,  poi  dimessi  per  difetto  di  prove  legali  e  con 
dichiarazione  di  desistenza.  S.  M.  si  è  degnata  di  permettere  loro 
clementissimamente  di  aggirarsi  in  tutta  la  Lombardia,  ma  di  or- 
dinare ad  un  tempo  che  sia  continuata  la  politica  loro  sorve- 
glianza, che  abbia  a  continuare  altresì  il  divieto  loro  già  intimato 
di  associarsi  a  persone  processate  per  alto  tradimento  od  anche 
soltanto  sospette  in  linea  politica  e  di  avere  relazioni   dirette  od 


—  89  — 
indirette  con  esse  loro.  Qualora  pertanto  taluno  dei  detti  individui 
capitasse  in  codeste  parti  e  specialmente  in  questo  comu)ie,  ne 
sarà  dato  immediatamente  avviso  a  questo  uOìzio,  tenendo  rigo- 
rosamente ma  cautamente  sorvegliati  i  di  lui  passi  e  le  sue  rela- 
zioni per  farne  poi  circostanziato  rapporto  per  le  determinazioni 
che  risultassero  del  caso.  » 

La  persecuzione  molestò,  irritò  spesso  il  Cantù,  non  valse  a 
togliergli  il  coraggio  di  proseguire  per  l'onesta  via  intrapresa  ;  e 
n'è  prova  la  dedica  della  sua  Storia  Universale,  incominciata  a 
pubblicarsi  nel  1836:  quella  dedica  suonava  così:  «  Alla  mia  pa- 
tria un  pensiero  indipendente,  una  franca  parola,  un  affetto  ope- 
roso, desiderando  ch'ella  gradisca  e.  comprenda  questa  storia  so- 
ciale ». 

Il  Cantù  avea  concepito  il  disegno  del  suo  lavoro  monumentale 
in  prigione  ;  aveva,  uscito  di  carcere,  incominciato  a  ordinarne  i 
materiali  ed  a  stenderlo,  quando  s'incontrò  in  Milano  con  Giu- 
seppe Pomba  che  andava,  appunto,  in  traccia  d'  un  compilatore 
per  una  storia  universale  ch'ei  desiderava  di  pubblicare  ;  volle  la 
fortuna  del  Pomba  ch'ei  s'imbattesse,  anzi  che  in  un  compilatore, 
in  uno  storico  e  in  un  eloquente  scrittore.  Nella  prefazione  alla 
nona  edizione  torinese  della  Storia  Universale,  intrapresa  nel  1862, 
gli  editori  Pomba  confessavano  essi  stessi  che  delle  edizioni  prece- 
denti avevano  collocato  60,000  esemplari,  malgrado  le  difficoltà  del 
commercio  librario  nella  divisa  Italia,  l' istruzione  meno  diffusa, 
ed  il  costo  rilevante  di  un'opera  tanto  voluminosa.  L' editore 
s'arricchì  con  quel  solo  libro;  l'autore  vi  guadagnò  tanto  da  vi- 
vere indipendente.  In  un'opera  di  quella  mole  era  inevitabile  qual- 
che disarmonia  accidentale  di  giudizii,  lo  scrittore,  non  potendo, 
naturalmente,  fonderla  d'un  solo  getto,  e  scrivendola  non  meno  col 
cuore  che  con  la  testa;  onde,  se,  per  un  verso,  le  crebbe  calore  ed  at- 
trattiva, non  seppe  sottrarsi,  per  l'altro,  alle  fugaci  impressioni  del 
momento,  le  quali  essendo  mutabili  e  diverse,  gli  fecero  in  alcuni 
casi  esporre  giudizii  men  temperati  e  meno  atti  ad  acquistargli 
popolarità,  se  da  que'  soli  giudizii  parziali  e  non  dalla  somma 
del  lavoro  e  degli  intendimenti  posti  dapprima  in  esso  si  voglia 
solamente  giudicarne  l' autore.  I  malevoli  colsero  appunto  quel- 
l'opportunità per  fare  all'autore  un  po' di  torto;  e  poiché  ve 
ne  sono  fra'liberali  non  manco  che  fra' codini,  il  Cantù  si  trovò  attac- 
cato ad  un  tempo  da  due  campi  opposti,  e  non  seppe  sopportare  l'in- 
contro di  que' due  fuochi  incrociati  sopra  di  lui;  rispose,  or  di  qua  or 
di  là;  ma  la  risposta  di  lui  fu  semi)re  men  valida  della  botta;  e,  mentre 


—  90  — 
forse  nessuno  avrebbe  badato  all'offesa,  le  si  diede  importanza  a 
misura  che  ne  dava  ad  essa  il  Cantù,  il  quale,  non  riuscendo  sem- 
pre felice  schermidore,  parve,  a  chi  s'occupava  di  simili  contese, 
esser  rimasto  vulnerato.  Ma,  mentre  i  letterati  disputavano,  il 
pubblico  leggeva  e  s'istruiva  sull'opera  del  Cantù  a  cui  erano  ri- 
serbate pertanto  al  suo  arrivo  in  Torino  pel  Congresso  Scientifico 
del  1840,  le  più  vive  e  schiette  dimostrazioni  di  stima.  Da  Torino 
Cesare  Cantù  passava  in  Toscana;  di  qui  a  Roma;  di  Roma  a 
Napoli,  ove  il  giornale  l' Omnibus  ne  annunziava  allora  1'  arrivo 
nei  termini  seguenti  :  «  È  tra  noi  da  pochi  giorni  il  cavaliere  (1) 
Cesare  Cantù,  il  cui  ingegno  peregrino  e  la  gloriosa  audacia  di 
imprendere  opere  sostenibili  appena  da  un'assemblea  di  dotti,  qual 
è  la  Storia  universale,  son  troppo  cari  alle  lettere  perchè  aves- 
simo qui  bisogno  di  promover  con  parole  la  pubblica  gioia  di 
averlo  tra  noi.  Quando  ricordiamo  la  sua  età  di  non  trentacinque 
anni,  e  vogliamo  paragonarla  alle  cose  fatte  e  a  quelle  che  col 
tempo  può  fare,  possiam  ben  credere  che  egli  sarà  il  Muratori 
del  nostro  secolo.  A  vederlo  si  modesto  e  cortese,  ad  udirlo  nei 
suoi  placidi  ragionamenti,  tu  diresti  che  egli  non  ebbe  mai  il 
tempo  d'invanire,  cioè  di  oscurar  la  gloria  acquistata  sui  libri 
colla  presenza  e  veduta  della  persona...  Egli,  neppur  come  viag- 
giatore, cangiò  il  suo  sistema  di  studi;  si  leva  tre  ore  prima  di 
giorno. . .  »  Ad  un  critico  eminente  della  Revue  Britannique  che, 
parecchi  anni  dopo,  domandava  stupefatto  al  Cantù  come  mai  egli 
avesse  trovato  tempo  a  far  tanto  e  da  sé  solo,  il  Cantù  rispon- 
deva con  un  solo  motto  di  una  eloquente  semplicità:  «  io  non 
ho  mai  fatto  altro  ».  Nel  vero^  dai  17  anni  ai  65,   la   vita  di  lui 


(1)  Cavaliere  era  egli  fin  d'allora,  per  decorazione  ricevuta  dal  duca 
di  Lucca  e  da  Carlo  Alberto,  come  più  tardi  nel  1847,  per  proposta  del 
Guizot,  egli  veniva  decorato  dal  re  Luigi  Filippo.  II  deputato  Pinzi  volle 
escludere  dal  Parlamento  italiano  il  Cantù  perchè  cavaliere  della  Co- 
rona di  Ferro;  n'ebbe  la  più  formale  smentita  dal  Cantù  stesso;  ma 
non  per  questo  consenti  a  disdirai,  parendo  ai  più  l'offendere  un  ga- 
lantuomo così  agevoi  cosa  come  ardua  e  impossibile  invece  Io  scoprir 
sé  stesso  in  fallo  ;  prema  charitas  incipit  ab  ego,  diceva  quello;  così 
1  giornali  liberali  italiani  furono  unanimi,  al  tempo  del  Concilio  Vati- 
cano, nell'annunziare,  che  il  Cantù  vi  assisteva  come  storiografo;  nes- 
suno si  diede  poi  briga  di  accogliere  la  smentita,  poiché  si  seppe  che 
quella  notizia  era  ìalsa. 


—  91  — 
fu  spesa  tutta  intorno  agli  studii  e  per  gli  studii  ;  egli  non  s'è 
distratto  un  solo  giorno  dall'opera  sua  ed  oggi  stesso  non  ne  sem- 
bra stanco  ancora,  poiché  odo  annunziato  un  nuovo  suo  libro  che 
ci  offrirà  i  ritratti  di  Illustri  italiani.  Ammiriamo  ed  imitiamo  ; 
è  un  coraggio  che  vale  ben  quello  di  alcuni  eroi  più  famosi,  ai 
quali  bastò  sacrificare  sé  stessi  un  giorno,  per  acquistare  quella 
gloria,  che  al  Cantù  si  oserebbe  disputare  dopo  una  intiera,  diu- 
turna e  consapevole  vita  di  patimenti. 

In  Toscana  egli  ebbe  pure  onorate  accoglienze,  ma  poco  durarono 
per  avere  egli  osato  dissentire  apertamente  dall'autorità  di  alcuni  di 
questi  grandi  (ai  quali,  in  vero,  egli  mancò  spesso  di  riverenza);  per 
avere  nel  Tasso  riconosciuto  un  grande  imitatore,  meglio  che  un 
poeta  originale;  per  avere  affermato  contro  la  Crusca  che  nessuna 
lingua  si  viene  formando  su  per  i  dizionarii.  Così  egli  non  tardò  ad 
alienarsi  l'animo  di  molti  toscani,  i  quali  non  trovando  più  altro 
ad  osservargli,  facili  come  sono  al  vivace  motteggio,  si  mossero 
a  cercare  nello  studio  che  il-  giovine  storico  poneva  all'eleganza 
del  vestire,  e  alla  cortesia  de'modi  particolarmente  con  le  signore, 
alimento  ai  loro  frizzi  ingiocondi;  e  il  Niccolini  che  quanto  era 
grande  e  generoso  nell'amare,  tanto  poi  negli  sdegni  intemperante 
e  disordinato,  vendicavasi,  chiamando  il  Cautù  niente  meno  che 
barattiere  della  letteratura  (mentre  in  una  lettera  del  5  maggio 
1838,  non  pubblicata  dal  Vannucci,  e  diretta  dal  Niccolini  al  Cantù, 
lo  stesso  Niccolini  si  dichiarava  ammiratore  ed  amico  dello  sto- 
rico, e  ne  celebrava  la  sapienza  e  il  nobile  ingegno),  e  scrivendo 
di  più  nell'aprile  1843,  ch'egli  andava  a^te  busca  d'anelli  dal  Pa2Kt 
e  dall'Imperatore,  ingiuria  atroce  se  avesse  avuto  alcun  fonda- 
mento di  vero.  Della  visita  all'imperatore  io  non  so  proprio  nulla; 
né  saprei  a  qual  anno  riferirla,  né  la  trovo  ricordata  in  alcun 
luogo,  neppure  fra  gli  scritti  che  lo  calunniano;  può  quindi  negarsi 
recisamente;  quanto  ad  un  colloquio  avuto  col  papa  Gregorio  XVI, 
ce  ne  informa  il  Cantù  stesso  nel  quinto  volume  della  sua  Storia  dei 
Cento  Anni,  ma  per  riferirci  soltanto  che  il  papa  si  vantava  d' esser 
cittadino  veneto  e  non  suddito  austriaco.  L' autore  dell'Affiso  avea 
serbato  memoria  di  papa  Alessandro  III  e  nel  suo  odio  contro  l'Au- 
stria, non  vedea,  pur  troppo,  speranza  di  salute  in  altri  che  in  un 
nuovo  pontefice  il  quale  si  ponesse  a  capo  di  una  nuova  lega  italiana; 
era  quello  un  errore  politico,  ma  poteva  bene  essere  un  error  genero- 
so; e,  in  ogni  modo,  non  c'era  allora  merito  maggiore  ad  esser  ghi- 
bellino che  guelfo;  quello  che  giova  qui  ritenere  soltanto  é  che  Cesare 
Cantù,   quantunque  accusato  di  una  vanità  morbosa,  né  dal  papa 


—  92  — 

Gregorio  né  dal  vivente  Pio  nono  non  ricevette  nulla  mai,  né 
anelli,  né  ciondoli,  né  rosarii  tampoco  ! 

Importa  poi  rilevare,  che  all'ingrossarsi  de'tempi,  Cesaro  Cantù 
fu  de'primi  a  far  sentire  la  parola  del  libero  cittadino  italiano, 
dapprima  al  Congresso  scientifico  di  Milano  con  l'illustrazione  di 
Milano  e  del  suo  territorio,  che  riaperse  di  più  gl'occhi  all'Austria 
già  sospettosa;  al  Congresso  di  Marsiglia  ov'  ebbe  1'  onore  di  se- 
der vice  presidente  e  pronunziò  nobili  parole  per  l'Italia  (1);  a  quello 
di  Genova,  ove  portò  la  questione  delle  strade  ferrate,  nel  senso 
della  emancipazione  italiana  (2);  alfine  a  quello  di  Venezia,  ove  la  pa- 
rola di  lui,  com'ebbe  a  notare  il  conte  Fiquelmont,  testimonio  oculare, 
nel  suo  libro  scritto  con  intenzione  poliziesca  su  Lord  Palmerston  e 
il  Continente,  fu  scintilla  che  accese  l'incendio  della  rivoluzione.  «  Nel 
corso  della  seduta,  scriveva  il  Fiquelmont,  si  era  notato  che  il  sig. 
Cantù,  milanese,  storico  noto  per  opere  giustamente  stimate  dal  pub- 
blico, pensionato  dall'  Imperatore  d'  Austria  (i  nostri  lettori  sanno 
ora  che  pensione  fosse  quella)  era  stato  il  solo  che  avesse  dato 
pretesto  ad  agitazione  in  seno  alla  sua  Sezione.  Il  pubblico  at- 
tendeva adunque  con  impazienza  il  discorso  che  egli  doveva  leg- 
gervi ;  fosse  intenzione,  o  fosse  che  la  sua  Sezione  (quella  di  geo- 
grafia e  di  st  ria)  dovesse  essere  l'ultima,  ultimo  egli  parlò.  Egli 
inseri  nel  suo  discorso  alcune  frasi  indirizzate  agli  italiani  partecipi 
del  movimento  ;  vi  adoperò  tutta  la  sua  eloquenza  a  celebrare  il 
pontificato  di  Pio  IX,  il  quale  nella  sincerità  d'un  cuore  che  voleva 
il  bene  avea  accettato  le  idee  liberali.  Le  sue  parole  furono  accolte  da 
applausi  frenetici  che  si  ripeteano  a  ciascuna  frase  che  li  eccitava. 
Quel  momento  fu  un  avvenimento  ;  da  quell'istante  Venezia  entrò 
pienamente  e  apertamente  nelle  vedute  della  rivoluzione  che  si 
preparava  per  tutta  l'Italia  ». 

I  discorsi  del  Cantù  erano  stati  due;  l'uno  sulla  direzione  da 
darsi  alle  strade  ferrate  per  meglio  unire  i  paesi  d'Italia,  e  dove 
si  chiamava  Pio  nono  «  eroe  di  bontà  e  di  riconciliazione,  che  pose 
la  croce  alla   testa   del   progresso  »  ove   si  parlava  «  a  nome  di 


(1)  Il  discorso  di  congedo  fatto  da  Cesare  Cantù  finiva  con  le  parole  : 
«  Deh  possiamo,  fra  non  molto,  riabbracciarci,  colle  memorie  dell'ami- 
cìzia  e  e olV entusiasmo  delle  speranze  compite!  » 

{2)  Nel  ricordo  di  G.  H.  Giuliani  ci  accadrà  pure  di  ritrovare  il  Cantù 
come  il  più  coraggioso  difensore  della  libertà,  nel  Congresso  di  Genova, 
ove  il  delegato  Sardo,  principe  Alberto  Della  Marmora,  voleva  infrenarla. 


—  93  — 
fratelli,  da  fratelli  a  fratelli  »;  si  lodava  il  governo  Sardo  per  la 
libertà  accordata  agli  oratori  nel  congresso  di  Genova;  si  augurava 
già  che  la  valigia  delle  Indie  potesse  passar  per  l'Italia,  si  mostrava 
il  vantaggio  degli  italiani  delle  diverse  provincie  ad  accomunare 
i  loro  destini.  Il  secondo  discorso  del  Cantù,  dovea  riassumere 
i  lavori  della  sua  sessione ,  ed  è  probabilmente  quello  a  cui 
allude,  nell'opera  sua,  il  Fiquelmont.  (1)  Finché  il  Congresso 
durò,  finché  il  Cantù  rimase  a  Venezia,  egli  si  trovò  piena- 
mente sicuro  ;  l'Europa  civile  tutelava  la  santità  inviolabile  dei 
congressi  scientifici,  né  l'Austria  volea  mostrarsi  più  intollerante 
degli  altri  governi  che  li  aveano  lasciati  lavorare  in  pace.  Ma  la 
tempesta  dovea  aggravarsi  sul  capo  di  Cesare  Cantù  appena  egli 
facesse  ritorno  in  Milano.  La  polizia  lo  avea  già  ammonito  per 
la  parte  da  lui  presa  nel  congresso  di  Marsiglia;  per  una  peti- 
zione del  giugno  1847  al  Viceré  a  lui  attribuita,  nella  quale  chie- 
devansi  riforme  amministrative  in  Lombardia;  e  per  una  propo- 
sta di  casse  di  mutuo  soccorso  per  i  poveri,  fatta  dal  Cantù  in 
unione  "con  Stefano  Franscini,  e  dal  governo  accusata  come  prò- 
motrice  d'idee  comunistiche.  Il  governo  austriaco  aveva  ancora 
fatto  0  almeno  tentato  di  peggio  contro  il  Cantù.  Da  alcuni  do- 
cumenti pubblicatisi  negli  krcMvi  triemiaii  delle  cose  d'Italia  si 
rileva  la  corrispondenza  scambiatasi  fra  il  Sedlinszki,  ministro  di 
polizia  a  Vienna  ed  il  Torresani,  direttore  della  polizia  a  Milano, 
intesa  a  combinare  le  vie  di  togliere  al  Cantù  quell'onore  ch'ei 
non  avrebbe  mercanteggiato  mai.  Intanto,  non  potendosi  altro,  si 
tentò  insinuar  neW Allgememe  Zeitung  e  poi   si    fece   riprodurre 


(l)  Anche  di  que'discorsi  si  volle  tuttavia  dai  malevoli  far  carico  al  Cantn; 
si  disse  e  si  stampò  che  il  Cantù  avea  detto  a  Venezia  essere  la  Repub- 
blica giustamente  perita  di  quella  morte  alla  quale  essa  stessa  avea  condotto 
altri  popoli,  staccando  dal  suo  discorso  una  sola  frase  giusta  ma  inoppor- 
tuna per  ingrandirne  il  senso  e  attribuirle  presa  da  sé  un  solo  significato 
odioso;  ecco  le  parole  autentiche  lette  dal  Cantù  in  quell'occasione:  «  In  un 
Congresso  aperto  nell'antica  regina  dell'Adriatico,  nella  patria  di  Marco 
Polo,  nella  città  che,  al  pari  delle  ricchezze,  ambiva  i  monumenti  del- 
l'arte, e  gli  adunava,  sia  santamente,  allorché  salvava  su  queste  isole 
l'antica  indipendenza,  sia  violentemente,  allorché  esercitava  il  diritto 
fdella  conquista,  di  cui  poi  doveva  esser  vittima;  in  città  siffatta  era 
impossibile  non  prendesse  straordinaria  importanza  la  più  giovane  se- 
zione dei  nostri  Congressi,  quella  di  geografia  ed  archeologia  ». 


—  94  — 
dalle  Gazzette  ufficiali  del  Lombardo- Veneto  che  la  Storia  Uni- 
versale di  Cesare  Cantù  era  niente  più  che  una  traduzione  raffaz- 
zonata di  quella  tedesca  di  Gio.  Mùller,  stolida  accusa  alla  quale 
risposero  in  Germania  due  editori  tedeschi,  l'uno  imprendendo 
l'edizione  di  una  traduzione  tedesca  della  Storia  Universale  del 
nostro  Cantù,  per  uso  de'  cattolici,  l'altro  facendola  tradurre  in 
tedesco  per  uso  de'protestanti.  Appena  tornato  di  Venezia,  il  Cantù, 
richiamato  alla  polizia,  venne  severamente  rimproverato  per  la 
condotta  da  lui  tenuta  nel  Congresso  di  Venezia,  e  gli  fu  in  pari 
tempo  soppresso  il  soldo  della  pensione  di  maestro  di  grammatica. 

Il  17  gennaio  del  1848  un  conoscente  ammoniva  il  Cantù  aver  in- 
teso un  magistrato  scagliarsi  contro  i  malcontenti,  e  dichiarato 
come  tutto  si  soffocherebbe,  ove  se  ne  arrestassero  da  10  a  12 
tra  i  più  influenti  ed  un  de'primi  il  Cantù,  il  quale  da  un  gior- 
nale di  paese  contiguo  era  stato  accusato  per  illegali  pubblicazioni. 
Il  21  gennaio  l'arciduca  Ranieri  spiccava  un  ordine  allo  Spaur 
governatore  della  Lombardia  perchè  nel  giorno  stesso  fossero  tra- 
sportati a  Lubiana  sotto  Mona  scorta,  Alberto  Battaglia,  Cesare 
Stampa  Soncino,  Cesare  Cantù  e  Gaspare  Belcredi,  come  politi- 
camente pericolosi.  «  La  sera  del  21,  scrive  lo  stesso  Cantù,  in 
un  suo  foglietto  pubblicato  in  que'  giorni  a  Torino  ed  intitolato 
Semplice  informazione,  tornavo  a  casa  mia,  quando  vitli  dietro 
questa,  appostate  guardie  ;  guardie  sulla  mia  porta.  Tirai  innanzi 
difilato,  senza  che  mi  conoscessero  ;  poi,  in  parte  sperando  fosse 
paura,  non  irragionevole  in  quel  tempo,  in  parte  esitando  qual 
valesse  meglio  lo  spatriamento  o  un  processo  tante  volte  invocato, 
circuii  l'isolato  e  tornai.  Ma  rividi  ancora  le  guardie;  rividi  quel- 
l'apparato di  baionette  e  di  spade  contro  un  uomo  di  penna,  che 
un  semplice  usciere  avrebbe  tradotto  al  tribunale  ;  e,  pensando  a 
sanguinosi  atti  recenti,  cedetti  al  consiglio  proverbiale  ». 

Ripatriato  il  "25  marzo  1848,  dopo  le  gloriose  giornate  di  Milano, 
ch'egli  stesso  descrisse  in  cinque  lettere  appassionate,  il  governo 
provvisorio  non  mostrò  accorgersi  della  presenza  del  Cantù  e  lo 
lasciò  intieramente  da  banda,  fino  al  5  agosto,  quando  il  Cantù 
si  trovò  quasi  solo  a  tener  quieta  la  città  e  a  difendere  il  re  Carlo 
Alberto.  Anche  di  ciò  vi  fu  tuttavia  chi  volle  accusare  il  Cantù, 
dandogli  colpa  d'aver  contribuito  a  salvare  Carlo  Alberto,  per  Io 
studio  di  una  regia  decorazione.  Quanti  avevano  applaudito  al  re 
sabaudo  ne'  giorni  della  sua  fortuna  erano  buoni  italiani;  chi 
osava,  ne'  giorni  sinistri,  accostarsi  al  re  tradito  dalla  fortuna, 
diveniva  un  cortigiano,  un  traditore.  Oh  lievità  di  giudizii  umani! 


—  95  — 
II  Cantù  con  le  sue  Cinque  lettere  sulla  sollevazione  di  Milano  s'era 
alienato  i  Piemontesi,  ch'egli  incolpava  de' ritardati  soccorsi  agli 
oppressi  lombardi  ;  si  alienava  i  lombardi  col  difendere  i  piemon- 
tesi, quando  non  la  volontà,  ma  la  fortuna  era  venuta  meno  ai 
condottieri  sabaudi  ;  il  pigliare  a  sostener  la  causa  de'deboli  e  de- 
gli sventurati  è  sempre  un  consiglio  pieno  di  rischi;  e  il  Cantù, 
che  ripone  una  specie  di  onorevole  compiacenza  in  queste  insolite 
battaglie  si  condanna  da  sé  stesso  a  partecipar  la  sorte  degli  op- 
pressi, in  difesa  de'  quali  sorge  talora  con  animo  indignato  e  con 
parola  commossa  a  parlare. 

Tenuto  lontano  il  Cantù  dal  governo  della  cosa  pubblica,  egli 
provvide  ne'  priini  commovimenti  del  libero  reggimento  milanese, 
a  governare  l'educazione  popolare  per  mezzo  della  stampa.  Il  gior- 
naletto La  guardia  nazionale  fa  scritto  quasi  per  intiero  da  lui, 
per  tutto  un  mese;  e,  inteso  dai  primi  di  luglio  al  -4  agosto  1848, 
a  tener  preparata  la  città  ad  una  nuova  estrema  difesa,  raccomandava, 
in  forma  disinvolta  e  popolare,  cordggio,  concordia,  operosità  e  forza 
di  sacrificio.  Il  pubblico  erario  intanto  essendo  esausto ,  il  Cantù 
dettava  per  VEco  della  Borsa  un  articolo  intitolato  :  Il  Prestito, 
ove  si  esortavano  tutti  i  cittadini  ad  offrire  quel  che  era  in  loro 
potere;  il  Vimercati  (1)  ci  informa  sull'accogliraentc)  che  fece  al- 
lora il  popolo  al  buon  consiglio:  «  Ninno  fu  sordo  a  quella  voce, 
specialmente  nelle  classi  meno  agiate  ;  la  vecchierella  offeriva  la 
sua  piletta  dell'acqua  santa,  la  giovinetta  i  suoi  orecchini,  la  fidan- 
zata che  non  avea  altro  da  offrire  faceasi  tagliare  i  suoi  be'  ca- 
pelli, e  vendendoli  ne  dava  il  ritratto  all'amante  perchè  il  recasse 
al  pubblico  Erario  ».  Son  ancora  di  quel  tempo  i  preziosi  Trat- 
tenitnenti  dì  Carlamì)rooio  da  Montevecchia,  una  serie  di  foglietti 
come  dice  l'avvertenza  posta  a  pie  del  primo  di  que'  trattenimenti, 
dove  un  uomo,  estranio  a  influenze  di  governo  e  a  turbolenze  di. 
fazioni  avrebbe  cercato  coltivare  il  buon  senso  del  popolo,  insinuarvi 
quelle  idee  di  ordine  e  di  saviezza  die  valgono  sotto  qualsiasi  re- 
gime,  ma  che  più  sono  importanti  nella  presente  libertà.  Ragio- 
natore più  savio  di  questo  Carlambrogio  non  si  dà  ;  e  il  popolo 
milanese  che  ne  udì  or  sono  ben  più  di  vent'anni  i  consigli,  ne 
avrà  forse  fatto  il  suo  prò.  Intanto  s'avverta  come  il  Cantù  sappia 
conformarsi  ai  tempi  ne' quali  ei  vive;  non  già  ch'ei  muti  bandiera 
0  carattere,   ma  perchè  adatta  con  disinvoltura  il  suo  linguaggio 


(1)  V Italia  nei  suoi  confini  e  l'Austria  nei  suoi  diritti: 


—  96  — 
alla  varia  intelligenza  e  alle  varie  tendenze  del  popolo  per  cui 
scrive.  Quando  l'Italia  era  in  fasce,  egli  badava  a  tirar  su  il  buon 
fanciullo,  il  giovinetto,  il  galantuomo  ;  quando  il  galantuomo  s'oc- 
cupò di  politica,  gli  pose  vicino  Carlambrogio  da  Monteveccliia  ; 
guida  tranquilla,  forse  troppo,  ed  alla  mano  ;  quando  ei  s'avvide 
come  la  questione  industriale  ed  operaia  stava  per  divenire  più  im- 
portante od  almeno  più  urgente  della  letteraria,  dimenticò  per  un 
momento  i  suoi  dotti  arcliivii  e  si  fece  a  pubblicare  il  libro  del 
Buon  Senso  e  del  Buon  Cuore  e  il  Portafoglio  dell'operaio,  ove 
egli  versa  tutto  un  tesoro  di  consigli  affettuosi  e  sapienti.  È 
vero  che  le  Lettere  giovanili  del  Cantù  non  vinsero  nel  1835  il 
concorso  al  premio  liorentino  che  fu  invece  decretato  al  Gian- 
netto del  Parravicini  ;  è  vero,  che,  in  un  recente  concorso  napo- 
letano, al  Buon  senso  e  buon  cuoì^e  fa  negato  il  premio  e  accor- 
dato solo  un  po'  di  incoraggiamento  all'autore  novellino  perchè 
'  prosegua  e  faccia  meglio  ;  è  vero  che  il  Portafoglio  dell'operaio 
non  fu  finqiiì  proposto  per  le  scuole  del  popolo  da  alcun  ministro 
né  approvato,  eh'  io  sappia,  da  alcun  Consiglio  provinciale  scola- 
stico. Ma  ciò  non  toglie  che  a  chi  mi  domandasse:  quali  sono  i  me- 
glio condotti  libri  di  educazione  popolare  pubblicati  flnqui  in  Italia,  io 
non  rispondessi  sempre  :  per  ora,  le  tre  opere  del  Cantù:  se  alcuno 
fra  noi  n'ha  scritti  o  letti  de'migliori,  e  più  adatti,  li  faccia  cono- 
scere; per  ora  lo  scrittore  popolare  meglio  ispirato,  più  prossimo 
al  popolo,  più  ricco  d'affetti  generosi  e  di  utili  consigli  a  me  pare 
ancor  sempre  il  signor  Cantù.  Io  non  sono,  intendiamoci,  punto 
d'accordo  con  lui  nel  modo  con  cui  egli  presenta  al  nostro  popolo 
le  novità  politiche  d'Italia  ;  deploro  anzi  vivamente  ch'egli  lo  av- 
vezzi a  considerare  come  uno  de'  suoi  malanni  la  rivoluzione  (1), 


(1)  A  pag.  15  del  Portafoglio  delV Operaio  ,  dopo  aver  parlato  della 
floridezza  di  certe  provincie  lombarde,  soggiunge  «  ora  ahimè  cessata 
affatto  per  le  sventure  dell'agricoltura  e  dell'Italia  »  perchè  sventure  ? 
Che  i  preti  possano  scrivere  così,  sta  bene,  ma  che  il  Cantù,  il  quale 
scrive  tutto  un  libro  da  liberale  e  da  galantuomo  sei  guasti  poi  da  se 
con  una  sola  parola  di  dispetto,  deploro  vivamente.  Malanni  sì,  furono 
certe  guerre,  certi  tumulti  cittadini,  il  brigantaggio,  le  frequenti  muta- 
zioni di  ministeri,  e  a  questi  soli  mali  poteva  accennare  il  Cantù  ;  ma  col 
chiamarli  tutti  genericamente  sventure  nazionali  svia  il  giudicio  popo- 
lare, e  lo  porta  a  conclusioni  fallaci.  A  pag.  190  egli  si  duole  che  il 
governo  italiano  colle  scuole  turbi  la  quiete  eie  coscienze:  rimpiange  i 
tempi  «  in   cui   era  terra   dei    morti    quell'Italia,    che    nel  gergo  dei 


-  07  - 
che  ci  ha  finalmente  messo  fuori  di  casa  lo  straniero,  mentre 
se  un  rammarico  si  può  avere  è  questo  soltanto  che  la  rivolu- 
zione il  popolo  non  1'  abbia  fatta  lui  e  da  sé  solo  per  darsi  un 
governo  raen  burocratico  e  più  democratico,  raen  costituzionale 
e  più  cittadino,  meno  solenne  e  più  naturale.  Nessuno  non  può 
associarsi  al  Cantù  nel  lamentare  i  balzelli  che  opprimono  e  im- 
pediscono al  presente  tanta  parte  della  vita  italiana;  ma,  se  si  può 
desiderare  sul  serio  un  governo  mighore,  ed  è  obbligo  e  diritto 
d'ogni  buon  cittadino  il  contribuire  a  prepararlo,  nessun  amico  del 
popolo  può  fargli  credere  che  lo  stato  presente  sia  la  conseguenza 
logica  e  necessaria  della  indipendenza  e  libertà  acquistata  al  paese. 
Si  commisero  errori  molti  e  da  molti  ;  alcuni  governanti  fecero 
anzi  peggio  che  sbagliare;  pensarono  poi  tutti  alla  corona  del- 
l'edificio prima  che  alla  base  ;  presunsero  creare  dal  nulla  e  crea- 
rono in  modo  fittizio  cose  fittizie  e  senza  il  consenso  della  parte 
vitale  della  nostra  società  ;  la  costituzione  italiana  nacque  pertanto 
viziosa  ;  il  governo  non  rende  l'uno  per  cento  di  quello  che  costa 
al  cittadino;  ma,  per  fortuna,  come  questi  mali  si  potevano  im- 
pedire da  principio,  se  il  popolo  avesse  preso  maggior  parte  alla 
rivoluzione  politica  che  ci  ha  chiamati  ad  un  nuovo  risorgi- 
mento nazionale,  cosi  si  possono  ancora,  volendo ,  rimediare. 
Il  Cantù  ebbe  torto  di  lasciare  in  un  libro  destinato  al  po- 
polo travedere  talora  la  sua  disperazione;  egli  ha  troppo  inge- 
gno per  non  comprendere,  che  può  piti  una  parola  a  sconfor- 
tare che  dieci  a  consolare.  Il  suo  libro  è  buono  nel  suo  insie- 
me, onesto,  liberale;  ma  vi  sono  alcune  parole,  poche  per  fortuna, 
0  sinistre  od  equivoche ,  le  quali  possono  turbare  il  lettore 
popolano,  ed  io  prego  vivamente  il  Cantù  a  volerle  ricercare 
diligentemente  ne'  suoi  libri  popolari,  per  cancellarle  via  egli  stesso 
con  mano  generosa  dalle  future  edizioni.  Egli  ha  terminato  la 
prefazione  del  suo  Portafoglio,  con  le  seguenti  parole  «  Ed  io, 
da  non  invidiabili  casi  relegato  allo  scrittoio,  invece  di  utilizzarmi 
nel  fondaco  o  al  telaio  fra  il  popolo,  da  cui  nacqui  e  con  cui  ho 
sentito,  amato,  odiato,  sperato,  non  ho  mai   disertata  la  causa  di 


nuovi  apostoli  inneggiasi  come  risorta.  »  E  dire  che  il  Cantù  k\  egli  stesso 
uno  de' precursori  di  questo  risorgimento,  ch'egli,  burbero  benefico,  sembra 
ora  deridere  !  —  Del  resto,  ci  piace  avvertire  come  s'egli  talora  sembra 
vedere  in  Italia  più  male  che  bone,  finisce  pur  conchiudendo  che,  se  il 
bene  non  c'è,  ci  potrà  essere;  il  cuore  trionfa  sulle  ragioni  di  quella 
parte,  alla  quale  sebbene  voglia  il  male  d'Italia,  il  Cantù  teme  dispiacere. 

Ricordi  Biografici  7 


-  98  — 
questo,  per  quanto  me  ne  punissero  i  forti  e  i  sapienti,  per  quanto 
sangue  vivo  dovessi  sudare  trascinando  la  croce  su  per  questo 
Calvario.  Ed  ora  dal  vertice  con  indomabile  affetto  rivolgo  ancora 
la  parola  a  questo  popolo,  esposto  a  sistematica  adulazione,  a 
sciagurate  ispirazioni  di  ira,  di  vilipendio,  di  denigrazione,  al 
ripudio  d'ogni  autorità,  alla  sfiducia  in  sé  stesso  e  negli  altri,  a 
divorare  col  frutto  della  scienza  anche  l'albero  della  vita.  E  desi- 
dero seguitare,  anche  dopo  morto,  a  consolarlo,  e  predicargli  la 
necessità  di  sapere  e  di  produrre,  ad  insinuargli  coraggio  e  ras- 
segnazione,lavoro  e  dignità  >>  nobili  parole,  alle  quali  ogni  onesto 
lettore  risponde  con  un  largo  respiro  del  cuore  e  con  un  viva. 

Ripigliamo  intanto  la  vita  dello  scrittore.  Terminata  la  campagna 
lombarda  del  1S48  in  modo  funesto,  noi  abbiamo  già  avvertito  come  il 
Cantù  fosse  de'pochi  a  difendere,  con  suo  rischio,  e  salvare  dall'ira 
lombarda  il  re  Carlo  Alberto  ;  il  G  agosto  il  Cantù  lascia  Milano 
con  numerosa  comitiva  di  profughi  lombardi:  ma,  giunto  a  No- 
vara, i  cittadini,  per  lo  sfregio  fatto  in  Milano  a  Carlo  Alberto, 
si  voltano  inospitalmente  contro  i  rifugiati,  onde  il  Cantù  pre- 
ferisce riparare  da  quelle  discordie  in  Isvizzera.  Nel  luglio  1849, 
l'Austria  pubblica  un'amnistia:  il  Cantù,  che  intanto  aveva  avuto 
il  dolore  di  perdere  la  sua  sorella  prediletta,  torna  egli  pure 
a  casa;  poco  dopo  la  polizia  lo  arresta,  come  escluso  dall'amni- 
stia e  continuante  a  cospirare.  Trattavasi  in  quei  di  la  pace 
a  Milano  ;  onde  il  Boncompagni  e  il  Gallina  sos[)endono  le  trat- 
tative per  questa  violenza;  il  Cantù  viene  allora  mandato  ai  con- 
tini, e  si  reca  a  Ginevra.  Il  12  agosto  si  pubblicano  le  amnistie  , 
il  Cantù  domanda  s'egli  sia  questa  volta  compreso  fra  gli  amni- 
stiati; gli  si  risponde  in  modo  evasivo;  pur  egli  si  risolve  a  tornare; 
il  Commissario  di  Menaggio..  il  26  settembre  1840,  scrive  pertanto  in 
questa  forma  all'amministrazione  comunale  di  Sala:  «  La  interesso 
a  verificare  e  riferire  se  sia  comparso  in  cod.  comune  il  professore 
Cesare  Cantù,  il  quale,  approllttando  dell'amnistia  stata  accordata 
dal  proclama  12  p.  p.  agosto,  è  rientrato  in  questo  stato,  per  la 
via  di  Chiavenna  ed  ha  esternata  l'intenzione  di  villeggiare  per 
qualche  tempo  in  queste  parti  Nel  caso  che  il  suddetto  professore 
si  trovasse  od  avesse  in  seguito  a  comparire  in  comune.  Ella 
vorrà  attivare  sul  medesimo  una  virtuale  sorveglianza,  notificando 
sollecitamente  ogni  importante  emergenza.  »  Tutta  questa  è  nuda 
storia,  la  quale  ci  prova,  per  lo  meno,  in  modo  evidente  come 
Cesare  Cantù  (ino  ai  43  anni  di  sua  vita  sia  stato  particolarmente 
inviso  all'Austria.  Seguitiamo.  Fra  il  1840  e  il  1850,  il  Cantù  vive  a 


—  09  — 
Milano  e  pubblica  il  Panni,  V Ezzelino,  la  Letieratura  ilaliana,  e  la 
SLoria  degli  ilaliani.  Ciascuna  di  queste  opere,  per  i  sentimenti  antl- 
tedeschi  e  per  l'odio  che  vi  si  professa  al  governo  militare,  poteva  es- 
sere cagione  al  Cantù  di  gravi  molestie.  Nessuno,  tuttavia,  gli  sa 
tener  conto  di  quel  coraggio,  ad  eccezione  del  generoso  tri- 
buno piemontese,  l' oratore  Angelo  Brofferio ,  in  una  lettera 
del  quale,  del  18  febbraio  1855  al  Cantù,  leggo  queste  memo- 
rabili parole  :  Mentre  qui  facciamo  sucide  gazzette,  voi  conti- 
nuate a  far  buoni  libri.  Parole  analoghe  in  onore  del  Cantìi  il 
Brofferio  aveva  proferito  nel  parlamento  subalpino  e  ripeteva 
nel  suo  giornale,  per  far  intendere  come  ci  volesse  più  coraggio 
in  Cantù  per  iscrivere  come  egli  scriveva  sotto  il  cannone  au- 
striaco, che  a  qualche  fuoruscito  nel  bandire  la  sua  crociata 
contro  l'Austria,  dal  sicuro  rifugio  dei  portici  torinesi.  Ma  quello 
che  dovea  tornare  a  sola  gloria  del  Cantù  gli  si  appose,  invece, 
a  colpa,  per  la  malevolenza  di  chi  studiavasi  di  perderlo,  e  per  la 
poca  prudenza  che,  al  solito,  ei  pose  nella  propria  timida  difesa.  La 
commissione  milanese  di  censura,  con  relazione  del  10  luglio  1854, 
firmata  Salvi,  proibiva  la  coraggiosa  opera  r'el  Cantù  su  Ezzelino 
da  Romano.  Il  29  luglio  1855,  il  luogotenente  di  Lombardia  confer- 
mando altro  suo  decreto  del  22  giugno,  in  una  informazione  al  Diret- 
tore di  polizia  in  Milano,  conchiudeva:  «  sarà  da  ordinarsi  al  sig. 
Cesare  Cantù  di  astenersi  dal  diffondere  nell'interno  della  Monar- 
chia i  20  esemplari  rimastigli  dell'opera  Ezzelino  da  Romano,  a 
sensi  delle  norme  vigenti,  mentre  nulla  si  oppone  alla  distribu- 
zione di  essi  fra  i  suoi  amici  e  corrispondenti  all'  estero  ». 
Il  16  dicembre  del  1856,  il  conte  Pullè,  capo  della  commissine 
milanese  di  censura,  richiama  l'attenzione  del  governo  austriaco 
sulla  Storia  degli  Italiani,  con  le  seguenti  parole  :  «  Le  dispense 
58  e  59  ora  innalzate  (sic)  sembrerebbero  confermare  il  sospetto 
che  il  Cantù  miri  precipuamente  col  tessuto  di  questa  storia  a 
mettere  in  discredito  ed  in  disprezzo  i  sovrani  di  Casa  d'Austria 
e  con  essi  anche  quelli  di  Toscana  e  di  Napoli,  in  favore  della 
causa  dei  popoli  oppressi  della  penisola  »;  ed  aggiunge:  «  La  com- 
missione fa  riflettere  che  la  storia  di  Cantù  conta  nel  solo  Lom- 
bardo-Veneto qualche  migliaio  di  abbonati,  ed  ha  quindi  un  este- 
sissima diffusione  »  Finquì  dunque  lo  storico  di  Brivio  non  ha 
ancora  tradito  il  suo  paese,  per  amoreggiare  con  l'Austria.  Ma  il 
maggiore  scandalo  nella  polizia  austriaca  lo  destano  i  fascicoli  G9 
e  70  di  quella  storia.  Il  revisore  abate  Restani  fa  un  lungo  ela- 
borato per  dimostrare  tutte  le  proposizioni  false,  sovversive,  ini- 


—  100  — 
que,  che  que' fascicoli  contengono;  gli   appunti    del    Restani  ebbi 
sott'occhi  ;    sono    invidi,  maligni ,   minuziosi,   sofistici  ;   lo   stesso 
revisore,  proponendo  che  fosse  proibita  l'opera  del  Cantù  La  let- 
teratura italiana  per  via  d'esempli,  fra  gli  altri  carichi  al  compila- 
tore, in  pur  quello  d'aver  osato  introdurre  fra  gli    esempii  di  sa- 
tire, un  brano  ove  si  raffigura  una  ballerina  accolta  come  regina 
alle  mense  regali.  Le  pratiche  poliziesche  pel  divieto  di  quelle  due 
opere  durano  quasi  due  anni,  dal  1857  al  1859.  Il  Cantù,  intanto, 
interpone  ricorso,  perchè  il   divieto   alla   pubblicazione   sia   tolto, 
promette  correggere  in  un'appendice  que'  punti  della  sua  storia  che 
gli  siano  dimostrati  erronei,  e  consente,  con  troppa  sommissione,  a 
tener  conto  di  que'  nuovi  documenti  giustificativi  che  le   autorità 
competenti  stimino  potergli  comunicare.  Lagnasi  egli  delle  pretese 
eccessive  della  censura  milanese;  ricorda  che  la  napoletana  gli  è 
stata  più  benigna;  nega  l'ostile  intendimento  de' proprii   scritti  ; 
per  suo  intercessore  finalmente  invoca,  nel  1857,  l'arciduca  Massi- 
miliano, il  quale  il  26  maggio  di  quell'anno,  gli  fa  pertanto  scri- 
vere: «  Sua   altezza    imperiale    s'interessa  tanto  più  a  tale    ver- 
tenza, in  quanto  non   dubita    punto  che  Ella,    signor    Cavaliere, 
nel  progresso  dell'opera  stessa  propugnerà  i  gran  principii  della 
nostra    Santa    Religione  e  dell'  ordine    sociale    con   quel   distinto 
ingegno   da  sua    Altezza    imperiale    apprezzato    come    una    delle 
nostre  glorie   patrie.   »   Ognuno    sente  qui  l'arte  incipiente  d'  un 
sovrano    seduttore.   L'Arciduca  Massimiliano    giunto    in  Milano, 
fa  cercare    del    Cantù   allora    segretario    dell'  Istituto   Lombardo; 
l'Austria  ha  mandato  il  suo  arciduchino  ad  esplorare  il    terreno, 
ai  più  irrequieti  promettendo  riforme  ;  una  delle  riforme  dovrebbe 
essere  il  rendere  indipendente    dall'  autorità   viennese  l' istruzione 
pubblica  per  sottoporla  all'autorità  dell'  Istituto  lombardo  ;  il  Cantù, 
con  una  facilità  eccessiva ,  si  lascia  pigliare  a  queir  amo  ;  gli  piace 
il  disegno  e  viene  incaricato  di  stenderlo;  per  darne  lettura  all' ar- 
ciduca deve  recarsi  a  Monza  ove  il  granduca  villeggia.  La  polizia 
perseguita  i  libri  del  Cantù;  il  principe  ne  onora  l'autore,  che  di 
quegli  onori  s'invanisce;  quindi  dispetti  polizieschi;  quindi,  ven- 
dette d'occulti  nemici;  quindi  s'inventa  e  s'accredita  tutto  un  piano 
di  cospirazione  politica,  combinato  fra  l'Arciduca  e  il  Cantù,  per 
dare,  col  pretesto  di  emanciparlo  dall'Austria,  il  Lombardo  Veneto 
nella  piena  balia  di  Massimiliano.  (1)  Que'  rumori  non  dispiacciono 


(1)  Pretesti,  ina  nulla  più  clie  pretesti,  ad  accreditar  quelle  voci  non 
mancavano;  il  seguente  rapporto  che  la  polizia  austriaca  a  Milano  fa- 


—  101  — 
punto  a  Massimiliano  che  se  ne  serve  come  di  un  hallon  d'essai,  per 
tentare  insieme  la  volontà  di  Milano  e  quella  di  Vienna.  Ma  Milano 
ride  smania,  protesta,  svillaneggia  il  Cantù,  né  colpevole  né  inno, 
cente,  troppo  credulo  e  vano  soltanto  ;  Vienna  s'acciglia.  I  giornali 
lafariniani  e  cavouriani  piemontesi  pigliano  sul  serio  quelle  voci 
e  le  riproducono,  rincarando  le  ingiurie  contro  il  Cantù,  nel  fatto 
federalista,  in  apparenza  ligio  ad  un  arciduca  austriaco.  Il  nostro 
storico  si  trova  allora  esposto  alle  ire  di  tutti.  Scrive  replicata- 
mente  all'arciduca  Massimiliano,  perchè  faccia  egli  stesso  smen- 
tir quelle  voci  ;  l'Arciduca,  il  30  e  il  31  gennaio  del  1859  gli 
fa  rispondere  dal  suo  segretario,  barone  de  Pont,  che  non  badi  a 


ceva  il  14  agosto  1858  ci  dà  la  chiave  dell'origine  di  quelle  accuse;  io 
lo  pubblico  qui  per  intiero;  ogni  lettore  può  rilevarne  al  più  che  le  pa- 
role dal  Cantu  pronunciate  in  quel  giorno  furono  quelle  di  un  liberale 
che  la  pensava  con  la  propria  testa  e  non  con  quella  del  Lafarina  e  del 
Cavour,  quelle  d'uno  storico  troppo  guelfo,  quelle  d'un  politico  di  mode- 
rati consigli  che  si  fidava  forse  troppo  d'un  principe,  ma  non  mai  quelle 
di  un  cattivo  italiano,  d'un  manutengolo  politico,  d'un  disertore.  Il  Cantù 
non  era  unitario;  ecco  il  suo  maggior  delitto;  ma  unitarii  non  eran  nep- 
pure Ferrari  a  Cattaneo  e  nessuno  pensò  mai  ad  ascriver  loro  a  delitto 
un  tal  sentimento.  Ecco  ora  il  rapporto  poliziesco  nella  sua  autenticità  : 

«  14  Agosto  1858. 

Ieri  sera  vi  era  alla  Società  d'incoraggiamento  il  nominato  Cantù  a 
leggere  i  fogli.  Vi  erano  pure  il  prof.  Butti  prete,  il  dottor  Viglezzi 
dell'ospedale  che  leggeva  la  storia  del  Cantù,  il  sig.  Peluso,  il  sig.  Su- 
sani  padre. 

Cominciarono  a  discorrere  di  tante  cose,  e  dopo  altri  discorsi  di  po- 
litica e  di  letteratura  il  sig.  Peluso  disse  che  il  sig.  Manzoni  poeta 
aveva  fatto  belle  poesie  e  belle  prose,  ma  finalmente  non  aveva  fatto 
niente  di  patriotico.  Il  prof  Butti  disse  che  nel  coro  del  Carmagnola 
vi  era  più  patriottismo  che  in  tutto  il  Leopardi.  Qui  dissero  chi  un 
verso,  chi  un  altro,  per  provare  e  per  negare.  Allora  il  sig.  Cantù,  che 
era  stato  in  silenzio  come  se  leggesse,  diede  su  e  disse  se  non  si  ricor- 
davano il  suo  inno  per  i  piemontesi  nel  1821.  Pare  che  nessuno  lo  cono- 
scessero (sic),  o  che  solo  si  ricordasse  di  averlo  letto.  Allora  egli  si  pose 
a  recitarlo  quasi  tutto,  o  almeno  quello  di  cui  si  ricordava  a  memoria. 
E  gridava  come  un  disperato  quando  diceva: 

0  stranieri  strappate  le  tende 
Da  una  terra  che  patria  non  v'è; 
Non  sentite  che  tutta  vacilla 
Sotto  i  passi  dei  barbari  piò  '{ 


—  102  — 
quelle  fandonie  e  calunnie,  ma  il  Cantù  insiste  ancora,  e  più  viva- 
mente; allora  il  3  febbraio  il  futuro  proconsolo  di  Napoleone  IH 
al  Messico  gli  fa  scrivere  un'ultima  lettera,  della  quale  ebbi  fra 
le  mani  l'originale,  e  che  dice  precisamente  così:  «  Pregiatissimo 
signor  cavaliere,  L'  A.  I.  R.  è  rincrescente  di  non  potere  nulla 
per  la  soddisfazione  eh'  Ella  domanda  sulle  dicerie  sparse.  La 
polizia  sa  nulla  sull'autore  della  calunnia.  Il  sig.  Poi  non  avrebbe 
azzardato  tal  passo  per  tentar  gli  animi.  Ogni  ulterior  passo  di  V.  S. 
in  proposito  spiacerebbe  a  S.  A.  I.  R.  Abbi  (sic)  pazienza.  Passate 
queste  velleità  di  guerra,  tornerà  la  ragionevolezza  ed  il  suo  paese 
riconoscerà  la  verità.  Da  molestie  per  parte  del  Ministero  si  tenga 


Stavano  tutti  molto  attenti  e  molto  lodarono  quei  versi,  e  dopo  ne 
presero  occasione  di  discorrere  di  politica.  Il  sig.  Peluso  diceva  che  era- 
no belle  parole,  ma  che  era  impossibile  di  unire  gli  italiani  come  le 
acque  che  si  uniscono  nel  Po,  che  erano  troppo  diversi,  che  si  odia- 
vano, che  si  era  veduto  nell'ultima  rivoluzione,  dove  i  milanesi  dete- 
stavano cordialmente  i  piemontesi. 

Il  Cantù,  dopo  altre  cose  diceva  che  allora  si  erano  odiati  in  grazia 
della  fusione  che  aveva  l'aria  di  un  intrigo,  e  che  pareva  di  volere 
sforzare  le  volontà.  E  che  non  era  bisogno  di  fusione,  ma  bastava  che 
i  varii  stati  d'Italia  si  unissero  fra  loro  in  una  federazione,  dove  cia- 
scuno conservasse  il  suo  governo,  ma  con  diritto  di  modificarlo  ;  solo 
avessero  uno  esercito  federale  per  reprimere,  se  mai  qualche  stato  di- 
venisse pericoloso  agli  altri. 

Il  Susani  domandò:  Sì  !  e  se  ci  assalirebbero  i  nemici? 

E  il  Cantù  rispondeva:  Bisognerebbe  che  le  potenze  fossero  d'ac- 
cordo, e  lo  diverrebbero  facilmente  giacché  toglierebbero  via  un  peri- 
colo continuo  di  un  incendio.  Allora  dichiarerebbero  l'Italia  neutrale  come 
la  Svizzera  e  il  Belgio  che  non  potrebbe  nò  far  guerra,  nò  esserlo  fitta. 

E  il  dott.  Viglezzi  domandò:  Cosa  ne  faremo  dei  Tedeschi? 

E  il  Cantù  rispondeva:  Lei  sa  che  il  Gioberti  vi  provvede  col  dire, 
di  essi  non  parliamo  come  se  non  ci  fossero. 

Risero  tutti,  e  il  Cantù  continuava:  ma  sul  serio  io  credo  che  l'Au- 
stria si  adatterebbe  senza  troppa  fatica  a  dar  al  Lombardo  Veneto  una 
certa  qual  indipendenza. 

Come  quella  del  principato  di  Neuchatel  ?  disse  il  sig.... 

No  :  come  quella  della  Lombardia  austriaca  prima  di  Giuseppe  lì", 
rispose  il  Cantù;  si  sarebbe  dipendenti  dall'impero  perchò  gli  si  pa- 
gherebbe un  grosso  tributo.  Affari  esteri  non  vi  sarebbero  perchò 
vi  è  la  neutralità.  Per  l'interno  si  regolerebbero  secondo  i  patti  della 
federazione.  A  cano  del  paese  potrebbe  benissimo  mettere  un  suo  arci- 


—  103  — 

guarentito.  L'opinione  dei  paesi  esteri  non  può  che  essere  favorevole 
a  chi  tanto  onora  l'Italia.  Aggradisca,  sig.  Cavaliere,  i  sensi  della  più 
distinta  mia  considerazione  —  B.""  de  Pont.  »  Sembra  egli  abba- 
stanza eloquente  questo  scritto?  Qual  bisogno  ha  più  il  Cantù  di 
difendersi,  quando  egli  possiede  un  documento  così  palese  della 
perlidia  poliziesca  e  della  viltà  di  Massimiliano?  L'  Austria  avea 
finalmente  vinta  la  sua  partita  col  Cantù;  non  potendo  sot- 
tomettere il  ribelle,  lo  avea  disonorato.  E  il  peso  di  quella  calun- 
nia aggrava  anche  ora  iniquamente  il  capo  canuto  di  Cesare 
Cantù.  Egli  ebbe  un  bel  protestare  allora  ;  Brofferio  poteva 
bene  scrivergli  il  7  febbraio  da  Torino  che  la  dichiarazione  di  lui 
avea  fatto  ottimo  effetto.  Al  Cantù  non  si  volle  prestar  fede,  e  da 


duca.  Questo  potrebbe  farsi  "più  facilmente  adesso  che  c'è  l'atcidaca 
Massimiliano  che  ce  n'avrebbe  molta  voglia,  e  che  è  amato  da  suo  Ira- 
tello.  Benché  austriaco  prenderebbe  amore  al  paese;  per  puntìglio  non 
vorrebbe  che  fosse  inferiore  ajrli  altri  dltalia.  Cosi  si  avrebbe  l'indi- 
pendenza in  tutti  gli  altri  Slati  e  una  semi-indipendenza  per  noi  altri 
che  non  abb  amo  100,000  uomini  per  cacciar  costoro. 

Il  Viglezzi  rifletteva  che  così  l'Italia  non  avrebbe  mai  nessuna  impor- 
tanza sulla  bilancia  europea. 

Non  otterrebbe  piti  il  primato  che  le  compete  secondo  il  Gioberti, 
di?se  il  prof.  Butti. 

Cosi  si  seguitò  a  discutere:  anche  altri  vi  presero  parto,  e  non  si 
venne  a  nessuna  conclusione.  » 

Qui  finisce  il  rapporto,  e  finisco  pur  io,  soggiungendo  soltanto  una 
breve  osservazione.  A  Torino,  nel  1859,  si  sognava  e  s'ambiva  un  solo 
regno  dell'Alta  Italia  sotto  la  casa  di  Savoia;  le  cose  andarono  meglio 
e  s'ebbe  anche  il  resto,  e  fu  gradito  volentieri.  Cantù,  rimasto  fedele 
all'idea  federale,  alla  lega  italiana  del  1848,  non  previde  allora  abba- 
stanza; tuttavia  quanti  liberali  d'adesso  si  atteggierebbero  a  martiri 
della  libertà  italiana  se  avessero  nel  1858  osato  parlare  come  il  Cantù! 
Ma  egli  seppe  mal  destreggiarsi  nei  torbidi  paduli  della  politica  olio 
chiamano  militante,  e  vi  si  lasciò,  da  chi  gli  volea  male,  colare  a 
fondo;  ò  egli  giusto  ch'egli  rimanga  eternamente  vittima  d'una  sola 
iniqua  calunnia?  Io  taccio  poi  qui  un  riscontro  che  parmi  degno  d'esser 
considerato.  Nelle  elezioni  politiche  del  1805,  Francesco  Dall'Ongaro,  gen- 
tile poeta  e  caldo  patriota,  scriveva  un  libello  umoristico  contro  Cesare 
Cantù;  quel  libello  non  calunniava,  ma  prestava  fido  orecchio  alla 
calunnia.  Pochi  anni  dopo  dovea  Io  stesso  Dall'Ongaro  cader  vittima 
dell'umorismo  di  gazzette  petulanti  e  pettegole.  Questo  esempio  parmi 
un  avviso  salutare  ai  letterati  anche  famosi  di  reciproca  tolleranza. 
HoiVe  miìv ,  cras  tìht. 


—  104  — 
quel  giorno  egli  ha  il  dolore  di  vedersi  segnalato  alla  pro- 
pria patria  come  un  disertore.  Egli  che  aveva  pensato,  amato, 
temuto,  patito  un'intiera  vita  per  l'Italia,  egli  doveva,  per  la  se- 
conda volta  in  sua  vita,  ne'giorni  delle  supreme  allegrezze  citta- 
dine, venir  cacciato  dal  giocondo  festino  degli  italiani  ritornati  a 
sé  stessi.  Alcune  parole  troppo  dispettose,  alcune  lettere  scritte  per 
difendere  i  suoi  proprii  lavori  dalle  persecuzioni  poliziesche ,  alcune 
visite  imprudenti  fatte  al  vanissimo  principe  promettitore  di  li- 
bertà bugiarde,  parvero  ragione  sufficiente  a  troppi  degli  italiani 
per  sciogliersi  a  un  tratto  da  qualsiasi  obbligo  di  simpatia,  di 
rispetto,  di  gratitudine  verso  il  signor  Cantù.  Si  dimentica  che 
egli  regalò  ad  una  intiera  generazione  la  quale  non  sapeva  allora 
ove  trovare  libri  che  fossero  scritti  per  lei,  un'ampia,  ricca  e 
animata  biblioteca  storica;  si  dimentica  d'aver  pianto  e  palpitato 
sopra  un  romanzo  di  lui,  che  unisce  la  immaginazione  e  il  vigore 
drammatico  d'un  Victor  Hugo  con  la  morale  d'uno  scrittore  man- 
zoniano; non  si  vuol  più  ricordare  d'avere  imparato  in  parte  da 
lui  i  doveri  del  galantuomo  italiano  ;  si  mostra  d' ignorare  che 
egli  ha  patito  il  carcere,  la  destituzione,  l'esiglio  per  la  causa 
della  libertà;  e  gli  si  domanda  come  ad  uno  straniero:  che  vieni 
a  fare  tu,  fra  noi,  cittadini  liberi  e  indipendenti?  Lo  si  proscrive; 
poi  si  fanno  anche  le  meraviglie  di  trovarlo  lontano  da  noi;  lo  si 
affligge  ogni  giorno  con  insulti  volgari  e  poi  si  muove  femmineo 
lamento  se  la  parola  frizzante  e  nervosa  di  lui  viene  a  ferirci. 
Diamo  pace,  e  pace  avremo;  anzi  più  che  dar  pace,  domandiamo 
perdono  ad  un  uomo ,  il  quale  ci  ha  insomma  fatto  bene ,  ed  al 
quale  non  abbiamo,  dal  giorno  in  cui  ci  ritrovammo  padroni  di 
noi  stessi,  saputo  rendere  altro  che  male.  Ed  io  mi  rivolgo  ai 
giovani  particolarmente,  i  quali  non  hanno  ancora  ne' sterili 
rancori  della  politica ,  covata  la  nera  ingratitudine  ;  io  domando 
al  loro  cuore  ben  fatto ,  e  alla  loro  intelligenza  non  adombrata 
dai  tetri  pregiudizii  di  una  pertìda  e  mutabile  ragion  di  Stato: 
Sommando  tutta  la  vita  politica  del  Cantù,  vi  sembra  egli  d'aver 
sotto  gli  occhi  l'esempio  d'un  buon  italiano"?  (1)  Sommando  la  vita 


(1)  Aggiungo  ancora  un  fatterello  significante.  Quando  gli  unitarii  ita- 
liani cedevano  Nizza  alla  Francia,  il  federalista  Cantù  dalla  Camera  dei 
deputati  scriveva  al  Cavour  queste  precise  parole:  «  Sig.  Ministro,  Vo- 
tando, io  domanderò  in  che  lingua  si  voterà  a  Nizza.  Se  il  sì  suona, 
che  cosa  mi  risponderà  Lei?  C.  Cantù  »  II  Cavour  scriveva,  in  forma  di 
responso  sibillino,  sotto  le  parole  prettamente  italiane  del  Cantù  nient'al- 
tro  che  questo:  «  Est  quoque  silentio  tuta  merces.  Cavour.  » 


—  105  — 
letteraria  del  Cantù,  vi  sembra  egli  che  n'esca  la  figura  di  un 
operoso,  limpido,  caldo,  versatile,  ingegnoso,  benefico  scrittore? 
Io  son  certo  di  udirvi  unanimi  rispondere  che,  sebbene  il  suo  rab- 
bioso guelfismo  che  gì'  impedisce  di  ragionar  filosoficamente  tutta 
la  storia  non  vi  garbi  (e  non  garba  neppure  a  me),  vi  sembra  cosi 
appunto.  Or  bene,  riparate  voi  l'ingiuria  fatta  al  Cantù  dalla  ge- 
nerazione che  vi  ha  preceduti;  difendetelo  voi  per  quanto  egli  fu 
ingiustamente  perseguitato  :  ricordatelo  voi  per  quanto  egli  fu 
ingiustamente  dimenticato  ;  e  lasciate  dire  chi  speri,  con  un  sol 
motto,  distruggere  il  virtuoso  vostro  proponimento;  nessuno,  cre- 
detelo, de'lievi  derisori  del  Cantù  sarebbe  stato  capace  di  sacrificarsi 
per  voi  com'egli  ha  saputo  fare,  e  molti  poi  di  quelli  che  lo  con- 
dannano non  conoscono  forse  la  decima  parte  di  quello  ch'egli  ha 
scritto.  (1) 


(1)  In  queste  pagine  stesse,  parecchie  opere  del  Cantù  non  furono 
ancora  ricordate:  tali  la  Scorsa  d'un  lombardo  negli  Archimi  dì  Yene- 
zia;  gli  Eretici  d'Italia  (una  storia  in  tre  volumi  in  ottavo,  delle  sette 
e  riforme  religiose  in  Italia);  due  Memorie  premiate,  l'una  a  Napoli 
Sull'origine  della  lingua  italiana,  l'altra  a  Modena  sulla  Libertà  d'in- 
segnamento, numerosi  opuscoli,  una  Storia  della  letteratura  latina,  per 
le  scuole,  im' Antologia  militare,  in  tre  parti,  premiata  dal  Ministero 
della  guerra,  e  altri  scritti  minori.  In  tutti  questi  scritti,  l'ingegno  dello 
scrittore  e  l'animo  del  patriota  si  rivela  ;  in  alcuni  il  pensatore  non  è 
sempre  all'altezza  dello  scrittore,  non  essendo  sempre  intieramente 
libero  il  suo  pensii^ro.  Alla  romana  congregazione  dell'Indice  le  reticenze 
e  la  riverenza  dello  storico  Cantù  per  i  dogmi  chiesastici  piacquero  ;  e 
tanta  sommessione  fece  pur  credere  che  i  Gesuiti  dirigessero  la  mente 
del  Cantù  mentre  egli  scriveva  la  Storia  Universale  ;  egli  portò,  in  vero, 
talora  il  suo  guelfismo  fino  al  bigottismo,  che  rende  partigiano  lo  scrit- 
tore ;  si  può  esser  guelfi  per  principio  ;  non  si  può  esser  bigotti  che 
per  ispirilo  partigiano  o  per  cecità  di  mente.  Non  potendosi  sospettare 
il  Cantù  d'ignoranza  rimane  solo  a  deplorarsi  ch'egli  non  abbia  altri- 
menti concepita  possibile  la  democrazia  che  per  mezzo  d'una  ristretta 
teocrazia. 


V. 
NICCOLÒ  TOMMASEO 


Il  giovine  lettore  avrà  forse  giù  avvertito  come  una  delle  qua- 
liià  più  costanti  e  più  caratteristiche  degli  uomini  più  originali, 
sia  quella  di  far  parte  da  sé  stessi.  Ingegni  mediocri  possono 
spesso  conseguir  fama,  indovinando  soltanto  le  vie  della  fortuna. 
Non  avendo  essi  nulla  di  proprio  che  rilevi  molto  conservare,  as- 
sumono facilmente  una  veste  popolare,  ossia  il  costume,  l'ingegno, 
il  carattere  che  sa  adattarsi  e  piacere  ai  più;  sono  affabili  ed 
alla  mano  con  tutti;  hanno  per  tutti  una  parola  gentile;  consen- 
tono e  non  dissentono;  si  guardano  dall'  urtare  come  dall'essere 
urtati;  la  folla  li  respinge,  ed  essi  si  ritraggono  frettolosi;  la  folla 
li  trascina,  ed  essi  se  ne  lasciano  portar  via  come  in  trionfo; 
facili  sempre  a  rimorchiarsi,  rassegnati,  in  ogni  caso,  a  trovar 
sempre  che  ogni  cosa  va  pel  suo  meglio  nel  migliore  de'mondi 
possibili  ;  si  direbbero  ingenui,  se  più  spesso  non  fossero  furbi,  i 
quali  riescono  ad  anticiparsi  in  questa  vita  una  certa  forma  di 
beatitudine.  E,  per  simil  gente,  come  l'eccletismo  è  un  commodino 
letterario,  così  l'elasticissimo  governo  costituzionale  appare  il 
più  commodo  fra  tutti  i  governi,  perchè  è  pur  quello  che  meno 
esclude,  ch'ha  più  larghe  braccia,  eh' è  più  capace  di  espedienti, 
che  tollera  e  simula  e  dissimula  e  contiene  e  nasconde  di  più; 
governo  d'oro,  se  per  farsi  d'oro,  non  ci  avesse  inondati  di  carta. 

Niccolò  Tommaseo,  in  mezzo  all'  Italia  costituzionale,  serba  an- 
cora fede  al  concetto  repubblicano;  in  mezzo  allTtalia  svogliata  ed 
incredula,  serba  ancora  fede  ostinatamente  cattolica;  in  mezzo  al- 
l'annacquata, smorta,  uniforme  letteratura  delle  gazzette,  serbasi 
ancora  scrittore  accurato,  ed  indipendente,  che  non  somiglia  a  nes- 


-  107  — 
suno,  e  a  cui  nessuno    forse    può    somigliare.  Per  queste  cagioni 
adunque  e  per  altre  che  il  lettore  rileverà   da   sé,    il    Tommaseo 
vive  ora  solo,  ed  impopolare,  per   quanto    scriva   egli    pure    libri 
destinati  al  popolo. 

Nacque  Niccolò  Tommaseo  a  Sebenico  in  Dalmazia,  di  Gerolamo 
Tommaseo  e  di  Caterina  Chessevich,  nell'  anno  1803.  (*)  De'  suoi 
primi  studii  egli  stesso  c'informa  nel  suo  volume  di  Memorie  poeti- 
che (1)  «  Sui  nov'anni  entrai  a  studiare  quella  che  chiamano  ret- 
torica  in  un  seminario,  aperto  anche  a'secolari,  dove  insegnava  un 
Vicentino,  il  cui  vivace  ingegno  riscosse  l'ingegno  mio,  m'ispirò 
l'amor  dell'Italia.  Superati  alla  fine  i  dirupi  delle  Muse,  vo'dire  la 
prosodia,  più  del  verso  italiano  ini  piacque  il  latino,  forse  perchè 
Virgilio  parevami  maggior  cosa  dell'Ariosto  e  del  Tasso,  e  del- 
l'Omero, del  Monti  e  di  altri  minori.  Di  Dante,  tranne  l'eterno 
convito,  il  maestro  ci  lasciava  digiuni;  e  fin  del  largo  fiume  ario- 
stesco  ci  dava  a  centelli.  Di  buona  prosa  italiana  quasi  niente; 
Cicerone  sempre,  e  sempre  le  orazioni.  »  Egli  ricorda  pure  un 
suo  verso  scolastico  d'allora,  nel  quale,  con  potenza  già  scultoria, 
rappresentasi  il  carattere  d'Attilio  Regolo: 

Oscula  despiciens  natorum;  et  mente  sua  stat. 

Il  Tommaseo  dura  tre  anni  in  quel  seminario  fra  esercizii  di 
poesia  e  di  composizione  latina,  né  mancano  i  ludi  scenici  ne'quali 
il  giovinetto  dalmata  calzando,  come  attore,  il  coturno,  ha  una 
volta  il  piacere  di  far  piangere  il  Rettore  del  seminario,  recitando 
V Eustachio  del  Palagi.  Que'tre  anni  sono  tuttavia  a  lui  già  «  solitarii 
nella  comune  convivenza,  amari  per  affetti  compressi,  per  anghe- 
rie patite,  per  invidiuccie  di  colleghi,  per  sonni  brevi,  per  tristo 
cibo,  per  dolori  corporei  piccoli  ma  pungenti  »  ed  invece  di  gemere 
un'elegia  patetica,  egli  medita  allora  un  dramma  che  rappresenti 
in  una  forma  vivente  i  mali  da  lui  patiti;  ma  al  principio  della 
terza  scena  s'arresta.  Da  questi  primi  appunti  panni  già  possibile 
il  presentire  lo  stile  a  colpettini  scultorii  che  dovrà  poi  dare  ca- 
rattere a  tutti  gli  scritti  del  Tommaseo,  nella  mente  del  quale  le 
idee  sorgono  per  lo  più  sotto  la  forma  drammatica  dell'antitesi. 


(*)  Veggasi ,  in  proposito  la  lettera  di  Niccolò  Tommaseo  che  trovasi 
al  fine  di  questo  Ricordo. 

\ì)  Venezia,  cui  tip;  del  Gondoliere,  1838. 


—  108  ~ 
A  dodici  anni  egli  scrive,  contro  Napoleone  caduto,  sestine  e 
sonetti  che  vengono  appesi  alle  botteghe  parate  a  festa  e  che  gli 
valgono  il  sonetto  di  un  valentuomo,  tutto  inteso  a  glorificarlo. 
Dai  dodici  ai  quattordici  anni,  egli  studia  filosofia,  ma  con  disgu- 
sto; onde  i/nprovvisa  contro  di  essa  de'quinarii  col  ritornello: 

Il  ciel  ti  fulmini. 
Filosofia! 

E,  per  passatempo,  traduce  Virgilio  in  dialetto  veneziano. 

Altri  due  fatterelli  relativi  a  quegli  anni  importano  qui  essere 
riferiti,  l'uno  perchè  ci  conferma  come  l'ingegno  del  Tommaseo  fosse 
più  vago  di  forza  che  d'eleganza,  l'altro  perchè  ci  mostra  come  il 
giovine  dalmata  fosse  naturalmente  predisposto  a  divenire  un  cri- 
tico. E  egli  stesso  che  parla:  «  Più  di  tutti  i  precetti  rettorici 
potè  in  me  l'osservazione  fatta  da  mio  zio  sopra  due  maniere  di- 
verse di  stife  di  due  persone  che  vivevano  seco:  Nell'uno,  mi  dis- 
s'egli,  è  più  eleganza:  nell'altro  più  forza.  E  me  ne  rammento 
come  se  l'avesse  dett'  ieri;  e  sulla  forza  pigiò  più  che  sulla  ele- 
ganza: si  che  senza  giudicare  qual  delle  due  fosse  meglio,  avviò 
l'intendimento  mio,  incerto,  per  saldo  cammino.  —  Un  altro  eser- 
cizio, nocevole  all'animo,  è  forse  un  po'giovato  all'ingegno.  Capi- 
tatemi certe  terzine  d'uno  che  m'era  stato  collega  malignuccio  e 
causa  di  molti  tedii,  presi,  non  per  fiele,  ma  per  mal  umore,  a 
cercarvi  col  fuscellino  ogni  difettuzzo,  e  in  ogni  verso  ne  ritrovai, 
quasi  ad  ogni  parola.  —  Cotesto  aguzzare  gii  occhi  a  notare  il 
falso  0  il  disadorno  o  il  superfluo  negli  scritti  altrui  mi  giovò 
quindi  a  vederlo  ne'miei.  »  A  quattordici  anni  egli  incomincia  a 
sentire  e  a  cantare  la  natura;  un'impressione  provata  gli  fa  tro- 
vare, a  proposito  d'una  fonte  scoperta  nel  podere  d'un  amico,  fra 
gli  altri,  i  seguenti  pittoreschi  endecasillabi: 

.   Has  Pomona  suo  benigna  gressu 
Solet  floridulas  beare  terras. 
Fructus  ipse  frequens  Deam  recentes 
Vidi  candidulo  sinu  gerentem 
Huc  e  ceruleo  volare  Olympo. 

In  un  viaggetto  fatto  a  Zara,  sente  arringare  avvocati  e  prende 
amore  all'avvocatura;  reduce  a  Sebenico,  egli  si  risolve  ad  un  viag- 
gio in  Italia,  col  proposito  palese  di  ritornar  poi  a  Sebenico  a  difen- 


—  1011  — 
der  cause,  ma  col  segreto  presentimento  di  rimanere  invece  in  Italia 
a  farvi  il  letterato.  «  M'imbarcai,  egli  scrive,  per  l'Italia,  giovanetto 
ignaro  degli  usi  del  mondo,  più  timido  che  selvaggio,  orgogliosa- 
mente modesto,  chiuso  in  me,  e  tutto  armato  di  punte  per  respingere 
l'affetto  altrui  e  la  bellezza  delle  cose  di  fuori;  ma  educato  a  quella 
gentilezza  d'animo  inconsapevole  di  sé  che  ispirano  gli  esempi 
continui  della  virtù  e  del  pudore.  » 

A  Padova  conosce  Sebastiano  Melan  che  gli  diviene  ad  un  tempo 
maestro  ed  amico,  e  «  che  voleva  nello  stile  quelli  che  potentemente 
chiamava  verhorum  jacula.  »  Conosce  pure  e  visita  spesso  Giuseppe 
Barbieri,  cui  dedica,  sedicenne,  alcuni  esametri  latini  pieni  di  vigore 
e  d'eleganza.  Fa  molte,  varie,  disordinate,  in  parte  buone  ed  utili,  in 
parte  indigeste  e  sterili  letture;  incomincia  a  spogliare  pazientemente 
autori  latini  per  trarne  giunte  al  lessico  del  Porcellini  ;  e,  in  pari 
tempo,  va  cercando  nella  storia  ecclesiastica  del  Calmet,  per  appun- 
tarseli, tutti  i  soggetti  tragediabili  «  Ma  il  cuore,  prosegue  egli,  pa- 
tiva, rinchiuso  in  sé  stesso;  e  però  poco  poteva  aprirsi  a  nuova 
luce  l'ingegno.  Orgogliosamente  timido,  ignaro  e  sprezzante  di 
modi  che  simulano  gentilezza  e  benevolenza,  desideravo  esercitare 
l'affetto,  e  non  sapevo  se  non  con  pochi  ;  'e  tra  il  rispetto  e  lo 
spregio,  tra  il  sospetto  e  la  tenerezza  non  vedevo  alcun  mezzo. 
Fanciullo  in  molte  cose,  in  poche  uomo,  in  altre  decrepito.  Tale 
ero,  passato  di  poco  il  sedicesim'anno,  quando  conobbi  Antonio 
Rosmini  che  nel  suo  ventitreesimo  anno  studiava  di  teologia 
l'anno  quarto  quand'io  '1  secondo  di  legge.  —  Io  non  l'ho  amato 
in  sul  primo  ;  tropp'alta  era  in  lui  la  mente,  e  la  virtù  troppo  se- 
vera; quel  che  potevo  comprendere  di  quella,  o  di  questa  speri- 
mentare, mi  sbigottiva.  Ed  egli  m'amava  già,  e  m'apprezzava 
oltre  a  quanto  io  valessi  e  sia  valuto  mai  :  che  m'era  vergogna. 
Vergogna  forse  più  superba  che  umile,  ma  profìcua.  » 

In  quell'anno  medesimo,  il  Tommaseo  scrive,  in  uno  stile  lam- 
biccato e  contorto,  un  libriccino  per  provare  che  Cristo  è  l'otti- 
mo degli  amici.  Nessun  ideale  ancora  lo  tenta;  egli  è  sempre  alla 
rettorica.  A  17  anni  compone  un'epistola  latina  per  laurea  d'amico, 
ove  son  notevoli  i  seguenti  esametri  ne'quali  l'autore  fa  già  di 
sé  tale  ritratto  che  può  servirgli  anche  oggi,  dopo  più  che  mezzo 
secolo  : 

Vestis  si  crassa,  aut  defluit  aequo 
Rusticius,  nil  discrucior.  Puerilia  curo 
Interduni;,  ignarus  cum  magnis  vivere.  Inanis 


—  110  — 

Leges  nil  moror  offlcii,  aut  suffragia  lauduni. 
Panca,  et  parva  loquor.... 

Mobilis,  impar 

Ipse  mihi,  raro  laetus 

Placidiis  vultu,  sed  pronus  ad  iram, 
Et  minimis  angor.  Momento  at  protinus  horae 
Nubila  diffugiunt  animo  intempesta  sereno. 

Continua  l'autobiografia:  «  Nella  dipartenza  del  buon  Rosmini 
che,  finito  il  corso,  ripatriava,  sebbene  io  non  l'amassi  di  tene- 
rezza, piansi.  Egli  mi  scrisse  un'epistola  in  versi,  piena  di  vero 
affetto;  la  quale  io  sciagurato  mi  misi  a  rivedere  con  severità  fe- 
roce, e  le  censure  mie  gli  mandai  per  risposta.  Il  demone  della 
critica  sovente  mi  prese  cosi  pe'capelli,  e  fece  talvolta  parere  tri- 
stizia quel  ch'era  in  me  vanità  scolaresca,  o  grettezza  di  studii, 
od  ostentazione  di  libertà,  o  sdegno  e  sospetto  d'ogni  non  vera 
grandezza  ».  Da  un  altro  giovine,  ch'era  pure  amico  al  Rosmini, 
morto  consunto,  il  Tommaseo  confessa  d'aver  appreso  il  gusto  degli 
studii  filologici,  delle  etimologie,  dei  paragoni  di  lingua  con  lingua. 

Nell'inverno  del  18:20,  scrive  «  certe  lettere  sacre,  inzeppandovi 
al  solito  le  eleganze,  come  si  ficca  il  ramerino  in  un  lacchezzo  di 
agnello  »;  e,  a  questo  punto,  egli  soggiunge  nelle  sue  Memorie,  un 
buon  consiglio  :  «  Io  sarei  dottissimo  se  sapessi  il  milionesimo 
delle  cose  lette  ;  e  molto  debbo  aver  letto  anco  in  questi  primi 
anni  a  giudicare  dai  molti  volumi  comprati  con  cieco  desiderio  di 
amante.  Ma  dai  libri  io  appresi  piuttosto  a  coniare  il  metallo  di 
impronta  mia  che  a  far  tesoro  del  già  meglio  coniato.  E  questo 
è  bene  in  parte  ;  in  parte  è  gran  danno  ;  bene  là  dove  si  tratta 
delle  opinioni  ;  là  dove  de'fatti,  male.  Della  qual  distinzione,  fac- 
cia senno  chi  n'è  ancora  in  tempo.  I  fatti  raccolga,  le  opinioni 
non  curi  ;  perchè  in  queste  parlano  gli  uomini,  in  quelli  Dio.  » 

A  18  anni,  il  Tommaseo  frequenta  il  teatro,  legge  l'Alfieri,  tenta 
una  tragedia,  la  vittima  del  qual  tentativo  sarebbe  stata  Semira- 
mide, se  l'autore  non  si  fosse  fermato  al  primo  monologo  ;  traduce, 
in  gran  parte,  il  Cid  di  Corneille  in  versi  italiani  :  tenta  epistole, 
saflìche  e  satire;  traduce  Lucrezio;  si  erudisce  nel  greco  con 
Amedeo  de'Mori;  stende  sulla  carta  alcuni  suoi  pensieri  estetici, 
che  lasciano  già  sperare  il  futuro  autore  del  Dizionario  d'Esteti- 
ca; legge  Werther  ed  Ortis,  e  lascia  Padova  per  tornare    in   fa- 


—  Ili  — 

miglia;  in  viaggio,  un  grave  amore  lo  incoglie;  nell'autunno 
scrive  molti  sonetti  amorosi,  un  misto,  per  quanto  parmi,  di 
stentata  nudità  alfieriana,  di  petrarchevole  sdolcinatura,  di  dispe- 
razione foscoliana  e  di  propria  virilità  sdegnosa. 

Tornato  in  Italia,  il  Tommaseo  compie  il  quart'anno  di  legge  a 
Venezia  sotto  maestro  privato,  ciò  essendo  concesso  dagli  istituti 
dell'Ateneo  padovano  ;  ma,  in  verità,  egli  non  si  occupa  seriamente 
d'altro  che  d'amori  e  di  versi  ;  il  che  torna  quanto  a  dire  ch'egli 
vive  ozioso.  Compone  due  tragedie;  «  i'avevo,  scriv'egli,  schele- 
trita ancor  più  che  l'AUìeri  non  facesse.  Melpomene,  e  ridottala  a 
contentarsi  di  tre  per.sonaggi.  » 

Passato  l'inverno  in  ozio  infingardo  a  Venezia,  il  Tommaseo, 
ricondottosi  nella  primavera  a  Padova,  vi  intende  un  attore,  la 
cui  voce  potente  per  vibrazioni  e  inflessioni  nuove,  e  tratte  dal 
petto  profondo,  gli  diviene  maestra  di  stile. 

Nella  state  di  queir  anno,  concorre ,  indottovi  dal  Rosmini,  ad 
una  cattedra  di  grammatica  nel  ginnasio  di  Rovereto;  fra  i  temi 
proposti  ve  n'è  uno  sul  modo  con  cui  il  maestro  può  inspirare  la 
religione  ai  fanciulli;  il  Tommaseo  serba  copia  del  componimento 
scritto  in  quell'occasione;  io  qui  ne  reco  un  brano  a  prova  che 
lo  scrittore  italiano,  malgrado  un  po'di  ridondanza  Bartoliana  era 
allora  quasi  che  formato.  «  La  disciplina  non  rimessa,  non  dura  .. 
viene  infrenando  gli  eccessi,  i  difetti  adempiendo  ;  e  fa  simile  a 
maestoso  fiume  la  vita,  che  vien  tra  sponde  ombrate  e  fiorenti; 
limpido,  uguale  sonante  e  nel  1  Oceano  che  l'aspetta  non  finisce  ma 
posa.  Gl'insegnamenti  non  escano  ma  trabocchino  dal  cuor  pieno. 
I  rimbrotti  rigurgitati  non  paiano  da  inceso  animo,  ma  piovuti  da 
mente  serena  »;  pel  tema  di  latino,  egli  scrive  una  dissertazione 
in  lingua  latina  sui  verbi  impersonali,  cosa  veramente  superiore 
all'età  dello  scrittore  e  all'entità  del  concorso;  tuttavia,  come  av- 
viene, a  Rovereto  si  vogliono  contentare  di  meno;  il  Tommaseo 
non  vince  il  concorso. 

Nel  diciottesimo  anno,  il  nostro  dalmata  scrive  pure  tre  inni 
latini  in  onore  di  Sant'Anastasio,  il  cui  corpo  è  venerato  a  Zara, 
una  serie  di  elegantissimi  esametri  in  lode  della  villetta  di  Giu- 
seppe Barbieri  a  Torreglia,  e  pubblica  un  volumetto  di  versi  la- 
tini, con  un  saggio  di  traduzione  latina  del  primo  canto  della 
Divina  Commedia. 

Nel  febbraio  del  18:22,  il  Tommaseo  s'addottora  in  Legge,  e,  per  tesi 
di  laurea  assume  di  provare  :  la  legge  naturale  stendere  la  sua  san- 
zione alla  vita  avvenire.  «  Que^a  esercitazioncella  retturica,  prose- 


—  112  — 

gue  egli  a  scrivere  di  sé,  mi  meritò  le  congratulazioni  d'un  de'miei 
professori,  legista  non  più  forte  di  me,  ma  arguto  e  facile  inge- 
gno, Luigi  Mabil.  E  questa  mi  fu  occasione,  tornato  in  Italia, 
di  rivederlo  e  approfittar  de'suoi  colloquii  e  de'libri.  Per  lui  co- 
nobbi V  Antologia  di  Firenze,  e  appresi  ad  amarla  ;  né  forse  (se 
questo  non  era)  più  tardi  mi  Scirei  proferto  di  scrivere  in  essa.  » 
Tornato  a  Sebenico,  contrae  amicizia  con  un  suo  giovine  conter- 
raneo, Antonio  Marinovich  (1),  ricco  d'ingegno,  di  cuore,  e  di  li- 
bri, liberalmente  imprestati  al  Tommaseo,  il  quale,  intanto,  fra 
lettura  e  lettura,  traduce  un  po'd'Iliade  dal  greco,  continua  a  far 
versi  latini,  francesi,  ed  a  pigliare  appunti;  uno  di  essi,  riferentesi 
all'età  di  vent'anni,  parmi  che  meriti  esser  qui  rilevato,  poiché  il 
giovine  ignoto  scrittore  ventenne,  ed  il  critico,  ora  fatto  venerando^, 
vi  si  ritrovano  in  ima  mirabile  identità  d'aspetto  :  «  Falsamente  si 
crede  che  tuttociò  che  giova  apparentemente  sia  diritto,  e  tutto 
ciò  che  apparentemente  spiace  sia  dovere.  Anzi  é  diritto,  preci- 
samente parlando  il  dovere,  E  il  diritto  é  dovere  anch'esso:  » 
Non  so,  in  vero,  se  oggi  il  Tommaseo,  malgrado  l'affievolita  re- 
miniscenza degli  O/fìcii  di  Cicerone,  direbbe  altrimenti  la  stessa 
inezia. 

A  vent'anni  ancora,  ei  legge  e  compendia  il  saggio  del  Grassi  sui 
sinonimi.  «  Dai  sinonimi  del  Grassi,  egli  perciò  scrive,  di  lì  a  sette 
anni  dovevano  nascere  i  miei;  dalle  idee  raccolte  nella  lettura  del 
Cartesio  i  miei  aforismi  della  scienza  prima;  dall'Emilio  gli  scritti 
varii;  dagli  esercizii  lirici  e  tragici,  i  componimenti  drammatici 
e  lirici  de'seguenti  anni.  »  Fra  i  sinonimi,  ossia  il  dramma  in- 
nocente delle  parole,  compone  due  atti  di  una  nuova  satanica 
tragedia,  intitolata  Caino,  poiché,  com'egli  dice,  l'anima  sua,  in 
quel  tempo,  caineggia;  il  che  non  gli  toglie  tuttavia  di  comporre 
piamente  un  opuscolo  contro  il  Lamennais,  il  quale  negava  alla 
Chiesa  molta  parte  di  quella  autorità  ch'essa  suole  attribuirsi. 
L'anima  di  lui  é  in  continua  tempesta,  agitata  fra  l'amore  e  lo 
sdegno;  e  lo  scrittore  pure  si  conforma  a  quello  stato  dell'animo. 
«  Troppo  sovente,  scriv'egli  con  molta  verità  di  sé  stesso,  l'ispi- 
razione fu  in  me  soffocata  dalle  arguzie  dell'ingegno,  che,  invi- 
ziato dall'arte,  si  caccia  importuno  tra  l'affetto  e  le   cose.   E  dei 


(Ij  A  lui  è  dedicata  una  novella  intitolata:  Due  ^«c?',  edita  a  Milano 
nel  1831,  che  il  Tommaseo  diceva  tradotta  dairillirico  ma  che  viene 
attribuita  a  kii  stesso. 


—  113  — 

gambetti  che  diede  l'ingegno  all'affetto  mio,  non  vi  saprei  dire 
il  numero.  »  Uggioso  a  sé  ed  a'suoi,  abbandona,  allora,  nuova- 
mente, e  definitivamente,  la  famiglia  in  pianto,  per  tornare  in  Ita- 
lia, a  tentarvi  la  fortuna  delle  lettere. 

Dal  marzo  al  giugno  del  1823  egli  vive  a  Padova,  ove  compo- 
ne, per  mandato  commessogli,  un  volumetto  di  pregliiere  euca- 
rìstiche; accetta  quindi  per  soli  quindici  giorni  l'ospitalità  del 
Rosmini  a  Rovereto  che  glie  1'  aveva  offerta  per  sempre  ;  poi 
torna  a  Padova;  scrive  dieci  ditirambi  e  dieci  cantici  sul  mare. 
Al  fine  dell'estate  divien  giornalista;  e  qui  nuovamente  importa 
udire  le  parole  stesse  della  copiosa  autobiografia:  «  Le  povere  cose 
che  segnate  del  nome  mio  per  lo  spazio  circa  d'un  anno  comparvero 
nel  giornale  trevigiano,  attestano  l'inesperienza  dell'ingegno  e  la 
fiducia  soverchia  dell'animo.  Quali  cagioni  mi  movessero  a  cen- 
surare acerbamente  qualch'uomo  degno  di  stima  e  qualch'altro 
degno  di  pietà,  non  potrei  dire  senza  entrare  in  particolari  te- 
diosi, i  quali,  lavando  in  parte  me,  macchierebbero  altrui.  Meglio 
chiamarsi  in  colpa  e  confessare  che  a  scrittore  di  ventun  anno 
non  era  lecito  di  levarsi  giudice  delle  opere  altrui.  Ma  quell'eser- 
cizio conducendomi  a  molte  e  svariate  letture  che  di  mio  arbitrio 
non  avrei  mai  durate,  per  varie  serie  d'idee  mi  venne  agitando 
l'ingegno  ;  unica  forse  utilità  ch'io  traessi  dal  decenne  lavoro.  Ma 
i  danni  furon  parecchi  ;  l'abito  critico  che  spegne  e  intepidisce  il 
senso  poetico;  l'orgoglio  esercitato  sopra  misere  cose,  e  però 
tanto  più  caparbio  ;  le  animosità  per  meschina  cagione  eccitate, 
le  quali  deste  una  volta  non  s'addormentano  mai.  » 

Avendo  inteso  la  Sposa  di  Messina  del  Carrer,  ch'egli  allora  cono- 
sce e  frequenta,  pare  al  Tommaseo  di  poter  far  meglio,  e  vi  si  prova; 
ma  la  sua  tragedia  non  viene  rappresentata;  tuttavia  rincresce  a  lui 
nel  1838  d'essersi  voluto,  per  vanità,  far  emulo  d'un  giovane  a  cui 
egli  sentiva  di  dover  soltanto  gratitudine  ;  ma  con  cui,  alcuni  anni 
dopo,  ritornava,  tuttavia,  a  guastarsi. 

Medita  allora  un  nuovo  giornale  sotto  il  titolo:  Piccola  Gal- 
leria cV Amenità  letterarie;  poi,  essendo  per  due  mesi  a  Sebe- 
nico,  un  altro  giornale  ancora  il  quale  dovrebbe  dividersi  in 
cinque  parti,  morale,  evangelica,  estetica,  storica,  politica,  dome- 
stica^ e  pel  quale  prepara  anzi  un  discorso  molto  rettorico  intorno 
alla  moneta.  «  11  buon  Marinovich,  seguita  l'autore  stesso,  lettolo, 
mi  fece  amorevolmente  intendere  ch'ell'era  una  cria;  e  sorridendo 
mi  disse  una  parola  sapiente,  che  allora  mi  parve  amara  a  man- 
dar   giù:   —  e' ci  vorrebbe  dietro  agli   scrittori   (come    dietro   a 

Ricordi  Biografici  8 


—  114  — 

quell'oratore  antico)  un  flauto  che  li  aiutasse  a  intuonare  giusto. 
—  Voi  vedete  che  non  poteva  esser  uomo  volgare  chi  pensò  questo 
motto,  il  quale,  rimastomi  fisso  in  mente,  mi  fu  sempre  più  dalla 
esperienza  illustrato.  E  conobbi  come  lo  sbagliare  l'intonazione, 
0  l'azzeccarvi,  è  quel  che  distingue  l'uomo  sano  e  maturo,  dal 
ragazzo,  dallo  sciocco,  e  dal  matto.  » 

Nel  suo  21^*  anno,  il  Tommaseo  giunge  a  Milano,  ed  è  presen- 
tato allo  Stella,  che  gli  dà  lavoro;  scrive  per  esso  gli  Enimmi 
storici:  immagina  una  nuova  Proposta  contro  quella  del  Monti, 
compendia  il  Galateo  del  Gioia,  discorrendo  egli  stesso  in  modo 
inurbano  sull'urbanità;,  fino  al  23°  anno  svariatissime  sono  le  sue 
letture  e  le  impressioni,  e  i  tentativi  di  scritti  diversi;  fra  i  quali 
egli,  ai  romantici  più  avverso  che  amico,  incomincia  pure  un  ro- 
manzo intitolato  romanticissimamente:  Una  notte,  e  di  cui  il  Tom- 
maseo stesso  ci  reca  alcuni  frammenti  di  una  pazza  sensualità. 

Quasi  nel  tempo  stesso  pubblica  un  libriccino  :  Il  Perticari  confu- 
tato da  Dante  (1),  che  potei  ritrovare  e  leggere.  Sono  68  pagine  di- 
vise in  due  parti,  la  prima  parte  in  sei  sezioni,  la  seconda  in  quattro; 
ogni  sezione  é  suddivisa  in  brevi  paragrafi  ;  alcuni  de'quali  di  due 
righe  appena.  Il  giovine  autore  vi  palesa  già  un'alta  opinione  di  sé  : 
«  Contro  le  opinioni  del  Perticari,  dic'egli  ai  Lettori,  ch'io  stimo 
come  valentissimo  scrittore  e  come  ottimo  letterato,  non  però  come 
pensatore  profondo,  né  come  giusto  giudice  delle  toscane  eleganze,  io 
non  pubblico  che  brevi  cenni;  poiché  la  questione  è  dall'un  lato 
sì  chiara,  dall'altro  si  frivola  che  non  meritava  di  più.  Posso  dire 
con  tutta  certezza  che  chiunque  avrà  la  sofferenza  di  leggermi  ne 
sarà  pienamente  convinto.  »  Il  giovine,  oscuro,  Tommaseo  confuta 
l'illustre  Perticari  per  via  di  brevi  sentenze,  recise,  inamabili,  impe- 
riose, e  le  conchiude  in  quattro  brevi  ammonimenti,  i  quali  trascrivo: 
«  I.  Altro  è  desinenza  altro  è  parola.  Altro  è  parola,  altro  è  frase. 
Altro  è  frase,  altro  è  stile.  Altro  è  pronuncia,  altro  è  lingua  (cose 
tutte  che,  molto  probabilmente,  il  Perticari  sapeva  da  sé).  IL  II 
fiore  dell'Italiano  è  il  Toscano;  senza  lo  studio  de'toscani  modelli 
non  può  nel  nostro  secolo  attingersi  la  migliore  eleganza  (propo- 
sizione forse  men  felice  ;  l'eleganza  ciascuno  che  abbia  gusto  può 
darsela  da  sé;  nel  toscano  si  cerca  non  il  fiore,  ma  il  succo  ve- 
getativo del  patrio  linguaggio).  IH.  Gioverebbe  all'Italiano,  oltre 
al  proprio  dialetto  conoscer  di  pratica  un  de'più  belli  in    fra'dia- 


(1)  Milano,  coi  tipi  de'fratelli  Sonzogno. 


—  115  — 
letti  toscani;  perchè  non  tutte  le  eleganze  di  questi  dialetti  fu- 
rono consegnate  alle  carte;  e  perchè  nella  lingua  parlata  l'ele- 
ganze son  vive.  IV.  A  parila  d'ingegno  e  di  studio  (e  bisognava 
anco  aggiungere  di  cuore)  un  Toscano  sarà  sempre  più  puro,  più 
dolce,  più  elegante  scrittore  eh'  altro  qualsiasi  italiano.  »  —  Un  anno 
dopo,  il  Tommaseo  ripiglia  la  stessa  questione  in  mi' Apjjeìidice 
all'opuscolo:  Il  Perticari  confutato  da  Dante  o  sia  Risposta  dì 
N.  Tommaseo  ad  un  articolo  della  Biblioteca  italiana  (1). 

Seguita  il  giovane  letterato  Dalmata  a  tradur  Virgilio,  immagina 
cento  Tavolette  satirico-morali  ad  imitazione  delle  Esopiane,  e  ne 
scrive  una  sola,  spoglia  autori  italiani  per  far  giunte  alla  Crusca, 
scrive  sentenze  alla  Rochefoucault  e  intanto  patisce  la  miseria  e  la 
ftime.  Allora,  sdegnando  ricorrere  per  aiuto  al  padre,  sempre  a  lui 
liberale,  si  rivolge  di  nuovo  all'ospitalità  del  Rosmini,  prima  sde- 
gnata, e  si  profferisce  collaboratore  -àW Antologia.  «  In  sul  partire 
per  Rovereto,  scrive  egli  stesso,  ricevo  una  lettera  della  madre  di 
Alessandro  Manzoni,  la  qual  mi  pregava  di  passare  da  lei  ;  e  ciò  per 
prestarmi  (la  intenzion  sua  era  altra  che  di  prestito)  tanto  da  fare 
il  viaggio.  Accettai  il  danaro,  e  conservo  1^  lettera,  come  cara  me- 
moria; e  m'è  dolce  rammentare  d'avere  destata,  se  non  meritata,  la 
compassione  affettuosa  del  primo  poeta  e  del  primo  filosofo,  viventi 
d'Europa;  di  due  cristiani.  »  Giunto,  dopo  un  viaggio  molto  stra- 
pazzato, a  Rovereto,  viene  dal  Rosmini  accolto  con  grande  amo- 
revolezza. «  Più  in  grado,  egli  dice,  d'approfittare  de'coUoquii  del 
Rosmini,  m'  indirizzai  in  quel  soggiorno  a  nuovi  studii.  Pensai 
un  romanzo,  non  condotto  ad  esecuzione;  ma  il  pensiero  era  notabile 
per  ciò  solo  che  i  concetti  e  i  voleri  e  le  sorti  della  seguente  mia  vita, 
sono  ivi  chiaramente  indicate,  vaticinate.  Poi  mi  diedi  a  leggere 
San  Tommaso  con  amore,  e  a  far  le  sue  scintille  di  molte  idee  mie  ; 
poi  a  scrivere  preghiere  appropriate  allo  stato  del  mio  spirito; 
[loi  a  notare  le  bellezze  o  bruttezze  morali  de'  vecchi  Latini, 
giudicandole  con  le  norme  d'una  morale  più  alta.  »  Compie  pure 
allora  nuovi  studii  su  Dante  e  traduce  in  parte  le  serate  del  De 
Maistre. 

Nel  marzo  del  1826,  ritorna  col  Rosmini  a  Milano,  e  vi  pro- 
segue i  suoi  studii  di  lingua,  a  ciò  aiutandosi  pure  col  tradurre 
dal  greco  in  purgato  italiano;  tenta  pure  in    que'giorni  «  un  ro- 


Milano,  coi  tipi  doTratclli  Sonzogno,  1826. 


-  116  - 

manzo  critico  sul  fare  dello   spagnuolo  Don   Gerondio,  dove  tar- 
tassare un  pò  la  piccola  letteratura  del  tempo.  »  (1) 

«  Lo  scrivere  neW Antologia  di  Firenze,  prosegue  egli,  mi  diede 
occasione  a  studii  varii  di  storia,  di  filosofia,  di  economia,  di  stati- 
stica, di  estetica;  e  nel  rendere  altrui  conto  delle  idee  altrui  con- 
veniva, bene  o  male,  render  ragione  a  me  delle  mie;  conveniva,  sopra 
le  cose,  delle  quali  idee  ed  opinioni  non  avevo,  acquistarle.  L'ufl?ìcio 
di  critico  dovrebbe  spettare  ad  uomini  che  dalla  sperienza  propria 
possan  trarre  norme  all'educazione  d'altrui;  a  me,  la  critica  (e 
non  a  me  solo)  servi  ad  educare  me  stesso;  e  giudicando,  appresi 
a  metter  giustizia.  E  forse  educando  me  stesso,  per  via  d'insegna- 
mento mutuo,  aiutai  qualche  poco  all'educazione  altrui.  » 

Nel  1827,  il  Tomimaseo  impara  a  conoscere  Michele  Sartorio  e  Sa- 
muele Biava,  e  gode  spesso  de'colloqui  del  Rosmini,  e  del  Manzoni 
«  Col  quale  conversando,  egli  scrive,  più  cose  imparai,  e  più  (ch'è 
il  più  difficile)  disimparai  che  non  avrei  fatto  a  lungamente  studiare 
ne'libri,  e  a  lungamente  ragionare  con  altri  letterati  chiarissimi. 
Tra  la  dolcezza  degli  accennati  colloqui,  e  la  lettura  dei  canti  po- 
polari della  Grecia  (che  m'innamorarono)  e  di  libri  e  di  gazzette 
francesi,  e  la  traduzione  di  parecchi  opuscoli  rettorici  di  Dionigi, 
e  la  compilazione  de'sinonomi,  mi  corse  serena  la  primavera  e  la 
state.  Chiamato  a  Firenze  dal  buono  e  di  molti  benemerito  Vieus- 
seux,  scrissi  prima  di  lasciare  Milano,  i  pensieri  sul  sublime,  dove 
lo  stile  e  le  idee  cominciano  un  poco  a  raffermarsi,  comincia  a  tro- 
var parole  meno  inadeguate  l'atTetto.  Le  dipartenze  mi  furono 
consolate  di  lacrime  e  mie,  ed  altrui  ;  né  la  cordialità  lombarda 
m'escirà  mai  dal  pensiero.  »  Su  quest'invito  a  recarsi  in  Firenze 
ci  informa  pure  il  Tommaseo  in  altra  sua  operetta  (2)  :  «  Quando, 
per  un  proposito  ostinato,  non  senza  prenunziare  a  me  stesso  in- 
felicità, ebbi  lasciata  la  professione  delle  leggi  e  i  modesti  ma  si- 


(1)  Sulla  caccia  di  Arriano  tradotta  dal  Tommaseo,  la  Biblioteca  ita- 
liana del  maggio  1827  scriveva:  «  Se  questo  sia  veramente  il  carat- 
tere dello  stil  d' Arriano,  seguace  perfetto  di  Senofonte,  non  oseremmo 
affermarlo;  ma  ben  vogliam  dire  che  la  versione  del  Tommaseo  ne 
piace,  ed  è  tale  da  leggersi  assai  volentieri.  Ma  perchè  il  signor  Tom- 
maseo sì  acerbo  nemico  d'ogni  pedanteria,  lia  credute  necessarie  tante 
note  airumile  trattatalo  della  Caccia?  E  in  una  di  queste  note  un  lungo 
inutilissirao  brano  del  Firenzuola,  al  sol  flne  di  poter  dire  che  la  mi- 
tologia è  opportunissima  dove  si  tratti  di  cani  !  » 

(2)  Ricordi  di  G.  P.  Vieiisseux.  Firenze.  Tip.  Cellini,  "2.  ediz. 


-  117  — 

curi  agi  della  casa  paterna  per  inutilmente  seguire  la  via  delle 
lettere,  senza  avere  né  i  pregi  e  neanche  certi  difetti  che  conci- 
liano allo  scrittore  la  grazia  degli  editori  e  del  mondo,  chiesi  al 
Vieusseux  adito  nel  suo  giornale^  io,  giovane  ignoto,  e  senza  al- 
trui intercessione,  ebbi  pronto  l'assenso,  e  di  lì  a  non  molto  chia- 
mata a  Firenze  ;  alla  qual  debbo  il  poco  che  nell'arte  dello  scri- 
vere sono.  » 

A  Firenze,  egli  fa  studii  sulla  lingua  parlata,  stende  ogni  giorno 
una  facciata  del  Dizionario  de'  Sinonimi,  traduce,  annota  dal  greco , 
compone  inni  sacri  e  morali  sul  fare  manzoniano,  prepara  saporiti 
proemii  alle  strenne  della  stamperia  Pezzati,  medita  una  edizione 
di  classici  italiani,  un  Nuovo  giornale  delle  dame,  un  periodico 
ila  intitolarsi  :  Effemeridi  romantiche  composte  da  tre  classicisti, 
comincia  una  commedia  intitolata  Non  arrossire  della  virtù,  rac- 
coglie sulle  montagne  pistoiese  proverbii  e  canti  popolari  toscani, 
fa  la  conoscenza  di  Gino  Capponi  il  quale,  ei  dice,  gli  era  stato  nascosto 
per  cinque  anni,  da  parecchi  chiarissimi  corpi  opachi,  legge  e 
scrive  finalmente  molto  per  V Antologia,  ove  si  firma  con  le  iniziali  K. 
X.  Y,  «I  nuovi  studii  sulla  lingua  parlata,  confessa  egli  nel  1838,  la 
tema  di  cadere  nell'affettazione,  e  la  cura  d'una  certa  allentata  armo- 
nia, mi  allontanavano  più  e  più  dalla  precisone,  alla  qual  pure  la 
natura  mia  e  i  primi  studii  dovevano  ravviarmi.  Della  qual  facon - 
diosità  rilassata  son  prova  i  due  discorsi  stampati  negli  scritti  varii: 
dell'educazione  considerata  come  scienza,  e  Difetti  e  sventure  del 
letterato  dovute  all'educazione  ch'egli  ha  patita,  discorsi  scritti  da 
me  nel  1828.  » 

Un  articolo  d'anonimo,  che  sembra  offensivo  all'imperator  Niccolò 
di  Russia  ed  altro  del  Tommaseo,  ove  il  Regno  Austriaco  del  Lom- 
bardo Veneto,  sotto  il  velo  del  nome  di  Acaia,  viene  ferito,  avendo 
il  giornale  reazionario  di  Modena  La  voce  della  libertà  gridato  alto 
allo  scandalo  e  alla  ribellione,  portano  la  soppressione  òeW Antologia  ; 
ed  il  Tommaseo,  che  con  generoso  e  raro  coraggio,  s'accusa  del- 
l'uno come  dell'altro  articolo,  deve,  nel  1834,  lasciar  la  Toscana  e 
riparare  in  Francia. 

A  Parigi  egli  diviene  amico  di  Alessandro  Poerio,  patisce  più  di 
un  amore,  scrive  molti  versi  e  molte  prose,  scrive  italiano  e  fran- 
cese, continua  a  tradurre  Virgilio,  immagina  e  in  parte  compone 
romanzi  storici,  su  Castruccio  Castracani,  la  contessa  Matilde,  e  il 
Duca  d'Atene,  pubblica  un  lavoro  sull'educazione  a  Lugano  (1834,  ri- 
stampato nel  183G)  prepara  una  seconda  edizione  del  Dizionario 
de'Sinonimi  (la  prima  edizione  era  uscita  nel  1832),  stampa  e  com- 


—  118  — 
menta  le  carte  degli  ambasciatori  veneti  relative  alla  storia  di 
Francia,  pubblica  a  Venezia  il  suo  primo  commento  della  Divina 
Commedia,  concepisce  l'idea  di  fondare  a  Parigi  una  biblioteca  di 
opere  proibite  in  Italia,  scrive  cinque  libri  Dell'Italia,  «  libro  più 
d'amore  che  d'ira  »  com'ei  lo  defini  più  tardi,  e  raccoglie  materiali 
per  altri  lavori.  L'amnistia  del  1838  trova  il  Tommaseo  in  Corsica, 
ov'egli  ha  fatto  buona  raccolta,  sul  fine  del  1839,  di  canti  popolari 
corsi  come  già  di  toscani  ;  allora  egli,  ricco  d'esperienza  e  di  studii, 
rimpatria;  aggiunge  ai  canti  popolari  toscani  e  corsi  anco  gli  illirici 
ed  i  greci  e  li  pubblica  tutti  insieme  a  A^enezia,  (ove  ha  fermata  la 
sua  stanza]  in  quattro  volumi  ;  pubblica  pure  quattro  volumi  di 
Nuovi  scritti,  ov'entrano  parecchi  lavori  di  lui  già  noti  ma  rior- 
dinati ad  un  nuovo  fine  estetico,  cioè  Le  Memorie  poetiche.  La 
bellezza  educatrice,  e  il  Dizionario  estetico,  ove  si  raccoglie  la 
miglior  parte  de' suoi  primi  giudizi!  letterarii  ;  e  le  Scintille  proi- 
bite dalla  censura  austriaca  per  gli  scritti  che  contengono  relativi 
ai  Dalmati  e  agli  Slavi.  Il  romanzo  Fede  e  bellezza  dà  luogo  a 
qualche  viva  polemica,  ed  il  valore  letterario  di  esso  viene  molto 
discusso  (il  Cattaneo  particolarmente  lo  riduce  a'suoi  minimi  ter- 
mini); l'autore  v'introduce  in  iscena  sé  stesso  in  forma  di  un  nuovo 
Ortis  su  cui  sembra  essere  passato  invano  un  po'  d'acqua  bene- 
detta. 

Si  seguono  studii  letterarii  di  varia  natura,  articoli,  spogli, 
commentarli,  prefazioni,  note  educative. 

Ed  in  tale  attitudine  studiosa  lo  sorprende  l'anno  1847.  Ma  lo 
studioso  insieme  pensa,  e  il  pensatore  agita,  anche  non  volendo, 
sé  e  gli  altri.  Da  un'  opera  d'intrepido,  ingegnoso  e  colto  re- 
pubblicano veneto,  (1),  rilevo  che,  fin  dal  1846,  Niccolò  Tommaseo 
si  reca  a  Padova,  per  concertarsi  col  patriota  conte  Leoni,  sul 
modo  d'incominciare  nella  Venezia  l'agitazione  nazionale. 

Il  :20  luglio  del  1847,  quando  Riccardo  Cobden,  arrivato  a  Ve- 
nezia, vi  era  già  stato  festosamente  accolto,  il  Tommaseo  gli 
spedisce  uu  indirizzo ,  ove  si  contengono  le  seguenti  parole , 
le  quali  possono  allora  valere  come  una  protesta  contro  l'Au- 
stria :  «  Io  non  parlo  di  quelle  nazioni  dove  il  pacifico  desi- 
derio del  meglio  è  punito  come  misfatto,  dove  la  manifestazione 
di  più  voleri  concordi  è  vietata  come  uno  sforzo  di  lesa    maestà, 


(1)  Vi7tgt  ans  d'ecoil,  par  Marco  Antonio  ancien  émigré  venitien.  Paris, 
libraire  intcfnatiunalc,  1800. 


—  119  — 
dove  l'uomo  non  perviene  ad  avere  quasi  mai  particella  di  auto- 
rità nel  Municipio,  non  che  nello  stato  senza  aver  dato  al  gover- 
nante cosi  vergognose  guarentigie  di  sé  che  lo  rendano  impotente 
a  ben  fare,  e  indegno  d'alzare  la  voce  a  prò  dei  fratelli  »  (1).  Il 
30  dicembre  dello  stesso  anno,  il  Tommaseo  legge  all'Ateneo  Ve- 
neto un  discorso,  intorno  alle  lettere  italiane  in  relazione  con  la 
Censura  austriaca.  Il  Tommaseo  stesso  c'informa  di  quell'avveni- 
mento nella  sua  breve  narrazione  dei  fatti  accaduti  in  Venezia  dal 
21  dicembre  1847  al  10  gennaio  1848:  «  per  dare  ad  altri  un  sag- 
gio del  da  farsi,  il  sig.  Tommaseo,  che  non  legge  nelle  accademie, 
chiese  di  leggere  all'  Ateneo  Veneto  un  discorso  intorno  allo  stato 
delle  lettere  italiane  ;  le  quali  egli  riguardò  nelle  relazioni  eh'  esse 
hanno  con  la  Censura  austriaca  ;  e  conchiuse  proponendo  una 
istanza,  acciocché  la  legge  austriaca,  la  quale  ha  assai  parti  buone, 
avesse  più  retta  esecuzione,  e  maggior  compimento.  Le  sue  parole 
ebbero  più  che  accademica  accoglienza  e  l'istanza  ebbe  soscrit 
tori  in  numero  notabile  per  paese  a  tali  atti  non  uso.  Egli  inviò 
il  suo  Discorso  agli  uffizi  di  Censura  in  Venezia  ed  a  Vienna  ; 
l'inviò  al  Barone  di  Kùbeck  »  La  narrazione  del  Tommaseo 
si  conchiude,  il  10  gennaio  1848,  con  un  caldo  appello  a  tutti 
i  veneti  perchè  si  stringano  non  in  un  solo  partito  'moderato, 
ma  in  opinione  legale  animata  d'affetti,  termine  alquanto  vago 
col  quale  sperasi  un  po'  ingenuamente  o  di  persuadere  l'Au- 
stria ad  associarsi  alla  rivoluzione  de' Veneti  o  di  addormentarla. 
Quanto  a  me,  i  maschi  fatti  di  Milano  valgono  tutte  le  parole 
femmine  dettesi  in  que'  giorni  a  Torino ,  Venezia  e  Firenze  ; 
rispetto  i  prudenti  ma  prediligo  i  forti  ed  i  magnanimi;  la  poli- 
tica di  FaMu's  cunctator  venero,  ma  non  l'amo  ;  e  di  Fabii  tempo- 
reggiatori più  che  di  generosi  imprudenti  é  ingombro  il  mondo.  Il 
Tommaseo  scrive  egli  pure  come  l'Azeglio  un  discorso  per  pro- 
muovere l'eguaglianza  civile  degli  ebrei;  ed  il  15  gennaio  del  1848 
indirizza  una  lettera  ai  vescovi,  nella  quale  li  invita  a  rammen- 
tare al  Principe  «  le  promesse  date,  nel  quindici,  d'un  Governo 
nazionale  all'Italia,  d'  un  Viceré  non  suddito  agli  aulici  dica- 
steri ;    di   Deputati    rappresentanti   non   per  ischerno    i    diritti    e 


il)  L'intiero  indirizzo,  per  chi  lo  voglia  consultare,  trovasi  nell'opera 
dei  signori  prof.  Alberto  l'Irrera  e  Avv.  Cesare  Finzi,  intitolata:  La  vita 
ed  i  tempi  di  Daniele  Manin.)  Venezia,  tip.  Antonelli. 


—  120  — 
le  necessità  dell'Italica  ;  di  Censori  obbligati  a  permettere  che  i 
difetti  e  gli  errori  del  Governo  sieno  pubblicamente  additati  ; 
rammenti  queste  promesse,  che  sono  le  condizioni  della  nostra 
sudditanza,  e  ne  chiegga  1'  adempimento.  »  Il  coraggio  del  Tom- 
maseo viene  molto  ammirato  ;  l'Austria  s'allarma  ;  il  18  gennaio 
fa  prendere  il  Tommaseo  insieme  con  Manin,  e  li  processa  in- 
sieme. L'Austria  ne  fa  cosi  due  martiri  della  libertà  italiana.  Ma 
io  avanzo  qui  una  semplicissima  ipotesi  ;  poniamo  che  l'Austria, 
invece  di  sgomentarsi  a  quelle  parole,  fosse  stata  più  accorta; 
le  avesse  accettate  ;  che  sarebbe  avvenuto  ?  il  Veneto  sarebbe 
stato  legato  per  sempre  alla  sudditanza  verso  l'Austria,  per  de- 
dizione quasi  volontaria  de'  suoi  proprii  capi.  Chi  avrebbe  al- 
lora magnificato  come  liberatori  della  patria  Daniele  Manin,  e 
Niccolò  Tommaseo?  (1)  Ora  io  sono  ben  lontano  dal  volere 
inferire  che  il  Manin  e  il  Tommaseo  non  siano  stati  entram- 
bi due  grandi  patrioti,  ma  avvertire  come  fossero  imprudenti 
e  pericolosi  i  loro  mezzi,  e  tali  che  se  l'Austria  li  accettava,  la 
loro  riputazione  ne  avrebbe  patito  assai  come  dovea,  dieci  anni 
dopo,  patire  grave  detrimento,  in  Lombardia  la  fama  di  Cesare 
Cantù,  per  esserglisi  attribuito  un  disegno  conforme  a  quello  che 
avrebbe  contentato  nel  principio  dal  1848  il  Manin  ed  il  Tom- 
maseo, per  essersi  questa  volta  l'Austria,  resa  più  prudente,  guar- 
data bene  dal  mettere  in  carcere  il  Cantù,  provocando  nuovi  disor- 
dini in  Milano,  e  per  aver  anzi  lasciato  credere  che  l'arciduca  Mas- 
similiano sarebbe  divenuto  volentieri  un  re  indipendente  del  Lom- 
bardo-Veneto. Cosi  cadde  in  disgrazia  de'nuovi  liberali  il  Cantù,  il 
quale  gli  uni  facevano  autore  di  quel  disegno,  gli  altri  stimavano 
non  alieno  dell'accettarlo.  Io  non  so  ora  se  vi  siano  due  giustizie 
per  la  storia;  ma  se,  per  avventura,  ve  ne  fosse  una  sola,  io  doman- 
derei a'  miei  buoni  contemporanei  se  sia  conveniente  il  giudicare  i 
fatti  che  accadono  dalla  sola  norma  fallace  del  vario  successo,  e  se 


(I)  Questa  ò,  del  resto  l'opinione  professata  dallo  stesso  Tommaseo, 
in  una  sua  lettera  diretta  da  Corfù  ad  un  amico  a  Firenze  nel  novem- 
bre del  1850:  avvertito  comfì  Pio  nono  avesse  interceduto  presso  l'Au- 
stria pel  Tommaseo  quando  egli  era  in  prigione  soggiunge:  «  Meglio 
era  per  que'  di  Vienna  se  ascoltavano  allora  Pio  IX.  Forse  il  moto  di 
Venezia  non  nasceva;  elio  dal  forzare  le  carceri  fu  preso  il  primo  ardi- 
mento. » 


—  121  — 

non  convenga  tenere  miglior  conto  dell'onestà  de' propositi  che  della 
loro  accidentale  fortuna. 

Quanto  ai  sentimenti  liberali  del  Tommaseo  non  possono  es- 
ser dubbi,  e  che  noi  siano  neppure  all'Austria,  lo  si  può  eviden- 
temente rilevare  dalla  relazione  che  il  Direttore  generale  della 
polizia  di  Venezia  stende  il  28  gennaio  intorno  agli  studii,  al- 
l'animo e  alle  opinioni  di  lui,  dalla  quale  togliamo  i  seguenti 
passi  «  Niccolò  Tommaseo  spiegò  mai  sempre  un  carattere  pieno 
d'orgoglio,  di  spinta  opinione  di  sé  stesso.  Intollerante  di  ogni 
subordinazione  e  insolente  disprezzatore  di  quei  che  non  parteci- 
pano alle  guaste  sue  massime  politiche,  egli  viene  risguardato 
per  un  luminare  della  letteratura,  e  le  sue  relazioni  tanto  al- 
l'estero, che  nella  Monarchia  sono  estesissime.  Qui  fino  a  questi 
ultimi  tempi  visse  piuttosto  ritirato  occupandosi  di  lavori  lette- 
rari. Le  sue  tendenze  sovversive  si  studiò  egli  di  cuoprire  col 
manto  della  religione,  e  della  filantropia,  e  la  Censura  avrà  avuto 
Irequente  occasione  nella  revisione  dei  di  lui  scritti  di  accorgersi 
come  egli  con  perseveranza  tentò  di  deludere  in  tal  guisa  la  di  lei 
intenzione.  Nell'anno  1843  poi  voleva  pubblicare  colle  stampe  in  lin- 
gua illirica  un  Opuscolo  intitolato  :  IshHze,  che  sotto  il  specioso 
annunzio  di  promuovere  la  coltura  della  lingua  illirica  conteneva 
principi,  la  cui  tendenza  manifesta  era  di  spargere  il  malcontento, 
e  di  promovere  un  sovvertimento  dell'attuale  ordine  di  cose.  Non 
ne  ottenne  però  il  permesso  dalla  Censura.  Durante  il  suo  sog- 
giorno all'estero  egli  si  era  mostrato  un  deciso  nemico  del  Go- 
verno Austriaco,  e  se  dopo  il  suo  ritorno  in  questi  stati  si  è  im- 
posta una  certa  riserva,  non  si  potrebbe  inferirne,  che  avesse 
rinunziato  alle  antecedenti  sue  massime  ».  La  Polizia  ha  intanto 
fatto  perquisire  la  dimora  del  Tommaseo  prigioniero,  ingiungen- 
dogli quindi  d'apporre  la  sua  firma  ad  ogni  carta  sequestrata;  il 
Tommaseo  vi  si  rifiuta  energicamente  e  detta  invece  una  lunga, 
viva,  eloquente  protesta  contro  quell'arbitrio  poliziesco.  (1) 

Un  servigio  men  lieto  resero  invece  gli  editori  dei  processi 
del  Tommaseo  e  del  Manin,  alla  ftxma  d'entrambi  i  patrioti,  mo- 
strandoli più  timidi,  più  pacifici,  e  più  solleciti  di  sé  stessi  che 
la  pubblica  voce,  dopo  il  loro  trionfale  scarceramento,  non  li 
abbia  poi  reputati  ;  il  Manin  particolarmente  non  può  dirsi  abbia 


(1;  Si  legge  nella  citata  opera  dei  signori  Errerà  e  Pinzi,  a  pag.  XCI 
e  XCII. 


—  122  - 

ecceduto  sempre  per  soverchia  generosità  nelle  sue  varie  de- 
nuncie  relative  al  Tommaseo,  le  risposte  del  quale  spirano  in- 
vece una  nobiltà  e  una  grandezza  ammirabile  per  quanto  risguarda 
gli  altri  imputati.  Ma  quanto  a  sé  stesso,  per  un  repubblicano 
qual  egli  fu  ed  è  e  si  professa,  ei  mostra  in  tale  occasione  d'es- 
sersi presa  una  cura  eccessiva  della  sicurezza  di  un  Regno  che 
ogni  buon  italiano  ed  egli  stesso  non  dovea  desiderar  durevole. 

Ma  io  non  insisterò  su  questo  punto,  come  su  nessuno  che  tocchi 
troppo  dappresso  la  politica,  non  solo  perchè  questa  co'suoi  perfidi 
avvolgimenti  mi  uggisce,  quanto  ancora  perchè  sono  impaziente  di 
ritornare  all'uomo  di  lettere,  del  quale  un  brano  del  quarto  inter- 
rogatorio ci  offre  pure  alcuna  notizia.  «  Se  io  cercassi  lucri  o 
vantaggi,  detta  a'suoi  giudici  il  Tommaseo,  non  sarei  qui.  Negli 
Stati  Romani  mi  fu  profferta  la  direzione  di  tre  giornali  e  una 
cattedra;  in  Piemonte  la  direzione  di  un  altro  giornale;  in  To- 
scana due  cattedre.  Potevo  anche  prima  rimanermene  in  Francia, 
e,  scrivendo  in  quella  lingua  eh'  è  la  lingua  del  mondo,  aver  fama, 
ricchezza  e  titoli  puramente  acquistati.  Ma  io  dal  mio  esigilo  di 
Francia  ho  riportato  non  ricchezze,  non  croci  ;  ho  riportato  cosa, 
che  alle  dame  inglesi  non  è  lecito  nominare  ;  ma  che  nelle  car- 
ceri nominare  si  può,  ho  riportato  questi  calzoni  che  ho  indosso, 
che  mi  costano  otto  franchi,  cioè  tre  fiorini  ;  e  dal  1839  al  1848 
ogni  inverno  li  porto,  e,  in  pena  della  mia  cupidigia  e  ambizione 
e  fellonia,  son  venuto  a  finire  di  logorarli  nelle  '  carceri  di  Vene- 
zia. »  Qui  il  Tommaseo  sembra  sfogarsi  più  tosto  contro  que'libe- 
rali  italiani  che  lo  calunniano  venduto,  che  contro  i  suoi  giudici, 
i  quali  non  hanno  certamente  mai  pensato  a  sospettarlo  di  vena- 
lità ;  che,  se  un  simile  sospetto  si  fosse  potuto  accogliere  sul  conto 
del  Tommaseo,  non  avrebbero  essi  lasciate  sfuggire  le  occasioni 
d'adoperarlo  per  i  loro  fini. 

Finito  il  processo,  lo  stesso  Tribunale  criminale  di  Venezia  emette 
il  voto  che  il  Manin  e  il  Tommaseo  siano  rilasciati  come  innocenti; 
il  17  marzo  1848  s'ordina  dal  tribunale  la  immediata  scarcerazione 
de'  due  illustri  prigionieri,  quali  usciti,  vengono  portati  a  spalle 
di  popolo  per  le  vie  di  Venezia.  Il  processo  colpiva  più  il  Tom- 
maseo che  il  Manin  ;  e  la  liberazione  avvenne,  propriamente,  per- 
chè il  tribunale  stesso,  noverandone  lungamente  i  motivi,  avea 
già  sentenziato  non  esservi  luogo  a  procedere  ;  ma  il  buon  popolo 
veneziano,  col  risoluto  suo  contegno,  affrettò  la  scarcerazione  de' due 
prigionieri,  come  un  giorno  avea  veramente  liberato  dal  carcere 
il  suo  vero  liberatore  Vettor  Pisani. 


—  123  — 

Il  22  marzo,  che  fu  il  primo  giorno  eroico  di  Daniele  Manin, 
viene  proclamato  il  governo  provvisorio  della  Repubblica,  com- 
posto di  otto  membri  presieduti  dal  Manin  ;  primo  degli  otto 
si  trova  eletto  Niccolò  Tommaseo.  Come  il  governo  provvisorio 
cadesse  l'S  giugno,  non  approvando  l'alleanza  col  Piemonte  nella 
guerra  contro  l'Austria,  come  il  21  giugno  il  Tommaseo  incorag- 
giasse con  risolute  parole  il  Generale  Pepe  a  muoversi  ed  operare 
con  le  sue  genti,  come  il  governo  si  ricostituisse  con  Manin  e 
Tommaseo,  ministro  della  pubblica  istruzione  e  dei  culti  dopo  l'in- 
felice esito  della  campagna  sabauda,  come  il  Tommaseo  si  recasse 
due  volte  invano  a  Parigi  per  implorare  il  soccorso  della  repub- 
blica francese,  come  la  repubblica  di  Venezia,  sia  caduta  con  glo- 
ria, come,  dopo  la  capitolazione,  il  Tommaseo  emigrasse  a  Corfù, 
ad  ogni  lettore  è  noto. 

Dal  18i9  al  1850  ci  sono  guida  sicura  pel  nostro  Ricordo  tre 
altri  volumi  di  scritti  autobiografici  dello  stesso  Tommaseo,  intito- 
lati :  Il  secondo  esigilo  (1);  io  continuo  dunque  ad  attingere  notizie 
da  essi. 

Sbarcato  a  Corfù,  il  Tommaseo  riceve  invito  a  tornare  in  To- 
scana, ove  pare  die  il  sempre  benefico  Marchese  Capponi  od  al- 
cun altro  uomo  liberale  gli  abbia  fatta  offrire  ospitalità;  ma 
egli  ringrazia  e  rifiuta.  Nel  mese  di  ottobre  del  1849,  il  Tom- 
maseo stende  un  indirizzo  in  francese  all'Arcivescovo  di  Parigi , 
per  ringraziarlo  delle  generose  parole  da  lui  pronunciate  in  di- 
fesa di  Venezia  caduta,  e  narrare  in  succinto  le  ultime  vicende 
dell'eroica  città.  Ma  le  memorie  sue  in  disteso  di  quegli  ultimi 
due  anni  il  Tommaseo  scrive  per  serbarle  inedite  e  da  pubblicarsi, 
forse,  un  giorno,  postume.  Prepara  un  volume  di  versi  inediti  e  di 
lettere  di  Alessandro  Poerio  ;  e  fa  stampare  a  Firenze  le  opere 
inedite  del  Gozzi. 

Nel  Giugno  del  1850,  indirizza  ad  un  corcirese  queste  parole  utili 
a  rammentarsi  oggi  ai  cattolici  intolleranti  d'Italia  «  Au  moment 
où  je  tenais  sans  trop  la  vouloir  une  place,  que  l'obligeance  des 
Autrichiens  avait  laissè  vacante,  j'ai  tachè  de  corriger  quelques 
actes  d'intolérance  liliputienne  auxquels  on  se  laissait  aller;  et 
(entre  autres  choses)  j'ai  consenti  que  certaines  cérémonies  de 
l'Église  d'Orient  eussent  Dieu  en  plein  air  tout  aussi  bien  que  cel- 


(1)  Milano,  Fr.  Sanvito,  18G-2,  con  ritratto  dell'autore. 


—  124  — 

les  de  la  religion  qu'on  se  plait  à  appeler  dominante.  Au  demeu- 
rant,  j'avoue  ne  pas  trop  comprendre  ce  que  c'est  qu"une  religion 
dominante,  à  moins  qu'elle  ne  mette  le  symbole  de  la  foi  sur  la 
pointe  des  bayonettes,  et  qu'elle  ne  se  serve  de  l'Evangile  de 
St.  Jean  pour  en  faire  des  cartouclies.  » 

Nel  luglio  del  1850,  il  Tommaseo  giudica  le  cose  toscane,  e, 
fra  l'altro,  osserva:  «  I  giornali  fiorentini  si  accordano  nel  do- 
lersi del  Governo  ;  e  certamente  n'han  d'onde.  Ma  dolersi  è  poco, 
ed  è  troppo;  troppo  al  mal  umore  che  cresce;  poco  all'effetto, 
anzi  nulla,  anzi  peggio  che  nulla.  Gl'Italiani  si  son  messi  a  can- 
tare vittoria,  e  il  nemico  a  picchiarli  ;  ora  belano,  e  il  nemico 
ripicchia  e  picchierà  sempre  più  sodo,  finché  o  non  si  taccia  o  non 
si  faccia  davvero.  Quand'io  nel  quarantasette  (nell'autunno  di  quel- 
l'anno il  Tommaseo  avea  fatta  una  scorsa  in  Toscana)  sentivo  per  le 
vie  di  Firenze  cantare:  Siamo  Italiani,  Siam  giovani  e  freschi,  E 
de'  TedescM  paura  non  s  ha,  sentivo  in  me  un  misto  di  vergogna, 
di  sdegno,  di  ribrezzo  ;  e  già  me  li  vedevo  sull'Arno.  I  miei  pre- 
sentimenti, il  più  sovente  dulorosi,  non  mi  hanno  ingannato  quasi 
mai.  Certamente  non  e'  è  da  disperare  della  Toscana,  ne  di  gente 
nessuna  al  mondo,  allorché  si  rammenta  quel  che  patirono  e  fecero 
i  Toscani  sotto  Mantova,  e  i  Veneziani  a  Marghera  e  sul  ponte 
e  nella  indigente  e  inferma  città.  Ma  non  si  può  non  riguardare 
le  cose  dal  lato  contrario,  non  ripensare  come  Firenze  fosse  go- 
vernata dai  Medici  al  Fossombroni,  e  più  là  ;  come  le  stesse  isti- 
tuzioni materialmente  liberali  di  Leopoldo  I,  e  le  tolleranze  sba- 
date del  secondo,  concorressero  a  fiaccarla  e  invanirla...  (i)  Trattasi 
di  attenuare  l'elemento  fiorentino,  e  far  venire  a  galla  il  vecchio 
elemento  toscano  ;  finché  ciò  non  si  faccia,  non  avrete  Toscana  ; 
e  vuol  dire  che  non  avrete  Italia  ;  perchè  la  Toscana,  per  la  qua- 
lità della  sua  stirpe  e  per  le  memorie  e  per  il  posto  che  tiene 
nella  penisola  pur  non  giovando,  nuoce  ;  e  non  accrescendo  alla 
vita,  la  spegne  >.    Parole  ch'io  cito,  poiché  anche  oggi,  dopo  più 


fi;  Nel  novembre  1852,  egli  scrive  «  Che  Alessandro  Manzoni  sia  di- 
morato in  Toscana  senza  toccare  Firenze,  è  atto  de^uo  di  quella  no- 
bile vita.  I  Cigni  non  si  tuffano  nella  broda  dei  Ninci.  E  certe  omissioni 
sono  esempi  più  splendidi  di  certi  fatti.  »  Nell'aprile  del  1853,  parlando 
del  Ridolll  «  egli  è  più  esule  nella  sua  patria  ch'io  in  terra  greca  ;  e  me 
ne  duole  per  Firenze  ancora  più  che  per  esso  ». 


—  125  — 

che  vent'anni,  mi  paiono  ancora  opportune  e  memorabili.  Solo 
chi  non  ama  questo  paese,  può  addormentarvisi,  e  rassegnarsi  a 
patire  che  il  cuore  d'Italia  s'agghiacci,  e  consolarsi  che  in  Toscana 
si  rida  ancora,  e  vi  si  rida  bene,  e  solamente  vi  si  rida.  Io  non 
vorrei  tampoco  che  vi  si  piangesse  ;  ma  mi  sentirei  più  sicuro 
come  italiano  se  questa  sedotta  e  seducente  Toscana  fremesse  un 
poco  di  più,  se  qui  dove  sono  le  più  belle  parole  fossero  pure  le 
più  belle  opere  ;  se  i  giovani  di  questo  suolo  beato,  per  i  quali 
sto  qui  pure  scrivendo,  fossero  meno  solleciti  a  mostrare  le  argu- 
zie del  loro  ingegno  che  la  capacità  del  loro  cuore,  la  magnani- 
mità del  loro  carattere,  e  quel  calore  interno  che  non  solo  crea  gli 
entusiasmi  ma  li  fa  durare  ;  quando  io  penso  che  con  cento  to- 
scani di  gran  cuore  e  d'ingegno  corrispondente,  si  potrebbe  rifare  , 
davvero,  questa  nostra  Italia  che  finora  abbiam  solamente  e  ne- 
cessariamente disfatta,  e  rivoltata,  non  cesso  di  dolermi  dell'edu- 
cazione eunuca  che  nelle  scuole,  ne'giornali  e  nel  costume  pubblico 
e  privato  riceve  pur  sempre  questa  gioventù,  e  di  desiderare  ar- 
dentemente che  sorga  qui  alcuna  voce  assai  più  autorevole,  più 
accetta,  più  intima  della  mia,  la  quale  evochi  finalmente  fuora 
questa  bella  fanciulla  dormiente  da  secoli  e  la  ritempri  a  nuova 
e  più  gagliarda  vita. 

Nell'ottobre  1850,  il  Tommaseo  annunzia  da  Corfù  ad  un  amico: 
«  Ho  scritto  nn  libro  sul  papa-re,  poi  un'altro  sul  metro  delle 
canzoni  cantate  dal  popolo  greco,  ove  ragiono  lungamente  del  nu- 
mero, cosa  che  voi,  e  non  molti  altri,  sentite  nell'anima;  e  voi,  con  al- 
tri non  molti,  leggerete  questo,  ch'è  il  frutto  di  trent'anni,  se  non  d'e- 
sperienza felice,  d'osservazione  amorosa.  Poi  sto  scrivendo  d'un  Cor- 
cirese  (il  Delviniotti)  ch'è  morto,  per  aver  luogo  a  dire  delle  corri- 
spondenze tra  Grecia  ed  Italia,  e  per  pagare  un  tributo  d'ospitalità  a 
questa  terra E  compite  queste  e  altre  cose  simili,  e  riposato- 
mi degli  occhi  [da  un  anno,  la  vista  gli  s'era  grandemente  inde- 
bolita e  l'avea  condotto  vicino  alla  cecità  presente]  se  io  non  ca- 
sco morto  (che  sarebbe  assai  comoda  cosa)  scriverò  di  Venezia. 
Lascio  già  i  documenti  ordinati,  che  sono  pur  troppi,  e  appunti 
moltissimi,  e  serviranno  a  chi  li  ritrova  e  non  isdegni  di  attin- 
gerci... E  Venezia  stessa,  ch'io  amo  tanto  non  è  a  me  l'universo.  » 
Nel  vero,  mentre  egli  pensa  più  che  ad  altro  a  difendere  il 
nome  di  Venezia,  volge  spesso  ancora  il  pensiero  a  tutta  l'Italia, 
alla  Grecia,  alle  isole  .Ionie,  alla  Francia,  agli  Slavi.  Quanto  a 
Venezia,  ei  trova  che  o  l'idea  della  repubblica  non  si  dovea  mai 
porre  innanzi,  o,  posta,  non  abbandonarsi,  in  evidente    opposizio- 


—  1^26  — 

ne  con  la    politica   conciliante,    sabaudo-unitaria,  piaciuta   alcuni 
anni  dopo  al  suo  glorioso  collega  Manin. 

Nel  novembre  del  1850  ei  scrive  ad  uno  de'suoi  parenti  ;  «  Io 
non  posso,  nella  condizione  che  i  tempi  mi  han  fatta,  umiliarmi 
dinanzi  a  principi  né  a  privati:  non  posso  nella  mia  infermità, 
vivere  dell'ingegno.  Fatto  che  io  abbia  i  miei  conti,  e  veduto 
quel  che  mi  resta,  mi  bisognerà  rifuggirmi  in  qualche  solitudine 
dove  il  vitto  costi  meno  di  qui  ;  forse  privarmi  di  lettore  e  di  co- 
pista, e  dire  addio  ai  fogli  e  ai  libri.  Superfluo  avvertire  (perchè 
credo  si  sappia  da  tutti)  che  dalle  vicende  di  Venezia  io  non  ho 
avuto  che  danni,  e  che  non  ho  mercanteggiato  l'ingegno,  ma 
trattone  l'occorrente  alla  vita  per  non  iscomodare  mio  padre,  e 
non  sentire  querele  della  mia  lontananza.  »  (1) 

Nel  febbraio  del  1851,  il  Tommaseo  manda,  invitato,  nel  Veneto 
un  discorso  intorno  alla  Riforma  degli  studii;  nell'anno  niedesimo, 
l'Accademia  della  Crusca  pensa  a  nominarlo  suo  membro  corri- 
spondente; il  17  settembre  del  1851, ^egli  propone  a  un  editore' 
l'opera  sul  verso  e  sul  numero  dei  greci,  italiani  ed  illirici,  e 
un  volume  di  versi,  diviso  in  tre  parti  :  L'universo,  l'mnmiità, 
l'anima;  il  25  dicembre  al  suo  stesso  editore,  che  gli  proponeva  di 
tradurre  in  italiano  l'opera  francese  di  lui  Roma  ed  il  mondo  che 
la  Civiltà  Cattolica  s'era  aff'rettata  ad  assalire,  ei  propone  invece 
un  libro  nuovo:  Delle  due  potestà,  innanzi  a  Roma  tiene  sem- 
pre un  contegno  pieno  di  dignità  e  di  nobile  fierezza,  ove  ribadisce 


(1)  È  pure  interessante,  a  questo  riguardo,  il  brano  seguente  estratto 
da  una  lettera  che  da  Corfù  il  Tommaseo  mandava  in  Francia, 
nel  marzo  del  1851  :  «  Vous  me  demandez  quelles  sont  mes  res- 
sources;  je  vais  vous  les  dire.  Mon  pére  m'avait  laissé  de  quoi  vivre; 
et  vous  savez  qua  pendant  mon  premier  exile  mes  petits  revenus  et 
mes  travaux  littéraires  me  permirent  de  tenir  le  front  haut  devant 
rois  et  princes.  Ma  modeste  fortune,  quoiquefort  entamée  suffisnit  pour 
m'affranchir  de  tout.joug.  .l'ai  pu  servir  la  cause  de  Venise  sans  lui  de- 
mander  aucun  salaire.  Pendant  mon  séjour  ù  Paris,  je  payais  à  La 
Uepublique  quatre  francs  par  jour;  ce  qui  aurait  f'té  ma  dépense,  à 
moi,  homme  prive  demeurant  à  Venire  Les  frais  de  mon  humble  ré- 
présentation  ont  été  enregistrées  dans  la  Gazette  officielle,  et  dans  un 
compte  rendu  imprimé  par  moi,  d'où  il  resulto  que  mon  séjour  d'envi- 
ron  six  mois  à  Paris  n'a  couté  à  Yenise  que  sept  cents  francs,  y  com- 
pris  les  frais  de  voyage  et  le  logement,  et  la  nourriture  d'un  ouvrier 
tailleur,  qui  avait  été  ministre  dans  les  premiers  teraps.  » 


—  127  — 

la  sua  sentenza  che  il  regno  de'preti  sarà  vittima  e  scherno  non 
tanto  de'suoi  sudditi  quanto  dei  suoi  difensori,  e  conchiude;  «  La 
separazione  delle  due  potestà  si  farà  tosto  o  tardi  (che  le  gene- 
razioni nel  cammino  della  verità  sono  istanti)  ;  ma  badate,  o  preti, 
che  la  non  si  faccia  dopo  scandali  e  discordie  e  bestemmie,  delle 
quali  in  non  piccola  parte  cadrebbe  su  voi  la  vergona  e  il  ri- 
morso. » 

Il  21  maggio  1852,  egli  scrive:  «  Sento  le  forze  non  solo 
degli  occhi,  ma  di  tutta  la  persona  venir  meno;  mi  rincresce- 
rebbe sopravvivere  penosamente  a  me  stesso:  ma  anche  a  questo 
son  già  preparato,;  »  ma  ch'ei  non  sia  morto  lo  si  vede,  nel 
giugno,  dal  seguente  ritratto  che,  invece  di  necrologia,  dedica 
a  Mario  Pieri  suo  denigratore  :  «  Il  poveretto  si  credeva  uomo 
antico;  ed  era  una  mezza  lagrima  di  Gian  Giacomo  rappresa  en- 
tro una  mezza  presa  di  tabacco  di  Melchior  Cesarotti,  e  sbattuta 
omeopaticamente  per  sett'anni  in  una  tinozza  d'acqua  salmastra. 
Ma  le  sue  buone  intenzioni  guadagnarono  due  perpetue  felicità 
alla  sua  vita;  di  tenersi  amatore  de'classici  ch'e'non  capiva;  e 
d'assaporare  tutte  le  mattine  la  gloria  ch'e'si  frullava  da  sé,  come 
i  frati  la  cioccolata  ;  »  quel  poderoso  ingegno  del  Guerrazzi,  in 
simil  genere  di  brevi  ritratti,  maestro,  non  avrebbe  potuto  dir  nulla 
di  più  forte  e  di  più  vivo. 

Nel  luglio  del  183^,  il  Tommaseo  prepara  per  gii  editori  lombardo- 
veneti  un  memoriale  sulla  Nuova  Legge  Austriaca  di  Censura  da 
presentarsi  al  Governo,  ma  prega  di  modificarne  lo  stile,  sempre 
cosi  fatto  che  tradisce  il  suo  autore,  non  ch'ei  tema  la  re- 
sponsabilità, ma  perchè  non  vorrebbe  scemare  le  probabilità  d'un 
onesto  accoglimento  alla  proposta  quando  s'indovinasse  che  fosse 
provenuta  da  lui,  il  pregiudicato  dell'anno  1849.  Letto  il  quarto 
volume  dell'opera  dell'arci -moderato  Gualterio,  il  Tommaseo  scrive 
a  Firenze:  «  chi  si  crede  egli,  il  nobil  uomo,  di  gabbare  con 
quella  sua  loquacità  da  sensale  in  favore  della  infallibilità  e  im- 
peccabilità di  re  Carlo  Alberto,  e  di  que'suoi  servitori  che  lo 
trassero  a  cosi  misera  rovina  ?  »  ;  nell'agosto,  ha  combinato  con 
l'editore  Reina  una  nuova  edizione  triplicata  del  Dizionario  este- 
tico, e  ricevuto  invito  a  rifugiarsi  in  Piemonte;  ma  non  sa  qual 
partito  pigliare.  «  Non  giova,  scriv'egli,  sperare  rinfranco  dai  la- 
vori dell'ingegno,  ch'io  potrei  stampare  in  Piemonte,  dove  adesso 
non  corrono  se  non  cose  politiche  ;  e  la  politica  sopportata  in 
Piemonte  non  è  comportabile  a  me  ;  poi,  giudicando  io,  come  fo, 
le  cose  piemontesi  con  la  severità  che  credo  debita  alla   mia  co- 


—  U8  — 
scienza,  ini  peserebbe  dovere  il  pane  a  uomini  del  Piemonte,  seb- 
bene io  distingua,  e  ogni  uomo  ragionevole    distingue,  tra  la  na- 
zione e  il  governo,  tra  il  48  e  le  condizioni  odierne.  » 

Il  17  dicembre  1852  (si  avverta  la  data)  il  Tommaseo  scriveva 
già  al  Vieusseux  :  «  Pare  che  la  Savoia  voglia  scappare  dalle 
budella  al  Piemonte,  ed  entrare  in  corpo  a  Luigi  Napoleone.  Chi 
sa  che,  per  non  fare  la  guerra,  e'  non  proponga  in  un  congresso 
di  prendersi  la  Savoia,  e  di  dare  al  Piemonte  un  pezzo  di  Lom- 
bardia, e  all'Austria,  in  cambio,  un  pezzo  del  Papa...  » 

Nell'aprile  1853,  il  Pomba  di  Torino  desidera  il  Tommaseo  diret- 
tore dell'impresa  di  un  nuovo  Dizionario  della  lingua  italiana;  il 
2  settembre  18  V3,  rinnovate  più  vivamente  le  istanze  perchè  sire- 
casse  in  Piemonte,  il  Tommaseo  risponde  al  Vieusseux,  mediatore  : 
«  Voi  capite  bene  che  io  non  vò  in  Piemonte  per  fare  il  giornalista,  né 
spoliticare  in  nessuna  maniera  ;  ma  se  il  dovere  o  l'onore  m' im- 
ponessero, 0  se  la  dura  necessità  mi  stringesse  a  scrivere  qualche 
cosa,  io  non  intendo  privarmi  da  me  stesso  di  tale  facoltà,  né  con- 
fermare con  la  mia  rassegnazione  un  sospetto  non  giusto.  » 

Gli  ultimi  mesi  del  soggiorno  del  Tommaseo  in  Corfù,  vengono 
funestati  dal  supplizio  d'un  romagnuolo  condannato  a  morte  dai 
tribunali  Greci,  (  e  dai  Corciresi  stessi  compianto  )  per  aver 
ucciso  in  una  contesa  un  Jonio  insultatore  al  nome  italiano  ;  il 
Tommaseo  si  interpone  invano  per  ottener  grazia  ;  poi  si  leva  a 
protestare,  poi  scrive  un  libro  che  consegni  ai  posteri  queir  in- 
famia e  la  rimproveri  agli  indifferenti  contemporanei.  Se  prima 
egli  era  incerto  sul  lasciare  le  isole  o  rimanervi,  quel  tetro  av- 
venimento lo  persuade  finalmente  ad  accettare  1'  invito  de'  Pie- 
montesi; ma,  come  muoversi?  ei  non  é  più  solo;  egli  cieco,  ha 
ora  con  sé  moglie  e  figliuoli,  ed  i  legni  da  guerra  non  ricevon 
donne,  ed  i  soli  legni  da  guerra  inglesi  potrebbero  liberarlo  da 
quel  soggiorno  divenuto  intollerabile.  Questi  ostacoli  lo  fanno  in- 
dugiare ;  alcuni  mesi  dopo,  il  7  aprile  1854  egli  può  finalmente 
scrivere  al  Vieusseux  che  s'imbarca  sovra  un  piccolo  legno  a  vela. 

In  altra  lettera  scritta  nel  giorno  stesso  al  suo  editore  di  Mi- 
lano, a  proposito  d'  un  articolo  malevolo  uscito  allora  nel  Crepu- 
scolo contro  un  libro  di  Letture  italiane  ordinato  dal  Tommaseo, 
ei  muove  questo  amaro  lamento  «  Non  credo  con  lei  che  ne' bia- 
simi di  cotesto  giornale  invidia  entri,  dacché  nulla  è  in  me  da 
invidiare  ;  né  l' ingegno  poco  e  stanco,  né  la  vita  povera  e  oscura, 
né  il  nome  calunniato.  Avranno  forse  quei  giudici  miei  assai  bene 
considerato  che  quel  po'  eh'  io  ho  di  mio  potendomi  da  un  di  al- 


—  129  — 

r  altro  venir  meno,  e  non  mi  restando  che  i  frutti  del  mio  inge- 
gno dimezzati  dalla  mia  infermità  e  dalla  mia  imperizia  del  traf- 
ficare, se  i  biasimi  ultimi  soprav^vengono,  a  privarmi  anco  di 
questo  poco,  può  giungere  stagione  in  cui  io  non  abbia  di  che 
sdigiunare  i  miei  figliuoli,  e  di  che  pagare  un  ragaz-^o,  che  mi 
guidi  cieco  a  scaldarmi  al  sole.  » 

Nel  maggio  1854,  il  Tommaseo  ha  già  preso  stabile  dimora  in  Pie- 
monte, ove  appena  giunto,  tutta  la  società  colta  di  Torino  s'è  affret- 
tata a  fargli  dimostrazioni  d'  onore.  Editori,  direttori  di  giornali  e 
d'istituti  scolastici  vanno  a  gara  in  Torino  nel  desiderar  l' opera  del- 
l'illustre proscritto,  che  naturalmente  non  può  corrispondere  al  desi- 
derio di  tutti,  ma  riesce,  senza  dubbio,  a  persuadersi  come  il  Piemonte 
non  s'è  stancato  e  non  può  stancarsi  nel  virtuoso  esercizio  dell'ospi- 
talità. E,  come  il  paese  mostrasi  ospitale,  il  Tommaseo  riceve  dai  go- 
vernanti piemontesi,  in  più  occasioni,  offerte  onorevoli  e  delicate, 
ch'egli  rifiuta  non  senza  gratitudine,  né  senza  sentire,  meglio  che  in 
passato,  simpatia  e  stima  per  quel  popolo  di  cui  egli  può  questa 
volta  considerare  dappresso  le  qualità  e  pesarle.  Il  piemontese 
non  guadagna  ad  esser  guardato  in  fretta  e  di  lontano;  splendori 
che  abbaglino  esso  non  ebbe  e  non  avrà  forse  mai  ;  ma  a  chi  lo 
pratichi  molto,  a  chi  lo  sorprenda  nella  sua  vita  interiore,  esso 
permette  spesso  di  conchiudere  :  l'esterno  figurino  è  duro  e 
grottesco;  ma  l'uomo  che  c'è  sotto  ragiona  e  sente  ed  opera 
bene;  il  Tommaseo  l'avrà  certamente  provato  (1);  ed  al  suo  soggiorno 
in  Piemonte  egli  deve  forse  l'avere  nell'agosto  del  1855  accettato  il 
programma  unitario  di  Giuseppe  La  Masa. 

Intanto  il  Tommaseo  stesso  non  istà  in  ozio;  e  una  sua  lettera  al 
Vieusseux  dell'agosto  1855  ci  può  dare  un'  idea  della  sua  incessante 
operosità  :  «  Dopo  più  di  trent'  anni  che  non  facevo  versi  latini, 
mi  sono  divertito  a  tradurre  la  Francesca  da  Rimini,  che  mi  dice 
d'  esser  contenta  di  me;  e  oggi  stesso,  tra  il  correggere  i  miei 
esametri  e  il  mandare  a  Stresa  trascritti  i  passi  di  Giobbe,  ai  quali 
la  vita  del  Rosmini  è  comento  e  tra  lo  scrivere  a  voi  e  ad  altri 
parecchi,  e  tra  il  correggere  le  mie  preghiere  e  il  far  visite,  e  il 
ripetere  a  mente  Virgilio  e   Dante    e    i    Salmi  e  degli  inni  della 


(1)  Egli,  per  sua  ziatura  un  po'  querulo,  dopo  tre  anni  di  soggiorno 
a  Torino  scrive  ad  un  amico  di  Firenze.  «  Non  già  ch'io  sia  scontento 
del  soggiorno  di  qui  ;  pente  onesta  e  che  mi  lasciano  in  pace  ;  e  chi 
m'  hanno  dato  un  po'  noia  non  ò  roba  di  qui.  » 


Ricordi  Biografici 


—  130  — 
Chiesa,  ho  mandato  al  Valerio  un  articolo  sopra  un  nuovo  libro 
promesso  dal  Sega,  eh'  io  ho  la  mania  di  credere  un  uomo  che 
pensa  e  di  voler  ne'  suoi  scritti  imparare,  e  un  altro  articolo  al 
Mannucci  (Direttore  del  Giornale  dell'  Arte  e  delle  Industrie,  mio 
compianto  cognato,  pel  quale  il  Tommaseo  scrisse  parecchie  appen- 
dici letterarie)  sulla  cattedra  di  Sanscrito  che  qui  minacciano  di 
buttare  a  terra.  Le  quali  faccende  non  mi  vietarono  leggere  il  Di- 
ritto, e  un  pò'  del  Giornale  Agrario,  e  di  molto  della  regola  dell'Isti- 
tuto Rosminiano  e  un  giornale  francese  sul  metro,  e  un  opuscolo 
del  Leoni  sulla  civiltà;  e  de' proverbi  toscani,  e  dalla  grammatica 
sanscrita,  e  d' una  storia  delle  rivoluzioni  di  Serbia;  e  correggere 
delle  stampe,  e  dormire  più  d'un'ora  fra  giorno,  dopo  dormito  quasi 
nove  ore  la  notte.  Ho  anche  letto  una  vita  dell'  Azeglio  con  pia- 
cere, perchè  a  me  piace  l'Azeglio;  e  nelle  Letture  del  Thouar 
due  scene  della  Malattia  d' una  bambola,  che  sono  una  delizia. 
Chi  è  quel  Carducci  che  fa  quelle  note  a  Virgilio,  dove  i  raffronti 
delle  traduzioni  diventano  un  bel  comento?  Per  compire  l'esame 
di  coscienza  di  quest'oggi,  vi  dirò  che  ho  fatto  dire  a  mente  alla 
mia  Caterina  de' versetti  fatti  apposta  per  lei;  e  a  voi,  protestante 
ma  tollerante,  dirò  che  ho  sentito  la  messa.  » 

Nel  novembre  del  1856,  gli  studenti  dell'Università  di  Torino, 
ai  quali  associavasi  pure  l'oscuro  autore  di  questi  Ricordi,  allora 
studente  d'ultimo  anno  nel  Liceo  di  San  Francesco  da  Paola,  co- 
stituiti in  libera  associazione  letteraria  e  politica,  si  riunivano 
ogni  sera  in  tre  sale  del  remoto  palazzo  Antonelli  in  Vanchiglia 
nelle  quali  avevano  iniziato  una  specie  di  gabinetto  letterario.  Si 
tentarono  dapprima  discussioni  letterarie  fra  gli  studenti  stessi, 
ma  con  esito  infelice;  allora  fu  da  alcuni  esternato  il  desiderio 
d'udire  in  quelle  sale  la  libera  parola  d'alcuni  uomini  eminenti, 
che  non  fossero  professori  ufficiali;  si  voleva,  in  certa  guisa,  ten- 
tare, a  spese  nostre,  un  principio  d'università  libera  fuori  dell'uni- 
versità governativa;  con  tale  scopo  vennero  pregati  Niccolò  Tom- 
maseo, Terenzio  Mamiani,  Giuseppe  La  Farina  e  Giacomo  Lignana, 
il  primo  a  volerci  parlar  di  cose  letterarie,  il  secondo  di  filosofìa, 
il  terzo  di  storia,  il  quarto  di  filologia;  il  Lignana  fece  una  lezione 
di  raffronto  fra  il  Ràmàyana  ed  i  Nibelunghi,  il  La  Farina  im- 
provvisò un'eloquente  lezione  sull'Italia  dopo  Carlomagno,  il  Ma- 
miani fece  l'esposizione  del  suo  sistema  ontologico;  il  Tommaseo 
commentò  Dante.  Nelle  memorie  del  Secondo  Esiglio,  ritrovo  la  let- 
tera ch'egli  scrisse  allora  al  nostro  intercessore  presso  di  lui; 
egli  vi  dice,  fra  l'altre  cose  «  dite  chiaro  che  io  non  pos'-:o  da  loro 


—  131   — 

prendere  danaro;  che,  come  animale  di  struttura  semplice,  non 
ho  organi  da  ricevere  siffatto  alimento  né  da  digerirlo.  Ma,  essendo 
io  povero  e  avaro  del  tempo,  bisognerà  che  paghino  la  vettura, 
e  diano  qualcosa  a  chi  deve  sedermi  accanto  con  un  foglio- 
lino  di  sunto  0  per  leggere  qualche  tratto  ch'io  non  sappia  a  mente. 
Non  senza  ripugnanza  acconsento,  e  con  presagi  sinistri...  »  Per 
fortuna,  quella  volta  egli  avrà  trovati  fallaci  i  suoi  presagi;  quando 
di  fatti,  vedemmo  il  cieco  venerando  entrar  nella  sala  destinata  alle 
lezioni,  un  sentimento  di  profonda  commozione  s'impadroni  di  noi 
tutti,  che  scoppiò  quindi  in  un  lungo  e  prolungato  applauso;  quando 
egli  incominciò  a  parlare  con  voce  spezzata  e  pur  viva  e  solenne, 
si  fece  un  silenzio  profondo  intorno  a  lui;  quando  egli  ebbe  fmito. 
lo  seguitò  un  batter  di  mani  fìtto  ed  appassionato;  egli  non  ne  intese 
di  certo  altro  che  il  suono;  nla  s'egli  avesse  potuto  guardarci  negli  oc- 
chi avrebbe  compreso  che  quel  plauso  non  era  de'soliti,  e  che  la  gioia 
di  destare  la  riconoscenza  in  qualche  giovine  di  cuore  può  compen- 
sare qualche  lieve  disturbo  e  confortare  di  certe  amarezze,  delle  quali 
i  giovani,  del  resto,  non  avevano  proprio  alcuna  colpa. 

Resasi,  per  la  morte  del  dalmata  Paravia,  vacante  la  cattedra  di 
eloquenza  italiana  nell'Università  italiana,  il  primo  pensiero  de' Pie- 
montesi si  volge  al  dalmata  Tommaseo,  che  è  pronto  a  dichiarare  non 
l'accetterebbe;  vissuto  fino  allora  del  suo,  mette  égli  una  specie  di  no, 
bile  orgoglio  a  mantenersi,  anco  cieco,  senza  aiuti  governativi,  i  quali, 
per  quanto  corrispondano  a' servigi  resi,  ai  più,  e  forse  a  lui  stesso, 
paiono  pur  sempre  privilegi.  Nel  1857,  egli  raccomanda  invece  a 
tal  cattedra  il  prof.  Domenico  Capellina,  che,  dopo  molti  ostacoli, 
ottiene  finalmente  di  esser  nominato.  Nel  18^8,  vengono  al  Tom- 
maseo fatte  nuove  premure  perch'egli  consenta  di  parlare  come 
vuole  e  quando  vuole  e  di  quello  ch'ei  vuole  come  professore  ai 
giovani  studenti  del  Collegio  delle  Provincie;  anche  questa  volta 
egli  rifiuta;  ma  in  ogni  modo  egli  sarà,  io  spero,  rimasto  convinto 
che  se  alcuno  a  lui  fu  ingrato,  nessun  piemontese  peccò  d'ingra- 
titudine 0  ricusò  di  rendergli  onore;  anzi  egli  avrà  osservato  co- 
me nessuna  occasione  si  lasciò  passare  in  Piemonte  per  attestargli 
affetto  ossequioso  ;  ed  io  rammento  sempre  il  piacere  provato  un 
giorno,  in  cui  egli,  inaspettato,  entrava  nella  scuola  di  lettere  del- 
l'Cniversità  di  Torino,  mentre  il  prof.  Vallauri  vi  faceva  la  sua  le- 
zione di  eloquenza  latina;  tutti  i  nostri  sguardi  si  volsero  allora 
prima  verso  l'ospite  venerando,  quindi  verso  il  nostro  eloquente 
maestro,  il  quale,  come  signóre  di  tutte  le  latine  eleganze,  interpre- 
tando il  nostro  sentimento,  interruppe  il  suo  commento  per  rivol- 


—  132  — 

f.ersi,  in  felicissimo  latino,  al  Tommaseo  dargli,  e  con  uno  splendido 
encomio,  il  benvenuto. 

Nel  giugno  1858,  il  Tommaseo  sembra  già  prevedere  quello  che 
il  Piemonte  farà  in  breve  dell'Italia.  Ecco  le  sue  parole.  «  Avere 
l'Italia,  senza  esserne  assorbita  (foss'anco  la  sola  Lombardia),  gli  è 
un  triangolo  con  quattro  lati.  Se  pare  che  certuni,  di  certi  paesi, 
disperati  e  stucchi,  stendano  le  mani  al  Piemonte,  al  fatto  li  vo- 
glio; pagare  le  imposte  sue  e  ì  suoi  debiti,  improvinciar^si  pili 
d'ora,  avere  manicipii  più  schiavi  di  quel  che  ora  siano  sotto  il 
Papa;  vedersi  soggetti  a  Italiani,  che  parrebbe  più  strano  del  ser- 
vire a'Tedeschi.  Ma  la  questione  sarebbe  decisa  dal  ferro;  voi  di- 
te, e  lo  dico  anch'io.  Tutti  stanno  col  forte.  Il  Piemonte  conqui- 
sti se  può,  se  no,  smetta.  Conquisti  e  libererà  ».  E  cosi  fece  in- 
fatti e  il  Tommaseo  aiutò  l'opera  egli  stesso  col  lavorare  nella 
Commissione  pel  lìionumento  da  erigersi  a' la  memoria  di  Daniele 
Manin,  da  cui  era  partita  la  parola  d'ordine  del  risorgimento  uni- 
tario italiano.  jNel  febbraio  del  1859,  torna  in  campo  il  pericolo 
del  baratto  della  Savoia;  il  Tommaseo  ne  scrive  al  Yieusseux; 
«  Voi  non  potete  di  costì  giuJicare  di  che  tristo  augurio  in  fatto 
di  moralità  civile  sia  l'uscita  del  Cavour  contro  il  De  Viry,  che 
toccava  del  sospettato  baratto  della  Savoia,  e  gli  risposero  lui  es- 
sere deputato  della  Nazione  e  non  d'una  provincia  ;  e  soggiun- 
gendo esso  che  cotesta  è  una  finzione,  gridarono  bestemmiato  lo 
statuto  come  menzogna,  e  schiamazzarono,  e  il  conte  gli  con- 
sigliò di  levarsi  dal  seggio  di  giudice.  Di  questo  baratto  diceva  il 
Costa  di  Beauregard:  "Vogliono  vendere  la  fanciulla  e  la  culla  ». 
In  mezzo  agli  avvenimenti  del  1859,  il  Tommaseo  spera,  dispera, 
brontola,  consiglia,  sconsiglia;  dice  benissimo  quando  il  cuore  di- 
rige la  testa  ;  dice  per  dire  quando  la  testa  fa  tacere  il  cuore.  Nel 
maggio,  egli  scrive  da  Torino  al  Yieusseux  in  questa  forma  :  «  io 
dico,  che  il  Piemonte  non  creperà  italianandosi  :  anzi  si  riftira, 
prevenendo  la  corruzione  dei  suoi  giornali  e  del  suo  Parlamento. 
Se  non  che  il  pericolo  è  urgente  ;  e  quello  che  dianzi  pareva  anco 
a  noi  un  sogno  di  perfezione,  ideale,  quando  se  ne  parlava  con 
Alessandro  Manzoni  che  sempre  lo  accarezzò,  mi  diventa  il  ri- 
medio unico  a  mali  tanto  più  da  temere,  che  li  aggraverebbe  la 
vergogna  dall'aspettazione  delusa.  Non  vi  spaventate  voi  se  vi  dico 
che  questo  rimedio  è  l'unità  ;  che,  se  non  possiamo  ottenerla,  dob- 
biamo proporla  per  discarico  di  coscienza  ;  se  non  come  frutto  del 
passato,  come  germe  dell'avvenire  che  i  tempi,  più  presto  che  noi 
non  crediamo,  matureranno.  »  Dopo  Villafranca,  egli  torna  invece 


—  133  — 

a  diffidare  del  Piemonte  e  a  scrivere  al  Vieiisseux,  «  Io,  per  me, 
ho  sempre  desiderato,  e  in  questa  settimana  lo  stampo,  che  Fi- 
renze abbia  a  essere  centro.  »  Ma  egli  torna  a  modificare  alquanto 
le  sue  idee  dopo  la  lettura  dell'opuscolo  II  Papa  e  il  Congresso, 
quando  scrive  l'opuscolo;  Il  segreto  dei  fatti  palesi  seguili  nel  1859, 
ove  sono  più,  in  vero,  le  inutili  pensate  querimonie,  che  le  pa- 
gine riscaldate  dall'affetto  di  un  cittadino  fiducioso  ed  ardente. 

E  con  tale  opuscolo  stampato  in  Firenze,  ove  il  Tommaseo  aveva 
intanto  trasportato  i  suoi  penati,  finisce  la  vita  politica  di  lui  : 
continua  la  letteraria,  ma  stanca  ed  intermittente  ;  dignitosa  sem- 
pre. Egli  continua  a  scriver  lettere  ed  articoli,  a  riordinare  fram- 
menti, a  comporre  prefazioni,  a  raccogliere  sentenze,  ad  incorag- 
giare opere  di  pietà,  ad  accendere  qualche  scintilla  di  entusiasmo 
in  quegli  ingegni  giovanili  che  a  lui  si  rivolgono  ;  e  questa 
parte,  nella  operosa  esistenza  di  lui,  amareggiatagli,  invero,  molto 
più  dal  proprio  carattere  facilmente  disdegnoso  che  dalla  malignità 
degli  uomini  e  della  sorte,  è  forse  la  più  bella  e  la  più  mirabile 
da  lui  sostenuta  nella  vita,  sulla  quale  io  ho  qui  dovuto  intrat- 
tenere minutamente  il  lettore  perch'essa  si  compone  di  più  pezzi 
minuti,  come  le  opere  dell'illustre  dalmata.  Il  caso  volle  che  il 
Tommaseo ,  per  gli  avvenimenti  del  1847,  avesse  pure  una  pagina 
nella  storia,  e  perch'egli,  quando  il  cuore  lo  trasporta,  come  scrive 
cosi  opera  bene,  quella  pagina  riusci  eloquente  ;  ma,  com'  egli 
stesso  confessa  nelle  sue  numerose  Memorie  autobiografiche,  egli 
si  trovò  fra  i  negozi  della  repubblica  più  tosto  trascinato  che  non 
trascinasse  e  subi  la  gloria  della  politica  molto  più  che  non  la 
cercasse.  Tolta  quella  pagina  che  appartiene  alla  storia,  e  degna, 
in  tutto,  dell'uomo  che  s'era  accusato  per  la  vecchia  Antologia,  il 
resto  della  vita  poliedrica  del  Tommaseo  si  compone  di  piccoli  ine- 
guali frammenti,  e,  per  tirarne  una  conclusione,  conviene  prima 
metterne  insieme  i  molti  e  per  sé  insignificanti  particolari;  avvi- 
cinando faccietta  a  faccietta,  si  riesce  a  comporre  un  tutto  che, 
malgrado  il  gran  numero  di  piccoli  angoli  sporgenti  e  di  piccole 
punte  dissidenti  che  il  poledrio  irregolare  ci  presenta,  non  manca 
d'una  certa  unità  armonica. 

Spicca  anzi  tutto  dallo  studio  delle  opere  di  lui,  le  operate,  come 
le  scritte,  una  figura  propria  ed  originale  ;  il  tempo  e  gli  ambienti 
ne'  quali  egli  visse  poterono  modificare  lievemente  alcune  parti 
del  suo  carattere  come  del  suo  stile  e  smorzare,  talora,  l'angolo- 
sità di  certe  sue  forme  particolari  ;  ma  l'intiera  natura  dell'uomo 
e  dello  scrittore  non  è  certo  di  pasta  frolla. 


—  134  — 

L'uomo  appare  un  po'istrìce;  ed  anche  l'ingegno  del  Tommaseo 
è  tutto  a  punte;  non  ispazia,  non  abbraccia,  non  vola;  ora  è  fu 
scello  che^  a  costo  di  trovarle  fra  le  immondizie,  va  in  traccia  di 
perle  ignorate  ;  ora  spillo,  aculeo,  dente,  saetta  che  squarcia,  morde 
e  ferisce;  ora  tizzoncello  che  desta  piccole  fiamme  latenti  ;  ora  lampo 
che  guizza  pel  cielo,  per  l'innocente  e  vago  capriccio  di  brillare  e  far 
pompa  di  colori  inattesi  e  diversi.  Cosi  parmi  fatto  l'ingegno  di  lui, 
e,  quando  la  volontà  lo  regge,  e  quando  alcuna  vena  d'affetto  generoso 
s'associa  pure  alla  volontà,  è  certamente  ingegno  benefico;  diciamolo 
ora  ad  onore  del  Tommaseo;  egli  volle  quasi  sempre  adoperar  l'inge- 
gno di  critico  od  a  svegliare  qualche  altro  ingegno  ed  animo  ge- 
neroso, od  a  scoprire  bellezze  recondite,  od  a  confondere  qualche 
superbo  vigliacco.  Ma  le  sue  lacrime,  i  suoi  sorrisi,  i  suoi  motti,  i 
suoi  strali,  escono  a  stento  ;  non  si  seguono,  si  staccano  troppo, 
si  lasciano  troppo  contare  e  pesare;  e,  qualche  volta,  nell'esser  pe- 
sati, si  sciolgono  e  si  smarriscono.  Non  vi  è  fiume  d'eloquenza 
nello  stile  di  lui ,  la  sua  prosa  sembra  più  alla  rupe  dalla  quale 
l'acqua  scaturisce,  che  all'  acqua  stessa  dalla  rupe  sgorgante.  La 
rupe  è  scura  ed  orrida  ;  ma  ora  getta  lingue  di  fuoco,  ora  fre- 
schi, limpidi  zampilli.  Ma  quel  fuoco  rado  si  dilata;  e  l'acque 
di  quegli  zampilli  intermittenti  sono  scarse  e  non  si  scavano 
alcun  letto  ,  e  non  trasportano  alcun  grande  naviglio  ;  esse  ba- 
stano ad  estinguere  la  poca  sete  di  un  momento,  ad  un  vian- 
dante smarrito  che,  a  caso,  in  un  momento  propizio,  le  ritrovi, 
ma  non  a  fecondare  una  intera  landa  inaridita;  si  possono  rac- 
cogliere nel  cavo  della  mano,  con  isperanza  di  trovarvi  in  fondo, 
non  di  rado,  alcuna  lucida  gemma;  si  possono  raccogliere  in  ameno 
stagno,  in  cui  diguazzare  un  istante  e  staccarne  qualche  splendida 
ninfea;  si  può  ammirare  in  quel  grazioso  getto  d'acqua  il  riflesso 
di  tutti  i  colori  dell'iride  ;  ma  è  raro  che  la  piccola  fonte  si  volga 
in  agile  ruscello  che  cammini  lontano.  I  pochi  fiori  che  stanno  in- 
torno alla  rupe  solitaria  possono  rinfrescarsi  e  allegrarsi  un  minuto, 
e,  trasportati  quindi  altrove,  su  terreno  più  fecondo,  vegetar  bene; 
ma  né  di  fiori  s'appaga  il  tempo  edace  né  ogni  fiore  apre  il  suo 
calice  quando  cade  quella  parca  stilla  di  rugiada  ;  un  largo  volume 
d'acque  domandano  i  nostri  campi  per  prosperare,  e  le  nostre 
industri  officine  per  avvivare  un  lavoro  fecondo.  La  parola  dell'uomo 
di  lettere  deve  scorrere  sempre  com'onda  benefica.  La  rupe  solitaria 
è  invece  immobile,  e  se  ne  sta  accigliata;  essa  non  chiede  e  non 
vuole  nulla  per  sé  ;  si  direbbe  che  sdegni  quegli  uomini  stessi  ai 
quali;,  a  spizzico^,  lascia  gustare  da  cinquant'anni  una  parte  de'tesori 


—  135  - 

ch'essa  racchiude;  sono  spiccioli  d'oro  ma  spiccioli,  e  li  consente 
una  mano  avara.  Beato  tuttavia  quel  giovine  a  cui  la  mano  be- 
nefattrice, una  volta,  almeno,  si  stende  ! 

Ed  io  pure  posso  chiamarmi  tra  i  fortunati  che  un  giorno  il 
cieco  veggente  beneficò.  Ero  nel  mio  anno  diciassettesimo;  la  let- 
tura dei  drammi  di  Shakespeare  e  di  Schiller  m'aveva  innamorato 
della  poesia  drammatica  ;  la  lettura  delle  Storie  della  Corsica  e 
dei  Canti  Popolari  di  queir  isola  raccolti  dal  Tommaseo,  mi  ave- 
vano colorito  nella  mente  giovanile  il  mondo  popolare  corso  in  im 
aspetto  singolare;  ignoravo  che  il  Revere  avesse  scritto  un  Smìi- 
piero  ;  composi  anch'io  il  mio  primo  dramma  in  versi  su  quell'ar- 
gomento. Finitolo,  scrissi,  con  riverenza  di  discepolo,  al  Tommaseo, 
mandandogli  il  lavoro  manoscritto,  e  pregandolo  di  volerlo  degnare 
d'  uno  sguardo;  passarono  quasi  quindici  giorni  senza  alcun  ri- 
scontro, ed  io  avevo  già  messo  1'  animo  in  pace  sul  mio  povero 
tentativo,  quando  un  ignoto  mi  fa  sapere  ch'egli  ha  da  rimettermi 
una  lettera  del  Tommaseo;  ritiro  avido  e  geloso  ciò  che  m'appar- 
tiene ;  apro  la  lettera  con  quel  moto  febbrile  che  ogni  lettore  può 
facilmente  immaginarsi,  ricorrendo  agli  anni  studiosi  della  sua 
adolescenza.  La  lettera  incominciava  epicamente,  col  rallegrarsi  che 
il  giovinetto  autore  incominciasse  là  dove  molti  scrittori  provetti 
sarebbero  sfati  lieti  di  poter  finire,  e  continuava,  consolando  dav- 
vero il  giovine  studioso,  con  l' assicurarlo  che  egli  aveva  bene 
l'appresentati  i  costumi  corsi,  e  superato  una  grande  difficoltà  nel 
presentare,  in  modo  nuovo,  pur  dopo  esempii  famosi,  la  follia  del- 
l' eroina;  la  lettera  terminava,  tuttavia,  con  due  rimproveri  ;  l'uno 
faceva  carico  al  giovinetto  autore  dell'aver  messo  in  iscena  un 
]ìrete  brigante,  aizzando  cosi  1'  odio  contro  una  casta  già  troppo 
odiata  ;  l' altro  d'  aver  scelto  per  la  scena  un  argomento  atto  a 
rinfocolare  gli  sdegni  ornai  spenti  fra  Genova  e  la  Corsica.  È  passata 
da  quel  tempo  quasi  un'  età  della  mia  vita,  e  però  parmi  poterne  qui 
parlare  come  della  vita  d'  un  altro  uomo;  quelle  lodi  non  inorgo- 
glirono punto  il  giovinetto  autore;  quelle  censure  invece  lo  per- 
suasero ;  gli  sarebbe  stato  assai  facile  far  stampare  allora  e  recitare 
in  Torino  il  dramma  lodato;  e  l'età  stessa  dell'autore  poteva  allettar 
facilmente  gli  impresarii a  tentarne  la  prova  scenica;  egli  nascose 
invece  il  proprio  manoscritto,  e  cosi  ben  lo  nascose  che  non  saprebbe 
ora  pili  dove  ritrovarlo.  Le  parole  del  critico  venerato  avevano  fatto 
il  loro  effetto;  avevano  al  giovane  studioso  cresciuto  coraggio,  non 
vanità;  egli  continuò  quindi  a  studiare,  con  più'  ardore  :  e,  s'  ei 
non  ha  potuto  far  più  di  qn'dlo  che  fere,  non  può  dire,  in  verità, 


—  136  — 

che  l'abbia  sciupato  alcuna  lode  prematura  o  eh'  ei  l'abbia  fatto 
a  posta.  Benché  adunque  il  Tommaseo,  nel  pubblicare,  circa  dieci 
anni  dopo,  in  un  giornale,  un  frammento  di  quella  lettera  ol 
diciassettenne  autore  di  un  dramma  intitolato  il  Saynpiero,  abbia 
creduto  di  poter  modificare  considerevolmente  il  suo  primo  giu- 
dizio, negando  all'  uomo  quelle  lodi  che  non  avevano  punto  inva- 
nito il  fanciullo,  io  desidero  eh'  egli  si  tenga  sicuro  che  1'  uomo 
non  gli  professa  minor  riconoscenza  per  quella  lettera  che  fu  la 
prima  di  letterato  in  fama  a  lui  scritta,  ed  alla  quale  egli  deve 
soltanto  l'incitamento  ricevuto  a  proseguire  più  volonteroso  e  più 
ardente  negli  studii  intrapresi.  Quella  lettera  gli  permette  ora  e  gli 
permetterà  sempre  di  noverare  il  Tommaseo  fra  i  benefattori  suoi, 
né  il  confessare  di  dovergli  gratitudine  gli  pesa,  per  quanto  possa 
parere  ora  al  Tommaseo,  d'  aver  mal  collocati  i  suoi  antichi  be- 
neflcii,  e  che  la  giovine  pianticella,  ch'egli  pure  contribuiva  ad 
educare,  sia  poi  tanto  male  cresciuta. 

E  i  beneficati  dalle  parole  del  Tommaseo  se  volessero  tutti  confes- 
sarsi al  pari  di  me,  sarebbero  moltissimi  ;  molti  essi  sono,  in  ogni 
modo,  al  confronto  de'  pochi  ai  quali  1'  acre  linguaggio  di  lui  ha 
talora  potuto  recar  danno.  Tra  questi  pochi,  il  più  disgraziato  fu  il 
Foscolo  a  cui  il  Tommaseo  era  stato,  anco  quando  ei  l' imitava, 
irriverente  in  gioventù,  e  per  tutta  la  vita,  poi,  mostravasi,  oltre  mi- 
sura, acerbo.  La  mente  del  Tommaseo,  vaga  com'  è  di  minuzie  inav- 
vertite, considera  spesso  delle  cose  l'aspetto  infimo,  per  dargli  ri- 
lievo; il  critico  n'ha  facilmente  il  vantaggio  sopra  il  suo  avversario, 
poiché  lo  piglia  dal  suo  lato  più  debole,  anziché  investire  il  toro 
per  le  corna  ;  ma,  di  quella  facile  vittoria  non  può  egli  stesso 
sperare  gran  gloria.  E  poca  gloria  s'accrebbe  di  certo  al  Tom- 
maseo, per  aver  egli  così  lungamente  mantenuto  il  suo  pun- 
tiglioso cipiglio  col  Foscolo  ;  egli  volle  soltanto  nel  giudicare  il 
poeta  dello  Zante  chiedere  soccorso  al  solito  arguto  ingegno,  dove 
gli  era  necessario  sovra  ogni  cosa  pigliar  consiglio  dall'  animo 
liberale  ;  egli  gettò  così  qualche  ombra  sulla  fama  del  Foscolo,  ma 
offuscando,  in  parte,  la  propria.  Meglio  per  lui  se  al  Foscolo,  al 
Niccolini,  al  Carrer  e  ad  altri  fra'  più  simpatici  e  generosi  scrit- 
tori d' Italia,  de'  quali  alcuno  forse  1'  aveva  offeso,  egli  cristiana- 
mente perdonava,  invece  di  covare  per  lungo  tempo  piccoli  ran- 
cori per  isfogarli  in  piccole  vendette,  nelle  quali,  s'ei  tornava  a  far 
prova  d' un  ingegno  non  mai  posto  in  dubbio ,  a  chi  gli  cercava 
animo  largo,  aperto  all'  amore  ed  alla  pace,  egli  poteva,  troppe 
Volte  metter  freddo. 


—  137  — 

La  vita  privata  del  Tommaseo  è  degna  d'ogni  rispetto  e  l'inge- 
gno di  lui  manda  veri  lampi.  Ma  il  critico  forse  punge  o  sol- 
letica talora,  più  che  non  indaghi  e  comprenda;  e  più  che  en- 
trar neir  autore,,  egli  costringe  1'  autore  a  sé  stesso  ;  le  parole  gli 
stentano  all'uscita,  e  se,  uscendo,  scattano  e  saltano,  saltando 
troppo,  talora  cadono  ;  perciò,  se  talora,  a  proposito  di  cose  volgari 
gli  accade  di  dirne  delle  sublimi,  a  proposito  di  cose  sublimi,  ne  dice, 
alcuna  volta,  delle  volgari;  l'ingegno  gli  lampeggia  sempre,  e 
non  vi  è  pagina  di  lui  che  non  mandi  qualche  luce  ;  ma,  di  rado 
quella  luce  divien  calore.  La  penna  del  Tommaseo  non  fu  mai 
né  stolta  nò  vile  ;  ma  sovente  si  è  compiaciuta  di  far  effetto. 
più  che  di  riuscir  efficace,  di  sorprendere  più  che  di  persuadere, 
di  dir  bene  e  singolarmente  più  che  di  dir  giusto  e  di  dir  tutto  ; 
il  Tommaseo  confessa  egli  stesso  d'  aver  molto  amato  in  gioventù 
il  Bartoli  ed  il  .Segneri,  due  famosi  parolai;  e  il  loro  concettoso 
secentismo  s' è  in  parte  ammodernato,  spezzato  prima  e  poi  serrato, 
e  fatto  più  denso  nello  stile  articolatissimo,  e  sentenziosissimo, 
ma  freddamente  nervoso  di  Niccolò  Tommaseo. 

Io  non  proporrei  dunque  il  Tommaseo  come  modello  unico  di 
scrittore  ad  alcun  giovine  studioso;  tuttavia,  poiché  alcuna  volta 
gioverebbe  loro  saper  dire  certe  cose  minute  com'egli  le  dice,  e  come 
nessuno  può  dirle,  in  alcuni  casi,  meglio  di  lui,  anche  lo  stile  del 
Tommaseo  parmi  destinato  a  divenir  classico  nella  nostra  lettera- 
tura. Imitar  sempre  nello  scrivere  la  maniera  di  lui  non  si  po- 
trebbe senza  cadere  nel  manierato  e  senza  trovarsi  spesso  impac- 
ciati con  una  forma  che  non  risponderebbe  o  non  basterebbe  all'im- 
peto espansivo  delle  nostre  idee  e  al  calore  de'nostri  sentimenti;  ma, 
in  quanto,  sentimenti  e  idee,  talora  sminuzzandosi,  piglino  in  noi  un 
carattere  non  dissimile  da  quello  che  dà  una  fisionomia  speciale  agli 
scritti  del  Tommaseo,  certo  nessuno  potrà  mai  esserci,  in  tal  parte, 
miglior  maestro  di  lui,  poiché  nessuno  scrittore  adoperò  mai  uno 
stile  più  individuale,  più  suo,  come  nessuna  natura  d'uomo  fu  mai  più 
scolpita,  più  gel03a,  più  costante,  più  inalterabilmente  dignitosa  di 
quella  che  costituisce,  nelle  sue  molte  virtù  e  ne'difetti  che  da  tali 
virtù  di  rado  si  scompagnano,  l'originalità  di  Niccolò  Tommaseo;  i 
difetti  dell'uomo  son  pure  in  parte  i  difetti  dello  scrittore;  le  virtù 
dell'uomo  che  sono  molte  più,  e  quello  che  importa,  molto  più  ope- 
rose, splendono  mirabilmente  in  ogni  scrittura  di  lui.  Se  alcuno  può, 
quindi,  con  ragione  ripetere  il  vieto  adagio  deWoìnma  mea  mecmn 
porto,  quest'uno  è  certo  l'illustre  letterato  di  Sebenico;  egli  ha  in 
sé  il   suo   paradiso   e    il    suo  inferno,  e  se  la  vita  gli  é  stata  un 


—  138  - 
purgatorio,  anche  questo  è,  pur  troppo,  il  fatto  suo,  che  gli  uomini 
sarebbero  stati  a  lui  molto  più  pii,  s'egli  si  fosse  mostrato  a  sé 
stesso  molto  più  umano.  Ma  ciò  non  riguarda  più  noi;  la  sola  cura 
nostra  è  qui  di  misurare  il  bene  ch'egli  ha  fatto  lavorando  per  le 
lettere  da  cinquant'anni;  questo  bene  non  si  può  registrar  tutto;  ma. 
percorrendo  il  solo  Dizmiario  d'Estetica  è  lecito  argomentarlo;  il 
fare  abilmente  di  mosaico,  mettendo  insieme  per  mezzo  secolo  tutto 
ciò  che,  nella  divisa  Italia,  le  lettere  hanno  prodotto  di  più  degno, 
soffiando,  quantunque  più  col  pensiero  che  con  l'affetto,  un  po' di 
vita  moderna  nelle  vecchie  produzioni  accademiche,  e  un  po' di 
gusto  antico  nelle  moderne  novità,  non  mi  pare  che  sia  stata  cosi 
piccola  impresa  da  impedirci  d'ammirare  ora  l'uomo  di  alto  e  fine 
ingegno  e  di  fermo  ed  austero  carattere  che  solo  ha  saputo  du- 
rarvi per  tanto  tempo.  Non  sono  assoluti  i  suoi  giudizii,  la  sua 
critica  non  è  tutta  la  critica,  la  sua  estetica  nqn  è  tutta  l'este- 
tica; ma  il  giudice  ha  sano  giudizio,  il  critico  fine  discernimento, 
l'estetico  ragiona  la  bellezza  che  prima  ha  sentita,  e  lo  scrittore 
sa  scrivere.  Ce  ne  sarebbe  d'avanzo  per  leggerlo;  e,  se  si  ag- 
giunga, che,  in  tempi  assai  difficili  e  servili,  la  parola  del  Tomma- 
seo suonò  sempre  libera,  ce  ne  sarà  pure  d'avanzo  per  imitarlo. 


{*)  Il  venerando  Niccolò  Tommaseo,  dopo  la  lettura  del  Ricordo  che  lo 
riguardava,  indirizzavami  una  lunga  e  nobilissima  lettera,  della  quale  m'è 
lecito  pubblicar  la  parte  seguente,  e  mi  faccio  lecito  notare  in  parentesi 
que'  punti  ne'  quali  parmi  che  lo  scrittore  abl)ia  attribuito  alle  mie  pa- 
role un  senso  che  non  volevano  avere  : 

«  Dal  libro  del  Signor  Canini  Ella  colse  una  particolarità,  nella  quale 
la  memoria  a  lui  fece  fallo  ;  né  intorno  ad  altro,  clie  a  certi  particolari 
di  fatto  verserà  questa  lettera. 

Egli  dice  che  nel  1847  io  ero  ito  a  Padova,  per  un  moto  da  tentarsi, 
a  intendermi  col  conte  Carlo  Leoni.  Non  è  per  l'appunto  così.  Nella  state 
di  quell'anno  io  proposi  una  petizione  da  fare  pubblicamente  al  Governo 
austriaco  acciocché  fosse  attuata  la  legge  censoria  continuamente  vio- 
lata da  esso  ;  e,  partendomi  per  mie  faccende  alla  volta  di  Toscana, 
lasciai  al  Sig.  Avv.  Manin  quel  foglio  sottoscritto  da  me,  raccogliesse 
altri  nomi,  e  però  lo  mostrasse  anco  al  conte  Leoni.  Questi  per  sue  ra- 
gioni non  sottoscrisse,  né  altri,  né  lo  stesso  avvocato  Manin  ;  onde  a 
me  venne  necessita  di  leggere  in  accademia  :  e  ne  seguì  le  cose  ch'Ella 
narra  a  un  dipresso.  Dunque  senza  contare  la  mo?sa  dei   fratelli   Ban- 


—  139  — 

diera,  e  altri  segni  clie  diede  Venezia  di  vita  (i  quali  non  è  luogo  qui 
né  a  lodare  né  a  condannare),  il  fatto  è  che  Venezia  non  attese  la  voce 
del  Sig.  Cantù  per  destarsi  nell'autunno  dell'anno  medesimo.  [Codesto  io 
non  ho  affermato  mai  :  amo,  e  stimo  troppo  i  veneziani  e  la  virtù  loro 
propria,  per  suggerire  ad  altri  o  lasciar  suggerire  a  me  che  occorresse 
ai  Veneziani  per  insorgere  la  parola  d'un  solo  uomo,  veneziano  o  no 
ch'ei  fosse;  io  dissi  che  la  parola  di  Cantù  fu  scintilla  che  accese  l'in- 
cendio; al  Tommaseo  che  può  insegnarmi  la  proprietà  toscana  delle 
parole  non  isfugge  che  accendere  un  incendio  vale  fatalo  piii  vivo  e  non 
già  destarlo.  Ho  poi  troppa  fede  nell'opera  spontanea  che  deve  prestare  il 
popolo  .alla  rivoluzione,  che  dal  popolo  solo  può  alimentarsi,  perche  io 
supponga  che  un  uomo  solo  basti  a  preparare  una  rivoluzione  grande 
e  generosa  come  quella  di  Venezia  è  stata  ;  per  la  parte,  del  resto, 
presa  dal  Cantù,  al  congresso  di  Venezia  io  mi  rimisi  alla  relazione 
del  Fiquelmont,  che  non  dovea  di  ^erto  professare  molta  simpatia  al 
Cantù]  Io  Le  so  grado.  Signore,  eh'  Ella  abbia  con  calore  di  pietà  ri- 
verente difeso  il  nome  dello  storico  tanto  ingegnosamente  operoso;  ma 
debbo  soggiungere  che  le  parole  da  lui  dette  in  congresso  (come  poi 
seppi,  io  che  ne  ero  lontano  e  da  ogni  pompa  rumorosa  rifuggo),  più 
che  eccitare,  o  irritarono  o  accuorarono  non  dico  se  a  torto  o  a  ra- 
gione, parecchi  veneziani  che  di  stimoli  esterni  sentivano  non  aver  di 
bisogno  A  onore  d'esso  Sig.  Canini  dirò  che,  prima  ancora  del  47,  egli  a  me 
si  mostrava  caldo  d'amore  patrio;  e  che,  senza  farsi  sentire  al  Congresso, 
nell'autunno  di  quell'anno  stampava  versi  vaticinanti  assai  chiaro  le 
vicende  imminenti.  Elia,  Signore,  sentenzia,  [non  sentenzio;  ripeto  col  pro- 
verbio che  i  fatti  son  maschi  e  le  parole  femmine]  al  paragone  delle  cin- 
que giornate  milanesi,  femminee  le  parole  che  in  Venezia  e  in  Firenze  e 
i)i  Torino  allora  suonarono.  Di  quel  che  a  me  spetta,  non  entro  ;  ma 
dico  che  alla  mossa  di  Milano  fu  primo  impulso  la  parola  d'un  deputato 
al  Consiglio  provinciale,  il  qual  deputato  aveva  pure  un  titolo  a  pro- 
fi^-rirla,  e  la  temperò,  con  lodi  all'Austriaco  ch'io  non  avrei  scritte  e 
nondimeno  le  giudico  più  prudenti  che  vili,  [né  in  me  cadde  mai  in 
mente  di  accusare  di  viltà  i  discorsi  allora  proferiti]  e  credo  che  di 
quell'atto  gl'Italiani  a  lui  debbano  gratitudine.  Or  la  proposta  di  somi- 
gliante petizione  era  stata,  circa  sei  mesi  innanzi,  fatta  in  Venezia  con 
parole  più  altere  e  con  più  pericolo  dello  scrivente  ;  la  quale  se  non 
ebbe  effetto,  non  è  del  proponente  la  colpa  ;  nò,  se  lo  avesse  sortito,  ne 
verrebbe  a  lui  lode  grande,  e  non  certamente  a  lui  solo. 

Ella,  Signore,  disprezza,  [non  disprezzo,  compiango  ;  me  ne  appello  ai 
lettori  che  lessero  quelle  mie  parole]  come  timide,  le  parole  dettate  dal 
Sig.  Avv.  Manin  e  da  me  nella  carcere  innanzi  a'  giudici  nostri.  Io  non 
ho  letto  l'esame  del  mio  compagno  [?]  ;  e  però  non  ne  parlo  :  ma  mi 
tenni  in  debito  di  rileggere  il  mio  per  conoscere  se  avessi  a  arrossirne; 
e  confesserò  che,  senza  trovarci  nulla  d'eroico  e  d'ammirando,  non 
credo  d'avere  a  vergognarmene  punto,  [Ho  forse  io  detto  qualche  cosa 


—  140  — 

di  simile  ?  Ho  forse  detto  che  il  Tommaseo  siasi  in  quella  occasione  con- 
tradetto ?  Parvemi  solo  che  egli  allora  confermasse  troppo  l'assenza  in  lui 
d'ogni  proposito  rivoluzionario]  e  vorrei  che  in  tutte  le  carceri  e  fuori 
avessero  parlato  così  tutti  quelli  che  si  presero  e  ottennero  il  salario  e  la 
corona  di  martiri.  Ma  l'assunto  e  mio  e  del  Sig.  avv.  Manin,  concorde  in  ciò 
meco,  era  presentare  all'Austria  la  questione  ne'  termini  delle  sue  leggi 
stesse.  Delle  altrui  intenzioni,  non  note,  io  non  posso  rendere  testimo- 
nianza ;  quanto  a  me,  so  che  dall'Italia  mi  parevano  più  sicuramente 
imitabili  gli  esempi  di  Daniele  0'  Connell,  e  di  Riccardo  Cobden,  e  del 
Signor  Deak,  e  degli  altri  che  prima  o  poi  da  quel  ch'era  riconosciuto 
per  giusto  dagli  stessi  avversarli,  tolsero  armi  a  combattere  i  divieti 
non  giusti;  che  l'Italia  mi  pareva  immatura  a  resistenza  unanime- 
mente efficace  senza  implorare  l'assistenza  straniera,  rischiosa  e  assai 
volte  vituperosa.  Checché  sia  di  questo  parere,  io,  nella  carcere,  non 
contradissi  a  me  stesso  ;  anzi  avrei  contraiJetto,  parlando  altrimenti  ; 
avrei  aggravata  la  condizione  e  del  Sig.  Avv.  Manin  e  degli  altri  o  ac- 
cusati o  sospetti  ;  che  non  mi  pareva  atto  né  savio  né  onesto.  Quanto 
a  me,  rammentandomi  il  proverbio  che  i  cenci  vanno  all'aria,  e  senten- 
domi in  -Venezia,  non  per  affetto  mio  ma  nel  fatto,  straniero  e  solo  ;  pre- 
vedevo senza  sgomento  la  fine,  e  tal»no  de'miei  esaminatori  mi  faceva 
già  intendere  che  io  sarei  stato  la  vittima. 

Ella  dice  :  se  l'Austiia  avesse  presi  in  parola  que'due  [io  credo  averne 
parlato  con  maggior  rispetto]  e  consentito  ai  miglioramenti  legali  richie- 
sti da  essi,  la  fama  loro  ne  avrebbe  patito.  A  cotesto  mi  lasci  rispondere 
assicurandola  che  la  mia  non  ne  avrebbe  patito  punto,  perchè,  anco  chia- 
mato dall'Austria  a  mettere  in  atto  i  miglioramenti  voluti,  io  le  avroi  reso 
grazia  dell'onore  ricoverandomi  in  fretta  nella  mia  solitudine.  [Di  ciò  nes- 
suno dubita;  il  Tommaseo  che  non  volle  mai  nulla  ricevere  dal  governo 
italiano,  avrebbe  tanto  meno  potuto  ricevere  dal  governo  austriaco  ;  ma 
nelle  mie  parole  non  vi  era  nulla  di  allusivo  a  cotesto;  io  non  dico  che  il 
Tommaseo  avrebbe  fatto  danno  alla  sua  fama  d'onest'uomo  se  l'Austria 
accorta  accettava  il  concordato  di  Manin  e  di  Tommaseo,  ma  solo  notato 
quello  che  penso  e  credo,  cioè  ch3  i  patrioti  unitarii  Cavouriani  invece  di 
ammirarli,  li  avrebbero  forse  perseguitati  ;  e  da  questa  opinione  che,  os- 
servando e  ragionando,  mi  sono  formata,  parmi  che  niente  potrebbe  rimuo- 
vermi; né  io  col  professarla  arditamente  ho  inteso  di  far  torto  ad  alcuno, 
bensì  deplorare  la  importanza  eccessiva  che  nella  nuova  Macchiavellica 
Italia  si  attribuisce  alla  ragione  del  fatto  compiuto.]  E  i  conoscenti  del  Sig. 
Avv,  Manin  credo  che  le  risponderebbero  il  somigliante  [Lo  credo  facil- 
mente, e,  nel  crederlo,  me  ne  compiaccio]  Ma  ella  soggiunge  :  e  allora  le 
speranze  d'Italia  si  dileguavano;  il  Veneto  restava  ai  Tedeschi.  E  non  è  egli 
restato  per  anni  sedici  e  più.  ?  [C'è  restato,  sì  ma  per  forza,  dopo  una 
ditesa  eroica,  non  per  dedizione.]  E  chi  glie  l'ha  tolto?  Di  quel  che  se- 
guì in  tutta  Italia  allora,  e  di  quello  che  segue  e  seguirà,  non  mi 
pare  eh'  Ella  sia  grandemente  contento:  ma  né  delle  sue   né   delle  mie 


—  141  — 

opinioni  si  tratta  qui  ;  né  io  intendo  se  non  appurare  i  particolari  de'  fatti. 
Per  questo  m'è  forza  soggiungere  che^  quand'  Ella  fa  me  repubblicano 
senz'altro,  se  non  sbaglia,  risica  di  fare  che  sbaglino  que'  lettori  del  suo 
giornale  che  pigliano  le  cose  in  digrosso.  [Io  confido,  per  dire  il  vero,  che  i 
miei  lettori  non  patiscano  di  cosi  fatta  infermità].  Io  non  proclamai  la  re- 
pubblica di  San  Marco;  ma,  consentita  dalla  città  di  Venezia  e  sul  primo  da 
altre,  credei  che  il  disdirla,  il  segretamente  disfarla,  il  consentire  vilmente 
che  altri  la  disfacesse,  era  vergogna,  vergogna  non  scui^ata  dalla  spe- 
ranza d'alcuna  utilità  ;  e  lo  provavano  le  calamità  del  Piemonte,  e  la 
necessità  a  ripararle  del  soccorso  straniero.  Né  nel  primo  esilio  io  co- 
spirai per  repubblica,  né  nel  secondo.  Però  gli  sbagli  (per  non  dir  altro) 
di  certi  re  e  imperatori,  o  de'  loro  settatori  sottomano  cospiranti  con- 
tr'essi  e  in  cuore  nemici,  resero  a  taluni  la  repubblica  desiderabile, 
(ma  non  credo  la  rendano  con  ciò  solo  possibile)  ;  io  non  ci  ho  che  ve- 
dere. Anzi  desidero  che  i  leali  amici  e  consiglieri  de'  re  facciano  desi- 
derabili i  re.  Io  mi  riserbo  il  privilegio  di  compiangerli  ondanti  e  ca- 
duti. E  pei'ò  avrei  amato  ch'Ella,  Signore,  avesse  sul  cadavere  di  Mas- 
•similiano  d' Austria  trovato  una  qualche  pia  parola.  [Non  si  trat- 
tava per  me  di  parlare  della  tragedia  messicana  che  avrei  comiìianta 
sicuramente  anch'io,  ma  non  potevo  giudicare  di  tutta  la  vita  d'un  principe 
dal  solo  suo  fine;  la  storia,  potrebbe  notarmi  lo  stesso  Tommaseo,  non 
è  un'elegia]. 

L'assunto  del  libro  mio  Roma  e  il  Mondo,  così  come  quello  della  con- 
futazione che  feci  giovanissimo  del  Lamennais,  proponente  per  criterio 
del  vero  l'autorità  del  genere  umano,  non  era  quale  Ella  dice.  Anzi  io 
dimostrava  che  nel  Trattato  sulla  Indifferenza  in  fatto  di  religione,  non 
disapprovato  allora  da  Roma,  era  tolto  alla  società  cattolica  quel  che 
volevasi  dare  alle  tradizioni  de'popoli,  che  son  brani  di  verità,  impos- 
sibili a  farsi  norma  costante  della  privata  e  della  pubblica  vita.  Nel  li- 
bro sulla  potestà  materiale  de'sacerdoti,  io  desideravo  serbato  al  Sommo 
Sacerdote  cattolico  un  luogo  dov'egli  non  dipendesse  dai  re,  e  dove  i 
re  e  i  servi  loro  non  l'avessero  dinanzi  giudice  terribile  perché  inerme, 
e  suddito  più  rispettato  che  principe  Quella  setta  che  della  Chiesa  vuol 
fare  una  Corte  o  una  Loggia  o  una  Vendita  o  altro  ricettacolo  di  tri- 
viale pedanteria,  colle  sue  furberie  goffe,  e  col  riso  sardonico  spruzzante 
schiuma  e  fiele,  e  colle  imbecilli  speranze  nei  re  della  terra,  trasse  le 
cose  al  punto  che  sono  :  ma  non  può  far  si  che  Pio  IX  nella  storia  del 
secolo  non  rimanga  più  alto  di  tutti  i  monarchi  e  de'  loro  ministri  o 
nemici.  Quel  libro  io  scrissi  in  lingua  francese;  né  riconosco  la  tra- 
duzione da  me  non  approvata  né  vista,  apposta  a  me  stesso  da  un  tale 
con  stupida  malignità. 

Né  il  Sig.  Marchese  Capponi,  benevolo  a  me  da  molti  anni,  mi  prof- 
ferse  l'ospitalità  di  Toscana  ;  nò  poteva  egli  allora  a  me  profferirla. 
Nò  io  mai  fui  offeso  da  Ugo  Foscolo,  che  usci  d'Italia  prima  ch'io  ci 
venissi  ;  né  credo  ch'egli  abbia  pur   Ietto   il    mio   nome,    nonché    miei 


—  142  — 

scritti.  [Di  codesto  io  non  parlai]  Ammirai  e  ammiro  Io  stile  potente  suo; 
non  lo  credo  uomo  da  proporre  in  esempio  a  uomini  italiani  [ed  in  ciò  io 
con  molti  altri  italiani,  dal  Tommaseo  mi  permetto  dissentire]  appunto 
perchè  ho  conosciuti  troppi  e  amici  suoi  e  ammiratori,  e  dal  loro  labbro 
veridico  troppo  seppi  della  sua  vita,  e  troppo  ne  dice  egli  stesso.  E 
quando  il  sig.  Giuseppe  Mazzini  una  mia  qualche  parola  non  irriveren- 
temente severa  macchiò  col  gallicismo  calunnioso  di  insinuazioni  cat- 
toliche, mi  tenni  in  debito  di  citare  i  tanti  luoghi  ove  il  Foscolo  giu- 
dica sé  medesimo  troppo  severamente.  Né  a  Luigi  Carrer  io  debbo  al- 
tra gratitudine  se  non  di  colloqui,  che  mai  non  sono  sterili  a  chi  vo- 
glia farne  suo  prò  ;  ma  con  lodi  larghissime  commendai  lui  ben  più 
che  egli  me  ;  e  anche  dopo  saputo  quel  ch'egli  nell'assedio  di  Venezia 
aveva  e  detto  e  operato  sul  conto  mio,  che  l'onore  di  Venezia  con 
miei  danni  e  pericoli  difendevo,  ristampai  le  sue  lodi,  e  in  una  scelta 
di  prosatori  diedi  luogo  a  più  passi  d'una  sua  orazione,  soggiungen- 
dovi note  accennanti  a  qualche  menda,  più  parcamente  che  non  facessi 
esaminando  altri  scrittori  di  più  splendida  fama. 

Un  errore  di  fatto  Ella  ha  commesso.  Signore,  ma  per  mia  colpa,  fa- 
cendomi nato  del  1803,  come  io  stesso  credevo  allora  che  scrissi:  ma 
so  adesso  che  all'anno  settantesimo  pochi  mesi  mi  mancano.  Altri  er- 
rori e  colpe,  più  gravi  delle  notate  da  Lei,  dovrei  io  confessarle;  io 
che,  sebben  giudicato  un  po'  querulo  di  mia  natura,  so  discernere 
quanto  da  Lei  ci  corra  ad  altri  miei  giudici,  i  quali  io  non  degnai  di 
risposta,  né  degnai  muovere  querela  di  detti  e  di  fatti  crudeli  alla  mia 
desolata  vecchiezza. 

E  s'Ella  trovava  e  poteva  leggere  tutto  quello  ch'io  scrissi  e  innanzi 
e  dopo  il  1859  (non  ha  visto  che  il  meno  e  di  male  e  di  qualità),  usava 
forse  anco  all'ingegno  maggiore  o  indulgenza  o  commiserazione.  Del- 
l'aver io,  stampando  una  lettera  a  Lei  diretta,  omessone  qualche  cosa, 
non  rammento  le  ragioni,  né  ho  tempo  a  rileggermi  :  certo  non  maligne 
né  abiette.  La  ragione  in  genere  di  tali  omissioni,  è  il  tralasciare  ch'io  fo  le 
parole  che  concernono  la  persona  singola,  e  non  contengono  osserva- 
zioni che  possa  applicare  a  sé  talun  altro  di  coloro  che  leggono.  Posso 
di  questo  vantarmi,  ch'io  non  ho  avvertitamente  mai  né  scuorati  i  gio- 
vani né  piaggiati  [E  codesto  io  credo  pienamente  ed  è  per  queèta  ra- 
gione ch'io  sento  dovergli  molta  gratitudine].  E  in  prova  di  sincerità  e 
insieme  dell'attenzione  con  cui,  accuorato  e  occupato,  lessi  lo  scritto 
di  Lei,  noterò  che  nel  passo  di  Giovenale  è  corso  un  errore  di  stampa, 
e  che  invece  di  versus  s'  ha  a  leggere:  facit  indignano  versum  Qualem- 
cumque  Ipotesi.  Spero  che  indegnazione  Ella,  Signore,  non  sentirà  in  que- 
sta lettera  del  suo 

Firenze,  10  Luglio  1872. 

Bev. 

Tommaseo. 


VI. 
FRANCESCO  DOMENICO  GUERRAZZI 


A  Giuseppe  Mazzini,  quello  ch'ei  sentiva  fremere  tuòW Assedio  di 
Firenze  pareva  ingegno  di  poderoso  Titano;  ed,  in  vero,  nessun 
italiano  meritò  meglio  del  Guerrazzi  questo  alto  paragone.  Egli 
carpiva,  nascendo,  or  sono  07  anni,  i  fulmini  a  Giove  olimpico  ; 
e  non  glie  li  ha  resi  ancora  ;  di  tempo  in  tempo,  dalla  sua  soli- 
tudine fantastica  del  Fitto  di  Cecina,  scote  la  testa  canuta,  e  ne 
lascia  tuttora  cadere  alcuno  fra  i  disavvezzi  ed  attoniti  suoi  con- 
cittadini. Il  vecchio  leone  ha  perduto  l'ornamento  regale  della 
sua  prima  criniera,  ma  non  ha  ritirato  ancora  gli  artigli;  la 
preda  ch'egli  afferra  tiene  sempre  e  non  lascia  più  andare;  guai 
dove  tocchi;  che  non  solletica,  ma  graffia;  guai  dove  addenti; 
che  va  giìi  fino  ai  visceri. 

