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Full text of "Rivista di filologia e di istruzione classica"

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RIVISTA 


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DI  FILOLOGIA 


D'ISTRUZIONE  CLASSICA 


"DIUETTO'KI 

G.  MiJLLER  e  D.  PEZZI 


j^lsTlsrO  IPIEòin^LO 


i^y^A 


ROM\     TORINO     FIRENZE 

ERMANNO    LOESCHER 

18713. 


Torino    -  Tipografia  Bona 

PA 

9 
•RS5 

v.i 


irs"r>IOB  OELLE  ]VtATI±lT^IEJ 


I  Direttori.  Proemio pag.        \ 

Linguistica 

I.  Linguistica  in  genere  e  linguistica  greco-latina  in  ispecie. 

GoRREsio  G.  Lettera  ai  Direttori  della  1(jvista  intorno  al  signi- 
ficato del  nome  drrds  .          .         .         .        .        .         .  pag.  5 

Inama  V.  Osservazioni  sulla  teoria  della  coniugazione  greca  149 

Oliva  G.  Grammatica  greca  per  le  scuole  di  Vigilio  Inama      »  76 
Id.        Dizionario   italiano-greco   compilato  per  le  scuole  da 

F,  Brunetti »  268 

Id.        Cenni  sulla  sintasiii  della  lingua  greca.                         »  3o( 

—  id.                        id.                                .        .        ..  341 

—  id.                         id.                                  .                 »  480 

—  id.                        id.                                         .        ..  5i8 
Id.        Grammatica  elementare  della  lingua  greca  secondo 

il  metodo  di  G.  L.  Burnouf,  nuova  edizione  rifusa  ed  am- 
pliata per  opera  di  O.  Berrini "     594 

Pezzi  D.  La  déclinaison  latine  en  Gauleà  l'epoque  Mérovingienne, 
étude  sur  les  origines  de  la  langue  fran9aise  par  D'Arbois  de 
Jubainville  .35 

Id.        I  pretesi  genitivi  singolari  dei  temi  latini  in -0-  .        >.     loi 
Id.        Die  ergebnisse  dei-  sprachwissenschaft  von  Braun.    — 
Aperfu  general  de  la  science  comparative  des  langues  (2«» 
ed.)  par  Benloew.  —  Instructions  pour  l'étude  élémentaire 
dela  linguistique  indo-européenne  par  Hovelacque  »     17$ 

II.  Linguistica  neo-latina. 

D'Ovidio  F.  Glottologia  neolatina,  lettem  al  sig.  prof.   Flechia   »  «54 

id.         Lingua  e  dialetto ■>  564 

Flechia  G,  Sull'origine  dell'unica  forma  flessionale  del  nome 

italiano,  studio  di  Francesco  D'Ovidio  .         .        .         .        »  8q 


IV 


Flechia  G.  Osservazioni  alla  lettera  del  signor  F.  D'Ovidio  (Glot- 
tologia neolatina)  al  prof.  Flechia  ....  pag.  260 
Id.  Saggio  della  storia  della  lingua  e  dei  dialetti  d'Italia 
con  un'introduzione  sopra  l'origine  delle  lingue  neolatine 
del  dottore  Napoleone  Caix.  —  Rivista  di  filologia  romanza, 
diretta  da  L.  Manzoni,  E.  Monaci,  E.  Stengel  .  .  »  38o 
Pezzi  D.  Dell'origine  della  voce  sarda  Nuraghe,  congetture  eti- 
mologiche di  G.  Flechia »     145 

Vegezzi  Ruscalla  G.  Rettificazione  di  un'erronea  asserzione  di 

A.  G.  Schlegel >.      a8 

Id.        Di  un  articolo  pleonastico  dell'antico  provenzale    .        •>     ii5 
Id.        Traité   de  versification  francaise  par  G.  Weigand      »     201 

Filologia  classica 

I.  Filologia  greca. 

Bertini  G.  M.  Saggio  sul  Clitofonte,  dialogo  attribuito  a  Platone  »    457 
Coen  A.  Osservazioni  sopra  un  passo  dell'Anabasi  di  Senofonte  »    2o5 
CoMPARETTi  D.  Aristofane,  Le  à^ubi,  con  note  italiane  e  intro- 
duzione di  Achille  Coen »      72 

Giacomino  C.  Studien  zu  Aeschylus  von  N.  Wecklein       .        »     366 
MuLLER  G.  Die  Strafe  des  Tantalus  nach  Pindar   von  profess. 

D.  Comparetti "30 

Id.        'OXoqpiXou  '€pttiTeXo;  xal  '€pacT)n{a,  storia  greca   trovata 

e  volgarizzata  da  Innocente   Demaria     .        ...»      32 
Id.        Aus   dem  Reiche  des  Tantalus  und  Croesus  von  Dr. 

K.  Bernard  Stark "129 

Id.        Kurzgefasste   Geographie  von  Altgriechenland  von  A. 

Buttmann >     i83 

Id.  Elementi  di  grammatica  greca  ad  uso  delle  scuole.  — 
EevoqpufVToq  Kùpou  traiòela.  Adnotationibus  et  iilustrationibus 
auxit  Angelus  Tummolo,  presb.  Neapol.  —  Biblioteca  utile 
alla  interpretazione  dei  Classici  greci  e  latini,  versione  dal- 
l'originale tedesco  con  aggiunte  del  prof.    B.  Zandonella  e 

F.  nob.  Cipolla »     273 

Id.        Godofredo  Hermann -     297 

Peyron  B.  Notizia  di  un  antico  Evangeliario  Bobbiese,  che  in 
alcuni  fogli  palirapsesti  contiene  frammenti  d'un  greco  trat- 
tato di  filosofia "53 

Thomas  G.  M.  L'influsso  continuo  dello  spirito  greco  sul  pro- 
gresso del  genere  umano »    210 

II.  Filologia  latina. 

Rarco  G.  Frammenti  d'iscrizioni    etrusche   scoperte  a   Nizza. 

Nota  del  prof.  A.  Fabretti .•     100 


BooT  I.  e.  G.  Restaurazione  di  un  epitafio  romano  .        ,  ]pag.    557 
Carutti  D,  Due  varianti  alla  satira  di  Sulpicia    .        .        .        >.     i25 
Id.        Nicolai  Heinsii   Italica.  E  poematum  editione  Elzevi- 
riana a  poeta  passim  correcta  edidit  I.  C.  G,  Boot         .        »     142 
Id.        Della  distinzione  tra  i  Britarmi   o    Brittoni  dell'isola 
e  i  Britanni  o  Brittoni  del  continente  e  della  sede  di  questi 
ultimi  nelle  provincie  dell'impero  romano.  Dissertazioni  tre 

di  Vincenzo  De-Vit »     282 

CoMPARETTi  D.  Nonii  Marcelli  peripatetici  turbursicensis  de 
compendiosa  doctrinaad  filium,  collatis  quinque  pervetustis 
codicibus  nondum  adhibitis  cum  ceterorum  librorum  editio- 
numque  leciionibus  et  doctorum  suisque  notis  edidit  Lud. 

Quicherat »     i38 

Flechia  G.  Primo  supplemento  alla  raccolta  delle  antichissime 
iscrizioni  italiche  con  l'aggiunta  di  alcune  osservazioni  pa- 
leografiche e  grammaticali  di  A.  Fabretti        ..."       33 
Id,        Sulpiciae  Caleni  Satira.  Recensuit  Dominicus  Carutti  »      41 
Id.        Ephemeris  epigraphica,   corporis  inscriptionum   lati- 
narum   supplementum,  edita  iussu  Instituti   Archaeologici 

Romani »     i35 

Gandino  G.  B.  Osservazioni  critiche  intorno  all'Argomento  acro- 
stico del  Miles  Gloriosus  di  Plauto        .  .        .         »    415 
Grion  G.  Ad  Alexandri  Magni  itinerarium  coniecturae        .        >«     553 
Jeep  L.  L'autore  del  poema  Laudes  Herculis      .        .        .        »>    405 
Id.        Aurelii  Victoris  de  Caesaribus  Historia  e  l'Epitome  de 

Caesaribus »     5o5 

Id.  Quaestiones  onomatologicae,  scripsit  Otto  Sievers. — 
De  actorum  in  fàbulis  Terentianis  numero  et  distributionc, 

diss.  Curtius  Steflen »     600 

MoMMSEN  T.  Di  un'iscrizione  graffita  nel  Museo  d'antichità  del- 
l'Ateneo torinese      .        .  .  .        .        »     122 

Id.        Su  alcuni  punti  della  geografia  del  Piemonte  antico, 
lettera  a  Carlo  Promis     .        .  ....        »    249 

Pezzi  D.  Histoire  de  l'éloquence  latine  depuis  l'origine  de 
Rome  jusqu'à  Cicéron,  d'après  les  notes  de  M.  Adolphe 
Berger,  réunies  et  publiées  par  Victor  Cucheval    .  »      39 

Id.  Grundriss  der  romischen  Litteratur  von  Bernhardy.  — 
Geschichie  der  romischen  Literatur  von  Teuffel.  —  Storia 
critica  della  letteratura  romana  di  Errico  .  »     191 

Id.        DieAnnalendesTacituskritischbeleuchtetvonPfitzncr  »     247 
Vitelli  G.  Studi  su  Claudiano  di  Lud.  Jeep       ...»     33o 
Id.        Acta  societatis  philologae  lipsiensis  ed.  Fr.  Ritschelius  »     334 

Pedagogica 

Commissione  d'inchiesta  sull'istruzione  secondaria  a  Torino. 
Risposte  della  Facoltà  torinese  di  filosofia  e  lettere  ad  alcuni 
dei  quesiti  da  si  fatta  Commissione  proposti        .        .        »     614 


VI 

CoNESTAEiLE  G.  C.  SuU'insegnamento  della  Scienza  delle  An- 
tichità in  Italia paf^.     541 

pEzzr  D.  Consideraziorc.  sull'istruzione,  soprattutta  classica,  in 
Italia,  a  proposito  ciel  recentissimo  libro  di  M.  Bréal  sul- 
l'istruzione pubblica  in  Francia '9 

—  id.  id.  »     225 
id.                              id.  u     3  IO 

—  id.  id.  »    432 
_                              id.                              id.                                   »     584 
id.   La  grammatica  storico-comparativa  e  l'insegnamento  gin- 
nasiale delle  lingue  classiche  giusta  M.  Bréal        .        .        »     552 

Thomas  G.  M.  Parte  presa  nel  Consiglio  de'  Pregadi  in  Venezia 

intorno  agli  sludii  delle  belle  lettere      .  .         .         ■>     126 

Zambalbi  F.   La  Commissione  d'inchiesta  sulla  istruzione  secon- 
daria a  Roma »    498 

Varietà 


Bertini  G.  M.  Alcuni  appunti  in  servigio  dei  futuri   editori  di 

traduzioni  italiane  di  prosatori  greci     ....>■       24 
Id.        Aristotelcs   oder  iiber    das  Gesetz  der  Geschichtc  von 

H    Doergens     .  .338 

Fi-ECHiA  G.  Reliquie  celtiche  raccolte  da  Costantino  Nigra  .        »      47 
LuMBROso  G.  Carlo  Promis   (necrologia)     .         .  .        »    604 
Oliva.  G.  Die  Cultur  der  Renaissance  in  Italien  von  J.   Burc- 
khardt        >     286 

Notizie    . .       '  »      49 

Id »    204 

ìd. "    3oo 

Id.       . ..504 


DEGLI    SCRITTORI    DELLA    RIVISTA 


BARCO  Giovanni  Battista,  professore  nel  Ginnasio  Monviso  in  Torino. 

BERTINI  Giovanni  Maria,  professore  nell'Università  di  Torino. 

BOOT  I.  C.  G.,  segretario  dell'Accademia  delle  Scien,Te  ad  Amsterdam. 

CARUTTI  Domenico,  deputato  al  Parlamento. 

COEN  Achille,  professore  nel  Liceo  di  Livorno. 

GOMPARETTI  Domenico,  professore  nell'Istituto  di  studii  superiori 

a  Firenze. 
CONESTABILE  Gian  Cario,  professore  dellUnìversità  di  Perugia. 
D'OVIDIO  Francesco,  professore  nel  Liceo  di  Bologna. 
F  LEGHI  A  Giovanni,  professore  nell'Università  di  Torino. 
GANDINO  Giovanni  Battista,  professore  nell'Università  di  Bologna. 
GIACOMINO  Claudio,  professore  nel  Liceo  di  Sondrio. 
GORRESIO  Gaspare,  prefetto  della  Biblioteca  dell'Università  di  Torino. 
GRION  Giusto,  preside  del  Liceo  di  Verona. 
IISAMA  Vigilio,   professore   nell'Accademia    scientifico-letteraria  di 

Milano. 
JEEP  Ludovico,  professore  nel  Collegio  Tommaso  in  Lipsia. 
LUMBROSO   Giacomo,    membro  dell'Accademia    delle    Scienze  di 

Torino. 
MOMMSEN  Teodoro,  professore  nell'Università  di  Berlino. 
MÙLLER  Giuseppe,  professore  nell'Università  di  Torino. 
OLIVA  Gaetano,  professore  nel  Liceo  di  Rovigo. 
PEYRON  Bernardino,  bibliotecario  onorario  della  Biblioteca  dell'Uni- 
versità di  Torino. 
PEZZI  Domenico,  dottore  aggregato  alla  Facoltà  di  filosofia  e  lettere 

dell'Università  di  Torino. 
THOMAS  Martino,  bibliotecario  della  Biblioteca  di  Corte  e  Stato  in 

Monaco  di  Baviera. 
VEGEZZI    RU5CALLA   Giovenale,    dottore  aggregato  alla    Facoltà 

di  filosofia  e  lettere  dell'Università  di  Torino. 
VITELLI  Girolamo,  dottore  in  lettere. 
ZAMBALDI  Francesco,  professore  nel  Liceo  e  nell'Università  di  Roma. 


PROEMIO 


Rinata  ad  indipendenza  ed  a  libertà,  Tltalia,  profonda- 
mente conscia  del  proprio  dovere,  sente  e  comprende  quanto 
manchi  ancora  alla  sua  perfetta  redenzione,  e,  anelando  a 
risorgere   intellettualmente,  deplora  la  decadenza  di  quegli 
studi  che  la  onorarono  cotanto  nei  secoli  della  sventura.  Le 
nobili  parole,  che  intorno  a  si  grave  argomento  testé  si  udi- 
rono nell'assemblea  rappresentante  il  popolo  italiano,  non 
furono  se  non  Teco  delle  lagnanze  e  dei  voti  delfltalia  che 
medita,  che  ricorda,  che  teme  un  avvenire  nell'ordine  eccelso 
della  scienza  e  dell'arte  troppo  da  meno  che  il  suo  grande 
passato.  Ed  a  temere  ci  costringe  in  fatti  la  rarità  e  per  lo 
più  eziandio  la  sterilità  del  vero  sapere  classico,  già  sì  fre- 
quente, sì  vasto  e  profondo  e  gloriosamente  operoso  fra  noi-, 
e  la  poca  fecondità  dello  insegnamento  delle  lingue  e  delle 
lettere  greche  e  latine  ne'ginnasii,  ne' licei  e  nelle  università 
italiane:  che  rade  volte  la  scienza  discende  alla  scuola  e  questa 
a  quella  si  eleva.   E  siccome  lo  studio  filologico  è  presso  i 
popoli  più  colti,  e  debb^essere,  il  principalissimo  fra  gli  eser- 
cizii  con  cui  negl'istituti  didattici  si  svolgono  le  facoltà  intel- 
lettuali delle  nuove  generazioni,  così  si  scorge  quanto  lo  sca- 
dimento di  esso  sia  funesto  airintera  educazione  della  gio- 
ventù. Fiera  minaccia  alla  vita  intellettuale  di  qualsiasi  nazione 

lijvist4  di  Jìlologia  ecc  ,  I. 


-  2  — 

civile  sarebbe  pertanto  la  crescente  trascuranza  delle  disci- 
pline classiche  :  pili  fiera  ancora  all'Italia,  a  Roma.  F'orsechè 
occorre  rammentare  a  questo  paese  ricco  di  tradizioni  e  di 
monumenti,  a  questo  paese  segnato  ancora  dalle  orme  del- 
l'antica civiltà  greco-latina,  quanto  numerosi  e  stretti  siano  i 
legami  che  con  questa  l'avvincono,  e  quanto  più  che  in  ogni 
altra  contrada  qui  e  sul  sacro  suolo  dell'Eliade  la  scienza 
della  vita  greca  e  latina  sia  parte  importante  del  sapere  storico 
ed  il  culto  dei  linguaggi  e  delle  letterature  classiche  neces- 
sario strumento  di  educazione  intellettuale  e  morale?  La  co- 
scienza di  ciò  ch'ella  è  e  di  ciò  che  fu  impone  all'Italia,  civil- 
mente e  politicamente  risorta,  di  ridestare  ne'suoi  figli  l'amore 
della  bellezza  e  della  sapienza  immortale  ch'ebbero  a  tempii 
non  perituri  Atene  e  Roma.  Ma  non  la  illuda  l'orgoglio  colla 
folle  speranza  di  bastare  a  sé  stessa  e  collo  spregio,  stolta- 
mente superbo,  dell'opera  altrui.  Fra  il  lungo  e  vario  volgersi 
delle  sorti  umane,  genti,  che  un  giorno  ella  chiamò  barbare 
e  nemiche,  le  divennero  maestre  e  sorelle  :  confessi  con  socra- 
tico candore  la  propria  inferiorità  ed  impari  da  loro  ;  impari 
con  libera  mente  e  senza  ossequio  servile  (come  si  addice  a 
lei  che  insegnò  al  mondo  due  volte),  ma  senza  miserabili  in- 
vidie e  col  puro  amore  del  vero;  impari  e  produrrà  maestri 
pari  ai  più  insigni  fra  gli  odierni  stranieri,  ne  è  pegno  il  suo 
passato  e  lo  splendido  esempio  di  qualche  italiano  nostro 
contemporaneo.  Emuli  la  Germania  nell'ardire  magnanimo 
delle  nuove  investigazioni  scientifiche  e  delle  riforme  didat- 
tiche :  ma  si  ricordi  ognora  che  indarno  tende  al  vero  chi 
non  ha,  scorta  sicura,  l'arte  del  metodo,  e  chi  non  prende 
le  mosse  dai  risultati  delle  più  recenti  indagini  ed  esperienze. 
Quest'arte,  questi  risultati  sono  già  abbastanza  noti  in  Italia  ? 
Noi  non  crediamo:  io  stato  odierno  della  scienza  e  dello  in- 
segnamento classico  m  questo  paese  ci  è  quanto  triste  altret- 
tanto valida  prova  che  non  erriamo  m  questo  nostro  giudizio. 


~  3  — 

Ma  crediamo,  e  fermamente  crediamo,  che  l'Italia  possiede 
intelligenze  potenti  per  gagliarda  natura  ed  efficace  educa- 
zione, capaci  non  solo  d'iniziarla  alla  filologia  ed  alla  peda- 
gogica straniera,  ma  eziandio  di  esaminarne  con  sicuro  criterio 
i  processi  e  le  conclusioni,  di  trarne  il  meglio,  di  adattarlo 
airindole  speciale  dello  ingegno  italiano  e  di  concorrere  anche 
esse  al  progresso  di  queste  due  scienze.  Stimolare  sì  fatte  in- 
telligenze a  lavoro  veramente  proficuo,  sì  che  la  loro  virtiì 
non  resti  infeconda  (come  troppo  spesso  avvenne  nei  tempi 
trascorsi)  ed  i  loro  sforzi  convergano  ad  unico  centro  (il  per- 
fezionamento del  sapere  e  della  istruzione  classica  in  Italia)  è 
lo  scopo  che  ci  proponemmo  fondando  questa  Rivista  ed  al 
quale  rimarremo  sempre  religiosamente  fedeli  finché  avremo 
l'onore  di  poterla  dirigere.  E  che  non  indarno  noi  abbiamo 
confidato  nel  buon  volere  di  parecchi  valenti  italiani  (fra  cui 
alcuno  è  tale  che  il  suo  nome  basterebbe  ad  illustrare  una 
rivista  scientifica)  ci  è  prova  il  modo  cortese  e  generoso  con 
cui  risposero  al  nostro  invito,  e  questo  stesso  primo  fascicolo 
attesta  la  sollecita  cooperazione  di  alcuni  fra  essi  :  prova  ci 
è  ancora  l'applauso  che  fecero  a  questa  nostra  impresa  i  di- 
rettori di  parecchi  giornali  italiani,  fra  i  quali  basti   citare 
l'autorevole  e  gentile  Rivista  Europea {i).  A  tutti  questi  fau- 
tori dell'opera  nostra  rendiamo  grazie  dal  profondo  del  cuore. 
Forte  di  cotanto  aiuto  e  di  quello  eziandio  che  le  promise 
qualche  illustre  straniero,  la  nostra  ^vista  tenderà  vigoro- 
samente e  liberamente  al  suo  fine,  al  progresso  della  filologia 
e  della  istruzione  classica  in  Italia.  E,  per  ciò  che  attiensi  in 
ispecial  guisa  alla  scienza,  ella  si  sforzerà  di  rendere  sempre 
più  noti  i  più  certi  ed  utili  risultati  delle  compiute  investiga- 
zioni e  di  spingere  gli  animosi  a  nuove  indagini  intorno  alla 


(i)  V.  il  fascicolo  dello  scorso  giugno,  p.  ìjZ. 


—  4  — 
vita  greco-latina,  considerandola  nei  varii  ordini  delle  rive- 
lazioni ch'essa  ci  diede  di  sé,  e  con  metodo  storico  e  compa- 
rativo,  ossia  nelle  epoche  successive  per  cui  passò  trasfor- 
mandosi e  nei  molteplici  ed  intimi  rapporti  esistenti  fra  il 
popolo  greco  ed  il  latino,  fra  questi  e  quanti  altri  apparten- 
gono alla  grande  famiglia  degli  Arii.  Ci  daremo  pensiero  di 
quegli  studi  che  sono  necessaria  preparazione  alle  ricerche 
filologiche.  Ci  sarà  oggetto  in  ispecial  guisa  gradito  di  analisi 
scientifiche  la  parola  ellenica  e  latina,  e  questa  eziandio  tal- 
volta nelle  forme  moderne  o  neo-latine  in  cui  si  continua  la 
sua  vita  tante  volte  secolare.   Non  meno  ci  cureremo  dello 
svolgimento  estetico  del  pensiero  e  del  sentimento  greco  e  ro- 
mano e  delPartistìca  espressione  di  essi  negli  scritti  di  quegli 
antichi,  pubblicando  testi  inediti  e  nuove  lezioni ,   lavori  di 
ermeneutica,  dì  critica  e  di  storia  letteraria.  Verranno  poscia 
i  miti  ed  i  sistemi  filosofici  :  indi  le  opere  delle  arti  plastiche, 
gli  usi,  le  istituzioni  e  gli  avvenimenti  sociali  della  Grecia  e 
del  Lazio.  Dei  nuovi  libri  che  appariranno  intorno  a  questi 
argomenti  daremo,  giusta  la  varia  loro  importanza  ed  atti- 
nenza colla  natura  della  nostra  'Rivista,  od  un  semplice  an- 
nunzio od  una  esposizione  un  po'  particolareggiata  od  eziandio 
un  esame  critico.  In  ordine  alla  pedagogica  che  concerne  gli 
studi  classici  sarà  compito  nostro  descrivere  colla  maggior 
possibile  esattezza  le  istituzioni  didattiche  in  Italia  e  presso 
gli  altri  popoli  civili,  notando  delle  medesime  i  più  insigni 
pregi  e  difetti*,  far  menzione  delle  riforme  che  dai  singoli 
governi  verranno  proposte  e  delle  opinioni  dei  piìi  dotti  ed 
esperti,  scrutandone  diligentemente  il  valore;  accennare  le  più 
importanti  novità  accademiche  italiane  e  straniere;  volgere  la 
attenzione  dei  nostri  lettori  alle  opere  ed  ai  giornali  didattici 
di  maggiore  utilità  che  verranno  dati  alla  luce.  E  così  ci  sia 
prospero  il  successo  come  noi  siamo  volonterosi  di  attenere 
fedelmente  le  fatte  promesse.  Ma  quand'anche  queste  nostre 


-  5- 
speranze  avessero  ad  essere  illusioni  ed  unico  premio  a  questa 
nostra  non  ingenerosa  ostinazione  Tamaro  disinganno,  noi 
non  ci  pentiremmo  mai  di  esserci  accinti  a  questa  impresa 
e  continueremmo  a  promuovere  con  tutte  le  nostre  forze  il 
risorgimento  della  filologia  e  la  riforma  dell'istruzione  classica 
in  questa  bella  contrada,  che  all'uno  di  noi  è  patria  carissima, 
all'altro  terra  ospitale,  e,  come  seconda  patria,  pregiata  e 
diietta. 

1»  luglio  1872. 

I  DIRETTORI. 


LETTERA 

DI  GASPARE  GORRESIO  AI   DIRETTORI  DELLA  ^KJVISTA 
intomo  al  significato  del  nome  àryàs. 


Onorevoli  Signori  Direttori, 

Eglino,  signori,  m'han  fatto  la  cortesia  e  Tonore  di  ma- 
nifestarmi il  loro  desiderio  che  questo  primo  fascicolo  della 
loro  l^ivìsta,  che  ora  s'inizia,  uscisse  in  luce  con  qualche 
mio  scritto.  Compiaccio  volentieri  e  senza  esitanza  al  gentile 
loro  desiderio.  Comincio  dal  congratularmi  che  con  nobile 
intento  e  fermo  volere  egli  abbiano  posto  mano  ad  un'opera 
che  riuscirà,  ne  son  certo,  di  grande  utilità  agli  studi  in 
Italia*,  e  quanto  posso  efficacemente  li  esorto  a  condurla  in- 
nanzi con  costanza  ed  amore.  Gli  studi  filologici  e  linguistici 
non  sono  ancora  in  Italia  pervenuti  a  quella  universalità  e 
pienezza  di  diffusione  a  cui  son  giunti  in  altre  contrade  e  che 
si  richiede  perchè  possano  essere  ben  conosciuti ,  merita- 


-  6  — 
mente  apprezzati  e  coltivati  e  portare  tutti  i  lor  frutti.  La 
loro  ^vista  gioverà  efficacemente,  non  ne  dubito,  ad  otte- 
nere questo  scopo  esponendo  a  mano  a  mano  le  idee  ed  i 
Drincipii  che  informano  questi  vasti  studi  ed  innestando  con 
senno   e  giudizio  i    nuovi  e   fecondi    trovati  scientifici   nei 
vecchio  e  robusto  tronco  della  scienza  italiana,  rinfrescan- 
dolo e  ravvivandolo  con  nuovo  succo  viiaie.  E  per  mostrar 
loro  quant'io  apprezzi  l'opera  da  loro  nobilmente  iniziata, 
quanta  speranza  io  fondi  sulla  loro  ^vista  e  quanto  ne 
desideri  il  buon  successo,  mi  induco  a  stendere  qui  alcune 
mie  linee,  forse  per  mancanza  di   tempo  non  abbastanza 
elaborate,  ed  a  proporre  una  mia  congettura  che  si  rannoda 
appunto  a  quegli  studi  che  la  ^I{ìvista  si  propone  di  trattare. 
1  nomi  propri  dì  tribi,  genti  o  popoli  amichi  hanno  tutti 
generalmente  una  significazione  loro  particolare  geografica, 
storica,  od  etnografica,  che  sovente  si  connette  colle  memorie 
di  quei  popoli,  con  qualche  fatto  della  lor  vita  ;  ed  il  deter- 
minarne il  vero  e  proprio  valore  non  è  senza  importanza  per 
le  indagini  e  lo  studio  delle  origini.   Il  nome  delle  genti  e 
dei  popoli   Aryi  [àryàs)  che   sono  i  nostri  antenati   etno- 
grafici, l'alto  stipite  in  cui   mettono  capo  le  origini  nostre, 
ebbe  dai  dotti  filologi  Indo-Europei  differenti  interpretazioni. 
Alcuni  io  tradussero  per  onorandi,  eccellenti,  nobili,  e  pen- 
sarono che  gli  Aryi  qualificassero   sé  stessi  in   tale   modo 
per  distinguersi  da  altre  genti  di  diversa   origine  e  di  sel- 
vaggia condizione  che  essi  trovarono  sulla  lor  via  durante  le 
lunghe  loro  migrazioni.  Altri  han  creduto  che  il  vocabolo 
àryi  dovesse  indicare  la  condizione  agricola  delie  genti  che 
si  chiamarono  anticamente  Arye;  ed  in  prova  di  tale  giu- 
dizio raffrontarono  la  radice  ar  d'onde  deriva  il   noEne  di 
àrya  col   radicale  ar  da  cui    ha    origine   il   verbo  arare '^ 
secondo   questa  opinione   il   nome   àryàs  verrebbe   a  dire 
popoli  agricoltori. 


_-7- 

Altri  cercarono  di  spiegare  altramente  il  nome  di  àrfi, 
ed  attribuirono  al  vocabolo  àrya  la  significazione  di  uomo 
della  propria  stirpe  {der  manti  des  eigenen  stammes)  o  d'uomo 
fedele  al  culto  degli  Dei  della  sua  schiatta  [der  den  volks- 
giyttern  des  stammes  treue).  Senza  volere  in  nulla  dimi- 
nuire il  valore  di  questi  vari  giudizi,  penso  che  rimanga 
tuttora  aperta  la  via  ad  altre  interpretazioni  del  nome  àrya  ; 
ed  una,  che  non  credo  punto  inverosimile,  ne  propongo  ora 
qui  al  critico  esame  dei  dotti  di  questi  studi. 

Fra  i  popoU  dell'antichità  più  o  meno  remota  molti  sono 
quelli  che  presero  nome  di  erranti ,  migranti ,  fuggenti. 
Turani,  Pelasgi,  Slavi -Uscochi  ecc.  son  tutti  nomi  che 
ìndìcdino  fuggi  tipi  y  migranti,  erranti;  non  parlerò  dei  po- 
poli Semiti,  presso  cui  si  trova  pure  frequente  tale  deno- 
minazione. Or  non  potrebbe  il  nome  di  àryi  {àrySs)  avere 
questo  stesso  valore  e  significare  migranti,  erranti?!^  radice 
sanscrita  ar  da  cui  si  deduce  il  vocabolo  àry-i,  ha  come  molte 
altre  radici  del  sanscrito,  la  significazione  generale  di  moto, 
dalla  quale  nacquero  i  significati  piiì  concreti  di  muoversi, 
amarsi,  andare.  Ad  un  vocabolo  derivato  da  quella  radice 
e  formato  in  un^età  antichissima  da  genti  che  avevano  il  senso 
intuitivo,  profondo  della  parola,  della  natura  e  della  forma  del 
vocabolo,  parmi  meglio  si  convenga  il  significato  di  migranti, 
erranti  che  alcun  altro  di  quelli  esposti  più  sopra.  1  popoli 
Arji  furono  nell'antichità  come  nei  tempi  moderni  i  ini- 
graiti  per  eccellenza.  Dall'Himàlaya  fino  alPAdantico  ei  si 
diffusero  migrando  per  ogni  dove  ed  occuparono  quasi  tutto 
Toccidente.  L'India  e  Tlran,  la  Scandinavia  e  la  Germania, 
leGalie  e  la  Bretagna,  la  Grecia,  Tltalia,  riUirio  furono  le 
sedi  d verse  e  successive  dei  popoli  Aryi.  Or  non  par  egli 
probabile  che  il  nome  preso  da  quei  popoli  dovesse  signi- 
ficare nigranti,  massime  se  si  consideri  che  tal  nome  fu 
comune  a  molti  popoli  dell'antichità,  per  le  frequenti  loro 


_  8  - 
migrazioni  e   che   la   radice   ar   donde   si   deriva   significa 
muoversi,  andare? 

11  significato  di  onorandi,  eccellenti,  attribuito  general- 
mente dai  filologi  al  nome  di  Aryi,  molto  bene  si  comprende- 
rebbe se  quel  nome  fosse  stato  preso  dagli  Aryi  in  quell'età 
in  cui  trovandosi  essi  a  fronte  di  popoli  avversi  e  rozzi,  dif- 
ferenti d'origine,  di  favella  e  di  culto,  e  volendo  distinguersi 
da  loro  con  uti  nome  che  indicasse  ad  un  tempo  la  loro  ec- 
cellenza sopra  i  barbari  Dasyu  e  la  differenza  che  era  tra 
loro  ed  essi,  si  fossero  chiamati  àryi,  gli  eccellenti,  i  nobili. 
Ma  quel  nome  è  anteriore  alle  loro  lotte  coi  Dasyu,  coi  sel- 
vaggi aborigeni  che  essi  trovarono  stanziati  nelle  regioni 
che  si  disponevano  ad  occupare.  Quel  nome  ei  già  l'avevanc 
preso  in  una  delle  loro  sedi  primitive,  nell'Airyana-Vaega, 
così  denominata  appunto  da  dry  a,  ed  era  comune  agl'In- 
diani, ai  Persiani,  ai  Medi.  Un'altra  ragione  dunque  gli  ir- 
dusse  ad  assumerlo,  e  non  è  punto  improbabile  che  qusl 
nome  alludesse  al  possente  loro  istinto  di  migrazione. 

Ecco,  egregi  signori  Direttori,  le  poche  linee  forse  non 
prive  di  qualche  importanza  che  essi  m'invitarono  a  scrivere 
e  che  io  loro  indirizzo  con  sentimento  di  stima  e  con  lieti 

augurii  per  la  loro  Rivista. 

ì 
■     ^  / 

Torino,  il  dì  26  di  giugno  1872. 


Gaspare  Gorresio. 


~  9 


COV^SI'DEIiAZlOV^I 

SULL'ISTRUZIONE,  SOPRATTUTTO  CLASSICA,  IN  ITALIA 

a  proposito  del  recentissimo  libro  di  M.  BREAL 
suir  istrupone  pubblica  in  Francia  (i). 


Se  le  più  belle  e  seduttrici  parvenze  non  fossero  spesso 
le  più  fallaci,  noi  dovremmo  indubbiamente  credere  che  tutti 
gl'Italiani  intellettualmente  educati  sentono  e  comprendono 
perfettamente  tutta  la  suprema  importanza  del  problema 
didattico.  Quanti  fra  loro  non  sarebbero  disposti  ad  affer- 
mare con  E.  Renan  che  «  de  tous  les  problèmes  de  notre 
temps,  c'est  là  le  plus  important  »  (2)?  Quanti  non  asseri- 
rebbero coU'Huxley  che  lo  insegnamento  può  essere  a  buon 


(i)  Bréal,  Queìques  moissur  Vinsiruction  publique  enFrance,  Paris, 
Hachette,  X872.  —  Renan,  Questions  contemporaines,  Paris.  1868.  — 
Id.,  La  ré/orme intellectuelle et  morale y  Paris,  £871  (p.  qS-iot).  — Bois- 
siER,  Les  ré/ormes de l'enseignement  [Revue  des deux  mondes,  t.82, p.  904- 
984,6  t.  75,  p.  863-884).  — Blanchard,  Uinstruction  generale  en  France 
{Revue  des  deux  mondes,  t.  95,  p.  81 5-843).  —  Duruy,  La  liberté  de 
l'enseignement  supérieur  {Revue  des  deux  mondes,  t.  85,  p.  736-757).  — 
Htllebrand,  L'enseignement  supérieur  en  France  {Revue  moderne,  t.  46, 
p.  589-610).  —  Leger,  L'enseignement  supérieur  et  la  Sorbonne  (Revuc 
moderne  ,  t.  5o,  p.  259-277).  —  Rapport  sur  l'organisation  et  les  prò- 
grès  de  Vinsiruction  publique,  Paris,  1867;  Rapport  sur  les  éludes  de 
langue  et  littérature  grecque  en  France,  Paris,  1868;  Rapport  sur  Vétude 
des  lettres  lalines  ecc.  ^  Paris,  1868. 

(2)  Questions  contemporaines,  p.  V. 


-  10  - 
diritto  considerato  come  l'opera  piià  grande  onde  abbia  a 
darsi  pensiero  Tepoca  odierna  (i)?  Quanti  finalmente  non 
esclamerebbero,  come  il  deputato  francese  signor  V.  de 
Tracy  nel  i835,  che  «  l'instruction  publique  est  tout))(2)? 
E  senza  fallo  imprenderebbero  a  confermare  sì  fatte  iper- 
boli, osservando  quale  e  quanta  sia  l'azione  della  mente 
sulla  volontà  e  come  i  saggi  pensieri  siano  di  utili  opere 
ispiratori  :  come  dall'  istruzione  in  gran  parte  dipenda  lo 
avvenire  dell'individuo  e  della  società  (3).  Ma  intanto  i 
molti,  paghi  di  avere  offerto  a  questo  grande  problema  lo 
inutile  tributo  di  qualche  frase  sonora,  non  gli  fanno  nem- 
meno l'onore  di  una  discussione  veramente  seria  e  lo  pos- 
pongono alle  questioni  politiche,  economiche,  militari,  talora 
eziandio  alle  personali:  altri  ne  tentano  1  ardua  soluzione*, 
ma,  o  troppo  assuefatti  a  nebulose  astrazioni  o  troppo  ines- 
perti ed  impazienti  di  minute  indagini,  per  lo  piiì  non  rie- 
scono a  scoprire  le  profonde  radici  dei  mali,  onde  per  con- 
senso di  tutti  è  travagliata  l'istruzione  italiana,  e  non  val- 
gono pertanto  ad  indicarne  i  pìij  sicuri  e  pronti  rimedii. 
Indi  segue  che,    tra  colpevoli  negligenze  e  vane  declama- 


li) Blànchard,  art.  cit.,  p.  828. 

(2)  Id.,  art.  cit.,  p.  845. 

(3)  «  C'est  sur  ce  terrain  que  se  livrent  les  batailles  les  plus  achar- 
nées  entre  Jes  partis  qui  divìsent  la  France.  Et  corament  s'en  étonner? 
Dans  cette  lutte,  ce  n'est  pas  seuìement  l'amour  de  la  vérité  et  le  désir 
de  la  voir  triompher  qui  passionnent  les  combattans,  c'est  aussi  pour 
chaque  parti  le  désir  de  se  voir  perpétuer  dans  les  genérations  qui  se  lèvent 
et  qui  ont  l'avenir  dans  les  mains.  »  Saint-René  Taillandìer,  Les 
réformes  de  l'enseigmment  primaire  [Revue  des  deux  mondes,  t.  87, 
p.  636).  —  '.«  Une  expérience  vieille  comme  l'humanité  nous  apprend 
que  le  succès  ici-bas  n'appartieni  ni  aux  àmes  les  plus  aimantes,  ni 
aux  coeurs  les  plus  généreux:  c'est  aux  intelligences  les  plus  aiguìsées 
et  les  plus  actives  qu'est  dévolu  l'empire  du  monde.  »  Bréal,  op.  cit., 
p.  73-74. 


- 11  - 

zioni,  gli  studi  italiani  cercano  troppo  spesso  indarno  ie  vie 
benedette  del  vero  progresso:  che,  fra  molti  ciechi,  pochi 
e  non  sempre  creduti  sono  i  veggenti.  Noi  vorremmo  che 
alcuni  almeno  fra  questi,  ed  i  più  autorevoli,  facessero 
udire  alF Italia,  loro  patria,  una  parola  severa  e  libera  come 
quella  che  volse  alla  sua  Francia  Michele  Bréal. 

Lo  illustre  professore  del  collegio   di   Francia  c'insegna 
col  suo  esempio  come  si  possa  e  si  debba  discorrere  intorno 
a  sì  fatto  argomento  in  guisa  veramente  utile   al  proprio 
paese.  L'amore  deìle  idee  generali  non  io  distrae  dall'esame 
particolareggiato   dei   fatti;  la   disamina    di   questi  non   gli 
toglie,  non  gli   scema  la  tendenza,  l'attitudine  ad  assorgere 
a  concetti  sintetici.   Egli  si  rivela  ardilo  innovatore,  ardito 
tanto  che  osa,  iii  questi  tempi,  dopo  le  sconfitte  dei   1870 
e  la  perdita  di  due  provincie,  proporre   non  di   rado  alla 
vinta  Francia   come    modello  la  vincitrice  Germania  :  ma 
pari  a  sì  nobile  coraggio  ha  la  prudenza,  la  moderazione. 
Il  suo  libro  ha  un  vero  valore,  teoretico  e  pratico;  molte 
idee   giuste  ed   opportune  ;  vivo ,  profondo  ed   intelligente 
amore  della  patria;   forme  esatte,  chiare,   facili,   talvolta 
condite  di  sale  veramente  francese.  E  s'intende  facilmente 
come    sì    acconcie    osservazioni    e    consigli    siano    opera 
dell'uomo,  che,  iniziato  a  tutti  i  misteri  della  linguistica    e 
della  filologia  tedesca,  diede  alla  Francia  la  prima  versione 
della  grammatica  comparativa  di  Francesco  Bopp  con  utili 
introduzioni  e  cooperò  con  eccellenti  monografie  alla  forma- 
zione di  una  nuova  scienza,  la  mitologia  comparativa.  Così 
prima  di  lui,  un  altro  rinomato  filologo,  E.  Renan,  aveva 
gravemente  e  liberamente  discorso  della  istruzione  francese: 
non   pochi   scritti   di  ahri   rispettabili  cultori  della  scienza 
erano  apparsi  nelle  più  importanti  riviste.  Per  le  molteplici 
e  strette  attinenze  che  esistono  tra  gli  studi  francesi  e  gl'i- 
taliani la  lettura  di  simili  lavori  ci  destò  nella  mente  buon 


-12- 
numero  di  osservazioni  intorno  allo  stato  dello  insegnamento 
in  Italia,  osservazioni  che  ci  accingiamo  ad  esporre,  e  con 
quella  assoluta  indipendenza  e  franchezza,  da  cui,  special- 
mente su  questo  campo,  noi  non  sapemmo  e  non  sapremo 
mai  dipartirci.  «  Nous  apporterons»,  diremo  col  Bréal,  «à 
catte  étude  la  plus  sincère  franchise.  Les  précautions  de 
langage,  outre  qu'elles  seraient  superflues,  seraient  comme 
une  sorte  d'offense  dans  une  matière  où  il  importe  avant 
tout  de  rechercher  et  de  dire  la  vérité  »  (i).  E  soggiunge- 
remo colTHillebrand  che  «  les  bons  médecins  sont  ceux  qui 
accusent  le  mal,  non  ceux  qui  le  cachent  et  le  pallient  »  (2). 
E  questa  libera  e  schietta  esposizione  gioverà  eziandio  a 
far  conoscere  chiaramente  quali  siano  in  ordine  a  parecchie 
ed  importantissime  questioni  didattiche  la  fede  e  le  aspira- 
zioni di  questa  nuova  rivista,  di  cui  sarà  tanta  parte  lo 
studio  dei  problemi  che  concernono  lo  insegnamento,  in 
ispecie  il  classico  ed  in  Italia. 

Il  Bréal  si  mantiene,  in  tutto  il  suo  libro,  fedele  alla  fatta 
promessa  e  vergine  di  adulazioni  codarde.  Prendendo  le 
mosse  dairistruzione  primaria  od  elementare  (che  è  la  sola 
onde  i  più  possano  essere  forniti)  ne  accenna  liberamente  i 
difetti  e  le  tristi  loro  conseguenze.  «  Une  des  choses  »,  egli 
scrive,  "  dont  l'Europe,  pendant  la  dernière  guerre,  a  été  le 
plus  étonnée,  c'est  de  voir  combien  la  raison  du  peuple 
francais  était  peu  mùrie  et  peu  ferme.  Le  courage  de  la 
nation  s'est  montr.é  tei  qu'on  l'avait  connu  en  tous  les  temps; 
mais  on  a  été  effrayé  de  trouver  une  telle  inexpérience  de 
pensée,  un  si  grand  désarroi  intellectuel.  Il  est  pénible  de 
dire,  mais  il  faut  avoir   le  courage  de  dire  que  les  AUe- 


(i)  Op.  cii.,  p.  159-160. 
(2)  Art.  cit.,  p.  590. 


-  13  — 
mands  nous  trouvaient  naifs»  (i).  E  discorrendo  dei  fan- 
ciulli francesi  nota  che,  giusta  i  chiari  e  vivi  avvertimenti 
della  storia  degli  ultimi  cinquant'anni,  tutto  resta  a  fare 
per  l'educazione  della  loro  ragione  (2).  E  giunge  sino  ad 
affermare  che  «  jusqu'à  présent  il  semble  que  Tinstruction 
publique,  en  France,  ait  pris  à  tàche  de  nourrir  nos  tra- 
vers  et  de  culti  ver  nos  faiblesses  »  (3),  Per  ciò  che  spetta 
agli  studi  secondarli  basti  citare  le  parole  seguenti:  «  Au 
milieu  d'une  société  qui  est  ou  qui  se  croit  renouvelée, 
nous  avons  donc  conserve  une  organisation  des  études  qui, 
dès  le  dernier  siede,  paraissait  aux  meilleurs  esprits  étroite 
et  arriérée  »  (4).  Alle  quali  parole  potremmo  aggiungere 
altre  non  meno  gravi  che  leggiamo  verso  la  fine  del  libro: 
«  rélève  de  rhétorique  et  de  philosophie,  une  fois  sortì  du 
collège,  ne  va  pas  chercher  la  science,  car  on  ne  lui  en  a 
pas  inspiré  le  désìr,  ni  mème  donne  l'idée  »  (5).  Né  guari 
men  severo  giudizio  è  recato  dello  insegnamento  superiore, 
in  ispecie  delle  facoltà  di  lettere:  che  l'istruzione,  la  quale 
da  esse  si  comparte,  ci  viene  ritratta  dal  professore  francese 
come  affatto  remota  dallo  scopo  che  dovrebb'essere  suo,- 
quello  cioè  di  preparare  nuovi  ed  utili  lavoratori  alla  scienza. 
Il  Bréal  conchiude  asserendo  che  «  l'enseignement,  à  ses 
trois  degrés,  est  à  réparer  et  à  reconstruire  »  (6).  Per  ciò 
che  attiensi  particolarmente  alle  discipline  classiche  sono 
molte  le  amare  verità  dette  francamente  dal  nostro  autore 


(1)  Op.  cit.,  p.  122. 

(2)  Op.  cit,,  p.  118. 

(3)  Op.  cit.,  p.  116. 

(4)  Op.  cit.,  p.  324. 

(5)  Op.  cit.,  p.  390. 

(6)  Op.  cit.,  p.  401. 


—  14  — 
intorno  ai  risultati  finali  degli  studi  latini  e  greci  (i).   Né 
più  mite  è  la  sentenza  che  intorno  alla  istruzione  francese 
in  genere  pronunziava  E.  Renan:    e.  Tintelligence  francaise 

s'est  affaiblie;  il  faut  la  fortifier Notre  système  d'in- 

struction  a  besoin  de  réformes  radicales  »  (2).  Conforme 
ai  parere  di  questi  due  dotti  è  quello  di  parecchi  altri  fran- 
cesi: come  poi  certi  intelligenti  stranieri  abbiano  giudicato 
gli  studi  dei  nostri  vicini  apparirà  a  chi  legga  le  pagine 
che  il  R.enan  consecrava  a  questo  non  troppo  lieto  argo- 
mento (3).  Ed  ora  vuoisi  osservare  che  molte  fra  le  accuse 
mosse  alla  istruzione  francese  si  potrebbero  eziandio,  senza 
calunnia,  muovere  alla  italiana.  Che  lo  stato  di  questa  sia 
ben  lungi  dair  essere  ciò  che  dovrebbe  e  ciò  che  tutti 
quanti  ci  conosciamo  un  po'  dì  queste  cose  vorremmo  che 
fosse,  è  ormai  tanto  noto  che  non  occorre  nemmeno  ripe- 
terlo. E  se  Torgogiio  e  la  pigrizia  c'inducessero  a  dimenti- 
care si  fatta  nostra  miseria,  la  parola  di  qualche  straniero 
basterebbe  a  rammentarcela.  Così,  per  appagarci  di  un  solo 
esempio,  nell'anno  1869  il  signor  Blerzy,  in  un  rinomato 
e  diffuso  giornale  francese,    dopo  aver  discorso  dello  inse- 


ji)  Intorno  a  sì  fatti  studi  non  vuoisi  ommeitere  quanto  si  legge 
nell'autorevole  Revue  critique  dliistoire  et  de  littérature,  anno  4",  n.  5": 
«  Ne  craignons  pas  de  le  dire  tout  haut:  cet  état  (degli  studi  di  lin- 
gua e  di  letteratura  greca  in  Francia)  est  déplorable.  Nous  sommes  au- 
dessous,  non  seulement  de  l'AUemagne  contemporaine,  mais  peui-étre 
méme  de  l'érudition  francaise  au  XVI1I«  siècle.  Sans  doute  les  élèves 
de  l'ancienne  Université  n'apprenaient  pas  le  grec  ;  mais  ceux  d'au- 
jourd'hui  n'ont  que  l'air  de  l'apprendre;  au  fond,  à  la  fin  deleurs  éiudes 
ils ne  savent  quel'épeler.  Quant  auxtravaux  d'érudition,  il  y  avait,  sera- 
ble-t-il,  à  la  fin  du  XVI li»  siècle  un  plus  grand  nombre  de  gens  ayant 
la  capacité  et  le  goùi  d'en  exécuter,  et  sans  la  Revolution  le  nombre  en 

aurait  augmenté  encore Il  est  triste  de  penser  que  le  grec  est 

florissant  chez  nous  en  comparaison  du  latin.» 

(2)  Laréforme  ecc.,  p.  95. 

(3)  Questioni  contemporaines,  p.  aSS-apS. 


—  16  — 

gnamento  secondario  in  Inghilterra  e  Scozia,  in  Germania 
e  Svizzera,  dedicava  alcune  non  troppo  lusinghiere  osser- 
vazioni alla  istruzione  pubblica  in  Italia.   «  S'étonne- 

ra-t-on  qu'en  Italie,  oìi  les  trois  quarts  des  adultes  ne  sa- 
vcnt   ni  lire  ni  écrire,    les  études  élevées  soient   dans  un 

déplorable  état  d'abandon? La  loi  Casati,  promulguée 

en  1859,  est  une  imitation  un  peu  trop  servile  des  institu- 

tions  scolaires  de  la  France Le  pian  d'ensemble  de 

cette  organisation  scolaire  est  bon;  mais  dans  la  réalité  on  n'a 

pas  été  capable  de  le  suivre  avec  constance Le  corps 

enseignant  est  trop  nombreux,  mal  rétribué,  et  partant  peu 
instruit.  Le  niveau  moyen  des  études  est  si  faible  que  les 
examinateurs  som  souvent  forcés  d'etra  trop  induigens,  d'où 

il  résulte  que  les  diplómes  sont  illusoires L'Italie  ne 

peut  montrer  que  de  louables  efforts  de  réforme  »  (i).  Fac- 
ciamoci a  scrutare  con  analisi  efficace  la  intima  natura  dei 
mali  che  corrodono  la  istruzione  in  Francia  ed  in  Italia  : 
scoprire  le  cause  dei  morbi  è,  spesse  volte,  trovarne  i  più 
possenti  rimedii. 


I. 


Il  primo  vizio  scolastico,  di  cui  ci  sembra  opportuno  far 
cenno  ragionando  degli  studi  presso  queste  due  nazioni  neo- 
latine, è  la  tendenza  soverchiamente  pratica  dei  medesimi  : 
vizio  che  ci  appare  sempre  maggiore,  quanto  piià  ci  avvez- 
ziamo a  paragonare  l'istruzione  francese  ed  italiana  colla  ger- 
manica. Mentre  in  Allemagna  la  scienza  è  generalmente  con- 
siderata come  degna  di  essere  coltivata  per  se  stessa  e  come 
mezzo  efficacissimo  di  alta   educazione  intellettuale,  suolsi 


(i)  Blerzy,  De  l'enseignement  secondaire  en  Europe  (Revue  des  deux 
mondesyi.  80,  p.  125-127) 


~  16  - 
per  lo  contrario  in  Francia  ed  in  Italia  proporre  allo  studio 
un  fine  straniero  alla  scienza,  il  conseguimento  di  un  grado 
accademico,  T apprendimento  di  una  nobile  professione. 
<(  C'est  une  chose  étonnante  »y  nota  il  Bréal,  «combien, 
mème  chez  Ics  plus  instruits  et  les  meilleurs  d'entre  nos 
jeunes  gens,  Tamour  de  la  science  est  rare.  On  veut  ètre 
ingénieur,  avocat,  professeur,  médecin  :  mais  irès-peu  se 
proposent  d'étudier  les  mathématiques,  le  droit,  Pantiquité, 
la  physiologie  »  (i).  E,  prendendo  a  discorrere,  delle  facoltà 
universitarie  del  suo  paese,  osserva  che  «  dans  la  pensée  de 
celui  qui  les  a  ìnstituées,  la  collation  des  grades  était  la 
partie  la  plus  importante  de  leurs  fonctions.  Napoléon,  chez 
qui  invincibiement  toutes  les  conceptions  se  presenta ient  sous 
la  forme  hiérarchique  et  administrative,  n'aurait  probable- 
ment  jaraais  créé  de  Facuités  des  lettres  et  des  sciences,  s'il 
n^avait  faliu  quelques  personnes  pour  délivrer  les  dipló- 
mes  »  (2).  Quanto  volgo  di  menti,  che  pretendono  essere  e 
farsi  credere  coite,  fa  eco  in  Italia  a  quest'errore  francese  e 
considera  gli  atenei  come  fabbriche  privilegiate  d'avvocati  e 
di  medici,  d'ingegneri  e  di  professori!  Il  dotto  a  che  vale? 
Indi  la  suprema  importanza  data  agli  esami.  In  ordine  ai 
quali  sono  degnissime  di  attenzione  le  parole  del  nostro  au- 
tore: «  On  perd  dès  les  premières  années  de  la  jeunesse  la 
notion  du  travail  désintéressé;  on  associe  l'idée  d'examen  si 
étroitement  à  celle  de  travail,  qu'une  fois  que  les  derniers 
examens  sont  franchis,  le  travail  ne  parait  plus  avoir  de 
raison  d'etre»  (3).  E  di  certi  esami  italiani  ben  potremmo 
ripetere  ciò  ch'egli  dice  dei  francesi  corrispondenti  :  «  Les 
^togrammes  des  examens,  d'abord  foft  modestes,  se  sont 


(0  Op.  cit.,  p.  362. 

(2)  Op.  cìt-,  p.  327-328. 

(3)  Op.  cit.,  p.  361-362. 


—  17  — 

peu  a  peu  grossis  de  matìères  nouvelles Il  faut  donc, 

à  un  moment  donne,  ctre  prét  à  répondre  sur  la  matière  de 
plusieurs  enseignemems,  prolongés  chacun  pendant  un  ou 
deux  ans.  Il  faut  surcharger  sa  mémoire  en  prévision  d'un 
court  examen  qui  décide  du  sort  de  la  vie  entière.  Les  con- 
naissances  ainsi  acquises  ne  resteront  pas  dans  Tesprit-,  elles 
ne  iaisseront  mème  pas  après  elles  ce  profit  general  que  pro- 
cure à  rintelligence  un  travail  librement  entrepris  et  pour- 
suivi  avec  goùt  et  mesure.  Le  plus  souvent,  le  seul  resultai 
de  cette  préparation  hàtive  et  outrée,  c'est  la  fatigue  precoce 
et  le  dégoOt  du  travail»  (i).  Chi,  ledendo  queste  parole, 
non  pensa  ai  nostri  esami  di  licenza  liceale  ? 

Con  questi  principii,  con  questi  istinti  si  connette  stretta- 
mente l'avversione  dei  più  a  tutti  quegli  studi,  di  cui  essi 
non  veggono  attinenze  palesi,  numerose,  importanti  colla 
vita  pratica.  Vogliono  la  scienza  non  già  per  essa,  ma  per 
quelle  ch'essi  chiamano  le  applicazioni  all'agricoltura,  all'in- 
dustria, al  commercio.  Di  costoro  giusto  giudizio  profferiva 


(i)  Op.  cit.,  p.  359-360. —  Il  Bréal  si  mostra  eziandio  poco  propizio 
ai  premii.  «  Pourexciter  nos  coUégiens  à  bien  faìre,  on  n'a  rien  trouvé 
de  mjeux  que  de  les  classer  et  de  les  reclasser  sans  fin  :  places,  notes,  ta- 
bleau d'honneur,  l'amour-propre  est  le  grand  levier.  Mais  il  n'est  pas 
difficile  de  voir  que  ce  levier  n'a  rien  qui  le  rattache  spécialement  à  l'é- 
tude  :  ces  moyens  d'émulation  pourraient  ètra  appliqués  à  obtenir  des 
enfants  un  tout  autre  emploi  de  leur  zèle  ei  de  leurs  facultés...  Amener 
les  enfants  à  faire  avec  passion  des  exercices  qui  ne  les  intéressent  poìnt 
par  eux-mémes,  c'est  la  gageure  que  les  Pères  Jésuites  paraissent  s'étre 
donnée  et  qu'ils  ont  transmise  à  l'Université,  L'enfant  s'babitue  de  la 
sorte  à  chercher  la  récompense  de  ses  actes  en  dehors  des  actes  eux- 
mémes...  >•  (p.  3i8-3i9),  n  On  dit  quelepursentimentdudevoir  n'existe 
pas  chez  les  enfants,  et  que  c'est  là  une  notion  trop  haute  pour  des  na- 
tures  encore  si  légères.  Je  crois,  au  contraire,  qu'il  est  plus  facile  d'ha- 
bituer  des  enfants  à  travaillerpour  se  contenter  eux-mémes  et  pour  satis- 
faire  leurs  mattres  et  leurs  parents,  que  de  ramener  au  désintéressement 
rhomme  qui  a  grandi  dans  le  désir  des  récompenses,  et  qui  n'a  jamais 
séparé  dans  sa  pensée  un  acte  de  bonne  conduite  ou  un  effort  de  travail 
du  signe  extérieur  qui  doit  le  constater  aux  yeux  du  monde  *>  (p.  1 19). 

7(1  vista  di  Jilologia  ecc.,  1.  a 


—  18  — 
in  Francia  il  Bìot  :  «  Depuis  cinquante  ans,  les  sciences  phy- 
siques  et  chimiques  ont  rempli  le  monde  de  leurs  merveil- 

les Alors,  la  ibule  irréfìéchie,  ignorante  des  causes,  n'a 

plus  vu  des  sciences  que  leur  resultai,  et,  comme  le  sauvage, 
elle  aurait  volontiers  trouvé  bon  qu'on  coupàt  Tarbre  pour 
avoir  le  ^ruit  w  (i). 

A  questa  irrompente  volgarità  plebea  di  concetti  e  di  aspi- 
razioni dovrebbe,  per  la  dignità  della  scienza  iialica,  opporsi 
almeno  Talto  insegnamento  dei  nostri  atenei  e  la  gioventù 
che  lo  riceve,  onorando,  non  solo  in  teorica  ma  eziandio 
praticamente,  la  generosa  investigazione  del  vero  per  Tamor 
puro  del  vero.  Di  essa  ci  sono  nobilissimi  modelli  le   uni- 
versità germaniche.  Lo  insegnamento  che  vi  si  comparte  è, 
scrive  lo  Hillebrand,  «  purement  scientifique,  désintéressé , 
j'allais  dire  inutile,  dans  le  scns  vulgaire  du  mot;  car  il  ne 
prépare  qu'indirectement  aux  carrières,  et  souvent  il   n'est 
qu'un  moyen  pour  arriver  à  un  but  plus  general   et  plus 
élevé,  celui  d'enrichir  et  de  faire  avancer  la  science.  Tous 
les  Allemands,  à  quelque  école  qu'ils  appartiennent ,   sont 
d'accord  sur   cette  manière    de  voir.   «  L'enseignement  de 
rUniversité,  dit   M.  R.  de  Mofal,  doit  toujours  èrre  a  la 
hauteur  de  la  science;  celle  ci  doit  etre  cultivée  et  estimée 
pour  eile-mème  et  non-seulement  pour  son  application  di- 
recte  au  service  public.  C'est  une  opinion  bien  inintelligente 
et  vulgaire  que  celle  qui  abaìsse  l'Université  au  point   d'en 
faire  une  riunion  fortuite  d'établissements  destinés  au  dres- 
sage  nécessaire  des  ouvriers   de    metier......   L'application 

servile  et  mécanique  ne  se  fera  que  trop  d'elle-méme  chez 
un  grand  nombre  d*éièves,  et  l'exercice  qui  leur  manque 
au  sortir  de  l'Université,  ils  i'acquerront  bien   assez  vite 


(s)  Renan,  Qiiestioìis  cantcì-^Tporaine:;,  p,  no. 


-  19  - 
dans  la  vìe  pratique.  Les  choses  iraient  bien  mal  chez  un 
peuple  dont  la  plus  haute  culture  intellectuelle  consisterait 
en  une  simple  aptitude  aux  affaires,  dans  un  état  dont  les 
fonctionnaires  dirigeants  ne  seraient  pas  cn  mème  temps  les 
esprits  les  plus  cultivés  de  la  nation  y>  (i). 

Le  idee  e  le  tendenze  soverchiamente  pratiche  dell'età 
nostra  più  ancora  che  T  insegnamento  superiore  tentano 
invadere  con  istolta  prepotenza  T  istruzione  secondaria. 
Non  pochi,  né,  apparentemente  almeno,  sforniti  affatto 
di  una  mediocre  educazione  intellettuale  sono  coloro  che 
vorrebbero  sì  fatta  istruzione  ridurre  ad  una  prosaica  pre- 
parazione del  fanciullo  alla  vita  pratica,  escludendo  spie- 
tatamente quei  nobilissimi  studi,  i  quali,  come  i  più  atti  a 
svolgere  convenientemente  le  più  alte  facoltà  dello  spirito 
umano,  sono  e  debbono  essere,  e,  speriamo  per  l'onore  delle 
future  generazioni,  saranno  sempre  la  solida  base  della  istru- 
zione secondaria»  Compito  della  quale,  più  assai  che  infon- 
dere nelle  menti  giovanili  le  nozioni  letterarie  e  scientifiche 


(i)  HiLLKBRAND,  L'enseigtiement  supérieur  en  Allemagne  CRevue  ma' 
deme^  t.  45,  p,.  193-220;  v.  in  ispecie  p,  214  e  21 5).  Quindi  «  l'Uni- 
versité  allemande  ne  prépare  point  directement  aux  carrièresr  elle  se 
contente  de  donner  à  l'étudiant  une  base  scientifique,  c'est-à-dire  la 
méthode  et  l'ensemble  des  principes  qui  régissent  les  diverses  sciences  »> 
(p.  211).  E  quando  si  osserva  che  sì  fatto  insegnamento,  essenzial- 
mente teoretico,  tende  per  av\'emura  a  produrre  maggior  numero  di 
scienziati  che  non  d'uomini  atti  all'esercizio  di  una  professione  libe- 
rale, allora,  soggiunge  l'Hillebrand,  i  Tedeschi  rispondono  «  qu'après 
tout  ce  n*est  jamais  que  la  mìnorité  qui  a  le  feu  sacre,  que  l'on  peut 
parfaitement  concilier  d'ailleurs  l'accomplissement  de  ses  devoirs  pro- 
fessionnels  sans  renoncer  à  cultiver  la  science,  que  tous  lessavants  ne 
som  pas  nécessairement  des  hommes  incapables  dans  la  vie  pratique, 
qu'cnfin  la  science  a  aussi  bien  le  droìt  de  revendiquer  pour  elle  sa  pan 
de  chaque  generation  que  lesautres  intéréts  de  la  vie  nationale,  et  que 
des  hellénistes  et  des  astronomes  sont  aussi  nécessaires  que  des  pro- 
fesseurs  de  collège  et  des  médecins.  D'un  autre  coté,  les  Allemands 
soutiennent  que  la  science  pure  est  la  meilleure  préparation  à  la  pra- 
tique... »  (p.  31 5). 


-  20  - 
costituenti  quella  che  ora  appellano  coltura  delle  classi  supe- 
riori della  società,  è,  per  consenso  di  tutti  i  meglio  pensanti 
ed  esperti,  educare  Tuomo  intellettuale  e  morale  ;  svolgerne 
una  nobile  e  potente  personalità,  come  l'artista  trae  fuori  dal 
marmo  la  statua  (i);  rafforzare  e  raffinare,  con  molteplice 
opportuno  esercizio,  sentimento,  immaginativa,  intelligenza, 
memoria ,  volontà  -,  rendere  sempre  più  gagliarda  e  squisita 
Taspirazione  delTanima  umana  al  bello,  al  bene  ed  al  vero. 


fi)  Esagerando  questo  concetto  profondamente  vero,  THiUebrand 
scrive:  «  L'insiruction  secondaire...  ne  se  propose  ou  ne  dcvrait  se 
proposer  aucuiie  utili  té  pratique.  En  supposani  qu'une  intelligence  pùt 
oublier  tous  les  faits,  dates,  mots  et  règics  qu'elle  à  appris  au  collège, 
sans  toutefois  que  cet  oubli  fùt  la  suite  d'un  affaiblissement  maladif 
des  forces  mentales,  le.  but  de  l'enseigriement  secondaire  n'en  serait 
pas  moins  atieint,  puisque  cetie  intelligence  ainsi  cultivée  serait  de- 
venue  ce  qu'on  voulait  qu'elle  devini...  On  comprend  aisément  dès 
lors  que  l'esprit  general  et  la  méthode  de  l'en-^^eignement  prennent 
la  première  place  dans  cet  ordre,  et  que  les  connaissances  eiles-mémes 
ne  difTèient  de  valeur  qu'autant  qu'elies  se  prétent  plus  ou  moins  à 
appliquer  cette  méthode  et  cet  esprit  general.  Donhez-nous,  vous  dira 
tout  professeur  de  lycée  qui  prendra  sa  roission  au  sérieux,  donnez- 
nou5un  meilleur  instrument  que  le  grec,  le  latin,  les  mathématiques, 
l'histoire  et  la  histoire  naturelle,  pour  habituer  nos  jeunes  gens  à  analyscr 
et  è  jjger,  à  penser  avec  logique  et  à  observer  avec  exactitude.,  à  cias- 
serieurs  connaissances  et  à  généraliser  leurs  observations,  à  sentir  enfen 
les  nuances  et  à  deviner  les  rapports  des  choses  ;  donnez-noMS-le,  e»^ 
nous  voas  abandonnerons,  avec  regret  assurément,  mais  ^aiis  hésiter, 
et  Sciences  et  histoire,  et  mathématiques  et  latin,  tout  cet  ensemble, 
en  un  mot,  éprouvé  et  traditionnel,  dont  nous  nous  servons  depuis 
trois  cente  ans  pour  former  les  jeunes  esprits  »  (p,  194).  E  toccando 
di  certi  padri  di  famiglia,  i  quali  considerano  questi  stuui  come  poco 
utilJ  praticamente,  soggiunge  che  «  l'expérience  seulc  pourra  leur  ou- 
vrir  les  yeux  et  leur  prouver  qu'il  n'y  a  rien  de  plus  utile,  méme 
au  point  de  vue  pratique,  que  ces  belles  inutilités.  Cette  expérience, 
il  tàudri,  bien  que  nous  la  fassions  tout  comme  nos  voisins  qui,  après 
avoir  priitiqué  pendant  trente  ans  le  système  tant  vanté  des  Realschulen, 
reviennent  enfin  à  la  bonne  vieille  coutume  d'envoyer  leurs  enfants 
apprendre  au  collège  le  grec  et  le  latin,  méme  quand  ils  se  proposent 
d'en  faire  des  industriels  ou  des  négociants,  des  chimistes  ou  des  in- 
génieurs  »  (p.  195). 


-21  - 
Strumento  fra  gli  altri  tutti  efficacissimo  di  questa  educazione 
armonica  delle  potenze  estetiche,  intellettuali  e  morali  del- 
i^uomo  furono,  dallo  splendido  evo  del  rinnovato  culto  della 
civiltà  greco-latina  alla  età  nostra,  reputati  gli  studi  classici. 
E  la  guerra  che  loro  si  mosse  per  lo  passato  ed  in  ispecie 
presentemente  si  muove  non  altronde  procedette  né  procede 
che  da  un'erronea  confusione  dell'abuso  coll'uso  o  da  un  falso 
concetto  dello  scopo  supremo  che  all'insegnamento  ginnasiale 
e  liceale  vuol  essere  proposto  (i). 

Indi  segue  che  non  si  potrà  mai,  senza  gravissimo  danno 
del  perfezionamento  umano,  sostituire  nelle  nostre  scuole 
secondarie  agli  studi  classici  una  istruzione  esclusivamente 
tecnica,  o,  come  si  direbbe  in  Francia,  un'istruzione  mera- 
mente professionale:  né  questa,  checché  ne  pensino  certi 
dottori  dalla  vista  corta,  potrà  mai  staccarsi  affatto  dalla 
scienza  pura  senza  nuocere  grandemente  a  sé  stessa.  Atto- 
nito ammiratore  dei  grandi  risultati  pratici ,  di  quelle  che 
soglionsi  ora  chiamare  applicazioni  di  scoperte  scientifiche, 
il  volgo  degl'inetti  a  riflettere  dimentica,  troppo  presto  dav- 
vero, li  lungo  ed  arduo  lavorfo  puramente  teoretico  a  cui 
quelle  per  lo  più  si  debbono:  e  intanto  non  si  pensa,  e  sa- 
rebbe pur  facile,  che,  negletta  la  generosa  indagine  del  vero, 
sarà  stoltezza  l'attenderne  i  benefici  effetti  (2). 

Ed  anche  lo  stesso  insegnamento  primario  dipende ,  più 
che  i  molti  non  credano,  dalla  istruzione  superiore  ed  il 
perfezionamiento  di  quello  col  progresso  di  questa  è  stretta- 
mente connesso.  Ed  in  fatti  che  cosa  è  l'insegnamento  pri- 
mario se  non  l'esposizione  elementare  di  quelle  verità  che 
debbono  essere  il  patrimonio  intellettuale  di  tutti  ?   E   non 


(i)  FiCKER,  Guida  allo  studio  della  letteratura  classica  antica,  trad. 
da  V.  De  Castro,  2*  ed.,  Milano,  4844,  p.  6-29. 
(a)  Blanchard,  art.  cit.,  p.  818-823. 


—  22  — 
sono  forse  queste  verità  parte  del  sapere  più  alto,  e  non 
ispetta  forse  a  questo  darne  le  prove  e  determinarne  esatta- 
mente il  concetto?  E  d'onde,  se  non  dalle  scuole  superiori, 
trarremo  uomini  veramente  atti  a  dirigere  l'educazione  intel- 
lettuale del  popolo?  Quindi  a  ragione  scrive  il  Bréal:  «L'U- 
niversité  est  un  centre  d'où  rayonne  continuellement  sur  la 
nation  Tesprit  de  réflexion  et  d'examen:  car  il  ne  faudrait 
point  croire  que  ces  grands  corps  restent  sans  action  sur  les 
couches  popuiaires.  Gomme  ce  sont  les  anciens  élèves  des 
universités   qui   remplissent   les  fonctions  publiques  et  qui 
exercent  les  professions  les  plus  considérées,  la  société  tout 
entière  adopte,  moyennant  le  grossissement  exigé  par  Tintel- 
ligence  et  par  Téducation  de  chacun ,   les  mèmes  facons  de 
raisonner  et  de  juger.  Le  journal  que  lit  Thonime  du  peupie 
a  pour  rédacteur.  un   homme  qui  a  étudié  Thistoire  avec 
Waitz  ou   l'economie   politique  avec   Roscher.  Le   maitre 
d'école   qui   parie   aux   enfants  a  recu  sa  part  du  courant 
scientifique  par  l'intermédiaire  du  Directeur  de   son  Ecole 
normale,  ancien  éiève  des  Universités,  et  il  entretient  ce  pre- 
mier fonds  gràce  à  la  lecture  des  journaux  pédagogiques  »  (i). 
Ed  a  certi  signori,  i  quali  sembrano  non  d'altro  mai  darsi  il 
minimo  pensiero,  quando  si  tratta  di  studi,  che  della  istru- 
zione elementare,  sarebbe  proprio  opportuno  il  rammentare, 
con  E.  Renan,  che  «  l'enseignement  supérieur  est  la  source 
de  Tenseignement  primaire.  Sacrifier  le  premier  au  second, 
c'est  commettre  une  fante,  c'est  aller  contre  le  but  qu'on  se 
propose,..,  L'instruction  primaire  n'est  solide  dans  un  pays 
que  quand  la  partie  éclairée  de  la  nation  la  veut,   la  com- 
prend,  en  voit  Tutilité  et  la  justice.  Travaillez  à  produire 
des  classes    supérieures    qui    soient    animées    d' un   esprit 


(i)  Op.  cit.,  p.  396. 


-23  — 

liberal;  sans  cela,  vous  bàtissez  sur  ie.  sable La  force 

de  rinstruction  populaire  en  rAllemagne  vient  de  la  force 
de  renseignement  supérieur  en   ce   pays.  C'est  Puniversité 

qui  fair  Fècole L'instruction  du  peuple  est  un  effet  de 

la  haute  culture  de  certaines  ciasses.  Les  pays  qui,  comme 
les  États-Urxis,  ont  créé  un  enseignement  populaire  con- 
sidérable  sans  instruciion  supérieure  sérieuse  expieront 
longtemps  encore  cette  faute  par  leur  médiocrité  intellec- 
tueile,  leur  grossièreté  de  moeurs,  leur  esprit  superSciel, 
leur  manque  d'intelligence  generale  »  (i).  Conchiudiamo 
pertanto  col  Bréal:  «  C'est  par  Tinstruction  supérieure  que 
doit  débuter  une  réforme  de  Tenseignement  qui  veut  étre 
approfondie  et  durable,  puisqu'un  nouvel  esprit  ne  pourra 
pénétrer  dans  les  iycées  que  si  le  savoìr  des  professeurs 
s'élargit  et  se  transforme,  et  puisque  Tenseignement  primaire 
ne  deviendra  ce  qu'il  doit  ètre  que  si  les  Écoles  Normales 
empruntent  leurs  directeurs  et  leurs  professeurs  à  Tinstruc- 
tion  secondai  re.  Ainsi  nos  Facultés  des  lettres  et  des  sciences, 
qu"'on  regarde  ordinairement  comme  une  sorte  de  luxe,  sont 
les  organes  nécessaires  pour  le  renouvellement  de  notre  vie 
intellectuelle  »  (3).  Alle  quali  considerazioni  noi  aggiungiamo 
essere  assai  più  facile  attuare  una  pronta  e  radicale  riforma 
nei  pochi  istituti  d'istruzione  superiore,  che  non  nelle 
molte  scuole  liceali  e  ginnasiali  e  nelle  elementari,  le  quali 
ultime  sono  e  debbono  essere  per  la  propria  natura  presso 
un  popolo  inciviUto  numerosissime. 

(Continua) 

D,  Pezzi. 


(1)  Questions  contemporaines,  p.  VI -VII. 

(2)  Op.  cit.,  p.  327. 


—  24  — 

IN    SERVIGIO    DEI    FUTURI    EDìTORI    DI    TRADUZIONI    ITALIANE 
DI  PROSATORI  GRECI. 


Ammesso  come  un  vero  incontrastabile  che  nelle  due  let- 
terature greca  e  latina  si  trovino  le  sorgenti  da  cui  è  deri- 
vata e  da  cui  si  alimenta  la  cultura  letteraria  e  scientifica 
delle  nazioni  moderne,  ne  segue  manifesta  la  necessità  di 
non  trascurare  alcuna  delle  vie  per  cui  quei  tesori  di  sa- 
pienza possano  rendersi  accessibili  al  massimo  numero. 
Una,  e  la  principale  di  queste  è  Tistruzione  classica  che  si 
dà  nelle  scuole  con  tanto  dispendio  di  tempo  per  parte  della 
gioventij,  e  di  denaro  per  parte  del  governo.  Se  i  frutti  che 
se  ne  ottengono  rispondano  adequatamente  alla  grandezza 
dei  sacrifizi,  è  questione  ch'io  non  voglio  ora  toccare.  La 
seconda  via  sarebbe  l'incoraggiare  con  concorsi  e  con  premii 
la  produzione  di  buone  versioni  italiane  di  autori  greci  e 
latini,  le  quali  sarebbero  tanto  più  utili,  inquantochè  nella 
nostra  letteratura  non  sono  in  gran  numero  i  prosatori  leg- 
gibili con  facilità,  con  diletto,  e  con  vantaggio  educativo 
dalle  persone  di  qualche  cultura.  Le  due  vie  accennate  di 
promuovere  la  cognizione  delle  lettere  classiche  si  connet- 
tono intimamente  l'una  colPaltra.  La  prima  intende  a  ren- 
derla forte  e  profonda,  la  seconda  a  diffonderla  e  renderla 
popolare,  il  quale  secondo  scopo  non  si  ottiene  in  modo 
soddisfacente  se  non  a  condizione  che  sia  conseguito  il  primo, 
posciachè  solo  da  valenti  filologi  sono  da  aspettarsi  buone 


-25- 

traduzioni  ed  illustrazioni  di  autori  antichi.  Tuttavia  al  ve- 
dere la  deplorabile  condizione  in  cui  trovasi  la  nostra  let- 
teratura sotto  il  rispetto  di  questo  genere  di  lavori,  si  di- 
rebbe che  il  grande  sviluppo  dato  al  primo  dei  detti  mezzi 
sia  stato  cagione  che  il  secondo  venisse  trascurato,  e  che  sui 
classici  volgarizzati  si  diffondesse  quell'uggia  che  suole  ac- 
compagnarsi  ad  ogni  cosa  prettamente  scolastica.  E  un  fatto 
che  gli  autori  latini,  tanto  rimasticati  nella  scuola,  fuori  di 
questa  non  si  leggono  più  guari  nel  testo.  Si  leggeranno  nelle 
traduzioni?  Neppure,  perchè  si  sa  che  una  traduzione  non 
può  mai  equivalere  all'originale,  e  chi  ha  compiuto  il  corso 
liceale  crede  che  potrà,  quando  il  voglia,  leggersi  il  suo  Tito 
Livio  nel  testo.  Il  male  è  che  egli  si  contenterà  in  per- 
petuo di  poterlo  leggere,  se  pure  lo  pub,  ma  in  fatti  non  lo 
leggerà  mai.  Di  maniera  che  quel  sì  lungo  tempestare  sul  la- 
tino nelle  nostre  scuole  riesce  a  questo  curioso  risultato  che 
le  opere  degli  scrittori  latini  sono  di  tutte  le  men  comprate 
e  le  meno  lette,  vuoi  nella  loro  lingua  originale,  vuoi  nella 
nostra.  La  causa  però  del  non  leggersi  i  classici,  neppur  tra- 
dotti, non  istà  tutta  qui  :  conviene  riconoscerla  in  grandis- 
sima parte  anche  nelle  qualità  delle  traduzioni  che  se  ne 
posseggono,  le  quali,  poche  eccettuate,  sono  tali  da  attutare 
ogni  rammarico  che  non  siano  lette.  Le  traduzioni  di  pro- 
satori greci  sono  alquanto  più  comprate  e  forse  più  lette, 
essendo  minore  il  numero  di  quelli  che  potrebbero  leggerli 
nel  testo  :  perciò,  e  per  l'intrinseco  valore  delle  opere  origi- 
nali, è  ancor  più  deplorabile  che  esse  siano,  salvo  qualche 
rara  eccezione,  eguali  a  quelle  degli  autori  latini.  Noi  siamo, 
sotto  questo  rispetto,  in  condizione  inferiore  di  gran  lunga 
alla  Germania  ed  anche  alla  Francia,  l'una  e  l'altra  delle 
quali  possiede  tradotti  in  modo  leggibile  nella  propria  lingua 
gli  autori  greci  e  latini,  mentre  noi  ne  abbiamo  pochissimi 
che  siano  tradotti  con  qualche  accuratezza. 


-me- 
lina traduzione  di  opera  classica  dì  lunga  lena  si  do- 
vrebbe considerare  come  un  lavoro  progressivo,  capace  di 
successivi  miglioramenti,  man  mano  che  si  vien  facendo  più 
corretta  la  lezione  dei  testo,  e  che  si  progredisce  nella  intel- 
ligenza del  pensiero  antico.  Perchè  ricominciar  sempre  da 
capo,  quando  le  basi  siano  state  ben  poste,  e  si  possa  colla 
minuta  disamina  ed  emendazione  dei  particolari  avvicinare 
sempre  più  l'opera  alia  perfezione?  Perchè  prima  di  por 
mano  alla  ristampa  di  tali  traduzioni,  specialmente  se  dal 
greco,  non  se  ne  procura  una  qualche  revisione,  la  quale  ne 
elimini  almeno  i  più  notabili  errori?  Se  così  si  facesse,  si 
riuscirebbe  col  tempo  ad  avere  gii  scrittori  greci  leggibili 
con  facilità  e  con  diletto  nella  nostra  lingua,  e  a  possedere 
così  un  molto  desiderato  supplemento  alla  scarsità  di  pro- 
satori italiani. 

A  dare  un  saggio  di  quello  che  io  desidero  in  questo  ge- 
nere, mi  propongo  di  pubblicare  alcuni  appunti  sulle  più 
note  e  più  spesso  ristampate  traduzioni  dal  greco.  Comin- 
cierò  da  quella  delle  Vite  parallele  di  Plutarco,  fatta  da  Gi- 
rolamo Pompei. 

Pericle  I, 


Testo  secondo  Bekher,  \ 

Eévoui;  Tivà(;  èv  'Pti^iur) 

TiXouoiou^  kuviIjv  T^Kva 

KOl   TtlOrìKUJV  èv  TO'iC,   KÓ\- 

ttok;    nepiqpépovTa?    koì 
àToirOùvra^  ìbùiv  ó   Kat- 

Oap,  (fai;    l01K€V,   ^ptÙTT)- 

acv,  €Ì  ivaiMa  rrap'  aÙTOì? 
où  TiKTOuaiv  d  YuvaìKÉ?, 
i^Y€^oviKÙJ(;  acpóbpa  vo\)- 
Q€xi\aa(;  toù<;  tò  cpùoei 
9i\riTiKÒv  èv  i^ulv  Kal  qpi- 
XòcTTopYov  elq  Qr]p{a  Kax 
cevaX((JKOvaa(;  àvepiOnoi<; 
ò<p€tXó|aevov. 


Traduz.  letterale. 

Visti  in  Roma  alcuni 
stranieri  ricchi,  portanti 
in  seno  cagnolini  e  ber- 
tuccini,  e  ponenti  in  essi, 
a  quanto  pareva,  ogni 
loro  affezione,  Cesare  do- 
mandò se  presso  loro  le 
donne  non  partorissero 
bambini ,  ammonendo 
cosi  in  modo  veramente 
degno  di  principe  coloro 
che  spendono  verso  gli 
animali  bruti  queir  a- 
more  ed  affezione  che  la 
natura  ha  in  noi  posto,  e 
che  è  dovuto  agli  uomini. 


Traduz.  Pompei. 

Cesare  veggen do  ia 
Roma  certi  ricchi  fo- 
restieri girar  dattorno 
con  in  seno  cagnolini  e 
bertuccini,  acquali  fa- 
ceano  affettuose  carezze, 
gì'  interrogò  non  fuor 
di  proposito,  se  fosse 
che  le  donne  appo  ioix) 
non  parto risser figliuoli; 
ammaestrando  c03Ì,ve- 
l'amente  da  sovrano,  co- 
loro che  consumano  in 
versoi  bruti  quell'amore 
e  quegli  affetti  che  in  noi 
posti  ha  la  natura,  e  che 
noi   dobbiamo   agli   oo- 


-  27- 

In  questo  primo  periodo  non  c'è  altro  da  notare  se  non  : 
i*>  il  congiungere  che  fece  il  Pompei  T  uj?  ^oikev  coir  lìpiu- 
TTìcTev,  mentrechè,  secondo  il  mio  parere ,  deve  congiungersi 
coir  àtaTrujvTa(;,  che  si  deve  intendere  per  contentarsi,  com- 
piacersi, restringere  tutto  il  suo  amore  ad  un  oggetto,  la 
qual  disposizione  d'animo  non  essendo  visibile  all'occhio 
corporeo,  ma  solo  congetrarabile ,  si  capisce  il  perchè 
Plutarco  vi  abbia  soggiunto  V<h%  Ioikcv;  2"  il  vov;9eTr!(Taq 
tradotto  da  Pompei  per  amjnaestrando ,  mentre  significa 
piuttosto  assennare,  ammonire.  Proseguiamo  : 

Testo  secondo  Behker.  j      Tradus.  letterale.  Tradus.  Pompei. 

fip'  ouv,  ètcel  qpiXo|na9é^' Sarebbe  mai  vero  adua- Avendo  pertaato  anche 
TI  KéKTnTCì  Kol  (piXoOèa-'que  che  (posciachè  l'a-  e  i  cagnolini  e  i  bertuc- 

,  .  .  7  ,  Inima  nostra  possiede  per  Cini  un  Qualche  desme- 
Mov  fi\XMtv  ■f\y]^x^  'P'J^^f'! natura  l'amor  dell' im-  rio  di  apparare  e  di  os- 
XÓYov  lx«  véfeiv  toò?  parai-e  e  dell'osservare)  servare,  l'animo  nostro 
KOTaxpiUjnévou?  TouTUJ  si  abbia  ragione  di  ri-  ha  bea  ragione  per  la 
irpò<;   Tà   nn&euia^    ggia  prendere  coloro    che  a- natura  sua  di  biasimar 

.,      >      ■  '  ,'busivamente     rivolgono  quelli  che  si  abusano  di. 

anouòf^?  àKoua^iaTa  Kali^^^gp,^  .^^^^^  ^^  ^^j^.^  ^^^  t^^l  desiderio,  tratte- 

Sedfiaxa,  tùjv  òè  KaXuùv  j mirar  cose  degne  di  nes-  uendosi  ad  ascoltare  ed 
Kol  U)qpeXi|itjuv  irapafie-  suno studio,  e. trascurano  osservar  cose  che  non 
XoOvrac-  '^®  cose  belle  e  giovevoli?  meritano  cura  veruna,  e 

AouvTus»  j  trascurando  quelle   che 

I  eono  utili  ed  oneste. 

La  traduzione  del  Pompei  non  dà  qui  né  il  senso  espresso 
da  Plutarco,  né  alcun  altro  senso  ragionevole.  Il  pensiero 
dì  Plutarco  si  può  compendiare  nel  seguente  modo.  Come 
sono  degni  di  biasimo  coloro  che  esauriscono  verso  gli  ani- 
mali bruti  quel  bisogno  di  amare  con  cui  la  natura  ha  vo- 
luto congiungere  gli  uomini  cogli  uomini,  così  sono  degni 
di  biasimo  coloro  che  in  cose  imitili  cercano  la  soddisfa- 
zione di  quel  bisogno  di  sapere  che  la  natura  ha  posto  in 
noi  per  condurci  alla  cognizione  di  cose  utili  e  belle.  Pen- 
siero sottile  che  pel  lettore  della  sola  traduzione  pompe- 
iana va  intieramente  perduto  senza  alcun  compenso. 

[Continua) 

G.  M.  Bertini. 


_  28  — 

qiETTFFICAZIOV^E 
m  UN'ERRONEA  ASSERZIONE    DI   A.G.SCHLEGEL 


L'illustre  storico  e  filologo  Cesare  Gantù,  nella  sua  ela- 
boratissima  Disserta:{ione  sull'origine  della  lingua  italiana 
stata  premiata  dall'Accademia  pomaniana  di  Napoli,  a  pa- 
gina 69  in  nota  riferisce,  a  prova  delle  avvenute  surroga- 
zioni di  vocaboli  da  un  significato  ad  altro  nel  loro  trapasso 
dal  latino  all'italiano,  l'osservazione  fatta  sino  dal  1818  dal 
chiarissimo  filologo  A.  G.  de  Schlegel  nel  suo  opuscolo 
Observations  sur  la  langue  et  la  littérature  provengale: 
che  non  una  delle  lingue  neo-latine  ritenne  il  vocabolo 
verbum,  ma  vi  sostituì  parola  (italiano),  parole  (francese), 
palabra  (spagnuolo),  palavra  (portoghese),  paratila  (pro- 
venzale) (i),  tratta  dal  greco  TrapapoXrj,  che,  quando  con- 
servato ìntegro  nei  suddetti  idiomi,  dinota  racconto  allego- 
rico, attribuendo  tale  scambio  alla  peculiare  significazione 
teologica  datagli  di  Cristo,  attalchè  l'illustre  autore  del  Ma- 
nuale dei  dogmi  cattolici,  il  reverendo  dottor  Klee,  osserva 
che  in  S.  Giustino  Cristo  e  Verbo  sono  pretti  sinonimi. 

Senza  qui  riferire  quanto  dice  a  proposito  di  siffatto  vo- 
cabolo il  celebre  indianista  M.  Mùller  nel  suo  opuscolo 
Uber  deuische  schattirung  rotnanischer  worte,  mi  per- 
metterò di  notare  essere  erronea  l'asserzione  che  nessun 
idioma    neo-latino  abbia    conservato   il  vocabolo  verbum. 


(i)  Ecco  come  alcuni  dialetti  italiani  alterano  questo  vocabolo:  in 
Sicilia  ed  in  Terra  d'Otranto  dicesi  palora,  in  Marebbe  parora,  nel 
Friuli  peraule,  in  Genova,  Milano  e  Bergamo  parolla,  in  Zicavo  (Cor- 
sica) parodra. 


-29  ~ 
giacché  il  rumano,  tuttoché  abbia  cuvìnt  per  parola,  adopera 
non  di  meno  con  maggior  frequenza  e  più  estesamente  vorba; 
inoltre  ha  il  verbo  a  vorbì  {parlare)  che  non  è  nel  latino 
classico,  ma  forse  era  nel  latino  plebeio,  perchè  in  Apultio 
riscontrasi   verbigerare    nell'accezione    di    ciaramellare. 

Rispetto  alla  anormale  permutazione  della  e  tematica  in  o, 
farò  osservare  che  neiridioma  rumano  ne^  vocaboli  di  ge- 
nere femminile  spesso  succede  lo  scambio  della  tonica  latina 
con  altra  e  più  spesso  ancora  con  dittongo;  ma  il  verna- 
colo di  Montalto  (circondario  di  Pistoia)  offre  pure  esempi 
di  eguale  permutazione,  dicendosi  propoten:{ia,  proten\ione 
(Vedi  Nerucci,  Saggio  sopra  i  vernacoli  della  Toscana). 
Il  francese  poi  scambia  Tè  dell'etimo  latino  nel  dittongo  oi, 
che  suona  oa;  esempligrazia  avena,  avoine;  tela,  toile,  ecc. 
Il  vocabolo  verbum,  dirò  per  ultimo,  nel  dialetto  della 
Borgogna,  in  cui  è  adoperato  nel  solo  significato  teologico, 
è  trasmutato  in  varòe  leggendosi  in  uno  dei  deliziosi  Noels 
di  queirantica  provincia  raccolti  da  La-Monnaye  (27*  edi- 
zione) il  verso  seguente  : 

*  L'imaige  da  Varbe  fai  char  ». 

Lo  scambio  adunque  d'una  in  altra  vocale  è  cosa  comune 
e  mi  basti  citare  la  Teorica  dei  suoni  e  delle  forme  della 
lingua  latina  di  Schweizer  Sidler  (traduzione  di  D.  Pezzi), 
nella  quale  al  §  6  si  riferiscono  le  forme  assunte  successi- 
vamente dal  vocabolo  piede,  cioè:  pAdas ,  pMós ,  pédUs, 
pèdès,  pédis ,  che,  nella  finale,  percorse  tutta  quanta  la 
gamma  fonetica. 

Soggiungerò  ancora  non  essere  il  rumano  la  sola  favella 
neo-latina  che  non  abbia  accolto  parola  per  verbum^  giac- 
ché la  sarda  meridionale,  cioè  la  campidanese,  dice  faedda 
t  faeddai  (parlare),  derivante,  per  sincope,  da  favella, 
sapendosi  che  i  volgari  della  Sardegna,  eccettuato  quello 
di  Sassari,  della  Sicilia,  di  Lecce  e  di  Ghisoni  in  Corsica 


-  30  - 
scambiano  la  doppia  //  in  doppia  dd ,  cioè,  giusta  la 
classazione  seguita  dal  mio  giovane  amico  D*"  Pezzi,  nella 
sua  Grammatica  storico-comparativa  della  lingua  latina, 
mutano  nella  dentale  esplosiva  sonora  la  dentale  tremola. 
—  Il  romancio  del  Cantone  dei  Griggioni  adopera  alla 
sua  volta,  per  significare  parola,  plaid  e  plaider  (parlare)  -, 
questo  verbo  è  omofono  a  quello  francese  per  dinotare  le 
disputazioni  nanti  i  tribunali  ed  in  Coirà  mi  fu  dal  ch»mo 
filologo  Conradi,  or  fanno  molti  anni ,  segnato  qual  etimo 
del  verbo  francese,  a  vece  del  placitum,  basso  latino,  come 
pretendono  gli  etimologisti  da  Du-Cange  a  Brachet,  ed 
avvalorava  siffatta  derivazione  dallo  avere  l'egregio  Fauriel 
{Dante  et  Ics  origines  de  la  langue  et  de  la  littérature 
italienne)  asserito  che  il  romancio  dei  Griggioni  deriva  in 
gran  parte  dal  latino  rustico.  Non  entrerò  in  disamina  di 
tale  opinione,  sto  pago  al  riferirla. 

Reputai  non  disutile  il  far  avvertiti  con  queste  poche  pa- 
role ì  giovani  indagatori  delP  origine  e  formazione  degli 
idiomi  romanzi  dello  sbaglio  preso  da  A.  G.  Schlegel, 
perchè  la  di  lui  grande  autorità  in  filologia,  se  già  potè 
trarre  un  Cesare  Cantij  in  errore,  altri  meno  di  lui  dotti  e 
saputi  potrebbero  esserlo  assai  più  facilmente. 

VeGEZZI  -  RUSCALLA . 


CE^V^I  "BmLIOG^AFICI 

Die  strofe  des  Tantatus  nach  Pindar 
von  Prof.  Domenico   Comparettì. 

li  ch"^  Professore  di  letteratura  greca  nella  R.  Università 
di  Pisa,  autore  della  dissertazione  qui  annunciata,  consi- 


—  31  — 
aerando  che  Tesegesi  del  più  grande  dei  lirici  greci  non  fu 
di  gran  lunga  argomento  di  sì  profondi  e  minuti  studii, 
quanto  la  critica  del  suo  testo,  si  propone  di  discutere,  con 
tutta  la  minutezza  che  Todierna  scienza  filologica  richiede, 
una  serie  di  luoghi  che  alla  interpretazione  presentano  le 
maggiori  difficoltà  e  per  i  quali  quelle  che  furono  proposte 
finora  meno  possono    soddisfare. 

Il  passo  del  quale  si  occupa  nel  presente  suo  lavoro  è  uno 
dei  più  controversi  della  prima  ode  Olimpiaca  (v.  56  e  seg.), 
in  cui  è  parola  della  punizione  di  Tantalo  e  che  a  parer  mio, 
per  la  prima  volta,  dal  prof.  Comparetti  è  stato  interpretato 
in  un  modo  veramente  soddisfacente.  Mediante  un  finissimo 
ragionamento  e  con  grande  corredo  di  classica  erudizione  viene 
nella  conclusione  che  il  senso  del  passo  sia  il  seguente:  Tantalo 
ha  abusato  dei  doni,  co'quali  gU  Dei  lo  hanno  reso  immor- 
tale, e  per  ciò  lo  hanno  punito  convertendo  i   loro   doni  in 
altrettanti  tormenti.  Gli  hanno  sospeso   una  rupe  sul  capo 
facendogli  porre  innanzi  nettare  ed  ambrosia.    Fra  Teterna 
paura  che  questa  rupe  gli  si  precipiti  addosso  e  la  fame  e  la 
sete  che  non  può  appagare,    il  dono  delV immortalità  e  un 
quarto  tormento  (la  maggior  difficoltà  del  passo  sta  appunio 
nelle  parole  «  jiexà  ipiuiv  Téiapiov  nóvov  »),  a  cui  senza  riposo 
e  senza  fine  è  sottoposto  nel  cielo. 

