Full text of "Rime"
RIME
DI
ARGIA SBOLENFI
CON PREFAZIONE
DI
LORENZO STECCHETTI
BOLOGNA
NICOLA ZANICHELLI
RIME
DI
ARGIA SBOLENFI
CON PREFAZIONE
DI
LORENZO STECCHETTI
BOLOGNA
NICOLA ZANICHELLI
KDITORE
PROPRIETÀ LETTERARIA
PREFAZIONE
ricco un libro sbagliato.
E poiché una cortese ma assidua insi-
stenza, durata ormai tre anni, riuscì pure a
levarmi di sotto questa prefazione che non
scrissi volentieri, così, per patto espresso,
mi riserbai il diritto di dire l'animo mio tutto
intero e Io dico.
Ai lettori (se il libro ne avrà, che non
li merita) riuscirà difficile capire come dia-
volo possa esser nata una insanità simile
a questa; ed ecco, per quel ch'io so, come
avvenne.
Vegetava in Bologna, e può darsi che vi
agonizzi ancora, un foglietto di carta stam-
pata, venduto una volta la settimana ai cit-
tadini che non sanno come sciupare il tempo.
S'intitolava « E pevìiiesso?... » e non pò-
PREFAZIONE
teva uscire 'dalla breve cerchia delle mura
poiché mordeva solo gli uomini che dentro
alle mura hanno fama, uffici o difetti. Perciò
era scritto o in dialetto o in un italiano così
fitto di idiotismi da parere un peggiorativo
del dialetto. Lo dirigeva un certo Cesare
Dallanoce, al cui cognome botanico s' era
appiccata V aggiunta di Moscata : giovane
nottambulo, di qualche spirito, con un fisico
di cercopiteco peggiorato, sotto al quale sta-
vano mescolati l' odio e la bontà in un con-
nubio stravagante. Anzi l' odio era uno e
le bontà parecchie ; e segno dell' odio cieco,
furibondo, indomabile era il Presidente di
questa Deputazione Provinciale, che non gli
aveva mai fatto niente ; anzi non gli badava
nemmeno. Ma il Moscata era fatto così e se la
sua bestia nera avesse fatto più miracoli che
non S. Antonio di Padova, gli avrebbe tolti
i meriti ad uno ad uno, mordendolo e la-
cerandolo tutti i sabati nel suo foglio di carta.
Tolto questo brutto difetto, che doveva
esser vizio di natura incurabile, era buon
diavolo e tutti gli volevano bene. Prestava
volentieri se stesso e il giornale per opere
di beneficenza, non diceva troppo male del
PREFAZIONE IX
prossimo suo, insomma era simpatico a molti
ed odiato da nessuno.
Aveva avuto la fortuna, fin da principio,
di contare tra i collaboratori u El sgner Pi-
rein », il signor Pierino, il cui nome ed il cui
tipo non saranno dimenticati così presto dai
bolognesi.
Antonio Fiacchi, bravo e buon giovine
di brillante ingegno, aveva trovato questo
esilarantissimo tipo del vecchio petroniano
col cappello bianco a cilindro l'estate, il ta-
barrino a pipistrello l'inverno e le scarpe di
panno tutta l'annata; il vecchietto bronto-
lone, credenzone, ricordatore inesausto dei
tempi passati, detrattore dei presenti, ma in
fondo ingenuo sino alla balordaggine. In un
altro di questi giornaletti municipali aveva
fatto le prime armi, in un dialetto italianiz-
zato che accresceva comicità al contenuto
di certe lettere che non possono ricordarsi
tuttora senza ridere. 11 tipo aveva fatto for-
tuna ed era quasi assurto alla dignità di
maschera cittadina come il dottor Balanzone;
così che in certe feste carnevalesche, in un
villaggio di legno e di cartone che .serviva
da fiera, il signor Pierino fu fatto sindaco
PREFAZIONE
e sciorinò proclami ed allocuzioni da non
dire. Ma il Fiacchi fu chiamato a Roma e
il signor Pierino tacque.
Il Moscata, che aveva buon fiuto, lo cercò
pel suo giornaletto, ma il Fiacchi rispondeva
a buona ragione che fuori dell' ambiente
bolognese, si sentiva disorientato e che
temeva di non far nulla di buono. Moscata
insistè e si venne a questo che il .signor
Pierino Sbolenfi avrebbe scritto come cor-
rispondente dalla capitale; e così fu.
Allora il bel tipo ideato dal Fiacchi ri-
visse in una serie di lettere datate « dalle
rive del Colosseo » che fecero la fortuna del
giornale. L' egregio signor Sbolenfi aveva
ingrandito l'allegro campo dell'arte sua ed
oltre alle amene confidenze delle sue tribo-
lazioni famigliari ci dava le impressioni ro-
mane ricamate sulla tela delle proprie av-
venture. E lo vedemmo uscire di non so
qual Ministero, autocandidato al tempo delle
elezioni Giolitti, perdere l' impiego e cer-
carne un altro per perderlo di nuovo. Lo
vedemmo custode dei tempietti municipali
sacri alla Dea Cloacina abbandonarsi a me-
ste riflessioni sulle miserie umane ed a giù-
PREFAZIONE
dizi comparativi argutissimi sul giornalismo
contemporaneo in relazione ai riti celebrati
nel suo tempietto. Ma poiché le autorità
municipali nel tempo del colera avevano
segretamente ordinato a lui ed ai colleghi
una sorveglianza intima sulla condotta dei
cittadini ed egli aveva propalato la cosa nel
giornale, eccolo di nuovo senza impiego ed
in cerca di un altro. Infeomma, tutto un ro-
manzo comico, pieno di trovate felici, di
festività arguta e qualche volta di velata
melanconia.
E il signor Pietro Sbolenfi aveva per
moglie la signora Lucrezia e per figlia la
signorina Argia, attrici principali nella stra-
vagante commedia della sua vita. La grafo-
mania è contagiosa e la signorina Argia co-
minciò a mandare al giornale le sue epistole
lamentevoli e pretenziose.
Si voleva, a quel che pare, crear un altro
tipo; quella della ragazza che ebbe una me-
diocre istruzione e che, inacetita dal celibato,
chiama il pubblico a testimonio delle sue
isteriche sofferenze. Il tipo non era così alle-
gro come l'altro; di più non era nuovo e le
manifestazioni dell'isterismo essendo spesso
XII PREFAZIONK
erotiche, c'era pericolo di cadere in una tri-
viale pornografia.
E la signorina ci cadde malamente, lunga
e distesa.
E ben vero, lo ripeto, che il tipo non
si poteva intendere senza l'erotismo; ma c'è
modo e modo. E ben vero, che i lettori di
un giornale quasi in dialetto non avrebbero
inteso bene una Nuova Eloisa e che per ot-
tenere r effetto occorreva sai grosso di cu-
cina, non aromi delicati; ma resta, tuttavia,
che nulla giustifica il turpiloquio mal velato
sotto gli equivoci grossolani, la scatologia
suina che non si vergogna della sua loia.
Ci fu chi torse il naso, ma pur troppo il pub-
blico in generale applaudì !
Così l'Argia si mise in piazza, prima,
come ho detto, con certe lettere ridicolose,
che rifacevano l' ortografia e lo stile paterno,
poi a poco a poco, con certe poesie non meno
ridicole di cui son saggio le prime di questo
sbagliato volume.
Unico merito, se pure e tale, è un pro-
gressivo levarsi e correggersi, come di
chi avvistosi dell'errore, cerca di spacciarsi
dal brago. Ma ciò non scusa in modo alcuno
PREFAZIONE
la bassezza e la sudiceria sciocca degli
esordi.
A questo modo la poetessa (come si bat-
tezzava da sé modestamente) seguitò a met-
ter fuori le sue fagiolate e il male non
sarebbe poi stato grande se non si fosse pen-
sato a raccoglierle in un volume. Ah, vera-
mente il bisogno di una sporcizia di più a
questi bei lumi di luna, non era sentito !
A me pareva impossibile che si potesse
giungere a questo; tanto che, pregato anni
sono di fare la prefazione alla raccolta, dissi
di sì, nella certezza che non se ne sarebbe
fatto nulla. 1 versi erano ancora pochi e pen-
savo che fino ad un volume la poetessa non
ci sarebbe arrivata: ed ahimè, ci arrivò!
Ora, innamorata dell'imperatore di Ger-
mania che credeva venuto a Roma per spo-
sar lei, ora intabaccata in un canonicaccio di
manica larga, e degno Vescovo di Seboim,
la pettegola figliò tanti versi da mettermi al
punto di mantenere la promessa. Non è a
dire quante scappatoie cercai per esimer-
mene, come volli dissuadere, come tempo-
reggiai ! Ma non ci fu verso. La parola era
data e, per quanta ripugnanza ci avessi, do-
PREFAZIONE
vetti mantenerla. Solo mi riserbai di dire
schiettamente quel che ne penso, non perchè
il disapprovare possa valermi di scusa, ma
perchè lo sfogarsi dopo tutto è un sollievo.
Se frugo nei più intimi ripostigli della
mia coscienza, non ci trovo nulla che mi
chiami all'onore degli altari. In quel quarto
d'ora di notorietà cui, come tanti altri, sog-
giacqui, non fui precisamente lodato come
continuatore delle virtù di San Luigi Gon-
zaga e come emulo di Giuseppe servo di
Putifar. Tempi, ahimè, troppo lontani e che
volentieri rivivrei; parole e versi che, po-
tendo, ridirei, senza rimorso e senza rossore;
ma tempi, ahimè, troppo lontani !
Dico questo, non per balorda libidine di
parlare de' fatti miei, ma perchè si creda
che, disapprovando senza restrizioni queste
scelleraggini, scrivo per convinzione e non
per affettazione. Allora ed oggi mi persua-
deva e mi persuade la teoria della imma-
colatezza dell'arte, purché sia arte e sia
bella. Venere Anadiomène e Cristo Croce-
fisso sono rappresentati ignudi tutti e due
PKEFAZIONK
e nessuno dei due nella rappresentazione
artistica è immorale. Onorato di Balzac, che
non é poi il primo capitato, weW Avant-pro-
pos de la Comédie Humaine, diceva : « Le
reproche d' iminoralité qui n a jamais failli
à Vc'crivain courageux, est d'ailleiirs le der-
nier qui reste à faire qnand on n' a plus rien
à dire à un poète. Si vous ctes vrais dans vos
peintures, si à force de travaux diurnes et
nodurnes vous parvenez à écrire la laugue la
plus difficile du monde, on vous jette alors
le mot immoral à la face „. — Solo il brutto
è immorale.
E perciò che questa studiata ricerca del
brutto, del triviale, dell'imbecille, mi irrita.
Questa non è più arte, è laidezza, è turpi-
loquio spregevole ; ed ho appunto voluto ri-
cordare il quarto d'ora di notorietà che ebbi
in passato perchè si vegga che la disappro-
vazione non viene da bigotta ipocrisia, ma
da convinzione salda intorno alla ragion d'es-
sere dell'arte. E che cosa ha da fare l'arte
con queste cretinerie pediculose che s' inti-
tolano romanze, favolette, etc. ? Anzi è be-
stemmia solo il ricordare il nome santo del-
l'arte a questo proposito, e il criterio non cor-
PRElfAZIONE
rotto del pubblico italiano condannerà senza
dubbio e senz' appello queste stolte scon-
cezze all'obbrobrio ed all'oblio che meritano.
Mi duole di dover parlare così acerba-
mente; ma era, lo sento, mio stretto dovere.
Più avanti la poetessa (chiamiamola così,
poiché lo vuole) lascia lo sterquilinio in che
si compiaceva e si innalza, per quanto glielo
permettono le deboli penne, ad una forma
un po' più elevata. C è per esempio un
« Inno a Venere n che, se nel concetto è
della più abietta pornografia, nella esecu-
zione si può dire più conforme ai canoni
della lirica; ed io, appunto per quel che ho
detto di sopra, non lo disapprovo affatto.
Qui si potrà parlare d'arte, ma nella prima
parte del volumetto no, mai. Tutto al più
ci potremmo rifugiare nella caricatura, nella
rimeria giocosa, negli scherzi più o meno
piacevoli, ma il giudizio, anche il più indul-
gente, sarà sempre di riprovazione. La stu-
pidità può muoverci alla compassione, ma
l'affettazione, la caricatura della stupidità,
specie, se oscena, potrà muoverci al riso
per un momento, ma non mai all' applauso
sincero.
PREFAZIONE
Né vale sfoderare illustri esempi. Ma chi
oserebbe parlare del Berni, del Burchiello od
anche dei poeti maccheronici o fidenziani a
questo proposito? Certo, in quei capitoli e
in quei sonetti c'è il doppio senso, l'allu-
sione mal velata, la forma volutamente pe-
destre; ma il punto di partenza è proprio
diametralmente opposto a quello da cui
parte la nostra poetessa. 11 Folengo, per e-
sempio, par che voglia rifare (almeno nella
Zanitoneìla) il contadino che si sforza di
parlare come il cittadino , l' idiota che sì
sforza di parer colto. Qui invece è la per-
sona colta che si sforza di parere abbietta.
Là c'è uno che vuole uscire, come il Vallerà
della Nencia, dal dialetto e dalla rusticità e
cerca il comico nel tentativo di elevarsi
alla dignità dell' arte ; qui, al contrarilo, ab-
biamo la ricerca del comico intervertita, la
rappresentazione di una persona colta che,
per far ridere, si abbassa e si infanga in tutti
i letamai che trova per via. Là c'è una cari-
catura del tentativo di salire, qui del discen-
dere. Là c'è il pagliaccio che esce dal circo
e s'ingegna di far intendere che, uomo an-
ch'egli, soffre ed ama; qui abbiamo invece
Sholeiifi - 2. ,
PREFAZIONE
la persona per bene (almeno lo spero!) che
s'incanaglia e si fa pagliaccio per far ridere
colle smorfie e le contorsioni del viso in-
farinato. È perciò che male si potrebbero
addurre gli esempi come scusa, perchè gli
esempi non calzano.
Si può essere di manica larga, vantarsi
spregiudicati e sorridere di tutto ; ma in
fondo al cuore resta pur sempre qualche
cosa che si rivolta al puzzo ed alla lordura.
La ripugnanza pel laido è istintiva e si vede
mal volentieri un' artista, o una che si crede
tale, far getto, così sconciamente, della pro-
pria dignità. Avete visto in qualche « caffè
concerto » di ultima classe matrone appas-
site e verniciate cantar colle gambe e ge-
sticolar colle natiche? Ne inorridite ancora?
Ebbene, questa della signorina Sboleiifi è
letteratura da « caffè concerto » !
Dunque, riprovazione piena, intera ed
assoluta.
Ed ora che detto per lungo e per largo
il parer mio, bisognerà pur cercare in questo
scellerato libercolo, non dirò qualche cosa
PREFAZIONE
degna di lode, che non ce n'è, ma un pre-
testo per invocare le circostanze attenuanti.
Una prefazione che fosse una stroncatura da
capo a fondo sarebbe una mostruosità. Pro-
viamoci.
Si potrebbe dire intanto che l'autrice ha
fatto bene ordinando queste cose sue in
modo che crescano sempre di serietà (!) e
di correzione. Parte dalla insanità cercando
di salire alla lirica, e in questo successivo
progresso è il filo che lega il volume. Bi-
sogna ricordare che si tratta di una pette-
gola semi-letterata che va raffinandosi a poco
a poco. Questo almeno pare che sia il con-
cetto generale e, anche nei volumi di liriche,
credo lodevole un legame che costringa le
parti diverse. Sia un mazzo di fiori, sia un
fascio di stecchi, un vincolo ci deve essere,
se no, invece di un mazzo o di un fascio,
avremo un mucchio incoerente di spazza-
tura. M'è sempre piaciuto, anche nelle rac-
colte di versi, un romanzo che spieghi tutto.
Il Canzoniere del Petrarca (se non è pec-
cato mortale ricordarlo qui, ed a questo
proposito) non è egli dunque un romanzo
d'amore? Un concetto unico circola per le
PREFAZIONI':
diverse parti, come il sangue nelle membra
e vivifica l'opera nella mente del lettore.
Un libro deve essere un organismo.
Ed anche non è da passare senza almeno
un segno di benevolo consentimento sul ten-
tativo di poesia patriottica ed un po' socialista
che fa capolino in fondo al volumetto. In
questi nostri bellissimi tem.pi pareva che il
patriottismo consistesse tutto nel prendere
la roba altrui. Di qui i disastri eritrei, di qui
l'epizoozia dei commendatori, la quistione
morale e i sospetti, confortati da troppe pro-
babilità, sulla corruttela, la venalità, la diso-
nestà, insomma, di chi doveva essere esempio
del contrario. Sottrarre gli accusati all'istrut-
toria ed ai giudici costò poco ad una mag-
gioranza metà di amici, metà di complici,
ma è facile capire come questi segni di de-
cadenza morale fossero dolorosamente sen-
titi da tutti coloro pei quali il patriottismo
non fu mai una chiave falsa per aprire gli
scrigni pubblici o privati. « Avete fatta
l'Italia per mangiarvela », dissero i cleri-
cali così pronti a profittare delle calamità
del loro paese; e gli Italiani, scettici per
istinto, rilessero dubitando le pagine della
PREFAZIONE
storia loro e sentirono rimpicciolire in se
stessi le sante idee di patria, di indipen-
denza e di libertà. Quanto male abbiano
fatto alla coscienza italica gli ultimi scan-
dali, lo dirà purtroppo l'avvenire; per ora
intanto la patria non è più di moda.
Di moda invece vuol diventare il cleri-
calismo. Chi guadagnò diventa conservatore
e conservatori si dicono e sono tutti gli ar-
rivati. Se, per fortuna delle idee liberali, la
cocciutaggine della decrepitezza non mante-
nesse così ampia la fossa che separa l'Italia
dal papato, tutti questi conservatori d'oggi
sarebbero papalini domani. Già le classi ab-
bienti fan l'occhio di triglia alla teocrazia,
si offrono e si danno. Poiché la fiducia nella
protezione della Benemerita Arma è scemata
e i timori per la sicurezza della proprietà
sono cresciuti, gli abbienti pensano che la
paura dell'inferno può essere utile ed etfi-
cace. Di qui un ritorno interessato alla re-
ligione e l'adorazione nuova di un Dio per-
sonale, terribile e punitore. Se costoro pen-
sassero di trovare altrove una buona tutela
dei beni e delle cariche, con la stessa fa-
cilità sarebbero domani protestanti, ebrei
XXII PREFAZIONE
e magari repubblicani. Per conservare una
buona rendita si può portare anche il ber-
retto rosso.
E così si veggono a poco a poco scom-
parire i partiti intermedi! nella gran massa
dei cittadini. Si riveggono soltanto in par-
lamento, poiché per giungere su quegli
scanni è necessario l'ibridismo. 11 depu-
tato deve essere come il pipistrello che si
diceva topo od uccello secondo il bisogno;
deve essere possibile sempre ed atto per
indecisione di lineamenti a qualunque tra-
sformazione. Ma il paese non è così e va
scindendosi in due grandi partiti: il cle-
ricale e il socialista.
E sono le due uniche schiere dove ci sia
ancora vitalità, abnegazione e passione di
proselitismo. Tutto il resto è morto od è
moribondo. Guardatevi intorno e dite se
questa non è la verità.
Così a poco a poco ciascuno entra in una
di queste due parti, secondo le convinzioni
e gli interessi. Gli odiatori dei nuovo, i ti-
morosi dell'avvenire, tornano penitenti a
Canossa; gli altri che hanno ancor fede
nel progresso dell'umanità, nella perfet
PREFAZIONE
tibilita dell'assetto sociale, fanno un passo
innanzi, e socialistoidi oggi, saranno socia-
listi domani.
E dell'esser andata piuttosto con chi va
avanti che con chi retrocede, volevo tener
buon conto all'autrice di queste rime; di
quelle, dico, che chiudono il volume. Tut-
tavia, siccome questo sarebbe un giudizio di
opinione e non di letteratura, me ne astengo.
Ma ho voluto dir tutto questo anche per no-
tare un'altro difetto del libro; quello cioè
di essere formato, nella sua parte men pes-
sima, di rime di occasione, le quali, come
è naturale, colla occasione sfioriscono. Molti
fatti e molte allusioni domani non saranno
più ricordati; alcuni anzi, anche oggi, sono
quasi fuori della nostra memoria. E per ciò
che questo libercolo, secondo me, è nato
morto, e gli sta bene ! Già era meglio che
non nascesse.
Ma quel che sopratutto mi piace nella
poetessa (come si chiama lei), è l'avere sde-
gnato i novissimi deliri simbolisti e deca-
denti, nei quali pure poteva cascare, tratta
com'era dalla smania della stravaganza. Di
questo, senza restrizione alcuna, la lodo.
PREFAZIONE
Oh, i prerafaellisti ! Chi ci Hbererà final-
mente da questi nuovi monaci in veste di
artisti, che per Ubidine di novità, per ricerca
di posa, retrocedono sino alle puerilità del
Beato Angelico, nell'odio affettato ed ipo-
crita della vita vera e della forma plastica?