E  questo  Titano,  avendo  pure  imparato  a  leggere  e  scrivere, 
doveva,  per  la  sua  potenza,  apparire  scrittore  insolito,  in  mezzo 
a  quest'Italia  de'reboanti  classici,  delle  belanti  Arcadie  e  delle 
soporifere  Accademie  ;  lo  sdegno  di  Dante  e  la  malizia  di  Mac- 
chiavelli,  s'erano  impromessi  in  fasce  nell'anima  del  Livornese,  e 
Giorgio  Byron ,  come  vide  adulti  e  maturi  gli  sposi  bene  as- 
sortiti, li  sfasciò  per  guidarli  al  talamo  col  ghigno  pronubo  del 
suo  vago  Don  Giovanni,  Ma,  un  giorno,  a  questo  bel  demonio 
Dio  inspirava  l'amore,  e  allora,  in  mezzo  alle  fiamme  prorompenti 
dall'anima  tenebrosa  di  lui,  si  destò  un  forte  grido  di  dolore  per 
la  patria  schiava,  s'accese  un  for-te  desiderio  e  una  speranza  viva 
di  liberarla;  il  Guerrazzi  sentì  di  non  poter  da  solo  combattere  e 
vincere  una  intiera  battaglia  contro  gli  oppressori  della  sua  pa- 
tria;   volle    almeno    scrivere   un  libro,  che  preparasse  all'Italia  i 


—  144  — 

suoi  futuri  combattenti;  e  V Assedio  di  Fii-enze  fu  quel  libro,  che 
nella  nostra  storia  politica  non  meno  che  nella  letteraria  vivrà 
pertanto  immortale. 

Vediamo  ora  come  siasi  prodotto  in  Toscana  questo  singolare 
fenomeno,  questa  tempesta  viva  in  un'acqua  morta,  questo  ma- 
schio bambino  nato  con  gli  occhi  aperti,  con  la  voce  tonante,  e  con 
le  braccia  d'un  ercolino  in  mezzo  ad  una  generazione  un  po'  para- 
litica e  dormigliosa,  la  quale,  fra  il  sonno,  trovava  tuttavia  an- 
cora, come  per  miracolo,  la  forza  di  celiare  in  buona  lingua. 

Nacque  Francesco  Domenico  in  Livorno  di  gente  antica  data  al- 
l'agricoltura   ed  alla  guerra;  l'avo  di  lui,  Donato,   aveva  perduto 
ogni  suo  avei'e  servendo  il  principe  CTirlo  di  Borbone    per    l'im- 
presa di  Napoli  ;  il  padre  Francesco  fu  abile  intagliatore,   avendo 
avuto  per  maestri  nelle  arte    del  disegno  due    francesi  famosi,   il 
pittore  Fabre   e  lo  scultore  Corneille.  C'importa,    ora   trattandosi 
d'uomo  di  ingegno  singolare,  per  giudicar  bene  del  figliuolo,  fare 
un  pò  di  conoscenza  col  padre. 
Del  padre  suo  il  Guerrazzi  ragiona  cosi  nelle  sue  Memorie  (1): 
«  Fino  dai  primi  anni  del  vivere  suo,  mio  padre  si  mostrò  taci- 
turno e  mesto,  malinconia  che  di  mano  in  mano  crebbe  in  cupezza; 
costumò  tenere  stanza  appartata  dalla  famiglia  e  quivi  stette  solo 
intere  giornate;  silenzioso  durò  talora  con  noi  perfino    un    mese, 
e  i  nostri  pranzi  spesso  si  assomigliarono  a  quelli  dei  cen obiti.  Solo 
che  il  padre  mio  sollevasse  le  ciglia,  ogni   giovanile  gaiezza    ve- 
devi andare  in  bando,  non  già  per  paura,  che  né  noi  l' avevamo, 
né  egli  voleva  incuterci,  ma  proprio  perchè  gli  portavamo    rive- 
renza. —  Oltre  modo  egli  si  dilettò  nella  lettura  di  libri  gravi,  e 
sopra  questi  portava  certi  suoi  giudizii  che  io    a  vero    dire    non 
partecipo    ma    che  pure  riferisco  perchè  mi  paiono    singolari.  Di 
Tito  Livio  soleva  dire  :  quando  gli  storici  di  un  popolo  grande  in- 
cominciano ad  usare  pompa  di  parole,  segno  è  certo  che  i  gT-andi 
fatti  declinano;  l'orgoglio  del  passato    somministra   certe   misure 
della  miseria  presente.  Di  Tacito  mi  parlò  una  volta  all'orecchio;  co- 
stui scrisse  storia  col  pugnale;  valeva  meglio  piantarlo  nel  cuore  dei 
tiranni  e  morire.  Non  so  come  sostenesse  che  la  lettura  del  Macchia- 
vello  era   sopra   ogni  altra    etlìcace  a  rendere  gli  uomini    onesti: 
forse  perchè  i  buoni  ingegni  conoscendo  le  nostre  infermità  si  sen- 
tono disposti  a  medicarle,  e  imparano  a  guarirle;  gli  stolidi  poi  non 


{[)  Livorno,  Poligr.  ital.  1848,  lettera  a  G.  Maz/ini. 


—  145  — 

intendono  nulla,  neppure  apprendono  nulla  in  bene  né  in  male.  Il 
Botta,  a  suo  credere,  scriveva  la  storia  da  Cardinale  (e  voleva 
dire  il  Bembo)  e  la  pensava  da  Curato  di  campagna.  I  libri  poi 
che  leggeva  e  rileggeva  fino  a  consumarne  parecchie  edizioni  fu- 
rono Dante  e  Plutarco;  come  uomo  naturale,  amava  oltre  misura 
Dante  però  che  gli  paresse  figliuolo  di  sé;  e,  in  secolo  guasto, 
levarsi  a  tanta  altezza  di  cuore  e  di  mente  egli  teneva  per  mira- 
colo e  non  gli  davano  noia  le  roccie  e  le  frane  di  cotesta  alpe 
smisurata;  ma,  come  uomini  civili, citava  sempre  gli  eroi  di  Plu- 
tarco perchè,  quantunque  favoriti  dai  tempi,  presentavano  meglio 
lo  esempio  della  dignità  umana,  nella  quale  faceva  consistere  il 
precipuo  fondamento  dell'ordine  dello  Stato.  Quasi  ad  ogni  istante 
rampognava:  Pompeo  avrebbe  detto  così.  Catone  avrebbe  fatto  in 
tale  e  in  tale  altra  maniera,  e  se  noi  con  bocca  da  ridere  gli  os- 
servavamo come  né  Pompei  né  Catoni  ci  fossimo,  egli  stringen- 
dosi nelle  spalle  si  contentava  rispondere  :  uomini  erano  e  mor- 
tali come  siete  voi.  » 

Un  giorno,  il  fanciullo  Guerrazzi  tornava  da  una  rissa  nella  quale 
avea  riportate  parecchie  battiture,  e  se  ne  lagnava  col  padre:  il 
padre,  senza  informarsi  della  ferita,  gli  percosse  il  viso  dicendo  : 
«  quando  si  temono  ferite,  non  si    va  alla  guerra.  » 

«  Con  indefesso  e  quotidiano  insegnamento,  seguita  il  Guer- 
razzi nelle  sue  Memorie,  il  valoroso  uomo  ci  ammaestrava  in 
due  cose  del  pari  buone  e  che  io,  suo  figliuolo,  ho  del  pari  ot- 
timamente appreso;  l'odio  per  qualunque  servitù,  e  l'odio  per 
qualunque  tirannide;  né  padroni  mai,  né  servi.  »  Un  giorno,  il 
maestro  decretava  ingiustamente  la  corona  d'imperatore  ad  uno 
scolaro  che  a  tutti  i  condiscepoli  ne  pareva  indegno;  il  Guer- 
razzi strappa  la  corona  immeritata  e  la  fa  in  pezzi,  gridando 
«  delle  corone  acquistate  con  frode,  padre  Maestro,  ved'ella  che 
cosa  se  ne  fa  ?  »  Il  maestro  ne  muove  lamento  al  padre  del  Guer- 
razzi ;  il  quale  promette  trovare  un  rimedio;  «  e  il  rimedio,  se- 
guitala Lettera  autobiografica,  fu  questo;  ordinata  una  nuova  co- 
rona la  fece  dorare  e  la  mandò  alla  scuola;  e  a  me,  che,  presago 
di  guai,  mi  apparecchiavo  a  obiettargli  Timoleone,  Trasibulo,  e 
gli  altri  suoi  predilettissimi,  non  fece  neppure  una  parola.  »  — 
«  Ci  ammoniva  spesso  a  conservarsi  rigidi  osservatori  della  pa- 
rola data,  avendo  per  costume  dire:  parola  detta  e  sasso  lanciato 
non  possono  più  ritirarsi  indietro;  e  questa  parola,  egli  aggiun- 
geva, bisogna  osservar  principalmente  quando  la  diamo  a  noi 
stessi  ;  avvegnaché  la  stima  propria  molto  più  ci  stia  a  cuore  che 

Ricordi  Biografici  10 


—  146  — 
l'altrui;  e  quando  l'uomo  si  pone  in  istato  di  poter  rimprove- 
^  rarsi  giustamente  la  mancanza  di  parola,  si  apparecchia  a  soppor- 
tare in  pace  che  anche  altri  gliela  rinfacci;  della  stima  propria 
non  può  l'aomo  fare  a  meno,  dell'altrui  si  »  —  «  In  fatto  di  re- 
li'T-ione,  conchiude  il  Guerrazzi,  non  appresi  nulla  dal  padre  mio  ; 
quando  udiva  parlare  del  Creatore,  delle  magnificenze  della  crea- 
zione, e  della  vita  futura  soleva  dirmi  :  tu  sei  nato  poeta,  e  i  poeti 
e  i  pittori  hanno  bisogno  di  stemperare  molte  tinte  sopra  la  ta- 
volozza. Degli  uomini  moderni  stimò  Napoleone  fino  al  Consolato, 
e  Tipoo-Saib,  e  questo,  perchè  lesse  che  intorno  al  gradino  del 
Trono  aveva  fatto  disporre  gemme  a  modo  di  caratteri,  i  quali 
suonavano  in  questa  sentenza  :  Meglio  vale  vivere  un  giorno  come 
un  none,  che  cento  anni  come  una  pecorai  » 

E  però  il  giovine  Guerrazzi  divenne  leone.  Dal  ritratto  del  padre 
è  agevole  il  riconoscere  quanto  il  figliuolo,  per  certe  parti,  gli  so- 
migli. Dapprima  gli  somigliò  l'uomo,  e  poi,  per  quella  corrispon- 
denza che  si  nota  sempre  fra  l'uomo  e  lo  stile  d'uno  scrittore, 
quando  l'uomo  sia  veramente  originale,  nello  scrittore  si  manifesta- 
rono alcuni  caratteri  singolari,  ch'egli  ripete  dall'indole  sua,  in- 
formata a  quella  del  padre.  Il  padre  amava  la  grandezza  antica 
e  gli  antichi  citava  con  predilezione;  il  Guerrazzi,  alla  sua  volta, 
a  rinforzare  e  rendere  più  elHcaci  i  suoi  argomenti  letterarii  e 
civili,  trae  frequenti  esempii  dalle  storie  di  Grecia  e  di  Roma. 
Il  padre  usava  si)artanamente  e,  si  può  dire  pure,  alla  romana, 
della  parola;  quindi,  parmi,  que'brevi  ritratti,  que'gruppi  scolpiti, 
quelle  sentenze  incisive  che  rendono,  spesso,  cosi  maschia  e  cosi 
piena  di  rilievo  la  prosa  del  Guerrazzi. 

Ma  lo  stile  del  Guerrazzi  non  si  manifesta  in  un  solo  aspetto; 
oltre  a  ciò  che  esso  contiene  d'intimo,  di  proprio  e  chiamo  pro- 
prio anco  quello  che  il  padre  gli  comunicò,  esso  presenta  pure  alla 
sua  superfìcie  alcune  tacche  lasciategli  da'  varii  innesti  più  o  meno 
riusciti,  che  la  scuola  prima  e  poi  la  vita,  educatrice  suprema  del- 
l'uomo, operò  sopra  di  lui. 

Quando  lo  scrittore  è  tranquillo,  e  scrive  senza  calore,  la  sua 
propria  virtù  rimane  nascosta,  ed  egli  col  suo  stile  vezzeggia 
volentieri  periodi  magistrali  e  solenni  conciossiacché.  Egli  si  ram- 
menta allora,  senza  volerlo,  il  suo  primo  maestro  che  fu  il  padre 
Spotorno;  e  i  giovani  imitatori  dello  stile  guerrazziano  che,  gi- 
rando qualche  conciossiacché  alla  maniera  guerrazziana,  credono 
conseguir  Aima  ancor  essi  di  scrittori  originali,  si  rendano  accorti 
che  nel  Guerrazzi  imitano  quello  che    meno    gli    appartiene.    E, 


-  147  - 
quando,  per  portare  più  in  alto  la  loro  rettorica,  le  danno 
come  contrappeso,  alcuna  bestemmia  guerrazziana,  sappiano  che 
imitano  ancora  il  Guerrazzi  in  quella  parte  ov'egli  è  forse  meno 
imitabile,  in  quella  parte,  dove  lo  scrittore  dimentica  più  il  suo 
ufficio,  per  isfogare  quello  che  in  altri  potrebbe  chiamarsi  un  cieco 
istinto  plebeo,  ed  in  lui  è  satanico  studiato  disdegno  d'  una  cosa 
gentile  che  gli  appare  in  quell'istante  nella  forma  di  una  igno- 
bile debolezza.  Egli  ha  traversato  nella  vita,  ore  tremende,  nelle 
quali  senti  al  grado  massimo  la  sua  potenza:  invece  di  misurarla 
per  dominarsi,  volle  talora  lasciarci  intendere  di  che  sarebbe  ca- 
pace quella  potenza,  se  gli  piacesse  farne  abuso;  egli  ebbe,  tutta- 
via, la  tentazione  di  dirci:  io  sono  un  forte;  badate  che  potrei  di- 
ventare un  furbo  violento.  Preferirei  talora  che  il  Guerrazzi  della 
forza  dell'ingegno  si  fosse  servito  sempre  ad  un  fine  buono,  né  solo 
al  fine  generale,  che  in  lui  fu  sempre  alto,  ma  anco  a'  fini  speciali, 
dietro  i  quali  correndo  talora  più  pronta  la  mente  del  giovine  let- 
tore, può  facilmente  fuorviarsi. 

Ma,  per  tornare  al  padre  Spotorno,  ecco  in  qual  modo  l'illustre 
discepolo  me  lo  descrive  in  una  sua  felicissima  lettera  del  2(3  feb- 
braio «rigido,  e  forse  un  zinzino  pedante;  dopo  il  500  egli  aveva 
fatto  la  serrata  del  Consiglio.  E'm'insegnò  la  lingua,  come  s'ingras- 
sano i  Luci;  uno  imbuto  in  gola,  poi  giù  una  ramaiolata  di 
Bembo,  di  Casa,  di  Baldassarre  Castiglione,  e  via  discorrendo.  Si 
sdegnò  meco,  e  con  Livorno  perchè  mi  trovò  in  tasca  taluno  dei 
romanzi  della  Radcliffe  ;  io  mantenni  tuttavia  sempre  cara  me- 
moria di  lui.  » 

Come  que'romanzi  gli  fossero  venuti  fra  le  mani,  lo  stesso 
Guerrazzi  ci  narra  nelle  sue  Memorie:  «  Comunque  io  discerna 
ottimamente  che  rimanendo  alla  sua  scuola,  (intende  quella  dello  Spo- 
torno) noi  saremmo  diventati  pedanti  solennissimi,  pure  quel  pren- 
derci quasi  per  la  gola  e  costringerci  a  trangugiare  a  dosi  doppie 
Pandolfini,  Castelvetro,  Speroni  ed  altri  predilettissimi  suoi,  in  ul- 
timo ci  fruttò  assai,  almeno  in  quanto  alla  lingua.  Il  padre  mio  ve- 
deva con  mestizia  che  io  non  mi  mostrava  vago  della  lettura  a  se- 
conda del  suo  desiderio;  ed,  in  vero,  come  invogliare  un  fanciullo  a 
leggere  mettendogli  in  mano  il  Cavalca?  Traiano  Boccalini  narra 
come  un  poeta  per  avere  sbagliato  la  misura  di  un  verso  fu  con- 
dannato da  Apollo  a  leggere  la  presa  di  Pisa  nel  Guicciardino; 
pena  che  in  Parnaso  sembra  che  equivalga  alla  galera  ;  per  me , 
se  Spotorno  durava,  anziché  leggere  le  poesie  della  Bella  Mano, 
mi  sarei  dato  alla  disperazione.  Mio  padre  dunque  un    bel  giorno 


—  148  — 

mi  chiamò  nella  sua  stanza  e  additandomi  una  cassa  mi  favellò: 
Apri  questa  cassa,  la  roba  che  contiene  è  tutta  tua.  Remosso  il 
coperchio,  ammirando,  la  trovai  piena  di  libri,  e  sai  quali  libri? 
Le  opere  tutte  del  Voltaire,  del  Montesquieu,  del  Bacone,  e  poi 
Ariosto,  Passavanti,  i  romanzi  della  Radcliffe,  le  Mille  e  una 
Notte,  i  Mille  e  un  Giorno,  la  storia  dei  Filibustieri,  Omero,  Os- 
sian, e  Viaggi,  storie  Naturali,  di  costumi  ec.  ec.  —  Io  per  me 
credo  che  se  il  Diavolo  avesse  suggerito  la  scelta  a  mio  Padre 
non  avrebbe  eletto  peggio  o  forse  meglio  per  operare  una  rivo- 
luzione nel  mio  cervello.  Cominciai  di  fondo  e  tanto  in  me  s'ac- 
cese inestinguibile  il  desiderio  di  leggere,  che  nella  sera  mi  spen- 
zolava col  torace  fuori  della  finestra  per  cogliere  l'ultimo  raggio 
della  luce  morente;  e,  nella  notte,  mandato  per  forza  a  giacermi, 
quando  io  sentiva  addormentata  la  famiglia,  mi  alzavo  pianamente, 
e  acceso  il  lume  tornava  a  leggere  ;  intemperanza  che  mi  ha  of- 
feso alquanto  la  vista  e  dato  l'abitudine  invincibile  degli  studii 
notturni.  Terminati  i  Viaggi  e  i  Romanzi  mi  accostai  a  Voltaire;  lo 
bevvi  e  lo  ribevvi  fino  a  colorarne  le  ossa  come  avviene  agli  ani- 
mali che  si  nudriscono  di  rabbia;  dopo  mi  attentai  a  deliberare 
i  più  gravi,  li  presi,  li  lasciai,  finché,  dopo  qualche  mese,  li  in- 
tesi, e  mi  affezionai  anche  a  cotesti  ;  allora  si  posero  a  molinarmi 
in  testa  un  ballo  infernale  Bacone  il  gran  cancelliere  d'Inghil- 
terra, che  teneva  per  la  mano  Messere  Ludovico  Ariosto,  il  Frate 
Passavanti  che  veniva  dietro  a  Voltaire  ;  nei  moti  veloci,  la  gonnella 
bianca  della  Radcliffe  si  mescolava  con  la  toga  rossa  del  presi- 
dente di  Montesquieu;  stetti  per  acquistarne  una  infiammazione 
cerebrale:  non  mi  riusciva  più  condurre  una  cosa  di  un  solo  co- 
lore :  gli  aforismi  terminavano  in  epigrammi,  i  racconti  paurosi 
in  considerazioni  poetiche,  un  discorso  teologico  sopra  i  sette 
peccati  mortali  colla  descrizione  delle  bellezze  di  Alcina;  pure  il 
ribollimento  del  caos  si  quietò  e  ne  sorse  uno  impasto  di  appas- 
sionato e  di  sarcastico,  di  fidente  e  di  scettico,  di  dommatico  e  di 
analitico,  di  pauroso  e  d'intrepido,  di  lusso  orientale  d'immagini  e 
di  formule  severe  di  'raziocinio,  di  esitanza  e  d'impeto,  di  scorag- 
giamento e  di  forza  convulsa  e  di  altre  moltissime  non  contra- 
rianti  ma  in  antitesi  fra  loro  che  hanno  colorato  i  fantasimi  usciti 
dal  mio  cervello.  » 

Questa  confessione  del  Guerrazzi  è  preziosa;  ma  ei  non  ci  dice 
quello  che  più  forse  importava,  come,  cioè,  occorreva  un'anima 
simile  alla  sua,  per  subire  tante  e  così  diverse  impressioni  dalla 
lettura,  e  per  informarne  di  tanta  varietà  l'ingegno;  come  le  corde 


—  d49  — 
sensitive  erano  molte  in  lui  ;  e  come  le  più  pronte  a  muoversi  do- 
vevano essere  le  irritabili. 

Ma  né  l'educazione  domestica,  né  le  diverse  letture  bastarono 
a  improntare  tutto  il  carattere  del  Guerrazzi  e  ad  indirizzarne  in 
modo  definitivo  l'ingegno. 

Gli  anni  passati  per  lo  studio  della  legge  all'  Università  di 
Pisa  finirono  per  darlo  all'Italia  qual  é.  A  Pisa,  più  che  la  scuola 
del  celebre  giurista  Carmignani,  egli  frequentò  con  zelo  quella 
del  medico  Francesco  Pacchiani.  «  La  natura,  mi  scrive  egli,  si  era 
divertita  a  piovere  su  quel  capo  talenti  e  ingegno  a  Corbellini  ;  ed 
egli  li  aveva  buttati  via  a  palate.  »  (1)  A  Livorno  avea  il  Guerrazzi 
già  contratto  amicizia  con  Carlo  Bini;  a  Pisa  ebbe  per  compagni 
di  studii  Guglielmo  Libri,  del  quale  molti  anni  dopo  egli  assu- 
meva la  difesa  per  le  stampe,  e  Lavinio  Spada,  più  tardi,  mini- 
stro delle  armi  di  Pio  nono.  «  Ma  chi  scosse,  prosegue  la  lettera 
a  me  diretta,  su  l'anima  mia  come  sopra  lo  scudo  d'Yrminsul,  fu 
Byron.  » 

E  su  questo  incontro  ei  si  diffonde  pure  con  calde  parole  nelle 
sue  Memorie  :  «  Corse  voce  in  quel  tempo  essere  giunto  a  Pisa 
un  uomo  portentoso,  di  cui  favellava  la  gente  in  mille  ma- 
niere, e  tutte  opposte ,  e  moltissime  assurde  ;  dicevanlo  sangue 
di  Re;  potentissimo  di  averi,  d'indole  sanguigno,  per  costume  fe- 
roce, negli  esercizii  cavallereschi  maestro,  genio  del  male  ma  più 
che  umano  intelletto;  aggirarsi  come  il  Satano  di  Giobbe  pel 
mondo  a  spiare  se  alcuno  avventuroso  vivesse  e  calunniarlo  a 
Dio;  era  Giorgio  Byron;  desiderai  vederlo;  mi  parve  Apollo  del 
Vaticano.  Se  costui  è  un  tristo,  pensai  fra  me.  Dio  è  un  inganna- 
tore, negando  risolutamente  che  il  Creatore  avesse  voluto  riporre 
un'  anima  mala  in  sembianze  tanto  formose.  Lavinio  Spada  mi 
procurò  alcuni  volumi  dell'opere  del  Byron.  Giuseppe  mio,  se 
questa  volta  salvai  la  mia  povera  intelligenza  dalla  vertigine 
delle  sensazioni  fu  miracolo  vero.  Non  ho  veduto  la  cascata  del 
Niagara,  né  la  valanga  delle  Alpi,  non  so  che  cosa  sia  Vulcano, 


(1)  Di  lai  scrive  il  Guerrazzi  nelle  Memorie:  «Morì  come  un  romano; 
visse  come  un  cìnico.  Presso  a  morte,  l'Arcivescovo  di  Firenze  mando- 
gli  sovvenzione  di  danari;  egli  li  rifiutò,  favellando  :  «  ringraziate  Mon- 
signore della  umanità  sua  e  ditegli  che  pel  viaggio  al  quale  mi  appa- 
recchio, le  vetture  non  costano,  i  locandieri  non  chiedono  —  tutto  si 
trova  pagato.  » 


—  i50  ~ 

ma  contemplai  furiosissime  tempeste,  il  fulmine  mi  scoppiò  vicino, 
e  non  pertanto  tutti  gli  spettacoli  noti  come  gli  sconosciuti,  io 
penso  non  sieno  da  paragonarsi  a  gran  tratto  con  lo  sbigottimento 
che  produsse  in  me  la  contemplazione  di  cotesta  anima  immensa. 
Cotesta  era  la  poesia  che  io  aveva  presentito  ma  non  saputa  definire, 
cotesto  l'esercito  sterminato  di  tutte  le  facoltà  del  cuore  e  della 
mente;  lo  universo  intero  stemperato  sopra  la  sua  tavolozza, 
l'antica  e  la  moderna  sapienza,  Dio  accanto  a  Satana;  e  quegli  a 
paragone  di  questo  comparisce  più  pallido,  dolori,  angoscie  senza 
nome,  misteri  non  sospettati,  abissi  del  cuore  intentati,  lacrime  e 
riso,  a  pienissime  mani  gettati  sopra  coteste  sue  pagine  immor- 
tali. Cotesta  era  la  poesia  che  io  aveva  sognato  e  che  adesso 
vedeva  ridotta  a  realtà.  Tempo  non  mi  pareva  da  fare  considera- 
zione se  tanto  oro  fosse  tutto  di  coppella;  me  ne  empiva  cupidis- 
simamente le  bolge  e  il  seno  e  per  molti  anni  non  ho  veduto,  e 
non  ho  sentito  se  non  a  traverso  Byron.  » 

Non  ci  volea  di  più  perchè  anco  il  giovine  Guerrazzi,  alla  sua 
volta,  sfidasse  gli  uomini  della  sua  terra  e  del  suo  tempo  Egli  inco- 
minciò pertanto  con  lo  scrivere  intorno  al  Byron  tali  ottave,  che, 
stampate  a  Livorno,  dovettero  passare  molto  tormentate  per  lo 
scorticatoio  della  regia  censura.  Quattordicenne  ,  fu  bandito,  per 
un  anno,  dall'Università  di  Pisa  per  avere  osato  leggere  ad  alta 
voce  agli  altri  studenti  le  gazzette  che  recavano  le  novità  di  Na- 
poli ;  apparsogli  quello  un  abuso  di  potere,  si  recò  tosto  a  Firenze 
per  chiedere  giustizia  al  presidente  del  così  detto  buon  Governo, 
Aurelio  Puccini,  e,  scusandosi  questo  di  non  poter  far  nulla  in  suo 
favore,  il  fiero  fanciullo  gli  rispose.  «  Io  vi  compiango,  signore, 
se  occupando  un  posto,  dove^  anche  senza  volere,  fate  del  male,  e  al 
mal  fatto  non  potete  riparare,  neanche  volendo,  la  vostra  coscienza 
vi  consente  di  rimanervi.  »  Dopo  un'anno,  egli  tornò  all'Università 
di  Pisa,  ma  sorvegliato  e  molestato  non  poco,  aiutando  a  fargli 
la  polizia  alcuno  de'professori.  Sommando  tuttavia  quel  periodo 
rilevante  della  sua  vita,  il  Guerrazzi  lo  sbriga  in  poche,  troppo 
poche,  parole:  «  istruzione  nulla,  persecuzione  molta,  fastidio  de- 
gli uomini  e  della  vita,  tristezza  crescente.  »  Intanto  però  egli  era 
già  divenuto  scrittore.  Rammentai  le  ottave  a  Byron;  ma  queste 
erano  state  precedute  da  una  tragedia  intitolata  da  Priamo,  in 
proposito  della  quale  egli  mi  scrive:  «  Il  professor  Carmignani, 
dandole  addosso,  disse  che  apparteneva  alle  tragedie  come  Priapo 
ai  Numi.  E  siccome  il  professore  mi  parve,  ed  era,  maligno,  gli 
rovesciai  nell'impeto  dell'ira  e  dei  miei  la  o  16  anni  una  rannata 


~  151  — 

bollente  sul  capo,  ch'ebbe  a  strabiliarne,,  e  m'increbbe;  però  che 
feci  promessa  a  me  stesso  di  non  rispondere  mai  più  a  critiche 
letterarie,  e  1'  ho  mantenuta  per  tutta  la  mia  vita.  »  Dopo  il 
Priamo,  apparve  il  dramma  in  versi  i  Bianchi  e  ì  Neri  che  i 
livornesi  ebbero  il  torto  di  fischiare,  quando  si  rappresentò 
al  teatro  Carlo  Ludovico,  rimuovendo  cosi  per  sempre  dal  teatro 
il  Guerrazzi  che  vi  avrebbe  forse  portato  effetti  e  caratteri  inat- 
tesi. Altri  versi  scrisse  e  stampò  il  Guerrazzi  in  piccole  strenne 
di  quel  tempo,  ed  in  minute  parziali  raccoltine;  ma  non  possono 
aver  qui  per  noi  alcuna  singolare  importanza,  poiché  né  il  Guerrazzi 
se  ne  rammentò  di  poi,  né  si  ricordano  più  da  alcuno,  né  li  gusta- 
rono molto  gli  stessi  lettori  ch'ebbero  quelle  primizie  verseggiate 
d'un  ingegno,  il  quale  meritava  poi  l'onore  di  venir  salutato  come 
il  poeta  della  prosa  italiana. 

Un  piccolo  animo  e  un  piccolo  ingegno,  innanzi  alle  prime 
prove  infelici  de'suoi  saggi  letterarii,  si  sarebbe  avvilito  ed  ac- 
casciato; il  Guerrazzi  non  s'allegrò  di  certo  delle  sue  prime  di- 
sfatte ;  ma,  incominciò  per  sentirne  sdegno,  e  quindi  si  scatenò  ; 
a'suoi  dolori  cercò  sfogo  in  un  libro,  ov'egli  potesse  menare  il 
flagello  sugli  uomini;  il  fatto  storico  gli  fu  pretesto,  per  velare 
le  persone  che  doveano  cader  vittima  della  punta  insanguinata 
della  sua  penna;  e,  perdendosi  nel  passato,  egli  potè  pure,  a  sua 
posta,  crescere  le  tinte  scure,  fare  più  orrida  la  scena,  più  spa- 
ventevole il  racconto,  più  violenta  l'imprecazione.  Verso  il  suo 
anno  22",  il  Guerrazzi  si  manifestava  pertanto  all'Italia  con  la  Balta- 
glia  di  Benevento.  Richiesto  da  me  intorno  alle  impressioni  imme- 
diate che  avessero  dato  quel  tono  al  primo  suo  stile,  il  Guerrazzi 
compiacevasi  rispondere  così  :  «  Impressioni  violentissime,  due  :  il 
mare  arruffato;  e  la  irresistibile  frenesia  di  buttarmici  in  mezzo  (1); 
dopo  questa,  smania  del  pan  irresistibile  di  vedere  baruffe  popo- 
lari, donde  guadagnai  di  parecchie  ferite,  da  una  delle  quali 
scampai  per  miracolo  dopo  lunghissima  infermità;  la  cicatrice, 
che  mi  rimane,  è  lunga  quattro  dita;  e  non  meno  chele  baruffe, 
i  morti  e  i  feriti,  di  cui  la  immagine  mi  perseguitava;  ma  tanto 


(l)  Frenesia  assai  naturale  ad  un  poeta,  in  uno  stato  di  esaltazione, 
innanzi  ad  un  mare  agitato  ;  ma  il  Guerrazzi  non  solo  non  cor.^e  mai 
pericolo  d'affogare,  essendo,  come  il  suo  maestro  Byron,  abile  nuotatore; 
salvò  invece  due  che  s'annegavano  ;  l'ano  semprevivo,  l'alt'^o  che  finì  poi 
con  l'annegarsi  davvero;  erat  in  fntìs. 


—  152  — 

é,  non  mi  poteva  reprimere  da  correre  ad  ogni  caso  novello.  Ella 
saprà  che  Carlo  Bini  fu  proditoriamente  ferito  a  morte;  la  ferita, 
comecché  in  apparenza  guarisse,  gli  cagionò  poi  fine  immatura; 
il  feritore  (per  soprannome  Pitti)  fu  a  volta  sua  ferito,  e  stando 
allo  Spedale  gli  si  sviluppò  il  tetano;  di  ciò  informato,  volli  an- 
dare a  vederlo,  e  condurci  Carlo;  ma  questi,  a  mezze  scale  mutò 
consiglio  e  tornò  addietro;  io  lo  vidi;  pareva  un  arco  da  violino; 
posava  unicamente  i  calcagni  e  la  nuca;  pativa  pene  d'inferno; 
non  ci  ebbi  gusto,  né  dispiacere;  pensava  al  detto:  chi  di  coltello 
ammazza,  di  coltello  convien  che  pera.  » 

Il  Guerrazzi  cerca  tuttora  avidamente  il  male;  lo  palpa  e  ne 
freme;  quindi  ne  fugge  inorridito;  poi  lo  ripensa,  e  mescola  insieme 
tutti  i  colori  della  fantasia  turbata  che  possono  servir  a  mostrare 
il  male  in  tutta  la  sua  tetra  evidenza;  ed,  affinchè  il  punto  nero 
spicchi  di  più,  vi  spande  qua  e  là  intorno  qualche  fiore  lucente; 
l'effetto  pittorico  riesce  grande,  l'effetto  morale  deplorevole;  e  lo 
senti  il  Guerrazzi  stesso,  quando,  nel  1852,  ebbe  a  scrivere  della 
Battaglia  di  Benevento  che  quel  libro  era  ardentissimo  ma  non 
di  'bella  fiamma,  poiché  vi  traspira  dentro  certo  sgomento  punto 
naturale  alla  età  in  cui  egli  lo  dettava,  e  un  alito  di  dubbio,  che 
appena  si  perdona  agli  uomini,  i  quali  sviati  dalle  decezioni  si 
sentono  sazi  di  vita;  fra  tutti  ì  tristi  peccati,  pessimo.  Dopo  que- 
sta condanna,  che  onestamente  l'autore  provetto  e  glorioso  fa  del 
suo  libro  giovanile,  poco  altro  mi  rimane  ad  aggiungere  in  pro- 
posito. Come  rivelazione  di  un  alto  ingegno  malato,  il  libro  può 
sempre  avere  una  grande  importanza  per  uno  studio  psicologico, 
pel  fascino  funesto  ch'esercita  su  molti  giovani,  in  ispecie,  dopo 
'  che,  per  V  Assedio  di  Firenze,  il  nome  del  Guerrazzi  suonò  ono- 
rato per  tutta  Italia;  e,  per  la  forma  originale  e  nuova  con  cui 
questo  romanzo,  uscito  alcuni  mesi  prima  de'  Promessi  Sposi,  è  con- 
cepito e  scritto,  la  Battaglia  di  Benevento  ha  pure  la  sua  impor- 
tanza nella  storia  letteraria;  essa  ci  presenta  una  prosa  poetica 
agitata,  che  può  agitare  lino  al  delirio  chi  la  legge;  non  è  lecito 
dire  che  sia  benefica,  ma  si  può  bene  assicurare  che  il  giovane 
autore,  poco  piiì  che  ventenne,  il  quale  si  rivelava  capace  di  tan- 
to, doveva  essere  un  potente,  al  quale  bisognava  far  posto.  Non 
è  più  qui  l'amore  disperato  di  Ortis  che  manda  un  lamento  e  si 
spegne;  é  una  tremenda  Erinni  che  si  vendica;  ama  anch'  essa, 
ma  a  suo  modo,  e  porta  via  il  pezzo  dove  ha  lasciato  l'impronta 
d'un  bacio,  e  soffoca  ciò  che  sembra  voler  carezzare;  il  bello  essa 
ci  lascia  apparire  un  istante  solamente  a  fine  di  persuaderci  che 


-  153  — 

il  brutto  è  assai  più.  Musa  inamabile  per  ogni  scrittore;  e  guai 
per  l'Italia  se  il  Guerrazzi  non  ne  avesse  mai  ascoltata  alcun'al- 
tra.  Egli  l'ha  certamente  ascoltata  troppo;  ma  non  è  ad  essa,  per 
nostra  fortuna  e  sua,  che  andiamo  debitori  del  suo  capolavoro. 

Finqui  lo  scrittore  freme  dunque  per  sé,  ma  non  ancora  per  la  pa- 
tria; fra  la  Battaglia  di  Benevento  e  l'Assedio  di  Firenze  si  forma  la 
coscienza  del  cittadino;  ma  non  è  la  sola.  Altre  fiere  passioni  conti- 
nuano a  tumultuare  nell'anima  del  Guerrazzi.  L'immagine  di  By- 
ron  durando  sempre  a  sedurre  i  giovani  ingegni,  che  facevano 
corona  al  Guerrazzi,  a  Livorno  si  bironeggia.  Il  medico  e  fisico 
Piero  Guerrazzi,  stanco  della  vita  la  gitta  via  con  disperato  disde- 
gno ;  e  Carlo  Bini  nell'  annunziare  all'amico  Francesco  Domenico 
quella  fine  infelice  di  un  caro  congiunto,  fra  l'altre  cose,  il  l" 
agosto  1830,  gli  scrive,  con  quel  suo  stile  colorito,  splendido, 
robusto,  foscoliano,  che  innamora  e  trascina.  «  Come  vivi,  Fran- 
cesco? Se  io  faccio  la  somma  risponderò  per  te  :  malamente, 
fratello,  malamente  assai.  Ed  io  ti  dirò:  pazienza,  Francesco; 
e  tu  riprenderai:  pazienza  pur  troppo,  perchè  la  pazienza  è 
l'unica  veste  che  il  padre  Adamo  lasciasse  ai  suoi  nudi  figliuoli; 
ma  però  la  bevanda  è  amara,  e  non  ispegne  la  sete.  Ed  io 
ti  domanderò  da  capo.  Come  vivi  Francesco?  ti  rode  sempre 
queir  ansia  profonda,  misteriosa,  di  cui  non  seppi  e  non  osai 
mai  penetrare  la  causa?  e  ti  cavalca  sempre  lo  spirito  un  diavolo 
nero,  onde  cosi  per  tempo  s'inaridisce  la  giovinezza  dell'  anima 
tua?  0  fratel  mio  Francesco!  ogni  qualvolta  io  penso  alle  tue  an- 
gustie, e  alle  mie,  ed  al  fatalismo  di  tante  turpitudini  umane,  in 
verità  mi  prende  lo  sdegno  d'essere  un  uomo  vivo,  e  bestemmio 
forte,  e  andrei  più  oltre  se  potessi;  e  se  il  male  fosse  tutto  in  un 
nodo.  —  Mi  dici  e  sento  dirmi  da  tutti,  che  sei  fermo  pur  sem- 
pre nell'  idea  d'  emigrare  in  Inghilterra.  Io  non  istarò  a  dirti  se 
tu  faccia  bene  o  male  ;  che  ne  so  io  ?  che  ne  sai  tu  ?  che  ne  sa 
tutto  il  mondo  ?  Per  me  ho  veduto  troppo  sovente  che  le  cose 
buone  e  cattive  sono  fatte  dal  Caso  e  l'uomo  non  si  travaglia  che 
per  essere  il  suo  stromento.  —  Ma  quando  sarai  lontano,  fra  gli 
stranieri,  e  non  avrai  più  nulla  di  tuo  che  le  passioni  e  le  memo- 
rie d'un  tempo  passato,  allora  il  tuo  pensiero  sia  italianamente 
generoso  e  colla  forza  dell'  immaginazione  scaldati  sempre  al  no- 
stro sole,  animatore  perenne  del  genio  e  del  valore  italico,  e  ti 
risovvenga  di  una  gente  dolorosa  d'Italia  nostra,  di  questa  cara 
armonia  di  tutta  la  natura,  e  cingi  sovente  le  tue  immagini  del- 
l' ala  dei  tuoi  affetti  —  e  considera  1'  anima  tua  come  sacra  a  te 


—  154  — 

solo  —  e  non  adorare  altro  Dio  che  la  tua  volontà,  e  allora! 
concetti  ti  sorgeranno  nella  mente  come  le  stelle  in  Cielo ,  liberi 
e  splendidi  di  bellezza  divina,  brillanti  di  eterno  movimento.  — 
Io  mi  dimenticava  di  una  gran  cosa.  Hai  veramente  coraggio? 
Odi  una  nuova,  che  ne  ha  di  bisogno,  e  che  cosi  ad  un  tratto  ti 
farà  venir  freddo.  Martedì  sera,  27  di  luglio,  alle  ventiquattro,  il 
bravo  ed  infelice  Pietro  Guerrazzi  seppe  vincere  il  tremendo  in- 
teresse della  vita,  e  si  ammazzò  di  pistola  nella  Spezieria  del  Vil- 
loresi.  Ha  patito  gli  spasimi  della  morte  circa  40  minuti;  poi  è 
spirato,  ed  ora  veramente  riposa.  Sì  veramente  riposa,  ne  mi  chia- 
merai poco  umano  se  parlo  così,  perchè,  se  tu  lo  avessi  veduto 
come  me  negli  ultimi  giorni,  tu  avresti  pianto  e  maledetta  la  sua 
misera  vita.  »  Io  ho  riferito  qui  cosi  lunghi  brani  della  lettera 
del  Bini,  perchè  nel  Bini  parmi  poter  riconoscere  una  forma  del- 
l'Ortis redivivo,  in  ispirito,  carne  ed  ossa.  La  lettera  è  scritta 
per  consolare  il  giovine  Guerrazzi,  mandato  per  sei  mesi  a  con- 
fino, a  Montepulciano,  (1)  a  motivo  dell'  elogio  di  Cosimo  del  Fante 
ch'egli,  per  invito  proditorio,  avea  recitato  all'Accademia  Labro- 
nica di  Livorno;  ogni  lettore  comprende  che ,  nella  compagnia  di 
un  simile  confortatore,  il  quale  attribuisce  al  caso  ogni  umana 
vicenda  e  ripone  nel  suicidio  il  supremo  rifugio  degli  infelici,  per 
quanto  egli  stesso  sia  virtuoso,  ed,  anima  tutta  buona,  serbi  in 
cuore  gelosamente  1'  amor  della  patria,  non  è  ad  attingere  alcuna 
privata  virtù  o  alcun  civile  coraggio.  Né  consolatore  più  benefico 
poteva  riuscire  al  Guerrazzi  l'altro  suo  amico  Antonio  Benci,  let- 
terato egregio,  ma  con  1'  anima  dal  dubbio  agghiacciata,  che  il 
Guerrazzi  in  un  suo  scritto  giovanile  sopra  le  sepolture  di  S.  Ia- 
copo, fa  parlare  cosi  intorno  alla  fossa  ch'ei  s'era  ordinata  prima 
di  morire.  «  Oh  come  ella  è  riuscita  bellina l  precisa  nei  lati  e 
negli  angoli,  sicché  mi  tornerà  attillata  alla  vita  come  un  vestito 
da  sposo.  Per  questa  volta  mi  sono  mostrato  incontentabile;  per- 
chè, capisci  bene,  Francesco;  non  si  può  dire  al  becchino  come  al 
sarto:  portala  via  e  fammene  un'  altra;  questa  veste  deve  durare 
un  pezzo  :  fino  a  quando  ?  fino  al  giorno  del  giudizio.  Prima  di 
mettermi  a  letto,  per  non  levarmi  più.  Dio  mi  concesse  di  rive- 
derla;  la   terra  scavata  accanto  a  lei  formava  un  arginello  tutto 


(1)  A  Montepulciano  il  giovine  Guerrazzi  ricevette  visita  notturna  di 
Giuseppe  Mazzini,  che  già  cospirava  per  la  indipendenza  e  libertà 
d'Italia. 


—  155  — 
coperto  di  un'erbetta  verde  che  era  un  incanto  a  vederla.  Oh  bel- 
lina la  mia  fossa!  Oh  come  me  ne  innamorai  cento  e  più  doppii! 
Come  vi  riposerò  io  bene  dentro,  e  come  io  farò  onorevole  figura 
tutto  fasciato  di  verde!  » 

Tal  maniera  di  pensare  e  di  sentire  intorno  alla  vita  non  poteva 
non  comunicare  anche  alla  latteratura,  di  cui  il  Guerrazzi  fu  in  Italia 
capo -scuola  una  specie  di  sudor  freddo  preparato  da  una  vampa  mal- 
sana. Quella  letteratura,  la  quale  faceva  capo  un  tempo ,  all'  Indi- 
catore Livornese,  valse  bene  a  dirozzare  la  città  di  Livorno,  ed  a 
mostrare  come  in  Toscana  si  possa  scrivere  con  grazia  e  scrivere 
forte  ad  un  tempo,  quando  lo  scrittore  che  scrive  è  anche  uomo 
che  pensa;  ma  essa,  più  che  dar  moto  alla  giovine  Toscana,  non  mi- 
rava direttamente  ad  altro  che  a  metterle  la  febbre  addosso;  solo 
più  tardi  s'  accorse  il  Guerrazzi  che  dalla  febbre  avrebbe  potuto 
nascere  il  malessere,  dal  malessere  lo  scontento,  dallo  scontento 
l'agitazione  per  uscirne,  e  per  instaurare  vita  nuova;  allora  il  let- 
terato potente  si  fece,  per  amor  della  patria,  chirurgo  spietato. 
«  Scopo  supremo  per  me,  scriv'egli  al  Mazzini,  alludendo  all'  As- 
sedio di  Firetize,  era  tentare  se  scintilla  alcuna  restasse  nel  corpo 
della  patria  per  accendere  di  vita  le  presenti  e  le  future  genera- 
zioni. Non  mi  pareva  che  corresse  stagione  di  badare  come  le  ac- 
conceremmo il  manto  o  la  corona;  la  questione  era  quella  di 
Amleto  essere  o  non  essere.  Tutto  il  mio  concetto  sta  in  questi 
versi  di  Francesco  Petrarca: 

Che  si  aspetti  non  so,  né  che  si  agogni  ' 
Italia  che  i  suoi  guai  non  par  che  senta. 
Vecchia,  oziosa  e  lenta 
Dormirà  sempre  e  non  fla  chi  là  svegli? 
La  man  le  avess'io  avvolta  entro  i  capegli! 

Quindi  riputai  carità  adoperare  tutti  i  tormenti  praticati  dagli 
antichi  tiranni,  e  dal  Santo  Uffizio,  ed  altri  ancora  più  atroci  in- 
ventarne per  eccitare  la  sensibilità  di  questa  patria  caduta  in  mi- 
serabile letargia;  io  la  feriva  e  nelle  ferite  infondeva  zolfo  e  pece 
infuocati;  la  galvanizzava,  e  Dio  solo  conosce  la  mia  tremenda  an- 
sietà quaodo  le  vedeva  muovere  le  labbra  livide  e  gli  occhi  spenti.  » 
Nelle  pagine  deWIndicaiOì-e,  il  Guerrazzi  avea  la  prima  volta  im- 
parato a  trattar  le  armi;  ma  egli  stesso  fu  più  tardi  pronto  a 
sconsigliare  i  giovani  da  simili  periodiche  battaglie,  per  ragioni 
che  importa  siano  dai  giovani  tuttora  meditate  e  ritenute .  «  Voi 
mietete  il  vostro   grano   in   erba;    fiori   voi    cogliete,   non  frutti. 


—  156  — 
Costretti  ogni  giorno  a  concepire  e  a  produrre,  le  vostre  crea- 
zioni di  un'  ora  durano  la  vita  di  un  minuto;  più  spesso  nascono 
morte.  Il  vostro  pensiero  nelle  continue  emanazioni  si  spossa, 
come  le  membra  dell'  etico  si  disfanno  per  quotidiani  sudori;  io 
vedo  uscire  dalle  vostre  menti  cose  superbe,  vane,  snervate,  mal 
connesse  e  viete,  e  mille  volte  ripetute;  che  se  i  giornali  non  fos- 
sero, voi  le  fareste  gravi,  profonde,  durature,  e ,  come  di  onore  a 
voi,  cosi  di  conforto  e  di  gloria  alla  patria  che  in  voi  confida. 
Senza  grande  fatica  di  vita  nulla  concessero  gl'immortali  a  noi 
uomini.  Le  vostre  carte  effimere  paionmi  responsi  delle  Sibille, 
scritti  sopra  le  foglie,  che  il  vento  disperde  e  nessuno  raccoglie. 
Guaritevi  dalla  febbre  di  volere  ogni  giorno  intorno  agli  orecchi 
il  ronzio  della  fama;  confidate  il  nome  vostro  non  all'ala  dello  in- 
setto, ma  a  quella  dell'  aquila  ;  che,  se  è  bello  ottenere  onoranza 
dai  contemporanei,  divino  è  poi  conseguirla  dai  posteri.  »  Belle  e 
memorande   parole. 

Soppresso  l'  Indicalore  per  uno  scritto  sull'  Esule  di  Pie- 
tro Giannone,  il  Guerrazzi  erasi  volto  a  lavori  di  maggior 
lena  e  più  studiati,  che  gli  permettevano  di  afillarvi  tutto  l'in- 
gegno. Finalmente  ei  si  trovò  maturo ,  per  iscrivere  l' Asse- 
dio. Come  il  titano  Prometeo,  legato  alla  rupe,  impreca  sublime- 
mente a  Giove,  i  travagli  della  vita  politica  maturano  nel  titano 
Guerrazzi  l'amor  patrio,  e  gli  aggiungono  coraggio  a  sfidar  l'ira 
de'suoi  persecutori.  Vi  son  nature  cosiff'atte  che  operano  cose 
grandi  per  la  forza   della   contradizione. 

Reduce  dal  principio  del  1831,  dal  confino  di  Montepulciano,  il  Guer- 
razzi non  si  quietò,  ma  recossi  presto  invece  a  tentar  novità  in  Fi- 
renze, ove  speravasi  con  l'intimorire  il  Granduca,  obbligarlo  a  dare 
al  popolo  la  costituzione;  la  parte  moderata  che  era  della  congiura, 
con  le  sue  incertezze  ed  i  suoi  indugi,  la  fece  fallire;  il  Guerrazzi  che 
s'accorse  in  tempo,  come  a  Firenze  si  nicchiava,  fu  pronto  a  restituirsi 
in  Livorno,  per  impedirvi  almeno  ogni  sterile  moto;  ciò  non  tolse, 
tuttavia  ch'ei  fosse  dapprima  precettato  di  ridursi  in  casa  al  calare 
del  sole,  e  poco  dopo  venisse  gettato  in  prigione  «  tra  omicidi,  donne 
di  mala  vita  e  facinorosi  d'ogni  maniera;  »  nò  egli  seppe  poi  mai  la 
vera  cagione  di  quel  suo  primo  arresto,  come  neppure  della  sua  libe- 
razione, non  essendoglisi  nemmeno  fatto  l'onore  di  processarlo. 
Nel  1834,  il  Guerrazzi  veniva  finalmente  chiuso  nel  forte  Stella 
di  Portoforraio,  fra  i  'prigionieri  di  Slato.  «  Allora,  scrive  egli 
nelle  sue  Memorie,  mi  accomodai  a  passare  il  tempo  con  pro- 
fìtto per  la  patria  e  per  me  ». 


—  157  — 

Ed  in  quella  prigione  nacque  {'Assedio  di  Firenze.  L'Autore  non 
ha  vinto  ancora  intieramente  la  lotta  con  sé  medesimo;  1'  introdu- 
zione del  romanzo  ci  prova  sempre  che  l'uomo  è  ancora  tutto  là  con 
le  sue  passioni,  co' suoi  odii,  con  le  sue  memorie  paurose;  ma 
in  mezzo  agli  sfoghi  d'un' anima  sdegnosa,  in  mezzo  al  buio  in- 
fernale d'un  immenso  naufragio,  che  sembra  disperato,  brilla  tratto 
tratto  un  fievole  raggio  di  fede;  mentre  tutto  egli  sembra  vo- 
ler gettar  via,  premere,  calpestare,  flagellare  ogni  cosa,  a  un 
tratto  si  sente  ancora  battere  il  cuore,  e  vede  un  breve  lembo 
di  cielo  sereno;  vi  appunta  lo  sguardo  e  vi  riconosce  una  stella; 
cessa  allora  un  momento  di  maledire,  e  accenna  di  voler  spe- 
rare; quindi  ei  può  ancora  scrivere:  «  Dentro  di  me  si  levò  una 
voce  che  disse:  Non  sempre  Dio  si  penti  d'aver  creato  l'uomo.  Tu 
vivi  in  un  secolo  che  vinse  in  tristezza  il  paragone  d'ogni  piìi 
vile  metallo.  Ricerca  per  le  storie,  e  troverai  i  tempi  secondo  il 
tuo  cuore.  Circondati  di  memorie.  Dalla  virtù  de'morti  prendi  ar- 
gomento di  flagellare  le  infamie  dei  vivi.  Le  opere  famose  dei 
trapassati  ti  daranno  speranza  dei  posteri:  imperciocché  nulla  dura 
eterno  sotto  il  sole,  e  la  vicenda  del  bene  e  del  male  si  alterna 
continua  su  questa  terra.  Tu  vivrai  una  vita  di  visioni  degli  anni 
passati  e  dei  futuri  ».  È  evidente  che  quest'uomo  il  quale  dà  quasi 
sempre  ragione  ai  morti  assenti,  e  quasi  sempre  torto  ai  vivi  che 
lo  circondano,  non  è  nato  per  ftire  il  cortigiano;  ma,  se  questa  è 
virtù,  che  impedisce  all'  uomo  di  curvarsi,  riesce  virtù  sterile  e 
cieca,  quando  nessuna  fede  viva  la  sostiene  lungamente;  si  che, 
dopo  avere  un  istante  intraveduto  il  risorgimento  della  patria 
schiava,  e  fatto  saltare  il  coperchio  della  cassa  di  Lazzaro  dor- 
miente, il  Guerrazzi  torna,  spietato,  a  rinchiodarvelo,  con  una  sola 
sentenza,  che  vuol  scelleratamente  essere  ultima.  «  Non  confidate 
nella  speranza;  ella  è  la  meretrice  della  vita  ».  Conveniva  in- 
vece ai  giovani  dire  1'  opposto;  la  disperazione  vi  conduce  all'  in- 
differenza, e  questa  all'inerzia,  e  questa  alla  viltà,  e  questa,  oc- 
correndo, al  delitto;  bisognava  invece  dire  ai  giovani:  credete, 
sperate,  a  costo  anche  d'  illudervi  e  d' ingannarvi  e  d' esser 
traditi  dagli  uomini  e  dalla  fortuna;  lottate,  poiché  la  vitto- 
ria é  de' prodi  che  resistono  e  non  de'  timidi  che  disertano  al 
primo  sbaraglio  e  s'  abbandonano;  la  speranza  é  segno  d'  a- 
more,  e  senz'  amore  é  inutile  la  vita.  Che  importa  a  me  il  sa- 
pere come  si  chiami  la  cosa  da  voi  amata?  pur  che  sia  grande  e 
degna,  pur  che  vi  chiami  a  salire  più  alto,  pur  che  v'inviti  ad 
amplessi  più  ideali,  l'amore  sarà  sempre  la  vostra  salute.    Amate 


—  158  — 
la  natura,  1'  umanità,  la  patria,  l'arte,  la  scienza,  la  famiglia,  la 
virtù,  la  donna;  pur  che  l' oggetto  de'  vostri  amori  sia  sempre 
un'  alta  e  serena  Beatrice,  voi  poggierete  sempre  più  alto  e  con 
voi  si  rialzerà  pure  la  fortuna  della  patria  vostra  infelice.  Ma  ciò 
che  non  ha  detto  nell'  Introduzione,  il  Guerrazzi  lo  dirà  nel  ro- 
manzo stesso,  lo  ripeterà  nell'Appendice,  ove  s'accuserà  da  sé  di 
aver  calunniata  la  speranza.  A  misura  ch'ei  procede  nel  libro,  e 
che  r  ingegno  suo  prodigioso  gli  rappresenta  vivi  al  pensiero, 
belli,  intrepidi,  valenti,  gli  eroi  che  difesero  la  libertà  fiorentina, 
egli  si  sente  allargare  il  cuore  al  desiderio,  alla  speranza,  alla 
fede.  Come  il  pittore  s'innamora  della  Madonna  ch'egli  stesso  finge 
sulla  tela,  il  Guerrazzi  nel  ridar  vita  ai  personaggi  storici  del  suo 
romanzo,  se  ne  compiace,  s'illude,  li  ricerca  e  spera  ancora  ritrovarli 
vivi  nella  nuova  Firenze,  e  fra  loro  operare  e  combattere  eroica- 
mente egli  stesso,  poiché,  per  credere,  davvero,  nell'eroismo,  conviene 
sentirsi  in  petto  un'anima  che  ne  sia  capace.  Il  Guerrazzi  finisce 
pertanto  il  suo  libro  con  l'accendere  la  lampada  della  speranza,  ed 
aggiunge:  «  Io  nascondo  la  lampada  sotto  il  moggio.  Quando  ap- 
parirà r  aurora  da  ben  tre  secoli  desiderata,  allora  la  riporrò  a 
splendere  sul  candelabro:  dove  le  fosse  venuto  meno  l'umore,  io 
la  riempirò  col  rriio  sangue  ».  Scrivendo  al  Mazzini,  ei  dice  aver 
voluto  nell'Assedio,  rimescolare  insieme  cielo,  terra  e  inferno.  In- 
cominciò davvero  con  l'inferno,  continuò  con  la  terra,  fini  col  cielo. 
Il  libro  sale  sempre;  alle  immagini  Bironiane  sottentrano  man  mano 
le  bibliche  e  le  dantesche,-  all'inno  della  morte  l'inno  della  risurre- 
zione: «  Sul  granito,  egli  canta, era  cresciuta  una  messe  degna  di  lui; 
aveva  lo  stelo  di  acciaro  forbito,  la  spiga  a  guisa  d'impugnatura  di 
spada.  Un  angiolo  uscirà  tra  poco  dal  tempio  e  griderà  con  gran  voce: 
Mettete  dentro  la  vostra  falce,  perchè  l'ora  del  mietere  é  venuta, 
perocché  la  ricolta  della  terra  si  secca.  —  A  che  dunque  l'angiolo 
indugia?  La  ricolta  non  pure  è  matura,  ma  la  terra  è  stanca  di 
sopportarla  ».  Qua  e  là  qualche  ombra  di  dubbio  sorge  ancora; 
l'anima  dello  scrittore  non  s'  è  tutta  quietata;  tratto  tratto  ei  si  com- 
piace troppo  nel  giuoco  di  Penelope;  ma,  in  questa  battaglia  fra 
il  cuore  e  l'ingegno,  combattuta  nell'Assedio  di  Fwenze,  ha  vinto 
il  cuore;  altri  renda  a  lui  lode  delle  pagine  ove  1'  ingegno  del  li- 
vornese prodigò  tesori;  egli  n'era  ricco  e  no  fa  prodigo;  di  tanta 
liberalità  avea  merito,  più  ch'egli  stesso,  la  creatrice  natura;  ma, 
in  questo  io  si  veramente  1'  ammiro  che,  nato  ed  educato  al  dub- 
bio, egli  abbia  saputo  domare  un  giorno  sé  stesso,  a  segno  da  ar- 
rivare a  credere  almeno  tanto,  che  bastasse  a  scaldare  in  altri  una 


—  159  — 

fede  inspiratrice  di  pensieri  e  di  filiti  magnanimi  ;  che,  nato  al- 
l'odio, siasi  meravigliosamente  educato  all'amore.  Qualunque  sia  poi 
il  giudizio  ch'altri  voglia  portare  deW Assedio  di  Firenze  come  d'o- 
pera letteraria  per  rispetto  all'ai'te  e  alla  storia  (della  quale  l'arte 
si  giova,  in  esso,  più  per  aver  pretesto  di  colorire  uomini  e 
cose  vive  del  nostro  tempo  e  di  Firenze  nostra ,  che  per  re- 
carci il  vero  carattere  d'un  secolo  e  d'un  popolo  passato),  in  que- 
sto io  spero  d'  aver  consenzienti  i  critici  d'  ogni  ragione,  che  il 
Guerrazzi,  come  scrittore,  ha  la  virtù  rara  d'educare  all'  amore 
degli  uomini  e  delle  cose  grandi.  Per  questa  parte,  se  bene  lo 
scopo  immediato  del  romanzo  fosse  particolarmente  politico,  esso, 
ove  si  legga  con  qualche  prudenza,  potrà  aver  sempre  un'  effica- 
cia di  bene,  come  libro  educativo,  e  più  che  altrove,  in  Toscana, 
dove  la  tempra  un  di  forte  insieme  e  gentile,  è  rimasta  gentile 
soltanto,  ed  ove  gioverà  pertanto  far  suonare,  per  lunga  stagione 
ancora,  voci  maschie  e  potenti,  affinchè  essa  ripigli  nerbo,  agilità 
e  gagliardia  di  moto  ne'pensieri,  negli  aflfetti  e  nelle  opere. 

L'Assedio  di  Firenze,  potrà,  se  1"  autore  suo  ci  vorrà  dire  il 
più,  offrir  modo  ad  uno  de^  commenti  più  interessanti  che  siansi 
mai  scritti  d'alcuna  opera  letteraria;  a  farlo  qual  è,  giovarono,  io 
gran  parte,  la  conoscenza  riflessa  della  società  toscana,  e  partico- 
larmente fiorentina,  che  il  Guerrazzi  avvicinò  e  trattò,  e  poi  le 
molte  e  forti  impressioni  che  l'autore  provò  nel  tempo  in  cui  gli 
venne  scritto  l'Assedio.  Di  alcune  di  queste  impressioni  c'informa 
egli  stesso  nella  sua  Lettera  autobiografica  al  Mazzini:  «  Tu  sappi 
ancora,  Giuseppe,  che,  mentre  scriveva  lo  Assedio,  nel  giro  di  po- 
chi mesi  perirono  per  la  più  parte  le  persone  sopra  le  altre  a  me 
dilettissime.  Mori  l'unica  donna  che  amai,  fulminata  nel  cuore,  e 
questa  morte  così  percosse  la  mia  salute,  che  ancora  me  ne  ri- 
sento. —  Mi  abbandonò  mio  padre  e  con  le  mie  mani  gli  chiusi 
gli  occhi.  Lo  feci  trasportare  a  Montenero,  e  sotto  il  portico  della 
Chiesa  gli  davo  modesta  sepoltura.  Sopra  la  sua  lapide  incisi: 

Hic    intus 

Francisci   Guerraiii 

insontes   cineres 

expectant  postremum  Dei  judicium 

sine   pavore 

...  Supremo  dolore!  un  giorno  trovai  sfregiata  cotesta  iscrizione. 
—  Morirono  Angiolo  Angiolini,  Alamanno  Agostini,  dei  quattro 
carcerati  a  Portoferraio  rimaneva  io  non  bene  fermo  di  salute,  e 


—  160  — 
Bini  percosso  da  tale  malattia  che  non  dava  speranza  di  rilevar- 
si, ed  egli  sentiva  prossimo  il  suo  fine  e  lo  desiderava.  Certo  va- 
leva meglio  morire  che  viver  com'egli  viveva.  Dio  lo  esaudì  e  lo 
accolse  nella  sua  pace.  Di  tanti  amici  rimanevami  Tommaso  Bar- 
gellini,  amico  della  mia  infanzia,  ch'ebbe  per  me  cuore  di  madre, 
ed  egli  pure  mi  mancò  al  maggior  uopo:  morì,  atrocemente  assas- 
sinato, mio  fratello  Giovanni,  lasciandomi  per  retaggio  due  orfani. 
—  Ormai  la  mia  vita  mi  apparve  la  via  di  Pompei;  ad  ogni  passo, 
a  destra  mi  volgessi  od  a  sinistra,  io  incontrava  una  tomba.  Pal- 
pitante e  lacero,  con  gli  artigli  dei  persecutori  nel  petto,  mi  di- 
batteva scrivendo  l'Assedio  di  Firenze.  Sapevo  che  avrebbe  frut- 
tato nuove  ingiurie,  e  le  fruttò;  non  le  curai,  presagendole;  non  le 
curai,  sopportandole.  Ora,  non  parti  questa  immensa  fede,  o  Giu- 
seppe? »  Io  l'ho  già  detto:  ammiro  nell'  ingegno  del  Guerrazzi  la 
natura  grande  e  benigna;  nelle  pagine  calde  d'  amor  patrio  del- 
y Assedio,  ammiro  invece  l'autore  stesso,  avendo  egli  dovuto  lot- 
tare per  vincere  l'anima  scettica  e  il  riso  mefistofelico,  e  le  remi- 
niscenze troppo  dolorose  della  vita,  alle  quali  concede  bene  qua  e 
là  ancora  lo  sfogo  di  qualche  breve  parentesi,  ma  non  la  miglior 
parte  e  la  più  generosa  dell'opera. 

Scrivendo  il  25  dicembre  dell'anno  18i7,  al  Mazzini,  il  Guerrazzi 
chiudeva  la  sua  lettera  con  queste  parole:  «  Vieni,  prima  che  la  mia 
vita  cessi,  come  un  rivo  tra  i  sassi,  nei  giorni  del  Sole.  Io  per  aspet- 
tarti mi  soffermo  sopra  il  limitare  della  morte,  che  invoco.  Impo- 
tente a  stringere  la  spada  come  il  Bardo  normanno,  mi  ti  porrò  al 
fianco  nel  giorno  della  battaglia  vicina;  m'avanza  qualche  immagine 
di  poeta  nella  testa,  qualche  affetto  nel  cuore  da  potere  innalzare  un 
ultimo  canto —  o  la  requie  —  o  il  trionfo  dei  valorosi  ».  Egli  promette 
qui  evidentemente  di  tornare  a  servire  la  letteratura  politica,  dalla 
quale,  fra  la  pubblicazione  àQ\\' Assedio  e  la  lettera  al  Mazzini  s'era 
quasi  intieramente  rimosso,  per  occuparsi  de'proprii  negozii  e  per' 
indulgere  genio,  scrivendo  l'Isabella  Orsini  e  la  Veronica  Cibo, 
storie  di  sangue,  nelle  quali  si  può  trovare  la  condanna  del  vizio 
e  della  colpa,  ma  si  pone  forse  una  cui  a  soverchia  nel  rivestir 
l'uno  e  l'altra  di  una  specie  di  terrore  poetico,  che  può  sedurre 
al  male  qualche  cervello  debole  e  infermo,  in  cui  la  volontà  del 
bene  vacilli.  Ma  son  pure  di  quel  tempo  e  bastano  come  segno  di 
quanto  si  passava  nell'animo  del  Guerrazzi,  l'elogio  della  contessa 
Amelia  Caiani  Carletti,  ove  s'insegna  il  modo  d'educare  la  donna 
italiana,  ed  ove  trovo,  fra  l'altre,  questa  sentenza  che  «  il  fine  di 
ogni  disciplina,  e  di  qualsivoglia   istituto,    anzi    pure  della  stessa 


-  161  — 

famiglia^  sia  l'amore  di  patria,  anzi  pensiero  e  palpito  di  questa 
umana  creta,  finché  le  si  concede  argomentare  e  sentire  »,  e  i 
Nuovi  Tartufi,  ove,  unicamente  dominato  dal  pensiero  rivoluzio- 
nario, il  Guerrazzi  condanna  con  fiere  parole  i  mezzi  troppo  lenti, 
coi  quali  i  liberali  moderati  di  buona  fede  speravano  raggiungere, 
a  grado  a  grado,  lo  scopo  supremo  della  indipendenza  e  libertà  ita- 
liana, e  gl'impostori  si  studiavano  invece  guadagnar  tempo,  per 
rendere  più  improbabile  il  conseguimento  d'un  bene  ritardato.  Ei 
non  riconosce  in  vero  questa  differenza,  e  lo  stabilirla  sarebbe  in- 
vece stata  desiderabile  giustizia;  egli  obbedisce  all'impeto  istantaneo 
che  lo  muove,  e  mira  al  solo  scopo  immediato  di  rendere  impos- 
sibile il  sistema  che  gli  par  dannevole;  non  si  cura  di  sapere  se 
fra  i  difensori  di  quel  sistema  vi  sia  pure  gente  onesta,  di  mente 
e  di  cuore;  si  scaglia  contro  tutti,  insieme  confusi,  come  autori,  che 
a*  lui  sembrano  di  una  politica  esiziale;  e  tutti  li  flagella;  1'  inge- 
gno suo  rivoluzionario,  educato  alla  scuola  di  Macchiavelli,  non 
ripugna  dal  sacrificare  la  giustizia  in  particolare,  quando  si  tratti 
di  provvedere  a  quella  che  si  chiama  giustizia  universale,  come 
-se  s'I  potessero  distinguere  dal  savio  due  giustizie.  E  di  questo 
vizio  politico  è  incancrenita  Italia  tutta,  ove  la  rabbia  delle  parti 
è  tanta,  che,  pel  trionfo,  dicono  gli  uni,  dell'idea  democratica,  pel 
trionfo,  dicono  gli  altri,  del  principio  d'ordine,  l'una  e  l'altra  s'e- 
scludono, come  impossibili,  isolando  così  sempre  le  forze  vitali 
dello  stato,  col  metterle  fra  loro  in  sospetto  ed  in  guerra  mici- 
diale, per  amore  della  libertà,  rinnegando  l'ordine,  e  per  amore 
dell'  ordine  rinnegando  la  libertà,  rinnegando,  in  conclusione,  ad  un 
tempo  e  1'  uno  e  1'  altro  di  questi  beni  che  non  possono  stare  di- 
visi. Cosi,  come  l' antico  greco  chiamava  barbaro  ogni  popolo 
straniero  che  non  parlasse  la  propria  lingua,  e  si  negava  con  esso 
ogni  contatto,  togliendo  cosi  a  sé  stesso,  intorno  a  sé,  ogni  nuova 
via  di  più  largo  respiro ,  noi ,  facendo  peggio ,  nella  terra  no- 
stra, ci  dividiamo  miseramente  come  stranieri,  e  peggio  che  stra- 
nieri, come  selvaggi  intenti  a  vicenda  a  distruggerci.  La  ragione 
politica  sembra  scusarci  dello  stare  stiletti  alla  parte  nostra,  come 
molluschi  alla  conchiglia;  in  tal  guisa  soltanto,  diciamo  a  noi,  la 
parte  nostra  s'afforza,  e  noi  medesimi  dalla  parte  nostra  possiamo 
sperar  forza  e  sostegno.  Ma,  ciechi  ed  incauti  che  siamo;  non  ci 
rendiamo  accorti  come  il  nostro  proposito  di  difender  la  parte  è 
una  tacita  renunzia  a  difendere  il  tutto;  e  come  mirando  le  parti 
a  distruggersi  reciprocamente  e  non  mai  a  comporsi,  non  lascie- 
ranno  poi  crear    nulla  di  grande  e  d'intero.  In  letteratura,  guer- 

KlCORUI    DlO(iRAKICI  11 


—  16^,  — 
razziaci  e  manzoniani  si  combattono  e  si  accusano  ogni  giorno  fra 
loro  come  fatali  alla  patria;  in  arte,  é  delitto  per  gli  uomini  nuovi 
riconoscere  ancora  qualche  merito  alle  Accademie;  e  per  gli  Ac- 
cademici è  delitto  il  procedere  per  vie  nuove  e  proprie  allo  studio 
della  natura;  in  politica,  basta  il  professar  fede,  non  dico  repubbli- 
cana ma  democratica,  per  non  dover  trovare  amici  fra  i  prudenti 
guardiani  della  costituzione,  e,  viceversa,  l'esser  devoti  al  princi- 
pio parlamentare,  basta  perchè  si  dica  addirittura  da  chi  s'aggira 
fra  il  popolo:  badate  è  gente  da  pagnotta;  le  tasse  che  voi  pagate 
servono  a  ingrassar  questi  gaudenti;  perciò  son  moderati;  perciò  non 
vorrebbero  altro  governo  che  questo;  in  religione,  chi  non  va  in 
chiesa,  fugge,  come  il  contagio,  il  devoto  che  sente  il  bisogno  di 
raccomandarsi  con  l'anima  a  Dio;  chi  frequenta  la  chiesa,  invece, 
evita,  come  libertino,  ogni  uomo  che  basti  a  guidarsi  e  consolarsi 
da  sé  con  1'  umana  prudenza  e  saviezza  nelle  varie  vicende  della 
vita.  La  nostra  intolleranza  scema  cosi  le  forze  nostre,  tenendole  fu- 
nestamente divise.  Non  ci  basta  serbare  liberamente  i  nostri  gu- 
sti, i  nostri  principii,  i  nostri  propositi,  non  ci  basta  adoperarci 
ciascuno,  ne'limiti  della  decenza,  a  cercar  simpatia  alle  idee  che 
professiamo;  sull'esempio  del  Sillabo  pontificio,  imbevuti  di  quello 
stesso  principio  cattolico,  in  cui  non  abbiamo  più  fede,  noi  pure 
gridiamo  :  o  con  noi  o  contro  di  noi;  e  ciò  che  sta  contro  di  noi 
vogliamo  estirpare  non  pur  nel  principio,  ma  nella  persona.  E  im- 
possibile, aggiungiamo,  che  il  tale  abbia  tal  fede  e  possa  rimaner 
uomo  onesto,  a  meno  ch'egli  non  appartenga  all'ordine  degli  im- 
becilli; e,  nell'un  caso  e  nell'  altro,  è  buona  cosa  farne  a  meno, 
rimuoverlo,  sopprimerlo.  «  Abbasso  la  pena  di  morte  »  ripetia- 
mo tutti  volenterosi  e  unanimi,  ma  a  patto  di  mantenerci,  per  i 
rasi  riservati,  il  diritto  di  applicarla  non  solo  ai  nostri  nemici, 
ma  ai  nostri  avversarli,  non  solo  ai  nostri  avversarli,  ma  ad  ogni 
dissidente  da  noi.  Così  intendiamo  la  nostra  fratellanza  nazionale; 
e  a  questa  maniera  vogliamo  serbarci  unitarii;  ma,  se  altro  patto 
non  ci  tenesse  che  questo,  l'Italia  avrebbe  dovuto  a  quest'ora  di- 
ventare un  camposanto.  Domandate  alla  maggior  parte  degli  stessi 
nostri  illustri  viventi  che  opinione  essi  abbiano  gli  uni  degli  altri: 
sarà  gran  mercè  se,  su  dieci,  se  ne  troverà  uno  indulgente  e  bene 
disposto  a  riconoscere  altrui  il  proprio  singolare  valore,  indipenden- 
temente dalle  opinioni  ch'egli  professi.  Parrebbemi  invece  omai 
tempo  che  si  ritornasse  in  Italia  ad  amare  di  nuovo,  un  poco,  ideal- 
mente, il  bello  pel  belio,  il  grande  pel  grande,  il  bene  pel  bene,  senza 
stringerci  invidiosamente  alle  persone,  come  siamo  soliti  a  fare,  per 


—  163  - 

negare  poi  il  bello,  il  grande,  il  bene,  col  solo  pretesto  che  quella  tal 
persona  era  troppo  bassa  per  divenirne  capace,  e  i  suoi  principii 
troppo  diversi  da  quelli  che  a  noi  paiono  soli  infallibili,  per  po- 
ter dare  alcuna  importanza  a  quella  maniera  di  predicazione.  Ei 
sarebbe  certamente  molto  desiderabile  che  ogni  uomo  di  genio,  il 
quale  scrive,  fosse  ad  un  tempo  un  grande  scrittore,  un  santo  ed 
un  eroe;  ed  è  verissimo  che  chi  è  tutto  buono,  tutto  grande,  può 
meglio  di  qualsiasi  altro,  dire  e  fare  bene  e  grandemente;  la  sin- 
cerità dello  scrittore  dà  allo  scrittore  un  calor  vìvo  e  naturale 
che  si  comunica  meglio,  perchè  si  sente  piìi  presto.  Ma  non  si 
deve  sconoscere  che,  come  anche  un  vigliacco  in  determinati  mo- 
menti può  sorprenderci  con  un  atto  eroico,  che  dobbiamo  am- 
mirare, sia,  per  sé  stessa,  degna  d' ammirazione  ogni  opera 
buona  bene  inspirata,  se  anche  l'autore  di  essa,  per  lo  più, 
pensi  ed  operi  il  male.  L'  opera  buona,  che  la  provvida  natura 
inspira,  consideriamo,  e  allo  scrittore  teniamone  conto,  solo  in 
quanto  sia  tale,  e  possa  giovarci.  Questo  modo  di  render  giu- 
stizia a  chi  scrive,  sarà  anche  un  mezzo  di  invogliare  un 
maggior  numero  di  scrittori  ad  ambire  quel  premio;  né  io 
sono  poi  tanto  scettico  per  credere  che  alcun  uomo  possa  in- 
differentemente dire  e  fare  il  bene  senza  accogliere  nella  mente, 
anche  per  poco,  il  pensiero  che  il  bene  sia  veramente  un  bene,  e 
da  questo  pensiero,  anche  fuggitivo,  non  sentir  poi  vantaggio  mo- 
rale alcuno.  La  virtù  nella  massima  parte  vien  da  natura,  ma  in 
alcuna  parte,  si  forma  con  l'esercitar  quella  poca  o  molta  che  la 
naturaci  ha  data;  accettiamo,  pertanto,  dagli  scrittori,  quali  essi 
siano,  con  riconoscenza,  le  oneste  parole;  con  l'assicurare  così 
a  noi  una  letteratura  sana,  finiremo  pure  educando  a  poco  a 
poco  gli  scrittori  stessi.  Io  vedo  alcun  lettore  sorridere  ed  odo 
sussurrarmi.  Voi  vorreste  cosi  avvezzare  gli  scrittori  all'  ipo- 
crisia. Non  all'ipocrisia,  ma  al  pudore.  Senza  pudore  non  vi  è 
arte,  come  non  vi  è  principio  di  onestà  possibile.  Io  credo  che 
ogni  scrittore  si  studii  di  rivelarsi  al  di  fuori  nel  suo  miglior 
aspetto;  non  dispregiamo  questo  studio;  non  è  tutto  di  vanità 
e  d' ipocrisa  ;  è  ancora  un  sentimento  di  nobiltà  che  si  desta  in 
lui,  pudico,  e  che  lo  innalza;  senza  questo  sentimento  io  temerei 
che  molti  di  quelli,  i  quali  ammiriamo  ora  come  grandi  puri- 
tani ne'  loro  scritti,  condannati  a  scoprirsi  nella  loro  nudità  fal- 
lace, domanderebbero  grazia.  La  somma  del  male  nella  vita  del- 
l'uomo è  già  troppo  grande  per  sé,  perchè  la  intemperanza  de'nostri 
giudizii,  intolleranti  ed  esclusivi,  debba  ancora  compiacersi  nel  rap- 


—  164  — 

presentarsi,  con  maligno  sofisma,  lo  stesso  bene  come  un  nuovo 
maleficio. 

Ora,  se    questo   vizio    dell'  intolleranza,    deplorevolissima  fra  le 
miserie     nostre    nazionali ,    nelle    cose    letterarie     può    riuscir 
tanto  funesto,  per  quella  corrispondenza  naturale   e    indissolubile 
eh'  ebbero    sempre   la    letteratura  e   la    vita   civile    d'  un    popolo, 
e    più    che    altrove    in  questo  secolo,  e    più    che    mai   neh'  Italia 
nostra,  ove  la  letteratura  servi  essenzialmente  agli  scrittori  come 
strumento  politico,  dovea  pure  tornar  rovinoso  ai  nostri  moti    di 
nazionale  risorgimento.  E  in  Toscana,  fra  l'altre  provinole  d'Italia, 
si  lamentarono  particolarmente  gli  efietti   di  questa    rabbia   delle 
parti  politiche;  che,  come  il  Capponi  ed  il  Guerrazzi  bene  uniti  e 
concordi  avrebbero  salvata,  discordi,  invece,  perdettero  la  Toscana 
miseramente  e  la  ritornarono  nella  sua  prima  servitù.  La  patria 
l'uno  e  l'altro  amavano;  entrambi  erano  bene  disposti  a  servirla; 
ma  ciascuno  di  essi  volle  mantenersi  geloso  de'  suoi  mezzi,  l'uno 
col  non  volere  abbastanza,  1'  altro  col  voler   troppo,  e   in    questo 
studio  eccessivo  di  ciò  che  essi  mettevano  di  proprio  é  di   perso- 
nale neir  azione  politica,  mal  difesero  la  patria,  si  che,  quand'  essa 
risorse,  furono  lasciati  in  disparte  entrambi;  i  loro  nomi  si  ricor 
darono,  1'  opera  loro  non  si  curò  ;  si  rese  omaggio  al  leale  e  ve- 
nerando carattere  dell'uno,  all'ingegno  fremente  e  poderoso  dell'al- 
tro ;  ma  1'  uno   si  trovò  troppo    timidamente  contentabile,    l'altro 
troppo  audacemente  intrattabile.    Così   i   due  uomini   più  grandi 
che  la  Toscana   possedesse,  poiché   il   vecchio  Niccolini    viveva 
alieno  oramai  da  ogni  cura  politica,   il   Capponi    e   il  Guerrazzi, 
non  lasciarono  quasi  orma  di  sé  stessi  nell'  ultimo  stadio  della  no- 
stra vita  politica.  Associati,  sarebbero  stati  in  Toscana  onnipotenti; 
divisi,  rimasero  due  individualità   singolari,   senz'  effetto  politico. 
Ma,  per  riassumere  gli  ultimi  anni  della  vita  del  Guerrazzi,  la 
nuova  prigionia  sostenuta  dopo  la  pubblicazione    della   lettera  al 
Mazzini,  il  mandato  quindi  ricevuto  per  ben  due  volte  dal  Governo 
di  domare  la  rivoluzione  livornese,  il  suo  ministero,  1'  opera  sua 
come  triumviro  e  come  dittatore,  la  sua  quarta  iniqua  prigionia, 
il  suo  famoso  iniquissimo  processo  politico,  il  suo  esigilo,  il    suo 
refugio   in    Corsica  nel    1853,    sono  fatti  che    appartengono   alla 
storia  non  meno  che  alla  biografia  (1). 


(1)  I  documenti  di  questa  parte  della  vita  del  Guerrazzi  si  trovano 
copiosi  in  due  grossi  volumi  di  scritti  politici  del  Guerrazzi,  pubblicati 
a  Milano  dal  Guigoni  nel  1862. 


—  165  — 

Il  soggiorno  del  Guerrazzi  in  Corsica  fruttò  alle  nostre  let- 
tere la  Beatrice  Cenci,  parto  mostruoso  d' ingegno  trapotente, 
e  d'uomo  perseguitato  dalla  patria,  che  si  vendica  liricamente, 
al  suo  modo  antico,  raffigurando  il  trionfo  del  male;  V Asino 
seconda  vendetta,  umoristica,  contro  la  patria  obliosa  ed  aggirata; 
il  Pasquale  Paoli,  racconto  storico,  ove  l'autore  si  getta  in  mezzo 
ai  fatti  storici  eh'  ei  narra  abilmente  e  sui  quali  sentenzia  come 
un  giudice  vivo  ed  ardente,  terza  vendetta,  generosa,  contro  la 
patria  ingrata,  all'amplesso  della  quale  vorrebbe  ritornasse  l' isola 
gloriosa  che  diede  i  natali  a  Sampiero  ed  al  Paoli. 

Il  Guerrazzi  crede,  e  il  suo  diligente  biografo  Ferdinando  Bosio  (1) 
studiasi  dimostrare  come  col  Pasquale  Paoli  il  Livornese  sia  en- 
trato nella  sua  seconda  maniera.  A  me  sembra  meno  esatta  que- 
sta distinzione.  Le  opere  del  Guerrazzi,  senza  dubbio,  non  offrono 
tutte  una  forma  medesima;  ma  esse  trattano  pure  generi  e  sog- 
getti diversi  che  renderebbero  impossibile  all'autore,  se  pure  il 
volesse,  l' adoperare  un  medesimo  stile.  Le  opere  giovanili  del 
Guerrazzi  sono,  per  la  massima  parte  lavoro  di  passione  e  d'im- 
maginazione; quindi  recano  pure  uno  stile  concitato,  immaginoso 
e  smagliante  di  colori;  le  opere,  sian  politiche  sian  letterarie 
scritte  in  età  più  matura,  sono  in  gran  parte  lavoro  di  riflessione, 
e  però  richiedevano  pure  uno  stile  più  meditato,  più  grave,  e,  se 
così  può  dirsi,  più  storico.  Ciò  non  può  costituire  una  maniera 
diversa,  in  uno  scrittore,  ma  solo  una  diversa  direzione  data  al- 
l'operoso ingegno.  Anche  oggi,  quando  il  Guerrazzi  torna  a  scrivere, 
come  neir  età  giovanile,  alcuna  pagina  fantastica,  rimette  sulla  sua 
tavolozza,  sebbene  alquanto  impalliditi,  i  colori  magici  di  quel 
tempo  e  li  rimescola  insieme  come  una  volta.  Si  questo  parmi  ben 
notevole  nell'  ingegno  del  Guerrazzi,  che  a  qualunque  genere  let- 
terario ei  s'accosti,  lo  trasforma  ad  immagine  sua,  portandovi  e 
lasciandovi  la  sua  viva  e  originale  impronta.  Cosi,  quando  ei 
s'  accinse  a  scrivere  un  romanzo,  creò  una  nuova  forma  di  ro  • 
manzi;  quando,  studioso  del  Principe  di  Macchiavelli,  volle  an- 
ch'egli  scrivere  il  suo  trattato  politico,  ma  destinarlo  insieme  al 
Pìnncipe  ed  al  popolo,  non  seppe  resistere  alla  tentazione  d'avvi- 
vare i  consigli  con  la  frequente  figura  del  consigliere  appassionato; 
quando  scrive  libri  umoristici  come  L'Asino  e  il  Buco  ìiel  muro, 


(1)  F.  D.  Guerrazzi  e  le  sue  opere,  studio  critico  del  cav.  Ferdinando 
Bosio,  Livorno,  tip.  Zecchini,  1865  ;  un  voi    di  35U  pag. 


—  166  — 

non  si  dimentica  d'  aver  letto  Sterne,  ed  Heine,  ma  si  ricorda 
anche  più  d'esser  Guerrazzi;  quando  imprende  a  narrare  le  gesta 
del  Paoli,  del  Pelliccioni,  del  Sampiero,  del  Doria,  di  Ferruccio,  e 
d'altri  grandi  italiani,  s'attiene  bene  al  fatto  storico,  ma  col  pro- 
posito deliberato  che  il  lettore  dia  particolarmente  retta  al  nar- 
ratore, non  meno  diligente,  che  esperto  nel  maneggio  degli  uomini 
e  degli  affari.  Per  questo  carattere  vivo  e^  deciso  di  personalità 
che  hanno  le  opere  tutte  del  Guerrazzi,  è  agevole  il  riconoscere 
come  sia  vano  lo  sforzo  de'  piccoli  ingegni  i  quali  studiano  le  orme 
di  lui,  sperando  arrivar  presso  alla  grandezza  di  quel  nome.  Ma 
l'autore  lascia,  dietro  di  sé,  a'suoi  imitatori,  niente  più  che  l'ombra 
sua;  la  luce  ei  la  porta  tutta  con  sé  e  per  sé. 

Dal  soggiorno  in  Corsica,  a  quello  in  Genova,  dal  soggiorno  in 
Genova  al  rimpatrio  in  Livorno  nel  1862,  da  questo  rimpatrio  al 
suo  presente  volontario  confino  nel  tetro  Fitto  di  Cecina,  non  trovo 
nella  vita  pubblica  del  Guerrazzi  più  alcun  fatto  che  mi  sembri 
degno  di  particolare  ricordo  ;  egli  s'  adoperò  eflìcaceraente  per 
l'annessione  della  Toscana  al  Regno  unito  d'Italia,  e,  per  ri- 
spetto a  quest'  unità  monarchica  ch'egli  aveva  non  solo  accettata, 
ma  promossa,  protestò  virilmente  contro  la  cessione  di  Nizza  alla 
Francia;  fu  Deputato  più  volte  al  Parlamento;  nell'ultime  elezioni 
politiche  non  venne  rielette,  ed  è  a  me  cagione  d'ingrata  meravi- 
glia il  vedere  che  la  città  di  Livorno  non  siasi  ricordata  sempre 
del  cittadino,  che  in  questo  secolo  le  crebbe  maggior  gloria,  fra 
tutti  ;  non  fu  mai  ministro  del  Regno  d' Italia  né  tampoco  mem- 
bro del  Consiglio  superiore  di  pubblica  istruzione;  il  governo 
del  granduca  avea  fatto  offrire  al  Guerrazzi  una  cattedra  di  let- 
teratura neir  Università  di  Pisa  ;  il  Governo  italiano  non  gli 
offerse  mai  nulla;  1'  Accademia  della  Crusca,  per  proposta  del 
Giusti,  lo  nominava  suo  membro,  e  il  Piovano  Arlotto,  ricono- 
scendo fiorentino  di  lingua  e  d'origine  il  Guerrazzi,  lo  chiamava 
a  battagliare  in  lingua  toscana  nelle  proprie  pagine  ;  1'  Italia 
Una  si  ricordi  ora,  dunque,  almeno,  se  non  può  altro,  come, 
fra  tanti  che  in  Italia  scrivono,  nessuno  ha  mai  scritto,  nessuno 
scrive  più  italiano  del  Guerrazzi,  di  cui,  anche  pel  verso  della  lin- 
gua, tutte  le  opere  possono  sempre  considerarsi  come  una  fonte 
viva  di  studio. 

Ma,  se  r  Italia  unita  non  s'è  curata  di  rendere  alcun  onore 
all'immortale  autore  àeW Assedio,  s'è  ben  compiaciuta  di  occuparsi 
molto  e  troppo  de' negozi  privati  di  lui,  e  di  levarne  scandalo.  Io 
ho  già  avvertito  di  non  voler  entrare  con   lina-ua   indiscreta  nei 


—  167  — 
fatti  privati  d'alcuno  ;  ciò  eh'  è  pubblicamente  palese  e  giudicato 
e  provato  non  bello,  io  deploro;  ina  non  è  uflìcio  mio  il  proces- 
sare la  vita  privata  di  quegli  uomini  insigni,  ai  quali  desidero 
soltanto  che  sia  reso  onore  per  la  parte  di  bene,  ch'essi  fecero  alle 
nostre  lettere  e  alla  nostra  coltura. 

Tre  volte ,  nella  sua  vita,  il  Guerrazzi  fu  accusato  come 
uomo  avido  di  subiti  ed  illeciti  guadagni;  la  prima  volta  ei 
si  scolpò,  presso  il  Mazzini,  con  questo  racconto:  «  Talete,  per 
quanto  io  lessi,  era  preso  a  dileggio  dai  suoi  amici  perchè,  so- 
vente assediato  dalla  miseria  non  sapesse  riparare  ai  bisogni 
supremi  della  vita  :  un  giorno  egli  disse  che  non  gli  consen- 
tiva r  animo,  distrarsi  dalle  speculazioni  della  filosofia  per  at- 
tendere a  cosi  basso  intento,  com'è  la  pecunia,  e  si  vantò 
farsi  ricco  quante  volte  gliene  prendesse  vaghezza.  Irriso  dagli 
amici  per  cosiffatta  iattanza,  ei  si  propose  provare  con  l'opera 
la  verità  delle  parole.  Avendo  mercè  le  sue  osservazioni  astrono- 
miche conosciuto  come  in  cotesto  anno  una  grandissima  arsura 
avrebbe  desolato  il  contado  di  Mileto.  acquistò  quanto  olio  potè  tro- 
vare^ dandolo  in  pegno  agli  amici  perchè  ne  pagassero  il  prezzo 
per  suo  conto.  Fallito  il  raccolto,  il  costo  degli  olii  crebbe  a  dis- 
misura, e  siccome  la  siccità  fu  generale  così  gli  riuscì  guadagnare 
immensa  moneta  sopra  cotesto  negozio.  Raccolti  i  danari  e  con- 
vertitili in  talenti  d'oro,  convitò  gli  amici  a  cena,  distribuì  a  cia- 
scuno un  talento,  avvertendoli  ch'ei  non  si  curava  conservarli,  e 
che  riassumeva  lietissimo  la  pristina  povertà.  Due  cose  io  feci  di- 
verse da  Talete  ;  la  prima  fu  che  mi  tenni  soddisfatto  di  onesta 
fortuna  e  la  seconda  che  non  la  donai  dopo  cena.  » 

Nel  processo  politico  che  il  Guerrazzi  subì  sotto  la  restaurazione 
granducale,  non  potendogli  far  carico,  come  speravano,  d'abuso  di 
potere,  i  suoi  accusatori  studiarono  sorprendere  in  fallo  il  Guer- 
razzi, per  abuso  della  pubblica  pecunia,  commesso  nella  sua  qua- 
lità di  ministro  ;  ma  si  trovò  invece  che  nel  tempo  del  suo  mi- 
nistero, egli  avea  invece  rimesso  «  del  suo,  più  del  doppio  dello 
stipendio  »  (1). 

Nella  recente  lite  promossa  al  Guerrazzi  dal  suo  proprio  pa- 
rente signor  Sanna-Sanna,  per  abuso  di  titoli  fiduciarii,  i  tribu- 
nali non  pervennero  a  formarsi  un  criterio  sufficiente,  per  ri- 
conoscere   la    colpa  dell'  accusato,  il    quale,  alla  sua  volta,  non 


(1)  Op.  IJosiOi  op.  lìt.  pag.  Wò'ri. 


—  168  — 

riuscì,  con  altro  processo  intentato  al  parente  accusatore,  a 
convincerlo  di  diffamazione  ;  la  lite  sembra  ora  terminata  in- 
nanzi ai  tribunali  ;  non  è  definita  ancora  presso  la  coscienza  del 
pubblico,  che  ha  voluto  intervenir  giudice  in  questo  negozio;  del 
quale  io  avrei  volentieri  taciuto,  se  l'ultima  impressione  ricevuta 
dal  pubblico  rispetto  al  Guerrazzi  non  fosse  quella  dello  scandalo 
che  la  lite  nefanda  ha  provocato  in  Italia.  Io  desidero  di  cuore 
che  questo  sia  soltanto  uno  de' troppi  disgraziati  affiiri  che  nel 
commercio  de' privati  si  osservano,  i  quali,  sebbene  siano  molto  im- 
brogliati, non  suppongono  poi  necessariamente  né  broglio,  né  chi 
imbrogli.  Ho  uopo,  in  ogni  maniera,  di  consolarmi  in  questa  fidu- 
cia, perché  ho  bisogno  di  credere,  e  voglio  credere,  e  credo,  in 
somma,  alla  sincerità  delle  meste  parole  con  le  quali  l'illustre  so- 
litario di  Cecina  mi  chiudeva  la  sua  lettera  già  citata  del  20  feb- 
braio :  «  Declinante  nella  vita,  con  le  sostanze  dimezzate  là,  dove 
gli  altri  le  crebbero,  stanco  di  mente,  di  cuore  offeso,  mi  sono  ri- 
tirato in  questo  eremo,  dove  vivo  in  compagnia  del  mare,  delle 
foreste  scarmigliate  dal  vento,  e  della  malaria,  invocando,  e  non 
potendo  ottenere,  pace  »  (*). 


(*)  Ricevo  da  Livorno  la  lettera  seguente  che  per  debito  d' impar- 
zialità, pubblico,  quantunque  mi  sembri  che  le  cagioni  di  lagno  mosse 
dal  Guerrazzi,  e,  in  nome  di  lui  dall'egregio  Mangini,  contro  il  mio  Ri- 
cordo  che  riguarda  l'illustre  livornese,  siano  insussistenti.  Molti  lettori 
mi  dissero  aver  io  esaltato  troppo  il  Guerrazzi,  e  gli  amici  del  Guer- 
razzi si  dolgono  invece  ch'io  gli  abbia  reso  cattivo  servigio;  ove  sono 
due  scontenti,  temerei  quasi  d'esser  solo,  io,  terzo,  ad  avere  un 
po'di  ragione.  Del  Guerrazzi  non  potevo  fare  un  santo,  e  noi  feci;  né  po- 
tevo prestar  l'orecchio  a'suoi  derisori  e  calunniatori,  e  noi  feci;  tenni 
la  via  di  mezzo,  e  questa  via  mi  studierò  d'osservare  quanto  mi  sia 
possibile,  sperando  che  sia  la  giusta.  Paiovi  moderato  per  questo  solo 
che  mi  studio  render  giustizia  ad  ogni  parte;  non  domando  scusa  ad 
alcuno  di  questa,  che,  se  è  colpa,  a  me  par  felia;-,  culpa.  Il  Guerrazzi  scrive 
che  chi  vuol  conciliare  1'  inconciliabile  è  stolto  o  traditore.  Ma  inten- 
diamoci sul  punto  delle  cose  inconciliabili.  Se  tutto  ciò  che  non  si  so- 
miglia dovesse  combattersi,  gli  Italiani  dovrebbero  fra  loro  sbranarsi; 
io,  senza  voler  la  confusione  dell'arca  di  Noè,  amo  che  il  bello  e  il  buo- 
no, per  quanto  diversi,  s'accostino  e  si  mettano  in  armonia,  ne  posso 
accordarmi  col  Guerrazzi  che  vorrebbe  tutto  il  mondo  foggiato  ad  im- 
magine sua  od  annientato  ed  in  ciò  veramente  fa  consistere  la  pub- 
blica sua  democrazia.  Comprendo  e  sento  anch'io  i  movimenti  di  sdegno 


—  169  — 

improvviso;  non  capisco  e  non  amo  e  detesto  i  rancori.  Lo  sdegno  può 
talora  sollevare  ad  atti  magnanimi;  il  rancore  partorisce  pensieri  non 
buoni.  Il  Guerrazzi  deponga  una  volta  quel  fiero  broncio  che  lo  fa  parere 
inamabile;  se  alcuni  uomini  vili  gli  han  fatto  ingiuria,  non  è  poi  tutta 
vile  quest'Italia,  e  in  ogni  suo  angolo  più  riposto  battono  ancora  cuori 
generosi  e  splendono  nobili  ingegni,  per  far  pregio  di  quanto  in  lui  è 
grande.  Ma,  s'io  ammiro  l'ingegno  di  lui,  scongiuro  poi  quanto  posso  i 
giovani  a  non  seguirne  tutte  le  traccio,  alcune  delle  quali  mi  paiono 
condurre  lo  spirito  a  sicuro  traviamento.  E  il  Guerrazzi  stesso  ponen- 
dosi la  mano  sul  cuore,  che  ci  si  afferma  e  crediamo  egli  abbia  otti- 
mo, dovrà  egli  primo  convenire  e  deplorare  che  ogni  suo  scritto  non 
sia  sempre  stato  generoso,  e  che  il  diavolo  nero  troppo  spesso  sia  stato 
il  suo  signore  e  padro'ne.  Non  si  può  goder  di  tutte  le  compiacenze  a 
questo  mondo  ;  il  Guerrazzi  stesso  che  odia  la  setta  de'  moderati  ne  do- 
vrebbe esser  persuaso;  non  si  può  servire  con  parole  sataniche  il  genio 
del  male  e  pretendere  la  simpatia  di  quanti  adorano,  invece,  per  quanto 
imbecille  paia,  il  genio  del  bene.  Bisogna  scegliere;  o  scrivere  per  odio, 
0  scrivere  per  amore.  Quando  si  scrive  per  odio,  si  può  sgomentare  il 
lettore  ma  non  intenerirlo,  né  dargli  coraggio  ;  il  Guerrazzi  1'  ha  molte 
volte  dimenticato,  e  fece  male.  Né  io  vorrei  traviare  la  mente  di  alcun 
giovine,  per  lo  studio  di  piaggiate  la  grandezza  di  lui  che  pure  amo  ri- 
conoscere. Ecco  ora  la  lettera  del  Mangini: 

«  Chiarissimo  Signore, 

«  Nella  Rivista  Europea  pubblicata  il  1"  agosto  corrente  ho  letto  il 
Ricordo  biografico  di  F.  D.  Guerrazzi,  e  con  quante  lodi  proseguite  de- 
gnamente questo  mio  concittadino  e  maestro. 

Ma  sopra  alcuni  punti  di  quella  vostra  breve  scrittura  non  ho  po- 
tuto consentire  con  voi;  senza  che  io  voglia  farvene  critica  troppo  se- 
vera, avvegnaché  parlando  del  Guerrazzi  e  delle  sue  fortunose  vicende, 
e  dei  giudizii  spesso  ingiusti  e  maligni  di  cui  fu  segno,  non  sempre  il 
vero  sia  stato  universalmente  fatto  palese,  e  più  volte  ne  sia  stato  par- 
lato, meno  per  iscienza  propria,  derivata  da  serena  intimità  d'antica 
amicizia^  che  per  vaghe  notizie,  raccolte  da  fogli  volanti,  o  da  dicerie 
sparse  dai  molti  avversarli  politici. 

Infatti  coloro,  e  non  son  molti,  che  vissuti  in  lunga  dimestichezza  con 
esso  lui,  ne  conoscono  bene  le  qualità  morali,  mai  hanno  conosciuto  il 
satanico  studiato  disdegno  di  cosa  gentile  che  gli  comparisca  nella 
forma  d' ignobile  debolezza;  né  mai  si  sono  accorti  che  egli,  sentendosi 
forte  contro  gli  emuli  suoi  abbia  mai  voluto  fare  presentire  come  avesse 
potuto  diventare  un  furbo  violento  [alcuni  scritti  di  lui  pur  contengono 
tale  minaccia],  mostro  di  specie  rara  in  questa  nostra  umana   natura. 

La  Toscana  del  1848  non  andò  perduta  perchè  non  fossero  uniti  Cap- 
poni e  Guerrazzi.  Vi  fu  un  Ministero  Capponi,  ma  tutti  sanno  come 
poco  durasse,    inesperto  a  procedere  in  quel  subito  agitarsi  del  popolo 


—  170  — 

a  nuovith;  e  Io  stesso  Capponi  usci  d'ufficio  convinto,  egli  pel  primo, 
come  in  nulla  avrebbe  potuto*  giovare  al  paese,  restando.  Dire  adunque 
che  la  Toscana  ruinò,  tornando  alla  sua  prima  servitù,  per  discordie 
fra  Guerrazzi  e  Capponi,  è  un  cattivo  servigio  che  si  rende  alla  sto- 
ria e  al  nome  di  questi  uomini  egregi.  Neppure  è  vero  che  Niccolini 
fosse  in  quel  tempo  arnese  smesso,  non  avendo  giammai  cessato  lo  il- 
lustre poeta  di  tenere  vivo  negli  italici  petti  lo  amore  di  quella  vera 
libertà  cui  repugnano  i  falsi  accorgimenti  di  potenza  usurpatrice,  vuoi 
civile,  vuoi  chiesastica  [il  sig.  Mangini  non  avverti  bene  le  mie  parole; 
io  parlo  del  Niccolini  nel  i859,  nell'ultimo  nostro  stadio  politico,  e  non 
del  Niccolini  di  dieci  anni  prima]. 

Dopo  avere  parlato  dell'uomo  politico  e  dello  scrittore  preclaro^  Voi , 
Signore,  dell'uomo  privato  prendete  a  discorrere;  e  dite  come  tre  volte 
sia  stato  accusato  il  Guerrazzi  per  uomo  avido  di  subiti  e  illeciti  guadagni. 

Avvertite,  Chiarissimo  Signore,  che  se  talvolta  da  alcuno  con  ingiu- 
►sta  eJ  assurda  censura  si  è  voluto  fargli  un  addebito  per  essersi  ado- 
perato a  formarsi  un  censo  che  lo  rendesse  superiore  al  bisogno,  spesso 
suasore  di  mali  e  cagione  dei  brutti  passi  nel  cammino  della  viltà,  a 
nessuno  è  mai  venuto  in  mente  l'accusa  di  guadagni  illeciti;  né  di  que- 
sto egli  ha  mai  dovuto  scusarsi,  né  col  Mazzini,  né  col  Governo  re- 
staurato della  Toscana,  né  Analmente  nelle  liti  col  Sanna.  [Io  non  ho 
creduto  e  ripeto  che  non  credo  ai  guadagni  illeciti,  ma  è  singolare  che 
si  neghi  anche  l'accusa  fattane  al  Guerrazzi:  oli  sa  si  credevano  leciti, 
che  bisogno  aveva  il  Guerrazzi  di  scolparsi  tre  volte  in  tempi  diversi 
della  sua  agiatezza  ?  Il  mae-^tro  di  grammatica  ha  insegnato  a  me  ed 
avrà  anco  insegnato  al  Guerrazzi  che:  excusatio  non  -petita,  fit  accusatio']. 

Voi  avete  voluto  inopportunamente  toccare  questa  piaga  sanguino- 
lenta. Meglio  informato,  avreste  scritto  in  diverso  modo,  annunziando, 
come  i  tribunali  sentenziassero  in  ultimo  che  Guerrazzi  possedeva  le- 
gittimamente i  titoli  di  cui  parlate.  Avreste  potuto  aggiungere  come  in 
quel  malaugurato  processo  Guerrazzi  desistesse  non  per  timore  di  suc- 
combenza  ma  per  amore  del  nipote,  divenuto  figlio  adottivo,  e  per 
amore  de'ligli  di  lui;  famiglia  carissima  in  mezzo  alla  quale  vive^  co- 
gliendo dal  sorriso  e  dalle  carezze  dei  nipotini  i  conforti  che  non  trova 
spesso  nella  patria  disamorata.  [Io  credo  aver  detto  abbastanza  per 
mostrare  che  non  avevo  dato  retta  ai  nemici  del  Guerrazzi;  e  solo  mi 
meraviglio  ch'egli  si  dolga  amaramente  di  me,  per  avere,  non  potendo 
tacere  d'un  fallo  notorio,  voluto  interpretarlo  nel  modo  più  benevolo. 
Io  termino  quindi  con  un  solo  augurio;  che  gli  altri  nemici  de'quali  il 
Guerrazzi  si  duole,  e  a  motivo  de'quali  egli  tinge  co,-ì1  spesso  nel  fiele 
la  sua  penna^  non  siano  niente  più  feroci  di  me,  che  non  lo  metto, 
senza  dubbio,  sugli  altari,  ma  che  lo  desidero  di  cuore  molto  più  ono- 
rato ch'egli  non  sia  e  molto  più  contento,  ch'egli  non  si  mostri.]  » 

Livorno,  agosto  \%12.    ^ 

D.  Ant.  M.^.NGi!yi. 


VII. 


ANDREA  MAFFEI. 


La  parte  orientale  dell'  Italia  superiore  che  dava  all'  antica 
Roma  tre  de'  suoi  più  grandi  scrittori  con  Livio  padovano,  Vir- 
gilio mantovano  e  Catullo  veronese,  fra  tutte  le  regioni  della 
penisola,  fu  nel  secolo  nostro  la  più  ricca  di  veri  poeti. 

Il  Monti  ferrarese,  il  Foscolo  di  famiglia  veneziana,  il  Pinde- 
monte,  il  Betteloni,  la  Bon-Brenzoni  e  l' Aleardi  Veronesi,  il 
Revere  ed  il  Dall'  Ongaro  istriani,  il  Tommaseo  dalmata,  il  Car- 
rer  ed  il  Canini  Veneziani,  il  Cabianca  vicentino,  lo  Zanella 
padovano,  il  Gazzoletti  ed  il  Prati  trentini  attestano  mirabil- 
mente come  sia  in  quella  parte  d' Italia  innato  il  sentimento 
della  poesia,  e  di  una  poesia  piena  di  grazia,  voluttà  e  melodia 
che  si  potrebbe  dir  greca,  se  il  Petrarca  ed  il  Bellini  non  fossero 
pur  nati  in  Italia.  E,  in  quella  regione  d' Italia  privilegiata  dalle 
Muse,  nacque  pure  Andrea  Maffei. 

Oriundo  di  Verona,  di  quella  stessa  nobile  famiglia,  che  diede 
nel  secolo  passato  all'  Italia  il  marchese  Scipione  l' autore  della 
Vero?ia  illustrata  e  della  Merope,  nacque,  or  volge  l'anno  settan- 
tesimo, il  principe  de'  nostri  poeti-traduttori,  a  Riva  di  Trento  sul 
lago  di  Garda,  luogo  nativo  della  madre  sua.  Gli  studii  elementari 
compì  a  Bologna  sotto  il  chiaro  letterato  Paolo  Costa,  che  lo  in- 
namorò, per  tempo,  delle  classiche  eleganze.  Quindi  il  padre  lo 
spediva  per  due  anni  a  Monaco  di  Baviera,  presso  uno  zio,  il 
padre  Giuseppe  MafFei,  autore  del  noto  Compendio  della  storia  della 
letteratura  italiana.  In  Baviera^,  il  giovinetto  Andrea  si  erudi  nel 
tedesco^   dopo  avere,   non  pur   trilustre,  appresa^  in  Italia,  l' arte 


—  172  - 

de' versi;  del  qual  ultimo  fatto  egli  stesso  ci  informa,  in  un  canto 
indirizzato  al  conte  Matteo  Thunn  : 

Quante  care  memorie  alla  mia  prima 

Gioventù  mi  richiamano  i  pensieri 

Or  che  ti  volgo,  o  mio  gentil,  la  rima  ! 

Tu  sciolto  ancor  non  eri 

Dalla  tenera  infonzia,  ed  io  di  poco 

Il  mio  decimo  terzo  anno  varcava; 

E  già  del  sacro  foco 

Qualche  splendor  la  diva 

Creatrice  del  bello  in  me  destava. 

Pallida  aurora  che  di  sol  fu  priva  ! 
E  m'  inspirava  la  trilustre  Musa 

Le  valli  che  la  tua  ròcca  paterna,         , 

Quasi  invitta  reina,  han  circonfusa. 

Era  la  neve  eterna 

Che  v'  inghirlanda  le  nevose  creste, 

Era  il  roseo  mattin  che  vi  colora 

I  boschi  e  le  foreste 

Gaia  materia  al  canto. 

Poi  che  gli  afifanni  non  m'  aveano  ancora 

La  trista  ammaestrato  arte  del  pianto. 

Il  padre  fu  ben  sollecito  a  ricordargli  il  vecchio  adagio:  carmina 
non  dant  panem  (1):  ma  di  non  averlo  ascoltato,  il  poeta  non  si 
pente;  onde,  pur  fra  i  travagli  della  vita^.  può  consolarsi  cantando  : 

Voce  amica  era  quella,  e  pur  fallace  ! 

Chi  per  avido  intento  ama  la  Musa, 

Pianga  i  giorni  perduti  e  il  lungo  errore. 
Ma  chi  stanca  ha  la  vita  e  triste  il  core, 

Chiegga  a  lei  ciò  che  il  mondo  gli  ricusa. 

Ed  ai  mali  otterrà  conforto  e  pace. 

Se  il  MafFei  avesse  passato  tutta  la  sua  adolescenza  in  Italia,  e 
s'egli  avesse  appreso  il  tedesco  alcuni  anni  più  tardi,  non  avremmo 


(1)  Il  soggetto  del  primo  canto  del  bel  poema  contemporaneo  Alberto 
di  Francesca  Lutti,  distinta  alunna  del  Maffei,  fu  forse  inspirato  alla 
valente  poetessa  da  un  episodio  della  vita  del  maestro. 


—  173  — 

ora  forse  le  sue  traduzioni;  il  soggiorno  di  Monaco  lo  spinse  in- 
vece, a  divenire  traduttore  precoce  ;  e  le  lodi  accordate  a'  suoi 
primi  saggi,  lo  incoraggiarono  a  perseverare  per  molti  anni  in 
queir  unica  via.  Tutta  la  potenza  del  suo  ingegno  poetico  fu 
pertanto  concentrata  allo  studio  di  tradur  bene  nella  nostra  favella 
i  grandi  poeti  stranieri;  la  fantasia,  l'affetto,  il  gusto,  tutte,  in 
somma,  le  proprie  qualità  di  poeta  ei  pose  in  servigio  de'  capo- 
lavori che,  encomiato  alle  prime  prove,  egli  proseguiva  ad  inter- 
pretarci. Ma  vennero  anco  per  lui,  nella  vita,  malgrado  il  largo 
censo,  e  il  nome  illustre,  i  giorni  amari,  e  i  dolori  inattesi  e 
profondi.  Allora  il  cuore  pieno  d' angoscia  ebbe  bisogno  d'  altro 
sfogo  che  il  conforto  di  diffondere  gli  altrui  lamenti,  e  gemette, 
invece,  per  sé,  in  versi  dolorosi.  Se  non  che  egli  domandò  invano 
alla  sua  musa  tutta  l'agilità  che  essa  gli  avrebbe,  senza  dubbio, 
consentita  negli  anni  primi,  e  sentì  perciò  talora  rispondergli  lenta 
ed  affaticata  quella  parola  che  egli  avea  trovata  sempre  cosi 
obbediente  nel  rendere  eleganti  i  pensieri  e  gli  affetti  de' poeti 
d'oltremonte.  Questo  contrasto  con  la  sua  musa  fatta  ritrosa,  il 
poeta  ci  rappresenta  assai  felicemente  in  un  suo  elegante  sonetto 
dell'  età  matura,  ov'  ei  risponde  a  chi  gli  domanda  per  qual  mo- 
tivo non  abbia  creato  di  suo  : 

Forse  ne'  tuoi  verd'  anni  impeto  e  vena 

Al  crear  ti  fallirò?  e  non  sapesti 

Che  dar  con  lenta  diuturna  pena 

Al  pensiero  non  tuo  l'itale  vesti? 
Rispondo:  S'io  m'avessi  ingegno  e  lena. 

Se  vanni  al  proprio  volo  agili  e  presti, 

Non  so  ;  ma  i  fonti  eterni,  onde  la  piena 

Sgorga  d'  ogni  saver,  mi  furo  infesti. 
Non  osai,  peritoso,  alzar  le  penne, 

Pure  attendendo  che  1'  età  matura 

Valide  le  facesse  ed  animose. 
Ma  l'età  le  inflacchi;  ne  mi  sorvenne 

Che  dal  cespo  di  maggio  escon  le  rose, 

Non  dalle  glebe  che  dicembre  indura. 

Tuttavia  questo,  come  parecchi  altri  sonetti  (1),  ne' quali  il  poeta 
sfoga  un  affetto  profondamente  sentito,  rivelano  abbastanza  quanta 


(1)  Si  ti'ovano  nel  primo  de' tre  volumi  di   Versi  editi  ed  mediti  del 
cav.  Andrea  Maffei,  pubblicati  da  Felice  Le  Monnier,  Firenze  1858-1860. 


-  174  - 
capacità   di   poesia  in  lui  fosse,  e  ci  dicono  pur  la   vera   cagione 
per  cui  egli  riuscì  cosi  poetico  traduttore  de'  grandi  poeti. 

Studiando  col  prof.  Paolo  Costa;  il  Maffei  avea,  tra  i  classici 
posto  amore  specialmente  a  Dante,  e  quindi  al  grande  imitatore 
dell'Allighieri,  Vincenzo  Monti.  Il  Monti  poi  ammirò  egli  special- 
mente come  traduttore  dell'  Iliade.  Sopra  questi  esempii,  avendo 
pur  appresa  in  Germania  la  lingua  tedesca,  tolse  quindi  a  fare, 
poco  più  che  trilustre,  una  parafrasi  poetica  degli  Idilli  di  Salo- 
mone Gessner,  che  indi  a  pochi  mesi  dovea  veder  la  luce  in  Mi- 
lano. Ma,  intorno  al  modo  con  cui  il  giovinetto  Maffei  fu  intro- 
dotto nella  repubblica  delle  lettere,  giova  udire  l'  interessante 
racconto,  che,  in  una  introduzioncella,  premessa  all'ultima  edi- 
zione degli  Idilli  di  Gessner,  dei  Poemi  di  Moore,  e  dell'Arminio 
e  Dorotea  di  Goethe  tradotti  dal  Maffei  (1),  ci  fa  il  signor  Eugenio 
Checchi:  «  S'era  in  sul  principiare  dell'anno  mille  ottocento  di- 
ciotto.  Il  libraio  Stella  di  Milano,  un  bel  vecchione  tagliato  al- 
l'antica, uno  dei  pochi  che  a  que'lumi  di  luna  non  confondessero 
r  arte  tipografica  e  libraria  con  la  pirateria  marinaresca,  se  ne 
stava  un  bel  giorno  seduto  sur  una  vecchia  poltrona  a  braccioli, 
con  la  testa  china  sopra  i  suoi  scartafacci,  quando  alzati  gli  occhi, 
vide  entrar  nella  stanza  un  giovanetto  sconosciuto.  Era  un  gio- 
vanetto leggiadro  e  simpatico:  aveva  neri  i  capelli  e  per  natura 
inanellati;  svelta  e  signorile  la  figura,  l'aria  timida  e  imbaraz- 
zata, come  di  chi  abbia  a  dire  qualche  cosa  e  non  l'osi;  ma  insieme 
alla  timidezza  e  all'  imbarazzo,  su  quel  viso  quasi  infantile  avresti 
potuto  leggere  un  non  so  che,  che  somigliava  a  una  maturità  di 
senno,  a  una  severità  di  pensieri,  quali  a  sedici  anni  si  trovano  in 
uno  su  diecimila.  Dopo  poche  parole  così  in  aria,  si  dovette  venire 
all'  argomento  ;  e  il  giovane  arrossendo  cavò  di  tasca  un  mano- 
scritto, e  fece  capire  che  erano  versi,  versi  scaturiti  proprio  dal 
suo  cervello.  Sorrise  lo  Stella;  né  avendo  cuore  di  rimandare  li 
per  li  con  Dio  il  nuovo  arrivato,  disse  glie  li  lasciasse  pure  ;  li 
farebbe  vedere  a  qualcheduno  dell'  arte  ;  tornasse  per  la  risposta 
fra  qualche  giorno.  E  il  giovanetto  tornò  ;  e  lo  Stella  serio  serio 
volea  persuaderlo  a  confessare  di  chi  fossero  quei  versi  che  Vin- 
cenzo Monti,  al  quale  gli  aveva  mostrati  non  si  stancava  di  lodare, 
non  come  opera  di  fanciullo,  ma  d'uomo  fatto  e  maturo  alle  disci- 
pline letterarie.  Il  giovanetto  rispose  con  voce  commossa  che  quei 


(1)  Firenze,  Successori  Le  Monnier,  186S. 


-  175  — 
versi  erano  suoi,  e  che  nessuno  ci  aveva  messo  le  mani  ;  e  cosi 
dicendo  qualche  lacrima  di  stizza  gli  bagnava  le  gote.  Credette  lo 
Stella  di  cascar  dalle  nuvole  ;  abbracciò  il  giovanetto,  lo  condusse 
difilato  in  casa  del  Monti,  il  quale  lo  accolse  con  1'  affetto  di  un 
amico,  la  tenerezza  d'  un  padre,  con  l'amorevolezza  d'un  maestro.  » 
Ed  al  Monti  Andrea  Maffei  si  rivolge  più  tardi  nella  forma  se- 
guente in  un  suo  sonetto  commemorativo  : 

Sacro  a  me  come  padre  ;  e  se  la  vita 
Io  non  ebbi  da  te,  di  miglior  dono 
Che  la  vita  non  s'a,  grato  io  ti  sono  : 
Sprone  all'  opre  mi  fosti,  esemplo,  aita. 

Quando  gli  Idilli  del  Gessner  tradotti  dal  Maffei  adolescente 
vennero  pubblicati,  coi  tipi  del  Pirotta,  in  Milano,  nel  1818,  i 
giornali  si  trovarono  unanimi  nella  lode  del  giovine  poeta  tren- 
tino. La  Biblioleca  ilaliana  battezzò  quella  versione  con  l'appella- 
tivo di  una  bella  infedele,  ma,  per  insistere  compiacente  a  mostrare 
le  numerose  bellezze  che  l' ingegno  del  traditore  poeta  vi  avea 
sparse  a  piene  mani.  E  il  libro  lodato  fu  presto  venduto  e  ristam- 
pato più  volte  di  seguito,  di  maniera  che  il  suo  autore  si  trovò 
celebre  a  16  anni.  Come  mirabile  artefice  di  versi,  vivo  il  Monti, 
dopo  il  traduttore  dell'Iliade,  ei  veniva  ricordato  come  primo; 
perciò  la  Biblioteca  italiann,  nell'aprile  dell'anno  18:27,  prenunziando 
la  pubblicazione  della  Sposa  di  Messina,  si  esprimeva  cosi  :  «  Noi 
sentiamo  che  il  cav.  Maffei  adempirà  in  parte  questo  difetto,  pub- 
blicando fra  poco  la  Sposa  di  Messina,  tradotta  con  quella  eleganza 
di  versi  armoniosi  che  oramai  tra'crescenti  poeti  sembra  quasi 
in  Italia  riservata  a  lui  solo  »:  il  Monti  stesso  poi,  nel  1823,  s'as- 
sociava il  Maffei,  per  tradurre  alcune  parti  dell'episodio:  Matilde 
e  Toledo  della  Tunisiado  di  Ladislao  Pirker  patriarca  di  Vene- 
zia, facendone  in  alcun  modo  il  proprio  competitore.  E  lo  stesso 
Monti  ancora  l'aveva  già  prima  animato  a  tradurre  la  Messiade 
di  Klopstock,  la  quale  egli  smesse  a  metà  del  lavoro,  preso  dallo 
scrupolo  di  non  riuscir  traduttore  abbastanza  fedele.  Tuttavia  i 
frammenti  che  di  quella  versione  pubblicò  dapprima  la  Biblioteca 
itai.na  ed  il  saggio  che  ne  fece  quindi  conoscere  Achille  Mauri 
premettendovi  un  suo  discorso  intorno  a  Klopstock,  fecero  desi- 
derare il  rimanente.  Morto  il  Monti,  la  palma,  come  ad  artista  del 
verso,  fu  conceduta  al  Maffei,  né  solo  dal  volgo,  ma  dagli  stessi 
poeti.  Basti  citare  fra  gli  altri  il   Niccolini,   che,    nel   novembre 


—  176  — 

del  1810,  scriveva  ad  Andrea  Maffei  :  «  Chi  può  nell'Italia  venir 
con  voi  a  paragone  di  versi  ?  »  e,  nel  marzo  del  1844,  torna  a 
scrivergli,  che  egli  sa  fare  i  versi  «  meglio  di  qualunque  altro  in 
Italia.  » 

Intermessa  la  versione  della  Messiade  di  Klopstock,  il  Maffei 
si  volse  a  tradurre  un  poeta  più  rispondente  al  proprio  genio,  nel 
quale  l'affetto  è  armonia.  Si  dedicò  pertanto  ai  drammi  di  Fe- 
derico Schiller,  e,  da  prima,  alla  Sposa  di  Messina,  come  quella 
forse  che  riteneva  maggiormente  delle  forme  classiche  che  il  Maffei 
aveva  allora  più  famigliari.  La  Sposa  di  Messina  apparve  in  Milano 
nel  1827,  preceduta  da  discorso  di  Francesco  Ambrosoli,  il  suo  en- 
comiatore nella  Biblioteca  italiana.  La  miglior  lode  di  questo  la- 
voro giovanile  del  Maffei  trovasi,  parmi,  nel  conto  che  ne  faceva 
il  poeta  Platen,  grande  stilista,  il  quale,  ragionandone  col  Nfc- 
colini,  non  dubitò  di  affermare  che  gli  paresse  più  bella  in  ita- 
liano che  nell'originale  tedesco  (1). 

Nella  sua  prefazione  alla  versione  del  Paradiso  perduto  del  Mil- 
ton, il  Maffei  ci  comunica  il  principio  che  egli  ha  sempre  professato 
e  seguito  come  traduttore:  «  Tanto  in  questa,  egli  scrive,  come  nelle 
altre  mie  traduzioni  dal  tedesco  e  dall'  inglese,  mi  sono  studiato,  per 
quanto  le  mie  forze  bastarono,  di  indovinare  come  i  grandi  poeti 
stranieri,  se  per  nostra  ventura  fossero  nati  italiani,  avrebbero  si- 
gnilicato  i  loro  pensieri.  Dove  ho  trovato  la  frase  e  la  parola  acconce 
ad  esprimere  originalmente  il  concetto  originale,  non  mi  giovai  d'al- 
tri partiti  ;  ma  credetti  buon  officio,  anzi  carità  fraterna  di  chi  tra- 
duce la  poesia  in  poesia,  lo  scostarmi  non  dal  pensiero,  non  dalla 
immagine,  ma  dalla  espressione,  ogni  qualvolta  mi  si  presentava 
incerta,  oscura,  o  repugnante  all'indole  della  nostra  favella.  »  E  nes- 
suno vorrà  dire  che  questo  non  sia  il  miglior  modo  di  tradurre 
in  versi  da  una  lingua  straniera,  quando  non  solo  non  si  accetti 
la  sentenza  di  Voltaire  «  les  poétes  ne  se  traduisent  pas  »,  ma  si 
tema  che  il  tradurre  in  prosa  scemi  troppa  poesia  all'  originale, 
mentre  io  mi  trovo,  invece,  ostinatissimo  nella  singolare  opinione 
che  il  modo  più  sicuro  di  rendere  al  poeta  straniero,  quando  esso 
sia  originale,  il  suo,  sia  il  recarlo  tradotto  in  una  prosa  poetica  ; 
la  traduzione  in  prosa  mi  sembra  una  bilancia  sicura  dell'origi- 
nalità di  un  poeta  straniero  ;  un  poeta  mediocre,  la  cui  arte  con- 
siste tutta  nel  velare,  con  un  pò"  di    grazia.,    immagini  note  sotto 


(1)  Cfr.  Vannucci,  Ricordi  della  Vita  e  delle  opere  del  G.  B  Niccolini. 


-  177  - 
un  falso  aspetto  di  novità,  riesce  intraducibile  in  prosa;  un  grande 
poeta  invece  si  ama  veder  rivestito  della  sua  veste  più  semplice, 
più  naturale,  più  propria,  più  vicina  ad  esso,  che  la  prosa  sola  può 
dare.  Il  traduttore  in  versi,  o  è  un  verseggiatore  infelice,  e  scortica 
addirittura  il  povero  autore  ;  o  verseggia  con  la  maestria  di  un 
Andrea  MafFei,  e  ci  fa  un  italiano  del  poeta  inglese  o  tedesco,  come 
confessa  appunto  di  aver  voluto  fare  il  MafFei.  Egli  può  andar, 
senza  dubbio,  superbo  di  avere  ottenuto  l'arduo  suo  intento,  e  af- 
fratellati in  una  forma  sola  poeti  disparati,  come  Byron  e  Klop- 
stock,  Schiller  e  Shakespeare,  Milton  e  Goethe  ;  d'aver  trovato 
uno  stile  suo  poetico  ornato,  elegantissimo  e  forzatolo  ad  accogliere 
in  modo  portentoso  i  più  alti  e  divers-i  poemi  della  musa  straniera. 
Ma  ciò  che  in  un  poeta  costituisce  il  carattere,  il  suo  stile  poetico, 
difficilmente  si  rende  da  un  traduttore  in  versi,  che  s' innamori 
d'un  poeta  solo,  e  quello  intenda,  e  di  quello  s'investa,  e  più  che 
farselo  suo,  si  faccia  egli  di  lui  ;  ci  pare  poi  impossibile  a  rendersi 
da  chi  ami  insieme  e  coltivi  e  traduca  più  d'un  poeta. 

Si  citano  l'Eneide  del  Caro  e  Vlliade  del  Monti  come  opere 
d'arte  perfette;  certo  chi  le  legga,  senza  conoscere  gli  originali, 
può  di  quella  lettura  appagarsi  ;  vi  è  un'aura  virgiliana  nell'una 
ed  un'aura  omerica  nell'altra  che  lega  insieme  e  dissimula  le  stesse 
infedeltà  ;  ma  Omero  e  Virgilio  non  vi  sono. 

Cosi,  nelle  versioni  del  MafFei,  vi  è  un'aura  di  Schiller  e  di 
Byron,  ma  Schiller  e  Byron  non  rivivono  in  esse. 

Io  confesso  schietto  che  molte  parti  delle  versioni  dei  drammi 
di  Schiller  trovo  più  attraenti  dell'originale,  per  quanto  può  esser 
concesso  ad  un  italiano  di  giudicarne  ;  il  Platon  si  pronunciò  sulla 
Sposa  di  Messina  ;  e  lo  stesso  giudizio  si  potrebbe  forse  ripetere 
per  la  Giovanna  D'Arco,  per  la  Maria  Stuarda,  e  pel  Don  Carlos. 
É  dunque  merito  immenso  pel  MafFei  l'essere  riuscito,  in  que'  com- 
ponimenti meglio  rispondenti  all'indole  di  lui  più  portata  alla  lirica 
che  alla  drammatica,  a  tradurre  non  solo  ma  ad  emulare  e  talora 
vincere  il  suo  autore.  Ma,  oltre  che  Schiller  non  è  tutto  là  den- 
tro, in  que'  componimenti  stessi  vi  sono  parti  ove  il  MafFei  è  pre- 
sente, ma  Schiller  non  si  ritrova.  Noi  gli  dobbiamo  grazie,  in 
ogni  modo,  per  la  fatica  durata,  nelle  sue  versioni,  che,  divenute 
classiche,  ci  hanno  reso  famigliari  i  grandi  poeti  settentrionali,  i 
quali  0  non  tradotti  o  tradotti  senza  splendore  di  forma  avremmo 
forse  ignorati;  ed  io,  più  d'ogni  altro,  che,  riscontrando,  gio- 
vinetto, la  Giovanna  D'Arco  di  Schiller  tradotta  dal  MafFei,  col 
testo  originale,  ho  incominciato  ad  imparare  quel   po'  di  tedesco 

Ricordi  IJiograkici  ''2 


—  178  - 

di  cui  ora  mi  valgo,  avrei  mala  grazia  a  lagnarmi  che  il  Maffei 
abbia  tradotto  in  quella  forma  che  a  lui  die  gloria,  ed  a  me  van- 
taggio. Ma,  s'io  credo  fermamente  che  non  si  potrebbe  tradurre  in 
verso  meglio  di  quello  che  il  Maffei  abbia  fatto,  voltando  in  nostra 
lingua  Schiller,  Milton  e  Moore,  e  s'io  sono  convinto  che  il  Maffei 
aggiunse  una  grande  ricchezza  alla  nostra  letteratura  poetica  nazio- 
nale con  le  sue  versioni,  torno  a  conchiudere  che  il  suo  esempio 
non  mi  sembra  imitabile  da  altri,  a  meno  che  si  ritrovi  chi  ab- 
bia il  genio  elegante  del  poeta  di  Riva,  il  quale  sappia,  assimi- 
landolo a  sé,  dare  l'attrattiva  di  un  poema  originale  italiano  al 
poema  straniero,  cosi  cìie  se  il  poema  straniero  si  trasforma,  cer- 
tamente non  si  deformi.  Ma,  perchè,  a  chiarire  una  simil  que- 
stione, può  valer  meglio  un  esempio  che  tutta  una  discussione,  io 
chiedo  licenza  di  recare  un  saggio  tolto  dalla  bella  scena  di  ricon- 
ciliazione fra  i  due  fratelli  Cesare  ed  Emmanuele  nel  primo  atto 
della  Sposa  di  Messina.  La   scena,  nell'originale,  principia  cosi: 

Don  Cesare:  Tu  sei  il  fratello  più  vecchio;  parla  tu;  io  cedo, 
senza  vergona,  innanzi  al  primogenito. 

Don  Manuel  :  Di'  tu  qualche  cosa  d'amabile  ed  io  volentieri  se- 
guirò il  nobile  esempio  che  mi  dà  il  più  giovine. 

Don  Cesare  :  No,  perchè  io  mi  riconosco  come  il  [)iù  colpevole, 
o  mi  sento  più  debole. 

Do7i  Manuel:  Chi  conosce  Don  Cesare,  non  gli  attribuisce  pic- 
colo animo;  s'egli  fosse  più  debole,  parlerebbe  più  orgoglioso. 

Don  Cesare  :  Non  hai  tu  di  me  minor  concetto  ? 

Don  Manuel:  Tu  sei  troppo  superbo  per  esser  vile,  ed  io  lo  son 
troppo  per  mentire. 

Don  Cesare  :  Il  mio  nobile  cuore  non  sopporta  il  dispregio.  Tut- 
tavia tu,  anche  nel  più  forte  invelenirsi  della  pugna,  hai  fatto 
onesto  pensiero  di  tuo  fratello. 

Don  Manuel:  Tu  non  vuoi  la  mia  morte;  io  n'ho  prove.  Un 
monaco  ti  si  propose,  per  uccidermi  a  tradimento  ;  tu  hai  punito 
il  traditore. 

Don  Cesare:  Se  io  t'avessi  prima  conosciuto  cosi  leale,  molte 
cose  non  sarebbero  avvenute. 

Don  Manuel:  E  se  avessi  saputo  che  il  tuo  cuore  era  così  di- 
sposto alla  pace,  io  avrei  pure  risparmiato  molti  afflmni  alla  madre. 

Don  Cesare:  Tu  mi  fosti  dipinto  molto  più  orgoglioso. 

Don  Manuel  ■■  E  la  maledizione  de'  grandi  che  gl'infimi  abusino 
del  loro  orecchio  aperto. 


—  170  — 
Don  Cesare:  Si,  si.  La  colpa  è  tutta  de'  servi... 
Don  Manuel:  Che  lianno  disgiunti  in  acre  odio  i  nostri  cuori... 
Don  Cesare:  Che  spar.<ero  voci  inique... 
Don  Manuel:  Ogni  cosa  avvelenarono  con   una  falsa   interpre- 
tazione. . . 
Don  Cesare:  Alimentarono  la  piaga,  la  quale  dovean  sanare... 
Don  Manuel  :  Avvivarono  la  fiamma,  che  potevano  spegnere. 
Don  Cesare  :  Noi  eravamo  sedotti,  ingannati.  .  .  . 
Don  Manuel:  Cieco  strumento  delle  altrui  passioni. 
Don  Cesare  :  Se  ciò  è  vero,  tutto  il  resto  è  menzognero. 
Don  Manuel  :  E  falso  ;  la  madre  lo  dice  ;  credilo  ! 
Don  Cesare  :  Io  voglio  dunque  stringere  codesta  mano  fraterna. 
Don  Manuel:  Ed  io  non  ho  al  mondo  cosa  alcuna  più  cara. 

(I  due  fratelli  si  stringono  vivamente  la  mano). 

La  scena  drammatica  nel  testo  tedesco  è  forse  più  incalzante  e 
caratteristica  ancora;  ed  ecco  ora  quale  aspetto  diverso  essa  pi- 
glia nella  versione  poetica  del  Maffei  : 

Cesare       Tu  se'  d'anni  maggior,  parla  primiero. 

Io  cedo  al  primo  nato. 
Emanuele  Ove  tu  parli 

Un'amica  parola,  io  non  rifiuto 

Seguir  l'esempio  del  minor  fratello. 
Cesare       No;  più  di  te  m'incolpo,  e  di  men  forte 

Animo  mi  conosco. 
Emanuele  Oh  chi  potrebbe 

Fiacco  accusarti  e  povero  di  cuore  ! 

Se  tu  lo  fossi,  più  superba  fora 

La  tua  favella. 
Cesare  È  questo,  è  veramente 

Questo  il  concetto  che  di  me  ti  fai? 
Emanuele   Non  asconde  viltà  la  tua  grand'alma, 

E  la  mia  non  discende  alla  menzogna. 
Cesare        Anzi,  nobile  tu,  mentre  più  calde 

N'agitavano  l'ire,  hai  del  fratello 

Nobilmente  sentito. 
Emanuele  '  E  tu  non  brami 

La  mia  morte.  Io  lo  seppi:  un  eremita 

La  sua  man  ti  profferse  a  trucidarmi; 


—  180  — 

Tu^  generoso,  il  traditor  punisti. 
Cesare        Se  tale  io  ti  sapea,  molte  sventure 

Non  sariano  avvenute. 
Emanuele  E  se  la  mite 

Indole  che  palesi  io  divinava. 

La  genitrice  non  avria  sofferto 

Tanti  travagli. 
Cesare  Più  superbo  molto 

Tu  mi  fosti  dipinto. 
Emanuele  E  doloroso, 

Che  la  voce  degl'infimi  sussurri 

All'orecchio  de'  grandi. 
Cesare  E  di  costoro 

Tutta  la  colpa. 
Emanuele  I  vili  han  suscitato 

Le  comuni  discordie,  avvelenando 

Poche  incaute  parole. 
Cesare  E  la  lerita 

Che  doveano  sanar,  n'esacerbaro. 

Ingannati  noi  fummo, 
Emanuele  Lo  stromento 

I  Di  private  vendette.  '    ■       '  . 

Cesare  Empi  son  tutti... 

Emanuele    E  menzogneri.  Lo  dicea  la  madre; 

Osi  crederlo  tu  ? 
/    Cesare  Stringere  io  voglio 

La  .fraterna  tua  destra: 
Emanuele  E  la  più  cara 

Cosa  eh'  io  m'abbia. 


Evidentemente,  nella  versione  del  Maffei,  questa  scena  acquista 
in  solennità  quello  che  perde  in  naturalezza,  ed  ih  eleganza  quello 
che  perde  in  rapidità.  Sarebbe  stato  agevole  all'ingegno  del  Maffei 
il  far  qualche  cosa  di  diverso  ;  ma,  ei  non  volle .;  egli  s'adagia 
troppo  volentieri  e  troppo  bene  nelle  sue  belle  armonie,  per  rifiu- 
tare questi  ozii  alla  sua  musa  canora  ;  perciò,  ove  il  poeta  straniero 
canta,  l'italiano  canta  meglio  ;  ove  il  poeta  straniero  parla,  l'italiano 
canta  ancora;  e  ciò  poteva  bene  allettar  l'orecchio  del  lirico  Pla- 
ten;  ma,  s'io  non  m'inganno,  rende  men  facile  l'intendimento  delle 
bellezzfi  drammatiche  riposte  nell'originale,  mentre,  per  un  altro 
compenso,  poi,  ne  vela,  col  prestigio  di  un  verso  sempre  nobile  e 


—  181  — 

casto,  le  poche    trivialità   sfuggite   all'autore    inglese  o    tedesco,, 
ch'egli  abbia  impreso  a  tradurre. 

Ma,  basti  di  ciò,  in  un  ricordo  biografico.  La  pubblicazione  della 
Sposa  di  Messina  del  MafFei,  universalmente  lodata  tosto  che  ap- 
parve, destò  l'invidia  di  un  oscuro  letterato,  il  signor  Antonio  Caimi. 
il  quale  incominciò  a  denigrare  il  lavoro  del  poeta  trentino,  per 
pubblicare,  nel  novembre  dell'anno  1828,  egli  medesimo,  una  sua 
pessima  e  barbara  traduzione,  che  fu  accolta  tra  i  fischi  e  le  ri- 
sate, press'  a  poco  come  il  tentativo  fatto,  or  sono  tre  anni,  dal 
grammatico  italo-franco  Luigi  Dèlatre,  nella  Gazzetta  d'Italia,  di 
superare  il  MafFei,  mostrandogli  come  s'avesse  a  tradurre  in  versi 
un  passo  della  Maria  Stuarda.  Un  altro  critico,  noto  per  l'inge- 
gno pronto  e  vivace,  per  la  varietà  delle  letture  fatte  e  ricordate, 
ma,  più  ancora,  per  le  ardite  intemperanze  e  la  briosità  scapigliata 
delle  sue  polemiche,  il  signor  Vittorio  Imbriani,  che  si  mise  nelle 
lettere  senza  alcun  ideale,  e  però  le  serve  a  capriccio,  dopo  essersi 
provato  invano  a  scalfire  il  granito,  sul  quale  posa  immortale  l'im- 
mensa figura  di  Goethe,  si  diverti  a  novellare  che  l'Aleardi  porta 
una  maschera,  che  lo  Zanella  è  un  uomo  da  nulla,  che  il  Mafif'ei ,  il 
quale  da  cinquant'anni  traduce  con  lode  autori  tedeschi,  non  sa  di  te- 
desco, e  che  noi  tutti,  i  quali  abbiamo  la  debolezza  di  compiacercene, 
siamo  vii  gregge  ignaro  d'ogni  arte.  Il  pubblico  tuttavia,  avendo 
già  fatto  giustizia  sommaria  di  quelle  bizzarie  di  una  mente,  per 
dire  il  vero,  molto  più  sviata  e  balzana  che  trista,  dimenticandoli; 
io  qui,  quanto  al  MafFei,  ripeterò  soltanto,  come,  se  infedeltà  si 
trovano  nelle  sue  versioni,  le  ha  egli  stesso  volute,  per  quel  prin- 
cipio che  ha  professato  apertamente  nella  sua  prefazione  al  Milton, 
e  per  la  difficoltà  di  far  sempre  bene  corrispondere  la  colta  frase 
de'  nostri  classici  da  lui  studiata,  alla  semplice  e  naturale  espres- 
sione de'poeti  stranieri.  Quanto,  in  questo  studio,  lo  scrupoloso 
MafFei  si  tormentasse,  possiamo  rilevarlo  dall'epistolario  del  Nic- 
colini  pubblicato  da  Atto  Vannucci,  ove  assistiamo  particolarmente 
alle  smanie  che  il  nostro  poeta  elegantissimo  provava  nella  lunga  ed 
ardua  fatica  di  voltare  in  italiano  il  Waltenstein,  la  più  famigliare, 
se  cosi  può  dirsi,  delle  tragedie  Schilleriane,  fatica  che  dovea  pur 
riuscire  funesta  alla  salute  deiregregio  traduttore,  il  quale,  nel 
vero,  pubblicato  il  Waltenstein,  si  trovò  come  esausto  di  forze.  Ma, 
nell'agosto  del  1844,  cercato  e  trovato  refrigerio  ai  bagni  di  Reco- 
aro,  potè  quindi  rimettersi  tosto  all'opera  del  tradurre,  che  non  si 
discontinuò  fino  all'anno  1857  in  cui  diede  alla  luce  in  Torino  la 
prima  edizione  del  suo  Paradiso  perduto,  ristampato  sei  anni  dopo. 


—  182  — 
in  Firenze,  la  città  cortese  che  l'avea  più  volte  ospitato,  e  cui 
egli  dedicò  pertanto  questo  suo  insigne  lavoro  di  poesia  (1)  Undici 
anni  avea  egli  posti  a  voltare  nel  suo  magistral  verso  italiano  le 
vergini  armonie  del  gran  cieco  britanno,  e  più  volte  la  mano  stanca 
gli  era  caduta  sul  libro  immortale,  disperando  egli  di  condurre  al 
suo  fine  la  nobile  impresa;  e  dell'opera  incominciata,  interrotta,  e 
ripresa  e  alfine  compiuta  ei  canta  con  efficacia  in  quattro  sonetti 
che  vanno  innanzi  all'edizione  fiorentina  del  poema  di  Milton.  For- 
tunate tuttavia  quelle  interruzioni,  poiché  l'Italia  dovette  lOiO  la 
versione  dei  poemetti  del  Moore,  il  Paradiso  e  la  Peri,  dedicato 
a  Francesco  Ha^ez,  La  luce  dell'Harem,  gli  Amori  degli  Angeli 
dedicati  al  Giusti,  e  Gli  adoratori  del  fuoco  dedicati  al  Verdi,  che 
non  tolgono  nulla  d'essenziale  e  aggiungono  qualche  nuovo  splen- 
dore alle  bellezze  dell'originale.  Ai  poemetti  di  Moore  seguivano  del 
Byron  la  Sposa  D'AUdo  dedicata  al  Correnti,  Il  sogno  dedicato  al 
Gazzoletti,  il  Prigioniero  di  Chillon  dedicato  al  Vela,  la  Parisina 
dedicata  a  G.  Bertini,  il  Sardanapalo,  il  Fallerò,  i  Foscari,  il  Caino, 
il  Manfredo  e  il  Cielo  e  Terra;  ed  ora  s'annunzia  di  prossima 
pubblicazione  il  canto  sull'Italia  del  giovine  Aroldo;  dello  Schiller 
ancora  molte  romanze  e  liriche  scelte;  di  Goethe, parecchie  romanze, 
la  prima  e  la  seconda  parte  di  quello  scoglio  insuperabile  che  è  il 
Faust,  ed  il  graziosissimo  romanzetto  in  versi  che  narra  i  casi  di 
Arminio  e  Dorotea,  la  cui  traduzione  apparsa  dapprima  nelle  appen  - 
dici  della  Perseveranza ,  alle  lettrici  di  questo  giornale  veniva 
quindi  dedicata  nella  sua  seconda  edizione;  da  altri  poeti  diversi,  pa- 
recchie liriche  le  quali  trovarono  posto  nel  primo  volume  de'  Versi 
editi  ed  inediti  del  MafFei  stampati  nel  1858  dal  Le  Monnier.  Un'  ul- 
tima e  veramente  grata  sorpresa  ci  riserba  ora  finalmente  il  Maffei 
con  la  versione  delle  Odi  d'Aììacr eonte,  che  si  pubblica,  in  questi 
giorni  stessi,  a  Milano  in  isplendida  edizione  bodoniana,  illustrata 
dai  primari  pittori  viventi  d'Italia.  Al  glorioso  discepolo  del  Monti 
le  grazie  della  Musa  greca  dovettero  esser  sempre  famigliari,  e  non 
v'  è  a  dubitare  che  le  sue  anacreontiche  non  siano  per  riuscire 
cosa  intieramente  leggiadra,  se  anche  forse  meno  bacchica  e  gio- 
viale che  non  fosse  1'  acre    melodia  dell'  amabile  vecchio   cantore 


(1)  La  dedica  suona  così:  «  Alla  cittk  di  Firenze,  sede  prima  della 
risorta  civiltà,  dell'arte  rigenerata,  della  cristiana  poesia,  questo  sacro 
poema  volto  nell'idioma  di  cui  fu  madre,  nudrìce,  custode,  umile  omaggio 
di  riverenza,  d'affetto,  il  traduttore  consacra.  » 


,  —  187  — 
ufficiale,  ma  fatta  a  preghiera  d'un'accademia  che  sempre  si  mantenne 
indipendente  dai  Governi  non  mi  nego  autore  :  ripeto  tuttavia  che  in 
quei  momenti  di  riconciliazione  nessuno  avrebbe  scritto  in  modo  più 
libero.  Altri  versi  né  per  Francesco,  né  per  Ferdinando,  nò  per  Fran- 
cesco Giuseppe  furono  da  me  dettati,  nò  prima  né  dopo  il  nostro  ri- 
scatto —  Dacché  presi  la  penna  in  mano  non  vergai  verso  per  sovrani 
e  manco  per  gli  austriaci;  e,  ch'io  sappia,  del  mio  amore  all'Italia  e  del 
mio  sospiro  di  vederla  libera  dallo  straniero,  nessuno  ha  mai  dubitato. 
Tutti  invece  seppero  come  io  fossi  cacciato  di  Venezia,  dopo  ritornati  gli 
Austriaci,  dal  Generale  Governatore  Gorgoskj,  come  nemico  di  quel  governo 
ed  amico  de'suoi  nemici  ;  e  questi  erano  Mauri,  Grossi,  Correnti,  Somma. 
Gazzoletti,  Venturi  ecc.,  ai  quali  dedicava  i  miei  lavori,  abborrendo  dai 
principi  e  dai  Mecenati  —  Nel  53,  se  ben  mi  sovviene,  il  Governatore  di  Mi- 
lano Burger  cercava  un  traduttore  all'inno  così  detto  nazionale  austriaco; 
un  tale  gli  suggerì  il  mio  nome,  e  il  Governatore  mi  spedì  a  Riva  un  di- 
spaccio invitandomi  a  quella  vei  sione.  Rifiutai,  allegando  infermità  d'oc- 
chi, e  rimandai  l'inno  originale.  Il  Governatore  perù,  sicuro  della  mia 
adesione,  ne  scrisse  a  Vienna,  e  conviene  che  qualche  gazzetta  mi  an- 
nunciasse come  traduttore  di  quell'inno.  Saputolo,  protestai,  e  mandai  la 
mia  protesta  alla  Gazzetta  dì.  Milano,  la  quale  per  ordine  del  Gover- 
natore, si  rifiutò  di  stamparla.  Nessuno  tuttavia  ne  ha  fatto  caso  e 
creduto  che  i  pessimi  versi  di  quella  traduzione  fossero  miei.  S'  Ella 
svolge  il  volume  delle  mie  poesie  originali  pubblicato  dal  Le  Monnier, 
legga  le  pag.  22,  23,  29,  50  72,  73,  81,  101,  117,  e  l'inno  che  il  Go- 
verno provvisorio  d'allora  m'invitò  a  scrivere  per  la  solenne  benedi- 
zione delle  bandiere;  non  troverà  che  lamenti  per  l'italiana  schiavitù  e 
dettati  in  momenti  pericolosi.  Dal  punto  che  potei  ragionare  fino  a 
miei  settant'anni  passati,  fui  sempre  liberale  nel  vero  senso  della  pa- 
rola, ed  ho  sempre  ringraziato  Dio  per  due  cose:  per  possedere  un 
censo  bastevole  a  menar  vita  indipendente  e  per  non  essere  ambizioso  ». 
Io  non  aggiungo  qui  altro  ;  solamente  confermo  il  mio  convincimento  ' 
che  se  l'Austria  ha  blandito  qualche  volta  il  gentile  poeta  di  Riva,  non 
riuscì  a  farlo  suo  mai,  ed  a  toglierlo  all'Italia  ch'egli  invece  ha  can- 
tala sempre  con  amore,  e  di  cui  vide  con  gioia  il  risorgimento,  e  dalla 
quale  risorta  ebbe  mille  prove  di  affetto  rivei'ente,  quando,  or  sono  due 
anni,  un  crudel  morbo  venne  a  travagliarlo,  e  dimostrazioni  di  gioia 
quando  la  notizia  della  ricuperata  salute  si  divulgò.  Il  Maflfei  vive  ora 
molto  ritirato  a  Riva  di  Trento,  dove  l'aere  nativo  gli  giova;  e  que- 
sta necessità  della  salute  è  l'amor  delle  sue  valli,  Io  tiene  pure,  per 
forza,  lontano,  per  molta  parte  dell'  anno,  da  Milano,  dove  risiede  la 
splendida,  colta  e  vivace  dama,  eh'  egli  s'  era  scelta  a  compagna,  la 
contessina  Carrara  Spinelli,  la  quale  meriterebbe  ancor  essa  una  pa- 
gina nella  storia  letteraria  contemporanea,  per  l'ospitalità  che  con- 
cede nel  suo  elegante  circolo  a' più  accetti  fra  gli  artisti^e  letterati  lom- 
bardi, ad  alcuno  de'  quali  essa  aprì  pure  la  via  degli  agi  e  degli  onori. 


vili. 


GIULIO  GARGANO. 


Nessuna  letteratura  moderna  offerse  tanta  varietcà  di  forme 
quanta  nel  secolo  nostro  ne  presentò  a  noi  l'italiana.  Dopo  che  si 
smesse  in  Italia  di  scrivere  alla  maniera  uniforme  de'  classici,  per 
dar  ragione  alla  nota  sentenza  del  Buffon  intorno  allo  stile,  ogni 
nostro  scrittore  d'ingegno  apparve  nell'aspetto  suo  proprio,  che  agli 
altri  dovea,  perciò,  a  motivo  di  quel  carattere  individuale,  che  s'im- 
pronta negli  scritti,  apparire  fornito  d'originalità.  Poiché,  se  vi 
furono  anche  nel  secolo  nostro  scuole  letterarie  fra  ijoi,  non  tutto 
il  carattere  di  tali  scuole  è  rappresentato  dai  soli  fondatori  ;  e 
convien  ricercarlo  ancora  nell'opera  de'  più  distinti  fra  i  loro  nu- 
merosi seguaci,  Gosì,  quando  diciamo  che  l'Azeglio,  il  Grossi,  il 
Gantù,  il  Garcano,  appartengono,  come  autori  di  romanzi,  alla 
scuola  del  Manzoni,  giova  poi  avvertire  che,  se  tutti,  per  qualche 
anello  ideale  si  ricongiungono  con  l'autore  de'  Promessi  Sposi, 
che  dapprima  li  scalda,  e  li  accoglie  quindi  al  ritorno  fra  le  sue 
larghe  braccia,  ciascuno  procede  poi  disinvolto  per  una  propria 
via,  secondando  quella  facoltà  dell'animo  o  dell'ingegno  che  gli  è 
più  naturale,  ed  amplificando  in  qualche  forma  alcuna  di  quelle 
virtù  che  il  Manzoni  compose  e  temprò  in  una  sola  e  sovrana 
armonia  estetica.  La  fonte  letteraria  è  bensì  una  sola  ;  ma  ogni 
limpido  ruscello,  che  ne  deriva,  percorre,  abbellisce  ed  allegra 
nuovo  e  proprio  e  non  troppo  circoscritto  paese. 

La  natura  avea  posto  nel  cuore  di  Giulio  Garcano  una  vena 
copiosa  d'affetti  gentili,  ed  egli  la  versò  tutta  ne'  suoi  scritti  let- 
terari! :  pr-r  modo  che.  sotto  quest'aspetto  suo  particolare,  nessun 


—  189  — 
altro  scrittore  lo  arrivò.  Vi  è  pure  chi  lo  imita,  ma  nessuno  io 
trovo  che  lo  emuli  ;  poiché  fra  lui  ed  i  suoi  imitatori  corre  la 
differenza  che  passa  fra  il  dolce  e  lo  sdolcinato,  fra  l'affetto  e  l'af- 
fettazione, fra  il  sentimento  ed  il  sentimentalismo.  La  virtù  sim- 
patica del  suo  stile  è  tutta  nel  candore  dell'anima  ben  fatta  e  de- 
licata di  lui.  E,  poiché  ciò  ch'è  simpatico  si  cerca  e  si  ritrova,  é 
naturale  che,  per  un  verso,  il  Carcano  nelle  opere  del  Manzoni 
studiasse  il  modo  di  dire  con  bella  semplicità  le  parole  dell'affetto, 
per  cercar  quindi  la  compagnia  dell'uomo  venerando  a  cui  il  mondo 
intelligente  s'inchina;  e,  per  l'altro,  il  Manzoni  ponesse  grande 
amore  all'autore  deW  Angiola  Maria.  La  fede  cristiana  che  guidò 
il  maestro,  appassiona  pure  il  discepolo,  e  di  questa  simpatia  che 
la  comunanza  del  sentimento  religioso  accresce  fra  il  discepolo  e 
il  maestro,  é  pubblico  documento  II  Libro  di  Dio,  bel  carme  che, 
nel  marzo  del  1866,  Giulio  Carcano  dedicava  ad  Alessandro  Man- 
zoni. Il  carme  s'intona  coi  versi  seguenti  : 

Quando  m'accogli  nella  tua  dimora, 
0  poeta  del  vero  e  della  fede, 
E,  intento  all'alte  tue  parole,  io  miro 
Il  venerando  tuo  capo  canuto  : 
Il  mio  cor  sente  de'  colloqui  amici 
La  segreta  virtù,  che  nutrir  sai 
Di  quanto  è  bello  e  grande  ;  e  questa  patria, 
Aspettata  da  te  libera  ed  una. 
Or  donna  del  suo  lido  e  di  sua  sorte. 
Meglio  amar  parmi,  e  con  più  forte  affetto. 
Essa  fu  il  tuo  pensiero  ;  e  tu  sarai 
La  sua  gloria  più  pura  l  Ma  s'io  t'odo 
Lamentar  che  di  Dio,  come  chi  '1  nega. 
Sorge  nemico  chi  n'abusa  il  nome, 
Per  fare  inciampo  al  suo  disegno  eterno, 
Mi  ritorna  nell'animo  un  desìo. 
Che  ancor  non  seppe  il  riverente  labbro 
Significar.  —  Perchè,  (parla  il  mio  core) 
Colui  che  primo,  un  di,  nel  procelloso 
Mattin  del  secol  nostro,  agl'inspirati 
Inni  segnò  le  vie  del  ciel,  cantando 
La  benefica  fede  e  i  suoi  misteri, 
Non  desta  ancora  l'immortal  suo  verso. 
Per  ricordar  che  d'ignavi  intelletti 


—  190  — 
Non  ambisce  l'ossequio,  o  di  ragione 
Al  guardo  fugge  la  divina  ;  e  solo 
All'alme  persiiase  si  concede. 
Guida  de'  forti  a  non  fallibil  segno  ? 

Io  non  divido,  al  certo,  né  gli  sgomenti,  né  gli  augurii  del  Car- 
cano,  poiché  ne'  diritti  della  ragione  ho  una  fede  assai  più  grande 
ch'ei  non  le  consenta  ;  ma  comprendo  come  il  cattolico  sincero  e 
convinto  non  solo  possa,  ma  debba  scrivere  cosi,  e  mi  dolgo  quasi 
che  non  iscrivano  il  medesimo  quanti  fanno  professione  d'esser 
cattolici.  Poiché;  allora,  ci  troveremmo  innanzi  a  soli  pochi  vera- 
mente onesti  cattolici  che  rispetteremmo,  togliendosi  invece  la 
maschera  a  quegli  altri  troppo  piìi  numerosi,  i  quali  fanno  pompa 
dì  una  religione  che  serve  solamente  d'insegna  a  quelle  virtù  che 
non  hanno,  o  di  strumento  a  procacciarsi  que'  beni  materiali  che 
agognano.  Tuttavia,  debbo  ancora  affrettarmi  ad  aggiungere  come 
non  sia  il  cattolicismo  che  abbia  fatto  grandi  scrittori  il  Manzoni 
ed  i  suoi  imitatori,  né  il  loro  zelo  per  la  religione  non  più  domi- 
nante, sia  l'autore  principale  della  loro  gloria,  se  pure  ne  sia 
■  stata  l'occasione,  e  abbia  loro,  in  certo  modo,  indicata  ima  cosa 
molto  importante,  cioè  la  scelta  del  soggetto.  Ma,  essi  mi  paiono 
grandi,  a  dispetto  del  cattolicismo  e  non  a  motivo  di  esso;  di  ma- 
niera che,  malgrado  un  po'  d'intolleranza  scientifica,  il  Carme  di 
Dio,  riusci  un  bel  lavoro  poetico,  come,  malgrado  l'inutile  conver- 
sione alla  religione  cattolica  del  giovine  inglese  Arnoldo,  il  perso 
naggio  men  naturale,  meno  delineato  e  più  posticcio  del  romanzo. 
r  Angiola  Maria  riusci  e  rimane  tuttora  il  più  pregiato  fra  que'  ro- 
manzi nostri,  che  chiamano  intimi.  E,  s' io  voglio  poi  trovare  un 
riscontro  fra  il  racconto  del  Carcano  e  quello  d'tilcun  altro  scrittore, 
io  non  debbo  certamente  cercare  il  modello  ne'  romanzi  del  cattolico 
abate  Chiari,  ma  nel  Vicario  di  Wakefield,  del  protestante  Gold- 
Smith,  che,  senza  dubbio,  il  Carcano,  già  in  possesso  della  lingua 
inglese,  ebbe  presente  quando  s'accinse  a  scrivere  la  sua  Angiola 
Maria.  E  così  come  il  suo  maestro,  il  Manzoni,  sull'esempio  del  pro- 
testante Walter  Scott,  fondava  in  Italia  il  romanzo  storico,  con  un 
nuovo  esemplare  originale  e  perfetto,  cosi  il  Carcano  sull'esempio 
del  protestante  Goldsmith  introduceva  felicemente  in  Italia  il  ro- 
manzo intimo,  dandogli  carattere  italiano. 

La  famìglia  dei  Carcano  é  milanese  e  delle  più  antiche.  Ottone  III 
imperatore,  neh'  896,  diede  a  Landolfo  da  Carcano,  arcivescovo, 
giurisdizione  sulla  città  e  su  tre  miglia   in  giro  :  ma  i  cittadini 


—  191  — 

gli  si  opposero  colle  armi  e  lo  cacciarono  «  e  di  buona  ragione, 
mi  scrive  lo  stesso  Giulio  Carcano,  perchè  aveva  comprata  la  di- 
gnità, e  in  penitenza  fece  poi  inalzare  chiese,  e  monasteri.  »  Un 
altro  Landolfo,  mandato  vescovo  a  Como  da  Arrigo  IV,  fu  ca- 
gione d'una  guerra  partigiana  e  rabbiosa  tra  milanesi  e  comaschi; 
e  un  episodio  di  questa  lotta  civile  è  la  patetica  novella  di  Tom- 
maso Grossi,   Ulrico  e  Licia. 

Giulio  Carcano  nacque  in  Milano  il  7  d'agosto  dell'anno  1812. 
Studiò  come  alunno  del  Collegio  Longone  in  Milano,  dall'anno  18r^4 
al  1830,  avendo  per  maestro  di  lettere  classiche  l'abate  Clemente 
Baroni,  colto  poeta  e  latinista,  e  autore  di  un  libro  di  racconti 
giovanili.  Nel  1831,  si  recò  a  studiar  legge  nell'Università  di 
Pavia.  Essendo  ancora  studente,  nell'anno  1834,  pubblicava  la  sua 
lodata  novella  in  ottava  rima  Ida  della  loì-re.  Nel  1833  si  lau- 
l'eva  in  legge.  Nel  1837  perdeva  uno  de'suoi  più  cari  amici  in 
Rinaldo  Giulini ,  del  quale  scriveva  lungamente  nella  Rivista 
Europea  dell'anno  1838.  Nel  1839  dava  alla  luce  l'Angiola  Maria. 

Seguivano  quindi,  nel  1840,  le  Prime  poesie,  e  nel  gennaio  1843, 
la  versione  del  Re  Lear  di  Shakespeare,  dedicata  al  Niccolini, 
ch'egli  avea  già  conosciuto  in  Firenze,  ed  al  quale  egli  era 
caro  (1).  Cito  la  dedica  del  Carcano,  perchè  egli  (al  pari  di 
Andrea  Maflfei)  ama  le  dediche  e  sa  farle  con  grazia.  La  de- 
dica può  aver  duplice  fine ,  secondo  chi  la  fa  ed  il  modo  con 
cui  la  fa,  buono  o  tristo.  Chi  dedica  il  suo  lavoro  a  potenti,  per 
ossequio  servile ,  mendicando  con  abiette  lodi  que'  favori  che 
r  opera  per  sé  stessa  non  basterebbe  a  procacciargli ,  è  uomo 
spregevole;  chi  si  giova  della  dedica  o  per  pagare  un  debito  di 
riconoscenza,  o    per    dare   sfogo    ad    ogni    altro  sentimento  gen- 


(1)  Cfr.  l'opera  del  Vannucci,  Ricordi  della  Vita  e  delle  opere  di  G. 
B.  Niccolini  nel  voi.  2"  della  quale,  a  pag.  338,  sembra  tuttavia  essere 
incorso  un  errore  di  data  nel  pubblicare  una  lettera  del  Niccolini  al 
Maffei.  Secondo  quella  lettera  che  porta  la  data  del  giugno  1844,  il  Nic- 
colini farebbe  ringraziare,  per  mezzo  del  Maffei,  il  giovinetlo  amico 
(il  Carcano)  del  suo  proposito  di  dedicargli  il  Re  Lear,  mentre  la  de- 
dica a  stampa  del  Carcano  reca  la  data  del  2  gennaio  1843.  Sembra 
che  sia  stato  scambiato  dal  Vannucci  un  2  per  un  4  ;  e  la  prova  di  ciò 
è  un'altra  lettera  del  Niccolini  dell'  Il  ottobre  1843,  nella  quale  il  Nic- 
colini annunzia  al  Mafl'ei  ,  ch'egli  spedisce  tre  esemplari  dell' A/-- 
naldo,  l'uno  per  lo  stesso  Maffei  gli  altri  due  per  Giulio  Carcano,  già 
bene  a  lui  noto,  e  per  Felice  Belloiti. 


—  192  — 

tì\e,  prova  animo  delicato  e  modesto.  Io  amo  le  dediche  del  Car- 
cano.  Vi  è  in  tutte  una  simpatia  che  vince  non  la  persona 
soltanto  alla  quale  egli  si  propone  di  render  onore,  ma  ogni  lettore 
nato  a  ben  sentire.  Dei  dieci  drammi  di  Shakespeare  che  il  Car- 
cano  ha  tradotto  fra  il  1843  ed  il  1854,  dopo  il  Be  Lear,  apparve 
VAmleto  dedicato  a  Cesare  Correnti,  compagno  di  studii  e  di  spe- 
ranze al  Carcano,  col  quale  pure  scrisse  nel  Ricordo  di  letteratura 
intitolato  II  presagio,  che  si  pubblicava  in  Milano  innanzi  l'an- 
no 1840,  il  Giulio  Cesare  ad  Andrea  M allei,  la  Giuliella  a  Giu- 
seppe Montanelli,  il  Macbeth  al  Guerrieri  Gonzaga,  il  Riccardo  III. 
al  Grossi,  Y  Otello  a  Giuseppe  Mongeri,  La  tempesta  a  Iacopo  Ca- 
bianca,  Il  Mercante  di  Venezia  ad  Angelo  Fava,  V  Arrigo  Vili  ad 
Antonio  Gazzoletti.  Oltre  a  questi  sei  drammi  di  Shakespeare,  già 
pubblicati,  il  Carcano  ne  ha  tradotti  altri  sei,  i  quali  attendono  so- 
lamente un  editore. 

Nell'aprile  nel  1843,  il  Carcano  dedicava  alla  sua  sorella  i  sette 
Racconti  semplici;  nel  1844,  assumeva  l'ufficio  di  vice-bibliotecario 
a  Brera;  nel  1848,  dopo  aver  presa  viva  parte  all'insurrezione  mi- 
lanese contro  gli  austriaci,  sedeva,  segretario  del  governo  prov- 
visorio di  Lombardia,  e  sosteneva  a  Parigi  in  nome  di  quello 
stesso  governo  una  missione  diplomatica.  Il  maresciallo  Radetzki 
naturalmente  lo  destituiva  nell'anno  seguente,  ed  il  Carcano  era 
allora  costretto  a  rifugiarsi  in  Svizzera;  al  quale  esigilo  si  rife- 
riscono alcune  pagine  d'un  racconto  che,  alcuni  anni  dopo,  lo  stesso 
Carcano  pubblicava  nella  Rivista  Contejnjyoranea.  Nel  1851,  l'autore 
àeW  Angiola  Maria,  aveva  pubblicato  un  altro  suo  racconto  intimo, 
intitolato  :  Damiano,  storia  d'una  povera  famiglia,  pieno  di  pas- 
sione e  d'interesse,  ed  ove  una  parte  della  vita  cittadina  di  Milano 
è  descritta  con  molta  verità.  Nel  1856,  si  pubblicarono  le  sue  Dodici 
novelle,  un  vero  modello  nel  genere  della  novella  morale  e  patetica. 
Nel  1857,  il  Carcano  rivelavasi,  ad  un  tempo,  autore  tragico  distinto, 
e  previdente  patriota  con  lo  Spartaco,  a  cui,  nel  1800,  seguiva  l'Ar- 
doino,  lavoro  ben  più  fedele  alla  verità  storica  e  ben  più  vera- 
mente drammatico  e  più  notevole,  in  somma,  di  quelle  scene  dia- 
logate in  sonorissimi  versi  imprecanti  alla  Roma  papale  che  le 
dotte  platee  dell'odierna  Italia  continuano  ad  applaudire  come  tra- 
gico capolavoro.  Una  terza  tragedia,  Valentina,  in  pure  parte  del 
secondo  volume  di  Poesie  edite  ed  inedite  di  Giulio.  Carcano  pub- 
blicate dal  Le  Mounier  (Voi.  1"  1861,  voi.  ^2M870).  Oltre  a  que- 
sti lavori  originali  del  Carcano,  voglionsi  ricordare  parecchie  sue 
prose  robuste  e  scritte  con  garbo,  cioè,  alcuni  discorsi  storici,  alcune 


—  193  — 

prefazioni  a  lavori  da  lui  messi  in  ordine  (fra  gli  altri,  un'Anto- 
logia lìoetica  giovanile  intitolata  :  La  Primavera,  Milano,  F.  Co- 
lombo ed.  1857,  e  le  lettere  dell'Azeglio  a  sua  moglie  Luisa  Blon- 
del) due  volumi  di  Memorie  di  grandi  e  Memorie  d'Amici  (Dante, 
Tasso,  il  Borromeo,  Muratori,  l'Agnesi,  Passeroni,  i  due  Verri, 
Napoleone  I,  Foscolo,  Monti,  Grossi,  Bellotti,  Cavour,  D'Azeglio, 
Rinaldo  Giulini,  Gottardo  Calvi  ed  Emilio  Dandolo),  e  recentissime, 
alcune  iVò^e  d'estetica  lette  all'Istituto  Lombardo,(ove  egli  siede  come 
segretario,)  nelle  quali  si  dimostra  come,  senza  ideale,  nessuna  este- 
tica sia  possibile.  E  di  estetica  nessuno  può,  di  certo,  esser  miglior 
giudice  dell'autore  déW Angiola  Maria,  non  meno  innamorato  e 
capace  del  bello  che  del  buono.  Perciò,  nel  1859,  egli  veniva  eletto 
segretario  dell'Accademia  di  belle  arti  e  professore  d'estetica  in 
quell'Accademia  medesima;  dal  quale  ufficio,  passava,  nell'anno 
seguente,  provveditore,  agli  studii  per  la  provincia  di  Milano,  e, 
nell'anno  1868,  (assai  troppo  tardi)  membro  del  consiglio  superiore 
dell'  istruzione  pubblica,  per  decreto  del  ministro  Emilio  Bro- 
glio, che  r  avea  pur  nominato  insieme  con  Ruggiero  Bonghi, 
membro  della  commissione  per  gli  studii  intorno  al  Vocabolario 
della  lingua  italiana,  presieduta  dal  Manzoni.  E  maggiori  onoranze 
malgrado  la  disinvoltura,  che  la  nuova  Italia  pone  nel  mettere 
in  disparte  i  suoi  vecchi  gloriosi,  non  sarebbero  forse  mancate 
al  Carcano  s'egli  le  avesse  ambite,  se  anzi  la  sua  grande  mode- 
stia non  se  ne  fosse  mostrata  schiva.  Io  ammiro  poi  grandemente 
questo  scrittore  che,  molto  compiacendosi  nello  stile  patetico,  ed 
avendo  egli  stesso  sicuramente  molto  patito,  senza  di  che  non 
avrebbe  saputo  far  piangere,  come  seppe,  i  suoi  lettori,  non  mosse 
mai  un  lamento  sopra  di  sé,  e  non  fu  mai  ad  alcuno  maligno.  Ed  an- 
che ora  piacemi,  nella  sua  prosa,  sentire  quel  calore  e  quell'entusia- 
smo che  si  desidera  invano  negli  odierni  scritti  giovanili.  Nel  dedi- 
care alla  sua  figlia  Maria  (frutto  gentile  delle  sue  nozze  con  la  si- 
gnorina Giulia  Fontana)  le  Memorie  de  Grondi,  il  22  maggio  1869, 
egli  scriveva  queste  parole:  «  ho  riuniti  diversi  miei  scritti,  dettati 
in  tempi  diversi  (cioè  dal  1838  al  1867),  prima  e  dopo  il  benedetto 
giorno  della  nostra  indipendenza  dallo  straniero,  sempre  collo  stesso 
intendimento  e  desiderio,  quello  di  tener  viva  la  fiamma  dell'amor 
della  patria;  che  ben  fu  chiamato,  non  so  più  da  chi,  la  carità  ci- 
vile. Poiché,  ogni  volta  ch'io  scrissi,  ho  voluto  conservar  fede  alla 
tradizione  del  pensiero  italiano.  Ora,  la  nostra  patria  è  unita;  e  a 
questo  gran  bene  non  saranno  d' inciampo  né  rancori  politici,  né 
pretensioni,    né   dubbi,    nò  altre    difficoltà  nella   nuova   sua  via; 

RjcoKDi  Biografici  13 


—  194  — 

che   sembrano  le    ultime    orme    lasciate   qui    da    un    passato    in- 
fausto. » 

Tutti  gli  scritti  del  Carcano  sono  conformi  all'  ideale  che 
dell'uomo  di  lettere  ei  s'è  formato;  e  la  stessa  anima  che 
spira  negli  uni  si  ritrova  negli  altri,  sebbene  più  piena  e  sicura 
nelle  prose,  più  incerta  e  più  languida  nelle  poesie,  le  quali 
tuttavia  rende  attraenti  l'affetto  costante,  che  le  muove.  Il  Car- 
cano ebbe  egli  pure,  come  scrittore,  i  suoi  momenti  che  oserei  chia- 
mare eroici,  senza  di  che  non  gli  sarebbe  stato  certamente  possibile 
il  rendere  certe  bellezze  de'  drammi  di  Shakespeare  ;  ma  la  sua 
corda  è  la  sensitiva;  e  quand'egli  l'ha  toccata,  fu  sempre  felice.  Chi 
ha  letto  le  Memorne  d'un  fanciullo,  la  Povera  Iosa,  e  la  Benedetta 
dapprima  ne'  Racconti  semplici  e  poi  nelle  Dodici  novelle,  chi  ha 
pianto  suir  Angiola  Maria  e  su  alcune  pagine  del  Damiano,  deve  ri- 
conoscere al  Carcano  come  scrittore  una  potenza  più  che  ordinaria 
a  significare  il  dolore.  Ma,  io  lo  ripeto,  ei  può  significarlo  cosi, 
perchè  o  l'ha  provato  prima,  o  pure  se  ne  sentì  capace,  ch'è  una 
virtù  estetica  a  pochi  concessa. 

Se  non  che,  dopo  aver  fatto  versare  una  lacrima  sugli  infelici,  egli 
stesso  la  terge,  per  non  lasciar  entrare  nell'anima  d'alcun  lettore  lo 
sconforto;  nel  dipingere  il  male,  egli  non  vuole  che  si  dimentichi 
come  il  bene  è  possibile,  e  però  dalla  religione  attinge  tutte  quelle 
oneste  e  pie  parole  che  sono  atte  a  consolare.  Egli  non  vuol  dissimu- 
larci le  miserie  della  vita,  ma  si  sgomenterebbe  se  alcuno  tra  quelli 
che  ascoltano  il  racconto  di  lui  ne  perdesse  il  coraggio  e  la  fede. 
h' Angiola  Maria  ci  mostra  questo  studio  continuo  dello  scrittore  a 
rappresentarci  il  male  ed  a  confortarci  con  le  immagini  del  bene. 
La  vita  non  ce  la  raffigura  lieta,  ma,  all'infuori  dell'ignobile 
Arpagone,  nessuno  de'  personaggi  del  suo  romanzo,  neppure  lo 
stesso  deputato  politico,  è  deliberatamente  tristo.  Ciascuno  ha  le 
sue  debolezze,  ma  nessuno  ama  propriamente  il  male;  gli  stessi  car- 
rettieri che,  nel  mirabile  capitolo  intitolato  11  ritorno,  attentano 
all'onore  della  povera  giovinetta  fuggitiva,  nell'udire  la  pia  men- 
zogna del  vecchio  mendicante  chg,  per  salvarla,  la  grida  sua  figlia, 
rimangono  confusi  e,  scusandosi  come  possono,  abbandonano  la 
ritrosa  fanciulla  al  suo  destino.  Il  Carcano  non  vede  il  suo  mondo 
dietro  vetri  appannati;  osserva,  e,  che  osservi  bene,  lo  provano  le 
sue  belle  descrizioni  ed  i  ben  riusciti  quadretti  di  genere,  come 
quello,  per  esempio,  della  bottega  dello  speziale  nel  primo  libro,  e 
delle  alunne  della  crestaia  nel  libro  secondo  (\e\V Angiola  Maria, 
e  la  figura  della  pegnataria  nel  Damanio  ma,  se  il  suo  pensiero. 


—  195  — 
divenutone  malinconico,  comunica  pure  una  certa  tinta  elegiaca  al 
racconto,  al  fine  della  selva  oscura,  in  cui  s'è  messo,  come  ai  viag- 
giatori delle  novelline  popolari,  gli  appare  un  lumicino,  che  s'in- 
grandisce a  misura  ch'ei  s'avanza,  in  fino  a  eh'  ei  vede  sorgere 
un  palazzo  d'oro  tempestato  di  gemme,  un  palazzo  infinito,  un  pa- 
lazzo incantato,  il  palazzo  delle  fete,  ossia,  per  uno  scrittore  catto- 
lico, com'egli  é,  il  tempio  della  fede  immortale,  che  raccoglie  e  ri- 
covera sotto  la  sua  volta  serena  ogni  mobile  pellegrino  smarrito, 
e  gli  queta  le  insonnie  superbe  della  mente  —  o  per  farlo  brutal- 
mente dormire,  —  o  per  farlo  divinamente  sognare. 


IX. 


MICHELE    AMARI. 


Il  valido  popolo  che  seppe  far  la  tremenda  vendetta  del  Vespro 
dovea  pur  trovare,  un  giorno,  presso  di  sé,  uno  storico  generoso 
che  ne  tramandasse  degnamente  la  memoria  ai  posteri.  Passarono 
da  quel  tempo  alla  narrazione  dell'Amari  ben  559  anni,  ma  il  li- 
bro moderno  è  scritto  da  tale  che  non  solo  ha  bene  studiato  e 
compreso  i  fatti  eh'  egli  espone  ed  interpreta,  ma  che  fa  spesso 
sclamare  a  chi  lo  legge:  questi  è  l'uomo  da  rinnovare  nell'età  no- 
stra, fatta  ragione  all'ordine  più  civile  de'tempi,  la  fiera  impresa 
del  popolo  del  quale  egli  ridesta  la  memoria.  Basta  a  persuader- 
sene ricordare  le  gravi  parole  con  le  quali  Michele  Amari  ter- 
minava la  sua  prefazione  all'edizione  parigina  della  Guerra  del 
Vespro  Siciliano  apparsa  nell'Aprile  del  184o:  «  E  forse,  egli  scri- 
veva allora,  perchè  son  nato  in  wSicilia  e  in  Palermo,  io  ho  po- 
tuto meglio  comprendere  la  sollevazione  del  1282,  si  com'essa 
nacque,  repentina,  uniforme,  irresistibile,  desiderata  ma  non  tra- 
mata, decisa  e  falla  al  girar  d'uno  sguardo.  »  Queste  parole  non 
scolpiscono  soltanto  il  popolo  del  Vespro,  ma  si  ancora  l'animo 
gagliardo  e  risoluto  e  la  ferrea  volontà  dello  storico,  onde  pote- 
vano molto  ragionevolmente  far  paura  a  Ferdinando  Borbone,  come 
pronostico  della  rivoluzione  palermitana  del  1848. 

Michele  Amari  nacque  in  Palermo  il  7  di  luglio  dell'anno  1806, 
gli  spiriti  rivoluzionari  eredando  per  tempo  dal  padre,  che,  get- 
tato in  un  carcere  nel  1822,  a  lui  giovinetto  sedicenne  raccoman- 
dava la  madre,  due  fratellini  e  due  sorelle,  e  forse  la  cura  di  ven- 
dicarlo. Il  giovine  Michele  dovette  pertanto  interrompere  gli  studii 


—  107  — 
bene  intrapresi  (ai  quali  avevagli  aggiunto  coraggio  e  forza  il  con- 
siglio del  celebre  Domenico  Scinà  che  frequentava  la  casa  paterna) 
per  assumere,   nel    1821,   un    umile    impiego.    Lottò  sei  anni  fra 
que'travagli  domestici,   unicamente  intento  a  ^^rovvedere  ai  biso- 
gni della  sua  famiglia,  e,  nelle  ore  libere,  ad  esercitarsi  in  caccie 
montane,  per  crescere  forza  ed  agilità  alle  membra  ed  acquistare 
singolare  destrezza  al  tiro,  pel  giorno  sperato  della  siciliana  ri- 
scossa. E  fra  quelle  cure  ogni  libro  gli  si  chiuse,  dal  Macchiavelli 
in  fuori.  Che   cercava   egli    mai  presso  il  segretario  Fiorentino? 
La  malizia  forse?    Chi  conosce  l'Amari  sa  bene  come  non  vi  sia 
uomo  più  leale  e   più   schietto    di  lui,  e  sulla  parola  del  quale  si 
possa  più  sicuramente  e  più  lungamente  contare.  Che  vi  cercava 
egli  dunque  ?    Senza  dubbio  egli  studiava  il  rovescio  della  meda- 
glia in  quella   mente   formidabile.    Egli   voleva  vedere  se  quella 
forza  paurosa  e  quella   terribile    sapienza  che  il  Macchiavelli  in- 
segnava  al   principe,  non  si  fosse  potuta  adoperare  con   maggior 
vantaggio  ed  onestà  a  favore  del  popolo,  per  armarlo  alla  propria 
vendetta.  Ma,    come   mutare    in  atto  un  simile  pensiero,  vivendo 
una  vita   tutta   solitaria  e  selvaggia,    lontano  dal  culto  di  quelle 
arti  gentili  ch'egli  sapeva  bene  essere  strumento  essenziale  di  ci- 
viltà, e  però  di  risorgimento  ad  ogni  gran  popolo?  Alternò  quindi 
l'esercizio  delle  armi  e  della  caccia  (nella  quale  egli  si  diletta  pure 
al  presente,  ma  non  più  in  verità  minaccioso  ad  alcuno,  fuor  che 
a  qualche  imprudente  beccaccino  in  ritardo)  con  quello  delle  let- 
tere,   neir  amore   delle  quali  quindi  fortemente  s'accese.  Ripigliò 
pertanto  lo  studio  della  lingua  inglese,  che  riconosceva  necessaria 
come  strumento  per  acquistare  una  miglior  conoscenza  delle  glo- 
riose istituzioni  britanne,  ed  intanto,  come  esercizio  di  traduzione 
e  come  saggio  del  proprio  valore  in  quella  lingua,  nell'anno  1832, 
diede  alle  stampe  in  Palermo   una   sua  versione  del  Mannion  di 
Walter  Scott.   L' illustre   poeta  e  romanziere    scozzese  era  allora 
venuto  a  Napoli   per   cercarvi    inutilmente  ristoro  alla  salute  af- 
franta dal  soverchio  lavoro;  ebbe  notizia  della  versione  dell'Amari, 
e  il  1°  febbraio  (poco   più  di  sette  mesi  prima  di  morire)  al  gio- 
vine traduttore  siciliano  indirizzava  dal  Palazzo  Caramanica,  ove 
egli  dimorava,  una   curiosa  lettera  di  ringraziamento,  nella  qua- 
le, dopo  aver  lodata  la  veri/  prelly  translation  del  poema,  ch'egli 
stesso   dice   aver   quasi    dimenticato,    augura  al  traduttore   ch'ei 
possa  vendere  il  libro   tradotto  come  fu  venduto  l'originale,  e  ac- 
quistarsi cosi  quella   stessa   popolarità,  la  quale  egli,  autore,  con 
minor   merito   ebbe   la   buona   sorte    di   conseguire.  Ma,  mentre 


—  i98  — 
l'Amari  studia  l'inglese,  l'animo  di  lui  è  rivolto  alla  Sicilia;  egli 
traduce  un'  elegia  sulle  rovine  di  Siracusa,  di  Tommaso  Stewart 
che  era  venuto  a  farsi  monaco  in  Sicilia;  quindi  spinto  dal  proprio 
genio  e  dai  consigli  di  Salvator  Vigo  e  dello  Scinà  si  dedica  in- 
tieramente agli  studii  di  storia  siciliana,  per  congiungerli  quanto 
si  potesse  con  le  questioni  urgenti  della  politica  contemporanea. 
Nel  1834,  egli  pubblica  pertanto  un  primo  lavoro  storico  nelle  Ef- 
femeridi Scientifiche  Siciliane  sulla  Fondazione  della  Monarchia 
de'Normanni  in  Sicilia,  per  dimostrare  a  un  pubblicista  napo- 
letano l'autonomia  della  Sicilia  da  Napoli;  e  nell'  anno  seguente 
viene  ricevuto  nell'Accademia  di  scienze  e  lettere  di  Palermo. 
Quindi  concepisce  il  pensiero  di  una  Storia  Generale  della  Sicilia, 
che  abbandona  nel  1836,  per  imprendere  la  storia  particolare 
della  Guerra  del  Vespro.  Ma  qui  giova  udire  le  parole  stesse  del- 
l'autore, che  si  leggono  nella  prefazione  all'edizione  fiorentina  del 
1851:  «  l'esempio  degli  scrittori  della  terraferma  che  incoraggia- 
vano la  generazione  presente  col  racconto  di  antiche  glorie  ita- 
liane, mi  spinse  a  provarmici  anch'io.  Il  problema  era  di  gridare 
la  rivoluzione  senza  che  il  vietasse  la  censura.  Pensai  dunque, 
che  i  fatti  del  1812  avrebbero  dato  ombra  alla  censura,  senza  ri- 
cordare al  popolo  altro  che  divisioni,  miserie,  debolezze;  e  però 
messi  da  canto  il  lavoro  incominciato,  del  quale  erano  raccolti 
tutti  i  materiali  e  steso  il  primo  abbozzo.  L'argomento  novello 
mei  dettava  quella  nobile  tragedia  del  Niccolini,  leggendo  la  quale 
mi  sentiva  correre  un  raccapriccio  infino  alle  ossa,  e  piangea  di 
rabbia  ripetendo: 

Perchè  tanto  sorriso  di  cielo 
Sulla  terra  del  vile  dolor? 

Né  altro  soggetto  si  potea  trovare  più  acconcio  allo  scopo  mio; 
cinque  secoli  e  mezzo  d'antichità  da  opporre  alla  censura,  una  ri- 
voluzione preparata,  com'io  credea  (1),  terribile,  vittoriosa,  nella 


(I)  Il  libro  poi  dimostrò  il  contrario,  riducendo  la  figura  romanzesca 
di  Giovanni  da  Procida  al  suo  mediocre  valore  storico,  malgrado  le  op- 
posizioni che  incontrò  la  teoria  molto  positiva  dell'Amari  presso  i  si- 
gnori Ermolao  Rubieri,  Salvatore  De  Renzi,  Antonio  Cappelli  e  Vincenzo 
Di  Giovanni  che  difesero  la  gloria  dei  Procida.  Quanto  al  Niccolini  che 
aveva  idealeggiata  quella  figura  sopra  la  scena,  mi  piace  il  notare  co- 
me non  solo  non  volesse  male  all'Amari  dell'avere  osato  demolire  il 
suo  eroe,  ma  scrivesse  il  24  settembre  1842  le  seguenti  parole:  «  Io  non 
cedo  ad  alcuno  nella  stima  e  l'afifetto  verso  l'Amari.  » 


—  109  — 
quale  si  erano  dileguati  gli  odii  municipali,  che  lacerarono  la  Si- 
cilia innanzi  il  1282,  tacquero  allora^,  e  poi  s'erano  scatenati  di 
nuovo  fin  oltre  il  1820.  La  coscienza  o  la  vanità  mi  disse  che  il 
libro  potea  giovare  alla  cosa  pubblica,  e,  persuaso  di  ciò,  affron- 
tai il  pericolo  che  pure  vedea  chiaramente.  Questa  è  la  somma 
delle  astuzie  mie.  Altri  poi  si  credè  dipinto  in  questo  o  quel  per- 
sonaggio del  Vespro,  mi  accusò  di  avere  falsato  la  storia  per  fare 
cotesti  ritratti;  come  se  la  viltà  di  una  bugia  avesse  mai  potuto 
stare  insieme  con  quel  dritto  zelo  che  mi  ispirava,  o  se  non 
avessi  saputo  la  verità  essere  più  eflicace  di  qualsivoglia  inven- 
zione; 0  finalmente  come  se  certi  brutti  ceffi  dovessero  scontraf- 
farsi per  farli  rassomigliare  l'uno  all'altro.  E  sovvienmi  della 
semplicità  del  generale  Majo,  luogotenente-generale  di  Sicilia,  che, 
sgridato  dai  suoi  padroni  per  la  pubblicazione  del  mio  libro,  di 
che  egli  era  innocentissimo,  pensò  di  sfogare  il  dispetto  sopra  di 
me,  e  domandavami  per  esordio  «  perchè  mi  fosse  venuto  in  capo 
di  fare  il  letterato  »  e  rincalzava  l'orazione  col  dir  ch'erano  falsi 
al  certo  i  fatti  narrati,  perchè  il  popolo  non  avea  mai  vinti  i  sol- 
dati stanziali.  Alla  prima  parte  del  sermone  non  v'era  che  repli- 
care. All'ultima,  che  celava  una  buona  dose  di  paura,  io  [risposi 
per  le  rime:  che  i  tumulti  si  reprimono  talvolta,  ma  né  forza  né 
disciplina  di  soldati  mai  valse  contro  una  rivoluzione.  «  E  crede- 
rebbe, io  soggiunsi,  che  questi  granatieri,  queste  artiglierie  (noi 
eravamo  nel  palagio  reale  di  Palermo)  sarebbero  ostacolo  al  po- 
polo di  laggiù,  se  si  levasse  davvero,  se  corresse  qui  disperata- 
mente, come  fece  il  31  marzo  1282,  e  spezzò  queste  porte;  ed  Er- 
berto  d'  Orleans  ebbe  a  ventura  di  poter  fuggire?  »  Mi  guardò 
costernato,  senza  dire  né  si  né  no;  e  dopo  cinque  anni  e  pochi 
mesi,  fuggiva  di  notte  da  quelle  medesime  stanze  cinte  di  bastioni, 
afforzate  di  un  grosso  presidio.  » 

L'opera  usci  a  Palermo  nel  1841,  col  vago  titolo  :  Un  periodo 
delle  istorie  siciliane  del  secolo  XIII;  in  Francia  assunse  invece 
il  suo  titolo  vero:  La  Guerra  del  vespro  siciliano,  e  nella  prefa- 
zione del  1843  l'autore  disse  aperto  la  ragione  per  la  quale  pre- 
ferì la  narrazione  di  quel  fatto  particolare:  «  Scelsi  il  Vespro  Si- 
ciliano come  il  più  grande  avvenimento  della  Sicilia  del  medio 
evo;  il  che  se  si  chiamasse  amor  municipale,  sarebbe  mal  detto; 
perchè  la  Sicilia  parmi  assai  grande  per  una  città;  l'amor  del 
proprio  paese,  il  rammarico  de'suoi  mali,  e  il  desiderio  della  sua 
prosperità,  comunque  possan  portarla  gli  eventi,  non  si  dee  con- 
fondere con  l'egoismo  di  municipio  che  dilaniò  un  tempo  l'Italia; 


—  200  - 

passione  funesta,  dileguata  per  sempre,  io  lo  spero,  insieme  con 
l'ambizione  di  tirannide  d'ogni  popolo  italiano  sopra  l'altro.  Guar- 
dando il  Vespro  da  vicino,  lo  trovai  più  grande;  si  dileguarono 
la  congiura  e  il  tradimento;  l'eccidio  si  presentò  come  comincia- 
meuto  e  non  fine  di  una  rivoluzione;  trovai  l'importanza  nella  ri- 
forma degli  ordini  dello  Stato;  nelle  forze  sociali  che  la  rivolu- 
zione creò;  nei  valenti  uomini  che  spinse  per  ventanni  tra  i  com- 
battenti e  i  negozi  politici;  vidi  estendersi  in  altri  reami  e  per- 
petuarsi in  Sicilia,  e  fors'  anche  nel  resto  d'Italia,  gli  effetti  del 
Vespro.  Donde  potea  bene  accendersi  in  me  il  severo  zelo  della 
verità  storica;  e  poteva  io  difendermi  dall'inganno  delle  mie  pas- 
sioni nell'esame  de'fatti,  ancorché  punto  non  mi  sforzassi  ad  oc- 
cultarle nelle  parole,  » 

Questi  i  generosi  intendimenti  dell'opera  e  nessuno  negherà  che 
l'Amari  sia  stato  fedele  al  suo  proposito.  A  lui  poi,  come  ad  altri 
due  illustri    siciliani   che  lamentiamo  prima  del  tempo  estinti,  lo 
storico  Giuseppe   La   Farina  e  il  critico  Paolo  Emiliani  Giudici, 
dobbiamo   speciale    ammirazione    per   aver    saputo   guardarsi,    in 
mezzo  al  culto    quasi    idolatrico   del  papato  che  fece  traviare  nel 
nostro  secolo   tanti   nobili    ingegni  italiani,  dal  far  eco  al  plauso 
delirante  delle    plebi   abbagliate  o  sedotte,  col  serbare   intatta  là 
severità  del  loro  libero  giudicio,  sopra  le  opere  per  lo  più  ambi- 
gue e  non  di  rado  inique  del  pontificato.  Quanto  ai  mezzi  adope- 
rati dall'Amari  nel  comporre  il  lavoro  che  lo  rese  tanto  glorioso, 
giovano    pure    venir   considerati,    perchè  non  s'affidino  i  giovani 
che  basti   l'opportunità   politica  ad  assicurare  poi  lunga  o  splen- 
dida vita  ad  alcuna  pubblicazione.  La  Guerra  del  Vespro  Siciliano 
ebbe    sette   edizioni,  e  fu  tradotta  in  inglese  sotto  gli   auspicii  di 
Lord  Ellemere,  in  tedesco  dall'annoverese  dottor  J.  F.   Schròder; 
e  tentò  due  plagiarli  francesi  H.  Possien  et  J.  Chantrel  a  ripro- 
durla   sfacciatamente    sotto  il  loro    nome  col  titolo:   Les    Vépres 
Sìciliennes,    trasformata   soltanto   a   significato  guelfo.  La  prima 
edizione  aveva  fatto  gran  rumore  per  gli  intendimenti  politici  che 
le  venivano  attribuiti;  ma  tali  intendimenti  non  bastano,  perchè, 
mutati  affatto  i  tempi,  l'opera  si  ristampi,  si   divulghi  e  si  legga 
con  viva  compiacenza.  L'economia  delle  parti  che  compongono  la 
narrazione,   l'ordine    con   cui   numerosi   fatti    prima   ignoti,  dal- 
l'Amari per  la  prima  volta  sono  recati  alla  luce,  dopo  lunghe  ed 
ostinate    ricerche    da  lui  fatte  negli  Archivii  di  Palermo,  di  Na- 
poli e  di  Parigi,  lo  studio  dell'arabo  intrapreso  per  poter  meglio 
illuminare  tutto  quel   periodo   delle  storie  siciliane,  nel  quale  gli 


—  201  — 
Arabi  o  dominarono  la  Sicilia  o  vi  lasciarono  traccie  della  loro 
dominazione,  e  una  certa  cura  perchè  il  libro  divenisse  insieme, 
pel  lato  della  forma,  anche  un'  opera  d' arte,  son  tutte  ragioni 
molto  rilevanti  che  contribuirono  grandemente  a  mantenere  la 
popolarità  di  un  lavoro  accolto,  al  suo  primo  apparire,  con  una 
specie  di  entusiasmo  presso  i  liberali  italiani  e  di  sgomento  nella 
repjgia  borbonica.  Certo  chi  domandasse  ad  un  purista  o  ad  uno 
stilista  se  la  prosa  del  Vespro  sia  tutt'oro  filato  e  benedetto,  li  ve- 
drebbe appartarsi  l'uno  e  l'altro  per  farsi  in  fretta  e  di  nascosto 
(l'Amari  è  socio  corrispondente  della  Crusca)  il  segno  della  croce 
come  al  ricordo  di  un  mezzo  eretico;  ma  ciò  non  toglie  che  l'Amari 
nello  scrivere  sia  accurato  e  piacevole  artista;  si  direbbe  ch'ei  rubi 
nella  sua  storia  una  certa  lucida  e  graziosa  ingenuità  di  racconto 
ai  cronisti  del  trecento,  e  la  prudente  gravità  dell'osservazione 
alle  storie  fiorentine  del  Macchiavelli,  derivando  poi  da  sé  stesso 
oltre  al  sapere,  il  rapido  impeto,  la  cara  vivacità,  il  nerbo  efficace, 
il  nobile  coraggio,  l'anima  simpatica,  la  parte,  in  somma,  che  me- 
glio si  comunica;  io  non  so,  in  vero,  se  tutte  queste  qualità  ba- 
stino a  formare  uno  scrittore  veramente  classico,  ma  sono,  o  mi 
paiono,  al  certo,  esuberanti,  se  ci  contenteremo  di  venire  ammae- 
strati da  uno  scrittore  che  molto  pensa,  molto  sa  e  molto  ama, 
e,  come  opera  virilmente,  cosi  parla  da  uomo.  Rammentiamo,  per 
esempio,  una  sola  pagina  del  libro  del  Vespro;  essa  basterà  a 
darci  la  misura  della  potenza  di  Michele  Amari  come  scrittore. 
«  Immemori  di  sé  medesimi,  egli  scrive  nello  stupendo  sesto  ca- 
pitolo, e  come  percossi  dal  fato,  gli  animosi  guerrieri  di  Francia 
non  fuggiano,  non  adunavansi,  non  combatteano:  snudate  le  spade 
porgeanle  agli  assalitori,  ciascuno  a  gara  chiedendo:  Me,  me  pri- 
mo uccidete  »  sì  che  d'un  gregario  solo  si  narra  che,  ascoso  sotto 
un  assito,  e  snidato  coi  brandi,  deliberato  a  non  morir  senza 
vendetta,  con  atroce  grido  si  scagliasse  tra  la  turba  de'nostri  di- 
speratamente, e  tre  n'  uccidesse  pria  di  cader  egli  trafitto.  Nei 
conventi  dei  Minori  e  dei  Predicatori  irruppero  i  sollevati,  quanti 
frati  conobber  francesi  trucidarono.  Si  lavaron  le  mani  nel  san- 
gue degli  uccisi.  Gli  altari  non  furono  asilo;  prego  o  pianto  non 
valse;  non  a  vecchi  si  perdonò,  non  a  bambini  né  a  donne.  I  ven- 
dicatori spietati  dello  spietato  eccìdio  di  Agosta,  gridavano  che 
spegnerebbero  tutta  semenza  francese  in  Sicilia;  e  la  promessa 
orrendamente  scioglieano  scannando  i  lattanti  su  i  petti  alle  ma- 
dri, e  le  madri  da  poi,  e  non  risparmiando  le  incinte;  ma  alle 
siciliane  gravide  di  francesi,  con  atroce  misura  di  supplizio,  spa- 


—  202  — 
rarono  il  corpo,  e  scerparonne  e  sfracellaron  miseramente  a' sassi 
il  frutto  di  quel  mescolamento  di  sangui  d'oppressori  e  d'oppressi. 
Questa  carnificina  di  tutti  gli  uomini  d'una  favella,  questi  esecra- 
bili atti  di  crudeltà,  fean  registrare  il  vespro  siciliano  tra  i  più 
strepitosi  misfatti  di  popolo,  che  vasto  è  il  volume,  e  tutte  le  na- 
zioni scrisservi  orribilità  della  medesima  stampa  e  peggiori,  le 
nazioni  or  più  civili,  e  in  tempi  miti  e  anche  svenevoli;  e  non 
solo  vendicandosi  in  libertà,  non  solo  contro  stranieri  tiranni,  ma 
per  insanir  di  setta  religiosa  o  civile,  ma  ne'concittadini,  ne'fra- 
telli,  ma  in  moltitudine  tanta  d'innocenti,  che  spegneano  quasi 
popoli  intieri.  Ond'io  non  vergogno,  no,  di  mia  gente  alla  rimem- 
branza del  Vespro,  ma  la  dura  necessità  piango  che  avea  spinto 
la  Sicilia  agli  estremi;  insanguinata  co'supplizj,  consumata  dalla 
fame,  calpestata  e  ingiuriata  nelle  cose  più  care;  e  si  piango  la 
natura  di  quest'uom  ragionante  e  plasmato  a  somiglianza  di  Dio, 
che  d'ogni  altrui  comodo  ha  sete  ardentissiraa,  che  d'ogni  altrui 
passione  é  tiranno,  pronto  ai  torti,  rapido  alla  vendetta,  sciolto  in 
ciò  d'ogni  freno  quando  trovi  alcuna  sembianza  di  virtù  che  lo 
scolpi;  si  come  avviene  in  ogni  parteggiare  di  famiglia,  d'amistà, 
d'ordine,  di  nazione,  d'opinion  civile  o  religiosa.  » 

Ma  quel  racconto  non  gli  fu  perdonato  dai  padroni  di  Napoli.  Il 
re  Ferdinando  secondo  si  credette  rappresentato  in  re  Carlo 
D'Angiò,  e  il  suo  degno  ministro  Del  Carretto  in  Guillaume 
r  Estendard  ;  il  libro  venne  proibito;  l'editore  accusato  e  tratto 
a  morire  nell'isola  di  Ponza;  il  censore  dimesso  dall'impiego; 
l'autore  invitato  a  recarsi  a  Napoli;  ma  egli,  prevedendo  il  fine 
di  quella  citazione,  salpò  invece  alla  volta  di  Francia,  e  si  ridusse 
a  Parigi,  ove  trovò  accoglienza  ospitale,  e  cortese  assistenza  negli 
studii,  ch'egli  prosegui  con  alacrità  mirabile,  fra  gli  altri,  presso 
il  Buchon,  il  Letronne,  il  Michelet  il  Thierry,  il  Villemain  (allora 
ministro  della  pubblica  istruzione),  l'Hase,  il  Reinaud,  il  Le  Nor- 
mand,  il  Longperrier,  ed  altri  uomini  insigni.  A  Parigi,  l'Amari 
apprese  pure  l'arabo;  ne  sentiva  il  bisogno  per  valersi  de' nume- 
rosi documenti  arabi  che  valgono  ad  illustrare  la  storia  siciliana; 
e  r  apprese  in  modo  da  divenire  egli  stesso  il  primo,  senza 
dubbio,  degli  arabisti  italiani,  ed  uno  fra  i  primissimi  arabisti 
viventi  d' Europa  ;  attese  pure  con  profitto  in  Parigi  presso  il 
professor  Hase  allo  studio  del  greco  moderno.  Gli  insegnò  l'arabo 
il  Reinaud,  del  quale  egli  scriveva  poi  un  affettuoso  ricordo 
nella  Ricista  orientale  di  Firenze,  e  lo  aiutò  pure  nel  primo 
anno  de'  suoi  studii  arabici  il  barone  Mac-Guckin  De  Slane.  Con 


—  203  — 
tutti  questi  aiuti  ed  altri  più  che  l'operosità  sua  instancabile  avea 
saputo  procacciarsi,  l'Amari  si  trovò  finalmente  in  condizione  di 
poter  preparare  agli  studiosi  una  Storia  dei  Musulmani  in  Sicilia, 
della  quale  sono  ora  pubblicati  i  due  primi  volumi  e  la  metà  del 
terzo,  essendo  d'imminente  pubblicazione  l'ultima  parte  che  com- 
pierà il  grandioso  lavoro.  Dalla  prefazione  al  primo  volume  di 
questa  storia  edito  nell'anno  1854  in  Firenze  dal  Le  Mounier,  è 
lecito  argomentare  quanta  pazienza  di  ricerche,  quanta  ostina- 
zione di  proposito  abbia  dovuto  mettere  in  opera  l' Amari  per 
riuscire  al  compimento  dell'ardua  sua  impresa;  e  l'esempio  suo 
ci  parrà  tanto  più  degno  d'ammirazione,  quando  si  pensi  che  men- 
tre lavorava  cosi  intensamente  su  materiali  spesso  indigesti  e  di 
difficile  interpretazione  per  colmare  una  importante  lacuna  nella 
storia  dell'  isola  sua  nativa,  mosso  dal  solo  desiderio  e  dalla  sola 
speranza  di  venire  in  servizio  della  verità  storica,  dovea  pure 
lottare  ogni  giorno  non  per  vincere,  ma  per  rendere  meno  dura 
la  povertà  che  il  necessario  esigilo  gli  aveva  imposta.  Ma  la 
stessa  preparazione  di  materiali  storici  richiedeva  un  dispendio 
assai  superiore  ai  piccoli  mezzi  di  sostentamento  che,  nella  sua 
condizione  di  esule,  l'Amari  riusciva  stentatamente  a  procacciar- 
si; e  a  questo  bisogno  dello  studioso  sovvennero  in  parte  alcuni 
amici,  come  egli  stesso  ci  confessa  sul  fine  della  prefazione  al 
primo  volume  della  Storia  de  Musulmani,  ove,  dopo  avere  pro- 
fessata la  sua  gratitudine  alla  Società  orientale  tedesca,  che  prov- 
vide splendidamente  alla  pubblicazione  della  Biblioteca  aràbico- 
sicula,  che  l' autore  avea  raccolta  e  ordinata  con  pazienza  da 
Benedettino  (1)  prima  d' imprendere  a  scrivere  il  nuovo  suo  libro; 
al  munifico  duca  di  Luines  per  la  carta  comparata  della  Sicilia 
eh'  egli  preparò  in  società  con  1'  Amari  e  col  Dufour  e  fece  poi 
incidere  e  pubblicare  a  sue  spese  (2);  al  dottor  Dozy,  per  i  do- 
cumenti che  gli  comunicò  da  Leida,  ad  Alfonso  Rousseau  in 
Tunisi,  al  dottor  Weil  in  Heidelberg,  al  Gayangos  in  Madrid,  al 
Cherbonneau  in  Costantina,  al  Wright,  al  conte  Francesco  Mini- 
scalchi eminente  orientalista  veronese,  e  ad  alcune  altre  persone 
egregie  che  corrisposero  gentilmente  alle  sue  richieste  relative 
alla  storia  dei  Musulmani  ;  conchiude  con  le  parole  seguenti  che 
meritano  di  tener  qui  posto,  per   l' importanza  dell'  opera  a  pro- 


ci) Quest'opera  monumentale  fu  pubblicata  a  Lipsia  nel  1856  e  1857. 
(2)  Questo  bel  lavoro  fu  pubblicato  a  Parigi  nel  1859. 


