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Full text of "Rime;"

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SCELTA 


DI 


OURIOSITÀ  LETTERARIE 

INEDITE    0    RARE 

DAL  SECOLO   XIII    AL    XVII 

iii  Appendice  alla  Collezione  di  Opere  inedite  o  rare, 


DISPENSA    CLX. 
Prezzo  Ij.  0,  50. 


Di  questa  SCEIjTA   usciranno  otto  o  dieci   volu- 
metti all'anno:  la  tiratura  di  essi  verrà  eseguita  in 
numero  non  maggiore  di  esemplari  202:  il  prezzo  sarà 
i»    uniformato  al  num.  dei  fogli  di  ciascheduna  dispènsa, 

alla  quantità  degli  esemplari  tirati:  sesto,  carta  e      1 
:"nteri,  uguali  al  pr---*^  fascicolo. 

Gaetano   Bomagnoli. 


VOLUMI  GIÀ  PUBBLICATI.  (') 


1.  Novelle  d'incerti  autori  (Esaurito) L.  o  — 

2.  Lezione  o  vero  Scalamento  di  M.  Bartolino  ....  «  5  ~ 

3.  Martirio  d'  una  Fanciulla  Faentina "  1  25 

4.  Due  novelle  morali "  1  ^>^ 

5.  Vita  di  Messer  Francesco  Petrarca  ^ »  1  25 

6.  Storia  d'una  Fanciulla  tradita  da  un  suo  amante  .  .  »  1  75 
,7.  Commento  di  ser  Agresto  da  Ficaruolo.  ;  .  .  .  •  »  5  — 
8.  La  Mula,  la  Chiave  e  Madrigali '  1  50 

•  9.  Dodici  conti  morali  (Esaurito) ;>  4  — 

10.  La  Lusignacca "  '^  7" 

11.  Dottrina  dello  Schiavo  di  Bari »  l  50 

12.  Il  Passio  0  Vangelo  di  Nicodemo »  2  50 

13.  Sermone  di  S.  Bernardino  da  Siena »  1  50 

14.  Storia  d' una  crudel  matrigna .     .     •  '  2  50 

•  15.  Il  Lamento  della  B.  V.  Maria  (Esaurito) •>  1  50 

16.  Il  Libro 'della  vita  contemplativa.    .^ ■'  1  50 

17.  Brieve  Meditazione  sui  beneficii  di  Dio »  2  — 

18.  La  Vita  di  Eomolo' »  2  ~ 

19.  Il  Marchese  di  Saluzzo  e  la  Griselda »  2  — 

20.  Novella  di  Pier  Geronimo  Gentile "  2  50 

2L  Due  Epistole  d'Ovidio ..."  2  — 

22.  Novelle  di  Marco  Mantova  scrittore  del  sec.  XVI.     .  »  5  — 

23.  Dell'Illustra  et  famosa  historia  di  Lancillotto  dal  Lago  »  3  — 

24.  Saggio  del  Volgarizzamento  antico »  2  50 

25.  Novella  del  Gerbino  in  ottava  rima »  2  — 

26.  Trattatello  delle  virtù *  2  — 

27.  Negoziazione  ^di  Giulio  Ottonelli  alla  Corte  di  Spagna  »  2  — 

28.  Tancredi  Principe  di  Salerno »  2  — 

29.  Le  Vite  di  Numa  e  T.  Ostilio »  2  — 

30.  La  Epistola  di  S.  Jacopo »  2  — 

31.  Storia  dì  S.  Clemente  Papa »  8  — 

32.  Il  Libro  delle  Lamentazioni  di  Jeremia    ...,.«  2  — 

33.  Epistola  di  Alberto  degli  Albizzi  a  Martino  V ...  » 

34.  I  Saltarelli  del  Bronzino.  Pittore .  » 

35.  Gibello,  Novella  inedita  in  ottava  rima » 

36.  Commento  a  una  Canzone  di  Francesco  Petrarca   .    .  » 
•37.  Vita  e  frammenti  di  Saffo  da  Mitileiie  (Esaurito).     .  '^ 

38.  Rimo  di  Stefano  Vai  limatore  pratese » 

39.  Capitoli  delle  Monache  di  Pontetetto  presso  Lucca    .  » 
4p.  Il  libro  della  Cucina  del  sec.  XIV  (Esaurito)    ...»  6  — 

41.  Historia  della  Reina  d'  Oriente »  8  — 

42.  La  Fisiognomia,  trattatello :'  50 

43.  Storia  della  Eeina  Ester >^  1  50 

44.  Sei  Odi  inedite  di  Francesco  Eedi ->  2  — 

45.  La  Istoria  di  Maria  per  Ravenna »  2  — 

46.  Trattatello  della  Verginità    .- »  2  — • 

47.  Lamento  di  Fiorenza »  2  — 

48.  Un  viaggio  a  Perugia ^  2  50 

49.  Il  Tesoro  canto  carnascialesco 1 

50.  Storia  di  JFra  Michele  Minorità - 


• 


{')  Le  dispense  sei/nate  con  asterisco  non  si  vendono  stpuratumentc,  augi  01  firjutstan^  payan-3t, 
do  il  doppio  del  prezsio  segnato. 


LE    RIME 


DI 


BERNARDO  BELLINCIONI. 


IMOLA, 


TIP.    D   IGNAZIO  GALBATI   B    PIGLIO 


Via  del  Corso ,  3^. 


A 


.1^^ 


& 


LE  RIME 


DI 


BERNARDO  BELLINGIONI 


RISCONTRATE    SUI    MANOSCRITTI 


SMEKDATE    E    ANNOTATE 


DA  PIETRO  FANFANI. 


BOLOGNA, 
PRESSO  GAETANO  ROMAGNOLI. 


1878. 


Edizione  di  206  esemplari 
per  ordine  numerati. 


N.  63. 


AI  LETTORI. 


Per  evitar  malintesi,  vo'  dir  subito 
qui  da  principio  che  il  fine  unico  di  que- 
sto lavoro,  è  stato  quello  di  ripubbli- 
care un  libro  citato  dalla  Crusca,  del 
quale  se  ne  conosce  una  sola  edizione, 
fatta  a  Milano  nel  secolo  XV,  scorret- 
tissima, anzi  spropositatissima ,  e  tan- 
to rara  che  da  que'  boni  virij  i  quali 
stanno  su  queste  Collezioni  di  Crusca , 
si  paga  le  secento  e  anche  le  ottocento 
lire!  Non  c'entra  dunque  né  l'antichità, 
né  il  pregio  poetico  dell'  autore,  che  a 
me  sembra,  salvo  alcuni  pochi  sonetti, 
anche  sotto  il  mediocre  ;  e  però,  anche  se 
li  avessi  saputi  fare  (che  non  li  so)  cessa 
qui  la  occasione  di  que'  be'  discorsi  e 
dissertazioni  sulle  origini  della  lingua, 
sulla  poesìa  popolare  comparata,  e  so- 
pra tanti  argomenti  simili,  da  cui  si 
prende  materia  a  dir  tante  belle  cose, 
a  far  tante  sublimi  congetture ,  e  a  sco- 


VI 

prir  tanti  nuovi  mondi  letteraij  quanti 
non  ne  sognò  Fontenelle.  Questo  ho  detto 
prima  di  ogni  altra  cosa;  e  ho  confes- 
sato questa  mia  ignoranza;  acciocché  i 
maestri  delle  dottrine  novelle,  e  delle 
novelle  ingegnosità  letterarie,  non  mi 
combattano  da  questo  lato  :  perchè  sin 
d'ora  io  do  qui  loro  manus  victas ;  e 
mi  confesso  indegno,  non  pur  di  com- 
battere con  essi ,  ma  anche  di  esser  loro 
discepolo. 

Non  restami  dunque  a  far  altro  che 
ragguagliare  i  lettori  del  modo  da  me 
tenuto  in  questa  edizione,  dando  loro  al- 
tresì quelle  poche  notizie  che  si  sono  po- 
tute trovare  circa  all'  autore. 

Afferma  egli  medesimo  nelle  Rime  di 
esser  nato  da  quel  Bellincion  Berti ,  che 
andava  cìnto  di  euojo  e  d'osso,  e  la 
cui  moglie  tornava  dallo  specchio  sen- 
za il  viso  dipinto;  ma  fatto  sta  che  il 
Senatore  Filippo  Pandolfini,  il  quale  cer- 
cò notizie  per  mare  e  per  terra  sopra  la 
vita  del  nostro  poeta,  non  potè  lasciare 
se  non  questo  breve  cenno,  il  quale  si 
legge  nella  guardia  dell'  esemplare  ma- 
gliabechiano ,  di  cui  parlerassi  più  qua. 
Eccolo  qui  tale  quale: 


VII 

«  Bernardo  Bellincioiii  nato  in  Fi- 
renze di  Casa  nobile ,  Ramo  della  fami- 
^dia  de'  Donati,  fiorì  al  tempo  di  Lorenzo 
do'  Medici,  Luigi  Pulci,  e  Matteo  Franco, 
Poeti  arguti,  e  piacevoli.  Visse  lungo 
tempo  a  Milano ,  dove  morì  sotto  gli  au- 
spicij  di  Lodovico  Sforza,  dal  quale  fu 
accarezzato  e  beneficato.  Ebbe  de'  suoi  An- 
tenati , 

Per  il  sesto  di  Borgo. 

1.  Cambio    d'  Aldobrandino   Bellincioni 

Gonfaloniere  1'  anno  1295. 

2.  Neri  di  Aldobrandino  de'  Priori  1'  an- 

no 1297. 

3.  Cambio  detto,  de'  Priori  l'anno  1300. 

4.  Neri  detto ,  Gonfaloniere  l' anno  1305. 

5.  Bellincione  di  Neri  d'Aldobrandino, 

de'  Priori  1308. 

6.  Neri  detto,  de' Priori  1308. 

7.  Neri  detto ,  de'  Priori  V  anno  1311. 

8.  Neri  Aldobrandini  Bellincioni,  de 'Prio- 

ri 1311. 

9.  Bellincione  di  Neri  Aldobrandini  Gon- 

faloniere 1312  ^  ». 


1  Neil'  esemplare  suddetto  si  legge  questa 
dichiarazione  del  Poccianti,  con  la  quale  si  fa 
fede,  che,  e  questo  cenno  e  tutte  le  correzioni 


vili 

La  storia  della  edizione  presente  sta 
per  la  più  parte  nella  seguente  lettera 
di  Leone  Del  Prete  da  Lucca,  al  quale 
ne  domandai  notizie  prima  di  mettermi 
all'  opera: 

Lucca,  16  del  76. 

Molto  reverito  e  cariss.'"»  Sig.  Pietro, 

Quando  era  in  parte  altr'uom  da  quel 
che  or  sono,  vale  a  dire  un  venti  d' anni 
e  più  fa,  che  1'  età  giovanile  mi  sorride- 
va, mi  saltò  in  capo  il  ghiribizzo  di  ri- 
stampare le  Rime  del  Bellincioni.  Le  co- 
piai fedelmente  da  cima  a  fondo ,  valen- 
domi d'un  esemplare  dell'  antica  stampa 


del  testo,  sono  di  mano  del  Senatore  Pandolflni; 
e  che  questo  è  l'esemplare  citato  dalla  Crusca. 
«  Io  infrascritto  Can. Vincenzio  Poccianti,  Pro- 
curatore generale,  e  Archivista  delle  Illustrissi- 
me Signore  Contesse  Anna  ed  Eleonora  Pupille 
Pandolflni,  attesto  e  fo  fede,  che  il  Carattere  ma- 
noscritto di  questo  libro  confronta  a  maraviglia 
con  i  fogli  originali  del  fu  Senatore  Filippo  Pan- 
dolflni,esistenti  nell'Archivio  di  quella  Famiglia, 
dal  che  ne  resulta  essere  l'identifico  Esemplare 
citato  dagli  Editori  della  Crusca.  Et  in  fede  que- 
sto dì  8  Agosto  1800,  in  Firenze.  » 

Io  Can.  Vincenzio  Poccianti  M.  P. 


1 

di  questa  pubbl.  Biblioteca;  ma  dovetti  ì 
riconoscere  che  quella  stampa  era  molto  ) 
scorretta;  e  che  ancora  la  corteccia  di  ^ 
quelle  Rime  era  stata  alquanto  alterata 
con  ruvidezze  dialettali,  che  non  mi  sem- 
bravano proprie  di  uno  scrittore  Pioren-  ^ 
tino.  Mi  recai  a  Firenze  in  traccia  di  ; 
manoscritti  per  collazionarle;  ma  solo  pò-  ; 
che  rime  potei  pescare  nella  Magliabe-  ,  '^ 
chiana,  di  cui  mi  giovai;  e  da  questo  ^ 
saggio  mi  convinsi  che,  volendo  darle  con  ì 
buona  lezione ,  bisognava  togliervi  quelle  ■ 
asprezze  arbitrariamente  donate  loro  dal-  ! 
l'antico  editore  lombardo.  Quindi  le  ri-  /  ! 
copiai  sopra  quaderni  più  grandi,  toglien-  -  j 
do  gli  errori  manifesti,  e  con  ortografia  .' 
più  ragionevole,  e  in  modo  che  dalle  pa-  ì 
role  scomparisse  quel  suono,  che  non  pò-  1 
teva  essergli  stato  dato  da  un  Fiorentino.  .i 
Avendo  poi  saputo  che  nella  Palatina  si  ' 
conservava  un  esemplare  dell'  antica  edi- 
zione, tutto  corretto  dal  Senatore  Filippo  j 
Pandolfini,  di  cui  si  era  valuta  l' antica  ] 
Crusca  pei  molti  esempj  citati  nel  Voca-  ì 
bolario,  ricorsi  al  Cav.  Palermo,  che  gen-  ^ 
tilmente  q^  concesse  comodità  d'esami-  j 
narlo  e  di  trarne  le  correzioni.  Inoltre  l 
volli  anche  .esaminare  1'  esemplare  cor-  j 

■     b  ì 

3 

i 


X 

retto  da  A.  M.  Salvini ,  che  si  conserva 
nella  Riccardiana,  di  cui  si  valgono  i 
nuovi  Accademici;  ma  in  verità  ne  colsi 
scarsissimo  frutto.  Con  tale  apparecchio 
volevo  preparare  una  nuova  edizione  cor- 
retta ,  dove  mi  proponevo  di  ordinar  me- 
glio le  Rime,  che  nella  vecchia  sono  messe 
a  casaccio.  Mi  proponevo  altresì  di  cor- 
redarle di  note  non  solo  dichiarative,  ma 
anco  storiche,  d' indici  ecc.  Messo  mano 
air  opera,  mi  accorsi  che  ci  voleva  assai 
tempo  e  fatica;  e  che  il  volume  sarebbe 
venuto  di  troppo  grossa  mole  ;  che  dif- 
ficilmente avrei  trovato  chi  avesse  vo- 
luto far  la  spesa  della  stampa;  onde 
datomi  giù  a  poco  a  poco  quel  primo 
fervore,  finii  col  chiuder  tutti  quelli  scar- 
tafacci in  un  banco,  dove  hanno  dormito 
la  grossa  molti  anni.  Volea  farmeli  ris- 
vegliare il  Prof.  d'Ancona,  ma  tenni  duro 
ai  suoi  eccitamenti.  Egli  allora  ne  parlò 
alComm.'  Zambrini,  che  mi  fece  nuove 
premure.  Gli  risposi  che  non  volevo  imba- 
razzarmene ;  e  per  liberarmi  da  tutto,  gli 
dichiarai  che  era  dispostissimo  a  cedere 
il  mio  ms.  a  chi  volesse  ristampare  il 
,  Bellincioni.  Venne  allora  in  campo  il  Ro- 
magnoli editore,  che  me  lo  chiese,  e  mi 


XI  i 

scrisse  poi  d' averlo  affidato  al  Prof.  Al-                              "  ' 

fonso  Cerquetti.  Ora  so  da  Lei  che  è  in  \ 
sue  mani,  e  me  ne  rallegro  moltissimo              ' 
con  M/  Bernardo  Bellincioni  che  non  po- 

tea  capitare  in  mani  migliori.  Se  vi  è  uno  ";i 

che  possa  uscirne  a  bene,  quest'  uno  cer-  ] 

tamente  è  Lei,  Sig.  Pietro  carissimo.               '  1 

Venendo   ora  a  parlare  più  special-  ; 

mente  del  mio  Ms.  (e  intendo  di  quello  3 

in  quaderni  più  grandi,  mentre  1'  altro  j 

più  piccolo  non  è  che  una  bozzaccia  fé-  \ 

dele  della  prima  edizione),  crederei  che            -  ^ 

fosse  assai  corretto  ;  ma  non  da  fidarsene  l 

a  chiusi  occhi,  perchè,  ripeto,  è  un  la-  j 

voro  giovanile,  e  poi  non   gli  fu  data  , 
r  ultima  mano.  Credo  che  potrà  esserle 
di  scorta  non  inutile,  e  in  qualche  caso 

dubbio  Ella  può  facilmente  ricorrere  al-  ] 
l'esemplare  del  Pandolfini,  che,  se  non 
ha  preso  il  volo  come  tante  altre  rarità 

bibliografiche,  dovrebbe  ora  essere  nella  i 

Nazionale.  Per  qualche  componimento  pò-  ; 

tra  consultare  anche  i  Mss.  della  Nazio-  ■^. 

naie  suddetta,  che  credo  di  avere  accen-  \ 

nati  nella  mia  copia,  ma  che  ad  ogni  j 

buon  effetto  le  noto  nel  qui  inserto   fo-  ^ 

glietto.  Per  qualche  sonetto  burchielle-,  [ 
SCO  può  ricorrersi  alla  edizione  del  Bur- 


XII 

chiello  fatta  nel   secolo  passato,  colla 
falsa  indicazione  di  Londra. 

Le  note,  come  vedrà,  furono  da  me 
appena  cominciate,  e  in  modo  troppo  pro- 
lisso. A  parlarle  schietto,  or  penso  che , 
volendo  giungere  felicemente  in  porto , 
sia  meglio  abbandonare  il  mio  primo  di- 
segno, e  andar  più  per  le  brevi,  limi- 
tandosi cioè  a  dare  il  solo  testo  delle 
Rime  ben  corrette  e,  tutt'  al  pivi,  me- 
glio ordinate. 

Tutto  Suo 
L.  Del  Prete. 

Ora  continuerò  io  tale  storia  fino  al 
presente  giorno,  ragguagliando  altresì 
minutamente  il  lettore  del  modo  da  me 
tenuto.  Il  Prof.  Cerquetti,  veggendo  la 
somma  difficoltà  del  lavoro,  e  vivendo  in 
una'città  dove  non  avea  modo  di  riscon- 
trar manoscritti,  e  di  fare  tutte  le  ne- 
cessarie diligenze  e  investigazioni,  ras- 
segnò il  suo  mandato;  e  allora  il  Eoma- 
gnoli  fece  capo  ad  altri  letterati,  i  quali, 
spaventati  pur  essi,  dopo  aver  veduto  di 
che  cosa  trattavasi,  se  ne  scusarono.  Al- 
lora lo  Zambrini  ne  pregò  strettamente 
me  a  nome  del  Romagnoli  ;  ed  io,  senza 


XIII 

pensar  più  là,   accettai;  accorgendomi 
troppo  tardi,  in  che  sorta  di  selva  sel- 
vaggia e  aspra  e  forte  mi  fossi  avven- 
turato ad  entrare.  Ma  feci  del  cuor  rocca, 
argomentandomi  di  catnpare  alla  meglio 
d'  esto  loco  selvaggio  ;   e  cominciai   a 
pensare  qual  via  fosse  a  ciò  più  oppor- 
tuna. La  prima  cosa,  dissi  fra  me,  bi- 
sogna vedere  e  riscontrare  attentamente 
i  due  esemplari  Eiccardiano,  e  Maglia- 
bechiano;  nel  primo  de'  quali  ci  sono  cor- 
rezioni e  postille  del  Salvini;  nel  secon- 
do, le  correzioni  accuratissime  del  Pan- 
dolfini,  che  le  fece  sopra  i  manoscritti  da 
lui  potuti  trovare:  e  questi  due  esemplari 
ho  sempre  tenuto  dinanzi  agli  occhj  nel 
corso  della  stampa  presente.  Riscontrai 
diligentemente   le  non  poche   rime   del 
Bellincioni,  che  si  trovano  nel  bel  codi- 
ce Magliabechiano;  ma  tosto  mi  accorsi 
che  sopra  di  esso  avea  fatto  le  sue  cor- 
rezioni il  Pandolfini  ;  e  poi  mi  parve  di 
poterne  raccogliere,  che  tali  rime  erano 
state  copiate  pur  esse  dalla  stampa  mi- 
lanese: né  maggiore  utilità  potei  cavare 
dalle  rime  sparse  per  altri  codici.  Unico 
fonte  autentico  rimaneva  dunque  la  stam- 
pa milanese,  ed  unica  autorità  accetta- 


XIV 

bile,  quella  del  Salvini  e  del  Pandollini. 
Ma  la  edizione  milanese  è  orribilmente 
spropositata,  come  ben  nota  il  Del  Prete: 
è  fatta  dopo  la  morte  dell'  autore  :  e  quel 
prete  Tanzi  che  raccolse  le  Rime  del  mor- 
to amico,  non  solo  lasciò  correre  le  for- 
me, 0  le  sformature,  del  dialetto  mila- 
nese; ma  ce  ne  mise  parecchie  delle  sue. 
Che  si  fa  dunque?  dissi  tra  me.  Ritrarre 
nella  stampa  odierna  il  testo  antico  tale 
e  quale,  senza  che  ciò  parmi  una  follia 
critica  anche  copiando  dal  manoscritto, 
e  solo  comportabile  quando  si  trattas- 
se dell'  AUTOGRAFO  di  segnalato  autore , 
qui  mi  sarebbe  sembrato  un  di  quelli  er- 
rori critici  da  non  perdonarsi  in  modo 
veruno;  nò  ci  pensai  nemmeno,  trattan- 
dosi di  una  stampa,  come  ho  detto,  or- 
rìbilmente deforme,  e  trattandosi  di  uno 
scrittore  né  di  molto  pregio  né  di  molta 
antichità,  ricordato  fino  a'  di  nostri  sol 
perchè  saltò  il  ticchio  agli  Accademici 
della  Crusca  di  citarlo  per  Testo  di  lin- 
gua. Considerata  tal  penuria  di  mate- 
riali critici,  e  considerato  il  fine  unico 
di  ridurre  a  comportabile  lezione  que- 
sto Testo  di  lingua,  oltre  al  fare  asse- 
gnamento aopra  i  lavori  del  S alvini   e 


XV 

del  Pandolfini,  presi  un  poco  di  fiducia 
anche  per  la  lunga  pratica  mia  sopra  la 
lingua  de' tre  primi  secoli,  sperando  di 
dare  un  testo,  se  non  assolutamente  cor- 
retto, corretto  almeno  comportevolmen- 
te.  Il  Tortoli,  nella  sua  Apologia  della 
seconda  quinta  impressione,  bada  a  dire 
burbanzosamente  al  Cerquetti,  che  cor- 
regge alcuni  esempj  di  scrittori  recati 
nel  Vocabolario:  «  La  Crusca,  messe- 
re,  cita  i  testi  quali  essi  sono,  e 
non  gli  altera.  »  0  venga  un  po'  qua 
la  gran  colonna  della  Crusca.  La  edi- 
zione milanese  del  Bellincioni  è  citata 
da  essa  Crusca:  avvenendogli  pertanto 
di  registrare  la  parola  Mai  senza  ne- 
gativa, autenticandola  con  questo  verso, 
che  si  legge  a  pagina  6 ,  essa ,  per  non 
alterare  i  suoi  testi,  lo  recherà  come 
nella  stampa  milanese  «  Nel  nome  di 
Maria  fu  mai  salute  »  che  è  una  be- 
stemmia; piuttosto  che  correggere  fu 
mia  salute?  Registrerà  al  bisogno  la 
voce  Munere ,  facendola  buona  col  ver- 
so della  pag.  7:  Non  creda  al  muner 
grande  de  gli  stolti?  Registrerà  Spa- 
giare  per  Spacciare  a  pag.  10;  e  Ra- 
sone  per  Ragione  alla  pagina  stessa? 


XVI 

Registrerà  facecia  per  facezia,  a  pagi- 
na 46?  Bullettìn  dacceti  per  da  ceci, 
a  pag.  96  ?  Fa  ordine  come  Pilato  per 
Fa  or  di  me?  e  così  altre  mille  e  mille, 
come  si  può  vedere  in  ciascuna  pagina 
di  quel  libro.  È  vero  pur  troppo  che  il 
Vocabolario  novello  dà  infinite  prove 
di  simili  dissennatezze ,  parecchie  delle 
quali  sono  state  notate  da  me;  ma  è 
vero  altresì  che  i  Savj  ne  hanno  acerba- 
mente biasimato  gli  Accademici. 

Ora,  tornando  al  proposito,  non  so 
se  io  sia  riuscito  nel  mio  assunto;  e 
s' io  abbia  saputo  vincere  tutte  le  molte 
e  gravi  difficoltà,  che  hanno  spaventato 
altri  letterati  dal  mettersi  a  questa  im- 
presa, tra' quali  uno  è  adesso  accade- 
mico della  Crusca:  questo  sa  bene,  e  ne 
accerto  il  lettore,  che  io  ho  atteso  al- 
l'opera mia  con  ogni  diligenza;  e  parmi 
di  potermi  vantare  di  aver  reso  leggi- 
bile questo  testo,  che  nell'  antica  edizione 
leggibile  non  era:  né ,  così  dicendo ,  uso 
linguaggio  iperbolico,  perchè  in  quella 
stampa  sono  tante  le  voci  trasformate 
dall'  esser  loro,  e  tante  le  appiccicature 
di  più  voci  insieme,  che  il  decifrarle,  non 
solo  a' comunali  lettori  è  malagevole  cosa, 


XVII 

ma  anche  a  parecchj  letterati.  Con  que- 
sto per  altro  non  vo'  mica  riuscir  a  dire, 
che  nel  mio  lavorò  non  ci  sieno  errori. 
Sarebbe  folle  presunzione  il  solo  pensarlo; 
tante,  e  di  così  diversa  natura,  sono  le 
difficoltà  che  ho  dovuto  superare ,  a  con- 
templazione delle  quali  domando  un  poco 
di  indulgenza  per  essi;  come  ringrazio 
caramente  i  riveriti  amici  miei,  Cav.  Co- 
stantino Arila,  Cav.  Domenico  Bianchini 
e  Marchese  Gaetano  Ferrajuoli,  per  aver- 
mi fatto  accorto  di  alcuni  di  tali  errori.  ' 


1  Le  correzioni  degli  amici  registro  qui,  e 
perchè  i  lettori  se  ne  possan  giovare,  e  perchè 
si  veda,  che  quando  1'  errore  mi  è  fatto  cono- 
scere, io  non  perfidio  in  esso  ;  né  mi  vergogno 
di  confessarlo;  né  m' invelenisco  contro  chi  mi 
corregge,  quando  la  correzione  è  fatta  lealmen- 
te. A  ciascuna  correzione  pongo  la  iniziale  del 
cognome  de'  tre  amici. 

Pag.  3.  Lo  quale  onorò:  è  da  leggere  :  lo  quale 
onori.  B.  F. 

Pag.  4.  Invece  di  onorare,  vediamo,  il  marche- 
se Ferrajuoli  proporrebbe  di  leggere  ornare. 
Vediamo;  come  nella  edizione  antica.  Io  ne 
sto  dubbioso  ,  parendomi  che  Ornare  mal 
convenga  al  morto  padre,  e  al  colosso. 

Pag.  6.  questo  fanno.  Esseìido  morto.  Il  Mar- 
chese mi  avverte,  che  innanzi  a  Essendo  non 


xyiir 

Altri ,  non  amici  miei ,  ma  amici 
de'  miei  nemici ,  vedendo  alcuni  di  tali 
errori,  e  qualche  er?ore  puramente  di 
stampa ,  sputarono  un  poco  di  veleno  di- 
cendo che,  se  deesi  avere  una  edizione 


debb' esserci  punto,  ma  virgola:  ed  ha  ra- 
gione. 

Pag.  9.  Invece  di  Bellincion  nostro,  il  Marche- 
se nota  che  è  da  leggere  vostro;  e  sta  bene, 
perchè  nel  verso  precedente  e'  è  la  stessa 
voce  nostro,  con  la  quale  fa  rima. 

Pag.  16.  In  cambio  di  Pigliar  ne  vidi,  si  legge 
pigliar  mi  vidi.  F. 

Pag.  16.  Alla  nota  4  mi  assenna  il  Perrajuoli 
che,  trattandosi  del  cielo  di  Venere,  sareb- 
be più  proprio  1'  interpretare  assonna  per 
Intorpidisce,  Accascia. 

Pag.  36»  Il  Bianchini  nota  che  nel  testo  si  leg- 
ge :  I  due  se  li  cavò,  e  nella  annotazione  si 
legge  :  E  due,  domandando  qual  è  la  vera 
lezione.  Rispondo  che  è  :  1  due. 

Pag.  44.  In  nota  ho  posto,  per  distrazione,  che 
il  Biscione  fu  stemma  degli  Sforza;  e  il  Fer- 
rajuoli,  mi  reca  a  mente  che  fu  de' Visconti. 

Pag.  61.  Nella  nota  2,  dico  che  Beatrice  fu  so- 
rella del  Moro;  ma  il  B.  e  il  F.  mi  assen- 
nano che  veramente  era  moglie  di  lui. 

Pag.  69.  Nota  6.  Alla  mia  nota  il  F.  aggiunge 
questa  erudizione  «  Alfonso  d'  Este  era  ni- 
«  potè  di  Beatrice.  Se  npn  erro  quando  il 
«  Poeta  scrisse   questo   sonetto,   era   fidan- 


XIX 

spropositata,  si  poteva  continuare  adu- 
sare r  antica.  È  quella  medesima  buona 
fede  che  mosse  il  Tortoli  a  sfatare  la 
mia  edizione  del  Machiavelli,  la  quale 
fu  dal  più  assennato   degli  Accademici 


«  zato  a  madonna  Anna,  ohe  fu  sua  moglie 
«  (e  non  duchessa  di  Mantova),  e  morì  nel 
«  1497.  » 

Pag.  87.  Nota  2.  Il  F.  crede  che  quel  Ruberto 

'  fosse  r  istitutore  di  Galeazzo  nelle  cose  guer- 
resche. 

Pag.  93.  Nota  2.  Io  reco  qui  la  nota  del  Salvini 
il  qual  dice:  questo  Fiesco  fu  un  poeta;  e  il 
Bianchini  mi  fa  osservare  che  io  stesso  ho 
già  detto  a  42  che  questo  Fiesco  è  ricordato 
dal  Quadrio.  Ha  ragione,  dovevo  ricordare 
tal  citazione. 

Pag.  98.   Nota  7.  Al  Ferrajuoli  sembra  piU  na- 
turale la  congettura  del  Del  Prete:  e  sarà. 

Pag.  109.  Nota  1.  I  tre  amici  si  accordano  tutti 
a  farmi  accorto  che  questo  Timoteo  fu  il 
Bendedei,  allora  poeta  di  grido;  e  ricordato 
con  lode  dall'  Ariosto,  e  da  Antonio  da  Pi- 
stoia. 

Pag.  112-113.  Il  Bianchini  mi  dice  che  quel  Val- 
ditara  fu  un  tal  Antonio  di  Manoliotto  (?)  di 
Val  di  Taro. 

Pag.  117.  Col  verso  Pensosa  e  lieta  dee  comin- 
ciare una  stanza. 

Pag.  149.  Nota  3.  Argomentandolo  dal  contesto, 
e,  secondo  un  cenno  del  Salvini,  dico  che  il 


XX 

giudicata  ottima.  A  costoro  non  rispon- 
do: dico  solamente  che  il  mio  testo  del 
presente  libro,  salvo  alcuni  errori  di 
stampa,  facili  a  correggersi  da  qualun- 
que lettore ,  è  buono  e  fedele ,  avendoci 


Sorano  fu  ardito  viaggiatore  :  poi  a  pag.  167 
dico,  essendomi  uscita  di  mente  la  nota  pri- 
ma, di  non  sapere  chi  esso  sia.  11  Bianchini 
mi  fa  accorto  della  contradizione:  e  lo  rin- 
grazio. L'Arlia  mi  dà  notizia  che  del  Sorano 
se  ne  parla  in  un  volume  pubblicato  dal  Mi- 
nistero della  Istr.  Pubi,  sopra  i  viaggiatori 
italiani. 

Pag.  152.  Nota  3.  C  è  chi  crede,  mi  dice  il  Bian- 
chini, che  in  questo  sonetto  il  poeta  accenni 
sempre  a'  Veneziani,  e  non  ai  preti.  Può  es- 
sere; ma  non  mi  pare. 

Pag.  174,  Nota  2.  Osserva  il  Bianchini,  non  es- 
ser troppo  esatto  il  dire  che  Napoli  si  di- 
vise per  Spggi;  perchè  veramente  era  divisa 
in  quartieri  ;  e  i  Seggi  erano  que'  luoghi  dove 
si  adunavano  i  nobili,  ne'  diversi  quartieri. 

Pag.  175.  Ho  detto  che  circa  a' tempi  del  Bel- 
lincioni  fu  riformato  il  Calendario;  e  il  Mar- 
chese mi  scrive  di  non  saper  nulla  di  tal  ri- 
forma. Ha  ragione:  la  riforma  si  fece  nel 
secolo  seguente. 

Pag.  185.  Il  Ferrajuoli  pensa  con  ragione  che 
questo  sonetto  sia  fatto  contro  Baccio  Ugo- 
lini chiamato  altrove  Achitòfel. 

Pag.  191.  V.  14.   Al  Bianchini  e  all'Arlia  pare 


XXI 

io  usate  tutte  quelle  cure  che  richiedeva 
simil  lavoro;  e  che  il  far  pure  il  con- 
fronto tra  il  testo  mio  e  quello  della  edi- 
zione milanese  non  può  procedere,  se  non 
da  impotente  e  velenosa  malizia.  Quella 
edizione  è  gremita  di  spropositi  d'ogni 
genere  :  è  cosi  stravolta  nella  forma  delle 
parole  e  delle  frasi,  che  più  che  scrittura 
italiana,  sembra  scrittura  di  un  Lombar- 
do ignorante  :  ha  parole  tronche  per  in- 
tere, e  intere  per  tronche,  tanto  che 
spesso  i  versi   sono  o  più  lunghi  o  più 


che  qui  si  alluda  a  un'  antica  novella,  dove 
si  dette  a  intendere  ad  un  contadino  che  a 
•  Verona  non  poteva  fare  le  occorrenze  sue,  e 
pensano  sia  da  leggere  fu  gabbo  (fu  gabbato) 
dal  stronzo. 

Pag.  234.  Nota  1.  Dico  che  non  so  che  cosa 
sono  le  carole:  il  Bianchini  e  l'Arlia  m'in- 
segnano, che  nella  parlata  napoletana  Ca- 
ròla è  lo  stesso  che  Tignuola. 

Pag.  244.  Nota  1.  Dico  di  non  sapere  che  cosa 
sia  BrovetO '■  V  ArWa.  e  il  Bianchini  pensan* 
che  sia  quel  luogo  che  ancor  oggi  dicesi  a 
Milano  il  Broletto. 

Pag.  245.  Notai.  Il  Salvini  parla,  nella  sua  nota, 
'di  un  Mariano  da  Ginazzano;  e  il  Ferrajuoli 
dice  che  dovea  dir  Genazzano,  paesello  a  po- 
che miglia  da  Roma. 


SONETTO  I. 

VRGGRNDO    L\    DUCHESSA    ISABELLA    ALLEGRA. 

Si  come  ogni  erba  si  conosce  al  seme,  ^ 
E  '1  frutto  si  comprende  anche  pel  fiore; 
Così  nel  viso  un  consolato  core 
Si  comprende,  e  se  doglia  anche  quel  preme. 

Spesso  ben  l'occhio  per  dolcezza  geme, 
Como  usar  suole  ancor  per  un  dolore; 
Ma  la  cagion  di  drento  appar  di  fuore  ;  ^ 
Che  tristizia  e  piacer  non  vanno  insieme. 

Se  '1  cor  'n  un  volto  scrive  i  suoi  pensieri , 
Dolce  natura  in  quel  dipinge  '1  fine 
D'ogni  concetto  che  la  lingua  cela. 

Chi  dà  legge  e  confini  a'  desideri , 
E  volge  al  divin  vento  ogni  sua  vela, 
Vedrà  le  rose  nascer  de  le  spine.  ^ 


1  Si  come  ecc.  È  preso  da  Dante ,  il  quale  scris- 
se : 

Ogni  erba  si  conosce  per  lo  seme. 

2  Spesso  ben  l'occhio  ecc.  Si  piange  cosi  d'al- 
legrezza, come  di  dolore;  ma  si  scorge  bene  al- 
l' aspetto  qual  cagione  muova  il  pianto,  cioè,  se 
l'uomo  piange  di  dolore  o  di  allegrezza. 

3  Chi  dà  legge  ecc.  Chi  sa  temperare  i  suoi 
desideri,  e  si  rimette  al  volere  della  Provviden- 
za, troverà  ogni  conforto  e  consolazione  nel  suo 
doloro.  Questo  è  de' buoni  sonetti  del  nostro  .'\u- 
tore. 

1 


2  SONRTTI. 

SONETTO  II. 

ALLA    DUCHESSA    ISABELLA    PKR    RICCIARDETTO. 

Benché  piccin  sia  e!  vostro  Ricciardetto,  > 
Di  fede  è  grande,  d'animo  e  di  core, 
Allievo  e  servo  di  quel  santo  fiore  2 
Che  ti  produsse ,  o  frutto  benedetto. 

Non  sai  che  solo  è  Dio  senza  difetto? 
Chi  mai  non  nacque,  mai  commise  errore. 
Poi  sai  quel  che  rispose  el  Salvatore 
Del  perdonare  a  Pietro,  stu  l'hai  letto.  ^ 

Costumato  e  non  punto  Architofello,  ^ 
Musico  bono,  e  gran  lemosiniere , 
Più  che  Martin,  che  die  mezzo  el  mantello. 

Tòi  da  un  quel  può  dar,  né  più  volere; 
Che  ognun  ha  la  sua  mosca  in  el  cervello:  ^ 
Chi  troppo  è  grave,  e  chi  troppo  è  leggere; 

1  Ricciardetto  ecc.  Chi  sia  questo  Ricciardetto, 
per  il  quale  il  Poeta  scrive  alla  duchessa,  non 
ho  trovato.  Sembra  dover  essere  stato  qualche 
suo  paggio,  o  altro  familiare,  caduto  in  qualche 
fallo:  e  qui  il  Bellincioni  lo  scusa. 

'2  Allievo  e  servo  ecc.  Questo  Ricciardetto  fu 
allevato  in  corte  di  Alfonso  d'Aragona,  padre 
della  duchessa    Isabella. 

3  Del  perdonare  ecc.  Cristo  disse  che  non  si 
doveva  perdonar  solo  sette  volte  ;  ma  settanta 
volte  sette. 

4  A r chilo f elio -PerMo  e  maligno  consigliere  del 
Re  David,  che  nimicò  Assalonne  col  re  suo  padre. 

5  Ognuno  ha  la  sua  mosca.  Ciascuno  ha  qual- 
che capriccio  per  la  fantasia,  e  qualche  ùifetto. 


siONETTI.  ■> 

•      Però  fate  piacere 
A  Ricciardetto  vostro  al  mondo  nato  , 
Che  Dio  '1  castigherà ,  s'  el  sarà  ingrato. 

Che,  s'  uno  ha  in  un  sperato  ,  ' 
E  fa  quanto  comporton  le  sue  ale, 
Sprezzando  quello,  Iddio  l'ha  poi  per  male. 

SONETTO  III. 

SOPRA    RICCIARDETTO. 

Questa  perla  del  vostro  Ricciardetto 
È  tutto  argento  vivo,  è  corno  el  Sole  2 
In  modi,  in  atti,  in  fatti  ed  in  parole: 
El  cervel  l' arca  par  di  Maumetto.  -^ 

Qua  e  là,  sì  e  no:  questo  folletto, 
Come  infermo,  non  sa  quel  che  si  vuole: 


1  Che  s'uno  ecc.  Se  Ricciardetto  ha  sperato 
bene  di  voi,  e  per  piacervi  ha  sempre  fatto  ciò 
che  è  stato  da  lui  ;  non  vogliate  dimenticare  i  suoi 
servigj,  per  un  lieve  fallo,  che  Dio  l'avrebbe  per 
male. 

^Questa  perla  ecc.  Scherza  soprala  mobilità 
e  la  instabilità  di  quel  Ricciardetto,  paragonan- 
dolo all'argento  vivo,  che  mai  non  sta  fermo  ; 
e  al  Sole,  che  sempre  ò  in  moto  (allora  si  cre- 
deva che  il  Sole  girasse  attorno  alla  terra).  An- 
che adesso  si  dice  che  ha  V argento  vivo  addos- 
so un  fanciullo,  che  non  stia  un   momento  fermo. 

3  El  cervel  ecc.  L'  arca  di  Maometto  sta  so- 
spesa in  aria;  e  cosi  il  cervello  di  Ricciardetto 
non  si  posa  mai  sopra  nulla  di  grave. 


1  SONETTI. 

È  in  Paradiso,  e  sempre  mai  si  \luoIo  ,  ' 
Così  fé  in  ciel  quelTAngiol  maledetto. 

Tante  moschetto  pel  cervel  gli  vanno  " 
Che  '1  capo  d'ape  pare  una  cassetta, 
E  pur  la  corte  ha  tutta  a  saccomanno. 

E'  fa  come  un  puttin  che  piange  e  tetta, 
Noi  contenton  broccati  e  manco  panno  :  ^ 
Certo  una  vesta  del  Batista  aspetta. 

A  Napoli  ire  in  fretta 
Il  fate.  Or  che  vorrebbe?  i' ti  rispondo  ^ 
Che  Dio  a  suo  modo  gli  facesse  un  mondo. 
El  ver  or  non  ascondo 


i  È  in  Paradiso  ecc.  Nella  vostra  corte,  che 
è  un  Paradiso. 

2  Tante  moschelte  ecc.  Ha  un  monte  di  fanta- 
sie sempre  nuove  per  il  capo  (ora  si  dice  Hall 
capo  pien  di  grilli),  benché  costi  in  corte  possa 
fare  tutto  ciò  che  gli  viene  in  grado,  l'ha,  come 
suol  dirsi ,  tutta  a  sua  disposizione  :  e'  fa  come  i 
bambini,  che  poppano,  e  pur  piangono. 

3  Nel  contenton  ecc.  Ogni  veste,  anche  nobile, 
noi  contenta:  si  vede  che  pretende  di  avere  un 
palio  di  S.  Giovanni.  Il  palio  di  S.  Giovanni,  era 
di  broccato  d'oro  ,  e  ricchissimo;  e  anche  adesso, 
per  significare  veste  sfoggiata  e  ricchissima,  si 
suol  agguagliare  al  palio  di  S.  Giovanni. 

4  A  Napoli  ecc.  Pare  che  avesse  desiderio  di 
andare  a  Napoli  ;  e  la  esorta  a  mandarvelo:  ag- 
giungendo per  altro  che  non  sarà  contento  nem- 
meno di  ciò  ;  e  che,  per  contentarlo,  bisognerebbe 
che   Dio  gli  facesse  un  mondo  a  suo  modo. 


SONETTI.  5 

Fare'  Giove  ballar  col  tamburino 

Che  in  quell'arte  lo  chiamo  un  uom  divino. 

SONETTO  IV. 

PER  LA  DUCHESSA  DI  BARI. 

Non  fu  mai  madre  in  tanto  gaudio  e  festa 
Quando  smarrito  el  suo  fìgliol  ritrova, 
Né  tanto  el  chiaro  Sol  diletta  e  giova 
Quando  dannosa  e  lunga  pioggia  resta; 

Né  gente  in  mar,  calando  la  tempesta, 
Quando  vento  per  lor  par  che  si  mova, 
Quanto  Beatrice  allegra  oggi  si  trova 
A  posseder  colui  che  '1  ciel  gli  presta.  ^ 

Ma  dolorosa  più  non  fu  mai  donna  2 
Che  '1  caro  e  suo  diletto  sposo  perde , 
Quanto  era  avante  al  suo  santo  ritorno. 

Ludovico  è  d'ogni  suo  ben  colonna, 
Lor  foco  e  loro  amor  sempre  è  più  verde,  ^ 
E  sarà  dopo  el  lor  ultimo  giorno. 


1  A  posseder  colui  ecc.  Donna  Beatrice  si  ral- 
legra per  il  ritorno  del  suo  sposo. 

2  Ma  dolorosa  ecc.  E  qui  significa  il  dolore 
grave  che  ebbe  la  Duchessa  quando  il  marito 
dovò  allontanarsi  da  lei. 

3  Lor  foco  ecc.  Si  amano  un  giorno  più  del- 
l'altro; uè  il  loro  amore  si  spegnerà  per  morte. 


6  SONETTI. 

SONETTO  V. 

A    MESSER  GASPAR   VISCONTI   DOMANDANDOGLI  UNA  OCA 
PER   OGNISSANTI.  1 

El  tuo  cornigeron,  non  cornacchione ,  2 
Che  natura  un  balestro  volse  fare 


111  Salvini  nota  che  per  Ognissanti  e' era  qui 
a  Firenze  la  fiera  dell'  oche  nel  quartier  S.  Gio- 
vanni; e  forse  da  ciò  ha  preso  nome  la  Via  delle 
oche. 

Z  El  tuo  ecc.  11  poeta  descrive  so  stesso,  si- 
gnificandoci com'egli  era  gobbo,  e  per  farcelo 
intendere  sotto  metafora,  dice  che  quando  natura 
lo  fece  ebbe  intenzione  di  fare  un  balestro  (che 
sono  arcuati),  e  che  è  fatto  a  volta  per  non  ab- 
bruciare (che  le  stanze  a  volta  sono  sicure  dal- 
l' incendio)  ;  e  che  per  paura  d'annegare,  porta  la 
zucca  vuota  sulle  spalle,  come  fanno  coloro  che 
imparano  a  notare.  Il  sonetto  però  sembra  scrit- 
to a  nome  di  un  suo  compagno.  Forse  il  Bellin- 
cioni  ebbe  tal  soprannome  ;  o  forse  lo  ebbe  l'al- 
tro suo  compagno,  a  nome  del  quale  chiede  l'oca. 
Che  tal  Cornigero  fosse  allora  famoso,  lo  abbia- 
mo da  Batista  Mantovano,  illustre  poeta  latino 
di  quel  tempo,  il  quale  a  lui  intitolò  una  sua 
Epistola,  che  incomincia  cosi: 

Corniger,  ausonios  inter  celeberrime  vates, 

Insignite  boni  nominis  eulogio, 
Nemo  det  hoc  vitio  tibi,  quod  cognomen  ubique  est 

Istud  apud  patres,  istud  apud  populos; 

e  continua  dicendogli  che  tutte  le  cose  più  no- 
bili  sono  cornute. 


SONETTI.  / 

Quel  che  sol  per  paura  d'  abbruciare 

S'è  fatto  in  volta:  or  Thai  per  discrezione. 

Stu  non  intendi  ancora,  el  Bellincione, 
E  quel  che  per  paura  d' annegare 
La  zucca  in  sulla  spalla  suol  portare: 
Costui  fa  meco  una  conclusione: 

Perchè  'i  costume  e  '1  bon  uso  non  falli, 
Sendo  Ognissanti,  a  noi  darai  l'uccello, 
Che  Roma  liberò  da' fieri  Galli:  i 

Questo  vogliano  intendi,  ch'egli  è  quello^ 
Che  per  natar  fra'  liquidi  cristalli 
L'ali  si  misse  a  pie'  del  pipistrello. 

Se  non  paresse  bello 
El  mio  sonetto  e  grazia  avesse  poca. 
Sarà  perch'egli  è  fatto  in  lingua  d'oca.  ^ 


1  L'uccello,  che  ecc.  È  nota  la  favola  storica 
della  oche  del  Campidoglio. 

'i  Vogliano  per  Vogliamo,  e  simili,  era  idio- 
tismo comune  agli  antichi  Fiorentini.  Continua 
poi  a  dire  che,  se  non  avesse  inteso  bene,  e'  vuol 
parlar  di  quell'uccello,  che  per  notare  nell'ac- 
qua, si  mise  a'  piedi  l'ale  di  pipistrello,  alludendo 
alla  membrana  onde  sono  formate  le  zampe  delle 
oche. 

3  Fatto  in  lingua  d'oca  ecc.  Va,  il  giuoco  di 
parole  sull'oca,  e  sulla  lingua  d'  oca. 


8  SONETTI. 

SONETTO    VI. 

A    MUSSliR   UERGONZIO    BOTTA    PUR   UN    OCA.   ' 

Se  mai  impetroron  grazie  i  miei  sonetti, 
Questo  a  Bergonzio  or  vadi  per  sollazzo: 
El  Prete,  el  Bellincione,  e  '1  suo  ragazzo, 
Ogniun  da  te  un'oca  par  che  aspetti. 

Noi  ti  ristorerem  poi  con  sonetti: 
Se  non  v'è  oca,  a  noi  dona  un  ocazzo. 
Come  poveri,  abbiàn  nel  mio  palazzo 
Agli  e  cipolle,  ed  anche  duoi  porretti. 
,v  Le  spese  assai  mi  fanno  assottigliare; 
È  però  vo  al  castel  di  Marchesi  no, 
Che  Ambrosio  più  denar  non  mi  voi  dare.  ^ 

Giovane  e  maschio  dacci  un  ocazzino  : 
Fia  bono  arrosto,  agevole  a  tagliare. 
Col  groppon  tondo  piace  al  F'iorentino.  3 

Questo  credo  e  indovino: 
Se  dui  capretti  in  casa  i'  ti  vedessi , 
Non  posso  creder  eh'  un  non  me  ne  dessi. 

1  Questo  Bergonzo  era  uno  de'  più  possenti 
cortigiani  del  Duca;  e  anche  a  lui  il  poeta  chiede 
l'oca,  in  nome  altresì  del  prete,  che  forse  è  il 
Tanzio,  e  d'un  suo  ragazzo.  In  questo  sonetto  vi 
sono  degli  osceni  equivoci,  su'  quali  non  mi  fer- 
merò. 

2  Ambrosio.  Questi  è  Ambrogio  da  Corte,  del 
quale  è  stato  parlato  altrove;  e  un  sonetto  con- 
tro di  lui  è  nel  primo  volume'  a  pag.   127. 

3  Col  groppon.  Qui  il  Salvini  scrive  in  mar- 
gine: 0  becco  f..  .,  oh  furfante! 


SONETTI. 

SONETTO  VII. 


0 


CHI   KUSSE    PIÙ    GAGLIARDO   DI   RINALDO    E    ORLANDO,   l 

Cara,  suave  e  dolce  mia  sorella. 
Sta  salda  come  torre,  disse  Dante, 
Alle  battaglie,  a'prieghi,  a  ciancle  tante  , 
Perchè  tu  lassi  quella  nostra  stella. 

A  passion  d'Orlando  alcun  favella; 
Come  'l  savio  perdona  a  T  ignorante  : 
Da  balli  e  dame  è  Orlando  assai  prestante, 
Rinaldo  nostro  un  Marte  è  in  su  la  sella. 

Orlando,  che  avia  pur  belle  parole 
E  le  lacrime  e  '1  riso,  e  bene  el  Davo, 
Fanno  che  '1  vulgo  sempre  ben  gli  vole. 

Ma  Rinaldo,  che  al  ver  fu  sempre  schiavo 
(  Veritas  odium  parit  esser  suole) 
Non  fu  simulator,  ma  savio  e  bravo. 

Così  le  macchie  lavo 
Al  bon  Rinaldo,  che  sbarrò  il  lione  : 
Orlando  quattro  quarti  ha  di  castrone. 


1  Pare  che  allora  si  facessero  delle  dispute 
alla  corte,  chi  fosse  degno  di  maggior  lode,  Or- 
lando o  Rinaldo;  e  qui  il  Bellinciani  la  dà  mag- 
giore a  Rinaldo,  dicendo  che  Orlando  era  valente 
per  le  donne,  che  avea  belle  parole,  che  aveva 
bene  il  DavOj  cioè  sapea  fare  atti  d'  ossequio  e 
di  servitù,  e  però  ebbe  fama  dal  volgo;  dove  Ri- 
naldo fu  veramente  prode  e  leale,  non  simulatore 
né  mendace:  e  alludendo  al  quarftcre  d'Orlando, 
dice  eh'  egli  ebbe  quattro  quarti  di  castrone,  cioè 
fu  un  castrone  beli'  e  buono. 


10  SONETTI. 

SONETTO  Vili. 

ESORTA    LA    MARCHESANA    CHE   TENGA    LA  l'ARTE  D' OR- 
LANDO. 1 

Umana  cosa  è,  dice  la  Scrittura,  2 
L'errare,  e  cosa  angelica  ancor  pone 
L'emendarsi,  e  non  far  qual  Faraone 
Con  l'ostinata  mente  cieca  e  dura; 

E  però.  Marchesana  mia,  misura 
L'error  che  fai  nel  falso  opinione  3 
Del  superbo  Rainaldo  e  poi  poltrone, 
Che  fu  proprio  uno  scandol  di  natura. 

El  ravvedersi  è  me'  tardi  che  mai , 
Però  con  Galeazzo  e  gli  altri  degni, 
Per  non  peccar,  vitupera  Rinaldo. 

Vera  cristiana  allor,  dico,  sarai 
Stu  pigli  Orlando  e  lassi  quel  ribaldo, 
Che  a  dir  male  e  far  peggio  ebbe  gli  ingegni. 


1  Questo  sonetto  è  la  palinodia,  o  ricantazio- 
ne  del  precedente;  e  qui  si  esalta  Orlando  sopra 
Rinaldo  ;  ma  comincia  col  domandar  venia  del- 
l' errore  commesso. 

2  Umana  cosa  ecc.  Il  peccare  è  degli  uomini, 
il  ravvedersi  fe  da  angeli. 

3  Misura  l'error  ecc.  Considera  quanto  sei  fuo- 
ri del  retto  e  del  vero,  stimando  piti  Rinaldo  che 
Orlando. 


SONETTI.  1 1 

SONETTO  IX. 

FANTASTICO   SOPRA   IL   TAMBURINO    DELLA   DUCHESSA. 

Signor,  ben  vi  so  dir  ch'egli  sta  fresco 
Quella  berta  del  vostro  tamburino,  i 
A  questi  dì  bevuto  ha  tanto  vino 
Che  quando  parla  par  proprio  un  Todesco. 

Egli  andò  ieri  al  Vespro  in  San  Francesco 
E  prese  in  coro  un  frate  pel   capino ,  ^ 
E  disse;  Questa  notte  a  matutino 
Non  t'ho  veduto:  tu  non  se' sforzesco  ? 

El  frate  fugge ,  e  grida  ad  alta  voce  : 
Questo  è  il  Diavolo!  e  dice  il  Miserere, 
E  fassi  spesso  il  segno  della  croce. 

El  tamburin  gridava:  I'  vo' da  bere, 
E  vo'  d' il  bon ,  che  '1  tristo  assai  mi  noce  ; 
El  frate  dice:  Andiàn,  ch'egli  è  dovere. 

Or  odi  bel  piacere: 
Quando  fracido  fu,  non  che  maturo,  3 
Disse:  Di  vin  voglio  impir  el  tamburo.  4 


i  Berla  per  Bertuccia  dice  il  Salvini  ;  se  però 
il  Poeta  non  chiama  quel  tamburino  t^  Berla, 
perchè  era  usato  a  dar  la  berta  a  questo  e  a 
quello,  e  far  burle  ,  come  la  fa  a  quel  frate  di 
questo  sonetto. 

2  Capino.  Cappuccio. 

3  Fracido  fu  ecc.  Non  solo  fu  maturo,  cioè 
ubriaco,  ma  ubriaco  fradicio. 

4  Tamburo.  Il  Salvini  annota:  La  pancia,  Ave- 
re la  pancia  come  un  latiìburo,  quando,  per  istrip- 
pare,  il  corpo  si  cava  di    ^'rinze.  , 


12  SONETTI. 

E'  v'era  un  poco  scuro 
In  caneva,  pur  vide  un  cappon  cotto:  } 
Gran  mercè  disse,  e  misseselo  sotto." 

SONETTO  X. 

DI  PRETE  FRANCESCO  TANZIO  AL  SIGNORE  LUDO  VICO 
PREGANDOLO  CHE  LO  FACESSE  CAPPELLANO  ALLA 
SFORZESCA.  3 

0  signor,  perchè  fui  sempre  sforzesco, 
Cerco  di  far  mia  vita  a  la  Sforzesca: 
Stu  non  credi  ciie  dotto  i'  ti  riesca, 
Fanne  la  prova  quanto  al  fondo  i'  pesco. 

r  mi  chiamo  d' i  Tanzi  un  pre'  Francesco , 
Che  ben  la  vita  tengo  a  la  Francesca, 
Macra,  e  non  ghiotta  comò  la  todesca , 
Unde  tu  puoi  veder  s' i'  sto  ben  fresco. 

Benché  non  sia  in  sonetto  el  Belli ncione. 
Mi  basta  essere  allievo  del  Marliano:  * 
Né  gli  epigrammi  è  mia  professione. 

1  In  caneva.  in  dispensa,  si  direbbe  oggi. 

2  Misseselo  sotto.  So  lo  mise  sotto  le  vesti,  e  lo 
portò  via. 

3  II  Tanzìo  abbiam  veduto  essere  raccoglitore 
e  pubblicatore  delle  poesie  del  Bellincioni  ;  e  può 
essere  che  questo  sonetto  lo  facesse  il  poeta  stes- 
so in  nome  di  lui;  o  forse  stampò  qui  il  sonetto 
suo,  perchè  si  intonda  meglio  la  risposta  fatta 
dal  Bellincione  a  nome  di  Lodovico  il  Moro.  La 
Sforzesca  era  villa  deliziosa  degli  Sforza. 

^Marliano.  Famoso   predicatore. 


SONETTI.  13 

Di  mal  di  povertà  mi  puoi  lar  sano  ; 
Io  mattin ,  messe,  vespri  et  orazione  i 
Dirò  per  te,  stu  sarai  tanto  umano 

Di  formi  cappellano 
Alla  Sforzesca,  e  mi  sarò  sforzato 
Di  farti  onor  e  che  ognun  m'abbia  amato. 

Ogni  dì  visitato 
Da  me  sarai  con  versi  del  vangelo 
E  d'Elicona  e  di  Parnaso  e  Delo. 

SONETTO  XI. 

IN   RISPOSTA   DSL  PRECEDENTE    PER    LE    RIME. 

(In  ^persona  di  LndovicoJ . 

Da  poi  eh'  i'  veggio  che  tu  se'  moresco.  2 
Vo'  che  tu  canti  in  chiesa  a  la  moresca , 
E  che  di  povertà  la  tua  vita  esca, 
Sendo  tu  stato  allievo  marlianesco. 

Poi  che  venuto  or  se'  sotto  al  mio  desco , 
Qual  Maddalena,  i'  vo'  che  me  n' incresca,  ^ 
E  vo'  che  '1  tuo  disegno  ti  riesca: 
Così  di  mono  vivo  i'  ti  ripesco.  * 


1  Mattin,  Mattutini. 

2  Moresco.  Partigiano  del  Moro;  e  così  poi  dice 
Cantare  alla  Moresca,  per  significare  il  cantar 
versi  e  vespri  per  la  prosperità  del  Moro. 

3  Qual  Maddalena.  In  atto  umile,  e  di  mise- 
ricordia. 

4  Ti  ripesca.  Stavi  per  affogare;  e  io  ti  levo 
dall'  abisso. 


14  SONETTI. 

La  lira  tua  mi  par  qui  d'  Anfìone , 
E  tanto  il  tuo  sonetto  commendiàno 
Ch'ai  Bellincion  tu  se'  ben  paragone. 

E  virtuosi  e'  buon  sempre  aiutiàno, 
linde  ci  hai  mossi  aver  compassione 
Della  tua  povertà  come  intendiàno; 

Però  ti  concediàno 
El  beneficio,  s' i' sarò  informato 
Che  tu  sia  dotto,  e  bono  a  me  laudato,  i 

Sta  m'  arai  dimostrato 
Non  aver  d' ignoranzia  a  gli  occhi  el  velo  , 
D'Inferno  ti  trarrò  per  porti  in  Cielo. 

SONETTO  XII. 

AL  SIGNORE   LUDOVICO  PREGANDOLO  ARGUTAMENTE 
CHE  VOGLIA  AVER  PIETADE  DELLA  SUA  POVERTÀ. 

Signor,  tanto  ho  cantato  il  Misererei 
Che,  stu  riguardi  adesso  el  Bellincione 
Cristoforo  da  Boia  parrà  el  Guascone  3 
Tanto  son  macro,  arido  e  leggere. 

Ambroso  dice:  Io  n'ho  gran  dispiacere, 
Nel  grasso  macro  stai  come  el  rognone.  ^ 

1  Bono  a  me  laudato.  Lodato  per  buona  per- 
sona. 

2  Tanto  ho  cantato.  Mi  sono  tante  volte  rac- 
comandato alla  tua  misericordia. 

3  Cristoforo  ecc.  Questo  verso  oscurissimo,  e 
di  falsa  misura,  non  so  che  significhi,  né  1'  ho 
potuto  corregger  su'  codici. 

•*  Nel  grasso  ecc.  Tu,  come  1'  arnione,  ti  con- 


SONETTI. 

A  San  Francesco  ti  vo'  fare  usciere , 
Ti  vo'  far  questo  ben  per  discrezione: 

Ambroso,  per  te  serba  quest'offizio: 
Due  novi  cazzi  sono  in  filosofia  i 
Poveri  chi  Diogene  e  Fabbrizio. 

Quell'  altro  inzoccolato  ha  fantasia  , 
Ch'  e  denar  siano  all'  anima  in  supplizio 
0  si  può  esser  santo  in  signoria. 

Chi  direm  che  quel  sia 
Che  sol  per  santimonia  vive  d'erba? 
Un  altra  bestia:  e  non  dirò  più  verba. 
Ella  è  pur  molto  acerba 
La  povertà,  e  troppo  tristo  augurio; 
Però  ti  raccomando  el  tuo  Mercurio.  - 


15 


servi  magro,  stando  tra '1  grasso.  Vivi  a  stento, 
stando  in  mezzo  alle  lautezze  della  corte.  Qui  si 
parla  di  quel  solito  Ambrogio  da  Corte  ,  allora 
tesoriere  del  Duca. 

i  Due  novi  ecc.  Qui  la  lezione  è  viziata:  si 
vede  per  altro  che  dà  del  semplice  a  Diogene  e 
a  Fabrizio,  che  vissero  in  povertà  volontaria;  e 
che  mette  in  deriso  la  dottrina  della  povertà  e- 
vangelica,  predicata  da  qualche  zoccolante;  e  af- 
ferma che  si  può  esser  santi  anche  essendo 
ricchi. 

2  11  tuo  Mercurio.  Colui  che  è  pronto  ad  ogni 
tuo  servigio,  come  Mercurio  è  pronto  a'  cenni  di 
Giove. 


1(3  SONETTI. 

SONETTO  XIII. 

DI   CERTI   riACEEI    CHE    PRESE    IL    SIGNORE    MARCHESE 
DI    MANTOVA    A    MILANO.  1 

Ognuno  Sforza,  Sforza:  e  s'è  sforzato 
Di  far  materie  el  nostro  galeotto, 
Quel  che  '1  mal  delle  donne  ebbe  ridotto 
Com'un  che  ha  ben  fottuto  e  assai  mangiato. 

Diavoli  questo  Castel  tia  ruinato, 
Dissi  io,  udendo  in  su  'n  un  tetto  il  botto; 
Ma  la  galea  mi  disse  un  savio  motto 
A  questo  vento  arò  el  timon  voltato. 

Salta  e  risalta,  ognun  grida,  Alessino, 
Gambari  cotti  et  ova  fresche  al  foco 
Parean  tutti  i  trebbi  d'un  casino. 

Ambroso  el  naso  ha  pur  cresciuto  un  poco 
Boccalon  boccalon,  non  boccalino. 
Volando  le  castagne  in  ogni  loco. 

Disse  Alessino:  Un  gioco 
Vo'  far,  Marchese,  e  piacerà  a  ognuno: 
È  come  esser  qui  due  e  parer  uno. 

SONETTO  XIV. 

DELLA   DISPUTA    DELLE   LEONE.  2 

Messer  Battista  par  ben  el  Battista 
Con  que'suoi  dolci  modi  e  bel  parlare: 

1  Questo  sonetto  ,  difettoso  nella  lezione  ,  e 
oscuro  per  se  stesso:  ha  assai  del  burchiellesco, 
e  degli  osceni  equivoci:  però  me  ne  passo  taci- 
tamente. 

2  Pare  che  il  Bellincioni  avesse  chiesto   delle 


li 


SONETTI.  17 

Non  so  se  un  diavol  sa  si  ben  tentare: 
Poco  con  lui  nel  disputar  s'acquista. 

Costui  farebbe  una  persona  trista 
Senza  corda  ogni  cosa  confessare, 
Di  bocca  un  dente  a  un  sapria  cavare, 
Non  le  parole  pure  a  un  sofista.  ' 

Madonna,  ancor  di  voi  mi  lido  poco. 
Per  dir:  Tòi  de  le  legne,  o  Bellincione, 
Pensasti  giunger  me  cosi  per  gioco; 

Non  mi  bisogna  aver  del  maccherone:  2 
Dico  che  di  mie  legna  ho  fatto  el  fuoco 
In  mezzo  di  duo  volpi  era  un  cappone.  3 

De  la  mia  discrezione 
Dice  pur  che  si  fida,  e  poi  tentato 
Che  poche  ne  torrà  el  prete  stroppiato; 

Sonmi  ben  consigliato 
Di  parlar  con  lui  poco  e  men  con  voi , 
Che  venderesti  a  un  castron  per  buoi. 

legna,  e  che  la  Duchessa  gli  dicesse  che  le  pren- 
desse; ma  quel  messer  Battista,  che  forse  era  il 
custode  di  esse,  con  belle  parole  lo  tenesse  a 
bocca  dolce,  e  non  gli  desse  nulla.  11  poeta  se 
ne  duole  col  presente  sonetto,  e  si  tiene  beffato 
da  ambedue. 