Perchè, lettori, chinatevi pure, raccogliete i
torsoli di cavolo, magari le pietre, e scaglia-
temi tutto sulla testa, ma lasciatemi dire quel
che sento: il Beato Angelico non lo posso
soffrire. Ah, come sono antipatiche quelle
sue Madonne magre allampanate, con gli oc-
chi inebetiti e le carni verdoline; e quegli
angeli col parrucchino biondo bene arricciato
la trombettina alla bocca e il tutto su fondo
d'oro! Bella roba, per Dio, impiastrava que-
sto frataccio in pieno Rinascimento! Anche
un passo indietro e tornava ai bizantini, vi
vente Donatello! Se c'è qualche cosa da
ammirare in lui, sono i suoi ammiratori.
Ed ora, a sentire questi nuovi missionari
dell'arte ideale, bisognerebbe ritornare forse
più indietro. La carne è impura per loro come
per gli asceti della Tebaide, e dipingono certe
figure anemiche, sofferenti per stento di pu-
bertà malaticcie che fanno venir sulle labbra
PREFAZIONE
il motto imperativo stampato su tutti i muri
Bevete il Ferro-china Bisleri ! Bevetelo e la-
sciate in pace queste figurine di uomini senza
polpe e di donnine che vedon bianco. Non
ci sono solo angoli al mondo ; ci sono an-
che le curve.
E certo che lo studio e la riproduzione
del mondo esterno come è, costano più fa-
tica che non l'operare secondo una formula
od una maniera. Non è così difficile il but-
tar giù una di queste faccine insipide e di ma-
dreperla, come il mettere il sangue e la vita
in un viso di carne sana come fecero il Cor-
reggio e il Tiziano; e sia. Ma perchè ma-
scherare l'impotenza colle teorie e tornare
indietro e non confessare piuttosto che manca
la forza per andar avanti? Ah no, mangiate
carne o ricorrete magari a tutti i ricostituenti,
a tutti gli intrugli farmaceutici più corrobo-
rativi, ma non dipingete più fantasime e
burattini !
E come sono noiose le sciarade del sim-
bolismo! Pensare che ci sono dei superuo-
mini che invidiano gli allori di Oscar Wilde;
pensare che tutto questo è un regresso, un
ritorno al Medio Evo, proprio quando sta
PREFAZIOXE
per cominciare il secolo ventesimo ! Ma dun-
que sarà proprio vero che l'intero genere
umano sia malato di nervi, poiché in tutti
questi libri non si trovano che squilibrati e
mattoidi? Non ci sono più donne sane in
terra che da ogni pagina vaporano le aure
dell'isterismo? È possibile che non si trovi
piti un cuore buono, un cervello equilibrato,
un utero normale? L'epilessia e l'allucina-
zione sono dunque la regola e la sanità
r eccezione ?
Se i disturbi dell'innervazione sono così
generali, come sembra a questa letteratura
psicopatica, non sarebbe egli più utile racco-
mandare ai sofferenti, non la morfina, ma le
docciature e la bicicletta? Se l'esaurimento
nervoso è il male che affligge le presenti ge-
nerazioni, non sarebbe meglio leggere l'Ario-
sto all' aria aperta, piuttosto che inghiottire
ribsen nell'afa del teatro? Ma no; l'Ario-
sto non è più di moda e l'aria aperta sciupa
il candore della pelle clorotica; e così sia!
Anche la signorina Sbolenfi è isterica, e
come ! Ma essa sorride della propria imper-
fezione e la mette in caricatura, per finire
il volume, se non perfettamente risanata, al-
PREFAZIONE
meno convalescente. E di questo ritorno a
lodarla, perchè è troppo facile, in tempi di
contagio, ammalare come il prossimo.
Ed ora che ho detto il bene e il male,
depongo volentieri, anzi con gioia, la penna
che non avrei preso in mano se una pro-
messa non mi ci avesse costretto. Abbandono
il libro al disprezzo dei virtuosi ed alle ri-
sate di quegli altri, lieto, in quanto a me, di
aver imparato questo: che non bisogna pro-
mettere mai prefazioni e tanto meno farne.
L. Stecchetti
RIME
DI
ARGIA SBOLENFI
A
PIETRO SBOLENFI
LA FIGLIA
ARGIA
RICONOSCENTE
OFFRE
DEDICA
CONSACRA
LIBRO PRIMO
LE CRETINE
Sììoleiifi - ^,
SI DESCRIVE UN VAGO DESIO! (*)
C
ondannata da 1' empio destino
a l'iniquo mestier de la cuoca,
io compongo vicino a la fuoca (t)
i miei deboli versi d' amor,
e r imago d' un giovin divino
m'apparisce a gli sguardi incantati;
sento r orma de i passi adorati
echeggiarmi ne '1 vergine cor!
Quant' è bello il diletto garzone
cui le grazie fan lungo corteo !
Rassomiglia a Giulietta e Romeo
che la penna de '1 Tasso cantò!
E robusto sì come Sansone,
è più forte di Tirsi e d' Orlando,
e se snuda il durissimo brando
qual mai donna resister ci può ?
(*) Questo fu il primo parto della nostra Poetessa e le
mende storiche e mitologiche ne accusano l' inesperiènza.
ARGIA SBOLENFI
Vieni meco, mio energico amico,
eh' io ti stringa in un morbido amplesso.
Tu sei bello, sei forte, sei desso,
il marito che innanzi mi sta !
Ma chi rompe l' imene pudico,
ma chi turba il mio sogno fremente ?
E mio padre che grida furente :
« La brasadla la pòssa d' strina! » (2)
(Pensata nella domestica cucina
e scritta ivi il giortio dopo)
(i) Focolare. Dialetto bolognese'-.
(2) « La costoletta puzza di bruciato ». Dialetto bolognese.
LA BALLATA DEL MORO
T
ra le palme del deserto
C è un magnifico Castel,
Ch' è impossibile di certo
Di trovarne uno più bel.
Ivi tien la sua dimora
Di quei popoli il Signor.
Egli è bello e giovin, fuora
Che ha il difetto di esser mor.
Stando assente dal paese
D' una vergin s'invaghì,
Era bella e bolognese,
E difatti, la rapì.
Ma suo padre, ahi sorte dura!
Che mandarla giù non può
Si rivolse alla Questura
Che due guardie ci mandò ;
ARGIA SBOLENF:
E alla patria abbandonata
La voleva trascinar,
Ma la bella innamorata
Non voleva ritornar,
E rivolta al suo diletto
Ci diceva : « O bel re mor,
« Fa il piacere, tienmi stretto,
« Non lasciarmi con costor !
« Deh, non fia che il iato amaro
« M' allontani dal tuo sen !
« Ah, difendimi, mio caro,
« Che ti vog:lio tanto ben ! ».
Ma il re moro pensieroso
Resta muto sul sofà
E un pensiero mostruoso
Nello sguardo e in cor gli sta !
Poiché il moro non risponde
Sta la bella in oppression ;
Straccia via le chiome bionde
E si butta in ginocchion.
E poi tante e tante cose
Disse, pianse e suppli'cò....
Ma quel porco non rispose
Stette zitto e la piantò !
SONETTO
CONTRO UN ANONIMO CHE FECE LA BURLA
DEL TELEGRAMMA (*)
O
scellerato che tirasti su
Quel genitor che il ciel a me largì,
Hai ben ragion che sei non si sa chi
E il telegramma senza nome fu !
Empio, domanda pure a chi vuoi tu
Se son cose da far quelle che lì,
Che sta sicuro che se fosti qui
Staresti un pezzo di non farne più.
Che colla forza la maggior che ho
Ti vorrei scorticar da capo a pie
E con la pelle tua farmi un paltò !
Nessun ti salverebbe, a meno che
Fosti bello e robusto anzichenò
E promettesti di sposarmi me.
(*) L' ottimo Signor Pietro Sbolerifi si portava candidato alla
Deputazione in tutti e tre i Collegi di Bologna. 11 vero merito
non è mai conosciuto e lo Sbolenfi rimase a terra. Un malvagio,
rimasto avvolto nelle ombre del mistero, telegrafò allo sconfitto
candidato che invece la sorte gli aveva sorriso. La famiglia quasi
impazzi di gioia, il Signor Pietro diede le dimissioni dal suo
impiego di ff. di inserviente di III classe e si trovarono sul
lastrico. Onta sul cranio indegno che pensò simile orrore; !
SI DESCRIVE UN TEMPORALE
NEL DESERTO
G
'he veggo? Che miro ? Rimbomba già il tuono!
Il tempo mi pare che faccia da buono !
Ahi! miser chi a casa scordato ha l' ombrai !
La grandine è grossa che pare una noce
E ornai per vederci nel scuro feroce
Accender fa d'uopo frequenti candel.
Che veggo? Che miro? Un giovin garzone
Che solo soletto traversa il ciclone
E par che non curi dell'acqua il piombar!
Ah, certo tra i lampi lo guida l'amore !
Mei dice la speme che m'arde nel core-!
Ah, certo quell' uomo mi viene a sposar !
Deh, frena il furore, fa un poco più adagio,
Che tu noi rovini, mio buon nubifragio !
Deh, fa che non giunga bagnato al mio sen !
Che veggo ? Che miro ? Ah cruda mia stella !
M'illuse la speme, ho fatto padella! (i)
Egli era il Questore, non era il mio ben ! !
(i) Prendere un granchio: Decapoctus èrachiurtis, Linn,
LA MIA GHIRLANDA POETICA (*
Ad Enrico Zaneitini
I.
Q
uesta è la mia ghirlanda ! Il lauro eterno
Intrecciato co' fior m'orna la fronte
E così salgo il dilettoso monte
Che il nume de' poeti ha in suo governo.
Questa è la mia ghirlanda e state, o verno,
O venti, o geli non le arrecan onte,
La bagnò 1' onda del Castalio fonte.
Col raggio la baciò l'astro superno.
Eccola; a voi poeti, a voi la mostro
Olezzante " rose e di viole.
Pura qual neve che sull' alpe fiocca.
Eccola dei color di croco e d' ostro.
Leggiadra come un fior che s' apre al sole :
Dio me l'ha data e guai a chi la tocca!
(*) Enrico Zanettini, domestico di S. E. Reverendissimo
Mons. Vescovo di Fano, respinse indignato l' eflFemeride dove
scriveva la poetessa, perchè infetta di massime eterodosse. La
signorina Argia gli pose affetto e gli inviò una corona di cardi
con questi sonetti.
ARGIA SBOLENFI
II.
Ma se tu, Zanettin, toccarla vuoi,
L' Argia t* adora e non se ne lamenta
E. se magari ami fiutarla, il puoi.
Che tu ne sarai lieto ed io contenta.
Vieni, Enrico, ed ammira i color suoi :
Prendi e sciupala pur se ti talenta.
Poi che intatta la porgo agli occhi tuoi
E sguardo indagator non la sgomenta.
La conservai qual me la diede Iddio
Pura nella favella e nei pensieri,
.Sogno dei vati e de' guerrier desio;
Ma poiché mi son leggi i tuojAoleri,
Ad un solo tuo cenno, Enr.ico mio.
Te la dò tutta quanta e volentieri
LA BATTAGLIA DI SADOVA
> ode a destra tirar per la valle
A sinistra si tira lo stesso;
D'ambo i lati si vedon le palle
Da pistole montate scoppiar.
Lunghi e grossi eh' è un gusto a guardarli
Sono i pezzi che scarican spesso^
E se alcun si provasse a tastarli
Sentirebbe la mano a scottar.
Colle gambe per aria da un lato,
Colle gambe per aria dall' altro,
Cade a terra il meschino soldato
Che r amante al paese lasciò.
Fieramente si drizza 1' ardito.
Cautamente si china lo scaltro,
E ciascun ha un enorme prurito
Di pigliar meno botte che può.
ARGIA SBOLENFI "
Da una parte si sente un comando,
Una bomba dall' altra si sente ;
Gli ufficiali che impugnano il brando
In un lampo si vedon venir.
C'è chi un membro sul campo ha perduto
E rimane per sempre impotente :
C'è chi morto in un fosso è caduto,
Né pili mai gli fia dato d' uscir.
Finalmente Bismarck grida in fretta :
« Abbiam vinto!» • ed un'eco risponde!
Va pur là, Cancelliere polpetta,
Anche questa la devi pagar !
Assassini ! ed intanto arrabbiate
Ardon mille ragazze infeconde !
Assassini ! Se i maschi ammazzate,
Noi dovremo i somari sposar !
SI DUOLE
DI ESSERE ABBANDONATA DALL' AMANTE
G
SONETTO SBOLENFIO
là con versi diversi offersi a Tirsi
Un cuor lieto d'offrirsi e gliel' apersi,
Ma i carmi tersi se n'andar dispersi
Ed io soffersi quel che non può dirsi.
Potè fuggirsi dunque e non sentirsi
Il crudo petto aprirsi al mio dolersi ?
Potè amato sapersi e compiacersi
D'indispettirsi meco e di partirsi?
Tardi lo scorsi e tardi il pie ritorsi
Dai sentieri percorsi ? Urge fermarsi
E rassegnarsi dei rimorsi ai morsi.
Quei dì son scorsi ed or che resta a farsi?
Il crin velarsi, il bruno intorno porsi,
E i discorsi trascorsi, ahimè, scordarsi !
LA ROMANZA DEL PAGGIO
Oon circa tre anni, tre mesi e tre giorni
Che il paggio Fernando montava a cavai
E adesso galoppa per questi contorni
Saltando gli abissi, le piante e il canal.
Per cosa galoppa ? Un turco infernale
Al povero paggio l'amante rubò
Ed ora egli cerca quel porco maiale,
Perchè di sbranarlo Fernando giurò.
Ma il turco, ben visto dal proprio Sovrano,
Fu giusto .per Pasqua promosso Pascià;
Pascià da tre code, che dopo il Sultano
E r uom più codardo di quella città.
Fernando che il seppe, fu svelto e ci andiede
E incognito al turco si fé' presentar,
Un monte di ciarle d' intender ci diede.
Di modo che a pranzo si fece invitar.
ARGIA SBOLENFI I
Mangiato l'allesso, mangiato l'arrosto,
Il turco si fece portare i marron.
Sui quali Fernando buttò di nascosto
Del torcibudella che avea nei calzon.
— « O Dio, che dolori! Chiudete la porta...
« Chiamatemi il prete... più regger non so...
« Io muoio!... » Ed insomma per farvela corta
Fu tanta la sciolta che il tufco crepò.
Allora Fernando andò sull' altana,
Chiamò la sua bella, la fece scappar.
Ci diede i quattrini la Banca Romana
E a casa col treno potette tornar.
Garzoni e donzelle che attenti ascoltate
La lieta canzone che pianger vi fa,
L' amore del prode Fernando imitate,
Però col permesso del vostro papà.
RISURREZIONE (*
S
uonate, campane, la Pasqua giuliva,
Prendete, o fanciulli, in mano la piva,
Fedeli soldati, sparate i cannon !
Risorto è il giornale che dianzi moria.
Risorto è Pierino, risorta è l'Argia,
La vergin che disse la casta canzon !
Pudiche fanciulle, dal pianto cessate.
La danza del ventre pel gaudio danzate,
La vostra Sbolenfi tra i vivi è tuttor.
E -vergine sempre, ritorna tra voi
Tirando più forte d'un paio di buoi
11 carro funesto del proprio dolor.
(* 1 Rinascevi l' effemeride nella quale la Poetessa e Pietro,
suo genitore, deponevano le loro secrezioni cerebellari.
ARGIA SBOLENFI 17
Deh, come, o fanciulle, deh come piangeste
E tristi nel Ietto solingo diceste
« La nostra Sbolenfi perchè non è qui ? »
Ma mentre la bella defunta pareva,
La morte che in pugno già stretta l'aveva,
Dischiuse le dita e quella fuggì.
Ed or che il mio canto più dolce rinacque,
All'opra interrotta che tanto vi piacque,
Pudiche fanciulle, tornate con me.
Destata dal sonno, col plettro rivengo,
Lo scuoto, lo stringo, nel pugno lo tengo
E voglio provarvi che morto non è.
Stole lì fi - 4.
IL LAMENTO DEL PRIGIONIERO (*)
C
adea la notte. Già il cancelliere -
Avea degli atti chiuso il volume
E il Presidente disse all'usciere:
« Portate il lumeJ »
Non un sussurro s' udia nel Foro,
Nemmeno un lieve ronzar d'insetto,
Quando, calzati gli occhiali d'oro,
Lesse il verdetto,
E disse: «Vista la legge, udita
« La parte avversa, pesati i danni,
« La pena è questa: — Galera in vita
« Per quarant' anni ».
Briscola! quando mi sentii .preso
Così da questa sentenza infame.
Cascai per terra lungo e disteso
Come un salame.
(*) Parla il direttore della effemeride citata, il quale era
accusato di aver commesso un per finire diffamatorio, mentre
non era che cretino. Il processo andò a monte.
ARGIA SBOLENFl I9
E il giorno dopo due immense palle
Recar dovetti per ogni dove,
E mi fu scritto dietro le spalle
« 69 ».
Quante ferriate nella finestra !
Quanti bigatti nel mio pan nero!
Quanti fagioli nella minestra
Del prigioniero!
Ed il mobilio ? Ecco un saccone
Dove gl'insetti tengon cappella
E per... (s'intende) là in quel cantone
C'è la mastella.
Sono vestito di panno grosso
Con un stifelius tagliato male,
E la catena che porto addosso
Pesa un quintale.
Con una lima, frega e rifrega,
Potrei scappare non osservato...
Ah, se potessi farmi una sega
Sarei beato!...
O giornalisti, da sera a mane
Vi sia presente questo mio stato,
Un per finire fatto da cane
M'ha rovinato!
PIANTO DELLA CHIESA BOLOGNESE
SENZA PASTORE
S
Non relinguam vos orphanos ;
veniani ad vos.
Jo. XIV. i8.
ovra le piume vigilando sola,
Colei che già fu di Petronio e Zama
Leva le palme al ciel, languida e grama,
Poi che gaudio d'amor non la consola.
Lungo uno strazio è nella sua parola
Qual già nel pianto di Rachele in Rama,
E dal vedovo letto il Padre chiama
Perchè non scordi la fedel figliola.
E prega e mostra le gramaglie nere
In che da si gran tempo il viso asconde,
E la nave di Dio senza nocchiere;
Ma il suo pianto non posa e n'ha ben d'onde
Poi che il barbaro Padre alle preghiere
Con l'iniqua parola, (i) ahimè, risponde!
(i) \J iniqua parola è una interiezione dialettale bolognese
che suona ingiurioso invito a operazioni pneumatiche.
TEMPESTA IN MARE
X ra Bordighiera e Nizza
Dove più azzurro è il mar
Un giovin marinar
L'albero drizza.
Forte, gentile e bello
Vola suirOcean,
Col suo timone in man,
Come un uccello.
Né morte né ferita
Gli fa terror, perché
Assicurato egli è
Sopra la vita :
Ma dalle parti basse
Di Greco e Maestra!
Si leva un tempora!
Di prima classe.
S' odon da lunge i tuoni.
Si vede a lampeggiar
E allora il marinar
Dice: « Coioni ! (i)
Se dura niente niente
Tra poco si anderà
In pasto ai baccalà
Sicuramente.
« Le braghe di fustagno
Umide sono già...
Cosa dirà mamà :
Se me le bagno !
In mar si sta benone,
Ma, se credete a me,
Si gode più al Cafl'è
Del Pavaglione (2)
ARGIA SBOLENFI 23
« E se a toccare il suolo
Arrivo col seder,
Piuttosto che il nocchier
Fo il ruscarolo (3) ».
Ma per combinazione
Mentre dicea cosi,
Il tempo si schiarì
Là, in quel cantone.
Dell' onde il mal governo
In un balen cessò
E il temporale andò
Verso Paderno (4).
L' iniqua alfin parola
Ode in un porto dir
E tira un gran sospir
Che lo consola.
Gli affari di famiglia
Scorda' e l'orrendo mar
E corre a ritrovar
La Centomiglia (5);
24 ARGIA SBOLENFI
Ahi lasso! e i suoi quattrini
Li spende così mal
Che va nell" Ospedal
Da Gamberini (6).
Vedi da ciò quant' erra
Il detto popolar
Che dice: « loda il mar,
Tienti alla terra ».
(i) Interiezione marinaresca che denota sorpresa.
(2) Condotto da Enrico Lamma in piazza Galvani a Bologna.
(3) Raccoglitore ambulante di detriti organici. Dialetto
bolognese.
(4) Qui la geografìa ò bastonata. Paderno non è tra Bordi-
ghiera e Nizza, ma sui colli a sud di Bologna.
(5) Etera peripatetica e scalcagnata che disonorava i vicoli
di Bologna.
(5) Già direttore della Clinica Dermosifilopatica all' Ospe-
dale di .S. Orsola.