Dopo  un  lavoro  che  dà  un  sì  bel  risultato  non  possiamo  che 
desiderare  che  presto  sia  pubblicata  la  continuazione  di  queste 
profonde  e  minutissime  ricerche,  le  quali  spargeranno  grande 
luce  su  molti  punti  ancor  contrastati.  È  vero  che  vi  hanno 
degli  studiosi  di  filologia,  che  facilmente  s'acquietano  alle  in- 
terpretazioni antiche,  ma  studii  cow  «minuti  e  fecondi  di  bei 
risultati  come  quello  del  prof.  Comparetti  r^ia^leranno  sem- 
pre più  impossibile  il  pronunciarsi  intorno  aUuoghi  dei  più 
celebri  classici  scrittori  come  a  proposito  del  p?sso  m  di- 
scorso fa  il   Flores  nelle  sue  «  Odi  Oliifpichc  di    Pindaro 


—  32  — 
volgarizzate  »  (Vercelli  1 866),  che  a  pag.  98,  not.  1 7  crede 
di  poter  dire  :  «  I  tre  altri  tormenti  sarebbero  la  fame,  la  sete, 
e  il  disagio  di  star  ritto  in  mezzo  del  lago.  Ma  sieno  questi  o 
altri  tormenti,  è  cosa  di  poco  rilievo,  come  a  me  sembra. 
Anzi  questo  luogo  e  quelli  moltissimi  che  s'incontrano  presso 
tutti  i  poeti,  dovrebber  render  persuasi  alcuni  filologi  della 
grande  verità  delle  tradizioni  locali,  intorno  alle  quali  si  può 
affermare  che  appena  ne  conosciamo  la  minima  parte.  Onde 
deriva  dunque  la  boria  di  quella  scienza,  che  si  fonda  sopra 
notizie  sì  imperfette?  a  Forse  io  studio  delio  scritto  di  Gom- 
paretti  e  l'altro  sullo  stesso  autore  (inserito  ugualmente  nel 
Philologus^  voi.  28,  p.  385  e  seg.),  potranno  insegnare  a 
molti  che  ii  serio  lavoro  ben  giunge  a  sciogliere  delie  aiificoltà 
che  incontriamo  nei  grandi  scrittori  e  quale  sia  ii  metodo  da 
seguire  in  simili  ricerche,  non  dovendo  il  filologo  senz'altro 
neir  interpretazione  dei  grandi  scrittori  così  facilmente  di- 
spensarsi delle  minute  riceixhe  ed  acquietarsi  con  un  non 
liquet  per  mancanza  di  notizie. 

G,    MiJLLER. 


'OXocpiXou  '€patTeXo?  Kaì  '€pao,ula  {Gli  amori  di  Erogelo  e 
di  Erasmià).  —  Storia  greca  trovata  e  volgari^ata  da 
Innocente  Demaria,  Torino^  1872. 

Ghi  vede  il  titolo  del  presente  libro  s'aspetta  un  avanzo 
della  letteratura  greca,  fosse  anche  dei  tempi  della  decadenza, 
finora  sconosciuto,  e  l'aprirà  forse  con  una  certa  avidità.  Ma 
tosto  si  vedrà  stranamente  disingannato,  perchè  invece  d'uno 
scritto  d'autore  greco  non  troverà  nemmeno  un  abile  tentativo 
d'impostura  letteraria,  ma  il  fascicolo  d'uno  studioso  di  lingua 
greca,  che  prima  d'avere  bene  imparata  la  grammatica  e  stu- 
diato le  regole  più  elementari  di  sintassi  greca,  s'è  preso  lo 


-  33  - 
strano  divertimento  di  tradurre  un  insipido  racconto  italiano 
in  greco y  o  dMnventarsene  uno  per  esporlo  in  lingua  macche- 
ronica, che  non  franca  la  spesa  d'indagare  ora.  Non  dubitiamo 
menomamente  che  il  giovane  editore  abbia  trovato  lo  scarta- 
faccio, che  diede  alle  stampe,  in  un  vecchio  armadio  tra  l'as- 
sito e  la  parete,  né  ci  maravigliamo,  atteso  il  triste  stato  in 
cui  si  trova  lo  studio  del  greco  ne'  nostri  licei,  ch'egli  non  si 
sia  accorto  come  quello,  che  a  lui  parve  cosa  bella  e  meri- 
tevole della  diffusione,  sia  il  più  strano  sproposito  da  capo  a 
fondo.  Ma  dobbiamo  davvero  esprimere  il  nostro  stupore, 
che  queir  «  uomo  distintissimo,  ottimo  intendente  delle  let- 
tere greche  ed  italiane  »  da  cui  prese  consiglio,  secondo  la 
prefazione,  e  che  difiicilmente  può  essere  altri  che  un  suo 
professore,  sia  tanto  ignorante  o  tanto  maligno  da  esporre  un 
allievo,  che  è  certamente  di  ottima  volontà,  ad  un  meritato 
severo  biasimo.  Noi  per  nostra  parte  lo  consigliamo  a  leggere 
con  accuratezza  il  suo  Senofonte,  dopo  aver  studiato  per  bene 
la  sua  grammatica ,  e  fra  breve  conoscerà  egli  stesso  qual 
cosa  ha  stampato,  credendola  greco  del  buon  tempo. 

G.    MiJI.LER. 


Primo  supplemento  alla  raccolta  delle  antichissime  iscrizioni 
italiche  coni  aggiunta  di  alcune  osservazioni  paleografiche 
e  grammaticali  di  A.  Fabretti.  Torino,  Stamperia  Reale, 
1872,  in-4°,  p.  142  (Dalle  Memorie  della  R.  Accademia 
delle  Scienze  di  Torino,  S.  Il,  T.  XXVII). 

Sono  ben  oltre  5oo  iscrizioni  aggiunte  al  Corpus  inscriptio- 
num  antiquioris  aevi  che,  come  ognun  sa,  il  prof.  Fabretti 
finiva  di  pubblicare  circa  quattro  anni  sono  insieme  col 
Glossarium  italicum.  Di  queste  iscrizioni  circa  35o  sono 
etrusche,  il  resto  latine,  umbriche,  sabelliche,  messapiche. 

Hivista  di  filologia  ecc.,  1.  3 


-  34  - 
falische,  e  qualcuna,  tra  quelle  dell'Italia  Superiore,  fors'anco 
celtica  o  retica.  Sono,  buona  parte,  od  inedite  o  ad  ogni 
modo  scoperte  in  questi  ultimi  anni,  disposte,  come  quelle 
del  Corpus,  per  ordine  geografico ,  le  più  importanti  accom- 
pagnate da  dichiarazioni  e  commenti.  Seguono  correzioni  e 
osservazioni  intorno  alle  epigrafi  già  pubblicate,  principal- 
mente tra  quelle  che  il  Fabretti  potè  di  poi,  massime  per  le 
mutate  condizioni  politiche  dell'agro  romano,  visitare  ed 
esaminare  più  attentamente  sul  luogo  e  così  più  sicuramente 
fermarne  la  vera  lezione.  Viene  in  ultimo  un  indice  di  tutte 
le  parole  contenute  nelle  iscrizioni,  ricco  di  circa  un  migliaio 
di  vocaboli,  la  maggior  parte  consistenti,  già  s'intende,  in 
nomi  proprii  di  persone,  taluni  affatto  nuovi  ;  specie  di  sup- 
plemento al  Glossarium ,  se  non  che  nell'indice  è  maggiore 
parsimonia  di  dichiarazioni.  Aggiungonsi  alla  fine  nove  tavole 
presentanti  principalmente  i  fac- simili  delle  iscrizioni  più 
notevoli  per  singolarità  di  caratteri. 

Si  riserva  il  Fabretti  di  pubblicare  in  appresso  alcune  os- 
servazioni paleografiche  e  grammaticali  che  verseranno,  le 
prime,  sugli  alfabeti  italici,  le  seconde,  principalmente  sulla 
lingua  etrusca;  sicché  è  da  sperare  che  mercè  i  lavori  del 
Fabretti  e  di  altri ,  come  dire  del  Gonestabile ,  del  Lattes  e 
segnatamente  di  quel  gran  maestro  di  antica  dialettologia 
italica  che  è  Guglielmo  Corssen,  del  quale  viene  annunziata 
come  prossima  la  pubblicazione  di  una  grammatica  etrusca, 
questa  tanto  importante  fra  le  antiche  favelle  d'Itaha,  rimasta, 
si  può  dir  quasi  in  sino  al  giorno  d'oggi,  una  specie  di  eninima 
glottologico,  cesserà  non  solo  di  essere  tale,  ma  si  chiarirà, 
secondo  che  da  qualche  anno  si  viene  congetturando,  ancor 
essa  per  ramo  indubitato  dello  stipite  indo-europeo  e  lascerà 
pur  vedere  finalmente  qualcosa  di  quella  sua  struttura  gram- 
maticale, finora  non  intravveduta  pur  troppo  se  non  per 
qualche  lontano  ed  incerto  barlume. 


-  :35  - 
Questo  lavoro  del  prof.  Fabretti ,  mentre  viene  a  darci 
novella  prova  della  dottrina  ed  operosità  dell'autore,  attesta 
eziandio  d'altra  parte  quel  maggior  fervore  che  pare  essersi 
racceso  da  qualche  tempo  in  Italia  per  quanto  si  riferisce 
all'illustrazione  dei  suoi  antichi  monumenti,  secondo  che  si 
raccoglie  principalmente  dalle  notizie  che  il  Fabretti  ci  viene 
qui  occasionalmente  porgendo  di  scavi,  scoperte  e  monografie 
connesse  colle  nuove  iscrizioni  da  lui  pubblicate. 

G.  Flechia. 


D'Arbois  de  JuBAiNviLLE,  La  déclinaison  latine  en  Caule 
à  l'epoque  Mérovingìenne,  étude  sur  les  origines  de  la 
langue  fran^aìse,  Paris,  .1872,  i  voi.  di  p.  i65. 

«  G'est  avec  intention»,  scrive  l'autore,  «que  nous  nous 
sommes  restreint  à  l'étude  de  documents  qui  appartiennent 
exclusivement  à  la  Caule  ou  à  l'empire  frane.  Nous  croyons 
qu'en  Gaule  le  latin  vulgaire  a  eu  certains  caractères  profon  - 
dément  distincts  de  ceux  qu'il  mentre  hors  de  la  Gaule,  spé- 
cialement  en  Italie  »  (i).  Da  questi  documenti,  che  cita  sem- 
pre accuratamente,  egli  trae  gli  esempii  opportuni  a  determi- 
nare le  forme  della  flessione  nominale  e  pronominale  del 
latino  in  Gallia  nella  epoca  dei  Merovingi.  Espone  prima- 
mente le  cinque  declinazioni  nominali,  giusta  l'ordine  della 
grammatica  empirica  comune,  ma  comprendendo  nelle  tre 
prime  quelle  degli  aggettivi  e  quei  casi  della  declinazione  pro- 
nominale dei  quali  la  desinenza  è  identica  a  quella  dei  me- 
desimi casi  nella  declinazione  dei  nomi:  le  forme  speciali 
della  flessione  pronominale  vengono  dopo.  Gompendieremo 

(1)  Prefazione,  p.  7. 


-  36  — 

i  risultali  a  cui  l'autore  si  crede  giunto  colle  sue  stesse  pa- 
role :  «  Trois  manières  de  declinar  les  noms,  les  adjectifs  et 
les  participes  sont  usitées  dans  les  documents  rnérovingiens. 
—  La  première  est  identique  à  la  déclinaison  ciassique.  — 
La  seconde  n'en  diifère  que  par  un  phénomène  phonétique, 
par  une  modification  dans  la  prononciation  des  voyelies, 
quelquefois,  mais  rarement,  dans  la  prononciation  des  con- 
sonnes;  nous  appellerons  ce  système:  déclinaison  vulgairedu 
premier  degré.  —  La  troisième  manière  de  décliner  est  le 
résultat  de  l'introduction  d'une  syntaxe  nouvelle.  Les  cas 
sont  employés  autrement  qu'autrefois  :  une  partie  d'entre 
eux  remplit  concurremment  la  mème  fonction,  plusieurs  de- 
viennent  inutiles,  et  le  nombre  des  cas  tend  à  se  réduire  à 
quatre  ou  à  deux.  A  ce  troisième  système,  qui  a  servi  de 
transition  entre  ia  langue  latine  et  le  francais  archaique,  nous 
donnerons  le  nom  de  déclinaison  vulgaire  du  second  degré... 
Le  francais  commence  du  jour  où  les  flexions  des  cas  obli- 
ques  disparaissent  ou  se  confondent  en  une  seule.  On  trouve 
peu  de  traces  de  cette  forme  nouvelle  dans  les  documents 
mérovingiens  »  (i).  E  conchiude:  «  A  l'epoque  mérovingienne, 
un  principe  nouveau  régnait  dans  la  déclinaison  latine  où, 
par  la  puissance  de  ce  principe,  une  revolution  considérable 

s'était  accomplie Dans  le  latin  classique  une  fonction 

speciale  est  attribuée  à  chacune  des  formes  si  variées  que 
l'on  désigne  par  diverses  combinaisons  des  termes  de  cas,  de 
genre  et  de  nombre.  Dans  le  latin  des  temps  mérovingiens 
ces  formes  si  nombreuses  subsistent.  Bien  plus,  une  partie  de 
ces  formes  nous  apparait  doublée  ou  meme  triplée.  A  coté 
de  la  forme  classique  on  trouve  souvent  une,  quelquefois 
deux  formes  secondaires,  ordinairement  issues  de  la  forme 
classique,  mais  qui,  parfois,  conservent  un  son  archa'ique 


(T/  Prefazione,  p.  5-6. 


—  37  -> 

antérieur  à  la  forme  classique Mais  à  l'epoque  méro- 

vingienne ,  malgré  ce  nombre  considérable  de  formes ,  le 
nombre  des  fonctions  que  la  pensée  concoit  et  demande  à 
la  parole  est  considérablement  réduit.  Dès  Tépoque  méro- 
vingienne,  au  lieu  des  six  fonctions  casuelles  distinguées  par 
la  grammaire  classique,  la  syntaxe  ne  semble  distinguer 
pour  les  noms,  les  pronoms  et  les  adjectifs,  que  deux  fon- 
ctions casuelles,  sujet  et  regime  :  de  là  l'emploi  si  fréquent 
des  cas  régimes  Tun  pour  Tautre.  En  fait  de  genres,  le  mas- 
culin  et  le  féminin  seuls  vivent  encore  come  fonction;  du 
neutre  la  forme  seule  subsiste cependant  les  for- 
mes grammaticales  inutiles  subsistèrent  pendant  les  trois  siè- 
cles  que  dura  la  période  mérovingienne.  Ce  fut  seulement 
pendant  la  période  carlovingienne  que  la  simplifìcation  des 
formes  mit  le  matèrie!  grammatical  en  harmonie  avec  la  sim- 
plifìcation des  idées.  Alors  le  francais  naquit»  (i). 

11  signor  D'Arbois  de  Joubainville  ci  permetta  di  osservare 
che,  se  dagli  esempii  addotti  nel  suo  libro  bassi  a  trarre  un 
giudizio  intorno  alla  sintassi  del  latino  gallico  nell'età  dei 
Merovingi,  non  si  può  credere  nemmeno  ben  conservata  la 
distinzione  capitalissima  tra  il  caso  esprimente  il  soggetto  e 
quello  che  indica  Toggetto.  E  veramente  egli  stesso  confessa 
che  «  la  première  déclinaison  mentre  une  tendance  evidente 
à  réduire  les  formes  latines  a  deux,  l'une  pour  le  singulier, 
l'autre  pour  le  pluriel ....  »  e  che  nella  terza  «  la  distinc- 
tion  entre  le  cas  sujet  et  les  cas  régimes  du  singulier  et  du 
pluriel,  à  l'aide  de  Vs  final,  ne  peut  s'y  ctablir  aussi  nette- 
ment  (che  nella  prima  e  nella  seconda)  »  (2).  Ora  sarebbe 


(i)  P.  160-161. 

(2)  Vedi  le  osservazioni  generali  sulle  declinazioni  nominali  (p.  148- 
149).  Cosi  nella  i*  declinazione  troviamo  esempii  di  acc.  sing.  per  nom. 
sing.  (p.  io),  di  acc.  plur.  e  di  ahi.  plur.  per  nom.  plur.  (p.  20,  21, 
22);  nella  3»  di  acc.  sing.  per  nom.  sing    (p.  79)  e  di  nom.  sing.  per 


-  38  — 
assurdo  e  contrario  al  maggior  numero  degli  esempii  addotti 
dal  nostro  autore  il  supporre  che  nel  latino  della  Calila  sotto 
i  Merovingi  si  fossero  confusi  insieme  i  due  sì  distinti  con- 
cetti del  soggetto  e  dell'oggetto.  Ancor  più  di  noi  sarebbe 
certamente  avversa  a  questa  ipotesi  ed  a  quella  del  nostro 
autore  la  scuola  d^illustri  filologi  francesi  la  quale,  seguendo 
A.  G-  Schlegel,  credette  scorgere  nella  trasformazione  del 
latino  antico  nei  volgari  neo-latini  Tefifetto  di  una  «  tendenza 
analitica  »  (i).  Noi  pertanto  piiì  che  la  teorica  del  signor 
D'Arbois  di  Joubainville  siamo  inclinati  ad  ammettere,  come 
già  altrove  facemmo(2),  quella  dello  Schuchardt  e  del  Corssen, 
i  quali  considerano  la  confusione  dei  casi  come  un  risultato 
di  fenomeni  meramente  fonetici ,  ossia  del  graduato  dileguo 
delle  desinenze  s,  ?«,  e  del  progressivo  aftievolimento  delle 
vocali  diventate  finali  dopo  Taccennato  dileguo  (3). 

Ma  la  nostra  diversa  opinione  intorno  a  questo  argomento 
non  ci  distoglie  dal  riconoscere  i  pregi  di  questo  lavoro  :  la- 
voro serio  ed  utile  per  la  ricca  raccolta  di  farti ,  concernenti 


acc.  sing.  (p.  98),  di  abl.  sing.  per  nom.  sing.  (p.  82)  e  viceversa  (p,  104I, 
di  gen.  sing.  per  nom.  sing.  (p.  83)  e  di  questo  per  quello  (p.  92).  di 
abl.  plur.  per  nom.  plur.  (p.  107);  nella  5»  di  acc.  sing.  per  nom.  sing. 
(p,  'liS):  e  nella  flessione  pronominale  ci  appare  un  acc.  sing.  in  luogo 
del  nom.  sing.  (p.  i53). 

(i)  E.  BuRNouFCt  Lassen,  Essai  sur  le  pali  ecc.,  Paris.  1S26,  p.  140- 
141.  —  ViLLEMAiN,  Lìttérature  du  moyen  dge  ecc.,  Paris,  i83o,  v.  i». 
p.  49-54.  —  Fauriel,  Dante  et  les  origines  de  la  langue  et  de  la 
littérature  italienne,  Paris,  1854,  v.  2»,'  P-  1-29»  3o-44,  45-78,  270-293. 
—  Renan,  De  Vorigine  du  langage,  2»  ed.,  Paris,  i858,  p.  i5i-i68.  — 
Id.y  Histoire  generale  etsystème  compare  des  langues  sémitiques,  Paris, 
i855,  p.  402-414. 

(2)  V.  la  nostra  Grammatica  storico-comparativa  della  lingua  latina 
ecc.,  Torino,  1872.  p.  393. 

(3)  Schuchardt,  Der  vokalismus  des  vulg'àrlateins ,  Leipzig,  1866, 
V.  1°,  p.  47.  —  Corssen,  Uber  aussprache,  vokalismus  utid  betonung 
der  lateinischen  sprache,  2»  ed.,  Leipzig  1868,  v.   i",  p.  293. 


-  39  — 

un  problema  importantissimo  (e  sinora  troppo  negletto)  di 

linguistica,  per  la  diligente  indicazione  dei  fonti,  e  finalmente 

pel  tentativo  di   notare  l'azione  del   celto  sul  latino  della 

Gallia  (i). 

D.  Pezzi. 


i 

Histoire  de  l'éloquence  latine  depids  l'origine   de   Rome 

jusqu'à  Cicéron,  d'après  les  notes  de  M.  Adolphe  Berger 
professeur  à  la  faculté  des  lettres  de  Paris,  réunies  et 
pubbliées  par  M.  Victor  Cucheval  docteur  ès  lettres^  pro- 
fesseur  de  rhétorique  au  lycée  Saint- Louis^  Paris,  Ha- 
chette,  1872,  2  voi.  di  pag.  xv-333  e  SyS. 

Il  signor  Cucheval  onorò,  nella  più  nobile  guisa  che  gli 
fosse  possibile,  la  memoria  del  suo  compianto  amico,  ricom- 
ponendo, per  mezzo  dei  sommarli  e  delle  note  che  questi 
aveva  lasciate  e  dei  quaderni  degli  allievi,  le  applaudite  le- 
zioni del  dotto  professore  intorno  alle  origini  della  letteratura 
romana,  colmandone  le  rare  lacune  colle  proprie  ricerche  per- 
sonali ed  aggiungendo  a  ciascun  volume  un'appendice,  in 
cui  si  contengono  i  principali  fra  i  documenti  citati  nel  libro. 
Abbiamo  detto  «  intorno  alle  origini  della  letteratura  ro- 
mana »,  e  veramente  si  farebbe  un  concetto  inadeguato  di 
quest'opera  chi,  ingannato  dal  titolo,  la  credesse  una  mera 
storia  dell'eloquenza  latina  dai  primi  tempi  di  Roma  a  Ci- 
cerone. L'autore,  dopo  avere  fatto  oggetto  de'  suoi  studi  le 
prime  prove  ed  originali  dell'ingegno  romano,  descrive  la 
graduata  ed  inevitabile  azione  esercitata  dalla  bellezza  e  dalla 
sapienza  greca  sulla  rozzezza  latina  ed  i  progressi  dell'arte 


(i)  V.  p.  16-17,  22-24,  3i-33,  64-65,  117-121. 


-  40  — 

Storica  ed  oratoria  presso  i  Romani  sino  al  grande  rivale  e 
vincitore  di  Ortensio.  Lo  svolgimento  letterario  del  gran  po- 
polo ci  appare  continuamente  ritratto  nelle  sue  molteplici  ed 
intime  attinenze  cogli  altri  elementi  della  civiltà  di  esso,  giusta 
i  principi!  supremi  della  critica  odierna.  L^accurata  e  viva 
esposizione  di  fatti,  numerosi  ed  appartenenti  ad  un  periodo 
in  Francia  ed  in  Italia  non  troppo  studiato  della  letteratura 
latina,  ci  rende  utile  e  caro  questo  libro,  di  cui,  senza  esage- 
rarne la  importanza  (certo  non  più  che  mediocre),  puossi 
ben  dire  che  è  lontano  dalle  sterili  fantasie  e  dalle  vane  de- 
clamazioni come  dalla  noiosa  aridità.  Dopo  queste  nostre 
modeste  lodi  ci  sia  lecito  osservare  che,  fra  parecchie  altre  su 
cui  il  dovere  della  brevità  ci  consiglia  il  silenzio,  certe  opi- 
nioni etnografiche  destarono  la  nostra  meraviglia.  E,  per  ci- 
tarne una  sola,  è  forse  lecito  affermare  presentemente  che 
«les  Ombriens  sont  des  Celtes»  ?(i).  Saremmo  assai  grati  al 
signor  Cucheval  s'egli  avesse,  almeno  con  una  breve  nota, 
esposto  su  questo  e  qualche  altro  argomento  li  risultato  degli 
studi  pili  recenti,  in  ispecie  germanici.  E  vorremmo  ezian- 
dio ch'egli,  facendo  menzione  delle  famose  tavole  Eugubine, 
avesse  almeno  accennato  il  notevolissimo  lavoro  di  Aufrecht 
e  Kirchhoff,  e  che  in  ordine  alle  iscrizioni  italiche  antiche  da 
lui  citate  avesse  avuto  ricorso  alla  insigne  opera  del  nostro 
Fabretti.  E  vi  avrebbe  trovata  a  pag.  ccliiì-iv,  giusta  la 
lezione  di  Corssen  e  dal  medesimo  interpretata,  queiriscri- 
zione  che  si  legge  a  pag.  299-301  del  primo  volume  della 
Histoire,  nell'appendice,  colla  spiegazione  di  alcuni  vocaboli 

data  dallo  Schoell  ! 

D.  Pezzi. 

(r)  Op.  cit.,  p.   i3  e  16. 


—  u  — 

Sulpiciae  Calent  Satira.  Hecensuìt  Dominicus  Carutti.  — 
Augustae  Taurinorum,  MDCCCLXXIl,  in -4°,  pag.  26 
(Dalle  memorie  della  R.  Accademia  delle  Scienze  di  To- 
rino, S.  Il,  T.  XXVIII). 

Due  Sulpicie  ricorda  la  storia  della  letteratura  latina  : 
dell'una  cantano  gli  amori  con  Gerinto  alcune  elegie  attri- 
buite a  Tibullo  -,  dell'altra ,  moglie  di  Galeno ,  vissuta  al 
tempo  deir imperatore  Domiziano,  parlano  principalmente 
due  epigrammi  di  Marziale ,  in  cui  se  n'esalta  la  felicità 
coniugale  e  se  ne  lodano  i  versi  amorosi  improntati  di  te- 
nero e  pudico  affetto.  Questi  versi  per  mala  ventura  non 
giunsero  insino  a  noi  •,  ma  corre  sotto  il  nome  di  Sulpiciae 
Satira  un  componimento  di  settanta  esametri,  in  forma  di 
una  specie  di  dialogo  tra  la  poetessa  e  la  musa,  in  cui  si 
lamentano  le  tristizie  del  tempo  e  l'inettezza  di  chi  governa. 

La  satira  di  Sulpicia  fu  primamente  pubblicata  a  Ve- 
nezia nel  1498  insieme  coi  versi  latini  di  alcuni  poeti  ita- 
liani del  secolo  XV,  e  datavi  come  cosa  procedente  da  un 
testo  scoperto  da  Giorgio  Merula  alessandrino,  morto  circa 
quattro  anni  addietro,  letterato  di  quei  tempi  assai  noto  e 
primo  editore  di  Plauto,  di  Marziale  e  d'altri  scrittori  latini. 
Se  ne  fecero  dipoi  varie  edizioni  e  fu  ristampata  prima  colle 
opere  d'Ausonio,  a  cui  fu  da  taluni  anche  attribuita,  talvolta 
col  Satirico  di  Petronio  e  più  spesso  colle  satire  di  Giove- 
nale e  di  Persio,  come  anche  coi  poeti  minori  e  separata- 
mente. Fu  commentata  e  cercata  di  ridurre  a  migliore  le- 
zione da  molti  valenti  critici ,  quali  il  Barth-,  il  Dousa ,  il 
Boxhorn,  il  Burmann,  il  Gannegieter,  il  Bouher,  il  Werns- 
dorf,  lo  Schwarz,  lo  Schlager,  ecc.;  giudicata  variamente 
dai  critici,  fu  da  taluni  lodata  come  nobile  componimento, 
da  altri  detta  cosa  piiì  che  mediocre.  La  satira  di  Sulpicia 


—  42  - 

fu  inoltre  tradotta  in  italiano,  nello  scorso  secolo  da  Marco 
Aurelio  Soranzo,  e  in  questo  da  Ludovico  Canal,  come  pure 
in  francese  da  G.  Monnard  e  in  svedese  da  C.  A.  F.  Moller. 

Nel  1869,  il  Boot,  dotto  olandese,  già  noto  per  alcuni 
lavori  di  critica  letteraria,  stampava  nelle  memorie  di  quella 
Accademia  delle  Scienze  (V.  Verhandelingen  der  Kon.  Aka- 
demie  van  Wetenschappen.  Afdeeling-  Letterkunde,  Vierde 
Deel.  Amsterdam,  1869,  in-4°),  sotto  il  titolo  di  Commen- 
tatio  de  Sulpiciae  quae  fertur  satira,  una  sua  dissertazione, 
nella  quale  egli  nega  ricisamente  che  una  tale  satira  possa 
essere  stata  scritta  sul  finire  del  primo  secolo  dell'era  volgare, 
pur  sapendo,  com''egli  nota,  che  questa  sua  opinione  viene 
ad  essere  contraria  a  quella  di  quanti  presero  a  pubblicarla 
e  che  critici  di  gran  valore,  quali  un  Hofmann,  un  Peerl- 
kamp ,  un  Lachmann ,  un  Haupt  la  tennero  per  genuina  ; 
la  qual  cosa,  dice  egli,  non  avrebbero  però  essi  fatto  se  più 
attentamente  l'avessero  considerata.  Egli  osserva  inoltre, 
come  già  nel  secolo  XVI  L.  Gregorio  Giraldi  (De  poetarum 
hist.  Dial.  IV)  avesse  mosso  qualche  dubbio  circa  la  sin- 
cerità di  questo  componimento  e  come  ai  tempi  nostri  il 
Bernhardy  nella  sua  storia  della  letteratura  latina  dicesse 
quella  satira  parergli  cosa  al  tutto  indegna  di  Sulpicia. 

Messo  innanzi  un  doppio  testo  della  satira ,  Tuno  colla 
forma  scorretta  dell'edizione  principe  del  1498,  l'altro  con 
quella  che  ne  risulta  dalla  recensione  dell'Hermann,  il  Boot, 
dopo  di  averne  notato  la  sproporziojie  delle  parti  e  il  mal 
collegamento  de'  luoghi,  passa  in  rassegna  parecchi  esempi 
di  quelle  cose  che  egli  crede  doversi  qualificare  difetti  di 
prosodia,  errori  storici,  similitudini  improprie,  barbarismi, 
novità  di  locuzioni  e  oscurità,  quasi  enigmatica,  di  concetti. 
Aggiugne  quindi,  a  corroboramento  della  sua  opinione,  non 
esistere,  per  quanto  sappiasi,  alcun  codice  ms.;  nessun  edi- 
tore aver  mai  fatto  cenno  di  testi  a  penna;  ed  essere  al  tutto 


-  43  - 
infondato  il  sospetto  del  Burmann  e  d'altri  che  questo  carme 
provenga  da  un  qualche  codice  del  monastero  di  Bobbio. 
Doversi  pertanto  tener  per  favola  lo  scoprimento  che  di  questa 
satira  il  veneto  editore  dice  essere  stato  fatto  da  Giorgio 
Menila-,  smentito  anche  da  ciò,  che  l'edizione  d'Ausonio, 
fattasi  in  Milano  dallo  Scinzenzeller  nel  1497,  con  prefazione 
di  esso  Merula,  non  contiene  la  satira  di  Sulpicia,  come  a- 
vrebbe  verisimilmente  fatto,  se  il  Merula  ne  fosse  proprio 
stato  lo  scopritore.  E  conchiude  doversi  tenere  per  lavorio  di 
qualche  ignoto  italiano  dei  XV  secolo,  il  quale,  per  meglio 
coprir  la  sua  frode,  ne  presentò  messi  insieme  con  qualche 
disordine  i  versi  e  vi  sparse  qua  e  colà  errate  lezioni,  quasi 
volesse  accennare  a  codice  di  pessima  scrittura. 

A  cotesta  opinione  del  Boot,  che  nega  la  sincerità  della 
satira  sulpiciana,  si  accosta  senza  alcuna  esitanza  G.  S. 
Teuffel,  affermando  nella  sua  storia  della  letteratura  romana 
(p.  645),  che  il  critico  olandese  ebbe  al  tutto  ragione  di  qua- 
lificarne i  versi  misera  compilazione  del  secolo  XV,  e  aggiu- 
gnendo,  tra  le  altre  cose,  non  trovarsi  nulla  in  questa  satira 
che  già  non  sappiasi  da  altri  libri;  solo  per  necessità  di  metro 
la  svetoniana  obesitas  ventris  di  Domiziano  cambiarsi  in  un 
gozzo  {ingluvies)\  e  lui  di  rubicondo  farsi  pallido;  l'arditezza 
delle  allusioni  essere  stata  certamente  più  facile  al  compilatore 
che  non  a  Sulpicia;  il  tono  e  le  espressioni  accusar  general- 
mente il  semidotto  che  vuol  far  versi  e  non  sa  farne  di  buoni; 
quindi  le  molte  rabberciature,  le  sconcezze  di  costruzione,  ecc. 

La  pubblicazione  del  Carutti  si  propone  principalmente 
due  cose  :  restituire  la  satira  alla  poetessa  romana  e  il  testo 
a  forma  più  corretta.  Confessa  il  Carutti  che  le  ragioni  con 
tanto  acume  di  critica  accampate  dal  Boot  contro  la  sincerità 
del  componimento  per  poco  non  l'avevano  tratto  nella  di  lui 
sentenza;  ma  ponderata  più  attentamente  la  cosa,  si  persuase 
del  contrario;  non  avendo  egli  trovato  nella  satira  sulpiciana 


—  44  — 

nulla  che  faccia  contro  la  storia  e  i  costumi  de'  Romani ,  né 
locuzioni  che  sappiano  di  troppo  moderna  foresteria;  conget- 
turar quindi  che  le  mende  imputatele  dal  Boot  e  da  altri 
siano  piuttosto  da  recarsi  allo  scrittore  del  codice,  che  non 
ad  inetto  ciurmadore ,  il  quale  cerchi  darla  ad  intendere  a 
suoi  coetanei;  d'altra  parte  le  pecche  dello  scrivere  latino 
non  essere  proprie  solo  de'  poeti  del  secolo  XV",  ma  risalire 
a'  tempi  d*Augusto;  e  i  ponderosi  volumi  delPantologia  la- 
tina attestare  largamente  come  non  tutti  i  poeti  latini  abbiano 
fatto  versi  destinati  airimmortalità. 

Quanto  agli  altri  argomenti  estrinseci,  coi  quali  il  Boot 
si  studia  di  provare  la  frode,  il  Carutti,  non  potendo  negare 
la  disparizione  del  codice  bobbiese,  afferma  che  lo  scopri- 
mento fattone  dal  Merula  alessandrino  sarebbe  attestato 
dall'unanime  consenso  de'contemporanei;  qualifica  supposta 
l'edizione  milanese  del  1497  che  nissun  bibliografo  avrebbe 
visto;  e  conchiude  che  il  punto  più  essenziale  della  quistione 
starebbe  in  questo  :  vale  a  dire  se  dal  non  più  trovarsi  il  codice 
ms.  della  satira  si  possa  fondatamente  inferire  un  contraffaci- 
mento letterario;  cosa  che  niuno,  dic'egli,  vorrebbe  affermare. 

11  Carutti  si  fa  debito  di  notare  e  raccogliere  molti  luoghi 
che  accennano  a  reminiscenze  ed  imitazioni  di  antichi  poeti; 
sicché  al  poema  ne  verrebbe  quasi  cert'aria  di  lavoro  a  mo- 
saico, la  quale,  come  ognun  vede,  non  che  aiutare  a  met- 
terne in  sodo  la  genuinità,  servirebbe  anzi  ad  accrescere  il 
sospetto  della  frode;  ma  egli  avverte  come  siffatte  imitazioni 
di  modi  e  concetti  non  siano  punto  rare  negli  antichi  poeti 
latini.  Non  si  dissimula  però  la  gravità  di  due  luoghi,  dove 
una  coincidenza  di  espressioni,  che  non  parrebbe  fortuita, 
tra  lo  scrittore  della  satira  e  lo  storico  Giulio  Floro,  suscite- 
rebbe naturalmente  la  quistione,  se  si  debba  credere  che 
questi,  vissuto  dopo  Sulpicia,  abbia  voluto  contigiar  la  sua 
prosa  di  qualche  fronzolo  tolto  alla  poetessa  romana  o  non 


—  45  - 
piuttosto  il  moderno  impostore  siasi  dimenticato  che  Sul- 
picia  era  vissuta  prima  di  Floro.  Circa  il  che  si  rimette  nei 
critici,  i  quali  giudicheranno  pure  se  la  poetessa  e  lo  sto- 
rico non  avessero  per  avventura  potuto  accidentalmente  in- 
contrarsi negli  stessi  concetti. 

Non  dirò  delie  minuzie  relative  alle  varianti  che  il  Ca- 
rutti  presenta  a  pie  di  pagina  sotto  il  testo,  né  delle  osser- 
vazioni che  gli  tengon  dietro;  nel  che  tutto  egli  porge  no- 
vella prova  di  quella  critica  letteraria  e  di  quella  dimesti- 
chezza co'poeti  latini,  di  cui  già  aveva  dato  bel  saggio  nella 
sua  edizione  di  Properzio.  Per  cinque  o  sei  luoghi  della  Sa- 
tira propone  egli  nuove  lezioni;  e  così  al  verso  5:  trime- 
tro jactor  per  trimetro  jambo  {iambo);  v,  24:  celerà 
qua  imperium  per  ceteraque  imperia;  v.  82:  stabat  et  his 
ptr  stabat  in  his;  v.  35  :  aestuat  per  inferat;  v.  53  :  apium 
domus  arce  moventur  per  quariun  domiis  arce  mot-ente.  Non 
ragionerò  del  merito  di  tali  varianti,  essendo  queste  qui- 
stioni  troppo  subordinate  al  vario  giudizio  degli  individui  ; 
noterò  solo  come  in  domus  fatto  plurale  s'avrebbero,  s'io 
non  prendo  errore,  una  breve  e  una  lunga  contro  le  ragioni 
del  metro  che  qui  ricercherebbe  due  brevi. 

Sebbene  non  si  possa  negare  che  il  Carutti  in  questo  suo 
lavoro  abbia  degnamente  soddisfatto  al  proprio  assunto, 
vuoisi  però  riconoscere  come  la  quistione  della  sincerità  della 
satira  sulpiciana,  si  valorosamente  da  luì  propugnata ,  non 
possa  ancora  tenersi  per  risolta  perentoriamente  in  confor- 
mità della  sua  sentenza.  È  indubitato  che,  come  coloro  i 
quali  stanno  per  la  genuinità,  alle  obbiezioni  contrarie  de- 
sunte da  intrinseci  argomenti  potranno  rispondere  con  alle- 
gare la  corruzione  del  testo,  così,  d'altra  parte,  i  non  credenti 
ad  essa  genuinità  aggiugneranno  agli  intrinseci  anco  argo- 
menti estrinseci,  come  a  dire  la  nissuna  traccia  di  codici 
mss.  e  la  scinzenzeileriana  del  1497,  ^^  quale,  come   con- 


—  46  — 
tenente  una  prefazione  del  creduto  scopritore  della  satira, 
ma  non  essa  satira,  ne  per  avventura  alcun  cenno  di  quella, 
renderebbe  men  verosimile  che  il  testo  ne  fosse  stato  tratto  a 
luce  da)  Merula,  come  s'afferma  neiredizione  principe  dei 
1498;  asserzione  dalla  quale  sola  forse  potrebbe  avere  a- 
vuto  origine  la  testimonianza  di  Raffaello  da  Volterra  citata 
dal  Boot  (p.i8)  e  dal  Carutti  (p.8).  Ned  è  probabile  che  gli 
avversari  della  satira  sulpiciana  siano  per  prestare  maggior 
fede  a  cotesto  scoprimento  del  Merula  pel  negare  che  fa 
il  Carutti  l'edizione  del  1497;  poiché,  quando  pure  possa 
essere  assai  malagevole  il  rinvenirne  un  qualche  esem- 
plare, non  è  gran  fatto  verisimile,  che  sia  immaginaria  una 
tale  edizione,  citata  non  solo  dall'Ernesto  nella  Biblioiheca 
latina  del  Fabrizio,  ma  da  qualche  bibliografo  anche  con 
maggior  precisione  di  data,  come  f)er  es.  dall'Hain  {Reperì, 
bibliogr.)^  il  quale,  registratola  come  contenente  la  prefa- 
zione di  Giorgio  Merula,  alla  data  dell'anno  1497  soggiugne 
pridie  nonas  februarii.  Ben  dee  far  maraviglia  che  l'errore 
di  un3i prefa:{ione  di  Giorgio  Merula  data  alla  veneta  edizione 
di  Ausonio  del  1496  in  cambio  di  un'epistola  di  Bartolomeo 
Merula^  del  quale  errore  Boot  (p.  2,  n.  3)  fa  colpevole 
r Ernesto,  e  Carutti  (p.25)  il  Fabricio,  ma  nel  quale  già  era 
incorso  una  decina  d'anni  prima  il  Beughem  {Inc.  typ.)y  a 
quanto  pare  ciecamente  seguito  dal  Fabrizio  e  dall'Ernesto, 
siasi  mantenuto  nell'edizione  della  Bibl.  lat.  curata  da  que- 
st'ultimo, che  dice  di  possedere  la  veneta  del  1496,  della 
quale  afferma  non  essere  altro  che  una  ripetizione  la  milanese 
del  1497.  Parrebbe  adunque  che  sopra  questa  scinzenzelle- 
riana  del  1497  debba  pur  sem.pre  cadere  una  qualche  incer- 
tezza; e  io  credo  che  s'egli  è  da  sperare  qualche  decisivo  argo- 
mento circa  la  questione  della  genuinità  della  satira  sulpiciana, 
esso  ci  sarà  più  probabilmente  somministrato  da  ulteriori 
ricerche  intorno  a  quelle  antiche  edizioni  e  a  quanto  si  col- 


—  47  - 

leghi  colla  storia  de' codici  bobbiesi    trovati    e   usufruttuati 

principalmente  sullo  scorcio  del  secolo  XV. 

^        ^  G.  Flechia. 


Reliquie  celtiche  raccolte  da  Costantino  Nigra  —  I.  // 
manoscritto  irlandese  diS.  Gallo,  Torino,  Loescher,  1872, 
in-4°,  p.  60. 

Com'è  noto,  Tidioma  celtico  forma  uno   de'grandi   rami 
dello  stipite  indo-europeo  ed  è  la  lingua  parlata  anticamente 
dai  popoli  che,  sotto  la  denominazione  generica  di  Celti,  erano 
stanziati  principalmente  nella  Francia,  nel  Belgio,    nell'Italia 
Superiore,  nelle  Isole  Britanniche,  nella   Spagna  orientale 
e  nelle  provincie  renane  e  danubiane.    Se  si   eccettuano   al- 
cune iscrizioni  galliche  e  britanniche  trovatesi   in  Francia, 
nell'Italia  Superiore  e  in  Inghilterra,  e  parecchi  nomi,  spe- 
cialmente proprii,  trasmessici  dagji  scrittori  greci  e  romani, 
noi  non  possediamo  monumento  alcuno  della  lingua  parlata 
un  tempo  dai  popoli  celtici.  Questa  lingua  che  sul  continente 
venne,  per  così  dire,  assorbita  in  massima  parte  dal  romano 
volgare  e  dai  dialetti  germanici,  e  che  nelle  isole  britanniche, 
fusasi  per  lo  più  coll'elemento  sassonico   e  normannico,    si 
mutò  in  quella  forma  d'idioma  che  or  dicesi  inglese,  viene 
ancora  oggidì  specialmente  rappresentata  da  alcuni    dialetti 
di  fondo  essenzialmente  cehico,  ciò  sono  dell'Irlanda ,  delle 
montagne  scozzesi,  del  paese  di  Galles,  e  della  Bassa  Bre- 
tagna. Dell'irlandese  si  conservano  documenti  che  vanno  fino 
al  principio  del  nono  e  anche  dell'ottavo  secolo  dell'era  vol- 
gare,  preziosissimi  per  la  linguistica,  che  in  essi  principal- 
mente può  studiare  l'affinità  del    celtico  colle   lingue   dello 
stesso  stipite,  sotto  l'aspetto  così  etimologico,  come  morfo- 
logico. Questi  documenti  sono  codici  generalmente  d'origine 
monacale,  contenenti  per  lo  più  scritture    latine,    accompa- 


-  48- 
gnate  da  glosse  scritte  in  antico  irlandese;  e  tale  è  appunto 
il  manoscritto  di  S.  Gallo,  di  cui  tratta  l'annunziata  pub- 
blicazione di  Costantino  Nigra. 

Il  codice  di  S.  Gallo  è  un  manoscritto  del  secolo  IX,  con- 
tenente i  primi  i6  libri  e  il  principio  del  17°  della  gram- 
matica latina  di  Prisciano,  sparsi  di  glosse  interlineari  o  mar- 
ginali, alcune  in  latino,  ma  la  più  parte  in  antico  irlandese. 
Questo  codice  è  pregevole  per  V  antichità  e  l'abbondanza 
delle  glosse  e  per  la  correttezza  e  nitidezza  della  scrittura  e 
pare  sia  il  solo  fra  i  codici  continentali,  che  contenga  qualche 
iscrizione  in  caratteri  ogmici,  che  sono  una  specie  d'alfabeto 
assai  semplice,  ma  pur  singolare  (i),  adoperato  fin  dal  V  se- 
colo nell'Irlanda  e  nel  paese  di  Galles  per  iscrizioni,  che  colà 
furono  trovate,  stese  in  una  lingua  molto  analoga  a  quella 
delle  iscrizioni  galliche. 

Le  glosse  irlandesi  del  manoscritto  di  S.  Gallo  erano  già 
state  pubblicate  buona  parte  dallo  Zeuss  nella  sua  Gram- 
matica Celtica;  ma  il  Nigra  trovò  che  ve  n'erano  ancora 
molte  e  di  notevoli  assai  da  spigolare,  e  raccolse  quindi,  an- 
notò e  interpretò  le  glosse  inedite,  come  anche  talune  fra  le 
già  pubblicate,  di  cui  credesse  doversi  correggere  la  lezione  o 
propor  nuova  interpretazione.  Alla  sposizione  delle  glosse 
tengono  dietro  quattro  tavole  che  contengono /ac-simz7/  della 
scrittura  del  codice,  della  quale  si  distinguono  sette  od  otto 
maniere,  procedenti  tutte,  a  quanto  pare,  da  mani  diverse, 


(i)  Questo  alfabeto  consiste  quasi  tutto  in  asticciuole  generalmente 
ritte,  aventi  valor  vario  di  lettere  secondo  il  numero  (da  una  a  cinque), 
secondo  che  sono  intiere  o  dimezzate,  le  intiere  poi  con  un  valore  se  ritte, 
con  un  altro  se  inclinate  superiormente  a  destra,  ledimezzaie  sempre  ritte, 
ma  varianti  anche  di  valore,  secondo  che  sono  poste  sopra  o  sotto  una 
linea  trasversale,  che  taglia  nel  mezzo  tutta  la  riga,  infilzando,  per  così 
dire,  le  intiere;  e  cosi  per  es.  unasticciuola  sola,  intiera  e  ritta,  rappre- 
senta a,  dimezzata  e  sottoposta  alla  linea  trasversale,  by  ecc.  Solo  i  dit- 
tonghi e  ;?  e  f  sono  espressi  da  segni  particolari. 


—  49  - 
come  pure  alcune  delle  iniziali,  dì  cui  s^adorna  il  nnanoscritto, 
assai  leggiadramente  e  bizzarramente  figurate. 

Annunziando  questa  pubblicazione  non  dubitiamo  di  affer- 
mare che  sarà  lietamente  accolta  dai  celtologi,  i  quali  già 
conoscono  il  Nigra  come  valoroso  cultore  di  questi  studi, 
principalmente  per  le  Glossae  hibernicae  veteres  da  lui  pub- 
blicate in  Parigi  nel  1869;  nel  qual  lavoro  TEbel  (Bettr. 
z.  verg-L  spr.,  VI,  284),  uno  dei  più  competenti  giudici  di 
tali  materie,  dice  essersi  il  Nigra  mostrato  del  tutto  pari  al- 
l'altezza dell'odierna  filologia  celtica. 

Noteremo  in  ultimo  come  questo  libro,  pregevole  anche 

per  somma  leggiadria  di  forma,   nitidezza  ed  eleganza  di 

caratteri,  bontà  e  finezza  di  carta,  attesti  come  la  tipografia 

del  torinese  Bona  debba  dirsi  probabilmente  non  seconda  ad 

alcuna  né  in  Italia  né  fuori. 

G.  Flechia. 


V^OTI  Z  I E 


Italia.  —  Non  parleremo  dei  nuovo  regolamento  per  gli  esami  di 
licenza  liceale,  perché  (ci  si  perdoni  la  schietta  confessione)  noi  confi- 
diamo pochissimo  tìQÌ  regolamenti  e  le  nostre  speranze  si  fondano  non 
sopra  i  medesimi  {di  cui  l'esperienza  mostrò  la  troppo  frequente  ineffi- 
cacia), ma  sulla  libera  e  sapiente  attività  d'insegnanti  veramente  pari  al 
loro  altissimo  ufficio.  Né  faremo  menzione  dell'aumento  degli  stipendii 
finalmente  concesso  ai  direttori  ed  ai  maestri  delle  scuole  secondarie: 
la  tenuità,  la  insufficienza  deplorabile  di  si  fatto  aumento,  la  spropor- 
zione esistente  fra  esso  e  quello  che  dopo  sì  langa  aspettazione  propria 
e  tante  chiacchere  altrui  e  per  le  inesorabili  esigenze  economiche  dei 
tempi  nostri  poteva  ben  ripromettersi  una  fra  le  più  benemerite  classi  di 
cittadini,  tutte  queste  ragioni  ci  consigliano  il  silenzio  e  non  ci  jiermet- 
tono  di  porgere  le  nostre  congratulazioni  né  a  chi  fece  né  a  chi  ricevette 
questo  che  alcuni  chiameranno  per  avventura  nn  favore.  Ci  arresteremo 
piuttosto,  reverenti  e  commossi,  innanzi  alle  due  tombe  che  si  aprirono 
nello  scorso  giugno  per  accogliere  Cesare  Tamagni  e  Gregorio  Ugdulena. 

Cesare  Tamagrà  studiò  eoa  onimc  successo  lilologia  greca  e  latina  a 
Pavia;  insegnò  lingue  e  letterature  classiche  nel  ginnasio  di  questa  cittù, 

liiyisla  di  Jilologia  ecc.,  I.  4 


—  50  - 

nel  liceo  Cavour  della  nostra  Torino  e  lìnalmenie  lettere  lettine  nell'Ac- 
cademia scientifico-letteraria  di  Milano,  E  non  solo  colla  parola  fu  tra 
i  più  animosi  iniziatori  della  gioventù  italiana  alla  scienza  tedesca,  ma 
eziandio  cogli  scritti;  fra  1  quali,  ommettendo  per  brevità  di  menzionare 
gli  articoli  pubblicati  nel  Tolitccnico  e  nella  Terseveran^a,  non  accen- 
neremo se  non  la  Storia  della  letteratura  romana^  la  quale,  parte  im- 
portantissima HqW Italia  diX  Vallardi,  è  una  critica  esposizione  dei  risul- 
tati a  cui  giunsero  i  recenti  studi  germanici,  e,  sebbene  incompiuta  per 
l'immatura  morte  dello  autore,  nondimeno  si  potrebbe  con  grande  uti- 
lità, o,  meglio,  si  dovrebbe  sostituire  a  qualche  magro  compendio,  af- 
fatto indegno  della  filologia  odierna,  col  quale,  senza  svolgerne  la  intel- 
ligenza, si  opprime  la  memoria  e  si  consuma  in  deplorabile  esercizio 
meccanico  il  tempo  preziosissimo  di  molti  giovani  studiosi  delle  lettere 
latine,  ai  quali  raccomandiamo  l'opera  citata  del  professore  lombardo. 
Si  scorge  quindi  come  da  molti  e  da  insigni  uomini  ne  sia  stata  com- 
pianta la  sorte,  fra  i  quali  ricorderemo  il  veramente  egregio  G.  1. 
Ascoli,  che  con  eloquenti  parole  diede  l'ultimo  addio  al  collega  ed 
amico  diletto. 

Pochi  giorni  dopo  la  morte  del  Tamagni  venne  meno  alla  Italia  ed 
alla  scienza  anche  Gregorio  Ugdulena,  il  quale  insegnava  lettere 
ebraiche  e  greche  nella  università  di  Roma.  Cultore  degli  studi  biblici, 
egli  imprese  a  pubblicare  La  Santa  Scrittura  in  volgare,  riscontrata 
nuovamente  con  gli  originali  ed  illustrata  con  breve  comento ,  Palermo, 
iSSg:  di  tale  opera  ci  stanno  innanzi  i  due  primi  volumi,  spettanti 
al  vecchio  testamento. 

Prima  che  da  tali  perdite,  l'Italia  che  pensa  fu  profondamente  com- 
mossa dalla  rinunzia  di  Cesare  Correnti,  il  quale  cessò  di  essere  mi- 
nistro mentre  appunto  stava  per  attuare  ciò  ch'egli  credeva  parte  ira- 
portantissima  del  proprio  compito,  e  mentre  altre  riforme  si  atten- 
devano da  esso,  cui  chi  scrive  ebbe  occasione  di  conoscere  uomo  di 
nobile  cuore,  sincero  fautore  del  progresso  e  della  gioventù  che  tenta 
cooperarvi,  sfidando  le  prepotenze  e  gl'intrighi  vilissimi  di  certi  così 
detti  apostoli  del  passato  che  muovono  stolta  guerra  all'avvenire.  Se 
dobbiamo  credere  ad  un  annunzio  recentissimo  della. 'jijf or  ma,  a.  Cesare 
Correnti  succederà  probabilmente  Domenico  Berti,  a  cui  certamente 
nessuno,  qualunque  opinione  religiosa  o  politica  professi,  oserà  negare 
l'amore  della  scienza  e  il  generoso  proposito  di  promuoverne  il  culto  in 
Italia. 

Germania.  —  Un  avvenimento  della  massima  importanza  per  gli 
studii  germanici  è  l'apertura  dell'Università  di  Strassburgo  che  ebbe 
luogo  con  la  massima  solennità  il  primo  giorno  di  maggio.  Strassburgo 
fu  sempre ,  ed  anco  sotto  il  dominio  francese  che  aveva  dovuto  subire 
per  due  secoli,  sede  di  cultura  tedesca,  e  soltanto  la  rivoluzione 
francese  distrusse  gli  studi  germanici  in  essa:  ma  la  Germania  nutre 
speranza  che  presto  rifioriranno,  professati  come   sono   nella  novella 


—  51  - 

Università  da  valentissimi  uomini,  e  con  essi  tutti  quelli  della  filologia 
classica.  Koehler  e  Sludemund  continueranno  le  gloriose  tradizioni 
di  Schweigh'duser ,  il  celebre  editore  ed  interprete  di  Erodoto  ed 
Ateneo,  mentre  la  linguistica  è  rappresentata  da  uno  de'  più  rinomati 
uomini  in  questa  disciplina,  che  è  Massimiliano  Miiller,  venuto  da 
Oxford,  che  negli  ultimi  di  maggio  aprì  il  suo  corso  con  una  pro- 
lusione sui  risultamenti  dell'odierna  linguistica  testé  resa  di  ragione 
pubblica  colle  stampe. 

—  I  primi  giorni  dello  stesso  mese  di  maggio  recarono  alla  filologia 
classica  in  Germania  una  grave  perdita  per  la  morte  di  Carlo  Lodovico 
Kayser,  avvenuta  in  Eidelberga,  sua  patria,  nella  cui  Università  fu 
professore  delle  lettere  classiche  e  direttore  del  Seminario  filologico. 
Poco  sarebbe  a  dire  della  vita  esterna  dell'uomo,  la  quale  scorse  tutta 
tranquilla  e  laboriosa.  Nacque  da  onesta  famiglia  nel  1808  -  suo  padre 
fu  insegnante  al  liceo  di  Eidelberga  -  percorse  i  suoi  studi  ginnasiali 
in  questa  città  ed  in  Francoforte  sul  Meno  (1822-23),  e  studiò  poscia 
(dal  1825)  filologia  e  teologia  sotto  Creuzer  e  Daub,  col  primo  dei 
quali  visitò  Parigi  nel  1826;  insegnò  privatamente  in  un  istituto  di- 
retto da  sua  madre,  riportò  nel  1827  un  premio  proposto  dall'Uni- 
versità per  il  migliore  Elogium  Jani  Gruteri,  nel  i83o  si  laureò.  Pic- 
colo e  debole  di  corpo,  aveva  grande  forza  d'animo  ed  una  quasi 
erculea  forza  di  lavoro,  da  potere,  secondo  il  programma  de'  suoi 
lavori,  studiare  geneticamente  la  cultura  del  mondo  antico.  Valen- 
tissimo professore  ed  amantissimo  de'  giovani ,  a  cui  insegnò  con 
vero  entusiasmo,  non  fece  già  una  rapida  carriera ,  perchè  troppo 
modesto,  e  solo  nel  i8ó3  venne  nominato  professore  ordinario,  dopo 
avere  professato  molti  anni  come  straordinario,  e  malgrado  gl'im- 
portanti lavori  filologici  che  rimangono  qual  monumento  della  sua 
attività.  Scelse  egli  come  autore,  a  cui  rivolgeva  massimamente  i  suoi 
studii,  il  mostrato^  senza  trascurare  veruna  parte  delle  filologiche  di- 
scipline, e  ci  lasciò  —  per  non  parlare  de'  suoi  piccoli  scritti  —  le 
seguenti  opere:  Dissertatio  de  diversa  origine  carminum  quae  Odys- 
seae  corpore  continentur,  Heidelberga,  i832.  Lectiones  Pindaricae,  ivi, 
1840.  Abhandhing  ^um  Homer,  ivi,  1842.  Philostratus^  de  gymnastica, 
ivi,  1840.  Flavii  Philostrati  quae  siipersunt;  Philostrati  iunioris  ima- 
gines,  Callistrati  descriptiones ,  Turici,  1844  "  l'opera  capitale  delia 
sua  vita  ed  insieme  la  prova  essere  egli  una  de'  maestri  della  filologia  - 
Cornifica  Rhetoricorum  ad  C.  Herennium ,  libri  IV,  Lipsiae,  1S54;  le 
opere  di  Cicerone  pubblicate  insieme  a  J.  G.  Baìter  a  Lipsia,  1S60-69, 
e  finalmente  una  nuova  edizione  di  Filostrato  nell'edizione  de'  classici 
di  Teubner  sotto  il  titolo:  Philostrati  opera  auctiora,  acced.  Apollinis 
epislolae^  Lipsiae,  1870-71. 


Pietro  Ussili.o,  gerente  responsabile. 


BOLLETTINO  BIBLIOGRAFICO 

DELLE  PRINCIPALI  PUBBLICAZIONI  FILOLOGICHE 


AVVISO.  La  Libreria  Ermanno  Loescher  s'incarioa.  di  ^rovvadera  tutte  le  opere  annunziate 

in  questo  oollettino,  come  pure  quelle  che  sono  oggetto  d'articoli  nella  Rivista  filologica. 
S'incarica  inoltre  di  fornire  colla  massima  sollecitudine  e  senza  spese  tutte  le  opere  che  le 
saranno  richieste,  e  che  non  ritenesse  in  magazzino. 


Edizione    di    F.    A.   Brockhaas   in   Lipsia. 

Recentissima  pdbblicazione. 

Aloisii  Chrysostomi  FERRUCCI  civis  Romani.  Electa  Carmina  ingenua- 
rum  arti-um  studiosis  dicaia.  la  8" L.  6  — 

Edizione   di  Richard   Miihlmann   in  Halle. 

BERGK  Theodor.  Beitraege  sur  lateinischen  Grammatik,  I.  gr.  8'  ,br.  L.  4  50 
MUFF  Christian.   Ueher  den  Yortrag  der  chorischen  Partieen  bei  Ari- 

stophanes.  Gr.  8°,  br. .        »  4  50 

PFITZNER  Wilhelm.  Die  Annalen  dee  Tacitus  kritisch    beleuchtet.    I. 

Buch.  I-YI,  gr.  8»,  br »  6  — 

Di    PR03SI.VÀ    PUBBLIC&ZIONE  : 

BENICKEN  H.  K.,  Basz  fùnfte  lied.,  vom  Zorne  des  Achilleus,  nach 
Karl  Lachmann  und  Moritz  Haupt,  aus  A  und  E  der  Ilias  recon- 
struirt.  Gr.  8*,  br »  3  — • 

Edizione  di  Reimer  in  Berlino. 

Ephemeris  Epigraphica  corporis  inscriptionum  laiìnarum  supplemenium 
edita  iuBSU  Instituti  Archaeologici  Romani. 

La  fondazione  di  un  giornale  destinato  appositamente  airepigrafìa  latina,  di  cui  i  primi  2 
fascicoli  ora  -vengono  esposti  al  pubblico,  è  giustificata  dalla  necessità  di  far  seguire  al  Corpus 
inscriptionum  latinarum  pubblicato  sotto  l'autorità  dall'Accadamia  delle  Sciense  di  Bsrlino, 
le  iscrizioni  ritrovate  posteriormente.  Affinchè  i  dotti  sieno  sempre  all'ordine  del  giorno  delle 
scoperte  epigrafiche,  si  imprende  di  pubblicarne  subito  per  questo  giornale  almeno  le  più  im- 
portanti, cosicché  chi  unisce  ai  Corpus  questa  Effemeride,  abbia  sempre  a  sua  disposizione  le 
iscrizioni  di  qualche  pregio  finora  conosciute. 

Ogni  a-nno  se  ne  pubblicheranno  quattro  fascicoli  di  quattro  o  cinque  fogli  ognuno,  i  quali 
formeranno  un  'olume  provvisto  pure  d'Indici. 

Siccome  probabilmente  le  iscrizioni  da  pubblicarsi  nell'Effemeride  non  richiederanno  tutto 
questo  .spazio,  ciò  che  ne  avanza  si  destina  a  ricerche  ed  osservazioni  d'epigrafìa  latina. 

Le  associazioni  si  ricevono  presso  la  Libreria  Brinannu  Loescher.  Il  prezzo  annuale  per  il 
Regno  d'Italia  è  di  L.  9,  pagabili  anticipatamente. 


-  53  - 
NOTIZIA 

D'UN  ANTICO  EVANGELIARIO  BOBBIESE 

che  in  alcuin  fogli  palimpsesti  contiene  frammenti  d'un  greco 
trattato  di  filosofìa. 


Fra  i  codici,  che  dalla  famosa  biblioteca  di  Bobbio  pas- 
sarono nell'universitaria  di  Torino,  questo,  di  cui  intendiamo 
dare  un  cenno ,  è  notevole  per  antichità ,  la  quale  risale 
senza  dubbio  al  sesto  secolo,  notevole  per  l'argomento,  che 
si  raccomanda  così  ai  dotti ,  che  attendono  agli  studi  dei 
testi  latini  biblici,  come  ai  cultori  della  greca  paleografia,  e 
specialmente  della  greca  filosofia.  Perocché  contiene  i  quattro 
Vangeli  in  latino,  ed  ha  alcuni  fogli  rescritti,  nei  quali  si 
rinvennero  frammenti  d'un  trattato  greco  di  filosofia,  fra 
cui  un'intera  pagina  è  occupata  da  un  brano  del  Parmenide. 
Quest'antica  scrittura  può  appartenere  al  quinto  secolo. 

Mancando  delle  prime  carte ,  il  codice  manca  altresì , 
seppure  l'ebbe,  del  numero  arabico  d'ordine,  e  della  nota 
di  spettanza  al  monastero  di  S.  Colombano,  da  cui  è  con- 
trassegnata la  maggior  parte  dei  manoscritti,  che  di  là  pro- 
vengono. Ma  ha  tutti  gli  altri  caratteri  d'un  codice  Bobbiese , 
e  ad  assicurarci,  che  sia  tale,  una  mano  abbastanza  antica, 
perchè  debba  aversi  per  autorevole,  scrisse  nella  carta  di 
guardia:  Codex  Monasteri]  Bobiensis. 

Convien  dire ,  che  questo  volume  o  emigrasse  dalla  li- 
breria Bobbiese  prima  della  metà  del  secolo  XV,  siccome 
accadde  d'altri  suoi  consorti,  o  vi  rimanesse  ad  uso  privato 

Tiivista  di  filologia  ecc.,  I.  5 


-  54  - 
di  qualche  monaco,  dacché  non  trovasi  neirinventario,  che 
redatto  in  quel  tempo  venne  a'  dì  nostri  scoperto  e  pubblicato 
dall'abate  Amedeo  Peyron,  non  potendosi  credere  che  sia 
il  codice  ivi  accennato  sotto  il  n°  8.  E  veramente  Tillustre 
editore  deirinventario  non  fece  nelle  note  a  quel  numero 
alcuna  menzione  di  questo  codice. 

Bensì  lo  conobbe.  Che  anzi  fu  l'abate  Peyron  che  ne 
scoperse  i  fogli  palimpsesti,  e  fece  in  essi  rivivere  Tantica  scrit- 
tura greca  con  quel  suo  felice  preparato  chimico,  per  mezzo 
di  cui  ridonò  alla  letteratura  latina  i  frammenti  di  Cicerone, 
ed  alle  scienze  giuridiche  i  frammenti  Teodosiani.  Ma  egh, 
preoccupato  da  altri  lavori ,  non  giudicò  di  farne  tema  di 
speciale  dissertazione.  I  pochissimi  poi,  che  furono  avvertiti 
della  sua  esistenza  o  dall'indice  privato  della  biblioteca  To- 
rinese, o  da'  suoi  impiegati,  per  quanto  io  sappia,  nulla 
scrissero  di  lui,  essendo  forse  argomento  estraneo  alle  loro 
ricerche,  per  modo  che  il  prezioso  documento,  sebbene 
meriti  per  ogni  riguardo  d'essere  conosciuto,  non  lo  fu  né 
per  annuncio  dell'edito  inventario,  ne  per  illustrazione  di 
moderni  bibliografi.  E  però  il  darne  almeno  succinta  notizia 
nelle  colonne  di  questo  giornale,  è,  credo,  pregio  dell'opera. 
I.  Il  codice  è  in  pergamena,  di  carte  novantaquattro, 
e  di  forma  quadrata,  in  4°  piccolo,  scritto  in  caratteri  maiu- 
scoli senza  distinzione  di  parole,  a  linee  intere,  mancante  in 
principio.  Si  compone  dei  frammenti  di  tre  codici ,  cui  tre 
amanuensi,  ma  tutti  appartenenti  al  secolo  VI,  diedero  opera 
a  trascrivere.  Porta  ora  la  segnatura  F.  vi,  i . 

Dalla  carta  i  alla  24  è  il  Vangelo  di  S.  Matteo.  Per  l'ac- 
cennata lacuna  dei  primi  fogli  esso  incomincia  dal  capo  XIII, 
V.  35.  Senza  dubbio  insieme  coi  primi  fogli  andò  perduta 
una  prefazione  al  Vangelo  stesso. 

Dalla  carta  24  alla  39,  capitoli ,  prefazione  d'anonimo,  e 
Vangelo  di  S.  Marco. 


-  55  - 

Dalla  carta  Sg  alla  60,  prefazione  d'anonimo,  e  Vangelo 
di  S.  Luca. 

Dalla  carta  60  alla  92,  prefazione  d'anonimo.  Vangelo  di 
S.Giovanni,  lezioni  tratte  dai  profeti  sulla  natività  di  S.  Gio- 
vanni, dei  Ss.  Pietro  e  Paolo,  ecc. 

Nel  margine  sono  i  numeri  della  concordanza  degli  Evan- 
geli secondo  i  canoni  Eusebiani. 

Le  carte  64,  67,  90,  91  e  la  massima  parte  della  carta  92 
sono  rescritte.  L'abate  Amedeo  PejTon,  come  dissi,  ritrasse 
con  mezzi  chimici  l'antica  scrittura,  la  quale  ricomparve  in 
un  bellissimo  carattere  greco  unciale,  ma  sovente  oppresso, 
e  talora  seppellito  dalle  grosse  lettere  latine  soprastanti.  Le 
due  ultime  carte  98  e  94  non  sono  più  rescritte,  ma  debbono 
stimarsi  due  intatti  brani  dell'antico  manoscritto  greco-,  se 
non  che  sono  logore  dal  fregamento,  perchè  ultime,  di  modo 
che  fu  necessario  sottoporre  anch'esse  al  chimico  apparato, 
affinchè  le  lettere  ricomparissero,  e  neppure  nel  rovescio  del- 
l'ultima carta  esse  ricomparvero  affatto. 

IL  11  testo  degli  Evangeli  è  l'Itala  vetiis,  e  s'accosta 
moltissimo  a  quello,  che  il  Bianchini  pubblicava  nel  suo 
Evangeliariiim  qiiadniplex.  I  copisti,  ai  quali  la  lingua  la- 
tina sembra  essere  stata  poco  famigliare,  commettono  molti 
errori  nello  scrivere-,  ma  niun  errore  trovai,  il  quale  accu- 
sasse un  copista  Longobardo.  Nell'ortografia  si  scambiano 
facilmente  le  lettere  e  ed  i,  in  ed  eu,  specialmente  poi  il  b 
e  V. 

Ho  accennato,  che  in  capo  ad  ogni  Vangelo  sta  una  pre- 
fazione, tranne  al  Vangelo  di  S.  Matteo,  poiché  quella,  che 
certamente  v'era  premessa,  andò  perduta.  Or  bene,  queste 
prefazioni  stesse,  oltre  la  quarta,  che  a  noi  manca,  scopriva 
in  un  codice  della  Laurenziana  Ferdinando  Fleck,  e  le  pub- 
blicava nei  suoi  scritti  aneddoti,  in  Lipsia  iSSy,  in  8°, 
chiamandole  nel  titolo  Opus  prctiosissimum  et  in  Europa 


-  56  - 
unicum.  Ornai  il  codice  Laurenziano  non  può  dirsi  intiera- 
mente unico,  dacché  tre  di  quelle  prefazioni  si  contengono 
pure  nel  codice  Torinese.  Anzi,  se  delle  quattro  prefazioni 
una  manca  al  nostro  codice,  per  compenso  la  prefazione  al 
Vangelo  di  S.  Giovanni,  che  in  quello  è  mutila,  è  in  questo 
compiuta  e  si  legge  al  foglio  80,  verso.  L'antichità,  la  rarità, 
e  il  pregio  dello  scritto  incompleto  nel  codice  di  Firenze 
consigliano  a  ripubblicarlo  intiero  dal  codice  di  Torino. 

INC.  PRAEFATIO  SECUNDUM  JOANNEM 

Johannes  evangelista  unus  ex  discifulis  dei  qui  virgo 
electus  a  Deo  est  quem  de  nubtiis  voleìitem  nubere  vocavit 
Deus  cui  virginitas  (sic)  in  hoc  duplex  testimonium  in  evan- 
gelio datur,  quod  et  prae  ceteris  dilectus  a  domino  dicitur 
et  huic  matrem  suam  iens  ad  crucem  conmendavit  Deus,  ut 
virginem  virgo  servarci,  denique  manifestans  in  evangelio, 
quod  erat  ipse  incorruptibilis,  verbi  opus  inchoans  solus 
verbum  caro  factum  esse  nec  lumen  a  tenebris  conpraehensum 
fuisse  testatur.primum  signum  ponens  quod  in  nubtiis  fecit 
dominus  et  ostendens  quod  erat  ipse  legentibus  demonstrarei. 
quod  ubi  dominus  invitatus  deficere  nuptiarum  vinum  debeat, 
ut  et  veteribus  inmutatis  noba  omnia  quae  a  Christo  insti- 
tuuntur  appareant.  hoc  autem  evangelium  scribsit  in  Asia, 
posteaquam  in  Pathmos  insula  apocalypsin  scribserat.  ut 
cui  in  principio  canonis  incorruptibile  principium  in  genesi 
et  incorruptibilis  finis  per  virginem  in  apocalypsin  redde- 
retur.  dicente  Christo  ego  sum  A  et  Q.  et  hi  e'  est  Johannes 
qui  sciens  supervenisse  diem  recessus  sui  convocaiis  disci- 
pulis  suis  in  Epheso  per  multa  signorum  experimenta  p?'o- 
mens  Christum  descendens  in  defossum  sepulturae  suae 
locum.  facta  oratione  positus  est  ad  patres  suos.  tam  extra- 
neus  a  dolore  mortis,  quam  a  corruptione  carmis  invenitur 
alienus.  tamen  post  omnes  evangelium  scribsit.  et  hoc  vir- 
gini  debebatur  quorum  tamen  vel  scribturarum  tempore 
dispositio  vel  librorum  ordinatio.  ideo  per  singula  nobis  non 
exponitur,  ut  scienti  desiderio  conlocata  et  quaerentibus 
fructus  laboris.  et  deo  magisterii  doctrina  servetur.  Amen. 
Explicit. 

III.  La  parte  più  leggibile  dei  frammenti  greci  contiene 

la  confutazione  d'una  teoria  sulla  trinità,  che  non  è  certa- 


-  57  — 
mente  quella  di  Platone,  bensì  un''altra ,  in  cui  principale 
attributo  di  Dio  è  la  forza  (buvajuic),  ed  in  cui  sembra  man- 
care Tunità,  Tev  platonico.  L'ignoto  autore  dei  frammenti 
ne  confuta  la  teoria.  Del  rimanente,  egli  conchiude,  questa 
dottrina  può  benissimo  essere  vera ,  seppur  è  vero ,  che 
gli  Dei  l'abbiano  rivelata,  ma  è  affatto  inintelligibile.  Così 
accade,  che  può  essere  vero  un  discorso  sulla  diversità 
dei  colori  fatto  a  ciechi  di  nascita ,  ma  è  ad  essi  incom- 
prensibile, mancando  loro  T  idea  dei  colori.  Imprende 
poscia  a  provare,  che  coloro  i  quali  insegnarono  ciò  che  Dio 
non  è,  sono  più  saggi  di  quelli  che  insegnarono  ciò  che 
è.  In  altri  frammenti  si  parla  della  conoscenza,  che  ha  Dio 
di  tutte  cose,  in  altri  della  connessione  deìVimo  e  dQÌV esserle . 
Ma  i  vari  squarci  paiono  appartenere  ad  un'opera  sola. 
L'intiera  facciata  del  foglio  67,  verso,  contiene  un  brano  del 
Parmenide. 

L'autore  cita  più  volte  Platone,  e  colla  sua  autorità 
cerca  combattere  quella  teoria,  che  sembra  appartenere  agli 
Stoici.  E  veramente  egli  li  nomina  (fog.  92  verso,  Hn.  12)  in 
modo  da  cui  appare,  che  intorno  ad  essi  aggirasi  il  discorso: 
01  juèv  CUV  àiTÒ  TTÌc  CToac  oùk  óttotitvuOckouciv  ìk  Xóyou 
Tevéc9ai  ctv  tivoc  KaidXrmJiv  irpaYMaTUJV,  tòv  èm  Trecci  òè  6eòv 
àjurixavov  elvai  KaiaXapeiv  oiik  òti  ék  Xóyou,  àXX'  oùbè  òià 
voriceujc. 

La  grecità  ricorda  gli  scritti  de'  Neoplatonici.  Onde  è , 
che  il  primo  sospetto ,  sorto  riguardo  all'autore  di  questi 
frammenti,  si  fu,  che  essi  dovessero  attribuirsi  a  qualche  fi- 
losofo della  scuola  Alessandrina,  e  forse  a  Proclo.  Ma  oltre 
le  vane  ricerche  fatte  fra  le  opere  di  Proclo  e  d'altri,  le  pa- 
role, che  spesso  occorrono,  àvouciov,  èvoùciov,  npooiiciov 
sembrano  invece  accennare  a  qualche  antico  padre  della 
Chiesa. 

Comunque  siasi,  siccome  qui  s'intende  dare  una  notizia  di 


-  58  - 
un  codice  bobbiese,  e  non  l'illustrazione  di  un  brano  di  greca 
filosofia ,  noi  pubblicheremo  senza  note  i  frammenti  del  co- 
dice, affinchè  veggano  i  dotti  a  quale  autore  debbano  riferirsi. 

Sarebbe  certamente  ventura,  se  il  codice  potesse  sommi- 
nistrare qualche  inedito  argomento  ai  loro  studi.  Che  se 
invece  essi  trovassero  già  stampati  questi  brani  filosofici  fra 
opere  conosciute,  un  merito  rimarrebbe  forse  alla  nostra 
pubblicazione,  quello  d'essere  fatta  da  un  codice  antichissimo 
a  mo'  di  saggio  paleografico  e  adorno  d'un  piccolo  fac- 
simile della  scrittura.  Non  fu  possibile  per  ragioni  tipogra- 
fiche riprodurre  sempre  la  stessa  ortografia  e  gli  errori 
dell'amanuense  del  codice,  che  suole  segnare  superiormente 
con  un  punto  le  lettere,  che  vanno  tolte,  abbreviare  in  fine 
di  linea  alcune  parole,  notare  fra  la  linea  parole  o  lettere 
ommesse.  Parimente  si  è  creduto  di  tralasciare  le  poche 
parole  ancor  leggibili  sul  retto  del  foglio  64.  Si  sarebbero 
pur  volentieri  tralasciate  le  poche  linee,  che  non  senza  dif- 
ficoltà si  leggono  nel  retto  del  foglio  90,  dacché  non  danno 
un  senso;  ma  si  stimò  bene  riprodurle,  sì  per  rendere  meno 
imperfetta  la  edizione,  e  sì  per  agevolare  una  più  diligente 
lettura  a  chi ,  riconosciuto  il  pregio  dello  scritto ,  volesse 
tentarla  nuovamente.  Notasi  poi ,  che  nei  due  fogli  (  o 
carte)  64  o  67  la  parte  greca  è  scritta  a  rovescio  della  latina, 
cosicché  la  parte  retta  del  latino  è  la  parte  versa  del  greco. 

Riguardo  al  brano  del  Parmenide,  se  si  confronta  colla 
edizione  del  Bekker,  e  dello  Stallbaum,  non  reca  certo 
varianti  d'importanza,  ma  tali,  che  e  per  l'antichità  del  co- 
dice e  per  il  classico  autore,  a  cui  si  riferiscono,  meritano 
d'essere  notate  da  chi  intraprendesse  un'edizione  del  testo. 

Bernardino  Peyron. 


ci. 


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-59  - 

(Foglio  64  verso). 

uaGri  eie  eKeivov  avaTteiiTTeiv  tuj  .  .  .  . 
r\}xac  eivai  tuui  ovti  to  ply\ò^v  ei  .  . 
...  €1  uri  avTi\a)npavoi)ae0a  Tr|C  coi 

TTIPIOU    .  .  TT  .   .  TÌITOC   aUTOU    .  .   .    TIU    eiVttl 

5  OTTuuc  ouv  ....  |nev  eri  auTOu iravia 

xa  aXXa ecxiv cpiu 

TI  Tou  riXiou  Ta  eneiTeia  ap  ouv  tiTvujc 

CKei  0  9eoc  to  rrav  Kai  tocou fiYVuucKei 

ouc Yvujciv  ....  ouK  e 

10  CTI  TToXuc  OTi  qpniLii  eivtti  Tvujc  ....  eHuj 
Yvujceuuv  Ktti  aYVOiac  qpr)  .  .  yvujcic  .  .  . 
7TUUC  flTVUJCUJV  ou TI 

YVUJCKUJV  OUK  6V  ttYVOia  ecTiv  .  .  .  .  ou 
YIYVUJCK61  oux  .  •  •  ev evoc 

15  aXXuuc  TT  ...  rie  uTtepexujv  yv ou 

Yap  TTOTe  voricai  ouk  eireYiYV v  aX 

\ auTtt  Tri ^^"JC 

eaYV  ...  ri YiYV CTe 

POTATI  auTri  ecTiv  n  yvuuciv  ri  .  .  u  .  .  .  ouc  exe 

20  pOTriTtt  eincpaivouca  òu eirivoia 

evujceujc  xai  yit 

Xuupic  Tov  ov  eauT  ...  Ka  ....  ,  vev  .  .  0|iOu 
YiYVUJCKei  .  ou  jun  vo Kai  iroiei 

25  aXriOric  Tpoirov  Tiva \a\ji 

Pavri  etrauTou  |uri  Triv 

Kai  CTepn    

Gevei  lari  e  .  .  .  .  €1  yiYVujckéi  koi  tou 
TO  Yvuuceujc  Kai  aYVOiac 

30  .  .  ujv  Ktti  iravTUJV  yvujctiv  ....  rrep 

luc  Ttt  aXXa  t VTa 

YiYVUucKei r\  yvuj 

eie  eexiv  oux  YiYVUJC  ...  x  ....  xa  yvuj 
exa  .  aXX  .  auxai  cu Yap  €cxi 

35  qpujc  cpujxiilojaevov 


10 


15 


20 


25 


30 


35 


—  60  — 

(Foglio  67  verso). 
TOUTOV   TOV   TpOTTOV    «    ap    OUV    OUÒ    GV   XPO 

vuu  TO  TiapaTTav  òuvaiT  av  eivai  to  ev  ei  toi 
ouTOV  eiri  ouk  ava-fKìi  eav  ti  ri  ev  xpovoi 
aei  TO  auTOu  irpecpuTepov  'fiTvecGai  :  a 
vttYKti  ouKouv  TOYe  TTpecpuTepov  aei 
veuuTepou  TrpecpuTepov:  ti  |utiv  to 
TtpecpuTepov  apa  eauTOu  Yevo)iievov 
Ktti  veujTepov  a)aa  eauTou  Y^TveTai  ei 
Trep  jLieWei  exeiv  otou  TTpec^uTepov  ti  ti 
YVCTai:  TTuuc  XeYeic:  uuòe  òiaqpopov  cte 
pov  eTepou  ouòev  òei  YiTvecBai  riti] 
ovToc  òiacpopou  aWa  tov  |iev  ovtoc  nòli 
eivar  tou  òe  y^TOVOtoc  Y^TOvevai  tou 
òe  (aeWovToc  jueWeiv  .  tou  be  YiTVOjue 
vou  ou  YCTOvevai  ouTe  jueWeiv  ouTe 
eivai  TTUJ  TO  òmcpopov  .  aXXa  YiTvecBai  Kai 
aXXuuc  OUK  eivai:  avaYKr]  y«P  :  ctXXa  |uriv 
TOYe  TTpec^uTepov  biacpopoTriTOC  veuu 
TCpou  ecTiv  Kai  ouòevoc  aXXou  :  ecTiv  YCip: 
TO  apa  TTpec^uTepov  auTou  YiTVO)aevov 
avaYKti  Kai  veuuTepov  ajaa  eauTou  yi 
YvecGai  :  eoiKev  :  aXXa  |Lir|v  Kai  firiTe  ttXc 
uu  eauTOu  xpovov  YiYvecGai  jurife  eXaT 
Tuuv  aXXa  tov  icov  xPOVOV  Kai  YiTvecGai 
eauTuui  Kai  eivai  Kai  Y^TOvevai  Kai  jaeX 
Xeiv  ececGai:  avaYKri  YCip  ouv  Kai  TauTa: 
avaYKr)  apa  ecTiv  uuc  eoiKe  oca  ye  ev  xpo 
viui  ecTiv  Kai  jueTex^i  tou  toioutou  e 
KacTOv  auTuuv  Trjv  auTrjv  Te  auTO  auTUj 
riXiKiav  exeiv  Kai  Tipec^uTepov  Te  au 
TOU  afia  Kai  veujTepov  YiYvecGai  :  kiv 
buveuei;  aXXa  |ar|v  tuoi  yc  evi  tuuv  toi 
ouTujv  irpaYiLiaTuuv  oubev  jtieTriv: 
ou  Yotp  lueTriv  oube  apa  xpovou  auTuu  |ue 
TecTiv  oube  ecTiv  ev  tivi  xpovuji:  oukouv 


—  61  — 

(Foglio  67  retto). 

«  òri  uuc  TÉ  0  XoTOC  epei  :  »  aKoXouGiav  XajLi 

Pavri ovToc  auiriv  :  ei  imiie  irpec 

Puiepov  linfe  veujTepov  ri  inv  autriv 
r|\iKiav  TO  ev  exov  eir)  ouò  av  ev  xpovuui 

5  .  .  .  Tttu T  av  eivai  to  tocoutov 

€V  exei  ai òiacpopav  .  eie  to  ^irire 

Ttpecpuiepov  r|  veuuiepov  r\  iriv  auiriv 

nXiKiav  exov 

Trpo  .  .  ov  .  .  TO  irapaTtav  auTo  òuvacGai  ei  .  . 

10  .  .  .  avTiCTpeqpeir)  ouk  avaTKricav  ti  r)  e  .  . 
Xpovuui  ò  .  .  .  auTou  auTO  TtpoecpuTepov  YiTve 
c9ai  XaKuuv  ....  ou  ...  oti  to  Ttpec^u  .  . 
pov  Kai  veiuTepou  TrpecpuTepov  ecTi 
aXXa  TTpec^uTepov  XeyeTai  |aev  xa 

15  Ka  .  .  .  .  TTpec^uTepou  Ka  .  tocoutou  ovtoc 
XeteTtti  ....  Kai  o  Yep*JJV  TTpec^uTepoc  aTtoXu 

Tuu  .  OTav  òe  TipecpuTepou 

iaaivo|u uuc  irpoc  veiwTepov  XeYO|ue 

vov  uucTrep euuTepov  uuc  Ttpoc  ève 

20  CTepov auTOu  ouv  utto  aXX 

Tou  veuuTepou  e  .  XiKia  .  .  . 

ou Tepov  auTOu  yitvo)li€vov  xai 

Ttpec^uTepov  eauTou  YiTveTai  .  npecpu 
Tepov  |aev auT  .  .  .  TiTvecGai  tuu 

25  tou  piou  auTOu  tov  xpovov  rrXeiova  YiTve 
CTai  TO  be  auT  .  Kai  veuuTepov  eauTOu  yi 

YvecTai , 

.  .  .  evujc  YiTveTai  |iiri  cv  TrpoTepov  iva 
veuuTepov  YevriTai  .  aXXou  òe  KaTa  thv 

30  .  .  .  inai av civ  eiri  tov 

Tepov  YiTVilT  .  . 

7rpo(;  òr)  TauTa  aXX  .  .  .  u  ev  airriv  tuuv  oti 
cocp  ....  Koc  0  Xofoc  Ktti  YUMvacTiKOC  ve 
ujTep K  TipeapuTepou  YiTveTai  aX 

35  Xo  .  ov  aTTOYiYveTtti  uuctc  OTav  priBn  oti 


62 


(Foglio  90  retto) 

€ic  .  .  .  ajuevrjc  eauTOV  eiepa  a  jaev  .... 
vo)aev Kai  tou  voouinevou 

OU|Ll 

5  evov  Ktti  au 


Ktti  aWo 

TOU  evoc  òiacpepovToc 

10  Ttt  ou  exepov  ouk  arrXouv  ev  jiev  ouv 

ecTiv  KaT  airXouv  Kaia 

Kai  au bu 

vaiai oTi  Ktti  xpn  ovo)iaZ;eiv  ev  Xi 

.  .  .  uuc 

15  TOV    


ouv   Kttl 

voou)a  . 


20    e    .    TO    VOTITOV    Kttl    CttUTOV 

r{\  òio  apiCTioc  Kaia 

oucuuv  evepTÉi 

evepTeia  Ka 

Ttt  òe  iriv  vouv e 

25  vepTeia  Km Tap 

auTO 

ecTìiKcv  a|aa au 

Kai 

30  Kaia  be  .  .  .  .  aurou  

TO 

OUT€  K€IV ou 

T6  CTepov  ouTe  €V  eauTOV  ecTiv  outé 


35 auTo 


63 


(Foglio  90  verso). 

ILievov  eie  eauTOV  eiceXGeiv  .  Ti|iii  fap  pXe 
Tieic  cauTOV  tov  eiceXGeiv  lun  buvajue 
vov  61  (ir)  Tiui  evi .  Kai  tivi  cauTOV  .  .  .  ov 
eicepxecGai  aòuvaiei  .  tic  ecTiv  outoc  o  a|bi 
5  90Tepoic  eq)aKTO|Li£VOC  Ka9a  to  auto  ev 

Tiui  |Lie|aepic|Lievuji T^JV  eiepov 

eivai  TO  voouv  Kai  to  voou)ievov  .  pXeiraiv 
uoTe  evouTai  to  voouv  tuui  vooujLievuu 

Kttl   TI   TT0T6    OU    ÒUVaTttl OUV    0    TI    ttU 

10  Tri  r\  evepTeia  Tiap  €K€ivac  ri  enava^e^r] 
Kuia  iracaic  Kai  xP<JU|iievr|  auTaic  iracaic 

tue  opYavo  ....  av  tuuv  eqparrTO 

Ktti  KttTa  TO  auTO  Kai  ev  ouòeviouca  .  eKa 
CTr|  ixev  ouv  TUUV  aWujv  upoTOTreTTri 

15  Y£  Ktti  KaTtt  TO  eiòoc  ira  ...  .  TauTr|i  Kai 
KttTa  TO  ovojaa  te  Ta  Kai  auTri  òe  ovòe 
voc  ecTiv  òio  cube  eiòoc  ouòe  ovo|ua  exeiv 
ouòe  ouTi  av  ev  ouòev  .  .  .  Yap  KpaTeiTai  aX 
X  ouòe  luopqpouTai  urro  tivoc  ovtoc  ou 

20  ca  arraGnc  Kai  ovtoc  axuupicToc  eauTrjc 
ou  vor|cic  ouca  ou  voriTOV  ouk  oucia  aX 

X  eneKeiva  airav avTuuv  aiTi 

a  cu^uYoc  oiCTtep  ^evToi  vuv  opacic 
^ev  Tou  aKoucTou  ouk  ecpanTeTai  ou 

25  b  aiacpoTepai  tou  y^uctou  ouòe  oibev 
€KacTr|  OTi  eTepa  ecTiv  Trjc  eTepac  ou 
b  oTi  aKOucTov  eTepov  tou  opaTou  .  aX 
Xn  b  ecTiv  buvaiuiic  ....  avapeprjxui 
a  TOUTUJV  r\  TauTa  biaKpivei  Kai  to  Tau 

30  TOV  auTUJV  YiYvuucKei  Kai  to  eTepov 

aaiTrjv  ouciav  Kai  ira aTai 

Tracuiv  ecpaTTTecGai  xpncOai  be  auTOic 

ujc  opYavoic  bla  to  kpittov  eivai  Kai  eira 

vapePnxevai  auTUJV  outuuc  Kai  n  •  •  •  •  ^iJ 

35  vajuiic  Ka opaov  ouc  j^ri  buvaiaevoc 


-  64  — 

(Foglio  91  retto). 

aTTO  TttUTriC  ouv  op|Liuj)uievov  outoi  touc  Xo 

Youc  TTpoc  arr  .  .  .  obe  rauia  Ka9  utto 

larìc  Tric  op9ric  aiuapiavei  appriTOu  y«P  xai  «Ka 
TuuvojuacTOu  òia  noWa  tou  e  ....  a  cuvovtoc 

5  Geou  onwc,  ouò au  eWri  ....  qpuc  .  .  .  au 

TOU  TUYX«veiv  ujc  ti  tou  evoc  evvoia  .  iKavuuc 
Yap  acpiCTr|civ  aTT  auTOu  rrav  ttXiiGoc  Kai  cuv9e 
civ  Y  •  •  •  oiK  .  .  av  Ktti  TO  arrXouv  e  .  .  .  iiv  òiòot 
CI  .  Ktti  TO  lariòev  irpoc  auTou  .  Kai  to  apxriv  eivai 

10  Tuuv  aWuuv  TO  ev  r|  ^c  .  ibiai tqtou 

acp  eauTuuv  Kai  òiapTe  .  .  .  evTa  ....  aXXa  TrXri 
9oc  el  evoc  Y£VO|ueva  Kai  to  eivai  orrep  TLUcrjv 
arropepXriKev  .  ouk  av  ouòe  irXriGoc  ovTa  eiv  . 

TOUTO    YOUV    aUTO    UTTCp   TIVOC 

15  Xrimuevov  art  auTuuv  eTUYxave  ju ov  a 

Treipa  .  .  vop  .  o  Ta  ouòajuuj(;  ovTa  TauTa  òe  e 

CTiv  OUK  av 

ciuvTO  .  v  aX irpoc uj  tuui  etti  ira 

CI  9euji  Kai  Tuj  .  .  .  n  irep  eauTOu cu|u 

20  qp e  .  .  .  .  jurjTe  bia  CjuiKpoTriTa  uk;  irepi  ttéu 

Ci ...  OC  Kai  TI  òiaXice  av  ov  t bi 

a  TI  .  .  .  .  u  .  .  .  .  Ke  ov  Kai  .  .  .  .  |Li .  .  .  .  eivai 

Kai  acpepoiTO  erri  irpaYiuaTa  aTpiuiTa 

Geou  aKOucaiTO  ei 

25  eK  ....  UJ  ....  IT  ...  .  oTttv  biavori9e 

ireipov  buvajuiv  Kai  TiavTUJV tuj 

aiTiav  Kai tuuv  fieTauTUJV Tau 

tuj auTHV TUUV 

EKeivuuv  eTTi  ju  .  .  .  .  Kai  bia  Triv  tou  KaTaXei 

30  ireiv  Kai  thv  tou  evoc  enivoiav  ou  bia  cpn 

KpoTJiTa  ouTe .  Xtiv e^nX 

XaYiuevoc  .  .  .  .  rjc  .  .  .  eirivori  tou  urrocTace 
uu?  .  r\v  |ur|Te  |ueTa  itXriGouc  |ur|Te  |LieTa  e 
V€pYeia(;  )ar|Te  jueTa  voriceuuc  lariTe  |u.e 

35  Ta  aTeXoTiiTOc  |ur|Te  |iieT  aXXrjc  tuuv  erri 


65 


(Foglio  91  verso). 

YiTVOjuevouv  evvoiuuv  òia  to  uTteptepov 
auToic  eivai  Kai  iraviiuv  eu9u)Lieic9ai  .  ti  .  . 
TTOu  fé  òia  cjLiiKpoTriTOc  tivoc  òiaqpeu-foucric 
riiLiujv  òi  oXiTOTiita  inv  eirivoiav  rravra 
5  ouv  aipeiv  bei  Kai  inri  ò  ...  ev  TtpocGeivai  Travia 
Ò€  aipeiv  ouK  ev  tuui  eKTrmieiv  eie  io  larii 
òa|iirii  iLiriòajuujc  ov  .  ev  òe  tuj  exec9ai  |uev  Kai 
voeiv  Travia  la  Ttap  auiou  Kai  bia  auiov  riYei 
c6ai  Oli  aiTioc  )iiev  auioc  Kai  lou  ttXtiOouc  Kai 

10  lOu  eivai  auiuuv  auioc  òe  ouie  ev  ouie  TtXrii 
0OC  .  aWa  Ttaviujv  uTiep  ouciac  luuv  bi  auiouv 
oviuuv  uucie  ou  TiXriGouc  inovouc  uTtepavuu 
aXXa  Kai  iric  lOu  evoc  eTtivoiac  bi  auiov  t«P  Kai 
IO  ev  Kai  juovac  .  Kai  ouiuuc  ouie  eKTrmieiv  eie 

15  KevuujLia  eveciai  ouie  loXfiav  ii  eKeivuui 
irpocaTTieiv  .  lueveiv  b  ev  aKaiaXriTTio)  Ka 
laXrmjei  .  Kai  |ur|bev  evvooucn  voricei  .  aqp  rjc 
ILieXeiric  cu|upriceiai  coi  Troie  Kai  aTtociavii 
luuv  bi  auiov  UTTO  luuv  ....  vorjceujc  cirii 

20  vai  eTTi  iriv  auiou  appr|iov  Tipoc  evvoiav 
inv  eviKOViZ;o|uevr|v  auiov  bia  ciyìic  ou 
be  CTI  .  .  .  .  TiTvujcKoucav  oub  eTti  eveiKOvi 
Zieiai  auiov  TtapaKoXoucav  oube  oii  KaGaTiaH 
.  eibuiav  aXXouc  av  laovov  iKOva  appiiiou  io 

25  apprjiov  appriiuuc  oucav  aXX  oux  ujc  titviwi 
CKOucav  .  ei  |lioi  uuc  x^Jupuu  Xeyeiv  .  bouvai  o  Kav 
cpaviaciiKuuc  T:apaKoXou9r|vai  .  aXXa  iXe 
uu  jLiev  YevoijLieGa  auioi  auioic  bioKeiv  ou 
iva  Ttpoc  lov  ev9ouciac|aov  ipaTteviec  lou 

30  epavou  o  ouk  ic|Lxev  aXXa  Yva)C0)ne9a  Troie  au 
IO  xiJ^P^c  ama  yvuìciov  aHioi  T£V0|ue9a  . 
0  be  TrXaiuuv  cujaTrXripuucac  lauia  eTTi  louc  ipo 
TTOuc  eTTaveicev  ouc  eHe9eio  ir|c  TU)Livaci 
ac  )Lie|uvr||Lie9a  ^ap  ....  TiapiivYeXXev  utto 

35  Gefievoc  eivai  io  TTpopXn9ev  CK0TTeic9ai 


-  66  - 

(Foglio  92  retto). 