—  204  — 
muovere  la  quale  gli  aiuti  erano  diretti.  «  Mentre  io  studiava  in 
Parigi,  scriv'  egli,  risegnato  lo  impiego  nel  Ministero  di  Palermo 
e  lo  stipendio  di  quello  che  m'  era  unico  mezzo  di  sussistenza; 
parecchi  amici  dal  ISié  al  1846  mi  soccorsero  di  danaro,  da  rim- 
borsarsi col  prezzo  dell'  intrapreso  lavoro.  Il  fecero  per  benevo- 
lenza verso  di  me,  e  zelo  per  un'  opera  che  speravano  illustrasse 
la  storia  del  paese;  tra  i  quali  se  alcuno  partecipava  le  mie 
opinioni  politiche  e  altri  allora  vi  si  avvicinava,  altri  non  era 
meco  legato  che  di  privata  amistà;  né  questa  associazione  ebbe 
mai  indole  né  scopo  politico,  foss'anco  di  mera  dimostranza.  L'as- 
sociazione fu  promossa  dal  barone  di  Friddani  e  da  Cesare  Airoldi 
la  secondarono  in  Sicilia  Mariano  Stabile,  amico  mio  dalla 
fanciullezza,  il  principe  di  Granatelli  e  altri  amici,  e  lo  Sta- 
bile si  incaricò  di  riscuotere  il  danaro  in  Sicilia,  e,  riscosso 
0  no,  me  ne  somministrava.  Io  accettai  la  profferta.  Soscris- 
sero  Cesare  Airoldi,  Massimo  d' Azeglio,  la  signora  Carpi,  il 
barone  di  Friddani,  la  famiglia  Gargallo,  Giovanni  Merlo,  Do- 
menico Peranni,  il  marchese  Ruffo,  il  duca  San  Martino,  il  prin- 
cipe di  Scordia,  il  conte  di  Siracusa,  Mariano  Stabile,' il  signor 
Troysi,  e  quegli  che  primo  mi  avea  confortato  agli  studii  storici 
tanti  anni  innanzi,  il  carissimo  mio  Salvatore  Vigo;  i  nomi  dei 
quali  ho  messo  per  ordine  alfabetico.  Non  tutti  fornirono  la  stessa 
somma  di  danaro;  poiché  chi  pagò  in  una  volta  tutte  le  cinque 
quote  di  ogni  messa,  le  quali  si  doveano  fornire  successivamente; 
e  chi  fu  richiesto  d'  una  o  due  quote,  e  non  fu  sollecitato  per  le 
altre  ;  i  particolari  del  qual  conto  van  trattati  tra  me  e  i  soscrit- 
tori,  e  al  pubblico  non  ne  debbo  dir  altro  che  il  benefìcio  e  la 
gratitudine  mia.  Mutato  alla  fin  del  1846  il  disegno  della  pubbli- 
cazione, e  intrapresa  questa  dall'  editore  signor  Le  Mounier,  io 
non  ho  altrimenti  usato,  d'  allora  a  questa  parte,  il  comodo  che 
mi  aveano  offerto  sì  liberalmente  i  soscrittori.  »  Il  primo  volume 
della  StOìHa  di  Miisulmaìii  apparve  in  Firenze  nel  1854,  il  secondo 
volume  nel  1858,  la  prima  parte  del  terzo,  solo  dieci  anni  dopo, 
del  qual  ritardo  1'  autore  stesso  ci  rende  ragione  nella  breve  av- 
vertenza premessa  al  terzo  volume  «  uscito  il  primo  volume  nel 
1854,  lo  segui  il  secondo  nel  1858,  e  nello  stesso  anno  erano  già 
composte  in  caratteri  da  stampa  54  pagine  del  presente  volume. 
Ma  ritornato  in  Italia  per  causa  de' grandi  avvenimenti  del  1859, 
io  non  mi  chiusi  in  uno  scrittoio.  Qualche  ufììcio  pubblico  eser- 
citato, qualche  altro  lavoro  dato  alla  luce,  mi  distoglieano  sì  fat- 
tamente dalla  storia  dei  Musulmani  in  Sicilia,  che  ho  potuto  ap- 


—  205  — 
pena  un  po'  nel  186-2  e  un  po'  dal  1865  in  qua,  scrivere  il  rima- 
nente del  quinto  libro,  il  quale  termina  1'  assetto  della  domina- 
zione normanna.  »  Le  altre  opere  dell'  Amari  son  le  seguenti: 
Note  alla  Storia  costituzionale  di  Sicilia  di  Niccolò  Palmieri 
(Losanna,  1847,  Palermo  1848),  La  Sicile  et  Ics  hourbons  (Parigi 
1849)  Solwan  al  Mota,  ossia  Conforti  politici  di  Ibn  Zafer,  arabo 
siciliano  del  XII  secolo  (Firenze  in  italiano,  Londra  in  inglese, 
185:2),  Description  de  Palerme  par  Ibn  Haucal  tradotta  dal^ 
r  Arabo,  nel  Journal  Asiatique  (1845)  Voyage  en  Side  de  Moìiam- 
ìued  Ibn  Djodair,  nello  stesso  (1846-1847),  altri  scritti  minori 
nello  stesso,  nella  Revue  Archéologique,  nell'  Archivio  storico, 
nella  Nuova  Antologia,  nella  Rivista  Orientate,  nella  Rivista 
Sicula,  una  memoria  sulla  cronologia  del  Corano,  premiata  nel 
1858  ùdàY Institut  di  Francia  che  1'  anno  innanzi  l' avea  nominato 
suo  membro  corrispondente,  i  Diplomi  arabi  del  Regio  Archivio 
fiorentino,  pubblicati  in  Firenze  nel  1863.  Ma  tre  volte  fu  l'Amari 
distolto  da' suoi  cari  studii  per  attendere  di  proposito  al  governo 
della  cosa  pubblica,  la  prima  nel  1848,  la  seconda  nel  1860,  la  terza 
nel  1862.  Scoppiata  la  rivoluzione  del  1848,  il  nostro  storico  lascia 
Parigi  e  corre  a  pigliare  il  suo  schioppo  di  cittadino  a  Palermo. 
L'arrivo  suo  è  festeggiato;  gli  si  offre  una  cattedra  di  giurispru- 
denza civile  all'università,  e  un  posto  al  parlamento  siciliano,  e 
finalmente  il  portafoglio  delle  finanze.  L'Amari  tenta  tosto  nego- 
ziare un  prestito  nella  Francia  repubblicana  ;  ma  i  francesi,  che 
sono  ora  cosi  pronti  a  sollevare  alte  grida  d'ingratitudine  contro 
r  Italia  che  non  presta  il  suo  oro  affinchè  la  Francia  ce  lo  resti- 
tuisca in  forma  di  mine  subalpine  o  di  nuovi  chassepots  da  spe- 
rimentarsi su  petti  italiani,  non  corrisposero  in  alcun  modo  al- 
l'aspettativa, cosi  che  si  dovette  contare  sopra  le  sole  risorse 
siciliane.  Come  ministro  delle  finanze  l'Amari  non  percepì  in  Si- 
cilia alcuno  stipendio,  e  si  tenne  pago  della  modesta  ospitalità 
che  un  suo  fratello  gli  offriva.  Nel  1849  poi,  vedendo  minacciata 
la  fortuna  della  patria,  si  reca  in  Francia  sullo  steamer  Porcu- 
pine,  fornitogli  dall'ammiraglio  inglese  Parker,  con  una  missione 
politica;  pubblica  a  Parigi  presso  il  Franck  un'opuscolo  storico- 
politico,  intorno  ai  Borboni  e  alla  Sicilia;  ma,  trova  piìi  che 
freddo  il  governo  di  Francia,  e  legate  dai  Tories  le  mani  del  più 
benevolo  fra  i  ministri  d' Inghilterra.  Fallita  la  sua  missione, 
torna  a  Palermo  il  14  aprile  1849,  per  assistere  soltanto  al 
trionfo  della  reazione  borbonica,  e  fuggirne  sull'  Odin  a  Malta, 
il  giorno  22  dello  stesso  mese.  Da  Malta  egli  fa  ritorno  in  Fran- 


—  206  — 

eia,  scampando  a  fatica  dal  naufragio  dello  steamer  francese;  e 
si  riduce  nuovamente  a  Parigi,  per  continuarvi  i  lavori  intermessi. 

Dieci  anni  dopo,  gli  avvenimenti  politici  d'Italia  richiamarono 
di  nuovo  in  patria  l'Amari;  il  i  maggio  del  1859,  il  governo  prov- 
visorio toscano  gli  affidava  la  cattedra  della  lingua  araba  a  Pisa, 
per  invitarlo  poi  nel  dicembre  dello  stesso  anno  ad  inaugurare  il 
corso  di  lingua  e  letteratura  araba  nell'Istituto  di  studii  superiori 
^  di  perfezionamento  in  Firenze.  Nel  giugno  1860,  l'Amari  rag- 
giungeva in  Sicilia  Garibaldi  già  vittorioso,  che  pose  tosto  l'emi- 
nente siciliano  a  capo  del  ministero  dell'istruzione  e  de'  lavori 
pubblici,  e  nel  mese  d'agosto,  a  capo  di  quello  degli  esteri.  Il  no- 
stro patriota  dava  quindi  col  proJittatore  De  Pretis  e  co' suoi  col- 
leghi le  proprie  demissioni,  avendo  Garibaldi  rifiutato  la  loro  propo- 
sta di  provocare  in  Sicilia  un  plebiscito  che  dichiarasse  l'annessione 
dell'isola  al  Regno  d' Italia.  Nell'ottobre  di  queir  anno  medesimo, 
il  prodittatore  Mordini,  con  infelice  pensiero,  nominava  l'Amari 
storiografo  della  Sicilia,  titolo  servile  che  lo  storico  del  Vespro  na- 
turalmente ricusava,  non  parendogli  conforme  ne  alla  condizione 
mutata  de' tempi  né  agli  ordini  liberi  del  paese.  Più  tardi  l'Amari 
prendeva  parte  importante  ai  lavori  della  commissione  incaricata 
di  proporre  il  migliore  ordinamento  amministrativo  dell'  isola  ; 
veniva  eletto  senatore  del  Regno,  e,  nell'anno  1862,  chiamato  a  far 
parte  come  ministro  della  pubblica  istruzione,  di  quel  gabinetto, 
Minghetti-Peruzzi,  che  cadde  poi  malamente,  per  la  Conven- 
zione di  settembre  d' infelice  memoria. 

Nel  suo  alto  e  speciale  ufficio  meritò  lode  l'Amari  per  la  one- 
sta, serena  e  catoniana  fermezza  che  vi  dimostrò,  e  pel  carattere 
aperto  e  deciso  di  cui  egli  spiegò  in  quella  occasione  tutta  la 
forza.  Neil'  amministrazione  del  proprio  ministero  impedi  gli  abusi 
che  da  lungo  tempo  vi  si  tolleravano,  diminuì  le  spese,  soppresse 
molti  privilegi,  non  ascoltò  preghiere  d'amici  o  minacele  di  nemici, 
ogni  qualvolta  gli  fosse  consigliata  cosa  che  gli  paresse  illiberale 
ed  ingiusta,  e,  rara  avis  tra  i  ministri  italiani,  non  mutò  mai  la  pro- 
pria parola  data.  E  ciò  nondimeno,  anco  ministro,  seppe  mostrarsi 
amabile;  non  alterò  la  semplicità  del  suo  costume,  né  la  benignità 
dell'animo;  l'amico  mio  Vincenzo  Riccardi  disse  bene  in  una  sua 
bella  poesia  che  i  forti  son  miti;  l'Amari  ancor  esso  ha  la  sapiente 
moderazione  della  forza    (1).    Reduce   nel    settembre   del  1804  da 


(1)  Lo  rappresentò  bene,  por  qucst' aspetto,  il  signor  Gustave  Dugat, 
nel  primo  volume  della  sua  Hstoire  des    Orientaìistes  de  l'Europe  du 


—  207  — 

Torino,  ripigliò  stanza  in  Firenze  in  una  modesta  solitaria  ca- 
setta ora  distrutta,  che  faceva  angolo  all'  estremità  della  via  Ca- 
vour e  della  via  del  Maglio.  In  quella  casetta  io  lo  visitai  per  la 
seconda  volta;  la  prima  visita  l'avevo  fatta  ufficialmente  al  mini- 
stero, di  ritorno  da  Berlino,  onde  il  ministro  mi  aveva  richiamato 
con  sollecitudine  quasi  paterna.  Io  non  posso  dimenticare  quello 
stanzino  e  la  dolce  impressione  che  vi  provai  nell' ammirar  tanta 
naturale  modestia  in  tanta  vera  grandezza.  Benevolo  coi  disce- 
poli (1),  affabile  coi  colleghi,  leale  con  gli  avversarli.  Michele 
Amari  è  uno  di  que'  pochi  uomini  che  si  lasciano  amare  e.l  am- 
mirare intieramente,  e  de'  quali,  se  ne  avessero,  poiché  non  sono 
al  certo  stoffa  da  far  santi,  sto  per  dire  che  si  amerebbero  anche 
i  difetti,  non  potendo  essere  altro  che  un  movente  generoso  quello 
che  li  spingesse,  per  avventura,  a  qualche  eccesso.  Ma  dell'Amari, 
per  fortuna,  io  non  seppi  mai  altre  novelle,  a  meno  eh'  io  non 
volessi  farmi  addirittura  indiscreto  narrando  com'  egli  sappia  ren- 
der felice  l'amabile  e  più  che  colta  signora  la  quale,  in  compenso 
d'una  lunga  vita  solitaria,  laboriosa  e  travagliata,  lo  premia  nei 
tardi  ma  vegeti  anni  con  le  piìi  soavi  e  sante  gioie  domestiche, 
ed  aggiungendo  come  una  viva  consolazione  m'  inondi  il  petto 
paterno,  quando  m' è  dato  di  vederlo  così  tenero,  cosi  attento,  cosi 


A7/  au  XIX  siede  (Paris  Maisonneuve.  1868),  ove  scrive  dell'Amari: 
«  On  ne  sait  pas  ce  qu'il  faut  le  plus  admirer  dans  sa  vie  politico- 
littéraire:  De  l'homme  d'État  aux  vues  élevées  et  conciliantes,  ou  de 
rorientaliste  tìdèle,  qui  revient  avec  empressement  à  ses  travaux  de 
prèdilection,  aussitòt  que  son  action  politique  n'est  plus  nécessaire  à 
son  pays.  Michel  Amari  est  une  des  nobles  flgures  de  la  revolution 
italienne.  Il  a  su  joindre  h  l' energie  du  caractére  une  intelligence 
d'elite,  une  grande  aménité  de  raoenrs.  Bienveillant,  doux,  dans  ses 
relations  d'une  sìmplicité  antique,  on  l'a  vu,  après  avoir  éfé  ministre 
des  flnances  en  Sicile,  venir  reprendre  sa  modeste  chambre  à  Paris  et 
demander  au  travail  le  pain  quotidien.  D'une  aptitude  remarquable 
pour  les  travaux  historiques,  il  saisit  vite  la  portée  politique  des 
institutions  qu'il  étudie.  Douè  du  sens  philosophique,  il  a  jeté  sur 
l'histoire  musulmane  en  Sicile  de  vives  lumières.  » 

(1)  L'Amari  è  ora  professore  pensionato;  pur  tuttavia  continua  ad 
onorare  l' Istituto  di  studii  superiori,  insegnandovi  spontaneamente 
l'arabo;  dalla  sua  scuola  uscirono,  fra  gli  altri,  due  distintissimi 
alunni,  il  signor  Buonazia,  e  Celestino  Schiapparelli  l'editore  del  voca- 
bolista latino-arabico. 


—  208  ~ 

provvido  padre  alla  vispa  e  cara  nidiata  di  fanciulli  che  gli  pigola 
e  gli  vezzeggia  graziosamente  intorno  (1). 


(1)  Qui  finirebbe  il  Ricordo  dell'Amari,  ma  io  domando  licenza  al  gio- 
vine lettore  di  fargli  ancora  un'altra  non  breve  confidenza  che  riguarda 
me  particolarmente.  Così  com'  io  sono,  io  mi  devo  veramente  tutto  a 
me  stesso  e  allo  sforzo  continuo  che  vado  pur  sempre  facendo  per  di- 
venire a'miei  occhi  migliore.  Ho,  senza  dubbio,  gra1,itudine  a  molti;  poiché 
dall'esempio  di  molti  ho  cercato  derivar  il  maggior  profitto  mio,  ma  io 
ve'  dir  questo,  che  nella  vita  non  incontrai  né  alcun  pedagogo  che  mi 
guidasse,  né  alcuna  provvidenza  che  facesse  per  me.  Non  ho  mendicato 
alcun  favore  mai,  né  altri  lo  mendicò  in  nome  mio  ;  mi  trovai  più  volte 
la  strada  chiusa  e  l'apersi,  ma,  nel  modo  più  naturale,  abbattendo,  supe- 
rando gli  ostacoli  con  quelle  poche  forze  che  la  natura  può  aver  consentito 
all'ingegno.  Perciò  nella  mia  gratitudine  non  si  vedrà,  spero,  alcuna  servi- 
lità; l'animo  riconoscente  me  la  inspira,  non  alcun  altio  fine  men  degno. 
In  questi  giorni  stessi  esce  a  Londra  la  mia  Mitologia  zoologica»  ed  io  ho 
dedicato  questo  che  mi  sembra  il  meno  inutile  de'  miei  lavori  scienti- 
fici a  due  ex-ministri  italiani,  ai  quali  mi  professo  gratissimo.  Michele 
Amari  e  Michele  Coppino.  Mi  giova  significar  qui  i  motivi  di  tanta  gra- 
titudine :  Nel  1863,  io  ero  a  Berlino  intentissimo  a'miei  studii  indiani,  e 
stavo  per  domandare  al  Ministero  licenza  di  rimanere  ancora  un  altro 
anno  all'estero,  quando  mi  giunse  lettera  dell'Amari  con  la  quale  egli 
mi  significava  come  si  fosse  disposto  di  nominarmi  professore  straor- 
dinario di  lingue  ariane  nell'  Istituto  di  Studii  superiori  di  Firenze, 
dove  urgeva  di  provvedere  a  quella  cattedra.  Quella  lettera  inaspettata 
mi  turbò;  scrissi  al  Ministero, come  la  modestia  mia  allora  mi  consigliava, 
ed  avvertii  la  troppo  grande  povertà  del  mio  sapere  ;  il  ministro  Amari 
mi  riscrisse,  incoraggiandomi  ad  accettare,  con  parole  piene  di  bene- 
volenza, le  quali  diedero,  senza  dubbio,  una  forte  scossa  alla  mia  in- 
certa volontà.  Partì  tosto  la  mia  nomina  ;  ed  io  mi  disposi  prontamente 
al  ritorno.  Prima  che  tornassi  a  Torino,  alcuni  burocratici  del  mini- 
stero avevano  intanto  gridato  e  fatto  gridare  allo  scandalo  in  un  notis- 
simo giornale  torinese  ;  si  avvertiva  come  avessi  da  soli  tre  anni  la- 
sciata l'università,  e  come  mi  fossero  già  state  concesse  in  due  soli  anni, 
tre  promozioni  (da  incaricato  di  ginnasio  a  professore  reggente  di  gin- 
nasio, e  finalmente  a  titolare  del  Liceo  di  Lucerà,  oltre  l' invio  a  Ber- 
linoj  ;  era  troppo  gran  salto  quello  che  mi  si  voleva  far  fare  ad  un 
tratto.  Avvertito  in  Torino  del  rumore  sollevato  per  la  mia  nomina, 
scrivo  all'Amari  pregandolo  o  di  lasciarmi  ripartire  per  l'estero  o  di 
porre  al  concorso  la  cattedra  da  me  non  ambita,  perché,  se,  per  av- 
ventura, fra  i  malcontenti,  si  fosso  trovato  alcuno  che  potesse  dare  mi- 
glior saggio  di  so,  quegli,  com'era  giusto,  ottenesse  il  posto.  L'Amari  mi 


—  209  — 

riscrive  tosto  di  recarmi  senza  timore  a  Firenze,  e  che,  dal  lato  suo,  egli 
è  perfettamente  tranquillo  d'aver  fatto  buona  scelta;  che,  in  ogni  modo, 
poi  non  si  può  far  concorso  per  un  posto  di  straordinario.  Nel  primo  anno 
del  mio  insegnamento,  la  fortuna  m'arride,  le  mie  lezioni  sono  gradite 
dal  pubblico,  e  l'Amari  ministro,  informatone  pure  in  via  privatissima 
da  un  suo  valente  amico,  il  signor  Vito  Beltrani  che  in  quel  primo 
anno  m'aggiunse  singoiar  coraggio,  mi  affida  con  sua  lettera  incorag- 
giante, che,  nell'anno  successivo,  sarei  eletto  professore  titolare.  Cadde 
nel  settembre  1864  il  ministero  Minghetti-Peruzzi  ;  al  ministro  Amari 
successe  il  barone  Natoli.  Ma,  frattanto,  nell'animo  mio,  s'andava  agitando 
una  sorda  e  tremenda  battaglia  d'affetti.  Io  aveva  24  anni  e  da  dieci  anni 
avevo  sempre  unicamente  studiato,  senza  occuparmi  di  politica;  mio  padre, 
uomo  di  rigidi  e  santi  costumi,  che,  per  un  verso,  mi  aveva  invitato  a  pensare 
liberamente  sulle  cose  della  religione  ed  era  stato  primo  a  rivelarmi  i  prin- 
cipi! astronomici  del  Dupuis,  professava  in  politica  i  principi!  più  asso- 
luti. La  mia  natura  si  ribellava  bene  ad  essi,  e  come  incominciai  a  scri- 
vere, nella  vita  di  Santorre  Santa  Rosa  deposi  le  mie  prime  proteste 
contro  lo  spergiuro  de'  principi  e  nella  mia  tesi  di  laurea  presi  a  com- 
battere il  potere  temporale  de' papi  ;  ma  quell'impeto  di  giovanile  ri- 
bellione era  in  breve  soffocato  dalla  cura  severa  di  studii  gravi  ed  ur- 
genti, ai  quali  tutto  il  mio  tempo  fu  dedicato.  Nel  1864,  venne  a  chie- 
dermi ospitalità  un  giovine  mio  conterraneo  che  io  non  conosceva 
ancora,  laureato  in  legge  nell'università  di  Torino;  dicevasi  giovanilmente 
illuso,  pieno  d'ammirazione  per  me,  e  voleva,  convivendo  meco,  apprendere, 
in  che  modo  si  possa,  essendo  così  giovine,  durar  lungamente  al  lavoro.  Gli 
apersi  le  braccia  ed  il  cuore.  Era  giovine  di  bell'animo  e  di  vivace  ingegno, 
ma  confuso;  aveva  fatto  molte  letture  ma  disordinate  ;  s'era  battuto  con 
Garibaldi  al  Volturno,  avea  molto  letto  le  storie  della  Rivoluzione  fran- 
cese" del  1789  e  93,  e  ammirava  grandemente  quegli  eroi  desiderando 
riprodurli  ;  ne' momenti  poi  d'impazienza,  ne' quali  mi  vedeva  perdurare 
allo  studio,  mentr'egli,  male  avvezzo,  non  vi  potea  reggere,  mi  trovava 
freddo,  apatico,  tepido  amico  della  libertà  ;  frequentava  le  riunioni  della 
Società  democratica,  e  tornato  in  casa  mi  recitava  i  discorsi  che  avrebbe 
voluto  farvi  e  non  vi  avea  fatti,  perchè  interrotto  da  altri  oratori  ;  fi- 
niva poi  spesso  col  dirmi  che  degli  scrittori  i  quali  non  sanno  suggel- 
lare con  l'opera  que'  principii  che  professano,  egli  poteva  far  poca 
stima.  Io  sentiva  che  la  frecciata  veniva  a  me,  ed  una  segreta  vergogna 
veniva  sempre  a  pungermi.  Ma  pur,  che  fare  ?  Se  una  guerra  fosse  in 
que'  giorni  scoppiata,  certo  io  sarei  i)artito  senz'altro  pel  campo  col  mio 
giovine  amico;  guerra  non  v'era;  che  potevo  io  allora  fare,  per  convin- 
cere me  stesso  che  non  mi  mancava  il  coraggio?  Io  mi  tormentavo  dun- 
que in  questi  pensieri  segreti,  quando  1'  amico  mio  partì  per  Torino 
ed  arrivò  in  Firenze  un  celebre  profugo  rivoluzionario  straniero.  Era 
un  bel  parlatore;  lo  udivo  spesso  in  una  riunione  di  stranieri  che  fre- 
quentavo ;  egli  s'era  avveduto  come  l'ascoltassi   compiacente;  non  sa- 

RicoKDi  Biografici  l'i 


—  210  — 

peva  ancora  chi  fossi  ;  domandò  di  me.  Incominciò  alfine  una  sera  a 
rivolgermi  in  disparte  la  parola  ;  s'accorse  che  qualche  cosa  d'insolito 
s'agitava  entro  di  me;  mi  chiese  perch'io  non  fossi  Massone.  Risposi 
«  perchè  detesto  tutte  le  società  segrete,  ed  amo  rispondere  in  pubblico 
d'ogni  mio  atto,  che  di  nessun  atto  mio  voglio  poter  arrossire  ».  E  poi, 
aggiunsi  «  quello  che  i  Massoni  fanno  non  mi  par  serio  abbastanza,  o  se 
sia  serio  veramente  niente  impedirebbe  loro  di  rinunziare  a  quelle  loro 
pompe  orinai  divenute  ridicole  ».  Su  questo  punto^  il  fuoruscito  non  pa- 
reva troppo  dissentire  da  me  ;  ed  anche  sull'argomento  delle  società 
segrete  volle  pure  concedermi  un  poco  di  ragione,  ma  per  insistere 
quindi  vivamente,  che,  in  certi  casi,  ove  si  trattasse  di  preparare  una 
immediata  ed  efficace  rivoluzione,  non  si  poteva  far  a  meno  di  cospi- 
rare. «  Ed  a  die  prò,  domandai  io,  la  rivoluzione  ?  Per  sostituire  la  re- 
pubblica alla  monarchia  ?  È  una  parola  che  si  sostituisce  ad  un'altra  e 
nulla  più,  è  un  equivoco  dove  non  si  trasformi  la  società  stessa  ».  «  E 
a  questo  appunto  intendiamo  noi;  per  questo  una  società  segreta  si  ordina; 
noi  non  facciamo  questione  di  forme  politiche;  la  sola  questione  sociale  ci 
occupa  e  ci  importa;  noi  vogliamo  la  rivoluzione  sociale  ».  Il  discorso 
s'accese  allora  e  si  protrasse  a  lungo  su  questo  argomento;  io  tornai  a 
casa  con  la  febbre.  Provai  a  mettermi  in  letto;  non  trovai  il  sonno;  balzai 
e  passeggiai  due  ore,  interrogando  sempre  la  mia  coscienza;  io  volevo, 
con  giovanile  abbandono,  sposar  la  rivoluzione;  ma  sentivo,  al  tempo  stesso, 
ch'io  non  potevo,  durando  in  un  simile  proposito,  ricevere  il  pane  da  quel 
governo,  che,  come  ogni  altro  governo^  nel  mio  fervore  di  neofita  miravo 
a  distruggere  ;  non  volli  esser  vile;  lanciai,  in  quella  notte  stessa,  la  mia 
sfida  insolente  al  governo  dando  le  mie  demissioni,  e  per  incominciare 
il  primo  atto  rivoluzionario,  improvvisai  l'inno  La  sociale,  che  si  stampò 
alla  macchia,  ed  invitai  i  colleghi  che  la  pensavano  come  me,  a  fare  il 
medesimo  eh'  io  avevo  fatto.  Io  ero  audace^  senza  dubbio,  nel  muover 
loro  un  somigliante  invito,  ma  non  comprendo  oggi  ancora  perchè  tanti 
ne  siano  rimasti  offesi.  Io  vituperavo  pur  que'soli  che  avendo  il  mio  pro- 
posito di  minar  lo  stato  se  ne  lasciassero  tranquillamente  beneficare;  evi- 
dentemente di  tali  non  ve  n'erano  fra  essi  ;  peggio  dunque  per  me  che  ri- 
manevo solo;  ma  in  che  li  offendevo  io  dunque  se  essi  tali  non  erano?  E  fui 
abbandonato, deriso,  calunniato;  s'inventò  che  per  dispetto  contro  il  Mini- 
stero che  non  m'aveva  voluto  far  titolare,  io  avessi  tentato  quel  passo  ; 
mentre  il  vero  è  che  il  Ministero  m'incoraggiava  sempre  nel  modo  più 
lusinghiero,  e  che,  s'io  rimanevo  pochi  altri  mesi  appena  in  cattedra, 
m'avrebbe,  secondò  !a  promessa,  fatto  titolare  nell'anno  stesso  ;  si  volle 
da  altri  vedere  in  quell'atto  un  mio  dispetto  municipale  di  piemontese 
pel  trasporto  della  capitale  a  Firenze,  e  non  si  considerò  punto  come, 
essendo  io  professore  a  Firenze,  avrei  dovuto  più  tosto  rallegrarmi  che 
dolermi  di  veder  Firenze  divenir  capitale  ;  e  non  so  che  altre  matte 
ragioni  s'andarono  inventando  per  condannare  quella  mia  giovanile  te- 
merità. Quella  però  che  mi  sentii  più  spesso  sussurrare  all'orecchio  è 


—  211  — 

ch'io  avevo  fatto  quel  colpo  di  testa,  per  sola  ambizione.  Oh  vanità  di 
jTjudizii  umani,  pensavo  io  allora,  e  ripenso  oggi  ancora;  dunque  un 
giovane  che  a  24  anni  siede  onorato  e  blandito  sopra  una  cattedra  uni- 
versitaria, a  cui  tutto  sorride  nel  principio  della  sua  carriera,  di  cui 
tutti  richieggono,  con  curiosità,  e  che  lo  stesso  Gino  Capponi  si  degna 
di  visitare  nel  modesto  suo  studio,  per  dar  coraggio  ad  un  giovane  in- 
telletto in  cui  si  spera  forse  troppo,  questo  giovine,  dico,  che  in  una 
sola  notte  abbandona  gli  onori,  i  commodi  della  vita,  lo  splendore  della 
vita  pubblica,  per  farsi  povero  operaio,  ed  umile,  oscuro  gregario  d'una 
società  segreta,  questo  giovine  sarà  un  ambizioso  ?  Io  ho  taciuto  molti 
anni,  ma  io  non  ho  ancora  dimenticata  la  ingiustizia^ delle  accuse,  delle 
quali  io  sono  stato  vittima.  Voi  potevate  bene  chiamarmi  illuso,  ed  anche 
compiangermi  come  un  fanciullo,  ma  disprezzarmi  per  quell'atto,  no, 
senza  essermi  ingiusti. Io  non  posso  dunque  ricordare  quell'abbandono  quasi 
universale  in  cui  fui  lasciato,  senza  sentire  sempre  al  cuore,  sdegno  non 
già,  ma  sì  una  grave  pena;  e,  per  questo  appunto  che  i  più  mi  fuggirono 
come  maledetto,  sento  maggiore  la  riconoscenza  verso  que'pochii  quali 
mostrarono  invece  di  comprendermi  e  di  compatirmi,  e  più  particolar- 
mente verso  l'Amari,  il  quale,  inteso  appena  come  io  avessi  dato  le  mie 
demissioni,  non  pur  non  se  ne  offese,  egli  che  pur  era  stato  il  primo  ad 
eleggermi,  ma  corse  sollecito  al  mio  studio,  e  m'abbracciò  lungamente 
ed  in  silenzio  con  le  lajrrime  agli  occhi.  Egli  sentiva  bene  di  non  istrin- 
gere  fra  le  sue  braccia  un  vile.  Sarebbe  ora  troppo  lungo  il  dire  quello 
ch'io  ho  veduto  e  più  quanto  che  ho  sofferto  in  quegli  anni;  certo,  che, 
se,  per  un  verso,  non  veniva  a  salvarmi  dall'abisso  la  donna  che  ora 
mi  è  dolce  compagna,  e  per  l'altro  la  mia  volontà  di  risorgere  non  mi 
richiamava  a'  miei  libri  come  a  suprema  ancora  di  salvezza,  a  quest'ora 
0  la  mia  ragione  si  sarebbe  smarrita,  come  veramente  finì  pazzo  quel 
povero  amico  mio  che  si  figurava  d'essere  un  altro  Mirabeau,  o  mi  sarei 
perduto  negli  ultimi  eccidii  lacrimevoli  di  Parigi  ;  poiché,  fremo  nel 
dirlo,  e  nel  ripensarvi,  quella  società  segreta,  della  quale  mi  furono 
allora  aperti  i  misteri,  venne  poco  dopo  a  confondersi  con  quella  molto 
più  formidabile  Internazionale,  che  riempie  ora  il  mondo  de'suoi  pregiudi- 
zi e  delle  sue  rovine.  Ma,  io  lo  ripeto,  la  mia  compagna  e  i  miei  libri  mi 
salvarono.  Ritirandomi  con  orrore  dalla  scena  politica,  e  salvandone  que'soli 
principii  che  m'erano  come  innati,  provvidi  a  riconquistare  da  capo  col 
lavoro  la  mia  cattedra  perduta.  Chiedere  scusa  non  avrei  potuto  senza 
viltà;  e  di  che  poi?  d'avere  compiuto  un  atto  che  mi  pareva  e  che 
mi  par  sempre  ancora  sia  stafo  unicamente  onesto?  volli  più  tosto  ri- 
cominciare da  capo,  e  rimettermi  in  via  con  la  bissacela  dell'oscuro  sol- 
dato sulle  spalle.  Nel  1866,  feci  pertanto  un  corso  libero  di  lezioni  sulla 
mitologia  vedica,  un  piccolo  frammento  del  quale  è  il  libretto  sui 
Miracoli  del  Dio  InrJra  nel  Rigveda  ;  nel  1867,  un  altro  corso  di  epopea 
comparata,  un  saggio  del  quale  sono  Le  fonti  vedìche  dell'epopea  e  Gli 
studii  sull'epopea  indiana  ;  nello  stesso  anno,  pubblicai  la  mia  Memoria 


-  212  — 

sui  viaggiatori  nelle  Indie  Orientali,  la  mia  Piccola  Enciclopedia  in~ 
diana  in  due  volumi,  e  La  Rivista  Orientale.  Per  crescere  onore  a  me 
l'Amari  consentì  allora  di  scrivere  nella  mia  Rivista  ;  e  Mich  'le  Cop- 
pino  allora  ministro  e  già  mio  maestro  nell'Università  di  Torino,  dopo 
avere,  con  molta  benevolenza,  assistito  alla  prima  delle  mie  lezioni  li- 
bere sull'epopea  indiana,  mi  fece  dichiarare  alla  seconda  che  dette  le- 
zioni d'ora  in  poi  sarebbero  state  ufficiali.  Così  ripresi  il  mio  posto 
volontariamente  perduto,  dopo  una  viva  e  non  breve  battaglia,  con  la 
virtù  del  lavoro;  e,  mentre  in  questa  battaglia  ostinata  che  combattevo 
da  solo,  stando  sempre  ritto,  mi  vidi  da  molti  che  un  tempo  mi  si  di- 
cevano amici  voltar  crudelmente  le  spalle,  e  sentii  in  più  occasioni  le 
insidie  che  i  malevoli  m'aveano  teso  per  impedirmi  di  risorgere,  debbo 
benedire  Mich-ìle  Amari  e  Michele  Coppino,  di  cui  l'uno  sostenne,  l'altro 
premiò  il  mio  coraggio  perseverante,  inspirandomi  entrambi  nell'animo 
un  sentimento  di  viva  riconoscenza  che  potrà  estinguersi,  con  la  vita 
soltanto,  e  ch'io  ho  tentato  significare  come  potevo  meglio,  dedicando 
loro  quel  libro  mio  intorno  al  quale  parami  d'avere  speso  le  mie  cure 
migliori. 


X. 


PIETRO  GIANNONE. 


Quasi  ogni  grande  popolare  rivolgimento  politico  de'  tempi  mo- 
derni ebbe  il  suo  poeta  popolare;  Rouget  de  l'Isle,  Chénier,  Vi- 
ctor Hugo  in  Francia,  Kòrner,  Herwegh  e  Freiligrath  in  Germa- 
nia, Riga  in  Grecia,  Riego  in  Ispagna,  Petòfi  in  Ungheria,  Re- 
leieff  in  Russia,  Mickiewicz  in  Polonia,  hanno,  in  parte,  precorsa, 
in  parte  accompagnata  col  canto  la  redentrice  rivoluzione  della 
loro  patria.  Il  simile  accadde  nel  secol  nostro  in  Italia,  ove  due 
furono  le  grandi  rivoluzioni,  quella  degli  anni  1820  e  1821,  e 
quella  del  1848.  E,  come  quest'ultima  contò  in  Alessandro  Poerio 
ed  in  Goffredo  Mameli  due  vati  eroi,  cosi  quella  del  1820  e  1821 
suscitò  parecchi  poeti  che,  per  la  massima  parte,  nelle  carceri  o 
nell'esiguo  scontarono  il  delitto  d'avere  molto  amata  e  svegliata 
per  tempo  dal  suo  sonno  di  schiava  la  patria.  Il  nome  di  ciascuno 
di  questi  poeti  è  ora  sacro  all'Italia  ;  e  quasi  ogni  provincia  della 
penisola  diede  allora  il  suo  e  taluna  più  di  uno  e  di  due;  Napoli 
Gabriele  Rossetti,  il  Piemonte  Silvio  Pellico  e  l'avvocato  Ravina,  la 
Toscana  Bartolommeo  Bestini,  la  Lombardia  Alessandro  Manzoni, 
Carlo  Porta,  Tommaso  Grossi,  Giovanni  Berchet;  le  Marche  Gia- 
como Leopardi;  l'Emilia  Pietro  Giannone. 

Due  soli  di  questi  antichi  precursori  della  libertà  d'Italia  son 
vivi;  dell'uno  ho  già  detto  quello  che  l'animo  commosso  di  rive- 
renza mi  dettava.  Dirò  poche  ma  egualmente  sentite  parole  del- 
l'altro. 

Or  volge  intorno  al  secondo  sopra  l'anno  ottantesimo,  nasceva  Pie- 
tro Giannone  in  Campo  Santo  presso  Modena,  di  esule  padi'e  na- 


-  214  — 

poletano  che  morì,  mentre  egli  era  ancora  bambino,  e  di  madre  egual- 
mente napoletana.  Gli  anni  dell'infanzia  e  della  fanciullezza  egli  passò 
fra  le  montagne  dell'Apennino,  che  divide  la  provincia  di  Modena 
dalla  Toscana,  a  Pievepelago,  ed  in  quelle  libere  aure  si  destarono 
insieme  il  libero  italiano  e  l'inspirato  poeta.  Egli  ricorda  ancora 
quelle  montagne,  in  una  specie  di  sua  Selva  poetica,  che  si  con- 
serva tuttora  inedita,  intitolata  Le  7nmembranze.  Que'versi  furono 
scritti  dal  Giannone  a  sfogo  di  malinconia,  nel  1821,  mentr'egli  era  in 
prigione  a  Modena,  e  scritti  su  le  mezzane  dell'impiantito  del  carcere, 
col  carbone;  poi  mandati  a  memoria;  poi  cancellati;  poi  trascritti 
dalla  fida  memoria  sulla  carta,  negli  anni  dell'esigilo.  In  que'versi 
scorrevoli  ed  abbondanti  e  talora  vivi,  che  vogliono  tuttavia  essere 
considerati  meglio  pel  merito  della  sincera  trasparenza  che  nella  loro 
singolare  ed  improvvisa  creazione  hanno  serbata,  che  per  qualche 
loro  singoiar  pregio  letterario,  egli  ricorda  cosi  le  materne  mon- 
tagne :    • 

Quant'orma  in  me  lasciar,  quanto  desio 
'  1      I'       I  luoghi  alpestri  in  cui 
Vissi  fanciullo,  e  ch'io 
Veggio  ancor,  sì  colpito  in  cor  ne  fui  ! 
Non  sol  l'aure  serene, 

I  sonori  torrenti,  i  cheti  fonti, 
Le  selve  d'un  orror  sacro  ripiene. 
Gli  antri,  le  valli,  i  monti. 

Ma  le  nevi,  ma  i  venti  e  le  tempeste. 
Ma  i  tuoni  ripercossi  infra  le  rupi, 

II  lungo  urlo  de' lupi, 

E  fin  le  storie  degli  antichi  estinti 
Dalle  tombe  respinti 
.  '  A  spaventar  colpevoli  impuniti; 

Fin  delle  lamie  immiti 
Le  cruenti  malìe, 
E  delle  madri  pie 
La  trepid'ansia  di  sottrarre  i  figli. 
Agli  oscuri  perigli, 
Tutto  alla  fantasia, 
L'ali  impennava  e  strada  al  cor  s'apria. 

Né  la  natura  soltanto,  ma  la  madre  gli  fu  pure,  oltre  che  amante 
ed  amabile  educatrice,  gentile  inspiratrice  di  carmi,  avendogli  essa 


—  215  — 

rivelato  i  cari    secreti   delle  muse  ;  egli  perciò,  dalla  prigione,  la 
rammentava  cosi: 

Sposando  intanto  il  suon  dell'arpa  ai  carmi 

Del  vate  della  bella  avignonese 

E  di  lui  che  cantò  gli  amori  e  l'armi. 

Di  tanto  ardor  m'accese 

Quella  gentil  che  gli  occhi  al  di  m'aperse, 

Che  d'allor  tutto  quanto  a  me  s'offerse 

Mi  parea  palpitar  d'arcana  vita  ; 

E  de'  futuri  casi 

Presentendo  il  venir,  la  mente  ardita 

Parea  crearli  quasi. 

Ma  dall'Ariosto  col  gusto  de'carmi,  il  giovinetto  Giannone  avea  pure 
appreso  l'amore  dell'armi,  e  poiché  Marte  e  Venere  si  sorrisero 
6'empre,  anche  il  precoce  giovinetto  modenese,  in  mezzo  alle  battaglie 
sostenute  negli  anni  1808  e  1809,  come  volontario,  tra  le  guardie 
cosi  dette  dipartimentali,  armatesi  contro  le  bande  brigantesche 
le  quali  infestavano  allora  l'Apennino,  e  poi,  nell'esercito  napo- 
leonico, all'assedio  di  Mantova,  cercò  ed  ottenne  piìi  d'un  sorriso 
dalle  belle.  A  quel  tempo  risale  pure  la  conoscenza  che  il  Gian- 
none  fece  di  Ugo  Foscolo,  ch'egli  dovea  pili  tardi  rivedere  come 
esule  a  Londra.  Caduto  il  Regno  d'Italia,  Pietro  Giannone  lasciò 
la  milizia  e  si  volse  in  traccia  di  miglior  fortuna  alla  terra  de'suoi 
padri  ;  in  Napoli  s'incontra  col  gentilissimo  cantore  della  Pia 
Bartolommeo  Sestini,  e  col  fatidico  Gabriele  Rossetti,  allora  Di- 
rettore del  Museo  delle  Statue,  entrambi  portentosi  improvvisa- 
tori. Incomincia  con  l'ammirarli  e,  dotato  di  memoria  prodigiosa, 
fra  le  grandi  meraviglie  degli  astanti  (colti  ufficiali  di  marina 
e  d'animo  assai  liberale,  che  frequentavano  il  Rossetti),  ricorda 
per  intiero  ed  a  puntino,  appena  uditili,  i  loro  più  bei  canti  im- 
provvisati. Così  ci  furono  conservate  le  stupende  ottave  improv- 
vise del  Rossetti  su  Annibale  alle  Alpi  e  Tullia  die  spinge  il  coc- 
chio sul  padre  Tarquinio  (1).  Ma  un  giorno   che   il  Giannone  si 


(I)  È  pure  alla  memoria  del  Giannone  che  si  deve  la  vita  e  la  popo- 
larità di  quel  pateticissimo  canto  che  Francesco  Mirelli,  conte  di  Consa 
e  principe  di  Tcora  (padre  di  quell'altro  principe  di  Teora  che  morì 
pure  in  duello  a  Napoli,  or  sono  pochi  annij  ferito,  credevasi    mortai- 


—  210  — 
reca  al  Museo  delle  statue,  ove  si  trovavano  già  il  Rossetti  ed  il 
Sestini,  questi  due  valenti  poeti  avendo  avvertito  la  facilità  con 
cui  il  loro  amico  scriveva  versi,  gii  si  mettono  intorno  e  gli  fanno 
premura  perchè  improvvisi  anco  lui  ;  il  Giannone  per  un  po'  si 
schermisce,  avvertendo  com'egli  avrebbe  dovuto  esercitarsi  assai 
prima  in  quell'arte,  e  aggiugne  che  s'egli  avesse  solo  alcuni  anni 
innanzi  intesi  lor  due,  forse  gli  sarebbe  bastato  l'animo  di  tentar 
quella  sorte  ;  ma  il  Rossetti  non  lo  lascia  tranquillo,  *e  vuole  ch'ei 
provi,  e,  senz'altro,  lo  porta  innanzi  alla  statua  del  Gladiatore  mo- 
ribondo, gridandogli  :  «  A  te,  improvvisa  »  Il  Giannone  messo  sul 
punto,  lo  vince,  fra  gli  applausi  degli  amici,  che  lo  assicurano  egli 
potrebbe  oramai  fare  co'  versi  quello  che  più  gli  piacesse.  E  al- 
lora 1  tre  amici  improvvisano  insieme  con  bella  gara,  e  con  mi- 
rabile successo  in  private  adunanze  ;  fra  le  altre  cose,  essendo  per- 
venuta loro  la  notizia  che  lo  Sgricci  a  Roma  avea  improvvisato 
anche  tragedie  con  cori,  ne  improvvisano  una  ancor  essi,  ed  è  un 
nuovo  Bruto  Primo  (il  soggetto  era  stato  scelto  dagli  ufficiali 
della  regia  marina  !);  occorrono  quattro  personaggi,  e  vien  eletto 
quarto  il  modenese  Morselli,  che  improvvisa  egli  pure  con  rara 
facilità  ;  il  Giannone  sostiene  la  parte  di  Tiberio  Bruto,  e  oltre  a 
ciò,  improvvisa  e  canta  i  cori  de'  guerrieri  ;  il  Bestini  recita  il 
Tito  Bruto  e  canta  i  cori  delle  donne.  L'uditorio  applaude  anche 
a  quell'arduo  esperimento. 

Ma,  intanto  altre  più  gravi  cure  sopravvenivano;  la  rivoluzione 


mente,  in  duello,  dal  marchese  Crescimanno  palermitano,  improvvisava 
fra  le  lacrime  degli  astanti  e  della  madre,  credendosi  vicino  a  morte. 
Dolcissime  fra  le  altre  e  mirabili  come  improvviso  le  seguenti  tre  stro- 
fette  : 

Quando  verrà  sul  colle 

La  nova  primavera, 

Teco  a  vagar  la  sera 

Sul  colle  io  non  verrò. 
E  quando  il  sol  dal  monte 

In  sua  beltà  si  estolle, 

Mi  chiamerai  dal  colle, 

Né  ti  risponderò. 
Volgi  su  l'erta  rupe, 

Madre  diletta,  il  passo, 

A  piangere  sul  sasso. 

Nel  quale  io  dormirò. 


—  217  — 

napoletana  s'apprestava,  ed  era  imminente  ;  trattavasi  soltanto  di 
comunicare  il  fuoco  sacro  de' carbonari  alla  provincia;  il  Sestini 
si  recò  pertanto  in  Sicilia,  il  Rossetti  percorse  il  napoletano  ;  il 
Giannone  s'avviò  verso  la  Lombardia  passando  per  Roma.  L'Eterna 
città  era  allora  piena  del  nome  dell'improvvisatore  Sgricci,  uomo 
d'ingegno  straordinario,  ma  d'animo  basso  e  vile,  che  non  alzò 
mai  il  suo  improvviso  a  cantare  la  patria,  che  anzi  in  parecchie 
occasioni  vituperò  e  tradì  la  sua  patria  codardamente.  Il  Gian- 
none  ebbe  il  coraggio  di  presentarsi  come  improvvisatore  al  Tea- 
tro Valle  di  Roma,  su  la  scena  stessa  de' trionfi  dello  Sgricci, 
per  ricordare  la  grandezza  di  Roma  ai  Romani  e  la  necessità  di 
farla  risorgere.  Dagli  spettatori  di  quell'Accademia,  fu  serbata 
memoria  fra  l'altre  di  una  strofa  che,  accolta  allora  con  frenetici 
applausi  dall'uditorio,  onorava  insieme  il  coraggio  civile  del  poeta 
che  cantava  e  del  pubblico  che  applaudiva.  La  strofa  improvvisa 
diceva  così: 

Benché  l'Aquila  regina 

Sia  volata  ad  altro  lido. 

Pur  vi  resta  ancora  il  nido, 

E  potrà  tornarvi  ancor. 

E  v'  è  tornata  di  fatti. 

Lasciata  Roma,  si  recò  il  Giannone  in  Lombardia,  per  mettersi 
d'accordo  con  quei  liberali  intorno  all'attitudine  da  pigliarsi  in- 
nanzi agli  avvenimenti  di  Napoli;  ma  giunto  a  Lodi  vi  fu,  a  mo- 
tivo della  sua  provenienza  da  Napoli,  arrestato  all'albergo,  e  guar- 
dato a  vista.  Ma,  per  fortuna,  la  provvida  madre  di  lui,  avendo 
trovato  modo  di  sottrarre  tutte  le  carte  assai  compromettenti  che 
egli  recava  nella  sua  valigia,  egli  venne  semplicemente  bandito  e 
respinto  al  confine  àe' felicissimi  ciommii,  e  costretto  a  rientrare 
nel  Modenese,  dove,  appena  giunto,  per  delazioni  private,  fu 
messo  in  carcere.  Liberato  poco  dopo,  per  non  farsi  come  dice- 
vasi,  luogo  a  processo,  egli  rimaneva  incerto  sul  partito  da  eleg- 
gersi tra  la  fuga  o  il  rischio  d'una  seconda  prigionia,  quando  il 
passaggio  per  Modena  dell'esercito  tedesco  condotto  dal  Frimont 
che  marciava  contro  i  costituzionali  di  Napoli  risolvette  quei 
dubbi,  ricacciandolo,  come  supposto  autore  dell'inno  di  Rossetti  Sei 
pur  bella  cogli  astri  sul  crine,  in  prigione,  ove  rimase  un  anno, 
ed  ove  scrisse,  fra  l'altro,  quelle  Rimembranze  che  ho  di  sopra 
rammentate,  dove  si  leggono  molti  versi  coraggiosi  fino  alla  te- 
merità. Il  poemetto,  per  esempio,  incominciava  cosi  : 


—  218  — 

Se  l'ira  d'un  potente 

Col  carcere  severo 

Per  me  chiude  il  presente 

E  gli  atti  inforsa  dell'età  futura, 

Corri  almen  nel  passato,  o  mio  pensiero, 

E  non  t'infreni  il  volo 

Di  troppo  osar  paura. 

Dante  vi  era  già  cantato  come  profeta  dell'unità  italiana  : 

Deh,  sommo  Dio  !  ch'ami  l'Italia  tanto. 

Concedi  alfin  che  il  suo  maggior  poeta 

Abbia  non  solo  il  vanto 

Di  suo  legislator,  ma  di  profeta  f 

Ei  lesse  nel  futuro 

Certi  i  presagi  di  più  lieta  sorte 
».         E  d'un  guardo  sicuro 

Donna  di  sé  la  vide  ed  una  e  forte. 
/  I  suoi  versi  immortali 

Meditando,  la  mesta 

Che  a  compirne  il  pensier  già  s'aflatica. 

Animosa  ridesta 
'  Gran  parte  in  sé  della  virtude  antica. 

Già  con  ardir  felice 

Crede  al  suo  vate  e  spera 

Che  il  mistico  vestir  di  Beatrice 

Sarà  la  sua  Bandiera. 

E  con  questa  fede  viva  nel  risorgimento  italiano  per  cui  veniva 
a  congiungersi  nel  1821  col  Manzoni,  e  alcuni  anni  dopo  con 
Giuseppe  Mazzini,  uscito  nel  1822  di  carcere,  andava,  scacciato 
dal  tiranno  di  Modena,  in  esiglio.  Visitava,  improvvisando,  la 
Francia  e  poi  l'Inghilterra,  ove  disponevasi  ad  aiutare  il  Foscolo 
ne'suoi  lavori  sopra  la  Divina  Commedia,  e  per  la  larga  ospita- 
lità degli  inglesi  (delle  signore  inglesi,  in  ispecie  le  quali  appren- 
devano l'italiano  senza  averne  né  voglia  né  bisogno,  unicamente 
per  venire  in  aiuto  ai  nostri  esuli)  stava  per  farsi  una  condizione 
abbastanza  agiata  se  non  del  tutto  indipendente,  quando  un  fiero 
morbo  l'assalse,  per  cui,  divenutogli  incomportabile  il  clima  di 
Londra,  dovette  nuovamente  riparare  a  Parigi,  ove,  salvi  gli  anni 
passaci  in  Corsica  (1832  e  1831),  visse  poi  di  continuo  lino  al  1848, 


—  219  — 
onoratissimo  fra  gli  esuli  repubblicani,  che  lo  elessero  prima  vice- 
presidente e  poi  presidente  dell'associazione  italiana.  Stando  a 
Parigi,  il  Giannone  ordinò  e  spedi  in  Italia  la  legione  italiana 
dell'Antonini,  composta  di  cinquecento  uomini,  alcuni  dei  quali 
perirono  poi  nelle  battaglie  del  1848,  altri  nella  difesa  di  Vene- 
zia, altri  furono  incorporati  nell'esercito  toscano  ;  ordinata  e  spe- 
dita la  legione,  venne  egli  stesso  in  Italia;  a  Modena  lo  elessero 
bibliotecario;  ma  non  parve  a  lui  quello  il  tempo  di  seppellirsi 
fra  i  libri,  e  però  egli  si  condusse  in  Toscana,  ove  il  Montanelli 
ed  il  Guerrazzi  lo  elessero  segretario  dell'ambasciata  toscana  a  Pari- 
gi. Rovinate  le  sorti  d'Italia,  il  Giannone  rimase  in  esigilo,  tino  al 
1861,  anno  in  cui,  provveduto  di  una  modesta  pensione  nazionale 
che,  con  pensiero  gentile,  il  Dittatore  dell'Emilia  Carlo  Luigi  Fa- 
rini  gli  avea  fatto  decretare  nel  1859,  venne  a  vivere  in  Firenze 
il  resto  de'suoi  giorni,  affranto  forse  più  dai  patimenti  lunghi  e 
diversi,  che  dagli  anni  già  molti.  Chi  abbia  letto  l'Esule  sa  quali  e 
quanti  siano  stati  que'patimenti:  e  quanto  maggiori  essi  furono,  piìi 
deriverà  cagione  d'ammirare  un  uomo  che  in  una  vita  cosi  lunga 
e  dolorosa  non  si  piegò  mai  a  nessuna  viltà,  non  perdette  mai  la 
fede  nella  risurrezione  della  patria  e,  come  potè,  ridonò  coraggio 
a  chi  l'avea  perduto,  ne  aggiunse  a  chi  poco  ne  avea,  ed  esule, 
consolò  gli  esuli  non  solo,  ma  infiammò  la  speranza  nel  petto  degli 
italiani  rimasti  in  patria.  Rammentiamo  le  date,  che  nel  caso  no- 
stro, sono  preziose;  il  poema  dell'Esule  che  die  principalmente  gloria 
al  Giannone,  fu  composto  in  gran  parte  a  Osambray  (paesello  fran- 
cese fra  Dieppe  e  Beauvais)  innanzi  l'anno  1825.  Il  21  giugno  1827 
l'autore  lo  dedicava  da  Londra  ad  un  anonimo  amico  italiano  che 
faceva  ritorno  in  Italia;  lo  stampava  nel  1829  a  Parigi  presso  il 
De  Laforest,  poco  innanzi  che  apparissero  presso  lo  stesso  editore 
le  Fantasie  di  Berchet,  e  accompagnavalo  di  note  divinatorie 
piene  di  eloquente  coraggio.  L'Esule  fu  ristampato  in  Firenze, 
presso  la  Tipografia  del  Giglio  nell'anno  1868,  con  ritratto  del- 
l'autore e  dedicato  al  generale  Garibaldi.  Gli  amici  editori  vi 
premisero  le  seguenti  adatte  parole  che  mi  giova  qui  riprodurre: 
«  L'Esule  fu  per  molti  il  Credo  della  fede  nazionale  ;  la  gioventù 
sentì  fremersi  il  cuore  di  altissimo  entusiasmo,  e  anelò  alle  re- 
dentrici battaglie,  da  cui  doveva  il  popolo  italiano  uscire  libero  e 
forte.  Garibaldi  stesso  confessa  di  avere  in  sua  gioventù  attinto 
a  questo  libro  gran  parte  di  quel  patrio  amore,  che  lo  ha  fatto  me- 
raviglioso fra  le  genti.  La  missione  del  libro,  più  che  oziosamente 
letteraria,  era    tutta    emancipati'ice  ;    era    la    missione   dell'alere 


—  220  — 
flammam,  nella  quale,  dopo  Alfieri  e  Foscolo,  l' Italia  ebbe  altri 
apostoli  nel  Berchet,  nel  Niccolini,  nel  Leopardi,  nel  Guerrazzi, 
nel  Giusti.  Con  questi  forti  del  pensiero  e  della  parola  il  cantore 
àeW'Esule  s'associa.  Il  Vendicatore,  pari  ad  un  tetro  fantasma, 
ci  passa  dinanzi  fiero,  implacabile.  Esso  ha  un  atto  di  giustizia 
da  compiere  ;  e,  quando  quest'  atto  è  compiuto,  egli  sparisce  a  guisa 
di  una  visione  che  per  un  tratto  di  tempo  ci  tenne  l'anima  occu- 
pata sotto  il  peso  di  un  incubo  arcano  e  spaventoso.  »  Nelle  pa- 
role premesse  dall'autore  alla  seconda  edizione  dell'Esule,  egli 
confessa  d'avere  spesso  sacrificato  al  cittadino  il  poeta,  subordi- 
nando l'arte  alla  politica.  Ciò  vuol  dire  che  questo  poema  non 
vuol  esser  giudicato  alla  stregua  ordinaria  de'componimenti  lette- 
rarii,  ma  pur  non  toglie  che  sia  sparso  qua  e  là  di  bellezze  arti- 
stiche di  prim'ordine,  perchè  il  poeta  trae  la  maggior  nobiltà  del 
suo  ingegno  dall'eccellenza  dell'animo,  che  sola  è  capace  d'arri- 
var talora  a  dir  cose  sublimi.  E  cosa  tutta  sublime  mi  sembra 
una  delle  poesie  inedite  del  Giannone  che  accompagna  la  seconda 
edizione  àeWEsule.  Fu  scritta  nel  1833  a  Bastia,  per  consolare 
Massimo  de'Conti  Caccia  nella"  morte  della  sorella  Chiara,  e  s'in- 
titola :  La  Visione.  È  scritta  come  le  Visioni  del  Varano  in  ter- 
zine; ma,  se  quelle  son  belle,  questa  del  Giannone  mi  sembra 
bellissima,  onde  mi  dolgo  che  pochissimi  in  Italia  ne  abbiano  finora 
notizia,  e  manifesto  il  voto  che  i  futuri  compilatori  di  antologie  (in 
ispecie  d'antologie  femminili)  ne  facciano  lor  prò,  affinch'essa  di- 
venga popolare.  E  un  sincero  credente  che  vi  canta;  e  la  fede 
del  poeta  se  anche  non  abbia  la  virtìi  di  portare  a  credere  chi 
consideri  altrimenti  il  principio,  le  ragioni  e  il  fine  della  vita, 
solleva  certamente  ogni  lettore  in  un  mondo  morale  e  in  un  mondo 
poetico  altissimo,  ove  l'animo  e  l'intelletto  insieme  soavemente  si 
riposano.  Io  recherò  qui  intanto  le  ultime  terzine  della  Visione, 
sicuro  che  esse  invoglieranno  il  giovane  lettore  a  cercare  le  al- 
tre. L'anima  della  Chiara  apparsa  in  visione  al  poeta,  si  congeda 
cosi  da  lui  : 

e  la  beata 

Che  al  volto  mio  del  mio  pensier  s'accorse, 
La  bella  faccia  verso  me  levata. 

Col  riso  che  si  ben  s'accorda  al  pianto 

Di  persona  dolente  e  rassegnata, 
«  Deh  I  mi  dicea,  non  t'ammirar  di  tanto. 

Che  in  ciel  nasce  e  si  svolge  ogni  buon  seme, 

E  la  pietade  è  puro  seme  e  santo: 


—  ^221  — 

Né  quivi,  allora  che  per  voi  si  geme, 
Nostra  felicità  però  minora; 
Posson  gioia  e  pietà  vivere  insieme. 

Questo  ripeti  alla  mia  dolce  suora. 
Questo  ripeti  al  padre  ed  al  germano, 
Questo  alla  madre  mia  ripeti  ancora. 

Non  scenderà  questa  certezza  invano 
Per  consolarli  e  crescer  la  costanza 
Che  lor  bisogna  nel  viaggio  umano. 

Di'lor  che  ferma  e  certa  è  la  speranza 
Di  riunirci,  e  lungo  par,  ma,  corto 
Non  solo,  un  punto  è  '1  tempo  che  ne  avanza. 

Vive  quassù  chi  sulla  terra  è  morto; 
Quindi  d'  ogni  caduco  incarco  sgombra 
L'  alma  in  essa  non  cerchi  alcun  conforto  : 

Che  tutto  quanto  il  cor  dell'  uomo  ingombra, 
Tranne  quel  senso  che  gl'intima  il  bene, 
E  vano  sogno,  anzi,  d' un  sogno  è  l' ombra. 

La  gloria  stessa  che  dall'opre  viene. 
Se  per  meta  non  ha  1'  utile  altrui, 
Soltanto  a  danno  suo  dall' uom  s'ottiene. 

Quanto  fia  meglio  il  poter  dire:  «  Io  fui 
L' oppresso,  e  questi  1"  oppressor  mio  crudo  : 
Giudica  tu  fra  me.  Signore,  e  lui.  » 

Oro,  onori,  poter  son  vano  scudo 
Fuor  le  leggi  del  tempo,  ed  il  mortale 
Convien  che  scenda  alla  sua  tomba  ignudo. 

Sudar  per  essi  ad  altro,  oimè  !  non  vale. 
Che  a  contristar  chi  Dio  ti  fé  simile 
E  a  far  maggior  di  te  chi  t'  era  eguale. 

Tu  dunque,  e  qualunque  altra  alma  gentile. 
Non  r  obliate,  e  dal  viaggio  mio. 
Raccolto  avrò  pel  ciel  frutto  non  vile.  » 

Parlando,  in  me  d'udir  crescea  desìo. 
Ma  tacque  ;  e  d'  un  tal  riso  indi  ridea 
Che  offria  l' impronta  d'un  estremo  addio. 

E  in  quel  punto  si  lunge  a  me  parea. 
Che  l'occhio  intento  la  scorgeva  appena: 
Eppur  neir  atto  immota  io  la  vedea. 

L'aria  intorno  men  lucida  e  serena 
Si  fea  più  sempre,  ed  era  il  suon  cessato. 


—  222  — 

Che  pria  s'udì  con  armonia  si  piena; 
E  già  quel  dolce  aspetto  a  me  celato 

Erasi,  come  se  il  coprisse  un  velo  : 

Oimè  !  sovra  la  terra  era  io  tornato, 
E  la  beata  era  rimasta  in  cielo  ! 

Qui  fantasia  ed  affetto  si  sono  alzati  insieme;  il  poeta  canta 
veramente  inspirato,  perchè  l'uomo  interiore  lo  inspira.  E  que- 
st'uomo è  tutto  buono;  il  Vannucci  che  fin  dal  1848,  gli  dedicava 
i  suoi  Martiri  della  Libertà  Italiana,  e  che  in  capo  a  molti  dei 
capitoli  del  suo  bel  libro,  cita  i  brani  più  appropriati  (ìeW Esule,  in 
una  nota,  lo  chiama  uomo  angelico,  e  dice  averne  avuto  tali 
prove,  che  non  può  pensarvi  senza  sentirsene  commosso.  Ed  il 
volto  di  Pietro  Giannone,  e  la  sua  parola,  spirano  quella  stessa 
bontà  che  vien  fuori  dalle  sue  opere,  dalle  scritte  come  dalle  ope- 
rate. Perciò  quella  serenità  di  pensiero  che  anco  in  mezzo  ai  tra- 
vagli d'una  malattia  lunga  e  tormentosa,  mai  non  lo  abbandona. 

Giovine  italiano  che  arrivi  nella  città  di  Dante,  giovine  fioren- 
tino che  passeggi  le  vie  glorio'se  della  tua  città,  concedimi  di  la- 
sciarti un  ricordo:  se  t'imbatterai  ne' dintorni  dell'Annunziata  in 
un  cieco  di  alto,  severo  e  maestoso  aspetto,  che,  in  silenzio,  per 
non  turbarne  le  gravi  e  pensose  malinconie,  un  servo  guida,  sco- 
priti ;  quegli  è  Gino  Capponi.  Se  t'incontrerai  presso  il  Gabinetto 
del  fu  Giampietro  Vieusseux  in  un  vecchio  ricurvo,  di  cui  la  mente 
s'inalza  a  Dio,  quanto  il  capo  già  stanco  sembra  chieder  riposo 
alla  terra,  scopriti  ;  egli  è  l' educatore  Lambruschini.  Se  nelle 
prime  ore  del  pomeriggio  passeggerai  il  Lungarno  alle  Grazie,  e 
vedrai  da  una  povera  casetta  uscire  con  un  bastoncello  in  mano 
un  vecchio  cieco  venerando,  e  attraversare  la  via,  e  accostarsi  al 
parapetto  e  costeggiarlo,  come  chi  cerchi  un  resto  di  luce  e  di 
calore  al  sole,  scopriti;  egli  è  il  letterato  Tommaseo.  Se  nelle  tue 
passeggiate,  ti  accadrà  d'  arrivare  fino  al  parterre  di  porta  San 
Gallo,  muovi  innanzi  altri  due  passi,  verso  il  Mugnone  e  soffer- 
mati sul  così  detto  Ponte  Rosso  ;  volgendoti  a  destra,  riposa  lo 
sguardo  sulla  prima  casa  che  subito  ti  si  affaccia  e  che  costeggia 
la  via  Faentina  ;  dal  secondo  piano  di  essa  si  sporge  un  terraz- 
zino ornato  di  fiori;  le  imposte  ne  sono  quasi  sempre  socchiuse; 
di  là  entra  un  tenue  filo  di  luce  nella  stanza,  ove  abita  Pietro 
Giannone.  Quel  tenue  filo  di  luce  gli  porti  pure  un  vostro  pio 
saluto,  0  giovani  gentili;  egli  non  può,  pur  troppo,  più  discendere 
su  la  via  a  rendervene  grazie;  ma,  credetelo,  egli  vi  ama,  e  in  voi 


—  223  — 

spera  e  dalla  sua  cameretta,  in  cuor  suo,  ogni  giorno  vi  benedice; 
miei  giovani  valenti,  cercate  la  benedizione  di  un  cosi  santo  vec- 
chio; essa  fa  bene;  egli  è,  finalmente,  di  que'pochi  i  quali  potreb- 
bero, se  al  valore  non  aggiungessero  pure  una  pudica,  innata 
modestia,  con  serena  coscienza,  ripetere,  variando  il  motto  dei 
predicatori  cattolici,  a  ciascuno  di  noi:  fate  quello  che  dico,  poi- 
ché quello  che  dico,  io  1'  ho  anche  fatto. 


XI. 


ATTO    VANNUCCI. 


Vivendo  in  Piemonte  io  ho  creduto  per  qualche  tempo  il  Van- 
nucci  un  romano;  non  so  ben  come,  ma  credo  quella  maschiezza  e  vi- 
rilità severa  e  tacitesca  della  sua  prosa  me  lo  facessero  creder  tale; 
non  conoscevo  ancora  la  Montagna  Pistoiese,  né  avevo  allora  av- 
vertito come,  se  la  Toscana  fa  pochi  miracoli,  li  sa  far  grandi;  ora 
invece  mi  persuado  assai  bene  come  una  eccezione  quale  il  prosa- 
tore Vannucci  potesse  sorgere  naturalmente  accanto  a  quell'altra 
grande  eccezione  che  fu  il  poeta  ùeìY  Atvialclo.  La  natura  è  so- 
vrana nella  sua  virtù  privilegiata  de'  contrasti;  essa  che  creò  la 
donna  presso  l'uomo,  dovea  pure  nella  terra  delle  arti  gentili 
educare  i  più    forti    ingegni  d' Italia. 

Il  primo  a  ftirmi  amare  lo  storico  generoso  de'  martiri  fu  un  in- 
felice ed  eletto  ingegno  genovese,  morto  nel  1860,  sul  fiore  degli 
anni,  l'abate  Luigi  Chicchero,  che  lo  aveva  avuto  a  maestro  e 
che  ritraeva  in  parte  nelle  sue  prose  della  nobiltà  e  fierezza  che 
spirano  in  quelle  del  suo  istitutore  (1). 

Fra  Pescia  e  Firenze  era  prima  dell'anno  1840  una  specie  di  via 
crucis  degli  studii  liberali;  ogni  capelletta  aveva  il  suo  degno  mi- 
nistro e  il  suo  santo;  a  Pescia  faceva  capo  il  Giusti,  a  Firenze 
Gino  Capponi,  e  per  la  via  s'incontravano  Giuseppe  Arcangeli, 
Atto  Vannucci,  Enrico  Bindi  (non  traviato  ancora  in  quel  tempo 


(1)  Veggasi  fra  gli  altri  scritti  di  lui,  il  proomio  alla  Storia  del  Ri- 
sorgimento della  Grecia  di  Mario  Pieri,  nell'edizione  di  Torino. 


22     

dall'ambizione  di  una  mensa  arcivescovile),  Giuseppe  Tigri,  e  gli 
altri  che  alimentavano  con  essi  ad  una  1'  amor  delle  lettere  con 
quello  della  patria.  Il  collegio  Fortiguerri  di  Pistoia,  e  il  collegio 
Cicognini  di  Prato  non  erano  meno  focolare  di  buoni  sentimenti 
italiani  che  di  forti  studii. 

Atto  Vannucci,  l'uomo  in  Toscana  che,  dopo  il  Capponi,  meglio 
riproduce  le  tre  virtù  che  Ugo  Foscolo  ammirava  nel  giovine  Nic- 
colini,  cioè  i  santi  costumi,  l'anima  italiana  ed  il  nòbile  ingegno,  è 
nato  a  Tobbiana  in  quel  di  Pistoia  il  1"  dicembre  dell'  anno  1808. 
Nella  sua  città  nativa  iniziò  e  compì  i  suoi  studii  letterari  sotto  la 
disciplina  del  valente  Silvestri.  Lo  accolse  da  prima  il  seminario,  ma 
noi  fece  suo;  come  egli  sciolse  veramente  il  volo  all'ingegno,  divenne 
impaziente  di  ogni  vincolo  religioso  che  gli  contendesse  il  libero 
esercizio  della  parola,  e  fu  tra  que'pochi  generosi  liberti,  i  quali,  ri- 
vendicandosi a  sé  stessi,  non  serbarono  impronta  alcuna  di  quella 
untuosità,  caratteristica  di  una  cosi  gran  parte  dell'ateo  clero  ita- 
liano. Nell'anno  ventesimo  terzo  egli  fu  eletto  professore  di  umane 
lettere,  e  piìi  tardi  di  storia  nel  collegio  Cicognini  di  Prato,  ove 
cooperò  pure  elìicacemente  a  quella  modesta  ma  considerevole  e  co- 
raggiosa intrapresa  che  fu  l'edizione  de'classici  latini  dell'Alber- 
ghetti,  intorno  alla  quale,  oltre  al  Vannucci,  lavoravano  l'Arcangeli, 
il  Tigri  ed  il  Dindi  d'una  volta.  Per  quanto  una  edizione  di  classici 
latini  sembri  ora  una  cosa  molto  umile  e  preSsapoco  insignifi- 
cante, può  anch'essa  avere  la  sua  importanza  secondo  la  mente  di 
chi  la  dirige  e  prepara,  e  l'ordine  tenuto  nelle  note  e  ne'  discorsi 
proemiali  che  accompagnano  i  testi  più  antichi,  e  il  tempo  ancora 
in  cui  l'edizione  si  produce.  Sotto  il  governo  Lorenese  erano  in 
fiore  (e  ripullulano  ora  sotto  il  nuovo  regno  de'  Paolotti)  nelle 
scuole  i  testi  latini  annotati,  ad  uso  del  buon  giovinetto  cristiano, 
dai  fratelli  delle  Scuole  Pie;  l'editore  Alberghetti,  di  Prato,  ebbe 
allora  il  coraggio  d'imprendere  a  ristampare  que'testi  medesimi 
ad  uso  del  giovinetto  italiano.  Da  que'discorsi  proemiali  trasse 
poi  quindi  animo  il  Vannucci  a  proseguire  i  suoi  studii  critici 
sulla  letteratura  latina,  frutto  de'quali  è  quel  prezioso  volume  di 
Studii  storici  e   morali  intorno   alla  letteratura  latina  (1),   che 


(1)  La  prima  edizione  apparve  a  Torino  nel  1854;  una  seconda  edizione 
molto  ampliata  e  attentamente  riveduta  dall'autore  ne  pubblicò  a  To- 
rino stessa  l'editore  Ermanno  Loescher  nello  scorso  anno. 

Ricordi  Biografici  15 


—  226  — 
educò  a  liberamente  sentire  tanta  parte  de'nostri  giovani  studiosi 
delfantichità.    Il   Vannucci   scopre   al  giovine  lettore  1  pregi  e  i 
difetti  dello  scrittore,  ma,  più  ancora,  con  linguaggio  magnanimo, 
le  virtù  ed  i  vizii  che  ogni  grande  scrittore  latino  rivela.  Il  suo 
libro  è  però  tra  gli  ottimi  lavori  educativi  che  si  possono  sempre 
con    piena    sicurezza    metter    fra    le  mani   de'giovani,  i  quali  da 
quella  lettura  usciranno   certamente  più  colti,  ma ,  ciò  che  massi- 
mamente importa,  più  onesti  e  generosi.  Il  Vannucci  studiò  sempre 
l'antico;    ma,  più  che  per  un  gusto  d'archeologo,  per  innamorare 
la  crescente  generazione  di  quelle  maschie  figure  che    l'antichità 
ci   ha   conservate   intatte,  e  per  frustare  a  sangue  la  prepotenza 
de'nuovi  padroni  e  l'ignavia  de'nuovi  servi,  sotto  specie  di  flagel- 
lare antiche  infamie  e  codardìe.  La  sua  parola  toglie  le  immagini 
di  lontano;  ma  egli  ha  lo  sguardo  intento  negli  occhi  de'suoi  gio- 
vani ascoltatori,  a  cercare  entro  di  essi  il  sussulto   di   un'  anima 
che  internamente  si  ribella  ad  ogni  viltà.  Ed  un  valore  educativo 
ebbero   poi  tutte  le  altre  opere  del   Vannucci  ;   cosi   la   sua   me- 
moria anonima  intorno   alla  vita  e  alle  opere  di  Giuseppe  Mon- 
tani (1)  (l'Ercole   della   vecchia   Antologìa),    ove  la  tenerezza  del 
rimpianto  non  gli  impedisce  d'adoprar  linguaggio  virile,  per  ram- 
mentare le  cagioni  nefande  che  condussero  la  soppressione  di  quel 
giornale  glorioso;  gli  scritti  dettati  per  la   Guida   dell'Educatore, 
fra  i  quali  è  un'opera  intiera,  che  uscì  poscia  in  due  edizioni  delle 
quali   l'ultima   notevolmente   accresciuta  (±),   cioè  i  Primi  tempi 
della  libertà  fiorentina,  ove  la  parola  armata,  suona  sempre   ita- 
liana, vuoi  per  la  forma  (che  gli  meritò  l'onore  di  essere  eletto  fra 
gli  accademici  della  Crusca),  vuoi  pel  sentimento;  ed  è  spesso  dal 
Vannucci  lanciata  a  traverso  la  storia  come  un  fulmine;  gli  scritti 
deposti  yìqW' Arcliivio  Storico;  gli  articoli  scritti  nel  1848  pel  gior- 
nale di  Giuseppe  La  Farina  intitolato  1'  Alba;  i  discorsi  proferiti 
come  deputato  al  Parlamento  Toscano  e  come  oratore  del  Governo 
presso  la  Repubblica  romana;  i  Martiri  della  libertà  italiana,  una 
specie  di  storia  del  nostro  eroismo  (3)  che  fece  battere  fortemente 
il  cuore  ai  nostri  vecchi  patrioti,  i  quali  vedevano  ricordate  con  am  • 


(1)  Capolago  1843. 

(2)  Firenze,  presso  Felice  Le  Monnier,  1853  e  18G1. 

(3)  Ebbe  finora  cinque  edizioni  ;  l'ultima  ò  di  quest'anno,  e  uscì  a 
Milano  nella  Biblioteca  Utile  del  Treves,  in  un  grosso  e  fitto  volume  di 
000  pagine.  . 


—  ^27  — 
mirazione  le  loro  sofferenze  per  la  patria  e  il  martirio  de'loro  com- 
pagni, ed  ai  giovani  che  traevano  dai  magnanimi  esempii  de'  pa- 
dri propositi  virili;  la  erudita,  eloquente,  talora  inspirata  Sfo- 
ria  dell'  Italia  antica,  (i)  intrapresa  a  stamparsi  in  Firenze  fin 
dall'  anno  1846,  e  compiuta  in  terra  d' esigìio  (ove  fu  cacciato 
dagli  avvenimenti  del  1849  ;  (2)  costretto  a  fuggire  i  processi  di 
Toscana,  cercò  rifugio  ora  in  Francia,  ora  in  Inghilterra,  ora 
nel  Belgio,  ora  nella  Svizzera,  dove  negli  anni  1852  e  1853  pro- 
fessò storia  universale,  finalmente  in  B' rancia  per  la  seconda 
volta,  fino  al  18Ò6,  anno  in  cui  ripatriò  a  Firenze);  la  Rivista  di 
Firenze,  fondata  nel  1857  e  protratta  fino  al  1850,  con  l'intento 
medesimo  che  si  propone  l'odierna  Rivista  Europea,  di  seguire  in 
Italia  e  fuori  l'ingegno  e  il  pensiero  italiano;  i  due  volumi  di 
Ricordi  della  vita  e  delle  opere  di  G.  B.  Niccolini  (3)  di  cui  egli 
era  insieme  l'alunno,  l'amico  e  il  confidente  più  intimo,  e  più  de- 
gno; e  finalmente  i  Proverbi  latini  illustrati,  ai  quali,  già  aguzzi 
per  sé,  egli  drizzò  più  ancora  la  punta  per  farne  uno  strumento 
di  educazione  civile.  Qual  vita  or  dunque  meglio  spesa  di  questa 
del  Vannucci?  E  qual  meraviglia  se,  dopo  tanto  ostinato  lavoro 
fatto  con  animo  sempre  agitato  da  speranze  e  timori,  da  sdegni 
ed  amori  tremendi,  l'illustre  storico  pistoiese  ora  ne  senta  al- 
quanto la  gravezza,  e  rifugga,  sdegnoso  insieme  e  verecondo,  da 
ogni  nuovo  cittadino  tumulto,  e  da  ogni  troppo  viva  preoccupazione 
politica? 

Inaugurato  per  sempre  il  governo  nazionale  in  Italia,  egli  fu 
successivamente  eletto  bibliotecario  della  Magliabecchiana,  pro- 
fessore di  letteratura  latina  all'istituto  di  studii  superiori,  se- 
natore del  regno,  commendatore  dell'ordine  di  SS.  Maurizio  e 
Lazzaro,  ed  in  questi  ultimi  giorni,  delegato  governativo  alla  sopra- 
intendenza  amministrativa  dell'istituto  di  studii  superiori,  insieme 


(1)  La  prima  edizione  vide  la  luce  in  Firenze  presso  la  Poligrafia 
italiana,  1846-1855;  la  seconda,  dedicata  ad  Ariodante  Fabretti,  in  Fi- 
renze presso  il  Le  Monnier,  1863  e  1864.  Una  terza  edizione  molto  ac- 
cresciuta, con  numerose  e  interessanti  illustrazioni  eseguite  dal  Cavetti, 
n'esco  ora  per  dispense  a  Milano  presso  la  tipografia  già  Domenico 
Salvi. 

(2)  Il  Pitrè  ricordò  pure  ne'  suoi  Profili  che  il  Vannucci  a  Roma  fu 
imprigionato  dai  francesi;  tale  notizia  non  ha  fondamento. 

(3)  Firenze,  Le  Monnier,  186G. 


—  228  — 
con  Federico  Menabrea  e  con  Carlo  Burci.  Ebbe  in  sua  vita  numerosi 
e  caldi  amici;  gloriosi  fra  gli  altri  il  Niccolini  alla  memoria  del  quale 
egli  inalzò  un  degno  monumento,  ed  il  Giusti  il  quale,  nel  1844, 
stimandosi  in  fin  di  vita,  voleva  a  lui  solo  raccomandata  la  pro- 
pria memoria  :  «  Se  qualcuno  ha  da  parlare,  gli  scriveva,  parla 
tu  come  sei  solito;  almeno  sapranno  il  vero;  »  questo  parmi  il 
più  boli'  elogio  che  possa  farsi  di  uno  scrittore  ;  ed  il  Vannucci 
l'ha  ben  meritato,  egli  che  avea  scritto  per  tempo  sulla  sua  ban- 
diera il  bel  motto  di  Ugo  Foscolo  ;  vUam  impendere  vero. 


XII. 

ANTONIO  RANIERI. 


Anche  l'amicizia  ha  nelle  lettere  i  suoi  fasti  gloriosi,  ed  in 
questi  fasti  risplende  purissimo  il  nome  di  Antonio  Ranieri,  al 
quale,  se  alcun  altro  proprio  merito  insigne  non  s'aggiungesse, 
potrebbe  bastare  la  gloria  d'avere,  col  suo  fido  affetto,  temperato 
le  estreme  amarezze  alla  vita  d'un  grande  italiano.  Quella  specie 
di  calma  e  direi  quasi  serenità  con  la  quale  il  desolato  genio  re- 
canatese s'accostò  al  sepolcro,  è  merito  particolare  de'  sentimenti 
soavi  che  seppe  svegliare  in  esso  il  giovine  e  tenerissimo  amico 
napoletano,  quasi  riconciliandolo,  per  mezzo  dell'amicizia,  col  destino 
e  con  gli  uomini.  Belle  opere  scrisse  il  Ranieri,  ma,  sovra  ogni  cosa, 
egli  seppe  compiere  nella  sua  vita,  con  rara  modestia,  un'opera  tanto 
buona  che  quasi  si  può  dir  grande.  Egli  fece,  per  più  di  sei  anni,  da 
infermiere  attento  e  devoto  non  pure  alle  membra  affrante  e  cor- 
rotte, ma  allo  spirito  malato  del  suo  ospite  moribondo;  non  pur  la 
sua  casa,  non  pur  le  sue  cure  e  più  tardi  anco  quelle  della  propria 
sorella  (Paolina  di  nome,  come  la  sorella  amatissima  del  Leopardi), 
ma  egli  comunicò  all'infelicissimo  poeta  una  parte  del  proprio  alito 
vitale,  una  gran  parte  e  forse  la  migliore  di  sé  stesso.  E  come 
accade  talora  nelle  infermità,  e  in  quella  massima  delle  infermità 
mortali  nomata  vecchiezza,  che  il  corpo  infermo  si  rinfreschi,  si 
ristori  ed  in  alcun  modo  ringiovanisca  al  contatto  d'un  corpo  ve- 
geto, fresco,  e  pieno  di  giovinezza,  cosi  vi  fu  un  momento  nel 
quale  il  Leopardi  al  tepore  delle  aure  primaverili  di  Capodimonte 
e  del  Vesuvio,  ma,  più  ancora,  al  calore  dell'amicìzia  del  suo  buon 
Ranieri,  si  credette  riserbato  ad  invecchiare.  Il  Ranieri^  al  contra- 


—  230  — 
rio,  avendo  a  sostenere  con  la  propria  una  vita  consunta  come  quella 
del  Leopardi,  invecchiò  troppo  presto  egli  stesso,  e  ne  derivò  uno 
scetticismo  precoce,  e  un  disdegno  non  naturale  degli  uomini  e 
delle,  cose,  che  lo  fece  parere  misantropo  anche  allora  ch'egli 
scrisse  od  operò  per  uno  scopo  di  filantropia.  I  biografi  del  Ranieri 
attribuiscono  al  viaggio  di  lui  in  Inghilterra  il  disegno  dell'  Orfana 
della  Nunziata;  ma  fra  il  viaggio  in  Inghilterra  e  la  pubblica- 
zione dell' O/'/ana  passarono  ben  dieci  anni,  e  fra  questi  dieci  anni 
stanno  pure  i  sei  passati  col  Leopardi.  Se  è  dunque  probabile  che 
una  reminiscenza  de' pii  istituti  inglesi  abbia  determinata  nel  Ra- 
nieri la  scelta  del  soggetto,  l'anima  che  dentro  vi  spira  ha  sen- 
tito il  gelido  soffio  di  Leopardi  moribondo.  In  quelle  pagine  s'im- 
para pur  troppo  ad  odiare  l'uomo,  più  che  ad  amarlo  ;  le  mostruo- 
sità vi  si  succedono  e  si  somigliano  ;  l'umana  natura  vi  si  mostra 
in  tutta  la  sua  escrescenza  morbosa.  Si  dirà  ;  il  soggetto  lo  ri- 
chiedeva ,  l'Ospizio  de'  Trovatelli  è  il  rifugio  di  tante  miserie  ;  ma 
IDur  vorrei  domandare  :  è  egli  possibile  che  tutti,  assolutamente 
tutti,  là  entro  fossero  un  tempo  malvagi?  E  egli  ragionevole  che 
in  una  scena  così  animata  di  figure  qual  è  quella  che  il  Ranieri, 
nel  suo  romanzo,  ci  presenta,  di  buono  non  si  avesse  a  presentare 
altro  che  una  monaca  francese,  una  suor  Geltrude  ?  Io  comprendo 
lo  scopo  di  mostrare  gli  orrori  di  un  mal  governato  ospizio,, aflln- 
chè  vi  si  ponga  riparo,  e  comprendo  pure  come,  in  tempi  di  ser- 
vitù, sia  stato  assai  nobile  il  coraggio  di  colui  che  tenne  in  mano 
il  flagello  a  percuotere  gli  schiavi  giacenti,  afilnchè^risorgessero. 
Ma,  per  risorgere,  bisognava  pur  credere.  E  le  pagine  del  Ranieri, 
quante  sono,  non  lasciano  adito  a  fede  alcuna.  Lo  scrittore  mostra 
animo  coraggioso  nell'accusare  la  patria  ignava,  nello  scoprire  le 
turpitudini  de'  grandi  fortunati,  ma  non  manda  poi  un  solo  grido 
che  conceda  a'suoi  napoletani  oppressi  di  sperare  nella  loro  resur- 
rezione morale  e  politica.  Il  disprezzo,  infine,  col  quale  egli  parla 
dei  calabresi  tutti  non  è  degno  d'un  uomo  dell'alto  intelletto  del 
Ranieri.  Gli  studenti  per  lui  son  tutti  inetti  e  vili  ed  ei  non  pensa 
che  da  quelle  file  egli  stesso  è  uscito  con  tant'altri  illustri  e  ge- 
nerosi ne'  quali  ora  egli  può  compiacersi  con  legittimo  orgoglio, 
e  tanto  compiacersene  da  porre,  poi,  con  eccesso  contrario,  Napoli 
al  di  sopra  di  tutte  le  altre  città  italiane,  e,  con  l'immaginazione 
accesa,  figurarsi,  contro  il  vero,  ch'essa  in  Italia  sia  «  tesoro  del- 
l'odio di  tutti  gli  odierni  pigmei.  »  Già  il  Giusti,  che  lo  avea 
l'anno  innanzi  conosciuto  a  Firenze  in  casa  di  Gino  Capponi, 
scrivendo    nell'anno  1844  al  Ranieri,  gli  dava  fraternamente  que- 


—  231  - 

sto  consiplio  :  «  Senza  intaccare  la  dignità  d'uomo  onesto  e  dotato 
di  molto  ingegno,  quale  siete  di   certo,   rimettete    un  po'  di  quel- 
l'indole sdegnosa  che  s'adonta  d'ogni  minimo  che.  »  Ora,  io  posso 
ingannarmi,  ma  sembrami  che  molta  parte  di  quella  sdegnosa  al- 
terezza che  rende  talora  inamabili  le  stesse  bellezze  negli    scritti 
del  Ranieri  sia  derivata  dai  principii  filosofici  ch'egli  dopo  la  morte 
del  Leopardi  ha  professati.  Stoico  anzi    tutto,    avresti    detto    che 
nell'autore  del  De  Officiis   egli    ponesse  da  prima  il  suo    modello 
di  scrittore  ;  e  quindi  sposati  que'  principii  della    saviezza    antica 
con  lo  scetticismo  dell'amico  recanatese,  la  verità  tradusse  a  con- 
seguenze tal  fiata   paradossali,    tal   altra    sofistiche.  È  bello,    per 
esempio,  in  un  italiano  d'allora  lo  sdegno  contro  la  viltà  delle  no- 
stre plebi  che  mendicavano  spesso  l'oro  dal  forestiero   in  premio 
di  certi  loro  lazzi  bestiali  ;  ma  né  tutta  la  plebe  d'Italia    era   co- 
siffatta, né  tutto  il  popolo  d'Italia  era  plebe,  né   tutti  i  forestieri 
che  venivano  a  spirar  le  benefiche  aure  del  cielo    italiano    erano 
«  rea  canaglia  settentrionale,  droghieri,   spazzacamini,    soldati   a 
mezza  paga  »  come  il  Ranieri  chiama  gli  inglesi  tutti  viaggianti 
in  Italia,  né  selvaggi  orsi  male  imitanti  i  vezzi  di  Francia,  quali 
i  Russi  gli  apparvero.  Quest'odio  cieco,  questo  non  misurato  di- 
sprezzo verso  il  forestiero,   gli  fa  pure  immaginare   nel    suo    ro- 
manzo   casi   inverosimili  ;  tale,    per  esempio,    quella   principessa 
russa  che  sposa  d'improvviso  il  giovine    pittore   Camillo  e  fugge 
con  esso  in  Russia,  come  se  la  Russia  fosse  stata  il  più  sicuro  e 
naturai  rifugio  a  due  sposi  di  quella    fatta,    mentre  è  noto   come 
secondo  le  leggi  e  più  secondo  il  costume  vigente    in    Russia    al 
tempo  dello  tzar  Niccolò,  nessuna  nobile  titolata  poteva  unirsi  in 
matrimonio  con  alcuno  che  titolato  non  fosse  (1).  Non  poche  stra- 
nezze, pur  troppo,  si  ricordano  di  alcuni   Russi    in   viaggio;  ma, 
poiché  nessuna  di  tali   stranezze  essi   potrebbero    permettersi  in 
patria  senza  pagarne  il  fio,  o,  almeno,  senza  destare   molto  scan- 
dalo fra  la  loro  gente,  il  costume  della  quale  è  onesto  e  civile,  più 
assai  che  in  Italia  ed  in  Francia   non  si  creda,  essi  vengono    in 
occidente  per  dare  sfogo  a  tutti  quegli  umori  malsani  che  in  pa- 


(1)  Ebbi  sotto  gli  occhi  la  corrispondenza  inedita  fra  la  contessina 
Sceremetieff  di  Mosca  e  il  celebre  pianista  Teodoro  Dòhler,  del  tempo 
nel  quale  ì  due  giovani  erano  fidanzati;  pel  veto  dello  tzar,  il  matri- 
monio fu  impossibile  finché  il  Duca  di  Lucca  non  ebbe  creato  il  Dòhler 
barone. 


—  232  — 
tria  doveano  contenere  ;  e  noi,  non  che  sdegnarci  del  privilegio 
che  accordano  alla  terra  nostra,  eleggendola  a  tempio  de'  loro  di- 
sonesti piaceri,  con  la  curiosità  e  cupidigia  nostra  li  allettiamo  e 
li  tratteniamo.  Ove  il  nostro  costume  fosse  più  severo,  non  è  vero 
che  alcun  matto  straniero  ardirebbe  venir  qua  a  sfidare  quel  pu- 
dore civile  che  lo  rende,  in  vece,  contegnoso  fra  i  suoi  concitta- 
dini. Mentre  adunque  è  ingiustizia  grave  il  fare  un  fascio  solo  di 
tutti  gli  stranieri  nostri  visitatori,  confondendoli  come  fa  il  Ra- 
nieri intemperantemente,  in  un  solo  disprezzo,  sarebbe  cosa  giusta 
il  fare  a  noi  stessi  la  nostra  parte  di  torto,  pel  modo  di  compor- 
tarsi di  alcuni  di  essi  fra  noi.  L'esser  trattati  meglio  o  peggio 
non  dipende  soltanto  dalla  varia  moralità  ed  educazione  di  quelli 
che  hanno  a  trattare  con  noi,  ma  si  ancora  dalla  varia  attitudine 
che  serbiamo  noi  stessi  innanzi  al  contegno  altrui.  Il  Ranieri  non 
sa  misurar  sempre  le  sue  parole;  e  però  anche  scrivendo  col  Frate 
Rocco  una  specie  di  Galateo  civile  ad  uso  degli  italiani,  cede 
più  spesso  ai  moti  improvvisi  del  cuore  sdegnato  contro  qualche 
eccesso  particolare,  anzi  che  moderare  le  menti  italiane  a  quella 
civile  saviezza,  che  sola  può  far  degno  un  popolo  e  grande  uno 
Stato.  Il  suo  frate  Rocco  dice  al  popolo  napoletano:  «  andate, 
dunque,  e  lavorate,  e,  insieme  col  lavoro  conquistate  l'orgoglio  o 
l'alterezza  d'un  gran  popolo;  e  fatevi  voi  alle  logge  ed  alle  rin- 
ghiere inglesi  a  veder  danzare  i  loro  buffoni.  »  E  vero  che, 
dopo  aver  cosi  desiderata  la  vendetta  d'Italia  con  l'umiliazione 
del  popolo  inglese,  frate  Rocco  si  rammenta  d'essere  uomo  di 
chiesa,  ma  troppo  tardi,  per  soggiungere  ipocritamente:  «  0 
piuttosto;,  poiché  Gesù  predicò  tutti  gli  uomini  fratelli,  amate  ed 
onorate  loro,  com'è  giusto  ch'essi  amino  ed  onorino  voi;  »  troppo 
leardi,  io  dico,  e  la  correzione  non  può  avere  molta  efficacia,  dopo 
l'impressione  che  il  lettore  ha  dovuto  ricevere  dalle  prime  parole 
che  gli  parlavano  alla  fantasia  ed  ai  sensi.  Come  poi  sperasse  il 
Ranieri  far  laborioso  e  grande  un  popolo  cui  egli  in  quel  suo  galateo 
civile  sconsigliava  dal  cibarsi  di  carne,  io  non  arrivo  ad  intendere. 
L'  operaio  inglese  è  robusto  ed  attivo,  olire  che  per  altre  meno 
materiali  ragioni,  ancora  perch'egli  è  un  eccellente  carnivoro;  con 
l'erbe  e  le  radici  pitagoriche  si  potrebbe  creare  un  manso  popolo 
d'agnellini,  ma  non  di  certo  una  gente  leonina,  quale  l'italiana 
dovrebbe  farsi,  per  ritornare  alla  sua  latina  grandezza  e  supe- 
rarla forse.  Io  non  so  poi  come  l'uomo  camperebbe  d'erbe  sé 
stesso,  quando  lasciasse,  non  potendo  distruggerli,  moltiplicare  al- 
l'infinitO;  per  quella  carità  che  il  Ranieri  raccomanda  verso  tutte  le 


—  233  — 

innocenti  creature  di  Dio,  e  quando  dovesse  alimentare  una  turba 
sterminata  d'animali  domestici  posti  sotto  la  provvidenza  di  esso. 
E  vero  clie  l'autore  si  scusa  nella  prefazione  dello  strano  consiglio 
dato  nel  libro,  avvertendo  d'aver  pure  voluto,  per  esso,  rendere  il 
popolo  più  rassegnato  a  privarsi  d'un  sostentamento,  che  la  scarsità 
della  pecunia  non  gli  concederebbe  di  procurarsi;  ma,  oltreché  il 
povero  popolo  che  non  può  mangiar  carne,  non  può  neppur  leg- 
gere il  libro  del  Ranieri,  il  consiglio  piglia  un  aspetto  derisorio, 
che  non  conveniva,  senza  dubbio,  alla  gravità  del  libro  educativo 
che  il  Ranieri  s'era  proposto  di  scrivere.  Quantunque  io  non 
ignori  dunque  punto  di  quante  lodi  siano  stati  colmati  in  vario 
tempo  i  due  libri  d'invenzione  del  Ranieri,  la  Ginevra  oV  Orfana 
della  Nunziata  {{)  e  il  Frate  Rocco  (frammenti  morali),  e  per  ciò 
che  riguarda  la  toscana  elegantissima  dicitura  (che  meritò  al 
Ranieri  il  titolo  di  corrispondente  della  Crusca),  e  per  lo  stile  robu- 
sto e  colorito,  e  per  la  potente  immaginativa  io  sia  lieto  d'annove- 
rarmi fra  gli  ammiratori  dell'ingegno  del  Ranieri  come  scrittore, 
io  non  potrei  dir  troppo  gran  bene  della  morale  che  vien  fuori 
da  quelle  due  opere  di  lui.  Certo  è  consolante  pel  Ranieri  il  po- 
tersi oggi  persuadere  che  il  libro  suo  valse  ad  aprire  gli  occhi 
de'governanti  sulle  nefandità,  da  lui  denunziate,  che  si  commette- 
vano nell'Ospizio  napoletano  della  Nunziata.  E  se  il  libro  non 
avesse  avuto  altro  merito  che  quello  d'affrettare  di  qualche  anno 
le  inevitabili  riforme  di  un  istituto  di  benificenza  pessimamente 
governato,  sarebbe  già  per  questo  solo  da  benedirsi.  Ma  non  te- 
nuto conto  dello  scopo  filantropico  che  informa  tutto  il  libro^  esso 
si  presenta  pure  alla  critica  come  lavoro  d'arte  e  come  opera  edu- 
cativa. Sotto  questo  rispetto  giova  pur  considerarlo.  E,  incomin- 


(1)  Nella  notizia  intorno  alla  Ginevra,  premessa  dall'autore  all'edi- 
zione di  Milano,  il  Ranieri  narra:  «  Un  dì  (correva,  credo,  il  cinquan- 
totto) camminando  pensieroso  per  la  via  della  Nunziata,  ed  avendo  la 
mente  rivolta  assai  lontano  dalle  care  ombre  della  mia  giovinezza  (fra 
le  quali  la  Ginevra  fu  la  carissima),  un  bravo  architetto,  il  cavalier 
Fazzini,  mi  chiamò  per  nome,  dal  vestibolo  dell'Ospizio,  ch'era  tutto  in 
restauro.  E  mostrandomi  un  esemplare  del  libro,  ch'aveva  nelle  mani 
(e  che,  a  un  tratto  mi  sembrò  come  una  cara  larva  che  tornasse  a  sa- 
lutarmi di  là  donde  mai  non  si  torna);,  m'invitò  di  venir  dentro,  e  di 
riscontrare  se  tutto  era  stato  attuato  secondo  l'intendimento  del  vo- 
lume perseguitato. 


_  034  ~ 

ciando  dal  genere,  non  posso  consentire  coi  biografi  del  Ranieri  che 
lo  fanno  creatore,  senz'altro,  del  romanzo  sociale;  la  Ginevra  (1)  ten- 
ne dietro  di  un  decennio  aW  Oliviero  Tioist  di  Carlo  Dickens,  che, 
apparso  a  Londra  nel  18^8,  il  Ranieri  aveva  letto  molto  proba- 
bilmente nel  suo  viaggio  in  Inghilterra,  seguito  sullo  scorcio 
del  1830.  Anche  Oliviero  nasce  nell'Ospizio  de'trovatelli,  e  ne 
vien  levato  per  essere,  come  la  Ginevra,  sottoposto  ai  più  duri 
lavori  e  ad  orribili  trattamenti;  ma  questa  somiglianza  generale 
del  soggetto  non  scema  poi,  in  modo  alcuno,  il  merito  particolare 
dell'invenzione  del  Ranieri;  le  tinte  del  nuovo  quadro  gli  appar- 
tengono intieramente,  così  come  i  caratteri  secondarli  e  il  rilievo 
felicissimo  de'costumi  non  solo  ma  de'discorsi  napoletani.  Quanto 
al  carattere  dell'eroina,  esso  non  mi  sembra  delineato  con  mano 
abbastanza  franca  e  sicura;  si  può  anzi  dire  che  essa  propria- 
mente non  ne  ha  alcuno;  quando,  per  lo  meno,  essa  potrebbe  ri- 
velarlo, noi  fa;  è  una  vittima  che  subisce  diverse  impressioni,  e, 
all'infuori  di  un  pò  di  scetticismo,  non  ne  accoglie  alcuna  impronta 
particolare  nell'indole  sua.  L'opera  poi  ha  merito  molto  diverso 
nella  terza  e  quarta  da  quello  che  osservo  nella  prima  e  seconda 
parte.  Al  fine  della  seconda  parte,  la  tesi  del  Ranieri  è  più  che 
dimostrata;  e  il  romanzo  poteva  bene,  con  l'aggiunta  di  lievi 
tocchi,  finir  li,  e  lasciare  nell'animo  di  chi  legge  una  forte  unica 
impressione;  l'autore  invece  lo  protrae  imprudentemente  a  danno 
della  sua  propria  tesi,  poiché  fa  trovare  alla  Ginevra  fuori  del- 
l'ospizio casi  molto  più  feroci  e  crudeli  di  quelli  che  nell'ospizio 
essa  aveva  già  esperimentati;  la  violenza  che  le  fa  il  prete  Se- 
rafino, e  il  calcio  che  le  dà  l'amante  Pittore  Camillo  per 
farla  annegare  nel  Tevere  sono  due  episodii  inverosimili  e 
mostruosi  che  non  hanno  più  nulla  che  fare  con  l' orfana 
della  Nunziata  e  possono   solamente  persuadere   il   lettore   come 


(1)  Nella  Notizia  intorno  alla  Ginevra,  leggo:  «  Fra  il  1830  e  ill831 
esule  ancora  imberbe,  capitai  in  Londra,  o,  più  tosto,  mi  capitò  in  Lon- 
dra alle  mani  un  aureo  lavoro  di  un  altro  esule,  assai  più  ragguarde- 
vole e  provetto  di  me,  il  conte  Giovanni  Arrivabene,  nel  quale  egli  mo- 
strava particolarmente  tutto  quanto  quella  gran  nazione,  ha  trovato  in 
fatto  di  pubblica  beneficenza,  per  lenire,  se  non  guarire  del  tutto  quelle 
grandi  piaghe  che  le  sue  medesime  instituzioni  le  hanno  aperte  nel 
fianco.  Alcuna  volta  il  cortesissimo  autore,  più  di  frequente,  il  suo  giu- 
dizioso volume,  mi  fu  guida  e  scorta  nelle  mie  corse  per  quegli  ospizii.  » 


-  235  - 
anche  fuori  di  quegli  ospizii  vi  siano  belve  umane  ;  onde  la 
Ginevra  e  con  essa  il  lettore  deve  arrivare  alla  disperata  e 
funesta  conclusione  che  il  supremo  bene  per  l'uomo  sulla  terra, 
è  la  solituìine,  e  il  male  supremo  ogni  contatto  con  gli  altri  uo- 
mini. La  Ginevra  del  Ranieri  ebbe  tre  edizioni;  ma  la  prima 
(Capolago,  1839)  fu  quasi  intieramente  distrutta  per  opera  dei 
preti  e  gesuiti  napoletani,  che  bruciarono  quanti  esemplari  pote- 
rono trovare  del  libro,  dolenti  di  non  poter  bruciare  al  tempo 
stesso  l'autore  (1),  il  quale  tuttavia  fecero  sostenere  in  carcere 
per  quarantacinque  giorni;  la  seconda  edizione,  che  usci  decimata 
e  molto  scorretta  fu  in  breve  esaurita;  la  terza  vide  la  luce  a 
Milano  nel  18G-2  presso  il  Guigoni,  ornata  di  sei  incisioni,  dise- 
gnate da  sei  tra  i  nostri  migliori  pittori,  il  Palizzi,  il  Morelli,  il 
Pagliano,  il  Vertunni,  il  Celentano  ed  il  Carrillo. 

Ma  non  solo  come  amico  del  Leopardi  e  come  autore  della  Gi- 
nevra avrà  posto  il  Ranieri  nella  nostra  storia  letteraria;  egli  è 
pure  autore  di  uno  de'meglio  pensati,  meglio  ordinati  e  meglio 
scritti  libri  di  storia. 

Già  fin  da  quando  egli  studiava  giurisprudenza  nell'Università 
di  Napoli  egli  s'  era  innamorato  particolarmente  degli  studii  sto- 
rici. Ricercato  dalla  polizia  borbonica  per  alcuni  scritti  giovanili 
ne'  quali  già  ferveva  intenso  1'  amor  della  patria  e  della  libertà, 
riparò  affatto  giovinetto  in  Bologna  da  prima,  ove  fu  caro  al 
Costa,  al  Pepoli  e  al  Marchetti,  quindi  in  Toscana,  ove,  nell'an- 
no 1828,  conobbe  per  la  prima  volta  il  Leopardi,  e  con  esso  il 
Colletta  ed  il  Niccolini,  che  gli  aprirono  per  tempo,  1'  adito  alle 
pagine  dell'  Antologia.  Egli  era  nato  (il  dì  8  settembre  dell'  anno 
1809  (1)  )  di  famiglia  assai  benestante  ;  onde  non  gli  mancarono  i 


(1)  Nella  citata  notizia  del  Ilanieri  intorno  alla  sua  Ginevra,  par- 
lando del  prete  Angelo  Antonio  Scotti,  si  narra:  «  qxxa^io  iwete  cortese, 
cli'era  come  il  Gran  Lama  di  tutta  l'innuraerabile  gesuiteria  extra  mu- 
ros,  per  mostrarsi  di  parte,  corse  co'suoi  molti  neofiti,  tutte  le  libre- 
rie della  città,  bruciando  il  libro  ovunque  ne  trovava  copia.  Poscia,  in 
un  suo  conventicolo  dei  Banchi  Nuovi,  sentenziò  solennemente,  ch'era 
bene  di  bruciare  il  libro,  ma  che,  assai  migliore  e  più  meritorio,  sa- 
rebbe stato  di  bruciare  l'autore  a  dirittura.  » 

(2)  Cosi  i  cenai  biografici  intorno  al  Ranieri  ingeriti  nell'introduzione 
premessa  da  Gustavo  Brandes  alla  sua  bella  versione  tedesca  dello  poe- 
sie di  Leopardi  (tlannovcr,  Rumpler,   18G9).   Il  Dizionario  dei  Contem- 


—  23G  — 
mezzi  né  d'  attendere  con  qualche  agio  agli  studii,  né  d'  impren- 
dere viaggi  opportuni  per  compierli,  come  piìi  tardi  d'assistere  il 
Leopardi  e  d'erigergli  a  proprie  spese  in  Posilipo  un  degno  mo- 
numento. Dalla  Toscana  il  Ranieri,  esule  volontario,  si  recò  in 
Francia,  ove  frequentò  le  lezioni  di  Guizot,  di  Villeraain,  di 
Cousin,  divenne  amico  di  Lammenais  e  di  Constant  ed  assistette 
alla  Rivoluzione  di  Luglio,  nella  quale  anzi  rimase  egli  stesso 
ferito.  Passato  di  Francia  in  Inghilterra  per  istudiarvi  le  istitu- 
zioni britanniche,  d'Inghilterra  in  Germania  (a  Gottinga  e  Ber- 
lino), per  frequentarvi  i  corsi  di  filosofia  della  storia,  ritornò  in 
Italia  ricco  di  cognizioni  e  d' esperienza.  Toltosi  compagno  il 
Leopardi  nel  suo  ritorno  a  Napoli,  fra  le  lodi  unanimi  degli  amici 
di  Toscana  e  del  Niccolini  in  ispecie,  col  quale  il  Ranieri  avea 
pure  communi  le  opinioni  politiche  (I),  intese  con  Carlo  Troya, 
ma  con  dottrina  ghibellina,  mentre  il  Troya  vi  cercava  per  tutto 
il  trionfo  del  principio  guelfo,  ad  illustrare  quel  periodo  originale 
della  nostra  storia  che  intercede  fra  Teodosio  e  Carlo  Magno;  e 
però  scrisse  la  Storia  d'  Italia   dal  quinto  al  nono  secolo.  «  Il 


poranei  di  Vapereau,  e  i  Profili  biografici  del  Pitrè  danno  invece  come 
anno  di  nascita  del  Ranieri,  il  1806,  certo  per  un  facile  scambio  tipo- 
grafico di  un  9  in  un  6. 

(1)  I]  Vannucci,  nel  primo  volume  de' suoi  Ricordi  della  Vita  e  delle 
opere  G.  B.  Niccolini,  scrive:  «  Sui  nuovi  guelfi  deliranti  e  sui  sagre- 
stani belanti,  egli  più  che  con  altri  sfogavasi  con  Antonio  Ranieri,  il 
quale,  per  la  tempra  del  suo  libero  ingegno,  e  per  le  dottrine  storiche 
raccolte  con  lungo  studio  e  con  profonde  meditazioni,  più  che  altri  era 
atto  a  vedere  la  falsità  e  i  mali  effetti  della  nuova  merce  che  si  an- 
dava spacciando  alla  povera  Italia.  Col  Ranieri  aveva  consuetudine  e 
corrispondenza  d'affetto  e  di  studi  fino  da  quando  questi,  esulando,  si 
trattenne  giovinetto  in  Firenze,  e  si  fece  compagno  e  fratello  confor- 
tatore di  Giacomo  Leopardi,  pel  quale  spese  tanto  tesoro  di  affettuose 
e  instancabili  cure  a  sorreggerlo  nelle  ineffabili  miserie  che  crudel- 
mente gli  travagliarono  1'  animo  e  il  corpo.  Il  Niccolini  che  per  lungo 
tempo  conversò  con  ambedue  ogni  giorno,  alla  vista  di  tanta  e  così 
gentile  pietà,  amò  più  che  mai  il  magnanimo  giovane  che  già  gli  era 
carissimo  per  la  schietta  indole,  per  la  rara  cultura  e  pel  vivo  e  nobile 
ingegno.  E  allorché  il  Ranieri  condusse  il  Leopardi  a  Napoli  per  ten- 
tare di  salvarlo  in  quejl'  aria  piena  di  salute  e  di  vita,  ei  gli  seguiva 
ambedue  coli'  affettuoso  pensiero,  e  il  giovane  amico  lo  ragguagliava 
particolarmente  delie  sue  trepidazioni,  e  delle  nuove  speranze  etc.  » 


—  237  — 
libro  strozzato  due  volte  altrove,  scrive  il  Ranieri  nella  notizia 
premessa  alla  seconda  edizione  milanese  dell'opera  sua,  apparve 
dato  alle  stampe  in  Brusselle  (1841).  Ma  non  fu  appena  pubblica- 
ta, che  due  grandi  tempeste  mi  si  rovesciarono  addosso,  né  si 
discerneva  qual  fosse  la  più  furiosa.  La  Compagnia  di  Gesù  mi 
flagellò  di  articoli;  e  quattro  de' Reverendi  Padri,  in  ossa  e  in 
polpe,  si  recarono  nel  cospetto  di  Ferdinando  secondo  e  gli  rap- 
presentarono (sono  proprie  loro  parole)  :  U  seno  squarcialo  della 
religione;  di  quella  religione  della  quale,  a  grande  studio,  non 
era  detta  una  sillaba  sola  nel  libro.  Il  libello  fu  dato  al  supersti- 
zioso Monarca;  e  s'  imbambolavano  gli  occhi  di  quegli  innocenti 
e  mansueti  compagni  di  Gesù,  pensando  che,  dato  il  libello  (eh'  io 
serbo)  all'emulo  di  Filippo  secondo,  ne  seguisse  un  monitorio, 
s'  appendessero  i  cedoloni,  ed  un  salutare  sanbenito  mi  menasse 
presto  a  purificarmi  in  Campo  de'  Fiori.  Ferdinando  si  rimise  del 
libello  in  Delcarretto.  Il  quale,  sia  giustizia  anche  a  lui,  se  mera- 
vigliosamente amoroso  del  re  assoluto  (el  rey  nelo),  e  di  quell'ara - 
mazzar  concitato  di  Salerno,  del  Vallo  e  di  Catania,  non  però 
gran  fatto  tenero  delle  pretensioni  e  dei  supplizi  clericali,  messe, 
con  grande  scandalo  del  padre  Rootham,  quel  libello  nel  dimenti- 
catoio. Ma  questo  scroscio  era  nulla  al  diluvio  di  accuse,  di  ca- 
lunnie, di  motteggi,  di  contumelie,  onde,  parlando  e  scrivendo  mi 
si  precipitarono  addosso  tutte  le  innumerabili  o  stupide  o  ipocrite 
scimmie  de' pochi  grandi  ingegni  traviati  dalle  irrepugnabili  dot- 
trine di  sette  secoli  di  avita  sapienza;  i  quali  esse  prendevano,  o 
fingevano  di  prendere,  letteralmente  (1).  E  per  acconciarsene  con 
le  potestà  del  tempo,  innalzavano  un'  assurda  confederazione  alla 
germanica,  con,  di  più,  il  Papa  capo  e  l' Austria  consorte,  all'  al- 
tezza d'  una  seria  e  salutifera  soluzione.  »  Qui  ancora  il  Ranieri 


(1)  Come  poteva  il  Ranieri  dolersi  degli  attacchi  della  parte  avversa, 
se,  con  evidente  intemperante  personalità,  egU  l'avea  ferita  nel  più  illu- 
stre de' suoi  rappresentanti,  sul  fino  del  fibre,  «iecondo  ov'egli  scriveva  : 
«  e  però  sarebbe  da  desiderare  che  cessasse  1'  ipocrite  zelo  di  alcuni, 
che,  nutrendo  nel  fondo  del  loro  petto  pensieri  alieni  da  ogni  vivere  li- 
bero e  civile,  vanno,  quasi  sfogo  all'impeto  loro  contro  quello  straniero 
medesimo  che  trionfa  in  Italia  sulle  ali  delle  loro  teoriche,  spargendo 
tanto  loro  veleno  contro  ai  Longobardi,  per  avventura  loro  progeni- 
tori: Questo  veleno  dovrebbero  sputarlo  contro  a  certi  altri  stranieri, 
verso  i  quali  si  mostrano  più  che  agnelli  mansueti.  »  ? 


--  ^23S  — 
vitupera  insieme  tutta  la  scuola  guelfa,  della  quale  erano  pur  se- 
guaci tanti  suoi  nobili  amici;  ed  alla  stima  che  di  lui  facevano 
gli  amici  guelii  di  Toscana  ei  dovette  pure,  appena  pubblicato  il 
libro,  (che  Gino  Capponi,  nella  sua  prima  lettera  al  Capei  definisce 
«  lavoro  di  poca  mole  ma  non  di  poca  sostanza,  pregievole  per  assai 
beli'  arte  di  composizione  ist(^irica  e  per  franchezza  di  stile  »), 
l'onore  di  essere  invitato  a  professare  pubblicamente  la  storia 
nell'Ateneo  Pisano;  che  se  una  visita  di  Leopoldo  al  coronato 
suocero  di  Napoli  indusse  in  breve  il  timido  granduca  a  riti- 
rare l'invito,  non  sarà  meno  onorevole  per  i  guelfi  di  Toscana 
l'aver  essi  pensato  a  chiamare  fra  loro  un  ghibellino  perchè  in- 
terpretasse alla  nuova  generazione  di  studenti  la  storia  d' Italia  ; 
ed  il  Ranieri  storico,  per  amore  del  vero,  ne  avrebbe  forse  do- 
vuto nelle  sue  recenti  reminiscenze,  far  conto  migliore.  Ma,  la- 
sciando codesto,  è  a  lamentarsi,  senza  dubbio,  che  il  Ranieri  non 
siasi  allora,  nel  ferver  degli  studii,  e  nel  pieno  vigor  dell'  intel- 
letto condotto  a  professare  in  Pisa;  chi  legge  la  Storia  d'  Italia 
del  Ranieri  ammirerà  non  solo  la  lucida  intuizione  del  vero  nei 
fatti  storici,  e  l'abilità  con  la  quale  questi  vi  sono  coordinati,  ma 
si  ancora  la  nobiltà  della  mente  che  li  giudica  e  la  disinvoltura 
elegante  dell'esposizione.  Nei  Prolegomeni  di  una  introduzione 
allo  studio  della  scienza  storica  ove  egli  pone  sovra  gli  altri  il 
principio  che  i  fatti  individuali,  benché  di  numero  sterminati  devono 
essere  accuratamente  ed  infaticabilmente  studiati,  non  però  per 
sé  stessi,  ma  come  effetto  dei  generali  e  come  scala  per  montare 
a  quelli;  e  nel  ragionamento  un  po'  sofistico  intorno  al  modo  di 
considerare  le  azioni  umane  rispetto  alla  coscienza  ed  alla  storia 
egli  palesa  qual  profondo  filosofo  della  storia  avrebbe  potuto  di- 
venire, educando  di  continuo  l'ingegno  all'osservazione  storica. 
Ma  la  cattedra  gli  fu  negata;  e  da  quel  tempo  in  poi  fino  agli 
ultimi  rivolgimenti  italiani,  il  Ranieri  visse  più  tosto  ritirato,  fra 
le  cure  del  foro,  e  lo  studio  di  proseguire  la  sua  storia  fino  ai 
tempi  di  Lorenzo  il  Magnifico,  non  inerte,  ma,  neppure  molto 
operoso.  L' arrivo  di  Garibaldi  alle  porte  di  Napoli  finalmente  lo 
riscosse  (1);  ed  egli,  tornato  vivo  fra  i  vivi,  venne  fatto  segno  a 
pubbliche  onoranze  di  popolo  e  di  re.  Le  regie  fu  pronto  a  rifiutare. 


(1)  Il  G  seti.  18G0,  il  Ranieri  fa  il  primo  de'sessanta  patrioti  napoletani  che 
luandarono  ud  invitare  il  generalo  Garibaldi  a  pigliar  possesso  di  Napoli. 


—  239  — 
come  la  Gran  Croce  de'  Santi  Maurizio  e  Lazzaro,  un  posto  al 
Consiglio  di  Stato,  ed  il  titolo  di  senatore;  elesse  invece  di  rap- 
presentare i  suoi  concittadini  in  parlamento ,  di  professare  filoso- 
fia della  storia  nel  patrio  Ateneo,  e,  per  incarico  di  Garibaldi,  di 
sovrintendere  al  Reale  Albergo  de'  poveri,  pel  quale  ufficio  egli 
non  volle  tuttavia  ricevere  onorario  alcuno.  Anima  alta  e  sdegno- 
sa, intelletto  vivo  e  capace,  amò  sempre  poco  sé  stesso  e  moltis- 
simo invece  la  patria.  Non  seppe  frenare  in  ogni  tempo  la  parola 
incontinente,  che  talora,  pertanto,  suonò  ingiusta,  vile  non  mai; 
e,  in  ogni  modo  si  può  fare  per  lui  una  rara  conclusione  :  gli 
scritti  suoi  sono  assai  nobili,  ma  egli  è  assai  più  nobile  de'  suoi 
scritti. 


XIII. 


GIOVANNI  ARRIV ABENE 


Noblesse  oMige;  ogni  patrizio  sei  dice  o  se  lo  sente  dire  ;  ma 
raro  accade  che  un  tal  consiglio  divenga  operoso  di  bene.  Il  più 
delle  volte  gli  obblighi  della  nobiltà  sono  intesi  dal  patrizio  in 
modo  ch'egli  li  riduca  alla  sola  tutela  de'suoi  minacciati  privilegi. 
E  però,  in  omaggio  a  quella  sentenza,  ei  si  guarderà  studiosa- 
mente da  qualsiasi  contatto  con  quegli  ordini  sociali  ch'egli  stima 
inferiori.  Non  è  dunque  ^olo  interdetto  ad  ogni  patrizio  che  senta 
altamente  della  nobiltà  de'  suoi  natali  il  macchiare  con  ibridi  pa- 
rentadi il  suo  blasone  avito  ;  ma  egli  deve;  in  ogni  atto,  in  ogni 
gesto,  in  ogni  suo  motto  mostrarsi  distinto  ;  e  mostrarsi  distinto, 
vuol  dire  operare,  condursi,  favellare  in  modo  diverso  .da  quello 
«he  il  popolo  osserva.  Così,  se  il  popolo  ami  molto  la  patria,  questo 
amore  parrà  a  gran  parte  del  patriziato  cosa  volgare  ;  ond'esso,  per 
distinzione,  l'amerà  poco  ;  se  il  popolo  per  la  redenzione  della  pa- 
tria sacrificherà  il  maggior  numero  de'  suoi  figli,  quel  patriziato, 
per  distinzione,  se  li  terrà  tutti  a  casa  ;  se  il  popolo  parli  e  vesta 
all'italiana,  quel  patriziato,  per  distinzione,  parlerà  e  vestirà 
alla  parigina.  Cosi  il  volgo  de' nobili;  perchè  hanno  anch'essi  il 
loro  volgo,  e  tanto  più  misero  de'  volghi  plebei,  in  quanto  essi 
vantano  un'educazione  ricevuta  e  ricchezze  ereditate,  eccellenti 
mezzi,  per  i  quali  qualche  lazzero  disgraziato  sarebbe  divenuto  vera- 
mente un  gentiluomo.  Il  lazzero  è,  senza  dubbio  uomo  vizioso;  ma 
quanto  più  di  lui  il  ricco  patrizio  in  ozio  che,  non  pago  di  colti- 
vare i  vizii  proprii,  sveglia,  specula,  mercanteggia,  diffonde  gli 
altrui.  Il  lazzero  è  analfabeta;  ma  peggio  che  analfabeta  è  il  pa- 


—  241  — 

trizio  ozioso;  poich'egli  ha  imparato  a  leggere,  unicamente  per 
mantenere,  con  la  sua  curiosità  indiscreta,  in  deplorevole  favore, 
una  sozza  letteratura  scandalosa,  che  incomincia  pudicamente  con 
Dafni  e  Cloe  e  finisce  sfacciata  e  brutale  con  qualche  Panier  des 
ordures  (1).  Altro  non  si  legge  in  certi  circoli  ultra-aristrocratici; 
la  dama  elegante  s'è  fermata  al  Journal  des  demoiselles  ;  e  al 
Còde  du  Cérémoniel;  il  cavaliere  è  andato  un  poco  più  in  là; 
ma  trovò  Dumas  figlio  troppo  grave  e  drammatico  ;  Paul  de  Kock 
di  una  scurrilità  troppo  fuggitiva  ;  Balzac  quasi  noioso  ;  al  di  là  di 
Balzac  sorgono  le  colonne  d'Ercole  pel  giovine  lettore  patrizio  di 
buon  gusto.  Cosi,  io  ripeto,  il  volgo  blasonato.  Quando  pertanto 
da  questo  volgo  escono  fuori  uomini  come  i  piemontesi  Alfieri, 
Balbo,  Azeglio,  Sclopis,  Lamarmora,  Collegno,  Sanquintino,  Ve- 
snie  e  simili,  i  milanesi  Beccaria,  Verri,  Manzoni,  Litta,  Porro, 
Arconati,  Borromeo,  Belgioioso,  e  i  degni  di  loro,  i  fiorentini 
Capponi,  Ridolfi,  Strozzi,  Albizzi,  Ricasoli,  Torrigiani,  Passerini 
e  gli  altri  non  pochi  che  serbano  qui  ricordo  del  loro  nome  an- 
tico per  crescergli  lustro;  quando  Venezia  ci  conserva  gloriosi  i 
nomi  de'  Giustiniani  e  dei  Bembo,  Genova  quello  dei  Boria  e  dei 
Pallavicini,  Bologna  quello  de'  Gozzadini,  Pesaro  quello  de'  Ma- 
miani,  Siena  quello  dei  De  Gori,  Perugia  quello  dei  Conestabile, 
e  così  via  scendendo  verso  il  Mezzogiorno  d'Italia,  ove  tuttavia 
decresce  la  nobiltà  in  quella  proporzione  stessa  con  la  quale  s'ac- 
crescono il  numero  e  la  boria  de' titolati;  quando  ci  troviamo 
innanzi  a  tali  splendide  eccezioni  di  un  ceto  tanto  innamorato 
de'  suoi  vizii  e  pregiudizii  da  ambirne  il  privilegio,  inchiniamoci 
ed  ammiriamo.  Poiché,  se  è  sempre,  in  qualsiasi  condizione  della 
vita,  malagevole  ad  ogni  uomo  l'acquistar  vera  dignità  morale,  è 
uopo  di  una  gran  forza  di  volontà  e  di  carattere  ad  ogni  patrizio 
italiano  per  divenire  qualche  cosa  di  meglio  che  un  uomo  frivolo 
ed  elegante,  e  per  servire  con  devozione  una  società  nella  quale 
egli  si  muove,  mentre  egli  aveva  invece  appreso  dall'aio  com'essa, 
rinnovando  il  miracolo  del  duplice  sogno  di  Giuseppe  Ebreo,  s'ag- 
girasse e  s'inclinasse  eternamente  ai  piedi  di  lui  solo. 

Il  grosso  del  patriziato  mantovano  non  è  diverso,  pur  troppo, 
da  quello  dell'altre  città  italiane;  poiché,  se  non  mancano  neppure  a 
que'nobili  gli  ambiti  quarti  di  nobiltà,  manca  tuttavia  alla  maggior 


(1)  È  tale  il  titolo  d'una  novità  francese  che  intesi  domandare  da  un 
patrizio  napoletano  in  una  libreria  di  Firenze. 


Ricordi  Biografici 


242  

parte  di  essi  ciò  che  forma  la  nobiltà  intera.  Gioverebbe  pertanto 
ch'essi  meditassero  particolarmente  la  vita  del  loro  concittadino 
Conte  Giovanni  Arrivabene  e  da  lui  apprendessero  come  nobiltà 
vera  si  mantenga  e  s'acquisti. 

Nacque  il  conte  Giovanni  Arrivabene  in  Mantova  nell'anno  1787 
di  assai  ricca  famiglia  ;  ma,  come  Vittorio  Alfieri,  anch'egli  fino 
all'anno  27"  della  sua  vita  condusse  vita  scioperata  ed  inutile.  La 
caduta  del  Regno  d'Italia  lo  scosse.  La  sventura  che  abbatte  i  più, 
lui  all'incontro  fece  sorgere  due  volte  ;  la  prima  volta  in  patria, 
la  seconda  in  esigilo.  Atterrata  in  Italia  ogni  libertà,  ed  imposto 
il  giogo  austriaco  al  Lombardo-Veneto,  egli  incominciò  allora  a 
sentire  la  patria,  a  soffrire  per  essa^  a  tormentarsi  nel  desiderio 
della  sua  salvezza.  Le  vie  di  tentarla  potevano  esser  molte  ;  ed 
egli  colse  quelle  che  una  più  pronta  occasione  gli  offeriva  ;  aveva 
egli  già  fatto  conoscenza  coi  fratelli  Camillo  e  Filippo  Ugoni  e 
con  Giovita  Scalvini  di  Brescia,  con  Giovanni  Berchet,  Giu- 
seppe Pecchio  e  Federico  Gonfalonieri  di  Milano  ;  a  questi  s'erano 
quindi  aggiunti  in  Brescia  il  Mompiani,  in  Milano,  il  Breme,  il 
Borsieri,  il  Porro  ed  il  Pellico.  L'esempio  di  questi  patrioti  lo 
incitò  ;  e,  naturalmente  disposto  al  bene,  egli  volle  imitarli  nella 
più  salutare  di  tutte  le  opere  pie,  dando  opera  ad  istruire  il  po- 
polo, fondare  a  proprie  spese  in  Mantova,  come  avea  già  fatto  il 
Gonfalonieri  a  Milano  ed  il  Mompiani  a  Brescia,  ima  scuola  di 
mutuo  insegnamento,  che  fu,  in  breve,  frequentata  da  quasi  due- 
cento fanciulli,  e  eh'  egli  visitava  ogni  giorno,  sebbene  dimorasse 
in  villa,  alla  sua  Zaita,  che  dista  da  Mantova  sei  miglia  lombarde. 
«  Quei  giorni,  scriv'egli  nel  pregioso  Libretto  delle  sue  Memo- 
7ne  intorno  a  quegli  anni,  furono  i  più  felici  della  mia  vita.  I 
piaceri  l'uomo  li  deriva  da  varie  sorgenti,  quasi  tutte  più  o  meno 
impure;  la  felicità  ei  non  l'attinge,  che  alla  fonte  purissima  del 
bene  operare  ».  Il  favore  che  incontrarono  in  Lombardia  quelle 
scuole  popolari,  le  quali  davano  naturalmente  ai  promotori,  av- 
versi al  nuovo  governo,  un'autorità  singolare  sopra  il  popolo,  de- 
terminò l'Austria  a  farle  chiudere;  l'Arrivabene  supplicò  due  volte 
il  viceré  perchè  gli  fosse  concesso  di  tenere  aperta  la  sua,  ma 
indarno.  «  Ritornai  a  Mantova,  prosegue  egli,  andai  .alla  scuola. 
I  fanciulli  stavano  ansiosi,  come  accusati  i  quali  aspettano  la 
sentenza  che  li  deve  assolvere  o  condannare;  e  quando  udimmo 
che  non  v'era  più  speranza,  che  forza  era  separarci  per  sempre, 
fu  un  pianto  universale.  »  Per  consolarsi  di  quel  dolore,  l'Ar- 
rivabene   fece    con    lo    Scalvini   un   viaggio    in    Toscana;   nella 


—  -243  — 

quale  occasione,  egli  dovea  pure  levare  dal  collegio  di  Siena  il 
figlio  maggiore  del  conte  Porro,  primo  introduttore  dei  battelli 
a  vapore  in  Italia,  insieme  col  Gonfalonieri,  per  menarselo  alla 
Zaita,  ove  il  padre,  con  altri  due  suoi  figli  e  con  Silvio  Pellico 
loro  precettore  sarebbe  venuto  nel  settembre  di  quell'anno  (1820) 
a  ritirarselo.  Il  Pellico  era  già  stato  a  Mantova  nel  1816;  egli 
accompagnava  allora  il  Breme,  per  aiutarlo  a  mettere  in  iscena  una 
tragedia  dal  titolo  Ida,  che  ebbe  sorti  infelici;  il  Pellico  ed  il 
Breme  erano  stati  raccomandati  all'Arrivabene  dal  noto  viaggia- 
tore Acerbi,  che  dovea  più  tardi  diventare  famoso  ne'  fasti  della 
Biblioteca  italiana.  Nel  settembre  del  1820,  il  Pellico  ed  il  Porro 
co'  suoi  figli  furono  ospitati  per  quindici  giorni  alla  villeggiatura 
deli'Arrivabene  ;  quell'ufficio  cortese  gli  dovea  costare  prima  il 
carcere  e  poi  l'esiglio;  ma  gli  diede  pure  la  gloi'ia.  «  Un  giorno, 
narra  l'Arrivabene,  mentre  Porro  e  i  figli  erano  nel  giardino, 
Pellico  ed  io  stavamo  in  una  stanza  seduti  sopra  un  sofà.  Parla- 
vamo dell'Italia,  del  modo  di  rigenerarla.  Tutto  ad  un  tratto,  Pel- 
lico esclama:  Arrivabene,  per  rigenerare  Italia  voglionvi  società 
secrete,  bisogna  farsi  carbonari.  —  Sarebbe  pazzia,  replico  im- 
mediatamente io  ;  sai  bene  che  fu  promulgata  non  ha  guari  una 
legge  che  condanna  a  morte  i  carbonari.  Si  può  giovare  all'Italia 
senza  affigliarsi  ad  alcuna  setta.  Gli  usciti  nel  giardino  entrarono 
in  casa;  il  nostro  dialogo  fu  interrotto  e  non  fu  mai  poscia  ri- 
preso. »  Verso  il  6  ottobre  il  Porro  ed  il  Pellico  ripartivano  per 
Milano;  il  13,  il  Pellico  vi  fu  arrestato.  Nel  febbraio  del  1821,  il 
Gonfalonieri  invita  l'Arrivabene,  sotto  pretesto  di  parlargli  del- 
l'affare de'  battelli  a  vapore,  ma,  in  verità,  per  mettersi  d'accordo 
con  esso  intorno  all'attitudine  che  i  lombardi  avrebbero  dovuto 
pigliare  innanzi  alla  rivoluzione  piemontese  prossima  a  scoppiare. 
L'Arrivabene  arriva  in  Milano  e  trova  il  Gonfalonieri  gravemente 
infermo;  si  reca  insieme  col  Borsieri  in  campagna  dal  Pecchio, 
a  tre  miglia  da  Milano,  ove  si  ritrovavano  pure  Benigno  Bossi  e 
Carlo  Gastiglia  ;  vi  si  fanno  molti  discorsi  politici,  ma  senza  de- 
liberar nulla;  presso  a  scoppiare  la  rivoluzione  in  Piem.onte,  il 
Pecchio  richiede  l'Arrivabene  di  danaro  per  mandarlo  ai  piemon- 
tesi che  stanno  per  insorgere  ;  l'Arrivabene  trova  a  tal  uopo  mille 
lire.  Scoppiata  la  rivoluzione  in  Alessandria,  l'Arrivabene  si  ferma 
altri  tre  giorni  in  Milano  ;  quindi  fli  ritorno  a  Mantova,  senza 
essersi  più  ritrovato  co'  suoi  amici  politici.  L'ultimo  venerdì  del 
mese  di  maggio  1821,  egli  viene  arrestato  alla  Zaita,  e  condotto 
ai  Piombi  di  Venezia,  e  quindi  innanzi  alla  Gommissione,  presieduta 


—  244  — 

dal  conte  Gardani  di  Mantova,  essendo  giudice  inquirente  il  fiimoso 
tirolese  Salvotti.  La  polizia  ignorava  allora  quello  che  l' Arrivabene 
avea  fatto  in  Milano;  egli  era  solamente  chiamato  a  rispondere  della 
canzone  di  Rossetti  da  lui  comunicata  in  Mantova  ad  altre  persone, 
il  che  egli  confessò  con  imprudente  lealtà,  d'aver  fatto,  e  de'discorsi 
da  lui  tenuti  col  Pellico  alla  Zaita.  «  Pellico,  soggiunse  il  Salvotti, 
terminando  il  suo  interrogatorio,  le  ha  confidato  alla  Zaita  di  es- 
sere carbonaro  ;  era  dovere  in  lei  di  denunziarlo  al  governo  ;  ella 
noi  fece  ;  quindi  ella  è  reo  del  delitto    di   non    rivelazione.  »  La 
risposta  dell' Arrivabene  fu  notevole  e  degna,  in  tutto,  d'un  uomo 
onesto  e  di  un  gentiluomo.  «  Come  denunziare,  sclamò    egli   con 
isdegno,  tradire  l'amico,  l'ospite  ?  Che  leggi  sono  queste  ?  Le  più 
immorali  del  mondo.  Mi  condannino  pure.  Mi  trovassi  mille  volte 
in  simil  caso,  farei  mille  volte  lo  stesso.  Pellico   non   mi   ha  poi 
detto  essere  egli  carbonaro,  ma  bensì  che  volea  o  convenia  farsi 
tale.  Ciò  è  si  vero  ch'io  ne   l'ho    sconsigliato.  Si  sconsiglia   mai 
uomo  dal  commettere  azione  ch'egli  abbia  già  consumata  ?    Dun- 
que anche  secondo  la  legge  io  non  sono  reo.  Questa  forza  i  sud- 
diti a  rivelare  al  governo  i  carbonari  ;  ma  essa  non  va  tant'oltre 
da  costringerli  a  denunziare  i  discorsi  sulla  carboneria   che    essi 
sieno  per  udire,  o  il  desiderio  che  una  persona  manifesti  di    en- 
trare, 0  che  altri  entri  nella  setta.  »  Cosi,    difendendo  sé  'stesso, 
l'Arrivabene  difendeva  pure  egregiamente  l'amico  ;  e  l'essere  stato 
sincero,  raro  caso  ne'  processi  politici,  a  lui   giovò.    La   sua   pri- 
gionia si  protrasse  bensi  ancora  per  sette  mesi  ;  che    dai  Piombi 
egli  venne  trasferito  alla  Prigione  di  San  Michele   di  Murano,  a 
passarvi  la  state  e  l'autunno  ;  ma  gli  si  usarono    molti    riguardi 
nel  tempo  della  prigionia  ed  egli;,  vi  ebbe    agio   d'occuparsi,    leg- 
gendo,  focendo   estratti,    improvvisando   versi,    deponendo    sulla 
carta  i  propri  pensieri.  In  uno  di  questi,  egli  rivolgevasi   in    tal 
modo  a  sé  stesso  :  «  La  compassione  tu  l'hai  sentita  come  si  sen- 
tono le  passioni  ;  tu  hai  sempre  amato  i  tuoi  simili  ;  non  hai  mai 
odiato  i  tuoi  nemici  ;  né  li  odii  pur  ora,  sebbene  tu  li  vegga  in- 
sultare al  tuo  infortunio.  »  Né  queste  erano  certamente  vane  pa- 
role. Essendo  in  prigione,    egli  ebbe  il  dolore   d'apprendere   che 
s'era    trovato  in  casa  sua  in  Mantova,  fra  le  sue  carte,  una    let- 
tera di  Giovita  Scalvini  a  lui  diretta,  e  che,  per  cagione  di  quella 
lettera,  lo  Scalvini  era  stato  arrestato.  «  Nel  1819,  scrive  l'Arri- 
vabene, dovea  recarsi  a  Milano  l'Imperator  d'Austria.   Il   gover- 
natore   della   Lombardia  avea  incaricato    Monti  di  scrivere    una 
cantata  per  quell'occasione.  Scalvini  e  Monti  si  vedeano    soventi. 


—  245  — 

Scalvinì  onorava  in  Monti  il  poeta  ed  amava  l'uomo  ;  che,  se  egli 
avea  molti  difetti,  avea  pure  ottimo  cuore  (1).  Monti  facea  caso 
della  perspicacia  e  del  fino  giudizio  critico  di  Scalvini.  Questi  va 
un  giorno  da  Monti,  il  quale  sdegnato  gli  dice  :  —  Sai,  il  gover- 
natore mi  sforza  a  scrivere  una  cantata  per  l'arrivo  dell'Impera- 
tore. Si  fanno  giuoco  di  me,  sanno  bene  ch'io  non  amo  l'Impera- 
tore.—  In  onta  di  questa  ripugnanza.  Monti  compose  la  cantata. 
In  quella  fatai  lettera,  Scalvini  mi  dava  conto  di  ciò.  »  Il  Monti 
faceva  cosi  le  spese  della  sua  misera  condizione  di  poeta  ufficiale  ; 
il  genio  che  si  rende  servile  si  castiga  da  sé;  per  un  sorriso  del 
principe  esso  perde  l'amore  del  popolo  ;  ma,  per  fortuna,  l'età  no- 
stra, con  tutte  l'altre  anticaglie,  si  mena  via  anche  i  poeti  di  corte; 
e  però  allontana  il  pericolo  che  futuri  poeti  cedano  i  loro  liberi 
estri  a  cantar  le  volubili  fantasie  di  effimeri  signori,  i  quali  val- 
gono ora  solamente  più,  ciascuno  per  sé,  come  semplici  mortali, 
stimabili  quando  sanno,  con  virtù  propria,  meritarsi  quella  stima, 
ma  non  sono  più  né  eroi  divini,  né  eroici  semidei  atti  a  svegliare 
furori  pegasei  ed  olimpici  nei  Pindari  novelli.  Coi  re  costituzio- 
nali e  coi  presidenti  di  repubbliche  conservatrici,  i  menestrelli  di 
corte  hanno  smesso  ogni  loro  poetica  baldanza;  non  potendo  essi 
più  concedersi  il  lusso  di  certe  immagini  epiche,  a  poco  a  poco, 
per  lungo  silenzio,  divengono  fiochi  ;  e  per  ricominciare  il  loro  bel 
canto  debbono  porgere  nuovamente  ascolto  alle  prime  voci  solenni 
ed  auguste  della  natura. 

Ma,  per  tornare  al  nostro  prigioniero,  nella  sua  prigionìa  di 
San  Michele,  oltre  il  conforto  di  ricever  lettere  e  libri,  ed  alcuna 
rara  visita,    egli    ebbe    pur  quello  di  potere  conversare  con  due 


(1)  Con  questo  giudizio  dell' Arri  vabeno  intorno  a  Vincenzo  Monti  com- 
bina pure  quello  che  trovo  nel  principio  delle  Memorie  di  Alessandro 
Andryane  il  generoso  francese,  che,  per  la  indipendenza  d'Italia,  incon- 
trò gli  orrori  dello  Spielberg.  «  Come  tutti  i  grandi  poeti,  il  Monti  era 
semplice  e  buono  ;  le  sue  parole,  per  poco  che  discorreste  con  lui,  vi 
lasciavano  travedere  il  candore  e  l'innocenza  dell'anima  sua;  lui,  che 
avevano  dipinto  come  si  timido  e  riguardoso,  sentii  parlar  con  forza 
contro  le  vessazioni  e  la  tirannia  del  governo  austriaco  e  de'  suoi  agenti  ; 
lo  sentii  aprire  il  proprio  cuore  intorno  al  Confalonicri  e  a'  suoi  com- 
pagni, e  compiangere,  in  termini  degni  del  suo  genio,  Pietro  Borsieri, 
giovine  poeta  di  sì  belle  speranze,  diceva  egli,  e  che  avrebbe  fatto  onore 
alla  patria.  » 


—  2-i6  — 
suoi  nobili  compagni  di  sventur^i,  il  conte  Laderchi  e  Piero  Ma- 
roncelli.  Alfine  gli  viene  annunziato  ch'è  riconosciuta  la  sua  in- 
nocenza, ch'egli  è  libero,  ch'egli  può  abbandonare  subito  l'isola  di 
San  Michele.  Bisogna  aver  provato,  nella  vita,  pur  qualche  cosa 
che  somigli  ad  una  prigionia  per  comprendere  l'allegrezza  che 
invade  l'animo  d'un  uomo,  quando  egli  apprende  che  ha  riacqui- 
stato la  sua  libertà  perduta;  è  una  gioia  folle,  che  inebbria  e 
quasi  accieca  il  povero  carcerato  che  ritorna  a  respirar  libere  aure 
ed  a  veder  volti  umani;  cosi  la  molta  luce  toglie  quasi  la  vista  a 
chi  vien  fuori  dalle  tenebre,  ed  il  raggio  del  sole  arde  colui  che 
uscì  da  una  fredda  spelonca.  L'Arrivabene,  nel  sentirsi  libero,  non 
credeva  certamente  che  fosse  vero,  e  non  capiva  più  in  sé;  ma, 
egli  seppe  pur  tanto  dominarsi  da  impedire  le  troppe  dimostra- 
zioni di  una  esterna  allegrezza,  per  non  offendere  i  suoi  due  com- 
pagni sventurati,  che  rimanevano  in  carcere  mentre  egli  ne  par- 
tiva. E  qui  mi  occorre  di  rammentare  uno  de'più  nobili  tratti 
della  vita  dell'Arrivabene  il  quale  solo  basterebbe  al  più  splendido 
elogio  di  tutto  l'uomo.  Erano  le  due  pomeridiane  quando  il  conte  Car- 
dani annunziò  al  prigioniero  ch'egli  era  libero;  il  prigioniero  volle 
spontaneamente  rimanere  in  carcere  fino  all'indomani,  e  però  pas- 
sare ancora  in  un  misero  letto,  in  una  misera  stanza,  in  un  luogo 
di  pena,  una  intiera  lunga  notte;  qual  ragione  gli  facesse  eleg- 
gere quel  mesto  partito  ci  ha  detto  egli  stesso  con  quella  ingenua 
semplicità  che  è  propria  delle  anime  grandi  :  «  In  quel  momento 
di  esitanza  e  di  silenzio  che  seguì  alle  parole  del  Conte 
(Cardani),  la  mente  mia,  con  quella  rapidità  di  operare  che  è  ma- 
raviglioso  attributo  delle  menti  umane,  aveva  considerato  la  si- 
tuazione mia  e  quella  dei  miei  compagni,  visto  quanto  sarebbe 
stato  brutto  il  non  saper  aspettare  con  moderazione  un  po'  di 
buona  fortuna,  il  mostrare  un'impazienza  eccessiva  a  dividermi 
da  essi,  che  rimanevano  nella  miseria;  quanto  bello  invece  il  con- 
secrare  qualche  ora  a  consolarli.  »  È  peccato  che  lo  Smiles  non 
abbia  Conosciuto  questo  mirabil  esempio,  quando  scrisse  il  suo  bel 
libro  sopra  il  Carattere.  Ma,  perchè  s'apprezzi  meglio  l'animo 
delicato  e  gentilissimo  dell'Arrivabene,  udiamo  come  raccontasse 
quel  fatto,  uscito  di  prigione,  il  Maroncelli.  «  Diflìcilmente,  ei 
lasciò  scritto,  s'incontrano  sulla  terra  anime  più  pure,  più  inna- 
morate del  bene,  più  abneganti  di  sé  stesse,  di  quella  di  Giovanni 
Arrivabene;  tale  è  il  giudizio  di  Pellico,  di  Porro,  di  Confalonieri, 
e  tale  e  il  mio.  —  Gli  fu  letta  la  sentenza  di  libertà,  se  non 
erro,  il  17  dicembre  1821,  a   due   ore    dopo   mezzodì.   V  era    ben 


—  247  — 
tempo  per  chiudere  il  suo  baule,  andare  a  pranzo  alle  cinque, 
indi  spandersi  nelle  società  ed  al  teatro,  due  cose  di  cui  il 
suo  animo  conversevole  dovea  patire  sete  immensa.  No  ;  gli 
parve  di  passar  ivi  la  notte;  parlava  già  di  notte  a  due  ore  po- 
meridiane. Il  seguente  giorno  parti;  le  prime  famiglie  nobili  di 
Venezia  con  cui  era  imparentato,  la  principessa  Gonzaga,  l'egre- 
gio presidente  conte  Cardani  di  Mantova  che  lo  aveva  assolto,  lo 
invitarono  a  pranzo  supplicandolo  come  di  una  grazia.  Ei  fu  ri- 
conoscente a  tutti  ma  disse  al  presidente  Cardani,  suo  compa- 
triota: Ella  piuttosto  faccia  a  me  un'ultima  grazia  —  Subito,  e 
quale  ?  nulla  posso  negarle.  —  Mi  conceda  di  rientrare  nella  mia 
prigione  per  poter  dare  le  consolazioni  dell'uomo  libero  a  chi  re- 
sta ancora  nella  sciagura.  Andrò  a  pranzo  nell'isola  di  San  Mi- 
chele. —  Quel  gentile  sentì  quale  e  quanta  era  la  brama  di  quell'a- 
nimo cavalleresco  e  concesse  ;  con  quali  lagrime  vi  fosse  accolto 
lo  sa  il  mio  cuore  che  le  versa  anche  in  questo  momento;  lo  sa 
il  suo  cui  certo  non  isfugge  ogni  più  sfumato  cenno  di  grato 
sentire.  »  Simili  fatti  si  narrano?  se  si  può,  si  imitano;  ma  non 
si    commentano;  il  sublime  non  si  spiega. 

Uscito  dalla  prigione  di  San  Michele,  l'Arrivabene  si  trattenne 
altri  due  giorni  in  Venezia,  ove  ebbe  festevoli  accoglienze  presso 
la  Teotochi-Albrizzi,  la  principessa  Gonzaga,  e  il  Conte  Cardani. 
In  casa  di  quest'ultimo  egli  udì  recitare  per  la  prima  volta  l'inno 
di  Manzoni  II  cinque  maggio  ed  ebbe  la  triste  novella  che  erano 
stati  arrestati  il  Confalonieri,  il  Pallavicini  ed  il  Castiglia.  Gli 
si  strinse  al  cuore  pensando  alle  nuove  vittime,  ma  non  meno  al 
pericolo  che  il  suo  nome  s'implicasse  in  que'nuovi  processi,  e  che 
appena  uscito  dal  carcere,  egli  fosse  costretto  a  rientrarvi.  Tor- 
nato a  Mantova,  il  suo  arrivo  vi  fu  festeggiato  dalla  città  e  dal 
contado  ;  i  mantovani  sentivano  bene  che  ritornava  in  mezzo  a  loro 
un  benefattore. 

Nel  gennaio  del  1822,  l'Arrivabene  si  recò  a  Milano,  per  esplo- 
rare più  dappresso  gli  intendimenti  del  governo  :  vede  la  con- 
tessa Confalonieri  che  lo  invita  a  fuggire  subito  d'Italia;  ma 
non  gli  sembra  che  il  pericolo  sia  tanto  imminente  e  però  si  trat- 
tiene alcuni  altri  giorni  a  Milano,  ove  egli  riceve  pure  dimostra- 
zioni d'affetto  e  d'onore.  Un  episodio  di  quel  soggiorno  dell'Arri- 
vabene  merita  qui  di  venir  riferito;  è  breve,  ma  significativo: 
«  Io  camminavo,  scrive  l'Arrivabene,  da  un  lato  della  Corsia  dei 
Servi;  passava  dall'altro  Ermes  Visconti  insieme  ad  altra  per- 
sona. Attraversano  entrambi  la  strada  e  vengono  a  me.  Visconti 


—  248  — 

si  congratula  meco  del  vedermi  libero,  e  poscia  mi  presenta  il 
suo  compagno,  il  quale  mi  fa  pure  le  più  cordiali  dimostrazioni 
di  gioia.  Questi  era  Manzoni.  »  E  cosi  questo  gran  reazionario 
de' Settembriniani  s'ha  da  ritrovar  sempre  in  mezzo  a  liberali  (1). 
Incerto  per  alcuni  mesi,  fra  il  restare  e  il  partire,  all'annunzio 
avuto  dell'arresto  di  Mompiani  e  di  Borsieri,  l'Arrivabene  final- 
mente, nell'aprile  del  1822,  si  risolve  a  partire;  toglie  in  impre- 
stito sole  quattromila  lire  da  restituirsi  tosto  con  la  vendita  di 
un  po'  di  grano  e  di  bestiame  de'suoi  proprii  poderi  e  fugge  con 
lo  Scalvini  e  con  Camillo  Ugoni  nel  canton  Grigione  assistito 
da  guide  fidate  e  devote  e  da  eccellenti  amici.  Le  ansie  provate 
in  quel  viaggio  piene  di  pericoli  sono  descritte  con  molta  verità 
e  vivace  evidenza  dall'Arrivabene  nel  volumetto  delle  sue  Me- 
morie. Dal  Canton  Grigione  pa;^sò  egli  a  Ginevra,  ove  conobbe 
Bonsteten,  Pellegrino  Rossi  e  il  Sismondi,  che  gli  prestò  una 
particolare  assistenza;  dalla  Svizzera  domandò  finalmente  passa- 
porti per  la  Francia  e  per  l'Inghilterra.  Il  10  agosto  1822  egli 
arriva  a  Parigi;  nello  stesso  mese  legge  nella    Gazzetta    di    Mi- 


(1)  In  una  nota  alle  sue  memorie  l'Arrivabene  soggiunge  intorno  al 
Manzoni:  «  Nella  sua  prima  giovinezza  fu  anch'egli  ciò  che  si  chiama 
nn  esprit  fori;  egli  però  non  rimase  lungamente  in  questa  condizione. 
Narrasi  clie  un  giorno,  trovandosi  egli  a  Parigi  passasse  per  caso  di- 
nanzi alla  Chiesa  di  S.  Rocco.  Dei  canti  di  religione  melodiosi  e  soavi 
giunsero  al  suo  orecchio.  Egli  entrò  nel  santo  luogo  e  ne  usci  tutto 
commosso,  cattolico,  e  cattolico  fervente.  Ma  il  sentimento  religioso 
non  Ila  soffocato  in  lui  né  l'amore  delia  patria,  né  l'amore  della  libertà. 
Tutti  questi  affetti  ei  li  ha  sparsi  ne'suoi  scritti  e  da'suoi  scritti  li  ha 
fatti  penetrare  nell'animo  della  gioventù  italiana.  »  E  l'Andryane,  nel 
citato  capitolo  delle  sue  Memorie:  «  Manzoni,  che  imparai  in  appresso 
a  conoscere  sì  bene,  a  tanto  ammirare  per  tutto  ciò  che  me  ne  disse 
il  suo  amico  Gonfalonieri,  mio  compagno  di  sventura,  e  per  tutto  ciò 
che  ne  lessi,  ricuperata  che  ebbi  la  libertà.  La  speranza  di  trovarmi 
con  lui  non  si  avverò;  me  ne  dolsi  nel  carcere,  e  me  ne  dorrò  sem- 
pre;... perocché  gli  uomini  che  al  par  di  lui  riuniscono  il  genio  alla 
modestia,  gli  slanci  sublimi  del  poeta  alle  umili  virtù  della  pietà  son 
rari  su  questa  terra,  e  in  un  secolo  in  cui  la  mente  troppo  spesso  s'inalza 
sulle  ruine  del  cuore...  Ancor  più  rari  coloro  clie  possono,  come  lui,  dir 
coscienziosamente  che  non  hanno  adoperato  l'alto  ingegno  di  cui  Dio 
li  forniva,  se  non  per  ispirare  agli  uomini  l'amor  della  religione  e  del 
vero.  » 


—  249  — 
lano  l'atto  d'accusa  di  delitto  d'alto  tradimento  dirotto  dalla  Com- 
missione di  Milano  contro  di  lui  e  contro  altri  otto  contumaci,  e 
l'intimazione  di  comparire  innanzi  ad  essa  entro  il  termine  di 
sessanta  giorni,  con  minaccia  del  sequestro  de'beni,  se  non  si  pre- 
sentasse nel  termine  prescritto.  Provvide  allora  con  l'aiuto  dello 
avvocato  Teste  a  far  passare  legalmente  tutti  i  suoi  beni  in  mani 
amiche,  nelle  quali,  osserva  l'Arrivabene,  sarebbero  rimasti,  se  la 
forza  non  avesse  fatto  violenza  alle  leggi.  Verso  il  fine  dell'anno 
1822,  l'Arrivabene  riparava  in  Inghilterra;  nell'autunno  del  1823,  fu 
posto  il  sequestro  sopra  i  beni  di  lui;  il  21  gennaio  1824,  egli  veniva 
condannato  a  morte  in  contumacia.  Le  memorie  dell'Arrivabene 
si  conchiudono  qui  con  le  seguenti  parole  memorabili,  scritte  a 
Brusselle  nel  gennaio  del  1838  :  «  Posto  io  al  contatto  di  una 
maggiore  piìi  variata  parte  dell'umanità,  e  trovatala  migliore  che 
non  mi  fosse  parsa  da  prima,  veduta  di  lontano  a  traverso  la 
nebbia  dei  pregiudizii  nazionali,  io  sentii  per  questa  e  special- 
mente pei  miseri,  un  pii^i  intenso  amore.  E  lo  spettacolo  del 
mondo  esterno,  e  delle  foggie  diverse  della  società  sviluppò  la 
mia  mente;  e  l'attività  intellettuale  che  regna  nei  paesi  in  cui 
vissi,  il  bisogno  di  una  occupazione  che  distraesse  il  pensiero  dal 
considerare  le  care  cose  perdute,  quello  della  pubblica  stima,  tutto 
ciò  mi  spinse  a  far  uso  di  questa  mente,  conducendo  a  termine 
alcuni  lavori  letterarii,  i  quali  non  furono  forse  affatto  inutili  al 
mio  paese,  e  dai  quali  derivai  piaceri  purissimi.  Per  essi  princi- 
palmente alcune  teorie  estreme,  perchè  create  dalla  sola  immagi- 
nazione non  confrontata  colla  esperienza,  entrarono  nei  limiti  del 
possibile,  del  praticabile  ;  e  l'animo  mio,  senza  rinnegare  i  sacri 
principii  di  libertà,  di  giustizia,  d'indipendenza  nazionale  si  apri 
alla  tolleranza  delle  altrui  sincere  opinioni.  Per  essi,  dopo  una 
lotta  colle  antiche  abitudini,  la  quale,  adir  vero, non  fu  né  lunga, 
né  dura,  io  presi  quella  di  contentarmi  del  poco,  e  guardare  piut- 
tosto ai  più  miseri  di  me,  compiangendoli,  anziché  ai  più  fortu- 
nati, invidiandoli.  Alle  mie  vicissitudini  infine  io  sono  debitore  di 
un  bene  che  non  può  essere  tenuto  mai  troppo  in  pregio  da  chi- 
unque faccia  caso  della  sua  dignità  d'uomo.  Venuto  a  vivere  in 
paesi  liberi,  io  mi  trovai  in  una  posizione  politica  franca,  schietta, 
sincera,  perchè  in  armonia  colle  mie  opinioni,  le  quali  io  potei 
liberamente  manifestare  senza  pericolo,  o  modificare  o  mutare, 
per  solo  intimo  convincimento,  senza  tema  di  essere  tacciato  di 
ipocrisia  o  di  viltà.  » 
Cosi  l'Arrivabene  ebbe  la  forza   morale   non  al   certo   comune 


—  250  — 
di  lasciarsi  ammaestrare  anziché  avvilire  dalla  sventura;  egli 
sentì  in  esiglio  come  in  mezzo  ad  un  popolo  civile  straniero  non 
i  suoi  titoli,  non  le  sue  sventure  avrebbero  bastato  a  dargli  con- 
siderazione; potevano  creargli  intorno,  al  primo  suo  arrivo,  una 
aureola  simpatica,  ma  non  dargli  autorità.  Espulso  dalla  sua  pa- 
tria, egli  si  domandò  se  non  fosse  possibile  adoperarsi  a  fare  il 
bene  anche  nelle  sue  condizioni  d'esule  e  meritare  la  stima  dei 
suoi  ospitatori,  indipendentemente  da  ogni  riguardo  politico  per  la 
sua  persona.  Giunto  a  Londra,  si  ricordò  de'suoi  poveri  di  Man- 
tova, e  incominciò  a  studiare  in  che  modo  fosse  ne'pii  istituti  in- 
glesi governata  e  trattata  la  poveraglia. 

A  Dino  Carina,  giovine  e  compianto  economista  che ,  nel  pub- 
blicarne un  volume  di  Scritlì  morali  ed  economici  (1),  scrisse 
egregiamente  della  vita  e  delle  opere  del  Conte  Giovanni  Arri- 
vabene,  l'Arrivabene  soleva  dire  che  i  quattro  anni  da  lui  vis- 
suti in  Inghilterra  eran  bastati  ad  attaccargliil contagio  del  lavoro. 
E,  in  vero,  dal  1822  in  poi  l'esule  illustre  non  ismise  di  lavorare, 
e,  quello  che  più  importa,  non  lavorò  mai  per  sé,  ma  per  solle- 
vare le  miserie  dell'afflitta  umanità.  Egli  non  è  di  quegli  econo- 
misti che  si  ridono  delle  leggi  morali:  queste  anzi  egli  pone 
come  base  necessaria  e  come  principio  alle  leggi  economiche  ;  la 
giustizia  è  la  moderatrice  delle  sue  dottrine  come  de'  suoi  atti  ; 
perciò  si  debbono  in  lui  egualmente  ammirare  la  sapienza  del- 
l' uomo  e  la  bontà  dello  scrittore.  Non  vi  sono  splendori  nel  suo 
stile,  come  non  vi  è  pompa  nella  sua  maniera  di  vivere  ;  ma  egli 
prosegue  innamorato  alla  ricerca  del  vero  e  al  compimento  del 
bene;  e  in  questo  amore  perseverante  seppe  grandeggiare.  Ho 
già  rammentato  nel  Ricordo  di  Antonio  Ranieri  1'  operetta  del- 
l' Arrivabene  intitolata  Beneficenza  della  città  di  Londra,  il  primo 
volume  della  quale  (è  in  due  volumi)  pubblicato  a  Lugano  nel 
1828,  ottenne  il  piìi  lusinghiero  suffragio,  nelle  lodi  che  gli  rese 
Pellegrino  Rossi  nella  Reviie  de  Genève.  L' anno  seguente  l'Arri- 
vabene visitò  le  colonie  dei  mendicanti  vagabondi  neh'  Olanda  e 
nel  Belgio,  che  egli  descrisse  in  francese;  nel  1832  pubblicò  a 
Lugano  un  opuscolo  sui  mezzi  pili  projyri  a  migliorare  la  con- 
dizione degli  operai,  ove  consiglia  l'aumento  del  prezzo  delle 
mercedi  e  la  diminuzione  delle  spese  che  1'  operaio  incontra,  rac- 


(1)  Firenze.  Civelli,  1870. 


—  251  — 
comandando  poi  come  suprema  salute  lina  isiruzìone  per  quanto 
è  possibile  divulgata.  Nel  1833,  l'illustre  economista  Senior  si  ri- 
volse all'  amico  suo  Arrivabene,  per  avere  la  statistica  del  comune 
di  Gaesbek,  nel  Belgio,  ove  l'Arrivabene  avea  intanto  fermato 
la  sua  sede,  ospitato  e  confortato  dalla  famiglia  Arconati;  l'Arri- 
vabene si  mise  all'opera,  e  il  lavoro  di  lui,  che  parve  un  modello 
nel  genere,  meritò  l'onore  d'essere  inserito  negli  Atti  del  par- 
lamento britannico.  Nello  stesso  anno,  egli  imprendeva  a  tradurre 
in  italiano  gli  elementi  di  economia  politica  del  vecchio  Mill;  e  nel 
1836  pubblicava  tradotte  in  francese  e  riordinate  le  lezioni  d'eco- 
nomia politica  del  Senior.  Nel  1838,  l'Austria  proclamò  l'amnistia 
per  i  condannati  politici;  all' Arrivabene  sarebbe  forse  stato  pos- 
sibile il  ritorno  condizionato  in  patria,  ma  non  già  il  vivervi 
senza  sospetto  e  lo  scrivervi  ed  operarvi  liberamente.  Avvezzo 
oramai  al  civile  reggimento  del  Belgio,  egli  desiderò  rimanervi 
e  rendervisi  utile,  in  fino  a  che  la  sua  prima  patria  non  fosse 
veramente  restituita  in  libertà.  Per  potere  con  più  efficacia  ope- 
rare chiese  ed  ottenne  diritto  di  cittadinanza  nel  Belgio,  ove  il 
concorso  benefico  del  nuovo  cittadino  fu  ben  presto  sentito.  Nel  1841 
fece  una  corsa  ne'  luoghi  che  1'  avevan  veduto  nascere;  nel  1843, 
si  ritrovò  a  Torino  col  Pellico.  Soddisfatto  cosi  a  quel  primo  biso- 
gno del  cuore,  si  dedicò  di  nuovo  tutto  a  promuovere  buone  leggi 
ed  utili  istituzioni  nella  sua  seconda  patria,  troppo  sapendo  egli 
come,  alla  lunga,  il  bene  trionfi  e  pigli  terreno  più  profondo  e  più 
vasto  che  il  breve  spazio  in  cui  fu  gettato  il  primo  seme  bene- 
fico. Nel  1846,  in  occasione  di  una  grande  carestia,  egli  suggerisce 
ottimi  provvedimenti,  che  vengono  presi,  per  alleviarne  i  mali  ; 
nel  1847,  promuove  con  altri  il  Congresso  economico  di  Bruxel- 
les; il  Congresso  pone  le  basi  della  Societcà  economica  del  Belgio, 
della  quale  l'Arrivabene  viene  eletto  presidente  ;  questa  Società 
rese  poi  grandi  servigi  alla  libertà  per  l'ostinazione  con  la  quale 
propose  e  difese  le  leggi  del  libero  Scambio.  E  a  questa  Società 
e  all'Arrivabene  in  particolare  si  deve  se  il  Belgio  fu  liberato  da 
quella  gran  piaga  della  vita  economica  italiana  ch'è  il  dazio-consu- 
mo. La  Società  di  mutuo  soccorso  fra  gli  operai  del  Belgio  elesse 
r  Arrivabene  suo  consigliere  sorvegliante,  la  Società  centrale 
belgica  d"  agricoltura,  suo  vicepresidente,  e,  per  i  grandi  servigi 
da  lui  resi  all'agricoltura  nel  Belgio,  gli  fece  nel  1860  coniare 
una  medaglia  inscritta  al  suo  nome  qual  tèmoignage  d'  eslime  et 
de  reconnaissance  ;  il  Brabante  lo  proclamava  nel  1850  suo  con- 
sigliere provinciale;  il  Consiglio  d'igiene  nominava  l'Arrivabene 


—  252  — 

presidente  della  deputazione  incaricata  di  presentare  pubblici  rin- 
graziamenti al  ministro  dell'  interno  Rogier,  per  i  servigi  da  lui 
resi  all'igiene  pubblica;  e  l'Arrivabene  estensore  dell'indirizzo,  vi 
lasciava  scritte  queste  nobili  e  giuste  parole:  «  In  nessuna  epoca 
della  loro  istoria  i  belgi  non  furono  proclivi  all'adulazione  e  lo 
debbono  essere  ancor  meno  oggi  che  hanno  il  bene  di  vivere  sotto 
istituzioni  che  permettono  loro  di  biasimare  la  condotta  degli 
uomini  pubblici,  per  quanto  alta  sia  la  posizione  loro,  come  di 
applaudire  alle  buone  azioni  e  ricompensarle.  Egli  è  soltanto 
quando  il  biasimo  è  permesso  che  la  lode  può  avere  gualche  lu- 
singa per  gli  animi  elevati  e  pei  noUli  cuori.  »  Nel  Belgio,  l'Ar- 
rivabene promesse  ancora  o  meglio  tentò  dirigere  ad  utile  scopo 
l'emigrazione  de' proletarii  nella  repubblica  di  Guatimala;  pro- 
mosse una  società  di  panificazione  economica,  che,  nel  1869,  tentò 
pure  di  far  vivere  in  Italia;  fu  esaminatore  negli  esperimenti  di 
licenza  dell'Istituto  di  commercio  in  Anversa;  e,  in  somma,  par- 
tecipò nel  modo  più  benefico  alla  vita  pratica  e  morale  del  popolo 
presso  il  quale  egli  avea,  nella  sventura,  trovato  rifugio.  La  fama 
della  considerazione  della  quale  l'Arrivabene  godeva  presso  i  Bel- 
gi, passò  i  confini  del  piccolo  stato  del  buon  re  Leopoldo.  Gli 
economisti  inglesi  gli  fecero  frequenti  dimostrazioni  di  onore; 
l'Istituto  di  Francia  lo  elesse  suo  corispondente;  il  conte  Cavour 
gli  mandò  il  10  novembre  1852  le  insegne  di  cavaliere  mauriziano, 
concludendo  la  lettera  di  partecipazione  con  le  seguenti  parole: 
«  Permettete  che  nel  felicitarmi,  io  vi  dica  francamente  che  non 
ho  mai,  da  che  sono  ministro,  firmato  con  maggior  piacere  un 
Decreto,  quanto  feci  segnando  quello  che  vi  collocherà  sul  petto 
una  patria  beneficenza.  » 

Venne  finalmente  il  1859,  e  1'  Arrivabene,  che  sentiva  come 
quello  fosse  veramente  l' anno  della  grande  risurrezione  d' Italia, 
accorse  sollecito  in  Piemonte.  «  Era  un  giocondo  spettacolo, 
così  Dino  Carina  nello  scritto  citato,  quello  che  si  godeva  a  To- 
rino del  59  e  del  60.  Quivi  convenivano  italiani  d'ogni  regione  e 
nelle  liete  speranze  dell'età  che  si  apriva  erano  dimenticate  le 
amarezze  del  passato.  Tacevano  le  ire  di  parte,  erano  sospesi  i 
privati  risentimenti;  i  migliori  d'ogni  provincia,  esuli  illustri, 
valentuomini  che  avevano  sofferto  nelle  prigioni  di  stato,  cele- 
brati sapienti,  gli  uni  agli  altri  sol  noti  per  le  opere  dell'ingegno 
0  per  la  fama  delle  forti  virtù,  s'incontravano,  si  stringevano  la 
mano  e  confondevano  insieme  ricordi  ed  affetti,  desideri  e  spe- 
ranze. Sotto  i  portici   di  Po  e  di   Piazza  Castello  era  una  festa 


—  253  — 

continuata  ed  i  buoni  piemontesi  facevano  gli  onori  di  casa  con 
una  cordialità  senza  pari.  »  Disponevasi  1'  Arrivabene  a  concor- 
rere in  un  collegio  di  Lombardia  per  aver  l'onore  di  sedere  come 
Deputato  nel  primo  Parlamento  italiano,  quando  il  Re  prevenne 
il  desiderio  di  lui  eleggendolo  membro  del  senato  ove  l' illustre 
economista  Mantovano  fu  relatore  di  parecchie  leggi  importanti, 
e  presidente  venerato  di  molti  ufflcii.  Institiiitasi  poco  dopo  il  suo 
arrivo  in  Torino  una  società  economica  italiana,  egli  ne  fu  eletto 
presidente;  ricostituitasi  la  stessa  con  nuovi  elementi  in  Firenze, 
la  presidenza  veniva  riconfermata  all'  Arrivabene.  Il  governo  lo 
eleggeva  pure  a  presiedere  la  consulta  di  statistica,  la  commis- 
sione incaricata  di  preparare  un  disegno  di  legge  per  l' imposta 
sulla  ricchezza  mobile,  e  1'  ambasceria  italiana  che  nel  1866  do- 
veva recarsi  al  cospetto  del  nuovo  Re  de'  Belgi,  per  esprimere  le 
condoglianze  del  Re  d'Italia,  nella  morte  di  Leopoldo  primo  e 
salutare  l'ascendimento  al  trono  del  successore,  tutti  uffici  d'onore 
che  l'Arrivabene,  senza  averli  ambiti,  sostenne  con  modestia  de- 
corosa. Liberata  Mantova  alfine  dal  giogo  austriaco,  nel  1866, 
l'Arrivabene  faceva  ritorno  alla  sua  città  natale  ed  a' suoi  campi, 
ove,  appena  cessato  il  rumore  delle  feste  che  si  fecero  all'  esule 
concittadino  che  ritornava,  egli  intese  subito  alle  sue  consuete 
opere  di  beneficenza,  incominciando  col  fondare  e  mantenere  a 
sue  spese,  presso  la  sua  villa  di  Roncoferraro,  un  asilo  rurale; 
poiché,  qualunque  aria  respiri,  cittadino  o  agricoltore,  prigioniero 
o  libero,  in  Italia  o  in  paese  straniero,  l'Arrivabene  sente  il  biso- 
gno d'amare,  e  di  operare  secondo  ch'egli  ama;  e  mentre  a  molti 
sembra  peso  soverchio  una  patria  sola,  egli  che  n'  ebbe  due  le 
può  amare  entrambe,  come  potrebbe  andare  superbo  di  avere  ad 
entrambe  fatto  onore  molto  più  ch'esse  a  lui. 


XIV. 


TERENZIO  MAMIANI. 


Tra  le  città  delle  Marche  e  delle  Romagne  nessuna  s' illustrò 
nel  secolo  nostro,  per  uomini  insigni  quanto  la  piccola  e  graziosa 
Pesaro, 

Pesaro  gentile, 

Picciola  si,  ma  gloriosa  e  cara 
,  Alla  gran  madre  Italia.  (1) 

Il  conte  Francesco  Cassi,  traduttore  della  Farsaglia  di  Lucano, 
il  conte  Giulio  Perticar!  arguto,  erudito,  elegantissmio  letterato, 
Gioacchino  Rossini  e  il  conte  Terenzio  Mamiani  della  Rovere 
ebbero  i  loro  natali  a  Pesaro,  che  neppur  oggi  può  dirsi  priva  di 
studiosi,  quando  alle  lettere  vi  attende  ancora  il  coltissimo  tra- 
duttore del  poema  di  Lucrezio,  professore  Giuliano  Vanzolini,  ed 
alle  scienze  fisiche  e  naturali  vi  recano  prezioso  contributo  i  la- 
vori del  professor  Luigi  Guidi. 

Il  conte  Mamiani  novera  gli  anni  col  secolo,  e  come  il  secolo 
non  dà  ancora  segno  di  stanchezza  e  procede  operoso  al  suo  de- 
stino, il  filosofo  pesarese  prosegue  le  sue  battaglie  ideali  e  si  af- 
fatica nobilmente  a  salvare,  fra  le  molte  rovine  che  il  tempo  viene 
accumulando  intorno  a  noi,  non  già  quello  eh' è  destinato  a  perire, 
ma  r  amore  e  il  culto  del  bello  che  giova  a  noi  più  che  ad  altri 
mantenere  immortali.  ÌN'el  vero,  mentre  una  gran  parte  della  gio- 


(1)  Mamiani,  Inno  a  San  Terenzio. 


—  255  — 

ventù  romana  dorme  tuttora  di  sonno  ignominioso,  il  Mamiani, 
invece  di  posare  sopra  i  suoi  ben  meritati  allori,  mostrasi  non  pur 
senatore  assiduo  ed  eloquente,  provvido  consigliere  di  Stato  e 
della  pubblica  istruzione,  ufflcii  proprii  della  veneranda  età  senile, 
ma  si  ancora,  con  animo  giovanile,  nobile  promotore  di  società  filoso- 
fiche e  letterarie,  e  direttore  animoso  d'una  rivista  bimensile  intito- 
lata: La  filosofia  delle  scuole  ilaliaìie,  nella  quale  egli  continua  il 
pensiero  della  prima  sua  opera  filosofica  che  trattava  del  Rinno- 
vamento della  filosofia  antica  italiana  e  di  quella  Accademia  di 
filosofia  italica  eh'  egli  pure  fondava  a  Genova  in  casa  della 
Bianca  Rebizzo,  donna  esemplare  di  cui  parlerò  più  difìTusamente 
nel  Ricordo  di  G.  B.  Giuliani,  nell'anno  1850;  oltre  a  questo, 
egli  ripigliava  nello  scorso  inverno  l'insegnamento  della  Filo- 
sofia della  Storia  nell'Ateneo  di  Roma,  eh'  egli  avea  già  per 
tre  anni  con  molta  eloquenza  comunicato  nell'Ateneo  Torinese, 
innanzi  che  il  conte  di  Cavour  lo  invitasse  ad  assumere  il  porta- 
foglio della  pubblica  istruzione.  Perch'egli  abbia  riassunto  l'antico 
ufficio  in  Roma  mi  vien  fatto  palese  da  una  sua  lettera  dello 
scorso  gennaio  ov'  egli  non  reca  altra  cagione  se  non  il  desiderio 
di  provarsi  a  «  suscitare  una  larga  e  vigorosa  vita  intellettuale 
nella  città  che  fu  capo  del  mondo  »  Desiderio  degno  di  un'anima 
grande,  com'è  quella  del  Mamiani,  dalle  opinioni  filosofiche  e  dalle 
politiche  ancora  del  quale  puossi  bene,  con  molta  reverenza,  dis- 
sentire, ma  a  cui  conviene  saper  rendere  questa  suprema  giustizia 
che  non  v'è  libro  ch'ei  scriva  od  ufficio  ch'egli  adempia,  il  quale 
non  sia  mosso  da  un  pensiero  alto  e  generoso.  Mentre,  nel  vero, 
dai  più  si  combatte  per  dividere,  il  nostro  filosofo  è  inteso  conti- 
nuamente ad  associare  in  platonica  armonia  gli  aff'etti,  le  opinioni, 
i  sistemi  più  avversi.  Nessuna  meraviglia  pertanto  eh'  egli  sia 
filosofo  eccletico  e  politico  unitario  conciliatore  ;  eh'  egli  voglia 
bene  alla  metafisica  e  non  voglia  male  alle  scienze  sperimentali  ; 
ch'egli  voglia  bene  al  re  e  non  voglia  male  al  papa.  In  qualche  filo- 
sofo e  politico  volgare  un  tal  modo  di  vedere  darebbe  forse  sospetto; 
in  lui  non  ci  offende  punto;  il  segreto  di  questo  privilegio,  che  lo 
libera  dal  biasimo  che  incoglie,  per  solito,  quelli  che  stanno  so- 
spesi, è  nel  convincimento  di  quanti  hanno  meditato  su  le  opere 
del  conte  Mamiani  e  conosciuto  l'uomo  egregio,  che  non  lo  può 
vincere  paura  o  viltà,  ma  si  che  lo  domina  costante  un  sentimento 
divino  dell'  arte.  Egli  è  innamorato  delle  linee  eleganti,  simme- 
triche e  concentriche,  e  ingegnosamente  al  suo  centro  ideale  che, 
per  fortuna,  sta  molto  in  altO;  conduce  ed  assimila  quante  più  può 


—  :?56  — 

linee  diverse  e  fuggenti.  Di  Platone  dicono  che  fosse  graiKle  poeta 
prima  di  riuscire  filosofo  divino;  del  Mamiani  può  ripetersi  die 
in  lui  è  sempre  l'artista  quello  che  tempera  e  misura  ed  ordina 
le  dottrine  eh'  egli  viene  professando  come  filosofo  e  come  politico. 
Vuoisi  che  Platone,  ne' suoi  viaggi  in  Italia,  abbia  derivata  dagli 
antichi  italiani  molta  parte  della  sua  sapienza  filosolìca,  ed  è  notis- 
simo il  libro  del  Vico  che  tratta  dell'antica  sapienza  italica;  il  Ma- 
miani si  professa  ammiratore  e  seguace  del  Vico;  ma  dal  filosofo  napo- 
letano differisce  pel  culto  religioso  ch'egli  ha  della  forma  estetica  la 
quale  il  Vico  ha  bene  sentito,  ma  non  seppe  come  scrittore  far  sua 
propria;  la  sostanza  del  pensiero  di  Terenzio  Mamiani  è  italica;  la 
forma  è  attica,  ma  s'allenta  ne'giri  lenti  e  larghi  del  periodare  roma- 
no. L'oratore  e  lo  scrittore  ci  danno  aspetto  d'un  greco  togato;  i  loro 
movimenti  sono  graziosi  e  venusti,  ma  regolati  sempre  dal  con- 
tegno decente  e  solenne  d'  un  antico  quirite  ;  egli  carezza  il  suo 
lettore  e  il  suo  ascoltatore  con  la  musica  di  parole  soavi,  elette, 
spesso  anche  vivaci  ed  immaginose;  ma  le  parole  briose  e  saltel- 
lanti hanno  il  loro  correttivo  nella  severità  del  periodo  grave- 
mente impaludato,  che  le  riduce  poi  tutte  ad  un  solo  tono  armonico. 
Io  fui  tra  i  fortunati  uditori  delle  lezioni  di  filosofia  della  storia, 
che  il  conte  Mamiani,  dopo  averle  meditate  in  sé,  improvvisava 
nell'Università  di  Torino,  innanzi  1'  anno  1860;  non  tenuto  conto 
dell'  alta  e  sapiente  interpretazione  eh'  egli  vi  faceva  della  storia 
umana,  egli  veniva  pur  considerato  da  noi  come  un  insigne  maestro 
di  eloquenza  ;  incominciava  umile  e  dimesso,  come  un  tenue  filo 
d'  acqua  che  minaccia  di  perdersi  in  mezzo  a  quelle  erbe  stesse 
che  lo  aveano  veduto  nascere;  ma,  a  poco  a  poco,  il  piccolo  volume 
s'ampliava  e,  d'onda  in  onda,  si  vedeva  crescere  maestoso  e  sonare 
stupendamente  in  fiume  reale  dalle  acque  limpidissime;  e  noi,  per 
correre  dietro  all'  incanto  irresistibile  della  parola  soave,  scorre- 
vole, e  infine  ampia  e  solenne  del  Mamiani,  tanto  insolita  ci 
sembrava,  in  un  cattedratico,  quella  eloquenza,  trascuravamo  spesso 
il  contenuto,  preoccupati  dagli  splendori  di  una  forma  nella  quale 
non  sappiamo  che  il  Mamiani  abbia  emuli. 

De'  meriti  del  Mamiani  come  uomo  politico  scrisse  già  il  pro- 
fessor Giuseppe  Saredo  ivq' Contemporanei  del  Pomba(l);  del  filo- 
sofo parlò  con  molta  competenza  il  prof.  Luigi  Ferri,  nel  secondo 
volume  del  suo  saggio  in  francese  sulla   storia  della  filosofia  mo- 


(1)  Torino,  18G0, 


—  257  — 
derna  italiana  (1);  rinviando  a  que'  due  lavori  critici  e  biografici 
il  mio  giovine  lettore,  io   soggiungerò    qui   ancora  alcune  parole 
intorno  all'  uomo  di  lettere. 

Dalla  dedica  che  nell'ottobre  dell'anno  1834  il  Mamiani  faceva 
da  Parigi  (ove  gli  avvenimenti  del  1831,  per  la  parte  da  lui  presa 
nel  governo  provvisorio  di  Bologna,  lo  avevano  costretto  ad  esu- 
lare) del  suo  bel  libro  sul  Rinnovamento  della  filosofìa  anlica 
Ualiana  (2),  rilevo  che,  cinque  anni  innanzi,  ossia  nell'anno  1829,  il 
Magistrato  di  Pesaro  aveva  già  fatto  coniare  una  bella  e  ricca  me- 
daglia d'  oro,  in  onore  del  suo  concittadino  Terenzio  Mamiani,  in 
occasione  di  un  discorso  da  lui  detto  ne'  funerali  di  monsignor 
Olivieri.  Le  prime  dimostrazioni  allo  scrittore  eminente  gli  furono 
dunque,  per  un  caso  non  ordinario,  fatte  nel  suo  proprio  luogo  na- 
tivo. Del  non  aver  tuttavia  ritrovato  quel  discorso  giovanile  del  Ma- 
miani nel  volume  delle  Pinose  letterarie  eh'  egli  rimandò  benedette 
alla  luce  in  Firenze  (oj  debbo  argomentare  ch'ei  lo  comprenda  ora 
tra  quegli  scritti  suoi  giovanili  che  nella  prefazione  ad  esso  libro  ha 
condannati,  discorrendo  delle  condizioni  delle  lettere  in  Italia  innanzi 
al  suo  primo  esigilo:  «  le  lettere  cadevano  in  tale  grettezza,  che  nelle 
prose  del  Giordani  si  appuntavano  parecchie  mende  di  stile,  ma  nes- 
suno accusava  la  tenuità  de'  concetti  e  la  critica  angusta  e  slom- 
bata (4).  Il  Colletta  era  stimato  dai  più  uno  storico  sovrano  e  poco 
meno  che  un  Tacito  redivivo,  ed  altri  istituivano  paragone  tra  il 
Guicciardini  e  il  Botta,  tra  il  Goldoni  ed  Alberto  Nota;  tali  erano  al- 
lora il  gusto  e  il  criterio  comune.  Pochi  grandi  intelletti  non  man- 
cavano neppure  a  quei  giorni.  Basti  ricordare  Bartolini  nella  scul- 
tura; Leopardi  e  Niccolini  nella   poetica;   Rossini,  Bellini,  Doni- 


fi)  Paris,  1869.  —  Dopo  la  pubblicazione  del  Ferri  il  Mamiani  diede 
ancora  alla  luce  un  lavoro  notevolissimo  di  alta  filosofìa,  intitolato: 
Medilazioni  Cartesiane. 

(2)  Parigi,  1834. 

(3)  Firenze,  Barbera  1867. 

(4;  Il  Giordani,  alla  sua  volta,  il  30  luglio  1832,  scrive  intorno  al 
Mamiani  a  F.  Grillenzoni  :  «  Ella  che  ha  visto  i  nuovi  inni  sacri  di  Ma- 
miani (ch'io  non  ho  visto)  sa  dirmi  dov'agii  sia?  I  suoi  primi  non  mi 
parvero  gran  cosa.  E  assai  buono  e  gentil  giovane;  ma  non  mi  parve 
mai  che  potesse  aver  impeto  nò  profondità.  »  Certo  ei  non  aveva  la 
furia  del  Piacentino,  ma  quanto  a  profondità  gli  poteva  dare  dei  punti. 
Il  Giordani  avrà  probabilmente  conosciuto  il  Mamiani  per  mezzo  di 
Leopardi  che  gli  era  amico  e  parente. 

Ricordi  Biogkafici  17 


—  258  — 
zetti  nella  musica.  —  A  questa  maniera  io  ed  i  coetanei  miei 
fummo  allevati  agli  studii  ;  e  io  scribacchiavo  versi  e  pedanteg- 
giavo la  mia  parte  senza  pur  dubitare  un  momento  che  rassomi- 
gliassi alle  oche  piuttosto  che  ai  cigni,  e  il  saper  mio  era  tutto 
in  frasucce  rubacchiate  ai  testi  di  lingua  e  in  alcun  passo  d'  au- 
tori latini  tenuto  a  mente,  e  in  poche  generalità  sconnesse  e  mal 
definite  su  tutto  quanto  lo  scibile.  Ma  non  appena  1'  esilio  mi 
astrinse  a  lasciare  l'Italia  e  fui  spettatore  d'altro  ordine  di  civiltà 
e  uditore  d'altri  maestri,  subito  mi  si  apri  dentro  1'  animo  1'  oc- 
chio doloroso  della  coscienza  ed  ebbi  della  mia  ignoranza  una 
paura  ed  una  vergogna  da  non  credere.  » 

Pur  non  è  qui  a  credere  sulla  parola  al  Mamiani;  in  un  mo- 
mento di  sincerità  eccessiva  gli  avvenne  di  dire  de'  suoi  versi 
scritti  innanzi  al  suo  esigilo  troppo  più  male  eh'  essi  non  meritas- 
sero, e  eh'  egli  stesso  forse  noi  pensi.  Io  mi  ricordo  aver  letto  nella 
notevole  prefazione  al  volume  delle  sue  Poesie  (1),  alcune  parole 
da  lui  scritte  che  tradiscono  un  resto  di  tenerezza  ben  giustificata 
per  i  primi  cinque  inni  sacri  opera  dettata  in  giovanissima  età  ; 
ecco  in  qual  forma  ne  ha  discorso  egli  medesimo:  «  Io  poneva 
tanto  pregio  nei  dilicati  fiori  dell'  eleganza,  e  più  ancora  nel  sa- 
per cogliere  la  forma  ideale  delle  cose  e  ciò  che  vi  si  può  sem- 
pre scoprire  di  grande  e  di  nobile,  eh'  io  non  disperava  di  cir- 
condare di  luce  omerica  persino  le  monachelle  e  le  penitenti  na- 
scoste e  chiuse  negli  eremi  ;  né  da  me  era  fuggito  qualunque 
soggetto  più  arido  e,  direi  quasi,  mortificato  della  mistica  e  del- 
l'ascetica;  avvisando  a  quell'arte  medesima  con  che  il  divino 
Coreggio  trasmutava  la  sua  Maddalena  in  una  delle  tre  fanciulle 
eh'  ebbero  altari  ed  incensi  nella  piccola  Orcoraeno.  Letti  quegli 
Inni  da  alcuno  intendente,  per  questo  propriamente  li  censurò 
che  i  personaggi  ivi  verseggiati  non  erano  Sante  e  Santi  cri- 
stiani, ma  Iddìi  e  Dee  simili  a  Diana,  a  Vesta,  ad  Apollo.  La 
stimai  una  grossa  iperbole;  tuttavolta,  io  ci  vidi  dentro  qualche 
parte  di  vero,  e  non  so  scusarmene  interamente  nemmanco  oggi; 
e  s' io  dicessi  :  o  felix  culpa,  sentirei  di  commettere  una  profani- 
tà. »  In  queste  parole  si  contiene  il  miglior  giudicio  degli  Inni 
Sacri,  ove,  come  in  molti  altri  componimenti  del  Mamiani,  la  un- 
zione è  bensì  Cristiana,  ma  l'intendimento  artistico  è  tutto  pagano; 
di  maniera  che  l'Autore  ci  fa  pensare  ad  un  nuovo  Callimaco  ri- 


(1)  Firenze^  Le  Monnier  1857. 


—  250  — 
vestito  da  Virgilio,  tuffato  nel  sacro  Giordano  e  ribenedetto  da  San 
Tommaso  da  prima  e  poi  dal  frate  Cavalca,  Come  il  filosofo,  come 
il  politico,  fu  sempre  eccletico  anche  il  poeta;  ma,  a  modo;  poiché 
egli  non  volle  già  intendere  che  tutto  il  bello  come  il  brutto, 
s'  avesse  a  foggiare  in  una  sola  nuova  forma  mostruosa;  avvertì 
il  bello  ov'  era  e  ne  fece  suo  prò,  e  poi  lo  scaldò  con  sentimenti 
civili  ed  italiani;  egli  vorrebbe  fors'  anco  che  si  aggiungesse  re- 
ligiosi; ma  i  suoi  angioli  ed  i  suoi  santi  non  sono  abbastanza 
diafani  ed  ideali,  perchè  ci  inspirino  maggior  reverenza  delle 
gaie  ninfe  e  de'  vivaci  genii  d*  Ellenia,  ne'  quali  veramente  e  non 
senza  ragione  il  pensiero  immaginoso  di  lui  s'  è  ricreato. 

Il  Mamiani  poteva,  senza  dubbio,  seppellire  nell'  obblio  le  sue 
Canzoni  giovanili,  le  quali,  con  improvvida  cura,  invece,  ristampò 
nell'anno  1857  (1);  ma  fra  i  Jiwenilia  vi  è  pure  quella  popolare 
patetica  romanza  che  s'  intitola  :  Il  menestrello  Ualiano,  e  si  tro- 
vano i  robusti  dieci  sonetti  sui  monumenti  di  Santa  Croce  in  Fi- 
renze, la  dedica  de'  quali  reca  la  data  del  20  novembre  1828  da 
Torino. 

Ma  l'esigilo  veramente  ritemprò  il  gusto  del  Mamiani  e  lo  af- 
finò; lontano  dalla  piccola  patria-campanile,  egli  intravide  tutta 
la  maestà  della  patria  grande;  lontano  dalle  brighe  delle   piccole 


(1)  Vi  sono  fra  l'altre  due  canzoni,  l'una  del  1824,  all'imperatore 
Alessandro  I,  l'altra  del  1828  all'imperator  Niccolò  I,  nelle  quali,  per 
amor  della  Grecia  cristiana,  il  poeta  invoca  lo  tzar  contro  gli  ottomani  ; 
nella  seconda  di  queste  canzoni  son  versi  di  tal  sorta: ai  parla  a  Niccolò: 

M'  odi,  e  benigno  dal  Sarmazio  trono 

M'  arridi,  e  d'ogni  ver  santo  ch'io  scopra 

Lieto  raccogli  il  suono. 

Non  bella  sempre  arte  di  pace  splende, 

E  talvolta  è  virtute 

Infiammarsi  di  sdegno  e  stringer  l'armi. 

L'autore  di  questi  versi  puerili  dovea,  a  mo'  d'ammenda,  trentasei  anni 
dopo,  pronunziare  al  Parlamento  subalpino  un  mirabile  e  profetico  di- 
scorso nel  quale  si  difendeva  con  calore  il  conte  di  Cavour  per  la  parte 
da  lui  fatta  prendere  al  Piemonte  in  Crimea  e  poi  al  Congresso  di  Pa- 
rigi, pronosticandosi  l' imminente  risurrezione  di  Italia.  —  Tra  le  can- 
zoni, ve  n'ha  pure  una  dell'anno  1826  che  descrive  i  vezzi  della  giovine 
poetessa  Caterina  Franceschi  divenuta  poi  celebre  col  nome  di  Fer- 
rucci, l'illustre  latinista  di  Pisa;  le  Muse  hanno  già  da  lungo  tempo 
perdonato  al  Mamiani  questo  altro  delitto  di  lesa  maestà  apollinea. 


—  260  — 

scuole  letterarie  e  dalla  loro  inclustre  e  minuta  faccenda  per  in- 
ventare sopra  vieti  stampi  favelle  strane  e  diverse,  egli  senti  sola- 
mente più  l'eco  solenne  della  grande  duplice  lingua  naturale,  l'an- 
tica e  la  moderna,  della  magna  parens;  e  però  liberate  le  sue 
prose  ed  i  suoi  versi  da  molti  impacci,  fissata  la  sua  mente  ad  un 
ideale  grandioso,  cantò  poi  e  scrisse  per  tutta  la  vita  con  una 
sola  fede  nell'animo  e  con  un  solo  principio  estetico  nella  mente; 
Ebbe  egli  pure  i  suoi  rari  intervalli  d'abbattimento  e,  se  può  dirsi, 
di  traviamento  morale;  l'AwsoHZO,  per  esempio,  idillio  eroico,  ch'ei 
si  meraviglia  e  in  parte  si  duole  di  veder  poco  letto  e  meno  ap- 
prezzato, non  si  direbbe  cosa  sua  ;  parrebbe  scritto  dopo  una  let- 
tura agitata  delle  poesie  di  Byron;  vi  regna  lo  scontento;  vi  si 
maledice  alla  vita,  cosa  insolita  nel  Mamiani  che  l'amò  sempre, 
poiché  seppe  pure  renderla  feconda  di  bene;  tuttavia,  anco  in  esso 
vi  sono  momenti  di  sdegno  magnanimo. 
Ecco  in  qual  modo  si  esprime  l'esule  Ausonio: 

Borioso  il  guardo 
Ohinan  su  me  gli  strani,  e  lor  trofei, 
',  Di  molto  sangue  e  d'innocente  aspersi, 

Lor  non  sane  dovizie  e  lor  venture 
Mi  ostentano  beati.  Alcun  mi  stringe 
"La  destra  e  parla:  —  0  da  quel  suol  venuto 
Bello  e  gioioso  che  gli  aranci  infronda, 
,  Nido  gentil  di  veneri  e  d'amori, 

Fa'ai  nostri  orecchi  udir  qualche  melode 
Recente  e  cara,  e  i  facili  gorgheggi 
(Che  il  puoi  tu  sol)  dell'uscignuolo  imita. 
,  Dio  de'miei  padri,  e  sostenuto  ài  dunque 

Nel  tuo  furor  che  tempo  si  volgesse 
In  cui  sì  fatto  si  terria  sermone 
Al  disceso  da  Roma  ! 

Ma  il  nome  del  Mamiani  come  poeta  gli  resterà  veramente  per 
gli  Inìii  sacri,  genere  di  poesia  ch'egli,  pur  venendo  dopo  il 
Manzoni,  seppe  trattare  in  una  forma  originale.  Essi  hanno  rari 
impeti,  ma  contengono  spesso  alti  pensieri,  e  felici  descrizioni  ; 
l'autore  è  cosi  fatto,  che  ha  bisogno  di  riscaldarsi,  a  grado,  a 
grado  per  arrivare  al  punto  in  cui  egli  troverà  effetti  singolari; 
e  lo  sciolto  è  tal  metro  che  poteva  concedergli  l'ozio  necessario 
per  salire  senza  scosse  improvvise  al  momento  agitato  della  crea- 


—  261  — 

zione.  Egli  confessa  bene  d'avere  nella  sua  giovinezza  recitato 
versi  per  improvviso;  e  si  può  facilmente  credere,  considerando 
con  quanta  facilità  e  abbondanza  egli  discorra;  ma  se  le  parole 
non  gli  fecero  difetto,  gli  potè  talvolta  venir  meno  il  fuoco  che 
dovea  accenderle  :  che,  se  in  prosa  si  può  incominciare  parlando, 
e  finire  tonando,  la  poesia,  la  lirica  in  i specie,  non  offre  gli 
stessi  vantaggi,  e  se  non  erompe  tosto  calda  ed  inspirata  non  at- 
trae e  non  si  sopporta.  I  carmi  od  inni  del  Mamiani,  a  motivo 
del  metro  ch'egli  coltivò  con  molto  studio  ed  onore,  richiedevano 
quella  calma  meditativa,  che  gli  era  appunto  naturale;  e  però  ri- 
mangono, nel  genere  loro,  eccellenti  esemplari  di  poesia,  perchè 
intieramente  conformi  all'indole  particolare,  agli  studii  e  agli 
amori  del  poeta,  che  vagheggiò  sempre  l'antico,  servendosi  del 
moderno.  Gli  inni  saci'i  del  Mamiani  furono  pubblicati  a  Parigi, 
a  spese  dell'autore,  con  l'aiuto  di  alcuni  amici  i  quali  s'erano 
adoperati  a  trovare  soscrittori;  tra  questi  amici,  fin  dall'anno 
1833,  troviamo  in  Piemonte,  il  Pellico  ed  il  Gioberti  (1).  È  noto 
poi  il  bell'elogio  del  Mamiani  che  il  Gioberti  lasciò  scritto  nel  se- 
condo volume  del  suo  Pìnmato:  «  Qual  amatore  di  sapienza  e  di 
eleganza  non  conosce  e  non  ama  Terenzio  Mamiani?  Si  può  egli 
essere  filosofo  piìi  penetrativo  ed  austero,  poeta  più  religioso  e 
verecondo,  più  fervido  e  assennato  adoratore  della  patria?  Per- 
sino in  quel  suo  stile  virgiliano  e  purissimo,  leggiadro  senza  mol- 
lezza, decoroso  senza  affettazione,  e  signorile  senza  arroganza, 
trovi  il  ritratto  del  suo  animo  e  della  sua  mente.  »  E  il  Gioberti 
era  buon  critico. 

Per  un  solo  discreto  vulume  di  versi  il  Mamiani  regalò  alla 
letteratura  italiana  più  di  dieci  volumi  di  prose  ;  taccio  delle  filo- 
sofiche, non  potendo  io  salire  alle  altezze  ontologiche  e  metafisiche 
nelle  quali  il  Mamiani  ama  di  frequente  lasciare  liberamente  spa- 
ziare il  nobilissimo  ingegno;  non  già  che  il  nostro  filosofo  s'in- 
volga in  quel  nebuloso  linguaggio  in  cui  la  maggior  parte  degli 
scrittori  filosofici  suole  nascondere  piuttosto  che  rivelare  le  pro- 
prie cosi  dette  speculazioni  ,  ma  se  io  debbo  far  voto  perchè  i  li- 
bri di  filosofia  siano  tutti  scritti  con  quella  forma  nitida  e  venu- 
sta che  sa  dare  ai  proprii  il  Mamiani,  gli  argomenti  eh'  ei  tratta 
a  suo  grand'agio  sono  troppo  elevati,  perchè  la  mia  mento  possa 


(1)  Cfr.  nell'Epistolario  del  Pellico,  una  lettera  da  lui  scritta  al  padre 
G.  G.  Bogliiio. 


—  202  — 

lungamente  sostenersi  dietro  i  lunghi  voli  metafisici  ch'egli  fa  pi- 
gliare, nelle  ore  tranquille  e  solitarie  delle  meditazione,  al  suo 
neo-platonico  intelletto.  Io  comprendo  gli  slanci  poetici  della  di- 
vinazione che  si  edifica  un  mondo  tutto  ideale  al  di  fuori  del  sen* 
sibile  ;  ma  i  sogni  per  essere  belli  ed  illudere  non  devono  essere 
troppo  lunghi  ;  e  io  non  comprendo  la  metafisica  altrimenti  che 
come  un  viaggio  fantastico  nell'ignoto,  dal  quale  si  ha  poi  sempre 
fretta  di  tornare  alla  poetica  realità  della  vita;  il  giuoco  delle 
bolle  di  sapone  stanca  pure  il  fanciullo. 

Intendo  invece  e  gusto  meglio  le  Prose  letterarie  del  Mamiani; 
esse  sono  più  presso  a  noi  e  parlano  di  cose  che  convengono  me- 
glio alla  nostra  natura  la  quale  può  solamente  speculare  nell'ozio, 
ma  nel  tumulto  della  vita  operosa,  ha  uopo,  sovra  ogni  cosa,  di 
manifestare  la  sua  virtù  operativa  sopra  oggetti  immediati  e  pre- 
senti, 0  almeno  non  troppo  remoti  dai  bisogni  più  urgenti  della 
nostra  vita  civile.  Ammiro  quegli  ingegni  i  quali  s'alzano  sopra 
tutte  le  considerazioni  del  tempo  e  dello  spazio,  per  imprendere 
peregrinazioni  divine  nell'infinito;  ma,  se  in  questo  mare  senza 
sponde  il  possente  ingegno  del  Leopardi  naufragava,  chi  può  spe- 
rare di  veder  tornare  fra  noi  come  uomini  vivi  gli  ardimentosi 
pellegrini  di  quel  mondo  sublime,  che  da  lontano  par  qualche  cosa 
e,  cercato  dappresso,  non  si  trova  più,  e  si  dissipa  in  parvenze  vane, 
prive  d'ogni  sostanza  ? 

Ma  io  m'arresto  per  timore  che  alcuno  non  mi  faccia  carico  di 
voler  combattere  quella  filosofia  alla  quale  ho  già  confessato  can- 
didamente che  la  mia  mente  non  sa  arrivare  ;  diciamo  dunque 
alcune  altre  parole  delle  Prose  letterarie,  che  mi  sembra  d'aver 
meglio  comprese. 

Nella  Btngata  di  San  Martino,  frammento  di  una  biografia  che 
reca  la  data  dell'  anno  1838,  1'  autore  coglie  1'  cccasione  per  isti- 
tuire una  critica  sottile  delle  lettere  italiane  in  quel  torno  di 
tempo.  Quello  che  a  me  sembra  più  notevole  in  tale  scritto  è  la 
condanna  del  vezzo  de'  nostri  letterati  di  ordinarsi  facilmente  in 
iscuole,  per  le  quali  sopra  un  ingegno  originale  troviamo  poi 
centinaia  d' imitatori,  i  quali  ne  sciupano  l' opera.  Lo  schizzo  che 
il  Mamiani  vi  fa  delle  nostre  varie  scuole  letterarie,  sebbene  talora 
volga  in  caricatura,  mi  sembra  assai  felice  :  ma  il  poema  roman- 
tico che  segue,  intitolato  :  Il  Castello  d'Ivrea,  mostra  ad  evidenza 
quanto  l'arte  sia  più  malagevole  della  critica;  l' autore -pittore 
rimpasta  sulla  sua  tavolozza  i  colori  di  Hoffmann,  di  Byron,  di 
Hugo  e  di  Harlincourt,  e  dal  rimpasto  vien  fuori  un  mostricino; 


—  263  — 
il  Mamiani  lo  produce,  per  verità^  col  solo  fine  di  burlarsi  della 
scuola  romantica,  eh'  era  allora  in  voga  in  Francia,  e  che  il 
Guerrazzi  trapiantò  in  Italia;  ma  l'imitazione  potevasi  fare,  mi 
sembra,  con  miglior  garbo.  Lavoro  più  notevole,  e  un  vero  e 
importante  capitolo  di  storia  critica  della  letteratura  italiana,  è  la 
prefazione  stesa  a  Genova  dal  Mamiani  per  la  edizione  de'  Poeti 
italiani  dell'  età  media,  ossia  dal  cinquecento  al  settecento,  che  il 
Baudry  pubblicava  a  Parigi  nell'  anno  1818  ;  essa  reca  il  tono 
grave  d'  una  lezione  accademica,  ma  ha  di  proprio  la  novità  e  ìa 
franca  disinvoltura  de'giudizii,  sebbene  talvolta  si  potrebbe  desi- 
derare che  ogni  autore  venisse  considerato  e  pregiato  secondo  i 
suoi  molteplici  aspetti,  e  non  sotto  quello  peculiare  che  incontra 
o  no  il  gusto  finissimo  del  critico.  Cosa  tutta  bella  ed  eloquente  è 
r  elogio  del  Re  Carlo  Alberto,  scritto  dal  Mamiani  a  Genova  nel- 
r  agosto  del  1849,  per  mandato  onorevole  di  quel  Municipio.  Al 
Re  Carlo  Alberto  il  Mamiani  avea  nell'Inno  a  San  Giorgio  profe- 
tato la  guerra  pel  riscatto  d' Italia  : 

Poi  nel  gran  dì  che  allo  stranier  per  sempre 
Chiuse  fian  l'Alpi,  e  sol  una  Simiglia 
Dal  Tanaro  all'  Greto  il  ciel  rischiari 
Nel  feroce  antiguardo  e  presso  a  tale 
Sceso  d'  Emanuelli  e  d'Amadei 
Commiste  andran  Liguri  insegne  e  Sarde, 
A  i  bei  rischi  di  guerra  e  di  ventura 
Sol  fian  leggiadre  di  valor  contese 
Meritate  quassù  d'  alti  diademi. 

Per  questi  versi,  il  Re  Carlo  Alberto,  contro  il  parere,  anzi  il 
divieto  espresso  del  Conte  Solaro  della  Margherita,  avea  dato  or- 
dine perchè  al  Mamiani  fosse  conceduta  la  facoltà  di  rientrare  in 
Piemonte.  Sedendo  ministro  di  Pio  nono  a  Roma  nella  primavera 
del  1848,  e  poi  nell'  agosto  dello  stesso  anno  a  Torino  come  uno 
de'  presidenti  (con  Gioberti)  della  Società  della  Confederazione 
italiana  egli  avea  servita  lealmente  la  causa  costituzionale  dei  Re 
Sabaudi,  ai  quali  desiderava  più  ampio  regno,  che  sollecitasse  il 
compimento  dell'  unità  italiana.  Nessuno  poteva  quindi  a  Genova 
lodare  Carlo  Alberto  con  maggiore  sincerità.  E  però  le  parole  di 
lui  riuscirono  calde  e  piene  d'efficacia,  non  meno  che  di  dignità, 
e  da  mettersi  fra  i  più  nobili  esemplari  che  si  conoscano  nella 
letteratura  degli  Elogi.  I  due  discorsi  proemiali  alVAccademia  di 


—  264  — 

filosofia  italica  da  lui  letti  in  Genova  nel  novembre  degli  anni  1850 
e  1851,  servono  a  darci  il  carattere  del  Maraiani  come  filosofo  e 
di  tutta  la  sua  scuola,  nello  studio  che  vi  si  pone  a  dimostrare 
come  la  filosofia  italica  intenda  all'armonia  di  ogni  facoltà,  come 
il  colmo  della  scienza  sia  il  trovare  accordo  fra  i  contrari,  come 
la  massima  dignità  nella  vita  dell'  uomo  appartenga  alla  filosofia, 
e  come  la  filosofia  dovrebbe  essere  la  sola  legislatrice.  Il  Manzoni 
si  contenterebbe  del  buon  senso  ;  ma  il  buon  senso,  come  il  Man- 
zoni stesso  lo  ha  detto,  deve  spesso  stare  nascosto  per  paura  del 
senso  comune;  e  così  avviene  pure  che  si  estimi  dai  filosofi  ne- 
cessario, ci  si  perdoni  la  parola  meno  rispettosa,  il  fare  un  po'  di 
rettorica  speculativa,  per  mandare  vestite  in  abiti  più  pomposi  e 
solenni,  quelle  ragioni  ovvie  che,  senza  la  guida  scolastica  od 
accademica  d' alcuna  filosofia,  saprebbero  guidare,  senza  troppo 
strepito,  al  difuori  di  qualsiasi  preoccupazione  de' sistemi,  i  negozii 
della  vita  cosi  della  privata  come  della  pubblica.  Non  privo  di 
affettazione  è  1'  elogio  di  Antonio  Rosmini,  recitato  dal  Mamiani 
nella  ricordata  Accademia,  il  quale  tuttavia  merita  un  riguardo 
specialissimo  per  le  abbondanti  lodi  con  le  quali  il  filosofo  Pesa- 
rese prosegue  il  Roveretano,  che  avea  pur  censurato  severamente 
il  libro  del  Mamiani  Bel  Rinnovamento  della  antica  filosofìa  ita- 
liana; volgendosi  allo  spirito  di  Antonio  Rosmini,  egli  vi  si 
esprime  in' questa  forma:  «  E  ancora  che  tu  fossi  altrettanto  schivo 
di  cogliere  lodi  e  riscuotere  omaggi,  quanto  eri  ambizioso  e  sol- 
lecito di  meritarli,  forte  mi  grava  che  tu  potessi  a  qualche  segno 
ingannevole  reputarmi  ingrato  o  non  abbastanza  riconoscente 
a' tuoi  benefizi;  posciachè  io  voglio  e  debbo  chiamare  di  cotal 
nome  e  la  gran  fama  che  procurasti  al  sapere  italiano  e  le  dot- 
trine sostanziose  e  molteplici  che  ò  attinte  ne'  tuoi  volumi  e  quegli 
insegnamenti  profondi  che  tu  m' imparasti  scrutando  e  censurando 
dottissimamente  un  libro  mio  giovanile  ed  informe  ;  e  ben  ti  dico 
che  quanto  ò  di  poi  profittato  nelle  razionali  contemplazioni,  se 
pure  alcun  minimo  che  ò  profittato,  io  il  debbo  per  intero  al  sin- 
dacamento  esatto  e  minuto  che  far  ti  piacque  di  quel  mio  scarta- 
bello. »  Mettiamo  pure  che  qui  il  Mamiani  pecchi  per  modestia 
soverchia,  e  che  un  libro  di  oltre  cinquecento  facciate  da  lui 
preparato  in  più  anni,  e  dal  quale  egli  s' ebbe  pure  come  filosofo  i 
primi  onori,  sia  mal  chiamato  uno  scartabello;  ma,  poich'è  più  facile 
il  trovare  chi  si  vanti  che  non  l'imbattersi  in  chi  domandi  scusa, 
specialmente  poi  quando  chi  si  scusa,  sia  uomo  vago  del  suo  buon 
nome^  e  degno  di  quel  nome,  la  modestia,  anco  eccessiva,  del  Mamiani 


—  2G5  — 

provetto  e  glorioso  può  insegnare  ai  giovani,  la  paura  non  già  né  l'in- 
fingimento, ma  quella  modestia  opinione  intorno  a  sé  stessi,  che  è 
necessaria  sempre  a  progredire,  che  sola  è  prova  di  senno,  e  che  fini- 
sce poi  sempre  per  conciliar  simpatia.  Lo  scritto  che  s'intitola  Della 
Scienza  politica  in  Francia  è  un'estesa  ed  accurata  analisi  del- 
l' opera  del  conte  De  Carnè  sulla  Storia  del  Governo  rappresen- 
tativo in  Francia  dal  1789  al  1848.  Due  lettere  dirette  nel  1842 
da  Parigi  ad  un  Torinese,  difendono  l'italianità  e  l'eleganza  della 
nostra  letteratura  ;  ed  esse  non  potevano  trovare  apologista  più 
degno  del  Mamiani,  sebbene  vi  si  trovino  certi  inutili  rimpianti, 
come,  per  mo'  d' esempio,  che  i  Promessi  Sposi  del  Manzoni  sot- 
tostiano «  in  proprietà  e  in  fiori  di  bel  parlare  all'  ultimo  dei  no- 
vellieri del  cinquecento.  »  Il  Liuto  è  una  singolare  e  ingegnosa 
ma  freddamente  erudita  divagazione  filosofico-letteraria  nel  trecento, 
sulle  traccie  di  Guido  Cavalcanti  che  anzi  n'  é  supposto  autore  ; 
ma  1'  arte  del  Mamiani  ne  tradisce  il  vero  autore  dalla  prima  al- 
l' ultima  pagina.  L'  elegante  discorso  intorno  a  Carlo  Troya,  letto 
dal  Mamiani  nell'  adunanza  solenne  dell'Accademia  della  Crusca 
del  2  di  settembre  1860,  in  occasione  del  suo  ricevimento  nel  seno 
della  medesima,  termina  con  queste  parole  inspirate  :  «  Questi 
nostri  Appennini  non  si  frappongono  ora  più  alla  pupilla  eterea 
di  Carlo  Troya  ;  e  forse  gode  egli  un  prospetto  e  una  scena  de- 
gnissima della  vista  degli  immortali.  Forse  in  questo  punto  che 
noi  parliamo,  scorge  annullato  per  sempre  e  non  col  ferro  o  col 
sangue,  ma  per  l'efilcacia  tremenda  dell'universa  riprovazione,  un 
reggimento  iniquissimo  che  altri  chiamò  la  negazione  di  Dio; 
scorge  gran  parte  della  famiglia  italiana  cancellare  in  un  giorno 
solo  le  discordie  e  separazioni  di  venti  secoli  ;  e  il  più  generoso 
rampollo  dei  Berengarj  salutato  monarca  della  primogenita  dello 
nazioni  civili.  »  Il  Mamiani  possiede  mirabilmente  l'arte  de' fer- 
vorini che  provocano  l'applauso;  come  accademico,  come  profes- 
sore, come  oratore,  come  ministro  se  ne  valse  frecj[uentemente  e 
con  suo  grande  vantaggio.  Cosi  il  discorso  col  quale  il  Mamiani 
ministro  apriva  l'Accademia  scientifico-letteraria  di  Milano  si  con- 
chiudeva, stupendamente,  raccomandando  ai  giovani  tre  cose  delle 
quali  la  risorta  patria  italiana  ha  necessità  suprema  :  armi,  sa- 
pienza, e  virtù.  Né  per  tali  discorsi  soltanto  si  distinse  il  Mini- 
stero del  Mamiani;  ma  egli  colse  pur  l'occasione,  e  cosi  l'avessero 
secondato  i  colleghi  e  i  successori  di  lui,  per  purgare  la  lingua 
burocratica  da  ogni  barbarie,  e  ridarle  una  linda  veste  italiana; 
le  sue  note   ministeriali  hanno,  per  questo   riguardo,   un   pregio 


—  266  — 
singolarissimo. 1  Rimesso  dal  Mamiani  il  portafoglio  della  pubblica 
istruzione  nelle  mani  del  Re,  l' illustre  Pesarese,  come  «  veneratore 
d'ogni  perfetta  bellezza  e  adoratore  dell'arte  divinamente  inspirata  » 
veniva  destinato  ambasciatore  d' Italia  ad  Atene  ;  e  di  là  egli  in- 
dirizzava due  lettere  elegantissime  e  ripiene  di  poesia^sopra  l'Acro- 
poli e  le  Antichità  d'Atene  ;  e  sosteneva  poi  gii  studii  archeo- 
logici del  giovine  Antonino  Salinas  (ora  distinto  professore  di 
numismatica  nell'Ateneo  di  Palermo)  che  il  Ministro  Amari  gli 
aveva  particolarmente  raccomandato.  Dopo  1'  ambasciata  dAtene, 
e  quella  di  Berna,  fu  il  Mamiani  due  volte  vice-presidente  del 
Senato,  ministro  degli  studii  sotto  il  governo  provvisorio  della 
nuova  Roma  redenta,  e  relatore  in  Senato  della  celebre  legge  sulle 
garanzie.  In  ogni  atto  della  sua  vita  pubblica,  come  ne'  suoi  scritti 
egli  avvertì  sefnpre  di  recar  decoro  e  buon  gusto.  Lo  scrittore  è 
artista,  sebbene  talvolta  conduca  1'  arte  fino  all'  artificio  ;  cosi  il 
gentiluomo  è  cortese,  sebbene  talvolta  la  cortesia  divenga  in  lui 
alquanto  cerimoniosa;  egli  ha,  come  ogni  uomo  originale,  i  difetti  delle 
sue  buone  qualità,  le  quali  mi  parvero  sempre  molte  ed  invidiabili; 
è  diffìcile,  in  vero,  trovare  un  ingegno  più  limpido,  un  animo  più 
affettuoso,  un  senso  più  delicato  e  squisito  del  bello,  una  sapienza 
più  vereconda  ,  alcuno  finalmente  che  nelle  sue  manifestazioni 
esterne  adoperi  una  più  gentile  estetica  di  quella  che  nella  vita  e 
negli  scritti  adopera  il  conte  Terenzio  Mamiani  della  Rovere. 