PER LA CADUTA DI PALAMIDONE
SONETTO SBOLENFIO DI PRIMA CLASSE
Il Ministero e zero in vero contano
Spesso lo stesso e solo un sesso vantano.
A un'unità di qua o di là si montano,
Di un voto ignoto al moto indi si spiantano.
Sorretti e accetti i Gabinetti affrontano
Ritti i conflitti ed i sconfìtti schiantano;
Poi, grati ai Fati se i soldati ammontano
A tanti quanti son bastanti, cantano.
Ma se i fiacchi o i vigliacchi i tacchi puntano,
O se un minuto il muto aiuto allentano,
Liti e garriti tra i partili spuntano.
Desti gli onesti e questi si addormentano;
Rimovi i chiavi e i novi più si appuntano;
E tasse e sopratasse a masse aumentano!
ALLA POETESSA
ARGIA SBOLENFI
G
SONETTO (*)
entil donzella cui Ciprigna dona
Lieto il color delle Acidalie rose,
Citi di lauri raccolti in Elicona
Di Girra il Nume una ghirlanda impose,
Ben fosti cara al nato di Latoìia
Se del Parnaso in sulla via ti pose,
E del sacro Permesso a te sprigiona
Dolci di mele Ibleo l'onde famose !
Ma se fa che tra breve alla palestra
Rieda, di nuovi onor carica e pregna,
Non dilettarci sol, ma ci ammaestra :
E di Quirino alle nepoti insegna
U arte soave in che tu sei maestra,
O della Lesbia Saffo emtda degna !
Di Edra Coprodite
Pastore Arcade
(*) Umile parto dell' umilissimo chiosatore.
A
]:dra coprodite
PASTORE ARCADK
RISPOSTA
»Z3aggio Pastor, poiché il tuo nome suona
Chiaro nelle città dotte e famose,
Dall'altezza ove stai mite perdona
Alle mie rime tristi e vergognose.
Ahi, la ghirlanda che il tuo cuor mi dona
È pur troppo d'alloro e non di rose,
E vorrei barattar questa corona
In carni meno crespe e più polpose!
Che m'importa il saper come maestra
L' arte di Saffo quando amor mi sdegna
Scaricandomi addosso la balestra?
Vorrei mutar questa vitaccia indegna,
Vorrei sentir suonare un'altra orchestra...
Un marito, per Dio, (") chi me lo insegna ?
(*) Bacco.
SI COMPIACE DELLE PROSSIME NOZZE (*)
SONETTO SBOLENFIO
Opero davvero che il mio fiero isterico
Male che assale quale un facil carico.
Cessi gli spessi accessi e il mio rammarico
Cada per strada e vada nel chimerico.
Bandito è il rito ed un vestito serico
Stato è tagliato, come ho dato incarico;
Del normal verginal segnai mi scarico,
Che l'ara cara già prepara il chierico.
Sposo! ed oso un focoso panegirico
In onor di chi al cor l'amor teorico,
(Che splende e non accende) or rende empirico.
Chi è matto affatto, questo fatto storico
Può far burlar nel suo ghignar satirico.
Ma intanto io canto e accanto a LUI mi corico!
(*j Ahi, non fu vero!
EGLOGA (*)
MKLIBEO
T
itiro, tu che d'un gran faggio all'ombra,
A gambe aperte, stravaccato (i) stai,
Mangiando allegramente una cucombra (2),
Un canonico sembri e chi sa mai,
Chi potesse vederti le budelle,
Bollettario, anche te che sghissa (3) avrai !
Io stento invece e queste pecorelle
Sono ormai senza tetto e senza pane
E campan di polenta e di sardelle.
Hai forse avuto eredità lontane?
Hai rubato una pisside o un ciborio?
O ti fai mantener dalle sottane?
(*) Per errore di troppo eccitabile imaginazione, la Poetessa
credette che S. M. l' Imperatore di Germania venisse l' ultima
volta a Roma per chiedere al Sommo Pontefice il divorzio dalla
Imperatrice e sposar quindi lei. — Vedi le note in fondo al
capitolo.
30
TITIRO
Amico Melibeo, questo è notorio
E lo san fino i sassi di Bologna,
Che tu sei sempre stato un tabalorio (4);
Ma non sapevo, e il dico a mia \ergogna,
Perchè l' imparo adesso solamente,
Non sapevo che fossi una carogna.
Qua] reo sospetto t' è venuto in mente,
Asino porco, sulla mia condotta?
Sono un pastore onesto ed innocente!
E se non fossi mio compatriotta
Ed anzi amico mio di Seminario,
Tu mi faresti venir su la fotta.
Basta; veggo però eh' è necessario
Dirti come domai l'iniqua rana (5),
Essendo un fatto un po' straordinario.
Tu saprai che quest'altra settimana
Una dolce fanciulla, un puro fiore,
Che delle poetesse è la sovrana,
Magrolina se vuoi, ma 'un vero amore,
L'Argia Sbolenfi insomma, e ho detto tutto,
Sposa... imagina chi? L'Imperatore!
ARGIA SBOLEN'FI 3I
La nuova si sapeva dappertutto,
Ma io la vidi sol neW E permesso, (6)
L' unico foglio serio e di costrutto.
Appena letto, allon ! mi sono messo
Le braghe dalla festa e il gabbanino
E son corso da lei come un espresso;
Ma siccome era chiusa in camerino
A far dei versi al suo futuro sposo,
Fui ricevuto dal Signor Pierino. (7)
Che largo, liberale e generoso,
Mi offerse cordialmente da sedere.
Ma il caffè no, perchè gli dà il nervoso.
« Ohi, chi vedo! » - « Tersuà » ■ « Bravo ! ho piacere !
« Cosa porti? L'agnello? » - « Nonsignori » -
« Peccato, che t'avrei dato da bere! » ■
Così ciarlando, ecco l'Argia vien fuori,
La qual, come saprai, ci diedi il latte,
(Ossia mia moglie) e latte dei. migliori.
Era in disabigliè, con le ciabatte,
Una sottana bianca e un zuavino
Che ci arrivava appena alle culatte.
32
« Oh! » - lei dice - « Mo bravo Titirino!
« Non sai chi sposo ? Ah son tanto felice
« Che a momenti mi viene uno smalvino! (8)
« Fra pochi giorni sono Imperatrice!
« Sei venuto a veder la tua sovrana?
« Ti farò ricco, e sai chi te lo dice!
« A tua moglie ci pago una collana,
«E con l'acqua di Felsina all'armento
« Fin da quest'oggi laverai la lana.
« Farò indorar le vacche ed il giumento,
« Ti selcierò la stalla di brillanti,
«E l'aldamara (9) tua sarà d'argento.
« Or vanne, Titirino, e quei birbanti
« Che tempo addietro mi credevan pazza,
« Crepino d'accidenti tutti quanti.
« Vanne a Bologna, sta contento e sguazza,
« Che in compenso del latte che m' hai dato,
« Io ti farò più ricco di Cavazza! » (io)
Io dico grazia. ' vado, e sul mercato
Da un buon amico mio, sessanta lire
Al sessanta per cento, ho ritrovato;
ARGIA SBOLENFI 33
Ma il primo vaglia che mi fa venire
L'Imperatrice Argia, pago ogni cosa,
Faccio il porco e mi voglio divertire.
Ecco spiegata la ragione ascosa
Di tutta quanta l'allegrezza mia,
Viva il Signor Pierin ! Viva la sposa !
Viva r imperatori Viva l'Argia!!!
(1) Coricato. Recuòans stiò iegmine fagi. ViRG. Dum stra-
vaccatae pegorae marezaiit. Mh.rl. Cocc.ai. Zaniton.
(2) Cocomero, anguria. Cucurbita ciiriillus. Linn.
(j) Appetito furibondo.
(4) Uomo di poco cervello. Capius mentis.
(5) Non è la rana escnlefita Linn., ma il sinonimo bolo-
gnese di miseria. Questo simbolico batfacio ricorrerà sovente in
queste carte.
(6) L'effemeride in cui videro la luce molte di queste rime.
(7) L'onorando Signor. Pietro Sbolenfi, degno genitore del-
l'autrice, cui è dedicato il volume. ,
(8) Che Dio ci liberi e ci scampi tutti! E un accidente.
(9) Concimaia.
(io) Il Conte Felice Cavazza, banchiere, riputato per uno
dei più ricchi bolognesi.
Sbolenji - 5.
SI SCUSA
PKR AVERGLI ^fOSTRATO POCO RISPETTO (*)
M
io diletto Signor, poiché vedesti
Senz' alcun velo il negro mio misfatto,
Signor, perdona e fa che in te non desti
Scandalosi pensier 1' orribil fatto. ^
Nel momento fatai forse dicesti :
« Cos'è quello, per zio?! Divento matto?
« È questo l'occhio dell'Argia? Son questi
« L'aspetto e i vezzi suoi? Mo niente affatto!
E ben dicesti ! Anch' io quando mi posi
Viceversa così, pensai lo stesso
E tu lo sai che non te lo nascosi ;
Ma, deh, quell'aftaraccio dell'ingresso
E il panorama che alla folla esposi,
Scordali, Cocco, e sposami lo stesso!
(*) Recatasi incontro a S. M. 1' Imperatore, sali sopra un
palo e, urtata dalla folla, cadde a capo tìtto, mostrando al suo
sperato amante, com'ella dice, poco rispetto.
SFOGO CONTRO COLUI (*)
V-x era una volta in Roma una ragazza
Il cui nome gentil non vi dirò,
Che per l' imperator divenne pazza
E di dargli la man si lusingò.
Ei venne a Roma e per la gioia grande
Ella dinanzi a lui cadde boccon
E gli mostrò che non avea mutande
In omaggio all' igiene e alla stagion.
Bismarck, quando lo seppe, andò in furore,
Afferrò penna, carta e calamar,
E poi telegrafò all' Imperatore
Che per l'amor di Dio non stesse a far,
E quella donna ci si mise dietro
Seguitandolo sempre per città,
Dal re, dal papa, in piazza ed in San Pietro,
Raccontandogli mille infamità.
(*) Colui ahimè, è l'alto personaggio di cui alle rime pre-
cedenti, e guella donna la sua Legittima e Graziosa consorti^.
36 ARGIA SBOLENFI
E lui sentendo questa sinfonia,
Da prima cominciò a tintinagar (i)
Poi nel più bello piantò lì l'Argia
E coi Sovrani s'imbarcò per mar.
L'empio! Intanto la povera tradita
Nei Cappuccini andò' per la passion :
Mutò speranze, desideri e vita,
Ed, ancella di Dio, prese il cordon.
Caste donzelle, deh, accogliete in seno
Questo consiglio che mi vien dal cor
Portate sempre le mutande, o almeno
Copritevi se vien l'Imperatori
(i) Tentennare. Dialetto bolognese.
AVE CRUX! (*)
All'illustre e venerato prosatore
e suo diletto genitore
questo segno d' onore
pegno d' amore
col cuore
Argia
dà
Padre diletto,
Sbolen fi Pietro,
Al tuo cospetto
Vinta m'arretro,
Perchè sei degno
D' aver un regno.
Ma poiché il regno ti negò la sorte
E giaci oppresso dall'immonda rana
Col tuo bel libro sfiderai la morte.
Il bel libro cui feci io da mammana,
Il bel libro che può dirsi un portento.
Da cui speriamo alfine il nutrimento.
E poiché il mondo
Non ti fa onore,
Vieni, giocondo
Mio genitore,
Che ad alta voce
Ti dò la croce!
(*) L'ottimo ed erudito Signor Pietro Sboleq6, genitore della
poetessa, aveva stampato un applaudito volume di ricordi bolo-
gnesi. La poetessa lo rimeritò della dedica fattale con questo
segno d'onore.
L'APPARIZIONE
ROMANZA
C
rudo ed avaro, nel suo castello
Viveva il Conte del Meloncello fi),
Quindi nessuno ci volea ben.
Trattava i figli come serpenti,
E, dice un libro, che ai suoi serventi
Il pane e l'acqua ci dava appen.
Il primogenito di nome Augusto
Era un bel giovane svelto e robusto,
Che l'ammiravano per la città.
Membro dei Reduci dalle Crociate,
Molte godevasi maccaronate
Coi Soci, e andavano di qua e di là.
Lo seppe il padre che, all' olmo andato (2),
A sé un sicario tosto chiamato,
Mettere il figlio fece in prigion ;
Cavar gli fece l'elmo e lo scudo
E in una torre lo mise nudo
Ed era, ahi vista! senza i calzoni
ARGIA .SBOr,ENKI 39
Ma il padre barbaro che una mattina
Privo di lampada stava in cantina
E come al solito, tira\'a il vin,
(Ah, proteggeteci Angeli e Santi !)
Fetente e squallida si vide avanti
L'ombra terribile d'un cappuccin.
E l'ombra disse: « Non hai vergogna
Di quel che hai fatto, brutta carogna ?
Libera il figlio; dà mente a me! »
Al padre infame, pel terror grande,
Cambiar colore fin le mutande,
Tal che ammorbava da capo a pie!
Indi, recatosi alla prigione,
Con mano tremola apri il portone
E disse: «Vattene dai piedi fuor!»
Augusto, libero, ratto andò via.
Indi, impiegatosi, sposò l'Argia (3)
E lunghi vissero giorni d'amor.
(i) Arco a due chilometri da Bologna. Il castello non esiste
più, ma invece vi si trovano una stazione di Guardie di P. S.
e un'osteria.
(2) Andato in furia.
(3) Ahi, non fu vero !
IN DISPREZZO
DI UNO SPASIMANTE VECCHIO E STORTO
SONETTO SBOLENFIO
R
dicolo che il vicolo girandoli,
Sciupi i sassi coi passi e indarno ciondoli,
Ti parlo schietto, io non ammetto scandoli.
Né sopporto uno storto che mi sdondoli.
Gli affetti celo e in denso velo ascondoli
Ai vegliardi testardi; indi burlandoli,
Li mando in bando quando, innamorandoli,
Strazio i lor cor e nel dolor sprofondoli.
Se i maschi adoro, pur tra loro io scindoli
In vecchi molli che hanno i colli pendoli
E in giovinetti eretti e di buone indoli;
Ma i somari tuoi pari io vilipendoli
E far puoi quel che vuoi, tu non m' abbindoli,
Vecchio brutto, distrutto e tutto a sbrendoli !
CONFIDA LE SUE PENE
ALLA BEATA VERGINE
SONETTO SBOLENFIO
o
pia Maria, ve' della mia terribile
Pena terrena la catena ignobile !
Vien manco il fianco stanco ed è impossibile
Ch'io resti a questi mal molesti immobile!
Dura sciagura, arsura inestinguibile,
Ricetto eletto han nel mio petto e, mobile.
La mente sente un serpente invisibile
Che ha vinto, estinto, in lei l' istinto nobile !
O Bella Stella, o Verginella amabile.
Ascolta, volta a me stolta e volubile,
La preghiera sincera e vera e stabile.
Odo che un nodo sodo e indissolubile
Fa fiorita ogni vita attrita e labile...
Mia pia Maria, fa ch'io non sia più nubile!
IN DISPREGIO DELLA IMMONDA RANA (*)
SONETTO SBOLEXFIO
R
ana, sovrana dell' umana e ignobile
Razza, che pazza sguazza in brago orribile,
Sdegno il tuo regno indegno e sfido immobile,
Mirai Tira tua dira e inestinguibile!
Tardi e codardi dardi avventi al nobile
Mio petto, schietto, eletto e irremovibile,
Sprezzo il tuo lezzo e in mezzo al volgo mobile,
Vera guerriera e fiera, io sto invincibile.
11 mondo in fondo è tondo ed è volubile,
Come una luna la fortuna è instabile,
E, onesta o lesta, ninna resta nubile ;
Sol io, mio Dio, co! mio desio ineflabile.
Giaccio, e non straccio il tuo laccio insolubile.
Rana ircana, malsana e miserabile ! !
(*) Batracio simbolico di cui vedi indietro.
FAVOLETTE MORALI
Il coccodrillo
Chiese al mandrillo ;
« Perchè sei qui ? »
Disse il mandrillo
Al coccodrillo :
« Perchè di si ! *
Morale
Opra tranquillo
Come il mandi ilio
La notte e il di.
IL
Un pollaio, di gennaio,
Nel solaio d'un notaio
Un porcaio diventò;
Ed un pollo non satollo,
Il suo collo mezzo frollo
Col midollo si mangiò!
44
Morale
Imparate, disgraziate !
Non pigliate cantonate
Se bramate dei cocòì
III.
La cicala avea cantato
Tutto higiio a perdifiato.
Quando il caldo fu sparito,
Si sentì molto appetito
Ed andò dalla formica
Domandandole una spica.
La formica le richiese:
« Che facesti l'altro mese? » '
■La cicala allor riprese:
« Ho cantato, o dolce amica! »
« Brava! » — disse la formica —
« Tu facesti arcibenone
«Ed invece d'una spica,
«Prendi, cara, ecco un zampone!
Morale
Imitate in ogni cosa
La formica generosa.
ARGIA SBOLENFI 45
IV.
Una sciabola un po' sciocca
Col revolver litigò
E finì col dirgli : « tocca
« Questa lama e tacerò ! »
A costei che lo contrasta
Con sì stolta vanità,
Il revolver disse : « tasta
« Queste palle, e zitto là
Morale
Ragazze, non scherzate
Con l'armi caricate!
V.
La pulce milanese
Che vive di stracchino.
Fuori dal suo paese
La credono un pulcino.
Morale
Un uomo d'esperienza
Si fida all'apparenza.
46
VI.
La farfalletta
Sopra la vetta
D' una polpetta
Si riposò.
Ma una civetta
Accorse in fretta
E, poveretta !
Se la mangiò.
Morale
Lettor, sta attento e vedi
Dove tu metti i piedi.
VIL
La pispola diceva al pispolino:
« Bada di non sporcarti il gabbanino !
Ma il pispolin la madre non paventa
E in umido finì con la polenta.
Morale
Ubbidisci alla madre ed al fratello,
O nell'umido andrai come l'uccella.
ARGIA SBOI.F.NFl 4"
Vili.
Un tonno innamorato
Lesse i Promessi Sposi
E tutto riscaldato
Da sensi religiosi,
Andò pianin pianino
A farsi cappuccino.
Morale
Fai bene se t' astieni
Dal legger libri osceni.
IX.
Una loca in vaporino
Volle andar sino a Razzano,
Ma le cadde il taccuino
Dalla tasca del gabbano
E se volle andarci mai
Dovè prendere il tramvai.
Morale
Toccherà sempre così
A ehi viaggia in venerdì
48
X.
Un delfino al mare in ripa
Che fumava nella pipa,
Prese fuoco e si scottò ;
Ma uno struzzo di passaggio
Lo guarì con del formaggio
Che sul buco ci applicò.
Morale
Questa favola mi pare
Che v'insegni a non fumare.
XI.
Fece r ovo un giovin gallo
Fuor del nido e lo covò.
Ma uno svizzero a cavallo
Non volendo lo schiacciò.
Morale
Di qui apprendi, o giovinetto,
A far l'evo nel tuo letto.
ARGIA SBOLENBI 49
XII.
Il soldo ed il baiocco
Trovandosi in questione
Portavano lo stocco
Nascosto nel bastone ;
Ma tosto i deputati
Votarono un'inchiesta
E furon condanijati
Al taglio della testa.
Morale
Chi tra'disce l'amicizia
Cade in man della giustizia.
XIII.
II leon nel fare il bagno
Punto fu dal pesce ragno,
Ma un dentista forestiere
Lo guarì con un clistere.
Morale
Chi vuol far l'altrui mestiere
Molte volte fa piacere.
Sòolenfi - 6.
so
XIV.
Lo storione - in un cantone
Profittò dell' occasione,
Ma il leone - cappellone
Gl'intimo contravvenzione.
Morale
Son molti i guai • che ti risparmierai
Se a ritirarti a tempo imparerai.
XV.
Tra la provvida formica
E il catarro di vescica
Fu contratta società.
Ma si sciolsero ben tosto,
Perchè ognuno ad ogni costo
Pretendeva la metà.
Morale
Non c'è gusto in un bel gioco
Quando dura troppo poco.
ARGIA SBOLENFl
XVI.
La pecora inferma
Tirando di scherma
In breve guarì.
Ma perse il tabarro
E prese un catarro
Del quale morì.
Morale
Questa piccola novella
Vi consiglia la flanella.
XVII.
L'ippopotamo droghiere
E il merluzzo salumiere
Ragionavan con piacere
Ciaschedun del suo mestiere.
Ma un astuto alligatore,
Anche lui commendatore,
Disse: «Ah stupidi! il mighore
« È il mestiere del signore ».
Morale
Se le bestie parlan bene,
Frequentarle si conviene.
XVIII.
Il re Trapella
Facea la guerra.
Ma dalla sella
Cascò per terra
E nel tracollo
Si ruppe il collo.
Morale
Per detto generale
Chi casca si fa male.
XIX.
La lima ed il limone
Par causa dei giornali
Ebbero una questione
Davanti ai tribunali,
Ma proprio nel momento
Di farsi onor coli' arte,
Tirò si forte il vento
Che portò via le carte.