\xr]  oucac  TiKtei  ev  eauTuu  :  oi  òe  ap-rracai 
eauTOV  CK  iravTuuv  tudv  eauTOu  emov 
ree  òuvajLiiv  te  auTuui  òiòoaci  Kai  vouv 
ev  TTii  anXoTriTi  auTou  evriviucGai  .  Kai 
5  aXXov  iraXi  vouv  .  Kai  ttic  Tpmòoc  auxov 
ouK  eHeXoviec  avaipeiv  api6|aov  aEiou 
civ  .  tue  Kai  TO  ev  Xeteiv  aurov  eivai  irav 
reXaic  TrapaixeicGai  .  rauia  be  ttujc  |Liev  Xe 
Yciai  opGuuc  te  Kai  aXriGuuc  ei  ye  ©eoi  ujc  epa 

10  civ  01  TTapapeptiKOtec  tauia  eHriYTrXav  (sic) 
cpGavei  be  rracav  ttiv  avGpuuTTivnv  Kara 
Xrjvpiv  Ka9  .  Kev  ujc  ei  tic  toic  eK  Yevvn 
Tr|c  TucpXoic  Ttepi  xpiAJ|Li«fuuv  òiacpopac 
eXaXei .  XoTiKac  uTrovoiac  eicatuuv  auTiuv 

15  TUJV  TravTOc  Xoyou  eie  Trapactaciv  urrep 
xepuuv .  uuc  exeiv  |nev  Xotouc  aXriGivouc 
Touc  aKOucaviac  Trepi  xP>JUM«tujv  .  a^vo 
eiv  be  TI  TTOTe  ecTiv  to  xP^M"  .  tuui  |iir|  exeiv 
eKeivo  uj  TtecpuKe  KaxaXTiTrTOV  eivai  to 

20  XPUJ^ci  •  XeiTteiv  ouv  rmac  buvajuic  eie 
empoXriv  tou  Seou  Kav  oi  ottuucouv  auTov 
eviKOViZ;o|iievoi  epiurjveuujciv  rniiiv 
XiuTuui  UJC  buvttTov  aKoueiv  iiepi  auTOu  . 
eKeivou  unep  iravTa  Xotov  Kai  rracav  vo 

25  rjciv  ev  tx]  auTOu  irepi  ri^ac  aTVUJCiai 
KttTa^evovTOC  .  ei  bei  Tau9  outuj?  exei 
ajLiivouc  01  TO  TI  OUK  ccTi  TtepecpeucavTec 
ev  TTii  Tvujci  auTOu  tujv  ti  ecTi .  Kav  XeTti 
Tal  aXriGujc  |iir|  oiujv  Te  ovtujv  aKoueiv 

30  UJC  XeTCTai .  eiri  Kav  aKOuuj)aev  ti  irepi  au 
TOu  Toiv  UJC  qpaci  irpocovTUJV  Kai  bia  uà 
pabiTiuaTUJV  ujv  evTeuGev  Xaiupavou 
civ  eie  Triv  evvoiav  auTOu  fjeTaXapovtec 
Kai  aXXujc  eKbeEajuevoi  aviujiuiev  .  aXXa 

35  Ktti  auTOi  ouToi  uaXiv  avacTpenjavTec  a 


-  67  - 

(Foglio  92  verso). 

Hiouciv  |Lir|  Trpocexeiv  toic  eipr||uevoic 
eH  eu9iac  aqpicTac9ai  be  Kai  toutuuv  kqi 
TTic  Kaia  TTiv  TOUTUUV  vor|civ  cuvece 
ujc  Tou  6eou  .  uucTe  TeXeuTa  Kai  toutujv 
5  r\  òibacKaXia  toiv  te  ujc  tujv  Ttpoceivai 
TrapaòiÒ0|Li£ViJuv  .  exoi  ò  av  oi)Liai  irepiTTOv 
TI  ec  Triv  KaGapciv  Tr|c  evvoiac  r)  incTa  Tr|v 

ttKpoaClV   TUJV    UJC    TtpOCOVTUJV    aUTUJ    ttTTO 

CTaceic  .  Kai  toutujv  to  ex  tujv  ineticTUiv 
10  Triv  aTTOCTaciv  TiTvec0ai  Kai  tujv  irpoc 
exujcav  jutT  auTOv  voriGevTujv  oi  |uev 

OUV    aTTO    TTIC    CTOaC    OUK   aTTOTlTVUlCKOUClV 

EK  XoTou  YCvecGai  av  tivoc  KaTaXrmJiv 
TrpaYlnaTUJV  tov  erri  Traci  òe  9eov  aiarixa 

15  vov  eivai  KttTaXa^eiv  .  oux  oti  €k  Xoyou  aX 
X  0UÒ6  òia  vorjceujc  .  Kai  Yotp  aXXuj?  qpriciv 
THC  vpuxric  ou  TO  ttoiov  €cti  ZiriTOucrjc  fvu) 
vai .  aXXa  to  ti  ecTi  .  Kai  ttic  qpuceouc  Tnc 
oucric  TOU  eivai  Kai  thc  ouciac  auTOu  yvuj 

20  civ  KTticacGai  .  iracai  ai  YVujcTiKai  òuva 
)Liic  TOU  TTOIOV  TI  ecTiv  avaYTcXTiKai  ou 
X  0  Z:riTOU|Liev  KaT  ecpeciv  aXX  o  inri  ZiriTOu 
)Liev  avaTTeXXouciv  .  ouk  ecTiv  òe  toiov 
be  0  0eoc  aXXa  Kai  tou  eivai  Kai  tou  ecTiv 

25  eHrjXXaKTai  auTou  to  Tipoouciov  :  ouk  e 
Xei  be  KpiTHpiov  eie  Trjv  yvujciv  auTou 
aXXa  auTapKec  auTri  to  thc  aYvujciac  au 
TOU  eiKOVicjLia  .  TrapaiTOuinevov  rrav  eiboc 
OTUJi  TVUJpiZiovTi  Huviciv  .  ouTe  ouv  au 

30  TOV  buvaTai  Yvujvai  ouTe  tov  tpottov 
Ttic  TUJV  beuTepujv  aTt  auTou  Kai  bi  au 
TOV  Y\  UTT  auTOu  Tiapobujv  .  aXXa  Tteipujv 
Tal  jiev  eSriT€ic6ai  Kai  toutov  ocoi  Ta  ko 
T  auTOV  iLirivueiv  ujc  ecTiv  eToX|ar|cav. 

35  TieipujvTai  be  exojuevoi  tujv  Tiepi  auTov 


68 


(Foglio  93  retto). 

eTTi  Tou  òeuTcpou  Kamep  inerapac  em 
TO  ov  .  Ktti  ou  fietexov  rric  ouciac  .  aWov  ttoi 
citai  Tov  \oYOV  uuc  eTTi|ueTexovToc  .  ouci 
ac  |Liev  ouv  to  ev  uTioGecic  ^etexeiv  auro 
5  ouciac  eXetev  aioiTOC  av  r\v  o  Xotoc  .  em  òe 
TO  €V  uTTopaXXuuv  )LieT€xeiv  auTO  ouciac 
qpriciv  .  òei  YiTVuucKeiv  .  uuc  eireiòri  ouòe 
TO  ev  ecTiv  to  aKpaicpvec  cuvriXXoiuuTai 
òe  auTiu  ri  tou  eivai  iòiothc  .  òia  touto  ixe 

10  Texeiv  ouciac  cpriciv  .  aie  ei  tic  ev  tuu  egri 
YnTiKuu  TOU  avGpuuTTOu  XoYUJi  Xapuuv  to 
Z^uuiov  jueTexeiv  auTO  ecpacKe  Xoyikou  . 
KaiTOi  TOU  avGpuuTTOu  uuc  evoc  ovtoc  lu) 
ou  Xoyikou  Kai  tou  Te  Z^uuiou  cuvrjXXoiuu 

15  luevou  Kai  tou  Xoyikou  tuui  Zuuiuui,  outoic 
Yap  Ktti  erri  touto  Te  ev  rr\  oucia  cuvriX 
XoiuuTai  .  ri  Te  oucia  tuui  evi  Kai  ouk  ecTiv 
TtapaGecic  evoc  Kai  ovtoc  ri  uTTOKei|uevov 
jLiev  TO  ev  .  uuc  cuju^epriKOC  òe  to  eivai  aX 

20  Xa  Tic  ibiOTHC  urrocTaceuuc  eviKoviZ;o|ue 
vri  )iiev  Triv  arrXoTrjTa  tou  evoc  oux  icTa 
luevri  òe  eiricTric  aKpaiqpvoTriToc  auTou  . 
aXX  eie  TO  eivai  cuvTrepiaYOuca  auTO  .  eirei 
Yap  ou  TO  irpuuTOV  riv  ev  to  òeuTepov  ou 

25  òi  aXXo  aXXa  òia  to  ttpuutov  .  ouTe  |ur]v  to  au 
TO  Tuui  TrpuuiTuui  Euei  ouò  av  y\v  eTepov 
ouò  air  eKeivou  .  out  CK^epriKoc  air  CKeivou 
Ktti  air  aXXou  Tric  uapoòou  Trjv  aiTiav  exov 
aXXo  Ti  |uev  air  CKeivou  ev  òritrou  Kai  au 

30  TO  .  oTi  òe  OUK  eKeivo  ev  ov  to  oXov  touto 
eKeivou  evjuevovToc  .  rruuc  Ycip  ctv  ev  ^e 
TttpaXXoi  ev  ei  |uri  to  |Liev  t^v  aKpaicpvec 
ov  TO  òe  OUK  aKpaicpvec  .  òio  ou  juct  cKeivo 
Ktti  OUK  eKeivo  .  oti  to  jueTa  ti  Kai  to  ano  tou 

35  eKeivo  Te  tpoTiov  Tiva  ecTiv  aqp  ou  .  Kai  jue9  o 


—  69  — 

(Foglio  93  versoj. 

ecTiv  .  Ktti  aWo  ti  ou  juovov  ouk  €ctiv  eKCi 
vo  aqp  ou  auto  ecTiv.  aWa  Kai  ev  toic  avri 
Kei,uevoic  cujiipepriKoci  9eujpou)uevov  au 
TiKa  eKeivo  ev  luovov  touto  he  ev  Travia  . 
5  KaKeivo  luev  ev  avouciov  touto  òe  ev  e 
vouciov  TO  ò  evouciov  eivai  Kai  ouciujc9ai 
l^eTexeiv  ouciac  eipriKe  irXaTujv  ou  to  ov 
uTToQeic  .  Kai  to  ov  ye  lueiexeiv  ouciac  emujv 
aXXa  TO  ev  urroGeic  .  ouciiu^evov  òe  ev  ^e 

10  Texeiv  ouciac  ecpri  luriiroTe  òe  arro  tou 
TipuuTOu  to  òeuTepov  .  òia  touto  jneGeEei 
tou  TTpuuTOu  TO  ÒEUTcpov  XefeTai  TOU  eivai 
tou  oXou  tou  ev  eivai  eK  laeToxric  t^TO 
VOTOC  TOU  evoc  Kai  enei  |ur|  tcTOvev  Ttpoi 

15  Tov  .  eiia  incTecxe  tou  evoc  .  aXX^airo  tou  evoc 
YCTOVOC  uqpifievov  ouk  eppeGn  laeiacxo 
l^evoc  aXXa  ev  jiieTacxov  tou  ovtoc  .  oux  oti 
TO  TTpuuTOv  riv  OV  .  aXXo  ti  ano  tou  evoc  e 
TepOTtic  nepiriYCiTev  auTO  eie  to  ev  eivai 

20  TO  oXov  TOUTO  .  eH  auTOu  yap  ttujc  tou  òeu 
Tepujc  Y^TOvevai  ev  npoceiXriqpe  to  eivai 
ev  opa  òe  |ur|  Kai  aivicco)aevuji  eomev  o 
TrXaTUJV  .  OTi  to  ev  to  eneKeiva  ouciac  Kai 
OVTOC  .  ov  }xev  OUK  ecTiv  .  ouòe  oucia  .  ouòe 

25  evepTeia  .  evepTH  òe  laaXXov  Kai  auTO  to  e 
vepTeiv  KaGapov  .  ojctc  Kai  auio  to  eivai  to 
npo  TOU  ovtoc  ou  lueiacxov  to  ov  aXXo  eS  au 
TOU  exei  eKKXeivo)uievov  to  eivai  orrep 
ecTi  iLicTexeiv  ovtoc  uucTe  òittov  to  ei 

30  vai  TO  )Liev  irpouTrapxei  tou  ovtoc  .  to  òe  o 
enaTeTai  ck  tou  ovtoc  tou  eneKeiva  evoc 
TOU  eivai  OVTOC  to  anoXuTOV  .  Kai  lucTrep  i 
òea  TOU  OVTOC  ou  laeiacxov  aXXo  ti  ev  Ttfo 
vev  .  uui  cu^uTOV  to  air  auiou  emcpepoine 

35  vov  eivai  .  ujc  ei  voriceiac  XeuKov  eivai 

Tifvista  di  filologia  ecc.,  I. 


—  70  — 

{Foglio  91  retto). 

ovTi  ap  ouv  avo)aoioc  o  9eoc  xuui  voii  Kai  ere 
poc  .  Kai  61  lar)  eiepotric  ^etoucia  aXX  auTUJ 
Ye  Tuui  juri  eivai  o  vovq  .  iiprjTai  ov  ori  ou 
Te  o|aoioTr|Toc  ouie  avo|aoioTriToc  irei 
5  pav  ex^i  to  ev  oxi  ovtujv  re  Kai  ixx]  ovtujv 
Tuuv  air  auTOu  Kai  òi  auTOV  uTTOCxavTujv 
aei  auTOC  triv  acu|LxpXr|TOV  ex"JV  uirepo 
Xnv  rrpoc  rrav  otiouv  Kai  xo  irav  ouxuuc  lu 
cav  ei  |uri<5ev  nv  ycTovoc  xudv  |H6x  aux  .  . 

10  ou  òiecxncev  auxov  exepoxric  air  auxuj. 
acuvKpixxov  ovxa  xoic  |aex  auxov  Kai 
arrepiXriTTxov.  o  t^P  o^k  «v  irepiXeicpGeiTì 
TTUJC  av  eiri  xouxo  exepov  aXXou  .  ujCTrep  ouv 
ei  TTepi  òuceuuv  r|Xiou   Zirixoi^ev  .  lefei 

15  he  xic  |Liri  eivai  ri^^iou  buciv  emep  n  bu 

eie    CKOXIC^OC    eCXlV    CpUJXOC    Kttl    VUKTOC 

eTTaYUJYn  n^ioc  òe  ouberroxe  CKOXiZ:exai 
oube  vuKxa  opai  aXXoi  eni  Tnc  eiLiirecov 
xec  eie  xo  cKiac|ua  .  Xeyoi  av  op9ajc  TraGiii 

20  XeTuuv  xujv  eiri  t^c  triv  buciv  .  uJCTrep 
oub  avaxoXn  .Xeyoix  av  riXiou  .  Kai  Totp  n 
avaxoXri  cpuuxiC|noc  ecxiv  xou  irepiTei 
ou  aepoc  .  oubev  be  rrpoc  xov  aei  cpuuc  ovxa 
xo  TToxe  cpujxiZiecGai  xov  -rrepiTeiov  a 

25  epa  .  auxou  be  TraBouc  ovxoc  xouxuuv  Kai 
aneipou  buceuuc  Kai  avaxoXric  Ka6  oxi  ouxe 
(puuxi^exai  ouxe  CKOxiZ^exai  aXX  eKaxe 
pov  XUJV  erri  thc  ecxiv  TTa6r|)na  Kai  xo 
rrepi  eauxouc  eie  eKeivov  laexacpepouciv 

30  ayvoouvxec  xo  Euju^aivov  KaGarcep  Kai 
01  ixapa  YHV  rrXeovxec  auxoi  Keivou)ae 
VOI  auxTiv  KeiveicGai  oiovxai  ouxuu  Kai 
eTTi  xou  0eou  -naca  |uev  exepoxr|C  Kai  xau 
xoxr|c  Kai  o)uoioxr|c  eK^e^Xiixai  Kai  avo 

35  iLioioxrjC  acxexou  auxou  ovxoc  aei  rrpoc 


-  71  — 

(Foglio  94  verso). 

Ttt  jnet  auTov  tabe  urroctavia  aura  Kai 
avo|uoiou)aeva  Kai  Ttpoc  eauTOV  aura  cu 
vapiav  CTteubovia  xac  irepi  aura  cxeceic 
avTicTpecpeiv  Kai  irpoc  eKeivov  oieiai 
5  ouòev  Tctp  0  0€oc  eireKTncaTO  eTiei  iiv  npo 
Tepov  eWemric  ini  eniKTricei  p\ai|jac 
Trjv  auTOu  TeXeioTiiia  aWujc  av  Kai  axoj 
piCTOV  exujv  To  eivai  )uovov  .  .  .  urrep  io 
.  av  TT\TipuL)|ua  ujv  auioc  autou  òia  xric 

10  auTou  evaòoc  Kai  |liovul)C  eoic  e^ei  Kai  tou 
TO  acxexov  .  .  la  luev  e  .  -npoc  .  a  jiev  auiov 
Kai  òi  auTOV  uTTOCiavia  ouv  la  laet  au 
Tov  auTUJC  aKOueiv  XP'I  "J^ct  ev  eauTuu 
)l16V  urrapxovTuuv  r|  to  .  .  .  ouciac 

15  uTTOCTacei  Trji  auTin  .  .  ouòe  Ta  TrXripuu 
TiKa  exovToc  Kai  tuuv  oXujv  Ta  òeuTe 

pa  aXX  ouTuuc  ri  evvai l^ieT  auTov 

uuc  aTTopepXìiiLievuuv ov  Kai  to 

.  .  evov  fxev  irpoc  ....  YCtp  auxoc 

20  TO  |aev  ov  Kai  aua tou  to  yvuj 

vai  pouXojLiev  OTe  aXXo  ti  .  .  .  Kai  iravTa  Ta 
ovTa  CTI  .  .  r|v  eciaev  irpoc  auTOV  .  òi  iiv 

b V  ouK  exujpei  to  Yvuuvai  auTOV  oti 

]ir\  ov  ecTiv  rravTa  Ta  aXXa  Tipoc  auTOv 

25  ai  òe  Yvuuceic  xuui  0)lioiuji  aipouci  to  o 
luoiov  .  jLieicouvTO  oubev  uuc  TTpoceKei 
V  ovTOC  be  TO  i^ovov  ovTUJC  ov  .  ei  aKouceic 
ujca  ÉT'JU  Trpoc  Travia  la  luexa  Tauxa  oube 
jiiav  exoiv  irpoc  auia  napapoXriv  n  ti 

30  va  cxeciv  oubev  TpOTreicaio  ttic  auTOu 
Itiovujceuuc  eie  neipav  cxeceujc  Kai  TrXri 
Gouc  iLiovov  OTi  |Lir|bev  ayvoia  |Liev  ei 
TTOTe  TUUV  eco)aevuuv  YiTvo)aeva  be  e 
■fvuupicev  0  iLinbcTTOTe  ev  a-fvoia  -fevo 

35  laevoc  aXX  rnneic  eoiKainev  Ta  nM^Tepa 


—  72  - 


CECXICX:^   'BI'BLIOG^AFICI 


Aristofane,   Le  Nubi,  con  note  italiane  e  introduzione  di 
Achille  Coen.  Prato,  Aldina  editrice,  1871. 

Questo  volume  fa  parte  della  Raccolta  di  classici  greci 
per  uso  deirinsegnamento  già  da  più  anni  iniziata  a  Prato 
dalPAlberghetti.  Al  testo  delle  Nubi  è  premessa  una  dotta 
introduzione  nella  quale  si  espone  criticamente  la  storia 
delle  due  principali  questioni  sollevate  da  questo  dramma, 
quella  cioè  della  doppia  edizione  di  esso,  e  Taltra  più  ardua 
e  più  importante  circa  il  fine  che  si  propose  Fautore  nello 
scriverlo.  Il  testo  è  riprodotto  dall'edizione  del  Teuffel -,  è 
accompagnato  dalle  varianti  di  maggiore  importanza,  e  cor- 
redato di  osservazioni  sui  principali  motivi  critici  delle  varie 
lezioni  e  di  numerose  note  esegetiche  ed  illustrative.  Segue 
lo  schema  metrico  della  commedia,  ed  infine  il  prof.  Ferrai 
aggiunge  di  suo  un'appendice  nella  quale  offre  pel  testo  di 
questa  commedia  una  nuova  collazione  dei  codici  Raven- 
nate e  Veneto. 

Proporzionatamente  allo  scopo  di  queste  pubblicazioni  il 
signor  Coen  non  ha  inteso  di  fare  un'opera  che  fosse  di 
ragione  scientifica  \  d'altro  lato  però  egli  ha  veduto  che 
Aristofane  non  essendo  un  autore  da  porre  nelle  mani  dei 
principianti  richiedeva  anche  per  lo  scopo  a  cui  mira  questa 
edizione  una  maniera  d'illustrazione  superiore  assai  all'ele- 
mentare. Noi  crediamo  che  in  generale  egli  abbia  colto  il 
segno  nel  cercare  quella  giusta  misura  che  è  tanto  diffìcile 
trovare  in  lavori  di  questa  natura.  Certo,  per  altri  paesi 
sarebbe  stato  necessario  seguire  altra  norma*,  ma  il  sig.  Coen 


-  -73 


ha  giustamente  valutato  le  condizioni  dello  studioso  italiano 
il  quale  non  può  disporre  di  un  corredo  di  libri  sussidiari 
come  può  farlo  lo  studioso  d'altra  nazione.  Per  supplire  a 
tale  mancanza  nelle  annotazioni  fatte  per  uso  delle  nostre 
scuole  si  è  costretti  ad  esser  men  parchi  e  pili  diffusi  di 
quello  si  possa  e  debba  esserlo  altrove. 

Tutto  questo  lavoro  è  prodotto  di  ben  molta  fatica  gui- 
data da  una  serietà  e  da  una  coscienziosità  pur  troppo  rara 
fra  noi  in  opere  siffatte.  Le  Nubi  sono  la  commedia  di 
Aristofane  su  di  cui  più  si  è  scritto  in  edizioni,  in  mono- 
grafìe, in  opere  di  storia  e  di  filosofìa.  Questa  vasta  lette- 
ratura il  sig.  Coen  ha  voluto  conoscerla  e  studiarla  tutta  e 
utilizzarla  pel  suo  lavoro.  Chi  sa  quali  sono  le  risorse  di 
cui  il  cultore  degli  studi  filologici  può  disporre  in  Livorno, 
è  in  grado  di  misurare  le  difficoltà  che  deve  avere  incon- 
trato il  signor  Coen,  per  mostrarsi  così  informato  di  ogni 
lavoro  relativo  al  suo  soggetto  e  quanta  forza  di  volontà  ci 
sia  voluta  per  lottare  con  quella  e  vincerla  così  felicemente. 
Certo  la  storia  delle  due  questioni  sopra  rammentata  non 
era  stata  esposta  fin  qui  né  in  Italia,  né  altrove  tanto  com- 
pletamente. Delle  conseguenze  alle  quali  arriva  per  Tuna  e 
per  Taltra  Tautore,  non  istaremo  qui  a  dire,  poiché  egli  nel 
suo  libro  non  ha  inteso  di  offrire  risultati  nuovi,  ma  di  rap- 
presentare adeguatamente  ciò  che  la  scienza  ora  stabilisce; 
quindi  per  quelle  questioni,  come  per  altre,  egli  si  attiene  alla 
opinione  nella  quale  più  volontieri  sogliono  accordarsi  i  dotti 
oggidì.  Non  però  ch'egli  registri  meccanicamente  le  varie 
vedute;  di  ciascuna  definisce  con  giusta  intelligenza  le  ra- 
gioni e  il  valore.  Questo  stesso  procedere  tiene  nelle  note 
là  dove  trattasi  di  luoghi  controversi.  Invero,  quantunque 
molto  siasi  scritto  su  Aristofane,  l'esegesi  critica  di  questo 
autore  lascia  tuttora  assai  da  desiderare;  né  Aristofane  è  il 
solo  poeta  greco   per   cui  ciò  avviene.    Per   questo  lato  ci 


—  74  — 
sembra  che  correggere  alcune  interpretazioni  accreditate  nria 
erronee  avrebbe  potuto  farsi  anche  in    una    edizione   d'uso 
puramente  scolastico.   Rechiamo  alcuni  esempi  : 
V.     i37    Ktti  qppovTiò'   èSriMPXuJKa(;  èHeupr|,uévriv 

a  II  Kock  (riferisce  il  Coen)  considerando  che  il  discepolo 
di  Socrate  espone  poi  per  intiero  la  sua  meditazione,  e  che 
perciò  Strepsiade  non  gliePha  fatta  abortire^  avanza  il 
dubbio,  che  nelle  prime  Nubi  prima  della  misura  del  salto 
della  pulce  fosse  narrata  un'altra  storia  ».  L'osservazione  del 
Kock  non  è  giusta.  La  qppovxiq  del  discepolo  di  Socrate 
abortita  per  l'interruzione  di  Strepsiade,  non  può  esser 
quella  che  poi  viene  esposta  dal  discepolo,  per  la  semplice 
ragione  che  questa  non  era  cosa  sua  o  trovata  da  lui,  ma 
era  un  trovato  di  altri  e  non  era  neppur  più  qppovric;  ma 
(ppóvTicTiua  (v.  i55).  Era  bensì  divenuta  soggetto  della  cppovti^ 
di  quel  discepolo  il  quale  avrà  cominciato  a  meditarvi  o  a 
sofisticarvi  sopra  e  s'avviava  (parevagli)  a  qualche  risultato 
quando  Strepsiade  l'interruppe. 

V.   248  TUJ  YÒp  Ò)livut'  ;  r\ 

aibapéoiaiv,  ujCTTrep  èv  BuZavriiu  ; 

Il  Kock  troppo  facilmente  crede  spuria  le  parole  tu>  yàp 
ò\xvvie  a  causa  di  quel  dativo  che  non  si  usa  per  la  cosa  per 
cui  si  giura.  La  sola  conseguenza  legittima  di  tale  osserva- 
zione è,  che  in  quel  tuj  non  trattasi  della  cosa  per  cui  si 
giura.  Tuj  si  riferisce  a  vó)iiicr|ua  che  precede,  ed  è  chiaro  che 
qui  abbiamo  un  gioco  di  parola  basato  sul  doppio  significato 
di  quel  vocabolo.  Il  dativo  sta  bene,  perchè  vuol  dire  secondo 
quale  usanza  ;  poi  Strepsiade  motteggia  alla  sua  maniera  al- 
ludendo all'altro  significato  e  mantenendo  il  dativo,  come 
richiede  il  gioco  di  parola. 

V,  32  1  éxépuj  XÓYUJ  a  torto  viene  considerato  come  retto  da 
àvTiXofficJai.  É  un  dativo  d'istrumento  e  trattasi  di  quel  XÓYoq 
che  Sticpsiade  vuole  imparare  da  Socrate  (cfr.  v.  244). 


—  lo  — 

V.  337  àepiac,,  òiepoK;  ad  onta  delle  difficoltà  che  sono 
andati  immaginando  più  critici,  sta  benissimo,  né  si  richiede 
concordanza  con  oIuuvolk;.  Trattasi  di  una  rivista  comica  dei 
vari  epiteti  e  modi  perifrastici  che  poeticamente  si  usavano 
parlando  delle  nubi.  Ciascuno  di  questi  sta  da  sé  ^  àepia*;, 
òiepd<;,  dipendono  anch'essi  da  ènoiouv  e  lasciano  facilmente 
sottinteso  veq)éXa(;. 

V.  485  alia  domanda  di  Socrate  : 

eveati  ónta  aoi  XéTeiv  èv  ix)  cpùcrei; 

Strepsiade  risponde  : 

Xéfeiv  }Àev  oùk  è'veati,  àTToatepeiv  ò'è'vi. 

Si  è  dubitato  della  genuinità  di  questa  lezione  perchè,  come 
dice  il  Coen,  non  si  capisce  bene  in  che  àTTOcnepeiv  sia  op- 
posto a  Xéfeiv;  talché  la  risposta  di  Strepsiade  riesce  una 
freddura.  Ma  il  poeta  fa  parlare  Strepsiade  secondo  Tidea 
fìssa  che  questi  ha  in  capo:,  unica  ragione  per  cui  desidera 
rinsegnamento  di  Socrate,  e  quella  idea  si  traduce  in  mente 
sua  nella  semplice  formola  dmocTTepeTv  Xéfujv  ;  secondo  questa 
dunque  ei  risponde  a  Socrate  e  la  sua  risposta  è  perfetta- 
mente consentanea  al  carattere  e  alla  situazione. 

V.  700  accetterei  la  vulgata  àTToaiepriTiòa.  L'idea  di  Brunck 
il  quale  preferisce  àjrocTTepriTpiòa  secondo  la  formazione  di 
aùXritpi?,  òpxncTTpiq  ecc.,  non  può  essere  giusta.  Qui  Ari- 
stofane forma  quel  vocabolo  comico  coerentemente  alla  im- 
magine del  vestire,  di  cui  si  serve  in  questo  luogo,  e  quindi 
usa  una  desinenza  assai  comune  nei  nomi  di  vestiti,  come 
Hucttìi;,  xkavi<;,  itMjiic,  ecc. 

Ma  bastino  questi  esempi.  Qualche  svista  in  un  lavoro 
tale  può  essere  scusabile  :  ne  noteremo  una.  Nella  nota  al 
v.  591  viene  rammentato  un  verso  dei  Cavalieri  secondo 
il  quale,  dice  il  sig.  Coen,  sul  suggello  di  Cleone  era  scritto: 
Xdpo^  Kexnvùjq  èm  néipa^  òrmriTOpiJÙv.  E  chiaro  che  queste 
parole  non  possono  costituire  la  scritta  di  un  suggello.  Esse 


—  76  — 
descrivono  un  cTTHiieTov,  come   il   comico   dice  apertamente, 
cioè  la   imagine  emblematica  scolpita  su  quel  suggello. 

Il  piano  della  introduzione  ci  lascia  da  desiderare.  Pare  a 
noi  che  per  introdurre  lo  studioso  alla  lettura  delle  Nubi  il 
sig.  Coen  non  avrebbe  dovuto  limitarsi  ad  esporre  la  storia 
di  quelle  due  questioni,  ma  questa  storia  avrebbe  dovuto 
incastrare  in  un  lavoro  piiì  generale  in  cui  si  considerasse 
anche  la  ragione  artistica  di  quella  composizione.  Il  lettore 
odierno  che  per  la  prima  volta  apre  il  libro  di  Aristofane 
trovasi  dinanzi  una  forma  di  arte  che  gli  riesce  intieramente 
nuova,  per  intender  la  quale  ha  pur  bisogno  di  schiarimenti 
e  preparazioni.  11  signor  Coen  pensando  allo  scopo  pratico 
del  suo  lavoro,  doveva  rammentarsi,  che  anche  per  questo 
lato  quei  libri  che  potrebbero  supplire  altrove,  mancano  agli 
Italiani. 

Ma  questi  appunti  non  iscemano  gran  fatto  il  merito  del 
lavoro  che  è  degno  di  molti  elogi  e  certamente  utile  anche 
per  Tinsegnamento  superiore,  come  abbiamo  potuto  speri- 
mentare facendolo  adottare  per  la  lezione  del  decorso  anno 
scolastico  ai  nostri  allievi  della  scuola  normale  superiore  di 
Pisa. 

Pisa,  luglio,  1872. 

D.    COMPARETTl 


Grammatica  greca  per  le  scuole  di  Vigilio  Inama. 
Parte  i":  Etimologia  -  Parte  2":  Sintassi.  Milano,  1869-70. 

Non  è  la  prima  volta  questa,  che  la  stampa  italiana  prende 
in  rassegna  questa  importante  pubblicazione  del  sig.  Inama, 
poiché,  se  non  andiamo  errati,  e  V Antologia  di  Firenze  nel 
Bollettino  bibliografico,  e  la  Perseveranza  di  Milano  tennero 


-li- 
gia, ragione  di  essa.  Ma  lo  fecero  con  molta  brevità,  e  quasi 
di  passata,  come  del  resto  voleva  l'indole  de'  succitati  perio- 
dici; mentre  invece  è  lavoro  degno  di  più  largo  esame,  in 
parte  per  lo  scopo  immediato  cui  mira,  cioè  la  scuola,  e  in 
parte  anche  perchè  è  il  primo  tentativo  di  questo  genere, 
che  si  presenti  con  una  certa  indipendenza  di  criteri  e  di 
mezzi  nel  difficile  arringo  della  letteratura  grammaticale  della 
lingua  greca  nel  nostro  paese.  A  vero  dire  è  cosa  poco  con- 
fortevole il  vedere  o  poco  curati  o  non  abbastanza  largamente 
esaminati  lavori  di  qualche  mole  e  di  molto  studio  e  grande 
diligenza  da'  maestri,  che  pure  vantano  oggimai  chiarissimi  gli 
Atenei  d'Italia,  anche  nel  campo  de' studi  di  grammatica  com- 
parativa, o  di  lingua  greca  -,  né  a  noi,  tenendo  ragione  un 
po'  distesamente  della  Grammatica  greca  dell'Ina  ma,  è  ve- 
nuto certo  in  mente  di  sostituire  la  nessuna  autorità  nostra 
a  quella  dei  maestri  valenti  e  provetti-,  bensì  ci  è  parso  buono 
di  cogliere  il  destro,  che  ne  porse  la  Rivista,  per  manife- 
stare il  nostro  avviso  intorno  ad  un  libro,  che,  non  foss'altro, 
è  segno  non  dubbio,  che  la  coscienza  dell'alta  importanza 
degli  studi  greci  si  va  ridestando  anche  da  noi. 

È  noto,  come  nelle  nostre  scuole,  e,  certo,  nell'opinione, 
più  o  meno  cosciente,  di  molti  insegnanti,  la  grammatica  del 
Curtius  tenga  indisputato  il  campo.  Questo  fatto ,  per  noi 
almeno,  che  dell'uso,  qualunque  esso  sia,  che  abbiamo  della 
lingua  greca,  ci  sentiamo  debitori  a  quel  libro,  torna  di  non 
lieve  conforto.  Per  quanto  si  voglia  concedere  all'autorità  del 
nome,  o  anche  della  moda,  che  non  ha  guari,  tentava  di  ap- 
plicare il  sistema  del  Curtius  persino  all'insegnamento  della 
lingua  italiana-,  bisogna  pur  credere,  che  in  questa  oggimai 
celebre  grammatica  il  segreto  di  farsi  comprendere  e  quasi 
amare  dagli  studiosi  ci  sia*,  bisogna  dire,  che  essa  risponda  a 
qualche  sentita  necessità  del  tempo.  Tanto  ne  parve  mera- 
vigliosa la  sua  diffusione  nelle  nostre  scuole,  e  la  fama  grande 


—  78  - 
in  che  è  venuta  fra   noi  quasi  d\m  subito!  —  Le  cagioni 
della   non  comune  fortuna   di  questa  grammatica  sono,    a 
nostro  giudizio,  due  :  la  prima  è  da  ricercare  nell'immenso 
slancio,  preso  dalla  linguistica  negli  ultimi  decenni  di  questo 
secolo,  così  che  il  tradizionale   empirismo  nelFinsegnamento 
della  grammatica  elementare  del  greco  fu  scosso  dalle  fonda- 
menta-,   intanto  che  la    convenienza    di    una  trattazione  più 
conforme  alle   norme  della   scienza  facevasi   strada  via  via; 
Taltra  cagione  ne  sembra  riposta  in  quel  giusto  e  corretto 
criterio,  col  quale  il  Curtius  ha  saputo  contenere  dentro  ai 
termini  strettamente  necessari  a  spiegare  il  fenomeno  lingui- 
stico, il  nuovo  organamento  della  grammatica  greca,  destinata 
all'uso  della  scuola.  Che  alcuni  fenomeni  della  lingua  possano 
venire  raggruppati  d'un  modo  più  sinottico,  e  dietro  criteri 
più  generali,  come  ad  esempio  le  varie  classi  de'  verbi,  in 
riguardo  alla  formazione  de'  temi;  che  qui  e  colà  sia  lecito 
alzare  qualche  lembo  del  velo,  che  ricuopre  il  nesso  interiore, 
che  unisce  la  lingua  greca  de'  tempi  storici,  col  periodo  an- 
teriore,   preistorico,  italo-greco  o   ario,  e  porgere    qualche 
notizia  più  estesa  sull'influsso  che  le  semivocali  V  o.  J  hanno 
esercitato  sull'alterazioni  fonetiche,  avvenute  nel  trapasso  dal 
periodo  più  antico  all'altro,  nel  quale  il  greco  si  ebbe  un'esi- 
stenza sua  propria,  non  negheremo  noi.  —  Allo  stato  attuale 
però  degli  studi  greci  in  Italia,  ne  pare,  che,  come  farebbe 
opera  vana   e  ridevole   chi   volesse   ritornare  all'empirismo 
antico,  così  grave  ostacolo  porrebbe  ad  una  sicura  compren- 
sione della  etimologia  greca,  chi  varcasse  senza  bisogno  quella 
giusta    misura   segnata  dal    Curtius.    Queste  cose  abbiamo 
creduto  opportuno  di  mandare  innanzi,  perchè  il  lettore  veda 
senz'altro  il  nostro  punto  di  partenza,  dal  quale  muovendo 
terremo  ragione  della  grammatica  dell'Inama.  —  S'intende 
da  sé,  che  per  ora  non  ci  occupiamo  che  della  parte  P  della 
medesima  (etimologia).  —  E  badi  l'egregio  autore,  che  noi 


-  79  — 
ci  siamo  proposti  di  esaminare  il  suo  lavoro  unicamente  dal 
punto  di  vista  pratico,  della  scuola  cioè.  Certamente  anche 
il  lato  scientifico  cadrà  di  necessità  nella  sfera  della  nostra 
indagine  *,  ma  ciò  sarà  solo  in  parte,  e,  subordinatamente  a 
quello,  più  particolare  e  più  vicino  allo  scopo  del  libro. 

Siamo  lieti  anzi  tutto  di  poter  attestare,  che  la  Gramma- 
tica Greca  del  signor  Inama  non  è  né  un  plagio,  né  un 
compendio,  o  travestimento  delle  più  note  fra  le  gramma- 
tiche greche,  scritte  dai  Tedeschi;  mentre  essa  invece  ne 
porge  sicura  prova  di  profondi  e  diligenti  studi  fatti  dal- 
l'autore sui  migliori  fonti-,  ne  mostra  lodevole  indipendenza 
di  giudizio,  criterio  proprio  e  cosciente.  —  Il  Compendio 
dello  Schleicher,  e  la  Grammatica  comparativa  della  lingua 
Greca  e  Latina  di  Leone  Meyer,  per  tacere  d'altre  scrit- 
ture, furono  dall'autore  in  qualche  parte  eccellentemente 
usufruiti,  il  primo  massime  nella  teorica  della  formazione 
dei  temi  verbali,  il  secondo  nell'uso  ed  influsso  delle  semi- 
vocali (J-V).  Uno  studio  accurato  dei  lavori  del  Curtius, 
massime  del  Commento  alla  grammatica  greca,  si  rivela 
chiaramente  in  quelle  parti  del  lavoro  dell'Inama,  che  più 
si  scostano  dalla  via  tracciata  da  quel  chiaro  maestro,  mas- 
sime nella  trattazione  del  Tema  verbale.  Le  stesse  esitanze, 
manifestate  dal  Curtius  rispetto  alla  vocale  di  congiun-{ione 
{Bindevocal),  che  poi  egli  inclinò  a  chiamare  vocale  tematica 
{Commento,  §  23o)  sembrano  aver  indotto  il  nostro  autore 
a  mettersi  diritto  diritto  per  questa  via,  accettando  e  ten- 
tando di  svolgere  anche  nella  grammatica  particolare  della 
lingua  greca  tutte  le  conseguenze,  che  discendono  dal  modo 
diverso  di  considerare  l'ufiicio  di  quella  vocale.  —  La  parte 
nella  quale  il  signor  Inama  si  discosta  maggiormente  dai 
sistemi  delle  grammatiche  greche  più  frequenti  nell'uso  delle 
scuole,  è  la  Coniugar{ione  del  verbo;  e  in  tre  punti  princi- 
palmente :    I"  Egli  non  ammette  né  la  vocale  di  modo  del 


—  80  - 
Kiihner,  né  la  vocale  di  congiunzione  del  Curtius.  —  2°  Allo 
studio  del  presente  e  deirimperfetto  dei  verbi  in  uu  fa  se- 
guire immediatamente  lo  studio  del  presente  e  deirimper- 
fetto dei  verbi  in  fii,  contrariamente  all'uso  invalso  nelle 
grammatiche  greche  per  uso  delle  scuole.  —  3°  Rimessa 
in  onore  Tantica  denominazione  di  aoristo  primo  e  aoristo 
secondo,  egli  chiama  aoristo  ter\o  quello  che  il  Curtius 
chiama  aoristo  forte  {aoristo  secondo)  dei  verbi  in  -MI  (per 
esempio  ècririv). 

L'autore  dà  ragione  di  queste  innovazioni,  introdotte  nella 
grammatica  greca  per  le  scuole,  nella  prefazioncella  che  egli 
fa  precedere  alla  sua  Grammatica  greca  (pag.  vii-xii).  — 
La  questione,  dal  lato  scientifico,  è  piià  ardua,  che  non 
possa  sembrare  di  primo  tratto  •,  essa  involge  tutta  l'ampia 
e  complessa  teorica  delle  radici,  del  verbo  e  dei  tempi, 
come  l'ha  posta  Francesco  Bopp  dapprima,  nell'immortale 
Grammatica  comparativa  del  Sanscrito,  Zendo,  Greco, 
Latino,  Lituano,  Gotico  e  Tedesco  (vedi  voi.  1,  part.  I', 
§  109=^^  voi.  II,  part.  r^,  §§  426  segg;  part.  IP,  §§  675 
segg.)  (i)-,  e  Augusto  Schleicher  dappoi  nel  suo  Compendio 
(vedi  §§  169  segg.  della  traduzione  del  Pezzi)  (2). 

Vediamo  ora,  ristrettamente,  quale  sia  il  punto  di  veduta 
della  scienza,  e  quali  le  necessità  della  scuola  rispetto  a 
questa  materia.  —  Con  ciò  resterà  chiarito  di  per  sé  il  nostro 
pensiero  intorno  al  valore  scientifico  e  pratico  della  gram- 
matica del  signor  Inama. 

a)  Vocale  di  modo  —  Vocale  di  congiunzione  —  Vocale 
tematica.  —  Il  modo  diverso  di  considerare  questa  vocale 
(0,  e  per  l'indicativo;  uj,  ri  pel  congiuntivo-,  i  per  l'ottativo) 
involge  un'essenziale  differenza  nel  modo  di  trattare   la  di- 


fi)  III»  edizione.  Berlin,   1870. 
(2)  Torino.  Loescher,   1869. 


—  81  — 
visione  dei  verbi  nelle  due  coniugazioni  principali,  rispetto 
all'uscita  dei  medesimi  nella  prima  persona  singolare  del 
tempo  presente  (Verbi  in  -w  e  verbi  in  -m).  Nel  Sanscrito 
la  questione  è  molto  più  semplice,  che  nel  Greco:,  poiché 
in  quella  lingua  essendo  quella  vocale  sempre  a  (che  varia 
soltanto  nella  quantità),  è  facile  il  riguardarla  addirittura 
come  parte  integrante  del  tema  del  presente:  bhaì^à-mi, 
(pépiu-|Lii*,  bhara-si-,  cpépe-crr,  bhara-jnasi-,  (pépo-\ie<;  (|iev)-(V. 
Schleicher,  Comp.  §  i8o-,  Bopp,  Gramm.  §§  484,  439;  Cur- 
tius, Comment.  al  §  23o).  Perciò  è  ovvia  la  repartizione,  che 
suol  farsi  delle  coniugazioni  dei  verbi  della  lingua  Sanscrita, 
secondo  che  essi  formano  i  tempi  speciali  aggiungendo  -a, 
oppure  sillabe  uscenti  per  a  (  -ya,  -ayci  )  alla  radice  (e 
sono  le  classi  i,  4,  6,  io  del  Bopp,  v.  §  109^)',  ovvero 
uniscono  le  desinenze  personali  alle  radici,  senza  quella  vo- 
cale (class.  2,  3,  7  del  Bopp,  §  109^).  Esempi  di  verbi 
della  prima  specie  sarebbero:  bhara-,  (pepo-,  rad.  bhar-\ 
nah-ya  (ted.  naehen,  cucire),  rad.  nah-,  e  della  seconda 
da-dà-mi-,  òibo-|LU-. 

Nel  Greco  invece  questa  vocale  è  nel  fatto  mutevole, 
essendo  ora  o,  ora  uj,  ora  e.  E'  parrebbe  quindi  meno  si- 
curo il  fondare  su  di  essa,  come  sopra  una  nota  distintiva 
molto  spiccata,  Tessenziale  differenza  fra  le  due  coniugazioni. 
Più  razionale  e  più  rigorosamente  scientifica  sembra  quindi 
al  signor  Inama  la  partizione  delle  coniugazioni  de'  verbi 
secondo  la  diversa  uscita  del  tema  del  presente  (Prefazione 
pag.  vili);  e  in  ciò  s'accosta  allo  Schleicher  {Comp.  §§  184 
segg.).  Secondo  noi  però  l'egregio  autore  s'è  lasciato  se- 
durre dall'indole  puramente  comparativa,  e,  per  ciò  stesso, 
altamente  astratta  del  Compendio  dello  Schleicher,  e,  con- 
seguentemente a  ciò,  scambiò  i  caratteri  della  classifica-{ione 
con  quelli  della  coniugazione.  Certamente  il  concetto  di 
sintetizzare  l'organismo   della  coniugazione  del  verbo  greco 


-  82  - 
è  assai  lodevole,  e  accenna  a  forza  comprensiva  d' intel- 
■  letto,  ed  è  assai  conforme  alandole  degli  studi  comparativi. 
Ma  ciò  nulla  meno  noi  crediamo  che  la  differenza  fra  le 
due  coniugazioni,  biella  scuola,  debb'essere  ben  più  accen- 
tuata, a  così  dire,  che  non  sembri  forse  all'egregio  nostro 
autore.  Comunque  si  consideri  quella  vocale  (o,  e),  nel 
greco,  egli  è  certo  che  fra  le  due  forme  òiòo-|Liev  (rad.  òo-)  e 
\uo-|a6v  (rad.  Xu-)  e  più  ancora  fra  òiòo-t€  (rad.  òo-)  e  Xue-te 
(rad.  Xu-)  il  divario  è  notevole,  e  tale  che  allo  scolare  si 
mostra  con  tutta  la  forza  delF  evidenza.  Noi  teniamo 
adunque  fermo  ancora  alla  divisione,  già  in  parte  antica  e 
quasi  tradizionale,  accettata  anche  dal  Curtius,  di  due  con- 
iugazioni principali  ,  fondata  sulla  presenza  o  meno  di 
quella  vocale,  che  noi  pure  collo  Schleicher  chiamiamo  te- 
matica. Il  signor  Inama,  guidato  sempre  dall'unico  criterio 
della  classificazione,  né  inclinando  per  ciò  a  fare  una  posi- 
zione speciale  ai  verbi  in  -MI,  relega  questi  in  una  classe 
(la  settima  -  v.  §  214).  Ma  noi  non  vi  possiamo  assentire. 
Prima  di  tutto  non  ci  sembra  corretto  il  criterio  della 
classificazione,  avendo  questa  per  base  il  suffisso  del  presente, 
mentre  invece  tra  i  verbi  colla  vocale  tematica  e  quelli  che  di 
essa  vanno  privi  c'è  differenza  organica  e  di  flessione  nei 
tempi  speciali.  In  secondo  luogo ,  se  i  suffissi  -vu  e  -va  po- 
tranno per  poco  indurci  a  classificarne  le  rispettive  formazioni 
accanto  agli  altri  suffissi  speciali  del  presente;  laddove  si 
consideri  la  inflessione  dei  tempi  speciali,  si  parrà  chiara  la 
differenza  che  corre  tra  Xue-ie,  presente  Xuo-,  suffisso  -0-,  ra- 
dice Xu-,  TÙTT-Te-TC,  pres.  tutt-tg-,  sufi',  -to-,  rad.  tutt-  e  òeiK-vu-ie, 
pres.  òeiK-vu-)ni,  suff.  -vu-,  rad.  beiK-;  nella  quale  ultima  forma 
vediamo  sì  un  suffisso,  ma  la  vocale  tematica  manca  al 
tutto  nei  tempi  speciali  -,  ciò  che  conduce  a  diversità  d'infles- 
sione. Per  ciò  diciamo  bibuuini  e  òeÌKvu|ui  appartenere  oWistessa 
coniugazione,  ma  a  classi  diverse.  Insomma  il  criterio  della 


—  83  — 
classificazione  per  suffissi,  che  chiameremmo  tematico,  deve, 
secondo  noi,  tenersi  distinto  dal  criterio  della  divisione  per 
coniugazioni ,   che   chiameremmo   morfologico-organico   o 
di  inflessione. 

La  divisione  del  verbo  greco  per  coniugazioni,  noi  lo  rico- 
nosciamo perfettamente,  presenta  molti  inconvenienti,  e  dal 
lato  strettamente  scientifico  non  va  esente  da  censure.  La 
ragione  scientifica  sarebbe  disposta  a  riconoscere  una  repar- 
tizione delle  inflessioni  per  temi  temporali.  Ma  nella  pratica 
v'ha  qualche  sconcio;  che  molti  verbi,  nel  giro  del  loro  pa- 
radigma compiuto.,  presentano  tali  anomalie,  che  costringe- 
rebbero il  grammatico  a  moltiplicare  quasi  alT  infinito  gli 
schemi  temporali ,  e  a  ripetere  Tistesso  verbo  in  più  luo- 
ghi, smembrandone  Tunità  del  concetto  tematico,  a  spese 
della  chiarezza.  A  questo  guaio  non  ha  saputo  sfuggire 
neppure  il  Curtius-,  e  chi  ha  qualche  uso  dell'insegnamento 
sa  che  i  paragrafi  3 1 6  e  3 1 7  della  sua  grammatica  greca 
sono  fuori  di  posto.  Nella  scuola  e  nella  pratica,  è  all'unità 
organica ,  alla  quale  ei  si  vuole  aver  occhio  sopra  tutto , 
raggruppando  insieme  i  fenomeni  linguistici,  giusta  la  legge 
delle  maggiori  analogie,  e  dividendo  secondo  larghi  e  ben 
marcati  criteri.  A  questa  necessità  della  scuola  ne  pare  che 
sino  ad  ora  il  solo  Curtius  abbia  saputo  soddisfare  maestre- 
volmente; e  la  sua  grammatica  in  questo  riguardo  resterà 
lungo  tempo  ancora  un  modello  sempre  imitabile  della  ra- 
gione scientifica,  accoppiata  alla  pratica  della  scuola.  Ciò 
non  toglie  che  il  materiale  di  quella  eccellente  grammatica 
non  presenti  delle  lacune,  e  possa  anche  venir  raggruppato 
secondo  un  più  rigoroso  criterio  scientifico,  senza  danno 
della  chiarezza. 

Quella  parte  massime,  che  tratta  dei  temi  verbali,  avrebbe 
bisogno  di  una  completa  revisione,  specialmente  dacché  egli,  il 
Curtius,  abbandonando   il  concetto  della  vocale  congiuntiva^ 


—  84  — 

combattuto  già  dal  Bopp  {Grani,  comp.,  §  494)  e  abbando- 
nato affatto  dallo  Schleicher,  fa  costretto  a  mantenere  un 
certo  equivoco,  non  modificando  la  teorica  dei  rapporti  fra 
il  teìna  verbale  puro,  o  radice,  e  il  tema  del  presente  in 
analogia  al  concetto  della  vocale  tematica,  a  cui  s'è  accostato 
dappoi.  —  Così  ad  es,  la  formazione  del  futuro  e  dell'ao- 
risto  (sigmatici),  ammessa  la  vocale  tematica,  apparisce  sotto 
un  punto  di  vista  affatto  diverso.  —  Vero  è  che  nel  Commento 
(ai  §§  2  58  e  seg.)  il  Curtius  si  accosta  all'idea  dello  Schlei- 
cher {Tempi  e  modi,  pag.  3 17),  il  quale  nello  sigma  del  fu- 
turo riconosce  una  composizione  col  futuro  del  verbo  sostan- 
tivo (è<;)  ;  e  parimente  per  Taoristo  debole  ammette  la  stessa 
origine,  cioè  la  radice  è^  (§  267).  —  Ma  per  lui  e  Po  del  fu- 
turo e  Va  dell'aoristo  è  sempre  qualche  cosa  di  aggiunto  per 
rendere  piii  facile  l'inflessione.  Ciò  che  non  pare  che  sia. 
—  Nella  Grammatica  però  non  v'ha  traccia  di  questo  fenomeno 
fonetico.  —  Il  signor  Inama  invece,  più  conseguente,  lo 
accolse  (V.  Grani.  §§  226,  4-,  233,  6). 

b)  La  5eco«i(i  innovazione  introdotta  dal  signor  Inama  nella 
grammatica  greca  per  le  scuole  è  questa,  che  egli  cioè  allo 
studio  del  presente  e  dell'imperfetto  dei  verbi  in  -00  fa  seguire 
immediatamente  lo  studio  del  presente  e  dell'imperfetto  dei 
verbi  in  -]x\.  —  «  Così,  egli  dice,  richiede  l'ordine  rigoroso 
e  della  grammatica,  né  si  ritarda  di  troppo  lo  studio  di 
«  questi  verbi  importantissimi,  e  non  nasce  l'opinione,  che 
'<  facilmente  s'ingenera  nella  mente  dei  giovani  coi  sistemi 
'(  sinora  tenuti,  che  questi  verbi  siano  in  tutto  e  affatto  di- 
'(  versi  dagli  altri  »  (Pref.,  pag.  ix).  —  Noi  crediamo  che  a 
questo  modo  di  trattare  la  grammatica  speciale  della  lingua 
greca  si  oppongano  ragioni  di  scienza  e  altre  più  di  opportunità 
e  di  pratica.  — Dal  punto  di  vista  della  scienza  noi  crediamo 
che  le  ragioni  di  tener  distinte  le  due  coniugazioni  sovrab- 
bondino. —  Ne  allegheremo  qualcuna,  mentre  di  altre  ab- 


—  85  — 
biamo  già  toccato  quassopra.  —  Noi  insistiamo  anzi  tutto 
sulla  differenza  fra  radice  {ivuriel),  tema  verbale  {verbal- 
stamm)  e  tema  del  presente  {praesensstatnm)  e  sul  modo  di 
comportarsi  di  questi  elementi  verbali  rispetto  alle  desinenze 
personali.  —  La  grammatica  indiana  ne  mostra  al  pari  della 
greca  una  notevole  diversità  in  questo  riguardo  fra  i  verbi 
(Bopp,  Gramm.  comp.,^  49^)-  Questa  diversità  è  molto  an- 
tica e  risale  probabilmente  al  periodo  anteriore  alla  esi- 
stenza del  greco  come  lingua  particolare.  —  Noi  conce- 
diamo, che  To  dei  verbi  in  -uu  sia  un  vero  carattere  di  classe, 
e  che  il  diverso  comportamento  delle  desinenze  personali 
nelle  due  coniugazioni  dipenda  dall'influsso  che  esse  —  le 
desinenze  personali  —  hanno  esercitato  indubbiamente  sulla 
quantità  e  intensità  delle  vocali  tematiche.  —  Noi  concediamo 
anche  che  parallelo  all'-^  del  verbo  sanscrito  nella  desinenza 
-à-mi  si  possa  pensare  un  primitivo  greco -oi-iiii  (confr,  l'omer. 
èeé\-uj-|ui),  ammettendo  che  Tabbreviamento  delP-uu  in  o  (e) 
nei  duale  e  plurale  sia  da  ascrivere  al  maggior  peso  quasi 
delle  desinenze  personali  -tov,  -\x^c,  (|nev)  -re,  -ovti  (Bopp., 
Gramjn.  comp.,  §434).  Mae  che  per  ciò?  Non  sarà  sempre 
un  fenomeno  degno  di  nota,  che  circa  200  verbi  greci  uni- 
scano le  desinenze  personali  al  tema  verbale  senza  Tinter- 
mezzo  della  0  alternante  con  e,  ovvero  con  suffissi  ancor  più 
lunghi?  Noi  crediamo  che  la  ricostruzione  della  probabile 
originaria  unità  di  coniugazione  ci  porti  troppo  air  in- 
fuori dei  termini  della  grammatica  greca,  e  ci  conduca  nelle 
astrattezze  della  tematologia,  nel  cui  campo  non  tutto  per 
ancora  è  luce.  —  Certo  è  —  e  il  dialetto  epico  antico  è  lì  per 
attestarlo  —  che  nell'organismo  della  coniugazione  greca  note- 
voli alterazioni  sono  avvenute  in  tempi  remoti  :,  e  la  desi- 
nenza-vai (om.  -)Lievai)  dell'inf.  pres.,  e  il  -61  della  2"  pers. 
imperativo,  e  Tabbreviazione  della  vocale  radicale  o  anche 
di  suffisso  (-VU,  -VÌ5)  nel  duale  e  plurale,  messa  a  riscontro  collo 

Kivisla  di  filologia  ecc.,  I.  7 


—  86  — 
affievolimento  della  vocale  tematica  o  in  e,  costituiscono  una 
cotal  somma  di  differenze  non  trascurabili  neppure  scientifi- 
camente. —  Molto  meno  vi  può  passar  sopra  indifferente  la 
pratica  e  Tuso  della  scuola.  Anche  a  questo  rispetto  adunque 
noi  crediamo  che  nulla  sia  da  innovare  nell'uso  antico. 

e)  Ma  veniamo  alla  tej^:{a  notevole  innovazione,  messa  in- 
nanzi dal  signor  Inama,  a  quello  cioè  che  egli  chiama  ao- 
y-isto  tcì\o.  —  Con  questa  denominazione  si  designa  dallo 
autore  quella  forma  di  flessione  che  il  Curtius  chiama  aorislo 
forte  (aoristo  2°)  dei  verbi  in -MI.  È  noto  che  la  grammatica 
della  lingua  sanscrita  registra  sette  maniere  di  formazione 
deiraoristo  (Bopp,  Gramm.  comp.,  II,  §  542  e  segg.).  —  Al 
nostro  autore  quindi  potè  sembrare  abbastanza  ovvio  di  se- 
gnalare con  un  nuovo  numero  progressivo  una  specie  di 
forma  d'inflessione,  la  quale,  contrariamente  alle  altre  due, 
unisce  le  desinenze  personali  immediatamente  alla  radice  o 
tema  verbale,  senza  l'aggiunta  del  verbo  sostantivo  (ic,-)  (aor.  I 
o  debole),  o  della  semplice  vocale  tematica,  o  di  classe  (aor.  II 
o  forte).  —  A  noi  però  sembra  che  l'analogia  che  corre  fra 
queste  forme  e  le  altre  renda  superflua  questa  terza  cate- 
goria d'aoristi.  —  A  quella  guisa  infatti  che  nella  coniuga- 
zione dei  verbi  in  -uj  abbiamo  due  forme  d'aoristo,  Tuna 
che  chiameremo  sig-matica,  -aa  (ècra),  l'altra  sen-a  sigma, 
derivata  dalla  radice  pura,  col  semplice  suffisso  o  vocale  te- 
matica (o-e);  COSI  anche  nella  coniugazione  dei  verbi  in -MI  ab- 
biamo due  forme,  l'una  composta  col  verbo  sostantivo  (èc,)  e 
l'altra  senza  nessun  segno ,  perchè  le  desinenze  personali  si 
affiggono  immediatemente  al  tema  verbale,  in  analogia  al 
carattere  di  questa  coniugazione. 

Il  signor  Inama  rigetta  la  denominazione  aoristo  2°  dei 
verbi  in  -MI,  perchè  questo  aoristo  non  è  proprio  di  questi 
verbi  più  di  quello,  che  lo  sia  di  quelli  in-uj.  Questo  mo- 
tivo è  soltanto  specioso.  L'egregio  autore  sa,  che  nella  for- 


-  87  — 
mologia  greca,  allo  stato  attuale  della  scienza,  v'ha  buon 
dato  di  forme,  o  fenomeni  formologici  così  irrazionali,  che 
mal  s'apporrebbe  chi  da  essi  volesse  trarre  rigorose  conse- 
guenze. Certamente  le  forme  è'Pnv,  lòpciv,  ctvuuv,  eòUv,  èqpuv, 
ecc.,  dai  presenti  paivoi,  òiòpdaKuu,  YiTvuuaKUj,  òuuj,  qjuuj  par- 
rebbero giustificare  il  suo  asserto-,  ma  nell'incertezza,  che 
regna  ancora  intorno  a  questi  fenomeni  della  lingua,  il  più 
sicuro  spediente  sembra  quello  di  appigliarsi  alle  analogie. 
L'utilità  pratica  che  ne  ridonda  alla  scuola  è  immensa;  e 
parmi,  che  questa  non  sia  da  disprezzare,  quando  non  si 
tratti  addirittura  di  una  bestemmia  scientifica,  di  fare  omag- 
gio al  puro  empirismo. 

Ora  il  sistema  della  coniugazione  dei  verbi  in  -MI,  preso 
nell'insieme  de' suoi  tratti  più  generali,  ci  offre  buon  dato 
di  analogie,  appunto  per  la  classificazione  di  quelle  forme. 
E,  a  proposito  di  certe  anomalie  d'inflessione,  che  presen- 
tano alcune  forme  verbali,  si  compiaccia  il  signor  Inama 
di  leggere,  ciò  che  scrive  Jacopo  Grimm  in  un  passo 
della  sua  Grammatica  Tedesca  (2'  Edizione ,  Parte  I , 
pag.  967).  —  H  Quando  considero  certe  anomalie  nella  coniu- 
gazione del  verbo,  egli  dice,  io  sono  tratto  a  credere,  che  la 
coniugazione  nel  processo  del  tempo  sia  come  a  dire  uscita 
di  carreggiata,  ed  abbia  smarrita  la  coscienza  del  suo  pieno 
e  legittimo  svolgimento,  così  che  si  presentano  certe  incoe- 
renze e  quasi  a  dire  mescolanze  d'inflessione  » .  —  Certamente 
questi  lenti  adattamenti  alla  lenta  opera  di  detrito  e  scadi- 
mento, hanno  scampata  la  coniugazione  dalla  rovina.  Si  pensi 
soltanto  alle  forme  verbali  del  tedesco  moderno:  ìveiss,  kanu, 
mag,  begann;  si  vedrà  come  la  significazione  d'azione  prete- 
rita, che  s'è  depositata  in  queste  forme,  ha  cacciato  di  posto 
il  presente,  e  poi  coU'aiuto  della  coniuga\ione  debole^  v'ha 
sovrapposta  una  nuova  forma  di  perfetto  (confr.  nnisste, 
konnte). 


—  88  — 

Nel  greco  invece  il  procedimento  avvenne  in  senso  op- 
posto, cioè  l'alterazione  nel  significato  ha  spinto  la  forma  di 
presente  verso  la  coniugazione  debole  (in-uj).  Così  che 
l'analogia  ne  pare  che  regga. 

Il  signor  Inama  si  chiarisce  contrario  alla  appellazione  di 
aoristo  debole  e  forte^  introdotta  dal  Curtius  nella  gram- 
matica greca-,  e  ne  dà  qualche  ragione  al  §  220  segg.  —  Lo 
Schleicher  invece  chiama  semplici  e  composte  queste  forme. 
{Comp.,  §§  i83,  188).  E  ciò  è  conforme  alla  scienza.  Questo 
solo  dovrebbe  mostrarne,  che  qualche  grossa  questione  v'  è 
sotto,  e  da  non  saltarsi  a  pie  pari.  È  noto  che  il  Curtius 
ha  foggiato  que'  due  appellativi  sull'analogia  della  gramma- 
tica tedesca,  come  l'ha  fondata  il  Grimm  :,  e  ne  porge  le  ra- 
gioni ne'  prolegom^eni  alla  teorica  della  flessione  del  verbo. 
{Comm.^  pag.  90-91  della  versione  del  Miiller).  Il  concetto 
di  forte  e  debole  nasce  di  qua,  che  certe  radici  verbali,  cioè, 
sembrano  avere  in  sé  tanto  di  vigorìa  e  quasi  di  forza  inte- 
riore da  produrre  un  cambiamento  fonetico  nella  vocale  ra- 
dicale. [Ablaiit  -  deflessione  -  passaggio  da  un  suono  ad 
un  altro,  ha  chiamata  il  Grimm  codesta  legge).  Deboli  per 
lo  contrario  si  addimandano  quelle  forme,  nelle  quali  non 
ha  luogo  mutamento  nel  suono  vocale  della  radice,  ma  che 
nascono  per  aggiungimento  esterno  di  sillabe. 

Questa  delle  forme  forti  è  tal  virtù  della  lingua  tedesca, 
che  ne  attesta  l'alta  antichità,  ed  è  fenomeno  strettamente 
connesso  all'organismo  interiore  della  medesima.  Evidente 
è  pure  che  la  coniugazione  forte  tedesca  è  l'originaria,  dalle 
movenze  libere  e  quasi  coscienti.  L'inflessione  forte  scade 
via  via,  e  si  dilegua,  lasciando  il  posto  alla  debole.  Questo 
è  il  procedimento  storico  della  lingua  tedesca.  Che  qualche 
cosa  di  analogo  ci  presenti  l'insieme  dell'organismo  della 
coniugazione  greca,  non  è  chi  non  veda.  Per  ciò  saremmo 
anche  noi  inclinati  a  seguire  il  Curtius.  Nella  pratica  certo 


quella  denominazione  à\  forte  e  debole  non  presenta  gravi 
inconvenienti,  ed  ha  il  vantaggio  di  avvezzare  il  ragazzo  ad 
un  modo  serio  e  razionale  di  considerare  l'involuto  proce- 
dimento dei  suoni  vocali  e  di  raccostargli  la  conoscenza  di  una 
legge,  che  può  essere  facilmente  dimostrata  anche  senza 
uscire  del  campo  dell'Ellenismo. 

E  qui  facciamo  punto  con  questa  parte.  Riassumendo  di- 
ciamo, che  il  libro  del  signor  Inama  offre  largo  campo  alla 
meditazione  ed  allo  studio-,  e  perciò  lo  giudichiamo  assai  com- 
mendevole. 

Rovigo,  luglio  1872. 

Gaetano  Oliva. 


SulV  origine  dell' unica  forma  Jlessionale  del  nome  italiano, 
studio  di  Fra.nces,co  D'Ovidio,  Pisa,  1872. 

Come  tutti  sanno,  il  nome  neolatino  sotto  l'aspetto  gram- 
maticale si  ditferenzia  dal  latino  principalmente  in  quanto 
questo  presenta  varietà  di  forme  dette  casi,  così  al  singolare 
come  al  plurale,  e  quello  una  sola  forma  così  nell'uno  come 
nell'altro  numero.  Ora  una  delle  quistioni  della  grammatica 
storica  delle  lingue  romanze  sta  nell'origine  di  questa  unica 
forma  del  nome,  cioè  stabilire  se  vi  sia  caso,  e  quale  sia  quel 
caso,  che  nel  deperimento  della  lingua  latina  abbia,  per  così 
dire,  sopravissuto  agli  altri  e  dato  forma  al  nome  neolatino 
così  al  singolare  come  al  plurale. 

Questa  materia  è  stata  variamente  trattata  da  vari,  e  la 
dottrina  ora  prevalente  circa  l'origine  della  forma  nominale 
è  quella  del  Diez,  il  fondatore  della  linguistica  neolatina,  che 
vede  generalmente  nel  singolare  una  forma  risultante  da  quella 
dell'accusativo,  e  nel  plurale  una  forma  che  per  l'italiano  s'im- 
pronta essenzialmente  dal  nominativo  della  i*  e  2''  declina- 
zione, nel  francese  e  nelle  altre  lingue  dell'Europa  occidentale 
dall'accusativo.  Il  D'Ovidio  prendendo  a  trattare  questa  qui- 
stione,  principalmente  in  quanto  riguarda  il  nome  italiano, 


-  90  - 

dopo  passate  in  rassegna  le  varie  opinioni  e  segnatamente 
gli  argomenti  allegati  dal  Diez  per  la  propria  tesi,  finisce  per 
dichiararsi  partigiano  di  quella  dottrina  la  quale,  professata 
fra  gli  altri  dal  Pott,  dal  Gorssen  e  dallo  Schuchardt,  con- 
sidera la  forma  unica  del  nome  singolare  delle  lingue  neolatine 
come  risultante  generalmente  dalP  unificazione  de'  casi  se- 
guita per  logoramenti  fonetici  delle  forme  latine  che,  perdendo 
la  5  e  la  m  finali  del  nominativo  e  dell'accusativo,  vennero  a 
confondersi  in  una,  onde,  per  esempio,  da  lupus  e  lupum  ne 
venne  lupu  (lupo),  esteso  poi  anco  agli  altri  casi.  Questa  sa- 
rebbe in  sostanza  la  teoria  del  D'Ovidio  circa  l'origine  della 
forma  del  nome  al  singolare,  ad  eccezione,  ben  s'intende,  di 
quei  casi  particolari,  in  cui  la  forma  procede  manifestamente 
dal  nominativo,  come  per  es.  in  ladro  da  latro,  sarto  da 
sartor,  moglie  da  mulier,  uomo  da  homo  tcc.^  o  da  forma 
comune  al  nominativo  ed  accusativo,  in  quanto  il  nome  è 
neutro,  come  per  es.  in  cece  da  cicer,  pepe  da  piper,  uopo 
da  opus,  corpo  da  corpus  ecc. 

Quanto  al  plurale,  il  D'Ovidio  deduce  la  forma  nominale 
di  1*^  e  2^  declinazione  dall'ablativo,  che  perdendo  la  s  finale 
avrebbe  dato  per  es.  da  coronis,  asinis  coroni,  asini.  L'z  finale 
dei  nomi  di  prima  sarebbe  passato  e  fissatosi  in  e,  perchè  il 
nominativo  era  in  e  {ce),  quindi  da  coroni  corone  \  dove  che 
Vi  di  quelli  di  seconda  sarebbesi  mantenuto,  perchè  il  nomi- 
nativo finiva  in  i.  Veramente  noi  non  sappiamo  compren- 
dere perchè  il  nome  plurale  della  i^  e  della  2%  potendo 
prendere  immediate  la  sua  forma  dal  nominativo,  dovesse 
ricorrere  all'ablativo  per  riuscire  in  fine  a  quella  del  nomina- 
tivo. A  noi  pare  molto  più  probabile  che  il  nominativo  abbia 
dato  senza  più  la  sua  forma  al  plurale  di  i'^  e  2%  sì  perchè 
terminando  in  vocale  già  per  ciò  solo  veniva  a  dare  una 
forma  la  meglio  rispondente  al  genio  fonetico  del  nuovo  vol- 
gare, sì  perchè  le  due  forme  in  e  ed  /,  già  verisimilmente  sim- 
boleggianti  pel  plurale  i  due  generi  come  pel  singolare  a  ed 
0  (m),  dovevano  contenere  in  sé  un  elemento  di  vitalità  estra- 
neo alle  altre  forme,  sì  finalmente  perchè  se  fra  tutti  i  casi 
ve  ne  era  alcuno  in  cui  più  che  negli  altri  dovesse  per  così 
dire  conservarsi  un  avanzo  quasi  postumo  di  funzione  ca- 


~  91  - 

suale,  questi  non  potevano  essere  se  non  il  nominativo  e 
Taccusativo. 

Nei  plurali  maschili  e  femminili  della  3*^  il  D'Ovidio  nega 
l'estensione  della  forma  dei  nomi  di  2%  ma  vede  un  risul- 
tato naturale  e  diretto  di  quella  forma  in  isy  che  il  nomi- 
nativo e  l'accusativo  vengono  non  di  rado  ad  avere  presso 
gli  scrittori  latini  insieme  colFaltra  più  comune  in  es'^  onde 
per  es.  insieme  con  fontes,  montes  anche  fontis,  montis, 
che,  preferiti  dalla  lingua  popolare,  diedero  poi,  colla  per- 
dita della  s,  fonti,  monti. 

Le  forme  spagnolesche,  quali  per  es.  montes,  naves,  proprie 
anche  di  qualche  altro  volgare  neolatino,  come  verbigrazia  del 
logudorese,  rendono  inverisimile  la  popolarità  di  questa  forma 
in  is.  D'altra  parte  il  plurale  della  quarta,  di  cui  il  D'Ovidio 
non  fa  parola,  adottando  come  fa  il  finimento  dei  nomi 
della  seconda,  rende  probabile  che  questa  forma  sia  pure 
stata  estesa  ai  nomi  della  terza  -,  se  non  che  nel  plurale  Vi 
finale,  simboleggiando,  come  essenzialmente  proprio  dei  nomi 
di  seconda,  il  genere  maschile,  finì  per  essere  più  o  meno 
ripugnante  ai  femminili  di  terza,  i  quali,  acconciatisi  in  gran 
parte  ad  assumere,  come  i  maschili,  il  finimento  e  pel  sin- 
golare, come  quello  che  sessualmente  in  tal  numero  può 
dirsi  neutrale ,  di  mala  voglia  al  plurale  pigliano  1'/ ,  che 
per  questo  numero  simboleggia  il  maschile-,  quindi  la  gran 
tendenza  che  nel  parlare  popolare  cosiffatti  nomi,  pur  atte- 
nendosi nel  singolare  alla  terza,  hanno  di  passare  alla  prima 
pel  plurale,  come  verbigrazia  in  :  le  parte,  cose  importante, 
grande  opere.,  le  mia  ragione,  le  loro  orazione,  isvenevole 
carene ,  le  migliore  stan:{e,  ecc.  ;  esempi  tolti  dal  Cellini, 
e  che  si  potrebbero  moltiplicare  all'infinito,  desunti  da  scrit- 
tori più  o  meno  popolari  d'ogni  tempo  e  d'ogni  volgare 
italiano.  Questa  specie  di  simbolismo  sessuale,  inerente  og- 
gidì nella  forma  del  nome  italiano,  era  verisimilmente  già 
incoato  nella  coscienza  linguistica  del  deperente  latino  (1),  e 


(i)  L'appendicista  a  Probo,  dicendo  uurus  non  mira,  socrus  non 
socra  {An.gr.,  Eich.  et  Endl.,  p.  4i5j,  ci  fa  intendere  come  questo 
simbolismo  avesse  già  cominciato  a  operare  sulla  forma  popolare  del 
nome  fin  dai  primi  secoli  almeno  dell'era  volgare. 


-  92  - 

non  dovette  essere  senza  una  qualche  influenza  nel  fermar 
le  forme  delle  due  prime  declinazioni,  che  vennero  poscia 
assunte  non  solo  da  nomi  della  quarta  (cf.  nuora,  nap.  socra, 
sardo  sogra  [soci^us],  tose.  pop.  maria,  ecc.)  e  della  quinta  (cf. 
rabbia,  faccia,  reqiiia,  sardo  mer.  sangia  [sanies]),  ma  anche 
da  molti  della  terza  in  ambo  i  numeri  {la  dota,  la  tossa,  la 
ghianda,  la  pasciona  \_pastionem'],  Agnesa  ecc.,  lavoro,  con- 
fesserò, comuno,  dogio  [duce],  consorto,  sorcio,  ghiro  ecc.) 
e  tra'  femminili  da  moki  più  anche  solo  al  plurale,  come  s'è 
visto  dagli  esempi  riportati  sopra  dal  Cellini. 

Come  crediamo  si  possa  ammettere  in  sostanza  per  assai 
verisimile  la  teoria  propugnata  dall'autore  per  la  forma  del 
nome  al  singolare,  così  reputiamo  improbabile  quella  che 
egli  professa  in  ordine  al  plurale. 

Veniamo  ora  ad  alcuni  particolari,  circa  i  quali  avremmo 
qualche  osservazione  da  contrapporre. 

A  pagina  44  leggesi  :  «  I  maschili  della  i"  declinazione 
che  pochi  erano  in  latino  e  pochissimi  rimasero  nell'italiano, 
mentre  pel  singolare  conservarono  la  terminazione  in  a,  al 
plurale,  come  maschili  che  erano,  assunsero  la  forma  d'un 
plurale  di  seconda  {poeta-poeti)  o  almeno  finirono  per  as- 
sumerla, giacché  in  verità  qualche  traccia  di  più  genuina- 
mente etimologico  plurale  rimase  nella  lingua  arcaica  (cfr. 
omicide,  in  Dante,  Inf.  xi,  Sy  ecc.)  ».  Si  può  dubitare  se 
i  nomi  veramente  popolari  conservassero  l'^^  finale,  peroc- 
ché trovinsi ,  massime  negli  antichi,  le  iovmo.  pi  aneto,  aii- 
rigo,  idioto,  ipocrito,  eremito,  romito,  pirato,  geometro  ecc. 
Quanto  al  plurale,  se  la  forma  nasce  secondo  il  D'Ovidio 
dall'ablativo  in  is,  sarebbe  stato,  parmi,  più  naturale  per 
questi  maschiU  ristringersi  all'abbandono  della  s,  e  per  es. 
dOi  poeti -s  iar  poeti.  Quella  traccia  poi  di  piii  genuinamente 
etimologico  plurale,  oltre  al  far  contro  la  teoria  stessa  della 
forma  procedente  dall'ablativo ,  male  s'appoggerebbe  sul- 
Vomicide  della  Divina  Commedia,  sì  perché  questa  é  lezione 
assai  dubbia,  incontrandosi  variamente  ne'^testi  omicida, 
omicide,  omicidi,  omicidii,  micidii,  sì  perchè,  quando  pure 
si  fosse  certi  che  Dante  avesse  scritto  omicide,  potrebbe  es- 
sere un  latinismo  di  forma  usato  arbitrariamente  dal  poeta 


—  93  — 

e  provante  nulla  in  ordine  alla  storia  dello  svolgimento  lin- 
guistico del  romano  volgare.  Il  vero  riflesso  popolare  del 
latino  homicidae  non  avrebbe  più  potuto  essere  al  tempo 
di  Dante  se  non  micidi  ;  ma  il  popolo  usava  piuttosto  in 
quella  vece  micidiali  o  micidiari,  derivazioni  romanze  da 
micidio  (omicidio). 

A  pagina  47  ,  dopo  di  avere  esposta  la  sua  teoria  del 
plurale  della  terza  nato  da  forme  in  is ,  adoperate  ,  come 
si  è  detto  sopra,  pel  nominativo  e  accusativo  in  es ^  egli 
soggiunge:  «  Deve  però  anche  il  nominativo  accusativo  in 
es  avere  avuto  qualche  succedaneo,  trovandosi  per  es.  in 
Dante  (Pz^r^.,  xx,  100) /?rece  per  j!?rea  ecc.  )).  Quantunque 
qui  la  lezione  sia  più  che  mai  certa  per  far  rima  con  fece 
e  vece^  pure  anche  qui  non  crediamo  che  questa  voce  abbia 
qualche  valore  per  la  storia  del  parlare  popolare,  perocché 
essa  non  possa  essere  altro  fuorché  od  un  ritiramento  di 
forma  al  latino,  come  Dante  fa  non  di  rado,  massime  per 
la  rima,  ovvero,  come  credo  più  verisimile,  una  forma  di 
un  femminile  plurale  della  terza  dovuta  a  questo  stesso 
principio,  a  cui  sono  da  recarsi  quelle  altre  già  citate  dal 
Cellini,  cioè  a  quel  simbolismo  sessuale,  per  cui  Dante  stesso 
usava  leno  invece  del  maschile  lene  {Par.^  xxvni,  81),  turpa 
in  luogo  del  femminino  tiirpe[Par.^  xv,  145),  e  le  force  ^qv 
le  forci  {Pai\^  xvi,  9),  sincopamento  di  forbici^  il  quale 
ultimo  esempio  verrebbe  ad  essere  perfettamente  analogo  a 
prece  per  preci. 

A  pag.  41  in  nota  ha:  «  imbolo  (dim.  da  nubes)  passa  a 
nuvolo,  indi  a  nugolo  ».  Credo  che  qui  non  s'abbia  a  far 
con  un  diminutivo  di  nubes  (che  sarebbe  nubecula)^  ma  sì 
coll'aggettivo  nubiliis  che  adoperato,  com'era,  sostantiva- 
mente al  plurale  nubila  in  senso  di  nubes  ha  dato  il  popo- 
lare nuvola  e  con  cui  si  connette  pure  il  maschile  nuvolo  e 
nugolo.  L'o  per  i  dinanzi  a  /  in  questo  caso  é,  si  può  dire, 
regolare,  come  si  può  vedere  per  es.  in  nespolo  mespilo, 
semola  simila,. debole  debile,  fievole  flebile,  (ice. 

A  pag.  53  leggesi:  «  Vipistrello  o  pipistrello.  Non  può 
risalire  a  j'e5'jt7er/z7/o,  che  ilio  avrebbe  dato  iglio.  È  piuttosto 
da  un  vespertillus  (Diez)  ».  Mettendosi  qui  innanzi,  come 


-  9-1  - 

fanno  il  Diez  e  il  D'Ovidio,  un  ipotetico  vespertilhis^  si  viene 
naturalmente  ad  escludere  come  tipo  del  nome  italiano  la 
forma  nominativale  di  vespertilio  che  in  pipistrello  avreb- 
bero dato  un  analogo  per  es.  di  ladro  =  latro  ^  strambo  —-. 
strabo  ecc.  La  ragione  di  questa  esclusione  la  dice  il  D'Ovi- 
dio :  «  ilio  avrebbe  dato  iglio  »  ;  che  vuol  dire  da  vesperti- 
lio sarebbe  nato  pipistriglio,  non  pipistrello.  Confesso  che 
non  so  acconciarmi  a  questa  cdsì  risoluta  sostituzione  di 
Inesperti  II  US  a  vespertilio.,  determinata  solo  da  ragioni  fono- 
logiche. Se  si  rimuove  vespertilio  come  forma  donde  non  sia 
possibile  il  venire  per  mere  alterazioni  fonetiche  vipistrello, 
pipistrello,  per  ispiegarci /a/y^/Zi^  noi  dovremo  anche  dis- 
farci di  parpalio  procedente  da  papilio  e  sostituirgli  parpal- 
liis;  il  che  non  vedo  essersi  fatto  né  dal  Diez  né  dal  D'Ovidio, 
sebbene  anche  cotesto  nome  si  connetta  colla  storia  della  forma 
del  nome  neolatino.  Io  credo  pertanto  assai  probabile  che  ve- 
spertilio sia  col  tempo  soggiaciuto  ad  un'assimilazione  di  j  (J) 
colla  /  precedente,  onde  vespertilio.,  vespertiljo.,  vespertillo, 
vespertello.,  vipistrello.,  pipistrello  (cfr.  fringuello  da  frin- 
guilla).  Dell'esistenza  volgare  di  vespertilio  fa  testimonianza, 
oltre  lo  sporiiglione  napolitano,  forma  aferetica  dell'obliquo 
vespertilione ,  anche  il  veneziano  barbastregio ,  che  quanto 
al  finimento  sta  a  vespertilio  come  consegio  a  Consilio,  fa- 
megia  di  famiglia,  e  aggiugnerò,  come  facente  doppiamente 
al  nostro  proposito,  pavegio  a  papilio.  Il  fenomeno  di  ve- 
spertillo:=.vespertilio,  cioè  llozuljo  (assai  comune  nella  storia 
del  greco,  e  in  qualche  dialetto  sardo,  ecc.)  è,  per  vero 
dire,  sporadico  nell'ambiente  toscano  e  nell'Italia  media  e 
meridionale,  ma  non  lo  credo  isolato^  giacché  per  es.  in 
assillo  da  asilus,  piuttosto  che  un  raddoppiamento  di  /, 
possiamo  scorgere  un  risultato  di  asiljus  per  asilus  (cfr. 
Diez.,  R.  Gr.,  IF,  p.  3oi),  reso  pur  verisimile  dall'emiliano 
asej  (boi.,  romagn.),  asij  (ferr.,  mod.),  che  metton  capo  ad 
asilius,  donde  per  via  di  un  dim,  asiliolus  ne  vennero  poi  le 
forme  contratte  d'asiol  (boi.,  ferr.  ecc.),  asieul  (parm.,  mant.), 
e  per  via  di  asilione  il  parm.  e  romagn.  asion  con  senso 
d'assillo  nel  primo,  d'a  :{onio  nel  secondo.  Ho  toccato  del 
ven.  pavegio  e  del  tose,  farfalla,  l'uno  direttamente  e  Taltro 


—  95  - 

indirettamente  procedenti  dal  nominativo  papilio.  Questo 
nome  e  le  altre  varietà  di  forme  che  esso  venne  a  prendere 
nel  romano  volgare,  cioè  papalio,  paryilio  e  parpalio,  hanno 
rappresentanze  che  pure  attestano  a  loro  tipo  il  nominativo 
e  presentano  risultati  analogi  a  pipistrello  nato  da  vesper- 
tilio, cioè  forme  originariamente  nominative,  in  cui  piuttosto 
che  ricorrere  ad  ipotetici  papalliis,  parpillus,  parpallus, 
amiamo  di  vedere  semplicemente  il  fenomeno  di  //  r=  Ij. 
Quindi  mentre  da  un  Iato  abbiamo  dal  nom.  papilio  il 
ven.  papegio,  friul.  papei  e  con  trapasso  al  femminile  ven. 
papegia,  friul.  papée  (papeje),  dal  nom.  parpalio  il  lomb. 
parpai,  cant.  tic.  barbai,  e,  con  trapasso  al  femm.,  lomb.  ed 
emil.  barbaja  e,  con  s  prostetica,  sparpaja;  d'altra  parte, 
mediante  il  fenomeno  di  //  =  Ij,  vedo  nascere  da  parpilio  il 
bresc.  barbell  (^=:  parpilio),  da  papalio  la  forma  vallanza- 
schese  pavalla  che  pvesupponQ  papalio  -^zpapaljo  e  il  sardo 
mer.  pappagallii  {pa-papalio)  (i),  farfalla,  e  da  parpalio  il 
pur  femm.  tose,  farfalla  per  parpalla  (dal  nom.  parpalio 
zizparpaljo).  NqWsl  f  di  farfalla,  piuttosto  che  un'influenza 
dell'antico  alto  tedesco  fifaltra ,  secondo  che  congettura 
il  Diez.,  (E/.  W.,  P,  172),  si  può  vedere  un'aspirazione 
della  labiale  determinata  da  r,  lettera  notoriamente  aspira- 
tiva,  secondo  che  avrebbe  avuto  per  es.  luogo  vafarabolano, 
farabolone,  pev  parabolano,  parabolone.  Tutte  queste  forme, 
insieme  colle  procedenti  dal  tema  obliquo,  c^udM  padiglione, 
parpaglione,  pabilloni  (sard.  mer.),  mentre  attestano  la  pre- 
esistenza del  nome  romano  volgare  colla  forma  propria 
della  terza   declinazione,  avvalorano  anche,  parmi,  la  ve- 


(i)  Senza  negare  la  possibilità  dell'essere  qui  applicato  il  nome 
dell'uccello  a  significare  farfalla  (  cf.  nap.  palomma,  farfalla),  credo 
non  improbabile  che  questo  j^appagallu  presenti  una  forma  rigeminata 
da  papalio  in  pa-papalio  (et.  mer.  pabassa  =  pa-passa  da  passa,  uva 
passola,  chighiristaz=chichirista,  chicrista,  crista,  cresta),  che  fattosi 
papapallii ,  papaballu  diede  poi,  mediante  la  conversione  dì  b  in  g 
(cf.  mer.  ao-uri  =  buris;  guraoni  per  burdoni,  budroni  da  pórput;;  v.  log. 
budrone),  la  forma  di  papagallu,  che,  perduto  del  tutto  il  sentimento 
del  valore  etimologico,  si  potè  con  etimologia  popolare,  idest  erronea, 
confondere  con  quello  di  pappagallu ,  nome  di  uccello.  11  fenorneno 
lluz=ljo,  Ho  qui  sarebbe  proprio  a  casa  sua  (cf.  Picchia,  Dell'origine 
della  voce  sarda  nuraghe,  p.   17). 


-  90  — 

risimiglianza  di  un  vespertilio,  riflesso  non  solo  dal  ven. 
barbastregio,  ma  pur  da  pipistrello,  e,  pel  tema  obliquo, 
da  sportiglione. 

A  pagina  55,  a  proposito  di  suora,  nato  dal  nomina- 
tivo soror,  egli  dice,  che  la  vocale  finale  di  suora  «  essendo 
un  a  non  etimologica  ma  analogica,  si  può  trovar  tron- 
cata al  contrario  delle  altre  a  {Suor  Maria  continuazione  di 
soror  Maria,  ove  Vor  finale  è  venuto  a  poco  a  poco  affie- 
volendosi e  dileguandosi))).  Non  credo  si  possa  dire  che 
suor  siasi  troncato  perdendo  Va,  perchè  questa  vocale  non 
è,  come  dice  Tautore,  etimologica  ma  analogica,  cioè  perchè 
è  uvVa  non  originaria,  ma  sostituita  ad  o  come  rappresen- 
tante tipicamente  il  femminile.  Suora  o  suoro  non  si  tronca 
generalmente  in  suor,  se  non  quando  è  seguita  dal  nome 
della  suora,  come  in  suor  Pulcheria,  suor  Appellagia,  e 
in  alcuni  altri  pochissimi  casi,  come  in  suor  mia,  suorsa 
(per  suor  sua;  ci.  signorso  qcc).  Ora  in  tutti  questi  casi 
suor  viene  a  trovarsi  in  condizione  di  voce,  direi  quasi, 
proclitica,  e  si  tronca  per  quello  stesso  principio  per  cui 
verbigrazia  fra  si  tronca  da  frate  in  fra  Martino ,  san 
da  santo  in  san  Giuseppe,  don  da  donno  in  don  Silvano  tee. 
Del  resto  il  troncamento  di  suor  non  presenta  sempre  il 
dileguo  di  un  a  non  etimologico ,  giacché  negli  antichi  pi- 
sano e  sanese,  dove  la  forma  intiera  è  suoro  e  non  suora, 
suor  avrebbe  fatto  getto  di  o,  vocale  originaria  od  etimo- 
logica che  dir  si  voglia.  Noterò  ancora  come  Va  di 
suora,  venuto  ad  essere  parte  costitutiva  del  tema  nomi- 
nale e  improntante  al  nome  la  forma  tipica  del  femminile, 
debba  trovarsi  nella  coscienza  linguistica  equiparato  del  tutto 
ad  un  a  etimologico,  quale  sarebbe  quello  per  es.  di  donna, 
di  figlia, ,  ecc.  E  se  questa  perdita  dell'^  di  suora  viene  ad  - 
esser  caso,  se  non  unico,  assai  raro  per  un  femminile,  si 
deve  alla  confusione  che  da  siffatti  troncamenti  ne  verrebbe 
del  femminile  col  maschile,  essendo  la  più  parte  di  siffatti 
nomi  etimologicamente  identici  nei  due  generi  e  il  tronca- 
mento riserbandosi  naturalmente  pel  maschile;  sicché  più 
non  si  possa  dire  don  Berta  per  donna  Berta,  san  Mar- 
tina per  santa  Martina.  Suor  Maria  poi,  detto  deirautore 


-  97  — 

continuazione  di  soror  Maria,  importerebbe  contraddizione 
a  quello  che  egli  dice  innanzi,  che  cioè  suor  sia  tronca- 
mento di  suora\  di  fatti  lo  svolgimento  delle  varie  forme 
non  può  essere  che  questo:  soror,  soro,  suoro,  sora,  siioj\i. 
Soro  sta  a  soror,  come  sarto  a  sartor,  marfno  a  marmor, 
vampo  a  vapor  ecc.  Da  soro  è  venuto  suoro  come  da  foco 
fuoco,  e  da  suoro  suora^  come  da  nurus  mira,  iiora,  nuora. 
Finalmente  suor,  per  le  variazioni  sopraddette,  potè  venir  così 
da  suora  come  da  suoro,  la  quale  ultima  forma,  già  propria, 
come  si  disse,  del  pisano  e  del  sanese,  che  Tadopera  anche 
al  plurale  (onde  per  es.  suoro  carnali  per  sorelle  e.,  St. 
San.,  I,  2i3j  e  rappresentata  pur  oggi  dal  sic,  sor^u,  potè 
in  antico  essere  stata  propria  di  dialetti  che  ebbero  di  poi 
suora,  giù  fino  ai  tempi  che  ne  nacque  il  tronco  suor;  sicché 
questa  forma  potrebbe  considerarsi  come  generalmente  pro- 
cedente piuttosto  da  suoro  che  non  da  suora. 

A  pag.  37  dice,  parmi,  troppo  assolutamente,  che  alveare 
mantenutosi  popolare  sarebbe  diventato  alviare  o  agliare. 
Pure  ammettendo  la  possibilità  di  queste  forme,  credo  che 
una  delle  più  verisimili  sarebbe  stata  pel  toscano  e  quindi 
per  l'italiano  quella  di  albiare.  Alveus,  donde  alveare,  per 
quanto  ci  si  riflette  volgarmente  in  toscano,  si  presenta  sotto 
la  forma  à^ albioni),  proprio  anche  del  veneziano.  Ho  detto 
una  delle  forme  più  verisimili,  avuto  solo  riguardo  alla  tras- 
formazione di  -Ivea  {Ivja),  che  è  la  parte  più  naturalmente 
mutabile  d'alveare  romano  pigliante  forma  romanza,  così 
neirambiente  italiano  come,  in  genere,  nel  neolatino.  Della 
verisimiglianza  d'albiare  farebbero  anche  testimonianza  le 
fórme  albi  (ferr.,  boi.),  elbi  (mod.,  regg.),  aib  (boi.,  ferr.) 
arbi  (piem.),  originati  da  alveus,  come  pure  albiol  (ferr.), 
albiceu,  arbioeu,  elbiceu  (mil.),    arbieul  (berg.),   ecc.  da  al- 


(i)  Albio  non  è  registrato  nel  Vocabolario  Italiano  e  neppure  in 
quello  dell'uso  toscano  del  Fanfani ,  nonostantechè  questa  voce  sia  la 
sola  che  più  legittimamente  rappresenti  sotto  forma  popolare  il  latino 
alveus  e  giCi  si  trovi  ncW Amalthea  Onomastica  del  Laurenti  lucchese 
in  senso  di  abbeveratoio  da  porci  (Ven.,1708,  On.  it.-lat.,  p.  77). 
Oltrecchè  nel  lucchese,  si  usa  pure  dai  contadini  d'altre  parti  della 
Toscana.  È  pressoché  superfluo  il  notare  che  alveo  ò  forma  letterariij, 
e  foneticamente  ibrida  come  volgare. 


-  98  - 

veoliis ;  significanti  tutti  qualche  sorta  di  recipiente,  segna- 
tamente truogolo^  abbevei^atojo.  Tra  le  varie  forme  derivate 
che  potrei  ancora  citare,  noterò  il  boi.  aibarola  (truogolo), 
come  accennante  a  un  prototipo  alveariola  e  così  confon- 
dentesi  quasi  di  organismo  con  alveare^  dal  quale  però  non 
è  verisimile  che  si  derivi,  venendo  più  probabilmente  da 
alreus  per  via  del  suffisso  complesso  -ariolo  {ario-olo). 
Bastano,  parmi,  questi  cenni  per  dimostrare  le  varie  foggie 
che  avrebbe  potuto  assumere  popolarmente  alveare  {alvjare)^ 
anche  solo  considerato  nella  sua  interna  trasformazione  *, 
perocché,  insieme  con  alveare^  avendo  il  latino  anche  al- 
vearium^  non  avvertito  dal  D'Ovidio,  che  pure  fa  cenno  di 
cochlearium  sostituito  a  cochlear^  di  là  sarebbe  anche  po- 
tuta venire  una  forma  toscana  di  albiajo.  Si  confronti  a 
questo  proposito  la  forma  volgare  di  milvius  e  di  qualche 
nome  locale  derivato  dai  gentilizi  Fulvius  e  Molviiis  [nibbio^ 
Fiibbiano^  Mobbiano)  e  bisognerà  anche  riconoscere  la  veri- 
simiglianza  di  forme  ipotetiche  quali  abbiare^  abbialo  rispet- 
tivamente procedenti  da  alveare^  alvearium. 

Non  porrei  come  letterario  e  non  popolare,  secondo  che 
fece  Fautore  a  pag.  69,  il  nome  Tebro  insieme  con  Dido^ 
Giiino^  margo^  temo  (per  timone)^  imago  &cc.  Tutti  questi 
nomi  sono  non  solo  di  forma  letteraria,  ma  hanno  il  loro 
tipo  nel  nominativo  latino,  mentre  Tebro  viene  da  caso 
obliquo  (che  altrimenti  bisognerebbe  dedurlo  da  un  Tibei'o^ 
Tiberonis  che  non  c'è),  e  presenta  fenomeni  (cioè  mutazione 
d'/  in  e,  sincope  e  trapasso,  come  di  m.aschile ,  alla  se- 
conda), solo  proprii  delle  forme  popolari.  L'unica  impopo- 
larità, che  sarebbe  da  notarsi  in  Tebro  dirimpetto  alla 
forma  volgare,  è  il  ^  per  v;  ma  non  è  improbabile  che 
ciò  devasi  a  una  quasi  nobilitazione  voluta  farsi  dai  letterati 
di  una  popolar  forma  Tevro ,  che  io ,  per  vero  dire ,  non 
conosco,  ma  che  mi  pare  assai  verisimile,  e  che,  pur  pre- 
sentando alterazioni  varie  dinanzi  a  Tiberini  o  Tibrim , 
darebbe  una  forma  regolarissima  e  a  un  tempo  somma- 
mente popolare.  Quanto  alFo  finale  si  confronti  con  Tevero 
fior,  e  Tevaro  san.,  aret.,  tee. 
*   A  pag.  2  5,  egli  dice  che  in  latino  serbarono  più  a  lungo 


-  99  - 

Vo  nel  nom.  e  acc.  sing.  soltanto  ì  temi  in  -vo.  Sarebbe 
stato  più  esatto  il  dire  i  temi  in  -vo^  -no  e  -quo^  onde  p.  es. 
servos^  servom^  perpeiiios^  perpetuom ^  reliquos,  reliquom. 