1  Non  le  parole  pure.  Costui  saprebbe  cavare 
un  dente  di  bocca  ad  altrui,  non  che  le  parole  a 
un  sofista.  Saprebbe  far  tacere  un  sofista. 

2  Non  mi  bisogna  ecc.  Non  ho  cara  di  esser 
trattato  da  balordo. 

3  In  mezzo  ecc.  lo  ero  come  un  cappone  in 
mezzo  a  due  volpi  :  ambedue  vi  pigliaste  giuo- 
co di  me. 

m 

2 


i 


18  SONETTI. 

SONETTO  XV. 

A     MRSSRE    BKROONZIO     DOMANDANDOOLI    POLVERE    ED 
ACQUE    ODORIFERE. 

Se  ier  ti  die"'  del  fonte  di  Parnaso 
Cibo  agli  orecchi  assai  con  miei  sonetti; 
Così  fra'  sentimenti  par  diletti 
Qualche  suave  odor  che  piace  al  naso. 

Se  '1  Salvator  da  Maddalena  a  caso 
L'odorifero  unguento  par  che  accetti, 
Unde  la  fé'  del  numer  degli  eletti 
E  di  sua  grazia  gli  fé'  colmo  el  vaso, 

Accetta  or  dunque  el  nostro  piccol  dono , 
Però  che  basta  la  'ntenzion  dei  core, 
Che  satisfar  non  puote  al  buon  volere. 

Se  già  d'arida  pianta  uscì  bel  fiore, 
Forse,  per  grazia  di  quell'alte  spere. 
Potrò  mostrare  un  dì  quanto  tuo  sono. 

SONETTO  XVI. 

AL  SIGNORE    CHIEDENDOGLI   PERDONO.    1 

0  famoso  mio  dolce  e  Duca  degno. 
Se  la  tua  faccia  angelica  e  serena 
Ier  sera  sol  per  me  turbasti  a  cena. 
Quel  fu  proprio  d'amarmi  un  vero  segno. 

S' io  fu'  cagion  de  la  tua  ira  e  sdegno, 
Ginocchioni  ai  tuoi  pie'  son  Maddalena, 

1  Si  vede ,  dice  il  Salvini ,  che  il  Poeta  aveva 
fatto  lo  'mperchè;  ma  qua!  fosse  il  suo  fallo  si 


SONETTI.  19 

Però  abbi  pietà  de  la  mia  pena, 

Che  di  piacerti  pur  mi  sforzo  e  ingegno. 

Quanta  fama  resulta  e  quanto  onore 
Quando  ai  suoi  servitor,  che  Tamon  tanto, 
Perdon  chiedendo  al  Duca ,  a  lor  perdona  ! 

In  questa  notte  il  mio  dormir  fu  il  pianto  : 
Errare  è  cosa  umana  a  la  persona: 
E  '1  perdonare  offizio  è  di  signore. 

SONETTO  XVII. 

CHIEDE    SEI    DUCATI   IN   PRESTO    DA     MONSIGNORE    SAN- 
SEVERINO. 

r  canto.  Monsignore,  il  Miserere,  i 
E  per  boschi  posso  ir  senza  sospetto, 
Che  un  Biante  novel  son  con  dispetto, 
Ma  ben  vorrei  parer  lupo  cerviere.  2 

E  ben  eh'  io  abbi  dalla  Corte  avere 
Vinti  ducati,  e  quella  manna  aspetto. 
Bisogna  che  tu  tragga  al  mio  sonetto  ^ 
El  tre  dua  e  asso,  e  sarò  poi  scudiere. 


'  Canto  il  Miserere.  Sono  al  verde,  son  mise- 
rabile. 

^Biante  è  colui  che  disse:  Omnia  bona  mea 
mecum  porto. 

3  Tu  tragga  ecc.  Giuoco  di  parole  tratto  dal 
giuoco  de' dadi:  il  ire  due  asso,  cioè  il  sei;  e 
sarò  scudiere,  vuol  dire  che  sieno  sei  scudi. 


20  SONETTI, 

Questi  fieno  i  color  d'un  mio  disegno;' 
Né  prima  arò  la  mia  provvisione 
Che  torneranno,  e  fia  la  fede  il  pegno. 

Se  questa  volta  ajuti  el  Bellincione, 
Vedrai  far  fiore  e  '1  frutto  al  secco  legno; 
Non  farei  dir  in  chiesa  un'  orazione. 

A  far  conclusione, 
Se  questo  voto  esaldi  al  bisognoso,  2 
Tu  serai  più  che  san  Martin  pietoso. 
Stu  di'  :  Presuntuoso  ! 
Rispondo  un  bel  proverbio,  eh'  i'  t'avviso: 
L' una  man  lava  l'altra,  e  le  due  il  viso. 

SONETTO  XVIII. 

CHIEDE   DENARI   AL   TESAUBIERE  DUCALE   AMBROSIO  DA 
CORTE. 

r  arei  convertito  ogni  Giudeo, 
E  condotta  Diana  in  un  bordello, 
E  Sisto  m'are'  dato  il  suo  mantello 
Et  umile  arei  fatto  Campaneo.  3 

1  Fieno  i  color.  Modo  bellissimo  per  dire  che 
dovevano  servirgli  a  un  dato  effetto.  E  gli  pro- 
mette di  restituirgli  quando  riscuote  la  provvi- 
sione. 

i  Esaldi.  Esaudì,  Esaudisci;  e  cosi  Laide  fu 
detto  per  Laude. 

3  V  arei  ecc.  Dice  che  per  lui  avrebbe  fatto 
ogni  cosa  più  difficile,  come  di  convertir  i  Giu- 
dei ;  indurre  la  dea  dell'onestà  a  far  mala,  vita; 
papa  Sisto  a  cedergli  il  mantello;  ridurre  umile 


I 


SONETTI.  21 

Io  arei  per  te  (fitto  el  san  Matteo  , 
Quando  sequere  me  gli  disse  quello; 
Però  mi  tratta  a  uso  di  fratello, 
S'io  ho  più  fede  in  te  che  in  giubileo. 

La  fabula  d'Isopo  or  qui  t'adatto: 
Sai  che  nel  laccio  si  trovò  il  Lione, 
Né  si  credea  che  '1  liberasse  el  ratto. 

Intende  appunto  l'uom  ch'ha  discrezione. 
Deh!  non  piìi  fior,  confortami  un  po'  il  tatto, 
Stu  voi  a  dir  di  te  paja  Anfione.  i 

Più  leggier  eh'  un  cannone  ^ 
Ti  sarà,  stu  vorrai  servir  Bernardo, 
Che  sia  lupo  cerviere,  o  leopardo. 

SONETTO  XIX. 

A   MADONNA   CHE  LO   RACCOMANDI   AL   SIGNORE. 

0  lunae,  o  specchio,  o  sol  di  nostra  etate , 
0  celeste  bellezze ,  o  modi  santi  , 

Capaneo,  che  presso  Dante  è  simbolo  della  su- 
perbia ecc.  ecc.;  e  però  lo  prega  che  lo  tratti 
amorevolmente;  ricordandogli  che  anche  l'uomo 
più  umile  può  in  certi  casi  rendere  grandi  ser- 
vigj,  come  fece  il  topo  che  rosicchiò  la  fune  che 
teneva  avvinto  il  leone. 

1  Non  più  fior  ecc.  Non  mi  dar  più  le  belle 
parole;  ma  de' fatti. 

2  Fiù  leggier  ecc.  Tra  tutti  i  cannoni  della 
Crusca  non  ce  n'ò  uno  che  si  possa  adattare  a 
questo,  nò  anche  il  bocciuolo  di  canna.  Che  vor- 
rà egli  dire?  In  sostanza  il  Poeta  significa  il 
concetto  di  esser  pronto  ad  ogni  servigio  di  Am- 
brogio. 


22  SONETTI. 

0  Lucrezia  a'  costumi  et  a'  sembianti , 
Esemplo  e  fundamento  d'onestate, 

Per  quella  vostra  naturai  pietate, 
Pei  giusti  merli  vostri  oggi  in  ciel  tanti, 
Mai  v'inclinasti,  or  fate  ch'io  mi  vanti  ^ 
Che  a  Ludovico  or  mi  raccomandiate. 

Parte  di  mia  fortuna  e  mio  contento 
Sarà  in  vostre  parole  col  parente , 
Da  poi  che  tanto  ben  voi  vi  volete. 

Del  proprio  core  a  voi  fare  presente 
Un  desider  di  foco  or  m'  arde  drente, 
E  di  calcina  e  pietre  è  la  mia  sete.  2 

SONETTO  XX. 

A  MESSER  GASPARE    VISCONTE. 

Ogni  giorno  a  Milan  ci  pare  un  anno , 
Stando  voi  tanto  a  vostra  casa  nuova, 
La  quale  i'  so  che  all'  abitar  non  giova 
Qual  potre'  far  quando  la  fussi  panno.  ^ 

1  Mai  v'  inclinasti  ecc.  Pare  che  qui  sia  difet- 
tosa la  lezione  :  raa  non  la  ho  trovata  da  rad- 
dirizzare coi  codici. 

2  Un  desider  di  fuoco.  Tutto  questo  sonetto  è 
sgarbato  e  sforzato;  e  quella  sete  di  calcina  e 
pietre  è  proprio  una  sciatteria.  Pare  che  desi- 
derasse una  casa  dove  abitare. 

3  Ogni  giorno  ecc.  Gli  fa  rimprovero  di  star 
lontano  da  Milano  per  la  smania  di  stare  in  una 
sua  casa  nuova;  dicendogli  che  non  giova  l'abi- 
tare una  casa  nuova,  come  gioverebbe  (strana 
idea!)  se  fosse  di  panno. 


SONETTI. 


23 


Con  voi  bisognereccì  el  torcimanno, 
Se  l'esser  forestier  tanto  vi  giova, 
Però  chi  troppo  una  speranza  cova, 
Si  dice  che  ne  perde  in  co  de  Tanno.  ' 

Leggete  'n  un  capitol  degli  specchi 
E  trovarete  che  le  case  nuove 
Non  posson  però  far  eh'  un  non  invecchi. 

Sicuro  or  siete  dell'  uccel  di  Giove,  ^ 
Seudo  tornata  primavera  stecchi ,  3 
E  questo  a  lacrimar  forse  ne  muove. 

Tornate  presto  dove 
Antonietto  v'aspetta  ed  Arrighetto, 
Che  v'ama  e  loda  assai  più  che  '1  confetto. 

SONETTO  XXI. 

FATTO  QUANDO    SI   RAPPRESENTÒ   LA    COMEDIA    D'ANFI- 
TRIONE A   FERRARA.. 

Bellincion ,  che  vorresti  ire  a  Ferrara, 
A  che  fare?  —  A  portar  certi  sonetti, 


1  Con  voi  ecc.  Se  state  tanto  tempo  lontano, 
dimenticherete  la  lingua  nativa,  e  vi  bisognerà 
poi  l'interprete;  e  poi  lo  conforta  a  sbrigarsi, 
perchè  la  speranza  lunga  in  capo  all'  anno  è 
dannosa  :  Spes  quae  differtur  affligil  animum  . 
dice  Salomone. 

2  Uccel  di  Giove.  Forse  era  in  Germania  ;  e 
vuol  alludere  all'aquila  imperiale. 

3  Sendo  tornata  ecc.  La  primavera,  i  fiori  più 
vaghi,  son  diventati  stecchi,  cioè  ogni  lieta  spe- 
ranza è  svanita. 


24  SONETTI. 

Che  so  che  riuscirebbono  confetti 
A  chi  la  bocca  avessi  punto  amara. 

Ma  e' non  gli  intende  ognun  chi  non  dichiara.  ' 
Quel  de  la  lega  ha  certi  colpi  netti, 
Quel  de  la  pace  ancora  è  degli  eletti, 
El  Tuttavilla  tuo  gli  lauda  a  gara. 

A  Ferrara  son  certi  dicitori , 
Vorrei  veder  se  pigliano  i  leoni, 
E  se  i  frutti  riescon  come  i  fiori.  2 

Certi  sonetti  ho  visti  che  son  buoni  ; 
Ma  el  paragon  sentenzia  po'  i  colori, 
Ove  poi  si  conoscono  i  navoni. 

A'  fianchi  hanno  gli  sproni 
E  poeti  a  Ferrara,  e  tuttavìa 
Compongon  far  più  d' una  comedia  ; 

Ma  ella  è  più  fantasia 
Far  delle  nuove,  e  d'ingegno  più  cauto, 
Che  far  di  quelle  di  Terenzio  e  Plauto.  3 


1  Ma  e'  non  gì' intende  ecc.  Non  tutti  gì'  in- 
tendono, se  qualcuno  non  gli  dichiara  ;  e  ne  no- 
vera alcuni. 

2  Vorrei  veder  ecc.  Vorrei  un  po'  vedergli  alla 
prova,  se  i  fatti  rispondono  alle  parole,  e  se  i 
loro  sonetti  reggono  al  martello. 

^  A' fianchi  ecc.  A  Ferrara  i  poeti  scrivono 
molto  e  presto,  e  compongono  delle  commedie, 
raffazzonate  su  quelle  di  Terenzio  e  di  Plauto  ; 
ma  chi  ha  vera  fantasia  e  ingegno  le  fa  di  nuovo. 


SONETTI. 


25 


SONETTO  XXII. 

db'  bovi  che  furono  mandati  in  dono  a  VENEZIA. 

Se  stati  fussin  nell'antica  legge' 
Offerti  questi  al  sacrificio  santo 
Non  al  Salmista  e  a  Ezechia  el  pianto 
Bisognava  a  placar  chi  tutto  regge. 

Come  'n  un  volto  una  affezion  si  legge 
D'un  cor,  cosi  sarà  tal  dono  alquanto; 
Né  pensar  quale  è  '1  meritar  più  tanto 
Né  quanto  può  chi  patri  a  se  v'  elegge. 

Forse  miglior  principio  e  fortunato 
Avea  Cartago ,  se  Didone  allora  ^ 
Un  di  questi  animali  avuto  avesse. 

Ma  ben  Giove  ne  sia  da  noi  laudato, 
Che  questi  a'  tempi  nostri  ne  concesse  3 
Co'  quai  novella  Roma  oggi  s' onora. 


1  Se  stati  ecc.  Loda  la  bellezza  di  tali  bovi, 
dicendo  che,  se  tali  fossero  stati  quelli  offerti, 
neir  antica  legge  ,  Dio  si  sarebbe  tosto  placato 
senza  bisogno  di  aggiungere  le  lacrime  :  che  il 
dono  è  veramente  degno  della  repubblica  di  Ve- 
nezia; e  che  tal  dono  fa  aperto  segno  dell'ani- 
mo nobile  di  chi  Io  fa.  * 

2  Forse  ecc.  Se  Didone  avesse  avuto  uno  di 
questi,  Cartagine  sarebbe  stata  piU  felice.  Si 
dice  che  Didone  occupasse  tanto  spazio  nel  fon- 
dare Cartagine,  quanto  ne  circondava  un  cuojo 
di  bove,  ridotto  in  sottili  strisce. 

3  Ma  ben  ecc.  Bizzarro  e  goffo  pensiero  del 
ringraziar  Giove,  perchè  ne  ha  concesso  sì  bei 
bovi  ! 


26  SONETTr. 

SONETTO  XXIII. 

À  TIMOTEO  DOMANDANDOGLI  LA  CAUSA  PER  CHE  SI 
PIANGA  PER  UNA  GRANDE  LETIZIA  E  PSR  UN  GRAN- 
DE   DOLORE. 

0  Timoteo ,  che  Amor  porti  dipinto 
Oggi  nel  volto  e  morte  in  e  lamenti,  ^ 
Ringraziar  puoi  chi  par  or  ti  consenti 
Che  de  le  chiome  sue  tu  vadi  cinto. 

Ma  guarda  pur  che  poi  di  sangue  tinto 
Non  sia  da  lor,  che  un  seme  han  di  serpenti,  ^ 
Di  lacrime  sta  ben  se  ti  contenti 
Legarti,  per  mostrar  ch'Amor  t'ha  vinto. 

Ma  ben  vorrei,  che  tu  m'aprissi  un  nodo, 
Che  tiene  alquanto  in  dubbio  el  mio  intelletto, 
Poi  che  hai  tutte  le  Muse  per  compagne. 

Di  due  contrarj  un  medesimo  effetto 
Si  vede:  or  dimmi  questo,  e  per  che  modo 
Per  gran  letizia  e  per  dolor  si  piagne. 

SONETTO  XXIV. 

VOLENDO  COLLOCARE  UNO  PER  CAMERIERE  CON  UN 
SIGNORE. 

Signor,  quel  camerier  eh'  io  ti  vo'  dare 
Ti  sarà  sempre  sotto  paziente: 

1  In  e.  Come  se  dicesse  in  i,  in  gli  ,  per  nei, 
o  ne'  ;  ma  è  forma  antiquata  e  un  po'  strana  :  se 
pure  il  poeta  non  scrisse  pleonasticamente  inne', 
come  già  si  fece  e  si  fa  tuttora  dal  volgo. 

2  Un  seme  ecc.  Pare  che  questo  Timoteo  fosse 
innamorato  di  una  de' Visconti,  che  hanno  la  bi- 
scia per  insegna. 


SONETTI. 


27 


Egli  ha  buona  memoria  e  tiene  a  mente, 
E  sarà  buon  da  camera  e  tagliare.  ^ 

Innante  e  indietro  ancor  per  cavalcare 
E'  t'ha  a  piacere,  uman,  tutto  servente  : 
Toccai  dove  tu  voi,  gli  è  sufficiente; 
Or  vedi  eh'  el  si  può  teco  acconciare. 

Buon  naturai ,  buon  occhio ,  ha  del  sottile 
Da  commettergli  un  tuo  secreto  bene, 
Et  a  venirti  drieto  è  sempre  umile. 

Non  mesce  col  parlar,  anzi  ritiene  ;  ^ 
Al  menare  una  penna  atto  e  gentile  ,  3 
Ha  buon  verso,  ha  l'età  che  s'appartiene. 

E  che  più  si  conviene; 
Per  patre  e  matre  è  tutto  fiorentino, 
E  proprio  è  buon  fra  '1  grande  e  fra  '1  piccino. 

SONETTO  XXV. 

DIMOSTRA  ESSERE  IMPOSSIBILE  CHE  SI  DIMENTICHI 
de'  BENEFICJ  RICEVUTI  DAL  SUO  ILLUSTRISSIMO 
SIGNOR  LUDOVICO. 

Nel  mezzo  giorno  fia  settentrione,  * 
E  l'occaso  sarà  nell'oriente. 


1  Da  camera  e  tagliare.  Per  servirti  in  came- 
ra, e  per  servire  a  tavola. 

2  Non  mesce  ecc.  Non  parla  troppo  ;  anzi  è  ri- 
tenuto. 

3  Al  menare  una  penna  ecc.  Questo  sonetto  ha 
degli  equivoci  osceni,  che  non  accade  commen- 
tarli. 

4  Nel  mezzo  giorno  ecc.  Il  presente  sonetto 
procede  per  impossibili  ;  e  su  questo  fare  molti 


28  SONETTI. 

E  senza  vita  viverà  la  gente, 
E  fìa  riposo  ov'è  confusione. 

E  libertà  sarà  'n  ogni  prigione , 
E  '1  futuro  e  '1  preterito  in  presente, 
E  la  luna  ara  al  sol  le  fiamme  spente  , 
E  sarà  giusto  l'uom  sanza  ragione. 

E  '1  cieco  abisso  fia  senza  supplizio , 
E  Pluton  pentirassi  el  gran  nemico, 
E  spegnerassi  Tantalo  la  sete , 

Prima  che  ingrato  i'  sia  del  benefizio 
Ricevuto  dal  dolce  Ludovico  ; 
Né  mai  berò  per  lui  al  fiume  Lete.  ^ 

SONETTO   XXVL 

CONFORTA   UN  AMICO  CHE    NON  VOGLIA  DEVIARE  DALLA 
VERA   AMICIZIA. 

Qual  van  pensiero  e  qual  tuo  vano  errore ,  ^ 
Qual  creder  falso  in  te  di  me  si  crede, 
Che  violando  va  mia  pura  fede 
Che  infra  due  amici  sempre  accresce  amore? 

Ogni  salute  tua,  ogni  tuo  onore, 
Drento  nel  cor  coir  anima  mia  siede; 


poeti  ne  hanno  composti  de'  simili ,  tra'  quali  è 
assai  bello  quel  del  Saccenti  :  Quando  vedrò  le 
stelle  a  mezzo  giorno. 

1  Né  mai  ecc.  Non  me  ne  dimenticherò  mai. 

2  Qual  creder  falso,  Qual  sospetto  hai  preso 
contro  di  me^  qual  falsa  credenza  hai  del  fatto 
mio  ? 


SONETTI.  29 

E  quel  che  per  sé  vuole  a  te  concede, 
Perchè  un  me  stesso  t'amo  a  tutte  l'ore. 

E  sempre  t'amerò,  quando  e' ti  piaccia; 
Però  leva  dal  cor  quel  che  n'offende, 
E  r  opra  sia  bon  testimon  del  vero.  ^ 

Non  ismarrir  del  nostro  amor  la  traccia: 
Se  '1  tempo  è  quel  che  buon  giudicio  renda 
Qual  sempre  fui  vedra'mi  amico  intero. 

SONETTO  XXVII. 

d'  una  visita  che  vuol  pare  ad  una  certa  casa 
coi  suoi  compagni. 

Noi  vi  vogliàn  venire  oggi  a  vedere  2 
E  nostra  guida  fia  messer  Matteo, 
E  verrén  per  cantare  un  bel  Tedeo, 
Che  sappiàn  che  vi  spiace  el  Miserere.  3 

Più  sgonfiati  sono  al  mio  parere  * 


1  E  l'opra  sia  ecc.  E  mostrami  coll'opera,  col 
fatto,  che  tu  mi  vuoi  sempre  bene,  e  che  credi 
eh'  io  ne  voglia  a  te. 

2  Vogliàn  ecc.  Ricordi  il  lettore  che  gli  ihti- 
chi  F'iorentini  dissero  vogliano,  facciano  e  simili, 
por  vogliamo,  facciamo. 

3  Un  bel  Tedeo.  Veniamo  per  istare  in  festa, 
dacché  sappiamo  che  a  voi  dispiace  la  melan- 
conia. 

4  Più  sgonfiali  ecc.  Abbiamo  il  corpo  vuoto; 
ma  da  te  lo  leveremo  di  grinze  ,  cioè  mangere- 
mo lautamente  ,  e  diventerà  sodo  e  tirato  come 
un  tamburo. 


30  SONETTL 

I  corpi  nostri  ,  e  però  mi  recreo 
Che  tornerai!  tamburi ,  e  l' Agnus  Deo 
Faranno  a  tergo  al  fin  di  lor  godere.  ^ 

Questo  sonetto  ha  fatto  el  Bellincione, 
Che  sta  col  Duca ,  e  giura  con  costoro 
Non  esser  la  voragin  del  Tapone.  2 

Ma  vien  quel  triunfante  e  sacro  alloro 
Che  legge  al  signor  nostro,  el  poetone 
Che  sempre  ha  seco  di  Parnaso  el  coro. 

Che  tanto  argento  et  oi'o?^ 
Come  messer  Matteo  disse  al  signore: 
Trionfare  e  godere  e  farsi  onore. 

Non  venen  con  amore 
Con  quel  divino  ajuto  che  dà  Bacco, 
E  però  vada  la  cucina  a  sacco. 

i  L'Agnus  Deo  faranno  ecc.  Pare  che  voglia 
dire:  Faranno  del  vento  di  dietro;  oppure  che  io 
sia  ecc.  allusione  oscena,  come  parve  al  Salvini, 
che  nel  margine  scrisse:  Bricconel 

2  Giura  con  costoro  ecc.  Ora  dice  chi  sono  co- 
loro che  anderanno  da  lui  :  prima  lo  accerta  che 
non  vi  sarà  il  Tapone  famoso  mangiatore;  e  poi 
dicèftche  vi  sarà  quel  famoso  poeta,  che  legge  le 
sue  mirabili  poesie  al  Duca  (forse  il  Tibaldeo). 

3  Che  tanto  argento  ecc.  Che  importa  posse- 
dere tanto  argento  ed  oro?  basta  star  allegri  e 
farsi  onore  ;  esser  buoni  amici;  e  mangiare  e  bere 
del  migliore.  Dunque  vada  a  sacco  la  cucina,  man- 
giamo tutto  ciò  che  si  può  trovar  di  meglio  in 
cucina. 


SONETll. 

SONETTO   XXVIII. 


31 


CONTRO  QUELLI  CHE  INDEBITAMENTE  SONO  FAVORITI 
CONFORTANDO  COLORO  CHE  MERITANO  FAVORE  E 
NON    h'  HANNO. 

r  vo  pensando  pur  che  grado  o  stato  ' 
Avessi  a  Pietro  dato  il  Salvatore 
Se  non  avessi  fatto  il  grande  errore 
D'aver  tre  volte  il  suo  signor  negato: 

Credo  che  'n  Ciel  se  lo  terrebbe  a  lato, 
Dov'è  '1  pericol  poi  del  troppo  amore; 
Ma  questo  è  proprio  al  diavol  fare  onore, 2 
Aver  r  errante  più  che  '1  giusto  amato. 

Fortuna,  o  Fato,  o  gli  Inferi,  o  Natura 
Fa  eh'  un  fa  ben  a  chi  peggio  si  porta, 
0  sia  per  troppo  amore,  o  per  paura. 

Ma  el  savio  col  ben  far  se  ne  conforta,  '^ 
Dicendo,  che  al  fin  vince  chi  la  dura 
Servendo  fidelmente  assai  comporta. 


1  l'  vo'  pensando  ecc.  Fa  quasi  rimprovero  a 
Cristo  di  aver  fatto  suo  vicario  S.  Pietro,  benché 
lo  negasse;  e  dice:  Che  grado  gli  avrebbe*  egli 
dato,  se  negato  non  l'avesse? 

2  Ma  questo  è  ecc.  Ma  chi  poi  vuol  piti  bene, 
e  premia  piti  il  tristo  che  il  buono,  questo  è  un 
fare  onore  al  diavolo. 

3  Ma  el  savio  ecc.  Tuttavia  il  savio  si  conforta 
nel  ben   operare,   perchè  sa  che   qui  perseveret 
usque  in  finem  Me  salvus  erit,  e  che  il  bene  ope- 
rare, o  prima  o  poi,  ha  il    suo   guiderdone.   Chi 
dura  la  vince  è  proverbio  vivo  tuttora. 


32  SONETTI, 

Un'  alta  mente  accorta 
D'  un  signor  non  s' inganna  al  fior  del  frutto,  ' 
Ma  '1  tempo  sforza  spesso  el  bel  far  brutto. 

El  savio  intende  tutto, 
Se  '1  cielo  o  la  fortuna  porge  insulti: 
Sai  che  prudenzia  è  scritta  con  tri  vulti.  2 

SONETTO  XXIX. 

A   MESSER  FRANCESCO    GUASCONE.  3 

Io  vi  mando  un  sonetto  burchiellesco , 
Che  de  l'enigma  alquanto  è  foderato; 
Un  consiglio  vorrei;  non  do  il  ducato,  ^ 
Perchè  de'  Frati  son  di  san  Francesco. 


1  Al  fior  del  frutto  ecc.  Vedendo  il  fiore,  non 
s'inganna  nel  giudicare  qual  sarà  il  frutto. 

2  Scritta  con  tri  vulti.  Forse  il  sonetto  è  per 
un  de'  Trivulzj  ;  e  però  fa  rallitterazione  del  tri 
vulti  (tre  volti)  dicendo  che  la  Prudenza  si  de- 
scrive con  tre  facce. 

3  Guascone  ecc.  Questi  è  Francesco  Guasconi 
oratore  di  Firenze  appresso  il  Duca,  ed  a  lui  è 
diretto  il  seguente  sonetto  Burchiellesco  ,  del 
quale  il  presente  è  come  chi  dicesse  la  lettera 
d' invio,  nella  quale  piglia  occasione  di  pregarlo 
che  gli  additi  un  Mecenate. 

4  Non  do  il  ducato.  Pare  che  allora  per  ave- 
re un  consiglio  da  un  avvocato,  si  pagasse  un 
ducato. 


SONETTI.  3;i 

Dice  un  proverbio:  Chi  ben  cena  a  desco  ^ 
Col  corpo  pien  non  cretle  a  T affamato; 
Così  chi  si  ritruova  in  grande  stato 
Dice  che  Ciceron  parla  in  todesco.  • 

Qual  lìa  ìà  stella  mia,  quale  il  mio  porto, 
Che  fia  Zeffiro  nostro  un  Mecenate 
Che  le  mie  rime  fruttin  nel  suo  orto. 

Tante  i'  n'  ho  in  sulla  rena  seminate 
Che  Fortuna  mi  tien  tra  vivo  e  morto, 
Che  si  dispererebbe  ogni  bon  frate. 
E  però  mi  mostrate 
Un  sol  che  sia  colui  che  chiuse  Tebe 
Non  dell'  invida,  ingrata  e  cieca  plebe.  3 


'  Chi  ben  cena  ecc.  Adesso  il  proverbio  dice 
più  concisamente:  Corpo  pieno  non  crede  al  di- 
giuno. 

2  Dice  che  Ciceron  ecc.  1  grandi  sono  gene- 
ralmente ignoranti.  Allude  a  quel  Cardinale  che, 
venutolo  a  visitare  un  gran  Cavaliere  tedesco, 
e  parlandogli  latino,  egli  non  seppe  rispondere: 
della  qual  cosa  ripresolo  poi  un  suo  familiare, 
egli  si  scusò  dicendo,  che  non  sapevano  inten- 
deva la  lingua  tedesca.  «Ma,  Eminenza,  disse  il 
familiare,  quel  Tedesco  parlava  latino.»  E  il  Car- 
dinale: «  Richiamatelo  indietro,  che  voglio  ri- 
spondergli. » 

3  Sia  colui  ecc.  Mi  mostra  uno  solo  che  sia 
Anfione,  cioè  poeta  gentile  e  dolcissimo,  il  quale 
non  sia  invidiato  dalla  ingrata  plebe.  La  lezione 
dell'  ultimo  verso  ò  per  avventura  errata,  né  ho 
potuto  correggerla  su'  manoscritti. 

3 


34  SONETTI. 

SONETTO  XXX.  i 

ALL'  ORATORE   FIORENTINO. 

El  nipote  del  mondo  nano  e  grande 
Alquanto  con  Junione  è  forse  stato, 
Ma  dell'antica  Venere  ha  pensato 
Sì  che  si  forza  aver  di  sue  vivande. 

Costor  non  teson  reti  per  ghirlande, 
Che  Simon  mago  in  terra  fu  cascato, 
Che  tristo  fundamento  ebbe  trovato, 
Or  non  si  stia  fra  '1  zucchero  e  le  ghiande. 

El  mezo  giorno  che  si  chiama  notte 
Cento  lanterne  porta  accese  in  mano, 
E  Giove  l'ha  guarito  de  le  gotte; 

E  perchè  el  Lauro  mai  teme  Vulcano, 
Lo  Dio  de'  funghi  colle  reti  rotte 
Fuor  de  1'  erba  lo  cava  lieto  e  sano. 
Odi  che  caso  strano: 
Mercurio  oggi  dispiace  a' gran  signori. 
Perchè  porta  el  cappel  di  due  colori. 


'  È  burchiellesco  ed  enimmatico:  idest  bujo 
pesto  e  indegno  che  ci  spenda  tempo  chi  non  è, 
o  accademico  della  Crugca,  o  alla  Crusca  devoto. 


SONETTI.  35 

SONETTO  XXXI. 

DEL     BACIO.  ' 

Triunfo  a  l'ombra  del  mio  santo  alloro '-^ 
Cibando  me  di  sue  foglie  gioconde, 
Gustando  in  lui  de  le  Castalide  onde, 
Però  r esalto  e  volentier  l'onoro. 

Questo  è  de'  danni  miei  tutto  el  ristoro , 
Questo  a  miei  prieghi  sempre  mai  risponde; 
El  Ciel  de  la  sua  grazia  in  questo  infonde, 
Però  che  amato  egli  è  da' bei  crin  d'oro.  3 

A  Napoli  ne  vo  per  farmi  onore 
A  la  Badia,  tu  sai,  quel  boccon  mondo 
A  la  barba  di  Sisto  fra  minore;^ 

Pur  drieto  con  sonetti  i' ti  secondo, 
Arem  forsi  di  là  tanto  favore 
Quanto  altri  in  altra  Corte  a  te  rispondo: 

In  troppe  coi^e  abondo  ; 
r  me  ne  vo  nel  paradiso  aperto. 
Che  Gualtier  de'  tuoi  versi  m' ha  offerto. 


'  Bagio.  Non  ho  potuto  trovare  chi  sia  quosto 
Baggio,  il  quale  par  che  avesse  avuto  una  Badia 
a  Napoli  col  favor  di  Lorenzo  de' Medici. 

2  Del  mio  santo  ecc.  Pare  che  alluda  a  Lo- 
renzo de'  Medici. 

^  Da' bei  crin  d'oro.  Da  Apollo. 

^  A  la  barba  di  Sisto  ecc.  In  onta  e  dispetto 
di  Sisto  IV.  Pare  che  avesse  avuto  una  Badia 
assai  grassa  contro  la  volontà  del  Papa;  che 
torse  era  di  data  del  Re.  Ma  non  lo  affermo. 


30  SONETTI. 

SONETTO   XXXII. 

l.N    NOMR    DK.LLA    DUCIIRSSA    ISABKLLA  AL    SIGNOR  DUCA 
KSSKNDO    LRl   INFERMA. 

Non  so  qual  sia  più  grave  in  me  el  dolore:  ' 
0  quel  che  '1  corpo  mio  tiene  in  tormento , 
0  rajtro  che  ne  l'animo  poi  sento 
Veder  di  me  dolente  el  mio  signore. 

Questo  secondo  or  più  m'affligge  el  core 
Per  eh'  io  conosco  el  suo  chiuso  lamento, 
Chò  di  lacrime  un  mare  è  proprio  drento, 
E  per  non  mi  turbar  lieto  è  di  fore. 

Per  esser  dunque  al  nostro  amor  fìdeli 
Lui  le  lacrime  asconde,  et  io  e  sospiri , 
Unde  siàn  per  pietate  a  noi  crudeli. 

Cosi  comuni  a  noi  sono  i  martiri 
E  le  dolcezze;  e  così  piaccia  a' Cieli 
Che  dopo  morte  Giove  a  se  ne  tiri. 

SONETTO  XXXIII. 

all'  oratore   di  FERRARA   MESSBR  JACOPO  TROTTO. 

Quella  invidiosa,  un  foco  d'ogni  regno,  2 
Che  al  gran  convito  die'  quel  pomo  d'oro, 
Unde  Palla  e  Giunon  n'ebbon  martoro, 
E  Vener  lieta  di  lor  justo  sdegno, 


'  Non  so  ecc.  Tutto  il  sonetto  è  facile,  ben 
condotto,  e  informato  di  vero  affetto. 

^  Quella  invidiosa-  Il  Salvini  annota  parlarsi 
qui  della  Discordia. 


,  SONETTI.  37 

Oggi  (l'invidia  avendo  più  '1  cor  pregno 
Veder  per  Isabella  il  divin  coro,  ^ 
Con  Giove  al  mondo,  e  '1  gran  piacer  ne  ha  '1  Moro  . 
Turbato  ha  in  parte  a  quello  el  bel  disegno.  - 

La  maliziosa  troppo  ha  auto  el  torto, 
Che  dal  magno  spettacul  ne  divide 
Un  novo  Argo,  un  Edipo  a  chi  l'ascolta.  . 

Divo  Orator  del  gran  figliuol  d' Alcide  3  n 
Jacopo  Trotto,  or  m'hai  ridotto  in  porto 

rPer  far  più  lieto  Giove  un'altra  volta. 


SONETTO  XXXIV. 

d'  un    MELLONK.  4 

Non  so  se  quel  Melon  fu  come  certi, 
C  hanno  il  corpo  formoso  ornato  e  bello, 


1  Veder  ecc.  Vedendo  che  ogni  poeta,  ed  ogni 
uomo  segnalato  celebra  Isabella;  e  il  gran  pia- 
cere che  il  Moro  ne  prova. 

2  Turbato  ha  in  parte  ecc.  Allude  forse  a  qual- 
che screzio  nato  tra  il  Moro  e  il  Duca  di  Fer- 
rara, che  Giacomo  Trotto,  avea  commissione  di 
assestare.  Almeno  cos\  si  raccoglie  dalla  chiu- 
sa del  sonetto.  Per  via  della  storia  non  ho  po- 
tuto chiarir  nulla.  Però  v'è  dell'oscuro. 

3  Figliuol  d'Alcide.  L'  adulazione  poetica  fece 
gli  Este  discendenti  da  Ercole. 

4  Melone.  A  chi  o  a  che  allude  questo  Melone? 
Noi  so:  ma  pare  che  voglia  riferirsi  alla  persona 
che  fu  cagion  della  malattia  onde  parla  poco  ap- 
presso; o  forse  al  medico  che  lo  curava. 


38  SONETTI. 

Ma,  cercando  po'  '1  drente  del  cervello  '    • 
Quivi  trovi  di  Libia  e  suoi  deserti.  ^ 

Quante  magagne  e  drappi  han  ricoperti 
Facendo  un  gufo  Filomena  uccello! 
Così  Natura  spesso  col  pennello 
L'occhio  ha  ingannato  in  sin  che  non  ti  accerti.  ^ 

De  le  risa  el  Melon  vidi  crepare , 
E  dire:  El  Bellincion  Tiresia  fia, 
Che  mentula  or  non  ha  nel  suo  ammalare. 

Non  son  poeta  i'  son  la  poesia, 
Che  un  corpo  finto  proprio  esser  mi  paro 
Sì  m'  ha  dipinto  questa  malattia. 

Chi  vuol  far  notomia  * 
Di  muscoli,  di  nervi  e  poi  dei  drento, 
D^  fuor  mi  guardi ,  e  restarà  contento. 


1  Cercando  'l  drento.  Guardando  la  parte  di 
dentro.  Drento  ò  metatesi  dell'idiotismo  toscano 

2  Di  Libia  ecc.  Trovi  che  in  quel  cervello  non 
v'è  ombra  di  senno. 

3  Quante  ecc.  Una  nobile  veste  ricopre  molte 
magagne;  e  alle  volte  fa  reputare  un  gufo  per 
un  usignuolo  ;  e  cosi  la  Natura  spesso  ha  dato 
certe  forme  esteriori,  e  certi  tratti  ad  alcuni  uo- 
mini, che  per  ciò  si  giudicano  assai. diversi  da 
quel  che  sono.  Fronti  nulla  fides,  dicevasi  per 
antico;  e  Fedro  Decipit  frons  prima  multos. 

•*  Chi  vuol  far  notomia.  Dice  di  esser  diven- 
tato così  secco,  e  quasi  diafano,  che  volendo  stu- 
diare r  anotomia  delle  parti  interne,  si  può  fare 
col  solo  guardarlo,  e  senza  adoperar  coltello. 


SONETTI.  39 

D>ilce  speranza  sento 
Che  questo  mostri  al  tuo  e  nostro  Moro , 
Che  vuol  far  ritornar  l'età  dell'oro. 

SONETTO  XXXV. 

CHIEDE   DENARI    AL   TESAURIERE. 

Giovan,  Francesco  e  Pietro  ognun  propizio,  ' 
Ma  e'  non  suonan  ancor  queste  campane  : 
Fugge  la  lepre  mentre  e'  piscia  el  cane 
Però  lo  'ndugio  spesso  induce  vizio. 

Dunque  cavate  or  me  da  tal  supplizio, 
Che  disse  Cristo:  AlTuom  non  bastaci  pane.  ^ 
Chi  può  far  oggi,  a  che  indugia  a  domane?  ^ 
Deh!  fatemi  Locullo  e  non  Fabrizio.** 


1  Giovati,  Francesco  ecc.  Tutti  si  mostrano  ben 
volti  verso  di  me  ;  ma  ancora  queste  campane 
non  suonano,  non  si  vede  effetto  veruno  ;  fate 
presto  dunque,  perchè  l' indugio  è  sempre  dan- 
noso, e  la  buona  occasione  è  fuggevole. 

2  Che  disse  ecc.  De  solo  pane  non  vivit  homo, 
rispose  Cristo  a  Lucifero,  che  gli  prometteva 
ogni  ricchezza  mondana. 

3  Chi  può  far  oggi  ecc.  «  È  meglio  un  uovo 
oggi,  che  una  gallina  domani  »  dice  il  proverbio. 
E  ribatte  che  l'indugio  porta  seco  spesso  il  danno. 

iDeh!  fatemi  ecc.  Locullo  è  simbolo  della 
ricchezza;  Fabrizio,  della  onorata  povertà: 

0  buon  Fabrizio, 

Con  povertà  volesti  anzi  virtute, 

Che  grafi  ricchezza  posseder  con  vizio. 


40  SONETTI. 

Io  mi  consumo  come  Meleagro, 
E  puossi  dire  a  me  come  al  rognone  : 
Tu  stai  nel  grasso,  e  sempre  n'esci  magro. 

Siavi  raccomandato  el  Bellincìone, 
E  fate  dulce  un  po'  tanto  mio  agro  , 
Per  che  aW  amen  V  son  de  l'orazione.  ^ 

Non  80  se  Salomone 
Risuscitando  al  mondo  con  inopia, 
Vedesse  far  de  l'opera  sua  copia.  2 

SONETTO  XXXVI. 

AL  MAGNIFICO  MESSER  SCIPIONE  3  DEL  DUCA  1)1  CALA- 
BRIA CHE  DESIDERAVA  DI  CONOSCERE  IL  BELLIN- 
CÌONE. 

Che  pensi  tu  che  sia  quel  Bellincione 
Che  di  vederlo  di'  eh'  arai  piacere  ? 
Forse  qualche  animai  credi  vedere 
Venuto  d'India,  stranio,  o  Scipione? 

0  pur  qualche  uccellaccio  maccherone  ?  ^ 
Sono  un  uom  come  gli  altri,  e  vo'  godere. 


•  .ili' amen,  ecc.  Sono  al  verde,  ho  consumato 
ogni  mia  sostanza:  gli  ho  finiti  dice  il  popolino. 

2  Salomone  ecc.  Se  Salomone  risuscitasse,  o 
fosse  povero,  non  si  metterebbe  a  scrivere  le 
opere  che  già  scrisse  essendo  re,  e  ricchissimo. 

■i  Scipione.  Doveva  essere  uno  de'  cortigiani  di 
quel  Duca. 

■<  Maccherone.  Pare  che  qui  significhi  grasso 
e  disadatto. 


SONETTI. 


41 


Et  ho  trovate  ancor  belle  mugliere;  ' 
Pochi  danari ,  e  poca  passione. 

Sappi,  i'  son  quel  che  feci  quel  sonetto 
Ch'ai  tuo  Alfonso  mandai;  ma  ben  mi  pare  2 
Qhe  la  risposta  da  quel  corbo  aspetto.  ^ 

r  son  quel  che  una  casa  fo  murare  ; 
Ma  e'  le  manca  el  cappello,  intendi,  el  tetto: 
E  vi  t'invito  al  fresco  a  desinare. 

Tu  vi  potrai  ballare, 
Che  per  grazia  del  diavoi  e  di  Giove 
Pur  da  seder  non  trovaresti  dove.  4 

Non  vedrai  cose  nuove 
A  veder  me,  né  anco  tristo  augurio, 
Ma  potrai  ben  veder  che  fu  Mercurio.  ^ 


1  HJugliere.  Non  mogli,  ma  donne;  mulieres. 

2  Al  tuo  Alfonso.  Al  Duca  tuo  signore. 

3  Da  quel  corbo  ecc.  Allude  al  corvo  mandato 
fuor  dell'Arca,  dopo  il  diluvio,  che  piU  non  tornò. 
Il  Duca  non  rispose. 

4  Pur  da  seder.  Tutte  queste  sperpetue  le  rac- 
conta a  Scipione  per  vedere  se,  o  egli,  o  per  mez-, 
zo  suo  il  Duca,  gli  mandavano  qualche  regalo. 

5  Che  fu  Mercurio.  Allude  alle  molte  e  minute 
ingerenze  che  aveva;  come  dicono  i  mitologi  che 
Mercurio  ne  aveva  infinite;  p.  es.  spazzare  il  ce- 
nacolo degli  Dei,  preparare  la  sala  dei  concilj 
celesti,  andar  attorno  per  le  imbasciate  di  Giove, 
di  notte  condurre  all' inferno  le  anime  de' morti, 
ed  altre  infinite,  che  non  gli  lasciavano  un  mo- 
mento di  quiete. 


•12  SONETTI. 

SONETTO   XXXVII. 

NON  PIOVENDO  A  MANTOVA,  K  FACENDOSI  l'KU  QUESTO 
PROCESSIONE  ED  ALTRE  ORAZIONI,  MOSTRA  PERCHÈ 
NON  PIOVE  COSÌ  PRESTO,  E  PERCHÈ  PUR  PIOVVE 
UN    POCO. 

La  fede  era  mancata  oggi  a  ciascuno  ^ 
Per  tanti  prieghi  fatti ,  e  pur  non  piove  ; 
Ma  tante  miglia  son  da  terra  a  Giove, 
Che  'n  più  giorni  vi  salgon.  non  in  uno. 

E  forse  il  portinaro  era  digiuno. 
Che  vuol  pria  desinare  o  ire  altrove; 
Poi  v'è  tante  imbasciate  e  cose  nuove, 
Che  bisogna  ben  esservì  importuno. 

Vedi  che  piove!  o  gente,  or  che  direte? 
Direm:  Tant' acqua  appunto  è  qui  caduta 
Quanta  a  l'aitar  ne  suole  usare  un  prete. 

Bisogna  che  ne  sia  tanta  piovuta 
Quanta  a  .far  ch'una  femmina,  intendete? 
Lavandosi  la  state ,  ella  non  puta. 

0  plebe  poco  arguta! 
S'agii  scomunicati  piove  loro:  2 
N'  han  ben  bisogno ,  ardendo  casa  loro. 


'  La  fede  ecc.  Dice  che  la  fede  vien  meno,  per- 
chè dopo  tanti  preghi  non  piove;  e  poi  faceta- 
mente assegna  le  ragioni  di  questo  indugio  della 
grazia  di  Giove. 

^  Piove  loro-  Quel  loro  è  pleonastico:  il  senso 
è:  Se  appresso  gli  scomunicati  piove,  ciò  sta 
bone   e   n'hanno   molto  di  bisogno,  perchè  arde 


SONETTI.  4r5 

SONETTO  XXXVIII. 

AL    SIGNOU    DUCA    DI    MILANO. 

Allor  ben  si  conosce  Ludovico, 
Signor,  quand'è  di  longe  a  la  tua  proda,  ' 
Che  l'asinel  conosce  allor  la  coda 
Quando  e'  non  l'ha,  dice  un  proverbio  antico.  - 

Cosi  nel  perder  un  fìdel  amico 
Quand'  egli  è  perso  allor  si  gusta  e  loda , 
Cosi  dal  rusticano  e'  par  che  s'  oda 
Piancrer  ne  1'  autunno  il  dolce  fico. 

Esopo  de  le  rane  dice  un  motto: 
Non  contente  a  la  trave  per  signore, 
Ebbon  poi  il  drago  che  di  lor  fu  ghiotto.  ^ 


loro  la  casa.  Pare  che  sia  piuttosto  da  accettare 
che  il  poeta  abbia  ripetuto  la  stessa  rima,  che 
leggere  nel  penultimo  verso  piove  l'oro,  dacché 
questo  piover  Toro  non  dà  significato  veruno. 

1  Allor  ben  ecc.  La  mancanza  delle  persone 
dilette  è  dolorosa,  e  tanto  più  se  ne  valuta  il 
pregio,  quanto  più  son  lontane.  Così  argoirienta 
il  Poeta,  parlando  della  lontananza  di  Lodovico. 

2  Che  l'asinel  ecc.  Il  proverbio  odierno  dice, 
a  questo  proposito:  La  botta  non  si  accorse  della 
coda,  se  non  quando  l'ebbe  perduta. 

3  Vi  lor  fu  ghiotto.  Le  divorò.  Allude  alla  fa- 
vola esopiana  che  ha  per  titolo  :  Ranac  pelente$ 
regein  ab  Jove. 


44  SONETTI. 

Sempre  quel  eh'  io  dirò  fia  con  amore 
Cli*  io  mi  tengo  di  sette  e  non  pur  dotto,  i 
E  i  {^^ran  punti  sotti  1  lascio  al  sartore. 
Però  sian  poche  T  ore 
Che  la  tua  barca  stia  senza  il  timone , 
Per  poter  fonder  l'oro  e  non  l'ottone. - 

SONETTO  XXXIX. 

PROVA    ESSER   MALE    A    MANGIARE   OGGI  PESCE,    MA   POI 
SCUSA    l' ERRORE. 

Per  certo  che  s'  è  fatto  un  grande  errore 
Da  farne  Santo  Andrea  nel  ciel  crucciare, 
Tòrgli  la  cena  e  prima  el  desinare  ,  ^ 

Per  Dio  che  voi  gli  fate  un  bell'onore!  3 

Ben  sai  che  poi  ch'egli  era  pescatore 
Ch'  e  pesci  lui  per  sé  volea  mangiare; 
Non  voi ,  ma  lui ,  farete  digiunare  , 
E  peggio  che  di  donna  il  vostro  errore,  -i 


1  Mi  tengo  di  sette  ecc.  Io  non  mi  tengo  savio 
e  dotto.  Fa  la  solita  allitterazione,  considerando 
Ja  parola  dotto  come  s*e  fosse  d'otto;  e  dice  che 
non  è  d'otto^  ma  di  sette. 

2  Che  la  tua  barca  ecc.  Non  istar  molto  lon- 
tano dalla  sede  del  tuo  governo,  acciocché  lo 
stato  prosperi,  e  vada  sempre  di  bene  in  meglio. 

3  Santo  Andrea.  Era  pescatore,  e  immagina 
che  si  nutrisse  di  pesci:  per  questo  dice  che  man- 
giando essi  do' pesci,  hanno  fattogli  torto. 

4  E  peggio  ecc.  Il  vostro  errore  non  l' avrebbe 
fatto  una  vii  femminuccia. 


SONETTI. 


45 


Voi  errate  com' un ,  del  qual  dico  io, 
Che,  dormendo  con  nn  ,  gliel  menò  bene. 
Poi  disse:  Io  mi  credea  che  fosse  il  mio.  * 

Però  fra  'I  sonno  el  petto  par  le  rene 
Alcuna  volta,  e  però  il  santo  pio 
Perdoni  e  pesci,  e  tolga  Je  balene. ^ 
Non  si  meritan  pene 
Errare  e  non  saper;  qui  mi  riduco 
Che  all'affibbiarsi  spesso  e' s'erra  il  buco.  ^ 

De'  pesci  anch'  io  manduco: 
Per  cenar  teco  el  Bellincion  s'approda, 
Dammene  un  quadro  integro  e  con  la  coda.  4 


SONETTO   XL. 

FATTO    ESSENDO   IN  GALEA   QUANDO   ANDOSSI   A   NAPOLI 
PER   LA    DUCHESSA   ISABELLA. 

Ch  i  presto  e  ben  conciar  vuole  un  falcóne  5 
Una  notte  in  galea  l'usi  guardare; 


1  Credea  ecc.  Vedi  una  novella  del  Sacchetti, 
dove  si  tratta  di  uno  strano  abbaglio  di  Massa- 
ie© degli  Albizzi. 

2  Perdoni  e  pesci.  Ti  perdoni  se  hai  mangiato 
i  pesci. 

3  Spesso  all'  affibbiar  ecc.  Spesse  volte  nell'af- 
fibbiarsi  si  fa  errore,  e  si  sbaglia  il  buco. 

4  Un  quadro.  Il  Salvini  pone  in  nota:  «  Pesce 
d'  Arno  con  la  coda  ritorta.  » 

5  Chi  presto  ecc.  Deplora  i  disagj  é  le  noje 
del  navigare. 


40  SONETTI. 

Che  sempre  a  sé  lo  vedrà  poi  tornare, 
Como  proprio  un  cagnuolo  al  suo  padrone. 

Rinnego  Dio  ,  vo  'nnanzi  in  prigione 
Che  '1  Diavolo  in  galea  s'are'  a  domare:' 
*Però,  se  Cristo  me  n'ara  a  cavare, 
Ma'  più  '1  Diavol  vi  mette  el  Bellincione. 

Quando  pur  gridan  :  Viva  el  bon  mangiare;  '^ 
Manginvi  e  lupi,  dico  in  questo  stento: 
Quando  da  poppa  fanno  me  levare ,  3 

(Che  levata  vi  fusse  al  nascimento); 
Non  rispondo  qual  cherico  all'altare: 
Darei  loro  altra  colla  che  di  vento.  4 

Ogni  mio  sentimento 
Stato  è  'u  inferno,  e  1'  è  par  cosa  strana 
Par  giorno  e  notte  al  canto  de  la  rana.  5 

1  II  Diavolo  ecc.  L'  andare  per  nave  domereb- 
be anche  il  diavolo. 

2  Quando  pur  ecc.  Quando  gli  altri  mangiano, 
il  Bellincioni  impreca  ad  es.si,  perchè  la  nausea 
non  gli  permette  di  poter  mangiare  anch' egli. 

3  Quando  da  poppa  ecc.  Quando  mi  fanno  al- 
zare da  poppa,  io  dico  loro:  Sarebbe  stato  me- 
glio che  quando  nasceste,  vi  fosse  stata  levata 
la  poppa  a  voi  altri  :  cosi  non  sareste  vissuti,  e  ora 
non  mi  tormentereste  come  fate. 

4  Non  rispondo  ecc.  Non  rispondo  parole  di 
amore  e  di  riverenza;  ma  poi*rei  ciascuno  al  tor- 
mento. 

5  Al  canto  de  la  rana  ecc.  TI  gorgoglio  che  pre- 
cede il  vomito  prodotto  dalla  nausea,  o ,  come  si 
dice,  mal  di  mare. 


SONETTI.  47 

SONETTO  XLI. 


BURCHIELLESCO. 


Mettevon  V  ale  tutti  quanti  gli  opii  * 
Facendone  derrata  a  le  cicale, 
Quando  che  '1  carro  fu  guidato  male, 
Che  mal  sentiron  gì'  Indi  e  gli  Etiopii. 

Questo  a  mia  mente  par  che  non  s'approprii 
Vedendo  contra  el  corso  naturale 
Volar  tanti  uccelletti  senza  l'ale, 
E  lor  che  n' han  cotante  starsi  inopii. 

Già  s' allungavan  l'ombre  a' campanili,  ^ 
Fumavan  senza  legne  e  praticelli, 
E  Troja  ritornava  a'  suoi  porcili , 

Quando  quella  che  veste  i  figatelli  3 
Avea,  volando,  al  vento  dato  e  fili, 
Per  por  T  assedio  a'  tordi  et  altri  uccelli. 
Frusoni  anco  e  fringuelli 
jFurono  presi  al  varco  andando  in  Spagna, 
Però  che  capi  torno  ne  la  ragna. 

1  Mettevon  l'ale  ecc.  Il  sonetto  è  burchielle- 
sco, e  però  oscuro:  le  quartine  per  altro  sono 
assai  chiare  ;  e  nella  prima  si  vede  bizzarramen- 
te descritta  Testate,  per  poi  venire,  nella  secon- 
da, a  declamare  contro  coloro  che  senza  meriti 
hanno  gradi  ed  onori.  Nelle  terzine  descrive  l'au- 
tunno, la  caccia  ecc. 

2  S'allungavan.  Quanto  il  Sole  è  a  noi  più  lon- 
tano, tanto  crescono  l'ombre  che  mandano  le  cose 
alte. 

^  Quella  che  veste  ecc.  La  rete,  che  qui  viene 
a  esser  quella  da  uccellare. 


\ 


48  SONETTI. 

SONETTO  XLII.  » 

BURCHIELLESCO. 

Zoccoli  rotti  e  doi  sacchi  da  pane, 
E  trista  cera,  e  lupi  fuor  di  celle, 
Mostrar!  sereno  el  cielo  e  pien  di  stelle, 
Poi  sonano  a  mal  tempo  le  campane. 

Se  '1  cor  istà  fra  oggi  e  fra  domane 
È  buon  far  de  le  man  due  tomaselle,^ 
Se  in  bordo  vanno  le  parole  belle, 
Sarà  buon  dar  de'  funghi  prima  al  cane.  • 

Queir  arbor  dove  Tisbe  ancor  suspira,^ 
Non  creda ,  essendo  un  Argo  de  cent'  occhi, 
A  l'ariento  vivo,  o  a  sua  lira;'* 

Ma  faccia  ogni  vivanda  con  finocchi, 
S' ognun  al  suo  molino  ogni  acqua  tira, 
Promettendo  carpioni,  e  dàn  ranocchi.  ^ 


1  Anche  questo  sonetto  è  burchiellesco  e  oscu- 
ro; ma  si  raccoglie  che  il  poeta  si  duole,  come 
nel  precedente,  delle  grazie  fatte  agli  indegni, 
della  ipocrisia  de' più  tristi,  e  delle  fallaci  loro 
promesse. 

2  Tornasene-  Sono  specie  di  frittelle  di  pasta 
con  zucchero  e  uova. 

^  QueW arbor  ecc.  Il  Moro. 

*  A  l' ariento  vivo.  A  Mercurio.  Cosi  il  Bel- 
lincioni  altrove  s' intitola  come  cortigiano  e  mi- 
nistro del  suo  Giove.  (Salvini). 

^Carpioni-  Pesce  delicato  del  lago  di  Garda. 
(Salvini). 


SONETTI.  49 

Parmi  che  ognuno  scocchi 
L'  ureo  sotto  pJ  ranntel ,  questo  è  in  sentenza 
Che  oggi  la  maggior  parte  pesca  a  lenza. 

SONETTO   XLIII. 

SOPRA    RICCIARDETTO. 

0  Ricciardetto,  ov'  è  la  tua  prmlenzia 
A  tanto  domandar  la  Luisina? 
Vogliànti  dà'  una  schiava  di  cucina ,  ' 
Come  mena  el  tuo  ingegno  e  tua  presenzia. 

Stu  se'  bon  tamburin  per  eccellenzia, 
Sare'  chiamata  quella  tamburina: 
FÌ2:liuola  d'un  tant' Omo  in  medicinal 
Tu  se' matto,  e  tei  dico  in  coscienzia. 

Che  bel  fante  tartufo!  anzi  se' quello - 
Che  un  mulattiere  un  dì  'n  un  osteria 
Ti  caricò  in  iscambio  d'un  lardello. 

Per  non  sonare  ancor ,  sendo  a  Pavia , 
Stesti  ascoso  tre  dì  sotto  un  cappello , 
Dice  el  sescalco,  e  che  non  è  bugia.  ^ 
Quando  quel  te  vedla, 
Sendo  un  po'  scuro  là  verso  la  sera, 
Gli  paresti  una  biscia  scodellerà. 


'  Yogliàtlti  dà'  ecc.  Spesso  nel  linguaggio  fa- 
miliare si  toglie  la  ultima  sillaba  agli  infiniti. 

2  Tartufo.  Si  dice  anche   oggi   familiarmente 
a  un  dappoco. 

3  Sescalco.  Siniscalco.    Lo    schernisce  per  ri- 
spetto alla  sua  persona  e  al  piccolo  animo. 


50  SONETTI. 

SONETTO  XMV. 

SOPRA  ROMA  IN  LAUDR  DRI.  PAPA  INNOORNZIO. 

\'ìd'\  una  donna  afflitta  e  lacrimosa 
Con  rotto  legno  in  torbida  tempesta; 
Ma  '1  ciel  mandò  in  soccorso  Palla  e  Vesta,  i 
Sì  che  lieta  e  sicura  in  porto  posa. 

E  contenta  e  beata  è  l'atta  sposa 
Di  quel  che  '1  ciel  per  sua  bontà  ci  presta, 
Ch'e  Catoni,  e  Fabrici  e  Numa  desta,- 
E  novamente  Roma  è  gloriosa. 

Se  già  per  Licaon  turbossi  Giove, 
Oggi  è  tornato  in  dolce  queir  assenzio; 
Che  quanta  allor  fu  Tira,  or  si  rallegra. 

Per  l'innocente  vita  d' Innocenzio 
Lassa,  sposa  di  Dio,  la  vesta  negra. 
Se  tanto  ben  da  le  sue  chiave  piove. 

SONETTO  XLV. 

PRR  LA  PARTITA  DA  MILANO  DEL  DUCA  GIOVAN  GA- 
LEAZZO CON  LA  DUCHESSA  ISABELLA  PER  ANDARE 
A    VIGEVANO    A    CACCIA. 

Perchè  tanto  dolor  mostrar  conviensi 
Oggi  Medio  la  n  ?  se  pur  ne  duole 


'  Falla  e  Vesla.  Viene  a  dire  che  jiapa  Inno- 
cenzio aveva  la  virtù  della  sapienza  e  della  for- 
tezza (Pallade)  e  la  santità  sacerdotale  (Vesta). 

?  Ch' e  Catoni  ecc.  Fa  rivivere  le  virtù  anti- 
che. 


SONETTI.  51 

Non  veder  le  tue  chiare  istelle  e  '1  sole,  ^ 
Del  felice  ritorno  or  vo'  che  pensi. 

Se  non  che  la  speranza  al  cor  attiensi 
Fatto  arei   qua!  1'  infermo  ispesso  suole,  - 
Che  'l  morir  per  raen  pena  elegge  e  vuole. 
Deh,  quanto  riso  il  dì  col  pianto  ispensi!^ 

0  liete  oggi  campagne!  o  fortunate 
Fere,  a  fuggire  i  vostri  danni  iscorte! 
Gli  occhi  d'Apollo  mio  vi  bastin  rete.  4 

Dolce  per  le  sue  man  puovi  esser  morte  : 
Poi  men  gloria  ha  sospetta  liberiate 
Che  questa  magna  servitù  che  arete. 

SONETTO  XLVI. 

A    JACOPO      DELLA     BADÌA. 

E  preti  e'  frati  buon  non  son  si  rari 
Quanto,  o  Jacomo ,  te  veggio  di  raro; 
E  se'mi  più  de' tuoi  sonetti  avaro, 


'  Le  chiare  stelle  ecc.  Giovan  Galeazzo  con  la 
sua  corte. 

2  Fatto  arei  «ce.  Stomachevole  ed  esagerata 
adulazione  ! 

3  Dehj  quanto  riso  ecc.  Concetto  falso  in  sé  ; 
che  spengere  il  riso  col  pianto,  per  significare 
il  dolore  della  partenza,  è  cosa  troppo  strana. 

4  0  fortunale  fere.  E  sempre  piti  belle  !  Le  fiere 
hanno  ad  esser  liete  che  le  ammazzi  il  Duca  ;  e 
gli  occhi  di  lui  debbono  esser  le  reti  che  le  chiap- 
peranno  ecc. 


Si  SONKTTI. 

Che  non  è  '1  Ferusin  del  dar  danfiri.  ' 

Ma,  se  più  el  Uio  commercio  or  mi  rincari  ,  ' 
Me  ne  dorrò  col  bisticciare  amaro; 
Col  vulgo  vile,  ingrato,  sciocco  e  ignaro, 
Usar  non  vo' ,  ma  feco,  acciò  ch'io  impari. 

La  tua  amicizia  a  me  par  tragedia, 
E  non  già  come  'j  mal  del  nostro  Moro , 
Che,  Dio  laudato,  in  fin  fìe  coraedia.  ^ 

Ricalco  torna  a  me  M  tuo  promesso  oro;'* 
Veggio  ben  che  se'  dotto  in   poesia 
Che  a  finger  tu  ben  meriti  l'alloro. 

Con  versi  fa  el  ristoro ,  = 
Non  come  '1  pinco,  in  campo  bello  entrato  , 
Poi  torna  a  capo  chin ,  gobbo  e  sudato. 
Motteggio  :  i'  t'  ho  scusato, 
Mentre  che  dai  conforto  a  l'arbor  santo, 
Che  di  Piramo  e  Tisbe  vide  el  pianto.  ^ 

^  È'I  Ferusin.  Costui  doveva  esser  per  avven- 
tura un  qualche  tesoriere    pel  Duca. 

2  El  tuo  commercio.  Intendi  corrispondenza  epi- 
.stolare,  e  di  sonetti. 

3  La  tua  amicizia  ecc.  La  tua  amicizia  mi  è 
cagione  di  pianto  e  di  tristezza,  percliè  sei  meco 
avaro  di  lettere;  come  la  guarigione  del  Moro, 
mi  è  stata  cagione  di  letizia  e  di  riso. 

^Ricalco  ecc.  L'oro  che  mi  proinettesti  di- 
venta oricalco  ;  cioè  non  mi  attieni  la  fatta  pro- 
messa. 

^  Fa  el  ristoro.  Rifammi  il  danno,  Compensa 
il  danno,  mandando  molti  versi. 

6  rt'ho  scusalo.  Lo  scusa  del  suo  silenzio,  per- 
chè procede  dall'assistenza  che  presta  al  Moro. 


SONETTI.  53 

SONETTO    XLVII. 

A    LORKNZo    nn'  MKDICI    MOSTRANDO  L'ARTE    DELLA  RI- 
MA, E  QUELLO  CHE  BISOGNA  A   DIR  BENE  IN   VERSI. 

Natura  per  se  fa  il  verso  gentilf" ,  ' 
Studio  le  rime,  e  ricche  le  'nvenzioni  : 
Vere  scienzie  solvori  le  quistioni , 
E  il  dilettarsi  poi  fa  dolce  stile; 

Amor  r  ingegno  fa  sempre  sottile  ; 
Dote  dal  cielo,  privilegj  e  doni 
8on  questi,  benché  sieii  molte  cagioni 
Che  fanno  un  dir  superbo  e  l'altro  umile. 