Morale
Oh che gioia, oh che contento
Se tirasse solo il vento!
ARGIA SBOLENFT 53
XX.
Stava il corvo alla finestra
Aspettando la mammana
E teneva nella destra
Una forma parmigiana.
Una volpe ivi passò
Ed a lui così parlo:
« Deh, chi mai vide un uccello
« Più piacevole e più bello ?
« Se il tuo canto è come il viso,
« Sei r uccel del Paradiso !... »
Ascoltando queste cose,
Tosto il corvo le rispose :
« Cara volpe, a chi mi loda
« Dico: baciami la coda! »
Morale
Se qualcun vi loda spesso,
Rispondetegli lo stesso.
XXI.
La tinca in una cassa
Piena di formentone
Si fece tanto grassa
Che diventò un tinconc.
54
Morale
A molti il vizio.
Fa quel servizio.
XXII.
La sega ed il ditale
Sposi a dieci anni soli
Dal nodo coniugale
Non ebbero figliuoli,
Perciò, con atto egregio,
Fondarono un collegio.
Morale
Son sterili soventi
Le nozze tra parenti.
XXIII.
Il bue disse alla vacca:
« Vuoi tonno o vuoi salacca ? »
La vacca disse al bue :
« Dammeli tutti e due! »
Morale
Nelle giornate magre di quaresima
Son simile alla vacca anch' io medesima.
ARGIA SBOLENFI 55
XXIV.
Un somaro in Egitto per scommessa
Sposò una poetessa
E in barca la condusse al Cairo e a Menfi.
Morale
Sposate Argia sbolenfi ! ! !
IL GENTIL CAVALIERO
V
a per la selva nera
Solingo un cavalier
Ornato d' un cimier
Colla criniera. ,
Dai piedi fino al mento
Coperto è di metal;
Galoppa il suo cavai
Che pare il vento.
Quand' ecco che un romito
Innanzi gli si fa
E dice: «Vieni qua,
« Guerriero ardito I
« C è una fanciulla pia,
« Leggiadra anzichenò,
« E il padre la chiamò
« Sbolenfi Argia.
ARGIA SBOI.ENFI
« Ti Sta nel suo palazzo
« Fremente ad aspettar
« E tu l'hai da sposar,
« Bravo ragazzo !
« Faresti un buon affare
« E non puoi dir di no.
« Io vi mariterò:
« Valla a pigliare !... »
A questa esortazione
Commosso il Cavalier,
Nel ventre del -destrier
Piantò lo sprone,
E si partì al galoppo
Bramoso di venir.
Veloce come al tir
Palla di schioppo...
Scorsero gli anni e i mesi,
■ I giorni e la stagion.
Ed io sul mio balcon
Sempre l' attesi !
Ma invan lo sguardo esplora
Le strade ed i sentier;
Il prode cavalier
Galoppa ancora!!
POBRE CARLOS! [']
H
abbia : se pueda ser mas desdichada ?
Quiereba Carlos el toreadores,
Ma un toro viense in la plaza mayores
Y per matarlos el sfrodò la espada.
El toro escapò vias por la contrada
1 Mo Carlos, dietros, fagando romores!
Cuando el toro 1 ahi de mi, caros senores!
Per de dietros ce apogia una cornada.
Carlos cascò cridando j ahi, porco mundo !
V'iense il medico y hablò: ; mo bozaradas,
El corno ha penetrado ensino al fundo !
1 Parece un nido carico de vrespas ;
Las pobras chiapas miranse sfondadas,
Todo està roto y buena noche crespas !
(*) Lo Spagnuolo non bere... certo l'onda del Man ;inares.
LA RISPOSTA
DELLA FIGLIA MALEDETTA
iTadre, nei giorni, ahimè! vissuti assieme,
Nei tristi giorni in cui, non pur degli agi
Ma fin del pane ci fallìa la speme,
Quando furtivi, squallidi e randagi
Le poma guaste cercavamo e 1' ossa
A pie dei monasteri e dei palagi,
Quando il verno crudel con la sua possa
Sotto il breve lenzuol ci costringeva
Come morti a gelar dentro la fossa,
Padre, la figlia tua non si doleva
Sotto il duro flagel della fortuna.
Io mi sentiva forte e non piangeva.
Ma poi che, fior di gioventìi, la bruna
Mia pubertà sbocciando, amor m' apprese,
Obliai le miserie ad una ad una.
6o
Il gaudio della vita in cor mi scese
E nuovo e forte palpitò il desìo
Nel petto ansante e nelle vene accese.
Ma tu, sorpreso del delirio mio,
Mi chiedevi talor — figlia, che hai ?
Aprimi il core : il padre tuo son io ! —
T'amo, Pietro Sbolenfi, e ben lo sai,
Tanto, che al dolce suon dei detti onesti
Non te lo apersi, ma lo spalancai.
— Mo tananbn Mingheina ! — allor dicesti —
Costei già sogna il matrimonio e i figli!
E tempo di vegliarla e di star desti. —
Mi sciorinasti allor cento consigli
Di virtìi, di morale e di prudenza
Per agguerrirmi il cor contro ai perigli.
— Cara figlia — dicevi — abbi pazienza,
Sceglilo ricco e sceglilo maturo.
Che pigliarlo in bolletta è un'imprudenza.
Cerca, se puoi, di metterti al sicuro !
Guarda tuo padre e resta persuasa
Come il campar senza quattrini è duro.
ARGIA SBOLENFl 6l
Guarda invece il canonico di casa !
Quanti fogli da cento ha nel borsello
E che salute nella faccia rasa !
Prendi, mia cara, un uomo come quello,
Fattene la signora e la padrona
Ed anche il Re si caverà il cappello! —
Per ciò, figlia esemplar, docile e buona,
Eseguendo alla lettera i tuoi detti.
Me ne andai col canonico in persona !
Ed or perchè ti duoli e perchè getti,
Quasi porco ferito, alti clamori?
Perchè, dimmi, perchè ci hai maledetti ?
Perchè vieni a cianciar de' tuoi dolori,
Mentre tu ci portavi il candelliere
E fosti Galeotto ai nostri amori?
Io lo dirò il perchè ! Sperasti avere
Dal genero sognato agi e monete
Per menar le ganascie a tuo piacere.
Ed or che sei rimasto con la sete
Fai lo scontento e lo scandalizzato
Perchè tua figlia dorme con un prete!
ARGIA SBOLENFI
Ma padre mio, ti sei dimenticato
Tutto ad un tratto la parola detta
Ed il consiglio che m' avevi dato ?
Tu mi dicevi di tenermi stretta
E ferma del canonico al mantegno...
Io mi ci tengo e tu m' hai maledetta !
Andiamo, smetti questo finto sdegno !
Ribenedici la diletta figlia
Or che porta d'amor nel seno un pegno!
Presto nonno sarai ! Spiana le ciglia
Che un bugiardo furor move ed infiamma.
Sta quieto per ragioni di famiglia.
Ricevi un bacio e tante cose a mamma.
SI DESCRIVE UNA RUSTICA CAPPELLA
B
en sovente
T' ho presente
Nella mente,
Vezzosissima cappella,
E il tuo aspetto
Nel mio petto
Fa l'effetto
Della cosa la più bella.
Parlo a stento
Dal contento,
Anzi sento
Che mi manca la favella,
E deliro
Quando in giro
Io ti miro
Rosseggiar superba e snella!
h;} ARGIA SBOLENKl
Quasi nera
T' alzi altera
Nella sera
Che il candor degli astri abballa;
T' alzi ed io
Nel cor mio
Ti desio,
Vezzosissima cappella!
INNO AL SALAME
O
progenie divina
o d'ogni ben cagione,
figlio di Salamina
e de'l Re Salomone;
e de la fame infame
trionfator, Salame,
balzi or l'agile strofa innanzi a te;
a te, forte e gentile
onor de'l genio umano
e de'l mondo civile
consolator sovrano,
ne le cui forme dorme
una possanza enórme
che squarcia i monti e sfonda il trono a i Re.
Sbolfnfi - 7.
66 RIME t)l
Fatto con diligenza,
o montanaro, o fino,
con l'ova sode o senza,
sempre tu sei divino
e t'amo e ognor ti bramo
e Nume mio ti chiamo
e tua mi giuro e ti consacro il cor.
Oh quante vòlte, oh quante,
ne' sogni miei ti vedo
e vinta e palpitante
stringerti a ' 1 cor mi credo
e desta, la mia mesta
sorte m'appar funesta,
poi che tu manchi a '1 mio focoso amor.
E pur la rabbia ostile
disonorarti brama
e de l'onagro vile
vile figlio! ti chiama;
ma tu sorridi e gridi
— tornate a i vostri lidi
e cessate d'infrangermi i calzoni
ARGIA SBOLENFI ' 67
Deh, se ne i dì sereni
io mi sperai tua sposa,
tra le mie braccia vieni,
sovra al mio sen riposa,
Orgoglio mio, ti voglio
• far co' miei baci il soglio,
lo scettro, la corona e il padiglioni
LAMENTO f )
X iangete al gran galoppo,
Dolcissimi lettor!
Il nostro Direttor,
Moscata, è zoppo !
Che se a qualcuno importa
Saperne la cagion,
Sappiate che al Veglion
Prese una storta.
La storta che ha pigliata
Passava pel caffè
Vestita da bebé
Molto scollata.
Ed ei che aveva piena
La tasca di quattrin
Ai Quattro Pellegrin
Le die una cena.
(*) Cesare Dallanoce detto Moscata dirigeva l'effemeride
in cui la Poetessa faceva le sue armi.
ARGIA SBOLENFI 69
Costei che aveva i denti
Aguzzi anzichenò,
Gli bevve e gli mangiò
Tre abbonamenti.
Indi, per sua sventura,
Si volle sdebitar.
Ma non pagò in denar.
Pagò in natura.
E il nostro Prim:ipale
Dopo due giorni o tre.
Cos'è, cosa non è, ^
Si sentì male.
Basta, per farla corta,
Il nostro Direttor
Ricorse al suo dottor
Per questa storta,
Che stette un po' dubbioso
Indi gli suggerì
Santalo del Midi,
Malva e riposo.
Piangete al gran galoppo,
Dolcissimi lettor,
Il nostro Direttor,
Moscata, è zoppo!
LIBRO SECONDO
LE DECADENTI
Jr omografia? Sta bene:
Ma siete voi sicuri
Che il fine ognun misuri
Dalle apparenze oscene?
E appunto a voi conviene
D' esser sprezzanti e duri
Quando lo sanno i muri
Che fondo vi mantiene?
Tartufi rugiadosi,
Quanto prendete al mese
Per esser virtuosi ?
O di virtù modello,
Chi vi rifa le spese
Del gioco 0 del bordello ?
ANACREONTICA
C
hi pel selvoso monte
Lascia la nuda valle
E del roccioso calle
L' erta salendo va,
Sente grondar la fronte
E vacillare il fianco,
Sente che il piò già stanco
Forza d'andar non ha.
Ma giunto in su la vetta,
Con l'occhio erra lontano
Sul verdeggiante piano
Che gli si stende al pie,
Allor trionfa e getta
Un grido alto e giocondo !
Vede soggetto il mondo
E se ne sente il re.
ARGIA SBOLENFI
Anch'io così, sudando
Su la ribelle rima,
Potei toccar la cima
Lieta del sacro allor.
E, sotto a me guardando
Con la pupilla altera,
Maggiore e assai più vera
D'altri sentirmi in cor.
Perciò, sappia chi viene,
Folle, a contender meco
Od a negarmi, bieco,
La seggiola curiil,
Che tre scodelle piene
Di tagliatelle asciutte
Io me le mangio tutte
E vado... ad Irminsul (i).
(i) Località ignota, forse dell' altro emisfero.
L' A L B A
V,
egliai! Dice la fiamma omai languente,
Che il petrolio calò nella lucerna.
Vegliai piangendo ed ecco lentamente
Destarsi al novo dì la Città Eterna.
Le carrette dei broccoli e la gente
Ripassan sotto alla magion paterna,
Il padre russa e un campanil si sente
Laudar da lungi la Bontà Superna.
Lieto un chicchirichì vien da lontano
Da' cortil suburbani e da' pollai
Destati dal chiarore antelucano;
Ed io, infelice, di dolenti lai
L'aria, l'acqua, la terra assordo invano,
Perchè un gallo per me non canta mai!
IN MARE
E
ccoti, o mar solenne ed infinito,
Del divino poter simbolo e stampa :
Eccoti, e in faccia a te cade atterrito
L'occhio che di febea fiamma divampa.
Sei tremendo nell' ira e al tuo ruggito
Non regge prora e poppa mai non scampa,
Ma nella calma tua, liscio e pulito,
Sembri la ciccia di Minghino Svampa.
Ecco un' aura d' amor scende dal cielo
E va dell'onda che pur or posava
Soavemente accarezzando il pelo.
E la persona mia che lorda stava,
Ora la porgo aperta e senza velo
Al mar' che me la bacia e me la lava.
LA CAPRETTA
filoretitem cytisuni sequitur lasciva cappella.
Viro. Ed. II, 64
Q
uando trovo qualcun che me la mena,
La mia capretta, a pascolar sul monte,
Tutta la sento di dolcezza piena
Guizzar pel gusto che le brilla in fronte :
E se poi qualchedun me la rimena,
Corro tosto a lavarla ad una fonte.
Indi l'asciugo, e non è asciutta appena
Che a trastullarsi anco le voglie ha pronte.
Sempre sana e piacente, al caldo e al gelo
Va intorno e con gli scherzi altrui diletta,
Tanto la tenni e 1' educai con zelo.
Eccola qui che una carezza aspetta,
Fresca, pulita e non le pute il pelo...
Dite, chi vuol baciar la mia capretta ?
IN BICICLETTA
G
iammai, scoccata da una man feroce
Dall' arco teso non fuggì saetta
Come sul suo sentier corre veloce
La bicicletta.
Volan le rote e mentre sulla via
Nessun rumor presso di lei si sente,
Qualche imbecille al corridore invia
Un accidente.
A me che importa se della canaglia
M' insegue il riso o il mormorar d'alcuni,
Se l'iniqua parola altri mi scaglia
O il molla Bunil
Io corro, io volo sulla bicicletta,
Questo ideal delle cavalcature:
Chi soffre d' emorroidi o di bolletta
M' insulti pure,
80 ARGIA SBOLENFI
Ch'io son beata e un fremito m'assale,
Mi avvolge un'onda di piacer sovrano,
Quando vengo stringendo il trionfale
Manubrio in mano.
Io son beata allor che fra le gambe
Sento il rigido ordigno e in quegli istanti
Tendo le coscie e l'agitar d'entrambe
Lo spinge avanti.
AD UN OROLOGIO GUASTO
X oi che il pendolo tuo giù penzoloni
Non ha più moto ed impotente sta
E gì' inutili pesi ha testimoni
Della perduta sua vitalità,
Veccliio strumento, in' affatico invano
A ridestar l'antica tua virtù;
Inutilmente con l'industre mano
Tendo la molla che non tira più.
Questa tua chiave, che ficcai sì spesso
Nel suo pertugio, inoperosa è già;
Rotto è il coperchio e libero l' ingresso
Ad ogni più riposta cavità.
Deh, come baldanzoso un dì solevi i
L' ora dolce del gaudio a me segnar,
E petulante l'ago tuo movevi
Non mai spossato dal costante andar!
Quante volte su lui lo sguardo fiso
Or tengo e penso al buon tempo che fu !
Se almen segnasse mezzodì preciso...
Ma sei e mezza!... e non si muove più!
Sbolciiji • 8.
A LUI
JT erchè, mio Bene, se vicin mi siedi
Taci e rivolgi gli occhi ai travicelli,
Oppur ti osservi attentamente i piedi
Quasi credendo di trovarli belli?
Guardami invece gli occhi e leggi e vedi
Di quante fiamme il nuovo amor li abbclii !
Guardali, non temer, fissali e credi
Che prometton ben piìi eh' io non favelli.
Parla e fa che il timor non vinca e prema
Del tuo vergine cor l'immenso aff'etto :
Chi vuol gli amplessi miei, tenti e non tema.
Parla, poiché il mio gaudio, il mio diletto.
La mia felicità sola e suprema,
Dalla tua lingua, amico mio, l'aspetto.
E VERO
Xo dissi : « Ah, come pendo!
« Mi sembra di cascar ! »
Ma tosto sorridendo
Rispose il marinar :
« Pieno di scene orrende
« Sarebbe il mondo inticr
« Se tutto quel che pende
« Dovesse, oh Dio, cader !
AFFETTI DI UNA PELLEGRINA
ALL' AUGUSTO VEGLL\RDO
DOPO LA VISITA
A
gl'immensi Tuoi pie, Padre, chinata
Stetti trepida in volto e reverente;
A Te levai le palme e Tu clemente
Mi facesti partir racconsolata.
Ond' io terrò nella memoria grata
La benedetta imagin Tua presente
In fin ch'io viva, e spesso con la mente
A questa tornerò santa giornata.
Tutto ricordo : i detti Tuoi soa\'i,
Le Angeliche sembianze, il career tetro
E l'angolo preciso in cui parlavi.
Ricordo fin la guglia di San Pietro
Che, guardando dal luogo ove tu stavi,
lo l'avevo davanti e Tu di dietro.
LA BALLATA
DKI, CAVAI-IKR DISCORTKSE
X oi che il sol tramontò, poi che lontana
piange la mesta squilla il d\ che muor,
da '1 solingo veron la castellana
canta così alle stelle il suo dolor :
« Qui presso, fra due monti, è rimpiattato
« un castello che il sol mai non scaldò.
« Il vento che vi spira è avvelenato,
«Buco è il suo nome e se lo meritò.
« Invece in faccia a "1 sol ride scoperto
« questo palagio mio cinto di fior.
« Ride tra i boschi, ospitalmente aperto
«ad ogni dolce peregrin d'amor.
«L'altra notte vegliai su '1 mio balcone
« e vidi nella valle un cavalier.
«Oh, come bello! e con l'aurato sprone
« il cavallo spingea lungo il sentier.
86
« Il cor mi palpitò quando lo scorsi,
«l'aspetto suo mi vinse e mi rapì.
« Tutta tremante da '1 balcon mi sporsi,
« tesi le braccia e gli parlai così :
« — Fermati, cavalieri Deh, tante cose
« vorrei dirti !... Ove vai ? Fermati qui ! —
« Ma galoppando il cavalier rispose :
« — Signora, io vado a Buco... ^ e poi sparì
II.
Vittima di se stesso e del destino,
ecco torna da Buco il cavalier.
Carogna tentennante, a capo chino,
tra le gambe gli zoppica il destrier.
L' errore dell' andar, tornando, espia,
poiché la strada pessima trovò,
ed il pantan della fetente via
da capo a piedi lo contaminò.
Passa così sotto al veron fiorito
dove la voce dell' amor sentì ;
passa e si duol d'avergli preferito
il laido Buco dove imputridì.
ARGIA SBOT.ENFI 87
« Deh, colline ridenti, ombroso bosco
«lieto d'acque perenni e di piacer;
« e voi, labbra di rosa, ora conosco
« in che guai mi travolse un reo pensier !
« Deh, affacciati al veron, tu che m' hai detto
« — Cavalier, dove vai ? Fermati qui ! —
« Ecco torno pentito, ecco nel petto,
« col rimorso, l'amor mi rifiorì ».
Uscì la bionda castellana, e china
del memore balcone al davanzal,
non vide un cavalier, ma una latrina,
un lurido fantasma intestinal.
E disse : — « Alfin la collera celeste,
« mossa dal mio pregar, ti castigò !
« Scortese cavalier, quella è la peste...
« Lo spedale è più avanti!... » — E se ne andò.
SONETTI MITOLOGICI
ATTEONE
(Diphito nd olio)
G
uardate ! Atteone
Osserva il prospetto
Ignudo e perfetto
Che Trivia gli espone.
La Dea, che suppone
Gli perda il rispetto,
Le corna e 1' aspetto
Di cervo gì' impone.
Fuggita è lontana
Dal tempo presente
La bella Diana,
Ma sono cresciuti
In modo indecente
Le corna e i cornuti.
ARGIA SBOI.KXFI 89
II.
LEDA
Giove, padre degli Dei.
Vide Leda, e innamorato
Ebbe il gusto depravato
Di volerne gl'imenei:
E l'aggiunse ai suoi trofei
Con l'astuzia e con l'agguato,
Poi che in cigno tramutato
Si calò nel grembo a lei.
Donna Leda gli die il covo,
Ma con questo bel lavoro
Fu gallata e fece 1' ovo.
Già r efletto è sempre quello
Quando ruzzano fra loro
Una donna ed un uccello.
90
III.
DANAE
Acceso il Tonante
Per Danae d'affetto
Ottenne l'effetto
Mutando sembiante,
E, splendido amante,
Le cadde nel letto
Prendendo 1' aspetto
Dell'oro sonante.