A  pag.  53,  parlando  di  quelle  doppie  forme  di  nomi,  di 
cui  l'una  muove  dal  nominativo,  l'altra  da  caso  obliquo, 
egli  cita  ad  esempio  «  sage-sdpiens ^  savant-sapiénte(tn]  », 
Sage  non  può  staccarsi  dalFit.  savio^  saggio^  sp.  e  port. 
sabio^  prov.  sabi^  che  sono  il  risultato  di  un  antico  sapius^ 
proprio  del  romano  volgare,  come  si  rende  anche  assai 
verisimile  dal  nesapius  {qui  non  sapit)  di  Petronio  (confr. 
Diez,  Et/m.  Wórt.^  P,  362). 

In  fine  della  sua  dissertazione  il  D'Ovidio  reca  una  lista 
ch'egli  dice  di  aver  procurato  di  fare  quanto  più  completa 
gli  è  stato  possibile,  non  solo  dei  nomi  aventi  una  forma  sola 
procedente  dal  nominativo,  quali  per.  es.  sangue  =  sangui s^ 
icomo=liomo^  prete  =  pvesbytey^  strUyio=struthio^  vieto^= 
vetiis^  ecc.  •,  ma  anche  di  quelli  che  oltre  una  forma  deri- 
vata dal  nominativo  ne  hanno  pure  una  connessa  coi  casi 
obliqui,  come  per  es.  sarto  {sartor)^  sartore;  ladro ^  la- 
drone; ti\:{0  ^  ti'iione^  orafo  [aurifex)^  orefice  {aurijìce)\ 
moglie^  mogliera\  cespo^  cespite,  qcc.  Noterò  come  alla  ca- 
tegoria di  questa  sorta  di  nomi,  che  il  D'Ovidio  chiama 
doppioni,  si  potrebbero  anche  aggiugnere  ^e/o(i)  o.  fetore^ 
ventavolo  (yentus  aquilo)  e  aquilone^  erro  e  errore  (se  pure 
il  primo  non  viene  da  errare^  come  per  es.  grido,  niego 
da  gridare  [quiì^itai^e]  negare)^  nievo  {nepos){;i)  e  nipote; 
e  come  in  cambio  di  cespite ,  forma  letteraria  anziché  no , 
sarebbe  stato  meglio  porre  cesto^  che  dà  la  forma  popolare 
procedente  dal  caso  obliquo,  e  presenta  una  sincope  analoga 
a  quella  di  oste  =  hospitem. 


(i)  Il  Fanfani  nel  Voc.  dell'uso  tose,  reca  fleto  come  voce  sanese, 
e  in  quello  della  lingua  italiana  come  usata  dal  Caporali;  ma  questa 
parola  è  non  solo  sanese  ed  umbrica  ,  ma  anche  aretina,  romanesca 
e  napolitana,  e  appartien  pure  sotto  la  forma  dì  f etti  al  siciliano. 

(2)  Nievo  è  usato  dal  Pulci  e  nevo  vive  in  dialetti  della  Liguria. 
Il  Voc.  It.  del  Tramaier  fa  venir  nievo  dal  fr,  neveu;  ma  nievo  è  risul- 
tato italiano  di  nepos,  cosi  bello  e  regolare,  che  non  può  esser  caso 
di  una  tale  stiracchiatura. 


—  100  — 

Queste  sono  le  osservazioni  che  ci  parve  di  fare  al  lavoro 
del  signor  D'Ovidio;  ma  riconosciamo  di  buon  grado  come 
generalmente  in  esso  il  giovane  autore  non  solo  siasi  mostrato 
peritissimo  della  sua  materia,  ma  abbia  dato  bella  prova  di 
quel  criterio  storico  delle  lingue  che  pur  troppo  in  Italia  è  an- 
cora una  dote  assai  rara,  anche  tra  coloro  che  fan  professione 
di  lettere  e  filologia;  e  ci  rallegriamo  pertanto  che  la  linguistica 
venga  ad  avere  in  questo  egregio  professore  un  valente  cul- 
tore, che  coirinsegnamento  e  cogli  scritti  potrà  certo  giovar 
grandemente  a  promuover  questa  sorta  di  studi  nel  nostro 
paese. 

G.  Flechia. 


Frammenti  d' iscri'{ioni  etrusche  scoperte  a  Ni^^a.  Nota 
del  prof.  A.  Fabretti,  inserita  negli  Atti  della  R.  Ac- 
cademia delle  scienze  di  Torino.  Voi.  VII,  1872. 

Prima  il  Mommsen,  poscia  Carlo  Promis  sollevarono 
dubbii  sulla  sincerità  della  lapide  etrusca  che  si  conserva 
nell'atrio  dell'università  di  Torino  ,  l'unica  leggenda  che 
appartenga  alle  provincie  Subalpine  scritta  coi  caratteri  proprii 
dell'Etruria  centrale  ;  il  Promis  si  fonda  specialmente  sulla 
considerazione,  che  la  presenza  di  gente  Etrusca  in  queste 
regioni  non  è  avvalorata  da  ricordi  storici. 

Il  prof.  Ariod.  Fabretti,  così  diligente  nel  raccogliere 
gli  antichi  monumenti  e  cosi  acuto  nel  dichiararli,  dal  con- 
fronto che  fa  di  questa  lapide  con  altre  scoperte  recente- 
mente a  Sondrio  ed  a  Nizza,  pensa  si  debba  affermare  la 
autenticità  della  medesima. 

G.  Barco. 


Avvertenza.  Delle  opere  filologiche  inviate  finora  alla  Direzione 
della  Tiivista  dai  signori  autori  od  editori,  sarà  fatto  cenno  nel  fa- 
scicolo terzo  e  nei  seguenti. 

Pietro  Ussello,  gerente  responsabile. 


—  101  — 

7  "PRETESI  GEV^ITIVI  SI^G0LA1{I 
DEI  TEMI  LATINI  IN  -0-. 


I. 


Quale  sia  la  vera  natura  ed  origine  di  quelle  numero- 
sissime forme  latine,  che  la  grammatica  empirica  (sempre 
^ossequiosamente  fedele  alle  sue  antiche  tradizioni)  ci  avvezzò 
a  considerare  come  genitivi  singolari  della  declinazione  se- 
conda, non  si  è  potuto  ancora  dalla  nuova  linguistica  sto- 
rico-comparativa mostrare  con  tale  evidenza  che  non  sia  più 
possibile  il  dubbio,  la  contestazione,  la  varietà  delle  sentenze. 
E  siccome  è  questo  un  problema  glottologico  non  poco  im- 
portante sì  in  ordine  alla  morfologia,  sì  ancora  per  ciò  che 
concerne  la  sintassi,  così  osiamo  confidare  che  gli  studiosi 
lettori  di  questa  nostra  'Rivista  faranno  buona  accoglienza 
alle  osservazioni,  sebbene  per  avventura  Vl  giudizio  di  alcuno 
troppo  lunghe  e  minute,  che  noi  ora  ci  proponiamo  di  esporre 
intorno  alle  diverse  soluzioni  che  del  preaccennato  problema 
vennero  date  da  parecchi  insigni  linguisti,  fra  i  quali  ci  av- 
verrà di  trovare  taluno  che  meritamente  ha  nome  di  maestro. 
Le  quali  soluzioni  ben  distinte  fra  loro  sono  tre  e  la  prima 
di  esse  si  contrappone  nettamente  alle  due  altre  :  che,  giusta 
quella,  i  menzionati  genitivi  furono  così  appellati  impropria- 
mente e  voglionsi  considerare  come  schietti  locativi;  mentre, 
secondo  le  altre  due,  noi  dovremmo  reputarli  veri  genitivi 
formati  col  suffisso  ariano  -as  se  crediamo  agli  uni,  o  colla 
primitiva  desinenza  -sja  se  agli  altri  diamo  fede. 

TUvista  di  filologia  ecc.,  I.  8 


102  - 


IL 


Lo  scopo  a  cui  tende  questo  nostro  lavoro  ci  consiglia  a 
prendere  le  mosse  dall'ultima  fra  le  esposte  opinioni,  giusta 
la  quale  il  genitivo  latino  onde  discorriamo  sarebbe  stato  a 
buon  diritto  così  denominato,  essendo  costituito  da  un  tema 
nominale  e  da  -sja,  elemento  formatore  dei  genitivi  singo- 
lari in  parecchi  idiomi  ariani  (i).  È  questo  il  parere  di  Leone 
Meyer(2).  Lo  -sja^  egli  scrive,  «  trovasi  esclusivamente  nell^ 
forme  fondamentali  onde  il  tema  è  terminato  nel  primi- 
tivo a\  lo  antico  indiano  <i^'?'^- -  campo-,  p.  es.,  forma  il 
genitivo  dg'rasja  -  del  campo  -,  e,  con  esso  si  accorda  esat- 
tamente l'arcaico  àrpoio  di  pari  significazione,  nel  quale  il  s 
cadde  fra  le  vocali,  e  senza  dubbio  ,  sebbene  molti  lo  ne- 
ghino ancora,  altresì  il  latino  agri:  qui  il  più  antico  oi , 
formatosi  mediante  espulsione  del  s  dal  precedente  osj  , 
venne  affievolito  prima  in  ei  e  poscia  in  i  (come  nel  nomi- 
nativo plurale  agrì=à-i90\  -  i  campi-)  e  questa  vocale  lunga 
assorbì  la  breve  seguente,  del  tutto  come  avvenne,  v.  g.,  in 
fili  -  o  figfio  -,  per/F/ze,  ed  in  aiidl  -  odi  -  per  audie,  audieì). 
Questa  spiegazione  sembra  vera  anche  al  Clark  (3). 

E  qui  si  noti  in  primo  luogo  che,   come   rettamente  os- 


(i)  ScHLEicHER,  Cotnpendium  der  vergleichenden  grammatik  der 
indogermanischen  sprachen,  2^  ed.,  Weimar,  i866,  §  252,  p.  554-56i 
(§  143,  p.  3o8-3io  della  nostra  versione). 

(2)  Gedr'dngte  vergleichung  der  griechischen  iind  laleinischen  de- 
clination,  Berlin,  1862,  p.  26-27. 

(3)  The  studente s  handbook  of  comparative  grammar  ecc.,  London, 
1862,  p.   I 14-115. 


—  103  — 
servò  G.  Corssen  (i),  il  5  del  primigenio  -sja^  secondo  una 
delle  leggi  che  governarono  lo  svolgimento  fonico  del  latino, 
non  sarebbe  svanito  in  questo  idioma  tra  vocali  (come  suole 
nel  greco),  ma  si  sarebbe  trasformato  in  r,  proprio  nella  mede- 
sima guisa  e  per  la  medesima  causa  che  vediamo  essersi  mu- 
tata la  sibilante  nella  tremola  accennata  in  er-o  per  *es-Jo^  in 
e?^ìi  p.  esil  ecc.  (2)  e  nelle  parole  meliorem,  plurima,  lares, 
feriasy  aras,  arena,  Spiirius,  Fiiriiis,  dari,  forme  classiche 
derivate  dalle  arcaiche  meliosem,  plusima,  lases,  fesias,  asas, 
asena  e  fasena,  Spusiiis,  Fusiiis,  dasi  ecc.,  ed  in  ultimo  in 
qiiaero  da.  quaeso  che  si  conservò  anche  nel  latino  letterario  (3). 
E  vuoisi  eziandio  por  mente  a  ciò  che  non  il  s,  ma  i\J  sa- 
rebbe scomparso,  come  appare  dal  primo  degli  esempi  citati, 
conforme  alle  tendenze  fonetiche  del  latino.  E  finalmente 
dichiariamo  di  non  conoscere  forma  latina,  nella  quale  un  0, 
veramente  finale  (come  nel  caso  di  cui  ci  diamo  pensiero), 
vale  a  dire  non  seguito  da  alcuna  consonante  (v.  g.  da  s), 
siasi  fuso  coir  2  precedente  in  F  (4). 

Crediamo  pertanto  avere  il  diritto  di  respingere  questa 
teorica,  come  quella  che  non  solo  ci  si  presenta  sfornita  di 
prove,  ma  eziandio  non  regge  ad  un  critico  esame. 


(1)  Uebcr  aiissprache ,  vocalismus  iind  betoming  der  lateinischen 
sprache,  2*  ed.,  Leipzig,  1868-1870,  voi.   1°,  p.  768. 

(2)  V.  la  Dissertatone  storico-comparativa  che  publicammo  intorno 
alla  Formatone  del  futuro  attivo  uegl'  idiomi  italici  ed  ellenici,  To- 
rino, 1872,  p.  28-3o. 

(3)  V.  la  nostra  Grammatica  storico-comparativa  della  lingua  la- 
tina, ecc.,  Torino,  i872,§36,  p.  156-57.  V.  anche  Meyer,  Vergleichendc 
grammatik  der  griechischen  und  lateinischen  sprache,  Berlin.  i86i-65, 
voi.  1°,  p.  55-6o. 

(4)  V.  la  nostra  Grammatica  precitata,  §  5i,  IV,  2°,  p.  283. 


—  104  — 


III. 


Ritschl  (i),  Corssen  (2),  Schleicher  (3),  Grassman  (4), 
Biicheler  (5)  ed  altri  (6)  scorgono  nelle  forme  latine  delle 
quali  si  tratta  veri  genitivi ,  onde  la  terminazione  sarebbe 
stata  anticamente  -is,  che  Corssen  considera  come  un  rap- 
presentante affievolito  d''un  primordiale  -as  ed  affatto  identico 
col  suffisso  formatore  del  genitivo  singolare  nella  terza  de- 
clinazione. La  verisimiglianza  apparente  di  questa  dottrina, 
gli  argomenti  speciosi  che  si  adducono  a  sostenerla,  T  atti- 
tudine sua  a  conciliare  la  vecchia  colla  giovane  scuola  di 
grammatici  latini,  e,  soprattutto,  il  nome  chiarissimo  degli 
uomini  che  se  ne  fecero  strenui  propugnatori  la  rendono 
degnissima  della  più  accurata  disamina,  mentre  Tarnore  del 
vero  esige  che  questa  si  compia  colla  più  assoluta  indipen- 
denza di  spirito. 

Vuoisi  innanzi  tratto  osservare,  che  l'esistenza  di  antichi 
genitivi  singolari   latini   della   2*  declinazione    desinenti   in 


(i)  Passim  ed  ancora  nei  Neue  plaiitinische  excurse,  sprachgeschicht- 
lìche  iintersuchungen,  Leipzig,  1869,  p.  117. 

(2)  Op.  cit.,  l'acci.,  i858-59,  voi.,  1°,  p.  2o3  e  118;  2''  ed.,  1S68-70, 
voi.  I»,  p.  768-773  ecc. 

(3)  Op.  cit.,  1.  e,  voi.  2°,  p.  452  (i»  ed.,  1861-62),  p.  558  (2»  ed., 
1866). 

(4)  Ueber  die  casusbildung  im  indo-germanischen  (nella  Zeitschrift 
di  Kuhn,  voi.  120,  p.  252). 

(5)  Grundriss  der  lateinischen  declination.  Leipzig,  1866,  p.  36. 

(6)  V.,  ad  es.,  le  grammatiche  scolastiche  del  Vanicek  [Lateinische 
schidgrammatik,  i»  parte,  Prag,  i856,  p.  40),  del  Bauer  {Die  elemente 
der  lateinischen  formenlehre  ,  Nordlingen,  i865,  parte  V,  p.  3i)  ed 
anche  quella  del  Giuffrida  (Grammatica  della  lingua  latina,  Sciacca, 
1870,  parte  1%  p.  24). 


—  105  — 
-is  è  meramente  ipotetica:  niuno  di  essi  ci  pervenne  a 
dimostrare  con  prova  di  fatto  la  realtà  storica  di  questa 
supposta  terminazione.  Questo  s  finale  è  «  svanito  assolu- 
tamente »,  scrive  Ritschl  (i),  e  Corssen  confessa  che  «  le 
più  antiche  iscrizioni  latine  a  noi  pervenute  non  conoscono 
se  non  forme  del  genitivo  singolare  in  -i  di  temi  in  -o-»  (2). 
La  più  solida  base  su  cui  si  possa  fondare  sì  fatta  ipotesi 
è  la  comparazione  di  questo  preteso  genitivo  latino  col  ge- 
nitivo osco  ed  umbro  terminato  in  sibilante.  Siano  esempi 
le  forme  osche  senateìs,  sakarakleis,  Pumpaiianeìs 
ecc.  (3);  le  umbre  Marties  e  Martièr,  katlés  e  katlè 
ecc.  (4).  Corssen  reputa  «  impossibile  il  separare  forme  osche 
del  genitivo  singolare  come  sùveis,  minstreis  dalle  forme 
latine  come  suei,  ministri^  forme  umbre  quali  sono  katlès, 
katlè  dalle  latine  a  mo'  di  catidi  ».  Ma  non  è  punto  pro- 
vato che  le  forme  latine  onde  qui  si  favella  appartengano 
al  medesimo  caso  cui  spettano  le  osche  e  le  umbre  che  si 
citano  come  loro  corrispondenti  :  già  Bopp  notava  che  Tosco 
e  Tumbro  non  danno  mai  senso  di  locativo  al  loro  genitivo, 
mentre  in  latino  i  così  detti  genitivi  singolari  delle  due  prime 
declinazioni  sono  spesso  adoperati  per  significare  stato  in 
luogo,  come  sogliono  insegnare  i  grammatici  (5).  Del  resto 
le  differenze  fonetiche  e  morfologiche  le  quali  distinguono 
lo  idioma  antico  della  Italia  media   occidentale  dai   dialetti 


(i)  Op.  ciu,  1.  e. 

(2)  Op.  cit.,  2^  ed.,  voi.   1",  p.  765. 

(3)  Enderis,  Versuch  einer  formenlehre  der  oskischen  sprache  ecc., 
Zurich,   1871,  p.  LI. 

(4)  AuFRECHT  e  KiRCHHOFF,  Die  timbrischen  sprachdenkmaler,  Berlin, 
1849,  P-  ii8.  —  HuscHKE,  Die  iguvischen  tafeln  ecc.,  Leipzig,  1859, 
p.  614-15.  —  Enderis,  Op.  cit.,  1.  e. 

(5)  Bopp,  Grammaire  comparée  des  langiies  indo-eiiropéennes,  trad. 
par  Bréal,  Paris,  1806-69,  §  2,00,  voi.  1°,  p.  434. 


—  106  — 
orientali  (i)  non  ci  consentono  di  ammettere  fra  il  primo 
ed  i  secondi  un'  affinità  così  intima  come  farebbe  d^  uopo 
riconoscerla  per  non  dissentire  dal  grande  investigatore 
della  pronunzia,  del  vocalismo  e  delF  accentuazione  latina. 
E ,  come  osservò  opportunamente  Ebel ,  gli  stessi  temi 
in  -0-  ci  presentano  in  latino  nominativi  plurali  formati  ben 
altramente  che  in  osco  ed  in  umbro,  come  appare  evidente 
a  chi  paragoni  T  -i  finale  di  essi  in  latino  (v.  g.  in  equi) 
coir  ùs,  -ds  osco  (p.  es.  Nùvlanùs)  e  coli' umbro  -us, 
-z/r,  -or  (p.  es.  Ikuvinus,  lovimir^  screihtor)  (2). 

E  non  sapremmo  davvero  comprendere  per  qual  cagione 
sia  andato  perduto  un  s  finale  nella  desinenza  di  questi 
pretesi  genitivi  singolari  dei  temi  in  -0-,  mentre  si  conservò 


(i)  Basti  rammentare  ai  nostri  lettori  le  tre  seguenti:  1°  la  corri- 
spondenza del  e,  qii  latino  a\p  osco-umbro  (lat.  quis  ^=  osco  ed  umbro 
pis,  lat.  quattiior:^ osco  petora=umhro  petiir-=^eo\.  ed  om.  mavpec,); 
2°  l'infinito  latino  in  -re  formato  ben  altramente  che  l'osco  in  -u-m 
e  l'umbro  in  -u-m,  -o-m  (lat.  dice-re  ,  osco  deicii-m\  lat.  es-se , 
umbro  er-u(m)  );  3°  il  futuro,  alla  cui  formazione  concorre  in  la- 
tino la  radice /?<,  nell'osco  e  nell'umbro  la  radice  es  (lat.  da-bi-t,  osco 
dide-s-t;  lat.  habe-bi-t ,  umbro  habie-s-t).  V.  la  nostra  cit.  Dissert. 
sulla  Formazione  del  futuro  attivo,  p.  33-35. 

(2)  Non  ignoriamo  che  alcuni  credettero  primitive  le  forme  latine 
arcaiche  in  -es,  -eis,  -is,  di  nominativi  plurali  latini  come  duoìn-vires, 
vireis  ,  magistris.  Ma  sì  fatti  nominativi  plurali  dei  temi  in  -0-  non 
possono  essere  i  primitivi,  dai  quali  mediante  il  dileguo  del  s  finale 
siano  provenuti  gli  altri  :  che  i  terminati  in  oe,  e,  ei  sono  più  antichi  di 
essi,  né  mai  il  s  della  desinenza  -es  del  nominativo  plurale  andò  altrove 
perduto  in  latino.  Vuoisi  dunque  ammettere  che  le  preaccennate  forme 
con  s  si  svolsero  dopo  altre  sfornite  di  questa  finale.  Fra  le  ipotesi 
escogitate  a  spiegare  simile  posteriore  formazione  basti  accennare  quella 
di  Bopp  [Gramm.  comp.  ecc.,  §  228b,  voi.  2°^  p.  40  della  vers.  fr.)  e  di 
GoRssEN  [Ueber  ausspr.  ecc.,  voi.  1°,  p.  ySG),  la  quale  ci  sembra  di  tutte 
la  più  semplice  e  verosimile  :  che,  giusta  la  medesima,  i  nominativi 
plurali  onde  discorriamo  derivano  da  temi  in  -i-,  nei  quali  sonosi  mu- 
tali temi  in  -0-  corrispondenti.  V.  la  nostra  Gramm.  st.-comp.,  §  102, 
p.  379-80. 


—  107  — 
quello  dei  veri  genitivi  appartenenti   ai  temi  in  consonante 
ed  in  -II-.  Né  la  teorica  della  declinazione  latina  ci  sommi- 
nistra esempii  atti  a  difendere  questa  ipotesi.  Già  vedemmo 
come  nessuna  sibilante  siasi  dileguata  in  fine  dei  nominativi 
plurali    della    seconda  declinazione:  per   ciò    che    spetta  ai 
singolari  noteremo  che  alle  forme  arcaiche  Cornelio ,  He- 
renio,  Sexto,  che  appariscono  in  iscrizioni  anteriori  alla  se- 
conda guerra  punica,  subentrarono  più    tardi  le  forme  piià 
antiche  ancora  con  s.  A  tutti  è  nota  Topera  di  Ennio  e  dei 
suoi  seguaci,  i  quali  riacquistarono    al    latino    quanto    esso 
non  aveva  ancora  interamente  perduto  sotto  l'azione  funesta 
di  certe   tendenze  foniche  (i).   Indarno  ci  si  opporrebbe  il 
preteso  genitivo  singolare  in  -ae,  -à-ì  dei  temi  in -a- (i*  deci.), 
forma  che  Ritschl  (2)  ed  altri  considerano  come  provenuta, 
per  dileguo  di  un  5  finale,  da  una  più  antica  in  -àis.  Questa 
supposta  provenienza  non  ci  sembra  ancora  dimostrata  scien- 
tificamente. Che  non  ne  sono  valide  prove  né  i  genitivi  in 
-aes   (v.   g.    Heraes ,    Valeriaes ,    Dominaes  ,  liinaes)  che 
irovansi  solo  in  iscrizioni  dall'epoca  di  Siila  alla  età  impe- 
riale più  tarda    ed  appariscono    evidentemente    foggiati    ad 
imitazione  dei  greci  in  -r\c,  (3)-,  né  i  genitivi  arcaici  in  -às 
(p.  es.  terràs,  aquàs ,  familiàs  i7ionetàs),  i  quali  vedremo 
tosto  essere  veri  genitivi  che  non  si  possono  connettere  coi 
pretesi  in  -ae,  à-t\  né,  finalmente,  la  stessa  forma  Prosepnais^ 
la  quale,  malgrado  dell'  opposto    parere    di    Ritschl  (4),  ci 
pare  non  primitiva ,  ma   rivelante  l' influenza   del    genitivo 


(i)  Brambach,  Die  neiigestaltung   der   lateinischen  orthographie  in 
ihrem  verhaltniss  ^xir  schule,  Leipzig,  1868,  p.   i2-i3. 

(2)  Op.  cit.,  p.  1 14-7. 

(3)  V.  la  nostra  Gramm.  st.-comp.,  §  19,  p.  68.  —  Corssen,  Op.  cit., 
voi.  1",  p.  684. 

(4)  Op.  cit..  p.  1 15. 


—  108  — 
greco,  come  opinano  Mommsen  (i)  e  Corssen  (2).  Oltracciò 
non  potrebbesi  spiegare  la  lunghezza  della  vocale  ì  in  -à-ì 
considerando  quest'z  come  un  avanzo  del  suffisso  latino  -is 
=gr.  -og=ant.  ind.  ed  ar.  -as ,  che  sempre  ci  si  presenta 
in  latino  colla  vocale  breve  {-ós,  -ils,  is  [nelle  forme  arcaiche 
domu-'òs,  domu-us,  domii-is\  -ès,'is  | nell'are.  Apolon-cs,  nel 
class.  Apollin-h]  (3)  ):  ma  sarebbe  affatto  necessario  ammet- 
tere con  G.  Curtius  (4)  e  Schleicher  (5)  la  origine  di  questo 
genitivo  latino  da  una  forma  fondamentale  in  -à-j-as,  ipotesi 
alla  quale  noi  non  possiamo  credere  ,  soprattutto  perchè  i 
temi  latini  in  -a-  non  ci  appariscono  mai  in  alcun  altro  caso 


(1)  «  Declinatio  haec  videtur  hybrida  esse  et  ex  genetivo  Latino  Pro- 
serpinae  GraecoqueTTepae(póvri(;quodammodo  mixta  ;  nec  raro  similem 
genetivum  declinationis  primae  in  es  et  aes  offendimus  in  titulis  grae- 
cissantibus  maxime  aetatis  labentis.  »  V.  Inscriptiones  latinae  antiquis- 
simae  ad  C  Caesaris  mortem,  Berolini,   i863,  7).  25  e  554. 

(2)  «....  Neil' -^/S  di  questo  genitivo  si  volle  riconoscere  un  avanzo 
sporadico  della  più  antica  forma  in  -d-is  del  genitivo  dei  temi  fem- 
minili in  -A- Ma  si  consideri,  che  tranne  questo  caso,  ci  si 

presentano  nel  latino  arcaico  solo  le  forme  in  -d-i,  -ai  dei  genitivi  di 
questi  temi,  non  mai  quelle  in  -d-is;  che  la  forma  Prosepnais  ha 
perduto  il  r  avanti  al  jc,  mentre  fatta  questa  sola  eccezione,  il  r  si  con- 
servò nella  voce  Proserpina  in  ogni  tempo  ;  che  questa  forma  {Pro- 
sepnais) non  appare  se  non  sopra  uno  specchio  trovato  in  Etruria  con 
immagini  di  maniera  greca  ;  che  queste  iscrizioni  su  specchi  ci  offrono 
in  buon  numero  nomi  non  latini  e  stranieri;  e  sarà  forza  conchiudere, 
che  V-AIS in  questa  forma  non  indica  una  primitiva  desinenza  del  genitivo 
latino  più  che  in  Eiitkhiais,  né  Al  rappresenta  il  primitivo  dittongo 
latino  ai  più  che  nelle  forme  arcaiche  Aisclapi,  scaina,  ma  che  in  quel 
luogo  Prosepnais  è  una  forma  mista,  derivata  dalla  latina  *Proserpinai, 
Proserpinae  e  dalla  greca  TTepaeqpóvri^,  giusta  il  parere  di  Mommsen,  » 
CoRssEN,  Op.  cit.,  voi.  i",  p.  683. 

(3)  V.  Neue,  Formenlehre  der  lateinischen  sprache,  voi.  i",  p.  190-2, 
36i-2. 

(4)  Y.Miscellen  (nella  Zeitschrift  di  Kuhn,  voi.  y,  p.  i56),  ed  il 
Commento  alla  grammatica  greca,  Xvsid.  da  G.  Muller,  Torino,  1868, 
p.  55-56. 

(5)  Op.  cit.,  §  252,  p.  558. 


-  109  - 
ampliati  con  un  /.  E,  prima  di  dar  termine  a  questa  ormai 
troppo  lunga  digressione,  noteremo  ancora  che  ai  così  detti 
genitivi  latini  in  -à-ì,  -ae  rispondono  perfettamente  locativi 
oschi  colla  medesima  terminazione.  Né  da  questi  pretesi 
genitivi  si  possono  separare  i  locativi  in  -ae^  v.  g.  Romae  -  in 
Roma-,  domi  militiaeqiie,  terrae  mariqiie  (cfr.  gr.  xcMa-i). 
E  da  queste  osservazioni  crediamo  potersi  sicuramente  con- 
chiudere, che  non  genitivi,  ma  locativi  singolari  hanno  a  dirsi 
le  forme  latine  onde  abbiamo  discorso  e  pertanto  da  esse  non 
si  può  trarre  verun  argomento  in  favore  della  teorica  di 
Ritschl,  Corssen  e  Schleicher,  giusta  la  quale  le  forme  sin- 
golari in  -i  dei  temi  in  -o-,  denominati  genitivi  dalP  antica 
grammatica  empirica,  dovrebbero  veramente  reputarsi  tali. 
Sì  fatta  teorica  non  essendo  fondata  sui  fatti,  anzi  ripugnando 
a  parecchi  tra  i  fatti  stessi,  non  corrisponde  alle  inesorabili 
esigenze  della  linguistica  odierna,  positiva  per  eccellenza,  e 
non  può  essere  accolta  da  noi,  che  perciò  ci  scostiamo, 
sebbene  a  malincuore  e  reverenti,  dalle  orme  di  quei  tre  in- 
signi maestri. 


IV. 


Resta  ora  a  discutere  la  opinione  di  Bopp  (i),  il  quale, 
seguendo  F.  Rosen,  insegnò  non  altro  essere  i  pretesi  ge- 
nitivi singolari  dei  temi  in  -o-  (come  di  quelli  in  -a-),  che 
veri  locativi,  costrutti  col  suffisso  primitivo  -/  che  in  latino 
si  allunga  (2).  Si  accordano  in  ciò  col  padre  venerando  della 
linguistica   storico-comparativa   indo-europea  Ebel  (3) ,  De 


(i)  Grammaire  comparée  des  langues  indo-enropéeivies  ecc.,  trad.  par 
Bréal,  Paris,    1866-69,  §  -00,  voi.   1",  p.  434-35. 

(2)  V.  Schleicher,  Op.  cit.,  §  254,  p.  565-570. 

(3)  Ein  griechischer  genetiv  locaiiv  (nella  Zeitschrift  di  Kuhn,  voi.  1 3", 

p.  446-48). 


—  no  — 
Caix  de  Saint- Aymour  (i),  Merguet  (-z),  Schweizer-Sidler  (3) 
ed  altri  minori.  Come  i  genitivi  osco-umbri  non  siano  punto 
una  ragione  per  respingere  questa  dottrina  boppiana  già  ci 
sembra  avere  abbastanza  dimostrato  nella  parte  precedente 
di  questa  nostra  trattazione.  V'ha  un'altra  cagione  che  per 
avventura  distoglie  parecchi  cultori  di    si   fatti    studi    dallo 
adottare  la  teorica  del  grande  tedesco  :  è,  giusta  la  sottile  os- 
servazione di  Ebel,  il  nostro  essenzialmente  moderno  senso 
glottico,  al  quale  ripugna  lo  ammettere  nelle  due  prime  de- 
clinazioni latine  la  mancanza  del  genitivo  singolare  (caso  che 
siamo  usi  di  considerare  come  affatto  necessario)  e  la  sur- 
rogazione al  medesimo  di  un  locativo  (caso  onde  la  gram- 
matica empirica    delle    scuole  non    ci    avvezzò  nemmeno  a 
supporre  l'esistenza).  Ciò  parrà  strano  a  taluno,  ma  la  evi- 
denza dei  fatti  è   ben  superiore  a  tutti  i  pregiudizi    che  si 
debbono    ad    una    educazione    intellettuale   troppo    impari 
all'altezza  della  scienza  odierna.  Ed  a  dileguare  ogni  dubbio 
addurremo  piià  sotto  forme  di  locativi  singolari  greci  e  cel- 
tici, le  quali  hanno  evidentemente  valore   di   genitivi,  e  fa- 
remo con  alcuni    chiarissimi  e  certissimi   esempii  palese  la 
affinità  esistente  fra  questi  due  casi,  per  la  quale    vediamo 
eziandio  spesse  volte  il  genitivo  adoperato  in  luogo  del  loca- 
tivo in  lingue  di  stipite  ario  (4). 


(1)  La  langiie  latine  étudiée  dans  V unite  indo-eiiropéenne,  Paris,  1868, 
p.  170. 

(2)  Die  entyvickehmg  der  lateinischen  fonnenbildimg ,  Berlin,  1870, 
p.  77-82. 

(3)  Teorica  dei  suoni  e  delle  forme  della  lingua  latina  ad  uso  delle 
scuole,  da  noi  tradotta  in  italiano,  Torino,  1871,  p.  25-27. —  In  due 
altri  lavori  didattici  di  sì  fatto  genere  ci  sembra  scorgere  la  medesima 
opinione,  vale  a  dire  nel  libro  di  Dorschel,  Die  clemente  der  lateini- 
schen  formenlehre  ecc.,  Jena,  1871,  p.  5,  e  nella  Grammatica  latina  ecc. 
del  Pozzetti,  Napoli,  1871,  p.  36. 

(4)  Deleruck,  Ablativ  localis  instnimentalis  in  altindischen  lateini- 
schen  griechischen  und  deutschen,  Berlin,  1867,  p.  27-50. 


-  Ili  — 
Passando  sotto  silenzio  il  locativo  singolare  sanscrito  dei 
temi  in  -/,  considerato  da  Bopp  come  un  genitivo  (i),  perchè 
questa  forma  è  da  altri  in  altro  modo  illustrata  (2),  ci  ba- 
sterà addurre  a  prove  della  nostra  asserzione  il  fenòmeno 
che  ci  presenta  lo  antico  battriano,  in  cui  il  luogo  del  lo- 
cativo singolare  si  adopera  per  i  temi  in  ii  la  desinenza  del 
genitivo  (3) ,  e  certi  costrutti  greci,  nei  quali  il  locativo  di 
spazio  e  di  tempo  ci  appare  espresso  per  mezzo  del  geni- 
tivo (4) ,  costrutti  che  non  sono  tutti  stranieri  allo  antico 
indiano,  in  cui  troviamo,  v.  gr.,  genitivi  assoluti  con  signi- 
ficazione di  locativi.  E  lo  stesso  latino  ci  porge,  come  bene 
osserva  il  Delbriick,  jm^is  e  Jin'e  considtus  o  pevitiis,  vale  a 
dire  tasati  promiscuamente  il  genitivo  e  l'ablativo,  ond'è  per  lo 
pili  in  latino  sintatticamente  rappresentato  il  locativo  ariano. 
Notisi  ancora  che  in  parecchie  lingue  arie  v'  ha  una  forma 


(i)  Op.  cit.,§  198,  voi.  i",  p.  432-33  della  vers.  fr. 

(2)  Benfey,  Kìlr^e  sanskrit-grammatick,  Leipzig,  i855,  §489,  p.  296. 

(3)  Spiegel  ,   Grammatik   der   altbaktrischen  sprache  ecc.,  Leipzig, 

1867,  p.  141.  —  HovELACQUE,  Grammaìre  de  la  langne  ^fetide.  Paris, 

1868,  p.  85. 

(4)  Scegliamo  alcuni  fra  i  molti  esempii  che  il  Delbriick  Op.  cit., 
I.  e.)  trasse  da  Omero,  offrendoli  ai  nostri  lettori  giusta  la  edizione  di 
Bekker  (Bonn,    i858): 

f)  oÙK  "Apyeoi;  rjev  'AxauKoO 

(Od.,T,  25i). 
oiVi  vOv  OÙK  èOTi  YuvìT  kot'  'Axaiòa  Tcitav, 
oìjTe  TTuXou  \ipf\c,  oOt'  "Apyeoc;  ouxe  MuKrivri<; 
[out'  aÙTr|c;  'IGókìic;  oùt'  riTreipoio  ueXaiviiq] 
(Od.,  q?,   107). 

XeXou.u€vo(;  'fìKeavolo 

(II.,  e,  6). 
xdujv  oì)  TTOTe  KapiTÒt;  àiTÓWuTai  oOb'  ÓTroXernei 

xeijuaxoQ  oOòè  eépeuq 

(Od.,  il,   117). 
Si  noti  ancora  V  ini  usato    assai  spesso  in  Omero    col    genitivo  (v. 
Kruger,  Griechische  sprachlehre ,  parte  2*,  capo  2",  §68,  40,  i-3, 
p.  168-69),  nientrc  lo  zendo  aipi  regge  il  locativo. 


-  112  — 
sola  pel  genitivo  e  pel  locativo  duale  (i).  Dello  scambio  che 
vedemmo  essere  avvenuto  in  latino  non  è  guari  difficile 
comprendere  la  natura  e  la  origine.  Già  De-Caix  de  Saint- 
Aymour  notò  l'affinità  esistente  fra  il  senso  di  posi:[ione 
fssa  in  un  luogo,  indicata  dal  locativo,  ed  il  concetto  di 
proprietà  espresso  dal  genitivo  (2):  e  Merguet  osservò  che, 
essendo  col  tempo  diventata  sempre  piiì  generale  la  signi- 
ficazione e  r  uso  del  locativo,  fu  adoperato  prima  soltanto 
alcune  volte  e  poi  sempre  piiì  spesso  anche  in  luogo  del 
genitivo,  sì  che  in  ultimo  ebbe  aspetto  di  una  seconda  forma 
di-questo  caso  e  come  tale  fu  usato-,  ma  siccome  due  forme 
col  medesimo  valore  erano  superflue,  così  il  linguaggio  ri- 
nunziò ad  una  di  esse  od  almeno  la  lasciò  in  disparte  tras- 
curata ,  e  quindi  prevalse  il  locativo  in  -J  presso  i  temi 
in  -a-,  -e-,  -0-  (1%  5"  e  2=*  deci.),  il  genitivo  in  -ts,  presso 
quelli  in  -z-,  -u-  ed  in  consonante  (3^  e  4"  deci.)  (3).  Così 
Merguet  :  noi  per  altro  ricordiamo  ai  nostri  lettori  che  i 
temi  in  -0-,  non  porgono  in  latino  alcun  esempio  di  un  arcaico 
genitivo  in  -h  (4). 

Ed  ora,  parendoci  di  avere  coi  fatti  ragionamenti  a  suf- 
ficienza dimostrata  non  impossibile  né  improbabile  né  strana 
la  sostituzione  del  locativo  singolare  al  genitivo  di  questo 
numero  nella  flessione  latina  dei  temi  nominali  in  -0-,  ci 
accingiamo  ad  esporre  altri  argomenti  dai  quali,  confidiamo, 
apparirà  provata  ai  nostri  lettori  la  realtà  di  tale  sostituzione 
e  la  necessità  di  ammetterla  ove  si  voglia  spiegare  scienti- 
ficamente il  preaccennato  genitivo  latino. 


(1)  SCHLEICHER,    Op.    cit..   §    257,    P-   ^l^'l • 

(2)  Op.  cit.,  p.   170. 

(3)  Op.  cit.,  p.  81. 

(4)  Intorno  al  valore   dei   casi  in   genere  v.  Heyse  ,  Sistema  della 
scienza  delle  lingue,  vers.  del  Leone,  Torino,  1864,  §  2i5,  p.  410-14. 


-  113  - 
Non  faremo  più  menzione  dei  già  citati  pretesi  genitivi 
singolari  in  -à-i,  -ae  della  prima  declinazione,  i  quali,  es- 
sendo (come  abbiamo  teste  veduto)  veri  locativi,  già  sareb- 
bero per  sé  soli  una  non  lieve  ragione  di  credere  tali  anche 
quelli  della  seconda,  per  la  stretta  connessione  che  tra  queste 
due  forme  della  flessione  nominale  latina  ci  si  manifesta. 
Ma  la  comparazione  del  latino  col  greco  e  col  ceho  ci  porge 
indizi  più  validi  ancora.  Ebel(i)  consegna  che  le  iscrizioni 
tessale  ci  offrono,  fatta  una  sola  eccezione  ("6p)Liao  xQoviou), 
dappertutto  forme  di  genitivi  singolari  in  -oi,  corrispondenti 
alle  latine  onde  investighiamo  la  generazione,  e,  come  queste, 
costrutte  col  suffisso  del  locativo  singolare  (2).  Né  voglionsi 
ommettere  i  locativi  Foìkoi,  Ttéboi  (Eschilo,  Prometeo,  272), 
TTuXoi-  in  7TuXoi-Tevr|(;  (II.,  p,  64,  e  vp,  3o3),  irav-oiKei,  a\Xu-i. 
A  questi  esempii  greci  si  possono  aggiungere  ancora  quelli 
che  ci  porgono  alcuni  avanzi  degli  antichi  idiomi  parlati 
nell'Irlanda  e  nella  Gallia  dai  Celti  (3).  E  senza  punto  var- 
care i  limiti  del  campo  latino,  noi  chiederemo  ai  nostri  let- 
tori se  i  pretesi  genitivi  in  -J  onde  si  tratta  possano  venire 
disgiunti  dalle   forme  con  pari  desinenza  e    derivate  anche 


(i)  Art.  cìt. 

(2)  V.  Ahrens  ,  De  graecae  linguae  dialectis ,  Gottingae,  1839-43, 
lib.  i",  p.  221  ;  lib.  2°,  p.  529.  Non  a  ragione,  giusta  il  parere  di  Ebel 
ed  il  nostro,  l'insigne  ellenista  si  mostrò  inclinato  a  considerare  queste 
forme  in  -01  come  genitivi  in  -010,  i  quali  avrebbero  perduto  l'-o  finale: 
che  non  sapremmo  davvero  quali  esempii  si  potrebbero  addurre  a 
sostegno  di  questa  ipotesi  (v.  Gruger,  Griechische  sprachlehre,  4'  ed., 
Berlin,  1861-71,  2»  parte,  capo  i",  §  16,  i,  e  §  (2,  3,  3,  p.  37  e  21).  E 
crediamo  essersi  apposto  in  fallo  anche  Duntzer  {Die  iirspriingUchen 
casus  im  griechischen  iind  lateinischen ,  nella  ZeitscJirift  di  Kuhn, 
voi.  17,  p.  47)  nel  voler  scorgere  come  fece  nell'  -01  finale  di  queste 
forme  un  rappresentante  tessalico  del  dittongo  ou:  della  quale  opinione 
manca  evidentemente  ogni  prova,  che  nessuno  certamente  ammette- 
rebbe come  tale  il  tess.  ui  per  ou  nella  declinazione. 

(3)  V.  Stokes  nei  Beitrage  ::fur  vcì'gleichenden  sprachforschimg  ecc., 
voi.  1°,  p.  334.  —  Schleicher,  Op.  cit.,  §  252,  p.  5Go. 


-  lU  - 
esse  da  temi  in  -o-,  le  quali  sono  veri  locativi,  come  lo  stesso 
Corssen  confessa  (i):  v.  g.  Corinihì,  supposto  genitivo  (col 
senso  -di  Corinto-),  da  Corinthi^  locativo  {-  in  Corinto-)  (2)  ;, 
quinti^  così  detto  genitivo  (-del  quinto-),  da  quinti  che  il 
dotto  glottologo  riconosce  essere  locativo  in  die  quinti , 
tee.  (3).  Indi  appare  chiaramente  quanto  sia  assurdo  quel 
precetto  della  grammatica  empirica,  secondo  il  quale  i  nomi 
singolari  appartenenti  alla  prima  ed  alla  seconda  declinazione 
si  debbono,  quando  vuoisi  con  essi  esprimere  stato  in  luogo, 
adoperare  nel  caso  genitivo^  mentre  s^  insegna  ad  usare  in 
ablativo  quelli  della  terza  e  della    quarta   (4):  indi   appare 


(i)  Op.  cit.,  voi.   i",  p.  775.  ' 

(2)  Aggiungi  humi,  domi,  belli  domlque.  V.  Meyer  ,  Vergleichende 
darstellung  ecc.,  p.  45. 

(3)  A  questi  locativi  in  i  {quinti,  nomi,  crastini,proximi,  prìstini  con 
die),  usati  come  avverbii  di  tempo  futuro,  giusta  il  Bergk  {Beitr'dge 
^iir  lateinischen  grammatik,  capo  i",  Halle,  1870,  exc.  1",  p.  143-46), 
se  ne  potrebbero  aggiungere  altri  in  -e,  v.  g.,  quarte  ,  quinte  (in  die 
quarte ,  die  quinte) ,  i  quali  hanno  comune  l'origine  coi  precedenti. 
Che  tutte  le  varie  forme  del  locativo  singolare  latino  dei  temi  in  -0- 
traggono  origine    da   una  fondamentale  in  -o-T  (=gr. -0-1=  ant.  ind. 

-è=z  ar.  -a-i)  che  divenne  -ce  (v.  gr.  in  poploe pilumnoe)  ed  -ei,  dittongo, 
onde  provennero  -7  {populi  ecc.)  ed  -ei,  suono  intermedio  tra  i  ed  é 
{quarte, quinte  cit.).  In  senso  di  locativo  può  forse  essere  stata  adoperata 
anche  la  voce  animi  nel  lucreziano  nec  me  animi  fallii  {De  rerum 
natura,  I,  iSy,  922,  e  V.,  97).  V.  per  altro  Holtze,  Sj^ntaxis  luci'etianae 
lineamenta,  Lipsiae,   1868,  p.  46-9. 

(4)  «  Ablativus  habitus  {Locativus).  Pertinent  huc  primum  reliquiae 
formae  locativi,  genitivos  dico,  qui  esse  videntur,  sed  non  sunt,  nomi- 
num  urbium  et  insularum,  deinde  domi,  ruri,  adverbia  hic,  illic,  istig 
peregri.  Quod  autem  ad  illos  genitivos  attinet,  impugnandum  est  hoc 
loco  praeceptum  illud  obsoletum  antiquiorum  grammaticorum,  quod 
comparatione  demum  linguarum  nostris  temporibus  deligentissime  insti- 
tutatam  luculentis  argumentis  expulsum  est,  ut  redire  numquam  possit, 
hoc  dico,  urbium  nomina,  si  primae  vel  secundae  declinationis  sint 
numero  singulari,  in  genitivo,  sin  sint  tertiae  declinationis  vel  pluralis 
numeri,  in  ablativo  poni.  Cuius  praecepti  si  quaerimus  quae  causa  ex 
ratione  petita  esse  possit,  frustra  anquires  et  circumspicies  nullam  in- 
venies.  Immo  prò  ablativo  loci  geniyvus  harum  vocum  poni  nusquam 


—  115  - 
quanto  sia  urgente  mondare  i  nostri  ginnasii  e  licei  da  certi 
pregiudizi  troppo  indegni  della  scienza  contemporanea , 
affinchè  non  si  continui  a  violare  i  sacri  diritti  delle  intel- 
ligenze giovanili  e  più  non  avvenga  che  Tuomo  di  scienza, 
allorquando  entra  in  certe  scuole,  si  senta  spinto  a  piangere 
di  compassione  od  a  sogghignare  di  sprezzo. 

Torino,  agosto  1872. 

Domenico  Pezzi. 


"DI   C7C^C   qARTICOLO    "PLEONASTICO 

DELL'ANTICO  PROVENZALE 


Se  le  favelle  romaniche,  dette  dal  Littré  alla  dantesca 
novo-latine  ,  non  conservarono  tutta  la  ricchezza  gramma- 
ticale del  latino  da  cui  si  svolsero ,  nulla  meno  assunsero 
alcune  nuove  forme  assai  importanti,  e  precipua  è  quella 
dell'articolo,  ad  imitazione  del  greco  e  del  celtico,  ma  al  cui 
proposito  disse  Quintiliano  :  noster  sermo  articulos  non 
desiderai  [De  istitiit.  orator.,  I.  4). 

Però  Tutilità  dell'articolo,  e  specialmente  delPariicolo  defi- 
nito, dirò  coll'egregio  filologo  inglese  Cornvall-Lewis  (i),  è 


potuit,  sed  fuit  antiquissimis  temporibus  in  lingua  latina  harum  vocum 
in  singulari  casus  locativus  in  i  desinens  ab  ablativo  diversus  (ut  videmus 
etiamnum  ex  formis,  quales  sunt  ////,  Sicyoni,  Carthagini,  Acheruitti, 
niri,  peregri)  qui  casus  in  nominibus,  quae  sequuntur  primam  et  se- 
cundam  declinationem,  forma  a  genitivo  non  fuit  diversus  (velut/^o??2ai, 
Ephesi)  et  postca  quoque  permansit,  quum  in  tertiac  declinationis 
nominibus  posterioribus  temporibus  prò  eo  ablativus  poneretur  ». 
HoLTZE,  Syntaxis  priscorum  scriptoriim  latinarum  usque  ad  Teren- 
tium,  Lipsiae,  1861-62,  voi.  i",  p.  66-7. 

(i)  An  essay  on  the  origin  and  formation  of  the  romance  languages, 
London,  1862,  p.54. 


iminile 

la 

id. 

la 

id. 

la. 

il 

id. 

la 

id. 

a 

id. 

a 

-  116  - 
così  ovvia  da  non  recar  maraviglia  se  s'introdusse  gradata- 
mente nelle  lingue  -,  quindi  tutti  gl'idiomi  novo-latini,  senza 
eccezione  veruna,  lo  accolsero,  traendolo  dai  pronomi  ille, 
illa,  ed  ipse,  ipsa  (i),  il  primo  de'  quali  era  già  stato  ado- 
perato ad  uso  d'articolo  dallo  stesso  Cicerone  qualche  rara 
volta,  ma  di  frequente  poi  negli  atti  dei  primi  secoli  del 
medio-evo. 

Giovi  metterci  sott'  occhio  il  quadro  delle  trasformazioni 
fonetiche  patite  da  que'  pronomi  nel  diventare  articoli  delle 
lingue  romaniche  : 

il,  lo 

eh  lo  (2) 

el,  lo 

le 

0  (3) 

ul,  le  (4) 


(i)  Anche  il  tedesco  e  l'olandese  trassero  l'articolo  dal  pronome 
personale  gotico,  come  l'inglese  dall'  anglo-sassone  ed  il  bulgaro  dal 
paleoslavo. 

(2)  Lo  nello  spagnuolo  è  adoperato  solo  per  la  declinazione  degli 
aggettivi  quando  non  accompagnati  da  sostantivi. 

(3)  Il  portoghese  adopera  l'articolo  el,  castellano,  soltanto  innanzi 
al  nome  Re. 

(4)  La  nuova  grafia  rumana  sostituita  alla  cirillica  diede  origine  a 
due  sistemi,  l'uno  alquanto  fonetico  in  grazia  di  molti  segni  posti  sotto 
o  sopra  alle  lettere;  l'altro  strettamente  etimologico  senza  verun  segno 
ed  è  quello  ammesso  in  Transilvania  per  ordine  della  commissione 
professionale  del  2  ottobre  1860,  e  premiato  dall'Accademia  di  Bucu- 
resci  il  27  settembre  1867;  sistema  che  raddoppia  le  difficoltà  per 
imparare  a  leggere.  Secondo  il  primo  l'articolo  scrivesi  Iti ,  la  breve 
indicando  che  la  11  è  muta;  secondo  l'altro  bisogna  sapere  che  la  ic  in 
lu  non  si  pronunzia. 

Io,  a  vece,  colle  grammatiche  di  Klein  (1780),  Molnar  (1810),  Mar- 
chi (1828),  Alexi  (1826),  Blazewitz  (1844),  Mircescu  (i865)  ri- 
conosco III  per  articolo  ,  e  ciò  perchè  tutti  i  nomi  maschili  rumani, 
(eccetto  quelli  che  nell'ultima  sillaba  hanno  le  consonanti  geminate  cr, 
gr,  tr,fl,  e  la  vocale  i)  non  escono  in  u,  e  se  oggi  lo  si  scrive  non  si 


Italiano 

maschile 

Spagnuolo 

id. 

Provenzale 

id. 

Francese 

id. 

Portoghese 

id. 

Rumano 

id. 

—  117  - 

Le  cinque  romaniche  occidentali  antepongono,  ma  stac- 
cato, r  articolo  al  nome  -,  la  sesta,  orientale,  lo  suffigge,  al 
modo  stesso  dell'albanese  e  del  bulgaro. 

Dal  pronome  ipse  ,  ipsa  trassero  T  articolo  soltanto  due 
dialetti,  cioè  quello  della  Sardegna  meridionale  e  quello  delle 
isole  Baleari,  il  quale  per  altro  ha  anche  gli  articoli  e/,  es 
e  lo  maschili,  e  la  femminile. 

Sardo  maschile    su        femminile     sa 

Mallorquino      id.      »    50  id.  sa 

Ma  il  provenzale,  limosino,  occitanico,  catalano  o  idioma 
dei  Trovatori  che  dir  si  voglia,  ebbe  ancora  un  altro  tutto 
speciale  articolo,  di  soventi  pleonastico,  limitato  al  singolare, 
che  fu  ,  a  parer  mio  ,  malamente  interpretato  da  quanti  si 
occuparono  di  questa  lingua  dal  Barbieri  nel  secolo  XVI  al 
Nannucci  nostro  contemporaneo. 

Se  ai  più  ciò  si  può  condonare,  non  lo  si  può  al  celebre 
Raynouard ,  che  spese  tutta  la  sua  vita  ad  illustrare  la 
storia,  la  lessigrafia  e  la  grammatica  della  lingua  dei  tro- 
vatori. Nobili  fatiche  che  pubblicò  in  dodici  grossi  volumi 
editi  in  Parigi  dal   1816  al   1844. 

Egli,  al  pari  del  catalano  Basterò  {Crusca  Proveuiale  ^ 
Roma  1724),  trovando  di  soventissimo  preposto  ai  nomi 
proprii  maschili  il  monosillabo  en ,  ed  ai  femminili  na  ,  li 
registrò  come  significanti  una  qualità  gentilizia  e  nel  suo 
Di'^ionario  occitanico  vi  pose  a  riscontro  k  Signore  e  Si- 
gnora ».  Prima  di  lui  il  teste  citato  Basterò  e  dopo  di  lui 


pronunzia  e  non  se  ne  tien  conto  nella  misura  del  verso  ;  quell'  iti 
adunque  è  il  vero  articolo,  ed  ha  1'»  sonora.  Nelle  voci  finienti  in  11 
sonoro  si  riduce  al  mero/  come  in  italiano  lo  innanzi  a  vocale,  quindi 
ochiid,  non  ochiulu. 

Il  Cihac,  nel  suo  bel  vocabolario  etimologico  del  Daco-Rumano 
(Francoforte  1870),  sfidando  l'ultralatinismo  dei  suoi  concittadini,  re- 
gistra i  vocaboli  senza  quella  u  finale  muta,  dando  così  ottimo  esempio. 
Notisi  che  l'articolo  le  si  suffigge  ai  soli  nomi  maschili  uscenti  in  e. 

'Rivista  di  filologia  ecc.,  I  9 


-  118  - 
Honnorat  e  Cenac-Moncaut  (i)  asserirono  essere  na  aferesi 
di  Dona,  titolo  in  uso  anche  ot^gidi  nelP  aristocrazia  spa- 
gnuola,  e  quanto  allVw,  dal  Perticari  e  dal  Galvani  tradotto 
sire  e  ser,  V  Honnorat  lo  pretende  una  stranissima  aferesi 
di  mosseti ,  che  in  occitanico  e  catalano  vale  il  francese 
monsienr,  essendo  composto  del  pronome  possessivo  tìios  e 
dal  nome  senh  (signore)  colla  perdita  dell'  h  afona  finale. 

Il  più  grande  investigatore  degl'idiomi  romanici,  il  sommo 
Dìez  nel  suo  Eiymologisches  wórierbuch  (Bonn,  1869,  3' 
ediz.)  alla  voce  Donno  riconosce  en  per  abbreviazione  di 
dom-en  per  dom-in  e  na  per  quella  di  dom-na.  Malgrado 
tutto  il  mio  ossequio  per  quel  gran  filologo ,  io  credo  che 
gli  sia  sfuggito  il  passo  del  libro  che  citerò  qui  appresso,  ed 
ho  fiducia  che  non  se  ne  adonterà,  ricordevole  come  sono  di 
quanto  scrisse  al  sig.  Gaston  Paris  e  che  questi  stampò  nell'in- 
troduzione alla  sua  versione  francese  del  primo  libro  della 
stupenda  grammatica  comparata  delle  lingue  romaniche. 

Che  quellV;/  e  quella  na  non  siano  titoli  onorifici,  il  Ra}^- 
nouard  poteva  arguirlo  da  questo  solo  verso  di  Pons  de 
Capdeuil  da  lui  riferito  a  pagina  i32  del  voi.  I  del  Cìioix 
des  poésies  des  Troubadours  : 

Pues  morta  es  ma  dona  N' A:{alais 

ed  egli ,  per  evitare  di  ripetere    il   titolo   gentihzio ,  lo  tra- 
dusse così: 

Depuis  que  morte  est  ma  dame  A^alais  (2) 


(i)  Dictionnaire  proven^al-francais  ou  de  la  langue  d'oc.  Digne  1846. 
—  Dictionnaire  gascon-francais.  Parigi  1867  (ad  voc). 

(2)  Raynouard  doveva  tradurre  non  ma  dame,  ma  madame^  perchè 
ivi  quel  ma  perdette  il  valore  di  pronome  possessivo,  come  il  mon  in 
monsieur  e  monseigneur.  Basterò,  già  citato,  stampò  nella  sua  Crusca 
provenzale  madompna  tutt'unito,  come  lo  scrivevano  nel  3oo  gl'italiani. 
Una  prova  che  quel  ma  non  significa  mia  ce  la  porge  la  crestomazia 
del  già  nominato  Dr.  Bartsch  ;  in  essa  leggesi  a  pag.  23 1  :  •<  en  la  sua 
contrada  avia  una  dompna,  que  avia  noni   ina  dompna  Soremunda  ». 


-  119  - 

Che  r  en  non  fosse  un  titolo  gentilizio  lo  dimostrano 
eziandio  due  testi  pubblicati  dal  Bartsch  nella  sua  Chresto- 
mathie  provengale  (Elberfeld  1868)  in  uno  de'  quali  si  legge: 

En  semblan  del  gran  sign  N'  Adam 
ed  in  un  altro  en  Romeiis  ;  chi  tradurrebbe  sire    Adamo  e 
don  Romeo? 

Non  ravvisandolo  un  titolo  l'abate  Zannoni,  Accademico 
della  Crusca,  in  nota  al  Tesoi^etto  e  Favoleito  di  Brunetto 
Latini  da  lui  ridotti  a  miglior  lezione  (Firenze  1824),  fa 
sua  la  spiegazione  data  dal  Redi  nelle  annotazioni  al  Di- 
tirambo, cioè  che  «  nella  lingua  provenzale  ad  alcune  voci 
«  che  cominciano  per  vocale  era  costume  di  aggiungere  in 
«principio  la  lettera  n,  come,  per  es.,  invece  di  Ugo  di- 
«  cevasi  Nuc  »;  eppure  all'accademico  Zannoni  non  dovevano 
essere  sconosciuti  Barbieri ,  Basterò  e  Raynouard  ,  che 
almeno  intendevano  quella  n  in  modo  non  così  strano. 

Se  agl'italiani  indagatori  delTidioma  occitanico  potè  esser 
ignoto  il  Trattato  grammaticale  e  rettorico  compilato  nel- 
r  anno  i356  da  Molinier  col  curioso  titolo:  Las  flors  del 
gay  saber ,  estier  dichas  las  leys  d'  amors ,  non  lo  fu  al 
Raynouard,  che  fece  spoglio  dei  suoi  vocaboli  e  lo  citò  nel 
suo  lessico  romanico  (vedi  al  vocabolo  habitiit:{). 

Il  signor  Gatien-Arnoult  pubblicò  nel  1849  il  codice  eh'  è 
nella  biblioteca  di  Tolosa,  accompagnando  il  testo  con  accu- 
rata versione.  Or  bene,  in  quei  codice  (voi.  II,  pag.  126) 
si  legge  aver  l'occitanico  «  articoli  onorevoli  {habitiit-{  hono- 
«  rablas)  e  sono  e;z,  na^  an,  come  en  Jacmas,  na  Hiiga^  con 
«  cui  si  fa  onoranza  alla  persona  di  cui  si  parla,  ma  si  pre- 
ce pone  eziandio  a  nomi  comuni,  come  en  fìguiers,  en  lebriers 
«  e  persino  a  nomi  d'  animali  come  en  colomb  ,  en  marti 
(i{VAlcedo  hispida,  L.)  ciò  ch'è  uso  sconveniente;  per  altro 
((  siamo  avvezzi  a  tollerarlo  »  [empero  quar  es  acostnmat  ho 
siifertam). 


—  120  - 

Il  codice  mi  pare  si  spieghi  abbastanza  chiaro  ,  eppure 
il  signor  Gatien-Arnoult  inserì,  dopo  Yen  e  na^  tra  due  pa- 
rentesi, ììionsieiir,  madame,  e  sì  che  a  pagina  j  07  al  §  Do- 
ctrina  daqiiestas  dictio  senhor^  già  trovasi  scritto  :  «  talvolta 
«  tra  il  titolo  signore  ed  il  nome  proprio  si  colloca  l'articolo 
((  en  [algunas  ve^  eritrei  senh  ci  propi  nom  es  aquesta 
«  habitut:{  en)  ». 

Dopo  ciò  come  mai  Raynouard  e  successori  hanno  potuto 
avere  que'  due  monosillabi  per  titoli  ?  e  reca  sorpresa  che  il 
dottore  Bartsch,  già  nominato,  sebbene  conosca  Las  Jlors  del 
gay  saber  e  ne  abbia  inserito  nella  sua  Chrestomatìiie  pa- 
recchi squarci,  e,  per  essere  tedesco,  sia  accurato  filologo, 
abbia  pur  esso  errato  traducendo  en  con  f)crr  e  na  con  frou. 

I  dialetti  valgono,  com'  è  noto,  alle  indagini  filologiche  , 
ed  eccone  una  prova  novella.  Nessuno  dei  dialetti  della 
Francia  meridionale ,  della  Catalogna  ,  Murcia  e  Valenza 
possiede  queir  articolo  en  ,  na;  bene  lo  ha  il  mallorquino. 
Nella  grammatica  di  quel  volgare  compilata  dal  sig.  Amen- 
guai  e  stampata  a  Palma  nel  i835  si  legge:  «  Los  arti- 
«  culos  en  y  na  solo  preceden  al  singular  de  los  nombres  de 
«  persona,  comò  :  en  Juan,  na  Maria  ;  impropriamente  pre- 
«  ceden  al  deciertos  animales  de  nuestro  immediato  servicio, 
«  comò:  en  ros,  na  biava  ». 

Uguali  spiegazioni  ci  porge  il  Figuera  nel  suo  Dicionari 
Mallorqiii-castella  (Palma  1 840)  -,  ignaro  del  valore  di  en 
in  antico  dice:  «  antepost  al  nom  propi  era  lo  mateis  que 
senor  o  don,  y  are  el  )>,  cioè:  ora  vale  l'articolo  el.  A  na 
più  non  sale  al  passato,  scrivendo  soltanto  «  Artide  femmi- 
nini en  singular  y  se  anteposta  al  nom  propi  de  dona , 
còm,  na  Maria  ». 

Dopo  quanto  venni  sponendo,  spero  aver  convinti  i  cor- 
tesi lettori  della  vera  natura  di  quelle  particelle  occitaniche, 
epperò  ben  si  era  apposto  il  Biondi,  il  quale  nelle  note  alla 


—  121  — 
canzone  di  Rambaldo  da  Viguerasso  da  lui  edita  in  Roma 
(1840,  p.  117)  asserì  che  taluno  le  aveva  considerate  come 
articoli.  Gli  spagnuoli  e  noi  nel  linguaggio  famigliare  usiamo 
dire:  la  Giovanna,  la  Teresa^  però  in  quanto  agli  uomini 
preponiamo  V  articolo  al  nome  di  famiglia ,  e  diciamo  :  il 
Petrarca,  non  il  Francesco,  il  Colombo,  non  il  Cristoforo, 
il  Tasso,  non  il  Torquato  ,  sebbene  dicasi  il  Michelangelo 
come  il  Buonarroti. 

Da  qual  pronome  latino  derivino  questi  en  e  ita  è  diffi- 
cile a  conietturare.  Forse  un  celtista  sarebbe  tratto  a  deri- 
varlo dall'articolo  celtico,  giacché  in  Zeuss  (Grammatica  cel- 
tica, t.  I,  p.  229,  Gottinga  i853)  si  legge  che  nel  vetusto 
ibernio  la  radice  delT  articolo  è  7Z  è  le  forme  plenarie  in , 
Ita,  an,  nan.  Soggiungerei  che  negli  idiomi  celtici  oggi  vi- 
venti r  articolo  è,  neir  irlandese  e  nel  gaelico  an,  nel  bret- 
tone ami,  nel  gallese  e  manxese  yn  (nell'antico  kimrico  era 
/?').  Notisi  per  altro  che  Tarticolo,  giusta  la  lettera  iniziale 
del  nome  a  cui  precede ,  muta  in  gaelico  la  n  in  m  e  nel 
brettone  in  r.  Nel  gallese  e  manxese  dinanzi  a  vocale  la 
n  si  ecclissa. 

Sarebbe  eziandio  a  considerarsi  che  ai  tempi  d'Erodoto  la 
Gallia  meridionale  e  Tlberia  settentrionale  furono  ugualmente 
abitate  da  genti  celtiche  (oltre  i  Pirenei  dette  celtibere)  e 
che  debbono  quindi  aver  avuto  uno  stesso  idioma,  epperò 
potersi  supporre  che  1'  en  paleo-provenzale  derivi  dall'  arti- 
colo celtico,  il  quale  nell'ibernico  preponevasi  anche  ai  nomi 
proprii.  lo,  per  altro,  non  filologo,  lascierò  tali  indagini  a 
coloro  che  sono  addentro  nella  scienza  etimologica,  pago  di 
aver  rettificata  V  interpretazione  di  due  vocaboli  di  quella 
lingua  de'  trovatori  che,  a  detta  del  Bembo,  Salvini,  Sal- 
viati  ed  altri  molti ,  ebbe  grand'  influenza  nell'  italiano  del 
trecento, 

Torino,  agosto  1872. 

Vegezzi-Ruscali^a. 


-  122  - 
DI  U^'ISC%IZIONE  G%AFFITA 

NEL  MUSEO  D'ANTICHITÀ  DELL'ATENEO  TORINESE 


Quando  alcuni  anni  fa  impresi  ad  esaminare  le  anti- 
caglie con  iscrizioni  conservate  nel  ricco  Museo  regio  di 
Torino,  mi  meravigliai  di  trovarvi  un  certo  numero  di  vasi 
d'argento,  evidentemente  appartenenti  ad  un  medesimo  te- 
soro ,  sebbene  nessuna  notizia  ci  sia  pervenuta  né  sul 
luogo,  né  sull'epoca  del  ritrovamento,  curiosi  non  solo  per  i 
disegni,  con  cui  sono  in  parte  fregiati,  ma  anche  per  le  iscri- 
zioni graffite  osservabili  quasi  in  tutti.  Allora  erano  inediti. 
Testé  il  chiarissimo  prof.  A.  Fabretti  ha  supplito  a  questa 
mancanza  inserendo  queste  graffite  nel  Primo  supplemento 
alla  7'accolia  delle  antichissime  iscrizioni  italiche^  dove  si 
trovano  rapportate  a  p.  8  e  9,  n°  1 3-20  e  disegnate  nelle  tavole 
16  2.  Tutta  volta  non  so  per  quale  strana  combinazione  sia 
sfuggito  al  benemerito  collega  il  piccolo  vaso  n°  534,  che, 
se  è  il  più  piccolo  di  tutti,  porta  però  riscrizione  più  lunga 
e  più  interessante.  I  caratteri  a  chi  abbia  ì'  occhio  eserci- 
tato a  tali  scritture  non  presentano  difficoltà  e  chiaramente 
si  legge  scritto  in  tre  righe  sulla  parte  esteriore  del  manubrio 
abbastanza  lungo: 


/ 

ossia:  MAXSIMO  ET  VRBANO  COS: 

PRI  •  KAL  •  lAN   •  ACCIPET  VERINVS 
X  XIIS 


—  123  - 

Si  badi,  che  secondo  le  leggi  di  questa  scrittura,  bene  svi- 
luppate dallo  Zangemeister  nel  quarto  volume  del  Corpus 
inscripiionum  latinarum,  le  lettere  K  et  L  di  Kal.  et  ||  et  R 
di  VERINVS  sono  intralciate  fra  loro.  Che  cosa  voglia  dire 
questa  annotazione,  non  è  evidente,  tanto  piiì  che  T  ACCIPET 
(così  si  legge)  può  prendersi  sia  per  accepit^  sia  per  accipiet; 
la  prima  di  queste  spiegazioni  peraltro  parmi  la  più  semphce. 
Fra  le  molte  conghietture  possibili  riguardo  alla  relazione  dei- 
riscrizione  col  vasetto  istesso  preferirei  questa,  che  il  proprie- 
tario di  esso.  Verino,  Tabbia  impegnato  a  qualcheduno  per 
la  somma  di  denari  (ossia  lire)  dodici  e  mezzo,  e  che  per 
fissare  la  somma  ricevuta  da  lui  e  la  data  dell'impegno  si  sia 
scritta  questa  nota  sul  vaso  istesso.  Comunque  sia  (e  certa- 
mente altri  preferirà  combinazione  diversa  di  affari  parti- 
colari naturalmente  a  noi  sconosciuti  e  nascosti),  V  impor- 
tanza deiriscrizione  non  sta  nella  spiegazione  materiale  del 
contenuto,  ma  nella  data  che  è  ben  certa  e  chiara,  cioè  il 
3i  dicembre  dell'anno  284  dell'era  volgare.  L'iscrizione 
dunque  e'  insegna  ad  un  dipresso  anche  1'  epoca  delle  sue 
compagne,  e  dimostra  che  tutte  sono  di  più  di  mezzo  secolo 
posteriori  alle  famose  tavole  cerate  scoperte  nelle  miniere  di 
oro  della  Dacia  e  che  perciò  possono  servire  come  un  buon 
saggio  della  scrittura  corsiva  del  secolo  terzo.  Questo  non 
sia  detto  per  rimproverare  l'editore  di  averle  ammesse  fra 
le  antichissime,  imperocché  nessuno  dubiterà  che  le  abbia 
fatte  rappresentare  nelle  sue  tavole  soltanto  per  la  loro  dif- 
ficoltà e  per  la  loro  curiosità.  Era  sempre  evidente  che  co- 
tali  graffiti  appartenevano  all'epoca  imperiale  avanzata  \  ma 
nondimeno  una  data  certa  era  assai  da  desiderare. 

Potrei  aggiungere  altre  osservazioni  sulle  lezioni  de'  piccoli 
vasi  pubblicati  dal  Fabretti  :  ma  alla  Rivista  filologica  non 
è  lecito  ingolfare  i  suoi  lettori  nelle  minuzie  pur  troppo 
aride  dell'  epigrafia.   Lasciando   dunque  da  parte  quei  graf- 


—  124  — 
fili,  che  come  al  solito  non  contengono  se  non  nomi  proprii, 
accennerò  il  solo  n.  14  del  Fabretti,  ch'egli  legge: 

MARINIA  A  POPPINO  (?) 
....PIA 
mentre  io  vi  lessi  : 


cioè:  MARINIA  ....  ALLO  EMPTA- 

Il  nome  del  venditore  mi  rimase  dubbio  ,  tanto  più  che 
un  nome  somigliante  pare  ripetersi  sopra  altri  di  questi 
piccoli  vasi-,  la  lettera  ottava  forse  è  il  B  di  questo  alfabeto, 
siccome  apparisce  chiaramente  nel  n.  iG'^  del  Fabretti,  dove 
ciò  che  egli  ha  letto  L  TILLINI  è  effettivamente  BELLINI. 
Forse  anche  i  segni  che  seguono  X.  V  si  hanno  da  congiun- 
gere aìVemptcì^  leggendosi  empta  denariis  quinque  :  peraltro, 
quando  esaminai  Toriginale,  mi  parvero  piuttosto  di  mano 
diversa. 

Chiudo  questa  breve  notizia  rendendo  le  debite  lodi  allo 
zelantissimo  editore  di  queste  curiose  antichità  ed  esortando 
que'  dotti,  che  hanno  agio  di  studiare  gli  originali,  a  ripren- 
derli in  mano  ed  a  stabilirne  definitivamente  la  lezione.  Chi 
conosce  questa  classe  di  monumenti,  sa  per  esperienza,  che 
leggendoli  facciamo  tutti  come  i  bambini ,  cioè  impariamo 
a  camminare  barcollando. 


Berlino,  settembre  1872. 


Teodoro  Mommsen. 


125 


DUE    VARIANTI 

qALLA  satina  "DI  SULTICIA 


Nella  prima  dispensa  della  Rivista  di  filologia^  il  dotto 
e  cortese  amico  mio,  prof.  Giovanni  Flechia,  pose  innanzi 
le  ragioni  per  cui  è  lecito  dubitare  della  sincerità  della  sa- 
tira della  poetessa  Sulpicia  e  pende  alquanto  verso  T opi- 
nione di  I.  C.  G.  Boot  che  attribuisce  ad  un  ignoto  quat- 
trocentista italiano  Tinvettiva  della  moglie  di  Galeno  contro 
Domiziano.  Mi  consta  che  il  valoroso  olandese  ha  in  animo 
di  ritornare  sopra  codesto  argomento  ;  allora  verrà  in  ac- 
concio di  chiamare  a  nuova  disamina  la  questione,  se  ve- 
ramente debbasi  tenere  per  apocrifo  T  unico  monumento , 
qualunque  ei  siasi,  che  a  noi  rimanga  della  poesia  femmi- 
nile Romana. 

Oggi  vorrei  solamente  proporre  due  varianti  che  sanano, 
a  mio  avviso,  due  luoghi  tormentatissimi  del  testo. 

Al  verso  36:  Non  trabe  sed  dorso  prolapsus,  io  inter- 
pretai trabe  per  lancia-,  cioè:  Domiziano  non  si  affatica, 
non  si  travaglia  nelle  armi,  ma  se  ne  sta  sdraiato  ecc.  Se 
non  che  un  amico  mio  congettura  che  il  luogo  sia  guasto. 
Si  potrebbe  perciò  leggere  :  Niinc  trabea  et  dorso  prolapsus. 
Il  senso  corre ,  la  dizione  si  veste  di  eleganza.  Gosì  Vir- 
gilio, Georg.  II,  192:  pateris  libamus  et  auro. 

Al  verso  26,  che  nella  edizione  principe  di  Venezia  del  1498 
suona:  Languet  et  immota  secum  virtute  fa  cessi  t,  io 
leggeva:  Languet,  at  immota  serus  virtute  faccssit ,\q\q 
a  dire:  fatigatus  quidem  sed  immota  virtute  e  stadio  fa- 
cessit ,  discedity  abit.  Ma  neppure  questa  lezione  mi  torna 


-  126  - 
né  torna  all'  amico  mio  innominato.  Perciò  sulle  orme  di 
N.  Einsio  è  da  scriversi  scniiim  in  luogo  di  seciim  e  inter- 
pretare facessit  per  removere  ,  repellere,  che  ha  pure  così 
fatto  significato.  Il  concetto  per  tal  guisa  diviene  chiaro  ed 
onorevole  pei  Romani,  quale  volevalo  la  poetessa:  nti  victor 
olympìciis  immota  virtute  seniiim ,  cessationem  ,  otium 
repellit,  sic  Romana  pubes  ecc. 

Colgo  in  ultimo  l'opportunità  di  notare  che  apiiim  domiis 
arce  moveniur  del  verso  53  non  pecca  contro  la  quantità 
come  dubitò  il  Flechia,  perchè  qui  domiis  non  è  plurale  , 
ma  singolare.  Apium  domus  è  nome  collettivo  e  domanda 
così  Tuno  come  l'altro  numero.  Il  che  del  resto  appariva 
evidente  dalla  Animad.XV,  dove  lodasi  la  congettura  apium 
domus  arda  moventur.  Naturalmente  arda  non  poteva  ap- 
partenere al  numero  del  più  (i). 

Roma,  agosto  1872. 

Domenico  Carutti. 


PARTE  PRESA  NEL  CONSIGLIO  DE'  PREGADI  IN  VENEZIA 
INTO'F^NO  Q^GLI  S7U1>II  "BELLE  "BELLE  LETTELE 


Quando,  anni  or  sono,  percorsi  i  volumi  della  ricca  col- 
lezione di  leggi  che  sotto  il  titolo  di  Capitolare  de  cinque 
savij   alla  mercatantia  si  conservano    nel  celebre  Archivio 


(ì)  La  congettura  ci-tata  dal  Carutti  nsWAnimadv.XV è  riportata  come 
segue:  prò  arce  ingeniose  Tommaseiis  conjecit  arcta,  cwz  respondet -zb 
convenit;  e  nulla  più.  Come  ognun  vede,  da  questo  luogo  non  sarebbe 
da  inferirsi  che  domus ,  accoppiato  con  un  moventur  solo  nella  va- 
riante proposta  dal  Carutti,  non  possa  assai  ovviamente,  comportandolo 
il  senso,  prendersi  per  plurale. 

G.  F. 


—  127  — 
di  Venezia,  fra   altri    documenti  delia  civile  sapienza   della 
repubblica  ne  trovai  anche  uno  che  si  occupa  direttamente 
deirinsegnamento  superiore  e  delle  belle  lettere,  e  come  tale 
mi  parve  meritevole  d'essere  conosciuto. 

Cultore  delle  filologiche  discipline,  insegnante  delle  lingue 
classiche  ,  umanista  com'  io  sono  ,  non  potei  resistere  alla 
tentazione  di  trascriverlo,  sebbene  allora  fossi  occupato  di 
ben  altre  ricerche,  e  lo  pubblico  ora  nella  nuova  rivista  filo- 
logica italiana,  sembrandomi  che  la  nobile  idea,  che  informa 
la  deliberazione  dei  Pregadi,  abbia  anche  oggi,  come  trecento 
anni  fa,  il  suo  valore,  perchè  vera,  e  perchè  quant'  allora  fu 
detto  per  Venezia,  ha  il  suo  valore  per  l'Italia  d'oggi,  come 
per  tutti  gli  altri  paesi  civili,  che  tutti  insieme  tanto  ancor 
possono  imparare  pel  loro  vivere  civile  dalle  vecchie  carte  che 
ci  hanno  lasciati  i  reggitori  della  antica  regina  deirAdriatico, 

Forse  alcuno  sogghignerà  alquanto,  se  parmi  tanto  eccel- 
lente ed  espressione  del  maggior  senno  politico  la  sentenza 
che  si  legge  nella  seguente  deliberazione,  essere  la  gramma- 
tica il  fondamento  e  principio  di  tutti  li  stiidii  delle  lettere, 
eppure  è  verissima,  come  è  vero  che  la  buona  scuola  è  il  pii!i 
solido  fondamento  della  prosperità  e  grandezza  delle  nazioni, 
e  che,  se  la  nazione  a  cui  appartengo  ha  potuto  sostenere 
l'ultima  terribile  lotta  ed  uscirne  vittoriosa,  lo  deve  in  gran 
parte  ai  suoi  maestri  di  scuola  ed  alla  severa  disciplina  da 
essi  praticala,  fino  da  quando  cominciano  ad  insegnare  gli 
elementi  di  grammatica. 

A  parer  mio  dovrebbesi  scrivere  sopra  la  porta  d'  ogni 
scuola,  in  cui  lingue  s'insegnano,  «  Utinam  bonus  gramma- 
ticus  essem  »,  e  siccome  quegli  antichi  Veneziani  danno  la 
medesima  capitale  importanza  all'insegnamento  grammaticale 
che  io  gli  vorrei  dare,  così  riferisco  senz'altro  le  loro  parole^ 
che  si  leggono  a  foglio  i4(?  del  Volume  sesto  del  Capitolare 
de'  cinque  sarij  alla  mercatantia. 


—  128  - 

i55i,  23  marzo. 
In  cadauna  città  ben  istituita,  come  per  graiia  di  Dio,  et  per  la 
prudenza  deili  maggiori  nostri  è  questa  nostra,  si  deve  poner  ogni 
opera,  che  la  gioventù  di  quella  sia  lodevolmente  essercitata,  sì  che 
ella  non  si  nodrisca  nell'otio,  acciochè  crescendo  ben  disciplinata  possa 
poi  esser  di  utilità  et  di  ornamento  alla  Republica,  a  se  stessa  et  alli 
suoi.  Onde  essendo  in  questa  nostra  città  una  floridissima  et  numero- 
sissima gioventù,  si  deve  procurar,  che  li  sia  data  commodità  di  dar 
opera  alli  studij  delle  buone  lettere,  acciochè  per  tal  via  possi  pervenir 
a  quel  fine,  che  si  desidera.  Imperochè  non  vi  essendo,  se  non  uno 
solo  professore  publico  di  humanità,  il  qual  legge  a  S.  Marco,  quelli 
che  habitano  lontano  non  possano  all'hora  debita  venir  ad  udirlo,  et 
quello  che  importa  assai,  non  hanno  maestri,  che  li  insegnino  la  gram- 
matica, la  qual  è  il  fondamento  et  principio  de  tutti  li  studij  delle 
lettere,  al  che  si  deve  anco  provedere,  si  che  invitati  dalla  commodità 
tutti  li  giovani  nostri  si  accendino  a  voler  imparare,  però 

L'andarà  parte,  che  sia  imposto  alli  Reformatori  nostri  delli  studij 
che  debbano  proveder  quanto  più  presto  sia  possibile  di  ritrovar  quattro 
boni  et  valenti  professori  di  humanità,  oltre  li  Ecc.'"'  Robertello  et 
Giovita,  i  quali  già  sono  ritrovati  et  hanno  il  lorosalarij,  con  li  quali 
del  continuo  leggono,  a  cadauno  delli  quali  quattro  possono  consti- 
tuire  fino  ducati  dusenle  di  salario  all'anno,  con  facoltà  di  rimoverli, 
quando  vederanno  che  non  faccino  il  loro  debito,  et  leggendo  il  Ro- 
bertello in  S.  Marco,  come  fa,  debbano  distribuire  li  altri  cinque  a 
uno  per  sestier,  come  li  parerà,  deputando  quelli  luoghi  che  li  pare- 
ranno più  commodi,  et  così  constituendoli  quelle  bore  che  giudiche- 
ranno esser  opportune  al  leggere,  et  oltre  di  questi  debbano  li  Refor- 
matori medesimi  dar  opera  di  ritrovar  sei  buoni  altri  maestri  di 
gramma  ica,  i  quali  siano  distribuiti  uno  per  sestier,  et  habbino  a 
coadiuvar  li  principali  maestri,  et  insegnar  la  grammatica  in  quel 
modo  che  sarà  bisogno,  possendo  dar  a  cadauno  di  loro  fino  ducati 
sessanta  l'anno. 

Monaco  di  Baviera,  settembre  1872. 

Giorgio  ìMariino  Thomas. 


129  - 


CEV^V^I  'BI'BLIOG^AFICI 


Aus  deni  Reiclie  des  Tantalus  inid  Croesus. 
Voìi  Dr.  K.  Bernard  Starr-,  Berlin  1872. 

V  era  un  tempo  in  cui  V  erudito,  il  filologo  in  ispecie, 
avrebbe  stimato  far  cosa  poco  degna  di  sé  e  della  scienza 
da  lui  professata,  se  in  altra  favella  che  in  quella  del  Lazio 
avesse  esposti  i  risultamenti  delle  sue  lucubrazioni,  destinate 
unicamente  per  altri  eruditi;  tempo  questo  in  cui  molto 
più  importava  scrivere  con  belle  frasi  imparate  da  Cicerone, 
che  non  dar  saggio  d^una  vera  e  profonda  cognizione  della 
vita  intellettuale  e  morale  dei  popoli  antichi  ,  de'  Greci  e 
de^  Romani  massimamente  ,  un'  idea  chiara  e  perfetta  in- 
somma del  mondo  detto  classico  per  eccellenza.  A  vero 
dire  hon  mancano  nemmeno  al  giorno  d'oggi  alcuni  avanzi 
di  questa  scuola  filologica,  uomini,  per  cui  tutto  lo  studio 
dell'antichità  si  restringe  ad  imitare  classiche  frasi  per  dire 
in  bellissima  lingua  bene  spesso  null'altro  che  volgari  cose 
e  che  ben  poco  si  curano  degl'  immensi  progressi  che  le 
filologiche  discipline  hanno  fatto  ai  tempi  nostri.  Ma  la  più 
parte  degli  odierni  cultori  di  esse  hanno  un  concetto  ben  più 
alto  e  giusto  della  scienza  filologica,  come  di  quella  che  ci 
deve  condurre  ad  una  vera  intelligenza  del  mondo  antico.  Ed 
i  seguaci  di  questa  scuola  moderna  non  isdegnano  d'esporre 
in  forma  elegante  e  nelle  lingue  nazionali  e  vive  quanto  hanno 
trovato  colle  loro  erudite  indagini,  affinchè  l'uomo  colto, 
anco  quando  le  occupazioni  della  vita  pratica  lo  allontanino 
dagli  studi  scientifici,  possa  nelle  sue  ore  d'ozio  ritornare  a 
quel  mondo   antico   tanto    sublime  di  cui  s'  è  occupato  nei 


—  130  - 
suoi  anni  giovanili  (i).  E  si  fa  ancora  di  più.  Con  letture 
popolari  si  cerca  di  vieppiù  diffondere  la  cognizione  della 
vita  dei  due  grandi  popoli  dcirantichità,-a  cui  dobbiamo  il 
più  solido  fondamento  della  moderna  nostra  coltura,  e  di 
far  conoscere  quanto  di  più  meritevole  della  nostra  atten- 
zione ci  è  rimasto  di  essi,  in  quelTistesso  modo,  in  cui 
altre  utili  o  praticamente  necessarie  cognizioni  si  spargono 
mediante  gli  scritti  popolari. 

Ad  una  serie  di  tali  letture  popolari  (2)  appartiene  il 
breve  scritto  di  cui  m'occupo  in  questo  cenno.  È  indubitato 
che  meglio  e  più  chiaramente  intendiamo  la  storia  d'un  po- 
polo e  rindole  sua,  se  conosciamo  il  suolo,  su  cui  vive  ed 
opera  e  direi  quasi  che  certi  fenomeni  della  sua  vita  ci  ri- 
mangono talvolta  inesplicabili  senza  questa  cognizione  pre- 
liminare. Ma  se  ad  ogni  uomo  colto  della  presente  genera- 


(i)  Basti  citare  quella  serie  di  manuali  pubblicati  dalla  ditta  Weid- 
mann  di  Berlino,  che  hanno  per  iscopo  di  diffondere  sempre  piìi 
l'intelligenza  dell'antichità,  e  fra  i  quali  sono  comprese  opere  come 
Vlstoria  Romana  del  Mommsen  e  la  Storia  Greca  di  Ernesto  Curtius 
che  hanno  avuto  già  tre  edizioni  certamente  non  consumate  dai  soli 
filologi  della  Germania  e  di  altri  paesi.  La  prima  di  queste  è,  sebbene 
non  troppo  felicemente,  tradotta  in  italiano,  la  seconda  meriterebbe 
assai  di  esserlo. 

(2)  La  raccolta  è  intitolata:  Sammlung  gemeirnverstandlicher  wissen- 
schaftlicher  Vortrìige,  herausgegeben  von  Rud.  Virchow  iind  Fr.  von 
Holt^endorf,  Berlin,  V.  G.  Luderitz  (Cari  Habel):essa  nelle  sette  serie 
o  168  fascicoletti  finora  comparsi  percorre  il  vasto  campo  dell'umano 
sapere  per  renderlo  popolare,  ed  ha  fatta  larga  parte  anche  all'antichità 
greca  e  romana.  Infatti,  in  essa  sono  compresi  i  seguenti  scritti  di  va- 
lenti autori  che  qui  c'interessano  maggiormente:  Meyer,  Stimm^und 
Sprachbildung;  Steinthal,  Mythos  iind  Religione  Arnold,  Sappho; 
RiBBECK,  Sophocles  undseine  Tragoedien ,- Oi^ckeìì,  Aristoteles;  Zeller, 
Religion  der  R'ómer;  Iordan,  Kaiserpallaeste  in  Rem;  Nissen,  Powpeij, 
DoEHLER,  Die  Orakel,  argomenti  questi  che  certamente  sono  d'interesse 
generale,  e  che  tradotti  in  italiano  e  raccolti  in  un  volume  trovereb- 
bero i  loro  lettori  e  contribuirebbero  forse  un  pochino  a  diminuire 
il  malumore  che  nelle  famiglie  si  nutre  contro  quel  greco  e  latino 
tanto  inutile  nell'odierno  andamento  pratico  del  mondo. 


-  131  - 
zione  riesce  facile  una  visita  all'  Italia  ,  ed  a  Roma  ,  che 
nella  sua  novella  condizione  di  Capitale  del  Regno  fors'anche 
ha  una  nuova  attrattiva,  alquanto  più  difficile  è  ancora  il  vi- 
sitare il  sacro  suolo  della  Grecia,  massime  quando  si  voglia 
penetrare  neirinterno  del  paese  od  inoltrarsi  in  quella  parte 
dell'Asia  in  cui  un  tempo  fiorirono  città  greche,  sedi  di  splen- 
dida cultura.  Pochi  essendo  quelli  che  possono  accingersi  a 
tali  viaggi,  si  leggono  volentieri  gli  scritti  di  coloro  che  hanno 
potuto  vedere  queste  contrade  e  che  ce  le  sanno  descrivere 
con  vivaci  colori  in  modo  che  quasi  le  vediamo  noi  stessi. 
Uno  di  questi  è  il  nostro  autore  e  i  lettori  lo  seguiranno 
volentieri  in  una  escursione  ch'esso  in  compagnia  di  Ernesto 
Curtius,  del  maggiore  Regely ,  del  consigliere  Adler  e  dei 
dottori  Gelzer  e  Hirschfeld  intraprese  da  Smirne  nella  val- 
lata inferiore  dell'Ermo  per  ricercare  le  traccie  de'  regni  del 
mitico  Tantalo  e  di  quel  re  cui  le  sue  ricchezze  non  meno 
che  la  sua  amicizia  coi  poeti  e  coi  filosofi  della  Grecia  re- 
sero celebre^'  escursione  questa  ormai  più  facile  dacché  la 
valle  dell'Ermo  è  almeno  in  parte  percorsa  da  strada  ferrata. 
E  così  il  nostro  autore  ,  dopo  aver  stabilito  non  doversi 
cercare  la  reggia  e  la  tomba  di  Tantalo  là  dove  alcuni  al- 
tri la  vollero  trovare,  cioè  nelle  vicinanze  di  Cordileo,  ci 
conduce  rapidamente  al  Sipilo,  al  centro  d'un  antico  regno 
in  cui  l'agricoltura,  l'allevamento  del  bestiame  e  la  cultura 
della  vite  era  fiorente,  regno  che  sino  dagli  antichissimi 
tempi  s'  era  avvicinato  al  mare  ed  aveva  relazioni  con  la 
Grecia  e  specialmente  col  Peloponneso.  Inoltre  la  terra  ivi 
nascondeva  nel  suo  seno  grandi  ricchezze  v  di  preziosi  me- 
talli ,  che  diedero  origine  alle  leggende  orientali  de'  fiumi 
auriferi:  ma  queste  terre  erano  anco  soggette  ai  più  violenti 
sconvolgimenti  ed  alle  vulcaniche  eruzioni,  e  queste  unite  a 
grandi  migrazioni  di  popolo  diedero  il  crollo  a  quell'impero 
di  Tantalo,  tanto  celebre  nella  mitologia  greca  che  è  prezzo 


—  132  — 
delTopera  lo  esaminarne  le  sedi  colla  guida  del  nostro  au- 
tore. 

A  formare  il  mito  di  Tantalo  —  questo  è  evidente  per 
chi  studia  i  luoghi  —  contribuirono  tanto  la  storia  quanto 
i  fenomeni  naturali.  In  lui  vediamo  la  piiì  grande  felicità 
umana  ed  indi  la  più  precipitosa  rovina.  Egli,  figlio  di  Giove 
e  di  Pluto,  cioè  dell'  abbondanza,  convive  col  padre  e  co- 
gli altri  Dei,  come  coi  suoi  pari,  ammesso  alla  loro  mensa 
per  saziarsi  di  ambrosia  e  di  nettare,  è  il  confidente  dei 
loro  segreti,  ma  non  sa  reggere  a  tanta  felicità  ed  è  per  i 
suoi  trascorsi  crudelmente  punito  dai  suoi  antichi  commen- 
sali, affinchè  i  mortali  imparino 

TàvGpuuTTeia  |ufi  crépeiv  à*fav  (1). 

Ma  non  solo  egli,  anche  i  suoi  figli  furono  tracotanti  e 
sventurati,  Pelope  non  meno  che  Niobe  ,  celebrata  come 
dalla  poesia  così  dall'arte  plastica  antica  (2).  Appunto  di  lei 
rimane  un  monumento  a  Sipilo  ed  è  egregiamente  descritto 
dal  nostro  viaggiatore.  Siccome  le  pagine  in  cui  egli  ci  dà 
contezza  delle  sue  indagini  su\Vi}?iniag-ine  di  Niobe  sono  un 
ottimo  commento  ad  alcuni  passi  di  greci  scrittori  (3)  ,  mi 


(i)  Eschilo,  Frammenti  della  Niobe,  ed.  Dindorf.,  p.  ni.  Per  il  mito 
di  Tantalo  v.  Preller,  Mitologia  greca,  li,  38 1. 

(2)  Giova  ricordare  il  famoso  gruppo  della  galleria  di  Firenze;  confr. 
Stark,  Niobe  imd  die  Niobiden,  Lipsia  1864. 

(3)  TaÙTr]v  tì^v  NióP^v  Kai  oùtò^  eiòov  ,  àveXGubv  èc;  tòv  ZittuXov  tò 
opoc;  •  r\  hi  TiXriaiov  jnèv  irérpa  Koii  Kprmvót;  èaxiv  oùòèv  irapóvxi  oyj\\xa 
-napexóiaevot;  Y'JvaiKÒq  ouxe  à-Wnìc,  oOre  irevOoucTTn;.  €l  òé  y^  "noppujTépui 
févoio,  òeòaKpuu)uévr|v  òóEei^  ópav  kcI  Karricpf)  YUvaiKa.  Pausania.I,  21,  3. 
Conf.  Quinto  di  Smirne,  Posthom.,  I,  299,  e  seg.: 

fixi  Geoi  Nió3riv  Xaav  Qiaav,  rit;  eri  òòtKpu 

TTOuXù  \xò.\a  aTuqpeXfj;,  KaTaXeipexai  ùv(jó6i  Trérpric, 

KOÌ  oi  auaxovaxouai  poaì  iroXurixéot;  "€piaou 

Kai  Kopuqpaì  ZittùXou  Trepi|LiriK6cc,  lDv  KaSùirepBev 

èxSpi'i  liiTXovófaoiaiv  dei  TrepiTréxax'  òiaixXii  ' 

r)  òè  TTÉXe  laéYa  GaOiaa  irapeacfuiaévoiaiv  ppoxolaiv, 

ouvek'    è'oiK€   YwvaiKÌ   ttoXuoxóvuj,    fix'    èiri    XuYpi4J 

TiévGei    fiupo|Liévri    |udXa    fiupia    òdKpua   x^^ei* 

Koi    xò    ]uèv    dxpeKeiuje;    cprjc;    ?|ainevai,    óttttóx'    dp'   aùxiiv 

xriXóGev    dOpriaeiaq*    èiriiv    òé    oi    èYYÙ<;   'inviai, 

fpaivexai    aÌTTì'ieaaa   -rréxpii    ZittùXoió   x'diTo^^iuE. 