XV. 


PIETRO  SELVATICO  ESTENSE. 


Dopo  un  patrizio  poeta,  piacerai  rammentare  un  patrizio  arti- 
sta. Se  Roberto  d'Azeglio  fosse  ancora  in  vita,  invece  di  un  solo 
insigne  critico  d'  arte,  avrei  dovuto  presentare  due  patrizii  che,  se 
bene  per  vie  diverse,  coltivarono  entrambi  con  onore  nella  nostra 
letteratura  un  genere  che,  dopo  il  secolo  decimosesto  fino  a  que- 
sti ultimi  tempi,  era  rimasto  assai  negletto.  Che,  se  molti  letterati 
anco  nell'età  nostra  scrissero  d'arte  e  in  ispecie  delle  arti  del  di- 
segno, assai  pochi  furono  quelli  ai  quali  si  potesse  dagli  artisti 
concedere  autorità  di  ragionarne.  I  discorsi  accademici  del  Gior- 
dani, il  libro  sul  Bello  del  Giordani,  le  lezioni  d'estetica  del  Nic- 
colini,  dell'Emiliani-Giudici,  dell' Aleardi,  di  Antonio  Tari  e  di  Vin- 
cenzo De  Castro,  le  Lettere  a  Maria  di  Giovanni  Prati  sulla  mo- 
stra di  Torino,  il  volume  di  Francesco  Dall'Ongaro  sull'arte  alla 
mostra  di  Parigi,  il  libriccino  di  Augusto  Conti  sul  Duprè  furono 
opere  letterarie  meritamente  pregiate,  e  probabilmente  resteranno 
tutte  nella  nostra  letteratura  ;  ma,  se  esse  aiutano  l'inspirazione 
dell'artista,  e  valgono  certamente  ad  elevarla,  non  bastano  poi 
ad  illuminarlo  ne'  segreti  della  sua  tecnica,  ed  a  raddrizzarvelo 
ov'egli  abbia  errato.  A  ciò  occorre  che,  prima  di  scrivere,  il  cri- 
tico abbia  appreso  almeno  un  poco  in  che  modo  l'arte  si  faccia  o, 
come  si  usa  dire,  conosca  almeno  la  grammatica  artistica.  Un  cri- 
tico d'arte  che  si  fidi  al  solo  suo  gusto,  mi  dà  immagine  di  quel 
maestro  di  canto,  il  quale  si  fidasse  al  solo  suo  orecchio,  senza 
aver  appreso  la  musica.  E  con  ciò  non  voglio  punto  dar  ragione  a 
que'pittori  e  scultori  i  quali  tacciano  d'incompetenza  ogni  giudizio  se- 


—  268  — 

vero  che  sìa  proferito  sull'opera  loro  da'letterati,  i  quali  tuttavia  sono 
sempre  riconosciuti  competentissimi  quando  abbiano  parlato  dell'o- 
pera loro  in  termini  lusinghieri.  Chi  ci  loda,  per  l'ordinario,  ha  sem- 
pre ragione,  e  chi  ci  biasima  sempre  torto;  è  una  verità  antica  ma  che 
pure  non  invecchia  mai.  Io  credo  invece  che  anco  il  letterato,  quando 
sia  uomo  d' iogegno  e  di  gusto,  possa  giudicar  rettamente  di  tutto 
ciò  che  forma  la  parte  ideale  di  una  composizione,ed  accorgersi  pron- 
tamente di  certe  sproporzioni,  di  certe  stonature,  di  certe  scon- 
venienze che  guastano  l'impressione.  Ma  il  letterato  non  è  poi 
atto  a  rendersi  ragione  de'mezzi  adoperati  dall'artista  nell'opera 
sua;  che  alla  critica  di  questa  parte  importante  di  ogni  composi- 
zione, deve  soccorrere  una  scienza  speciale  la  quale  non  s'acqui- 
sta, se  non  esercitando  l'arte  stessa,  o,  almeno,  tenendo  minu- 
tamente dietro,  nello  studio  de'  pittori,  degli  scultori,  degli  archi- 
tetti, al  processo  de'  loro  lavori.  E'  in  tal  modo  che  i  Cavalcasene, 
i  Boito,  i  Dalbono,  i  P.  Giusti,  gli  Azeglio,  i  Selvatico  poterono, 
come  critici  d'arte,  farsi  valere  per  i  nostri  artisti  non  meno  che 
per  i  nostri  letterati. 

Il  marchese  Pietro  Selvatico  Estense  nacque  figlio  unico  di  fa- 
miglia non  ricca  ma  discretamente  agiata  a'  27  d'aprile  dell'an- 
no 1803.  Il  professor  Ludovico  Menin,  che  avea  attitudine 
alle  scienze  non  meno  che  alle  lettere,  e  che  era  stato  pro- 
fessore di  fisica  nel  seminario  padovano,  prima  di  occupare  la 
cattedra  di  storia  nell'Università  di  Padova,  si  recava  in  casa 
Selvatico,  per  ammaestrarvi  il  giovine  Pietro  nelle  scientifiche  e 
nelle  letterarie  discipline.  E  lo  stesso  maestro  istruì  il  Selvatico 
fino  all'età  di  dicìanove  anni,  educandone  particolarmente  il  gusto 
all'amore  dell'antiche  eleganze.  Ma  fin  dalla  sua  età  di  undici  anni 
il  giovinetto  Pietro  avea  spiegata  una  forte  inclinazione  alle  arti 
del  disegno,  e  vi  si  era  dedicato  con  amore,  se  bene  il  suo  primo 
maestro  non  fosse  de'  migliori.  Ma,  in  breve,  egli  ebbe  la  ventura 
di  conoscere  il  celebre  pittore  di  quadri  storici  Giovanni  Demin, 
che  era  venuto  a  lavorare  in  Padova,  e  d'istruirsi  alla  sua  scuola, 
di  maniera  che  si  trovò  presto  in  condizione  di  potere  dipingere 
egli  stesso  quadri  di  una  considerevole  grandezza.  Ma,  più  ancora 
che  alla  pittura,  spingevalo  l'indole  del  suo  ingegno  all'architettu- 
ra, nella  quale  egli  si  erudi  quindi  particolarmente  per  la  intrinsi- 
chezza, nella  quale  visse  col  valente  architetto  Joppelli.  Il  suo 
studio  fu  allora  rivolto  a  mettere  in  armonia  fra  di  loro  le  arti 
della  pittura  e  della  architettura;  alla  prima  domandò  che  fossero 
studiate  le  leggi  della  prospettiva  e  della  geometria;  alia  seconda 


—  269  — 
che  osservasse  ne'siioi  prospetti  quella  eleganza,    quella  finitezza, 
quel  buon  gusto  nel  disegno  che  si  ricerca  con  ragione  dai  pittori. 

Il  Selvatico  intraprese  quindi  lunghi  viaggi  per  amore  dell'arte, 
in  Italia  da  prima,  ch'egli  corse  e  ricorse  più  volte,  osservando, 
discutendo  sopra  i  monumenti  e  sopra  la  loro  storia,  non  meno 
che  sopra  le  scuole  ove  l'arte  s'insegnava.  Dopo  l'Italia  visitò  an- 
cora gran  parte  di  Europa,  e  ne  ritornò  ricco  di  dottrina,  e  sovra 
tutto  di  alcune  nuove  idee  pratiche  ed  originali,  con  le  quali 
egli  s'accostò,  forse  primo  in  Italia,  a  trattare  scientificamente  la 
critica  d'arte.  Dichiarò  guerra  alle  accademie  com'esse  erano  or- 
dinate fra  noi,  e  all'educazione  tutta  convenzionale  che  gli  artisti 
vi  ricevevano  ;  insistette  con  sapiente  ostinazione  sulla  necessità 
di  dare  la  scienza  come  fondamento  all'arte  ;  combattè  animoso 
contro  tutto  ciò  che  nell'arte  si  presenta  come  ozioso  e  falso,  pre- 
dicando primo  la  necessità  di  una  stretta  alleanza  fra  l'arte  e 
l'industria.  Era  a  prevedersi  che  una  tal  novità  di  critica  avrebbe 
suscitato  vive  polemiche,  e  le  suscitò  di  fatti  ;  e  fu  fortuna  ;  poi- 
ché da  quelle  battaglie  nelle  quali,  rispondendo,  con  vivacità,  a'suoi 
oppositori,  il  Selvatico,  che  difendeva  i  diritti  della  ragione  e  del 
buon  senso,  sorti  sempre  vincitore,  dobbiamo  ripetere  le  riforme, 
che  lentamente  si  e  con  molta  difficoltà,  ma  che  pur,  di  grado  in 
grado,  si  vanno  pure  operando  nelle  nostre  scuole  artistiche. 

Il  Governo  della  Venezia  sperando  forse  vincere  con  l'alletta- 
mento d'un  lucroso  duplice  impiego  accademico  il  temuto  riforma- 
tore, chiamò  nel  1850  il  Selvatico  a  reggere  l'Accademia  Veneta, 
ed  a  coprirvi  il  posto  di  estetica  e  di  storia  d'arte,  poi,  nel  1855, 
a  supplire  per  un  anno  alla  cattedra  di  architettura  rimasta  va- 
cante, poi  finalmente  ancora  a  visitare,  come  ispettore,  le  scuole 
di  disegno  nelle  provincie  venete.  Io  so  che  da  alcuno  si  fece  ca- 
rico al  marchese  Selvatico  per  avere  accettati  quegli  uffici i  acca- 
demici, rnentr'egli  aveva  sempre  avversato  le  Accademie,  e  che  lo 
si  accusò  pure  di  poco  amor  patrio  per  averli  accettati  dall'Au- 
stria. Ma,  al  primo  degli  appunti  de'suoi  avversarli,  probabilmente 
accademici  offesi  dalle  teorie  riformatrici  e  sovra  tutto  dalle  vive 
polemiche  del  Selvatico,  il  nostro  critico  può  rispondere  ch'egli 
entrò  in  un'Accademia  appunto  per  mettere  in  atto  le  sue  idee 
e  sostituire  di  fatto  un  insegnamento  scientifico  dell'arte  ah' in- 
segnamento empirico  ch'era  prima  in  vigore;  al  secondo  appunto 
egli  opporrà  che,  nell'  anno  1858,  quando  gli  parve  che  il  Go- 
verno volesse  avversare  i  suoi  principii  d'arte,  e  quando,  di  più, 
si  richiesero  da  lui,  come  da  ogni  capo  d'ufficio,  poliziesche  infor- 


—  270  - 
mazioni  sovra  la  condotta  politica  de'  maestri  e  degli  alunni,  abban- 
donò sdegnato  ogni  maniera  d'ufflcii,  e  tornò  alla  pace  della  vita  pri- 
vata e  a'  suoi  poveri  campi,  ove,  oltre  al  dolore  di  veder  tuttora 
schiavo   il  suo  luogo  nativo  in  mezzo  all'allegrezza  di  tutta  l'Ita- 
lia liberata,  provò  ancora  quello  di  rimanere,  per  tre  anni,  a  mo- 
tivo di  una  cataratta,    privo  della  vista,  onde    dovette  rinunciare 
alle  sue  occupazioni  predilette,  a'  suoi  studii  più  geniali.  Ma  que- 
gli anni  dolorosi  gli  furono  almeno  confortati  dalle  più  vive  e  pre- 
ziose dimostrazioni  di  amicizia.  Tra  gli  amici  del  Selvatico  io  ne 
rammenterò  qui  uno  solo,  perchè  quel  solo  che  ho  conosciuto  mi 
parve  ed  era  uomo  grande;  io  voglio  dire  il  conte   Andrea    Cit- 
tadella  Vigodarzere.  Io  dirigeva,  nell'anno    1869,    da   Firenze  la 
Rivista  Contemporanea  di  Torino,  ed  abitavo  sulla  Piazza  Santa 
Maria  Novella.  Un  mattino  (si  era  nel  mese  di  gennaio)  odo  pic- 
chiare all'uscio,  ed  apro  io  stesso  ;  veggo  entrare  un  gentiluomo 
distinto,  che,  pur  nella  sua  età  senile,  serba  l'elegante  disinvoltura 
di  un  bel  cavaliere  ;  mi  porge  con  tutta  cortesia  uno    scritto  del 
Selvatico  e  fa  per  congedarsi.  Ma  il  suo  volto  m'ha  colpito  ed  at- 
tirato ;    io   lo   prego    d' indugiare   un   istante  e   di    sedere  ;   egli 
consente;  ed  io  lo  guardo  come    alcuno    che  desideri  indovinare 
chi  egli   sia  ;    ringrazio   dello   scritto  del  Selvatico,   ed    esprimo 
la  mia  riverenza  per  l'eminente  critico  padovano;   egli  conferma; 
io  vorrei    ch'egli  dicesse  di  più,   desideroso  di  persuadermi    d'un 
caro  presentimento  che   ho   già   nell'anima  ;  egli  parla  con  tanta 
grazia,    con    tanto    spirito,    e    con    un  gusto  cosi  perfetto    ch'io 
m'accorgo    bene    di  stare    innanzi    ad    un    uomo    d' ingegno    su- 
periore; alfine    mi    faccio   coraggio,  e   dico;  «  è  al   conte  Citta- 
della Vigodarzere    ch'io   ho    l'onore  di  parlare  ?  »  Il  conte    s'alza 
e  soggiunge  in  fretta  «  il    mio    nome    è    solamente    quello   d'un 
povero  uomo  di  buona  volontà  »;  quella  risposta  mi  fa  temere  un 
istante  ch'io  mi  sia  ingannato,  ma  pur  sento  bene  di  non  essermi 
ingannato  in  questo  ch'io  sto  presso  ad  un  uomo  grande,  e,  nel 
salutarlo,  gli  faccio  intendere  che  in  ogni  modo,  scriverò  al  mar- 
chese Selvatico  per  sapere  chi  egli  sia,  poiché  innanzi  a  nessun 
uomo  ho  provato  fino  allora  un  sentimento  di  riverenza  più  sim- 
patica e  più  religiosa  ;  allora  il  conte  :  «  non  istia  a  scrivergli,  ed 
a  Lei,  buon  signore,  basti  il  sapere  che  il  mio  nome  è  Andrea  ». 
Cosi  l'interessante  enigma  fu  sciolto  (1).   Io  non  avevo  mai  visto 


(1)  Per  meglio  assicurarmene  volli  tuttavia  scriverne  particolarmente 
al  Selvatico,  il  quale  il  1"  di  febbraio  del  1859,   si  compiaceva   rispon- 


—  271  — 

il  Cittadella,  né  alcun  ritratto  di  lui,  né  pur  sapevo  ch'ei  fosse  in 
Firenze  ;  ma  nella  sua  persona,  nel  suo  sguardo,  in  quella  nobile 
figura  io  aveva  letto,  come  per  inspirazione,  il  suo  nome  e  l'es- 
sere suo.  Seppi  poi  ch'egli  abitava  sulla  stessa  Piazza  di  Santa 
Maria  Novella,  e  in  quella  casa,  ove  sorge  ora  l'Albergo  della  Mi- 
nerva. Dopo  quel  primo  singolare  ritrovo,  lo  rividi  naturalmente 
alcune  altre  volte,  e  lo  amai  e  lo  venerai  più  e  più  sempre  come 
uomo  che  aveva  in  sé  assai  più  del  divino  che  dell'umano;  e  se 
la  morte  non  era  così  pronta  a  rapircelo,  io  avrei  goduto  del  pia- 
cere ineffabile  di  conversare  con  quel  cavaliere  incomparabile,  come 
di  nna  fra  le  supreme  felicità  della  vita  concesse  a  noi  popolo  di 
sognatori;  ma  cosi  non  volle  il  suo  destino  ed  il  mio,  onde  a  me 
non  resta  se  non  il  dolore  di  rimpiangere  amaramente  una  per- 
dita che  all'Italia  ed  a  Padova  in  ispecie  fu  crudele,  ed  il  conforto 
di  richiamarmi  con  la  memoria  ai  pochi  ma  dolci  colloquii  avuti 


dermi  nella  forma  seguente  :  «  Chiarissimo  Professore,  Precisamente 
Ella  ha  indovinato  ;  la  persona  che  La  trattava  sì  piacevolmente  è  il 
mio  amicissimo  (siamo  intimi  da  40  anni)  Conte  Andrea  Cittadella  Vi- 
godarzere  Senatore  del  Regno,  ed  uomo  ammirando  sotto  tutti  gli  aspetti. 
Riccamente  agiato,  fu  sempre  di  una  beneficenza  fruttuosa  e  larga  per 
la  sua  Padova.  Studiosissimo  della  legge  e  della  letteratura,  fecondò 
quegli  studj  col  fertile  ingegno,  ed  è  quindi  scrittore  in  prosa  e  poesia 
forbito,  elegante,  dotto.  A  questo  si  aggiunge  una  rettitudine  intemerata, 
una  sincerità  ed  un  amore  proficuo  alla  sua  numerosa  famiglia  che  Io 
rende  modello  de' padri.  Educò  presso  di  sé  i  suoi  otto  figli,  e  fece  cari 
esempii  di  cultura  e  di  gentilezza  quelli  già  adulti,  il  maggior  de'  quali 
ha  già  26  anni.  Ha  un  solo  difetto  :  una  gran  propensione  per  due  sorta 
di  aristocrazie...;  quella  dell'onestà  e  l'altra  dell'ingegno,  e  un  gran 
disprezzo  per  la  famosa  dai  magnanimi  lombi,  se,  come  il  solito,  è 
impastata  di  grulleria,  d'ignoranza  e  di  cocciutaggine.  Eppure  questo 
vero  tipo  del  buon  cittadino  non  venne  dal  suo  paese  convenevolmente 
apprezzato  ;  e,  quando  le  sorti  nostre  mutarono,  i  quattro  soliti  che^ 
nella  baraonda,  si  impongono  ai  40,000,  gonfiati  da  quella  vescica  diplo- 
matica che  si  chiama  il ;  quei  quattro,  dicevo,  che  avean  pur  tante 

volte  ricorso  per  aiuto  al  mio  amico,  gli  voltaron  le  spaile,  e  ci  mancò 
poco  che  non  gli  gridassero  il  crucifige.  Se  non  che  la  parte  sana  del 
paese,  rincacciò  nel  pantano  le  rane,  e  gli  si  rese  giustizia:  meno  male: 
almeno  una  volta.  Ci  vada,  Egregio  signore...  »  e  qui  il  marchese  Selva- 
tico si  degnava  aggiungere  alcune  amabilità  a  mio  riguardo,  facen- 
domi sapere  come  il  conte  Cittadella  abitasse  a  sole  tre  porte  dalla 
mia  dimora. 


—  272  — 

insieme,  ne'  quali  tornò  sempre  onorato  il  nome  del  marchese 
Selvatico,  cui  io  doveva  l'onore  del  primo  incontro  col  Cittadella. 
Dopo  tre  anni  di  sofferenze,  il  Selvatico,  essendosi  sottoposto 
ad  una  operazione  che  riuscì  felicemente,  ebbe  la  fortuna  di  racqui- 
star  la  vista  e  di  poter  fare  ritorno  agli  studii  ch'egli  avea  con 
vivo  rammarico  intermessi,  e  prender  parte  a  commissioni  ed  uf- 
flcii  ai  quali,  per  risolvere  questioni  d'arte,  fu  invitato  dalla  fidu- 
cia del  Governo  italiano  e  dal  Municipio  di  Padova.  Se  non  che 
mi  sembra  il  Governo  avrebbe  potuto  e  dovuto  fare  assai  più  per 
dimostrare  al  primo  critico  d'arte  che  vanti  l'Italia  quell'ossequio 
ch'egli  s'è  ben  meritato,  e  che  i  giovani  artisti  educati  sopra  i 
libri  del  Selvatico  gli  consentono  unanimi.  Mi  sembra  almeno, 
per  dire  un  esempio,  che,  in  un  consiglio  della  pubblica  istru- 
zione, ove  siedono  meritamente  a  giudicar  d'arte  i  Mamiani,  i 
Carcano,  gli  Aleardi,  i  Prati,  i  Coppino,  i  Tenca,  i  Giorgi- 
ni,  i  Villari,  i  Bertoldi,  ed  altrettali  valentuomini,  degnissimi 
dell'onore  che  lor  venne  conferito,  sarebbe  al  suo  posto  anche  un 
Selvatico  ;  né  mi  pare  che  il  Ministero  della  pubblica  istnizione 
si  dovrebbe  rovinare  se  sopra  i  dicianove  milioni  di  lire  ch'esso 
ha  da  spendere  annualmente  per  l'istruzione,  allargasse  il  misero 
fondo  di  trenta  mila  lire  stanziato  pel  suo  maggior  Consiglio  a 
fine  di  circondarsi  di  alcuni  nuovi  consiglieri,  i  quali  non  vi  an- 
drebbero certamente  a  far  numero,  ma  a  crescergli  utilità  e  pre- 
stigio. L'Istituto  Veneto,  col  nominare,  come  dicesi,  suo  membro 
effettivo,  il  marchese  Selyatico,  gli  attestò  rispetto  e  gratitudine 
in  nome  della  Venezia;  il  Municipio  di  Padova,  col  lasciarlo  ar- 
bitro nella  Direzione  gratuita  ch'egli  generosamente  assunse  di 
una  scuola  comunale  di  disegno  a  vantaggio  degli  artigiani,  at- 
testa assai  bene  l'ossequio  che  esso  deve  al  suo  illustre  concitta- 
dino. Resta  che  l'Italia  tutta  si  ricordi  come  la  modestia,  il  ri- 
serbo, il  decoro  che  un  uomo  eminente  possa  volontariamente  im- 
porsi non  iscusano  punto  della  loro  indifferenza  e  trascuranza  i 
lontani  ;  che  quanto  meno  egli  non  cerca  gli  onori,  questi  de- 
vono tanto  più  cercar  lui.  (1) 


(1)  Soggiungo  qui  una  tavola  de' più  notevoli  ediflcii  ideati  e  diretti 
dal  Selvatico  come  architetto,  e  de'  lavori  principali  da  lui  pubblicati 
come  critico  : 

Lavori  architettonici: 
1.  La  facciata  della  Chiesa  di  S.  Pietro  in  Trento,  di  stile  gotico  or- 
natissimo,  tutta  di  marmi  paesani. 


-  273  - 

2.  Altare  maggiore  con  apparato,  per  la  chiosa  di  Mezzolombarda 
(Tirolo)  stile  lombardesco. 

3.  Chiesa  od  edicola  mortuaria,  per  la  famiglia  dei  Conti  Pisani, 
nella  villa  di  Vescovana  (Padovano)  ;  stile  inglese  elisabetiano. 

4.  Chiesetta  di  stile  gotico,  pel  giardino  di  Fonteviva  (Padovano) 
della  famiglia  Cittadella  Vigodarzere. 

5.  Uno  dei  grandi  altari  di  marmo,  con  colonne  e  molto  ornamento 
per  l'Arcipretale  di  Legnano  (stile  del  cinquecento  avanzato). 

6.  Due  casini  di  campagna,  di  stile  inglese,  sui  colli  vicentini. 
Principali  lavori  letterarii  a  stampa  : 

1.  La  Cappellina  degli  Scrovegni  in  Padova,  ed  i  freschi  di  Giotto 
in  essa  contenuti,  con  molte  incisioni  in  rame  su  disegni  dello  stesso 
Selvatico.  Padova,  1836  (un  voi.  in  8"  di  pag.  280),  stupendo  modello 
d'opera  descrittiva. 

2.  Sull'educazione  del  pittore  storico  odierno  italiano,  Pensieri,  Pa- 
dova 1842.  Un  voi.  di  800  pagine,  opera  che  parve  in  quel  tempo 
rivoluzionaria,  e  che  nella  storia  dell'arte  nostra  meriterà  sempre  una 
pagina  importante. 

3.  L'architettura  e  la  scultura  in  Venezia.  Milano,  Ripamonti  1847. 
Un  voi.  di  500  pag. 

4.  Storia  estetico-critica  delle  arti  del  disegno.  Venezia  1852-56. 
Due  voi.,  l'uno  di  630,  l'altro  di  1000  pagine.  È  una  scelta  delle  lezioni 
fatte  dal  Selvatico  nell'Accademia  Veneta,  e  vi  si  rende  manifesto  che  il  Sel- 
vatico per  entrare  in  un'Accademia  non  vi  portava  idee  accademiche. 

5.  Scritti  d'arte.  Firenze,  Barbera,  1859.  Un  voi.  di  pag.  400.  Ogni 
studioso  d'estetica  lo  ebbe  fra  le  mani  ed  ebbe  occasione  di  ammirare 
non  meno  la  eleganza  dello  scrittore  che  la  sapienza  del  critico. 

6.  Arte  ed  Artisti.  Padova  1863.  Un  voi.  di  pag.  500. 

7.  L'Arte  nella  vita  degli  artisti,  Racconti.  Firenze,  Barbera  1870. 
Un  voi.  di  pag.  500;  ha  l'attrattiva  di  un  romanzo  storico,  e  getta  molta 
luce  sopra  alcuni  punti  della  vita  artistica  del  trecento  e  del  cinque- 
cento, della  Venezia  in  ispecie. 

8.  Guida  di  Venezia  ) 

9.  Guida  di  Padova    \  ^"®  ^®^'  modelli  di  guide   artist.  municipali. 

10.  Il  disegno  elementare  e  superiore  ad  uso  delle  scuole,  opera 
premiata  al  Congresso  pedagogico  di  Venezia  ;  un  voi.  di  300  pag.  con 
litografie,  che  reca  il  succo  di  tutte  le  migliori  idee  professate  nella 
sua  lunga  e  laboriosa  carriera  artistica  e  letteraria  dal  marchese  Pie- 
tro Selvatico. 


Ricordi  Biografici  18 


XVI. 


FEDERICO  SCLOPIS. 


Era  per  me,  a  dirla  col  beniamino  de'nostri  scrittori,  una  ten- 
tazione tentante,  tener  qui  discorso  del  conte  Federico  Sclopis, 
ne'giorni  ne'  quali  tutto  il  mondo  civile  teneva  rivolta  la  mente 
al  Congresso  arbitrale  di  Ginevra,  od  attendeva  ch'esso,  per  la 
parola  autorevole  del  proprio  presidente,  desse  suprema  sentenza 
del  dritto  e  del  torto  nell'ardua  e  tormentata  questione  anglo-ameri- 
cana àeW Alaliama.  Ma,  se,  per  un  verso,  è  probabile  che  i  miei 
lettori  avrebbero  letto  con  maggior  curiosità  il  presente  breve 
Ricordo,  or  sono  alcuni  mesi,  io  credo  ch'essi  e  lo  Sclopis  non 
disprezzeranno  le  ragioni  che  mi  determinarono  a  tralasciare 
quell'occasione.  In  que'  giorni  lo  Sclopis  ci  dava  specie  d'un  po- 
tente, al  quale  si  concede,  per  solito,  la  lode  in  ragione  della  po- 
tenza che  gli  si  riconosce.  Un  semplice  privato  assunto  ad  un 
tratto  alla  dignità  di  giudice  conciliatore  fra  due  potentati  stra- 
nieri, acquista  egli  stesso  una  certa  maestà  regale.  E  poiché  non 
vi  è  maestà  imperante  che  non  veda  formarsi  intorno  a  sé,  pic- 
cola 0  grande  ch'essa  sia,  una  corte,  anche  lo  Sclopis  dovette  ac- 
corgersi, ne'giorni  più  gloriosi  della  sua  vita,  ch'egli  poteva  con- 
tare sopra  un  certo  numero  di  cortigiani.  Io  ho  applaudito,  come 
ogni  amico  del  progresso,  al  trionfo  della  giustizia  ch'ebbe  la  sua 
sanzione  solenne  nella  sentenza  del  tribunale  di  Ginevra;  ma  non 
ho  creduto  opportuno  parlare  di  lui  in  que'giorni.  Che  se  fu,  in 
gran  parte,  suo  merito  il  definitivo  componimento  della  questione 
([e\V Alabama,  se  fu  per  riguardo  alla  molta  dottrina  e  alla  fama 
di  lui  che  i  colleghi  del   Congresso  arbitrale    gli  conferirono   la 


—  275  - 

presidenza,  se  il  Re  d'Italia  nel  deputare  lo  Sclopis  a  far  parte 
di  quel  Congresso  ebbe  la  più  felice  ispirazione,  conviene  in  que- 
sti casi  far  la  sua  parte  alla  fortuna,  che  mise  in  quell'occasione 
lo  Sclopis  in  particolare  evidenza  presso  il  suo  sovrano.  In  ogni 
modo  poi  la  gloria  conseguita  dallo  Sclopis  a  Ginevra  era  la  con- 
seguenza fortunata  di  quella  grande  e  legittima  considerazione 
ch'egli  s'era  acquistata  come  storico,  giureconsulto  e  uomo  di 
stato,  per  arrivare  alla  quale  egli  avea  invecchiato  nella  medita- 
zione e  nel  lavoro.  (1)  Egli  poteva  non  pigliar  parte  in  questa  prima 
serie  di  Ricordi  consacrati  ai  più  illustri  veterani  viventi  della 
nostra  letteratura,  ove  non  avesse  avuto  altro  titolo  che  il  trionfo 
di  Ginevra;  vi  avrebbe  invece  preso  posto  onorevolissimo,  anche 
senza  quel  trionfo,  che  venne  solamente  a  confermare  al  mondo 
civile  quell'insigne  valore  che  in  casa  nostra  eravamo  già  in  ob- 
bligo da  lungo  tempo  di  riconoscergli. 


(1)  Terminato  felicemente  il  Congresso,  lo  storico  Cesare  Cantù  sten- 
deva un  bell'indirizzo  in  onore  dello  Sclopis,  che  veniva  tosto  coperto 
in  Lombardia  da  un  gran  numero  di  firme;  e  il  Re  d'Italia  indirizzava 
allo  Sclopis,  che,  come  cavaliere  dell'Annunziata,  gli  divenne  cugino, 
la  onorevole  lettera  seguente  : 

«  Caro  conte  Sclopis, 

«  Per  corrispondere  al  desiderio  espressoci  da  due  grandi  nazioni, 
risolute  di  trovare  nelle  decisioni  d'un  Consiglio  d'  arbitri  il  componi- 
mento pacifico  di  una  causa  che  resterà  celebre  nella  storia  del  diritto 
delle  genti,  Noi  vi  abbiamo  nominato  a  sedere  giudice  in  quel  tribunale 
di  cui  i  colleghi  vostri  vi  vollero  presidente.  Il  lustro  che  dal  vostro 
nome  riceve  la  Facoltà  di  giurisprudenza  torinese,  i  meriti  acquistati 
nelle  cariche  della  magistratura  giudiziaria,  nei  piìi  alti  uffici  ammini- 
strativi e  politici  dello  Stato,  la  fiducia  inimitata  che  poniamo  nel  vo- 
stro carattere  e  nella  devozione  vostra  per  la  nostra  Persona,  ci  gui- 
darono nella  scelta.  E  voi  fra  il  plauso  universale,  vinte  con  prudente 
accorgimento  e  con  1'  autorità  morale  del  Consesso  da  voi  presieduto, 
difficoltà  gravissime,  poteste  annunziarci  compiuta  un'opera  che  le  na- 
zioni salutano  come  esempio  di  civiltà.  Della  parte  distinta  che  face- 
ste alla  patria  nostra  in  un  fatto  di  tanta  importanza  Ndì  vi  ringra- 
ziamo come  di  segnalato  servizio,  e  del  compiacimento  nostro  deside- 
riamo che  abbiate  larga  testimonianza  nell'  espressione  dei  sentimenti 
dell'animo  nostro. 

«  Firenze,  22  settembre  1872. 

«  Affezionatissimo  Cugino 

«  Vittorio  Emanuele.  » 


—  276  - 

Il  principio  generale  che  governò  la  intera  vita  dello  Sclopis 
parmi  riassunto  ad  evidenza,  sebbene  con  soverchia  modestia,  nelle 
seguenti  parole,  le  quali  raccolgo  da  una  lettera  ch'egli  degnavasi 
indirizzarmi  il  23  febbraio  1872:  «  Io  non  posso  essere  conside- 
rato che  come  un  uomo  di  buona  volontà;  non  ho  perdonato  a 
fatica  per  dimostrarla.  Ho  serbato  la  mia  fede  senza  maledire  il 
mio  tempo;  ho  amato  ed.  amo  la  libertà  schietta  e  feconda  che 
7ion  si  scosta  dalla  giustizia.  »  Massimo  d'Azeglio,  che  gli  era 
stato  compagno  di  scuola,  e  che  chiamava  lo  Sclopis  suo  caro 
amico  d'infanzia  (1),  suo  caro  vecchio  amico,  trovava  spesso  in 
lui  un  consigliere  fido  ed  una  di  quelle  figure  che,  per  mutare 
d'uomini  e  di  tempi,  non  si  trasformano  e  si  lasciano  sempre"  ri- 
conoscere; di  maniera  che.  mentre  altri  volti  che  v'aveano  prima 
illusi,  si  alterano,  nel  lungo  osservarli,  a  segno  da  riuscirvi 
strani  e  paurosi,  quelle  figure,  apparentemente  fredde,  che  ritro- 
vate sempre  fedelmente  le  stesse,  vi  confortano  di  mille  delusioni, 
e  vi  assicurano  essere  nel  mondo  ancora  qualche  cosa  di  buono 
che  persiste.  Lo  Sclopis,  ch'io  sappia,  nella  sua  carriera  pubblica 
non  ha  corso  mai;  è  sempre  andato  di  passo;  ma  è  andato  sempre 
avanti,  e  però  egli  potè  far  tanta  strada,  e  lasciarsi  indietro  tanti  altri 
che  avevano  corso  fuori  tempo  con  lena  affannata.  Egli  non  operò 
mai  per  impeto,  ma  per  interno  convincimento  e  per  volontà  stu- 
diata; in  questo  suo  contegno  pubblico  egli  rivelò  mirabilmente 
uno  de'tratti  caratteristici  del  popolo  piemontese.  E,  pure  cercando 
la  libertà  ed  unità  d' Italia,  egli  rimase  piemontese  nel  carattere, 
nel  costume,  nel  tratto,  nel  linguaggio.  Non  grazioso,  ma  non  inele- 
gante, non  slanciato  ma  neppur  tardo,  non  violento  ma  energico, 
non  spiccato  ma  distinto,  ecco  le  qualità  eminenti  dello  Sclopis 
come  scrittore  e  come  oratore,  le  quali  tanto  meglio  ci  appaiono 
nello  scrittore  determinate,  quanto  meglio  rispondono  al  nobile  e 
saldo  carattere  dell'uomo.  La  vecchia  divisa  della  nobiltà  piemon- 
tese, frangar  non  flectar,  lo  Sclopis  può,  senza  riguardi,  farla  sua, 
perocché  egli  certamente  non  l'ha  tradita  mai. 

Il  conte  Federico  Sclopis  s'accosta  ora  al  suo  anno  75".  Torino 
gli  diede  i  natali.  Nel  1818,  l'università  lo  proclamava  dottore  in 
legge;  l'anno    seguente  lo  aggregava  al  suo  collegio  di  giurecon- 


(1)  V.  gli  Scritti  postumi  di  Massimo  d'Azeglio  pubblicati  dal  distinto 
genero  di  lui,  Marchese  Matteo  Ricci,  letterato  egregio  ;  Firenze,  Bar- 
bèra, 1871. 


—  277  — 
sulti;  il  ministro    degli  interni  conte  Prospero  Balbo,  il  padre  di 
Cesare,  riconoscendo  il  singolare  ingegno  del  giovine  Federico,  lo 
pigliava,  chiamandolo  presso  di  sé,  sotto  il  suo  particolare  patrocinio. 

I  due  Balbo  e  lo  Sclopis  non  presero  alcuna  parte  diretta  ai 
moti  rivoluzionarii  dell'  anno  1821,  del  che  io  non  posso  né  vo- 
glio far  loro  torto,  come  non  voglio  né  posso  scusameli,  igno- 
rando le  vere  cagioni,  che  suppongo  tuttavia  onorevoli,  per  le  quali 
si  tennero  al  di  fuori  d'un  fatto  così  importante,  come,  veduto  di 
lontano,  ci  appare  ora  la  rivoluzione  di  quell'anno  eroico. 

S'io  debbo  argomentarne  da  certi  giudizii  che  trovo  sparsi  nelle 
opere  dello  Sclopis,  la  principal  cagione  sarebbe  stato  l'aborri- 
mento che  lo  Sclopis  aveva  in  comune  coi  Balbo  per  ogni  moto 
rivoluzionario;  è  un  principio  di  politica,  che  si  può  trovare  esa- 
gerato, poiché  senza  certe  scosse  e  senza  certi  rimedii  eroici  i 
mali  estremi  rado  si  correggono,  ma  che  giova  rispettare  in  chi 
lo  professa  non  per  ragione  de'suoi  commodi,  ma  per  una  persua- 
sione ragionata. 

Finché  durerà  nel  mondo  la  brutta  necessità  della  guerra, 
durerà  pure  l'altra  brutta  necessità  delle  rivoluzioni.  Finché 
avremo  presso  di  noi  o  al  disopra  di  noi  una  forza  armata,  inti- 
meremo sempre  la  guerra  o  grideremo  la  rivoluzione.  Togliete 
le  armi  al  vicino  ed  al  padrone,  e  diverremo  tutti  mansueti  agnel- 
lini che  ci  perfezioneremo  ne'  beati  ordini  della  pace.  Questo  è 
l'ideale  ultimo  d'ogni  uomo  che  ami  l'uomo;  ma  perchè  trionfi  più 
sollecito,  prima  di  predicarlo  ai  popoli,  gioverebbe  innamorarne  i 
principi.  Lo  Sclopis  che  si  astenne  dai  moti  del  1821  fu  inspirato, 
io  credo,  dallo  stesso  principio  politico  che  lo  guidò  nel  1872  come 
presidente  del  Congresso  arbitrale  di  Ginevra. 

Della  lunga,  troppo  lunga,  pace,  che  seguì  in  Piemonte  fra  il 
1821  e  il  1848  ebbero  sovra  tutto  a  sentir  beneficio  gli  studii  sto- 
rici, che  in  nessuna  provincia  d' Italia  furono  coltivati  con  più 
ardore  e  maggiore  diligenza.  Scrissero  in  quel  tempo,  (oltre  a 
Carlo  Botta)  tutti  piemontesi,  il  Cibrario,  Santorre  e  Piero  di  Santa 
Rosa,  il  Balbo,  il  Ricotti,  il  Sauli,  il  Saluzzo,  il  Vesme,  il  Fossati,  e 
altri  più  che  contribuirono  essenzialmente  a  dare  in  Italia  un  se- 
rio indirizzo  alla  letteratura  storica;  ed  anche  oggi  piacerai  os- 
servare come  in  Piemonte  gli  studii  storici  trovino  singolare  f;x- 
vore,  il  quale  parmi  degno  di  nota,  come  indizio  di  una  speciale 
attitudine  dell'ingegno  piemontese,  studioso  di  fatti  più  che  di  pa- 
role, e  di  quest'ultime  solamente  in  quanto  esse  possano  giovare 
a  colorire,  a  determinare,  a  rilevare,  a  staccare  i  primi. 


—  278  — 

I  primi  scritti  ch'io  conosca  di  Federico  Sclopis  sono  le  sue  le- 
zioni sopra  i  Longobardi  in  Italia,  la  prima  delle  quali  preparata 
nel  1825,  fu  letta  nel  1827  all'Accademia  delle  scienze  di  Torino, 
ed  esaminata  poi  minutamente  da  Pietro  Capei  neW Antologìa  del 
mese  di  settembre  dell'anno  1830.  Da  quel  punto  s'accese  la  lunga 
guerra  incruenta  sulla  gran  questione  storica  de'Longobardi,  nella 
quale,  dopo  che  il  Manzoni  avea  gettato  il  guanto,  diedero  poi 
battaglia  in  Piemonte,  oltre  lo  Sclopis,  il  Balbo,  il  Ricotti,  il  Ve- 
sme  ed  il  Fossati,  in  Toscana  il  Capponi  ed  il  Capei,  nel  Napole- 
tano il  Troya  ed  il  Ranieri.  Lo  Sclopis  rispose  al  Capei  ^eW An- 
tologia del  fascicolo  d'ottobre  nell'anno  medesimo.  Innanzi  il  1830 
egli  avea  già  pubblicato  nella  stessa  Antologia  tre  gravi  lettere 
dirette  a  Giuseppe  Grassi  sopra  le  illustrazioni  dei  papiri  greco- 
egizii  pubblicate  dal  prof.  Amedeo  Peyron,  del  quale  come  lo  Sclo- 
pis fu  de'  primi  in  Italia  a  parlare  convenientemente,  cosi,  ne  fu 
in  Italia  presso  che  il  solo  degno  encomiatore,  dopo  che  ne  lamen- 
tiamo la  morte. 

Fra  il  1830  e  il  1833,  lo  Sclopis  preparava  i  materiali  d'un'opera 
poco  nota,  ma  non  meno  forse  importante  di  quella  ormai  popo- 
lare del  Cibrario  ^wW Economia  pubblica  nel  medio  evo;  io  voglio 
dire  la  Storia  dell'  antica  legislazioìie  nel  Piemonte  (1).  L'autore 
pone  ogni  sua  fiducia  nella  virtù  di  una  buona  legislazione,  e  a 
stornare  il  pericolo  degli  improvvisi  rivolgimenti  consiglia  al 
principe  le  buone  leggi.  Ma  per  bene  conoscere  le  leggi  da  farsi 
conviene  anzitutto  sapere  quali  leggi  si  abbiano,  e  per  quali  ca- 
gioni e  con  quali  opportunità  quelle  leggi  abbiano  avuto  princi- 
pio. Considerata  sotto  questo  aspetto  la  storia  della  legislazione 
si  confonde  con  la  storia  politica  ;  di  qui  ognuno  comprende  age- 
volmente il  pensiero  liberale  che  mosse  lo  Sclopis  a  scrivere  dap- 
prima la  storia  della  legislazione  piemontese,  affinchè  il  principe 
si  rendesse  avveduto  come  la  diversità  de'tempi  e  delle  condizioni 
politiche  dovea  portare  una  mutazione  di  leggi.  Nella  lettera  che 
ho  più  sopra  citato,  lo  Sclopis  mi  scrive  ancora  :  «  Debbo  avver- 
tire che  ho  veduto  più  d'  una  volta  il  mio  nome  collocato  fra  i 
Ministri  che  compilarono  lo  Statuto  largito  dal  Re  Carlo  Alberto; 
ciò  non  è  esatto;  io  feci  soltanto  parte  del  primo  Ministero  costi- 
tuzionale presieduto  da  Cesare  Balbo,  in  qualità  di  Guarda-Sigilli 


(1)  Torino,  Bocca,  1833;  un  voi.  in-8  di  pag.  xxxn-490. 


-  279  — 

Ministro  di  Grazia  e  Giustizia.  »  Ma  se  lo  Sclopis  non  ha  compi- 
lato lo  Statuto,  con  le  sue  due  Storie  della  legislazione,  la  pie- 
montese e  l'italiana,  ne  fu  principale  promotore;  la  sola  conclu- 
sione alla  quale  si  può  arrivare,  terminata  la  lettura  delle  due 
opere  capitali  dello  Sclopis,  è  questa:  conviene  che  il  principe  ri- 
conosca il  diritto  del  popolo  a  ricevere  una  nuova  legge,  affinchè 
la  giustizia  divenga  «  sicura,  pronta  ed  uguale  per  tutti  i  sud- 
diti. » 

Ma  tradirei  il  mio  ufficio  di  scrittore  veridico  quale  mi  studio 
di  essere,  ove  dessi  alle  due  opere  dello  Sclopis,  e  alla  prima  in 
ispecie,  una  importanza  politica  maggiore  ch'essa  per  sé  non  ab- 
bia. La  storia  dell'  antica  legislazione  del  Piemonte  è  sovra  ogni 
cosa,  un  bel  libro  storico  bene  condotto,  pieno  di  fatti,  redatto  su 
documenti  sicuri  e  scritto  con  una  forma  un  po'  grave,  ma  pure 
non  priva  di  una  certa  venustà.  La  notizia  di  certe  usanze  e  con- 
suetudini tratta  dagli  statuti  municipali  è  sommamente  istruttiva; 
e,  per  l'anno  in  cui  vide  la  luce  la  Storia  dell'antica  legislazione 
in  Piemonte,  poteva  considerarsi  come  un  nuovo  elemento  sommini- 
strato alla  storia  italiana,  che  fino  allora  avea  quasi  sempre  distinto 
la  vita  politica  di  un  popolo  dalla  sua  vita  privata  e  sociale,  come 
se  si  trattasse  di  tre  popoli  diversi.  Il  Muratori  stesso  nel  secolo 
passato  avea  confinato  in  dissertazioni  speciali  la  notizia  degli  usi, 
costumi,  consuetudini  medievali,  invece  di  farne  suo  prò  per  co- 
lorire una  vera  storia.  Ma  il  secolo  passato  era  specialmente  eru- 
dito, come  il  nostro  è  specialmente  critico;  è  toccato  ora  a  noi 
il  mettere  in  ordine  gran  parte  de'materiali  raccolti  dai  nostri 
avi,  con  una  pazienza  che  pochi  italiani  hanno  ancora  serbata;  lo 
Sclopis  però  per  la  sua  storia  confessa  di  dover  molto  ai  vecchi 
eruditi  piemontesi;  ma  egli  deve  a  sé  stesso  tutto  il  merito  d'aver 
soffiata  la  vita  in  una  materia  storica  la  quale  giaceva  quasi 
inerte. 

La  Storia  dell'Antica  legislazione  in  Piemonte,  che  avea  fatto 
persuasi  i  concittadini  dello  Sclopis  aver  essi  a  contare  sopra  uno 
storico  e  giureconsulto  d'insigne  valore,  dava  quindi  animo  allo 
Sclopis  d'intraprendere  il  suo  lavoro  più  vasto  e  piìi  importante, 
sul  quale  veramente  si  posa  la  fama  più  che  italiana  ed  oramai  più 
che  europea  della  quale  egli  gode.  Il  primo  volume  della  Storia  della 
legislazione  italiana  apparve  in  Torino,  presso  l'editore  Pomba 
nel  1840,  il  secondo  nel  1844,  il  terzo  nel  IS'.y.  Nel  1861  tutta 
l'opera  fu  pubblicata  a  Parigi  in  traduzione  francese,  curata  dal 
sig.  Curio  Sclopis  di  Petreto,  un  corso  ;  nei  1803,  lo   Sclopis  im- 


—  280  — 
prese  una  seconda  edizione  riveduta  dell'opera  sua  fondamentale, 
alla  quale  nel  18G4  egli  aggiungeva  finalmente  un  nuovo  volume 
diviso  in  due  parti  che  tratta  con  libero  e  severo  linguaggio,  come 
una  speciale  ed  ampia  monografia  storica,  le  vicende  della  legi- 
slazione italiana  dal  1789  al  1848.  L'opera  è  dedicata  alla  memo- 
ria della  contessa  Gabriella  Peyretti  di  Condove,  che  era  stata  madre 
allo  Sclopis.  Nella  prefazione  che  lo  Sclopis  premise  nel  1860  alla  tra- 
duzione francese  dell'opera  sua,  egli  scrive  :  «  Le  circostanze  dei 
tempi  in  cui  pubblicai  i  due  primi  volumi  (1840-44)  assai  giova- 
rono a  procurare  ad  essi  benigna  accoglienza  dal  pubblico.  Comin- 
ciava allora  a  spingersi  in  alto  nella  mia  patria  il  sentimento  di 
nazionalità  ;  eravamo  stanchi  dell'oppressione  straniera  ;  più  non 
si  voleva  sopportare  l'umiliazione  di  udire  chiamarsi  l'Italia  terra 
dei  morti,  ovvero  semplice  espressione  geografica.  Quando  un  po- 
polo é  conscio  del  suo  diritto  e  della  sua  forza,  egli  è  in  procinto 
di  rivendicare  l'uno  coll'altra.  » 

Nella  prefazione  dell'autore  alla  prima  edizione,  egli  indicava  già 
a'suoi  lettori  uno  de'pregi  che  mi  sembrano  caratteristici  in  ogni 
opera  dello  Sclopis,  ma  particolarmente  in  questa  sua  Storia  della 
legislazione  italiana:  «  Lasciare  che  i  fatti  parlino  da  sé,  senza 
cerchiarli  di  considerazioni  atte  a  preoccupare  l'animo  del  lettore, 
mi  è  ognor  sembrato,  non  che  pregio,  stretto  dovere  dello  storico  ». 
Umile  fatica  in  apparenza,  ma  che  ad  essere  condotta  con  qualche 
efficacia  domanda  il  concorso  di  una  mente  bene  ordinata  e  limpida 
e  di  un  gusto  squisito  e  di  un  fine  buon  senso,  che  sappia  dar  rilievo 
ai  fatti  importanti  e  i  minimi  lasciare  nell'ombra,  concatenare 
quelli  che  si  continuano  e  gli  accidentali  tenere  isolati,  e  final- 
mente alzare  di  qualche  tono  il  colorito  di  que'  passi  i  quali  gio- 
vino alla  dimostrazione  della  tesi  generale,  che  deve  servire  di 
fondamento  ad  ogni  opera  letteraria,  si  che  si  possa  trarne  sem- 
pre alcuna  utile  conclusione.  Nessuna  di  queste  qualità  manca  agli 
scritti  dello  Sclopis,  ove  si  può  desiderare  alcun  maggior  calore,  ed 
un  impeto  più  vivo,  ed  una  eloquenza,  s'io  possa  esprimermi  cosi, 
meno  sentenziosa,  ed  una  maggiore  abbondanza  giovanile,  ma  do- 
ve la  storia  si  trova  sempre  fedelmente  ritratta  ad  un  alto  fine 
morale  e  civile.  La  storia  non  è  per  lo  Sclopis  una  lettera  morta, 
ma  una  tradizione  che  si  svolge  di  continuo  :  «  La  strada,  egli 
scriveva  nel  1840,  per  la  quale  cammina  l'umanità  non  è  mai  in- 
terrotta, epperò  tutti  gli  avvenimenti  si  collegano  insieme,  e  quello 
che  sarà  non  può  essere  altro  che  la  conseguenza,  se  non  talora 
la  ripetizione,  di  ciò  che  è  e  che  fu.  Il  passato  è  la  causa  dell'av- 


—  281  — 
venire.  Fallace  presunzione  è  quella  di  rigettare  le  tradizioni  dei 
tempi  andati,  che  sono  le  fonti  da  cui  rampollano  molti  migliora- 
menti futuri.  —  Senza  affetti  alla  famiglia  e  senza  eredità  di  ri- 
cordanze non  vi  è  patria.  Sventurato  chi  s'infastidisce  dei  rac- 
conti del  popolo  di  cui  è  parte.  Per  quanto  si  aspiri  al  progresso, 
non  si  dee  dimenticare  che  tutti  i  secoli  e  tutti  i  popoli  concor- 
rono a  compiere  i  destini  imposti  all'umanità.  Non  è  lecito  nò  agli 
uomini  né  alle  nazioni  di  disprezzare  nessuna  parte  di  quei  pe- 
riodi che  formano  la  loro  vita.  »  Lo  Sclopis  non  è  uno  di  que- 
gli uomini  che  trascinino  dietro  di  sé  col  loro  esempio  e  con  la 
loro  parola  le  moltitudini;  egli  opera  e  parla  con  troppo  severa 
tranquillità  e  con  una  calma  troppo  serena  per  agitare  e  traspor- 
tare chi  lo  ascolta  o  chi  lo  legge;  ma,  io  lo  ripeto,  si  è  ben  con- 
tenti di  ritrovarlo  sempre  al  suo  posto,  ed  in  un  posto  sempre 
elevato,  uguale  a  sé  stesso,  per  quanto  mutino  le  cose  intorno  a 
lui  ;  egli  amava  l'ordine  e  la  libertà  or  sono  cinquant'anni;  egli  ama 
l'ordine  e  la  libertà  oggi  ancora  nello  stesso  modo;  egli  pose  in  quel 
modo  la  sua  prima  grande  questione,  e  per  tutta  la  vita  fu  intento  a 
dimostrarla.  Né  i  demagoghi  né  i  retrogradi  lo  distolsero  da'suoi 
pensieri  e  dalla  sua  politica,  un  po'  troppo  lenta  se  si  voglia,  e 
un  po'  troppo  raccomandata  alla  provvidenza  larghissima  di  Dio 
e  alla  provvidenza  ristrettissima  de'  principi,  e  però  non  abba- 
stanza fiduciosa  nell'opera  de'  singoli  cittadini,  ma  pur  costante- 
mente progressiva.  Le  qualità  dell'uomo  si  riscontrano  pure  nei 
suoi  libri  ;  la  Storia  della  legislazione  dello  Sclopis,  non  è  una 
di  quelle  opere  che  attraggano  a  sé  un  gran  numero  di  lettori  e 
si  divulghino  presto  e  facciano  una  impressione  molto  viva  ;  ma, 
letta  bene,  è  atta  non  solo  ad  istruire  sopra  un  gran  numero  di 
fatti  presso  che  ignorati,  ma  a  persuadere  della  giustezza  di  tutto 
un  ordine  d'idee  importanti.  Molti  libri  possono  aver  destato  mag- 
gior plauso  popolare,  ma  pochi  dureranno  e  si  consulteranno  quanto 
la  Storia  della  legislazione  italiana  dello  Sclopis.  Come  nei 
giorni  affannosi  si  ricorre  non  all'amico  potente,  non  all'amico 
glorioso,  non  all'amico  splendido^  ma  all'amico  del  cuore,  al 
l'amico  provato,  così,  se,  per  un  piacere  effimero,  si  leggeranno 
molti  altri  libri  con  più  diletto  di  questo,  nelle  ore  serie,  quando 
la  mente  ha  uopo  di  un  nutrimento  sostanzioso,  torna  riposata 
sopra  questi  volumi,  e  vi  ripiglia  vigore  a  meditazioni  solenni. 
Uomini  e  libri  simili  formano  il  fondo  serio  e  durevole  d'  una 
nazione  come  d'una  letteratura  ;  essi  custodiscono  gelosamente 
entro  di  sé  quanto  é  più  funesto  ad  un  popolo  come  ad   un  indi- 


-  282  — 

vìduo  il  perdere,  la  forza  del  proprio  carattere.  Ora  nelle  opere 
dello  Sclopis,  come  in  quelle  di  Vittorio  Alfieri  e  di  Cesare  Balbo, 
si  conservano  le  più  nobili  virtù  dell'ingegno  e  dell'animo  subal- 
pino ;  onde  esse  offrono,  oltre  ad  una  singolare  importanza  per  la 
storia  del  nostro  diritto,  e  pel  suo  avvenire,  una  nota  caratteri- 
stica specialissima,  la  quale  merita  di  venir  considerata  da  quanti 
non  considerino  come  assoluta  la  necessità  di  studiare  la  nostra 
letteratura  dal  solo  aspetto  della  politica  unitaria,  costituzionale, 
romana  ed  apostolica. 

Nel  ì  845,  l'autore  della  Storia  della  legislazione  italiana  veniva 
eletto  socio  corrispondente  dell'Istituto  di  Francia,  il  quale  poi, 
nel  1869,  conferiva  allo  Sclopis  i  massimi  onori  eleggendolo  suo 
socio  estero,  come  successore  di  Lord  Brougham.  E  poiché  sono 
sul  punto  degli  onori  de'quali  lo  Sclopis  venne  fatto  segno,  ram- 
menterò come  nel  1847,  lo  Sclopis,  già  avvocato  generale,  fosse 
eletto  presidente  della  Commissione  superiore  di  censura  (una 
specie  di  tribunale  d'appello  per  la  stampa),  ove  sedevano  il  Balbo, 
il  Buoncompagni,  il  Cibrario,  il  Ghiringhello,  il  Moris,  il  Saul), 
il  Ricotti  ed  il  Tonello,  e  poi  presidente  della  Commissione  inca- 
ricata di  compilar  la  legge  sulla  stampa;  come  nel  marzo  del  1848 
assumesse,  supplicato  da  Cesare  Balbo,  il  portafoglio  di  grazia  e 
giustizia,  tenendo  il  quale  iniziava  con  un  memorabile  memoran- 
dum^ quelle  trattative,  in  senso  liberale,  con  la  Santa  Sede,  che 
più  tardi  doveano  essere  riprese  dal  conte  di  Cavour;  come  nel 
1841),  già  deputato  al  Parlamento  di  uno  dei  Collegi  di  Torino, 
fosse  eletto  Senatore  del  Regno  ;  come  nel  1860 ,  gli  si  con- 
ferisse la  dignità  di  Ministro  di  Stato;  come  dal  1861  al  1864  te- 
nesse con  onore  la  presidenza  del  Senato,  alla  quale  rinunciò 
sdegnoso,  dopo  la  disgraziata  e  improvvida  Convenzione  di  set- 
tembre; come  l'Accademia  delle  scienze  di  Torino  e  la  deputazione 
sopra  gli  studii  di  storia  patria  lo  eleggessero  loro  presidente; 
come  nel  1868,  il  Re  d'Italia,  conferendogli  le  insegne  dell'Ordine 
supremo  dell'Annunziata,  nello  stringere  parentela  con  l'insigne 
suo  suddito  piemontese  gli  desse  la  più  alta  prova  di  riverente 
simpatia;  come  finalmente  lo  stesso  suo  re  lo  deputasse  a  rap- 
presentare l'Italia  nel  congresso  arbitrale  di  Ginevra,  la  sentenza 
finale  del  qual  congresso,  se  sodisfece  sovra  ogni  cosa  la  giusti- 
zia, appagò  in  modo  particolare  quell'Inghilterra,  le  cui  sapienti 
istituzioni  politiche  il  conte  Federico  Sclopis  avea  sempre  studiate 
ed  ammirate.  E  poiché  il  discorso  è  caduto  sopra  l'Inghilterra, 
sebbene  io  potrei  ricordare  ancora  altri  parecchi  pregevoli  lavori 


—  283  — 

storici  pubblicati  dallo  Sclopis  in  vario  tempo,  in  ispecie,  negli 
atti  dell'Accademia  di  Torino  ;fra  i  quali,  notevolissime,  le  Ri- 
cerche storiche  e  critiche  sopra  Y Esprit  des  lois  di  Montesquieu) 
e  nell'Archivio  storico  toscano,  (ai  quali  si  devono  ancora  ag- 
giungere lo  studio  storico  in  francese  intorno  a  Maria  Luisa 
Gabriella  di  Savoia  Regina  di  Spagna  (i),  e  due  memorie  pub- 
blicate negli  atti  dell'Istituto  di  Francia  sulla  dominazione  fran- 
cese in  Piemonte  sotto  il  primo  impero,  e  sopra  il  cardinale 
Giovanni  Morone),  piacemi  conchiudere  la  breve  notizia  presente 
con  un  cenno  intorno  alle  Ricerche  storiche  dello  Sclopis  sopra 
Le  relazioni  politiche  tra  la  dinastia  di  Savoia  ed  il  governo 
Britannico  dal  1240  al  1815  (2),  poiché  questa  sapiente  ope- 
retta, nota  a  pochissimi,  dovette  servire  di  utile  vade-mecum 
a  Massimo  d'Azeglio  nel  suo  viaggio  diplomatico  in  Inghilterra, 
ed  attrarre  al  piccolo  Piemonte  non  poca  di  quella  simpatia  che 
si  dovea  tosto  far  più  viva  nella  maggiore  frequenza  delle  rela- 
zioni internazionali  fra  il  Governo  inglese  ed  il  subalpino,  creata 
dalla  guerra  d'Oriente.  «  Freno  ai  potenti,  protezione  ai  deboli, 
vi  scrive  lo  Sclopis,  tale  dovrebbe  essere  l'epigrafe  della  bandiera 
sovrapposta  all'edifizio  politico  qualificato  di  equilibrio  europeo.  » 
E  troppo  evidente  che  il  buon  piemontese,  dettando  queste  parole 
ineleganti,  ma  espressive,  pensava  alle  misere  condizioni  d'Italia, 
all'iniquo  trattato  di  Vienna  ed  alla  necessità  di  lacerarlo.  Tre 
anni  dopo  il  Conte  di  Cavour  al  Congresso  di  Parigi  gli  faceva 
il  primo  strappo,  con  l'aiuto  specialmente  di  quell'Inghilterra,  che 
il  conte  Sclopis  avea  col  suo  libro  contribuito  a  renderci  parti- 
colarmente benigna.  Così,  per  conchiudere,  se  i  servigi  resi  all'Ita- 
lia dello  Sclopis,  non  sono  di  quelli  per  cui  si  coniino  medaglie  o 
si  decretino  monumenti,  mi  sembrano  pur  sempre  tali  che  uno  sto- 
rico imparziale  ne  debba  pigliar  nota  e  tenere  un  gran  conto.  Né 
crederei  finalmente  ingannarmi  troppo  affermando  che  all'anima 
nobilmente  dignitosa  di  Federico  Sclopis  il  premio  più  dolce  sarà 
una  tal  forma  di  gratitudine;  le  dimostrazioni  della  piazza  de- 
stano un  grande  clamore,  ma  sono  effimere;  una  pagina  onorevole 
di  storia  ifbn  fa  nessun  rumore,  ma  si  conserva  e  viaggia 
lontano. 


(1)  Firenze,  Civelli  1866. 

(2)  Torino,  Stamperia  Reale  1853. 


XVII. 


SILVESTRO  CENTOFANTI. 


Silvestro  Centofiinti  ebbe  non  il  suo  quarto  d'ora,  ma  il  suo 
quarto  di  secolo  glorioso.  Fra  il  1825  e  il  1850  il  nome  di  Silve- 
stro Centofanti  andò  quasi  sempre  congiunto  con  quello  di  Gino 
Capponi  e  di  Giambattista  Niccolini.  Ora  egli  vive  in  Italia  quasi 
ignorato,  e  certamente  dimenticato  da  troppi  fra  quegli  stessi  ita- 
liani che  un  tempo  gli  resero  onori  solenni  come  a  precursore 
inspirato  del  nostro  risorgimento  civile  e  letterario.  Le  ragioni  di 
questa  obliosa  trascuranza  possono  esser  molte;  io  dirò  qui  soltanto 
le  due  che  mi  paiono  principali;  l'avere  il  Centofanti  mantenuto 
fede  sino  al  fine  a  quella  filosofia  cristiana  che  egli  professò  da 
principio  ;  l' aver  preveduto  da  lontano  i  nuovi  eventi  d' Italia  per 
temerli  quasi  vicini;  ma,  sovra  ogni  cosa,  io  ne  accuso  qui  la  in- 
gratitudine de' giovani.  Io  non  seguo  la  filosofia  del  Centofanti;  io 
non  credo  a  tutti  que'miracoli  di  civiltà  ch'egli  attribuisce  alla  sola 
virtù  spirituale  del  cristianesimo;  io  non  vedo  nel  mondo  altra  prov- 
videnza per  l'uomo  che  l'uomo  stesso;  ma  io  so  far  ragione  de'terapi 
ne' quali  l'idea  del  Centofanti  si  manifestò;  io  non  dimentico  che 
l'idea  guelfa  era  allora  idea  italiana  (non  la  sola  però);  io  ammiro 
nel  Centofanti  uno  de'  piìi  eloquenti  interpreti  di  quella  idea.  Io 
non  accetto  il  duro  motto  che  il  Centofanti  assume  in  una  sua  ode 
saffica  scritta  per  il  primo  anniversario  de' morti  a  Montanara  e 
Curtatone  il  29  maggio  1851  :  né  sto,  né  corro,  poiché  credo  che 
sia  deil'uomo  prudente,  in  certi  casi,  lo  stare  fermo,  e  dell'uomo 
generoso  in  certi  altri  il  correre  ;  é,  del  resto,  il  Centofanti  stesso, 
che  in  un  suo  canto  consacrato  ai  martìri,  ha  scritto: 


—  285  — 

Ognor  fu  seme 
Di  libertade  il  sacrificio^  e  Italia 
Sol  dai  martiri  suoi  la  vita  aspetta. 

E  il  Centofanti  che  tante  volte  ha  precorso  col  suo  pensiero  i 
novi  tempi  non  dovea  certamente  sgomentarsi  troppo  se  questi, 
arrivassero  clamorosi  e  pieni  di  tempesta.  Nella  sua  gioventù  per 
l'inaugurazione  del  monumento  di  Dante  in  Santa  Croci;,  il  Cen- 
tofanti avea  cantato  cento  generose  ottave,  che  terminavano  cosi: 

Ma  in  cor  mi  resta  una  dolcezza  infusa. 
Una  speranza  che  non  par  lontana  : 
E  a  consacrarla,  con  ardente  affetto 
Grido  il  nome  di  Dante,  e  i  fati  affretto. 

Dov'egli  s'afifrettava  col  pensiero,  qual  meraviglia  che  altri  s'af- 
frettassero con  le  opere  ?  Nel  Preludio  al  corso  di  lezioni  su  Datile 
Alighieri,  che  fu  pubblicato  in  Firenze  nel  1838,  egli,  dopo  avere, 
in  due  pagine  sapienti,  trattato  della  commedia  italiana  quale  do- 
vrebbe essere,  invitava  i  giovani  a  scrivere  la  coììimedia  polilica, 
e,  nello  stesso  discorso,  rivolgendosi  al  Niccolini,  il  Centofanti  si 
esprimeva  cosi  :  «  Ch'  ei  senta  vivamente  il  suo  secolo,  che  gli 
arda  in  petto  un'anima  altamente  italiana,  ne  rendono  testimo- 
nianza i  suoi  libri,  e  lo  riconosce  con  riverenza  la  patria.  Se  altri 
si  crede  forte  a  scrivere  con  piìi  bellezza,  impugni  la  penna  e  lo 
provi.  E  nondimeno  gli  esprimerò  anco  pubblicamente  il  mio  de- 
siderio, eh'  egli  nelle  ultime  sue  tragedie  condescenda  con  ragio- 
nato impeto  ad  una  creazione  piìi  libera  »  Dopo,  privatamente,  in- 
sieme con  Gino  Capponi,  il  Centofanti  dava  coraggio  al  Niccolini, 
perchè  scrivesse  ed,  infine,  perchè  pubblicasse  V  Arnaldo.  Nella 
Strenna  Fiorentina  del  1841,  il  Centofanti  avea  dedicati  questi 
versi  a  G.  B.  Niccolini  : 

Pari  all'altezza  del  divino  ingegno 

Iddio  ti  diede  il  core, 

E  di  viver  sei  degno 

Nella  gloria  contento  e  nell'  amore. 

Le  corone  che  lieta  a  me  tesséa 

Co' purpurei  suoi  fior  speranza  audace 

Inaridirsi  io  veggo,  e  in  fredda  pace 

Quelle  gioie  superbe  al  cor  disdico; 

E  mia  gloria  e  dolcezza  esserti  amico. 


—  286  — 
Pubblicato  V Arnaldo,  il  Niccolini  il  28  settembre  1843  dolevasi  col 
Centofanti  del  rumore  che  ne  facevano  il  Nunzio  apostolico  e  l'Ar- 
civescovo, e  soggiungevagli  :  «  Mi  son  state  di  conforto  tutte  le 
parole  di  lode  che  mi  avete  scritto,  tenendovi  in  pregio  per  l'al- 
tezza dell'animo  e  dell'ingegno.  Credo  che  qui  non  vi  siano  che 
voi  e  il  Capponi  che  possano  giudicarmi  con  cognizione  di  causa 
e  imparzialmente,  seppure  il  cor  non  v'inganna,  che  ad  ambedue 
vi  fa  dire  del  mio  lavoro  quelle  cose  che  non  merita.  »  Cosi  nella 
nostra  moderna  letteratura  si  vide  il  caso  singolare  che  due  scrit- 
tori guelfi  furono  i  principali  sostenitori  di  un  fiero  poeta  ghibel- 
lino ;  ed  al  Niccolini  che  s' intimoriva  per  le  molestie  che  l'Arnaldo 
poteva  recargli  essi  consigliavano  animo  forte  e  conseguente.  Ma, 
quando  poi  si  trattava  di  mettere  in  opera  i  sentimenti  di  quel- 
r  Arnaldo,  de'  quali  il  Capponi  e  il  Centofanti  erano  stati  padrini, 
essi,  come  guelfi,  si  ritrassero  ;  e  da  quel  punto  incominciarono  a 
destarsi  alcuni  malumori  fra  il  Niccolini  ed  i  suoi  due  illustri 
amici,  i  quali  malumori  tuttavia  furono  oltre  misura  esagerati  dal- 
l'autore della  Biografia  del  Capponi  presso  i  Conlemx)Oranei  del 
Pomba,  quando  noi  abbiamo  a  stampa  nella  raccolta  del  Vannucci 
parecchie  lettere  non  pur  gentili  ma  aflettuose  del  Niccolini  al 
Centofanti,  scritte  dopo  lo  scioglimento  di  quel  glorioso  triumvi- 
rato civile  insieme  e  letterario.  Il  Niccolini  arrivò  anzi  nell'agosto 
del  1847  fino  a  lodare  la  canzone  del  Centofanti  a  Pio  nono  :  «  Non 
so  dirvi,  gli  scrive,  quanto  mi  piaccia  la  vostra  canzone  a  Pio  IX, 
dove  ho  letto  queste  sante  parole  : 

Regni  alfin  carità,  regni  queir  una 

Che  dell'  eterno  è  figlia, 

E  che  è  ragione  a  tutti,  e  a  Dio  somiglia. 

Siate  benedetto  f  » 

Ardita  precorritrice  di  quella  del  Settembrini  è  la  critica  che 
fin  dal  1837  il  Centofanti  instituiva  nel  suo  Preludio  al  corso  di 
lezioni  intorno  a  Dante  Alighieri  intorno  alla  scuola  del  Manzoni  : 
«  Il  Manzoni  ed  il  Grossi,  scriveva  egli,  con  qualche  temerità  e  forse 
non  senza  alcuna  malizia  di  linguaggio,  entrati  con  facoltà  diverse 
e  con  affetto  concorde  nel  nuovo  arringo,  meritarono  i  suff'ragi  del 
pubblico;  ma  se  il  primo  fu  già  salutato  rigeneratore  dell'italiana 
poesia,  e  col  prestigio  di  questa  idea  accresciuto  oltre  la  sua  naturale 
grandezza,  comparisce  ora  anche  minor  di  sé  stesso  ai  subiti  ammi- 
ratori delle  sue  opere.  Chiamai  in  colpa  questa  scuola  di  non  aver 
corrisposto  all'alta  aspettazione  che  avea  risvegliato  in  tutti  i  no- 


—  287  — 
bili  pensatori;  la  quale,  anziché  diffondere  le  grandi  idee,  anziché 
educare  le  grandi  forze  che  più  efficacemente  debbono  contribuire 
all'ordinamento  della  società  futura,  sembra  insegnare  una  rasse- 
gnazione infeconda,  una  tranquilla  abnegazione  di  sé,  che  facil- 
mente potrebbe  degenerare  in  una  codarda  indifferenza  o  passività 
sotto  le  soperchierie  più  insolenti,  e,  i  più  mostruosi  disordini.... 
Se  tu  m' insegni  poetando  la  bellezza  del  sacrificio,  e  mi  rendi  for- 
tissimo ad  avverarla  col  sangue  ;  se  quando  la  terra  è  in  balia  di 
prepotente  scelleratezza,  e  mi  falliscono  i  conforti  degli  uomini,  tu 
schiudi  la  solinga  mia  anima  a  una  segreta  comunicazione  col 
cielo,  e  la  ricrei  con  quella  parola  che  é  vita  ;  non  io  dirò  poco 
umana  la  tua  sapienza  poetica,  né  mi  crederò  inutile  cittadino 
quando  son  pieno  della  forza  di  Dio,  per  istar  contro  agli  oppres- 
sori della  mia  patria.  Per  queste  ragioni  può  la  scuola,  di  cui  ora 
parliamo,  purgarsi  da  quella  taccia  di  passività  non  civile,  di  che 
altri  l'ebbe  notata;  o  parere  cosi  felicemente  disposta  a  conciliare 
in  efficace  armonia  civiltà  e  religione,  eh'  ella  possa  farlo  senza 
trasmutarsi  in  un'  altra.  Ma  i  desideri  non  soddisfatti  di  questi 
critici  procedono  tutti  da  un  falso  modo  di  vedere  le  cose.  Parlano 
del  Manzoni  come  s'egli  avesse  voluto  essere  il  rinnovatore  del- 
l'arte in  Italia  (il  Centofanti  mi  scuserà  s'io  venuto  tanto  più 
tardi  di  que' critici  ch'egli  condanna,  credo  ancora  il  medesimo, 
ma,  in  questo,  diverso  da  que'critici  ch'io  penso  avere  il  Manzoni 
pienamente  raggiunto  il  suo  intento  (I),  non  parendomi  poco  me- 


(1)  Non  sarà  inutile  il  soggiungere  qui  un  esempio  illustre  che  tolgo 
da  una  nota  al  notevole  studio  intorno  a  Massimo  d'Azeglio,  che  Marco 
Tabarrini  premise  alla  edizione  degli  Scritti  politici  e  letterarii  dell'Aze- 
glio curata  dal  Barberà  (Firenze,  1872).  «  Un  giorno  il  d'Azeglio,  discor- 
rendo coll'editore  G.  Barbera,  dello  stile  e  della  lingua,  gli  disse  presso 
a  poco  cosi:  quando  io  scrissi  la  prima  volta  per  illustrare  la  Sacra 
di  S.  Michele,  mi  posi  al  lavoro  dopo  aver  fatto  raccolta  di  modi  ita- 
liani i  quali  mi  pareva  che  dovessero  fare  un  grande  effetto  sui  lettori, 
e  ne  riempii  più  che  potei  il  mio  scritto.  Andato  in  quei  giorni  a  Mi- 
lano, offrii  a  Manzoni  una  copia  della  Sacra,  e  lo  pregai  di  notarmi 
ciò  che  gli  fosse  parso  errore  o  difetto  nello  stile.  Assunse  di  buon  grado 
l'incarico  ;  e  dopo  alquanti  giorni  essendomi  fatto  rivedere,  il  Manzoni 
mi  fece  per  l'appunto  notare  quei  passi  che  a  me  parevano  i  più  belli 
e  studiati  richiamandomi  alla  maggiore  semplicità  di  dire.  E  coteste 
note  accompagnate  dalle  sue  osservazioni  verbali,  mi  aprirono  un  nuovo 
orizzonte  nell'arte  dello  scrivere  e  del  dipingere.  » 


—  288  — 
rito  quello  dell'illustre  milanese  che  insegnava  col  suo  proprio 
esempio  a  scrivere  naturalmente,  il  che  nessuno  scrittore  di  prosa 
italiana  aveva  fatto  con  tanta  efficacia  prima  di  lui);  ed  il  Man- 
zoni non  pose  mai  sistematicamente  (e  questo  ancora  parmi,  an- 
ziché un  suo  torto,  un  merito  in  lui  grandissimo)  il  problema  di 
questa  innovazione,  non  ci  diede  dottrine  sue  proprie,  non  esempi 
che  servissero  all'alto  scopo.  Fece  un  nobile  tentativo,  e  meritò 
che  altri  lo  reputasse  degno  di  concepire  e  di  eseguire  un  diffi- 
cilissimo divisamento.  »  Io  volli  qui  riferire  tutto  il  giudizio, 
che  mi  è  sembrato  alcun  poco  intemperante,  del  Centofanti  so- 
pra il  Manzoni,  a  dimostrare  anzitutto  come  il  signor  Settem- 
brini non  abbia  detto  nulla  di  nuovo  quando,  più  per  farsi  sin- 
golare che  per  dire  il  vero,  aggrediva  di  recente  da  una  cattedra 
universitaria  italiana  la  immensa  gloria  del  Manzoni  ;  e  poi  per 
confermare  con  un  nuovo  esempio  come  il  guelfo  Centofanti  s' ac- 
costasse anco  questa  volta  al  ghibellino  Niccolini,  al  quale  pure 
la  gloria  crescente  del  Manzoni  sembrava  recar  molestia.  Il 
Centofanti  accusava  di  soverchia  timidità  la  scuola  manzoniana 
quasi  che  unico  intento  di  essa  fosse  il  raccomandare  agli  italiani 
di  sopportare  con  evangelica  rassegnazione  i  tiranni  della  patria, 
mentre  nelle  opere  del  Manzoni  non  vi  è  nulla  che  giustifichi 
una  simile  opinione.  Egli  è  poeta  cristiano,  come  il  Centofanti 
cristiano  filosofo;  ma  l'amor  platonico  o  cristiano  che  dir  si  vo- 
glia degli  uomini,  non  toglie  all'uno  ed  all'altro  italiano  di  sde- 
gnarsi a  tempo  contro  ciò  eh' è  iniquo.  In  ogni  modo  poi  non  fu 
più  passivo  il  Manzoni  del  Centofanti  ed  abbiamo  sicure  prove  che 
il  Manzoni  all'  ingrossar  de'  tempi  si  accese  di  giovanile  entu- 
siasmo e  tradì  il  segreto  pensiero  animatore  di  tutti  i  suoi  scritti, 
mentre  al  Centofanti,  a  torto  forse,  si  fece  carico  da  molti,  perchè 
mostrasse  poi  un  certo  sgomento  a  trattare  quelle  armi  stesse 
ch'egli  aveva  contribuito  ad  affilare,  e  al  sopraggiungere  de' grandi 
commovimenti  della  patria  non  palesasse  queir  animo  stesso  col 
quale  li  aveva  affrettati.  Io  amo  bene  della  vita  politica  del  Cen- 
tofanti ricordare  che,  in  più  occasioni,  prima  del  1848,  egli  aveva 
invocato  il  risorgimento  d' Italia  ;  che  il  Gioberti  passando  per 
Pisa  e  presentando  al  popolo  il  Centofanti  avea  voluto  che  il  po- 
polo gli  gridasse  un  viva  solenne,  come  ad  uomo  ch'era  onore  e 
gloria  della  filosofia  italiana;  che  all' arrivo  del  generale  D'Aspre 
in  Toscana  coi  diciotto  mila  imperiali,  il  Centofanti  insieme  co'  due 
colleghi  nel  triumvirato  pisano,  fu  pronto  il  5  maggio  dell'anno  1849 
a  dimettersi  d'ufficio;  che  il  10  aprile  del  1851,  egli  evocava  co- 


—  289  — 

raggiosamente  il  proprio  sdegno  contro  gli  impostori,  i  gesuiti 
e  i  fautori  tutti  di  un  morto  passato  : 

Volgo  di  spettri  !  e  di  cotanta  speme 
Tu  dannar  di  peccato  ovver  d'  oblio 
Vuoi  la  dolcezza  che  dentro  ci  freme 

Complice  Iddio  ? 
E  me  pur  tenti  con  insidia  accorta 
Usando  r  arti  di  tua  falsa  scuola  ■•? 
E  incarcerata  esser  ti  credi  o  morta 

La  mia  parola  "? 
Anco  a'  miei  piedi  1'  aquila  si  posa 
Con  r  iracondo  fulmine  immortale. 
Che  al  tuo  fetor  si  scosse,  e  procellosa, 

S'  alzò  suir  ale.... 

se  non  che,  dopo  tanto  sdegno,  parrebbe  che  fosse  la  cosa  più 
naturale  il  brandir  l' arme  ;  ed,  invece,  il  Centofanti  con  quella 
rassegnazione  stessa  ch'egli  avea  stimato  un  tempo  di  dover 
condannare    nel    Manzoni,  (1)  .lasciava    cadere   -la    sua   generosa 


(1)  li  signor  A.  Buccellati  che,  di  recente,  lesse  un  lungo  ,  diligente 
ed  onesto  dicorso  nell'Istituto  Lombardo,  intorno  al  progresso  morale, 
civile  e  letterario  nelle  opere  di  Manzoni ,  ripubblicò  in  nota  una  let- 
tera molto  significativa  diretta  dal  Manzoni  a  Giorgio  Briano,  da  Lesa, 
7  ottobre  1848,  per  dich'arare  le  vere  ragioni  che  lo  fecero  rinunziare 
uir  onore  di  rappresentare  come  deputato,  nel  Parlamento  Subalpino,  il 
collegio  di  Arena.  Credo  utile  inserirla  qui  come  prezioso  documento 
biografico  che  aggiunge  molta  luce  ad  una  pagina  del  mio  Primo  Ri- 
cordo : 

«  Lesa,  7  ottobre  1848. 
«  Carissimo  Signore, 

((  La  ringrazio  cordialmente  e  faraigliarmente  (il  coraggio  me  l'ha 
dato  lei,  come  il  desiderio)  d'avermi  colla  sua  gentilissima  lettera  data 
un'occasione  di  ringraziarla  della  benevolenza  che  lo  è  piaciuto  di  di- 
mostrarmi in  una  maniera  così  solenne  e- troppo  onorevole  per  me.  De- 
tratte lo  lodi  che  essa  le  ha  suggetite,  e  che  so  di  non  meritarmi,  ri- 
mane però  la  benevolenza  medesima,  e  di  questa,  ne  prendo  possesso, 
giacche  me  la  posso  godere  senza  illusione  e  senza  superbia,  pensando 
che  anche  le  buono  intenzioni  bastano,  in  certa  maniera,  a  meritarla. 

Ricordi  Biografici  19 


--  290  — 

ode  saffica  pigliando  licenza  da  suoi  lettori  con  questa  strofa  in- 
felice : 

E  benigna  qui  volga  o  ria  stagione, 
L*  alma  sicura  ho  nella  fronte  espressa  ; 
E  pei  morti  a  Novara  e  a  Curtatone 
Vado  alla  Messa. 

Il  Centofanti  tonò  ancora  una  volta  pubblicamente  nell'anno  1857, 
nell'Ateneo  italiano  di  Firenze  in  difesa  della  patria  oppressa,  leg- 
gendovi un  discorso  applauditissimo  che  lo  rese  nuovamente  sospetto 
al  granduca,  intorno  al  processo  della  formazione  delle  nazionalità, 
il  qual  discorso  merita  di  venir  comparato  col  saggio  dettato  dallo 


«  Ma  abbia  pazienza,  non  finisce  qui.  Per  quanto  io  veda  come  possa 
essere  strano,  in  questa  urgenza  e  gravità  di  cose,  il  parlare  di  un 
uomo  inconcludente,  e  il  parlarne  lui  medesimo,  e  a  persona  sicuramente 
occupatissima,  bisogna  che  io  mi  giustiflclii  con  lei,  e  la  convinca  che 
queir  inetto,  contro-  il  quale  ella  insorse  tanto  cortesemente,  fu  scritto 
non  solo  con  verità,  ma  con  proprietà,  rigorosa,  relativamente  (veda 
che  la  mia  modestia  non  è  senza  limiti)  alle  qualità  che  si  richiedono 
in  uomo  pubblico.  Per  non  toccarne  che  una,  ma  essenzialìssiraa,  quel 
senso  pratico  dell'  opportunità,  quel  saper  discernere  il  punto  o  un  punto 
dove  il  desiderabile  s'incontri  col  riuscibile,  e  attenercisi,  sacrificando 
il  primo,  con  rassegnazione  non  solo,  ma  con  fermezza,  fin  dove  è  ne- 
cessario (salvo  il  diritto  s'intende),  è  un  dono  che  mi  manca,  a  un  se- 
gno singolare.  E  per  una  singolarità  opposta,  ma  che  non  è  nemmeno 
un  rimedio,  perchè  riesce,  non  a  temperare,  ma  impedire,  ciò  che  mi 
pare  desiderabile,  mi  guarderei  bene  dal  proporlo,  non  che  dal  soste- 
nerlo. Ardito  finché  si  tratta  di  chiacchierare  tra  amici,  nel  mettere  in 
campo  proposizioni  che  paiono,  e  saranno  paradossi,  e  tenace  non  meno 
nel  difenderle,  tutto  mi  si  fa  dubbioso,  oscuro,  complicato,  quando  le 
parole  possono  condurre  a  una  deliberazione.  Un  utopista  e  un  irreso- 
luto sono  due  soggetti  inutili  per  lo  meno  in  una  riunione  dove  si  parli 
per  concludere;  io  sarei  l'uno  e  l'altro  nello  stesso  tempo. 

«  Il  fattibile  le  più  volte  non  mi  piace,  e  dirò  anzi,  mi  ripugna  ;  ciò 
che  mi  piace,  non  solo  parrebbe  fuor  di  proposito  e  fuor  di  tempo  agli 
altri,  ma  sgomenterebbe  me  medesimo,  quando  si  trattasse  non  di  va- 
gheggiarlo 0  di  lodarlo  semplicemente,  ma  di  promuoverlo  in  effetto, 
d'aver  poi  sulla  coscienza  una  parte  qualunque  delle  conseguenze. 

«  Di  maniera  che,  in  molti  casi,  e  singolarmente  ne' più  importanti, 
il  costrutto  del  mio  parlare  sarebbe  questo:  nego  tutto  e  non  propongo 


—  ^:m  — 

stesso  Centofanti  dieci  anni  innanzi  (1)  intorno  al  Diritto  di  na- 
zionalità in  universale  e  di  quello  della  nazionalità  italica  in 
par^ticolare.  Del  qual  saggio  l'autore  stesso  ci  ragguaglia  nel  breve 
proemio  dal  quale  egli  volle  che  fosse  preceduto.  «  Questo  egli 
scrive,  non  doveva  essere  un  libretto,  ma  tre  o  quattro  articoli 
nel  Giornale  pisano,  L' Italia.  Procedendo  nel  mio  lavoro  sentii 
la  necessità  di  condurre  meco  i  lettori  alle  fonti,  non  da  tutti 
conosciute  bene,  del  diritto,  esponendone  brevemente  quella  dottrina, 
ch'io  credo  essere  l'unica  vera;  di  far  loro  scoprire  nell'idea 
immutabile  di  esso  la  forma  necessaria  e  legittima  dell'  ordine 
pubblico  ;  di  porre  cosi  fondamenta  giuridiche  più  certe  alla  na- 
zionalità dei  popoli,  e  di  preludere  con  la  virtù  di  questa  ragione 
eterna   all'  adempimento    di    que'  destini   eh'  ella  conteneva  fin  da 


nulla.  Chi  desse  un  tal  saggio  di  sé,  è  cosa  evidente  che  anche  i  più 
benevoli  gli  direbbero:  ma  voi  non  siete  un  uomo  pratico,  un  uomo 
Xiosilivo:  come  diamine  non  vi  conoscevate?  dovevate  conoscervi  ;  quando 
è  così,  si  sia  fuori  degli  adari.  E  non  fo  io  bene,  anzi  non  fo  il  mio 
dovere  a  dirmelo  da  me,  e  a  tempo?  Le  par  che  basti?  C'è  dell'altro. 
Il  parlare  stesso  è  per  me  una  difficoltà  insuperabile.  L'uomo  di  cui 
ella  ha  voluto  fUre  un  deputato,  balbetta,  non  solo  con  la  mente  e  in 
senso  traslato,  ma  nel  senso  proprio  e  fisico,  a  segno  che  non  potrebbe 
tentar  di  parlare  senza  mettere  a  cimento  la  gravità  di  qualunque  adu- 
nanza; che  in  una  circostanza  cosi  nuova  e  terribile  per  lui,  non  riu- 
scirebbe certamente  a  più  che  al  tentare. 

«  Queste  confessioni,  ho  potuto  farle  cosi  spiattellatamente  a  lei  in 
privato;  quando  avrò  a  fare  la  mia  lettera  di  scusa  alla  Camera  (giac- 
ché il  Collegio  d'Arena  é  stato  così  crudelmente  buono  per  me),  sarà 
una  faccenda  più  imbrogliata,' giacché  certe  cose  ridicolo,  è  ridicolo  an- 
che il  dirle  espressamente  in  pubblico. 

«  È  una  cosa  dolorosa  e  mortificante  il  trovarsi  inutile  a  una  causa 
che  è  stata  il  sospiro  di  tutta  la  vita,  ma  ipse  fecit  nos  et  non  ipsi 
nos ;  e  non  ci  chiederà  conto  dell'omissione,  se  non  nelle  cose  alle 
quali  ci  ha  data  attitudine.  Io  non  posso  far  altro  che  raccomandar 
questa  causa  a  chi  ha  e  l'ingegno  e  gli  altri  mezzi  necessari  per  aiu- 
tarla efficacemente,  e  farei  con  grande  istanza  questa  raccomandazione 
a  lei,  se  ce  ne  fosse  bisogno. 

«  Gradisca  in  ultimo  l'espresso  attestato  dell'alta  stima  e  dell'affet- 
tuoso ossequio  che  va  sottinteso  in  ogni  verso  di  questa  lunga  lettera. 

«  Alessandro  Manzoni.  » 
(1)  Pisa,  Nistri  1847. 


—  202  — 
principio  nel  suo  chiuso  volume.  Molta  storia,  in  pochi  cenni; 
dottrina,  nuova  in  parte  nei  libri,  antichissima  nelle  ragioni  delle 
cose  :  qua  con  forinole  severe,  là  con  abbondanza  di  affetto  ;  talvolta 
come  professore  avvezzo  ad  insegnare  il  vero,  sempre  come  ita- 
liano che  unicamente  vive  all'  adorata  patria,  e  come  cittadino 
che  sodisfa  ad  un  sacro  dovere.  Aprendo  il  mio  insegnamento 
universitario  nel  decorso  anno  scolastico  1846-47,  trattai  della 
nazionalità  delle  filosofie;  poi  ebbi  opportunità  di  parlare  della 
nazionalità  italica  in  una  lezione,  alla  quale  fu  gran  concorso  di 
ascoltatori,  e  nella  quale  confutai  la  dottrina  del  padre  Taparelli 
su  questo  argomento.  Le  idee  contenute  nel  presente  opuscolo  non 
sono  adunque  fatte  note  al  pubblico  ora  per  la  prima  volta;  quan- 
tunque io  ora  le  pubblichi  in  forma  pili  durevole  e  quasi  in  teatro 
più  vasto.  Della  nazionalità  contro  l'opinione  del  Taparelli  indi  scris- 
se da  pari  suo  l'esimio  Gioberti  {Il  Gesuìla  moderilo)  ;  \o  che  mi 
ha  tenuto  incerto  s'  io  più  dovessi  dare  alle  stampe  quella  mia 
lezione,  stenograficamente  conservatami  per  cura  del  bravo  giovine 
corso  signor  Vincenti.  La  medesimezza  del  tema  ha  fatto  nascere 
nella  mente  del  filosofo  piemontese  e  nella  mia  pensieri  talvolta 
identici.  » 

Qui  evidentemente  il  Centofanti  è  in  un  campo  opposto  a  quello 
de' Gesuiti  ;  dieci  anni  prima  di  quella  sua  lezione,  egli  avea  tut- 
tavia proferita  una  grave  sentenza  contro  la  Riforma  e  sull'  auto- 
rità suprema  del  pontefice  sedente  in  Concilio,  per  la  quale  egli 
dovea  poi  nell'anno  1869  trovarsi  d'accordo  con  quegli  stessi 
Gesuiti  da  lui  combattuti  nel  18i7,  e  predicanti  l' infiillibilità  del 
papa.  Ecco  le  parole  scritte  dal  Centofanti  nell'  anno  1837:  «  Una 
questione  religiosa,  piena  di  destini,  piena  di  sublimi  speranze,  e 
quale  mai  non  trattarono  i  secoli  decorsi,  si  agiterà  nell'Europa. 
Ma  come  conciliare  il  mistero  con  la  ragione,  1'  autorità  umana 
con  la  divina,  il  passato  con  l'avvenire,  i  moderni  tempi  con  loro 
medesimi,  chi  al  Vaticano  non  si  rivolga  ?  Come  non  pensare  al 
catolicesimo,  quando  tutte  le  genti  son  congiunte  da  vincoli  di 
comuni  interessi,  e  ogni  moto  dell'incivilimento  è  macchinazione 
di  umanità;  e  tutto  porta  a  feconda  universalità  di  ragioni  e  di 
affetti  ?  0  Roma  !  città  fatale  ed  eterna  !  città  dei  Cesari  e  dei 
pontefici,  della  libertà  e  civiltà  pagana  e  del  Cristo  !  Certamente 
i  cieli  a  nuove  glorie  ti  serbano.  E  quando  le  mie  ceneri  ripo- 
seranno sotto  umile  pietra,  forsechè  Italia  mia  ed  il  mondo  si 
leveranno  a  una  voce  che  in  ogni  parte  si  spanderà  dai  sette  tuoi 
colli,  e  in  te  le  nazioni  celebreranno  i  comizi  del    religioso    pen- 


—  293  — 

siero,  e  dal  gran  concilio  vedrai  uscire  il  cristianesimo  trionfante 
a  consacrare  la  civiltà  della  terra.  Con  quella  religiosa  avrà  la 
sua  ultima  soluzione  anco  la  questione  politica.  » 

Per  la  discordia  che  si  palesò  quindi  in  Italia  tra  i  fatti  poli- 
tici e  le  idee  guelfe,  i  più  fervidi  scrittori  guelfi,  gli  apostoli  più 
ardenti  del  papato  seppero  ritrarsi  a  tempo  dall'agone  poli- 
tico, e,  per  questo  riserbato  contegno  del  quale  si  dovrebbe  loro 
soltanto  dar  lode  patirono  pure  un  oblio  più  ingiusto,  quello  dei 
servigi  eh'  essi  aveano  reso  agli  studiosi  coi  loro  scritti  e  con 
la  loro  parola.  Io  sento  una  viva  pena  nel  dover  confessare 
come  di  uno  de'più  bei  lavori  del  Centofanti,  il  suo  citato  Pre- 
ludio al  corso  di  lezioni  su  Dante  Alighieri,  dedicato  alla  Patria 
di  Dante  Alighieri  feconda  d'ingegni,  di  memorie  magnifica, 
bellissimo  flore  dell'  italica  civiltà,  e  scritto  particolarmente  pei 
giovani  xooeti  italiani,  V  unico  esemplare  che  giaceva  da  34 
anni  alla  Biblioteca  magliabecchiana,  ora  nazionale  di  Firenze, 
fino  a  questo  giorno,  era  rimasto  intonso,  e  ch'io  primo  ebbi  l'o- 
nore di  tagliarne  le  carte  e  di  leggervi.  Cosi  della  terza  parte  del 
celebre  discorso  del  Centofanti  sopra  la  letteratura  greca  le  carte 
neir  esemplare  della  Biblioteca  nazionale  erano,  pur  troppo,  in- 
tonse, prima  di  oggi.  E  pure  io  non  so  d'alcun  professore  di  let- 
tere e  di  filosofia,  o  d'alcuno  scrittore  che  siasi  nel  secol  nostro 
comunicato  ai  giovani  con  affetto  più  eloquente,  con  sapienza  più 
affabile.  Io  ho  parlato  con  parecchi  valentuomini  che  furono  già 
discepoli  al  Centofanti,  e  tutti  me  ne  ragionarono  con  sentimento 
di  profonda  ammirazione.  Vi  era  qualche  cosa  di  giovanile  ne'leg- 
giadri  impeti  della  sua  gagliarda  eloquenza;  negli  stessi  suoi  anni 
cadenti  egli  serba  ancora  gran  parte  di  quel  fuoco  gentile  che 
comunicava  ai  giovani  nel  pieno  vigor  della  vita.  Gli  intervenuti 
alle  feste  pisane  nel  terzo  centenario  della  nascita  di  Galileo  Ga- 
lilei nell'anno  1864  ricordano  sempre  le  parole  vivaci  con  cui  l'il- 
lustre professore  chiudeva  allora  il  suo  discorso  intorno  a  Gali- 
lei e  alla  Inquisizione:  «  La  coscienza  dell'umanità,  gridava  l'uomo 
venerando,  ha  pronunziato  il  suo  decreto  contro  quel  tribunale  di 
sangue.  La  terra  si  muove;  la  legge  del  progresso  ci  è  guida;  e 
il  nome  e  l'esempio  di  Galileo  Galilei  ci  sono  auspicio  grande  e 
conforto  ad  accrescere  le  glorie  della  risorta  Italia,  e  a  compiere 
le  più  difiicili  imprese.  »  Peccato  che  la  vista  gli  si  sia  ora  per 
modo  offuscata,  ch'egli  non  possa  più  attendere  alle  lettere  ed  alla 
filosofia  con  quella  solerzia  ch'ò  sempre  ancora  nel  suo  valido  e 
potente,  intelletto. 


—  594  — 

Silvestro  Centofanti  è  nato  l'S  dicembre  clell'anno  1794,  in  quella 
stessa  città  di  Pisa  che  fu  poi  principal  teatro  della  sua  gloria. 
Alla  sua  Pisa  volava  pure  con  desiderio  il  pensiero  del  Cento- 
fanti  anco  quando  egli  avea  dimora  in  Firenze,  onde,  nel  1837, 
egli  ne  scriveva  cosi:  «  Non  iscorgi  là  oltre  questi  gioghi  un  iso- 
lato monte,  che  rimpicciolisce  e  ti  si  vela  nella  distanza?  È  il 
monte  Pisano!  Verso  il  quale,  o  giovane,  quando  il  cadente  sole 
mi  vibra  incontro  gli  allungati  suoi  raggi  io  fisamente  riguardo, 
e  spesso  in  un  dolce  e  melanconico  pensamento  mi  arresto.  Sotto 
quel  monte  apersi  nascendo  i  miei  occhi  a  questo  italiano  sole  : 
là  riposano  le  benedette  ossa  dell'amato  mio  genitore  (Giuseppe). 
E  una  cara  lusinga  pur  mi  consola  che  in  quella  illustre  città, 
dov'io  studioso  giovinetto  colsi  i  primi  fiori  sul  difficile  cammino 
dell'esistenza,  e  piansi  le  mille  volte  vaneggiando  fra  i  sublimi 
fantasmi  di  gloria,  qualche  gentile  amico  mi  ricordi  seco  stesso 
con  desiderio!  Che  un'anima  che  mi  fece  più  belle  le  speranze 
dell'età  giovanile  e  tanta  poesia  mi  creò  nel  cuore  e  nella  mente 
con  un  sorriso  di  amore,  che  tollerò  le  furie  delle  mie  ardenti 
passioni,  e  le  placò  con  virtuosa  dolcezza,  non  mi  abbia  al  tutto 
dimenticato  I  Che  nel  silenzio  delle  estive  notti,  discorrendo  i 
giorni  vivuti  e  meditando  i  futuri,  ella,  quando  più  si  avvicina 
di  sentimenti  a  quel  Dio  che  la  formò  sì  pietosa,  ritrovi  anco  me 
nel  suo  petto!  »  Primi  maestri  gli  erano  stati  i  sacerdoti  Giu- 
liano Giusti,  V.  Pellegrini  e  P.  Morosi,  poi  in  letteratura  il  Car- 
della,  in  diritto  il  Carmignani  e  il  Guastini,  in  ebraico  ed  in  greco 
il  proprio  zio  Cesare  Malanima,  da  cui  probabilmente  egli  derivò 
pure,  con  la  molta  sapienza  di  greco,  quell'amore  infelice  di 
comparazioni  fra  le  assonanze  ebraiche  e  le  elleniche  delle  quali 
è  troppo  gran  copia  nel  bel  libro  sulla  Letteratura  greca,  che 
ne  ricevette  alcun  detrimento.  Addottoratosi  in  legge  nella  prima 
gioventù,  venne  in  Firenze  nel  1822,  e  vi  rimase  quasi  vent'anni, 
intento,  sovra  tutto,  con  Guglielmo  Libri  e  Vincenzo  Antinori  allo 
studio  de'codici  palatini  e  al  riordinamento  degli  Archivii  Medi- 
cei. Nell'anno  1837,  Silvestro  Centofanti  imprese  un  corso  di  let- 
ture pubbliche  sopra  la  Divina  Commedia,  facendogli  andare  in- 
nanzi quel  Preludio  più  volte  citato,  mirabile  per  varietà  di 
affetti,  altezza  di  pensieri,  vastità  di  dottrina  e  poetica  eloquenza. 
Alla  prima  lezione  si  notavano,  fra  gli  altri  intervenuti,  Gino 
Capponi,  Giambattista  Niccolini,  Giuseppe  Barbieri,  Francesco 
Puccinotti,  Lorenzo  Mancini,  il  Sismondi,  e  una  gran  folla  di 
giovani  che  erano   accorsi  a  raccogliere    le   inspirate    parole   del 


—  295  — 

novo  oratore,  il  quale  rimembrando  forse  1'  ospitalità  del  pro- 
fessore Melchior  Cesarotti,  della  quale  il  corcirese  Mario  Pieri 
non  cessava  di  lodarsi  presso  i  suoi  amici  di  Firenze,  al  giovane 
italiano  rivolgevasi  pubblicamente  con  questo  caldo  e  confidente 
invito  :  «  A  te,  o  giovane,  concedano  largamente  i  cieli  quel 
che  a  me  diedero  scarsi,  o  non  senza  provvidenza  negarono: 
conservino  alto  e  invincibile  quel  che  a  me  ancora  ferve  costan- 
temente nel  petto;  il  libero  amore  del  vero,  l'incorrotto  sentimento 
del  diritto,  la  santissima  carità  della  patria.  E,  ove  studio  e  de- 
siderio di  questa  nobile  Italia  ti  conduca  nella  città  in  cui  nacque 
Dante  Alighieri,  su  i  fiorentini  colli  è  il  quieto  albergo,  da  me 
scelto  alla  pace  del  mio  viver  solingo.  E  qui  potrebbe  esserti 
scorta  non  la  superba  vaghezza  delle  rare  ed  illustri  cose,  ma  di 
quei  primi  e  semplici  affetti  che  son  dolcezza  ai  magnanimi.  AI 
di  fuori  troverai  villa  di  rustico  aspetto;  dentro,  ingenui  volti  e 
ridenti,  e  in  festa  di  una  ospitalità  fratellevole.  Vedrai  una  vene- 
randa madre,  a  cui  la  schietta  bontà  nativa  è  ornamento  che  ba- 
sta (Rosalia  Zucchini,  madre  al  Centofanti),  due  buone  ed  aflTet- 
tuose  sorelle,  un  tenero  giovinetto  (Leopoldo  Tanfani),  in  cui  vor- 
rei la  miglior  parte  di  me,  vivendo,  trasfondere,  e  lasciar,  mo- 
rendo, il  continuatore  della  scientifica  e  letteraria  mia  vita.  Sede- 
rai a  mensa  frugale  nella  cara  espansione  degli  alterni  discorsi, 
ove  ciascuno  è  lieto  e  contento  in  una  comune  soddisfazione.  Alla 
quale  se  mancherà  la  gioia  di  un  volto  desiderato  (il  fratello  Vin- 
cenzo, professore  d'ostetricia  a  Siena)  in  questo  desiderio  istesso 
sentiremo  il  piacere  della  persona,  e  nel  caro  nome  cercheremo 
ragionando  un  ristoro  a  quella  mancanza.  E  la  sera  udirai  le  voci 
della  religiosa  preghiera.  Accanto  alla  villa  siede  in  breve  giar- 
dino una  cappelletta;  e  agli  odorosi  efiìuvii  dei  fiori  ben  si  con- 
fondono neir  aria  le  preci  e  i  sospiri  dell'  uomo,  e  volano,  inno 
di  terrestre  benedizione,  all'Eterno.  Ma  il  tempio  veracemente 
aperto  ai  bisogni  arcani  della  mia  anima  è  l' immensità  beata 
di  questo  cielo  d' Italia.  »  Io  so  che  queste  calde  parole  parranno 
a  molti  assai  troppo  ingenue,  e  che  ogni  confidenza  fatta,  senza 
bisogno,  al  pubblico,  riesce  a  troppi  ridevole.  Ma  io  so  ancora 
che  i  soli  a  riderne  son  quelli  che  hanno  inaridita  nel  proprio 
cuore  la  fonte  di  qualsiasi  affetto,  e  che  provano  sempre  una 
certa  molestia  quando  altri  esprima  affetti  de'  quali  essi  non  pos- 
sono pili  sentirsi  o  non  furono  mai  capaci.  A  me  piace  invece  nel 
Centofanti  questo  giovanile  abbandono,  questo  sfogo  oblioso  di  una 
piena  di  sentimenti  che  ha  bisogno  di  espandersi  e  comunicarsi  ; 


—  200  — 
ed  io  vorrei  che  i  giovani  imitassero  più  presto  questo  eccesso 
di  affettuosa  espansione,  che  1'  altro  brutto  eccesso  di  una  politica 
circospezione,  di  una  fine  avvedutezza,  di  un'apatica  freddezza  in 
ogni  cosa.  Il  fuoco  può  bruciare,  ma  il  "suo  principale  ufBcio  é 
quello  di  scaldare  e  di  alimentare  la  vita;  il  ghiaccio  invece  è  la 
morte  e  si  risolve  in  pigri  umori  infecondi. 

Quando  il  Centofanti  intraprese  in  Firenze  il  suo  corso  di  lezioni 
sopra  r  Allighleri  e  la  Dwina  Coìmnedla,  avea  già  con  una  sua 
tragedia  intitolata,  come  quella  di  Sofocle,  da  Edipo  Re  (1)  acquistata 
buona  nominanza  come  poeta;  le  lezioni  su  Dante  governate  da 
un'  alta  filosofia  letteraria  gli  diedero  credito  come  professore  ; 
per  il  che,  dopo  alcuni  contrasti,  riordinandosi  1'  Ateneo  Pisano, 
egli  venne  nel  1841  eletto  alla  cattedra  di  storia  della  filosofia. 
Nelle  lettere  che  il  Niccolini  scrisse  al  Centofanti  in  quegli  anni, 
noi  abbiamo  la  più  esatta  notizia  di  quanto  risguarda  la  vita  let- 
teraria del  Centofanti,  in  que'  primi  anni  del  suo  insegnamento 
universitario.  L'  undici  novembre  del  1841 ,  il  Niccolini  scrive  da 
Popolesco  al  Centofanti  tuttora  in  Firenze  :  «  Mi  ha  contristato 
moltissimo  1'  udire  dalla  vostra  lettera  non  liete  novelle  sul  vo- 
stro affare,  e  non  so  come  si  osi  proporvi  una  viltà,  quasi  fosse 
piccola  ingiuria  il  negarvi  giustizia;  alla  cattedra  fondata  dal  Go- 
verno avete  il  migliore  dei  diritti,  quello  che  danno  gli  studi  e 
r  ingegno.  Non  si  è  dubitato  della  capacità  di  persone  senza  ta- 
lenti e  dottrina,  di  tanta  miseria  intellettuale  da  fargli  ridicoli 
anche  al  bestiame  che  nutrono  le  mangiatoie  dei  Seminari,  e  si 
ardisce  escludervi  dall'Università,  ove  ragliano  timidamente  que- 


(1)  Firenze,  Formigli  1829.  '^eW  Antologia  di  quell'anno  medesimo, 
Niccolò  Tommaseo,  più  giovane  del  Centofanti  di  parecchi  anni,  ne  scri- 
veva così:  «  Moltissimo  noi  dobbiamo  aspettare  da  questo  giovane  in- 
gegno, s'  egli  vorrà,  come  saviamente  promette,  appigliarsi  d'  ora  in- 
nanzi a  soggetti  più  prossimi  alle  nostre  idee,  a'  nostri  costumi;  e  non 
si  esercitar  più,  per  modestia  soverchia,  sopra  argomenti  trattati  da 
Sofocle.  »  Quest'ultima  osservazione  è  un  po'  ambigua;  e  se  il  Cento- 
fanti,  scelse  di  poi  in  una  sua  trilogia  tuttora  inedita,  la  Sforziade, 
secondo  il  consiglio  del  critico,  un  tema  nazionale,  non  sembra  aver 
avuto  mai  una  singoiar  simpatia  pel  suo  primo  critico,  se  dobbiamo 
argomentarne  da  una  certa  lettera  intemperante  con  la  quale  il  Niccolini 
rispondeva  al  Centofanti  nell'agosto  del  1844.  --  Oltre  alla  Sfor:mde  il  Cen- 
tofanti conserva  presso  di  sé  gran  copia  di  scritti  inediti,  de' quali 
si  desidera  la  pubblicazione;  tra  questi,  per  quanto  intendo,  le  proprie 
Memorie. 


—  207  — 
sti  inetti  buffoni  in  abito  talare.  »  Alfine  il  Centofanti  veniva 
eletto,  e  la  sua  prolusione  alla  Storia  dei  sistemi  della  filosofìa  era 
accolta  con  entusiastici  evviva  al  nuovo  professore,  cui  veniva 
offerta  una  corona  d'  alloro  ;  al  qual  atto  indicando  la  statua  di 
Galileo,  egli  soggiungeva  con  la  modestia  dell'  uomo  grande  :  «  A 
me  no,  ponetela  sul  capo  del  rigeneratore  della  filosofia  moderna. 
Egli  è  il  primo  filosofo  che  abbia  il  mondo.  »  E  il  due  maggio 
48i2,  il  Niccolini  scriveva  al  suo  acclamato  amico  di  Pisa:  «  L'esito 
della  vostra  prolusione  è  stato  quale  me  ne  dava  certezza  il  vo- 
stro ingegno,  e  vi  desiderava  il  mio  cuore  ;  ma  quel  che  più  mi 
consola  è  1'  udire  dalla  lettera  che  avete  scritta  al  Capponi  che, 
non  ponendo  mente  agli  emuli,  vi  occuperete  interamente  del- 
l' argomento  :  correndo  quest'  Oceano ,  lascerete  a  schiamazzar 
sulla  riva  questi  miserabili,  e  nella  vita  dell'intelletto  piena  d'a- 
more e  di  luce  vi  dimenticherete  quasi  che  esistano;  così  l'Italia 
avrà  un  libro  pari  all'  altezza  del  subietto,  e  a  quella  della  vo- 
stra mente.  Ricevuto  il  discorso  stampato,  il  9  maggio  1842,  il 
Niccolini  torna  a  scrivere  al  Centofanti.  «  Ho  letto  la  vostra  pro- 
lusione con  quella  cura  che  alla  grandezza  dell'argomento  e  del- 
l' ingegno  che  prese  a  trattarla  è  richiesta.  L'  esordio  non  può 
essere  più  bello  e  caldo  d'  affetti  virili  ;  il  rimanente  è  con  sa- 
pienza ordinato,  serbando  i  limiti  in  tutto,  lo  che  è  segno  di 
vera  forza.  Insomma  tutto  il  discorso  ha  la  severa  bellezza  del 
vestibolo  d'  un  nuovo  tempio  che  sorge  alla  gloria  del  nome  ita- 
liano. Gli  amici  vi  salutano  ;  vi  abbraccia  coli'  anima  il  vostro 
Niccolini.  —  Il  Capponi  consente  nella  mia  opinione,  e  vuole 
eh'  io  vi  dica  mille  cose   di  riverenza  e   d'  affetto.  » 

E  in  quella  alta  opinione,  intorno  al  valore  del  Centofanti  come 
sovrano  e  inspirato  filosofo  della  storia  e  della  letteratura  conveni- 
vano quanti  italiani  e  stranieri  si  recavano  in  quegli  anni  a  Pisa 
col  solo  scopo  di  ascoltarvi  l'illustre  cattedratico,  "^q' Rivolgimenti 
italiani,  il  Gualterio  lasciò  scritto  che  il  Centofanti  era  «  l'idolo 
della  gioventù  e  la  gloria  maggiore  dell'Ateneo  pisano,»  che  «  il 
Montanelli  medesimo  riveriva  in  lui  più  il  maestro  che  l'amico  » 
e  che  «  all'influsso  delle  lezioni  sue,  al  fascino  della  sua  eloquenza 
devesi  in  modo  principale  l'incremento  della  opinione  liberale  nella 
gioventù  toscana  »  Pubblicatosi  il  saggio  del  Centofanti  Sulla  vita 
e  le  opere  di  Vittorio  Alfieri,  il  Niccolini,  nel  gennaio  del  1843 
scriveva  all'autore  di  esso  :  «  Mi  sembra  un  lavoro  pieno  di  ma- 
schia e  sincera  filosofia,  e  dettato  in  uno  stile  veramente  splen- 
dido ed  efiicace.  Ridetevi  di  quelli  che  vi   rimproverano  d'avervi 


—  298  — 
messo,  com'essi  dicono,  troppa  metafisica.  Nulla  può  ordinarsi  ed 
intendersi  pur  nella  storia  della  letteratura  senza  la  guida  della 
ragione.  Ma  questa  piscis  non  est  omnium,  e  nell'Italia,  sia  detto 
fra  noi,  vi  è  una  gran  miseria  intellettuale.  Seguitate  a  onorare 
la  patria  e  il  secolo   coi   vostri  scritti.  » 

Più  diffusamente  e  con  maggior  calore  torna  a  scrivergli 
il  Niccolini,  dopo  pubblicata  la  seconda  parte  del  saggio,  nel  lu- 
glio di  quell'anno  medesimo  e  conchiude  :  «  Io  sarei  infinito  nello 
scrivere,  se  volessi  notare  in  questa  lettera  tutte  le  cose  che  mi 
piacciono  nel  vostro  discorso.  Se  nel  secolo  non  fosse  un  superbo 
fastidio  d'ogni  cosa,  non  si  dovrebbe  da  qui  innanzi  fare  un'edi- 
zione delle  opere  dell'Alfieri  senza  che  fosse  preceduta  dal  vostro 
mirabile  saggio,  nel  quale  non  è  il  farfallesco  volo  d'uno  spirito 
superficiale,  ma  la  filosofìa  con  passi  tardi;  vere  incessu  paiuit 
Dea  »  Il  1"  marzo  1814,  il  Niccolini  scrive  al  Centofanti  d'avere 
letto  ed  ammirato  le  due  lezioni  di  lui  sul  platonismo  in  Italia; 
il  21  maggio  lo  prega,  anco  a  nome  degli  amici,  di  astenersi  dalle 
lezioni,  per  curare  soltanto  la  minacciata  salute;  il  1"  aprile  1846 
gli  fa  cortesi  premure,  a  nome  dell'editore  Le  Mounier  affinchè 
termini  il  suo  importante  saggio  sopra  la  vita  e  le  opere  di  Plu- 
tarco. E  in  questi  saggi  di  filosofia  letteraria  io  non  conosco 
scrittore  italiano  che  abbia  arrivato  per  amabile  eloquenza,  e  per 
altezza  di  concetti  il  Centofanti.  Talora  i  fatti  stessi  non  gli  si 
presentano  in  tutta  la  loro  reale  evidenza  e  però  alcuni  di  essi 
sopra  i  quali  egli  fonda  una  parte  del  suo  sistema  e  delle  sue 
dottrine  meritano  ancora  di  venire  discussi.  Ma,  quando  la 
moderna  critica  accetti  il  fatto  storico,  raro  accade  che  il  lu- 
cido e  vivo  ingegno  del  Centofanti  non  ne  sorprenda  il  suo  aspetto 
più  luminoso.  Se  pertanto  la  critica  di  lui  possa  talora  aver  er- 
rato ne'particolari,  ne'generali  apparve  per  lo  più  una  divinatrice 
sapiente,    aperse  nuovi   orizzonti    e    suscitò    fecondi    entusiasmi. 

Tale  mi  sembra  pure  il  pregio  principale  del  bel  libro  premesso 
alla  Raccolta  de'poeti  greci  tradotti,  ch'è  una  vera  storia  della  lette- 
ratura greca  da'suoi  principii  fino  alla  caduta  di  Costantinopoli, 
lumeggiata  a  grandi  tratti,  ma  ove  si  getta  pur  molta  luce  in 
certi  periodi  oscuri  o  meno  studiati  dalla  letteratura  ellenica,  pre- 
zioso lavoro  di  sintesi  storica  e  filosofica,  che  si  rivela  come 
frutto  di  un'analisi  lunga  e  laboriosa;  tal  pregio  finalmente  os- 
servo ancora  nel  saggio  critico  su  Pitagora,  scritto,  per  invito 
di  Niccolò  Puccini,  che  avea  provveduto  ad  innalzare  nella 
sua   sontuosa  villa  presso    Pistoia   un    tempietto    in  onore    dello 


—  290  — 
antico  fondatore  della  filosofia  italica.  Il  Centofanti  entra  in 
mezzo  animoso  e  pur  temperato,  a  comporre,  ove  si  possa,  la  lite 
fra  i  sostenitori  del  mito  di  Pitagora  ed  i  suoi  avversarli,  e  nel 
far  la  critica  di  entrambi  i  sistemi  dice  spesso  cose  vere  e  profonde; 
conchiude  poi  come  conchiuderò  pur  io,  avvertendo  il  giovine  ita- 
liano di  por  mente  allo  stupendo  motto  inscritto  sul  frontone  del 
tempio  di  Pitagora,  dove,  con  la  sapienza  pitagorica  sembra  pure  es 
sersi  voluto  riassumere  l'ideale  della  vita  dell'illustre  filosofo  pisano  : 
ALETHEUEiN  KAi  EUERGETEiN,  dire  ìl  vero  ed  operare  il  lene  (1). 


(1)  Dopo  i  suoi  trionfi  come  professore,  che  terminarono  con  I'  anno 
1848,  il  Centofanti  non  ne  potè  aver  altri  maggiori;  prese  parte  alle  cose 
politiche  degli  anni  1848-49;  tornato  il  Granduca,  gli  fu  soppressa  la 
cattedra,  ed  il  Centofanti  si  trovò  eletto  più  a  motivo  d  onore  che  d'ufficio, 
ispettore  delle  biblioteche  toscane;  dopo  il  27  aprile  1859,  egli  veniva 
chiamato  a  far  parte  della  Consulta  di  Stato,  poi  eletto  presidente  della 
Sezione  di  filosofìa,  e  filologia  dell'Istituto  di  studii  superiori,  e  final- 
mente Senatore  del  Regno  e  Rettore    dell'Università  di  Pisa. 


XVIII. 


MICHELANGELO  CAETANL 


•  L'Italia  nostra  venera  quattro  ciechi  veggenti.  Di  Gino  Capponi, 
di  Niccolò  Tommaseo  e  di  Silvestro  Centofanti  ho  già  fatto  breve 
ricordo.  Restami  a  rammentare  Michelangelo  Caetani,  Duca  di 
Sermoneta.  Vi  sono  altri  duchi  in  Italia;  ma  di  quelli  nessuno 
mai  scriverà;  io  non  sono  invece  il  primo,  biografo  del  Sermo- 
neta. Parecchi  giornali  politici,  illustrati  ed  artistici  m'hanno  già 
preceduto  nel  dir  le  lodi  del  primo  cittadino  di  Roma.  Non  vedo 
tuttavia  che  alcuno  fìnqui  abbia  tenuto  il  debito  conto  dell'uomo 
di  lettere,  e  l'opportunità  che  mi  si  offre  di  ragionare  particolar- 
mente intorno  allo  scrittore  coltissimo,  mi  offre  pure  l'occasione 
di  toccare  novellamente  degli  altri  meriti  singolari  d'un  patrizio, 
nell'età  nostra,  per  più  riguardi,  insigne. 

Don  Michelangelo  Caetani  è,  in  verità,  uno  de'  patrizi!  più  ti- 
tolati d'Italia;  al  tempo  stesso,  principe,  duca,  marchese,  barone, 
grande  di  Spagna  di  prima  classe  e,  da  due  anni  in  qua,  collare 
del  supremo  ordine  dell'Annunziata,  nella  gerarchia  araldica  tiene 
un  posto  naturalmente  molto  invidiato  dagli  affacendati  sollecita- 
tori di  vanità  fastose.  Ma  tanto  splendore,  tanta  pompa  di  titoli 
mi  dice  quasi  che  nulla  intorno  ai  meriti  proprii  del  nobile  duca  ; 
io  godo  invece  nel  poter  notare  come  nel  Caetani  sembri  passata 
intatta  l'anima  d'un  grande  Quirite  antico;  né  l'anima  soltanto, 
ma,  direi  pure,  il  contegno  e  l'aspetto.  Ne'  severi  ed  armonici  li- 
neamenti del  maschio  suo  volto  si  direbbe  risplendere  tutta  l'an- 
tica maestà  latina;  nella  brevità  serrata,  viva,  potente  e  non  di 
rado  sentenziosa  ed  epigrammatica  del  suo  linguaggio  si  è  spesso 
tentati  d'indovinare  l'antico  oratore  romano. 


—  301  — 
Nato  dal  principe  Enrico,  il  20  marzo  1804,  Michelangelo  Cae- 
tani  visse  ritiratissimo  fra  gli  studi  artistici  e  letterari!  i  primi 
anni  della  sua  vita.  Il  professore  Emilio  Sarti,  uomo  di  lettere 
eruditissimo  nella  lingua  greca,  gli  fu,  per  tempo,  compagno  ed 
amico;  e,  giovinetto  ancora,  il  Caetani.  s'innamorò  per  modo  della 
Divina  Commedia,  che  dal  sacro  volume  trasse  poi,  nella  sua  vita 
di  studioso,  le  supreme  consolazioni  come  pure  la  fama  di  letterato 
egregio.  Incominciò  egli  col  leggerlo,  continuò  con  l'intenderlo, 
finì  col  farlo  intendere  agli  altri,  in  quello  stesso  modo  naturale 
col  quale  l'aveva  inteso  egli  stesso,  senza  altra  guida  che  quella 
d'un  ingegno  penetrante,  e  di  quel  metodo  d'interpretazione  che 
il  padre  Giuliani  ordinò  poi  in  un  sistema  sapiente  e  popolare,  spie- 
gando cioè  Dante  con  Dante.  Tre  notevoli  saggi  egli  pubblicò,  quale 
interprete  di  alcuni  passi  speciali  della  Divina  Commedia,  uno  per 
ciascuna  cantica,  cioè  dell'S"  e  9°  canto  ^leWIìiferno,  della  MateUla 
nel  28"  canto  del  Purgatorio,  e  dell'imagine  dell'aquila  nel  18''  canto 
del  Paradiso.  Mandando  due  di  queste  memorie  il  13  marzo  1857 
al  prof.  Giuliani  in  Genova,  il  Caetani  scrivevagli  nella  forma  se- 
guente: «  In  esse  rinverrà  come  da  me  siasi  sempre  proceduto 
nella  interpretazione  del  Poema  sagro  con  quei  giusti  precetti  da 
Lei  nel  suo  Libro  valorosamente  dimostrati  necessari.  Il  lavoro 
mio,  si  nell'uno  che  nell'altro  scritto,  (com'Ella  potrà  tosto  cono- 
scere, nel  riguardarlo)  non  è  fatto  per  mia  gloria,  nulla,  o  quasi 
nulla  essendovi  di  mio,  ma  per  gloria  e  intelligenza  maggiore  di 
Dante,  che  in  tutto  il  corso  di  mia  vita  ho  cercato  rendere,  por 
quanto  è  stato  in  mio  potere,  più  conosciuto  e  meglio  inteso  ». 
Il  discorso  del  Caetani  sull'ottavo  e  sul  nono  canto  dell'Inferno, 
ove  egli  tenta  ingegnosamente  di  mostrare  come  l'Angelo  il  quale 
forza  i  Demoni  a  lasciar  entrar  Dante  nella  città  di  Dite,  non  sia 
altrimenti  un  Angelo  ma  Enea,  ebbe  gli  onori  di  una  traduzione 
tedesca;  nel  discorso  sulla  Matelda,  il  Caetani  raffigura  sotto  quel 
nome  non  già  la  celebre  castellana  di  Canossa,  ma  la  santa  Ma- 
tilde de'  conti  d'Hingelheim,  donna  d'Arrigo  l'uccellatore  e  madre 
d'Ottone  il  Grande  (1);  nel  breve,  ma  ingegnoso  e  convincente, 
scritto  sopra  l'immagine  dell'aquila  nel  Paradiso  di  Dante,  si  di- 
mostra finalmente  come  nelle  stelle  di  Giove,  i  principi  beati,  fer- 


(1)  Veggasi  pure  intorno  a  tale  questione,  per  l'opinione  contraria,  un 
dialogo  di  Salvatore  Betti:  La  Matelda  della  Divina  Commedia,  Roma, 
tip.  delie  Belle  Arti,  1858.  (Estratto  dal  Giornale  Arcadico). 


—  302  — 

mandosi  sopra  la  lettera  emme,  rappresentata  con  la  grafia  del  se- 
colo XIII,  trasformino  la  lettera  in  un'aquila  simbolo  d'impero  e 
di  quella  monarchia  dall'Alighieri  augurata.  Ma  il  maggior  ser- 
vigio per  lo  studio  della  Divina  Commedia  lo  rese  il  Caetani,  col 
magnifìco  suo  libro  intitolato:  La  materia  della  Divina  Com- 
media di  Dante  Allighieri  dichiarata  in  sei  tavole,  della  quale 
si  fecero  finquì  due  edizioni  romane,  la  prima  nel  1855,  la  seconda 
nel  1872.  La  seconda  edizione  reca  per  epigrafe  questa  terzina 
di  Dante  : 

0  abbondante  grazia,  ond'io  presunsi 
Ficcar  lo  viso  per  la  luce  eterna 
Tanto  che  la  veduta  vi  consunsi  I 

II  Caetani  perdette,  per  intiero,  la  vista  nell'anno  1865.  —  Nel 
prologo  del  libro  si  espone  con  efficace  brevità  l'allegoria  morale 
che  si  può  ricavare  dalla  Divina  Co^Jimed/a,  seguendo  le  dottrine 
professate  dal  sommo  poeta  nelle  varie  sue  opere.  Segue  una  di- 
ligente esposizione  delle  sei  tavole;  una  tavola  descrive  l'universo, 
secondo  che  viene  raffigurato  dal  poeta,  tre  tavole  ci  rappresen- 
tano l'inferno  dantesco,  una  tavola  il  purgatorio,  e  una  tavola  il 
paradiso.  Conchiude  l'autore  la  parte  commentizia  del  libro,  con 
l'indicazione  del  senso  allegorico  delle  singole  principali  figure 
dantesche,  lavoro  che,  nella  sua  brevità,  si  può  considerare  come 
una  vera  e  completa  introduzione  allo  studio  della  Divina  Coìti- 
media,  per  quanto  ne  risguarda  il  supremo  intento  morale  ed 
ideale,  o  filosofico.  Il  merito  dell'interprete  in  questo  stupendo  la- 
voro del  Caetani  è  il  principale  ;  ma  non  è  poi  da  trascurarsi  il 
merito  dell'artista  che  ha  disegnato  con  mirabile  finitezza  queste 
tavole. 

Il  disegnatore  fu  il  Caetani  stesso,  valentissitjio  cultore  delle 
arti  del  disegno.  Come  la  penna,  il  Caetani  trattò,  con  grazia,  la 
matita,  il  pennello  e  lo  scalpello.  Fu  particolarmente  ammirata, 
fra  gli  altri  suoi  lavori  di  scoltura,  una  statuetta  di  marmo,  rap- 
presentante un  amore  legato  ad  un  tronco,  con  gli  occhi  rivolti 
al  cielo,  quasi  dolente  di  essere  stato  fatto  prigione  ;  intimo  amico 
e  caldo  ammiratore  del  grande  scultore  Pietro  Tenerani,  e  uomo 
egli  stesso  di  alto  e  versatile  ingegno,  si  comprende  agevolmente 
com'egli  potesse  anco  nell'arte  scultoria  lasciare  buon  nome  di 
sé.  Lo  stesso  affetto  per  1'  arte  mosse  il  Caetani  a  disegnar  molto 
in  oreficeria,  per  rialzare  un'arte  già  gloriosa  in  Italia,  e  per 
venire  in  aiuto  al  suo  amico,  il  gioielliere  Fortunato  Pio  Castel- 


-  303  - 
lani  tutto  inttìnto  al  risorgimento  dell'  arte  del  Cellini.  Per  con- 
siglio e  guida  del  duca  di  Sermoneta,  il  Castellani  tentò  primo 
quelle  imitazioni  de'  gioielli  greci  ed  etruschi,  che  gli  diedero 
nominanza  europea.  «  Noi  siamo  lieti,  scriveva  il  signor  G.  Giuc- 
ci,  nella  Roma  Artistica  dell'  anno  1871,  di  salutare  in  questo 
nobile  concittadino  il  restauratore  dell'arte,  il  maestro  dei  nostri 
migliori  Orafi,  fra  i  quali  primeggia  il  nome  di  Fortunato  Castel- 
lani, mancato  ai  vivi,  e  del  di  lui  figlio  Augusto,  che  segue  con 
lode  le  onorate  orme  del  padre.  Dalla  loro  ofiicina  nel  1859  usci- 
rono le  due  mirabili  spade  d'  onore,  dopo  la  guerra  d' Italia  dai 
patrioti  romani  offerte  a  Napoleone  e  al  Re  Vittorio  Emmanuele. 
Fu  il  Duca  di  Sermoneta,  che  ne  ideò  il  modello,  fu  il  Castella- 
ni, che  r  eseguì  in  oro  con  preziose  gemme  incastonate.  » 

Né  qui  finiscono  le  attitudini  svariate  dal  più  nobile  fra  i  nobili 
romani.  Che,  per  tacere  delia  sua  qualità  privatissima  di  eccellente 
amministratore  del  suo  patrimonio  privato,  che  lo  raccomanda  come, 
pubblico  amministratore ,  risuonano  unanimi  in  Roma  le  lodi  at- 
tribuite al  Duca  di  Sermoneta,  come  a  comandante  del  Corpo  dei 
Vigili,  nel  quale  ufi:lcio  sedendo  per  trent'anni,  egli  provvide  effica- 
cemente ad  una  buona  istruzione  de'  militi,  e  ad  ottener  le  più 
perfette  macchine  idrauliche  per  l'  estinzione  degli  incendi.  I  suoi 
sensi  liberali  son  finalmente  noti  non  pure  a  Roma  ma  all'  Italia 
tutta,  poiché  non  s'ignora  com'egli,  qual  presidente  della  Commissio- 
ne Romana,  presentasse  al  Re  d'Italia  il  plebiscito  del  popolo  di  Roma, 
come  il  popolo  di  Roma  lo  eleggesse  suo  deputato  e,  come,  infine, 
qual  deputato,  come  pure  nel  rinunciare  all'  onore  di  sedere  in 
Parlamento,  egli  abbia  dato  prove  manifeste  d'animo  veramente 
romano,  risoluto  ed  indipendente.  Ma  non  erano  questi  sentimenti 
egualmente  noti  all'Italia  prima  del  1870.  Perciò  a  rendersene 
persuasi  converrà  farsi  raccontare  dai  romani  stessi  quanta  molestia 
dessero  al  governo  papale  gli  arguti  epigrammi  del  Duca  di  Ser- 
moneta, i  quali  avevano  pur  sempre  il  privilegio  di  diventar  po- 
polari. Trovo  poi,  e  qui  li  reco,  in  parecchie  lettere  che  il  Duca 
di  Sermoneta  scrisse  e  spedì  da  Roma  o  dalla  provincia,  innanzi  al 
1870,  ad  un  amico  fidatissimo,  segni  non  dubbi,  del  suo  animo  libe- 
rale e  del  suo  civile  coraggio.  Nel  1863,  egli,  scrivendo  ad  un  amico, 
esprimevasi  così:  «  Ma,  ben  più  che  l'età,  mi  è  grave  l'iniquità  per 
tanti  anni  sofferta  e  veduta  soffrire,  la  quale  é  il  più  pesante  carco 
che  si  abbia  l'umana  vita.  Qual  meraviglia  poi  se  questo  negli  uomini 
talvolta  addiviene,  che 

Fa  così  cigolar  le  lor  biJancie. 


-  304  — 

Cotesto  cigolar  si  è  quello  che  spiace  agli  orecchi  de'  tiranni.  » 
Poco  innanzi,  egli  avea  scritto  allo  stesso  amico  che  il  lettore 
riconoscerà  agevolmente .-  «  Continui  dunque  valorosamente  in 
cotesti  suoi  nobilissimi  lavori,  e  sotto  un  si  libero  cielo  con  la 
benedizione,  e  con  l'ammirazione  di  tutti  gli  uomini  di  buon  gu- 
sto, e^  honae  voluntatis.  Io  debbo  contentarmi  di  ammirarlo  da 
lungi  come  un  infelice  abitatore  della  Gran  cerchia  infernale,  che 
dicesi  Limbo,  e  sarei  ben  lieto  se  mi  fosse  dato  dalla  sorte  di 
poterlo  visitare  col  nostro  Allighieri  nel  nobile  castello  sette  volte 
cerchiato  d' alte  mura  in  cui  Ella  é  coi  Spiriti  Magni;  ma  in 
quella  vece  sono  in  mezzo  alla  ignavia,  con  la  brutta  compagnia 
della  vecchiezza,  che  tanto  si  prova  più  grave  quanto  meno  lo 
spirito  è  sodisfatto.  »  Dopo  la  catastrofe  di  Mentana,  il  26  dicem- 
bre 1867,  il  Caetani  tornava  a  scrivere:  «...  l'affetto  nostro  si 
è  formato  e  mantenuto  per  la  Dio  grazia,  nel  campo  delle  lettere 
belle  e  non  in  quello  della  politica  bruttissima  che  ora  tenta  gua- 
stare il  nostro  bellissimo  Giardino  d'  Italia.  Lusinghiamoci  pure 
che  il  fine  di  tutte  queste  cose  sia  così  lieto  e  cosi  prospero  al 
paese  nostro  come  è  desiderio  di  tutti  i  buoni,  e  che  1'  anno  che 
giunge  e  che  io  a  Lei  auguro  felicissimo  sia  pure  per  compiere 
i  voti  di  tutti  gli  italiani    bonae   voluntatis.  » 

Si  comprende  pertanto  come  ad  uomo  che  pensava  e  parlava 
liberamente  in  tempi  ne' quali  non  era  lecito  il  farlo  senza  peri- 
colo possano  garbar  poco  adesso  le  tergiversazioni  d'  un  governo 
che  ha  fatto,  pur  troppo,  della  questione  romana  poco  più  che 
una  questione  burocratica,  di  un  governo  indeciso,  privo  d'inizia- 
tiva e  di  coraggio,  erede  di  una  politica  da  principotti  ignavi  e 
non  già  da  fieri  romani,  e  non  già  da  Italiani  vivaci,  rivendicati 
in  libertà.  Il  Caetani  ha  perduto  il  lume  della  vista  materiale,  ma, 
per  fortuna  sua  e  diremmo  nostra  s'egli  fosse  ascoltato,  non  an- 
cora quello  della  vista  ideale  onde,  sebbene  con  la  pupilla  spenta, 
egli  vede  sempre  più  lontano  assai  di  parecchi  reggitori  nostri,  i 
quali,  malgrado  gli  occhiali  ora  inglesi,  ora  prussiani,  ora,  se 
bene  non  sia  più  di  moda,  parigini,  che  fanno  le  viste  di  pro- 
varsi perchè  la  diplomazia  non  strilli  troppo,  per  ciò  che  risguar- 
da  il  nostro  avvenire  si  mostrano  affetti  da  incurabile  miopia. 

Milano  ha  il  suo  Manzoni,  Torino  il  suo  Sclopis,  Firenze  il  suo 
Capponi,  Roma  può  vantarsi  del  suo  Duca  •  di  Sermoneta,  per 
molti  riguardi  uomo  grande  ed  originale;  di  questa  originalità 
ho  recato  parecchi  indizii;  piacerai  aggiungerne  un  altro  ancora 
intorno  alla  prediletta  delle  sue  opere,  della  quale  fin  qui  ancora 


—  305  _ 

non  feci  motto.  Dalle  sue  nozze  con  una  signora  polacca,  la  contessa 
Calista  Rzewuska,  che  Io  lasciò  vedovo  nel  184-2,  il  Caetani  ebbe 
due  fls'li.  Onorato  principe  di  Teano,  nato  nel  1842,  Ersilia,  nata 
nel  1840,  che  nel  1S')9  sposò  il  conte  Giacomo  Colombo  Lovatelli 
di  Ravenna,  ora  deputato  in  Roma.  La  contessa  Ersilia  Lovatelli 
figlia  del  Duca  di  Sermoneta,  già  dotta,  sull'esempio  della  gloriosa 
Clotilde  Tambroni,  nelle  lettere  greche  e  latine,  è  pure  la  prima 
valorosa  italiana  che  abbia  (in  qui  studiata  ed  appresa  sul  serio 
la  lingua  sanscrita. 


RicoRui  Biografici  20 


XIX. 


GIAMBATTISTA  GIULIANI. 


Narra  la  cronaca,  e  credo  narri  il  vero,  che  un  giorno  il  padre 
Giuliani  camminava,  assorto  in  sue  profonde  meditazioni,  per  la 
campagna  Toscana,  quando  lo  vide  passare  un  amico  e  lo  chiamò 
tre  volte  per  nome;  ma  fu  vano  grido,  poiché  il  padre  Giuliani 
seguitava  diritto  per  sua  via  solitaria.  Allora  l'amico  non  sapendo 
pili  a  qual  magica  virtù  raccomandarsi  per  trattenere  il  pensoso 
viandante  dal  suo  fatale  andare,  incominciò  : 

Per  me  si  va  nella  città  dolente... 

e  volea  ben  dir  più,  ma  non  n'ebbe  uopo,  che  il  padre  Giuliani  a 
quel  primo  amoroso  grido  si  era  intanto  già  volto,  e  come  dal 
disio  chiamato  traevasi  sollecito  là  onde  il  lieto  grido  gli  era 
primamente  venuto.  Questo  aneddoto  potrebbe  servire  un  giorno 
qual  motto  epigrafico,  chi  imprendesse  a  scrivere  la  vita  del  più 
chiaro  fra  i  viventi  spositori  di  Dante,  e  può  valere,  io  spero,  a 
me  di  scusa,  se,  quantunque  ei  non  sia  vecchio  ancora,  dopo  ram- 
mentato nel  venerando  Duca  di  Sermoneta  uno  de'più  diligenti 
interpreti  del  divino  Poema,  per  naturale  associazione  d'idee,  pongo 
ora  il  nome  del  dantista  Giuliani  nella  prima  serie  de'  miei  Ri- 
cordi. 

Nacque  Giambattista  Giuliani  il  2  giugno  1818  nel  Comune  asti- 
giano di  Canelli,  da  Paolo  Giuli^ii  e  da  Maddalena  Ghione.  Della 
madre  ei  dice  con  efficace  verità  di  linguaggio  che  la  conobbe  sol- 
tanto €  per  desiderarla  e  piangerla  sempre  »;  il  padre  invece  potè 


—  307  — 
seguitare  fino  all'anno  1862  con  animo  lieto  i  trionli  del  figlio. 
Al  vecchio  padre  allude  con  molta  delicatezza  di  sentimento  il 
seguente  grazioso  sonetto  (flnqui  inedito)  di  Giovanni  Prati,  im- 
provvisato più  che  composto  in  Canelli  il  29  agosto  dell'anno 
1856,  quando  i  compaesani  del  Giuliani  erano  venuti  a  fare  una 
serenata  al  loro  illustre  conterraneo,  decorato  delle  insegne  di 
San  Maurizio  e  Lazzaro,  in  un  tempo  nel  quale  non  era  ancora 
facile  né  si  pronto  il  riceverle. 

Padre  buon,  padre  dotto,  padre  santo. 
Crocefisso  con  garbo  e  con  giudizio, 
Nel  gran  giron  di  Lazzaro  e  Maurizio, 
Per  le  nuove  postille  al  divin  Canto. 

Il  Re  che  d'Alighier  non  sa  poi  tanto. 
T'ha  battuto  la  spalla  in  suo  servizio, 
E  tu,  grato  al  colpetto  e  al  benefìzio , 
Offri  in  gloria  di  Dio  questo  uman  vanto. 

Ed  ai  musici  accordi  or  fa  buon  viso. 
Che  se  non  son  veracemente  quelli 
Che  Dante  ritrovò  nel  Paradiso, 

Son  però  nati  nella  tua  Canelli  ; 
Poi  guarda  il  Vecchio  che  t'è  accanto  assiso, 
Che  ben  vai  cento  nastri  e  cento  occhielli. 

Degli  studii  rettorici  continuati  in  Asti,  il  Giuliani  non  serbò,  per 
fortuna,  altro  ricordo  che  il  celebre  motto  d'Alfieri:  volli,  sempre 
volli,  fortissimamente  volli.  E  dallo  studio  della  filosofia  fatto  in  Pos- 
sano tolse  ad  amare  particolarmente  le  scienze  matematiche  ed 
i  suoi  istitutori  Somaschi,  nell'ordine  de'quali  entrò  quindi  egli 
stesso,  per  assumerne  l'abito  e  professarne  la  regola  dal  20  di  lu- 
glio 1836  in  poi,  facendo  sempre  con  iscrupolo  il  suo  debito  di 
religioso  per  quanto  la  vivacità  dell'indole  sua  e  un  ardente  biso- 
gno di  espandersi  e  di  comunicarsi,  gli  abbiano  poi  forse  fatto 
più  d'una  volta  sentire  il  peso  di  un  voto  pronunciato  in  un'età, 
nella  quale  nessun  uomo  può  ancora  dirsi  libero  e  sicuro  manteni- 
tore  delle  date  promesse.  Non  potendo  altro,  volle  almeno  il  Giuliani 
che  la  religione,  anzi  che  farle  torto,  venisse  in  aiuto  alla  libertà; 
e,  ricorrendo  tutta  la  sua  vita,  è  agevole  persuadersi,  come,  se 
egli,  per  dovere,  ebbe  a  serbarsi  buon  sacerdote  cattolico,  per  nobile 
istinto,  per  educazione  s^ia  propria,  per  potenza  d'affetto,  e  pel 
culto  da  lui  professato  a  Dante,  riusci  sovra  ogni  cosa  un  caldo 
e  bene  inspirato  scrittore  italiano. 


—  308  — 
Ho  detto  che  egli  incominciò  con  le  matematiche,  ed  in  queste 
ottenne  in  breve  fama  di  dotto.  Dicianovenne  fu  chiamato  ad  in- 
segnar tutta  la  filo.sotìa  e  in  ispecle  matematiche  e  fisica  nel  Col- 
legio dementino  di  Roma.  Nel  qual  tempo,  ad  accrescere  la  pro- 
pria erudizione  egli  frequentò  pure  nell'Università  della  Sapienza, 
le  lezioni  di  matematica  del  Calandrelli  e  di    Barnaba   Tortolini, 
e  quelle  di  fisica  di  Saverio  Barlocci,  di  cui  poi    narrò    la    vita. 
Sul  finire  del  1839,  il  Giuliani  si    recò    a    professar    fdosofia  nel 
liceo  di  Lugano.  Nel  settembre  del  1840,  sedette    ancli'egli,    pre- 
scelto dai  propri i  colleghi  luganesi,  e  dal   proposto    Ponta,    fra  i 
dotti  del  Congresso  torinese  degli  scienziati,  ove  conobbe,  fra  gli 
altri,  il  Cantù,  il  Cibrario,  il  Paravia,  ed  il  tisico  Botto.  Nel  18il, 
pubblicò    in    Lugano,  presso  la  Tipografìa  Veladini,  un    Traiialo 
elementare  di  Algebra  ad  uso  di  quel  Liceo,  che  lo    adopera    tut- 
tora, molto  lodato  in  quel  tempo,  e  del  quale  fa    pure    onorevole 
menzione  VLlalia  scientifica  d'Ignazio  Cantù.  Nel  dedicare    questo 
suo    primo    lavoro    al    proposto    D.  M.  G.  Ponta,    il    Giuliani  si 
esprime  ne'termini  seguenti  ch'io  rilevo,  perchè  si  renda    palese 
lo  studio  ch'egli  poneva  fin  da  quel  tempo  per  riuscire    scrittore 
elegante  :  «  Non  sì  tosto  intesi  a  parlar  di  Lei,  che    forte    m'in- 
vogliai di  conoscerla,  e  come  prima  la  conobbi  ne  fui  preso  d'am- 
mirazione e  di  amore.  I  quali    affetti    non    mi  venner    meno   col 
tempo  e  per  conversare  che  io  facessi    con    Lei,   anzi    viemmag- 
giormente  s'accrebbero,  perocché  ognora  più   amabili    e  preziose 
mi  venivan  parendo  le  sue  rare  prerogative.  Tanto  che    le  posso 
affermare    senza   ombra    di   adulazione,    che    Ella   troverà   si  al- 
tri più  degno  del  suo  amore  e  la  cui  stima  le  torni  più    gradita, 
ma  non  già  che  al  pari  di  me,  l'ami  e  l'onori.  »  Il  Giuliani  potè 
bene    col    tempo,    ne'suoi  frequenti    viaggi  in  Toscana,    divenire 
scrittore  più  disinvolto  e  più  ricco,  ma  ciò  che  nello  stile    rivela 
il  carattere  dell'uomo,  ossia  il  movimento  dell'animo  si  trova  già 
nelle  citate  parole  della  dedica  di  or  sono  più  che  trent'anni,  tal 
quale  lo  osserviamo    negli    scritti    dell'età    matura    dell'eminente 
dantista.  Prima  di  offrirci  i  suoi  pensieri  il  Giuliani  ha    bisogno 
di    vestirli,    adagiarli,    cullarli;  perciò  non  accade  mai    ch'egli  li 
mandi    fuori    brulli    ed  ignudi,   come  i  figliuoli    di  nessuno;  essi 
hanno  a  rivelar  sempre  di  chi  son  nati,  e  possono  sempre  far  fede 
d'esser  nati  non  solo  legittimi  ma  di  nobile  ed  onorata  stirpe. 

Le  fatiche  dell'insegnamento  e  le  molte  veglie  protratte  nello 
studio,  strinsero  tuttavia  il  dotto  giovane  Somasco^  verso  l'ago- 
sto di  quell'anno  stesso  1841  a  cessare  dall'insegnamento  e,  dopo 


—  300  — 
aver  soggiornato  alcuni  mesi  in  Cherasco,  a  far  ritorno  in  Roma, 
per  ritrovarvi  la  voce,  la  freschezza,  la  vigoria  perduta,  ed  ar- 
restare i  progressi  d'una  minacciosa  consunzione  che  pareva  vo- 
lerlo condurre  nella  primavera  della  vita  al  sepolcro.  Né  il  clima 
di  Roma  bastò;  i  medici  consigliarono  il  soggiorno  di  Napoli,  più 
con  la  certezza  ch'egli  andrebbe  a  morirvi,  che  colla  speranza  di 
vedernelo  tornare  in  buona  salute;  ed  egli  stesso  era  oramai  così 
disperato  delle  cose  sue,  che  de'suoi  più  cari  oggetti,  prima  di 
porsi  in  viaggio,  avea  fatto  parte  a'suoi  migliori  amici,  perchè 
essi  almeno  lo  ricordassero.  L'aria  balsamica  di  Napoli  fece  invece 
il  miracolo  di  guarirlo.  Ed  in  Napoli  egli  ebbe  modo  di  conoscere 
l'illustre  Carlo  Troya  e  Giuseppe  De  Cesare,  che  presero  a  ben 
volergli  e  lo  fecero  anzi  accogliere  tra  i  socii  corrispondenti  del- 
l'Accademia Pontaniana,  Basilio  Puoti  (1),  la  poetessa  Giusep- 
pina Guacci  e  Pasquale  Borelli  che  sotto  il  nome  di  Lallebasque 
avea  pubblicato  a  Lugano  in  sei  volumi  la  Genealogia  del  pensiero. 
Egli  potè  quindi  tornare  in  Roma  nel  1843,  più  che  mai  risoluto  di 
consacrarsi  agli  studii  danteschi.  A  Dante  avea  il  Giuliani  già 
volto  la  mente  fin  dal  1839  in  Roma,  ove  un  amicissimo  del  Duca 
di  Sermoneta,  il  dotto  padre  Luigi  Parchetti  avevagli  lungamente 
e  con  amore  ed  ammirazione  ragionato  del  divino  Poeta.  Da  una  let- 
tera del  prof.  P.  A.  Paravia  diretta  nel  marzo  del  1841  da  Torino  al 
Giuliani,  allora  in  Cherasco  di  Piemonte,  rilevo  poi  come  fin  da  quel 
tempo  il  nostro  dantista  s'occupasse  di  questioni  dantesche,  se  bene 
mostrasse  di  farlo  più  per  conto  d'amici  che  pel  proprio  (2),  servendo 
particolarmente  qua!  mediatoreal  padre Ponta,  dantista  di  valore.  Ma 
il  fuoco  non  si  tocca,  senza  sentirne  il  calore;  e  il  Giuliani,  più  che 
sentirne  il  calore,  fu  infiammato  del  fuoco  di  Dante.  Mentre  per- 
tanto, giovane  egli  stesso,  ammaestrava  nelle  lettere  latine  i  gio- 


ii) 11  Puoti,  che  d'altro  non  s'occupava  all'infuori  del  dettato,  e  che  ne 
sentenziava,  scriveva  poi  nel  1845  al  Giuliani  in  Genova:  «  Non  solo  io 
lessi  con  molto  piacere  il  suo  discorso  che  ebbe  la  cortesia  di  man- 
darmi, ma  'subito  le  scrissi  per  lodarglielo,  essendomi  paruto  ben  con- 
dotto e  in  alcuni  luoglii  di  rcolta  caldezza.  Mi  congratulo  ora  un'altra 
volta  con  lei',  e  mi  gode  l'animo  di  poterle  dire  che  ella  sarù'un  giorno 
tra'i  nostri  migliori  dettatori.  » 

(2)  Dallo  stesso  importante  carteggio  del  Paravia  al  Giuliani,  che  sarà 
ben  degno  un  giurno  di  venir  pubblicato,  tolgo  la  notizia  che  nel  1840 
e  r8'4l,  il  Giuliani  si  occupò  ancora  intorno  alla  biogralia  del  canonico 
Moschini,-1a  quale  vide  in  quel  tempo  la  luce. 


—  310  — 

vani  maestri  della  congregazione  Somasca,  discorrendo  con  let- 
terati ed  artisti  egregi  fu  irresistibilmente  attratto  al  culto  delle 
lettere.  Conobbe  e  frequentò  lo  scultore  Tenerani  ed  il  Finelli,  il 
Podesti  ed  il  sassone  celebre  dipintore  Vogel  di  Vogelstein,  del 
Tenerani  particolarmente  e  del  Vogel  divenendo  intrinseco.  Nel 
Museo  di  Dresda  si  conserva  un  bellissimo  ritratto  del  giovine 
padre  Giuliani,  in  abito  talare,  opera  del  Vogel,  di  cui  il  Giu- 
liani illustrò  poi  nel  ISi'ó,  il  quadro  rappresentante  la  Divina  Com- 
media, come  l'anno  innanzi  egli  avea  degnamente  scritto  so- 
pra la  Deposizione  di  Cristo  dalla  Croce,  alto-rilievo  operato 
in  marmo  da  Pietro  Tenerani.  Letto  quel  discorso,  il  Gior- 
dani, buon  giudice  in  cose  d' arte,  scriveva  rallegrandosi  col 
Tenerani  ch'avesse  trovato  un  lodator  degno  ;  e  colmavalo  di  lodi 
nel  Giornale  arcadico,  Salvator  Betti.  Il  discorso  sul  quadro  di 
A'ogel  meritò  al  Giuliani  le  più  ampie  lodi  del  Niccolini  (1)  e  di 
Dionigi  Strocchi,  fra  gli  altri.  Ma  questo  non  fu  il  primo  scritto 
del  Giuliani  che  trattasse  materia  dantesca:  già  nel  1844,  egli 
aveva  messo  a  stampa  tre  notevoli  discorsi  l'uno  Della  riverenza 
che  Dante  Allighieri  portò  alla  somma  Autorità  Pontificia,  un 
altro  sul  Veltro  allegorico  del  poema  sacro,  che,  secondo  il  Giu- 
liani, seguito  poi  da  molti,  fu  il  papa  Benedetto  XI  ;  il  terzo  Dei 
pregi  e  di  alcune  nuove  applicazioni  dell'  Orologio  di  Dante 
immaginato  da  M.  G.  Pouta.  Sul  primo  lavoro  dettava  un  bel- 
r  articolo  Felice  Romani,  nella  Gazzetta  Piemontese  del  20  di- 
cembre ISM,  e  Pietro  Giordani  il  25  gennaio  1845  scriveva  al 
Giuliani:  «  Cortese  e  riverito  signore,  Anch'io  ho  sempre  tenuto 
che  Dante  fosse  avverso  alle  persone  che  tennero  il  papato  nei 
suoi  tempi;  ma  che  nella  fede  egli  fosse  cattolico  perfetto,  e  osse- 
quiosissimo al  pontilicato,  senza  il  quale  vedeva  che  sarebbesi 
disfatta  l'unità  cattolica;  »  e  il  celebre  Carlo  Witte  dal  suo  canto 
scriveva  al  Giuliani  da  Halle  il  2  gennaio  1845  :  «  Devo  ai  favori 
del  signor  de  Vogel  una  copia  delle  dotte  di  lei  illustrazioni  sul- 
r  insigne  quadro  di  questo  illustre  professore,  ed  il  signor  Vela- 
dini  gentilmente  mi  donò  l'opuscolo  Sulla  riverenza  di  Dante  ecc. 
Se  nella  prima  di  queste  opere,  1'  oggetto  di  cui  tratta  concorse 
cogl'  insigni  meriti  per  rendermene  gratissima  la  lettura,  con  non 
minore  soddisfazione  lessi  la    seconda   che  vittoriosamente  resti - 


(1)  Veggasi   r  Opera   più   volte   citata  del   Vannucci   sopra  il    Nic- 
colini. -    . 


'  —  311  — 

tuisce  all'  Allighieri  il  vanto  di  cattolico  ortodosso.  Ella  non 
ignora,  per  quanto  ho  veduto,  che  oltre  ai  sogni  del  Foscolo  e 
del  Rossetti,  alcuni  dei  miei  compatriotti  credono  di  onorar  la 
memoria  del  divino  poeta,  accoppiando  il  suo  nome  con  quelli  di 
Pietro  Valdo,  di  Huss  e  di  Lutero.  Quantunque  io  sia  acattolico, 
ho  sempre  creduta  falsissima  una  tale  opinione,  la  quale  invece 
di  farci  conoscere  nella  Divina  Commedia  il  più  squisito  flore  del 
medio  evo,  esalante  quanto  di  più  santo  e  di  più  sublime  nacque 
nei  cuori  di  tante  generazioni,  ce  la  trasporta  in  un  secolo  tutto 
differente,  e  deve  di  necessità  far  crollare  i  fondamenti  della  gran 
fabbrica  del  poema,  con  somma  sapienza  gettati  dall'  autore  sul- 
r  immutabile  dottrina  della  Chiesa,  e  sulle  credenze  del  suo  tem- 
po. »  Cito  e  passo.  Letti  i  primi  lavori  danteschi  del  Giuliani, 
Carlo  Troj'a  sul  fine  del  suo  opuscolo  :  De'  viaggi  di  Dante  a 
Parigi  e  dell'  anno  in  cui  fa  pubblicaia  la  Cantica  dell'  Lifer- 
no,  ebbe  nel  18-4Ó  a  conchiudere:  «  Questi  fatti  desidero  sieno 
presenti  a'  Comentatori  di  Dante,  fra'  quali  uno  s'  accinge  ad 
illustrarlo  con  corredo  e  di  buon  giudizio  e  di  opportuna  eru- 
dizione. Parlo  del  P.  Giambattista  Giuliani,  somasco,  di  cui 
m' è  noto  il  valore.  »  Nello  stesso  anno  1845,  incominciò  in- 
fatti il  Giuliani  a  comunicar  molte  sue  note  all'  abate  Bru- 
none  Bianchi  che  in  queir  anno  stesso  le  allogò,  stroncandole, 
al  loro  posto,  con  parole  di  molta  lode  pel  Giuliani  nell'edizione  della 
Divina  Commedia  pubblicatasi  dal  Le  Mounier.  E,  sebbene,  nella 
seconda  edizione,  per  incauta  gelosia  di  mestiere,  il  Bianchi  abbia 
poi  trovato  il  suo  tornaconto  nel  sopprimere  affatto  il  nome  del 
Giuliani,  pur  ritenendo  le  note,  la  lode  che  ne  viene  al  Giuliani, 
ne  è  tanto  più  grande.  Il  primo  Saggio  poi  di  un  nuovo  com- 
mento della  Co/Y  media  di  Dante  Allighieri  che  si  pubblicò  nel  1845 
a  Genova  (ove  intanto,  come  maestro  di  lettere  ai  Somaschi,  egli 
s'  era  condotto)  finì  per  assicurare  interamente  la  fama  e  l'auto- 
rità del  Giuliani,  il  quale,  se  in  lui  la  modestia  non  agguagliasse 
il  valore,  potrebbe  bene  menar  vanto,  d'  aver  nel  mondo  dante- 
sco, a  pena  vi  pose  il  piede,  conseguito  la  gloria.  Le  idee  gran- 
di, per  lo  più,  sono  semplici;  il  Giuliani  ne  indovinò,  ne  colori, 
ne  divulgò  particolarmente  una.  Allora,  come  accade,  parve  ch'e- 
gli facesse  la  cosa  più  facile  e  più  naturale  del  mondo  ;  ma  nes- 
suno vi  s'era  provato  con  quell'animo  risoluto,  prima  di  lui  ;  nes- 
suno riuscì  poi  meglio  di  lui  nell'intento.  Aprendomisi  un  giorno, 
egli  mi  disse:  «  Negli  studii  la  mia  norma  si  fu  questa;  poche 
cose,  e  quelle  studiare  bene  a  fondo.»  Quando  studiava  matematiche. 


—  312  — 

egli  compose  uno  de'più  lodati  trattati  d'  algebra  ;  come  studioso  di 
Dante,  egli  Io  illustrò  tutto;  come  studioso  del  linguaggio  toscano 
vivente,  fece,  egli  solo,  non  toscano,  quanto  non  era  ancora  stato 
fatto  e  forse  non  sarà  fatto  mai  da  toscano  alcuno.  L' age  qiiod  agis 
nessuno  lo  intese  e  lo  praticò  meglio  di  lui;  religioso  fece  il  debito 
suo;  cittadino  italiano  del  pari;  Dantista  glorilìcò  il  suo  poeta;  to- 
scanista  (se  la  parola  non  esiste,  domando  umile  licenza  d'inventar- 
la), dal.  popolo  toscano  cercò  e  trovò  nel  linguaggio  la  poesia;  e, 
se  dopo  ciò,  sembri  ancora-  ad  alcuno,  che  il  Giuliani  abbia  fiitto 
poco,  mi  si  dica,  se  molti  uomini  di  lettere  abbiano  in  Italia  operato 
assai  più  ed  assai  meglio.  Il  Giuliani  è  quasi  conterraneo  del- 
l'Allìeri;  perciò  quella  sua  lunga  e  potente  ostinazione  ad  un 
punto  luminoso,  lindi' egli  lo  arrivi;  egli  non  salta  sopra  il  suo 
soggetto,  ma  vi  entra;  e  l'entrarvi  domanda  sempre  «tempo. 

Quel  saggio  ottenne  il  suffragio  lusinghiero  d'  alcuni  ingegni 
famosi;  ricorderò  per  prima  una  lettera  inedita  del  Niccolini,  onde 
rilevo  il  seguente  giudizio:  «  Senza  arrogarmi  talento  e  dottrina  che 
bastino  airulìicio  di  giudice  in  cosi  diflìcil  materia,  candidamente 
le  dirò  che  le  sue  spiegazioni  mi  capacitano,  poiché,  senza  tor- 
mentare il  testo  del  Poema,  Ella  ne  trae  quel  senso  ch'essendo  il 
più  naturale,  io  tengo  per  vero,  e  quel  tanto  arzigogolarvi,  il 
quale  si  fa  per  molti,  io  lo  reputo  oltraggio  allo  schietto  ingegno 
dell'  Alighieri,  e  perdita  di  tempo.  Se  le  cose  vanno  di  questo 
passo,  e  ogni  verso  di  Dante  divien  speculazione  di  ciurmatore, 
quel  Grande  verrà  in  odio  a  quanti  hanno  fior  d'  intelletto  e 
sanno  che  la  religione  stessa  può  cangiarsi  in  superstizione.  Ma 
il  mondo  è  un  briaco  a  cavallo  ;  i  nostri  padri  pei  tristi  maestri 
che  avevano  tennero  Dante  in  dispregio;  or  tocca  ai  sapienti 
come  V.  S.  di  provvedere  con  as-ennati  commenti  che  non  si  fac- 
cia disputa  sopra  ogni  sua  parola  e  che  quella  poesia,  rimanendo 
oppressa  da  note  e  da  questioni  non  perda  la  sua  efficacia  nell'ani- 
mo nostro.  »  Il  conte  Giovanni  Marchetti,  l' illustre  autore  della  can- 
tica: Una  notte  di  Dante,  da  Bologna,  scriveva  il  10  maggio  del- 
l'anno 184G  al  Giuliani:  «  Ho  letto  attentamente,  e  con  piacer  som- 
mo, il  suo  Saogio.  Ripeto  ciò  che  nell'  altra  mia  già  le  scrissi  ; 
cioè  che  a  me  piacque  assaissimo  il  suo  pensiero  di  spiegar  Dante 
principalmente  con  Dante  stesso.  Ora  le  soggiungo  che,  a  mio 
giudizio.  Ella  pone  egregiamente  ad  effetto  il  suo  proposito.  Giu- 
stissime le  interpretazioni;  belle  e  veramente  filosofiche  le  consi- 
derazioni. Quanto  ingegno,  quanta  dottrina,  quale  e  quanto  pro- 
fondo studio  del  divino  Poeta  !  Io  me  ne  congratulo  con  Lei  ben 


—  313  — 

ili  cuore;  e  vivamente  desidero  di  veder  presto  l'intera  sua  opera 
pubblicata  per  le  stampe.  » 

Il  soggiorno  di  Genova  era  in  quel  tempo  uno  de'più  desiderabili 
per  un  uomo  di  lettere,  percliè  un  egregio  Mecenate  patrizio  ed  una 
donna  d'  ingegno  e  di  cuore  raccoglievano  intorno  a  sé  quanti 
nobili  intelletti  la  città  di  Genova  accogliesse  e  le  attiravano  di 
fuori  numerosi  visitatori.  Il  patrizio  era  il  buon  Marchese  Gian 
Carlo  Di  Negro,  verseggiatore  mediocre,  ma  caldo  ed  appassionato 
amico  di  letterati  ed  artisti,  ch'egli  invitava  ospitalmente  nella 
sua  splendida  villetta,  e  che  accompagnava  nella  loro  vita  con 
tutto  il  suo  affetto  operoso.  Egli  mori  a  Genova  il  31  agosto 
dell'  anno  1857,  in  età  di  anni  85;  e  ne  scrissero  degnamente  le 
lodi  Antonio  Crocco,  scrittore  de'  migliori,  e  il  Giuliani  stesso  al 
Di  Negro  ed  al  Crocco  amicissimo  (1).  La  chiara  gentildonna 
era  la  Bianca  Rebizzo  lombarda  (la  morte  della  quale  fu  compianta 
in  nobili  versi  dall'Aleardi),  ch'ebbe  in  Genova  Ano  a  questi  ul- 
timi anni  non  pure  fama  di  donna  insigne  per  le  qualità  dell'ani- 
mo e  dell'ingegno,  entrambi  atti  ed  intenti  a  indovinare  ed  a 
rilevare  il  bene  ove  si  contenesse  e  si  celasse,  ma  che  esercitò 
pure  un  potere  efficacissimo  nella  vita  pubblica  genovese  dell'  ul- 
timo ventennio.  In  casa  della  Rebizzo,  il  Giuliani  conobbe  la  prima 
volta,  fra  gli  altri,  Vincenzo  Ricci,  Lorenzo  Pareto,  Antonio  Crocco. 
In  casa  della  Rebizzo  ancora,  si  fondò  il  5  gennaio  dell'anno  1850, 
promossa  da  Terenzio  Mamiani,  Antonio  Crocco,  Vincenzo  Ga- 
relli, Giambattista  Giuliani  e  Gerolamo  Boccardo,  V  Accademia  di 
filosofia  italica,  da  me  già  toccata  nel  Ricordo  del  Mamiani.  Nel 
resoconto  delle  Adunanze  preparatorie  di  quell'Accademia  estratto 
dalla  Rivista  Italiana,  che  nel  1850  Domenico  Berti  dirigeva  in 
Torino,  io  leggo  :«  Il  primo  tema  di  quelle  scientifiche  disputazioni 
veniva  proposto  dal  P.  Giuliani,  il  quale  dichiarava  di  vuler  par- 
lare della  filosofia  di  Dante,  soggetto  che  credeva  conforme  a  una 
delle  intenzioni  dell'Accademia,  di  ravvivare,  cioè,  e  di  illuminare 
le  tradizioni  ed  i  pensamenti  dell'  antica  scienza  italiana.  »  E 
come  in  un'Accademia  italiana  fu  primo  il  Giuliani  a  promuovere 
la  discussione  sopra  il  divino  poeta,  cosi  egli  era  stato  primo  nel 
settembre  del  18i6  a  dare  dritto  di  cittadinaaza  in  un  congresso 


(1)  Veggasi  l'elogio  del  Di  Ntgro  nel!' irnpor'tante  volume  del  Giu- 
liani: Arte,  Patria  e  Religione,  Prose,  pubblicato  dai  successori  Le  Mou- 
nier nel  1870. 


—  314  — 

di  scienziati  a  Dante  (1),  ingegnandosi  originalmente  a  dimostrare 
come  la  Divina  Cotnmedia  fosse  il  piìi  antico  e  sicuro  monu- 
mento della  storia  d'Italia,  e  arrivando  fino  ad  osservare,  entrato 
animosamente  nelT  arringo  politico,  che  i  tempi  erano  mutati,  e 
che  nessun  italiano  avrebbe  oramai  più  chiamato  Alberto  tedesco 
ad  inforcare  gli  arcioni  d'  Italia,  quando  si  aveva  un  Alberto 
italiano.  Il  discorso  fu  interrotto  da  vivi  applausi;  Alberto  La- 
marmora,  commissario  politico,  sorse  allora  a  protestare  contro 
r  intrusione  di  Dante  ne'  congressi  ;  Cesare  Cantù,  il  presidente 
San  Quintino  e  Luigi  Cibrario  difesero  con  calorosa  eloquenza  il 
Giuliani,  il  nome  del  quale  divenne  allora  tosto  popolare.  Il  Ci- 
brario e  il  Sauli  d'Igliano  poi  furono  pronti,  dopo  quel  discorso,  a  far 
nominare  il  Giuliani  corrispondente  dell' Accademia  delle  scienze  di 
Torino,  e  il  marchese  Luigi  Serra,  capo  della  Riforma  degli  studii 
in  Genova,  a  farlo  eleggere  dottore  collegiate  della  facoltà  di 
filosofia  e  lettere  nell'  Università  di  Genova.  Intanto  s'  accostava 
la  grande  agitazione  politica  d'Italia  degli  anni  1847  e  1848. 
L'  elezione  di  Pio  nono  dava  cuore  al  Giuliani,  come  agli  altri 
migliori  ecclesiastici  d' Italia,  di  manifestare  i  proprii  sentimenti 
liberali,  ed  egli  non  tralasciò  alcuna  occasione  di  farlo,  quando 
stimò  che  fosse  di  pubblica  utilità  qualsiasi  sua  pubblica  dimostra- 
zione. Mentre  pertanto  noi  lo  troviamo  nei  1847  sempre  intento  a 
spiegare  Dante  con  Dante,  ch'ei  s'era  già  messo  tutto  a  mente,  ed  in 
istretta  corrispondenza  epistolare  col  Batines  sopra  la  bibliogra- 
fia dantesca,  delia  quale  occupavasi  allora  il  nobile  visconte  fran- 
cese, il  Gioberti  scrivendogli  da  Parigi  il  18  dicembre  del  1847,  po- 
teva rallegrarsi  con  lui  «  come  illustre  fra  coloro  che  onorano  ad 
una  la  religionae  la  scienza,  la  patria  ed  il  chiostro;  accoppiamento 
raro,  e  pur  tale  che  la  nostra  povera  Italia  non  sarà  certa  della  sua 
redenzione,  se  non  quando  le  verrà  dato  di  vederlo  frequente- 
mente. »  Avendo  il  Giuliani  riconosciuto  con  un  suo  discorso  del 
1840  pubblicato  in  Roma,  ov'egli  era  tornato,  nel  Veltro  di  Dante 
un  pontefice,  quando  appunto  l' Italia  inebbriavasi  al  grido  di  viva 
Pio  IX,  il  commentatore  di  Dante  parve  allora  investito  egli 
stesso  come  d'uno  spirito  profetico.  Nel  1847,  egli  sali  nell'universitii 
di  Genova  la  cattedra  di  filosofia   morale,   e   fu,  in  breve,  profes- 


(1)  Veggansi,  oltre  alle  relazioni  ufficiali  di  quel  memorabile  congres- 
so, la  lettera  di  F.  Scolari  sopra  alcuni  scrìtti  inediti  intorno  alcune 
opere  di  Dante,  Venezia  settembre  181G. 


--  315  — 

sore  acclamatissimo,  tanto  più  per  le  frequenti  allusioni  eh' ei 
veniva  facendo  alla  novità  de'  tempi  e  alle  speranze  risorgenti 
d' Italia.  Alle  prime  larghezze  usate  dal  re  Carlo  Alberto  alla 
stampa,  fu  nominata  in  Genova,  come  in  Torino,  una  giunta  su- 
periore di  Revisione,  più  a  permettere  moderandole  che  ad  impe- 
dire le  manifestazioni  del  patriottismo  irrompente  ;  sulla  proposta 
del  procuratore  del  Re  conte  Alessandro  Pinelli,  il  Giuliani  fu  da 
Carlo  Alberto  eletto  revisore  insieme  con  Lorenzo  Costa,  Antonio 
Crocco,  e  Giuseppe  Morrò,  i  quali,  distolti  da  altre  cure  non  meno 
gravi,  lasciarono  al  Giuliani  quasi  tutto  il  carico  della  revisione.  Co- 
me revisore,  trovossi  pertanto  il  Giuliani  a  contatto  con  ogni  maniera 
di  pubblicisti,  fra  gli  altri,  dell'avv.  Antonio  Papa,  direttore  del  Cor- 
riere Mercantile  che  in  quei  giorni  affermava  il  suo  credito  presso  i 
liberali,  di  Goffredo  Mameli,  l'autore  della  Marsigliese  italiana  e  di 
Gerolamo  Boccardo,  allora  giovanissimo,  il  quale  per  avere  la- 
sciato correre  il  18  gennaio  1848  un'espressione  come  questa: 
«  coir  Austria  non  si  può,  non  si  vuole,  non  si  deve  trattare,  » 
diede  occasione  ad  una  nota  diplomatica  austriaca,  ed  attrasse 
al  Giuliani  un  acre  ritnprovero  da  parte  del  Governatore  di  Ge- 
nova. Poi  il  ministro  San  Marzano  domandò  che  il  Giuliani  fosse 
rimosso  d'  ufficio;  ma  avendo  il  Pinelli,  gnaro  dei  tempi,  difeso 
con  calore  il  suo  revisore,  il  nostro  Dantista  imbarcato  nel  mare 
magnum  della  politica,  tirò  innanzi,  finché  non  fu  bandita,  con  lo 
Statuto,  la  legge  della  libera  stampa,  e  il  Giuliani  potè  ritrarsi 
sodisfatto  d"  avere  bene  adempiuto  al  suo  debito  di  buon  cittadino. 
Onde  i  Genovesi  che  già  gli  professavano  stima  ed  affetto,  lo 
stimarono  ed  amarono  più,  e  a  dargliene  pubblico  documento,  fe- 
cero per  due  volte  disegno  d' eleggerlo  loro  Deputato.  Se  non 
eh'  egli  rinunciò  a  quell'onore,  e  per  non  avere  ancora  raggiunto 
i  trent'  anni  richiesti  dalla  legge,  e  perchè  essendo  ancora  sem- 
pre legato  alla  sua  Congregazione,  non  poteva  allora  avere  il 
pieno  esercizio  de'  suoi  diritti  civili  (1).  Né  però  si  ritrasse  dalla 


(1)  Il  giornale  La  Legge,  diretto  a  Torino  da  Giuseppe  Massari,  pub- 
blicando nel  suo  numero  del  IO  dicembre  1848  la  lettera  con  la  quale 
il  Giuliani  rinunciava  all'onore  della  deputazione,  accompagnavala  con 
le  seguenti  parole:  «  Il  P.  Giuliani  è  uno  di  quegli  uomini  fatti  per 
onorare  i  partiti  e  le  assemblee  a  cui  fossero  per  appartenere,  e  noi 
neir  ammirare  la  sua  modestia  non  possiamo  non  manifestare  il  nostra 
rammarico  per  la  sua  risoluzione.  » 


—  316  — 

vita  politica:  che  anzi,  a  pena  si  sparse  in  Genova  la  notizia 
delle  Giornate  di  Milano  e  della  cacciata  degli  Austriaci  il  25  di 
marzo  1848,  corse  col  popolo  nella  chiesa  di  San  Lorenzo  a  can- 
tarvi il  Te  Deum,  e  invitato  quindi  dal  clero  e  dagli  astanti,  sali 
sul  pulpito  e  improvvisò  un  discorso  pieno  di  fuoco  patriottico,  nel 
quale  s'eccitava  il  re  Carlo  Alberto  a  spronar  analmente  il  suo  de- 
striero di  guerra,  a  trasportare  la  sua  reggia  ne'campi  lombardi, 
a  recarsi  a  Monza  per  pigliarvi  la  corona  d'Italia,  e  al  popolo  geno- 
vese si  volgevano  queste  parole;  «  Oh  bravo  popolo  di  Porteria!  un 
secolo  già  è  trascorso  dacché  tu  rintuzzasti  la  tedesca  rabbia;  il 
tuo  nobile  esempio  riscaldò  tutta  quanta  Italia,  e  là  dove  Italia 
pareva  più  morta,  dovea  spiegarsi  piìi  vigorosa  la  vita.  iMa  no, 
che  non  furono  essi  i  prodi  Milanesi  soli  alla  grand' opera;  erano 
gli  spiriti  nostri  che  rinfiammavano  que' petti  ;  erano  quelle  osti- 
nate volontà  la  volontà  di  tutta  Italia  ».  (1) 


(1)  Merita  di  venir  letta  e  considerata  la  seguente  lunga  lettera  (ine- 
dita) che  l'illustre  dantista  Federico  Ozanam  scriveva  in  que' giorni  al 
Giuliani  :  .   ,  '. 

«  Paris,  le  27  avril. 
«  Mon  Rr'vérend  Pére, 

«  Je  vois  avec  regret  que  tous  les  Italiens  n'ont  pas  le  coeur  si  fidòle 
que  vous,  et,  qu'un  de  vos  compatriotes  qui  s'était  ciiargé  de  mes  com- 
missions  pour  vous,  m'a  manqué  de  parole.  Il  y  a  bientòt  un  mois  qu'un 
jeune  Génois,  auditeur  de  mes  lecons  publiques,  vint  me  voir  avant  de 
retourner  chez  lui  et  me  promit  de  vous  aller  trouver  de  ma  part, 
et  da  vous  porter  un  petit  écrit  dont  je  vous  adressais  l'hommage.  Je 
devais  aussi  m'excuser  d'ètre  demeuré  si  longtemps  sans  vous  ferire, 
sans  répondre  à  votre  aimable  lettre  et  ìi  votre  plus  aimable  discours. 
En  eflfet,  les  grands  événements  dont  Paris  vient  d'avoir  le  spectacle, 
ont  multiplié  plus  que  jamais  mes  occupatioas  et  mes  devoirs,  et  j'ai 
douté  un  moment  si,  au  lieu  d'écrire  en  Italie,  je  ne  serais  pas  obligé 
d'y  aller.  Maintenant  l'ordre  se  raffermit,  et  la  sécurité  renaissante  nous 
permei  de  donner  quelques  heures  a  la  lecture  et  à  l'amitié.  J'en  pro- 
nte pour  vous  remercier  d'abord  de  votre  beau  travati  sur  l'Ange  de 
Tenerani,  Je  trouve  dans  dans  cet  écrit  touto  l'élégaace ,  touto 
la  délicatesse  de  l'admit-able  statue  que  vous  louez.  Il  faut  un  sentiment 
exquis  des  beautés  de  l'art  pour  pouvoir  en  parler  avec  tant  d'abondan- 
ce,  sans  se  répéter  jamais,  sans  fatiguer  l'attention  da  lecteur.  iMais  sur- 
tout.  mori  Révérend  Pére,  comment  vous  expiimerai-je  combien  m'a 
touclié  le  passage  où  vous  nqìpclez  notrc  vi.?ite    à    l'atelier   du   grand 


-  317  — 

Recatosi  nel  maggio  del  1848  in  Genova  il  Gioberti,  gli  furono 
dalla'  città  fatte  le  più  festose  accoglienze;  il  Giuliani  ebbe  col 
Crocco  e  il  cav.  Boselli  incarico  di  accompagnarlo,  e  il  Giuliani 
ancora  fu  invitato  dal  Comitato  nazionale  ad  esprimere  in  adu- 
nanza solenne  al  Gioberti  le  congratulazioni  dei  genovesi  tutti. 
L'allocuzione  del  Giuliani  parve  felicissima,  e  il  Gioberti  la  gradi 
tanto,  che  la  sera  stessa,  facendosi  gran  ricevimento  al  Casino 
di  nobiltà,  ed  il  popolo  essendosi  affollato  sotto  i  balconi  per  ac- 
clamare al  nome  di  Gioberti,' il  filosofo  torinese,  non  potendo  rin- 
graziare da  sé,  per  esscrglisi  resa  fioca  la  voce,  pregò  il  Giuliani 
di  parlare  al  popolo  per  esso:  dal  quale  nuovo  impegno  seppe  il 
Giuliani  trarsi  con  tanta  destrezza,  che,  in  breve,  il  popolo  col 
nome  del  Gioberti  confuse  nelle  sue  acclamazioni  quello  del  Giuliani. 


scuipteur  ?  Je  vous  en  voudrais  uà  peu  des  louanges  extrémes  que  vo- 
tre  acDÌiié  me  donne  en  passant.  Cependant  il  m'est  bien  doux  de  voir 
(ixé  dans  votre  gracieux  récit  un  de  ces  heureux  momens  de  mon  sé- 
jour  à  Rome,  tfop  tòt  envolés  au  gre  de  mas  desirs.  Vous  me  rendez 
cette  beare  que  je  croyais  enfuie  pour  toujours,  le'plaisir  d'Un  long  en- 
tretien  avec  vous  et  avec  l'excellent  Tenerani  ;  enfln  VAnge  que  nous  ne 
nous  lassions  pas  de  regardcr,  sa  belle  téte  plelne  de  foi,  ses  flottantes 
draperies  qui  ne  font  qu'effleurer  la  terre,  et  ses  grandes  ailes  qui  re- 
demandent  le  ciel.  L'artiste  clirétien  a  été  plus  inspiré  qu'il  no  pensait. 
Au  moment  où  tout  le  passo  semble  p^^rir,  il  convenait  de  nous  faire 
descendre  du  ciel  l'Ange  de  la  Résurrection. 

Laissez-moi  vous  felicitar  aussi  de  votre  Discours  prononcé  à  S.  Lau- 
rent de  Gènes  pour  remercier  Difu  de  la  délivrance  de  Milan.  Je  suis  né 
à  Milan,  et  quoique  .l'aie  été  conduit  bien  jeune  en  France,  le  lien  du 
sol  natal  est  si  fort,  que  cette  victoire  m'a  touché  corame  une  victoire 
nationale,  et  je  ne  puis  vous  dire  avec  quelle  ardeur  j'ai  dévoré  les 
journaux  italiens.  Dès  lors  vous  pouvez  juger  le  plaisir  que  m'a  fait  vo- 
tre patrior/ique  et  religieuse  allocution.  Vous  avez  retrouvé  la  voix  des 
croisades.  Pie  IX  n'est  plus  seul,  co«)me  on  se  plaisait  à  le  dire,  puis- 
qu'il  trouve  dans  le  clergé  mèrae  de  si  f^loquens  interprètes  de  ses  des- 
se] ns.  Le  R.  P.  Lacordaire,  qui  se  connaìt  en  (^loquence  et  à  qui  j'ai  com- 
muniqué  ce  discours,  a  voulu  qu'on  en  publi.lt  un  fragment  dans  le  jour- 
nal qu'il  dirige,  L'Ère  noiwelle.  On  a  dù  vous  envoyer  le  numero  du 
journal,  mais  vous  avez  probablement  souri  de  l'erreur  du  typographe 
qui  a  remplacé  S.  Laurent  par  S.  André.  Du  reste,  ne  jugez  pas  le  jour- 
nal dont  il  s'agit  par  ct;tte  bévue.  C'est  une  feuille  que  nous  avons  fon- 
dée  le  P.  Lacordaire,  l'abbé  Maret  et  moi,  pour  dófendre  les  intéréts  ca- 
tboliques  dans  ceite  società  nouvellc  qui  doit  sortir  des  révolutions  de 


—  318  — 
Soppressa  intanto  nell'ottobre  del  1848  all'università  di  Genova, 
la  facoltà  di  lettere  e  filosofia,  veniva  al  Giuliani  offerta  la  catte- 
dra di  sacra  eloquenza  nell'università  di  Torino;  ma,  potendo  egli 
ottenere  la  cattedra  stessa  in  Genova,  la  preferì,  (1)  tanto  più  che 
egli  sperava  che  si  confermasse  la  notizia  della  assunzione  all'ar- 
civescovato di  Genova  dell'abate  Ferrante  Aporti,  il  quale  avea- 
gli  dichiarato  di  volerlo  per  suo  segretario.  Non  confermatasi 
questa  nomina,  il  Giuliani  si  rivolse  nuovamente  tutto  agli  studii 
suoi  prediletti,  in  ispecie  dopo  ch^^  la  misera  disfatta  di  Novara 
tolse  agli  italiani  ogni  altra  speranza  di  prossimo  risorgimento. 
Io  ebbi  modo  di  leggere  una  lettera  che  stans  pede  in  uno  il  Giu- 
liani scrisse  da  Genova  al  vecchio  suo  padre  in  Canelli,  il  io  giugno 
dell'anno  1849;  quella  lettera  è  uno  dei  documenti  più  autentici  delia 


l'Europe.  Il  uous  a  paru  que  ì'Univers,  compromis  par  ses  fautes,  par 
l'attachement  de  quelques  uns  de  ses  ródacteurs  à  la  monarchie  déchue, 
ne  suffisait  plus  au  service  du  Christianisme  en  des  temps  si  nouveaux. 
Nous  avons  cru  que  Pie  IX  avait  été  susci  té  pour  nous  ouvrir  des  voies 
jusqu'ici  inconnues,  et  nous  l'y  suivons  avec  confiance  :  c'est  assez  vous 
dire  combien  notre  journal  est  occiipé  de  Rome  et  de  l'Italie.  Nous  se- 
rions  très  reconnaissans  si  vous  vouliez  nous  donner  votre  opinion  sur 
les  affaires  italiennes,  tant  pour  l'Etat  que  pour  l'Eglise. 

Je  vous  enverrai  par  la  poste  deux  exemplaires  d'un  petit  écrit  que 
je  publiai  avant  la  revolution  de  février  sur  les  dangers  de  Rome  et 
ses  espérances.  Le  jeune  voyageur  qui  m'a  manqué  de  parole  devait 
vous  remettre  cette  offrande  qui  ne  m'acquitte  pas  envers  vous.  Je  re- 
cois  de  vous  des  fruits  dorés  d'Italie  et  je  vous  rends  un  de  ces  fruits 
sauvages  qui  mùrissent  mal  sous  le  pale  soleil  du  Nord.  Du  moins  vous 
trouverez  dans  ce  peu  de  pages  la  preuve  de  mon  chaleureux  amour 
pour  votre  pays,  et  du  long  souvenir  que  j'ai  gardé  de  son  afifectueux 
accueil. 

Si  vous  écrivez  au  R.  P.  Penta,  veuillez  me  rappeler  a  sa  mémoire, 
et  lui  faire  parvenir  un  des  deux  exemplaires  que  je  vous  adresse.  Je 
me  recommande  à  ses  prières  et  aux  vòtres,  et  je  suis  avec  un  respec- 
tueux  mais  tendre  attachement, 

Votre  bien  dévoué  serviteur  et  ami 

A.    F.   OZA-NAM. 

(1)  Il  Programma  de'suoi  corsi  di  sacra  eloquenza  prova  quanto  lar- 
gamente e  quanto  liberalmente  il  Giuliani  intendesse  il  nuovo  officio 
affidatogli,  nel  quale  si  condusse  poi  in  modo  da  procacciarsi  ampie  lodi  ad 
un  tempo  presso  il  Governo  Sardo,  presso  l'arcivescovo  Charvaz  e  presso 
il  chiericato  e  la  cittadinanza  genovese. 


—  319  — 
nobiltà  del  carattere  del  Giuliani,  e  della  sua  modestia.  Avevano 
detto  al  padre  del  Giuliani  che  il  figlio  Giambattista  avea,  dopo 
il  mutarsi  delle  cose  politiche,  perduta  ogni  sua  autorità  in  Ge- 
nova; e  il  figlio,  dall'ufficio  postale,  sopra  il  primo  fogliaccio  ve- 
nutogli tra  le  mani,  rispose  con  questa  bella  e  che  a  me  pare  no- 
tevolissima lettera: 

Carissimo  padre. 

Io  non  so  d'aver  mai  avuto  influenza  alcuna  in  Genova,  né  al- 
trove ;  ma  credete,  che  se,  per  ventura,  n'ebbi  qualche  poco,  ora 
l'avrei  massimamente.  Il  mio  pensare  è  sempre  lo  stesso,  e  non 
posso  ricevere  danno  veruno,  perchè  sono  tranquillo  nella  dignità 
della  mia  coscienza  e  nell'amore  dell'Italia  e  dell'umanità.  Io  non 
ricevetti  mai  offesa  né  olTesi  mai  alcuno,  e  di  nulla  temo,  se  non 
del  pubblico  danno  ;  il  resto  lo  confido  alla  Provvidenza.  I  maligni 
e  gli  stolti  son  molti,  e  di  questi  mi  compiango  e  quelli  non  curo. 
Fui  richiesto  all'Università  di  Torino  come  professore  di  Etica, 
e  starebbe  da  me  solo  l'acconsentirvi;  ma  son  risoluto  a  rimanere 
in  Genova,  dove  ho  molti  amici  e  mi  trovo  meglio  assai  che  in 
Patria  mia.  Questo  vi  dico  perchè  viviate  pur  tranquillo  sul  fatto 
mio.  Quel  pochissimo  che  io  sono,  io  lo  devo  a  me  stesso,  e  nes- 
suno mei  potrebbe  togliere  mai.  Le  ricchezze  e  gli  agi  della  vita 
disprezzo  più  d'ogni  altra  cosa;  e  finché  io  abbia  un  tozzo  di  pane 
da  sbramarmi  la  fame,  starò  contento.  Bensì  vorrei  che  l'Italia  po- 
tesse risorgere  al  posto  a  lei  conveniente  fra  le  nazioni  del  mondo; 
ma  poiché  oramai  questa  suprema  consolazione  mi  scema,  ritorno 
con  maggior  cura  a'miei  studii,  e  in  questi  passo  la  mia  vita  as- 
sai lietamente.  Nulla  mi  riesce  nuovo,  leggendo  le  istorie  e  me- 
ditandole; e  vedo  bene  che  l'umana  nequizia  trionfò  in  ogni  tempo, 
e  che  i  buoni,  i  savi  e  valenti  non  furono  quasi  mai  voluti  in- 
tendere. Cosi  ora  siamo  condannati  a  rattristarci  d'un  male  acni 
non  si  può  riparare,  e  sdegnarci  di  tanta  cecità  e  superbia  umana. 
Quanto  a  me  d'altra  parte  son  pieno  di  tutta  gioia  dentro  al  mio 
cuore,  poiché  ho  l'intimo  sentimento  di  non  aver  in  nulla  mancato 
alla  gloria  e  al  nome  d'Italia,  e  questo  pensiero  basta  a  sostenermi 
fra  la  nostra  presente  sventura  e  mi  ricreerà  per  tutta  la  vita.  0 
(•aro  padre,  state  pur  sicuro  che  io  in  ogni  qualunque  avvicendar 
di  fortuna  mi  troverò  sempre  costante  ne'  miei  pensieri  ed  affetti, 
e  non  muterò  quello  stato  dove  Iddio  e  la  mia  coscienza  mi  rende- 
ranno felice.  Io  son  giunto  a  quello  che  io  non  mi  sarei  mai  so- 


—  320  — 

guato  d'ottenere,  e  posso  dire  d'aver  toccato  l'ultimo  termine  de'miei 
desiderii.  Perciò  ogni  altra  grandezza  che  mi  possa  avvenire  è  un 
di  più  che  non  cerco  e  rifiuterei  di  secondare.  Eccovi  l'animo  mio, 
e  son  lieto  di  aprirlo  a  voi,  caro  padre,  che  mi  sapete  intendere 
e  amare.  Se  tutto  mi  mancasse,  son  certo  che  non  mi  mancherà 
mai  il  vostro  amore;  e  l'amore  d'un  padre  è  tanto  grande,  che  non 
v'ha  cosa  paragonabile  sulla  terra.  Mantenetemi  questo  amore, 
beneditemi  alcuna  vulta  dal  profondo  del  vostro  cuore,  ricorda- 
temi con  quali-he  sospiro,  e  persuadetevi  che  io  sono  perla  vita, 
il  tutto  vostro  figlio  Giambattista.  » 

Questa  lettera  vale  un  libro  :  che  in  essa  puoi  leggere  tutta  la 
vita  di  un  uomo  esemplare.  Però  focendo  qualche  violenza  alla 
modestia  deiramico,  volli  qui  pubblicarla,  aftinché  da  questa  in- 
tima confidenza  argomenti  il  giovine  lettore  quanta  fede  meriti 
pure  il  pubblico  uomo  di  lettere  quando  scrive  d'alta  morale,  di 
religione,  di  filosofia  e  di  civile  sapienza. 

E  da  questo  punto  incomincia  la  parte  più  nota  all'universale 
della  vita  pubblica  del  Giuliani.  Avvertirò  solo  ancora  come  il 
volume  di  Pinose,  pubblicato  a  Genova  dal  Giuliani  nel  1851  fosse 
dedicato  a  Cesare  Balbo,  che  in  due  sue  lettere,  pel  Giuliani  ono- 
revolissime, miOstrò  di  gradire  particolarmente  quell'omaggio. 

Ma,  due  anni  dopo,  una  nuova  malattia  sopravvenuta  e  il  sempre 
fervido  amore  di  Dante  trasse  il  Giuliani  a  peregrinare  in  Toscana, 
e  gli  fece  pigliare  amore  singolarissimo  a  questo  nativo  linguaggio, 
nò  ai  nudi  vocaboli  soltanto,  ma  alle  loro  svariate,  eleganti,  co- 
lorite foggie  di  intrecciarsi,  sì  ch'egli  potesse  in  breve  nelle  sue 
celebrate  lettere  sul  vivente  linguaggio  della  Toscana,  delle  quali 
fu  primo  il  Prati  a  incoraggiare  vivamente  la  pubblicazione  (i), 
rendere  non  pur  la  parola  viva,  ma  le  vive  persone,  il  pensiero, 
il  costume,  la  vita  naturale,  in  somma,  di  questo  bel  popolo.  Cia- 
scuno che  abbia  alcuna  pratica  del  popolo  campagnuolo  sa  quanto 
costi  il  farlo  parlare  di  quello  che  più  ci  preme  sapere,  e  come 
prima  d'arrivare  al  punto,  sia  necessario  di  porre  al  popolano  del 
contado  un  lento  e  regolare  assedio.  Convien  quindi,  quando  si 
conosce  la  difllcoltà  per  noi  cittadini  di  sorprendere  i  segreti  di 
quel    volgo,    ammirare    la    costanza  e  l'ingegno  del  Giuliani  che 


(1)  Nell'anno  1858,  dopo  averne  in  Firenze  fatta  lettura  ai  chiaris- 
simi Letterati  toscani  P.  Fanfani,  G.  Milanesi  e  A.  Gotti,  che  si  piacquero 
d'approvarle,  il  Giuliani  pubblicò  la  prima  edizione  delle  sue  Lettere  a 
Torino  presso  il  Franco. 


—  321  — 

tanto  perseverò  nelle  sue  investigazioni,  e  cosi  felicemente,  da 
somministrare  alla  lingua  d'Italia  il  più  prezioso  e  il  più  poetico 
contributo  di  materiali  popolari  autentici,  degni  di  esser  fatti  ri- 
fiorire nella  colta  lingua  dell'arte.  E  nel  tempo  stesso  in  cui  egli 
studiava  la  lingua  viva  del  popolo,  il  Giuliani  non  perdeva  di  vi- 
sta il  suo  poeta;  che  anzi  egli  primo,  egli  solo  linqui  riscontrò 
la  lingua  di  Dante  col  vivente  linguaggio  popolare  toscano,  e  il- 
luminò l'uno  con  l'altro,  recando  infine  il  risultato  de'suoi  inge- 
gnosi raffronti,  in  un  notevolissimo  discorso  da  lui  letto  nella 
scorsa  estate  all'Accademia  della  Crusca,  che  l'aveva  l'anno  in- 
nanzi nominato  suo  socio,  come  già  fin  dal  1861  il  Giuliani  era 
socio  della  commissione  pe'  Testi  di  lingua  in  Bologna. 

Allo  stesso  ordine  di  studii  del  Giuliani  si  riferisce  il  veramente 
aureo  volumetto  uscito  prima  a  Bologna  nel  1809,  poi  a  Firenze 
nel  1871,  e  che  ora  si  ristampa  con  nuove  importanti  aggiunte 
presso  i  successori  Le  Mounier,  sotto  il  titolo:  Moralità  e  poesia 
del  vivente  linguaggio  toscano.  Nessuno  degli  italiani  scrittori 
contemporanei,  onorò,  in  somma,  la  Toscana  più  di  Giambattista 
Giuliani,  che  studiò  sempre  di  rilevare  quanto  di  buono  accoglie 
il  popolo  toscano,  quanto  di  bello  si  accoglie  nel  suo  linguaggio, 
e  di  rendere  aperto  all'intelligenza  universale  il  maggior  poeta  del 
mondo  moderno.  Il  eguale  quantunque  si  dicesse  florentinus  naiione 
non  rnoribus,  resterà  pur  sempre  la  maggior  gloria  che  Firenze 
possa  vantare.  Dopo  i  primi  saggi,  il  Giuliani  non  posò  più  dallo 
studio  della  Divina  Commedia;  del  che  fanno  fede  parecchi  scritti 
da  lui  pubblicati  in  quest'ultimo  ventennio  d'argomento  dantesco, 
fra  i  quali  vengono  prime  per  ordine  di  tempo.  Le  Norme  di 
commentare  la  Divina  Commedia,  tratte  dall'  Epistola  di  Dante 
a  Cangrande  della  Scala,  scritto  originale  e  intieramente  in- 
dovinato, che  il  Giuliani  dedicò  nel  1856  agli  illustri  dantisti 
tedeschi  Carlo  Witte  e  Goff'redo  Blanc,  e  che  gli  valse,  oltre 
a  molte  lodi  stampate,  una  bella  lettera  dell'illustre  Ampère, 
dalla  quale  rilevo  le  seguenti  parole  :  «  Dans  tout  ce  que  con- 
tient  votre  volume,  j'ai  retrouvé  la  mèrae  élévation  de  pensée, 
la  raème  noblesse  et  la  mème  élégance  de  style.  Ce  que  vous  y 
avez  inséré  de  votre  Dante  commentò  par  lui  mème  m'a  surtout 
attaché.  Aprés  tant  de  commentaires  sur  Dante,  vous  avez  su  en 
faire  un  nouveau,  dont  l'idée  est  bien  ingénieuse,  et  je  crois  par- 
faitement  vraie.  Ce  que  vous  nous  en  donnez  fait  bien  désirer  que 
vous  le  publiez  tout  entier  ».  E  a  poco,  a  poco,  il  Giuliani  é  sem- 
pre venuto    sodisfacendo    il  desiderio  de'  primi   lodatori    de'  suoi 

Ricordi  Biografici  21 


—  322  — 
scritti  ;  infatti  nel  1861  apparve  il  Metodo  di  commentare  la  Di- 
vina Commedia,  un  volume  dedicato  al  Capponi,  nel  1863,  La  Vita 
nuova  e  il  Canzoniere  con  bellissimi   commenti,    ristampati   con 
nuove  aggiunte  nel  1808,  e  poi  varie  monografie  sopra  canti  spe- 
ciali, come  quello  della  Francesca  dedicato  al  Caetani,  dell'Ugolino 
dedicato  al  Gramantieri,  suUlT,  12'  e  13''  canto  dell'Inferno  nelle 
Memorie  dell'Accademia   di  Modena,  sul  32°  dell'Inferno   nell'An- 
nuario della  Società  tedesca  di  Germania,    sugli  ultimi    canti  del 
Purgatorio  nuovamente  dedicati    al    Caetani;  le  quali  sono  altret- 
tanti   capitoli    dell'  intero    commento   che   il  Giuliani  ci  lascierà 
della    Divina    Commedia.    Finalmente    con   la    parte    presa   dal 
Giuliani  nelle  feste  del  glorioso  Centenario  dantesco  in  Firenze,  a 
Ravenna   pel    discoprimento  delle   ceneri,   a  Dresda  per  la  com- 
memorazione  della   morte   di  Dante,  ove  rappresentò  il  Governo 
italiano  e   il    municipio  di  Ravenna,  con   la  sua  frequente    cor- 
rispondenza   coi  Dantisti    italiani  e   stranieri,   e   più  particolar- 
mente come  applaudito  espositore  della  Divina  Commedia  nel  luogo 
stesso  nativo  di  Dante,  all'Istituto  di  Studii  superiori,  egli  assicurò 
a  sé  stesso  nella  storia  della  letteratura  dantesca  un  posto  immor- 
tale. Non  è  qui  luogo  di  dire  dopo  quanti  contrasti  egli    sia  riu- 
scito a  conseguire  un  posto  che  gli  venne  offerto  per  giustizia  e  gli 
si  impediva  per  invidia.  Piacemi  invece  conchiudere,  che  l'invidia 
tacque  poi  ch'egli  l'ebbe  conseguito  e  si  rese  palese  come  nessuno 
avrebbe  potuto  in  Firenze  con  più  amore  e  con  più  sapienza  glo- 
rificare il  Divino  Poeta,   ch'egli  va  dicendo  essere,   dopo  Dio,   il 
suo  massimo  benefattore. 

Pregato  finalmente  il  Giuliani  da  me,  affinchè  volesse  darmi  di  sé 
alcun  cenno  scritto,  ecco  le  preziose  note  che  ottenni  dalla  sua  genti- 
lezza: «  Ne'miei  libri,  come  nelle  mie  lezioni,  fu  sempre  uno  l'inten- 
dimento, di  far  cioè  che  la  letteratura  sia  un  ministerio  di  civiltà, 
che  le  arti  del  Bello  servano  al  miglior  bene  della  nostra  Italia, 
ed  a  vantaggiarla  sopra  le  altre  nazioni  per  la  nobile  virtù  del 
sentimento. 

«  Fra  le  molte  e  diverse  contraddizioni  degli  uomini  mi  raccolsi 
in  me  stesso  francheggiandomi  nella  dignità  del  silenzio  e  della 
vita.  Sta  come  torre  ferma,  che  non  crolla,  Giammai  la  cima  per 
soffiar  de' venti,  Che  sempre  l'uomo  in  cui  pensier  rampolla  Sovra 
pensier  da  sé  dilunga  in  segno:  Questi  versi  mi  furono  ognora 
presenti  all'animo  e  guida  sicura.  Negli  studi  aspirai  perciò  sem- 
pre al  meglio,  e  del  resto  fu  continua  mia  cura  di  poter  rendermi 
degno  sacerdote  cattolico  e  cittadino  italiano. 


—  3-23  — 

«  Dell'amicizia  feci  sostegno  e  consolazione  alla  mia  vita  ;  e 
tlagli  amici  riconosco  gran  parte  della  felice  condizione  in  che  mi 
ritrovo. 

«  Fui  nemico  ognora  d'accattar  brighe  anche  letterarie  con  chic- 
chessia; e  tenni  ferma  la  mia  dignità,  eziandio  allora  che  mi  si  vo- 
leva imporre  indebitamente  l'altrui  volere.  Imparai  più  a  tacere  che 
a  parlare  :  e  con  soavità  di  modi  e  con  prontezza  di  prestarmi  agli 
onesti  desideri  degli  altri,  se  non  vissi  sempre  libero  da  gravi 
dispiaceri,  non  ho  perduto  mai  la  dolce  serenità  di  mente.  Quando 
mi  si  diceva  che  io  aveva  de'nemici,  noi  credetti  mai,  perché  sa- 
pevo e  sento  di  non  aver  offeso  e  invidiato  alcuno,  se  non  in  quanto 
desideravo  di  pareggiarlo  nel  fare  il  bene  e  farlo  il  meglio  pos- 
sibile ». 

Evidentemente,  le  virtù  dello  scrittore  si  compenetrano  qui  tal- 
mente con  quelle  dell'uomo,  che  le  une  lasciano  argomentar  le 
altre;  l'ingegno  dello  scrittore  piglia  lume  dal  carattere  dell'uomo 
che  è  virilmente  buono.  Dell'interprete  di  Dante  si  accolgono  le 
opinioni  nette,  sicure,  aggiustate  ;  dell'  uomo,  amante  ed  amabile 
compagno  della  vita,  si  pregia  l'amicizia  benefica. 


XX. 

FRANCESCO  DALL'ONGARO. 