Da noi, siamo schietti,
Ne andava in possesso
Cambiato in biglietti ;
Che in oro o in argento
Ci avrebbe rimesso
Il 5 P- %•
ARGIA SBOI.EXFI 9I
IV.
ATALANTA
Atalanta giovinetta
Alla corsa ognun sfidava
E sì forte galoppava
Che pareva in bicicletta.
Per passarla, una burletta
Ippomène imaginava
E, correndo, le gettava
D' oro in palle una cassetta.
Adocchiandole si gialle,
Per volerle raccattare,
Ella uscìa dal dritto calle:
Il che serve per pro\'are
Che le donne per le palle
Si farebbero pelare.
92
PAN
Pane, cornuto Iddio
Benché non abbia moglie,
Sul margine d'un rio
S'appiatta in fra le foglie:
Assalta di scancio
Le Ninfe e poi le coglie
Facendone sciupìo
Secondo le sue voglie.
Però fissa e solinga
Ebbe una fiamma in core
Per la gentil Siringa :
Dal che dedur con\iene
Che il povero signore
Non orinasse bene.
ARGIA SBOLENFI 93
VI,
IO
Io, diventata vacca
Per volontà di Giove,
Fessa dolente e stracca.
Cosi diceva al bove :
« Come mi sento fiacca
E rotta in ogni dove !
Non valgo una patacca
In queste torme nuove ;
«11 fieno m' è indigesto
E i visceri m' annoda
In modo disonesto.
«L'utile sol ch'io goda
Nel mutamento ò questo:
Che guadagnai la coda ».
LA ROVINA DEL SASSO (*)
(Per uìi numero unico)
F
u la scena soltanto
Fu il drammaccio cruento,
Che vi commosse al pianto.
Se il monte non cascava,
Morivano di stento
Ma nessun ci badava.
(*) Per intendere questo epigramma bisogna sapere che nel
Comune di Sasso erano alcune grotte nel monte e alcune cata-
pecchie dove parecchie famiglie disgraziate tenevano coi denti
la vita. Tutti lo sapevano, lo vedevano e passavano. Rovinò il
monte e fece quel che non aveva fatto la fame : uccise i disgra-
ziati. Subito si fecero sottoscrizioni, conferenze e numeri unici
e in uno di questi la Poetessa, sott' altro nome che il suo, inseri
i versi qui sopra.
SONETTO (*)
U
sci la « Romanina »
E il labaro spiegò.
Ma l'orda libertina
Lo prese e lo stracciò,
E tale una rovina
Di calci si levò
Che rotto per la china
Qualche osso sacro andò.
La barca di San Pietro
Che a prora fessa è già,
Si rompe anche di dietro !
Non vede, Santità ?
Gli han detto " vade retro
E Satana ci va.
(*) La Società cattolica detta la Romanina volle celebrare
in Roma non so che festività a Cristoforo Colombo, e andò al
Pincio con làbari, trombette, oratori e simili strumenti. Alcuni
giovani liberali presero a pedate i dimostranti che scappano
ancora.
AL MIO DESTRIERO
ODE
l\l on la criniera lucida, poi che non la possiedi,
ma il ventre di majolica e i quattro eburnei piedi
concedimi, o corsier ;
fammi inforcar la candida tua groppa e su gli arcioni
starò, superba amazzone, senz'armi e senza sproni
, o ausilio di scudier,
che tu, gentil quadrupede, non scalpiti con 1' ugna
quando la groppa docile porgi a l'usata spugna
e a '1 salubre sapon,
ma su le zampe, immobile e mansueto, aspetti
d'acque lustrali il tepido lavacro e i larghi getti
de r industre sifon.
Te cavalcando, visito tutto de' sogni il regno
ed un poledro rapido, non un cavai di legno,
allor tu sei per me,
e ne '1 sognar mio bellico, un capitan mi sento :
le schiere mie galoppano con le bandiere a '1 vento
ne '1 conspetto del Re.
ARGIA SBOLENFT 97
Savoia ! e i prodi memori de la fortezza antica,
freno non danno a l'impeto e già l'oste nimica
le terga a noi voltò.
Che vai se, a '1 campo reduce, scendo di sella esangue,
se da uno squarcio orribile veggo fuggirmi il sangue?...
I.a palma a noi restò!
Il- schiere avverse fuggono, ma tu fuggir non sai
e sovra al piò di mogano solennemente stai
fermo, senza fiatar...
Ma i sogni, ahimè svaniscono. Cessata è la battaglia.
L'ora de '1 pranzo è prossima ; datemi la tovaglia
che mi voglio asciugar.
S'o/en/i - q.
ODE FARMACEUTICA
H
o sognato un mar di laudano
Denso, nero e sterminato,
Come un piano formidabile
Di sciroppo concentrato.
Sovra l'onde immote e brune,
Tra i vapor del zafferano,
Svolazzavano importune
Molte mosche di Milano.
Io, per far con meno incomodo
Di quel mar la traversata,
Mi recai sul porto prossimo
E vi presi una fregata.
11 suo nome si leggca
Scritto a lettere d'un metro,
Vale a dir FARMACOPEA,
E l'aveva per didietro.
ARGIA SI'.OI.F.NFl QQ
Grossi e ritti erano gli alberi
Con le vele di cerotto,
Con le sartie e con le gomene
Verniciate di decotto ;
E la nave fabbricata
Di campeggio e legno quassie,
Kra tutta incatramata
Di ioduro di potassio,
Drappeggiati in negre tonache
Molti giovani assistenti
Impastavano le pillole
Lassative od astringenti,
Le supposte, i vescicanti
E gli empiastri da enfiagione
Da servire ai naviganti
A merenda e colazione.
Un po' il fuoco che facevano.
Un po' il caldo naturale,
In quel tanfo farmaceutico
Mi sentivo venir male;
Per cui, visto un recipiente,
Mi sedei sopra di botto
E, vedendo un assistente,
Chiamai forte — Ehi, gio\iiiotto ! —
Che comauda? — chiese il giovane.
Vuol di malva una infusione?
Vuol copaive in mucillaggine?
Preferisce una iniezione ? —
Adirata io ribattei :
— Non son quella che credete!
Non ho il male che avrà lei ;
Ho soltanto un po' di sete. —
Sete? — disse — il male è piccolo
E guarir con l'acqua suole;
Ma se l'acqua ella desidera,
Mi dirà come la vuole.
Forestiera o del paese ?
Vuol Tettuccio o Castrocaro ?
Vuol un po' d'acqua ungherese
O un bicchiei- di sale amaro? —
Voglio solo acqvia purissima ! —
Furibonda allor gli osservo.
Mi rispose: — Va benissimo.
Ma in che modo gliela servo?
Perchè buono è da sapersi
Che da noi s'usa di bere
In due modi assai diversi :
O per bocca o per clistere. —
ARGIA .SBOI.ENFI
Detto fatto e dalla tonaca
Con un gesto pittoresco
Tirò fuori una gran cannula,
Un alfare gigantesco,
K mentr'io gridava: — Ehi, senta.
Lei m' ha preso per isbaglio ! —
Quel birbone d' assistente
Lo puntava nel bersaglio.
Se non era che voltandomi
Torsi il fianco un poco a destra,
Queir infanic di flebotomo
Scaricava la balestra;
Ma, insistendo l'animale.
Ne successe un serra serra
E, coni' era naturale,
Tutto il brodo andò per terra.
Io credevo d'esser libera,
Ma mi accadde un altro guaio
Ch'egli prese dietro a corrermi
Col pestello del mortaio.
Un orrore, uno spavento,
Un battaglio da museo,
Una razza di strumento
Da sfondare un mausoleo!
ARGIA SBOLENFI
Io già stavo per soccombere
Alla orribile balista,
Ma gridai: — Galeno sahami,
Da quest' empio l'armacista ! —
E ad un tratto, e fu un enigma,
Spirò un' aria purgativa
Che pareva un borborigma...
E sbarcai suU' altra riva.
ALLA
SOCIETÀ EMILIANA DELLE LEVATRICI
COME SEGKO DI OMAGGIO CORDIALE
QUESTA ODE OSTETRICA
È DEDICATA
Multipiicabu aerumnii!, iuaa ci coticepius tuoi
in dolore paries Jllios.
GeN. Ili i6.
N
eli' interno del bacino
Semprechè non sia deforme,
Vedi un corpo piriforme
Appoggiato all' intestino,
Appo cui fisso rimane
Con diversi ligamenti
E coi rami divergenti
Delle trombe falloppiane.
Ivi, quando è cominciata
L'ordinaria emorragia
E una certa ipertrofia
S'è perciò manifestata.
Dal follicolo maturo
Esce r ovulo vagante
Che il processo fecondante
Mette subito al sicuro ;
I04
Che lo impiglia, anzi lo imbuca
Nella tunica villosa
Che presenta la mucosa,
La qual mutasi in caduca
E nel crescere diventa
L'amnio e il corion, traversati
Uà quei vasi complicati
Che nutriscon la placenta.
Ivi il germe ha forma e cresce
In un sacco membranoso
Pien di liquido sieroso
Dove nuota come un pesce,
E la sua vita fetale
Svolge senza sentimento.
Ritraendo l'alimento
Dal cordone ombelicale.
In quel tempo la gestante
Non si sente molto bene
E per solito le viene
Qualche voglia stravagante.
Ha lo stomaco disfatto,
L' energia molto depressa
E cammina un po' sconnessa
Causa il ventre tumefatto.
ARGIA SBOLENFI
Finalmente la sorprende
Un disturbo del sensorio,
E un dolor premonitorio
Lungo il rachis le discende.
Il marito al suo lamento
Corre, interroga e le dice :
« Vo a chiamar la levatrice
<■< E ritorno in un momento !
A intervalli lunghi e rari
Incomincian le pressioni
E le forti contrazioni
Delle fibre muscolari.
Sono sistoli speciali
Cui la diastole consente
E interessan totalmente
Le pareti addominali.
Ecco intanto alla degente
Si rinnovano i dolori
Sempre più provocatori
E di ritmo più frequente,
Finché sotto alla pressione,
11 liquor che l'amnio serra
Rompe il sacco e va per terra,
Precursor dell' esplusionc.
io6
La faccenda allor va lesta
E non c'è d'aver paura,
Se però la creatura
Si presenta con la testa ;
Ma nel caso che al contrario
Si presenti con un braccio.
Può accadere un affaraccio
E il chirurgo è necessario.
Non son l'atti sì frequenti,
Ma se mai caso si desse
Che r ostetrico dovesse
Operar rivolgimenti,
O usar ferri, allor conviene
Star tranquilla, ilare, ardita.
Che la scienza è progredita
E le cose andranno bene.
Dopo un grido indebolito.
In un premito finale.
Nasce un maschio ed ò vitale
Come annuncia il suo \agito.
Sente allor di gioia un' onda
La puerpera nel core
E con l'ultimo dolore
Viene espulsa la seconda.
ARGIA SBOI.EXFf
Gentilissiina lettrice,
Ti narrai chiara e sincera
In che modo e in che maniera
Nasce al mondo un infelice:
Non gittar strilli d'orrore
Da lussarti le ganasce:
Meglio dir come si nasce
Che narrar come si muore.
K A T S 0
v3u 'I reo lito che Pàsife
contaminò con l'esecrando fallo
forse l'industre Dedalo
torse in cavo cilindro il tuo metallo,
ti lavorò ne 1' ebano
la mobil elsa e, con la man divina,
su la sudata incudine
per consiglio d'Igea temprò la spina.
I suoi possenti farmachi
Lsculapio di poi t'ascose in seno
ed ai dolenti podici
consolator t' offrì turgido e pieno.
Oh, qual grido di giubilo
il tuo primo apparir ne '1 mondo accolse
come le terga subito
la constipata umanità ti \olse!
ARGIA SBOT.KNFI T OQ
E tu, buono e sollecito
più de l'altrui che de la tua fortuna,
a le ribelli viscere
pronto volasti ad esplorar la cruna ;
né ti commosse il torbido
occhio che a 1' opra tua natura oppose,
né d'atre bocche l'alito
cui tolse il fato d'emular le rose;
ma la compressa cannula
un tepido zampillo alto sospinse
che, su l'esempio d'Ercole,
Caco ne l'antro suo sospese e vinse.
Corsero allor le lubriche
linfe la cieca via che a l'Orco immette
e strani indi scoppiarono,
da r opposto emisfer, venti e saette.
Indi a i redenti visceri
un po' di pepe e sai non parve ostile
ed i mal sani fegati
riser, purgati da la densa l)ile.
A voi, ventri purissimi,
die di mal digerirmi avete il vanto,
a voi consacro e dedico
r opportuno rimedio e questo canto.
HUNYADI JANOS
Al Sisnore
Andriìa Saxi.enher
Biida-Pesth
N
on più anelanti a i pascoli latini
le barbare cavalle Attila caccia,
rivisse il fior degl' itali giardini
su la sua traccia.
Tacque indarno il deserto e crebbe l'erba
dove l'alta Aquilea fumando giacque;
da le feconde ceneri superba
Venezia nacque.
11 Danubio lavò le curve spade
grondanti di gentil sangue romano,
ma di quel sangiie mai goccia non cade
versata invano,
e con le stille che tingevan 1' onde
de '1 pescoso Tibisco e de la Orava
di Roma il fato a fecondar le sponde
barbare andava,
ARGIA SnOLENKI
e di messi la steppa e di vitigni
rise, ed a '1 sol che civiltà produce
i biechi de i mongoli occhi sanguigni
vider la luce ;
né più l'Europa giudicò minaccia
ma baluardo de' magiari il petto,
quando il Corvino alzò la spada in faccia
a Maometto ;
né più imprecò il latino in vai di Pado
a i varchi onde calò di Dio il flagello,
ma l'unno che mori sotto Belgrado
disse fratello.
Oh, benedetto il suol che trepidava
sotto il galoppo de la santa schiera
se l'unnìade (liovanni alto levava
la sua bandiera !
Oh, benedetto il suol che de la buona
ausonia civiltà reca le impronte
se de l'unnìade in nome a noi sprigiona
salubre un fonte
a '1 cui salso licor cedon le avare
viscere umane il faticoso pondo,
cantando inni sonanti a 'l salutare
flusso giocondo.
ARGIA SBOLKNFI
E poi che il fatto reo l' opera vieta
de le viscere tarde invan spremute,
a l'ungarica possa anch'io, poeta,
chieggo salute.
Non il regal Tokay, ma l'acqua umile,
che Buda ci mandò mi fia sollievo.
Tendimi il nappo, Igea. Buda civile,
a te lo bevo!
NEL BAGNO
ODE
X el fiammante de 'l ciel tramite sacro
gli agitati corsier disfrena il sole
e d' onde fresche a '1 salutar lavacro
luglio ci vuole.
O fortunata se veder potessi
tremolar la marina a l'orizzonte
o tra selve d'abeti e di cipressi
fredda una fonte I
Ma il fato mi negò, come ha costume,
il bacio di salubri acque cadenti
e de '1 sonante mar le bianche spume
rotte da i venti.
Pur, qual lo scrigno famigliar concede,
me ancor d'umili terme allieta l'onda
che in brevi cerchi accarezzar si vede
la ferrea sponda.
Sbolciifi - IO.
114
E se zefiro alcun non va temprando
de '1 sol le vampe con la sua carezza,
il serico flabel l'aure agitando
copia la brezza,
Ivi, gettando allor la tenue vesta,
pudicamente ignuda io volgo il passo.
Disciolto il crin da 1' apollinea testa
fluisce a '1 basso;
fluisce e lambe il tergo mio che mostra
callipigie beltà che il sole ignora...
Onde, apritemi il seno ! ecco la vostra
dolce signora!
Io non t'invidio il fior de '1 corpo bianco,
o de le ciprie spume eterna figlia,
se a '1 concavo sedil concedo il fianco
come a conchiglia.
Onde, apritemi il seno! Ecco, m'assido
su '1 metallico trono... ecco m'affondo,
e la parte di me che lascia il lido^
cala ne '1 fondo,
ove, strisciando con 1' esperta mano,
detergo il lezzo a le inquinate membra.
Mormora 1' onda ed il suo picciol piano
il mar mi sembra,
ARGIA SBOLENFI
e le tempeste sogno, e veggo e sento
l'imperversar de l'aquilon crudele,
e le triremi trionfali a '1 vento
scioglier le vele
e una nave puntar, negra su l'onda,
la bocca d'un camion fetente e cupo...
Numi, che scoppio!... Ne vibrò la sponda
de '1 semicupo!
A UN VASO NUOVO
DI PORCELLANA GINORI
ODE
Andovvi poi lo Vas d'elezione.
Danxk, Inferno, li.
T.
e non Pandora da l'abisso a gli uomini
recò, nefasto dono
onde il perenne ancor pianto de' miseri
sale di Giove a '1 trono,
ma l'arte ti plasmò tra i colli tloridi
che a Doccia son ghirlanda
e r Arno industre che ti vide nascere
vergine a noi ti manda;
vergine qual su l'alpe inaccessibile
candor di nevi intatte,
qual ne' chiusi presepi in larghe ciotole
de le giovenche il latte.
Il labbro immacolato ecco sorridere
veggio curvato in arco,
e, ingordo, ne '1 candor concavo, accogliere
de' lombi miei l' incarco.
ARGIA SBOLENFI I 1 7
Ecco il tuo ventre d'un sonoro crepito
ripete il rauco invito
e de le fauci spalancate a '1 fornice
tardar sembra il convito.
Ahi, ma '1 candor de 1' ermellino perdere
ornai dovrà '1 tuo smalto!
Triste a tutti è la vita e cose orribili
vedrai da '1 basso a l'alto.
Udrai ne l'ampia oscurità le raffiche
de l'uragan possente
e sovra te discatenato d' Eolo
il soffio pestilente,
e piover caldo e grandinar meteore
piecipitate al basso
e rimbombar di male olenti fulmini
lo scoppio ed il fracasso.
Pender biechi vedrai, ne l' aura torbida,
lo Scorpio ed i Gemelli
e incomber sovra te, negri e monoculi,
Polifemi novelli.
Quanti atroci dolor le umane viscere
celino, allor saprai
e sotto bre\e foglio in forme ignobili
deposti in te li avrai.
Il8 ARGIA SBOLENFI
Così tra breve, maculato il lucido
onor de '1 ventre bianco,
ti sentirai da crepe immonde infrangere
l'affaticato fianco,
ed un vii sterquilinio avrà le briciole
de le tue membra rotte !...
Crudo è '1 fato e noi donne a te siam simili,
o chicchera da notte
AI COLLEGHI
T
anghcri di poeti
Che, se andate in amore,
Raccontate i segreti
Di tutte le signore.
Siato meno indiscreti
Negli affari di cuore
E imparate dai preti
Che non fanno rumore.
Chi spiffera in tribuna
Quello che il cor gli detta,
Non farà mai fortuna.
Noi non abbiamo mica
Scrupoli a darvi retta :
Temiamo che si dica.
* NASCITURO » (*)
E.xultatnt iti f^aitdio ùi/aus in utero meo.
Lue, I, 44.
N
o, che su zolla sterile
Non fu gittate il seme
Se, lacerato il solido
Guscio che invan lo preme,
Esce il rampollo e germina
Pei campi o per le aiuole,
Schiuso al tepor del sole
Sotto al clemente ciel.
No, la bollente gocciola,
Plasma del germe umano,
Nel sitibondo fornice
Non fu scagliata invano
Se nel mio fianco turgido,
Come in riposta cella,
Un' anima novella
Veste il corporeo vel.
(*) Credeva di avere concepito un Bglio. Invece aveva preso
freddo e tutto fini con una fuga d' aria compressa.
ARGIA SBOLENFI
Oh, alfin potrò conoscerli,
Amor santo e sereno
Di madre, e roseo stringermi
Un pargoletto a! seno...
Addormentarti, crescerti.
Potrò sul grembo anch'io.
Sangue del sangue mio,
Frutto d'immenso amor!
T'insegnerò a disciogliere
I passi e le parole.
Ti narrerò, baciandoti,
Gl'incanti delle fole.
Indi trarremo in giubilo
Lungo un campestre calle
Seguendo le farfalle
E raccogliendo i fior.
Ti guiderò per l'ardue
Strade dell' arti prime,
L'alto volume aprendoti
Delle materne rime;
Io sulle illustri pagine
Ti condurrò la mano,
Io t' aprirò l'arcano
Del mondo e del saper.
E allor che il sangue giovane
Ti pulserà nel petto
E sentirai le trepide
Ansie del primo affetto,
Sarò al tuo fianco assidua
E virilmente fida
Consigliatrice e guida
Nei dubbi del sentier.
Al focolar domestico
Io sarò presso ancora
Quando velata e timida
Mi condurrai la nuora
Che me, benigna pronuba,
Dirà perversa e cruda
Se nel tuo letto, ignuda
Vergin, la spingerò.
E quando i fior del talamo
Matureranno i frutti.
Ava prudente e provvida
Io veglierò per tatti ;
Poi con le palme tremule
Carezzerò i nepoti
E a Dio la prece e i voti
Per loro innalzerò.