—  133  - 

sarà  lecito  di  qui  riferire  le  sue  parole  intorno  a  quello  che 
anch'oggi  il  viaggiatore  vede,  quando,  passata  la  stazione  di 
Manissa  (l'antica  Magnesia),  si  avvicina  al  Sipilo.  Tutt'una 
rupe  scoscesa  ivi  è  lavorata  dalla  mano  d'  uomo  e  tagliata 
come  una  cornice  quadrata,  in  cui  una  nicchia,  alta  trenta- 
cinque piedi,  ed  in  essa  sporgente  in  altissimo  rilievo  la  figura 
delia  desolata  madre,  che  nella  sua  parte  inferiore  dal  grembo 
in  giù  assume  sempre  più  forme  architettoniche.  La  gran- 
dezza della  figura  è  quattro  volte  la  naturale,  con  la  testa 
relativamente  grande:  le  ginocchia  sono  strette  al  corpo, 
seduto  su  un  seggio  ancor  visibile  d'ambo  le  parti,  con  uno 
sgabello  sotto  i  piedi  ed  inferiormente  a  quello  un  appoggio, 
considerato  come  la  tomba  dei  figli  uccisi  dai  dardi  del  Dio. 
Le  braccia  della  Niobe  si  veggono  chiaramente:  esse  posano  sul 
grembo.  Avvicinandosi  l'osservatore  certamente  non  iscorge 
lineamenti  umani  nella  parte  della  figura,  che  rappresenta  il 
volto:  ma  questa  parte  è  percorsa  da  strisele  più  oscure  e 
più  chiare  formate  dall'  acqua,  che  la  più  parte  dell'  anno 
scorrono  giù  per  la  rupe.  Anche  al  margine  inferiore  della 
nicchia  si  distingue  chiaramente  il  lavoro  dell'  artefice  e 
dovunque  di  là  tu  volga  lo  sguardo,  vedi  la  mano  del- 
l'uomo, il  quale  ha  levigate  le  rupi,  tagliate  nicchie,  allar- 
gate le  caverne  naturali ,  scavate  sepolture ,  eretti  altari 
sopra  cime  sporgenti,  praticati  pozzi  :  insomma  niun  dubbio 
possibile  -  lo  osserva  già  Strabone  -  sull'esistenza  della  città 
di  Sipilo,  il  centro  del  regno  di  Tantalo,  distrutta  in  tempo 
antico  da  invasioni  straniere  e  dalle  forze  della  natura,  che 
molte  volte  ,  e  da  ultimo  neh'  anno  presente  ,  ha  scosso  il 
suolo  in  tutta  questa  regione. 

Se  poche  traccie  rimangono  d'un  grande  e  florido  centro 
di  potenza  appartenente  ai  tempi  mitici,  non  molte  più  si 
scorgono  nemmeno  di  quello  d'un  altro  regno  ampio  e  po- 
tente non  solo  nella  remota  antichità,  ma  eziandio  in  tempi 

lijvista  di  filologia  ecc.^  I.  io 


-  134  - 
posteriori,  rischiarati  dalla  piena  luce  della   storia  e  d'  una 
città  il  cui  nome  rinveniamo  molte  volte  negli   storici    del- 
l'antichità ed  anco  del  medio  evo  bisantino,  città  cui  conosce 
pur  anche  il  giovinetto  che  ben  poco  di  greco  ha  letto  fuor- 
ché la  sua  Anabasi,  Sardi  voglio  dire,  visitata  anch'essa  dal 
nostro  erudito.  La  storia  di  Sardi  comincia  otto  secoli  prima 
deirèra  cristiana:  prima  abitata  dai  Meoni,  fu  importante, 
ricca  e  grande  sotto  Lidi   e   Persiani ,  Greci    e   Macedoni , 
distrutta  Tanno  1 7  dopo  Cristo,  fu  ricostruita  per  essere  rag- 
guardevole luogo  ai  tempi    degli    imperatori  di  Roma  e  di 
Bisanzio  -  lo  Starck  ci  espone  per  sommi  capi  ma  splendi- 
damente questa    interessante  istoria  (p.  45-56)  -  e  non  ri- 
mane deserta,  se  non  alcun  tempo  prima  che  il  terribile  Ta- 
merlano  devastasse  tutta  questa  parte  dell'Asia,  quand'ebbe 
sconfìtto  Bajazette  Ildirim  ad  Angora  (1).    Ed  ora,  quelle 
una  volta  fertili  e  ridenti  pianure  sotto  il   Tmolo,  percorse 
dall'  aurifero   Fattolo  e  dalla  grande  strada  regale  persiana 
che  conduceva  ad  Egbatana,  sono  una  landa  incolta  e  de- 
serta-, e  della  splendida  Sardi  e  della  reggia  di  quel  potente, 
la  cui  ricchezza  è  rimasta  proverbiale,  che  ne  rimane?  Pochi 
avanzi  esattamente  descritti  (p.  38  e  segg.)  dal  nostro  autore, 
cui  in  questi  cenni  non  possiamo  seguire  nei  minuti  particolari 
che  dà,  dovendoci  limitare  ad  invitare  gli  studiosi  a  ricor- 
rere al  ben  interessante  libretto  istesso  che  non  ha  se  non 
59  pagine  ,  ma  è  ben   degno  della  penna  da  cui  esce  ed  è 
pur  anche  corredato  d'una  piccola  carta  geografica  e  di  una 
veduta  delle  rovine  di  Sardi    come    oggi    si    presentano   al 
viaggiatore.  Per  la  scienza  archeologica  in  genere  non  pos- 


(1)  Sardi  era  del  tutto  deserta  già  prima  della  invasione  di  Timur, 
dacché  in  un  documento  autentico  dell'anno  1 382  si  legge  :  xrì  toO  KaipoO 
àvuj|ua\ia  ai  Tàphexc,  iìqpavia9riaav,  djq  |ur]òè  (JX^I^oi  iróXeiui;  irepiauj^eiv. 
Acta  Patriarchatus  Constantinopolitani,  ed.  Fr.  Miklosich  e  1.  Mialler, 
Vind.  1862,  II,  p.  46. 


-  135  — 
siamo  a  meno  di  augurarci  che  possa  comparire  presto  l'opera 
grande  che  lo  Stark  prepara  insieme  co'  suoi  compagni  di 
viaggio,  dacché  essa  ci  darà  esatto  conto  di  tutto  quello  che 
gli  esploratori  hanno  trovato  di  avanzi  antichi  di  Sardi  e  che 
potranno  stabilire  intorno  alla  topografia  della  città  di  Creso. 

Torino,  seitembre  1872. 

G.    MULLER. 


Ephemeris  epigraphica,  corporis  inscripiioniim  latinaritm 
siippìementiim^  edita  iiissu  Institiiti  Archaeolog-ici  Ro- 
mani.  Venit  Romae  et  Bettolini,  in-8. 

Come  in  altre  discipline  parecchie  ,  cosi  anche  nell'  ar- 
cheologia tiene  oggidì  V  AUemagna  incontrastabilmente  lo 
scettro.  In  servigio  di  essa  fondavasi  fin  dal  iS-icj  Vlstituto 
archeologico  di  Roma,  per  opera  principalmente  del  Ger- 
hard, del  Bunsen,  e  di  alcuni  altri,  la  più  parte  tedeschi , 
pigliato  poco  dopo  in  protezione  dal  principe  ereditario  di 
Prussia,  che,  diventato  poi  re  Federigo  Guglielmo  IV,  fini 
per  annetterlo  alle  istituzioni  sorrette  col  denaro  della  co- 
rona. Al  giornale  dell'Istituto  collaborarono  poscia,  insieme 
con  alcuni  italiani,  i  più  chiari  archeologi  dell'  AUemagna, 
quali  un  Boeckh,  un  O.  Mùller,  un  Curtius,  un  Lepsius , 
un  Mommsen  ,  &cc.  Secondo  gli  statuti  firmati  il  2  marzo 
1871  dal  re  Guglielmo  a  Versailles,  l'Istituto  ha  per  fine  di 
«  ravvivare  e  regolare  nel  campo  dell'  archeologia  e  nei 
campi  affini  della  filologia  le  relazioni  fra  la  patria  dell'arte 
e  della  scienza  antica  e  le  ricerche  degli  eruditi,  e  pubbli- 
care i  monumenti  novamente  scoperti  nel  modo  più  rapido 
e  soddisfacente  ».  Gli  scritti  che  esso  manda  fuori  mirano 
quindi  principalmente  a  far  conoscere  ed  illustrare  tutte  le 
scoperte  degli  scavi,  massimamente  in  quanto  si  riferiscono 


—  13()  — 
all'arte,  alla  topografìa  e  airepigrafica.  Per  parlare  solo  di 
quest'ultima,  colla  quale  appunto  s'identifica  la  pubblica- 
zione sovrenunciata,  noteremo  come  essa,  in  quanto  è  scienza, 
venga  a  ricevere  uno  stabile  fondamento  principalmente  dal 
Corpus  inscriptionum  latinafiim,  opera  colossale  che  pub- 
blicasi a  Berlino  sotto  la  direzione  di  quell'Accademia  delle 
Scienze,  e  di  cui  sono  già  usciti  il  voi.  I.  Antiquissimarmn 
ad  Caesarìs  mortem,  pubblicato  dal  Mommsen  nel  i863,  il 
II.  Hispanarum,  pubblicato  dall' Hìibner  nel  1869,  il  IV. 
Pompeianarum,  pubblicato  dallo  Zangemeister  nel  1871,  e 
finalmente  la  parte  prima  del  voi.  V.  Inscriptionum  Galliae 
Cisalpinae  che  si  pubblica  per  opera  del  Mommsen.  Connessi 
colla  pubblicazione  del  Corpus  sono  ancora  il  bel  volume 
Priscae  latinitatis  monumenta  epigraphica  ad  arclietypo- 
rum  fìdem  exemplis  lithographis  representata  ^  pubblicato 
dal  Ritschl,  le  Iscri:{ioni  Renane  dal  Brambach  e  le  Cri- 
stiane di  Spagna  dall'Hubner. 

L'  efemeride  epigrafica  soprenunziata  è  una  conseguenza 
del  Corpus ,  al  quale  essa  è  come  destinata  a  preparare  i 
materiali  e  servir  come  di  fondamento  pei  supplementi  che 
si  verranno  di  poi  pubblicando  e  che  formeranno  una  specie 
di  supplemento  perpetuo-,  tale  essendo  la  natura  di  que- 
ste raccolte  che  siano  per  accrescersi  del  continuo,  con  ri- 
cevere quelle  iscrizioni  che  possono  via  via  scoprirsi  princi- 
palmente per  mezzo  di  scavi,  fattisi  tanto  in  Italia,  quanto  in 
tutte  quelle  che  furono  province  dell'  Impero  romano.  La 
compilazione  di  questo  giornale,  quantunque  pubblicato  a 
Berlino,  pur  viene  da  quell'Accademia  principalmente  affi- 
data alla  cura  di  coloro  che  già  sovrintendono  all'  Istituto 
archeologico  di  Roma.  Al  qual  proposito  giovi  recar  le  pa- 
role stesse  dell'avvertenza  che  viene  premessa  al  primo  fa- 
scicolo: Nani  ut  Italia  et  in  Italia  maxime  iirbs  aeterna 
hormn  studiorum  origo  est  et  domicilium,  ita  Institutum 


—  137  — 
illud  ad  ipsum  quo  nos  tendimus,  etiam  ante  sponte  sua 
iètendit  nulliimque  hodie  extat  promptuarium  inscriptio- 
mim  Latinarum  nuper  repertariim  minus  imperfectum  quam 
sinit  acta  eius  maiora  minoraque.  lam  Ephemeris  haec  licei 
ibi  edatur,  ubi  editur  Corpus,  cuius  non  est  nisi  accessio 
aliqua  et  auciarium^  erit  et  ipsa  Jnstituti  archaeologici  Ro- 
mani, speramusqiie  fore,  ut  coniunctis  curis  Italorum  Ger- 
manovumque,  quorum  illis  haec  studia  patria  sunt,  Jiis  iam 
adoptiva,  adiunctis  item  ceterarum  nationum  a  communibus 
litterarum  studiis  non  abhorrentium  officiis,  hic  inscrip- 
tionum  Latinarum  recens  repertarum  thesaurus  per  annos 
futuros  fontis  perpetui  instar  scaturiat. 

I  due  fascicoli  finor  pubblicati  comprendono  le  giunte 
d^iscrizioni  venute  ai  volumi  I,  II  e  IV  del  Corpus  sopra 
mentovati.  Non  essendo  possibile  che  le  iscrizioni  nova- 
mente  scoperte  somministrino  materia  che  possa  alimentare 
di  per  sé  sola  il  giornale,  vi  si  aggiungono  perciò  scritti  trat- 
tanti soggetti  connessi  colle  iscrizioni  già  pubblicate.  E  così 
in  questi  due  primi  fascicoli,  mentre  vi  sono  per  le  giunte 
d'iscrizioni  colle  relative  dichiarazioni  solo  pagine  5o  incirca, 
le  100  rimanenti  vengono  occupate  dagli  scritti  suddetti  che 
sono:  otto  del  Mommsen,  cioè:  I.  Ursus  togatus  vitrea 
qui  privius  pila  ;  II.  De  Jiiniis  Silanis  ;  III.  De  fide  Leon- 
hardi  Gutenstenii ;  IV.  Grammatica  ex  Actis  Arvalium;  V. 
De  Diocletiani  collegarumque  nominibus  erasis  ;  VI.  Quin- 
quefascalis  titulus  Cirtensis ;  VII.  De  titulis  C.  Octarii 
Sabini  cos.  a.  p.  dir.  ccxiv,  Vili.  Titulus  atticus  Frugi 
et  Pisonis  ;  uno  del  Wilmanns:  De  praefecto  castrorum  et 
praefecto  legionis;  uno  del  Dittenberger  :  De  titulis  non- 
nullis  atticis  ad  res  Romanas  spectantibus;  uno  del  Bor- 
mann  :  De  qunrundam  aedificiorum  publicorum  urbis  Ro- 
7nae  titulis.  Dal  semplice  annunzio  di  tali  scritti  e  dei  loro 
autori  ognuno  di  leggeri  comprende,  quanta  importanza  sia 


—  138  — 
per  avere  siffatto  giornale  per  tutti  coloro  che   s'  occupano 
di  archeologia,  di  storia  e  di  filologia  in  genere. 

Gli  editori  di  questo  giornale,  che  sono  per  Tltalia  (Roma) 
THenzen  e  il  De-Rossi,  per  TAllemagna  il  Mommsen  (Ber- 
lino), e  il  Wilmanns  (Dorpat),  invitano  tutti  coloro,  a  cui 
cale  punto  di  questi  studii,  a  volervi  contribuire,  sia  comu- 
nicando iscrizioni  novellamente  scoperte,  sia  somministrando 
quelle  osservazioni  che  credessero  a  proposito.  E  siccome 
questo  giornale  sarà,  come  il  Corpus,  tutto  in  latino,  così 
gli  scritti  che  fossero  per  avventura  trasmessi  in  italiano  ver- 
ranno per  cura  degli  editori  voltati  nella  lingua  del  Lazio  (i). 

G.  Flechia. 


NoNii  Marcelli  peripatetici  tiibursicensis.  De  compendiosa 
doctrina  ad  jìliiim,  coUatis  quinque  pervetustis  codicibus 
nondum  adhibitis  cum  ceterorum  librorum  editionumque 
lectionibus  et  doctorum  suisque  notis  edidit  Lud.  Qui- 
CHERAT.  Parisiis,  ap.  Hachette  et  socios,   1872. 

In  un'epoca  in  cui  con  tanto  lodevole  diligenza  e  operosità 
si  cerca  di  rimediare,  per  la  conoscenza  delle  lettere  antiche, 
ai  guasti  del  tempo  e  di  riunire  i  frammenti  di  antiche  opere 
perdute,  par  singolare  come  abbia  potuto  mancare  tanto  a 
lungo  una  buona  edizione  dell'  opera  di  Nonio  Marcello 
che  pure  è  sì  ricca  di  frammenti  di  antichi    scrittori  latini 


(i)  Usciranno  di  questo  giornale  quattro  fascicoli  ogni  anno,  di  quattro 
o  cinque. fogli  ciascuno;  e  così  tanto  da  formarsene  un  giusto  volume, 
ognuno  de'  quali  sarà  corredato  degli  indici  opportuni.  L'associazione 
si  può  prendere  in  Italia  all'annuo  prezzo  di  L.  8  5o  (talleri  2),  cosi 
presso  l'Istituto  archeologico  di  Roma,  come  presso  il  libraio  Loescher 
(Torino,  Firenze  e  Roma).  Franco  a  domicilio  per  tutta  Italia  a  L.  9. 


—  139  — 
dei  tempi  repubblicani.  In  parte  ciò  si  spiega  per  questo 
che  appunto  il  numero  e  la  varietà  degli  scrittori,  di  cui 
queir  opera  conserva  frammenti,  rendeva  necessario  che  la 
purificazione  di  quel  testo  si  andasse  effettuando  grado 
grado  mediante  Topera  di  uomini  dotti  che  a  ciascuno  o  a 
ciascuna  categoria  di  quegli  scrittori  consecrassero  ricerche 
e  lavori  speciali.  Quest'  opera  lenta  e  collettiva  era  tanto 
più  necessaria  per  Nonio  che  il  testo  di  questo  scrittore  es- 
sendo, cornee  ben  noto,  straordinariamente  corrotto  nei  ma- 
noscritti, assai  più  per  esso  dovevasi  contare  sulla  critica 
congetturale  che  sulla  diplomatica.  Così  pecca  per  la  base 
la  sola  edizione  moderna  che  esistesse  di  Nonio ,  quella 
di  Gerlach  e  Roth,  i  quali  di  altro  non  han  voluto  ser- 
virsi che  dell'autorità  dei  manoscritti  per  istabilire  il  loro 
testo,  dal  che  è  avvenuto  che,  come  tutti  sanno,  quella  edi- 
zione offre  un  testo  talmente  impossibile  che  mal  si  rico- 
nosce in  essa  un  lavoro  filologico  del  secolo  in  cui  viviamo. 
Ormai  però  Topera  che  si  richiedeva  per  maturare  una  edi- 
zione di  Nonio  può  dirsi  fatta  in  gran  parte,  poiché  pochi 
sono  i  frammenti  di  scrittori  antichi  contenuti  in  quel  libro 
che  non  siano  stati  esaminati  criticamente  in  raccolte,  in 
edizioni,  o  in  lucubrazioni  filologiche  o  storiche  di  natura 
speciale.  Nondimeno  riman  sempre  un  arduo  lavoro  il  dare 
un'edizione  di  Nonio,  e  forse  l'infelice  sperimento  di  Ger- 
lach e  Roth  e  la  pertinace  erroneità  dei  manoscritti  cono- 
sciuti ha  scoraggiato  fin  qui  i  dotti  dall'  intraprenderla.  A 
questo  scoraggiamento  però  non  ha  soggiaciuto  il  sig.  Qui- 
cherat,  il  quale  da  ben  trent'anni  si  è  andato  occupando  di 
Nonio,  adoperando  a  procacciarne  una  soddisfacente  edi- 
zione tutti  i  mezzi  dei  quali  si   può  disporre  oggidì. 

Il  signor  Quichcrat  ha  veduto  bene  che  dare  una  edizione 
di  Nonio  senza  introdurre  lezioni  che  risultassero  da  critica 
congetturale  era  un  procedere  assurdo  e  ingiustificabile.  Ha 


—  140  — 
fatto  uso  adunque  di  quanto  era  stato  proposto  da  vari  cri- 
tici, sia  che  si  occupassero  direttamente  di  Nonio,  sia  che 
specialmente  si  occupassero  di  taluno  degli  scrittori  da  questo 
citati:  alle  congetture  altrui  adoperate  criticamente  ha  ag- 
giunto anche  congetture  sue  e  delle  varie  lezioni  congettu- 
rali adottate  o  non  adottate  nel  testo  ha  reso  conto  nelle  note. 
Così  la  sua  edizione  differisce  essenzialmente  da  quella  di 
Gerlach  e  Roth  ;  essa  offre  un  testo  possibile  e  leggibile  , 
mentre  quei  due  dotti  non  accettando  nel  testo  nulla  che  non 
si  trovasse  nei  manoscritti,  si  son  rassegnati  ad  accettare  un 
grandissimo  numero  di  lezioni  non  soltanto  dubbie  ma  pal- 
pabilmente e  grossolanamente  erronee,  prive  affatto  di  senso 
e  grammaticalmente  impossibili.  Non  ha  però  rinunziato  il 
signor  Quicherat  a  trarre  dai  manoscritti  quel  miglior  partito 
che  per  lui  si  poteva,  ed  ha  fatto  uso  per  questa  sua  edizione 
di  cinque  manoscritti  o  non  adoperati  o  solo  in  piccola  mi- 
sura adoperati  da  altri;  il  più  antico  è  un  codice  Harleiano 
del  sec.  ix,  gli  altri  quattro  sono  del  sec.  x.  Questi  manoscritti 
sono  anch'essi  ben  lontani  dal  potersi  chiamare  ottimi,  ma 
sono  stati  pure  di  qualche  utilità  all'  editore  ,  offrendo  più 
d' una  buona  lezione  e  talvolta  anche  confermando  felici 
congetture.  L'  editore  non  esagera  punto  il  loro  valore  per 
definire  il  quale  non  sapremmo  adoperare  parole  più  giuste 
di  queste  eh'  ei  scrive  nella  prefazione:  «  etsi  magnus 
fructus  ex  his  coUigitur  minor  tamen  quam  velis  ac  speres-, 
ea  quae  passim  deficiunt  non  supplentur-,  quae  transposita 
sunt  non  in  sedem  reponuntur;  verba  turpiter  deformata 
non  ad  linguae  latinae  leges  revocantur;  enormia  etiam 
menda  comparent  quae  ex  primis  editionibus  exterminata 
fuerunt.  Verum  quamplurima  vocabula ,  vulgo  perverse 
scripta,  in  illis  sana  exhibentur;  inde  quaedam  absunt 
inepta  glossemata-,  paucissima  etiam  nova  exempla  inve- 
niuntur  )). 


-  141  — 

Un  uomo  che  con  tanto  amore  e  tanto  a  lungo  si  è  oc- 
cupato di  Nonio  può  essere  scusato  se  nutre  una  qualche 
tenerezza  per  questo  suo  autore  e  se  cerca  difenderlo  nella 
prefazione  dal  molto  male  che  se  n'è  detto  e  se  ne  dice.  A 
tale  sua  disposizione  va  attribuito  il  trovar  egli  molto  ono- 
revole per  Nonio  1'  essere  citato  tre  volte  da  Prisciano. 
Senza  dubbio  sarebbe  un'assai  ingiusta  esagerazione  voler 
attribuire  a  Nonio  tutta  T  infinita  farragine  di  spropositi 
di  cui  rigurgitano  i  manoscritti  della  sua  opera.  Poche 
altre  opere  antiche  danno  come  questa  la  misura  della 
bestiale  ignoranza  dei  chierici  medievali.  Però  il  signor 
Quicherat  non  riesce  e  non  si  attenta  neppure  a  purgar 
Nonio  di  molti  giustissimi  appunti  che  lo  fanno  apparire  un 
assai  povero  autore.  Il  concetto  stesso  e  il  piano  e  la  condotta 
dell'  opera  son  tali  che  mal  potrebbe  farsene  V  apologia. 
All'uso  che  Nonio  fa  di  Aulo  Gelilo  senza  nominarlo,  cosa 
di  cui  molti  si  scandalizzano,  noi  non  diamo  gran  peso,  es- 
sendo cosa  che  caratterizza  piuttosto  quell'epoca  che  quell'au- 
tore. Compilare  e  compendiare  è  la  formola  che  definisce  la 
produttività  letteraria  e  dotta  di  quei  secoli  di  decadenza. 
Gelilo  stesso  prende  di  qua  e  di  là.  A  questi  uomini  è  toc- 
cata la  sorte  che  meritavano.  L'opera  loro  quantunque  per 
certe  ragioni  d'uso  letta  e  copiata  a  lungo  non  ha  servito  a 
dare  al  loro  nome  un  peso  che  realmente  non  gli  compete. 
Nonio  considera  Gelilo  come  uomo  di  oscura  autorità  ed  ha 
ragione.  Conviene  notare  però  che  quest'  uomo  di  piccola 
levatura  e  intieramente  sottoposto  all'autorità  dei  nomi  do- 
vette essere  urtato  dalla  poca  riverenza  con  cui  Gelilo  tal- 
volta parla  di  Verrio  Fiacco  e  di  altri  grammatici    illustri. 

Nella  prefazione  il  signor  Quicherat  avrebbe  potuto  darci 
una  più  esatta  e  completa  definizione  di  questo  autore.  So- 
prattutto dalla  sua  esperienza  ci  saremmo  aspettati  intorno 
ai  canoni  critici  che  debbono    guidare    l' editore   di   Nonio 


—  142  — 
qualche  cosa  meno  elementare  di  quanto  ei  nota  a  pag.  xxiir. 
Notevole  è  V  appunto  che  leggesi  nella  prefazione  sul  nu- 
mero primitivo  dei  libri  deir  opera  Noniana,  i  quali  erano 
20  e  non  19,  come  il  nuovo  editore  rileva  da  un  ms.  pa- 
rigino in  cui  trovasi  segnato  nelT  indice  un  16°  libro  De 
genere  calciamentorum,  o^gi  perduto. 

Questa  è  la  prima  edizione  di  Nonio  in  cui  le  citazioni 
dei  poeti  trovinsi  stampate  con  distinzione  dei  versi.  Nel- 
rindice  degli  autori  però  il  signor  Quicherat  avrebbe  fatto 
bene  a  segnare,  per  gli  autori  oggi  superstiti,  il  numero  di 
ciascun  verso  citato  e  non  soltanto  il  libro  in  cui  quello 
ricorre.  Per  ritrovare  nella  sua  edizione  un  determinato 
verso  di  Virgilio  citato  da  Nonio  convien  fare  una  lunga 
ricerca  da  cui  dispensa  Tedizione  di  Gerlach  e  Roth. 

Edizioni  definitive  non  crediamo  si  diano  per  alcun  au- 
tore antico  ,  molto  meno  per  Nonio,  ne  il  sig.  Quicherat 
pretende  che  tale  sia  la  sua.  Certo  a  lui  spetta  il  merito 
di  avere  per  primo  tentato,  con  successo  la  difficile  prova 
di  dare  una  edizione  di  Nonio  proporzionata  alle  condi- 
zioni e  ai  bisogni  della  scienza  odierna. 


Pisa,  luglio,  1872. 


D.    COMPARETTI. 


Nicolai  Heinsii  Italica.  E  poematinn  editione  Elzeviriana 
a  poeta  passim  correda  edidii  I.  C.  G.  Boot.  Amste- 
lodami,  MDCCCLXXIL 

A  chi  legge  la  1{ipista  di  Filologia  non  è  mestieri  ri- 
cordare le  benemerenze  di  Nicolò  Einsio  verso  le  lettere 
latine.  Oltre  le  edizioni  di  Ovidio  e  Virgilio  da  lui  illustrate 
e  ridotte  a  più  sana  lezione,  non  avvi  quasi  scrittore  romano 
cui  ora   per  un  verso,  ora  per  un  altro  non  abbia  giovato 


-  143  - 

o  col  sussidio  dei  codici  o  colle  ingegnose  congetture,  le 
quali,  anche  quando  non  tocchino  il  segno,  indicano  la  via 
o  per  lo  meno  ti  ammoniscono  e  provano  che  certi  luoghi 
o  non  avvertiti,  o  talvolta  anche  lodati  contengono  non  la 
sincera  scrittura  dell'  autore,  ma  Terrore  delPamanuense  sba- 
dato e  mal  dotto. 

Nicolò  Einsio  poetò  anche  in  latino,  e  sebbene  in  Italia, 
la  quale  vanta  schiera  così  numerosa  di  ingegni  in  codesta 
arte  eccellenti,  non  siano  molto  conosciute  le  cose  di  lui, 
nondimeno  egli  è  certo  che  possono  annoverarsi  fra  le  no- 
tabili. Nato  nel  1620,  visitò  due  volte  la  Penisola,  vi  fece 
non  breve  dimora,  ne  conobbe  gli  uomini  eruditi  ,  V  amò 
come  seconda  patria.  Di  che  fanno  fede  i  due  libri  di  elegie 
da  lui  pubblicati,  il  primo  a  Parigi  nel  1648,  Taltro  a  Leida 
nel  i653  {Italica,  sive  elegiariim  liber  alter.  —  Italicorum 
liber  seciindus,  sive  elegiariim  tertius)\  quello  dedicato  a 
Gassiano  Del  Pozzo,  questo  a  Carlo  Dati.  Nel  1666  vennero 
ristampate  ad  Amsterdam  con  altri  componimenti  dell'au- 
tore. Dopo  la  morte  sua  se  ne  trovò  un  esemplare  con  molte 
correzioni  marginali,  e  Pietro  Burman  al  tempo  suo  dise- 
gnava pubblicarle-  il  che  non  potè  poi.  L'  esemplare  coi 
pentimenti  di  mano  dell'Einsio  andò  smarrito,  ma  una  copia 
fatta  dal  Burman  giaceva  in  una  privata  biblioteca  di  Am- 
sterdam. La  discoprì  il  dotto  professore  Giovanni  Cornelio 
Gerardo  Boot,  continuatore  di  quella  dotta  scuola  olandese 
che  per  quasi  due  secoli  tenne  le  prime  parti  nelle  filologiche 
discipline. 

Come  e  perchè  [egli  divisasse  e  compiesse  la  ristampa 
che  annunziamo,  dirò  colle  parole  sue,  persuaso  che  un  po' 
di  latino  non  sarà  ostico  ai  lettori  : 

«  Contingit  rniìii  ea  felici tas  ,  ut  bis  viagnam  Italiae 
partem peragrarem.  Utroquc  in  itinere,  altero  ante  XXXIV 
annos,  altero  nuper  facto ,  diibiiis  haerebani ,  quid  magis 


—  144  — 
admirarer,  regionis  amoenitatem,  loca  in  quìbiis  frequentia 
antiquorum  adsunt  vestigia,  artis  praeclara  opera^  erudi- 
tionis  immensos  thesauros ,  an  hominum  ,  quos  cognovt 
multos,  humanitatem  et  comitatem.  Nunquam  obliviscar , 
ut  olim  me  adolescentulum  viri  generis  nobilitate  et  doctri- 
nae  studiis  clarissimi  exceperint,  et  ingratus  essem  nisi 
recordarer  quanta  benevolentia  quantaque  comitale  nuper, 
quum  conventus  doctissimorum  virorum  e  vdriis  Furopae 
regionibus  Bononiae  haberetur^  Bononienses,  Mutinenses , 
Ravennates,  et  quum  ad  illos  pervenissem  paucosque  dies 
inter  illos  viverem,  Fiorentini ,  Romani^  Taurinenses  me 
advenamprosecuti  sint.  Itaque  volui  palam  ostendere  quanti 
facerem  et  illos  familiares  et  universam  gentem^  quae  si 
libertate  tandem  recuperata  recte  utitur  et  improbam  Si- 
rena ,  quam  merito  vitandam  mokuit  Horatius ,  strenue 
vitare  didicerit,  magnis  rebus  denuo  videtur  destinata. 
Et  quoniam  lingua  Latina  et  poesis  Latina  trans  Alpes 
nondum  piane  negligitur,  Heinsii  autem  carmina.,  quibus 
Italiae  laudes  canuntur,  vix  ulli  in  illa  terrea  nota  esse 
comperirem,  multis  nec  ingratum  nec  inutile  me  facturwn 
credo,  si  curaverOy  ut  plura  nitidi  libelli  exempla  per  Ita- 
liani sparganiur  ». 

Il  nitido  volumetto  consta  di  pag.  64  di  testo  e  XIV  di 
prefazione,  cui  precede  la  dedica  seguente  :  Italiae  poeseos 
latinae  mairi  novam  recensionem  elegiarum  elegantis 
poetae  Baiavi  amoris  sui  testem  grati  animi  arrham  mittit 
Johannes  Corneliiis  Gerardus  Boot. 

Ora  per  chi  voglia  conoscere  con  che  stile  e  con  quale 
animo  scrivesse  Nicolò  Einsio  recherò  alcuni  distici  tratti 
dalla  elegia  con  cui  il  poeta  piglia  commiato  dairitalia.  Parla 
il  cittadino  di  una  patria  che  erasi  gloriosamente  sottratta  al 
giogo  spagnolo  e  vendicata  in  questa  feconda  libertà  che 
tuttora  mantiene,  disposata  all'ordine  e  alla  stabilità  delle 
istituzioni  : 


—  145  — 
Poscimur  in  patriam  :  patria  iam  vivere  tempus. 

Huc  vocor  invitus,  terra  Latina,  vale. 
Terra  vale  dilecta,  tui  me  cura  sequetur. 

Scilicet  id,  posthac  quo  tibi  sistar,  erit 

Nunc  Batavae  Dryades,  qua  desidis  ultima  Rheni 

Non  bene  caeruleis  stagna  negantur  aquis, 
Lugdunum  spatiosa  suis  nunc  induet  ulnis. 

Illa  mihi  patria  est,  nec  pudet,  illa  domus 
Quam  sua  libertas,  dominis  obnisa  lupatis, 

Haud  tulit  Asturio  subdere  colla  iugo. 
Nec  Ganda  Heinsiacis  memoraberis  unica  cunis. 

Di  melius!  famula  non  ego  natus  humo. 
Nutriat  inflatos  tibi  pinguis  Iberia  vales. 

Hos  fac  suspicias  :  bine  tibi  plausus  eat. 
Parcior  ingeniis  servilibus  adflat  Apollo 

Pectora:  totus  agit  libera  corda  Deus. 

E  per  avere  richiamato  alla  memoria  degli  uomini  versi 
eletti,  e  per  averli  con  affetto  gentile  presentati  all'Italia  che 
li  ebbe  inspirati,  abbiasi  il  filologo  di  Amsterdam  i  ringra- 
ziamenti nostri. 

Roma,  agosto  1872.  s 

Domenico  Carutti. 


Flechia,  Dell'  origine  della  voce  sarda  NURAGHE^  con- 
getture etimologiche,  Torino,  1872  (estr.  dagli  Atti  della 
R.  Accademia  delle  Sciente  di  Torino,  voi.  7°). 

Siamo  lieti  ed  alteri  di  annunziare  ai  lettori  della  nostra 
Rivista  la  nuova  monografia,  che  il  prof.  Giov.  Flechia  fece 
tener  dietro  alla  Postilla  sopra  un  fenomeno  fonetico  [clz^tl) 
della  lingua  latina  (1)  ed  alla  Disserta\ione  linguistica  in 
cui  discorse  Di  alcune  forme  de'  nomi  locali  della  Italia  Su- 


(i)  Estr.  dagli  Atti  della  R.  Accad.  delle  Scienie  di  Torino,  voi.  6". 


—  146  — 

periore{i)^  lavori  accurati,  dotti,  severi,  utili  alla  scienza. 
Come  di  pari  lode  siano  degnissime  queste  ,  eh'  egli  mo- 
destamente intitolava  Congetture  etimologiche  ,  apparirà  , 
confidiamo,  anche  dai  brevi  cenni  che  daremo  intorno  alle 
medesime,  scostandoci  talvolta  dall'ordine  che  il  chiarissimo 
autore  seguì  nello  esporle. 

Qual  è  r  origine  della  voce  sarda  Nuraghe  (2)  ?  Tentò 
indarno  mostrarla  derivata  dal  greco  (veOpa  è'xeiv  -  essere 
forte  - ,  o  veopaxi?  -  nuova  rupe  -  )  il  Madao  :  né  furono  guari 
più  avventurati  T  Arri ,  lo  Spano,  il  Maltzan  nel  conside- 
rare questa  parola  sarda  come  composta  dalle  due  fenicie 
niir  (-  fuoco,  focolare,  casa  -)  e  hagh  (-  ardente  -)  od  hag, 
hagagh  (-grande-)  od  hag  (-  tetto-)  o  finalmente  hag  o 
chag  (-  rotondo  -)  e  nello  interpretarla  «  luogo  dove  ardeva 
e  si  conservava  il  fuoco  »  (Arri),  «  casa  grande,  coperta  a 
culmine  »  (Spano),  «  casa  rotonda  »  (Maltzan).  La  deriva- 
zione semitica  di  questo  vocabolo  si  manifesta  sommamente 
inverisimile  ove  si  noti  quanto  strani  fenomeni  sarebbero  e 
la  perfetta  conservazione  di  sì  fatta  parola  per  tre  o  quat- 
tro millennii  senza  scadimento  fonetico  (ed,  in  ispecie,  della 
gutturale  debole  che  vi  si  supporrebbe  primitiva,  suono  per 
la  propria  natura  assai  caduco,  e,  quando  è  medio ,  incli- 


(i)  Estr.  dalle  Memorie  della  preaccennata  Accademia,  serie  2*,  t.  27°. 

(2)  «  I  nuraghi  sono  ,  com'è  noto,  antichissimi  monumenti,  propri 
della  Sardegna,  i  quali  consistono  generalmente  in  un  edifizio  di  grossi 
e  ruvidi  sassi,  commessi  insieme  senza  alcuna  sorta  di  cemento  ,  in- 
nalzato a  foggia  di  torrione  circolare  che  sorga  a  modo  di  cono  tronco. 
Di  dentro  hanno  una  o  piìi  camere  l'una  sull'altra,  e  per  lo  più  non 
ricevono  luce  se  non  dall'entrata  che  è  un'apertura  posta  a  pie  dell'e- 
difizio,  e  talmente  bassa  da  non  potervisi  entrare  se  non  carpone. 
Queste  strutture  s'alzano  per  lo  più  alle  falde  o  sulle  cime  de'  monti 
e  delle  colline;  molte  già  ne  furon  distrutte;  ma  le  più  stanno  tut- 
tora in  piedi,  e  si  computano  ad  oltre  4000.  Tutti  s'accordano  nel  ri- 
peterne la  costruzione  da  un'età  molto  rimota,  perdentesi  nel  buio  de' 
tempi  preistorici  ;  ma  sono  varie  le  opinioni  circa  la  loro  origine  e 
destinazione,  facendosene  autori  gli  Egizii,  i  Fenicii,  i  Libii,  gl'lberi, 
come  anche  i  Pelasgi,  i  Greci,  i  Tirreni,  ecc.,  e  volendo  che  siano 
chi  sepolcri,  chi  templi,  chi  case,  chi  fortezze,  ecc.  »  Flechia,  Del- 
l'origine,  ecc.,  p.  4-5. 


-  U7  — 

nato  a  dileguarsi  nel  sardo),  ed  il  rinforzo  del  preteso  g 
primigenio  in  k,  rinforzo  che  sarebbe  affatto  necessario  am- 
mettere per  {spiegare  le  forme  arcaiche  nurake  ,  nuracu. 
Ed  è  oltracciò  un  vero  errore  di  metodo  il  rivolgersi  al 
greco,  al  fenicio  per  iscoprire  Torigine  di  un  vocabolo  sardo 
prima  di  averla  cercata  nel  latino  :  che  di  fondo  sostanzial- 
mente latino  è  il  sardo,  e,  soprattuto  il  logudorese,  è  fra  i 
dialetti  italici  il  più  fedele  conservatore  delT  organismo  e 
delle  fattezze  del  latino.  S'aggiunga  che  i  monumenti,  i  quali 
d'origine  più  o  meno  analoga  a  quella  dei  nuraghi  s' in- 
contrano nelle  altre  isole  del  Mediterraneo,  sembrano  pre- 
sentarci nomi  comparativamente  moderni  né  punto  semitici. 
Perchè  dunque  dovremo  credere  fenicio  il  nome  sardo  nu- 
raghe? 11  finimento  logudorese  -aghe,  onde  molti  sono  gli 
esempii,  od  è  un  riflesso  regolare  del  latino  -ace  (v.  g.  in 
furraghe=fornacem)  od  al  più  un'alterazione  di  altro  suf- 
fisso latino  ond'è  carattere  principalissimo  la  gutturale.  Ciò 
posto,  come  forma  fondamentale  del  sardo  nuraghe  sarebbe 
evidentemente  ad  ammettersi  un  sardo-romano  miiracem 
(pron.  murakem)  da  murus ,  ove  si  potesse  dimostrare  la 
possibilità,  la  verisimiglianza  della  trasformazione  del  m 
iniziale  in  n.  Ora  questo  fenomeno  ci  si  fa  innanzi  su 
tutto  il  campo  neo-latino  :  non  pochi  esempii  ne  reca  il 
Flechia,  tratti  in  ispecie  dai  dialetti  italiani  (v.  p.  lo-ii). 
Nura  per  mura  ci  appare  nella  locuzione  sarda  sa  mira  ca- 
bra {■=sa  mura  craba)  e  nelle  voci  nuratiolu  ^  nurighe , 
nuracciolu,  qcc.  :  ad  un  *nuragos  (log.),  nuragus  (merid.) 
è  manifestamente  equivalente  la  forma  muragos,  nome  spe- 
ciale di  un  nuraghe,  ma  originariamente  indicante  due  o 
più  nuraghi-,  vi  si  aggiunga  la  forma  plurale  murakcssus. 
Ciò  basta  in  ordine  alla  parola  materialmente  considerata  : 
veniamo  ora  al  concetto. 

E  affatto  conforme  a  natura  la  ipotesi  che  i  Sardi,  fatti 
romani,  dovendo  appellare  con  nome  nuovo  quei  misteriosi 
edifizii,  li  chiamassero  «  mura  ».  Cosi  altra  più  semplice 
sorta  di  antichi  monumenti  dell'isola  denominarono  «pietre)), 
com'  eziandio  qualche  nuraghe  nella  sua  appellazione  spe- 
ciale. Né  vuoisi  ommetterc    che,  tra  i  nomi  particolajù  dei 


—  148  — 

nuraghi,  circa  cinquecento  (ossia  l'ottava  parte)  sono  fon- 
dati su  munì  o  mura:  della  voce  muragos  già  abbiam  fatto 
menzione.  Il  suffisso  -ac-  in  nuraghe  [z:^  murakem)  ha 
forse  avuto  in  origine  valore  di  peggiorativo  (-muro  a  secco  -, 
cfr.  muru  barbaru,  muru  hurdu?):  forse  non  ebbe  impor- 
tante significato.  Pertanto  il  sardo  nuraghe  si  dovrebbe  in- 
terpretare -  muro,  o  muracelo  -  (cfr.  lomb.  muracca^  ven. 
mura'{'{i)^  e  nessuna  nozione  storica  od  archeologica  si  po- 
tr£bbe  trarre  da  questo  vocabolo.  Questa  conclusione  verrà, 
ne  slam  certi,  accolta  dalla  scienza,  che  bada  alle  solide  ra- 
gioni e  si  ride  delle  vane  sentenze  che  spesso  le  oppone  il 
volgo  dei  non  intendenti,  massime  ove  queste  siano,  come 
troppo  spesso  avviene,  quanto  insulse  nella  sostanza,  altret- 
tanto scortesi  nella  forma,  comicamente  burbanzose  ed  ano- 
nime. 

Insieme  con  quella  della  parola  nuraghe  viene  inciden- 
temente dimostrata  Torigine  latina  di  altre  voci  sarde  (i)  e 
sempre  con  quel  fervido  e  puro  amore  del  vero,  con  quella 
diligenza,  con  quella  perfetta  cognizione  dell'argomento  e  con 
queir  inesorabile  rigore  di  metodo  che  sono  inseparabili  da 
qualsiasi  lavoro  di  G.  Flechia,  cui  in  sì  fatte  virtù  scientifiche 
pochi  ci  sembrano  eguali,  superiore  nessuno.  E  noi  a  que- 
st'uomo, che  primo  fra  gl'Italiani  pubblicò  una  Grammatica 
sanscrita  lodata  dai  più  competenti  e  difficili  fra  i  giudici 
stranieri,  primo  insegnò  linguistica  nell'Ateneo  Torinese  e  ci 
fu  dotto  ed  affettuoso  maestro,  primo  si  accinse  a  comporre 
in  modo  veramente  scientifico  (ardua  e  lunga  impresa)  una 
teorica  storico-comparativa  della  lingua  e  dei  dialetti  italiani; 
a  quest'  uomo,  mirabile  esempio  di  operosità  indefessa  e 
feconda,  di  bontà  e  di  modestia,  auguriamo  dal  profondo  del 
cuore  che  possa  compiere  degnamente  1'  opera  non  peritura 
che  da  lui  attendiamo  ansiosamente  e  ch'egli  solo  può  darci. 

Torino,   io  settembre  1872. 

D.   Pezzi. 


(1)  V.  g.  di  sirboni  —  cinghiale  —  [s' arboni ,  su  arboni)  da  ipsum 
apronem;  di  cerila -treggia  -  da  cetra:  di  madau  -  ovile- da  metatum. 
V.  l'Appendice  alle  Congetture  etimologiche  (p.  25-32). 

Pietro  Ussello,  gerente  responsabile. 


-  149  - 

OSSERVAZIONI  SULLA  TEORIA 
"DELLA  CarKJUGAZlOV^E  G^HECA 


La  recensione  critica  della  mia  grammatica  greca  (i)  pub- 
blicata dal  prof.  Gaetano  Oliva  nel  secondo  fascicolo  di 
questa  ^vista  è  la  più  estesa  e  ragionata  fra  quelle  com- 
parse finora,  per  quanto  io  sappia,  in  Italia.  Parlarono  bensì 
del  mio  libro  alcuni  giornali,  ma  assai  brevemente  e  senza 
entrare  in  dettagliate  ricerche  e  discussioni,  che  all'indole 
loro  poco  sarebbero  convenute,  cosicché  i  loro  giudizi  non 
avevano  importanza  alcuna  per  la  scienza.  L'articolo,  invece, 
del  signor  Oliva  entra  a  discutere  con  qualche  larghezza  e 
con  serio  ragionamento  i  punti  principali  ne^  quali  la  mia 
grammatica  dalle  altre  si  distingue,  e  lo  fa  con  una  forma 
assai  urbana  e  cortese  per  me,  della  quale  mi  è  caro  ren- 
dere pubbliche  grazie  all'autore.  Per  questo  appunto  mi  sono 
indotto  a  rispondere,  e  a  cogliere  quest'occasione  per  esporre 
alcune  mie  opinioni  intorno  a  certe  questioni  di  grammatica 
greca,  dichiarando,  meglio  che  finora  non  abbia  fatto,  le 
ragioni  del  metodo  seguito  nel  mio  libro,  non  bene  inteso 
e  giudicato  in  qualche  punto  dal  recensente,. 

Il  prof.  Oliva  riconosce  che  la  mia  grammatica  non  è  «  ne 
«  un  plagio  ne  un  compendio  o  travestimento  delle  più  note 
«  fra  le  grammatiche  greche  scritte  dai  Tedeschi  »  (pag.  79), 
e  che  v'hanno  in  essa  parecchie  innovazioni  che  possono 


(1)  Grammatica  greca  per  le  scuole  di  Vigilio  Inama,  parte  I,  Eti- 
mologia: parte  II,  Sintassi.  Milano,  Valentiner  e  Mues,  1870. 

mvisla  di  filologia  ecc.,  I.  il 


—  150  — 
«  offrire  largo  campo  alla  meditazione  e  allo  studio  »  (pag.  89). 
Ma  nessuna  di  queste  innovazioni,  delle  principali  per  lo 
meno,  egli  approva  esplicitamente,  e,  facendo  un  confronto 
fra  la  mia  grammatica  e  quella  del  Curtius,  preferisce  questa 
alla  mia  in  tutti  i  punti  ne'  quali  divergono.  Egli  per  vero 
«  si  propone  di  esaminare  il  lavoro  unicamente  dal  punto 
«  di  vista  pratico,  della  scuola  cioè  »•,  benché  necessaria- 
mente sia  poi  costretto  a  comprendere  nella  sfera  della  sua 
indagine  anche  «  il  lato  scientifico  »  (pag.  79);  che  anzi  in 
realtà  in  lutto  il  corso  delFarticolo  si  considera  piuttosto 
questo  che  quello.  Di  fatti  lo  scopo  d^una  grammatica  greca 
per  le  scuole  non  può  ormai  piià  essere  quello  soltanto  di 
escogitare  un  metodo  qualunque  semplice  e  mnemonico  per 
agevolare  ai  ragazzi  Tapprendimenio  delle  forme  e  dei  co- 
strutti della  Jingua,  ma  si  richiede  da  essa  che  le  regole  siano 
ordinate  ed  enunciate  in  modo  consentaneo  ai  principii  delia 
scienza  che  indaga  le  origini  e  gli  storici  procedimenti  delle 
lingue.  La  questione,  come  giustamente  osserva  il  prof.  Oliva, 
si  riduce  a  porre  in  armonia  la  pratica  della  scuola  e  la 
scienza,  sicché  questa  non  venga  violata  o  svisata  mai,  né 
quella  resa  troppo  ardua  e  inaccessibile  alle  tenere  menti 
de'  giovanetti.  E  poiché  ogni  lingua  ha  caratteri  suoi  propri 
e  speciali,  e  nello  stesso  tempo  caratteri  comuni  ad  altre 
lingue  affini,  e  ogni  lingua  si  presenta  a  noi  in  una  fase  di- 
versa da  quella  che  essa  aveva  in  tempi  anteriori,  così  biso- 
gna che  la  sua  grammatica  tenga  il  giusto  mezzo  fra  le  fasi 
preistoriche  e  quelle  dei  tempi  conosciuti,  e  non  oltrepassi 
mai  quei  limiti  entro  i  quali  ella  é  circoscritta  e  determinata, 
invadendo  il  campo  riservato  alla  grammatica  comparata. 
Sotto  questo  aspetto  pare  al  prof.  Oliva  che  la  grammatica 
ad  Curtius  abbia  colto  il  giusto  segno,  e  che,  per  ora  al- 
meno, non  possa  farsi  né  meglio  né  più  di  lui.  A  me  invece 
era  parso  che  si  potesse  spingersi  un  po'  più  innanzi  su 


-  151  - 
quella  stessa  via  per  la  quale  il  Curtius  si  era  messo,  e 
avvicinarsi  di  più  a  quanto  la  scienza  linguistica   insegna, 
tenendo  maggior  conto  dei  risultati  di  questa,  senza  uscire 
perciò  dai  limiti  dell'e  lenismo,  e  senza  dover  ricorrere  troppo 
a  confronti  colle  lingue  affini.  E  mi  pareva  che  tutto  questo  si 
potesse  ottenere  senza  che  l'insegnamento  diventasse  troppo 
arduo  per  la  scuola,  che  anzi,  a  mio  credere,  esso  sì  rendeva 
con  questo  più  semplice  e  più  facile. Vedremo  più  sotto,  quanto 
e  come  in  tale  proposito  a  me  sia  parso  doversi  innovare;  per 
ora  mi  limiterò  ad  osservare  che  la  grammatica  del  Curtius 
così  da  sola  riesce  troppo  astrusa  non  solo  per  noi  Italiani, 
ma  ben  anco  pei  Tedeschi,  in  questa  materia  tanto  più  avanti 
di  noi,  o  per  lo  meno  assai  meglio  di  noi  provveduti  di  libri 
ausiliari;  cosicché  il  Curtius  stesso  fu  costretto,  per  rendere 
meglio  accessibile  e  ai  professori  e  agli  scolari  il  suo  libro,  a 
pubblicare,  non  ricordo  se  dopo  la  quarta  o  la  quinta  edizione 
della  grammatica,  quelPaureo  libro  degli  Schiarimela ì,  senza 
il  quale  essa  restava  ai  più  in  non  pochi  punti  oscura.  Questo 
fatto  stesso  potrebbe  da  alcuno  citarsi  come  argomento  di 
biasimo  pel  libro,  se  non  che  i  più  vi  risponderebbero  che 
la  rapida  diffusione  della  grammatica  del  Curtius  nelle  scuole 
di  Germania  e  nelle  nostre  è  prova  più  che  sufficiente  della 
eccellenza  sua.  Né  questo  argomento,  che  l'Oliva  adduce  di 
fatto,  è  privo  d'importanza,  né  a  me  cade  in  mente  di  con- 
traddirlo nel  caso  presente,  che  della  bontà  della  grammatica 
del  Curtius  sono  come  tutti  gli  altri  persuaso;  ricorderò  so'o 
come  la  diffusione    delle   grammatiche  del    Buttmann,  del 
Burnouf,  del  Kiihner  e  di  altre,  che  ora  a  ragione  si  vorreb- 
bero, per  la  parte  etimologica  almeno,  escluse  dalle  scuole, 
fosse  non  meno  rapida,  ne   meno  estesa   di    quella  avuta 
finora  dal  Curtius. 

Ma  ritorniamo  da  questa  digressione  all'argomento  di  cui 
dobbiamo  ora  occuparci.  Io  limiterò  il  mio  discorso  alla  sola 


—  152  — 
teoria  della  coniugaiione  greca,  perchè  è  in  questa  chMo 
credetti  utile  proporre  le  più  forti  e  importanti  modificazioni, 
ed  è  di  questa  sola  che  il  prof.  Oliva  nella  sua  recensione 
si  occupa.  Prima  però  trovo  necessario  premettere  alcune 
generali  osservazioni ,  perchè  si  veda  su  quali  fondamenti 
io  abbia  eretto  la  mia  teoria. 

La  Odorfologia  greca,  così  nella  declinazione  dei  nomi, 
come  nella  coniugazione  dei  verbi,  si  fonda  sulla  distinzione 
del  tema  e  dei  suffissi  della  flessione  ;  questi  sono  i  segna- 
casi pei  nomi,  le  desinente  personali  pei  verbi.  Delle  ra- 
dici propriamente  dette  la  Morfologia  non  può  né  deve  oc- 
cuparsi; di  esse  tratta  specialmente  quella  parte  della  gram- 
matica greca  che  s'intitola  della  formazione  delle  parole,  e 
per  la  quale  io  proposi  la  denominazione  di  Tematologia. 
Se  nella  Morfologia  qualche  volta  accade  di  avere  temi  mo- 
nosillabi, e  quindi  coincidenti  colle  radici,  non  per  questo 
è  necessario  venire  in  essa  a  una  distinzione  dei  temi  dalle 
radici,  poiché  la  lingua,  in  quanto  alla  flessione  loro,  li 
tratta  tutti  egualmente,  e  tutti  quindi  sotto  l'aspetto  morfo- 
logico sono  veri  temi,  Diffatti  in  nessuna  grammatica  mai, 
chHo  sappia,  si  fece  distinzione  fra  la  flessione  dei  temi  òn- 
(nomin.  6\\i)  e  q)\e3-  (nomin.  (pXévp),  e  quella  dei  temi  XaiXair- 
(nomin.  XaiXat4i),  o  x^pvip*  {nomin.  x^pvi^p),  benché  i  due 
primi  siano  pel  greco  due  radici,  e  i  due  secondi  no.  Ed 
egualmente  nella  coniugazione  dei  verbi  è  affatto  inutile  di- 
stinguere i  temi  monosillabi,  equivalenti  a  radici,  dagli  altri 
polisillabi,  perchè  tutti  formano  i  loro  tempi  nel  medesimo 
modo.  E  questa  distinzione,  in  realtà,  non  fu  mai  fatta  da 
nessun  grammatico,  per  quanto  a  me  consta',  e  nemmeno 
dal  Curtius.  Non  capisco  quindi  perchè  il  prof.  Oliva  insista 
tanto  ad  inculcare  che  nella  coniugazione  debbasi  «  anzitutto 
«  tener  di  mira  la  differenza  fra  radice,  tema  verbale  e 
«  tema  del  presente  »  (pag.  85)-,  poiché  la   distinzione  dei 


—  153  - 
due  temi  per  la  coniugazione  è  sufficiente,  e  l'aggiunta  della 
radice  non  ha  né  scopo,  né  utilità  alcuna.  Infatti  tra  la 
flessione,  per  es.,  dei  temi  pXair-  {pì^es.  pXdTrrai)  e  kott-  {pres. 
KÓTTTou),  e  quella  del  tema  KaXun-  {pres.  KaXuTTTuu)  e  altri  si- 
mili, non  v'ha  differenza  alcuna,  quantunque  i  primi  siano 
anche  fradici,  il  secondo  non  lo  sia.  Che  se  in  certi  temi 
radicali  (monosillabi)  v'ha  in  qualche  tempo  il  tema  sem- 
plice (per  es.,  Xm-)  accanto  al  rinforzato  (peres.,  Xem-),  o 
vi  ha  mutamento  di  vocale  (per  es.,  ipeu-  e  Tpan-),  questo 
fatto  è  accidentale  e  non  comune  a  tutti  ì  temi  radicali ,  e 
sovr'esso  quindi  non  potrebbe  mai  fondarsi  una  classifica- 
zione e  distinzione  morfologica. 

La  morfologia  quindi  non  deve  spingere  Tanalisi  della  pa- 
rola più  in  là  del  tema.  Se  non  che  fra  la  declinazione  e 
la  coniugazione  vi  ha  un'essenziale  e  importantissima  diffe- 
renza. Per  la  declinazione  basta  distinguere  il  tema  nominale 
dal  segna-caso ,  poiché  in  qualsiasi  forma  di  nome,  levato 
il  segnacaso  e  tolte  le  eventuali  alterazioni  da  esso  prodotte 
nella  parola ,  resta  il  tema  nominale  i^  mentre  invece,  tolte 
alle  varie  forme  del  verbo  nel  modo  indicativo  le  desinenze 
personali,  restano  i  temi  che  sono  speciali  a  ciaschedun 
tempo,  e  bisogna  quindi,  procedendo  oltre  nell'analisi,  spo- 
gliare questo  tema  di  ciò  che  è  speciale  a  quel  dato  tempo 
per  ottenere  quel  complesso  di  suoni  che  resta  essenzial- 
mente eguale  in  tutta  la  flessione,  e  che  si  dice  per  ciò  ap- 
punto tema  verbale.  Il  tema  verbale  è  dunque  il  fonda- 
mento della  coniugazione,  e  sia  poi  esso  monosillabo,  cioè 
una  radice.,  o  sia  polisillabo,  poco  importa.  La  morfologia 
non  ricerca  radici*,  così,  per  es.,  in  bibpdcTKo.uev  essa  trova 
come  tema  bpa- ,  in  èòpa^ov  trova  come  tale  bpajuo-  ;  qui 
essa  si  ferma;  spetta  alla  Tematologia  procedere  più  oltre 
nell'analisi,  ed  arrivare  all'unica  radice  bpa-  per  tutte  e  due 
le  forme. 


-  15i  - 

Premesse  queste  generali  osservazioni,  passo  ora  ad  esa- 
minare più  da  presso  la  teoria  della  coniugazione  greca, 
quale  è  esposta  nella  mia  grammatica.  I  principT  fonda- 
mentali sono  quelli  stessi  adottati  dal  Curtius,  ed  io  vado 
superbo  di  dichiararmi  seguace  della  scuola  filologica  dal- 
rillustre  filologo  tedesco  inaugurata.  Tuttavia  mi  discosto 
da  lui  principalmente  in  tre  punti ,  come  rettamente  co- 
nobbe Il  prof.  Oliva,  nel  modo  cioè  di  considerare  la  vo- 
cale  di  tongìiiniione ^  nell'anticìpare  lo  studio  dei  verbi  in 
|ii,  e  nella  distinzione  à^M'aoristo  che  io  dissi  Ur^o.  Mi 
propongo  di  discorrere  partitamcnte  di  ciascheduna  innova- 
zione, considerandola  sempre  sotto  il  doppio  aspetto  e  della 
scienza  e  della  scuola. 

La  vocale  o,  in  certe  persone  €,  che  precede  la  desinenza 
personale  nei  verbi  in  uj  (per  es.,  X^T-o-fiev,  Xé^-c-te)  fu  da 
tutti  i  grammatici,  nelFanalisi  della  forma,  considerata  a 
parte,  per  sé  sola,  e  staccata  così  dalla  desinenza  personale 
come  dal  tema  del  verbo.  Ora  qual'è  Tufficìo  di  questa 
vocale?  Alcuni  la  considerarono  come  distintivo  del  modo, 
e  COSI  il  KiJhner,  tà  altri  con  lui,  la  denominarono  vocale 
del  modo;  diffatti  questa  vocale  che  è  breve  (o,  e)  nelPin- 
dicativo,  diventa  lunga  nel  soggiuntivo  (w,  n)>  e  ad  essa  si 
aggunge  un  i  (oi)  nell'ottativo,  ed  è  in  questo  appunto 
che  i  tre  modi  fra  loro  si  distinguono.  Ma  nelTimperativo, 
nell'infinito  e  nel  participio  la  vocale  così  detta  del  modo 
non  muta,  e  nell'ottativo  stesso  non  è  l'oi  tutto  invero,  bensì 
il  solo  i,  come  si  vede  dai  verbi  in  ini,  il  carattere  distintivo 
del  modo,  cosicché  questa  proprietà  di  indicare  i  modi  non 
rimane  a  questa  vocale  che  pel  modo  soggiuntivo  dei  verbi 
in  lu;  nei  verbi  in  )x\  invece  abbiamo  tutti  i  modi  distinti 
fra  loro  senz'essa-,  come  potrà  ella  dunque  dirsi  ragione- 
volmente vocale  del  modo,  e  come  si  potrà  credere  che  il 
suo  ufficio  sia  quello  di  far  distinguere  fra  loro  i  variì  modi 


—  155  — 
d'ogni  tempo?  —  Altri  considerarono  questa  vocale  come  un 
semplice  elemento  fonetico,  introdotto  nella  forma  del  verbo 
per  renderne  più  facile  ed  armoniosa  la  pronuncia.  Perciò  il 
Curtius  e  molti  altri  grammatici,  e  prima  e  dopo  di  lui,  la 
dissero  vocale  di  legame  o  di  congitiniione  {^indevocal)\ 
per  questi  dunque  in  Xér-c-jiiev  e  XéT-€-T6,  in  pXéTr-o-)iev  e 
pX^TT-e-te  l'o  e  Te  avrebbero  per  ìscopo  di  evitare  l'unione 
immediata  delle  desinenze  personali  al  tema  verbale,  per 
non  avere  le  forme  'XeT'MCv,  'XeK-ie,  'pXen-iiev,  '^Xen-xe.  Ma  le 
obbiezioni  a  questa  maniera  di  considerare  la  vocale  di  cui 
discorriamo  si  affollano  con  troppa  facilità  alla  mente,  perchè 
si  possa  acquietarsi  a  tale  ipotesi.  Che  la  lingua  ricorra  non 
di  rado  a  questo  espediente,  d'introdurre  fra  i  varii  elementi 
componenti  una  parola  una  vocale  per  renderne  piiì  facile 
la  pronuncia,  è  cosa  nota  ed  ammessa  da  tutti  gli  studiosi  ; 
ma  quanto  più  gli  studii  linguistici  procedettero,  tanto  più 
si  conobbe  che  a  questo  espediente  la  lingua  non  ricorre  che 
in  casi  estremi,  quando  cioè  senza  di  esso  la  parola  riusci- 
rebbe o  del  tutto  impossibile  a  pronunciarsi,  od  aspra  e 
dura  secondo  le  regole  ordinarie  della  fonologia.  Il  numero 
quindi  di  queste  vocali,  che  si  dicevano  di  congiunzione, 
andò  mano  mano  scemando  col  procedere  della  scienza,  e 
presentemente  non  si  ammette  questo  elemento  di  natura 
puramente  fonetica  nelle  parole,  se  non  quando  ogni  altra 
maniera  di  spiegarlo  sia  stata  esperimentata  invano.  Ora, 
nel  caso  nostro,  non  solo  non  si  vede  questa  necessità  di 
interpretare  come  elemento  fonetico  la  vocale  che  precede 
le  desinenze  personali,  ma  anzi  non  di  rado  la  sua  prese aza 
come  tale  apparisce  incomoda  ed  assurda.  Di  fatti  non  v'ha 
legge  fonica  alcuna  che  proibisca  al  greco  forme  sul  tipo 
di  'Xetnev,  *X€ic.t€,  'pXejnuev,  *pXeTTT€  ed  altre  slmili.  Tali  com- 
binazioni di  suoni  sono  anzi  frequentissime  non  solo  nel 
perf.  medio-passivo ,   e    in    altre   forme    verbali ,  ma    ben 


-  156- 
anchc  nei  nomi.  Che  quando  pure  si  volesse  ammettere  che 
più  armoniose  dovessero  riuscire  all'oreccliio  greco  le  forme 
colla  vocale  che  dicono  di  legame,  e  che  per  questo  essa 
venisse  inframmessa,  come  mai  potrebbe  spiegarsi  la  sua 
presenza  anche  nei  temi  che  escono  in  vocale  e  in  dittongo? 
Non  sarebbero  forse  egualmente  armoniose  fra  loro  le  forme 
XOoftev  e  *Xu)uev,  pouXeùoiiev  e  *pouXeun6v  e  altre  simili  ?  Che 
se  si  vuole  ascrivere  alla  forza  dell'analogia,  come  alcuni 
han  fatto,  l'estendersi  della  vocale  di  legame  anche  a  questi 
temi,  potrà  forse  ragionevolmente  ammettersi  che  l'analogia 
avesse  tale  e  tanta  efficacia  da  far  penetrare  questa  vocale 
anche  nei  temi  che  escono  in  vocale  forte  (a,  e,  o),  nei 
quali  riusciva  ai  Greci  così  ingrata  e  incomoda,  che  con  ogni 
studio  e  con  ogni  maniera  di  contrazione  cercavano  nascon- 
derla o  sopprimerla  ?  In  nessuna  lingua  mai  si  riscontrereb- 
bero esempi  di  analogie  così  ii  razionali.  Né  qui  ricorro  a 
confronti  col  sanscri*^^o,  il  quale  ai  verbi  in  aiu,  eiu  ed  ocu 
contrappone  verbi  in  {à)jàmi^  dal  che  si  vede  che  l'o  (e) 
greco  non  poteva  essere  elemento  fonico  semplicemente;  io 
mi  sono  proposto  di  non  uscire  dal  campo  deirellenismo, 
per  mostrare  che  le  innovazioni  introdotte  nella  mia  gram- 
matica, benché  posiano  essermi  state  suggerire  dai  confronti 
colle  lingue  affini,  hanno  tuttavia  la  loro  unica  o  precipua 
ragione  nei  fatti  stessi  della  lingua  greca ,  '  quali  da  soli 
bastano,  in  questo  caso  speciale,  a  mostrare  quanto  sia  as- 
surdo il  considerare  la  vocale  che  sta  innanzi  alle  desinenze 
personali  come  elemento  fonetico  posto  là  ad  agevolare  la 
congiunzione  delie  desinenze  personali  col  tema  verbale. 

L'ufficio  dunque  di  questa  vocale  né  può  essere  quello  di 
distinguere  i  modi  fra  loro,  ne  quello  di  legare  fonicamente 
due  diversi  elementi  della  parola,  ma  ella  deve  avere  una  ra- 
gione etimologica  in  sé  stessa.  Noi  dobbiamo  quindi  consi- 
derarla come  un  suffisso  che  si  aggiunse  al  tema  verbale  in 


—  lòT  - 
modo  ed  ufficio  analoghi  a  quelli  che  vediamo  in  tutti  gli 
altri  suffissi  derivatori  di  temi  nominali.  Cos'i,  p.  e.,  l'o  di 
fipX-o-jaai  e  di  &-f-o-\xev  non  sarebbe  che  un  suffisso  eguale 
a  quello  che  abbiamo  nei  due  nomi  derivati  dalle  mede- 
sime radici  àpx-ó-<;  comandante,  àt-ó-?  condottiero,  e  presso 
a  poco  eguale  sarebbe  quello  di  XéT-o-)H€v  a  quello  di  Xó-f-o-? 
e  così  dicasi  degli  altri  verbi  di  questo  tipo. 

Nelle  altre  classi  di  verbi  invece,  nelle  quali  il  Curtius  ed 
altri  grammatici  pongono  come  suffissi  del  presente  i  suoni 
j-,  T-,  V-  (av-),  ctk-,  noi  dobbiamo  unire  con  questi  suoni  i'o 
(e)  che  segue,  e  considerarlo  come  parte  integrale  dei  suf- 
fissi, che  perciò  saranno  in  forma  greca  jo-,  to-,  vo-  (avo-), 
<Jko-.  Così  pure  nelPaor.  secondo  (forte  del  Curtius)  To  è 
suffisso  tematico,  e  non  vocale  fonetica,  e  i  suffissi  pel  fut. 
e  per  Taor.  i",  e  pel  perf.  ecc.  dovranno  essere  ero-,  <Ta-,  xa- 
e  non  già  i  soli  <t-  e  k-;  la  vocale,  vale  a  dire,  anche  in  que- 
sti dovrà  considerarsi  come  parte  del  suffisso  e  non  come 
aggiunta  fonetica.  I  suffissi  infatti  di  qualunque  genere ,  è 
cosa  ormai  da  tutti  ammessa,  non  sono  altro  che  anti- 
che particelle  o  parole,  che,  dopo  aver  avuto  nell'origine  del 
linguaggio  un'esistenza  indipendente  e  loro  propria,  furono 
attratte  dalle  parole  cui  si  accostavano  in  modo  tale  da  fon- 
dersi con  esse  sotto  un  solo  accento,  e  scaddero  così  al  sem- 
plice ufficio  di  suffissi.  Ora  se  questa  è  la  loro  istoria,  è 
certo  che  da  princìpio  si  dovettero  poter  pronunciare  per 
se  soli,  e  che  quindi  anche  i  supposti  suffissi  j-,  t-,  v-,  (Tk- 
dovettero  avere  dopo  di  sé  una  vocale  (originario  *:t),  altri- 
menti non  si  sarebbero  potuti  nemmeno  pronunciare.  Ora 
non  è  egli  cosa  del  tutto  assurda  il  credere  che  questi  suf- 
fissi gettassero  la  loro  vocale  originaria  ed  etimologica,  per. 
assumerne  poi  un'altra  eguale  fonetica  onde  poter  essere 
pronunciati?  La  vocale  dunque  che  dissero  di  congiun- 
zione è  un   vero  suffisso  tematico,  o  è  parte  soltanto  d'un 


-  158  - 
suffisso  tematico.  I  più  rinomati  linguisti  io  credo  che 
su  questo  siano  ormai  tutti  d'accordo  fra  loro,  e  il 
Curtius  stesso  ne  è  ora  persuaso  come  in  parecchi  suoi 
scritti  ebbe  a  dichiarare-,  ma  siccome  in  questa  opinione 
egli  non  venne  se  non  dopo  la  quarta  o  quinta  edizione 
della  sua  grammatica,  nella  quale  la  vocale  in  questione 
è  riguardata  come  vocale  di  legame,  cosi  per  non  mul- 
tare la  vecchia  teoria,  lasciò  che  le  successive  edizioni  con- 
tinuassero a  ripetere  quanto  nelle  prime  avea  detto,  dichia- 
rando ch'egli  persisteva  nella  grammatica  a  considerare 
questa  vocale  come  vocale  di  congiunzione,  benché  la  dicesse 
tematica,  per  ragioni  pratiche  e  didattiche.  Queste  ragioni 
pratiche  io  non  seppi  vedere;  a  me  parve  anzi  che  la  teoria 
della  coniugazione,  adottando  in  questo  punto  quanto  la  scienza 
insegnava,  avrebbe  guadagnato  in  semplicità  e  chiarezza,  e 
soprattutto  in  ragionevolezza,  togliendosi  di  mezzo  tutte  quelle 
incongruenze,  che  più  sopra  al  vecchio  sistema  abbiamo  rim- 
proverato. Quanto  più  l'analisi  di  una  forma  grammaticale  è 
sminuzzata,  tanto  più  riesce  difficile  ai  giovanetti  -,  ed  è  quindi 
necessario  ridurre  l'analisi  al  minor  numero  d'elementi  che  sia 
possibile*,  ora  è  certo  che  ai  giovani  studenti  devono  riuscire 
più  ardue  le  forme  t€)li-v-o-)li€v,  òiòd-cJK-o-uev  e  simili,  quando 
siano  divise  in  quattro  elementi,  che  quando  siano  divise  in  tre 
come  si  fa  nella  mia  grammatica  (Téji-vo-fiev,  òibà-crKO-fiev)*,  e 
più  facilmente  distingueranno  le  forme  del  futuro  da  quelle 
deil'aoristo,  quando  per  quelle  si  dia  come  carattere  il  ao-, 
e  per  queste  il  era-,  che  non  quando  per  le  une  e  per  le  altre 
sì  dia  il  solo  <y-,  come  tutte  le  grammatiche  sogliono  fare. 
Si  avrà  così  inoltre  il  vantaggio  di  presentare  ai  giovani  suf- 
fissi pronunciabili  per  sé  soli,  e  non  semplici  consonanti,  o 
combinazioni  d'impossibile  pronuncia,  come  è,  p.  e.,  lo  (Jk-. 
Né  so  vedere  poi  che  differenza  possa  correre,  in  quanto  a 
maggiore  o  minore  difficolrà,  fra  l'insegnare  ai  giovani,  come 


—  159  — 
fa  il  Curtius,  che  la  vocale  di  legame  è  per  certe  persone  un 
0  e  per  certe  altre  un  e,  e  Tinsegnare,  come  faccio  io,  che  il 
tema  temporale  del  pres.  esce  in  certe  persone  in  o,  in  certe 
altre  in  e.  La  teoria  della  coniugazione  dunque  accogliendo 
rinsegnamento  della  scienza  non  riesce  punto  più  difficile 
per  la  scuola;  che  quando  pure  ciò  fosse.,  non  dovrebbe  tut- 
tavia essere  lecito  insegnare  ai  giovani,  o  presentar  loro  un 
fatto  grammaticale  in  una  maniera  dalla  scienza  dichiarata 
inesatta  od  erronea.  Dall'aver  quindi  considerata  come  suf- 
fisso o  parte  di  suffisso  tematico  la  vocale  di  congiunzione 
non  credo  sia  derivata  difficoltà  maggiore  alla  mia  teoria  ; 
bensì  potrebbe  biasimarsi  la  denominazione  di  suffissi  del 
preseìtte  da  me  adottata.  Io  l'adottai  per  maggiore  brevità, 
e  perchè  corrispondesse  agli  altri  suffissi  temporali  ;  che  in- 
fatti come  questi,  così  quelli  servono  a  far  conoscere  e  di- 
stinguere i  singoli  tempi.  Del  resto  il  fatto  solo,  che  il  me- 
desimo suffisso  del  presente  s'incontri  pure  nelPimperfetto, 
basta  a  mostrare  che  esso  non  aggiunge  nessuna  nota  tem- 
porale al  verbo,  come  non  credo  nemmeno  che  esso  serva 
a  imprimere  nella  forma  il  significato  di  azione  durativa  q 
perdurante.  Questi  suffissi  di  presente,  o  meglio  suffissi  di 
classe,  io  credo  che  siano  suffissi  derivatori  di  nomina  a- 
gentis^  come  già  egregiamente  dimostrò  l'illustre  prof.  Ascoli. 
Ma  non  voglio  per  ora  entrare  in  questa  questione  che  ri- 
chiederebbe per  sé  sola  troppo  lungo  discorso. 

Dal  considerare  come  parte  del  tema  temporale  del  pre- 
sente la  vocale  che  altri  dicono  di  legame  ne  derivavano  due 
importanti  conseguenze  per  la  teoria  della  coniugazione  nella 
grammatica  greca,  l'una  riguardante  i  verbi  in  |ii,  l'altra  la 
classificazione  dei  verbi.  Da  tutti  i  grammatici  si  era  detto 
finora  che  ì  verbi  in  )x\  si  distinguono  dal  verbi  in  ui  in 
quanto  che  manchino  di  vocale  di  legame,  p.  e.,  Tl^^à-o-^€v 
a  canto  a  tcTia-iiiev.  Ora  questa  vocale  non  essendo  per  noi 


-  160  — 
che  un  suffisso,  si  avrebbe  dovuto  dire  che  la  differenza  fra 
gli  uni  e  gli  altri  consistesse  in  questo,  che  ì  verbi  in  w  for- 
mano il  loro  presente  per  mezzo  di  un  suffisso,  quelli  in  jà\ 
invece  senza  alcun  suffisso.  Senonchè  la  maggior  parte  dei 
verbi  in  \ii  esce  in  (v)vu)ii,  p.  e.  Ò€Ìk-vD-]lii,   e  questo   (v)vu 
che  precede  le  desinenze  personali  scompare  affatto  oltre  il 
presente  e  l'imperfetto;  perciò  egli  deve  riguardarsi,  e  fu  in- 
fatti riguardato  da  tutti  i  grammatici,  come  una   nota  spe- 
ciale a  questi  due  tempi.  Questa  nota  è  perfettamente  ana- 
loga a  tutti  gli  altri   sufl&ssi  del   presente   che  notiamo   nei 
verbi  in  uj,  e  che  al  par  di  essa  mancano  agii  altri  tempi-, 
il  (v)vu-  quindi  è  un  vero  suffisso  di  presente,  nel  senso  da 
me  dato  a  questa  parola,  ossia  un  suffisso  di  classe.    Non 
era  quindi  più  lecito  il  dire  che  i  verbi  in  jii  formassero  il 
loro  presente  senza  suffisso.  In  che  consiste  adunque  la  dif- 
ferenza di  coniugazione  fra  i   verbi  in  tu   e   i  verbi  in  \xi} 
La  differenza  sta  in  questo,  che  i  verbi  in  tu  hanno  un  tema 
del  presente  che  esce  in  o,  mentre  i  verbi  in  jai  hanno  un 
tema  del  presente  il  quale  esce  in  ahra  vocale.  Non  fa  ec- 
cezione che  il  solo  blbujui,  verbo  in  tutta  la  sua  flessione  più 
o  meno  irregolare,  e  che  quindi  non  può   punto  infirmare 
la  nostra  asserzione.  Le  due  coniugazioni  sono  dunque  fra 
loro  diverse  perchè  il  tema  d^i  verbi  che  appartengono  ad 
una  esce  diversamente  da  quello  dei  verbi  che  appartengono 
all'altra.  Vale  quindi  pei  verbi,  come  è  naturale,  la  ragione 
medesima  che  vale  pei  nomi.  Questi  pure  appartengono  a 
diversa  declinazione  secondo  che  il  tema  loro  esce  piuttosto 
in  uno  o  in  altro  modo  ;  e  come  i  temi  Xoto-,  veavia-  e  poipu-, 
a  cagione  d'esempio,  hanno  declinazione  diversa  perchè  e- 
scono  in  vocale  diversa,  così  in  modo  affano  analogo  i  temi 
del    presente    9epo-  e  Wxa-,   Xuo-  e   beiKvu-  hanno    diversa 
flessione  perchè  diversa   è   la   vocale  che  hanno  all'uscita. 
Tuttavia  io  non  voglio  dire  con  questo  che  la  differenza  fra 


-  161  - 
le  due  coniugazioni  sia  semplicemente  fonetica.  No;  ve  n'ha 
una  morfologica,  e  importantissima.  Mentre  nei  verbi  in  uj 
il  tema  esce  in  o  nelle  prime  persone  di  tutti  i  numeri  e 
nella  terza  del  plurale,  e  in  e  nelle  altre  persone,  nei  verbi 
in  m  invece  il  tema  esce  in  vocale  lung-a  nelle  tre  per- 
sone del  sing.  del  pres.  e  imperf.  indicat.  attivo,  ed  in 
vocale  breve  in  tutte  le  altre  sue  forme.  Ora  questa  dif- 
ferenza è  certo  importantissima,  ne  la  grammatica  deve  ta- 
cerla o  nasconderla  o  scerriarla-,  nella  mia  grammatica  essa 
è  posta  in  evidenza  non  meno  che  in  tutte  le  altre  gram- 
matiche ch'io  mi  conosca,  cosicché  mi  ftce  non  poca  mara- 
viglia il  vedermi  rimproverare  dal  prof.  Oliva  di  non  aver 
tenuto  distinte  le  due  coniugazioni  (pag.  85).  Se  non  che 
tutte  le  sue  osservazioni  ed  obbiezioni  su  questo  proposito  mi 
riuscirono  poco  chiare,  e  temo  ch'egli  abbia  letto  forse  troppo 
in  fretta,  e  non  colla  debita  attenzione  la  mia  grammatica 
in  questa  sua  parte.  A  che  debba  attribuirsi  questa  diffe- 
renza organica  fra  le  due  coniugazioni  non  è  facile  il  dire, 
ne  spetta  ad  ogni  modo  il  dirlo  alla  grammatica  speciale 
della  lingua  greca.  Questa  differenza,  come  è  noto  a  tutti 
gli  studiosi  di  lingua  greca,  e  come  il  prof.  Oliva  ripete, 
non  si  estende  al  di  là  del  presente  e  dell'imperfetto. 
Circa  all'aoristo  secondo  dei  verbi  in  ^i,  ch'io  dissi  ter:{o^ 
terrò  discorso  più  sotto.  Al  di  fuori  dunque  di  questi  due 
tempi  ogni  differenza  di  coniugazione  fra  i  verbi  in  iw  ed  i 
verbi  in  ^i  sparisce,  tutti  seguono  la  medesima  flessione, 
variata  solamente  in  quanto  che  il  tema  verbale  ora  esce 
in  vocale  ora  in  consonante  muta  ora  in  consonante  liquida. 
Questo  fatto  importava  che  fosse  posto  nella  grammatica 
in  maggiore  evidenza  di  quello  che  finora  si  è  fatto.  Poiché 
dal  trattare  i  verbi  in  -^i  a  parte  e  da  soli,  separati  affatto 
dai  verbi  in  uj,  s'ingenera  facilmente  ne'giovani  l'opinione 
che  le  due  classi  di  verbi  abbiano  in  tutto  coniugazione  di- 


—  162  — 
versa.  Ragioni  quindi  e  scientifiche  e  didattiche  consiglia- 
vano di  far  seguire  immediatamente  dopo  la  coniugazione 
del  presente  e  delibi mperfetto  dei  verbi  in  u;  quella  del  pres. 
e  deli'imperf.  dei  verbi  in  \.ix.  E  questa  innovazione  mi  parve 
potesse  introdursi  nella  scuola  senza  rendere  punto  più  dif- 
ficile o  più  lento  lo  studio  della  grammatica  greca.  La  con- 
iugazione del  pres.  e  deirimperf.  dei  verbi  in  w  si  apprende 
dai  giovanetti  nelle  scuole  nostre  insieme  colla  declinazione, 
affinchè  possano  fare  i  temi  e  gli  esercizi  che  son  necessari 
a  ben  imprimere  loro  nella  memoria  tutte  le  forme  dei 
nomi.  Quando  essi  arrivano  quindi  alla  teoria  della  coniu- 
gazione del  verbo,  conoscono  già  praticamente  quella  parte 
che  si  riferisce  al  pres,  e  alPimperf.  dei  verbi  in  w.  Non 
mi  par  quindi  che  possa  riuscire  difficile  l'aggiungere  im- 
mediatamente ad  essa  lo  studio  della  coniugazione  del  pres. 
e  deli'imperf.  dei  verbi  in  fii,  la  quale  differ  sce  da  quella  dei 
verbi  in  u)  molto  meno  di  quanto  a  prima  giunta  può  parere, 
tanto  più  dopo  che  si  è  cessato  di  considerare  i'o^e)  come 
vocale  di  legame.  E  le  difficoltà  di  questo  studio  si  dimi- 
nuivano ancora  o  si  togl'evano  affatto  per  me,  dal  momento 
che  aveva  creduto  necessario,  per  ragioni  che  esporrò  fra 
breve,  di  separare  dai  verbi  in  p.i  Vaoristo  secondo^  che 
tutte  le  altre  grammatiche  trattarono  insieme,  e  di  riman- 
darne ad  altro  luogo  lo  studio. 

La  seconda  conseguenza  che  derivava  dal  considerare  la 
vocale  di  legame  come  suffisso  o  parte  di  suffisso  tematico 
era  una  classiJica:{ione  dei  verbi  diversa  da  quella  adottata 
dal  Curtius  o  da  altri  grammatici.  Per  una  teoria  della 
coniugazione  i  verbi  greci  non  si  potrebbero  pratica- 
mente classificare  che  in  due  sole  maniere,  o  secondo  Tu- 
scita  del  tema  loro,  come  si  fa  pei  nomi,  secondo  cioè  che 
il  tema  verbale  esce  in  vocale  o  in  consonante,  ovvero 
secondo  il  modo  diverso  col  quale  formano  il  presente.  Se 


-  163  - 
i  vocabolari  greci,  invece  di  dare  ìe  parole  bell'e  fatte,  des- 
sero le  nude  radici,  o  i  temi  verbali,  la  prima  maniera  di 
classificazione  sarebbe  per  molte  ragioni  da  preferirsi  alla 
seconda;  ma  poiché  i  vocabolari  offrono  i  verbi  nella  forma  del 
presente  indicativo,  così  per  ragioni  pratiche  la  grammatica 
è  costretta  ad  appigliarsi  alla  seconda  maniera,  e  a  classi- 
ficare tutti  i  verbi  secondo  la  diversa  formazione  del  pre- 
sente. Conosciuta  questa  si  può  facilmente  risalire  al  tema 
verbale,  che  è  il  fondamento  sul  quale  tutte  le  altre  forme, 
le  une  indipendentemente  dalle  altre,   vengono  ricostruite. 

Una  classificazione  per  essere  esatta  e  compiuta  deve  es- 
sere tale  che  in  sé  comprenda  tutti  gli  oggetti  che  sono  da 
classificarsi,  e  che  abbia  un  u?iico  criterio, 

A  queste  due  condizioni,  se  io  non  m'inganno,  risponde 
pienamente  la  classificazione  da  me  proposta,  mentre  invece 
pecca  contro  la  seconda  quella  adottata  nella  sua  grammatica 
dal  Curtius.  In  questa  infatti  una  prima  classe  è  costituita 
dai  verbi  che  hanno  il  teina  del  presente  eguale  al  tema 
verbale  (per  es. ,  XéY-o-nev),  e  un'altra  classe  da  quelli  che 
hanno  il  tema  verbale  rinfor:{ato  al  presente  (p.  es.,  Xeirr-o-iiiev, 
tema  verbale  Xm-).  In  queste  due  classi  adunque  il  criterio 
di  divisione  è  una  qualità  inerente  al  tema  stesso  del  pre- 
sente, mentre  invece  in  cinque  altre  classi  il  criterio  di  divi- 
sione è  il  vario  suffisso  del  presente  (j-,  t-,  v-,  (Tk-,  vu-),  e  nel- 
l'ottava il  criterio  è  un  altro  ancora,  il  ricorrere  cioè  a  temi 
diversi  per  formare  certi  tempi.  E  poi,  se  la  prima  classe 
deve  comprendere  i  verbi  che  hanno  il  tema  del  presente 
eguale  al  tema  verbale,  perchè  non  saranno  in  essa  com- 
presi anche  i  verbi  ècr-|n^v,  (pa-fi^v,  T-n€v  ed  altri  simili,  che 
il  Curtius  pone  in  un'altra  classe?  Nella  nostra  classifica- 
zione invece  l'unico  criterio  di  divisione  è  il  suffisso  del 
presente,  e  secondo  che  esso  è  diverso,  diversa  è  la  classe 
alla  quale  il  verbo  appartiene,  e  se  esso  manca,  come  in 


~  164  - 

non  pochi  verbi  (in  jii)  avviene,  tutti  questi  entrano  na- 
turalmente in  una  classe  sola,  che  è  la  settima  nella  mia 
grammatica.  In  questa  classificazione  tutti  i  verbi  greci, 
tutti  quelli  per  lo  meno  che  hanno  un  presente,  trovano 
il  loro  posto,  dietro  un  criterio  evidente  e  facilmente  rico- 
noscibile. 

Il  prof.  Oliva  mi  rimprovera  d'aver  scambiato  i  caratteri 
di  classifica'{ione  con  quelli  della  coniugazione  (pag.  8i), 
ma  se  devo  dire  il  vero,  per  quanta  buona  volontà  ci  met- 
tessi, non  sono  riuscito  a  ben  comprendere  che  cosa  egli 
volesse  dire  con  questa  asserzione. 

Nella  mia  classificazione  non  volli  tener  conto  dei  temi 
verbali  semplici  e  dei  rinforzati,  come  fa  il  Curtius,  e  ciò 
per  due  ragioni  principalmente.  Prima  di  tutto  perchè  biso- 
gnava ch^io  scegliessi  un  unico  criterio  di  divisione,  e  questo 
scelsi,  come  sopra  già  dissi,  nel  suffisso  del  presente,  e  in 
secondo  luogo  perchè  la  differenza  fra  tema  verbale  semplice 
e  tema  verbale  rinforzato  non  ha  a  che  far  nulla  col  pre- 
sente. 

Di  fatti  il  rinforzamento  che  iì  Curtius,  e  con  esso  quasi 
tutti  i  grammatici,  dicono  del  presente,  si  estende  non  solo 
airimperfetto,  ma  anche  a  tutti  gli  altri  tempi,  ad  eccezione 
delTaoristo  secondo  o  forte,  in  alcuni  pochi  verbi,  che  per 
la  prosa  attica  si  riducono  a  Xeitriu  e  cpeuTiw  e  pochissimi 
altri.  L'avere  il  tema  ingrossato  non  è  dunque  una  proprietà 
del  presente,  come  non  è  nemmeno  una  proprietà  esclusiva 
all'aoristo  secondo,  né  ad  alcun  altro  tempo,  l'avere  il  tema 
semplice;  in  questo  la  lingua  non  segue  regola  sicura,  né 
su  questo  criterio  si  può  ragionevolmente  istituire  una  clas- 
sificazione dei  verbi  greci. 

L'origine  di  questi  doppi  temi  nei  verbi  e  la  loro  esten- 
sione ed  importanza  nella  lingua  greca  meriterebbero  piiì 
lungo  discorso  di  quello  che  per  ora  mi  sia  concesso.  Ma 


-  165  — 
a  me  pare  che  in  molte  grammatiche  moderne,  e  più  che 
in  tutte  forse  in  quella  del  Curtius,  siasi  dato  troppe 
maggior  rilievo  a  queste  doppie  forme  di  quello  che  esse  ab- 
biano realmente  nella  lingua.  Nel  greco  esse  sono  relativa- 
mente poche,  benché  s'incontrino  in  verbi  assai  di  frequente 
adoperati.  La  loro  importanza  è  grande  principalmente  per 
la  storia  della  lingua,  che  in  origine,  come  dal  dialetto 
d'Omero  e  dei  poeti  si  può  dedurre,  esse  erano  più  nume- 
rose di  quello  che  sono  nel  dialetto  attico.  Ma  nella  lingua 
si  scorge  evidente  la  tendenza  di  ridurre  tutta  la  coniuga- 
zione ad  un  unico  tema  verbale,  e  nello  stato  in  cui  il 
greco  ci  si  presenta,  questa  riduzione  è  proceduta  ormai 
così  avanti  che  nella  grammatica  la  distinzione  fra  tema 
semplice  e  rinforzato  va  considerata  piuttosto  come  eccezione 
di  pochi  verbi  che  come  regola  generale  del  maggior  nu- 
mero. Nel  dialetto  attico ,  a  parte  poche  eccezioni ,  noi 
possiamo  dire  che  il  tema  semplice  s'incontri  nelFaoristo 
secondo  soltanto,  e  solo  nei  verbi  della  prima  classe-,  perchè, 
essendo  in  questa  il  suffisso  dei  presente  eguale  a  quello 
deiraoristo  secondo,  la  distinzione  dei  due  tempi  non 
poteva  più  avvenire  per  mezzo  del  suffisso  (che,  per  es., 
l-tpa(p-ov  per  la  sua  forma  tanto  sarebbe  imperfetto  quanto 
aoristo  secondo)  ;  e  bisognava  quindi  o  adoperare  l'aoristo 
i°  (ItpaM^a)  o  imprimere  la  differenza  nel  tema  stesso  del 
verbo.  Così  si  ebbe  I-Xitt-ov  accanto  a  l-Xeirr-ov,  ?-(puT-ov 
accanto  ad  ?-<peuT-ov  ed  2-TpaTt-ov  accanto  a  è-Tp€7r-ov,  e  così 
via.  Mentre  invece  in  tutti  gli  altri  tempi  nei  quali  il  solo  suf- 
fisso di  ciascheduno  bastava  a  impedire  che  si  confondessero 
insieme,  la  lingua  conservò  intatto  un  unico  tema  verbale 
(ved.  per  es.  i  tempi  di  neiOiu),  come  io  conservò  in  quelle 
classi  di  verbi  nelle  quali  il  suffisso  del  presente  era  diverso 
da  quello  dell'aoristo  2°;  co?ì,  per  es.,  l-PaX-Xo-v  (da  *è-paX 
-jo-v)  ed  è-paX-o-v,  l-KpqZo-v  (da  *è-KpaT-jo-v)  ed  i-KpaT-o-v, 

Svista  di  filologia  ecc.,  l.  •* 


—  166  - 
è-TUTT-To-v  ed  ?-TUTT-o-v,  l-Te|Li-vo-v  ed  ?-Te|i-o-v  ecc.  Questa 
regola  ha  come  ogni  altra  le  sue  eccezioni",  né  io  la  accenno 
come  se  fosse  costante,  ma  solamente  perchè  mi  pare  che 
ad  essa  tenda  sempre  pii^  accostarsi  nel  suo  corso  la  lingua; 
e  per  mostrare  entro  quali  limiti  vada  ristretta  nella  gram- 
matica la  distinzione  dei  temi  verbali  semplici  e  rinforzati. 
Ora,  per  ritornare  alla  classificazione  dei  verbi,  pare  a 
me  che  quella  proposta  nella  mia  grammatica  sia  da  pre- 
ferirsi a  quella  adottata  dalle  altre,  tanto  se  si  considera  dal 
lato  scientifico  quanto  se  dal  lato  praùco  e  dalla  sua  utilità 
per  le  scuole. 

II  numero  delle  classi  è  minore  dì  quello  stabilito  dal 
Curtius,  e  i  caratteri  di  ciascheduna  sono  assai  facili  a  di- 
stinguersi in  qualsiasi  verbo.  Io  credo  sia  ben  raro  il  caso 
che  un  giovine  si  trovi  impacciato  a  conoscere  immediata- 
mente a  quale  delle  sette  mie  classi  un  verbo  qualunque 
appartenga,  mentre  non  so  se  colla  stessa  facilità  egli  possa 
riuscire  a  questo  sia  nella  grammatica  del  Curtius  sia  in 
altra  qualsiasi. 

Passo  ora  alla  terza  innovazione  notata  dal  prof.  Oliva 
nella  mia  grammatica,  e  più  esplicitamente  ancor  delie 
altre  da  lui  riprovata  e  respinta,  quella  ddVaoristo  ten^o. 

L'aoristo  ch'io  dissi  terzo  fu  finora  da  tutti  i  gramma- 
tici riguardato  come  un  aoristo  secondo  speciale  ai  vei^bi 
in  MI,  e  da  tutti  la  sua  flessione  si  è  sempre  trattata  in- 
sieme con  quella  del  presente  e  dell'imperfetto  di  questi 
verbi,  e  si  asseriva  concordemente  che,  meno  pochissime 
eccezioni,  questo  aoristo  segue  nel  modo  indicativo  la  con- 
iugazione deirimperfetto,  negli  altri  modi  quella  del  rispet- 
tivo presente  dei  verbi  in  j^ii.  La  sola  differenza  che  vi 
si  notava  era  questa,  che  Taoristo  fosse  privo  del  raddop- 
piamento che  è  proprio  degli  altri  due  tempi.  Così,  p.  e., 
essi  dicevano:  come  bìbiufa  all'imperfetto  fa  é~òi-buj-v,  l-bi- 


-  167  — 
Ò10-5,  è-òi-bu»,  così  all'aoristo  2°  farà  è-òm-v,  J-òuu-^,  è-òui,  e  come 
al  plurale  l'imperfetto  ha  è-òi-bo-).iev,  é-òi-òo-T€  ,  è-òi-òo-crav, 
così  Taoristo  ha  €-bo-uev,  è'^bo-ie  ,  l-bo-cfav.  Egualmente 
per  TÌ0Ti)iii  accanto  alPimperf.  è-Tien-v,  è-Ti-Gn-?,  è-ti-Qr]  si  ha 
Taoristo  2"  è'-Gn-v,  ^-Gn-?,  è'-Gn,  e  pel  plurale  accanto  a  è-ri- 
8£-M€v,  è-TÌ-0e-Te,  è-xi-Ge-oav  le  corrispondenti  forme  deirao- 
risto  2°  é-0e-|Li€v,  e-tì€-Te,  e-0e-O"av.  Così  di  'tcTiriMi  ^imperfetto 
suona  l'UTTiv,  iO'tti?,  l'cTTri,  e  Taoristo  2°,  sostituendo  l'aumento 
allì  che  nell'imperfetto  fa  le  veci  del  raddoppiamento,  ha 
normalmente  l-arn-v,  è-aTTi-(;,  è'-cin  Se  non  che,  essi  dice- 
vano, per  questo  verbo  è  da  notarsi  che  esso  irregolarmente 
conserva  lunga  la  vocale  del  tema  anche  nel  duale  e  nel 
plurale  (è'cTTriiuev  ecc.),  mentre  nell'imperfetto,  secondo  la  re- 
gola generale,  l'ha  breve  (iCTàMev,  idrcLTt  ecc.)  (i).  —  Ora 
Tesposizione  di  questi  fatti  e  di  questa  regola  è  piena  di 
inesattezze  per  non  dire  che  è  erronea  affatto,  ed  io  non  so 
comprendere  come  abbia  potuto  ripetersi  tradizionalmente 
in  tutte  le  grammatiche  fino  ai  giorni  nostri.  Prima  di  tutto 
le  forme  per  Taoristo  2°  dei  verbi  biba))ai  e  TiGrmi  al  numero 
singolare  (èbuuv,  tbuuq,  Ibu)  -  éGriv,  è'Qri<;,  eGr))  sono  una  inven- 
zione gratuita  dei  grammatici,  fatta  per  avere  esatto  il  paralle- 
lismo colia  coniugazione  dell'imperf.  dei  verbi  in  jni.  La 
lingua  di  queste  forme  non  sa  nulla,  e  ci  mostra  sempre 
per  questi  due  verbi  e  pel  verbo  iriiai  neiraoristo  2"  al  nu- 
mero singolare  le  strane  forme  col  suffisso  xa  (è'bouKa,  èQ»ìKa, 
fÌKa)  uniche  in  tutta  la  grammatica  greca,  e  senza  esatti  ri- 
scontri nelle  lingue  affini.  La  corrispondenza  quindi  della 
flessione  di  questi  aoristi  con  quella  deirimpcrfetto  dei  verbi 


(i)  Quest'opinione  è  così  radicata  nei  grammatici  che  il  Kì^hner 
nell'ultima  edizione  della  sua  pregiatissima  Grammatica  compiuta  della 
lingua  greca  [Ausfiìhrlichc  Grammatik  der  gricchischen  Sprachc,  Han- 
nover, 1869-1872)  dà  per  l'aor.  di  ictniui  le  forme  èaTrjv,  fOTr|(;,  écfr)-)  e 
al  piar,  laxaiuev,  foTOTc,  èaxaaay/,  benché  nel  paradigma  poi  si  corregga. 