Nel  Dìritlo  dell'I  1  gennaio,  fu  letto,  con  viva  commozione,  il 
seguente  articoletto,  che  recava  qual  firma,  la  iniziale  C.  Ogni  let- 
tore intelligente  ha  potuto  riconoscervi  lo  stile  di  Cesare  Correnti, 
il  quale,  quando  il  cuore  gli  detta,  scrive  sempre  bene:  «  Anche 
DairOngaro  è  morto.  Morto  ieri  a  Napoli,  secondo  i  medici,  d'im- 
provviso, ma  per  chi  sa  i  segreti,  avvelenato  a  sgoccioli.  Il  corpo 
è  morto,  perchè  l'anima  sua  non  voleva  e  non  poteva  rassegnarsi 
a  morire.  Anno,  era  stato  chiamato  a  dar  un  corso  di  letteratura 
drammatica  nell'Università  di  Napoli,  città  su  tutte  le  altre  a  lui 
diletta.  Vi  dettò  splendide  lezioni,  confortato  da  numeroso  e  rive- 
rente concorso  di  giovani.  Non  ha  molto,  gli  fu  intimato  d'an- 
darsene e  di  rimettersi  a  Firenze  ad  una  scuola  di  declamazione, 
ove  da  più  anni  non  trovava  uditori  e  né  tampoco  un'aula.  Pro- 
fessore nomade  non  voleva  essere  ;  né  gli  pareva  degno  accettar 
l'elemosina  d'  una  cattedra  in  partibus.  Struggevasi  dentro  tanto 
più  che  fuori  sorrideva.  Aveva  trapiantata  la  famiglia  sua  —  una 
sorella  e  i  nipoti  erano  la  sua  famiglia  —  a  Napoli,  né  gli  pareva 
facile  levar  la  tenda  domestica  e  portarsela  in  collo  chi  sa  dove. 
Poi  amava  Napoli  e  vi  si  sentiva  amato:  non  da  tutti.  Dio  guardi! 
ma  da  tali,  che  potevano  infiorargli  il  crepuscolo  vespertino  colle 
delizie  della  poesia  e  dell'arte.  Perciò  domandò  grazia  di  tempo  ; 
e  prima  che  i  due  mesi  concessigli  fossero  finiti,  usci  di  stenti. 
Non  sappiamo,  se  a  qualcuno  dorrà  d'avere  amareggiati  gli  ultimi 
anni  d'un  uomo,  che,  venticinque  anni  fa,  l'Italia  contava  già  fra 
le  sue  glorie.  Questo  sappiamo,  che  pochi  più  di  lui  amaron  d'a- 


—  325  — 

more  l'arte  e  la  patria.  Fu  dei  primi,  quand'erano  ancora  a  scuola 
dei  gesuiti  i  grandi  uomini  della  bancocrazia,  a  parlare  d'Italia  al 
popolo.  Il  suo  Fornareito  die  le  mosse  al  nuovo  teatro  nazionale. 
I  suoi  Storìielli  furono  applauditi,   imparati  a  memoria;,  e  cantati 
da  quegli  stessi  forse  che  lo  chiamarono  poi  a  scherno  Stornelli- 
sta,  e  a  cui  par  ringrandire  gridando  :  abbasso  i  ferravecchi  del 
quaranVotto.  Egli  se  n'è  ito,  lo  stornelUsta  del  quarant'oUo,  povero, 
scorato,  senza  trovar  tempo  di  finire  quella  eh'  egli    argutamente 
chiamava  ioìlelte  de  la  guilloiiine,  un'ultima  edizione  ordinata  dei 
suoi  molti  scritti.  Siamo  più  che  certi  che  altri  qui  dirà  :  furono 
troppi.  Furono,  diciamo  noi,  come  il  cuore  e  le  occasioni  voleva- 
no. Ma,  prima  di  pensare  al  giudizio,  pensiamo  ai  funerali.  L'arte 
che  Francesco  Dall'Ongaro  adorò,  e  gli  artisti  napoletani,  dai  quali 
ei  soleva  pigliare  gli  auspicii  d'un   imminente  rifiorimento   della 
pittura  italiana  non  lasceranno,  speriamo,  senza  consolazione  d'af- 
fetto la  sua  famiglia,  e  il  suo  sepolcro.  Ci  si  serra  il  cuore,  pen- 
sando agli  ultimi  giorni  di  questo  valent'uomo  umiliato,  sconfes- 
sato, traboccante  sotto  il  peso,  prima  non  sentito,  d'una  vecchiezza 
ch'egli  indarno  aveva  immaginato  consolata  d'onori,  e  rispondente 
alle  liete  promesse  della  bene  augurosa  giovinezza.  Ma,  al  postutto 
noi  preferiremmo  ancora  un  anno  di  codesta  agonia,  irradiata,  se 
non  altro,  dai  ricordi  immacolati  della  poesia  e  riscaldata  dal  pre- 
sentimento primaverile  dell'arte  rediviva,  a  dieci    anni    di    quello 
stillicidio  bilioso,  che  per  tant'  altri  è  tutta    la   fatica  e  la  gloria 
della  vita.  »  Questo  scritto,  nella  sua  brevità,    è    eloquentissimo, 
perchè  dà  la  nota  vera  del  sentimento  profondo  che  occupò  l'ani- 
mo degli  onesti  italiani,  a  pena  corse  la  triste    novella   che  Dal- 
l'Ongaro non  era  più.  A  che  dissimularlo?  Dall'Ongaro  morì  con- 
dannato a  morte  dagli  uomini  stessi  della  sua  terra.  Non  fu  guerra  né 
di  coltello  né  di  pugnale,  ma  avvelenate  punte  di  spilli  italiani  che 
gli  arrivarono  finalmente  al  cuore.  Ci  si  dice:    egli   aveva   molti 
nemici;  e  sia  pure;  non  si  può  entrare  nel  campo   letterario  per 
darvi  onesta  battaglia,  senza  contare  di  trovarsi  a  fronte  una  ca- 
terva di  gente  intesa  a  ferirvi;  senza   questa   condizione   non  vi 
sarebbe  buona  battaglia;  né  il  vincere    riuscirebbe    glorioso;  ne- 
mici vi  hanno  ad  essere,  e  quanto  più  serrati  e  compatti  e  visi- 
bili siano,  meglio;  si  drizzeranno  l'armi  a  quel  solo  segno,  si  re- 
spingeranno i  colpi  degli  avversarli,    finché  si  cada   o    si   vinca; 
Siam  tutti,  quanti  combattiamo  con  la  penna,  sacri  alla    morte  o 
alla  vittoria.  Ma,  per  quanto  sono  numerosi  e  violenti  i  nemici, 
tanto  più  devono  aver  cuore  gli  amici,  e  rendere  forte   chi  com- 


—  326  — 
batte,  e  sostenerne  il  coraggio.  Dall'Ongaro  ebbe  nemici  accaniti 
ed  amici  timidi,  che  lo  abbandonarono  ne'giorni  dolorosi,  mentre 
egli  invece  era  sempre  stato  per  gli  altri  intrepido  fino  all'impru- 
denza. Invece  di  difenderlo,  com'era  loro  debito,  gli  amici  lo  di- 
sertarono, quando  lo  videro  assalito  con  più  ostinata  malignità. 
Nel  Veneto,  del  quale  Dall'Ongaro  era  una  vera  gloria,  per  la  li- 
berazione del  quale  egli  avea  lungamente  scritto  ed  operato,  e  per 
cui  avea  pure  sostenuto  un  lungo  e  doloroso  esigilo,  al  suo  ritorno 
in  Venezia  nel  1866,  gli  fu  quasi  negata  ospitalità;  e  temettero  i  suoi 
stessi  antichi  ammiratori  di  compromettersi  dandogli  il  loro  voto 
per  mandarlo  in  Parlamento.  Il  Dall'Ongaro  parve  abbastanza  glo- 
rioso perchè  a  qualche  patrizio  veneto  potesse  piacere  accoglierlo 
un  istante  nelle  sue  sale  dorate  e  presentare  l'illustre  am.ico  a'curiosi 
invitati  venuti  a  posta  per  rimirarlo;  ma,  quando  si  parlò  di  tratte- 
nere il  Dall'Ongaro  in  Venezia  con  qualche  ufficio  pubblico,  anche 
modestissimo,  poiché  le  ambizioni  del  nostro  amico  erano  limita- 
tissime, gli  ammiratori  si  ritrassero  sgomenti,  e  obbligarono  l'in- 
felice patriota  a  ritornarsene  in  Firenze,  ove  gli  era  fatta  da  pa- 
recchi anni  una  guerra  guerreggiata  per  obbligarlo  a  partirne. 
La  cattedra  di  letteratura  drammatica  in  Firenze  era  stata  creata 
per  lui  sotto  il  governo  provvisorio  toscano  ;  essa  poteva  annettersi 
facilmente  all'Istituto  di  Studii  Superiori;  e  il  Dall'Ongaro  non 
desiderava  di  meglio;  non  si  volle;  poteva  restare  annessa  almeno 
all'Accademia  di  belle  arti,  e  il  Dall'Ongaro  se  ne  contentava;  non 
si  volle  ;  lo  si  confinò  invece  a  dar  lezioni  presso  una  modesta 
scuola  di  declamazione,  il  cui  vecchio  direttore,  particolarmente 
avverso  al 'Dall'Ongaro,  riusci  ad  alienargli  gli  stessi  giovani  alunni 
della  scuola,  perchè  non  ne  frequentassero  le  lezioni.  Perciò  av- 
venne molte  volte,  ed  io  che  scrivo  ne  fui  testimonio  oculare,  che 
il  Dall'Ongaro  recatosi  per  far  le  sue  lezioni  non  trovò  in  Firenze 
alcun  uditore  e  dovette  tornarsene  indietro  umiliato;  altre  volte, 
ch'egli  dovette  far  la  sua  lezione  di  letteratura  drammatica  a  -i 
0  5  uditori  che  il  caso  avea  riuniti  presso  la  sua  cattedra.  Qual 
coraggio  doveva  egli  ancora  avere  il  Dall'Ongaro  per  occuparsi  sul 
serio  delle  sue  pubbliche  lezioni?  E  pure  egli  non  ismise  dall'inse- 
gnamento, se  non  quando  l'insegnare  gli  divenne  impossibile;  al- 
lora, non  volendo  né  potendo  rimanere  in  ozio,  ingegnossi  pure  con 
altre  vie,  di  rendersi  utile;  così  intraprese  per  due  anni  consecu- 
tivi in  casa  d'un  illustre  staniero,  l'ungherese  Francesco  Pulszky, 
attualmente  Direttore  del  Museo  di  Pesth,  a  fare  un  commento 
estetico  e  popolare  della  Divina  Coììimedia  per  gli  stranieri  e  le 


—  327  — 

straniere  di  passaggio  in  Firenze;  cosi  recossi,  invitato  dagli  ar- 
tisti di  Milano,  più  volte  in  quella  città,  per  farvi  pubbliche  ap- 
plaudite letture  letterarie  ;  così  mandò  parecchie  corrispondenze 
italiane  al  giornale  francese  L'Opinion  Natìonale;  così  intese  fe- 
licemente a  restituire  sulle  scene  italiane  le  grazie  comiche  di  Mo- 
nandro col  Fasma  e  col  Tesoro;  così  continuò  a  scrivere  novelle, 
ballate  e  stornelli;  così  visitò  quanto  potè  studii  d'artisti,  per  rac- 
comandarne le  opere;  accolse,  incoraggiò  e  presentò  egli  stesso 
giovani  poeti,  giovani  letterati,  come  il  Manfredi  di  Rapisardi  e 
il  mio  proprio  Re  Naia  (di  una  parte  del  quale  egli  compiacevasi 
dire  ch'era  stato  l'ostetrico)  possono  farne  ampia  fede,  ed,  insomma, 
cercò  tutte  le  vie  d'essere  utile  agli  altri,  quando  più  sentiva  il 
peso  della  ingratitudine  de'  suoi  antichi  beneficati  verso  lui  stesso. 

Io  ho  l'animo  troppo  commosso  dal  vivo  dolore  che  mi  lascia  la 
notizia  improvvisa  della  morte  di  Francesco  Dall'Ongaro  per  po- 
terne ora  scrivere  tranquillamente.  Ma  io  non  vorrei  che  si  di- 
menticasse da  chi  ha  ufficio  di  farsi  provvidenza  agli  uomini  di 
studio,  come  se  il  Dall'Ongaro  era  professore  ufficiale  da  soli  dodici 
anni,  e  non  lascia  né  moglie  né  figli,  era  pur  1'  unica  provvi- 
denza della  sua  degna  sorella  Maria  e  de'  suoi  nepoti,  e  da  più  di 
trent'anni  volgeva  continuamente  le  sue  cure  ad  istruire  con  le- 
zioni pubbliche  e  private,  non  meno  che  co'  suoi  scritti,  la  gio- 
ventù italiana;  come,  negli  anni  d'  esigilo,  tutto  il  suo  pensiero 
fu  volto  di  continuo  all'Italia,  né  credette  umiliarsi,  facendo  in 
Brusselle  e  in  Parigi  semplici  lezioni  di  lingua  italiana  o  spiegando 
elementarmente  la  Divina  Commedia  ai  forestieri;  come  la  casa 
di  lui  povero  fosse  sempre  aperta  a'  suoi  compagni  di  esigilo  nei 
giorni  nei  quali  mancava  loro  il  pane  ;  come  dello  stesso  animo 
ospitale  egli  desse  ancora  prova  in  Firenze  verso  i  poveri  emi- 
grati veneti,  ch'egli  accoglieva  liberamente  alla  modesta  sua  mensa; 
come,  infine,  sarebbe  sacro  dovere  del  governo,  eh'  ebbe  il  torto 
di  amareggiare  le  ultime  ore  della  vita^  al  Dall'Ongaro  e  di  affret 
tarne  incosciamente  il  fine,  ripararlo  almeno,  pigliando  sotto  la 
sua  tutela  la  desolata  famiglia  del  poeta  infelicissimo. 

Il  Dall'Ongaro  avrebbe  potuto  presentare  anch'esso  al  governo 
italiano  i  suoi  titoli  di  martire  della  libertà  italiana,  e  carpirne 
una  larga  pensione  per  godersela,  come  tanti  altri,  in  qualche 
canonicato  ufficiale  ;  egli  avrebbe  bene  avuto  il  dritto,  per  i  titoli 
che  la  sua  gloria  di  poeta  e  letterato  gli  dava,  di  chieder  forte 
in  una  sola  volta,  una  cattedra  universitaria  per  sedervi  fra 
tanti  altri  men  degni  che  vi  arrivarono  per  vie  politiche,  e  con 


—  328  — 
industri  brighe.  Non  fece  né  1'  una  cosa  né  l'altra.  Provò  a  ri- 
maner contento  del  modestissimo  ufficio  che  il  Ricasoli  gli  aveva 
affidato  in  Firenze,  ufficio  rimunerato  con  tre  mila  lire  italiane,, 
sopra  le  quali  le  tasse  governative  facevano  ancora  un  grave 
sconto.  E  bene,  anche  quelle  tre  mila  lire  gli  furono  invidiate,  e 
calunniate;  e  per  l'invidia  di  quelle  egli  dovette  subire  in  pub- 
blico r  umiliazione  di  vedere  inquisito  ne'  pubblici  fogli  ogni  suo 
passo.  E  stata  una  mostruosa  indegnità;  e,  per  quanto  possa 
dar  noia  a  chi  se  ne  rese  colpevole  1'  udire  una  voce  stridula 
nel  facile  coro  de'  plaudenti;  per  quanto  possa  increscere  di  ve- 
dere un  volto  accigliato  in  mezzo  a  tante  oziose  bocche  sorriden- 
ti; per  quanto  possa  dolere  ricevere  una  frustata  fra  tanti  cachinni 
d'  approvazione,  io  oserò  pure  di  dire  alto  ciò  che  penso  e  ciò 
che  sento  intorno  alla  nuova  letteratura  fanfullesca  la  quale  mi- 
naccia d'invadere  la  stampa  italiana.  Io  mi  rivolgo  dunque  ai 
giovani  di  cuore  per  domandar  loro  sul  serio  ove  credono  essi 
che  da  noi  s'  andrebbe  quando  continuasse  a  molti  e  per  molto 
tempo  a  piacere  nel  nostro  paese  una  letteratura  cosi  goffamente 
ed  uflicialmente  scandalosa;  lieve  nella  forma,  ma  il  cui  fine  finale 
è  pur  quello  di  sciupare  anche  quel  resticciuolo  di  affetto  che  in 
Italia  ci  era  rimasto,  per  consumarlo  in  tanto  spirito  vanissimo 
ed  ammorbante.  Guardino  i  giovani  ai  primi  effetti  di  quella  morti- 
fera letteratura;  un  uomo  d'ingegno,  uno  splendido  e  simpatico 
scrittore  lombardo,  disertando  la  sua  prima,  generosa,  libera  fede 
politica,  va  a  sequestrarsi  nelle  appendici  della  Gazzella  Ufficiale 
per  far  eco  al  Fanfulla,  che,  fra  gli  altri  suoi  perditempi,  avea 
pure  avuto  la  fantasia  di  gettare  il  ridicolo  sopra  la  sana  lette- 
ratura che,  da  alcuni  anni  in  qua,  alcuni  scienziati  italiani  vanno 
tentando  a  prò  del  popolo  nostro,  per  rialzarne  con  l' istruzione 
la  dignità  morale.  È  letteratura  noiosa  ci  si  dice  ;  dunque  si  sop- 
prima. E  di  che  cosa  oramai  non  si  sente  più  noia  e  non  si  ride 
più  in  Italia  ?  La  patria,  la  libertà,  l'arte,  la  scienza  sono  diven- 
tate anch'  esse  parole  ridicole.  Non  vi  è  per  quella  letteratura 
più  altro  di  sacro  che  Momo  in  livrea  co'  suoi  sfaccendati  adoratori. 
Ma  per  questa  via,  non  si  metteranno  no,  per  Dio,  i  giovani  ita- 
liani che  hanno  ancora  un  po'  di  cuore.  Essi  non  si  lascino  dun- 
que, io  li  scongiuro,  per  quell'amore  che  abbiamo  comune  alla  terra 
nostra, non  si  lascino  tentare  al  facile  riso  inverecondo;  fuggano,  e 
detestino,  sovra  ogni  cosa,  il  contatto  pericoloso  d'  ogni  zingaro  let- 
terato che  dica  loro  sfacciatamente  di  non  aver  più  fede  e  bandiera 
alcuna.  Ogni  studioso,  ogni  artista,  ogni  scrittore,  ogni  cittadino 


—  329  — 

ogni  uomo  deve  averne  una;  se  no,  egli  diviene  una  ladra  pianta 
parassita,  che  si  propaga  a  danno  della  società  e  che  giova  estir- 
pare. Quanto  a  me,  se  le  forze  m'  assistano,  non  mi  mancherà 
certamente  mai  il  coraggio  di  resistere  contro  l'invasione  d'un  ali- 
to pestifero  che  minaccia,  pur  troppo,  le  sorgenti  della  vita  italiana. 
Ma,  per  tornare,  al  povero  amico  che  la  calunnia  e  la  perse- 
cuzione hanno  pur  troppo  precipitato  nel  sepolcro,  ecco  ancora 
alcuni  brevi  cenni  che  potranno  servire  alla  sua  biografia.  Egli 
era  nato  presso  Oderzo  nel  Friuli,  neh'  anno  1808,  da  minuti  ed 
onesti  commercianti;  avea  fatto  i  primi  studii  in  Venezia  al  Se- 
minario della  Salute,  gli  universitarii  all'  Università  di  Padova, 
ove  s'  era  pure  erudito  alquanto  nelle  lingue  orientali.  Presi  gli 
ordini  sacri,  si  diede  per  tempo,  al  privato  insegnamento  e  al 
giornalismo,  fondando  con  Pacifico  Valussi,  che  più  tardi  gli 
divenne  cognato,  il  giornale  letterario  la  Favilla,  uno  di  que'gior- 
nali  che  convien  ricordare  come  precursori  del  risorgimento  ita- 
liano. Nel  1838,  compose  per  Gustavo  Modena,  che  lo  fece  viva- 
mente applaudire  il  celebre  suo  dramma  II  Fornaretlo,  la  prima 
protesta  scenica  contro  la  pena  di  morte;  seguirono  poi  altri 
drammi,  1  Dalmati,  Marco  Cralievic' ,  L' iillimo  de'  Baroni,  la 
Bianca  Cappello  (tragedia  scritta  per  Adelaide  Ristori)  Fasma  e 
il  Tesoro  (commedie  di  stile  greco,  scritte  per  l'attore  Tommaso 
Salvini,  che  le  fece  particolarmente  piacere  e  che  difese  poi  sem- 
pre nobilmente  il  suo  poeta  contro  gli  attacchi  degli  invidi  col- 
leghi). Mentre  poi  egli  si  faceva  valere  come  scrittore  drammatico, 
diveniva  ancora  popolare  come  lirico,  specialmente  per  le  sue 
hallate,  nelle  quali  si  confonde  felicemente  il  carattere  slavo  con 
r  italiano,  e  per  1  suoi  stornelli,  genere  popolare  di  poesia  ch'egli 
ha  primo  introdotto  con  successo  nella  letteratura.  Avendo  detto 
libere  parole  nel  1847  in  Trieste  nel  banchetto  offerto  a  Riccardo 
Cobden,  fu  proscritto  da  quella  città.  La  parte  presa  dal  Dall' On- 
garo,  in  Venezia  e  Roma  particolarmente,  alle  cose  del  quaran- 
totto, fu  vivissima.  In  Venezia,  sotto  1'  assedio  pubblicò  il  gior- 
naletto: Fatti  e  parole  per  sostenere  il  coraggio  degli  assediati 
che  lo  leggevano  avidamente.  Quindi  andò  a  Roma  qual  commis- 
sario del  generale  Garibaldi,  per  armarvi  la  prima  legione  italia- 
na; s' intende  da  sé  che  in  quel  tempo  il  Dall'  Ongaro  avea  già 
deposto  r  abito  ;  né  ciò  solo,  ma  egli  avversava  con  calore  la  po- 
litica guelfa  de'Giobertiani.  In  Roma,  il  Dall' Ongaro  sedette  pure 
fra  i  rappresentanti  del  popolo.  Caduta  Roma  nelle  mani  de'  fran- 
cesi,   egli    riparò    nella    Svizzera    fino    al    1852,    onde    l'Austria 


—  330  — 

lo  fece  finalmente  cacciare.  Ramingò  allora  nel  Belgio  ed  in 
Francia  fino  all'anno  1859,  in  cui,  venuto  in  Toscana,  il  Ri- 
casoli  lo  fece  da  prima  arrestare  qual  mazziniano,  ma  per  dar- 
gli in  breve  la  libertà  e  la  cattedra,  dopo  un  colloquio  avuto  col 
poeta.  Questa  è  la  rete  d'  una  biografia,  ma  non  può  essere  na- 
turalmente la  biografia  stessa.  Io  non  mi  sentirei  ora  1'  animo 
posato  abbastanza  per  iscriverla  ;  ma  poiché  in  queste  pagine  io 
mi  occupo  di  soli  scrittori  viventi,  né  mi  aspettava  così  presto 
il  dolore  di  perdere  l'amico,  ho  voluto  almeno  dargli  qui  l'estremo 
saluto,  come  a  persona  viva  che  mi  sta  sempre  innanzi  agli  occhi 
col  suo  volto  dogale,  col  suo  lieve,  onesto  sorriso  umoristico,  e  di 
cui  sento  ancora  il  calore  che  gli  spirava  dall'anima  e  gli  passava 
in  una  stretta  di  mano  significativa  ed  in  una  parola  sempre  bene- 
vola anche  nel  motto  arguto.  Col  tempo,  la  storia  letteraria  darà 
il  loro  posto  d'  onore  alle  opere  dell'  ingegno  di  Francesco  Dal- 
l'Ongaro;  intanto,  mi  sembrò  giusto  che  la  pagina  d'un  contem- 
poraneo lasciasse  durevolmente  scritto  come  se  1'  ingegno  del- 
l' autore  del  FotmareUo,  di  Fasma  e  degli  Stornelli  era  vivo  ed 
arguto,  il  cuore  di  lui  era  caldo  ed  appassionato,  buono  e  delicato, 
semplice  e  generoso.  (1) 


(1)  Dal  mio  carteggio  privato  scelgo  cinque  lettere  direttemi  dal  com- 
pianto amico,  in  diverso  tempo,  le  tre  prime  nell'anno  1864,  l'ultima 
alla  vigilia  stessa  del  giorno  che  lo  rapiva  per  sempre  all'afifetto  degli 
amici  ed  alla  persecuzione  de'nemici.  Le  pubblico  qui  nella  loro  genui- 
nità, quantunque  privatissime,  perchè  provano,  sovra  ogni  cosa,  la  bontà 
dell'animo  dello  scrittore  infelicissimo.  La  prima  lettera  risponde  ad  un 
disegno  di  programma  manoscritto,  per  la  fondazione  di  un  giornale  che 
meditavo  nel  1864,  da  intitolarsi:  Il  Prometeo,  al  quale  desideravo  come 
collaboratori  Carlo  Cattaneo,  Giuseppe  Ferrari,  Filippo  De  Boni,  Ausonio 
Franchi  e  il  Dall'Ongaro.  Nella  qualità  caratteristica  dei  collaboratori  e  nel 
titolo  del  giornale  io  desideravo  fossero  affermate  le  tendenze  agitatrici 
del  giornale  e  la  manieria  un  po'vulcanica  col  quale  doveva  essere  scritto. 
La  seconda  lettera  si  fonda  sopra  un  equivoco.  Un  amico  aveva  detto  al 
Dall'Ongaro  ch'io  scrivevo  di  lui  per  i  Contemporanei  del  Pomba.  Ciò 
non  era  vero  allora;  ma  io  sono  contento  di  avere  in  tal  modo  potuto 
apprendere  che  non  gli  sarebbe  riuscito  discaro  l'essere  ricodato  da 
me.  La  terza  lettera  ragiona  della  commedia  il  Tesoro.  La  quarta  let- 
tera annunzia  dolorosamente  la  sentenza  che  lo  caccia  da  Napoli.  L'ul- 
tima lettera,  che  somministrava  materia  ad  un'errata  corrige  della  Ri- 
vista Europea  ed  alla  sua  piccola  cronaca  degli  Italiani  all'estero,  non 
può  ora  esser  letta  per  intiero  senza  una  viva  emozione. 


—  331  — 

Caro  amico, 

Perugia,  4  luglio,  (1864). 

Ho  ricevuta  la  tua  lettera  e  il  programma  del  giornale.  Nella  tua  fretta 
giovanile  mi  sembra  che  non  hai  bene  scelto  né  il  nome  ch'è  troppo 
ambizioso,  né  la  forma  per  rendere  accettabile  il  tuo  programma  alla 
maggior  parte  degli  uomini  a  cui  ti  proponi  ricorrere.  Avrei  comin- 
ciato dallo  scriverne  al  Cattaneo  perchè  prendesse  egli  stesso  possibil- 
mente la  briga  di  formulare  alcune  idee  che  sarebbero  state  conformi 
alle  tue,  e  avrebbero  avuto  per  gli  altri  maggior  autorità  che  non  pos- 
sono avere  venendo  da  te  o  da  me.  Io  conosco  l'uomo.  Bisogna  dirgli 
che  si  vuol  fare  un  Politecnico  settimanale.  Sarebbe  il  vero,  poiché  lo 
spirito  sarebbe  lo  stesso:  portare  la  smcerità  nelle  lettere,  nella  scienza 
e  nell'arte.  Preferirei  il  titolo  umoristico  Fra  Sincero  al  tuo  Prometeo. 
Ricorda  il  verso  di  Orazio:  ex  fumo  dare  lucem.  Mi  piacerebbe  anche  il 
titolo:  Luce  ed  amore,  oppure  porrei  queste  due  parole  come  epigrafe 
al  semplice  titolo  Arte  che  riunisce  nel  suo  sommo  concetto  lo  scopo 
del  vero  e  del  bello,  della  verità  o  dell'affetto, 

Non  intendo  già  di  farti  un  contro  progetto:  ma  di  persuaderti  a  non 
operare  con  troppa  fretta  in  cosa  sì  grave.  Fra  non  molti  giorni  sarò 
di  ritorno  a  Firenze,  e  ne  parleremo.  Ma  bada  di  non  pregiudicare  col 
fatto.  A  voler  fondare  qualche  cosa  bisogna  preparare  le  fondamenta. 

Studio  un  po'Perugia  e  le  sue  cronache  per  dettare  poi  qualche  lettera. 

Gli  amici  ti  risalutano  —  tu  saluta  i  nostri,  e  sta  sano. 

Tuo  affezionati s Simo 
Da.ll'Ong.\ro. 

Caro  amico, 

Firenze,  23  Agosto,  (1864). 

Grazie  della  lettera  ascolana.  È  ricca  di  fatti  e,  raccorciata  qua  e  là, 
mi  gioverà  a  coordinare  le  varie  parti  del  mio  libretto. 

Mi  dice  il  Baratta  che  tu  hai  posto  mano  alla  mia  biografia.  Bada 
veh  !  A  tutii  quelli  che  me  ne  richiesero,  risposi  no.  A  te  che  non  me 
ne  chiedi,  non  posso  oppormi,  ma  vi  sono  certi  punti  scabrosi  nei  quali 
vorrei  poter  intervenire  indirettamente.  Scrissi  una  lettera  al  Quinet, 
che  non  fu  pubblicata  in  Francese,  ma  bensì  tradotta  senza  nome  d'au- 
tore nella  Ragione  del  1857,  1858.  Fa  di  trovarla:  forse  ti  darà  la 
chiave  di  un  certo  fatto  della  mia  vita  sociale. 

In  francese  fu  pubblicata  dal  Poivin  a  Bruxelles  nel  1."  volume  della 
sua  opera:  l'Égliae  et  la  morale  par  Dom  Jacobus.  Vedi  le  note:  404  — 
408  —  411  e  segg.  Se  non  hai  la  Ragione  ti  manderò  questo  volume  del 
Poivin. 


—  332  - 

Nella  Ragione  hanno  soppresso  credo  il  mio  nome,  ponendo  solo  un 
membro  della  Costituente  romana.  Un  periodo  di  questa  epistola  fu  ci- 
tato a  strazio  nell'Osservatore  Romano  dell'aprile  decorso.  Ma  i  flitti 
non  si  distruggono  colle  ciarle. 

Lascio  Firenze  domani,  e  per  Livorno  e  Genova  vo  a  Torino  poi  a 
Milano  —  quindi  forse  a  Napoli. 

Cura  valetudinem,  et  have  bene. 


Caro  amico, 


Da.ll'Ongaro. 


Napoli,  20,  (1864). 


Ti  ringrazio  delle  tue  lettere  specialmente  dell'ultima  che  contiene 
gli  appunti  giudiziosi  die  fai  al  mio   Tesoro. 

'Alla  maggior  parte  di  questi  provvidi  nella  recita  ch'ebbe  luogo  ri- 
tardata, ma  con  esito  felicissimo  I  versi  dell'ombra  dopo  il  li  atto 
furono  soppressi  alla  recita.  L'epilogo  non  è  insolito  nelle  commedie 
greche  e  latine  in  bocca  de'principali  personaggi:  è  un  po'di  civette- 
ria, e  un  po'  di  vendetta:  qualche  volta  può  parer  necessaria.  Sbagli 
molto  se  credi  il  publico  del  teatro  de'florentini  indegno  del  titolo  di 
Ateniese.  Non  conosco  publico  più  garbato,  e  più  pronto  a  gustare  la 
minima  allusione.  Credimi,  non  fu  adulazione.  Negli  altri  paesi,  si  ac- 
comola  tutto  sostituendo  Italia  a  Napoli:  ma  in  verità  auguro  a  tutte 
le  città  d'Italia,  l'atticismo  napoletano. 

Un'altro  appunto  non  comprendo.  È  Lisia  che  sa  per  udito  esser  morta 
Bacchide:  Telessi  fu  presente  e  racconta  ciò  che  vide.  Né  Bacchide  po- 
teva essere  una  meretrice  volgare  —  nò  poteva  morir  come  tale,  se 
educò  Telessi,  com'è.  È  un'egoista  —  annoiata  della  vita,  come  le  gre- 
che dopo  Alessandro.  E  la  nutrice  è  Ateniese  —  e  non  le  disdice  il  par- 
lar elegante  —  purché  l'eleganza  sia  d'un'ancella  addetta  a  un  Etèra. 
È  il  realismo  che  contrasse  all'ideale  di  Telessi  e  di  Lisia,  amanti. 

Per  altri  paesi  qualche  po'di  spiegazione  nel  tuo  senso,  sark  neces- 
saria. Qui,  fu  tutto  compreso  al  primo  slancio.  Credo  che  t'inganni 
quanto  al  carattere  di  Doro.  Egli  sa  tutto  e  non  dice  nulla  finché 
crede  possibile  l'esito  previsto  e  voluto  dal  padre.  S'egli  avesse  par- 
lato —  dov'era  il  merito  di  Lisia,  che  posto  al  bivio,  antepone  al- 
l'amore, la  carità  di  figlio?  A  me  importava  rilevare  il  servo  per  la 
sua  fedeltà,  e  il  padrone  per  la  spontaneità  del  suo  rispetto  a'comandi 
paterni.  Codesta  è  la  filosofia  dell'intrigo.  —  E  non  fu  sbagliata,  né 
fraintesa. 

Il  Salvini  (Lisia)  dovette  a  fatica  frenare  le  lacrime  durante  la 
ceremonia  funebre.  —  E  V Alberti  —  sotto  l'impressione  di  quella  sce- 
na, fece  chiamar  sul  palco  scenico  un  architetto,  e  tutto  commosso  gli 
ordinò  una  cappella  per  il  proprio  padre,  morto  da  cinque  anni.  —  Il 
meglio  del  mio  trionfo  ò  codesto. 


—  333  — 

Ora  Doro  è  malato  —  e  c'è  sospensione  nelle  recite  —  ma  saranno 
riprese  fra  poco  —  e  il  Tesoro,  avrà  l'esito  brillantissimo  della  Fasma, 
che  ebbe  già  16  recite,  e  sempre  più  affollate.  Ora  metto  insieme  la 
terza  commedia  —  la  Collana  — ■  alla  quale  auguro  la  stessa  fortuna. 

Sarei  già  di  ritorno,  se  non  mi  avessi  scritto  le  scuole  aprirsi  più 
tardi  all'Accademia.  Ma  dentro  il  mese  sarò  con  voi  —  e  daremo  corpo 
al  giornale  (1). 

Gli  azionisti  di  cui  ti  parlò  Villari  —  sono  m  fieri,  ma  sicuri.  L'avrei 
annunziato  in  qualche  articolo  —  ma  a  che  prò  —  in  mezzo  a  questo 
frastuono?  Bisogna  scegliere  il  momento  opportuno  —  massime  in  que- 
sta Parigi  d'Italia. 

Non  ricordo  di  aver  parlato  di  pitture  aquilane  più  antiche  di  Dante. 
Più  antiche  ve  n'è  ad  Assisi  e  bellissime.  Aquila  ha  sculture  antichis- 
sime nella  facciata  della  Basilica  di  Colle-maggio. 

Saluta  gli  amici  —  e  annunzia  il  mio  ritorno,  e  l'apertura  del  mio 
corso  per  la  fine  del  mese. 

Va  da  mia  sorella,  e  dille  del  motivo  della  sospensione  alle  recite. 

Dall'Ongaro. 

Caro  de  Gubernatis, 

J4  Die.  Napoli,  (1872). 

Grazie  cordiali  per  la  tua  lettera  affettuosa.  Il  fatto  è  compiuto:  io 
son  rimesso  a  Firenze;  dove  il  mio  corso,  alla  scuola  di  declamazione 
è  perduto.  Ma  forse  «  Hoc  crat  in  votis  »  del  Consiglio  superiore.  I 
miei  amici  e  colleghi  hanno  dato  il  voto,  il  ministro  lo  mette  ad  ese- 
cuzione, senza  pure  motivar  le  ragioni,  e  senza  communicarmelo  diret- 
tamente. Altro  che  Consiglio  de'  X.  Inquisizione  bella  e  buona,  é  giudicio 
e  condanna  «  ex  informata  conscientia.  » 

Io  non  posso  far  ciò  che  il  decoro  vorrebbe.  Mi  sarà  d'  uopo  piegar 
la  testa,  appena  la  mia  salute  affatto  rovinata  me  lo  consenta.  Ritra- 
sportare la  casa  non  posso:  dovrò  per  la  prima  volta  privarmi,  quando 
più  n'  ho  mestieri,  delle  cure  affettuose  de'  miei  ! 

Ho  le  bozze  della  prima  parte  dei  mio  studio.  Bada  non  è  la  prima 
ma  la  43™a  lezione.  Ma  ciò  va  in  nota.  Io  vorrei  e  te  ne  prego  che 
tutto  intero  l'articolo  sia  pubblicato  nel  medesimo  numero.  Senza  ciò 
non  ha  senso,  e  non  servirebbe  allo  scopo.  Tu  intendi.  Fa  dunque  un 
miracolo,  e  stampa  tutto,  mandandomi  al  più  presto  le  copie  a  parte. 
Fammi  mandare  colle  bozze  anche  il  Ms. 


(1)    Allude  alla  Civiltà  Italiana  da  me    diretta,  che  usci    felicemente    il    l"  gennaio 
1S56,  e  visse  dodici  mesi  agitatissimi. 


—  334  - 

Il  fascicolo  che  ricevetti  è  bellissimo  e  ricco:  massime  la  parte  bi- 
bliografica e  critica.  E  buone  soii   pure   le   tue   biografie:  solo  a  quella 

del non  avrei  fatto  mane  ire    quasi    del   tutto  la  parte  politica, 

per  la  quale  avrei  potuto  fornirti  assai  documenti  inediti  ancora.  Ma 
o^gimai  è  fatto. 

Se  farai  menzione  di  me,  fa  tacere  un  poco  il  tuo  cuore,  e  sii  calmo. 
Sai  ch'io  sono  sempre  il  maledetto  per  que' Signori,  e  mi  hanno  sacri- 
ficato all'altare  della  conciliazione  !  Non  occorre  maravigliarsene  troppo 
a  questi  lumi  di  luna. 

Saluta  la  principessa.  Io  vo  migliorando  lentamente,  ma  le  affezioni 
gastro-enteriche  sono  tenaci.  Non  posso  lavorare. 
Sta  sano. 

Tuo 
'   '     -      ,  Dall' Ongaro. 

P.  S.  Non  conoscevo  punto  il  bel  volumetto  de' tuoi  drammi,  né  di 
questi  avevo  letto  che  la  seconda  parte  di  Re  Naia.  Grazie  anche  di  que- 
sti. Ne  farò  una  lezione  per  la  futura  annata.  ; 

Mio  caro  amico,  - 

Napoli,  9  Genn.,  1873. 

Ti  ringrazio  con  tutto  il  cuore  delle  affettuose  parole  colle  quali  an- 
nunziasti il  mio  ritorno  a  Firenze.  Hai  trovata  la  vera  formula  del- 
ì'uhase.  Non  potrò  mai  dimenticare  questo  tratto  della  tua  amicizia. 

Aspetto  le  copie  separate,  che  spero  avranno  una  numerazione  spe- 
ciale ed  una  copertina  qualunque. 

Parecchi  errori  son  corsi  pur  troppo,  come  avviene  quando  non  si  ha 
il  testo  presente,  e  non  si  può  rivedere  una  seconda  volta.  Ad  uno  però 
di  questi  errori  sarà  necessario  fare  una  errata  corrige  :  quello  alla  pa- 
gina 285  —  alia  metà  della  pagina,  dove  il  periodo  comincia  :  La  lingua 
Io  avrò  certo  scritto  lingue  in  plurale.  Sarebbe  stato  meglio  gl'idiomi: 
ma  non  bisogna  lasciare  la  sgrammaticatura  clie  mi  sarebbe  tosto  no- 
tata da  chi  tu  sai.  Non  so  perchè  tu  abbia  corretto:  la  lingua  discesa 
da' Vedi.  Io  aveva  «scritto  la  lingua  de'Vedi.  Accetto  la  versione  Casmira: 
benché  non  sono  pochi  gl'indianisti  che  vogliono  esistesse  nella  Battriana 
la  lingua  madre,  dalla  quale  sarebbero  derivati  i  due  rami  ano  e  se- 
mitico. Ma  in  ciò  io  mi  rimetto  a  te  come  maestro  e  donno. 

La  mia  salute  non  va  beae.  Questi  catarri  dello  stomaco  sono  lenti  a 
vincere.  Ho  due  mesi  di  congedo  per  curarmi.  Vedremo  se  basteranno. 
E  ci  vedremo  a  Firenze.  Se  no,  verrai  a  trovarmi  a  Napoli. 

Nei  due  drammi  aggiunti  alla  trilogia  di  Re  Naia,  il  tuo  verso  corre 
più  franco:  l'azione  è  più  energica,  e  non  mi  meraviglio  che  Rossi  sia 
stato  un  bel  Dasarata.  Mi  sembra  però  che  tu  abbia  dato  a  quelle  donne 
un  linguaggio  troppo  modernamente  appassionato  —  anche  considerando 


—  335  - 

il  fatto  in  sé  stesso.  Bharata  si  acconciò  con  tanta  nobiltà  a  tenero  il 
vicariato  di  Rama.  Ma  queste  sono  questioni  da  poco.  Tu  hai  acclimato 
i  costumi  indiani  nelle  scene  italiane,  e  questo  è  un  gran  che. 

Mi  mandano  da  Boston  alcune  delle  mie  novelle  colà  ristampate  e 
proposte  come  testo  di  lettura  nelle  scuole  italiane  degli  Stati  Uniti, 
dalla  Università  di  Cambìùdge.  Il  Longfellow  non  sarà  stato  straniero 
a  tale  proposta  per  me,  se  non  lucrosa,  onorevole.  Potrai  accennarlo 
nel  fascicolo  futuro.  Quelle  povere  novelle,  che  non  furono  manco  annun- 
ziate in  alcun  giornale  d'Italia  ! 

Fa  per  me  una  visitina  alla  Dora  d'Istria,  e  falle  i  miei  saluti  ed  au- 

gurj,  congratulandoti   con   essa  de' suoi  dotti  articoli.  E  ricordami  con 

rispettoso  affetto  alla  tua  signora. 

Tuo 

Fr.  Dall'  Ongaro. 

—  Aggiungo  qui  finalmente  la  lettera  con  la  quale  la  buona  ed  infe- 
lice sorella  del  poeta  mi  narrava  le  ultime  ore  di  lui:  «  Il  nostro  caro 
era  qui  a  Napoli,  come  forse  Lei  lo  vide  da  ultimo  in  Firenze^  deperito 
molto;  ma  non  accusava  mai  forti  sofferenze;  non  aveva  dei  dolori  fisici; 
non  aveva  febbre  ;  ma  deperiva  sempre;  le  sofferenze  morali  erano 
molte  (chi  non  lo  sa?j,  quando  venne  la  notizia  della  morte  del  nostro 
fratello  Giuseppe,  avvenuta  il  25  novembre.  Volevamo  celarla  a  lui, 
come  avevamo  celato  la  malattia,  ma,  al  funesto  annunzio,  come  repri- 
mere il  grido  di  dolore  della  figlia  Marietta  che  da  più  anni  dimora 
con  noi  ?  La  intese,  se  ne  addolorò,  e  pensò,  col  suo  solito  gran  cuore, 
che  un'altra  famiglia  rimaneva  quasi  priva  di  sostegno.  Pochi  giorni  di 
poi,  venne  il  decreto  del  trasloco  suo  a  Firenze,  che  temeva  sempre, 
ma  si  ostinava  a  non  creder  possibile;  si  sentì  da  questo  estremamente 
umiliato.  Il  Rettore  Settembrini  lo  confortò  a  domandare  una  proroga 
del  resto  necessaria  per  il  suo  mal  essere,  e  fu  il  Settembrini  stesso 
che  la  domandò;  egli  reagiva  con  tutta  la  sua  forza;  scrisse  a  varii  suoi 
amici,  per  essere  coadiuvato  a  render  possibile  una  sua  idea,  che  da 
qualche  tempo  aveva  nella  mente  di  pubblicare  una  Rivista  europea  ar- 
tistica-industriale,  vana  speranza;  non  ebbe  il  tempo  di  ricevere  le  ri- 
sposte. 

Ultimamente  ricevette  da  un  certo  Gentili,  credo  calabrese,  dei  versi, 
che  molto  gli  piacevano,  poi  un  bellissimo  volume  pure  di  versi,  che 
certo  lei  conoscerà,  di  Alessandro  Arnaboldi  lombardo,  de'quali  diceva 
un  gran  bene  ;  ne  leggeva  ora  l'uno  ora  l'altro  componimento  agli  amici 
0  studenti  che  venivano  a  visitarlo  ;  diceva  che  gli  era  di  conforto  a 
sperare  per  l'Italia  la  comparsa  di  questi  scrittori;  pensava  a  scrivere 
un  articolo,  per  farli  maggiormente  conoscere;  voleva  parlare  insieme 
di  Gentili,  Arnaboldi  e  Rapisardi,  che  venne  a  visitarlo  negli  ultimi 
giorni  con  le  sue  Ricordanze;  ma  nemmeno  per  questo  fece  in  tempo. 

Si  fece  un  consulto  che  sparse  poca  luce  sopra  il  suo  male;  il  dottor 


—  336  — 

Vitarelli,  ch'era  alla  cura,  mi  domandava  s'egli  aveva  avuto  altre  scosse 
morali;  ma  egli  s'affrettava  a  dire  di  no,  e,  pure  deperito,  parlava  di 
cose  da  farsi,  e  di  uscire.  Venne  il  giorno  9  gennaio;  ricevette  il  pacco 
di  quei  fascicoli  che  Lei  gli  spediva,  estratti  dalla  sua  Rivista  Europea; 
fu  contento  che  avessero  le  copertine.  La  tremenda  mattina  del  10 
andai,  come  di  solito,  in  camera;  era  ancora  a  lotto;  mi  dis!<e  che 
aveva  dormito  un  po'  meno  del  solito,  ma  che  stava  bene.  Mi  disse  che 
avrebbe  preso  del  latte  e  glie  lo  portai....  Si  vestì,  venne  nella  stanza, 
dove  era  preparato  per  la  colazione;  prima  che  venisse  portata  si  alzò 
da  sedere  per  ritornar  nella  sua  camera;  mi  parve  di  vedere  un  poco 
di  cambiamento  nella  fisionomia,  e  lo  seguii;  erano  le  11;  gli  domandai 
se  si  sentiva  male;  egli  rispose  che  si  sentiva  oppresso,  e  il  ventre  più 
gonfio  del  solito;  ma,  tutto  sarebbe  passato;  gli  portai  del  brodo,  pen- 
sando al  latte  preso  e  forse  non  digerito;  egli  era  sul  canapè,  e  non 
potè  prenderlo;  chiamai  il  nipote  Luigi,  che,  per  fortuna,  ora  è  con  noi; 
lui  pure  domandò:  «  cosa  ti  senti  ?»  —  «  Qualche  dolore  al  ventre;  do- 
lori acuti  no  »  rispose;  ma,  per  l'oppressione  lo  consigliammo  a  ri- 
mettersi a  letto;  lo  fece  senza  voler  spogliarsi  del  tutto.  Gigi  disse  : 
«  vado  a  chiamare  il  dottore  »  —  «  Va  pure,  va  prima  dal  dottor  Te- 
sta, è  più  vicino,  »  —  Mi  disse  lui  stesso  che  cosa  dovevo  preparare  per 
quando  sarebbe  arrivato;  facevo  fare  tutto  senza  uscire  mai  di  ca- 
mera; tremavo,  ma  non  sapevo  perchè;  si  porta  il  tutto  quanto  era 
ordinato;  gli  dico  di  mettere  il  cataplasma;  «  oh!  non  occorre  più 
gridò,  oh!  sono  atroci,  e  si  toccava  lo  stomaco  che  era  divenuto  molto 
gonfio  »  «  mi  sento  svenire!  »  disse;  prendo  aceto,  acqua  di  Colonia, 
tutto;  egli  va  indietro  con  la  testa,  muove  le 'labbra,  ma  non  esce  una 
sola  parola!  Io  da  una  parte  dal  letto,  la  Manetta  dall'altra:  «  Fra- 
tello! Zio!  »  Si  crede  uno  svenimento;  gli  apro  i  denti  chiusi;  ma 
nulla;  egli  resta  immobile  prima  cogli  occhi  aperti;  poi  li  chiuse  da 
sé;  si  spera  sempre;  arriva  il  medico;  lo  guarda;  da  quello  sguardo  si 
accresce  il  mio  terrore,  e  lui,  la  cara  anima  mia,  sempre  tranquillo! 
Arriva  Gigi  disperatissimo  per  non  aver  avuto  l'ultimo  sguardo!  Non 
più  !  ecco  tutto  !  Io  non  so  scrivere,  ma  ho  voluto  dirle,  signor  An- 
gelo, come  passò  quel  tremendo  momento.  Ora  non  ne  posso  più.  » 


XXI. 


FRANCESCO  DE  SANCTIS. 


Sopra  la  tomba  di  Francesco  Dall'Ongaro  disse  alcune  parole 
commuoventi  il  De  Sanctis.  La  tomba  del  gentile  e  vivace  poeta 
friulano  non  poteva  esser  meglio  onorata  che  pel  tributo  di  lodi 
resogli  dal  più  illustre  fra  i  critici  napoletani,  del  quale  mi  viene 
così  pOrta  naturale  occasione  di  lasciare  qui  un  breve  ricordo. 

Ma,  prima  d'incominciare,  giovami  richiamare  la  mente  del  let- 
tore sopra  un  altro  di  que'fatti  caratteristici  che  ci  presenta  la 
nostra  storia  letteraria. 

Come  nel  settentrione  d' Italia,  e  particolarmente  nel  veneto, 
trovammo  il  maggior  numero  di  distinti  poeti  italiani  contempo- 
ranei, nel  mezzogiorno  riscontreremo  i  nostri  più  noti  critici  e 
filosofi.  Siciliano  era  l'Emiliani-Giudici  autore  di  una  pregevole  storia 
civile  e  filosofica  della  nostra  letteratura.  Meridionali  sono  il  De 
Sanctis,  il  Settembrini,  il  Bonghi,  il  Villari,  lo  Spaventa,  il  Fio- 
rentino. E,  dove  si  scrive  generalmente  peggio  la  nostra  lingua, 
là  fiorirono  nel  secol  nostro,  insigni  stilisti,  a  incominciare  con 
Basilio  Puoti  ed  a  finire  con  1'  abate  Vito  Fornari  e  con  Ferdi- 
nando Ranalli.  Chi  imprendesse  pertanto  a  scrivere  una  Geografia 
letteraria  d'Italia  potrebbe  comporre  un'opera  non  pure  curiosa  e 
piena  di  fatti  singolari,  ma  importante  per  lo  studio  psicologico 
delle  razze  che  concorsero  a  formare  il  presente  popolo  italiano,  e 
che  gli  danno  però  tanta  varietà  d'aspetti,  d'istinti  e  d'ideali. 
Muovendi)  dalla  letteratura  latina  s'incomincierebbe  a  domandare 
fino  a  qual  punto  la  dolcezza  di  Virgilio  e  la  grazia  di  Catullo 
rechino  un  carattere  veneto,  fino  a  qual  punto  la  facilità  di  Ovi- 

HiooRD!  Biografici  ?2 


—  338  — 

dio  e  l'abbondante  loquacità  di  Cicerone  tradiscano  un  carattere 
napoletano,  e  perchè  Catone,  Varrone,  Sallustio  e  Tacito  ritengano 
più  di  tutti  gli  altri  scrittori  latini  della  rude  fierezza  dell'agreste 
Lazio,  e  perchè  finalmente  Giulio  Cesare,  quantunque  romano, 
essendo  stato  educato  in  Grecia,  e  avendo  percorso  il  mondo  ab- 
bia preso  quella  larghezza  e  gentilezza  nel  dire  e  nel  fare  che  è 
propria  di  ogni  uomo,  per  natura  bene  dotato,  che  abbia  molto 
veduto  e  che  sappia  conformare  a  sé  stesso  il  bello  ed  il  buono 
ch'egli  viene  osservando.  Una  storia  letteraria  italiana,  concepita 
sotto  questo  aspetto  singolare,  avrebbe,  parmi,  la  sua  utilità,  e 
però  io  m'induco  a  proporla,  nella  speranza  che  alcuno  de'miei 
giovani  lettori  s'induca  un  giorno  a  tentarla. 

Quale  può  essere  ora,  nel  caso  nostro  speciale,   la  ragione  na- 
turale che   produsse    tanti   critici  insigni  nella  bassa  Italia?  Ne 
dobbiamo  noi  riferire  il  merito  alle  tradizioni  filosofiche  della  Ma- 
gna Grecia,  ed  alla -presenza  in  essa  di  un  popolo    ellenico  il  cui 
genio  si  contemperò  con  quello  delle  razze   italiche?   Se  conside- 
riamo come  i  più  originali  tra  i  pensatori  italiani,  da  San  Tom- 
maso a  Bruno,    Telesio,   Campanella,   Vico,  Genovesi,  Filangeri, 
Galluppi,  i  veri  fondatori,  in  somma,  di  una  filosofia  italiana,  fu- 
rono napoletani,  saremmo  tentati  a  crederlo.  Ma  vi    è   forse  una 
ragione  più  intima  nel  processo    stesso    di    quella   filosofia  e  di 
quella  critica,  la  quale,  chi  ben  la  consideri,  è  più  inventrice  che 
ragionatrice,  è  più  poesia  che  logica;  la  vivacità  del  genio  napo- 
letano rileva  perfettamente  la  immagine  delle  cose  che  osserva,  e 
questa  immagine  rilevata  nel  campo  della  universa  speculazione  può 
divenire  alta  filosofia,  e,  adoperata  al  giudizio  degli  accidenti  partico- 
lari, può  riuscire  critica  eccellente.  E  tale  mi  sembra  appunto  la  cri- 
tica di  Francesco  De  Sanctis.  Egli  non  ha  propriamente  né  una  co- 
scienza universale,  né  un  supremo  sistema  ideale  che  informi  i  suoi 
giudizii  letteraria  Tutta  la  sua  critica  si  compone  della  somma  di 
casi  speciali,  talora  specialissimi,  da  lui  osservati  con  vivo  e  pe- 
netrante ingegno,  e  poi  combinati  in  una  critica  più  generale,  per 
girare  nell'animo  de'suoi  lettori  od  ascoltatori,  un  intiero  ordine 
d'affetti  e  d'idee.  Perciò,  nell'apparenza  di  un    filosofo   astratto  e 
distratto,  che  nulla  vede,  nulla  cura  di  quello  che  gli  accade  in- 
torno, egli  é  un  osservatore  diligentissimo  e  un  combinatore  fe- 
licissimo di  numerosi,  minuti  casi  osservati.  Talora  gli  accade  bene 
di  dare  soverchia  importanza  ad  un  fatto  minimo,  di  colorirlo  con 
troppa  vivacità,  di  estenderne  gli  effetti  oltre  i  limiti  ne'quali  si 
produce  ed  opera;  e  però  di  trascinare  pure  talora   in  quella  sua 


—  339  — 
foga,  oltre  il  giusto  segno,  il  giovine  mondo  che  gli  si  affida.  Ma, 
per  lo  più,  in  quell'impeto,  egli  indirizza  i  giovani  al  vero,  nel 
modo  più  persuasivo  ed  efficace,  invitandoli  ad  osservare  insieme 
i  fatti,  e  deducendone  poi  conseguenze  vive,  che  paiono  tanto  più 
legittime,  in  quanto  ciascuno  sente  agevolmente  ch'ei  le  potrebbe 
trarre  da  sé.  Questo  sembra  a  me  il  merito  principale  della  cri- 
tica di  Francesco  De  Sanctis,  e  quello,  in  somma,  che  le  dà  vera- 
mente peso  e  gravità.  Che  se  gli  splendori  della  parola  e  l'origi- 
nalità dello  stile  sono  in  lui  pregi  invidiabili,  e  se  basterebbero 
certamente  a  sedurre,  non  varrebbero,  per  sé  soli,  a  persuadere 
lungamente  e  rendere  operoso  il  discepolo.  E  il  De  Sanctis  non 
cura  punto  di  sorprendere  il  suo  giovine  mondo  con  belle  parole; 
queste  egli  non  cerca,  e,  perché,  non  le  cerca,  vengono  fuori  ta- 
lora, nella  loro  stessa  ineleganza,  piene  di  vivacità  e  di  energia; 
egli  si  direbbe  anzi  da  chi  gli  parlasse  tranquillamente  di  cose 
volgari,  uomo  privo  d'ogni  eloquenza;  il  petulante  Petruccelli  della 
Gattina  potè  quindi  arrivare  un  giorno  a  chiamarlo  ebete.  Reca- 
tevi dal  De  Sanctis,  parlategli  della  pioggia  e  del  vento,  doman- 
dategli nuove  della  salute  sua  e  dategliene  della  vostra,  mettetevi 
in  complimento,  narrategli  le  vostre  miserie  burocratiche,  e  le 
vostre  brighe  accademiche,  invitatelo  finalmente  a  dirvi  il  vostro 
parere  per  iscritto  sopra  il  vostro  primo  sonetto,  e  voi  correrete 
rischio  di  rìdurvelo  ad  uno  stato  che  se  non  è  ancora  l' imbecil- 
lità, non  se  ne  discosta  di  molto;  ma,  se  invece  d'intorpidirne 
con  la  noia  l'ingegno,  avrete  virtù  di  eccitarlo,  toccando  alcuna 
delle  sue  corde  sensitive,  facendo  scattare  alcuna  delle  sue  molle 
segrete,  allora  udrete,  simile  ad  una  mina,  esplodere  la  eloquenza, 
tutta  scoppi  e  fiammelle  vive,  del  ridesto  oratore,  prorompere  coi 
suoi  amori,  con  le  sue  furie,  e  picchiare,  senza  riguardo,  intorno 
a  sé  come  il  basiono'ccchia  della  novellina  popolare.  Bazza  allora 
a  chi  tocca. 

Non  già,  intendiamoci  ch'ei  meni  il  flagello  sulle  persone;  ma, 
questo  io  intendo  dire,  che  egli  va  dritto  al  suo  segno,  come  se 
le  persone  non  ci  fossero;  ed  è  forse  questa  l'unica  via  per  cui 
si  può  arrivare  a  dire  liberamente  tutto  il  vero.  Poiché  se,  nella 
critica,  conta  molto  la  conoscenza  del  carattere  di  un  uomo  per 
giudicare  dello  scrittore,  non  conta  invece  niente  affatto  il  riguardo, 
che  le  convenienze  personali  comandino  al  critico,  per  trattenerne 
il  giudizio.  Il  De  Sanctis,  sotto  questo  aspetto  ancora,  fu  ed  è  cri- 
tico incolpabile;  egli  non  vide  mai  innanzi  a  sé  altra  maestà  al- 
l'infuori  del  vero,  sé  stesso  obblió  sempre,  e  del    suo  pubblico  si 


—  340  — 
curò  solamente  iu  quanto  egli   ne  ricercò   i   sentimenti    riposti, 
spesso  dissimulati,  per  renderli  palesi,  e  svergognarli  se  inonesti, 
infiammarli  se  generosi.  La  virtù  dello  scrittore,  per  questa  ispi- 
razione, riuscì  mirabile,  in  ogni  tempo. 

Francesco  De  Sanctis  è  nato  nel  1818,  a  Morra    nel   principato 
Ulteriore,    e    fu   erudito  nelle    lettere   italiane  e  latine    dallo  zio 
Carlo  De  Sanctis  in  Napoli,  nella  filosofia  dal  Fazzini.  S'avviava 
agli  studii  legali  quando  gli  fu  consigliato  di  frequentare  lo  studio 
del   marchese    Basilio   Puoti.    Ma  qui    giova    udire  lo   stesso  De 
Sanctis  che  nel  gustosissimo  suo  saggio  critico  sopra  l'ultimo  dei 
Puristi,    consacrò   al   maestro   un   vivace   ed  affettuoso  ricordo, 
«e  Avevo,  egli  scrive,    sedici    o   diciassette   anni  —  Avevo   letto 
moltissimi   libri    e   di  ogni   materia;  scrivevo  versi   e  prose,  im- 
provvisavo anche,  e  tutti  mi  lodavano,  e  il  maestro  mi  chiamava 
penna  d'oro,  ed  io  una  superbia  che  mai  la  maggiore;  mi  tenevo 
seriamente  il  più  istrutto  uomo   di  Napoli.  Avevo  parte  copiato, 
parte  riassunto  Obbes,  Leibnitz,  il  mio  favorito,   Spinosa,  Carte- 
sio,   Maleranche,    Ahrens,  Genovesi,  Beccaria,   Filangieri  e  tanti 
altri,  come  portava  il  caso,  senza  disegno  né  ordine;  di  storia,  di 
romanzi  e  di  tragedie  era  pieno  il  capo,  e  tutto  ci  rimanea,  per- 
ché avevo  grande  memoria.  Mi  avvenne  che  un  giorno  Francesco 
Costabile  mi  propose  di  menarmi  alla  scuola  del  marchese  Puoti. 
—  A  che   fare?  —   diss'io.  E  lui:  —  ad  impararvi  l'italiano.  Mi 
parve  un'off"esa.  Ma  molti  miei  amici  ci  andavano,  e  tutti  me  ne 
cantavano  meraviglia,  e  ci  andai  pur  io.  La  chiamavano  scuola 
di  perfezionamento.    Vi  si  andava  a  compier  gli  studii.   Moveva 
■tutti    un  desiderio  di  maggior  cultura  e  di  stare  a  paro  con  gli 
altri.  Già  quel  palazzo  magnatizio,  quelle  superbe  scale,  quel  ser- 
vitore in  guanti,  quella  sala  magnifica  tappezzata  di  libri  innal- 
zava l'animo,  lo  tirava  in  una  regione  più  elevata.  Non  so  che  di 
signorile  spirava  colà  che  cacciava  in  fuga  tutte  le  rozze  memo- 
rie  del  seminario.   Quel   di  che  ci  andai  io,  eravamo  parecchi  a 
far  l'esame  di  ammissione.  Il  Puoti  volle  sapere  i  nostri  studii,  e 
il  dove,  e  il  come,  tutto  minutamente;  ci  fé  tradurre  un  brano  di 
Cornelio  Nipote.  Dal  suo  modo  di  scrivere  parrebbe  uomo  grave 
e  compassato;  ma  era  tutt'altro.  Amenissimo,    vivacissimo,  pieno 
di  motti  e  di  lazzi  alla   napoletana,    non  insegnava,   non   si   met- 
teva in  cattedra,  conversava  raccontava  spesso,  si  divertiva  e  di- 
vertiva;   non   ci    era   aria   lì  nò  di  scuola,  né  di  maestro;   parca 
piuttosto  un  convegno  di  amici,  un'accademia  sciolta  da   regole  e 
da  formalità  Ai  provinciali  avveniva  spesso  di  chiamarlo  maestro 


—  341  — 

e  se  ne  turbava;  voleva  esser  detto  marchese.  Per  primo  atto 
correvano  a  baciargli  la  mano,  ma  la  ritirava  vivamente  e  di- 
ceva: —  non  si  bacia  la  mano  che  al  Papa.  —  Non  volea  si  di- 
cesse la  scuola,  ma  lo  studio  di  Basilio  Puoti:  né  le  sue  voleva  si 
chiamassero  lezioni,  ma  esercitazioni.  In  effetti  proprie  e  vere  le- 
zioni non  erano,  o  spiegazioni  o  teorie,  ma  esercitazioni  nell'arte 
dello  scrivere,  traduzioni,  componimenti,  letture  mescolate  di  aned- 
doti, di  riflessioni,  di  giudizii,  d'impeti  di  collera,  di  scuse  ama- 
bili, si  che  era  un  piacere  a  vederlo  e  a  sentirlo;  tuttociò  che 
scuola  0  maestro  o  studente  ha  di  convenzionale,  era  scomparso. 
Ano  le  proverbiali  panche,  sostituite  da  eleganti  sedie.  Il  marchese 
non  solo  sdegnava  di  esser  detto  maestro,  ma  non  ne  aveva  l'aria 
e  le  maniere;  pareva  piuttosto  un  amico,  maggiore  di  età  e  di 
esperienza  e  di  studii,  che  stava  lì  compagno  e  guida  ne'nostri 
lavori,  e  sentiva  il  parer  nostro  e  ci  diceva  il  suo,  e  poneva  tutto 
in  discussione,  quello  che  diceva  lui  e  quello  che  dicevamo  noi. 
Talora  avveniva  che  il  torto  l'aveva  lui,  e  lo  riconosceva  di  buona 
grazia  e  diceva  :  —  ho  preso  un  granchio  a  secco.  —  Né  questa 
libertà  di  discussione  generava  anarchia,  essendoci  differenze  ge- 
rarchiche naturali,  tanto  più  efficaci,  quanto  meno  imposte  dai 
regolamenti.  Il  marchese  era  a  tutti  caro  e  rispettato,  perchè 
amava  i  suoi  giovani,  così  li  chiamava,  non  studenti  né  discepoli 
ed  era  il  loro  protettore,  il  loro  padre.  Ci  erano  attorno  a  lui  un 
gruppo  di  veterani,  giovani  stati  lì  da  cinque  o  sei  anni,  e  che  il 
marchese  scherzando  chiamava  gli  Anziani  di  Santa  Zita.  Il  loro 
giudizio  era  molto  autorevole,  e  quando  parlava  l'un  di  essi  si 
faceva  silenzio,  l'irrequieto  marchese  per  il  primo,  e  si  stava  a 
bocca  aperta.  Ci  erano  anche  gli  Eletti,  giovani  che  occupavano 
un  posto  distinto,  e  questo  nome  si  dava  per  consenso  di  tutti  a 
quelli  che  facevano  un  lavoro  Indovinato,  componimento  o  tradu- 
zione. Anche  il  giudizio  di  questi  aveva  una  certa  autorità,  ed  i 
nuovi  e  inesperti  si  lasciavamo  volentieri  guidare  da  loro.  Così 
nasceva  una  disciplina  naturale,  fortificata  da  una  costante  corte- 
sia di  modi,  che  rendea  tollerabili  anche  i  più  severi  giudizil.  Il 
marchese  soleva  dire  che  le  lettere  servono  a  raggentilire  e  no- 
bilitare l'animo;  ed  era  una  grazia,  quando  si  spassava  con  di 
bei  motti  e  proverbii  alle  spese  di  qualche  povero  provinciale  ca- 
pitato li  0  non  bene  in  arnese,  o  goffo  di  modi,  o  presuntuoso 
parlatore.  Si  può  pensare  quale  impressione  incancellabile  pro- 
duceva  tutto  questo  su  quei  rozzi  animi.  Era  tutta  una  rivolu- 
zione   morale.  Dopo  pochi  mesi  io  mi  sentiva  un  altro  uomo.  — 


—  342  — 

Né  questo  solo.  In  quella  scuola  i  principali  attori  erano  i  giovani. 
Il  marchese,  come  ho  detto,  non  faceva  discorsi  o  lezioni,  non 
insegnava  grammatica  o  rettorica  :  parlava  cosi  alla  buona,  e 
faceva  notare  più  per  esempli  che  per  teoriche  i  pregi  e  i  difetti 
degli  scrittori,  aggiungendovi,  come  l'occasione  portava,  avver- 
tenze grammaticali  o  di  lingua  o  di  rettorica.  Chi  ne  vuole  un'im- 
magine vegga  i  Faiii  di  Enea,  co'  suoi  commenti.  Il  lavoro  era 
tutto  nostro,  e  serio  e  assiduo.  I  poltroni  poco  ci  duravano  e  an- 
davano via  perseguitati  da  una  di  quelle  esclamazioni,  che  il  poco 
paziente  marchese  si  lasciava  sfuggir  di  bocca,  quando  non  giun- 
geva a  contenersi  e  ad  esclamare  —  non  mi  fate  dire  la  parola 
disonesta.  —  Vi  si  andava  tre  volte  la  settimana.  Un  giorno  era 
consacrato  alla  lettura  e  all'  esame  de'  componimenti,  favole,  let- 
tere, dialoghi,  sogni,  dissertazioni,  dicerie,  racconti  storici,  no- 
velle, di  rado  qualche  poesia.  Dopo  la  lettura,  il  marchese  do- 
mandava a  due  0  tre  il  loro  parere,  i  quali  ragionavano  prima 
del  concetto,  poi  dello  stile  e  della  lingua.  La  discussione  era 
chiusa  da  uno  degli  Eletti  o  degli  Anziani,  che  ne  discorreva 
ampiamente,  il  marchese  riassumeva  le  diverse  opinioni  e  dava 
un  giudizio  terminativo.  Essendo  la  più  parte  giovani  colti  e 
adulti,  le  discussioni  riuscivano  spesso  brillanti  e  animate.  Né 
minor  gara  era  negli  altri  due  giorni,  destinati  alla  traduzione  e 
alla  lettura  dei  classici.  Si  traduceva  non  più  che  due  periodi  di 
Cornelio  Nipote,  né  ci  era  esercizio  più  acconcio  ad  addestrare 
in  tutte  le  finezze  della  lingua  e  neh'  organamento  del  periodo. 
Letta  la  traduzione,  scoppiavano  da  tutte  parti  osservazioni  sopra 
i  difetti,  quando  non  era  seppellita  di  un  colpo  sotto  qualche 
scherzo  del  marchese,  come:  —  basta  così;  l'avete  fatta  tra  gli  or- 
rori della  digestione.  —  Di  quante  se  ne  leggevano,  il  marchese 
sceglieva  una  che  gli  sembrava  migliore  e  sopra  quella  faceva  la 
correzione,  sicché  ne  uscisse  un  lavoro  perfetto,  che  ciascuno 
scriveva  nel  suo  quaderno.  Il  giovane  sul  cui  lavoro  era  caduta 
la  scelta,  se  ne  usciva  quella  sera  con  la  tèsta  più  alta.  Non  é  a 
dire  che  diligenza  metteva  il  marchese  in  queste  correzioni  : 
spesso  stava  una  mezz'  ora  ad  acchiappare  una  parola  o  una  frase 
che  non  voleva  venire,  e  tutti  a  suggerirgli,  e  lui  a  dar  col  pu- 
gno sulla  tavola  e  a  gridar  :  —  no  I  —  con  una  delle  sue  favorite 
esclamazioni.  Oimè  !  Talora  la  frase  tanto  cercata  non  veniva, 
e  si  finiva  per  stanchezza  con  una  rappezzatura,  e  il  marchese 
levava  la  spalla  e  se  ne  consolava  dicendo  :  non  é  poi  il  Van- 
gelo. » 


—  343  — 

La  citazione  fu  lunga,  ma  sembròmmi  molto  opportuna  non  solo 
perchè  ci  dà  una  pagina  vivacissima  di  storia  letteraria  italiana, 
ma,  ancora,  perchè  il  metodo  scolastico  famigliare  del  Puoti  dovea 
poi  essere  imitato  ed  allargato  dallo  stesso  De  Sanctis,  divenuto 
in  breve,  a  Napoli,  emulo  applaudito  del  maestro,  e  dal  professor 
Pasquale  Villarl,  già  discepolo  del  Puoti  e  poi  del  De  Sanctis, 
che  innanzi  il  1848  contava  pur  già  tra  i  suoi  migliori  scolari  Ca- 
millo De  Meis,  Saverio  Arabia,  Agostino  Magliano,  Giuseppe  De 
Luca,  Carlo  Parone,  Enrico  Capozzi,  Achille  Vertunni,  Diomede 
Marvasi,  Ferdinando  Flores,  Francesco  Montefredine,  Bruto  Fab- 
bricatore, Giovanni  e  Giuseppe  Novi,  Nicola  Marselli,  Lorenzo 
Greco,  G.  Cammarota,  Luigi  La  Vista,  ed  altri  più  nobili  ingegni. 

Dello  studio  del  De  Sanctis  toccò,  in  termini  generali,  il  Villari 
nella  sua  Prefazione  agli  scritti  di  Luigi  La  Vista  (1),  e  come  egli 
stesso  fosse  tentato  ad  entrarvi  e  come  vi  splendesse  fra  tutti  il 
compianto  La  Vista:  «  Quando  egli  leggeva  o  parlava,  i  compa- 
gni lo  ascoltavano  quasi  con  devozione;  un  silenzio  profondo  si 
faceva  nella  scuola,  ed  il  maestro,  immobile  sulla  cattedra,  lo 
guardava  con  una  compiacenza  che  non  poteva  nascondere.  »  Il 
De  Sanctis  avea  fatto  il  suo  tirocinio  come  insegnante  per  due 
anni  nel  collegio  militare  della  Nunziatella,  fra  l'anno  suo  diciot- 
tesimo ed  il  ventesimo.  Egli  ci  racconta  come  in  esso,  un  giorno, 
invece  della  solila  lezione,  abbia  fatto  una  gran  lettura  né  già 
degli  abborrili  trecentisli.  «  Lessi  Cloridano  e  Medoro,  e  la  pazzia 
di  Orlando,  e  la  morte  di  Clorinda,  e  il  duello  di  Argante  e 
Tancredi,  e  alcuni  brani  del  Sanile,  e  la  conversione  dell'Innomi- 
nato con  infinito  diletto  di  quegli  svelti  giovinetti,  tutt'  orecchi, 
e  con  l'anima  tutta  fuori,  nel  volto,  ne' gesti,  nelle  esclamazioni. 
Era  una  festa,  e  corsero  cosi  quattro  o  cinque  ore,  e  nessuno  se 
ne  accorgeva,  e  si  sarebbe  tirato  per  non  so  quanto  altro  tempo, 
salvo  che  io  venni  rauco  e  non  potei  più  andare  innanzi.  »  Era 
una  infrazione  al  regolamento:  ma  quanto  salutare  1 

Dal  Collegio  militare  il  De  Sanctis,  ventenne,  si  lanciò  nel  campo 
del  libero  insegnamento,  formando  una  scuola  il  cui  nome  resterà 
fra  le  più  gloriose  tradizioni  delle  lettere  napoletane.  Ad  ogni 
anno  egli,  come  le  forze  in  sé,  così  intorno  a  sé  vedeva  crescere 
la  gioventù  studiosa.  Lo  si  osteggiò  sempre,  ma  specialmente  poi 


(1)  Memorie  e  scritti  di  Luigi  La   Vista  raccolti  e  pubblicati  da  Pa- 
squale Villari,  Firenze,  Lo  Monnier  1863. 


—  344  — 

quando  dalla  grammatica  e  dalla  rettorica,  egli  volle  passare  al- 
l'estetica ed  alla  critica  letteraria.  Il  compianto  nostro  amico 
Nicola  Gaetani  Tamburini  che  scrisse  degnamente  del  De  San- 
ctis  (1)  riassunse  così  gli  ultimi  corsi  da  lui  fatti  in  Napoli,  in- 
nanzi all'  anno  1848. 

«  Il  De  Sanctis,  salito  al  concetto  della  forma,  oltrepassava  la 
rettorica  e  s'incontrava  nell'estetica,  di  cui  promise  un  corso  nel 
nuovo  anno  scolastico.  Sopravvennero  aspre  censure.  Si  diceva 
che  estetica  era  filosofia  e  non  letteratura.  Nella  prolusione  il  De 
Sanctis  fu  più  volte  interrotto.  Vi  era  numeroso  e  scelto  udito- 
rio. Il  primo  interruttore  fu  Silvio  Spaventa,  che  dicendo  il  De 
Sanctis  parergli  la  lotta  fra  classici  e  romantici  ormai  esaurita  e 
vicina  a  conciliazione,  gridò  vivamente  no,  no,  mostrandosi  fin 
d'allora  cosi  esclusivo  in  letteratura,  come  più  tardi  fu  in  politi- 
ca. In  certi  punti  della  prolusione  il  Puoti  mostrava  a  segni  d'im- 
pazienza la  sua  disapprovazione;  ma  fu  facilmente  disarmato  da- 
gli elogi  cordiali  che  gli  fece  in  ultimo  il  grato  discepolo.  Il 
Bozzelli  ruppe  il  ghiaccio,  prendendo  la  parola  e  dimostrando  che 
per  il  meglio  della  gioventù  era  utile  rimanere  nella  rettorica  e 
lasciare  1'  estetica  ai  filosofi.  Il  De  Sanctis  tenne  fermo  :  e  vivi 
applausi  dell'uditorio,  soprattutto  de'giovani,  lo  incoraggiarono  nella 
sua  via.  Cominciarono  dunque  le  sue  lezioni  di  estetica,  e  com'egli 
diceva,  della  forma  e  della  letteratura.  La  forma  era  per  lui  la 
cosa  già  concepita  e  rappresentata  nella  mente,  come  lo  stile  era 
la  sua  progressiva  formazione  ed  esplicazione.  Rigettò  dunque 
r  idea  e  il  concetto  astratto  come  elemento  letterario,  conside- 
rando egli  fuori  della  forma  ed  estranea  alla  letteratura  la  verità 
e  la  moralità  del  concetto.  Combatteva  perciò  quei  discepoli  di 
Hegel,  che  abusavano  della  dottrina  del  maestro,  e  dalla  natura 
e  qualità  del  concetto  argomentavano  la  bontà  di  un'opera  d'arte. 
Rigettò  le  arbitrarie  distinzioni  de' generi  di  letteratura,  e  quelle 
di  prosa  e  poesia,  considerando  per  esempio  il  poema  epico,  la 
storia,  il  romanzo,  la  vita,  la  memoria  come  una  sola  e  medesima 
forma  variamente  esplicata;  giunse  ad  una  storia  accessoria  della 
forma  dell'  umanità  secondo  le  leggi  generali  dello  spirito  nel  suo 
cammino  progressivo.  E  quando  di  trasformazione  in  trasforma- 
zione venne  a' nostri  tempi,  ed  indicò  l'ultimo  aspetto  della  forma 
neir  elemento  musicale   e  nel    sentimento,   destò  tale  entusiasmo 


(l)  Milano  1866, 


-  '345  - 
ne'  giovani,  ciie  per  qualche  tempo  non  potè  continuare,  e  il  di 
appresso  dovè  ripetere  la  lezione.  Uscendo  dalle  teorie,  nel  quinto 
anno  cominciò  un  corso  di  letteratura  applicata,  prendendo  ad 
esame  i  più  grandi  scrittori,  da  Omero  al  Manzoni.  Mostrò  fin 
d'allora  quella  rara  attitudine  alla  critica,  che  poi  ha  reso  chiaro 
il  suo  nome.  Sono  rimaste  celebri  nella  sua  scuola  le  lezioni  so- 
pra Omero,  Virgilio  e  Dante,  il  suo  studio  su  Shakespeare  e 
l'Ariosto,  alcune  sue  lezioni  sugli  Orazii  di  Corneille,  sull'Aga- 
mennone d'Alfieri,  e  sul  Cinque  maggio  del  Manzoni.  Al  sesto  anno, 
continuando  queste  lezioni,  pose  mano  ancora  ad  un  corso  su  la 
storia  della  critica  da  Aristotile  ad  Hegel,  dove  ricomparivano 
storicamente  le  teorie  già  da  lui  esposte  ed  esaminate  ne'  primi 
anni.  Il  De  Sanctis  aveva  appena  venti  anni;  i  suoi  discepoli 
erano  quasi  tutti  suoi  coetanei.  Giovane  tra  giovani,  studiavano 
insieme,  si  formavano  insieme,  e  non  si  lasciarono  più.  I  mi- 
gliori furono  alla  sua  scuola  sempre  Ano  al  48.  Questi  formavano 
e  guidavano  i  venuti  di  fresco,  ed  era  tutta  la  scuola  una  famiglia. 
Il  martedì  e  il  sabato  erano  giorni  destinati  alla  lettura  ed 
esame  de' componimenti.  Ciascuno  avea  la  parola;  vi  era  pub- 
blica ed  animata  discussione.  Il  De  Sanctis  riassumeva,  e  pro- 
nunziava il  giudizio  E  si  faceva  con  modi  si  gentili  e  amorevoli, 
che  non  fu  mai  caso,  che  un  giovane  si  offendesse  delle  cen- 
sure, anzi  ringraziava  il  compagno  che  lo  aveva  biasimato.  Se- 
gregato Napoli  dal  mondo  intellettuale,  in  tanta  scarsezza  di  li- 
bri e  di  ajuti,  il  De  ^  Sanctis  si  andò  formando  a  poco  a  poco, 
salendo  dalle  più  umili  regioni  grammaticali  fino  all'  estetica. 
Meditava  perciò  più  che  non  leggeva,  e  quindi  le  sue  idee  anche 
non  nuove  hanno  un'  impronta  originale,  e  si  sente  che  sono 
uscite  immediatamente  dalla  meditazione.  Facendo  però  ogni 
anno  un  corso  nuovo,  e  abusando  del  cervello,  nell'ultimo  anno 
parve  minore  di  sé,  sentivasi  stanco,  oppresso  da  lavoro  intellet- 
tuale. Mescolato  nelle  agitazioni  politiche  dopo  la  fatale  giornata 
di  maggio  cercò  riprendere  i  suoi  studii,  e  tenne  di  nuovo  scuola, 
ma  per  pochi  mesi.  Si  richiedeva  da  lui  un  esame  di  catechismo: 
i  rigori  della  Polizia  crescevano.  L'  ultimo  atto  della  scuola  fu 
una  riunione  di  giovani  per  rendere  pietoso  ufficio  di  lagrime  al 
loro  compagno  Luigi  La  Vista,  morto  combattendo  il  15  Maggio. 
Dopo  un  discorso  commovente  del  De  Sanctis,  si  separarono  me- 
stamente. » 

Noi  rileviamo  da   queste    notizie    del    Tamburini    come    il   De 
Sanctis,  quantunque  divenuto  avversario    del   Puoti,  gli  rendesse 


—  346  — 
onore.  «  La  missione  del  Marchese,  lasciò  scritto  lo  stesso  De 
Sanctis,  era  finita,  lo  scopo  ottenuto,  e  quando  io,  suo  discepolo, 
uscii  a  dire  in  pubblica  accademia  che  il  purismo  non  avea  più 
ragione  d'  essere,  perchè  aveva  già  vinto,  e  che  la  quistione  non 
era  più  di  lingua,  ma  di  stile,  il  brav'  uomo  se  ne  compiacque  ed 
accettò  la  teoria  per  buona.  Ma  quando  fui  a  tirarne  le  conse- 
guenze, si  ribellò,  o  piuttosto  chiamò  me  un  ribelle.  Nondimeno 
gli  ebbi  sempre  tale  riverenza  e  devozione  che  gli  screzii  lette- 
rarii  non  furono  sufficienti  a  farmi  cader  dal  suo  animo,  e  presso 
a  morte,  veggendomi  accanto  al  suo  letto,  disse  :  —  tu  sai  eh'  io 
ti  ho  sempre  amato.  »  Dopo  di  ciò  non  può  recar  più  meraviglia 
il  seguente  racconto  del  Villari  :  «  Un  giorno  moriva  il  Marchese 
Basilio  Puoti,  ed  intorno  al  cadavere  di  quel  vecchio  venerando, 
di  quel  cittadino  benemerito,  la  gioventù  napoletana  s'  affollava 
numerosa  e  mesta.  Ninno  poteva  dimenticare  il  disinteresse  d'una 
vita  generosamente  spesa  a  promuovere  lo  studio  delle  lettere. 
Tutti  i  suoi  più  eletti  discepoli,  fra  cui  alcuni  erano  uomini  d'in- 
gegno e  dottrina,  gareggiarono  nel  tesserne  1'  elogio.  Ma  i  più 
sonori  periodi,  le  più  pure  frasi  del  trecento  non  potevano  cavare 
una  lacrima  sola  dall'  uditorio.  V  era  in  quella  sala  stivata  di 
gente,  un  glaciale  silenzio  che  già  irritava,  vedendo  come  ninno 
sapesse  trovare  un  solo  pensiero,  una  sola  parola  che  commovesse 
una  moltitudine  di  giovani  già  tanto  disposta  a  commoversi.  In 
questo  punto  s'  udì  la  voce  di  Francesco  De  Sanctis,  con  generale 
sorpresa  di  tutti  i  Puristi,  i  quali  credevano  che  la  diversità  delle 
opinioni  letterarie  avesse  potuto  generare  nel  suo  animo  senti- 
menti raen  che  benevoli.  Ben  presto,  però,  1'  uditorio  tutto  si 
trovò  dominato,  e  cominciava  a  seguir  l'oratore  con  segni  di  mal 
repressa  approvazione,  che  finivano  in  un  sentimento  di  univer- 
sale ammirazione.  D  De  Sanctis  non  aveva  accattato  frasi  e  pe- 
riodi, non  aveva  fatto  del  Puoti  un  essere  immaginario,  non  aveva 
pronunziato  lodi  ampollose  ed  esagerate;  ma  lo  descrisse  quale 
era  stato  veramente,  buono,  operoso,  disinteressato,  amante  di 
sacrificare  tutta  la  sua  vita  ai  giovani.  Egli  dette  il  giusto  valore 
ai  suoi  lavori  letterarii,  e  lo  dipinse  occupato,  insino  all'ultima 
ora,  del  bene  altrui,  chiamando  e  amando  i  giovani  come  suoi 
figli.  Non  è  descrivibile  la  profonda  impressione  che  fece  sull'udi- 
torio questo  raggio  di  luce  di  verità  che  usciva  improvvisamente, 
diradando  e  dileguando  quella  nebbia  di  pedanteria  che  affogava. 
Trovarsi  fuori  delle  artificiose  convinzioni,  in  un  momento  in  cui 
ognuno  aveva  tanto   bisogno   di  sentire,  fu  un  supremo  conforto 


—  347  - 
per  tutti.  E  quel  giorno,  io  rammento  d'aver  veduto  molti  e  molti 
puristi^  accanto  al   cadavere  del  loro  maestro,  sentirsi  dal  cuore 
forzati   ad   essere   unanimi,    nel    dare   la   palma  a  Francesco  De 
Sanctis  che    s'era   fatto   capo    dei  loro  oppositori.  » 

Per  la  parte  presa  da  Francesco  De  Sanctis  ne'  rivolgimenti 
napoletani  dell'anno  18i8,  nel  qual  anno,  come  segretario  gene- 
rale della  pubblica  istruzione,  egli  aveva  compilato  i  disegni  di 
legge  su  l'istruzione  primaria  e  secondaria,  sulla  scuola  normale 
e  sul  consiglio  superiore  degli  studii ,  perseguitato  dal  restaurato 
governo  dispotico,  cercava  asilo  in  Cosenza,  ove  raccoglievasi  a 
scrivere  il  saggio  critico  sopra  le  opere  drammatiche  di  Federico 
Schiller,  eh'  egli,  arrestato,  andava,  nella  primavera  del  1850,  a 
terminare  in  Napoli  nelle  prigioni  del  Castello  dell'Ovo,  ove  rimase 
tre  anni  come  sepolto,  avendo  per  sola  sua  compagnia  una  gram- 
matica tedesca^  con  l'aiuto  della  quale  apprese  il  tedesco,  e  potè 
quindi,  in  breve,  tradurre  parecchie  poesie  di  Schiller  e  di:Goethe, 
e  intendere,  e,  in  parte,  tradurre  la  Storia  della  poesia  di  Rosen- 
kranz  e  la  logica  di  Hegel.  Liberato,  dopo  tre  anni,  senza  giudi- 
zio, e  intimatogli  di  recarsi  in  America,  il  De  Sanctis  si  rifugiò 
invece  a  Malta,  e  di  là  a  Torino,  dove  si  ricordano  ancora  le  ori- 
ginali eloquenti  lezioni  da  lui  improvvisate  sopra  la  Divina  Com- 
media, per  la  fama  delle  quali  fu  tosto  il  De  Sanctis  invitato  al. 
Politecnico  di  Zurigo,  per  insegnarvi  1'  estetica  e  la  letteratura 
italiana.  Il  lavoro  di  lui  sul  Petrarca  e  parecchi  de' suoi  saggi  cri- 
tici datano  da  quel  tempo,  in  cui  egli  seppe  mantenere  intatta  la 
dignità  delle  lettere  italiane  innanzi  ad  una  gioventìi  straniera. 
Con  qual  confidenza  ei  potesse  parlare  a'  suoi  giovani  ce  ne  fa  fede 
la  prolusione  da  lui  letta  al  secondo  de'  suoi  corsi  nel  Politecnico 
di  Zurigo;  e  tal  confidenza  ci  dice  quanto  addentro  fosse  il  mae- 
stro penetrato  nell'animo  de' discepoli.  Le  cerimonie  cinesi  si 
usano  tra  gli  indifferenti  ;  tra  gli  amici  si  parla  invece  una  lingua 
schietta  e  naturale.  Le  pagine  seguenti  ci  provano  come  il  De 
Sanctis  continuasse  con  felice  successo  a  Zurigo  gli  stessi  prin- 
cipii  pedagogici  che  lo  avean  reso  meritamente  popolare  in  Na- 
poli. «  Secondo  1'  ordinamento  dell'  Università  politecnica  federale, 
questi  studii  non  sono  obbligatorii.  Sono  obbligatorie  quelle  lezioni 
solamente  di  cui  avete  necessità  per  1'  esercizio  della  vostra  pro- 
fessione: tutto  l'altro  è  lasciato  a  vostra  libera  elezione.  Come  in 
un  altr' ordine  d'idee  la  legge  vi  obbliga  a  non  Aire  il  male,  ma 
non  a  fare  il  bene,  cosi  voi  siete  obbligati  a  studiare  per  vivere,' 
per  provvedere  a' vostri  bisogni  materiali;  ma  quanto  alla  vostra 


—  348  — 

educazione  intellettuale  e  morale,  voi  non  avete  alcun  obbligo  le- 
gale. Il  governo  ve  ne  dà  i  mezzi  ;  se  non  volete  giovarvene ,  se 
non  sentite  come  uomini  1'  obbligo  morale  di  educare  la  vostra 
mente  ed  il  vostro  cuore,  sia  pure  :  vostro  danno  e  vergogna. 

«  In  effetti,  con  le  sole  lezioni  obbligatorie,  qualunque  tu  sii  che 
te  ne  possi  contentare,  tu  non  sei  ancora  uomo,  tu  sei,  permettimi 
eh'  io  te  lo  dica,  un  animale  bello  e  buono.  Un  animale  ragione- 
vole, mi  risponderai,  che  sa  la  matematica,  la  fisica,  la  meccanica. 
Certamente,  e  perciò  anche  un  animale  colpevole,  che  ti  sei  ser- 
vito della  ragione  unicamente  a  scopo  animale.  In  effetti,    ditemi 
un  po',  miei  giovani,  quando  costui  avrà  passata  la  sua  giornata 
a  lavorare  per  procacciarsi  il  vitto,  empiutosi  il  ventre,  inumidita 
la  gola,  fatta  una  bella  digestione;  in  che  costui  differirà  dal  suo 
mulo  o  dal  suo  asino,  che  anch' egli  ha  passata  eroicamente  la  sua 
giornata  tra  il  lavoro  e  la  mangiatoia?  Un  giorno  confortavo  allo 
studio  delle  lettere  un  mio  giovane  amico  di  Napoli,  il  quale  stette 
un  pezzo  muto  a  sentir  le    mie    belle   ragioni;  poi,    come   a   chi 
fugge  tutto  a  un  tratto  la  pazienza  —  sai,  mi  disse,  che  ti  credevo 
un  po' più  uomo?  Che  diavolo?  Bisogna  ben  ragionare.   Credi  tu 
che  una  terzina  di  Dante  mi  possa  toglier  di  dosso  i  miei  debiti, 
0  che  tutti  gl'inni  del  Manzoni  mi  dieno  un  buon  desinare?  Filo- 
•sofia,  letteratura,  storia,  a  che  prò?  per  finire  in  uno  spedale?  Oibòf 
io  studierò  il  Codice,  farò  un  beli'  esame  e  sarò  fatto  giudice.  Che 
bisogno  ha  un  giudice  di  Dante  o  del  Petrarca?  —  Come  vedete, 
è  questo  un  magnifico  ragionamento  dal  punto  di    vista    asinino. 
E  costui  non  aveva  ancora  diciotto  anni  !  E  parlava  già  a  questo 
modo!  Crebbe  rozzo,  salvatico,  plebeo;  divenne  giudice;   ed  oggi 
questa  bestia  togata  divide  il  suo  tempo  tra  le  condanne  a  morte, 
ai  ferri,  all'  ergastolo  de'  suoi  stessi  compagni,  ed  i  buoni  bocconi. 
«  Non  credo  che  sia  questo  l'ultimo  scopo  che  l'uomo  si  debba 
proporre,  e  che  Dio  ci  abbia  data  l' intelligenza  per  provvedere  alla 
pancia,  come  ha  dato  gli  artigli  e  le"  zanne  alle  belve.   Voi   siete 
in  un'età,  nella  quale,  impazienti  dell'avvenire,  ciascuno  se  lo  fi- 
gura a  sua  guisa.  Quali  sono  i  vostri  sogni  ?  che  cosa  desiderate 
voi  ?  Fare  l' ingegnere  ?  è  giusto  :  ciò  dee  servire  alla  vostra  vita 
materiale.  Ma,  e  poi?  Oltre  la  carne  vi  è  in  voi  l'intelligenza,  il 
cuore,   la  fantasia,  che  vogliono  esser  soddisfiitte.   Oltre  l'inge- 
gnere vi  è  in  voi  il  cittadino,  lo  scienziato,    l'artista.   Ciascuno 
si    fa   fin   da   ora  una  vocazione  letteraria.   Né    vi   maravigliate. 
Poiché  la  letteratura  non  è  già  un  fatto  artificiale  ;  essa  ha  sede 
al  di  dentro  di  voi.  La  letteratura  è  il  culto  della  scienza,  l'entu- 


—  349  — 

siasmo  dell'arte,  l'amore  di  ciò  che  è  nobile,  gentile,  bello;  e  vi 
educa  ad  operare  non  solo  per  il  guadagno  che  ne  potete  ritrarre, 
ma  per  esercitare,  per  nobilitare  la  vostra  intelligenza,  per  il 
trionfo  di  tutte  le  idee  generose.  Questo  è  ciò  ch'io  chiamo  vo- 
cazione letteraria;  e  voi  m'intendete,  o  giovani,  voi,  ne' quali 
l'umanità  ogni  volta  si  spoglia  delle  sue  rughe  e  si  ribattezza  a 
vita  più  bella. 

«  Ben  so  che  molti  oggi  non  hanno  della  letteratura  la  stessa 
opinione.  Lascio  stare  coloro  che  ne  fanno  una  mercanzia   e   di- 
cono: poiché  in  un  secolo  industriale   e    commerciale   siamo    per 
nostra  disgrazia  letterati,  facciamo  bottega   delle   lettere;  e  ven- 
dono  parole,    come   altri   vende  vino  o  formaggio.  Non  vo'  pro- 
fanare questo  luogo,  né  spaventare  le  vostre  giovani  menti,  mo- 
strandovi nudo  questo  meretricio  traffico  dell'anima.  Ben  vo' par- 
larvi di  alcuni  altri.  A  quello  stesso  modo  che  certi  sostituiscono 
oggi  la  civiltà  alla  libertà,  soddisfattissimi  che  loro  si  promettano 
strade  ferrate  e  traffichi  e  industrie  e  qualcos'  altro  di  sottinteso  ; 
così  alcuni  non  osano  di  difendere  la  letteratura  per  sé,  e  la  na- 
scondono sotto  il  nome  di  coltura.  Se  raccomandano  questi  studi, 
gli  è  perché  dilettano  ed  ornano  lo  spirito,    compiono    l'abbiglia- 
mento, vi  fanno  ben  comparire.  Leggono,  come  vanno  a  teatro,  per 
divertirsi;  fanno  provvi^^ione  di  aneddoti,  di  motti,   di  argomenti* 
per  acquistarsi  la  riputazione  di  uomini  di  spirito  ;  quello  che  lo- 
dano ne'  libri,  biasimano  nella  vita.  E  se  qualche  pover'  uomo  ac- 
coglie seriamente  quello  che  legge  e  vi  vuol   conformare    le   sue 
azioni,  gli  é  un  matto,  una  testa  romanzesca,  un   sentimentale,  e 
che  so  io.  No,  miei  cari.  La  letteratura  non  è  un  ornamento  so- 
prapposto alla  persona,  diverso  da  voi  e  che  voi  potete  gittar  via; 
essa  é  la  vostra  stessa  persona,  é  il  senso  intimo  che  ciascuno  ha 
di  ciò  che  è  nobile  e  bello,  che  vi  fa  rifuggire  da  ogni   atto  vile 
e  brutto,  e  vi  pone  innanzi  una  perfezione  ideale,  a  cui  ogni  anima 
ben  nata  studia  di  accostarsi.  Questo  senso  voi  dovete  educare.  E 
che?  I  cinque  sensi  che  abbiamo  comuni  con  gli  animali  sono  ne- 
cessari, e  questo  sesto  senso,  per  il  quale  abbiamo  in  noi  tanta 
parte  di  Dio,  sarebbe  un  lusso,  un  ornamento,  di  cui  si  possa  far 
senza?  Non  cosi  è  stato  giudicato  da' nostri  antichi:  che  in  tutti 
i  tempi  civili  l'istruzione  letteraria  è  stata  sempre  la  base  della 
pubblica  educazione.  Certo  se  ci  è  professione  che  abbia  poco  le- 
game con  questi  studi,  è  quella  dell'  ingegnere  ;  e  nondimeno  lode 
sia  al  governo  federale,  il  quale  ha  creduto  che  non   ci   sia  pro- 
fessione tanto  speciale  e  materiale,  la  quale  debba  andai'e  disgiunta 


~  350  — 
da  una  istruzione  filosofica  e  letteraria.  Prima  di  essere  ingegneri 
voi  siete  uomini,  e  fate  atto  di  uomo  attendendo    a    quegli    studi 
detti  da'  nostri  padri  umane  lettere,  che  educano  il  vostro  cuore 
e  nobilitano  il  vostro  carattere. 

«  Non  posso  meglio  conchiudere  il  mio  dire,  che  parlandovi  di 
un  uomo,  il  quale  vi  potrei  proporre  come  tipo  di  quella  perfetta 
concordia  eh'  esser  dee  tra  lo  scrivere  e  l' operare.  Alessandro 
Manzoni,  a  cui  dobbiamo  tante  dolci  ore  passate  nella  lettura  del 
suo  romanzo,  ha  sortito  da  natura  una  eguaglianza  d' animo,  per 
la  quale  tutte  le  sue  facoltà  si  temperano  e  si  accordano.  Vi  è  in 
lui  la  calma  e  la  serenità  dell'uomo  intero,  che  lo  distingue  dal- 
l' infelicissimo  Giacomo  Leopardi,  anima  scissa  e  discorde.  Questa 
musica  o  misura  interiore  è  visibile  ne'  suoi  scritti  e  nella  sua 
vita;  trovi  in  lui  la  modestia  del  pensiero  congiunta  con  la  tem- 
peranza dell'azione.  Esempio  raro  di  uno  spirito  semplice  e  sano 
in  una  età  gonfia  e  malata,  dove  gli  scrittori  o  ti  fanno  pallide 
copie  della  realtà,  come  il  Rosini,  o  trascendono  in  pazze  e  tumide 
fantasie,  come  il  Guerrazzi.  Il  tipo  manzoniano  è  un  accordo  del 
reale  e  dell'  ideale  in  quella  giusta  misura  che  dicesi  vero.  A  quelli 
i  quali  affermano  che  la  letteratura  vi  porta  fuori  del  reale  in  un 
campo  fantastico  e  immaginario,  e  che  vi  toglie  il  giusto  criterio 
delle  cose  nella  pratica  della  vita,  si  potrebbe  rispondere  con  l'esem- 
pio del  Manzoni,  in  cui  il  senso  storico  o  reale  è  tanto  profondo. 
Sono  falsi  o  incompiuti  quei  poeti  che  guardano  le  cose  da  un  lato 
solo,  e  di  quello  fanno  la  misura  e  la  ragione  del  loro  ideale. 
Quantunque  il  Manzoni  sia  ne'  particolari  dell'  invenzione  e  dello 
stile  mente  affcitto  italiana,  pure  nei  fondamenti  del  suo  mondo 
poetico  è  umano,  o,  come  oggi  dicesi,  cosmopolita.  Vede  le  cose  con 
la  serenità  di  un  Iddio  che  abbraccia  con  vista  amorosa  tutto  il 
creato;  non  ci  è  uomo  o  cosa  ch'egli  non  alzi  in  un  certo  spirito 
universale  di  carità  e  d'amore,  e  in  che  è  posta  la  sua  idea  reli- 
giosa; e  in  mezzo  alle  misere  querele  di  quaggiù  risuona  la  sua 
voce  sempre  amica  e  pacata  : 

«  Siam  fratelli,  slam  stretti  ad  un  patto  f 

«  Di  che  nasce  quella  sua  universalità  che  gli  fa  guardare  le 
cose  nella  loro  interezza  con  sì  squisite  transazioni,  con  si  giuste 
gradazioni,  di  modo  che  non  ci  è  altezza  tanto  superba,  e  sia  an- 
che Napoleone,  che  non  sia  levata  in  quella  sfera  superiore  e  ri- 
dotta al  suo  giusto  valore.  Attirati  soavemente  in  questo  mondo 


—  351  — 

sereno,  sentiamo  tranquillar  le  tempeste  dell'animo,  raddolcire  i 
nostri  cuori,  fuggir  da  noi  tutte  le  cattive  passioni.  Sicché  pos- 
siamo dir  del  Manzoni  quello  che  fu  detto  di  Schiller,  che,  se  non 
è  il  più  grande  dei  poeti,  è  il  più  nobile,  il  più  simpatico,  quello 
a  cui  vorremmo  più  rassomigliare.  » 

Io  riempio  così  questo  Ricordo  di  citazioni,  ma  non  ho  ancora 
finito.  Potrei  dire  ora  come  il  De  Sanctis  nel  1860  ritornasse  a 
Napoli,  com'egli  governasse  e  riordinasse  il  Principato  Ulteriore, 
sua  provincia  nativa,  come,  per  offerta  del  Conforti,  tenesse  alcun 
tempo  il  portafoglio  della  pubblica  istruzione,  e,  in  soli  otto  giorni 
di  ministero,  licenziasse  3'2  vecchi  professori  universitarii,  ricosti- 
tuisse, con  nuova  legge,  l'università,  fondasse  il  liceo  Vittorio  Ema- 
nuele nell'antica  dimora  de'Gesuiti,  decretasse  una  pensione  alla  im- 
provvisatrice Giannina  Milli,  e  preparasse  una  legge  sull'istruzione 
primaria  e  secondaria;  come  sedesse  nel  primo  Parlamento  ita- 
liano qual  deputato  del  collegio  di  Sessa,  e  venisse  dal  Mamiani 
fatto  membro  della  commissione  intesa  a  proporre  una  legge  ge- 
nerale sulla  pubblica  istruzione,  come  il  conte  Cavour  lo  invitasse 
a  sedere  nel  Consiglio  della  corona  qual  ministro  della  pubblica 
istruzione,  osservando  che  il  De  Sanctis  era  il  napoletano  del  quale 
avea  sentito  dire  il  minor  male  da'  suoi  concittadini;  come  nel  suo 
ministero  egli  passasse  volentieri  sopra  i  regolamenti,  per  aprire 
la  via  al  vero  merito  e  combattesse,  sovra  ogni  cosa,  contro  la 
burocrazia,  e  primo  deliberasse  che  fossero  mandati  all'estero  i 
giovani  dottori  meglio  promettenti  afSnchè  si  perfezionassero  negli 
studii  e  si  addestrassero  a  professare  nelle  università. 

Caduto  il  De  Sanctis  dal  ministero,  per  la  viva  polemica  che  gli 
armò  contro  il  professor  Carlo  Matteucci  in  parecchi  giornali,  ma 
specialmente  nella  -Monarchia  Nazionale,  d'infelice  memoria,  con- 
tinuò egli  a  pigliar  viva  parte  alle  battaglie  parlamentari,  nelle 
quali,  a  grado  a  grado,  tornò  quindi  ad  accostarsi  ai  banchi  del- 
l'opposizione democratica,  dai  quali  fece  talora  suonare  alte  verità 
del  tenore  di  questa  :  La  modestia  della  nostra  politica  estera 
deve  essere  compensata  dall'audacia  della  nostra  politica  interna. 
Al  giornale  L'Italia  da  lui,  in  gran  parte,  fondato,  e  poi  diretto, 
volle  che  servisse  quale  programma  il  motto  :  Né  malve  né  rom- 
picolli. Ma  la  politica  per  mestiere  non  mi  è  sembrata  mai  il  suo 
proprio  fatto.  Chiamano  buona  politica  quella  che  sa  meglio  transi- 
gere coi  prjncipii;  ora  un  buon  critico  qual  è  il  De  Sanctis  non  può 
contenersi  nei  giudizi  politici  altrimenti  che  ne'letterari.  In  un  paese 
e  con  un  governo  intieramente  democratico,  anche  il  De  Sanctis 


—  352  — 
potrebbe  e  dovrebbe  senza  dubbio  occuparsi  di  politica  ;  poiché  la 
politica  cesserebbe  allora  di  essere  un'arte,  un  mestiere,  un  affare, 
un  privilegio,  una  specialità  di  pochi  faccendieri,  e  tornerebbe  in- 
vece naturale,  tranquillo,  modesto  e  indiscusso  esercizio  dei  di- 
ritti e  doveri  d'  ogni  buon  cittadino,  sottintesa,  universale  par- 
tecipazione a  tutto  quanto  concorra  spontaneamente  a  costituire 
la  vita  vitale  e  non  eflimera  e  non  sovrapposta  di  un  gran  popolo. 

10  mi  sono  quindi  sinceramente  rallegrato  col  De  Sanctis,  quando 
intesi  che,  lasciate  là  le  brighe  della  mediocrità  politicante,  risaliva 
in  Napoli  la  deserta  sua  cattedra  di  letteratura,  e  tornava  a  met- 
tersi indiretto,  immediato  contatto  conia  gioventù  studiosa  per  mezzo 
de'  suoi  libri  e  più  ancora  per  mezzo  delle  sue  lezioni.  I  suoi  Saggi 
critici  e  la  sua  Storia  della  letteratura  italiana,  vanno  per  le  mani 
di  tutti  i  giovani  e  non  hanno  uopo  di  essere  maggiormente  divul- 
gati. Noterò  solo  quanto  alla  seconda,  come  essa  stia,  nella  mia  opi- 
nione, molto  al  di  sotto  dei  primi;  il  De  Sanctis  è  buon  critico, 
quando  egli  fa  la  sua  critica  a  sbalzi,  quando,  fra  una  critica  e  l'altra, 
egli  si  riposa,  quando  fissa  un  oggetto  e  ne  penetra  il  midollo,  prima 
di  discuterlo.  Ma  s'egli  dovesse  riassumersi  tutto,  legare  le  sue 
felicissime  intuizioni  e  riflessioni  parziali  in  un  solo  ordinato  si- 
stema di  critica  generale,  scolorirebbe  i  particolari  senza  dare  un 
tono  continuo  e  conforme  all'intiera  opera  sua.  Nel  suo  ingegno  si 
possono  distinguere  bene  due  facoltà  potenti;  l'una  è  penetrativa, 
l'altra  è  plastica.  Queste  due  facoltà  hanno  bisogno,  in  lui,  d'ope- 
rare immediate  l'una  sull'altra;  se  l'una  perde  il  calore  dell'im- 
pressione, all'altra  non  riesce  più  di  trovare  il  calore  della  rappre- 
sentazione. Il  De  Sanctis  non  mi  sembra  adatto  a  comporre  opere 
di  lunga  lena;  la  sua  impazienza  lo  obbliga  a  sacrificare  talora, 
per  soverchia  stanchezza,  il  più  al  meno.  Egli  è  più  ritrattista 
che  storico,  più  poeta  che  logico;  i  suoi  ritratti  m'innamorano; 
le  sue  considerazioni  sopra  periodi  letterari  di  lungo  corso,  m'ap- 
paiono spesso  vaghe  ed  indeterminate.  Egli  non  può  far  rivivere 
innanzi  a  sé  i  secoli  come  sa  invece  risuscitare  la  figura  di  certi 
uomini  e  di  certi  scrittori  da  lui  studiati  a  parte.  La  sua  critica 
ha  bisogno  per  riuscir  vivace  di  contemplare  innanzi  a  sé  og- 
getti vivi  e  parlanti,  per  così  dire,  uno  alla  volta.  Se  essi  parlano 
tutti  insieme,  il  critico  li  confonde,  con  grave  danno  della  verità, 
a  meno  ch'essi,  nel  parlare  insieme;  non  dicano  tutti  il  medesimo, 
nel  qual  caso  l'eloquenza  del  De  Sanctis  diviene  insuperabile.  E 
un  simile  caso  gli  avvenne  di  recente  a  Napoli,  ed  egli   lo  colse. 

11  16  novembre  dello  scorso   anno    (1§72),    dovendo   egli   leggere 


—  353  — 

all'Università  di  Napoli  il  discorso  inaugurale  degli  studila  vedo- 
vasi al  fianco  un  venerando  consesso  di  antiche  parrucche  colle- 
giali, e  ritta  dinanzi  una  gioventù  impaziente  di  vivere,  e  sma- 
niosa di  strappare  alla  scienza  il  segreto  della  vita.  Il  De  Sanctis 
mise  suìla  bilancia  quello  che  la  vecchia  Università  co'  suoi  me- 
dioevali ordinamenti  poteva  dare  con  quello  che  la  novità  dei 
tempi  e  dei  destini  fotti  all'Italia  richiedeva,  e,  dopo  avere  mostrato 
il  contrasto  fra  la  scienza  e  la  vita,  con  riscontri  efficaci,  con- 
chiudeva :  «  Oggi  la  vita  si  sente  attinta  da  un  malore  incognito; 
la  cui  manifestazione  è  l'apatia,  la  noia,  il  vuoto,  e  corre  per 
istinto  colà  dove  si  parla  di  materia  e  di  forza  e  come  ristaurare 
l'uomo  fisico,  e  come  rigenerare  l'uomo  morale.  Letteratura  e  fi- 
losofia, scienze  mediche  e  scienze  morali,  tutte  prendono  quel  ri- 
flesso e  quel  colore.  Rifare  il  sangue,  ricostituire  la  fibra,  rialzare 
le  forze  vitali,  è  il  motto  non  solo  della  medicina  ma  della  peda- 
gogia, non  solo  della  storia  ma  dell'arte,  rialzare  le  forze  vitali, 
ritemprare  i  caratteri,  e  col  sentimento  della  forza  rigenerare  il 
coraggio  morale,  la  sincerità,  l'iniziativa,  la  disciplina,  l'uomo  vi- 
rile e  perciò  l'uomo  libero.  Le  università  italiane,  oggi  sono  come 
tagliate  fuori  dal  movimento  nazionale,  senz'alcuna  azione  sullo 
Stato  che  si  dichiara  essere  neutro,  e  con  piccolissima  azione 
sulla  società  di  cui  non  osano  interrogare  le  viscere.  Divenute 
fabbriche  di  avvocati,  di  medici  e  di  architetti,  se  intenderanno 
questa  missione  della  scienza  odierna,  se  usando  la  libertà  che 
loro  è  data,  affronteranno  problemi  attuali  e  taglieranno  sul  vivo, 
se  avranno  l'energia  di  farsi  esse  capo  e  guida  di  questa  restau- 
razione nazionale,  ritorneranno  quali  erano  un  tempo,  il  gran 
vivaio  delle  nuove  generazioni^  centri  viventi  ed  irraggianti  dello 
spirito  nuovo  ».  Leggendo  di  recente  questo  discorso  inaugurale 
del  De  Sanctis,  il  marchese  Gino  Capponi  gridava  con  eloquente 
semplicità  :  mi  ha  propyno  rapito  il  cuore.  Io  vorrei  ora  che  lo 
rapisse  anco  ai  nostri  ministri  della  pubblica  istruzione,  ai  nostri 
rettori  e  soprintendenti,  ai  nostri  presidi  e  ai  nostri  professori 
d'università,  perchè  si  persuadessero  come  la  scienza  al  di  fuori 
della  vita,  la  scienza  contro  la  vita,  la  scienza  che  non  crei  la  vita, 
è  una  sterile  superfluità.  Un  tempo  le  università  italiane  aprivano 
la  via  del  progresso;  ora  sembrano  quasi  chiuderla;  vi  si  distilla 
lungamente  ancora  da  molte  cattedre  il  vieto  trattato,  e  con  quel- 
l'oppio distillato  s'addormentano  gli  ingegni  invece  di  eccitarli.  La 
scienza  dicono  i  piìi,  è  come  la  politica;  per  esser  buona  non  deve 
aver  cuore;  ma,  poiché  si  può  ancora  discutere  se  la  fredda  politica 

Ricordi  Biografici  •  23 


—  354  — 

sia  la  migliore,  cosi  faremo  bene  intanto  a  dar  retta  al  De  Sanctis, 
il  quale,  dopo  avere  per  tutta  la  sua  vita  mostrato  in  che  modo 
un  uomo  possa,  per  mezzo  dell'insegnamento,  moltiplicarsi,  può 
ora,  con  l'autorità  dell'esperienza  acquistata,  raccomandare  il  pro- 
prio esempio. 


XXII. 


LUIGI  SETTEMBRINI. 


S'io  dovessi  ragionar  qui  soltanto  del  Settembrini  come  di  uomo 
politico,  che  ha  molto  e  nobilmente  patito  per  la  causa  della  li- 
bertà, il  mio  compito  sarebbe  molto  agevole.  Chi  scriverà  un 
giorno  la  storia  de'nostri  tempi  e  racconterà  gli  ultimi  fatti  del 
governo  borbonico  dovrà,  senza  dubbio,  consacrare  al  Settembrini 
una  pagina  gloriosa,  poich'egli  non  solo  ha  conosciuta  la  sven- 
tura, ma  rà  sostenne  lungamente  e  con  dignità.  A  me  invece 
giova  qui  solo  considerare  questa  pagina  in  quanto  essa  è  venuta 
a  riflettersi   di    frequente    nelle  opere  dello  scrittore. 

Luigi  Settembrini  nacque  nell'anno  1812,  in  Napoli,  ove  il  padre 
di  lui  Raffaele  esercitava  liberamente  ed  onestamente  l'avvocatura. 
I  suoi  stiidii  secondarli  fece  egli  in  Maddaloni;  perduto  il  padre,  a 
quindici  anni,  dovette  Luigi,  come  primogenito,  prov\'edere  a  so- 
stentare gli  orfani  fratelli.  Lottò  parecchi  anni  con  la  povertà;  nel 
1835,  avendo  vinto  per  concorso  un  posto  nel  Liceo  di  Catanzaro 
vi  si  recava  coi  fratelli,  e  con  la  moglie,  da  lui  sposata  in  quell'anno. 
Ma  per  le  vicende  che  si  riferiscono  a  questo  periodo  della  sua 
vita  udiamo  lui  stesso  (1):  «  Io  mi  son  uno  che  ho  vissuto  sempre 
fra  i  libri,  dai  quali  sventuratamente  ho  cavato  pochissimo  frutto 
e  molti  dolori;  nel  mondo  porto  uVia  faccia  di  mezzo  balordo,  e  parlo 


(1)  Nella  Difesa  di  Luigi  Settomhrini  scritta  per  gli  uomini  di  buon 
senso,  dedicata  alla  gran  Corte  Criminale  di  Napoli,  Firenze,  1850, 
Tip.  ital. 


—  356  — 

poco  perchè  non  so  parlare.  Aveva  ventitré  anni,  e  dopo  un  esame 
in  concorso  fui  eletto  professore  d'eloquenza  nel  liceo  di  Catan- 
zaro. Dopo  tre  anni  e  mezzo  nel  1839    fui   accusato    insieme  con 
altri  di  appartenere  alla  giovine  Italia,  e  condotto   in    Napoli  fui 
gettato  in  un  criminale,  dove  stetti  per  ventisei   mesi   senz'altra 
compagnia  che  le  mie  sventure  e  quelle  della   povera    mia  fami- 
glia. Fui  giudicato  dalla  Commissione  di  Stato,  tribunale  che  fa- 
ceva spavento  pel  processo  segreto,   l'avvocato  officioso,   la  pro- 
cedura breve,  e  il  presidente  Girolami;  ma,  conosciuta   la  nostra 
innocenza,    ci    assolveva.  Allora  il  ministro  di  polizia  che  ci  vo- 
leva condannati,  diceva  al  Re,  che  la  Commissione   era  stata  in- 
giusta nei  rei;    e    però   proponeva   di  far  rivedere   il  processo,  e 
mandar  noi  provvisoriclmente  in  galera.  Il  re  giusto  non  permise 
si  violasse  il  giudicato,  comandò  che  ciascuno  di  noi  tornasse  al 
suo  paese;  ed  io  perchè  napolitano  rimasi  in   Napoli.  Uscii  Anal- 
mente   nel   1842    dopo   tre  anni  e  mezzo  d'immeritata    prigionia, 
dopo  quindici  mesi  che  fui  assoluto.  Non  ho  cuore  di  ricordarmi 
quello  che  ho  patito  in  quei  terribili  tre  anni  e  mezzo,  perchè  la 
memoria  dei  grandi  dolori  è   sempre  un  dolore;  e  farei  piangere 
ognuno  se  narrassi  quello  che  pati  la  povera  moglie  mia,  la  quale 
mi  diede  una  figliuoletta  mentre  io  era  in  criminale    e    non   po- 
tetti   vederla    e   benedirla;  la  quale    sofFerì  ogni  dolore,  ogni  più 
crudele  angoscia,  parlò  per  me  ai  giudici,  ai  ministri,  al  re  :  sof- 
feriva più  di  me,  e  mi  nascondeva  le  sue  sofferenze  per  non  ac- 
crescere le  mie.  Ritornato  fra  gli  uomini  vivi,    mi  furon  chiuse 
tutte    le  vie  per  procacciarmi  un   pane  onorato,  mi  fu  negato  di 
aprire  uno  studio  di  letteratura,  si  volle  che   io   vivessi    soltanto 
per    soffrire,    si  tollerò  che  andassi   correndo  ed    insegnando  per 
le  case    altrui.    Strascinai    questa  vita  sino  al  1818    dividendo    i 
pensieri  e  gli  affetti  tra  la  mia  famiglia  ed  i  miei  studii.  » 

Ad  aprire  uno  studio  di  letteratura  allettavalo  1'  esempio  del 
Ruoti,  seguito  quindi  con  tanta  gloria  dal  De  Sanctis.  E  del  Ruoti 
anco  il  Settembrini  ci  lasciò  ricordo  come  il  De  Sanctis,  nelle 
sue  Lezioni  di  Letteratura,  ma,  dal  modo  con  cui  egli  lo  fece,  il 
giovine  scrittore  può  rilevare  la  grande  differenza  che  passa  tra 
i  due  critici.  Il  De  Sanctis  diviene  tutto  memoria,  per  dar  rilievo 
alla  sola  figura  del  maestro  venerato;  il  Settembrini  sembra  in- 
vece preoccuparsi,  sovra  ogni  cosa,  dal  pensiero  di  ricordare  sé 
stesso.  «  Un  giorno  parlavamo  di  quei  gloriosi  del  99,  ed  ei  mi 
disse  di  avere  un  libro  prezioso,  una  Bibbia  che  suo  zio  prete 
portò  a  leggere  a  quei  condannati,   ed   essi  leggendo  in  quella  si 


—  357  — 

prepararono  a  morire.  E  levatosi  prese  quella  Bibbia,  e  la  baciò, 
e  l'aprì,  e  la  baciai  anch'  io.  Quando  pubblicò  il  suo  Vocabolario 
napolitano,  ebbe  una  fiera  e  villana  critica,  lo  me  ne  sdegnai, 
e  scrissi  un  dialogo  bene  impepato,  che  intitolai  il  Gozzi,  con- 
tro quel  critico.  Lo  lessi  a  lui  ed  all'ab.  Vito  Fornari;  vi  fe- 
cero alcune  osservazioni,  e  me  lo  lodarono.  Dunque  io  lo  farò 
stampare.  No,  disse  il  Marchese,  non  voglio,  anzi  te  lo  proibisco. 
Non  voglio  che  tu  prenda  inimicizie  per  me.  Di  poco  sei  uscito 
di  prigione,  e  non  devi  mostrarti  vivo.  Io  feci  il  voler  suo.  Piansi 
amaramente,  quando  mori  nel  1847,  e  h^a  le  migliaia  che  lo  ac- 
compagnarono al  sepolcro,  io  volli  portarne  la  bara  su  le  spalle, 
—  Se  voi,  0  giovani,  volete  il  vero  ritratto  del  Puoti,  ve  lo  ha 
fatto  Francesco  De  Sanctis  nell'  Ultimo  dei  Puristi;  qualche  parte 
vi  manca  —  Questa  parte  l'  aggiungo  io.  Quante  volte  egli  dice- 
va :  Se  capissero  quello  che  fo  !  Lo  dirai  tu  dopo  la  mia  morte. 
Io  vorrei  che  gli  italiani  parlassero  come  il  Macchiavelli  ed  ope- 
rassero come  il  Ferruccio.  »  Cosi  Y  io  entra  volentieri  in  iscena, 
e  non  solo  ne'  sentimenti  ma  nella  persona  del  critico.  Tutti  ab- 
biamo letto  con  dolore  le  sconvenienti  parole  scritte  dal  Settem- 
brini contro  i  Promessi  Sposi  «  il  libro  della  Reazione;  »  e  pure, 
ad  intenerirci,  egli  ha  osato  conchiuderle,  col  parlarci  della  visita 
da  lui  fatta  al  Manzoni.  «  Quando  sono  stato  a  Milano  ho  voluto 
prima  di  ogni  altra  cosa  e  prima  di  vedere  il  Duomo ,  ho  voluto 
visitare  il  Manzoni.  Ma  io  lo  avrei  abbracciato  e  baciato  quel  santo 
(perchè  qui  santo,  se  tre  righe  più  in  su,  egli  avea  dichiarato  che 
Manzoni  era  un  brav'  uomo,  ma  non  già  un  santo  da  mettere  sugli 
altari?)  vecchio,  se  la  riverenza  non  mi  avesse  trattenuto.  Oh  potes- 
s'io  ridire  senza  guastarle  tutte  le  parole  che  egli  mi  disse!  e  v'era 
presente  il  mio  amico  prof.  Antonio  Casotti  (!!).  Uscii  col  cuore 
profondamente  commosso,  e  lieto  dicevo  tra  me;  l'ho  pur  ve- 
duto quest'unico  uomo,  quest'unico  artista,  questo  Manzoni  che 
io  fin  da  piccino  ho  amato  sempre,  e  riverito.  »  E  appena  ve- 
dutolo ,  e  tornato  a  Napoli  si  provò  a  demolirlo,  e  non  po- 
tendo infine  trovar  buone  ragioni,  per  giustificare  le  sue  matte 
accuse,  diede  in  queste  parole  spavalde:  «  Cosi  penso,  cosi  dico; 
gridi  pure  chi  vuole  gridarmi  contro.  Se  io  m' inganno  lo  vedrà 
il  Millenovecento  l  »  Alcune  carte  dopo,  conchiudendo  il  suo  libro, 
egli  si  raccomanda  alla  giustizia  di  un  tempo  ancor  più  lontano, 
perchè  si  dia  ragione  ad  una  sentenza  eh'  egli  s' immagina  di 
avere  inventata,  e  che,  in  fin  de'  conti,  è  una  freddura  :  «  Chi 
vuole  civiltà  può  trovarla  soltanto  dove  splendono  e  scambievole 


—  a  )8  — 

mente  si  danno  luce  tra  loro  la  filosofia  e  l'arte.  —  lo  dunque 
non  intendo  di  profetar  l'avvenire,  ma  di  additare  la  via  per  la 
quale  a  me  pare  dovranno  camminare  le  generazioni  future.  Molti 
diranno  no,  e  mi  biasimeranno,  e  forse  anche  si  sdegneranno 
delle  mie  parole,  ed  io,  sorridendo,  risponderò  loro:  Il  Duemila 
vedrà  chi  ha  il  torto  !  »  Il  miles  gloriosus  viene  cosi  pur  troppo 
a  turbare  di  frequente  la  serietà  della  critica  del  Settembrini;  ma 
questo  miles  che  si  vanta  non  è.  per  fortuna,  un  uomo  dappoco. 
Si  preferirebbe,  senza  dubbio,  eh'  ei  lasciasse  ad  altri  la  cura  di 
esaltarlo,  e  eh'  egli  non  confondesse  i  diritti  del  cittadino  all'am- 
mirazione universale,  con  quelli  dell'  uomo  di  lettere,  che,  per 
quanto  letto,  ed  acclamato,  merita  ancora  di  venire  discusso.  Ma 
poiché  le  piccole  debolezze  sono  più  diflìcJli  a  correggersi  che  i 
grossi  vizii,  poiché,  se  contro  di  questi  si  può  armare  una  forte 
volontà,  verso  le  prime  si  usa  per  lo  più  una  indulgente  tolleranza, 
pigliamo  l'uomo  qual'è,  ed  anzi  ai  molti  meriti  dell' uomo  condo 
niamo  una  parte  dei  difetti  che  si  rilevano  nello  scrittore. 

Dopo  la  lettura  dei  Casi  di  Romagna,  il  Settembrini  lanciò 
anonima  all'Europa,  nell'anno  1817,  la  sua  coraggiosa  Protesta 
de' popoli  delle  due  Sicilie,  che  l'anno  di  poi  il  Ricciardi  voltava 
in  francese  e  stampava  a  sue  spese  a  Parigi.  Caduto  il  sospetto 
sopra  di  lui  come  autore  della  Protesta,  egli  riparava  in  seguito 
per  alcun  tempo  a  Malta;  di  là  ritornato  nel  1848  a  Napoli,  vi 
era  invitato  da  Carlo  Poerio  ministro  della  pubblica  istruzione, 
a  dirigerne  gli  affari;  durò  in  udìcio  un  mese  e  mezzo;  il  Boz- 
zelli, succe-^sore  del  Poerio,  lo  pregò  di  restare;  il  21  maggio,  ei 
rinunziò;  il  BozzeHi  gli  volle  far  dare  una  pensione;  egli  rispon- 
deva con  la  seguente  lettera  la  cui  prima  parte  gli  fa  grande 
onore:  «  Sento  il  dovere  di  ringraziarla  che  Ella  presentando  al 
Re  la  mia  rinunzia  ha  proposto  che  mi  si  dia  una  pensione  di 
quaranta  ducati  al  mese;  e  la  prego  di  ringraziare  in  mio  nome 
la  Maestà  del  Re  che  generosamente  ha  approvata  questa  pro- 
posta. Ma  ella  mi  permetta  che  io  le  dica  di  non  potere  ac- 
cettare la  munificenza  del  Principe,  perchè  io  sono  stato  in 
ufliCio  un  mese  e  mezzo,  non  ho  reso  alcun  grande  servizio ,  e 
non  merito  pensione.  Non  disprezzo  un  benefizio  reale;  ma  io 
sono  avvezzo  a  lavorare,  ed  esserne  compensato;  un  dono  mi 
umilia,  e  mi  fa  vile  a  me  stesso.  Se  V.  E.  vuole  che  io  abbia  un 
soldo,  e  che  io  lo  accetti,  mi  faccia  lavorare  come  e  dove  le  pare; 
ed  io  le  posso  promettere  di  servire  esattamente  ed  onestamente. 
JjE  prego  di  far  noti  a  Sua  Maestà  questi  miei  sentimenti,   e   di 


—  359  — 

fargli  leggere  la  dichiarazione  che  io  scrissi  quando  rinunziai  al 
mio  ufficio;  affinchè  il  Re  vegga  quale  uomo  io  mi  sono,  non  quel 
tristo  che  la  malvagità  degli  uomini  ha  voluto  dipingere  con  neri 
colori  ».  Lo  invitò  allora  il  ministro  delle  finanze  ad  occupare 
un  posto;  egli  rispose  che  non  poteva  accettarlo,  perchè  non  sa- 
peva affatto  di  finanza  e  in  tutta  la  sua  vita  non  aveva  studiato 
che  letteratura.  Egli  apriva  allora,  di  fatti,  secondo  il  suo  voto, 
in  Napoli  uno  studio  di  letteratura;  ma,  per  breve  tempo;  eletto 
deputato  da'  suoi  concittadini  dovette  rifiutare,  perchè  non  s'era 
ancora  accettata  la  sua  rinunzia  al  ministero,  senza  la  quale  ac- 
cettazione riusciva  nullo  il  voto  de'  suoi  elettori.  Disciolta  la  ca- 
mera, al  Settembrini  fu  consigliato  di  fuggire;  egli  non  credette 
cosi  grave  e  così  imminente  il  pericolo;  si  ritrasse  il  G  maggio 
1849  ad  abitare  ima  villetta  di  Posilippo.  Il  23  giugno  egli  fu  ar- 
restato in  linea  di  prevenzione  e  per  ordine  di  S.  E.  il  Ministro 
dell'Interno.  Condannato  a  morte  nel  1851,  gli  fu  commutata  la 
pena  nell'ergastolo,  ove  rimase  fino  al  1859.  In  quegli  anni  egli 
compi  la  sua  pregevole  traduzione  .delle  opere  di  Luciano  (l)  ; 
quanto  al  modo  ch'ei  tenne  ed  all'occasione,  è  importante  udire 
le  proprie  parole  con  cui  lo  stesso  egregio  traduttore  ce  ne  in- 
forma nel  suo  Discorso  intorno  la  vita  e  le  opere  di  Luciano  : 
«  Ero  io,  egli  scrive,  da  due  anni  nell'ergastolo  di  San  Stefano, 
quando  ci  venne  il  mio  diletto  amico  Silvio  Spaventa,  il  quale 
portò  seco  un  volume  contenente  alcune  opere  di  Luciano  tradotte 
in  francese  dal  Belin  de  Ballu.  Lo  lessi,  mi  piacque,  mi  ricordai 
degli  studi  della  mia  giovinezza  ;  e  mi  parve  che  il  riso  e  l'ironia 
di  Luciano  si  confacesse  allo  stato  dell'anima  mia.  Per  non  per- 
dere interamente  l'intelligenza,  che  ogni  giorno  mi  va  mancando 
(il  Settembrini  scriveva  queste  melanconiche  parole  nel  settembre 
del  18)8  dall'ergastolo  di  Santo  Stefano),  per  non  perire  intera- 
mente alla  memoria  degli  uomini,  mi  afferrai  a  Luciano,  e  mi 
proposi  di  tradurne  le  opere  nella  nostra  favella  Ebbi  il  nudo 
testo  emendato  dal  Weise,  e  cominciai  a  lottare  disperatamente 
con  mille  ostacoli  senz'altro  aiuto  che  un  piccolo  lessico  manuale; 
ma  pervenuto  più  oltre  del'a  meta  del  lavoro,  ebbi  l'edizione  Bi- 
pontina.  Per  cinque  anni  vi  ho  lavorato  continuamente  fra  tutte 
le  noie,  i  dolori,  e  gli  orrori  che  sono  nel  più  terribil  carcere, 
in  mezzo  agli  assassini  ed  ai  parricidi:  e  Luciano,  come  un  amico 


(11  Firenze,  Le  Monnier,  1861-1862.  in  3  voi. 


-  360  — 

affettuoso,  mi  ha  salvato  dalla  morte  totale  della  intelligenza.  Il 
mio  Silvio,  che  ha  veduto  questo  lavoro  nascere  e  venir  su  con 
tante  fatiche,  mi  ha  aiutato  de'  suoi  consigli,  e,  ragionando  meco, 
mi  ha  suggerito  col  suo  solito  acume  parecchie  osservazioni  che 
io  ho  espresso  in  questo  discorso.  La  sua  amicizia  mi  è  conforto 
unico  nella  comune  sventura;  io  l'amo  con  amore  di  fratello  ed  am- 
miro in  lui  un  alto  cuor'e  ed  un  alto  intelletto.  E  se  queste  carte 
un  giorno  potranno  uscire  dal  carcere  ed  essere  pubbliche,  io  vo- 
glio che  dicano  al  mondo  quanto  io  amo  e  quanto  io  pregio  que- 
sto mio  amico.  Eppure  altri  pensieri  ed  altri  dolori  crudeli  lace- 
ravano l'anima  mia,  ed  io,  non  che  attendere  a  questi  studii,  non 
avrei  potuto  durare  la  vita,  se  Antonio  Panizzi,  Direttore  del  Mu- 
seo britannico,  non  avesse  con  amore  di  padre  preso  cura  del  mio 
povero  figliuolo,  e  fotti  a  me  grandi  e  singolari  benefizii.  Qua- 
lunque sia  questa  mia  fatica,  per  suo  benefizio  io  potei  farla,  e 
però  a  lui  è  dovuta,  ed  a  lui  l'offro,  e  la  consacro.  »  Raffaele 
Settembrini,  il  protetto  del  Panizzi,  dovea  poi,  come  ufficiale  della 
marina  inglese,  divenire,  nel  4 859,  salvatore  del  padre;  il  Pitrè  ha 
narrato  questo  commuovente  episodio  nel  suo  volume  di  Nuovi 
profili  Mogy^afici  di  contemporanei  (1),  ove  egli  ci  dà  pure  un  ri- 
tratto fisico  del  Settembrini;  della  vita  del  quale  non  resta  altro 
ad  aggiungersi,  fuor  ch'egli  vive  dal  1800  in  Napoli,  ove  coperse 
da  prima  l'ufficio  d'ispettore  degli  studii,  e  da  alcuni  anni  pro- 
fessa letteratura  italiana  all'università;  ch'egli  segue  in  politica, 
non  senza  calore  partigiano,  la  parte  moderatissima;  e  che  fu  da 
parecchi  ministri  della  pubblica  istruzione  adoperato  in  frequenti 
ufficii  importanti. 

Per  quanto  ristretta  sia  ora  la  parte  politica  che  il  Settembrini 
sostiene,  il  suo  passato  è  degno  di  ogni  rispetto,  e  nessuno  tro- 
vasi meglio  di  me  disposto  a  rendergliene  onore.  Ma  se  in  ma- 
teria politica  ei  può  parlare  alto,  duolmi  non  potergli  riconoscere 
la  stessa  autorità  come  uomo  di  lettere,  duolmi  non  poter  dire  a 
que'giovani  ai  quali  egli  si  volge  con  parola  cosi  frequente  e  si- 
cura: fidatevi.  Era  mio  primo  proposito  combattere,  come  il  Buc- 
cellati, il  Gelmetti,  il  Tedeschi  hanno  già  fatto,  le  matte  opinioni 
divulgate  dal  Settembrini  con  le  sue  Lezioni  di  letteratura  ita,- 
liana,  sopra  il  Manzoni;  ma  avuto  tra  le  mani  tutto  il  libro,  me 
ne  cadde  l'animo;  io  speravo  che  quella  sfuriata  del  Settembrini 


(I)  Palermo,  1R68,  p    153,  154, 


—  361  — 

fosse  un  caso  strano;  invece  mi  dovetti  persuadere  che  l'opera  sua 
è  piena  di  simili  sfuriate,  e  leggendola  mi  spiegai  pure  il  tono 
presuntuoso  di  parecchi  fanciulli  delle  provincie  meridionali,  ai 
quali  perchè  brilla  qualche  lampo  d'ingegno,  par  lecito  metter  su 
cattedra  e  posarsi  sopra  un  piedistallo  per  dire  al  volgo:  se  voi 
non  vi  siete  accorti  di  me,  parlerò  tanto  io  che  vi  manderò  per- 
suasi come  una  sola  mediocrità  audace  valga  più  di  cento  in- 
gegni modesti  e  laboriosi;  ciò  che  importa  è  sapersi  far  largo,  è 
dir  le  cose  tali  e  quali,  schiettamente,  come  vi  saltano  per  lo 
capo,  senza  darsi  alcuna  briga  di  esaminare  se  per  caso  non  fos- 
sero volgari  sciocchezze,  se,  per  caso  la  prima  parola  non  facesse 
a  pugni  con  l'ultima,  se  tutto  lo  splendido  alto  discorso  non  si 
risolva  in  un  infinito  e  vano  sproloquio.  Il  dire  ora  che  tutta 
l'opera  del  Settembrini  è  uno  sproloquio  sarebbe  cosa  ingiusta,  e 
che  a  lui  dovrebbe  parere  villana.  Un  certo  fondo  di  studii  se- 
veri al  Settembrini  non  manca;  che,  se  egli  non  ne  potesse  recare 
altri  documenti,  la  sua  versione  del  Luciano  fatta  in  carcere  ba- 
sterebbe a  provarlo.  Anche  dal  lato  della  conoscenza  letteraria 
può  dunque  riconoscersi  un  certo  pregio  nel  contenuto  materiale 
delle  Lezioni  del  Settembrini;  ma,  oltre  a  questo,  esse  contengono 
un  pregio  generale,  il  quale  se  non  è  nuovo,  come  l'autore  s'im- 
magina, riesce  efficace  per  la  ostinazione  che  mette  il  Settem- 
brini nel  confermarlo,  voglio  dire  la  immediata  corrispondenza 
ch'egli  cerca  di  continuo  fra  le  lettere  e  la  vita.  Certo  la  vita 
può  essere  intesa  assai  più  largamente  e  profondamente  ch'ei  non 
sappia,  e  la  corrispondenza  ch'egli  trova  nella  storia  fra  la  mani- 
festazione letteraria  e  la  vita  è  di  rado  precisa  (egli  vede  per  tutta 
la  nostra  storia  letteraria,  come  il  Ferrari  per  tutta  la  nostra  storia 
civile,  quasi  unicamente  guelfi  e  ghibellini,  papato  ed  impero)  ma 
nessuno  può  negare  che  sull'animo.de'giovani  1  insistenza  che  pone 
il  Settembrini  nel  rendere,  in  certo  modo,  la  vita  dell'individuo  re- 
sponsabile delle  qualità  dello  scrittore  non  sia  per  riuscire  benefica. 
Per  questa  parte  adunque  del  contenuto  ideale  che  inspira  gene- 
ralmente tutta  l'opera  del  Settembrini,  e  gli  fa  scrivere  qua  e  là 
alcune  pagine  di  vera  e  sentita  eloquenza,  le  sue  Lezioni  di  let- 
teratura ilatiana  meritano  un  riguardo;  ma  tradirei  alla  mia  fede 
di  libero  scrittore  se  aggiungessi  che,  il  valore  del  critico  corri- 
sponde nel  libro  a  quello  del  patriota,  e  che  il  Settembrini  sia, 
quanto  alla  forma,  uno  scrittore  imitabile.  Egli  vi  parla  anzi  tutto 
di  molte  cose  che  egli  conosce  molto  imperfettamente,  e  di  altre 
che  non   conosce   punto,  come  per  dire  un   esempio,  là  dove  egli 


—  362  — 

insegna  ai  giovani  che  Berchet  «  tradusse  dall'indiano  il  dramma 
la  Sacuntala  »  confondendo  così  un  articolo  che  il  Berchet  scrisse 
sopra  il  dramma  indiano,  con  una  traduzione  che  egli  non  ha  mai 
fatta  e  che  non  poteva  fare;  e,  per  citarne  un  altro  più  grave,  là 
dove  egli  chiama  pummente  medilativa  la  filosofia  d'Aristotile,  il 
più  grande  osservatore  della  natura  che  abbia  avuta  l'antichità. 
Lo  stile  del  Settembrini  diviene  ora  lirico  per  un  entusiasmo  falso 
e  convenzionale,  ora  volgare  per  un'affettazione  di  sincerità  non 
chiesta  e  p'ena  di  fatuità.  Rechiamone  un  esempio;  egli  parla  del 
Sydereus  Nimc'iis,  ed  incomincia  col  dirci  che  è  una  festa,  ima  le 
tizia,  una  nuova  rivelazione,  una  felice  tiovella  che  scende  dal  cielo; 
quante  parole  inutili,  dove  bastava  esporre  semplicemente  il  ti- 
tolo dell'operetta,  e  quindi,  come  se  non  bastasse,  procede  in  que- 
sto strano  e  ridicolo  linguaggio:  «  Solenni  e  letizianti  sono  le  pa- 
role onde  incomincia,  nelle  quali  io  sento  tutta  la  poesia  della 
scienza  che  sorge  bella,  lieta,  sorridente  come  una  vaga  fanciulla, 
che  entra  cantando  nella  festa  della  vita.  »  E  pure  Galileo  non 
cantava  punto,  e  invitava  soltanto,  con  severa  semplicità,  i  suoi 
coUoghi  a  studiare  le  proposte  contenute  nel  suo  trattatello: 
«  Magna  equidem  in  hac  exigua  tractatione  singiilis  de  natura  spe- 
culantibus  inspicienda  confemplandaque  propono.»  Ecco  uno  di  quei 
molti  casi  ne'quali  la  parola  esagerata  e  falsa  del  Settembrini  è 
sproporzionata  e  non  corrisponde  punto  alla  realtà  del  soggetto. 
Poco  innanzi  egli  ci  preoccupava  colla  solita  persona  dell'autore 
per  darci  una  notizia  che  forse  il  gesto  del  cattedratico  innanzi 
ad  un  publico  napoletano  avrà  reso  drammatica,  ma  che  lascia 
invece  più  che  freddo  e  indifferente  l'animo  del  lontano  e  tran- 
quillo lettore.  «  Quando  visitai  Pisa  la  prima  volta,  vidi  il  cam- 
panile; ed  entrai  nel  duomo,  un  sagrestano  mi  disse  additandola: 
Eccovi  la  lampada  di  Galileo;  e^li  era  seduto  li...  su  quello  scanno. 
Io  tremai  e  veramente  lo  vidi  sedere  su  quello  scanno.  » 

rsè  il  Settembrini  mi  sembra  più  felice  quando  dai  giudizii  let- 
terari! speciali  risale  a  generali  contemplazioni  sulle  fasi  della 
storia  e  sulle  ragioni  dell'arte.  Egli  è  vago  e  indeterminato; 
mette  insieme  de'  pezzetti,  e  poi  li  cuce,  li  raffazzona  senza  gar- 
bo, dimenticando  pure  talora  nella  pagina  seguente  ciò  che  egli 
avea  detto  nella  precedente  ;  egli  va  innanzi  con  immagini,  pallide 
per  lo  più,  che  converte  in  definizioni,  e  invece  d' insistere  so- 
vr' esse  per  dimostrarle,  con  facile  capriccio,  ne  lascia  una 
per  pigliarne  un'  altra,  creando  nell'  insieme  una  prima  impres- 
sione  di  scrittore  vivace,  ma  inetto  poi   a   svolgere,    con  mente 


-_  3G3  — 

filosofica ,  le  sue  tesi  mobilissime.  Vediamolo  alia  prova.  «  La 
letteratura  è  un  occìiio  dello  scibile  umano;  —  la  letteratura  (.^ 
larte  nella  parola;  —  la  parola  è  la  pyima  veste  del  pensiero;  — 
l'arte  è  (con  la  scienza  e  la  religione),  uno  de' tre  raggi  di  una  luce 
unica;  — l'arte  è  una  creazione àeWo  spirito;  —  l'arte  è  l'armonica 
rappresentazione  del  vero  in  una  forma  sensibile;  —  la  letteratura 
è  specchio  di  tutta  la  vita.  »  Quanta  speciosità  senza  cervello  ; 
tutte  queste  definizioni  immaginose  della  letteratura  e  dell'  arte 
il  Settembrini  ce  le  mette  in  un  mazzo  in  sole  due  pagine,  ove 
abbiamo  un  occhio,  clie  è  raggio,  ctie  é  specchio,  che  è  arte,  che 
è  creazione  e  rappresentazione  nella  prima  veste  del  pensiero;  dopo 
di  ciò,  si  formi  chi  può  un'  idea  ben  determinata  della  lettera- 
tura. Ma  seguitiamo.  «  Ogni  arte  ha  la  sua  parola;  questa  j?}er- 
sonalità  dell'arte  è  il  suo  vero  pregio;  la  forma  non  è  come  ve- 
stito che  possa  adattarsi  a  molti;  ma  è  come  la  pelle  che  nasce 
col  corpo.  »  Niente  più  che  pelle?  Niente  più  elastica,  intima,  pe 
netrante  della  pelle?  Dunque  uno  scrictore  senza  forma.  Vico  per 
esempio,  alla  mente  del  Settembrini  dovrebbe  rappresentarsi  come 
una  specie  di  San  Bartolomeo  scorticato  vivo?  Procediamo  in- 
nanzi. «  La  Letteratura  come  ogni  altra  disciplina,  va  studiata 
viva,  cioè  nella  sua  storia;  e  fuori  la  storia  non  si  può,  che  sa- 
rebbe come  chi  per  conoscere  1'  uomo  osservasse  il  cadavere  (an- 
che lo  studio  del  cadavere  è  possibile ,  per  conoscere  l'uomo;  il 
confronto  non  regge).  Bisogna  considerare  prima  i  pensieri,  i 
sentimenti,  le  azioni,  che  costituiscono  la  vita;  e  poi  come  tutta 
questa  vita  passando  a  traverso  il  lucido  cristallo  della  fantasia 
si  riflette  in  vari  colori,  e  ci  si  presenta  nella  luce  della  paro- 
la. »  Vi  son  due  modi  di  considerar  la  letteratura;  cercar  la 
letteratura  nella  s'orla,  o  la  storia  nella  letteratura.  Il  Set- 
tembrini che  tien  conto  del  primo  solo  modo  rends  impossi- 
bile lo  studio  di  parecchie  antiche  letterature,  nelle  quali  sol- 
tanto si  possono  trovare  alcuni  indizii  storici;  la  letteratura  in- 
diana, la  biblica,  la  omerica,  la  scandinava  informino.  Cercar  poi 
i  pensieri,  i  sentimenti  prima  de'  fatti,  prima  della  parola  che 
tramanda  tali  fatti,  come  vorrebbe  il  Settembrini,  è  possibile  sol- 
tanto ai  metafisici.  Anche  là  pertanto  dove  il  Settembrini  s'acco- 
sta più  al  vero,  non  lo  arriva,  per  quel  solito  difetto  di  logica 
che  gli  impedisce  di  riuscire  non  solo  uno  storico  della  letteratura 
italiana,  ma  neppure  un  critico  grave  e  coerente.  Egli  non  con- 
templa mai  con  fermezza  il  suo  oggetto,  e  però  se  lo  lascia  fa- 
cilmente sfuggire;  ogni  oggetto  diviene  al  suo  sguardo  un  mobile 


—  364  — 
prisma,  di  cui  girano  fra  le  sue  mani  le  facciette.  moltiplicando  e 
confondendo  i  riflessi.  «  Il  popolo  italiano,  egli  ci  dice,  ha  avuto 
due  vite,  due  civiltà,  due  religioni,  due  lingue.  »  Abbiamo  dunque 
bene  inteso  che  si  tratta  di  due;  e  poco  più  sotto:  «  L'intera  vita 
nostra  (si  tratta  dunque  di  noi  italiani],   si   distingue  in  tre  pe- 
riodi; l'antico  greco-latino  (che  c'entrano  qui  i  greci?),  il  mondo 
di  trapasso,  ed  il  nuovo  italiano.  La  civiltà  greco-latina,  è  un  splen- 
dore di  bellezza  e  di  potenza,  che  si  manifesta  nell'arte  dei  Greci, 
e  neir  impero  dei  Romani.  »  Sempre  la  stessa  indeterminatezza, 
e  la  confusione  in  un  solo  discorso  di    due  civiltà  eh'  egli  stesso 
vuole  distinte;  ma  tanto  ci  voleva  per    offrirgli  il  destro  di  dare 
il  carattere  della  vita  in  Grecia  ed  in  Roma,  al  momento  in  cui 
apparve  il  Cristianesimo.  «   Godere    era    il   grande  bisogno  e  il 
grande  studio  dell'  uomo,  e  si  cercava  godere  in  questa  terra  in 
parte;  e  poi  che  fu  esaurito   (ma   se   si  cercava  godere  solo   in 
parte,  come  mai  un  cosi   pronto   esaurimento?)  il  piacere  onesto, 
si  cercò  il  disonesto,  lo   scellerato,    l' infame,    il    piacere  dal  san- 
gue, dalla  vergogna,  e  persino  dal  dolore  (quanta  rettorica;  ov'e- 
rano  e  quali,  ed  in  qual  tempo    que'  greci   che  il  Settembrini  ri- 
copre di  tanto  obbrobrio?)  I  deboli  servirono  ai  piaceri  dei  forti, 
come  la  donna  ed  il  fanciullo   (qui   siamo   in   Grecia)  ;  i  vinti  di- 
ventavano servi  e  cose,  e  pasto  di  fiere  per  sollazzo  dei  vincitori 
(qui  si  passa  a  Roma).  I  Greci  della  natura  e  dell'uomo  usarono 
pel  piacere;  i  Romani  venuti  di  poi,  e  forti  e  ristucchi  (di  che?), 
ne  abusarono.  Fedele  immagine  di  questa  vita  è  l'arte   antica   ». 
Ma  quale  arte  ?  quella  di  Omero,  di  Pindaro,  di  Pericle,  di  Tuci- 
dide, di  Demostene,  di  Ennio,    di  Virgilio,    di  Livio,    di  Tacito  ? 
Come  si  può  egli,  dopo  avere  fatto  un  quadro  così  infelice,   cosi 
falso  della  vita,    venire   a  calunniar  tutta  l'arte,   dicendo   ch'essa 
la  rappresenta?  Ma  era  necessario    al  Settembrini   quella  scena, 
per  preparare  l'avvenimento  del  cristianesimo  :  «  Quando  la  terra 
fu  esaurita,  e  quando  fa  spremuto  il  piacere  anche  dal  dolore,  la 
terra  non  bastò  più  all'uomo,  e  bisognò  uscirne.  Necessariamente 
surse  allora  una  nuova  idea  appunto  quando  l'antica  aveva  com- 
piuto il  suo  corso  ed  era  giunta  al  godimento  dal  dolore;  e  que- 
sta idea  fa  il  Cristianesimo.  11  Paganesimo  affermò  la   terra,    il 
Cristianesimo  la  negò,  e  distrusse   quanto   vi  era   di  male   e  di 
bCìie.  11  Cristianesimo  ha  avuto  due  momenti;    nel  primo  negò  e 
distrusse  tutto,  nel  secondo  riconosce    il    bene  anche    su  la  terra 
(ma  se  avea  distrutto  ogni  cosa  I),  e  cerca  di  riconciliare  la  terra 
col  cielo  ».  Tanta  confusione,  tanto  lieve  arbitrio  di  giudizii  non 


—  365  — 
pure  sovra  alcuna  cattedra,  ma  neppure  sulle  panche  di  alcuna 
scuola  di  rettorica  si  dovrebbero  permettere.  Ma  il  Settembrini 
prosegue  impavido  :  «  Il  trapasso  dalla  civiltà  antica  alla  moderna, 
che  si  chiama  medio  evo^  è  appunto  quel  primo  momento;  periodo 
scuro  e  di  distruzione,  che  comincia  quando  questa  distruzione 
apparisce  forte  e  generale  con  Costantino  imperatore  ».  Con  sif- 
fatta leggerezza  presunse  il  Settembrini  avere  dato  ad  un  tempo 
il  carattere  della  civiltà  antica,  del  primitivo  cristianesimo,  e  del 
medio  evo.  Ma  alla  pag.  61  del  primo  volume  egli  ha  probabil- 
mente già  dimenticato  quanto  avea  scritto  sulle  prime  facciate  del 
libro:  «  Il  mondo  antico  comincia  dall'inno  di  guerra  di  una  tribù 
0  di  un  popolo,  comincia  à-àW atfermazione  delle  forze  dell'uomo  ; 
il  mondo  nuovo  comincia  dall'amore,  dalla  voce  di  un'anima  che 
su  questa  terra  desolata  e  maledetta  incontra  un'altra  anima,  co- 
mincia à?L\\' afférmazione  della  donna  (ma  se  il  Cristianesimo  ne- 
gava la  terra,  come  poteva  cominciare  affermando  la  donna?). 
Nel  mondo  antico,  la  donna  era  serva  dell'uomo  o  almeno  inferio- 
re ;  nel  mondo  nuovo,  il  Cristianesimo  depresse  l'uoìno,  lo  fece 
servo,  l'agguagliò  alla  donna  (ma,  se  la  donna  l'aveva  atlermata  !) 
anzi  abbassò  l'uno  e  l'altra  alla  condizione  delle  creature  irragionevo- 
li, per  modo  che  il  buon  Francesco  D'Assisi  nell'esagerazione  della  sua 
umiltà,  diceva:  Frate  cane,  frate  lupo,  frate  sole,  e  suor  luna  (ma 
come  non  ha  compreso  il  Settembrini  la  poesia  di  queste  espressioni 
sulla  bocca  di  San  Francesco,  e  il  sentimento  tutto  panteistico  che  lo 
muoveva,  per  cui  egli  vedea  intorno  a  sé  viva  e  parlante,  e  animata 
di  un  senso  intimo  conducente  ad  un  supremo  ideale  l'universa 
natura?  e  come  si  poteva  da  una  sola  parola  immaginosa  di  un 
poeta  ispirato  e  pieno  d'amore,  giudicar  cosi  lievemente  quel  fatto 
immenso  che,  piaccia  o  non  piaccia,  fu  nel  mondo  il  Cristianesi- 
mo?). Tutti  furono  sery?  innanzi  a  Dio,  e  però  tutti  si  trovarono 
eguali  tra  loro,  non  più  l'uomo  soggetto  all'uomo,  non  più  la 
donna  serva  dell'uomo,  ma  eguale,,  perchè  dotata  anch'ella  di  un'a- 
nima immortale  e  di  ragione  (ma  se  il  Settembrini  ci  aveva  detto 
poche  righe  più  su  che  il  Cristiane^Èimo  avea  abbassato  l'uomo  e 
la  donna  alla  condizione  delle  creature  irragionevoli l).  Quando 
l'uomo  cominciò  a  risentirsi  libero  e  levò  il  capo  (ma  se  uomini  e 
donne  col  Cristianesimo  eran  diventati  tutti  servi),  con  meraviglia 
si  trovò  a  fianco  la  donna  sua  conserva  ed  eguale,  e  facendo  libero 
sé,  fece  libera  anche  lei  ».  Io  non  ho  coraggio  di  proseguire;  non 
mai  in  Italia  fu  parlato,  a  senso  mio,  dalla  cattedra  più  speciosamen- 
te di  cose  storiche  e  letterarie,  e  con  maggior  vanità  e  contraddi- 


—  366  - 
zione  di  giudizio;  il  Settembrini  non  ordina  e  compone  lo  sue 
parole  in  un  discorso  ragionato,  ma  le  tira  su  alla  ventura,  le 
une  dopo  le  altre,  pressapoco  come  si  levano  le  ciliegie  dal  paniere 
del  fruttaiuolo  ;  la  prima  tenta  la  vista  e  la  mano  ;  se  ne  vuol 
staccare  una,  e  ne  vengono  dietro  molte  altre;  la  cil'egia  che  sta 
sopra  pare  sana;  quelle  che  giacciono  satto,  se  non  son  agre, 
hanno  la  magagna.  Un  compratore  prudente  ritirerebbe  la  ma- 
no; il  Settembrini  abbranca  invece  e  mette  le  ciliegie  in  bi- 
lancia, ed  ammonta,  ammonta,  contento  d'averle  a  cosi  buon  mer- 
cato. E  allo  stesso  buon  mercato  le  rivende  quindi,  anzi  le  dona 
liberalmente,  bastandogli  spesso  la  popolarità  del  nome  di  donatore 
splendido.  Ora  il  nome  del  Settembrini,,  in  quanto  significhi  devo- 
zione alla  patria  fino  alla  virtù  del  sacrificio,  rimarrà,  senza  dub- 
bio, intatto  ed  onorato,  ed  anche  più  in  là  dell'anno  mille  nove- 
cento e  dell'anno  diLe  mil'J,  ne  quali  egli  spèra  che  si  vedrà  il 
compimento  de' suoi  oracoli  letterari!;  ma,  se  il  tuono  dell'Apollo 
Delfico  gli  garba,  io  dubito  fortemente  che  i  suoi  responsi  richia- 
mino 0  meglio  trattengano  molta  gente  seria  intorno  al  suo  tripode. 
A  Luigi  Settembrini  uscito  dall'  ergastolo  borbonico,  ogni  uomo 
onesto  e  di  cuore  farà  sempre  di  cappello;  quanto  alla  sua  ditta- 
tura letteraria,  senza  attendere  la  giustizia  de' secoli,  la  si  può  fin 
d'ora  ridurre  al  suo  giusto  valore;  il  Settembrini  è  uomo  colto, 
immaginoso,  e  che,  dove  un  affetto  caldo  e  sincero  lo  muove,  sa 
pur  riuscire  eloquente;  non  è  tuttavia  né  un  grande  pensatore, 
né  un  osservatore  profondo,  né  uno  scrittore  poderoso.  Ho  pro- 
vato anch'io  un  certo  dispetto  alla  lettura  del  capitolo  da  lui  scritto 
contro  il  Manzoni;  leggendo  l'intiera  opera  di  lui  me  ne  sono 
tuttavia  consolato;  quando  un  critico  non  può  essere  preso  intie- 
ramente sul  serio,  non  vai  la  pena,  parmi,  di  discuterne  gli  apprez- 
zamenti particolari;  lo  spolvero  dell'ingegno  di  un  cattedratico 
può  spesso  attrarre,  ma  di  rado  fa  breccia  profonda  nell'animo 
de'  suoi  ascoltatori  ;  ciò  che  s'  acquista  con  poca  fati  'a,  si  abban- 
dona pure  con  molta  facilità. 


xxiir. 


RUGGIERO  BONGHI. 


La  serie  dei  critici  napoletani  contemporanei  non  pur  non  si 
chiude  coi  due  scrittori  rammentati  ne'  due  ricordi  che  hanno 
preceduto  il  presente,  ma,  a  pena  può  dirsi  aperta.  Io  non  in- 
tendo tuttavia  seguitarla  sino  al  fine,  senza  interromperla,  poi- 
ché, come  il  giovine  lettore  ha  potuto  avvertirlo,  non  è  mio  di- 
segno ordinare  il  mio  soggetto  come  in  un  trattato,  per  libri, 
capitoli  e  paragrafi,  né  numerare,  con  ridicola  pretesa,  per  or- 
dine di  merito,  gli  scrittori  de'  quali  mi  sono  proposto  lasciare 
alcun  ricordo,  ma  trattare  singolarmente  di  ciascuno,  come  se  ne 
offre  a  me  l'occasione.  Per  questo  carattere  di  spontaneità  che 
ogni  ricordo  porta  con  sé,  a  me  riesce  più  agevole  considerare 
ogni  scrittore  indipendentemente  per  sé,  senza  preoccuparmi  della 
necessità  di  misurare  il  mio  discorso,  secondo  un  piano  generale 
prestabilito,  al  quale  io  debba  conformar  quindi  e  sacrificare  ogni 
mio  studio  speciale.  Una  sola  idea  sì  mi  muove  sempre  e  governa, 
quella  di  dire  con  decente  coraggio  il  vero  e  quella  di  proporre, 
ov'io  abbia  la  ventura  d'incontrarli,  nobili  esempii  a' miei  giovani 
concittadini.  Ma,  serbandomi  fedele  a  questo  primo  principio  in- 
spiratore, il  quale,  come  mi  pose  nell'animo  il  desiderio  d' inco- 
minciare, così  vi  mantiene  il  coraggio  di  proseguire  nell'opera 
mia,  io  mi  riserbo  poi  una  perfetta  libertà  di  moto  nell'ordine 
con  cui  vengo  presentando  gli  scrittori  viventi  che  hanno  ope- 
rato od  operano  più  direttamente  sopra  la  coltura  nazionale, 
come  rivendico  a  me  stesso  ed  adopero  una  libertà  pienissima 
nel  dire  quel  che,  umile  scrittore,  ma  osservatore  attento  di  quanto 


—  368  - 

concorre   a    creare    una    vita    italiana    in    Italia ,    io    ne    possa 
pensare. 

Ora  intanto  mi  preme  rammentare  alla  gioventù  italiana  il  nome 
e  le  opere  eli  tre  uomini  d'ingegno,  tutti  tre  napoletani,  i  quali 
hanno  meglio  smentito,  col  proprio  esempio  di  una  operosità  mi- 
rabile, l'accusa  che.  l'italiano  delle  provincie  meridionali  si  è  par 
troppo  meritata,  come  beatissimo  di  quel  dolce  far  niente,  che 
per  inf\imia  nostra,  divenne  proverbiale.  Il  Bonghi,  il  Fiorelli  ed 
il  Villari  sortirono  da  natura,  forte,  largo  e  vivo  ingegno;  ma  il 
più  essi  lo  debbono  a  sé  stessi,  per  averlo  di  continuo  esercitato 
e  reso  operoso.  Appartengono  essi  ora  all'Italia  ufficiale;  sono 
uomini  di  governo;  il  potere  li  tenta  e  in  parte  e  forse  troppo  li 
occupa;  come  uomini  politici,  essi  rassomigliano  a' più;  ma  dai 
politici  volgari  in  questo  differiscono  ch'essi  possono  iàv  discen- 
dere un  po'  di  luce  ov'  é  molta  e  fìtta  tenebra.  Se  il  governo  fosse 
più  civile,  se  l'autorità  avesse  de' suoi  doveri  un'idea  più  elevata, 
se  vi  fosse  maggior  nobiltà  colà  ó^ove  si  puote  ciò  die  si  vuole, 
anche  i  consiglieri  sarebbero  migliori,  e  certe  titubanze  che,  per 
quanto  vogliano  parere  atti  di  singolare  prudenza,  assumono,  per 
noi  spettatori  impazienti,  misera  specie  di  viltà,  cesserebbero. 
Qualunque  governo  sorgesse  poi  in  Italia,  dovrebbe  sempre  tene 
gran  conto  d'uomini  intelligenti  e  capaci  quali  il  Bonghi,  il  Fio- 
relli ed  il  Villari  si  rivelano;  dico  anzi  di  più,  uomini  cosi  fatti, 
traendosi  dietro  la  moltitudine  potrebbero,  se  volessero,  mutare 
essi  stessi,  in  parte,  il  governo;  i  rivolgimenti  si  fanno  dal  basso, 
ma  si  pensano  e  si  governano  dall'alto;  perciò  sarà  sempre  deside- 
rabile, se  alcun  mutamento  della  forma  politica  vedrà  il  tempo  no- 
stro in  Italia,  che  le  nostre  più  nobili  intelligenze  vi  concorrano, 
per  impedire  l'anarchia  degli  analfabeti. 

10  suppongo  ora  un'alleanza  che  parrà  impossibile  ;  e  quanti 
sanno  come  il  Bonghi  ed  il  Villari  siano  teneri  1'  uno  dell'  altro 
sorrideranno,  senza  dubbio,  al  mio  augurio;  ma,  oltre  che  la  po- 
litica ci  ha  avvezzati  a  conversioni  molto  più  miracolose  di  quelle 
che  io  prenunzio,  io  ho  voluto  solamente  indicare  come  ne' cata- 
clismi politici  le  montagne  si  possono  incontrare  e  farsi  atto  di 
ossequiosa  riverenza. 

11  Bonghi,  il  Fiorelli,  ed  il  Villari  sono  in  Italia  tre  figuro  che 
si  staccano  e  che  meritano  perciò  di  venire   considerate  a  parte. 

Ruggiero  Bonghi  ha  compiuto  quarantasei  anni  nello  scorso 
mese  di  marzo.  Giovinetto,  egli  si  consacrò  tult)  allo  studio  della 
filosofia  e  del  greco;  a  diciott'anni  egli  avea  già  consegnato  alle 


—  3G9  — 
stampe  la  sua  traduzione  del  trattato  di  Plotiuo  sul  Bello,    a  di- 
ciannove anni  un  frammento  della  storia  della  filosofia    platonica 
in  Italia.  A  vent'anni  egli    si   collocava   senz'  altro   fra   i  meglio 
promettenti  ellenisti  e  filosofi  italiani  pel  suo    volgarizzamento    e 
commento  del  Filebo  o  Dialogo  Bel  sommo  hene  di  Platone  (1). 
Il  volume  contiene  la  seguente  dedica:  «  A  Clemente  De  Curtis. 
avolo  suo  dilettissimo,  Ruggiero  Bonghi  a  dimostrazione  di  anim-» 
grato  per  essere  venuto  in  soccorso  a  lui  ed  alle  sue  sorelle  nel- 
l'immatura morte  del  padre,  questo  primo  frutto  di  giovanili  studi 
offre  e  consacra.  >  Il  principio  della  carriera    d'un   giovine    che 
incomincia  con  la  riconoscenza  verso  i  suoi  benefattori  è  sempn». 
simpatico.  E  il  Bonghi   seppe   evidentemente   conciliarsi,   con    la 
prima  pagina  del  suo  libro,  la  benevolenza  de' suoi  lettori.  La  pre- 
fazione è  scritta  in  modo  impacciato  ed  accademico;  ma  qua  e  là 
ne  vien  pur  fuori  il   carattere    dello  •  seri tto;^e:    ne   recherò,    per 
saggio,  un  breve  passo,  sicuro,  che  ogni    lettore    ritroverà   nel!e 
linea  sentenziose  del  giovinetto  Bonghi  il  concettoso  e  pure  spi- 
gliato polemista  de'  giorni  nostri:  «  A  dire  quante   e    quali  diffi- 
coltà ci  sia  stato  mestieri  di  superare  per    compiere    con   alcuna 
apparenza  di  bene  il  nostro  divisamento,  sarebbe  inutile  e  noioso 
discorso,  e  forse  potrebbe  parer  cagionato  o  da  soverchio  deside- 
rio di  lode  0  da  tema  soverchia  del  biasimo  altrui.   Né  a  discor- 
rere di  quanti  e  quali  aiuti   ci    siamo   forniti,    recherebbe   alcun 
prò;  che,  ove  non  si  vedesse  dal  libro  medesimo,  punto  non  var- 
rebbe di  Eversegli  procurati.  » 

Il  Bonghi  vi  spiega  già  quella  destrezza  tutta  sua  peculiare  nel 
prevedere  l'obbiezione  e  combatterla  prima  che  gli  sia  presentata, 
arte  nella  quale  egli  è  maestro;  anzi  il  suo  valore  di  polemista 
consiste  specialmente  in  questa  facoltà  mirabile  di  studiar  tutte 
le  cose  dal  loro  punto  di  vista  contradditorio.  Io  non  ne  ho  fatto 
la  prova;  ma  scommetterei  che  se  presentassi  all'ammirazione 
del  Bonghi  il  diritto  di  una  medaglia,  egli  me  la  rivolterebbe 
subito  per  vederne  il  rovescio.  Provatevi  nella  discussione  a  mo- 
strargli come -una  cosa  sia  in  realtà;  egli  vi  risponderà  mostran- 
dovi come  essa  potrebbe  non  essere;  né  ciò  per  alcuna  malignità 
di  natura,  ma  per  naturale  disposizione  d'ingegno,  che   si  com- 


(1)  Napoli,  1817,  Slamp.  Uoirirido,  un   vo!.   in-8.   di   pn-^^  3'>2.    -   I,a 
prefazione  reca  la  da!a  del  14  ottobre  ll^'iG. 

Ricordi  Biografici  24 


—  370  — 

piace  di  contrasti,  di  differenze,  di  distinzioni;  se  gli  create  un 
effetto  di  luce,  egli  vi  opporrà  un  effetto  di  ombra;  se  voi  sol- 
leverete  delle  ombi'e  ei  vi  gettertà  sopra  luminosi  sprazzi  di 
luce. 

La  prefazione  del  Filebo  termina  con  ringraziamenti  a  Costan- 
tino Margaris,  egregio  ellenisla    ed    a    Saverio  Baldacchini,   se- 
condo padre,   i  quali  confrontarono  col  testo  greco    il    volgariz- 
zamento   del    Bonghi,    e    incuorarono    il    giovine    traduttore    a 
pubblicarlo.  Dalia  stessa  prefazione  rileviamo  come  il  Bonghi  di- 
segnava fin  d'  allora    di    pubblicare  una  completa  traduzione  dei 
dialoghi  di  Platone,  e  dalle    note,    che    occupano    quasi  duecento 
pagine  del  volume,  come  egli  era  già  famigliare  con  tutta  la  let- 
teratura platonica,  e  come  conosceva,  fln  da  quel  tempo,  il  tedesco 
e  ringlese,  onde  egli  poteva  entrare  in  polemica  con  l'autoiùtà  di 
Schleiermacber,  Kleuker,  Gòtz,  Hiilsemann,  Sydenham  ed  altri  in- 
terpreti de'  dialoghi  platonici.  Molte  di  quelle  note  potranno  oggi 
parere  superflue  e  forse  troppo  minuziose;  ma  esse  sono  pur  sempre 
un  bel  documento  degli  studii  profondi  fatti  da  un  giovine  non  pur 
ventenne,  in  un  tempo  e   in   un    paese   ne'  quali  gli  studii  erano 
depressi  e  non  conducevano  a  nulla.  Alla  nostra  odierna  frettolosa 
gioventù  può  essere  profittevole   il   pigliar  fra  le  mani  il  FUeVo 
del  Bonghi;  dalla  lettura   di   un    tal    libro,  essi  comprenderanno 
sopra  quali  solide  fondamenta  si  posò    la   fama  d'uomo  dotto  che 
nessuno  nega   al    Bonghi,    per   quanto    sembri   a  molti   che  egli 
r  abbia  compromessa,  servendosi  della  propria  dottrina,  per  riu- 
scire un  giornalista  diverso  dagli  altri.    E  quanto  diverso  !    Non 
dico  per  le  opinioni  ch'egli   sostiene.    Esse   possono,  pur  troppo, 
mutarsi  secondo  i  venti,  e  però  appaiono  di  rado  sincere.  Il  Bon- 
ghi ditrìcilmente  riesce  a  scaldare  alcuno  de'  suoi  lettori;  il  freddo 
ch'egli  sente  lo  fa  pure  sentire;  il  suo  mobile  scetticismo  lascia 
indifferente  chi  ha  il  piacere  di  leggerlo.  Ma  questo  piacere  non 
può  essere  dissimulato.  Il  Bonghi  ha  primo,  in  Italia,  convertito 
r  articolo  di  giornale  in  un  lavoretto  d'  arte  ;    e,  cosa  veramente 
meravigliosa,  egli   è  forse    il    solo    artista    in    Italia,  che  possa 
creare  un'opera  d'arte  ogni  giorno.    Son   miniature,  per  lo  più; 
ma  esse  recano  sempre  1'  aspetto  di   un  piccolo  tutto  finito.  E  in 
questo  sforzo  quotidiano  dell'ingegno  a  dir  qualche  cosa  di  vivo 
e  di  nuovo,  alcana  volta  vengono  pur  fuori  verità  luminose,  alle 
quali,  se  il  loro  ostetrico  potesse  pur   dare  una  coscienza    sicura 
e  ardente  che  comunicasse  loro   con  la  vita  il  calore,  si  accoste- 
rebbero forse  numerosi  credenti.  Ma  lo  scrittore  scettico  fa  scet- 


—  371   - 

tico  il  lettore.  Il  pubblico  assiste  compiacente  allo  spettacolo  artistico 
che  dà  ogni  giorno  il  Bonghi^  ma  molto  più  curioso  di  vedere  come 
il  Bonghi  dirà  questa  o  quell'altra  cosa,  che  sollecito  di  seguirlo, 
dopo  averlo  inteso  parlare.  Il  Bonghi  non  ha  potuto  pubblicare  la 
sua  traduzione  completa  dei  dialoghi  di  Piatone;  egli  ha  seguitato 
pertanto  a  comporre  dialoghi  per  conto  proprio,  i  quali  se  non 
hanno  sempre  la  serenità  di  quelli  del  filosofo  salutato  col  nomo 
di  divino,  ne  ricordano  talora  il  sapore  artistico.  Egli  fa  parlare 
i  suoi  avversarli  come  gli  talenta,  e  quindi  si  dà  il  gusto  di  con- 
fonderli con  la  sua  dialettica;  quando  questa  gli  fa  difetto,  licenzia 
pubblico  ed  avversarli  con  uno  zuccherino  sofìstico;  ed  il  giorno 
dopo  ricomincia  da  capo,  vegeto,  alacre,  fresco,  malgrado  le  notti 
agitate  ch'egli  passa  ballottato  sulle  strade  ferrate,  ed  i  giorni  pieni 
di  cure,  che  lo  fanno  correre  dall'  università,  ove  egli  professa  la 
storia  ant;ica,  al  ministero  della  pubblica  istruzione,  ove  siede  tra  i 
più  operosi  membri  del  consiglio  superiore,  dal  ministero  al  parla- 
mento, ove  egli  entra  in  tutti  gli  ufiicii,  in  tutte  le  più  impor- 
tanti commissioni,  relatore  predestinato,  dal  parlamento  alla  po- 
sta, per  inviare  articoli  e  corrispondenze  ai  due  grandi  giornali 
quotidiani  ch'egli  dirige  da  Roma,  La  Perseveranza  di  Milano, 
r  Unità  Nazionale  di  Napoli.  Scrive  il  primo  d'ogni  mese  per  la 
Nuova  Antologia,  la  rassegna  politica  la  quale,  qualunque  sia  il 
peso  che  si  voglia  dare  alle  opinioni  che  vi  si  professano,  è  pur 
sempre  lo  scritto  più  importante  e  più  attraente  che  si  pubblichi 
dalla  più  nobile  e  incipriata  delle  riviste  italiane;  assiste  regolar- 
mente in  Firenze  al  Consiglio  della  Società  delle  ferrovie  romane, 
pubblica  libri,  s'occupa  molto  de' proprii  affari  e  trova  ancora  il 
tempo  e  la  grazia  per  fare  dello  spirito  ne'  saloni  eleganti  delle 
gentili  signore.  Vero  prodigio  di  versatile  operosità!  —  Gran  pec- 
cato però  che  una  sola  viva  e  potente  volontà  non  lo  diriga  ed 
infiammi  ! 

Ma  a  quarantasei  anni  è  oramai  difHcile  ch'egli  muti  costume. 
Torniamo  piuttosto  indietro,  per  seguir  brevemente  le  traccie  del 
suo  passato. 

Pubblicato  il  Fileho.  sopravvennero  le  agitazioni  politiche,  alla 
quali  il  giovine  Bonghi  prese  parte  vivissima,  dapprima  compro- 
mettendosi presso  il  governo  col  cercare  nel  1847  di  attrarre  al 
movimento  italiano  la  nobiltà,  poi  pigliando  parte  nel  1848  alle 
dimostrazioni  pubbliche,  stendendo  in  casa  Filangieri  la  domanda 
per  una  costituzione,  pubblicando  il  giornale  II  Tempo,  con  Carlo 
Troia,  Saverio  Baldacchini  e  Stanislao  Gatti,  seguendo,  come  primo 


—  372  - 

segretario,  l'ambasciata  per  la  lega  italiana.  Dopo  il  15  maggio, 
giorno  nel  quale  fu  sconfìtto  in  Napoli,  il  partito  costituzionale,  il 
Bonghi  si  dimise,  venne  in  Toscana,  vi  studiò,  e  scrisse  nel  Na- 
zionale. Cacciato  di  Toscana,  per  avere  sconsigliato,  in  un  articolo, 
il  matrimonio  della  principessa  toscana  con  un  figlio  di  Ferdinando, 
si  recò  nel  1849  a  Torino,  e  di  là  sul  Lago  Maggiore,  ove,  co- 
nobbe il  Rosmini  ed  il  Manzoni,  del  quale  divenne  amico,  e  si 
trattenne  fino  al  1859,  studiando  e  lavorando,  e  combinando  e  scom 
binando  affiiri.  I  due  volumi  delle  Opere  di  Platone  nuovamente  tra- 
dotte da  lui,  editi  a  Milano  da  Francesco  Colombo,  recano  la  dedica 
seguente:  «  Questo  volgarizzamento  delle  opere  di  Platone  da  Antonio 
Èosmini  desiderato  Ruggiero  Bonghi  intitola  ad  Alessandro  Manzoni 
sperando  die  la  memoria  di  tanto  amico  glielo  deva  rendere  accetto  ». 
Ma,  prima  di  questo  lavoro,  il  Bonghi  aveva  pubblicato  la  sua  ver- 
sione de*  primi  sei  libri  della  metatìsica  di  Aristotile,  e  le  Lettere 
critiche  :  Perchè  la  letteratura  italiana  non  è  popolare  in  Italia, 
le  quali  meriterebbero  ora  di  venir  ristampate.  Nel  1858,  la  fa- 
coltà di  lettere  di  Pavia  propose  il  Bonghi  al  governo  austriaco 
'come  professore  di  filosofia;  il  governo  lo  invitò;  il  Bonghi  si 
credette  tuttavia  in  dovere  di  ricusare.  Nominato  invece  a  quella 
stessa  cattedra  dal  Casati,  accettò,  fece  i)er  alcuni  mesi  lezione,  e 
le  sue  Lezioni  di  logica  pubblicò  a  Milano  nel  1860,  dedicandole  ai 
propri  scolari.  Nel  1860,  eletto  deputato  di  Belgioioso,  recossi,  per 
consiglio  di  Cavour,  a  Napoli,  a  fine  d'aiutarvi  il  movimento;  vi 
fondò  il  Nazionale,  e  dopo  l'arrivo  di  Garibaldi,  come  j^ì'^i^no  eletto 
della  città  si  mosse  in  deputazione  a  pregare  il  Re  Vittorio  Ema- 
nuele d'entrare  nel  Regno.  Eletto  quindi  professore  di  filosofia  nel- 
l'Università di  Napoli  dal  ministro  De  Sanctis,  ricusò;  creato  dal 
Farini  nel  18G1  segretario  del  Consiglio  di  Luogotenenza,  e  rimasto 
soli  36  giorni  in  ufiìcio,  fece  quindi  ritorno  a  Torino,  e  venne  rie- 
letto deputato  dal  collegio  di  Manfredonia.  Nel  1803  fondò  il  giornale 
la  Staìi'ipa  che  ebbe  corta,  misera  e  burrascosa  vita.  Nel  186  !■  fu 
eletto  professore  di  greco  presso  l'Università  di  Torino,  e  non 
prese  stipendio  e  non  fece  lezione;  nell'anno  seguente  professore 
di  latino  presso  l'Istituto  di  Studi  Superiori,  e  membro  del  Consiglio 
superiore.  In  quel  tempo  egli  attese  pure  a  pubblicare  col  Del  Re 
la  versione  del  Dizionario  delle  antichità  del  Rich.  Nel  1866,  passò 
a  Milano  per  dirigervi  la  Perseveranza.  Nel  1867,  pubblicò  presso 
il  Barbera  un  importante  volume  di  quasi  mille  pagine  dedicato 
alla  Venezia  lihsì'a  e  intitolato:  La  Vita  e  i  tempi  di  Valentino 
Pasini,  lavoro  pressoché  di  sola  compilazione  ma  che.  fatto  da  un 


—  373  — 

uomo  del  sapere  e  dell'ingegiK?  del  Bonghi,  getta  molta  luce  sopra 
un  periodo  importante  della  nostra  storia  politica  e  finanziaria.  Nello 
stesso  anno  1887,  il  Bonghi  fu  eletto  professore  di  storia  antica  nel- 
l'Accademia scientifico-letteraria  di  Milano,  e  il  collegio  d'Agnone  lo 
deputò  suo  rappresentante  al  parlamento.  Nel  1870,  Agnone  e  Lu- 
cerà lo  rielessero  deputato;  ed  il  Bonghi  optò  per  Lucerà.  In  questo 
arido  sunto  di  notizie  cronologiche  chi  conosce  il  Bonghi  lo  rico- 
nosce; mal  potrebbe  invece  giudicarlo  chi  non  avesse  altra  notizia 
dell'ingegno  e  dell'indole  di  lui,  nato  per  le  mobilissime  e  molte- 
plici battaglie  dell'ingegno,  e  non  per  la  sola  fredda  esposizione 
catteiratica  di  una  scienza  della  quale  egli  prim.o,  forse,  col  suo  scetti- 
cismo difi^ida.  Egli  è  pertanto  così  solerte  deputato  come  professore 
molto  intermittente;  egli  ha  già  mutato  cinque  cattedre  ;  potrebbe 
ancora  mutarne  altre,  le  attitudini  dei  suo  ingegno  essendo  così 
svariate:  ma  nessuna  basterebbe  ad  occuparlo  tutto;  ogni  minuto 
deve  avere  per  lui  la  sua  cura,  e  diversa:  egli  porta  un  senso 
pratico  nella  speculazione  filosofica,  e  uno  spirito  filosofico  ne'  ne- 
gozii  ordinarii  della  vita;  ove  egli  incontra  un'acqua  stagnante, 
getta  una  pietruzza  per  agitarla  ed  esplorarne  il  fondo  ;  ove  scorge 
tempesta,  spinge  tranquillo  la  sua  navicella  quasi  voglia  mostrare 
dalla  calma  del  pilota  che  non  vi  è  pericolo;  battagliero  allegro 
ed  agilissimo,  pieno  di  accorgimenti,  e  sempre  attento  a  non  pre- 
sentare ignudo  il  petto  0  il  fianco  al  nemico,  ed  a  ferire  ritraendo 
prontamente  la  mano;  il  nemico  di  lui  può  divenire  da  un  minuto 
all'altro  un  amico,  in  virtù  della  contradizione  che  sa  conciliare 
l'inconciliabile,  e  della  gioconda  lievità  delle  battaglie  che,  per  lo 
più,  sono  battaglie  finte.  Si  può  quindi  non  temer  troppo  il  Bon- 
ghi qual  nemico  politico,  come  non  conviene  far  conti  troppo  lunghi 
su  l'amico:  le  posizioni  che  mutano  lo  travolgono  facilmente; 
egli  non  sta  mai  li,  piantato,  immobile,  su  due  piedi,  ma  si  tiene 
lieve,  lieve  su  la  punta  d'un  sol  piede  a  fine  di  potere,  quando  girano 
gir  eventi,  girare  con  essi.  Ognuno  intende  ch'io  parlo  delle  sole  atti- 
tudini dell'uomo  politico,  dell'uomo  pubblico,  che  dell'uomo  privato 
io  non  ne  so  nulla,  e  quel  poco  ch'io  ne  so,  me  lo  proverebbe  sol- 
tanto uomo  di  cuore  L'elastica  natura  dell'ingegno  del  Bonghi  ci 
toglie  di  poter  dire  di  lui  quello  che,  del  resto,  può  affermarsi  di 
assai  pochi;  ch'egli  sia,  cioè^  nel  dire  e  nel  fare  tutto  d'un  pezzo; 
egli  mi  offre  più  tosto  l'aspetto  di  un  caleidoscopio,,  in  cui,  minuti 
pezzettini,  agitandosi  e  combinandosi  senza  fine,  creano  innumeri 
effetti  graziosi  e  sorprendenti.  Il  Bonghi  non  ci  rappresenta 
adunque  alcun  ideale,  ed  io  sono  lontano  dal  proporlo  ad  esempio 


—  374  — 

come  un  modello  di  tutte  le  virtù  politiche,  ma  contemplo  in  lui 
con  ammirazione  la  prodiga  ricchezza  della  natura,  la  quale  diede 
all'ingegno  del  Bonghi  ogni  più  felice  attitudine.  Peccato  che 
questo  mirabile  artista  non  possa  darci  altro  che  voci  di  testa  e 
non  ci  abbia  mai,  e  non  prometta  oramai  più  di  farci  sentire  al- 
cuno di  que'  gagliardi  e  generosi  si  di  petto,  che  fonno  alzare 
da'  suoi  scanni  l'umile  platea,  e  la  rendono  capace  di  entusiasmi 
operosi  e  magnanimi. 


XXIV. 


GIUSEPPE  FIORELLI. 


Non  vi  è  forestiero  che  visiti  Napoli  e  non  ne  parta  con  una 
benedizione  sulle  labbra  al  nome  del  Fiorelli.  Uomini  dotti  se  ne 
trovano  in  ogni  parte  d'Italia,  ma  tali  dotti  che,  vivendo  fra  le 
rovine  del  passato,  non  dimentichino  il  presente,  e  non  s'inselva- 
tichiscano affatto,  sebbene  in  Italia  siano  men  rari  forse  che  al- 
trove, non  si  possono  dire  frequenti.  Napoli  lia  la  fortuna  di  pos- 
sedere nel  Fiorelli  il  più  amabile  forse  de'  suoi  dotti.  Chi  consideri 
lo  stato  di  brutale  servaggio  in  cui  erano  tenute  in  passato  le 
provinole  meridionali,  non  pregierà  mediocremente  la  disinvolta 
e  distinta  eleganza  che  il  Fiorelli  serba  nel  suo  costume,  e  quella 
sua  socievolezza,  ch'è  indizio  ad  un  tempo  d'animo  gentile  e  di 
coltivata  educazione.  Chi  lo  vede,  chi  gli  parla,  chi  tratta  con  lui 
non  si  meraviglia  ch'egli  sia  pure  uomo  di  gusto  finissimo  nelle 
cose  d'arte;  chi  sa  vivere  con  decoro,  chi  sa  porre  anzi  tutto 
l'estetica  nella  vita,  è  giudice  d'arte  raramente  fallace;  ed  il  Fio- 
relli ha  conseguito  lode  d'uomo  che  sa  sorprendere  il  bello  nella  vita 
dell'arte,  poich'egli,  anzi  ogni  cosa,  ha  saputo  e  sa  vivere.  Io  non 
dirò  cosa  nuova  per  alcun  italiano,  affermando  che  il  Fiorelli  non 
solamente  ha  saputo  disseppellire  1'  antica  Pompei,  ma  farci  rivi- 
vere in  essa.  Egli  ha  rimesso  la  vita  tra  quelle  ruine,  delle  quali 
ha  interrogato  ogni  segreto,  non  per  custodirlo  geloso  nella  sua 
mente,  come  usa  il  volgo  degli  eruditi,  ma  per  rendere  partecipe 
tutto  il  mondo  de'  vivi  al  piacere  ineffabile  da  lui  provato  nel  pas- 
seggiare in  quella  necropoli  che  fu  già  luogo  di  delizia  alla  an- 
noiata potenza  degli  ultimi  Quiriti.  Il  Beulé  nel  suo  libro  intito- 


~  37()  — 
lato:  Ledrame  du  Vtsuvc,  ha  detto  alla  Francia,  o,  per  la  Francia, 
al  mondo  qual  conto  si  debba  fare  dei  servigi  resi  dal  Fiorelli  alla 
scienza,  per  la  ostinazione,  operosità  e  intelligenza  piena  di  risorse 
da  lui  mostrata  nel  promuovere,  nel  dirigere,  nell'illustrare  gli  scavi. 
Si  può  ancora  aggiungere  che,  fra  Giuseppe  Fiorelli  e  Giulio  Miner- 
vini,  non  rimase  quasi  nessuna  antichità  inesplorata  sopra  il  suolo  di 
Napoli,  di  quante  n'hanno  saìvate  i  secoli  o  discoperte  gli  scavi,  o  se 
alcun  monumento  rimane  a  descriversi,  ai  due  migliori  discepoli  di 
que'due  insigni  archeologi  napoletani  è  riservata  l'opera  di  compierne 
l'illustrazione,  io  voglio  dire  a  Giulio  De  Petra  e  ad  Ettore  De  Rug- 
giero, il  primo  de'quali  sotto  il  patrocinio  speciale  del  Fiorelli,  il  se- 
condo sotto  quello  del  Minervini  seppe  arrivare  aduna  tale  eccellenza 
da  poterne  continuare  la  tradizione  gloriosa,  quando  l'opera  de'mae- 
stri  verrà  meno.  Ma  tra  il  Fiorelli  ed  il  Minervini,  che  sono  in  Napoli 
considerati  come  rivali,  il  primo,  per  la  sua  prontezza  operosa,  per  la 
sua  vivace  amabilità,  per  la  sua  destrezza  sagace,  ha  molti  vantaggi 
sopra  il  secondo  che,  nel  vero,  gli  ha  ceduto  molta  parte  del  campo. 
Il  comm.  Giuseppe  Fiorelli  è  nato  in  Napoli  il  di  8  giugno  dell'anno 
1823;  a  23  anni  egli  sedeva  già  come  vice-presidente  al  congresso  de- 
gli scienziati  di  Genova.  Venne  quindi  eletto  ispettore  degli  scavi  di 
Pompei,  e  rimase  in  ufficio  fino  all'anno  1849,  dopo  il  qual  tempo,  a 
motivo  della  parte  da  lui  presa  ai  rivolgimenti  di  Napoli,  ridotto  a 
condizione  privata,  sostenne  con  nobile  coraggio  la  insolita  povertà 
col  farsi  per  tre  anni  semplice  manovale  di  muratore;  fincli'egli,  sotto 
il  patrocinio  del  conte  di  Siracusa  il  solo  liberale  fra  i  principi  Borbo- 
nici, potè  migliorare  alquanto  il  suo  stato;  nel  1860,  egli  ripigliava 
quel  posto  che  le  vicende  politiche  italiane  gli  aveano  fatto  lasciare. 
Innanzi  all'anno  1860,  intanto,  il  Fiorelli  aveva  già  pubblicato  le  sue 
Osservazioni  soj)ra  alcune  monete  rare  di  ciilà  greche  {}) ,  illustrato 
alcune  Monete  inedite  delC Italia  antica,  diretto  fra  il  1846  e  il  18')1 
gli  Annali  di  Numismatica,  descritte  le  antichità  del  gabinetto  del 
conte  di  Siracusa  (18'3),  le  iscrizioni  osche  di  Pompei  (1854),  i  vasi 
fìttili  dipinti  rinvenuti  a  Cuma.  Dopo  quel  tempo,  oltre  ad  una  serie 
copiosa  di  articoli  dettati  per  raccolte  numismatiche  ed  archeologiche, 
si  distinguono  tra  le  pubblicazioni  del  Fiorelli  il  G-lornale  degli  scavi 
di  Pompei,  e  il  Catalogo  del  Museo  Nazionale  di  Napoli,  ch'egli  ha 
intieramente  riordinato  nel  suo  duplice  ufficio  di  Direttore  e  di  So- 
printendente degli  Scavi,  per  i  quali  cumulati  ufficii,  a  fine  di  sfug- 
gire all'accusa  di  camorrista  ufficiale,  egli  dovette  rinunciare  nel 


(I)  Napoli,  1843,  in-8  ;  egli  aveva  allora  appena  vent'anni.. 


-  377  - 
1861,  alla  cattedra  di  archeologia  che  gli  era  stata  conferita  nell'Uni- 
versità napoletana.  Il  Fiorelli  ha  sottratto  tesori  alla  terra  avara  che 
li  ricopriva;  con  questa  stessa  attitudine  di  conquistatore  egli  visita, 
percorre,  conquista  quella  parte  di  Napoli  archeologica  diesi  nascon- 
de tuttora  gelosa  all'occhio  dell'osservatore.  A  Napoli  si  dice  che  al 
senatore  Fiorelli  piace  il  potere  e  che,  acquistatolo,  egli  se  ne  serve; 
poiché  non  ho  inteso  dire  ch'egli  ne  abusi,  é  desiderabile  soltanto 
ch'ei  n'abbia  molto;  il  potere  di  fare  il  bene  non  è  mai  troppo.  Così 
a  nessuno  dorrà  l'intendere  che  in  grazia  delle  arti  e  delle  premure 
del  Fiorelli,  la  cassetta  del  re  siasi  aggravata  di  una  passività  annua 
di  lire  50,000,  quando  s'intenda  che  quelle  annue  50,000  lire^  invece 
di  mantenere  qualche  altro  parassita  ad  una  corte  che  n'é*  già  sa- 
zia ed  ingombra,  servirà  soltanto  a  promuovere  gli  scavi  di  Ercola- 
no,  dal  cui  risorgimento  l'arte  e  la  storia  antica  attendono  nuovis- 
sima luce.  Io  termineròjntanto  i  cenni  presenti  con  alcune  parole 
che  scrisse  di  recente  sopra  il  nostro  archeologo  il  Beulé  nel  libro 
citato.  «  Non  loderò,  egli  dice  né  la  sua  modestia,  né  il  suo  disin- 
teresse, né  la  sua  passione  per  le  cose  antiche,  poiché  tali  qualità 
sono  tanto  necessarie  per  ogni  dotto,  che  gioverebbe  soltanto  con- 
dannarne l'assenza;  ciò  ch'è  più  raro  è  che  il  Fiorelli  seppe  imporre 
a  quanti  fanno  parte  della  sua  amministrazione  l'adempimento  dei 
doveri  ch'egli  stesso  pratica.  Tutti  gli  ufficiali  del  Museo  di  Napoli 
divennero  scrupolosi  e  discreti  verso  gli  stranieri,  perseguitati  dap- 
prima da  sfrontati  mendicanti;  i  guardiani  di  Napoli  furono  ordinati 
militarmente,  sono  attenti  e  stipendiati,  e  si  riputerebbero  disono- 
rati 0  destituiti,  ove  accettassero  qualsiasi  regalo.  I  Napoletani  si 
stupiscono  nel  trovarsi  divenuti  migliori;  ma,  quando  le  mani 
restano  pure,  le  antichità  si  conservano  meglio.  —  Finalmente 
il  signor  Fiorelli  fondò  a  Pompei  una  scuola  archeologica  simile 
alla  nostra  scuola  d'Atene,  ove  giovani  uscenti  dalle  uni- 
versità italiane  e  raccomandati  da  un  concor.-o  speciale  hanno 
loro  stanza,  i  loro  libri  e  lavorano  in  comune,  secondano  il  Fio- 
relli, sorvegliano  gli  scavi,  ne  pubblicano  i  risultati  in  un  Boi- 
leliino,  ove  i  signori  De  Petra  e  Brizio  si  sono  spesso  distinti.  » 
Segue  quindi  nel  libro  del  Benlé  una  minuta  descrizione  dei 
metodi  perfezionati  dal  Fiorelli  introdotti  negli  scavi,  e  vi  s'in- 
coraggia il  direttore  stesso  a  portare  d'ora  in  poi  la  sua  attenzione 
operosa,  i  suoi  studii,  il  suo  ingegno  sopra  Errolano.  E  deside- 
rabile ora  che  il  Fiorelli  possa  secondare  il  desiderio  espresso  dal 
Beulé,  e  che  la  città  di  Napoli  e  il  governo  lo  secondino;  poiché 
egli  non  è  uno  di  que'funzionarii  chr-  domandino  dieci  per  resti- 


—  378  - 
taire  uno;  ma  si  contenta  invece  di  ottenere  uno  per  restituir  dieci; 
se  tutti  gli  impiegati  somigliassero  al  Fiorelli,  l'opera  del  governo 
sarebbe  più  agevole,  più  semplice,  più  economica  ed  alquanto 
più  gloriosa.  Finché  i  singoli  cittadini  non  siano  responsabili  de- 
gli atti  che  ora  s'  attribuiscono  al  governo,  vera  vita  nazionale 
non  risorgerà  in  Italia,  ed  i  Fiorelli  rimarranno  fra  noi  rare 
ed  invidiabili  eccezioni.  Conviene,  pertanto,  che  ogni  cittadino  il 
quale  si  sente  capace,  assuma  in  sé  una  parte  di  quelle  funzioni 
che  ora  sono  abbandonate  al  cieco  capriccio  inconsciente  di  un 
governo  incerto,  il  quale  si  ritiene  spesso  irresponsabile. 


XXV. 


PASQUALE  VILLARI. 


Il  De  Sanctis  è  critico  per  immagini,  il  Settembrini  critico  per 
affetti,  il  Bonghi  critico  per  contradizioni,  il  Villari  solo  potrebbe 
dirsi  un  vero  critico  induttivo,  ossia  tal  critico  che  trae  le  idee 
dai  fatti  e  non  i  fatti  dalle  idee,  e  che  i  fatti  considera  nell'  am- 
biente in  cui  si  producono.  Egli  sarebbe  dunque  1'  ottimo  de'  cri- 
tici, se,  talora,  non  gli  accadesse  di  confondere  il  fatto  particolare 
col  fatto  generale,  non  esagerasse  l' importanza  dell'  aneddoto,  non 
moltiplicasse  ed  allargasse  di  soverchio  le  illazioni  che  dall'osser- 
vazione minuta  de'ftitti  si  possono  trarre.  Ogni  filosofo  positivo  è 
necessariamente  eccletico,  poiché  indipendentemente  dalle  ragioni 
tutte  delle  scuole  filosofiche,  delle  sette  religiose,  delle  parti  poli- 
tiche, egli  studia  storicamente  ogni  fatto  come  e  dove  si  presenta, 
e  può  quindi  riconoscere  una  parte  di  vero  e  di  bello  sotto  tutte 
le  forme  dell'attività  umana.  Il  critico  è  pertanto  sopra  una  via 
giusta,  anzi  sopra  l'unica  via  additata  all'umana  ragione;  se  non 
che,  oltre  al  pericolo  che  si  corre  nel  metodo  induttivo  di  tra- 
sportare il  semplice  fenomeno  al  valore  di  legge,  vuol  essere  pure 
inteso  con  discrezione  il  procedimento  che  la  mente  umana  deve 
tenere  nell'osservazione.  La  migliore  delle  osservazioni  si  fa  spesso 
per  la  sola  prima  intuizione  de' fatti;  nella  prima  intuizione,  il 
fatto  talora  si  presenta  in  tutto  il  suo  splendore,  in  tutta  la  sua 
interezza;  esaminatelo  più  dappresso,  più  addentro,  in  tutte  le  sue 
parti;  e  spesso  vi  sfuggirà  la  prima  e  vera  impressione  del  tutto, 
perchè  la  mente  s'  è  arrestata  in  un  punto  speciale,  che  sembrò 
distruggerla,,  e,  cosi,  per  dare  soverchia   importanza  a  tal  punto. 


—  380  — 
che  talora  non  è  altro  se  non  una  macchietta  sul  vetro  traspa- 
rente, si  perde  1'  occasione  di  sorprendere  una  legge  generale  ed 
mia  verità  di  ordine  superiore  II  Villari  é  nel  vero  come  filosofo 
induttivo;  ma  quando  egli  porta  fino  allo  scrupolo  l'osservanza 
del  suo  metodo,  gli  accade  alcuna  volta  di  comprometterlo.  In  ogni 
modo  però  dell'esagerazione  di  una  sua  bella  qualità  nessuno  farà 
mai  carico  al  Villari  come  critico.  Bensì  chi  lo  conosce  lam.enterà 
elle  un  uomo  della  sua  mente,  nella  condotta  della  vita,  segua  con 
troppo  scrupolo  que'principii  ch'egli  professa  nella  critica,  onde  a 
molti,  egli  che  diede,  in  più  d'una  occasione,  prove  non  dubbie 
di  coraggio  sembra  spesso  uomo  timido,  egli  che  ha  propria  ener- 
gia sembra  lasciarsi  governare  più  spesso  dalla  volontà  altrui,  egli 
che  ha  ingegno  per  tentare  e  ostinazione  per  compiere  utili  no- 
vità, ne  perde  spesso  l'opportunità,  con  la  politica  di  Fabiiis  cun- 
clator. 

Il  Villari  ebbe  in  Italia  un  momento  di  popolarità  straor- 
dinaria; non  ne  seppe  approfittare  punto.  S'era  nel  1866.  L'Italia 
si  sentiva  addolorata  so^to  il  peso  delle  sue  sconfitte,  ma  più  an- 
cora avvilita  sotto  il  peso  della  sua  mediocrità.  Il  Villari  intuì  in 
quella  occasione  il  bisogno  della  nazione,  ed  osò  nel  suo  opuscolo 
Dù  chi  è  la  colpa?  chiamare  in  colpa  la  nazione  tutta  e  invitarla 
con  forte  e  virile  linguaggio  a  mutare  indirizzo.  L'  ha  essa  mu- 
tato? Io  non  credo;  la  nostra  mediocrità  dura;  le  poche  ecce- 
zioni che  si  possono  citare,  non  bastano  a  consolarci  della  vita 
pedestre  che  conduciamo,  priva  d'iniziativa,  priva  d'entusiasmo. 
L'Italia  naviga  nel  tempo,  a  caso,  come  una  nave  senza  bussola. 
Nessuno  per  ora  le  dà  molestia,  ma  non  è  suo  merito,  se  i  suoi 
nemici  non  le  mettono  le  mani  addosso.  Essa  non  fa  nulla  per 
vantaggiare  la  sua  condizione,  per  porsi  più  alto,  per  dire  prima 
a  sé  stessa  e  poi  al  mondo  1'  hic  incipit  vita  nova.  E  noi  pos- 
siamo tornare  ora  a  domandare  :  Di  chi  è  la  colpa?  Al  che 
pur  troppo  è  pronta  ancora  la  risposta:  la  colpa  è  di  tutti, 
e  del  Villari  prima  che  degli  altri ,  del  Villari  che  poteva  in 
que' giorni  porsi  a  capo  di  un  nuovo  indirizzo  nazionale  e  non 
volle,  del  Villari  e  de'  cittadini  italiani  più  generosi  e  più  valenti 
che,  invece  di  gettare  tutta  la  loro  energia  nella  vita  pubblica, 
si  ritrassero,  si  concentrarono  in  sé  e  s'  appagarono  di  scuotere 
mestamente  il  capo,  riconoscendo  che  le  cose  in  Italia  non  vanno 
punto  bene.  Se  il  Villari  avesse  allora  osato,  se  il  Villari  volesse 
osare  anche  oggi  troverebbe  molti  seguaci  disposti,  anche  fuori 
del  Parlamento,  a  promuovere  in  Italia  non  tanto  agitazioni  pò- 


—  381  — 
litiche,  quanto,  quel  fervore  di  vita  economica,  civile,  intellettuale, 
che  solo  può  ricondurre  l' Italia  a  vera,  propria,  originale  gran- 
dezza. Ma,  per  ciò,  è  necessario  che  il  Villari  mostri  maggior 
fiducia  in  sé  stesso,  si  preoccupi  meno  di  quello  che  diranno  i 
suoi  avversarli,  derivi  coraggio  dalla  giustizia  della  causa  eh'  ei 
rappresenta  e  la  sostenga  gagliardamente  e  generosamente  sino 
al  fine.  Egli  è  troppo  uomo  di  buon  senso  per  commettere  im- 
prudenze; ma,  se  pur  gli  avvenisse  di  errare,  non  s'arresti  per 
deplorare  l'errore,  non  se  ne  intimidisca,  e  prosegua  risoluto  fino 
al  compimento  dell'  opera  sua.  Il  Villari  ha  il  passo  sicuro;  ma 
perde  un  tempo  prezioso  a  considerare  se  il  terreno  in  cui  egli 
mette  il  piede  non  presenti  alcun  pericolo,  e  così,  s' ei  va  diritto, 
procede  con  una  lentezza  che,  oltre  all'  essere  contraria  allo 
slancio  naturale  del  suo  carattere,  gli  toglie  il  modo  di  fare  ne- 
gli anni  maturi  e  gagliardi  della  vita  quelle  opere  che  sarebbe 
stato  lecito  aspettarsi  da  un  uomo  cosi  felicemente  dotato  della 
facoltà  di  appassionarsi  e  di  governare  le  proprie  passioni.  Il 
Villari  vuole  certamente  il  bene,  lo  prevede,  lo  prepara;  ma  più 
con  lo  studio  d' impedire  una  sconfitta,  che  con  la  necessaria,  viva, 
operosa  impazienza  d'assicurarsi  il  trionfo.  Di  maniera  che  egli, 
dopo  avere  dato  promessa  larghissima  di  sé,  si  vede  spesso  co- 
stretto a  contentarsi  di  mediocri  risultati,  al  conseguimento  dei 
quali  non  era  punto  necessario  lottare  tanto  né  sciupare  tant'arte. 
Il  critico  guasta  l'uomo,  quell'uomo  stesso  che  rende  cosi  sim- 
patico il  critico.  Il  timore  di  perdere  gli  toglie  la  forza  di  vin- 
cere, quando  ei  lo  potrebbe  agevolmente,  se  con  maggior  fiducia 
in  sé  stesso  e  nel  concorso  degli  uomini  che  dividono  con  lui 
opinioni  e  simpatie,  egli  muovesse  più  risoluto  e  con  impeto  più 
franco  alla  meta. 

Quello  che  il  Villari  sappia  come  storico  è  noto;  la  sua  auto- 
rità nelle  questioni  distruzione  pubblica  è  indiscussa;  il  suo  bel 
libro  sul  Savonarola,  che  ebbe  già  una  tradu/.ione  tedesca,  un'al- 
tra inglese,  mentre  una  terza  francese  se  ne  prepara  ora  in 
Francia,  le  lezioni  sulla  storia  italiana  e  particolarmente  fioren- 
tina da  lui  fatte  nell'Università  di  Pisa  e  nell'Istituto  di  studii 
superiori,  come  pure  l'eccellente  indirizzo  pratico  ch'egli  dà  ai 
giovani  i  quali  si  avviano  agli  studii  storici  e  che  si  rivolgono 
a  lui  per  consiglio,  gli  danno  autorità  fra  tutti  gli  storici  venuti 
su  in  Italia  dopo  l'anno  1848;  le  cure  da  lui  prodigate  alla  scuola 
normale  superiore  di  Pisa,  che  si  può  dire  opera  sua,  e  poscia 
all'Istituto  di  studii  superioi'i,  ove  siedo  come  preside  della  facoltà 


—  382  — 

di  lettere  e  di  cui  valse  più  di  ogni  altro  a  rialzare  l'autorità 
scaduta  presso  il  paese  e  presso  il  governo,  il  libro  di  lui  sopra 
l'istruzione  pubblica  in  Inghilterra  e  in  Iscozia,  steso  dopo  aver 
preso  parte  come  giurato  per  la  sezione  italiana  alla  mostra  uni- 
versale di  Londra  nel  1862,  la  parte  sostenuta  da  lui  come  giurato 
nella  mostra  universale  di  Parigi  nel  18G7,  l'opera  di  lui  nel  Con- 
siglio superiore  di  pubblica  istruzione,  nel  cui  ministero  sedette 
pure  come  solerte  e  intelligente  segretario  generale  sotto  i  mini- 
stri Bargoni  e  Correnti,  e  poi  nel  Consiglio  Comunale  di  Firenze, 
e  parecchi  giudiziosi  articoli  dal  Villari  pubblicati  in  materia  dì 
pubblica  istruzione,  lo  hanno  fatto  prenunziare  come  l'ottimo  fra 
i  predestinati  ministri  della  pubblica  istruzione  nel  nostro  paese. 
Ma  il  Yillari  deve  ancora  far  qualche  cosa  di  più  per  assicurare 
il  paese,  ch'egli  saprà  trascinarlo  coraggiosamente  ad  utili  e  grandi 
e,  se  occorrano,  rivoluzionarie  riforme.  L'opinione  pubblica  lo  se- 
conda; ma  egli  deve  mostrare  animo  pari  all'altezza  delle  cose  che 
dal  suo  ingegno,  agitato  nella  calma,  abbiamo  dritto  d'attenderci. 
Pasquale  Villari  è  nato  in  Napoli  nell'ottobre  dell'anno  1827.  Lo 
istruì  nelle  lettere  il  Rodino,  nella  fìsica  il  Palmieri,  nelle  matema- 
tiche il  De  Angelis.  Dopo  essersi  per  alcun  tempo  e  di  mala  voglia 
esercitato  alle  affettate  eleganze  accademiche  del  Puoti,  entrò  nello 
siudio  del  De  Sanctis,  ove  conobbe  quel  giovine  Luigi  La  Vista, 
il  Carlo  Bini  delle  provincie  meridionali,  alla  fama  del  quale-  il 
Villari  stesso  provvide  poi  egregiamente,  pubblicandone  gli  scrìtti 
presso  il  Lemonnier  e  discorrendo  in  una  calda  prefazione  del 
compianto  suo  generoso  e  grande  compagno  ed  amico.  «  Noi  lo 
aspettavamo,  scrive  il  Villari,  alla  fine  della  sua  lettura,  quando 
tutto  pieno  degli  autori  studiati,  egli  veniva  passeggiando  con 
noi,  e  con  la  sua  vìva  eloquenza,  riandava  e  ravvivava  ogni  cosa 
letta  e  pensata.  In  una  mezz'ora,  giudicava  un  grandissimo  numero 
di  scrittori;  passava  d'età  in  età,  di  nazione  in  nazione,  abbrac- 
ciando col  suo  sguardo  sicuro  le  grandi  epoche,  esponendo  la  storia 
politica  e  letteraria,  ripetendo  bratìi  d'oratori,  di  poeti,  di  storici 
e  filosofi;  e  questi  suoi  discorsi  erano  a  noi  lezione  più  utile  di 
quella,  che  potevamo  ricevere  da  tutti  i  nostri  professori.  L'ami- 
cizia, la  giovinezza,  la  bontà  sua  facevano  penetrare  nel  no- 
stro animo  tutte  le  sue  idee,  e  ne  svegliavano  in  noi  delle  al- 
tre. Io  ricordo  quei  giorni,  nei  quali  incerto  ancora  dell'  in- 
dirizzo de' miei  studii,  annoiato  delle  grammatiche,  dei  dizio- 
nari e  della  rettorica,  ero  tormentato  d;d  bisogno  di  sentire 
e  di   pensare,    né  sapevo    io    stesso  dove    rivolgermi    Allora    mi 


—  383  - 
bastava  confondermi  fra  quei  giovani  che  circondavano  Luigi 
La  Vista,  il  quale  non  mi  conosceva,  ma  pure  mi  tollerava; 
e  non  appena  l' avevo  udito  parlare,  che  tornando  a  casa,  in- 
fiammato dalle  sue  parole,  io  leggevo,  studiavo,  scrivevo,  tutto 
pieno  d'ardore.  La  sua  modestia,  poi,  era  uguale  al  suo  ingegno. 
Un  giorno  egli  aveva  letto  alla  scuola  un  lavoro,  da  cui  mi  pa- 
reva vedere,  che  la  sua  ammirazione  per  gli  scrittori  francesi, 
cominciasse  a  farlo  trasmodare  Non  avevo  il  coraggio  di  dirglielo, 
io,  poco  più  giovane  (il  La  Vista  era  nato  a  Venosa  il  29  gennaio 
1826,  e  morì  a  Napoli  combattendo  per  la  libertà  il  15  maggio 
1S48),  ma  assai  meno  di  lui  e  degli  altri  avanzato  negli  studii. 
Pure  mi  feci  animo,  e,  dopo  molta  trepidazione,  gli  parlai  franco. 
Temetti  d'aver  troppo  osato;  ma  egli  mi  salutò,  stringendomi  for- 
temente la  mano.  Se  non  che,  non  si  tornò  mai  più  su  quel  di- 
scorso, di  cui,  però,  sempre  mi  rammentavo;  onde,  non  appena 
mi  vennero  nelle  mani  i  suoi  fogli,  cercai  subito  se  v'era  alcuna 
memoria  di  quel  dialogo.  Difatti  vi  era,  e  concludeva,  dicendo  di 
me,  a  questo  proposito:  «  Amico  singolare,  stimatore  indipen- 
dente, lodatore  accorto,  censore,  più  che  gentile,  amoroso;  egli 
mi  riprende  amandomi,  e  mi  ammonisce  stimandomi  ».  Pensi  di 
me  ciò  che  vuole  il  lettore,  se  trascrivo  io  stesso  le  lodi  fattemi 
da  un  amico.  Ma  a  che  vale  un'affettazione  di  modestia?  Io  ne 
sono  super'oo,  e  mi  pare  di  meritarle;  perchè  io  avrei  voluto  di- 
struggere il  mio  essere  nel  suo,  e  quasi  nascondendomi  in  lui, 
crescere  la  sua  gloria  colla  mia  oscurità.  » 

Giunto  l'anno  iSìl,  un  giornalista  s'era  assicurata  l'opera  del 
La  Vista;  il  La  Vista  guadagnò  in  quel  giornale  le  sue  prime  lire 
e  le  ultime.  Non  sapea  qual  uso  migliore  farne,  e  pensava  man 
darle  in  regalo  al  proprio  padre,  quando  il  Villari  gli  presentò 
uno  scritto  sopra  un  quadro  di  Domenico  Morelli,  che  più  tardi 
dovea  divenirgli  cognato  e  riuscire  il  primo  pittore  di  Napoli. 
«  Lo  stile  di  quello  scritto,  scrive  lo  stesso  Villari,  era  falso,  la 
lingua  esagerata  e  scorretta;  non  vi  poteva  essere  pregio  alcuno 
nel  lavoro  di  chi  aveva  cominciato  a  lasciare  una  via  per  pigliarne 
un'altra.  Pure  io  sentivo  molto  le  lodi  che  facevo  all'autore  poco 
conosciuto  del  quadro;  e  questo  affetto  vivo  e  sincero,  fece  si  che 
Luigi  trovasse  da  lodarmi,  e  se  ne  compiacesse  grandemente.  Io 
gli  lasciai  quei  fogli,  acciò  li  rileggesse,  per  darmene  un  giudizio 
più  ponderato  ed  imparziale.  Una  sera  ero  al  teatro,  e  fui  chia- 
mato;   uscii  fuora,    e  trovai  Luigi  che,    tutto  confuso,   mi   lasciò 


—  384  — 

nelle  mani  un  involto.  Erano  le  bozze  del  mio  lavoro  già  stam- 
pato. Così,  aveva  speso  mia  parte  del  suo  primo  guadagno.  » 

In  tal  forma  il  Villari  come  sentiva  l'amicizia,  era  pur  degno 
di  farla  sentire.  Sfuggito  poi,  dopo  la  restaurazione  del  dispotismo 
borbonico  nel  1849,  alla  persecuzione  che  colpiva  quanti  aveano 
preso  alcuna  parte  un  po'  viva  ai  rivolgimenti  napoletani,  e  rifu- 
giatosi a  vivere  fra  mille  privazioni,  col  resticciuolo  del  patrimo- 
nio domestico,  in  Firenze,  egli  dovea  in  quest'ultima  città  trovar 
conforto  nel  silenzio  di  minute  e  diligenti  investigazioni  storiche. 
Ed  in  queste  ricerche  fu  il  Villari  così  ostinato  ch'ei  non  tralasciò 
nulla  di  quello  ch'ei  volesse  e  che  si  potesse  sapere  in  quegli  argo- 
menti che  egli  imprendeva  a  studiare.  Cosi  si  spiega  come  il  primo 
lavoro  serio  del  Villari ,  il  primo  volume  della  Storia  di  Giro- 
lamo Savonarola  e  de'  suoi  tempi  abbia  ad  un  tratto  assicurata 
la  fama  di  lui  tra  gli  storici  ed  il  suo  libro  sia  parso  degno  di 
venir  riscontrato  coi  migliori  che  possiede  in  tal  genere  l' In- 
ghilterra, maestra  nell'  arte  di  scrivere  le  storie.  Il  Gibbon,  il 
Roscoe,  il  Robertson,  il  Macaulay,  il  Grote  non  avrebbero  scritto 
meglio,  ove  la  scelta  del  loro  soggetto  fosse  caduta  sopra  il  Sa- 
vonarola, ed  in  Italia  possiamo  affermare  che  la  sola  Storia  del 
Vestirò  SicUìano  di  Michele  Amari  e  la  Storia  delie  Compa- 
gnie di  Ventura  di  Ercole  Ricotti  possono  essere  paragonate,  nel 
secolo  nostro,  per  intrinseco  merito  storico,  alla  monografia  del 
nostro  napoletano. 