ARGIA .SBOI.ENn.1 .123
E già mi veggio, debile
Vecchia, tra lor seduta
Narrar, senza rimpiangerla,
La gioventiì caduta
E i versi miei ripetere
A un coro d'innocenti,
I versi miei fulgenti
Di virtuoso zel.
Ava, così, amorevole
E santa educatrice.
In mezzo ai biondi pargoli
Vivrò lieta e felice,
E quando giunga al termine
La vita mia modesta,
Reclinerò la testa
Per ridestarmi in cicl.
Forse ch'io sogno?... Ah, palpita
Pur nel mio grembo un vivo
E freme e balza e s'agita
Or che a lui penso e scrivo...
Deh, perchè tardi o nobile
Della mia gloria erede?
JS^on sai che la mia fede
E r amor mio sci tu ?
124 ARGIA SBOLENKI
Ma intanto ?... Ah, un dubbio orribile
Mi sta confìtto in core.
Sento un mister nell'anima
Pensando al genitore...
Parla, se puoi rispondermi,
Tu che doman vivrai ;
Dimmi, se pur lo sai.
Il padre tuo chi fu?
A
SVA ECCELLENZA REVERENDISSIMA
MONSIGNOR VESCOVO
TITOLARE DELLA CHIESA CATTEDRALE
DI SEBOIM
NELLE PARTI DEGLI INFEDELI
QVESTO NVOVO LAVORO
DI MANO AMICA SE NON ESPERTA
ACCRESCA IL PIACERE DELLA ESALTAZIONE
Ut amòitles in via bona.
PliOV. II, 20.
wJignor, poi che una Diocesi
Dall'Augusto Vegliardo hai conseguito
E r anello di Vescovo
Come novello sposo hai messo in dito,
Tra il fumo dei turiboli,
Tra il plauso della lolla intorno accolta.
Mite Pastor di Seboim,
Porgi r orecchio e la mia voce ascolta.
Deh, quando sul tuo popolo
Benedicendo stenderai la mano
E la lieta Pentapoli
A pie del trono avrai come un Sovrano,
120
Serbati buono e i miseri
Intorno a te raccogli e li consola ;
Ricorda Cristo e predica
Più con l'esempio e men con la parola.
Non insegnare ai chierici
Che il Pontefice solo aprir può il cielo ;
Non insegnare il Sillabo,
Ma lo scordato ormai i-ecchio Vangelo.
Trafficator non renderti
Di Giubilei, Congressi e pellegrini,
Ma proibisci l'Obolo
E l'altre furberie per far quattrini.
Neil' ira tua scomunica
Chi va col collo torto e il viso basso ;
Lascia che di Quaresima
I diocesani tuoi mangin di grasso;
Non annoiare i pargoli
Col Catechismo, i Salmi e la Scrittura;
Dà lor le chicche e mandali
A scuola o a saltar lungo le mura.
Lascia ballare i giovani,
Lasciali far l'amor quando han ballalo
E se poi si confessano
Ridi e dichiara : « quel che è stato, è stato ! »
ARGIA SBOLENl*-! 127
Non ributtar la femina
Che degli affetti suoi non fu padrona ;
Pensa a Maria di Magdala:
I peccati d' amor Dio li perdona.
Non tormentare i parroci
Per le chiacchiere intorno alla servetta;
Di' lor che i Sacri Canoni
Non vietano d'andare in bicicletta.
Cosi facendo, i popoli
Tutti t' obbediran come d'incanto
E nei venturi secoli
Avrai solenne culto e sarai santo.
O benedetta, o nobile
Alma, sottratta alla terrestre lue,
Allor vedrai le monache
Baciar devote le reliquie tue.
Sotto quel bacio fervido
Si rizzeranno alla virtù natia.
Rinnovando i miracoli
Che, vivo, hai fatto per la dolce Argia.
« EN REV NANT D' LA REVUE-»
J
}
aitile le doitx payfiiui qui vieni tic la cuisine,
Le par/uni de la soupe et V encens dit roti,
Le Champagne nioussetix et la Chartreuse fine,
Et les petits funrs chauds qu' oii vende clics Maiani.
J' aiiiie un bas bien tire qn' on voit sur In bottiiie
Parailrc avcc nialicc coinuie nii secret trahi;
j' alme guetler an soir le Ut de ina voisine
Qui ne dante gn'cre du binocle eniienii.
J' ainie lons les plaisirs doni la terre est Jcconde
Et le cancan tont coniuie le noble cotillon;
J' ainte la brune ■ hàlas- mais j' aiiiie ausai la blonde'
Et pourtaiU il n' y a qn' un seni plaisir de boìt,
Qui enfonce, croyea nioi, toiis les plaisirs da ìuonde,
Et e' est rive d'un due qui se prétend lion.
LE ELEZIONI DI MILANO - li
L
ode a te sia, Milano,
Poiché Papa Leone
Ti manda di lontano
La sua benedizione !
Vieni a baciar la mano
Del Viceré padrone
E torna piano piano
Ai giorni del bastone.
Il tempo è già maturo
Pel giudizio statario
Ed il carcere duro.
Intanto, Segretario
Del Sindaco futuro,
Sarà Don Albertario.
Sboltnfi -II.
130 ARGIA SlìOI-ENFl
II.
Per grazia del Signore
Un regime paterno
Studiato dal Questore
Diventerà governo,
E il vigile censore
Ricaccerà all'inferno
I libri e quest' orrore
Di spirito moderno.
Chi avesse poi prurito
Di fare il liberale,
Sarà preso e punito,
E il Regno Temporale
Sarà ristabilito
Per decreto reale.
DEO CREPITVI SACRVM
O
spinto santo
De' visceri umani
Che tutti del canto
Conosci gli arcani,
Che onori e letifichi
D'armonici fiati
Gli sforzi dei vati,
Dal buio profondo,
Dall'antro nativo
Prorompi nel mondo
Sonoro e giulivo;
Di tepidi balsami
Circonda ed allieta
Lettori e poeta.
132
Tu, soffio eloquente
Del verbo divino
Concesso ugualmente
Al ricco e al tapino,
Tu sei come l'anima
Per leggi fatali
Comune ai mortali.
Conforti il villano
Che pasce gli armenti,
Alberghi sovrano
Ne' chiusi conventi.
De' gravi canonici
Compagno canoro
Solfeggi nel coro.
Nel casto segreto
Dell' intima cella
Rallegri discreto
La pia monacella;
Nel ballo, da timide
Fanciulle compresso,
Sospiri sommesso.
ARGIA SUOI.F.NKI 133
TiT visiti e curi
Con equa fortuna
Palazzi e tuguri,
Altare e tribuna,
E avvolto di porpora
De' plausi tra il suono,
Favelli sul trono.
Ma guai se vapori
Dal patrio forame
Recandone fuori
Il glutine infame!
Purissimo spirito
Che l'alvo ricrei
Allor più non sei:
Ma pregno diventi
D' essenze funeste
Che ammorban le genti
Col tanfo di peste,
E guasti e contamini
I lini più ascosi
Di segni schifosi.
131
Così colorito
Per nostra sciagura,
Di soffio gradito
Diventi sozzura ;
Degnissima imagine,
Ritratto vivente
Del tempo presente.
Lentato ogni freno
Ti getti sul mondo
Spargendo il veleno
Dell' alito immondo,
E appesti ed infracidi
Le menti ed i cuori
Di turpi vapori.
Maestro nell'arte
Di nuovi delitti
Tu lordi le carte
Del plico Giolitti,
Tu puzzi nel carcere
Sul labbro bugiardo
Del vecchio Bernardo.
ARGIA SBOLENFI 13:5
Aiuti i sensali
Dei voti comprali,
Avalli cambiali
Pe' tuoi deplorati,
Trionfi, pontifichi
De' ladri nel coro
Men porco di loro.
FANTASIA EGIZIANA
A
1 Nilo, al Nilo! Nasconderemo
Laggiù mia bella 1' amor deriso,
Là sconosciuti noi ci faremo
Non una casa ma un paradiso,
Sul chiaro margine dell'acque calme
Dove si specchiano verdi le palme.
Il chiosco vedi eh' io l' ho fiorito
Di cento rose come un giardino !
Dentro ai bracieri d'oro brunito
Fuman le lacrime del benzoino
E dal marmoreo balcone aperto
Vampe d'amore manda il deserto.
Nera, nel cielo color di rosa
Che nel tramonto caldo rispleade.
Come una lupa libidinosa
Accoccolata la sfinge attende,
E grave un alito di strani amori
L'acri vivifica nozze dei fiori.
ARGIA SBOLEXFI I37
Alle carezze molli del vento
Data la lunga cesarie d'oro,
Nell'onda tenue del vel d'argento,
Nudo del bianco seno il tesoro,
Sarai mia sempre, mia tutta intera,
Se non ti viene prima il colera.
QVANDO
IL PREFETTO DEL RE
E H, SINDACO DEL COMVNE
RENDEVANO OMAGGIO
A SVA EMINENZA REVERENDISSIMA
DOMENICO SVAMPA
PRETE CARDINALE DEL TITOLO DI SANT' ONOFRIO
ED ARCIVESCOVO DI BOLOGNA
QVESTO carme BENE AVGVRANTE
AL SVO FORMOSO PASTORE
ARGIA SBOLENFI
DEDICAVA.
)ignor, poi che- ti sta supplice ai piedi
Questa Felsina tua che un dì sdegnosa
Bacio di prete sofferir non volle,
Costei che, infranto il trono in cui tu siedi,
Cercando libertà tinse gioiosa
Del suo sangue miglior l'itale zolle,
Absolvi or la pentita e le concedi
L'amplesso del perdono
Dimenticando dell' error l'audacia.
Sii generoso e buono
Con chi, come a Signor, la man ti bacia,
E poi che piango ravveduta anch'io,
Misericorde ascolta il canto mio.
ARGIA SBOLENFI 139
Un tempo, e ben lo sai, morta di fame,
Schiava del tuo stranier temprò la plebe
Ceppi a se stessa su la propria incude:
Pe' sacerdoti tuoi le turbe grame
Reser feconde le sudate glebe
E sul solco natio caddero ignude
Ai campi della chiesa util letame;
Ma un Dio consolatore
Da' sacri templi a lor dicea : « Soffrite,
Turbe nate al dolore
E che felici nel dolor morite.
Poi che v'aspetta in eie! di Dio il sorriso
E sol de' tribolati è il paradiso ».
Dolci tempi, o Signor, ma triste il giorno
In cui la libertà disse il suo nome
La prima volta nella rea Parigi,
Poi che le turbe allor volsero intorno
Torbido l'occhio e scossero le some
Brandendo l'armi ad operar prodigi
Di che all'anime pie duro è il ritorno.
Germogli del mal seme
Crebbe il tristo terren le idee novelle;
Compresso indarno, freme
Tra i nuovi ceppi il popolo ribelle,
E poi che in cor gli agonizzò la fede
Non più la libertà, ma il pan ci chiede.
140
E grida: « Senza gioia e senza luce,
Martiri del lavoro e degli stenti.
Moriamo e il pane ancor ci si rifiuta,
Aprimmo il solco e non per noi produce,
Altri ha le lane e noi guardiani gli armenti.
Altri ha la messe e noi l'abbiam mietuta.
Nuovo un tiranno i servi suoi riduce
A maledir la vita
E come bruti a litiga/ le, ghiande;
Ci calca inferocita
La gente nuova che tacemmo grande,
Ma lieto il dì della riscossa arriva :
Corriam all'armi e la giustizia viva!».
Deh! soccorri, o .Signor! Più non ci giova
Rinnovar le catene ed i tormenti
O sfrenar birri alle cercate stragi.
Troncata l'idra i capi suoi rinnova
E i publicani ed i giudei dolenti
Tremano su gli scrigni e nei palagi
Dove il tripudio del goder si prova.
La turba macilente
Accorre e di morir non ha paura
Poi che, soffrendo, sente
Che a lei la vita e non la morte è dura..
Deh, Signor, ci soccorri e se al desio
Mancan le Guardie, ci difenda Iddio !
AKOTA SBOLEXFl I4I
E se il tuo Dio ci costa, a noi che importa
Quando i ribelli al timor suo riduce
E delle turbe ci rida il governo;
Quando agli eletti suoi l'ausilio porta,
Quando tra i volghi creduli conduce
L' util minaccia ed il terror d'inferno
Ed ha il demonio pauroso a scorta?
Ben venga Iddio se reca
Fede agli umili, securtà ai possenti,
L'obbedienza cieca,
Il catechismo, i preti, i sacramenti,
De' frati tuoi la sacrosanta loia.
Il Sant'Ufficio, la mordacchia e il boia.
Ben vedi che timor, non cortesia,
I magistrati nostri a' pie ti caccia
Inginocchiati a far debita ammenda.
Ieri nemici, ognun di lor fuggìa
Fino il pretesto di guardarti in faccia
Ma la tema del poi gli animi emenda
Ed eccoli a gridar Gesù e Maria.
Reca dunque, o Levita,
Benedetti dal ciel giorni soavi
Alla città pentita.
Al Senator che te ne dà le chiavi;
Stringi la briglia nella man paterna
E questo popol tuo reggi e governa.
142 ARGIA SP.OI.ENFI
Canzon, vanne alla sede
Del Pastor cui fa porto
Omaggio di paura e non di lede.
Egli è saggio ed accorto
E se ben tu lo guardi
Gli leggerai nel \'iso : « E troppo tardi !
SAMBUCI (*)
A
voi, fecondi clivi
Sabini, a voi vestiti
Di frondeggianti viti
E di feraci ulivi,
Tra cui muggendo viene
Il turbolento Aniene,
A voi, nel roseo incanto
Del moribondo sole,
Sante d' amor parole
Disse d'Orazio il canto,
Ma del tripudio il giorno
Passò senza ritorno.
Rade, ai pendii fiorenti
Dove ridean le vigne,
Germoglian le gramigne
Agli sparuti armenti :
Nega al villan la vita
La terra insterilita.
(*) Frammento. Tutti ricordano ancora la fame sofferta dagli
infelici abitatori di Sanibuci (Roma) nell'inverno del 1805.
144 ARGIA SBOLF.NFI
Che se, vincendo l'arsa
Rabbia del sol rovente,
Sudata lungamente
Cresce la messe scarsa.
Lo scarno agricoltore
La miete al suo signore ;
E a lui la terra magra
Matura il reo frumento
Che gli distilla il lento
Velen della pellagra,
Quando clemente il cielo
Non r arde in sullo stelo.
A VENERE GENITRICE
INNO
In Uctulo meo per nocies quamvù
guem diligit anima mea : gncesivt
Ulum et non inveni.
Cant. Canticor. Ili, I.
— « VJLiarda, mortai, le fiamme •
De' larghi occhi lucenti
E le chiome fluenti
Sulle superbe mamme.
Guarda ! L' estremo lembo
Gittai che ti copriva
La pubertà giuliva
Che mi fiorisce in grembo.
Vieni e sui fior ti giaci
E me sui fior ricevi ;
Tra le mie labbra bevi
Il dolce miei de' baci.
I lombi miei circonda
Con le possenti braccia,
Stringimi al scn la laccia
E r amor mio feconda ». —
Sàoleitfi - 12.
146
Così parlò e sorrise
La Dea porgendo il fianco
Soavemente bianco
Al giovinetto Anchise,
Poi volse le parole
In gemiti sommessi
E dei divini amplessi
Fu testimonio il sole.
Vittima anch'io d'Amore
Omai dispero aita
Poi che la sua ferita
Mi sanguina nel core,
Né lacrimar mi vale
Né maledir, costretta
A spasimar soletta
Sul vergine guanciale.
Che se fugaci istanti
Di pace al sonno chiedo,
Mille fantasmi vedo
Pel glauco eie! vaganti.
Passa sul campo arato
Caldo di nozze il vento
E in sé recar lo sento
La febbre del peccato.
Ai<GlA SBOLKNM I47
Desta cosi all' ebbrezza
Del germinar, la terra
Le viscere disserra
Del sole alla carezza,
E con le carni e il core
Arsi da fiamme arcane,
Urlan le genti umane
« Amore, amore, amóre ! »
Tra r ombre e gli spaventi
Delle materne selve
Si stringono le belve
In ciechi accoppiamenti,
E dalle fulve arene
Che il mar commosso esclude
Perfidamente ignude
Mi chiaman le Sirene,
Mentre, di Bromio stanche,
Roche per gli ebbri canti,
Le lubriche Baccanti
Gittan le vesti bianche
E sui compressi fiori
Curvan le rosee forme
Sotto l'impulso enorme
Dei Fauni assalitori.
14'
E allor mi desto sola
Sul letto immacolato
Coir urlo disperato
Del mio martirio in gola...
Deh, morrei pur gioiosa
Se fossi in quel momento
Segnata dal cruento
Stigma di nuova sposa,
.Se nella gonfia mole
Dell' utero fecondo
Balzar sentissi il pondo
Della concetta prole,
Se, al fin delle mie pene,
Lieta chiudessi il ciglio
Addormentando un figlio
Tra le mammelle piene!
O Dea, Madre, Signora
Dei vivi e della vita,
Dal mar di Cipro uscita
Al bacio dell'aurora.
Che il premio a noi concedi
Nella tenzon gentile
Ed al vigor maschile
Il fior del sangue chiedi,
ARGIA SBOLKNFT M*^
Se di perenni rose
T'ornino ancor l'altare
Le verginelle ignare
E le conscienti spose,
Se r atra onda Letea
Il biondo Adon ti renda,
Pietà di me ti prenda,
Madre, Signora, Dea!
IL PRIMO CAPELLO BIANCO
Oi levan sospinti dal vento
I bianchi vapori dei monti;
Nel cielo di piombo le nubi d'argento
Cacciate, travolte, nascondono il sol.
Recando la mota dei letti
Traboccan le torbide fonti;
La piova scrosciando rovina dai tetti
E nn largo pantano contamina il suol.
Languisce la terra sopita
Nel soffio del freddo aquilone;
Ai rami gelati non torna la vita.
Le gemme aspettanti non s'aprono ancor.
O fosche giornate d'orrore,
Dov' è la novella stagione ?
Dov' è primavera fragrante d' amore
Che scalda e feconda le nozze dei fior?
ARGIA SBOLENFI I51
Deh, riedi e coi giorni più miti,
0 maggio, conduci il sereno :
1 canti dji nidi sui peschi fioriti,
L'odor delle rose risveglia con te.
Infondi coi baci del sole
La vita nel freddo terreno,
Fiorisci le zolle di fresche viole.
Ravviva i ligustri degli alberi al pie,
O maggio, e doman tornerai
Dai fior salutato e dal canto ;
A tutti domani la gioia darai.
Io sola piangendo tornar ti vedrò,
10 sola son morta all'affetto,
10 sola mi struggo nel pianto;
Letizia di vita non sento nel petto.
Germoglio d'amore nel sangue non ho.
11 verno da me piìi non toglie
L' orror delle bianche pruine ;
Al sole di maggio il gel non si scioglie,
11 gelo di morte che il cor mi coprì.
Il primo capello canuto
Quest'oggi mi svelsi dal crine-..
Ah, giovane tempo, sì presto caduto,
Con te la speranza quest'oggi morì!
SONETTI DECADENTI .
DIES
Xl sole brucia implacabile, uguale,
Le stoppie gialle del pian vaporoso,
L'azzurra volta del ciel luminoso
Riflette in terra la fiamma estivale.
Non move foglia. La vita animale
Langue in un grave sopor neghittoso.
Turba la pace al meriggio affannoso
Solo un molesto frinir di cicale.
.Sull'erba verde, nel bosco frondoso,
Fresco t'ho fatto di fiori un guanciale
E tu vi adagi le membra al riposo.
Dormi discinta nell'ombra ospitale,
Ed io contemplo con l'occhio bramoso
L'onda del petto che scende e che sal^.
ARGIA SBOI.FXFI 153
NOX
Dell'alta notte la negra magìa
M'empie il cervello, mi filtra nel core.
Un soffio passa sull'anima mia,
Un freddo soffio che m'empie d'orrore.
Sente di fuori, 1' orecchio che spia,
Strani bisbigli che metton terrore,
Ma nelle case la vita s' oblia
Come annegata in un denso stupore.
Solo nel buio, laggiù, della via,
Dietro una tenda, l'immobil candore
Un lume fioco da lungi m'invia.
Rischiara forse il discreto bagliore
Lo spasimar d' un' atroce agonia
Od il gioir d'una notte d'amore?
154
APENNINO
O monti, albergo di pace infinita,
Ancor nel vivo ricordo rimane
Il susurrar delle chiare fontane
Tra la fragranza dell' erba fiorita,
E il tremolar della luce salita
Coir alba fresca alle cime lontane
Nel rado vel delle nebbie montane
Su i boschi pieni di canti e di vita,
E nel tepor della rorida mane
Fioco il belar dell' agnella smarrita
Od il rintocco di meste campane.
Oh, nel mister della selva romita
Fuggir con lei dalle cure mondane
E tra i capelli sentir le sue dita!