-  168  — 
in  m  è  un'asserzione  dei  grammatici  contraddetta  dalla  lin- 
gua stessa.   Ne  meno  erronea  è  Taltra  loro  asserzione    che 
il  mantenersi  della  vocale  lunga  del  tema  nel  plurale  e  nel 
duale  dell'aoristo    2°   di    latrmi   (  ^arnv,  pL  èatrmev    e   non 
larayiev)  sia  una  irregolarità,  poiché  tutti  gli  altri  aoristì  di 
questo  tipo  («tviuv,  èbpciv,  ècpOv,  Ibuv  ecc.)  conservano  egual- 
mente come  ècTTTìv  la  lunga  in   tutto   l'indicativo,   e   soli    i 
tre   verbi  citati   hanno   la   breve  nel    plurale  e  nel  duale. 
Stando  quindi  ai  fatti  che  la  lingua  ci   offre,  noi  dovremo 
dire  che  la  coniugazione  regolare  di  questo  aoristo  ci  è  rap- 
presentata da  èainv,  poiché  con  esso  concordano  perfetta- 
mente,  e   in  tutti   i   modìy  tutti  gli  altri  aoristi  analoghi; 
mentre  invece  dovrà  dirsi  irregolare  la  flessione  dei  tre  verbi 
bibiuni,  xlenfii  e  in|ii)  che  non  è  seguita  da  nessun  altro  verbo 
e  che  ha  caratteri  affatto  suoi  proprii  e  speciali.  Né  la  ir- 
regolarità di  questi  tre  aoristi  si  limita  al  solo  modo  indi- 
cativo^ che  essa  si  estende  pure   agli   altri  modi^    cosicché 
la  loro  flessione  non   coincide    esattamente    né   con    quella 
del  presente  e  dell'imperfetto  dei  verbi  in  ^ii  né  con  quella 
degli  altri  aoristi   secondi.  Così,  p.  es.,  nel  modo  impera- 
tivo  avremo   nel  presente  TiBei,   biòou,    e  nell'aoristo    se- 
condo invece   Gè?,  bó?;   néì'injìnito   avremo    pel  presente 
•neévai,  bibóvai,  e  per  Taorìsto  GcTvai,  boOvai;  e  d'altro  canto 
tutti  gli  altri  aoristi  secondi  a  queste  forme    d'*imperativo 
(eé?,  bó?)  e  d'infinito  (Geivai,  boOvai)  rispondono  con  forme 
diverse  ((TtììBi,  tvoiGi  ecc.,  ffxfìvai,  fvaivai  ecc.).  La  flessione 
dunque  di  questi  tre  aoristi  é  per  tutto  e  in  tutto  irregolare, 
come  irregolare  in  genere  é  la  flessione  di  questi  tre  verbi 
anche  in  tutti  gli  altri  loro  tempi.  A  torto  quindi   i   gram- 
matici considerarono  finora  come  normale  la  flessione  degli 
aoristi  di  TiGnMt  e  bibujjni,  e  come  anomala  quella  degli  altri 
aoristi,  che  da  essi  divergono.  Conviene   quindi  invertire  la 
teoria,  e  posta  come  normale  la  flessione  di  Ictttìv,  considerare 


a  parte  e  come  eccezione  quella  dei  tre  aoristi  in  xa.  Ora 
per  la  flessione  di  Icxtriv  vale  la  regola  seguente  :  il  tema  ha 
la  vocale  lunga  nei  tre  modi  indicativo  (laxnv),  imperativo 
(0Tn9i)  e  infinito  (cTinvai),  ed  ha  invece  la  vocale  breve  negli 
altri  tre  modi  soggiuntivo  (cttu)  da  *  aiaui),  ottativo  (ata-in-v) 
e  participio  (aià-VT-e*;).  Dov^è  dunque  la  somiglianza  fra  que- 
sta flessione  e  quella  del  pres.  e  delPimperf.  dei  verbi  in  )ii,  se 
in  questi  la  vocale  lunga  del  tema  sMncontra  solo  nelle  tre 
persone  singolari  del  modo  indicativo ,  e  in  tutte  le  altre 
forme  abbiamo  la  breve  ?  Fra  la  coniugazione  dell'aor,  2* 
dunque  e  quella  del  pres.  e  dell'imperf.  dei  verbi  in  ini  non 
vi  ha  né  parallelismo  né  somiglianza,  né  v'ha  quindi  ragione 
alcuna  né  scientifica  né  didattica  perchè  la  flessione  dei  tre 
tempi  si   debba  trattare  insieme. 

La  flessione  di  questo  aoristo  invece  coincide  perfettamente 
con  quella  dQWaoristo  passivo,  ne  questa  coincidenza  è  certo 
accidentale.  L'aoristo  passivo  é  tempo  composto  dal  tema  ver- 
bale e  da  uno  (aor.  2")  o  da  due  (aor.  1")  verbi  ausiliari  come 
dimostrò  già  da  molti  anni  il  Curtius,  la  cui  ipotesi  mi  pare 
sia  stata  finora  generalmente  accettata  dai  linguisti.  Ora 
questo  ausiliare  dovette  essere  appunto  un  aoristo  sul  tipo 
dell'aoristo  ch'io  dico  ter:{0^  e  poiché  in  questo  è  frequente  il 
significato  intransitivo  o  passivo  {laTr\v  stetti,  e  fui  posto),  così 
dovrebbe  ora  cessare  dairapparir  strano  che  Taoristo  passivo 
abbia  la  forma  con  flessione  attiva.  Accenno  di  volo  a  questo 
concetto  che  meriterebbe  più  largo  sviluppo,  per  ritornare  alla 
questione  che  piiì  da  presso  mi  riguarda. 

Indotto  dunque  dalle  ragioni  sovraesposte  a  distaccare  la 
teoria  della  flessione  dell'aoristo  3°  da  quella  del  pres.  e  del- 
rimperf.  dei  verbi  in  m,  mi  parve  che  il  luogo  più  razionale 
ed  opportuno  per  essa  fosse  presso  alla  teoria  degli  altri  ao- 
risti, nel  qual  posto  serviva  di  naturale  passaggio  allo  studio 
degli  aoristi  passivi,  coi  quali,  come  abbiamo  detto,  Taor.  3** 


-  170  - 
ha  identica  flessione.  Assegnato  a  questo  aoristo  un  nuovo 
posto  bisognava  dargli  un  nuovo  nome  poiché  il  vecchio  non 
gii  poteva  più  convenire.  Giacché  é  bensì  vero  che  nessun 
verbo  in  jii  forma  un  aoristo  secondo  sul  tipo  dell'aoristo  se- 
condo dei  verbi  in  cu  (p.  e.  sul  tipo  di  è'Xmov),  ma  é  vero  pur 
anche  che  dei  verbi  in  jui  sono  relativamente  assai  pochi  quelli 
che  formano  1  aoristo  ch'io  dico  terzo,  e  che  la  maggior  parte, 
più  di  due  terzi,  di  questi  aoristi  appartiene  ai  verbi  in  uu. 
Non  può  quindi  essere  lecito  né  per  la  flessione  speciale 
a  questo  tem.po,  né  pel  numero  dei  verbi  in  |ii  che  lo  for- 
mano, denominarlo  aoristo  secondo  dei  verbi  in  fii.  Le  ob- 
biezioni che  il  prof.  Oliva  (p.  87)  fa  a  questa  mia  osser- 
vazione non  mi  riescono  molto  chiare,  né  so  che  cosa  in- 
tenda col  dire  che  queste  forme  sono  irrazionali  e  che  regna 
intorno  ad  esse  molta  incertezza  ancora,  per  il  che  il  piii 
sicuro  espediente  sembra  quello  di  appigliarsi  alle  analogie. 
Qui  non  si  tratta  già  di  spiegare  Torigine  delle  forme,  ma 
solo  di  porre  in  chiaro  i  fatti  che  la  lingua  ci  presenta,  e  di 
ordinarli  dietro  quelle  leggi  che  vediamo  in  essa  funzionare, 
e  i  fatti  e  le  leggi  son  quelle  esposte  da  me,  non  quelli  sup- 
posti dagli  altri  grammatici.  Io  non  credo  punto  che  per 
questo  tempo  l'analogia  abbia  avuto  che  fare,  né  che  verbi 
in  uj  siano  stati  trascinati  da  essa  nella  flessione  dei  verbi 
in  |ii,  né  viceversa  verbi  in  \xx  in  quella  dei  verbi  in  ai.  Ogni 
distinzione  fra  verbi  in  fu  e  verbi  in  tu  cessa,  come  abbiamo 
veduto,  al  di  là  del  pres.  e  delFimperf.,  così  per  tutti  gli  altri 
tempi,  come  per  questo  aoristo;  e  resta  solo  il  fatto,  che  i 
verbi  greci  hanno  tre  forme  diverse  d'aoristo,  delle  quali 
gli  uni  scelgono  l'una,  gli  altri  Taltra  per  ragioni  a  noi  sco- 
nosciute ancora,  ma  certo  indipendenti  del  tutto  dalla  diversa 
forma  del  presente  del  verbo.  Il  parallelismo  notato  dal  prof. 
Oliva  (p.  86)  fra  i  verbi  in  u)  e  i  verbi  in  ini  per  ciò  che  spetta 
alla  formazione  degli  aoristi  é  pura   apparenza  ed  illusione. 


-  171  - 
A  quella  guisa,  egli  dice,  che  nella  coniugazione  dei  verbi 
in  lu  abbiamo  due  forme  d'aoristo,  Tuna  sig-matica  ^  Taltra 
sen^a  sigma,  così  anche  nella  coniugazione  dei  verbi  in  fjii 
abbiamo  due  forme ,  Tuna  composta  col  verbo  sostantivo 
(è?)  e  Taltra  senza  nessun  segno.  Ora  questo  riscontro  sa- 
rebbe esatto,  quando  realmente  le  due  forme  d'aoristo  dei 
verbi  in  uj  fossero  diverse  dalle  due  forme  d'aoristo  dei  verbi 
in  |Lii;  ma  invece  la  forma  d'aoristo  che  il  Curtius  dice  debole 
è  la  medesima  tanto  per  i  verbi  in  lu  quanto  per  i  verbi  in  m, 
e  il  prof.  Oliva  per  avere  almeno  l'apparenza  del  paralle- 
lismo fu  costretto  ad  enunciare  la  cosa  in  modo  alquanto 
equivoco  e  dal  quale  alcuno  potrebbe  dedurre  che  lo  aoristo 
sigmatico  (sufiQsso  -ca  da  *èaa)  dei  verbi  in  uu  sia  diverso 
dall'aoristo  composto  col  verbo  sostantivo  {ì<C)  dei  verbi  in 
lai.  Fra  gli  aoristi  eXeHa  ed  IbeiHa  di  Xétuj  e  òeiKvU^i,  e  gli 
aoristi  ÌT\\vc\oa  ed  l(Sve\(S(x  dei  verbi  Ti)idio  e  l'arniLii  non  v'è 
diversità  alcuna  né  d'origine  né  di  forma.  Ogni  parallelismo 
dunque  cade,  e  resta  unicamente  il  fatto  che  la  maggior 
parte  dei  verbi  greci,  siano  in  lu  siano  in  |ui,  forman  Taoristo 
col  suffisso  -aa ,  che  alcuni  verbi  in  uj  formano  Taoristo 
col  suffisso  -0-,  e  che  alcuni  pochi  altri  finalmente ,  così  in 
Mi  come  in  jii,  lo  formano  senza  alcun  suffisso. 

Stabiliti  in  tal  modo  i  fatti,  e  i  rapporti  fra  le  varie  forme 
d'aoristo  bisognava  dar  loro  un  nome  che  chiaramente  le 
distinguesse. 

Alla  vecchia  denominazione  tradizionale  nelle  gramma- 
tiche greche  di  aoristo  primo  e  aoristo  secondo  i  gramma- 
tici tedeschi  moderni  sostituirono  diversi  nomi.  Lo  Schleicher 
e  oggidì  anche  il  Kiihner  dissero  aoristo  composto  l'aor.  i% 
e  aoristo  semplice  Taor,  2°.  E  la  denominazione  allo  stato 
presente  della  scienza  può  parere  esatta,  in  quanto  che  Ta- 
oristo  1°  si  ritiene  composto  del  tema  verbale,  e  di  un  tempo 
passato  del  verbo  eivai  (rad.  èq)  aggiunto  come  ausiliare; 
mentre  l'aor.  2"  è  formato  per  mezzo  di  un  semplice  suffisso. 


—  172  - 

Per  me  sotto  questo  aspetto  si  presentava  ovvia  la  deno- 
minazione di  aoristo  composto,  aorisio  derivato  (aor,  2^ 
derivato  dal  tema  verbale  col  suffisso  -o-)  e  aoristo  semplice 
(aor.  y)\  ma  non  l'accolsi  per  due  ragioni:  l'una  perchè  la 
formazione  di  questi  tempi,  così  come  la  spiegano  i  linguisti, 
è  ancora  un'ipotesi,  accettata  bensì  dai  più,  ma  pure  un'i- 
potesi -,  l'altra  perchè  nella  scuola  nessuno  allievo  avrebbe 
facilmente  capito,  senza  spiegazioni  superiori  forse  alla  sua 
intelligenza,  perchè  dovesse  dirsi  composto,  p.  e.,  è-Xu-cra,  e 
semplice  o  derivato  è-\ap-o-v. 

Il  Curtius  ,  seguito  anche  in  questo  da  altri  grammatici, 
adottò  le  denominazioni  di  aoristo  debole  per  l'aor.  i'*,  e 
di  aoristo  forte  per  l'aor.  2°;  ma  egli  non  denominò  già 
cosi  questi  tempi  per  le  ragioni  esposte  dall'Oliva  (^p.  88).  Se 
egli  avesse  detto /or/e  l'aor.  2",  perchè  «  certe  radici  verbali 
ft  sembrano  avere  in  sé  tanto  di  vigorìa  e  quasi  di  forza 
«  interiore  da  produrre  un  cambiamento  fonetico  nella  vocale 
«  radicale»,  gli  aoristi  ?pa\ov,  ^Kpatov,  èreinov  e  moltissimi 
altri  non  potrebbero  dirsi /or//,  poiché  in  essi  la  vocale  della 
radice  resta  intatta;  e  d'altro  canto,  se  avesse  detto  «  deboli 
«  quelle  forme,  nelle  quali  non  ha  luogo  mutamento  nel  suono 
«  vocale  della  radice,  ma  che  nascono  per  aggiungimento 
(t  esterno  di  sillabe  »,  non  avrebbe  potuto  dir  debole  l'aoristo 
l<svi\<sa  del  tema  aia-,  o  avrebbe  dovuto  dir  deboli  anche  tutti 
gli  aoristi  secondi,  perchè  anche  in  è-pa\-o-v  si  aggiunge  ester- 
namente una  sillaba  (-0-)  al  tema  pa\-.  La  vera  ragione  per 
la  quale  il  Curtius,  seguendo  l'esempio  del  Grimm  e  d'altri 
grammatici  tedeschi,  chiama  alcune  forme  deboli  ed  altre  forti 
viene  spiegata  ne' suoi  Schiarimenti  (i)  e  consiste  in  questo 
che  nell'aoristo  l' il  tema  verbale  per  esprimere  il  tempo  ha 


(i)  Pag.  91  della  seconda  edizione  originale,  pag.  90  della  versione 
italiana  di  G.  MùUer. 


-  173  - 
bisogno  di  un  suffisso  che  lo  rinforzi,  e  perciò  si  móstra  più 
debole  di  quello  che  apparisca  nelKaoristo  2*,  nel  quale  il  tema 
h  forte  abbastanza  per  supplire  da  sé  solo  all'espressione  del 
tempo.  Ora  questa  maniera  di  considerare  la  cosa  pare  più 
poetica  che  scientifica,  e  svanisce  e  si  distrugge  da  se  quando 
si  ammetta,  come  oggidì  fa  il  Curtius  stesso,  che  la  vocale  -0- 
che  forma  Taor.  2°  sia  un  vero  suffisso  tematico,  e  non  un 
semplice  elemento  fonetico.  Le  denominazioni  del  Curtius 
dal  mio  punto  di  vista  non  potevano  dunque  essere  più  con- 
servate*, né  mi  pare  utile  per  la  scuola  il  conservarle.  Agli 
occhi  del  ragazzo  si  presenta  più  forte,  perchè  più  corpulenta, 
la  forma  dell'aoristo  debole  di  quella  dell'aoristo  forte,  ed  egli 
trova  quindi  contraddizione  tra  la  forma  del  tempo  ed  il  di 
lei  nome.  Né  io  so  vedere  come  il  dire  un  aoristo  debole 
e  un  altro ^or^e  possa  «  avvezzare  il  ragazzo  ad  un  modo 
«  serio  e  razionale  di  considerare  l'involuto  procedimento  dei 
«  suoni  vocali  e  di  raccostargli  la  conoscenza  di  una  legge, 
tt  che  può  essere  facilmente  dimostrata  anche  senza  uscire 
«  dal  campo  dell' Ellenismo  »  (pag.  89).  Io  credo  che  il 
prof.  Oliva  sarebbe  non  poco  imbarazzato  se  dovesse  mo- 
strare questo  procedimento  o  questa  legge  cui  allude,  la 
quale  è  un'illusione  dei  grammatici  più  che  una  legge  vera 
e  costante  della  lingua. 

Né  la  denominazione  dunque  di  aoristo  semplice  e  com- 
posto^ né  quella  di  aoristo  forte  e  debole  mi  parvero  con- 
venienti, appunto  perchè  m'avvidi  di  tutte  le  difficoltà  che 
circondano  la  questione  delle  origini  e  della  storia  delle  forme 
degli  aoristi,  questione  che  colla  scelta  del  nome  si  può  bensì 
pregiudicare,  ma  non  si  può  sciogliere.  Io  quindi  non  la 
saltai  a  pie  pari ,  come  dice  il  prof.  Oliva,  perché  non  la 
vedessi^  ma  avendo  io  giudi'^ato  le  denominazioni  proposte 
inesatte  riguardo  alla  scienza  e  inopportune  riguardo  alla 
scuola,  ritornai  modestamente  alle  vecchie  denominazioni  di 


—  174  — 
aoristo  primo  o  di  aoristo  secondo^  alle  quali  sponta- 
neamente veniva  ad  aggiungersi  come  aoristo  ter\o  quel- 
raoristo  pel  quale  i  nomi  finora  adoperati  non  mi  parevano 
ormai  più  convenienti.  Queste  denominazioni  riescono  ai 
giovani  più  chiare  di  tutte  le  altre ,  ed  hanno  il  vantaggio 
d'indicare  la  statistica  delle  forme  d'aoristo  nella  Ungua  greca*, 
giacché  le  prime  sono  frequentissime,  meno  frequenti  le  se- 
conde, e  scarse  e  limitate  a  pochi  verbi  le  terze.  Notai  in 
un'osservazione  che  i  tre  numeri  non  devono  già  indicare  la 
cronologia  delle  forme-,  che  in  quanto  a  questa  è  assai  proba- 
bile che  Taor.  3°  sia  forma  più  antica  del  2*^,  e  questo  alla  sua 
volta  forma  più  antica  del  i".  Le  tre  diverse  maniere  di  formare 
Paoristo  rappresentano  a  mio  modo  di  vedere  tre  diversi  si- 
stemi, e  tre  stadii  diversi  di  coniugazione  verbale.  Nel  primo  la 
semplice  affissione  delle  desinenze  personali  al  tema  verbale 
bastava  a  costituire  il  verbo-,  nel  secondo  questo  si  otteneva 
col  mezzo  di  un  suffisso  (per  derivazione)-,  nel  terzo  per 
mezzo  di  un  ausiliare  (per  composizione).  La  prima  forma- 
zione come  più  antica  è  ristretta  a  pochi  verbi,  e  non  si 
incontra  che  con  temi  radicali  :  la  terza  come  più  recente  e 
vigorosa  è  la  più  estesa.  Essa,  come  sempre  avviene  delle 
forme  nuove  che  soppiantano  un  po'  alla  volta  le  antiche, 
si  sovrappone  nel  corso  della  lingua  alle  altre  due  e  resta 
unica  forma  d'aoristo  al  greco  moderno.  Questo  mio  modo 
d'interpretare  la  storia  degli  aoristi  greci  avrebbe  bisogno  di 
più  largo  e  profondo  sviluppo  -,  ma  per  ora  m'accontento  dì 
questo  cenno  fugace,  che  altrimenti  oltrepasserei  di  troppo 
i  limiti  che  mi  sono  proposto. 

Nel  corso  di  queste  mie  osservazioni  m'è  accaduto  più 
volte  di  dover  combattere  la  teoria  della  coniugazione  greca 
esposta  nella  grammatica  di  Giorgio  Curtius,  e  lo  feci  per- 
chè l'argomento  stesso  lo  richiedeva,  e  perchè  anche  il  pro- 
fessore Oliva  nel  giudicare  della  mia  grammatica  ebbe  sempre 


—  175  - 
di  mira  quella  deirillustre  ellenista  alemanno.  Or  mi  dor- 
rebbe che  da  questo  fatto  alcuno  volesse  dedurre  ch'io  tenga 
in  poco  conto  il  libro  del  Curtius  e  abbia  poco  rispetto 
al  chiarissimo  autore.  Le  opere  pregiatissime  del  Curtius 
furono  sempre  la  guida  migliore  nei  miei  studii,  e  riconosco 
in  lui  il  mio  maestro,  e  uno  dei  piià  valenti  campioni,  certo 
di  tutti  il  più  conosciuto,  di  quella  scuola  filologica  che  pro- 
cura di  porre  in  armonia  la  vecchia  grammatica  classica 
cogr insegnamenti  della  linguistica,  e  reca  da  questa  agli 
studi  ellenici  tutta  quella  copia  di  lumi  e  schiarimenti  di  che 
fìao  ai  tempi  nostri  difettarono.  Che  se  nel  compilare  la 
mia  grammatica,  pur  camminando  sulle  sue  orme,  credetti 
di  dovermi  allontanare  qualche  volta  da  lui,  il  feci  sempre  per 
convinzione  scientifica,  come  chi  lesse  queste  pagine  potrà 
aver  veduto,  e  non  mai  per  semplice  capriccio  o  vaghezza 
di  novità. 

Fondo  di  Trento,  settembre  1872. 

Vigilio  Inama. 


CEV^U^I  mi'BLIOG'JRAFICI 


Braun,  Die  ergebnisse  der  sprachìvissertschaft  in  populàrer 

darstellung^  Cassel,   1872. 
Benloew,   Apercu  general  de  la   science   comparative  des 

langues^  2"*  ed.  etc,  Paris,   1872. 
HovELACQUE,   Instructious  polir  l'étude  élémentaire   de  la 

linguistique  indo-européenne^  Paris,  1 87 1 . 

I. 

Se  v'hanno  scienziati,  i  quali,  solleciti  solo  della  gloriosa 
scoperta  di  nuovi  veri,  non  si  curino  punto  né  poco  di  far 


-  176  - 
conoscere  ai  molti,  profani,  i  più  cei  ti  ed  importanti  risultati 
delle  investigazioni  proprie  ed  altrui,  anzi  siano  usi  di  acco- 
gliere con  profonda  indifferenza  o  con  sorriso  di  compasbione 
0  mal  dissimulato  dispetto  qualsiasi  sforzo  altri  faccia  a  tal 
fine,  noi  crediamo  aver  provato,  lavorando  piij  d'una  volta  per 
conseguirlo,  che  non  siamo  dominati  dalle  idee  e  dagFistinti 
aristocratici,  troppo  aristocratici,  onde  abbiamo  fatto  men- 
zione. E,  sebbene  del  tutto  intenti  presentemente  a  studi  spe- 
cialissimi, siamo  sempre  disposti  a  salutare  con  gioia  ogni 
tentativo  diretto  a  diffondere  nozioni  scientifiche  fra  quelle 
classi  della  nostra  società,  le  quali,  benché  non  consecrate 
per  la  varia  loro  professione  alla  vita  del  pensiero,  al  culto 
della  verità,  nondimeno  vi  sono  iniziate  e  nobilmente  bramose 
di  accostarvisi  sempre  più, .  e  fra  coloro,  che,  quantunque 
ad  una  minima  parte  della  scienza  abbiano  rivolta  in  par- 
ticolarissima guisa  la  loro  attività,  sentono  tuttavia,  e  com- 
prendono il  bisogno  di  non  ignorare  affatto  i  progressi  delle 
altre  discipline,  soprattutto  di  quelle  più  affini  all'oggetto 
delle  proprie  indagini.  Ma  vogliamo  e  fermamente  vogliamo 
che  le  esposizioni  sintetiche  delle  nuove  rivelazioni  delia 
scienza  a  prò  dei  molti  siano,  quanto  perspicue  e  compen- 
diose, altrettanto  esatte,  sì  nei  concetti,  sì  nella  loro  espres- 
sione, e  fornite  di  tutti  ipiù  necessarii  insegnamenti.  E  siamo 
naturalmente  tanto  più  inesorabili  in  queste  nostre  pretese; 
quanto  più  abbondano  i  mezzi  di  soddisfarvi.  Giusta  questi 
principii  (e  perciò  appunto  li  esponemmo)  esamineremo  i  tre 
opuscoli  glottologici  del'  Braun,  del  Benloew  e  dell'Hove- 
lacque,  e,  se  parremo  agli  autori  od  a  nostri  lettori  qua  e 
là  troppo  severi,  si  compiacciano  gli  uni  e  gli  altri  di  con- 
siderare quanto  sia  importante,  specialmente  in  una  scienza 
assai  giovane  ancora  ed  ancora  ai  più  affatto  ignota  e  da 
molti  oppugnata  come  la  linguistica,  il  precetto  del  signor 
Hovelacque    «  Soyons    précis    avanl    tout  »  :    considerino 


—  177  - 
eziandio  quali  e  quanti  sussidii  a  simili  lavori  siano  le  opere 
di  M.  Miiller,  di  Schleicher,  di  Steinthal,  di  Pictet  e  di 
altri  non  pochi,  in  ispecie  tedeschi,  dai  quali  suolsi  esi- 
gere molto,  perchè,  principalmente  in  questa  parte  dello 
scibile,  ci  hanno  avvezzi  ai  miracoli. 


II. 


Il  prof.  Braun  prende  le  mosse  dall'essenza  della  lingua 
in  genere  e  dalla  scienza  del  linguaggio;  indi  procede  ad 
esporre  la  classificazione  morfologica  e  la  genealogica  dei  lin- 
guaggi ed  alcune  nozioni  speciali  sulle  famiglie  dello  stipite 
indogermanico  (com'egli  lo  appella  ancora)  ;  poscia  discorre 
intorno  al  metodo  delia  linguistica  alla  vita  della  favella 
umana;  finalmente  ci  dà  alcune  più  particolareggiate  in- 
formazioni suiridioma  tedesco ,  e  naturalmente  in  ispecie 
sull'alto  tedesco  ne'  suoi  tre  periodi.  E,  siccome  ci  riesce  più 
grato  lodare  che  biasimare,  notiamo  subito  che  il  Braun 
rivela  qua  e  là  una  pregevole  attitudine  a  significare  con 
forma  assai  chiara  verità  non  guari  facili  ad  intendersi.  Ma 
questo  pregio,  che  ci  appare  in  qualche  pagina  del  suo 
libro,  non  ci  sembra  sufficiente  compenso  ai  difetti  di  esso. 
E,  in  primo  luogo,  mancano  parecchie  nozioni  scientifiche 
le  quali  non  dovevano  certamente  essere  ommesse,  precipua- 
mente da  chi  si  diede  pensiero  anche  di  certi  concetti  che 
alla  scienza  sono  affatto  stranieri  (i):    né,  giusta  il  nostro 


(i)  Così,  a  pag.  IO,  vorremmo  che  l'autore  avesse  accennato  anche 
Pott;  a  p.  i8  egli  ci  porge  senza  una  parola  di  commento  la  classifi- 
cazione delle  lingue  data  da  Steinthal  ;  a  p.  27  si  sbriga  della  fami- 
glia celtica  con  quattro  insufficientissirae  linee  ;  a  p.  28-29  ci  si  mostra 
troppo  avaro  di  notizie  intorno  alla  famiglia  italica;  a  p.  32-33  e  36 
ommette  di  menzionare  voci  di  alcune  famiglie  d' idiomi  ariani ,  seb- 
bene identiche  in  origine  colle  parole  citate  di  altre  famiglie  del  mede- 
simo stipile  e  necessarie  alla  tentata  dimostrazione.  E,  data  una  forma 


-    HR  — 

parere,  puossi  in  libri  sì  fatti  tralasciare  di  far  conoscere 
ai  lettori  le  opere  più  utili  a  consultare  intorno  a  ciascun 
argomento  di  cui  in  essi  breveinente  si  tratti.  Osserviamo 
secondamente  che  non  tutti  gFinsegnamenti  del  Braun  ci 
sembrano  tanto  esatti  quanto  vorremmo  a  buon  diritto  (i). 
Vuoisi  in  ultimo  notare  che  Tordine  della  trattazione  non 
è  certo  il  più  commendevole.  Facciamo  voti  pertanto,  affinchè 
a  questa  operetta  del  prof.  Braun  tenga  dietro  qualche  altro 
lavoro  degno  di  maggior  lode. 

III. 

Non  saremo  guari  più  indulgenti  verso  il  prof.  Benloew, 
il  quale  ci  diede  una  seconda  edizione  di  un  libro  pubbli- 
cato nel  i858,  la  quale  sarebbe  del  tutto  eguale  alla  prima 
(anche  tipograficamente)  se  non  vi  avesse  aggiunte  alcune 


latina,  a  che  giova  in  simil  caso  aggiungervi  forme  neo-latine  ?  Evi- 
dentemente tale  aggiunta  è  affatto  superflua,  affatto  inopportuna,  come, 
la  Dio  mercè,  sono  ormai  del  tutto  inutili  le  confutazioni  di  certe  idee 
intorno  al  linguaggio  primitivo  (p.  21)  ed  all'origine  della  umana  fa- 
vella (p.  48-49) ,  delle  quali  idee  la  scienza  positiva  non  ha  né  il  dovere 
né  il  diritto  di  occuparsi. 

(i)  V.  g.  in  un  libro,  nel  quale  l'autore  doveva  proporsi  dì  non 
esporre  se  non  i  più  accertati  risuliamenti  delie  ricerche  linguistiche, 
egli  ben  poteva  astenersi  dal  discorrere  del  vario  grado  di  affinità  esi- 
stente tra  le  singole  famiglie  degl'idiomi  ariani  e  della  divisione  del 
linguaggio  e  del  popolo  ario  primitivo  in  più  linguaggi  e  popoli  (p.40- 
41):  quale  incertezza  regni  ancora  in  ordine  a  questo  problema,  anche 
fra  i  maestri  della  scienza  glottologica,  appare  evidentemente  a  chi 
legga,  V.  g.,  la  Vorlesung  di  M.  Mùller  Weber  die  resultate  der  sprach- 
wissenschaft,  Strassburg,  1872,  p.  18-21.  Non  a  proposito  si  cita  a  p.  4S 
rò99a\|uió^  greco,  nel  quale  l'aspirata  cp  è  di  mal  nota  origine:  dove- 
vansi  citare  piuttosto  le  forme  òk-t-oWo-^  (beot.),  òk-ko-v  (Esichio),  6it- 
ita  (eoi.)  (v.  Curtius,  Grundijuge  der  gr.  etymologie ,  Leipzig,  1869, 
3»  ed.,  p,  423-4Ì  Né  viene  ammesso  da  tutti  i  linguisti  lo  svolgimento 
del  linguaggio  da  tenui  principii  (p.  47);  tutti  sanno  come  e  quanto  sì 
fatta  ipotesi  sìa  stata  combattuta  dai  Renan  [De  Vorigine  du  langage . 
Paris,  i858,  p.  99-117). 


-  n9  — 
appendici.  Saremmo  assai  grati  al  nostro  autore  se  avesse 
arricchito  questo  suo  trattato  di  una  storia  compendiosa 
della  investigazione  linguistica,  d'Informazioni  un  po'  parti- 
colareggiate intorno  agi'  idiomi  più  importanti  e  d'indica- 
zioni bibliografiche.  Il  difetto  di  queste  nozioni  è  assai  de- 
plorabile in  un'opera  di  questa  natura  :  più  deplorabile  an- 
cora è  la  poca  esattezza  di  parecchie  asserzioni  (i).  Né  l'ordine 
seguito  dal  Benloew  ci  pare  più  lodevole  che  quello  del 
Braun. 

A  questo  giudizio  dobbiamo  aggiungere  poche  parole  in- 
torno a  quelle  due  appendici,  onde  l'una  tratta  «  Delafor- 
mation  des  hvigues  celtiques  >•  (p.  1 38-45),  l'altra  e  De  Vo- 
rigine  de  l'ìnjìnitif  présent  passi/  dafts  Ics  langues  clas- 
si qites  y>  (p.  1 19-127).  Certi  caratteri  delle  lingue  celtiche,  i 
quali  non  appariscono  negli  altri  idiomi  ariani,  indussero  il 
nostro  autore  a  credere  il  popolo  celto  «  né  du  mélange 
d'une  tribù  d'Aryàs  avec  des  habitants  primitifs  de  l'Inde 
et  de  rindo-Chme  parlant  des  dialectes  dravidiens  et  malais» 


(i).  Confessiamo  schieiiamente  che  non  possiamo  a  verun  patto  cre- 
dere col  nostro  autore  che,  p.  es.,  fivBpujTroq  derivi  da  àv6T)póc;ed  Jjiji(p.i7), 
YepovTiKÓ<;  da  -fépujv  ed  cikuj,  olvripói;  da  olvo?  ed  ópi,  épi  -  essere  il  primo - 
(p.  24),  |uév  e  òé  da  fióvov  e  ÒOo  (p.  25)  ecc.  :  né  sappiamo  qual  esempio 
si  potrebbe  addurre  di  radici  d'origine  verbale,  e ,  in  pari  tempo ,  pro- 
nominale (p.  24).  Le  forme  TroXT-xai,  lup-orum  (p.  38)  non  sono  certa- 
mente divise  con  sano  criterio  linguistico.  Né  siamo  guari  disposti  ad 
accogliere  la  denominazione  di  «  langues  normales  »  (p.  23)  per  le  indo- 
europee e  le  semitiche,  come  se  tutte  le  altre  fossero  irregolari  ;  né  ci 
sembra  validamente  dimostrata  con  esempii  tratti  da  ben  poche  fami- 
glie di  linguaggi  l'universalità  della  «grande  loi  »  dello  accento  (p.  66); 
nò  possiamo  ammettere,  dopo  gl'insegnamenti  di  Steinthal,  che  il  copto 
sia  una  lingua  atomica  (p.  71  e  80}.  Cosi  ci  desta  meraviglia  il  vedere 
nel  Tableau  des  langues  indo-européennes  il  lituano  nella  colonna  de- 
dicata alle  lingue  slave  (v.  anche  p.  14S).  E  pare  a  noi  che  il  Benloew 
non  avrebbe  dovuto  considerare  come  fatto  certissimo  un  periodo  pri- 
mitivo di  monosilìabismo  nella  vita  delle  lingue  indo-europee  e  semi- 
tiche (p.  146).  Finalmente  siamo  costretti  a  giudicare  assai  male  esposta 
la  classificazione  dei  linguaggi  costrutta  da  Stein ihai  (p.  117-1^1). 


-   180  — 
(p.  143),  e  non  esservi   dubbio  clie  più  tardi  «<  plus  d'une 
liorde  ougrienne  n'ait  été  englobée...  dans  la  grande  migra- 

tion  dcs  Galates  ou  Gadheles »  (p.  144):  così  il  Benloew 

ammette  e  spiega  certe  influenze  dei  parlari  dravidici  e  ma- 
lesi e  degli  ugro-giapponesi  sui  dialetti  celtici.  Ma  a  confer- 
mare questa  ipotesi  (che  mera  ipotesi  sembra  allo  stesso 
autore  [p.  145]),  quali  parole  da  tali  parlari  passate  negli 
idiomi  celtici  citò  il  Benloew?  Egli  sa  meglio  di  noi  come 
la  parte  lessicale  di  un  linguaggio,  posto  in  contatto  di  lin- 
guaggi eterogenei,  ne  subisca  Fazione  ben  più  che  non  fac- 
ciano i  suoni  e  le  forme  -,  come  i  caratteri  lessicali  siano  as- 
sai meno  immutabili  che  i  grammaticali  :  ciò  insegnano  gli 
odierni  linguisti,  ciò  non  rari  né  lievi  esempii  solennemente 
dimostrano.  I  linguaggi  celtici  dovrebbero  pertanto  offrirci 
parecchi  vocaboli  provenuti  da  quegli  altri  idiomi  di  stipite 
diverso.  Ma  il  Benloew  sta  pago  di  predire  che:  «  Les 
celtistes  nous  diront  un  jour  peut-ètre  où ,  dans  le  diction- 
naire  du  vieil  erse  et  de  l'irlandais ,  il  se  trouve  des  mots 
d^origine  dravidienne  et  finnoise  »  (p.  144).  —  Gravi  ragioni 
ci  distolgono  eziandio  dallo  approvare  la  spiegazione  che  il 
Benloew  ci  offre  dello  infinito  presente  passivo  in  latino.  La 
novità  di  sì  fatta  spiegazione  non  in  altro  ci  sembra  consi- 
stere, che  nello  estendere  a  tutte  queste  forme  la  ipotesi  che 
Lange(i)  propose  soltanto  per  quelle  della  terza  coniuga- 
zione, v.  g.  amarier  {2)  =  ''ama-re-fier  ecc.,  e  nel  considerare 
il  -re-  come  =  se,  pronome  riflessivo.  Ma,  giusta  il  Benloew, 
noi  dovremmo  al  r  finale  di  questi  infiniti  arcaici  attribuire 
un'origine  diversa  da  quella  che  suolsi  assegnare  al  r  in  cui 


(i)  Ueber  die  bildung  des  lateimschen  infinitivus  praesentis  passivi, 
Wien,  1859.  V.  anche  SchleicKer,  Compendium  ecc.,  §  23o,  p.  474-6 
(§  121,  p.  260-3  della  nostra  versione). 

(2)  V.  Neue,  Formenlehre  der  lateinischen  sprache  ,  Stuttgart-Mitau, 
1861-6,  parte  2*,  pag.  Sog-iS. 


-  181  - 

escono  tsnte  altre  forme  del  medio-passivo  latino  e  che  con 
quelio  è  secondo  ogni  verisimiglianza  identico.  Inoltre,  come 
bene  osservò  G.  Corssen  (i),  non  abbiamo  esempio  di 
verbo  secondario,  come  fio  {~yu-io^  cfr.  colico  (pu-iuj), 
adoperato  qual  elemento  formatore  regolare  del  passivo ,  a 
mo'  dei  temi  semplici  es-  ^fu-  che  l'analisi  scopre  in  molte 
forme  del  verbo  latino  :  nei  composti  in  cui  ci  appare  il 
^tri  questo  consers'ò,  diremmo  quasi,  la  propria  indivi- 
dualità, restando  membro  di  composizione  col  pieno  si- 
gnificato proprio  né  mai  diventando  mero  suffisso  di  flessione. 
K  ciò  s'aggiunga  che  solo  a  stento  puossi  trarre,  v.  g.,  hgier 
da  *lege-re-fier!  Nemmeno  il  Benloev/  può  dirsi  T Edipo  in- 
terpretatore di  questo  enigma  :  alla  sua  ipotesi  ed  a  quella 
di  Lange,  alle  piiì  antiche  di  Bopp  e  di  Pott  ed  alla  più  re- 
cente di  Schonberg  preferiamo  quella  di  Corssen  (2).  Per 
ciò  che  concerne  lo  infinito  medio-passivo  greco  in  cfSai  il 
Benloew  pensa  che  il  -cr-  probabilmente  sia  identico  col  s  del 
se  latino,  ossia  un  avanzo  di  pronome  riflessivo,  ed  il  -Gai  sia 
un  locativo  di  un  nomen  agentis  dalla  rad.  ©€  o  rappresenti 
il  suffisso  scr.  'tha-.  Anche  questa  forma  non  venne  ancora 
illustrata  come  vorrebbe  ogni  vero  studioso  dì  greco. 


IV. 


Meglio  che  il  libro  del  prof.  Benloew  gioveranno  a  chi 
voglia  iniziarsi  alla  linguistica  storico-comparativa  le  «  In- 
siructions  »  del  sig.  Hovelacque.  Dopo  una  lunga,  forse 
troppo  lunga  ne  sempre  opportuna  introduzione  intorno  alla 


(i)  V,  la  Zeitschri/t  di  Kuhn,  voi.  io»,  p.  149-56. 

(2]  Ueber  aussprache,  vokalismu^  und  betonunp  der  lateinìschen  spra^ 
che,  Leipzig,  1868-70,  voi.  2»,  p.  478-79.  Noi  responemmo  nella  no- 
stra Grammatica  storico-comparativa  della  lingua  latina  ecc.  (Torino  , 
«872),  §  9°»  P-  5Ó9,  nota  4». 

lijvisla  di  filolosia  ecc.,  l.  ij 


—  182  — 
scienza  del  linguaggio  in  genere  (p.  7-44)  l'autore  intra- 
prende il  modesto  ma  utilissimo  lavoro  di  ammaestrare  il 
futuro  linguista  intorno  agli  studi  a  cui  esso  debbe  accin- 
gersi, all'ordine  che  vuoisi  in  essi  seguire,  alle  opere  di  mag- 
gior importanza  a  cui  conviene  aver  ricorso  per  conoscere 
lo  stato  odierno  della  scienza  in  ordine  alle  lingue  ariane  , 
considerate  si  nell'unità  primitiva  si  nella  posteriore  varietà 
in  cui  esse  ci  si  presentano.  I  giovani ,  i  quali  coli'  ardore 
ma  eziandio  coU'inesperienza  della  loro  età  si  avviano  a 
percorrere  il  vasto  campo  della  linguistica ,  debbono  essere 
assai  grati  a  chi  si  fa  loro  guida  e  mostra  loro  le  strade  ed 
i  sentieri  da  lui  già  esplorati,  che  col  massimo  rispàrmio  di 
tempo  e  di  fatica  li  conducono  alla  meta.  E  le  indicazioni 
delPHovelacque  ci  sembrano  per  lo  più  sufficienti  per  bontà 
e  per  numero.  Qualche  difetto  vi  si  scorge  tuttavia:  de- 
ploriamo ,  ad  esempio ,  che  egli  non  abbia  fatto  menzione 
dei  Corsi  di  glottologia  ecc.  dell'Ascoli,  opera  importante 
onde  apparve  nel  1870  il  primo  fascicolo,  che  fu  accolto 
come  gli  si  addice  non  solo  in  Italia  e  soprattutto  in  Ger- 
mania, ma  eziandio  in  Francia.  E  vorremmo  inoltre  che 
l'autore  fosse  stato  meno  aspramente  severo  verso  M.  Mai- 
ler e  Pott  (p.  i3-i7,  58  e  83),  innanzi  ai  quali,  e  princi- 
cipalmente  al  secondo,  c'inchiniamo  reverenti.  Né  meno  che 
il  biasimo  inflitto  a  questi  due  egregi  ci  desta  meraviglia 
l'inno  di  lode  al  Chavée,  e  soprattutto,  Io  confessiamo  schiet- 
tamente, ci  sorprende  il  vederlo  posto  accanto  a  Schleicher 
(p.  47  e  54):  a  Schleicher,  di  cui  forse  la  maggiore  virtù  scienti- 
fica fu  l'inesorabile  rigore  del  metodo;  a  Schleicher,  onde  il  va- 
lore, come  il  sig.  Hovelacque  sa  al  pari  di  noi,  è  ben  più  una- 
nimemente riconosciuto  dai  cultori  della  linguistica  che  non 
quello  del  Chavée  (1)  !  Lasciamo  in  fine  a  coloro,  che  si  diedero 

(i)  V.  il  giudizio  che  uè  dà  Corssen nella  Zeitschrift  di  Kuhn,  t.  iS», 
p.  128  e  i3o. 


-  188- 
in  ìspecial  guisa  allo  studio  degridiomi  tedeschi,  il  compito 
di  giudicare  gl'insegnamenii  del  signor  Hovelacque  intorno 
alla  famosa  legge  di  Grimm.  A  noi  basta  aver  fatto  cenno 
dei  vantaggi  che  da  questo  opuscolo  si  possono  trarre  e 
notato  con  franche  parole,  che  l'autore  perdonerà  certamente 
alla  nostra  sincerità ,  quanto  nel  suo  lavoro  ci  parve  meno 
utile  agii  studi  linguistici  dei  giovani  animosi ,  per  cui  egli 
con  generoso  pensiero  dettò  quelle  pagine. 

Torino,  8  ottobre  1872. 

Domenico  Pezzi. 


Kur^gefasste  Geographie  von  Altgriechenland.  Ehi  Làtfa- 
denf'ùr  den  Unterricht  in  der  griechischenGeschichte  und 
die  gi'iechische  Lectilrc  auf  hoheren  Untcrrichts  -  An- 
stalten  von  August  Buttmann.  Bei'liuy  1872. 

Ai  dì  nostri  non  si  può  abbastanza  ripetere ,  che  il  vero 
ultimo  fine  delle  scuole  classiche  è  preparare  le  giovani 
generazioni  per  la  vita,  ma  non  già  per  una  determinata 
carriera  pratica.  I  ginnasi i  ed  i  licei  non  devono  mai  avere 
per  mir^  l'insegnare  alcunché,  perchè  sarà  d'utilità  pratica 
per  la  vita  ;  essi  debbono  insegnare  le  cose  che  meritano 
d'essere  conosciute  ed  imparate  dall'uomo  veramente  culto  e 
civile,  senz'alcun  riguardo  al  loro  immediato  uso,  ed  il  gio- 
vane deve  apprenderle,  se  vuol  riuscire  uomo  tale  che 
veramente  meriti  il  nome  di  culto,  senza  pensare  che  quelle 
cognizioni ,  nel  cui  apprendimento  occupa  i  migliori  anni 
della  sua  vita  giovanile,  gli  renderanno  un  frutto  materiale 
nel  tempo  susseguente.  Solo  così  governandosi  la  scuola  clas- 
sica corrisponde  al  suo  compito  fondamentale  di  preparare 
per  la  vita,  per  la  vita  in  genere,  io  dico,  non  per  una  deter- 
minata forma  di  essa.  La  scuola  classica  deve  aver  ben  altro 


—  184  — 
e  superiore  --^copo,  che  quello  di  preparare  immediatamente 
per  gli  studi  universitari  e  per  mezzo  di  essi  al  servizio  dello 
Stato;  essa  deve  innanzi  tutto  addestrare  per  la  lotta  d'i! la 
vita,  rendere  abile  a  vincere  in  questa  lotta.  Essa  si  trova 
sul  medesimo  terreno  collo  stato  nazionale,  e  non  può  che 
aiutarlo  e  servirlo  :  e  io  aiuta  e  lo  serve  con  perfetta  co- 
scienza di  questo  suo  dovere,  perchè  essa  è  quella  che  alle 
generazioni  affidate  alle  sue  cure  rende  possibile  di  at- 
tuare le  grandi  idee  concepite  dalla  nazione,  e  così  essa 
educa  alla  vita  civile.  Ma  per  questo  non  è  semplicemente 
serva  dello  Stato:  come  la  sua  ultima  meta  non  è  di  for- 
mare abili  uomini  d'affari,  così  non  è  nemmeno  quella 
di  dare  al  governo  abili  impiegati,  alla  società  buoni  avvo- 
cati, medici  od  ingegneri.  La  scuola  classica  vuole  educare 
tutto  Tuomo,  e  Tuomo  dell'epoca  moderna  non  è,  come  Tan- 
tico  spartano,  esclusiva  proprietà  ed  istrumento  dello  Stato. 
L'umanità  deve  continuamente  progredire  a  maggiore  mo- 
ralità ed  anco  a  maggiore  felicità  in  questa  vita  terrestre  : 
in  questa  continua  lotta  ci  debbono  essere  potenze  che  ab- 
biano la  missione  di  conservare  Teternamente  vero  e  bello, 
di  diffondere  l'amore  e  la  cognizione  di  esso  senza  alcun 
riguardo  ai  continui  muramenti  della  vita  esteriore  e  delle 
condizioni  sociali  e  politiche  ;  fra  tali  potenze  è  la  scuola 
classica ,  se  veramente  è  quale  esser  deve.  11  dare  nutri- 
mento intellettuale  alla  gìoventij,  il  rendere  atto  il  mag- 
gior numero  di  allievi,  non  solam.ente  quelli  che  sono  dotati 
di  maggiore  ingegno,  all'acquisto  di  utili  cognizioni,  l'edu- 
care la  parte  eletta  del  popolo,  quest'è  un  compito  che  la 
scuola  classica  ha  comune  con  gli  altri  istituti  d'istruzione; 
ma  essa  ne  ha  uno  suo  particolare  :  quello  di  accrescere  le 
forze  intellettuali  della  nazione  ed  il  loro  valore  pel  mondo, 
di  formare  uomini  di  aito  e  nobile  sentire ,  atti  a  guidare 
le  moltitudini,  a  coltivare   l'ingegno,  ad  appianare  la  via 


-  185  - 
al  genio;  la  scuola  classica,  mi  sia  lecito  i)  dirlo,  è  per 
sua  natura  un'istituzione  aristocratica.  Come  mezzo  piij 
potente  ed  efficace  a  raggiungere  questo  suo  scopo  sublime, 
la  scuola  classica  si  serve  dello  studio  delle  lingue  e  lettera- 
ture dei  due  più  grandi  popoli  deirantichità,  dei  Greci  e  dei 
Romani,  gli  eterni,  non  mai  da  alcun  popolo  moderno  rag- 
giunti modelli  di  umana  grandezza.  Nessun' altra  materia 
d'insegnamento  è  tanto  atta  ad  esercitare  le  facoltà  intellet- 
tuali del  giovane,  a  destare  grandi  e  nobili  idee  e  sentimenti, 
quanto  il  profondo  studio  e  la  estesa  lettura  dei  classici  greci 
e  latini.  Ben  a  ragione  adunque  il  greco  ed  il  latino  sono  il 
perno  degli  studii  ginnasiali  e  liceali,  a  cui  gli  altri  insegna- 
menti servono  di  necessario  complemento.  Gli  altri  rami 
sono ,  almeno  in  parte ,  sì  strettamente  connessi  con  questo 
studio  precipuo  e  fondamentale ,  da  non  poterne  andare 
in  verun  modo  disgiunti.  Non  voglio  dire  con  ciò  che  non 
abbiano  anco  un  altro  fine  loro  particolare;  ma  chi  ben 
pensi  quante  e  quali  cognizioni  siano  necessarie  per  ret- 
tamente intendere  e  ben  interpretare  un  autore  classico, 
facilmente  mi  concederà  che  questo  intimo  nesso  fra  lo 
studio  delle  lingue  classiche  e  quello  di  altre  discipline, 
insegnate  nella  scuola  classica ,  è  tale  da  non  poter  affidare 
l'insegnamento  filologico  a  chi  non  sia  più  che  mediocre- 
mente versato  in  alcune  di  queste  discipline  che  qui  si  con- 
siderano come  ausiliari  della  filologia  classica,  astrazione 
fatta  deirimportanza  loro  propria. 

Quanto  dico  vale  innanzi  tutto  per  le  discipline  storiche 
e  per  la.  g-eo^rajia  {i\  che  è  l'anello  di  congiunzione  fra  le 


(j)  Non  può  essere  mio  intendi oietito  di  parlare  qui  dell'importanza  \ 
dell'insegnamento  gcognUco   in  generale,  ma  inviterò  il   mio  lettore 
a  leggere  un  articolo  molto  ben  ra^',ionato  di  G.  Cuno,  Uiber  die  GeO' 
graphie  als  Bildungsmittci  auf  deutschen  Gymnasien ,  inserito  nella 
•«  Zeitschrift  fiìr  das  Gymnasial-Wesen  herausgegeben  von  H.  Bonit\, 


-  180  - 
prime  e  le  scienze  naturali  e  le  matematiche,  e  alPinsegna- 
mento  della  quale  dovrebbe  essere  data  un'importanza  molto 
maggiore  ed  un  indirizzo   ben  differente  da  quello  che  ora 
sembrano  avere  nelf  insegnamento  secondario  e  superiore. 

I  destini  de'  popoli  appaiono  in  gran  parte  come  con- 
seguenza delle  condizioni  naturali  degli  spazii  ch'essi  abi- 
tano e  la  loro  storia,  che  in  parte  almeno  è  una  lotta  contro 
le  condizioni  naturali  in  cui  si  trovano  poste,  non  può  es- 
sere intesa  se  non  si  studiano,  e  profondamente,  le  condi- 
zioni geografiche,  come  non  ben  si  potranno  intendere  le 
differenze  esistenti  fra  i  varii  popoli.^  se  non  si  considerano 
attentamente  le  differenze  nella  natura  del  suolo,  nel  clima, 
insomma  tutto  quel  complesso  di  condizioni  il  cui  studio 
forma  appunto  Targomento  della  scienza  geografica.  V'ha  un 
progresso  ed  un  continuo  mutarsi  nella  vita  de'  popoli  :  si 
può  forse  intendere  le  ragioni  di  questi  mutamenti  e  Tini- 
portanza  delle  lotte  che  sostengono  in  questa  non  interrotta 
lotta  se  non  conosciamo  in  tutte  le  loro  particolarità  grim- 
pediment!  clic  la  terra  oppone  ai  popoli  per  essa  dilTasi?  Iti 
breve,  la  scienza  delia  superfìcie  della  terra  e  della  vita 
organica  e  sociale  su  essa,  che  è  appunto  la  geografìa,  è  una 
scienza  fondamentale  per  molte  altre,  e  massimamente  per 
tutte  quelle  che  s'occupano  delle  manifestazioni  dello  spirito 
de'  popoli. 

E  siccome  il  filologo  s'occupa  appunto  dello  studio  della 
vita  de'  popoli  antichi,  cosi  non  potrà  esimersi  dallo  studio 


li.  Jacobs  uni  P.  Ruhle,  Berlin,  1872,  an.  vi,  fase.  I,  che  contiene 
alcune  verità  ed  alcune  proposte,  che  pare  possano  meritare  anche  in 
Italia  una  seria  medita:2ione  da  chi  forse  si  sarà  meravigliato  della  dis- 
cussione della  3*  sezione  del  Congresso  Pedagogico  in  Venezia,  fatta 
il  16  settembre ,  ovvero  percorra  ceni  programmi  per  l'insegnamento 
della  geografia  e  sia  costretto  ad  assistere  ad  esami  di  questa  scienza 
in  alcuni  istituti  nostri. 


della  Geografia  antica  e  sarà  costretto  ad  insegnarla  anche 
ai  suoi  allievi,  e  mi  pare  perciò  a  proposito  di  dire  in  questa 
Q^ìpista  alcunché  de'  recenti  studii  e  pubblicazioni  geogra- 
fiche, inquantochc  s'occupano  della  Grecia  antica.  La  Ger- 
mania ha  il  vanto  d'avere  anche  in  questa  parte  negli  ultimi 
tempi  dati  i  migliori  lavori ,  a  cui  lo  studioso  può  ricorrere 
per  quest'importante  disciplina.  Non  vo'  togliere  con  queste 
parole  agli  altri  popoli  i  meriti  che  si  sono  acquistati  coi 
loro  lavori  intorno  alla  geografia  antica  ed  alla  geografia 
della  Grecia  in  particolare.  Certo  senza  moki  lavori  prepa- 
ratori! e  specialmente  senza  i  molti  viaggi  intrapresi  in  tutti 
i  paesi  abitati  un  tempo  da  popolazioni  greche,  senza  studii 
e  lavori  profondi  ne'  luoghi  istessi  (i)  non  sarebbero  state 
possibili  le  opere  dì  cui  mi  propongo  di  dare  qui  un  cenno, 
per  venire  all'opera  scolastica,  citata  in  capo  a  questo  artìcolo. 
La  grand'epoca  della  moderna  filologia  classica,  che  è 
distinta  dai  nomi  di  F.  A.  Wolf,  di  G.  Hermann,  di  C.  O. 
Mailer,  di  A.  Bockh,  ci  aveva  dato  anche  il  grande  lavoro 
di  Manr^rt  e  quello  incompiuto  di  Ukert  sulla  geografia 
antica  :  ma  al  giorno  d'oggi,  senza  mancare  di  riverenza  ad 
uomini  eruditissimi  e  grandemente  benemeriti,  le  loro  opere 
si  possono  chiamare  antiquate  e  per  ciò  non  piiì  corrispondenti 
all'odierno  stato  della  scienza  geografica.  La  lotta  tenacemente 
sostenuta  da'  Greci  per  l'indipendenza  della  loro  patria 
aveva  intanto  condotto  molti  eruditi  nelle  terre  greche  e  la 
guerra  stessa  ha  reso  servigi  alla  scienza  geografica  (2).  Fu 
necessaria  una  nuova  opera  sulla  geografia  antica  ed  il  For- 


(1)  Sarebbe  impossibile  di  citare  solo  anche  i  più  rinomati  fra  i 
viaggiatori  moderni  in  Grecia  e  neirOrienie  greco  che  ne  hanno  dis- 
corso in  pregiate  opere,  dacché  troppo  grande  è  il  loro  numero. 

{2)  Basti  ricordare  la  grand'opera  dovuta  alla  spedizione  francese 
nella  Morea. 


-  !88- 
higer  {\)  c'è  l'ha  data  con  un  vasto  corredo  di  erudizione.  Ma 
un  altro  passo  rimaneva  da  farsi,  ed  era  quello  che  airerudl- 
zione  classica  acquisUita  nel  gabinetto  di  studio  s'aggiunges'^e 
la  personale  cognizione  dei  luoghi,  ii  che  necessariamente 
doveva  dare  maggiore  vita  ed  evidenza  all'opera  erudita.  Ed 
appunto  la  Germania  ha  trovato  fra  i  suoi  scienziati  due 
uomini  che  riunissero  in  sé  le  due  qualità  che  paiono  in- 
dispensabili per  dare  opere  geografiche  come  le  dobbiamo 
desiderare. 

Ernesto  Curtius  (2)  nel  suo  «  Peloponneso  »  e  Corrado 
Bursian  (3)  nella  sua  k  Geografia  della  Grecia  •>  ci  hanno 
fornite,  dopo  lungo  soggiorno  nel  paese  ed  estesissimi  studi! 
preparaiorii,  opere  per  lo  studio  della  geografia  della  Grecia 
antica,  che  formano  veramente  epoca  per  una  più  profonda 
intelligenza  dell'antichità  greca,  e  che  unite  alia  nuova  edi- 
zione «  dell'Atlante  della  Grecia  antica  »,  opera  del  famoso 
cartografo  e  geografo  Kiepert  (4),  sono  un  corredo  ampio 
e  sufficiente  per  ogni  studioso  dell'antichità. 

Ma  non  son  opere,  per  l'estensione  loro,  che  possano  util- 


{\) Hanàbuch  der  alien  Geographie  nack  den  Quelìen  hearheitet,  Leip- 
zig ,  1842-1848,  3  voi.  Mi  limito  a  questa  citazione,  come  quella  di 
un'opera  completa,  tacendo  i  nomi  di  molti  talvolta  pregevoli  com- 
pendìi. 

(1)  Ert<esto  Curtius,  Peloponnesòs .  eh:e  historisch-geographiscne 
Beschreibung  dar  Halhinsel.  Mit  Karten  und  Hol^schnitten.  Gotha , 
t85i-i852. 

(3)  Conrad  Bursian,  Geographie  von  Griechenland ,  Leipzig,  iSGa- 
1871;  voi.  1:  Das  nórdliche  Griechenland^  1862;  voi.  II:  Pdopov.nesos 
und  Inseln.  Parte  i.  Argoiis,  Lakonicn  ^  Messenien^  1868.  Parte  ^, 
Arkadìen,  Elis,  Ackaia,  !87i.  L'opera  none  ancora  compiuta. 

{4)  Heinrich  Kiepfrt  ,  Neuer  Atlas  von  Helhs  und  den  kellenischen 
Kolonlen  in  i5  BlHttern,  Berlin,  iSya,  opera  che  non  dovrebbe  man- 
care in  nessuna  biblioteca  ginnasiale  e  liceale,  ed  a  cui  è  premesso 
un  proemio  dell'autore ,  in  cui  dà  contezza  delle  nuove  opere  da  lui 
adoperate  nel  rendere  più  perfetta  questa  seconda  edizione  del  suo 
bellissimo  atlante. 


mente  essere  studiate  da?  giovine  ed  accogliersi  nella  scuola. 
Eppure  non  è  soiamente  utile,  ma,  a  parer  mio,  neces-sdrio 
che  i  progressi  della  scienza  ii  più  presto  possibile  passino 
nella  scuoia^  e  per  mezzo  di  essa,  ovvero  di  opere  popolati, 
diventino  comune  possesso  di  tutti,  non  potendosi  permet- 
tere in  verun  modo,  che  vieti  errori  o  men  rette  cognizioni 
per  rincuria  od  anche  la  cocciutaggine  di  chi  insegna  si 
propaghino  dall'una  all'altra  generazione  di  scolari.  Appunto 
per  queste  considerazioni  Ìl  prof.  A.  Buttmann  fu  indotto 
a  scrivere  la  sua  «  Breve  Geografia  della  Grecia  antica  », 
che  non  si  propone  soltanto  di  dare  in  arida  forma,  come 
comunemente  suol  farsi  nei  compendii  di  geografia,  le  cose 
più  essenziali  della  geogi^afia  ppìitica  della  Grecia  antica, 
ma  eziandio  in  modo  adatto  alla  capacità  dei  giovani  una 
descrizione  del  teatro  della  storia  greca,  per  rendere  più 
vivo  ed  efficace  io  studio  di  questa  ed  insieme  delle  opere 
degli  autori.  Perciò  si  è,  in  questo  particolare,  limitato  a 
quelle  parti  della  Grecia  che  sono  della  massima  impor- 
tanza per  r  insegnamento  scolastico ,  approfittando  delle 
descrizioni  che  ci  hanno  dato  gli  uomini  dai  quali  furono 
visitati  i  luoghi.  A  mio  giudizio  è  assennata  la  sua  scelta  e 
le  descrizioni  che  accoglie  soli  ben  appropriate  allo  scopo. 
Perchè  il  lettore  possa  formarsi  da  se  un  criterio,  come 
i  luoghi  più  importanti  dell'istoria  greca  siano  descritti  nel 
presente  libro,  do  la  breve  descrizione  di  Tebe,  come  la 
leggiamo  a  pag.  Sg,  e  la  scelgo,  perchè  in  grado  di  giudi- 
carla dalle  impressioni  ricevute  quando  nel  1870  da  Atene 
mi  recai  alla  patria  di  Pindaro.  «  Nella  Beozia  meridio- 
nale )> ,  così  il  Buttmann ,  «  Tebe  con  la  sua  acropoli 
Cadmea,  posta  su  una  collina  per  cui  facilmente  si  sale,  è 
situata  a  meriggio  del  lago  Ilice  in  una  pianura,  circondata 
tuli* attorno  da  piccole  alturi.  e  la  cui  parte  settentrio- 
nale più  bassa   portava  il  nome  di  campo  Aonio,  mentre 


—  190- 
la  parte  superiore,  occidentale,  aveva  quello  di  campo 
Tenerio.  La  città  era  adunque  massimamente  protetta 
dalle  sue  potenti  mura,  entro  le  quali  trovavasi  anche 
Tacropoli  e  che  erano  munite  di  torri  e  provvedute  di 
sette  porte,  mura  di  cui  la  leggenda  dice  essersi  connesse  le 
pietre  loro  da  se  stesse  al  canto  d'Anfione,  e  che  formate  di 
grandi  massi  di  pietra  di  forma  non  del  tutto  regolare  si 
riconoscono  ancora  nelle  rovine  ivi  esistenti,  massimamente  al 
iato  settentrionale  della  collina.  Che  Tebe  fosse  situata  nella 
pianura,  si  rileva  già  da  Omero  {Od.  XI,  262  e  seg.).  L'acro- 
poli occupava  la  parte  sud-ovest  della  città  di  Tebe.  Lungo 
il  muro  occidentale  di  essa,  che  adunque  è  anche  quello  della 
città  stessa,  scorre  il  ruscello  Dirce  verso  nord  e  sbocca  a 
settentrione  della  città  nel  campo  Aonio  nel  piccolo  fiume 
ismeno:  questo  scorre  lungo  il  muro  orientale  della  città 
verso  settentrione  al  lago  Ilice.  Tra  la  Cadmea  e  la  città 
bassa  trovasi  un  burrone  con  direzione  verso  settentrione, 
in  cui  scorre  un  ruscelletto.  Oggi,  come  già  ai  tempi  dì  Pau» 
sania,  Tebe  è  circoscritta  alla  collina.  A  meriggio  e  sud- 
ovest  di  Tebe  s'innalza  il  paese  a  quelP  altipiano  pieno  di 
colline  che  forma  la  congiunzione  fra  l'Elicona  ed  il  Cite- 
rone,  su  cui  nelle  vicinanze  di  Leuttra  scaturisce  TAsopo 
che  per  un'alta  valle,  detta  Parasopia,  scorre  ad  oriente 
lungo  il  Citerone  ed  il  Parnes  al  mare  d'Eubea,  in  cui 
sbocca  presso  Oropo.  » 

Bastino  queste  parole  e  citazioni  per  raccomandare  il  libro 
agl'insegnanti  che  devono  trattare  di  geografia  e  storia  an- 
tica e  di  lingua  greca,  libro  che  è  corredato  anche  di  op- 
portunissimi  indici}  come  quello  delle  File  e  Demi  dell'At- 
tica, ed  in  cui  forse  non  rimane  a  desiderare,  se  non  una 
qualche  maggior  estensione  di  alcune  parti.  A  parer  mio  le 
isole,  p.  e.  Gorcira  ed  Itaca,  meritavano  qualche  descrizione: 
è  imporrante  la  prima  per  Tetà  eroica  e  storica,  e  la  seconda 


-  191  - 
per  la  lettura  dclVOdissea,  e  intorno  ad  esse  non  mancano 
monografie  di  viaggiatori.  Ciò  dicasi   anclie  delle   splendide 
città  greche  sulle  coste  dell'Asia  minore,  tanto  celebri  nella 
vita  ellenica  ed  argomento  di  recentissimi  studii. 
Torino,  ottobre  1872. 

C    MULLER. 


Bernhardy  ,  Grundriss    der  rómischen   litteratur ,  funfte 

bearbeitung,  Braunschweig,   1872. 
Teuffel,  Geschichte  der  rómischen  literatur,  zweite  ver- 

besserte  auflage,  Leipzig,   1872. 
Errico  ,   Storia  critica  della  letteratura   romana  ad  uso 

delle  scuole  liceali y  normali  e  universitarie,  volume  1% 

Napoli,    1872. 

I  lettori  della  nostra  ^vista  potrebbero  a  buon  diritto 
reputarsi  offesi  da  noi  se  tenessimo  loro  discorso  intorno  al 
valore  filologico  delle  storie  della  letteratura  romana  scritte 
dal  Bernhardy  e  dal  Teuffel  e  di  nuovo  edite  teste,  questa 
per  la  seconda  volta  e  quella  per  la  quinta  ,  come  se  fos- 
sero opere  mal  note  ancora,  non  già  come  queste  (ed  in 
ispecial  guisa  la  prima)  meritamente  famose.  Anche  Tultimo 
dei  filologi  è  u'so  di  averle  in  pregio  e  valersene:  per  ciò 
che  concerne  ì  nostri  lettori  basterà  pertanto  aver  dato  loro 
il  gratissimo  annunzio  di  una  nuova  edizione ,  di  cui  ap- 
pena occorre  accennare  come  sia  arricchita  di  nuove  notizie, 
soprattutto  bibliografiche  (1).  Noteremo  soltanto  come  nel 
simultaneo  riapparire  di  questi  due  libri  si  manifesti  quella 
che  alcuni  sogliono  appellare    sapienza  del    caso.   Che  en- 


(i)  V.,  p.  es.,  i  Nachtr'dge  aggiunti  al  libro  del  Bernhardy,  p.  xx-xxv. 


-  192  ~ 
trarnbi  ci  sembrano  pecessarii  a  chi  voglia  addentrarsi  nella 
scienza  della  letteratura  romana,  onde  Teurt'el  e  Bcrnhardy 
con  ordine  divergo  ci  espongono  la  storia.  TcuiTel,  premesse 
alcune  considerazioni  intorno  allo  svolgi intn-o  dei  varii  ge- 
neri dì  letteratura  presso  i  Romani ,  ci  narra  (o  piuttosto  ci 
fa  narrare  dai  ioro  scrittori  stessi,  rapportandone  continua- 
mente i  luoghi  più  opportuni)  le  vicende  delle  varie  forme 
assunte  fra  essi  dall'arte  della  parola  ,  ma  non  già  tenendo 
dietro  separatamente  ai  progressi  ed  alla  decadenza  di  cia- 
scuna delle  medesime,  bensì  tratlando  di  esse  tutte  in  ognuno 
dei  quattro  periodi  cronologici  in  cui  divise  la  sua  narra- 
zione, la  quale  si  estende  non  pure  alle  creazioni  letterarie 
di  Roma  pagana,  ma  eziandio  a  quelle  in  cui  il  nuovo 
pensiero  e  sentimento  cristiano  si  rivelò  con  parola  latina 
nei  limiti  di  tempo  segnali  dali' autore  ai  proprio  lavoro. 
Bernhardy,  per  io  contrario,  dopo  una  introduzione  in  cui 
a  lungo  e  profondamente  si  occupa  dei  caratteri  generali 
delia  letteratura  romana  e  dello  studio  di  essa ,  espone  la 
storia  interna  della  medesima,  investigandone  gli  elementi 
e  ritraendone  le  varie  epoche:  poscia,  e  ben  più  diflusa- 
mente ,  imprende  il  racconto  deiresterna,  descrivendo  il  na- 
scere, il  crescere,  il  venir  meno  delle  singole  forme  poetiche 
e  prosastiche  in  cui  fece  le  sue  prove  l'ingegno  letterario 
presso  i  Romani.  Il  libro,  che  diremmo  piiì  storico  e  pra- 
tico, del  Teuffei  ci  sembra  ottima  preparazione  a  compren- 
dere l'opera,  più  filosofica  e  teoretica,  del  Bernhardy  :  Tuno 
e  l'altra  poi  somministrano  alio  studioso  colla  propria  ric- 
chezza d'indicazioni  bibliografiche  il  mezzo  di  conoscere 
quanto  la  scienza  scoperse,  anche  intorno  ai  più  minuti  e 
lievi  argomenti,  e,  diremmo  quasi,  lo  spingono  alle  inve- 
stigazioni speciali  e  nuove. 

L'Italia  risorta  desidera  ancora  un'  opera  che  rappresenti 
colla  maggiox  possibile    perfezione  lo  stato  odierno  della 


~  193  - 
scienza  intorno  alle  lettere  romane,  airarte  della  parola  presso 
i  nostri  padri.  A  tanto  lavoro  si  era  accinto  li  Tamagni,  e, 
come  attesta  la  prima  parte  di  esso  fatta  di  pubblica  ragione, 
egli  io  avrebbe  degnamente  compiuto:  glielo  troncò  a  mezzo 
la  morte  immatura.  Gli.  Studi  storici  e  morali  sulla  ietterà- 
tura  latina  di  Atto  Vannucci,  onde  apparve  recentemente  una 
3*  edizione,  ricca  di  correzioni  e  d'aggiunte  (in  ispecie  di  cenni 
bibliografici  concernenti  nuovi  scritti,  soprattutto  germanici), 
sono  meritamente  da  tutti  assai  pregiati  per  la  conoscenza  della 
antichità  latina,  per  la  finezza  del  gusto  e  l'eleganza  severa  della 
forma  ,  e  in  ciò  ii  Vannucci  è  unanim.ementc  riconosciuto 
maestro:  ma  non  abbiamo  in  questo  volume  che  una  serie  di 
monografie  fatte  per  lo  più  solo  con  intendimento  storico  e  mo- 
rale, non  congiunte  fra  loro,  né  cosi  numerose  come  sarebbe 
necessario  per  colmare  certe  grandi  lacune.  Opuscolo  et>sen- 
zialmente  scolastico ,  e ,  più  che  altro  ,  abbozzo  di  lezioni 
(nel  quale  sì  scorge  per  altro  la  dottrina  e  Io  ingegno  non 
comuni  di  chi  lo  ha  delineato)  è  ii  Saggio  critico  sulle  let- 
tere latine,  che  il  Trezza,  Tinsigne  autore  del  Lucrezio,  pub- 
blicava or  sono  dieci  anni.  È  bensì  vero  che  al'a  nostra 
povertà  di  veri  storici  delia  letteratura  roniana  sono  forse  a 
parere  di  molti  più  che  sufficiente  compenso  i  non  pochi 
che  dì  e  notte  vanno  in  caccili  dì  parole  e  di  frasi  latine  , 
cui  ci  presentano  poscia  in  qualche  orazione  o  poesia  con- 
nesse insieme  con  varia  fortuna  secondo  la  varia  abilità  ,  si 
che  di  cotali  lavori  gli  uni  ti  rendono  immagme  di  mosaico, 
gii  altri  ti  ricordano  i  paesaggi  costrutti  dai  fanciulli  sem- 
pre coi  medesimi  alberi  ed  animali  e  colle  medesime  ca- 
panne di  legno.  Ma,  sciaguratamente,  v'hanno  incontenta- 
bili, cui  queste  glorie  non  bastano  e  che  deplorano  la  scarsità 
di  lavori  filologici  italiani:  per  questi  incontentabili  noi  discor- 
reremo del  primo  volume  che  il  prof.  Errico  testé  pubbli- 
cava della  sua  Storia  critica  della  letteratura  roinc^na  ed 


-  194  — 
il  quale  comprende,  oltre  ai  preliminari  (p.  ix-xxiv),  Tespo- 
sizione  deirorigine  e  dello  svolgimento  della  letteratura  ro- 
mana ne' due  primi  de' cinque  periodi,  in  cui,  sebbene  non 
creda  guari  possibili  si  fatte  partizioni  (p.  19),  tuttavia  «  per 
una  certa  comodità  >>  Tautore  divide  la  sua  storia  (p.  21). 

Ci  affrettiamo  di  notare  che  è  questo  un  libro  scritto 
con  molto  amore,  con  tendenze  filosofiche  e  con  studio  ac- 
curato dei  fatti.  Le  tendenze  filosofiche,  a  dir  vero,  ci  sem- 
brano avere  spinto  un  po'  troppo  l'autore  alle  considerazioni 
generali,  sempre  molto  pericolose  (1).  Che  spesso  queste 
conducono  alle  asserzioni  troppo  assolute,  come  ci  sembra, 

v.  g.,  la  seguente:   «  In  ogni  lavoro  letterario scorgonsi 

armonizzati  tra  loro  il  pensiero  dello  scrittore  e  quello  della 
nazione,  in  grembo  a  cui  si  manifesta»  (p.  17),  Tra  questi 
due  pensieri  non  v'ha,  a  nostro  avviso,  in  ogni  lavoro  lette- 
rario armonia  :  vi  ha  antitesi  e  lotta  talvolta  ed  in  essa  ci  si 
rivelano  certe  fiere,  ribelli  personalità.  Ne  la  dottrina  e  la 
diligenza  del  nostro  autore  valsero  sempre  a  salvarlo  da 
non  poche  erronee  affermazioni  in  ispecie  glottologiche.  Ve- 
dasi, p.  es.,  quale  concetto  abbia  egli  della  linguistica.  «Vo- 
gliamo forse  negare  »,  cosi  scrive  a  p.  x-xi,  «  che,  in  Ger- 
mania segnatamente,  la  linguistica  abbia  fatto  grandissima 
progressi,  tanto  da  meritare  se  non  la  dignità  di  scienza,  per 
non  essere  stato  ancora  raggiunto  un  vero  assoluto,  e  né 
eziandio  un  vero  scientifico,  quella  almeno  di  nobilissima 
disciplina  letteraria?  »  Chiunque  sappia  davvero  che  cosa 
sia  scienia  e  sia  atto  ad  intendere  libri  quali   sono,  v.  g., 


(i)  Da  che  ci  venne  fatto  cenno  di  ciò,  vorremmo  almeno  veder  ci- 
tato a  pag.  18  lo  scritto  di  Cesare  Balbo  Della  letteratura  negli  un- 
dici primi  secoli  dall'era  cristiana,  lettere  alVabate  Amedeo  Peyron, 
pubblicato  nelle  Lettere  di  politica  e  letteratura  edite  ed  inedite,  Fi- 
renze, i855,  p.  121-170,  nel  quale  scritto  si  svolgono  appunto  i  con- 
cetti accennati  dall'Errico. 


-  195  - 
il  System  der  sprachwissenschafi  di  K.  W.  Heyse  e  la  Cha- 
rakteristik  der  haupisdchlichsten  typen  des  sprachèaues  leg- 
gendoli si  convincerà  agevolmente  che  nella  linguistica  odierna 
v'ha  già  quel  «  sistema  di  cognizioni  discorsive  logicamente 
vere  »»,  il  quale,  come  apprendevamo  già  quando  eravamo 
in  liceo,  costituisce  una  scienza.  Ne  guari  più  avventurato  è 
l'Errico  allorquando  afferma  (p.  xvi)  essere  ora  «invalso 
un  uso  presso  i  cultori  della  novella  scienza  del  linguaggio, 
che,  intesi  a  investigare  l'organismo  interiore  di  ciascuna 
favella,  tanto  rispetto  ai  suoni,  quanto  rispetto  alle  forme 
delle  voci,  trascurano  la  lingua  in  se  stessa  ».  Forsechè  tale 
investigazione  gli  pare  estrinseca  ai  linguaggi,  com.e  se  suoni 
e  forme  non  ne  fossero  elementi  integranti?  Con  ciò  egli 
volle  preparare  i  lettori  ad  accogliere  la  sua  sentenza  che 
«  una  lingua  in  tanto  si  sa,  in  quanto  si  scrive  »  (p,  xvi- 
xvii),  in  ordine  alla  quale  fu  già  notato  non  sappiam 
quante  volte  e  perfettamente  a  ragione  e  teste  ripetuto  so- 
lennemente da  uomo,  che  per  ingegno,  dottrina  e  grado  è 
autorevolissimo,  essere  lo  imparare  a  scrivere  una  lingua  uno 
degli  scopi  principalissimi  dello  studio  che  si  fa  degl'idiomi 
ancor  vivi,  ma  soltanto  we^^^o  e  non  /?ne,  allorquando  altri 
si  travaglia  intorno  ad  una  lingua  morta,  ed  allo  studio 
ginnasiale  e  liceale  del  greco  e  del  latino  essere  ^tie  l'edu- 
cazione delle  potenze  intellettuali  e  morali  dei  giovani  me- 
diante il  fecondo  contatto  della  classica  antichità.  E  queste 
son  cose  che  ormai  tutti  sanno  o  almeno  dovrebbero  sa- 
pere. Confessiamo  per  lo  contrario  che  pochi  sapranno 
quale  sia  la  «  grandissima  attenenza  »,  che  le  lingue  orien- 
tali, come  «  oggi  è  dimostrato»,  hanno  «  con  la  lingua  greca 
e  con  la  latina,  e  con  tutte  quelle  altre  componenti  il  gruppo 
indo-europeo  »  (p.  x).  O  le  lingue  orientali  onde  si  è  fatto 
cenno  sono  le  indiane  ed  eraniche,  le  quali  sono  fra  le 
«  componenti  il  gruppo  indo-europeo  »•,  ed  in  questo  caso 


-  196  - 
s' insegna  ch'esse  hanno  «  grandissima  attenenza  »  con  altre 
del  nedesimo  stipite  e  con  se  stesse:  o  sj  fa  menzione  di 
favelle  orientali  non  appartenenti  né  alla  tanriìgiia  indiana, 
né  alla  cranica;  ed  allora  non  sappiamo  qual  «  grandissima 
attenenza  «  sia  stata  dirtioslvata  fra  k  medesime  e  le  indo- 
europee. Né  approviamo  la  troppo  audace  afiermazione  di 
un  periodo  italo-greco  (p.  i6)»  la  cui  esisteriza  è  ancora 
incertissima  e  negata  da  alcuni  fra  i  più  valorosi  linguisti. 
È  poi  dir  troppo  lo  asserire  che  tra  greco  e  latino  v'abbia 
'<  perfetta  analogia  di  sintassi,  di  costruzioni,  di  derivazioni, 
e  di  desinenze  ->  l'p.  7),  soprattutto  ove  si  badi  a  quanto  si 
legge  a  p.  io:  «  Risguardo  al  verbo  latino,  niun  paragone  si 
può  istituire  col  verbo  greco  »  ed  a  p.  1 3- 14  ove  s'insegna  che 
il  latino  ha  forme  più  regolari  e  primitive  dei  greco,  insegna- 
mento non  vero  che  in  parte.  Inesatto  ci  sembra  eziandio  lo 
aiferrnare  che  nella  lingua  romana  è  compreso  il  fondamento 
delle  antiche  favelle  italiche  (p.  xv),  le  quali,  come  a  lutti  è 
noto,  da  quella  si  distinguono  nettamente  per  certe  proprietà 
di  suoni  e  di  forme.  E  non  ammettiamo  né  punto  né  poco 
che  il  iauno  sia  lingua  «t  ricchissima  quant'altra  mai  » 
(p.  JLYìii),  né  lo  ammetteva  Lucrezio,  nel  cui  poema  scorgasi 
deplorata  più  di* una  volta  '<  patrii  sevinonìs  egestas  ».  K 
come  potreni  credere  che  il  latino  classico  spiegherà  l'arcaico 
(p,  xix)  che  lo  ha  preceduto  e  che  ne  e  causa,  non  effetto? 
E  ci  vorrebbe  proprio  un  miracolo  di  fede  per  non  me'i- 
tere  in  dubbio  la  ipotesi  che  fabula  sia  accorciamento  di 
factihuìa   da /ttc/o  (p.   i5o,  nota)  (i);  noi   con    Pott  (2), 


(i)  Più  beiìa  ancora  che  questa  ipotesi  è  la  citazione  di  vert'kula  da 
verto, jlectibula  da  flecto,  mandibula  da  mando:  vi  ha  forse  in  ver- 
tibula,  Jlectibula,  mandibula  qualche  accorciamento? 

(2)  Etymologische  forschungen  ecc.,  2^'  ediz.,  parte  2*,  sez.  2*, 
DetmoM,  1867,  p.  259. 


-  197  — 

Curtius  (i),  Corssen  (2)  e  Pick  (3)  continueremo  a  credere 
che  fa-buia  sia  nome  derivato  dalla  radice  lat.  fa  z:z  gr. 
9a  =  scr.  ed  ar.  bha  —  parlare  --  e  significhi  —  ciò  che 
si  dice  — ,  sia  falso  sia  vero  (come  appare  dal  verso  di 
Fedro  «  Fictis  iocari  nos  meminerit  fabulisv,  I,  proL, 
V.  7).  E  continueremo  anche  a  credere  solennissimo  errore 
il  supporre  un  primitivo  asanti  coìVa  lungo  (p.  14)  (4). 
Ma  di  ciò  basti  :  veniamo  ora  ad  alcune  considerazioni 
intorno  ad  opinioni  filologiche  del  nostro  autore.  Egli  c'in- 
segna a  p.  1 1  che  «  dopo  Catone,  sino  a  Tacito,  la  qualità 
che  domina  e  signoreggia  dall' un  capo  all'altro  presso  che 
tutti  gli  scrittori  di  Roma  è  un'  attitudine  maravigliosa  a 
stringere  e  concentrare  il  pensiero  ».  Ci  pare  che  collo 
scrivere  tali  parole  l'Errico  non  ritrasse  punto  il  carattere 
che  nella  maggior  parte  dei  più  grandi  autori  dell'età 
augustea  ci  si  rivela:  le  eccezioni  non  son  poche  né  lievi; 
basti  citarne  una  sola,  Ovidio.  Fummo  poi  compresi  di 
profondo  stupore  nel  leggere  a  p.  6  che  i  Romani  si  la- 
sciarono addietro  di  lunga  mano  i  Greci  nell'eloquenza  e 
che  l'eloquenza  di  Demostene  non  si  può  ragguagliare  con 
quella  di  Cicerone.  Intorno  a  questa  questione  reputiamo 
che,  ove  non  si  amino  i  rancidi  e  sterili  paragoni  retorici, 
si  possa  solo  affermare,  essere  stata  l'eloquenza  Ciceroniana 
la  più  adatta  a  Roma,  quella  di  Demostene  alla  Grecia:  e 
non  v'ha  chi  non  sappia,  quanto  il  popolo  greco  superasse 


(1)  Grund^uge  der  gr.  etj-m.,  3*  edizione,  Leipzig,  1869,  n"  407, 
p.  278. 

(2)  Ueber  ausspr.  ecc.,  l,  140,  169,  421:   Kritische   beitrage  ecc., 
p.  362. 

(3)  Vergleichendes  wSrterbuch  der  indogerm.  sprachen  ,  2*  edizione, 
Góttingen,   1870,  sez.   i*,  p.  134. 

(4)  Schleicher,  Compendio  ecc.,  §  167,  p.  393-5  della  nostra  ver- 
sione. 

'Rivista  di  filologia  ecc.,  /.  14 


-  198  - 
nel  senso  squisitissimo  dcirarte  il  romano  (i).  E  restammo 
attoniti  leggendo  a  p.  5  che  presso  i  Romani  la  filosofia 
«  non  ha  niente  di  comune  con  quella  che  fu  in  Grecia  »  ! 
Ammettiamo  che  la  filosofia  romana  ebbe  in  genere  inten- 
dimenti assai  più  pratici  che  la  greca  ;  ma  è  sempre  veris- 
simo e  noto  ormai  anche  ai  meno  dotti  di  queste  cose  che 
la  speculazione  latina  fu  mossa,  diretta,  sostenuta  dalla 
greca-  ch.3  «  la  philosophie  gréco-romaine  r-  (come  l'appella 
Ritter  (2)  )  «  se  rapproche  très  fort,  quant  au  caractère,  de 
la  philosophie  grccqae  antérieure  d.  E  non  comprendiamo 
come  si  possa  insegnare  a'  giovani  .studiosi  che  «  così  il 
quarto  come  il  nono  secolo  furono  pregni  di  ignoranza  » 
(p.  xiii),  mentre  vMia  un  bel  divario  fra  la  vita  intellettuale 
dell'uno  e  quella  dell'altro. 

Ma  più  che  queste  mende,  le  quali  ci  appariscono  qua  e 
là  nelTopera  del  nostro  autore,  le  nuocono  alcuni  difetti 
ond'à  tutta  viziata.  E,  in  primo  luogo,  il  prof.  Errico  non 
possicvie  guari  Parte  di  concentrare  i  pensieri  e  di  significarli 
con  forma  breve  e  (come  ora  dicono)  potentemente  incisiva: 
la  sua  elocuzione  ci  pare  troppo  spesso  prolissa,  talvolta  non 
affatto  monda  da  affettazione  e  non  sempre  logicamente  (3) 
né  pure  grammaticalmente  (4)  irreprensibile.  Secondamente, 

(1)  Bernhardy,  Grundriss  dcr  rómischen  litteratur  ,  Braunschweig, 
1872,  p,  785  e  817.  —  Zoncada,  Corso  di  letteratura  greca,  Milano» 
i858,  voi.  30,  p.  533-541- 

(2)  Histoire  de  la  philosophie,  irad.  par  Tissot,  Paris.  iS36,  parte  i», 
voi.  4%  p.  41. 

(3)  Così  ii  senso  richiederebbe ,  per  maggior  perspicuità,  che  si  to- 
gliesse il  non  dopo  ninno  a  p.  \^'i,  là  ove  si  nota  come,  fra  gli  esa- 
irieiri  Enniani,  a  Iato  di  parecchi  versi  biasimevoli  per  vane  ragioni 
vi  siano  «  altri  versi,  e  in  grandissimo  numero,  nei  quali  m/mmo  non  sa- 
prebbe trovar  di  leggieri  alcuna  cosa  degna  di  riprensione,  e  che  sono 
simili  in.coair.istal>ilnìcnt2  ai  più  bei  versi  dei  poeti  classici  >;  ecc. 

(4)  Non  ci  garba,  ad  es. ,  e  non  vorremmo  vedere  imitato  il  seguente 
costrutto:    <-  Buon  pel  comico  latino  l'essersi  imbattuto   nel   nostro 


—  199  - 
siccome  certi  costrutti  speciali  appartengono  allo  stile  sog- 
gettivo (conrie  Io  appella  He3^se  (  i  )  ),  così  reputiamo  dover- 
sene far  cenno  nella  storia  di  una  letteratura  meglio  che  in 
quella  di  una  lingua  (p.  xxi,  nota).  E  finalmente  non  pos- 
siamo non  rimproverare  all'autore  la  deplorabile  povertà  di 
informazioni  su  quella  che  dicesi  critica  dei  testi  e  di  noti- 
zie bibliografiche,  che  sono  assolutamente  necessarie  a  qual- 
siasi studioso  di  filologia  e  che  tu  trovi  non  pure  nelle 
grandi  opere  del  Bernhardy  e  del  TeufFel ,  ma  eziandio  nel 
Grundriss  ^u  vorUsungm  ì'iber  die  rómìsche  litt2ratiirf;-c- 
schichte  (2)  dell'Hùbner.  È  appena  credibile  che  fra  i  titoli 
delle  opere  onde  lo  autore  si  giovò  in  questo  primo  volume 
(p.  xxHi-xxiv)  non  solo  non  si  leggano  quelli  delle  storie 
letterarie  di  SchoU  e  di  Munk  e  di  altri  non  pochi,  ma  non 
vi  si  trovi  accennata  nemmeno  l'opera  fondamentale  del 
Bernhardy!  Sono  poi  innumerabili  le  monografie  onde  sa- 
rebbe stato  utilissimo  far  menzione  e  di  cui  non  fu  fatta  (3): 
basti  notare  come  a  proposito  delle  famose  tavole  Eugubine 

Gravina,  i7  quale ,  per  la  profonda  conoscenza  delle  eleganze  latine  e 
dell'arte  drammatica,  possiamo  considerarlo  giudice  competente»  (p. 
161).  Né  ci  piacerebbe  che  altri  imparasse  ad  usare  raitrovano  (p.  40) 
^tv  ritrovano ^  possegghiamo  (p.  i56)  per  possediamo.  Sono  minuzie, 
ma  vuoisi  badare  anche  ad  esse,  soprattutto  in  un  lavoro  letterario  e 
fatto  per  le  scuole. 

(i)  Sistcmcx  della  scienza  delle  lingue  ecc.,  trad.  dal  Leone,  Torino, 

18Ó4,  §     IO7-ÌO9,    p.  232-235. 

(2)  Berlin,  1869 

(3)  Assai  pochi  sono  i  libri  scritti  in  lingua  tedesca  e  non  tradotti 
che  il  nostro  autore  ha  citati.  V'ha  chi  suppose  che  tale  idioma  non 
gli  sia  guari  famigliare.  Sarebbe  cosa  deplorabile,  perchè,  piaccia  o 
non  piaccia,  qualunque  parte  tu  percorra  del  vastissimo  campo  filolo- 
gico, t'imbatterai  in  qualche  tedesco  che  ti  ha  preceduto.  Ma  ,  quan- 
d'anche quella  supposizione  non  fosse  lontana  da!  vero ,  l'Errico  sa- 
rebbe sempre  assai  meno  a  riprendersi  che  certi  dottori  dalla  faccia 
invetriata,  i  quali,  senza  sapere  quattro  parole  di  tedesco,  giudicano, 
condannano,  proscrivono ,  insultano  la  scienza,  di  cui  questa  fa^ella 
è  organo  stupendo. 


-  200- 

non  sia  mentovato  il  notevolissimo  lavoro  di  Aufrecht  e 
Kirchhoff  (p.  28),  Né  l'Errico  è  sempre  avventurato  nella 
scelta  dei  libri  a  cui  giova  ricorrere  :  che  tu  trovi ,  v.  g. , 
citata  la  Storia  della  letteratura  latina  del  Cantù  e  non 
quella  del  Bernhardy  (p.  xxiii),  il  Trattatello  del  Bindi 
sul  teatro  comico  dei  Latini  e  non  la  Geschichte  des  dramas 
di  Klein  (p.   i35)! 

Conchiudiamo.  La  Storia  criticay  onde  il  prof.  Errico  ci 
diede  il  primo  volume,  sarà  certamente,  assai  piià  che  qual- 
che altra,  ricca  di  pregi,  e  la  lettura  di  essa  riuscirà  utile  a 
molti.  Ma  siamo  convinti  che  la  soverchia  estensione  (i)  della 
medesima  ne  renderà  quasi  impossibile  Tuso  neMicei(2), 
mentre  per  la  scarsità  di  notizie  intorno  alla  critica  dei  testi 
e  d^indicazioni  bibliografiche  sarà  giudicata  insufficiente  agli 
studi  di  filologia  latina  che  si  fanno  od  almeno  si  dovreb- 
bero fare  in  qualsiasi  scuola  normale  ed  universitaria. 

Torino,  12  ottobre  1872. 

Domenico  Pezzi. 


(i)  Come  si  può  proporre  a  giovani  studenti  liceali,  oppressi  da 
tanti  e  sì  diversi  studi,  un  libro  in  cui,  v.  g.,  28  pagine  sono  consecrate 
a  Pacuv'io  (p.  366-394)  ?  À  compiere  quest'opera  occorreranno,  cre- 
diamo, almeno  due  volumi  ancora:  sarà  una  Storia  un  po'  troppo 
lunga  per  i  licei!  Oltracciò,  in  un  libro  destinato  a  queste  scuole 
vorremmo  ancora  maggior  parsimonia  di  cenni  intorno  a  certi  ar- 
gomenti (v.  p.  145  e  166-168,  nelle  quali  tre  ultime  pagine  l'autore 
rapporta  una  scena  plautina,  in  cui  si  descrive  un  padre  parassito,  che, 
per  infame  ingordigia,  vuole  indurre  la  figliuola,  riluttante,  a  lasciarsi 
vendere). 

(2)  <<  Così  com'è,  ci  pare  che  il  libro,  tuttoché  opera  di  un  Italiano, 
debba  tornare  per  le  nostre  scuole  molto  meno  atto   che  non  sarebbe 

una  traduzione  ben  fatta  dell'aurea  storia  di  Edoardo   Mnnk ' 

Nuova  antologia  dì  'icien^^e,  lettere  ed  arti,  voi.  21°,  fase.  9°,  Firenze, 
1872,  p.  23l. 


-  201  - 

Tratte  de  versification  fran^aise  par  Gustave  Weigand, 
docieur  en  philosophie  au  collège  moderne  de  Bront' 
berg,  membre  correspondant  de  la  société  de  Vétude  des 
langues  modernes  à  Berlin,  Bromberg,  ^871,  nouvelle 
èdition  revue  et  augmentée. 