Diversi  casi  fanno  il  dir   diverso 
Quando  amore  o  fortuna  a  dir  ti  strigne 
Color  temprando  con  discrezione. 

Chi  pensa  il  vero  e  poi  compone  il  verso, 
Eterno  con  la  penna  si  dipigne, 
E  poi  morendo  ha  più  reputazione. 

SONETTO  XLVIII. 

A    LORENZO   de'  MEDICI    CHIEDENDOLI    UN   MANTELLO. 

Arò  forse  trovato  un  buon  partito  , 
Ma  non  credere  un  (coccio  o  un  popone, 


1  Natura  ecc.  Pare  che  voglia  risolvere  il 
Natura  fiercÀ  laudabile  Carmen,  an  arte,  quesi- 
tum  est.  Il  sonetto,  che  non  ha  difficoltà  <V  inter- 
pretazione, ha  sani  {irecetti  di  poetica. 


54  SONETTI. 

Che  la  sare'  de'  frati  discrezione  ' 
Quando  col  romajuol  tengon  lo  'nvito- 

r  non  terrò  più  vita  di  romito, 
Ch'  i'  potrò  andar  con  gli  altri  a  processione 
E  tal  eh'  è  marchesi  ta  al  paragone 
Non  m'ara  per  inopia  più  schernito.  ^ 

Stu  m'hai,  Lorenzo,  sempre  sciloppato  ,>^ 
A  questa  volta  da'  la  medicina 
D'  avermi  almeno  a  Pistola  parato ,  * 

Ch'  i'  non  paja  un  cacciato  di  cucina 
Da  poi  eh'  i'  son  come  Matteo  chiamato,  ^ 
E'  mi  par  miglior  segno  che  d'  urina. 


1  De' frati  discrezione  ecc.  Quando  i  frati  sono 
al  fine  della  minestra,  il  cuoco,  od  altri,  va  at- 
torno colla  pentola  e  col  ramaiuolo  ;  e  chi  ne  vuol 
dell'altra  dice,  porgendo  la  scodella:  Dtscrefio  ; 
e  il  cuoca  gliene  mesce  una  ramajolata  ;  ina 
quando  vede  che  la  minestra  è  ridotta  alla  quan- 
tità eh' e' vuole  per  sé,  risponde:  Discrezione; 
e  se   ne  va. 

2  Pare  che  fosse  eletto  a  qualche  ambasceria, 
e  però  dice  non  sarà  più  schernito  per  povertà. 

3  Stu  w'ftat  ecc.  Mi  hai  tenuto  a  bocca  dolce, 
dandomi  delle  promesse. 

4  A  Pistola  parato.  Questa  volta  dammi  una 
medicina  che  risolva  qualche  cosa;  che  almeno, 
se  non  potrò  arrivare  a  vestirmi  da  prete,  mi 
vesta  da  suddiacono. 

5  Da  poi  ecc.  Dappoi  che  tu  mi  hai  detto  Se- 
qaere  me.  Sembra  che  dovesse  accompagnar  Lo- 
renzo in  qualche  viaggio. 


SONETTI.  ;J0 

Tu  mi  sarai  piscina:  ' 
[']  perchè  son  miglior  caldi  e  migliacci 
Non  mi  parrebbon  qui  tutti  gli  stacci.  2 

SONETTO    XLIX. 

MORALE.  3 

Se  r  uom  del  Verbo  Eterno  è  vera  immago, 
Perchè  non  è  qual  lui  che  mai  non  erra? 
Se  per  sarvarlo  il  fé',  perchè  di  terra 
Creòi  col  senso  in  questo  oscuro  lago  ? 

Se  poi  de  redimir  fu  el  popol  vago 
Dal  ciel  descese,  e  l'oste  nostro  a  terra 
Gittò,  perchè  me  spesso  ancora  afferra? 
Se  lui  pagò  per  me,  perchè  anch'  io  pago?  ^ 

Se  l'uom  qual  limo  frale  e  sensuale 
Nel  camin  suo  commette  qualche  errore, 
Perchè  non  vuole  ancor  col  tempo  cassi? 


1  Mi  sarai  piscina.  Guarirai  tutte  le  mie  pia- 
ghe. 

2  Non  mi  parrebbon  ecc.  Par  che  voglia  dire  : 
Non  credo  che  mi  darai  un  mantello  da  strac- 
cione. C'è  anche  un  grazioso  epigramma  del  Po- 
liziano, nel  quale  si  chiede  a  Lorenzo  una  veste. 

3  Fa  molte  domande,  e  muove  dei  dubbj  so- 
pra r  ordine  della  divina  provvidenza;  e  par  che 
ne  domandi  la  soluzione  a  un  solenne  teologo. 

4  Anch'io  ecc.  lia  stampa  ha  ancor:  si  è  cor- 
retto col  codice  magliabechiano. 


56  MONETTI. 

Se  senza  il  suo  voler  qui  nulla  fassi , 
E  lui  disponer  può  del  nostro  core, 
Qual  premio  merta  il  ben,  qual  pena  il  male? 

Dimme  ,  o  tu  che  con  Tale  ^ 
De  la  virtute  al  luoco  eccelso  voli, 
E  vivi  in  terra,  e  sempre  sta' nei  poli. 

SONETTO   L.  2 

1)1  LORKNz;o  de'  medici  al  bellincionk  mandan- 
dolo IN  UN  CERTO  LUOGO  PER  INTENDERE  UN  SUO 
PROPOSITO. 

Va,  Bellincione,  e  fa  bene  il  Sosia, 
Motti,  'mprovvisi,  frottola  e  sonetto, 
E  poi  ti  mostra  un  certo  recolletto 
Di  mano  e  incanti  e  di  fìsonomia. 

Alcuna  volta  dir  qualche  pazzia 
El  suo  contrario  poi  mostra  intelletto, 
Che  di  savio  e  di  matto  abbin  sospetto 
E  intendi,  attingi  e  trai  pur  tuttavìa; 

Fa  il  cieco  e  'I  sordo  sempre  in  ogni  loco, 
E  loda,  abbraccia,  ridi  e  bacia  spesso, 
E  stu  sei  morso,  piglia  a  festa  e  gioco; 


i  Dimme:  o  tu  che  ecc.  La  stampa,  ha  :  Dimme, 
0  che;  ma  ho  corretto  coi  codici. 

2  Questo  è  stampato  tra. le  poesie  del  Magni- 
fico; ed  è  levato  dalla  antica  stampa  del  Bel- 
lincioni.  Pare  che  Lorenzo  mandasse  il  Poeta  a 
qualche  segreto  ufficio;  e  gli  dice  come  si  dee 
condurre  per  iscoprir  paese.  È  una  faceta,  ma 
accorta,  istruzione   politica. 


SONKTTI.  T)? 

K  fatti  sempre  a'  cercliilini  appresso 
Qualche  storia:  Seleuco  et  Antioco; 
Tu  intendi...  e  mostra  el  lauro  che  si  ò  fesso. 

Ma  non  d'arrosto  e  lesso 
Parlare,  intendi,  e  presto  sia  tornato: 
Come  ti  ho  detto,  studia  nel  Donato. 

SONETTO   LI.  ' 

DEL    BELLINCIONE    PER    RISPOSTA    A    LORENZO     PER     LE 
RIME   CONSONANTI   E    A    VERSO   PER   VERSO. 

Lascia  pur  fare  a  me  la  ciurmarla , 
E  mostrar  ben  d' aver  qualche  folletto , 
E  dare  a  tempi  qualche  bossoletto , 
La  gatta  morta  e  far  l' ipocr-isla  ; 

Al  naturai  parrò  la  poesia, 
Darò  spesso  de  gli  agli  col  confetto , 
Farò  el  bono,  el  discreto,  el  giusto,  el  netto, 
Per  fargli  uscir  poi  qualche  traversia. 

E  secondo  con  chi ,  farò  el  da  poco. 
Et  or  l'ardito,  el  timido,  el  rimesso; 
Doppo  cena  aggirargli  a  ciance  al  foco. 

A  ciascun  varie  cose  arò  promesso  , 
Cercherò  d'aver  grazia  infin  col  cuoco, 
Dirò:  Lorenzo  è  uom,...  taccianne  adesso. 

Vo'  parlar  d' ogni  sesso , 
Per  essermi  con  tutti  accomodato  : 
E  per  chi  ben  mi  fa  sempre  ho  studiato. 

'  Il  Bellincione  risponde  a  Lorenzo  che  farà 
ogni  cosa  pulitamente;  e  con  molto  brio  descrive 
i  modi  che  userà. 


58  SONETTI. 

SONETTO  LII.  » 

DI    LORENZO    de'  MEDICI    QUANDO     TORNÒ    DA    NAl'OLl    A 
BERNARDO    BELLINCIONI. 

Un  pezzo  di  migliaccio  mala  via  ■^ 
Et  una  fiera  bestia  et  una  a  prato,  ^ 
Avevon  tanto  un  erpice  menato, 
Ch'  egli  era  fuor  del  solco  per  pazzia. 

Ma,  se  si  avvide  mona  Mencia  mia , 
E  tessè  al  sole  un  vaglio  ben  bucato  , 
Un  Giudeo  el  vide,  e  funne  sì  cruciato 
Che  non  vorrebben  più  geometria. 

Queir  Arri  sta  che  fanno  e  paladini  ^ 
Quando  a  Piagenza  vanno  co'  cestoni 
Fa  'mpazzar  pur  que'  poveri  asinini, 

Perch'  hanno  il  capo  voto  molti  arpioni, 
Armeggion  per  calendi  e  pastaccini  , 
E  deston  la  mattina  e  dormiglioni.  ' 

E  però  e  calicioni  ^ 

S'  arraon  di  troppo  debole  corazza ,  : 

C  ogni  poco  di  stretta  poi  gli  ammazza.  ' 

1  Anche  questo  è  di  Lorenzo,  e  si  legge  tra  ] 
le  Poesie  stampate  da  Leopoldo  II.  È  burchie!-  j 
lesco,  e  oscuro. 

2  Mala  via.  Il  Salvini  legge  mal  a  via,  mal  ] 
ali  ordine.  \ 

^A  prato.   11  Salvini,  spiega:  Non  salvalica, 
domestica. 

i  Arri  sta.  La  stampa:  Arrista- 


j 


SONETTI.  *  59 

SONETTO  LUI.  : 

PI    BERNARDO    A    LORENZO    DE'  MEDICI   IN  RISPOSTA  DEL  ] 

PRECEDENTE   PER    LE    RIME. 

S' invoco  Berlingaccio  o  Befania                                                            ^  ; 

Da  un  sarto  dottor  sarò  appuntato ,  i 

E  dandomi  più  dubbj  qui  eh'  un  piato ,  ; 

El  Grasso  mi  par  essere,  o  il  Sosia  ^  j 

Fallante  che  scopri  la  mummie  ria  \ 

Volle  mostrar  com'  Arno  è  foderato  ;  \ 
E  s'Avvicenna  calamita  è  stato 

Non  facciàn  più  finestre  a  gelosia.  : 

0  amici  imbrattati,  o  ermellini,  ; 
Se  non  e'  è  più  farina  da  cialdoni  •  i 
Per  la  gola  s'impicchino  e  cammini, 

Perchè  '1  Bisticci  el  farro  die'  a'  pippioni , 

Si  fuggon  ne  la  vigna  e  Saracini,  \ 

Che  '1  sacco  non  fé  mai  buoni  e  poponi.  \ 

E  però  i  cami  cloni  i 

Pajon  crespegli:  Oh  rompi  ogni  lor  tazza  ! 

Che  drento  son  come  di  fuor  la  gazza.  : 


1  El  Grasso  ecc.  Mi  par  d'  essere  come  il 
Grasso  Legnajuolo,  a  cui  fu  dato  ad  intendere 
che  era  diventato  un  altro.  Tutto  il  rimanente 
sono  equivoci  oscuri,  i  quali  sono  tirati  a  indo- 
vinare, ma  senza  costrutto,  dal  Salvini. 


60  SONETTI. 

SONETTO  LIV. 

n'UNA  VKSTE  A  LORENZO  DE' MEDICI  ESSENDO  DI   VIÙRNO. 

Memento  mei  a  questa  volta  appunto 
Perchè  la  zucca  tua  mi  tanghi  a  galla,  • 
Stu  metti  la  coverta  a  questa  palla 
Non  parran  1'  uova  a  benedirsi  in  punto. 

S' i'  fui  già  tordo  grasso,  or  son  raggiunto, 
Da  le  gazze  raggiunto  in  su  la  spalla: 
r  son  come  la  noce  che  si  smalla, 
Non  mi  dare  il  soccorso  di  Sagunto. 

A  sigurtà  con  Alamanno  feci  ^ 
Per  poter  comparir  fra  gli  altri  ceri ,  ^ 
Ma  che  non  sia  un  bullettin  da  ceci;  ^ 

Ch'  i'  non  paressi  il  vin  eh'  è  ne'  bicchieri  ^ 
Che  cuopri  me  come  '1  cavallo  e  Greci, 
Senza  spiragli ,  e  non  coni'  e  panieri  ; 


i  Perchè  la  zucca  ecc.  Se  non  mi  ajuti  tu,  io 
sono  rovinato,  tu  puoi  far  a  me  ciò  che  fa  la 
zucca  vuota  a' notatori  inesperti. 

2  Antonio  Alamanni  Poeta  burchiellesco.  Sal- 
vini. 

3  Ceri.  Bellimbusti  da  ceri  che  si  portano  pari 
pari  per  S.  Giovanni.  Salvini. 

4  Bullettin  da  ceci  o  pannacelo  ove  si  mettono 
a  bollire  i  ceci.  Salvini, 

5  II  vin  ch'è  ne'  bicchieri.  Trasparisce:  cosi  che 
non  fusse  questa  veste  sottile  come  un  velo,  ma 
di  panno  grosso  e  che  lo  cuopra  tutto.  Abito  da 
verno:  sopra  avea  detto  che  lo  parasse  a  pistola, 
qui  che  lo  pari  a  vangelo.  Salvini. 


SONETTI.  61 

Che  più  che  i  candfli^'ri 
liunie  (arò  di  tP  per  questo  gielo, 
Stu  ini  vorrai  parare  all'  Evangelo. 

SONETTO  LV. 

A    LORENZO    de'  MEDICI. 

Memento  mei,  per  Dio,  a  questa  volta 
Volermi  un  po'  col  tuo  mantel  coprire , 
Che  sanza  te  mi  secco  in  sul  fiorire. 
Però  non  romper  guerra  alla  ricolta. 

E  se  M  divino  ajuto  è  nella  volta  ' 
Prestami  el  tuo  eh'  i'  non  potrò  fallire, 
Sanza  '1  qual  cieco  i'  mi  potrei   smarrire 
E  vedrai  ben,  s'  i'  sonerò  a  raccolta. 

Deh!  piglia,  Lauro  mio,   questo  disagio 
Come  i'  dissi  eh'  i'  parli  al  Cardinale 
Non  dico  d'uscio!  Addio,  parliamo  adagio. 

Tu  sarai  proprio  a  la  vivanda  il  sale, 
Et  io  sarò  drieto  a  la  stella  un  Magio,  2 
E  l'offerta  del  lupo  è 'I  Brevìale. 

Sempre  a  l'occhio  mentale 
Terrà  tal  beneficio  el  Bellincione 
Non  pur  di  calza  e  capo  di  castrone;'^ 

1  È  nello  volta.  È  su  sopra  la  volta  de' cieli. 
Cielo  della  volta,  e  volta  de'  cieli.  S. 

2  Sarò  drieto  ecc.  Ti  seguirò  come  i  Magi  se- 
guivano la  stella;  e  farò  ogni  tuo  piacere. 

3  Non  pur  di  calza  ecc.  Il  Salvini  annota: 
«  Come  si  fa  per  befania  che  si  empiono  le  calze 
a' fanciulli  di  coserelle.  »  Ma  io  non  ci  racca- 
pezzo nulla;  0   non  mi  arrischio  di   spiegarle. 


vtì2  SONETTI. 

E  sol  per  divozione 
Ma'  più  vorrò,  che  'I  naso  mi  s'arriccia, 
Mangiare  il  santo  allor  con  la  salciccia. 

SONETTO  LVI. 

UI    BERNARDO  BELLINCIONE   A  JACOPO    FIORINI.  ' 

0  specchio  di  poetico  collegio, 

O  gloria  de' Latin,  buon  moralista, 

Novella  Musa,  ed  ottimo  Dantista, 

Ch'  al  bel  nostro  idioma  hai  dato  pregio. 

A  te  l'armilla,  la  corona  e  '1  fregio 
Si  cede,  come  a  primo  citarista: 
Siena  che  del  tuo  nome  fama  acquista 
T'onori  et  ami,  cittadino  egregio. 

Per  parte  d'ogni  Musa  fiorentina 
Ringraziato  sia  tu  de  la  virtute, 
Che  ci  'nsegnasti  co'  tuoi  dolci  versi. 

Però  chiarisca  a  me  la  tua  dottrina 
Degli  spiriti  umani  al  ciel  conversi 
In  che  consista  il  ben  di  lor  salute. 

SONETTO  LVII. 

RISPOSTA    ni    JACOPO     FIORINI     DV     SIENA     A     HKRNARDO 
BELLINCIONE. 

Degno  non  son  del  sacrato  collegio, 
Spirto  gentil,  che  fa  l'uom  moralista, 
Burchiello  appena  son,  non  che  Dantista 
Ch'i' meriti  salire  a  tanto  pregio. 

1  Questo  Jacopo  Fiorini  fu  da  Siena,  e  si  chia- 
mò Jacopo  di  Fiorino  de' Boninsegni;  di  lui  si 
hanno  alcune   Egloghe   a  stampa. 


SONFTTI. 


63 


Di  tanta  loda  mia  chioma  non  fregio, 
Qual  merla  chi  divien  buon  citarista, 
Nò  tanta  grazia  mia  persona  acquista, 
Ch'  io  meriti  fra  gli  altri  essere  egregio. 

Benché  mia  Musa  a  la  tua  fiorentina 
Non  giunga  ;  nuda  e  vota  di  virtute 
Darà  risponso  a'  tuoi  leggiadri  versi. 

Gli  spirti  eletti  al  ciel,  per  ver  dottrina, 
Intendendo  e  volendo  ,  a  Dio  conversi 
Godon,  fruendo  l'ottima  salute. 

SONETTO  LVlll. 

A  LORENZO  de' MEDICI  IL  QUALE  VOLEVA  CHE  IL  BKL- 
LINCIONE  FACESSE  LA  PACE  CON  UNO  OHE  L'aVRVA 
OFFESO. 

Ognun  sa  predicar  la  pazienza , 
E  ciascun  sano  confortar  l'infermo, 
E  dopo  cena  digiunar  nell'  ermo 
Con  austera  vita  in  penitenza  ; 

E' par  ch'ognuno  studi  la  prudenza 
Ne'  casi  d' altri ,  e  poi  quando  alcun  vermo 
Gli  morde,  pare  allor  sì  dur  lo  schermo 
Che  pel  contrario  danno  la  sentenza. 

Nuova  cagione  a  dir  questo  mi  muove, 
Che,  sendo  oifeso,  ognun  molto  m'esorta 
Dicendo:  El  perdonare  è  cosa  giusta. 

Ma  poco  non  farfa  chi  se  sopporta , 
Che  '1  tutto  perdonar  può  '1  sommo  Giove, 
E  mal  può  sofferir  chi  1'  onor  gusta.  • 


'  Mal  può  sofferir  ecc.    Chi  ha   cura    del  pro- 
prio onore,  mal  comporta  la  ingiuria. 


04  sonp:tti. 

SONETTO  LIX. 

l'ER   UNA    CRRTA    FUSTA    CHK    SI    FRCR    AL   GIARDINO    DI 
LOERNZO    DR' MRDICI    DA    UNA    CRRTA    COMPAGNIA. 

r  li  mando  un  sonetto  pien  di  risa 
J)'  una  nuova  gabbiata  di  pippioni  ' 
Con  certi  nostri ,  e  sai ,  pinzocheroni ,  - 
Che  fan  del  collo  il  campani  1  di  Pisa. 

Ma  non  intendo  ben  la  lor  divisa, 
Ch'  e  gonnellin  conformin  co'  ciopponi:  '^ 
E  lodar  rugginosi  gli  schidoni , 
E  saper  poi  che  cosa  è  la  pernisa.  ■* 

Però  vien  a  veder  costoro  in  tresca 
Ch'alia  franciosa  bacian  l'Agnus  Dee, 
Poi  fanno  a  pie'  di  Cristo  la  moresca. 

El  nome  non  vo'dir  d'un  gabbadeo, 
Che  l'anima  'n  un  nocciolo  ha  di  pesca, -"^ 
Come  'n  un  forzarin  l'ha  proprio  Feo. 

1  Di  pippioni.  Il  Salvini  questa  gabbiata  di 
pippioni  la  intende  per  Compagnia  di  giovani. 

2  Pinzocheroni  ecc.  Bacchettoni  che  vanno  a 
colio  torto. 

3  E'  gonnellin  ecc.  Le  loro  cioppe  siano  e- 
guali  al  gonnellino;  si  mostrino  tali  di  fuori, 
quali  sono  dentro. 

4  Lodar  rugginosi  ecc.  Dire  che  è  bene  la- 
sciar irrugginire  gli  schidioni,  e  poi  mangiar  per- 
nici: lodare,  cioè,  l'astinenza,  e  mangiare  buon 
bocconi. 

5  Che  V  anima  ecc.  Quel  gabbadeo  ha  l'anima 
in  un  nocciolo  di  pesca,  cioè  pensa  solo  al  man- 
giare; come  Feo  l'ha  nel  forziere,  cioè  il  suo 
Dio  sono  i  denari. 


SONETTI.  65 

Per  non  parer  giudeo, 
Ti  direi  cosa  d'un  guancial  si  bella,' 
Che  rider  ti  fare'  più  che  '1  Gonnella. 

SONETTO  LX.  2 

FATTO    A    LORENZO   DE'  MEDICI    AVENDO     EGLI    MALE    A 
CAREGGI. 

r  ti  vidi  una  siepe  intorno  al  letto , 
Quando  a  Careggi  i'  ti  lasciai  e  sonetti , 
E  volliti  far  motto,  e  poi  mi  stetti 
Per  duo  spicchi  di  mela,  et  un  di  petto. 

Più  che  la  storia  piacque  il  tuo  mottetto 
A  tòr  Toppenione  a'  bosso  letti , 
Equivocando,  desti  morselletti 
A'  gufi  ,  che  notavan  nel  guazzetto. 

Di  nuovo  ècci  un  maestro  Cominata 
Che  vuol  tórre  a  guarir  la  gelatina, 
Quand'  eli'  è  riscaldata  e  raffreddata. 

Di  questo  si  rallegra  la  tonnina 
Ch'un  mulin  con  la  rocca  sconocchiata 
Ci  vogli  vender  neve  per  farina. 

Soniàn  terza  in  cucina, 
Perchè  fra  Pozzolattico  e  Girone 
Si  trova  il  fine  azurro  oltra  Mugnone. 


1  D'un  guancial.  D'un  fanciullo,  spiega  il  Sal- 
vini. 

2  È   pieno  di   allusioni    e    fatti    particolari   al 
tutto  ignoti  ;  e,  per  di  più,  ha  del  burchiellesco. 


6G  SONETTI. 

SONETTO  LXI. 

A  LORENZO  DE'mRDICI  AMMALATO  MANDANDOGLI  CKRTK 
SUSINE  AMOSCINE,  E  LE  SUSINE  ESSENDO  FUORI  DI 
STAGIONE.  • 

La  luna,  el  sole,  el  tempo  e  la  stagione 
Per  lor  virtù  ci  fecion  vaghe  e  belle; 
Se  magre  e  gialle  ,  e  dura  abbian  la  pelle 
A  te  non  mancon  di  perfezione. 

Ma  Pomona  lodiàn  non  la  cagione 
Che  ne  permise  che  noi  fussim  quelle, 
Fra  tante  amiche  sue  nostre  sorelle, 
Elette  a  te  per  nostra  esaltazione. 

Gratitudo ,  eh'  amor  cresce  e  conserva 
Ogni  amico  di  lungi  ha  sempre  presso, 
Come  tu  vedi,  el  Bellincione  osserva. 

Se  già  per  esser  tue  ne  fu  concesso 
Valore  a  noi,  ch'ognuna  si  preserva, 
Amar  ci  debbi ,  e  ringraziar  te  stesso. 

SONETTO  LXII.  ' 

BURCHIELLESCO  A  UNO  CHE  FECE  UNA  CENA  E  ANDA- 
RONO  I  TRESPOLI   SOTTOSOPRA. 

E  trespoli  imparavano  a  ballare 
Quando  Noè  si  fece  allo  sportello 
Per  sentir  come  e  granchi  in  un  corbello 
Imparin  cosi  ben  l'arpa  a  sonare. 

^  È  una  delle  solite  scioccherie  burchielles- 
che, sulle  quali  il  lettore  può  far  prova  del  suo 
ingegno,  se  ha  del  tempo  da  gettar  via. 


SONETTI.  67 

Didon  che  fece  Enea  maravigliare 
Cocendo  le  bruciate  a  Mongibello, 
Rispose:  I  funghi  portano  el  cappello 
Al  Cardinal  che  all'uscio  sta  aspettare. 

Però  vo'  eh'  al  giudicio  si  disperi 
Quel  eh'  a  Cristo  sue  lacrime  ha  donate 
E  poi  le  truovi  a'  pie'  de  gli  sparvieri. 

Diceva  un  pedignon:  Non  mi  grattate, 
Ch'  i'  vi  so  dir,  che  tutti  e  tavolieri 
Hanno  le  case  a  gufi  appigionate. 

Però  vo'  mi  diciate 
Chi  raisse  la  corona  a  le  campane, 
E  poi  perchè  le  lasche  son  sì  sane. 

SONETTO  LXIII.  ' 

BURCHIELLESCO  ANDANDO  A  SAN  DONNINO  E  DI  TUTTE 
LE  COSE  CHE  OCCORSERO,  E  CHE  A  TAVOLA  FU  DETTO 
A   UNO    L'  AMICA    T'  ASPETTA. 

Vidi  una  palla  che  giaceva  a  scacchi, 
E  '1  Marcel  con  le  penne  che  volava 
Drieto  a  un  cane  che  botti  ricerchiava, 
Et  un  pagon  sanz'  elmo  con  pennacchi. 

Quando  fra  Ognissanti  e  da  Quaracchi 
Morì  Boezio,  e  Bacco  lo  sognava, 
Come  Agostino  ancor  che  M  mar  votava 
Vidi  che  empievon  sanza  fondo  sacchi. 


'  Ripeto  qui  ciò  che  lio  detto  del  sonetto  pre- 
cedente. 


68  SONETTI. 

Palette,  pollo  pesto  e  broccolieri  i 
Per  voler  ire  a'  merli  senza  scala 
Fecion  fermagli  a  molti  cavalieri,  2 
Non  dite  più  Teseo  facessi  male 
Per  amare  una  Federa,  o  Brachieri  ;  3 
Mal  fa  chi  s' innamora  del  guanciale. 

E  lupin  sanza  sale 
Isciocchi  non  mi  parvono,  a  mostrare 
Che  a  tavole  si  vinca  per  levare.  * 


'  Broccolieri.  Il  Salvini  annota:  Brocchieri, 
cosi  in  Parigi  e  Vienna,  traslatato  dal  francese 
Boucle,  boccola;  Bouclie,  boccoliere. 

^Fecion  fermagli  ecc.  Almeno  il  Bellincioni, 
burchielleggiando,  dei  brocc/ìjeri  ne  fa  fermagli  : 
il  Prete  Tigri,  nella  sua  famosa  Selvaggia,  coi 
brocchieri  adorna  sul  serio,  i  finimenti  de' ca- 
valli (!!!) 

3  Una  Federa.  Allunga  il  nome  di  Fedra,  per 
far  il  giuoco  di  parole   con   la   federa  de'  guan- 
ciali; e  vuol  riuscire  a  dire....  Basta,  il  lettore 
si  ricordi  che  Guanciale  lo  ha  usato  qua  dietro 
per  Fanciullo. 

4  A  tavola.  Al  giuoco  delle  tavole  vince  co- 
lui che  prima  leva  tutte  le  pedine. 


SON  FITTI.  69 

SONETTO    LXIV. 

PUR  UNO  ch'essendo  POVERO  FECE  UNA  CENA  PER  LO 
SQUITTINO,  E  FECESI  A  UN  USCIO  UNA  CHIASSATA 
m  FANCIULLI  QUASI  IGNUDI,  CHE  PAREVA  SI  PRO- 
VASSI IL  GIUDICIO,  COME  IN  SAN  MARTINO  È  BAT- 
TILANI,' 

Trespoli  rotti  e  sangue  di  verzino 
Et  animelle  arrosto  da  far  palle, 
E  le  cintole  ch'escon  da  le  pialle 
Fecion  vincer  le  gazze  allo  squittino. 

El  giudicio  si  prova  in  san  Marlino 
Nel  tempo  ch'appariscon  le  farfalle, 
Ma,  se  tutte  le  chiose  fussin  gialle, 
Diresti:  San  Cristofan  è  piccino. 

È  scritto  a  lato  all'asse  de' Vangeli  : 
L'  anima  n'  andrà  in  ciel  di  San  Felice 
Stu  mangi  assenzio,  e  vendi  succiameli. 

Risponderebbe  a  questo  la  pernice 
Che  hanno  fatto  le  mosche  a  ragliateli  ? 
Ch'elle  sien  prese  troppo  si  disdice. 

Cosi  il  proverbio  dice: 
Non  saranno  più  tuoi,  se  tu  gli  spendi, 
Perchè  fortuna  fa  de' saliscendi. 


1  È  burchiellesco,  ed  impossibile  a  dichiararsi, 
perchè  ci  si  allude  a  fatti  ed  usanze  ora  ignote; 
H      e  nemmeno  il  Salvini    si  è   provato   a   interpre- 
tar nulla. 


* 
» 


70  SONETTI. 

SONETTO   LXV. 

A   UNO   CHE  NON   GLI  FACEVA   PIÙ  MOTTO    COME  SOLEVA 
QUANDO   AVEVA   PIÙ    DEL   GRASSO. 

S' i' fussi  COSÌ  ricco  di  moneta, 
Como  son  di  fatiche  e  di  pensieri , 
Ciascun  mi  guardare'  più  volentieri , 
Ch' e  balocchi  non  fanno  la  cometa;  ^ 

Ma  perchè  la  mia  borsa  fa  dieta , 
Gli  amici  son  Danesi  al  Re  Bravieri 
Qui  a  Ferrara,  al  luogo  de' Palmieri 
Sanza  più  presentarmi  da  Gaeta.  ^ 

Se  ritornassi  un  tratto  in  Vacchereccia , 
Guarir  voi  mi  vedresti  del  vaiuolo, 
E  farsi  alla  midolla  ogni  uom  corteccia.  3 

Non  mi  far  ber  col  fiasco  o  coll'orciuolo, 
Ma  piaccia  a  te  cavarmi  della  feccia, 
E  parrotti  el  pavon    non  l'assiuolo. 


'  Balocchi.  Che  di  ogni  piccola  novità  si  me- 
ravigliano. La  Crusca  novella,  in  Balocco,  leg- 
ge erratamente  Ciascun  mi  guarderà. 

2  Gli  amici  ecc.  Parla  in  gergo,  e  viene  a  dire 
che  gli  amici  lo  abbandonano,  e  non  gli  fanno 
più  viso  gajo. 

3  Se  ritornassi  ecc.  Se  ritornassi  grasso,  e 
andassi  all'  osteria  di  Vacchereccia  (che  è  una 
via  di  Firenze),  vedreste  che  gli  amici  non  mi 
fuggirebbero  più  come  un  appestato. 


SONETTI. 


71 


Et  anco  il  losignuolo 
Co' panni  bigi,  che  natura  tinse. 
Sempre  cantando  il  pappagallo  vinse.  ' 

SONETTO    LXVI. 

BURCHIELLESCO.  2 

Voi  siete  gionti  tardi ,  compagnoni , 
A  uccellar  volevasi  venire 
Un  mese  fa,  perchè  potrebbon  ire 
A  scaricar  la  nave  gli  starnoni. 

Schermir  vedrete  in  aria  e  far  quistioni , 
Ma  di  che  pianse  Pietro?  i'  vel  vo'  dire, 
Perchè  noi  vide  cotto  ebbe  martire: 
El  bel  veder  volar  sono  i  rondoni. 

Fate  com'  io ,  se  voi  avete  ragne 
A  que'  che  mangion  fichi  di  panico 
Con  quegli  allor  del  diavol  pur  ci  rende. 

Parecchi  ve  ne  mando,  e  non  vi  dico 
Se  son  da  gelatina  o  da  lasagne, 
Mezzuli  son  da  botte  a  chi  m'intende; 

Ancor  me'  si  comprende  : 
E'  son  di  que'  che  stettono  a  vedere 
Quando  Lucifer  fu  posto  a  sedere. 


'  Il  losignuolo  co'panni  bigi.  È  V  asino,  dice  il 
Salvini;  ma  qui  si  parla  dell'usignolo  vero,  il 
quale,  benché  vestito  di  color  bigio,  vince  nel 
canto  il  pappagallo,  vestito  di  penne  così  vistose. 

2É  burchiellesco  ;  e  nemmeno  il  Salvini  si  è 
provato  a  decifrar  nulla.  Pensate  se  vo'  stillar- 
mi il  cervello  io  ! 


7è  SONETTI. 

SONETTO  LXVIl.i 

A    UNO   DOMANDANDOLO    DI  CB.RTI    DUBB.I. 

Io  ho  sentito  che  'n  filosofia 
Voi  siete  dotto:  su,  datemi  il  saggio; 
Saper  vorrei  da  voi ,  perchè  di  maggio 
Vanno  le  cheppie  contro  alla  corsia  ;  2 

Ancor  m' è  detto  qui  che  'n  poesia 
Esperto  siete,  e  sì  sottile  e  saggio; 
Però  vorrei  saper  or  per  vantaggio 
A  che  figureresti  la  pazzia. 

Perchè  voi  non  crediate  che  io  vi  sgufi. 
Vorrei  saper  da  voi,  se  le  cazzuole ^ 
Son  pesci,  o  di  passaggio  sieno  e  gufi. 

Un'altra  cosa  ancor  saper  si  voler 
Per  che  cagion  son  caldi  sì  e  tartufi, ^ 
Istando  nella  neve  e  non  al  sole. 


'  È  un  sonetto  composto  di  domande  ,  appa- 
rentemente da  nulla,  ma  da  non  risolversi  cos'i 
alla  prima.  Su  questo  per  avventura  compose  il 
Berni  il  suo  garbato  sonetto  : 

Se,  invece  di  midono,  piene  l'ossa 
Ser  Antoniaccio,  di  scVenza   avete. 
Ditemi  chi  fu  pria,  la  messa  o  '1  prete? 
O  la  campana  piccola,  o  la  grossa? 

2  Cheppia  è  un  pesce  di  mare  che  nell'esta- 
te viene  all' acqua  dolce,  e  per  conseguenza  va 
contro  la  corrente. 

3  Cazzuola  è  V  embrione  della  botta. 

^  Caldi-  Calorosi ,  che  riscaldono  il  sangue. 


SONETTI. 


73 


Intendi  mie  parole 
E  qui  rispondi,  e  sol  di  pratica  esci, 
E  dimmi  chi  'nsegnò  notare  a'  pesci. 


SONETTO   LXVIII.  » 

A   LORENZO   de'  medici   PER    UN   CERTO  BUONO  IN   PRO- 
SPETTIVA. 

Virgilio,  Tullio,  Seneca  e  Lucano, 
E'  funghi  ch'affogavon  nel  savore, 
Sentendo  el  colatojo  che  suona  Tore, 
Fecion  pigliar  tre  pillole  al  Soldano. 

Ma  questo  parve  al  confessore  istrano. 
Volendomi  chiarir  d'un  certo  errore, 
Se  col  boccone  in  bocca  un  peccatore 
Può  ricordare  il  nome  di  Dio  invano. 

Non  basta,  disse  un,  piìi  ch'i'  nacqui  muto, 
Che  anche  ogni  scrittor  per  mio  dispetto 
Mi  manda  imbasciatore  e  fa  scrignuto? 

Saper  vorrei  da  Giove  uno  intelletto 
Se  lasciò  qui  le  man  per  nostro  ajuto 
Videtur  manus  Christi  oel  confetto. 

E  per  questo  rispetto 
Troverai  scritto  'n  una  pergamena , 
Che  la  'nsalata  è  buona  doppo  cena. 


'  Burchiellesco,  e  indegno  che  ci  spenda  tem- 
po, chi  conosce  il  pregio  del  tempo,  e  ricordi 
quel  di  Dante  : 

Il  perder  tempo  a  chi  più  sa,  più  spiace. 


74  SONETTI.  ^ 

SONETTO  LXIX.  i  '\ 

A  LORENZO  de'  MEDICI  PER  LA  GUKRRA.  , 

Una  libbra  di  fretta  di  corrieri,  1 

Et  una  messa  grande  et  una  nana, 
Sognaron  la  mattina  di  befana  '    ; 

Che  non  si  mangi  più  fichi  sampieri , 

Se  oggi  si  tagliassino  e  taglieri  ! 

Non  ti  parrebbe  in  Plinio  cosa  strana,  'l 

E  se  Noè  mostrava  la  fagiana 
Incolpane  la  polpa  de' bicchieri. 

Ma ,  se  non  fusse  Tesse  ne'  Latini 
Sapresti  la  cagion  per  che  e  falconi 
Vanno  in  Galizia  e  fansi  pellegrini? 2 

E  Galli  s'  hanno  già  messi  gli  sproni 
Per  assaltare  e  gotti  in  su  confini  , 
E  ritrovare  il  ritto  de' cialdoni  ; 

E  però  e  fratacchioni , 
Sentendo  che  alle  mosche  piace  il  mele , 
Ci  danno  più  ulivo  che  candele. 


1  Burchiellesco,  e  però  si  intenda  ripetuto  ciò 
che  ho  detto  qui  sopra.  Il  Salvini  lo  dice  de' più 
bellij  e  degno  del  Burchiello.  Mi  rallegro  con  lui 
per  il  suo  squisito  gusto.  Buon  prò  gli  faccia. 

2  Un  Ms.  legge  questa  terzina  così  : 

S'  e'  non  fussin  tant'  S  ne'  latini 
Vedresti  le  speranze  de'  prigioni 
Fiorir  su  per  le  cime  de'  camini. 


SONETTI.  75 

SONETTO  LXX. 

A   TOMMASO    RIDOLFI    QUANDO    ANDÒ    A    FERRARA. 

Tommaso,  i' mando  a  voi  questo  sonetto, 
Che  forse  dirà  '1  ver  più  eh'  un  verone,  ^ 
Che  gli  asini  hanno  in  lor  più  discrezione  2 
Grattandosi  l'un  l'altro  el  collaretto. 

r  vo'  lasciar  la  storia  pel  mottetto  : 
Mandate  di  que'  ceri  un'  po'  a  Vignone, 
E  state  a  rinfrescarvi  al  badalone; 
Che  lo  sparviere  è  buon  secondo  '1  getto.  ^ 

E'  e'  è  si  gran  dovizia  di  promesse , 
E  tanta  marchassita  e  bossoletti^ 
Ch'  i'  voglio  in  Arno  udir  oggi  le  messe. 

Farete  a  questi  tempi  gli  scambietti, 
Che  fanno  le  dolciate  mie  badesse 
Colle  risa  schernire  e  fazzoletti. 

Tanti  nuovi  becchetti 
Ci  sono  (questa  vi  bisogna  bere) 
Per  salvar  certe  vote  mie  saliere. 


^  Dirà  il  ver  ecc.  Giuoco  di  parole  assai  pue- 
rile. 

2  Gli  asini  ecc.  Il  proverbio  latino,  per  signi- 
ficare persone  da  poco  che  si  lodano  a  vicenda, 
diceva  :  Asinus  asinum  fricat,  suppergiti  come 
fanno  certi  Accademici,  o  Accademipeti,  che  lo- 
dano anonimamente  il  Vocabolario  novello. 

3  Secondo  'l  getto  ecc.  Secondo  V  impeto  e  l'ac- 
certo col  quale  si  getta  sopra  la  preda.  Il  Sal- 
vini crede  che  Getto  stia  per  Gelo. 

4  Marc/iasst<a ecc.  Dimostrazioni  daciurraatori. 


76  SONETTI. 

No'  ci  darem  piacere 
Col  becco  in  molle,  a  dir  bugie  e  ciance. 
Con  trebbian,  acqua  fresca  e  melarance. 

SONETTO  LXXI. 

A  MESSER  CRISTOFORO  LANDINO  PER  UN  DANTE  CHE 
GLI  MANDÒ  MOLTO  ANTICO  B  CH'  ERA  ROTTO  E  CIE- 
CO :    DANTE   FAVELLA   PEL  SONETTO. 

Non  guarderete  al  mio  votto  mantello 
Che  spesso  quel  di  fuor  par  che  ci  inganni: 
Vedete  il  rusignuol  co'  bigi  panni 
Cantando  sempre  vince  ogni  altro  uccello.  ' 

Del  sicutera  pajo  un  suo  fratello , 
Che  fu  innanzi  al  principio  pur  molti  anni, 
Però  son  vecchio,  cieco  e  pien  d'affanni, 
Perchè  la  mia  bottega  sta  a  sportello.  2 

Certi  nuovi  pietosi  merendoni, 
Veggendo  pur  eh'  io  masticar  non  posso , 
Chieggon  gli  orlicci,  perchè  a  lor  son  buoni. 


'  Vedete  il  rusignuol  ecc.  C'è  V  Istessa  idea 
del  rosignuolo,  che  ha  penne  bigie  e  dispetto,  e 
pur  canta  si  dolcemente  ;  e  significa  che  non  si 
guardi  alla  veste  dispetta  del  libro,  ma  al  divino 
poema  che  contiene.  11  Salvini  ribadisce,  da  vero 
Accademico  della  Crusca,  l'errore  veduto  al  so- 
netto 65,  dove  crede  che  il  rusignuol  de' panni 
bigi  sia  l'asino;  e  cosi  fa  che  Dante  si  dia  del- 
l'asino,  e   parli  contradicendosi. 

2  il  sportello.  I  laschi  si  dicono  stare  a  spor- 
tello. (Salvini). 


SONETTI.  77 

Costor  mi  fanno,  quando  e'  m'  han  percosso,  ^ 
Argomenti  di  capi  di  castroni 
In  disputar  la  coda  di  Minosso: 

Ognun  di  loro  è  grosso, 
Ch'  i'  vidi  per  un  buco  di  grattugia 
Che  quella  era  un'anguilla  di  Perugia. 

SONETTO  LXXII. 

A  MESSER  BERNARDO  MICHBLOZZI  CHE  PREGÒ  IL  POETA 
CHE  -ANDASSE   PER    UN   SUO   CINTO.  2 

Voi  mi  pregasti  tanto  per  un  cinto 
Ch'air  amicizia  nostra  fu  difetto: 
r  me  ne  andrei  per  voi  sempre  nel  letto, 
Non  sono  amico  simulato  e  fìnto. 

Io  farei  più  per  voi  eh' un  uom  dipinto: 
Come  chiedesti  mandovi  el  sonetto: 
Tant' è!  per  compiacervi,  come  ho  deito, 
Andrei  al  Sepolcro,  quando  e'  fussi  a  Quinto. 

El  vostro  è  mio  e  vostro,  il  mio  sì  è  mioj  3 


^  Costor  mi  fanno  ecc.  Deride  le  arzigogolate 
interpretazioni  de'  commentatori. 

2  II  sonetto  è  ironico  tutto;  e  però,  tìngendo 
di  voler  dire  che  per  lui  farebbe  tutto,  dice  che 
andrebbe  per  esso  a  letto,  e  farebbe  quanto  può 
fare  un  uomo  dipinto  ecc.  e  andrebbe  al  Sepolcro, 
se  il  Sepolcro  fosse  a  Quinto,  che  è  luogo  presso 
a  Firenze,  dove  allora  era  il  Poeta. 

3  El  vostro  ecc.  Come  Stenterello  che  dice: 
Quel  che  è  mio  è  mio,  quel  che  è  tuo  è  mio. 


78  SONETTI. 

Nel  sotti  1  cogli  amici  mai  non  guardo  ^ 
Son  cortese  pitocco,  e  pulcin  pio.' 

Prima  guarrà  del  sonno  Lionardo 
Che  ogni  vostro  ben  non  voless'io, 
Et  anco  a  questo  non  sarei  infingardo. 

Fra  noi ,  Messer  Bernardo , 
Le  proferte  sien  fatte;  qui  si  pensa: 
Se  '1  cinto  è  lungo,  e'  può  giovare  a  mensa. 

SONETTO   LXXIII.     .m» 

A  LORENZO  de'  MEDICI  QUANDO  TORNÒ  DA  NAPOLI. 

Che  bella  cosa  sono  e  tremolanti ^ 
Quando  alla  terra  muffa  el  bel  ciuffetto! 
E  leggesi  'n  un  testo  di  sul  tetto 
Sudare  el  frate  el  dì  doppo  Ognissanti 

E  Polifemo,  armando  e  suoi  giostranti, 
Gli  mancò  la  visiera  d'un  elmetto, 
Ma  un  cappuccio  presto  gli  ebbe  detto: 
La  mia  vi  venderò,  ma  pe' contanti. 


'  Pulcin  pio.  Il  pulcino  fa  pio  pio  per  aver 
da  mangiare  ;  e  piare  si  dice  plebeamente ,  in  certi 
parlari ,  per  pigliare. 

"^  I  tremolanti  ecc.  Pare  che  alluda  a' primi 
freddi  ,  e  che  i  tremolanti  si  abbia  a  intender 
per  coloro  che  tremano;  e  che  ìì  muffare  il  ciuf- 
fetto della  terra  sieno  le  brin.ite  che  fanno  ap- 
parir bianche  1'  erbe,  il  Salvini  parla  di  Mofete, 
né  indovino  a  che  proposito. 


SONETTI.  79 

Deh  !  se  non  fusse  el  Gengian  da  Prato 
El  di  che  Moisè  passò  il  Mar  Rosso, 
Non  s'apriva  la  porta  a  San  Miniato. 

F'rima  guarrebbe  i  un  citriol  d'un  cosso  2 
Ch' un  Cardinale  sciolto  sie  legato -.3 
Se  ringhia  egli  è  ronzin  dunque  Minosse  ?4 

r  pagherei  un  grosso 
A  saper  s' Avicenna  a  lato  all' asse  5 
Insegna  el  modo  a  far  le  risa  grasse. 

SONETTO  LXXIV. 

A  LORENZO    de'  MEDICI  CHE    AVEA   DATO  AL  POETA  UNA 
ROBA    PAGONAZZA. 

Eh!  s'io  fussi  di  fuor  qual  dentro  bello  e 
Parre'ti  un  lavorìo  fatto  a  Damasco, 


^  Guarrebbe.  Guarirebbe,  come  guarrà ,  per 
guarirà,  a  pag.  78. 

2  Cosso.  Chiama  cossi  que' brugnoccoli  che 
hanno  i  cetriuoli  sulla  scorza,  simili  a'  veri  cossi 
che  vengono  nel  volto. 

^Legato.  C'è  il  doppio  senso  del  Legato  con 
fune,  e  i  Legati  papali. 

4  Se  ringhia.  Allude  al  verso  :  Slavvi  Minosse 
orribilmente,  e  ringhia. 

5  A  lato  all'asse.  Il  Salvini  annota:  Libri  le- 
gati con  l'asse.  Bene:  ma  che  vuol  dire?  Forse 
nelle  ultime  pagine  ,  dov' è  l'indice? 

GS'io  fussi  ecc.  S'io  avessi  una  veste  dice- 
vole alla  nobiltà  del  mio  animo. 


s 


80  SONETTI. 

Però  quando  la  vesta  è  rotta  al  fiasco  ' 
Di  Candia  o  V  Ormannoro  inganna  quello. 

Se  nella  ragna  appanna  el  fegatello 
Di  milze  sotto ,  dice ,  i'  non  vi  pasco  ; 
Così  per  tua  virtù  vivo  rinasco  2 
Con  mia  brutta  guaina  e  bel  coltello. 

Guardami  alcun  col  viso  del  bizzarro,  ^ 
Facendo  a  me  crespei  delle  lor  ciglia, 
Senza  ridersi  più  del  mio  tabarro. 

Farebbon  più  d'Elia  gran  maraviglia,'* 
Se  gittassi  lo  scoglio  a  me  dal  carro; 
Buon  segno  è  nello  'nfermo  quando  e'  piglia. 

Con  facezia  ripiglia 
Quel  che  qui  è  detto,  e  sempre  sia  laudato 
El  mio  Lorenzo,  et  anco  San  Donato.  ^ 

Ed  a'  tuoi  pie'  gittato 
Mi  son  qual  Febo,  e  stringo  '1  verde  lauro, 
E  fo  di  tue  promesse  a  me  tesauro. 


1  Però  ecc.  Quando  il  fiasco  ha  la  veste  lo- 
gora per  altro,  si  resta  ingannati  se  dentro  vi 
sia  Vino  di  Candia,  o  vino  dell' Ormannoro,  che 
è  un  piano  presso  F'irenze,  dove  fa  il  peggior 
vino. 

2  Così  ecc.  Cos\  ora,  per  la  tua  bontà,  rinasco 
a  nuova  vita,  essendo  stato  finora  un  bel  coltello 
in  una  brutta  guaina,  cioè  mal  vestito. 

3  Col  viso  ecc.  Mi  guarda  a  stracciasacco,  e 
aggrotta  le  ciglia. 

4  D'  Elia  ecc.  Elia  fu  rapito  al  cielo  sopra  uu 
carro  di  fuoco. 

5  San  Donato.  Allude  al  regalo  fattogli. 


I 


SONETTI.  81 

.     SONETTO  LXXV. 

NON  POTENDO  AVER  DENARI  DAL  TESORIERE. 

El  sarà  prima  Santo  Anton  d'Agosto, ^ 
Et  andrà  el  Paradiso  a  saccomanno , 
E  le  donne  del  troppo  si  dorranno, 
E  staranno  nel  letto  all'uom  discosto, 

E  li  Tedeschi  adacqueranno  il  mosto, 
E'  falliti  lo  'ntero  pagheranno, 
E'  savj  di  niente  rideranno, 
E  mai  pili  il  sol  non  volgerà  l'arrosto,  ^ 

E  i  consigli  d' i  poveri  fien  presi , 
E  ila  senza  superbia  un  Veneziano, 
E  troverassi  fede  in  Genovesi, 

E  fìa  senza  babbioni  el  Mantuano, 
E  non  saran  pietosi  i  Milanesi , 
E  non  sarà  più  sordo  ognun  Toscano, 

Prima  che  noi  crediàno 
Aver  dui  versi  al  buon  tesauriere 
Che  mi  faccia  parer  lupo  cerviere.  3 


^  El  sarà  prima  ecc.  Argomenta  sempre  ab  im- 
possibili. 

2  Non  volgerà  l'arroslo.  Non  girerà  attorno 
alla  terra. 

3  Che  mi  faccia  parer.  Non  so  indovinare,  per- 
chè il  Tesoriere,  dandogli  denaro,  potesse  farlo 
parere  un  lupo  cervi<»ro;  e  né  anche  il  Salvini 
ne  accenna  nulla. 


6 


82  SONETTI, 

SONETTO  LXXVI. 

A    LORENZO    de'  medici   D'  UN   MANTELLO. 

Non  fu  lattuga  mai  isì  diradata 
Quanto  miei  panni,  e  chiaro  nel  mantello, 
Ch'e  vale  ogni  denajo  per  buratello, 
0  farne  scotitojo  per  la  'nsalata.  ' 

Ma  sai  di  che  sghignazza  la  brigata? 
Ch'  e  Bianchi  contraffò  portando  quello ,  - 
E  però  esco  fuor  col  pipistrello ,  3 
E  tutto  '1  di  mi  sto  con  la  granata. 

Guarda  testé  di  quel  che  mi  rammenta! 
L' altrier  da  me  lo  volle  un  contadino , 
Per  far  la  trentavecchia  di  sementa.  ■* 

Non  vada  per  tragetti  San  Martino, 


1  Paragona  il  suo  mantello  a  una  foglia  di  lat- 
tuga diradata,  e  dice  che  sarebbe  buono  a  met- 
tersi per  panno  da  buratto,  che  la  farina  vi  pas- 
serebbe attraverso;  o  si  potrebbe  usare  per  quel 
panno  rado,  dentro  a  cui  si  mette  l' insalata  af- 
fine di  scuoterla,  acciocché  tutta  l'acqua  le  esca 
da  dosso.  Ciò  si  suol  fare  con  un  panno  radis- 
simo. 

2  I  Bianchi  ecc.  Erano  compagnie  di  penitenti, 
che  andavano  processionando  vestiti  di  cappe 
bianche;  e  dice  che  il  suo  mantello  era  lacero, 
e  divenuto  quasi  bianco. 

3  Col  pipistrello.  Quando  escono  fuori  i  pipi- 
strelli ,  a  bujo. 

4  La  trentavecchia.  Lo  spauracchio. 


SONETTI.  83 

Che,  s'io  lo  truovo  innanzi  ch'i'  mi  penta, 
Il  lascerò  in  robetta,  o  in  gonellino.  ^ 

Non  più  Greco  o  Latino , 
r  prego,  o  Dafne,  te  per  Euterpe 
Che  tu  mi  faccia  far  come  la  serpe.  - 

SONETTO  LXXVII. 

1)'  UNA  COMARE   CHE  CHIAMA    L'  ALTRA  ALLA  FINESTRA. 

Cornar?  —  Madonna  —  Avete  voi  del  fuoco?  3 
r  n'ho  piena  la  casa  alla  malora; 
Uh  trista  me!  —  Che  e'  è?  —  Questa  mia  nuora.. 
Ma  n'  è  cagione  el  mio  figliuol  da  poco. 

L'è  ben  vestita,  e  va  che  pare  un  cuoco, 
E  sta  a  bottega  e  dice  e  non  lavora. 
Gli  ha  buona  masserizia,  e  sempre  ognora 
E  che  c'è  egli?  ha  d'ogni  cosa  poco.  4 

Uh!  col  malanno,  guata  lima  sorda! 
L'  è  '1  fistol ,  che  Die  sia  con  esso  noi , 
Che  di  far  nulla  mai  non  si  ricorda. 


1  Non  vada  ecc.  Allude  a  S.  Martino  che  diede 
mezzo  il  suo  mantello  per  limosina;  e  dice  che 
egli  glielo  piglierebbe  tutto, 

2  Come  la  serpe.  Mi  faccia  mutare  spoglia. 

3  Coniar  ecc.  Questo  sonetto  è  veramente  gar- 
bato, e  di  agevole  intelligenza. 

4  Ha  buona  masserizia.  Non  le  manca  nulla, 
ha  abbondanza  di  tutto;  eppure  che  c'è  egli?, 
(cioè  a  sentir  lei)  ha  mancanza  d'ogni  cosa.  Nella 
stampa  queW  E  che  c'è  egli,  sta  cosi:  Echecce 
e  gli  ad  ogni. 


^  t 


84  SONETTI. 

S'egli  è  picchiato  T  uscio,  a  dirlo  a  voi, 
Ella  non  tirerebbe  pur  la  corda; 
Naffe  !  questi  mariti  son  pur  buoi  ! 
r  vi  rivedrò  poi  — 
Udite:  E  egli  di  sue  membra  intero?  — 
Comare,  il  feci  maschio  da  dovero. 

SONETTO  LXXVIII. 

PBR    MASO    dell'accademia,    ESSENDO    LUI    IN    VILLA 
CON   UN  SCO    AMICO. 

0  Ciel!  0  san  Francesco!  0  Croc'ioni! 
Avviatevi  giù  cosi  pian  piano; 
E'  mi  fu  detto  eh' io  pescassi  a  mano, 
E  piglierei  de'  barbi  e  de'  carpioni. 

Attienti  in  groppa  altrove  eh'  agli  arcioni  : 
Giovanni  è  ancora  bello,  e  tanto  umano, 
Che  la  botte  mi  par  di  san  Galgano 
Piena  d'  un  vin  che  piace  co'  poponi.  ' 

Da  rider  fu  che  Rosso  fece  un  boto 
La  notte  che  sentì  tremar  il  letto 
Dicendo:  Questo  ha  esser  un  tremoto. 

Rispose  Maso:  Non  aver  sospetto,  2 


1  Piena  ecc.  Il  dettato  latino  dice: Bonumvi- 
num  cum  pepane;  ergo  qui  vino  che  piace  co'po- 
poni,  significa  vino  buono. 

2  Rispose:  Maso  ecc.  In  questa  terzina,  e  nella 
coda,  si  parla  di  oscenità  che  il  lettore  malizioso 
intende  da  sé,  e  che  altri  non  importa  le  inten- 
dano. 


SONETTI.  85 

Giovanni  m'empie  il  carnaiuol  che  è  vóto, 
Indovina  di  che,  s' i' non  l'ho  detto? 

Non  e'  è  maggior  diletto, 
Come  'n  un  testo  di  sul  tetto  i'  truovo, 
Che  fare  a  Salincerhio,  o  Metti  F  uovo. 

SONETTO  LXXIX. 

A  LORENZO  de'  MEDICI  QUANDO  e' MANDÒ  LA  VIVUOLA 
AL  DUCA  DI  MILANO,  E  AVENDONE  DATA  LA  COMMIS- 
SIONE AL  POETA,  E  NON    v'  ANDANDO,  FECE  QUESTO. 

Firenze  parea  tutto  un  pajuol  d'accia' 
Pel  gran  bu  bu  di  tante  capannello  ; 
Ma  or,  eh' e  marzapan  tornon  frittelle,  2 
Et  acqua  di  baloge  la  vernaccia, 

Convien  eh'  un  dì  mi  frodi  una  bisaccia 
Per  non  esser  più  giuoco  alle  tabelle, 
Ch'  i'  do  sempre  nel  lecco  alle  murelle,  3 
E  messa  m'  è  in  quistion  1'  ultima  caccia. 

El  viso  i'  vo  scambiar  con  que'  bnronci  : 


1  Parea  un  pajuol  d' accia  ecc.  Pajuol  d'accia 
quando  bolle  a  ricorsojo,  annota  il  Salvini;  cioè 
era  tutta  sossopra,  e  si  facevano  di  gran  ca- 
pannelli. La  Crusca  alla  voce  Capannella,  legge 
un  pajuol  d' acqua  il! 

2  Or  che  ecc.  Ora  che  il  buono  si  converte  in 
roba  non  gustosa  e  rozza.  Le  baloge  per  gli  Are- 
tini sono  le  castagne  lesse. 

3  V  do  sempre  ecc.  Io  fo  le  cose  pulitamente  e 
a  dovere;  e  non  ostante  non  mi  si  rende  ragione. 


SG  SONETTI. 

El  Bianco  Alfan,  credendo  esser  norcino, 
Mandato  a  Prato  fu  nelle  bigonci. 

Tant'  è,  po'  ch'io  son  fatto  Calandrino,  ' 
A  gran  pericol  vo  ch'i'  non  mi  sconci: 
Questo  lavoro  è  me'  che- Parigino. 

r  ne  'ncolpo  el  destino 
Che  non  è  desto  affatto  pel  frenetico. 
Diciam,  eh'  i'  son  d' ognun  proprio  il  solletico.^ 

SONETTO  LXXX.  3 

PER  UNO  CHE  GLI  ERA  MANCATA  UNA  CERTA  ENTRATA. 

Uu  mulin  con  la  rocca  sconocchiata. 
Et  un  grillo  a  pie'  giunti  che  saltava. 
Et  un  falcon  di  legno  che  volava 
Facevon  di  dui  noci  una  schiacciata. 

E  la  cumeta  corse  scapigliata 
Veggendo  un  ovo  in  Arno  eh'  aff'ogava , 
Et  un  nugol  piatoso  lagrimava, 
Se  Roma  fu  da'  Galli  bezzicata. 

Ben  gonfiava  a  Paris  la  fagiana 
Come  a  tre  dame  die  la  palla  d'oro, 
Perchè  alla  palla  giuochino  alla  tana. 


1  Son  fatto  Calandrino.  Mi  si  vuol  far  passare 
da  minchione,  e  da  milenso. 

2  Son  d' ognun  ecc.  Son  proprio  tale,  che  cia- 
scuno ride  di  me. 

3  Sonetto  burchiellesco   che    va  per  equivoci 
agevoli  a  comprendersi. 


SONETTI.  87 

Che  vogiion  dir  di  Piramo  costoro? 
r  trovo  al  libro  rosso  di  dogana, 
Che  morì  perchè  cadde  giù  dal  Moro. 

Nel  pian  de  TOrmannoro 
'N  un  salmo  troverai  profeta  Isopo 
Che  '1  nibbio  piglierà  la  rana  e  '1  topo. 

SONETTO  LXXXI. 

A  UNO  CHE  NON  s' AVVEDEVA  CHE  LA  MOGLIE  ERA 
DONNA  n'  ASSAI. 

(Sonetto  di  M.  Lucrezia  de'  Medici).  Salvini.  * 

Lanterne  cieche,  e  sogni  in  un  brodetto, 
E  la  mummia  eh'  in  verso  Roma  guata, 
E  Marte  che  brandiva  uoa  «rranata 
Fecion  fuggir  l'anguille  d'un  tocchetto. 

r  sento ,  che  gli  astrologi  hanno  detto , 
Che  'n  quest'anno  non  fia  noce  granata, 
E  s'  e  nugoli  scoton  la  'nsalata 
Andrà  in  pianelle  a  calcagnini  un  tetto. 

Se  un  sol  dottor  di  sette  fussi  d'otto, 
Sapresti  appunto  la  ragione,  e  '1   modo. 
Se  si  può  rattoppar  giulebbo  rotto. 

Ben  sai  che  Salamon  fece  un  bel  nodo 
A  Sanson,  ch'alia  torre  di  Nembrotto 
Cavava  de'pippion,  per  quel  eh'  i'  odo. 
Per  non  pagare  el  frodo 
Non  vuol  dir  altro  Arma  virumque  cano, 
Che  un  uomo  armato  con  un  cane  in  mano. 


^  li  Salvini  annota:    Sonetto    di    M.  Lucrezia 
de' Medici.  È  burchiellesco. 


Sii  SONETTI. 

SONETTO    LXXXII. 

IN   RISPOSTA    PKB    LE  RIME    AD    ALTRO    DI    MONNA     LU- 
CREZIA.  1 

Essendo  a  vostre  rime  qui  soggetto 
El  me'  eh'  i'  so  con  quelle  m' accompagno  , 
Monete  sono,  al  paragon,  di  stagno, 
Le  vostre  d'ariento  puro  e  netto. 

Dal  vostro  esimio  e  florido  intelletto 
Spera  mia  Musa  suo  util  guadagno , 
'  Onde  mio  vaso  fesso  oggi  ristagno 
Per  istillarvi  un  tal  liquore  eletto. 

r  non  vorrei  però  che  voi  errasse 
Per  troppa  umanità,  la  qual  v'indusse 
A  lodar  tanto  mie  opere  basse. 

Duolmi  che  vostre  membra  sien  percusse: 
Io  vel  rimando,  e  questo  anco  degnasse, 
Che  '1  vero  a  darvi  lode  mi  condusse. 

SONETTO    LXXXIII. 

A   MADONNA   LUCREZIA   ESSENDO   l'  AUTORE   A    FIESOLE 
CON   PIERO   E   MESSER   BERNARDO. 

A  Fiesole  con  Piero  è  '1  Bellincione,  2 
A  Fiesole  è  con  Pier  Messer  Bernardo, 

1  Sonetto  freddamente  adulatorio;  e  scritto 
proprio  invita  Minerva. 

2  A  Fiesole.  Si  dee  intendere  a  Careggia  dove 
è  l'antica  villa  de' Medici;  o  che  i  Medici  ne 
avessero  un'altra  anche  a  Fiesole.  Fu  scritto, 
forse  per  commissione  di  Lorenzo,  affin  di  sol- 
lecitare Madonna  Lucrezia  a  mandar  provvisione 
da  bocca. 


SONETTI.  89 

A  Fiesole  con  Piero  è  Lionardo, 
E  fanno  insieme  una  conclusione: 

Se  le  vivande  triste  fussin  buone , 
No'  potremmo  notar  quassù  nel  lardo; 
Ma ,  se  '1  vostro  soccorso  non  fie  tardo , 
Questa  gita  sarà  di  perfezione. 

D'insalate  possiam  fornir  san  Biagio, 
E  d'agli  e  di  cipolle  ogni  Tedesco: 
No'  la  faremo  el  primo  di  palagio. 

Però  raffazzonate  el  nostro  desco, 
Che  di  vostra  dovizia  abbiàn  disagio, 
L'  arme  de'  Pandolfini  o  secco  o  fresco. 

Se  pur  i'  vi  rincresco 
r  so  che  n'  avanzò  dodici  cofani, 
Che  sazierebbon  sette  san  Cristofani. 
E  cannella  e  garofani; 
Che  buona  coscienza  ognor  ci  'nvita 
Essere  uomini  in  ver  di  bona  vita. 

SONETTO  LXXXIV. 

AD   UNO    CHE    DISPUTAVA    DEL   PECCATO    D'  EVA. 

r  vorrei  pur  saper  da  qualche  dotto 
Quando  Eva  fu  ingannata  dal  nirAico, 
Se  de'  bianchi  o  de'  neri  fu  quel  fico , 
0  albo,  o  castagnuolo,  o  brogiotto. 

r  lessi  alle  tre  carte  allato  al  sotto , 
Perchè  ne' fichi  si  fuggì  il  panico,  ' 


1  11  panico.  Que'  granellini   onde   è   seminata 
la  polpa  del  fico,  somigliano  il  panico. 


90  SONETTI. 

Ma  di  quel  primo  punto  eh'  i'  vi  dico 

N'è  fatto  gran  question  fra  '1  sarto  eM  ghiotto,  i 

Or  vedi  ben  dov'^io  te  la  riduco: 
La  gatta  è  posta  per  la  pazienzia, 
Aspettando  che  '1  topo  eschi  del  buco. 