ARGIA SBOLENFT
ADRIATICO
Il mar lambendo instancabile e lento
La sabbia fina dell' umida sponda,
Con ritmo uguale mandava un lamento,
Quasi un singhiozzo, alla notte profonda.
Occhi benigni, le stelle d'argento
Guardavan fisse la terra feconda,
Amor vagava nel ciel sonnolento,
Ed io sperai la fortuna seconda.
Il cor t'apersi con timido accento,
Sfiorai col labbro la chioma tua bionda
Ed al trionfo credetti un momento...
Addio, fantasmi d'un' ora gioconda,
Sogni d'amore dispersi dal vento,
Care speranze cadute nell'onda!
156
MILLK
Al suo balcone s' aftaccia beala
La dama, tratta dal maggio fiorenle.
Il sol carezza la treccia dorata,
La rosea gota ed il labbro ridente.
Il giovin paggio da lunga la guata
E tutto caldo d' amore si sente.
Né gli par cosa terrena e creata.
Ma ben di cielo angioletta vivente.
Correr vorrebbe a battaglie cruente,
Soffrir pugnando una morte spietata
Sol per averne uno sguardo clemente;
E pur la dama dagli occhi di fata,
E pur la bianca angioletta piacente
Dal dì che nacque non s'è più lavata!
ARGIA SBOI.ENFI
SETTECENTO
Mormora l'arpa toccata in sordina
Lento un motivo che par minuetto.
Lenta la dama danzando s' inchina,
Tutta eleganza, sussiego e bell'atto.
Di nei segnata, la pelle argentina
Manda un profumo sottil di zibetto ;
Sotto una nebbia di candida trina
Ansano i bianchi segreti del petto.
Danza e sul molle tappeto trascina
La ricca veste ed il pie piccioletto
Col portamento d'altera regina.
Tutti scoraggia col rigido aspetto.
Con r occhio pieno di calma di\ina,
E lo staffiere l'attende nel letto.
158
PAROI-E
Dolci parole d'amor, susurrate
Presso i cespugli fioriti di rose,
Parole dolci, parole gioiose,
Appena dette che mai diventate?
Salite al cielo col vento e volate
Degli angioletti alle labbra amorose,
O, come accade dell'ottime cose,
Parole dolci, nel nulla tornate?
Ahi, che piuttosto all'inferno dannate
Si come streghe mendaci e schifose,
Forma e veleno di biscie pigliate
E, tra i cespugli nativi nascose.
Mordete al core gli amanti e li fate
Vittime e strazio di cure gelose!
ARGIA SBOLENFI I59
MUSICA
L' ultime note languenti, velate,
Muoiono come sospiri sonori
In un tripudio di mazzi di fiori,
In un profumo di donne scollate.
E il sangue tende le arterie gonfiate,
Passan su gli occhi fugaci bagliori;
Tutta la vita prorompe di fuori
Sotto l'impulso di forze ignorate.
Allor le forme ci sembran mutate
E ridipinte di strani colori,
Quasi fantasmi di cose sognate.
Poi tutto passa; ma resta nei cuoii
Come un rimpianto di gioie passate.
Come un presagio di nuovi dolori.
MORBVS
C
hi, quando il giorno muore,
Ode, seguendo il Gange,
La tortora che piange
Sotto i roseti in fiore
E, lungo l'acque stanche
Specchio alle palme nere,
Vede passar le schiere
Delle pagode bianche.
Lento discerne ancora
Fumar dal tardo fiume
Il denso putridume
Che in faccia al so! vapora,
E galleggiar sull' onde
Carogne ornai disfatte
Che l'acqua gialla sbatte
Sulle fangose sponde.
"argia SnOI-ENFI l6l
Lungo i giuncheti pigri,
Nido di serpi immani,
Piangono i caimani
E riiggono le tigri,
Mentre nell' aria bassa
Del -crepuscolo torvo
Gracchia sinistro il corvo
Sazio di carne grassa.
Allor nel plumbeo cielo
S' erge "dall' acqua oscura
D' un angiol la figura
Chiusa da un fosco velo,
E sale a poco a poco
Sul livido orizzonte,
Gocciando dalla fronte
Sangue, veleno e fuoco.
Sale gigante e solo
Dell' universo in faccia,
Tende le negre braccia,
Apre l'immenso volo...
Ah, invan chiudi le porte.
Trista progenie d' Eva ;
Ecco, su te si leva
L'angelo della morte!
S6o/en/i • 13.
i6:
E passa infaticato
Sulle città fastose,
Sovra le ville ascose,
Sovra il Castel merlato,
Sul casolar che ride
Di sue virtù contento...
Passa solenne e lento
E dove passa, uccide.
Sul suo cammin, segnato
Dai morti e dai morenti,
Alto le umane genti
Mandano un ululato.
L' orror dell' ecatombe
Fin la speranza scaccia
E mancano le braccia
Per iscavar le tombe...
Del cor premendo i moti.
Sbarrando gli occhi tardi,
Inchiodano i vegliardi
Le bare dei nipoti ;
Col pianto sulle gote
Le madri moribonde
Piegan le teste bionde
.Sopra le culle vote.
ARGIA SBOLENFI 163
dubita r uom che venga
Il mondo all' ore estreme
E guata in alto e teme
Che il sole in ciel si spenga,
Mentre gli grida il prete:
« Guai nel gran giorno all'empio!
« Portate 1' oro al tempio,
« Poiché doman morrete ! »
Sul sacro limitare
Cadono allor gli oranti,
Lordan gli agonizzanti
Le pietre dell' altare,
E pur la turba strolta
Che ciecamente adora
Inginocchiata implora
Iddio, che non l'ascolta.
Turba, che il vacuo gelo
Della tua fede or tocchi.
Muori, volgendo gli occhi
Inutilmente al ciclo.
Alle pupille offese
Il vero or si disserra:
Non ti mentì la terra
Quando per lei ti chiese.
164 AROIA SBOIKNFI
Non ti giurò promesse
D' un avvenir mal certo,
Ma dal suo fianco aperto,
Ti germogliò la messe,
(jiovin, dell' odio invece,
L'amor ti accese in seno,
E per un giorno almeno
Miglior di Dio ti fece.
ELEZIONI
M
usa mia dolce, che le alterigie
Uè' carmi arcigni non hai sul viso,
Tu che rallegri 1' ore mie grigie
Di stravaganti scoppi di riso
E volentieri mostri la pelle
Dai larghi strappi de le gonnelle,
Musa mia dolce, vieni, discendi
A la solinga mia cameretta ;
Avide ai baci le labbra tendi,
Libera i lacci de la fascetta.
Sciogli la chioma bruna e ricciuta
E chiudi l'uscio. L'ora è venuta.
L'ora in cui l'odio fermenta e invade,
Lurida peste, le menti e i cuori;
In cui la gente giù per le strade
Rutta bestemmie, reca rancori
E, masticando laide querele,
Ingoia o sputa veleno e fiele.
i66
Ognuno in queste turpi giornate
Morde o calunnia, froda o minaccia.
Lo sterco e il fango colto a manate
All'avversario si scaglia in faccia.
Riddano in piazza, lerci e impudichi,
.Spie, deplorati, ruffiani e plichi :
E i giornalisti, tinta di loia
La meretrice penna d'acciaio,
Pur che sia piena la mangiatoia
Vendon la feccia del calamaio
Per imbrattarne l'onore altrui,
Quasi superbi che paghi Lui.
Indi, nell'ora concessa al voto,
Cupi, nervosi, van gli elettori.
Parlando basso col viso immoto.
Guatando come cospiratori
E in ogni canto dice un cartello;
Votate questo!... Votate quello!...
Entro la sala buia e fetente.
Sozza la gromma vernicia i muri,
E intorno a un desco men che decente
Seduti in cerchio cinque figuri
Veglian con 1* occhio cogitabondo
L' urna di vetro dal doppio fondo.
ARGIA SBOLENFI
S' apre la chiama. Nel pigia pigia
Vota ciascuna pecora sciocca.
Ardono alcuni di cupidigia,
Ad altri l'ira torce la bocca,
Ma quasi tutti, dopo votato,
Palpano il prezzo del lor mercato ;
E tutti, uscendo, da un reo contagio
Attossicato sentono il cuore.
Chi entrò dabbene n' uscì malvagio
Chi entrò ribaldo n' uscì peggiore.
Chi vinse, il turpe bottino aspetta,
Chi perse, spera nella vendetta.
Ecco i comizi! Ui quando in quando
Se non accade qualche sinistro,
Dall'urna falsa sbuca onorando
Un frodolento caro al ministro,
O un imbecille pien di commende;
E l'un si compra, l'altro si vende.
O perchè debbo far da mezzano
All'ingordigia di Calandrino?
Perchè mi debbo lordar la mano
Scrivendo il nome d' uno strozzino ?
Perchè gettarmi nella battaglia
Sotto gli sputi della canaglia ?
l68 ARGIA SBOI.ENFl
Musa mia dolce, sulla tua l'accia
Ride un giocondo color di rosa.
Passerò lieto fra le tue braccia
Il giorno laido, 1' ora schilosa.
Sciogli la chioma bruna e ricciuta
E chiudi r uscio. L' ora è venuta.
DOPO IL PLICO
M.
Leglio, Trento, per te se dalle mura
Sante aspettasti invano
Il vessillo che i patti e la paura
Respinsero lontano.
Meglio, Trieste, indarno a queste sponde
Tener l'anima fissa
Meglio indarno aspettar che la\in l'onde
La vergogna di Lissa.
Deh, non cercate della madre il petto.
Figlie aspettanti ancora.
Poiché il fracido cancro ond' egli è infetto
O uccide o disonora.
La madre, del vessillo a tre colori
5' è fatta un origliere
Per fornicar co' suoi commendatori
Scappati alle galere.
Vende l'onore de' suoi figli morti,
Gioca le glorie avite
E fa copia di se negli angiporti
Delle banche fallite.
Questa, questa è colei per cui sperate
Cessar le vostre pene
Ed essa per paura ha patteggiate
Fin le vostre catene;
Ed essa, in Roma, penitente adora
La fraude vaticana
Baciando la rea man che gronda ancora
Del sangue di Mentana...
Ah, no, questo di vizi ampio carcame
Che al bacio vii si prostra,
Ah, no, per Dio, questa bagascia infame
Non è la madre nostra.
Menti chi '1 disse ! O voi, dai fortunati
Sepolcri ove dormite,
Martiri nostri ormai dimenticati,
Levatevi e venite !
Voi che gridaste Italia e il piombo intanto
Vi rompea la parola,
Voi che ne confessaste il nome santo
Col capestro alla gola.
AR(iIA .SKOI.KNFI I71
Smascheratela voi la svergognata
Che adultera col prete ;
Dite a questa carogna incoronata
Che non la conoscete.
Altra è la sacra Italia, amor dei forti
Che un di fu vostra cura.
Oh, destatela voi, poveri morti,
Se i vivi hanno paura !
Fate che torni e nella destra rechi
Una spada infocata
Contro questi ladroni obliqui e biechi
Che r han vituperata,
Arda col foco suo fin che bisogna
Questa stalla d' Augìa,
Tagli col ferro la civil vergogna
E la giustizia sia !
s
DA CAPO
Constirj^iie et asccndamus in meridie.
Jerem. vi, 4,
e nella mesta sera,
Cinto di luce stratia,
Lo scoglio di CaprerE
All' occidente levasi
Superbo sulla nera onda lontana,
11 marinar che passa
Sull'agile naviglio
Tien la bandiera bassa
E Ira le palme ru\ide
Il duro capo abbassa e china il ciglio.
Là, nella calma enorme
Della morente luce.
Sotto il granito informe,
Presso le acacie memori
L' ultimo sonno dorme il nostro duce.
ARGIA SKOI.F.NFI 173
Dorme il Messia invocato
Nel giorno del dolore,
Dorme il gentil soldato
Che amò come una vergine,
E col suo s' è fermato il nostro core.
Quando il leon scoteva
L'ampia cesarie d'oro,
Un popolo sorgeva
Bello, gagliardo e giovane
Che la pugna chiedeva e non l'alloro;
Sorgean gli eroi sublimi
Che il duce taciturno
Primo davanti ai primi
(juidava all'ardua carica
Contro Calatafimi e sul Volturno ;
Poi, rotta nel cimento
La schiera e pur non doma,
Cadea senza un lamento.
Mal vendicata vittima
Sul colle di Nomento in taccia a Roma.
174
Né alcun tendea la mano
A mendicar mercede,
Né per voler sovrano,
Né per clamor di popolo
Mentiva il capitano alla sua fede,
Che il duce ed il soldato
Chiudean ne' petti ardenti
Il cor di Cincinnato
E ai solchi ritornavano
Del plauso non cercato assai contenti
Ed or che resta ? O santo
Sangue versato invano,
O fior d' Italia, pianto
Un dì con tante lacrime,
Or ti mette all'incanto il piihlicano.
O gloria unica al sole,
Pura in tante vicende,
Alla crescente prole
Pura dovevi scendere,
E ti compra chi vuole e ti rivende!
ARGIA SBOLENFI 175
Tutto governa 1' oro,
Tutto è sottil garrito
Di legulei nel foro,
E de' comizi il traffico
Frutta come tesoro al più scaltrito.
Il suo veleno occulB)
Ci mesce la menzogna
E gli ebri, nel tumulto
Dell' ira, si barattano
La calunnia, l'insulto e la vergogna.
Ahi, della prima schiera
Non resta alcuno in vita ?
Dunque laggiù a Caprera
Col bior.do Cristo italico
L' incolpevol bandiera è seppellita '
Ah no ! Sacra coorte,
Per r ultima battaglia
Ti risparmiò la morte;
Inerme e pur terribile
Di Roma su le porte ancor ti scaglia.
IJ-G ARGIA SBOI.KN'FI
Non sangue essa ti chiede,
Ma invoca i difensori.
Schieratevi al suo piede,
Voi forti, e proteggetela
Con l'incorrotta fede e gU alti cuori.
Trombe dal sonno saosse
Sonate alla raccolta !
Correte alle riscosse,
Salvate voi la patria,
Vecchie camicie rosse, un'altra volta!
Alto il vessillo alzate
De' traditori a fronte...
Ma voi, deh, riposate
Nelle giberne lacere
Cartucce non sparate all'Aspromonte.
PRIMO MAGGIO MDCCCXCV
X assano lenti. Un lampeggiar febbrile
arde a ciascuno il ciglio.
Passan solenni e da le dense file
non si leva un bisbiglio.
Toccandosi le mani ognun di loro
cerca il vicin chi sia.
Se i calli suoi non vi segnò il lavoro,
quella e una man di spia.
Sotto r aspra fatica e il reo destino
molti son già caduti,
molti il career ne tiene od il contino,
e pur sono cresciuti.
Striscia il gran serpe de la folla oscura
dei ricchi su le poitc.
Dentro, nello stupor de la paura,
si ragiona di morte.
Sbolenji - 14.
Intanto il passo de la muta schiera
allontanar si sente
e nel silenzio de la fosca sera
spegnersi lentamente.
Ecco allora Epulon, vinto il terrore,
socchiude l'uscio e guata
e dice: « Lode a Crispi ed al Signore,
anche questa è passata! »
E passata, ma invan te ne compiaci
ne r allegre parole.
Son gli antichi rancor troppo tenaci
per tramontar col sole.
Nel ferreo pugno non hai più la plebe
che serva un dì schernivi:
germina 1' odio da le pingui glebe
che mieti e non coltivi.
Ne le officine fumiganti e nere
contro tesi cospira:
sotto la casa tua, ne le miniere,
pronta allo scoppio è l'ira;
ARGIA SRULENFl 179
e mal ti gioverà crescer guardiani
a le porte sbarrate;
l'armi custodi del tuo aver, domani
da chi saran portate?
Chi ti difenderà domani, quando
le turbe mal nudritc
assedieranno le tue case, urlando:
« E il primo maggio: aprite! »?
Oh, ben gli sguardi noi tcndiam levati
a l'avvenir fecondo,
e tu chini la fronte! I tuoi peccati
hanno stancato il mondo.
NOVEMBRE
A
ddio sorrisi dell'albe rosate,
Addio tramonti che d'oro parete!
Novembre porta le tristi giornate
E delle nebbie la bigia quiete!
Gli uccelli migran in file serrate
Cercando a volo contrade piii liete,
Ma noi restiamo, calcando immutate,
Sul fango vecchio, le vie consuete.
Restiamo, e sempre le stesse infinite
Noie e le stesse speranze remote
C'infliggeranno le stesse ferite,
Finché abbassando le teste canute,
Chinando al suolo le pallide gote,
Qui marcirem come foglie cadute.
MENTRE PARTONO
T,
u che aprendo il mercato alla menzogna
Alto salir potesti,
E che senza pietà, senza vergogna,
Vivo, di noi ridesti.
Or nella tomba dormirai contento,
Buon vecchio di Stradella,
Che accompagnar solevi al tradimento
L'arte di Pulcinella.
Dormi, buon vecchio, ormai dimenticato
Dai servi e dai rivali,
E sogghigna se '1 puoi. T' han perdonato
I morti di Dogali.
A ben più grave e più feroce guerra
L'Italia è condannata;
Nuovo sangue latin beve la terra
Dell'Eritrea bruciata.
RIME DI
Nuove vittime ancor di rei consigli
Cadran siili' arse arene
E nuove madri cresceranno i figli
Per ingrassar le iene!
Lascia, scarno villan, lascia il sudato
Solco a te non diviso.
Tu non devi morir dove sei nato,
Dove amor t'ha sorriso.
La gentil civiltà de' tuoi signori
Ti spinge alla battaglia.
Va, povero villano, uccidi e muori:
Dopo, avrai la medaglia.
E mentre i legulei ti lauderanno
Con sonanti parole,
Oh, come l'ossa tue biancheggieranno
Gloriosamente al sole!
.Su la sabbia deserta e funerale
Rotoleranno al vento,
Ma in qualche trivio della Capitale
Sorgerà un monumento,
Su cui tra i bronzi falsi e le sculture
Dell' arte a buon mercato
Sarà il tuo nome, o buon villan, se pure
Non r han dimenticato.
ARGIA SP.OLENFI . 1 83
Piange intanto colei che la tua culla
Vegliò amorosa e forte:
Piange le tristi nozze una fanciulla,
Le nozze con la morte.
Ma il padre invece, al elei rivolto il ciglio,
Giunte le palme grame,
Dice: — Beato te, povero figlio,
Che non avrai più fame. —
ALPINI
Q
iiando r ora verrà, 1' ora che deve
Esser 1' estrema che vedrete al mondo,
Voi cercherete invan col moribondo
Occhio l'alpe natia, bianca di neve.
E indarno de' ghiacciai la brezza lieve
Ricercherete neh' ansar profondo.
Oh, quanto lungi al labbro sitibondo
Saran le fonti ove il camoscio beve!
Ahimè, madri dolenti e fidanzate
Dolenti, dite voi se questo è il santo
Il giocondo avvenir che sognavate!
Vanno all' inutil sacrificio e intanto
Noi veneriam le vanità sfacciate
Cui piacque il sangue loro e il vostro pianto.
ULTIME NOTIZIE
L
e madri, nel tormento
Crudel d' un dubbio arcano,
Cercan con l'occhio intento
Qualche speranza invano.
Non sale un noto accento
Dall' aspettante piano,
Non una vela al vento
Sul freddo mar lontano!
Ed ecco il messaggero
Nunzio della fortuna
Passa sul lor sentiero,
E a lui chiede ciascuna.
Bianca d'angoscia, il vero:
« Che novità? » — « Nessuna !! »
PISCICOLTURA
Oe un pesce grosso sparpagliò cambiali
E non le ha mai pagate.
O le pagò col voto, i suoi giornali
Dicon: « cose private! »
Se vende un gran cordon, poscia negato,
E lo vende a un briccone,
Son cose che riguardan l'avvocato,
Cose di professione.
Se il Codice Penai soffre gli sfregi
De' suoi superbi sprezzi.
Se fa comprare o vendere i Collegi,
Sono pettegolezzi.
ARGIA SBOI.ENFI 187
Ma se un pesce piccin, stando digiuno,
Sente un po' d' appetito,
Peggio poi se lo dice a qualcheduno,
È subito ammonito.
Se gli sembra che il secolo egoista
Viva delle sue spoglie,
Se incappa in qualche idea da socialista,
San Stefano lo coglie.
Se vede Bosco o De Felice in sogno,
Se soffre e non dispera.
Se ha visto il Lega fare il suo bisogno
In galera! In galera !
SERMONE DI NATALE
O
Messia profetato ai sofferenti,
Pietoso un dì consolator del mondo,
Inutilmente ormai torni alle genti.
Bambino biondo!
Non è pili il tempo in cui l'amor potea
Illuminar le menti e incender l'alme.
In cui per te Gerusalemme avea
Osanna e palme.
O dilettose al cor notti stellate
De' colli galilei sui dolci clivi,
Tra il canto delle donne innamorate.
Sotto gli ulivi;
O susurranti al sol gaie fontane,
Di solinghi riposi allettatrici.