Nella  Germania  si  studiano  non  solo  da  molti  le  lingue 
classiche,  ma  da  moltissimi  e  con  sempre  crescente  voga 
le  lingue  eulte  viventi,  e  n'è  prova  novella  la  società  eretta  da 
parecchi  anni  per  ciò  in  Berlino,  di  cui  e  corrispondente  il 
Dott.  Weigand,  trasformatasi  in  maggio  ultimo  in  accademia; 
essa  aprirà  i  suoi  corsi  il  28  corrente  ottobre,  e  conta  nei 
suoi  ventitré  insegnanti  celebrità  filologiche,  come  sono  i 
prof.  Herrig,  Mahn,  Màtzner,  Schuìe  e  Schnackeuburg.  Sif- 
fatta diffusione  della  conoscenza  delle  lingue  -noderne  in  Ger- 
mania contribuì,  a  detta  dei  sìgg.  Levasseur,  Baret  e  Aron  (i), 
alle  strepitose  recenti  vittorie  delie  armi  tedesche  sulle  francesi 
che  pure  avevano  fama  d'invincibih.  Gli  è  per  tale  consi- 
derazione che  il  sig.  Simon,  attuale  ministro  della  pubblica 
istruzione  in  Francia,  colla  sua  applaudita  circolare  del 
27  settembre  testé  scorso ,  rese  obbligatorio  nelle  scuole 
secondarie  dello  Stato  lo  studio  del  tedesco  e  deiringlese. 

Ma  a  ciò  ottenere  in  Germania  non  si  scelgono  mica  ad 
insegnanti  coloro  la  cui  dottrina  consiste  ne)  parlare  spe- 
ditamente e  pronunziar  bene  una  lingua  straniera,  sì  coloro 
che  con  profondi  studi  si  sono  addentrati  nella  fonologia , 
morfologia  e  sintassi  della  lingua  che  assumono  d'insegnare. 
In  Germania  si  vuole,  come  nota  il  Fuchs  (2),  che  il  pro- 


li) Uétude  et  l'enseignement  de  la  géographie.  Parigi,  1871.  De  l'en- 
seignement  des  langues  vivantes.  Parigi  1S71.  V.  anche  la  Circolare  del 
ministro  della  pubblica  istru^iione  io  ottobre  1S71,  ed  il  Journal  des 
Débats  8  ottobre  corrente. 

(2)  Ueber  die  sogenannten  unregelmassigot  ^eitwórter  in  den  ro^ 
manischen  sprachen.  Berlino,  1840. 


-  202  - 

fessore  sappia  il  perchè  onde  bene  insegnare  il  come  ai 
discenti. 

Fra  costoro  dobbiamo  noverare  il  Dottore  Weigand,  che 
nel  libro,  argomento  di  quest'articolo,  espone  compendiata, 
corretta  ed  accresciuta  di  prove  Topera  delPegregio  prof,  pa- 
rigino Quicherat  sulla  versificazione  francese,  ma  meglio  che 
trattato  avrebbe  dovuto  intitolarla  storia,  giacche  prende  le 
mosse  dairantico  francese,  che,  distando  tanto  dall'attuale, 
ebbe  un  incerto  e  confuso  sistema  di  versificazione,  epperò 
non  può  ammaestrarci  nelFarte  di  scrivere  versi  nel  francese 
odierno,  le  licenze  antiche  superando  le  regole. 

L'esimio  autore,  a  parer  mio,  trattò  troppo  brevemente 
dell'accento,  attenendosi  alla  dottrina  del  Dott.  Ackermann; 
egli  avrebbe  dovuto  fare  suo  prò  delle  opere  speciali  sull'ac- 
centuazione venute  in  luce  di  poi,  cioè  del  Benloew  (i),  del 
Benloewe  del  Weil(2)  e  di  Gaston  Paris  (3),  giacché  la  poesia 
ritmica  dipende  dalla  dinamica  e  collocazione  degli  accenti 
sopra  un  dato  numero  di  sillabe.  Il  Biagioli  (4),  per  quanto 
io  sappia,  fu  il  primo  a  trascrivere  il  piede  ritmico  poetico 
colla  notazione  musicale,  sebbene  già  lo  avesse  accennato  il 
Sacchi  (5),  ed  io  ricordo  come,  quando  negli  anni  migliori 
mi  dilettava  nel  canto,  trovassi  impossibile  di  cantare  un 
pezzo  della  Margarita  di  Angiò  del  Mayerbeer,  perchè  co- 
stringeva ad  entrare  nel  tempo  forte  della  battuta  con  sil- 


fi) De  Vaccentuation  dans  les  langues  indo-européennes.  Parigi,  1847. 
Théorie  des  rhyihmes  fran^ais  et  latins.  Parigi,  1862. 

(2)  Théorie  generale  de  l'accentuation  latine.  Parigi,  i855. 

(3)  Étude  sur  le  relè  de  l'accent  latin  dans  la  langue  fran^aise.  Parigi, 
1862. 

(4)  Grammaire italienne  avec  un  traité  de  la  poesie  italienne. 

Parigi,  1829. 

(5)  Della  divisione  del  tempo  nella  musica,  nel  ballo  e  nella  poesia. 
Milano,  1770. 


~  203  - 

laba  disaccentuala,  il  contrasto  della  tesi  musicale  colla  arsi 
poetica  distruggendo  la  prosodia. 

Astrazione  fatta  di  ciò  è  meritevole  di  molta  lode  il  Dot- 
tore Weigand  per  questo  suo  bel  lavoro.  Egli  mostrò  tanta 
perizia  del  francese  antico  e  moderno  da  disgradarne  non 
pochi  grammatici  della  stessa  Francia,  attalchè  reputo  il  suo 
trattato  indispensabile  a  quanti  si  occupano  della  filologia 
francese.  Un  solo  appunto  mi  è  dato  di  fargli  ed  è  il  se- 
guente. 

Egli  a  pag.  49  dice  che  i  mnrlerni  scrivono  falsamente 
grand' mere ^  ora  il  Brachet  (i)  c'insegna  che  nell'antico 
francese,  imitandosi  il  latino  in  cui  parecchi  aggettivi,  come 
grandis,  fortis,  avevano  una  terminazione  comune  ai  due 
generi,  si  adoprò  nella  stessa  forma  tanto  innanzi  a  nomi 
maschili  come  ai  femminili,  scrivendosi  grand'  tnère,  gi'and'^ 
route.  Col  processo  del  tempo  s'introdussero  le  due  termina- 
zioni, ma  dal  naufragio  scampò  grand  innanzi  ad  alcuni 
aggettivi,  epperò  non  è  un  falso  uso,  come  reputa  il  Weigand, 
sì  un  uso  arcaico. 

Uno  dei  lavori  cui  vorrei  ponesse  mano  qualche  dotto  te- 
desco, indagatore  dell'organismo  delle  lingue  sarebbe  questo  : 
Dellu  ritmica  comparata  delle  lingue  neo-latine.  Esso  m.e- 
diante  conosceremmo  le  forza  e  la  virtualità  dell'accento  spe- 
ciale ad  ognuna  di  esse,  la  causa  della  maggiore  o  minore 
armonia  e  varietà  dei  versi  e  conseguentemente  del  grado  di 
musicabilità  dei  suddetti  idiomi. 

Torino,  ottobre  1872. 

Vegezzi-Rlscalla. 
(i)  Crammaire  historiqut  de  la  lanfrue  frangaise,  Parigi,  1868. 


—  204  - 

ZNiOTIZIE 

Leggemmo  con  gioia  nelle  GÓttingische  gelehrte  anjeigen  del  3  lu- 
glio ultimo  scorso  un  articolo  di  R.  SchóU  intorno  ad  un  recentis- 
simo lavoro  filologico  italiano  fDella  sublimità,  libro  attribuito  a  Cassio 
Longino,  tradotto  Ja  Giovanni  Canna,  Firenze,  1871).  Sebbene  lo 
SchóU  dissenta  dal  Canna  in  ciò  che  concerne  lo  autore  di  questo 
trattato,  nondimeno  egli  ne  riconosce  e  ne  loda  la  dottrina  e  l'acume, 
rallegrandosi  che  i'Italia,  malgrado  di  coloro  che  più  volte  e  viva- 
mente si  opposero  allo  studio  dei  greco,  possegga  ancora  pregevoli 
cultori  di  esso  e  manifestando  la  sua  speranza  che  il  nobile  esempio 
del  Canna  sia  per  essere  imitato.  Noi  ci  congratuliamo  col  valente 
professore,  deplorando  che,  se  non  ci  apponiamo  in  fallo,  per  la  mal 
ferma  salute  egli  abbia  dovuto  rinunziare  allo  insegnamento  liceale 
della  lingua  greca. 

Il  dì  3  settembre  ultimo  scorso  moriva  a  Firenze,  in  età  di  24  anni, 
l'egregio  dottore  Felice  Pinzi ,  pochi  giorni  dopo  la  pubblicazione  di 
un  dotto  lavoro  intorno  agli  Assiri ,  nel  quale  egli  aveva  compendiali 
gl'insegnamenti  che  in  due  corsi  liberi  nell'Istituto  di  studii  superiori 
aveva  dati  su  questo  argomento.  Né  l'avere  studiato  da  sé  il  linguaggio 
degli  Assiri  e  fatta  di  pubblica  ragione  un'opera  intorno  ai  medesimi 
è  il  solo  titolo  suo  alla  lode  ed  alla  gratitudine  degli  studiosi;  che  fu 
eziandio  uno  dei  fondatori  àtW Archivio  di  etnologia  e  di  antropologia, 
uno  dei  promotori  della  Società  orientale  in  Italia.  Non  molti,  mo- 
rendo in  tarda  età,  lasciano  di  sé  così  buona  memoria  come  questo 
giovane,  onde  la  vita  fu  tronca  da  breve  morbo  negli  splendidi  giorni 
della  operosità  e  della  speranza. 

Siamo  lieti  che  della  Commissione  d'inchiesta  sull'istruzione  secon- 
daria sia  stato  eletto  membro  anche  quel  vaiente  conoscitore  dell'anti- 
chità classica  che  è  il  prof.  R,  Bonghi,  E  confidiamo  che  questa  Com- 
missione sentirà  e  comprenderà  il  bisogno  urgente  dì  porre  in  bando 
dai  nostri  ginnasii  certi  metodi  medievali,  che,  a  disdoro  della  scienza 
italiana  e  per  isventura  degli  allievi,  si  seguono  ancora  per  lo  più  e  tal- 
volta si  osano  eziandio  commendare  con  temerità  pari  all'  ignoranza. 
Questa  Rivista  concorrerà  anch'essa  con  tutte  le  sue  forze  all'opera 
riformatrice  che  alla  Commissione  venne  affidata.  Mossi  da  sì  fatto  pro- 
posito e  dalle  esortazioni  di  egregie  persone  continueremo  e  compiremo 
senza  indugio  ne' prossimi  due  fascicoli  la  pubblicazione  delle  Conside- 
razioni sull'istruzione,  soprattutto  classica,  in  Italia,  a  proposito  del  re- 
centissimo libro  di  M.  Bréal  sulla  istruzione  pubblica  in  Francia. 

Rendiamo  grazie  di  cuore  alla  Gazzetta  di  Augusta,  zWOpinionc,  al 
Diritto,  alla  Gazzetta  ufficiale,  che  testé  furono  cortesi  di  lode  alla  no- 
stra Rivista. 

Pietro  Ussello,  ferente  responsabile. 


206 


OSSERVAZIONI 
S0P1{A  UN  PASSO  'BELL'c^NABASI  DI  SENOFONTE 


Nel  libro  primo  dell'Anabasi,  cap.  V.  §  \-2,  descrivendo 
la  marcia  delPesercito  di  Ciro  bià  'rì\<;  'Apapia^,  e  precisa- 
mente nella  parte  del  bacino  dell'  Eufrate  compresa  fra 
l'Arasse  (detto  Aboras  da  altri  scrittori,  quali  Strabone, 
Ammiano  Marcellino  ^cc,^  oggi  Cabur)  e  il  Masca,  Seno- 
fonte racconta  quanto  segue  :  '6v  toOtiu  òè  tiì  tóttuj  (nell'A- 
rabia) fiv  )Lièv  f)  Yn  Tteòiov  airav  6|uaXè<;  uxJTcep  GàXarra,  dv|;iv6iou 
bè  TrXfipe<;"  eì  hi  ti  Kal  àXXo  èvfiv  \)\r\<^  f^  KaXdjiiou,  arravia  ^aav 
€Òu)òr)  ujcTTTep  àpuL)|LiaTa*  bévbpov  b'oìibèv  èvfjv,  Gtipia  bè  TravxoTa, 
-rrXeicJTOi  òvoi  arpioi,  ttoXXgì  bè  (TTpoueoì  a\  juetaXar  èvncrav  bè 
Kaì  obiibe?  Kttì  bopKabe^*  laOra  bè  xà  8)ipia  oi  lmTeT(;  èvioie 
èblujKOV.  Kol  ol  )Lièv  òvoi,  èirei  tk;  bitXjKoi,  TrpobpaiióvTei;  è'aiacrav  • 
TToXù  Yàp  Tujv  iTTTruuv  lipexov  OdTTOV  Kal  TrdXiv  èTteì  TrXriaidZoiev 
q\  Tniro;,  taÒTÒv  cttoìouv,  xaì  oùk  r\\  Xapevv,  eì  \à\  biacrravre? 
o\  iTTTreTs  Gripiliev  biabexó^evoi  *  tu  bè  Kpéa  tujv  dXicyKopiéviuv  ^v 
TrapOTiXricTia  toT?  èXaqpeioi?,  àTraXiuTepa  bè"  (JTpouGòv  bè  oùbel^ 
IXa^ev  01  bè  biwHavTe?  tujv  ÌTméwv  Taxù  ètrauovTo'  ttoXù  tdp 
ànécTTra  (peuTOuffa,  toT?  nèv  irooì  bpó)Liiu,  toT?  bè  Trrépugiv  at- 
pouaa  Aatrep  icttiu;  xpuJ^^vn-  Td?  bè  ùjxibaq  dv  ti?  Taxù  dviax^, 
iox\  Xdiapàveiv*  TrtxovTai  Tdp  ^paxù  ujCTTTep  ntpbiKe?  Kaì  Taxù 
dTtaYopeùoucrr  Td  bè  Kpéa  aÙTiJùv  t^bicrra  i^v.  TTopeuó^evoi  bè  bid 
TaÙTTiq  Tri?  Xi"pct?  ktX    (i),  cioè:  a  In  quella  regione  il  ier- 


(i)Mi  valgo  del  testo  di  Carlo  Schenkl, Xewof  fto«f/5  opera,  Berolini 
1869,  I,  p.  16-17.  Ma  mi  pare  opportuno  di  notare  le  due  varianti  chr 
offre  l'edizione  di  L.  Breitenbach  (Xeno/7/io«M"5  Anabasis  cum  apparatu 
critico.  Halis  Saxonum  1867)  e  di  raccomandare  le  edizioni  scolastiche 

Hivìsta  di  filolojia  ecc.,  I  i5 


-  206  — 
reno  era  una  pianura  tutta  uguale  a  guisa  di  mare^  pieno 
di  assenzio,  e  se  altro  vi  era  di  arbusti  e  di  canne,  tutto 
odorava  a  modo  di  aromi.  Non  pi  era  poi  albero  alcuno; 
ma  animali  d'ogni  specie;  il  maggior  numero  erano  asini 
selvatici  e  molli  stru^i  di  gran  corpo,  Eranvi  anche  ot- 
tarde  e  caprioli  {i)  ;  a  questi  animali  talpolta  i  cavalieri 


di  questo,  dei  Rehdantz  e  del  Vollbrecht,  corredate  di  opportunissime 
note  per  l'uso  delle  scuole.  Ecco  adunque  le  varianti,  sebbene  nulla  im- 
portino per  l'argomento  che  sto  trattando:  Qv  Haraaav-àpaaa.  Le  diffe- 
renze fra  queste  due  edizioni  e  le  altre  si  veggono  nelle  note  i,  2,  3, 
p.  20-21  del  Breitenbach.  La  versione,  che  faccio  seguire,  è  di  Francesco 
Ambrosoli,  circa  la  quale  giova  notare  che  sono  poco  precise  le  parole 
stru!^p  di  gran  corpo  :  ai  inefóXai  non  vuol  dire  che  essi  erano  grandi, 
il  che  s'intende  da  sé,  ma  siccome  orpouBó^  vuol  dir  anche  passero, 
era  necessario  aggiungere  un  epiteto  che  facesse  capire  che  si  parlava 
del  grande  uccello  del  deserto  :  m  secondo  luogo  osservo  che  le  parole 
sempre  freschi  sono  del  traduttore,  e  finalmente  che  valendosi  delle  ali 
aliate  non  corrisponde  esattamente  a  :  tcT^  òè  ntépuHiv  alpouda  tSattcp 
Kaxvì^  Xp\ìì\xiyY\  :  almeno  bisognava  aggiungere  come  di  vela. 

(i)  Debbo   alla   gentilezza  del  prof.  Giuseppe  MuUer  l'osservazione 
che  in  questo  luogo  6opKd(;  piuttosto  che  cavriolo  (animale  che  abita 
sempre  in  luoghi  freschi  e  ombrosi)  deve  significare  antilope  o  ga^- 
^ella  e  più  specialmente  la  antilope  <forca5  di  Linneo,  di  Buffon,  di  Pal- 
las  e  di  altri  autorevoli  naturalisti,  nel  che  convengono  i  più  recenti 
interpreti    di  Senofonte.   Parlando  delle  Antilopi  il  dott.  Chenu  nella 
sua  Encyclopédie  d'Histoire   naturelle,  voi.   12,  pag.  i36,  osserva  che 
<«  quelques-unes  habitent  les  plaines  arides,  sablonneuses  et  rocailleuses 
et  ne  se  nourrissent  que  de  plantes  aromatiques  ».  Più  sotto,  pag.  iSg, 
trattando  specialmente  del  50^5  genre  Dorcas,  dice  :  «  la  Gabelle,  qu'E- 
lien  a  décrite  sous  le  nom  de  Dorcas,  dénomination  anciennement  em- 
ployée  pour  le  chevreuil,  est  le  niéme  animai  que  VAcora  d'H.  Smith, 
le  Dorcas  antiquorum  de  Shaw,  probablement  VAlga^el  des   Arabes, 
et  la  dénomination  de  Gazelle  leur  a  été  également   donnce   par   les 
mémes  peuples......  On  les  chassefles  antilopes)  avec  soin,  car  leur  chair 

est  d'un  goùt  agréable  et  assez  semblable  a  celui  du  chevreuil  ».  Sullo 
stesso  argomento  trovo  nel  grande  Dizionario  delle  sciente  naturali 
edito  a  Firenze  dal  Batelli,  artic.  Antilope  :  <»  La  carne  della  gazzella 
è  molto  buona  e  partecipa  un  poco  di  quella  del  capriuoìo  «  e  il  Palias 
nel  suo  Voyage  en  Russie,  voi.  I,  pag.  379,  dice:  «  La  chair,  lors 
qu'elles  sont  jeunes,  c'est  à  dire  àgées  d'un  an,  serait  beaucoup  meil- 
leure  que   celle  du  chevreuil,  si  elle  n'avait  communément  le  goùt  de 


-  207  — 
davano  la  caccia.  E  gli  asini,  quando  qualcuno  gì' inse- 
guisse, fuggivano  innan:{i  e  poi  fermavansi  {perocché  cor- 
revano molto  pili  celeremente  dei  cavalli);  poi  facevan  di 
nuovo  lo  stesao  quando  i  cavalli  accostavansi ,  di  sorte 
che  noti  era  possibile  pigliarne  se  i  cavalieri  appostati  a 
certi  intervalli  non  gV  inseguivano  succedendosi  gli  uni 
agli  altri  con  sempre  freschi  cavalli.  Le  carni  di  que  che 
pigliavano  erano  simili  a  quelle  de  cervi,  ma  più  tenere. 
Nessuno  per  altro  prese  uno  stru\io  ;  an^i  alcuni  cava- 
lieri, dopo  averne  inseguiti,  se  ne  rimasero  subito,  pe- 
rocché fuggendo  si  dilunga  gran  tratto  correndo  co'  piedi 
e  valendosi  delle  ali  aliate  Ma  le  ottarde,  se  Vuomo  le 
assale  improvviso,  si  possono  prendere;  perchè  volano  a 
piccoli  tratti  come  le  pernici  e  presto  si  stancano.  Le  loro 
carni  erano  saporitissime.  Procedendo  poi  per  quella  re- 
gione, ecc.  ». 

Nessun  editore  e  nessun  commentatore  ha  mai,  per  quanto 
io  sappia,  elevato  dubbi  sulla  integrità  di  questo  luogo:  a  me 
sembrando  scorgervi  una  lacuna  di  qualche  rilievo,  sotto- 
pongo agU  studiosi  akune  brevi  osservazioni  circa  tale  ar- 
gomento, perchè  essi  ne  facciano  il  conto  che  crederanno 
migliore. 

Primieramente  in  uno  storico  minuzioso  e  diligentissimo, 
quale  è  Senofonte  nell'Anabasi,  reca  meraviglia  che  dopo 
avere  noverato  quattro  specie  di  animali  che  vivevano  nella 
pianura  da  lui  sopra  descritta,  òvoi  fi^piot,  (TTpouGoì,  iJJTibe? 
e  bopKdòe^.  e  dopo  essersi  dato  la  pena  di  esporre  il  modo 


l'absinthe  dont  elles  se  nourrissent:  queiques  personnes  s'accomraodent 
très-bien  à  ce  goùt.  La  chair  de  gazelle  rótie  le  perd  totaleraent 
lorsqu'elle  est  refroidie  ».  Debbo  anche  le  citazioni  del  Pallas  alla 
cortesia  del  prelodato  prof.  Muller.  Il  lettore  intenderà  agevolmente 
da  ciò  che  segue  perchè  mi  è  parso  conveniente  determinare  fin  da 
ora  il  sapore  della  carne  della  gazzella. 


~  208  - 
in  cui  i  soldati  greci  tentavano  di  prendere  gli  onagri,  gli 
struzzi  e  le  ottarde,  taccia  affatto  della  caccia  delle  antilopi. 
Né  a  spiegare  questo  silenzio  sembrami  sufficiente  la  consi- 
derazione che  forse  tal  caccia  non  offriva  alcunché  di  notevole 
da  narrarsi  al  lettore,  giacché  sappiamo  anzi  e  dal  Pallas  (i) 
e  da  altri  naturalisti  che  anche  le  gazzelle  sono  animali  che 
si  sottraggono  facilmente  alle  ostilità  dei  cacciatori,  i  quali 
debbono  ricorrere  a  insidie  di  varie  specie  per  impadronir- 
sene; e  in  ogni  caso  l'autore,  seguendo  la  sua  consuetudine 
di  render  conto  anche  dei  più  minuti  particolari,  avrebbe 
dovuto  dire  se  i  soldati  presero  delle  antilopi,  se  ne  presero 
poche  o  molte,  ecc. 

In  secondo  luogo  apparisce  strana  la  seguente  notizia 
circa  gli  onagri:  xà  bk  Kpéa  tójv  àXKJKOjaévujv  ^v  TrapauXrjcna 
ToT?  èXa<peioi?,  colla  giunta  poi;  aTtaXiLiepa  òé.  Il  lettore  si 
immaginerà  facilmente  che  io  non  ho  mai  avuto  occasione 
di  mangiare  la  carne  di  un  animale  straniero  al  nostro 
paese,  quale  è  l'onagro;  però  non  parmi  verosimile  ch'essa 
sia  più  tenera  della  carne  del  cervo  (2)  ;  e  tanto  più  forti  si 
fanno  i  miei  dubbi  circa  le  parole  xà  bè  Kp^a  ktX.  quando 
penso  che  queste  sono  per  certo  applicabilissime  alle  anti- 


(i)  Op.  cit,  voi.  V,  pag,  408. 

(a)  Veramente  ildott  Chenu,  op.  cit.,  voi.  12,  pag.  54,  dice:  «i'homme 

lui  (aironagro)  déclare  la  guerre .  ♦ pour  se  nourrir  de  sa  chair, 

qui  passe  en  Tartarie  pour  un  mets  des  plus  délicats  ».  E  il  Pallas, 
op.  cit. ,  voi.  5,  pag.  427,  dopo  avere  descritto  con  molti  particolari 
l'aspetto  e  la  natura  degli  onagri,  aggiunge  :  «  Les  Toungouses  avaient 
abattu  peu  de  jours  auparavant  deux  jeunes  étalons  et  les  avaieni  man- 
gés:  ils  en  préfèrent  la  chair  à  toui  autre  gibier  ».  Ma  (anche  facendo 
astrgy.ione  dai  gusto  dei  Tartari,  il  quale  forse  non  è  molto  esigente) 
da  queste  indicazioni  a  quella  che  si  legge  ora  nell'Anabasi  corre  gran 
tratto.  Oppiano,  Cineg.  Ili,  v.  190,  parlando  dell'onagro  dice:  àWaùxò^ 
KpoTepot^  àja^f]  péoi^  InXero  Gripoi  :  le  quali. parole,  se  non  m'inganno, 
darebbero  argomento  a  credere  che  secondo  le  cognizioni  o  l'opinione 
dell'autore  del  poema  della  caccia,  il, quale  (giova  ricordarlo)  era  nativo 
di  Apamea  in  Siria,  gli  onagri  non  sono  un  buon  cibo  per  gli  uomini. 


—  209  — 
lopi,  come  appare  chiaramente  dalle  autorevoli  notizie  che 
ho  riferito  sopra  in  una  nota  circa  questi  animali. 

Io  stimo  che  si  debba  riconoscere  in  questo  luogo  una 
omissione  derivante  dalPerrore  (lo  dirò  colle  parole  che  ado- 
pera I.  N.  Madwig  nel  suo  recente  ed  ottimo  libro:  Ad- 
versarla  critica  ad  scripiores  graecos  et  latinos,  voi.   i°, 

pag.  42)    «  quo  propter  duas  similes  voces intervallo 

non  ita  magno  positas  librarius,  oculo  a  priore  ad  alteram 
transiliente,  alterutram  cum  interpositis  omnibus  neglegit  et 
excludit  » .  Secondo  la  mia  opinione  Senofonte  subito  dopo 
la  caccia  degli  onagri  descrisse  quella  delle  antilopi  e  quindi 
quella  degli  struzzi  e  delle  ottarde  (i):  egli  diede  notizia 
della  carne  degli  onagri  e  della  carne  delle  antilopi,  ma  il 
copista  ingannato  da  due  periodi  che  cominciavano  simil- 
mente (2),  dopo  avere  scritto  xà  bè  Kpéa  tujv  dXicTKOiaéviwv  (pa- 
role riferibili  agli  onagri)  saltò,  senza  accorgersene,  a  una 
altra  frase  eguale,  che  si  trovava  poche  righe  pira  sotto,  ri- 
feribile alle  antilopi;  e  così  fu  tralasciata  la  descrizione  della 
caccia  di  queste  e  fu  attribuita  alla  carne  delPonagro  una 
qualità  che  poco  le  si  addice  e  che  è  propria  di  quella  delle 
antilopi. 


(i)  A  chi  obbiettasse  che  in  tal  guisa  l'ordine  della  descrizione  delle 
quattro  caccie  (degli  onagri,  delle  antilopi,  degli  struzzi  e  delle  ottarde) 
non  corrisponde  all'ordine,  in  cui  questi  animali  furono  nominati  la 
prima  volta  dall'autore  (onagri,  struzzi,  ottarde,  antilopi),  parmi  si  possa 
rispondere  che  al  principio  del  capitolo  Senofonte  descriveva  l'aspetto 
che  offriva  la  pianura  arabica  ai  soldati  greci  i  quali  si  avanzavano  in 
essa,  ed  era  naturale  che  nominasse  prima  gli  animali  di  maggior  mole 
e  poi  i  minori;  mentre  prendendo  a  esporre  le  varie  maniere  di  caccia, 
la  divisione  per  generi  (quadrupedi  e  uccelli)  dovea  sembrargli  più  con- 
veniente. 

(2)  Anche  per  le  ottarde  dice  :  rà  bè  Kpéa  aùTObv  f^òtora  f^v.  È  quasi 
superfluo  avvertire  che  per  gli  struzzi  manca  ogni  indicazione   di  tal 

genere,  conciossiachè,  secondo  il  racconto  dell'autore,  OTpoo66v 

oòòd<;  IXa^cv. 


—  210  — 
La  lacuna  da  me  sospettata  avrebbe  luogo  adunque  dopo 
àXi(JKO]uévujv,  o  forse  dopo  xpéa. 

Livorno,  ottobre,  1872. 

AcHiixE  Coen. 


L'INFLUSSO  CONTINUO   DELLO  SPIRITO  GRECO 
SUL  PROGRESSO  DEL  GENERE  UMANO. 


Quanto  più  raro  è  il  ripetersi  del  buono  nella  vita,  tanto 
più  frequentemente  possiamo  offrirlo  nelP insegnamento,  e 
quanto  più  raramente  la  vera  nobiltà  riesce  nella  sua  lotta 
contro  ciò  che  è  volgare,  tanto  più  frequentemente  dobbiamo 
rappresentare  in  ogni  maniera  Timagine  della  virtù  e  della 
perseveranza  al  mondo,  affinchè  si  travagli  per  imitarla, 
gareggi  a  conseguirla,  ritemperi  la  volontà,  santifichi  il  cuore, 
nobiliti  lo  spirito. 

Non  v'ha  verità  che  non  abbia  d'uopo  d'essere  di  quando 
in  quando  ripetuta  ad  alta  ed  a  tutti  intelligibile  voce ,  che 
non  abbia  bisogno  di  tempo  in  tempo  di  nuovi  martiri.  Una 
genera^^ione  dopo  Taltra  cresce  ed  ognuna  di  essa  ha  il  grande, 
il  primo  dovere  di  accogliere  nell'animo  ancor  vergine  il 
seme  del  buono,  del  bello,  perchè  diventi  generazione  va- 
lènte, di  alti  sentimenti,  operosa,  utile  alla  propria  nazione 
ed  all'umanità.  Che  gli  uomini  mutano  non  solo  secondo 
il  tempo  e  l'età,  ma  ancora  nei  loro  intendimenti,  in  quello 
che  meditano  e  vogliono,  nei  loro  fini  e  nelle   loro  azioni. 

Ora,  così  sembra,  una  generazione  passa  indifferente  la  vita 
in  oziosa  quiete  e  molte  contentezza;  ora  un'altra,  simile  ad 
un  torrente  di  lava,  tenta  sconvolgere  la  terra  e  si  spinge, 


—  211  - 

infiammata  tutta,  ad  ardite  imprese.  Ma  né  in  quella,  sotto 
la  superficie  apparentemente  quieta,  manca  la  forza  interna; 
ne  in  questa,  fra  le  procelle,  fra  i  fulmini  devastatori,  si 
scuote  il  solido  fondamento,  da  cui  escono  i  segnali  di  fuoco. 

Quanto  più  bella  e  trasparente  è  la  corrente  che  attra- 
versa un'epoca  e  commuove  gli  spiriti,  tanto  più  evidente  è 
in  quel  tempo  anche  il  riflesso  di  una  vita  anteriore  e  si- 
mile, tanto  più  chiara  si  riproduce  l'imagine  di  questa  in 
quella. 

L'intimo  nesso  degli  spiriti,  la  catena  non  interrotta  nel 
progresso  dell'umanità  a  traverso  ìe  centinaia  e  la  migliaia 
d'anni  è  cosa  in  verità  meravigliosa.  Il  ricercare  questo 
nesso,  il  seguire  questa  corrente  non  mai  intermettente, 
sempre  nutrita  da  nuovi  rivoli,  è  certo  una  delle  più  serie 
occupazioni  dello  spirito  umano  e  nel  medesmio  tempo  una 
delle  più  sublimi,  E  sol  chi  abbia  trovato  questo  nesso 
conosce  la  storia:  egli  solo  vede  le  leggi  che  la  governano, 
a  lui  solo  si  rivela  l'eterna  legge  divina,  per  lui  solo  l'istoria 
dell'umanità  è  la  manifestazione  della  divmiià 

Ora,  se  ci  domandiamo  quali  sieao  oltre  la  nazionalità  , 
ossia  l'indole  popolare,  le  forze  che  determinano  la  vita  in- 
tima dei  popoli  occidentali  in  genere,  se  ci  domandiamo, 
quale  sia  il  fondamento  su  cui  è  eretto  il  grande  e  mirabile 
edifizio  de' suoi  stati,  e  quali  siano  le  leve  morali  ed  intel- 
lettuali, che  agiscono  nell'incivilimento  europeo  e  lo  spin- 
gono ad  un  continuo  progresso,  abbiamo  una  semplice  e  ben 
chiara  risposta.  Generalmente  parlando  noi  osserviamo,  due 
principali  correnti  intellettuali  e  morali ,  due  fetenti  idee 
che  informano  l'attuale  nostra  vita  europea,  vita  intellettuale, 
morale,  eminentemente  civile  ed  umana.  Quello  che  di  ve- 
ramente buono  noi  scorgiamo  neirincivilìmento  moderno,  le 
virtù  disinteressate  che  operano  in  silenzio,  qual  manifesta- 
zione di  cuore  puro  e  di  nobile  sentimento,  sono  frutti  dello 


-  212  — 
spirito  cristiano,  sono  gli  effetti  benefici  del  cristianesimo. 
Quello  che  d'altra  parte  ci  alletta  e  ci  rapisce  per  bel- 
lezza di  forma  e  profondità  di  pensiero,  per  naturalezza, 
altezza,  chiarezza  d'imagini,  per  grazia,  forza  e  dignità  di 
espressione  nelle  opere  delPumano  ingegno  (sì  nella  lettera- 
tura, SI  neirarte),  quello  che  è  bello  e  vero  nello  stesso 
tempo  è  principalmente  frutto  dello  spirito  greco,  è  l'in- 
flusso benefico  deUV/Zenz^wo,  propagato  da  un  secolo  all'altro 
per  opera  de'più  grandi  ingegni  dell'uraan  genere.  E  dovunque 
si  portino  i  germi  nobili  deW  ellenismo^  essi  volentieri  alli- 
gnano, germogliano,  fioriscono  e  portano  aurei  frutti. 

Il  cristianesimo  colla  sua  legge  del  fraterno  amore  verso 
tutti  i  nostri  simili,  legge  di  sì  difficile  applicazione,  unito 
strettamente  coU'ellenismo,  che  è  a  dire  collo  spirito  greco» 
quale  lo  conosciamo  dalle  opere  imperiture  dell'arte  e  della 
letteratura  greca,  ha  penetrato  profondamente  tutti  i  popoli 
dell'Europa  moderna.  E  la  forza  naturale  di  questi  popoli 
—  delle  stirpi  germaniche  e  neolatine  —  cosi  vivificata  ha 
creato  nel  corso  di  mille  e  più  anni  un  più  alto  incivilimento 
dell'uman  genere;  ha  creato,  in  una  parola,  il  viver  civile 
dei  tempi  nostri. 

È  vero  che  questa  èra  novella  vince  di  gran  lunga  l'an- 
tica, strettamente  limitata,  quanto  a  diffusione  della  cultura 
o  varietà  di  cognizioni  e  di  esperienza ,  e  ciò  in  modo  na- 
turale; ma  con  riverente  gratitudine  essa  rivolge  il  suo 
sguardo,  quasi  figlia  alla  madre ,  a  quei  tempi  antichi ,  con- 
templando Tinarrivata  grandezza  della  vita  puramente  in- 
tellettuale, che  vediamo  nell'arte,  nella  poesia,  nella  lettera- 
tura della  Grecia.  Oggi  ancora  vive  l'Atene  intellettuale  e 
vìvrà  per  tutti  i  tempi,  prescelta  dalla  provvidenza  ad  essere 
per  tutte  le  future  generazioni  maestra  e  duce  di  ogni  cosa 
nobile  e  bella;  e  non  è  dimenticata  nemmeno  la  sua  gran- 
dezza politica,  la  sua  storia,  la  quale  ci  rappresenta,  insieme 


—  213  — 
con  molte  altre  pregevoli  cose,  anche  la  maggior  felicità  ter- 
restre che  possa  un  popolo  conseguire  :  quel  raro  fenomeno, 
possibile  solo  allora,  quando  il  pensiero  e  la  vita  pratica, 
spirito  ed  azione,  siano  strettamente  uniti  e  dominati  dalle 
grazie. 

Questo  stretto  nesso  tra  pensiero  ed  azione  nell'  istoria 
dell'umana  cultura  e  deirincivilìmento  umano  è  un  fatto  da 
lungo  tempo  riconosciuto  e  non  contestato  da  alcun  uomo 
veramente  coho.  Ma  per  quanto  sicuro  ed  indubitato  sia 
questo  fatto,  e  ciò  per  ragioni  evidenti,  altrettanto  fermo  ed 
incrollabile  è  il  convincimento  di  tutti  quelli  i  quali  dotati 
di  nobile  sentire  amano  veramente  V  umanità  e  la  propria 
patria,  che  senza  una  più  profonda  conoscenza  dello  spirito 
greco  e  delle  sue  manifestazioni  nella  vita  mediante  uno  studio 
accurato,  coscienzioso,  amoroso  dei  modelli  classici,  intra- 
preso fino  dai  primi  anni  giovanili,  non  sia  possibile  una 
vera  nobile  cultura  dello  spirito  umano  e  tale  una'educazione 
della  società  che  conduca  ad  una  vita  politica  degna  dell'e- 
poca nostra. 

Quanto  maggiormente  si  estende  questa  cultura  classica, 
ellenica,  e  quanto  maggiore  occasione  è  dato  mediante  la 
scuola  e  l'insegnamento  dì  apprendere  il  greco  in  età  ancor 
giovanile  e  per  mezzo  di  abile  maestro ,  guida  sicura  alla 
conoscenza  del  greco  spirito  creatore,  e  di  nutrirsi  di  vigo- 
rosi pensieri  ellenici  invece  delia  vana  e  spesso  insipida  e 
corruttrice  letteratura  de'eiorni  nostri,  tanto  più  solide  di- 
ventano le  fondamenta,  su  cui  deve  poggiare  il  buon  ordina- 
mento politico  che  sia  arra  certissima  della  prosperità  delle 
moderne  nazioni.  Imperocché,  rendendo  più  nobili  le  aspira- 
zioni delle  nuove  generazioni  mediante  un'assai  elevata  cul- 
tura intellettuale,  cresce  anche  e  va  di  pari  passo  la  vera  in- 
telligenza delle  umane  cose  e  la  convinzione  della  necessità 
dei  mutamenti  che  in  esse  scorgiamo,  si  comprendono  gli 


—  21i  — 
errori  che  si  commettono  ed  i  difetti  che  si  devono  emendare, 
e  per  ciò  stesso  si  forma  un  retto  criterio  su  quello  che  è 
necessario  e  possibile,  e  il  tenace  volere  così  .s'accompagna 
colla  indispensabile  riflessione,  e  le  azioni  non  vanno  dis- 
giunte dalla  generosità  e  dall'amore  fraterno. 

Ed  il  continuo  conversare  coi  più  grandi  ingegni  dell'El- 
iade, la  non  interrotta  nostra  occupazione  delle  opere  loro  è 
per  Tindividuo  come  l'iniziazione  a  sacri  misteri^  il  suo 
sguardo  si  solleva  e  si  avvezza  a  considerare  le  alte  cose 
ed  apprezzare  i  piaceri  intellettuali,  il  suo  spirito  s'assuefa 
a  compiacersi  di  beni  imperituri,  delle  grandi  opere  dell'arte 
e  della  poesia  e  del  godimento  che  ci  procura  l'indagine 
delle  verità  scientifiche.  Quello  che  è  intellettualmente  bello 
e  vero  diventa  un  bisogno  giornaliero  dello  spirito,  come 
il  cibo  materialmente  è  pei  corpo,  e  così  altri  innalza  sé 
stesso  e  tutù  quelli,  con  cui  ha  frequenti  relazioni,  nel 
regno  dei  pensieri ,  nel  mondo  sublime  delle  idee. 

È  vero  che  per  altra  via  possiamo  acquistare  infinite  co- 
gnizioni, utilissime  abilità  ed  arti  lodevoli,  è  vero  che  anche 
da  altre  fonti  e  specialmente  dalle  moderne  letterature,  e 
per  ogni  popolo  innanzi  tratto  dalla  nazionale,  deriva  grande 
copia  di  utili  £  necessarie  nozioni  ed  un  tesoro  di  sapere 
e  di  esperienza,  massimamente  per  quella  grande  pane  del 
popolo  che  è  costretta  a  presto  prendere  parte  alla  vita 
attiva:  ma  la  società  nel  suo  complesso  consiste  di  diversi 
ceti  di  cui  ognuno  al  suo  posto  può  e  deve  rendersi  utile 
a  tutti  in  vario  modo. 

Un'incalcolabile  influenza  sulla  vita  dello  stato  esercita 
quella  parte  del  popolo,  la  quale  sogliamo  appellare  il  ceto 
colto.  Il  grado  della  sua  cultura  morale  ed  intellettuale  non 
è  soltanto  la  misura  della  cultura  generale  e  del  giudizio 
morale,  ma  anche  la  guarentigia  d'un  avvenire  felice  e  d'un 
continuo,  tranquillo  progresso  di  tutti. 


-  215  - 

La  Vera  cultura  influisce  beneficamente  su  tutte  le  rela- 
zioni delia  vita  e  le  rende  più  nobili  :  essa  stabilisce  dei 
modelli  per  Timitazione,  e  la  moltitudine  senza  accorgersene 
si  avvezza  piena  di  fiducia  ad  imitarli. 

La  vera  cultura  è  un  elemento  efficacemente  conservatore 
nella  vita  pubblica,  perchè  custodisce  gli  inalienabili  tesori 
del  popolo,  il  diritto  e  la  morale,  la  legge,  la  libertà  e  Ta- 
more  per  la  patria  diletta.  Essa  respinge  quello  che  ancora 
è  immaturo,  che  è  esagerato  o  dannoso.  Essa  guida  e  pro- 
tegge l'universale  progresso  per  vie  maturamente  esaminale 
e  ben  preparate.  Essa  domina  coir  irresistibile  forza  dello 
spirito,  e  Io  spirito  è  e  sarà  sempre  il  reggitore  e  dominatore 
di  tutte  le  cose:  dux  atque  imperator  vitcs  mortalium  ani- 
mus; le  sue  grandi  opere  sono  immortali  come  le  anime  : 
ingenii  egregia  facinora  siculi  anima  immortalia  sunt .  (i). 

Dove  domina  questo  nobile  spirito  egli  informa  tutte 
le  minute  particolarità  della  vita  e  si  riversa  per  ogni  dove, 
quasi  una  rete  di  nervi  vitali,  infondendo  ovunque  vita, 
forza  e  moto.  Dove  domina  questo  spirito  si  svolge  una  sva- 
riatissima,  ricchissima  vita,  che  libera  ed  indipendente  opera 
nella  più  piccola  cosa  come  nella  più  grande  e  con  piena 
coscienza  e  lieta  imparte  i  suoi  doni  al  benessere  universale 
nello  stato. 

L'istoria  d'un  popolo  così  memorabile,  come  è  indubbia- 
mente il  greco,  di  cui  senza  esagerazione  possiamo  dire 
che  non  ha  il  suo  pari,  merita  la  più  seria  considerazione. 
Niun  popolo,  nello  spazio  relativamente  breve  d'un  secolo 
e  mezzo,  ha  mostrato  al  mondo  più  numerosi  e  più  sublimi 
modelli  di  nobili  pensamenti,  di  amore  per  il  paese  nativo, 
di  sagrifizii  fatti  per  la  patria,  di  costante  fedeltà  ai  sacri 
diritti  e  costumi,  di   ubbidienza  alle  proprie  leggi,   che   la 


(i)  Sallustio,  lugurtha,  introduzione,  i,  2. 


-216  — 
lega  degli  stati  greci  dalla  battaglia  di  Maratona  fino  al  grande 
Alessandro:  niun  popolo  ha  insieme  prodotto  ingegni  più 
grandi  ed  artisti  di  maggiore  rinomanza,  che  formarono  e 
resero  più  nobile  tutta  la  vita  nazionale,  di  quello  che  fece 
l'Atene  di  Pericle. 

Mi  sia  lecito  di  valermi  qui  delle  parole  di  uno  de' più 
eccellenti  umanisti,  di  Federigo  Jacobs,  intorno  all'eccellenza 
del  popolo  greco.  Nell'introduzione  all'opera  sua,  intitolata 
Eliade  {i),  ei  così  si  esprime.  «  Come  gli  sguardi  del  Mus- 
sulmano credente,  quando  prega,  si  volgono  verso  la  tomba 
del  profeta,  così  gli  sguardi  di  tutti  gli  amici  dell'arte  e 
dell'umanità  si  dirigono  al  sacro  paese  dell'ellenica  cultura. 
Ancora  quando  visse  questo  popolo  sulla  terra,  era  circon- 
dato da  una  luce  poetica  che  l'uomo  non  greco  contemplava 
con  stupore  e  spesso  con  amore:  ed  ora  che  la  nazione  è 
perita  e  solo  ci  rimangono  le  sue  traccie,  ci  appare  quasi 
come  una  creazione  della  fantasia,  inventata  per  diiettare 
il  mondo.  Una  grande  parte  della  sua  istoria  rassomiglia 
ad  un'epopea  omerica  e  le  opere  che  ci  ha  lasciato  ap- 
paiono come  maraviglie  di  Dei ,  quali  il  mondo  non  più 
produce.  » 

«  Molti  altri  popoli  sono  stati  più  potenti  de'  Greci ,  ma, 
dopo  il  naufragio  della  toro  potenza  politica,  non  vissero  più, 
fuorché  ne'monumenti  storici,  senza  esercitare  influsso,  e  per 
lo  più  senza  stima.  Solo  i  Greci,  ed  i  loro  discepoli,  i  Romani, 
fanno  eccezione.  La  potenza  intellettuale  dell'  Eliade  non  sì 
è  mai  spenta,  non  v'ha  che  una  Grecia^  come  non  v'ha 
che  una  eterna  Roma.  Dalle  rovine  e  dalle  ceneri  degli  stati 


(i)  HellaSy  Vortr'àge  uber  Heimathy  Geschichte,  Literatur  und  Kunst 
der  Hellenen,  herausgegeben  von  £".  F.  Wustemann,  uno  dei  libri  più 
istruttivi  e  dilettevoli  che  si  raccomandino  alla  lettura  d'ogni  uom  colto 
e  che  scritto  senza  pompa  d' erudizione  offre  propriamente ,  secondo 
un  detto  greco,  aurei  frutti  in  nappi  d'argento. 


-217  - 
essa  s'innalza  con  sempre  novello  splendore,  e  come  la  virtù 
siede  sulla  tomba  d'Ajace,  così  II  genio  della  nazione  ellenica 
siede  in  eterna  bellezza  e  gioventù  sulle  rovine  del  deserto 
paese.  » 

«  Il  semplice  considerare  una  tale  stirpe  umana ,  quale 
è  Tellenica,  è,  come  il  considerare  ogni  opera  eccellente  della 
natura  e  dell'arte,  cosa  che  allegra,  che  consola,  che  istrui- 
sce. L'ardente  amor  di  patria ,  l'altero  disprezzo  del  pe- 
ricolo, la  santa  venerazione  anche  per  le  leggi  più  severe 
che  dominava  gli  animi  dei  cittadini  di  Sparta-,  la  illuminata, 
morale  cultura,  la  cui  sede  fu  Atene,  l'intimo  nesso  che  esi- 
steva fra  il  più  squisito  sentimento  dell'arte  e  la  più  vigorosa 
energia  dei  sensi,  della  dignità  colla  grazia,  della  severità  colla 
mitezza,  della  profondità  con  la  facilità  de'modi,  quest'unione 
veramente  unica  delle  più  belle  qualità  del  genere  umano  non 
cesserà  mai  di  attirare  gli  sguardi,  finché  nel  mare  de' tempi 
si  troverà  una  parte  della  sua  storia.  Sparta,  Atene,  ognuna 
un  centro  di  particolare  cultura  morale,  attireranno  sempre 
gli  animi.  » 

«  Udendo  i  nomi  dì  un  Licurgo  e  di  un  Solone,  di  un 
Milziade  e  di  un  Leonida ,  di  un  Temistocle  e  di  un  Ari- 
stide, di  un  Epaminonda  e  di  un  Pelopida,  di  un  Focione, 
di  un  Timoleonte,  di  un  Demostene  e  di  un  Cleomene,  ogni 
animo  si  solleva  e  considera  stupito  i  tempi,  in  cui  poterono 
nascere  que' giganti  di  patriottica  virtù.  Nella  splendente  luce 
ch'essi  spargono  intorno  a  sé  non  si  vedono  le  macchie 
proprie  d'ogni  fenomeno  terrestre  e  i  mali  che  travagliarono 
gli  stati  dell'antichità  si  dimenticano,  quando  godiamo  i 
mirabili  prodotti  del  suolo  greco.  » 

«  Ancora  più  splendido  e  più  sicuro  ci  appare  l'influsso 
della  cultura  ellenica  sul  mondo  letterario  :  fu  tale  il  genio 
di  questa  ed  operò  tanto  potentemene ,  che  dovunque  egli 
rivolgesse  i  suoi  passi,  si  sentiva  un  energico  movimento,  si 


-  218  — 
diffondeva  novella  luce,  e  negli  animi  nobili  eccitavasi  più 
bella  attività.  E  veramente  in  ciò  appunto  sta  il  meraviglioso 
della  cultura  intellettuale  e  dell'azione  del  genio,  che  si 
rinnova  e  si  propaga  mediante  il  contatto  e  mette  radice 
ovunque  trova  gli  animi  accessibili  ed  un  puro  amore.  » 

«  Perciò  la  Grecia  non  è  ancora  perita,  essa  vive  in  ogni 
anima  nobile,  e  (Jalle  opere  de^suoi  figli  geniali  emanano 
puri  raggi,  come  la  luce  eterna  del  cielo  che  nelle  anime  no- 
bili accendono  un  fuoco  sacro  e  fanno  germogliare  il  seme 
del  bello  e  del  nobile.  » 

Ed  infatti  Pinflusso  non  interrotto  dello  spirito  ellenico 
sulla  cultura  delFuman  genere,  questo  continuo  ringiovanire 
degli  spiriti  mediante  lo  studio  dei  monumenti  delParte  e 
della  lingua  greca,  questo  influsso  veramente  grande  e  sublime 
è  un  momento  storico  della  massima  importanza,  è  l'opera 
stessa  della  provvidenza. 

Consideriamo  un  momento  le  creazioni  di  questo  spirito. 
E  innanzi  tratto  va  osservato,  che  il  popolo  greco,  il  popolo 
più  intelligente  del  mondo,  in  tutte  le  parti  dell'umano  sa- 
pere o  ha  aperta  la  via  ovvero  le  ha  in  modo  notevole 
trasformate  od  estese. 

Primo  il  greco  ha  coltivata  la  scienza  per  sé  stessa.  L'inda- 
gine scientifica  fu  per  lui  un  atto  della  libertà  umana,  ed  è 
per  ciò  che  seppe  creare  con  forza  geniale  la  scienia  del  sapere^ 
la  filosofia.  Da  questo  tempo  per  Tinesauribile  forza  creatrice 
di  questo  spirito  fu  scoperto  il  regno  sublime,  indistruttibile 
del  puro  pensare,  e  chi  una  volta  si  sia  elevato  fino  all'aure 
pure  di  questa  vita  dello  spirito  può  contemplare  la  pro- 
fonda, divina  armonia  dell'universo,  come  un  viandante 
dalla  vetta  del  monte  contempla  rapito  un  paese  che  ai 
suoi  piedi  deliziosamente  s'estende  colla  sua  luce  e  colle  sue 
ombre. 

11  Greco  ci  ha  insegnato  a  scrivere  istorie,  ed  a  lui  dob- 


—  219  — 
biamo  l'arte  déiV eloquenza  II  Greco  ha  dato  per  tutti  i  tempi 
il  metodo  a  tutte  le  scienze  piuttosto  pratiche.  Alla  matema- 
tica ,  come  alle  sciente  naturali  ,  ha  insegnato  il  modo 
con  cui  devono  essere  trattate,  ed  anche  la  materia  degli  studii 
più  pratici  ha  saputo  svolgere  così  maestrevolmente,  che  senza 
tema  di  errare  possiamo  farci  suoi  scolari.  E  per  questo  che 
anche  presentemente  i  grandi  matematici  della  Grecia  servono 
come  stella  polare  ai  discepoli  di  questa  scienza  (i)  e  non  a 
torto  un  grande  maestro  delle  matematiche  discipline  ha  ri- 
chiesto un  esatto  studio  della  lingua  greca  come  indispensa- 
bile anche  nelle  scuole  tecniche  (2).  Anch'oggi  il  medico  che 
pensa  ricorre  alle  opere  di  Ippocrate  -,  e  per  quanto  sia  pro- 
gredita la  odierna  medicina  riguardo  alla  parte  tecnica  me- 
diante le  invenzioni  del  nostro  secolo,  pure  lo  sguardo  sicuro, 
la  chiara  osservazione,  le  idee  del  celebre  uomo  di  Coo  sono 
anche  presentemente  encomiati  come  cosa  non  superata. 

Ma  appunto  la  chiarei\a  delle  idee  costituisce  uno  dei 
pregi  maggi'  ri  dello  spirito  greco.  Come  una  corrente  del 
puro  etere  la  sensitiva  anima  greca  accoglieva  i  risultamenti 
dell'osservazione,  i  quali  si  trasformavano  in  essa  ora  in  vivo 
pensiero,  ora  in  viva  immagine,  ed  appunto  per  ciò  tutte  le 


(i)  Con  buona  pace  di  certi  accaniti  avversarii  d'Euclide. 

La  Direzione. 

(aj  Nelle  nostre  scuole  tecniche  non  si  introduce  nemmeno  il  latino, 
sebbene  gli  esami  d'ammissione  alle  facoltà  matematiche  prescrivano 
la  cognizione  del  latino  per  coloro,  che,  provenendo  dalle  scuole  tecni- 
che, vogliono  attendere  agli  studii  universitarii  di  matematica.  È  una 
anomalia  questa,  che  dovrebbe  cessare,  anche  quando  lo  studio  del  la- 
tino non  fosse  indispensabile  per  ben  comprendere  l'italiano  e  non  fosse 
la  migliore  prepara^^ione  allo  siudio  di  tutte  le  altre  favelle  neolatine. 
Non  si  potrebbe  introdurre  l'insegnamento  della  lingua  latina  nelle 
scuole  tecniche,  almeno  come  materia  libera,  per  far  cessare  l'incon- 
veniente soprannoiato  e  dare  un  più  solido  fondamento  alla  cultura 
letteraria  dei  discepoli  di  quelle  scuole,  che  ne  abbisognano  davvero? 

La  Direzione. 


—  220  — 
sue  produzioni  sono  opere  vive,  e  portano  l'impronta  della 
massima  perfezione:  esse  sono  belle  e  vere. 

Da  quell'indole  intellettuale ,  da  quel  puro  modo  di  con- 
cepire e  dal  modo  ideale  di  rappresentare  (intimamente 
uniti  colla  più  feconda  fantasia  )  risulta  quella  mirabile  ar- 
monia, quella  pienezza  e  varietà ,  quella  bellezza  e  grazia , 
quell'altezza  e  sublimità  che  regnano  nei  capolavori  della 
letteratura  greca ,  non  mai  troppo  frequentemente  celebrati , 
rivestiti  come  sono  d'eterna  bellezza. 

Ogni  loro  forma  è  nuova ,  ed  ogni  loro  forma  è  bella  ed 
in  tutto  ubbidiscono  ad  una  legge,  al  senso  non  corrotto  di 
ciò  che  è  nobile,  bello  e  moralmente  puro. 

Donde  quella  inarrivabile  altezza  delle  creazioni  artistiche, 
nell'arte  della  pittura  e  nella  plastica,  come  nella  poesia  e  nella 
prosa.  I  soli  Elleni  sono  riusciti  ad  ispirare  la  vita  al  m.armo, 
a  dare  al  bronzo  movimenti  dolci  e  vigorosi.  Quello  che 
Tarte  moderna  ha  prodotto,  specialmente  nella  plastica,  ed 
a  grande  gloria  de"*  secoli,  essa  io  deve  allo  studio  esatto  ed 
alla  fedele  imitazione  dei  monumenti  antichi.  E  quello  an- 
cora, che  negli  utensili  della  vita  giornaliera  ci  attrae  per  la 
bellezza  della  forma ,  è  imitazione  di  vasi  greci ,  diventata 
frequente,  dacché,  specialmente  in  Italia,  la  terra  s'aperse  e 
ci  ridonò  le  opere  antiche  sepolte  sotto  la  polvere  o  la  ce- 
nere di  lava. 

Ma  in  modo  uguale  come  l'opere  d'arte  ed  anche  più 
estesamente  ci  attraggono  le  creazioni  intellettuali  degli  El- 
leni pervenuteci  nei  monumenti  della  lingua  e  della  lette- 
ratura, monum.enti  il  cui  influsso  è  evidente  ad  ognuno 
che  consideri  come  l'occidente  è  progredito  in  modo  da 
riuscire  nel  complesbo  della  sua  cultura  sem.pre  più  illumi- 
nato e  nobile. 

Il  Greco  ha  creato  l'arte  della  prosa^  dacché  ha  inventata 
la  struttura  artificiosa  dei  periodi,  e,  primo,  ha  espresso  i 


—  221  - 
pensieri  con   la  piena   forza   della  parola   e  con  acconcia 
connessione  delle  singole  parti,  dalla  quale  risulta  la   viva- 
cità del  discorso. 

Il  Greco  ha  svolto  la  poesia  in  quelle  svariate  forme  che 
tutte  le  letterature  moderne  hanno  accolte:  egli  ha  stabilite 
le  norme  per  le  poesie  serie  e  per  le  liete ,  per  le  scherze- 
voli e  per  le  sublimi,  norme  che  poi  furono  generalmente 
accettate  e  riconosciute.  Chi  fra  i  moderni  ha  saputo  più 
fedelmente  imitare  questi  eterni  modelli  ne  ha  coito  im- 
peritura gloria,  ed  i  contemporanei  ed  i  posteri  hanno  co- 
ronato d'alloro  le  sue  tempia. 

Centinaia  di  melodie ,  migliaia  di  versi ,  ora  scherzevoli 
ed  or  serii,  tali  da  allettare  e  da  scuotere  gh  animi,  scatu- 
rirono dall'entusiasmo  de'  cantori  ellenici  :  la  più  bella  e 
la  più  ricca  delle  lingue  scorreva  più  dolce  del  miele  dalle 
labbra  dei  poeti  in  mille  ritmi  pieghevoli  ad  ogni  slancio 
del  genio,  melodiosi  come  il  canto  dell'usignuolo,  o  dura  e 
rimbombante  come  il  passo  delle  Eumenidi. 

Già  la  lingua  greca  per  se  sola  merita  lo  studio  più  se- 
vero, la  più  seria  applicazione.  Chi  non  conosce  la  lingua 
greca  non  conosce ,  per  ciò  che  spetta  ai  linguaggi ,  la 
creazione  più  nobile  e  più  perfetta  del  genio  umano,  spinto 
dal  soffio  divino.  Per  chi  non  sente,  per  chi  non  è  com- 
mosso, rapito,  tratto  all'entusiasmo  dalla  grazia  e  pieghe- 
volezza, dalla  forza  e  maestà  della  lingua  greca,  valgono 
le  parole  messe  da  Goethe  in  bocca  al  suo  Tasso  : 

Mancane,  ahimè,  le  Grazie,  e  chi  non  abbia 
Di  queste  Dive  i  doni  aver  può  molto 
E  molto  dar,  noi  nego,  e  pur  non  lice 
Mai  quieti  posar  sopra  il  suo  seno. 

(Atto  2^,  scena  >»}. 

Ed  ora  ricordiamoci  dei  tesori  che  son  riposti  in  quel 
prezioso  vaso   che  è  la  lingua  greca,  ed    innanzi  tutto  dei 

l^viita  di  filologia  ecc.,  I,  i6 


-  223  - 
gioielli  della  poesia  greca ,  quella  poesia  che  prima  potente- 
mente scosse  lo  spirito  della  nazione,  e  destò  le  sue  piij 
nobili  forze,  e,  siccome  accompagnava  la  vita  in  tutti  i  suoi 
sttdii,  la  innalzò  a  quella  sublime  altezza  che  tutta  resi- 
stenza di  questo  popolo  eletto  vi  fa  sembrare  una  me- 
ravigliosa poesia.  Imperocché  avendo  tutta  la  cultura  greca 
origine  dalla  poesia,  e  innalzandosi  sempre  più  e  più  questa 
poesia  stessa  nei  diversi  periodi  dello  svolgimento  del  po- 
polo greco  per  giungere  alla  perfezione  e  maturità  virile  , 
lo  splendore  ond'essa  era  cinta  irradiava  tutta  la  vita  ed  il 
contatto  con  essa  abbelliva ,  vivificando,  ogni  atto  della  na- 
tura intellettuale.  In  Grecia  tutti  gli  elementi  della  cultura 
facevan  sempre  ritorno  all'entusiasmo  poetico,  che,  come  il 
sacro  fuoco  di  Vesta  ardeva  in  mezzo  alle  città,  così  alzava 
le  sue  fiamme  in  mezzo  alle  arti  ed  alla  vita. 

Se  adunque  vogliamo  conoscere  l'intima  natura  della  poe- 
sìa ed  il  suo  naturale  progresso  nel  libero  suo  svolgimento, 
dobbiamo  sempre  rivolgere  i  nostri  sguardi  indietro  ai  Greci. 

E  ciò  fecero  e  fanno,  quasi  spinti  da  un'  interna,  invisi- 
bile forza  tutti  i  popoli  civili ,  che  dopo  i  Greci  compar- 
vero sulla  scena  del  mondo  e  furono  i  reggitori  e  duci  di 
esso  e  della  sua  storia. 

Roma,  l'antica,  eterna  Roma,  risuonava  delle  lodi  della 
Grecia,  e  solo  dopo  avere  ospitalmente  accolto  nelle  sue 
mura  il  genio  dell'  Eliade  Roma  vittoriosa  divenne  padrona 
del  mondo. 

I  fondatori  della  chiesa  cristiana  (la  quale  prima  e  me- 
glio e  più  sicuramente  che  altrove  prosperava  sul  terreno 
preparato  dalla  cultura  greca),  i  padri  della  medesima,  or- 
namenti e  colonne  di  essa,  erano,  in  parte  almeno,  nella  loro 
gioventù  i  migliori  discepoli  di  scuole  greche;  studiando  la 
letteratura  ancor  fresca  dei  loro  antenati  erano  pervenuti  a 
quell'alto  grado  d'intellettuale  cultura ,  che  valse  cotanto  a 


—  223  - 
renderli  capaci  di  operare  così  potentemente  per  la  diffu- 
sione od  il  consolidamento  del  cristianesimo,  in  modo  che  i 
loro  nomi  sono  intimamente  e  rimarranno  eternamente  uniti 
con  questo  istesso.  Le  loro  opere  dimostrano  non  solo  la 
loro  viva  fede,  ma  anche  il  loro  caldo  amore  e  la  loro  pro- 
fonda conoscenza  dell'antichità  greca. 

Dovunque  in  séguito  ha  vinto  ed  era  fiorente  la  chiesa 
cristiana,  le  sue  vittorie  erano  dovute  in  parte  non  lieve  alla 
nobile  cultura  de'  suoi  capi  e  difensori.  I  grandi  papi  del 
medio  evo,  la  lunga  serie  di  magnanimi  e  potenti  vescovi 
ed  arcivescovi  che  adomano  la  storia  della  chiesa  cristiana 
erano  i  rappresentanti  della  cultura  universale,  della  classica; 
la  loro  grandezza  intellettuale  diede  a  loro  potenza  e  do- 
minio. Roma  non  dominava  il  mondo  soltanto  per  la  forza 
del  carattere  de'  suoi  abitanti ,  essa  dominava  nello  stesso 
tempo  per  la  somma  intelligenza  de'  suoi  capi  e  cittadini. 
Alla  perseverante  diligenza  del  clero  ed  al  suo  amore  (che 
or  quasi  sembra  non  più  vivo)  verso  la  scienza  ed  alle  sue 
celebri  corporazioni,  soprattutto  ai  Benedettini  andiamo 
in  gran  parte  riconoscenti,  se  i  monumenti  scritti  della  Gre- 
cia furono  salvati  e  maggiormente  diffusi.  Essi  ci  hanno 
dati  nel  medio  evo,  ed  in  parte  anche  ne' tempi  moderni, 
splendide  opere  di  erudizione  classica.  E  quando  nell'avvi- 
ccndarsi  necessario  delle  umane  cose  si  mutò  lo  stato  po- 
litico dell'occidente,  quando  la  Grecia  intellettuale  risorse, 
non  fu  l'Italia  quella  che  precedette  tutte  le  altre  nazioni 
nella  via  del  risorgimento  a  nuova  vita  dello  spirito,  e,  prima, 
creò  una  splendida  letteratura,  aprendo  nel  medesimo  tempo 
nelle  sue  chiese  e  ne' suoi  palazzi  novelli  templi  dell'arte 
rinata  ? 

Ovunque  più  tardi  si  pensasse  a  seriamente  cohivare  le 
scienze,  ovunque  fiorisse  la  poesia  ovvero  si  svolgesse  l'arte, 
la  sapienza   greca,  l'entusiasmo  greco,  il  sentimento  greco 


—  224  - 

furono  quelli  cLe  diedero  anima  e  vita  alle  forze  nazionali. 
E  prove  ne  sono  le  grandi  epoche  nella  storia  delle  lette- 
rature moderne,  deir  italiana ,  della  francese,  dell'inglese, 
della  tedesca,  dell'olandese, 

I  più  grandi  uomini  di  tutte  le  nazioni  hanno  deposto  il 
tributo  dei  loro  più  fervidi  ringraziamenti  davanti  ai  templi 
della  sapienza  e  della  cultura  ellenica.  Centinaia ,  migliaia 
denomini  si  arricchirono  e  si  arricchiscono  degli  inesauribili 
tesori  ch'essa  diede  e  dà  loro,  pur  essendo  inconscii  della  fonte 
da  cui  provengono.  Non  mai  interrotta  fu  la  corrente,  con 
cui  lo  spirito  greco  rese  più  nobili  tutti  gli  sforzi  del  genere 
umano. 

Se  si  voglia  comprendere  in  parole  il  più  grande,  il  più 
serio  insegnamento  che  l'intiera  storia  dà  ai  singoli  uomini 
come  agli  stati  in  tutte  le  varie  condizioni,  possiamo  ripe- 
tere la  sentenza  dell'antica  sapienza  greca:  Tener  misura  è 
buona  cosa  !  il  divino  Omero  meglio  che  alcun  altro  poeta 
la  annunzia,  e  la  ripetono  esortando  ed  ammonendo  le 
scuole  filosofiche,  gli  oratori  e  gli  storiografi,  e,  più  che  ogni 
altra  opera  scritta,  la  più  perfetta,  come  la  più  commovente 
delle  produzioni  dello  spìrito  greco,  la  poesia  tragica.  Fé» 
lice  colui  che  l'accoglie  e  la  mette  in  opera  fino  da  quando 
comincia  a  pensare  ed  a  meditare  !  Felice  colui  che  nel 
principio  de'  suoi  studi  viene  introdotto  in  quella  palestra 
intellettuale  che  è  la  lingua  e  letteratura  greca,  che  meglio 
d'ogni  altro  studio  addestra  alle  nobili  lotte  spirituali  !  Beato 
il  popolo  la  cui  gioventù  ,  speranza  della  patria ,  s'invigo- 
risce e  si  nobilita  nella  severa  sì  j  ma  lie^a  disciplina  delle 
scuole  classiche!  È  antico  detto  di  un  Romano  il  seguente: 
«  Qual  migliore  servigio  si  può  rendere  allo  stato,  che  edu- 
cando la  gioventù,  sì  che  col  fiore  delle  sue  scuole  crescano 
le  speranze  del  paese  ?  »  Ed  io  ho  detto  con  pieno  convin- 
cimento :«  delle  scuole  classiche  ».  Se  negli  ultimi  tempi  an- 


-225- 
che  una  riunione  dì  naturalisii  ha  espresso  il  timore  che 
Toccupazione  troppo  esclusiva  delle  scienze  così  dette  posi- 
tive, delle  discipline  matematiche,  fisiche,  naturali,  possa 
recar  danno  alle  tendenze  ideali ,  risvegliate  e  mantenute 
vive  appunto  dallo  studio  de' classici,  il  fondamento  di  questo 
timore  sta  in  ciò,  che  il  metodo  piuttosto  tecnico  e  profes- 
sionale di  queste  scienze  è  già  penetrato  nella  trattazione  di 
esse,  e  che  questo  nuoce  airumanismo  ed  alle  belle  lettere, 
pericolo  tanto  più  grande  quanto  maggiormente  si  estende 
il  male  principale  del  nostro  secolo,  che  è  la  7tX€ov€Sìo. 

E  poi  da  avvertire  che,  secondo  l'unanime  parere  di  tutti 
gl'intelligenti,  una  solida  base  di  studii  classici  è  anche  la 
migliore  preparazione  a  sì  fatti  studii  tecnici,  ed  al  loro  eser- 
cìzio nella  vita  pratica:  perciò  non  puossi  che  far  voti  affin- 
chè una  nuova  gara  in  questi  sradii  fra  i  popoli  al  di  qua 
ed  al  di  là  dell'Alpi  possa  segnare  un  nuovo  e  splendido 
periodo  nella  vita  di  essi. 

Monaco  di  Baviera,  ottobre  1872, 

G.  M.  Thomas, 


COV^Sin)E%AZIO^I 

SULL'ISTRUZIONE,  SOPRATTUTTO  CLASSICA,  IN  ITALIA 

a  proposito  del  recentissimo  libro  di  M,  BRÉAL 

sulV istruzione  pubblica  in  Francia 

(Continuazione,  v.  iascicolo  1°,  p.  g-sS). 

II, 

Indizio  certissimo,  effetto  e  poi  causa  nuova  di  leggerezza 
intellettuale  veramente  deplorabile  sono,  non  meno  che  le 
tendenze  soverchiamente  pratiche  dei  nostri  studi,  gl'istinti 
retorici  che  tiranneggiano,  sfruttandole,  nelle  scuole  italiane 
e  francesi  colla  potenza  propria  sempre   delle  tradizioni , 


—  226  — 

delle  istituzioni  vigenti  da  secoli.  Ad  entrambe  ie  due  grandi 
nazioni  dell'Europa  neo-latina  si  addice   il   rimprovero  che 
M.  Bréal  muove  alla  sua  patria:  «  Tous  ceux  qui  connais- 
ssnt  notre  instruction  publique  avoueront  que  la  plaie  dont 
nous  souffrons  le  plus,  non  pas  seulement  à  Técole  primaire, 
mais  à  tous  les  degrés  de  Tenseignement,  c'est  le  verbalisme. 
Trop  de  motSy  pas  asse\  de  choses:  sous  les  mots  nou'^  ne 
voyons  pas  les  choses  qu'ils  recouvrent,  et  le  langage,  au 
lieu  de  nous  servir  à  découvrir  la  réalité,  le  plus  souvent 
nous  la  dérobe  »  (i).  Le  conseguenze  sono  fatali.  «  On  ar- 
ri ve  ainsi  à  élever  une  nation  qui  s'attribue  volontiers,  à  ses 
heures  de  satisfaction ,  le  don  de  la  netteté  et  de  la  préci- 
sion;  malheureusement   il   est  plus  exact  de  dire  qu'elle  a 
le  goijt  des  généralités  et  d'une  certaine  logique  tonte  for- 
melle. Sur  tous  les  sujets  du  monde  nous  avons  une  quan- 
tité  de  phrases  faites  par  avance,  et  qui  passent  de  bouche 
en  bouche  come  étoffe  et  comme  aliment  de  la  conversation. 
On  les  retrouve  dans  les  journaux,  dans  les  livres,  à  la  tri- 
bune. Elies  viennent  s'interposer,  à  la  facon  des  idées  repré- 
sentatives  de  Malebranche ,  entre  la  réalité  et  notre  esprit. 
Bien  des  gens  som  si  peu  habitués  à  se  servir  de  leur  intel- 
ligence et  ont  la  tete  si  remplie  d'expressions  qu'on  les  voit 
ordinairement  occupés  non  à  penser,  ni  à  chercher  des  mots 
pour  leurs  pensées,  mais  à  attendre  la  pensée  d'autrui  pour 
y  fìxer  une  des^.nombreuses  phrases  qu'ils  tiennent  en  ré- 
serve.  Si  Tidée  qu'on  leur  présente  se  refuse  à  cette  sorte 
d'enregistrement,  ils  la  tournent  et   retournent  assez  long- 
temps  pour  qu'elle  se  dépouille  de  ce  qu'elle  a  d'insolite, 
et  ils  finissent  par   la  faire   entrer,   mutilée  ou    travestie, 
dans  le  moule  inévitable  »  (2).  Sì  profonde  radici  ha  questo 

(ij  Op.  cii. ,  p.  106-7. 
(2)  Op.  c//.,jf>.  107-8. 


—  227  — 
vizio,  SI  largamente  si  estende   ed  è  sì  urgente  il  bisogno 
di  estirparlo,  che  i  nostri  intelligenti  e  cortesi  lettori  ci  per- 
doneranno indubbiamente  le  minute  considerazioni  a  cui  ci 
accingiamo  intorno  a  sì  fatto  argomento, 

1  primi  sintomi,  e  già  notevoli,  di  questo  morbo  ci  appa- 
riscono nelle  scuole  elementari,  cui  rende  inette  a  conse- 
guire non  lieve  parte  del  loro  scopo.  Il  quale  consiste  nei 
preparare,  con  acconcia  educazione  ed  istruzione,  alla  vita 
pratica  ed  agli  studi  ginnasiali  e  tecnici.  E  compito  pertanto 
di  queste  scuole  svolgere  regolarmente  !e  potenze  dello  im- 
maginare, del  sentire,  deirosservare  (i),  del  ragionare  (2), 


(i)  Ci  si  permetta  d'insistere  su  questo  dovere  che  sembra  sì  poco 
noto  a  tanti  istitutori,  i  quali  dovrebbero  finalmente  convincersi  che: 
i»è  di  suprema  importanza,  sì  nella  vita  de)''azione  sì  in  quella  del  pen- 
siero, il  possedere  l'attitudine  e  l'assuefazione  ad  osservare  come  con- 
viensi;  2"  che  questa  pratica  ,  quest'abito  non  si  acquistano  se  non  per 
mezzo  di  lunghi  e  ben  diretti  esercizio  Questo  studio  delle  cose  è  parte 
importantissima  della  pedagogica  moderna.  V.  le  belle  pagine  che  il 
Bréal  consacra  a  questo  argomento  {Op.  cit.,  p.  io6-t3).  V.  ancora  i 
giudizi  che  intorno  alla  assoluta  necessitA  di  siffatto  studio  pronunzia- 
rono Gomenius,  Basedow,  Pestalozzi,  Fellenberg  (DoUfus ,  Ètudes  sur 
la  pédagogie  allemande ,  nella  Revue  germanique  ,  t.  V,  p.  520-66). 
Come  e  quanto  si  eseguiscano  questi  esercizi!  di  osservazione  nelle  scuole 
americane,  degnissime  in  ciò  di  essere  imitate,  impareranno  i  precet- 
tori dal  Rapport  del  signor  Hippeau  sopra  L'instruction  publique  aux 
États-Unis  (Paris,  1870,  p.  49-60,  373  esegg.,  398-401):  agli  Ameri- 
cani furono  maestri  gì'  Inglesi ,  presso  i  quali  queste  lessons  on  objects 
diventano  sempre  più  comuni,  come  c'insegna  il  medesimo  autore 
{L'instruction  publique  en  Angleterre,  Paris,  1872,  p.  46). 

(2)  «  Éclairer  le  patriotisme,  faire  aimer  le  devoir  pour  lui-mSme , 
fortifier  la  confiance  et  le  respect,  appeler  l'admiration  des  enfants  sur 
les  mérites  solides  et  vrais,  ouvrir  les  esprits  à  l'inteliigence  d'une  si- 
tuation,  l'instituteur  peut  donner  ces  le9ons  sans  s'écarter  du  sujet  de 
sa  classe  et  sans  que  l'élève  aper90ive  l'intention  didactique.  On  nous 
preparerà  ainsi  des  générations  plus  sérieuses  et  plus  mùres...  Ceux  qui 
croient  que  le  peuple  aura  plus  de  bon  sens  si  on  le  maintient  dans  l'i- 
gnorancs,  se  font  une  idée  étrange  de  notre  raison:  comme  toutes  les 
autres  facultés,  elle  a  besoin  d'étre  aidée  par  ceux  qui  nous  ont  précè- 
de» dans  la  vie  et  d'étre  exercée  par  l'usage Je  suis  loin  de  deman- 
dar que  le  maitre  d'école  se  change  ep  horame  politique  et  initie  ses 


~  228  - 
del  volere .  spetta  ad  esse  oltracciò  rendere  atti  i  fanciulli  a 
parlare  ed  a  scrivere  correttamente  e  senza  stento  il  patrio 
idioma,  comunicar  loro  le  prime  nozioni  di  aritmetica  e  di 
geometria,  di  scienze  naturali  ed  in  ispecie  di  geografia  e  di 
storia,  ed  avvezzarli  a  riflettere  intorno  a  certi  grandi  con- 
cetti onde  appariscono  irradiati  di  splendida  luce  doveri  e 
diritti. 

Se  le  odierne  scuole  elementari  siano  pari  od  impari  al 
loro  ufficio,  quale  tentammo  descriverlo,  giudichi  lo  esperto 
lettore  ;  noi  ci  staremo  paghi  di  osservare  col  nostro  autore 
che;  «  L'écoie  qui  jette  dans  la  vie  des  enfants  munis  d^une 
instruction  banale  et  superficielle  ne  mérìte  pas  le  nom  d'in- 
stitution  nationale.  Partout  où  un  enseignement  public  est 
solìdement  constìtué,  de  quelque  esprit  qu'il  soit  anime  d'ail- 
leurs,  nous  voyons  qu'il  porte  ses  vues  au  delà  du  seuil  de 
la  classe,  et  qu'il  cherche   à   marquer  de  son  caractère  les 

élèves  aux  discussions  des  partis.  Je  voudrais  au  contraire  que  toutes 
les  influences  de  la  polttique  militante  vinssent  s'arréter  non-seulement 
devant  la  classe,  mais  devant  la  maison  de  l'instituteur.  Il  exercera  la 
raison  de  ses  écoliers  comme  le  maitre  de  gymnastique  développe  la 
vigueur  et  l'agilìté  musculaires  de  ses  éièves.  Quel  parti  aura  à  se  plain- 
dre  si  i'on  enseigne  dans  i'école  en  langage  clair  ei  par  des  argumenis 
accessibles  aux  enfants  qu'il  fautpréférerla  patrie  à  scn  parti,  qu'il  faut, 
ea  route occasion,  mettre  les  iaiéréts  permanems  du  pays  au-dessus  d'un 
avantage  passager,  qu'on  doit  respecter  les  opinlons  d'autrui  pour  obte- 
nir  ie  respect  de  ses  propres  convictions,  qu'il  faut  reteplir  ses  devoìrs 
si  I'on  veut  éire  écouté  quand  on  parie  de  ses  droits?  N'est-ce  pas  là  un 
enseignement  dont  la  France  entière  profilerà?  mais  il  ne  doit  pas  se 
donner  par  sentences;  questionnez  l'enfant,  obligez-le  à  trouver  les  ré- 
ponses  par  iui-méme,  faites-lui  d^à  objections  pour  qu'il  réfléchisse  sur 
son  opinion  et  pour  qu'il  apprenne  à  la  défendre.  De  cette  fa9on  vous 
lesterez  ces  jeunes  tétes  de  quelques  notions  fondamentales,  qui  les  em- 
pécheront  de  fletter  un  jour  au  vent  de  ".ous  les  entratnements  et  de  tous 
les  sophismes.  Pour  coaabien  ces  notions  seront  ies  seules  désintéres- 
séesqu'ils  recevrontsur  ce  sujet!  Car  dans  la  suite  de  la  vie  c'est  parmi 
ies  atHrmations  contradicioires  des  pariis  et  au  milieu  des  raisonne- 
ments  de  l'ambition  et  de  la  mauvaise  foi  qu'ils  seront  obligés  de  démé- 
ler  la  vérité.  «  Bréai-,  Op.  cit. ,  p.  i23-5. 


-  229- 
génératìons  nouvelles  »  (i).  E.  quando  troppo  Imperfette 
sono  la  educazione  e  la  istruzione  dei  molti,  strana  follia 
ci  sembra  la  speranza  ch'esse  possano  concorrere  efficace- 
mente a  liberarli  da  quei  pregìudizii,  i  quali,  più  che  altri 
non  creda,  sogliono  nuocere  alla  conservazione  ed  al  perfe- 
zionamento dello  individuo,  della  famiglia,  dello  stato  (a): 
a  sì  fatta  redenzione  non  gioveranno  guari  certamente  né  le 
amplificazioni  retoriche,  né  i  versi,  senza  poesia,  male  intesi 
e  peggio  recitati  con  monotona  cantilena  e  con  tedio  infinito 
di  chi  è  costretto  ad  assistere  a  certi  esperimenii,  a  cerre 
feste  che  osano  appellare  di  pubblica  istruzione!  Delle  quali 
è  sì  fattamente  noioso  pur  li  semplice  ricordo  che  ci  affret- 
tiamo di  abbandonare  lo  ingrato  argomento  e  di  venire 
a  discorrere  degli  studi  che  si  fanno  e  di  quelli  che  si  do- 
vrebbero fare  nel  ginnasio  e  nel  liceo. 

Doppio  è  lo  scopo  che  ad  essi  vuol  essere  proposto  :  con- 
tinuare a  svolgere  con  opportune  esercitazioni  le  facoltà 
della  mente  e  del  cuore-,  convertire  i  fanciulli,  appena  ini- 
ziati allo  imparare,  in  giovani  colti ,  atti ,  sì  pel  loro  grado 
di  attività  mtellettuale,  sì  per  le  cognizioni  acquistate,  a 
compiere  degnamente  parecchi  onorevoli  ufficii  sociali  e  ad 
intraprendere  gli  studi  superiori  e  speciali  cui  debbono  es- 
sere copsecrati  gli  atenei.  Ora  gran  parte  dello  insegnamento 
liceale  e  quasi  affatto  quello  del  ginnasio  h^nno  ad  oggetto 
le  lingue  e  le  letterature  greca,  latina,  italiana  :  vediamo  per- 
tanto quali  frutti  si  raccolgano  da  questo  lungo  è  faticoso 
lavorìo,  e,  innanzi  tratto,  quanto  e  come  si  impari  a  cono- 
scere i  più  grandi  autori  della  Grecia  e  dell'Italia  antica  e 


(i)  Op.  cit. ,  p.  M7. 

(2)  "  Nous  veuons  d'assister  au  plus  grand  débordement  d'erreurs  et 
de  mensonges  qu'aucun  teraps  ait  ptut-étre  jamais  wi....  De  tels  éga- 
rements  ne  démontrent-ils  pas  qu'il  y  a  une  lacune  dans  le  systèroe 
d'éducation  nationale  ?  »  Bréal,  Op.  cit.,  p.  11 5. 


-  230  - 
moderna.  Chiunque  non  si  pasca  delle  vane  illusioni  cui 
genera  troppo  spesso  la  lettura  di  certi  programmi  e  pos- 
segga un  esatto  concetto  di  ciò  che  per  lo  più  si  fa  nelle 
nostre  scuole  secondarie  ammetterà  necessariamente  con  noi 
che  sono  vere,  sciaguratamente  vere  anche  in  ordine  agli 
sludi  classici  dei  ginnasii  e  dei  licei  italiani  le  osservazioni 
seguenti  del  Brcal:  «  Sur  les  programmes  de  nos  lycées, 
nous  voyons  (ìgurer  une  serie  fort  honorable  d'auteurs  la- 
tins  et  grecs.  Dans  les  circulaires  de  nos  ministres  et  dans 
les  discours  de  nos  professeurs,  les  chefs-d'oeavre  de  l'an- 
tiquité  sont  continuellement  cités  et  vantés.  Homère,  Platon, 
Démosthène,  Eschyle,  Sophocle,  Euripide  (i),  Virgile,  Ho- 
race,  Cicéron,  Tite-Live,  Tacite,  sont  l'aliment  de  nos  jeunes 
collégiens.  Mais  si  vous  entrez  dans  la  classe,  vous  voyez 
que  ces  écrivains  y  tiennent,  en  somme,  une  place  assez 
modeste  »  (2).  Appena  occorre  accennare  come  assai  meno 
ancora  che  i  latini  si  leggano  gli  scrittori  greci.  E  a  buon 
diritto  chiede  il  Bréal  :  «  Est-ce  avec  six  dialogues  de  Lu- 
cien,  la  moitié  d'une  vie  de  Plutarque,  la  moitié  de  deux 
chants  d'Homère,  une  tragèdie  d'Euripide  et  une  autre 
de  Sophocle,  et  le  commencement  d'un  discours  de  Dé- 
mosthène, lentement  ànonnés  en  cinq  ans,  qu'on  prétend 
apprendre  la  langue  la  plus  riche  et  la  plus  variée  qui  ait 
jamais  existé?  Ces  moyens,  déjà  insuffisants  pour  le  latin, 
deviennent  dérisoires  pour  le  grec  »  (3).  E,  siccome  l'a- 
more del  vero   ed   il   proposito   di   significarlo    con    libera 


(i)  Vuoisi  per  altro  notare  che,  per  quanto  concerne  gli  autori  greci, 
i  nostri  programmi  sono  ben  più  modesti  che  non  quelli  onde  fa  cenno 
il  Bréal. 

(2)  Op.  cit.  ,  p.  211- 12.  V.  anche  la  recentissima  Circulaire  di  J. 
Simon  [Journal  officici  de  la  République  frangaise ,  3  ottobre  1872, 
p.  63o9). 

(3)  Op.  ciL  ,  p.  228. 


-  231  - 
schiettezza  alla  patria  nostra  vale  in  noi  ben  più  che  l'or- 
goglio nazionale,  così  osserveremo  che  noi,  italiani,  avremmo 
già  ragione  di  rallegrarci  se  in  tutti  i  nostri  licei  si  faces- 
sero le  letture  greche  onde  il  Bréal  notò  la  insufficienza: 
che  dei  candidati,  i  quali  si  presentano  fra  noi  agli  esami 
di  licenza  liceale,  i  più  non  hanno  tradotto  che  qualche  fa- 
vola esopea,  qualche  dialogo  di  Luciano,  poche  pagine  di 
Senofonte,  ne  guari  maggior  numero  di  versi  omerici!  E 
sin  delle  opere  letterarie  dell'Italia  moderna  quanta  parte 
non  resta  ignota  ai  giovani  italiani!  Ma  il  legger  poco  sa- 
rebbe minor  sciagura  se  almeno  troppo  spesso  non  si  leg- 
gesse male.  E  veramente  avviene  non  di  rado  che  si  pro- 
pongano agli  alunni  come  oggetto  di  studio  e  talvolta  come 
modelli  di  bellezza  letteraria  autori  di  secondo  o  di  terzo 
ordine,  mentre  non  si  richiama  in  egual  modo  la  loro 
attenzione  sopra  i  più  grandi:  così  vedemmo  assai  sovente 
Cornelio  Nipote  onorato  di  un  culto  che  si  negava  a  Cor- 
nelio Tacito!  E,  quasi  scarseggiasse  o  si  avesse  a  schifo  la 
legittima  latinità,  non  rade  volte  le  si  sostituisce  la  bastarda 
colla  sua  freschezza  di  vecchia  imbellettata  (i).  A  ciò  si 
aggiunga  che  spesso  l'ordine,  giusta  il  quale  si  fanno  agli 
allievi  delle  nostre  scuole  classiche  secondarie  leggere  i  sin- 
goli autori,  cozza  colle  più  elementari  ed  evidenti  leggi  pe- 
dagogiche, le  quali  c'impongono  di  procedere  sempre  con 
saggia  gradazione  dalle  minori  alle  maggiori  difficoltà.  Si 
leggesse  almeno  per  intero  qualche  grande  scrittore,  almeno 
un'opera  di  es'io,  almeno  una  parte  compiuta  di  un'opera! 
Ma  troppo  spesso  accade  che  ai  poveri  alunni  non  si  gettino 


(i)«  Je  suis  d'avis  quf  les  recueils  da  morceaux  choisis,  les  Excerpta, 
les  Conciones,  ies  Seiectae ,  et  surtout  les  ouvrages  composés  en  latin 
par  des  auteurs  modemes,  à  l'usage  des  joUéges,  doiventetre  abandon- 
nés.  II  faut  étudier  une  liitérature  dans  ses  chefs-d'oeuvre,  et  prendre 
pour  maitres  d'une  langue  ceux  qui  la  savent.  »  (J.  Simon,  /.  c.)> 


-  232  — 
se  non  le  bricciole  cadute  dalla  mensa  dei  classici  (i).  Non 
basta  ancora  :  manca  per  lo  più  la  necessaria  preparazione 
a  comprendere  un  autore,  un  lavoro  letterario-,  manca  tal- 
volta gran  pane  de'  commenti  che  più  si  richiedono  ;  manca 
troppo  sovente  una  buona  edizione  dello  autore  che  s'inter- 
preta, perchè  fra  i  maestri  v'ha  ancora  (sebbene  ormai 
sembri  impossibile)  chi  crede  non  necessaria  alle  scuole  gin- 
nasiali e  liceali  la  scelta  d'un  testo  corretto,  o  aggiusta  fede 
alle  stupide  e  svergognate  calunnie  colle  quali  osasi  talora 
insultare  l'opera  emendatrice  di  critici  moderni  (2).  Indi  la 


(1)  «  On  est  surpris  quand  on  rapproche  de  cet  état  de  choses  les 
usagcs  de  nos  voisins.  "  11  fautqu'en  seconde  (laquelle,  il  est  vrai,  dure 
souvent  deux  ans)  les  élèves  aient  vudix  livres  deTite-Live,  et  tn  pre- 
mière quatorze  discours  de  Cicéron,  ainsi  que  le  De  Officiis.  »  Qui  parie 
ainsi  ?  Non  pas  un  utopiste,  un  réformaieur;  mais  un  professeur  ren- 
dant  compie  de  sa  pratique.  Dans  le  cours  des  études  du  gymnase,  d'a- 
près  le  règlement  prussien,  Homère  doit  étre  lu  tout  entier.  Trois  tra- 
gédies  grecques,  en  un  an,  ne  paraissent  rien  d'excessif.  Dans  le  Ha- 
novre,  à  Texamen  qui  répond  à  notre  baccalauréat,  on  exigeait  des  can- 
didats,  généralement  àgés  de  dix-sept  ans,  qu'ils  eussent  lu  les  traìtés 
de  philosophie  et  de  rbétorique  de  Cicéron ,  Salluste,  Tite-Live,  l'É- 
néide,  les  odes  d'Horace,  l'iliade,  l'Odyssée,  Hérodoie,  l'Anabase,  les 
Mémorables,  quelques  diaiogues  de  Platon.  Nous  avons  peine  à  nous 
figurer  de  telles  lectures.  Mais  il  taui  songcr  qu'en  Allemagne  la  dasse 
est  débarassée  d'une  quamité  d'exercices  qui  encombrent  la  nótre,  A 
l'étude,  rélève  Ut  ses  auteurs,  note  à  la  raarge  les  passages  qu'il  ne  com- 
prend  pas,  de  sorte  qu'on  passe  avec  une  grande  rapidité  sur  les  en- 
droits  faciles.  »  Bréal,  Op.  cit.,  p.  214-5.V.  anche  Hippeau,  L'wstruc- 
tton  pitblique  aux  États-Unis^  p.  4o3. 

(2)  «  Un  genre  de  commentaire  déjà  recommaadé  par  RoUin,  ce  soni 
les  observations  sur  l'histoire  et  la  constitution  du  lexte.  Il  est  bon  de 
dire  aux  élèves  des  ciasses  supérieures  par  quels  manuscrits  un  chef- 
d'ceuvre  est  venu  jusqu'à  nous.  par  qui  il  a  été  d'abord  publié,  corrige. 
L'ignorance  de  nos  élèves,  sur  ce  sujet,  est  complète;  quelquefois  aussi 
celle  des  maitres.  Je  pourrais  citer  à  ce  sujet  des  passages  tirés  despré- 
faces  de  nos  éditions  scolaires,  qui  montrent  que  notre  éducation  est  à 
refaire  sur  ce  point.  On  trouverait  des  professeurs  qui  croient  que  les 
éditions  du  quinzième  siècle  sont  les  plus  conformes  aux  anciens  ma- 
nuscrits. La  plupart  se  débarassent  du  travail  d'éditeur  par  une  phrase 
SU"  les  témérités  de  la  critique  moderne.  >•  Bréal,  Op.  cit. ,  p.  219. 


-  233- 

ignoranza,  indi  Tawersione,  che  si  rivelano  chiaramente 
nella  maggior  parte  dei  giovani  per  ciò  che  atiiensi  agli 
studi  classici:  sì  poco  hanno  appreso  a  conoscere  il  valore 
delle  due  grandi  letterature  greca  e  latina,  soprattutto  della 
prima,  e  riesce  loro  sì  difficile  lo  intendere  gli  scrittori  del 
Lazio  e  della  Grecia  (i),  che,  usciti  delle  scuole  liceali,  i 
più  si  rallegrano  di  essere  finalmente  liberi  dal  noioso  do- 
vere di  studiare,  con  sì  scarso  profitto,  greco  e  latino  (2).  E 
sapete  voi  la  cagione  per  cui  queste  povere  vittime  dei  pre- 
giudizii  altrui  sì  poco  si  addentrano  nel  santuario  della  clas- 
sica antichità?  Osservate  con  quali  intendimenti  si  facciano 
studiare  i  capolavori  delle  lettere  greche,  latine,  italiane,  e 
vedrete  che  troppo  spesso  si  leggono  nelle  nostre  scuole  se- 
condarie non  altramente  che  quali  modelli  di  lingua  e  di 
stile,  come  se  i  grandi  poeti ,  storici ,  oratori ,  filosofi  della 
Grecia  e  della  Italia  antica  e  moderna  non  valessero  ad 
educare,  ad  istruire  la  nostra  gioventù  se  non  come  maestri 
di  grammatica  e  di  retorica!  Indi  si  scorge  come  un  ma- 
laugurato studio  della  parola  soffochi  quello  dei  fatti  e  delle 


(i)  «  L'élève,  invite  à  gouier  les  douceurs  de  la  poesie  et  la  séductlorì 
de  l'éloquence,  ne  sent  que  mieux  le  contraste  entre  les  jouissances 
qu'on  lui  vante  et  la  phrase  grecque  qu'il  a  sous  les  yeux,  et  dont  il  ne 
parvient  pas  à  débrouiller  la  construction  et  à  reconnaitre  les  mots.  » 
Bréal,  Op.  cit.  ,  p.  aaS. 

(2)  <i  Comment  veut-on  que  notre  jeunesse  apprenne  à  connattre  et 
à-ainier  l'antiquité  quand  on  la  lui  sert  ainsi  découpée  en  raorceaux,  et 
quand  le  plaisir  qu'elie  pourrait  prendre  au  peu  qu'elle  en  voit  està 
cbaquc  instane  troublé  par  des  préoccupations  de  style  et  des  airiòre- 
pensées  de  traduction  ?  Corament  nos  bons  é!èves  orendront-ils  en  af- 
feciion  quelque  auteur  latin  ou  grec ,  et  le  choisiront-ils  pour  lecture 
favorite,  quand  ils  sont  sous  la  j^luie  continuelle  des  versions?  C'est  là, 
il  n'en  faut  pas  douter,  la  cause  principale  pour  laquelle,  malgré  lant 
d'années  de  collège,  l'antiquité  est  si  peu  connue  chez  nous  ;  c'est  pour 
cela  que  ,  hors  da  lycée,  les  auteurs  classiques  ne  sont  guère  lus  de  per- 
sonne,  pas  memede  ceuxqui  font  métier  d'enseigner  le  grec  et  le  latin.» 
Bréal,  Op.  cit. ,  p.  213-4. 