E  se  la  fede  compera  a  credenzia  2 
Perchè  muore  in  prigione  a  torto  el  bruco? 
Perchè  e  falliti  pescon  bene  a  lenzia? 

Ebbe  poca  prudenzia 
Chi  pose  in  ne'  naibi  quei  contrari  ^ 
Che  sien  vinti  da' meno  e  più  denarij 

Dicono  e  calendari 
Perchè  del  troppo  creder  se  ne  perde  : 
Più  che  un  tavolaccin  mi  truovo  al  verde.  * 

SONETTO  LXXXV. 

A    PAGOLO   ANTONIO  SODERINO  AVENDO  BISOGNO  DI  LUI. 

0  Geremia ,  tu  fai  divin  lamento.  —  5 

D'  acqua  fresca  lo  fo ,  perchè  io  sto  fresco  ; 

1  Fra  l  sarto.  I  soliti  giuochi  di  parole  :  i  sarti 
mettono  sempre  punti,  e  qui  equivoca  col  punto 
della  quistione. 

2  Compera  a  credenzia.  Crede  cecamente. 

3  Naibi  furono  chiamate  le  carte  con  le  quali 
giuocasi  alle  minchiate  :  così  il  Salvini,  il  quale 
reca  un  esempio  da  certi  Capitoli  della  Buca  di 
S.  Girolamo:  «Non  gitti  dadi,  e  non  tocchi  naibi  .» 

4  Un  tavolaccin.  Soliti  equivoci.  I  tavolaccini 
vestivano  di  verde. 

5  0  Geremia  ecc.  Questo  primo  verso  sembra 
detto  in  persona  del  Sederini;  al   quale    poi  ri- 


SONETTI. 


91 


Qual  Maddalena  son  sotto  al  tuo  desco 
Genuflesso  a' tuoi  pie',  con  gli  occhi  al  mento. 

S'  alle  mie  piaghe  poni  del  tuo  unguento 
La  sposa  non  sarò  di  san  Francesco ,  ' 
Se  co'  ritrosi  nel  tuo  fondo  pesco ,  ^ 
0  storioni,  od  altro  v'ha  a  dar  drento. 

Se  mai  giusta  pietà  ti  fé'  benigno, 
A  me  ti  volgi,  et  odi  il  mio  martoro; 
E  s'  io  fo  versi ,  el  mio  canto  è  di  cigno.  ^ 

Quando  mi  pongo  a  mensa,  per  ristoro 
Fortuna  dice:  In  questo  io  ti  disegno 
E  ricchi  cibi  della  età  dell'  oro.  * 

Neil'  italico  coro 
Per  me  non  arrecò  spighe  Saturno: 
La  madia  sol  combatterei  con  Turno. 


sponde  il  poeta.  Quel  dtymo  poi  è  de' soliti  equi- 
voci, ed  è  da  intendersi  di  vino. 

^  La  sposa  di  S.  Francesco.  La  povertà. 

2  Ritroso  o   Ritrosa  è   specie  di  rete   da  pe- 
scare, detta  anche  Nassa. 

3  Di  cigno.  Il  quale   si  favoleggia  che  canti 
soavemente  poco  innanzi  di  morire. 

•*  i  ricchi  cibi  ecc.  Le  ghiande;  e  Dante: 

Lo  secol  primo  quant'oro  fa  bello, 
Fé'  savorose,  con  fame,  le  ghiande. 


92  SONETTI. 

SONETTO   LXXXVI. 

A  LORENZO  de'  MEDICI  CHE  DISSE  AL  PORTA:  —  DANTE 
FA  DI  CASA  TUA  MENZIONE;  —  PER  TRASLAZIONE 
DICE   NEL   PRESENTE    SONETTO  DI  NON    AVER    CASA. 

0  Bellincion  ,  tu  se'  pur  di  casato.  —  ' 
Dante  mei  disse:  io  son  col  cuojo  all'osso- 
Sanza  polpa  e  famoso,  onde  dir  posso 
Che  per  antichità  sono  intignato. 

E'  m'  è  addosso  uu  tetto  rovinato 
Che  più  che  scoti tojo  m'ha  scusso  e  scosso, 
E  le  stimile  fo  s' i'  veggo  un  grosso,  ^ 
Bench'  io  sie  dalle  pulci  indanajato. 

Per  riscaldarmi  el  verno  che  s'  agghiaccia  4 
Quando  gridi,  solin ,  baldoria  e  majo,^ 
r  fo  Dio  Padre  al  Càrmin  colle  braccia.  ^ 

'  Di  casato.  Di  antica  famiglia. 

2  Col  cuojo  all'osso  ecc.  Tira  al  suo  proposito 
quel  di  Dante  : 

Bellincion  Berti  vid'io  andar  cinto 
Di  cuojo  e  d'  osso. 

3  Fo  le  stimile.  Fo  atti  di  meraviglia,  aprendo 
le  braccia  come  S.  Fracesco  nel  ricever  le  sti- 
mate. Il  Salvini,  vuole:  Fo  croce  delle  braccia. 

4  indanajato.  Morsicato,  e  però  pieno  di  chio- 
se per  la  vita. 

5  Solin,  baldoria  ecc.  Star  al  sole,  al  fuoco, 
ed  esser  primavera. 

6  Fo  Dio  Padre.  Mi  riscaldo  battendomi  e  ri- 
battendomi le  braccia  al  petto.  Forsi  allude  a  una 
pittura  del  Padre  eterno  che  era  alla  chiesa  del 
Cannine. 


SONETTI.  93 

E  s' i'  pìglio  de' granchi  di  gennajo; 
Nelle  scarselle  lor  non  ho  bonaccia 
Cyi'  i'  non  vi  truovo  mai  dentro  danajo: 

Troverrei  un  vespajol 
r  son  per  divozione  a  tutte  Tore 
La  settima  parola  del  Signore,  i 

SONETTO  LXXXVII. 

ALBERGANDO  IN  CASA  DI  LORENZO  DE'  MEDICI,  A  UN 
TRATTO  FUGLI  DA  LUI  DOMANDATO! —  QUaL  È  MI- 
GLIOR CAMBRA  LA  TUA  O  LAMIA? —  FECE  QUESTO 
SONETTO. 

» 

Se  d'udire  il  mio  stato  hai  pur  diletto, 
Di  questo  teco  volentier  ragiono , 
Per  eh'  io  spero  trovar  qualche  perdono , 
Facendo  penitenzia  infin  nel  letto. 

Io  dormo  in  una  cameraccia  a  tetto, 
Che  un  pelkgrin  non  vi  starebbe' in  dono, 
L'ago  vi  infileresti  a  ogni  tuono, 
Ella  m'ha  a  fare  astrologo  perfetto.  2 

Quantunque  ella  sia  buja  e  molto  strana. 
Una  notte  vi  stiè  meco  un  poeta. 
Che  nome  me  le  pose  la  Diana  3 


'  La  settima  ecc.  Tal  parola  fu:  Consumma- 
lum  est. 

'^  M' ha  a  fare  astrologo.  Perchè,  essendo  il 
tetto  mezzo  disfatto,  posso  contemplar  le  stelle. 

3  Aa  diana.  Il  Salvini  annota:  Battere  la  dia- 
na, assiderarsi. 


04  SONETTI. 

El  letto  grida  el  carro  del  profeta 
Dov' io  mi  desto  ben  sanza  campana; 
Giobbe  resterà,  meco,  e  '1  Birria  e  '1  Geta.^ 

Non  vi  vo'  far  più  pietà: 
Le  lacrime  ch'io  sparsi  a  un  l' altrieri, 
L*  appiccò  poi  a'  geli  agli  sparvieri. 

SONETTO  LXXXVIII. 

A  LORENZO    de"  MEDICI    QUANDO    L'aJUTÒ    CON   GLI    UF- 
FICIALI   DEL  MONTE. 

Lorenzo,  i'  sono  in  tanta  estremitate,  ' 
Che  non  vi  salì  mai  capra  né  gatto, 
Né  fu  mai  tanto  un  casolar  disfatto 
Se  nei  mio  sopraccapo  il  dir  notate. 

Di  questo  al  calzola'  ve  ne  'nformate 
S'  e  legger  panni  mi  fanno  ire  adatto  ; 
E  per  non  mi  smarrire  al  bujo  al  tatto, 
r  ceno  con  le  lucciole  la  state. 

Più  che  Giovanni  predico  al  deserto  , 
E  tal  eh'  ogni  sparvier  di  me  innamoro ,  '^ 
Parendo  mio  mantello  un  logor  certo. 

1  Giobbe  ecc.  Sarà  albergo  degno  di  Giobbe, 
e  del  Birria  e  Geta:  allude  al  poemetto  attribuito 
al  Boccaccio. 

2  In  tanta  estremitate  ecc.  Paragona  la  sua 
miseria  a  luogo  erto  e  dirupato,  come  quello  di 
Dante 

Che  sarebbe  alle  capre  duro  varco. 

^  Ogni  sparvier  ecc.  Li  sparvieri  calavano  al 
logoro;  e  però  vuol  significare  che  i  suoi  panni 
son  logori. 


SONETTI.  95 

Poco  mi  manca  a  far  silenzio  in  coro  , 
Né  ladro  farei  un  coli'  uscio  aperto,  ^ 
Però  che  m'  è  rimasto  appunto  el  Moro.  2 

Te  solo,  Lauro,  adoro  : 
Tua  naturai  pietà  sie  mia  pesci na 
Non  quella  al  Ponte  Vecchio:  altra  indovina. 

S' i'  son  da  galatina, 
Chi  lo  cercassi  appunto  il  troverrebbe , 
Ch^  un  granchio  che  ha  duo  bocche  noi  direbbe. 

SONETTO   LXXXIX. 

MOSTRA    IN    LUI   ESSERE   INSIEME     MOLTI    CONTRARI. 

Piangendo  rido ,  e  sospirando  godo 
Le  faticose  ripe  è  a  me  riposo, 
E  sto  senza  sospetto  e  son  geloso , 
E  lieto  son  quando  mi  struggo  e  rodo. 

Talor  rispondo  che  chiamar  non  m'odo: 
Timido,  vile  e  son  sempre  animoso, 
Allegro  vivo,  e  sto  sempre  pensoso, 
Libertà  canto  in  uno  stretto  nodo. 

Le  città  magne  è  a  me  le  vselve  oscure, 
Soletto  sempre,  e  sono  accompagnato, 
E  di  chi  più  mi  fugge  veggio  '1  viso. 

Posseggo  liete  Tore  mie  future, 
El  viver  bramo,  e  duolmi  ch'io  sia  nato: 
Così  in  Inferno  godo  il  Paradiso. 

'  Né  ladro  ecc.  Se  io  lasciassi  l'uscio  aperto, 
niuno  troverebbe  nulla  da  rubare. 

2  El  Moro.  Non  serviva  piti  il  Moro:  si  racco- 
manda a  liOrenzo.  (Salvini). 


96  SONETTI, 

SONETTO  XC. 

A    LORENZO  de'  MEDICI  D'  UNO  CHE  PECE  UNA  INVITATA 
A    QUERCETO    E    TRATTOGLI   MALE. 

Bencino,  io  mi  ricordo  di  Querceto 
E  quel  che  noi  beccammo  la  mattina, 
Boccon  tu  non  ci  desti  senza  spina: 
Ignudi  catriossi  su  'n  un  greto.  ^ 

Tien  per  te  gli  assi:  i'  non  mi  vo' star  cheto; 
Tu  se' come  la  vigna  del  Monina:2 
Non  che  altro  e'  vi  fu  sciocca  la  salina,  3 
Per  sempre  ti  diciam:  leva  el  tappeto. 

Tocchian  dell'altre  tue  zanzaverate: 
Quegli  uccellin  con  T  uova  nel  tocchetto 
Ci  parvon  proprio  a  masticar  granate, 

Per  discrezione  intendi,  un  certo  letto, 
L'anguille  vi  sarebbono  infreddate, 
Acciughe  in  gelatina  per  dispetto. 

Sappi  che  ci  fu  detto: 
Frottate  su:  voi  non  sapete  dove. 
La  sua  casa  è  un  mar!  quando  vi  piove.  4 


'  Catriossi  ecc.  L' ossatura  del  petto  de' polli 
e  altri  volatili,  scussa  di  carne. 

2  La  vigna  ecc.  Che  aveva  molti  pampani  e 
poca  Uva. 

3  La  salina  ecc.  Era  sicuro  per  fino  il  sale  : 
iperbole.  Salina  è  la  saliera. 

4  È  un  mar  ecc.  Di  una  casa  piena  di  ogni 
ben  di  Dio,  si  dice  che  è  un  porto  di  mare  :  qui 
ironicamente  dice  che  è  un  mare  quando  ci  piove. 


n 


SONETTI.  97  < 

SONETTO  XCI.  ; 

A  LORENZO  de'  MEDICI  QUANDO  LO  LEVÒ  DA  SPECCHIO.  ' 

r  vesno  come  un  frate  di  Badia  1 

A  te,  Lorenzo  mio,  tutto  divoto,  i 

Perchè  tu  mi  soppanni  un  po' quel  boto,^  \ 

Onde  a'  tuoi  pie  fo  quel  di  Geremia.  3 

Non  ti  parrò  così  la  Befania,  j 

Stu  mi  vorrai  cavar  di  tanto  loto; 
S' i'  studio  el  Porcellano  e  non  Iscoto, 
Deh  rompi  di  tua  man  la  tafferia.-*  i 

Stu  mi  lasciassi  in  Arno ,  e  'n  sulle  secche , 
Aresti  in  ver  più  eh' un  balestro  il  torto,  • 

Ch'  i'  amo  te  più  che  '1  Soldan  la  Mecche.  ^ 

Non  vedi  tu  eh'  i'  fo  già  '1  vivo  e  '1  morto,  ^  ' 

Né  troverei  credenza  in  fra  le  trecche?  ; 

Cader  possi  de'  trampoli  uno  sporto,  ■ 


'  Specchio  era  il  Registro  ,  dove  si  notavano 
le  colpe  de'cittadini:  qui  Levar  dà  specchio,  vale 
Ripigliare  in  grazia, 

2  Perchè.  Gii  chiede,  annota  il  Salvini,  da  sop- 
panarsi  l'abito,  perchè  altrimenti  gli  parrà  una 
befana. 

3  Quel  di  Geremia.  Le  lamentazioni. 

4  La  tafferia.  Rompi  la  mia  scodella  di  legno, 
e  fammi  mangiare  in  piatto  più  nobile. 

5  II  vivo  e'I  morto.  Son  ridotto  all'estremo  ;  e 
meglio  sarebbe  che  mi  cadesse  in  capo  uno  spor- 
to :  che  ad  ogni  modo  posso  far  a  risparmio  del 
mondo  ;  posso  morire,  non  sapendo  come  starci. 

7 


V>8  SONETTI. 

E  diemi  el  suo  conforto, 
Ch'i'  posso  far  del  mondo  masserizia; 
Però  so  di  rottoro  e  legorizia. 

SONETTO  XCII. 

A  LORENZO  de'  MEDICI  TORNANDO  A  LUI  COME  COMANDÒ. 

Non  tornò  mai  saeppolo  o  sparviere  ^ 
A  te  come  ritorna  el  Bellincione, 
Ch'è  pover  pellegrino,  e  non  falcone, 2 
Che  a  te  si  botò  già  per  non  cadere. 

Lorenzo,  i'  non  mi  posso  mantenere, 
r  son  come  dicea  fra  Giacopone: 
Il  mio  mantello  n'è  ver  testimone. 
Che  torna  insaponato  dal  barbiere.  3 

Però  m'allegro  assai  della  farfalla 
E  sonne  sì  devoto,  e  sì  leggiero. 
Che  sto  sanza  notar  nell'acqua  a  galla. 

E  Magi  fo  s'  i'  veggo  un  pane  intero;  * 


^  Saeppolo.  Qui  pare  che  sia  un  uccello  di  ra- 
pina ;  ma  i  vocabolarj  dicono  essere  Pallottola 
da  balestra. 

2  Pellegrino-  È  pellegrino  ,  ma  non  Falcone 
pellegrino,  che  era  la  più  nobile  specie  de'  fal- 
coni. 

3  Torna  insaponato.  È  per  vecchiezza  diven- 
tato quasi  bianco.  Dove  parla  di  Fra  Jacopone, 
accenna  a  quella  sua  poesia  nella  quale  descrive 
le  sue   miserie,  essendo  in  prigione. 

4  Fo  i  Magi.  Faccio  atti  di  devozione  e  di  de- 
siderio. 


SONKTTI.  90 

Ma  r  animella  arrosto  d' una  Palla  ^ 
Non  mi  vorrà  veder  forse  più  zero. 

Conoscer  tu  sa'  il  vero  ; 
Ho  men  che  Don  Vincenzo'-  e  san  Francesco, 
E  più  che  'nfrescatojo  oggi  sto  fresco. 

r  son  sotto  al  tuo  desco 
Qual  Maddalena,  e  duolmi  più  l'affanno 
Che  della  colpa  altrui  posseggo  il  danno. 

SONETTO   xeni. 

PER     UN     AMICO    ANDANDO    IN    VILLA. 

La  nostra  andata  è  proprio  una  novella 
Da  farne  rider  un  ch'avessi  male; 
Ma  temo  che  noi  sappin  le  cicale,  3 
Che  una  canzona  e'  ne  farebbon  bella. 

Baciato  ho,  compar  mio,  la  campanella  4 
Di  queste  nostre  imprese  senza  sale. 
Un  piacer  costa  poco  e  molto  vale: 
Dicesti  forse  a  me,  come  il  Gonnella. 

El  nostro  fu  del  Magnolin  piacere; 5 
Anzi  sciocca  pensata  di  fanello  : 
Ma  '1  vin  mi  inforzerebbe  nel  bicchiere.  ^ 

1  L'animella  ecc.  Allude  alle  palle  medicee. 

2  Don  Vincenzo.  Era  tanto  povero,  che  sonava 
la  messa  co'  tegoli. 

3  Le  cicale.  I  cicalatori,  le  linguacce. 

4  Baciato  la  campanella.  Ho  abbandonato  in 
tutto  e  per  tutto. 

5  II  Magnolino  si  dilettava  in  cose  che  ad  ai- 
tri  sono  di  noja. 

6  II  vin  ecc.  Sono  cosi  disgraziato,  che  il  vino 
ecc. 


100  SONETTI. 

E'  fa  sempre  remore  un  chiavistello, 
E!  diavol  di  saccalaccio  sta  a  vedere  ' 
Che  le  campane  fien  di  san  Ruffello. 
r  sarei  ser  Tondello:  2 
Che  Maso  se  ne  rida  e  facci  M  pazzo 
Le  male  notti  i'  vo'  lasciare  al  cazzo. 

Non  e'  è  pili  bel  solazzo 
Che  giuochi  far  che  piaccino  a  ognuno. 
E  qual  ?  acconciar  due  che  pajan  uno. 

SONETTO    XCIV. 

SENTENZIOSO. 

Dice  un  proverbio,  che  ognun  dee  sapere: 
Ingannato  sarà  come  '1  villano 
Chi  vole  in  erba  misurare  el  grano  ; 
Che  l'essere  è  nemico  del  parere. 

E  l'orso  disse:  E'  fien  di  molte  pere, 
E  spesso  i  molti  fior  tornano  invano: 
r  feci  come  '1  bue,  quel  fiesolano ,  3 
Ed  attinsi  dell'acqua  col  paniere. 

Ma  il  tempo  è  quel  che  buon  giudici©  rende; 
Anche  l'amico  lo  baciò  nell'ortOj^ 

^  Il  diavol  ecc.  Questo  diavol  di  saccalaccio, 
è,  senza  dubbio,  un  errore,  e  lo  mostra  anche  il 
verso  troppo  lungo;  ma  non  ho  trovato  come  cor- 
reggerlo. 

2  Sarei  ser  Tondello.  Sarei  tondo,  sciocco. 

3  Come  7  bue,  ecc.  I  buoi  di  Fiesole,  diceva 
il  proverbio,  che  veggono  l'acqua  dell'Arno,  e 
non  possono  dissetarsi. 

4  Anche  Vamico  ecc.  Anche  Giuda  baciò  Cri- 
sto (lo  tradì);  ma  poi  s'impiccò. 


SONETTI.  101 

E  così  'a  un  giardin  laccio  si  tende. 

Larghe  promesse  coli'  attender  corto  i 
Ti  faran  triunfar....  basta  a  chi  'ntende: 
r  non  credetti  mai  rompere  in  porto. 

Più  che  r  arco  hai  il  torto; 
Ma  serba  a'  cavolin  questo  pinolo 
Che  un  di  ci  fia  per  te  più  che  vajuolo 

Parrotti  un  rosignuolo 
S' i'  comincio  a  cantar  qualche  bel  caso  : 
Dire',  toccando,  il  ver  ,  come  Tommaso. 

SONETTO  XCV. 

A    NERI  CAPPONI   CHE   DICEVA    «  TU   SB'  DI  CASATO  AN- 
TICO.   » 

r  lessi  la  tua  cronica  a  Legnaja^ 
Dove  i'  son  di  casato  molto  antico; 
E  truovo  el  Fusti  non  avere  amico, s 
Ma  coir  Essere  ognun  presto  s' appaja. 

Se  col  cembolo  è  sempre  in  colojnbaja 
Chi  è  scusso  e  legger,  qui  non  ti  dico; 

'  Larghe  promesse  ecc.  Il  consiglio  che  diede 
a  Bonifazio  Guido  da  Montefeltro  : 

Lunga  promessa   con  l'attender  corto 
Trionfar  ti  farà  nell'alto  seggio. 

2  La  tua  Cronica  ecc.  Allude,  qui  come  altrove, 
a  Bellincion  Berti,  famoso  tra  gli  antichi  Fioren- 
tini, dal  quale  par  che  discendesse  il  Poeta. 

3  Truovo  el  Fusti  ecc.  Il  fusti,  cioè  le  grandezze 
antiche  ma  spente,  non  hanno  credito;  ma  cia- 
scuno valuta  Vessere,  cioè  le  grandezze  presenti. 


♦  » 


102  SONETTI. 

Ma,  se  corressi  scalzo  l'orochico,' 
Che  nuovi  uccelli  aremo  aU'uccellaja! 

Ceceron  di  Quaresima  stimato  2 
Col  fummo  di  che  vecchie  ha  le  bandiere 
Non  crollerebbe  un  figlio  di  mercato. 

Ognun  c'è  convertito  in  isparviere; 
E  tal  fa  or  di  me  come  Pilato 
Che  le  brache  lavarmi  avea  piacere. 

Più  tondo  è  eh'  un  tagliere , 
S' un  pover  conosciuto  esser  si  crede , 
Che  ha  '1  vajuolo  o  la  maschera  a  chi  '1  vede. 

El  Bellincion  ti  chiede 
Qualche  ajuto  o  favor,  non  di  squittino. 
E  che?  Fammi  somier  d'un  tuo  mulino! 


'  Orochico,  è  una  Gomma  che  stilla  da  alcuni 
alberi  fruttiferi. 

2  Cecerone.  Fa  il  giuoco  di  parole  alludendo  ai 
ceci  :  e  continua  a  dire  che  il  fumo  della  sua  an- 
tica grandezza  non  farebbe  muovere  un  facchino 
(un  figlio)  di  mercato  ;  e  che  qualcuno  che  prima 
lo  sojava  e  lo  lisciava;  ora,  vedendolo  povero,  fa 
come  Pilato,  se  ne  lava  le  mani  e  non  vuol  sa- 
perne. E  chiude  il  Sonetto,  domandando  a  Neri 
anche  il  più  umile  ufficio. 


SONETTI.  103 

SONETTO  XCVI. 

AD   ERMOLAO    PARLANDO    A    LUI    LA    DEA    DELLA    PACE. 

Divo  Ermolao,  novo  Mercurio  in  terra,  ' 
Che  muovi  i  monti  con  tuoi  dolci  carmi, 
Se  ben  con  quegli  usasti  consolarmi , 
La  quinta  spera  in  me  gran  dubio  serra. 

Che  '1  ministro  maggior  quivi  di  guerra,  2 
Ritornandomi  io  in  ciel,  vidi  con  l'armi 
Romoreggiare  e  vilmente  sprezzarmi , 
Unde  i'  restai  com'  uom  che  '1  cammino  erra. 

Però  ritorno  a  te ,  dolce  tesauro , 
Che  tu  maturi  la  mia  mente  acerba. 
Dicendo  Marte  a  me  :  'L  tuo  Ludovico , 

Sempre  mia  arte  a  loco  e  tempo  serba  : 
Per  ben  di  suo  nepote,  or  t'  è  amico. 
Dunque,  Ermolao,  come  fia  '1  secol  d'auro? 


1  Ermolao.  Questi  è  Ermolao  Barbaro,  solenne 
letterato,  ed  erudito,  e  poeta.  Allora  il  Barbaro 
era  oratore  di  Venezia  presso  il  Moro. 

2  II  ministro  maggior  ecc.  La  costellazione  di 
Marte.  Immagina  che  parli  la  Dea  della  pace; 
e  che  Marte. le  abbia  fatto  l'elogio  della  virtù 
guerresca  e  della  prudenza  di  Lodovico  il  Moro. 


104  SONETTI. 

SONETTO  XCVU, 

IN  LAUDE  DEL  SIGNORE  LUDOVICO  QUANDO  MANDÒ  GENTE 
d'  ARMI    A    FORLÌ. 

Egli  è  tempo  aprir  gli  occhi  e  parer  cieco ,  ' 
E  trar  la  pietra,  e  po'  asconder  la  mano , 
E  far  la  gatta  morta,  e  ir  pian  piano, 
Como  sai  far  :  deh  parlane  un  po'  meco. 

Forse  che  alcun  d'Italia  el  cavai  greco 
Fabbricava ,  che  or  mai  sei  terrà  in  vano , 
E  so  ben  che  '1  pan  secco  or  parrà  strano, 
A  chi  ha  tristi  denti  in  bocca  teco. 

Le  dui.  paci  a  tuo  modo  :  e  poi  lo  stato 
Salvare'  al  Ferro:  2  e  teco  1'  Ungheria: 
E  con  Francia  e  Savoja  ira  temprato. 

E  Genua  va  a  la  rete  tuttavia: 
E  cazzo  in  culo  al  Baccio  ammiterato; 
Che  '1  Moro  oggi  è  d'Italia  el  ver  Messia. 

Se  ben  che  Furlì  sia 
Una  briglia  ,  una  sbarra,  anzi  un  bastone 
A  chi  non  voi  che  '1  Moro  sia  Solone.  -^ 

1  Egli  è  tempo  ecc.  Consiglia  il  Moro  a  usare 
tutte  le  arti  della  dissimulazione,  ed  altre  accor- 
tezze politiche,  e  di  sapersi  governar  con  le  altre 
potenze  ,  e  tenersele  amiche,  per  isventare  le 
insidie  che  altri,  e'specialmente  il  papa,  gli  ten- 
devano. 

2  Al  Ferro.  A  Ferrara. 

3  .Sta  Solone  ecc.  Sia  colui  che  dà  leggi  alla 
Italia.  Anche  il  Moro  sognò  la  unità  italiana;  ina 
come? 


SONETTI.  105 

A  far  conclusione 
Con  altri  fie '1  sospetto  e  la  paura, 
E  Milan  goderà  che  s'  assicura. 

SONETTO  XCVIII. 

DI   BACCIO    UGOLINI   AL    BELLINCIONE. 

Bellincion,  tu  mi  dai  d' ammiterato  ^ 
Secondo  che  in  Furlì  di  punto  ho  letto; 
Taci,  spedai,  che  intendo  el  tuo  soggetto; 
Per  amor  d'altri  sol  t'ho  risguardato,  2 

lutino  a  qui  con  versi  i'  t'  ho  leccato , 
Ma  or  ti  morderò  senza  sospetto , 
Da  poi  che  di  dir  mal  pigli  diletto, 
A  mal  tuo  grado  se  m'arai  tentato. 

Or  taci  del  Tesino  e  d' Aretusa  : 
La  metafora  tua  la  'ntendiàn  bene 
Perchè  veduto  non  abbiàn  Medusa. 

Di  Cristo  el  detto  so  quel  che  contiene , 
E  dove  vai  a  ferir  :  3  non  farne  scusa , 
Quel  che  e'  è  meglio  or  dir  non  s' appartiene. 

Ma  ben  dir  ti  conviene 
Che  per  piacer  con  miei  versi  ti  scopo 
E  parliàn  delle  fabule  d'Esopo. 


^  D'ammiterato.  Nel  sonetto  precedente  no- 
mina Baccio  ammiterato  (la  mitera  si  metteva  a 
coloro  che  andavano  in  gogna),  il  quale  è  questo 
Baccio  Ugolini. 

2  T'ho  risguardato.  Ho  avuto  riguardo  per  te. 
Mi  sono  astenuto  dal  morderti. 


106  SONKTTI. 

SONETTO  XCIX. 

DEL   BELLINCIONE   IN    RISPOSTA   AL  PRECEDENTE. 

La  mitera  intes'io  del  Vescovato, 
Non  di  quella  che  meriti  ebbi  detto  ; 
Ma  quel  che  ha  sempre  mai  veleno  in  petto 
In  mala  parte  el  ben  ha  interpretato. 

Spedale  a  me?  non  vo'  dirti  impiccato. 
Mordi  un  osso,  cagnaccio,  mondo  e  netto:  ^ 
Con  Lorenzin  ti  detti  del  confetto, 
Or  dell'  assenzio  arai,  cora'  hai  cercato. 

Taci  tu,  prete  mio,  ser  lancia  busa, 
Uccel  di  Palla  o  moneta  d'Atene: 
Dico  quel  che  un  bugiardo  dir  non  usa.  2 

Non  ferisco  ove  tu  sotto  a  le  rene: 
Al  tuo  meglio  e'  non  è  cosa  confusa; 
Che  nel  Tesin  non  furon  mai  sirene. 

Già  rane  le  balene 
Tornarou,  come  sai  :  un  monte  un  topo  : 
Dunque  abbracciàn  l' italico  Etiope.  3 


^  Mordi  un  osso.  A  pigliar  briga  meco  ci  gua- 
dagnerai poco. 

2  Quel  che  un  bugiardo.  Cioè:  Dico  la  verità. 

3  L'italico  Efiopo.  Il  Moro,  che  è  salute   d'I- 
talia. 


SONETTI.  107 

SONETTO  C.1 

CONTRO  ALCUNI   CHB   PIADECCHIAVANO  2  CERTI  BENEFI- 
CJ   CON    MONSIGNORE. 

Tanto  penassi  a  cuocervisi  il  pane, 
0  levarvi  da  letto,  o  aprir  la  bocca , 
Quanto  lin  Monsignore  ha  in  sulla  rocca, 
Per  far  vostre  speranze  cieche  e  vane. 

Tornate,  lupi,  in  nelle  vostre  tane. 
Che  per  venti  anni  ancor  si  tien  la  rocca: 
Di  que'  suoi  benefìcj  e'  ve  ne  tocca 
Solamente  sentirne  le  campane. 

Verranno  a  voi  com' agli  Ebrei  '1  Messia: 
Que'  benefìcj  al  cui  vi  saran  buoni , 
Ch'  e  Magi  andati  son  per  altra  via.  3 

Chi  si  fornì  di  pentole  e  schidoni , 
Non  pensò  prima  el  mal,  che  Dio  gliel  dia , 
Ma  grattasi  or  le  bolle  in  su' coglioni. 
Tornon  galli  i  capponi: 
Le  gambe,  el  segno,  el  destro,  e  '1  volto  dice 
Che  Monsignor  ha  fatto  la  fenice,  ■< 

'  Nella  stampa  precede  un  Sonetto  ohe  inco- 
mincia: Colui  che  ricordò  l'errore  a  Piero,  che 
è  quel  medesimo  che  si  legge  nel  primo  volume 
a  pag.  55;  e  nella  cui  coda  mi  scordai  di  notare 
che  si  fa  un'  allitterazione  di  Savoja  e  Saluzzu. 

2  Piadecchiavano.  Forse  disputavano,  piativa- 
no per  certi  benefìcj. 

3  Ch' e  Magi  ecc.  Allude  alle  parole  del  Van- 
gelo: Et  per  aliam  viam  reversi  sunt. 

'*  Monsignor  ha  fatto  ecc.  È  rinato.  Par  che 


108  SONETTI. 

Arete  le  morice: 
r  dico  a  voi  che,  siete  in  coro  musici , 
Che  'ngrassavi  dal  mal  com'è  cerusichi. 

SONETTO  CI. 

AL    SIGNOR   LUDOVICO. 

(Inpenzione  d'un  soggetto  di  Commedia  da- 
to dal  Moro  per  le  nozze  della  sua  nipo- 
te.) Salvini. 

L'alta  invenzione  e  'i  tuo  soggetto  degno 
In  far  che  Giove  tua  nipote  onori , 
E  stato  un  dolce  frutto  or  de'  tuoi  fiori  : 
Cose  belle  e  moral  vide  il  tuo  ingegno  , 

Tal  che  Terenzio  e  Plauto  hanno  or  pregno 
El  cor  d'invidia,  a  te  si  inferiori;  ^ 

Ma  e  versi  miei  non  son  grati  colori 
Qual  meritava  il  tuo  divin  disegno.  ^ 

Ma  qualche  spirto  ancor  leggiadro  e  novo 
Sveglierò  forse  a  farti  ben  piìi  onore 
Nel  gran  triunfo  de  la  tua  invenzione; 

Ma  qui  leggendo  pur  dirai:  Ci  truovo 
Una  dolce  aflfezion  d'un  fidel  core 
Dell' umil  nostro  servo  Bellincione. 

fosse  malato  ;  e  che  sperassero  nella  sua  morte 
per  aver  que' beneflcj;  e  ciò  si  rileva  dalle  frasi 
del  lino  che  tien  sulla  rocca,  e  per  venVanni  si 
tien  la  rocca,  le  quali  suonano:  ha  tuttora  molti 
anni  da  vivere. 

1  /  versi  miei.  Il  Moro  aveva  datp  il  soggetto. 
e  il  Bellincione  avea  scritto  la  commedia. 


SONETTI.  109 

SONETTO  GII. 

DELLA   LIBERALItX   DEL  SIGNORE.' 

Bellincion,  chi  ti  ha  fatto  quel  mantello? 
Io  gli  rispondo  :  Femmelo  un  sartore  : 
Io  dico:  chi  tei  dette?  Il  mio  signore 
Grazioso,  benigno,  onesto  e  bello. 

E  tal  testé  mi  dice  :  Addio,  fratello  : 
Siccome  a'  panni  spesso  fassi  onore; 
Rispondete  voi,  panni,  a  tal  tenore, 
A  me  non  dice,  e  non  rispondo  a  quello. 

Quella  robetta  chi  ti  die  di  seta? 
Fu  Giovan  Galeazzo,  il  nostro  bene. 
Però  vo'  dir  di  lui  come  profeta: 

Se  Cristo  or  sano  e  salvo  cel  mantiene, 
Secondo  e  segni  in  lui  del  suo  pianeta, 
Beati  e  servi  suoi,  dir  si  conviene. 

Cosi  dir  s'  appartiene  : 
Lo  stato  sempre  sia  dato  a' signori, 
E  la  roba  sia  poi  de'  servitori. 

SONETTO  CHI. 

IN  RISPOSTA   AD   UN    SONETTO  MOLTO  SCIOCCO. 

Credo  ti  dia  più  tedio  V  esser  matto. 
Che  non  fa  el  Bellincion  con  la  sua  rima. 
Doveresti  alla  scuola  andare  in  prima. 
Che  a  far  sonetti  in  ver  tu  non  se'  atto 


Bi  facile  intelligenza,  e  semplicissimo. 


110  SONETTI. 

Non  so  chi  tu  ti  sia,  ma  per  un  tratto 
Veggio  un  sonetto,  eh'  è  da  farne  stima: 
Al  destro,  intendi  ben,  cosa  sublima...  > 
Minchion,  guarda  la  gatta;  or  fuggi  ratto. 

In  cui  ti  ficcherai  quel  ravanello, 
Stu  vuoi  mostarda,  cerca  a  li  speziali, 
Baggianaccio  navon,  dov'è  il  cervello? 

Un'  altra  volta  mettiti  gli  occhiali, 
Ch'  i  non  ti  tolga,  o  pecora,  1'  agnello, 
Poetastro  da  peccati  veniali. 

Tu  molto  bene  insali 
1  tuoi  sonetti,  e  questo  è  pur  sì  strano, 
Che  fai  parere  un  Dante  Sidriano. 

Rallegrasi  Milano 
Città  famosa,  e  naschi  una  cometa 
Di  questo  novo  maccheron  poeta. 

EPIGRAMMA. 

PRESBYTERI  FRANCISCI  TANTII  AD  ILLUSTRISSIMUM  LU- 
DOVICUM    DUCEM    BARI. 

Parvus  magna  peto  ;  fateor,  Ludovice,  rogaiam, 

Ad  me  si  spectes,  jure  negabis  opera. 
Magna  decent  magnos  ;  vatem  pia  dextra  jacentem 

Sublevet,  et  vacuas  non  sinat  esse  preces. 
Terra  boves  et  equos,  animalia  grandia,  nutrit, 

Vermiculis  etiam  non  negat  illa  cibos. 
Victum  balenis,  phocis,  delphinibus  aequor 

Praebet,  pisciculos  non  minus  illud  alit. 

1  Al  destro.  Al  luogo  comodo,  al  cesse. 


SONETTI.  Ili 

Antigonus  non  sis  igitur,  Ludovica,  petenti, 
Magnus  Alexander  tu  magis  esse  velis. 

SONETTO  CIV. 

FATTO  PER  TRADUZIONE  DEL  PRECEDENTE  EPIGRAMMA. 

Se  un  parvo  magne  cose  a  te  richiede, 
Confesso  ben,  se  '1  guardi  molto  abjetto. 
De  jure  negherà'  mi  or  quel  che  aspetto , 
Ma  el  magno  magne  cose  alT  uom  concede. 

Ma,  se  in  tua  destra,  Sforza,  pia  ho  fede 
Non  far  mie  prece  vacue  d'effetto: 
Ciba  e  grandi  animali  in  suo  ricetto 
La  terra ,  et  a'  vermiculi  provvede. 

El  gran  mare  e  delfini  e  le  balene 
Alberga  e  ciba,  et  anco  quei  minori 
Piscicoli  conserva  e  gli  sovviene. 

Ludovico,  che  oggi  il  mondo  onori. 
Non  m'  esser  ora  Antigono ,  e'  conviene 
Sia  Alessandro,  frutto  de' miei  fiori. 

SONETTO  CV. 

CONTRA   IL   FONTANO    SEGRETARIO    DEL    RE    FERRANDO 
DI   NAPOLI. 

Non  dir  più:  Intendo  greco:  EU' è  bugia,  i 
Che  '1  Greco  dimostrasti  aver  beuto 
Quando  mal  pettinar  fusti  veduto 


'  Non  dir  più  ecc.  Fa  1'  equivoco  tra  1'  idioma 
greco,  e  il  vino  greco. 


112  SONETTI. 

El  giusto,  e  fargli  ,  e  dirgli  villania,  ' 
Non  fu  collera  acuta,  anzi  pazzia 

Si  che  in  fra'  savj  el  credito  hai  perduto, 

E  so  di  collo  al  Duca  or  se'  caduto,  2 

Fantasma,  arch inaia,  van  uom  tuttavia. 
Quanto  più  tei  perdona  el  mio  signore, 

Maggior  vergogna  t'è,  che  fa  vendetta 

Col  motto  che  usò  in  croce  el  Salvatore.  3 
Stu  se'  poeta ,  el  far  così  s' aspetta 

Quando  t'esalta  el  bon  divin  furore; 

Così  questa  gran  macchia  ti  si  netta. 

Di  brache  e  non  berretta 

Per  r  avvenir  so  ben  ti  sarà  fatto, 

Per  che  se'  stato  cresimato  matto. 

SONETTO  evi. 

MORALISSIMO   DELLA    MISERIA   E   BREVITÀ    DELLV    VITA 
UMANA. 

Veggio  del  tempo  esperienza  troppa, 
Tal  che  di  maraviglia  or  mi  dipingo, 
E  dico:  Un  giorno  par,  s' al  ver  mi  stringo, 
Che  sia  dall'età  vetera  alla  poppa. 

^  El  giusto  ecc.  In  margine   si   legge:  Per   il 
Justo  se  intende  ineser  Stephano  da  Cremona  du- 
cale  secretarlo,  lo  quale  con  la  prudenzia  sua 
obviando  a  certe  malizie  del  Pantano,  da  lui  in-^ 
juriato. 

2  Di  collo  al  Duca-   Hai  perduto  la  grazia  del 
Duca. 

3  Col  motto.  Allude  al  Dimitteillis^  non  enim 
sciunt  quid  faciunt. 


SONETTI.  113 

Vola  il  nostro  cavai,  non  pur  galoppa, 
Che,  pensando,  dal  cor  lacrime  attingo; 
Ma,  per  dir  brieve,  il  nostro  viver  fingo 
Essere  un  cavalcar  con  morte  in  groppa,  ' 

E  nimici  alle  staffe  armati  e  pronti  ; 
Fortuna  che  fa  scorta  con  martiri; 
E  sento  il  vecchio  dir:  Pur  nacqui  ieri! 

Favole  e  sogni  par  che  di  sé  conti, 
Tutti  siàn  mercatanti  di  sospiri, 
Al  ben  far  gravi,  al  mal  pronti  e  leggieri. 

SONETTO  CVII. 

MORALISSIMQ. 

Pelago  di  tempeste,  un  mar  d'  affanni 
È  questo  mondo,  un  campo  seminato 
Di  tribuli,  di  pruni  ;  anzi  è  un  prato 
Pien  di  lacciuoli,  di  malizia  e  inganni. 

Ben  lo  conobbe  quel  che  di  cinque  anni  2 
Cangiò  abito,  loco,  vita  e  stato 
In  un  aspro  deserto,  e  s'è  cibato 
Sol  d'erba,  d'acqua,  et  una  pelle  i  panni. 

E  voi,  miseri,  pur  qui  festeggiate 


^  Essere  un  cavalcar.  Garbatissimamente  tra- 
vestito quel  di  Dante  ,  che  il  vivere  chiamò  mw 
correre  alla  morte,  falsato  piti  goffamente  dal 
Petrarca  col  suo  :  Di  questa  morte  che  si  chiama 
vita.  Tutto  il  rimanente  del  Sonetto  è  veramente 
bello,  e  la  metafora  è  maestrevolmente  condotta. 

2  Quel  che  di  ecc.  Parla  di  S.  Gio.    Battista. 

8 


114  SONETTI. 

In  varii  modi,  e  sempre  a  tutte  1'  ore 
Cose  contra  natura  et  al  ciel  fate; 

Cupidi  di  tesori  e  falsi  onori, 
r  vi  ricordo  sol  che  voi  pensiate 
Che  un  viver  di  miili'anni  son  poche  ore. 

SESTINA. 

J)ELLA   MORTE   DEL   SIGNORE   LEONE. 

Spento  ha  or  morte  un  divo  lume  in  terra, 
E  '1  frutto  acerbo  colto  in  mezzo  a'  fiori, 
Per  ornare  più  '1  ciel  d'  un  tal  tesauro. 
Morto,  vivo  è  Lion  nel  nostro  albergo,  ' 
Che  ci  riduce  in  breve  tempo  in  cenere; 
Ma  rinato  all'eterno  è  per  virtute. 

Non  può  già  morte  spegner  la  virtute; 
El  corpo  sì,  mortai,  fatto  di  terra, 
Che  ogni  cosa  col  tempo  esser  dee  cenere. 
Or  così  morte  va  cogliendo  i  fiori 
Conducendoci  tutti  al  tristo  albergo, 
Dove  forza  non  giova  o  gran  tesauro. 

'  Morto  vivo  ecc.  Essendo  vivo  è  morto,  sa- 
rebbe modo  vizioso  :  par  dunque  da  intendere  : 
Benché  morto  corporalmente  ,  è  pur  vivo  nella 
nostra  memoria,  nel  nostro  affetto,  come  disse  il 
Giusti  : 

E  in  fatti,  dopo  morti, 
Son  più  Tivi  di  prima. 

Tutto  il  componimento,  è,  come  sono  le  Se- 
stine tutte,  un  continuo  giocar  di  parole  con  tre  o 
quattro  voci  sempre  artiflziosamente  ripetute  : 
cosa  spiacevole  anche  appresso  i  migliori. 


SONETTI. 


115 


Piangesi  or  di  Lion  quel  bel  tesauro, 
Che  ci  to'  morte,  el  quale  è  la  virtute, 
Che  ben  felice  è  quel  che  ne  fa  albergo. 
Che  ogni  altra  cosa  che  si  trova  in  terra 
A  poco  vento  casca  come  i  fiori: 
Cosi  l'umana  gloria  è  tutta  cenere. 

Però  pianger  possiàn  sopra  '1  tuo  cenere 
In  segno  di  pietà  eh'  è  in  ciel  tesauro, 
E  quel  che  gli  anni  suoi  possiede  in  fiori 
S' ingegni  tanto  d'  acquistar  virtute, 
Che  quando  renderà  *1  corpo  alia  terra 
Trovi  chi  pianga  poi  sopr'  al  suo  albergo. 

0  raiser,  cieco  e  lacrimoso  albergo. 
Crude),  invida  morte,  che  di  cenere 
Mostri  quel  che  pur  dianzi  visse  in  terrai 
Però  farete,  o  giovani,  tesauro 
Di  fama,  che  s'  acquista  con  virtute  ; 
Che,  senza  '1  frutto,  giovan  poco  i  fiori. 

Se  da  mattin  Fortuna  a  noi  dà  fiori. 
Morte  la  sera  poi  ci  vole  albergo  ; 
Dunque  estote  parati  con  virtute. 
Che  ogni  altra  cosa  è  umbra,  fumo  e  cenere: 
Non  si  compera,  o  vince  per  tesauro 
La  fama,  che  non  è  cosa  di  terra. 

Or,  se  'n  terra  Lion  dorme  con  fiori, 
Non  muor  virtute  mai,  quel  ver  tesauro. 
Se  '1  cieco  albergo  reda  1'  uman  cenere. 


116  SONETTI. 

SONETTO  CVIII. 

NEL  QUALE  UNA  AMATA   CONSOLA  LO  AMANTE  SUO   DEL- 
LA   MORTE  DI   LEI. 

Non  pianger  più,  benché  sia  latta  terra,  ^ 
Che  son  già  netta  del  terrestre  velo  : 
E  tuoi  pianti  e  sospiri  odo  dal  cielo, 
E  tutti  fanno  a  la  mia  pace  guerra. 

Se  '1  cammin  di  virtù  per  te  non  s'  erra 
Quassù  mi  rivedrai  con  altro  zelo; 
Or,  se  per  morte  agli  occhi  tuoi  mi  celo, 
Bastiti  quel  che  la  memoria  serra. 

Risparmia  le  tue  lacrime  del  core, 
Che  per  me  versi;  e  serbale  per  quella 
Che  forse  ancor  vuol  darti  al  mondo  Venere. 

Ma,  s' altra  più  di  me  ti  parrà  bella. 
Ricordandoti  allor  del  nostro  amore, 
A  pianger  presto  andrai  sopra  al  mio  cenere. 


1  Benché  sia  fatta  ecc.  Questo  verso  è  dichia- 
rativo di  quel  di  Dante  : 

Mai  non  t'appresentò  natura  o  arte 
Piacer  quanto  le  belle  membra  in  ch'io 
Tanto  ti  piacqui,  e  che  son  terra  parte  ; 

dove  il  non  essere  stato  compreso  il  significato 
di  quell'avverbio  di  tempo  partBj  ha  fatte  dire 
tante  castronerie  a'coramentatori  sulla  vera  le- 
zione di  quel  verso. 


SONETTI.  ll"i 

SONETTO  CIX. 

A  LORENZO  db'  MEDICI  PER  LA  MORTE  DI   MAESTRO  AN- 
TONIO   SQUARCIALUPI    DETTO   DEGLI    ORGANI. 

Farete  insieme,  o  musici,  lamento 
Sopra  il  vostro  immortale  oggi  sepolto: 
Morte  si  scusa  e  dice:  I'  ve  l'ho  tolto. 
Per  far  più  lieto  il  ciel  col  suo  concento.  ^ 

Oh  quanto  lume  spense  un  picelo  1  vento 
El  di  che  fu  dall' uman  velo  sciolto! 
Ma  lieto  si  partì,  contento  molto, 
Che  morte,  ov'  è  virtù,  non  dà  spavento. 

Dorransi  quei  che  tardi  saran  nati 
Air  età  di  costui,  che  'n  ciel  s'  onora. 
Né  forse  il  meritò  la  gente  antica. 

Gloria  dunque  è  di  noi:  però  siàn  grati 
Che  si  dirà  doppo  mille  anni  ancora  : 
Natura  a  quell'  età  fu  pure  amica  ! 


1  Per  far  più  lieto  ecc.  Da  questo  pensiero  è 
informato  un  epitaffio  fatto  per  Francesco  Ro- 
driguez  musico  portoghese,  che  dice  cosi:  «  Qui 
«  giace  Francesco  Rodriguez,  musico  del  Re  don 
«  Emanuele,  cui  Dio  chiamò  a  sé  per  farlo  suo 
«  maestro  di  cappella;  e  appena  salito  in  cielo, 
«  chiamò  i  suoi  angeli,  e  fattigli  cantare,  disse 
«  loro  :  Aìidale  là ,  che  questo  Portoghese  canta 
«  meglio  di  voi-  » 


120  SONETTI. 

A  me  dolce  la  truovo,  e  sol  mi  splace 
El  mondo,  possedendo  or  miglior  vita. 

Però  pensa  voler  quel  che  al  ciel  piace, 
Ove  i'  t' aspetto  a  star  con  teco  in  vita  ' 
A  posseder  l'eterna  e  vera  pace. 

SONETTO  CXIII. 

IN    MORTE   DEL  FIGLIUOLO   DI    DIADA. 

{Ferrarese.  S.) 

Piangi,  Ferrara  mia,  leggiadra  e  bella, 
E  di  lacrime  amare  or  bagna  el  volto 
Da  poi  che  amara  morte  oggi  n'  ha  tolto 
Di  Diada  il  suo  Piero,  anzi  tua  stella. 

Ma  chi  non  piangerà  sentendo  quella 
Tenera  madre  dir  sopra  el  sepolto: 
«  Figliol,  più  non  ti  veggio  e  non  V  ascolto  ! 
Or  fussi  io  teco  e  con  la  tua  sorella  !  » 

Pensi  chi  ha  pietà  punto  nel  core 
Quando  prima  in  sul  letto  in  ver  la  madre 
Rivolse  gli  occhi  in  ne  la  strema  unzione, 

E  suspirando  disse:  «  Mio  dolore 
È  eh'  i'  non  veggio  el  mio  tenero  padre, 
Che  desse  a  me  la  sua  benedizione.  » 


^  Star  con  teco  ecc.  A  vivere  la  vera  vita  de" 
Beati  ;  che  questa  del  mondo  non  è  vita,  ina  è 
morte,  come  cantò  il  Petrarca,  là  dove  scrisse  : 

Di  questa  morte  che  si  cliiania  vita. 


SONETTI.  121 

SONETTO  CXIV. 

SULLA   MORTE   d'  UNA    DONNA. 

Quel  nostro  antico  e  gran  perfetto  amore 
A  pianger  teco  mi  conduce  e  invita, 
Pensando  che  per  morte  ora  hai  smarrita 
Colei  che  in  elei  se  ne  portò  il  tuo  cuore. 

Ma  ne  conforti  in  el  comun  dolore 
Quella  virtù  d'  un  corso  di  tua  vita, 
Quando  Fortuna  die  maggior  ferita, 
E  sempre  in  porto  intrasti  con  onore. 

Or  questo  sia  al  comun  colpo  un  unguento, 
Suavissimo  amico,  che  nel  cielo 
Costei  ti  vede,  e  Giove  ama  et  ascolta.  ' 

Di  sé  lassato  t'  ha  il  bel  nome  e  '1  velo, 
E  spera  in  el  gran  dì  questo  contento 
Per  sempre  rivederla  un'  altra  volta . 

SONETTO   CXV. 

DELLA    MORTE   DELLA    DUCHESSA    DI    CALABRIA. 

Piangi,  Partenopè,  piangi  el  tuo  sole 
Ch'oggi  ha  lassato  in  tenebre  la  terra, 
Piangi  Ippolita  2  tua,  che  in  ciel  si  serra. 
Ove  del  viver  suo  cor  frutti  vuole. 


'  Al  comun  colpo.  Nel  nostro  comune  dolore  ci 
sia  di  conforto  questo,  che  ella  ti  vede,  e  Dio  le 
vuol  bene,  e  ascolta  le  sue  preghiere. 

2  Ippolita.  Duchessa  di  Calabria,  e  madre,  co- 
me vedemmo,  della  Duchessa  di  Milano. 


122  SONETTI. 

Morte  del  pianto  tuo  si  scusa  e  dole 
Dicendo:  Il  cielo  a  te  fa  questa  guerra, 
Però  che  V  arco  mio  lui  sol  disserra, 
E  non  sono  com' altri  creder  suole. 

Di  speranza  T  inferno  è  pien  per  lei,  i 
Che  in  grazia  è  tanto  fatto  al  Re  del  cielo. 
Che  da' suoi  prieghi  scender  può  salute. 

Ma  pien  d' invidia  è  il  regno  de  li  Dei, 
Che  Giove  dessi  a  lei  tanta  virtute 
Che  più  di  lor  non  abbia  agli  occhi  il  velo. 

SONETTO  CXVI. 

PER  LA    MORTE    DEL  DIVINO    LUIGI    DE'  PULCI  FIOREN- 
TINO. 

Chi  cercassi  oggi  ben  da  T  orizzonte 
A  dove  il  mondo  acciecaz  per  l'occaso; 
Dalle  fredde  umbre  a  dove  scorse  il  caso  3 
Del  troppo  ardito  e  misero  Fetonte; 

Nessun  troverà  mai  con  lieta  fronte, 
Né  che  di  pianger  pensi  esser  rimaso, 
Poi  che  morte  alle  suore  di  Parnaso 
Tolto  ha  lor  dolce  alunno  al  sacro  monte. 

Però  piangete,  o  vergini  devote, 


1  Di  speranza.  Questa  speranza  de' dannati, 
con  tutte  le  esagerazioni  che  seguono,  sono  adu- 
lazioni di  pessimo  gusto,  ed  anzi  gofte  che  no. 

2  Accieca.  Diviene  oscuro,  sì  che  altri  male  ci 
può  vedere. 

3  Scorse  per  Occorse ,  Avvenne ,  è  assai  strano. 


SONETTI.  123 

Col  vostro  Apollo,  poi  che  quella  rompe,  ' 
Che  Orfeo  già  securò  pe'  regni  stigi 

Voi  eh'  eri  a  questo  tempio  pur  coloni 
Sendo  caduto,  in  voi  dormili  le  pompe, 
Insin  che  '1  cielo  a  voi  renda  Luigi.  2 

SONETTO   CXVII. 

FEK  LA  MORTE  D'UN  FALCONE  PEREGRINO  DEL  DUCA 
DI  MILANO. 

Qui  morto  vive  (se  morir  non  suole 
Fama  nel  mondo)  di  virtù  T  onore. 
Un  peregrin,  che  usava  per  valore 
Com'  aquila  volare  insino  al  sole. 

D'ogni  clima  del  mondo  alle  parole 
Di  Giovan  Galeazzo,  a  lui  signore, 
Sare'  tornato:  or,  per  mostrargli  amore, 
Eterno  in  versi  da'  poeti  el  vuole. 

Sua  morte  è  pace  della  lunga  guerra  ^ 
D' ogni  animai  vestito  de  le  piume, 
Che  sicuri  da  lui  mai  seppon  dove. 


^  Quella  rompe.  La  lira,  che  già  fé'  sicuro  Or- 
feo per  i  regni  di  Stige ,  cioè  per  l' Inferno. 

2  Voi  ch'eri  ecc.  Voi  che  pure  abitavate  quel 
tempio,  dove  Luigi  si  onorava;  essendo  esso  ca- 
duto, cessate  da  ogni  pompa  ecc.  Qui  non  corre 
la  rima:  forse  il  verso  IS'*  aveva:  A  questo  tem- 
pio sacerdote. 

3  La  sua  morte  è  pace  degli  uccelli,  che  non 
seppero  mai  dove  potere  esser  sicuri  da  lui. 


124  SONETTI. 

Ritrovavano  e  pesci  al  londo  al  fiume,  i 
E  gran  venti  forava,  e  mosse  Giove 
A  veder  nuovo  fulgore  a  la  terra, 

SONETTO  CXVIII. 

MORALE,   ESORTANDO   CIASCUNO  A  VOLERE  QUELLO  CHE 
IL    CIELO    VUOLE. 

Quanto  fé'  ben  colui  che  tutto  regge 
Che  questo  uom  fussi  fragile  e  mortale, 
Onde  poi,  conosciutosi  esser  frale. 
Pili  in  questa  vita  el  suo  viver  corregge  ! 

0  che  natura  e  '1  ciel  voglin  per  legge, 
E  fìa  nostro  1'  error,  par  naturale 
Che  '1  più  degli  anni  nostri  abbin  del  male, 
Anzi  pur  tutti  a  chi  misura  è  legge.  2 

Or  con  vostra  prudenzia  assai  v'  esorto 
Che  almeno  in  voi  sia  T  animo  felice 
Che  far  lo  può,  chi  voi  quei  che  '1  ciel  vole, 


1  Ritrovavano.  Forse  è  da  leggere  ritornava- 
no; 0  forse  da  intendersi  Ritrovavano  il  fondo: 
fatto  sta  che  questo  falcone,  che  faceva  paura 
anche  a'  pesci,  che  forava  i  venti,  e  che  parve 
a    Giove  un  fulmine  di  nuovo  conio,    sono  cose 

■veramente  strampalate,  e  da  abboccarle  solo  gli 
Accademici  della  Crusca,  a'  quali  si  vede  che 
passò  d'occhio  queir  accieca  del  secondo  verso  ; 
perchè,  se  no,  l'avrebbero  tosto  abboccato. 

2  Anzi  pur  tutti  ecc.  Anzi  tutti  hanno  del  ma- 
le, secondo  il  pensar  di  coloro  a'  quali  è  legge 
il  vivere  con  misura. 


SONETTI. 


125 


Ma  non  sapete  voi  che  la  fenice, 
Per  rifarsi  più  bella,  mai  si  duole 
Nel  foco  ardendo?  Or  così  voi  conforto. 

SONETTO  CXIX. 

SUPPLICA   NOSTRA    DONNA    CHE    SI    DEGNI   LIBERARK    11. 
DUCA    INFERMO. 

Vergine  eletta  dal  superno  chiostro, 
Vergine  sacra,  imraaculata  e  pura, 
0  vero  fundamento,  ove  si  mura 
Ogni  rimedio  qui  del  peccar  nostro.  ^ 

A  te  il  pianto  e'I  dolor  del  duca  è  mostro.  2 
Che  quasi  el  sol  nel  ciel  di  doglia  iscura; 
Sendo  offeso  ogni  ben  de  la  natura, 
Fate  voti,  o  mortali,  or  del  ben  vostro. 

Ave  Maria,  o  d'ogni  grazia  piena, 
Per  quel  diletto  tuo  bel  parto  santo, 
A  Giovan  Galeazzo  or  sia  pietosa, 

Pon  fine  al  mal,  eh'  è  de'  suoi  servi  pena; 
Vedi  che  bagna  el  bel  volto  di  pianto, 
E  in  te  sperando,  afflitto  giace  e  posa. 

SONETTO  CXX. 

PER   L\  MORTE   d'  UNA    DONNA. 

Pallide  e  scure,  interriate  e  smorte 
Veggio  le  labbia  già  eh'  e  dolor  miei 


'  0  vero  fundamento.  Questa  metafora  del  foii- 
rlainento  e  del  murare,  è   assai  ben  condotta. 
2  È  mostro.  Ti  è  mostrato,  Tu  lo  vedi. 


126  SONETTI. 

Solevan  consolare ,  o  sacri  Iddei , 
Gloria  è  di  voi  per  sì  dolce  consorte. 

Natura,  e  Fati,  el  Ciel  fortuna  e  Morte 
Voluto  hanno  esaltar  tanto  costei 
Che  potenza  non  han  gli  spirti  rei 
Conducer  questa  diva  a  la  lor  corte. 

Scurato  hai,  morte,  il  sol  di  quel  bel  volto, 
Che  fu  de'  nostri  passi  e  duce  e  scorta, 
,0r  col  pianto  el  mio  duol  medico  et  armo. 

invida  morte,  el  fiore  acerbo  hai  colto. 
Se  '1  secol  piange  lei  che  è  viva  morta 
De  '1  suo  bel  velo  è  reda  un  freddo  marmo.  • 

SONETTO  CXXI. 

FATTO   IN    NOME    DELL'ACCADEMIA     BOLOGNESE    QUANDO 
ACCADDE  LA    MORTE    DI   LORENZO   DE*  MEDICI. 

Vedova  trista,  lacrimosa  e  mesta, 
Nostra  Accademia  si  lamenta  e  duole, 
Ripensando  a'  tuoi  versi  e  le  parole 
Di  che  sempre  fu  bella  e  tanto  onesta. 
j|^  Dove  son  le  accoglienze  e  la  tua  festa? 

Tutto  perdemmo  in  un  girar  di  sole! 


1  Cìi' è   viva  morta.    Questo    giuoco   del  vivo 
morto  comincia  a  stuccare,  perchè  ogni  bel  giuo- 
co vuol  durar  poco  ;  ed  è  parimente  una  scioc- 
chezza queir  erede  del  velo  un  freddo  marmo. 


•  SONETTI.  127 

Unde  le  Muse,  paurose  e  sole, 

In  grembo  a  lacrimarmi  t'  hanno  desta.  ^ 

Vien  dunque  a  consolar  le  mie  sorelle 
Poiché  Natura  te  l'ha  fatte  amiche, 
Che  ben  si  ride  un  giorno  e  mille  piagne. 

Così  potrai  dir  lor:  Voi  fusti  belle, 
Or  non  piangete  più  le  mie  fatiche, 
Perchè  fortuna  a'  buon  tende  sue  ragne.  ^ 

'  SONETTO  CXXII. 

MORALISSIMO   RICORDANDOSI  LA  MORTE  E  DIMOSTRANDOSI 
QUANTO    l'  uomo   S'  INGANNA. 

0  glorie  vane  dell'umane  pompe. 
Vostra  burbanza  quanto  poco  dura!  3 
Instabile  e  volubil  per  natura 
Quanto  il  ciel  cuopre,  il  tempo  alfin  corrompe. 

L'umana  plebe  afflitta  si  dirompe 
In  cercar  pace,  e  pur  truova  paura, 
Sospetti,  dubbj,  incendj,  o  morte  scura, 
Che  'q  un  punto  divide  spezza  e  rompe. 


1  In  grembo  ecc.  Le  Muse,  o  Accademia,  hanno 
destato  te  a  lacrimarmi  in  grembo. 

2  A' buon  tende  ecc.  È  parafrasi  di  quel  del 
Petrarca  :  Morte  fura  Prima  i  migliori.  Suo  per 
Sue,  e  Suoi  dissero  spesso  gli  antichi. 

3  0  glorie  vane  ecc.  È  travestito  quel  di  Dan- 
te :  «  O  vanagloria  delle  umane  posse  Com'  poco 
verde  in  sulla  cima  dura  !  » 


128  SONETTI. 

Abbracciator  di  sogni  nebbia  o  vento, 
Vostre  opere  e  speranze  son  dipinte 
Dinanzi  a  chi  gastiga  e  premia  altrove. 

Sospiri  in  collo  e  noje  a'  fianchi  cinte 
Abbiam  vivendo;  or  morte  vi  rammento. 
Che  non  sappiamo  il  quando,  '1  come  o  '1  dove. 

SONP]TTO  CXXIII. 

PER   LA   MORTE   DI   MADONNA    LUCREZIA      MADRE     DI     LO- 
RENZO  de'  MEDICI.  ' 

Ardita  inesorabile  e  superba 
Morte,  d'eterna  infamia  oggi  se' reda. 
Dice  Natura:  ancor  non  par  ch'i'  '1  creda 
Ch'  eli'  era  alquanto  al  mio  bel  cesto  acerba.  2 

Vedova  è  Flora  di  fioretti  e  d'erba. 
Poiché  Morte  pomposa  è  di  tal  preda, 
Chi  sarà  quel  eh'  a  lacrimar  non  ceda 
Se  dell'  opere  sua  memoria  serba  ? 

Sopra  il  ricco  sepolcro  e  le  fredde  ossa 
Piangi,  profana  turba,  in  veste  negra 
Lucrezia  posta  in  ultimo  silenzio. 

^  Madonna  Lucrezia.  Essa  fu  Lucrezia  Toma- 
buoni  madre  di  Lorenzo,  donna  di  altissimi  sen- 
timenti. 

2  Al  mio  bel  cesto  ecc.  Paragona  la  vita  a  un 
cesto,  a  una  pianticella,  e  dice  che  la  morte  di 
Lucrezia  fu  immatura.  Bel  cesto  si  dice  adesso 
ironicamente  e  per  dispregio:  Tu  se'  un  bel  cesto t 
ma,  come  altri  antichi  lo  dissero  sul  serio,  cosi 
fa,   com'  è    naturale    che  faccia,  il   Bellincioni. 


SONETTI. 


12^ 


Misera  età  d'  ogni  baldanza  scossa, 
Or  puoi  ben  dir:  Chi  mi  tenea  allegra  • 
Gusta  in  ciel  dolce  il  nostro  amaro  assenzio.  2 

SONETTO  CXXIV. 

IN  LAUDI!    d'  un  CAVALLO    DEL    DUCA  DE   MILANO  CHIA- 
MATO EL    BATAGLIA. 

0  famoso  Bataglia,  o  gran  Melampo, 
Bucefalo ,  che  scuoti  el  pavimento  ;  3 
Che  un  folgore  se'  proprio,  un  fiume,  un  ventx) 
Da  romper,  solo  urtando,  ogni  gran  campo. 