Il  Villari  nella  sua  prefazione  rende  giustizia  a' suoi  predeces- 
sori, ma  ne  fa  pure  giustizia;  acquistando  una  profonda  erudizione 
nella  storia  fiorentina,  egli  avea  pure  edu^'ato  l'ingegno  suo  alla 
critica,  cosiceli' egli  apparve  ad  un  tratto  narratore  informatissimo 
e  giudice  temperato;  oltre  di  questo  la  maggior  parte  dell'opera 
parve  ed  è  scritta  veramente  con  vigore  artistico.  11  Villari  non 
è  scrittore  nò  eleg;ujte,  né  ricco;  e  la  povertà  del  suo  dizionario 
è  cagione  che  il  suo  stile  riesca  talora  monotono  e  scolorito.  Ma 
dov'egli  reca  un'idea  originale,  djv'egli  spiega  un  affetto  nobile, 
lo  stile  di  lui  s'alza  naturalmente,  eJ  acquista  un  calor  naturale 
simpatico  che  affascina  e  trasporta.  Il  di  dentro  passa  allora  di 
fuori,  non  vestito  d'altro  che  della  propria  bontà  la  quale  può 
splendere  per  sé  sola.  Alieno  dalle  forme  vano,  il  Villari  preferi- 
sce non  vestire  le  sue  idee  al  mandarle  fuori  col  belletto  ;  egli 
sacrifica  perciò  le  grazie  al  culto  del  vero,  quando  teme  che  il 
soverchio  studio  della  parola  possa  offuscarlo  ud  alterarlo.  Non 
potendo  egli  dunque  sempre  governare  la  sua   eloquenza  come  è 


—  385  — 
sicuro  di  poter  governare  i  proprii  afletti  e  pensieri,  lascia  questi 
e  quelli  più  tosto  camminare  pedestri  in  abito  succinto  e  bor- 
ghese, anziché  permettere  che  diano  aspetto  d'alcuna  caricatura. 
Scrivendo  i  due  volumi  della  Storia  del  Savonarola,  egli  fu  tut- 
tavia più  volte  eloquentissimo,  poiché  avea  tanta  padronanza  dei 
fatti  che  risguardavano  il  suo  eroe,  ch'ei  se  lo  vedeva  vivo  in- 
nanzi e  parlante,  e,  come  se  lo  vedeva  egli  stesso,  lo  rappresen- 
tava altrui.  Ora  attendiamo,  con  impazienza,  dopo  un  dodicennio 
dalla  comparsa  del  secondo  volume  del  Villari  sopra  il  Savona- 
rola (1),  dallo  stesso  storico  una  monografia,  degna  della  sua  pri- 
ma, intorno  a  Niccolò  Macchiavelli.  Nelle  simpatie  del  Villari  pel 
Savonarola,  i  lettori  hanno  appreso  ad  amare  col  grande  frate 
cittadino,  lo  storico  generoso  che 'ne  raccontava  la  vita;  il  libro 
sul  Savonarola  e'  illuminò  pure  la  parte  simpatica  del  carattere 
di  Pasquale  Villari;  che  cosa  ci  dirà  a  suo  tempo  l'opera  dello 
stesso  scrittore  sul   Machiavelli  ? 

Intanto  nel  primo  suo  decennio  di  vita  pubblica,  il  Villari  ci  ha 
detto  quello  ch'ei  potrebbe  e  quello  ch'ei  non  dovrebbe  riescire, 
piuttosto  che  quello  ch'egli  è  veramente.  Egli  non  s'è  ancora  spie- 
gato tutto  ;  egli  vale,  senza  dubbio,  assai  più  che  non  siasi  palesato  ; 
egli  s'espose  talora  a  giudizii  meno  benevoli,  per  non  avere  di- 
spiegato tutta  la  propria  energia,  per  non  avere  fatta  valere  tutta 
quella  autorità,  cosi  diilicile  ad  acquistarsi  col  solo  proprio  merito, 
e  di  cui  tuttavia  egli  meritamente  gode.  Io  considero  adunque  come 
appena  principiata  la  vita  del  Villari  e  m' auguro  di  vivere  tanto 
per  poter  tornare  un  giorno  a  scrivere  di  lui,  attestando  eh'  egli 
avrà  fatto  assai  più  che  splendidamente  promettere  e  che,  anzi, 
egli  avrà  mantenuto  oltre  le  promesse  ed  oltre  l'aspettativa. 


(1;  11  primo  voi.  erasi  pubblicato  nel  1859,  il  secondo  noi  1861. 


Ricordi  oiqiìrakici 


XXVI. 


EMILIO  FRULLANI. 


Se  la  vita  pubblica  dovesse  essere  unica  norma  del  valore  e  del 
carattere  di  un  poeta,  nessun  poeta  forse  parrebbe  sfuggire  più 
alla  critica  di  Emilio  Frullani,  poiché  di  nessuno  sembrerebbe 
possibile  il  dir  meno  che  di  lui,  la  sua  vita  pubblica  riducendosi 
a  pochi  fatti,  che  non  hanno,  alla  prima  veduta,  alcun  valore  sin- 
golare per  la  biografia  di  un  poeta.  Com'egli  fosse  nato  in  Fi- 
renze verso  il  fine  del  primo  decennio  di  questo  secolo  da  Leo- 
nardo Frullani  e  Maddalena  Ombrosi,  che  ebbero  diciannove  figli, 
come  studiasse  leggi  a  Pisa,  come  perdesse  nel  1824  il  padre  Leo- 
nardo, accademico  della  Crusca,  grande  ammiratore  d'Alfieri,  mi- 
nistro delle  finanze  di  Ferdinando  III,  nel  suo  tempo  per  più  riguardi 
insigne  ;  come  venisse  impiegato  neh'  Avvocatura  Regia  ,  come 
perdesse  nel  1834,  il  fratello  Giuliano,  matematico  di  gran  merito, 
professore  nell'Università  di  Pisa  fin  dall'anno  suo  diciottesimo, 
poi  Direttore  del  Nuovo  Ullizio  del  Catasto,  e  del  Corpo  degli  in- 
gegneri d'acque  e  strade,  membro  della  Società  dei  40,  e  cultore 
lodato  delle  letterarie  eleganze;  come  perdesse,  l'un  dopo  l'altro, 
tutti  i  suoi  fratelli;  come  egli  fosse  giovine  avvenente,  caldo  ama- 
tore, e  amasse  riamato;  come  perdesse  nel  1844  la  dolce  sposa 
ventenne  (marchesa  Claudia  Bevilacqua)  morta  sul  parto  di  una 
figlia  che  fu  di  poi  e  resta  l'unica  consolazione  del  poeta,  ed  alla 
quale  egli  fece  per  molti  anni,  nello  stesso  tempo,  da  padre  e  da  ma- 


—  387  — 
dre  (1);  come  nel  1819  perdesse  la  propria  madre,  per  le  spoglie 
mortali  della  quale  dovendo  ottenere  ospitalità  nei  chiostri  di  San 
Marco  ove  già  posavano  quelle  del  padre  Leonardo,  del  fratello 
Giuliano,  della  sposa  Claudia,  dovea  umiliarsi  a  domandarla  al 
generale  tedesco  Wimpffen,  ond'egli  allora  cantava  fremendo  : 

E  quella  mesta  sotterranea  sede 
Più  non  ricetta  il  cittadin  che  muore; 
Lo  stranier  lo  contende,  o  se  il  concede 
La  pietra  sepolcral  costa  rossore; 

come  infine  egli  perdesse  altri  molti  cari  parenti   ed  amici,    e  li 
piangesse  con  lagrime  amare. 

Io  potrei  ancora  aggiungere  che  il  Frullani  prese  viva  parte 
ai  due  risorgimenti  italiani,  quelli  del  1848  e  1859;  ch'egli  se- 
dette nel  1859  deputato  di  Fiesole  all'assemblea  toscana,  e,  nello 
stesso  anno,  fu  della  Commissione  istituita  pel  riordinamento  delle 
Università  Toscane,  e  venne  eletto  a  presiedere  la  Commissione 
giudicatrice  delle  opere  drammatiche  pel  premio  annuo  fondato 
dal  governo  provvisorio  toscano;  che  nell'agosto  del  1860,  fu  eletto 
deputato  al  parlamento  italiano;  che  la  Città  di  Firenze  lo  no- 
minò suo  Consigliere,  e  l'Accademia  della  Crusca  suo  membro 
corrispondente.  Ma  questi  modesti  onori  conseguiti  assai  tardi  da 


(1)  Andrea  Maffei  consolava  il  Frullani,  pochi  anni  dopo  quella  sven- 
tura, col  bel  sonetto  che  segue: 

Mesto,  Emilio,  è  il  tuo  verso,  e  pur  non  quanto 

Suona  afifannoso,  e  sconsolato  il  mio. 

Fu  lungo,  è  vero,  il  tuo  vedovo  pianto. 

Pure  un  conforto  ti  concesse  Iddio  : 
La  fanciulletta  che  spira  al  tuo  canto 

L'idioma  del  cor.  Fui  padre  anch'io, 

Ma  di  un  flio  vital  che  piansi  infranto 

Quasi  all'istante  che  per  ine  s'ordìo. 
Ed  or  ch'io  son  di  pie  cure  e  d'affetto 

Più  bisognoso,  i  tardi  anni  trascino 

Senza  una  mano  che  mi  asciughi  il  ciglio; 
Mentre  tu,  nell'amor  di  un  angioletto, 

Li  rinnovi  sereni,  e  sullo  spino 

Dello  stesso  dolor  ti  cresce  un  giglio. 


—  388  — 
Emilio  Frullarli  possono  provare  soltanto  il  grado  di  credito  che 
egli,  per  la  fama  delle  lettere  e  per  la  sua  civile  condotta,  ha  ot- 
tenuto fra  i  suoi  concittadini,  ed,  al  piìi,  dimostrarci  ancora  che 
quelle  dimostrazioni  le  quali  egli  non  aveva  ambite  sotto  il  go- 
verno dei  Lorenesi,  non  gli  spiacque  accettare,  senza  averle  sol- 
lecitate, dal  governo  nazionale  italiano.  La  modesta  apparenza 
della  vita  del  Frullani  potrebbe  quindi  disperare  un  biografo;  e 
per  me  che  tento  qui,  sovra  tutto,  di  considerare  le  opere  degli 
scrittori  in  relazione  colla  loro  vita  e  col  loro  carattere,  per  tra- 
mandare, se  si  può,  alla  generazione  che  sorge,  alcuna  memoria 
viva  del  mondo  letterario  in  cui  mi  volgo,  dovrebbe  sembrare, 
per  questa  volta,  fallita  la  prova,  se,  per  mia  fortuna,  le  stesse 
poesie  del  Frullani  raccolte  in  un  volume  e  pubblicate  nell'anno 
1863  in  Firenze  dal  Le  Mounier  non  mi  permettessero  di  sor- 
prendere la  nota  caratteristica  che  fece  di  lui  il  primo  fra  i  poeti 
viventi  della  Toscana.  Che  son  questi  versi  per  fa  massima  parte? 
che  cosa  dicono?  Io  non  vi  trovai  quasi  altro  che  elegie  ed  epi- 
talamio Ebbene  essi  rispondono  intieramente  alla  vita  del  nostro 
poeta.  Dotato  di  animo  affettuoso,  amò;  l'amore  fu  presto  deso- 
lato dalla  morte  ;  amò  il  padre,  amò  i  fratelli,  amò  la  sposa,  amò 
la  madre  e  quando  tante  care  persone  gli  furono  rapite  per  sem- 
pre, pianse  e  scrisse  piangendo.  Nato  come  ogni  toscano  al  facile 
riso  e  alla  vita  gaia,  l'uno  e  l'altra  presto  il  dolore  in  lui  con- 
tenne. Così  ancora,  se  gli  parli,  troverai  che  la  facezia  del  Frul- 
lani si  smorza  facilmente  in  un  sorriso  pieno  di  malinconia.  Era 
nato  ancor  esso  per  ridere  alla  vita  gioconda.  Questa  gli  si  velò 
invece  di  un  mantello  funebre.  Egli  ha  sempre  innanzi  agli  occhi 
quel  velo.  Egli  sente  tuttora  nel  cuore  il  gemito  delle  madri  or- 
bate di  figli,  dei  figli  orfani,  degli  sposi  derelitti;  e  i  suoi  versi 
più  eloquenti  son  quelli  appunto  che  ci  rappresentano  le  scene 
dolorose  delle  famiglie,  nelle  quali  entrò  la  morte,  a  rompere  il  sa- 
cro legame  degli  affetti.  Se  Emilio  Frullani  non  avesse  veramente 
sofferto  tanto,  né  il  dolore  gli  avesse  insegnato  a  dir  cose  sublimi 
per  semplice  verità,  egli  resterebbe  sempre  un  poeta  elegante,  ma 
il  verso  di  lui  non  avrebbe  quella  virtù  di  commuovere,  che  ora 
invece  lo  distingue  particolarmente.  Chi  ha  letto  la  canzone  del 
Frullani,  intitolata  Le  tre  anime,  scritta  per  la  morte  di  tre  donne> 
e  che,  al  mio  debole  parere,  è  la  più  perfetta  e  commuovente  ele- 
gia che  sia  stata  scritta,  nel  secolo  nostro,  in  Italia,  e  ch'io  ri- 
produrrei qui  tutta,  se  non  sapessi  come  il  Frullani  s'accinge  a 
pubblicare  presso  il  Le  Monnier  un  altro  volume  di  versi  da  lui 


—  389  — 
scritti  dopo  l'anno  18G3  (tra  i  quali  sarà  pure  una  novella  in  ot- 
tava rima,  di  soggetto  amoroso  ed  elegiaco  ad  un  tempo,  e  di 
stile  popolare  che  sente  la  cara  ingenua  semplicità  fatta  più  ele- 
gante della  leggenda  popolare  italiana  del  quattrocento)  :  chi  ha 
letto,  ripeto,  il  canto  delle  Tre  anime  potè  trovar  condensata 
in  un  solo  componimento  tutta  la  mirabile  virtù  poetica  del  Frul- 
lani  nel  sentire  in  sé,  nel  comprendere  in  altrui,  e  nell'esprimere 
sentito  0  compreso  il  dolore  ;  poiché  bisogna  esser  poeta  per  sen- 
tire il  dolore  diversamente  dal  volgo,  che  raramente  ne  penetra 
i  segreti;  dico  volgo  e  non  già  popolo  ;  che  il  popolo  anch'  esso 
ha  1  suoi  grandi  poeti,  i  quali  non  mettono  in  rima  le  loro  alle- 
grezze e  le  loro  pene,  ma  le  rappresentano  con  una  potente  e 
immaginosa  varietà  di  linguaggio.  Ora  pare  a  me  appunto  che  il 
Frullani  esprima  il  verso  del  dolore  con  quella  verità  di  rappre- 
sentazione che  ritroviamo  nel  linguaggio  popolare  quando  il  po- 
polo ha  cuore.  Il  Frullani  avea  scritto  e,  credo,  pubblicati  versi, 
quasi  ventenne;  e  molti  ne  deve  avere  scritti,  senza  dubbio,  innanzi 
all'anno  1844;  (1)  la  sua  musa  è  facile,  e  lo  deve  avere  secon- 
dato più  volte  in  mezzo  al  tripudio  di  una  vita  gaia  e  spensie- 
rata; ma  egli  incominciò  soltanto  negli  anni  maturi:  a  sentirsi 
veramente  poeta,  e,  quando  un  grande  dolore  lo  toccò  più  forte- 
mente di  quelli  che  1'  avevano  prima  visitato,  egli  fece  gemere 
anzi  che  cantare  il  verso.  Il  primo  componimento  che  apre  il  vo- 
lume delle  Poesie  di  Emilio  Frullani  incomincia  così: 

Quand'io  nell'ore  che  il  dolor  misura, 
Al  dubbio  passo  della  morte  anelo, 
A  me  scende  una  bella  creatura 
Coronata  di  luce  in  bianco  velo, 
E  ragionando  della  mia  sventura 
Con  quel  linguaggio  che  si  parla  in  cielo. 
Mi  dice  con  pietà:  «  Del  tuo  dolore 
Canta  l'istoria  come  detta  il  core  ». 


(1)  Ne'Ricordi  che  il  Vannucci  scrisse  del  Niccolini  leggo  ancora  come 
nel  febbraio  del  1827,  VAntonio  Foscarini  rappresentavasi  in  Firenze 
per  la  seconda  volta;  gli  amici  del  poeta,  fratelli  Giuliano  ed  Emilio 
Frullani,  Cosimo  Ridollì,  Ferdinando  Tartini,  Camillo  Lapi,  Piero  Guic- 
ciardini, ch'erano  in  teatro,  raccolsero  dalla  voce  dngli  attori  tutta  la 
tragedia  e  la  stamparono.  Il  Niccolini  rispondeva  tosto  al  Frullani  rin- 
graziando. 


—  sgo- 
li dolore  evoca  ad  un  tempo  e  lima  il  genio;  secondo  la  leggenda 
indiana,  la  prima  strofa  fa  insegnata  agli  uomini  a  cantare  dal 
disperato  lamento  di  un  hoMla,  a  cui  un  cacciatore  aveva  ucciso 
la  dolce  compagna.  Anche  il  Frullaui^  perduta  la  sposa,  trovò  un 
tono  insolito  a'  suoi  versi  e,  meglio  che  rimatore  felice,  meglio 
che  facile  e  colto  verseggiatore,  si  senti  al  fianco  una  musa  severa 
e  gentile  inspiratrice  di  carmi  che  sentono  talora  l'afflato  divino. 
Le  ottave  intitolate  Un  Anima,  scritte  dal  Frullani  nel  1844,  spi- 
rano una  gentilezza  dolorosa,  e  una  mesta  melodia  che  sa  di  cielo 
0,  per  lo  meno,  di  quella  beatitudine  di  cui  l'ideale  nostro  ci  fa 
supporre  che  il  cielo  sappia.  Quanta  soavità,  per  esempio,  in  que- 
st'ultima ottava  che  ci  descrive  la  dipartita  della  cara  donna,  ap- 
parsa in  immagine  al  vedovo  poeta,  squallida,  in  bianca  veste,  col 
Crocifisso  sovra  il  seno;  dopo  avergli  lungamente  parlato  per 
consolarlo,  essa  rivola  alla   sua   sede  immortale  : 

Qui  tace;  e  mentre  il  varco  alla  parola 
Mi  niega  il  pianto  e  1'  alta  meraviglia. 
Dal  mio  tremulo  braccio  ella  s' invola, 
'  E,  lontanando,  nuovo  abito  piglia; 

Già  r  incarnato  appar  della  viola. 
Sul  labro  il  riso,  il  riso  in  sulle  ciglia  ; 
^  Rinnovellata  delle  forme  care 

Sovra  le  penne  d'  angelo  dispare. 

Questa  poesia  potrà  forse  apparire  convenzionale  ad  un  lettore 
scettico.  Ma  ogni  poeta  vuol  essere  giudicato  secondo  quello 
eh'  egli  stesso  crede  e  sente,  e  non  già  secondo  le  opinioni  re- 
ligiose 0  politiche  che  il  lettore  possa  professare.  Quanto  dob- 
biamo chiedere  al  poeta  è  eh'  egli  ci  rappresenti  in  modo  vivo 
la  sua  fede,  s'  egli  ne  ha  una;  e  tanto  ha  fatto  il  Frullani,  nelle 
poesie  di  lui  che  abbiamo  a  stampa,  ove  domina  sempre  lo  stesso 
sentimento  religioso.  Non  è  del  resto  in  queste  immagini  tolte 
alle  credenze  religiose  che  consiste  la  forza  vera  del  nostro  poeta, 
si  bene  in  quella  sua  potenza  singolare  nel  porci  sotto  gli  occhi 
le  scene  dolorose  della  vita  domestica.  Nella  rappresentazione  di 
queste  scene  io  non  gli  conosco  emuli  fra  i  moderni  poeti  d' Ita- 
lia. Vediamo,  per  esempio,  con  che  affetto,  morta  la  sposa,  egli 
si  strugge  di  dolore  sopra  la  figlia  orfanella  : 

Allor  che  al  seno,  o  pargoletta  mia, 
Ti  stringo,  e  m'apri  l'infantil  sorriso^ 


—  391  -^ 

Ed  io  per  trista  rimembranza  e  pia. 
Ti  vo  bagnando  di  lagrime  il  viso; 
Quasi  presaga  d'un  dolor  tu  sia. 
Intento  il  guardo  mi  rivolgi  e  fiso, 
E  par  che  cerchi,  se  d' intorno  il  giri. 
La  profonda  cagion  de'miei  sospiri. 
Poi  se  in  pianto  ti  sciogli,  ahi  f  con  quel  pianto 
Dir  sembri:  «  Io  son  di  mia  sciagura  accorta, 
Io  non  ho  madre  che  mi  vegli  accanto; 
La  madre  mia,  nel  darmi  vita,...  è  mortai  » 

I  primi  dolori  furono  i  proprii;  egli  fece  quindi  anco  suoi  quelli 
degli  altri  che  somigliavano  ai  proprii  e  li  rappresentò  con  pari  effi- 
cacia in  ottave  così  spontanee  che  si  direbbero  improvvisate  dal  po- 
polo, se  non  fossero  classicamente  perfette  per  giacitura  e  nobiltà  di 
verso.  Finge,  per  esempio,  il  poeta,  che  il  defunto  conte  Giulio 
Dainelli,  venga  in  forma  d'  angelo  a  posarsi  lieve  al  fianco  della 
vedova  sua  donna,  a  raccomandarle  i  figli  ed  a  confortarla  ;  la 
donna  gli  risponde  che  egli  sarà  sempre  con  lei,  sempre  nel  suo 
pensiero,  poiché  il  dolore  ch'Ella  proverà  manterrà  presente 
l'immagine  di  lui  come  s'egli  ancora  vivesse;  e  in  questo  dire 
la  vedova  donna  si  rasserena  alquanto: 

E  poi  che  al  volto  ella  men  triste  apparve 
L'ombra  sorrise  innamorata  e  sparve. 

Sono  ombre,  intendo,  ma  quando  la  poesia  sa  animarle  di  tanto 
affetto,  esse  ci  appaiono  come  persone  vive,  e  si  possono  ancora 
far  parlare  e  meritano  ancora  di  venire  ascoltate. 

Muore  Ada  Costantini,  nata  Benini;  il  poeta  ci  descrive  con 
verità  quella  scena  dolorosa  : 

La  moribonda  dal  funereo  letto 
Leva  a  fatica  i  lumi  attorno,  e  vede 
La  dolce  suora,  il  suo  padre  diletto, 
In  disperato  duol  gemerle  al  piede. 
Desio  di  vita  le  rinasce  in  petto 
Innanzi  a  lor,  che  amò  con  tanta  fede; 
E,  al  tumulto  dell'  anima,  sul  santo 
Viso,  lenta  venia  stilla  di  pianto. 

Poi  raccomanda  in  suon  languido  al  pio 
Levita,  che  le  sta  vigile  allato 


—  392  — 
Onde  nell'  ora  del  tremendo  addio 
Il  cor  le  regg'a  in  sì  misero  stato  ; 
E  faccia  forza  alla  bontà  di  Dio 
Che  le  accordi  il  perdon  d'ogni  peccato. 
Sì  che  l'anima  mova  al  suo  Signore 
Suir  ali  della  fede  e  dell'  amore.     . 
E  fatta  delle  man  pietosamente 

Croce  sul  petto^  che  viepiù  si  grava 
In  tronchi  accenti,  con  pupille  spente 
Sola  con  1'  uom  di  Dio  si  confessava. . . 

Muore  di  parto  nel  1858  Ottavia  Mannelli,  e  il  poeta  raccoglie 
ancora  una  volta  le  sue  forze  per  descrivere  le  gioie  della  madre 
che  vede  la  propria  creatura  e  la  desolazione  della  morte  im- 
provvisa che  tien  dietro  a  quella  prima  allegrezza.  Il  Frullani 
fa  vibrare  qui  le  corde  più  potenti  della  sua  lira.  La  giovine 
madre  bacia  la  sua  creatura,  i  parenti,  lo  sposo;  quindi  s'asso- 
pisce, vegliata  dalla  madre;  si  sveglia  indi  a  poco,  e  non  è  più 
quella; 

Di  subito  terror  gli  animi  assale 
La  miseranda  vista  e  paurosa; 
Corronle  appresso  i  suoi;  s'ode  un  ferale 
Iterar  di  lamenti  «  Oh  figlia,  oh  sposa!  » 
Tutto  è  scompiglio  attorno  al  nuziale 
Talamo  per  la  misera  affannosa; 
La  medie'  arte  d'  ogni  aita  è  spoglia, 
Speranza  in  fuga,  e  morte  in  sulla  soglia; 

Ma  quell'Anima  intanto  Iddio  prepara 
Al  dubbio  passo  dell'  ora  tremenda  ; 
E  perchè,  fatta  dal  patir  più  cara. 
All'  amplesso  di  Lui  più  presto  ascenda, 
È  suo  voler  che  dell'  addio  1'  amara 
Scena  tutta  Ella  veggia  ed  oda  e  intenda; 
Ed  attonito  e  muto  a  quel  dolore 
Resti  il  guardo  ed  il  labbro,  e  pianga  il  core. 

Squallida  ai  piedi  del  funereo  letto 
Sta  la  misera  madre  inginocchiata. 
La  madre  sua  che  amò  con  tanto  affetto, 
E  teme  aver  non  abbastanza  amata; 
Sta  genuflesso  il  genitor  diletto 
Che,  istupidito  dal  dolor,  la  guata; 


—  393  — 

E  del  braccio  il  suo  fido  le  circonda 
Prono  su  Lei,  la  testa  moribonda. 

E  or  dell'  uno,  or  dell'  altro  al  freddo  volto, 
Sulla  convulsa  man,  sul  seno  affranto, 
Sovra  il  crine  per  gli  omeri  disciolto. 
Sente  Ella  i  baci  sconsolati  e  il  pianto  ; 
Ode  i  singulti  di  chi  al  ciel  rivolto 
Salvarla  implora,  oppur  morirle  accanto, 
E  di  chi  prega  almen  forza  d'  offrire 
In  tremendo  ol<)causto  il  suo  martire. 

Ed  ecco,  ahimè  I  rapidamente  giunge 
Il  sacerdote,  e  dei  solenni  accenti 
Tra  il  mesto  suon  la  benedice,  ed  unge 
Del  sant'  olio  i  pie  freddi  e  i  labbri  spenti, 
E  mentre  Ella  più  ognor  si  ricongiunge 
A  Dio  con  la  preghiera  dei  morenti, 
Ascolta  la  sua  nata,  che  nei  grami 
Vagiti  par  la  veggia  e  a  sé  la  chiami. 

Al  rimembrar  la  figlia,  all'  amarezza 
Dell'  abbandono,  gittò  un  grido,  come 
Guizzo  di  corda  tesa  che  si  spezza, 
E  ratta  con  le  man  corse  alle  chiome. 
Indi  più  volte  con  materna  ebbrezza 
Articolar  tentava  il  caro  nome  ; 
Ma  quel  dal  labbro,  che  lento  s'apria. 
In  un  sospir  con  l'  anima  fuggia. 

Il  vagito  della  neonata  era  un  grido  di  morte  ;  la  figlia    segue 
la  madre  al  cielo  : 

Ma  già  di  cielo  in  ciel,  di  stella  in  stella. 
Velocissima  l'anima  saliva. 
Quando  d' appresso  un'Angioletta  bella 
Trovossi,  che  amorosa  la  seguiva. 
La  sospirata  sua  figlia  era  quella. 
Cui  vuol  pietà  di  Dio,  che  seco  viva. 
Baciolla  ancor  ;  dell'  ali  la  coverse 
E  neir  eterno  sol  con  lei  s'  immerse. 

Chi  ha  negato  alla  nostra  poesia  la  virtù  di  esprimere  il  dolore 
non  ha  che  a  leggere  le  ottave  di  Tommaso  Grossi  e   queste   di 


—  394  — 

Emilio  Frullarli,  per  convincersi  del  contrario.  La  lingua    nostra 
e  tanto  piìi  la  nostra  poesia  che  ha    il    vantaggio  d'  aggiungere, 
nel  ritmo  melodico,  il  fascino  della  musica  alle  altre  sue  naturali 
attrattive,  quando  le  si  faccia  dire  tutto  quello  eh'  essa  può,  non 
teme  confronto  alcuno.  Ma,  per  dire,  bisogna  prima  sentire.    Ed 
è  il  sentimento  che,  pur  troppa,  si  spiega  di  rado  dai  nostri  poeti, 
più  vaghi  di  sorprendere  con  versi  reboanti  o  da  organetto,  con 
liori  rettorici  o  fantasticherie  da  malati,  che  di  colorire   le    poe- 
tiche realtà  della  vita.  Poco  osserviamo,  poco  amiamo  la  natura, 
e  però  rappresentiamo  altrui  una  natura  fittizia,  di  convenzione, 
accademica   o    teatrale    che  non  è  punto  quella  che  si  anima  in- 
torno a  noi  ;  pochi  affetti  educhiamo  in  noi  stessi,  impazienti  di 
parere   subito   gente    di  spirito  e  uomini    serii,    e    però  non    ne 
comprendiamo    piìi   alcuno.    Il  Frullani  è  tra  i  pochi  toscani  che 
non   abbiano   arrossito  di  farsi  scorgere  a  piangere  ;  perciò  egli 
è  pure  de'  pochissimi  poeti  toscani  che  abbiano  la  virtù  di   inte- 
nerirci. Egli  ha  secondato  anzi  tutto  il  suo  naturale  istinto   af- 
fettuoso ;  ma  conviene  aggiungere,  eh'  ei  non  sarebbe    riuscito  a 
tanta   efficacia,  ove,  per  una  diligente  educazione  letteraria,  non 
avesse  appreso  a  rendere  tersa,  limpida  ed  elegante  la   sua  frase 
poetica,  esercitato  al  bello  stile  da  quel  Luigi  Borrini  accademico 
della  Crusca,  di  cui  la  vecchia  Antologia  fiorentina  recava,  nel  1821, 
parecchi  saggi  poetici.  Il  Borrini  non  aveva  al  certo  dimenticata 
l'Arcadia  e  i  Frugoniani;  ma  era  scrittore  castigato,  studioso  di 
melodia    e  di  eleganza,  e  il  proprio  gusto  comunicava  al  giovine 
suo  amico  e  discepolo  Emilio  Frullani,  il  quale  rifece  poi  un  nuovo 
stile  a  sé  da' vari  i  moderni  poeti  d'Italia,  e  dalla  poesia   popolare 
cogliendo,  come  1'  ape  da  fiori  diversi,    il    miele    più  eletto.   Cosi 
egli  potè  ammirare  ed  amare  d'amicizia  Andrea  MafFei  e  Giulio 
Carcano  presso  Giovanni  Prati;  accostarsi  con  ammirazione  alle 
magnificenze  della  poesia  straniera  e  pure  serbar  fede  e  riverenza 
speciale  al  nome  di  Dante,  in  onore  del  quale  primo  il   Frullani, 
neir  anno  1863,  nel  Consiglio  comunale  di  Firenze,  proponeva  pure 
che  fosse  solennemente  celebrato  quel  Centenario  al  quale  l'Italia 
tutta  concorse  nel  1865  come  ad  una  festa  nazionale.  Nella  stessa 
occasione  del  centenario  dantesco,  il  Frullani,  in  società  con  Gar- 
gano Gargani,  dopo  avere  fatto  ricerche   diligenti  e   raccolti   gii 
opportuni  documenti,  pubblicava  una  relazione  sulla  casa  di  Dante 
in  Firenze,    la  quale  conchiudevasi  con  la  proposta  del  seguente 
schema   di   deliberazione  :    «   Considerando  esser  provato,  che  la 
casa   nel   popolo    di  San  Martino,  in  faccia  alla  Torre   della  Ca- 


■  ^  395  — 
stagna,  ed  alla  via  in  antico  de' Sacchetti,  ora  de' Magazzini,  casa 
di  proprietà  del  nobile  signor  Luigi  Mannelli  Galilei,  fu  1'  abita- 
zione di  Dante  Alighieri;  considerando  che  tutto  quanto  risguarda 
il  divino  poeta  e  filosofo  deve  esser  sacro  agli  Italiani  ed  a  Fi- 
renze specialmente;  il  Municipio  decreta:  Sarà  acquistata  in  pro- 
prietà del  Municipio  di  Firenze  la  casa  già  abitata  da  Dante  Ali- 
ghieri, per  restituirla  possibilmente  nel  suo  pristino  stato,  offrendo 
al  nobile  signor  Luigi  Mannelli  Galilei  una  conveniente  indennità. 
Ed  avuto  riguardo  che  la  Torre  della  Castagna,  situata  in  faccia 
a  detta  casa,  è  monumento  singolarissimo  della  storia  patria,  per 
esservi  stata  all'  epoca  di  Dante  la  prima  sede  del  governo  libero 
della  città  di  Firenze,  sarà  pure  procurato  che  detta  Torre  venga 
conservata  nella  sua  integrità  e  riparata  con  opportuni  ristauri.  » 
Avendo  il  17  marzo  1866  la  Giunta  Municipale  di  Firenze  isti- 
tuita una  commissione  speciale  pel  compimento  delle  ricerche  sto- 
riche sulla  casa  di  Dante,  il  presidente  di  questa  commissione 
Emilio  Frullani  leggeva  al  Consiglio  comunale,  nella  riunione  del 
10  marzo  1868,  il  Rapporto  della  commissione,  che  confermava  gli 
studii  precedenti,  e,  di  più,  dimostrava  che  la  casa  detta  di  Dante 
si  estendeva  al  tempo  del  divino  poeta  fino  alla  via  di  Santa  Mar- 
gherita, onde  proponevasi  al  Municipio  fiorentino  l' acquisto  delle 
due  case,  perchè  vengano  possibilmente  restaurate  nel  loro  carat- 
tere primitivo. 

La  figlia,  i  pochi  amici,  i  libri,  dei  quali  come  di  rari  autografi 
egli  s'è  fatta,  nel  suo  proprio  palazzo,  una  bella  e  copiosa  raccolta, 
sono  i  soli  conforti  che  restino  agli  anni  cadenti  del  gentile  poeta, 
il  quale  se  avesse  avuto  maggiori  ambizioni  avrebbe  potuto  far 
parlare  molto  di  sé;  ma  egli  amò  invece  la  vita  raccolta  come  la 
poesia  intima.  La  sua  fu  quasi  sempre  poesia  d'occasione;  male 
occasioni  solenni  egli  lasciò  volentieri  passare  ;  e  le  modeste  in- 
vece raccolse  per  vestirle  di  colori  poetici;  egli  non  accettò  oc- 
casioni comandate,  come  non  ne  cercò  alcuna;  cantò  invece  quelle 
ch'egli  sentì.  L'epica  tromba  non  era  da  lui  né  l'inno  bacchico; 
gli  piacque  invece  il  giocondo  sorriso  d'Anacreonte  ed  il  pianto 
soave  di  Tibullo.  Ora  egli  aperse  pertanto  il  libro  degli  Amori, 
ora  quello  de' Tristi,  secondo  cheli  tempo  volgeva;  non  precorse 
il  futuro,  non  si  accasciò  e  intorpidì  sul  passato;  disse  invece  a  sé 
stesso  come  l'uscignolo  del  bosco,  e  gli  altri  l'intesero,  la  pena 
0  r  allegrezza   de'  singoli   giorni  e  de'  singoli  minuti. 


XXVII. 


ALEARDO  ALEARDI. 


10  non  so  a  quale  poeta  non  abbiano  accostato  l'Aleardi;  da 
Virgilio,  a  Dante,  al  Petrarca,  all'Ariosto,  al  Marini,  al  Foscolo, 
al  Pindemonte,  al  Leopardi,  al  Niccolini,  al  Giusti,  al  Prati,  al 
Mamiani,  al  Marchetti  quasi  tutti  i  nostri  poeti,  dall'uno  o  dal- 
l'altro de' critici  che  scrissero  dell'Aleardi,  furono  nominati,  per 
poterci  dire  che  poeta  sia  egli  stesso,  e  conchiudere  poi  strana- 
mente con  la  solita  sentenza  ch'egli  è  poeta  unico  nella  sua  ma- 
niera, e  che  nessuno  gli  somiglia,  sebbene  egli  somigli  a  tanti. 
Per  non  far  sorridere  alla  mia  volta  l'Aleardi  con  qualche  nuovo 
raffronto,  richiamando  in  memoria  qualche  altro  poeta  pittore  di- 
menticato, come,  per  esempio,  Claudiano  fra  i  latini,  Poliziano 
fra  gli  italiani,  che  potrebbero  forse  ancora  essere  compresi  nella 
serie,  io  non  lo  avvicinerò  ad  alcun  altro  che  a  sé  stesso,  per 
quanto  io  ho  saputo  leggere  i  suoi  versi,  e  per  quel  poco  che  mi 
sembra  di  sapere  di  lui  e  della  sua  vita. 

11  più,  del  resto,  e  il  meglio,  ce  lo  ha  già  detto  egli  stesso  nelle 
Due  pagine  autobiografiche  premesse  alla  raccolta  de'  suoi  Canti, 
edita  nel  1861,  presso  il  Barbèra.  Egli  avea  diciott'anni ,  quando 
il  conte  Giorgio  suo  padre,  sorpresolo  in  flagrante  delitto  di  poe- 
sia, lo  trasse  un  giorno  seco  all'aperto  per  dirgli  che  egli  s'  era 
messo  sopra  una  mala  via;  il  figlio  obbediente  fu  pronto  a  rispon- 
dere :  «  Farò  come  ti  piace  >  ma  non  rattenne  un  sospiro.  Frat' 
tanto,  ricorda  il  poeta,  «  un  capraio  che  scendea  per  un  sentiero 
in  mezzo  al  prato  declive;  alcune  capre  che  venute  in  faccia  a  noi 
si  fermavano  a  guardarci  con  occhio  fisso;    quella   barchetta  che 


—  397  — 
passava  sul  lago  come  un  moscerino  con  l'ali  tese  sopra  un  cri- 
stallo; quel  profumo  di  Salvator  Rosa  che  usciva  da  certi  roveri 
vecchi  ;  quell'aria  di  idillio  virgiliano  che  saliva  dai  campi,  mi 
rapivano  l'anima,  mio  malgrado,  nelle  regioni  della  poesia.  Una 
vocina  di  non  vista  persona,  che  avea  del  flauto,  si  prossiraava 
cantando  non  so  che  versi  paesani,  finché  uscì  dalla  svolta  del 
torrentello  una  fanciulla  di  sedici  anni,  di  que'  bei  sangui  là,  con 
al  braccio  il  paniere,  onde  avea  forse  recato  da  mangiare  a  suo 
padre  nelle  vicine  cave  di  Tagliapietra.  Era  messa  come  una  figu- 
rina del  Zuccacelii  ;  era  gentilina  e  languida  come  una  vergine 
del  Guido.  Nel  passare  mi  volse  il  suo  occhio  ceruleo  dicendo  con 
disinvolta  modestia:  «  Siorìa  ;  »  e  non  ci  volle  altro.  La  mia  fan- 
tasia correva  le  quattro  plaghe  dei  venti,  e  immemore  della  pro- 
messa data  pocanzi,  vestiva,  a  suo  modo,  di  canto  involontario  e 
segreto  tutta  quella  bellezza  animata  e  inanimata  della  eterna  na- 
tura. »  Ecco  in  qual  modo  il  quadro  divenne  nella  mente  del- 
l'Aleardi  un  poema,  il  pittore  divenne  un  poeta,  ed  il  poeta  si  fece 
specialmente  ammirare  nelle  descrizioni.  Poche  parti  d'Italia  sono 
più  pittoresche  delle  valli  trentine  ;  e  dai  piedi  di  quelle  valli ,  mi- 
rando r  Italia,  cantarono  Ipolito  Pindemonte  e  Cesare  Betteloni, 
Andrea  Maff'ei  e  Antonio  Gazzoletti,  Giovanni  Prati  ed  Aleardo 
Aleardi,  tutti  poeti  coloritori.  L'Aleardi  ce  ne  assicura  per  sé  egli 
stesso  con  quest'altro  ricordo:  «  Se  io  per  avventura  era  nato  a 
qualche  cosa,  ero  nato  al  pittore  ;  e  per  questo  se  qualche  cosa  ci 
è  di  non  cattivissimo  nella  roba  mia,  è  tutto  pittura;  e  per  que- 
sto co' pittori  me  la  intendo,  e  mi  vogliono  bene.  Il  mio  vecchio 
maestro  di  disegno  che  avevo  a  sett'anni,  l'ultimo,  credo,  dei  ni- 
poti di  Giambettino  Cignaroli,  voleva  a  ogni  costo  persuadere  mio 
padre  ad  avviarmi  a  quest'arte.  Mi  tremola  ancora  in  mente  la 
ricordanza  di  un  giorno,  che  tra  lo  scherzoso  e  il  serio,  il  bra- 
v'  uomo  gli  si  pose  in  ginocchio  a  pregarlo  di  questo  ;  parmi  di 
veder  ancora  i  suoi  pochi  capelli  d'argento  che  in  queir  istante 
gli  svolazzavano.  Probabilmente  non  sarei  riuscito  a  nulla;  ma 
sarei  stato  di  certo  più  contento  ;  avrei  avuto  fra  mano  un'  arte 
cara,  che  occupa  molte  ore  anche  materialrtiente;  avrei  menato 
vita  casalinga,  raccolta;  non  sarei  ito  girovagando,  e  col  pretesto 
di  cercar  poesia  non  avrei  trovato  tante  altre  cose  che  m' hanno 
costato  poi  tanta  amarezza.  Non  avendo  dunque  potuto  adoperare 
il  pennello,  ho  adoperato  la  penna.  E  appunto  perciò  sono  sovente 
troppo  naturalista,  e  amo  troppo  perdermi  nei  particolari.  Sono 
come  uno  che  camminando  proceda   a    beli'  agio,  e  si  ferrài  ogni 


—  398  — 

tratto  a  considerare  lo  sprazzo  di  luce  che  penetra  tra  gli  alberi 
del  bosco,  1'  insetto  che  gli  si  posa  sulla  mano,  la  foglia  che  gli 
cade  sulla  testa,  una  nebbia,  un'  onda,  una  striscia  di  fumo,  i 
mille  accidenti  in  somma  pei  quali  è  co?i  ricco,  vario,  poetico  il 
creato,  e  dietro  i  quali  s'  intravvede  sempre  quel  gran  che  ar- 
cano, eterno,  immenso,  benigno,  non  fiero  mai,  né  crudele,  come 
altri  ce  lo  vorrebbero  far  credere,  che  si  nomina  Dio.  » 

Da  questa  pagina  ogni  lettore  può  rendersi  accorto  che  1'  Ale- 
ardi sa  meglio  di  noi  tutti  quello  eh'  egli  è,  e  quanto  potremmo 
dirgli  per  avvertire  certe  singolarità,  anco  certi  difetti  della  sua 
maniera  poetica,  egli  se  lo  disse  già  in  segreto  e  non  1'  ha  nep- 
pure voluto  dissimulare  al  pubblico.  Egli  passa  facilmente  dal 
determinato  all'  indeterminato,  dall'  atomo  all'  universo,  dal  reale 
appena  percettibile  all'infinito  ideale;  egli  leva  dal  mare  le  perle 
ad  una  ad  una;  egli  coglie  ad  una  ad  una  le  margheritine  dei 
prati;  egli  novera  ad  una  ad  una  le  stelle  del  cielo;  egli  ascolta 
ad  una  ad  una  le  voci  del  creato;  poi  sente  la  monotonia  e  la 
stanchezza  di  quelle  distinzioni  e  occupazioni  minute  e  si  lascia 
andare  alle  confuse  reminiscenze  di  tutto  il  passato,  alla  divina- 
zione incerta  di  tutto  l' avvenire,  alla  contemplazione  vaga  di 
tutto  il  presente.  Egli  non  é  stretto  vigorosamente  ad  un  solo 
suo  oggetto,  eh' ei  domini;  e  le  cose  minutissime,  come  la  sua 
libellula  danzaìiie,  egli  sfiora  tutte,  sovra  nessuna  insistendo; 
ei  non  può  quindi  come  artista  significare  né  i  profondi  amo- 
ri, né  i  profondi  dolori,  sebbene  come  uomo  egli  abbia  cono- 
sciuto inliis  et  in  cute  gli  uni  e  gli  altri.  Nella  sua  poesia 
vi  sono  accenti  d' amore,  di  dolore,  di  sdegno,  ma  non  vi  è 
tutto  l'amore,  non  vi  è  tutto  il  dolore,  non  vi  è  tutto  lo  sdegno, 
di  cui  egli  è  forse  capace;  egli  legge  nel  molteplice  libro  della 
natura  una  pagina  al  giorno,  e  poi  chiude  il  volume  e  lo  con- 
templa tutto  insieme,  prima  d'  averlo  percorso  e  penetrato  da 
capo  a  fondo.  Egli  dà  quindi  molte  note  vere  ;  ma,  non  concer- 
tandole in  una  sola  potente  elìxace  armonia,  non  potè  suscitare 
queir  entusiasmo  che  altri  poeti  i  quali  hanno  osservato  meno 
bene  di  lui  la  natura  e  che  sentono  pure  meno  virilmente  di  lui. 

Nacque  Aleardo  (1)  Aleardi  in  Verona  l'anno  1814  di  padre  patri- 
zio e  (li  madre  plebea;  dal  padre  conte  Giorgio,  uomo  di  carattere 


(1)  Gaetano  fu  il  nome  con  cui  egli  venne  battezzato;  ei  lo  depose 
lìn  dalla  sua  gioventù  per  chiamarsi  Aleardo. 


—  399  — 
antico,  apprese  quella  nobiltà  di  costume  che  penetra  in  tutto  il 
suo  dire  e  in  tutto  il  suo  fare  e  che  lascia  distinguere  facilmente 
il  gentiluomo  in  mezzo  a  mille  che  non  sian  tali;  dalla  madre 
Maria,  donna  di  cuore  delicato  e  di  alto  ingegno,  il  disprezzo  alle 
false  nobiltà,  alle  caricature  ridicole,  e  l'amore  del  popolo. 

Nelle  prime  classi  del  ginnasio  di  S.  Anastasia  egli  parve  in- 
gegno tardo  ed  indolente,  tinche  non  potè  rompere  il  velo  che  gli 
ricopriva  le  veneri  de*  classici;  appena  gli  riusci  di  gustare  le 
bellezze  di  Virgilio,  fu  vinto  agli  studii,  e  vi  colse  anco  nelle 
scuole  invidiati  allori.  Le  gioie  della  vita  campestre  operarono  il 
resto.  Studiò  fisica  e  filosofia  con  lo  Zamboni;  quindi,  per  conten- 
tare il  padre  che  lo  voleva  avvocato,  Aleardo  recossi  a  Padova 
per  dare  opera  alla  giurisprudenza.  Ma  come  il  Prati,  il  Somma, 
il  Gazzoletti,  il  Guerrieri-Gonzaga,  il  Fusinato,  che  in  quel  giro  di 
tempo  0  poco  dopo,  studiavano  ancor  essi  la  legge  a  Padova,  l'Alear- 
di,  nell'Ateneo  padovano,  diede  soltanto  ragione  alla  burlesca  defini- 
zione dello  studente  resa  popolare  dal  Fusinato.  Gli  amori,  i  carmi, 
i  piccoli  dispetti  alla  polizia  austriaca  erano  la  gran  cura  di  quegli 
anni;  tuttavia  pervenne  anco  l' Aleardi  ad  addottorarsi  in  ambe  leggi. 
Tornato  però  alla  sua  città  natale,  e  fatta  la  pratica  dell'avvocatura 
presso  il  Grassotti  glie  ne  fu  di  poi  conteso  l' esercizio.  Egli  aveva, 
intanto,  già  perduto  il  padre,  e  se  non  era  di  sua  sorella  Beatrice, 
Caterina  del  medico  Luigi  Carli,  il  quale  gli  fu  come  secondo  padre, 
della  Bon  Brenzoni  alla  quale  egli  insegnò  l'arte  de' versi,  e  da 
cui  tolse  egli  stesso  argomento  e  coraggio  alla  poesia,  e  di  alcuni 
amici  del  cuore  (fra  i  quali  quel  Cesare  Betteloni,  che  morendo 
per  suicidio  lasciava  1'  Aleardi  erede  di  una  sua  villetta  e  tutore 
del  figlio  Vittorio,  a  vantaggio  del  quale,  con  raro  esempio,  l'A- 
leardi  rinunciava  al  legato  dell'amico,  quando  gli  fu  noto  che  pesa- 
vano sugli  averi  del  proprio  pupillo  alcuni  debiti),  certo  la  vita  in 
quelle  condizioni,  in  quel  tempo,  con  promesse  cosi  scarse  per  l'av- 
venire, gli  sarebbe  parsa  amara  ed  insopportabile.  Ma  la  Musa 
venne  spesso  a  dargli  conforto,  a  sorridergli,  e  a  fargli  balenare 
la  speranza  di  anni  migliori  per  la  patria;  ed  in  quella  speranza  di 
risurrezione  furono  scritti  parecchi  de'  suoi  carmi  innanzi  il  18i8. 
La  maggior  parte  di  essi  andò  dispersa  o  perduta;  si  recitavano 
ne'crocchi  d'amici  o  di  vaghe  donnine  a  Verona,  a  Padova,  a  Vene- 
zia; (1)  alcuni  erano  pure  mandati  a  memoria;  ma  ad  assai  pochi 


(I)  In  quel  tempo,  l'Aleardi,  aveva  pure  già  fatto  la  sua  corsa  in  To- 
scana, ove  fm  dal  1810  Giambattista    Niccoliui,    come   nove   anni  dopo 


—  400  — 
concesse  l' Aleardi  la  sua  licenza  per  la  stampa.  La  gloria  non 
credo  gli  spiaccia  punto,  quando  pigli  la  forma  di  una  vivace  e 
leggiadra  fanciulla  o  di  una  superba  e  gentile  matrona  che  venga 
con  le  sue  dita  trasparenti  a  coronargli  il  fronte  d'alloro;  ma  se 
egli  dovesse,  come  un  mimo,  andarla  a  mendicare  presso  il  gran 
pubblico,  io  credo  ancora  che  più  tosto  che  acconsentire  a  quella 
vana  mostra  di  sé,  egli  darebbe  volentieri  alle  fiamme  tutti  i  suoi 
versi.  E  molti  o  ne  arse  egli  stesso  o  dalla  propria  sorella,  temente 
delle  persecuzioni  poliziesche  dell'  Austria,  ne  lasciò  ardere.  Tra 
questi  era  un  poema  drammatico  in  cinque  canti,  tratto  dalla  sto- 
ria veneta  e  intitolato  Bragadino.  Cosi  per  una  sua  novella  sopra 
Andrea  del  Castagno,  pubblicata  in  una  strenna,  che  parve  cosa  ere- 
tica ad  alcuni  intriganti  piissimi,  la  strenna  accusata  al  vescovo 
fu  messa  all'indice  e  l'autore  venne  perseguitato.  Tuttavia  si  salva- 
rono di  quel  tempo  i  seguenti  componimenti  :  Il  Matrimonio,  sciolti 
per  le  nozze  della  Nina  Sarego-Alighieri  che  nel  1841  andava  sposa 
al  Gozzadini,  ove  il  poeta  descrittivo  rivela  già  con  verso  melo- 
dicamente robusto,  gran  parte  della  sua  potenza,  e  palesa  già  quel- 
l'arditezza lussureggiante  di  epiteti  e  d'immagini,  della  quale  sem- 
bra a  taluno  ch'egli  abbia  abusato  come  ne  abusarono,  senza  alcun 
dubbio,  i  suoi  numerosi  e  pedestri  imitatori;  così  di  una  carovana 
vi  si  canta  che  s'  avventura  sulle  perfide  sabbie,  come  solco  di 
vivi  entro  il  deserto;  il  mare  prima  della  navigazione  degli  uomini 
è  chiamato  vergine  di  remo;  cosi,  alfine,  con  similitudine  mal  ri- 
spondente alla  tremenda  solennità  del  caso  vaticinato,  la  terra  che 
precipiterà  un  giorno  decomposta  nell'abisso,  immemore  dei  balli 
intorno  al  sole,  è  paragonata,  ad  alcione, 

che  mentre  passa  al  volo, 
Sia  fulminato  da  infallibil  arco; 
E  cada  con  la  infranta  ala  battendo 
Sul  bruno  fiutto  d'un  ignoto  mare. 

2.0  VArnalda  di  Roca  poemetto  storico,  tolto  dalla  Storia  Veneta 
del  secolo  decimosesto,  pieno  di  bei  versi  e  di  stupenda  poesia  di 
affiato  bironiano,  ma  non  abbastanza  vivace  e  concentrata  al  mas- 


Giuseppe  Giusti,  gli  avea  posto  affetto.  Nel  settembre  del  1840,  il  Nic- 
colini  Scriveva  all'Aleardi^  promettendogli  di  mandargli  il  ritratto  di 
Dante  del  Bargello  dipinto  da  Giotto. 


—  iOl  — 
Simo  effetto  drammatico  perchè  abbia  potuto  lasciare,  nel  tempo, 
quella  viva  impressione  che  ha  fatto  invece  la  fortuna  di  un  altro 
poemetto  contemporaneo,  di  tenore  egualmente  bironiano,  VEdme- 
negarda  del  Prati;  2.°  il  Monte  Circello  dell'anno  1844;  5."  Le 
prime  storie  del  1846;  5."  Le  lettere  a  Maria  del  i847.  Questi  sciolti 
dell' Aleardi  sono  ora  ben  noti  a  tutta  l'Italia  che  ha  appreso  a  salu- 
tare, in  essi,  il  suo  più  gentile  poeta.  Ma  quando  apparvero,  ebbero 
eco  nel  solo  Veneto.  Il  Prati  nelle  sue  Passeggiale  solitarie  ci 
presentava  già  l'emulo  suo  nella  difficile  arte  di  pulire  il  verso;  ma 
s'ignorava  dai  non  veneti  il  vero  valore  del  poeta;  fu  appena 
nell'anno  1857  che  apparvero  a  Torino  gli  sciolti  di  lui:  Un'ora 
della  mia  giovinezza,  le  Prime  storie,  le  Lettere  a  Maria.  Il  Mondo 
Letterario  diretto  dal  veneto  Guglielmo  Stefani  ne  parlò  ne'  ter- 
mini più  onorevoli;  altri  giornali  posero  tosto  attenzione  ai  canti 
dell' Aleardi;  la  gioventù  d'allora  se  li  divorò  e  mandoUi  a  me- 
moria. In  breve  il  nome  dell' Aleardi  suonò  su  tutte  le  bocche,  e 
quando  s' intese  che  il  geniale  poeta,  a  motivo  de'suoi  sentimenti 
verso  l'Austria,  tanta  parte  de' quali  aveva  manifestato  già  ne'suoi 
versi,  era  stato  arrestato  e  tradotto  nelle  prigioni  boeme  di 
Josephstadt,  fu  un  dolore  vivo  e  sincero  in  tutta  la  gioventù 
studiosa,  come  fu  poi  una  grande  allegrezza  quando  giunse,  dopo 
Villafranca,  la  novella  che  l' Aleardi  era  libero.  Io  ricordo  non 
aver  contenuto  la  mia  parte  di  gioia;  ero  in  una  villa  presso  il 
campo  di  battaglia  di  Montebello;  scrissi  e  stampai  nello  stesso  giorno 
in  Voghera  e  mandai  tosto  all'  Aleardi  in  Brescia  un  inno  fe- 
stoso, ch'egli  non  ha  mai  ricevuto.  Io  tuttavia  ho  creduto  di 
rammentare  questo  fatterello  per  me  cosi  insignificante,  volendo 
esprimere  di  che  natura  fosse  la  simpatia  che  sentiva  in  que- 
gli anni  la  gioventù  piemontese  pel  gentile  poeta  che  avea  con 
tanta  nobiltà  cantato  i  dolori  e  le  speranze  della  patria,  in  un 
luogo  ed  in  un  tempo  in  cui  1'  oppressore  poteva  facilmente 
arrivarlo  e  fare  aspra  vendetta  di  quel  generoso  ardimento.  Jose- 
phstadt fu  l'ultima  stazione  della  ma  crucis  politica  dell'Aleardi; 
tra  i  compagni  dell'ultima  sua  prigionia  egli  ebbe  il  disgusto  di 
trovarsi  vicino  nel  proprio  carcere,  insieme  col  suo  caro  amico 
il  conte  Agostino  Guerrieri,  un  traditore,  un'antica  spia  dell'Au- 
stria, un  certo  Cesconi,  per  la  cui  delazione  e  di  un  altro  misera- 
bile, egli  avea  nel  1852  provato  le  dure  e  fetide  prigioni  di  Mantova, 
dalle  quali  sarebbe  uscito  per  andare,  come  già  altri  compromessi,  al 
patibolo,  se,  protraendosi  lungamente  il  suo  processo,  non  giun- 
geva da  Vienna  l' amnistia  a  liberare   i   prigionieri  superstiti.  Il 

Ricordi  Biografici  26 


—  402  — 
Cesconi  soffriva  doppiamente,  e  per  la  libertà  perduta  e  per 
l'umiliazione  di  aver  presso  di  sé  l'uomo  ch'egli  avea  voluto 
perdere.  Il  Cesconi  era  povero,  e  dovea  contentarsi  del  gramo 
cibo  del  prigioniero;  la  tavola  dell' Aleardi,  quantunque  parca,  era 
tuttavia  conforme  a' suoi  mezzi  ed  alla  sua  condizione;  l'unica 
vendetta  che  l' Aleardi,  come  l'occasione  gli  si  presentò,  prese 
del  suo  nemico,  fu  invitarlo  a  dividere  il  suo  pranzo  e  la  sui 
cena.  Il  compianto  Gaetani  Tamburini  che  ci  ha  fatto  conoscere 
questo  commuovente  episodio  (1),  lo  conchiudeva  con  hi  se- 
guenti parole:  «  Quell'uomo  duro  e  superbo,  egoista,  siliceo,  che 
non  sapeva  cosa  fosse  una  lagrima,  il  giorno  che  liberati  si 
separarono,  tocco  da  qualche  cosa  d'insolito,  pianse  come  una 
fonte.  » 

L'Aleardi  avea  sfuggito  per  miracolo  il  carcere  nel  1848;  poi- 
ché, arrestati   il   Manin  e    il    Tommaseo,  tra  le  carte   de'  quali 
s'eran  dovute  trovare  parecchie  lettere  compromettenti  dell' Aleardi, 
r  arresto  del  poeta  veronese   ne    sarebbe  venuto  in  conseguenza. 
Egli  riparò  dalla  tempesta  che   minacciava,  a    Roma,  allora  feb- 
brilmente agitata  dalle  prime  liberali  riforme  di  Pio  Nono.  Scop- 
piata la  rivoluzione  a  Milano  e  a  Venezia,  l'Aleardi  ripatriò,  per 
far  parte  della  Consulta  di  Stato,  nella  quale,  con  altri  due  mem- 
bri, egli  ebbe  a  preparare  la  legge  elettorale.  Fu  mandato  quindi 
a  Parigi  con   Tommaso  Gar,  ambasciatore   della  giovine  repub- 
blica francese.  Ma  l'Aleardi   e    il    Gar  cercavano  invano  ne'  capi 
del  governo  francese  dei  repubblicani  ;  i  loro  dispacci  da  Parigi, 
che  l'Odorici  ha  pubblicato  nel  recente  suo  libro  sopra  la  vita  e 
gli  scritti  del  Cibrario,  toglievano   alla  Repubblica   delle  Lagune 
quasi  ogni  speranza  di  un  intervento  amichevole    della  Francia. 
I  due  inviati  vedendo  disperata   1'  opera    loro  si  ritrassero,  e  ce- 
dettero il  campo  al  Tommaseo   che   non   ebbe   di   certo   miglior 
fortuna,  L'Aleardi  fa  un  motto    della    sua    missione,  e  di  un  suo 
dialogo  significativo  col  Lamennais  nelle  poche  parole    premesse 
alla  sua    ode    intitolata    II    Comunismo    e    Federico  Basliat.  Il 
Lamennais  ed  il    Bastiat,    dicevami    egli    un   giorno,  sono  i  soli 
due  uomini  veramente  grandi  ch'io  abbia  conosciuto  in  Francia. 
Reduce  da  Parigi,  veniva  1'  Aleardi  in  Toscana  a  confortarsi  dei 
patiti  disinganni   nell'  amicizia    di    Gino    Capponi    e    di  Giuseppe 


(1)  Rivista  contemporanea  ,  agosto  1867,  Torino. 


—  403  — 

Giusti.  Arrivati  gli  austriaci  in  Firenze,  egli  si  rifugiava  a  Ge- 
nova per  alcun  tempo,  finché  inteso  che  il  vecchio  suo  tutore  e 
secondo  padre  il  Dottor  Carli  era  moribondo  a  Legnago,  sfidava 
le  ire  dell'Austria  rientrando  nel  veneto,  ove  come  già  sappia- 
mo, nel  1852 ,  veniva  per  colpa  di  spionaggio  arrestato  e  tratto 
in  carcere  a  Mantova. 

E  noto  quali  oneste  accoglienze  abbia  avuto  l'Aleardi  a  Bre- 
scia, nel  1859,  al  suo  ritorno  da  Josephstadt,  e  come  parecchie 
città  lo  facessero  loro  concittadino,  e  Lonato  lo  mandasse  suo 
deputato  al  parlamento.  In  Brescia  si  fermò  egli  fino  all'anno  1864, 
sedendovi  come  vicepresidente  di  quell'Ateneo  e  presidente  della 
Pinacoteca  Tosi;  nella  patriottica  città  d'Arnaldo,  egli  scrisse 
pure  il  profetico  canto  dei  Sette  soldati  e  il  coraggioso  canto  po- 
litico al  venturo  pontefice.  Sul  principio  dell'anno  1864,  l'Aleardi 
veniva  finalmente  eletto  professore  d' estetica  nell'  Accademia  di 
Belle  Arti,  degno  successore  del  Niccolini  e  dell' Emiliani  Giudici; 
il  favore  con  cui  sono  ora  accolte  le  sue  lezioni  dal  pubblico  elettis- 
simo che  si  affolla  ogni  giovedì  per  ascoltarle  ne  provano,  dopo 
quasi  nove  anni  di  esperimento,  il  loro  intrinseco  valore.  L'Aleardi 
legge  le  sue  lezioni,  nitidamente  trascritte,  (la  lindura  é  uno 
de'  suoi  caratteri;  nella  persona,  nei  modi,  nel  linguaggio  di  lui 
la  ritrovi  sempre);  ma  le  legge  come  se  le  dicesse,  con  un  tim- 
bro metallico  di  voce  ed  un  garbo  che  affascina.  Ma  il  legger  bene 
e  con  voce  melodica  non  basterebbe,  senza  dubbio,  per  mantenersi 
fedele  nessun  pubblico,  meno  d'  ogni  altro  poi  il  fiorentino  cosi 
pieno  di  mobilità.  Lo  trattiene  l'Aleardi  sovra  tutto,  col  far  della 
critica  descrittiva  in  modo  seducente.  Egli  aveva  già  illustrato 
nel  1854  in  Verona  la  vita  e  le  opere  del  pittore  Paolo  Morando  so- 
prannominato il  Cavazzola,  incise  a  contorni  in  litografia  da  Lo- 
renzo Multani;  prosegui  pertanto  in  quella  via  connettendo  le  sue 
illustrazioni  speciali  all'idea  d'una  storia  generale  dell'arte.  Egli 
illumina  con  vivezza  tizianesca  i  capolavori  della  pittura  e  della 
scoltura;  talora  la  luce  n' è  piìi  viva  che  una  critica  severa  po- 
trebbe forse  richiedere,  e  la  sua  lezione  diviene  qualche  volta  un 
inno;  ma  beata  la  gioventìi  fiorentina  che  può  una  volta  alla  set- 
timana andare  ad  ascoltare  inni  siffatti  e  lei  disgraziata  se  nel- 
r  ascoltarla  non  sa  cavarne  alcun  profitto.  L'Aleardi  agita  innanzi 
al  pensiero  de'giovani  immagini  di  bello,  insegna  loro  col  proprio 
esempio,  a  sentire,  a  colorire,  a  vivificare  ;  il  poeta  può,  talora,  far 
dire  all'artista  più  che  l'artista  non  abbia  voluto  dire;  ma  che 
importa?  se  quel  di  più  che  il  poeta  aggiunge  è  una  buona  idea 


—  404  — 
la  quale  può  essere  fecondata  da  qualche  giovane  artista  il  quale 
sia  pronto  a  capire  il  motivo  per  cui  il  poeta  l'ha  messa  fuori? 
Quell'arte  un  po'  battagliera  che  piacque  all'Aleardi  nei  suoi 
versi  gli  piace  ancora,  per  quanto  parmi,  nelle  sue  lezioni  d'este- 
tica ;  e  cosi  egli  può  passare  vivificando  tra  i  vivi  ;  cosi  egli  la- 
scerà alcuna  preziosa  orma  di   sé,  dove  sarà  passato. 


XXVIII. 


ANSELMO  GUERRIERI  -  GONZAGA. 


Ex  wigiie  leoìiem,  dice  il  proverbio  latino,  e  dice  bene.  Basta  al- 
cuna volta  un  solo  verso  per  dare  la  misura  d'un  intiero  poeta.  E  in 
Italia  noi  contiamo  parecchi  poeti,  non  so  se  troppo  modesti  o  troppo 
orgogliosi,  i  quali  hanno  pubblicato  tanto  che  basti,  perchè  si  vegga 
quanto  essi  avrebbero  potuto  dettar  leggi  di  buon  gusto,  e  tuttavia 
non  abbastanza  per  lasciare  nella  loro  vita  letteraria  alcuna  traccia 
luminosa  e  profonda  del  loro  passaggio.  Ogni  provincia  d' Italia 
potrebbe  contare  sicuramente  due  o  tre  ingegni  cosi  fatti,  ratte- 
nuti non  si  sa  troppo  se  da  inerzia  propria  o  da  timore  o  da 
disprezzo  del  pubblico,  o  da  cagioni  esterne,  a  palesare  tutto  il 
loro  valore.  Dilettanti  d'arte,  sorridono  a  fior  di  labbro,  sulle  ap- 
plaudite prodezze  della  gente  di  mestiere  che  s' arrabatta  senza 
fine  a  procacciarsi  sollecita  col  frutto  del  meno  pudico  e  pur  la- 
borioso ingegno,  un  nome,  un  grado,  un  posto,  tutto  che  può, 
nella  arruffata  baraonda  della  repubblica  letteraria.  Quanto  con- 
trasto fra  questo  molto  e  minuto  popolo  affannato,  e  que'  tran- 
quilli, si  direbbero  indififerenti  e  sibaritici,  ingegni,  i  quali  lanciano 
un  bel  verso  capriccioso,  tra  una  voluta  di  fumo  del  loro  sigaro 
ed  un'altra,  tra  una  facezia  ed  un  sospiro,  senza  curarsi  più  che 
tanto  di  raccoglierlo,  e  quasi  paurosi  che  altri  l'abbia  ascoltato  e 
possa  ridirlo.  Io  potrei  fare  una  lunga  enumerazione  di  tali  inge- 
gni italiani;  ne  rammenterò  due  soli,  pregandoli  giovine  lettore 
di  cercar  gli  altri  da  sé,  por  salutarli  rispettosamente  come  con- 
viene, e  mettersi  poi  sopra  una  via  diversa  da  quella  eh'  essi 
hanno  percorsa.  Gli  uomini  di    stato    inglese   colgono,  con  gioia. 


—  406  — 
le  prime  ore  d'ozio  che  concede  loro  l'altalena  politica,  per  ri- 
tornare agli  antichi  loro  amori  letterarii,  e  rifarsi  vivi  in  quel 
mondo  geniale.  In  Italia  la  politica  non  solo  non  incoraggia  gli 
studiosi,  ma  li  distrae  e  spesso  li  ammazza.  Il  Messedaglia  ed  il 
Correnti  erano,  per  esempio,  poeti  squisiti  ed  eleganti  scrittori 
in  loro  gioventù;  qual  frutto  rimarrà  ora  del  loro  ingegno  nella 
nostra  letteratura?  La  politica  li  ha  fatti  suoi  e  li,  ha  tolti  a 
loro  stessi.  Oggi  vediamo  il  Fiorentino  eh'  era  buon  filosofo 
diventarci  cattivo  politico.  Il  Tenca,  dal  giorno  in  cui  incominciò 
a  politicare,  cessò  di  scrivere  ;  e  tutti  sanno  com'  egli  sapesse 
scrivere.  Io  potrei  moltiplicare  gli  esempii,  per  conchiudere  sol- 
tanto in  un  modo,  col  deplorare  cioè  sempre  che  la  politica  in 
Italia,  di  alta  scienza  ch'essa  era,  sia  divenuta  quasi  che  un  me- 
stiere volgare,  e  ci  abbia  rapito  un  gran  numero  di  belle  intelli- 
genze, le  quali  avide  di  un  potere  che  non  conseguirono  o  ten- 
nero invano,  perdettero  o  almeno  fecero  dimenticare,  pur  troppo, 
gran  parte  di  quel  credito  che  nessuno  poteva  loro  togliere,  per- 
chè acquistato  naturalmente  col  loro  proprio  ed  esclusivo  valore. 
La  politica  ebbe,  tuttavia,  in  questi  ultimi  due  anni,  due  di- 
sertori che  mi  piace  segnalare.  L'  uno  è  un  toscano,  è  Giamba- 
tista  Giorgini,  il  genero  di  Alessandro  Manzoni,  che  messo  a 
riposare  da'  suoi  elettori  politici  si  diede  a  pubblicare  il  Novo 
vocabolario  della  lingua,  italiana  o  fiorentina  che  si  voglia  poi 
chiamare.  Egli  avea  pubblicato  in  gioventù  un  volume  di  versi 
italiani,  che  furono  lodati,  ma  ch'io  non  potei  ritrovare,  poiché 
r  esemplare  eh'  era  della  Biblioteca  nazionale  sembra  esserne 
scomparso.  Fu  poi  applaudito  professore  di  diritto,  ed  è  tuttora 
membro  del  Consiglio  superiore  di  pubblica  istruzione.  L'ingegno 
non  gli  abbonda,  ma  gli  sovrabbonda;  ama  l'arte,  e  la  intende; 
uomo  di  gusto  finissimo,  adopera  quel  gusto  squisito  non  meno 
nel  conversare  che  nello  scrivere;  di  coltura  varia  ed  elegante, 
di  memoria  tenace,  affascina  facilmente.  Tanto  ingegno  e  tan- 
t'  arte  adoperati  ad  un  grande  monumento  letterario,  avrebbero 
forse  fatto  del  Giorgini  il  primo  fra  gli  scrittori  toscani  viventi. 
Che  n'è  invece?  e  che  sarà  del  nome  di  lui  fra  cinquant' anni  ? 
La  prefazione  al  Vocabolario,  è  senza  dubbio,  lavoro  gustosissimo, 
ma  con  la  prefazione  di  un'  opera  inspirata  dal  Manzoni,  e  che 
il  Giorgini  lasciò  poi  eseguire,  egli  sa  come,  da  altri,  la  sua  parte 
di  gloria,  s'  egli  ci  tenesse,  il  che ,  pur  troppo,  non  sembra,  sa- 
rebbe molto  diminutiva.  Tuttavia  anche  il  poco  che  ci  rimane  di 
lui  lo  dobbiamo  a  un  felice  lucido  intervallo  che  gli  lasciarono  le 


—  407  — 
cure  pojitiche.  Ora  il  governo  si  ricordò,  un  po'tardi,  per  dire  il 
vero,  che  fra  tanti  senatori  il  Giorgini  non  ci  avrebbe  sfigurato, 
ed  ecco  un  serio  pericolo  che  ci  minaccia  di  vedere  rapito  per 
sempre  alle  lettere  un  ingegno  ch'era  tutto  nato  per  esse,  e  che 
nel  seno  di  esse  non  avrebbe  trovato,  al  certo,  que' disinganni 
che  gli  riserbò  invece  la  politica,  come  sarebbesi,  di  certo,  sola- 
mente più  riconosciuto  consorte  di  altissimi  ingegni.  Le  lettere, 
finalmente,  che  hanno  il  dovere  d'educare  altrui,  offrono  poi  sem- 
pre-, esercitate  sul  serio,  il  vantaggio  d'educar  prima  d'ogni 
altro  lo  scrittore  stesso,  di  dargli  una  fede  e  di  mantenergliela; 
vantaggi  che  non  s'incontrano,  senza  dubbio,  coltivando  soltanto 
il  conversare  brioso  d'un  salone  elegante,  ove  si  può,  senza  ri- 
guardo, dire  per  dire ,  pur  che  si  dica  bene ,  e  far  dello  spirito 
anche  a  proprie  spese,  o  pure  il  mobile  armeggio  della  scena 
politica,  che  ho  intesa  definire  più  d'una  volta  1'  arte  di  cedere  e 
di  far  cedere,  arte  d'imposture,  insomma,  se  si  voglia  acqui- 
starvi credito  d'  artisti  consumati. 

Meno  affacendato  politico  e  più  amoroso  e  frequente  amatore 
della  poesia  e  dei  buoni  studii  mostrossi  invece  il  marchese  An- 
selmo Guerrieri-Gonzaga  mantovano.  Egli  ha  scritto  in  sua  gio- 
vinezza molti  versi,  ma  pochi  ne  stampò.  I  primi  pubblicati,  s'io 
non  m'inganno,  erano  epitalamici,  e  rimontano  presso  il  quarto 
lustro  della  sua  vita.  Scrisse  ancora  per  la  vecchia  gloriosa  Ri- 
vista Europea  di  Milano,  e  poi,  se  la  memoria  mi  basta,  per  un 
giornale  franco  italiano,  che  pubblicavasi  dopo  il  1850  a  Parigi. 

Qiiindi  tacque  fino  al  1862,  in  cui  pose  mano  a  stampare  presso 
il  Bernardoni  di  Milano  una  sua  versione  italiana  del  Faust  di 
Goethe.  Dal  1872  ad  ora  successero  più  che  alti'i  dieci  anni  di 
silenzio.  Ed  ora  lo  vediamo  al  tempo  stesso,  presso  i  due  primi 
editori  di  Firenze,  il  Le  Mounier  ed  il  Barbera,  dar  nuovo  segno 
di  vita,  e  di  bella  vita.  Quali  siano  le  cagioni  per  le  quali  il 
Guerrieri-Gonzaga  ha  tanto  tardato  a  farsi  valere  al  pubblico,  non 
so  s'io  indovino;  ma  questo  non  ignoro,  che,  appena  uscito  dalle 
mani  del  celebre  Giuseppe  Barbieri  (discepolo  egli  stesso  e  quindi 
successore  del  Cesarotti),  che  avea  ammaestrato  a  Padova  il  gio- 
vine patrizio  mantovano,  questi  fu  e  parve  tosto  alla  eletta  dei 
giovani  buongustai  del  suo  tempo  poeta  elegante  II  Carcano  che 
gli  dedicava  uno  de'  suoi  lavori  gli  rendeva  pubblico  omaggio  in 
Milano,  ove  il  Guerrieri  Gonzaga  erasi,  tuttavia,  condotto,  per 
attendervi  particolarmente  alle  discipline  giuridiche.  Quando  il 
rivolgimento   politico  del  1848  lo  sorprese,   il  Guerrieri-Gonzaga 


—  408  — 
avea  appena  29  anni;  tuttavia  egli  venne  tosto  chiamato  a  far 
parte  del  governo  provvisorio  lombardo,  in  nome  del  quale  reca- 
vasi quindi  a  Parigi  con  missione  analoga  a  quella  che  vi  aveva 
pure  condotto  pel  governo  veneto  il  poeta  Aleardl.  Restaurata  la 
tirannide  austriaca  in  Milano,  il  Guerrieri-Gonzaga  scontò  con 
l'esiglio  e  col  sequestro  de'beni  il  delitto  d'essere  stato  tra  i  po- 
chi patrizi!  lombardi  che  avevano  cooperato  con  vigore  ai  moti 
rivoluzionarli  del  1848  e  1849,  nella  sua  qualità  di  mantova- 
no essendosi  pure  adoperato  come  mediatore  fra  i  liberali  lombardi 
ed  i  veneti,  il  Manin  sovra  gli  altri,  col  quale  egli  aveva  diretta 
corrispondenza.  Fino  al  1860  sembra,  in  somma,  che  il  Guerrieri- 
Gonzaga  siasi  essenzialmente  occupato  a  fare  la  grande  politica 
che  dovea  comporre  a  libertà,  unità,  indipendenza  l'Italia;  e  che 
(sovra  tutto,  negli  anni  d'  esiglio)  siasi  molto  adoperato  per 
attrarre  le  simpatie  francesi  all'Italia.  Tornata  la  patria  a  sé  stessa 
restava  solamente  piìi  a  fare  la  politica  interna,  che  poteva  es- 
sere grande  o  piccola,  secondo  gli  uomini  che  l'avrebbero  diretta; 
fu  piccola;  ed  io  non  posso  abbastanza  rallegrarmi  perchè  il  Guer- 
rieri-Gonzaga vi  abbia,  sebbene  deputato,  preso  una  parte  molto 
secondaria,  e  siasi  invece  rivolto  di  nuovo  ai  primi  suoi  studi i 
giovanili.  Il  volume  che  il  Le  Mounier  ha  pubblicato  in  questi 
giorni  contenente  la  versione  riveduta  della  prima  parte  del  Fausto 
e  l'Ermanno  e  Dorotea  tradotto  in  ottava  rima  resterà,  per  ora,  il 
suo  principale  monumento  di  gloria.  Né  é  in  verità  piccolo  me- 
rito pel  Guerrieri  l'aver  degnamente  emulato  il  Maffei  ;  e  più  an- 
cora l'aver  saputo  salire  all'altezza  colossale  di  Goethe.  Le  due 
ristampe  delle  versioni  del  Faust  di  Goethe  uscirono  nello  stesso 
tempo  in  Firenze,  presso  lo  stesso  benemerito  editore,  senza  che 
un  traduttore  avesse  conoscenza  delle  correzioni  dell'altro.  E  un 
avvenimento  singolare,  ed  onorevole,  per  quanto  parmi,  non  meno 
per  l'editore  che  per  i  due  emuli  traduttori.  Qualunque  sia  ora  il 
giudizio  che  dell'uno  e  dell'altro  traduttore  possa  portarsi,  la 
conclusione  sarà  pur  sempre  una  sola,  ch'essi  hanno  vinto  en- 
trambi. Ma  perchè  vegga  almeno  per  un  indizio  il  lettore  come 
ciascuno  sa  vincere  in  modo  originale  gli  recherò  un  breve  sag- 
gio delle  due  versioni.  Prendiamo  il  principio  della  scena  degli 
allegri  compagnoni  nella  cantina  di  Auerbach  a  Lipsia;  esso  suona 
letteralmente  tradotto,  cosi  :  «  Frosch.  Nessuno  vuol  bere?  Nes- 
suno ridere  ?  V'insegnerò  io  a  fare  il  grugno.  Oggi  voi  siete  come 
paglia  bagnata,  e  pure  solete  pigliare  fuoco  come  zolfanelli.  Bran- 
der.  Sta   in  te;   tu  non  c'inventi   né    una   sciocchezza,   né  una 


—  409  — 
porcheria.  Frosch  (gli  versa  sulla  testa  un  bicchiere  di  vino). 
Eccotele  entrambe.  Brander.  Due  volte  porco!  Frosch.  Voi  lo  vo- 
levate, e  cosi  doveva  essere.  SiebeL  Alla  porta  chi  disturba;  con 
pieno  petto  cantate  in  giro,  trincate  ed  urlate;  sii,  olà,  olà  ! 
AUmayer.  Povero  me,  son  rovinato.  Ehi  là!  del  cotone!  costui  mi 
lacera  gli  orecchi.  SiebeL  Quando  la  volta  risuona,  si  sente  al- 
lora bene  la  vera  forza  del  basso.  Frosch.  Cosi  va  bene;  e  fuori 
chi  se  r  ha  per  male  ;  tara  f  lara  !  là  !  AUmayer.  Tara,  lara,  là 
Frosch.  Le  gole  sono  accordate.  »  Il  Maffei  traduce  : 

Frosch 
Più  non  si  ride?  non  si  bee?  Volete 
Voi  che  v'insegni  a  farmi 
Que'visacci  dell'armi? 
Zolfanelli  di  solito  voi  siete, 
Oggi  fradicia  paglia. 

Brander. 
La  colpa  non  è  tua?  Cosa  che  vaglia 
Dire  0  far  non  ci  sai; 
Né  gofferìa,  né  porcheria. 

Frosch. 
{gli  getta  un  bicchier  di  vino  in  testa) 

Tu  n'hai 
L'una  e  l'altra. 

Brander. 
Majale 
E  poi  majal  ! 

Fì'osch. 
Tal  quale 
Tu  m'hai  voluto. 

Siebel. 
Fuori, 
Fuori  gli  arruffaloin  ! 
Si  canti  e  cionchi  a  squarciagola!  A  tondo. 
La  tazza,  e  grida  e  chiasso  I 
Ohi  là!  là! 

AUmayer. 
Tristo  me  !  dove  m'ascondo  ? 
Bambagia  in  cortesia  !  Col  suo  guaito 
Questo  cane  mi  lacera  Cadilo. 


—  410  — 
Siebel. 
Se  rintrona  la  volta  è  prova  chiara 
Che  forte  è  il  contràbljasso . 

Frosch. 
Sta  bene,  e  chi  si  duole 
Via  di  qua!  Tara,  làra! 
AUmayer. 
Tara,  làra  t 

Frosch. 
Accordate  or  son  le  gole. 

E  il  Guerrieri  Gonzaga  alla  sua  volta: 

Frosch . 
Cos'è,  né  ber,  né  ridere  —  compari,  oggi  volete? 
A  far  le  bruite  smorfie  —  v'insegnerò,  sapete  ! 
Voi  sempre  arzilli  e  vispi  —  voi  come  zolfo  ardenti  I 
Oggi  mi  avete  l'aria  di  tizzi  semispentì. 
Brancier. 
'       Sta  in  te  ;  se  tu  desideri  vederci  in  allegria. 
Su  presto  una  goffaggine,  presto  una  porcheria. 
Frosch 
(versandogli  del  vino  sul  capo). 
Eccovi  r  una  e  l'altra! 

Brander. 
Sei  un  porco  sguaiato  ! 
Frosch. 
Quale  voi  mi  voleste,  tale  mi  son  mostrato  ! 

Siebel. 
Fuori  di  qua  cJii  litiga  —  Trinchiam,  cantiam  la  bella 
Canzon,  gridiam,  trinchiamo  cantiam  Ronda-Dinella 
Olà,  su  !  su  ! 

Allmmjer. 
Me  misero  !  codesto  sussurrone 
Mi  lacera  gli  orecchi,  portate  del  cotone! 

Siebel. 
Quando  la  vòlta  echeggia,  commossa  al  gran  fracasso, 
Capisci  allor  la  forza  fondarnental  del  basso. 

Froscli. 
Benone,  ed  alla  porta  colui  che  non  ne  vuole. 
A  tara  lara  là  ! 


—  4-11  ~ 

Altmayer. 
A  I  tara  lara  là  l 
Frosch. 
Finalmente,  accordate  mi  paiono  le  gole.  (1) 


(1)  Pel  comodo  del  lettore,  aggiungo  qui  ancora,  ed  è  giustizia  il 
farlo,  la  traduzione  in  versi  di  Giuseppe  Rota  (Milano,  Gnocchi,  1859), 
che  dopo  lo  Scalvini ,  ma  prima  del  Maffei  e  del  Guerrieri-Gonzaga, 
avea  pubblicato  una  versione  completa  della  prima  parte  del  Faust,  ed 
inoltre,  tradottane  per  la  prima  volta  la  parte  seconda: 

Fì'osclt, 
Per  bacco!  nessun  bee,  nessun  sghignazza. 
Smettete  orsù  quel  piglio  austero,  o  ch'io... 
Altre  fiate  solfanelli  ardenti, 
Oggi  mi  rassembrate  umida  paglia. 

Brander 
Tua  mercè,  sozio  mio.  Nulla  di  bello 
Oggi  non  rechi  in  mezzo,  oggi  non  hai 
Cosa  di  goffo  o  di  salace  in  bocca. 
Frosch 
(gli  versa  un  bicchier  di  vino  sulla  testa) 
Eccoti  d'ambedue. 

Brander 

Porco  in  belletta. 
Frosch 
Qual  asin  dà  in  parete,  tal  riceve. 

Siebel 
Esca  di  qua  chi  di  litigi  è  vago. 
Cantate  tutti  in  giro  a  gola  piena 
Tracannate,  gridate  oh,  uhi,  oh  ! 

Altmayer 
Lasso!  io  basisco;  oh!  datemi  cotone; 
M'è  tanaglia  alle  orecchie  il  mariolo. 

Siebel 
Dall'eco  della  volta  ha  testimonio 
Il  verace  valor  del  contrabasso 

Frosch 
Così,  così  si  vuol  pigliare  il  mondo. 
Qualunque  è  permaloso  esca  di  quinci. 
Oh  tara,  lara. 

AUmayer 

Oh,  tara  lara  là  ! 
Frosch 
Ecco  le  strozze  concordate  in  tempra. 


—  A\2  — 
A  voler  giudicare  da  questi  pochi  versi,  è  evidente  che  entrambi 
i  traduttori  hanno  reso  il  carattere  della  scena  originale,  con  più 
parsimonia,  il  MafFei,  con  più  libertà,  il  Guerrieri-Gonzaga.  En- 
trambi studiano  la  frase  toscana,  e  nel  trovarla,  accade  loro  di 
alterare  alquanto  il  senso  vero  della  parola  speciale  del  testo; 
entrambi  sono  studiosi  di  melodia,  e  per  trovarla  il  Guerrieri 
Gonzaga  mette  talora  qualche  riempitivo,  il  Matfei  dà  talora  ec- 
cessiva nobiltà  al  parlare  plebeo;  ma  entrambi,  insomma,  creano 
una  nuova  poesia  originale,  senza  olìendere  nelle  cose  essenziali 
il  carattere  del  poema  che  traducono.  Perciò  io,  ripeto,  vincono 
entrambi  ;  e  in  una  nuova  edizione  eh'  essi  vorranno,  speriamo,, 
rivedere  insieme,  vinceranno  anco  meglio.  Come  il  Maffei  tradusse 
in  iscìolti  quel  perfetto  idillio  domestico  ch'è  la  novella  di  Goethe: 
Ermanno  e  Borotea,  cosi  lo  volse  in  eleganti  ottave  il  Guerrieri 
Gonzaga.  Ma,  in  questa  prova,  parmi  che  quest'ultimo  non  regga 
al  confronto  del  suo  predecessore,  non  già  per  difetto  di  fedeltà, 
ma  perchè  l'essersi  impacciato  neh'  ottava,  gli  comandò  talora  al- 
cune rime  men  naturali,  men  disinvolte,  che  non  convengono  per- 
fettamente all'indole  popolare  della  novella,  e  ne  elevano  di  troppo 
lo  stile  che  voleva  invece  essere  famigliare  e  dimesso.  Così  fin 
dalla  terza  ottava,  dove  il  testo  dice  umilmente,  in  un  dialogo  fra 
marito  e  moglie,  Donna  (Frau),  il  Guerrieri  per  rimar  la  parola 
con  un  affettato  s'  addice,  volta  Genitrice  ;  nella  prima  ottava,  per 
trovar  la  rima  alla  voce  contrade  si  fanno  tornare  in  campo  le 
viete  voci  citlade,  pleiade,  e  cosi  si  toglie  la  principale  attrattiva 
del  poema  tedesco  ch'è  una  mirabile  e  cara  semplicità.  Una  mag- 
gior libertà  d'introdurre  eleganze  rettoriche  in  modo  che  non 
paiano  tali,  avrebbe,  invece,  avuto  il  Guerrieri  Gonzaga,  ove  si 
fosse  trattato  di  tradurre  l'alto  e  culto  stile  epico  o  tragico.  E 
poich' egli  s'accinge  ora  veramente  a  darci  una  versione  dell' //Z- 
genia  di  Goethe,  in  tal  prova,  oltre  al  non  avere  a  temere  nella 
lingua  nostra  un  emulo  traduttore  come  il  Maffei,  egli  potrà  più 
facilmente  adattare  al  testo  straniero  lo  stile  elevato,  che  egli 
sembra  avere  particolarmente  famigliare.  Ne  può  ftir  fede  il  saggio 
inedito  seguente,  che  contiene  la  preghiera  d'Ifigenia  a  Diana,  con 
cui  termina  il  primo  atto  dell'originale,  saggio  eh'  io  debbo  alla 
squisita  amabilità  dell'autore,  il  quale,  venuto  tardi  a  spiegarci  il 
suo  valore,  ebbe  ancora  la  modestia  d' incominciare  con  traduzioni 
(l'editore  Barbèra  ha  pure  pubblicata  in  questi  giorni  una  dili- 
gente versione,  che  il  Guerrieri  Gonzaga  ccmdusse  a  termine,  del 
notevole  lavoro  critico  biogralico  di  un  celebre  deputato    tedesco, 


-   413  — 
il  Treistscke,   sul  conte  di  Cavour),    mentre   chi    sa   quanto  egli 
possa  e  quanto  egli  valga  fa  voti  perchè  egli  ci  sia  pure  liberale 
di  sue  prose  originali^  cosi  bene  scritte  come  robustamente  pensate. 

Hai  le  nubi,  o  pietosa  Diana 
Per  nascondervi  in  sen  gì'  innocenti. 
Per  sottrarli  alla  sorte  inumana 
Li  trasporti  sull'ale  dei  venti, 
Della  terra  per  l'ampia  distesa, 
Per  gli  spazi  infiniti  del  mar, 
Dove  giunger  non  possa  l'offesa 
Che  1  lor  capi  voleva  immolar. 

Tu  sei  saggia  ;  al  tuo  spirto  è  presente 
Ciò  che  fu  ;  tu  contempli  il  futuro  ; 
0  Diana,  il  tuo  sguardo  clemente 
Sovra  i  Tuoi  si  riposa  sicuro; 
Come  a  sera  il  tuo  lume  sovrano 
Sulla  terra  posando  si  vien. 
Oh  !  non  far  eh'  io  mi  lordi  la  mano. 
Non  dà  il  sangue  mai  requie,  nò  ben; 

* 

L'  altrui  sangue  anche  a  caso  versato 
Va  del  triste  uccisor  sulla  traccia  ; 
Dell'ucciso  lo  spettro  adirato 
Gli  sta  sopra  con  tetra  minaccia  ; 
Lo  spaventa,  infelice  lo  rende. 
Che  i  Mortali  han  de' Numi  il  favor: 
Là  dall'alto  alle  sparse  lor  tende 
Mandan  sempre  un  sorriso  d'amor. 

E  son  lieti,  che  il  fragile  dono 
Della  vita  concedono  a  loro; 
Che  un  istante  del  cielo  ove  sono 
Lor  discopron  l' eterno  tesoro  ; 
Si  che  gli  uomini  insieme  con  essi 
Ne  contemplin  l'aspetto  divin. 
Un  istante  brevissimo  ammessi 
Ad  un  gaudio  che  mai  non  ha  fin. 


XXIX. 


GIUSEPPE  REVERE. 


Il  13  marzo  dello  scorso  anno  l'egregio  critico  Francesco  D'Ar- 
cais,  nel  giornale  L'Opinione,  faceva  agli  amici  delle  lettere  la  piìi 
grata  sorpresa.  Il  più  poderoso  tra  i  lirici  viventi  d'Italia,  il  poeta 
Giovanni  Prati  vi  lasciava  pubblicare  dal  signor  D' Arcais  due 
splendidi  suoi  nuovi  sonetti,  dedicati  a  Giuseppe  Revere,  i  quali 
suonavano  cosi: 


Del  greco  Olimpo  e  de'  latini  altari, 
Se  la  luce  da  te  non  è  partita, 
Revere,  né  il  buon  canto,  onde  i  più  rari 
Men  aspra  e  nuda  fan  parer  la  vita; 

Alla  dorica  in  grembo  arpa  sopita 

Cerca  i  lieti  tuoi  di,  cerca  gli  amari  (?)  : 
L'anima  chiusa  in  dignità  romita. 
Pur  non  tacendo,  puoi  salvar  del  pari. 

Vedi  :  tal  faccio  anch'  io,  delle  Camene 
Ultimo  sacerdote  e  primo  amante  : 
Né  m'è  dolce  dormir  su  la  mia  fama. 

Il  volgo  è  volgo;  ma  l'età  che  viene 
Noi  loderà  del  non  tradito  istante; 
A  Delfi,  a  Delfi  il  nostro  iddio  ci  chiama. 


—  415  — 

IL 

Prendiara  la  via  di  Delfi,  anima  schiva, 

E  di  qua  trafugando  i  patrii  numi, 

Lasciam  le  raandre  pascolar  la  riva 

Facile  e  pingue  degli  ausonii  fiumi. 
Noi  la  Sorte  segnò  quando  alla  diva 

Aura  schiudemmo  i  pargoletti  lumi. 

Tu  sul  mar  glauco,  io  presso  una  sorgiva 

Di  pallid' acque,  cui  fan  ombra  i  dumi. 
Noi  la  Sorte  segnò,  sin  quando  parve 

Su  gli  spettri  salir  nostra  persona; 

Or  son  altri  i  saliti  e  noi  le  larve. 
Badisi  al  calle,  e  non  curiam  costoro  ; 

Hassi  a  cercar  la  delfica  corona, 

E  non  pasto  di  zebe  in  greppia  d'oro. 

Questi  due  sonetti  ci  dicono  molto  del  Prati ,  ma  ci  rivelano 
pure  gran  parte  del  carattere  di  Giuseppe  Revere.  In  che  modo, 
un  uomo  di  cui  ogni  opera  letteraria  recava  lo  stampo  di  un  in- 
gegno alto  ed  originale,  è  poi  cosi  mal  noto  all'  universale,  e  in 
una  patria  che,  appena  costituita,  fece  onore  e  posto  non  pure 
a'  suoi  figli  più  generosi  e  valenti,  ma  anco  a'  suoi  più  umili  fac- 
cendieri, quasi  unico,  fra  i  nostri  illustri  italiani,  continua  solo, 
senza  alcuna  meta  fissa,  senza  alcuna  sede  certa,  a  vagabondare 
per  le  terre  d'Italia?  Che  lo  agita,  che  lo  spinge  fuor  d'  ogni  cen- 
tro, e  si  direbbe  quasi  fuor  d'ogni  umano  consorzio?  In  che  gli 
spiacque  l'età  sua,  il  suo  popolo?  Certo  vi  è  plebe  molta  anco  in 
Italia;  pur  meno  qui  che  in  ogni  altra  contrada;  e  chi  ebbe  il 
raro  dono  di  fare  splendere  il  proprio  ingegno  nel  nostro  paese 
ove  il  sole  risplende  più  lieto  e  più  glorioso,  ha  debito  d'alimen- 
tarsi il  coraggio  per  fortificar  l'animo  ad  amare  la  vita  ed  a  ser- 
virla. Alle  altezze  di  Delfo  possono  salire  i  soli  intelletti  potenti, 
ma  non  già  |;er  trafugarvi  i  patrii  numi,  come  il  Prati  fa  invito 
sdegnoso  al  Revere,  ma  sì  per  ritornare,  con  la  luce  del  genio, 
a  vivificarli  tra  noi,  che  abbiamo  posto  fede  in  essi  ed  abbiam 
diritto  di  richiedere  ch'essi  ancora  ci  mantengano  fede.  Il  Revere 
è  ormai  vecchio,  ma  bontà  di  natura,  per  usare  una  frase  a  lui 
famigliare,  pieno  ancora  di  tanto  vigore  di  corpo  e  di  mente,  che 
basti  a  farci  sperare  per  lui  im.i  vifu  ]iin:-;a  e  potente  di  opere.  Egran 


—  416  - 

tempo  ch'ei  non  logora  più  l'ingegno  nella  tortura  del  lavoro  quo- 
tidiano; dai  giorni  tumultuosi  in  cui  egli  serviva  in  Torino  con  ar- 
ticoli politici  il  giornale  La  Concordia^  or  sono  più  di  cinque 
lustri  (veggasi  che  cosa  lasciò  scritto  sul  Revere  d'allora  il  Torelli 
ne' suoi  Ricordi  Politici  {1),  egli  riposò  il  nobile  intelletto  molto 
più  eh'  ei  non  1'  abbia  affaticato.  Cosi  avviene  che  or  siano 
più  di  dieci  anni  ch'egli  tace,  non  per  alcuna  stanchezza  o  ste- 
rilità d' ingegno  (chi  l'accosta  ne  può  sperimentare  ogni  giorno 
la  poetica  e  prestante  vivezza),  ma  per  una  certa  inerzia  sdegnosa, 
che  gli  rende  lenta  la  mano  a  sfogare  sulla  carta  la  pienezza  e 
novità  de'  pensieri  che  gli  si  volgono  pur  sempre  nella  mente 
agile  e  gagliarda.  Se  la  cronaca  dice  ora  il  vero,  il  Revere  sa- 
rebbe intento  a  comporre  un  libro  sul  fare  de'  suoi  Bozzetti  Al- 
pini e  delle  sue  Mar-ine  e  Paesi,  intorno  all'Egitto,  da  lui  visi- 
tato, nell'anno  1869,  in  compagnia  di  Ubaldino  Peruzzi,  Ruggiero 
Bonghi,  Cristoforo  Negri  ed  altri  insigni  italiani,  per  l'apertura  del 
canale  di  Suez.  Saranno  pagine,  senza  dubbio,  scritte  con  ele- 
gante sapore  di  lingua  e  piene  di  sortite  umoristiche  e  di  fantasie 
vivaci.  Ma  intanto  che  il  libro  minaccia  di  lasciarsi  covare  i  nove 
anni  sacramentali  consigliati,  in  un  giorno  di  malinconica  pedan- 
teria, dal  poeta  latino,  polche  il  Revere  ha  formata  per  ora  la 
*;ua  stanza  in  Roma,  io  vorrei  almeno  che  la  studiosa  gioventù 
l'omana  gli  si  facesse  riverente  intorno  per  indurlo  più  spesso  a 
parlare  ed  a  sentire,  nel  colloquio  col  giovine  mondo  che  gli  sorge 
presso  animoso,  anco  una  volta  in  sé  quel  calore  ardente  che  gli 
aveva  infiammato  gli  operosi  anni  giovanili.  Il  vae  soli  fu  uno 
de'motti  più  sapienti  dell'antichità,  sacra  o  profana  eh' essa  voglia 
poi  nomarsi.  E  il  genio  stesso  che,  per  creare  cose  grandi  ha  uopo 
di  battere  le  ali  in  regioni  sovrane  a  quelle  del  volgo,  mal  si  reg- 
gerebbe ove  non  discendesse  alcuna  volta  a  terra,  per  rinnovarvi 
le  sue  forze,  e  derivarne  quel  senso  della  realtà,  senza  il  quale 
nessuna  opera  d'arte  può  avere  lunga  vita. 

Chi  ha  letto  i  sonetti  del  Revere  ne  conosce  pure  il  luogo  na- 
tivo; che  il  sonetto  alla  nativa  Trieste  è  uno  de'  suoi  più  belli.  In 
Trieste,  città  alacremente  mercantile,  e  pur  madre  e  ospitatrice 
di  nobili  ingegni,  (l'avvocato  Domenico  Rossetti,  sapiente  illustra- 
tore delle  opere  minori  di  Petrarca,  basterebbe,  nel  secolo  nostro. 


(!)  Ricordi  Politici  di  Giuseppe  Torelli  publjlicali  per  cura  di  Cesare 
Paoli;  Milano,  Paolo  Carrara  1873. 


-  417  — 

a  farle  onore,  come  dell'ospitalità  triestina  ebbero  molto  a  lodarsi 
tre  chiari  poeti  veneti,  il  Gazzoletti,  il  Somma,  il  Dall'Ongaro  che 
r  hanno  per  molti  anni  sperimentata),  nacque  Giuseppe  Revere  di 
padre  lombardo  e  di  madre  friulana  nell'anno  1812.  In  Trieste  compi 
egli  la  sua  prima  educazione  letteraria;  voleva  quindi  il  padre  avviare 
il  figlio  Giuseppe  alla  mercatura,  alla  quale  intendono  tuttora  in  Trie- 
ste due  fratelli  del  Revere  (ingegni  colti  e  vivacissimi  carissimi  al 
poeta  insieme  con  una  sorella  che  dimora  essa  pure  in  Trieste);  ma 
il  giovinetto  spiegò  sì  presto  e  in  modo  così  vivo  l' amor  suo  alle 
lettere,  che  ben  tosto  la  famiglia  di  lui  risolvette  lasciarlo  andare  per 
la  sua  via  e  venirgli  anzi  in  aiuto,  quand'egli  ebbe  a  recarsi  per  ra- 
gione degli  studii  intrapresi  a  Milano.  Le  lingue  antiche,  (tra  que- 
ste allora  pure  l'ebraico,  come  più  tardi  ei  delibava  la  grammatica 
indiana,  epenetrava,  più  che  oltre  la  buccia,  l'arabo  odierno),  il  dritto, 
la  filosofia,  la  storia,  la  poesia,  e  gli  amori  furono  le  cure  di  quel 
tempo;  che  non  conviene,  in  un  ricordo  biografico,  dimenticare 
come  il  Revere,  sia  stato  giovine,  nel  suo  tempo,  bellissimo,  com'  egli 
è  tuttora  vecchio  cosi  poco  barbogio  da  poter  sempre  in  una  corte 
d'amore,  con  le  amabili  grazie  della  favella  e  l'eleganza  della  per- 
sona, mettere  meglio  d' un  giovine  spasimante  in  serio  imbarazzo. 
Ma  di  ciò  poco  parlano  i  suoi  libri,  ed  io  non  dirò  altro.  Basti 
qui  a  dare  un'altra  nota  del  carattere  di  lui  1'  aggiungere  come 
si  possa  quasi  scommettere  pel  Revere,  ch'egli,  amando,  ha  do- 
vuto ricordarsi  sempre  d'appartenere  al  sesso  forte  ;  e  però  che 
egli,  sebbene  col  cuore  piagato,  non  vinse  coi  piagnistei  ma  con 
la  bravura,  e  che  non  discinse  mai  dal  suo  fianco  la  spada  ;  ond'egli 
potè  mantenere  a  tutta  la  sua  poesia  quel  nerbo,  e  a  tutta  la  sua 
vita  pubblica  quella  vigorosa  e  fiera  maschiezza  che  lo  distingue 
in  modo  particolare  da  tutti  i  poeti  del  suo  tempo. 

Non  conosco  tuttavia  alcuno  de'  suoi  carmi  giovanili,  i  quali  dai 
titoli  dovrei  giudicare  cosa  tutta  delicata  e,  non  dirò  femminea, 
ma  tale  da  piacer  più  ad  animi  gentili  che  ad  animi  forti  ;  intendo 
d'  un  carme  intitolato  :  Un  pensiero  malinconico,  certi  ritmi  biblici, 
alcune  odi,  una  canzone  per  la  Fiducia  in  Dio  del  Bartolini  (1) 


(1)  Quest'ultima  ho  potuto  aver  tra  le  mani  e  ripubblico  come  una 
vera  curiosità  e  rarità  letteraria  ;  trovasi  in  fine  una  variante  che  gli 
occhi  d'Argo  della  censura  di  quel  tempo  non  aveano  permesso  fosse  pub- 
blicata; sotto  una  forma  ancora  alquanto  impacciata  che  ricorda  un  po'  il 
tenore  delle  antiche  laudi  spirituali,  splendono  qua  e  là  pensieri  novi  e 
vigorosi,  oltre  che  vi  esulta  già  fieramente  l'anima  del  libero  patriota: 

Ricordi  Biografici  27 


—  418  — 
e  altri  componimenti  poetici,  dispersi^  per  la  massima  parte,  nelle 
Strenne  di  quel  tempo,  le  quali  io  potrei  ora  difficilmente  rintrac- 
ciare. Ma  qui  convien  rammentare  una  virtù  peculiare  dell'  inge- 
gno del  Revere,  voglio  dire  una  mirabile  facoltà  imitativa  ;  fu  tempo 
in  cui  egli  dovette  ammirare  l' Impeto  dei  primi  Canti  lirici  del  Prati 
che  risalgono  com'è  noto,  innanzi  allarmo  1840:  e  seppe  quindi 
in  altri  suoi  canti  congeneri,  alcuni  frammenti  de'  quali,  inediti, 
mi  caddero  un  giorno  fra  le  mani,  così  bene  imitarli  che  si  di- 
rebbero del  Prati  stesso  ;  cosi  il  primo  sonetto  del  Revere  sorgeva 


Per  la  fiducia  iu  Dio 
Statua  in  marmo  di  Lorenzo  BartoUni 


Figlio  de' tempi!  i  noverati  giorni 
Meni  qual  pianta  inaridita  e  china, 
Nulla  stella  a  te  ride 
Sul  cammin  della  vita  pellegrina, 
Né  per  Alba  novella  fla  che  torni 
La  gioia  ad  allietar  il  tuo  sembiante; 
Lungo  duol  ti  precide 
Tutta  speranza,  e  dello  sguardo  errante 
Covri  il  Ciel,  che  per  te  sordo  si  voi  ve: 
Senza  parola  è  1'  avvenir  sull'  anima 
Che  la  nostra  sorregge  afflitta  polve. 

Alla  viola  del  tramonto  unita 
Va  la  rosa  gemmata  degl'  albori  ; 
Né  meriggio  ha  per  1'  uomo 
Su  cui  sparga  la  sorte  i  lieti  tiori, 
Sospirati  da  questa  orfana  vita. 
Un  inno  lamentoso  a  Dio  solleva 
11  pargolo  non  domo 
Ancor  dal  nembo  che  ì  fratelli  aggreva, 
Che  l'aura  prima  a  lui  nunzia  è  d'alTanni: 
Ahi,  t'  eran  meglio  le  materne  viscere 
Che  il  truce  aspetto  de'  sicuri  danni  I 

Così  ai  poveri  nati  dalla  creta 
Tocca  un'amara  eredità  di  pianto, 
E  con  tristo  pensiero 

Fortuna,  or  mostra  e  or  cela  il  proprio  vanto, 
Né  per  vendetta  mai  non  si  fa  quota; 
Langue  il  disio  di  men  feroce  sorte 
In  noi  proni  all'  impero 


—  410  — 
ad  emulare  il  sonetto  del  Prati.  A  Milano,  quasi  appena  giunto, 
erasi  il  Revere  stretto  d'amicizia  con  Giovanni  Torti,  il  virtuoso 
discepolo  del  Parini,  e  con  Tommaso  Grossi,  l'amico  di  Manzoni. 
Qual  meraviglia  pertanto  che,  innanzi  il  1838,  egli  s'accostasse  in 
Milano,  alla  maniera  lombarda  de'suoi  maestri  e  l' imitasse"?  Se  non 
che,  presso  ai  discepoli  del  Parini,  il  Revere  imparava  pure  a  co- 
noscere quelli  del  Romagnosi,  Carlo  Cattaneo  fra  gli  altri,  da  cui 
apprendeva,  secondando  poi,  sovra  tutto,  la  sua  libera  e  fiera  na- 
tura, l'arte  di  scrivere  una  prosa   potente.   NeW  Indicatore  lom- 


Della  ignavia,  peggior  d'ogni  empia  morte, 
Tace  il  carme  sonante  a  Dio  gradito; 
Che  primi  fur  ministri  all'  Ineffabile 
La  cetra  e  l' inno  del  cantor  rapito. 

E  te,  fanciulla,  con  la  fronte  vòlta 
Ove  tempo  non  è,  non  è  misura, 
Qual  mai  speranza  affida, 
Che  spregiatrice  d'ogni  umana  cura 
Ed  in  muto  pregar  ,ti  stai  raccolta  ? 

Sì  acerba  d'anni  alla  sembianza  eletta 
Più  non  fla  che  sorrida 
Ventura  né  che  gaudj  a  te  prometta  ? 
Ma  tu  taci:  or  comprendo  il  tacer  pio, 
Non  ha  gaudio  quaggiù,  la  vita  è  cenere 
Se  non  l'affranca  la  fiducia  in  Dio. 

Come  le  intatte  membra  tu  componi 
Alla  sacra  quiete  dell'Eterno! 
E  consolata  fede 
Tal  fa  di  te  santissimo  governo 
Che  i  nostri  tu  dispetti  infausti  suoni.... 
Ma  chi  di  sculto  marmo  a  me  favella? 
Se  in  te  vita  non  siede. 
Chi  volle  all'arte  la  natura  ancella 
Chi  l'opera  d'un  Dio  t'impresse  in  volto, 
Chi  die  lena  a  que'polsi,  al  seno  il  palpito. 
Sì  che  in  tempio  di  gloria  un  sasso  è  vólto? 

Umilemente  inginocchiata,  il  duolo 
Che  l'aspetto  gentil  t'adombra  appena. 
Dal  divin  raggio  è  sperso 
Dell'alta  idea,  che  l'universo  affrena  ; 
Te  fra'beati  del  fiammante  stuolo 
Al  certo  vide  quei  che  ti  scolpìa, 
E  tutto  al  ciel  converso 


—  420  — 
bardo,  apparvero  i  primi  articoli  del  Revere.  Intanto,  Massimo 
d'Azeglio  col  suo  Niccolò  de'Lapi,  e  l'Assedio  di  Firenze  del 
Guerrazzi,  non  potendo  dire  all'Italia  oppressa  come  dovesse  in- 
sorgere, con  patria  carità  s'erano  accordati  a  rappresentare  il  do- 
lore con  cui  essa  era  caduta  e  la  disperata  difesa  fatta  per  non 
cadere;  la  caduta  d'alcuna  monarchia  non  poteva  parlare  al  cuore 
del  popolo  italiano  così  vivamente  come  la  rovina  della  repubblica 
fiorentina  procacciata  dalle  armi  di  un  papa  e  di  un  imperatore, 
fatte  più  formidabili  dalle  discordie  cittadine  e  dalle  ambizioni  di  una 


A  te  lo  spiro  animator  largìa: 
Tanto  delTarte  al  generoso  affetto 
Il  nume  assente,  che  all'  eccelso  artefice 
Maggior  copia  di  sé  trasfonde  in  petto. 

Tale  ei  ti  vide,  allor  che  innanzi  al  trono 
Dell'Inconcusso  placida  ti  prostri, 
E  di  santa  onestade 
Velati  gl'occhi  amabilmente  mostri, 
Ivi  la  bianca  fede  in  dolce  suono 
Salutando  te  va  «  sempre  ben  giunta  » 
E  nostra  inferma  etade 
Per  te  s'affida,  in  te  gli  sguardi  appunta; 
Meglio  per  te  s'infronda  il  paradiso, 
Né  bufera  mortai  turba  il  sidereo 
Lume,  che  folgoreggia  a  te  sul  viso. 

Ma  il  pie  degl'anni  calca  i  monumenti 
Ed  all'erba  gli  adegua,  e  fra  le  arene 
Gli  storiati  avanzi 
Manda  sepolti!  Ecco  la  prisca  Atene 
Fatta  polve  dai  secoli  furenti, 
E  lor  prede  lugubri  rovinose, 
Ch'eran  templi  poch'anzi 
Sue  veci  ne  favellaa  dolorose; 
L'arti  greche  vagaron  pellegrine, 
E  a  que'lidi  ove  or  geme  il  mesto  cantico. 
Sol  rispondon  le  indomite  marine. 
Ahi  !  perchè  il  tempo  vorator  gli  eserapii 
Ingoia  d'ogni  splendida  virtude? 
Perchè  scuro  ne  toglie 
Sin  le  memorie  delle  età  cadute? 
Ognor  più  baldo  per  novelli  scempi 
Sovra  gl'imperj  affranti  egli  grandeggia, 
Ne  tramuta  le  spoglie. 


—  421  — 

casa  potente.  Si  sognava,  innanzi  il  18i9,  l'Italia  redenta  in  forma 
d'una  repubblica  confederata  e  non  ancora  di  un  regno  unito; 
Mazzini  era  bensì  unitario,  ma  Cattaneo,  Ferrari,  Montanelli  scri- 
vevano per  la  federazione  ;  Carlo  Alberto  era  allora  un  tiranno  come 
gli  altri;  né  era  ancora  sorto  il  conte  di  Cavour  a  volere  l'Italia 
indipendente  e  monarchica  con  Roma  capitale.  La  storia  degli  ul- 
timi anni  della  repubblica  fiorentina  seduceva  pertanto  gli  scrittori; 
il  Guerrazzi  e  l'Azeglio  avevano  intessuto  sopra  di  essa  due  romanzi 
storici;  il  Revere  volle  fare  un  passo  più  in  là,  e  trarne  due  drammi 


E  qual  turbo  indomabile  veleggia 
A  far  bruna  per  duci  la  stanca  terra, 
E  de'  monti  crollando  i  gioghi  aorei, 
Par  si  rintegri  nell'acerba  guerra. 

E  te  pur  coglierà  l'iroso  artiglio, 
Ma  rimoto  è  l'insulto  a  ch'ei  ti  danna. 
Salda  or  vivrai  ne'  cori, 
Come  l'amor  della  natia  capanna 
In  chi  vuota  la  coppa  dell'esiglio  ; 
E  forse  ancora  per  voler  del  nume 
I  vanni  struggitori 
Su  te  non  batteran  lor  fredde  piume; 
Qui  ti  starai  d'Italia  vantamento, 
E  allo  stranier  che  i  nostri  lutti  visita 
Tu  di  scola  sarai,  d'ammonimento. 

E  temprando  l'ognor  facile  accusa;, 
Ne  sarà  pio  di  lacrima  e  sospiro, 
Che  l'eccellenza  antica 
Non  per  anco  mandò  l'ultimo  spiro; 
Così  riedesse  la  fugata  musa 
Vendicatrice  del  presente  oblio 
Nell'incesso  pudica 
(l)  Coronata  di  stelle  e  sacra  a  Dio 

Non  serva  agli  odj,  né  corrusca  d'armi, 
Opra  è  delira  in  concitato  sonito 
All'ombra  de' cipressi  aderger  carmi.  . 


(Ij  Variante  non  gradita  dalla  Censura: 


Folgoreggiante  d'immortal  desio, 
Svestiti  gli  odi  e  ritemprate  l'armi, 
A  risvegliar  col  concitato  sonito 
La  sopita  virtii  dei  primi  carmi. 


42-2  — 

storici,  nei  quali  gli  attori  di  quel  tempo  parlassero  ciascuno  nella 
loro  propria  persona  e  nel  loro  proprio  linguaggio.  Il  dramma  sto- 
rico non  fu  certamente  in  Italia  introdotto  dal  Revere;  prima  di  lui 
il  DairOngaro  aveva  creato  il  suo  Fornaretlo,  e,  s' io  non  erro, 
alcuni  scrittori  lombardi  avevano  già  pubblicato  o  rappresentato 
alcuni  loro  drammi  storici;  Victor  Hugo  avea  pure  avuto  pronta- 
mente alcuni  imitatori  sul  nostro  teatro.  Ma,  come  nessuno  vorrà 
dar  nome  di  storiche  a  quelle  bugie  drammatiche  che  si  chia- 
mano VAìigelo  e  la  Lucrezia  Borgia  del  poeta  francese,  cosi  a  vo- 
ler cercare  la  storia  ne'  drammi  storici  usciti  in  Italia  prima  del 
Fornaretlo  del  Dall'  Ongaro  e  prima  del  Lorenzino  de'  Medici 
del  Revere,  la  veneranda    Clio    dovrebbe   prima    ricoprirsi. 

Il  Revere  fece  poi  quello  che  nessuno  prima  di  lui  aveva  fatto, 
quello  che  nessuno  seppe  più  fare  dopo  di  lui;  oltre  al  rendersi, 
nelle  cronache  contemporanee,  una  esatta  ragione  de'luoghi  e  dei 
tempi  ne'quali  si  movevano  gli  uomini  da  lui  rappresentati,  volle 
superare  la  suprema  difficoltà  di  farli  parlare  in  buona  lingua  to- 
scana, lievemente  tinta  di  colore  antico.  Studiò  pertanto  nella  lin- 
gua viva  di  questo  popolo  (in  ispecie  nel  dramma  I  Piagnoni  e 
gli  Arrabbiati,  uscito  la  prima  volta  in  Milano  nel  1843,  ove  questo 
studio  è  cosi  manifesto,  che  ad  ogni  buon  giudice  riesce  aperto 
come  il  Revere,  dopo  avere  sudata  la  sua  vittoria,  sia  uscito  dalla 
prova  con  gli  onori  del  trionfo),  e  la  riscontrò  quindi  negli  scrit- 
tori con  le  varie  foggie  di  dire  appropriate  a  quel  tempo  e  che 
il  tempo  nostro  ha  dismesse.  Cosi  riportò  le  due  volte,  nel  Loren- 
zino de'Medici,  e  no.' Piagnoni  ed  Arrabbiati,  una  duplice  vittoria, 
quella  di  risuscitarci  un  periodo  importante  di  storia  italiana  con 
fine  civile  in  robusta  forma  drammatica,  e  quello  di  dare  alla  no- 
stra letteratura  drammatica  due  splendidi  saggi  di  bello  stile  ita- 
liano, due  opere  che  si  possono  oramai  considerare  come  classiche. 
Nella  prefazione  alla  prima  edizione  del  Lorenzino,  che  reca  la 
data  per  noi  venerabile  del  primo  marzo  1839,  da  Milano,  trovo  già 
alcune  parole  mirabilmente  ardite  :  «  Considerando,  ei  vi  dice,  alla 
nostra  presente  condizione,  non  iscrissi  il  mio  dramma  per  la 
scena;  esso  è  vero  di  troppo,  né  il  teatro  il  comporterebbe;  io  lo 
direi  un  continuo  conflitto  colle  consuetudini  d'oggidì,  un  ritratto 
troppo  severo  d'una  vita  perduta,  di  passioni  attutate,  di  credenze 
infiacchite.  »  E  più  oltre  :  «  Non  più  il  dramma  dell'individuo,  né 
le  vicende  d'  un  grande  sceverate  da  quelle  del  popolo,  ma  una 
manifestazione  di  tutte  le  idee  fondamentali  di  quel  tempo,  accioc- 
ché da  esse  si  possa  giungere   alle   leggi,  al  principio  da  cui  fu- 


-  4^23  - 
rono  generate;  e,  nel  concetto,  più  presto  sintetico  che  analitico; 
imperocché  abbiam  mestieri  di  fabbricare  e  non  di  distruggere. 
Egli  è  per  ciò  che  nulla  non  debbe  andar  perduto,  ma  servire  di 
indizio  al  dubbioso  avvenire.  »  Sopra  lo  stesso  concetto  egli  in- 
siste ancora  poco  dopO;,  dicendo  :  «  Non  è  la  vita  d'un  uomo,  ma 
sì  quella  d'  un  popolo  il  dramma  eh'  io  credo  acconcio  al  nostro 
tempo.  »  Prevenendo  la  vanissima  discussione  che  i  critici  classi- 
ficatori, secondo  che  il  tempo  comportava,  avrebbero  fatto  sopra 
il  genere  drammatico  del  Lorenzino,  ei  la  rimuoveva  accorta- 
mente con  queste  poche  assennate  parole  :  «  Alcuni  critici  diranno 
che  io  ho  inventata  la  storia,  altri  che  la  ho  posta  in  dialogo,  e 
con  una  miseria  di  parole  vorranno  pormi  al  bando  di  tutte  le  due 
scuole,  quella  de'classici  e  de'romantici,  com'essi  le  chiamano.  Io 
dichiaro  di  aver  seguito  quella  del  cuore  ;  una  ed  eterna  ;  e  con- 
fesso d'ignorare  quel  che  si  vogliano  dire  con  le  altre.  »  Il  Lo- 
renzino e  i  Piagnoni  ed  Arrabbiati  conseguirono  molte  lodi  nella 
stampa  letteraria  di  quel  tempo  e  procacciarono  al  Revere  nuove 
ed  illustri  amicizie;  fra  i  suoi  più  autorevoli  estimatori  fu  pure 
il  Tommaseo,  cui  egli,  un  po' per  una  certa  conformità  di  senti' 
menti  nella  ragione  politica,  un  po'  per  antico  debito  dì  gratitudine, 
un  po',  finalmente,  per  naturale  riverenza  a  letterato  cosi  insigne 
e  venerando,  volle  poi  dedicata  da  Genova,  nel  1858,  la  nuova 
edizione  di  tutti  i  suoi  Drammi  storici  {Lorenzino  de' Medici  — 
/  Piagnoni  e  gli  Arrabbiati,  Sa^npiero  —  Il  Marchese  di  Bed- 
mar;  egli  meditava  pure  un  dramma  sulla  morte  di  Giuseppe 
Alessi,  il  battiloro  di  Palermo;  ma  non  se  n'ebbe  altra  notizia), 
che  curava  in  Firenze,  nell'anno  1860,  l'editore  Felice  Le  Mou- 
nier. «  Il  vostro  nome,  egli  scrive,  i  patimenti  illibati  del  vostro 
intelletto,  la  comunanza  di  casi,  e  la  fede  incrollabile  che  voi  te- 
nete a  quanto  v'ha  di  generoso  e  di  diritto  ne'  vasti  campi  del 
pensiero,  conferiranno  per  fermo  a  fugare  da  me  le  sterili  iro- 
nie della  mia  vita  sconfidata.  Parlando  con  voi,  mi  parrà  di  ra- 
gionare ancora  con  le  vereconde  fantasie  della  mia  giovanezza.  » 
Terminando  la  sua  prefazione  il  Revere  dava  alcuni  savii  consigli 
ai  giovani  autori  ed  attori,  facendoli  precedere  dalle  seguenti  parole 
sempre  rivolte  al  Tommaseo:  «  Io  non  saprei  dire  se  i  tempi  e 
l'animo  mio  mi  consentiranno  di  darmi  ancora  a  tal  maniera  di 
opera;  ma  da  che  parlo  con  voi,  uomo  intero  e  cotanto  mio  amo- 
revole, io  vorrei  che  l'autorità  dei  vostro  nome,  e  l'esempio  che 
date  all'Italia  del  modo  verecondo  onde  s'abbiano  a  professar  let- 
tere, mi  rincorasse  a  parlar  pure  a'giovani  scrittori  ne'quali  ferve 


^  42i  — 

il  generoso  proposito  dì  provvedere  alle  necessità  del  nostro  tea- 
tro. Qiial  tristo  governo  alcuni  comici  abbietti  e  autori  dozzinali 
facciano  spesso  dell'arte  non  dirò  io  qui,   poiché    la   debita  rive- 
renza all'arte  medesima  noi   consentirebbe;  d'altra  parte  il  gran 
parlare  che  ora  si  fa  intorno  alla  riforma  del  nostro  teatro,  e  le 
cure  di  giovani  attori  ed  autori  i  quali  sentono  nobilmente  la  ver- 
gogna della  nostra  miseria  e  s'industriano  di  porvi  riparo  con  ge- 
nerosa perseveranza,  è  chiara  prova   delle    nostre   grame  condi- 
zioni. »  Nessuna  meraviglia  pertanto  che,  nello  scorso  anno,  trat- 
tattandosi  in  Roma  di  costituire  una  commissione  la  quale  studiasse 
anco  una  volta  queste  misere  condizioni  del  teatro  nostro  dramma- 
tico, per  avvisarne  ai  rimedii,  chi   avea  letto  e  pregiato  secondo 
il  merito  i  Drammi  storici  del    Revere,   e   la  prefazione  che  va 
loro  innanzi,  ascrivesse    a    suo  dovere    d'invitare  l'insigne  poeta 
triestino  ad  assumerne  la  presidenza,  la    quale    nessuno  avrebbe, 
di  certo,    potuto  tenere  con   miglior   senno   e    con   più   autorità 
di  lui,  a  cui  i  voli  fatti  sulle    alture  del  Pindo  non  hanno  punto 
privato  della  facoltà    di   vedere  praticamente  e  realmente  le  cose 
per  farne   quindi    un  giudizio   proporzionato,   quantunque,    senza 
dubbio,  men  gretto,  men    passionato,    men  vile  di  quello  che  po- 
trebbe forse  metterci  in  giro  venale  la   cosi    detta  gente  di  me- 
stiere, per  la  quale  l'arte  è  oramai  divenuta  cosa  tutta  meretricia. 
Come  non  destinava  il  Revere  alla  scena,  la  quale  pur  volle  ri- 
vendicarseli, il  Lorenzino  e  i  Piagnoni   e  gli  Arrabbiati  (il  Lo- 
renzino  fu  rappresentato,  ridotto,  parecchie  sere  al  Teatro  Cari- 
gnano  di  Torino  dalla  Compagnia  Reale;  i  Piagnoni  e  gli  Arrab- 
biali si  rappresentarono  in  altri  teatri  monchi  e  contraffatti);  così 
scrisse  di  proposito  per  la  scena  e  fece  piacere,    il    Sampiero,  il 
Marchese  di  Bedmar  e  la  Vittoria  Atfia.ni  I  due  primi  di  questi 
due  drammi  sono  stampati  nel  citato  volume  del  Le  Mounier;  \'Al- 
fiani  né  ho  letta  né  vidi  rappresentare;    ma    per   fortuna   era  in 
teatro  un  crìtico  di  buon  gusto,  del  quale  possiamo  fidarci,   il  si- 
gnor Eugenio  Camerini  che  ce  ne  lasciò  un  ricordo   nel    volume 
dei  suoi  Profili  leiterarii  (1).  E  un  dramma  domestico;   l'espia- 
zione della  colpa  d'una  giovane  donna  ;  il  Camerini  ci  fa  sapere 
che  il  dramma:  «piacque  universalmente,  se  ne  levi  alcuni  pochi 
che  dissero:  Se  ci  piace,   abbiamo  mentito  »   Il    Camerini    ci  de- 
scrive minutamente  il  carattere  della  protagonista;  e  soggiunge: 


(1)  Firenze,  Barbera  1870. 


—  425  — 

«  Tutti  gli  altri  caratteri  sono  ben  delineati,  ma  con  pochi  e  ga- 
gliardi tratti,  come  Revere  sa  fare.  »  Egli  ci  dà  pure  la  notizia  che 
il  Revere  ha  pure  altri  due  drammi  del  genere  deWAlfìanì,  Sandro 
setaiolo  e  Le  sventure  d'un  pittore  tuttora  non  rappresentati  ed 
inediti. 

Ma  ne'  drammi  non  è  tutta  la  vita  letteraria  del  Revere  ;  i  suoi 
sonetti  Sdegno  ed  affetto  (Milano  1845)  Nuovi  sonetti  (Capolago, 
18-46),  /  Nemesìì  {Tov'mo  1851),  Persone  ed  ombre  (Genova  1862), 
gli  diedero  posto  fra  i  più  vigorosi  sonettisti  d'Italia.  I  primi 
erano  dedicati  ad  un  amico;  l'amico  era  veramente  Pietro  Borsie- 
ri,  l'amico  di  Gonfalonieri,  di  Pellico  e  d'Arrivabene.  Gli  ultimi 
sonetti  rivelano  una  nuova  forma  di  poesia,  e  si  direbbe  un  nuovo 
poeta,  una  specie  di  Heine  italiano,  ringagliardito.  Un  editore 
farebbe  ora  assai  bene  a  salvare  dal  pericolo  che  vadano  per- 
duti, raccogliendoli  in  un  solo  volume,  tutti  i  sonetti  del  Revere, 
ai  quali  se  ne  dovrebbero  aggiungere  alcuni  altri  ch'io  ebbi  il 
piacere  di  pubblicare  TieW Italia  Letteraria  giornale  ebdomadario 
da  me  diretto  in  Torino,  per  cinque  mesi,  nel  1862,  Anch'esso 
venne  a  morire  nelle  Veglie  letterarie  che  Pietro  Dazzi,  sostituito 
quindi  da  Enrico  Montazio,  pubblicava  nello  stesso  tempo  in  Fi- 
renze; ed  una  diecina  forse  di  sonetti  inediti  i  quali  credo  si  po- 
trebbero da  alcun  destro  editore,  con  un  assedio  fatto  con  un  po'  di 
garbo,  ottenere  dalla  amabile  ritrosia  dell'autore.  Cosi  sarebbe  desi- 
derabile che  un  editore  di  grido  provvedesse  aduna  decorosa  ristampa 
del  volume  àa' Bozzetti  Alpini,  divenuto  introvabile  e  dell'altro  Mari- 
ne e  paesi,  che  gli  fa  mirabile  contrasto.  L'uno  ci  dà  in  vero  la  vita 
alpigiana,  l'altro  la  marinaresca;  le  alpi  e  le  marine  della  Liguria 
percorse  il  Revere  con  la  libertà  disinvolta  di  uno  studente  in 
vacanza,  con  la  pratica  degli  uomini  e  delle  cose  che  può 
avere  un  uomo  il  quale  ha  passato  i  quarantanni  imparando  a 
conoscere  tutta  la  vita  a  sue  proprie  spese,  col  sapore  umoristico 
di  uno  Sterne  innamorato  di  Heine,  e  di  un  Heine  nato  in  Ita- 
lia. E  come  si  spiega  qui  ancora  la  destrezza  del  Revere  ad  inve- 
stirsi del  carattere  delle  cose  ora  lette,  ora  osservate  !  come  ei  sa 
far  l'erudito  quando  sì  caccia  tra  i  libri  !  com'egli  é  uomo  del  suo 
tempo  quando  alza  la  testa  per  guardare  in  viso  gli  uomini  !  come 
egli  è  piemontese  a  Torino  !  e  come  si  sente  ch'egli  è  nato  sul 
mare  a  Genova!  E  la  nostra  letteratura  non  aveva  prima  del  Re- 
vere alcun  altro  libro  che  somigliasse  a  questi  Bozzetti  Alpini, 
a  queste  Marine,  a  questi  Paesi,  i  Profili  e  paesaggi  ùìGìm^q^'^q 
Torelli  accennavano  già  al  genere,  ma  non   l'arrivarono.  Le   no- 


-  426  — 
stre  storie  letterarie  non  avevano  ancora  nessun  capitolo,  per 
quest'i  italiani  ReiseUlder  ;  ora  ne  scriveranno  uno  a  posta  pel 
Revere  e  per  i  suoi  imitatori;  non  già  che  il  Revere  ci  abbia 
dato  opera  perfetta;  il  Camerini  gli  ha  già  detto  quello  che  gli 
manca,  né  io  verrò  qui  ad  allargare  un  giudizio  che  vorrei  più 
tosto  restringere;  ma  egli  ha  creato  fra  noi  e  mostrato  possibile 
un  nuovo  genere  letterario,  il  quale  tuttavia  domanda  tanto  mag- 
giore studio  di  forme  eleganti,  e  tanta  maggior  ricchezza  di  pen- 
sieri originali,  quanto  più  ne  appaiono  lievi  i  soggetti. 

I  giorni  più  splendidi  della  Rivista  Contemporanea  di  Torino 
furono  quelli  ne'  quali  vi  scriveva  Giuseppe  Revere.  Aveva  egli 
preso  parte  vivissima  ai  casi  politici  del  1848  e  del  1849.  Durante 
le  cinque  giornate  di  Milano,  lasciato  il  giornale  La  Concordia 
di  Torino,  recavasi  egli  prontamente  sul  Ticino,  aiutatore  di  quei 
moti  gloriosi  che  conferirono  alla  pronta  liberazione  della  città. 
Tenne  quindi  suo  debito  fermarsi  in  Milano,  ove  le  cose  politiche 
pigliavano  indirizzo  diverso  da  quello  che  il  Revere,  uomo  di  fede 
repubblicana,  avrebbe  sperato,  e  vi  conobbe  Giuseppe  Mazzini  ed 
ebbe  parte  neW Ralla  del  Popolo.  Un  anno  innanzi  egli  aveva  pub- 
blicato nella  Rivista  Europea  di  Milano  una  narrazione  storica 
sulla  Cacciata  degli  SpagnuoH,  lavoro  ch'egli  aveva  dovuto  inter- 
rompere a  cagione  delle  molestie  che  gli  venivano  dalla  revisione. 
Nello  stesso  anno,  il  Revere  aveva  pure  composto  in  robusti 
sciolti  un  carme  politico  intitolato  Marengo,  per  la  statua  di  Na- 
poleone che  dovea  rizzarsi  sulla  pianura  di  tal  nome,  ma  ei  non 
potè  pubblicarsi  se  non  nel  1848  a  Milano.  In  Milano,  il  Revere 
fu  con  Pietro  Maestri  e  Carlo  Cattaneo  fra  quelli  che  sottoscris- 
sero la  protesta  contro  la  fusione  col  Piemonte,  prima  che  fosse 
compiuta  la  liberazione  della  Lombardia.  Il  giorno  della  tornata 
degli  austriaci  il  Revere  fu  costretto  a  lasciar  Milano  e  riparare 
col  Maestri  nella  Svizzera.  Di  là  corse  a  Venezia,  ov'  egli  ebbe 
qualche  dissidio  politico  con  Manin,  che  lo  forzava  ad  andarsene, 
insieme  con  altri  compagni,  dichiarando  nella  sua  Gazzetta  come 
quell'allontanamento  non  offendeva  punto  il  patriottismo  di  que- 
gli italiani,  ma  richiedevasi  perchè  la  loro  politica  pareva  sover- 
chiamente audace  ;  poi  lo  stesso  Manin  lo  richiamava  da  Ravenna. 
Da  Venezia  il  Revere  accorreva  in  Toscana,  e  di  qua  a  Roma 
minacciata  dall'  intervento  francese;  e  vi  rimaneva  fino  alla  caduta 
della  città.  Rifugiavasi  quindi  a  Genova,  ove,  a  motivo  degli  umori 
che  serpeggiavano  per  la  città  e  delle  opinioni  repubblicane  del 
poeta  triestino,  il  Revere  non  era  dal  governo  accolto  con  sover- 


—  427  — 
chia  amorevolezza;  passò  alcun  tempo  a  confino  in  Susa,  fin  che 
potè  nel  1851  fare  ritorno  a  Torino,  dov'ei  non  ebbe  più  a  soffrire 
molestia  alcuna.  Ed  a  Torino  pubblicò  tosto  i  suoi  fieri  sonetti 
politici  /  Nemesii,  preceduti  da  una  prefazione  nella  quale  ei  ra- 
gionava con  eloquenza  delle  condizioni  dei  suoi  tempi  e  di  quelle 
della  poesia.  Dettava  poco  dopo  alcuni  versi  in  morte  del  prode 
soldato  Giuseppe  Lions,  e  dava  principio  ad  un  suo  poema  in 
isciolti  intitolato:  Giovanni  da  Grado  ,  che  non  vide  ancora  la 
luce,  e  di  cui  alcuni  frammenti  appena  furono  pubblicati  nella 
Rivista  Contemporanea  di  Torino.  Ma  non  furono  gli  sciolti  che 
diedero  fama  al  Revere,  e  che  crebbero  pregio  alla  Rivista  tori- 
nese quand'ei  vi  scrisse  ;  lo  sciolto  del  Revere  è  pieno  di  senso 
e  spesso  anche  di  vigore,  ma  esso  ha  di  rado  quell'ondeggiamento 
armonioso  e  solenne  che  gii  dà  tanta  maestà  e  tanta  attrattiva 
quando  è  lavorato  con  piena  maestria  ;  il  Revere  che,  talvolta,  per 
eccessivo  studio  di  toscana  eleganza,  non  solo  adorna,  ma  orpella 
la  sua  prosa,  nella  poesia  ed  in  ispecie  nello  sciolto  sdegna  alcuna  volta 
di  elevare  le  parole  all'altezza  de'  suoi  pensieri  e  de'  suoi  sentimenti, 
così  che  gli  accade  talora  d'ingenerare  un  poco  di  monotonia,  di 
stemperare  soverchiamente  i  suoi  colori,  di  sminuire  i  suoi  effetti: 
costretto  però  nella  brevità  serrata  del  sonetto,  lo  aguzza  come  frec- 
cia, e  s'abbandona  però  meno  oziosamente  a  quegli  agi  che,  vinti, 
rendono  lo  sciolto  il  più  diiHcile,  come  secondati,  lo  fanno  invece 
sembrare  il  più  comodo  dei  versi  italiani.  La  fortuna  della  Rivista 
Contemporanea  fecero  invece  alcuni  saporitissimi  Procacci  di  To- 
rino ch'egli  scriveva  mensilmente  sotto  lo  pseudonimo  di  Cecco 
d'Ascoli,  pieni  di  notizie,  ma  più  di  sali,  eruditi  e  non  pesanti, 
briosi  e  non  leggeri,  mordaci  e  non  villani.  La  Rivista  Contempo- 
ranea contava  in  quegli  anni,  tra' suoi  scrittori,  filosofi  come  il  Ro- 
smini ed  il  Mamiani,  critici  come  il  Tommaseo,  il  De  Sanctis,  il  Cop- 
pino;  ma,  senza  far  torto  ad  alcuno  di  questi  nomi  gloriosi,  si  può 
affermare  che  la  lettura  più  gradita  erano  gli  scritti  umorìstici  del 
Revere,  che  insieme  coi  Procacci  di  Torino  alternava  la  pubbli- 
cazione di  altri  due  lavori  di  maggior  conto  7  Bozzetti  Alpini  e  Le 
Mem,orie  di  Anacleto  Diacono  che  rimasero  interrotte.  Nessuno  ave- 
va prima  del  Revere  e  meglio  diluì  rappresentati  alcuni  de'caratteri 
più  curiosi  della  vita  piemontese  ;  certe  scene  de'  costumi  torinesi 
e  delle  valli  pedemontane  sono  da  lui  sorprese  e  riprodotte  sul  vivo. 
Così,  tornato  il  Revere  a  Genova  nel  185G,  percorsa  la  riviera 
ligure,  egli  con  lo  stesso  vivace  pennello  coloritore  e  con  la  stessa 
malizia  umoristica  ed  ironia  lacrimosa  od  elegia   scherzosa  ci  dà 


—  428  — 
i  quadri  della  vita  del  Genovesato;  quadri  senza  cornice;  poiché 
vi  s'incomincia  a  parlare  dell'ardito,  gagliardo  genovese,  e  si  fi- 
nisce col  pompeggiarvi  tutta  la  maestà  sovrana  dell'  uomo,  s' in- 
comincia ad  esaminarvi  un  minuto  insetto  o  mollusco  ignorato  e 
si  termina  col  magnificare  gli  splendori  di  tutta  la  creazione; 
quadri  mobili  come  la  fantasia,  come  la  vita  vagabonda  del  poeta, 
nato  con  l'istinto  più  naturale  all'uomo,  con  l' istinto  della  libertà, 
e  liberamente  vissuto;  egli  potè  quindi  riuscire  anco  liberissimo 
scrittore,  e,  nella  piena  libertà  de'suoi  moti,  trovar  forme  originali, 
e  renderle  classiche  prima  che  popolari  nella  nostra  letteratura. 
Gioverebbe  ora  nondimeno  che  alcun  ministro  avveduto  e  sa- 
piente della  pubblica  istruzione,  con  queir  arte  discreta  che  sa 
vincere  anco  la  ritrosia  de'più  schivi,  s'adoperasse,  poiché  il  Re- 
vere è  in  Roma  a  trattenerlo  in  qualche  ufficio  al  quale  ei  non 
potesse,  senza  parer  cattivo  cittadino,  rifiutarsi.  Un  Governo 
provvido  andrebbe  esso  stesso  in  traccia  degli  uomini  che  hanno 
meglio  onorato  con  le  opere  dell'ingegno  la  patria,  per  far  loro 
spontanea  dimostrazione  di  onore,  né  già  soltanto  con  vani  cion- 
doli, (il  Revere  fu,  in  quest'anno,  nominato  commendatore) 
ma  provvedendo  agli  agi  della  loro  età  provetta  con  valersi 
de'loro  preziosi  consigli.  Io  mi  sono  già  meravigliato  che  un 
Guerrazzi,  ed  un  Selvatico  non  sedessero  ancora  Consiglieri  presso 
il  Ministero  della  pubblica  istruzione;  la  stessa  meraviglia  mi  reca 
il  non  vedere  nel  Consiglio  stesso  un  Cantù,  un  Tommaseo,  un 
Revere,  ed  altri  tra  i  piìi  benemeriti  nostri  vecchi  scrittori.  E  a 
questo  proposito,  considerando  l'importanza  e  quasi  l'onnipotenza 
che  ha  oramai  acquistata  il  Consiglio  superiore  nel  Ministero 
della  pubblica  istruzione,  e  la  misera  retribuzione  che  vi  ricevono 
i  pochi  e  ben  degni  Consiglieri,  (gli  uni  mille  e  gli  altri  due 
mila  lire  all'anno)  mi  permetterei  un  duplice  voto,  perché  il  nu- 
mero presente  de' Consiglieri  fosse  almeno  accresciuto  del  doppio, 
e  perchè  il  loro  stipendio  fosse  alquanto  piìi  decoroso  e  conve- 
niente alla  suprema  dignità  dell'utticio.  Sovra  diciannove  milioni 
di  lire  che  si  spendono  attualmente  per  la  pubblica  istruzione 
quando  si  destinasse  un  modesto  centinaio  di  mila  lire  pel  Con- 
siglio superiore,  tribunale  ora  d' appello,  ora  di  cassazione  per 
le  diverse  questioni  che  s'agitano  nella  pubblica  istruzione,  nes- 
suno griderebbe  al  certo  contro  lo  sperpero  del  pubblico  da- 
naro, e  s' avrebbero  solamente  Consiglieri  più  assidui,  più  ope- 
rosi oltre  che  il  loro  numero  essendo  accresciuto,  gli  ufiicii 
sarebbero  assai  meglio  distribuiti,   mentre,    invece,   al    presente. 


—  129  — 
0  un  solo  consigliere  è  invitato  a  riferire  sopra  stiidii  eh'  egli 
non  ha  mai  fatto,  o  pure  il  Consiglio  è  obbligato,  per  difetto 
di  competenza,  a  scaricare  gran  parte  del  suo  lavoro  sopra 
persone  estranee  al  Consiglio  stesso,  mancandosi  cosi  ad  ogni 
maniera  di  convenienze,  poiché  si  usurpa,  con  nessuna  delica- 
tezza, il  tempo  degli  studiosi  e  si  pubblicano  i  segreti  del  Con- 
siglio. Nel  Consiglio  invece,  perchè  avesse  vera  competenza  ed 
autorità,  ogni  ordine  anco  specialissimo  di  studii  dovrebbe  essere 
degnamente  rappresentato;  e,  come  per  la  lirica  il  Prati  e  l' Aleardi 
vi  siedono  ora  giudici  autorevolissimi,  cosi  il  Revere,  il  Giaco - 
metti  ed  il  Gherardi  Del  Testa  dovrebbero,  per  quanto  me  ne 
sembra,  giudicarvi  di  cose  drammatiche;  ed  ogni  altro  ordine  spe- 
ciale di  studii  meriterebbe  l'onore  d'essere  rappresentato  con  pari 
dignità.  Quando  il  Consiglio  superiore  fosse  in  tal  modo  costi- 
tuito diverrebbero  superflue  tutte  quelle  speciali,  spesso  va- 
nissime,  commissioni  aggiudicatrici  di  premii  per  concorso  ;  le 
quali  pullulano  in  quasi  ogni  Città  di  Italia,  e  nel  seno 
stesso  del  Consiglio  superiore  si  costituirebbe,  secondo  le  op- 
portunità, ogni  commissione,  composta  d'uomini  i  quali  avreb- 
bero lunga  pratica  delle  materie  sopra  le  quali  dovrebbero  portar 
giudicio  e  nomi  superiori  ad  ogni  invidia.  Io  m'  auguro  che  un 
futuro  ministro  della  pubblica  istruzione  renda  pago  questo  voto, 
dal  compimento  del  quale  mi  riprometterei  grandi  vantaggi  per 
maggior  decoro  delle  scienze,  delle  lettere  e  delle  arti  fra  noi. 
Intanto  amerei  che  il  Revere  fosse  fin  d'ora  chiamato  a  far 
parte  del  Consiglio  superiore,  perchè  non  tardasse  oltre  a  servir 
dell'  opera  sua  prestante  queir  Italia  redenta  a  libertà,  alla  quale 
nel  tempo  dell'  oppressione  la  parola  di  lui  scritta  o  parlata 
aveva  servito  di  stimolo  potente  ad  insorgere.  Lo  scetticismo 
si  vince,  in  gran  parte,  col  calore  dell'  opera;  il  riposo  prolun- 
gato cagiona  freddezza;  e  sebbene  il  riposo  del  Revere  sia  grave 
di  pensieri,  e  possa  maturare  nel  tempo  opere  gagliarde,  mag- 
gior consolazione  ci  darebbe  il  vivere ,  poiché  gli  anni  non 
sembrano  ancora  dargli  peso,  un  campione  così  poderoso  im- 
pegnato in  battaglia  viva  e  continua  contro  i  pregiudizi!,  gli 
errori,  le  piccole"  e  le  grandi  viltà  del  tempo.  È  sempre  utile 
il  contemplare  un  uomo  che  sa  tenersi  dritto  fra  tanta  mol- 
titudine che  si  piega  al  soffiare  de' venti;  che  serba  genti- 
lezza e  dignità  nella  forza;  che  sdegna  il  plauso  volgare ^  i 
facili  guadagni,  i  facili  compromessi  ed  ogni  maniera  di  caricature 
sia  nella  vita,  sia  nell'arte  che  la  deve  rappresentare.  Egli  adora 


-  430  — 
la  libertà  ed  il  vero;  simili  adoratori  fanno  agevolmente  paura 
ai  trafflcatori  di  piccole  bugie,  le  quali  sono  poi  le  mamme  delle 
grandi,  ed  a  quei  sapientoni  che  e'  insegnano  l'arte  costituziona- 
le, io  vorrei  quasi  dire  paolotta,  di  ceder  sempre,  troppo  simili 
a  que'  giunchi,  i  quali  oggi  si  lasciano  piegare  per  ogni  verso  e 
domani  si  trasformano  in  ignobile  verga  flagellatrice.  Il  Revere 
rimase  quasi  solo  ai  duri  travagli  in  mezzo  a  tanta  coramodità 
di  nuova  vita;  parecchi  de'suoi  amici  che  la  fortuna  secondò  ed 
ai  quali  essa  diede  molta  vernice,  che  par  lustro,  provano  ora  al  • 
cun  imbarazzo  nel  cospetto  d'  un  uomo  eh'  essi  sentono  quanto 
valga  più  di  loro,  che  ha  fatto  tanto  per  la  patria  e  che  rimase 
modestamente  a  terra,  mentre  essi,  enfiati  palloni,  sono  saliti  a 
pompeggiarsi  nell'Olimpo.  E  nessuno  di  essi  diedesi  briga  d'invi- 
tarlo all'  opera.  E  pure,  se  l' Italia  ha  uopo  d'  alcuna  cosa,  essa 
parmi  abbisognare,  sovra  tutto,  di  cittadini  e  di  scrittori  come  il 
Revere,  di  cittadini  che  dimentichino  i  loro  privati  vantaggi  e 
mantengano  fede  alla  fede  che  hanno  data  alla  patria,  di  scrittori 
originali  che  sacrifichino  ancora  al  vero  ed  al  bello,  e  non  de- 
pongano un  istante  il  pensiero  che  le  lettere  o  non  hanno  ad 
essere  o  devono  avere  una  virtù  educatrice.  Coi  burattini  e  coi 
saltimbanchi  si  può  far  ridere  e  divertire  la  platea;  nessuno  lo 
pone  in  dubbio;  ma  l'arte  in  mezzo  a  loro  s'arresta  e  si  vela  per 
pudore.  Que' realisti  impudichi,  i  quali  vorrebbero  che  l'arte  di- 
cesse tutte  le  iniquità  che  passano  loro  per  la  mente  e  che  si 
ridono,  o  giovani,  del  vostro  ideale,  se  non  sono  già  tali,  potreb- 
bero anche  riuscir  pessimi  cittadini,  nella  loro  stupida  indifferenza 
ad  ogni  gloria,  ad  ogni  grandezza  paesana,  ad  ogni  progresso 
civile.  Giova  pertanto  guardarcene  e  stringerci  invece  fortemente 
intorno  a  que'  pochi  veri  sacerdoti  dell'arte  ogni  parola  de'  quali 
può  essere  per  noi  animatrice  di  estri  fecondi  o  di  opere  genero- 
se; il  Revere  è  uno  di  que' pochi  sacerdoti  superstiti;  ripigliamo 
in  mano  i  troppo  dispersi  suoi  scritti  e  preghiamo  cha  il  bello  e 
fiero  Iddio  della  sua  giovinezza  torni  presto  a  ridestarlo  al  fu- 
rore dell'  opera. 


XXX. 


GIOVANNI  PRATI. 


Se  della  gloria  di  Giovanni  Prati  si  dovesse  argomentare  dalle 
sole  vituperose  parole  che  ne  scrissero  i  gazzettieri^  nessuna  gloria 
ilovrebbe  forse  apparire  più  incerta  e  più  discussa  di  quella  del  poeta 
di  Dasindo.  Ma,  per  fortuna,  le  gazzette  hanno  la  vita  d'un  giorno, 
(né  si  chiamano  inutilmente  effemeridi)  e,  per  quattro  livree  sca- 
vezzate recalcitranti  all'  uomo  che  ne  ha  talora  vergheggiato  a 
sangue  il  dosso  inverecondo,  non  vi  fu  alto  ingegno  in  Italia 
che  non  abbia  nell'  età  nostra  onorato  il  Prati,  né  vi  è  lettore 
delle  opere  di  lui,  che,  terminata  la  lettura,  non  abbia  sentito 
in  sé  alcuna  fiamma  di  quel  sacro  fuoco  febeo  che  accende  il 
genio  del  Prati  e  che  gli  assicura,  senza  contrasto,  il  primo  posto 
fra  i  nostri  lirici  viventi.  Io  so  che  il  Manzoni  soleva  dire  come 
tra  i  poeti  d'Italia  il  Prati  era  quello  che  aveva  maggior  vena  e 
potenza;  lo  pregiavano  pur  molto  Giuseppe  Giusti,  Giuseppe  Mon- 
tanelli, Luigi  Carrer,  Giovanni  Berchet,  Silvio  Pellico,  Cesare 
Balbo,  Giuseppe  Barbieri,  Andrea  Cittadella  Vigodarzere,  Filippo 
Cordova,  per  tacer  de' vivi;  e  conviene  veramente  avere  anneb- 
biato l'intelletto  o  l'animo  malvagio  per  negare  all'ingegno  del  Prati 
una  virtù  sovrana.  All'ingegno  ho  detto;  avrei  pur  voluto  dire  all'a- 
nimo. Ma  noi  posso  intieramente;  non  volendo  nascondere  la  ragione 
che  armò  contro  di  lui  le  ire  de'suoi  contemporanei  e  che  le  fece  poi 
crudelmente  ingiuste.  La  opinione  che  s' ha  dell'  uomo  nocque  un 
poco  a  quella  che  si  deve  avere  del  poeta.  Non  che  l'uomo  sia  quale 
una  stupida  tradizione  lo  va  predicando  da  molti  anni  ;  che  già 
fin  dall'aprile  del  1843,  il  Pellico  scriveva  da  Torino  al  conte  Luigi 


Porro:  «  Il  merito  poetico  di  Prati  é  qui  valutato  da  molti,  ma 
gli  ha  altresì  suscitato  fra  i  letterati  alcuni  nemici  acerrimi  (tra 
questi  ricordo  come  uno  de'più  maledici  il  poeta  Felice  Romani).  Co- 
storo hanno  la  bassezza  di  far  circolare  versi  anonimi  contro  di 
lui,  pieni  non  di  critiche,  ma  di  accuse  turpi  ».  Io  ho  già  teiitato 
ribattere  le  indegne  accuse  in  una  specie  d'inno  biografico  giova- 
nile che  pubblicai  in  onore  del  Prati  nell'anno  1861,  nella  raccolta 
dei  Contemporanei  italiani  del  Pomba;  né  mi  giova  qui  insistervi. 
Cosi  parmi  che  siasi  indegnamente  abusato  in  Italia  della  qualità 
che  serba  il  Prati  di  poeta  cortigiano  per  accusarne  la  viltà  come 
cittadino,  mentre  una  cosa  sola  è  a  deplorarsi  che  l'Italia  redenta 
non  redima  il  poeta  dall'ufficio  di  cantare  tuttora  ufficialmente  pt;r 
la  corte,  invece  di  lasciarlo,  come  poeta  nazionale,  cantare  libera- 
mente inspirato  le  speranze  e  le  glorie  della  sua  patria  risorta. 
Finché  non  vi  era  una  patria  indipendente,  non  solo  non  doveva 
parere  indecoroso,  ma  utile  e  bello  che  un  poeta  osasse  far  suo- 
nare liberi  canti  nella  dispotica  Reggia  sabauda,  per  ricordarle 
ch'essa  era  chiamata  alla  liberazione  d'Italia.  Non  dimentichiamo 
che  il  Prati,  fin  dal  1843,  quando  il  re  Carlo  Alberto  era  ancora 
nelle  mani  de'  potenti  gesuiti,  incaricato  di  scrivere  versi  per  una 
fanfara  militare,  v'inseriva  già  queste  ardite  profetiche  strofe  : 

Tutti  all'Alpe  e  sul  Ticino, 

Ci  raccolga  un  tal  peusier; 

«  Carlo  Alberto  e  il  suo  destino  » 
<      Sia  la  voce  del  guerrier. 
Tutti  Siam  d'un  sol  paese. 

Solo  un  sangue  in  noi  traspar; 

A  ogni  tromba  piemontese 

Mandi  un  eco  e  l'alpe  e  il  mar  ! 

E  il  Prati  non  perdette  quindi  alcuna  occasione  per  raccoman- 
dare ne' suoi  canti  l'Italia  ai  principi  Sabaudi;  tutto  il  volume 
de'  suoi  Canti  Politici  basta  a  provarlo.  Una  sola  insigne  mala 
fede  potrebbe  quindi  mettere  il  Prati  in  voce  di  volgar  menestrello 
di  corte  (1).  Ma  s'ei  fu  calunniato  dalla  rabbia  delle  parti  politiche 


(1)  Errori,  per  difetto  di  tatto  politico,  ei  n'iia  pure  commessi,  non 
già  per  poca  italianità  di  sentimenti  ;  io  mi  dolsi  già  di  lui  per  un  canto 
contro  Felice  Orsini:  intendo  ora  che  nel  Trentini  non  si  perdona  al 
Prati  un  suo  brindisi,  in  onore  dell'Imperatore  d'Austria,  fatto  o  per 
dir  meglio  voluto  fare  nell'ultimo  suo  viaggio  in  patria;  non  già  che  non 


—  433  ^ 

avverse  a  quella  ch'ei  segue  di  suo  buon  diritto,  ne  deve  pure 
in  molta  parte  incolpare  sé  stesso.  Non  le  sue  opinioni,  ma  il 
modo  superbo  e  intollerante  con  cui  egli  le  manifestava,  lo  fecero 
nel  1848  in  Firenze  segno  all' insulto  de' demagoghi  toscani;  e,  se 
non  lo  salvavano  e  non  lo  soccorrevano  in  più  modi  alcuni  gene- 
rosi amici  (Emilio  FruUani  vuol  esser  ricordato  tra  gli  altri)  ei 
non  avrebbe  potuto  al  certo  riparare  in  Piemonte.  Cosi  non  ci  fa 
più  meraviglia  la  feroce  ingiuria  che  fece  al  nome  del  Prati  il 
celebre  attore  Gustavo  Modena,  quando  ci  è  noto  che  il  primo 
provocatore  dell'insulto  era  stato  il  Prati  stesso,  con  una  strofa 
epigrammatica,  così  disinvolta,  come  ingiusta  e  offensiva  per 
l'illustre  e  povero  artista  repubblicano  al  quale  essa  era  stata 
'liretta: 

Repubblica  tu  sudi 

Da  capo  fino  ai  pie  ; 

Ma  in  forza  degli  scudi 

T'adatti  a  far  da  re. 

Fu  già  pubblicata  la  risposta  sanguinosa  del  terribile  Modena: 
«  Raffaello  dipinse  Giuda  sulla  tela.  Alfieri  scrisse  in  versi  per 
la  scena  il  Filippo  li;  Milton  dipinse  il  diavolo  ed  il  peccato  ;  io 
dipingo  sulla  scena  re  e  pitocchi,  buoni  e  cattivi  ;  e  se  un  poeta 
mi  dà  a  rappresentare  una  spia,  un  ruffiano,  un'anima  venduta, 
dipingo  Prati  stesso:  e  che  perciò?  Tanto  si  attaccherà  a  me  di 
Prati  quanto  di  Giuda  a  Raffaello  ».  Ad  un  errore  un  eccesso,  ad 
un  motto  offensivo  un  libello  caUinnioso.  E  di  questi  supplizii  fu 
più  volte  vittima  l'orgoglio  del  Prati,  il  quale,  invece  di  trarne 
occasione  a  mortificare  alquanto  la  sua  selvaggia  natura,  se  ne 
inviperì,  e  lanciò  nuovi  e  più  ardenti  strali  che  gli  suscitarono  sul 
ca[)0  sempre  nuove  e  più  fiere  tempeste.  Poiché,  mentre  egli,  in 
fin  dei  conti,  dava  sfogo  ad  umori  improvvisi,  che  gli  serpeggia- 
vano nelle  vene,  e  imprecava  più  per  uno  slancio  poetico  di  elo- 
quenza sdegnosa,  che  per  animo  deliberato  di  ferire  alcuno  nei 
visceri  vitali,  i  suoi  nemici  colpiti  che  n'avevano  appena  sfiorata 
la  pelle  raccoglievansi  in  ordine  di  battaglia  e,   strette   le  file,   e 


si  possa  ancj  fare  da  un  italiano  elio  n'abbia  molta  voglia  un  brindisi 
ad  un  principe  austriaco,  quantunque  simili  superfluità  non  ci  sembrino 
degne  d'un  grande  poeta;  ma,  perchè  veramente  un  poeta  tridentino  a 
Trento  è  l'ultimi  persona  da  cui  si  dovrebbe  aspettare  un  brindisi  per 
un  sovrano  d'una  terra  che  moralmente  non  gli  appartiene. 

Ricordi  Biografics  28 


—  434  — 
avvelenate  le  punte  delle  loro  spade,  insidiavano  ad  ogni  passo 
della  vita  del  poeta,  e  gli  portavano  via  qualche  brandello  di  cuore 
lacerato.  Compiangiamo  la  intrattabile  superbia  dell'uomo,  ma 
guardiamoci  dal  negare  ammirazione  al  poeta,  e,  se  conosciamo 
l'uomo  assai  dappresso,  non  neghiamo  amore  anco  a  questo;  poi- 
ché, sotto  la  ruvida  scorza,  il  Prati  ha  buono  il  cuore  ed  anima 
spesso  cosi  semplice  ed  ingenua  che  si  direbbe  di  fanciullo.  Non 
l'oro,  non  il  fasto,  non  la  pompa  de'  titoli  lo  tenta;  e  per  quanto 
egli  abbia  voce  di  poeta  cortigiano,  io  affermo  ch'egli  disse  il  vero 
quando,  nelle  sue  strofe  a  Postumo  cortigiano,  cantò: 

Poco  il  mio  cor  desia, 
Né  cederei,  tei  giuro. 
Questa  celletta  mia 
Per  la  magion  d'un  re: 

com'ei  dipinge  al  vivo  il  suo  costume  domestico  quando  prosegue: 

Io  facile  mi  stendo 
In  larghe  giubbe  oneste. 
,        4  Che  logore,  poi  vendo 

Al  figlio  d'Israel. 

Chi  l'ha  visto  in  casa  sua  sdraiato  sovra  una  comoda  poltrona, 
nell'ampia  veste  da  camera,  fumare  e  sognar  versi,  lo  riconosce, 
come  anche  in  queste  altre  due  strofette  che  Orazio  e  Parini  non 
avrebbero  forse  sdegnate: 

D'ogni  potente  albergo 

Tu  penetri  le  soglie 

Col  direpato  tergo 

E  l'anima  servii; 
Me  libero  la  nuda 

Mia  cameretta  accoglie . 

Col  buon  pensier  che  suda 

Sul  renitente  stil. 

La  biografia  del  Prati  non  tornerò  qui  a  scrivere,  poich'io  l'ho 
già  scritta  distesamente  nel  1861,  e  poiché  parve  al  Prati  stesso 
abbastanza  esatta  da  meritare  ch'egli  rimandasse  volentieri  ad 
essa  quanti  lo  richiesero  quindi  d'Italia  e  di  fuori,  per  alcuni 
cenni  autobiografici;  mi  contenterò  qui  pertanto  di  riassumerne  le 
principali  notizie,  aggiungendo  qua  e  là  quel  poco  di  più  che  ora 


—  435  — 
mi  rimane  a  dire.  Giovanni  Prati  nacque  di  nobile  ed  agiata  fa- 
miglia in  Dasindo  piccolo  villaggio  delle  Giudicarle  nella  valle 
del  Sarca,  nel  Trentino,  il  27  gennaio  1815.  Suo  padre  ebbe  nome 
Carlo;  sua  madre  Francesca  Manfroni  di  Monforte  era  figlia  di  me- 
dico valente  e,  per  quanto  me  ne  disse  in  Firenze,  or  volgono  quattro 
anni,  lo  stesso  Prati,  era  l'ultima  discendente  di  quella  famiglia  dei 
Savonarola,  dalla  quale  ora  uscito  il  celebre  frate  Gerolamo.  Fan- 
ciullo, Giovanni  Prati  intese  parlare  della  prigionia  di  Silvio  Pel- 
lico allo  Spielberg  e  dice  averne  provata  un'impressione  dolorosa 
e  viva  ;  per  gli  studii  ginnasiali  fu  mandato  a  Trento,  ove  riportò 
sempre  nelle  classi  il  primo  premio;  ma  il  più  egli  apprese  da  sé, 
nella  lettura  di  Plutarco,  Virgilio  e  Dante,  e  nelle  sue  corse  au- 
tunnali sui  patrii  monti,  cacciatore  di  camosci  ed  esploratore  di 
mondi,  ora  sprofondato  nelle  nebbie  del  cielo  germanico^  ora  tutto 
rapito  nei  lapislazuli  del  cielo  d'Italia.  Più  in  su,  egli  si  perdeva 
nella  contemplazione  di  Dio,  in  cui  i  religiosi  parenti,  e  alcuni 
casi  particolari  della  vita,  che  gli  parvero  provvidenziali,  ne'  quali 
egli  scampò  da  morte  imminente,  gli  avevano  insegnato  a  credere. 
Perciò  il  canto  di  lui  fu  pio,  ed  egli  desiderò  pure  che  ogni  va- 
loroso poeta  credente  cantasse;  perciò  rivolto  in  una  sua  bella 
poesia  al  Bertoldi  che  un  giorno  aveva  tentato  gli  estri  del  Prati, 
egli  alla  sua  volta  svegliava  il  genio  dormente  del  gentile  poeta 
piemontese  : 

Ma  tu,  se  una  speranza 

De'  miei  terror  più  intensa 

Nel  casto  cor  ti  avanza, 

È  Dio  che  te  la  dà; 
Quel  gran  tesor  dispensa 

Con  invincibil  fede; 

Forte  è  il  pensier  che  crede 

Più  del  pensier  che  sa. 

A  quindici  anni,  il  Prati  aveva  terminati  i  suoi  primi  studii  e 
lasciava  il  collegio  di  Trento,  ove,  lui  partito,  e  venuto  quindi  in 
gran  fama,  gli  antichi  reverendi  padri  maestri  ebbero  cura  di 
mettere  in  ordine  in  un  ricco  e  distinto  album  i  componimenti 
scolastici  latini  ed  italiani  del  loro  ex-discepolo  divenuto  glorioso; 
il  Prati  scrive  tuttora  con  eleganza  virgiliana  il  latino,  come  nella 
lirica  italiana  egli  non  ha  emuli.  Nel  novembre  del  1830,  Giovanni 
Prati,  per  consentire  al  desiderio  paterno,  recavasi  all'Università 


—  43<^  — 
di  Padova,  a  fine  di  attendervi  allo  studio  delle  leggi.  Ma  più  che 
alla  legge  vi  attese  agli  amori  ed  ai  carmi.  A  19  anni,  egli  ri- 
tornava nella  valle  nativa,  con  titolo  di  dottore  in  utroque,  senza 
valore,  e  con  valore  stupendo  di  poeta,  senza  titolo.  Intorno  a 
quegli  anni  o  poco  più  in  qua  risale  pure,  se  ho  ben  letto  in 
un'antica  bibliografia,  una  novella  in  prosa,  che  il  Prati  pubblicava 
in  una  strenna  padovana,  e  che  si  vorrebbe  ora  veder  rimessa  in 
luce  da  qualche  diligente  ricercatore  di  rarità  bibliografiche.  Il 
giovine  dottore  sposavasi  al  suo  ritorno  in  patria  ad  Elisa  Bassi 
di  Trento,  ch'egli  aveva  conosciuta  presso  Dasindo,  ove  la  gentile 
giovinetta  soleva  recarsi  negli  autunni  a  villeggiare  con  la  sua 
famiglia.  Il  29  maggio  1839,  il  Prati  perdeva  la  sua  compagna, 
che  lasciavalo  padre  di  un'unica  figlia,  Ersilia.  Egli  pianse  ama- 
ramente in  bellissimi  versi  quella  morte  immatura;  ma  intorno 
a  sé,  invece  di  voci  di  compianto,  ebbe  il  dolore  di  veder  crescere 
e  propagarsi,  svegliata  da'  suoi  nemici,  una  nera  calunnia  che  lo 
faceva  iniquamente  complice  di  quella  sventura  (1).  Usci  sconsolato 


(1)  Il  Prati  allude  a  quelle  reità  in  due  sue  strofe: 
Uno  inventò  la  favola, 
Un  altro  la  dilluse; 
Chi  sparse  il  monosillabo, 
Chi  pronto  lo  conchiuse, 
E  dietro  al  dalli  dalli 
Gl'insulsi  pappagalli 
Sul  trivio  ancor  cinguettano 
Le  ree  stupidità. 
Sino  frugar  nel  tumula 
Dove  tu  dormi,  Elisa, 
E  ti  compianser  vittima 
Da'  miei  tormenti  uccisa  ; 
Sorgi  dall'erma  bara 
Ombra  sdegnata  e  cara 
E  del  compianto  ipocrita 
Possa  arrossir  chi '1  fa. 

Alia  morte  della  prima  moglie  del  Prati    era  presente   Giuseppe   Bar- 
bieri; il  Prati  lo  ricorda  in  un  sonetto  dedicato  allo  stesso  Barbieri: 

Ti  rammenti  quel  dì,  p  irmi  pur  ieri  ; 
Che  tu  piangendo  mi  serravi  al  petto, 
Quando  frammezzo  ai  lugubri  doppieri 
Siedea  la  morte  al  maritai  mio  letto;* 


—  437  — 

dal  suo  Trentino,  e  chiese  ai  carmi  conforto;  parecchi,  i  più  belli, 
de'  suoi  Canti  Lirici,  sono  di  quel  tempo.  Seguiva  quindi  La  Ed- 
menegarda.  Un  luttuoso  caso  avvenuto  in  Venezia,  del  quale  Ilde- 
garde  Manin,  la  sorella. di  Daniele,  era  l'eroina  e  la  vittima,  diede 
il  soggetto.  Ne  uscì  il  più  patetico  e  più  elegantemente  mosso  dei 
poemi  che  la  musa  di  Byron  abbia  inspirato  ai  poeti  d'Italia.  La 
Edmenegarda  è  tutta  un'onda  d'armonia,  di  poesia,  d'affetto,  dai 
primi  versi  : 

Per  le  vie  più  deserte,  in  doloroso 
Abito  bruno  e  con  un  vel  sugi'  occhi 
Passa  la  bella  Edmenegarda... 

fino  alla  lettera  d'Arrigo,  con  la  quale  si  termina  moralmente  il 
pietoso  racconto,  la  lettura  del  quale  appassionò  allora  molte  fan- 
ciulle, mise  la  pace  fra  molte  pareti  domestiche,  confortò  molti  pri^ 
gionieri  di  Stato,  e  fu  cagione  soltanto  di  una  mezza  rivoluzione 
nel  seminario  di  Milano,  ove  i  giovani  chierici  s'  erano  sollevati 
contro  il  loro  rettore  che  avea  loro  negata  la  lettura  deW'Edme- 
ìiegarda,  onde  fu  mestieri  aver  ricorso  per  la  licenza  all'autorità 
sovrana  dell'  arcivescovo  di  Gaisruk.  (1)  Nella  prefazione  che  un 


M'usciano  allor  nel  delirante  affetto 
Disperate  parole,  empi  pensieri  : 
E  in  quel  cieco  insanir  dell'intelletto. 
Unico  e  pio  consolator  tu  m'eii. 

(1)  La  sua  prima  vita  poetica  il  Prati  descrisse  vivacemente  nel  com- 
ponimento La  mia  cronaca  di  Poeta,  ov'egli  ci  fa  sapere  che  il  Man:^oni, 
il  Torti,  il  Grossi  furono  padrini  dell'  Edmenegarda: 

Senza  sentir  più  redine, 

Senza  voler  più  freno 

Corsi  a  Milan  col  rotolo 

Di  Edmenegarda  in  seno, 

E  a  ricercar  mi  mossi 

Manzoni,  il  Torti,  il  Grossi, 

E  assunto  al  tabernacolo 
.  Fissai  la  trinità. 
Ed  ella  austera  e  candida 

Come  le  sante  cose, 

Al  novo  catecumeno 

Covò  le  prime  rose. 


—  438  — 

valente  critico  scrisse  all'  edizione  milanese  delle  Opere  edite'  ed 
inedite  di  Giovanni  Prati  (1)  leggo  quanto  segue:  «  Quando  uscì 
r  Edmenegarda,  sgorgata,  direi  cosi,  più  dal  cuore  degli  amanti 
che  dal  labbro  del  poeta,  il  Correnti,  che  s' infervora  facilmente 
alle  parvenze  del  bello,  scontratosi  nel  Tenca,  giovine  allora  come 
il  Prati,  gli  disse  Hàbemus  pontiflcem;  al  che  il  Tenca,  meno 
impressionabile  e  già  scrutante  le  ragioni  dell'ammirazione  este- 
tica, rispose:  Neppur  per  ombra.  E  in  un  giornale  di  mode  egli 
si  mise  a  notomizzare  la  passione  o  la  poesia  che  più  rifuggono 
dal  coltello.  Ebbe  lode  l'ardimento  del  giovine  che  si  attraversava 
alle  fughe  del  buon  gusto  come  quel  general  romano  col  suo 
corpo  disteso  a  terra  al  fuggire  de' suoi  soldati.  E  di  qua  il  Tenca 
continuò  la  guerra  contro  un  poeta  adorato  dal  flore  della  gio- 
ventù italiana,  e  non  sappiamo  che  fosse  da  ammirare  maggioi'- 
mente  in  lui,  o  l'acume  di  certe  sue  censure  parziali,  o  la  sua 
impenetrabilità  alle  lusinghe  di  un  verso  che  rompe  tutte  le 
consegne  dei  critici,  ed  entra  nel  cuore.  Il  Tenca,  sì  onesto,  in- 
gegnoso, ed  acuto,  era  come  un  disamorato  che  non  intende  o 
ride  le  follie  d'un  cuore  preso.  » 

h'Edmenegay^da  fu  il  passaporto  di  Giovanni  Prati  quando  egli 
si  recò  a  Milano  e  di  là  in  line,  per  porvi  stabile  dimora,  a  Tori- 
no. Gli  anni  che  corsero  fra  il  1840  e  il  1848  furono  i  più  ope- 
rosi della  vita  poetica  del  Prati.  I  suoi  versi  più  popolari  son  di 
quegli  anni:  I  Canti  Lirici,  i  Canti  per  il  Popolo,  Le  Ballate, 
le  Memorie  e  Lacrime,  i  Nuovi  Canti,  le  Passeggiate  Solita- 
rie, parecchi  de'  Canti  politici,  oltre  alle  Lettere  a  Maria  in  prosa. 
Il  poeta  che  i  giovani  hanno  amato  e  quasi  idolatrato  è  quasi  tutto 
in  quei  versi.  Dopo  il  1848,  mescolatasi  forse  troppo  nel  giuoco  la 
politica,  e  voltosi  il  Prati  a  nuovi  generi  di  poesia,  de'quali  danno 
saggio  il  Conte  Riga,  il  Rodolfo,  VAriberto,  l'Armando,  divenne 


Al  Manzoni  splendore  del  canto  italiano,  il  Prati  dedicava  nell'ago- 
sto 1849  da  Torino  la  sua  stupenda  ode  di  sapore  manzoniano  in  morte 
di  Carlo  Alberto.  «  A  Lei,  venerato  signor  Manzoni,  soggiungeva  il 
Prati,  maestro  solenne  d'ogni  concetto  e  forma  di  bellezza,  e  degno,  tra 
pochissimi,  di  consegnar  alla  posterità  le  glorie  e  le  sventure  d'Italia, 
debb'essere  raccomandata  la  tomba  del  Monarca.  Io  non  vi  ho  deposto 
che  un  fiore;  ma  la  corona  insigne  debb'essere  tessuta  da  lei.  Tocca 
alla  musa  ilei  Cinrpu'  Maggio  di  assidersi  su  quella  lapide,  e  interro- 
garla e  scolpirne  i  responsi  ». 

(1)  Milano,  Gui^;oai,   1X6:2-1865,  in  cinque  voi. 


—  439  — 

di  moda  il  discuterlo,  per  conciiiudere  solennemente:  «  Prati  non 
è  più  quello.  Esso  ci   prometteva   altro.    La    sua    primavera  non 
ebbe  estate  »  Ma  diflldiamo  un  poco  di  tali  critici;  essi  son  forse 
gli  stessi  che  non  hanno  mai  voluto  riconoscere  al  Prati  un  sin- 
golare valore   poetico;  sono  gli  stessi  che  l'hanno  costantemente 
predicato   corruttore    del   buon    gusto,   per  questo    solo  che  egli 
ha    avuto    il    torto    di    mancar    loro    di    rispetto,    mostrandosi, 
più  che  una   volta,    poeta  originale.   Al    qual    proposito  si  narra 
una  storiella    graziosa.    I    critici    classicofanti    badavano    a  rac- 
comandare  al    Prati   di    mettersi    sulla    buona  via,  di  studiare  i 
classici,  di   seguirne   le   orme   infallibili.    Il   Prati   che  aveva  ap- 
presa la  lezione  a  memoria  volle    mettere   alla  prova  la  penetra- 
zione de'suoi  Mevii;  e  trasse    fuori    alcune    sue  poesie  di  sapore 
classicissimo,  assumendo  il  nome  di  Aulo  Rufo.  Allora  i  critici  a 
gridare  eh'  era  nato  il  nuovo  papa,  e  che  il  Prati  poteva  andarsi 
a  nascondere;  si  pensi  com' essi  rimanessero,  quando  si  seppe  che 
Aulo  Rufo  era  il   Prati   in   persona.    Ma    le    migliori  nerbate  se 
1'  ebbero  i  critici  maledici   dal    Prati  .nel  prologo  e  nella  licenza 
del  suo  poemetto:  Satana   e    Le    Grazie,    ove    si  spiega  la  più 
maschia  vigoria  di  linguaggio,    di    che  il  Prati  abbia  mai   fatto 
mostra,  ed  ove  le  muse  dì   Pindaro,  d'  Archiloco   e   di  Byron,  a 
volta  a  volta,  spiccano  il  volo,  saettano,  imprecano.  Fra  il  1848  e 
il  1861.  seguirono  due  libretti  d'opera.  La  Marescialla  d'  Ancre 
e  La  Vergine  di  Kent,  il  citato  Satana  e  Le  Grazie,  il  Conte  di 
Riga,  il  Vade  Mecum  degli  italiani,   Le  Nuove  Poesie,  il   Ro- 
dolfo, VAriberto,  nuovi  Canti  politici;  e  le  nozze  del  poeta  con  la 
egregia  signora  Lucia  Arnaudon.    Fra    il  1861  e  l'anno  presente 
uscivano   /  due    sogni,  due  peregrinazioni  fantastiche  nel  mondo 
classico  di  Grecia  e  di  Roma,  che  parvero  uno  zuccherino  al  lab- 
bro buongustaio  di   Terenzio  Mamiani,   V Atvnando,  alcuni  sparsi 
canti    Lirici,    e    parecchi    sonetti   d'una    nuova   raccolta    che    il 
Prati   prepara   sotto    il   titolo  :    Anima  e  mondo.  Il  Prati  fu  sul 
fine  dall'anno  18G1,  per  una  sessione  legislativa,  eletto  deputato 
in  Parlamento  da  un  collegio  politico  del  napoletano;  è  commen- 
datore dì  non  so   più    quale    tra    i    due    ordini  cavallereschi  ita- 
liani, ma  forse  d'entrambi,  ed  è  membro  del  Consiglio  Superiore 
del  Ministero  di  pubblica  istruzione.  Vive  ora  in  Roma,  solitario 
in  mezzo  alla  folla,  silenzioso  fra  il  tumulto,  intento,  ora  a  segui- 
tare la  sua  nuova  versione  dell'  Eneide,  della  quale   diede  saggi 
mirabili,  ora  a  cogliere  nuove   impressioni  dal   mondo  esteriore 
per  foggiarle  e  colorirle  in  sonetti  ciascuno  de'quali  riesce  un  qua- 


—  uo  — 
dretto  animato  ed  eloquente.  Odia  e  fugge  il  volgo  profano;  ma 
in  tal  volgo  gli  accade  spesso,  nella  sua  trascuranza  sdegnosa,  di 
confondere  molti  che  non  son  volgo,  verso  i  quali  un  contegno  più 
riguardoso  e  una  maggiore  urbanità  non  gli  nuocerebbe  punto; 
ma  egli  è,  pur  troppo,  incurante  del  proprio  danno;  e  quando  il 
danno  gli  arriva,  aduna  i  nembi,  scatena  i  fumini,  tona,  e,  in 
questo  spasso  olimpico,  stimandoci  abbastanza  vendicato  scote 
l'ampie  spalle,  acqueta  il  furore  tremendo,  e  torna  sereno  come 
un  fanciullo  al  riso  giocondo  e  a  sussurrar,  com'  egli  un  giorno 
ha  cantato,  tra  le  venerande  cuffie  delle  nonne  addormentate, 
maliziose  parolette  nell'orecchio  delle  deste  nipoti. 


XXXI. 


ARNALDO  FUSINATO. 


Quello  che  furono  nel  secol  nostro,  Giuseppe  Giusti  e  Antonio 
Guadagnoli  per  la  Toscana,  Gioacchino  Belli  per  Roma,  Angelo 
Brofferio  e  Norberto  Rosa  per  il  Piemonte,  Carlo  Porta  e  il  dottor 
Giovanni  Raiberti  per  la  Lombardia,  scrittori,  tuttavia,  di  merito 
assai  diverso  e  da  non  collocarsi  certamente  in  uno  stesso  ordine 
altrimenti  che  per  avere  trattato  tutti  in  una  forma  popolare  la 
satira,  fu  pel  Veneto  il  Fusinato,  di  cui  poco  a'  di  nostri  s' ode 
più  discorrere  in  Italia,  sia  perchè  1'  attenzione  del  pubblico 
è  volta  ora  ad  altro  che  a  ricordare  i  nostri  vecchi  poeti 
precursori,  sia  perchè  veramente  da  troppi  anni  il  Fusinato  s'è 
chiuso  in  un  silenzio  cosi  profondo,  che  lo  fece  presso  di  molti 
ritenere  per  morto,  sia  perchè  un  sentimento  cavalleresco  lo  fa 
abbastanza  lieto  de' trionfi  poetici  della  beila  Musa  che  da  17  anni 
egli  associò  al  proprio  destino,  per  ambirne  ancora  de'propri;  ma 
di  cui,  fra  gli  anni  1843  e  i864,  nessun  poeta  fu  più  popolare 
e  più  accetto  nel  Veneto,  e  la  cui  poesia  è  veramente  caratteri- 
stica. 

Di  padre  avvocato  oriundo  bellunese  nacque  Arnaldo  Fusinato 
a  Schio  nel  Vicentino,  nel  dicembre  dell'anno  1817.  L'umile  Schio 
che  i  fratelli  Pasini,  Alessandro  Rossi  ed  il  Fusinato  hanno  quindi 
illustrata  era  sul  principio  di  questo  secolo  intieramente  priva  di 
scuole;  cosicché  a  procacciare  al    piccolo    Arnaldo    settenne   anco 


—  442  — 
la  prima  istruzione,  dovette  il  padre  collocarlo  nel   collegio  Cor- 
dellina di  Vicenza,  ove  il  fanciullo  percorse    non    pur   le    ginna- 
siali, ma  le  stesse  classi  elementari.  Egli  era  un  folletto,  e  fu  tra  i 
più  indisciplinati  del  collegio,  ma  come  appena,  sotto  la  disciplina  di 
due  preti  liberali,  due  uomini  valenti,, Paolo  Mistrorigo  traduttore 
d'Orazio,  e  Giuseppe  Capparozzo  poeta   poco  o  punto   noto   fuori 
del  Veneto,  ma  nel  Veneto  assai   pregiato   e   carissimo,   fra   gli 
altri,  a  Luigi  Carrer,  egli  potè  accostarsi  alle  fonti  della  poesia, 
e  intendere  le  bellezze  de'  poeti,  dagli  antichi  classici  fino  ai  canti 
patriottici  ed  appassionati  di  Giovanni  Berchet,  una    parte    della 
tempesta  che  gli  bolliva  nell'animo  irrequieto  si  sfogò    provvida- 
mente sopra  i  carrai.  La  febbre   febea   invase    Arnaldo    Fusinato 
fin  dall'età  di  dieci  anni;  ma,  per  tacere  di  un  grave  componimento 
scolastico  in  sesta  rima  consumato  sopra  La  morte  dì  Archimede, 
egli  non  sali  mai  su'tripodi  e  si  contentò  di  rimare  alla  buona  i  suoi 
pensieri  più  capricciosi,  per  isfogo  del  proprio  naturale  da  prima,  e 
poi,  anche,  quando  egli  potè  avvedersi  che  essi  confacevano  pure  al 
naturale  degli  altri,  pel   sacro  amor  delia  gloria;  e,  infine,  per 
volgere  lo  scherzo,  che  aveva  fatto  fortuna,  in  popolare  ed  intrepida 
arma  di  guerra.  Dal  collegio  Cordellina  i  versi    meglio    inspirati 
alla  musa  del  Fusinato  furono  certe  epistole  o  capitoli  che  nomar 
si  vogliano,  ch'egli  indirizzava  al  padre,  ogniqualvolta  trovavasi 
corto  a  quattrini  ;  il  padre,  che  compiacevasi   grandemente  negli 
scherzi  poetici  del  suo  Arnaldo,  rado  gli  rifiutava  la  mercede  del- 
l'opera. Cosi  avvenn'ì  che  il  Fusinato  sin  da    principio  abbia  in- 
cominciato a  cavare  alcun   profitto    materiale    da'  suoi    versi  ;    e, 
appreso  il  modo,  abbia  quindi    sempre    cantato    liberamente,    ma 
stampato,  mercede  pacta;  cosi  che  egli  sia  ora  uno  de'  pochissimi 
poeti  italiani  il  quale  possa  menare  il  raro  vanto  di  aver  co'suoi 
soli  versi  guadagnato  tanto  da  poter  con  quel  solo  guadagno,  se 
la  sorte  gli  avesse  negato  quell'altre  fortune    che  invece  liberal- 
mente gli  arrecò,  non  già  vivere  con  lautezza  ma  campare  discre- 
tamente. Che,  per  tacere  del  modo  profumato  con  cui  il  bravo  e 
compianto  Guglielmo  Stefani,  soleva  nel  Caffé  Pedrocchi,  remu- 
nerare l'opera  del  Fusinato  che  gli  apprestava  poesie  giocose  (col 
guadagno  fatto  per  la  pubblicazione  del  noto  poemetto  Lo  studente, 
il  Fusinato  potè,  nel  1847,  assistere  in  Venezia  al  Congresso  degli 
Scienziati,  e  far  quindi  un  bel  viaggetto  in  Germania),  io  mi  con- 
tenterò accennare  come  l'edizione  di  lusso  delle  poesie   del   Fusi- 
nato  uscita  negli  anni  1853-54,  a   Venezia    coi    tipi    di    Giovanni 
Cecchini,  illustrata  da  Osvaldo   Monti,    pubblicata    a    spese   dello 


—  443  - 

stesso  Fusinato,  gii  abbia  fruttato  un  utile  netto  di    oltre   trenta 
mila  lire  austriache  (1). 

Fu  vera  gloria?  Io  non  so  quello  che  ne  diranno  i  posteri.  Ma 
questo  intanto  possiamo  dir  noi:  che  un  simile  trionfo  è  la 
misura  non  fallace  della  popolarità  di  cui  godette  nel  Veneto  il 
Fusinato.  popolarità  che  non  ebbe  soltanto  una  singolare  impor- 
tanza per  la  nostra  storia  letteraria,  ma  che  deve  pure  averne 
una  considerevole  per  la  storia  politica,  se  si  pensi  alle  idee  sov- 
versive che  le  poesie  di  Arnaldo  Fusinato  hanno  divulgato  nel 
Veneto,  specialmente  fra  il  1847  e  il  1864,  anno  in  cui  egli  ab- 
bandonava con  la  sua  famiglia  il  Veneto,  riparava  a  Firenze  e 
cessava  quasi  intieramente  di  scrivere,  per  attendervi  alle  sue 
cure  domestiche  ed  alla  costruzione  del  Teatro  delle  Loggie  sopra 
le  antiche  Loggie  del  Grano  e  di  una  palazzina  lungo  il  Mu- 
gnone.  Gli  ultimi  suoi  versi  son  dell'anno  1865,  ne' quali,  per 
illustrare  un  quadro  plastico  rappresentante  Goldoni  che  parte 
per  la  Francia,  si  termina  patriotticamente  col  dare  il  buon  viaggio 
ai  tedeschi  che  devono  partire  da  Venezia  e  con  l'invocare  sulla 
scena  la  tunica  rossa  del  vecchio  impresario. 

Ma  per  tornare  alla  giovinezza  di  lui,  compiute  le  classi  del 
ginnasio  in  Vicenza,  il  Fusinato  passò  per  le  classi  liceali  al  Col- 
legio de'  Nobili  annesso  al  Seminario  Vescovile  in  Padova,  ove 
continuò  ad  erudirlo  nelle  lettere  il  Trivellato,  distinto  cultore 
delle  latine  eleganze,  traduttore  in  latino  delle  Anacreontiche  del 
Vittorelli.  Entrò  nell'  Università  di  Padova  per  lo  studio  della 
legge,  l'anno  seguente  a  quello  in  cui  il  Prati  n'era  uscito  dot- 
tore. Tra  i  suoi  condiscepoli  nell'  Università  si  distinguevano,  fra 
gli  altri,  Guglielmo  Stefani,  Casimiro  Varese  traduttore  àeWKleo- 
nora  di  Biirger,  Vittorio  Merighi  traduttore,  s'io  ben  rammento, 
di  alcune  poesie  di  Chatterton,  Antonio  Berti,  Pietro  Pedrazza, 
Leonzio  Sartori,  Giuseppe  Carraro.  Quel  ch'ei  facesse  all'  Univer- 


(1)  Nel  1859,  in  Milano,  non  appena  sgombrala  dagli  austriaci,  si 
stampò  una  contrafrazione,  con  la  finta  data  di  Lugano,  che  inondò 
tutta  l'Italia,  per  la  modicità  del  prezzo  a  cui  era  venduta,  ('on  tutto 
ciò,  nel  1864,  il  tipografo  Cecchini  fece  una  ristampa  di  lusso  con  l'ag- 
giunta di  nuove  poesie;  e  questa  pure  fu  contraffatta  a  Milano.  Final- 
mente, l'editore  milanese  Paolo  Carrara  pubblicò  nel  1868  in  tipi  decenti 
l'ultima  edizione,  alla  quale  nel  1871  s'aggiunse  coi  medesimi  tipi  il  vo- 
lume delle  Poesie  politiche. 


—  'ili  — 
sita,  iì  Fusinato,  su  per  giù,  ce  Io  ha  descritto  nel  suo  poemetto 
Lo  Studente;  ma  vi  attese  pur  tanto  agli  studii  da  potere 
superar  sempre  le  prove  degli  esami  ed  inOne  addottorarsi  an- 
ch'esso, e  tornare  a  Schio,  presso  il  padre  per  la  pratica  dell'av- 
vocatura. Se  non  che  il  codice  invece  di  estri  causidici  gli  inspi- 
rava, per  reazione,  estri  poetici;  ed  egli  fini  per  liberamente  se- 
condarli. Uscito  anch'esso  dall'Università,  lo  Stefani  avea  fondato 
in  Padova  il  suo  Caffè  PedroccM,  giornale  letterario  che  fece 
per  parecchi  anni  fortuna,  servendo  di  focolare  al  fiore  de'  gio- 
vani scrittori  lombardo-veneti.  Vi  pigliavano  parte,  tra  gli  altri, 
come  poeti,  Andrea  Cittadella  Vigodarzere,  Giovanni  Prati,  Aleardo 
Aleardi,  Antonio  Gazzoletti,  Teobaldo  Ciconi  ;  la  stessa  compagnia 
recavasi  in  estate  ai  bagni  di  Recoaro,  convertiti  in  una  specie 
di  Accademia  letteraria,  con  intervento  di  vaghe  donnine,  alle 
quali  si  chiedevano  sorrisi  e  si  dicevano  versi.  Alfine  anco  il  Fu- 
sinato  entrò  nella  gloriosa  e  vivace  brigata.  Il  Cittadella  avea 
pubblicato  nel  Caffè  Pedrocchi  una  poesia  giocosa  che  faceva  la 
caricatura  del  bellimbusto  sotto  il  titolo  II  leone  himane.  Quei 
versi  aveano  fatto  fortuna;  tra  gii  altri,  li  avea  pur  letti  il  Fu- 
sinato,  e,  a  sua  volta,  trovati  graziosissimi  ;  gii  parve  nondimeno 
la  caricatura  fosse  sbagliata  e  si  pose  egli  stesso  all'opera  per  ri  ■ 
tentare  quel  soggetto  medesimo;  mandò  pertanto  al  Prati  la  sua 
Fisiologia  del  lion,  che  il  Prati  fece  tosto  pubblicare  nel  Caffè 
Pedrocchi;  quel  primo  saggio  destò  rumore  (1).  Anche  a  Milano 
si  lessero  con  molta  curiosità  que'versi,  e  Cesare  Cantù  che  cre- 
deva pseudonimo  il  nome  di-  Fusinato  ne  scrisse  tosto  allo  Ste- 
fani, per  dirgli  quanto  si  fossero  gustati  in  Milano  e  per  cono- 
scere il  vero  nome  dell'  autore.  Seguirono  nello  stesso  genere 
//  Medico  condotto,  L'Occhiaia  ai  paesi  piccoli.  La  Donna  ro- 
mantica, infine  Lo  studente  di  Padova,  I  tre  ritraiti,  ed  altre 
somiglianti  fisiologie  poetiche,  le  quali  appena  uscite  nel  Veneto 
si  ristampavano  negli  altri  giornali  letterarii  italiani,  ed  a  Vienna 
nel  Poligrafo  italiano  diretto  dal  signor  Rosenthal,  allora  non 
ancora  affetto  di  rosentalografìte.  Per  merito  di  quelle  ristampe, 
la  notorietà  del  giovine  Guadagnoli  veneto  fu  in    breve    grandis- 


(i)  Alcune  delle  date  che  si  trovaao  indicate  a  pie  di  pagina  nella 
edizione  del  Carrara  sono  sbagliate.  Parecchie  poesìe  riferitevi  all'anno 
1846  risalgono  invece  a  qualche  anno  innanzi.  Cosi  la.  Fisiologìa  del  Lion 
figura  dopo  parecchie  altre  poesie  alle  quali  è  invece  andata  innanzi. 


—  445  — 

sima  anche  fuori  del  Veneto^  Cosi  che,  quando  egli  nel  1847 
giunse  a  Vienna  per  suo  diporto,  parecchi  giornali  si  affrettarono 
ad  annunziarne  in  termini  solenni  l'arrivo,  e  parecchie  famiglie 
desiderarono  l'onore  di  riceverlo.  Egli  passava  invece  i  suoi  giorni 
in  allegre  brigate  d'amici,  fra  i  quali  il  Conte  Zannetelli  di  Fel- 
tre,  guardia  nobile  italiana  nella  corte  imperiale,  lo  stesso  che 
dovea  poi,  servendo  come  capitano  nell'esercito  italiano,  fatto  pri- 
gioniero de'briganti  nell'Italia  meridionale,  esser  lacerato  misera- 
mente in  pezzi.  Nella  guardia  nobile  italiana  e  nella  ungherese 
bollivano  allora  già  sentimenti  rivoluzionarii  ;  venuto  fra  loro  il 
Fusinato,  e  invitato  a  banchetto,  1  giovani  ufficiali  gli  fecero  pre- 
mura perchè  scrivesse  versi  ;  egli  compose  un  canto  patriottico 
ardentissimo,  con  cui  s'invitavano  gli  italiani  di  Vienna  a  giurare 
ch'essi  avrebbero,  primi,  gridato  l'allarme  nel  giorno  imminente 
della  riscossa;  i  giovani  veneti  ed  ungheresi  sguainarono  le  loro 
sciabole  e  giurarono;  ma  una  spia  era  in  mezzo  a  loro;  il  gene- 
rale Ceccopieri  comandante  la  guardia  nobile,  inteso  lo  scandalo, 
non  si  contenne;  la  polizia  si  pose  sulle  traccie  del  Fusinato,  il 
quale,  avvertito  in  tutta  segretezza  dal  Zannetelli  aveva  avuto  il 
tempo  di  riparare  frettolosamente  alla  sua  città  nativa.  Poco  dopo 
il  suo  arrivo  il  Commissario  distrettuale  di  polizia,  un  buon  dia- 
volaccio che,  in  fondo  gli  voleva  bene,  lo  fa  chiamare  ;  si  mette 
sul  serio,  e  gli  domanda  ov'ei  sia  stato  e  che  abbia  fatto  a  Vienna. 
Il  Fusinato  dice  ogni  cosa,  ma  tace  naturalmente  delia-scena  presso 
la  Guardia  nobile.  Allora  il  Commissario  gli  dice  quel  ch'ei  ne  sa,  e 
come  la  polizia  lo  faccia  richiedere,  e  come  sarebbe  in  potere  di  lui 
Commissario  il  perderlo:  fortunatamente  la  polizia  invece  di  iioela 
Fusinato  a  Schio  aveva  scritto,  per  isbaglio  poeta  Fioravanti  ; 
ora  esisteva  veramente  un  Carlo  Fioravanti,  medico  condotto 
presso  Schio,  e  poeta  anch'esso,  ma  di  cui  il  Commissario  avrebbe 
potuto  in  tutta  coscienza  assicurare  che  non  era  mai  stato  a 
Vienna.  Così  la  burrasca  fu  rimossa  dal  capo  del  Fusinato;  che 
quando  la  polizia  viennese  s'accorse  dell'equivoco  e  tornò  a  seri-" 
vere  perchè  il  vero  e  proprio  autore  dello  scandalo  fosse  arre- 
stato, Arnaldo  Fusinato  era  fuori  di  Schio  con  suo  fratello  Cle- 
mente, alla  testa  di  un  battaglione  di  volontarii  da  loro  raccolti, 
e  che  fece  bravamente  il  suo  dovere  a  Montebello  e  poi  a  Vi- 
cenza, nella  stessa  giornata  in  cui  venne  ferito  presso  la  casa 
Guiccioli  Massimo  d'Azeglio,  che  cadde  assai  presso  al  luogo  in  cui 
combattevano  i  due  fratelli  Fusinato.  Ferito  pure  il  fratello  Cle- 
mente,   Arnaldo   lo   accompagnava   a  Ferrara,  e   di  là  a  Milano, 


—  4iG  - 
Pavia,  Genova,  per  ritornai-  quindi  per  la  via  di  mare  alla  difesa 
di  Venezia  bloccata  e  servire  come  ufficiale  tra  i  cacciatori  delle 
Alpi,  comandati  da  quel  Pietro  Calvi  che  cadeva  poi  giustiziato  a 
Mantova.  Durante  l'assedio,  nel  febbraio  1840,  era  venuto  a  rag- 
giungere Arnaldo  Fusinato,  una  bella  e  distinta  signora,  la  con- 
tessa Anna  Colonna  di  Castelfranco,  la  quale  s'era  innamorata  di 
lui  «  come  donna,  per  fama,  s'innamora  »  e  sposatasi  in  quel  mese 
stesso,  lo  avea  seguito  in  mezzo  a  tutti  i  pericoli  e  travagli  del- 
l'Assedio anco  quando  ei  stava  di  guardia  all'isola  del  Lazzaretto 
vecchio;  dal  qual  luogo,  la  vigilia  della  capitolazione,  il  19  agosto 
I849,  il  Fusinato  mandava  a  Venezia  uno  de'suoi  più  bei  canti, 
con  cui  si  dipinge  al  vivo  il  dolore  e  la  disperazione  della  caduta 
di  Venezia,  ardente  di  libertà,  e  oppressa  dalla  peste  e  dalla  fame  : 

Ma  il  morbo  infuria     » 
Ma  il  pan  le  manca. 
'         .       Sul  ponte  sventola 
Bandiera  bianca  ! 

In  quella  vita  disastrosa  ebbe  principio  la  malattia  che,  due 
anni  dì  poi,  dovea  trascinargli  al  sepolcro  la  giovine  sposa,  in 
Castelfranco,  dove  Arnald  )  Fusinato,  caduta  Venezia,  e  proclamata 
l'amnistia,  aveva  intanto  fermata  la  sua  dimora.  E  di  là  incominciò 
egli  a  preparare  la  seconda  riscossa,  sia  coi  versi  comunicati  ai 
giornali  :  Il  Vulcano  e  il  Quel  die  si  vede  e  quel  che  non  si  vede 
di  Venezia,  il  Pungolo,  il  Panorama  e  L'Uomo  di  Pietra  Ai  Mi- 
lano,  ove,  affettando  ipocrita  resipiscenza,  e  pigliando  nome  ora 
di  Fra  Fusina,  ora  di  Don  Fuso,  trovò  modo  di  far  passare  e 
divulgare  nel  Lombardo- Veneto  satire  acerbissime  contro  il  go- 
verno. Nel  tempo  stesso  ei  volse  pure  la  mente  a  comporre  altre 
poesie  di  genere  romantico  popolare,  ballate  nella  massima  parte, 
le  quali  per  l'affetto  che  spirano,  pel  modo  drammatico  con  cui 
sfogano  l'affetto  divennero  care  specialmente  alle  donne  italiane, 
che  le  declamarono  quindi  spesso  ne'teatri,  nelle  accademie,  nei  col- 
legii,  e,  intese  declamare,  le  hanno  poi  sempre  vivamente  applaudite. 
E  una  di  .esse  donne,  innamoratasi  finalmente  nel  Fusinato,  com'egli 
in  essa,  acconsentiva  non  pure  ad  unire  il  proprio  destino  a  quello 
del  vedovo  poeta,  ma  ad  abbandonare  per  esso  la  religione  de'  suoi 
padri.  Erminia  Fuà,  una  bellissima  giovinetta  israelita,  già  nota  per 
versi  pieni  di  grazia  e  di  vigore,  ora  tra  le  prime  poetesse  d'Italia, 
lo  attraeva  a  sé  col  fascino  della  bellezza  e  dell'ingegno,  e  gli  di- 


—  447  — 
veniva  dall'anno  1856  in  poi  compagna  operosa  e  intelligente  nella 
vita,  e  cospiratrice  accorta  per  la  libertà  della  patria.  Dal  loro 
rifugio  di  Castelfranco  i  Fusinato  hanno  tessuto  molte  fila  di  quella 
tela  che  dovea  preparare  il  risveglio  dell'Italia  superiore  innanzi 
all'anno  1859  e  finalmente  la  liberazione  del  Veneto.  Nel  1861, 
Arnaldo  Fusinato  recavasi  a  conferire  col  generale  Garibaldi  a 
Trescorre,  per  disconsigliarlo  dalla  spedizione  di  Sarnico;  nel  1863, 
in  gran  secretezza,  alla  reggia  di  Torino,  per  conferire  con  un 
altissimo  personaggio,  a  cui  avevano  fatto  intravedere  possibile 
la  liberazione  del  Veneto  con  l'aiuto  di  una  insurrezione  interna. 
Nella  mente  del  personaggio  altissimo  sottentrarono  presto  altri 
pensieri,  e  ai  Veneti  non  rimase  altro  che  la  breve  gioia  d'una 
illusione,  il  più  lungo  dolore  del  disinganno,  e  delle  nuove  perse- 
cuzioni, de'  quali  furono  vittima  alcuni  de'  Veneti  più  ardenti  che 
avevano  creduto  e  sperato,  e  s'erano  preparati  ad  insorgere;  tra 
i  quali  lo  stesso  fratello  del  Fusinato,  che  scontò  col  carcere  la 
sua  impazienza.  Tal  parte  ebbe  la  politica  nella  vita  del  nostro 
poeta,  il  quale  incominciò  con  l'essere  gaio  e  fini  col  riuscir  prode. 
La  sua  poesia  è  facile  e  democratica,  fatta  per  essere  intesa  da 
tutti;  giudicata  col  solo  vaglio  de' puristi,  essa  farebbe  forse  una 
mediocre  figura;  ma  il  Fusinato  non  ha  scritto  per  essi;  quello 
oh'ei  volle  dire  l'ha  detto;  e  quello  ch'ei  disse  fu  capito;  ciò  im- 
portava; si  rise  quando  ei  volle  far  ridere;  si  pianse  quando  egli 
volle  intenerirci;  lo  scopo  principale  ch'ei  s'era  proposto  fu  rag- 
giunto. Se  i  mezzi  siano  stati  sempre  tutti  poetici  sarebbe  difficile 
il  dire,  e  inutile  il  ricercare;  senza  una  letteratura  disinvolta  che 
dica  alla  buona  ed  a  tutti  ciò  che  preme  sia  detto,  non  si  prepara 
nessuna  insurrezione  popolare;  il  Guadagnoli,  a  costo  di  riuscir 
volgare,  il  Berchet,  a  costo  di  riuscire  esagerato,  avevano  nello 
stesso  modo  attratto  a  sé  l'attenzione  del  popolo  più  che  de'  let- 
terati. 


XXXII. 


PAOLO  GIACOMETTI. 