Cui sale la canzon delle lontane
Spigolatrici ;
ARGIA SBOLENFI
O vigne d'Israel che i dolci frutti
Maturaste all' umìl schiera seguace,
Voi non r udrete più chieder per tutti
Giustizia e pace!
E tu, benigno, che a cercar scendevi
L'agnel che si smarrì nella campagna
E l'Evangelo dell'amor dicevi
Sulla montagna,
Guarda! Un'idolatria cauta e discreta
Agli Apostoli tuoi cresce 1' entrate.
Pietro che ti negò batte moneta;
Tommaso è frate.
II sangue che grondò dalla tua croce
Oggi feconda 1' odio e non 1' amore,
Presso al complice aitar veglia feroce
L' inquisitore.
L'astuta ipocrisia dell'egoismo
Che la ragion all' util suo sommette,
Distilla -le bugie del catechismo
Nelle scolette
E nella Chiesa che chiamar non sdegna
Santo l'inganno e la menzogna pia,
Angelico Dottor, Barabba insegna
Teologia.
19© ARGIA SBOLENFI
Perchè tornar se alla novella pena
Oggi trarresti inutilmente il fianco?
Più balsami non ha la Maddalena
Pel rabbi stanco.
Non si ricorda più d' averti amato,
Ma, isterica romea, col bacio scende
Al laido pie che, del tuo nome ornato,
Caifa le stende:
E colei che chiamar madre ti piacque
E nel sepolcro il corpo tuo compose,
Or vezzeggia i clienti e vende l'acque
Miracolose.
Fuggi, fuggi da noi, bambino biondo:
Torna piangendo dal presèpe al cielo,
Il Sillabo di Pio cacciò dal mondo
Il tuo Vangelo.
Dall'avarizia vinta e dal peccato
La tua fede mori povera e nuda
Oggi nel nome tuo regna Pilato,
Governa Giuda.
ALLE MADRI
Dedicato
ad Anna E.
M=
Ladri, lo ricordate il di sereno
In cui d' amore il pegno
La prima volta nel fecondo seno
Vi die di vita un segno?
Con che orgoglio gentil del grembo incinto
AUor vi compiaceste!
Come la culla col materno istinto
Morbida gli faceste?
E poi che al suo vagir tacque il dolore
Del fianco insanguinato,
Con che speranze, o madri, e con che cuore
Benediceste il nato,
E nutrito di voi lo riscaldaste
Stringendolo sul petto,
E se morte il ghermia, glielo strappaste
Col prepotente afl'etto!
192
Lo cresceste così, biondo fanciullo,
Sovra i vostri ginocchi,
Vegliando il primo passo e il suo trastullo
Con l'anima negli occhi.
E speraste veder l'ore supreme
In braccio a lui più liete...
Quanto amor, quanti baci e quanta speme,
O madri che piangete!
Ed ora? I vostri figli a mille a mille
Cadder lungi da voi
Perchè un ladro impazzito e un imbecille
Si son creduti eroi.
E vi tentano ancor, gli scellerati.
Con le astute parole,
I\Ia i cadaveri nudi e mutilati
Si putrefanno al sole.
Ma già dai loro immondi antri, le iene
Calando irsute e scarne.
Leccano il sangue de le vostre vene,
•Straccian la vostra, carne!
E il delitto cadrà nel grave oblio
In che ormai tutto iangue?
No, levatevi voi, donne, perdio.
Raccogliete quel sangue,
ARGIA Sr.OLEXFl I 93
Gettatelo ululanti e scapigliate
Dei colpevoli in faccia;
Quando il giorno verrà, non dubitate,
Ne troverem la traccia ;
E dite agli altri, o neghittosi o incerti :
« Pietà di noi vi prenda !
« La postra patria è qui, non nei deserti
« Dell' Abissinia orrenda.
«Pietà, chiediam pietà, madri dolenti,
« Figlie, sorelle, spose ;
«Pietà, per gl'insepolti e pei morenti
"Su l'Ambe sanguinose!
« Non tolga vite ai campi, a le officine
« La conquista rapace.
« La nostra patria è qui. Datele alfine
«La giustizia e la pace!»
Dite così. Ma se domani ancora
Tripudieranno i ladri
E moriranno gl'innocenti, allora,
O dolorose madri,
Non porgete più latte al mite Abele
Che s'acconcia al destino.
Ma raccogliete ne le poppe il fiele
Per allevar Caino.
Sbolenji - i'
AGLI EROISSIMI
G
insti della fallila Apocalissi,
Marci Porci Catoni, in questo errai:
Che delle birberie forse ne scrissi,
Ma non ne feci mai.
Oh, se n' avessi fatte, e io potevo.
Di che frasche m'avreste incoronata!
Un'abiura, e tra i grandi anch'io sedevo.
Illustre deplorata
Ma l'arte di lustrar le scarpe ai ladri
Curvando il dorso, mi negò natura;
Perciò gridate che incitai le madri
A strillar di paura.
Chi parla di viltà? Chi con gagliarde
Frasi, dopo il cafle, facil tribuno.
Povere donne, vi chiamò codarde
Perchè vestite a bru;iu'
. ARGIA SliOI.F.NKI TQj
Chi fumando in poltrona, empie i giornali
Di vendette, di stragi e di rovine,
Da la ciambella moderando l'ali
Dell'aquile latine?
Chi dei debiti nuovi alla conquista
Le apostrofi all'onor guida in falange
E soggioga lo Scioa dal liquorista.
Insultando chi piange?
Ah, siete voi ! Salute, o ben pensanti.
In cui l'onor s'imbotta e si travasa;
Ma dite un po', perchè gridate «avanti!»
E poi restate a casa?
Perchè, lungi dai colpi e dai conflitti,
Comodamente d'ingrassar soffrite,
Baritonando ai poveri coscritti
«Armiamoci e partite!»?
Partite voi, se generoso il core
Sotto al pingue torace il ciel vi diede.
O Baiardi, è laggiù dove si muore
Che il coraggio si vede.
Non qui tra le balorde zitellone,
Madri spartane di robuste prose,
Che clìieggon morti per compor corone
D'alloro, ahi, non di rose!
196 ARGIA SliOIKNFl
Ma no, non partirete! A questi tempi,
Se dovesse mancar « la parte sana ».
Chi resterebbe a predicar gli esempi
Della virtù romana?
Chi resterebbe a consolar coi detti
Le vedove beltà che il bruno adorna?
Chi lì farebbe i brindisi ai banchetti
Per chi parte o chi torna?
Ah, forti Alaci della guerra a fondo,
Ussari della morte, ah, non tentate
D'uscir di qui per conquistare il mondo,
Perchè, se ve ne andate,
Forse la vigna che godeste voi'
Fruttar potrebbe ad operai più scaltri...
No, restate, restate a far gli eroi
Con la pelle degli altri !
QUANDO
IL MUNICIPIO DI BOLOGNA
FESTEGGIÒ LA B. V. DI S. LUCA
ESPONENDO I CENCI ANTICHI
PER INVITO DEI CLERICALI
MASCHI E FEMMINE
D,
'iooiio — Gesù mio, qiiatito scliiainaz/.n
Per due vecchi tappeti!
Nemmen se ritornassero in Palazzo
Gli Svizzeri ed i preti !
I contadini a non vederli esporre
Ci credevan birbanti; .
Sono elettori anch'essi e quando occorre
Votan pei ben pensanti.
Che v'importan quei cenci o i Credi fatti
Recitar nelle scuole?
Siam liberali. Non badate agli atti,
Badate alle parole. —
Rispondono — I tappeti alla ringhiera
Non son stracci e cimosa;
Cencio di pochi palmi è una bandiera,
Ma vuol dir qualche cosa.
O le liste da chi furono empiute
E da chi consigliate?
Voi ci diceste: non le abbiam vedute;
E pur lo sapevate!
Confessatelo, via, siate leali,
Poiché non siete scaltri
Voi pascete di fumo i liberali
E d'arrosto... quegli altri. —
Ma v'è chi dice — Ecco, Bisanzio ancora
Con le ciarle si regge
Dei cento legulei della malora
Che gli falsan la legge.
Lasciamoli cianciar del più e del meno,
Lasciamoli garrire;
Noi guardiamo piìi in alto, ad un sereno,
Ad un santo avvenire.
ARGIA SBOLICNFI . lOq
Noi guardiamo ]iiù in alto e questa bassa
Miseria non ci tangc,
Con Ijen altra eloquenza il cor ci passa
La voce di chi piange!
Ma quando il pianto cesserà e verranno
Ben altre feste, allora
Quelle coltri lassù riscalderanno.
Il letto a chi lavora. —
L'IDILLIO DI ORLANDO
Che non può far d'un cor ch'abbia soggetto
Questo crudele e traditore Amore,
Poiché ad Orlando può levar dal petto
La tanta fé che debbe al suo J^ignore!
Ariosto, Ori. Fur., C. IX, I.
A
pparia tremolando all'orizzonte
La tenue luce della nuova aurora
E la vaghezza delle rosee impronte
Crescea più viva coìl' andar dell'ora,
Quando, sul fido Brigliadoro, il Conte
Uscì pensoso di Baldacco fuora
E d'ignoti sentier sull'erba molle
Lentamente discese il verde colle.
Come giovine sposa, allor che il sole
Fra le cortine del balcon s'affaccia,
Lascia lenta le coltri e volger suole
Al conscio letto con desio la faccia,
' Ma, rivestita poi, non più si duole
Rimemorando i baci e il sonno scaccia,
Indi lieta intrecciando il crin disciolto
Canta allo specchio e amor le ride in volto;
ARGIA SBOLEMFI
La natura così malvolentieri
Dai notturni riposi uscir parea
Semivelata dai vapor leggeri
Che lenta l'aura del mattin movea,
Ma poi ridesta e de' color primieri
Rifiorendo col dì, tutta frcmea
In un gaudio fecondo, in una ebbrezza
Di gioventiì, d'amore e di bellezza.
Non sgomentati del cavallo ai passi
L'inno di gioia ripetean gli augelli
Pareano susurrar tra l'erbe e i sassi
Giocondi epitalami anche i ruscelli,
E i caprifogli pendali dai massi,
Scotendo i rami a guisa di capelli,
Gocciavan perle di sottil rugiada
Sulle nozze de' fior lungo la strada.
Nel tripudio d'amor ringiovanita
La pianura parca tutta un giardino
Che vaporasse tepida e squisita
La fragranza de' fiori al ciel turchino.
Sì che pien di desìo, gonfio di vita,
S'apriva il chiuso cor del Paladino
E conquisa cedea l'anima fiera
Alle lusinghe della primavera.
Dimenticò Re Carlo e i suoi baroni
E il santo gonfalon del fiordaliso,
I giganti le lati e gli stregoni,
Gano schernito ed Agramante ucciso.
Dimenticò gli assalti e le tenzoni
Tra lo stuol battezzato e il circonciso
E vide col pensier mille rosate
Imagini di donne innamorate.
Rivide Olimpia, olVerta all'esecrando
Mostro, chieder mercè nuda e tremante
E passar sorridendo e sospirando
Fiordispina, Isabella e Bradamante.
Vide Marfisa non curar pugnando
Le salde nudità del petto ansante
E d'Angelica sua gli occhi procaci
Languir di gaudio di Medoro ai baci.
Allor si sentì solo e in cor gli scese
Gelida un'onda di malinconia.
Tal che a se stesso dubitando chiese
Se la gloria non fosse una pazzia;
Ed una voce in fondo al core intese
Dirgli: «Che vai la tua cavalleria,
« Che valgon le tue gesta e il tuo valore
«Senza un bacio di donna e senza amore?
ARGIA SBOI.EN'M 203
Discendeva così fantasticando
Intorno a questa sua doglia novella,
e sospirava fieramente, quando
"Vide dal bosco uscire una donzella
Che raccogliendo fior venia cantando
Soavemente, e la persona bella
Di tal vivo desio lo prese e punse
Che spronò Brigliadoro e la raggiunse.
Si trasse l'elmo, dall' arcion si sporse
E con voce tremante amor le chiese.
Lentamente a mirarlo il viso torse
La giovinetta ed a sorrider prese.
L occhio le scintillò, ma quando scorse
La croce sull'usbergo e sul pavese,
La scintilla si spense ed il sorriso
Subitamente le sparì dal viso.
E disse: « Cavalicr, tu porti in petto
« Del Dio che adori il segno e la dottrina.
«Tu segui Gesìi Cristo, io Maometto;
«Tu sei di stirpe Franca, io Saracina;
«Io cingo fiori al capo e tu l'elmetto,
«Tu sci nato possente ed io tapina;
«Vanne e ti basti sol ch'io ti confessi
«Che t'amerei se tu a Macon credessi».
204 ARGIA SBOLENFI
Oh, come lieti tra le verdi fronde
Cantavano gli augelli i novi amori,
Come all'aura d'aprii le rubiconde
Corolle aprivan tripudiando i fiori.
Come splendeano al sol le chiome bionde,
Come ridevan gli occhi incantatori,
Allor che il Paladin vinto si diede
E per un bacio rinnegò la fede!
AI REDUCI DALLO SCIOA
Q
uando spuntar vedrete all'orizzonte
Questo suol benedetto e sospirato
E la brezza natia su l'arsa fronte
Il bacio vi darà del ben tornato;
Quando in folla calar vedrete al lido
I cari vostri a salutar le prore,
E il dolce vento de la patria il grido
Vi porterà de 1' aspettante amore ;
Quando nel cor di rimembranze pieno
L'impeto cesserà de la tempesta
E, consolati, sul materno seno
Riposerete alfin la stanca testa;
Se vi parrà d'udir fioco un lamento
Che seco il pianto e la tristezza porti
Ascoltatelo pur senza sgomento;
Quella è la voce dei compagni morti.
206 ARGIA SEOLKNFI
Che dice: — «All'avvenire sorridevamo
«Quando il destino ci portò con lui
« Ed ecco elle con voi non ritorniamo,
« Noi mal sepolti ne la terra altrui.
« Ma, dite, la giustizia alzò il flagello
«Su gli eroi da poltrona e i paladini?
« Chi come bestie ci cacciò al macello,
«Il supplizio subì degli assassini?» —
Voi rispondete: — «Ahimè, dormite in pace
«Del triste campo nel silenzio enorme
« Qui dei delitti la memoria tace,
« Qui stipendiata la giustizia dorme.
« Sovra i tumuli vostri erra feroce
« La iena e ne la notte urla il leone,
« Ma gli eroi da poltrona hanno la croce
« E gli assassini vostri han la pensione ».
NOTTE D'AUTUNNO
Anfiiria il vento e nella bieca notte
Fredda la piova incalza.
L'acqua che stroscia dalle gronde rotte
Sui ciottoli rimbalza.
Entro l'oscurità profonda e vuota
Delle vie taciturne
Guizzan, specchiate nell'immonda mota,
Le fiammelle notturne,
E nel sordido fango e nel pattume
Putrefatto del suolo,
Miserabile spettro, agita il lume
E fruga il ciccaiolo.
Quand'ecco dal silenzio esce il lontano
Scalpito d' una rozza
E tra la pioggia, il vento ed il pantano,
Appare una carrozza
208 ARGIA SBOLENFI
Che in un dirugginìo di chiavistelli
Trabalza oscenamente,
Col profilo dei birri agli sportelli
E le lanterne spente.
E il ciccaiol che vive razzolando
Nel brago e nel fetore,
Sente lo schifo e brontola sputando:
«Passa un commendatore!»
IL MIO CUORE
Li mio cuore è uno scrigno di velluto
.Che con sette sigilli è sigillato.
Molti voller saperne il contenuto.
Ma nessun finor l'ha indovinato.
Lungamente il segreto ho mantenuto
E il labbro come il cor tenni serrato,
Ma più a lungo tacer non ho potuto
Ed i sette sigilli ho lacerato.
Sappiate dunque che nel cor segreto
Chiudo i ricordi del tempo remoto,
I fiori secchi dell'aprii mio lieto,
Fra cui quest'oggi, per gentile invito,
Scesi a frugar con l'animo devoto
Per cavarne un sonetto impallidito;
Sboleiijì - i6.
2IO ARGIA SBOLENFI
Un povero sonetto impallidito,
Fior dell'anima mia morto e seccato,
Che tra le foglie sue reca smarrito
Come un lontano odor del mio passato,
Come un ricordo vago e scolorito,
Un'eco lieve del tempo beato,
Un rimpianto profondo ed infinito
Di tutto quel che in giovinezza ho amato.
Ed ecco che il sonetto esce discreto
Da .la prigion dove dormiva ignoto
E rivede tremando il mondo lieto.
Va dunque, o mesto fior da me cresciuto.
Porta a chi m'ama del mio core il voto,
Ed a chi m'odia porta il mio saluto.
PARLA IL LIBRO
Oon la lontana che nasce sui monti
Limpida e gaia tra i sassi sonanti,
Fresco ristoro di greggi vaganti,
Vergine ancora di muri e di ponti,
E che, ingrossata da torbide fonti,
Bagna e feconda le valli aspettanti,
Poi, ferma in larghe paludi stagnanti.
Vapora febbri nei grigi tramonti ;
Indi travolta a città pestilenti,
Livida inghiotte le salme dei vinti
E scalza e scuote le reggie possenti,
Finché gli spazi del mare raggiunti,
Tra i flutti eterni dal vento sospinti
Si perde e gode l'oblio dei defunti.
COMMIATO
wJecoletto borghese,
Ecco il libro finì. Chiudilo in pace.
Degno di te lo rese
Quell'arte che ti meriti e ti piace.
INDICE
Prefazione Pag. vii
LIBRO PRIMO - Lk Crktine
Sz descrive un vago de<iio . . . . Pag. 3
La ballata del Re Moro * 5
Sonetto contro un anonimo che ci fece la
bìirla del telegramma .... ^ 7
Si descrive tm temporale nel deserto . . » 8
La mia ghirlanda poetica .... » 9
La battaglia di Sadova > 1 1
Si duole di essere abbandonata dall'amante » 13
La romanza del paggio » 14
Risiirretione » 16
// lamento del prigioniero . . . . » 18
214 INDICK
Pianto della rhiesn holognesf senza pastore Pag. 20
Tempesta in mare » 21
Per la caduta di Palamidone . . . » 25
Alla poetessa Argia Sbolenfi (Proposta) . » 26
A Edra Coprndite, pastore arcade \VJ\.\^\iO%\.^\ » 27
Si compiace delle prossime nozze . . . » 28
Egloga » 29
Si set/sa per avergli mostrato poco rispetto » 34
S/'ogo contro colui * 35
Ave Crnx! » 37
L' apparizione » 3^
/// disprezzo di uno spasimante ...» 40
Confida le sue pene alla Beata Vergine . » 41
Iti dispregio della i/nnro/ida rana . . » 42
Favolettc inorali » 43
Il gentil cavaliero » 56
; Fobie Carlos ! » 5^^
La. risposta della figlia maledetta , . » S''
Si descrive una rustica cappella ... «03
Inno al salame » 65
Lamento » 08
LIBRO SECONDO - Le Decadenti
- P^g. 73
Anacreontica » 74
L'alba ^ 7(j
/// fnare 77
La capretta » 78
In bicicletta » 79
Ad un orologio gitnsto » 8 1
A lìii » 82
/•,' vero! » 83
Affetti di lina pellegrina all' Aìigutlo
Vegliardo » 84
La ballata del cavali cr discorte^e . . » 85
Sonetti mitologici » 88
Zff rovina del Sasso >> g4
Sonetto » M5
Al ?nio de <:l riero .... . . » tjO
Ode farmaceutica » 98
Ode ostetrica » 103
kat:::o » roS
Htinyadi Jànos » lio
Nel bagno ( Ode ) * 1 1 3
2l6 INDICE
A ìin vaso nuovo di porcellana Ginori . Pag. 1 1 6
Ai colleghi » 119
« Nascituro * » 1 20
Al vescovo di Seboim » 125
« Eìt rev' naiìt d' la revite » . . , » 128
Le elezioni di Milano (i8gs) . . . » 129
Dea crepitili sacrum » 131
Fantasia egiziana » 136
Le visite al Cardinale » 138
Satnbuci _. . » 143
A Venere genitrice » 145
// primo capello bianco » 1 50
Sonetti decadenti » 152
Morbus » 160
Elezioni . . » 1 65
Dopo il plico » 169
Da capo » 172
Primo Maggio MDCCCXCV . . . » I77
Novembre » 180
Mentre partono » 181
Alpini ' » 184
Ultime 7totizie » 185
Piscicoltura » 186
Sermone di Natale » 188
INDICE 2 I 7
Alle madri Pag. 19 1
Agli croissimi » 194
Coltrici festive » 197
L'idillio di Orlando » 200
Ai reduci dallo Scioa » 205
Notte d'autunno » 207
// tnio cuore » 209
Parla il libro » 2 1 1
Coni7niato * 212
Finito di stampare
il giorno 12 Settembre ig20
negli Stabilimenti Poligrafici Ritmiti
in Bologna
»*
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