Tu  nel  corso  veloce  accendi  un  lampo, 
Che  Pluton  triema,  e  insieme  ogni  elemento: 
Ciascun  fare'  del  proprio  sangue  unguento. 
Per  dar  rimedio  al  tuo  famoso  scampo. 

0  feroce  Lione,  o  Drago  umile  ! 
L'ultimo  e '1  primo  se' sotto  la  luna 
Per  fama,  per  virtù,  pregio  et  onore. 


1  Mi  tenea  allegra.  Era  cagione  oh'  io  fossi 
lieta,  e  quasi  andassi  superba  delle  rare  qualità 
di  Lucrezia. 

2  Gusta  in  ciel  dolce.  Gode  in  cielo  vita  se- 
rena e  dolce,  quella  vita  che  per  noi  è  amara  e 
dolorosa. 

3  Bucefalo  si  sa  che  fu  il  cavallo  d'Alessandro 
Magno:  Melampo  è  nome  di  cane;  ma  forse  lo 
chiama  cosi  per  rispetto  alla  velocità  del  suo 
corso.  Del  rimanente  son  tutti  sonetti  esagerati 
e  grossolani.  • 


130  SONKTTI. 

Ben  fu  invidiosa  e  ingrata  la  Fortuna, 
Che  fu  ministra  al  colpo  basso  e  vile, 
Per  turbar  forse  al  nostro  Duca  il  core.  ^ 

SONETTO  CXXV. 

d'uno  cavallo. 

Signor,  sia  maladetto  lo  Spagnolo, 
Che  forsi  iscorto  e'  m' ha  per  un  babione, 
Averme  dato  un  certo  carrettone,  2 
Che  par  de  la  pigrizia  il  suo  figliolo! 

Per  nulla  i'  non  andrei  con  questo  solo, 
Perchè  di  cani  e  lupi.  Io  stallone,  3 
E  proprio  calamita,  o  Belinzone  : 
E  se  ne  ride,  el  viso  di  fagiolo  !  * 

E'par  proprio  a  l'andar  che  giochi  a  scacchi,  5 
E  però  sarà  bon  per  una  rocca  : 
Più  vago  che  la  volpe  è  de  le  macchi/è 


'  Per  turbar  ecc.  Pare  che  lo  facesse  per 
l'occasione  che  questo  cavallo,  o  si  ammalò,  o 
cadde,  o  checché  altro. 

2  Carrettone.  Cavallo  da  carrettone. 

3  De'cani  e  de'  lupi  ecc.  I  cani  e  i  lupi  gli  sono 
attorno,  sentendo  il   puzzo  di  carogna. 

4  Viso  di  fagiolo.  Dice  che  il  cavallo  se  ne 
ride,  alludendo  forse  al  suo  rignare. 

5  Giochi  a  scacchi.  Va  a  salti  per  diritto  ,  e 
per  traverso,  come  sono  le  mosse  de' pezzi  de- 
gli scacchi. 

6  De  le  macchi.  Delle  macchie. 


SONETTI.  181 

Ha  pur  una  virtù,  che  ha  bona  bocca 
Per  consumarmi  :  e  per  che  meglio  insacchi, 
Ad  ogni  passo  el  fa  la  mazacrocca.  ' 
Di  corbi  r  aer  fiocca, 
A  r  odor  del  leardo,  anzi  moscato,  2 
E  vuol  che  ad  ogni  Santo  io  sia  votato.  3 

Da  lui  sarò  segnato  * 
Come  i  dodecimilia  in  tribù  Juda; 
Ma  non  di  bene  a  me,  eh'  e  denti  muda.  5 

SONETTO  CXXVI. 
d'uno  cavallo. 

Signor,  per  questa  grazia  a  te  sol  vegno 
Che  tu  dia  quel  cavallo  al  Belinzone  ; 
Ma  non  sia  quel  che  già  fece  Sinone,  6 
Che  entrando  in  Troja  sai  che  fu  di  legno. 


'  Fa  la  mazacrocca.  Inciampa,  e  sta  per  ca- 
scare. 

2  Moscato.  Ironicamente  per  Puzzo   orribile. 

3  Ad  ogni  Santo.  Ch'  io  mi  raccomandi  ad 
ogni  Santo,  mettendomi  sempre  a  pericolo  di 
rompere   il  collo. 

4  Sarò  segnato.  Allude  al  De  tribù  Juda  diio- 
decim  millia  signali- 

5  E  denti  muda.  Gli  muta. 

6  II  cavallo  di  Sinone  era  di  legno;  entrò  in 
Troja  coi  Greci  che  erano  nascosti  nel'  suo 
ventre. 


182  SONETTI. 

Fa  eh' el  non  faci  ad  me  di  piover  segno 
Che  balenando  i  me  faci  pedone, 
Da  medico  el  vorrei,  non  dal  tincone, 
Ch'  io  ne  scendessi  spesso  con  isdegno. 

Non  tei  chieggio  da  sposa  o  da  carretta  : 
Damel  come  tu  vuoi,  che  quel  bon  fia, 
S'  el  fusse  ben  di  lupi  una  civetta.  ^ 

S'  el  fusse  quel  che  cavalcò  el  Messia  ^ 
Quel  pel  gigante  el  Belinzon  l'aspetta. 
L'andar  a  pie  mi  par  gran  malatia. 
Sopra  tutto  ch'el  sia 
Da  mangiar  poco,  et  sia  dolce  a  la  mano, 
Che  cavalcar  lo  sappi  uu  Veneziano.  ^ 


1  Balenando.  Il  baleno  è  segno  di  pioggia  ;  e 
balenare  si  dice  di  chi  va  traballando  qua  e  là, 
come  fanno  i  briachi,  o  chi  mal  si  regge  sulle 
gambe.  Di  qui  il  giuoco  di  parole. 

2  Di  lupi  ecc.  Che  invitasse  i  lupi,  col  suo 
odor  di  carogna,  come  la  civetta  alletta  gli  uc- 
celli. 

3  Che  cavalcò  ecc.  Cioè,  se  fosse  un  asino. 

4  Un  Veneziano.  In  Venezia  non  vanno  attorno 
cavalli,  andandosi  solo,  o  per  acqua  o  a  piedi; 
e  però  i  "Veneziani  son  mal  pratici  del  caval- 
care. 


SONETTI.  133 

SONETTO  CXXVII. 
d'  un  cavallo. 

Signor,  le  risa  non  potrai  tenere , 
S' i'  ti  discrivo  un  tristo  mio  cavallo  : 
Vero  è  che  mai  un  pie  non  mette  in  fallo, 
Ma  tutti  quatro  si ,  per  suo  piacere. 

E'  non  fa  tanti  inchini  un  camariere, 
Et  a  lo  sprone  ha  sempre  vecchio  el  callo  :  * 
A  la  biada  più  fiero  el  par  eh' un  gallo, 
E  s'el  va  a  concio  a  concio  da  cadere.  2 

Da  fatica  un  cavallo  i'  ti  vo'  dare , 
Mi  disse  quel  che  me  T  avea  venduto; 
Ma  non  intesi  el  logico  parlare. 

E' disse  el  ver;  che  quando  egli  è  caduto, 
Con  gran  fatica  vinti  el  fan  rizare: 
Le  gallete  ha  ciascun  che  1'  à  veduto. 

Soneresti  el  liuto  3 
Al  ventre:  or  su  faccianne  una  lanterna, 
Ch'  una  panciera  egli  ha  'n  una  lucerna.  ■* 


^  A  lo  sprone  ecc.  Non  sente  nemmeno  le  pun- 
ture dello  sprone. 

2  S'  el  va.  Quando  cammina,  par  sempre  che 
sia  in  procinto  di  cadere. 

3  El  liuto.  Ha  la  pancia  gonfia  come  quella 
de'  liuti. 

4  Una  panciera  ecc.  Ha  un  occhio  tutto  in 
fuori  e  rigonfio  ;  che  sembra  ci  abbia  una  pan- 
ziera. 


l'M  sonett'ì.  . 

SONETTO  CXXVIII. 
d'un  cavallo. 

Non  mi  dar  quel  cavai  di  poesia ,  ' 
Né  sia  di  sancto  Stefano  divoto  : 
So  che  m'intendi,  certi  amici  noto. 
Che  fan  di  lor  promesse  tragedia.^ 

Non  mi  dar  quel  che  cavalcò  el  Messia, 
Che  far  mi  facci  qualche  stranio  voto, 
Che  paja  a  cavalcar  proprio  un  tremoto; 
Non  facci  a  Santo  Anton  la  ciurmerla. 

E  ti  ricordo  ch'io  non  so  notare; 
Che,  s'  el  volesse  in  qualche  fiume  bere, 
Che  non  mi  faccia  la  credenza  fare.  3 

r  non  son  Giona,  intendi  nel  tacere; 
Da  rocca  o  da  mulino  non  mei  dare, 
Né  anche  sia  da  gli  occhi  balestriere.  ^ 


1  Non  mi  dar  ecc.  Non  quel  solito  cavallo  di 
legno,  detto  innanzi  ;  né  un  cavallo  che  sia  buono 
solo  a  mangiare.  Stefano  si  disse  per  lo  stomaco  ; 
e  però  dice  divoto  di  santo  Stefano. 

2  Fan  di  lor  promesse  ecc.  Le  uccidono  ,  non 
le  mantengono. 

3  Non  mi  faccia  ecc.  Non  mi  getti  nell'acqua, 
affinchè  io  assaggi  l'acqua  ch'esso  dee  bere;  che 
Far  la  credenza  era  l'assaggiar  le  vivande  che 
mangiavano  i  principi,  sospettosi  di  veleno. 

•*  Sia  da  gli  occhi.  «  Non  Istrabuzzi  gli;occhi  > 
annota  il  Salvini. 


SONETTI.  135 

Mi  farai  gran  piacere, 
Stu  mei  (lai  che  non  para  una  lanterna, 
Né  com'  un  ebro  fuor  de  la  taverna.  ' 

SONETTO     CXXIX. 

AL   CONTE    SORELLA. 

Conte  Dorella  mio,  grato  et  humano, 
Servite  d'un  cavallo  el  Belinzone, 
Che  quando  el  fusse  pur  un  bel  ronzone, 2 
Pur  che  mi  porti  un  po'  sino  a  Milano. 

L'  officio  del  corrier  non  mi  par  sano , 
Ma  SI  del  cavalaro  al  paragone  :  3 
So  che  m'intendi  ben  per  discrezione. 
Che  altrimenti  a  lo  amico  non  la  spiano. 

S'  el  fusse  pur  buon  vento  pel  navile , 
0  quel  che  Balaam  fece  cadere, 
Dirò  questa  chinea  mi  par  gentile. 

Tu  intendi  quel  eh'  è  bon  ne  lo  scachiere , 
E  se  gli  andrà  da  1'  orator  sottile  * 
Del  Duca  di  Ferrara,  e' m' ha  a  piacere. 


1  Né  come  un  ebro  ecc.  Cioè  che  non  baleni, 
non  traballi.  Tutto  il  Sonetto  è  una  rifrittura  del 
precedente. 

2  Ronzone.  Un  ronzino  grande  e  sgarbato. 

3  Coì'rier.  A  questa  voce  il  Salvini  annota 
«  Corriere  pedestre;  e  a  Cavallaro ,  Corriere  a 
cavallo.  » 

4  Da  Voralor  sottile-  Questi  era  Ermolao  Bar- 
baro; e  fa  il  giuoco  di  parole  col  cavallo  bar- 
baro o  barbero. 


136  SONEITI,  j 

.■  'i 

Ma  non  mi  par  dovere,  i 

Se  da  mulin  tei  chieggio ,  o  pur  da  frati ,  i 

Che  boa  tu  non  mei  dia  per  istroppiati.  •] 


SONETTO  CXXX. 
d'un  camallo. 

Sonetto,  va,  ricorda  quel  cavallo 
A  Ludovico  ,  e  torna  coli'  ulivo  ,  ' 
E  di' come  in  sua  camera  ti  scrivo    ^ii 
Per  esser  del  ver  chiar  come  cristallo.  ì 

Dietel  pur  come  vuole,  in  fuor  che  giallo, 
Ma  non  dipinto:  intendi  ch'i"!  vo' vivo. 
Insino  a  or  non  V  ho  buon  ne  cattivo,  , 

E  cogli  sproni  in  pie  son  come  el  gallo.  ] 

Se  fussi  Polifemo,  o  balestriere  2  •' 

D' un  ochio,  da  le  fosse  andrò  discosto,  v 

Per  non  voler  pigliar  ranochi  et  bere.  i 

Non  sia  '1  cavai  di  Francia  :  un  bel  tantosto  :  \ 

Que'  corti  sono  lunghe  da  sparviere  \ 

Dove  gli  omin  si  giron  com'  arosto. 


1  Coli'  ulivo.  «  Con  la  grazia  »  annota  il  Sal- 
vini. 

2  Balestriere.  I  balestrieri  nel  pigliar  la  mira 
chiudono  un  occhio  ;  e  però  dice  s'  e'  fussi  ba- 
lestriere o  Polifemo,  cioè,  se  avesse  un  occhio 
solo. 


SONETTI.  137 

SONETTO  CXXXI. 

AL   SIGNOR   MARCHESE,  D'UN    CAVALLO    ME   DEDE  A  VO- 
GHERA. 

Son  a  cavallo  in  su  nun  carrettone  ^ 
Che  da'  lupi  defender  non  lo  posso  :  2 
A  ogni  passo  el  me  mina  adesso 
Che  scapuzar  sa  ben  in  un  cialdone. 

Un  tesoro  varrìa  sendo  falcone, 
Poiché  '1  casca  si  ben  in  ogni  fosso  : 
Altro  non  ha  se  non  la  pelle  et  1'  osso. 
Non  cavai  da  faction,  da  disfatione. 

Da  fatica  fu  ditto  è  bon  cavallo: 
Et  disse  el  ver,  che  quando  egli  è  cascato 
Hanno  fatica  vinti  da  rizallo. 

Ma  d'  un'  altra  virtù  son  ingannato  : 
Chi  '1  me  die  disse:  Un  pie  nun  mette  in  fallo, 
Ma, ben  con  tutti  quatro  egli  ha  fallato. 

Poi  fa  lo  spiritato 
S'el  vede  pur  un  uccellin  volare: 
Con  le  bombarde  noi  faresti  andare. 

Che  non  m'  abi  a  portare 
A  Genoa  ?  per  dio  n'  ho  gran  paura 
Che  non  mi  porti  in  qualche  sepoltura. 


^  Carrettone.  Cavallo  da  carretta. 

2  Da' lupi  ecc.  Così  qui,  come  per  tutto  il  so- 
netto, ripete  ristesse  parole  e  pensieri  signifi- 
cati ne' precedenti  sonetti  sopra  i  cavalli. 


138  SONETTI. 

SONETTO  CXXXII. 
d'  un  cavallo. 

Intendo,  Monsignor,  venirne  teco 
S'  i'  fussi  ben  con  una  gamba  a  gruccia: 
Andar  parrami  in  bucintoro  e  'n  cuccia,  i 
E  la  chiocciola  far  eh'  à  '1  nidio  seco. 

E  s'  i'  non  posso  far  cantare  un  ceco,^ 
E  quel  eh' i' ho  in  su  l'osso  sol  la  buccia, 
Verrò  come  '1  fardello  o  la  bertuccia  ;  3 
E  stu  mi  dai  il  cavai  non  sia  quel  greco. 

Se  quel  di  Balaam  potessi  avere , 
E'  mi  parrebbe  una  chinea  sì  bella 
Ch' i' canterei  il  fecZeo  per  miserere. 

Seguirò  te  come  que'  tre  la  stella, 
Stu  mi  fai  cavallaro  e  non  corriere:^ 
Tu  intendi  il  suon  di  questa  ceremella. 

S'  i'  non  posso  ire  in  sella , 
D'  esser  contento  il  tuo  servo  t'  avise  : 
Con  uno  andrò  in  scambio  di  valise.  ^ 


y  E  'n  cuccia.  Nel  letto.    Parrammi  di    viag- 
giare con  ogni  agio. 

2  S' i' non  posso.  Se  sono  privo  di  denari.  Si 
dice  tuttora  :  Non  ho  da  far  cantare  un  cieco. 

3  ygffò  come  ecc.  Verrò  come  se  io  fossi  un 
fardello  di  tua  roba,  o  la  scimmia. 

4  Stu  mi  fai  ecc.  Se  tu  mi    fai  venire  a  ca- 
vallo, e  non  a  piedi. 

5  Con  uno  andrò.  Anderò  con  qualcuno  de'fa- 
luiliari  tuoi  in  cambio  di  valigia. 


SONETTI.  1.39 

SONETTO  CXXXIII. 

ANDANDO  CON  MONSIGNOR  DI  MANTOVA    COME    AVEA   PRO- 
MESSO. 


A  ciò  che  de  la  fede  i'  non  ti  manchi 
Dreto  ti  son  corno  Matheo  venuto,  ' 
Con  un  vecchio  rozon,^  che  fu^ veduto 
La  carretta  tirar  insin  pe'  Bianchi. 

r  mi  levai  stamani  anch'io  co' arranchi 
Con  questo  mio  cavai  si  mal  pasciuto, 
Ch'  e  lupi  tutti  el  conoscerno  al  fiuto , 
E  noi  farebbon  ir  due  spiedi  a'  fianchi. 

Egli  è  del  santo  d'oggi  sì  devoto 
Che  sempre  inginocchiossi  a  ogni  passo, 
Tal  che  m'  ha  fatto  far  già  più  d'  un  voto. 

E  sempre  trae  duino,  e  non  mai  T  asso  3 
Quando  io  lo  tratto  come  galeoto, 
E  però  so  che  a  un  qualche  stremo  passo 

D'  ucellacci  un  fracasso 
Verranno,  Monsignor,  per  tormi  quello, 
E  forsi  a  voi  torrebbon  il  Cappello.  ^ 

'  Como  Matheo.  Cristo  disse  a  Matteo  :  Se- 
quere  me. 

2  Rozon.  Una  rozza  grande  ;  un  cavallaccio 
mezzo  rifinito.  Forse  anche  nel  sonetto  129,  il 
poeta  scrisse  Rozzorie,  e  non  Ronzone. 

3  Trae  duino.  Tira  calci  a  doppio, o,  come  di- 
cesi, coppie  di  calci,  né  mai  tira  l'asso,  cioè  con 
una  sola  zampa.  Metafora  presa  dal  giuoco  di 
sbaraglino. 

4  11  Cappello.  Monsignor  di  Mantova  era  Car- 
dinale. 


140  SONETTI. 

Che  Romulo  e  '1  fratello 
Già,  cavalcando  dui  lor  ronzon  vecchi, 
Ciascun  degli  avoltoj   vide  parecchi. 

SONETTO  CXXXIV. 

d'un  cavallo  . 

Signor  Francesco,  s' i' non  son  venuto 
Sì  presto  a  visitarti  al  tuo  palazo, 
Cagion  n'  è  stato  un  certo  cavai  pazo, 
Che  'n  ventottanni  me  fece  canuto. 

Più  d' una  volta  adosso  m'  è  caduto , 
Et  sendo  cavaglier,  fatto  ragazo; 
Et  di  can  drieto  avevo  un  populazo, 
Tanto  ch'i' ero  un  canatier  tenuto. 

Co'  corbacchion  facevo  la  civetta,  ' 
Vagendone  per  1'  aria  tanti  intorno , 
Ch'  i'  dissi  :  E'  mi  torrano  la  berretta, 

E'  fu  per  farmi  arosto  el  primo  giorno; 
Ma  mi  giovò  la  bocca  un  poco  istretta , 
Ch'  entrar  volea  com'  una  torta  in  forno. 

Mi  vo'  sforzar  col  corno 
Quando  i'  penso  eh'  un  fiume  ebbi  a  passare, 
E  provo  ben  com'  io  sape'  notare. 

Non  si  potre'  pagare, 
Signor,  per  uccellare  a  le  bovine,  2 
Egli  è  da  far  d'agosto  gelatine. 

1  Facevo  la  civetta.  Chinavo  il  capo,  per  iscan- 
sar  le  loro  beccate. 

2  Uccellare  a  le  bovine.  Forse  allude  alla  cac- 
cia del  Bue,  la  quale  può  vedersi  descritta  ap- 
presso VOÌina. 


SONETTI.  141 

SONETTO    CXXXV. 

A    LORENZO    DE   MEDICI,  D'  UN    CAVALLO    IN   PRPSTO  ,    E 
POI  RIMANDANDOGLI  IL   CAVALLO  GLI   FECE  QUESTO. 

r  ti  rimando  il  tuo  carretton  bajo, 
Anzi  proprio  sbiadato  e  da  bolsena ,  ^ 
r  parevo  in  su  questa  tua  balena 
Una  matassa  in  su  'n  un  arcolajo. 

La  festa  fu  passando  i'dal  Renajo^ 
Che  l'aria  di  cornacchie  fu  sì  piena, 
Ch' i' restai  al  bujo:  ell'aspectavon  cena, 
Veggendo  apparechiato  ogni  vagliajo.  3 

Vo'  tu  veder  se  gli  era  in  tutto  idonio? 
Per  dargli  bere  entra'  n'  un  certo  Iago: 
E'  parve  che  vedessi  Sancto  Antonio.'* 


SONETTO  CXXXVI. 

d'  un    CAVALLO. 

Per  dirti  prima  eh'  i'  cavalco  a  Pisa 
Con  un  certo  cavai  bolso  e  balzano, 

1  Da  bolsena.  Cioè  bolso. 

2  Renajo-  Luogo  in  Firenze,  che  ha  tuttora  lo 
stesso  nome. 

3  Ogni  vagliajo.  Tutti  i  vaglia.)  stavano  pronti, 
aspettando  di  poter  aver  la  pelle  del  cavallaccio. 

"^Che  vedessi  Sancto  Antonio.  Cioè  s'inginoc- 
chiò. Il  Sonetto  nella  stampa  non  ha  la  sua  fine  : 
forse  lo  stesso  autore  lo  lasciò  incompiuto;  e  il 
prete  Tanzi  editore  lo  stampò  anche  così  smoz- 
zicato. 


J42  SONETTI. 

Ch'  a  vedermivi  su  col  catelano,  ' 
Caton  ne  scoppierebbe  dalle  risa. 

Questo  bajone  agli  occhi  è  a  tal  guisa 
Zimbel  delle  cornacchie  tanto  strano, 
Che  r  andar  a  Legnaja  gli  è  Montalbano,  2 
Et  ogni  sasso  co' zamponi  schisa.  3 

Noi  farebon  crollar  gli  spiedi  affianchi, 
Ma  '1  catelano  mi  dà  più  passione, 
Che  per  ch'i' vada  proprio  a  pigliar  granchi. 

Sena  de'  Frescobaldi  el  gonfalone  4 
Fa  eh'  i'  non  resti,  Neri  mio,  de'  bianchi, 
S' i'  trovassi  il  piovan  d'  un  bon  targone  : 

r  mangio  del  cappone 
In  questo  mal  per  che  e'  m'  usi  guarire, 
Ch'un  ovo  son  portato  a  benedire. 

SONETTO  CXXXVII. 

d'un  cavallo. 

E'  mi  rincresce  di  me,  che  son  tale 
Qual  si  conviene  al  tuo  ingegno  sottile 

1  Catelano.  Veste  ampia  alla  catelana.  La  Cru- 
sca ne  reca  due  esempj  di  prosa,  del  secolo  XVI, 
e  la  registra  fra  le  voci  vive,  usate  e  usabili.  (!) 

2  L'andare  a  Legnaja.  Il  più  breve  tratto  di 
via  è  per  lui  un  gran  viaggio.  Legnaja  è  un  pae- 
sello appresso  Firenze. 

3  Schisa.  Sdrucciola  ad  ogni  sasso  che  trova. 

4  Sena  de'  ecc.  Questa  terzina  debb'  essere 
errata  nella  lezione  ;  né  ho  trovato  codice  che 
ine  la  corregga. 


SONETTI.  143 

Ch"  ogni  antico  e  moderno  egregio  stile 
Basso  sarebbe  al  voi  de  le  tue  ale. 

Honor,  gloria,  splendore  essenziale 
Ch'allumi  ogn' intelletto  e  cor  gentile, 
Riceveme,  ben  eh'  io  sia  basso  e  vile  : 
l'vegno  ancilla  al  tuo  trono  immortale 

De' dammi  quel  che  cavalcò  el  Mesla  ' 
Colla  muletta,  s' altro  aver  non  posso, 
Che  'n  un  fiume  gittorai  a  Marcherla  ; 

E  di  qua  da  Cremona  poi  'n  un  fosso , 
Tal  che  '1  lamento  fé'  di  Geremia  : 
Se  non  pur  drieto  a  te  mi  vedrai  mosso 

Colla  cucina  addosso 
Come  Giusepo  el  dì  del  Corpus  Domini, 
Che  parea  legatuzol  quel  agli  omini.  « 

SONETTO  CXXXVIII. 

d'  una  osteria. 

Questo,  Signor,  ti  fo  in  una  osteria, 
Anzi  mi  par  più  presto  uno  spedale  ; 


1  Quel  che  cavalcò  ecc.  Un  asino. 

2  Cheparea  legatuzzol  ecc.  Anche  questo  verso 
debb'essere  di  errata  lezione;  né  so  cavarne  co- 
strutto. Fatto  sta  che  il  Poeta  supplica  il  Signore 
a  dargli  una  cavalcatura  purché  sia,  anche  un 
ciuco  ,  e  anche  una  certa  muletta  che  lo  gettò 
in  un  fiume  presso  a  Marcarla,  acciocché  possa 
accompagnarlo  in  un  viaggio  che  il  Signore  do- 
veva fare. 


JL42  SONETTI. 

V 

Ch'  a  vedermivi  su  col  catelano,  ' 
Caton  ne  scoppierebbe  dalle  risa. 

Questo  bajone  agli  occhi  è  a  tal  guisa 
Zimbel  delle  cornacchie  tanto  strano, 
Che  r  andar  a  Legnaja  gli  è  Montalbano,  ^ 
Et  ogni  sasso  co'  zamponi  schisa.  3 

Noi  farebon  crollar  gli  spiedi  a' fianchi, 
Ma  '1  catelano  mi  dà  più  passione, 
Che  per  ch'i' vada  proprio  a  pigliar  granchi. 

Sena  de'  Frescobaldi  el  gonfalone  4 
Fa  eh'  i'  non  resti,  Neri  mio,  de'  bianchì, 
S' i'  trovassi  il  piovan  d'  un  bon  targone  : 

r  mangio  del  cappone 
In  questo  mal  per  che  e'  m'  usi  guarire, 
Ch'un  ovo  son  portato  a  benedire. 

SONETTO  CXXX\  II. 

d'un  cavallo. 

E'  mi  rincresce  di  me,  che  son  tale 
Qual  si  conviene  al  tuo  ingegno  sottile 

1  Catelano.  Veste  ampia  alla  catelana.  La  Cru- 
sca ne  reca  due  esempj  di  prosa,  del  secolo  XVI, 
e  la  registra  fra  le  -voci  vive,  usate  e  usabili.  (!) 

2  L'andare  a  Legnaja.  Il  piti  breve  tratto  di 
via  è  per  lui  un  gran  viaggio.  Legnaja  è  un  pae- 
sello appresso  Firenze. 

3  Schisa.  Sdrucciola  ad  ogni  sasso  che  trova. 

4  Sena  de'  ecc.  Questa  terzina  debb'  essere 
errata  nella  lezione  ;  né  ho  trovato  codice  che 
me  la  corre gf? a. 


SONETTI.  143 

Ch'  ogni  antico  e  moderno  egregio  stile 
Basso  sarebbe  al  voi  de  le  tue  ale. 

Honor,  gloria,  splendore  essenziale 
Ch'allumi  ogn' intelletto  e  cor  gentile, 
Riceverne,  ben  eh'  io  sia  basso  e  vile  : 
l'vegno  ancilla  al  tuo  trono  immortale 

De' dammi  quel  che  cavalcò  el  Mesla  ' 
Colla  muletta,  s'  altro  aver  non  posso, 
Che  'n  un  fiume  gittomi  a  Marcheria  ; 

E  di  qua  da  Cremona  poi  'n  un  fosso , 
Tal  che  'I  lamento  fé'  di  Geremia  : 
Se  non  pur  drieto  a  te  mi  vedrai  mosso 

Colla  cucina  addosso 
Come  Giusepo  el  dì  del  Corpus  Domini, 
Che  parea  legatuzol  quel  agli  omini.  ^ 

SONETTO  CXXXVIII. 

D'  una    OSTFRIA. 

Questo,  Signor,  ti  fo  in  una  osteria, 
Anzi  mi  par  più  presto  uno  spedale  ; 


1  Quel  che  cavalcò  ecc.  Un  asino. 

2  Che  parea  legatuzzol  ecc.  Anche  questo  verso 
debb'essere  di  errata  lezione;  né  so  cavarne  co- 
strutto. Fatto  sta  che  il  Poeta  supplica  il  Signore 
a  dargli  una  cavalcatura  purché  sia,  anche  un 
ciuco  ,  e  anche  una  certa  muletta  che  lo  gettò 
in  un  fiume  presso  a  Marcarla,  acciocché  possa 
accompagnarlo  in  un  viaggio  che  il  Signore  do- 
veva fare. 


144  SONETTI. 

Eir  è  la  penitentia  al  naturale 
E  r  ostiere  è  fratel  de  la  pazia. 

El  pan  mette  la  barba  tuttavia;  ' 
Un  vin,  che  a  non  ne  ber  non  po'  far  male  ; 
Ma  el  peggio  è  de  la  casa  fatta  a  gale,  2 
Che  '1  parletico  proprio  par  che  sia. 

La  ti  parebbe  un  bel  fico  maturo, 
Crepata  e  fessa,  e  stanza  da  ranocchi, 
E  per  pietà  ne  lacrima  ogni  muro. 

Se  vuoi  che  d'una  camera  io  ti  tocchi, 
EH'è  da  quei  che  studian  nel  futuro, 
Che  '1  tetto  mi  par  Argo  da  cento  occhi.  3 

Col  capo  infra'  ginocchi 
Mi  sto  :  eh'  io  pajo  proprio  uno  spinoso  ; 
Che  d'  altro  che  di  mogli  i'  son  geloso.  4 

SONETTO  CXXXIX. 

d'  una  casa. 

Non  so  quel  che  si  frappon  d'  Amphione,  5 
Che  usando  la  sua  cetra  ben  sonare 

1  Mette  la  barba.  Ha  la  muffa. 

2  Fatta  a  gale.  La  casa  è  tutta  scalcinature 
e  crepacci,  e  traballa  stranamente. 

3  EU'  è  ecc.  È  una  camera  da  astrologhi,  per- 
chè, stando  in  essa,  posso  far  l'osservazione  delle 
stelle  dalle  buche  che  sono  nel  tetto. 

4  D'altro  che  di  mogli  ecc.  Sono  geloso,  mi 
studio  di  ripararmi  da'  pericoli  che  ci  sono  a 
star  qui. 

5  Si  frappon.  Vanno  dicendo  ,  Millantano.  Si 
duole  che   la  poesia  hji  perduto  ogni  credito  ,  e 


SONETTI.  145 

Facea  le  pietre  in  sul  muro  saltare: 
Questo  già  non  riesce  al  Beiinzone. 

Se  fussi  oggi,  e'  parebbe  el  bel  minchione, 
Se  credessi  di  suon  voler  pagare, 
Se  non  volesse  di  sua  man  murare, 
Portar  calcina  et  ancor  far  sabione. 

Un  dì  provai  con  versi  et  con  la  cetra  ; 
Suona  e  risuona,  e  la  pur  dolci  canti, 
Non  vidi  però  mai  muoversi  pietra. 

L' altro  giorno,  sonando  con  cantanti. 
Trovai  come  tal  grazia  oggi  s' impetra  : 
r  dissi  :  Or  questi  sono  i  veri  incanti. 

Se  '  ciel  e  tutti  e  Saoti 
Lo  dicessi n  per  certo,  noi  siam  chiari, 
Ch'  el  non  si  può  murar  senza  dinari. 

SONETTO  CXL. 

DOMANDANDO   UN    LOGIAMENTO    AL   BARGELLO. 

Stu  se' cortese,  o  dolce  mio  Barcello, 
Provedi  al  Belinzon  de  logiamento,  ' 

che  non  è  piti  efficace  come  ai  tempi  di  Anfione  ; 
e  che  adesso,  per  satisfare  a'bisogni  della  vita, 
ci  vogliono  denari,  e  non  versi.  Pare  che  il  poeta 
stesse  fabbricando  una  casa;  e  con  questo  scherzo 
di  Anfione,  che  ora  parrebbe  un  bel  minchione., 
chiedesse  di  traverso  denari  al  suo  signore, 

'  De  logiamento.  Certo  il  Beilincioni  scrisse 
d' alloggiamento j  e  questo  de  logiamento  è  un  re- 
galo fattogli  dall'editor  milanese.  Ora  la  edizione 
milanese  è  citata  dalla  Crusca:  registrerà  essa 
logiamento  per  voce  usata  dal  Beilincioni  ? 

10 


146  SONETTI. 

t 

D' un  letto  che  non  sia,  a  starvi  drento, 
Come  sta  ne  la  rete  el  figatello. 

E  non  mi  fare  star  come  uno  ucello 
'N  una  camera  a  gabbia  :  i'  ti  rammento, 
Come  di  state  è  bon  il  frescho  vento  : 
Però  non  mi  trattar  da  saccardello.  i 

S' el  te  avanzasse  qualche  scodellino, 
Dalo  a  me,  non  di  que'che  ti  dà  il  Duca; 
Pien  di  savor  tei  chiede  il  Fiorentino. 

Stu  mi  tien  V  animai  di  santo  Luca,  2 
Rispondo  :  E'  non  s' imbotta  chiaro  il  vino. 
Ma  il  tempo  par  che  chiaro  lo  conduca.  ^ 

Non  qualche  strana  buca 
Mi  dar,  che  per  discreto  pur  ti  predico. 
Con  qualche  ricco  prete,  o  magno  medico. 


1    Saccardello    Non  mi  trattare  come  se  fossi 
un  bagaglione,  o  un  uomo  vile  qualunque. 

2  Animai  di  santo  Luca.  Il  bue.  Il  popolo  dice 
scherzevolmente  1'  uccelUn  di  S.  Luca. 

3  Non  s' imbotta  ecc.  Il  mosto  si  chiarisce  col 
tempo.  Vuole  inferire  che,  se  ora  gli  sembra  uomo 
di  niun  conto  ,  a  poco  a  poco  lo  conoscerà  per 
da  qualcosa;  e  però  non  lo  tratti  senza  verun 
riguardo. 


SONETTI.  147 

SONETTO  CXLI. 
d'  una  trista  casa  quale  abitava. 

Una  casa  frappata  uso  abitare,  • 
Che  a  farvi  pure  uno  stranuto  drento  2 
Diresti  allora:  un  gran  tremoto  i' sento, 
Sì  forte  per  un'  ora  usa  tremare. 

Ogni  volta  che  v'  intro  i'  m'  ho  a  segnare, 
E  porto  sempre  a  lato  de  l'unguento: 
La  triema  come  foglia  ad  ogni  vento , 
Che  dove  nacque  Christo  è  meglio  stare.  3 

D'ape  e  di  ragni  casa  usa  parere, < 
Alla  spagnola  ancora  un  bel  giupone; 
Con  quatro  rave  si  fare'  cadere, 

El  tetto  aperto  par  proprio  un  mellone , 
Quando  è  piovuto  :  un  palco  è  da  temere 
Che  mi  par  porre  i  pie  su  n'  un  cannone, 

Habbi  compassione  : 
La  promessa  calcina  or  fa  che  abia 
Che  muri,  e  possi  uscir  di  questa  gabia. 


1  Frappata.  Che  pare  smerlata,  tante  sono  le 
sue  scalcinature,  e  le  crepe. 

2  Che  a  farvi.  Sta  sì  male  in  piede  ,  che,  fa- 
cendovi uno  starnuto,  traballa  tutta  come  per  tre- 
moto. 

3  Dove  nacque  Cristo.  In  una  stalla. 

4  D'  ape  ecc.  È  pieno  di  vespe  e  dì  ragni  : 
pare  un  giubbone  alla  spagnola  ,  tutte  toppe  e 
strappi:  gettandole  contro  quattro  rape,  si  atter- 
rerebbe. 


148  SONETTI. 

El  Belinzon  arabia 
Con  ratti,  con  zenzal  ;  ma  vo'  ti  dire  ' 
Ch'  i'  uso  con  la  maschera  dormire. 

SONETTO  CXLII. 

AL    SIGNOR    MARCHESE    CHIEDENDOGLI    PIETRE   E   CAL- 
CINA. 

Marchese,  Ovidio  ho  Ietto  per  piacere, 
Ov' è  più  d'una  sua  transmutazione: 
Dice  diventò  cervo  uno  Atteone  ; 
Et  come  Apollo  diventò  sparviere. 

Ma  tu  potresti  ben  farmi  vedere 
In  calcina  tornar  capra  o  capone,  2 
Questo  più  piacerebbe  al  Bellinzone  : 
Saresti  più  che  Ovidio  al  mio  parere. 

Se  la  dea  delle  vergin  mi  vuoi  dare 
In  casa  ho  cuore  che  farà  miraculo. 
Perchè  di  pietra  la  farà  tornare,  3 

Stu  mi  vedesti  in  un  certo  abitaculo 
Diresti  :  el  Bellinzon  un  santo  pare, 
Poi  che  allogiato  egli  è  'n  un  tabernaculo. 

'  Con  ratti  ecc.  Non  può  vivere  per  cagione 
dei  topi  e  delle  zanzare  ,  per  liberarsi  dalle  quali 
dorme  con  la  maschera  sul  viso. 

2  C'apra  0  capone.  Pare  che  gli  avesse  donato 
una  capra  e  de*  capponi,  cui  egli  vorrebbe  veder 
mutati  in  pietre  e  calcina  ,  volendo  murarsi  la 
casa,  perchè  egli  stava  a  disagio,  e  la  sua  casa 
pareva  un  tabernacolo. 

^  La  dea  delle  vergin.  Diana. 


SONKTTI. 


149 


Per  levar  ogni  obstaculo 
Air  intelletto,  se  non  m'  intendessi, 
Vorrei  calcina  o  pietre  tu  mi  dessi. 

SONETTO  CXLIII. 

DI  BERNARDO  BELLINZON  A  MESSEB  GIANPIERO  DA  GON- 
ZAGA PER  LA  MALATIA  DI  MESSER  FRANCESCO  FI- 
GLIUOL   DEL  SIGNOR  MARCHESE   DI    MANTUA. 

Leggiadro  spirto,  al  ciel  sempre  elevato, 
In  cui  natura  e  suoi  secreti  infonde, 
E  l'effetto  al  parer  sì  corrisponde. 
Che  per  te  il  secol  si  po'  dir  beato. 

Ma  qual  caso,  o  fortuna,  invidia  o  fato. 
Nel  suo  male  oggi  el  nostro  bene  asconde  ?  ' 
Qual  colpa  quelle  chiome  crespe  e  bionde 
Ha  d'  un  pallore  el  ciel  sereno  umbrato.  2 

Forse  le  Parche,  rigide  e  superbe, 
Penson  del  divo  erario  aver  la  spoglia. 
Per  porne  il  mondo  in  gran  miseria  e  lutto. 

Prima  del  verde  vedove  sien  1'  erbe 
Che  avara  morte  el  fiore  acerbo  coglia,  • 
Che  per  Esperia  serba  un  dolce  frutto. 


1  Nel  suo  male.  Modo  stranissimo  per  signifi- 
care che  egli,  a  cagione  della  malattia,  non  può 
operare  il   bene. 

2  Qual  colpa.  E  non  è  meno  strano  quel  cielo 
sereno  delle  chiome  fresche  e  bionde  ombrato  per 
qualsiasi  cagione. 


150  SONETTI. 

SONETTO  CXLIV. 

DI  MISSER  GIANPIERO  DA  GONZAGA  PER  RISPOSTA  A 
BERNARDO  BELLINZONl  DEL  PRECEDENTE  SONETTO 
E   PER   LE    MEDESIME   CONSONANZE. 

Facundissima  lingua,  ingegno  ornato, 
Diva  Musa  eh' ogu' altra  oggi  confonde, 
Che  chi  cercassi  al  mar  tutte  le  sponde 
Un  simil  Bellinzon  saria  trovato. 

Fortuna  invida  certo,  e  non  peccato, 
Turbò  r  ore  sue  liete  a  noi  gioconde, 
Ma  il  ciel  si  vergognò,  che  gonfiar  V  onde 
Vide  di  Manto,  e  ne'sospir  turbato. 

Le  Parche  volien  cor  le  biade  acerbe. 
Per  far  più  lieto  il  ciel  di  nostra  doglia 
Da  non  tenerne  mai  più  il  viso  asciutto; 

Ma  non  niai  più  per  noi  si  sentin  verbe, 
E  non  si  truovi  mai  ramo  con  foglia. 
Ch'i' perda  il  mio  Francesco,  il  mio  ben  tutto. 

ELEGÌA  FUNEBRE. 

PER  LK  MORTE  DEL  REVERENDISSIMO  MONSIGNOR  CAR- 
DINALE DI  MANTUA  FATTA  PER  ME  BERNARDO  BEL- 
LINZON FIORENTINO,  AL  MIO  ILLUSTRISSIMO  SIGNOR 
FEDERICO    GONZAGA. 

Piangi  el  tuo  stremo  danno,  o  bella  Esperia, 
Piangi,  Roma,  tu  piangi  o  sacra  e  alma. 
La  tua  ruina  e  l'ultima  miseria. 

Piangete  il  vostro  mal,  non  la  sua  palma. 
Che  riporta  nel  ciel,  onde  già  venne, 
Per  tórre  al  mondo  ogni  sua  grave  salma 


ELEGIA. 


151 


L' ingrata  e  per  lui  lieta  che  '1  sostenne 
Invida  terra  cel  nasconde  e  toglie, 
Ma']  ciel  dell'opre  sue  gli  à  fatte  penne  ^ 

Che  lassù  voli,  e  lui  lieto  si  scioglie,       * 
Dal  faticoso  incarco,  al  vulgo  caro: 
Onde,  si  volge  alle  sue  nude  spoglie,  2 

E  dice:  Or  m'è  palese  e  son  ben  chiaro 
Che'n  questa  altezza  al  cieco  viver  basso 
Ogni  suo  dolce  qui  s' appruova  amaro. 

Fu  ben  a  lui  il  morire  un  dolce  spasso, 
Che  mentre  visse  al  mondo,  eh'  ognun  preme. 
Prima  che  sazio,  del  ben  far  fu  lasso.  3 

Perduto  abbiàn  d' ogni  buon  frutto  il  seme, 
Lui  del  pianto  mortai  si  gode  e  galde,  * 
Che  '1  ciel  r  onora  e  giù  1'  abisso  il  teme. 

Piacciongli  ben  le  vere  eterne  laide 
Che'l  secol  porge,  e '1  tempo  non  l'oblia 
Veggiando  come  '1  ciel  tutto  ne  plalde. 


1  Ma  'l  ciel  ecc.  Il  cielo  ha  fatto  penne  delle 
sue  opere  ,  cioè  egli  per  i  suoi  meriti  è  volato 
al  cielo. 

2  Si  volge.  Egli,  cioè  la  sua  anima,  si  volge 
al  corpo  rimasto  privo  di  esso. 

3  Prima  che  sazio  ecc.  È  assai  felicemente 
trasportato  all'operare  il  bene,  ciò  che  fu  detto 
di  Messalina:  et  laxata  viris,  nondum  satiala  re- 
cessit. 

4  Gode  e  galde.  Anche  galde  è  1'  istesso  che 
gode  o  gaude  per  l'uso  che  si  fa  di  cambiare  in 
al  il  dittongo  au,  come  si  vede  dalle  due  seguenti 
rime,  e  in  altri  casi  infiniti. 


152  ELKOIA. 

Vide  Racchel  in  compagnia  con  Lia, 
Venir  con  masno  esercito  celeste 
Et  di  sé  far  qual  Paulo  od  Elia,  i 

0  ben  fatte  accoglienze  alte  et  oneste! 
Da  l'alme  che  or  lassìi  son  più  contente, 
Che  questo  in  ciel  nove  dolcezze  à  deste. 

«  Partito  se'  da  quella  cieca  gente  » 
Dicieno  ;  e  lui,  nel  suo  sommo  contento, 
D'  aver  voluto  più  viver  si  pente. 

Veni  Creator  Spiritus  concento 
Sentlan  fra  queir  angeliche  carole  ; 
Or  lunge  or  presso  come  voce  al  vento. 

Allor  come  infra  nube  appare  il  sole, 
0  lume  ch'alio  scuro  altrui  conforti. 
Per  piacere  a  colui  e' ogni  ben  vole; 

Come  chi  torna  da'  nimici  morti, 
E  parenti  s'  abbraccion,  cosi  Pietro 
Disse  :  0  salvo  figli uol  da'  camin  torti,  2 

A  te  concesse  il  Ciel  corpo  di  vetro, 
Ch'  a  scorger  questo  ben  ti  fé  men  velo , 
E  grazia  di  qua  su  per  te  ne'mpetro. 

r  t'  aspettavo  ben,  ma  con  quel  pelo 
Che'l  tempo  per  trist'  uso  al  mondo  inbianca; 
Ma  '1  sommo  camarlingo  del  Vangelo, 

Da  quella  vita  lacrimosa  e  stanca 
Ti  c»lse  acerbo  fior  in  far  quel  frutto 
Ch'alia  pace  del  mondo  al  secol  manca. 

1  Qual  Paulo  od  Elia.  Che  fu  rapito  al  terzo 
cielo,  e  r  altro  vi  sali  sopra  un  carro  di  fuoco. 

2  0  salvo  ecc.  O  figliuolo,  che  oramai  sei  sal- 
vo da' tortuosi  cammini,  e  pericolosi,  del  mondo. 


ELEGIA. 


153 


Perduto  ha  ben  il  mondo  il  suo  ben  tutto; 
Ma  tardi  in  el  suo  danno  il  suo  ben  vede 
Come  chi,  molle  in  mar,  piange  1'  asciutto, 

0  come  ciascun  san  quel  ben  non  vede. 
Ma  colla  carne  inferma  esalta  e  loda 
La  sanità;  che  spesso  indarno  chiede. 

E  però,  fìgliuol  mio,  fa  che  ti  goda, 
Che  giunto  hai '1  premio  d'ogni  tua  fatica: 
E  chi  si  lega  qui  mai  più  si  snoda. 

Fa  motto  a  Beatrice,  a  quella  amica 
Che  vien  con  quattro  tue  sorelle  donne, 
E  tacendo  in  nel  volto  par  che  dica  : 

0  palladio  del  ciel  non  d'EIionne!^ 
0  dolcissimo  mio  fedele  amico, 
Che  se'  salito  al  monte  di  Sionne, 

Specchiati  in  chi  purgò  1'  error  del  fico  ;  ^ 
E  vedrai  come  è  lieto,  e  quanto  e  dove 
El  tuo  famoso  padre  Ludovico. 

AUor,  come  a  sua  mira  i strai  si  move  ^ 
Subita  dalla  corda  e  dalla  noce  ; 
Al  padre  corse  eh'  era  intento  a  Giove. 


1  Elionne.  Tertulliano  ed  altri  scrittori  chia- 
mano Elaeon  il  monte  Olivete. 

2  Chi  purgò  ecc.  Adamo. 

3  Come  a  sua  ecc.  È  qui  copiato  Dante ,  il  quale 
in  giuntura  simile,  disse  : 

E  forse  in  tanto  in  quanto  un  quadrel  posa, 
E  vola,  e  daUa  noce  si  dischiava. 
Vidimi  giunto  ove  mirabil  cosa 
Mi  torse  il  viso  a  sé. 

La  noce  si  chiamava  quella  parte  della  balestra-, 


154  ELEGIA. 

E  come  uccel  coli'  alie  aperte  in  croce, 
Prese  splendido  volo  al  dolce  padre; 
Ma  la  letizia  a  lui  spense  la  voce. 

Corse  la  cara  sua  diletta  madre, 
Ch'  era  con  Magdalena  e  Marta  e  Anna 
Nelle  contemplation  che  son  le  squadre 

A  chi  misura  il  ciel,  se  non  si  inganna  : 
Intorno  eron  beati  attenti  come 
Furon  proprio  e  pastor  sentendo  Osanna. 

—  Come  sta  Federico,  a  cui  le  some  ' 
Lasciai  del  bello  stato  in  mezzo  1'  acque 

Che  della  Figlia  di  Tiresia  ha '1  nome? 

—  Quel  frutto  che  nel  fior  ascoso  giacque 
Sì  giusto  al  grado  tuo  successe  e  regna, 
Che  non  manco  di  te  si  loda  :  e  piacque, 

Tanto  coir  opre  del  ben  far.  Ne  insegna 
Giovan  Francesco  ancor,  Ridolfo  e  poi  2 
Ludovico  il  minor  non  manco  regna. 


simile  in  qualche  modo  a  una  noce  ,  fatta  di 
osso  ,  nella  quale  si  adattava  lo  strale,  per  poi 
scagliarlo.  Era  intento  a  Giove^  cioè  era  assorto 
nella  visione  beatifica  di  Dio. 

1  Federigo  ecc.  Federigo  Gonzaga,  a  cui  la- 
sciai il  governo  di  Mantova  ,  la  quale  siede  in 
mezzo  alle  aque.  Manto,  figliuola  di  Tiresia  ,  si 
favoleggia  che  fosse  la  fondatrice  di  Mantova. 

2  Giovan  Francesco  ecc.  Passa  in  rassegna 
tutta  quanta  la  famiglia  Gonzaga,  per  pigliarne 
occasione  a  celebrare  i  pregj  di  tutti,  uomini  e 
donne. 


ELEGIA.  155 

E  ben  nat'  alma  che  sie'  giù  fra  noi 
Ch'  un  fratel  delle  muse  il  fé  natura. 
Ecco,  Barbara  mia,  madre  di  voi, 

Che  la  fama  d'ogn' altra  adombra  e  scura; 
Vedi  con  lei  la  gemma  Mergherita, 
Che  pel  suo  Federico  ognor  procura; 

Che  '1  suo  sposo  diletto  a  ciò  la  invita. 

—  Tutti  contenti  star  posson  ;  ma  tristi, 
0  padre,  e'  son  di  mia  lieta  partita. 

Lasciando  io  1'  ossa  allor  che  tu  vestisti:  ' 

—  Temperi  il  nostro  bene  il  lor  merore, 
Che  lì  penson  tornato  onde  venisti 

Che  un  viver  di  mille  anni  son  poch'  ore, 

—  Usebio  or  come  sta,  quei  eh'  egli  elesse 
De'  suoi  primi  anni  giudicar  pel  fiore, 

Quel  buon  frutto  che  '1  ciel  per  lui  concesse  ? 

—  Un  mecenate,  padre,  è  con  Ottavio  : 
Umanità,  virtù,  fede  son  desse, 

Le  chiavi  che  gli  ha  in  man  del  suo  conclavio. 
La  'nvidia  eh'  assai  nuoce  mai  V  offende, 
Ch'  un  segno  in  Federico  è  ben  di  savio. 

—  Dimmi,  figlio,  in  Italia  or  che  s' attende  ? 
Ha  fuoco  e  morte  e'  par,  secondo  i  piànti. 
Tu  '1  sai  :  fuggite  ò  qui  trabacche  e  tende  2 

i Lasciando  io  l'ossa  ecc.  Cioè  morendo.  L'ossa 
che  tu  vestisti,  arieggia  quel  de' figliuoli  di  Ugo- 
lino che  dissero  : 

tu  ne  vestisti 

Queste  misere  carni,  e  tu  le  spoglia. 

2  Questa  terzina  debb'essere  tutta  errata;  né 
so  cavarne  costrutto. 


ISC)  ELEGIA. 

—  E  superbi  Anterior  nuovi  elefanti  ' 
Scorron  come  pirati  per  Italia, 
Per  isposarla  e  sol  con  diamanti. 

Pure  a  mudar  comincion  già  neiralia 
Per  salute  d'Esperia  e  de' suoi  regi, 
Che  r  aman  come  madre,  dona  e  balia. 

El  bacul,  la  corona,  el  segno,  e'  fregi 
D'Italia  in  man  l'ha  Federico  nostro: 
E  par  ben  che  per  lui  s' addomi  e  pregi  : 

Ma  nel  suo  bel  terren,  che  fu  già   vostro 
In  placida  quiete,  in  dolce  sonno, 
liO  destoron  che  '1  fuoco  all'  acqua  in  chiostro  2 

Non  danno  e  savj  far  sempre  quel  ponno, 
Che  chi  tribula  altrui  se  non  riposa; 3 
Ma  '1  tutto  alfin  corregie  il  sommo  donno. 

E  per  che  infra  le  spin  si  sta  la  rosa. 
Spesso  la  man  ritorna  indrieto  punta; 
Che  ingiustamente  offendere  è  gran  cosa. 

Ma  tu,  anima  eletta,  al  ciel  assunta 
Che  se'  del  nostro  pianto  oggi  contenta, 
Non  fia  dal  tempo  tuo  fama  defunta. 

Sicome  la  Fenice  s'argumenta 
Di  sé  rinascer,  così  vecchia  fama 
Sempre  per  suo  valor  viva  diventa. 


-1  Antenor.  Parla   de' Veneziani,  che  origina- 
rono da  Padova,  fondata  da  Antenore. 

2  II  fuoco  all'acqua  ecc.  Così  ha  la  stampa; 
ma  non  so  levarne  costrutto. 

3  Chi  tribula  ecc.  Questo  dettato  è  vivo    tut- 
tora sulle  labbra  del  popolo. 


ELEGIA. 


157 


Odi  Mantua  tua,  che  ognor  ti  chiama, 
Odi  il  clamor  da  intenerirne  e  marmi, 
E  come  il  volto  a  lacrime  ricama.  ' 

Francesco  sacro,  or  fa  che  non  rispiarmi  ^ 
E  prieghi  or  costassù  pel  dolce  sposo 
Della  patria  tua,  che  onora  T  armi  ; 

Che  V  ultima  speranza  è  del  riposo, 
Per  quella  carità,  pel  dolce  affanno, 
Ch'  avesti  a  quel  paese  lacrimoso, 

Ch'  era  si  presso  all'  ultimo  suo  danno. 
Priega  or  per  quella  eh'  è  'n  su  Tacque  tebre, 
Che  per  suo  ben  t'  amava  al  santo  scanno. 

Or  col  pianto  convien  che  ti  célèbre 
Dorma  in  voi  T  armonia,  o  cieli  alquanto  ^ 
Air  immensa  mestizia,  al  gran  funebre, 

Al  dolor  ch'ai  morir  non  fìa  già  tanto. 
Che  bisogn'  altro  or  eh'  a  pietà  vi  muovi 
Che  '1  nostro  eterno  e  miserabil  pianto? 


'  Il  volto  a  lacrime  ecc.  Stranissima  idea,  che 
sembra  che  non  dispiacesse  al  Salvini,  il  quale 
postillò  ;  «  Ricamare  il  volto  colle  lacrime , 
quasi    con  perle.  » 

2  Francesco  sacro  ecc.  Ora  si  volge  al  Cardi- 
nale, e  lo  prega  che  preghi  per  il  suo  paese  ;  e 
per  la  città  di  Roma  (che  è  sull'acque  tebre),  la 
quale  avrebbe  desiderato  di  vederlo  Papa. 

3  Dorma  in  voi  ecc.  Vuole  che  per  la  gran 
mestizia,  e  per  il  gran  funerale  taccia  l'armonia 
delle  sfere  superne  ;  e  dice  che  i  pianti  de'  buoni 
Mantovani  debbano  essere  sufficienti  a  muover  la 
loro  pietà. 


158  ELEGIA. 

Tu  natura  che  'udarno  a  far  ti  pruovi 
Fra  mille  e  mille  seculi  un  tal  viro, 
Sdegnati  or  sì  eh'  un  simil  più  si  truovi. 

Sua  morte  al  secol  d'  oggi  è  un  martire, 
Ma  certi  sian  eh'  ogn'  uman  certo  è  dubio. 
Poi  che  s'  è  spento  un  sol  con  un  sospiro.  ' 

Era  per  Cloto  assai  tela  in  sul  subio  ;  2 
Speranza  della  sua  dolce  famiglia. 
Che  resta  a  far  di  lacrime  un  Danubio 

Or  soD  qual  di  Latona  è  poi  la  figlia  3 
Quando  ha  perduto  '1  sol  :  tal  son  costoro  ; 
0  qual  cieco  con  cieco  si  consiglia. 

Non  speri  el  mondo  or  più  T  età  dell'  oro, 
Poi  che  'n  terra  è  caduto  il  nostro  tempio, 
Ma  solo  oblivìon,  pianto  e  martoro. 

Strema  miseria,  e  viver  cieco  e  empio. 
Che  piacere  e  nel  mondo  a  tanto  inferno  ? 
Mostra  Cerere  or  segno  al  mondo  essempio,  ^ 


1  S'è  spento  un  sol.  Questa  è  proprio  da  Achil- 
linì. 

2  Era  per  Clolo  ecc.  Il  Cardinale  mori  molto 
giovane;  ed  il  poeta  vuol  che  si  faccia  un  Danu- 
bio di  lacrime  ! 

3  Son  qual  di  Latona  ecc.  Sono  come  è  la 
luna,  quando  ha  perduto  il  sole,  cioè  quando  è 
ecclissata. 

4  Mostra  Cerere.  La  terra  non  dee  piti  produrre 
biade:  non  dee  piU  adornarsi  di  fiori:  gli  uc- 
celli non  debbono  piU  cantare  ;  insomma  il  mondo 
debb'essere  tutto  una  moria  per  la  morte  di  que- 
sto Cardinale. 


ELEGIA. 


159 


In  far  digiuno  il  tuo  seno  in  eterno  : 
E  tu,  Flora,  che  '1  mondo  tanto  onori. 
Noi  vestir  mai  più  d'altro  or  che  d'un  verno 

Lasciando  in  nelle  spin  dormirsi  i  fiori, 
Et  voi,  monti  superbi  o  selve  o  petre. 
Pietà  vi  muova  a'  funeral  dolori, 

Come  già  vi  movesti  all'  altrui  cetre. 
Filomena  non  fia  più  in  verdi  rami, 
E  le  fredde  spelonche  oscure  e  tetre 

Saran  teatri  a  molti,  anzi  reame; 
Le  querce,  che  dovien  sudare  il  mele, 
Stillono  assenzio:  or  chi  sarà  che  l'ami? 

E  la  vigna  d' Iddio,  già  piange  '1  fele 
Di  che  il  mondo  convien  sempre  si  pasca. 
0  pietosa  a  lui  morte  a  noi  crudele  ! 

Sì  come  un  fior  da'  rami  a  terra  casca 
Dipose  il  suo  bel  vel  la  ricca  soma. 
Onde  imortal  convien  e'  oggi  rinasca, 

Non  con  furor  d'  un  vento  che  la  chioma 
Tronchi  d' un' alto  pino,  abete  o  rovero. 
Ma  proprio  come  il  Sol  un  bel  fior  doma. 

Chi  potrà  dir  nel  mondo  oggi  m'  anovero 
Di  questi,  in  nel  presente  o  nel  preterito, 
Che  fanno  ricco  il  ciel  e  '1  mondo  povero  ? 

L'  ultimo  el  primo  sia  dir  non  mi  perito, 
Come  '1  cigno  da  noi  s'  uso  partire 
Che  vide  aperto  il  ciel  ;  e  ben  è  merito. 

Chi  pensa  al  ver,  quel  ch'io  scrivo  '1  può  dire  : 
Quanto  di  lui  natura  or  fu  magnanima 
Tanto  fu  morte  avara  e  lui  fruire  ; 

E  vede  il  sumnio  ben  vita  dell'anima. 


160  ELEGIA.  '1 

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ELEGIA  FUNEBRE  l 

i 

PER   LA    MORTE    DI   GIULIANO    DI    MEDICI.!  ì 

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1 

! 

Poi  che  morte  Giuliano  ha  fatto  vivo,  ; 

Per  l'opere  di  lui,  che  fanno  fede 
Di  quel  che  lieto  lagrimando  scrivo, 

Non  pianger,  bella  donna,  che  non  chiede  ' 

A  te  benigna  lacrime  o  sospiri,  \ 

Poi  che  salito  al  ciel  oggi  si  vede. 

E  voi,  padri  diletti,  e  grati  viri  i 

Di  voi  piangete,  che  non  siete  isciolti  ^ 

Come  costui  dal  mondo  e  suoi  martiri.  ; 

Non  è  debito  il  piangere  agli  stolti,  j 

Come  a  sacri  pensando  lor  salute 
Pe'  lieti  giorni  all'  età  nostra  tolti.  ' 

Perduto  è  '1  premio  de  l'altrui  virtute  \ 

Vera  dolcezza  d' ogni  amaritudine  i 

Da  farne  contra  Scipio  ancor  dispute. 

Mecenate  a  virtù,  sua  gratitudine  i 

Trojan  che  '1  figlio  die'  per  la  giustizia;  \ 

Ma  spento  ha  più  d*  un  sol  ingratitudine.  \ 

Fiorì  ben  1' arbor  de  l'altrui  malizia; 
Ma  '1  suo  ultimo  fin  non  vede  il  frutto,  > 

Per  non  patire  il  Ciel  tanta  ingiustizia, 

Perchè  invidia  e  superbia  abbraccia  il  tutto.      | 


1  Giuliano.  E  quel  Giuliano,  fratello  del  Ma-  i 
gnifico  ,  che  rimase  ucciso  nella  Congiura  dei  ^ 
Pazzi. 


ELEGIA.  161 

Né  può  contento  stare  a  quel  che  basta 
Ogni  stato  che  bello  a  sé  fa  brutto.  ' 

Chi  descrive  Fortuna  ove  coatasta,  ^ 
A  questa  volta  la  confessi  Iddio 
Che  sì  gran  tela  in  poco  tempo  ha  guasta. 

Benigno  popol,  di  le  fusti  pio 
Salvando  al  Lauro  tuo  fresche  le  foglie, 
Sotto  lo  qual  si  quieta  ogni  desio  ^ 

0  Roma,  di  Pluton  novella  moglie, 
Questi  adottivi  tuoi  malvagj  figli 
Saranno  ancor  ministri  di  tue  doglie.  •* 

Tu  sola  Babilonia  oggi  simigli. 
Piena  di  tigri  velenosi,  o  serpi  ; 
Che  orto  non  se'  piiì  di  rose  e  gigli , 

Ma  folto  bosco  pien  di  pruni  e  sterpi; 
Ghiotta  del  sangue  della  carne  umana 
Te  propria  pugni,  e  già  non  gli  disterpi. 

Tu  se'  fatta  di  lupi  una  lor  tana, 
El  dir  longo  di  te  poco  sarebbe 


1  Che  bello  ecc.  Ciascuno  stato  che  preferisce 
il  brutto  al  bello,  cioè  l'operar  vizioso  al  vir- 
tuoso ,  non  può  rimaner  contento  a  ciò  che  è  ba- 
stante  al  ben  vivere. 

2  Chi  descrive.  Coloro  che  descrivono  gli  av- 
versi casi  di  fortuna. 

3  Lauro.  Lorenzo  fu  salvato  dal  furore  de'con- 
giurati. 

■♦  0  Roma  ecc.  Chiama  Roma  moglie  del  diavo- 
lo, perchè  la  congiura  contro  Giuliano  e  Lorenzo 
fu  ordita  là  ,'  non  senza  il  consenso  del   Papa. 

11 


162  ELEGIA. 

Espulsa  dal  bel  tempio  di  Diana.  ' 

Qui  Costantin  riprender  si  potrebbe 
Che  alla  Chiesa  di  Dio  fece  la  dota, 
Per  i sposarla  a  chi  '1  ben  far  rincrebbe. 

Poseti  Cristo  povera  e  devota, 
E  non  ambiziosa  et  arrogante, 
Colma  di  crudeltà  di  pietà  vota. 

Di  te  ne  scrisse  già'l  Petrarca  e  Dante; 
Pensando  esser  tu  capo  de'  Cristiani, 
Son  queste  adonque  V  opere  tue  sante  ? 

Così  Pilato  si  lavò  le  mani  ; 
Ma  ben  può  dir  quando  col  ver  ti  strigni: 
Or  che  hanno  meco  a  far  gli  stati  umani? 

Ma  siete  in  carne  spiriti  maligni, 
Sinagoga  scismatica  per  Cristo, 
Quel  che  par  ben  di  te,  è  che  tu  '1  figni. 

Lupa  coperta  col  mantel  di  Cristo, 
Ha'  tu  ben  letto  e  'nteso  il  testamento 
Che  'n  croce  ti  lasciò  morendo  Cristo  ?  2 

Disse  che  al  caldo,  al  freddo,  all'acqua,  al  vento, 
Povera,  scalza,  ignuda  infra  gli  stecchi, 
Al  pan  contenta  e  liquido  ariento. 


1  Espulsa  dal  bel  tempio  ecc.  Diana  si  inten- 
de qui,  non  solo  per  la  castità,  ma  per  l'onestà 
in  generale. 

2  Che  'n  croce.  Cristo  fino  all'  ultimo  sospiro 
raccomandò  la  povertà  a' suoi  seguaci,  per  che 
Dante,  parlando  di  essa,  scrisse:  ] 

E  là  dove  Maria  rimase  giuso,  \ 

Ella  con  Cristo  salse  in  sulla  croce.  i 


BLEGIA.  163 

Tu  scemi  di  bontà  quanto  più  invecchi, 
Per  te  la  fede  e  'I  ben  viver  si  spegne 
Como  Giuda  Gesù  baciando  lecchi. 

Ma'l  traditor  de  le  nimiche  insegne, 
Come  giustizia  vuole,  a  noi  si  scopre 
Per  iscaldarsi  al  fuoco  di  tue  legne. 

Quanta  grazia  dal  Ciel  per  te  si  copre  ! 
Colla  ragione  a'  buoni  el  ciel  prometti, 
A'  cattivi  Io  'nferno  ;  e  tu  colf  opre 

Non  credi  già  più  su  eh'  e  nostri  tetti  :  ' 
Doman  peggio  farai  che  oggi  o  ieri; 
Che  nel  mal  fare  hai  posto  e  tuoi  diletti. 