Il  Revere  fu  di  rado  sulla  breccia,  ma  le  poche  volte  che  vi 
apparve  si  mostrò  armato  da  capo  a  piedi  col  serio  proposito  e 
con  l'intima  fiducia  di  vincere  o  almeno  di  meritar  la  vittoria. 
Egli  diede  poche  ma  grandi  battaglie;  e  ne  ritornò  con  gli  onori 
del  trionfo  massimo,  se  non  presso  il  facile  e  grosso  pubblico ,  si- 
curamente presso  gli  scarsi,  difficili,  gelosi,  queruli  buongustai.  Un 
prode  guerriero  che  rimane  invece  da  quasi  sette  lustri  sulla 
breccia,  a  dar  minuta  ma  viva  battaglia  dalla  scena  è  il  Giaco- 
raetti,  di  cui  nessun  poeta  drammatico  fu  nel  secolo  nostro  più 
fecondo  e,  nella  mirabile  fecondità,  più  fedelmente  stretto  a'  suoi 
principii  d'arte,  in  quanto  l'arte  sia  strumento  di  patria  civiltà. 
Se  un  tale  eccesso  non  tornasse  anzi  a  tutto  onore  del  Giacometti, 
la  critica  potrebbe  forse  fargli  carico  d'avere  in  alcuno  de'  suoi 
componimenti  drammatici  voluto  dimostrar  troppo  l'intento  mo- 
rale delle  sue  tesi,  usurpando  alcuni  degli  ufiìcii  più  particolar- 
mente proprii  del  trattatista.  Ma  il  Giacometti  stesso  ha  sempre 
considerato  il  teatro  come  un  mezzo  civile  ;  però,  ha  egli  scritto 
nel  suo  proemio  alla  Morte  oimle,  (dramma  il  quale  pur  tenendo 
dietro  ad  uno  d'argomento  consimile  e  non  ispregevole  di  Gio- 
vanni Sabbatini  ha  saputo  dir  cose  nuove  e  con  novissima  efflca- 
ciaj  :  f(  Io  sono  d'avviso  che  le  idee  generose,  comunque  e  dovun- 
que esposte,  possano  dare  qualche  buon  frutto  e  disporre,  se  non 
altro,  il  terreno  a  ricevere  l'altrui  semente.  P;!rmi,  in  oltre,  che 
sia  debito  d'ogni  uomo  onesto  di  difendere  con  tutte  quelle  armi 
che  sono  in  suo  potere,  la  causa  dell'umanità  e  di  combattere  ogni 


—  .i49  — 

specie  di  oppressione  »  (1).  Incominciò  nel  1841  con  la  commedia. 
Il  Poeta  e  la  Ballerina  a  svegliare  l'Italia  che  versava  oro  sulle 
ballerine  corrutrici ,  V  Italia  d'eroi  già  madre,  ora  de'mimi  come 
grida  in  un  suo  sonetto  improvvisato  uno  de' personaggi;  nel 
1845,  con  Le  tre  classi  della  società,  il  Giacometti  vuol  dimo- 
strare le  ragioni  che  tengono  divisi  i  tre  ceti  sociali ,  e  con- 
chiude con  queste  parole:  «  Persuadiamoci  che  non  è  già  il  lusso 
eccessivo  e  demoralizzatore  quello  che  possa  effettuare  i  disegni 
della  provvidenza  nel  ravvicinamento  delle  classi,  ma  lo  possono 
solamente  l'amore,  l'umanità,  il  benefizio  ed  un  fermo  proposito  di 
concorrere  tutti  a  rendere  prosperosa  e  grande  la  famiglia  italia- 
na. »  Tutto  ciò  poteva,  senza  dubbio,  esser  detto  con  più  elegante 
vivacità,  ma  non  al  certo,  con  migliori  intendimenti.  Nel  1848,  col 
dramma  Siam  tutti  fratelli,  l'autore  ritorna  sulla  tesi  della  com- 
media precedente;  un  marchese  Ippolito  finisce  con  lo  sposarvi 
una  popolana,  dicendo  :  «  I  pregiudizii,  le  catene  non  esistono  più 
per  me  l  io  le  infrango,  le  voglio  infrangere.  »  Le  Metamorfosi 
politicJìe,  dell'anno  1849,  s' informano  allo  stesso  concetto  demo- 
cratico e  mettono  in  ridicolo  i  Gingillini  del  tempo.  Nel  1850,  Il 
Fisionomista  combatte  un  pregiudizio  volgare  a  cui  il  Lavater 
serve  di  pretesto  e  smaschera  una  nuova  forma  di  Tartufi  ;  la 
Donna  nel  1850,  rivendica  la  dignità  del  sesso  debole  ;  la  Donna 
in  seconde  nozze  nel  1851  (con  queste  due  commedie,  che  sono 
anche  le  meglio  scritte,  il  Giacometti  ha  dotato  il  nostro  teatro  di 
due  veri  capolavori),  mostra  i  gravi  danni  che  arrecano  per  lo  più 
nelle  famiglie  le  seconde  nozze  quando  s'hanno  figli  delle  pri- 
me; nello  stesso  anno,  il  dramma  Dìclinazioni  e  voti  rivela,  i  mali 
che  reca  seco  il  celibato  ecclesiastico  (2);  e  il  dramma  II  Milio- 
nario e  l'Artista  mostra  i  vantaggi  che  può  aver  l'ingegno  sopra 
la  ricchezza;  nel  1852,  la  Corilla  Olimpica  rileva  ì  pericoli  ai 
quali  vanno  incontro  le  donne  che  fanno  troppo  parlare  di  sé, 
mentre  con  la  Moglie  dell'Esule  si  glorifica  la  virtù  della  donna 


(1)  Nel  proemio  alla  Donna,  il  Giacometti  aveva  già  risposto  ad  un 
simile  appunto,  con  le  parole  di  uno  dei  suoi  personaggi:  «Hai  ragione; 
chi  come  te  ò  così  innanzi  nella  strada  del  vizio  deve  chiamare  omelie, 
e  peggio  ancora  le  parole  dell'uomo  onesto.  >> 

(2)  Il  Brofferio  scrivendone  nella  Voce  del  deserto  diceva:  «  Giaco- 
metti con  questo  suo  dramma  poetico  ed  incisivo  ha  lanciato  un  guanto 
di  sfida  al  Concilio  di  Trento.  » 

Ricordi  Biografici  29 


—  450  — 
che  nel  silenzio  opera  il  bene;  la  Trovatella  di  Santa  Maria  nel 
1853  e  La  colpa  vendica  la  colpa  nel  1854  riescono,  con  diversa 
conclusione,  alla  condanna  degli  amori  illegittimi;  nel  1861,  la 
Morte  civile  richiama  la  pietà  pubblica  sulla  famiglia  del  condan- 
nato, verso  la  quale  la  legge  è  così  ingiusta;  nel  1862,  L'indo- 
mani dell'ubbriaco  inaugura  felicemente  quella  serie  di  commedie 
popolari  nelle  quali  si  è  quindi  fatto  valere  particolarmente  in 
Italia,  con  la  Quaderna  di  Nanni,  il  Capitale  e  la  Mano  d'opera 
e  di  recente  l'AWici  (scritto  quest'ultimo  in  società  con  suo  fra- 
tello Quintino),  il  signor  Valentino  Carré ra;  nel  1863,  la  Luigia 
Sanfelice  si  propone  di  fare  esecrare  la  dinastia  borbonica  a  quella 
parte  ingannata  del  popolo  napoletano  che  ancora  la  rimpiange. 
Tutti  questi  lavori  drammatici  ebbero  un  determinato  scopo  mo- 
rale ;  ma  puossi  aggiungere  come  in  tutti  gli  altri  componimenti 
assai  più  numerosi  del  Giacometti,  oltre  all'ingegno,  si  rivela 
sempre  il  cuore  del  poeta,  innamorato  del  bene.  Egli  non  tralasciò 
alcuna  occasione  per  lanciar  dalla  scena  alcuna  protesta  contro 
il  vizio  0  per  inneggiare  alla  virtù,  sia  ch'ei  magnifichi  il  genio 
col  Sofocle  (la  migliore  delle  sue  tragedie;,  col  Torquato  Tasso 
0  con  la  Lucrezia  Davidson ,  (stupenda  scena  drammatica ,  cui 
manca  solo  in  Italia  l' attrice  vaga  d' idealità  che  sappia  de- 
gnamente rappresentarla),  sia  che,  con  la  profetica  Giuditta 
scritta  nel  1858  rappresenti  la  festa  d'  un  popolo  che  si  riven- 
dica in  libertà,  sia  finalmente  che  con  la  Elisabetta  d'Lighilterra 
l'autore  si  compiaccia  nello  scolpirci  un  grande  carattere  di  prin- 
cipe, e  vi  riesca  mirabilmente.  Il  Giacometti  è  uno  de'  pochi  poeti 
drammatici  italiani  che  sian  dotati  del  potere  d'  accendersi  poe- 
ticamente fino  all'entusiasmo;  questa  facoltà  rende  talora  sover- 
chiamente liriche  le  sue  scene  drammatiche,  come  tal  altra  volta 
la  schietta  bontà  dell'  autore  è'ii  fa  vagheggiare  alcune  scene 
che  peccano  alquanto  d' ingenuità  ;  ma ,  al  tempo  stesso ,  cono- 
scendo il  Giacometti  perfettamente  la  macchina  scenica,  ei  sa  in- 
trodurre tali  scene  in  luogo  e  momento  cosi  opportuno  che,  rap- 
presentate ,  riescono  al  loro  effetto  desiderato ,  se  anche ,  lette  , 
possano  alcuna  volta  apparire  un  poco  stonate. 

Nacque  Paolo  Giacometti  il  19  marzo  1816  a  Novi  Ligure,  ove 
il  padre  di  lui  Francesco  Maria  risiedeva  in  qualità  di  senatore, 
reggente  il  consiglio  di  giustizia.  Perduto  neh'  inftxnzia  il  padre , 
la  vedova  madre  (Maria  Nicoletta,  figlia  del  chiaro  giurecon- 
sulto Paolo  Costa ,  già  capo  del  Direttorio ,  da  non  confondersi 
naturalmente  col  romagnolo   letterato   dello  stesso  nome)   si  tra- 


-  151  — 

sieri  coi  cinque  orfani  figli  alla  villa  paterna  nel  piccolo  villaggio 
detto  Starla,  lungo  la  Riviera  di  levante.  Di  là  Paolo  fu  mandato 
per  lo  studio  delle  umane  lettere  al  Collegio  Reale  di  Genova, 
onde  passò  quindi  all'Università  per  lo  studio  della  legge.  Ma  la 
poesia  drammatica  fin  dal  tempo  in  cui  egli  era  ancora  in  Col- 
legio lo  attraeva  fortemente  a  sé;  ventenne,  il  31  agosto  1836, 
riportava  in  Genova  un  primo  lieto  successo  drammatico  con  un 
dramma  in  versi  intitolato  Rosilde.  Da  quel  giorno,  tutta  la  mente 
del  Giacometti  fu  rivolta  alla  scena,  quantunque,  per  obbedienza 
alla  madre,  egli  continuasse  a  frequentare  i  corsi  di  legge.  Ma  in 
breve  fu  costretto  ad  abbandonarli,  per  un  grave  disastro  che  subì 
il  piccolo  patrimonio  domestico.  Vendutasi  la  villa  paterna,  la  madre 
del  Giacometti  avea  dato  a  mutuo  il  danaro  ricavatone  presso  un 
certo  canonico,  che  avea  tenuto  al  sacro  fonte  il  nostro  Paolo. 
Il  canonico,  ch'era  dedito  al  vizio  del  giuoco,  morì  carico  di  de- 
biti, e  la  famiglia  del  Giacometti  si  trovò  per  quella  morte  in 
gravi  strettezze.  Fu  risoluto  che  il  giovine  studente  di  legge,  per 
togliere  più  presto  il  peso  di  sé  alla  famiglia,  rinunciasse  alla 
gloria  del  dottorato  ed  entrasse  tosto  nello  studio  d'un  causidico; 
con  che  voglia  vi  entrasse  e  vi  facesse  il  suo  tirocinio  il  nostro 
gio^rine  poeta  pensi  il  lettore.  Dopo  il  disastro  nella  fortuna  una 
più  grave  sventura  domestica  colpì  il  Giacometti;  era  già  morto 
l'unico  suo  fratello;  due  delle  sue  sorelle  erano  state  collocate  a 
marito;  altre  due  vivevano  con  parenti;  la  madre  del  nostro 
poeta  venne  a  morirgli  tra  le  braccia.  Dopo  quella  morte  il  Gia- 
cometti senti  dolorosamente  la  solitudine;  l'arte  sola  lo  consolò 
In  questo  breve  frattempo  (fra  il  1836  e  il  1840)  egli  aveva  in- 
tanto già  fatto  rappresentare  con  molta  fortuna  quattro  altre  tra- 
gedie: Luisa  Strozzi,  Paolo  De  Fornari,  Godéberto  re  de'  Lon- 
gobardi, La  famiglia  Lercari.  L'ultima  di  queste  tragedie  nella 
quale,  per  la  giacitura  del  verso,  mi  sembra  ancora  evidente  l'i- 
mitazione dell'  Aristodemo  del  Monti,  valse  al  Giacometti  una  let- 
tera scrittagli  il  20  giugno  1840  dal  Niccolini,  ove  leggo:  «  Ho 
esaminato  il  suo  componimento,  nel  quale  io  trovo  situazioni  ed 
effetti,  copia  d'immagini,  insomma  quello  che  mi  piace  in  un  ge- 
nere di  poesia,  da  cui  ho  sempre  creduto  che  l'elemento  lirico 
non  debba  esser  tolto,  perchè  nelle  forti  passioni  vi  ha  mai  sem- 
pre poesia,  di  che  sono  esempio  splendidissimo  i  Greci,  e  Shak- 
speare  e  Schiller.  Io  non  posso  che  bene  augurarmi  del  suo  no- 
bile ingegno  ».  E  pure  di  quel  tempo  un  dramma  in  tre  atti,  in- 
titolato: li  Domenichino,  il  quale  doveva  [)0i  offrir   largo  campo 


—  452  — 
d'ispirazioni  e  d'applausi  a  Luigi  Taddei,  al  Ventura,  a  Gustavo 
Modena^  a  Luigi  Domeniconi,  e  ad  Alessandro  Salvini,  il  valoroso 
fratello  di  Tommaso.  Seguiva  quindi  il  trionfo  del  Pellegro  Piala, 
altro  dramma  pieno  di  passione  e  d'effetti  scenici.  Il  giovine  Gia- 
cometti  aveva  oramai  conquistato  un  posto  onorevole  fra  i  poeti 
drammatici;  ma.  dato  fondo  agli  ultimi  poveri  avanzi  dell'eredità 
domestica,  egli  incominciava  in  pari  tempo  a  sentire  il  tormento 
della  povertà. 

Le  sue  condizioni  economiclie  non  rimasero  ignote  a  S.  E.  l'o- 
diatissimo  governator  Paolucci,  il  quale  sperando,  per  tal  modo, 
allontanare  dalla  scena  e  dalle  lettere  uno  scrittore  ardito  e  pe- 
ricoloso, pensò  approfittarne,  facendogli  segretamente  offerire  l'im- 
piego di  segretario  intimo  di  S.  E.  Il  Giacometti,  indovinando  lo 
scopo  segreto  di  quell'offerta,  fu  pronto  a  ricusare,  ed  accettò 
invece  con  trasporto  l'offerta  a  que'tempi  novissima  che  gli  fece 
l'eccellente  compagnia  dram-matica  Giardini,  WoUer  e  Belatti 
di  seguirla  come  poeta  stipendiato  della  compagnia  stessa  con 
l'obbligo  di  fornirle  ogni  anno  cinque  nuovi  lavori  drammatici. 
Cosi  visitò  egli  l'Italia,  seguendo  dapprima  la  compagnia  a- Livorno, 
quindi  a  Roma,  ove  sulle  scene  del  teatro  Metastasio  il  23  no- 
vembre 1841  apparve  la  prima  volta  la  commedia  II  Poeta  e  la 
Ballerina,  che  si  ripetè  per  più  sere  in  mezzo  ad  applausi  frene- 
tici, per  far  quindi  il  giro  trionfale  de' principali  teatri  della  pe-. 
nisola.  Il  Giacometti  fu  tuttavia  allora  accusato  d'avere  posta  in 
iscena  la  ballerina  Cerrito,  facendo  pure  una  parodia  del  padre 
di  lei  e  d'avere  raffigurato  sé  stesso  nel  poeta  Leoni,  accusa  con- 
tro la  quale  egli  fa  pronto  a  protestare  allora,  e  protesta  pure  ■ 
nel  proemio  alla  commedia  stampata  (1),  al  quale  rinvio  il  lettore. 
Seguivano,  il  dramma  storico  Cristoforo  Colonibo,  diviso  in  due 
parti,  (la  prima  rappresentata  a  Genova,  la  seconda  a  Ferrara)  ; 
la  vivacissima  commedia  di  tipo  goldoniano:  Quattro  donne  in 
una  casa,  rappresentata  la  prima  volta  a  Treviso,  e  che  si  con- 
tinua tuttora  a  festeggiare  dal  pubblico,  e  Un  poema  ed  una  cam- 
Male  commedia  rappresentata  la  prima  volta  a  Bologna.  Scaduto 
il  tempo  del  suo  contratto  con  la  compagnia  Giardini,  Woller  e  Be- 
latti, il  Giacometti  impegnavasi,  vantaggiate  le  proprie  condizioni, 
con  la  compagnia  Domeniconi.  Pel  Domeniconi  e  per  la  Carolina 


(1)  V.  Teatro  scelto  di  Paolo  Giacometti;  Mantova  1859,  Milano,  San- 
vito,  1859-1866. 


—  453  — 

Santoni,  in  voga  allora  di  grandissima  attrice,  il  Giacometti  scrisse 
la  sua  tragedia  Isabella  del  Fiesco,  che  s'ebbe  le  più  festose  ac- 
coglienze in  Roma  al  teatro  dell'Argentina,  la  sera  del  23  maggio 
1843.  Dopo  una  notte  di  applausi  e  di  lieti  sogni.  Paolo  Giaco- 
metti alzavasi  allvalba  per  muovere  all' ara  nuziale  ;  un  bel  mat- 
tino cui  dovea  quindi,  per  l'infedeltà  della  donna,  seguire  un 
giorno  tormentoso.  In  Firenze,  il  Giacometti  visitò  in  quel- 
r  anno  stesso  il  Niccolini  ;  ed  in  Torino  conobbe  il  Paravia ,  il 
Romani,  il  Bertolotti ,  il  Brofferio ,  il  Prati.  Pel  Doraeniconi, 
il  Giacometti  scrisse  ancora  i  seguenti  lavori  :  Un  testamento , 
FiescM  e  Fregasi,  Per  mìa  madre  cieca  ;  questo  ultimo ,  rap- 
presentato a  Genova  il  10  gennaio  1844,  ei  volle  quindi  dedi- 
cato al  suo  amico  il  dott,  David  Chiossone ,  1'  autore  della  Suo- 
natrice  d'Arpa  (al  cui  genere  s'accosta  anco  questo  lavoro  del 
Giacometti),  che  ne  aveva  scritto  onorevolmente  nel  giornale  ge- 
novese L'Esperò.  Terminato  il  suo  contratto  col  Domeniconi, 
con  cui  il  Giacometti  ebbe  pure  che  dire  intorno  al  falso  modo 
di  recitazione  che  piaceva  al  capocomico,  il  nostro  poeta  rivolò 
gioioso  alla  prime  tende  piìi  popolari  del  Woller,  del  Giardini  e 
del  Belatti  che  lo  tennero  nuovamente  seco  per  un  triennio  (1845- 
46-47)  nel  qual  tempo  il  Giacometti  scrisse  dodici  commedie;  piac- 
quero principalmente  :  Le  tre  classi  della  Società  (Genova  2  set- 
tembre 1845),  Camilla  Faà  da  Casale  (Firenze,  29  ottobre  1846) 
ripetuta  quindi  per  15  sere  al  teatro  S.  Benedetto  di  Venezia, 
Carlo  II  Stuart  (Verona  19  giugno  1847);  meritano  ancora  di 
venir  citate:  Paolo  da  Novi  (Firenze  1845),  La  Benefattrice  (Fi- 
renze 1846),  L'amico  di  tutu  (Genova  1847),  /  misteri  dei  morti 
Genova  1847).  Domenico  Righetti  Analmente  invitava  il  nostro 
poeta  a  succedere  ad  Alberto  Nota  come  poeta  della  Reale  Com- 
pagnia Sarda,  lasciandogli  facoltà  di  fermare  la  sede  in  quella 
città  che  meglio  gli  piacesse  ;  il  Giacometti  elesse  Firenze;  inco- 
minciò col  Cola  di  Rienzo,  tragedia  che  proibita  a  Torino  (e  pur 
s'era  nel  1848),  fu  invece  permessa  a  Firenze,  ove  la  rappresentò 
con  grande  plauso  la  compagnia  Internari  e  Colom  berti  al  teatro 
del  Cocomero  (ora  Niccolini).  La  Compagnia  Reale  Sarda  rappre- 
sentò invece  con  lieta  sorte  II  Patrim,omo  dell'orfano,  La  Donna, 
Il  Fisionomista,  e  il  Siaì7i  tutti  fratelli,  che  aveva  poi,  recitata  a 
Roma  nel  1849  sotto  la  Repubblica,  l'onore  di  venir  replicata  per 
27  sere,  e  meritava  che  il  papa  Pio  IX  reduce  da  Gaeta,  in 
una  sua  enciclica,  con  sacro  orrore,  nominasse  e  scomunicasse 
l'autore,  reo  d'avere  introdotto  sulla  scena   un  gesuita  scellerato 


—  151  — 

presso  un  buon  curato  di  campagna.  Ridottosi  quindi  il  Giaco- 
metti  a  Torino,  otteneva  di  farvi  rappresentare  dalla  Compagnia 
Reale  il  Rienzi,  e  quindi  La  donna  in  seconde  nozze.  Corilla 
(Jlimpica,  Le  metamorfosi  politiche,  Inclinazioni  e  voti,  Gli  edu- 
catori del  popolo,  La  moglie  dell'esule,  che  troviamo,  nella  stampa, 
dedicato  alla  sua  seconda  moglie  Luisa  nata  Saglio,  in  cui  Giaco- 
metti  vede  ora  riprodotto  quel  tipo  perfettissimo  di  moglie  che 
egli  aveva  idealmente  delineato  nel  1852,  egregia  donna  in  cui 
le  qualità  dell'  animo  e  quelle  dell'ingegno  si  trovano  fra  loro 
in  perfetta  armonia  per  rendere  beatamente  operoso  il  vivere  pre- 
sente del  nostro  poeta. 

Gravi  dolori  domestici  lo  costrinsero  nel  1853  a  lasciar  Torino 
ed  impegnarsi  a  scrivere  per  la  valente  attrice  Fanny  Sadowski, 
la  quale  fu  prima  a  fare  applaudire,  rappresentandola  il  '-1  maggio 
1853  al  teatro  Apollo  di  Venezia  quella  Elisabetta  Regina  d'In- 
ghilterra, cui  più  tardi  Adelaide  Ristori  dovea  crescere  nuovo 
prestigio  recandola  trionfalmente  sulle  scene  de'principali  teatri 
stranieri,  non  esclusi  gli  inglesi,  ove  l'opera  del  nostro  concitta- 
dino non  solamente  si  applaudisce  in  italiano,  ma  si  rappresenta 
pure  tradotta  in  inglese.  (1)  Seguirono  quindi  alcuni  mesi  di  silen- 
zio; il  poeta  era  malato;  un  grave  dramma  domestico  era  arri- 
vato alla  sua  catastrofe.  Si  rialzò,  quantunque  punto  guarito,  per 
scrivere  :  La  notte  del  Venerdì  Santo  (intitolato  nella  stampa  La 
trovatella  di  Saetta  Maria)  e  La  colpa  vendica  la  colpa  drammi 
tetri  e  minacciosi,  come  lo  stato  dell'animo  in  cui  si  trovava  in 
quel  tempo  il  Giacometti,  il  quale  erasi  intanto,  sebbene  infermo, 
impegnato  come  poeta  della  compagnia  di  Giovanni  Leigheb.  Da 
Treviso  ove  il  28  giugno  1854  erasi  rappresentato  il  dramma  La 
colpa  vendica  la  colpa,  passava  il  Giacometti  a  Mantova  che  gli  fa- 
ceva le  accoglienze  più  oneste,  e  visitava  alla  sfuggita  quel  Gaz- 
zuolo,  che  dovea  più  tardi  essere  per  lui  luogo  di  pace,  di  riposo  e 
di  nuove  e  sante  affezioni  domestiche.  Quel  poetico  dramma  elegiaco 
ch'è  la  Lucrezia  Davidson  (la  poetessa  americana  il  cui  meravi- 
glioso cervello  fu  consunto  dalla  produzione  eccessiva  e  precoce)  fu 
scritto  a  Brescia,  dal  letto,  in  m.eno  di  un  mese,  contro  gli  ordini  del 
medico  che  non  voleva  s'occupasse  punto,  ma  per  obbedire  al  capo- 


(1)  L'onore  di  venire  tradotto  in  inglese,  per  cura  della  principessa 
Della  Rocca  ebbe  pure,  di  recente,  il  dramma  di  (liacometti  La  colpa 
vendica  la  colpa. 


-  455  - 

comico  che  pagava  e  voleva  essere  servito  esattamente;  la  sera  del 
13  dicembre  1854,  la  Lucrezia  Davidson  ottenne  un  completo  trionfo 
al  Teatro  Sociale  di  Brescia  ;  si  ripetè  quindi  a  Trieste  per  dodici 
sere.  Avendo  disegnato  di  scrivere  il  Torquato  Tasso  (è  interes- 
sante il  seguire  in  questi  anni  dolorosi  della  vita  del  Giacometti 
la  malinconica  scelta  de' suoi  soggetti  drammatici),  e  bisognando- 
gli, in  pari  tempo,  molta  tranquillità,  chiese  ed  ottenne  dal  capo- 
comico la  facoltà  di  ritrarsi  a  scrivere  in  Gazzuolo,  ove  ospita- 
valo  col  figlioletto  unica  gioia  rimastagli,  (ch'egli  dovea  poi  per- 
dere ventunenne  nel  1868  consunto  da  tisi),  una  famiglia  cremonese 
la  famiglia  dei  Saglio,  nella  quale  egli  dovea  poi  trovare  l'angelo 
consolatore  degli  anni  suoi  cadenti.  Il  Tasso  fu  scritto  come  la 
Davidson,  per  la  massima  parte,  dal  letto  del  poeta  infermo;  al 
tempo  fissato,  ei  l'ebbe  pronto,  e  dovette^  richiedendolo  il  capoco- 
mico, recarsi  in  persona  a  metterlo  in  scena  a  Mantova,  nel  cui 
teatro  Scientifico  fu  recitato  nelle  sere  del  19  e  20  settembre  18ò5, 
con  molto  plauso  de'  mantovani,  e  molto  dispetto  dell'I.  R.  Dele- 
gato il  quale  urlava  in  tedesco  «  che  non  si  sarebbe  dovuto  per- 
mettere un  dramma  nel  quale  il  signor  Giacometti  parlava  d'Italia 
e  di  libertà.  »  In  seguito  il  Tasso  trionfò  sui  maggiori  teatri,  per 
opera,  principalmente,  di  Ernesto  Rossi  e  di  Tommaso  Salvini;  a 
Venezia  poi,  calata  la  tela  del  quart'atto,  dove  Eleonora  muore,  il 
pubblico  diede  in  tali  scoppi  d'applausi,  che  il  Salvini  e  la  Cazzola, 
furono,  per  appagarlo,  costretti  a  recitare  una  seconda  volta  da 
capo  r  intiero  atto.  Il  Torquato  Tasso  vinse  poi  il  primo  premio 
al  concorso  governativo  piemontese  dell'anno  1857.  E  fu  questo 
l'ultimo  lavoro  scritto  dal  Giacometti  pel  capocomico  Leigheb,  da 
cui  si  sciolse,  per  ordine  de'  medici,  a  fine  di  curare  seriamente 
in  Gazzuolo  la  sua  malferma  salute.  Il  ritiro  del  Giacometti  dalle 
scene  afflisse  molti  e  si  sparse  pure  la  voce  eh'  egli  era  in  fin  di 
vita  e  nella  più  squallida  miseria;  io  era  allora  in  Piemonte,  e 
mi  ricordo  essersi  tal  voce  divulgata  per  modo  ed  aver  preso  tali 
proporzioni  da  riassumersi  finalmente  in  queste  poche  drammati- 
che parole:  Giacometti  muore  all'Ospedale.  Erano  menzogne 
messe  in  giro  da  un  iniquo  speculatore,  il  quale  volendo  far  suo 
profitto  delle  simpatie  che  il  pubblico  italiano  conservava  pel  Gia- 
cometti, avea  fatto  stampare  ne'  giornali  che  l' autore  del  Tasso, 
inferirlo,  stremo  di  ogni  soccorso,  derelitto  e  poco  meno  che  ma- 
ribondo  lottava  colla  miseria  e  col  morbo  nel  meschino  paese  di 
Gazzuolo.  «  Fu  allora,  scrive  un  gentile  biografo  inedito,  che, 
per  ogni  parte  si  aprirono  sottoscrizioni  e  collette  in  prò  dell'in- 


—  456  — 
fermo;  fu  allora  che  ogni  giorno  egli  vedeva  capitare  al  proprio 
indirizzo  somme  di  denaro,  che  egli  si  prendeva  l'incomodo  di 
rimettere  ai  collettori,  dichiarando,  per  farla  finita,  suU'  Univer- 
sale di  Milano  e  sull'^lr^e  di  Firenze  che  «  dignità  e  coscienza 
non  gli  permetteva  di  accettarle,  trovandosi  egli  ormai  fermo  in 
salute  e  molto  ben  provveduto.  »  Ma  le  voci  sparse  e  rapportate 
dai  giornali  si  diffusero  ed  ingrandirono  a  segno  che  Paolo  ebbe 
il  conforto,  concesso  a  pochissimi  di  leggere  la  sua  necrologia,  e 
le  iscrizioni  dettate  pe'  suoi  funerali,  da  un  certo  professore,  uomo 
assai  ameno,  il  quale  trovatolo  poi  vivo  e  sano,  nientemeno  che 
ad  un  banchetto  di  nozze,  fra  i  brindisi  e  gli  evviva  che  si  pro- 
pinavano agli  sposi,  ebbe  la  bontà  di  leggere  quelle  sue  epigrafi 
che  Paolo  ascoltò  assai  volentieri  col  bicchiere  alla  mano.  Della 
quale  avventura  si  fecero  le  più  grasse  risate.  »  Il  Giacometti,  il 
7  maggio  1861,  ossia,  dieci  anni  dopo  avere  scritto  la  Donna  in 
seconde  nozze,  diveniva  egli  stesso  sposo  felice  in  seconde  nozze 
della  signorina  Luigia  Saglio,  nella  famiglia  della  quale  egli  avea 
trovata  la  più  larga,  provvida,  cordiale  ospitalità  in  Gazzuolo. 
Col  soggiorno  definitivo  in  questa  piccola  terra  del  mantovano, 
incomincia  pel  Giacometti  un  nuovo  periodo  di  risurrezione  fisica, 
morale,  intellettuale;  gli  è  rinata  la  fede;  gli  é  ritornato  il  corag- 
gio ;  la  GiudUia  scritta  per  Adelaide  Ristori  è  il  primo  splendido 
segno  di  questo  risorgimento.  Rappresentata  la  prima  volta  a  Madrid 
la  sera  del  10  ottobre  4857,  poi  nella  primavera  del  1858  a  Parigi  col 
plauso  universale  della  critica  e  del  pubblico,  scese  nella  primavera 
del  1859  al  teatro  Carignano  di  Torino  come  un  grido  di  guerra  ; 
io  era  presente  a  quella  rappresentazione,  e  con  me  numerosi  vo- 
lontarii  accorsi  dalle  vicine  Provincie  lombarde  ed  emiliane  per 
combattere  la  guerra  dell'indipendenza;  nel  popolo  d'Israele  libe- 
rato si  riconobbe  il  popolo  italiano  ;  l'entusiasmo  degli  spettatori 
giunse  al  colmo.  Anco  la  Giuditta  riportava  nel  1859  il  primo 
premio  al  concorso  governativo  piemontese.  Seguivano  con  suc- 
cesso trionfale,  la  Bianca  Visconti  (rappresentata  la  prima  volta 
il  21  gennaio  1860  dalla  Ristori  a  Madrid),  il  Sofocle,  il  miglior 
lavoro  tragico  di  Giacometti,  nel  quale  l'attore  Salvini  è  stupendo, 
la  Morte  Civile,  dramma  in  cui  Ernesto  Rossi  (al  teatro  di  Fermo, 
nel  1861)  e  Tommaso  Salvini  colsero  molti  applausi  (il  Salvini  io 
ripeteva  al  teatro  Valle  di  Roma  per  ben  17  sere),  L'  indomani 
dell'ubbriaco,  commedia  che  al  popolare  teatro  Gerbino  di  Torino 
si  ripetè  per  molte  sere,  e  fu  invece  disapprovata  da  altri  pub- 
blici in  guanti  bianchi  che  si  sentono  nauseati  ogniqualvolta  l'at- 


—  457  — 
tore  ha  il  cattivo  gusto  di  travestirsi  da  popolano;  V UUimo 
dei  Duchi  di  Mantova,  dramma  rappresentato  la  prima  volta  al 
vecchio  teatro  Re  di  Milano  il  28  settembre  1864  da  Ernesto 
Rossi  ;  la  Luisa  Sanfelice,  Figlia  e  Madre,  Le  Storie  intiìiie,  la 
Maria  Antonietta ,  lavori  scritti  per  la  Ristori.  Nel  febbraio 
del  1870 ,  la  Maria  Antonietta ,  rappresentata  la  prima  volta 
a  Nuova  York  il  17  ottobre  1867,  aveva  già  avuto  141  rap- 
presentazioni, delle  quali  62  nell'America  del  Nord,  15  nell'Ame- 
rica del  Sud,  7  in  Olanda,  57  in  Italia  ;  la  Ristori  incassò  per 
tali  recite  898,627  lire  ;  se  avesse  dati  i  decimi  d'uso  all'autore,  il 
Giacometti  potrebbe  dirsi  arricchito  con  la  sola  arte  sua,  col  solo 

frutto  del  suo  ingegno;  invece La  Maria  Antonietta  h\  àÌYev ■ 

samente  giudicata;  parve  a  taluni  critici  una  glorificazione  della 
monarchia;  a  difendere  l'autore,  sorse  nella  Gazzetta  di  Torino 
del  1869  (4  aprile)  il  repubblicano  dottor  Timoteo  Riboli,  il  me^ 
dico  amico  del  generale  Garibaldi.  Il  Michelangelo  Buonarroti, 
ultimo  lavoro  drammatico  del  Giacometti,  affidato  alle  cure  di 
Tommaso  Salvini,  corona  degnamente  una  carriera  tutta  gloriosa. 
Rappresentato  al  vasto  teatro  affollato  del  Politeama  in  Firenze, 
per  parecchie  sere,  nello  scorso  giugno,  fu  bene  accolto  dal  pub- 
blico, che,  riconoscendo  in  Michelangelo  il  grande  artista  e  cit- 
tadino casentinese,  ammirò  poi  specialmente  un  dialogo  difficilis- 
simo fra  Michelangelo  e  Vittoria  Colonna,  e  la  scena  in  cui 
Michelangelo  espone  egli  stesso  il  soggetto  ed  il  senso  delle  sue 
meravigliose  statue  di  San  Lorenzo. 

Il  Giacometti,  oltre  alle  76  produzioni  drammatiche  delle  quali 
egli  è  autore,  compose  pure  gran  numero  di  liriche  fra  le  quali 
citerò  la  Canzone  alla  Polonia,  letta  al  meeting  tenutosi  nel 
marzo  1863  a  Casalmaggiore,  presieduto  dal  Guerrazzi;  il  Cantico 
di  Sicilia  dedicato  al  generale  Garibaldi,  che  ricambiava  nel  1862 
a  Parma  il  Giacometti,  col  dono  del  suo  ritratto,  recante  la  se- 
guente iscrizione  :  al  caro  poeta  della  libertà  italiana  Paolo  Gia- 
cometti, G.  Garibaldi;  il  Canto  a  Mantova  libera,  letto  nel  teatro 
Andreani  di  quella  città  il  20  ottobre  4866,  stampato  da  lui  a 
beneficio  della  Società  operaia  mantovana  di  mutuo  soccorso, 
della  quale  vuoisi  considerar  fondatore  ;  il  Cantico  d'Italia  in  Cam- 
pidoglio  (stampato  molto  scorrettamente  nel  fascicolo  della  Rivi- 
sta italiana  del  1871).  Dettò  pure  alcune  nobili  prose ,  pei  caduti 
nella  guerra  di  Lombardia  (1.3  luglio  1859),  in  morte  dell'  inge- 
gnere Attilio  Mori,  il  nobile  patriota  mantovano  (10  aprile  1864), 
pei  martiri   di  Belfiore    (7    dicembre    1864),   e  tutte  le  appendici 


—  458  — 
letterarie  critiche,  umoristiche  dell'  intiero  anno  18G7,  scritte  per 
la  Gazzetta  di  Mantova.  Egli  venne  creato  cavaliere  de'  Santi 
Maurizio  e  Lazzaro  sulla  proposta  del  Cavour  e  del  Maraiani;  è 
socio  onorario  di  tutte  le  principali  accademie  filodrammatiche 
italiane;  quelle  di  Mantova  ed  una  di  Palermo  s'  intitolano  dal 
nome  di  lui.  Il  tramonto  di  una  vita  travagliatissima  sorride  al 
generoso  poeta,  fiorito  di  vive,  per  quanto  modeste  consolazioni  ; 
sebbene  egli  abbia  vissuto  gran  parte  della  vita  fra  il  tumulto 
della  scena,  egli  fugge  studiosamente  ogni  rumore;  il  suo  tetto 
domestico  è  divenuto  il  suo  tempio;  egli  ha  vissuto  da  sé  tuttala 
vita,  conquistando  palmo  a  palmo,  col  solo  frutto  del  suo  potente 
e  libero  ingegno,  una  fama  cospicua;  e  da  sé  vive  ora  in  paci- 
fico recesso,  pago  di  un  sorriso  della  sua  dolce  compagna,  di  una 
carezza  della  sua  figlioletta,  del  ricordo  di  un  amico,  delle  proprie 
reminiscenze  artistiche  e  de'  lieti  augurii  pel  risorgimento  di 
quell'arte,  alla  quale  egli  diede  in  Italia,  con  l'opera  sua  calda 
d'amor  patrio,  inspirata  e  civile,  un  im.pulso  vigoroso. 


XXXIII. 


TOMMASO  GHERARDI  DEL  TESTA. 


Poiché  ho  discorso  di  uno  tra  i  più  illustri  veterani  del  teatro 
drammatico  in  Italia,  mi  giova  proseguire  col  nome  del  più  chiaro 
fra  i  commediografi  toscani,  e,  per  la  cara  vivacità,  amabile  fre- 
schezza, disinvolta  naturalezza  del  dialogo,  primo  fra  quanti  nel 
tempo  nostro  hanno  rallegrato  di  sali  comici  la  scena  italiana. 

Tommaso  Gherardi  del  Testa  è  nato  nel  Pisano,  studiò  a  Pisa, 
visse  molti  anni  a  Firenze  ove  professò  l'avvocatura,  ove  possiede 
parecchi  stabili  ed  ove  servì  pure,  in  anni  memorabili,  come  uf- 
ficiale della  guardia  nazionale  ;  ed  ora  egli  ha  per  propria  elezione, 
e  per  le  reminiscenze  di  una  antica  amicizia,  dimora  in  una  villa 
del  Pistoiese,  la  villa  Sestini,  che  fu  del  celebre  poeta  Bartolomeo 
Bestini  ed  ora  è  del  Brunetti;  a  Pistoia  una  sorella  di  lui  fu  già 
maritata  al  prof.  Corsini.  Questa  triplice  stanza  eh'  egli  ebbe  in 
tre  periodi  diversi  della  sua  vita  in  tre  delle  meglio  parlanti  pro- 
vinole toscane,  lo  resero  facilmente  uno  degli  scrittori  la  cui  lin- 
gua comica  senza  avere  le  caricature  di  alcuna  parlata  ritiene 
meglio  della  grazia  e  festività  de'  parlari  toscani  avendo  al  tempo 
stesso  dignità  di  lingua  nazionale. 

Nacque  Tommaso  Gherardi  del  Testa  a  Terricciuola  piccola 
villa  dei  colli  pisani,  ch'era  di  proprietà  della  sua  famiglia,  nel» 
l'anno  1818.  Dicono  che  fin  dall'infanzia  il  nostro  manifestasse 
particolare  attitudine  alla  drammatica,  e  che  laureato  a  diciott'anni 
in  legge  a  Pisa  e  venuto  a  professare  in  Firenze,  prediligesse  le 
cause  criminali  alle  altre  poiché  esse,  a  detta  dell'autore  medesimo, 
gli  sembravano  avere  maggiormente  del  drammatico.  Chi  volesse  in- 


—  460  — 
tanto  sapere  alcunché  della  vita  universitaria  del  Gherardi  potrebbe 
ricavarne  alcuna  notizia  probabile,  quantunque  indiretta,  da  un 
romanzo  poco  noto  fuor  di  Toscana,  ma  in  Toscana  tuttora  assai 
letto  del  Gherardi  stesso,  intitolato  :  Il  figlio  del  bastardo  ossia  gli 
amici  di  Università  che,  incominciato  nel  1846  e  pubblicato  dap- 
prima in  una  rivista  fiorentina  del  ]8i7  e  terminato  nel  ]848, 
mentre  il  Gherardi  del  Testa  stava  sui  campi  di  battaglia  in  Lom- 
bardia, si  pubblicò  quindi  in  due  volumi  a  Firenze  dal  tipografo 
Mariani.  Dovette  al  certo  essere  vita  assai  gaia;  e  l'agiata  for- 
tuna di  cui  il  Gherardi  ha  poi  sempre  goduto  gli  permise  pure 
il  lusso  di  vivere  a  modo  suo,  con  piena  libertà  e  disinvoltura,  e  di 
trarne  profitto  per  metterne  pur  molta,  forse  talora  anche  troppa, 
nelle  sue  opere  d' arte,  molte  delle  quali  se  manifestano  pur  sem- 
pre un  fare  scioltissimo,  non  si  ricusano  poi  talora  certe  licenze 
che  in  una  società  più  distinta,  ov'  egli  avesse  amato  frequentarla, 
0  farne  maggiore  stima,  avrebbe  riconosciute  meno  conformi  a 
quel  buon  gusto  del  quale  il  Gherardi  stesso  diede  come  scrittore 
alcuni  saggi  squisiti.  Che,  troppe  donnine  de'  suoi  racconti  e  delle 
sue  commedie  parlano  e  intendono  con  facilità  eccessiva  la  lingua 
parlata  da  certe  mezze  signore  fiorentine,  pisane  e  pistoiesi;,  ta- 
luna delle  sue  dame,  anche  quando  regna,  come  Adelaide,  si  espri- 
me con  una  famigliarità  che  starà  forse  bene  sulla  bocca  d'  una 
allegra  borghesina,  ma  che  non  ci  può  sicuramente  dare  un'  idea 
superlativamente  favorevole  di  una  squisita  gentildonna.  Cosi 
nelle  Scimmie  quella  contessa  Elisa,  il  personaggio  più  ideale 
del  componimento,  che  dà  schiaffi  alla  sua  cameriera  non  mi 
sembra  molto  più  distinta  della  propria  cameriera  che  inventa 
storielle  sul  conto  della  sua  padrona.  Il  proverbio  trito  e  vol- 
gare: Dimmi  con  chi  pratichi  e  ti  dirò  chi  sei,  dovrebbe  sovra 
tutto  valere  per  gli  autori  drammatici,  e,  se  ne'  nostri  vi  è,  per 
lo  più,  molta  volgarità  di  linguaggio  con  tanta  vana  pretesa  di 
signoria,  la  colpa  vuol  darsi  particolarmente  alla  società  che  i 
nostri  signori  autori  frequentano.  Il  Gherardi  non  fu  intiera- 
mente immune  dal  vizio  comune  ;  la  sua  commedia  riproduce  una 
sola  parte  della  società  toscana  nella  sua  vera  e  propria  realtà,  ma 
non  al  certo  la  più  attraente  né  la  più  comica.  Vi  abbiamo  meno 
donne  che  femminette,  meno  uomini  che  piccole  macchinette  le  quali 
si  montano  a  ora  fissa,  e  che  lasciano  spillare  tanto  spirito,  quanto 
importa  l'ufficio  provvisorio  e  meccanico  che  aflidò  loro  l'autore. 
La  prima  commedia  del  Gherardi,  Una  folle  ayvMzione,  che 
Adelaide   Ristori,   allora   giovine   attrice,   contribuì   molto  a  far 


—  461  — 
piacere,  tentò  le  male  lingue  a  novellare  che  essa  era  stata  scritta 
da  altri.  Non  solo  il  Gherardi  smenti  tostO;,  con  altre  commedie, 
come  Vanità  e  capriccio  e  Un  viaggio  per  istruzione,  quella  poco 
spiritosa  invenzione;  ma  gli  toccò  poi  niente  meno  che  la  sorte 
di  far  passare  come  opera  del  Giusti  le  proprie  satire:  Il  creatore 
ed  il  suo  Mondo  e  il  Fallimento  del  Papa,  nel  tempo  in  cui  le 
poesie  dell' Archiloco  pesciatino  giravano  ancora  manoscritte.  Alla 
prima  commedia  il  fecondo  commediografo  pisano  ne  ha  ora  fatte 
succedere  altre  quaranta  all' incirca,  delle  quali  alcune  sono  tuttora 
molto  applaudite,  altre  giunsero  opportune  a  proclamare  dalla 
scena  un'utile  verità  ch'era  urgente  il  divulgare;  tra  quest'ulti- 
me sono  Le  coscenze  elastiche,  coraggioso  componimento  per  l'anno 
in  cui  fu  scritto,  quando  cioè,  dopo  l'annessione  della  Toscana  al 
Regno  d'Italia,  i  vecchi  paolotti  e  cortigiani  e  lacchè  de'  Lorenesi 
si  barcamenavano  per  carpire  un  impiego  al  governo  nazionale. 
Il  Gherardi  del  Testa  acquistò  la  sua  prima  fama  con  alcune  lievi 
commedie,  ove  dal  sapore  toscano  del  dialogo,  e  dal  naturale  svol 
gimento  di  un  semplicissimo  intreccio  in  fuori,  vi  sono  pochi  al- 
tri pregi  a  rilevare  :  tali  furono  II  sistema  di  Giorgio,  Il  sistema 
dì  Lucrezia,  Con  gli  uomini  no7i  si  scherza.  Il  Padiglione  delle 
Mortelle  e  il  Regno  di  Adelaide,  per  citare  le  più  popolari  e  le 
più  finite  (1).  Della  fama  acquistata  col  gioviale  ingegno  si  valse 


(1)  Il  Teatro  Comico  dell'avvocato  T.  Gherardi  del  Testa  fa  pubbli- 
cato dal  Barbèra  in  Firenze  fra  l'anno  1856  e  il  1872;  esso  comprende 
flnquì  i  lavori  seguenti  :  Con  gli  uomini  non  si  scherza  —  Un  viaggio 
per  istruzione  —  Il  sistema  di  Giorgio  —  Il  berretto  bianco  da  notte  — 
L'anello  della  madre  —  Il  sogno  d'un  brillante  —  Yanità  e  capriccio  — 
Un  marito  sospettoso  —  Il  Regno  d'Adelaide  —  Un'  avventura  ai  ba- 
gni — '  Gustavo  III  Re  di  Svezia  —  Amante  e  madre  —  Vendicarsi  e 
perdonare  —  L'eredità  di  un  brillante  —  Il  sistema  di  Lucrezia  — 
Armando  ossia  il  canino  della  Cugina  —  Promettere  e  mantenere  — 
La  perla  dei  mariti  —  La  diplomazia  nel  matrimonio  —  Le  due  so- 
relle —  Manuela  la  zingara  —  Il  matrimonio  d'un  morto  —  La  Dama 
e  l'Artista  —  Un  ballo  in  maschera  —  Le  false  letterate  —  Un  brillante 
in  tragedia  — >  La  mod>a  e  la  famiglia  —  Linea  retta  e  linea  curva  — 
La  scuola  dei  Vecchi  o  il  Padiglione  delle  Mortelle  —  Una  nuova  li- 
nea di  strada  ferrata  —  La  pagheremo  in  due  —  Le  scimmie  —  La 
carità  pelosa  — «  L' oro  e  V  orpello  — •  Il  vero  blasone  —  L' improvvisa- 
tore —  Le  coscienze  elastiche  —  Tanto  va  la  gatta  al  lardo  che  ci  la- 
scia lo  zampino.  Le  commedie  sono  per  la  massima  parte  dedicate  a 


egli  quindi  per  proseguire  a  scrivere  la  commedia  sociale,  essen- 
dosi egli  pure  dovuto  convincere  che  la  morale  sulla  scena  se  non 
é  tutto,  come  scrisse  un  giorno^  con  ischerno  meno  opportuno,  il 
poeta  Braccio  Bracci  di  Livorno,  al  quale  il  Gherardi  dedicava  il 
suo  Sistema  di  Lucrezia,  è  certamente  mollo;  poiché,  se  molti 
spettatori  anco  disonesti  non  amano  di  vedere  pompeggiata  sulla 
scena  la  loro  disonestà,  questo  sentimento  muove  da  un  pudore 
degno  di  tutt'altro  che  di  riso  e  disprezzo.  Un  tal  sentimento 
vuol  dire  che,  presentato  a  quello  spettatore  il  vizio  nel  suo  aspetto 
deforme,  la  virtù  nelle  sue  parvenze  divine,  egli  si  lascerà  final- 
mente attrarre  da  questa,  e  che,  se  la  sua  condotta  non  è  ancora 
morale,  egli  è  pur  dotato  di  un  sufficiente  senso  di  delicatezza 
per  rius('.ire  infine  a  conformarvi  anco  il  proprio  costume. 

Il  quarto  volume  delle  Commedie  del  Gherardi  del  Testa  ap- 
parso nel  1858  accenna  già,  con  Le  False  Letterate,  con  La 
Moda  e  la  Famiglia  e  con  Le  Scimmie  ad  una  nuova  maniera 
non  già  di  scrivere  commedie  ma  d'intendere  l'ufficio  dell'arte  dram- 
matica. II  dialogo  vi  ha  sempre  la  stessa  invidiabile  spontaneità  e 
piacevolezza,  ma  vi  è  un'idea  morale  che  lo  governa  e  gli  accresce 
dignità.  Nel  suo  Vero  Blasone  poi  e  nella  recentissima  Vita  Nuova, 
commedia  in  cinque  atti  ch'ebbe  già  in  quest'anno  una  cosi  splendida 
accoglienza  sulle  scene  toscane,  il  Gherardi  si  mise  risoluto  per  una 
via,  nella  quale  tanto  maggiori  allori  raccoglierà  quanti  più  fruttiferi 
semi  egli,  con  mano  liberale,  autorevole  e  benefica  vorrà  dalla 
scena  prodigare  a  beneficio  di  quella  civile  educazione  del  nostro 
popolo  italiano,  ch'è  ora  nel  cuore  e  nella  mente  d'ogni  generoso 
scrittore  italiano.  Nella  dedica  del  Vero  Blasone,  il  Gherardi  del 
Testa  fa  merito  al  Bellotti-Bon  d'averlo  ricondotto  a  scrivere  pel 
teatro  ;  se  il  Bellotti-Bon  ebbe  tanto  potere,  dobbiamo  sapergliene 
grado  anche  noi,  poiché  l'autore  del  Vero  Blasone  vi  sembra 
come  autore  drammatico  arrivato  alla  sua  perfetta  nobiltà.  Sopra 
la  vecchia  commedia  composta  di  scene  brioijamente  maliziose  il 
Gherardi  del  Testa  ne  ha  ora  intessuta  una  nuova  a  più  larga 
trama  e  con  più  alto  concetto  ;  la  sua  commedia  ora  veramente 


comici,  quali  la  Ristori,  la  Fumagalli,  il  Salvini,  il  Domeniconi,  il  Cal- 
loud,  Bellotti-Bon,  Amilcare  Bellotti,  a  filodrammatici,  ed  autori  dram- 
matici quali  il  fu  Giuseppe  Pieri  tragico  ,  i!  poeta  tragico  Braccio 
Bracci,  l'egregio  commediografo  Luigi  Suner. 


--  -ilJ-J  — 
castigai  ridendo  mores;  si  è  fatta  popolare  senza  divenire  plebea, 
si  è  fatta  educatrice  senza  riuscir  noiosa;  non  vi  è  piìi  la  sola 
gaiezza  di  chi  ama  il  riso  pel  riso  ;  né  l'equivoco  giudicio  di  chi 
assolve  e  salva  ancora  dalla  catastrofe  le  sole  scùmnie  che  fanno 
ridere;  qui  il  cuore  e  l'ingegno  vogliono  contemperarsi;  il  Ghe- 
rardi  del  Testa  non  ha  rinunciato  ad  alcuni  de' vantaggi  che  gli 
offriva  la  sua  prima  commedia  (non  ritenendo  naturalmente  per 
vantaggi  certe  licenze  meno  decenti  da  lui  felicemente  dismesse, 
le  quali  quanto  meglio  garbano  ai  comici  i  quali  si  danno  poi 
anche  la  cura  di  caricarle,  e  alle  più  ineducate  platee,  tanto  più 
offendono  lo  spettatore  ed  il  lettore  di  buon  gusto),  e  intanto  recò 
nell'opera  sua  un  nuovo  elemento  vitale,  il  calore  dell'affetto; 
l'intrigo  lascia  ancora  a  desiderare;  la  politica  vi  è  quasi  sempre 
un  poco  troppo  appiccicata;  l'unità  armonica  non  è  ancora  trovata; 
il  Gherardi  non  è  riuscito  a  superare  tutti  gli  ardui  scogli  che 
presenta  la  commedia  sociale;  ma  col  ritornare  coraggiosamente 
sopra  sé  stesso,  per  trasformarsi  sopra  la  scena,  di  gioviale  buon- 
tempone in  maestro  geniale,  egli  ha  dato  in  Italia  e  particolar- 
mente in  Toscana  un  eccellente  esempio  ai  giovani  autori  dram- 
matici, che  faranno  bene  quind'innanzi  a  mettersi  animosi  sopra 
la  stessa  via  maestra.  Né  il  Gherardi  tracciando  a  sé  ed  altrui  una 
nuova  via,  rende  solamente  omaggio  al  tempo  che  cammina,  ma  si 
mostra  ancora,  con  l'opera  sua  d'arte  coraggiosa,  quanto  egli  abbia 
saputo  adoperare  con  utile  coraggio  la  vita.  Egli  fu  sempre  buon  cit- 
tadino ;  e  però  le  sue  opere  d'arte,  quando  si  propongono  uno  scopo 
sociale,  sono  ascoltate  con  riverenza  ed  esercitano  un'efficacia  oppor- 
tuna. Egli  non  ebbe  bisogno  di  convertirsi  con  le  novità  che  i  tempi 
portavano,  come  fecero  altri  scrittori  italiani  di  nascita  e  non  di 
animo,  i  quali  a  farsi  perdonare  la  lunga  loro  servilità  verso  gli 
stranieri,  quando  questi  furono  partiti,  scagliarono  lor  contro 
ogni  maniera  d'insulti  inverecondi  ;  il  Gherardi  del  Testa  non 
ebbe  a  far  altro  che  tradurre  sopra  la  scena  i  propri  pensieri,  ai 
quali  avevano  degnamente  corrisposto  gli  atti  della  vita.  Già 
prima  dell'anno  1859  e  come  autore  drammatico  e  come  giorna- 
lista, sotto  il  pseudonimo  di  Aldo,  col  quale  presentossi  a  com- 
battere, agile  e  vigoroso  battagliero,  in  parecchi  giornali  e  in 
parecchie  riviste  liberali  del  tempo  (ricordo,  fra  i  più  vivaci,  lo 
Scaramuccia,  in  cui  scrivevano  pure  Celestino  Bianchi,  Cesare 
Donati,  Piero  Puccioni,  P.  Ferrigni,  Ferdinando  Martini,  Ghe- 
rardo Nerucci),  il  Gherardi  del  Testa  avea  mostrato  grand'animo 
come  scrittore.  E  prima  dol  1849,  egli  avea  pure  fatto  il  suo  do- 


—  464  — 
vere  di  cittadino  combattendo  contro  l'austriaco  a  Montanara. 
Faceva  egli  parte,  come  ufficiale,  a  San  Silvestro  delle  schiere 
condotte  dal  Giovanetti  le  quali  rimasero  quasi  tutte  prigioniere 
degli  austriaci.  A  un  tratto  si  trovò  solo  e  sperso;  oppresso  dalla 
stanchezza,  si  lasciò  cadere  a  terra  e  prese  sonno.  «  La  mattina 
del  30  maggio  1848,  scrive  il  Nerucci,  mentre,  destatosi,  si  ac- 
cingeva a  cercare  una  via,  fu  sopraggiunto  da  una  squadriglia  di 
croati  :  di  questi,  uno  gli  tirò  una  baionetta  nel  ventre,  ma  lo 
prese  nella  placca  del  cinturone.  Siccome  il  croato  rinnovava 
l'assalto,  il  Gherardi  tirò  fuori  la  sciabola  e  si  difendeva,  quando 
di  dietro  un  ufflziale  austriaco  lo  prese  pel  colletto  del  cappotto 
e  lo  dichiarò  prigioniero.  Il  Gherardi  gli  consegnò  la  sciabola, 
dicendogli  :  Questa  sciabola  è  di  mio  padre  ed  ha  veduto  le  guerre 
napoleoniche.  Fu  condotto  a  Theresienstadt,  donde  non  tornò  che 
cogli  altri  ». 

Onore  ai  superstiti  della  gloriosa  legione  de'  prodi  toscani  di 
Curtatone  e  Montanara;  onore  al  prode  scrittore  che  dal  campo 
di  battaglia  ha  recato  sul  campo  della  scena  lo  stesso  animo  in- 
trepido, non  mostrando  come  troppi  altri  in  Toscana  hanno  poi 
fatto  alcun  pentimento,  al  ritorno  del  loro  tirannello,  di  una 
generosa  imprudenza  della  loro  giovinezza,  e  rendendo  cosi  pa- 
lese come  non  il  capriccio,  non  la  vanità,  non  l'ambizione  di  su- 
biti gradi  li  avea  determinati  al  solo  rischio  di  quell'intrapresa, 
ma  un  nobile  sentimento  che  trovava  il  proprio  premio  in  sé  stesso. 
Il  Gherardi  del  Testa  ha  quindi  voluto  serbarsi  costantemente  scrit- 
tore nazionale  ;  e  la  sua  commedia  non  ha,  in  verità,  di  straniero 
altro  che  il  primo  stimolo  che  accende  spesso  gli  estri  poetici  del 
Gherardi,  cioè  quello  de'  vini  forestieri  de'  quali,  secondo  la  cro- 
naca, egli  è  un  ricercatore  e  collettore  più  che  appassionato. 


XXXIV. 


GIUSEPPE  TIGRI. 


E  poiché  col  Gherardi  del  Testa  siamo  ritornati  a  quella  gen- 
tile città  di  Pistoia,  cui  dedicammo  alcune  parole,  ragionando  del- 
l'illustre Montalese  Atto  Vannucci,  tratteniamvici  alquanto,  tanto 
più  che  abbiamo  per  visitarla  una  lodata  ed  amabile  guida  nello 
stesso  egregio  uomo  di  lettere  da  cui  s'intitola  il  presente  ricordo. 

Il  Tigri  è  de'  più  benemeriti  scrittori  pistoiesi,  per  ogni  ma- 
niera di  diligenza  da  lui  posta  ad  illustrare  le  tradizioni  native 
nel  poemetto  delle  Selve,  ricco  di  note  preziose,  che  s'ebbero  le 
lodi  dei  celebri  fratelli  Jacob  e  Wilhelm  Grimm,  quand'essi  ven- 
nero insieme  a  visitar  la  Toscana;  la  letteratura  popolare,  parti- 
colarmente pistoiese,  nella  bella  raccolta  di  Canti  che  il  Barbèra 
ha  già  pubblicato  in  triplice  edizione;  la  storia,  la  topografia, 
l'arte  pistoiese  in  una  serie  pregevole  di  pubblicazioni,  fra  le  quali 
la  Memoria  slorica  intorno  al  palazzo  pretorio  o  del  potestà  di 
Pistoia  (1),  il  libro  su  Pistoia  e  il  suo  territorio,  Peseta  e  i  suoi 
dintorni  (2),  molto  lodato  specialmente  dal  prof.  Domenico  Capel- 
lina nella  torinese  Rassegna  Letteraria ,  oltre  la  Guida  della 
montagna  pistoiese;  parecchie  biografie  di  chiari  pistoiesi,  e  un 
bel  romanzo  storico  sopra  la  colta  amata  ed  amante  di  Gino  da 
Pistoia.   La    Selvaggia   de'  Vergiolesi.  Nessuno  scrittore  pistoiese 


(I)  Pistoia,  1848,  un  voi.  in-4,  di  circa  i'OO  pag. 
('2)  Pistoia,  1854.  con  8  incisioni,  mia  carta  topografica  e  una  pianta 
'Iella  città  di  Pistoia. 

Ricordi  Bioorakici  30 


-  466  — 

può  al  certo  vantarsi  d'avere  co'  proprii  scritti  meglio  illustrata 
la  sua  città  nativa.  E  se  il  Tigri  non  avesse  già  altri  pregi  come 
uomo  e  come  scrittore,  per  questo  solo  merito  d'avere  dato  molto 
lustro  alla  propria  città,  meriterebbe  qui  di  venir  considerato. 

Nacque  Giuseppe  Tigri  a  Pistoia  a' 22  dicembre  1806,  di  mo- 
desta famiglia  pistoiese;  uno  zio  paterno  andato  in  Russia  pove- 
rissimo sotto  il  primo  impero ,  con  la  volontà ,  col  lavoro  e  con 
r  ingegno  vi  conseguì  1'  agiatezza  e  la  dignità  di  consigliere  di 
governo;  una  nipote  di  lui  che  vive  tuttora  a  Mosca,  la  signorina 
Giulia  de  Baltus,  è  una  valentissima  pittrice  e  suonatrice  di  pia- 
noforte. Alla  pittura  diedesi  pure  una  sorella  di  Giuseppe  Tigri , . 
Emilia  sposata  in  Firenze  a  Luigi  Paglianti.  (1)  Coltivò  pure 
la  musica  il  nostro  Giuseppe;  un  chiaro  anatomista  è  il  fra- 
tello di  lui  Atto ,  insigne  cattedratico  dell'  università  di  Siena. 
Così,  per  quanto  umile  sia  stata  la  nascita  de'  Tigri,  parecchi  tra 
essi  hanno  saputo  nel  secol  nostro  acquistarsi  un  blasone  di  no- 
biltà. Il  matrimonio,  in  seconde  nozze,  del  padre  di  Giuseppe,  il 
signor  Luigi  Tigri  con  Barbera  Begliomini.  Il  nostro  Giuseppe  fu 
eletto  a  godere  di  un  pio  legato,  ma  in  pari  tempo  a  vestire  per 
tutta  la  vita  un  abito  che  forse  gli  era  meno  adatto  e  eh'  egli  pur 
seppe  portare  rassegnato  senza  ambir  tuttavia  cariche  ecclesiasti- 
che le  quali  non  gli  sarebbe  stato  malagevole  conseguire,  con  l'aiuto 
di  molti  discepoli,  amici  e  colleghi  potenti;  ch'egli  non  ha  invece  mai 


(1)  Per  le  nozze  di  sua  sorella  il  Tigri  componeva  il  seguente  affet- 
tuoso sonetto  : 

0  mia  sorella,  in  questo  di  solenne 
Apportator  d'ogni  tua  gioia  intera, 
Odi  qual  porgo  al  cìei  per  te  preghiera 
Che  sul  labbro  dal  cuore  intimo  venne. 

Di  nostra  madre  la  virtù,  che  ottenne 
Un  premio  già  su  nell'eterna  sfera, 
In  te  discenda!  Ah!  tu  la  segui,  e  spero 
Che  il  seren  di  tal  di  ti  sia  perenne! 

Mesto  è  il  pensier;  ma  gioie  umanamente 
Non  t'aspettar  senza  mestizia  almeno: 
Più  grande  è  il  tuo  gioir,  più  in  cor  si  sente. 

Il  vedi?  io  pur  mentre  di  gaudio  ho  pieno 
Per  te,  dolce  sorella,  il  cor,  la  mente, 
Non  freno  il  pianto  or  che  ti  stringo  al  seno  I 
28  Febbraio  1847. 


—  467  — 
voluto  incomodare  per  sé.  Tra  questi  il  Limberti  che  fu  già  suo  di- 
scepolo in  Prato  e  che  divenne  arcivescovo  di  Firenze,  e  il  Bindi 
suo  collega,  ora  arcivescovo  di  Pistoia,  non  gli  avrebbero  certa- 
mente negato  i  loro  favori,  quando  non  avessero  conosciuto  per 
tempo  i  sentimenti  liberali  del  nostro,  e  il  poco  suo  studio  di  pog- 
giar alto  in  una  carriera  che  non  era  di  sua  elezione.  Egli  si  volse 
invece  con  amore  agli  studii;  e,  da  prima,  fece  singolare  profitto 
come  alunno  del  seminario  vescovile  di  Pistoia,  ov'era  maestro 
quel  potente  eccitatore  d'ingegni,  per  dirla  con  l'Arcangeli,  che  fu 
Giuseppe  Silvestri,  entusiasta  di  Dante  e  di  Virgilio,  'della  cui 
bella  scuola  uscirono  pure  il  Vannucci,  il  Bindi,  e  Giuseppe  Ar- 
cangeli di  San  Marcello  pistoiese ,  che  fin  dall'  anno  1828  si 
legò  col  Tigri,  più  anziano  d'un  anno,  di  forte  e  vìva  ami- 
cizia, in  ispecie  dopo  una  grave  e  pericolosa  malattia  che  l' Ar- 
cangeli ebbe  in  convitto,  nella  quale  il  Tigri  avea  vegliato  con 
amore  di  fratello  al  letto  di  lui;  l'Arcangeli  moribondo  in  Prato 
desiderava  quindi  pure  presso  di  sé  il  18  settembre  1855,  come 
suo  amico  prediletto  a  consolarlo  il  Tigri ,  il  quale  accorreva , 
malgrado  l' infierire  del  morbo  asiatico ,  del  quale  lo  stesso  Ar- 
cangeli era  rimasto  vittima.  Né  l' amicizia  mostratagli  in  vita 
bastava  all'  animo  affettuoso  del  Tigri  ;  cbs  ,  mentre  altri  sedi- 
centi amici  dell' Arcangeli,  col  pretesto  di  raccoglierne  gli  scritti, 
cercarono  d'infamarne  la  memoria,  con  gran'Je  sdegno  de'  buoni , 
fra  i  quali  cito  ad  onore  i  nomi  di  Giampietro  Vieusseux  e  di 
Atto  Vannucci,  egli,  invitato  veniva,  il  24  febbraio  1856,  a  reci- 
tare nell'Ateneo  Italiano  di  Firenze,  del  quale  egli  è  socio ,  un  bel- 
l'elogio dell'estinto  amico,  ricco  di  notizie  e  d'affetto,  ch'é  quanto 
di  meglio  sia  finqui  stato  scritto  in  onore  dell'insigne  letterato  di 
San  Marcello.  Così  il  Tigri,  prima  ancora  che  le  facoltà  dello  squi- 
sito ingegno,  fece  valere  quelle  di  un  gran  cuore;  molti  amici  lo 
conobbero  alla  prova;  per  i  suoi  fratelli  e  nipoti  egli  ha  poi  me- 
glio di  una  volta  fatto  intiero  sacrificio  di  sé.  I  molti  lettori  che 
avranno  quindi  negli  scritti  del  Tigri,  oltre  alla  lingua  eletta  e  lo 
stile  disinvolto,  che  sarebbe  facile  ad  ogni  scrittore  toscano  il  far 
valere,  ma  di  cui  ben  pochi  invece  sanno  fregiare  i  loro  scritti, 
avuto  agio  di  riconoscere  come  qualità  suprema,  la  gentilezza, 
non  se  ne  meraviglieranno  pensando  che  egli,  prima  di  scrivere 
affettuosamente,  fu  affettuoso,  prima  di  scrivere  con  garbo,  senti 
con  delicatezza. 

Quanto  a'suoi  sentimenti  liberali,  io  ho  provo  certe  ch'essi  non 
aspettarono  il  ftivore  de'tempi  per  manifestarsi  ;  né  il   Tigri   sa- 


—  468  — 
rebbe  ora  tanto  stimato  ed  amato  da  quel  cittadino  intemerato 
del  Vannucci;,  se  egli  si  fosse  mostrato  tal  uomo  da  mutar  fa- 
cilmente principii.  Questo  io  so  che  quando  il  celebre  storico  Sis- 
mondi  ritrovavasi  nel  1837  a  Pescia  il  Tigri  ragionava  con  esso 
di  comuni  voti,  di  comuni  speranze,  e  gli  baciava  quella  mano 
che  scriveva  la  storia  d'Italia,  e  meritava  d'essere  dal  Sismondi 
posto  nel  numero  crescente  di  que'buoni,  dai  quali  è  lecito  spe- 
rar bene  pel  risorgimento  d'Italia;  né  ignoro  che  il  Guerrazzi  fra 
il  1838  il  1845  stava  in  corrispondenza  letteraria  col  Tigri,  né 
già  solamente  per  ringraziare  il  letterato  delle  sue  gentilezze,  si 
ancora  per  manifestargli  voti  italiani;  nel  1847  e  1848,  il  Tigri 
dava  fuori  alcuni  rispetti  politici.  L'usignolo  o  le  prime  riforme, 
(18i7)  L'addio  della  povera  fanciulla  Fivizzanese  (1847)  Il  Co- 
scritto di  Venezia  (1847),  La  festa  delle  bandiere  a  Qavinana 
(1847),  Il  Rondinino  Messaggero  a  Pontremoli  (1847),  nel  quale 
il  poeta,  dopo  aver  sognato  Pio  nono  e  Carlo  Alberto  uniti  per 
la  difesa,  d'Italia,  conchiude,  con  popolare  ardimento: 

E  se  fallisse  il  sogno,  ho  speme  in  core 
Che  lo  difenderà  nostro  valore. 

Il  rispetto  II  ritorno  di  Lombardia  dello  stesso  anno  1847  si  di- 
stingue parimente  per  la  sua  chiusa  ;  il  reduce  descrive  gli  orrori 
de'Tedeschi  a  Milano  e  soggiunge: 

E  se  le  madri  fanno  de'lamenti, 

Que'  lurchi  li  trafiggon  gl'innocenti. 

E  se  le  madri  de'lamenti  fanno... 

Oh  Dio  !  Speriam  che  al  Cielo  arriveranno. 

Seguivano  nel  1848  altri  parecchi  rispetti  del  Tigri,  che  reca- 
vano i  titoli  seguenti  :  Le  sette  stelle,  Unione  e  armi.  Il  fior 
giallo,  Il  traditore,  Le  montaìiine  dell'  Appennino  toscano.  Le  si- 
ciliane, Il  disertore,  Le  feste  nazionali,  L'arco-baleno,  La  via 
di  Bologna,  La  ghirlanda,  Non  te  ne  fidare,  Il  Capuano,  E  spero 
di  tornar.  La  buon'andata,  Il  29  maggio  a  Curtaione,  alcuni  dei 
quali  erano  degni  di  diventar  popolari.  Nello  stesso  anno  1848, 
quando  le  signore  fiorentine  offrirono  un  Album  a  Gioberti,  il 
Tigri,  invitato  dalla  signora  Eleonora  De  Pazzi  a  scrivervi,  vi 
deponeva  questi  versi  : 


—  469  — 

A  Gioberti 

Se  invocato  dall'Itala  gente 
Venne  e  vinse  Re  Carlo  il  guerriero. 
Tua  la  gloria,  o  sublime  Veggente, 
Che  primier  gli  schiudesti  il  sentiero. 

Tua  la  gloria  se  amore  e  perdono 
Risuonare  sul  Tebro  si  udi; 
Si  riscosse  l'Italia  a  quel  suono, 
Di  tre  secoli  i  voti  compi. 

Quando  il  Gioberti  arrivò  a  Pistoia,  il  Contrucci  ed  il  Tigri 
furono  incaricati  dalla  città  di  andargli  incontro  fuor  delle  porte 
per  riceverlo. 

Vengono  nel  1849  gli  austriaci  in  Toscana;  il  Tigri  scrive  un 
rispetto  contro  gli  stranieri,  che  finisce  coi  versi: 

Ci  rubano  insultando  e,  Dio  ne  scampi  I 
Diserte  ci  faran  le  vigne  e  i  campi. 

Non  do  al  certo  questi  versi  come  saggio  del  valore  poetico  del 
Tigri  che  n'ha  scritti  di  assai  migliori  ;  il  grazioso  poemetto  di- 
dascalico delle  Selve  che  s'ebbe  già  quando  apparve  nel  1844,  la 
prima  volta,  oltre  quelle  dei  Grimra,  le  lodi  del  Tommaseo,  del 
Guerrazzi,  del  Vannucci,  del  Picei,  e  nel  1848  quelle  del  Gioberti 
che  ne  chiamava  elegantissimi  i  versi  quanto  dotte  le  note,  e 
nuovi  e  più  larghi  encomii  dopo  la  ristampa  che  se  ne  fece  nel 
1869  dall'editore  Paggi  in  Firenze,  basta  ad  attestare  il  gusto 
poetico  del  Tigri;  ed  inoltre  sono  Le  Selve  documento  sincero 
dell'amor  patrio  del  Tigri,  il  quale  toccando  della  morte  del  Fer- 
ruccio, vi  cantava: 

Ma  da  mille  oppresso. 
Ma  trafìtto  e  tradito,  eppur  non  vinto. 
La  grand'alma  esalava,  e  il  suo  sospiro 
Si  parve  allor  di  libertà  l'estremo. 
Pur  ne'fati  era  scritto  (e  un  astro  sempre 
Benigno  fra  gli  error  la  via  ne  scorse) 
Che  a  quell'urna  sovente  ad  ispirarsi 
Venissero  animosi  itali  figli  : 


—  470  — 

E  che,  frementi  nel  pensier  dell'onta 
Invendicata,  dell'antico  eroe 
Evocando  lo  spirto,  alfin  com'esso 
L'armi  brandite  per  la  patria,  e  mille 
A'mille  aggiunti,  concordi,  volenti, 
Una  e  libera  alfine  Italia  fosse  ! 
Salve,  Gabinio  suolo  i  E  voi  salvete , 
0  fortissimi  spirti,  e  tu  primiero 
Di  ferreo  usbergo  per  la  patria  armato, 
Magnanimo  campion  !  Palpiteranno 
Di  santo  amor  per  te  gl'itali  petti 
Infln  che  il  sole  sul  terren  risplenda, 
Che  ti  fu  campo  glorioso  e  tomba  ! 

Né  questi  son  versi  elegantissimi;  il  poemetto  ne  contiene,  in  ispe- 
cie,  nelle  descrizioni,  di  assai  più  squisiti;  ma  io  volli  solamente  far 
vedere  come,  tratto  tratto,  fra  il  culto  delle  eleganze  letterarie,  il 
cuore  del  buon  cittadino  abbia  saputo  mandare  un  grido  generoso,  e 
come  rivendicata  l'Italia  in  libertà,  egli  non  abbia  già  dovuto  camuf- 
farsi per  riuscir  liberale,  ma  semplicemente  ftir  meglio  palese  una 
parte  di  que'sentimenti  ch'egli  non  già  traditi,  ma  avea  dovuto  spes- 
so^ e  non  sempre  potuto,  nel  tempo  della  servitù,  tenere  compressi. 
Col  Montanino  toscano  volontario  nella  guerra  dell'indipendenza 
italiana,  racconto  popolare,  di  cui  si  fecero  già  due  edizioni,  il  Ti- 
gri si  rivelò  sotto  un  aspetto  nuovo,  ma  non  inatteso,  per  chi 
abbia  osservato  nella  sua  Raccolta  dei  Canti  popolari  toscani  e 
nelle  sue  Selve  quanto  egli  ami,  studii  e  intenda  la  natura.  Io  cedo 
qui  la  parola  ad  un  giudice  assai  competente,  in  fatto  d'eleganze. 
Augusto  Conti,  il  quale  scrivendone  al  Tigri,  esprimevasi  ne'ter- 
mini  seguenti  :  «  Il  vostro  racconto  mi  è  piaciuto  straordinaria- 
mente. Voi  dipingete  la  natura,  la  natura  bella,  e  con  modi  na- 
turali, cioè  vivi,  reali,  nella  realtà,  ideali  ed  eletti.  Quando  si 
tien  dietro  a  questo  esemplare,  oh  come  vien  fatto  di  riaccostarci 
a  quella  semplicità  antica  della  Bibbia  e  d'Omero  I  Non  si  può  far 
a  meno,  perchè  diventiamo  scolari  del  medesimo  maestro.  A  dirne 
una  :  quell'amore  campestre,  quella  fontana,  quel  dare  a  bere  colla 
brocca,  quel  bicchier  d'acqua,  da  chi  l'avete  imparate  voi  quelle 
bellezze  vere?  Dalla  natura;  e  voi  meritate  gran  lode,  perchè  ne 
siete  discepolo  attento.  Così  quando  voi  mettete  parole  d'affetto  in 
bocca  alla  mamma  del  vostro  soldato,  e  a'due  innamorati,  voi  non 
ve  le  create   a   capriccio,  pigliate  proprio  le  parole   che  s'odono 


—  474  — 
lassù  in  quelle  vostre  care  montagne,  come  il  cuore  le  detta;  e 
però  io  a  sentirle,  me  ne  commovo  tutto  quanto  d'amore  e  di 
compassione.  E  cosi  que'  fatti  d'  arme,  narrati  tal  quali,  come  se 
fossimo  lì  a  udirli  da  chi  ci  è  stato,  e  però  sempre  individuati, 
mi  son  piaciuti  oltremodo.  Non  vi  nascondo  per  altro,  che,  talora^, 
secondo  me,  voi  divenite  minore  di  voi  stesso,  quando  lasciate  la 
natura,  e  vi  ricordate  un  po'  troppo  di  certe  affettazioncelle  scola- 
stiche. »  Gli  stessi  pregi  di  stile  e  la  stessa  bontà  di  intendi- 
menti offre  l'altro  recentissimo  racconto  del  Tigri  Da  volontario 
a  Soldato  del  quale  il  generale  Menabrea  ha  reso  onorevole  giu- 
dizio e  che  parecchie  scuole  di  reggimento  hanno  già  accolto 
come  libro  di  lettura.  I  signori  giurati  dell'ultimo  Congresso  pe- 
dagogico di  Venezia  (gli  stessi  che  fecero  la  bravata  di  mettere 
all'indice  il  Portafoglio  dell'  operaio  di  Cesare  Cantù,  libro  nel 
quale  vi  sono  bensì  alcuni  periodi  male  inspirati,  ma  tante  belle 
pagine  che,  in  verità,  non  era  lecito  ai  signori  giurati  esprimere 
altro  che  un  voto  perchè  l'illustre  scrittore  lombardo  sacrificasse 
egli  stesso  que'passi,  i  quali  un  fallace  dispetto  gli  aveva  pur 
troppo  consigliati;  fortuna  pel  Cantù  che  mentre  i  signori  mae- 
stri giurati  gli  davano  il  bando  solenne  dalle  scuole,  l'illustre 
Accademia  delle  scienze  di  Torino,  offriva  al  Cantù  quel  posto 
glorioso  di  socio  non  residente  che  si  era  reso  vacante  per  la 
morte  di  Alessandro  Manzoni)  dopo  avere  trovato  ogni  maniera 
di  pregi  desiderabili  nel  racconto  del  Tigri,  lo  licenziava  col  con- 
tentino d'una  medaglia  di  bronzo,  mettendolo  in  coda  ad  alcuni 
altri  autori  premiati  con  medaglia  d'argento,  che  meritavano 
forse  invece  d'esser  mandati  a  scuola. 

Il  libro  di  letture  Contro  i  pregiudizii  popolari,  le  supersti- 
zioni,  le  allucinazioni  e  le  ubbie  degli  antichi  e  massime  dei 
moderni,  premiato  dal  Congresso  pedagogico  di  Napoli  del  1871, 
ha  evidentemente  ancor  esso  uno  scopo  educativo  ;  sarebbe  vana 
pretesa  quella  di  trovare  in  esso  il  valore  di  un  lavoro  scientifico; 
ma  è  onesta  ed  utile  pubblicazione,  che  basta,  pel  bisogno  urgente 
di  quelle  scuole  alle  quali  in  particolare  si  destina  e  si  racco- 
manda. Uno  degli  ottimi,  tra  i  libri  d'amena  lettura  che  si  pub- 
blicarono in  questi  ultimi  anni  in  Italia,  è  il  romanzo  sopra  la 
Selvaggia  de'Vergiolesi,  intorno  al  quale  per  non  dire  del  solo 
piacere  eh'  io  stesso  provai  nel  leggerlo,  attratto  non  meno  dal- 
l' incanto  dello  stile,  che  dalla  vivacità  rappresentativa  del  rac- 
conto e  delle  descrizioni,  lascierò  pigliar  la  parola  ad  Atto  Van- 
nucci  che,  poco  dopo  ricevuto  il  volume  dell'amico,  il  14  gennaio 


—  472  — 
1871,  s'affrettava  a  scrivergli:  «  Questa  volta  la  tua  bella  Sel- 
vaggia si  messe  per  la  buona  via  e  non  le  avvenne  di  capitar 
male.  Ieri  arrivò  a  casa  mia  sana  e  salva,  ed  io  le  feci  le  più 
liete  e  oneste  accoglienze.  Ella  gentilmente  mi  condusse  subito  a 
Vergiole,  e  con  vive  ed  eleganti  parole  mi  fece  ammirare  il  bello 
spettacolo  dei  colli  che  fanno  corona  a  Pistoia,  mi  mostrò  il  pa- 
terno castello,  mi  presentò  a  messer  Lippo  suo  padre  e  a  ma- 
donna Adalagia  sua  madre,  e  poscia  riconducendomi  alla  città  mi 
rallegrò  colla  festa  dei  fiori  e  delle  armi,  e  m' invitò  nelle  sue 
grandi  case  liete  di  lumi,  di  belle  donne,  di  danze^,  e  di  musiche, 
dove  mi  fa  carissimo  di  incontrare  l'innamorato  messer  Guittoncino. 
Festa  magnifica  che  mi  ha  empito  1'  anima  di  belli  e  dolci  pen- 
sieri. Questa  Selvaggia  coi  suoi  occhi  soavi  e  pien  d'amore,  col 
suo  spirito  poetico,  coi  suoi  alti  pensieri,  colla  sua  conversazione 
elegante  chiama  a  sé  l'attenzione  che  è  diffìcile  e  penoso  stac- 
carsene. Ella  conosce  benissimo  i  costumi  e  le  storie  della  sua 
patria,  e  con  molta  disinvoltura  le  fa  entrare  nei  suoi  discorsi. 
Anche  quando  le  piglia  vaghezza  di  fare  qualche  escursione  ar- 
cheologica, dalle  rovine  e  dalle  memorie  trae  fuori  vecchie  e 
particolari  notizie  e  sempre  diletta  col  suo  gentil  modo  di  dire 
tutto  quello  che  vuole.  »  Non  si  poteva,  con  più  ingegnoso  scher- 
zo, dir  meglio  e  dire  più  giusto  del  libro  del  Tigri,  il  quale  se 
fosse  men  modesto  di  quello  ch'egli  è,  avrebbe  con  questo  solo 
suo  romanzo  trovato  modo  di  far  rumore.  Egli  vive  invece  con- 
tento della  sua  quiete,  del  posticino  d' ispettore  scolastico  che  il 
governo  italiano,  con  mano  certamente  non  troppo  prodiga,  dopo 
averlo  incaricato  dell'  ufficio  d' Ispettore  straordinario  in  Sarde- 
gna e  di  Provveditore  agli  studii  in  Sicilia  gli  consenti,  nella 
sua  propria  città  nativa,  e  che  l'invidia  vorrebbe  pur  togliergli , 
mettendo  la  piazza  a  rumore,  perchè  il  Tigri  è  prete.  Ed  io  vorrei 
pure  che  venisse  il  tempo  in  cui  l'istruzione  fosse  tutta  in  mano 
di  laici;  ma  intanto,  fra  laici  codini  e  preti  onestamente  liberali, 
fra  paolotti  travestiti  da  burattini  democratici,  e  preti  dai  quali 
nessuno  si  attende  e  molti  invece  ricevono  liberalità,  mi  accosto 
con  più  sicurezza  ai  secondi.  Poiché  i  primi  sono  retrogradi  per 
elezione,  i  secondi  spesso  per  sola  necessità  di  uno  stato  che  fu 
loro  imposto  da  sole  inevitabili  condizioni  domestiche. 

E  qui  il  discorso  mi  porta   a   dire   di    quello  che  il  Tigri  fece 
per  r  istruzione. 

Egli  incominciò  ad  insegnar  lettere  in  Pistoia  nell'  anno  1836, 
quando  vi  aveva  già   pubblicata   una   lodata  monografia  sopra  i 


—  473  — 

Plastici  di  queir  Ospedale.  Pregato  dalla  signora  Nerucci  nipote 
del  Niccolini,  ad  istruire  i  suoi  due  figli,  con  questi  due  discepoli, 
(l'uno  de'  quali,  il  prof.  Gherardo,  ingegno  pronto  e  vivace,  ani- 
mo indipendente,  traduttore  d'Esopo,  e  delle  Letture  sul  linguag- 
gio di  Max  Miiller,  ed  autore  di  un  saggio  originale  sul  Verna- 
colo montalese,  seppe  quindi  farsi  valere  singolarmente  in  alcuni 
studi  filologici),  ebbe  principio  in  Pistoia  l' Istituto  privato  Tigri, 
che  rimase  aperto  fino  all'anno  1850;  da  queir  Istituto  uscirono,  fra 
gli  altri  il  Civinini,  rimastovi  tuttavia  brevissimo  tempo  e  nella 
sua  primissima  età,  i  professori  Antonio  Gianni,  e  Torquato  Ma- 
bellini,  (1)  oltre  al  lodato  Nerucci  che  lo  lasciò  soltanto,  sedicenne , 
nel  1844,  per  recarsi  a  studiar  legge  nell'  Università  di  Pisa.  Re- 
catosi l'Arcangeli  nel  giugno  dell'anno  1837  a  fare  un  viaggio  di 
due  mesi,  il  Tigri  fu  invitato  a  sostituirlo  nella  cattedra  di  retto- 
l'ica  ed  eloquenza  italiana  nel  Collegio  Cicognini  di  Prato,  ov'  era 
passato  come  direttore  il  Silvestri,  chiamando  presso  di  sé  l'Ar- 
cangeli, il  Vannucci,  il  Buonazia,  il  Camici.  Fra  i  suoi  26  alunni, 
il  Tigri  trovò  allora  il  Nobili,  il  Garzoni,  il  Limberti,  il  Guasti  ed 
il  Peruzzi,  i  quali  gli  proseguirono  quindi  sempre  stima  ed  af- 
fetto, sebbene  per  soli  due  mesi  li  abbia  il  Tigri  ammaestrati.  Al 
fine  dell'anno  scolastico,  il  direttore  Silvestri  attestava  come  il 
Tigri,  aveva  sostenuto  l'  ufficio  di  professore  «  con  sua  sodisfa- 
zione,  con  decoro  dello  stabilimento  e  con  utilità  della  scolare- 
sca »  aggiungendo  che  «  ove  egli  fosse  destinato  a  professare 
pubblicamente  le  bolle  lettere,  vi  si  dedicherebbe  con  tutta  1'  anima, 
come  a  quello  esercizio  al  quale  mostra  di  essere  dalla  sua  na- 
tura chiamato.  »  Ciò  non  gli  valse  tuttavia  a  conseguire  prima 
dell'anno  1860  alcun  ufficio  governativo,  altra  prova  indiretta 
dell'  opinione  in  cui  egli  era  tenuto  per  le  sue  tendenze  politiche 
presso  i  Lorenesi  e  la  loro  corte.  Non  già  eh'  ei  disturbasse  in 
alcun  modo  i  sonni  di  quel  governo  ;  egli  era,  anzi  tutto,  com'  è 
al  presente  assai  modesto  ne'suoi  voti  ;  ma  conoscendosi,  per  al- 
tra parte,  come  il  Tigri  fosse  incapace  di  salire  al  furore  della 
vendetta,  si  faceva  a  fidanza  con  la  blanda  mitezza  del  suo  in- 


(1)  Pel  fratello  Mabellini  Teodulo,  celebre  maestro  di  musica,  il  Ti- 
gri sci-isse  poi  i  libretti  delle  opere  Matilde  e  Toledo,  e  Baldassar  e 
della  Cantata  pei  parentali  di  Raffaello;  per  altro  maestro,  il  libretto 
della  Zingarella,  assumendo  in  questi  lavori  il  pseudonimo  di  Giuseppe 
De  Toscani. 


—  474  — 
gegno.  Lo  vollero  pertanto,,  con  1'  abbandono,  punire  per  la  reità 
de' suoi  desideri!,  speranzosi  forse  che   nell' umiliata  solitudine  ei 
sarebbesi  ridotto  a  'sentimenti  più  servilmente  divoti.  Il  Tigri  si 
confortò,  in  parte,  di    quel!'  abbandono,    nella  quiete  degli  studii, 
nelle  cure  dell'educazione,  nel  farsi  provvidenza  ad  alcuni  de'suoi 
più  cari  parenti,  nell'aiutare  alle   loro    letterarie  intraprese  que- 
gli amici  stessi  che  la  fortuna  avea  meglio  favorito,  e  nelle  gioie 
di  una    frequente    corrispondenza    epistolare.    Il    Tigri  fu  amico 
devoto  e  seppe  quindi  pure  inspirare  a  molti,  sentimenti  di  ami- 
cizia ;  che,  se  l'amicizia  altrui  non  fu  poi  sempre  operosa  come  la 
sua  verso  gli  altri,  questa  differenza  torna  tutta  in  onore  di  lui. 
Ho  già  avvertito  come  il  Tigri   sia   stato  in  corrispondenza  col 
Sismondi  e  col  Gioberti  ;  tra  l'altre  persone  che  gli  fecero  segno 
d'  onoranza  nelle  loro  lettere  citerò  ancora,  oltre  il  Guerrazzi,  il 
Silvestri,  il  Vieusseux  che  faceva  in  Pistoia  grande  assegnamento 
sulla  devozione  del  Tigri  ai   principii  liberali,  il  Capponi,  il  Pe- 
ruzzi,  il  Puccinotti,  il  Bonaini,  il  Tommaseo,  l'Arcangeli,  il  Van- 
nucci,  pel  quale  il  Tigri  scrisse  pure    canti  politici  da  servire  al 
libro  àQ  Martiri  della  libertà  italiana,  il  Capellina,  la  Bon  Bren- 
zoni,  l'Ugolini,  l' Aleardi,  il  Maffei,  il  Giuliani,  (col  quale  e  col  pro- 
prio fratello  Atto,  nel  1861,  egli  intraprendeva  un   lungo  viaggio, 
per  visitare  la  Svizzera,  la  Germania,  1'  Olanda,  il  Belgio,  l' Inghil- 
terra, la  Francia)  il  Witte,  il  Reumont,  lo   Schnakenburg  ed  altri 
più.  Il  Tigri  avrebbe  agevolmente  potuto  valersi  di  quella  corri- 
spondenza, per  mettersi  presso  i  suoi  concittadini  in  migliore  evi- 
denza; la  modestia  il  rattenne  ;  ond'  io  posso  ora,  lui  vecchio,    e 
lontano  da  qualsiasi  desiperio  ambizioso,  venir  primo  a  pubblicare  al- 
cuna lettera  inedita  direttagli  da  chiari  ingegni  italiani.  Fin  dall'an- 
no 1838,  quando  l'abate  Tigri  illustrava  il  dipinto  a  fresco  del  Bez- 
zuoli  :  La  danza  della  prima  giornata  del  Decamerone,  il  Niccolini 
scriveva  da  Firenze  alla  sua  nipote  la  signora  Elisabetta  Nerucci 
in  Pistoia  :  «  Car.  Bettina,  Ho  ricevuta  e  letta  la  bella  descrizione 
che  del  dipinto  del  mio  amico  Bezzuoli  ha  fatta  il  signor  abate  Tigri. 
Rallegratevi  con  esso  lui  del  suo  elegante  lavoro,  il  quale  siccome  io 
uso  di  fare  dei  libri  che  tengo  in  pregio  porrò  fra  gli  opuscoli  relativi 
alle  Belle  Arti  che  nella  Biblioteca   di  questa  Accademia  si  con- 
servano. »  Nel  1857  il  Tigri,  con  gentile  pensiero  fciceva  regalare 
all'Azeglio  un  ferro  di  picca   discoperto   fra  i  ruderi  del  castello 
di  Monte  Murlo.  L'Azeglio  afFrettavasi  a  rispondere:  «  Stimatis- 
'  Simo  signore,  ler  l'altro  il  signor  Zobi  mi  consegnò  per  parte  sua 
un  ferro  di  picca  trovato  nelle   rovine  di  Monte  Murlo  e  non  so 


—  475  — 
come  ringraziarla  della  sua  singolare  cortesia.  M'  è  carissimo 
questo  ricordo  tanto  perchè  mi  vien  da  lei,  quanto  per  essere 
memoria  di  luoghi  che  ho  visitati,  e  studiati  con  viva  premura 
quando  preparavo  materiali  pel  Niccolò  de'  Lapi.  Anche  senza 
questa  circostanza,  tuttociò  che  mi  rammenta  quella  cara  Toscana, 
ove,  si  può  dire,  ho  aperti  gli  occhi  alla  luce,  essendovi  stato 
portato  bambino  di  pochi  mesi,  sempre  produce  in  me  piacevolis- 
sima impressione.  Ho  dunque  molti  motivi  d'  aver  caro  il  suo 
dono,  e  vorrei  poterlo  ricambiare  con  qualche  cosa  di  meglio  che 
uno  sterile  ringraziamento.  Voglia  almeno  gradirlo,  e  tenerlo  per 
caldo  e  sincero;  mi  comandi  ove  valga  a  servirla,  e  mi  creda  con 
distinto  ossequio. 

Torino.  27  maggio  1857. 

Suo  dev.  servo 
M.  d'  Azeglio. 

Aggiungo  ancora  una  lettera  inedita  del  Manzoni  al  Tigri;  il 
Tigri,  letta,  nella  primavera  del  1868,  la  relazione  del  Manzoni 
al  ministro  della  pubblica  istruzione,  scriveva  a  Ruggiero  Bon- 
ghi direttore  della  Perseveranza  e  collega  del  Manzoni  nella 
commissione  che  doveva  avvisare  ai  mezzi  di  diffondere  in  Italia 
una  lingua  nazionale:  (1)  «  Nella  dotta  relazione  dell' illustre  Ales- 


(I)  L'onorevole  deputato  e  professore  Ruggiero  Bonghi,  dopo  aver  letto 
il  Ricordo  a  lui  dedicato  nella  Rivista  Europea,  mi  faceva  l'onore  di 
rispondermi  con  la  seguente  lettera,  che  il  giornale  politico  la  Nazione 
pubblicava  nel  suo  numero  del  15  maggio.  Per  la  stessa  ragione  per  cui 
il  professor  Bonghi  crede  gli  potesse  sfuggire  il  mio  scritto  che  s' oc- 
cupava di  lui  nella  Rivista  Europea,  s'io  non  avessi  stimato  mio  debito 
fargli  pervenire  un  esemplare  del  fascicolo  che  lo  risguardava,  sarebbe 
a  me  avvenuto,  e  forse  con  maggiore  probabilità,  d' ignorare  la  lettera 
da  lui  a  me  diretta  nella  Nazione,  se  il  mero  caso  non  mi  faceva  in- 
contrare per  via  il  signor  Appel,  corrispondente  della  Neue  Freie  Pres- 
se, il  quale,  avendo  letto  per  l'appunto  nel!'  ufficio  della  Nazione  gli 
stamponi  della  lettera  dell'illustre  critico  e  politico  napoletano,  apo- 
strafavami,  al  primo  incontro,  con  la  interrogazione:  «  dunque  in  lite 
col  Bonghi  ?  »  pel  quale  avvertimento,  attesi  pertanto  la  lettera  pre- 
nunziatami,  e  potei  quindi  prenderne  conoscenza  e  mettermi  cosi  nel- 
l'ambita condizione  di  passare  anche  agli  occhi  del  Bonghi,  per  quello 
che,  anzi  tutto,  mi  preme  di  essere,  e  poi  di  venire  considerato,  cioè  per 
un  galantuomo,  col  ripubblicargli,  secondo  il  suo  desiderio,  una  lettera 


—  476  — 
Sandro  Manzoni  al  ministro   dell'  istruzione    pubblica   intorno  al- 
l' unità  della  lingua  e  ai  mezzi  più  appropriati  a  diffonderla,  non 
ho  trovato  proposto  quello   che   a   me   è  sembrato  sempre  il  più 


ch'egli,  per  una  distrazione  singolare,  non  s'era  tuttavia  curato  di  farmi 
pervenire.  La  lettera  del  Bonghi  dice  così  : 

Gentilissimo  Signore  e  Collega, 

S'Ella  non  avesse  avuta  la  cortesia  di  mandarmi  il  fascicolo  della 
Rivista  Europea,  nel  quale  le  è  piaciuto  di  discorrere  di  me  e  dei  casi 
miei,  forse  il  suo  scritto  mi  sarebbe  sfuggito  :  poiché  non  sono  curioso 
di  mia  natura,  non  leggo  se  non  i  libri  attinenti  a'  miei  studii,  e  dove 
scorgo  il  mio  nome,  soglio  voltare  la  pagina,  poiché  mi  pare  che  non 
vi  sia  soggetto  al  mondo,  il  quale  a  me  debba  parere  meno  importante 
che  me  medesimo. 

Poiché  questa  volta  mi  son  dovuto  leggere  ciò  che  altri  ha  scritto  di 
me,  Le  assicuro,  che  l'ho  fatto  mantenendo  affatto  libero  il  mio  spirito, 
e  col  proponimento  di  guardare  soltanto,  s' Ella  a'  suoi  lettori  presen- 
tasse di  me  un  concetto,  il  quale  fosse  atto  a  chiarir  loro  ciò  che  io  mi 
sono  ;  poiché  Ella  ha  mostrato  di  credere,  che  questa  sia  cosa  la  quale 
importi  chiarire. 

Ora,  io  voglio  sperare,  che  ciò  non  Le  sia  riuscito,  poiché  s'io  ras- 
somigliassi al  ritratto,  sarei  assai  dissimile  da  quello  che  io  immagi- 
navo di  essere,  e  che  volevo  essere. 

Forse  Ella  stessa  vorrà  riconoscere  d'avere  errato,  quando  consideri 
come  i  principali  fatti  della  vita  mia  non  si  riscontrano  punto  con  quei 
tratti  —  non  belli  davvero  —  di  carattere  eh'  Ella  m'  attribuisce  ;  poi- 
ché quanto  all'ingegno,  gliene  lascio  parlare  e  sparlare  a  sua  posta. 

Secondo  la  sua  dipintura,  dunque,  io  sono  un  uomo,  naturalmente  scet- 
tico, di  opinioni  mutabilissime  secondo  i  venti,  ed  amico  infido. 

Ella  é  uomo  di  parte  politica  contraria  alla  mia  ;  ma  mi  sarei  figu- 
rato, che  le  relazioni  di  cortesia,  nelle  quali  io  sono  stato  .sempre  con 
lei,  e  le  testimonianze  di  tutta  la  mia  vita  avrebbero  impedito  a  chi  si 
sia  di  pronunciare  di  me  un  giudizio  siffatto. 

Scettico,  Ella  dice?  Perché,  dunque,  come  Ella  scrive,  a  venti  anni 
ho  lasciato  patria,  famiglia,  studii,  ogni  cosa  più  cara  per  l'idea  della 
libertà  e  dell'indipendenza  del  mio  paese?  Ed  ho  vissuto  continuamente 
in  esilio,  e  non  ho  mai  piegato  il  capo,  e  non  ho  mai  chiesto  ai  Bor- 
boni di  esser  lasciato  ritornare  dove  tutto  mi  chiamava  e  mi  voleva? 
Perchè  l'ho  fatto  se  non  credo  a  nulla? 

Di  opinioni  mutabilissime,  aggiunge?  Conosce  Ella,  mi  dica,  un  uomo 
il  cui  generale  concetto  politico,  il  cui  criterio  nella  direzione  delle  so- 


—  477  — 
agevole  a  conseguire  questo   fine,   vo'  dire   la  istruzione  data  al- 
l' esercito  col  mezzo  di   maestri    toscani.   Non  dubito  punto  che, 
quando  il  Manzoni  diceva  che  l' idioma   nazionale  dovesse  essere 


cietà  sia  stato  più  costante  e  fermo  dal  giorno  che  presi  giovane  a  scri- 
vere il  Tempo  sin  oggi?  E  spero  ch'Ella  non  mi  venga  ad  opporre  — 
poiché  sarebbe  indegno  di  Lei,  —  che  io  abbia  una  volta  opinato  che  le 
facoltà  di  Teologia  si  dovessero  sopprimere,  un'  altra  che  non  si  doves- 
sero! Se  simUi  bisticci  son  leciti  nella  Camera,  non  sarebbero  leciti  a 
Lei,  scrittore  e  professore. 

Amico,  infido,  conchiude?  E  mi  dica  anche  qui:  —  Sa  Ella,  quale 
amico  io  abbia  abbandonato  mai,  in  una  vita  così  piena  di  vicende  come 
la  mia?  Io  credo  di  potere  affermare,  che  non  ho  mai  perso  nella  vita 
politica  un  amico  che  avessi  acquistato  una  volta;  ne  n' ho  mai  cercati 
di  nuovi. 

Io  m'ero  sentito  fare  una  censura  affatto  opposta  sinora,  e  la  credevo 
più  vera;  ciò  è  dire,  che  la  tenacità  mia  in  alcune  idee  ed  aderenze 
fosse  tanta  da  potersi  giudicare  persino  biasimevole.  Questo  rimprovero 
non  mi  piace,  ma  non  m'offende.  Il  suo  m'offende. 

Quando  Ella  dice,  che  io  sia  un  professore  intermittente,  ha  ragione, 
s'Ella  intende,  che  essendo  stato  chiamato  a  professare  sino  dal  1859, 
ho  compiuto  il  quinquennio  solo  l'anno  scorso,  dopo  il  quale  lo  stipen- 
dio nostro  s'accresce  d'un  decimo.  Ma  s'Ella  ha  inteso,  che,  quando  io 
ho  principiato  un  corso,  manco  di  solito  alle  lezioni,  erra;  poiché  mi 
fo  scrupolo  di  non  mancarvi  mai,  e  se  l'orario  dell'Istituto  superiore  non 
è  mutato  da  quello  che  era  qualche  anno  fa,  le  mie  lezioni  durante 
l'anno  sogliono  essere  tre  volte  più  numerose,  quantunque  tre  volte  meno 
buone,  delle  sue. 

Afferma,  che  della  scienza  che  io  professo  io  per  il  primo  col  mio 
scetticismo  diffido.  L'accusa  da  un  professore  a  un  professore  è  grave. 
E  s'Ella  conosce  qualche  mia  parola,  donde  ha  ritratto  che  io  non  ho 
fede  nella  divina  serietà  della  scienza,  non  ho  fede  nella  scienza  che 
professo  io  medesimo,  o  in  quella  che  professino  gli  altri,  gliene  avrò 
grado. 

Infine,  ella  la  un'  osservazione  di  tinta  assai  dubbia,  poiché  nota  che 
io  m'occupi  molto  de'proprii  affari.  Certo  tutti  quelli  che  sanno  —  e 
sono  molti  —  come  e  quanto  io  me  ne  sia  occupato,  rideranno  a  sen- 
tirlo dire.  Ella  deve  avere  franteso.  L'unica  volta  che  io  sono  entrato 
nell'amministrazione  d'una  società  industriale,  è  stato  quando,  per  in- 
carico dal  Governo,  ho  assunto  di  rappresentarlo  nell'amministrazione 
delle  strade  ferrate  Romane,  ed  aspetto  con  grandissimo  desiderio  che 
il  biennio  finisca  e  l'ufficio  con  esso.  L'ho  accettato,  perchè  volevo  toc- 
care con  mano  o  vedere  co' miei  occhi  una  materia  della  quale  ero  stato 


—  478  — 
il  fiorentino,  non  volesse  intendere   il  buon  toscano.  »  Su  questo 
ultimo  punto  impegnavasi  una  polemica  fra  il  Tigri  ed  il  Bonghi 
che  sosteneva  le  opinioni  del  Manzoni,  il  quale  tuttavia,  pur  dis- 


forzato ad  occuparmi  più  volte,  e  vederlo  a  proposito  dell'  esecuzione 
di  una  legge  che  avevo  difeso  io  stesso.  Nel  rimanente  i  miei  affari  si 
riducono  a  ciò:  col  sudore  della  fronte,  e  con  un  lavoro,  credo,  onorato, 
tentare  di  lasciare  intatta  ai  miei  figliuoli  la  piccola  fortuna  che  mi  ha 
lasciato  mio  padre,  liberandola  da'  debiti,  ond'è  stata  gravata  durante 
il  tempo  del  mio  esilio  e  i  primi  anni  di  questa  angosciosa  vita  politica, 
nella  quale  si  inganna  bene  chi  crede  che  io  viva  e  resti  senza  gran- 
dissimo mio  danno,  rincrescimento  e  fastidio. 

Io  voglio  sperare,  signor  mio,  che  Ella  abbia  preso,  come  molti,  l'ap- 
parenza del  mio  carattere  per  la  sostanza.  Certo  v'  ha  in  me  un  pro- 
fondo disprezzo  delle  ragioni  posticcie  e  delle  asserzioni  senza  fonda- 
mento, degli  entusiasmi  falsi  e  delle  teoriche  facili  e  lusinghiere.  Con 
quello  spillo  che  secondo  Lei  Iddio  m'ha  messo  nello  spirito,  foro  tutte 
le  bolle  che  incontro  per  via,  senza  guardare  in  viso  a  chi  scoppiano. 
Certe  volte  —  e  forse  ho  torto  —  paio  prendermi  spasso  delle  opinioni 
altrui  e  farne  strazio  e  distenderle,  se  mi  riesce,  per  terra  l'una  dietro 
l'altra  ;  e  mostro  troppo  di  credere,  come  pur  credo,  che  sono  tanto 
stolidi  ,  ai  miei  occhi  ,  quelli  i  quali  credono  tutte  le  cose  umane 
incerte,  come  quelli  che  le  credono  tutte  inconcusse.  Ma  glielo  dico  in 
fede  mia,  se  v'è  parola  falsa,  è  questa  ;  che,  perchè  io  nego  fede  e  sti- 
ma a  tutte  le  cose  piccole  e  a  tutti  gli  uomini  piccolissimi  di  queste 
commosse  società  nostre,  io  neghi  altresì  stima  e  fede  a  tutte  le  grandi 
cose  dell'umana  natu  a  e  a  coloro  i  quali  l'onorano  e  la  rilevano.  Af- 
fermo, che  di  questa  fede  e  stima  pochi  n'abbiano  più  di  me  nella  mente 
e  neir  animo. 

S'  Ella  ripubblicherà  (juesta  mia  lettera  nel  prossimo  fascicolo  della 
sua  Rivista,  farà  debito  di  gentiluomo:  io  intanto  prego  il  mio  amico 
Celestino  Bianchi  di  stamparla  nella  JSazione,  perchè  le  sue  accuse  non 
restino  un  mese  senza  risposta,  e  trascurate  le  diano  nuovo  pretesto  a 
credere  che  io  sia  freddo,  com'Ella  scrive,  e  non  distngua  fra  la  lode 
e  il  biasimo,  anche  quando  viene  da  persona,  come  da  lei,  che  io  non 
ho  nessuna  ragione  di  disistimare  ,  quantunque  d'  ora  in  poi  sarò  sfor- 
zato a  credere,  che  non  sia  sempre  ponderato  in  ciascun  suo  apprez- 
zamento e  giudizio. 

Mi  creda 

Tutto  suo,  R.  Bonghi. 

Io  debbo  anzi  tutto  ringraziare  il  Bonghi  de'  modi  perfettamente  cor- 
tesi ch'egli  usa  nel  rispondermi  ;   nessuno  al  certo  desidera  più  di  me 


—  470  ~ 
sentendo,  volle  assicurare,  con  sua  privata  lettera,  il  Tigri  della 
stima  ch'egli  ne  faceva.  La  lettera  è    questa:    ^<  Chiarissimo  Si- 
gnore, Stavo  per   principiare   una   lettera   al   mio  amico  Bonghi 


mantenere  la  polemica  in  tali  termini;  e  specialmente  con  un  pari  suo; 
ma  poiché  non  vi  sarebbe  polemica  senza  dissensi,    così   mi  rincresce 
non  poter  accettare  tutta  l'interpretazione  ch'egli  dà  ad  alcune    parti 
dello  scritto  mio  che  lo  risguarda.  In  generah^  m'accorgo,  pur  troppo, 
chè,dov'io  lodo  senza  riserbo,  indovino  sempre  e  ho  pure  la  fortuna  di 
apparire  uomo  di  spirito;  dove  getto  invece  qualche  lieve  ombra,   rie- 
sco facilmente    leggiero   o   maligno;    il  Bonghi,    in  forma  più  discreta, 
trova  soltanto  il  mio  giudizio  non  sempre  ponderato.  Io  sperava  invece 
che  il  Bonghi  sarebbe  rimasto,  all'ingrosso,  abbastanza  contento  di  me; 
che,  s'io  non  facevo,  precisamente,  di  lui  un  eroe  od  un  santo,  rendevo 
in  somma,  il  debito  omaggio  all'ingegno  suo  ed  alla  sua  persona    Egli 
ci  assicura  ora,  poiché  dell'ingegno  ebbi  a  dire  un  gran  bene,  che  avrei 
potuto  anco  dirne  un  gran  male  e  non  glie  ne  sarebbe  importato    af- 
fatto. Alla  prova  l'avrei  voluto.  Poniamo  che  io  gli    avessi   preparato, 
col  mio  Ricordo,  gli  elementi  di  una  futura  beatificazione,  ma  mi  fossi 
al  tempo  stesso,  con  insano  capriccio,  dato   il  gusto  di    comprenderlo 
tra  i  poveri  di  spirito;  dichiaro,  anzi  tutto,  da  me  stesso,  che  il  pub- 
blico non  m'avrebbe  creduto,  ma  scommetto  in  pari  tempo,  che  il  Bon- 
ghi non  avrebbe   tralasciato   la  buona  occasione  di  farmi   addosso  una 
formidabile  scarica  di  piccola   mitraglia   per   provarmi   che   m'ero  al 
tutto  sbagliato;  ed  io  so  come    sarei  uscito   malconcio   da  quel  giuoco 
per  me  fallito  prima  che  intrapreso.    Ma,  ora  che  io  l'ho,  parmi,   ser- 
vito con  discrezione  per  ciò  che  spetta  le  qualità  dell'ingegno,  il  Bonghi, 
trascurando  tutti  i  meriti  che  gli  riconosco,  si  lagna    ch'io   l'offesi  col 
giudicare  il  suo  carattere  d'uom  pubblico,  più  dalle  apparenze  che  dalla 
sostanza.  Al  che  mi  permetto  far  osservare  al  Bonglìi  ch'egli  mi  con- 
cede troppo  più  che  a  lui  convenga  e  che    a  me   fosse   lecito   sperare, 
quando  egli  ammette   che  io  l'ho  giudicato    sopra   le   sole  apparenze  ; 
poiché  se  un  uomo  privato  vuol  essere  giudicato,    senza  dubbio,   per 
quello  ch'egli  è  veramente,  l'uora  pubblico  si    può    giudicare   soltanto 
per  quello  che  ne  appare,  per  quello  ch'egli  suol  ftirsi  valere  al  di  fuori. 
La  lettera  del  Bonghi  che  io  unisco  al  mio  Ricordo  perchè,  s'egli  crede 
essersi  con  essa  difeso  da'  miei  assalti  critici,    il  pubblico  che  ha  letto 
le  mie  parole  possa,  s'io  lo  merito,  darmi  torto,    vale,  invece,  per  me 
come  un  prezioso  documento  che  conferma  parecchi    de'  miei   giudizii. 
Chi  non  riconosce,  per  esempio,    il  mio  ritratto  del  Bonghi,    in   queste 
parole?  «  Con   quello   spillo  che,  secondo  Lei,  Iddio  m'ha   messo  nello 
spirito,  foro  tutte  le  bolle  che  incontro  per  via,  senza  guardare  in  viso 
a  chi  scoppiano  ».  Ecco,  per  l'appunto,  uno  di  que' tratti  caratteristici 


-  480  — 
intorno  a  (luella  in  cui  Ella    s'è   compiaciuta  di  far  menzione  di 
me.  Quantunque  non  abbia  l'onore  di  conoscerla  di  persona,  con- 
fidavo già  nella  bontà  e  imparzialità  sua,  eh'  Ella  non  avrebbe  a 


ch'io  ho  colto  negli  scritti  di  lui,  e  per  i  quali  ho  creduto  di  potere 
giudicare  con  qualche  fondamento  il  polemista,  il  critico,  l'oratore  po- 
litico, in  ogni  modo,  però,  sempre,  soltanto,  l'uomo  pubblico.  Ma  nel 
vedere  il  Bonghi  armato  di  spillo  e  bene  addestrato  a  stuzzicare  o  pun- 
gere con  esso,  non  m'accordo  poi  con  lui  a  trovare  che  sian  tutte  bolle 
e  vesciche  quelle  ch'egli  assale  o  tenta  per  via.  A  chi  esplora  ogni 
giorno  il  cielo  e  l'orizzonte,  il  pronostico  del  tempo  riesce,  senza  dubbio, 
più  agevole  che  ad  un  uomo  indifferente  ad  ogni  fase  di  luna  o  muta- 
zione atmosferica  ;  il  Bonghi  tìnta  egregiamente  l'aria  politica  che  tira, 
e  da  essa  misura,  come  fa  il  savio,  i  suoi  negozii,  non  già  i  privati, 
sopra  i  quali  egli,  molto  a  torto,  crede  che  io  abbia  inteso  muovergli 
alcun  appunto,  ma  que'  negozii  politici  che  formano  la  sua  cura  più 
viva,  più  frequente,  più  operosa,  per  quanto  io  sia  alieno,  lo  ripeto, 
dal  credere  o  dal  desiderare  che  si  creda  egli  regoli  quella  parte  di 
faccende  pubbliche  ch'è  in  suo  potere  come  giornalista,  consigliere  e 
deputato,  pensando  e  provvedendo,  in  particolare,  alle  private.  Il  Bonghi 
ebbe  torto  di  supporre  in  più  casi  che  ne' miei  giudizii,  io  mirassi  a 
ferire  l'onor  suo  come  amico,  come  professore  e  come  uomo  di  studii.  Io 
mi  sono  invece  proposto  solamente  lo  studio  psicologico  del  Bonghi  come 
critico  che  si  rivela  nella  vita  pubblica.  Ora,  s'io  parlo  del  Bonghi  amico 
o  nemico,  accenno  distintamente  all'amico  o  nemico  politico,  ed  anzi  lo 
dichiaro.  Egli  mi  risponde,  in  ogni  modo,  che  credeva  invece  meritarsi 
più  tosto  l'accusa  d'essere  amico  troppo  ostinato  ;  può  darsi  per  i  casi 
generali;  per  molti  casi  speciali  non  già;  e  si  capisce,  ed  egli  capisce, 
meglio  che  io  non  possa  significarglielo,  come  non  si  tratta  già  di  ami- 
cizie personali,  ma  di  sole  adesioni  od  opposizioni  di  parte.  Sì,  non  è 
dubbio  che  il  Bonghi  fu  in  ogni  tempo,  intesa  largamente  la  parola,  un 
liberale  moderato;  è  quindi  certissimo  ch'egli  non  sarebbe  mai  stato 
buono  strumento  per  un  tiranno  con  la  natura  indipendente  e  punto 
servile  ch'egli  ha  ;  ma  è  non  meno  certo  che  nella  parte  politica  nella 
quale  egli  si  è  molto  rigirato,  egli  ha  mutato  spesso  consiglio.  E  sa- 
rebbe così  facile  a  me  come  lungo  e  noioso  il  provarglielo,  con  la  sto- 
ria più  o  manco  segreta  di  tutte  le  commissioni  ministeriali  o  parla- 
mentari nelle  quali  egli  cooperò,  coi  suoi  discorsi  in  Parlamento,  con 
gli  articoli  di  fondo  della  Perseoermiza  e  con  le  stesse  meglio  pensate 
e  pur  sempre  alcun  po'  contradditorie  sue  riviste  mensili  della  Nuova 
Antologia.  Quando  si  ha  uopo  quasi  ogni  giorno  di  un  obbiettivo  per  la 
polemica,  è  impossibile  che  l'obbiettivo  si  mantenga  sempre  lo  stesso, 
a  meno  che  non  si  voglia  cadere  nella  monotonia;  il  Bonghi  fugge,  co- 


—  esi- 
male eh'  io  esponessi  francamente  un  parere  opposto  a  quello  che 
Ella  ha  manifestato.  La  lettera  ch'Ella  m'ha  fatto  poi  l'onore  di 
scrivermi,  e  il  pregiatissimo  dono  che  l'accompagna  (1)  hanno  cre- 


me ari,ista,  la  monotonia  e  va  incontro  all'inconveniente  di  ferir  talora 
non  solo  gente  a  cui  egli  non  vuole  nessun  male  ma  i  propri  amici. 
Ora  io  credo  che  i  suoi  amici  politici  sentirono  maggior  molestia  per 
qualche  frizzo  spiritoso  lanciato  loro,  fra  un  complimento  e  l'altro^  dal 
Bonghi  che  si  accingeva  a  difenderli^  che  da  parecchi  libelli  de' loro  av- 
versarii.  Egli  potrebbe  quindi,  parmi,  ripetere  col  Sainte  Beuve:  «  J'ai  plus 
piqué  et  ulcere  de  gens  par  mes  èloges  que  d'autres  n'auraient  fait  par 
des  injures.  »  Ecco  il  senso  preciso  che  avevano  le  mie  parole,  le  quali 
il  Bonghi  esagerò  mostrando  di  credere  che  io  potessi  supporlo  amico 
infido.  Egli  è,  lo  ripeto,  critico  per  antitesi  ;  e  siccome  le  antitesi  lo 
tentano  spesso,  egli  ne  fa  pure  talora  a  carico  della  propria  parte,  o 
contro  sé  stesso,  ad  un  giudizio  benevolo  accostandone  uno  quasi  ma- 
ligno, e  così  offerendo  aspetto  di  critico  formidabile  anche  allora  ch'egli 
loda  0  difende.  Io  spero  che  il  Bonghi,  dopo  questa  completa  dichiara- 
zione del  mio  pensiero,  non  sentirà  più  alcuna  ragione  di  chiamarsi  of- 
feso d'un  giudizio  che  non  lede  punto  l'onorabilità  del  suo  carattere, 
ma  accentua  invoce,  per  quanto  parmi,  soltanto  una  qualità  singolare 
del  suo  ingegno  critico  che  penetra  intimamente  così  bene  lo  scrittore 
come  l'oratore.  Così  sembrami  aver  torto  il  Bonghi  quando  egli  raccoglie 
come  offensiva  la  qualifica  che  gli  do  scherzevolmente  di  jjro/'é'ssore  m- 
termittente,  supponendo  ch'io  voglia  denunciarlo  come  cattedratico  che 
non  fa  le  sue  lezioni.  Io  volli  indicare  soltanto  che  ora  egli  abbandonò 
la  cattedra  ed  ora  la  riprese,  attratto  dall'università  al  parlamento, 
dalla  scienza  alla  politica  ;  la  mia  frase  non  aveva  altro  senso  o  inten- 
dimento; ed  invano  egli  m'oppone  che  le  sue  lezioni  sono  tre  volte  più 
numerose  delle  mie,  nella  falsa  opinione  nella  quale  egli  è,  quantunque 
come  relatore  del  bilancio  della  pubblica  istruzione,  egli  abbia  già  do- 
vuto persuadersi  del  proprio  errore,  che  all'Istituto  di  Studii  Superiori 
si  faccia  una  sola  lezione  invece  di  tre.  Io  non  vorrei  rispondere  per 
me,  che,  invece  di  tre  lezioni  obbligatorie,  mi  do  il  divertimento 
di  farne  quattro  alla  settimana;  ma  credo  sapere  che  quando  il  Bon- 
ghi onorava  come  professore  l'Istituto  di  Studii  Superiori  il  maggior 
numero  de'  professori  soleva  lar  tre  lezioni  alla  settimana  ;  in  ogni 
modo,  a  mia  ricordanza,  io  non  ne  ho  mai  fatte  meno  di  tre,  dal  (860 
al  1865,  e  dal  1867  in  poi  ;  e  quando  il  Bonghi  eia  professore  all'Istituto, 
io  non  avevo  la  fortuna  di  essergli  collega  ;  quindi  le  mie  lezioni  non 
potevano  essere  né  meno  numerose,  né  certamente  migliori  delle  sue, 
per  la  semplice  ragione  ch'esse  non  erano  affatto,  nò  molte  né  poche, 
(1)  Il  racconto  del  Tigri  «  Il  Montanino  toscano  »  2^  edizione. 

Ricordi  BiodRAFici  31 


—  482  — 
sciuta  in  me  una  tale  fiducia.  Dirò  le  mie  ragioni  il  meglio  che 
potrò;  ma  la  cosa  di  cui  mi  tengo  sicuro  è  clie  non  durerò  fatica 
a  conciliare  in  iscritto  due  sentimenti  che  vivono  iti  piena  con- 
cordia dentro  di  me  ;  un  aperto  dissenso  e  il  distintissimo  osse- 
quio, di  cui  La  prego  di  gradire  anticipatamente  il  sincero  at- 
testato. 

Milano,  25  marzo. 

Suo  obb.  devot.  servitore 
Alessandro  Manzoni. 

Né  solo  il  Tigri  ebbe  particolarissime  e  lusinghiere  dimostra- 
zioni di  stima  dagli  uomini  di  lettere,  ma  i  suoi  libri  ancora 
fecero  fortuna;  tre  edizioni  ebbero  già  presso  il  Barbera  i  Canti 
popolari  toscani,  due  edizioni  le  Selve,  due  edizioni  la  Selvaggia, 
tre  edizioni  napoletane  e  cinque  pratesi  il  suo  commento  alle 
Lettere  scelte  di  Cicerone,  nella  pregiata  Biblioteca  de'  classici 
latini  dell' Alberghetti,  l' idea  della  quale  era  nata  nella  casa  del- 
l' avv.  Benini  di  Prato  :  «  Ultimo  di  tempo,  scriveva  la  Rivista 
delle  Università,  ma  non  di  merito  ci  si  presenta  il  prezioso  vo- 
lumetto della  scelta  di  Lettere  famigliari  di  Cicerone,  fatta  da 
Giuseppe  Tigri.  Egli  è  da  avvertire  come  al  discorso  sulle  lettere 
famigliari  e  sulla  vita   privata   dell'  Arpinate,   viene  aggiunta  in 


né  buone  ne  cattive,  essendo  io  in  quel  tempo,  per  rinuncia  volontaria, 
fuori  d'impiego,  e  quindi  dispensato  dal  grato  dovere  di  far  brillare  ai 
giovani  qualche  modesto  raggio  di  luce  orientale. 

Scettico  lo  scrittore,  io  ho  detto,  ed  ho  supposto  conseguentemente 
scettico  il  professore.  La  possibilitù,  di  mutar  più  cattedre  prova,  senza 
dubbio,  anzi  ogni  cosa,  una  invidiabile  versatilità  d'ingegno  e  va- 
stità di  dottrina;  ma,  s'io  non  m'inganno,  prova  anche  un  poco  che  il 
cattedratico  non  ama  con  amore  intenso  alcuna  'propria  scienza,  e  che 
non  può  quindi  comunicarne  alcuna  con  vera  passione.  Desidero  di  cuore 
ingannarmi  rispetto  al  Bonghi,  e  credere  ch'ei  possa  portare  calore  in 
ogni  nuova  disciplina  ch'egli  professi,  e  trattarle  tutte  con  uguale  se- 
rietà, né  diffidare  mai  d'alcuna;  egli  è  uomo  a  cui  non  manca  il  potere 
di  far  miracoli,  s'egli  voglia.  Ma  vuole?  Ecco  il  problema,  ch'egli  solo 
risolverà  ;  ed  io  faccio  voto  per  me,  per  lui  e,  sovra  tutto,  pel  mio 
paese,  aftìnch'egli,  con  alcuna  completa  opera  scientifica  che  possa  du- 
rare, mostri  com'io  l'abbia  mal  giudicato,  non  già  credendolo  inetto  a 
fare  cose  grandi ,  ma  attribuendogli  animo  inferiore  a  volerle  com- 
piere. 


ordine  cronologico  una  sugosa  notizia  sulla  letteratura  epistolare 
italiana,  scritta  con  assai  criterio  si  nei  precetti  che  ne'  giudizi 
portati  sui  nostri  migliori  epistolografi.  Vi  si  legge  la  cronologia 
della  vita  di  Cicerone  con  la  data  corrispondente  dell'anni  di 
Roma  e  con  quella  dell'era  volgare,  la  data  delle  lettere  ordinata 
secondo  i  tempi  con  massima  diligenza.  Sono  oltracciò  corredate 
di  doppio  indice,  di  quello  cioè  delle  persone  cui  le  lettere  son 
dirette,  e  dell'  altro  de'  nomi  geografici  ricordati,  a'  quali  fu  posto 
il  vocabolo  odierno  corrispondente,  e  fattane  la  descrizione  topo- 
grafica. A  meglio  poi  agevolare  l' intelligenza  delle  lettere  per 
ciò  che  spetta  al  subietto,  oltre  alle  note  geografiche  e  storiche, 
torna  giovevolissima  la  conoscenza  di  ciascuna  persona  cui  l'Au  - 
tore  le  dirigeva.  Per  lo  che  a  ciascun  nome,  per  ogni  prima 
volta  che  trovasi  ricordato,  fé  apporre  una  breve  nota  biografica, 
cosi  che  s' intendano  certe  frasi  e  certe  parole  che  non  sarebbe 
stato  sì  facile  spiegare  senza  conoscere  il  rapporto  che  poteva 
esservi  fra  chi  riceveva  la  lettera  e  lo  scrivente.  »  Alcune  im- 
prese letterarie  invece  da  lui  disegnate,  per  difetto  di  soscrittori, 
non  poterono  aver  compimento;  tale  la  Biografìa  pistoiese,  che 
insieme  col  Bindi  il  Tigri  volea  scrivere,  e  che  il  Vannucci  avea 
prenunziata  in  termini  di  molta  lode  nella  sua  Rivista  di  Firenze. 
Lamentiamo  pertanto  l'interruzione  di  un'opera,  la  quale  dai  saggi 
biografici  sul  Contrucci,  sull'Arcangeli,  sul  dottor  Francesco  Grassi 
Bey,  sulla  Porzia  de'  Rossi,  che  il  Tigri  pubblicò  separatamente, 
potevamo  riprometterci  ampia,  diligente,  ricca  di  notizie  e  giu- 
diziosa. Indirizzando,  non  ha  molto,  nel  giornale  La  Gioventù 
una  lettera  al  Tigri  il  Tommaseo  dicevagli  :  «  Coli'  esempio  del 
(lott.  Grassi,  ella  ha  opportunamente  rammentato  a'  Toscani  le  glo- 
riose benemerenze  acquistate  nello  spazio  de'  secoli  pellegrinando 
non  da  avventurieri  ambiziosi  e  cupidi,  ma  da  cittadini  di  tutta 
la  terra,  illustrando  il  nome  d'Italia,  la  sua  civiltà  e  la  sua  lingua 
comunicando.  E  giova  che  gli  Italiani  rammentino  come  fosse  di 
famiglia  pistoiese,  trapiantata  in  quel  di  Napoli,  la  donna  che  Ber- 
nardo Tasso  ebbe  moglie,  Torquato  ebbe  madre.  E  io  credo  che 
le  più  pellegrine  bellezze  della  Gerusalemme,  anzi  che  all'inge- 
gno e  agli  insegnamenti  del  padre,  Torquato  le  debba  al  cuore,  e 
alla  memoria  di  sua  madre.  Bella  la  lettera  che  intorno  all'educazione 
de' figliuoli  ella  reca  di  Bernardo  alla  moglie;  e  tra'  più  belli  dei 
lirici  suoi,  i  versi  in  cui  Torquato  ricorda  la  madre.  E  de'  lirici 
di  Torquato  insieme  e  del  padre  io  vorrei  vedere  una  scelta 
acciocché  non  potendo  leggere  ogni  cosa  e  non  sapendo  i  più  sce- 


—  484  — 

gliere  da  sé,  gli  italiani  non  ignorino  la  propria  eredità,  quasi 
fossero  gettatelli  indigenti.  Voglia  bene  al  suo  N.  Tommaseo.  » 
E  il  Tigri  non  solo  ha  ragione  di  voler  bene  al  Tommaseo,  ch'egli 
s'era  pure  obbligato  col  fornirgli  parecchie  voci  toscane  pel  suo 
gran  Dizionario  della  lingua  italiana,  ma  gli  ha  l'obbligo  di  vera 
riconoscenza;  poiché  quando,  nel  Vocabolario  dell'uso  toscano,  il 
signor  Fanfani  assalì  con  ogni  maniera  di  parole  sconvenienti,  il 
gentil  letterato  suo  concittadino,  per  isfogare  lo  sdegno  concepito 
nell'intendere  che  in  un  caffé  di  Pistoia  si  fosse  parlato  con  poco 
rispetto  de'fatti  suoi,  de'quali  discorsi  il  Fanfani  accagionava  senza 
fondamento  il  buon  Tigri,  il  Tommaseo,  interponendo  i  suoi  gene- 
rosi ufflcii  pregava  il  sig.  Fanfani  com'  egli  avrebbe  cessato  dallo 
scrivere  nel  giornale  II  Borgìiini,  dal  Fanfani  diretto ,  se  questi 
non  avesse  trovato  il  modo  di  riparare  al  torto  fatto  al  nome  del 
Tigri,  col  quale  venuto  il  Fanfani  a  spiegazioni,  e  persuasosi  del 
proprio  errore  affrettavasi  ad  aggiungere  in  fronte  del  suo  Voca- 
bolario la  seguente  avvertenza  :  «  I  lettori  vedranno  qua  e  colà  per 
questo  Vocabolario,  certe  parole  men  che  amorevoli  verso  1'  abate 
Giuseppe  Tigri,  mosse  dall' esser  io  stato  fatto  certo  che  egli  avesse 
già  operato  nemichevolmente  contro  di  me,  e  contro  la  mia  fama. 
Ora  per  altro  che  persone  degne  di  riverenza  e  di  ogni  riguardo 
si  sono  messe  di  mezzo,  e  che  tra  me  e  il  Tigri  son  passate  verifica- 
zioni tali  che  mostrano  essere  calunnie  di  commettimale,  ciò  che 
pareva  irrepugnabil  certezza,  io,  così  per  ossequio  alla  verità  e  per 
secondare  le  preghiere  di  esse  rispettabili  persone,  come  ancora 
gli  impulsi  del  mio  cuore,  che  quanto  è  subito  all'ira  tanto  è  pron- 
tissimo alla  concordia  e  all'amore,  dichiaro  qui  di  essermi  ricon- 
ciliato col  Tigri,  e  rincrescermi  di  avere  usato  parole  acerbe  con- 
tro di  lui,  pregando  il  lettore  che  vi  s'imbattesse  a  tenerle  come 
non  scritte.  Pietro  Fanfani.  » 

Fortuna  che  il  Tigri,  forte  nella  sua  coscienza  di  amico  del  bene 
e  di  cultore  del  bello,  non  ha  mai  curato  l'oltraggio  de'  suoi 
nemici,  ne' serbato  ad  essi  rancore.  Come  ispettore  scolastico  in 
Pistoia  e  San  Miniato,  come  provveditore  agli  studii  in  Calta- 
nissetta ,  ove  introdusse  gli  esercizi  militari  per  gli  alunni ,  e 
recitò  un  lodato  discorso  per  la  festa  commemorativa  dello  Sta- 
tuto, come  bibliotecario  della  biblioteca  Forteguerri  di  Pistoia , 
ch'egli  in  gran  parte  riordinò,  e,  come  scrittore,  studiossi  sem- 
pre di  fare  il  dover  suo;  n'ebbe  lode  dai  più,  d'alcuni  suscitò 
r  invidia.  Scrivendo  egli  il  4  gennaio  del  passato  anno  al  sig.  Fi- 
lippo Rossi-Cassigoli  antico  suo  discepolo,  per  regalargli  il  ma- 


—  485  — 
noscritto  della  sua  Selvaggia ,  per  la  ricca  biblioteca  di  scrittori 
pistoiesi  che  il  Rossi-Cassigolì  e  carissimo  amico,  ha  raccolto  e  or- 
dinato in  casa  sua,  il  Tigri  concludeva:  «  Una  certa  compiacenza 
provo  in  me  nel  pensare  che,  fra  tante  vicende  domestiche  non 
punto  liete,  delle  quali  ho  dovuto  occuparmi,  fra  1'  esercizio  dei 
pubblici  ufiici,  almeno  ho  tentato  di  richiamar  con  gli  scritti,  non 
pure  i  miei  concittadini,  ma  anche  gli  estranei  ad  onorare  un 
paese,  dove  sono  stati  e  son  sempre  tanti  elementi  di  prosperità 
materiale,  di  vita  intellettiva,  tanti  istituti  di  pubblica  istruzione 
e  beneficenza,  e  non  pochi  oggetti  preziosi  di  belle  arti,  da  ren- 
derlo assai  più  ammirato,  e  lo  dirò  pure,  piiì  gradito  a  chi  vi 
soggiorna,  se  fossimo  in  molti  a  giovarlo,  o  anche  pochi  e  d'ac- 
cordo. » 

Semplici  e  veridiche  parole,  le  quali  la  città  di  Pistoia  gradirà, 
senza  dubbio,  che  siano  ridette.  Nessuno,  in  vero,  ha  parlato  più 
e  meglio  all'Italia  di  Pistoia  dell'abate  Tigri;  negli  scritti  di  lui 
parecchi  italiani  hanno  ricercata  con  desiderio  la  Montagna  pi- 
stoiese, nella  sua  storia,  nelle  sue  consuetudini,  nelle  sue  glorie 
letterarie  ed  artistiche,  nel  suo  vivo  linguaggio.  Il  nome  del  Tigri 
merita  quindi  di  essere  ricordato  con  amore  a  Pistoia,  e  poiché 
le  glorie  cittadine  son  divenute,  per  la  compiuta  unità  d'Italia, 
glorie  nazionali,  nessun  italiano  passerà  da  Pistoia  senza  mandare 
un  gentile  saluto  all'autore  delle  Selve  e  della  Selvaggia,  all'illu- 
stratore della  città  di  Pistoia  e  della  Montagna  pistoiese,  al  be- 
nemerito raccoglitore  de'  Canti  popolari  toscani,  di  cui  l'Aleardi, 
il  Maffei,  il  Giuliani  ed  altri  insigni  italiani,  ebbero  pure  agio  di 
pregiare  nelle  loro  gite  a  Pistoia,  l'ospitalità  cordiale  e  l'amabile 
socievolezza. 


XXXV. 


PIETRO    FANFANI. 


Il  secolo  decimosesto  ebbe  il  suo  Pietro  Aretino  ed  il  secolo  de 
cimonono  corse  pericolo  di  rivederne  una  nuova  foggia  nel  nostro 
Pietro  pistoiese.  Se  nonché  fra  l'uno  e  l'altro  ci  sarebbe  sempre 
corso  quasi  quanto  da  un  secolo  all'altro.  Nel  suo  tempo  l'Are- 
tino seppe  farsi  appellare  il  principe  de'letterati  ;  il  signor  Fan- 
fani  intesi  salutar  da  parecchi  col  nome  di  principe  de'filologi  ; 
ma  nel  secolo  decimosesto  l'uomo  sopraffaceva  il  secolo;  nel  no- 
stro il  secolo  sopraffa  l'uomo.  Innanzi  alle  grandi  cose  che  11 
tempo  crea,  gli  uomini  d'adesso  doventan  piccini.  Così  avviene  che, 
mentre  il  Fanfani,  per  una  certa  generazione  di  letterati  è  rimasto 
un  baccalare  meraviglioso,  per  altri,,  come  per  esempio  pel  signor 
Salvi  (non  sicuramente  per  me  che  detesto  gli  estremi)  fosse 
nulla  più  che  un  arcifanfano  (1).  Il  signor  G.  A.  Scartazzini 
presentando ,  con  fretta  singolarissima ,  ai  lettori  tedeschi  in 
una  edizione  fatta  a  Lipsia  dal  Brockhaus ,  il  Cecco  d'Ascoli 
recente  racconto  storico  del  Fanfani  uscì  in  questa  solenne  sen- 
tenza: «  Il  Cecco  d'Ascoli  è  fuo-r  di  dubbio  uno  dei  più  bei  ro- 
manzi che  orna  la  moderna  letteratura  d'Italia.  Vi  fu  chi  lo  pose 
allato  ai  Promessi  sposi,  all'  Ettore  Fieramosca  ed  al  Marco 
Visconti,  lo  non  dubito  un  momento  di  porlo  al  disopra  di  tutti 


(1)  Con  questo  titolo  è  intitolato  un  libro    del   Salvi,   amico    dell'Ar- 
cangeli, contro  il  quale  il  Fanfani  aveva  avuto  polemica  per  un  e. 


—  487  - 
questi  romanzi.  —  Quanto  amabile  quella  Bice  !  Essa  vale  due 
buone  Lucie  :  e  quel  prete  di  Settimello  colla  sua  Simona  para- 
gonato al  buon  don  Abbondio  colla  sua  Perpetua!  »  Manzoni  è 
spacciato;  il  signor  Scartazzini  parlò,  e  basta.  Ma  io  non  intendo 
ragionar  qui  del  sig.  Fanfani  né  sulla  fede  de'  suoi  troppo  ingenui 
0  troppo  maliziosi  panegiristi,  né  su  quella  delle  memori  e  mor- 
denti ciarle  pistoiesi,  o  delle  pagine  iraconde  del  Nannucci,  o  di 
quelle  pepate  del  Salvi ,  o  de'  sanguinosi  giambi  del  Carducci ,  o 
delle  nerbate  filologiche  di  Alberto  Buscaino-Campo  e  d'  altre  so- 
miglianti pubbliche  dimostrazioni  d'  afiFetto  o  d'  odio  che  il  nostro 
solenne  letterato  s'  ebbe  nell'  età  sua. 

Io  mi  contenterò  invece  di  dire  di  lui  per  quello  che  ne  dissero 
a  me  i  suoi  propri  scritti,  avendo  egli  pure  avuto  cura  di  for- 
nirci un  saggio  della  sua  autobiografìa,  ch'ei  lascerà  forse  pub- 
blicare per  intiero  dopo  la  sua  morte  dal  proprio  cognato,  il  Co- 
lonnello Icilio  Capecchi,  al  quale  il  primo  saggio  è  dedicato 
«  Avendo  avuto,  scriveva  egli  il  (12  luglio  1871  al  signor  Emilio 
Tanfani  direttore  ùeW Imparziale  italico,  giornale  di  Firenze  re- 
datto con  onesti  ma  un  po'  arcadici  intendimenti  e  ch'ebbe  però 
vita  brevissima),  e  tuttora  avendo  avversari  flerissimi,  i  quali  si 
ingegnano  di  dipingermi  troppo  diverso  da  quel  che  sono,  ho  re- 
putato necessario  il  dipingermi  da  me  stesso,  e  il  descrivere  ogni 
mio  atto  (proprio?)  mettendoci  altresì  delieta  juveniutis  meae  et 
ignorantias  meas  il  tutto  con  parole  di  verità  nuda  nuda,  con- 
fortato ogni  mio  detto  da  testimonianze  irrepugnabili.  »  Io  se- 
guirò dunque,  principalmente,  per  la  vita  e  pel  carattere  dell'uomo 
la  guida  ch'egli  stesso  mi  offre  nel  suo  saggio  a  stampa,  dolente 
ch'ei  mi  offra  in  essa  troppo  scarse  le  occasioni  di  rilevare  al- 
cun fatto  onorevole  della  sua  vita  (1). 

Egli  nacque  nella  campagna  pistoiese  il  21  aprile  1815  da  Fran- 
cesco Fanfani  fattore  e  di  Clementina  Signorini  vedova  Pinzanti. 
Trasferitasi  la  famiglia  dalla  fattoria  a  Pistoia,  il  fanciulletto 
Pietro  fu  con  due  sue  sorelle  messo  a  scuola  da  certa  Felice  Peri 
per  impararvi  la  croce  santa,  le  devozioni  e  la  dottrina  cristiana. 
«  Fin  da  bambino,  scriv'  egli,  ero  una  birba  sconsagrata,  ed  ero 
il  tormento  di  quella  povera  donna  ;  davo  noja  a  tutti  quegli  al- 


(1)  Fa  parte  del  volume  recentemente   pubblicato  dal  Fanfani  in  Fi 
renze,  sotto  il  titolo  Bemocritus  ridens. 


—  488  — 

tri  ragazzi  ;  non  istavo  fermo  un  momento  ;  e  sempre  mi  sentivo 
dire  che  avevo  l'argento  vivo  addosso;  mettevo  sottosopra   tutta 
la  scuola.  Eppure  la  buona  Felice  aveva  pazienza,  e  si  contentava 
di  dirmi,  con  quella  voce  nasina:  Pietrino,  sia  buono,    se  no  lo 
dico  alla  mamma;  o  quando   montava  in  bestia  davvero  :  se  no 
gli  do  du'  sculaccioni;  ma  non  me  gli  dava  mai.   Presto  leggevo 
com'un  dottore;  sapevo  le  devozioni;  sapevo  la  dottrina;  ma  cre- 
scendo negli  anni,  diventavo  sempre  piìi  saetta;  e  la  Felice  dovè 
raccomandarsi  che  per  l'amor  di  Dio  mi  levassero  dalla  sua  scuola 
come  di  fatto  mi  levarono,  mettendomi  poco  appresso,  affinchè  mi 
insegnasse  a  scrivere  e  qualcos'  altro,  da  un  discreto  maestro  di  calli- 
grafia, Francesco  Pagnini,  »  (Il  carattere  grafico  del  Fanfani  è  ora 
accurato,  lindo  e  terso).  In  casa  egli  era  lo  stesso  demonio  che  alla 
scuola;  ed  egli  racconta  come  facesse  soprusi  alle  proprie  sorelle, 
entrando  a  mezzo  con  loro  a  far   le    fantocce,    per   iscaraventare 
poi  un  bel  giorno  fanlocce,  ninnoli, per  poco  ancìie  le  sorelle,  fuor 
della  finestra.  Sminuite  a  un  tratto»  le  sostanze  paterne  a  motivo 
di  una  mallevadoria  da  lui  fatta  per  un  cognato,   e   riconosciuta 
finalmente  la  necessità  di  porre  un  freno  all'  indole   bizzarra    del 
fanciullo,  si  prese  partito  di  affidarlo  ad  un  cugino,  don  Burattini', 
parroco  a  Capezzana  verso  Prato,  ove  Pietro  Fanfani  apprese  il 
suo  primissimo  latino,  e  fece  stordire  pel  suo  gran  talento,  ma  con- 
tinuò a  farla  da  monello  in  modo  che  il  prete,  parendogli  d'essersi 
messo  in  casa  il  fistolo,  scrisse  in  fretta  e  furia  a  Pistoia  perchè 
lo  si  rimenasse  a  casa;  ove   giunto   il   nostro   ricominciò   nuove 
prodezze  e  le  scontò  questa  volta  con  buone  nerbate.  Fu  messo  a 
scuola  dal  canonico  Niccolai,  ov' ebbe  a  compagno   Giovanni   Be- 
chelli,  già  professore  d'anatomia  a  Pisa,    ora   commissario   dello 
spedale  di  Pistoia.  Nel  18^26,  Pietro  Fanfani  fu  mandato  al  Semi- 
nario; vi  entrò  il  giorno  dopo  avere  smaltita  una  sbornia,  presa 
ad  un  banchetto  del  cugino  prete  don  Burattini,   e   fu   ammesso 
alle  lezioni  di  Costantino  Dolfl  «  buon  prete,  assai  dotto,  e  valen- 
tissimo ad  insegnare.  »  «  Là,  in  sul  principio  dell'anno,  scrive  il 
Pantani  di  sé,  mi  saltò  l'estro  di  farmi  prete,  e  volevo  lì  su  due 
piedi  mettermi  il  collare;  il  babbo  però  volle  pigliar  la  cosa  con 
pace,  domandò  consiglio  al  rettore  del  Seminario  e  ad  altri  :  tutti 
conclusero  parer  loro  che  non   fossi    pasta   da   farne    se    non  un 
pretaccio:  mi  si  lasciasse  sfamar  tal  pensiero,  dandomi  parole  e 
non  altro;  e  di  ftitto  il  pensiero  sfumò    presto,  che  il  conversare 
con  tanti  ragazzi,  parecchi  de'  quali  piìi  grandi  assai  di  me,  e  più 
birbe,  mi  cominciava  a  far   nascere   in   testa   pensieri    nuovi,   e 


—  489  — 
nuovi  affetti,  né  andò  molto  che  perdei  l'innocenza  di  fanciullo. 
Dato  questo  tracollo,  l'animo  mio  divenne  più  cupo  e  piìi  baldan- 
zoso :  non  che  io  fossi  tristo  no,  ma  nel  battagliare  con  la  sorel- 
lastra (poco  più  su  il  Fanfani  ci  dice  che  essa  era  oggimai  ragazza 
fatta,  e  bella  ragazza),  nel  rispondere  al  babbo,  e'  era  qualcosa 
più  che  l'impeto  naturale  della  mia  fanciullezza.  »  Nell'autunno 
del  1828,  il  Fanfani  passò  alla  scuola  di  rettorica  sotto  la  disci- 
plina del  canonico  Silvestri  «  chiaro  scrittore  di  cose  italiane, 
uno  de'  gran  mariscalchi  in  latinità,  valentissimo  epigrafista  la- 
tino, degli  ottimi  precettori  di  questo  secolo,  dei  pochi  che  il  vero 
mandato  del  maestro  intendessero,  de'  pochissimi  che  fecero  rivi- 
vere il  culto  dell'  Alighieri  tra  noi,  e  sapesse  metter  nel  cuore 
a'  giovani  l'amor  de'  buoni  studj  ;  »  ove  egli  stesso,  per  quanto 
sbarazzino,  profittò  molto  ed  ebbe  a  suo  condiscepolo  quel  Filippa 
Pacini,  che  dovea  poi  riuscir  principale  decoro  delle  scienze  ana- 
tomiche in  Firenze.  Il  Fanfani  seguitò  a  studiar  la  filosofia  sotto 
il  Mazzoni,  le  matematiche  sotto  il  Corsini;  nel  1830  fu  ammesso 
alla  scuola  medico-chirurgica  dell'  ospedale  di  Pistoia.  «  Da  prin- 
cipio, ei  confessa,  studiavo  di  volontà;  e  portava  a  casa  meco 
ossa  e  pezzi  preparati,  con  ispavento  e  stomaco  mirabile  delle 
mie  sorelle,  e  de' genitori;  ma  questa  regola  di  studiare,  fu  il 
trotto  dell'asino;  e' mi  piaceva  la  vita  di  svago;  avevo  ambi- 
zione a  saper  far  bene  da  spedalino;  e  per  dire  il  vero  ci  riu- 
scivo, che  ben  presto  diventai  uno  de' più  rompicolli  —  Per  tutto 
naturalmente  ci  voleva  quattrini  ;  mio  padre  non  poteva  darmene, 
se  non  pochissimi;  ed  io  mettevo  spesso  sottosopra  la  casa,  e 
spesso  impegnavo  quel  che  io  potevo...  —  Non  si  domanda  se  tra 
tutti  questi  svaghi,  e'  era  già  cominciato  a  entrare  quel  delle 
donne  ;  e'  era  pur  troppo  1  e  ben  presto  mi  toccò  a  provare  le 
conseguenze  dell'andare  attorno  ad  esse  con  troppa  sicurtà!  Eia 
povera  mamma  facevami  da  infermiera,  mescolando  le  sue  cure 
ad  amorevoli  rimproveri  ed  ammonizioni...  —  Il  mio  modo  di 
vivere  scapestrato  era  non  solo  di  danno  alla  famiglia,  ma  d' in- 
comodo altresì  ad  essa  ed  al  vicinato.  Avevo  una  stanza  terrena, 
dove  la  sera  raccoglievo  parecchi  de'  miei  amici,  e  vi  si  faceva 
di  notte  giorno,  o  ridendo  o  burlando,  o  giocando;  e  spesso  nel- 
r  estate  le  nostre  burle  ed  i  nostri  scherzi  andavan  a  finir  nel 
Corso,  con  grande  incomodo  dei  vicini,  perchè  incominciando  le 
nostre  conversazioni  alle  11  di  sera,  andavano  naturalmente  a 
finire  all'  ore  piccine,  quando  la  gente  a  modo  si  ristora  con  un 
po'  di   sonno.    Mi  ricordo    tra    l' altre    che    una   sera  al  lume  di 


—  490  — 

luna  andai  fuori  per  lungo  tratto  di  via  ignudo  come  Dio  mi  ha 
fatto,  e  scontrai  una  brigata  di  uomini  e  donne,  che  mi  fecero 
la  bajata.  —  Una  sera  tra  l'altre,  tornando  a  casa  verso  le  due 
di  notte,  vidi  sopra  un  muricciolo  una  donna  seduta,  mi  accostai, 
mi  disse  essere  una  montanina  smarrita,  e  me  la  condussi  in 
camera;  la  lucerna  era  sullo  spengersi,  ed  a  quella  luce  mori- 
bonda non  mi  parve  roba  spregevole.  La  mattina  appresso  rac- 
contai la  preda,  la  dipinsi  per  cosa  ghiotta  e  maravigliosa.  Il  Po- 
tenti e  gli  altri  si  diedero  a  investigare  ;  trovarono  questa  donna, 
e  la  fecero  andare  nello  studio  di  Zebedeo  Barbieri  due  giorni 
dopo,  mandando  nel  tempo  stesso  a  chiamar  me,  che  il  Dottore 
voleva  vedermi.  Vado;  que' birboni  erano  tutti  raccolti;  e  ad  un 
tratto  mi  mettono  innanzi  questa  donna,  che  tosto  riconobbi;  una 
sterpagnola  del  colore  di  chi  ha  sparso  il  fiele;  sudicia,  brutta; 
la  cameriera  del  Berni  in  poche  parole.  Le  risa  furono  grandi; 
se  fu  grande  la  vergogna  e  lo  stordimento  mio,  lo  lascio  pen- 
sare a  chi  legge;  ed  io  fui  per  più  giorni  la  favola  del  paese.  » 
Se  il  fanciullo  prenunzia  l'uomo,  il  Fanfani  con  tali  principii,  ch'egli 
cinicamente  ci  racconta,  mostrando  cosi  di  non  rammaricarsene, 
non  deve  meravigliarsi  se  molti  de'  suoi  lettori  giudicano  lui  sopra 
le  sue  proprie  parole,  che  non  valgono  di  certo  a  raccomandarlo. 
—  Di  qui  il  saggio  autobiografico  salta  all'anno  1841  nel  quale, 
convertito  dal  priore  Andrea  Fabbri,  si  mise,  com' ei  dice,  sulla 
retta  via  e  si  diede  tutto  allo  studio  delle  lettere  e  de'  Classici  no- 
stri che  prima  d'allora  ei  non  avea  gustato.  Per  gli  anni  fra  il 
1834  e  il  1841  possono  servirci  le  poche  notizie  seguenti  del  Pi- 
trè  (1)  che  le  deve  avere  attinte  direttamente  dal  Fanfani:  «  Il 
padre  di  lui  che  per  disgrazie  patite  volgeva  a  povertà,  fu  co- 
stretto a  cercargli  una  situazione  nella  milizia,  e  lo  mise  a  fare 
il  soldato,  dove  stette  venti  mesi,  nella  segreteria  di  un  colon- 
nello. Morto  il  genitore  ed  avuto  il  congedo,  riprese  gli  studi 
medici,  ma  senza  frutto,  e  li  abbandonò  nel  1838,  per  darsi  solo 
alle  amene  lettere  »;  sotto  la  disciplina  del  Fabbri,  passò  il  Faur 
fani  due  anni  riposati  nello  studio  de'  Classici  e  nelle  pratiche 
religiose;  «  io  me  ne  contentavo,  egli  scrive,  se  non  quanto  mi 
pesava  un  poco  quella  mostra  d' ipocrisia  che  facevo  col  povero 
Fabbri,  allorché  usavo  le  pratiche  religiose,  mentre  in  cuore  non 


(1)  Profili  Biografici  di  contemporanei  lialiani:  Palermo,  Lao  1864, 


—  491  — 

avevo  vera  religione;  ma  non  mi  bastava   l'animo  di  disgustare 
quel  buon  vecchio,  che  pure  riverivo  per  santo  :  quando  occorse 
caso  che  ruppe  da  capo  il  filo  della  mia  quiete,  e  mi  precipitò  da 
capo  nel  vortice  della  passione   amorosa.  »  Ritornato  agli  studii, 
è  importante  udire  dal    Fanfani    stesso,  come,   per  virtù  di  sola 
pazienza,  egli  arrivasse  a  quella  ricca  e  minuta  conoscenza  ch'egli 
ora  possiede  della  lingua  italiana.  «  L'  ordine  de'  miei  studii  era 
questo;  la  prima  cosa  un  Canto  di  Dante,  che  io  leggevo  a  voce 
scolpita,  fermandomi  spesso  a  meditare  e  interpretare  ;  poi  la  let- 
tura de'  classici  italiani,  notando   via   via   in  un  quadernuccio  le 
voci  e  le  frasi  più  belle,  i  costrutti  singolari,  le  proprietà  di  lin- 
gua, le  eccezioni   alle   regole   stabilite   dai   grammatici  ;   i  quali 
quadernucci,  arrivati  al  n."   di   248,   a   dieci   a  dieci  ne  numerai 
ordinatamente  tutte  le  voci  e  frasi,    e   poi  ne  compilai  un  indice 
generale  alfabetico  e  per    materie,    il    tutto    legato  in  sei  buoni 
volumi  di  testo,  e  due  d'indice,  battezzato  ogni  cosa  Spoglio  filo- 
gico;  il  quale  spoglio  è  il  primo  mio  tesoro  linguistico,  e  mi  te- 
neva luogo  di  vocabolario.   Anzi   dirò  che,  se  tanto  o  quanto  ho 
profittato  negli  studii  di   lingua,   si   dee   in   gran  parte   al   non 
aver    io    avuto    allora   il    Vocabolario  della   Crusca,  perciocché 
privo  di  quello  aiuto,  ero  costretto  a  pensare  da  me,  a  giudicare 
col    senno    mio    proprio ,   a   scoprire    col    solo    mio    raziocinio , 
regioni  per  me  nuove,   senza    bussola   e    senza  carta.  Alla  let- 
tura de'  Classici  succedeva   lo    studio   delle    teorie,    delle    gram- 
matiche, trattati  filologici,    polemiche,    critiche   ecc.  »   Studiava 
ed    intanto,   per   campar   la   vita,    lavorava  copiando   per  conto 
altrui,  avendo  pure  acquistata  una  sufficiente  destrezza  nella  pa- 
leografia. Fra  il  1843  e  il  1845   incominciò  pure  a  scrivere   per 
i  giornali,  in  i specie  «  nella  Rivista,  giornale  fiorentino  diretto 
dal  Montazio  (Enrico  Vaitancoli),  nel  quale    scrivevano    l'Arcan- 
geli, il  Vannucci,   ed  altri  valentuomini:    io  facevo,   ei  racconta, 
scritti  di  critica  letteraria,    il  più  delle   volte    mordaci,    ma   con 
molto  brio,  dicevano  i  lettori  ;  e  qualcuno  dei  ritratti  morali,  come 
il  Pedante,  t Accademico,  il  Tribuno  della  plebe,  che  al  Vannucci 
parve  cosa  da   codini   e  ne  rampognò   fieramente   Montazio;  col 
quale  ben  presto  mi  guastai,  e  contro  lui  scrissi  l'epigramma  di 
Cerbero,  e  la  Tirata  per  la  Rivista  sull'autore  della  quale,   che 
lo  punse  fieramente,  furono  fatte  mille  congetture,  né  mai  si  ap- 
posero ».  Nel  1847  il  Fanfani  pubblicava  un  giornale  di  Ricordi 
filologici;  nel  1848,  egli  andava  con    altri  pistoiesi   a   battersi   a 
Montanara   e  C urtatone,  e  fatto  prigioniero  sul  campo,    veniva 


-  492  — 

tradotto  con  gli  altri  alla  fortezza  di  Theresienstadt  in  Boemia. 
Uscitone  nel  settembre,  tornava  in  Toscana,  ma  per  poco  ;  che, 
sotto  il  ministero  Gioberti,  gli  si  offriva  un  posto  onorevole  a 
Torino  nel  ministero  della  pubblica  istruzione.  Di  là  il  pistoiese 
Franchini  divenuto  ministro  richiamavalo  a  Firenze,  ove  il  Fan- 
fimi,  ottenuto  un  impiego  seppe  mantenerselo  anco  negli  anni  della 
restaurazione  lorenese.  Negli  anni  1851-52,  il  Fanfani  pubblicava 
un  periodico  mensile  dal  titolo:  L'Etruria,  tutto  consacrato  a 
studii  di  filologia,  di  letteratura,  di  pubblica  istruzione  e  di  belle 
arti.  Seguiva  aWEiruria  il  giornale  II  Passatempo,  nel  quale^ 
insieme  col  Fanfani  scrivevano  due  altri  begli  ingegni,  Raffaello 
Foresi,  ed  Antonio  Fantacci.  Dal  quale  ritiratisi  dopo  aver  fatta 
bellissima  prova,  sul  finire  dell'anno  1857,  ciascuno  de'  tre  begli 
umori,  che  s'era  bene  avvezzo  alle  carezze  del  pubblico,  se  ne 
stava  malinconioso,  per  dirla  col  Fanfani,  come  un  corpo  senza 
flato,  un  arpa  senza  corde,  una  layiierna  senza  moccolo.  I  tre 
passeggiavano  lungo  il  Mugnone  :  Qui  bisogna  far  qualcosa  — 
E  che  s'ha  a  fare  ?  —  TJn  giornale  da  noi  tre,  che  sarà  il  gior- 
nale de'  ire  F.  (Foresi,  Fantacci,  Fanfani)  —  Sì,  si  —  E  che 
nome  gli  si  mette?  Pensiamoci,  e  domani  ci  rivedremo.  —  Si 
rividero;  il  Foresi  avea  trovato  il  titolo  del  Piovano  Arlotto,  già 
vagheggiato  un  tempo  dal  Giusti  per  un  suo  giornale  umoristico, 
del  quale  egli  stese  poi  solo  il  programma  (che  il  Piovano  Arlotto 
dei  tre  F  ha  pubblicato  in  un  fascicolo  dell'anno  1858).  Si  volea  da 
prima  un  foglio  settimanale;  il  Fanfani  e  il  Fantacci,  come  impie- 
gati, non  potevano  né  volevano  mettere  in  troppo  gran  rischio  la  pa- 
ga ;  il  Foresi  si  presentò  qual  direttore  ;  e  il  prefetto  oppose  il  suo 
veto.  «  La  legge  voleva  per  i  giornali  l'approvazione  del  Prefetto; 
ma  si  poteva  però  senza  censura,  e  senza  approvazione  prefettizia, 
stampare  un  opuscolo,  purché  passasse  le  16  pagine.  Ergo,  dicem- 
mo tutti  d'accordo,  si  farà  una  pubblicazione  di  un'opera  lettera- 
ria in  12  fascicoli  l'anno,  di  48  pagine  per  fascicolo,  e  cosi  bu- 
cheremo la  legge,  faremo  le  fiche  sul  muso  al  Prefetto  e  come  il 
pipistrello  saremo  topo  o  uccello  secondo  l'occorrenza.  Cosi  chiotti 
chiotti,  senza  che  niun  trapelasse  nulla,  preparammo  la  materia, 
ed  in  capo  a  un  mese  demmo  fuori  in  eccellente  edizione  (la  cu- 
rava Felice  Le  Mounier),  il  primo  fascicolo  che  piacque  univer- 
salmente. Il  Prefetto  bisognò  che  ci  stridesse,  e  si  contentasse  di 
appostarci  i  suoi  bracchi  alle  costole,  per  vedere  se  ci  cogliesse 
in  fallo;  ma  noi  la  sapemmo  lunga,  si  diceva  quel  che  diavolo  si 
voleva,  ma  con  tale  accortezza  che  non  c'era   da   mordere   per  i 


—  493  — 

signori  bracchi.  A  farla  corta  il  proposito  del  giornale  fu  ottima- 
mente compreso  da  tutta  l'Italia  ;  il  nostro  modo  di  piacevoleg- 
giare e  di  scrivere  andò  a  genio  a  tutti;  ed  il  Piovano  diventò 
in  poco  tempo  il  cucco  di  tutti  gli  italiani,  che  avean  sapore  di 
buone  lettere,  ed  affetto  all'Italia...  ».  Quanto  al  sapore  di  buone 
lettere,  il  Fanfani  dice  il  vero;  il  Piovano  Arlotto  è  una  delle 
più  gustose  raccolte  di  ghiottonerie  letterarie  per  i  buongustai; 
vi  è  sale  amministrato  con  garbo:  vi  è  fior  di  lingua  viva;  vi  è 
vivacità  di  polemiche,  finezza  di  giudizii,  amabilità  di  capricci  f 
quanto  all'affetto  per  l'Italia,  via,  poteva  anco  esser  più  ;  ne  io 
intendo  poi  il  perchè  se  desso  era  tanto  prima  che  l'Italia  si  fa- 
cesse, ne  sia  finalmente  rimasto  cosi  poco  per  il  giorno  in  cui  l' Italia 
fu  fatta.  Quando  il  Fanfani  annota  in  quella  guisa  le  Storie  fioren- 
tine del  Macchiavelli ,  o  dedica  in  quel  certo  modo  querulo  i  suoi 
scritti  ai  presso  che  rugiadosi  signori  Pietro  Dazzi,  Augusto  Alfa- 
ni,  Giuseppe  Rigutini,  oppure  si  rivolge  A  don  Luca  N...,  per  rim- 
piangere quasi  i  bei  tempi  granducali  (ì),  oppure  manda  sollecito  i 
suoi  quattrini  al  gìorndile  internazionalista  torinese  V Anticristo,  ri- 
promettendosi quasi  la  salute  della  patria  dai  delirii  di  quel  foglio 
infernale;  quando  anche  nella  sua  prefazione  al  Cecco  d'Ascoli  vuol 
dare  il  suo  graffio  alla  nuova  Italia,  scusandosi  molto  inutilmente  di 
non  avervi  messo  furibonde  declamazioni  poliiiclie.  «  Tutte  quelle 
pazzie  insomma,  che  piacciono  al  volgo  cieco,  il  quale  va  in  brodo 
di  succiole  leggendole  (in  un  romanzo?),  ed  urla  bravo  e  batte 
furiosamente  le  mani,  se  le  vede  rappresentate,  o  se  le  ode  bria- 
camente  declamate  da  qualche  Cetègo  Prefetto  o  da  qualche  Bruto 
Commendatore  »  (il  Fanfani  è  fiaqui  solamente  ufliziale;  sbraiti 
un  altro  poco  e  sarà  fatto  commendatore),  ei  non  mi  dà  aria  di 
ottimo  cittadino.  Egli  siede  intanto  dal  1859  in  qua  biblioteca- 
rio della  Marucelliana,  ufHrio  pienamente  conforme  alla  qualità 
degli  studii,  ne' quali  l'ingegno  di  lui  si  fa  da  trent'anni  valere 
singolarmente.  L' Italia  lo  ritiene   il  meglio  scrivente   de'  meglio 


(1)  a  Tu  che  sei  un  gran  codino,  leggi  qui,  e  consolati  ricordando  la 
bontà  de' tuoi  antichi  padroni.  Questa  satira  la  feci  sotto  la  tirannia; 
e  benché  ci  sia  ritratto  chiaramente  un  ministro  granducale  allora  po- 
tentissimo, e  tutti  ce  lo  riconoscessero,  ed  io  fossi  impiegato  ministe- 
riale, non  ebbi  il  più  piccolo  rimprovero.  0  sanctas  gentesl  eh,  don 
Luca?  Addio,  sai;  veglimi  bene  ». 


—  494  - 

parlanti  scrittori  toscani;  s' ei  mette  bocca  nelle  questioni  di 
lingua,  in  ispecie  di  lingua  parlata,  la  sua  parola  è  accolta  con 
ogni  riguardo;  quella  stessa  Accademia  della  Crusca,  contro  la  quale 
egli  ha  spezzato  tante  lancie,  o  per  amore  o  per  timore,  ha  finito  con 
l'aprirgli  le  sue  porte  e  chiamarlo  nel  suo  Cenacolo;  i  suoi  libri, 
quantunque  non  punto  scevri  di  difetti  anco  gravi ,  se  non  si 
trovano  in  ogni  scuola,  vanno  tuttavia  per  le  mani  del  maggior  nu- 
mero de'  veri  studiosi,  particolarmente,  il  Vocabolario  della  lingua 
italiana,  ì\  Vocabolario  dell'uso  toscano,  il  Vocabolario  della  pro- 
nunzia toscana,  l'Antologia  toscana  ;  sono  ricercate  parecchie  delle 
sue  operette  di  minor  mole  non  già  di  minor  conto,  fra  le  quali 
gli  Scritti  capricciosi  o  Democrilus  ridens,  i  Diporti  filologici, 
gli  articoli  diversi  da  lui  inseriti  ne'parecchi  e  tutti  pregiati  suoi 
giornali,  come  i  Ricordi  filologici,  VEtruria,  il  Passatempo,  il 
Piovano  Arlotto,  Il  Borghini,  L'  Uìiilà  della  lingua,  e  i  racconti 
da  lui  scritti,  più  in  vero  a  provare  come  s'ha  a  dire  che  come 
s'ha  a  pensare  ed  a  sentire  (metto  in  questo  numero  non  pure  il 
romanzo  della  Bambola  e  La  Paolina ,  ma  ancora ,  il  signor 
Scartazzini  mei  perdoni ,  lo  stesso  Cecco  d'Ascoli). 

Se  la  lingua  deve  avere  i  suoi  operai,  l'italiana  non  n'ebbe  di 
più  solerte  del  Fanfani.  Ma  il  signor  Scartazzini  bestemmia  quando 
fa  alla  Germania  questo  brutto  complimento  «  Il  Fanfani  occupa 
in  Italia  il  medesimo  posto  che  i  celebri  fratelli  Grimm  nella  Ger- 
mania. »  Cosi  pur  fosse  l  Lo  Scartazzini  parla  pure  del  Fanfani 
come  commentatore  di  Dante  e  s'esprime  in  questi  termini  :  «  Il 
gran  filologo  occupa  un  posto  eminentissimo  fra  i  moderni  dan- 
tisti, e  non  solo  fra  i  moderni  ma  eziandio  fra  i  futuri,  appo  i 
quali  il  nome  del  Fanfani  sarà  ricordato  con  venerazione  e  gra- 
titudine, quando  certi  frannonnoli  che  oggidì  con  millanteria  goffa 
e  ridicola  pretendono  sostener  loro  «  il  peso  erculeo  della  lette- 
ratura dantesca  »  soltanto  perché  sciupano  carta  ed  inchiostri 
senza  fine  saranno  del  tutto  posti  in  oblio.  »  Non  sappiamo  dove 
miri  il  prete  Scartazzini  col  suo  discorso,  ma  di  questo  possiamo 
bene  accertarlo  che  nessuno  in  Italia  vuole  detrarre  in  alcun  modo 
ai  meriti  molti  che  ha  il  Fanfani  come  letterato  linguaio,  e  che 
moltissimi  vorrebbero  avere  ingegno  pronto,  vivace,  arguto  com'  è 
quello  del  Fanfani;  ma  che  dal  conceder  tanto  al  venerarlo  ci  corre. 
Il  Fanfani  si  piccava,  per  esempio,  nel  Piovano  Arlotto  d'averla 
fatta  una  volta  all'ottimo  Giampietro  Vieussenx,  coli' indurlo  ad  in- 
serire mqW Archivio  storico  come  scrittura  del  trecento  un  suo 
centone  di  frasi  di  quel   tempo,  in   forma   di    una   Relazione  del 


—  495  — 
viaggio  di  Arrigo  VII  in  Italia.  Il  Vieusseux  gli  avea  pagato  46 
lire  per  copia  di  manoscritto  e  revisione  di  stampe,  credendo  in 
buona  fede  che  si  trattasse  d'un  manoscritto  antico  e  non  di  una 
novissima  soperchieria  letteraria,  quando  il  Fanfani  stesso  di- 
chiarò allegramente  la  sua  prodezza,  la  quale  se  mette  in  mo- 
stra la  destrezza  del  letterato  all'  antica ,  raccomanda  mediocre- 
mente il  gentiluomo  come  il  tempo  nostro  civile  lo  richiede. 

Certo  gli  scritti  del  Fanfani  vivranno,  poich'essi  sono  una  ricca 
miniera  di  bei  vocaboli,  di  belle  frasi,  di  bei  motti;  la  bocca  del 
pistoiese,  quando  non  vomita  ingiurie,  è  d'oro  ;  ma  l'uomo  non  è 
tutto  nella  favella  ;  io  non  ho  letto  una  sola  pagina  del  Fanfani, 
che  m'abbia  tocco  il  cuore  o  fatto  pensare;  di  molte  invece  mi 
disgustai,  e  altre  più  disgustose  se  ne  leggeranno  quando  verrà 
fuori,  se  verrà  mai,  la  sua  intiera  Autobiografìa,  poiché,  simile 
in  questo  all'Aretino,  il  quale  raccontava  cinicamente  da  sé  stesso 
le  proprie  turpitudini,  mordendo  poi  come  cane  rabbioso  quanti 
s'arrischiassero  di  chiamar  turpe  un'  azione  non  bella  da  lui 
stesso  messa  in  piazza,  ei  ci  promette  alla  sua  volta  di  vendi- 
carsi di  quanti  oseranno  dir  male  de'  fatti  suoi.  Ecco  la  nota , 
con  la  quale  ei  chiude  il  primo  saggio  della  sua  Autobiografia  : 
«  Ora  basta,  perchè  s'!entrerebbe  nelle  questioni  con  editori,  nelle 
brighe  di  famiglia,  nelle  guerre  sostenute  e  combattute  contro 
chi  si  volle  provar  a  dar  di  naso  in  tasca  o  al  Piovano,  o  a  qual- 
cuno de'suoi;  ed  in  altre  cose  gelose  che  non  istà  bene  il  pubbli- 
carle essendo  tuttora  vive  le  persone,  e  potendone  nascere  degli 
scandali  (e  potendo,  quel  che  più  monta,  il  signor  biografo  venire 
meglio  che  una  volta  smentito  sul  viso).  Quando  avrò  messo 
il  capo  sotto  la  pietra  del  sepolcro  verrà  fuori  ogni  cosa;  e  chi 
leggerà  spero  si  abbia  a  dilettare,  tanto  bizzarre  sono  le  cose  che 
racconto,  e  con  tanto  veri  ed  accesi  colori  mi  è  riuscito  di  dipin- 
gere i  ridicoli  e  tristi  avversarii  miei;  i  quali,  od  al  tutto  oscuri, 
0  letterati  di  si  poca  fama  che  niun  li  ricorderebbe  più  di  qui  a 
10  anni,  io  spero  (abslt  arroganiia  verbo)  di  mandargli  alla  po- 
sterità con  quella  fama  che  meritano.  Si  sveleniscano  ora  quanto 
possono,  che  io  non  darò  loro  il  gusto  di  rispondere;  ma  stien 
certi  che  gli  ho  serviti,  e  gli  servirò  dell'altro  se  occorre,  di 
coppa  e  di  coltello.  »  Io  non  so  che  speri  il  Fanfani  da  simili 
minacele?  Intimorire  i  forti?  Non  credo  che  il  pensi.  Far  paura 
ai  deboli?  E  qual  gloria  ne  potrebbe  egli  avere?  Io  non  ho  mo- 
tivo alcuno  di  voler  male  al  signor  Fanfani  dal  quale,  per  verità, 
m'ebbi  finquì  sole  dimostrazioni  di   cortesia;    ma   sì   sento   viva 


—  496  — 

pena  che  un  cosi  raro  e  splendido  ingegno,  invece  di  levare  alto 
e  libero  il  volo,  si  voltoli  ed  imbrachi  in  così  bassi  pantani  ; 
egli  ha  nome  autorevole  come  letterato;  non  voglia  ambire  altre 
glorie  men  pure.  Lo  scandalo  non  è  un  opera  d'arte,  ed  egli  n'ha 
ornai  già  fatto  troppo;  né  egli  è  poi  tanto  vecchio  eh' ei  non 
possa,  se  il  vuole,  cancellare,  invece  di  pompeggiarla,  con  la  di- 
gnità della  vita  e  la  bontà  delle  opere,  la  parte  men  confessabile 
e  meno  bella  del  suo  passato. 


XXXVL 


MICHELE  COPPINO. 


Venuto  a  questo  punto  de'miei  Ricordi  Mograflci,  sento  il  bi- 
sogno di  riposarmene  alquanto,  con  la  speranza  di  riprenderli  fra 
poco,  con  miglior  lena,  per  raccogliere  in  singoli  gruppi  regionali 
i  nomi  de"molti  gloriosi  ingegni  italiani,  de'  quali  non  ho  ancor 
potuto  finquì  tenere  discorso.  Nella  nuova  serie  di  Ricordi  che 
imprenderò,  fra  breve,  mi  muoverò  da  Roma  e  vi  studierò  parti- 
colarmente le  vicende  della  scuola  letteraria  romana,  toccando  da 
prima  del  venerando  segretario  perpetuo  dell' Accademia  di  San 
Luca.  In  Lombardia  mi  resta  a  considerare  una  ricca  scuola  cri- 
tica, nella  quale  dovranno  splendere  i  nomi  dei  Ferrari  e  dei  Cor- 
renti, dei  Tenca  e  dei  Massarani,  dei  Zoncada  e  dei  Mongeri,  de- 
gli Odorici  e  dei  Rosa,  oltre  che  ad  aggruppare  intorno  ai  critici 
alcuni  letterati  in  fama  come  i  Rovani,  i  Curti,  i  Rota,  i  Belgioioso 
ed  i  più  valenti  fra  i  giovani  scrittori.  Delle  antiche  provincie  del 
regno  sardo  i  Bertoldi,  i  Regaldi,  i  Marenco,  i  Riccardi,  i  Bosio, 
i  Barrili,  gli  Uda,  i  Briano,  i  Rocca,  i  Pietracqua,  i  Carrera,  i  Ber- 
sezio;  i  Carutti,  i  Berti,  i  Bertini,  i  Vesme,  i  Celesia,  i  Boccardo, 
i  Giuria,  i  Vegezzi-Ruscalla,  i  Ghiringhello,  i  Tola,  gli  Spano,  gli 
Alizeri  ed  altri  ft-a  i  più  valorosi  promotori  de'  buoni  studii  in 
Piemonte,  in  Liguria  ed  in  Sardegna,  verranno  ricordati;  e  così  via, 
per  ogni  singola  regione  italiana,  verrò  raccogliendo  quelle  noti- 
zie che,  0  per  mio  ricordo  diretto,  o  per  quello  eh'  io  ne  possa  aver 
inteso,  mi  sembrino  più  notevoli  intorno  ai  superstiti  più  chiari 
ingegni  che  nell'età  nostra  abbiano  meglio  conferito  con  l'esempio 
loro  0  coi  loro  consigli,  al  progredimento  degli  studii  fra  noi. 

Ricordi  Biografici  32 


—  498  — 
Nel  congedare  fi'a  tanto  alla  stampa  la  prima  serie  de'  miei  Ri- 
cordi non  saprei  come  meglio  conchiuderli,  che  notando,  in  brevi 
pagine,  i  nomi  e  le  opere  degli  uomini  egregi  ch'ebbi  la  ventura 
d'avere  a  miei  maestri. 

Alcuni  d'essi  non  sono  più  in  vita  come  Pietro  Belletti  che  mi 
avviò  negli  studii  eie  mentari  e  Francesco  Barucchi  egittologo  in- 
signe, nativo  di  Busca,  autore  di  un  importante  lavoro  sulla  cro- 
nologia egizia,  già  mio  professore  di  storia  antica  nell'Università 
di  Torino.  Don  Luigi  Botto  che  col  vivace  e  drammatico  racconto 
delle  gesta  del  popolo  ebreo  m'innamorò  degli  studii  storici;  Ago- 
stino Lace  che  m'  erudì,  con  dottrina  ed  affetto,  nella  grammatica 
latina  e  Luigi  Girelli,  grande  ammiratore  di  Cicerone  fra  i  latini, 
di  Monti  fra  gli  italiani,  che  m'insegnò  con  passione,  le  umane 
lettere  mi  furono  professori  amorevoli;  ma  essi  non  pubblicarono 
eh'  io  '1  sappia,  scritti  originali  onde  il  nome  loro  possa  venir 
consegnato  a  questi  frammenti  di  storia  letteraria,  (i) 

Altri  sette  maestri  miei  lasciarono  invece  un'impronta  durevole 
non  solo  nell'  animo  mio  per  la  bontà  degli  insegnamenti  eh'  io 
ne  ho  ricevuti,  ma  ancora  nella  coltura  del  nostro  tempo,  vuoi 
per  i  loro  scritti,  vuoi  per  l'opera  solerte  eh'  essi  prestarono  al 
risorgimento  degli  studii  in  Piemonte. 

Essi  sono  Michele  Coppino,  Tommaso  Vallauri,  Ercole  Ricotti, 
Luigi  Schiaparelli,  Pier  Luigi  Donini,  Vincenzo  Garelli,  F.  G. 
Baruffi. 

Se  del  Coppino  s'avesse  a  considerare  il  merito  dalla  mole  de 
gli  scritti  di  lui  confidati  alla  stampa,  il  mio  ricordo  dovrebbe  ri- 
dursi a  queste  poche  sole  parole:  essi  son  tali  che  bastano  a  cre- 
scerci il  desiderio  di  leggerne  altri,  non  già  tanti  che  riescano  a 
saziarci.  Quando  Luigi  Ghiaia  dirigeva  in  Torino  la  Rivista  Con- 
poranea,  il  Coppino  vi  depose  alcuni  scritti  d'arte  e  di  critica  let- 
teraria, vivaci,  arguti,  gustosi,  disinvolti,  lievi  e  sorridenti  nella 
forma,  gravi  e  profondi  nella  sostanza,  pieni  di  pensieri  più  che 


(I)  Oltre  ai  professori  titolari,  ebbi  ne'miei  studii  a  pregiare  l'inge- 
gno di  parecchi  tra  i  profes?ori  sostituti,  fra  i  quali  rammento  per  le 
lettere  G.  S.  Perosino,  Vincenzo  Lanfranchi,  ed  Andrea  Gualdi,  per  la 
geografìa  Celestino  Peroglio,  ora  titolare,  per  le  matematiche  Giuseppe 
Bustico,  per  la  filosofìa,  Andrea  Cappello,  dottore  di  Collegio  nell'Uni- 
versità di  Torino. 


--  499  — 
di  parole,  che  lo  palesarono  scrittore  poderoso  ed  originale.  Ma 
furono,  pur  troppo,  brevi  lampi  e  fugaci.  Le  lettere  d'allora  in  poi 
non  ebbero  altra  novella  di  lui  fuori  dell'università  di  Torino, 
ov'egli  professò  per  molti  anni  lettere  italiane  come  successore  di 
Pier  Alessandro  Paravia  e  poi  di  Domenico  Capellina,  e  fuori  del 
Ministero  dell'Istruzione  pubblica,  ch'egli  resse  con  operoso  e  prov- 
vido consiglio  nell'anno  1867.  Da' suoi  discorsi  al  Parlamento  fu 
•pure  agevole  il  rilevare  come  non  fosse  possibile  il  riuscire  ora- 
tore cosi  eloquente  e  così  squisito,  senza  una  lunga  educazione 
letteraria  ed  una  singolare  eccellenza  d'ingegno,  pronto  a  scher- 
mirsi all'improvviso  dai  colpi  degli  avversarli,  a  cercar  le  vie 
del  cuore  degli  uditori,  a  tenerne  desta  l'attenzione  con  alcuna  di 
quelle  sortite  che  l' ingegno  ed  il  cuore  naturalmente  fanno,  ma 
che  l'arte  soia  dirige,  raffina  e  conduce  al  loro  supremo  effetto. 
Si  rammenti  il  suo  discorso  del  lA  dicembre,  dopo  la  sciagura  na- 
zionale di  Mentana  ;  le  risa  ironiche  d'alcuni  deputati  della  destra 
interrompono  l'oratore  che  rende  conto  della  parte  dolorosa  presa 
dal  Ministero  Rattazzi  nel  reprimere  la  inconsulta  ma  generosa 
intrapresa  garibaldina;  l'oratore  interrotto  gela  il  sorriso  sulle 
labbra  degli  avversari  con  queste  parole  improvvise  che  se  fos- 
sero state  pensate  non  potevano  essere  più  giuste,  se  fossero  state 
scritte  non  avrebbero  potuto  dir  meglio:  «  Signori,  un  Governo 
qualunque,  il  quale  avesse  voluto  aiutare  quest'impresa,  non  avreb- 
be trovato  modo  che  un  qualche  cannone  ripetesse  la  storia  della 
spedizione  di  Quarto?  Non  avrebbe  trovato  modo  che  qualche  fu- 
cile potesse  rispondere  degnamente  a  quelli  che  si  dovevano  spe- 
rimentare sui  petti  italiani?  Non  avrebbe  procurato  che  questi 
concittadini  nostri,  combattenti  per  la  grande  idea  della  patria, 
non  dovessero  sentire  squillare  la  tromba  che  li  chiamava  alla 
battaglia  laceri  e  digiuni?  »  Duolmi  poi  non  aver  sotto  gli  occhi 
le  Parole  al  popolo  italiano  che  il  Coppino  pubblicava  presso  il 
Chiantore  a  Pinerolo  nell'anno  1848,  poiché  il  buongustaio  che 
lo  ha  letto,  m'assicura  che  quell'opuscolo  ariegga,  per  la  forma, 
le  Paroles  d'un  Croyant  di  Lammenais  «  ma  che  deriva  la  sua 
ispirazione  da  ben  diversa  e  più  alta  fonte,  poetica  e  a  un  tempo 
filosofica  rivelazione  delle  nostre  condizioni  nel  1848  e  dell'avve- 
nire morale  che  quindi  si  preparava.  Sono  pagine  stupende,  veste 
e  pensiero.  Il  libro  è  dedicato  alla  memoria  di  una  buona  e  santa 
donna,  la  signora  Francesca  Govone,  la  quale  fu  madre  del  povero 
Generale  cosi  miseramente  rapito  alla  vita  e  alle  speranze  che 
avevan  fatte  concepire  il  suo  ingegno  incontestato  e,  la  ben  riu- 


—  500  — 
scita  missione  diplomatica  a  Berlino.  Coi  fratelli  Govone  crebbe, 
si  può  dire,  il  Coppino;  ed  anche  ne' suoi  ultimi  giorni,  quando  la 
mente  non  era  più  lucida  come  una  volta,  lo  sventurato  generale 
non  aveva  altri  cui  più  volentieri  comunicasse  le  sue  impressioni, 
i  suoi  dolori,  le  sue  fantasie  di  malato.  E  1'  amicizia  di  cotesta 
famiglia  nata  da  fanciulli  non  si  è  smentita  mai  per  volgere  di 
anni  e  di  funeste  vicende.  Ed  è  uno  dei  più  saldi  puntelli  onde 
s'appoggia  in  Alba  la  candidatura  del  Coppino.  »  Chi  mi  comu- 
nica tali  notizie  è  tale  che  le  può  sapere;  ed  è  fortuna  che  al- 
meno gli  amici  del  Coppino  ed  i  suoi  conterranei  sappiano  qual- 
che cosa  di  lui  e  della  sua  vita,  che,  direttamente,  da  lui  stesso, 
non  ci  sarebbe  verso  di  levar  via  una  parola  che  lo  riguardasse, 
Egli,  cosi  caldo  ed  eloquente  nel  discorrere  le  sovrane  ragioni  del- 
l'arte e  della  politica  si  fa  gelido  e  muto,  ove  si  tratti  richiamarlo 
a  parlare  di  sé  e  delle  opere  sue,  le  quali  per  non  essere  mai  state 
messe  in  miglior  mostra,  per  quanto  poche,  giacciono,  nella  mas- 
sima parte,  disperse  ed  ignorate.  De'  versi  del  Coppino,  come  di 
quelli  del  Bertoldi  e  di  alcuni  altri  poeti  italiani  incontentabili , 
può  ripetersi  l'adagio  che  il  Manzoni  trovò  per  i  versi  del  Torti  : 
pochi  ma  buoni.  Alcuni  de'suoi  versi  giovanili  mi  rammento 
aver  letto  in  una  miscellanea  di  prose  e  poesie  pubblicata  in 
Torino  nel  I844  pel  centenario  di  Torquato  Tasso;  altri  più 
originali  e  robusti  ne  pubblicò  la  citata  Rivisla  Contemporanea; 
un  suo  poemetto  in  versi  fu  pubblicato  pel  disegno  del  monu- 
mento a  Carlo  Alberto  ideato  dal  Butti  ;  alcune  altre  poesie 
del  Coppino  si  pubblicarono  in  altre  occasioni;  sei  ne  mandò 
fuori  il  Bosio  nel  secondo  volume  della  sua  pregevole  rac- 
colta di  Poesie  di  illustri  italiani  contemporanei;  vi  è  vigore 
d'immagini  e  vena  d'affetto ,  sebbene  talora  in  esse,  specie  nelle 
più  lunghe,  il  poeta  si  stanchi  un  poco;  i  pensieri  vi  si  agi- 
tano ancora;  ma  la  forma  strascicata  e  non  li  segue  più  con  la 
stessa  velocità.  Ne'  componimenti  più  brevi ,  il  Coppino  non  ha 
tempo  d'affaticarsi;  ed  allora  i  suoi  versi  volano  pienamente  li- 
beri e  sciolti,  come  il  lettore  stesso  può  del  resto  giudicare  dal 
seguente  sonetto: 

•  Primavera 

Già  di  vergini  fior  ride  l'aiuola, 
In  braccio  al  lido  già  palpita  l'onda, 
La  rondinella  al  suo  balcon  rivola, 
Gorgheggia  l'usignuol  tra  fronda  e  fronda; 


—  501  — 

Ride  la  terra  in  variopinta  stola. 

Giovine  sposa  a'  lieti  di  feconda; 

Spirto  di  vita  e  amor  per  l'aria  vola, 

E  il  cor  di  gaudio  arcanamente  innonda. 
Primavera,  la  mia  patria  rivedi, 

E  le  poni  sul  crin  serto  di  fiori, 

E  fiori  in  sen,  fiori  le  spargi  ai  piedi. 
Ah  male  i  fior  !  sopra  il  servii  suo  crine. 

Se  l'età  nova  non  sa  porre  allori, 

Fia  meglio  il  secolar  serto  di  spine. 

E,  qui,  nella  scarsità  delle  notizie  ch'io  potrei  dare  intorno  alla 
vita  ed  agli  scritti  del  Coppino  siami  lecito  il  portar  via  di  peso 
un  lungo  brano  di  una  lunga  lettera  tutta  gustosa  che  mi  scrive 
un  amico  del  Coppino,  il  quale,  temendo  far  cosa  indiscreta,  io 
non  nomino,  ma  che  spero  il  lettore  vorrà  indovinare  da  sé.  Dico 
spero,  poiché  se  la  riconoscenza  m'  avrebbe  fatto  scrivere  senza 
fine  intorno  al  Coppino  che,  come  maestro,  mi  die  luce  e  come 
ministro  mi  ritornò  al  mio  ufficio  perduto,  la  modestia  di  lui  mi  na- 
sconde per  modo  la  sua  persona,  che  la  miglior  parte  di  questo  Ri- 
cordo dovrà  cedere  la  parola  ad  un  uomo  d'ingegno  e  di  cuore,  il 
quale  conobbe  molto  dappresso  come  conterraneo,  come  letterato, 
come  ministro,  come  figlio,  come  amico  il  Coppino,  e  però  sembrami 
degno  assai  pili  di  me  di  rappresentarne,  con  pubblico  discorso, 
il  carattere  che  si  rivela  nella  sua  vita  e  nelle  sue  opere.  «  In 
quello,  dice  dunque  l'ornato,  veridico  e  cortese  amico  del  Coppino 
e  mio,  in  quello  che  il  Coppino  fece  letterariamente  e  politica- 
mente ha  mostrato  il  molto  più  di  cui  sarebbe  capace  ;  e  questo 
sentono  e  confessano  tutti,  dallo  scolare  ch'egli  inebriava  con  un 
fiume  d'eloquenza  dalla  cattedra  di  Torino,  al  Ministro  che  deve 
in  Parlamento  schermirsi  dalla  sua  abilissima  opposizione;  questo 
è  il  segreto  per  cui  in  qualunque  Consiglio  o  Commissione  di  let- 
terati e  d'artisti  s'abbisogni  d'uomo  veramente  dotto  ed  esperto 
egli  viene  chiamato';  il  segreto  per  cui  a  ogni  combinazione  mi- 
nisteriale l'attenzione  pubblica  si  porta  sopra  di  lui  e  il  suo  nome 
vien  pronunciato  fra  i  possibili  al  Governo;  e,  cosa  altrettanto 
strana  che  vera,  eziandio  quando  il  colore  del  Ministero  da  farsi 
non  è  precisamente  il  suo;  si  direbbe  quasi  un  desiderio  generale 
che  ovvero  egli  si  modificasse,  ovvero  gli  altri  si  mutassero  tanto 
da  potersi  accordare  in  un  comune  Programma  che  gli  schiuda 
una  seconda  volta  le  porte  del  potere.  Cotesta  disposizione  degli 


—  502  — 
animi  verso  il  Ceppino  si  potrebbe  riassumere  in  due  parole  :  Si 
lia  fede  in  lui;  meglio,  in  pochi  uomini  si  ha  tanta  fede  quanta 
in  lui.  Ed  è  giusto:  L'uomo  del  quale  vi  scrivo  è,  prima  d'ogni 
altra  cosa,  un'alta  coscienza.  In  ogni  passo  della  sua  vita  privata 
e  pubblica  egli  non  ebbe  mai  in  mira  la  sua  propria  persona,  ma 
sempre:  il  hene,  e  solamente:  il  bene.  Ne  volete  una  prova?  Quando 
cadde  dal  Ministero  nel  1867,  non  solamente  egli  non  provvide  a 
migliorare  la  sua  condizione,  ma  nella  sua  carriera  di  professore 
si  lasciò  danneggiare  in  guisa  da  perdere  parecchi  anni  e  dover 
poi  patire  un  indebito  ritardo  al  conseguimento  della  sua  pensione 
di  riposo.  Ma  in  quel  momento  e  in  quella  condizione  di  cose, 
chiedere  il  giusto  temette  potesse  interpretarsi  per  chiedere  un 
favore;  e  preferì  il  danno  materiale  all'essere,  per  quantunque 
infondatamente,  sospettato  di  non  camminare  in  ogni  sua  bisogna 
diritto  come  un  filo  di  rasoio.  In  un  mondo  d'intrighi,  di  brighe, 
di  mutua  ammirazione  e  di  consorterie  d'  ogni  colore,  questo  è 
certo  un  merito  singolare;  ma  non  è  sempre  il  miglior  modo  di 
farsi  strada,  di  sopraffare  gli  avversar],  di  strappare  alle  gazzette 
partigiane  l'applauso  che  meritate,  di  assidervi  alto  nella  gloria 
0  nel  potere.  Ciò  che  importa  al  Ceppino?  Age  quocl  agis,  e  av- 
venga che  può;  ecco  la  sua  bandiera.  Se  per  essa  può  giovare  al 
trionfo  della  verità  e  della  giustizia,  bene;  se  i  tempi  volgono  av- 
versi, egli  se  ne  consolerà  nel  ritiro  della  sua  villetta  presso  Alba, 
coltivando  le  nascenti  sue  vigne  e  invitando  spesso  spesso  a  go- 
derne i  frutti,  ancora  scarsi,  gli  amici.  Cosi  la  villa  del  Coppino, 
se  non  lo  ingrassa,  almeno  conforta  l'animo  suo  da  mi.serie  e  do- 
lori che  pure  a  lui  non  mancano,  e  serve  di  estivo  ritiro  alla  sua 
vecchia  madre,  la  quale  egli  più  tosto  idolatra  che  non  ami.  Ciò 
è  tanto  vero  che  gli  amici  sogliono  di  coteste  due  creature  for- 
marne nel  loro  pensiero  una  sola,  né  mai  le  considerano  staccate 
l'una  dall'altra.  A  ogni  vacanza  parlamentare  il  figlio  da  Roma 
corre  a  Torino  o  in  Alba  presso  la  madre,  che  a  Roma  non  reg- 
gerebbe di  venire,  e  piti  non  l'abbandona  che  pei  doveri  dei  di- 
versi suoi  uffici.  E  vedere  come  la  trattai  Come  ne  ascolta  le  pa- 
role (1)1  Come  le  sorride  amorevole,  quando  gli  pare  che  i  consi- 


(1)  Nel  volume  del  Lessóna,  Volere  è  potere,  ove  si  leggono  alcune 
pagine  consacrate  a  Michele  Coppino  come  uno  de'valorosi  che,  di  umile 
stato  e  col  potere  della  sola  volontà,  si  levarono  gloriosi  sopra  il  volgo, 


—  503  — 
gli  di  lei,  pure  rispettati,  non  siano  tuttavia  tali  da  potersi  ac- 
cettare I  Del  resto,  cotesta  amorevolezza  egli  non  usa  solamente 
con  la  madre:  ma  con  tutte  le  persone  che  hanno  da  trattare  con 
lui;  essa  c'è  ne'suoi  componimenti  letterarj,  c'è  nelle  sue  orazioni 
politiche,  c'è  ne'suoi  discorsi  famigliari,  i  quali  ultimi,  per  di  più, 
sa  condire  di  frizzi  graziosi,  d'una  vivacità  e  brio  che  non  par- 
rebbero veri  in  uomo  della  sua  calma  e  serietà,  o  gravità  che  si 
voglia  dire.  Ma  gravi  o  faceti,  i  discorsi  e  gli  scritti  d'  ogni  ge- 
nere del  Coppino  sono  sempre  temperatissimi  nella  sostanza  non 
meno  che  squisiti  e  delicati  nella  forma.  È  difficile,  no,  è  impos- 
sibile che  una  sua  parola,  pure  quando  scalfisca,  giunga  mai  a 
ferire  chicchessia.  Ed  ecco  perchè  alla.  Camera  Coppino  è  così 
ascoltato  e  ben  voluto.  (1)  »  Entrando  quindi  il  mio  gentile  cor- 
rispondente a  ragionare  degli  scritti  che  il  Coppino  vorrebbe  con- 
durre a  termine,  racconta:  «  Una  sera  ei  promise  condurre  a  fine 
un  poemetto:  La  Croce,  bellissimo,  nuovissimo  di  concetto,  da  pa- 
recchi anni  principiato  e  che  ancora  non  ha  terminato,  né  pro- 
babilmente terminerà  mai.  Un'altra,  diede  parola  di  finire,  e  poi 
mandare  alla  vostra  Rivista  Europea  una  certa  sua  novella  in 
verso.  Pazzo  voi  però  se  la  sperate  !  Io  vorrei  invece  aver  ste- 
nografato e  potervi  mandare  un  suo  discorso  improvviso  che  durò 
un  tre  ore  sopra  Metastasio,  prorottogli  dall'anima  a  questa  sem- 
plice e  casuale  domanda  fattagli  un  dopopranzo  e  pigliando  il 
caffè  da  mia  moglie:  È  un  Metastasiano  Lei?  Ma  né  io  l'ho  ste- 
nografata, né  egli  se  ne  ricorda  una  parola  ;  se  ne  ricordasse  pure, 
non  me  la  direbbe,  sapendo  l'uso  che  ne  farei.  Io  spero  invece 
che  un  bel  giorno  compirà  e  stamperà  lo  studio  sul  Manzoni,  un 
magnifico  lavoro  per  mio  avviso  e  a  cui  mi  pare  ci  tenga,  perchè 
glie  ne  venne  offerto  il  destro  di  metter  fuori  molte  e  molte  idee 


trovo  queste  parole  ineleganti  ma  caratteristiche:  «  Il  salotto  del  Cop- 
pino a  colpo  d'  occhio  rivela  l'uomo  ;  le  pareti  son  tutte  tappezzate  di 
graziosi  quadri,  di  cui  egli  tanto  è  ardente  quanto  intelligente  amatore; 
nel  luogo  pm  in  vista  una  grande  fotografia  mostra  il  Coppino  in  piedi 
appoggiato  al  seggiolone  deve  siede  la  sua  buona  madre.  L'ottima  donna 
vive  sempre,  felice  nell'amore  dell'ottimo  figlio.  » 

(1)  A  conferma  di  queste  parole  leggasi  pure  la  lettera  con  cui  il 
Lamartine  rispondeva  nella  Rivista  Contemporanea  di  Torino  al  critico 
Coppino.  Quella  lettera  fa  onore  a  chi  la  scrisse  e  a  chi  meritò  che  gli 
fosse  scritta. 


—  504  — 

sue,  tutte  sue  e  nuove  di  conio.  (1)  »  Ed  a  me  cresce  tanto  più  il 
desiderio  che  questa  mezza  promessa  si  compia,  poich'ebbi  la  ven- 
tura d'ascoltare  nell'Università  di  Torino  la  prima  delle  lezioni  che 
il  Ceppino  vi  fece,  come  sostituto  del  Paravia,  nel  novembre  del 
1857.  Egli  vi  trattava  di  Dante  e  di   Manzoni  rispetto  al   loro 
tempo,  ed  alla   parte   che    l' uno  e  l' altro  genio   sostenne   come 
scrittore  civile  nell'  età  sua.   Non  rammento  più   i   singoli   pen- 
sieri svolti  dall'  eloquente  cattedratico  ;   questo  ,  invece   so  bene  , 
che  il  suo  discorso  incominciò  semplice  e  dimesso,   come  se   vo- 
lesse morire   prima  d' essersi   spiegato  ;    ma ,   a    grado    a   grado 
ch'ei  parlav'a,  l'onda  del  suo  discorso  diveniva  più  ampia,  più  agi- 
tata, più  affascinante.  Non  un  fiore  rettorico  in  tutta   la    sua  le- 
zione, ma  tuttavia  una  magnificenza  di  parola   veramente   degna 
de'pensieri  alti  ed  originali  che  parevano  suscitarglisi  nella  mente 
infiammata  a  misura  ch'ei  progrediva.  Le  ultime  affettuose  parole 
dette  su  Manzoni  erano  rivolte  particolarmente  a  noi  giovani,  che 
ne  abbiamo  pertanto  serbato  lieto  e  devoto  ricordo.  La  parola  del 
Coppino  è  scorrevole  come  un'onda  armonica;   spira  poi  in  essa, 
come  nel  volto  del  nostro  maestro,  una  malinconia  soave,   di  cui 
qualche  raro  frizzo  giocondo  e  qualche  lieve  sorriso  temprano    a 
pena  la  monotonia.   Ma  quando  alcun  affetto  più  forte  lo  invade, 
gli  s'infiammano  le  parole  che  possono,   al   caso,   divenir   saette. 
Astio  ei  non  ha  contro  alcuno;  ma  sente  egli  pure  le  ire  magna- 
nime, e  se  bene  la  prudenza  della  vita  gl'insegni  a  infrenarle,  egli 
non  le  dissimula  però  tanto,  che  qualche  lampo  di  esse  talora  non 
attraversi  il  pacato  suo  linguaggio.  Come  interprete  di  Dante,  io 
lo  intesi  seguire  i  varii  toni  dell'/n/erno  dall'umorismo  più  fine, 
agli  impeti  più  solenni  dello  sdegno  dantesco.  Cosi  come  oratore 
politico,  egli,  per  lo  più  temperatissimo,  ebbe  momenti   ne'  quali 
fece  passare  nel  proprio  discorso  una  parte  de'  male  repressi  e  ge- 
nerosi sdegni  dell'animo  concitato  allo  spettacolo  di  qualche  insi- 
gne viltà  0  perfidia.  E  qui  mi  convien  di  nuovo  torre  ad  impre- 
stito le  parole  dell'amico,  per  dire  del  Coppino  come  deputato  di 
Alba  :  «  La  sua  naturale  facondia,  egli  continua  a  scrivermi,  ali- 
mentata dalle  grandi  cognizioni  che  sapevamo   essere    in  lui,    fu 
quello  per  lo  appunto  che  coiìsigliò  noi  Albesi  suoi  concittadini  ad 
eleggerlo  deputato  invece  del  compianto  Amedeo  Ravina.   Egli  è 


(1)  Tra  gli  scritti  inediti  del  Coppino    trovasi  pure  una  tragedia  in- 
titolata Stefania. 


—  505  — 
uomo  a  cui  bisogna  una  tribuna,  diceva  io  agli  amici  miei;  di  là 
può  spuntare  ai  nostro  paese  una  bella  e  stabile  gloria.  E  gli 
amici  mi  dettero  retta;  e  lo  abbiamo  eletto.  Ignoro  se  abbiamo 
reso  un  servizio  a  lui  e  alle  lettere  alle  quali  fa  strappato;  certo, 
sentiamo  di  aver  recato  un  vantaggio  alla  libertà  e  al  paese.  Sem- 
pre poi  fu  eletto  in  seguito;  ogni  tentativo  per  soppiantarlo  parve 
sogno  di  mente  inferma;  a  votare  per  lui  accorrono  in  Alba  elet- 
tori che  abitano  Faenza,  Lecce,  Palermo;  e  accorrono  a  proprie 
spese,  senza  speranza  di  compenso  né  vicino  né  lontano,  per  solo 
amore  al  Deputato  del  loro  cuore.  Non  vi  sembra  sia  questa  una 
gran  luce  gettata  sulla  sua  persona?  —  Del  resto,  per  un  figliuolo 
del  popolo  (1),  piemontese,  e  di  una  piccola  città,  prima  del  1848 
che  cosa  c'era  da  fare?  Che  d'importante  si  potrebbe  notare? 
Studiare,  studiare  di  molto  con  la  modesta  ambizione  di  guada- 
gnarsi, a  lungo  andare  un  tozzo  di  pane  onorato:  al  più,  per  un 
giovane  d'ingegno,  diventar  professore  di  Rettorica  per  buscarsi 
una  cattedra  e  un  po'  di  fama  letteraria;  ed  oh,  quanti  ci  slam 
rotti  il  collo  per  cotesta  via  l  E  non  dico  che  il  Coppino  l' abbia 
cavato  salvo,  comecché  col  tempo  diventasse  Deputato  e  ministro, 
cosa  a  cui  non  si  sognava  allora;  che  ci  avrebbe  fatto  ridere  di 
noi  medesimi  se  ci  avesse  pure  un  momento  attraversato  il  pen- 
siero 1  E  neanco  lo  sognava  il  povero  Coppino  :  che,  del  resto,  di 
sogni  ne  fece  assai  pochi  nel  mondo,  avvezzo  come  fu  di  buon'ora  a 
temperare  con  la  fredda  speculazione  del  pensiero  e  con  la  espe- 
rienza acquistata  nella  vita,  gli  ardori  e  gli  eccessi  della  naturale 
fantasia  e  i  desiderii  del  cuore.  Conobbe  per  tempissimo  gli  uo- 
mini e  vide  che  non  c'era  da  farvi  su  di  gran  conti;  e  quindi  pi- 
gliò e  piglia  da  loro  quanto  possono  dare;  non  pretende  di  più. 
Curiosissima  a  questo  proposito  una  sua  impressione  di  giovinetto! 


(1)  Michele  Coppino  nacque  in  Alba  il  1  aprile  1822  di  padre  calzo- 
laio e  di  madre  sarta;  il  padre  egli  perdette  in  età  di  vent' anni  (non 
bambino  come,  male  informato,  affermò  il  Lessona);  la  madre,  come  sap- 
piamo, è  sempre  viva.  Ottenne  per  concorso  un  posto  gratuito,  nel  Col- 
legio delle  Provincie,  e  potè  così  seguire  il  corso  di  lettere  nell'Univer- 
sità di  Torino;  laureato,  lo  si  mandò  ad  insegnar  rettorica  a  Demonte, 
poi  a  Pallanza,  a  Novara,  ove  lo  troviamo  nel  1848,  a  Voghera,  poi  di 
nuovo  a  Novara;  nel  1850,  per  concorso,  dottore  collegiato  dell'Univer- 
sità di  Torino,  quindi,  fino  al  1861  professore  liceale  a  Torino;  infine 
professore  nell'Università  torinese,  e  nel  1867  ministro  della  pubblica 
istruzione,  nel  1869  rettore  dell'Università  di  Torino. 


—  506  — 
Era  a  Torino  e  studente  di  belle  lettere;  andava  poco  a  scuola 
dal  Paravia  e  dal  Vallauri,-  studiava  moltissimo  da  sé;  e  non 
sempre  nella  sua  cameretta;  ma  spesso  per  viali  solitari^,  alter- 
nando la  lettura  e  la  meditazione.  Un  giorno,  ecco  a  un  tratto, 
a  pochi  passi  innanzi  un  uomo  e  una  donna  clie  non  avea  prima 
avvertiti,  che  non  avvertivano  lui;  e  proseguendo  un  discorso 
che  pareva  da  pezza  e  caldamente  incominciato,  l'uomo  domandare: 
«  Ma  dunque  non  c'è  da  sperare?  »  E  la  donna  «  negli  uomini,  no; 
e  va  persuaso  che  gli  uomini,  quando  non  ti  fanno  del  male,  già 
fanno  assai  e  bisogna  ringraziameli  »  Coppino  passò  oltre  tacendo; 
ma  non  dimenticò  mai  quella  filosofia  donnesca,  la  quale  forse  è 
una  gran  verità.  Non  voglio  dire  con  questo  che  abbia  ragione 
Guerrazzi,  affermando  gli  uomini  non  valere  il  prezzo  della  corda 
che  li  impicchi.  Coppino  ne  trasse  una  lezione  di  cautela  e  di 
temperanza  ne'  desiderii;  non  spinse  la  conseguenza  di  quelle  pre- 
messe alla  disperata  sentenza  dell'illustre  Livornese.  »  Dopo  avermi 
detto  tanto  egli  stesso,  il  mio  amabile  e  valoroso  corrispondente 
m'invita  a  'proseguire.  Io  non  ho  tuttavia  a  dir  altro,  se  non  rin- 
graziare lui  stesso  d'avermi,  con  le  sue  proprie  parole,  offerto  il 
modo  di  mostrar  qui  l'uomo  che  mi  ha  due  volte  beneficato  nel 
suo  aspetto  più  autentico  e  più  caratteristico. 


XXXVII. 


TOMMASO  VALLAURI. 


Io  non  so  quali  sentimenti  volga  verso  di  me  nell'ora  in  cui 
scrino  l'uomo  insigne  che  il  presente  Ricordo  vorrebbe  onorare. 
Sono  alcuni  anni  ch'io  non  ho  più  alcuna  notizia  di  lui,  ed  io 
temo  che  il  profondo  dissenso  che  mi  separa  da  lui  nella  ragione 
politica  e  religiosa  e  nella  questione  degli  studii  e  del  metodo 
scientifico  m'abbia  pure  privato  di  quell'affetto  ch'egli  non  ne- 
gava a  me  suo  discepolo,  di  cui  egli  conosceva  bene  i  sentimenti 
opposti  a  suoi,  ma  gradiva  lo  zelo  nello  studio  delle  latine  ele- 
ganze, e  l'animo  sempre  riverente,  anco  ne'suoi  moti  piìi  liberi, 
mentre  incoraggiava  con  lodi  lusinghiere  l'ingegno.  Io  vorrei  dun- 
que almeno  che  la  pagina  la  quale  qui  depongo  valesse  ad  assi- 
curarlo che  non  il  tempo,  la  distanza,  la  fortuna,  non  il  trovarmi 
in  campo  avverso  a  quello  in  cui  egli,  con  mio  dolore,  persiste, 
valsero  punto  a  scemare  in  me  quella  sincera  gratitudine  che  gli 
ho  professata  nel  tempo  in  cui  l'ebbi  maestro,  e  che  sono  lieto 
di  potergli  in  modo  più  solenne,  riconfermare  lontano  e  con  pa- 
role che  saranno,  io  spero,  lette  da  molti.  Quand'io  frequentavo 
nell'Università  di  Torino  la  scuola  di  Belle  Lettere  egli  seppe 
col  veramente  latino  splendore  della  sua  parola  ornata  e  faconda, 
nella  quale  egli  non  ha  sicuramente  emuli  non  pure  in  Italia  ma 
in  Europa,  innamorare  l'ingegno  mio  delle  grazie  più  squisite  del 
discorso  latino,  e  per  modo  esercitarlo  alle  classiche  bellezze  del 
dire,  che  non  pure  ne'  componimenti  latini  scritti  a  mente  ripo- 
sata ci  riuscisse  quindi  agevole  il  trarne  profitto,  ma  non  ci  fosse 
difficile,  dopo  averlo  inteso,  il  discorrere    con  una  certa    dignità 


—  508  ~ 
e  proprietà  di  linguaggio  nell'idioma  de'padri  nostri  latini,  pre- 
cursori della  moderna  civiltà.  Il  Vallauri  é  il  più  magniloquente 
di  quanti  sappiano  nell'età  nostra  parlare  latinamente;  la  sua 
voce,  del  tutto  proporzionata  alla  sua  statura  quasi  gigantesca^ 
che  fanno  pure  di  lui  l'uomo  più  cospicuo  alla  vista  che  passeggi 
le  vie  di  Torino,  (1)  è  tonante  ;  quando  s'ha  il  piacere  di  ascol- 
tarlo improvvisare  i  ciceroniani  suoi  discorsi,  lo  si  raffigura  vo- 
lentieri ancora  in  un  romano  paludamento,  tanta  è  l'illusione  che 
desta  negli  uditori  la  sua  parola  coltissima,  ampia,  voluminosa. 
Nel  suo  latino  è  pur  forse  passata  alcuna  fioritura  degli  scrittori 
della  decadenza,  come  Quintiliano  e  Seneca,  come  Floro,  Lucano 
e  Claudiano  ;  ma  que'  fiori  ornano  e  non  guastano.  Anche  negli 
scrittori  della  decadenza  vi  sono  eleganze  squisite,  che  meritano 
di  venir  considerate,  non  per  farne  di  tutte  un  solo  centone, 
come  usavano  certi  grammatici  medievali,  e  come  usano  an- 
cora a'  di  nostri  certi  latinisti  dozzinali,  ma  per  rompere  alquanto 
la  monotonia  di  uno  stile  imitato  da  una  sola  fonte,  la  quale  per 
quanto  perfetta,  non  basterebbe  a  ravvivare  da  sola  la  lingua  di 
un  moderno  scrittore  costretto  pure,  per  la  novità  delle  cose,  a 
girare  talora  in  modo  nuovo  anco  le  parole.  E  per  queste  peri- 
frasi nessun  moderno  latinista  vince  in  destrezza  il  Vallauri,  che 
fu  posto  più  volte,  sia  nelle  sue  Epigrafi,  sia  ne'suoi  discorsi  ac- 
cademici, sia  nelle  sue  lezioni  alla  prova  d'  esprimere,  con  frasi 
antiche,  idee  e  cose  moderne.  Io  so  che  molti ,  a' di  nostri,  af- 
fettano un  insigne  disprezzo  per  un  simile  esercizio  dell'inge- 
gno, quasi  tosse  vanissimo,  e  quasi  fosse  poi  cosa  agevole  l'ac- 
quistarvi vera  eccellenza.  Inutile  noi  credo,  specialmente  sopra 
una  cattedra  che  come  quella  di  Torino  s'intitolò  sempre,  non 
so  poi  con  quanta  opportunità ,  di  eloquenza  latina  ;  osservo 
poi  come   il  riuscire   a  scrivere   e    parlare   con   tanta   disinvol- 


(1)  A  questo  proposito,  piacemi  ricordare  un  aneddoto.  Il  mio  pre- 
sentatore per  la  laurea  di  lettere  volle  essere  il  Vallauri,  il  quale  non 
pure  si  degnò  presentarmi,  masicompiacque  in  quella  occasione  recitare  in 
onore  del  giovine  candidato  una  speciale  elegantissima  oraft■^<^?c^fZ«  che  si 
trova  pure  stampata.  Era  presente  tutto  il  collegio  de'professori  e  dot- 
tori collegiati  dell'Università  di  Torino;  a  un  tratto  del  suo  discorso 
il  Vallauri  si  chinò  e  mi  pose  una  mano  sul  capo  dicendo  :  Tantillum 
adolescentem  videtis,  judices.  I  giudici  risero  di  cuore,  poiché  non  s'era 
forse  mai  visto  un  cosi  grande  contrasto. 