Cavalca  pur  con  diavoli  staffieri, 
Non  può  morir  chi  ben  vivendo  muore, 
Né  par  che  '1  Ciel  giusta  vendetta  speri. 

Diciàn  quel  ch'agii  Dei  or  disse  Amore: 
Venite  a  pianger  meco  quel  sepolto, 
Che  ci  ha  fatto  nel  mondo  tanto  onore. 

Morte,  eh'  ogni  suo  ben  a  Delfo  ha  tolto,  2 
Signor,  Laura  disse  e  Beatrice, 
Sacrato  ha  '1  nostro  sol  nel  suo  bel  volto. 

D'  un  collegio  di  ninfe  non  si  dice 
El  mormorio  pietoso  e  le  parole 
Mostrando  el  viver  lor  sempre  infelice. 


'  Non  credi  ecc.  Anche  adesso  a  chi  non  crede 
nelle  eterne  verità,  si  dice  comunemente:  Non 
crede  dal  tetto  in  ecc. 

2  Ogni  suo  ben.  Giuliano,  ucciso  nella  congiu- 
ra,  si  dilettò  di  poesia. 


164  ELEGIA. 

E  pur  dieien  come  annaffiar  si  vuole 
Colle  lacrime  tante  el  secco  ulivo, 
Che  torni  verde,  poi  eh'  ognun  si  duole. 

Quivi  è  Giunon,  che  pensa  di  far  vivo 
Questo  lampo  divin,  che  morte  ha  spento, 
E  'n  sul  fiorir  degli  anni  è  fatto  vivo. 

E  posono  in  silenzio  ogni  concento 
Armonico  le  sfere,  e  quasi  voglia  ^ 
Ebbe  segno  mostrar  1'  alto  elemento. 

Sospirando  dirò  l' immensa  doglia 
Del  fìgliuol  di  Latona  sopra  '1  sasso 
Che  d' un  celeste  asconde  la  sua  spoglia. 

Dicea:  Perduto  ha'l  mondo  ogni  suo  spasso, 
Le  benigne  accoglienze  oneste  e  grate, 
Come  ogni  nostra  gloria  è  in  tutto  al  basso. 

Fu  '1  foco  el  verno,  e  '1  bon  fresco  di  state  ;  2 
Fondate  or  le  speranze  in  su  la  rena, 
Che  vostre  ore  tranquille  son  passate. 

Prego  el  ciel  che,  per  minor  mia  pena, 
Convertisca  sua  spoglia  in  verde  alloro, 
E  di  me  facci  nova  Filomena,  3 

Ch'  i'  canti  in  su  que'  rami  el  mio  raartoro , 
E  quanto  fur  crude!  le  Parche  avare 

1  E  qvasi  ecc.  L'elemento  piti  alto,  su  dal 
cielo,  ebbe  quasi  voglia  di  farne  segno,  fulmi- 
nando i  rei. 

2  Fu  'l  foco  ecc.  Tutti  consolava,  tutti  soccor- 
reva. 

^  E  di  me  ecc.  Strana  idea  è  questa  di  voler 
esser  convertito  in  usignuolo,  per  cantar  ne'rami 
di  quel  lauro. 


ELEGIA.  105 

A  tórre  a  la  sua  patria  un  tal  tesoro. 

El  turbar  del  tranquillo  e  lieto  mare. 
Ma  già  non  faccion  male  a  por  silenzio 
A'  pili  bizzarri  venti  e  que'  fermare. 

El  miei  fu  temperato  con  assenzio  ; 
Ma  per  util  di  noi  e  per  sua  gloria, 
Triunfante  è  pur  vivo  Laurenzio. 

0  poca  nostra  vita  transitoria  ! 
Chi  può  dire  :  V  sarò  com'  i'  fu'  dianzi  ? 
Di  quel  eh'  è  stato  appena  s'  ha  memoria. 

Volgiti  indietro,  e  vederai  dinanzi. 
Che  son  poche  ore  un  viver  di  mill'  anni, 
E  tu  credi  che  '1  tempo  qui  t'  avanzi  ! 

El  vivere  è  ben  lungo  a  tanti  inganni  ; 
Ma  certo  all'emendar  con  diligenzia 
Per  far  che  l'alma  torni  a'  sorami  scanni. 

Dianzi  vidi  ogni  gloria,  ogni  eccellenzia; 
Dianzi  il  vidi  fuggir  per  sempre  altrove; 
Dianzi  lieto  da  noi  prese  licenzia. 

Se  '1  ben  si  premia,  noi  sappiàn  pur  dove 
Si  ritrova  Giulian,  che  morto  vive: 
Vezzeggiato  è  nel  ciel  a  pie  di  Giove. 

0  moderne  eloquenzie  oneste  e  dive. 
Onorate  colui  che 'n  ciel  s'onora; 
Che  sua  gloria  ama  chi  ben  il  ver  scrive. 

Quanti  saran  dopo  mill' anni  ancora 
Che  diranno  :  0  beato  a  quel  che  '1  vide, 
Poi  che  di  lui  chi  n'  ode  s' innamora, 

Per  cui  '1  secol  ne  piagne,  e  '1  Ciel  ne  ride  ! 


166  SONETTI. 

SONETTO  CXLV. 

PBR  UNA  BELLA  CACCIA  CHE  FECE    IL   DUCA    DI    MILANO. 

FortuDati  e  felici,  o  gran  cignali, 
Che  a  Giovan  Galeazzo,  almo  signore. 
Di  vostra  morte  avete  fatto  onore , 
Pensando  a  questo  vivere  immortali,  ' 

Dulci  vi  parvon  quegli  acuti  strali, 
Anzi  porgevi  a'  duri  colpi  il  core, 
E  lieti  come  'I  cigno  eri  al  dolore. 
Gustando  aver  pel  Duca  i  dulci  mali. 

Gloriosa,  felice  e  bella  preda, 
Che  Giovan  Galeazzo  arreca  seco, 
Gran  segno  di  futura  alta  vittoria. 

Que'  fidi  servitor  che  furon  teco 
Ciascun  dice  che'l  ciel  vuol  che  si  creda 
Che  tu  d'Italia  se' la  prima  gloria. 

SONETTO  CXLVI. 

AL  SIGNOR  LUDOVICO  IL  QUALE  DOMANDÒ  IL  POETA  CHE 
AMANDO  UNA  COSA  MEN  BELLA  D'un'aLTRA  ,  E  PURE 
IL    CUORE   NON    SI  PARTE. 

El  bel  viso  e  le  chiome  crespe  e  bionde, ^ 
E  dulci  modi  e  V  amorosa  fede , 


1  Fortunati  ecc.   O  pazzo  d'un  poeta!   i  ci- 
gnali hann'  a  esser  felici  perchè  gli  ha  morti  il 
Duca!   Tutto   il  sonetto  ha  stramberìe  di  questo 
gusto,  e  volgari  frasi  di  adulazione. 

2  Et  bel  viso  ecc.  La  domanda  è  sottile  :  «  Per- 
chè tutte  quelle  bellezze  e  nobili  qualità  di  una 


SONKTTI.  167 

A  quel  che  l'intelletto  elegge  e  chiede, 
Perchè  fan  che '1  contrario  el  cor  risponde? 

Come  gran  luce  raen  veder  ne  infonde 
Così  che  U  tutto  amor  d'altrui  possiede, 
Aggiunto  a  quel  che  dentro  al  suo  cor  siede 
Quasi  due  forze  una  ragion  confonde. 

Ma  non  ragion  per  l' ignorar  confusa: 
Sol  cognosciuto  ben  suo  dolce  errore 
Conformità  del  Ciel  forse  ne  scusa. 

Ancor  V  imperio  in  noi  tien  di  signore 
Che  tanto  quanto  e' vuol  comanda  et  usa; 
E  questo  colpo  par  d'un  gentil  core. 

SONETTO  CXLVII. 

AMATORIO.  ' 

Se  quella  luce  ancor  risplende  al  core, 
Né  son  r  antiche  e  calde  fiamme  spente, 
S'  e  dulci  sguardi  ancor  hai  nella  mente, 
Spera  cor  frutto  de  l'antico  fiore. 

Se  sperando  si  medica  un  dolore. 
Dico  eh' un  gentil  cor  mai  non  si  pente, 
Benché  si  trovi  con  amor  dolente, 
D'aver  seguito  el  dolce  amaro  amore. 

donna,  la  quale  l'intelletto  ci  insegna  ad  eleg- 
gere e  a  desiderare,  il  cuore  poi  non  le  deside- 
ra? »  Ma  la  soluzione  della  domanda  ò  stirac- 
chiata e  oscura. 

1  Sonetto  facile  e  piano;  ed  anche  di  assai 
gentile  fattura.  Il  verso  dodicesimo  è  imitazione 
del  verso  del  Guinicelli:  Al  cor  gentil  ripara  sem- 
pre Amore. 


168  SONETTI. 

La  luce,  che  già  vinse  gli  occhj  tuoi, 
E  l'alto  tuo  intelletto  ir  fece  umile, 
Di  lucido  oriente  a  te  si  serba. 

Ma,  se  Amor  vive  e  regna  in  cor  gentile, 
Contempla  dove  lucen  gli  occhj  suoi, 
E  finge  veder  lei  fra'  fiori  e  V  erba. 

SONETTO  CXLVIII. 

AL   CONTE    DI   GAJAZZO    IN    LAUDE   DI   MADONNA  LUCIA. 

Quel  chiaro,  divo  e  novo  dolce  sole 
Gli  occhj  miei  vince  or  sì,  che  di  paura 
Mi  cinge  el  cor,  e  Febo  adumbra  e  scura, 
E  per  vergogna  fugge  onde  uscir  suole. 

Poi  de  la  nova  luce  escon  parole 
Che  r  umano  intelletto  or  non  misura: 
Questo  è'I  primo  miracol  di  natura, 
Si  che'l  ciel,  che  non  V  ha  seco,  or  si  duole. 

Con  lira,  o  conte,  del  mio  basso  ingegno  ' 
Salir  non  posso  a  sì  alto  suggetto: 
Converria  quel  che  già  scrisse  di  Troja,  ^ 

Sua  beltà,  sue  parole  e  suo  intelletto 
Mostron  ben  che  di  Giove  è  la  sua  gioja, 
E  gloria  al  mondo  che  di  Lei  fu  degno. 


1  Con  lira.  Cioè  con  la  lira;  o  forse  il  Poeta 
scrisse  :  con  V  ali. 

2  Quel  che  già  ecc.  Cioè:  Ci  vorrebbe  Omero 
per  cantar  lodi  degne  di  madonna  I^ucia. 


SONETTI.  169 

SONETTO  CXLIX. 

ALLA   DUCHESSA    ISABELLA  IN   NOME   DEL   DUCA. 

Sarebbemi  ogni  riso  amaro  pianto, 
Ogni  riposo  mi  sarebbe  affanno, 
Ogni  utile  et  onor  vergogna  e  danno , 
Avendo  io  sete  il  mar  non  sare'  tanto  ; 

Parrebbemi  un  inferno  il  Regno  Santo, 
Un  millesimo  d'ora  sempre  un  anno; 
Ogni  gran  fedeltà  perfido  inganno, 
E  lamento  mortale  un  dolce  canto  ; 

El  certo  dubbio,  el  verno  primavera, 
E  vera  pace  manifesta  guerra, 
E  notte  oscura  a  noi  tornato  el  sole. 

Se  quella  che'l  mio  cor  nel  grembo  serra, 
Dulce  Isabella,  in  cui  mia  vita  spera, 
Negassi  a  me  le  sue  dolce  parole. 

SONETTO  CL. 

ALLA    DUCHESSA   ISABELLA   IN  NOME   DEL    DUCA. 

Tanto  dolor  di  te  mio  cor  sostiene, 
Dulcissima  Isabella,  o  vero  amore. 
Che  più  m'  attrista  questo  tuo  dolore, 
Che  non  m'allegra  nessun  altro  bene. 

Quando  i  begli  occhj  tuoi,  stelle  serene. 
Coi  miei  si  scontron,  sento  un  tale  ardore 
Ch'  i'  lacrimo  e  suspiro  dentro  al  core 
Per  la  pietà,  che  sol  di  te  mi  viene. 

Quando  i'  ti  stringo  come  strinse  Apollo 
La  cara  amata  sua  conversa  in  lauro, 
Allor  lo  spirto  mio  vive  in  tuo  petto. 


170  SONETTI. 

Ma  i  dulci  rami  tuoi  piega  al  mio  collo,  ' 
Che  Amor  facci  di  noi  più  el  nodo  stretto, 
Sendo  Isabella  mio  vero  tesauro. 

SONETTO  GLI. 

DEL    DUCA    ALLA.    DUCHESSA,    PARTENDOSI    DA   MILANO 
SENZA   LEI. 

Dulce  Isabella  mia,  s'i'sono  assente 
Da  te,  sempre  in  tue  man  lassato  ho  il  core, 
Che  il  dì  eh'  i'  '1  vidi  acceso  del  tuo  amore, 
Volentier  te  ne  feci  un  bel  presente; 

Però  tei  raccomando,  e  sia  alla  mente 
Veggendo  or  T  amoroso  suo  dolore  : 
Che  giova  senza  el  frutto  un  vago  fiore  2 
Noi  sa  se  non  colui  che  d'amor  sente. 

Ma  la  penna,  e  lo 'nchiostro  e  le  parole, 
Mi  faranno  parer  sempre  con  teco, 
E  dolce  il  sonno  in  nel  sognar  tuo  nome. 

El  barba  nostro  a  me  dice  :  -^  E'  mi  duole. 
Quando  Isabella  e  tu  non  sete  meco 
Viver  non  so  ;  ma  tu  senza  Lei  come  ? 


1  /  dulei  rami  tuoi-  Qui  sono  le  sue  braccia; 
ma  le  chiama  rami  per  rispetto  a  Dafne  cam- 
biata in  lauro,  e  da  lui  ricordata  innanzi. 

2  Che  giova  ecc.  Allude  alla  sua  lontananza, 
dicendo  che  poco  gli  giova  il  volerle  bene  e  il 
saperla  sua,  non  potendone  goder  la  presenza. 

3  El  barbQ'  Lo  zio,  cioè  il  signor  Lodovico. 


SONETTI.  171 

SONETTO  CUI. 

DEL    DUCA   ALLA    DUCHESSA. 

Solieno  i  boschi,  le  campagne,  e  i  fiumi, 
E  le  riviere  a  me  dar  gran  diletto; 
Ma  quei  piacer  mi  sono  ora  in  dispetto, 
Poi  che  veggio  Isabella  e  i  dui  bei  lumi. 

Tu  sola  dolce  al  mondo  mi  consumi 
Con  le  guance  di  rose  e  neve  il  petto. 
Con  tue  grate  accoglienze  e  tuo  intelletto, 
Con  celeste  parole  e  bei  costumi. 

Or  vendicate  son  tutte  le  fere  ^ 
Ch'  i'  presi  mai,  o  detti  a  lor  ferita. 
Che  me  veggion  ferito  in  mezzo  el  core; 

E  porterò  tal  piaga  all'  altra  vita  : 
Ma  questa  doglia  a  me  si  fa  leggere, 
Che'n  un  bel  nodo  ci  costringe  amore. 

SONETTO    CLIII. 

DEL  DUCA  A  MADONNA. 

0  belle  labre,  di  rubin  colori. 
Lingua  che  formi  sì  dolce  paróle, 


1  Or  vendicate.  Né  questa  delle  fiere  ohe  sa- 
ranno vendicate,  è  minore  stranezza  dell'  altra 
delle  fiere  che  avevano  a  star  contente  di  es- 
sere uccise  dal  Duca.  Questi  sonetti  amorosi , 
scritti  a  nome  del  Duca,  son  pieni  di  freddure  ; 
e  mostrano  che  chi  scrive  senza  sentir  esso  1'  a- 
raore,  dà  sempre  in  cenci. 


172  SONIiTTI. 

Che  rompi  i  marmi  e  fa' scurare  el  sole, 
Fiato  che  vince  tutti  i  buoni  odori.  ' 

Sputando  in  terra  quivi  nascon  fiori, 
Como  di  primavera  le  viole: 
E  denti  perle  sono  al  mondo  sole, 
Che  spengon  tutti  gli  altri  gran  tesori. 

Sì  ben  composta  è  la  tua  bocca  insieme 
Che  grata  a  me,  parlando,  o  con  silenzio. 
Come  r  acconci  sempre  a  me  più  piace. 

Ma  i  baci  son  di  certo  dolce  un  seme, 
Ch'  ogni  altro  dolce  mi  par  tutto  assenzio  : 
Senza  te  dunque  ogni  altro  ben  mi  spiace. 

SONETTO  CUV. 

PARLA  IL  DUCA  ALLA  DUCHESSA. 

E  drappi  d'oro  e' ricchi  diamanti, 
E  rubini  e  le  perle  e  gli  ornamenti , 
Da  tuoi  begli  occhj ,  più  che'l  Sol  lucenti, 
Si  veggion  vinti  e  spenti  tutti  quanti. 

Però  ti  baston  quei  doi  lumi  santi 
A  fare  i  miei  di  te  lieti  e  contenti, 
Che  umano  ingegno  o  forza  d'elementi  , 
Non  posson  darti  i  don  che  teco  hai  tanti  : 

Così  le  gemme  piangon  lor  vergogna 


l  Fiato  che  vince  ecc.  Vedi  la  nota  al  sonetto 
precedente  :  è  poi  contrario  al  senso  comune  il 
quinto  verso  dello  Sputare  in  terra  e  far  nascer 
fiori. 


SONETTI.  173 

Quando  al  ])el  collo  tuo  di  rose  e  neve 
Pardon  come  vii  cosa  di  natura.  ' 

Aver  di  lor  pietà  dunque  si  deve, 
Ma  di  me  prima,  perchè  più  bisogna  :  2 
Se'l  cor  mi  hai  tolto,  a  te  resta  la  cura. 

SONETTO  CLV. 

DKGLl   OCCHJ    E   DEL    CUORE. 

Occhj  miei  tristi,  miseri  e  dolenti, 
Perchè  piangete  voi?  Qual  legge  il  vuole? 
Naturalmente  questo  esser  pur  suole 
Ch'  un  bel  viso  vi  fa  lieti  e  contenti.   — 

El  nostro  pianto  è  sol  pei  gran  lamenti 
Del  miser  cor,  che  sol  di  noi  si  dole, 
Perchè  noi  demmo  el  passo  onde  intrò  el  sole, 
Che  rinfiammò  con  dui  be' lampi  ardenti.  — 

Se  pietà  bene  a  voi  ministra  il  pianto, 
Questo  al  misero  cor  gli  giova  poco. 
Perchè  apristi  al  nemico  suo  le  porte. 

Quel  che  a  voi  piacque  a  lui  piacque  poi  tanto, 
Che  fu  tutto  esca  all'amoroso  foco.   — 
Che  colpa  abbiàn  se  dette  albergo  a  morte? 


1  Ferdon  come  vii  cosa.  Le  gemme  scompa- 
riscono (pèrdono)  al  confronto  del  bel  collo.  Iper- 
boli puerili. 

2  Ma  di  me  prima  ecc.  Questa  è  poi  una  scem- 
piaggine. Si  deve  aver  pietà  delle  gemme  che 
piangono  ;  ma  più  di  lui,  che  ne  ha  piti  bisogno 
di   esse  ! 


174     -  SONETTI. 

SONETTO  CLVI. 

DEL   DUCA    ALLA    DUCHESSA    ISABELLA. 

Ben  s'intese  ier  sera  in  nel  Signore, 
Quando  vide  apparir  sua  diva  stella, 
Un  gran  segno  d'  amor,  sendo  Isabella 
Al  suo  cospetto,  che  cangiò  il  colore. 

Ma  questo  è  privilegio  de  l'amore: 
Quando  a  l'amante  gli  apparisce  quella 
Ch'egli  ama,  se  di  lei  prima  favella, 
Veduta,  tace,  e  si  gli  agghiaccia  il  core. 

Questo  è,  che  comò  l'occhio  non  comporta  ' 
Per  sua  natura  mirar  fisso  el  Sole, 
Così  lo  cor  dal  viso  resta  vinto. 

Ma  sue  dolci  accoglienze  e  sue  parole 
Un  paradiso  al  mondo  hanno  dipinto; 
Tal  che  '1  ciel  oggi  invidia  a  quel  ne  porta. 

SONETTO  CLVII. 
d'  amore. 

Ardo  di  dentro,  e  fuor  fredda  di  marmi  2 
El  mio  diaspro  è  pur  comò  esser  suole,  3 

'  Questo  è  ecc.  Questo  procede  da  ciò,  che 
come  ]'  occhio  non  comporta  di  guardar  fisso  il 
sole,  cosi  il  cuore  resta  soprafatto  dagli  occhj 
(dal  viso)  della  sua  donna.  Siamo  alle  solite  ! 

2  Fredda  di  marmi  ecc.  Fredda  come  un  mar- 
mo .  Anche  adesso  suol  dirsi  è  di  marmo  0  è  mar- 
mato, per  significare  cosa  ghiaccia. 

3  Et  mio  diaspro.  La  mia  donna,  che  è  dura 
come   diaspro. 


SONETTI.  175 

E  con  caldi  suspir  raffreddo  el  Sole, 
Che  per  pietà  pur  dovere'  scaldarmi. 

Ma  priego  il  ciel  di  pazienza  mi  armi 
Se  in  tal  battaglia  pur  tener  mi  vuole, 
S'  e  giusti  prieghi  miei  e  le  parole 
D'altri  son  nulla,  or  chi  può  consolarmi? 

El  tempo  il  può,  divorator  degli  anni, 
Scotendo  in  terra  de'  miei  rami  i  fiori  : 
Sarò  lieta  che  '1  ciel  si  goda  el  frutto. 

0  Amore,  o  Fortuna,  i  vostri  inganni 
Coi  fior  coprite;  e  sotto  i  bei  colori 
É  di  Pigmaleone  il  marmo  tutto,  i 

SONETTO  CLVIII. 
d'  amore  in  laude  d'una  donna. 

0  fortunata  e  gloriosa  stella 
Ch'oggi  rallegri  el  bel  regno  d'Amore, 
Natura  per  sua  pompa  e  tuo  onore 
Ti  fece  più  che  '1  Sol  lucente  e  bella. 

Che  più  felicità  vuoi  ch'esser  quella, 
Che  alberghi  in  quel  famoso  inclito  core 
Del  mio  dolce  parente?  e  dargli  el  fiore 
Della  tua  fede  e  della  età  novella? 


l  Sotto  i  bei  colori  ecc.  Con  un  beli'  aspetto, 
siete  poi  insensìbili  come  il  marmo  di  Pigmalio- 
ne.  Pigmalione  fece  una  statua  cosi  bella,  che 
se  ne  innamorò  perdutamente,  e  che  Giove  per 
pietà  gli  converti  in  donna.  Si  favoleggia  però 
che  la  statua  fosse  d'  avorio. 


176  SONETTI. 

I  tuoi  costumi  e'  vaghi  onesti  modi, 
E  le  grate  accoglienze,  e  le  parole, 
Sono  a  lui  stati  al  cor  suavi  nodi; 

Se  il  volto  hai  di  rubini  e  di  viole. 
Or  saviamente  tue  bellezze  godi, 
Le  qual  si  struggon  come  neve  al  Sole. 

SONETTO  CLIX. 

AMOROSO. 

0  lume,  o  specchio,  o  sol  de  gli  occhj  miei, 
Conforto  e  pace  di  mia  stanca  vita, 
Insino  al  dì  de  l'ultima  partita 
Nuli' altro  ben  che  voi  chieder  saprei. 

Ne  r  altro  viver  poi  questo  vorrei ,  i 
L'anima  fussi  colla  vostra  unita; 
Perchè  quanto  sia  dolce  or  la  ferita, 
Che  Amor  mi  dà  per  voi,  dir  non  saprei. 

Ringrazio  el  ciel  e  mia  fortuna  molto , 
Anzi  Amor  prima,  che  mi  fece  degno 
Di  vostra  grazia ,  eh'  è  sì  bella  cosa. 

Mia  vita  e  morte  avete  in  nel  bel  volto; 
Anzi  mia  vita  che  m'ha  fatto  segno, 
Che,  se  voi  fece  bella,  anche  pietosa.  2 


1  Ne  l'altro  viver  ecc.  NelT  altra  vita. 

2  Mia  vita  ecc.  Sta  nel  vostro  volto  il   darmi 
morte  0  vita;  che,  se  mi  vi  mostrate  benigna,    io 
vivrò  lieto,  se  cruda,  morrò;  ma  ci  sta  certo  la 
mia  vita,  perchè    siete   bella,    ma  siete   anche 
pietosa. 


SONETTI.  177 

SONETTO  CLX. 

n'  AMORE   DOLENDOSI   DELL'  AMOROSA. 

Qual  nova  legge  di  natura  vuole 
Che  tu  sia  tanto  rigida  e  crudele, 
Verso  un  amante  che  ti  sia  fedele, 
E  noi  conforti  almen  con  le  parole?  - 

Da  gentil  cor  veder  sempre  si  suole 
Render  conforto  a  chi  gli  porge  el  mele; 
Ma  tu  hai  sempre  in  bocca  assenzio  e  fele. 
Verso  un  afflitto  cor  quando  e'  si  duole. 

Ogni  animai  veggiàn  eh'  un  tratto  l' anno 
Sente  d'  amor,  tu  '1  vedi,  a  primavera: 
Tu  d'amor  senti  sol  dell'altrui  danno.  ^ 

Bella  se'  tu ,  ma  '1  core  hai  d'  una  fera , 
I  tuoi  begli  occhj  ancor  ne  piangeranno. 
Quando  dirai  :  Non  son  piìi  quel  eh'  io  era.  2 

SONETTO  CLXI. 

D'  amore,   fatto   per   uno  che  lo    mandò   a  GENOVA 
A   UNA  SUA   AMANTE. 

0  sol  degli  occhj  miei,  divo  splendore, 
Se  nel  tuo  grembo  andrai  punto  cercando, 


^  Ogni  animai  ecc.  Ogni  animale  che  una  vol- 
ta l'anno,  nella  primavera,  sente  amore  (Ogni 
animai  d'amar  si  riconsiglia)  ;  ma  tu  solo  prendi 
diletto  dell'  altrui   danno. 

2  Quando  dirai.  Te  ne  pentirai  quando  avrai 
perduto  il  fiore  della  gioventù  e  della  bellezza. 

12 


t 


178  SONETTI. 

Vi  troverai  mio  cor,  che  suspirando 
Ti  priega  abbi  pietà  del  suo  dolore. 

Ma,  se  '1  tuo  servo  or  senza  el  cor  non  more, 
Sarà  che  vive  sol  di  te  pensando; 
Ma  tua  celeste  effigie  contemplando 
Sostien  gli  spirti  miei  d'un  novo  ardore. 

Se  '1  vostro  cor  del  mio  foco  tenesse, 
Come  a  me  morte,  a  voi  sarla  vicina; 
Però  non  par  che  tutto  mei  dimostri. 

Benedetto  el  ciel ,  che  vi  concesse 
L'esser  pietosa!  o  bella  alma  divina, 
Presto,  spero,  sarò  ne' liti  vostri. 

SONETTO  CLXII. 
d'amore,  a  tibaldeo,  chiedendogli  consiglio. 

Mentre  che  io  torno  a  ragionar  con  gli  anni , 
Che  la  mia  gioventù  volsono  in  preda. 
Gli  occhj  miei  tristi  son  del  pianto  reda, 
Che  di  mia  mano  a'  pie'  tessei  gli  inganni. 

S'  i'  conobbi  in  altrui  tutti  i  miei  affanni, 
Pensai  che  un  cor  di  donna  al  pianto  ceda; 
Ma  non  sia  ignun  che  ristorar  mai  creda. 
Col  pianto  e  con  suspiri  el  tempo  e  i  danni. 

E  però ,  Tibaldeo ,  non  mi  sia  scarso 
Di  consigliarmi:  Lei  si  pente  e  duole' 
Di  sua  durezza  or  eh'  à  secche  le  fronde. 


'  Lei  si  pente.  Ella  si  pente  e  si  duole  ora  che 
ha  perduto  il  fiore  della  età. 


SONETTI. 


179 


Pietosa  è  in  van,  come  colui  che  vole  ' 
Pescar  chi  sia  perito  in  grembo  a  V  onde , 
Porgendo  or  1'  acqua  a  me,  che  son  tutt'arso. 

SONETTO  CLXIII. 

n'  AMORK. 

El  sole  avea  già  l'ombre  e  le  paure  ^ 
Scosse  dal  volto  della  cieca  notte, 
E  r  avare  fatiche  ricondotte 
Al  mondo,  e  far  le  gente  andar  sicure, 

Quand'  i'  vidi  chi  sol  d'  ore  future  3 
Mi  pasce,  e  già  mille  promesse  ha  rotte; 
Ma  le  speranze  al  cor  son  tanto  ghiotte, 
Ch'  i'  pensai  l' uve  acerbe  esser  mature.  * 

Dissi  al  vederla  in  su  la  prima  vista: 
Amor  negli  occhj  suoi  con  pietà  scherza: 
Oggi  vedrén  bel  fin  di  tanta  impresa 

Par  m'intendessi,  e  subito  fu  trista, 
Languida  com'  un  fior  passato  terza , 
Tanto  del  mio  piacer  si  tenne  offesa. 

'  Pietosa  ecc.  Ma  la  sua  pietà  è  vana  come 
quella  di  colui  che  vuol  ripescar  uno  già  morto 
affogato. 

2  El  sole  ecc.  Questo  sonetto  è  riferito  dal 
Crescimbeni  per  saggio  del  poetare  del  nostro 
autore. 

3  Sol  d'ore  future.  Dice  solo  farò ,  dirò;  ma 
nulla  fa  veramente. 

^  Ch'i'  pensai.  11. Salvini  annota  :  «  Speranze 
ghiotte  fanno  pensare  l' uve  acerbe  esser  ma- 
ture. » 


180  SONETTI. 

SONETTO  CLXIV. 


D     AMORE. 


Pietosi  amici ,  udite  a  quel  eh'  io  sono 
Con  la  mia  donna,  anz' io  tutto  per  lei: 
Quando  io  la  miro  ho  invidia  agli  occhj  miei  ; 
Pensate  poi  quando  di  lei  ragiono! 

El  elei  agli  occhj  suoi  fece  un  bel  dono: 
Questo  è  che  quando  vendicar  potrei 
Le  ingiurie  che  mi  fa,  qual  doverci , 
Per  un  suo  sguardo  tutto  a  lei  perdono. 

Com'  esser  possa  io  vo  pensando  ognora 
Quando  di  mille  miei  suspiri  e  pianti, 
N'un  punto  con  un  riso  mi  ristora. 

Lei  d' ingannarmi  par  si  glorii  e  vanti  ; 
E  se  mi  strazia,  assai  più  m'innamora 
Che  r  amorose  grazie  gli  altri  amanti.  ^ 

SONETTO  CLXV. 

d'  amore. 

Udite  quel  che  mi  promesse  amore: 
Prima,  grazia  dagli  occhj  del  mio  sole, 
Speranza,  e  pace  da  le  sue  parole, 
E  con  la  dolce  man  fede  nel  core. 

Grazie  non  mai  dagli  occhj,  ira  e  furore. 


1  E  se  mi  strazia  ecc.  E  se  è  meco  crudele, 
e  mi  tratta  spietatamente,  ciò  mi  innamora  più 
che  non  innamorano  gli  altri  amanti  le  grazie  e 
le  cortesie.  , 


SONETTI.  181 

E  ingiuria  e  guerre  in  bocca  ha  per  me  sole: 
La  man  perfidi  inganni  or  render  vole, 
Cosi  par  di  mia  morte  aspetti  onore. 

Quand'ho  pianto  per  lei,  di  me  poi  rido; 
Anzi  m' adiro  con  la  mia  vergogna  , 
Che  dopo  tanti  inganni  ancor  mi  fido. 

Chi  crede  a  donna  fa  qual  uom  che  sogna 
Trovar  tesoro,  né  altro  or  di  Cupido 
Che  van  pensier  a  noi  sperar  bisogna. 

SONETTO  CLXVl. 

d'  amore. 

Questo  non  meritava  la  mia  fede, 
Donna,  né  con  ragion  provar  si  suole 
Che  si  creda  all'altrui  false  parole, 
Più  che  air  opera  buona  che  si  vede.  ' 

Sì  facilmente  el  savio  mai  non  crede, 
Che  ognun  può  dir  quel  che  gli  piace  e  vole; 
L'infamia  a  torto  a  me  ben  pesa  e  duole; 
Ma  el  tempo  é  quel  al  tutto  ben  provede. 

Ma  io ,  che  sono  offeso  in  nell'  onore , 
Sì  come  invidia  vole  e  mia  fortuna. 
Chi  mi  de'  ristorar  d'  un  tanto  danno? 


1  Che  si  creda  ecc.  La  sentenza  è  sana  e  vera  ; 
ma  il  fatto  pur  troppo  dimostra  in  ogni  occasione 
che  i  calunniatori  e  gli  ipocriti  sanno  tanto  dire 
e  fare,  che  si  crede  più  alle  loro  parole  che  alla 
verità  manifesta. 


182  SONETTI. 

Altra  via  non  ci  so,  se  non  quest'  una, 
Che  tu  non  creda  in  me  nessun  errore , 
E  così  gli  altri  poi  ben  taceranno. 

SONETTO  CLXVII. 
d'amore. 

0  Luce,  abbi  pietà  del  mio  dolore: 
Speranza  sola  in  vita  mi  mantene. 
Che  vale  a  me,  stu  di'  che  mi  vuoi  bene,  '' 
Se  non  soccorri  quel  che  per  te  more  ? 

Sai  che  non  giova  senza  el  frutto  el  fiore, 
Però,  stu  mi  ami,  e  sai  mie  dure  pene, 
Usa,  donna,  pietà  qual  si  conviene 
A  quel  che  si  consuma  or  per  tuo  amore.  ' 

Se  non  che  '1  tuo  onor  come  te  amo, 
Ovunque  fussi  sempre  in  ogni  loco 
Suspirar  mi  vedresti  al  tuo  cospetto. 

Dunque,  stu  mi  ami ,  et  io  el  tuo  ben  bramo , 
Porgi  r  acqua  al  mio  core  che  arde  in  foco  ; 
Che  da  te  morte  o  qualche  grazia  aspetto.  2 


1  Che  vale?  Il  Salvini  annota:  <  Vale,  idest 
Giova.  Così  Dante  :  Che  vai,  perchè  ti  raccon- 
ciasse il  freno  Giustiniano^  se  la  sella  é  vuota? 

2  Porgi  l'acqua  ecc.  Tutti  questi  sonetti  di 
amore,  sembrano  fatti  più  per  esercizio  che  al- 
tro, e  forse  per  commissione  ;  e  però  ci  si  vede 
seminata  largamente,  e  qualche  volta  non  sen- 
za garbo,  tutta  la,  rettorica  dell'amore;  ma  af- 
fetto vero  non  vi   si  scorge. 


SONETTI.  183 

SONETTO  CLXVIII. 

d'  AMORR. 

Mentre  che  io  penso  al  mio  longo  servire 
A  te,  donna  gentile,  alma  divina, 
Sperando  vo  la  rosa;  e  tu  la  spina 
Mi  porgi ,  et  hai  piacer  del  mio  martire. 

Ma ,  se  pur  ti  diletta  el  mio  languire , 
Pacienzia  a  chi  more  è  medicina  : 
Ma  pensa  ben  che  gioventù  camina 
Ove  ogni  tua  bellezza  de'  finire. 

Se  pur  avvien  che  a  te  servendo  i'  mora, 
Del  cener  mio  farò  come  fenice  : 
Rinascerò  per  riservirte  ancora. 

Tu  sola  al  mondo  mi  puoi  far  felice, 
E  mille  giorni  ristorar  'n  un'ora 
Spesi  per  te  piangendo:  Amor  tei  dice. 


SONETTO  CLXIX. 


DI    gelosìa. 


DehI  dammi  un  po'  qualche  consiglio,  Amore, 
Non  so  che  farmi  con  la  mia  consorte, 
E  nostra  dilezion  pur  è  sì  forte, 
Che  abbiàn  duoi  corpi ,  e  vivon  con  un  core. 

Ma  lei  mi  oflende  sol  con  questo  errore, 
Che,  gelosa  di  me,  vive  con  morte, 
E  non  conosce  sua  felice  sorte  ; 
Ma  in  dubbio  sta  di  chi  sol  per  lei  more. 

—  Amante ,  el  tuo  amor  son  nove  lagne 
Al  foco ,  che  r  infiamma  tuttavia  ; 


184  SONETTI. 

E,  se  r un  arde,  l'altro  non  si  spegne.  ' 
Questa  è  mia  legge  e  così  vo'  che  sia; 
E  dipinto  vedrai  ne  le  mie  insegne  , 
Che  guida  degli  amanti  è  gelosia. 

SONETTO  CLXX. 
d'amore. 

Quanto  piìi  el  foco  al  nostro  core  accendi, 
Amore,  al  regno  tuo  ministri  el  danno; 
Però  gli  amanti  un  vero  esemplo  aranno. 
Che  a  tanta  fede  ingratitudin  rendi. 

Grazie  prometti,  e  poi  d' ingiurie  attendi , 
Guerra  per  pace ,  e  per  diletto  affanno , 
Mille  altri  insulti  poi  si  leggeranno: 
Nel  tanto  offender  me  te  stesso  offendi.  2 

Se  pur  l'usar  pietà  non  ti  diletta. 
Amor,  pon  fine  or  mai  a  tanti  inganni; 
Se  pur  non  vuoi,  son  tuo  qual  sempre  fui. 

Ma  veggio  apparecchiarsi  alta  vendetta, 


1  Se  V  un  arde  ecc.  Se  Amore  1'  accende,  non 
si  spenge  per  altro  la  gelosia. 

2  Grazie  prometti.  Prometti  felicità  e  gioja; 
e  la  promessa  mantieni  facendomi  ingiuria.  Se 
fai  cosi,  argomenta  il  poeta,  fai  danno  anche  a 
te  stesso,  perchè  ninno  avrà  piti  fede  in  te  ;  se 
puoi  dunque,  ajutami,  che  ti  sarò  servo  fedele; 
se  no,  avrò  almeno  il  conforto  che  1'  esempio  di 
me  potrà  esser  giovevole  altrui  nel  tempo  av- 
venire. 


SONETTI. 


185 


Che  laudato  sarò  dopo  mille  anni , 
Perchè  el  mio  mal  potrà  giovare  altrui. 

SONETTO  CLXXI. 

A    UN     AMANTE    D' UNA    GUERCIA. 

r  veggio  ben  sì  come  oggi  disserra 
Un  strale  d'oro  in  nel  tuo  petto  Amore, 
E  come  stai  di  due  stelle  in  errore: 
L'  una  el  ciel  mira,  e  l'altra  intenta  a  terra.  * 

Sta  saldo,  amante,  in  mezzo  de  la  guerra. 
Forse  eh' eli' ha  pietà  di  te  nel  core; 
Che  spesso  inganna  quel  che  appar  di  fore, 
A  quel  che  drento  un  gentil  cor  poi  serra.  ^ 

Giove  e  Pluton,  che  forse  ardon  di  lei, 
Ognun  per  grazia  un  de'  begli  occhj  chiede , 
E  non  si  può  negar  cosa  alli  Dei. 

Ma,  perchè  el  piace  a  lor  pietate  e  fede, 
Ama  pur ,  che  vorranno  al  fin  costei , 
Abbi  di  te  come  di  lor  mercede. 

SONETTO  CLXXII. 
d'  amore. 

Dante,  quel  fonte  di  teologia, 
Beatrice  nel  mondo  amando  alquanto , 


'  L'ttna  el  ciel  ecc.  Il  sonetto  è  assai  ingegno- 
so, e  prelude  ai  tanti  scherzi  simili,  come  Aman- 
te di  una  gobba,  di  donna  mora  ecc.,  che  si  fa- 
cevano là  nel  secolo  XVII. 

2  Spesso  inganna  ecc.  Spesso  quel  che  si  vede 
di  fuori  inganna,  per  rispetto  a  ciò  che  è  nel  cuore. 


186  SONETTI, 

Pietosa  in  ciel  per  sé  la  trovò  tanto , 
Che  salvo  el  trasse  de  la  cieca  via. 

Tu,  che  ami  or  la  sorella  sua  Lucia, 
Ch'  è  la  divina  grazia  al  regno  santo,  ' 
.  Ancor  lei  ti  soccorre  in  nel  suo  pianto 
Da  poi  che  Lion  vuol  che  teco  stia.  2 

Penso  or  ben  che  dicessi  questa  donna: 
S'  i'  mossi  grata  Beatrice  a  Dante, 
Che  debbo  or  far  per  quel  che  tanto  m'  ama  ? 

, Esser  d'ogni  suo  ben  sempre  colonna, 
Se  un  gran  miracol  è  fedele  amante 
Donna  a  amar  lui  ha  gran  diletto  e  fama. 

SONETTO  CLXXIII. 

d'  amore  nel  quale  si  mostra,  se  lucia  fu  pie- 
tosa A  DANTE  ,  CHE  DEBBE  ORA  LEI  A  QUEL  CHE 
L'  AMA. 

0  cara  Lucia  mia,  fra  le  altre  sante 
Diletta  a  Giove,  e  più  che  altra  felice, 
Stu  pregasti  nel  ciel  già  Beatrice , 
Che  soccorso  a  l' Inferno  dessi  a  Dante , 

Chi  priega  or  te,  che  M  tuo  fìdele  amante 
Ajuti  in  questo  tempo  oggi  infelice. 
Pietà  ti  priega,  e  con  ragion  ti  dice: 
0  Luce ,  non  aver  cor  d'  adamante , 

'  Ch'  é  la  divina  ecc.  Nota  che  lo  stesso  Bel- 
lincioni  interpreta  la  Lucia  di  Dante  per  la  Gra- 
zia divina. 

2  Lion  vuol.  A  chi  voglia  alludere  con  questo 
Lione,  non  so  indovinare. 


SaNETTI. 


181 


Stu  fusti  per  colui  sì  graziosa, 
Che  debbi  or  far  per  quel  che  te  sola  ama, 
Se  non  doglia  nnostrar  del  suo  dolore? 

Conforta  or  lui  del  farti  ancor  pietosa, 
Che  fia  bel  modo  a  rallegrargli  el  core: 
A  lui  salute ,  a  te  onore  e  fama. 

SONETTO  CLXXIV. 

IN  PERSONA    DEL  DUCA   AL    SIGNORE     LODOVICO. 

Non  sol  per  T  affezione  e  gran  fervore , 
Per  l'officio  di  patre  a  me  mostrato' 
Obbligato  ti  sono,  o  per  lo  stato. 
Quanto  d'un  altro  dono  a  me  maggiore; 

Che  hai  fatto  dui  ce,  e  sì  pietoso  amore. 
Che  in  Isabella  mia  m'  ha  trasformato , 
E  lei  in  me:  Per  noi  ti  sia  el  ciel  grato 
Con  santa  palma  di  sì  bello  onore. 

S'  i'  pregai  mai  che  '1  ciel  ti  tenga  in  vita, 
Pel  ben  del  sangue  nostro  e  mia  salute, 
Or  pia  che  mai  tal  grazia  a  Giove  chiamo. 

Per  lassare  ogni  cura  a  tua  virtute, 
E  possi  io  me'  goder  quella  ferita , 
Che  m'ha  data  Isabella,  qual  tanto  amo. 


1  Per  l'officio  di  patre  ecc.  Povero  giova- 
ne !  lo  spendeva  bene  il  suo  affetto.  È  noto  a 
ciascuno  come  poi  Lodovico  fosse  spietato  alla 
rovina  di  questo  suo  nipote,  per  usurpare  la  si- 
gnoria. 


188  SONETTI. 

SONETTO  CLXXV. 

ALLA  DUCHESSA  DI  MILANO  PREGANDOLA  CH'  ELLA 
VOGLIA  SOTTOSCRIVERE  UNA  SUA  LETTERA  A  MES- 
SBB  BERGONZIO. 

Se  quella  vostra  dolce  e  bianca  mano 
(Che  di  rose  e  di  perle  il  ciel  fé'  quella) 
Sulla  lettera  pon  solo  —  Isabella  — 
El  mio  infermo  pensier  fìa  fatto  sano. 

Qual  cor  crudo  sarà  tanto  e  villano, 
Che  non  s'inchini  al  nome  d'una  stella? 
Anzi  se'  più  che  '1  sol  lucente  e  bella , 
Al  cui  nome  un  leon  diventa  umano. 

Da  Bergonzio  arò  ben  poi  grazia  tanta,  i 
Che  sempre  el  m'  amerà ,  se  cagion  sono 
Che  dipinto  abbi  un  fior  de  la  tua  pianta. 

E  penserà  dal  ciel  aver  tal  dono, 
E  bascerallo  come  cosa  santa, 
E  d'  ogni  affanno  suo  rimedio  buono. 

SONETTO  CLXXVI. 
d'  amore. 

El  cor  mi  ardea  d'una  speranza  tale, 
Che  vivevo  contento,  anzi  beato, 
Aspettando  quel  punto  dulce  e  grato, 
Che  gli  amanti  ferisce  col  suo  strale. 


1  Da  Bergonzio   ecc.    Per  questo   Bergonzio 
vedi  la  nota  1,  pag.  149,  voi.  I. 


SONETTI. 


189 


0  tempo,  o  eie],  quanto  facesti  male, 
Con  pioggia  el  bel  disegno  aver  turbato  !  * 
Unde  tanto  dolor  nel  cor  m'  è  nato 
Ch'  i'  non  so  qua!  mai  più  sentir  eguale. 

Pur  fra  tanto  dolor  nasce  un  conforto, 
E  questo  è  che  tu,  mia  diletta,  dica  : 
Ancor  al  nostro  amor  tempo  non  fugge. 

Ma  dico  ben  di  me,  che  gran  fatica 
M'  è  r  aspettar  ;  che,  amando,  il  cor  si  strugge. 
Se  '1  tempo  non  ristora  un  si  gran  torto. 

SONETTO  CLXXVII. 

d'un  AMANTE  CHE  PARTESI  DALL'AMATA  E  L\.  CONSOLA. 


Se  da  te,  donna,  il  mio  corpo  si  parte, 
Non  sia  però  diviso  il  nostro  amore,  2 
Perchè  ne  le  tue  man  lascio  il  mio  core, 
Ch'  è  della  vita  la  più  degna  parte. 

Piangendo  mi  consumo  a  parte  a  parte, 
Qual  bon  servo  che  perde  il  suo  signore, 
Ma  la  speranza  or  temperi  il  dolore 
Che  amor  fra  ambi  noi  doi  or  ne  comparte. 

Questo  dolce  sperar  del  far  ritorno 
Per  vederti,  o  mio  sol ,  che  mi  conforti, 
Ti  tenga  in  pace ,  e  me  sempre  accompagni. 


1  Con  pioggia  ecc.  Pare  che  sia  scritto  nel- 
r  occasione  che  un  ritrovo  d'  amore  fu  frastor- 
nato dal  mal  tempo. 

2  Non  sia.  Cosi  ha  la  stampa;  ma  pare  certa- 
mente che  abbia  a  dir  Non  fia. 


190  SONETTI. 

S'uno  aspettar  fa  di  mille  anni  un  giorno: 
Dove  è  la  fede  molti  si  fan  corti , 
Però  lieta  riman ,  se  '1  volto  bagni,  i 

SONETTO  CLXXVIII. 

d'  amore. 

0  chiara  luce  mia,  o  divin  sole,  2 
Zeffiro ,  vedi,  el  bel  tempo  rimena. 
L'aire  s'allegra,  e  il  ciel  si  rasserena. 
Et  ove  eron  gli  sterpi  or  son  viole. 

E  però.  Luce,  or  rinovar  si  vole 
El  nostro  amore,  e  ristorar  la  pena 
Che  insin  agli  animali  Amor  gli  mena 
Al  giogo  suo,  corno  natura  vole. 

E  gli  ugelletti  infra'  più  verdi  rami , 
Usciti  de  le  tenebre  del  verno, 
Insieme  cantan  lor  suavi  amori. 

Ora  che  uscito  son  d'un  novo  inferno, 
E  come  i' soglio  el  ciel  voi  pur  ch'io  t'ami, 
Non  deggio  un  frutto  cor  da  i  toi  bei  fiori? 


1  Dove  é  ecc.  È  sentenza   verissima,  il  desi-' 
derio  fa  lunghissimo  l'aspettare;  ma  la  fede  ve- 
race lo  accorcia. 

2  0  chiara  ecc.  Questo,  come  ciascun  vede,  è 
una  imitazione,  e  quasi  una  copia  del  sonetto: 
Zefiro  torna  e  'l  bel  tempo  rimena. 


SONETTI.  191 

SONETTO  CLXXIX. 

IN  LAUDE  DRLLK  BELLEZZE  D'  UNA  DONNA. 

Da  qual  magno  pianeta  e  stelle  nove, 
Da  qual  merito  mai  di  nostra  etate, 
Oggi  del  ben  de  V  anime  beate, 
Agli  occhj  d' i  mortai  in  terra  piove 

Un  miracol  maggior  del  sommo  Jove? 
Perchè  vostro  intelletto  al  ciel  leviate,  ' 
E  di  cose  terrene  noi  cibiate , 
Ma  di  costei,  eh'  e  sassi  e'  monti  move. 

El  cielo  che  li  onora  è  ben  felice 
Più  che  altro ,  a  mostrar  quel  suo  bel  velo , 
Ove  '1  sol  perde  e  per  vergogna  oscura.  2 

Mirandola,  costei,  ben  ciascun  dice: 
Ecco  quanto  di  ben  può  dare  el  cielo, 
E  quel  che  manca  a  lei  non  po'  natura.  3 

SONETTO  CLXXX. 

DIALOGO    DEGLI    OCCPJ    E    DEL    CUORE. 

Mentre  gli  occhj  miei  cercono  in  quel  viso 
Già  s' ingannoron  ne  la  prima  volta; 


1  Perchè  vostro  intelletto  ecc.  Anche  il  Pe- 
trarca,  parlando  delle  bellezze  della  sua  donna, 
e  del  culto  che  prestava  ad  essa,  disse  :  Che  SOn 
scala  al  Fattor,  chi  ben  l'estima. 

2  Perde.  Scomparisce  al  paragone. 

3  Quel  che  manca  ecc.  Se  qualcosa  le  manca, 
non  può  darglielo  la  natura,  perchè  questa  tutti  i 
suoi  pregj  gli  ha  posti  in  lei. 


192  SONETTI. 

Ardito  el  cor  risponde:  0  mente  istoita! 
Non  vedi  tu  che  in  quello  è  il  paradiso  ? 

Un  grato  modo,  un  parlar  dolce,  un  riso, 
Poca  bellezza  può  far  parer  molta  ; 
Ma,  se  la  prima  idea  non  tìa  disciolta. 
Il  vostro  cor  d'  amor  non  fia  diviso. 

Come  a' fioretti  ben  campeggia  el  verde 
El  ciel  la  notte  in  seminar  le  stelle. 
Bellezze  con  valor  posson  più  insieme; 

Ma,  se  le  prime  a  vui  paron  men  belle, 
Occhj  fallaci,  il  cor  si  serba  il  seme, 
Che  frutto  or  fa  di  quel  che  in  voi  si  perde. 

SONETTO  CLXXXI. 

INCONTRANDO     L'  AMOROSA. 

Qual  vergogna,  o  paura,  o  quale  errore 
Ti  vien,  se  a  caso  te  scontro  per  via, 
Che  par  che  un  tuo  inimico  allora  i'  sia, 
Che  gli  occhj  abbassi  e  cangi  el  bel  colore?  i 

Vergogna  uo,  che  a  donna  è  grande  onore 
Trovar  chi  sopra  ogni  altra  lei  desia  ; 
Paura  esser  non  dee,  né  gelosia 
D' infamia,  ov'  è  chi  salva  ogni  tuo  onore. 


'  I]  sonetto  è  assai  ben  condotto,  che  è  cosa 
assai  garbata  quel  procedere  per  esclusioni,  af- 
fine di  conchiudere  che  V  abbassar  gli  occhj  e  il 
cambiar  colore  è  segno  di  affetto  ;  e  chiederne 
una  prova,  o  segno  qualunque. 


SONETTI.  193 

Esser  può  questo  un  amoroso  segno, 
Che  a  me  intervien ,  s'  io  veggio  el  tuo  bel  viso, 
Farmi  di  marmo,  e  così  fa  chi  ama. 

Questo  or  ben  credo,  e  non  cagion  di  sdegno  : 
Pur  d'  un  accorto  sguardo  e  dulce  riso 
Un  amante  felice  anco  si  chiama. 

SONETTO  CLXXXII. 

FINGE  l'autore  CHE  BEATRICE  DI  DANTE  SIA  TORNATA 
AL  MONDO  SPOSA  DEL  SIGNORE  LUDOVICO,  E  CHE 
DANTE   CHIEDA    GRAZIA    A    GIOVE   DI   SEGUITARLA. 

Quel  che  nell'alta  e  diva  Comedia 
Pose  tre  stati  all'anima,  tre  regni, 
A  Giove  dice:  Priego  or  che  ti  degni 
Farmi  una  grazia,  e  più  non  si  desia: 

Se  la  dulce  compagna  di  Lucia, 
Al  mondo  or  presti,  per  che  a  quello  insegni 
Qua  su  salire,  a  me  par  si  convegni, 
0  Giove,  seguir  lei  per  ogni  via. 

Se  questa  in  terra  fu  la  mia  Fenice, 
E  poi,  drieto  al  suo  volo,  a  questo  stato 
Per  lei  dal  cieco  abisso  assunto  sono, 

Poi  che  al  mondo  di  lei  fai  novo  dono. 
Concedi  a  me  eh'  i'  sia  con  Beatrice 
A  veder  quel,  eh'  ella  farà  beato.  * 


'  La  ragione  di  questo  sonetto  sta  nella  di- 
chiarazione del  titolo  :  la  chiusa  è  sgarbatamente 
adulatoria. 

13 


194  SONETTI. 

SONETTO  CLXXXIII. 

d'amore. 

Volete,  amanti,  consolarvi  un  poco? 
Venite  a  ragionar  d'amor  con  meco, 
E  vedrete  che  '1  crudo  alato  e  cieco 
In  affanni  tien  me,  voi  in  festa  e  in  gioco. 

Conoscerete  allor  che  '1  vostro  foco 
È  qual  tepido  sol  che  '1  verno  ha  seco 
Appresso  al  mio,  e  chi  mi  sguarda:  Teco, 
Dice,  hai  Cecilia  in  ogni  tempo  e  loco. 

E  però  ringraziar  dovete  amore, 
Che  pietoso  Tarei,  non  pur  crudele. 
Se  un  vostro  affanno  a  me  dessi  per  grazia. 

Ma  questo  all'  uom  par  naturale  errore, 
Che  nel  ben  posseder  mai  non  si  sazia, 
Però  più  dolce  è  per  l'assenzio  el  mele.  ' 

SONETTO  CLXXXIV. 

d'  amore. 

Chi  el  dulce  fin  d'un  desiato  bene 
Qua  giù  possiede,  e  come  vole  Amore, 
Se,  dopo  el  dolce,  amar  truova  in  el  core,^ 
Quel  seme  frutta  d'un  contento  pene. 

'  Però  più  dolce  ecc.  Il  bello  e  il  buono  si  ap- 
prezza quanto  merita,  solo  per  rispetto  a'  loro 
contrarj;  né  gusterebbe  il  dolce  chi  non  avesse 
idea  dall'  amaro. 

2  Dopo  el  dolce  ecc.  Se,  dopo  il  dolce,  trova 
y  amaro. 


SONETTI.  195 

Amor,  che  l'alto  impero  in  el  cor  tene, 
Fa  che  V  uom  vive  come  quel  che  muore, 
Che  si  duol  del  morire ,  e  del  dolore 
Si  scioglie,  e  lega  con  maggior  catene. 

Così  ne  infonde  il  terzo  cielo  a  noi;  ^ 
D' un  novo  amore  un  novo  amor  rinasce , 
Che  fa  novo  diletto  in  maggior  foco. 

E  dopo  il  frutto  suo  fa  che  1'  uom  poi 
Per  doppio  amore  il  cor  di  morte  pasce, 
E  possedendo  il  tutto  gli  par  poco.  2 

SONETTO  CLXXXV. 

DELLA   PARTITA     d'  UN   AMANTE. 

r  son  fatto  pel  pianger  quasi  cieco 
De  la  partita,  e  son  vivendo  morto  ;  3 
E  s'io  ti  die'  nel  mio  partir  conforto. 
Bisogno  n'  avevo  io  non  sendo  teco. 

Ma ,  r  afflitto  mio  cor  te  ha  sempre  seco , 
E  ben  del  tuo  dolore  si  fu  accorto: 
Datti  pace,  per  che  il  tempo  fia  corto 
Del  mio  ritorno,  a  consolarti  meco. 

Per  eh'  io  son  nato  per  amarti  sempre  : 


1  Ne  infonde,  infonde  in  noi  questa  naturai 
qualità. 

2  E  possedendo  eoe.  Il  desiderio  è  insaziabile  ; 
e  l'uomo  si  contenta  solo  quando  è  accolto  su 
nel  cielo,  dice  Dante. 

3  De  la  partitaPer  cagione  dell'essermi  par- 
tito da  te. 


196  SONETTI. 

Il  mio  ritorno  istà^nella  tua  voglia, 
Per  te  lasciando  ogni  altra  bella  impresa. 

A'dulci  piacer  tuoi  tornerò  sempre; 
Poi  eh'  ogni  altro  piacer  m'  è  tutto  doglia, 
Che  d'ubbidirti,  e  mai  d'  averte  offesa. 

SONETTO  CLXXXVI. 

d'  amore. 

(in  lode  di  Elisabetta.)  Salvini. 

Onestà  in  bocca,  e  castità  negli  occhi, 
Bellezza  in  fronte  e  purità  nel  core, 
Gravi  pensier  dipinti  con  amore, 
Unde  raggi  di  perle  par  che  fiocchi. 

S'egli  avvien  mai  che  Lisabetta  tocchi 
Colle  sue  man  pudiche  acerbo  fiore', 
Sparge  le  ascose  foglie  in  fare  onore 
Al  suo  bel  pie,  che  par  terra  non  tocchi. 

Natura  in  fronte  le  ricama  un  sole. 
Che  '1  cor  freddo  d'un  marmo  a  me  sempre  arse; 
Ma  con  sue  man  legò  Cupido  e  Venere. 

Più  vaga  stella  in  ciel  mai  non  apparse. 
Né  mai  in  giardin  si  candide  viole. 
Né  per  cosa  sì  bella  è  Troja  in  cenere.  ' 


1  Né  per  cosa  sì  bella  ecc.  Vuol  paragonare  le 
bellezze  della  sua  donna  alle  bellezze  di  Elena, 
la  quale  suol  darsi  per  simbolo  di  bellezza,  ed 
è  colei  che  ha  titol  d'esser  bella. 


SONETTI.  197 

SONETTO  CLXXXVII. 

d'  amore. 

Come  le  rose  nascon  delle  spine, 
0  bella  donna  mia,  può  d'uno  sdegno 
Nascer  pietà  di  qualche  caso  indegno, 
E  d'  un  principio  amaro  un  dolce  fine. 

Così  fecion  le  luce  tue  divine, 
Sendo  il  tuo  cor  di  furia  e  d'ira  pregno, 
Ch'  e  tuoi  begli  occhj  in  un  forato  legno  i 
Furon  molto  a  veder  le  mie  mine. 

Ahi  dulce  pietà  d'un  gentil  core 
Felice  porta  da  le  tue  man  mossa. 
Ma  misera  per  me,  che  mi  ti  tolse! 

Fin  che  ignude  non  sien  di  carne  1'  ossa 
Sarò  tuo  sempre ,  a  le  cagion  d' Amore,  2 
Che  di  te  sue  catene  al  cor  m'avvolse. 

SONETTO  CLXXXVIII. 

A  LORENZO  de'  MEDICI. 

Nova  influenzia  da  le  Muse  piove 
Novellamente  con  cangiato  stile, 
Cagion  di  quel  signor  vago  e  gentile  3 


1  In  un  forato  legno  ecc.  Forse  vuol  dire, 
stando  dentro  a  una  gelosia. 

^  A  le  cagion  ecc.  Per  virtti,  per  volontà  di 
Amore. 

^  Di  quel  signor.  D'Amore. 


198  SONETTI. 

Che  per  Calisto  fé'  trasformar  Giove.  ' 
Così  Amore  d'un  esser  me  rimove, 
Libero  sendo,  in  atto  ora  servile, 
E  tanto  è  in  sé  crudel,  quanto  io  umile, 
Colei  che  favellando  i  sassi  move. 

Sonetto  mio,  a  Cafaggiuolo  andrai ,  " 
Paese  bel  che  siede  nel  Mugello, 
Dove  tu  troverai  Lorenzo  nostro; 

E  con  gran  reverenzia  porgi  a  quello 
Questi  altri  tuoi  consorti,  e  sol  dirai: 
Questi  presenta  a  voi  Bernardo  vostro.  ^ 

SONETTO  CLXXXIX. 

d'  amore. 

Fratel,  la  mia  signora  è  pur  severa, 
E  poco  gli  rincresce  il  mio  languire, 
Nulla  mi  vai  s' io  scrivo,  o  mando  a  dire, 
Tanto  di  sua  beltà  sen  vive  altera. 


1  Calisto.  Figliuola  di  Licaone  re  d' Arcadia: 
si  fece  seguace  di  Diana;  e  Giove,  mutato  in 
pastore,  la  violò:  per  la  qual  cosa  Diana  la  cac- 
ciò da  sé. 

2  Cafaggiuolo.  A  Cafaggiuolo,  nel  Mugello,  vi 
era  una  Villa  dei  Medici,  passata  poi  in  fami- 
glia privata. 

3  Questi  presenta.  Questo  sonetto  sì  vede  che 
fu  scritto  a  modo  di  dedicatoria  di  tutti  i  so- 
netti d'  amore  che  qui  si  leggono. 


SONETTI. 


199 


E  perchè  al  verno,  al  caldo  e  in  primavera 
Per   lei  mi  struggo,  e  temo  di  morire, 
Chiedo  soccorso  a  te,  per  ammollire 
La  crudeltà  del  cor  di  questa  fera. 

Metti  la  penna  in  la  tua  melodia. 
Di  cui  Parnaso  in  pompa  fa  gran  festa: 
Et  io  ancor  ho  la  speranza  mia. 

Che,  s' air  orecchie  di  costei  tìa  presta, 
Credo  si  cangerà  la  sorte  ria, 
Che  sempre  mi  fa  gir  con  bruna  vesta. 

SONETTO   CXC. 

IN  NOME  DELLA   DUCHESSA    ISABELLA    AL   DUCA. 


Ho  mille  volte  ringraziato  Amore, 
Ma  più  quel  santo  giorno  benedetto. 
Che  fu  dal  cielo  a  questo  fine  eletto, 
Ch'  i'  viva  e  mora  sol  col  mio  signore. 

Se  gelosia  di  lui  sempre  ho  nel  core. 
Questo  è  eh'  i'  1'  amo  d'  un  amor  perfetto  ; 
Né  sol  col  senso  mira  el  mio  intelletto, 
Anzi  ardo  drento  al  cor  del  nostro  onore. 

Or  questa  è  l'amorosa  mia  ferita, 
E  temo  sol  d'ogni  umbra,  per  ch'io  Tamo, 
E  sempre  son  con  lui  col  core  unita. 

Come  presto  un  bel  fior  casca  dal  ramo; 
Così  veggio  cascar  la  nostra  vita, 
E  però  el  ciel  al  nostro  amor  sol  chiamo. 


200  SONETTI. 

SONETTO  CXCI. 
d'amore. 

Ringrazio,  o  donna,  el  ciel  a  tutte  l'ore. 
Che  fatto  m'  ha  della  tua  grazia  degno  ; 
Ma  io,  che  mi  pensai  essere  indegno, 
Non  t'ho  manifestato  mai  il  mio  core. 

Ma  fortuna  invidiosa  or  n'ha  dolore 
Crudele,  e  guasto  ci  ha  più  d'  un  disegno  ; 
Ma  none  speri  con  sue  forze  e  ingegno  * 
Rompere  el  nostro  dolce  e  caldo  amore. 

Perseverando  un  cor  nell'  amor  forte. 
Fortuna,  o  caso,  o  lingua  mai  non  teme; 
Ma  sta  costante  e  saldo  insino  a  morte. 

Cosi  spero  io  che  viveremo  insieme 
A  goder  la  felice  nostra  sorte, 
Che  '1  ciel  del  nostro  amor  ne  dette  il  seme.  2 

SONETTO  CXCII. 

d'  amore. 

0  chiara  Luce,  che  di  ciel  in  terra 
Venisti  sol  per  consumar  mia  vita. 


1  None  speri  ecc.  È  tuttora  dell'uso  familiare 
il  pronunziare  così  strascicata  la  particella  non 
{none),  quando  precede  una  s  impura.  Si  vede 
anche  nelle  Poesie  di  Gino. 

2  Che  'l  ciel  ecc.  11  nostro  amore  nacque  per 
disposizione  del  cielo. 


SONETTI.  201 

Che  tanta  è  la  mia  voglia  oggi  infinita, 
Che  presto  il  corpo  mio  sarà  di  terra. 

Fannomi  e  tuoi  begli  occhj  eterna  guerra, 
Anzi  nel  cor  m'  han  fatto  una  ferita, 
Che  mia  faccia  fan  sempre  iscolorita,  ^ 
Che  memoria  di  te  nel  cor  si  serra. 

Ma  poi  quando  io  ri  veggio  il  tuo  bel  viso, 
Ogni  tormento  o  doglia  che  mi  dai 
Stimo  un  dolce  piacer,  diletto  e  gioco; 

L' inferno  mi  parrebbe  un  paradiso  : 
Tanto  è  soave  l'amoroso  foco. 
Ch'io  prego  il  cìel  che  non  si  spegni  mai. 

SONETTO  CXCIII. 
d'  amore. 

Quando  fìa  el  dì  che  Amore  el  freddo  petto 
Ti  scalderà,  dal  ciel  discesa  stella? 
Quando  fia  el  dì  che  tu  sarai,  qual  bella, 
Pietosa  nell'altero  e  vago  aspetto? 

Quando  fia  el  dì  concesso  e  benedetto 
Ch'i'  possi  dir:  Testé  pari' io  con  quella, 
Che  quando  sguarda  altrui,  ride  e  favella. 
Contemplativo  fanne  ogni  intelletto? 

L'erbe,  le  fronde,  gli  animali  e' sassi,  2 

1  Che  mia  faccia  ecc.  Divengo  smorto  sem- 
pre che  (ogni  volta  che)  io  ripenso  alla  tua  beltà 
e  al  mio  amore,  quando  tu  sei  lontana  da  me. 

2  L'  erbe,  le  fronde  ecc.  Solite  iperboli  da  in- 
namorati: quell'in  ciel  S^aspetti  del  verso  11,  si  ha 
da  intendere  come  se  dicesse  in  ciel  s'aspetta^ 


202  SONETTI. 

La  luna ,  el  sole  ,  ogni  pianeto  e  stella 
Vagheggion  lei,  che  forse  in  ciel  s'aspetti. 

Quand'ella  alza  e  begli  occhj,  e  move  i  passi, 
Per  leggiadra  volar ,  par  che  alie  metti , 
E  '1  paradiso  aprirsi  alla  favella. 

CANZONE  DELLA  PAZIENZA 

LA  QUALE  FU  PATTA  PER  UNA  FESTA  OSSIA  RAPPRESEN- 
TAZIONE MOLTO  BELLA,  COMPOSTA  DAL  POETA  STESSO 
A  CONTEMPLAZIONE  DEL  REVERENDISSIMO  MONSIGNORE 
FEDERIGO  SANSEVERINO  ;  DI  QUESTA  FESTA  SI  È  POTUTO 
UNICAMENTE  TROVARE  QUESTA  CANZONE  LA  QUALE  SI 
CANTÒ  IN    FINE    DI   DETTA   RAPPRESENTAZIONE. 

Sia  laudata  pazienzia 
Ch'è  si  dolce,  e  non  amara: 
L' uom  eh'  è  savio  la  tien  cara 
Che  n'ha  fatto  esperienzia. 

Sia  laudata  pazienzia. 

Chi  non  pensa,  e  corre  a  furia, 
D'ogni  impresa  al  fin  si  pente,  ' 
Spesso  quel  se  stesso  ingiuria 
Per  non  esser  paziente: 
Quel  si  dice  esser  prudente 
Che  fa  vista  non  vedere, 
Per  che  Amore  ha  gran  piacere 
Che  uno  amante  abbi  prudenzia. 

Sia  laudata  pazienzia. 

i  Chi  non  pensa  ecc.  Chi  fa  in  fretta,  dice  il 
proverbio,  a  bell'agio  sì  pente;  è  il  motto  la- 
tino: Festina  lente. 


CANZONE.  203 

Ma  son  certi  stran  cervegli 
Per  parer  più  innamorati , 
Che  uson  soni  e  canti  begli, 
Poi  si  mostron  disperati; 
Ma  più  savj  sono  e  frati, 
Che  r  amor  sanno  celare , 
Che  del  tanto  civettare 
Se  ne  fanno  coscienzia.  ' 

Sia  laudata  paz'ienzia. 

Queir  è  savio ,  et  ha  gran  core , 
Che  ha  piacer  di  perdonare: 
Se  t'ingiuria  alquanto  Amore 
Virtù  sta  nel  sopportare; 
Ma  col  tempo  e  col  ben  fare 
Ben  si  rompe  ogni  durezza: 
Chi  si  piega  e  non  si  spezza 
Trova  in  donna  alfìn  clemenzia. 

Sia  laudata  pazìenzia. 

Ben  dirà  quel  che  si  strugge: 
La  speranza  è  come  'I  Maggio, 
Frasche  e  fiori  ;  el  tempo  fugge. 
Ben  faren  non  fa  l'uom  saggio. 
Ma  nei  fatti  sta  el  vantaggio; 
Però,  se  oggi  el  tempo  avete, 
Belle  donne,  or  noi  perdete: 
Di  doman  non  c'è  scienzia. 

Sia  laudata  pazienzia. 


1  Se  ne  fanno  coscienzia.  Se  ne  fanno  scrupolo, 
dicesi  adesso. 


204 

CANZONETTA  DELLA  FATICA 

COMPOSTA  DAL  BELLINCIONI  A  CONTEMPLAZIONE  DEL 
SIGNOR  ANTONIO  MARIA  SANSEVERINO  IL  QUALE  FECE 
FARE  UNA  BELLISSIMA  RAPPRESENTAZIONE  DELLA  FA- 
TICA E  IN  PINE  FU  CANTATA  QUESTA  CANZONE  LA  SOLA 
CHE    FU    TROVATA    DI  TUTTA   LA  FESTA. 

Cara  e  dolce  mia  fatica, 
Sempre  fusti  el  mio  conforto, 
Tu  m' hai  pur  ridutto  in  porto 
Dell'amor,  che  mi  nutrica, 

Cara  e  dulce  mia  fatica. 

Chi  ti, serve  voluntieri 
Gli  se' dolce  e  non  amara: 
E  tuoi  pesi  son  leggeri, 
Ogni  ben  da  te  s'impara: 
Chi  ti  abbraccia  e  tienti  cara. 
Tuo  sudor  par  d' acqua  rosa  ; 
La  tua  spina  torna  rosa, 
Mai  nessun  per  te  mendica, 

Cara  e  dulce  mia  fatica. 

Tue  vigilie  al  fin  m'han  dato  ' 
D'  un  tesoro  in  man  la  chiave: 
Poi  che  Amor  dolce  ho  trovato, 
Sia  el  timon  de  la  mia  nave: 
El  tuo  giogo  par  suave 
A  chi  cerca  aver  onore: 


1  Tue  vigilie.  Le  veglie  che  ho  fatto  per  te, 
sudando  al  lavoro. 


CANZONÉTTA.  205 

Vo'ti  meco  a  tutte  1'  ore , 
Che  mi  se'  fidele  amica, 

Cara  e  dulce  mia  fatica. 
Spesso  schifa  ria  fortuna 
Chi  ti  tlen  per  guida  e  scorta, 
Poi  satolli  chi  digiuna; 
Chi  '1  tuo  peso  lieto  porta 
Amor  gli  apre  alfin  la  porta: 
Del  tuo  assenzio  nasce  el  mele: 
Se  mia  donna  fu  crudele , 
Or  per  te  mi  dà  la  spica , 

Cara  e  dulce  mia  fatica. 

CANZONETTA  D'AMORE 

COMPOSTA   DAL  MEDESIMO   POETA    BELINZONE,   A   CON- 
TEMPLAZIONE  DI   BERNARDINO   MUSICO. 

Ognun  canti  viva  Amore, 
Poi  che  ognun  per  quello  è  nato, 
Chi  non  fu  mai  'nnamorato 
Senza  frutto  è  proprio  un  fiore. 

Ognun  canti  viva  Amore. 

Ma  voi ,  donne,  doreresti 
Come  belle,  esser  pietose. 
Né  tener  gli  amanti  mesti 
Con  parole  dispettose; 
Ma  pensar  comò  le  rose  ' 

.'  Como  le  rose.  Como  per  Come  fu  usato  spes- 
so dagli  antichi,  che  forse  vollero  conservare  il 
suono  affine  al  quomodo,  da  cui  per  avventura 
nacque  il  nostro  Come. 


f 


t 


206  CANZONETTA. 

Vi  cadrai!  presto  dal  volto, 
E  '1  poter  vi  sarà  tolto 
Di  far  grazie;  e  piangerete: 
Però  el  tempo  non  perdete, 
Che  molti  anni  son  poche  ore. 

Ognun  canti  viva  Amore. 

Quanto  amore  e  quanta  fede, 
Quanti  pianti  e  pazienzia 
'N  un  amante  ognor  si  vede 
Per  trovare  in  voi  clemenzia! 
Né  voi  fate  conscienzia  ^ 
Tener  un  sempre  nel  foco; 
Ma  pigliarne  festa  e  gioco, 
Ma  per  ben  più  crudeltate. 
Senza  amor,  fede  e  pietate  , 
Non  può  stare  un  gentil  core. 

Ognun  canti  viva  Amore. 

Ben  son  certi  sciocchi  amanti, 
Che  dimostron  forte  amare , 
Con  lor  cenni  soni  e  canti, 
E  imbasciate  a  voi  mandare  : 
Questi  son  da  dileggiare, 
Che  sol  han  questo  piacere  : 
Fanno  ognun  sempre  avvedere 
Con  lor  fior  nelle  berrette:  2 


1  Né  voi  fate  conscienzia.  Né  vi  rimorde  la  co- 
scienza, non  vi  credete  di  fare  opera  spietata. 

2  Con  lor  fior.  Nota  il  costume   di  portare  i 
fiori  sulla  berretta  per  atto  di  galanteria. 


CANZONETTA. 


207 


Costor  son  tutti  civette  • 
Che  non  amon  vostro  onore. 

Ognun  canti  viva  Amore. 
Ma,  se  è  savio  il  vostro  amante, 
Vaghe  donne,  avete  il  torto 
Aver  cor  di  diamante, 
Né  li  dar  qualche  conforto: 
Quando  poi  il  vedrete  morto, 
E  fra' lumi  steso  in  chiesa 
D'  aver  fatto  tanta  offesa 
P'iangerete  in  su  la  spoglia 
L'amor  vostro  e  la  sua  docclia. 
Bei  fin  fa  chi  d'amor  more.  2 

Ognun  canti  viva  Amore. 


1  Civetta.  Vagheggino  lezioso  e  smanceroso. 
Ora  si  dice  solo  delle  donne  vane,  che  uccellano 
ai  giovanotti. 

2  Bel  fin  fa  ecc.  È  tolto  dal  Petrarca,  il  qual 
disse  con  non  lodevole  bisticcio: 

Che  bel  fin   fa  chi  ben  amando  more. 


208 

FESTA  OSSIA  RAPPRESENTAZIONE 

CHIAMATA  PARADISO  CHE  FECB  PARE  IL  SIGNORE 
LUDOVICO  IN  LAUDE  DELLA  DUCHESSA  DI  MILANO,  B 
COSÌ  CHIAMASI,  PERCHÈ  VI  ERA  FABBRICATO  CON  IL 
GRANDE  INGEGNO  ED  ARTE  DI  MAESTRO  LIONARDO 
VINCI  FIORENTINO  IL  PARADISO  CON  TUTTI  LI  SETTE 
PIANETI  CHE  GIRAVANO,  E  LI  PIANETI  BRANO  RAP- 
PRESENTATI DA  UOMINI  NELLA  FORMA  ED  ABITI  CHE 
SI  DESCRIVONO  DAI  POETI ,  E  TUTTI  PARLANO  IN  LODE 
DELLA  PREFATA   DUCHESSA   ISABELLA. 1 

V  Angelo  prima  annunzia  : 

Attenti!  udite  tutti,  incliti  viri, 
La  grazia  che  a'  mortali  in  terra  piove, 
El  ciel  vostro  triunfo  par  che  miri, 
E  '1  gran  Monarca  le  sue  spere  move. 
Tace  r  inferno,  e  posansi  i  martiri  : 
Per  vostra  festa  in  terra  qui  vien  Giove; 
E  gran  cose  vedrete  mai  vedute 
Per  onor  d'Isabella  e  sue  virtute. 

Giove  in  Cielo  nella  sua  spera  parla  a' pia- 
neti, dicendo  che  vuol  discendere  in  terra. 

Sento  sì  gran  dolcezza  nella  mente, 
0  figliuoli,  o  ministri  delle  spere, 
Per  Isabella,  che  all'umana  gente 
Risplende  sì,  che  or,  per  mio  piacere, 

'  Vedi,  lettore,  che  questo  cappellino  miesso 
alla  Poesia  del  Bellincione,  ci  ricorda  un  mec- 
canismo trovato  da  Leonardo,  e  una  prova  del 
suo  grande  ingegno. 


FESTA   OSSIA    RAPPRESENTAZIONE.  209 

In  terra  voglio  andar  personalmente 
Per  onorarla ,  e  farvela  vedere. 
La  notte  al  mondo  fa  parere  el  die;  i 
Eir  è  Tonor  dell'altre  opere  mie. 

Apollo  si  maraviglia  di  tanto  lume. 

0  glorioso,  o  nostro  eterno  Jiove, 
Che  uovo  lume  è  questo  onde  mi  duole ,  2 
Che  virtù  tante  in  grembo  a  quella  piove, 
Che  al  mondo  ferma,  colle  sue  parole. 
La  superbia  de'  fiumi,  e'  monti  move? 
Arestù  mai  creato  un  novo  Sole? 
Chi  mi  fa  cieco?  ajuta  or  che  bisogna: 
Se  quella  onori ,  a  me  non  far  vergogna. 

Giove  dice  ad  Apollo  che  non  si  maravigli. 

0  grato  Apollo  mio,  non  ti  dolere, 
Qual  fusti  sempre  a  me  sarai  diletto  ; 
Quando  ti  feci  in  ciel  con  le  altre  spere, 
Quest'  altro  Sole  i'  mi  ritenni  in  petto. 
Piglia,  comò  fo  io,  di  quel  piacere. 
Né  di  perder  tuo  stato  aver  sospetto  ;  3 
Ma  sol  di  ringraziarmi  or  ti  conviene, 
Che  t'  ho  fatto  vedere  un  tanto  bene. 


1  La  notte  ecc.   Ella  ha  splendore    sì   divino, 
che  fa  parer  giorno  la  notte. 

2  Qnde  mi  duole.  Ne  sento  quasi  gelosia. 

3  Tuo  stato.  Il  tuo  grado,  la  tua  possanza, 

14 


210  FESTA   OSSIA    RAPPRESENTAZIONE.  i 

i 

Giove  dice  a  Mercurio  che  vada  a  far  cono-     1 
scere  a  Madonna  la  cagione  della  sua  ve- 
nuta. 


Andrai,  Mercurio ,  mio  orator  degno  ,  i 

A  trovar  quella  diva  alma  Isabella;  l 

E  di',  che  Giove  del  superno  regno  A 

Venuto  è  in  terra  per  onor  di  quella;  ; 

E  pel  diletto  suo  Duca  ancor  vegno,  i 
Per  l'alta  festa  ov' è  sì  chiara  stella; 

Dira'le,  intendi  ben,  che  in  terra  sono,  ' 

E  come  io  penso  farli  un  santo  dono.  ] 

Guarda,  Mercurio,  a  non  ti  far   vergogna:      '. 

Quattro  Mercurj  a  lei  saranno  a  lato,i  i 

Filomena  di  Roma  ;  e  poi  bisogna  ■ 
Pensarve  a  quel  fiorito  e  dolce  prato. 
Quell'altro  sacro  nome,  che  cicogna 

Fa  Ciceron  parere,  i'  l'ho  donato  ' 
A  quella  nova  Roma  per  suo  bene: 

Del  bel  Fior  Pandolfin  v'  è  Demostene.  i 

Mercurio  va  e  dice  a  Madonna:  ì 

0  specchio,  o  lume,  o  lampo  o  divin  sole,      ! 
0  miracol  maggior  della  Natura, 
Gloria,  fama  et  onor  della  tua  prole; 


1  Quattro  Mercurj.  Mercurio  era  anche  il  Dio 
della  facondia:  e  dicendo  quattro  Mercurj,  inten- 
de di  parlare  de' quattro  ambasciatori,  di  Roma, 
di  Venezia,  di  Napoli  e  di  Firenze. 


FESTA   OSSIA    RAPPRESENTAZIONE. 


211 


0  bella,  o  diva,  angelica  figura, 
Vero  secreto  del  superno  regno, 
Nel  tuo  bel  viso  el  ciel  or  si  misura. 

Quel  che  vide  l' amata  farsi  in  legno ,  ^ 
E  che  divenne  per  amor  pastore, 
Vergognoso  è  d'invidia  e  pien  di  sdegno. 

Che  vinto  resta  or  qui  dal  tuo  splendore , 
Unde  a  Giove  n'  esclama,  e  dolsi  alquanto 
Che  di  perder  suo  stato  ha  gran  timore. 

Se  non  che  Giove  col  suo  sacro  manto 
Mi  toccò  gli  occhj  :  or  qui  ben  diverrei 
Qual  Meleagro  al  tizzo  in  doglia  e  'n  pianto  ;  2 

Altrimente  sguardar  non  ti  potrei, 
Né  dir  le  laude  tue,  santa  Fenice, 
Se  '1  tuo  lume  ferisse  or  gli  occhj  miei. 

El  dir  quanto  conviensi  a  pochi  lice: 
Se  già  vinsi  Argo  con  mia  dolce  cetra, 
Tu  delli  Dei  triunfì  il  ver  me  dice. 

Ma  grazia  assai  da  te  per  me  s' impetra , 
Che  fai  silenzio  ;  eh'  io  non  son  sì  cauto , 
Che  a  tue  parole  i'  non  venissi  pietra. 

Di  Giove  scrisse  il  gran  comico  Plauto 
Che  venne  in  terra  per  amor  d' Alcmena, 
Et  io  feci  parer  quel  Sosia  incauto. 


1  Quel  che  vide  ecc.  Apollo,  che   vide  Dafne 
cambiarsi  in  albero. 

2  Diverrei  qual  Meleagro.  Verrei  meno  al  mio 
assunto,  mi  consumerei,  come  Meleagro  si  consu- 
mò  all'arder  del  tizzo. 


212  FKSTA    OSSIA    RAPPRKSENTAZIONE. 

Ma  or  per  te,  lucente  alma  serena, 
In  propria  forma  vien  col  divin  trono, 
E  le  spere  e  gli  Dei  con  seco  mena 

Per  onorarti;  ed  io  Mercurio  sono 
Suo  nuncio,  e  vuol  ti  dica  per  sua  parte 
Che  'n  terra  è  qui  per  farti  un  santo  dono. 

Mercurio  parla   a    Giove    della    ambasciata 
sposta  a  Madonna. 

0  Giove  eterno,  o  motor  primo,  ed  alto 
Principio  e  mezzo  e  fin,  misura  vera, 
Or  più  che  mai  te  onoro  e  sempre  esalto. 

Veduto  ho  la  divina  primavera. 
Un  Sol,  una  letizia,  un  sacro  aspetto 
Uno  specchio,  ove  io  vidi  quel  ch'io  era. 

Tacendo,  parla  e  mostra  uno  intelletto 
Ch'e'suoi  sembianti  dicono  a  chi  guarda: 
Beato  or  se'  nel  nostro  alto  suggetto. 

Ma  ben  di  parlar  molto  or  ti  riguarda , 
Che  alle  superne  cose  è  sempre  intenta; 
Al  mondo  fredda ,  al  eie!  par  che  sempre  arda. 

Apollo  ha  ben  ragion  se  si  lamenta. 
Che  questa  spegne  lui,  come  lui  in  cielo 
Ogni  stella  lucente  ha  sempre  spenta.  ' 

Lo  spirto  glorioso  in  quel  bel  velo. 
In  career  no;  ma  ben  libero  e  sciolto 
Va  in  cielo  e  torna,  e  dice:  In  lei  mi  celo. 


'  Come  lui  in  cielo.  E  di  fatto  il  poeta  cantò, 
al  medesimo  proposito: 

Come  fa  il  ciel  delle  minori  stelle. 


FESTA    OSSIA    RAPPRESENTAZIONE.  213 

Dolce  concènto  in  gran  silenzio  ascolto, 
E  con  Palla  Imeneo  fanno  temperia:  ' 
Quanto  ha  di  bene  el  mondo  ha  in  grembo  accolto. 

Da  mille  anni  cantar  ne  dà  materia  ; 
E  sua  età,  di  lei  degna,  è  ben  quella 
Appresso  a  quattro  Soli;  e  farsi  Esperia 

Per  questi  più  che  mai  felice  e  bella 
Un  pastor  v'è,  che  fa  dolce  concento: 
'N  un  bel  prato  fiorito  era  Isabella. 

In  questa  ultima  età  sicuro  armento 
Jeronimo  Donato,  e  ben  Donato  2 
Dal  ciel,  si  che  Nettun  or  n' è  contento. 

Novo  Ermolao  che  al  Mor  fu  tanto  grato:  ^ 
La  petra  ove  Filippo  or  lieto  siede 
Frutto  del  Sol  che  '1  Lauro  n'  ha  mostrato. 

Tanta  eccellenzia  e  gloria  in  lei  si  vede 
Che  penso,  o  Giove,  che  tu  l'hai  creata 
Per  farla  del  tuo, stato,  0  Giove,  erede. 

0  Giove,  ho  fatto  a  lei  la  tua  ambasciata; 
Ma  quella  venne  trepida  et  umile, 

Unde  si  fé  più  bella,  a  te  più  grata. 

1  Con  Falla  ecc.  La  sapienza  di  Isabella  si  fa 
più  efficace  e  mirabile,  essendo  essa  sposata  al 
Duca. 

2  Jeronimo  Donato-  Sembra  che  allora  il  Do- 
nato fosse  orator  veneto  appresso  il  Duca,  come 
abbiam  veduto  essere  il  Pandolfini  orator  fioren- 
tino. 

3  Novo  Ermolao  ecc.  Dice  che  il  Donato  sarà 
un  altro  Ermolao  Barbaro,  stato  già  oratore  ap- 
presso il  Moro,  e  da  lui  molto   amato. 


214  FESTA   OSSIA   RAPPRESENTAZIONE. 

Quanto  se' tu  cortese,  eli' è  gentile; 
Altro,  Giove,  da  te  mai  più  non  voglio. 
Se  '1  mondo  e  '1  ciel  non  ha  cosa  simile. 

Sì  che  a  più  disiar  sarebbe  orgoglio. 
0  Diana,  e  tu,  o  Vener,  meco  insieme 
Laudate  or  Giove  che  al  mortale  scoglio 

Vi  fa  cose  veder  tanto  supreme. 
Se  di  voi  desti  a  lei  la  meglior  parte,  ' 
Forse  dolor  d'invidia  el  cor  vi  preme; 

Che  fatta  è  più  di  voi  con  maggior  arte 
Ippolita:  e  nel  ciel  che  tanto  amate, 
0  biondo  Apollo,  o  vittorioso  Marte, 

Con  meco  el  nostro  Giove  oggi  laudate: 
E  tu,  Saturno  ancor,  che  qui  ne  mostri 
El  vero  onorai  sue  cose  create. 

Parlato  Mercurio:  tutti  li  pianeti  ancora  lau- 
dano Giove  di  sua  venuta  in  terra,  e  pri- 
ma la  Luna  parla. 

0  Giove,  ben  ogni  tua  forza  e  'ngegno 
Mostrasti  a  far  costei  con  le  lue  mani; 
Ma  veramente  el  mondo  or  non  n'  è  degno. 
Se  tanta  grazia  hai  fatto  a'  ciechi  umani, 
Fa  questa  a  me,  che  morte  n'ara  sdegno, 
Che  farò  lieti  tutti  i  corpi  insani. 
Se  per  serva  mi  doni  ad  Isabella, 
Che  mai  non  vidi  in  ciel  simile  stella. 


'  Desti  a  lei.  Venere  gli  die  la  bellezza,  Diana 
la  castità. 


PESTA   OSSIA    RAPPRKSENTAZIONE.  215 

Venere  parla. 

0  Giove,  el  tuo  judicio  mai  non  erra: 
El  mondo  hai  fatto  d'ogni  ben  erede: 
Grazie  ti  rendo  del  venir  tuo  in  terra, 
Perchè  quanto  puoi  dar  oggi  si  vede 
In  Isabella,  qual  asconde  e  serra 
Frutto,  che  al  ben  d'Esperia  si  concede; 
Mie  bellezze  costei  reduce  in  cenere. 
Tanto  che  me  non  riconosco  Venere. 

Apollo  parla. 

r  sento  un  gaudio,  una  letizia  drento,  i 
0  Giove ,  con  questi  altri  Iddei  insieme  : 
Se  d'Isabella  prima  ebbi  spavento, 
Chi  '1  suo  stato  ama,  sai  che  dubbia  e  teme;  2 
Ma  or  di  sua  virtù  son  sì  contento. 
Che  di  star  qui  con  lei  disio  mi  preme. 
Consentii,  Giove,  a  me,  che  far  lo  puoi, 
Che  mai  piìi  notte  a  ranno  gli  occhj  suoi. 

Marte  parla. 

Bene  ogni  cosa,  altissima  corona, 
Tua  justizia  misura  e  ben  comparte: 
Ringrazio  or  te,  che  un  chiar  Sol  d'Aragona 
E  di  Sforza  mi  mostri  in  questa  parte: 


1  Un  gaudio.  Qui  la  particella  un  ha  signifi-  j 
calo  di  un  gran,  cioè  mollo, 

2  Chi  'l  suo  stato.  Chi  ama  di  conservarsi  nel 

suo  stato,  nel  suo  grado.  ' 

t 


216  FESTA    OSSIA   RAPPRESENTAZIONE. 

Ma  per  me  l'arme  ormai  qui  s'abbandona, 
Poi  che  'I  mondo  suo  patre  chiama  Marte. 
r  ti  ringrazio  mille  volte,  o  Giove, 
E  chi  per  onorarla  oggi  si  move. 

Saturno  parla. 

0  Giove,  poi  che  tanto  ben  governi, 
E  le  grazie  dispensi  e'  ben  misuri , 
r  vo*  che  gli  anni  d' Isabella  eterni 
Al  mondo  sien ,  e  da  mie  man  sicuri  ; 
Che  bellezze  e  virtù  par  ch'io  discerni 
In  questa  sì,  che  a'  secoli  futuri 
Adorata  sera:  te  laudo,  o  Giove, 
Che  oggi  mi  mostri  cose  sante  e  nove. 

Giove  dice  a  Mercurio: 

Mercurio  dolce  mio ,  prudente  e  bono , 
Andrai  per  quelle  sette  mie  figliole  ' 
Che  in  compagnia  delle  mie  Grazie  sono. 
Che  le  vo'  dare  a  questo  divin  Sole 
Che  l'amo  sempre,  et  or  fogliene  un  dono: 
E  se  più  merta,  manco  or  non  si  vola, 
Ristorerolla  poi,  lassato  el  velo,  2 
Con  gli  altri  d'Aragona  e  Sforza  in  cielo. 

Giove  parla  alle  Virtù  e  le  Grazie  che  sono 
condotte  alla  sua  presenza. 

Dilettissime  mie  figliuole  care, 
Se  le  ministre  fusti  sempre  e  sete 

'  Per  quelle  sette,  cioè  Le  sette  virtù. 
2  Lassato  el  velo.  Morta  che  sarà. 


FESTA    OSSIA    RAI'PRKSENTAZIONE.  217 

Della  dolce  Isabella  sìngulare, 

Sino  air  ultimo  dì  la  servirete: 

Ma  ora,  Grazie  e  Virtù,  vi  vo'  donare 

A  quella,  uode  beate  ne  sarete. 

Amatela  e  servitela  con  fede 

Qual  Ippolita  già,  che  nel  ciel  siede. 

Parlato  Giove,   Apollo  dimanda  di  grazia  di 
presentare  tal  dono. 

0  magno  Giove ,  o  patre  dellì  Dei , 
Se  concedesti  a  me  la  luce  pura , 
E  per  tua  grazia  gli  altri  effetti  miei 
In  gloria  e  'n  beneficio  di  Natura, 
Questa  grazia  or  da  te  sola  vorrei , 
El  don  portare  a  sì  bella  figura  : 
Se  Mercurio  sdegnoso  a  questo  sento , 
Per  tuo  amore  e  sua  grazia  fia  contento. 

Giove  parla  ad  Apollo,  e  ammonisce  che  pri- 
ma sì  era  doluto  quando  vide  Isabella,  ed 
ora  desiderava  servirla. 


Un'altra  volta,  o  dolce  Apollo  caro, 
Non  ti  voler  dolere  avanti  al  fine: 
Quel  che  or  t'è  dolce  in  prima  t'era  amaro. 
Quando  vedesti  sue  luce  divine. 
Così  fa  il  verno,  di  fioretti  avaro. 
Ma  poi  le  rose  nascon  da  le  spine  : 
Spesso  si  ride  dopo  un  lungo  pianto , 
E  '1  cigno  anco  poi  muor  nel  dolce  canto. 


218         FESTA    OSSIA    RAPPRESENTAZIONE. 

Onora,  e  lauda  et  ama  e  voler  miei, 
Né  si  pensi  più  là ,  eh'  io  veggio  el  tutto. 
Sai  che  fu  detto  —  Mitte  arcana  Dei  —  ^ 
E  tal  volse  alla  terra  el  tempo  asciutto, 
Che  dice:  Quel  ch'io  volsi  or  non  vorrei. 
Non  si  judica  ben  nel  fiore  il  frutto: 
Tu  d'Isabella  el  suo  lume  temesti. 
Or  chiedi  in  grazia  quel  che  non  volesti. 

r  veggo  ,  Apollo,  ben  che  a  te  conviensi 
Quel  che  per  grazia  el  tuo  disio  dimanda; 
A  tre  cose  nel  don  par  che  si  pensi: 
Al  dono,  a  chi  fa  el  dono,  a  chi  si  manda. 
Se  '1  primo  se'  fra  luminari  immensi , 
Nelle  tue  mani  il  don  si  raccomanda; 
E  che  '1  presenti  per  mia  parte  a  quella, 
Primo  lume  del  mondo  oggi,  Isabella. 

Apollo  presenta  il  dono  e  dice  a  Madonna  : 

Salve,  diletta,  gloriosa  e  bella. 
Oggi  in  tuo  grembo  tanta  grazia  piove  ; 
0  lume  d'Aragon,  di  Sforza  stella, 
A  te  mi  manda  il  gran  tonante  Giove , 
E  dice  che  tu  sei  la  mia  sorella, 
Onde  mei  mostra  per  tue  dive  prove, 
E  che  nascesti  già  con  meco  in  Delo, 
Tu  primo  lampo  al  mondo,  io  primo  in  cielo.  ^ 


1  Mitte  arcana-  Lascia  stare  ;  Non  entrar  ne 'se- 
creti di  Dio. 

2  Primo  lampo.  Prima  luce  vivissima  tra  tutte. 


FESTA    OSSIA    RAPPRESENTAZIONE.  219 

Colui  eh'  e  cieli  e  '1  mondo  e  '1  cieco  inferno 
Ha  fatto,  e  quel  che  tutto  in  sé  comprende, 
E  move,  e  guida,  e  regge  et  ha  in  governo 
Ogni  cosa,  e  punisce  e  premio  rende, 
Senza  principio  e  fin  tutto  in  eterno, 
Per  te  dal  ciel  in  propria  forma  iscende  ; 
E  non  quanto  conviensi  oggi  ti  munera. 
Ma  parte  d' i  tuoi  meriti  remunera. 

Per  onor  del  gran  sangue  d'Aragona, 
E  di  quella  alta  stirpe  Sforza  degna , 
Per  te  si  fa  tal  festa,  e  '1  ciel  ragiona: 
Se  '1  Duca  e  Ludovico  ognun  s' ingegna 
Di  farti  onore,  e  Giove  anche  in  persona 
È  qui  venuto ,  e'  par  si  gli  convegna 
Cogli  altri  Dei  a  sì  magno  spettaculo , 
Che  pure  a  veder  te  gli  par  miraculo. 

E  vuol  tornarsi  in  ciel  col  divin  trono  : 
E  benché  queste  donne  benedette 
A  tua  custodia  sempre  avesti ,  e  sono , 
Queste  tre  Grazie  e  l'altre  Virtiì  sette, 
Te  le  concede  a  questa  volta  in  dono: 
Speranza,  Fede  e  Carità  son  dette, 
Justizia,  Temperanza  con  Prudenza, 
Fortezza.  Accetti  il  dono  tua  Eccellenza. 

Mostra  Apollo  a  una  a  una  le  virtù  e  le  loro 
proprietà. 

Ecco  Justizia,  quale  il  tutto  regge; 
Fortezza  che  al  ben  far  fa  1'  uom  costante  ; 
Prudenzia  ha  pie  di  piombo  a  chi  corregge  ; 
Temperanza  alle  furie  un  fren  pesante; 


220  FESTA    OSSIA    RAPPRESENTAZIONE. 

Speranza  al  ciel  salir  chi  el  bene  elegge; 
Fede  ove  pace  tien  salde  le  piante; 
Ecco  la  Carità  divin  tesoro, 
E  le  tre  Grazie  che  hai  per  grazia  loro. 

Apollo  dona  a  Madonna  un  libretto,  ove  erano 
«        tutti  i  versi  della  Festa  e  dice: 

Per  ritornar  più  grato  al  signor  mio, 
Del  magno  beneficio  ricevuto 
D'essere  stato  delli  Dei  sol  io 
Ch'el  divin  don  ti  porsi  e  ben  dovuto; 
Per  satisfare  al  suo  e  mio  disio 
Ch' i' ti  ringrazi,  essendo  a  più  tenuto, 
Dono  a  te  sol  le  mie  poche  faville  , 
Versi  che  di  te  sorisson  le  Sibille. 

Apollo  si  volta  alle  Ninfe  e  dice  : 

0  fortunate  e  care  mie  sorelle, 
Venerate  costei  con  dolce  zelo: 
In  compagnia  del  sol  sarete  stelle; 
E  quando  al  mondo  lei  lasserà  il  velo,  ^ 
Sarete  a  Giove  allor  più  grate  e  belle 
A  render  questa,  d'onde  venne,  al  cielo: 
Di  vostro  tanto  ben  mio  cor  ne  gaude. 
Da  voi  parto;  e  cantate  or  le  sue  laude. 


'  Il  velo.  La  spoglia  mortale. 


221 

CANZONE  DELLE  TRE  GRAZIE. 

Noi  siam  tre  sante  Grazie 
Elette  a  tuo  onore 
Per  far  tue  voglie  sazie  ; 
Ma  ben  grazia  maggiore 
Abbiàn  per  tua  virtue , 
Che  Giove  ci  fa  tue, 
A  noi  maggior  corona 

O  lume  d'  Aragona. 

Laudato  sempre  sia 
Jiove,  che  ne  fé  degne 
Di  questa  compagaia  : 
Da  noi  savamo  indegne  ^ 
Di  star  con  Isabella. 
La  qual  vince  ogni  stella; 
E  Jiove  a  lei  ci  dona 

0  lume  d'Aragona. 


CANZONE  DELLE  SETTE  VIRTÙ.  j 

0  summo  Jiove,  o  summo  Jiove,  '] 

Fatto  hai  il  mondo  oggi  felice  ■ 

Dando  a  quel  questa  Fenice  ■ 

La  qual  mai  si  vide  altrove.  *                ■ 

El  giudicio  tuo  non  erra ,  .  •  v] 
Se ,  per  la  tua  luce  altera , 

1  Savamo.  Eravamo.  Questo  plebeismo,  che  si  1 

trova  usato  solamente  in  questo  tempo  del  verbo  .] 

Essere,  il  Nannucci,  senza  altra  prova,  lo  fa  ve-  \ 
nire  dal  verbo  Sare  I!                                                                    ' 


222  CANZONE. 

Ti  degnasti  quaggiù  in  terra 
Venir  sacro  in  forma  vera 
Isabella  è  primavera: 
'N  pioggia  d'oro  né  'n  pastore,  ' 
Tu  non  vien;  ma  solo  onore 
D'Isabella  or  qui  ti  move: 

Sia  laudato  el  summo  Jiove. 

Quando  l'alma  tu  spirasti 
Nel  bel  vel  qui  d'Isabella, 
Tu  sai  ben,  ci  comandasti 
Noi  r  avessin  per  sorella  ; 
Ma,  se  or  ci  doni  a  quella. 
Più  che  pria  felici  siano, 
Però  sempre  ti  laldiàno 
Di  tal  grazia ,  o  summo  Giove. 

Ite,  Ninfe,  in  selve  e  'n  fiume 
Vogliàn  ir  con  Isabella: 
A  noi  date  i  vostri  lumi. 

SONETTO  CXCIV. 
all'  okatore   della  santitX   del  papa   parlando 

A    ROMA. 

Questo    sonetto  è  lo  stesso  di  quello  che  vedesi  riportato 
a  pag.  50  di  questo  volume,  e  però  non  si  ripete. 


1  'N  pioggia  d'oro.  Tu  non  sei  venuto  trasfor- 
mato o  in  pioggia  d'  oro,  o  sotto  spoglie  pasto- 
rali, come  quando  venivi  al  mondo  per  cose  amo- 
rose; ma  sei  venuto  con  la  tua  divinità,  solo  per 
onorare  Isabella, 


SONETTI. 

SONETTO  CXCV. 

all'  oratore   pel    re. 


223 


Veggio  di  Roma  un  suo  bello  antico  orto 
Un  bon  coltivator  lavorar  tutto , 
Che  parte,  non  per  sé  tien  tutto  el  frutto, 
Sì  che  Giove  ne  gusta  assai  conforto,  i 

Perchè  al  ben  far  si  sforza,  assai  l'esorto 
Che  a  quell'amata  mia  non  porga  lutto; 
Sforzandosi  così  non  fia  distrutto 
L'onor  d'Esperia  tristamente  a  torto. 

Giove  è  qui  in  terra  sol  per  fare  onore 
Alla  diva  Isabella,  e  perchè  vede 
Fiorire  un  Moro  a  suo  triunfo  e  fama. 

E  'n  un  bel  prato  lei  sì  posa  e  siede. 
Ove  fioretti  son  d'  un  tale  odore 
Che  tutta  Italia  quelli  onora  et  ama. 

SONETTO  CXCVI. 

all'  oratore  veneziano,  e  parla  apollo  dicendo 
che  mai  più  vide  giove,  se  non  ora,  per  i  meriti 

d'  ISABELLA,   ED  ANCHE    L*  ORATORE  PER  SUB  VIRTÙ 
LO   VEDE,    E  LA   TERRA    HA    INVIDIA    A    VENEZIA. 

Questo  sonetto  è  lo  stesso  che  qnello  stampato    a   pag,    6S 
del  I  volume  ;  e  però  non  si  ripete. 


1  Parte-  Partisce;  Ne  fa  parte  altrui. 


224  SONKTTI. 

SONETTO  CXCVII. 

all'  oratore  fiorentino,  parlando  apollo  a  FIO- 
RENZA, CHE  È  LIETA  ALL'  OMBRA  DEL  LAURO  (DI 
LORENZO)  ESSEf/DO  IL  LA.URO  L'aLBERO  AMATO  DA 
APOLLO,  PERÒ  SI  RALLEGRA  E  NE  RINGRAZIA  QUEL- 
LA REPUBLICA,  CHE  LO  AMA,  LAUDANDO  l'orATORE. 

Co' fiori  in  grembo  un'altra  donna  bella  ' 
Veggio,  che  nova  Atene  el  mondo  canta, 
Lieta  posarsi  a  T  umbra  della  pianta, 
Che  tanto  amai  in  viva  forma  quella. 

Fragrami  alberga  una  divina  stella, 
Unde  piove  splendore  e  virtù  tanta, 
Che  quella  prima  età  sicura  e  santa 
Ritornerà:  per  questa  el  ciel  favella. 

Ben  sarei  ingrato,  e  del  veder  poi  lippa, 
Non  commendar  colei  che  ama  il  mio  Lauro, 
E  che  si  sforza  sempre  fargli  onore. 

Ma  la  ringrazio  ancor  che  Pier  Filippo  ^ 
Abbia  mandato  or  qui,  suo  ver  tesauro, 
In  testimon  del  dolce  antico  amore. 

I 

SONETTO  CXCVIIL 

all'  oratore   di   FERRARA    MESSER  GIACOMO  TROTTO. 

Questo  stesso  sonetto  trovasi  a  pag.  36  di  questo  volume; 
e  però  non  si  ripete. 

1  Co' fiori  in  grembo.  La  belladonna  co' fiori 
in  grembo  è  Firenze. 

2  Pier  Filippo.  Pier  Filippo  Pandolfini,  oratore 
di  F'irenze. 


EGLOGA.  225 

QUESTA  SEGUENTE  OPERETTA  FECE  FARE  IL  SIO.  CONTE 
DI  CAIAZZA  A  UNO    CERTO    SUO    PROPOSTO.  SE  CHIAMA 

EGLOGA,  o  VERO   PASTURALE,  però  che   in 

QUESTA    s'introducono    CERTI   PASTORI,  CHE    PAR-- 
LANO  e  d/sPUTANO    d'  amore,    db'  QUALI   NE   PARLA 
PRIMA  UNO  CHIAMATO    SILVANO  ,  CHE  SECO  COSÌ  PAR- 
LANDO  SI   LAMENTA    d'  AMORE. 

Sia  maledetto  il  giorno , 
Che  in  quel  bel  viso  adorno 
Amor  pose  mia  morte!  ^ 
Crudel  dura  mia  sorte! 
Di  pianto  sol  mi  pasco, 
E  s' i'  moro ,  i'  rinasco 
Per  dover  rimorire: 
Così  per  ben  servire 
Non  ho  mai  giorno  lieto. 
Amaro  frutto  mieto, 
E  pur  fu  dolce  el  seme! 
Infra  due  cose  estreme 
Amando  mi  ritruovo: 
Quando  piango  a  lei  giovo , 
Et  a  me  pur  dispiace: 
Poi  '1  pianto  ancor  mi  piace, 
E  ridendo  mi  ^ploglio. 
Non  so  quel  eh'  io  mi  voglio , 
Lei  sa  quel  eh'  io  vorrei  : 
Quante  cose  direi 


'  Amor  pose  mia  morte .  L'  innamorarsi  perdu- 
mente  si  soleva  chiari 
sato  r  Ut  vidi,  ut  perii. 


tamente  si  soleva  chiamar  morte:  qui  è  parafra- 


15 


226  EGLOGA. 

Che  per  men  mal  le  lasso! 
Se  tanto  sopra  un  sasso, 
r  dico,  avessi  io  pianto, 
Non  sare'  stato  tanto 
Quanto  è  costei  acerba. 
Prima  tra'  fiori  e  l' erba , 
A'  boschi ,  a'  colli,  a'  monti , 
La  state  all'  ombra  e  fonti 
Mi  stavo  con  1'  armento 
In  povertà  contento, 
Sotto  un  abete ,  o  rovero  ; 
Fra'  miseri  or  m'  annovero  ; 
Che  d' affanni  mi  carico , 
E  indarno  mi  rammarico. 
Mentre  che  lei  mi  lacera, 
Voi  eh'  i'  rida,  e  mi  macera  ^ 
Con  quel  bel  viso  adorno. 
Sia  maledetto  il  giorno,  ecc. 

Seguita  Silvano  ancor  dolendosi. 

Quanto  chiamar  mi  posso  sventurato 
Poi  che  d'amor  la  gran  percossa  sento! 
Se  qualche  giorno  lieto  i'  sono  stato 
Mi  posso  lamentar  per  ogn'  un  cento.  2 
Quanto  era  me'  eh'  i'  fussi  innamorato 


1  Mi  macera.  Mi  tormenta  e  mi  consuma. 

2  Mi  posso  ecc.  Per  un  solo  giorno  ch'io  sia 
stato  lieto,  mi  tocca  a  lamentarmi  cento  giorni 
per  tali  pè^||psse  d'amore.  ^ 


i 


KGLOOA.  221 

Como  solevo,  del  mio  dolce  armento, 
Che  seguir  questa  donna  che  mi  strugge, 
E  quanto  più  la  seguo  più  mi  fugge! 

Tristo  a  chi  crede  troppo  alle  parole 
Di  donna,  benché  mostri  esser  pietosa! 
Guardati  allor,  perchè  ingannar  ti  vole, 
Che  r  esca  e  1'  amo  asconde  nella  rosa.  ' 
Quanto  un  nuvol  la  state,  o  '1  verno  el  sole, 
Dura  sua  fede;  e  nota  un'altra  cosa: 
Chi  d'Amor  qualche  giorno  lieto  spera, 
Non  lodi  quello  innanzi  che  sia  sera.  ^ 

Giunge  Piride,  il  secondo  pastore,  e  Silvano 
lo  dimanda  : 

Piride  mio,  onde  vien  tu  o  vai, 
Che  ti  mostri  cosi  lieto  nel  core? 

Piride  risponde  : 

Y  non  tei  posso  dir;  ma  tu  el  vedrai 
In  breve ,  comò  e'  n'  è  cagione  Amore. 
Ma  tu,  Silvano,  in  tal  parte  che  fai, 
Che  ti  mostri  così  pien  di  dolore? 

1  L'esca  e  l'amo  ecc.  Nel  riso  delle  rosee 
labbra  nasconde  il  tradimento.  Il  paragone  non 
corre,  dacché  1'  esca  e  V  amo  non  hanno  che  far 
con  le  rose. 

2  Non  lodi  ecc.  Non  se  ne  lusinghi,  che  pri- 
ma d'  arrivare  alla  sera  ne  proverà  il  contrario. 
Dice  il  dettato  :  L'opera  il  fine,  e  il  dì  loda  la  sera. 


»» 


i 

228  EGLOGA,  \ 

Silvano  \ 

Non  d'  altro  che  d'  Amore  è  il  pianto  mio  :  i 

Stu  sei  lieto  ora,  ancor  farai  com' io.  ^  ] 

Mentre  che  libertà  seco  ti  tenne, 
Tu  non  lo  cognoscesti,  o  poverello,  ' 

Amor,  che  a  te  con  gran  promesse  .venne , 
Un  viver  ti  promisse  assai  più  bello  : 
Tu  M  credi,  perchè  se'  di  prime  penne 2 
Nella  sua  rete  un  semplicetto  uccello: 
Però,  Piride  mio,  i'  ti  conforto 
Che  del  mio  esemplo  tu  ti  facci  scorto. 

Piride  a  Silvano  : 

Silvano,  e'  mi  dispiace  el  tuo  dolore; 
Ma  ben  da  te  saper  sarei  contento 
Quel  che  sia  questo  nostro  detto  amore, 
Che  me  fa  lieto,  e  te  tiene  in  tormento. 
Or  caldo,  or  freddo  sento  avere  il  core, 
Or  lieto,  or  tristo,  e  pur  macro  divento. 
E  da'  consiglio  a  me ,  se  mai  m'  amasti , 
E  dimmi  come  tu  t'innamorasti. 


1  Ancor.  Anche  tu,  alla  tua  vicenda,  sarai  do- 
lente come   me. 

2  Se'  di  prime.  Sei  giovane  e  inesperto.  Dante 
disse: 

Nuovo  augelletto  due  e  tre  aspetta. 
Ma  dinanzi  alla  schiera  de'  pennuti. 
Rete  sì  tende  invano  o  si  saetta. 


EGLOGA.  220 

Silvano  dice  corno  s'  innamorò  : 

Quella  eh'  io  cerco,  un  dì  discinta  e  scalza 
Vidi  coi  fiori  e  ghirlandette  fatte  : 
Passando  un  fiumicello,  e  panni  s'alza, 
Mostrò  le  gambe  che  parien  di  latte; 
Percosse  un  pesce  in  quelle,  e  sguizza  e  sbalza  : 
Lei,  per  piacer,  con  lui  scherza  e  combatte: 
Rise  e  sguardommi ,  onde  io  arsi  di  quella, 
Che  si  mostrò  pietosa  come  bella. 

Un'  altra  volta  all'  ombra  in  un  boschetto 
La  vidi  con  un  bianco  agnello  in  braccio, 
Cantando  un  rusignol,  ne  avea  diletto, 
E  disse  a  me:  Silvan,  poi  ch'io  ti  piaccio, 
r  vorrei  pur  pigliar  quell'uccelletto: 
Adiutarai  un  po'  tender  questo  laccio , 
Dissi:  Sta  lieta,  s' tu  non  pigile  quello, 
In  gabbia  alla  cascina  honne  un  più  bello.  ' 

Misero  or  me!  che  fu'  già  quell'uccello 
Che  cantai  lieto  a' boschi  e  le  campagne, 
Ora  al  laccio  d'  Amor  son  proprio  quello 
Preso  per  imparar  corno  e'  si  piagne! 
Prima  mi  stavo  col  mio  armento  bello, 
Grasso  di  latte,  nespole  e  castagne; 
La  state  a  l'ombra  a  vagheggiar  mie  torme, 
E  la  notte  sicuro  che  si  dorme. 


1  Alla  cascina.  È  il  luogo  dove  si  fa  il  cacio, 
e  sta  bene  ad  un  pastore.  La  stampa  legge  Ca- 
sina; ma  nel  codice  raagliabechiano  si  legge 
bene  cascina. 


230  EGLOGA. 

Or  fatto  son  di  quei  miseri  amanti, 
Che,  per  aver  d'amore  un  dolce  sguardo, 
Spendon  mille  sospiri  e  mille  pianti; 
Amore  ha  gran  piacer  d'  esser  busardo.  ' 
Or  come  '1  cigno  voi  che  io  mora  e  canti, 
E  quando  i'  grido  a  lui  :  Pietà ,  eh'  i'  ardo , 
Mi  porge  legne,  e  ride  in  festa  e  in  gioco, 
E  dice:  Col  tuo  pianto  spegni  el  foco. 

Un  altro  pastore  chiamato  Alfeo,  stato  ascoso 
con  un  figliolino  che  ha  seco,  ha  inteso  tut- 
to quello  che  ha  detto  Silvano  a  Piride,  e 
si  presenta  e  dice  : 

0  Piride,  o  Silvano  ,  i'  sono  stato 
Ascosto  drieto  a  voi ,  e  tutto  ho  inteso  ; 
E  come  tu,  Silvan,  se' disperato, 
Piride  è  lieto  eh'  è  d'  amore  acceso: 
E  tu,  Silvan,  l'hai  tanto  sconfortato, 
Che  del  suo  bene  sta  tutto  sospeso. 
Or  vo'  provar  come  tu  sei  in  errore, 
E  Piride  beato  è  per  amore. 

Lassa,  Piride  mio,  pur  dir  Silvano; 
Ch'  i' sono  stato,  e  sono  innamorato; 
E  non  trovo  che  Amor  sia  sì  villano 
A  chi  gli  serve,  anzi  è  diletto  e  grato; 
Ma  ben  si  trova  qualche  amante  strano. 
Che  vorrebbe  in  un  giorno  esser  beato; 

'  Busardo  per  Bugiardo  non  lo  scrisse  certo 
il  Bellincioni  fiorentino;  ma  è  un  regalo  fattogli, 
come  tanti  altri,  dall'editor  milanese. 


EGLOGA.  231 

Ma  s'  è  veduto  per  esperienzia 
Che  ogni  gran  cosa  fa  la  pazì'enzia. 

Pel  gran  nostro  Iddio  Pan,  eh'  i'  non  vorrei, 
Piride  mio,  avermi  a  innamorare. 
Rustico  stavo  con  gli  armenti  miei, 
A  sentir  sempre  pecore  belare: 
Or  mi  par  esser  simile  agli  Dei. 
D'  aver  tu  inteso  puo'ti  ricordare 
Sì  come  Apollo  già  si  fé'  pastore  ; 
E  tutto  fu  che  così  volse  Amore. 

Or  piglia  esemplo  da  la  primavera  : 
Senza  Amor  che  potrebbe  far  natura? 
Omini,  pesci,  uccei,  mostri,  ogni  fera, 
E  ciò  che  ha  vita  per  Amor  qui  dura.  ^ 
Lassa  pur  dir  Silvan,  che  si  dispera 
Sol  per  veder  la  sua  Flora  un  po'  dura. 
Donna  vuol  ben  da  noi  Amore  e  Fede, 
Ma  pili  ama  un  quanto  secreto  el  vede. 

Ben  sai,  Piride  mio,  che  a  molti  inganni 
Si  sottomette  ognun  che  s'innamora; 
Ma  chi  piangessi  per  Amor  mill'  anni , 
Amor,  se  vuol,  'n  un  punto  Io  ristora. 
Riposo  non  s'acquista  senza  affanni: 
Silvan  si  dole ,  eppur  ama  ancor  Flora  :  - 
Noi  può  saper  se  non  un  gentil  core  2 

1  E  ciò  che  ha  vita-  Questa  ottava  è  ispirata 
dal  sonetto  del  Petrarca  Zefiro  torna,  e  questo 
verso  è  parafrasi  di  quel  verso  di  esso  sonetto: 

Ogni  animai  d'amar  si  riconsiglia. 

2  Noi  può  ecc.  Questa  chiusa  è  gentilissima  , 


232  EGLOGA. 

Quanta  dolcezza  è  'n  un  sospir  d'  amore. 

Però,  Piride  mio,  se  qualche  volta 
Fugge  la  Ninfa  tua  la  tua  presenzia, 
0  non  ti  sguarda:  parli,  o  non  ti  ascolta; 
Sta  saldo  tu,  che  lei  fa  sper'ienzia 
Di  te ,  se  la  tua  fede  è  poca  o  molta. 
Util  cosa  agli  amanti  è  pazienzia: 
E  non  ti  disperar  come  Silvano  ; 
Che  al  disperato  nessun  bene  è  sano. 

Ov'  è  riposo  tu  gli  mostri  affanno  : 
E'  va  per  farsi  vivo  e  tu  '1  fai  morto; 
Et  ove  è  vero  ben  gli  mostri  danno, 
E  gran  tempesta  ov'  è  tranquillo  porto; 
Et  ove  è  vera  fede,  tutto  inganno; 
E  mostri  un  grave  mal  quel  eh'  è  conforto. 
Amore  in  sua  prigion  fa  libertate: 
Tepido  verno ,  amena  e  fresca  state. 

Dopo  questo,  Alfeo  dice,  mostrando  un  putto 
per  figliuolo: 

Vedi,  Piride  mio,  se  in  grande  errore 
Si  ritrova  Silvan  di  quel  che  dice  :      \ 
Ecco  un  de'  frutti  che  ci  dona  Amore. 


benché  sia  ispirata  dal  sonetto  dantesco  Amore 
e  cor  gentil  sono  una  cosa;  e  da  quel  del  Guini- 
celli  Al  cor  gentil  ripara  sempre  Amore  ecc.  Tutte 
queste  ottave  sono  belle  e  semplici. 


EGLOGA. 


233 


El  putto  dice  ad  Alfeo  suo  padre  : 

0  patre  mio,  da  poi  che  Amor  m'ha  fatto, 
Deh  insegnatemi  un  poco  innamorare, 
E  d'  un  bon  vin  darovvi  bere  un  tratto. 


Risponde  il  patre: 

Figliolo,  el  tempo  te  l'ara  a  'nsegnare , 
E  veggio  ben  che  tu  non  sarai  matto, 
E  che  tua  matre  non  m'  usò  ingannare. 
E  che  tu  mi  somigli  ho  gran  piacere. 
Or  per  grande  allegrezza  intendo  bere. 

Piride  si  volta  a  Silvano,  e  così  dice  : 

Si  Ivan  ,  prender  non  vo'  però  spavento 
Del  tuo  parlar,  che  fu  pien  di  paura: 
Dimmi ,  se  a  discrezion  dell*  acqua  e  vento 
Si  mette  un  omo  in  mare  alla  ventura, 
Poi  trova  el  porto  dopo  lungo  stento, 
Sarà  donna  sì  cruda  per  natura 
Che  dopo  el  mio  servire  e  lunga  fede 
Non  abbi  un  giorno  almen  di  me  mercede? 

Ma  quel  che  ogni  paura  or  da  me  sgombra, 
È  che  Pandora,  per  cui  ardo  e  moro, 
Quel  di  che  mi  legò  si  stava  all'ombra 
Del  fruttifero  verde  e  dolce  Moro  ;  i 


'  Allude  alla  servitù  sua  con  Lodovico  il  Moro, 
e  alla  protezione  di  cui  gli  era  cortese. 


234  EGLOGA. 

Sotto  al  qual,  poi  che  '1  sol  lassa  a  noi  l'ombra, 

L'armento  mio  trovò  sempre  ristoro, 

E  sicuro  da  lupi  ed  altre  tìere: 

Con  questo  augurio ,  or  che  debb'  io  temere  ? 

In  questo  tempo  appariscono  subito  un  Ge- 
novese ed  una  Genovese,  e  V  uomo  parla 
in  questo  modo  alla  donna: 

Madonna,  i'  veggio  là  certi  pastori, 
Che  mostran  faf  d'  amor  la  lor  disputa  : 
Andiàno  un  po'  ascoltar  e  loro  amori;  ' 
Forsi  che  alcun  V  amata  ara  perduta, 
E  quella  cerca,  e  piange  i  suoi  dolori. 
Gentile  è  quel  che  un  vero  amante  ajuta; 
Vedete,  e'  guardon  or  Vostra  Eccellenzia,  ~ 
Forsi  vorran  vo'  diate  la  sentenzia. 

La  donna  risponde: 

Andiàn,  caro  parente,  andiàn  da  loro; 
Che ,  se  la  lor  disputa  fia  d'  amore , 
Coronar©  colui  di  verde  alloro 
Che  ara  del  dolce  amor  ferito  el  core. 


1  Andiàno.  Ricordo  qui  che  gli  antichi  Fio- 
rentini dicevano  e  scrivevano  andiàno,  facciano 
e  simili,  per  andiamo,  facciamo.  E  dicendo  an- 
tichi, non  intendo  que'  del  secolo  XIV,  ma  sì 
que'  del  XV  e  XVI. 

2  Vostra  eccellenzia.  Nota  che  qui  non  è  titolo 
di  dignità  o  di  signoria;  ma  di  pura  cortesia. 


EGLOGA. 


2a5 


Mentre  che  i  suddetti  vengono,  Piride  dice  a 
Silvano  : 

Silvan,  per  cortesia 
Manda  el  ciel  qui  una  Stella, 
Anzi  un  Sol  mi  par  che  sia; 
La  par  savia  come  bella: 
Ben  voglio  or  dimandar  quella 
Or,  s*  i'  debbo  amor  seguire  : 
Che  ho  inteso  è  dolce  per  amor  morire. 


Dice  Silvano  quando  ha  vista  la  Genovese 

Certo  costei  all'abito  mi  pare 
Del  bel  sito  ove  Amor  par  che  s'  onori , 
Perchè  quel  dì  che  usci  Vener  del  mare 
Andò  per  quei  giardin  cogliendo  fiori; 
E  tanta  grazia  lì  volse  Igissare , 
Che  felici  vi  son  tutti  gli  amori; 
Però  chi  s'  innamora  oggi  in  quel  loco 
Senza  travaglio  alcuno  arde  nel  foco. 

Giunta  che  fu  la  donna  ai  pastori  dice: 

Perchè  spesso  nel  volto  appare  el  core, 
I'  conosco  un  di  voi  eh' è  pien  di  sdegno, 
E  l'altro  lieto  è  tutto  per  Amore.; 
Ma  chi  biasima  quello  ha  basso  ingegno: 
Felice  è  quel  che  serve  a  tal  signore  ; 
Che,  a  quel  servendo ,  il  suo  servire  è  regno  : 
Amore  un  cor  villan  sa  far  gentile, 
E  chi  '1  biasima  sempre  ara  il  cor  vile. 


236  EGLOGA. 

Silvano  a  Piride  : 

Piride  mio,  da  te  piglio  or  licenzia 
E  sta  pure  ostinato  in  tuo  errore  ; 
Ma  creder  ti  farà  Tespenenzia 
Quel  che  non  credi,  e  piangerai  col  core. 
A  tuo  modo  costei  darà  sentenzia, 
Che  nata  eli' è  nel  bel  regno  d'Amore. 
Non  si  trovò  mai  donna  Genovese, 
Che  non  seguisse  1'  amorose  imprese. 

Parlato  eh'  ebbe  così ,   Silvano ,  che  sapeva 
bene  che  la  Genovese  avrebbe  data  senten- 
za per  Piride  che  s' innamorasse,  Piride 
allegro  si  volta  a  certi  pastori ,    e  canta- 
rono così  : 

Non  voglio  esser  più  pastore, 
Perchè  sono  innamorato 
D'  una  donna,  e  son  beato 
Poi  che  tolto  m' ha  el  mio  core  , 

Non  voglio  esser  più  pastore. 

D'  una  cosa  assai  mi  pento , 
Che  sia  stato  tanto  al  bosco 
Con  le  bestie  all'acqua  e  '1  vento: 
Quasi  bestia  or  mi  conosco. 

« 

Però  più  non  mi  rimbosco: 
Non  vo'  credere  a  Silvano, 
Che  pur  sia  tanto  villano 
Como  e'  dice  questo  amore, 

Non  voglio  esser  più  pastore. 


EGLOGA.  237 

Benedetto  sia  quel  giorno, 
E  quel  bel  paese  e  loco, 
Ove  vidi  el  viso  adorno 
Che  mi  tien  lieto  nel  foco. 
Come  quel  vile  e  dappoco 
Di  Silvan  non  mi  dispero: 
Quel  che  dice  non  è  '1  vero. 
Perchè  i'  trovo  dolce  amore. 

Non  voglio  esser  più  pastore. 

Quel  Silvan  sia  maledetto  , 
Che  Amor  pur  voi  biasimare: 
Se  Amor  fa  qualche  dispetto  , 
De'  piaceri  ancor  sa  fare. 
Come  dice  la  Comare: 
«  Fra  le  spine  sta  la  rosa  » 
Non  è  donna  sì  ritrosa 
Che  non  senta  un  dì  d'amore. 

Non  voglio  esser  più  pastore. 


RAPPRESENTAZIONE 

RECITATA  A  PAVIA  NEL  FAMOSISSIMO  DOTTORATO  DEL, 
REVERENDO  MONSIGNORE  DELLA  TORRE,  NELLA  QUALE 
MAGNIFICA  E  SPLENDIDISSIMA  FESTA  d'  ETERNA  MEMO- 
RIA DEGNA,  INTERVENNERO  GLI  ILLUSTRISSIMI  DUCA 
DI  MILANO,  E  SIGNOR  LUDOVICO  CON  LE  LORO  CON- 
SORTI, E  LO  ILLUSTRISSIMO  DUCA  DI  FERRARA.  IN  QUE- 
STA RAPPRESENTAZIONE  COMPARVE  PRIMA  L'  AUTORE 
IN  FORMA  DI  MERCURIO,  IL  QUALE  PER  AVERE  AVUTO 
POCO  TEMPO,  CHE  DOVETTE  TUTTO  CONSUMARE  NEL 
COMPORRE  LE  STANZE  CHE  AVEVANO  A  DIR  GLI  ALTRI, 
ESSO  PRONTISSIMO  DISSE  LE  SUB  ALL'  IMPROVISO  , 
DELLE  QUALI  IL  TANZIO,  EDITORE  DELLE  RIME  DEL 
BELLINCIONE  ,  DICE  D'  AVERNE  NOTATE  SOLTANTO  CIN- 
QUE. In  QUESTA  RAPPRESENTAZIONE  VIENE  DOPO  GIU- 
NONE, E  QUINDI  LE  SETTE  ARTI  LIBERALI,  LE  QUALI 
DOPO  CHE  EBBERO  RECITATE  DUE  STANZE  PER  CIASCHE- 
DUNA, CANTARONO  QUELLA  CANZONETTA  CHE  COMIN- 
CIA —  LE  SETTE  ARTE  SIAN  CHIAMATE  — 
FINALMENTE  COMPARISCE  SATURNO  CON  I  QUATTRO 
ELEMENTI,  IL  QUALE  SATURNO  ,  DETTO  CH'  EBBE  UNO 
CAPITOLO  ,  LI  QUATTRO  ELEMENTI  COMINCIARONO  A 
CANTARE    QUELLA    CANZONETTA    CHE    INCOMINCIA  : 

CANTIAM  TUTTI  VIVA  EL  MORO. 

Mercurio  parla  in  laude  del   Duca  Ercole.  ' 

Quivi  è  colui,  che  mai  si  vide  sazio 
Dell'  operar  virtù:  più  presto  stracco, 
Ercule  è,  quel  che  fece  el  giusto  strazio 
Di  quel  gran  traditor  perfido  Cacco 

1  Ercole.  Duczj,  di  Ferrara. 


RAPPRESENTAZIONE.  239 

Sotto  al  monte  Aventin  che  siede  in  Lazio. 
Costui  è  quel  eh'  e  vizj  ha  messi  a  sacco 
Con  Palla,  e  sempre  le  virtù  difese, 
E  lo  riserba  el  eie!  a  magne  imprese. 

Colui  la  ferocissima  Idra  vinse, 
Quale  avea  sette  teste  serpentine: 
Costui  è  quel  che  con  catena  cinse 
Quel  Gerion  con  tre  teste  canine  : 
E  poi  Anteo  tanto  in  sul  petto  strinse 
Che  di  morte  senti  1'  acute  spine; 
L'  Arpie  uccise ,  e  poi  sbarrò  '1  Lione  : 
Deh  !  viello  a  onorar  bella  Giunone. 

Giunone^  vedendo  Mercurio,  in  questo  modo 
parla  : 

Mercurio,  unde  vai  tu?  o  d'onde  vieni? 
Io  ti  conosco  ben ,  falso  folletto  : 
Contra  me  qualche  inganno  o  trama  meni , 
Per  dar  di  donna  al  mio  Giove  diletto; 
E  tuoi  disegni  di  malizia  pieni 
Conosco,  e  fatto  m'hai  più  eh' un  dispetto. 
In  casa  Almena  ,  Sosia  ti  mostrasti; 
Et  Argo  mio  col  suono  adormentasti.  • 


'  Et  Argo  mio  ecc.  Piglia  occasione  di  ram- 
mentare tutti  gli  atti  di  Mercurio;  come  ha  fatto 
neir  ottava  precedente  ;  e  come  farà  in  appresso. 
Non  istiamo  a  farcì  chiose,  perchè  sono  cose  note 
a  tutti,  o  da  riscontrarle  nelle  Mitologie. 


240  RAPPRESENTAZIONE. 

Mercurio  cosi  le  risponde  : 


0  gloriosa  Iddea,  alta  Giunone,  ' 

Se  Giove  al  dolce  amor  tanto  è  suggetto  ,  '• 
Di  questo  debbi  aver  consolazione , 

Perchè,  se  piglia  di  donna  diletto,  ,| 

Amar  può  te;  ma  odi  una  ragione:  ] 

Se  le  donne  gli  fussino  in  dispetto ,  ! 