~  509  — 
tura,  con  tanta  eleganza,  con  tanta  maestà  la  prosa  latina  non 
dev'  essere  impresa  cosi  facile,  poiché  de'  molti  che  1'  hanno  come 
il  Vallauri  tentata,  i  più  abbandonarono  sfiduciati  il  campo ,  al- 
cuni pochi  s' accostarono  alla  eccellenza  di  lui ,  nessuno  forse  lo 
potè  arrivare,  nessuno  lo  superò  di  certo.  Dico  di  lui  come  pro- 
satore; che  tra  i  poeti  latini  ebbero  fama  bellissima  nell'età  no- 
stra Filippo  Schiassi,  Lorenzo  Costa,  Diego  Vitrioli,  i  due  Fer- 
rucci ed  altri  piìi. 

Piacerai  dunque  rivendicare  la  gloria  singolare  che  s'acquistò 
tra  i  viventi  latinisti  il  Vallauri  come  il  piìi  eloquente  degli  ora- 
tori che  parlarono  latino;  onde  si  comprende  agevolmente  quanto 
buon  giuoco  egli  avesse,  quanto  alle  parole,  nelle  sue  recenti  po- 
lemiche, contro  il  Ritschl  ed  altri  insigni  filologi  tedeschi,  i  quali 
s'avvisarono  di  rispondergli  latinamente.  Quanto  alle  parole  io 
dico,  che  quanto  alle  idee,  irretito  il  Vallauri  nelle  tradizioni 
della  vecchia  scolastica  italiana,  non  sembrami  abbia  opposto  ai 
poderosi  suoi  avversarli  alcuna  di  quelle  profonde  ragioni  criti- 
che, le  quali  hanno  rinnovata,  per  intiero,  la  disciplina  filologica 
degli  studii  non  pure  in  Germania,  ma  oramai  in  tutto  il  mondo 
civile.  Io  mi  dispenserò  qui  pertanto  dal  considerare  il  Vallauri 
come  critico,  se  bene  di  lui  abbiamo  a  stampa  una  Historia  cri- 
tica della  letteratura  latina,  se  bene  quasi  tutti  i  suoi  discorsi 
accademici,  i  suoi  scritti  polemici,  le  sue  edizioni  di  testi  latini, 
le  sue  stesse  Novelle  possano  considerarsi  come  lavori  fatti  con 
intendimento  critico.  Ma  i  principii  che  muovono,  per  lo  più, 
quella  critica,  sono  cosi  diversi  dai  miei,  che,  per  dire  dello  scrit- 
tore, dovrei  pure  spesso  giudicare  l'uomo,  al  quale  io  non  posso, 
e  non  voglio  come  discepolo,  professar  altro  che  ossequio  ricono- 
scente. Bensì  voglio  dolermi  anche  una  volta  del  male  che  possono 
su  anime  deboli  fare,  coi  loro  scherzi  inconsulti,  prolungati,  esage- 
rati, i  giornali  umoristici.  Il  Vallauri  era  innanzi  il  4848  (1)  con- 
tato fra  gli  scrittori  liberali.  Nella  sua  Storia  della  poesia  in 
Piemonte  (due  voi.  in  ottavo),  nella  sua  monografia  sul  Cavalier 
Marino  in  Piemonte,  nelle  orazioni  inaugurali  dell'Università  di 
Torino,  delle  quali  con  alterna  vicenda  erano  sempre'  incaricati 


(1)  Egli  è  nato,  s'io  non  erro,  nel  1808,  a  Chiusa  di  Cuneo;  fu  di- 
scepolo di  Carlo  Boucheron,  e  quindi  suo  successore,  nella  cattedra  di 
eloquenza  latina  dell'università  di  Torino,  eh'  egli  occupa,  con  grande 
onore,  da  oltre  trent'anni. 


—  510  — 

il  Vallauri  ed  il  Paravia,  ne'suoi  lavori  sopra  le    università  pie- 
montesi, e  in  ogni  altro  suo  scritto  di  quel  tempo    rivelavasi  un 
animo  se  non  impaziente,  al  certo  ben  disposto  per  le  novità  che 
si  preparavano  in  Italia.  Con  la  libera  stampa,  apparvero  pure  i 
giornali  umoristici;  uno  di  essi,  il    Fischietto  incominciò   ad  as- 
salire co'suoi  frizzi  il  Vallauri  il  quale  non  seppe  tollerarli  filo- 
soficamente. Il  giornale  V Armoìiia  se  n'avvide,    ed  incominciò  a 
menar  l'incensiere  ;  il  profumo  di  quell'incenso  attrasse  pur  troppo 
il  Vallauri  in  sagrestia;  ove  i  pretazzuoli  l'hanno  poi  saputo  trat- 
tenere. Io  non  ho  ora,  pur  troppo,  piìi  alcuna  viva  speranza  ch'egli 
ne  esca.  Ma,  checché  egli  pensi  delle  cose  d'Italia,  gli  estimatori 
del  suo  valore  gli  sarebbero  grati,  s'egli  non  ne  mescolasse  più  il 
sacro  e  venerato  nome  ne'suoi  scritti.  Il  suo  dire  elegantissimo  (1) 
piacerebbe  assai  più  quando  non  fosse  inteso  ad  offendere  un  sen- 
timento che  si  è  fatto  universale  nella  coscienza  italiana  e  che  si 
traduce  nelle  leggi  liberali  e   nel  progresso  scientifico.    Possiam 
volentieri  tornare  indietro  con  lui,  per  assaporare  le  classiche  bel- 
lezze di  una  lingua  antica,  ed  ascoltarlo  con  animo  grato  e  rive- 
rente,   ma  non    possiamo  poi  tornare  con  idee  viete  a  vivere    la 
vita  del  passato.  Il  discepolo  ed  il  maestro  a  questo  punto  si  sepa- 
rano, quantunque  l'ardentissimo  voto  del  primo  sarebbe  che  giunto 
il  Vallauri  ad  un'  età   nella  quale  sogliono    aquetarsi  le  passioni, 
egli  si  fermasse  a  benedire  il  giovine  mondo  che  sorge  a  racco- 
gliere l'eredità  della  vita,  e  che  ha  però  uopo  di   creare   intorno 
a  sé  una  vita  simpatica,  e  generosa,  e  che  gli  si  parlino  le  parole 
della  fede  e  del  coraggio. 


(1)  Il  Vallauri  è  pure  socio  corrispondente  della  Crusca. 


XXXVIII. 


ERCOLE  RICOTTI. 


M'onoro  d'avere  avuto  tra  i  miei  migliori  maestri  il  primo  tra 
gli  storici  piemontesi  viventi,  1'  autore  di  una  delle  più  belle  e 
posso  dir  classiche  storie,  le  quali  vanti  la  nostra  letteratura,  un 
uomo  del  quale  fu  tutta  degna  la  vita  come  ne  son  nobili  e  ge- 
nerosi gli  scritti.  La  sua  dignità  modesta  ascose  una  parte  del 
grande  valore  di  lui  al  suo  nativo  Piemonte;  quanto  men  noto 
dunque  esso  dev'essere  all'Italia  per  la  quale  le  opere  del  Ricotti 
non  sono  forse  divulgate  secondo  il  loro  merito,  e  che  pur  dove 
giunsero  non  hanno  messo  in  alcuna  mostra  la  persona  dello 
scrittore,  per  recar  solo  intorno  la  notizia  de'fatti  che  lo  scrit- 
tore si  proponeva  di  narrare  ì  Si  notano  nel  Ricotti  le  qualità 
eminenti  dell'ingegno  piemontese,  quando  esso  é  bene  dotato  e 
ben  diretto:  vigore,  esattezza,  sincerità.  Il  vigore  può  degenerare 
nella  rudezza  e  nello  stento,  l'esattezza  nella  pedanteria,  la  sin- 
cerità nella  indifferenza.  Il  Ricotti,  per  mezzo  della  coltura  lette- 
raria, temperò  le  virtù  del  proprio  ingegno  e  non  le  lasciò  vol- 
tarsi in  vizio.  Nella  sua  parola  viva  vi  è  ancora  qualche  asprezza; 
l'antico  matematico  ama  ancora  i  suoi  angoli,  e  ne  lascia  tuttora 
alcuni  ne'suoi  accenti  vibrati,  stretti,  schietti,  incisivi.  Negli 
scritti,  invece,  gli  angoli,  le  punte  scompaiono  ;  lo  scrittore  non 
s'adagia,  né  si  consuma  nelle  vane  parole;  ma  ne  comprende  in- 
vece il  potere,  e  se  ne  serve  ad  animare  d'alcuna  vita  artistica 
l'ignudo  vero  che  dicono  bene  splenda  per  sé,  ma  che  pur  diviene 
operoso  soltanto  se  alcuno  lo  illumini  e  lo  faccia  valere.  Leggasi 
fra  gli  altri  lavori  del  Ricotti  il  suo  bel  libro   Della  vita  e  degli 


—  512  — 

scritti  di  Cesare  Balbo  pubblicati  dal  Le  Monnier,  e  chi  conosce 
il  Ricotti  pregierà  senza  dubbio  la  efficacia  della  educazione  let- 
teraria, in  grazia  della  quale,  un  Aero  soldato  ed  un  severo  ma- 
tematico seppero  trasformarsi  in  prosatore  quasi  elegante,  per  dir 
bene  le  molte  cose  buone  ch'egli  aveva  a  dire  intorno  al  grand'uo- 
mo  che  incominciò  con  l'essergli  patrono  e  guida  negli  studii 
storici  e  ne'travagli  politici,  e  finì  col  diventargli  compagno  ed 
amico. 

Nacque  Ercole  Ricotti  in  Voghera  il  12  ottobre  181G;  il  dottor 
Mauro  Ricotti,  autore  d'alcune  opere  mediche,  gli  fu  padre.  Com- 
piuti gli  studii  ginnasiali  e  filosofici  in  Voghera,  egli  passò  nel 
novembre  del  1832  a  studiar  le  matematiche  all'università  di  To- 
rino, sotto  la  disciplina  de'celebri  professori  Plana,  Bidone  e  Giulio; 
a  vent' anni  egli  conseguiva  la  sua  laurea  d'ingegnere.  Sul  prin- 
cipio dell'anno  medesimo  (1836)  l'Accademia  delle  Scienze  di  To- 
rino aveva  proposto  per  un  premio  il  tema  seguente:  «  Dell'  ori- 
gine, dei  progressi  e  delle  principali  fazioni  delle  compagnie  di 
ventura  in  Italia  sino  alla  morte  di  Giovanni  de'Medici  capitano 
delle  Bande  Nere,  e  qual  parte  esse  abbiano  avuta  al  riordina- 
mento della  milizia  italiana  >.  Il  Ricotti  si  propose  di  concorrere. 
Nel  settembre  del  1837,  in  età  di  ventun  anno,  presentava  il  suo 
manoscritto,  con  1'  epigrafe  :  «  Si  mi  caccia  il  lungo  tema.  Che 
molte  volte  al  fatto  il  dir  vien  meno  ».  Nel  gennaio  del  1838, 
l'opera  del  Ricotti  veniva  premiata  dall'Accademia.  Essa  conte- 
neva allora  soltanto  la  storia  delle  compagnie  di  ventura  propria- 
mente dette,  ossia  della  milizia  in  Italia  nei  secoli  XIV  e  XV.  In 
altri  sei  anni  di  lavoro  il  Ricotti  compi  l' opera  sua  col  trattar 
pure  delle  vicende  della  milizia  italiana  dal  VI  al  XIV  secolo,  e 
dal  XV  al  XVIII,  per  modo  ch'egli  diede  con  essa  alle  nostre 
lettere  una  completa  storia  della  milizia  italiana,  degnamente  pa- 
rallela alla  storia  della  legislazione  italiana  dello  Sclopis.  Pre- 
miato dall'Accademia,  il  Ricotti  si  presentò  al  Balbo,  che  l'accolse 
quindi  sempre  famigliarmente  in  sua  casa;  nel  1839,  per  una  mo- 
nografìa suir  Uso  delle  prime  milizie  mercenarie  in  Italia,  gli 
divenne  colléga  nella  Regia  Deputazione  di  Storia  Patria;  nel  1840, 
per  una  monografìa  sulle  Milizie  dei  Comuni  Italiani,  collega  nella 
Pteale  Accademia  torinese  delle  Scienze;  nel  1843-44  fìnalmente 
usciva  tutta  la  Storia  delle  Compagnie  di  Ventura,  in  quattro  vo- 
lumi in  ottavo;  ma  la  stampa  del  quarto  volume  gli  veniva  sospesa 
da  lunga  e  tediosa  malattia  d'occhi,  seguita  da  pericolosa  infermità. 
A  queste  ed  altre  difficoltà  allude  lo  stesso  autore  sul    fine    della 


—  513  — 

prefazione  alla  seconcla  edizione  dell'opera  che  il  Pomba  pubbli- 
cava nel  184')  nella  sua  BiblioLeca  di  Oj)ere  Utili:  «  Quanto  a  noi, 
conchiude  il  Ricotti,  persuasi  come  siamo  che  il  più  nobile  uffl- 
fìcio  dopo  Toperare  sia  quello  d'istruire  colla  voce  e  cogli  scritti, 
ci  riputeremmo  abbastanza  compensati  della  lunga  fatica,  dove  la 
vedessimo  riuscire  a  qualche  vantaggio  della  patria  nostra.  Con 
questo  intendimento  lavorammo,  non  ostante  ì  gravi  scoramenti 
e  la  !;;al  ferma  salute,  e  mille  altri  ostacoli,  con  questo  intendi- 
mento lavoreremo,  seppure  la  fortuna  non  ci  volesse  chiudere  an- 
cora questa  via  di  esercitare  le  poche  forze  dateci  dalla  natura. 
Che  se  tal  fosse  il  volere  di  quella,  ricordisi  questa  patria  no- 
stra, al  cui  incremento  abbiamo  sempre  anelato  di  esporre  tutto 
noi  stessi,  che  v'ha  sovente  tal  complicazione  di  casi  e  di  tempi, 
per  cui  alcuni  uomini  non  possono  di  sé  manifestare  al  mondo 
che  una  piccola  parte  ».  Nella  dedica  punto  servile  che  il  Ricotti 
faceva  dell'opera  sua  fin  dall'anno  1843,  al  Re  Carlo  Alberto,  ri- 
cordava la  necessità  di  «  riesaminare  i  fatti,  riunirli,  classificarli; 
dedurne  principii  ovvii  e  fecondi;  cercare  alle  guerre  passate  i 
motivi  degli  ordini  presenti  ;  cercarvi  le  regole  della  tattica,  le 
fondamenta  della  strategia;  stabilir  fermi  nomi  a  chiare  idee;  ap- 
prossimare lo  studio  quanto  pili  sia  possibile  all'applicazione  pra- 
tica ;  rifondere  in  un  corpo  di  dottrina  il  meglio  di  que'  lavori 
parziali;  coordinarla  ai  precetti  dell'alta  amministrazione  militare; 
infine  riassumere  questa  mole  di  studii  sia  in  parecchi  trattati, 
sia  in  una  serie  di  scuole  saviamente  collegate  ;  »  e  quindi  sog- 
giunge :  «  ecco  l'impresa  che,  quando  fosse  nobilmente  fornita^ 
potrebbe  mutare  l'aspetto  di  più  di  un  esercito  europeo!  Forse  la 
presente  età,  troppo  vicina  a'grandi  avvenimenti  trascorsi,  dovrà 
trasmettere  alla  generazione  avvenire  questo  grande  lavoro.  Pur 
il  compierne  anche  una  piccola  parte  dovrebbe  parere  già  opera 
sufficiente  a  soddisfare  i  desiderii  di  qualunque  animo  amantissimo 
del  pubblico  bene  ;  massime  se  le  proprie  fatiche  conseguissero 
l'intento  di  aprire  ai  giovani  uffiziali  eziandio  in  tempo  di  pace 
un  vasto  campo  dove  studiare  e  perfezionarsi,  e  di  preparare  con 
immenso  vantaggio  allo  Stato  una  scuola  perenne  di  ottimi  uo- 
mini di  guerra  ».  Così  lo  storico  Ercole  Ricotti  precorreva  di 
trent'anni  il  ministro  Ricotti  riformatore  degli  ordini  militari  in 
Italia.  Il  Re  Carlo  Alberto,  nel  giugno  del  184i,  nominava  non 
tanto  per  la  dedica,  quanto  per  le  lodi  universali  prodigate  al  li- 
bro del  giovine  ingegnere  che  era  entrato  nel  Genio  civile  e  pas- 
sato  nel   1840   luogotenente   del   Genio  militare,  a  cavaliere  del 

Ricordi  Biografici  33 


—  514  — 

Merito  Civile  di  Savoia.  Nell'anno  4846^  il  marchese    Cesare    Al- 
fieri riordinando  nell'università  di  Torino  gli  studii  di  legge,  con 
l'aggiunta   di   nuovi  insegnamenti,  creava  le  due  nuove  cattedre 
di  economia  politica  e  di  storia  moderna.  Quella  di  economia  po- 
litica fu  affidata  ad  Antonio  Scialoia,  quella  di  storia  moderna  al 
Ricotti,   ch'esordi   le   sue  lezioni   nel   novembre  di  quello  stesso 
anno.  Ma  il  titolo  di  storia  moderna,  fu,  scrive  il  Ricotti  stesso, 
nella  sua  vita  del  Balbo,  a  dissipare  le  paure  del  Re,  modificato 
in  quello  di  Storia  militare  d' Italia,   che  era  forse  anche  più  si- 
gnificativo. Nel  18-47,  il  Ricotti  assunse  il  suo   proprio   titolo   di 
professore  di  storia  moderna,  oltre  che  ricevette  l' incarico  gra- 
tuito d'insegnare  per  la  prima  volta  in   una   università   italiana 
la  geografia  e  la  statistica,  cattedra  della  quale  egli  divenne  pure 
titolare  nel  1857  ed  alla  quale  rinunciò,  per  serbare  quella  sola  di 
storia,  nel  1859.  Nell'ottobre  del  1847,  il  Ricotti  fece  ancora  parte 
della  Commissione  superiore  di  revisione,  insieme  con  lo  Sclopis, 
il  Balbo,  il  Sauli,  il  Cibrario,  il  Buoncompagni,  il   Ghiringhello, 
il  Tonello  ed  il  Moris.  Nel  novembre  dello  stesso   anno,   insieme 
col  Balbo  e  col  Cavour,  egli  fondava  il  giornale  II  Risorgimento, 
e  lavorò  quindi  come  membro  della  Giunta  con  essi  a  preparare 
lo  Statuto  e  la  legge  elettorale.  Il  Ricotti  cooperò  pure  a  formare 
in  Piemonte  il  primo  ministero  costituzionale,  nel  quale  rifiutò  il 
posto  di  segretario  generale,  nel  desiderio  di  condursi  al  campo, 
dove  fini  per  esser  fatto  prigioniero  nel  recare  ordini  da  Milano  a 
Novara,  poche  ore  prima  dell'armistizio  Salasco.  Quando   il   suo 
collega  ed  amico  Balbo  fu  ministro,   quando  lo  stesso   Balbo   nel 
1851  venne  nuovamente  incaricato  di  formare  un   ministero,   sia 
per  fierezza,  sia  per  delicatezza,  il  Ricotti  s'astenne  dal  vederlo, 
non  volendo  sembrare  né  a  lui  né  ad  altri  un  adulatore,  un  bri- 
gatore, od  almeno  un  curioso.  Non   la   persona   cercò   gli   uftìcii 
onorevoli,  ma  l'onorevole  persona  fu  ricercata  per  gli  ufficii.  Fu 
deputato  di  Voghera  nel  1848,  di  Ventimiglia  fra  il  1849  e  il  1853, 
membro  straordinario  del  Consiglio   superiore  di  pubblica   istru- 
zione dal  1852  al  1859,  membro  ordinario  dello  stesso    Consiglio 
dal  1859  al  1866,  senatore  del  Regno  dall'anno  1862,  rettore  del- 
l'università di  Torino  fra  il  1862  e  il  1865;  non  fu  ancora  mini- 
stro della  pubblica  istruzione,  ma  lo  potrà  divenire  quando  si  senta, 
e  si  sentirà  forse  presto,   in  Italia  il  bisogno   di    rivedere  al  po- 
tere uomini  risoluti,  energici,  sinceri  amici   delle  libertà  costitu- 
zionali, delle  quali  oltre  che  per  gli  atti  della  vita  e  per  la  parte 
presa  a  compilare  lo  statuto  piemontese,  si  mostrò  il  Ricotti  degno 


—  515  — 

estimatore  nella  sua  memorabile  Storia  della  monarchia  piemon- 
tese, in  sei  volumi,  e  nella  sua  Storia  della  costituzione  inglese. 
Tra  le  opere  scolastiche  del  Ricotti,  rammento  come  pregevolissime 
ed  originali  nel  metodo  e  nell'esposizione  :  Il  corso  di  lezioni  so- 
pra la  Storia  d'Italia  dal  Basso  impero  ai  Comuni  (un  voi.  in-8, 
Torino,  1848),  e  la  sua  Breve  storia  d'Europa  e  specialmente 
d'Italia  (in  due  voi.,  Torino,  1850-51).  Tra  i  Monumenta  liistorice 
patrice  dobbiamo  Analmente  alla  diligenza  del  Ricotti  la  pubbli- 
cazione dell'opera  in  due  volumi  in  foglio,  intitolata  :  Liber  Ju- 
rium  ReipuUicce  Genuensis.  Ne'giorni  presenti  si  vive  in  fretta 
e  si  dimentica  presto;  perciò  accade  che  una  vita  operosa  come 
quella  del  Ricotti  a  pochi  sia  nota,  e  dai  pochi  stessi  non  si  pregi 
quanto  essa  vale;  ma  verrà  tempo,  io  spero,  in  cui  anco  l' Italia 
moderna  vorrà  ricordarsi  di  fare  l'inventario  delle  sue  glorie,  ed 
allora  tra  le  glorie  più  utili  e  più  sicure,  per  quanto  prive  di  fa- 
sto, collocherà  in  posto  d'onore  il  grave  professore  di  storia  mo- 
derna dell'ateneo  torinese,  il  compagno  ed  amico  del  Balbo,  lo  sto- 
rico della  milizia  italiana  e  della  monarchia  piemontese. 


XXXIX. 


LUIGI  SCHIAPARELLI. 


Come  il  professor  Ricotti  ha  sostenuto  per  molti  anni  l'  onore 
degli  studi!  storici  nell'università  torinese,  cosi  il  professor  Luigi 
Schiaparelli  nelle  scuole  secondarie  del  Piemonte^  vuoi  con  l' in  - 
segnamento,  vuoi  con  trattati,  già  numerosi,  di  storia  ch'egli  ha 
consegnati  alle  stampe.  Io  l'ebbi  professore  per  quasi  quattro  anni 
nel  Collegio  di  San  Francesco  da  Paola  in  Torino  e  lo  sperimen- 
tai non  pure  dotto  e  benevolo,  ma  singolarmente  atto  a  destare 
ne' giovani  l'amore  degli  studii  storici.  Egli  soleva  tracciarsi  un 
programma  sempre  molto  più  largo  di  quello  che  richiedesse  il 
Ministero,  e  quindi  lo  sminuzzava  a  noi  in  una  specie  di  somma- 
rio particolareggiato,  ove  tutti  i  fatti  più  singolari  venivano  ac- 
cennati; mancava  loro  soltanto  il  calore  ed  il  colore,  mancava 
il  legame  storico,  ed  a  questo  difetto  suppliva  ora  con  la  viva 
voce  egli  stesso,  ora  invitando  i  giovinetti  di  buona  volontà  a 
preparare  componimenti  specialissimi  sopra  alcun  tema,  ch'egli 
non  imponeva  ma  proponeva,  a  svolgere  il  quale  ci  indicava  pure 
le  principali  fonti.  Cosi,  per  merito  dello  Schiaparelli,  avemmo 
per  tempo  fra  le  mani,  per  la  storia  antica,  le  storie  di  Erodoto, 
di  Diodoro,  di  Pausania ,  di  Arriano ,  di  Dionigi  d' Alicarnasso, 
di  Dione  Cassio  ed  altre  fonti  dirette  d'erudizione  storica  ;  per  la 
storia  del  medio  evo  i  volumi  di  Gibbon,  le  opere  monumen- 
tali del  Muratori.  Neil' insegnarci  la  storia  romana,  fin  da  quel 
tempo,  egli  ci  rendeva  conto  de' risultati  della  critica  storica 
tedesca  e  specialmente  delle  opinioni  di  Niebuhr  e  di  Momm- 
sen.  Egli  fu  a  noi  pertanto  professore  zelantissimo,  e  dovea  però 


-  517  — 

quindi  riuscire  trattatista  egregio.  La  sua  erudizione  storica  oc- 
cupando un  campo  vastissimo,  non  potò  naturalmente  approfon- 
dirne ogni  parte  ad  un  modo;  onde,  anche  lodatissimi,  1  suoi  libri 
scolastici  offrirono  ed  offrono  ancora  alcuni  appigli  alla  critica  (1); 
se  non  che,  ad  un  trattatista  diligente  e  coscienzioso  come  lo 
Schiaparelli ,  la  critica  (anzi  che  impermalirlo)  pur  che  onesta, 
è  sempre  la  benvenuta;  egli,  dal  fervido  suo  laboratorio,  ove  rac- 
coglie, ordina,  spiana  da  parecchi  anni  copiosi  materiali  storici 
per  la  gioventù  studiosa  tien  pur  nota  delle  giuste  osservazioni 
che  gli  possano  esser  fatte  e  se  ne  giova  per  migliorare  conside- 
revolmente ogni  nuova  edizione  de'suoi  lavori,  de' quali  fu  sempre 
desiderata  la  ristampa,  poiché  tra  i  trattati  di  storia  e  geografia 
che  vanno  per  le  nostre  scuole  non  se  ne  conoscono  di  più  ricchi 
in  minor  volume,  di  meglio  ordinati  nella  ricchezza,  di  quelli  del 
professore  Schiaparelli.  Cosi  il  solo  Manuale  completo  di  geogra- 
fia e  statistica  ebbe  già  dodici  edizioni;  cinque  edizioni  si  fecero 
della  Storia  del  Medio  evo,  quattro  della  Storia  Greca,  della  Sto- 
rìa  Romana,  della  Storia  moderna,  tre  della  Storia  Orientale, 
due  della  Storia  degli  Ebrei.  (2)  Si  comprende  agevolmente  da 
questa  breve  statistica  la  nobile  parte  che  lo  Schiaparelli  dovette 
esercitare  in  quest'ultimo  ventennio  nella  coltura  storica  delle 
Provincie  piemontesi,  e  cresce  però  tanto  più  il  desiderio  che  le 
opere  di  lui  rifiutino  o  almeno  discutano  tutte  quelle  nozioni  sto- 
ri^'he  meno  accertate,  delle  quali  il  dotto  professore  saprebbe  age- 
volmente indicare  la  fonte,  ond'egli  le  attinse,  ma  che  gli  studiosi 
accolgono  spesso  e  ripetono  quindi  con  troppa  credulità.  Ne'  suoi 


(1)  Iq  ispecie,  senza  toccare  di  alcuQe  inesattezze  parUcolari,  nella 
parte  antica  e  ideila  euio-ratìa  storica:  per  la  quale  ei  s^^^ue  ancora  al- 
cun^ traccie  che  l'o.dierna  critica  ha  intieramente  abbandonate.  Cfr.  al- 
cuni capitoli  della  Storia  Orientale,  il  2"  capitolo  delia  Storia  Greca, 
alcuni  paragrafi  della  Storia  degli  Eterei,  la  nota  della  pag.  37  del  primo 
voi.  della  Storia  Romana,  il  paragrafo  (J7  del  Manuale  co'mpleto  di 
geografia  e  statistica. 

(2j  Lo  Schiaparelli  rese  poi  importanti  servigi  alla  istruzione  secon- 
daria per  la  parte  da  lui  presa  nella  pubblicazione  di  parecchie  carte 
murali  per  le  scuole  e  di  un  atlante  geografico,  che  venne  dal  prof.  Ce- 
lestino Pvroglio  professore  di  geugralla  e  statistica  nell'Università  di 
Torino  giudicato  superiore  a  tutti  gli  altri  atlanti  che  vanno  per  le  mani 
de'uostri  studiosi. 


—  518  — 

insegnamenti  egli  mostra  maggior  scetticismo  critico  che  ne'suoì 
libri;  non  potendo  egli  farsi  interprete  de' proprii  manuali  a  tutti 
gli  scolari  del  regno  è  desiderabile  pertanto  che  nelle  successive 
edizioni  delle  proprie  opere  egli  temperi  alquanto  il  tenore  d'al- 
cune affermazioni,  in  particolare  nelle  sue  tre  storie  antiche,  le 
quali  per  ora,  sembrano  talora  prendere  un  carattere  soverchia- 
mente determinato  ed  assoluto. 

Luigi  Schiaparelli  è  nato  nell'anno  stesso  in  cui  nacque  il  Ri- 
cottij  ad  Occhieppo  inferiore,  nel  Biellese  (1);  compiuti  con  lode 
gli  studi  secondarli  nel  Collegio  di  Biella,  passò  nel  1832,  come 
allievo  del  Collegio  delle  provincie  ora  Carlo  Alberto,  a  studiare 
nell'Università  di  Torino  le  lettere  latine  e  le  italiane  presso  il 
Boucheron  ed  il  Paravia,  e  vi  si  fece  notare  per  alcune  poesie 
bernesche,  delle  quali  si  valse  pure  alcun  tempo  per  dire  alcuna 
utile  verità  politica  o  letteraria.  I  suoi  capitoli  berneschi  (fra  gli 
altri  quelli  sulla  Cuccagna,  sul  Monte  dì  Pietà  e  sul  Baretti  che 
si  leggono  in  un  curioso  volume  ch'ebbi  già  fra  le  mani  intitolato 
Componimenti  originati  e  tradotti  (2)  ),  che  recitava  egli  stesso 
nelle  accademie  letterarie  istituite  e  dirette  dal  Paravia,  erano 
sempre  dal  numeroso  ed  eletto  uditorio  accolti  con  lieto  plauso; 
e  subito  dopo  stampati  e  ristampati  nelle  appendici  letterarie  degli 
scarsi  giornali  politici  di  quel  tempo  e  delle  strenne.  Contempora- 
neamente il  professor  Paravia  affidava  allo  Schiaparelli  il  compito 
onorevole  di  scrivere  e  pubblicare  un  sunto  delle  sue  lezioni  sulla 
Epigrafia  italiana,  il  quale ,  compiuto  dallo  Schiaparelli ,  veniva 
quindi  pubblicato  r\.Q\X Annotatore  Piemontese  di  Mich.  Ponza  ;  cosi 
quando  usciva  dall'Università,  per  merito  de'propri  scritti,  lo  Schia- 
parelli erasi  già  acquistato  buon  nome,  numerosi  amici  e  special- 
mente la  benevolenza  d'un  personaggio  eminente  per  intelligenza  e 
autorità  nella  Corte  del  Re  Carlo  Alberto,  di  Cesare  Saluzzo,  go- 
vernatore dei  principi  reali  e  quindi  del  duca  di  Savoja,  ora  Re 
d' Italia.  Era  il  Saluzzo  mecenate  potente  appresso  il  Re  di  tutti 
quelli,  che  nelle  arti  belle,  nelle  lettere  e  nelle  scienze  avevano 
conseguito  alcuna  fama,  o  davano  speranza  che  l'avrebbero  otte- 


(1)  Al  suo  conterraneo  Quintino  Sella  ei  dedicava  la  sua  Geografia^ 
alla  moglie  del  Sella,  Clotilde  Rey,  la  seconda  edizione  della  Storia  degli 
Ebrei.  La  Storia  moderna  Io  Schiaparelli  ha  dedicata  al  Berti,  e  la 
Storia  Greca  al  Coppino. 

(2)  Torino,  1841,  tip.  Canfari. 


—  519  — 
nuta;  Cesare  Saluzzo  destinava  tosto  allo  Schiaparelli  un  ufficio 
nell'Accademia  militare,  delia  quale  era  governatore  supremo  e 
quasi  in  pari  tempo  (nel  1838),  il  Magistrato  della  Riforma  ofFe- 
rivagli  la  cattedra  di  professore  di  lettere  nel  R.  Collegio  di  Sa- 
luzzo. Lo  Schiaparelli,  avrebbe  preferito  a  ragione  il  primo  po- 
sto; accettava  però  il  secondo  per  non  aver  guai  col  colonnello 
direttore  degli  studi  dell'  Accademia,  che  in  suo  cuore  aveva  de- 
stinato quell'uffizio  ad  una  sua  creatura. 

Alcuni  mesi  dopo,  lo  Schiaparelli  passava  a  professare  nel  Col- 
legio Reale  di  Asti,  che  era  in  quel  tempo  il  piìi  numeroso  dello 
Stato,  dopo  quelli  della  capitale.  In  Asti  egli  si  consacrò  partico- 
larmente allo  studio  della  Storia;  e,  già  famigliare  con  le  lingue  stra- 
niere moderne,  merito  raro  in  quel  tempo,  traduceva  dal  tede- 
sco i  Fatti  principali  della  storia  universale  di  G.  Bredow,  che 
venivano  pubblicati  in  due  giusti  volumi  dal  benemerito  Giuseppe 
Pomba  nella  Raccolta  delle  opere  utili  (1).  Scosso  quindi  dalla 
osservazione  di  Heeren,  mancare  ancora  una  storia  degli  Ebrei 
prima  della  schiavitù  di  Babilonia,  la  quale  si  scostasse  egual- 
mente dallo  scetticismo  e  dalla  superstizione,  si  decise  di  tentare 
la  prova;  e  dopo  un  lavoro  di  parecchi  anni  aveva  compiuto  ap- 
punto quel  libro,  accennato  da  Heeren,  fatto  intieramente,  anzi 
con  troppa  religiosità,  sulle  fonti,  curato  con  diligenza  e  due  volte 
copiato  di  sua  propria  mano.  Con  tuttociò  la  sua  Storia  ebraica 
non  trovava  un  editore  a  patto  alcuno  :  la  traduzione  di  Bredow, 
che  era  un  protestante  e  un  liberale,  e  i  sentimenti  di  libertà,  e 
fraternità  ed  uguaglianza,  che  dominavano  nella  storia  degli  ebrei, 
non  che  giovare  allo  Schiaparelli,  lo  avevano  messo  in  sospetto 
e  mala  vista  ai  chierici  amministratori  della  pubblica  istruzione, 
alla  polizia  ed  alla  Curia  ecclesiastica.  Per  cui,  mandato  ad  inse- 
gnare lettere  latine  ed  italiane  in  Ivrea,  e  stato  ad  un  pelo  di  do- 
vere andare  a  respirare  le  aure  poco  salutifere  di  quel  Castello, 
quasi  sfiduciato  della  sua  carriera,  pensava  a  ritirarsi  dall'  inse- 
gnamento. 

Ma,  sovraggiunto  il  1848,  con  la  costituzione,  le  cose  cambia- 
rono: egli  veniva  immediatamente  chiamato  dal  nuovo  ministro 
dell'istruzione,  cav.  Boncompagni,  alla  cattedra  di  Storia  e  geo- 
grafia nel  Convitto  nazionale  di  Voghera,  uno  de'  sei   collegi   di 


(1)  I  fatti  principali  della  storia  universale,  narrati  da  G.  G.  Bredow^ 
Torino  1841. 


—  520  — 

compiuto  insegnamento,  istituiti  in  quell'anno  in  surrogazione  di 
altrettanti,  diretti  fin  allora  dai  Gesuiti.  Alfine,  essendosi  egli  fatto 
notare  per  una  monografia  sull'ordinamento  degli  studi  secondarli 
in  relazione  con  la  legge  Boncompagni,  e  inoltre  come  segretario 
generale  del  Congresso  pedagogico^    tenutosi  nel  1849  in    Torino 
con  grande  solennità,  era  chiamato  in  queir  anno  stesso  col  me- 
desimo uffizio  di  professore  di  Storia  e  di  geografìa  nell'ora  Gin- 
nasio Liceo  Gioberti  di  Torino,  che  era  allora  il  più  frequentato 
di  tutto  il  Regno.  Da  quel  punto  non  gli  mancarono   più  editori 
della  Storia  degli  Ebrei  (l),  che    1' Aporti  e   Monsignor    Losana, 
stati  sempre  pieni  di  benevolenza  per  lo  Schiaparelli,  chiamavano 
la  più  'beila  Storia  degli  Ebrei  che  noi  possediamo;   e   cominciò 
una  serie  di  pubblicazioni  storiche  e  geografiche,   che   essenzial- 
mente si  riassumono  nel  corso  di  storia  generale  dalle  prime  ori- 
gini al  1872,  pubblicato  dal  Vaccarìno  (2)  in  sei  volumi  di  storia 
ed  U710  di  geografia,  non  tenuto  conto  di  altri  numerosi  libri   da 
lui  pubblicati  di  vario  argomento.   Il  favore  del  pubblico  non   gli 
mancò.  Tutti  quei  libri    ebbero   parecchie    edizioni,   che    sempre 
l'autore  corresse  e  migliorò  efficacemente.  Neppure  il  governo  non 
lo  dimenticò  del  tutto,  perchè,  nel  18")2,    sulla   relazione    di   una 
commissione  scientifica   incaricata  di  esaminare   le    pubblicazioni 
dello  Schiaparelli,  sulla  proposta  del  ministro  Boncompagni  fu  no- 
minato con  decreto  reale  professore  sostUuilo  di  storia  antica  e 
di  archeologia  nella  Università  di  Torino.   Per  la   nuova   legge 
Casati  lo  Schiaparelli  riusciva  di  pieno  diritto  professore  straordi- 
nario di  geografia,  e  poi  di  storia  antica;  finché,  nel  1863,  egli  vin- 
ceva per  concorso  di  titoli   il  posto   di   professore   ordinario   di 
storia  antica,  uffizio  che  egli  sostiene  tuttora  nell'Ateneo  torinese. 
Lo  Schiaparelli  è  uomo  diligentissimo   nel   suo   uffizio,    ma    non 
piaggiatore  né  degli  scolari  né  dell'  autorità,   e   sente  tutta  l'im- 
portanza del  mandato;  amatore  di   quieto   vivere   e   alieno   dagli 
intrighi  ebbe  in  sua  vita  una  sola  polemica  col  Revere  e  col  Ghiaia, 
direttore  della  Rivista  Contemporanea,  la  quale  egli  sostenne  con 
moderazione  e  fermezza,  giurando  però  di  non  volerne  avere  altre 
in  avvenire;  e  tenne  la  parola.  Non  volle  mai  allontanarsi  dalla 


(1)  Storia  civile  e  politica  degli  Ebrei  dalla  loro  origine  alla  schia^ 
vitù  di  Babilonia  Torino,  tipografia  regia  18."j0,  e  seconda  edizione  1870, 
tip.  Vaccarìno. 

(2)  Corso  generale  di  storia  antica  e  morfema,  presso  Vaccarino. 


-  521  — 
Università  di  Turino,  quantunque  gli  fossero  offerti  con  insistenza 
posti  di  ordinario  a  Pavia  ed  a  Bologna,  anzi  in  quest'  ultima 
Università  egli  fosse  nominato  ordinario  senza  ch'ei  lo  sapesse^ 
quando  egli  era  a  Torino  solamente  straordinario.  Oltre  le  ope- 
re pubblicate,  ha  lo  Schiaparelli  pronto  da  più  anni  per  la 
stampa  un  buon  volume  di  scritti  sulla  Archeologìa,  un  altro  sulla 
geografia  anlica,  ed  altri  due  sulla  storia  dell'  llalia  antica;  dei 
quali  in  parte  aveva  incominciata  né  so  perchè  ne  abbia  sospesa 
la  stampa.  I  suoi  scolari  insistono  specialmente  perchè  la  Storia 
dell'Italia  antica  non  tardi  a  pubblicarsi;  ma  forse  ei  vorrà  ri- 
serbarlo per  gli  anni  estremi  della  sua  vita;  anche  dopo  l' opera 
del  Vannucci,  una  storia  simile  è  sempre  ardua  fatica,  poiché  è 
molto  più  quello  che  non  si  sa  intorno  alla  primitiva  storia  di 
Italia  di  quello  che  si  possa  con  alcuna  sicurezza  affermare.  Né 
l'indugio  che  frappone  lo  Schiaparelli  può  dirsi  tempo  perduto  ; 
poiché  è  tra  le  cose  possibili  che,  mentre  egli  aspetta,  s'arrivi  a 
sollevare  il  velo  misterioso  che  ci  nasconde  i  caratteri  etnici  del 
popolo  etrusco. 

La  vita  dello  Schiaparelli  fu  comparativamente  a  molte  al- 
tre, uguale  e  tranquilla;  questo  non  vuol  dire  però  che  la  sua 
carriera  sia  stata  sgombra  di  triboli  e  di  spine,  ma  che  egli 
seppe  levarseli  dinanzi,  senza  troppo  curarsene.  Egli  dovette  anzi 
superare  assai  difficoltà  e  pigliarsi  in  pace  grandi  e  piccole  per- 
secuzioni, che  cominciarono  per  lui  appena  uscito  di  collegio,  e 
eh'  io  rammento  a  conforto  dei  giovani  d'ingegno  e  di  buona  vo- 
lontà, che  trovano  continui  ostacoli  o  nella  invidia  dei  compagni, 
0  nella  sospettosa  invidia  di  superiori,  che  non  vogliono  concor- 
renti negli  impieghi  né  uguali  o  superiori  nella  scienza  che  pro- 
fessano; 0  semplicemente  nel  mal  genio  delle  autorità,  con  cui 
sono  costretti  ad  avere  relazioni  d'inferiorità  gerarchica  o  sociale. 
Uscito  appena  di  collegio,  lo  Schiaparelli  vinceva,  come  ho  detto, 
un  posto  nel  collegio  delle  provincie  per  la  carriera  dell'insegna- 
mento: ma  eravi  allora  la  condizione  espressa  di  vestire  l'abito 
ecclesiastico,  e  il  vicario  generale  di  Biella,  che  non  lo  vedeva 
di  buon  occhio,  dopo  promesso  di  concederglielo,  glie  lo  negava 
in  termini  recisi  ed  assoluti,  sperando  con  ciò  di  rovinarlo  nella 
carriera.  Avvenne  invece  tutto  il  contrario,  perchè  il  presidente 
del  Magistrato,  che  era  pure  un  gi^andissimo  codino,  ma  un  uomo 
retto,  irritato  dal  procedere  del  vicario  generale  di  Biella,  dispen- 
sava lo  Schiaparelli  da  quell'obbligo  irragionevole,  ed  estendeva 
poi  la  fatta  concessione  a  tutti  i  conc(jrrenti  venuti   dupo  di  lui. 


—  522  — 

Compiuto  il  corso  di  lettere,  egli  sarebbe  stato  lietissimo  di  pas- 
sare come  insegnante  nell'  Accademia  militare  di  Torino,  ufficio 
destinatogli  dal  Governatore  della  medesima;  ma  il  mal  animo  del 
direttore  degli  studi  lo  obbligò  ad  optare  per  la  carriera  delle 
scuole  secondarie  fuori  di  Torino,  dove  aveva  tanti  mezzi  ed  ajuti 
di  studiare  e  di  farsi  strada.  In  Asti  il  troppo  famoso  vescovo 
Artico,  credendosi  offeso  nel  suo  ineffabile  orgoglio,  tentò  di  as- 
sassinare civilmente  lo  Schiaparelli  con  atroci  calunnie,  ma  ven- 
nero due  lettere  da  Cesare  Saluzzo,  che  sempre  gli  mantenne  la 
sua  benevolenza  e  quasi  amicizia,  una  al  vescovo  e  l'altra  al  ma- 
gistrato della  Riforma  di  Torino  ;  e  lo  Schiaparelli  non  fu  più 
molestato,  né  dal  vescovo,  né  da  altri.  La  pubblicazione  del  Bredow 
gli  fruttò  un'  avversione  decisa  del  magistrato  della  Riforma,  che 
gli  ricusò  l'aggregazione  nella  facoltà  di  lettere  e  filosofia.  In  Ivrea, 
poi  un  bel  mattino  sull'alba,  lo  Schiaparelli  si  vide  comparire  di- 
nanzi il  capitano  dei  carabinieri,  il  quale  senza  complimenti  gli 
disse  di  essere  venuto  per  ordine  del  conte  Lazzari.  Era  questi 
il  direttore  capo  della  polizia  del  regno,  e  il  terrore  dei  liberali, 
e  lo  Schiaparelli  aveva  pubblicato  tre  giorni  prima  una  poesia 
per  la  festa  dell'Annunziata,  che  celebravasi  nel  collegio  dagli 
scolari,  nella  quale  aveva  fatto  un  invito  alla  gioventù,  che  non 
piacque  ai  rappresentanti  del  Governo,  i  quali  gli  avevano  prono- 
sticato sventure  (1)  per  le  due  ultime  strofe,  che  non  offro  tanto 
come  saggio  di  alta  poesia,  quanto  come  un  indizio  degli  antichi 
sentimenti  patriottici  dello  Schiaparelli  : 

«  Santo  del  cielo  e  della  patria  amore 

Deh!  tu  c'infondi  negli  ardenti  petti; 

Fa  che  a  gagliardi  affetti 

La  subalpina  gioventù  s'infiammi 

E  cessi  al  fine  dai  codardi  voti 

Che  insultan  gli  avi  e  infamano  i  nipoti. 
Ma  operosa  sorgendo,  il  suo  avvenire 

Dell'Alpi  affidi  al  reggitor  sovrano. 

Che  più  non  é  lontano 

Quel  sospirato  irrevocabil  giorno 

In  cui  dal  voto  universal  chiamato 

Ei  fia  d'Italia  a  rinnovare  il  fato. 


(1)  Ivrea,  tipografia  Eredi  Franco  1847. 


—  523  — 
Ma  non  fu  nulla.  Il  conte  Lazzari,  cui  era  noto  lo  Schiaparelli 
pei  suoi  capitoli  antichi,  si  era  contentato  di  fargli  un  pò  di  paura. 
Mandava  a  dirgli,  che  Carlo  Alberto  aveva  veduto  con  piacere  la 
sua  poesia,  ma  ch'egli  avesse  la  cortesia  di  rimettere  al  messag- 
giero  tutte  le  copie,  che  di  quella  gli  rimanevano,  invitandolo  ad 
un  tempo  di  non  farne  altre  sullo  stesso  tuono.  Neppure  a  Torino 
non  gli  mancarono  seccature.  Nominato  professore  sostituito  di 
storia  antica  nell'Università,  servi  sette  anni  senza  assegnamento 
fisso,  mentre  ai  suoi  colleghi,  meno  anziani,  un  tal  dritto  veniva 
concesso;  e  finalmente,  dopo  aver  vinto  il  posto  di  professore  or- 
dinario nel  1863,  riuscì  ad  un  suo  avversario  di  ritardarne  la  nomina 
per  altri  quattro  anni.  Tutto  questo  però  non  turbò  mai  i  sonni 
né  guastò  le  digestioni  allo  Schiaperelli,  che  venne  finalmente  a 
capo  di  superare  una  dopo  l'altra,  tutte  quelle  piccole  persecuzioni, 
dopo  averle  sostenute  con  animo  non  rassegnato,  ma  tranquillo  e 
sicuro,  non  solo  per  la  coscienza  del  sentirsi  puro,  ma  ancora  per 
la  fiducia,  che  non  poteva  mancargli,  sarebbesi  o  prima  o  poi  ri- 
conosciuto il  suo  valore  e  fatta  ragione  a' suoi  dritti.  Ecco  dunque 
una  vita  modesta,  se  vuoisi,  ma  tutta  egregiamente  spesa;  possiamo 
poi  consolarci  nella  sicurezza  che  lo  Schiaparelli,  simile  alle  querele 
delle  sue  valli  montane,  con  l'invecchiare  è  sempre  venuto  acqui- 
stando nuova  gagliardia  d' ingegno  ;  di  maniera  che,  come,  per 
lungo  tempo,  speriamo,  gli  studenti  dell'ateneo  torinese  avranno 
il  vantaggio  di  sentir  forte  la  mano  della  loro  guida  per  le  alpi 
scoscese  dell'antichità,  cosi  ancora,  attendiamoci  molti  altri  lavori 
storici  sempre  più  vigorosi  e  perfetti  dalla  operosa  ed  industre 
officina  dell'  insigne  trattatista  biellese. 


XL. 


PIERLUIGI  DONINI. 


Il  Donini  non  è  punto  vecchio,  e  pure  può  dirsi  egli  abbia  già 
vissuto  due  vite;  nella  prima,  fu  letterato  cospicuo;  nella  seconda 
egli  si  fa  valere  da  oltre  vent'anni  come  benemerito  insegnante. 
Il  letterato  m'attrasse  alle  lezioni  del  maestro.  Se  bene  egli  sia 
stato  in  Torino  professore  sostituto  di  storia  nel  Collegio  di  San 
Francesco  da  Paola,  ch'io  frequentavo,  se  bene  egli  professi  al 
presente  lettere  italiane  e  storia  in  una  delle  scuole  tecniche,  e, 
come  professore  di  lettere  italiane  e  di  storia  egli  abbia  pure  pub- 
blicato in  servigio  delle  scuole  lodati  e  pregevoli  trattatelli  {An- 
tichità  romane,  Torino  1852,  Precetti  di  fatile  epistolare,  Torino 
1856,  Geografia  generale,  Torino  1857,  Bel  modo  di  scriver  bene, 
Torino  1862,  Diritti  e  doveri  del  cittadino,  Torino  1862,  Scrittori 
classici  ad  uso  della  gioventù.  Torino  18G8  1873,  Antologia  sto- 
rica italiana,  Torino  1863.  Storia  d  Italia  ad  uso  delle  scuole  tec- 
niche, Torino  1873),  io  ho  ricercato  particolarmente  di  lui  come 
interprete  di  Plauto.  Egli  era  stato  fino  al  suo  tempo,  e  credo  ri- 
manga ancora,  malgrado  i  nobili  ma  freddi  tentativi  de' signori 
Giuseppe  Rigutini  e  Temistocle  Gradi,  il  miglior  traduttore  di 
Plauto  in  Italia.  Io  lo  pregai  con  alcuni  miei  compagni,  fra  il 
quindicesimo  e  sedicesimo  anno  della  mia  vita,  quando  studiavo 
filosofìa,  di  spiegarci  privatissime  in  casa  sua,  alcuna  commedia 
di  Plauto;  al  che  egli  acconsenti  di  buon  grado,  e  mi  pose  dentro 
le  più  vive  bellezze  della  lingua  de'coraici  latini,  ossia  della  lingua 
parlata  degli  antichi  romani.  Il  modo  disinvolto,  col  quale  egli  ci 
spiegava  e  ci  animava  Plauto,  ce  lo  rese,  in  breve,  così  famigliare, 


if- 


—  525  — 
■Ile,  a  mezzo  del  suo  corsu  plautino,  intendevamo  già  cosi  bene 
il  nostro  testo,  che  si  trattò  un  momento,  nel  carnovale  del  1856, 
(li  tentare  fra  noi  una  rappresentazione  del  Trinummus;  ma  la 
difficoltà  di  porlo  convenientemente  in  iscena  ce  ne  fece  poi  smet- 
tere il  pensiero.  Cosi  al  Donini,  come  a  lodato  traduttore  del  carme 
catulliano,  che  incomincia  Peliaco  quondam  2^rognaiae  vertice  pi- 
niis  raccomandai,  in  quello  stesso  anno,  manoscritto  un  mio  scar- 
tafaccio, contenente  tutte  le  poesie  di  Catullo  da  me  voltate  o  me- 
glio volute  voltare  in  sesta  rima  italiana.  Col  suo  esempio,  e  coi 
suoi  consigli  il  Donini  mi  die  coraggio  a  coltivare  con  particolare 
amore  la  lingua  latina,  e,  s'io  potei  quindi  con  singolare  profitto 
seguire  nell'Università  di  Torino  le  lezioni  del  Vallauri,  oltre  che 
alla  mirabile  eloquenza  del  maestro  ed  alla  volontà  mia  ardentis- 
sima,  ne  debbo  pure  un  po'  di  merito  agli  incitamenti  amorevoli 
ricevuti  dal  festivo  traduttore  di  Plauto. 

Nacque  il  Donini  di  poveri  ma  onesti  parenti  in  Cremona  il  di 
15  febbraio  dell'anno  1821.  I  genitori,  al  solito,  voleano  farne  un 
prete,  e  però  l'avviavano  agli  studii;  ma  ebbero  il  merito  poi  di 
non  distorglierlo  da  essi,  anche  quando  si  dovettero  accorgere  che 
il  figliuolo  non  avrebbe  in  alcuna  maniera  voluto  pigliar  gli  or- 
dini sacri.  Ebbe  il  Donini  a  maestri  tre  valentuomini,  Carlo  Er- 
cole Colla  professore  di  rettorica  nel  ginnasio  cremonese,  uomo  di 
gusto  assai  squisito,  Giovanni  Pini  latinista  egregio  e  buon  cultore 
dell'epigrafia  italiana,  cui  il  Donini  dedicava  poi  la  prima  delle  sue 
versioni  plautine,  i  Menemmii,  e  Bernardo  Bellini,  scrittore  fe- 
condissimo, uom.o  assai  dotto  nelle  lettere  latine  e  greche,  col 
quale  si  strinse  di  poi  in  parentela,  menandone  in  moglie,  s' io 
non  erro,  la  figlia;  ed  a  cui  il  Donini  dedicò  pure  una  delle  sue 
commedie  tradotte  da  Plauto.  Le  altre  versioni  di  lui  furono  de- 
dicate a  Francesco  Soldati,  a  Barlomeo  Secco  Suardo  culto  patrizio 
bergamasco,  a  Francesco  Robolotti  distinto  medico  cremonese,  a 
Salvator  Betti,  ad  Antonio  Enrico  Mortara  [scTìUore,  scrive  il 
Donini,  cle'suoi  tempi  elegantissimo^  il  quale  educato  alla  sapienza 
(ì.e'classici  ridona  all'italica  lingua  i  fiori  e  le  grazie  deità  beata 
antichità),  Angelo  Mazzoldi,  Giuseppe  Saleri  (giureconsulto,  pre 
sidente  dell'Ateneo  bresciano),  Basilio  Puoti,  Giuseppe  Del  Chiappa, 
Angelo  Pezzana,  Giuseppe  Borghi,  Alberto  Nota,  Pietro  Giordani, 
Camillo  Ugoni,  G.  B.  Niccolini.  Tre  commedie  furono  dedicate  alla 
memoria  di  tre  grandi  scrittori  comici  italiani,  Ludovico  Ariosto, 
Niccolò  Macchiavelli,  Carlo  Goldoni. 
'      Non  pur  ventenne,  il  Donini  dava  pubblico  saggio  del   suo  in- 


—  526  — 

gegno  e  de'suoi  studii  in  un  volume  di  Prose  italiane  (Cremona, 
1840).  L'anno  seguente  ei  pubblicava  tradotto  il  sopra  ricordato 
carme  catulliano,  ristampato  nel  1854  a  Torino  in  una  strenna  di 
beneficenza.  Fra  gli  scrittori  toscani,  piacendogli  sommamente  il 
Redi,  egli  imprese  nel  1842,  ad  imitarlo  in  un  ditirambo  intito- 
lato Bacco  in  Lombardia,  cui  la  stampa  periodica  di  queir  anno, 
anche  censurandolo^  mostrò  di  avere  in  pregio. 

Fra  tanto,  poiché  nelle  scuole  di  rettorica  di  Lombardia  s'in- 
terpretavano a  quel  tempo  due  commedie  latine,  cioè  i  Captivi  di 
Plauto  e  gli  Adelphi  di  Terenzio;  poiché  nel  1838,  il  Colla  aveva 
spiegato  nella  classe  frequentata  dal  Donini  gli  Adelphi;  poiché 
quella  era  pure  stata  al  Donini  occasione  di  conoscere  la  versione 
di  Terenzio  del  padre  Antonio  Cesari,  la  quale  alla  sua  volta  gli 
fece  ricercare  VAndria  voltata  in  italiano  dal  Macchiavelli  ed  i 
Menaechmi  parafrasati  ne' Lucidi  dei  Firenzuola,  il  Donini  accolse 
nell'animo  il  desiderio  di  tentare  sulle  commedie  di  Plauto  il  la- 
voro medesimo  che  il  Cesari  avea,  con  sua  gloria  e  delle  lettere 
italiane,  intrapreso  e  compiuto  sul  teatro  di  Terenzio.  Incominciò 
coi  Calativi;  la  cosa  gli  parve  dura,  ma  non  da  arrestare  un  in- 
gegno vivace  e  volonteroso  come  il  suo;  continuò  con  maggior  animo 
coi  MenaecJmii,  con  la  Mostellaria,  col  Rudens.  Fatta  vedere  la 
traduzione  a' suoi  maestri  Pini  e  Bellini,  n'ebbe  conforti,  anzi  più 
che  conforti  stimoli,  chiamandoli  essi  un  codardo  s'  ei  non  fosse 
andato  innanzi,  E  il  Donini  prosegui;  ma,  venuto  sul  punto  d'intra- 
prendere la  stampa,  mancava  il  meglio,  cioè  un  editore  che  ne 
sostenesse  la  spesa.  In  quel  tempo  i  migliori  Mecenati  degli  in- 
gegni erano  gli  studiosi  stessi,  i  quali,  quando  il  programma  di 
un'opera  sembrasse  promettere  alcun  lavoro  importante,  s'associa- 
vano ad  essa  prima  che  uscisse  e  le  assicuravano  in  tal  modo  il 
successo  economico.  Il  sistema  era  eccellente,  poiché,  oltre  all'in- 
coraggiare gli  ingegni  anco  oscuri,  li  liberava  dalla  tirannide  degli 
editori^  i  quali  divennero  invece  così  difficili,  quando  non  si  debba 
dire  inumani,  che  tolsero  quasi  tutta  per  sé  la  mercede  riserbata 
un  tempo  agli  scrittori.  Il  sistema  delle  associazioni  avea  per  sé 
più  vantaggi;  che  si  potevano  per  mezzo  di  esso,  imprendere  opere 
lunghe  e  pubblicarsi  adagio;  cosi  che  gli  scrittori  avessero  tutto 
il  modo  di  curarle  e  di  rivederle;  esse  costavano,  senza  dubbio, 
di  più,  ma  stampandosi  a  fascicoli  o  volumi  distinti  non  riusciva 
troppo  grave  agli  associati  l'obbligo  di  pagai-ne  il  prezzo  a  rate; 
ed,  a  motivo  di  quel  prezzo  alquanto  meglio  sostenuto,  si  poteva 
poi  curare  un  poco  più  lo  splendore  dell'edizione  e  premiare  con 


—  527  — 
un  equo  compenso  l'autore  per  le  sue  nobili  fatiche.  Si  disse  che 
il  sistema  delle  associazioni  è  caduto,  poiché  offriva  un  mezzo  agli 
speculatori  di  abusare  della  fiducia  del  pubblico^  il  quale  dopo  es- 
sersi associato  per  avere  un'opera  completa,  veniva  spesso  ingan- 
nato, ricevendone  una  sola  parte.  Ma  il  lamento  prova  due  cose 
sole,  che  ogni  mezzo  buono,  adoperato  da  persone  tristi  in  fin  di 
male,  può  riuscir  cattivo;  e  che  s'impresero  talora  a  pubblicare 
in  Italia,  col  mezzo  delle  associazioni,  opere  di  nessun  valore  per 
la  frode  di  qualche  intrigante  editore  che  le  fece  passare  per  buone, 
per  sorprendere  a  suo  vantaggio  la  buona  fede  degli  studiosi.  Io 
non  veggo,  in  vero,  che  alcuna  opera  veramente  importante  sia 
stata  impresa  col  mezzo  delle  associazioni,  ed  interrotta  poi  per 
sola  colpa  de'  loro  autori;  si  bene  avvennero  spesso  tali  interru- 
zioni 0  quando  l'opera  stessa  era  cattiva,  o  quando  alcun  terzo  si 
pose  fra  l'autore  ed  il  pubblico.  Ma  prima  che  tali  inconvenienti 
si  lamentassero,  erasi  in  Italia,  per  merito  delle  libere  associazioni, 
stampato  un  gran  numero  di  opere  degne  e  veramente  notevoli 
per  la  nostra  letteratura.  Il  Donini  trovò  nella  sola  sua  città  e 
provincia  nativa  trecento  soscrittori  per  pagare  le  spese  de'cinque 
volumi  in  ottavo  ne'quali  si  contengono  le  sue  versioni  plautine; 
della  qual  benevolenza  de'suoi  concittadini  il  Donini  si  confessò 
sempre  gratissimo;  ed  anche  oggi  egli  parla  con  singolare  affetto 
della  sua  terra  natale. 

Dopo  la  difficoltà  della  spesa,  sorgeva  quella  della  censura.  La 
censura  milanese  faceva  tagli  spietatissimi,  così  che  l'opera  plau- 
tina ne  rimanesse  del  tutto  sfigurata.  Il  Donini  si  rivolse  perciò 
alla  censura  superiore  di  Vienna,  la  quale,  meno  zelante  e  più 
giudiziosa  della  milanese,  nella  quale  erano  allora  ì  protoquamqiiam 
il  marchese  Ragazzi  e  l'abate  Cesare  Rovida,  ne  permise  la  stampa 
a  condizione  che  l'opera  si  pubblicasse  completa.  Il  biscottinista 
abate  Rovida,  disfogò  allora  il  suo  mal  animo  contro  il  Donini, 
facendo  perdere  tra  gli  scaffali  della  censura  ben  sei  commedie, 
le  quali  però  il  Donini  dovette  riscrivere  da  capo;  e  tentò,  in  al- 
tri modi,  ancora  di  nuocere  all'opera  del  nostro  cremonese.  Ma 
essendosi  finalmente  la  revisione  della  medesima  affidata  all'abate 
Mauro  Colonnetti^  quello  stesso  del  quale  fa  pure  onorevole  men- 
zione^  ne'suoi  Ricordi,  Massimo  d'Azeglio,  egli  non  pure  non  ri- 
tardò pili  la  pubblicazione  dell'opera  ma  l'agevolò,  e  tanto  affetto 
pose  al  giovine  interprete  di  Plauto,  che  lo  sollecitò  vivamente  ad 
entrare  nell'insegnamento  classico  al  quale  )a  versione  plautina  gli 
avea  singolarmente  spianata  la  via.  Il  Donini,  incitato  pure  dal  suo 


—  528  — 
professor  Colla,  che  iutanto  lo  adoperava  nel  Ginnasio  cremonese 
come  sostituto,  si  condusse  a  Pavia  per  ottenere  la  laurea  in  filo- 
sofia, senza  smettere  di  scrivere;  che  dalla  penna  ei  traeva  tutti 
i  suoi  guadagni,  avendo,  dopo  il  volgarizzamento  di  Plauto  (1),  in- 
trapresa una  versione  del  trattato  delle  opere  e  dell'  elemosine  di 
San  Cipriano  (1846)  e  una  Storia  di  Cremona,  di  cui  usci  la 
prima  parte  nel  1848,  e  ch'egli  non  potè  finire,  poiché  i  casi  del 
1848  gli  impedirono  non  solo  di  terminare  l'opera,  ma  ancora  di 
laurearsi,  e  lo  sbalestrarono,  senza  mezzi  di  fortuna,  in  Piemonte. 

La  versione  plautina  procurò  al  Donini  il  vantaggio  d'entrare 
in  corrispondenza  epistolare  coi  più  chiari  letterati  del  suo  tempo, 
quali  un  Mai,  un  Giordani,  un  Niccolini,  un  Puoti,  un  Pezzana, 
un  Borghi,  un  Ugoni,  un  Ronchini  ;  con  Felice  Romani  tenne  poi 
strettissima  famigliarità,  come  pure  con  Domenico  Capellina,  il 
traduttore  di  Aristofane.  Ma  dopo  aver  fatto  tanto  nella  sua  gio- 
ventù, ei  non  seppe  poi  valersene  per  salire  in  alto.  Giunto  in  To- 
rino, ebbe  egli  bene  il  conforto  di  non  vedervi  nuovo  il  suo  nome, 
in  grazia  del  volgarizzamento  plautino;  ma.  invece  di  far  suonare  la 
tromba  al  suo  arrivo,  ei  si  contentò  di  andarsi  a  guadagnare  mo- 
destamente un  pane,  come  scrittore  del  giornale  II  Risorgimento 
diretto  allora  dal  Conte  di  Cavour  ove  depose  un'  opera  di  storia 
contemporanea,  cioè  i  Commentarli  della  Rivoluzione  Italiana 
dal  Marzo  all'armistizio  Salasco,  la  quale  ebbe  in  que'dì  come 
tutte  le  scritture  che  iì  pubblicarono  intorno  a  questi  avvenimenti 
e  lodi  e  biasimi. 

Nel  settembre  del  1848  trattavasi  dal  Senato  del  Regno  di  or- 
dinare il  servizio  stenografico  per  le  discussioni  della  Camera  vi- 
talizia Il  barone  Manno,  1'  avvocato  Giovannetti,  1'  ab.  Ferrante 
Aporti,  il  conte  Luigi  Cibrario  fecero  conferire  al  Donini  un  posto 
di  revisore  degli  stenografi  presso  la  Camera  dei  Senatori  ed  egli 
stette  in  quell'ufficio  provvisoriamente  1'  ottobre,  il  novembre,  il 
dicembre  del  1848,  definitivamente  dal  1  gennaio  1849  al  marzo 
del  1852,  cioè  sin  quando,  per  economia,  si  ridusse  il  numero  dei 


(!)  Fu  pubblicato  fra  il  1844  e  il  1847,  in  Cremona,  coi  tipi  del  Ma- 
nini,  coi  t'osto  a  fronte  emandato  da  Angelo  Mai.  Il  primo  volume,  ol- 
tre ad  una  prefazione  latina  non  inelegante  del  Donini,  l'elogio  di  Plauto 
dei  prof.  Eustachio  Fiocchi,  recitato  neirUnivei'iiitù  di  Pavia,  e  la  pre- 
fazione elegantissima  al  testo  plautino  di  Angelo  Mai;  essa  reca  pure 
in  fronte  litografato  il  ritratto  del  traduttore. 


—  529  — 

revisori  da  quattro  a  due.  Gli  era  in  questo  ufficio  collega  il  suo 
maestro  Bernardo  Bellini,  il  quale  fu  quindi  mandato  professore 
a  Cagliari  ;  il  Donini  venne  trattenuto  in  Torino  come  professore 
di  Storia  e  geografia  nei  collegi  torinesi,  e  nel  1852  egli  pubblicò 
la  sua  prima  opera  scolastica,  cioè  un  volumetto  distribuito  in  cin- 
que libri  intorno  alle  antichità  romane;  il  Donini  lo  compilava 
per  gli  alunni;  di  esso  invece  giovaronsi  i  maestri. 

Entrato  cosi  il  Donini  nell'insegnamento  vi  si  mostrò  quindi 
operosissimo.  Stette  sostituto  quattro  anni  dal  1852  al  1856,  né 
fu  occupato  solo  nella  storia  e  nella  geografia,  ma  anche  nelle 
lettere  italiane  e  latine  nei  due  collegi  di  S.  Francesco  di  Paola 
oggi  Ginnasio  Liceale  Gioberti,  e  del  Carmine,  ginnasio  e  liceo 
Cavour.  Nel  1856  fu  mandato  professore  di  lettere  italiane,  storia 
e  geografia  nel  corso  speciale  detto  di  S.  Barbara  in  Torino;  nel 
riordinamento  dell'istruzione  del  1850,  fu  nominato  prof,  titolare 
di  prima  classe  nella  R,  Scuola  tecnica  di  Dora  in  Torino,  nel 
1861,  62,  63,  64  65  andò  per  conferenze  magistrali  in  Urbino,  Terni, 
Reggio  di  Calabria,  ed  Aquila.  Non  essendovi  per  le  materie  sue 
libri  accomodati  attese  a  compilarli,  scegliendo  il  meglio  dalle 
opere  de'  più  valenti  e  non  facendosi  bello  delle  fatiche  loro,  come 
altri  delle  sue,  per  l' avidità  di  troppi  moderni  guasta-mestieri 
che  vogliono  dall'anfora  cavare  l'orciuolo. 

E  pago  del  suo  modesto  ufficio  d'insegnante  nelle  scuole  tecni- 
che di  Torino  egli  vive  tuttora,  senza  ambire  onori  ed  uffìcii  più 
insigni;  egli  avea  principiato  in  modo  che  chi  gli  avesse  prono- 
sticato nel  1847  una  cattedra  universitaria  avrebbe  sembrato  me- 
ritar fede  ;  il  pronostico  avrebbe  fallito  ;  ma  a  farlo  fallire  con- 
tribuì principalmente  la  modestia  del  Donini,  che  non  solo  sembra 
ricercare  le ""  grandezze,  ma  studiosamente  evitarle. 


INCORDI  Biografici  34 


XLI. 


VINCENZO  GARELLI. 


Tra  gli  scrittori  italiani  più  seriamente  educativi,  io  vo'dire 
che  abbiano  fatto  dell'educazione,  in  ispecie  deW educazione  emen- 
datrice com'ei  la  chiama,  una  vera  scienza,  merita  una  specialis- 
sima considerazione  il  prof.  Vincenzo  Garelli,  al  quale  andiamo 
già  debitori  delle  opere  seguenti  :  Delle  colonie  penali  nell'arci- 
pelago toscano  (Genova,  tip.  Sordo-Muti),  Delle  località  più,  con- 
venienti alle  colonie  penitenziarie  (dissertazione  premiata  dall'Ac- 
cademia delle  scienze  di  Modena;  Modena,  tip.  Soliani),  Z)e;toj5e?m 
e  dell'emenda  (opera  premiata  nel  concorso  Ravizza  Firenze,  tip. 
Barbèra),  Delle  biblioteche  circolanti  ne'comuni  rurali  (tre  ediz.; 
Torino,  tip.  Artigianelli),  De'lavori  di  campagna  nella  stagione 
invernale  (Torino,  tip.  Artigianelli),  Norme  e  lezioni  per  l'am- 
maestramento degli  adulti  (Torino,  tip.  Paravia),  Compare  Lo- 
rcìizo  0  storia  d'una  buona  famiglia  (tre  edizioni;  Torino,  tip. 
Paravia),  La  forza  della  coscienza,  storia  di  Policardo  Davegnì 
(Milano,  Carrara),  Il  lascito  Alberghetti  in  Lnola  studiato  ne' molti 
suoi  usi  (Imola,  Galeati).  Tutti  questi  scritti  sono  l'opera  d'un 
solo  dodicennio,  di  quest'ultimo  dodicennio,  nel  quale,  ritornata 
l'Italia  a  sé  stessa,  era  uopo  ripopolarla  d'  uomini  liberi ,  e  però 
onesti,  invece  che  di  bruti  servili,  e  però  più  facilmente  incli- 
nati alla  colpa.  Il  Garelli  ha  tardato  fino  all'autunno  della  sua 
vita  a  stampare;  ma  1'  autunno  ci  ha  portato  frutti  pienamente 
maturi. 

Ignoro  l'anno  preciso  della  nascita  di  Vincenzo^  Garelli  ;  ma 
suppongo  ch'esso  cada  sul  fine  del  secondo  decennio  di  questo  se- 


—  531  — 
colo.  MondOYÌ  gli  diede  i  natali;  il  padre  di  lui,  d'origine  campa- 
gnuolo,  ebbe  sette  figli  maschi  e  quattro  femmine  ;  il  primogeni- 
to, fatto  prete,  divenne  provvidenza  al  nostro  prof.  Vincenzo, 
ch'egli  non  pur  campò  con  altri  due  suoi  cari  dalla  miseria,  ma 
educò  ed  avviò  agli  studii  ;  ed  il  nostro,  alla  sua  volta,  poiché 
giunse  in  età  di  essere  utile,  si  fece  educatore  de'suoi  fratelli  mi- 
nori, tra  i  quali  é  il  professor  Felice,  notevole  scrittore  di  cose 
economiche  ed  agrarie,  e,  s' io  non  erro,  ancora  il  dottore  de- 
putato di  Mondovi,  valente  scrittore  di  cose  mediche,  segnatamente 
per  la  cura  delle  acque;  né  prima  ei  tolse  moglie  (1)  che  non  avesse 
intieramente  compiuto  presso  i  suoi  cari  l'ufìacio  educativo,  piiì 
ancora  desiderato  dal  suo  bell'animo  che  impostogli  dalle  condi- 
zioni economiche  della  famiglia.  Per  vent'anni,  il  Garelli  fu  pro- 
fessore di  filosofia,  cioè  dall'anno  1839  all'anno  1859,  nel  quale  venne 
destinato  a  provveditore  degli  studii  in  Genova,  onde  passò  quindi 
con  lo  stesso  ufficio  a  Torino,  dove  amato  ed  onorato  ei  si  ritrova 
pure  al  presente  ;  insegnò  da  prima  per  sei  anni,  privatamente,  in 
Torino,  quindi  per  tre  anni  a  Cuneo,  poi  a  Genova,  ove  fu  col 
Mamiani  e  col  Giuliani  tra  i  benemeriti  fondatori  dell'Accademia 
di  filosofia  italica,  e  finalmente  a  Torino. 

Io  fui  quasi  degli  ultimi  suoi  discepoli;  forse  pure  degli  infimi; 
ma  non,  al  certo,  de'meno  attenti  e  de'più  devoti.  Gustavo,  in  ve- 
rità, assai  poco  l'ontologia;  mi  parve  sempre,  anzi  che  una 
scienza,  una  poesia  astrusa;  ma,  quando  si  venne  alla  logica  ed 
all'etica,  il  Garelli  seppe  con  l'aperta  sua  eloquenza  mostrarmi  e 
farmi  ammirare  lo  splendore  del  vero  e  lo  splendore  del  buono. 
Egli  seguiva  le  dottrine  del  Rosmini,  del  quale  si  riteneva  disce- 
polo e  da  cui  era  amatissimo  ;  e,  forse  per  amor  del  Rosmini, 
amava  anco  più  il  Manzoni  e  ce  lo  faceva  amare;  cosi,  ami- 
cissimo di  Agostino  Ruffini,  s'  era  innamorato  del  fratello  di 
lui  Giovanni,  ne'suoi  romanzi  :  Lorenzo  Benoni  e  Dottor  Anto- 
nio, ch'egli  citava  pure  nelle  sue  lezioni  di  filosofia.  E  questo  suo 
bel  modo  di  congiungere  lo  studio  del  passato  con  quello  del  pre- 


(1)  La  moglie  di  lui  fu  Adele  Pesci  d'Ovada  donna  di  squisito  sentire 
e  di  mente  elevatissima,  che  lo  rese  padre  di  sei  figli,  tre  figliuoli  otre 
figliuole  che  sono  tutto  il  suo  orgoglio  e  tutta  la  sua  ricchezza.  Egli 
l'ha  perduta  in  quest'anno  e  non  se  ne  potrà  consolare  che  nella  dolce 
illusione  del  ricordo. 


—  532  — 
sente  e  le  lettere  con  la  filosofìa  cresceva  grande  attrattiva  alle 
sue  lezioni,  delle  quali  alcune  ci  andarono  proprio  al  cuore.  Egli 
aveva  facile  ed  abbondante  la  parola,  ma  scevra  di  qualsiasi  fron- 
zolo accademico  e  scolastico;  diceva  le  sue  lezioni  più  che  non 
le  facesse  tonare;  onde  c'intendevamo  subito;  e  poi  sentivamo  che 
esse  gli  si  alzavano  dal  petto  e  che  non  gli  uscivano  soltanto  dalla 
testa;  onde  gli  venivano  fuori  sempre  calde,  e  però  ci  scaldavano. 
Nella  sua  faccia  aperta  e  cordiale,  nella  franca  disinvoltura  dei 
suoi  movimenti,  nel  suono  simpatico  e  sempre  naturale  della  sua 
voce  si  diceva  alla  prima:  è  il  volto,  è  la  persona,  è  la  voce  di 
un  galantuomo.  Qua  e  là  poi  lampeggiava  l'ingegno  vivace;  ed  in 
ogni  lezione  scorgevasi  la  gravità  della  dottrina.  Che  il  Garelli 
sia  stato  tolto  all'insegnamento  è  gran  peccato;  poich'egli  era 
sulla  cattedra  qualche  cosa  o  meglio  qualcheduno  di  vivo,  una 
bella  individualità  vivente,  che  col  suo  esempio  e  con  la  sua  pa- 
rola faceva  vivere.  Potesse  ora  egli  almeno,  con  la  sua  autorità 
di  provveditore^  agli  studii,  infondere  nella  parte  più  educabile 
degli  insegnanti  a  lui  sottoposti  alcuna  fiammella  di  quello  Spi- 
rito Santo,  senza  il  quale  ogni  insegnamento  è  sterile.  Potesse 
egli  spirare  ad  altri  quella  parola  vitale  che  deve  avere  benefi- 
cato tanti  di  noi.  Egli  si  rifa,  è  vero,  del  non  poter  parlare  più 
dalla  cattedra  con  lo  scrivere  e  pubblicar  buoni  libri;  ma  la  pa- 
rola viva  avea  tanto  maggior  efficacia.  Lo  scrittore  innanzi  al 
pubblico  si  misura,  si  contiene  di  più;  e  naturalmente  si  raffredda 
un  poco.  E  impossibile  il  ritrovar  ne'suoi  libri  que'cari  rabbuffi, 
coi  quali,  in  una  bella  sfuriata,  ci  arrivava  addosso  ne'momenti 
agitati,  ne'quali  qualche  cosa  gli  andava  di  traverso;  e  quello  che 
gli  andava  di  traverso  era  sempre,  naturalmente,  alcunché  di  non 
retto,  0  qualche  stortura  morale,  o  qualche  stortura  di  ragiona- 
mento. Fu  lui,  e  ne  sia  benedetto,  che  primo  m'aperse  gli  occhi 
su  quella  brutta  piaga  che  afliigge  tanta  parte  dell'odierna  gio- 
ventù e  ch'egli  con  frase  espressiva  chiamava  Cipocrisia  del  vi- 
zio, ossia  l'affettazione  di  vizii  che  non  s' hanno  tanto  per  pa- 
rere dappiù  dell'  età  nostra.  Quella  lezione  fece  una  gran  luce  nella 
mia  anima,  e  non  l'ho  dimenticata  e  non  la  dimenticherò  mai,  e  vor- 
rei che  l'avessero  intesa  con  me  tutti  i  giovani  italiani  per  ricordarla 
e  trarne  profitto.  Ma,  poiché  questo  non  poteva  essere,  ricerchino 
essi  almeno  le  opere  a  stampa  del  Garelli,  ove  troveranno  davvero 
di  che  edificarsi  il  cuore  e  la  mente.  Io  ebbi  il  dispiacere  a  questi 
giorni  di  trovarmi  primo  ad  aver  l'onore  di  tagliar  le  carte  della 
bell'opera  di  Vincenzo  Garelli,  Della  pena  e  deWEmenda,    nello 


-  533  — 

esemplare  deposto  alla  Biblioteca  Nazionale  di  Firenze;  eppure 
essa  è  un'opera  premiata,  e  pubblicata  in  Firenze,  e  da  tre  anni 
e  da  un  celebre  editore;  il  lettore  si  é  forse  lasciato  spaventare 
dal  titolo?  Il  miglior  modo  di  guarire  da  questo  spavento,  è  aprire 
il  libro  e  leggerlo  tutto;  io  restituisco  pertanto,  non  più  intonso, 
alla  Biblioteca  il  volume  del  Garelli,  ma  per  ritornarvi  fra  un 
mese  a  domandare  quanti  giovani  l'avranno  richiesto. 


XLII. 


GIUSEPPE  FILIPPO  BARUFFI. 


Se  è  vero  che  dal  buon  discepolo  si  argomenta  del  buon  mae- 
stro, il  nome  del  Baruffi  sarebbe  molto  mal  raccomandato  da  me, 
che  gli  fui  scolaro  pessimo.  L'avversione  ch'io  provai  sempre  dalle 
prime  scuole  fino  alle  ultime  per  le  matematiche,  me  ne  rese  as- 
sai faticoso  l'apprendimento.  L'eccellente  professor  Pietro  Fulche- 
ris  m'aveva  tollerato  per  cinque  anni  nel  ginnasio  e,  malgrado 
la  mia  quasi  perfetta  ignoranza  della  scienza  delle  cifre,  sempre 
consentito  di  lasciarmi  passare  alla  classe  superiore,  non  volendo 
egli  che,  a  motivo  di  uno  studio  speciale  per  cui  non  mostravo 
alcuna  naturale  disposizione,  io  fossi  inutilmente  ritardato  nel 
progresso  degli  altri  miei  studii  prediletti.  Passato  al  liceo,  vi 
trovai  professore  di  filosofia  positiva,  come  chiamavano  allora 
l'algebra,  la  geometria  e  la  fisica,  il  Baruflì,  il  cui  nome  ed  i  cui 
scritti  m'erano  già  ben  noti  II  Baruffi  era  un  insegnante  ama- 
bilissimo ;  che  la  molta  dottrina  ei  soleva  condire  con  piacevoli 
racconti,  e  l'aridità  dell'insegnamento  rompere  con  alcune  digres- 
sioni letterarie  piene  d'attrattiva.  Di  queste  io  non  perdevo  sil- 
laba. Ma  disgraziatamente  non  era  sopra  di  queste  che  si  era 
chiamati  a  rispondere  negli  esami  di  licenza  liceale,  ai  quali  per- 
tanto mi  presentai  mal  preparato,  e  fui  quindi  giudicato  inferiore 
alla  prova.  La  mia  impazienza  di  passare  alla  scuola  di  belle  let- 
tere nell'Università  di  Torino  era  vivissima;  da  tre  anni,  con 
una  serie  di  studii  certamente  superiori  a  quanti  se  ne  sogliono 
fare  dai  giovani  in  quell'età,  io  m'ero  addestrato  in  modo  singo- 
lare, per  sostenere  con  onore   i   miei   studii   univcrsitarii.   Non 


—  535  — 

potei  quindi  e  noi  potevo  né  pure  del  resto,  a  motivo  della  grande 
antipatia  che  provavo  per  la  scienza  del  calcolo,  attendere  con  la 
cara  richiesta  allo  studio  delle  matematiche  ;  avevo  passato  gli 
altri  esami  con  soddisfazione  mia  e  degli  altri  miei  maestri;  mi 
restava  solo  quello  del  Baruffi,  che,  per  quanto  benevolo  ai  gio- 
vani, non  mi  seppe  li  per  li  perdonare  ch'io  mi  fossi  imbrogliato 
neir  esporre  non  so  più  qual  legge  di  statica  o  di  dinamica,  la 
quale  egli  trovava  perfettamente  semplice  ed  io  invece  perfetta- 
mente indiavolata.  Mi  lasciò  spropositare  un  poco,  e  poi  perdette 
la  pazienza  e  mi  congedò  dichiarandomi  ch'egli  m'avrebbe  negato 
i  suoi  voti.  Negarmi  il  voto  in  quella  occorrenza  voleva  dire 
farmi  infelicissimo;  voleva  dire  ritardarmi  l'ingresso  nella  scuola 
di  belle  lettere  ;  voleva  dire  obbligarmi  a  sudar  le  vacanze  au- 
tunnali sopra  le  odiatissime  matematiche,  mentre  io  avevo  allora 
sul  mio  telaio  nientemeno  che  quella  tragedia  Sampiero,  la  quale 
dovea  pochi  mesi  dopo  farmi  troppo  grande  onore  presso  il  Tomma- 
seo, una  versione  completa  delle  odi  di  Orazio,  degli  Adelphi  ùi  Te- 
renzio, del  De  Re  Rustica  di  Catone,  e  di  parecchie  altre  tradu- 
zioni dal  latino  in  italiano  e  dall'italiano  in  latino,  oltre  a'  miei 
studi!  sopra  i  comici  e  novellieri  del  cinquecento  e  di  storia  lettera- 
ria. Mi  ritrassi  dalla  prova  disperato;  mi  ritenevo  intieramente  per- 
duto, poiché  dicevasi  che  i  voti  una  volta  dati  non  si  potevano, 
senza  offesa  al  regolamento,  modificare.  Pure  il  mio  buon  genio,  che 
m'ha  sempre  anco  in  momenti  più  difficili  della  vita,  sostenuto  il 
coraggio,  venne  ad  assistermi.  Tolsi  la  penna  e  scrissi  non  so  più 
che,  non  so  più  come,  ma  certamente  cose  vere  e  sentite  con  vero 
aflfetto  al  Baruffi,  invocandone  la  clemenza  ;  poche  ore  dopo  con- 
segnata la  mia  lettera,  mi  giungeva  la  risposta  seguente,  la  qua'e 
io  pubblico  non  per  quello  ch'essa  dice  di  me,  ma  perchè  mi  sembra 
il  miglior  testimonio  ch'io  possa  recare  della  generosità  dell'animo 
del  mio  dotto  e  liberale  maestro: 

«  Caro  carissimo  Angelo  Degubernatis  ! 

«  Stia  di  lieto  animo  e  corra  pure  animoso  la  carriera  delle 
lettere,  alla  quale  il  suo  spirito  ed  il  suo  bel  cuore  la  chiamano, 
che  la  percorrerà  sicuramente  col  più  felice  successo.  Ciascheduno 
ha  una  speciale  vocazione;  co-;ì  vuole  la  provvidenza  sovrana  che 
governa  cosi  sapientemente  il  mondo  fisico  come  il  morale.  Quando 
si  è  dotati  di  gran  cuore,  si  è  certi  di  ottenere  lo  scopo.  S.  Paulo 
dice   che   la   fede   sola,    benché   atta  a  trasportare  monti,  locché 


—  53G  — 

vuol  dire  probabilmente,  anche  quando  ci  dà  la  potenza  di  ten- 
tare quasi  l'impossibile,  se  va  scompagnata  dal  più  nobile  degli 
affetti,  dalla  carità,  si  è  proprio  un  nulla.  Ebbene  l  faccia  il  suo 
esame  di  Magistero  (ebbe  da  me  la  voluta  promozione)  e  si  dia 
quindi  con  tutte  le  potenze  dell'anima  a'  suoi  studi  favoriti,  che 
di  fisici  e  di  matematici  e  di  scienziati  d'ogni  maniera  non  man- 
cheranno mai.  La  ringrazio  delle  gentili  espressioni  di  cui  Le 
piacque  infiorare  la  sua  bella  letterina;  mi  conservi  sempre  il  suo 
prezioso  affetto  e  mi  abbia  sempre  nel  novero  felice  de'  suoi  sin- 
cerissimi  amici. 


Torino,  il  23  giugno  57. 


Il  suo  professore  ed  amico 
«  G.  F.  Baruffi.  » 


La  mia  riconoscenza  al  Baruffi  fu  tanta  quanto  era  vivo  il  mio 
desiderio  di  passare  all'  Università  per  attendervi,  libero  d'  ogni 
altra  cura,  alle  lettere,  quanto  sarebbe  stato  vivo  il  mio  dolore, 
se,  in  osservanza  al  regolamento,  il  Baruffi  avesse  mantenuto  il 
suo  primo  voto  micidiale.  La  lettera  del  Baruffi  parmi  ora  molto 
istruttiva,  poiché  da  essa  si  rileva  com'egli  intendesse  largamente 
l'ufficio  civile  dell'insegnante;  ed  io  vorrei  pure  che,  leggendola, 
molti  presenti  sacrificatori  d'ingegni  che  han  nome  di  professori 
esattissimi,  ne  pigliassero  norma  e  consiglio  a  più  larghi  giudi- 
zìi.  Se  si  leggesse  un  poco  più  nell'animo  de'fanciulli,  se  si  esplo- 
rasse un  po'meglio  l'indole  loro,  quanto  più  efficace  riuscirebbe 
l'insegnamento,  il  quale,  invece,  sostenuto  com'  è  ora  per  lo  più 
in  una  regione  isolata  ed  assoluta,  si  comunica  e  penetra  assai 
male.  Il  regolamento  è  buono  per  guidare  que'  soli  che  non  sa- 
prebbero con  la  propria  ragione  guidarsi,  in  alcun  modo,  da  sé 
stessi;  ma  dove  il  giudizio  naturale  basta,  il  regolamento  riesce 
superfluo.  Vi  possono  bensì  essere  burocratici  i  quali  ne  rieleg- 
gano la  materiale  strettissima  osservanza,  e  capi  d' istituto  che 
lascino  ancora  dirigere  ogni  cosa  dal  solo  regolamento,  poiché  la 
loro  testa  piccina  non  vede  e  non  intende  nulla  oltre  i  confini  di 
esso;  ma  gli  uomini  più  intelligenti  che  siedono  al  governo,  e 
quello  che  più  rileva  la  coscienza  pubblica  universale  del  paese 
sono  invece  intentissimi  a  favorire  la  più  Inrga  interpretazione 
ed  anco^  ove  occorra,  infrazione  della  legge,  quando  se  ne  possa 
sperare  alcun  frutto  che  compensi  di  quella  provvisoria  offesa  non 


-  537  - 
allo  spirito  liberale  e  benefico,  ma  alla  lettera  necessariamente  de- 
finita della  legge. 

Già  fin  dall'anno  1844,  Vllalia  scientifica  contemporanea  d'Igna- 
zio Cantù  scriveva  intorno  al  nostro  Baruffi  :  «  Il  professore  Ba- 
ruffi da  quindici  anni  in  qua  fa  miracoli  delle  sue  ferie  autun- 
nali; visita  tutta  l'Europa  da  Pietroburgo  a  Costantinopoli;  visita 
l'Asia,  l'Egitto,  tien  nota  delle  cose  vedute,  poi  trova  ancor  tempo 
di  intervenire  ai  congressi  e  prender  parte  alle  discussioni.  Cosi  ^ 
gran  profitto  fa  del  resto  dell'  anno;  l' incombenza  di  professore 
straordinario  di  filosofia  positiva  (fisica  e  matematica  elementare) 
nella  R.  Università  torinese,  di  professore  ordinario  delle  stesse 
facoltà  nel  Seminario  arcivescovile,  e  di  prefetto  degli  studii  nel 
Collegio  di  latinità  presso  San  Francesco  di  Paola,  non  gli  im- 
pedisce di  aggiungere  una  mano  alla  Società  direttrice  delle  scuole 
infantili,  all'Associazione  agraria,  alla  redazione  dell'  utile  gior- 
nale popolare  che  si  pubblica  a  Torino  col  titolo  :  Letture  d'I  fa- 
miglia, e  alla  cooperazione  di  molti  giornali  italiani  e  a  varie  So- 
cietà patrie  ed  estere;  che  più?  membro  della  R.  Accademia  di 
agricoltura  torinese  fondò  cogli  auspici  di  essa  un  corso  pubblico 
e  gratuito  di  fisica  agraria,  che  è  frequentato  da  numeroso  udi- 
torio. I  suoi  viaggi  furono  raccolti  col  titolo  :  Pellegrinazioni 
autunnali  ed  opuscoli  di  G.  F.  Baruffi  (Torino,  1841,  1843,  4  voi. 
in -8).  Avendo  egli  descritte  le  cose  e  le  persone  presenti  dei  luo- 
ghi visitati,  questa  sua  opera  può  consultarsi  utilmente  dagli  ita- 
liani che  amano  conoscere  quei  paesi.  Della  sua  scienza  astrono- 
mica è  prova  un  libretto  intitolato  :  Dell'  imminente  apparizione 
della  gran  cometa  di  Halles  (Torino,  1835,  in-8).  »  Altre  notizie 
biografiche  intorno  al  Baruffi  trovansi  ancora  nel  Dizionario- 
geografico-storico-statistico-commerciale  degli  Stati  di  S.  M.  il  Re 
di  Sardegna,  del  prof.  Goffredo  Casalis  (articolo  Mondovì),  nel 
Rcpiertoire  Jiistorique  des  contemporains  (Paris,  1861),  nel  18"  vo- 
lume dell' Annuaire  de  l'Institut  des  provinces  (Paris,  1866)  ;  ma 
le  più  diffuse  e  complete  furono  accolte  nel  volume  di  Giuseppe 
Pitrè  :  Nuovi  profili  biografici  di  contemporanei  italiani  (Palermo, 
1868).  Da  esse  rileviamo  che  il  Baruffi  nacque  col  secolo  a  Mon- 
dovi,  di  padre  notaio,  ch'ei  vinse  giovinetto  un  posto  gratuito  nel 
Collegio  delle  provincie,  che  s'addottorò  nelle  scienze  fisiche  e  na- 
turali presso  l'Università  di  Torino,  che  sedette  nel  Parlamento 
subalpino  come  deputato  di  Mondovi  nell'anno  1848,  che  il  governo 
francese  lo  decorò  della  Legione  d'onore,  (così  egli  è  commenda- 
tore de'  Santi  Maurizio  e  Lazzaro),  per  aver  egli  primo  chiamato 


—  538  — 

l'attenzione  generale  sui  bachi  da  seta  selvaggi,  occupandosi  vi- 
vamente nel  trarre  dal  Bengala  la  Bonibix  Cynthia  che  si  nutre 
di  ricino  (cosi  il  Baruffi  discoperse  a  Galloro  presso  la  Riccia  la 
nuova  specie  minerale  chiamata  Beì^zelina,  in  onore  del  chimico 
svedese;  egli  stesso  meritava  poi  che  una  specie  di  rigogolo  di- 
scoperta dal  principe  Carlo  Bonaparte  fosse  in  suo  onore  denomi- 
nata Oriolus  Baruffi);  che  nell'  anno  1862,  senza  sua  richiesta 
(mentre  egli  stava  in  viaggio),  il  governo  lo  ringraziò  e  lo  mise 
a  forzato  riposo.  Ma  ei  non  cessò,  col  ritrarsi  dall'insegnamento, 
dal  prestar  l'opera  sua  benefica  in  servigio  della  scienza  ;  non  vi 
è  in  vero  utile  scoperta  scientifica  della  quale  egli,  con  moto 
spontaneo,  non  si  faccia  a  render  conto  ne'  giornali  torinesi,  per 
divulgarla.  Egli  era  pure  stato  uno  de'più  antichi,  de'più  intelli- 
genti, de  più  caldi,  de'più  ostinati  promotori  del  taglio  dell'istmo 
di  Suez,  pel  quale  avea  pubblicato  numerosi  articoli  ed  opuscoli, 
e  parlato  più  volte  con  calore  ne'congressi;  egli  fu  ancora  de'primi 
a  scrivere  contro  le  quarantene  ne'porti  di  mare,  cosi  inutili  per 
allontanare  le  malattie  credute  contagiose,  e  cosi  dannose  al  com- 
mercio; di  ritorno  da'suoi  lunghi  e  ardui  viaggi,  egli  riportava 
sempre  in  Italia  e  sosteneva  e  divulgava  la  notizia  di  qualche  uso 
civile,  di  qualche  principio  economico  più  liberale.  Moltissimo  fece 
egli  poi  per  la  città  e  provincia  di  Torino,  dove  siede  fra  i  più 
solerti  consiglieri  comunali,  ora  incoraggiando  con  premii  1'  edu- 
cazione popolare,  ora  promuovendone  con  articoli  e  discorsi  gli 
studii  agrarii  e  la  coltura  scientifica,  dopo  averne  descritto  i  luoghi 
e  le  istituzioni  col  piacevole,  ornato,  vivace  stile  delle  Peregri- 
ìtazioni  autunnali  e  del  viaggio  Da  Torino  alle  Piramidi,  nelle 
sue  amene  Passeggiate  ne'  dintorni  di  Torino.  Tutti  gli  appella- 
tivi coi  quali  s'accompagna  per  lo  più,  a  Torino,  il  suo  nome  da 
chi  lo  pronuncia,  l'intrepido  Baruffi,  l'infaiicabile  Baruffi,  il  dotto 
Baruffi,  il  buon  Baruffi,  l'amabile  Baruffi,  gli  convengono  per- 
fettamente; egli  ha  saputo  meritarli  tutti,  associando  in  una  lunga 
vita  onorata  il  coraggio  alle  opere,  la  bontà  e  la  gentilezza  al  sapere. 


E  col  nome  dell'autore  delle  Pere^rma^zom,  anche  questa  prima 
peregrinazione  della  mia  memoria  nella  storia  letteraria  contem- 
poranea italiana  oggi  si  compie.  Il  favore  de'lettori  che  m'ha  so- 
stenuto finqui  mi  darà  coraggio  a  riprendere  in  breve  il  presente 
lavoro,  per  condurlo  al  suo  termine  secondo  ch'esso  venne  da  me 
disegnato.  Io  ho  provato  un  vero   conforto   nello   scorgere   come 


—  539  — 

l'onesto  intendimento  che  mi  mosse  a  scrivere  sia  stato  dal  pub- 
blicOj  e  dai  giovani  particolarmente,  per  i  quali  tolsi  in  mano  la 
penna,  interamente  compreso.  Si  temeva  da  prima  che  non  sarei 
riuscito  a  conciliare  quello  che  pareva  inconciliabile,  cioè  il  molto 
rispetto  dovuto  agli  ingegni,  con  la  indipendenza  del  mio  giudi- 
zio nel  considerare  la  vita,  il  carattere  e  le  opinioni  degli  uomini 
insigni,  de'quali  ho  impreso  a  parlare.  Una  costante  e  rispettosa 
benevolenza  m'animò  per  tutti;  ma  dove  mi  parve  che  l'esempio 
d'alcuno  scrittore  potesse  riuscir  dannoso  ai  giovani,  non  dissi- 
mulai il  mio  timore.  Alcun  lettore  mi  domanderà  forse  ora  qual 
sia  l'opinione  mia  dopo  la  riverenza  con  la  quale  ho  toccato  di 
tante  opinioni  altrui  fra  loro  opposte  e  contradittorie.  S'egli  non 
ha  potuto  rilevarla,  o  piuttosto,  s'io  non  ebbi  la  ventura  di  po- 
terla svolgere,  conchiuderò  brevemente,  che  non  mi  volli  preoc- 
cupar troppo  di  sapere  se  uno  scrittore  fosse  patrizio  o  popolano, 
pur  che  serbasse  decoro  nella  vita,  se  egli  fosse  monarchico  o 
repubblicano,  pur  che  fosse  buon  cittadino,  amante  della  patria  e 
della  libertà,  se  egli  fosse  ateo  o  cattolico,  pur  che  ponesse  un 
alto  ideale  nella  vita.  Ma  cos'è  questo  benedetto  ideale  ?  È  tutto, 
con  qualsiasi  nome  vogliate  poi  chiamarlo;  potete ,  anco,  se  vi 
piace,  significarlo  col  nome  di  Dio.  È  la  coscienza  dell'uomo  che 
penetra  il  mondo.  Togliete  a  quanto  vi  circonda  questa  coscienza, 
ed  avrete  intorno  a  voi  materia  inerte,  scolorita,  impotente;  com- 
parate, collegate  insieme  tutte  quelle  forme  per  sé  mute,  per  sé 
effetti  minuti  di  cause  minute,  e,  nell'  armonia  componitrice  del 
vostro  intelletto  sentirete  il  bello.  Ogni  uomo  che  possiede  la  ca- 
pacità comparativa  di  sentire  il  bello,  ha  in  sé  il  germe  princi- 
pale per  crearlo;  sentire  il  bello  della  natura  è  una  prima  forma 
della  creazione  interiore  che  si  opera  nello  spirito;  educandosi 
quel  sentimento  e  ponendosi  quindi  in  relazione  con  nuovi  oggetti, 
può  tradursi  e  manifestarsi  in  una  nuova  forma  originale,  eh'  è 
il  bello  dell'arte.  Le  opinioni  religiose  e  le  opinioni  politiche,  che 
informano  pure  le  letterarie  ed  artistiche,  sono  sole  forme  secon- 
darie e  transitorie  di  un  sentimento  più  universale,  che  separa, 
con  limite  insuperabile,  l'uomo  dal  bruto,  il  sentimento  dell'ideale; 
chi  non  n'  è  capace,  chi  lo  nega  e  deride,  vegeta  ma  non  vive, 
ma  non  risponde  alla  condizione  principale,  necessaria,  della  vita 
umana,  ch'è  il  progresso.  Accostiamoci  dunque,  o  giovani,  alla 
natura  ;  interroghiamola  ogni  giorno,  ma  mettiamoci  dentro  l'a- 
nima nostra  ;  allora  ne  verranno  fuori  voci  sublimi  ;  dalla  mac- 
china uscirà  allora  veramente  il  Dio,    A    scrutarla  col  solo  mi- 


—  540  — 
croscopio,  a  dividerla  col  solo  coltello  anatomico,  essa  sì  scompone 
e  distrugge,  ma  non  si  compone  e  crea  al  nostro  pensiero,  né 
può  parlare  ;  a  immaginarla,  per  contro,  a  supporla,  a  figurarla 
fuori  della  sua  realtà,  si  suscitano  vuote  fantasime,  che  mandano 
suoni  ingannevoli;  e  la  larva  muta  d'aspetto  ad  ogni  momento  in 
cui  si  contempla,  ad  ogni  nuovo  osservatore  che  la  considera, 
finché  vanisce  del  tutto.  Il  segreto  della  vita  dell'arte  sta  nel  com- 
prendere intiera  la  vita  della  natura;  ma  per  veder  questa  come 
un  tutto  vivente,  bisogna  vivere  in  essa  e  raccoglierne  attenta- 
mente i  colori  ed  i  suoni.  Noi  siamo  in  Italia,  in  mezzo  ad  una 
parte  privilegiata  di  questo  mirabile  universo  che  ci  avvolge;  io 
vorrei  che  la  vita  nostra  da  prima,  e  poi  l'arte  nostra  riceves- 
sero una  loro  più  viva  e  più  nobile  impronta,  immedesimandosi 
meglio  nelle  bellezze  del  nostro  cielo  e  del  nostro  suolo  ;  io  vor- 
rei tradotta  nella  vita  e  nell'  arte  nostra  tutta  quell'armonia  di 
linee  estetiche,  di  colori  vivaci,  di  forme  originali,  che  fa  sognare 
come  una  terra  ideale  l'Italia  allo  straniero.  Egli,  mirando  all'Ita- 
lia, ci  dice  con  secreto  rammarico  che  ov'egli  potesse  vivere  in 
questa  sede  beata,  sarebbe  non  solo  artista  più  sapiente,  ma 
ancora  uomo  migliore;  noi  che  vi  siamo  nati,  mostriamoci  dunque 
degni  di  questa  beatitudine,  e  non  lasciamo  più  far  miracoli  ai 
soli  genii  che  la  natura  soltanto  può  creare,  ma,  per  virtù  d'edu- 
cazione, concorriamo  tutti  a  preparare  sul  nostro  suolo  una  na- 
zione cosi  fatta,  che  lo  straniero,  discendendo  un  giorno  a  visitar 
l'Italia  come  un  sognato  paradiso,  possa  pure  mantenervi  la  sua 
cara  illusione,  con  l'incontrare  in  questo  bel  paradiso  tali  uomini 
che   diano  sembianza  degli  Dei  immortali. 


.i^I^I^EIsriDIGE 


APPENDICE 


Nel  tempo  in  cui  questa  prima  serie  di  Ricordi  sì  pubblicava  nella 
Rivista  Europea  cioè  dall'aprile  1872  al  settembre  1873,  quattro  degli 
scrittori  ricordati  venivano  a  mancare  all'Italia,  cioè  Alessandro  Man- 
zoni, Raffaello  Lambruschini,  Pietro  Giannone  e  Francesco  dall'  On- 
garo.  Del  fine  di  Dall'  Ongaro  si  diede  notizia  nelle  note  del  Ricordo 
stesso  ;  (\\x\  non  mi  rimane  altro  ad  aggiungere  che  una  vergogna  del 
governo  italiano,  il  quale  alla  famiglia  del  poeta  fece  1'  elemosina  di 
trecento  lire  !  Il  Lambruschini  morì  e  fu  sepolto  nella  sua  villa  di 
Figline;  sulla  sua  tomba  parlarono  G.  B.  Giuliani  e  Giuseppe  Rigutini. 
Raccogliamo  qui  ancora  alcune  notizie  sul  fine  di  Alessandro  Manzoni 
e  di  Pietro.  Giannone, 


ALESSANDRO   MANZONI. 


Il  22  maggio  (1873)  dovrà  contare  fra  i  giorni  più  nefasti  della  nostra 
storia  letteraria.  La  morte  di  Manzoni  chiude  in  Italia  un  intiero  ciclo  let- 
terario. Egli  ha,  tuttavia,  vissuto  tanto  per  vedere  l'aurora  del  secolo 
nuovo,  dal  suo  genio  profetata  fin  dall'anno  1815,  col  fraramenta«di  una  can- 
zone patriotica  pel  proclama  di  Rimiiii,  e  per  benedire  la  nuova  gene- 
razione che  sorge,  alla  quale  è  affidata  la  gloria  deir  avvenire.  Sembrava 
un  immortale,  e  si  poteva  oramai  ripetere  di  lui  quello  che  fu  già  detto 
di  Humboldt,  la  morte  averlo  dimenticato  ;  di  una  calma  e  serenità 
quasi  olimpica  fino  all'estremo,  gli  «nni  sembravano  soltanto  crescergli 
religioso  prestigio  e  non  gravezza.  Fu  infelice  ne'  figli  ;  la  morte  di 
un  figlio  (Pietro)  l'oppresso.  E  così,  ad  uno  ad  uno  i  nostri  grandi  se 
ne  sono  quasi  andati  tutti:  il  Manzoni,  sommo  fra  tutti,  durava  a  no- 


stra  consolazione  e  gloria;  ora  non  ci  resta  altro  conforto  che  il  ricor- 
darlo. Lo  assistettero  i  medici  Gherini   e    Todeschini  ;  lo  conf.5Ssò  Don 
Vitaliano  Rossi,  coadiutore   della  basilica    di    San    Fedele  in  Milano.  Il 
lutto  della  famiglia  Manzoni  è  ora   lutto   non  solo  milanese,  ma  nazio- 
nale. Non  si  poteva  perdere    di   più  di   quanto  abbiamo  perduto.  Nella 
terra  detta  del  genio,    il    Manzoni    restava   a   rappresentarlo.  Ora  ci  è 
forza  abbassare  le  vele,  in  attesa  di  miglior  vento  che  spiri  altri  genii 
all'  Italia.  Io  ho  l'animo  ancora  troppo  turbato  da  questa  sventura  na- 
zionale, per  poterne  scrivere  a  lungo.  Odo  dire,  che  Manzoni  avea  vis- 
s5uto  più  che  non  si  viva  d'ordinario.  Cosi  il  volgo  ragiona.  Certo  s'egli 
fosse  stato  un  uomo  come  noi,  avrebbe  vissuto  abbastanza;  ma  egli  avea 
quasi  tutte  le  perfezioni  umane;  noi  abbiamo  invece  quasi  tutte  le  umane 
debolezze;  ecco  la  gran  differenza,  per  cui  noi  possiamo  morire  quando 
che  sia,  senza  lasciar  dietro  di  noi  lungo  rimpianto,  mentre  sarebbe  invece 
stato  necessario  a  noi  tutti  che  un  uomo  come  il  Manzoni,  un  esempio 
vivo  della  virtù  assistita  dal   genio^    noa    morisse  mai.  La  sera  del  22 
maggio  fu  visto  nel  cielo  d' Italia  uno  splendido  tramonto  di  sole;  il  mat- 
tino del  23  maggio  nessuno  ha  visto  nel  cielo  d'Italia  sorgere  alcun  nuovo 
sole  che  ricordasse  l'antico;  ecco  il  nostro  dolore,  per  chi  sa  intenderlo. 
Ed  ora  che  Manzoni  non  è  più,    l' Italia    ha  uopo  di  consolarsi  almeno 
nella  speranza  che  molta   parte    di    lui    sia    ancora    rimasta  nelle  sue 
carte  manoscritte.  Dicono  che    vi   si  trovino    molti    versi  (parlasi  pure 
d'un  manoscritto  di  più  pagine  esistente  a  Brescia  contenente  un  canto 
giovanile  di  Manzoni,  intitolato  TI  Trionfo  della  Libertà,  scritto  in  età 
di  quindici  anni)  e  i  copiosi  appunti  sulla  Rivoluzione  francese,  raffron- 
tata con  la  natura  degli  ulLimi  rivolgimenti  italiani,  oltre  ad  un  ricco  e 
bene  ordinato  epistolario,  nel  quale  si  trovano  pure  le  copie  delle  lettere 
più  importanti  scritte  da  Manzoni  ;  preghiamo  Giulio  Carcano,  il  figlio 
adottivo  del  pensiero  di  Manzoni,  e  la  famiglia  di  Don  Alessandro,  perchè 
quanto  si  può  comunicare  all'  Italia   della  mente,  dell'animo,  della  vita 
del  grande  poeta  milanese,  ci   possa  esser   fatto   conoscere.  Quello  che 
avvenne  per  l'Azeglio,  dopo  la  morte  del  quale,  /  Miei  ricordi,  le  confi- 
denze del  Torelli  e  gli  epistolarii,  ci  permi>ero  di  conoscerlo  ed  ammi- 
rarlo più  dappresso,  desideriamo  vivamente  e  tanto  più  che  si  rinnovi  pel 
Manzoni,  di  cui  sappiamo  bene   che    dal    1827  in  poi  furono  scarsi  gli 
scritti  pubblicati,  ma  non  ignoriamo  ch'egli  ha  molto  pensato,  parlato 
e  scritto.  OÉi  lo  accostò,  e   in   Milano    saranno    molti   quelli  ai  quali  è 
toccata  una  simile  sorte,  s'adoperi  a  conservarci  un  ricordo    di  quello 
che  egli  ha  inteso  o  veduto.  Nessun  genio  seppe  mai  conservarsi  in  equi- 
librio come  quello  del  Manzoni;    perciò   non    pare  che  siano  a  temersi 
rivelazioni  indiscrete.  Egli   ha    detto    e    scritto   ed  operato  solamente 
quanto  credeva  che  si    potesse   confessare    senza   alcun  rossore.  Perciò 
ogni  ricordo  che  sì  pubblichi  ora  di  Manzoni    non    po^rà  far  altro    che 
illuminare  maggiormente  la  gloria  di  lui,  la  quale  fu  pur  già  tanta  che 
nessun  altro  Italiano  forse  ne  avea  mai  goduta  in  vita  una  maggiore.  Si 


troverà  ora  bene  qualche  zucca  accademica  che,  sotto  il  pretesto  di  reci- 
tare un  elogio  funebre  al  Manzoni,  incomincerà  con  l'aflfrettarsi  a  metter- 
selo sotto  di  sé,  per  potcci  dire:  voi  vedete,  io  A.,  io  P.,  io  C,  ve  lo 
giudico  in  quattro  parole;  io  che  non  ho  mai  pensato  a  nulla  vi  dirò 
chiaro  e  tondo  che  Manzoni  non  è  mai  stato  un  gran  pensatore;  lui 
che  pensava  invece  ad  ogni  cosa,  che  tutto  sapeva  prevedere,  dalle  cose 
grandi  alle  cose  piccole,  dal  più  al  meno,  dalle  ragioni  eterne  e  sovrane 
dell'arte,  fluo  alle  vuote  insulsaggini  de'  suoi  pedantini.  Ma  lasciamo  lì 
questa  minuta  pleba  cru^chevaUnente  letterata;  e  torniamo  a  riposare 
il  nostro  pensiero  nella  speranza  che  quanti  hanno  amato  e  conosciuto 
veramente  Manzoni  s'adopperanno  a  rendere  al  genio  di  lui  quell'omag- 
gio che  merita  ogni  sovrano  intelletto  che  abbia  glorificata  la  sua 
terra. 

Intanto  raccogliamo  dai  giornali  le  prime  notizie  che  si  poterono 
avere  intorno  al  suo  fine.  Egli  spirò  alle  ore  6  e  Ii4.  Vuoisi  che  le  ul- 
time parole  da  lui  proferito  sian  state  queste:  DeUrii!  delirii!  La  sua . 
malattia  era  un'affezione  cerebrale,  e  fu  definita  dai  medici  una  cerebro- 
meningite acuta.  Un  presentimento  del  non  lontano  suo  fine  sembra 
l'avesse  fin  dallo  scorso  anno,  quando,  accomiatandosi  da  lui  il  critico 
napoletano  Vittorio  Imbriani,  Manzoni  gii  ebbe  a  dire  :  «  Signor  Vit- 
torio, è  questa  V  ultima  volta  che  noi  ci  vediamo.  »  Egli  aveva  amato 
parecchi  napoletani  a  incominciare  con  gli  esuli  del  99,  Vincenzo  Coco 
e  Francesco  Lomonaco  (a  quest'ultimo  egli  dedicava  il  suo  primo  so- 
netto che  fu  stampato),  fino  a  De  Sanctis,  Bonghi,  Baldacchini,  Pisanelli 
ed  alcuni  altri.  Dopo  la  morte  del  figlio  Pietro,  che  avvenne  fra  dolori  atro- 
ci, nella  casa  stessa  del  sommo  poeta,  gli  amici  intimi  notarono  con  dolore 
che  le  facoltà  dell'intelletto  incominciavano  ad  oflfuscarglisi  ;  alfine  il  Man- 
zoni fu  colto  da  una  paralisi  generale,  che,  cessata,  lasciò  molto  aggravato 
l'illustre  infermo;  il  15  maggio  uscì  il  1°  bullettino  sanitario  de'medici 
che  suonava  così:  «  Sintomi  d' un'affezione  cerebrale  che  decorse  mite 
dapprima  e  assunse  carattere  acuto  in  quest'  ultimi  giorni.  »  Il  male 
sembrò  dare  un  po' di  tregua  all'illustre  infermo  la  sera  del  20  ;  diven- 
ne violento  e  lo  precipitò  il  giorno  22.  Il  IG,  Manzoni  avea  riacquistato 
alcuna  lucidità  di  mente,  e  scusavasi  coi  domestici  d'averli  il  giorno 
innanzi  trattati  un  po'  male,  e  chiedeva  un  libro,  che  recatogli  fu  da 
lui  riconosciuto;  si  provò  a  leggerlo,  ma  in  breve  gli  si  offuscarono 
con  la  vi.sta  le  idee,  e  lo  sorprese  la  febbre.  Il  Corriere  di  Milano  ci 
descrive  così  le  ultime  ore  del  Manzoni  :  «  Ieri,  (22)  verso  mezzogiorno, 
volgendosi  ad  un  tratto  ai  suoi  di  casa,  egli  disse:  Quest'uomo  decade, 

precipita,  chiamate  il  mio  confessore Venne  il  confessore  e  con 

questo  si  intrattenne  per  una  mezz'ora,  parlando  con  la  solita  sua  mente 
lucida  e  calma.  Uscito  di  camera  il  confessore,  Manzoni  chiamò  i  suoi, 
e  disse  loro:  «  Quando  sarò  morto,  fate  voi  quello  che  faceva  io  ogni 
giorno;  pregate  sempre  per  V Italia;  pregate  per  il  Re  e  la  sua  fami' 
glia,  tanto  buoni  con  me!  »  Poco  dopo  cominciarono  gravi  sofferenze; 


era  soffocato  dal  catarro,  stringeva   affettuosamente  le  mani  al  dottor 

Todeschini,  e  si  lamentava   affannosamente »  Gli  ultimi  momenti 

del  poeta  ci  sono  così  descritti  dalla  Gazzetta  Piemontese  :  «  La  lotta 
fra  la  vita  e  la  morte  fu  accanita,  e  l'agonizzante  soffrì  orribilmente. 
Alle  6  di  sera  gli  si  apprestò  la  Estrema  Unzione.  Incominciare  le  preci 
e  subentrare  alla  smania  una  calma  completa  fu  tutt'  uno,  e  quando  se 
ne  profferivano  le  ultime  parole,  quella  grand'anima  saliva  a  Dio.  Spirò 
alle  sei  e  un  quarto,  e  in  quel  supremo  momento  quella  testa  augusta 
s'illuminò  come  di  un  raggio  celeste:  la  scintilla  del  genio  v' era  stam- 
pata ;  il  sublime  «  Ei  fu  »  era  scritto  su  quella  fronte  spaziosa,  era 
una  cosa  imponente.  Morì  seduto  sul  letto,  anzi  ritto  sulla  persona,  e 
quando  rese  l'anima  a  Dio,  piegò  il  capo  in  atto  di  chi  pensa,  e  rimase 
così  finché  non  lo  si  coricò.  »  Il  direttore  del  Corriere  di  Milano, 
avendo  potuto  penetrare  nella  stanza  mortuaria,  ne  diede  la  seguente 
dejjcrizione  :  «  Il  cadavere  giace  sopra  im  letto  di  ferro,  dipinto  in  rosso; 
il  volto  è  pallido  come  cera  e  comporto  ad  una  patriarcale  serenità; 
non  una  contrazione  che  accenni  a  spasimo  ;  la  fronte  è  bellissima.  Un 
fazzoletto  bianco  tiene  il  mento  naturalmente  rialzato.  Il  corpo  è  co- 
perio  da  una  coltre  bianca;  un  grosso  crocifisso  di  avorio  ed  ebano  è 
deposto  sul  petto.  Due  candelabri  accesi  stanno  a  destra  del  letto,  so- 
pra un  tavolo  da  notte.  La  stanza  spaziosa  è  arredata  con  una  sem- 
plicità che  colpisce.  Le  pareti  sono  tappezzate  con  carta  a  fiori,  di 
color  bianco  e  gialliccio;  nel  centro  del  soffìttto  è  dipinto  un  mazzo  di 
grandi  rose.  In  capo  al  letto  è  sospeso  un  quadretto  sacro  e  un  pic- 
colo crocifisso.  Nella  parete  a  destra  del  letto  è  sospeso  un  ritratto  ad 
olio  in  piccole  proporzioni  e  senza  cornice,  dell'amico  più  intimo  di 
Manzoni,  il  prof.  Rossari,  morto  due  anni  fa;  dallo  stesso  lato  al  di  là 
del  caminetto,  pende  un  bellissimo  quadretto  ovale  della  Sacra  Fami- 
glia, dipinto  su  rame;  sulla  parete  di  fronte,  al  di  sopra  di  un  piccolo 
canapè  coperto  di  stoffa  di  lana  azzurra  e  bianca,  si  vede  un  imma- 
gine della  Vergine,  contornata  da  una  cornicetta  dorata.  Cinque  o  sei 
poltroncine  semplicissime  sono  disposte  qua  e  là;  verso  una  delle  due 
finestre,  che  occupano  la  quarta  parete,  è  il  seggiolone  prediletto,  fatto 
all'antica  e  coperto  di  cuoio.  Un  modesto  tavolino  di  noce,  di  forma 
circolare  e  coperto  da  marmo  giallo,  sta  in  mezzo  alla  stanza.  »  Lo 
scultore  Giovanni  Strazza  che  abita  nella  casa  stessa  di  Manzoni,  e  di 
cui  s'era  molto  ammirato  nell'ultima  mostra  milanese  di  belle  arti  un 
magnifico  busto  del  poeta,  il  giorno  23  fece  il  rilievo  in  gesso  del  volto 
di  Manzoni;  il  giorno  24  i  fotografi  milanesi  Spagliardi  e  Silo  rilevarono 
il  ritratto  fotografico  di  Manzoni  composto  sul  suo  letto  di  morte,  e  nello 
stesso  giorno  i  medici  municipali  imbalsamarono  il  cadavere,  che  venne 
quindi  esposto  al  pubblico  in  una  sala  del  Municipio  di  Milano  trasfor- 
mata in  Cappella  Ardente.  Le  prime  dimostrazioni  di  lutto  e  d'amore  alla 
memoria  di  Alessandro  Manzoni  furono  fatte  naturalmente  dalla  Città 
di  Milano;  le  bandiere  del  Comune  sventolarono  tosto  a  lutto  ai  quattro 


—   VII    — 

angoli  del  palazzo  Marino;  furono  decretati  solenni  funerali  a  spese  del 
Comune;  si  decretò  di  intitolar  tosto  dal  nome  di  Alessandro  Manzoni 
la  via  del  Giardino;  di  far  pratiche  presso  i  nipoti  (i  figli  di  Pietro, 
cioò  Renzo,  Vittoria,  Giulia  ed  Alessandra),  per  l'acquisto  di  quella 
parte  della  casa  del  Manzoni,  ove  egli  abitò,  da  convertirsi  in  archivio 
storico  municipale,  e  degli  autografi  da  lui  lasciati;  si  tìssò  la  somma 
di  lire  venti  mila  per  iniziare  una  pubblica  soscrizione  per  un  monu- 
mento da  erigersi  in  Milano  alla  memoria  del  grande  poeta,  alla  cui 
salma  sarà  dato  un  posto  d'  onore  nel  milanese  Famedio,  malgrado 
la  pronta,  cortese  ed  onorevole  offerta  fatta  dal  sindaco  di  Firenze  per 
dargli  sepoltura  nel  tempio  di  Santa  Croce.  Appena  corse  per  l'Italia  la 
novella  della  morte  di  Manzoni,  la  commozione  fu  universale;  la  Casa 
Reale,  il  Parlamento, il  Senato,  i  Municipii,  gli  Istituti  scientifici,  le  associa- 
zioni politiche  e  letterarie,  i  giornali  espressero  unanimi  il  loro  cordoglio 
per  la  perdita  immensa  fatta  dall'Italia.  Anche  i  giornali  esteri  provvidero 
tosto  ad  onorare  la  memoria  del  grande  italiano  ;  la  Neue  Freie  Presse 
di  Vienna  gli  consacrò  un  bell'articolo,  riportando,  fra  gli  altri,  il  se- 
guente giudizio  di  Goethe  sui  Pronaessi  Sposi:  «  L'impressione  è  tale 
che  si  passa  incessantemente  dall'ammirazione  alla  commozione,  e  dalla 
commozione  all'ammirazione,  e  non  si  esce  mai  da  questi  due  grandi 
effetti  !  »  ;  il  Times  e  il  Morning  Post  mandarono  i  loro  corrispondenti 
a  Milano  ;  il  direttore  deW Athenaeum  invitava  per  telegrafo  il  direttore 
della  Rivista  Europea  a  scrivere  una  commemorazione  su  Manzoni,  ed 
altri  giornali  esteri  ne  hanno  già  scritto  per  dire  la  loro  prima  viva 
impressione  0  si  propongono  scriverne  distesamente;  la  famiglia  di  Wal- 
ter Scott  (che  era  stato  un  grande  ammiratore  (Ìq'  Promessi  Sposi,  dei 
quali  soleva  dire  con  modestia  che  Manzoni  avea  fatto  un  solo  romanzo, 
ma  che  quel  solo  valeva  tutti  i  propri),  si  faceva  rappresentare  ai  fu- 
nerali di  Manzoni,  dall'ingegnere  scozzese  Mackenzie  residente  in  Mila- 
no, incaricato  per  telegrafo  di  quell'onore.  11  ministro  di  Francia  in  Italia  H. 
Fournier,  scriveva  tosto  al  genero  di  Manzoni,  G.  B.  Giorgini,  la  lettera 
seguente:  «  Rome,  23  mai  1873,  Monsieur,  J'apprends  à  l'instant  la  perte, 
que  l'Italie  vient  de  faire  d'Alexandre  Manzoni.  Personnellement  je  n'ai 
pas  eu  l'honneur  et  la  bonne  fortune  de  connaìtre  monsieur  Manzoni.  Je 
n'ai  pu  qu'admirer  son  àme  dans  ses  ècrits.  Mais  il  me  serabie  que  le 
ministre  de  Franco  en  Italie  a  le  droit  de  ressentir  avec  vous,  Mon- 
sieur, une  douleur,  qui  vous  est  personnelle,  et  qui  est  nationale.  Je 
vous  serre  la  main  ».  Tra  le  manifestazioni  più  significative  di  do- 
lore in  Italia  notiamo  le  eloquenti  parole  di  compianto  con  cui  il  pro- 
fessore G.  I.  Ascoli  aperse  nell'Accademia  scienfilico-Iettcraria  la  sua 
consueta  lezione  di  linguistica,  una  lezione  speciale  che  G.  B.  Giu- 
liani, professore  di  letteratura  italiana  e  intei'prete  della  Divina 
Commedia  nell'  Istituto  di  Studii  Superiori  in  Firenze  dedicò  tosto  al 
Manzoni  ;  e  il  seguente  telegramma  spedito  da  Napoli  al  Sindaco  di  Mi- 
lano: «  Scuola  De  Sanctis  esprime  vivissim>T  condoglianze  per  la  morto 


—  vili  — 

del  più  antico,    del   più  grande   della  vecchia  generazione,   Alessandro 
Manzoni  ;  Francesco  De  Sanctis  e  sua  scuola.  » 

I  solenni  funerali  di  Manzoni,  ebbero  luogo  in  Milano,  il  dì  29,  nel  Duomo, 
celebrando  la  messa  funebre  l'arcivescovo.  Tra  gli  arrivati  a  Milano  per  i 
funerali,  si  notarono,  oltre  i  principi  sabaudi,  e  lo  primarie  autorità  del  re- 
gno, Andrea  MalTei,  Giovanni  Prati,  Francesco  De  Sanctis,  P.  E.  Imbriani, 
Marco  Minghetti,  Angelo  Messedaglia,  Francesco  Gabba,  Antonio  Caccianiga, 
Gerolamo  Boccardo,  Nicomede  Bianchi,  Emmanuele  Celesia,  Anton  Giulio 
Barrili,  Ferd.  Coletti,  Giovanni  Banco,  Erminia  Fuà  Fusinato,  ed  altre  piii 
notabilità  Ictteriarc  italiane.  Innanzi  alla  bara  furono  proferiti  i  discorsi  se- 
guenti: 

I.  —  Discorso  del  sindaco  di  Milano. 

Signori, 

Nel  cospetto  di  questo  feretro  ogni  parola  vien  meno.  L'Italia  risorta  a 
nazione  vede  a  morire  l'uno  dopo  l'altro  i  più  grandi  suoi  figli. 

L'uomo  che  nel  nostro  secolo  la  rappresentò  più  gloriosamente  negli  or- 
dini del  pensiero  concretato  nell'arte  è  asceso  ad  un'altra  patria. 

Ne  rimangono  a  noi  le  opere  immortali,  una  santa  e  incancellabile  memo- 
ria e  queste  misere  spoglie  attorno  alle  rpiali  ci  raccogliamo. 

Alessandro  Manzoni  !  Dinanzi  al  suo  nome,  che  dalla  Europa  ci  era  invi- 
diato come  quello  del  suo  grand'avo  Cesare  Beccaria,  noi  ci  inchinavamo 
religiosamente  commossi.  Negli  anni  in  cui  l'Italia  anelava  costituirsi  in  unità 
e  libertà  di  nazione,  allo  straniero  che  ci  voleva  guasti  ed  inetti  a  softe  mi- 
gliore, noi  potevamo  opporre  anche  gii  esempi  e  gli  scritti  di  questo  sommo. 

E  se  la  stìducia  ci  piombava  talvolta  più  grave  sull'anima,  noi  ripigliavamo 
in  lui  lo  smarrito  coraggio. 

Era  il  sentimento  di  mia  forza  [)acata  che  ci  veniva  dalle  opere  sue,  quel 
sentimento  che  esclude  l'odio,  perchè  la  giustizia  a  null'altro  meglio  si  ispira, 
fuorché  a'I'amore,  che  sa  perdonare  a  chi  ofiende,  perchè  sente  suo  debito 
di- combattere  sempre  e  dovunque  l'offesa,  e  che  sa  lungamente  aspettare 
perchè  le  grandi  rivendicazioni  non  si  compiono  in  un  giorno. 

Tutto  in  quest'uOiTio  era  armonia,  la  patria  e  la  famiglia,  il  povero  tìglio 
del  popolo  ed  il  gran  prigioniero  di  Sant'Elena  si  raccoglievano  in  lui  in  un 
solo  concetto  illuminato  e  santificato  da  un  principio  superiore  a  tutte  le  cose 
terrene,  dall'infinito,  da  Dio. 

E  noi  l'abbiamo  perduto  quest'uomo,  (juesto  vecchio  venerando  e  sublime, 
la  cui  casa  si  apriva  a  quanti  ingegni  più  eletti  ricercavano  la  sua  parola 
così  pronta  e  vivace,  quanto  amorevole  e  sapiente. 

Noi  l'abbiamo  perduto  quest'uomo  che,  traendo  ii  lento  passo  per  le  nostre 
vie,  era  segno  agli  sguardi  riverenti,  quasi  timidi  vorrei  dire,  dei  nostri 
concittadini.  Questo  uomo  che  in  età  tardissima  aveva  serbata  intiera  la  lim- 
pidità della  mente  e  la  forza  della  volontà,  noi  l'abbiamo  perduto.  Egli  è 
morto  circondato  di  gloria  e  trafitto    da  un  gran  dolore  domestico,    da  uno 


—    IX   — 

di  quei  dolori  che  non  trovano  pace  fuorché  nella  fede  inconcussa  in  una 
vita  celeste.  Eppure,  sino  agli  ultimi  giorni,  una  voce  segreta  ci  recava  a 
sperare  che  ancora  per  qualche  anno  l'avremmo  avuto  fra  noi;  ed  ora,  di- 
nanzi a  questo  feretro  ci  guardiamo  attoniti  e  quasi  smarriti. 

Fratelli  di  tutte  le  p:irti  della  gran  patria,  principi,  rappresentanti  delle 
Camere  legislative,  della  Reale  Casa,  del  governo,  dell'esercito,  inviati  delle 
Provincie,  dei  Comuni,  delie  Universi tà,  delle  Scuole,  delle  Associazioni  tutte, 
a  nome  della  città  di  Milano,  di  cui  ho  l'onore  di  esser  capo,  io  vi  ringra- 
zio dal  più  profondo  del  cuore,  lieto  di  vedere  come  l'Italia,  fatta  libera, 
onori  unanime  la  memoria  dei  suoi  grandi. 

Io  ve  ne  ringrazio  a  nome  di  una  città  che  sarà  sempre  particolarmente 
superba  di  aver  dati  i  natali  ad  Alessandro  Manzoni,  e  che  fra  le  sue  mura 
ebbe  il  dolore  di  perderlo. 

E  tu,  0  grandissimo  e  caro  estinto,  giunto  al  possesso  di  quel  Dio 

che  atterra  e  suscita 

che  affanna  e  che  consola, 

prega  per  l'Italia,  pel  Re,  per  la  tua  Milano,  per  noi  tutti  irradiati  dalla 
luce  del  tuo  genio  e  inspirati  dalla  tua  grand'anima. 

II.  —  Discorso  del  comm.  G.  Carcano. 

Che  cosa  raduna  oggi  qui.,  intorno  a  questa  spoglia  d'  un  vecchio  quasi 
nonagenario,  gli  uomini  che  più  onorano  l' Italia,  i  figli  di  Vittorio  Ema- 
nuele, i  rappresentanti  della  nazione  e  delle  più  illustri  città,  la  famiglia 
delle  scuole,  e  insieme  a  loro  gli  operai,  le  donne,  i  figliuoli  del  popolo?  — 
E  la  divina  luce  del  genio,  è  la  virtù  d'un  intelletto,  che  come  ha  rinno- 
vata una  letteratura,  rinnova  una  generazione.  —  E  anch'  io,  qui,  in  tanta 
solennità  di  compianto,  adempio  un  dovere  per  me  affannoso  non  meno  che 
sacro.  Se  l' animo  altamente  commosso  non  mi  concede  di  dire  tutto  quello 
che  io  sento,  vincerò  il  mio  dolore;  che  io  non  parlo  solo  per  me,  ma  in 
nome  d'egregi  uomini  che,  al  riacquisto  della  nostra  indipendenza,  videro 
segnato  al  primo  onore  (ìd  loro  consesso  il  nome  d'Alessandro  Manzoni. 

A  lui,  che  al  culto  della  patria  unì  quello  della  scienza  e  della  verità,  non 
permisero  1'  età  grave  e  1'  antica  consuetudine  di  prender  parte  all'  opera 
nostra;  ma  io  croio  che  la  sua  ispirazione  sapiente  abbia  sostenuto  od  av- 
vivato i  nostri  studi  ;  noi  sapevamo  di  dovere  mostrarci  degni  di  quel  nome 
amato  e  venerato  dall'Italia. 

Sì;  tutti  lo  hanno  amato  ;  cittad  ni  e  stranieri,  il  filosofo  meditabondo,  e 
l'audace  uomo  di  Stato,  l'eroe  popolare  ed  il  Re;  quelli  che  hanno  potuto 
stringergli  la  mano  e  sedere  al  suo  fianco  ;  e  quelli  che  per  riverenza  non 
osarono  varcare  la  sua  domestica  soglia. 

Nella  poesia  e  nella  storia,  nella  scienza  e  nella  vita,  egli  non  cercò,  non 
sospirò  che  il  vero.  E  fu  quest'alto  desiderio  che  lo  condusse  alla  fede.  — 
Nella  sua  gloria  modesta  e  vereconda,  egli  ci  apprese,  in  tempi  di  servaggio, 
quella  virtù  che  non  e  morta  rassegnazione,  ma  dignità  e  certezza  costante 

*«- 


—   X  — 

che  giustizia  e  libertà  devono  trionfare.  —  Percliè  una  legge  sola  governa 
la  patria  e  l'  umanità^  la  creatura  che  passa  e  1'  infinito. 

L'  unità  di  questa  terra  noMra  fa  il  lungo  ed  assiduo  desiderio  di  tutta  la 
sua  vita;  egli  lo  disse,  or  fa  qualche  mese,  accettando  d'essere  fatto  citta- 
dino di  Roma. 

E  coir  ultima  sua  parola  all'armò,  come  colla  sua  intera  vita,  V  unione 
della  fede  coli' amor  di  patria,  imponendo  a' suoi  cari  di  pregar  Dio  per 
l'Italia.  —  Noi  non  lo  vedremo  più.  Ma  la  sua  grande  anima  respira  nelle 
sue  pagine,  e  guiderà,  come  quella  di  un  padre,  la  nazione.  L'esule  immor- 
tale sarà  la  sua  gloria  più  pura. 

III.  —  Discorso  del  comm.  Mauri. 

La  pietosa  solennità  di  questo  giorno  dice  d'Alessandro  Manzoni  tutto  quello 
che  potrebbe  la  parola  più  devota  ed  eloquente  :  dice  che  in  lui  si  è  spento 
un  tal  lume  d' ingegno  e  di  bontà,  di  cui  tutti  sentivano  il  beneficio  ;  dice 
che  la  perdita  di  lui  fu  un  lutto  comune  che  da  questa  sua  città  nativa  si 
allargò  a  tutta  Italia  e  sarà  sentito  in  tutto  il  mondo  civile. 

Il  grand'  uomo  apparteneva  a  tutta  la  nazione,  anzi  a  quanti  in  ciascuna 
contrada  hanno  intelletto  del  vero,  del  bello,  del  bene  per  quel  carattere 
d'  universalità,  onde  sono  improntati  i  pensieri  e  i  sentimenti  eh'  egli  vesti 
di  forme  si  splendide  e  peregrine  nelle  immortali  sue  pagine  e  tradusse  in 
tutti  gli  atti  dell'immacolata  sua  vita:  pensieri  e  sentimenti  estranei  ad  ogni 
studio  di  parte,  ad  ogni  intento  di  sorta,  atUnti  al  limpido  fonte  delle  aspi- 
razioni più  spontanee  dell'anima,  e  fecondati  dal  santo  amore  degli  uomini 
e  di  Dio.  Ma  del  fatto  ch'egli  abbia  appartenuto  al  Senato  del  Regno  è  da 
tener  conto  per  questo,  che  schivo  d'ogni  onorificenza,  questa  unica  non 
disdice,  perocché  gli  porgeva  modo  di  mostrarsi  pubblicamente,  qual  fu  sempre, 
dovuto  all'indipendenza  ed  unità  d'Italia  e  d'assumere  la  sua  parte  di  respon- 
sabilità di  quella  politica,  onde  il  grande  intento  fu  conseguito. 

La  tarda  età  e  salute  cagionevole  gli  vietarono  di  esser  frequente  alle  adu- 
nanze di  quel  consesso,  ma  non  si  rimase  dall'  assistervi  nelle  adunanze 
più  solenni,  quando  traltavasi  di  render  testimonianza  a  quei  principi!, 
che  sono  le  base  del  nostro  nazionale  diritto,  e  che  egli  trasfuse  in  tutte  le 
sue  opere. 

E  il  Senato,  che  si  gloriava  annoverarlo  fra  i  suoi  membri,  sentivasi 
fortificato  da  lui  in  quei  propositi  di  salda  fermezza  e  di  civile  temperanza, 
che  sono  il  proprio  carattere  di  queir  Assemblea,  e  di  cui  gli  scritti  e  la 
vita  di  lui  fanno  la  professione  più  autorevole.  Sapevasi  poi  che  egli  pi- 
gliava gran  parte  a  tutte  le  deliberazioni  del  Senato,  e  fin  da  lontano  s'as- 
sociava a  quelle  che  davano  forte  cemento  all'  unità  nazionale.  Non  fuvvi 
grand'  alto  della  nostra  vita  politica  in  questo  fortunoso  periodo,  a  cui  egli 
non  si  sia  unito  con  l'animo,  se  non  col  palese  suffragio. 

Singolarmente  egli  si  rallegrò  di  quello  per  cui  Roma  fu  restituita  al- 
rilalia,  e,  comunque  giudicasse  del  modo  con  cui  il  gran  fatto  fu  compiuto, 
gioì  come  italiano  e  come  cattolico  della   caduta    del   potere  temporale  dei 


—   XI   — 

papi,  in  cui  aveva  sempre  ravvisata  la  piaga  più  dolorosa  che  abbia  afflitta 
e  deformata  la  Chiesa  di  Cristo.  Il  Senato  del  regno  custodirà  con  affettuosa 
reverenza  le  nobili  tradizioni  che  vanno  congiunte  ai  nome  di  Alessandro 
Manzoni;  custodirà  singolarmente  quelle  che  fanno  di  lui  uno  degli  stru- 
menti più  efficaci  dell'educazione  nazionale  di  quesi'  epoca  miracolosa. 

Un  illustre  tedesco  scriveva,  non  ha  guari,  che  può  trarsi  ogni  lieto  pro- 
nostico degli  italiani,  se  si  mostreranno  degni  della  educazione  politica  rice- 
vuta da  Camillo  Cavour:  lo  stesso  è  da  dire,  se  si  mostreranno  degni  del- 
l' educazione  letteraria  e  morale  ricevuta  da  Alessandro  Manzoni. 

Cotesti  nomi  di  due  uomini,  che  si  ebbero  in  si  grande  stima  ed  atTetto, 
ben  possono  pronunziarsi  insieme  in  questo  giorno^  in  questo  luogo:  ben 
può  qui  emettersi  il  voto  che  delle  future  nostre  generazioni  si  dica  :  — 
Sono  formato  alla  scuola  italiana  del  Cavour  e  del  Manzoni. 

IV.  —  Discorso  del  cav.  Ciampi. 

Roma  s'associa  al  dolore,  che  stringe  gl'italiani,  anzi  il  mondo  civile, 
con  l'animo  intorno  al  feretro  dell'  illustre  estinto. 

Egli  condusse  l'arte  al  sentimento  del  bene  :  nobilitò  (;oloro  che  la  profes- 
sano; fece  delle  lettere  umane  strumento  di  patria;  sacerdozio  ;  milizia. 
Egli,  con  la  mite  parola,  persuase;  e  la  persuasione  è  arma  di  tJtti  i  tempi, 
ma  dei  moderni  più  necessaria  e  più  efficace. 

Con  la  pittura  del  vero,  dimostrò  che  non  v'  ha  più  grande  sventura 
della  servitù,  straniera,  e  che  la  virtù  sola  santifica  i  dolori  meritati  o  im- 
meritati d' un  popolo,  e  eh'  essa  sola  consiglia  a  sperare,  ad  operare,  a 
vincere,  ad  assicurare. la  vittoria. 

Roma  commossa,  stringe  la  destra  alla  genetrice  di  tanto  figlio,  a  Milano; 
ed  augura  che  i  semi  gettati  da  Alessandro  Manzoni  sieno  ancora  fecondi , 
.e  che  gì'  italiani  qui  convenuti  segnino,  innanzi  alla  sua  tomba ,  un  ulte- 
riore patto  di  civile  concordia. 


Finalmente  il  ministro  della  pubblica  istruzione,  Antonio  Scialoia,  im- 
pedito dall' intervenire  ai  funerali  e  però  di  parlarvi  in  onore  di  Man- 
zoni, com'era  suo  proposito,  scrisse  al  Visconti-Venosta  la  lettera  se- 
guente: 

Roma,  21  maggio  1873. 

Caro  collega, 

Continua  la  mia  indisposizione,  e  il  medico  vuole  che  io  non  parta. 

Non  saprei  dirvi  quanto  io  sia  dolente  di  questo  impedimento,  che 
mi  toglie  l'opportunità  di  accompagnarvi  per  rendere  un'ultima  testi- 
monianza di  onore  alla  memoria  del  Manzoni.  E  parlo   della   mia   pre- 


—    XII    — 

senza  a  Milano,  la  sola  che  a  cagione  della  mia  qualità  ufficiale  avrebbe 
potuto  aver  un  qualche  valore.  Non  avrei  potuto,  né  saputo  fare  altro. 
Perciocché,  quando  all'annunzio  della  morte  di  un  uomo  un'  intera  na- 
zione spontaneamente  si  leva  in  pianto  ad  onorarne  la  memoria,  la  sola 
parte  che  un  individuo  può  prendere  a  tanto  lutto,  è  quella  di  unirsi 
agli  altri,  e  sospirando  ripetere  sommessamente:  —  Ei  fu.  — 

Quest'  uomo  singolare,  che  assistette  ai  più  grandi  rivolgimenti  del- 
l'epoca, non  iscrisse  una  sola  riga,  né  fece  un  solo  atto  che  non  fossero 
degni  di  ammirazione  e  di  lode. 

Purificando  senza  esagerazione  con  un  ideale  cristiano  di  fede  e  di 
carità  lo  spirito  nuovo  del  secolo  XVlIi;  egli,  guidato  da  uno  squisito 
e  affettuoso  senso  del  reale,  fu  il  più  grande  scrittore  della  nuova  let- 
teratura. 

Senza  mancare  alla  sua  fede,  egli  ebbe  in  cima  di  tutti  i  suoi  affetti 
l'unità  della  patria.  Ineffabbile  gioia  fu  per  lui  vederla  compiuta,  e 
mentre  altri  in  nome  della  religione  impreca  all'Italia  e  al  re,  la  pre- 
ghiera di  lui  morente  fu  la  sublime  espressione  dell'afTetto  del  patriota 
credente,  elevato  a  passione  di  artista. 

Il  terribile  contrasto,  che  nella  sua  grande  anima  si  risolveva  in  una 
celestiale  armonia  di  affetti,  è  momentaneo  e  passeggiero,  ovvero  è  anta- 
gonismo generatore  di  una  virtù  trasformatrice  destinata  a  preparare 
una  nuova  vita,  una  nuova  letteratura  e  un'arte  novella? 

L'Italia  non  sa  ancora  profferire  l'ardua  sentenza;  e  prima  che  le 
lettere  e  l'arte  non  diano  alcuna  cosa  di  grande  che  possa  pareggiare 
gV  Inni,  V  Ermengarda,  il  Cinque  maggio  e  i  Promessi  Sposi,  è  sgo- 
mentata dal  vedere  sparire  dalla  terra  la  grande  figura  dell'  uomo,  del 
quale  pareva  che  non  dovesse  mai  più  contare  gli  anni.  Essa  non  sa 
quando  un  genio  pari  a  quello  che  la  lascia  in  pianto  pos?a  essere  man- 
dato da  Dio  a  occuparne  il  posto. 

Vi  sarò  gratissimo  se,  facendo  le  parti  mie  con  l'egregio  Sindaco  di 
Milano,  voleste  esprimergli  questi  miei  sentimenti.  Intanto  gradite  una 
stretta  di  mano 

Dal  vostro  aff.  collega  ed  amico 

A.    SCIALOIA. 


—  Per  altre  notizie  relative  al  Manzoni  veggansi  ancora  specialmente 
i  fascicoli  di  luglio  e  d'agosto  1873,  della  Rivista  Europea.  Fra  i  titoli 
del  Manzoni  come  antico  patriota,  fu  da  noi  dimenticato  ne'  Ricordi  il 
frammento  della  canzone  pel  proclama  di  Rimini,  che  risale  all'anno  1815. 


—  XIII    — 


Alla  Città  di  Milano 

IN   MORTE   DI 

ALESSANDRO    MANZONI 


Fra  le  tue  mura  gloriose  il  piede 
Posi,  Milano,  e  dimandai  dov'era 
Il  precursor  di  nostra  primavera, 
Il  cantor  della  patria  e  della  fede. 

Un  vì'ator  cortese,  alla  severa 
Prontamente  guidommi  e  onesta  sede. 
Che  accolse  il  santo  di  Parìni  erede  ; 
Cadeva  il  sol  ;  sinistra  era  la  sera.  (I) 

GÌ'  idoletti  del  tempio  han  nulla  possa 
Sul  mio  cor;  ma  se  alcun  genio  l'attira 
Trema  l'anima  mia  tutta  commossa. 

L'orecchio  intendo;  fermo  il  pie;  la  lira 
Credo  a  novo  immortai  canto  già  mossa; 
Ahimè,  gemendo,  il  sacro  cigno  spira  ! 

Ang^elo   De   Gubernatis. 


fi)  Alessandro  Manzoni  abitava  in  Milano  la  prima  casa  della  via  del  Morone;  egli 
vi  spirò  la  grande  anima  nella  sera  del  22  maggio,  circondato  dagli  amici  più  intimi  e 
dai  parenti,  fra  l'ansio  di  tutta  Milano,  che  eboe  la  gloria  di  dare  i  natali  al  piu  gran 
poeta  italiano  del    secolo  XVIII  nel  Parini,  e  ad  uno  de' pochi    genii    del   secolo    XIX  , 


nel  Manzoni. 


II. 

PIETRO  GIANNONE. 

Quello  che   pensassimo   del    Giannone,   abbiamo    scritto    nel   Ricordo 
che  gli  fu  dedicato.    Temevamo   quasi   di   non   arrivare  più    in   tempo 
a    parlarne,    e    però    abbiamo  posta  una  certa  sollecitudine  nello  scri- 
vere di  lui.  Nel  leggere  quelle  pagine  che  gli  richiamavano  al  pensiero 
gli  anni  della  sua  giovinezza,  1'  uomo  venerando  versò   lacrime   di    te- 
nerezza,  e  tornò    con   giovanile  calore  a  riandare  quel  tempo  perduto. 
Egli  si  lagnava  da    un  anno  d'assoluta  inappetenza;  non  vi   era  cibo 
ch'egli   gustasse;   inghiottiva  per  obbedienza  al  medico,  ma  con  pena, 
come  se   ogni  cibo   gli    fosse    medicina    nauseabonda.   S'era   quindi  ri- 
dotto, dalla  testa  in  fuori,   sempre   animata   e   bella,   ad   uno   schele- 
tro.   Passava    lunghe  ore  abbattuto   in    una  fredda  solitudine,   che  gli 
eia  solo   temperata  dalle  cure   affettuose  di  una  vecchia  signora    fran- 
cese^    che   vivea    col   Giannone  da  ben  43  anni  ;    quando    qualche    gio- 
vine della  sua    Modena    veniva    a   visitarlo,   quando   qualche  amico  si 
recava  alla  sua  remota  dimora   per   chiedere    novelle  di   lui,   il  volto 
del  Giannone  s' illuminava  tutto  ed  era  commosso  di  gratitudine.  Dole- 
vasi  egli   della   sua   infermità  che   gli  contendeva    di  tener    dietro   a 
tanta  parte  di  quello  che  la  nuova  gioventù  italiana  veniva  operando,  e 
compiacevasi  sempre  quando  gli  cadesse   sott'  occhi   qualche  prosa  vi- 
rile 0  qualche  verso  inspirato  de'nuovì  poeti  d'Italia.  Ma  il  suo  pensie- 
ro  tornava  più  spesso  agli  anni  del  1821,  del  1831,    del  1848^  ne' quali 
il  suo  cuore  aveva  più  fortemente  battuto  per  la  patria,  ed  egli  amava 
pure  intendere  che  il  suo  Esule  non  fosse  ancora  dimenticato  da  tutti. 
L'imperversare  della  stagione  in  questi  ultimi  due  mesi  aggravò  l'il- 
lustre malato,  il  quale  finalmente  assalito   da   improvviso  catarro  che 
venne  ad  impedirgli  la  digestione  ed  il  respiro  fu  in  brevi  giorni  tra- 
scinato alla  tomba.  ?]gli  spirò  l'anima   generosa   nel  pomeriggio  del  24 
dicembre.  Lo  visitammo  il  23;  gli  stava  presso  al  letto  una  gentile  ni- 
pote di  Ciro  Menotti,  la  figlia  di  Celestino  Menotti,   superstite   fratello 
del  martire.  Com'ella  fu  partita,  egli  volle  spiegare  a  noi  chi  fosse  quella 


—  XV  — 
vaga  fanciulla,  e,  dopo  aver  lodato  lei  come  buona  quanto  leggiadra, 
amabile  quanto  felice  verseggiatrice,  si  provò  a  ricordarci  com'  egli 
avesse  conosciuto  ed  amato  i  Menotti,  e  come  Ciro  fosse  perito  ;  e  vo- 
leva ancora  dir  altro,  ma  in  un  mesto  sorriso  si  assopì.  Il  giorno  se- 
guente, pochi  minuti  prima  eh'  egli  morisse,  tornammo  a  lui  ;  ci  rico- 
nobbe, ci  strinse  la  mano,  ci  sorrise,  ci  ringraziò,  e  cortese  fino  all'e- 
stremo momento,  ci  domandò  scusa  s'ei  non  poteva  più  parlare,  s'egli 
non  poteva  più  intrattenerci  discorrendo  con  noi  :  «  scusate,  caro,  non 
posso  più  :  la  mia  testa  se  ne  va.  »  Egli  s'  assopiva  quindi  per  brevi 
istanti,  faceva  brevi  sonni  agitati,  e  balbettava  parole  confuse  ;  ride- 
standosi, gli  occhi  di  lui  si  aprivano  a  stento,  egli  li  volgeva  intorno 
errabondi,  e  quindi  per  uno  sforzo  estremo  di  volontà,  li  rendeva 
espressivi,  riconosceva  le  persone  che  gli  stavano  intorno,  domandava 
ancora  perdono  d'aver  detto  cose  prive  di  senso,  e,  dopo  aver  nuova- 
mente sorriso  a  tutti,  ritornava  ad  addormentarsi.  In  questo  modo 
l'anima  di  Pietro  Giannone,  in  pace  col  mondo,  si  partì,  lasciando  un 
vivo  rammarico  in  quanti  poterono  conoscerla  ed  ammirarla,  ed  un 
esempio  nobilissimo  ed  imitabile  ai  vivi  superstiti.  —  Il  trasporto,  as- 
sai troppo  affrettato,  della  sua  salma,  avvenne  il  giorno  di  Natale  ad 
un'ora  pomeridiana  ;  sulla  tomba  del  grande  patriota  italiano  disse 
calde  e  commoventi  parole  l' illustre  Atto  Vannucci ,  il  quale  insieme 
con  Napoleone  Giotti  si  fece  quindi  promotore  di  una  soscrizione  per 
inalzare  un  piccolo  monumento  alla  memoria  dell'autore  àeW  Esule. 


—  Un  gentile  amico,  un  egregio  letterato  dell'Alta  Italia  ci  scrive, 
dopo  aver  letto  il  Ricordo  del  Revere. 

«  Mi  pare  ch'Ella  faccia  il  Revero  imitatore  di  Prati,  o  almeno  che 
dica  com'egli  sarebbe  diventato  degno  imitatore  del  poeta  tirolese;  que- 
sto sarebbe  inesatto;  il  Revere  scriveva  poesie,  poesie  intendo  roman- 
tiche, di  quelle  che  or  si  chiamano  pratesche  prima  del  Prati;  il  Prati 
infatti  gli  diresse  dei  versi  in  cui  con  dignitosa  e  generosa  modestia 
confessa  d' aver  preso  dal  Revere 

L'aria,  l'abito,  l'accento 
Che  sì  novo  sì  svelò. 

Al  Torti,  amicissimo  del  Revere,  parvo  il  primo  genere  di  lui  troppo 
ardito,  ed  il  Revere  s'accostò  maggiormente  ai  classici.  » 


—  La  Storia  della  Repubblica  di  Firenze  di  Gino  Capponi,  che  né" Ri- 
cordi si  dice  dall'  Autore  venerando  destinata  a  pubblicarsi  postuma  , 
sarà  invece  pubblicata  verso  il  fine  dell'anno,  in  due  volumi  in  ottavo 
dall'editore  Barbera.  —  Dopo  che  fu  scritto  il  Ricordo  del  Capponi,  il 
Gabinetto  Vieusseux  passò  nel  palazzo  Ferroni.  Nel  palazzo  Buondel- 
monti  si  stabilì  invece  una  compagnia  d'Assicurazioni. 


EROAXA-CORRIGE 


p.  10  biografici  francesi, 
11  La  Cabanis, 

13  Loraanaco 

14  parsuasione 

15  chi  egli  ha  vinto 
17  pose  la  mano 

23-24  Edraengarda 

31  Francesco  Guerrazzi 

33  una  lodata  opera  in  musica    al    mae- 
stro Petrella 

35  pieno  zeppo  d' ingeno 

40  domaderei 

44  Cella 

53  quella  potenza,  accresceva 

62  col  Tabarrini ,  l'Antinori 

77  gaio  llunibug 

97  non  può  associarsi  al  CantU 
120  non  alieno  del 
122  quali  usciti 
133  poledrio 
171  il  Revere  ed  il  Dall'Ongaro  istriani 

173  ne  mi  sorvenne 

175  ricordato  come  primo 

176  gli  paresse 
178  senza  vergoua 

187  contessina  Carrara  Spinelli 

190  togliendesi  invece 

191  laureva 

194  Damiano  ma 

198  la  gloria  dei  Procida 

202  Le  Normand 

211  quanto  che  ho  sofferto 

232  non  che   sdegnarci 

243  rigenerare  Italia 

244  conte  Gardani 
262  delle  meditazione 

»    Harlincourt 
265  modestia  opinione 
267  il  libro  sul  Bello  del  Giordani 
319  Avevano  detto  al  padre 
330  Manieria  un' pò  vulcanica 

»    ricodato  da  lui 
333  1»  gennaio  1856 
340  Maleranche 
343  ed   altri  più  nobili 
389  negli  anni  maturi  ;  a  sentirsi 
399  Caterina  del  medico    Luigi    Carli  ,    il 
quale  gli  fu    come    secondo    padre  , 
della  Ben  Brenzoni 
407  versione  italiana  del  Faust 

416  il  Revere  ha  formata  per  ora 

428  si  spendono  attualmente 

429  preniii  per  concorso;  le  quali 
467  ora  arcivescovo  di  Pistoia 
473  traduttore  d'Esopo 

484  Nella  linea  12  dopo  la  parola  Fanfani 

il  modo  finclusive). 
■»     Rossi  Cassigoli  antico  suo   discepolo 

485  che    il   Rossi    Cassigoli    e    carissimo 

amico  ha 
497  dei  Zoncada  e  dei  Mongeri 

508  che  fanno  pure  di  lui 

525  Barlomeo 

535  e  di  storia  letteraria 

»     offesa  senza 
537  cometa  di  Hallei 


l''ggi  biografi 

»      Là  ,  Cabanis 

»       Lomouaco 

»       persuasione 

»       ch'egli  ha  vinto 

»       pose   mano 

»      Ermengarda 

»       Giulio  Carcano 

»      due  lodate  opere  in   musica   ai    mae- 
stri Petrella  e  Ponchielli 

i>       pieno  zeppo  d"  ingegno 

>'       domanderei 

><      cella 

»      quella  impotenza  accresceva 

»      col  Tabarrini,  il  Gotti,  l'Antinori 

»       gaio  llumbug  di  Laboulaye. 

»      non  può  non  associarsi  al  Cantù 

'>      non  alieno  dal 

»       i  quali  usciti 

»       poliedro 

»  il  Revere  triestino  ed  il  Dall'Ongaro 
friulano 

>,  né  mi  sovvenne 

»       ricordato  primo 

»      gli  pareva 

»      senza  vergogna 

X  contessa  Giulia  Carrara  Spinelli 

»  Togliendo  invece 

»  laureava 

»  Damiano  ;  ma 

»  la  gloria  del  Procida 

>.  Lenormant 

»  quanto  ho  sofferto 

>.  anzi  che  sdegnarci 

>>  rigenerare  l' Italia 

»  conte  Cardani 

!>  della  meditazione 

»  Arlincourt 

»       modesta  opinione 

»  il  libro  sul  Bello  del  Gioberti 

»  S'era  detto  al  padre 

>.  Maniera  un  po' vulcanica 

»  ricordato  da  lui 

>•  1"  gennaio  1865 

»  Malebranche 

»  e  parecchi  altri  nobili 

>•  negli  anni  maturi  a  sentirsi 

>■  del  medico  Luigi  Carli,  il  quale  gli 
fu  come  secondo  padre  ,  della  Ca- 
terina Boa  Brenzoni 

»  versione  italiana  della  prima  parte 
del  Faust 

»  il  Revere  ha  fermata  per  ora 

»  si  spendono  annualmente 

»  premii  per  concorso,    le  quali 

»  ora  arcivescovo  di  Siena 

»  annotatore  d'Esopo 
sopprìmere  tìno    alla   linea   15   alla   parola 

leg(/i  Rossi  Cassigoli  antico  suo   discepolo 
e  carissimo  amico 

»  che  il  Rossi-Cassigoli  ha  raccolto 

»  dei  Zoncada  e  dei  Mongeri,  dei  Mauri 

e  dei  Fava 

>'  che  fa  pn:«!  di  lui 

»  Bartolomeo 

»  e  sopra  la  storia  letteraria 

»  senza  offesa 

»  cometa  di  Hallev 


INDICE  ALFABETICO 


de'  nomi  di  persone  nominate  nel  presente  volume 


Acerbi  G 243 

Agnesi  Gaetana 193 

Agostini  Alamanno 159 

Airoldi  Cesare 204 

Alberghetti 225,482 

Alberti   A 332 

Aleardi  Aleardo  171 ,267.272. 

313,  Ricordo  396-404,  '408, 

444,  474,  485. 
Aleardi  Giorgio. .396,398,399 

Aleardi  Maria 399 

Alessandro  I.  (Tzarj..  ..  259 

Alizeri   Federico 497 

Alfani    Augusto 493 

Alfieri  Vittorio  55,  110,  111, 

220,  242,  282,  297,  307,  312, 

345,  386. 

Alfieri  Cesare 514 

Amari  Michele,  rio.  196-212, 

266,  384. 
Ambrosoli  Francesco...  176 

Ampère 321 

Anacreonte 182 

Andriane    Alessandro    245, 

248. 

Angiolini  Angelo 159 

Antinori  f cav.) 62 

Antinori   Vincenzo 294 

Antonini 219 

Aporti  ferrante 318,  520 

Arabia  Saverio 343 

Arcanseli   Giuseppe  61,224, 

225,467,473,474, 483,486,491 . 

Archiloco 439 

Arconati  (marchese) 251 

Ariosto  .52,  107,  148,  215,  345, 

396,525. 

Aristotile 362,372 

Aristofane 528 

Arlincourt   262,    Appendice 

XVI. 

Arnaudon    Lucia 439 

Arnaboldi  Alessandro. ..  333 

Arriano 116,516 

Arrivabene    Giovanni    234, 

rie.  240,  254,  425. 


Artico 522 

Ascoli  G.  I.   app.  VII. 

Azeglio  (Massimo  D' )  19, 
31,  34,  47,  48,  61,  119,  130, 
18S,  193,  204.  274,  276,  283, 
287,  420,  421  ;  445,  474,  475, 
527,  app.   IV. 

Azeirlio  (  Roberto  D'  1  266, 
268. 

Azeglio  (  Taparelli  padre 
L.  D') 292 

Bacone 148 

Balbo  Cesare  46,  48,  61,  64 

277,    278,     282,     320,    431, 

512,  514,   515,  516. 

Balbo  Ferdinando 46 

Balbo  Prospero 277 

Baldacchini  Saver.  370,371, 

app.   V. 

Baltus  (Giulia  de') 466 

Balzac 241 

Bandiera  (fratelli) 128 

Baratta  Francesco 331 

Barbèra    Gaspare    287,  372, 

396,  407,  412,  465,  536. 
Barbieri    Giuseppe  109, 111, 

294,  407,  430,  436. 

Barbieri  Zebedeo 490 

Bargellini  Tommaso 160 

Barlocci  Saverio 308 

Baroni  Clemente 191 

Barrili  A.  G.  497,  a^jp.  Vili. 
Bartolini    L.     257,    417,    418 

Bartoli  Daniello 137 

Barucchi  Francesco.  ..  .498 
Baruffi  G.  F.  498,  rie.  534-538 

Bassi  Elisa 436 

Bastiat 402 

Bathiany  (conte) 33 

Batines 314 

Battaglia  Alberto 94 

Battini  (padre) 44,45 

Beccaria  Cesare  10,  37,  83, 

340,  ajìp.   Vili. 


Beccaria  Giulia  9,  10, 11 ,  13 

Becchi   Fruttuoso 52 

Beiletti  P 498 

Belcredi  Cesare 94 

Belgioioso  Carlo 497 

Belin 359 

Bellini  Vincenzo. ..171,  257 

Bellini   B 525,  526,  529 

Belli  Gioacchino 441 

Bellinzaghi  Giulio,  app.YUl 

Bellotti-Bon   Luigi 462 

Belletti  Amilcare 462 

Ballotti  Felice 28 

Beltrani  Vito 209 

Bembo   Pietro 147 

Benci  Antonio 154 

Benini  Ada 39 

Benini  (avvocato) 482 

Berni 490 

Bersezio  V.  497,  app.  V. 

Berti    Filippo 25,  326 

Berti    Antonio 443 

Berti  Domenico  313,  497,  518 

Berlini    G 182,  497 

Bertoldi  Giuseppe  272,   435, 

497,  500. 

Bertolotti   Davide 453 

Besobràsoff  Sofia 3 

Betteloni   Cesare    171,    397, 

339. 

Betteloni  Vittorio 399 

Betti  Salvatore  301,  310,  525 

Bozzuoli  Giuseppe 474 

Bianchi  Brunone 311 

Bianchi  V.    app.   Vili. 

Bianchi  Celestino 463 

Biava    Samuele 116 

BindiEnrico224, 225, 267,483. 
Bini  Carlo  149,  152,  160,  382 

Blondel  Luisa 193 

Blondel    Luigia    Enrichetta 

14,  18,  25. 

Boccalini   Traiano 147 

Boito 268 

Boncompagni  Carlo  88,  282, 

514,  519. 


Bonghi    Ruggiero    39,    193, 

337,  rie.   367-375,  379,  416, 

475    e    seguenti,  app.   V. 

Bonaini  Fr 474 

Bonaparte   Carlo 53S 

Bon-Brenzoni  Caterina  171, 

339,  416,  475. 

Bonsteten 248 

Borbone  Ferdinando  (di)  196, 

202,  237,  372. 

Borromeo  V 186 

Borromeo  (cardinale). .  .193 
Borghi  Giuseppe. ..  .52,  525 
Borsieri  Pietro  186,  242,  243, 

245,  248,  425. 

Borrini  Luigi 394 

Bosio  Ferd 165,497,500 

Bossi    Benigno 243 

Botta  Carlo... 257,  277 

Botto  (fisico) 30S 

Botto   Luigi 498 

Boucheron  Carlo...  509,  518 

Bowring 66 

Bozzelli 358 

Bracci  Braccio 462 

Brandes    Gustavo 235 

Bredow 519,  522 

Breme  (Ludov.    di)  242,  243 

Briano  Giorgio 289,  497 

Brizio 377 

Brofferio  Angelo  79,  99, 103, 

440,  449,  453. 

Broglio  Emilio 38 

Brougham  (  lordi 282 

Bruno 338 

Buccellati  A 260,  289 

Buchon 202 

Buffier 85 

Buffon 188 

Buonarroti  Michelangelo457 

Buonazia  (padre) 473 

Buonazia  (tiglio) 207 

Burattini  (don) 488 

Burci   Carlo 228 

Biirger  (gov.  ] 187 

Bùrger 443 

Buscaino  Campo  Alber.  487 

Bustico  Giuseppe 498 

Butti 500 

Butti  (prof.) 101,  103 

Byron  18,   48,    83,   143,    149, 

"150,  151,  153,  177,  182.  260, 

262,  437,  439. 


Cabanis  11,  ap20.  XVI. 
Cabianca  Iacopo...  .171,192 

Caccia   Massimo 220 

Caccianiga  A.    app.  Vili. 
Caetani  Michelangelo  ,  rie. 

300,  306,  322. 

Caetani    Enrico 301 

Caimi   Antonio 181 

Caiani  Amelia 160 

Calandrelli 308 

Callimaco 258 

Calloud  P 462 

Calmet 109 

Calvi  Gottardo 193 

Calvi    Pietro 440 

Camerini  E 424,4i;6,438 

Camici 473 

Cammarota  G 343 

Campanella  (Tom.) 338 

Canini  Marcantonio  118,138, 

139, 171. 


—   XVIII    — 

Canovai  (padre) 44 

Cantù  Cesare  10,  31,  35,  rie. 

77-105,   120,    139,   188,   275, 

308,  314,  428,  444. 
Cantù  Ignazio..  54,  308,537 

CantU  Celso 80 

Capei  Pietro...  63,64,238,278 
Capellina  Domen  co  131,465, 

474,  499,  471,528. 

Capecchi    Icilio 487 

Capozzi    Enrico 343 

Capparozzo  G 442 

Cappelli  Antonio 198 

Cappello  Andrea 498 

Capponi  Gino  25,  31,  33,  34, 

rie.    43-68,  70,  74,  117,  123, 

141,  164,  211,  222.  224,  230, 

238,  278,  285,  286,  294,  297, 

300,  304,  322,  353,  402,  474. 

Capponi  Roberto 44 

Carcano    Giulio  10,   39,  rie. 

188, 193,  272,  394,  407,  app. 

IV,  IX,  XVI. 

Carcano   Maria 193 

Cardani  (conte)  244,  246,  247 

Cardella 294 

Carducci  Giosuè 130,487 

Carena  Giacinto 38 

Carina  Dino 250,252 

Carletti  Mario 85 

Carli  Luigi 399,403 

Carlo  Alberto  90,94,98,  127, 

265,  278,  310,  316.  421,432, 

438,  513,  518,  523: 
Carmignani  P....  149,150,294 

Carnè 265 

Caro  Annibale 177 

Carpi  (signora).... 204 

Carrara   Paolo 443 

Carrara  Spinelli  Giulia, app. 

XVI. 

Carraro  Giuseppe 443 

Carrer  Luigi  113,136,142,431, 

442. 
Carrera  Valentino..  .450,497 

Carrillo 235 

Carutti   Domenico 497 

Casa  Giovanni   (della).  .147 

Casalis   G 537 

Casati  Gabrio 372 

Cassetti  Antonio 357 

Cassi  Francesco.. ..... .254 

Castellani  F.    P...   302,  303 

Castelvetro  L 147 

Castiglia  Carlo  186,  243,  247 

Castiglione  B 147 

Caterina   (santa) 130 

Catone 338,227 

Catullo 171,337,  525 

Cattaneo   Carlo.  ...  101,  118, 

330,  331,340,419,421.  426. 

Cavalca 147,  259 

Cavalcanti    Guido 265 

Cavalcasene 268 

Cavetti 227 

Cavour   Cammillo    101,    104, 

132,  252,  255,  259,  282,  283, 

372,  413,  421,458,514,528, 

app.  XI. 

Cazzola  Clementina 455 

Cecchini  Giovanni    442,  443 

Ceccopieri  (gen) 445 

Cecchi  Eugenio 174 

Celentano  B 235 

Celesia  Emm.  497,  app.  VIII. 
Cellini 303 


Centofanti  Silvestro  51,  52, 
rie.  284-300. 

Centofanti   Vincenzo 295 

Centofanti  Giuseppe 294 

Cerrito  Fanny 452 

Cesare  Giulio 338 

Cesari  Antonio 526 

Cesarotti     Melchiorre     127, 

295,  407. 

Cesconi 401,  402 

Cfaarvaz 318 

Chatterton 443 

Chateaubriand 88 

Chantrel   J 200 

Chauveti  £l 

Chèuier 213 

Cherbonneau  203 

Chessevich  Caterina.. ..  107 

Ghiaia  Luigi 498,  520 

Chiari  Abate , 190 

Chiantore  ed.. 499 

Ciampi  Ignazio  app.  XI. 
Cibrario  Luigi  277,278,282, 

308,  314,  402,  514,  528. 
Cicerone    107,  338,  482,  483. 

498. 

Ciccherò  Luigi 224 

Cleoni  T 444 

Clcognara  (contej 47 

Cignaroli  Giambettino...397 
Cittadella  Andrea   270,  271, 

272,  431,  444. 

Civinini  Giuseppe 473 

Claudiano 396,  508 

Cobden  Riccardo    118,    140, 

329. 
Coletti    Ferdinando    Appen- 
dice VIII. 

Colombo  F.  R ;.372 

Colonna  Anna 445 

Colonnetti  Mauro ,527 

Colla  C.    E 525,  528 

Colletta  Pietro   48,    49,   64, 

235. 
Condorcet  (Madame  de).  11 
Contrucci    Pietro..  .469,  483 

Conti  Augusto 267,  471 

Gonfalonieri     F.     186,    242, 

243,  245,  246,  247,  248,  425 

Constant 236 

Ceppino    Michele    208,    212, 

272,  427,   rie.  497-507,  518. 

Corneille  (scult.) 144 

Corneille  (trag.) HO 

Corsini  Paolo 459,  489 

Cordova  Filippo 430 

Cornelio  Nipote 340,  342 

Correggio  258 

Correnti  Cesare  182, 187, 192, 

324,  406,  438,  497. 

Costa  Lorenzo 315,  509 

Costa  di  Beauregard 132 

Costa  Paolo  (prof.  )  171,  174. 

235. 
Costa  Paolo  (giurec.)..  .450 

Costabile  Francesco 340 

Cousln 28,  236 

Crocco  Antonio 313,  315 

Crescimanno  (march.). ...216 
Cuoco  Vincenzo  ,    app.  V. 
Curti  P.  A 497 

Dal   Bono 268 

Dall'  Ongaro    Luigi    inge- 
gnere  336 


DairOngaro  Francesco  103, 
171.267.  rie.  324,  317,417, 
jpp.  VII,  XVI. 
Dair  Onaaro  Maria  327.335, 
336,  422. 

Dandolo  Emilio 193 

Daneo  G.  app.  Vili. 
Dante.  52,  107.  115,  129,  130, 
143,  145,  174,  193,  285  293, 
295,  296,  301.  302,  304,  307, 
309,  e  se  e;;  326,  3?7,  333, 
345,  347,  348,  393.  435,  491, 
504. 

D'Arcais  Fr 414 

D'Aspre 288 

Dainelìi  Giulio 391 

Dazzi  Pietro 425.493 

Deak 140 

De  Anerelis 382 

De  Boni   Filippo 33') 

De  Castro   Vincenzo. .  ..267 
De  Cesare  Giuseppe..  ..309 

De  Curtis  Clemente 369 

De  Giibernatis  Ana-elo  135, 
208,  213,  256,270.271,326. 
327.  330,  337.  401,  425,  45r>; 
508,  516.  525,  532.  534.  535. 
app.  VIl-XIII. 

Delatre  Luigi. l«l 

Delavigue 26 

Del  Carretto 202,237 

Del  Castagno  Andrea.  ..400 

Del  Chiappa  G 525 

Delfante  Cosimo 154 

Del  Re    G 372 

De  Luca  Giuseppe 343 

Delviniotti 125 

De  Maistre 115 

De  Meis   Caramillo 343 

Demin    Giovanni 268 

De  Pietra  Giuli 376,377 

De  Renzi  Salvatore 198 

De  Rossi  Porzia 483 

De  Ruggiero 376 

De  Sanctis  Carlo 340 

De  Sanctis   Francesco    rie. 
337.  355,  356,  357,  372,  379, 
427,  app.  V,  VII,  Vili. 
De  Toscani  Giuseppe. .  .473 

De  Viry 132 

Di  Giovanni    Vincenzo.  .198 
Di  Negro  Giancarlo. .  37,313 

Diodoro 516 

Dione  Cassio 516 

Dionigi  d'Alicarnasso. .  116, 
516. 

Doehler  Teodoro 231 

Dóllinger 50,71 

Domeniconi  L. ..  452,453,462 

Donati  Cesare 463 

Donini  P.  L.  498,  rie.  524- 
530. 

Donizetti  G 257 

Dozv 203 

Dufòur 203 

Dugat 206 

Dumas  (figlio) 241 

Dupuis 209 

Elleraere    (Lord) 200 

Emiliani-Giudici  Paolo  200, 
267,  337,  403. 

Erodoto 516 

Errerà  Alberto 119,121 

Eynard  Carlo 70,74 


—   XIX   — 

Fabro 144 

Fabbri  Andrea 490 

Fabbretti  Ariodante 227 

Fanfani  Pietro  320,  484,  Hic. 

4S6-496. 

F"aufani   Francesco 487 

Fantacci  Giovanni 492 

Farini  Carlo   Luigi.  .219,372 

Parinola  Francesco 54 

Parinola    Paolo 62 

Fauriel  11,  13,  14,  17,  21  27 

Fava  Angelo 192 

Fazzini  farch.  ) 233 

Fazzini  (ftlos.) 340 

Ferri  Luigi 256 

Ferrari    Giuseppe    101.  330, 

361,  421,  497. 

Ferrucci  Michele 509,528 

Ferrucci  Crisostomo. ...  509 

Ferrigni    Pietro 463 

Filangieri  Gaetano.  .338.340 

Filangieri  (Min.) 371 

Fioravanti  Carlo 445 

Fiercutino    Francesco    337, 

406. 

Fiocchi   Eustachio 528 

Fiorelli    Giuseppe  368,  Hic- 

375-379. 

Finelli 310 

Finzi    Cesare 119.121 

Pinzi  fDep.) 90 

Firenzuola 116 

Fiquelmont 92.93 

Flores  Ferdinando 343 

Fontana   Giulia 193 

Porcellini 109 

Foresi  Raffaello 492 

Foscolo   Ugo  16.  19,  45.  47, 

48,  51,   55,  56,  57,  66,  136, 

141,  171,  193,  215,  218,  220, 

226,  228,  311,  396. 

Fossombroni 124 

Fossati   Spirito... 64,277, 878 

Pomari  Vito 337,357 

Fournier  app.  VII. 

Franscini  Stefano 93 

Franceschi  Caterina 259 

Franchi  Ausonio 330 

Prassi  G 55 

Freilgrath 213 

Frescobaldi  Marianna.. .   44 

Friddani  fBaron) 204 

Frimont » 217 

FruUani  Emilio  184,  rie.  386- 

396    433 
Frullani  '  Leonardo.  .386.387 
FruUani  Giuliano.  ...386,389 

Fulcheris  Pietro 534 

Fumagalli   Amalia 462 

Fusinàto  Clemente..  445,447 
Fusinato    Arnaldo  399,  rie. 

441-448. 
Fusinato  Fuà  Erminia  441, 

446,  app.  Vili. 


Gabba  Frane,  app.  Vili. 

Gallina   (Conte) 88 

Galileo 293,297 

Gallavresi  Rachele 80 

Gar  Tommaso 202 

Garat H 

Garelli    Felice 531 

Garelli   fDott.) 531 

Garelli  Vincenzo  42.  313,  498 
rie.  530-533. 


Gargallo  Tommaso 204 

Garibaldi  206,  219,  238,  329, 
332,  372,  447,  457. 

Garzoni 473 

Gayangos 203 

Gazzoletti  Antonio  171,  182, 
187,    192,  397,  399,  417,  441. 

Gargani  Gargano 394 

Gatti  Stanislao 371 

Galuppi  Pasquale 338 

Gelmetti  L 360 

Genovese  Antonio..  .338,340 

Gentili  Isidoro 335 

Germier 50.51 

Gessner 174,175 

Glierini  app.  IV. 
Gherardi    Del    Testa    Tom- 
maso 429,  rie.  459-465. 
Ghiringhello  G.  282,497,514 

Ghione  Maddalena 306 

Giacinto    Padre 71 

Giacometti  Fran.  Maria  450 

Giacometti  Maria  N 450 

Giacometti   Paolo   429,  rie. 

448-459. 
Giannone    Pietro    156,    rie. 

213-224,  app.  Ili,  XIV,  XV. 
Giardini  (Capo  Comico)  452, 

453. 

Gianni  Antonio 473,303 

Gibbon 384,516 

Gioberti    Vincenzo    61,  102, 

103,  261,  263,  267,  288.  292, 

317.  468,  469,  474,  492,  app. 

XVI. 
Giordano  Pietro,  30,  31,  33, 

38,  45,  48,  49,  257,  267,  310, 

525,  528. 

Gioia  Melchiorre 114 

Giorgini    Gian.  Batt.  35,  40, 

74,  75,  272,  400,   Appendice 

VIL 

Giovanetti 464 

Giovannetti 528,356 

Girard  73 

Girelli  Luigi 498 

Giotti  Napoleone,  app.  XV. 

Gì  ucci  G 303 

Giuliani  Gio.  Batt.  62,92,255, 

301   rie.   306-324,  474,  485, 

531,  app.  Ili,  VII. 
Giuliani  Paolo,  306,  307,  318, 

319. 

Giuliani  Rinaldo 191,193 

Giulio 512 

Giuria    Pietro 26,497 

Giuseppe  Secondo 83 

Giusti    Pietro 268 

Giusti    Giuliano 294 

Giusti    Giuseppe  19,  33.  34, 

35,  38.  39,  47,  48,  49,  52,  53, 

54,  55;  74,  106,  182,  220,  224, 

228,  230,  396,402,431,441, 

461. 
GoethelS,  19,21.37,174,  177, 
181,  182,  183,  347,408,  412. 

Goldoni   Carlo 257,525 

Goldsmith 190 

Gonzaga  Principe 247 

Gorgosky 187 

Górre  s 50 

Gotti  Aurelio  app.  XVI. 

Covone   Francesco 499 

Gozzadini  G 400 

Gozzi   Gaspare 123 

Gradi  Temistocle. ..,..  .524 


Graraantieri 322 

Granatelli  Principe 204 

Grassi  Giuseppe 112,278 

Grassi  Francesco 483 

Grassotti 399 

Greco  Lorenzo 343 

Gregorio    Decimosesto.. .  91 

Grimm  Fratelli 465,4(59 

Grillenzoni  F 38,257 

Grossi  Tommaso  27,  31,  34, 
35,  54,  187,  188,  191,  193, 
213,  28S,  393,  419,  437. 

Grote 384 

Guacci   Nobile    Giuseppina 

309. 
Guadagnoli  Antonio  441,  444, 
447. 

Gualdi  Andrea 493 

Gualterio  F.  A.    70,  71,  127, 

Guastini 294 

Guasti    Cesare 473 

297. 

Guerrazzi  Donato 144 

Guerrazzi     Francesco,  144, 

159. 
Guerrazzi  Francesco  Dome- 
nico (31  e  app.  XVI)  54, 
127,  rie.  143-171,  219,  220, 
263,  350,  420,  421,  428,  468, 
469,  474  510. 

Guerrazzi  Piero 153 

Guerrieri  Gonzaga  Ansel- 
mo,   192,  399  ne.  405,  414. 

Guerrieri  Agostino 401 

Guicciardini    Frane 257 

Guicciardini  Piero 389 

Guidi   Luio;i 254 

Guigoni    M 235 

Guizot 90,236 


Halley  537  app.   XVI. 

Base 202 

Hayez  Francesco 182 

Heine 166,  425 

Heeren 519 

Hegel 344,  345,  347 

Herwegh 213 

Hoffmann 262 

Hugo  Victor  18,  83,  213,  262, 

422. 
Hùlsemann... .    '. 370 


Imbriani    Paolo  Em.    a-pp. 

Vili. 
Imbriani  Vittorio  181,  app.'V. 

Imbonati  Carlo 9,    12,  13 

loppelli  (arch.) 268 


Klenker 370 

Klopstok 175,   176,   177 

Rock  (Paul  dej 241 

Kórner 213 

Kiibeck  (baron j 119 


Laboulaye  app.   XVI. 

Lace  Agostino 498 

Lacordaire 317 

Laderchi  (conte) 246 

LafarinaG.  101,130,200,226 

Lallebasque 309 

Laraarmora  .'Alberto 92, 

314. 


—   XX   — 

Lamartine 26,  503 

La  Margherita  (conte  Sola- 

ro) 263 

La  Masa  Giuseppe 129 

Lamljraschini  Luigi 68 

Lambruschini    Raffaelle  39, 

57,  59,  62,  rie.  68-77,  app. 

III. 

Lambruschini  (vescovo).  68 

Lambruschini  (cardinale]  68 

Lamraenais     112,    141.    236, 

402,  499. 

Lancetti 28 

Lanfranchi  Vincenzo.. ..  49S 

Lapi  Camillo 389 

Lavater 57 

La  Vista  Luigi  343,  345,  382, 
383,  384. 

Lazzari 522 

Leigheb  Giovanni. .454,  455 

Le  Monnier  Felice  182,  187, 

192,  203,  204,  298,  311,  392, 

388,  407,  408,  423,  492,  512 

Lenormant 202 

Leoni  Carlo 118,  130,  138 

Leopardi  Giacomo?,  31,  32, 
48,  49,  57,101,213,220,230, 
231,  232,  235,  236,257,  350, 
396. 

Leopardi   Paolina 229 

Lessona  M 502,  505 

Lettronne 202 

Levrero    Antonietta 63 

Libri  Guglielmo  57,  149,  294 

Lignana  Giacomo 130 

Limberti 467,  473 

Livio 144,    171 

Loescher  Ermanno 225 

Lomonaco  Francesco 13 

ai'p.  V,  XVL 

Longfellow 335 

Longperrier 203 

Lorena   (Leopoldo) 238 

Losana 520 

Lovatelli  Ersilia 305 

Lovatelli   Giacomo 305 

Lucrezia ...  .110,  254 

Lucano 254,  50S 

Luciano 359,   361 

Luines    (duca  di) 203 

Luigi  Filippo 90 

Lutti    Francesca    172,    183, 
184,  185. 

Lutti  Vincenzo 184,  185 

Lutero. 311 


Mabellini  Torquato 473 

Mabellini  Teodulo 473 

Mabil  Luigi 112 

Macaulav 384 

MacchiaVelli  143,    144,    161, 

165,  197,  201,  385,  493,  525 
Mackenzie,    app.    VII. 

Maestri    Pietro 426 

Maffei  Andrea   51,    rie.  171- 

188,  192,  337,  394,  397,  408, 

409,  410,  411,412,  485,  app. 

VIII. 

Maffei  Giuseppe 171 

Maffei    Scipione 171 

Magliano  .agostino 343 

Mai   Angelo 68,  52S 

Majo  (  generale) 199 

Malebranche , . .  ..  340 

Malanima   Cesare 294 


Mameli  Goffredo 213,  315 

Mamiani  Terenzio  130,  rie. 
254-267,313,  351,  395,  427, 
439,  458,   531. 

Mancini  Lorenzo 294 

Manfroni    Francesca. ..  .435 
Mangini  Antonio  168, 169,170 

Manin   lldegarde 437 

Manin  Daniele  119,  120,  121, 
122,  123,  126,  132,  138,  139, 
140,  402,  408,    437. 
Mannelli  Galilei  Luigi..  395 

Manno   Giuseppe 528 

Mannucci  Michele 130 

Manzoni  Alessandro,  Ricor- 
do 9-43.  48,  82,  101,  102, 
115,  116,  124,  132,  183,188, 
189  190,  193,  213,  2lS,  247, 
243,  264,  278.  286,  287,  238, 
289,  290,  29L  304,  345,  348, 
350,  351,  357,  366,  372,  406, 
419,  430,  437,  438,471.  474^ 
e  seg  ,  4S7,  500,  504,  531, 
app.    Ili,  XIV. 

Manzoni    Francesca 11 

Manzoni  Renzo,  app.  VII. 
Manzoni  Pietro  (padre).   IO 
Manzoni  Pietro  [figlio)  app. 

VII. 
Manzoni  Vitt.,  Giulio,  Ales- 
sandro, app.   VII. 
Marchetti  Giovanni  235,  312, 
396. 

Marenco   Leopoldo 497 

Maret 317 

Marini   G.    B 396 

Marinovich  Antonio  112,  113 

Maroncelli    Piero 246 

Margaris  Costantino. ..  .370 

Marselli  Nicola 343 

Martini   Ferdinando 463 

Marvasi  Diomede 343 

Maspero  Paolo 184-186 

Massimiliano  (Arcid.)  100, 
101,  102,   103,  120,  141. 

Massari  Giuseppe 315 

Massarani    Tulio 497 

Matteucci  Carlo 57,351 

Mauri    Achille...  175,184,187 

app.    X. 
Mazziiii  Giuseppe  20,  57, 142, 
143,  144,  154,  155, 158,  160, 
164,   167,  218,  426. 

Mazzoni 489 

Mazzoldi   Angiolo 525 

Mazzucato  (Maes.) 186 

Melan  Sebastiano 109 

Menandro 327 

Menabrea  Federigo..  228,471 

Menin    Ludovico 268 

Menotti  Ciro  app.  XIV. 
Menotti  Celestino  app.Xiy. 

Merlo  Giovanni 204 

Merighi  V 443 

Messedaglia  Angelo  406, 
app.    Vili. 

Metastasio 503 

Michelet 202 

Michiel  Giustina 47 

Milanesi  Gaetano 320 

Milli  Giannina 351 

Milton 176,178 

INlinervini   Giulio 376 

Min  ghetti  Marco  rtpp.  Vili. 
Minischalchi  Francesco.  203 
Mirelli  Francesco 215 


Mistrorigo 442 

Mickiewicz 213 

Modena    Gustavo.    329,  433. 

452. 

Molini  Giuseppe 52 

Momrasen.... 516 

Mompiani 242, 24S 

Mongeri  Giuseppe  . .  192,497 
Montani  Giuseppe  25,  31,  33, 

57,  226. 
Montanelli  Giuseppe  53.70, 

75,  192.  219,  297,  421,  431. 
Montazio  Enrico  52,  2S6,  425, 

491. 
MonterredineFrancesco.343 

Montesquieu 14S 

Monti   Osvaldo 442 

Monti    Vincenzo    26,  27.  41, 

48,    51,    107,  114.  171.  174, 

175,  177,  182,  244,  245,  451. 

Moore 174,178,182 

Morando  Paolo 403 

Mordini  Antonio 206 

Morelli  Giovanni 50 

Morelli  Domenico 235 

Mori    Amedeo 110 

Mori  Attilio 457 

Moris 282,514 

Morone  Giovanni 2S3 

Morosi  P 294 

Morrò  Giuseppe 315 

Morselli 216 

Mortara  A.   E 525 

Moschini    (Can.  ^ 309 

MùHer  Gio 94 

Mailer  Max 473 

Multani  Lorenzo 403 

Muratori    Ludovico  90,  193, 

279,  516. 
Murraj' , 47 

Nannucci 487 

Napoleone  primo,    108,   146 
193,  426. 

Napoleone   terzo 123 

Natoli  fbaroDe) 209 

Naville 73 

Negri   Cristoforo 416 

Nerucci  Gherardo,  463,  464, 
473,  app.    XVI. 

Nerucci  Elisabetta 474 

Niebuhr 516 

Niccolini  G.  B.  25,  30,  31, 
32,  46,  47,  49,  50,  51,  52, 
53,  55.  56,  66,  91,  irì6,  164, 
170,  175,  176.  181,  191,  198, 
220,  224,  225,  227,  228,  235, 
236,  2.57,  267,  284,  285,  286, 
294,  296,  297,  298,  396,  310, 
312,  389,  399,  403,  451,453, 
473,  474,  525,  528. 
Niccolò  (tzarj    117,  231,  259 

Nobili 473 

Nota  Alberto.  .  .257,  453,  525 

Novi  Giovanni 343 

Novi  Giuseppe 343 

Obbos 340 

O'Connel   Daniele 140 

Odorici  Federico. ..402,  497 

Olivieri  (raonsig  ) 257 

Ombrosi  Maddalena 386 

Omero  52,  107,  148,  177,  345, 
470. 


—   XXI   — 

Orazio 434,  442 

Orsini  Felice 432 

Ovidio 337 

Ossian 14S 

Ozanam    316,   317,  318. 

Pacchiani  Francesco. ..  T49 

Pacini  Filippo 489 

Pagliano  E 235 

Paglianti  L 406 

Paggi    (edit.) 469 

Pagnini    Francesco 4Sg 

Palagi 107 

Palizzi   F 235 

Pallavicini  Trivulzio  186,247 

Palmerston 92 

Palmieri 382 

Palmieri  Niccolò 205 

Panattoni  (avv.  j 53 

Pandolfiiii 147 

Panizzi  Antonio 360 

Paoli    Cesare 416 

Papa   Antonio 3i5 

Papadopoli    fconte) 32 

Paravia     Pier     Alessandro 

131,  308,309,453,499,  506, 

510,  512. 

Parchetti  Luigi 309 

Pareto   Lorenzo 313 

Parini  Giuseppe  19,  82,  83, 

419,  434,  app.    XIII. 
Parker    (ammiraglio).. .  205 

Pasini  (fratelli) 441 

Passavanti 148 

Passerini    (prof.) 69 

Passeroni    Carlo 193 

Pasta  Giuditta SI 

Pausania 516 

Pazzi  Eleonora  (de)... .468 
Peochio  Giuseppe    242,  243 

Pedrazza   Pietro 443 

Pellegrini  V 294 

Pellico  Silvio  l'^ì,  19,  20,  85, 

213,  242,  543,  244,  246,  251, 

251,  425,  431,  435. 

Peluso 101,   102 

Pepoli  Carlo 235 

Pelzet  Maddalena 25,  47 

Pepe    Gabriele 57,   123 

Peranni  Domenico 204 

Peri  Felice 487 

Peroglio  Celestino  498,  517 
Perticari  Giulio  114,  1 15,  254 
Peruzzi  Ubaldino    416,    473, 

474  app.   VIL 

Pesci   Adele 531 

Pestalozzi 73 

Petofl 213 

Petrarca  155,  171,  215.  347, 

348,  396. 

Petrella  Enrico 33 

Petrucelli  della  Gattina  339 

Peyretti  Gabriella 280 

Peyron  Amedeo 278 

Pezzana  Angelo 525,528 

Pezzati Il7 

Philippis 50 

Picei    Giuseppe 469 

Pieri     Mario    27,  31,  32,  48, 

08,  127,  224.  295. 
Pietrasanta  (principessa). 25 

Pietracqua  Luigi 497 

Pindaro .' 439 

Pindemonte     Ippolito,    171, 

396,  397. 


Pinelli  Alessandro 315 

Pini  Giovanni 525,526 

Pio  nono  92,  120,  l4l,  149, 
263,  286,  314. 

Pirker    Ladislao 175 

Pisanelli,  app.  V. 

Pitagora 298.299 

Pitrè  Giuseppe  227,  236, 490, 
537. 

Plana    Giov 512 

Platen 176,177,180 

Platone 256.369,371 

Plauto 524,525,526,527,528 

Plotino 369 

Plutarco 145,435 

Podesti .310 

Poerio  Carlo  ed  Alessan- 
dro 57,  117,   123,  213,  358. 

Poivin .331 

Poi 102 

Polidori   F.    L 52 

Poliziano 396 

Pomba  Giuseppe  89,  128,  279, 
513,   519. 

Pont  (barone). 101,103 

Ponta    D.    M.     G.    308,  309, 

310,  318. 
Porro  (conte)    186,  242,  243, 
246,  492. 

Porta  Carlo 213,241 

Possien    H 200 

Potenti 490 

Prati  Giovanni  171,  267,  272, 
307,  320,  394,  390.  397,  399, 
401,  414,  4l5,  418,  419,  Ri- 
cordo 430,  441,  443,  444, 
453,  npp.   Vili,  XV. 

Prati    Carlo 435 

Prati  Ersilia.  . .   436 

Puccini  Aurelio 150 

Puccini    Niccolò 298 

Puccinotti  Francesco  294, 
474. 

Puccioni    Piero 463 

Pulszki    Francesco 326 

Puoti  Basilio   308,  337,   340- 

47,  356,  357.  382,  525,  528. 

PuUò  (conte) 99 

Quinet 331 

Quintiliano 508 

Radclille 147,   148 

Raffaelli 473 

Ragazzi 527 

Raiberti   Giovanni 441 

Ranalli  Ferdinando   85,  337 
Ranieri  Antonio  64,  rre.229- 

240,  250,  278. 

Ranieri   Paolina 229 

Ranieri  (arciduca) 94 

Rapisarcli   Mario. ..  327,  335 

Ravina  Amedeo 213,  504 

Rebizzo  Bianca.  ...  255,  313 

Redi    Fr 526 

Regaldi  Giuseppe..  .87,  497 

Regnoli    (prof.) 50 

Reina l27 

Reinaud 202 

ReleiefT. 213 

Restani  (abate; 99,  100 

Reumont  Alfr 474 

Revere  135,  171,  riV;  414-431, 

448,    520,    app.  XV,  XVI. 


Riboli    Timoteo 457 

Ricasoli  Bettino 328 

Riccardi  Vincenzo 497 

Riccardi    Vernaccia    (mar- 
chesa J 54 

Ricciardi  Giuseppe 358 

Ricci  Vincenzo ■.  .313 

Ricci  (Lapo  de') 70,  73 

Ricci   Matteo 276 

Rich 327 

Ricotti  Ercole  46    277,  278, 
384,  498,  rie.  511-516,  518. 

Ricotti    Mauro 512 

Ridolfl  Cosimo  56,  59,  64,  70 
73,  124,  389. 

Riego 213 

Riga 213 

Rigatini  G.  493,  525,  a-pp.  Ili 
Ristori   Adelaide    329.    454, 
456,  457,  460. 

Ritschl  ..'. 509 

Robertson 384 

Robolotti  Francesco. ...  525 

Rocca  Luigi 497 

Rodino 382 

Rogier 252 

Romani  Felice  310,  432,453, 

528. 
Romagnosi  Domen,  57,  419 

Ronchini  Amedeo o2S 

Rosa    Gabriele 88,497 

Rosa  Norberto 441 

Rosa  Salvatore 397 

Roscoe ..384 

Rasenkranz 347 

Resini   Giovanni. ..  .31.  350 
Rosmini  Antonio  62.  63,  73. 
109,   HO,  111,  113.  115,  116^ 
129,  264,  372,  427. 
Rossari,  apj).    VI. 

Rossetti   Domenico 416 

Rossetti  Gabriele    213,  215, 

216,  217,  244,  311. 
Rossi  Ernesto  334,  455,  456, 
457. 

Rossi  Alessandro 441 

Rossi  Pellegrino. ..248  ,250 
Rossi   Vitaliano,  apu.  IV. 

Rossi    Cassigoli 484 

Rossini  Gioacchino.   ...254 
Rota  Giuseppe....  411,  497 

Rousseau  Alt' 203 

Rousseau  Giang.  ...45.  127 

Rouget  de  l'isle '.213 

Rovani  Giuseppe 497 

Rovida  C 527 

Rubieri  Ermolao 198 

Ruffini  Agostino 531 

Rufflni    Giov 531 

Ruffo    (marchese) 204 

Rzewuska  Calista 305 

Sabbatini  Giovanni 448 

Sadowski  Fanny 454 

Saglio  Luisa.  ..  .454,455,456 

Sainte-Beuve 13,17 

Salinas  Antonio 266 

Salvi  (Censore) 99 

Saleri  Giuseppe 525 

Sallustio 338 

Saluzzo  Cesare.  .518,519,522 

Saluzzo  A 277 

Salvini  A.    L 452 

Salvini    Tommaso  329,  332, 
452,   455,  456,  457,  462. 


—   XXII   — 

Salvi 406,487 

Salvagnoli  Alessandro..   39 

Salvotti 85,244 

San  Marzano 315 

San  quinti  no 3 14 

Santoni  Carolina 453 

San-Martino  (Duca) 204 

Sanna-Sanna 167 

San  Tommaso,  73,   115,  259. 

338. 

Santarosa  Pietro 277 

Santarosa  Santore. .  209,277 

Sanvito 85 

Saredo  Giuseppe 256 

Sarego  Alighieri  !S'ina..400 

Sarti  Emilio 301 

Sartorio  Michele 116 

Sartori  Iieonzio 43 

Sauli 277.283,314 

Savonarola . .  381,384.385.435 
Scalvini    Giovita    242,  244. 

245,  248,  411. 
Scartazzini  G.    A. ...486,494 
Schiaparelli  Luigi.. .  498,515 
Schiaparelli  Celestino...  207 

Schiff  Maurizio 60 

Schiller  18, 176,  177, 178,  182, 

347,  351,  451. 

Schelling 207 

Schleiermacher 370 

Schnackenburff 474 

Schroeder  .1.   t 200 

Scialoja  Ant.  514,  app.  XI. 

Scinà  Domenico 197,198 

Sclopis  Ca'-'.o 279 

Sclopis  Federico  57,  64,  83, 

>■!>.    274-285,  304.   512. 

Scordia    (princ.) 204 

Scotti  Ang.    Ant 235 

Scott  Walther  190,  197  app. 

vn. 

Secco  S jardo  B 525 

S^dl'nszki • 93 

Sega 130 

Segneri 137 

Selvatico  Pietro,    rie.     267- 
274,  428. 

Sella  Quintino 518 

Sella  Rey  Clotilde 518 

Seneca 508 

Senior 251 

Sestini  Bartolomeo  213,215, 

216,  217,  459. 
Settembrini    Luigi    37,  286, 
i       288,  337,   rie.   355-367,379. 

Settembrini  (Padre) 355 

Settembrini  RaflF.  (tiglio  )  360 

Sgricci 216,217 

Schiassi  Filippo 509 

Signorini  Pinzauti  Clemen- 
tina 487. 
Silvestri  Giuseppe  225,  467, 
473,  474,  489. 

Siracusa  (conte  di) 204 

Sismondi 248,294,468,474 

Skakespeare. .  18,177, 194,451 

Slane 212 

Sofocle -...296 

Soldati  Francesco 525 

Somma  Antonio  .  187,399,4i7 

Smiles 246 

Spada  Lavinio 149 

Spaur 94 

Spano    Gio 497 

Spagliardi.  app.  VI. 
Spaventa  Silvio  .344,359,360 


Spaventa  Bertrando 337 

Speroni. 147 

Spinoza 340 

Spotorno    G.    B 146,147 

Stabile  Mariano 264 

Stampa  Soncino  Cesare.    94 
Stefani  Guglielmo  401,   442, 
443,  444. 

Stella  F.    A 32,114,174 

Sterne 166,425 

Strazza  G.    app  VI. 

Strocchi  Dionigi 310 

Suner  Luigi 462 

Susani ,..   .  101,  102 

Svdenham '. 370 

T'abarrini   Marco 62.287 

Tacito 144 

Taddei    L 452 

Tamburini    Gaetani   Nicola 
344,   345,  402. 

Tamburini 83 

Tanf  ni    Leopoldo 295 

Tanfani  Emilio 487 

Tari  Antonio 267 

Tartini  Ferdinando 389 

Tasso  91,107,193,455,483.500 
Teano  (On.    princ.    di)..  305 

Tedeschi  Paolo 360 

Telesio 338 

Tenca  Carlo  272,  406,  438,497 

Tenerani  Pietro 302,310 

Teotochi-Albrizzi     (  contes- 
sa) 247 

Teora  (Principe  di) 215 

Terenzio 526 

Testa   (Dottor) 336 

Testa  Francesco 30 

Teste 249 

Thierry 202 

Thiersch 50 

Thouar  Pietro.  .55,59,75,130 

Thuun  Matteo 172 

Tigri  Giuseppe  61.225,  rie. 
464-486. 

Tigri    Luigi 466 

Tigri  Atto 466 

Tigri  Emilia 466 

Todeschini,    app.    IV,  VI. 

Tola  Pasquale 497 

Tommaseo  Gerolamo.. . .  107 
Tommaseo  Niccolò  29,  30, 
31,  49.  57.  69,  73,  81,  rie. 
106-143.  171,  222,  296,  300, 
402,  423,  427,  428,  474,  483, 
434,  535 

Tonello 282 

Torelli    Giuseppe    416,  425, 
app.  IV. 

Torresani 93 

Torti  Giovanni  419,  437,  500, 
app.  XV. 

Tortolini  Barnaba 308 

Tracy 11 

Trechi    (barone] 25 

Treitschke 413 

Treves    Em.    226.  app.  VI. 
Trova  Carlo  64,  236.  265,  278, 

3(59.  311,  371. 
Trovsi 204 


ITda  (fratelli) 497 

Ugolini   F 474 

Ugoni  Camillo  242,248,525, 

528 
Ugoni  Filippo 242 


Valerio   Lorenzo 130 

Vallauri  Tommaso  131,  498, 
506,   rie.  507-511,  525. 

Valussi  Pacifico 329 

Vannucci  Atto  31,  52,  53, 
91,  176,  181,  1S4,  191,  222, 
rie.  224-229.  236,  283,  310, 
389,  465,  467,  469.  471.  473, 
474,  491,  521,  app.  XV. 

Vanzolini    Giuliano 254 

Vapereau 235 

Varano  Alfonso 220 

Varese 28 

Varese  Casimiro 443 

VaiTone 333 

Vaselli  (prof.) 35 

Vauvenargues 183 

Vela  Vincenzo 182 

Veladini 310 

Venturi 187 

Ventura  Giovanni 452 

Verdi  Giuseppe 132 

Vernon  (lordj 52 

Verri  Pietro 10,  83 


—  XXIII  — 

Vertunnl 235 

Vesrae  Carlo  64,  277,  278,  497 

Vico  G.   B 256,  3:^8 

Vidua    Carlo 46 

Vieusseux  Eugenio.  .60,  73 

Vieusseux.    Giampietro    31, 

32,  49,  55.  56.  57,    58,    59, 

60,  69,  73;    116,    117.    128, 

129,  132,  467,  474,  494. 

Vigliezzi 101,  102,  103 

Vigo    Salvatore 193 

Villari  Pasquale    337,    346, 

368,  rie.   379-386. 

ViUeraain 202,  204,  236 

Vimercati 95 

Vincenti 292 

Virgilio  107,    108,    115,    129, 

130,  171,  177,  259,  357,  345, 
396,  399,  435. 

Visconti-Venosta    Emilio  , 
185,  app.  XI. 

Visconti  Ermes 247 

Vitarelli 336 

Vitrioli  Diego 509 


Vittorio  Emanuele    II,   275, 
372,  447. 

Volney 11 

Volta 81 

Voltaire....  43,   77,  148,  176 
Vogel  di  Volgelstein.  ..310 


Walther 50,   51 

Weil 203 

Weise 353 

Wimpffen 387 

Witte  Carlo... 310,   321,  474 


Zalotti  Paride  82,  83,84,85 

Zambelli  Pietro 51 

Zamboni 399 

Zanella  Iacopo 171,  181 

Zannetelli 445 

Zannoni  (abate) 44,  45 

Zobi  Antonio 474 

Zoncada  Antonio 497 

Zucchini  Rosalia 295 


INDICE  DE' RICORDI 


Proemio l'aa.     5 

1.  Alessandro  Manzoni »  9 

^11.  Gino  Capponi »  13 

III.  Raffaello  Larabruschini »  68 

IV.  Cesare  Cantù »  77 

V.  Niccolò  Tommaseo »  106 

VI.  Francesco  Domenico  Guerrazzi »  1 43 

VII.  Andrea  Maffei »  171 

Vili.  Giulio  Carcano »  188 

IX.  Michele  Amari »  196 

X.  Pietro  Giannone »  li  13 

XI.  Atto  Vannucci       »  224. 

+XII.  Antonio  Ranieri »  'J29 

XIII.  Giovanni  Arrivabene »  ^40 

j.  XIV.  Terenzio  Marni  ani »  :ì54 

XV.  Pietro  Selvatico  Estense »  267 

XVI.  Federigo  Sclopis .  »  ^74 

XVII.  Silvestro  Centofanti »  284 

XVIII.  Michelangelo  Caetani »  300 

^XIX.  Giambattista  Giuliani »  306 

■vXX.  Francesco  Dall' Ongaro »  324 

XXI.  Francesco  De  Sanctis 337 

XXII.  Luigi  Settembrini »  355 

XXIII.  Ruggiero  Bonghi »  :!67 

XXIV.  Giuseppe  Fiorelli •  »  375 

XXV.  Pasquale  Villari »  379 

XXVI.  Emilio  Frullani »  386 

XXVII.  Aleardo  Aleardi »  396 

XXVIII.  Anselmo  Guerrieri-Gonzaga »  405 

XXIX.  Giuseppe  Revere »  414 

4.  XXX.  Giovanni  Prati »  431 

XXXI.  Arnaldo  Fusinato >^  141 

XXXII.  Paolo  Giacometti »  448 

XXXIII.  Tommaso  Gherardi  del  Testa »  4.59 

XXXIV.  Giuseppe  Tigri »  i6o 

XXXV.  Pietro  Fanfani »  486 

XXXVI.  Michele  Coppino »  497 

XXXVII.  Tommaso  Vallauri »  507 

XXXVIII.  Ercole  Ricotti »  511 

XXXIX.  Luigi  Scliiapareili »  516 

XXXX.  Pierluigi  Donini »  .524 

XXXXI.  Vincenzo  (barelli »  530 

XXXXIl.  Giuseppe  Filippo  Baruffi »  534 

Conclusione »  538 


PQ      Gubernatis,  Angelo  de,  conte 
4-057       Ricordi  biografici 


G8 


PLEASE  DO  NOT  REMOVE 
CARDS  OR  SLIPS  FROM  THIS  POCKET 

UNIVERSITY  OF  TORONTO  LIBRARY