Ancor  te,  donna,  lui  non  araarebbe:  ^ 

E  questo  so  che  ti  dispiacerebbe.  ] 

Perche  amor  sempre  va  con  gelosia,  \ 

E  senza  quella  non  sarebbe  amore,  ; 
Tu  pensi  che  venuto  in  terra  i'  sia 

Per  ingiuriarti  :  0  Dea ,  tu  se'  in  errore  ;  ] 

Non  pensai  mai  di  farti  villania,  ■ 

Ma  ben  d'  esser  Adele  al  mio  signore.  ] 
Di  mia  venuta  ancor  vo'  che  ti  lodi. 

Nessuno  innanzi  al  fin  biasimi  o  lodi:  i 

In  Italia  mi  manda  el  magno  Giove  ,  i 

In  quella  nova  Atene  alma  Pavia ,  ! 

Che  quel  che  manca  a  lei  non  è  altrove  :  ' 

Quivi  è  la  Corte  di  filosofia  i 

E  sette  donne  e  sette,  e  quelle  nove  ;  ' 

Ancor  più  d'  un  Solon  par  che  lì  sia  :  ; 
L'uno  è  quel  che  acquistò  già  '1  vel  dell'oro,       \ 

Di  manna  un  botticel  sotto  a  un  Moro.  •  l 


'  Allude  alla  Laurea  del  dottorato  presa  dal 
Della  Torre,  alla  presenza  del  Moro, 


i 


RAPPRESENTAZIONE.  241 

Giunone  risponde  a  Mercurio: 

Mercurio ,  io  vo'  venir  con  teco  insienrie, 
Per  vedere  Isabella  e  Beatrice, 
Ancor  maggior  disio  el  mio  cor  preme , 
E  questo  è  di  veder  quella  Fenice, 
Ercul  famoso,  d'ogni  virtù  seme. 
Che  ancor  del  suo  valore  el  mondo  dice: 
Ardo  d'  onorar  lui  d' ardente  zelo , 
Che  già  con  le  sue  spalle  resse  el  cielo. 

Venuta  Giunone  con  Mercurio  avanti  alle 
Duchesse,   in  questo  modo  gli  parla  : 

0  sacre  Iddee,  o  voi  superne  stelle, 
Bellissime  Isabella  e  Beatrice, 
Onor  dei  secul  vostro ,  alme  sorelle , 

El  mondo  oggi  per  voi  ditto  è  felice, 
Che  un  miracul  del  cielo  e  di  natura 
Sole  voi  siete ,  qual  sola  Fenice. 

Fortuna  e  Morte  hanno  di  voi  paura , 
E  quando  verso  el  ciel  volgete  gli  occhi 
Allo  splendor  di  quei  sua  luce  è  scura. 

Se  vostra  man  di  perle  avvien  che  tocchi , 
In  nel  rigido  verno,  un  secco  ramo 
Subito  fiori  par  che  da  quel  fiocchi,  * 

Però  vi  onoro,  reverisco  et  amo, 
E  sono  Iddea  anch'  ie  come  voi  sete  : 
Giunon   dell'Aria  Iddea  ancor  mi  chiamo, 

Sposa  di  Giove,  e  d'  onorarvi  ho  sete 
Or  di  voi  due  sorelle  i'  sarò  terza, 

16 


# 


242  RAPPRESENTAZIONE. 

A  farvi  sempre  el  Sole  in  Ariete.  ' 

Nel  freddo  tempo  poi,  quando  più  sferza 
Nel  Lione  e  Cavalli,  e  Borea  vento 
Farò  Ponente  che  fra'  rami  scherza. 

El  romor  d'  ogni  fulgure  un  concento  : 
La  gì^andine  a  voi  perle  ;  e  poi  la  neve 
Farò  piover  di  rose  al  pavimento. 

El  partorir,  che  all'altre  esser  suol  greve, 
Io,  che  posso  giovare  assai  in  quel  giorno,  2 
Far{)  r  incarco  a  voi  posar  giù  lieve. 

Fral  sono  et  io  vostre  ministre  intorno,  3 
E  perchè  qui  ha  venir  de  l'altre   Dee,^ 
Madonne ,  al  regno  mio  vo'  far  ritorno. 


1  In  Ariete.  Cioè  che  per  voi  sia  sempre  pri- 
mavera. La  stampa,  falsando  la  rima,  e  toglien- 
do ogni  senso,  ha  in  oriento.  Domin  se  que'cri- 
tici,  che  vogliono  conservati  i  testi  tali  quali, 
mi  accuseranno  anche  qui  di  avere  sconciato 
piuttosto  che  racconciato  ! 

2  Giunone  era  invocata  dalle  partorienti  sotto  ' 
il  nome  di  Lucina* 

3  Fral  sono  ecc.  Questo  verso  debb'  essere  di 
errata  lezione;  né  so  indovinare  che  cosa  mai 
abbia  potuto  voler  dire  il  poeta. 

4  Ha  venir.  Hanno  a  venire.  Ellisse  tuttora 
comune  nell'  uso  toscano. 


RAPPRESENTAZIONE.  243 

Giunone,  dettele  ^precedenti  parole,  si 'partì, 
e  subito  vennero  le  sette  Arti  liberali,  e 
prima  Grammatica. 

Io  son  colei  che  neli' Egitto  nacqui, 
Nutrita  in  Grecia,  e  quivi  tenni  corte, 
Or  mi  vivo  in  Italia,  che  a  lei  piacqui, 
E  combattendo  vinco  ei  tempo  e  morte. 
A'  savj  et  alti  ingegni  mai  dispiacqui, 
E  fo  resuscitar  le  genti  morte, 
Madre  di  vera  pace  e  di  conforto  ; 

'  ■'Va 

E  fo  lume  la  notte  ove  sta  el  porto.  {ij- 

Como  nel  foco  più  s' affina  T  oro , 
Così  di  tempo  in  tempo  un  fo  felice , 
Se  bene  un  muor,  di  vita  lo  ristoro: 
Come  di  sé  rinasce  la  Fenice, 
Così  rinascon  per  virtù  coloro, 
Como  rinascerà  ancor  Beatrice 
Dopo  la  morte  in  sue  virtù  superne. 
Per  le  lettere  mie ,  pitture  eterne,  i 

Parlato  che  ha  Grammatica,  viene  la  Logica 
e  dice: 

Logica  sono  io,  e  son  colei 
Che  '1  ver  fo  parer  falso ,  e  '1  falso  vero  ; 
Strumento  fui  de'  primi  falsi  Iddei , 


1  Sotto  il  nome  di  Grammatica  comprende  l'au- 
tore tutte  le  discipline  che  si  riferiscono  all'arte 
del  dire  e  dello  scrivere. 


244  RAPPRESENTAZIONE.  - 

Che  mostravan  all'  uom  pel  bianco  e!  nero  ; 
Sillogismi  e  sofismi  e  detti  miei  :  , 

Ne  l'argute  dispute  è  il  mio  impero; 
Si  e  no  com'  i'  voglio  affermo  e  nego  :  i 

Con  mille  scorze  e  nodi  e  «ciolgo  e  lego.  '  i 

Gli  artisti  con  miei  detti  uson  mostrare  i 

Che  un  omo  sia  un  asino,  e  questo  provano; 
Ma  òggi  senza  me  '1  posson  provare  /i 

Però  che  di  molti  asini  si  trovano  :  j 

Questi  miraculi  i  signor  san  fare,  i 

E  così  questi  i  detti  miei  approvano:  ' 

Se  fanno  un  ricco  grande  quando  istenta,  ; 

Facendo]  ricco,  un  asino  diventa. 

Seguita  la  Retorica:  \ 

Retorica  son  io,  che  col  parlare 
A  creder  persuado  un  mio  volere , 

E  disuado,  e  con  ragion  provare  [ 

L'anime  mortai  volgo  al  mio  piacere;  ] 

E  detti  d'  altri  so  ben  repugnare  ;  2  \ 
Memoria,  e  ingegno,  e  lingua  è  il  mio  podere.      ì 

Se  musica  è  di  gran  dolcezze  pingua,  \ 

Qual  musica  è  più  dolce  de  la  lingua?  i 

Oh  quante  crude  donne  son  placate  3  ' 

Per  il  retto  parlar  d'un  dolce  amante,  J 

1  Confonde  la  logica  con  la  sofistica. 

2  jRepwflfnare.  Ribattere,  Contradire.  • 

3  Oh  quante  crude  ecc.  Dice  che  molte  donne  ^-^ 
crudeli ,  non  lasciatesi  vincere  a  promesse  d'oro,  ] 
si  placarono  per  il  dolce  parlare  dell'amante.  i 


RAPPRESENTAZIONE.                          245  ' 

Che  per  tesori  s'  eron  più  indurale  ! 

Cosi  la  lingua  rompe  un  diamante. 

Però,  Duchesse  in  ciel  desiderate  !i 

Stelle  del  secol  d'oggi  uniche  e  sante,  j 

Per  servire  a  voi  due  venuta  sono,  « 

E  di  me  fare  a'  figliol  vostri  un  dono.  \ 

Seguita  l'Aritmetica:  j 

Aritmetica  sono,  e  son  colei,  ^ 

Che  numero  con  numero  raffronto  :  j 

L' umana  gente  drieto  a'  passi  miei  '\ 

Di  peso  e  tempo  n'  ha  ragione  e  conto  ;  :' 

E  con  mie  scale  ancor  sino  a  li  Dei  ; 

Con  mia  sorella  Astrologia  poi  monto:  j 
E  fu  chi  disse,  e  forse  al  ver  s'accosta. 

Che  r  anima  è  di  numeri  composta.  ' 

Per  che  ne  l' infinito  si  trascorre  ; 

Voler  molto  volar  con  le  mie  ale,  ;; 

Misurar  basti  una  Moresca  torre ,                                                 ■  \ 
'Ov'  è  r  arbor  che  fa  Tisbe  immortale  ;  ' 
E  sotto  a  quella  pianta  i'  mi  vo'  porre 

Per  cor  del  frutto,  che  non  può  far  male;                         ^  '"\ 

Che  la  matura  un  Sol,  novo  Oriente;  l 

E  questo  è  Beatrice  a  noi  presente.  I 

Seguita  la  Geometria:                                         -  j 

r  son  quella  sottil  Geometria ,  ' 

In  Egitto  di  polvere  creata,                                          *  I 


^L' arbor.   Siamo   sempre   alla   adulazione  tli 
Lodovico  il  Moro. 


24G  RAPPRESENTAZIONE. 

Di  tondi  e  quadri  da  la  gente  in  pria 
Fir  con  le  dita  in  terra  disignata; 
Per  me  si  sa  del  Sol  la  longa  via  ; 
Tutta  la  terra  e  l'acqua  ho  misurata, 
E  tutti  i  corpi,  e  '1  corso  de  le  stelle, 
La  Luna  e  l'altre  cose  magne  e  belle. 

Ma  or  con  queste  mie  sorelle  care 
Liete  e  contente  mi  vo'  star  felice, 
In  questo  magno  studio  riposare 
Che  Pavia  un  novo  Atene  oggi  si  dice, 
E  'n  una  torre  poi  tanto  aspettare 
Che  veggia  uscir  quel  Sol  di  Beatrice, 
El  qual  fia  premio  de  le  mie  fatiche, 
A  cui  le  Grazie  e  'I  Ciel  le  sieno  amiche. 


Seguita  V  Astrologia  : 

V  son  colei,  che  per  le  sette  spere 
Discorro,  e  so  di  lor  l'inclinazione: 
La  Luna  fa  l'  uom  pigro  a  voi  vedere  : 
Mercurio  T  uom  dispone  a  bel  sermone: 
Vener  di  bella  donna  dà  piacere: 
El  Sol  della  scienza  perfezione; 
E  Marte  l'arme,  e  Giove  onore  e  regno: 
Saturno  lunga  vita  e  grande  ingegno. 

Questi  col  vostro  senso  hanno  amicizia , 
Talché  sarebbe  di  necessitate 
Senza  ragion  quest'uomo  usar  nequizia: 
Non  hanno  imperio  in  vostra  voluntate, 
Che  lume  avete  a  bene  et  a^malizia; 
Però  dure  battaglie  in  voi  son  nate. 


RAPPRESENTAZIONE.  247 

Chi  segue  il  senso  in  precipizio  cade, 
E  serrate  gli  son  del  ciel  le  strade.  ' 

Musica  dice  in  ultimo; 

Musica  son ,  che  tutto  il  regno  santo 
Discorro,  e  fo  concento  in  ogni  spera, 
Diletta  da'  mortali ,  e  insegno  il  canto 
Agli  uccei  ne  la  dolce  primavera. 
E  tal  dopo  di  me  creduto  ha  tanto 
Provando  mia  virtù  con  ragion  vera , 
Ched  immortali  le  anime  lor  sia, 
Composte  di  concento  e  d' armonia. 

Per  me  si  laida  il  sommo  Creatore:  '■^ 
Tengo  la  schiera  celestiale  in  festa; 
Col  canto  mio  morale  do  vigore 
Ad  ogni  creatura  di  qual  -gesta;  3 


1  Questi  col  vostro  senso.  Ammettendo  pure  l'in- 
riuenza  de'  pianeti,  la  tempera  con  la  dottrina  del 
libero  arbitrio.  Questa  ottava  è  parafrasi  della 
terzina  dantesca: 

Lo  cielo  i  vostri  movimenti  inizia; 
Non  dico  tutti  ;  ma  ,  posto  eh'  i'  '1  dica , 
Lume  v'  è  dato  a  bene  e  a  malizia. 

2  Per  me  si  laida.  Interpreta  il  Laudale  eum 
in  chordis  et  organo. 

3  Di  qual  gesta.  Di  qualsivoglia  qualità,  o  schie- 
ra. Anche  Dante  : 

Carlo  Magno  perdeo  la  santa  gesta; 

Il       (love  Gesta  significa  schiera,  esercito  o  simile. 


248  RAPPRESENTAZIONE. 

Ch'  Ogni  strumenti  di  vario  colore 
I  quali  tu  ritrovi  in  mia  podestà, 
Ed  ogni  discrepanzia,  ovver  discordia, 
Unisco,  e  pongo  pace,  ovver  concordia. 

Finito  eh'  ebbono  di  parlare  le  sette   Arti, 
incominciarono  a  cantare  la  seguente 

CANZONETTA. 

Le  sette  Arte  siàn  cliiamate, 
Che  facciàn  T  uom  virtuoso: 
In  Pavia  facciàn  riposo, 
Ove  star  possiàn  beate. 

Le^sette  Arte  siàn  chiamate. 

Quésta  è  quella  nostra  Atene , 
Dove  già  vivemmo. liete  , 
Dar  possiàno  el  vero  bene 
A  chi  ha  di  virtù  sete  : 
Però  il  tempo  or  non  perdete, 
Figliol  nostri,  oggi  studianti; 
Ma  preghiànvi  tutti  quanti 
Che  nel  cor  voi  ci  accettiate. 

Le  sette  Arte  siàn  chiamate 

Veramente  oggi  Pavia 
De  le  Muse  è  lor  Parnaso  ; 
E  poi  dice  Astrologia 
Che  '1  ben  nostro  era  rimaso 
Su  nel  Ciel  :  et  or  nel  vaso 
Di  queir  alma  Beatrice 
Un  tesoro ,  una  Fenice , 
Anzi  un  Sole,  ha  nostra  etate. 

Le  sette  Arte  siàn  chiamate. 


RAPPRESENTAZIONE.  240 

Star  vogliamo  in  vostra  terra, 
Di  che  il  Moro  tien  le  chiave: 
Lui  ci  può  legare  e  sciorre, 
Tanta  grazia  dal  Ciel  ave. 
Già  molti  anni  serve  e  schiave 
State  siàn,  per  colpa  altrui;         ^ 
Ma  il  bon  Moro  oggi  è  colui 
Che  ci  ha  tutte  liberate. 

Le  sette  Arte  siàn  chiamate. 

Viene  Saturno  con  li  quattro  Elementi,  e  dice 
le  seguenti  parole  : 

V  son  Saturno,  el  più  alto  pianeta: 
r  son  figliol  del  Cielo  e  de  la  Terra, 
Patre  del  Tempo,  e  fui  già^re  di  Creta. 

r  son  colui  che  ho  fatto  e  farò  guerra 
A  ciò  che  nascer  può  sotto  la  Luna  , 
Che  l'universo  asconde,  chiude  e  serra; 

Né  può  contra  di  me  Morte  o  Fortuna  : 
Solo  una  donna  me  suo  servo  chiama 
Che  in  su  gli  omeri  ha  l'ale:  e  .sol  quest'una 

Ho  per  nemica,  e  chiamasi  la  Fama. 
Libera  di  mie  man  da  insidie  e  inganni  ; 
E  questa  donna  el  savio  onora  et  ama. 

Dell'altrui  morte  mi  satollo,  e  danni, 
Mangiati  ho  i  propri  figli,  e  questi  soli 
M'  ho  riserbato  in  questi  ultimi  affanni. 

Or  questi  cari  miei  dolci  figlioli, 
Per  obbedire  a  voi ,  son  qui  contenti , 
Madonne,  che  ascondete  in  voi  duoi  Soli. 


250  RAPPRESENTAZIONE. 

Questi  quattro  son  qui,  i  quattro  elementi, 
La  terra,  l'acqua,  Taer,  e  '1  suttil  foco, 
Che  fur  del  gran  Caos  i  fondamenti. 

Or  quel  Monarca  del  più  alto  loco. 
Che  tutto  ha  fatto  e  intende  da  M  eterno, 
Senza  discorrer  tempo  molto  o  poco, 

Secondo  el  mio  veder,  se  ben  discerno, 
Par  che  F  imperio  tòr  vogli  a' pianeti; 
E  dar  a  quelle  spere  altro  governo. 

E  perchè  voi  sappiate  i  gran  secreti  : 
Francesco  Sforza  è  nella  quinta  spera; 
E  Marte  è  tolto  da'  soi  giorni  lieti. 

r  mi  rallegro,  che  mia  mente  spera 
Che  del  gran  sangue  Sforza  qui  saranno, 
Onde  il  Mondo  fia  sempre  in  Primavera, 

I  figliol,  che  di  voi  qui  nasceranno, 
Fieno  i  novi  Pianeti  ;  e  d' Isabella 
Gli  omini  il  nuovo  Sole  ancor  vedranno. 

E  poi  di  quella  tua  dolce  sorella 
Figlia  del  magno  Alcide,  Beatrice, 
Nascerà  Giove,  sì  benigna  stella, 

Et  io  al  mondo  tornerò  felice. 
In  quella  d'oro  gloriosa  etate. 
0  figlioli  elementi,  a  voi  si  dice. 

Che  obbedir  sempre  a  queste  due  vogliate; 
E  che  del  Moro  e  del  Signore,  a  queste 
Una  canzone  in  lor  laude  cantiate.  ' 


1  Lasciamo  andare  la  stomachevole  adulazio- 
ne; ma  questo  tòr  l'impero  a' pianeti,  e  mandar 
lassù  in  loro  luogo  lo  Sforza;  e  qua' quattro  eie- 


RAPPRESENTAZIONE. 


251 


Li  quattro  elementi  cantano  come  segue. 

Cantiàn  tutti:  viva  'l  Moro 
Viva  '1  Moro  e  Beatrice: 
Ben  si  può  tener  felice 
Clii  Lei  serve  e  '1  sacro  Moro. 

Cantiàn  tutti  viva  7  Moro. 

Queste  due  care  sorelle, 
Anzi  son  duoi  chiari  Soli, 
Sono  albergo  di  due  stelle. 
Che  del  mondo  saran  poli: 
Perchè  portan  duoi  figlioli, 
Che  d'Italia  fien  salute, 
E  per  lor  grazia  e  virtute 
Tornerà  V  età  dell'  oro. 

Cantiàn  tutti  viva  7  Moro. 

Or  qui  fusse  viva  in  terra 
Quella  Ippolita  in  ciel  santa, 
Che  Francesco  in  braccio  s«>rra, 
Allegrezza  arebbe  tanta 
A  veder  che  '1  mondo  canta: 
Sforza  Sforza  e  Isabella, 
Che  crediàn  che  ancora  quella 
Bacerebbe  el  fratel  Moro. 

Cantiàn  tutti  viva  7  Moro. 

Ben  si  può  tener  beato 
Ercule  oggi  e  glorioso 


menti  che  hanno  a  obbedir  le  due  dame,  con  tut- 
te le  altre  garbatezze  ,  sono  goffaggini  belle  e 
buone. 


252  KAPPRESENTAZIONE. 

Che  del  suo  seme  ha  aspettato 
Chi  porrà  el  mondo  in  riposo. 
Questo  è  '1  sol,  eh'  è  stato  ascoso 
Nel  bel  sen  celeste  e  santo, 
Quale  el  Moro  ama  oggi  tanto 
Ch'el  può  dir  sempre  l'adoro. 

Cantiàn  tutti  viva  'l  Moro 
Caro  patre,  alto  pianeta, 
Tu  sei  pur  venuto  dove 
Troverai  il  regno  di  Creta, 
Che  ti  tolse  il  fìgliol  Giove. 
Questa  grazia  a  te  sol  piove 
Da  le  man  di  Ludovico, 
Di  Giustizia  è  patre  e  amico 
Due  virtù  del  elei  tesoro. 

Cantiàn  tutti  viva  'l  Moro. 

Fine  di  tutte  le  Rime  del  Bellincioni,  riportate 
nella  edizione  di  Milano  1493  di  Filippo  Mante- 
gazi. 


Questi  due  ultimi  Sonetti  gli  copiò  il  signor 
Leone  Del  Prete  da  un  antico  Codice;  e  ad 
essi  premette  sì  fatta  nota. 

I  due  seguenti  sonetti  sono  stati  copiati  dal 
Codice  Moiicke  N.  11,  esistente  nella  pubblica 
Libreria  di  S.  Frediano  in  Lucca,  nel  quale  si 
legge  che  sono  stati  tratti  dal  Codice  Venturi, 
intitolati  —  Poesie  varie  —  ove  il  primo,  che  è 
inedito,  sta  a  carte  430,  l'altro  a  carte  472  tro- 
vasi stampato  nel  Voi.  I,  carte  53  della  serie  d^i 
Testi  di  lingua  del  Poggiali. 


SONETTI.  253 

SONETTO  CXCIX. 

0  Accademia  nuova  di  Giudei  ! 
Costì  v'  è  chi  lo  niega  e  chi  lo  vende  : 
Pretorio  di  Pilato,  ove  s'accende, 
L' ira  de'  falsi  e  miseri  plebei. 

Tutti  vi  stillerèn  per  far  cristei, 
Po'  che  ciascun  del  biasimar  s'  intende: 
Lasciar  si  vuole  star  chi  non  v'  offende  ; 
Ma  invidia  vi  consiglia,  o  Farisei. 

Che  tanto  cicalar?  cheti,  gracchiuole! 
Che  v'intendete  voi  del  dire  in  rima? 
E  ciascun  Dante  e  Petrarca  esser  vuole! 

Chi  men  conosce  è  quel  che  più  si  stima; 
Che  sol  costì  si  pesca  alle  cazzuole, 
E  a  forbir  parole  ognuno  ha  lima. 

r  non  vi  dissi  in  prima, 
Poeti  da  minestre  e  da  mal  tempo, 
Che  '1  vostro  error  si  punirà  col  tempo  : 

Or  dateci  un  bel  tempo   . 
Col  vostro  Bolognese  Romajuolo, 
Ch'  e  Maccheron  vi  serba  in  un  pajuolo. 

SONETTO  ce. 

MANDATO    A   LORENZO    DE'  MEDICI . 

Le  dolci  rime  e  gli  eleganti  versi, 
Che  usate  cantar  con  vostra  lira, 
M' hanno  al  bel  fonte  d' Aganippe  e  Cira     , 
Menato,  ove  '1  licor  soave  versi. 

Per  voi  son  tutti  gli  animi  conversi 
In  pacifico  stato;  ma  desira 


254                                     SONETTI.  \ 

Vendicarsi  il  mio  cor,  che  lo  martira  ; 

Quel  bistolfaccio  ch'or  n'andò  fra' Persi.  \ 

Lorenzo,  già  nel  fonte  Pegaseo  ' 

Io  vi  vidi  bagnar  le  labbra,  e  poi              ^  i 
Cantar  soavi  versi  più  che  Orfeo; 

E  io,  eh' ancor  seguir  volevo  voi. 

Cambiai  istil ,  cagion  di  ser  Matteo ,  j 

Che  mi  tolse  del  dir  dolce  con  voi.'  ì 

No'  farèn  dir  di  noi  "l 
Pur  con  sonetti,  e  io  non  me  ne  curo: 
S'egli  è  ranocchio,  il  butterò  nel  muro. 

E'  tien  dell'Epicuro:  ' 
Incredulo  e  bestiale,  e  d'Origene. 

Veggiàn ,  se  a  caso ,  quel  eh'  i'  dico ,  tene.  ' 


FINE    DEL    SECONDO    VOLUME. 


INDICE  DELLE  RIME. 


N.  r>.  Que'  capiversi  che,  avanti  il  numero  arabico  indicante 
la  pagina,  non  hanno  il  numero  romano,  si  intendono  es- 
sere del  volume  primo.  A  quelli  del  volume  secondo  si  fa 
precedere  al  numero  arabico  il  numero  romano. 


A  ciò  che  de  la  fede  i'  non  ti  manchi  —  n.  139. 
A  Fiesole  con  Piero  è   '1  Bellincione  — il.  88. 
Allor  ben  si  conosce  Ludovico  —  ii.  43. 
Altro  pensier  non  ho  che  di  guarire  —  237. 
Ambrosio,  i'  ve'  che  segui  el  mio  consiglio  —  129. 
Ambrosio,  stu  hai  pur  quell'intelletto  —  128. 

(Festa  ossia  Rappresentazione) 
Andrai  Mercurio,  mio  orator  degno  —  ii.  210. 
Apri  gli  occhj,  o  pastor,  non  dormir  piti  —  173, 
Ardita,  inesorabile  e  superba  —  ii.  128. 
Ardo  di  dentro,  e  fuor  fredda  di  marmi  —  ii.  174. 
Arò  forse  trovato  un  buon  partitoli.  —  53. 

(Festa  ossia  Rappresentazione) 
Attenti,  udite  tutti,  incliti  viri  —  ii.  208. 
Ave  dolce  Maria  di  grazia  piena  —  92. 


Bellincion,  che  vorresti  ire  a  Ferrara  —  ii.  23, 
Bellincion,  chi  t' ha  fatto  quel  mantello  —  ii.  109. 
Bellincion,  tu  mi  dai  d'  ammiterato  —  ii.  105. 
Benché  piccin  sia  el  vostro  Ricciardetto  —  ii.  2. 
Bencino,  io  mi  ricordo  di  Querceto  —  ii.  96. 
Ben  s' intese  ier  sera  in  nel  Signore  —  ii.  174. 


256  INDICE  DELLE  RIME. 

Ben  ti  vorrei  vedermi  po',  Santino  —  170. 
Benedette  gli  sien  Giulian  le  mani  —  197. 
Bianca  di  perle,  e  bella  più  che  '1  sole  —70. 
Borgonzio,  abbiano  inteso  che  Santino  — •  149. 

C 

Calliope,  Euterpe  e  tre  fritelle  —  210. 
Cappucci  Fiesolani  e  fumosterno  —  199. 

(Canzonetta  della  Fatica) 
Cara  e  dolce  mia  Fatica  —  ii.  204. 
Cara,  suave  e  dolce  mia  sorella  —  ii.  9. 
Certi  nuovi  poeti  smemorati  —  181. 
Certi  savj  e  gagliardi  con  parole  — 51. 
Che  bella  cosa  sono  e  tremolanti  —  ii.  78. 
Che  dira'  tu  or,  Messer  Anton  Barcollo  —  145. 
Che  fa  la  lega?  mal  che  Dio  vi  dia  !  — 30. 
Che  gente  è  questa?  Vengon  da  Lione  —  155. 
Che  pensi  tu  che  sia  quel  Bellincione  —  ii.  40. 
Che  sarà  ?  Che  vuol  fare  ?  Or  che  si  dice  ?  —  45. 
Che  volQ,te  voi  dire,  o  gente  strane  —  174. 
Chi  cercassi  oggi  ben  da  l'orizzonte — ii.  122. 
Chi  el  dulce  fin  d'un  desiato  bene  —  ii.  194. 
Chi  non  credessi  ben  che  '1  tracio  Orfeo  —  108. 
,  Chi  presto  e  ben  conciar  vuole  un  Falcone  —  n.  45. 
Chi  si  stima  esser  più  che  altri  lo  tiene  —  218. 
Chi  vuol  che  roba  avanzi  a  un  convito  —  158. 
Co'  fiiori  in  grembo  un'altra  donna  bella  —  ii.  224. 
Colui  di  chi  parlammo  per  solazzo  —  187. 
Comar?  -  Madonna  -  Avete  voi  del  fuoco?  —  ii.  83. 
Come  le  rose  nascon  delle  spine  —  n.  197. 
Come  posson  le  Muse  comportare  —  180. 

(Sestina  morale) 
Con  debil  legno  sono  in  mezzo  a  l'onde  —  219. 
Con  l'angelica  voce  e  '1   dolce  canto — 95. 
Conte  Borella  mio,  grato  et  humano  —  ii.  135. 
Cornelio,  tu  sa'  far  cose  più  belle  —  101. 


INDICE  DELLE    RIME. 

Covan  di  molti  allocchi  ne'  palazzi  — 
Credo  ti  dia  più  tedio  1'  esser  matto 


257 


201. 
-  II.  109. 


Dal  primo  di  che  gli  occhj  apersi  in  Dolo  —  66. 
Dante,  quel  Fonte  di  Teologia  —  ii.   185. 
Da  poi  eh'  i'  veggio  che  tu  se'  moresco  — ■  ii.  1'^ 
Da  qual  magno  pianeta  e  stelle  nove  —  ii.  191. 
Degno  non  son  del  sacrato  collegio  —  ii.  62. 
Deh!  dammi  un  po' qualche  consiglio,  Amore. — 

II.  183. 
Deh!  Perchè  piangi  o  Febo? F.  Io  piango  e  grido  — 47 
Delectasti  me  domine   in  factura  —  248. 
Devoto  patre,  sotto  i  sacri  panni  —  109. 
Dica  la  Bolla  pur  comò  gli  piace  —  245. 
Dice  un|proverbio,  che  ognun  dee  sapere  —  ii.  100. 
Di  che  ti  adiri?  A  chi  invidia,  hai  Natura?  —  72. 
Divo  Ermolao,  novo  Mercurio  in  terra  —  ìi.  103. 
Dolcissimo  parente,  al  mio  signore.  —  41. 
Dormi  tu,  Cristo,  oppur  non  vedi  lume  —  139. 
D'Ottobre  e  Maggio  el  vostro  enigma  indulto  —  247. 
Dulce  Isabella  mia,  s' i'  sono  assente  —  il.  170. 

E  drappi  d'oro  e' ricchi  diamanti — ii.  172. 
Ego  te  commendare  non  desisto  —  143. 
Eh  !  s' io  fussi  di  fuor  qual  dentro  bello  —  ii.  79. 
E'  ci  è  venuto  un  gufo  di  Cuccagna  —  211. 
Egli  è  tempo  aprir  gli  occhi  e  parer  cieco  —  ii.  104. 
E' mi  rincresce  di  me,  che  son  tale  — ii.  142. 
E' trovarono  al  naso  come  el   bracco  —  198. 
El  bel  pianeta  che  già  nacque  in  Delo  —  71. 
El  bel  viso  e  le  chiome  crespe  e  bionde  —  ii.  166. 
El  cor  mi  ardea  d'una  speranza  tale  —  ii.  188. 
El  duro  pan  tra  denti   usa  tentare — 53. 
El  nipote  del  mondo  nano  e  grande  —  ii.  34. 

17 


258  INDICE   DELLE   RIME. 

El  pennajuol  de  gli  Otto  di  Palagio — 215. 

El  sarà  prima  Santo  Anton  d'Agosto  —  ii.  81. 

El  Soldan  di  Toscana  uccellatore  —  160. 

El  sole  avea  già  l'ombre  e  le  paure  — ii.  179. 

El  tuo  cornigeron,  non  cornacchione  —  n.  6. 

E  preti  e'  frati  buon  non  son  si  rari  —  ii.  51. 

Essendo  ambidui  noi  d'un  sangue  erede — 37. 

Essendo  a  vostre  rime  qui  soggetto  —  ii.  88. 

E  trespoli  imparavano  a  ballare  —  ii.  66. 

E  tuoi  pensier  son  pur  di  strano  uccello  —  206. 

P 

Facundissima  lingua,  ingegno  ornato  —  n.  150. 
Farete  insieme,  o  musici,  lamento  — ii.  117. 
Fatto  era  d'  ombre  e  di  silenzio  pieno  —  49. 
Filippo,  i'  son  di  quelle  virtù  privo  —  89. 

(Epitafio) 
Firmate  qui  ciascun  vostro  camino  —  8. 
Firenze  parea  tutto  un  pajuol  d'  accia  —  ii.  85. 
Forse  dirà  Gualter:  El  Bellincione  — 242 
Fortunati  e  felici,  o  gran  cignali  —  n.  166. 
Fratel,  la  mia  signora  è  pur  severa  —  ii.  198. 
Fu  forsi  un'  arte  già  la  poesia  —  192. 

Q 

Gallettin,  conigliuzzo,  anzi  frittella  —  217. 
Giovan,  Francesco  e  Pietro  ognun  propizio  —  n.  39. 
Gloriosa  per  me  felice  sera  —  67. 
Gran  mercè,  ti  ringrazio  e  ti  commendo  —  166. 
Grimaldo  mio,  se  or  fusse  Salomone  —  35. 
Gustate  ben  di  Fabio  el  documento — 33. 

H 

Ho  mille  volte  ringraziato  amore  —  ii.  199. 


INDICE    DELLE   RIME. 


259 


r  arei  convertito  ogni  Giudeo  —  n.  20. 

r  canto,  Monsignore,  il  Misererò  —  n.  19. 

11  Tapon  d'esser  santo  forse  aspetta  —  176. 

r  fo  delle  pensate  di  fanello  —  205. 

Intendo,  Monsignor,  venirne  teco  —  ii.  138. 

Io  ho  sentito  che   'n  filosofia  —  ii.  72. 

riessi  la  tua  cronica  a  Legnaja  —  n.  101. 

Io  non  ho  tanta  polvere  negli  occhi  —  200. 

r  porto  in  dosso  un  certo  stran  mantello  —  232. 

r  previdi,  signor,  quel  eh' è  seguito  —  56. 

r  sento  che  '1  Tapon  la  bestia  matta  —  184. 

r  sento  non  so  che  de  gli  Antenori  —  152. 

r  son  colei  che  al  mondo  amasti  tanto  —  ii.  119. 

r  son  fatto  pel  pianger  quasi  cieco  —  ii.  195. 

Io  sto  come  Dio  voi,  non  comò  i' voglio  —  241. 

r  t'  ebbi  già  dormendo  nel  pensiero  —  163. 

Io  ti  mando  dui  pomi;  e'  son  granati  —  230. 

r  ti  rimando  il  tuo  carrettou  bajo  —  ii.  141. 

I'  ti  mando  un  sonetto  pien  di  risa  —  ii.  64. 

r  ti  ricordo  della  rana  e  il  ratto  —  132. 

r  ti  vidi  una  siepe  intorno  al  letto  —  ii.  65. 

r  veggio  ben  sì  come  oggi  disserra  —  ii.  185. 

r  veggio  a  lato  a  quel  celeste   sole  —  69. 

r  vegno  come  un  frate  di  Badia  —  li.  97. 

Io  vi  mando  un  sonetto  burchiellesco  —  ii.  32. 

lo  vo'  ben  che  da  ridere  el  ci  sia  —  172. 

r  vo  pensando  pur  che  grado  o  stato  —  ir.  31. 

r  vorrei  pur  saper  da  qualche  dotto  —  ii.  89. 


Jacomo,  el  tuo  presente  è  molto  degno— 90. 


La  fama  tua  è,  Valditara  sciocco  —  113. 


260  INDICE  DELLE  RIME. 

La  fama  tua  ha  qua  fino  il  ciel  tocco  —  112. 
La  fede  era  mancata  oggi  a  ciascuno  —  ii.  42, 
La  fonte  e  le  sue  ove,  o  Pernigone  —  175. 
La  luna,  el  sole,  el  tempo  e  la  stagione  —  ii.  66. 
L'alta  invenzione  e  '1  tuo  soggetto  degno — n.  108. 
La  miiera  intes' io  del  Vescovato  —  ii.  106. 
La  nostra  andata  è  proprio  una  novella  —  ii.  99. 
Lanterne  cieche,  e  sogni  in  un  brodetto  —  ii.  87. 
L'arbor  che  Febo  in  terra  onora  et  ama —  34. 
Lascia  pur  fare  a  me  la  ciurniaria  —  ii.  57. 
Le  dolci  rime  e  gli  eleganti  versi  —  ii.  253. 
Le  fosse  cieche  fien  forse  scoperte  —  150. 
Leggiadro  spirto,  al  ciel  sempre  elevato — ii.  149. 
Leggendo  un  di  la  gloriosa  vita  —  102. 
Leggiadro,  divo  e  luminoso  ingegno  —  88. 
Leggiadro  spirto,  in  cui  certo  si  vede  —  78. 
Le  Parche,  Ambrosio,  han  dato  una  richiesta  — 

127. 
Le  tue  virtù  m'accendon  si  d'un  zelo — 93. 
Li  arbori,  l'erbe,  i  colli  e  le  campagne — 63. 
L' invida  gente  dispettosa  e  trista  —  136. 
Lo  Dio  d'Arcadia  è  fatto  una  sirena  — 194. 
Lorenzo,  i'  sono  in  tanta  estremitate  — u.  94. 
Luigi  Pulci,  se   dall'alto  regno — 81. 

M 

Maestro  Bica,  nostro  ventre  mina  —  209. 
Maggior  dolcezza  i'  sento  nel  mio  core  — 249. 
Marchese,  Ovidio  ho  letto  per   piacere — ii.  148. 
Meco  ti  fai,  Scallese,  cavaliere  —  164. 
Memento  mei  a  questa  volta  appunto  —  ii.  60. 
Memento  mei,  el  e'  è  el  tesauriere  —  233. 
Memento  mei,  per  Dio,  a  questa  volta  —  ii.  61. 
Mentre  eh'  io  penso  al  mio  longo  servire  —  ii.  183, 
Mentre  eh'  io   torno  a  ragionar  con  gli   anni  — 
n.  178. 


INDICE   DELLE  RIME. 


261 


Mentre  gli  occhj  mietcercono  in  quel  viso  —  ii.  191. 
Messer  Battista  par  ben  el  Battista  —  ii.  16. 
Messer  Pallavicin,  deh!  non  vi  scordi  —  223. 
Messer  Pier  da  Birago  io  vi  ricordo  — 225. 
Mettevon  l'ale  tutti  quanti  gli  opii* — ii.  47. 
Milan  prendeva  pure  un  gran  conforto  —  165. 
Mira  '1  bel  loco,  o  glorioso  Giove  —  39. 
Molti  accendon  candele  a  certi  Santi — 32. 

N 

Natura  per  sé  fa  il  verso  gentile  —  ii.  53. 
Nel  mezzo  giorno  fia  settentrione  —  Ji.  27. 

(Canzone  delle  tre  Grazie) 
Noi  Siam  tre  sante  Grazie  —  ii.  221. 
Noi-  vi  vogliàn  venire  oggi  a  vedere  —  ii.  29. 
Non  direm  più  Santino   anzi  Santon  —  189. 
Non  dir  più:  Intendo  greco:  Ell'è  bugia  —  li.  111. 
Non  fu  lattuga  mai  sì  diradata  —  ii.  82. 
Non  fu  mai  madre  in  tanto  gaudio  e  festa  —  ii.  5. 
Non  fur  sì  liete  quelle  antiche  genti  —  96. 
Non  guarderete  al  mio  rotto  mantello  —  ii.  76. 
Non  ha  sì  dolce  Filomena  il  becco  —  44. 
Non  merita,  Bernardo,  el  nostro  ingegno  —  111. 
Non  mi  dar  quel  cavai  di  poesia  —  ii.  134. 
Non  pianger  più,  benché  sia  fatta  terra  —  ii.  116. 
Non   pianger  più  quel  eh'  è    fatto   immortale  — 

li.    118. 
Non  si  creda  a  Milano  oggi  un  Lupino  —  178. 
Non  so  qual  sia  più  grave  in  me  el  dolore  —  ii.  36. 
Non  so  quel  che  si  fràppon  d'Araphione  —  ii.  144. 
Non  so  se  con  le  rete  rotte  i'  pesco  — 231. 
Non  so  se  fu  del  frate  o  tuo  el  difetto  —  130. 
Non  so  se  quel  Melon  fu  come  certi  —  n.  37. 
Non  sol  per  l'affezione  e  gran  fervore  —  ii.  187. 
Non  tanto  cicalar,  falimbelluzzo  — 216. 
Non  tornò  mai  saeppolo  o  sparviere  —  n.  98. 


262  INDICE  DELLE  RIME. 

Non  trovo  medicina  che  riesca  —  237. 
Nova  influenzia  da  le  Muse  piove  —  ii.   197» 


O  Accademia  nuova  di  Giudei  —  ii.  253. 
O  barche  rotte,  o  maccheron  gelati  —  168. 
O  bella  Italia,  a  te  piangendo  dico  —  221. 
O  belle  labre,  di  rubin  colori  —  ii.  171. 
O  Bellincion  —  Che  e'  è  ?  —  Deh!   dimmi   un 

poco  —  57. 
O  Bellincion,  tu  se'  pur  di  casato  —  ii.  92. 
O  benigne  accoglienze  oneste  e  belle  —  61. 
O  cara  Lucia  mia,  fra  le  altre  sante  —  ii.  186. 
Occhj   miei  tristi,  miseri,  e  dolenti  —  ii.  173. 
O  chiara  luce,  che  di  elei  in  terra  —  ii.  200. 
O  chiara  luce  mia,  o  divin  sole  —  ii.  190. 
O  chiara  stella,  anzi  qual   vero  fiore  —  99. 
O  Ciel  !  O  san  Francesco  !  O  Crocioni  —  ii.  84. 
O  delfico,  ausonio,  o  divo  ingegno  —  110. 
O  discesa  dal  ciel  lucente  stella  —  62. 
O  divo  lampo,  o  delfico  splendore  —  15. 
O  divo  specchio,  ove  la  bella  donna  —  123. 
O  falso  Architofel,  lupo  rapace  —  185. 
O  famosa,  gentile,  alta  colonna  —  115. 
O  famoso  Bataglia,  o  gran  Melarapo  —  ii.  129. 
O  famoso  immortai  notturno  volo  —  50. 
O  famoso  mio  dolce  e  duca  degno  —  li.  18. 
O  fortunata  e  gloriosa  etate  —  46. 
O  fortunata  e  gloriosa  sera  —  97. 
O  fortunata  e  gloriosa  stella  —  ii.  175. 
O  fortunato  e  santo  domicilio  —  246. 
O  Galeazzo,  del  tuo  sangue  il  flore — 86. 
O  Geremia,  tu  fai  divin  lamento  —  ii.  90. 
O  Giovan  Galeazzo,  o  divo  lume  —  49. 
O  glorie  vane  dell'  umane  pompe  —  ii.  127. 
Ogni  giorno  a  Milan  ci  pare  un  anno  —  ii.  22. 


INDICE  DELLE  RIME. 


263 


(Canzonetta  d'amore) 
Ognun  canti  viva  Amore  —  ii.  205. 
Ognun  sa  predicar  la  pazienza  —  ii.  63. 
Ognuno  Sforza,  Sforza  :  e  s'  è  sforzato  —  ii.  16. 
Oh  vi  die  Dio  !  Borgonzio  e  Marchesino  —  179. 
O  luce,  abbi  pietà  del  mio  dolore  —  ii.  182. 
O  lume,  del  gentil  sangue  del  Fiesco  —  80, 
O  lume  o  specchio  de  la  nova  Roma  — 100. 
O  lume,  o  specchio,  o  delfico  splendore  —  108. 
O  lume,  o  specchio,  o  sol  degli  occhj  miei  — ii.  176 
O  lume,  o  specchio,  o  sol  di  nostra  etate  —  ii.  21. 
O  lupo  e  non  pastor,  che  al  santo  offlzio  — 140. 
O  Marchesita,  o  arbori  fioriti  —  134. 
O  Milan  cristianissimo,  al  ciel  grato — 229. 
O  Muse  afflitte,  lacrimose  e  sole — 94. 
Onestà  in  bocca,  e  castità  negli  occhi  —  n  196. 
O  poeta  da  beffe  o  tempie  grasse  —  213. 
O  Ricciardetto,  ov'  è  la  tua  prudenzia  —  ii.  49. 
Or  su,  che  diranno  ora  e  detrattori — 58. 
Or  vedo  io  che  '1  Tapon  lia  pur  cervello  —  162. 
O  santissimo  Ambrosio,  o  sole  eterno  —  60. 
O  signor,  perchè  fui  sempre  sforzesco  —  li.  12. 
O  sol  degli  occhj  miei,  divo  splendore  —  ir.  177. 
O  specchio  di  poetico  collegio  —  ii.  62. 

(Canzone  delle  sette  virtù) 
O  summo  Jiove,  o  summo  Jiove  —  ii.  221. 
O  sacro  erario  de'divin  tesori  —  104. 
,  O  Timoteo,  che  Amor  porti  dipinto  —  ii.  26. 
O  veramente  bona,  anzi  perfetta  —  68. 


Pallide  e  scure,  interriate  e  smorte  —  ii.  125. 

(Epigramma) 
Parvus  magna  peto;  fateor,  Ludovico,  rogatam  — 

II.  HO. 
Pelago  di  tempeste,  un  mar  d' affanni  —  ii.  113. 


264  INDICE  DELLE  RIME. 

Per  autunno,  verno  o  primavera  —  60. 
Per  certo  che  s'  è  fatto  un  grande  errore  —  ii.  44. 
Perch'  al  non  è  più  el  tempo  di  Sansone  — 227. 
Perchè  tanto  dolor  mostrar  conviensi  —  ii.  5(). 
Per  dirti  prima  ch'i'  cavalco  a  Pisa  — ii.  141. 
Per  qual  merito  mai  dal  regno  santo  —  64. 
Per  molti  un  bel  proverbio  si   concede  —  137. 
Per  Ognissanti  bietole  si  sgombra  —  195. 
Per  poter  far  sonetti  e  me'  studiare  —  243. 
Per  sua  umanità  non  vostro  merto  —  183. 
Piangendo  rido,  e  sospirando  godo  —  ii.  95. 

(Elegia  funebre) 
Piangi  el  tuo  stremo  danno,  o  bella  Esperia  — 

II.  150. 
Piangi,  Ferrara  mia,  leggiadra  e  bella  —  ii.  120. 
Pietosi  amici,  udite  a  quel  ch'io   sono  — ii.  180. 
Pietoso  Giove,  in  ciel  primo  motore  — 222. 
Poeta  mìo,  cocomero  col  pane  —  196. 

(Elegia   funebre) 
Poi  che  morte  Giuliano  ha  fatto  vivo  —  ii.  160. 
Prima  fia  secco  di  Parnaso  el  fonte  —  91. 
Prima  la  terra  a'  miei  pie  venghi  meno  —  239. 

Qual  carro,  o  arco  magno  e  trionfale  —  77. 
Qual  carro  trionfai  mai  vide  Roma  —  38. 
Qual  nova  legge  di  natura  vuole  — ii.  177. 
Qual  van  pensiero  e  qual  tuo  vano  errore  —  ii.  28. 
Qùal  vergogna,  o  paura,  o  quale  errore  —  ii,  192. 
Qual  vostro  merto,  o    stelle   gloriose    —  65. 
Quando    fia  el  di  che  Amore  el   freddo   petto   — 

II.  201. 
Quando  fortuna  vuole  uno  ajutare  —  234. 
Quando  potrà  sonar  questa  campana  —  54. 
Quando  su  l'anche  d' il  destrìer  ritroso  — 98. 
Quanta  dolcezza  da'  begli  occhj  piove  —  107. 


INDICE    DELLE   RIME.  205 

Quanta  gloria  et  onore  e  quanta  fama  —  89. 

Quanto  fa  ben  colui  che  tutto  reggo  —  ii.  124.  ! 

Quanto  più  el  foco  al  nostro  core  accendi  —  ii.  184.  : 

(F'esta  ossia  Rappresentazione) 
Quanto  se' tu  cortese,  eli' è  gentile — ii.  214.  ; 

Quel  che  già  ricordò  l'errore  a  Piero  —  55. 
Quel  che  nell'  alta  e  diva  Comedia  —  ii.  193. 

Quel  che  volse  morir  nel  santo  legno  —  247.  ì 

Quel  chiaro,  divo  e  novo  dolce   sole  —  ii.  168.  ; 

Quella  invidiosa,  un  foco  d'ogni  regno  —  ii.  36.  i 

Quello  antico  famoso  alto  valore  —  85.  "' 

(Canzone)  := 

Quell'antico  valor  del  tuo  chiar  sangue  —  73.  '  i 

Quel  nostro  antico  e  granperfetto  amore  —  ii.  121.  - 

Questa  pace  che  ha  fatto?  Ha  spento  un  fuoco  -  31.  ; 

Questa  perla  del  vostro  Ricciardetto  —  n.  3.  \ 

Questo  andar  pei  cantoni  a  questo  e  quello  —  146,  i 

Questo  appartiene  a  voi,  predicatori  —  131.  j 

Questo  non  meritava  la  mia  fede  — ii,  181. 
Questo  nostro  Francesco  non  è  quello  —  141, 
Questo,  Signor,  ti  fo  in  una  osteria  —  ii.  143. 

Qui  dormon  le  famose  e  sacre  spoglie  —  ii.  118.  ■ 

Qui  morto  vive  (se  morir  non  suole)  —  ii.  123.  ! 

(Rappresentazione)  , 

Quivi  è  colui,  che  mai  si  vide  sazio  —  ii.  238. 

B 

Ringrazio,  o  donna,  el  ciel  a  tutte  l'ore  —  ii.  200.  | 

Ruppe  la  Parca  una  più  dolce  cetra  —  9.  ';i 

Sarebberai  ogni  riso  amaro   pianto  —  ii.  169. 

Se  da  te,  donna,  il  mio  corpo  si  parte  — ii.  189.  ; 

Se  d'udire  il  mio  stato  hai  pur  diletto —  ti.  93.  : 

S'egli  è  ver  quel  proverbio  che  si  dice  — 41.  '. 

Se  Febo  or  piange,  ancor  si  duol  Cupido  —  48.  ) 

18  ì 


266  INDICE    DELLE   RIME. 

Se  tei,  Madonna,  l'altro  d\  peccato — 236. 
Se' giudicato  un  certo  superbetto  —  186. 
Se  ier  ti  die'  del  fonte  di  Parnaso  —  ii.  18. 
Se  '1  pianto  del  Salmista  in  ciel  fu  grato  —  80. 
Se  lieto  all'  umbra  del  signor  mio  sono  —  88. 
Se  l'uom  del  Verbo  Eterno  è  vera  immago  —  ii.  55. 
Se  mai  impetraron   grazie  i  miei  sonetti  —  ii.  8. 
Seme  di  funghi  e  fumo  di  stadere  —  208. 
Sempre  ti  detti,  Prete,  di  Messere  — 207. 
Sempre  un  malato  vedi  dubitare  —  228. 
Sentenzio  da  soppanni  e  ferravecchi  —  212. 
Sento  assai  l'è  piaciuto  el  mio   sonetto — 84. 
Sento  che  voi  facesti  un  grande   onore  —  133. 
Se  quella  luce  ancor  risplende  al  core  —  ii.  167. 
Se  quella  vostra  dolce  e  bianca  mano  —  ii  188. 
Se  stati  fussin  nell'antica  legge  —  ii.  25. 
Se  Troja  avessi  auto  un  tal  figliolo  —  82. 
Se  un  parvo  magne  cose  a  te  richiede  —  ir.  111. 

(Canzone   della  pazienza) 
Sia  laudata  pazienzia  —  ii.  202. 

(Egloga) 
Sia  maledetto  il  giorno  —  ii.  225. 
Si  ben  non  lega  al  ramo  la  natura  —  106. 
Sì  come  ogni  erba  si  conosce  al  seme  — ii.  1. 
Sì  come  quell'uccel,  non  pur  col  becco  —  43. 
Sgnor,  ben  vi  so  dir  ch'egli  sta  fresco  —  ii.  14. 
Signor  Francesco,  s'  i'  non  son  venuto  —  ii.  140 
Signore   illustre,  in  cui  mostra  natura — 87. 
Signor,  le  risa  non  potrai  tenere  —  ii.  133. 
Signor,  per  questa  grazia  a  te  sol  vegno  —  ii.  131. 
Signor,  quel  caraerier  eh'  io  ti  vo'  dare  — n.  26. 
Signor,  sia  maladetto  lo  Spagnolo  —  ii.  130. 
Signor,  tanto  ho  cantato  il  Miserere  —  ii.  14. 
S'  i  fussi  così  ricco  di  moneta  —  ii.  70. 
S'  invoco  Berlingaccio  o  Befania  —  ii.  59. 
Solieno  i  boschi,  le  campagne  e  i  fiumi  —  ii.  171. 


INDICE  DELLE  RIME.  267 

Sonetto,  va,  ricorda  quel  cavallo  —  ii.   136. 
Sono  a  cavallo  in  su  nun  carrettone  —  n.  137. 
Sono  i  pianeti  in  gran  confusione  —  79. 

(Sestina) 
Spento  ha  or  morte  un  divo  lume  in  terra  —  ii.  114. 
Spirto  gentil  d'ogni  virtù  ricetto  —  103. 
Stando  come  Dio  vuol,  non  dir:  mi  doglio  —  241. 
Sterile,  inculto  loco,  arido  e  vile  —  37. 
Stu  di'  che  lodi   tanto  e  vuoi  gran  bene  — 224. 
Stu  se' cortese,  o  dolce  mio  Barcello  —  n.  145. 

T 

Taci,  non  ciarlar  più,  che  tu  schiamazzi — 203. 
Tadeo  da  Busti  pare  in  fantasia  —  156. 
Tanto  dolor  di  te  mio  cor  sostiene  —  ii.   169. 
Tanto  penassi  a  cuocervisi  il  pane  —  ii.  107. 
Tommaso,  i'   mando  a  voi  questo  sonetto  —  ii.  75. 
Trespoli  rotti,  e  sangue  di  verzino  —  n.  69. 

(Canzone) 
Triunfante  signor,  fra'  primi  illustri  —  120. 
Triuufo  a  l'ombra  del  mio  santo  alloro  —  n.  35. 
Tu  acquisti,  Locamo,  un  grande    onore  —  161. 
Tu  sai  che  ti  cognosco,  Architofello  —  159. 

U 

Udite  quel  che  mi  promesse  Amore  —  ii.  180. 
Umana  cosa  è,  dice  la  Scrittura  —  n.  10. 
Una  casa  frappata  uso  abitare  —  ii.  147. 
Una  libbra  di  fretta  di  corrieri  —  ii.  74. 
Un  mulin  con  la  rocca  sconocchiata  — ii.  86. 
Un  non  so  chi,  l'ha  presa  pe' Toscani  —  190. 
Un  pezzo  di  migliaccio  mala  via  —  ii.  58. 


Va,  Bellincione,  e  fa  bene  il  Sosia  —  ii.  56, 
Vedova  trista,  lacrimosa  e  mesta  —  u.  126. 


268  INDICE  DELLR  RIME. 


19 


Veggio  del  tempo  esperienza  troppa  •— ii,  115 
Veggio  (li  Roma  un  suo  bello  antico  orto  —  ii.  223 
Veggio  venire  un  nuovo  Demostene  —  83. 
Venne  già  in  terra  per  diletto  Giove — 63. 
Vergine  eletta  dal  superno  chiostro  — ii.  125. 
Vidi  una  donna  afflitta  e  lacrimosa  —  ii.  50. 
Vidi  una  palla  che  giaceva  a  schacchi  —  n.  67. 
Vien  za,  Piero  imbriaco  da  Sorano  —  167. 

(Epigramma) 
Vilis  gleba  fui,  modo  sum  ditissima  tellus  —  36. 
Virgilio,  Tullio,  Seneca,  e  Lucano  —  ii.  73. 
Virtuoso,  leggiadro  spirto  illustre  —  105. 
Voi  mi  pregasti  tanto  per  un  cinto  —  ii.  77. 
Voi  siete  gionti  tardi,  compagnoni  —  ii.  71. 
Voi  vorresti  veder  gran  cose  fare  —  147. 
Volano  al  cielo  e  gran  romori  e  fischi  —  171. 
Volete,  amanti,  consolarvi  un  poco  —  ii.  194. 
Volta  e  rivolta,  e'  mostra  otton  per  oro  —  239. 
Vorrei  saper  da  voi ,  messer  Obietto  —  154. 
Vuoi  tu  veder,  se  '1  Duca  mi  tien  pazzo  —  153. 


Zoccoli  rotti,  e  doi  sacchi  da  pane  —  ii.  48. 


•■1 


*51.  Dell'Arte  del  vetro  per  muijaico  (Esaurito)      .     .     .     .  L.     6  — 
52.-53.  Leggende  di  alcuni  Santi  e  Beati »   10  50 

54.  Regola  dei  Frati  di  S.  Jacopo 5  — 

55.  Lettera  de'  Fraticelli  a  tutti  i  cristiani »     1  50 

56.  Giacoppo  novella  e  la  Ginevra  novella  incominciata  .3  — 

57.  La  leggenda  di  Sant'Albano '4  — 

58.  Sonetti  giocosi  di  A.  da  Pistoia ■>     2  50 

59.  Fiori  di  Medieina. "     3  — 

60.  Cronachetta  di  S.  Gcmignano "2  — 

61.  Trattato  di  Virtù  morali «     6  50 

62.  Proverbii  di  messer  Antonio  Cornazano «     8  — 

63.  Fiore  di  Filosofi  e  di  molti  savi   ..,.....»     3  — 

64.  Il  libro  dei  Sette  Savi  di  Roma "     3  60 

65.  Del  libero  arbitrio,  trattato  di  S.  Bernardo   .     .    .     .  4  -— 
(òQ.  Delle  Azioni  e  Sentenze  di  Alessandro  De'  Medici  .     .    '     6  — 

67.  Pronostichi  d'Ippocrate »     3  50 

68.  Lo  stimolo  d'Amore  attribuito  a  S.  Bernardo »     3  — 

69.  Ricordi  sulla  vita  di  M.  Petrarca  e  di  Madonna  Laura  »     1  50 

70.  Tractato  del  Diavolo  co' Monaci "     2  50 

71.  Due  Novelle *     3  50 

72.  Vbbie  Ciancioni  e  Ciarpe «     3  — 

73.  Specchio  dei  peccatori  attribuito  a  S.  Agostino  ...    «     2  50 

74.  Consiglio  contro  a  pistolenza    ..,.-....«     2  — 
75-76.  Il  volgarizzamento  delle  favole  di  Galfredo  ..."   14  50 

77.  Poesie  minori  del  sec.  XIV »     4  — 

78.  Due  Sermoni  di  Santo  Efrem  e  la  Laudazione  di  los^'f    »     2  50 

79.  Cantare  del  bel  Gherardino «     2  — 

80.  Fioretti  dell'una  e  dell'altra  fortuna  di  M.  Petrarca.    »     8  — 

81.  Cocchi  Gio.  Maria.  Compendio  di  più  ritratti.     ...»     3  — 

82.  Rime  di  Bindo  Bonichi  da  Siena  edite  ed  inedite  .    .    »     7  50 

83.  La  Istoria  di  Ottinello  e  Giulia »     2  50 

84.  Pistola  di  S.  Berìsardo  a' Frati  del  monte  di  Dio   .    .    »     7  — 

85.  Tre  Novelle  Rarissime  del  secolo  XIV »     5  — 

86^  862  87-88.  Il  Paradiso  degli  Alberti .    .    .    .    .    .    .    »  40  — 

89.  Madonna- Lionessa,  cantare  inedito  del  secolo    XIV.    »     4  — 

90.  Alcune  lettere  famigliari  del  sec.  XIV »     2  50 

91.  Profezia  delia  Guerra  di  Siena      .     .     ^ »     5  50 

92.  Lettere  di  Diomede  Borghesi  e  di  Daniello  Bartoli     .    »    3  50 

93.  Libro  di  Novelle  Antiche       »     7  50 

94.  Poesie  Musicali  dei  secoli  XIV,  XV,  XVI  ...»     3  — 

95.  L' Orlandino.  Canti  due •     .    »     1  50 

96.  La  Contenzione  di  Mona  Costanza  e  Biagio      ....>*     1  50 

97.  Novellette  ed  esempi  morali  Apologhi  di  S.  Bernardino      »     3  50 

98.  Un  Viaggio  di  Clarice  Orsini »     1  _ 

99.  La  Leggenda  di  Vergogna «     7  50 

100.  Femia  (II)  Sentenziato »     7  — 

101.  Lettere  inedite  di  B.  Cavalcanti «     8  50 

102.  Libro  Segreto  di  G.  Dati »     3  80 

103.  Lettere  di  Bernardo  Tasso »    7  _. 

104.  Del  Tesoro  volgarizzato  di  B.  Latini.  Libro  I    .     .         »    7  — 

105.  Gidino  Trattato  dei  Ritmi  Volgari »  10  50 

106.  Locr-frerida  di  Adamo  ed  Eva »    1  50 

107.  Novellino  Provenzale '         .     .     »    8  — 

108.  Lettere  di  Bernardo  Cappello ...»    4  — 

109.  Petrarca.  Parma  liberata.  Canzone     ...•..»    6  50 
H'»   l'4)istola  di  S.  Girolamo  ad  Eu.stoohio  7  — 


111.  Novellette  di  Curzio  Marignoli li.  ;>  .'>') 

112.  Il  libro  di  Theodolo  o  vero  la  Visione  di  Tantolo    .     »  4  — 
118.  e  114.  Mandavilla  Gio.  Viaggi,  Voi.  I  e  II.     ...    »  14  ~ 

115.  Lettere  di  Piero  Vettori »  2  50 

116.  Lettere  Volgari  del  secolo  Xlll »  6  50 

117.  Salviati  Leonardo.  Kime »  4  — 

118.  La  Seconda  Spagna  e  l'acquisto  di  Ponente    ...»  12  — 

1 19.  Novelle  di  Giovanni  Sercambi »  12  — 

120.  Bianchini.  Carte  da  Giuoco  in  &^,rvigio  dell'Istoria    .    »  3  50 

121.  Scritti  vari  di  G.  B.  Adriani  e  di  Marcello  suo  figliuolo   »  9  50 

122.  Bateccliio.  Commedia  di  Maggio »  4  — 

123.  e  124.  Viaggio  di  Carlo  Magno  in  Ispagna  .    .    .    .    »  16  — 

125.  Del  Governo  de' Kegni ,    .    .    »  5r  50 

126.  Il  Saltero  della  B.  V.  Maria. -»  5  — 

127.  Bonvesin  da  Riva.  Tractato  dei  mesi »  4  — 

128.  La  Visione  di  Tugdalo,  secondo  un  Testo  del  Sec.  XIII  »  7  — 

1 29.  Prose  inedite  del  Cay.  Leonardo  Salviati  - »  6  — 

130.  Volgarizzamento  del  trattato  della  cura  desrli  occbi      »  4  — 

131.  Trattato  dell'  Arte  del  Ballo "....»  4  — 

132.  Lettere  scritte  all'  Aretino  (v.  IV) »  12  50 

133.  Rime  di  Poeti  del  Sec.  XVI »  5  — 

134.  Novelle  di  Ser  Andrea  Lancia »  2  50 

135.  I  Cantari  di  Carduino,  di  Tristano  e  Lancielotto.    .     »  5  50 

136.  La  lettera  dell'  Isole  che  ha  trovato  il  Re  di  Spagna.    »  5  50 

137.  Zenone  da  Pistoia »  7  50 

138.  Motti  e  Facezie  del  Sec.  XV »  5  — 

139.  Rime  di  Ser  Pietro  De  Faytinelli »  3  40 

140.  Trattato  inedito  di  Falconeria  del  Sec.  XIV.    .     .    .    »  12  — 

141.  Prose  del  Giovine  Buonacorso »  4  -  - 

142.  Rime  di  Luigi  d'  Erodia »  3  — 

143.  La  Terza  deca  di  Tito  Livio »  8  — 

144.  La  Navigatione  del  Colombo   ..........  8  •— 

145-146.  Lettere  inedite  di  Illustri  Bolognesi  (v.  II)    .    .    »  18  — 

147.  Il  Tancredi  Tragedia »  4  50 

148.  La  Defensione  delle  Donne »  7  50 

149.  La  seconda  e  la  terza  Guerra  Punica »  5  — 

150.  Ruspoli  Sonetti »  5  — 

151.  Bellincioni  Sonetti  Voi,  I »  9  — 

152.  Raccolta  di  Poesie  popolari ...»  5  50 

353.  La  Terza  deca  di  Tito  Livio  p.  II »  8    - 

154.  Libro  di  Gandolfa  Persiana »  5  — 

155.  Fortini  tre  Novelle  inedito »  8  50 

156.  Borgagni  Scritti  vari  p.  I »  10  50 

157.  Lettere  di  Scrittori  Italiani  del  Secolo  XVI     .    .     .    »  12  50 

158.  Cronica  degli  Imperatori  Romani    ........  6  50 

159.  Vite  di  Ss.  Guglielma  ed  Eufrasia  ..,...»  3  50 


1?N  CO-RSO  DI   STAMPA. 

La  passione  di  N.  S.  Gesù  Cristo,  secondo  un  codice  del_  secolo  XI  \' 

posseduto  dal  cav.  Razzolini  con  importantissime  varianti. 
Borgognoni,  Scritti  vari  (parte  II). 

Gambino  D'Arezzo  del   secolo   XV,  degli  Scrittori  de'  suoi   tf'inpi. 
La  prima  guerra  Punica. 


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