-234  — 
idee:  malaugurato  abbiamo  detto,  perchè  non  solo  ci  ap- 
pare soverchiamente  esteso  a  danno  di  altri  studi,  ma  ezian- 
dio ci  sembra  ben  lungi  dallo  arrecare  que'  vantaggi  che 
molti  da  esso  si  ripromettono.  In  primo  luogo  soglionsi 
nei  nostri  istituti  didattici  imparare  le  lingue  con  metodi  per 
lo  più  affatto  empirici ,  i  quali  per  la  loro  intima  irrazio- 
nalità sono  necessariamente  inetti,  come  Tesperienza  e  la 
ragione  dimostrano,  ad  educare  convenientemente  lo  ingegno 
giovanile  :  ma  di  questo  argomento  discorreremo  nella  terza 
parte  di  queste  nostre  Considerazioni.  Secondariamente 
puossi  affermare,  a  nostra  vergogna,  che  non  solo  non  si 
ottiene  una  cognizione  teoretica  delle  favelle  che  sono  og- 
getto di  sì  lunghi  studi  alle  nostre  scolaresche ,  ma  ge- 
neralmente non  si  impara  nemmeno  ad  intendere  i  più 
semplici  prosatori  greci  ed  i  men  facili  tra  i  latini,  a 
scrivere  senza  stento  e  con  un  po'  di  eleganza  la  lingua  dei 
nostci  padri,  in  otto  anni  di  esercizii  grammaticali  e  retorici 
intorno  allo  idioma  dei  Lazio,  idioma  che  ormai  sembra  in 
Italia  più  difficile  del  basco!  (t).  Splendide,  troppo  splendide 
prove  di  questa  nostra  asserzione  sono  gli  sforzi  erculei,  e 
non  di  rado  assai  poco  avventurali,  che  costa  a  buon  nu- 
mero de'  nostri  studenti  liceali  l'interpretazione  di  pochi 
versi  latini,  e  più  ancora  gli  spropositi,  quasi  incredibili,  di 
prosodia,  di  sintassi ,  di  coniugazione  ed  anche  di  declina- 
zione, che,  come  spesso  suole  avvenire,  i  padri  stessi,  seb- 
bene non  abbiano  da  molti  anni  riletto  una  regola  del  loro 
Nuovo  metodo  né  una  pagina  di  autore  latino,  correggono, 
scandolezzati,  ai  proprii  figliuoli,  usciti  appena  del  ginnasio, 
del  liceo,  od  ancora  ammaestrati  nello  idioma  latino  e  co- 


fi)  È  noto  che  l'autore  di  una  grammatica  basca  intitolò  quest'opera 
sua  :  "  Lo  impossibile  superato,  ossia  Grammatica  della  lingua  basca  ■! 


-  235  - 
stretti  a  studiarlo  (i),  allorquando  questi  leggono  i  proprii 
lavori  nella  lingua  degli  avi  nostri.  Che  lo  studio  dei  classici, 
soli  maestri  di  veramente  antica  romana  eleganza  ai  futuri 
latinisti,  è  ora  fatto  in  guisa  affatto  insufl&ciente  a  conseguire 
questo  fine;  gli  esercizii  di  versione  dallo  italiano  in  latino 
non  sono  per  lo  piià  abbastanza  frequenti  né  saggiamente  or- 
dinati, sì  che  non  riescono  ad  infondere  negli  allievi  una 
pratica  conoscenza  di  tutte  le  leggi  grammaticali  più  impor- 
tanti, di  tutte  le  voci  e  le  locuzioni  più  utili  (2)  -,  le  compo- 
sizioni latine  finalmente,  a  cui  né  la  lettura  assidua  de'  grandi 
scrittori  romani,  né  Tabito  di  tradurre  dal  patrio  idioma  in 
quello  del  Lazio  prepararono  convenientemente  i  più  degli 
studiosi,  non  altro  evidentemente  possono  essere  che  un 
lungo,  penoso,  ingratissimo  lavoro  ed  insieme  una  prova  di 
deplorabile  ignoranza  (3),  E  ciò  vediamo  avvenire  in  iscuole 


(a)  Di  questo  deterioramento  innegabile  negli  studi  ginnasiali  di 
lingua  latina,  delle  cause  di  esso  e  dei  mezzi  alti  a  cessarlo  già  discor- 
remmo nella  prefazione  alla  nostra  Grammatica  stoi-ìco-comparativa 
della  lingua  latina  ecc.,  Torino,  1872,  p.  vm-xu. 

(2)  Assai  meglio  si  provvederebbe  ai  bisogni  degli  s'udenti  se  si  fa- 
cessero, in  iscuola,  tradurre  a  voce  in  latino  i  temi  dello  Schuitz:  rac- 
comandiamo in  ispecie  ai  maestri  la  Raccolta  di  temi  per  cserci-^io 
della  sintassi  latina,  tradotta  dal  Fornaciari ,  edita  dal  Loescher,  To- 
rino, 1870-71. 

(3)  Non  possiamo  astenerci  dal  notare  che  sovente  la  materia  delle 
composizioni  latine,  ed  anche  non  di  rado  delle  italiane,  vale  poco  più 
della  forma,  sì  che  potrebbe  affermarsi  veracemente  esservi  in  molte 
di  esse  fra  il  pensiero  e  la  parola  una  perfetta  corrispondenza.  Ciò  ha 
luogo  naturalmente  sempre  quando  lo  studio  retorico  della  parola  pre- 
vale su  quello  delle  idee  e  dei  fatti,  quando  invece  di  educare  e  d'istruire 
si  insegna  a  parlare  senza  intendere,  senza  sentire  profondamente!  Si 
aggiunga  che  spesse  volte  è  infelicissima  la  scelta  degli  argomenti:  certi 
temi,  in  ispecie  di  filosofiche  dissertazioni  e  di  lavori  oratorii,  sono  su- 
periori alle  cognizioni,  all'attività  intellettuale  del  maggior  numero  di 
coloro  cui  vengono  imprudentemente  proposti,  e  ingenerano  l'abito 
funestissimo  di  sentenziare  con  puerile  temerità  intorno  a  ciò  che  si 
conosce  appena,  oltreché  l'uso  soverchio  di  certi  esercizii  oratorii  av- 


-  236  ~ 
nelle  quali  sembra  pure  che  il  latino  s'insegni  «  non  pour 
le  savoir,  mais  pour  Técrire  »,  giusta  Targiita  osservazione 
del  nostro  autore  (i).  Sì  fatta  maniera  di  studi  classici  è  ben 
meritevole  del  severo  giudizio  che  intorno  ai  medesimi  nei 
licei  della  Francia,  troppo  spesso  ed  insipientemente  imitata 
da  noi,  pronunziarono  parecchi  francesi  stessi  (2)  e  qualche 
straniero  (3).  E  t'illuderesti  miseramente,  cortese  lettore,  se 


vezza  un  giovane  «  non  à  chercher  et  à  dire  la  vérìté,  mais  àplaider  une 
cause  »,  anzi  «<  à  plaider  avec  chaleur  des  causes  qui  ne  le  touchent 
point",  come  osserva  acutamente  il  Bréal  [Op.  cit, ,  p.  246).  V.  tutto 
lo  stupendo  capitolo  Da  discours  latin  et  du  discours  fran^ais  (p.  23S- 
54):  V.  anche  nella  citata  Circulaire  di  J.  Simon  le  osservazioni  circa 
Les  exercices  de  langue  et  de  littérature  fran^aise. 

[i)  Op.  cit.,  p.  228.  Sembra  veramente  impossibile  che  da  taluni 
non  siasi  ancora  compreso,  che,  come  nota  J.  Simon  «  on  étudiera  dé- 
sormais  le  latin  pour  le  comprendre  et  non  pas  pour  le  parler  >*,  ed  in 
genere  «  on  apprend  les  langues  vivantes  pour  les  parler,  et  les  langues 
morles  pour  les  lire  ». 

(2)  Così  il  Bréal,  là  ove  discorre  dei  temi  latini ,  nota  essere  «  trop 
clair  que  ces  exercices  ont  le  tort  de  tourner  sur  les  mots  l'attention 
que  nous  devrions  avant  tout  diriger  sur  les  choses.  A  l'àge  où  les  en- 
fants  ont  tout  à  apprendre  ,  nous  réclamons  leur  temps  et  leur  peine 
pour  mettre  en  balance  deux  terms  plus  ou  moins  classiques  ou  pour 
rechercher  de  quelle  fa^on  la  phrase  tombera  le  mieux.  Encore  si  ce 
était  seulement  du  temps  perdu  !  Mais  l'enfant  prend  l'habitude  d'at- 
tacher  au  mot  une  importance  disproportionnée...  »  {Op.  cit. ,  p.  208). 
V.  anche  Renan,  la  Ré/orme  ecc.,  p.  95. 

(3)  Consulta  principalmente  il  libro  di  Hahn  Das  unterrichts-wesen 
in  Frankreich  ecc.,  Breslau ,  1848;  il  Renan  nella  sua  monografia 
L'insiruction  publique  en  France  jugée  par  les  AUemands  (  Qttestions 
contemporaines,  p.  263-93)  ne  fece  un  compendio ,  da  cui  estrarremo 

qualche  periodo:   «  L'Université en  prenant  i'antiquité   classique 

pour  robjet  principal  et  presque  exclusif  des  études,  a  prétendu  rendre 
un  Service  inappréciable  à  la  civiìisation ,  ainsi  qu'à  la  prépondérance 
imaginaire  de  la  culture  franjaise  en  Europe  ;  elle  insiste  avec  vanite 
sur  ce  bienfait,  pour  soutenir  les  intéréts  de  sa  domination  absolue  ;  et 
pourtant  il  est  certain  qu'au  fond  elle  n'a  pas  la  juste  conscience  des 
vraies  études  de  l'humaniste.  Elle  entasse  avec  surabondance  la  ma- 
tière  classique  ,  mais  sans  la  vivifier  par  l'esprit  littéraire  ;  les  formes 
antiques  circulent  journellement  et  passent  de  main  en  main  ;  mais  le 


-  237  -- 
tu  credessi  che  questo  culto  insano  della  forma,  questa  tras- 
curanza  della  materia,  questo  prevalere  dell'apparenza  sulla 
sostanza,  questa  leggerezza  da  parolai,  questa  verbosa  su- 
perficialità, che  venne  sì  aspramente  rinfacciata  alla  istru- 
zione secondaria  francese  e  che  rimproverar  si  potrebbe 
eziandio  all'italiana,  sia  almeno  ristretta  al  campo  degli  studi 
Ictterarii  e  non  invada  quello  delle  altre  discipline.  Vedasi, 
a  prova  di  questa  nostra  affermazione,  come  e  quanto  s'in- 
segni la  storia,  soprattutto  l'antica  in  certi  ginnasii!  In 
primo  luogo  questo  insegnamento  è  considerato  da  molti 
professori  e  da  quasi  tutti  gli  alunni  come  di  gran  lunga 
inferiore  in  importanza  a  quello  delle  lettere.  Secondamente 
v'hanno  ancora,  per  nostra  sciagura  ed  onta,  maestri 
che  non  si  peritano  di  proporre,  anzi  d'imporre,  ai  loro 
poveri  allievi  certi  compendii,  i  quali,  fatti  da  uomini  inetti 
per  mera,  turpe  e  talvolta  cinicamente  confessata  avidità  di 
subiti  e  facili  guadagni,  e  quindi  nella  guisa  più  accetta  alla 
poltroneria  dei  molti,  sono  si  svergognata  mutilazione  delia 


sens  du  beau  antique  manque  profondémem  ;  on  rassemble  laborieuse- 
ment  des  pierres  polies  pour  la  construciion,  mais  jamais  elles  ne  s'^- 
lèvent  en  un  édifice  harmonieux;  jamais  on  ne  passe  d'un  aride  excr- 
cice  d'intelligence  à  une  nourriture  vitale  de  tout  l'homme  spirituel. 
Tout  se  borne  à  des  applications  étroites  et  mesquines:  au  lieu  de  for- 
tifier  les  facultés  iniellectuelles ,  au  lieu  d'un  développement  où  la 
beauté  de  la  forme  serait  en  harmonie  avec  les  progrès  de  la  raison  , 
on  acquiert  seulement  une  habilité  singulière  pour  déguiser  à  soi-mènae 
et  aux  autres  le  vide  de  la  pensée  sous  une  forme  creuse ,  éblouissante 
et  pompeuse.  On  s'imagine  conserver  et  coniinuer  les  tradition?;  philo- 
logiques  de  Port-Royal  ;  on  promet  à  la  nation  des  fruits  comparablcs 
à  ceux  qu'a  produits  cette  vigoureuse  école  ,  un  nouveau  siede  d'or  en 
littérature;  mais  on  ne  s'aper90Ìt  pas  que,  de  toute  cette  culture  clas- 
sique,  on  a  salsi  l'écorce  et  non  le  fruit ,  en  sorte  qu'au  lieu  d'élever 
l'àme,  cette  culture  n'aboutit  qu'à  erapirer  le  mal  d'un  siècle  tout  ex- 
térieur  et  profondément  attelnt  de  roatérialisme.  Un  esprit  étroit  et  for- 
maliste est  le  trait  caractéristique  de  l'enseignement  en  France  ;  ce  n'est 
pas  une  vraie  culture  de  l'esprit  ;  c'en  est  la  caricature.  »  (p.  ayó-y). 

Tijvista  di  filologia  ecc.,  J.  17 


-  238  — 
storia  che  il  solo  vederli  desta  ribrezzo  e  schifo  (i).  Ed  è 
spellacelo  che  muove  a  piangere  per  compassione  od  a 
sogghignare  di  scherno  il  vedere,  come  avvenne  a  noi,  un 
insegnante  ginnasiale  costringere  la  sua  scolaresca  a  studiare 
a  memoria  si  fatti  libercoli  di  storia  e  di  geografia!  Che 
importa  se  i  giovani  non  hanno  un  concetto  chiaro  e  di- 
stìnto nemmeno  delle  più  grandi  divisioni  della  terra?  Essi 
sanno  recitare  senza  errori  e  senza  esitazione  la  paginuccia 
del  manuale,  nella  quale  si  dà  un  cenno  su  tale  argomento, 
e  ciò  basta  a  certi  professori  per  cui  questo  titolo  è  vera- 
mente la  più  crudele  delle  ironie.  Né  di  rado  accade  che 
la  buona  memoria,  unico  pregio  (e  spesso  troppo  iodato) 
di  certi  scolari,  veli  il  difetto  deplorabilissimo  di  nozioni 
esatte,  quasi  diremmo  vive,  in  fatto  di  fisica,  di  chimica, 
di  storia  naturale.  Effetto  doloroso,  inevitabile  del  vizio  di- 
dattico onde  abbiamo  discorso  è  la  imperfettissima  educa- 
zione ed  istruzione  di  cui  porgono  sì  gravi  e  numerosi  in- 
dizi!, anche  al  meno  attento  ed  acuto  osservatore,  i  giovani 
che  escono  dei  nostri  licei,  per  io  più  mal  preparati  agli 
studi  universitarii  né  guari  meglio  a  quel  genere  dì  vita  al 
quale  dovrebbero  essere  atti.  Questo  difetto  di  cognizioni  e 
di  ben  regolata  energia  intellettuale  e  morale  ci  si  mani- 
festa colla  più  viva  evidenza  nella  deplorabile  negligenza  di 
moki  fra  essi  in  ciò  che  s'attiene  al  mondo  del  pensiero  e 
nella  poca  serietà  con  cui  non  pochi  compiono  certi  do- 
veri ed  esercitano  certi  diritti  di  grande  importanza.  Sì 
fatta  povertà  dello  spirito,  povertà  che  di  tutte  è  la  più  pe- 
ricolosa e  che  da  lunga  età  funesti   errori  hanno  inflitta 


(i)  Sarebbe  ormai  tempo  che  si  mondassero  le  nostre  scuole  da  si- 
mile sucidume  e  che  a  certi  sunti  si  sostituissero  libri  dettali  in  modo 
più  degno  della  scienza,  verbigrazia  quelli  del  prof.  Schiaparelli  per 
la  storia  antica,  del  prof.  Ricotti  per  la  moderna,  la  quale  fu  eziandio 
da  parecchi  altri  esposta  convenientemente  ad  uso  de'  nostri  licei. 


~  239-- 
alla  patria  nostra,  sì  rivela  soprattutto  in  gran,  parte  della 
stampa  periodica  e  politica,  ad  esempio  nel  pessimo  vizio 
di  voler  discorrere  di  tutto,  anche  di  ciò  che  non  si  conosce, 
e  profferir  giudizio  senza  competenza,  od  eziandio  dei  più 
autorevoli  biasimare  te  sentenze,  con  una  temerità  che  mo- 
verebbe a  sdegno  anche  uomini  serii,  se  dalla  esperienza 
non  fossero  avvezzati  a  sorridere  di  tanta  puerilità. 

A  questa  troppo  spesso  presuntuosa  e  prepotente  debo- 
lezza intellettuale  dovrebbe  apprestare  continuo,  efficace  ri- 
medio la  istruzione  superiore,  universitaria.  Sciaguratamente 
eziandio  in  molte  parli  di  essa  serpeggia  il  morbo  onde  ci 
diamo  pensiero,  le  corrode,  le  strema,  le  rende  inette  al 
loro  altissimo  ufficio.  E,  prendendo  naturalmente  le  mosse 
dagli  studi  filologici  ed  in  ispecie  dai  greco-latini,  ci  duole 
profondamente  dover  confessare  che  non  tutti  coloro,  i 
quali  pur  ne  dovrebbero  essere  valorosi  maestri,  hanno  un 
esatto  concetto  del  loro  scopo,  il  quale  ci  appare  doppio, 
teoretico  e  pratico,  scientifico  e  didattico:  far  conoscere, 
storicamente  e  filosoficamente,  le  più  grandi  civiltà,  consi- 
derate nella  mirabile  varietà  dei  loro  elementi  costitutivi, 
delle  loro  rivelazioni,  vale  a  dire  nei  linguaggi,  nei  miti, 
nelle  religioni,  neirarte,  ne' sistemi  filosofici,  ne' costumi, 
nelle  istituzioni  e  negli  avvenimenti  civili,  politici,  militari; 
preparare  con  si  fatto  studio  e  con  acconcia  pedagogica  gli 
alunni  allo  insegnamento  letterario,  storico,  filosofico  ne'  gin- 
nasii  e  ne' licei.  Per  isventura  nostra  e  delle  nuove  genera- 
zioni la  prima  parte  di  questo  compito  non  fu  mai  guari 
per  lo  passato,  né  anche  presentemente  è  ben  compresa  da 
tutti,  e  v'ha  ancora,  sebbene  ormai  sembri  impossibile,  chi 
pensa  essere  alle  facoltà  di  lettere  proposto  sovra  ogni  altro 
il  fine  d'insegnare  a  scrivere  italianamente  e  latinamente, 
come  nelle  scuole  dei  retori  s'insegnava  a  parlare!  Ciò 
posto,  non  è  punto  malagevole  io  intendere  come  da  sì  fatti 


—  240  — 
uomini  siano  reputati  men  necessarii,  anzi  da  taluno  quasi 
inutili  od  eziandio  pericolosi,  i  veri  studi  propri!  delle  pre- 
accennate facoltà ,  verbigrazia  l'analisi ,  storica  e  filosofica , 
degridionrii,  delle  letterature;  come  si  oppongano  al  trionfo 
di  tali  studi  e  dei  loro  promotori ,  né  sempre  con  arti  degne 
dello  scienziato  e  del  gentiluomo-,  come  una  dissertazione  la- 
tina, fatta  con  ritagli  di  latinità  sovente  spuria  e  cuciti  insieme 
per  guisa  che  a  noi  italiani  rammenta  Tabito,  non  certo  l'ar- 
guzia del  nostro  Arlecchino,  sia  qua  e  là  giudicata  prova 
di  sapere  filologico:  come  finalmente  le  vere  prove  di  esso 
siano  talvolta  accolte  con  indifferenza,  o,  peggio,  con  insano 
disprezzo  da  persone,  che,  per  la  propria  ignoranza  ed  im- 
potenza di  spirito,  non  ebbero  ancora  la  buona  ventura  di 
comprendere  quanto  la  scoperta,  la  cognizione  di  un  minimo 
fatto,  ad  esempio  di  uno  fra  i  meno  rilevanti  fenomeni  fo- 
netici ,  superi  in  importanza  tutti  i  loro  sproloqui!  italiani 
e  latini,  ne' quali  la  pompa  retorica  della  forma  e  lo  strepito 
inane  di  paroloni  rimbombanti  non  vale  a  nascondere, 
fuorché  ai  più  gonzi  (loro  unici  ammiratori),  il  difetto  d'i- 
spirazione e  la  povertà  del  pensiero.  Questo  umanismo 
bastardo,  che,  miseramente  illuso  (i),  si  crede  talvolta  della 
filologia  classica  il  più  strenuo  e  formidabile  campione  ,  le 
reca,  senz'accorgersene,  maggior  danno  che  i  nemici  di 
essa,  screditandola  colla  propria  leggerezza.  Fosse  almen 
questo,  sebbene  gravissimo,  il  solo  indizio  che  ci  rivelasse 
nei  nostri  atenei  cotale  amore  dell'eleganza  oratoria  a  danno 
della  scienza ,  cotale  inclinazione  alla  sterile  magnificenza 
delle  declamazioni  più  che  alla  feconda  austerità  delle  in- 
dagini: ma  sciaguratamente  sì  fatte  tendenze  ci  si  mani- 
li)  E  miserabile  illusione  vuoisi  pur  dire  la  folle  speranza  che  le 
raerti  guaste  da  sì  fatto  umanismo  possano  in  breve  tempo  e  con  lieve 
fatica  iniziarsi  agli  odierni  studi  linguistici  e  filologici ,  avvezzandosi , 
quasi  per  in^nto,  ai  metodi  nuovi. 


-241  - 

festano  colla  più  trista  evidenza  nella  indole,  veramente 
stranissima,  di  certi  corsi  universitarii ,  che  ci  rammen- 
tano le  facoltà  di  scienze  e  di  lettere  in  Francia ,  come 
le  descrissero  Renan  (i),  Bréal  (2),  Hiilebrand  (3),  e  che 
non  sono  se  non  un'  esposizione  dei  risultati  più  importanti 
e  più  certi,  a  cui  giunse  la  investigazione  scientifica  intorno 
ad  UD  ordine  estesissimo  di  verità,  esposizione  che  non  la- 
scia più  scorgere  il  lento  e  faticoso  lavorio  intellettuale  senza 
cui  sarebbe  stata  impossibile  la  conoscenza  di  questi  risul- 
tati, e  che  non  è  nemmeno  sempre  completa,  esatta,  chiara, 
corretta  in  fatto  di  stile  e  di  lingua.  Ciò  prova  che  alcuni^ 
pur  elevati  a  queste  ardue  altezze  dello  insegnamento,  non 
hanno  né  anche  un  giusto  concetto  del  compito  loro  affidato. 
Odano  questi  signori  le  severe,  ma  opportunissime  ammo- 
nizioni del  Bréal:  «  Autre  chose  est  de  propager  la  science, 
autre  chose  de  Tenseigner.  Le  ròle  de  vulgarisateur  ,  fort 
utile  en  lui-mème  ,  n'cst  pas  celui  qui  convient  au  profes- 
seur  :  au  moìns  n'est-ce  qu'une  moitié  de  sa  tàche.  Il  faut 
que  le  professeur,  dans  son  cours,  recommence  les  recher- 
ches  et  refasse  le  travaìl  de  Pinventeur,  pour  mettre  ses 
élèves  en  état  de  comprendre  les  méthodes  scientìfiques  et 
pour  les  rendre  capables  de  cominuer  les  découvertes  faites 
par  leurs  ainés  dans  la  vie»  (4).  No,  un  ateneo  non  può 

(i)  Questiom  contemporaines,  p.  87-110,  143-4,  204-5. 

(2)  Op.  cit. ,  p.  338-46. 

(3)  L'enseignetnent  supérieur  en  Frartce  (Revue  moderne,  t.  XLVl , 
p.  596-7). 

(4)  E  continua  nel  modo  seguente:  »  Tout  le  monde  sait  comme  nous 
que  les  sujets  les  plus  élevés  sont  familiers  à  nos  professeurs  de  Facul- 
tés:  ils  exposent  à  leur  auditoire  les  origines  et  les  iransformations 
des  langues  et  des  littératures,  le  développement  des  institutions  reli- 
gieuses  et  politiques,  les  grandes  découvertes  de  l'archeologie  et  de  la 
épigraphie.  Mais,  à  la  rigueur  ,  les  journaux  et  les  revues  suffiraient 
pour  cetìe  sorte  d'enseignement.  Un  point  de  l'histoire  liitéraire  éclairci 
d'après  les  sources,  un  texte  critiqué  avec  soin,  une  inscripiion  bien 
comraentée,  vaudraient  mieux  pour  des  élèves.  »  Op.  cit.,  p.  345-6. 


—  242  - 

essere  consecrato  esclusivamente  a  propagare  la  cognizione 
dei  veri  già  scoperti ,  dimostrati ,  illustrati  compiutamente 
dalla  scienza  ;  esso  debb'essere  eziandio,  come  il  collegio  di 
Francia  quale  lo  vorrebbe  Renan  :  «  le  laboratoire  toujours 
ouvert  où  se  préparent  les  découvertes,  où  le  public  est  ad- 
mis  à  voir  comment  on  travaille,  comment  on  découvre, 
comment  on  contròie  et  vérifie  ce  qui  est  découvert  »  -, 
eziandio  acciocché  «  des  vocations  spéciales  se  forment»*, 
ed  a  conseguire  questo  scopo  «  tout  Tappareil  de  la  sciencc 
la  plus  speciale  et  la  plus  minutieuse  doit  ètre  ici  déployé. 
Des  démonstrations  laborieuses,  de  patientes  analyses,  n'ex- 
cluant ,  il  est  vrai ,  aucun  développenient  general ,  aucune 
digression  iégitime,  tei  est  le  programme  de  ces  cours  »  (i). 
Tale  è  la  natura  delle  università  germaniche  (2) ,  nelle 
quali  certi  corsi  di  facoltà  francesi  non  sarebbero  certo  tol- 
lerati, come  ben  nota  il  francese  Renan  (3).  Sappiam  bene 
quali  argomenti  si  adducano  in  Francia  (4)  ed  anche  talora 


(t)  Qiiestions  contemporaines,  p.  106  e  206, 

(2)  Bréal,  Op.  cit. ,  p.  338  e  342-3  ;  Hillebrand  ,  L'enseignement 
supérieur  en  Allemagne  ;  Pouchet,  Uenseignement  supérieur  des  Scien- 
ces en  Allemagne  {Revue  des  deux  monJes,  t.  LXXXIII,  p.  444-5). 

(3)  «  La  surprise  de  l'Allemand  qui  vient  assister  à  ces  cours  est  très- 

grande 11  s'aper^oit  qu'il  n'apprend  rien,  et  se  dit  à  lui-méme  qu'en 

Allemagne  il  ne  souscrirait  pas  à  ce  cours.  Dans  un  cours  assujetti  à 
une  rétribution,  ce  qu'on  veut  pour  son  aigent,  c'est  de  la  science  po- 
sitive ,  ce  sont  des  résuhats  précis.  On  ne  pavé  pas  pour  écouter  un 
bomme,  qui  n'a  d'autre  bur  que  de  vous  prouver  qu'il  sait  bien  par- 
ler. Wilhelm  Schlegel ,  m'a-t-on  dit ,  voulut ,  à  riniitation  de  la  ma- 
nière fran9aise,  fai  re  à  Bonn  de  ces  cours  oratoires  ;  il  n'eul  aucun 
succès.  Personne  ne  voulut  se  déranger  pour  entendre  des  récitations 
brillantes,  dont  le  but  principal  était  de  montrer  l'esprit  du  professeur, 
et  dont  le  resultai  le  plus  clair  était  qu'on  se  dit  à  la  sortie  :  Il  a  du 
talent.  »  [Questions  contemporaines,  p.  90-1). 

(4)  «t  On  se  représente  le  savant  comme  un  ètre  isole  du  monde ,  la 
recherche  scientifiquc  comme  un  plaisir  egoiste,  les  élèves  comme  des 
gens  initiés  à  un  eulte  secret.  Si  ceux  qui  parlent  ainsi  avaient  seule- 
ment  goùté  une  fois  la  généreuse  satisfaciion  de    transmettre  les  in- 


—  243  — 
in  Italia  contro  il  genere  tedesco  d' insegnamento  universi- 
tario ;  sappiamo  quali  ragioni  si  rechino  a  dimostrare  la 
utilità,  la  necessità  di  corsi  aventi  a  scopo  Fincremento  della 
cultura  generale  (  i  )  •,  richiedersi  assolutamente  i  medesimi 
ad  accrescere  nelle  persone  educate  quel  patrimonio  di  co- 
gnizioni e  di  attività  mentale,  che,  senz'essi,  scemerebbe  ben 
presto  ed  in  guisa  deplorabilissima,  soprattutto  lungi  dai 
grandi  centri  di  civiltà  ;  ne  meno  a  far  noti  ai  cultori  di 
una  parte  specialissima  della  scienza  i  risultati  delle  altrui 
investigazioni  intorno  ad  altri  veri;  solo  con  questo  mezzo 
potersi  sperare  che  il  lavoro  intellettuale  venga  sempre  più 
pregiato  dai  molti,  e  che  colora  i  quali  vi  consecrarono  la 
vita  apprendano  sempre  piìi  a  conoscersi ,  a  stimarsi .  ad 
amarsi  vicendevolmente;  finalmente  non  essere  punto  im- 
probabile che  cotal  sistema  didattico  dia  a  parecchi  ingegni, 
irrivelatì  a  tutti ,  anche  a  sé  stessi ,  la  coscienza  possente 
della  propria  vocazione.  Tutto  ciò  ci  è  notissimo ,  ne  vo- 
gliamo punto  negare  la  importanza  di  sì  fatta  diffusione 
della  scienza  -,  per  contrario  invitiamo  tutti  gli  uomini  amanti 
della  cultura  ad  unir  le  loro  forze  per  fondare  istituti  nei 
quali  abbiano  luogo  lezioni  dirette  a  tal  fine;  esortiamo  i 
dotti  a  non  isdegnare  il  modesto,  ma  utile  ufficio  di  volga- 
rizzare la  scienza,  ufficio  ch'essi  soli  possono  compiere  colla 
necessaria  esattezza;  esortiamo  tutti  i  pubblici  ufficiali  a 
promuovere  con  ogni  maniera  di  favori  questa  opera  emi- 
nentemente salutare:  ma  non  vogliamo  a  ver  un  patto  che 
ristruzione  universitaria  cessi  di  essere  la  più  alta  possibile 


strumenta  du  travail  à  de  jeunes  esprits ,  et  la  joie  de  Ics  voir  entrer 
dans  la  voie  des  recherches  originales,  ils  changeraiént  sans  doute  de 
langage  et  renonceraient  de  bon  coeur,  en  échange  d'un  tei  plaisir, 
aux  applaudissements  de  leur  araphithéàtne.  »  Bréal,  Op.  cit.,  p.  344-5. 
(i)  V.  in  ispecie  Lecer,  L'enseignement  supérieur  et  la  Sorbonne 
[Revue  moderne ,  t,  L,  p,  260-4). 


-  244  - 
per  diventare  un'istruzione  poco  superiore  alla  liceale.  Non 
lo  vogliamo,  perchè  non  solo  la  dignità  del  professore  (  i  ) , 
ma  eziandio  ne  riceverebbe  gravissimo  nocumento  il  pro- 
gresso della  scienza  (2).  Ben  pochi  diventano  operosi  ed  utili 
investigatori  del  vero  là  ove  non  si  ammaestrano,  non  si 
avvezzano  con  efiScaci  esercitazioni,  non  si  stimolano  colla 
eloquenza  della  parola,  e  meglio  con  quella,  assai  più  po- 
tente, dell'esempio  i  giovani  valorosi  alle  speciali  e  nuove 
investigazioni  :  peggio  ancora  è  forza  attendere,  allorquando 
queste  investigazioni  sono  non  pur  neglette,  ma  sprezzate  , 
derise  con  superbo  dileggio  da  un  volgo  di  presuntuosi  im- 
potenti (3).  Conseguenza  naturale,  inevitabile  di  questi  vizi 


(i)  «  Dans  un  grand  nombre  de  cas,  le  savane  solide  porterà  envie  à 
son  confrère  superficiel  qui ,  par  une  parole  aisée ,  par  des  aper9us  fa- 
ciles  à  saisir ,  par  des  lecons  détachées  dont  chacune  fait  un  tout , 
saura  mieux  attirer  et  retenir  la  foule.  Une  sorte  de  rivalile  souve- 
rainement  déplacée  s'établira,  rivalile  où  ie  savant  consclencieux,  celui 
qui  aspire  à  enseigner  à  ses  auditeurs  quelque  chose  de  posìtif,  aura  né- 
cessairement  le  dessous.  Ce  qu'il  faut ,  c'est  que  l'oisif  qui  en  passoni 
s'est  assis  durant  un  quart  d'heure  sur  les  siéges  d'une  salle  ouverte  à 
tous  les  vents  sorte  coment  de  ce  qu'il  a  entendu.  Quoi  de  plus  humi- 
liant  pour  le  professeur,  abaissé  ainsi  au  rang  d'un  amuseur  public , 
constitué  par  cela  seul  l'inférieur  de  son  auditoire,  assimilé  à  l'acteur 
antique  dont  le  but  éiait  atteint  quand  on  pouvait  dire  de  lui  :  Saltavit 
et  placuitl  ^  Renan,  Questions  contemporaines  ,  p.  90-91.  V.  anche 
Bréal,  Op.  cit.,  p.  342-4. 

(2)  «  La  recherche  pure  en  soufFrit  d'irréparables  dommages  »  scrive 
il  Renan  discorrendo  di  si  fatta  istruzione,  ben  poco  universitaria, 
nella  sua  patria  {Questions  contemporaines ,  p.  96). 

(3)  « on  ne  saurait  croire  la  peine  qu'éprouve  chez  nous  un 

professeur,  non-seulement  à  devenir  un  savant ,  si  son  goùt  le  porte 
vers  rérudition,  mais  à  se  faire  pardonner  de  Tètre.  La  rareté  des  li- 
vres,  s'il  vit  en  province,  l'absence  de  ces  journaux  qui  rendent  lant 
de  Services  à  l'Aliemagne  par  l'analyse  rapide  et  sùre  des  ouvrages  qui 
paraissent  sur  tous  les  sujets,  le  petit  nombre  des  gens  capables  de  lui 
donner-de"bons  conseils,  l'indifFérence  universelle  qui  accueille  sespre- 
miers  travaux,  ne  sont  pas  les  seuìes  difficultés  dont  il  ait  à  triompher; 
il  en  trouve  d'abord  d'autres  en  lui-méme.  D'ordinaire  il  est  mal  pré- 
paré  aux  études  qu'il  entreprend.   L'éducation  à  l'École   normale  esX. 


—  245  — 
è  la  poca  fecondità  scientifica  di  un  popolo,  presso  cui  la 
pubblica  istruzione  sia  dai  medesimi  sciaguratamente  isteri- 
lita :  evidenti  dimostrazioni  di  questa  legge  intellettuale  sono 
pur  troppo  ritalia  e  la  Francia  paragonate  colla  Germania  (i). 
Auguriamo  pertanto  alla  patria  nostra,  civilmente  e  po- 


toute  pédagogique,  et  il  est  difficile  qu'elle  soit  autre  chose.  On  ne  lui 
a  donc  appris  que  son  méiier  de  protesseur ,  il  ne  sait  rien  en  dehors 
de  ce  qu'il  doit  enseigner  dans  les  lycées.  C'est  à  peine  s'il  a  entendu 
parler  de  la  philologie,  de  la  grammaire,  de  la  mythologie  comparées; 
il  ne  pourrait  pas  lire  une  inscripiion.  Tous  ces  prenniers  principes 
qu'il  est  aisé  d'apprendre  en  queiques  lefons,  il  les  ignore,  et  il  necon- 
nait  pas  les  livres  où  il  les  trouverait.  Il  marche  donc  seul  et  au  ha- 
sard,  s'égarant  dès  les  premiers  pas  dans  des  erreurs  depuis  longtemps 
réfutées  ou  faisant  péniblenient  des  découvertes  qui  sont  connues  de 
tout  le  monde.  II  use  ses  forces  et  sa  vie  à  connaitre  ce  qu'un  étudiant 
de  Bonn  ou  de  Berlin  apprend  sans  peine  en  deus  ou  trois  ans  dans 
son  université,  En  Alleraagne,  aucun  efFort,  aucun  travail  n'est  perdu. 
Le  jeune  docteur  qui  quitte  ses  maitres  et  qui  sait  ce  qu'ils  savent  petit 
se  flatter  d'aller  plus  loin  qu'eux.  Nousautres  au  contraire,  qui  n'avons 
pas  de  traditions  scientifìques,  nous  recommencons  sans  cesse.  Personne 

chez  nous  ne  profite  de  ses  devanciers  et  ne  sert  à  ses  successeurs 

C'est  pour  remédier  à  ce  mal  que  M.  Duruy  a  fonde  l'Ecole  des  hau- 
tes  études.  »  Boissier  ,  Les  réformes  de  l'enseignement,  II  (Revue  des 
deux  mondes,  t.  LXXXIl,  p.  gSi-z). 

L'egregio  scrittore  nota  ancora  come,  dopo  questi,  altri  ostacoli  si 
oppongano  a  diventare  un  erudito,  vale  a  dire  i  malefici  influssi  eser- 
citati da  molte  persone,  il  cui  dovere  sarebbe  per  contrario  promuo- 
vere gli  studi  scientifici.  «  N'avons-nous  pas  entendu  M.  Fortoul  (già 
ministro  della  pubblica  istruzione  in  Francia)  nous  dire  avec  sa  solen- 
aité  habituelle:  »  L'érudifion  ,  cette  passion  des  peuples  vieillisiì}...M. 
Fortoul  se  trompait,  le  goùt  des  peuples  vieillis ,  ce  n'est  pas  l'érudi- 
lion,  c'est  la  réthorique.  »  (  p.  933),  Né  meno  importanti  sono  le  pa- 
role che  leggiamo  a  pag.  9?  i  :  «  Que  de  fois  n'avons-nous  pas  entendu 
soutenir  que  la  scicnce  et  l'art  d'cnseigner  ne  sont  pas  seulement  dif- 
férens,  qu'ils  sont  contraires,  et  qu'un  crudit  est  rarement  un  profes- 
seur!  Cette  opinion  est  propre  à  la  France,  les  autres  nations  naia 
partagent  pas:  elles  ont  la  faiblesse  de  croire  qu'on  ne  parie  bien  que 
des  choses  qu'on  sait  à  fondu  e  soprattutto  la  Germania,  mentre  in 
Italia  v'ha  chi  professa  l'opinione  francese,  sì  meritamente  dileggiata 
dal  sig.  Boissier. 

(i)  «  Ce  mouvemeat  prodigieux  (dell'Allemagna),  on  peut  s'en  fai  re    ' 
une  idée  en  se  rappelani  que  le  nombre  des  professeurs  d'L'niversités  a 
toujours  été  de  deux  ccnts  en  moyenne  et  qu'en  moyennc  encore  cha- 


-  246  - 
liticamente  risorta,  vicino  il  giorno  in  cui  i  suoi  figli  sì  con- 
vinceranno seriameipte  che  assai  più  dello  studio  retorico  delle 
parole  vaie  lo  studio  scientifico  dei  fatti  e  delle  loro  leggi. 
Ma  non  vorremmo  che ,  come  non  di  rado  suole  avvenire, 
questo  studio  avvezzasse  i  giovani  italiani  a  non  curare  o 
peggio  a  sprezzare  la  bellezza  artistica  delia  forma  (di  cui 
fummo  e  dovremmo  essere  ancora  maestri  noi,  gente  la- 
tina). E  ci  piacerebbe  che  i  programmi  per  lo  insegna- 
mento scientifico  ne'  licei  comprendessero  soltanto  i  con- 
cetti fondamentali  delle  singole  discipline  cui  si  riferiscono 
e  non.  accennassero  che  le  piij  rilevanti  fra  le  conseguenze 
che  neirordine  teoretico  e  nei  pratico  da  cotaJi  concetti  trag- 
gono origine,  escludendo  le  troppo  minute  ne  abbastanza 
importanti  particolarità,  affinchè  sì  fatti  studi  concorrano 
efficacemente  alla  educazione  delle  potenze  intellettuali  ed  al 
progresso  della  cultura  generale,  invece  d;  opprimere  Pintel- 
letto  e  la  memoria,  di  costringere  i  giovani  ad  imparar  in 
poco  tempo  un  subbisso  dì  nozioni,  che  in  massima  parte 
avranno  dimenticate  dopo  tre  mesi  di  vacanze ,  stanchi  ed 
attediati  della  scienza  (i). 

CContlnuaJ  DOMENICO  PeZZI. 

cun  de  ces  professeurs  produit  au  moins  deus  travaux  scientlfiques  par 
an,  ne  fùt-ce  que  des  mémoires  d'Académie  ou  des  articles  de  revues 
savantes;  cela  fait,  en  ajoutant  les  thèses  de  doctorat  el  tous  les  travaux 
d'érudition  qui  paraissent  dans  les  programmes  semestriels  -le  quatre 
cents  lycées  et  colléges  allemands,  au  moins  cinque  mille  publications 
savantes  par  an  ,  le  dècuple  peut-étre  de  ce  que  produisent ,  dans  le 
méme  laps  de  temps,  les  corps  enseignants  de  ìa  France.  de  l'Angleterre 
et  de  l'Italia  réunies.»  Hillebrand,  Uenseignement  srpérieur  en  Alle- 
magne  {Revue  moderne,  t.  XLV,  p.  21 3). 

(i)  ^'  11  faui  surcharger  sa  mémoire  en  prévision  d'un  court  examen 
qui  décide  du  sort  de  la  vie  eniière.  Les  connaissances  ainsi  acquises  ne 
restcont  pas  dans  l'esprit;  elles  ne  laisseront  méme  pas  après  elies  ce 
profit  generai  que  procure  à  Tintelligence  un  travail  iibrenient  entre- 
pris  et  poursuivi  avec  goùt  et  mesure.  Le  plus  souvent,  le  seul  resultai 
de  ceue  préparation  hStive  et  outrée  ,  c'est  la  fatigue  precoce  et  le  de- 
goùt  du  trovai],»  Brèal.  Op.cit.,  p.  'iSo-óo. 


-247- 
CEV^tKI  'BI'BLIOG^AFJCI 


Pfitzner,  Die  Annalen  des   Tacitus  kritisch   bekiicktet^ 
!.  Buch  I-VI,  Halle,  1869. 

Tacito  è  fra  quegli  autori,  onde  il  testo  ha  maggior  bi- 
sogno di  essere  ancora  emendato  con  quella  critica  severa , 
che  alle  più  splendide  e  seduttrici  divinazioni  dello  ingegno 
individuale  antepone  grinsegna menti,  cui,  sapientemente  in- 
terrogati, ci  danno  i  codici.  Per  questa  critica,  che  a  buon 
diritto  possiamo  appellare  oggettiva,  preziosissimi  sono  i  due 
manoscritti  Medicei  del  secolo  decimo  primo ,  i  quali  si 
conservano  entrambi  a  Firenze  e  soglionsi  indicare  colle 
lettere  M  e  Ma.  Il  Mediceo  secondo  è  il  codice  piiì  impor- 
tante per  le  Storie:  il  primo  (di  cui  in  questo  articolo  dob- 
biamo fare  speciale  menzione)  è  il  solo  che  contenga  i 
primi  sei  libri  degli  Annali,  la  malaugurata  età  di  Tiberio: 
vuoisi  per  altro  notare  ch'esso  non  ci  serba  per  intero  se 
non  i  primi  quattro  libri;  dopo  il  principio  del  quinto  si 
apre  una  grande  lacuna  che  si  estende  a  quello  del  sesto, 
togliendoci  la  continuazione  del  racconto  che  concerne  Tanno 
29,  tutto  quello  del  3o  e  la  miglior  parte  di  quello  del  5 1 . 
Questo  codice  di  supremo  valore  è  probabilmente  una  copia 
di  un  pili  antico  manoscritto  di  Fulda;  fu  trovato  nel  chio- 
stro di  Corvey  in  Westfalia,  portato  a  Roma  Tanno  i5o8  e 
posseduto  dal  cardinale  de'  Medici  che  fu  poscia  papa  Leon 
decimo,  indi  a  Firenze  nella  biblioteca  Medicea  ove  si  trova 
ancora:  se  ne  valse  il  Beroaldo  per  la  edizione  ch'egli, 
primo,  fece  di  tutte  le  opere  di  Tacito  nel  i5i5  a  Roma. 

Intorno  a  questi  due  codici  si  travagliarono  parecchi  fi- 
lologi ed  in  ispecle  Baiter  e  Ritter.  I  lavori  di  essi  porsero 


-  248  — 
allo  Pfìtzner  l'occasione  di  iiuove  indagini.  Siccome,  egli 
scrive,  i  due  codici  fiorentini  sono  opera  di  amanuensi  e 
tempi  diversi,  così,  alla  critica  di  essi  recò  danno  sinora  il 
non  averli  investigati  separatamente.  Il  libro  del  nostro  au- 
tore è  consecrato  allo  esame  critico  del  primo  di  essi  sol- 
tanto. 

Questo  lavoro  è  diviso  in  due  parti.  Nella  prima  di  esse 
si  tratta  delle  indicazioni  tecniche,  delle  correzioni  lineari, 
delle  cancellature,  della  sottopunteggiatura,  delle  correzioni 
interlineari ,  delle  note  marginali  :  nella  seconda  si  discorre 
delie  alterazioni  posteriori  del  testo,  vale  a  dire  dei  glos- 
semi, delle  lacune,  delle  emendazioni  di  tre  edizioni,  ossia 
della  volgata  (ediz.  Becker)  e  di  quelle  che  dobbiamo  a 
Nipperdej'  ed  a  Ritter.  Intrapreso  senza  preoccupazioni 
soggettive  e  più  con  tendenze,  come  ora  suoi  dirsi,  conser- 
vatrici che  non  cogli  ardimenti  dei  novatori ,  questo  lavoro 
dello  Pfìtzner  è  uno  di  quelli,  i  quali  mostrano  chiaramente, 
anche  ai  meno  mtendenti  ma  non  sleali,  di  quanto  stolida 
ed  impudente  calunnia  si  renderebbe  reo  chi  accusasse,  in 
genere,  la  critica  tedesca  di  guastare  a  suo  capriccio  i  testi 
degli  antichi.  I  pregi  di  quest'opera  sono  indubbiamente  di 
gran  lunga  superiori  ai  pochi  e  lievi  difetti  che  le  vennero 
rimproverati  (i)  e  dei  quali  qui  non  potremmo  darci  pen- 
siero senza  addentrarci  in  troppo  minute  disquisizioni  pa- 
leografiche. 

Torino,  io  ottobre  1872. 

Domenico  Pezzi. 


(1)  V.  il   Literarisches    centralblatt  fUr  Deutschland ,   4   dicembre 
1869,  n"  5o,  p    1454-5. 


Pietro  U.S£ei,lo,  gerente  respontahile. 


—  249  — 

SU  ALCUNI  PUNTI 

^ELLA  GEOGRAFIA  "DEL  TIEmOV^TE  AV^TICO 

Lettera  a  Carlo  Promis. 


Caro  amico. 

Vengo  ad  annunziarvi  una  piccola  scoperta  topografica,  che 
m'immagino,  anche  a  voi  non  dispiacerà.  Non  l'ho  fatta  io  ; 
ma  siccome  per  la  mia  intervenzione  i  miei  amici  Pavesi  e 
Pomeranesi  si  sono  combinati  per  farla,  sono  in  grado  di 
ragguagllarvene. 

È  conosciutissima  !a  lapide  Henzeniana ,  n°  Siiy  ,  che 
stampata  per  la  prima  volta  dal  prof.  Aldini  in  un  libret- 
tino uscito  nel  1829,  e  ripetuta  poi  dai  medesimo  nelle 
Lapidi  Ticinesi  (p.  i25),  ha  fissato  difinitivamente  il 
sito  di  uno  de'  luoghi  più  celebri  nella  storia  Romana,  l'an- 
tico Ciastidio,  dove  il  console  M.  Marcello,  il  prode  de' prodi, 
uccise  il  re  Virdumaro,  e  che  poco  più  tardi  fu  assediato  e 
preso  da  Annibale.  Però  quando  a  me  toccò  la  revisione  di 
questa  iscrizione  per  la  nostra  raccolta ,  m'  avvidi  che  era 
orribilmente  guasta,  non  tanto  per  le  ingiurie  del  tempo, 
quanto ,  e  lo  mostravano  le  diversità  delle  due  edizioni 
Aldiniane  ,  per  l'incapacità  e  la  trascuratezza  dell'editore  , 
pur  troppo  note  a  me  per  tanti  altri  sassi  Comensi  e  Tici- 
nesi da  lui  malamente  riportati.  Disgraziatamente  la  lapide, 
poco  dopo  la  sua  scoperta,  era  stata  condannata,  grazie  alla 
sua  importanza  e  nobiltà,  a  ciò  che  Plinio  chiama  Vcxìlium 
villae.  Il  nobile  D.  Galeazzo  di  Pavia  ra\'ea  fatta  trasportare 

T^vista  di  filologia  ecc.,  I.  i8 


—  250  — 

a  Villanteiio,  terra  situata  su!  Lambro  fra  Lodi  e  Pavia, 
e  più  adatta  a  dar  delizioso  riposo  di  campagna  a  chi  ri- 
fugge dallo  strepito  delle  città,  che  a  collocarvi  monumenti 
di  storica  importanza  e  di  diritto  pubblico,  comunque  di 
ragione  privata.  Cosi  è  accaduto,  che  dopo  l'Aldini  per  ben 
quarant'anni  nessuno  ha  riveduta  Tiscnzione,  e  che  gli  er- 
rori di  questo  dotto  si  sono  quasi  perpetuati.  Perciò  pregai 
il  mio  caro  amico ,  il  prof.  R.  Schoell  di  Greiiswalde,  di 
f ecarsi  appositamente  costi  nel  suo  ultimo  viaggio  d'Italia, 
e  così  pure  l'ottimo  mio  amico,  il  conte  Camillo  Brambilla 
di  Pavia,  assai  noto  al  pubblico  numismatico  per  i  suoi  bei 
lavori  sulle  medaglie,  di  facilitargli  questa  gita.  Infatti  quei 
due  amici  vollero  recarsi  insieme  sul  luogo ,  ed  ecco  la 
copia  esatta,  che  ebbi  da  essi  insieme  con  un'  impronta,  la 
quale  dimostra ,  che  ogni  lettera  della  pietra  è  di  lettura 
facilissima  e  certissima  : 

Ascia  ? 

ATILIAE  ■  C  ■  F 

SECVMDIN  "  CON 
JVG  vCASTISSIM 
PVOKiSSlMAfcQ 
SIBlQ-OPSEQVENTiSSlMAE 
QVAE-VIXIT-ANNIS-XVII-M-VI!'D"V!!  ITEM 
C'ATiLI'SHCVND}  ET  SERR-M^LIS-VALERIA 

NAE  •  SOCERORVM  •  KARISSIMOR 
M  •  LASiK  •  MEMOR 

VIVOS-POSViT 
ET  •  ?N  •  MEMORIAM  -  EORVM  '  ROSA  •  ET 
AMARANTHO-  ET  •  EPVLiS  -  PERPETVO  -  CO 
LENDAM  •  COLLEG  •  CENTONAR  •  PLACENT 
CONSiSTENT'CLASTlDt 


_  251  - 

Cioè:  Atiliae  C.  F.  Secundiniae)  comug-{i)  castissim{ae}  pu- 
dìcissimaeqiue)  sìbiq{ue)  opsequentissimae^  quae  vixit  annis 
XVII  m{ensibus)  VII,  d{iebus)  VII^  item  C.  Ai  ili  Secundi 
et  Serr{iae?)  M.  lib.  Vale^nanae socerorum  karissimor{um) 
M.  Labili  {anus)  Memor  pìuqs  posuit  et  in  memoriam  eorttm 
rosa  et  amarantho  et  epulis  perpetuo  colendam  coileg{io) 
centonar[iorum)  Placent  {inorum)  consistent  {ium)  Clastidi 
[sestertios  tot  dedii], 

lì  nome  del  marito  era  certamente  non  Labicìusj  ma 
Labicanus,  poiché  il  k  non  si  mette  se  non  quando  segue 
Va;  e  che  Labicanus  è  buon  gentilizio,  a  Voi  non  occorre 
dirlo,  ii  gentilizio  della  madre  mi  resta  dubbio.  La  fine 
delia  disposizione  testamentaria,  che  ho  aggiunta,  manca, 
comunque  sia  intera  la  pietra ,  e  vi  resti  infine  spazio  non 
scritto;  infatti  di  cotali  disposizioni  sui  titoli  non  si  metteva 
per  lo  pi'à  che  un  estratto  e  spesso  un  estratto  assai  mal 
fatto,  così  che  i  periodi  si  rifiutano  ad  ogni  costruzione 
grammaticale.  Ma  poco  importa.  Ciò  che  è  nuovo  (tro- 
vandosi nella  copia  Aldiniaoa,  invece  del  PLACENT  del 
V.  1 3  chiaro  e  lampante,  soltanto  un  qualche  trattino  irricono- 
scibile) e  d'importanza  slorica  e  geografica  si  è  che  Clasiidium 
appartenne,  non  come  finora  si  credeva  e  doveva  infcìtti  sup- 
porsi,  al  vicinissimo  comune  Forum  Irietisium^  ossia  a  Vo- 
ghera, ma  ai  territorio  di  Piacenza.  Infatti  Piacenza  era  la 
prima  città  fondata  dai  Romani  in  queste  parti,  e  la  grande 
linea  strategica,  che  fu  più  tardi  la  via  Postumia,  la  quale  con- 
dotta dalle  fortezze  sul  Po,  Cremona  e  Piacenza,  per  TApen- 
nino  fino  a  Genova  passava  per  Casteggio.  Si  capisce  che  i 
Romani  stendessero  fin  qui  il  territorio  del  gran  baluardo  delle 
loro  conquiste  nella  valle  del  Pado,  e  se  ora  Vi  rimettete  a 
leggere  il  libro  XXI  di  Livio ,  e  quelle  mosse  di  Annibale 
per  impadronirsi  di  Clastidio,  mentre  i  Romani  si  trin- 
ceravano sotto  le  mura  di  Piacenza  .    grazie  a   quella   gita 


-  252  — 

de'  miei  amici ,  lo  capirete  alquanto  meglio.  —  Che  il  col- 
legio de'  centonari  di  Piacenza  aveva  la  sua  sede  a  Clastidio, 
non  manca  d'analogia.  Cotali  collegi ,  come  Voi  ben  sapete, 
secondo  le  leggi  romane  non  potevano  esistere  se  non  nei 
comuni  di  pieno  dritto,  o  come  dicono  i  Romani,  nei  mu- 
nicipia  &t  coloni ae  ;  il  vico  ne  va  privo.  Ma  non  è  vietato  a 
tali  corporazioni  di  stabilirsi  (consistere)  in  qualche  sito  fuori 
le  mura,  e  perfin  nel  territorio.  Così  avrete  letto  nel  mio 
quinto  volume  (p.  400,  624)  che  i  nocchieri  di  Verona  e  di 
Brescia  dimoravano  quelli  a  Peschiera  {Arilica)^  questi  a 
Riva;  e  ciò  che  fa  niù  al  caso  nostro,  i  centonari  di  Como 
avevano   ìa    loro   curia    a    Clivio  presso  Arcisate  (Orelli, 

3936,  407  0- 

Aggiungo  una  qualche  conferma  di  questa  scoperta,  seb- 
bene essa  non  ne  abbisogni.  Due  anni  fa,  pure  a  Casteg- 
gio,  fu  trovato  un  embrice  romano ,  di  cui  diedi  un  cenno 
nelle  note  al  n°  4148  del  quinto  volum.e,  il  quale  fra  pa- 
recchie iscrizioni  in  lettere  corsive  di  mani  diverse  aveva 
anche  questa,  leggendo  la  quale  bisogna  cominciare  dal  verso 

posteriore  : 

FARATICANO 

ACTVM-PAGO 

Il  pagus  Farraticanus  in  Piacentino  essendo  ben  noto  dalla 
tavola  alimentaria  Veleiate,  questo  combina  bene  coll'at- 
tribuzione  di  Clastidio  alla  medesima  pertica.  Però,  a  dir 
vero,  perse  stesso  l'embrice  non  lo  proverebbe,  dacché  gli 
embrici  fabbricati  nel  Piacentino  potevano  benissimo  ado- 
perarsi anche  fuori  di  esso  ne'  siti  vicini.  —  Più  importante 
si  è  che,  siccome  m'insegnano  gli  amici,  Casteggio  anche 
ne'  tempi  di  mezzo  ha  sempre  appartenuto  a  Piacenza.  Di 
questo  non  conviene  che  parli  io  ;  invito  peraltro  gH  amici 
ad  esporre  questo  fatto  di  cui  forse  anche  la  topografia  an- 
tica potrà  avva ntaggiarsi . 


-253- 

Siccome  ragioniamo  di  qiaestìoni  topografiche,  permettetemi 
di  aggiungere  due  osservazioni,  che  sottometto  a  Voi,  perchè 
riguardano  il  vostro  Piemonte.  L''impronta,  che  sulla  vostra 
intercessione  Tegregio  Barone  Manuel  mi  ha  favorito  della 
pietra  conosciuta  ora  da  due  secoli ,  ed  ultimamente  stam- 
pata da  Voi  in  quel  vostro  ottimo  libro  sopra  Torino  (p.  1 57), 
dico  quella  di  M.  Exomnio  Severo  serbata  vicino  a  S.  Da- 
miano nella  valle  di  Maira,  ha  pure  tolto  i  lunghi  dubbi  e 
ci  ha  liberati  da  secolari  errori.  Quel  FOR  •  CER  da  cui  i  vostri 
antichi  per  combinazioni  poco  felici  hanno  ricavato  il  loro 
Forum  Cereale  tanto  caro  ai  vostri  falsi ncaiori  del  secolo  pas- 
sato, e  da  cui  ultimamente  un  dotto  tedesco  ha  voluto  fare 
il  noto  Forum  Cornelii^  ora  si  è  cambiato  in  un  FOR  •  CER, 
nel  quale  subito  avrete  riconosciutola  R  »  P  •  CERMA  del  no- 
tissimo sasso  di  Carraglio,  dove  vien  nominato  insieme  con 
Gaburrum,  cioè  Cavour,  e  Pedo  (non  Pedona)^  cioè  S.  Dal- 
mazzo.  Avremo  dunque  nelle  vicinanze  di  S.  Damiano  una 
città  anticamente  detta  Forum  Germa  (tiorum)  ^  da  confron- 
tarsi col  Forum  Gallorum,  ed  altri  simili, 

L^altra  osservazione  che  vorrei  sottomettervi ,  riguarda 
l'antica  topografia  della  valle  «iuperiore  del  Po.  Il  Forum 
Viòli  nominato  da  Plinio  ed  in  parecchi  titoli  militari,  oggi 
si  colloca  generalmente  ad  Envie  ;  né  può  mettersi  in  dub- 
bio, che  deve  trovarsi  in  quelle  vicinanze.  Ma  se  guardiamo 
ai  marmi  trovati  colà  ed  allo  stato  degli  avanzi  dell'epoca 
romana,  l'unico  luogo  in  queste  parti  che  abbia  qualche 
importanza,  è  Cavour ,  e  poi  sono  tanto  vicini  Cavour  e 
Envie,  che  non  è  già  impossibile,  ma  certamente  poco  pro- 
babile, che  vi  sieno  state  due  differenti  città  antiche,  lo  pro- 
porrei di  farne  una  sola  detta  Forum  Vibii  Caburrcum^  come 
abbiamo  il  Forum  Julii  Iriae  ossia  Iriensium.  Del  resto  si 
può  anche  dimostrare  a  quale  epoca  Cavour  ricevette  il  suo 
nome  latino.  Tutti  quei  Fora  che  prendono  il  nome  da  un 


—  254  — 

gentilizio  romano,  sono  fondati  nell'epoca  repubblicana  (cioè 
prima  di  Augusto)  da  generali  romani  comandanti  in  quei 
luoghi  dove  furono  fondati,  come  pure  le  vie  militari,  a  cui 
tutti  o  quasi  tutti  appartennero;  all'epoca  imperatoria  per 
tali  denominazioni  non  si  adoperava  che  il  cognome  del- 
l'imperatore, rare  volte  il  gentilizio  di  esso,  non  mai  il  nome 
di  un  privato.  Ora  i  Vibii  sono  gente  nuova ,  né  si  trova 
alcun  magistrato  di  essi  prima  del  notissimo  C.  Vibio  Pansa, 
che  come  proconsole  reggeva  la  Gallia  citeriore  neir  anno 
di  R.oma  709-710,  e  che  poco  dopo,  essendo  console,  cadde 
nella  battaglia  di  Modena.  Egli,  se  ben  m'appongo,  facendo 
qualche  via,  forse  da  Torino  a  Cavour ,  ha  dato  a  questo 
il  nome  di  Forum  Vibii. 


Berlino,  16  novembre  1872. 


Teodoro  Mommsen. 


GLOTTOLOGIA    ^N^EOLATITNiA 

LETTERA  AL  SIG.    PROFESSORE   FLECHIA 


Onorandissimo  sig.  Professore  ^ 

11  caso  ha  voluto  che  non  prima  di  ieri  a  sera  mi  giun- 
gesse il  fascicolo  della  'T{ivista.  dove  ella  ha  avuta  la  cor- 
tesia d'intrattenersi  del  mio  hvoro  suir origine  dell'unica 
forma  Jlessionale  del  nome  italiano  {i)-^  epperò  non  è  mia 
colpa  se  molti  giorni  sono  trascorsi  senza  che  io  mi  sia 
fatto  vivo.    Ora  che  ho  j&nalmente    potuto  vedere  quel  che 

(I)  V.  fase  II,  p.  80  e 


-265- 
ella  ne  ha  scritto ,  non  voglio  più  tardare  a  ringraziamela 
di  vero  cuore.  Il  solo  essersi  degnata ,  ella  così  provetto  e 
illustre  maestro,  d'occuparsi  delle  cose  mie,  era  bastato  a 
generare  in  me  vivo  sentimento  di  gratitudine;  tanto  più 
ora  le  devo  essere  riconoscente,  dopo  lette  le  giudiziose  cor- 
rezioni e  le  preziose  aggiunte  che  ha  avuta  ia  bontà  di  fare 
a  parecchi  luoghi  di  quel  mio  lavoruccio. 

A  due  soie  tra  le  sue  critiche,  riferibili  non  a  fatti  par- 
ticolari ,  bensì  a  talune  delle  parti  più  salienti  della  mia 
teoria,  io  non  posso  acconciarmi  così  di  buon  grado  come 
a  tutte  l'aitre  ;  e  glie  ne  voglio  dir  qui  le  ragioni.  Io  vera- 
mente ho  per  costume  di  non  rispondere  mai  alle  censure 
che  mi  vengano  fatte  •,  tuttavia  nel  caso  presente  io  fo  senza 
scrupolo,  per  ciò  che  il  mio  amor  proprio  non  v'  è  interes- 
sato altroché  molto  indirettamente,  e  si  tratta  invece  della 
questione  stessa  di  cui  io  mi  sono  occupato  nel  mio  scritto. 

Prima  di  tutto  mi  pernnetterà  di  rilevare ,  nella  esposi- 
zione che  ella  fa  della  dottrina  da  me  abbracciata,  una  frase 
che  potrebbe  dar  luogo  ad  equivoci.  Ella  dice  ch'io  ritengo 
«  Tunificazione  de'  casi  seguita  per  logoramenti  fonetici  delle 
forme  latine,  che,  perdendo  la  *  e  la  w  finali  del  nomina- 
tivo e  dell'accusativo,  vennero  a  confondersi  in  una ,  onde 
per  esempio,  da  lupus  e  lupum,  ne  venne  lupu  (lupo),  esteso 
poi  anco  agli  altri  casi.  »  Ora  da  ciò  si  ricaverebbe  che  io 
creda  la  voce  lupo  derivata  esclusivamente  dal  nominativo 
e  dall'accusativo  ,  e ,  nata  così ,  collocata  poi  in  ogni  altro 
posto,  in  modo  che,  per  esemplo,  quando  noi  diciamo  con 
un  lupOj  del  lupOy  qui  la  parola  lupo  sia  succedanea  di  lu- 
pus e  lupum.  Mentre  in  queste  locuzioni  lupo  è  ,  secondo 
me,  succedaneo  dell'antico  ablativo:  cum  uno  lupo^  de  ilio 
lupo.  L'opinione  che  tiene  essersi  il  succedaneo  di  uno  o 
d'un  altro  de'  casi  latini  sostituito  a  tutti  gli  altri  casi  è  pre- 
cisamente quella  che  io  ho  combattuta,  perchè  l'ho  creduta 


-  256  - 
contraria  a  ogni  retto  concetto  storico  sullo  svolgimento  na- 
turale del  linguaggio.  In  una  frase  come  «  io  vidi  un  cane 
con  un  lupo  »  io  vedo  una  naturale  continuazione  d'una  frase 
latina  foneticamente  più  piena  ;  «  ego  vidi  unum  canem  cum 
uno  lupo,  »  Invece  una  frase  come  «  io  vidi  un  lupo  con 
un  cane  »  deve  essere  discesa  da  un'  altra  :  k  ego  vidi 
unum  lupum  cum  uno  cane  \  ■»  la  frase  «  un  cane  vide  un 
lupo  »  risale  a  «  unus  canis  vidit  unum  lupum  »,  da  cui  è 
discesa  per  logorìi  fonetici  così  ovvii  e  usuali  da  non  meri- 
tare neppure  menzione.  E  la  frase  «  un  lupo  vide  un  cane» 
deve  essere  invece  derivata  da  «  unus  lupus  vidit  unum  ca^ 
nem.  »  Siccome  i  latini  non  hanno  mai  smesso  di  parlare; 
siccome  frasi  simili  a  coleste  ne  avran  sempre  dette  e  ri- 
dette; e  siccome  rinlacco  fonetico  era  già  ab  antico  co- 
minciato, e  continuava  sempre;  cosi  doveano  ridursi  per 
forza  a  trovare  livellate  e  parificate,  senza  volere,  le  voci 
dei  casi.  Ora  la  teoria  del  Diez,  od  ogni  altra  consìmile, 
che  pretende  un  caso  essersi  sostituito  agli  altri ,  o  non  ha 
alcun  senso,  o,  se  qualcuno  ne  ha,  è  questo,  che  le  soprad- 
dette frasi  italiane  rimontino  alle  frasi  latine:  ^iego  vidi 
unum  canem  cum  unum  lupum ,  ego  vidi  unum  lupum  cum 
unum  canem,  canem  vidit  lupum,  lupum  vidit  canem!  »  In- 
somma, secondo  me,  il  nominativo,  Taccusativo ,  l'ablativo 
di  ogni  nome  continuarono  nel  latino  popolare  ad  usarsi 
ognuno  in  quelle  frasi  dove  la  sintassi  latina  ii  ricniedeva  ; 
se  non  che  il  nominativo  ,  perduta  F  0' ,  non  ebbe  più  un 
suo  proprio  contrassegno;  Taccusativo,  perduta  Fw,  diventò 
simile  all'amputato  nominativo,  e  nominativo  ed  accusativo 
si  fecero  indiscernibili  dair  ablativo,  già  in  epoca  più  antica 
mozzato  e  vocalizzato.  Così  Io  spirito  popolare  li  trovò  e 
considerò  come  simili  ,  e  nelF  unica  forma  livellata  vide 
una  voce  sola  funzionante  da  questo  e  da  quell'altro,  allo 
stesso  modo   come  i  grammatici  empirici  del  latino  dicono 


~  257  - 
che  domino  è  dativo  ed  ablativo ,  non   ostante  che  il  do- 
mino che  occorre  in   frasi    ove  abbisogna  il  dativo,   sia  un 
succedaneo  di  dominoì  ,    e   il  dominp  che  occorre  in  frasi 
ove  abbisogna  l'ablativo,  sia  una  smozzicatura  di  dominod. 

Vengo  ora  alle  due  critiche  :  Tana  si  fonda  tutta  sopra  un 
malinteso,  nato  forse  dal  non  essere  stato  io  così  esplicito  come 
avrei  dovuto.  Ella  ha  creduto  che  a  pag.  43  io  stabilissi 
essere  il  plurale  di  i*  e  di  2"-  derivato  esclusivamente  dal- 
Tablativo  anziché  dal  nominativo  (asini  da  asinis,  anziché  da 
asini;  corom  da  coronis^  anziché  da  coronae.)  Ora  io  non 
ho  voluto  dir  questo;  ho  voluto  invece  mostrare  che  nel 
plurale,  non  meno  che  nel  singolare,  la  voce  italiana  unica 
è  derivata  da  un  agguagliamento  fonetico  delle  varie  voci 
casuali  latine;  epperò  ho  cercato  di  provare  che  Tablativo 
coronis  doveva  diventare  corone^  come  il  nominativo  coronae 
era  diventato  cottone.  L'opinione  che,  certo  per  colpa  delia 
poca  chiarezza  di  quella  mia  pagina,  ella  mi  ha  attribuita, 
non  solo  non  è  la  mia  ,  ma  è  in  contraddizione  con  tutto 
il  mio  modo  di  pensare  sulla  questione  della  sparizione  dei 
casi  neir italiano,  lo  credo  che  le  voci  corone^  asim\  ecc., 
sieno  derivate  prima  di  tutto  dai  nominativi  ;  tanto  è  vero 
che  per  rendere  possibile  il  livellamento  dei  casi  del  plu- 
rale ho  ricorso  appunto  alla  supposizione  che  le  voci  d'ac- 
cusativo si  sieno  assimilate,  per  quelle  ragioni  che  colà  dico, 
ai  rispettivi  nominativi,  e  alla  supposizione  che  le  voci  d'a- 
blativo abbiano,  dopo  espunta  Vs  finale  ,  quelle  di  2*  ser- 
bato Vi,  quelle  di  1"  mutatolo  in  e,  per  influsso  dei  rispet- 
tivi nominativi. 

Quanto  ai  nomi  di  3*  che  in  italiano  hanno  la  voce  di 
plurale  terminata  in  i  (1  cani,  i  monti  ^  le  voci)^  io  ho, 
com'ella  ben  ricorda,  espressa  l'opinione  che  una  tale  ter- 
minazione in  i  non  sia  altrimenti  stata  loro  comunicata  per 
analogia  dai  nomi  di  2* ,  bensì  che   la    derivi  direttamente 


—  258  - 
dalle  forme  popolari  in  is  (montisy  vocis)  ^  parallele  nel  la- 
tino a  quelle  in  es.  Ella  non  par  disposta  ad  acconciarsi  a 
questa    mia  opinione  per  due  ragioni   principalontente.  «  Il 
plurale  della  quarta,   ella  àìizz^  adottando  come  fa  il  fini- 
mento dei  nomi  delia  2^,  rende  prob^ibile  che  questa  forma 
sia  pure  stata  estesa  ai   nomi   della  terza.  »   Ora   io  vorrei 
osservare  che  pei  nomi  della  4*  il  caso  è  un   po'  diverso  : 
prima  di   torto  e'  sono  ben    pochi  \   inoltre    sono  diventati 
perfettamente    identici  ai  nomi  di  2*  nel    singolare  ^    ed   è 
quindi  naturale  che  s' identificassero  anche   nel  plurale  ;   e 
finalmente  ii  regolare   succedaneo  del  plurale  di  4*^  sarebbe 
stato  indiscernibile  dal  rispettivo  singolare.  Nessuna  di  que- 
ste tre    così  gravi  condizioni  si  verificava    nei  nomi  di  3*. 
—  L'altra  obbiezione  che  ella  mi  fa  è  «  che  le  forme  spa- 
goolesche,  quali  per  es. ,  montes,    naves ,  proprie  anche  di 
qualche  altro  volgare  neolatino,  come  verbigrazia  del  logu- 
dorese,  rftndono  iaverisimile  la  popolarità    di  questa  forma 
in  is.  »  Ora  io,  come  ella  si  può  essere  accorto  percorrendo 
k  pagine  4  e  5  della  mia   tesi,   sono  a  priori  mai  disposto 
verso  cotesta  specie  d'argomenti,  che  consiste  nell' inferire 
da  una  proprietà  del  latino  di  una  provincia  una  proprietà 
coasinaUe  nel  latino  di  uii'altra.  E  nel  caso  nostro,  la  prego 
dì  considerare  TajSnità  grandissima  dell'  i  e  dell'  e ,  consi- 
mile a  quella  che  Intercede  tra  l'o  e  Tw,   e    il  gran  diffe- 
rire che  fanno  i  varii  dialetti,  perfino  di  una  provincia  sola, 
quanto  al  preferire  l'una  o  l'altra  delle  due  vocali.  Nel  to- 
scano ella  h2>.  donno r,  nel  sardo  donnu;  cioè  dire  nell'Etruria 
il  latino  ha  mantenuto  V  0 ,  nella  Sardegna  ha  piegato  verso 
Vu;  perchè  dunque  il  logudorese  naves  non  è  storicamente 
conciliabile  con  un  toscano  navis?  L'essersi  finito  per  dire 
in  Sicilia  la  fidi,  non  ha  impedito  che  in  Toscana  sì  dicesse 
la  fede,  lo  dunque  non  vedo  ragione  per  escludere  la  sup- 
posizione 4he  nei  dialetti  dove  ii  plurale  di  3®  termina  in  ?', 


la  terminazione  antica  popolare  latina  fosse  in  is  piuttosto 
che  in  es.  Mi  riesce  un  po'  duro  Tammettere  che  tutta  ia 
gran  falange  àt  nomi  di  V  si  assumesse  una  terminazione 
spettante  ad  altra  declinazione ,  e  non  avente  nessunissin\o 
legame  con  ie  forme  sue  proprie. 

Una  non  lieve  difficoltà  si  può  dire  che  stia  invece  nel- 
l'ammettere,  come  io  faccio  a  pag.  47,  una  novella  forma- 
zione popolare  d'ablativo  di  3'  in  is  {canis  per  canibits) , 
coniato  sull'analogia  dell'ablativo  delle  due  prime  declinazioni. 
Il  prof.  Ascoli,  al  solito  tanto  felice  nel  ritrovare  spedienti 
ingegnosi  ed  eleganti,  mi  suggeriva  questo  :  pedibus  può  es- 
sersi popolarmente  ridotto  a  pedib's  (cfr.  pkbes  a  plebs) ,  a 
che  accennano  e  Tosco  e  l'umbro  ,  e  da  cui  si  passerebbe 
benissimo  a  pediss ,  che  risolverebbe  ogni  questione.  Mi 
perdoni  T Ascoli  questa  indiscrezione,  tanto  più  che,  per 
accomodarlo  al  mio  intento,  ho  lievemente  modificato  il 
suo  prezioso  suggerimento. 

Del  resto,  non  voglio  terminare  senza  prima  disdire  un'o- 
piiìione  molto  sofistica  che  ho  adottata  relativamente  ai  dop- 
pioni, come  sarto  e  sartore^  duolo  e  dolore ,  i  quali  ho  ri- 
tenuto doversi  a  una  doppia  eteroclisia,  una  dagli  obbliqui 
al  nominativo  (quindi  sartoris^  de  sartore ,  ad  sartorem  , 
sartorem,  etc) ,  l'altra  dal  nominativo  agli  obbliqui  (quindi 
sarto{r),  de  sarto,  ad  sartoim).  A  questa  stiracchiatura  io 
sono  stato  spinto  da  un  eccesso  di  spirito  sistematico.  A 
non  voler  sofisticare ,  questi  doppioni  italiani  accennano  a 
una  declinazione  minore,  a  due  soli  casi,  pari  a  quella  del 
francese  e  del  provenzale.  Tra  i  quali  e  l'italiano  corre  que- 
sta sola  differenza,  che  mentre  in  quei  due  idiomi  il  feno- 
meno occorse  nel  maggior  numero  dei  nomi ,  onde  rimase 
per  un  pezzo  legge  di  tutta  la  categoria  nominale,  nell'ita- 
liano invece  esso  fenomeno  fu  sporadico  e  smarrì  ben  presto 
ogni  valore  morfologico.  Questa  differenza  avrei  solo  dovuto 


^-  260  - 
porre  nella  mia  tesi,  e  invece,  non  so  perchè,  volli  andare 
al  di  là  del  giusto. 

Mi  perdoni  ella  questa  prevaricazione,  e  mi  perdoni  in- 
sieme la  noia  che  le  ho  data  con  tante  ciarle,  e  mi  creda 
Napoli,  20  setiembre  1872, 

Suo   aff.^^o    ed  obbL""" 
Francesco  d^  Ovidio. 


OSSE^iVAZIOU^l 

ALLA    LETTERA    PRECEDENTE 


Nella  precedente  lettera  il  sig.  prof.  D'Ovidio  mira,  parmi, 

principalmente  a  sostenere  tre  cose: 

r  che  anche  !a  forma  dell"  ablativo  debba  tenersi  per 

foneticamente  rappresentata  nel  singolare,  onde  per  es.  it. 

I  lupu{s). 

lupo  —  j  lupu{m). 

\  lupo. 

2°  che  il  plurale  di  i"  e  2*  declinazione  lo  sia  non  solo 

dal  nominativo  ma   anche  dall'ablativo,   sicché   per  es.  it. 

(  coronae,       ,  {  lupi, 

corone  =  {  .,         lupi  ^=     ,     v  x 

(  coroni{s\  {  lupi{s). 

y  finalmente  che  il  plurale  dei  nomi  di  terza  proceda 

dal  nom.  e  acc.  terminanti  in  is  per  es,  onde  per  es.  monti 

da  montis  per  monies. 

Su  questi  tre  punti  mi  permetto  d'aggiungere  alcune  os- 
servazioni. 

Comincierò,  circa  la  prima  quistione,  dalPavvertire,  come 
dicendo   io   non  inverisimiìe  la  teorica  del  livellamento  dei 


-  261  ~ 
casi,  non  intendevo  punto  di  negare  assolutamente  quella 
che  io  credo  non  minor  verisimiglianza  della  teoria  del  Diez, 
la  quale  assegna  principalmente  alf  accusativo  il  privilegio 
dell'aver  dato  la  forma  al  nome  singolare  E  perciò  nel  toc- 
care che  io  feci,  nel  mio  articolo,  della  prima  di  queste  dot- 
trine, cosi  valorosamente  propugnata  dal  prof.  D'Ovidio,  io 
m'ero  nell'applicazione  d'un  esempio  ristretto  al  nom.  ed 
alfacc,  perchè,  a  vero  dire,  quando  io  fossi  per  risolvermi 
a  seguire  una  tal  teoria,  propenderei  ad  eliminarne  l'abla- 
tivo; e  facevo  senza  più  una  tal  ristrizione  per  non  avere 
a  dilungarmi  troppo  a  dir  le  ragioni  di  cotale  eliminazione, 
le  quali,  al  mio  parere,  sarebbero,  oltre  le  allegate  dal  Diez 
e  accennate  nel  lavoro  dello  stesso  sig.  D'Ovidio,  principal- 
mente le  seguenti: 

Pare  assai  naturale,  che  l'ablativo,  caso  di  valore  dinamico 
affatto  secondano ,  come  lo  prova ,  tra  V  altre  cose ,  il  suo 
dileguamento  dalla  declinazione  greca,  partecipasse  a  quello 
spegnersi  cosi  delle  funzioni  come  delle  forme  casuali,  a  cui 
soggiacquero  il  genitivo  e  il  dativo,  non  ostante  che  si  man- 
tenessero vive  le  preposizioni  de,  ab  e  altre  che  lo  reggevano 
in  latino,  passate  la  prima  ad  adempiere  principalm.ente  la 
funzione  del  genitivo  {di=de)  e  de  q  ab  quella  dell'ablativo 
{da=d'a^  de-\-ab;  confr.  ant.  sardo  daba)  (i).  Tutte  coteste 
preposizioni  reggenti  l'ablativo  non  avrebbero  per  avventura 


(i)Il  Diez  [Gr.,  11,27)  considera  i<i  come  nato  da.  de -\- ad;  e  cita 
il  dad  ladino  (usato  insieme  con  da),  il  cui  d  tinaie  però  ben  potrebbe 
essere  lettera  paragogica,  come  in  ned,  ched,  sed,  mad  ,  ed  (per  è)  de- 
gli antichi  scrittori  toscani,  e  forse  anche  m  ad,  ed,  od,  forme  per  av- 
ventura paragogichc  degli  apocopati  a  {  =  ad)  e(==et)o  (=^aut).  Ar- 
roge  che  generalmente  la  prep.  de  prefissa  ad  altra  particella  ,  come 
per  es.  in  dentro  {de  -f  intro),  donde  [de  -f  tnide),  dove  {de  -f-  t^^')-,  "'"'n 
ne  altera  punto  il  significato;  mentre  qui  in  modo  insolilo  sarebbe  ve- 
nuta a  dare  alla  prep.  ad  un  valore  affatto  opposlo  ,  cioè  quello  a]>- 
punto  di  ab,  che  non  par  molto  verisimile. 


-  2«2  ~ 
giovato  punto  a  salvar  la  forma  di  questo  caso  più  che  non 
avrebber  fatto  ad  e  le  altre  preposizioni  chiedenti  l'accusa- 
tivo per  la  forma  di  questo,  se  esso  non  si  fosse  mantenuto 
per  propria  virtù  di  caso  che  significante  l'oggetto  a  cui  va 
direttamente  inazione,  veniva  perciò  ad  avere,  col  nominativo 
indicante  il  soggetto,  una  forza  vitale  destinata  ad  esercitare, 
conciliabilmente  colle  esigenze  fonetiche  de'  vari  volgari,  una 
infiuenEa  definitiva  sulla  nuova  forma  assumentesi  dal  nome 
neolatino.  Venuto  raccusativo  (e  secondo  la  teoria  del  livel- 
lamento, per  la  i",  2*,  4*  e  5"  declinazione,  anche  il  nomi- 
nativo) a  presentare  un  tipo  pel  nome  del  romano  volgare, 
onde  per  es.  corona  =  cor ona{m\  lupu,  lupo=^lupu{m,  s), 
questo  tipo  acquistò  un'universalità  di  funzioni,  fin  che  venne 
a  dirsi  indifrerentem.ente,  per  es.  illu  lupu  rapir  illu  agnu 
(il  lupo  rapisce  T agnello),  de  illu  lupu  (del  lupo),  ad  illu 
lupu  (al  lupo),  de  ab  illu  lupu  (del  lupo). 

Per  l'esclusione  dell'ablativo,  e  dirò  anche  per  l'ammis- 
sione dell'unica  forma  dell'accusativo,  credo  si  possa  agghi- 
gnere  un  argomento  desunto  dal  logudorese,  non  awenito 
punto,  ch'io  mi  sappia,  ma  che  a  me  pur  sembra  non  privo 
ò\  qualche  valore. 

Il  Diez  (Gr.,  ì',  84),  lo  Schuchardt  {Der  vocalistìtus  des 
vulglirlateins^  II,  gS)  e  lo  stesso  D*Ovidio  nella  sua  mono- 
grafia (p.  25)  e  nella  precedente  lettera  (p.  a58)  considerano 
il  sardo  come  uno  di  quei  dialetti  che  sostituiscono  gene- 
ralmente (i),  come  fa  il  siciliano,  Vu  all'o  finale.  Ora  que- 
sta regola  quanto  al   sardo  non  è   punto  applicabile  alla 

(  j  )  Parlando  appunto  del  Logudorese  in  particolare  dice  il  Diex:  Der 
auslaut  e  bleibt,  aherfur  o  tritt  u  ein  (septe,  foglio).  Fa  poi  meravi- 
glia che  ad  esempio  d»  o  finsie  passato  in  «  citi  fogliu ,  egli  che  te- 
nendo per  tipo  deil*  ioroa  tionainale  l'accusativo,  dovrebbe  risoluta- 
mente ripetere  questa  forraa  à^folium.  Bisogna  supporre  che  qui  l'ii- 
iuttre  maestro  avesse  piuttosto  in  vista  l'iialìano  che  non  il  prototipo 
latino. 


—  263  - 
principale  delle  sue  varietà,  voglio  dire  al  logudorese,  che 
serba  tenacemente ,  come  V  e,  così  anche  V  o  e  V  u  finali , 
quale  per  es.  in  eo  {ego),  arno^  cando  {quando)^  otto 
{peto),  corru  [cornu),  cabu  [caput)^  pagu^  segundu  {paucunty 
secttndum  aw.)  ecc.  Ora  egli  è  chiarvo  che  in  un  dialetto  go- 
vernato da  siniii  legge,  le  forme  nominali,  quali  lupu^  donnu^ 
ecc.  non  si  potrebbero  connettere  foneticamente  colPabiativo, 
e  ciò  tanto  meno,  in  quanto  che  il  logudorese,  dove  ha  mani- 
festamente serbato  qualche  forma  ablativalc,  vi  mantiene 
costantemente  Vo  finale,  come  per  es.  in  sero  (dalFavv,  sero)^ 
sera,  negli  avverbi  chito  {—cito)}  per  tempo,  elio  (=--  ilio) {i). 
dunque,  ecc.  Alcune  forme  nominali  in  -oro,  proprie  del 
logudorese,  come  oro,  tesoro^  moro,  tee,  ripetono  Vo  finale, 
sostituito  air  «  dell'accusativo,  da  un  principio  d' assimila- 
zione esercitata  dall' o  precedente.  Quanto  aìVo  finale  di 
domoj  casa,  se  non  è  effetto  d'analoga  assimilazione,  è  veri- 
ssmilmente  dovuto  ad  una  specie  dì  locativo  domo  o  in  domo 
che,  come  sero  e  altri,  darebbe  una  sporadica  forma  del 
sesto  caso. 

Ho  detto  sopra  che  il  logudorese,  oltre  all'escludere  iV 
blativo,  poteva  anche  provare  Tunica  forma  deiraccusativo; 
e  ciò  in  quanto  questo  dialetto,  possedendo  le  forme  nomi- 
nali sing.  gidis  (sitis),  opus,  corpus,  pi.  lupos^  e  altreriali 
terminanti  in  s,  mostra  che  avrebbe  anche  ritenuto  la  forma 
lupus,  ecc.,  qualora  il  nominativo  avesse  in  questa  faccenris. 
potuto  esercitare  ma^ior  influenza  dell'accusativo.  Sono  ben 
lontano  dal  voler  dire,  che  questa  forma  del  nome  logudo- 
rese possa  da  sé  sola  risolvere  la  quistione  ^  perocché  so  bene 


(i}  Il  Porro  e  lo  Spano  ne*  loro  ypcabolariì  connettono  etimolos!;;- 
cataente  quesw  particella  con  »n  greco  «XXiw  (^ic),-aiiiìr£riO-  CI.  lat.  id-eo, 
composto  nell'ultima  sua  parte  d'ili' abi.  eo ,  afhsao  n  modo  di  voce 
enclitica;  egli  avverbi  greci  procedenti  da  forme  ablativali  uic;,  ^Il^€, 


—  264  — 
ancor  io.  come  un  tal  dialetto,  non  potendo  in  una  sola 
forma,  quale  è  per  es.  lupu^  raccogliere  un  naturale  risul- 
tato identico  delle  tre  forme  lupus ,  lupum  ^  lupo^  secondo 
che  lo  potrebbe  Titaliano  lupo^  il  sic.  lupu^  avrebbe  dovuto 
di  necessità  attenersi  ad  una  sola  forma  casuale.  Ma  questa, 
quale  è  risultata,  non  potendo,  secondo  le  leggi  fonologiche 
dell'ambiente  logudorese,  essere  altra  che  quella  dell'accu- 
sativo, presenta  un  fatto  che  rivendicando  pel  sardo  a  questo 
solo  caso  la  somministranza  dell'unica  forma  nominale, 
verrebbe ,  secondo  me,  a  corroborare  notabilmente  la  teoria 
dizìana.  Né  varrebbe,  io  credo,  ad  invalidare  questo  argo- 
mento l'obbiezione  che  altri  facesse,  notando  come  per  la 
mutabilità  che  nella  flessione  nominale  del  latino  volgare 
presentano  le  vocali  o  ed  w,  non  sia  da  dar  gran  peso  a 
queste  ragioni  meramente  fonologiche;  perocché  non  sì  possa 
dubitare  come  nel  principio  dell'era  volgare  fosse,  si  può 
dir,  quasi  costante  e  regolare  Vu  pel  nom.  e  acc,  e  l'o 
per  Tabi.;  e  da  quel  tempo,  come  quasi  da  punto  originale, 
si  debbano  pigliar  le  mosse  per  investigare  le  vicende  fone- 
tiche del  romano  volgare  trasformantesi  in  neolatino. 

Finalmente,  che  la  succedaneità  d'un  casoo  per  dir  meglio 
di  una  sola  forma  casuale  a  tutte  le  altre  non  sia,  come 
crede  il  D'Ovidio,  contraria  allo  svolgimento  naturale  dei 
linguaggio,  lo  proverebbero,  parmi,  ampiamente,  fra  gli 
altri,  i  non  pochi  esempi  di  forme  nominativali  del  singo- 
lare diventate  tipi  non  solo  di  tutto  il  singolare ,  ma  anche 
dei  plurale,  come  per  es.  ladro^  ladri  dal  nom.  latro; o.  segna- 
tamente l'accusativo  plurale  che  per  questo  numero  dà  la 
forma  a  tutti  i  casi  delle  lingue  dell'Europa  occidentale,  del 
sardo  e  dì  alcuni  dei  nostri  dialetti  alpini;  sicché  l'esempio 
da  me  recato  di  una  sola  forma  del  romano  volgare,  pro- 
cedente dall'accusativo  singolare,  indifferentemente  congiunta 
con  de  ^  ad,   non  avrebbe  nulla  di  piià  singolare  che  non 


-  265  - 
sia  per  esempio  in  de  e  ad  illos  amicosj  dende  lo  spagnuolo 
de  Q  a  los  amigos. 

Circa  il  secondo  punto  riconosco,  come  male  io  affermassi 
che  ii  signor  D'Ovidio  deriva  la  forma  dei  plurali  di  ['  e 
di  2'  unicamente  dall'ablativo  ;  perocché  una  più  attenta  let- 
tura del  suo  scritto  avrebbe  dovuto  farmi  capire  che  egli 
voleva,  come  nel  singolare,  così  anche  nel  plurale  trovare 
modo  di  conciliare  foneticamente  la  forma  del  nome  italiano 
tanto  con  quella  del  nominativo,  quanto  dell'ablativo  latini. 
Contro  questa  teoria  sorgerebbe  pur  qui  naturalmente  una 
parte  delle  obbiezioni  già  accampate  per  l'esclusione  dell'a- 
blativo singolare.  Foneticamente  non  si  può  certo  negare 
che  per  es.  da  lupis  non  dovesse  regolarmente  venir  liipi^ 
e,  se  si  vuole,  anche  da  coronis  corone,  sebben  qui  la  fono- 
logia di  per  se  sola  nel  campo  toscano  e  altrove  non 
avrebbe  forse  condotto  altrove  che  a  coroni  (i).  Ma  si  po- 
trebbe bene  tener  per  certo,  che  quando  i  nomi  così  di 
prima  come  di  seconda  fossero  venuti  a  terminar  tutti, 
come  alcuni,  in  bus  (per  es  mulabus ,  natabus^  ejc.fimi- 
ciòuSy  ecc.),  il  finimento  italiano  di  essi  nomi  nel  plurale 
non  potrebbe   essere  altrimenti   da  quello  che  esso  è,  cioè 


(i)  Il  toscano,  e  segnatamente  ii  fiorentino,  a  cui  noi  dobbiamo  sem- 
pre aver  l'occhio  quando  si  tratta  della  storia  dell'organismo  e  della 
forma  della  parola  italiana,  non  presentano  la  mutazione  d'i  finale  in  e 
se  non  in  alcune  forme,  così  verbali  come  nominali,  dove  il  fenomeno 
non  può  dirsi  subordmato  a  mere  ragioni  fonetiche,  ma  viene  determi- 
nato dal  bisogno  di  differenziamento  formale ,  ovvero  dall'analogìa, 
come,  per  es,,  m  legge=legit ,■  sangue=sanguis;  sete=sitim,  ecc.  Più 
naturale  e  meramente  fonetico  è  nel  fiorentino  il  fenomeno  contrario, 
cioè  la  mutazione  di  e  finale  in  i,  onde,  per  es. ,  lungi-=longe ;  tardi= 
tarde,' ami '^^amerriy  ameSy  amet;  Chimeriti^sClemente  (m.),-  Cresci=Cre- 
scens, ecc.  La  forza  di  questa  legge  si  manifesta  principalmente,  sebbene 
in  modo  sporadico,  nel  trarre  femminili  plurali  di  i»  a  finire  in  »,  e  così 
contro  il  principio  del  simbolismo  sessuale,  come,  per  es.,  in  le  porti, 
le  veni,  le  calendi,  ecc. 

"Rivista  di  filologia  ecc.,  I.  19 


—  266  — 
improntato  della  forma  del  nominativo,  e  ciò  probabilmente 
solo  perchè  l'accusativo,  al  quale  pare  che  generalmente 
fosse  riservato  l'uffizio  del  dar  la  forma  al  nome  neolatino 
così  nel  singolare  come  nel  plurale,  in  questo  numero  pei 
volgari  italiani  non  avrebbe  potuto  ridursi  foneticamente  ad 
altra  forma  che  a  quella  stessa  toccata  al  singolare,  onde 
ne  sarebbero  venati  per  es.  da  coronas  corona ,  da  lupos 
hdpOy  da  canes  cane,  da  spiri tus  spirito,  ecc.  Il  sardo,  che 
è  pure  dialetto  italiano,  ma  al  cui  genio  fonetico  non  ripu- 
gna punto  la  5  finale,  dice  appunto ,  come  già  se  n'è  toc- 
cato sopra,  al  pi.  coronas,  lupos  (log.),  lupus  (mer.),  canes 
(log.),  canis  (mer.),  spiritos  (log.),  spiritus  (mer.),  ecc., 
tutte  forme  procedenti  dall'accusativo,  che  serbando  la  s  finale 
non  possono  generare  confusione  di  plurale  col  singolare. 

In  ordine  all'argomento  delle  forme  spagnuole  e  logudo- 
resi  montes  e  naves  da  me  citate  a  negar  la  verisimiglianza 
dei  plurali  montis,  navis  ecc.  come  propri!  del  romano  vol- 
gare, che  il  D'Ovidio  non  ammette  per  una  diversa  proprietà 
di  latino  ch'egli  vorrebbe  stabilire  tra  provincia  e  provincia, 
lasciando  io  da  parte  lo  spagnuolo  in  cui  le  due  voci  da 
me  recate  potrebbero  ripetersi  egualmente  cosi  da  un  tipo 
in  es,  come  in  is,  e  riferendomi  al  solo  logudorese,  osservo 
come  questo  dialetto,  chi  ne  investighi  diligentemente  le  leggi 
fonetiche,  accenna  risolutamente  pei  plurali  di  terza  a  forma 
prototipa  in  es,  non  essendo  verisimile  che  esso  mutasse  per 
es.  montis,  navis  in  montes,  naves  (i).  Ora  se  il  romano 
volgare  portato  nella  Sardegna  avea  queste  forme  in  es^ 
noi  non  abbiamo  ragioni  per  negarle  al  romano  volgare  di 


(i)  È  troppo  chiaro  che  un  dialetto,  il  quale  da  un  lato,  per  es.,  da 
sitis  fa  sidis^  da  habetis  he^is^  da  tu  venis  benis,  e  dall'altro  da  haberes 
(a  haperes ,  da  manduces  mandigheSy  da  mulces  mulghes,  da  forme 
nominali,  quali  montes,  naves,  non  può  non  fare  montes,  naves,  come 
dalle  ipotetiche  montis,  navis  avrebbe  fatto  pur  montis,  navis. 


—  967  — 
alcun  altro  paese,  dove  la  fonologia  non  le  contraddica. 
Gli  esempi  di  donno ,  donnu,  fi'ii >  f^de  non  mi  par  che 
provino  nulla  al  nostro  proposito,  non  potendosene  argo- 
mentare altro  se  non  il  principio  elementare  delle  varie 
peciiiiaruè  fonologiche  dei  dialetti.  Il  toscano  donno  e  il 
sardo  donnu  mettono  entrambi  capo  ad  un  solo  prototipo, 
dominuijn)  (i),  il  sic.  Jìdi  e  il  tose,  fede  ad  un  solo  pro- 
totipo Jìde{m),  come  appunto  in  Sardegna  il  log.  monteSy 
naves  e  il  meridionale  montis,  nai'is  si  debbono  ripetere 
da  un  unico  tipo  motites^  naves,  mantenutosi  inalterato  nel 
logudorese,  mutante  e  in  i  nei  meridionale,  perchè  così 
porta  la  rispettiva  fonetica  di  questi  due  volgari. 

Dirò  conchiudendo,  come  al  mio  giudizio  la  quistione  della 
origine  dell'unica  forma  fiessionale  del  nome  italiano  possa 
tenersi,  non  ostante  la  bella  monografìa  del  prof.  D'Ovidio, 
come  tuttora  in  pendente  fra  la  teoria  del  conguaglio  fone- 
tico dei  casi  e  quella  delia  forma  accusativale.  Forse  una 
piij  ampia  e  profonda  indagine,  che  finora  non  siasi  fatta, 
circa  la  declinazione  del  romano  volgar<:,  potrà  aggiungere 
qualche  nuovo  lume  su  questo  problema,  e  far  definitiva- 
mente tracollare  ia  bilancia  per  Tuna  delle  teorie  suddette. 

G.  Flechia. 

PS.  Ricevo,  ora  appunto  in  sul  finire  di  correggere  le 
bozze   di   queste  mie   osservazioni,  un   dotto   articolo   del 


(()  A  proposito  del  toscano  donno,  sardo  donnu,  il  sig.  D'Ovidio  dice 
che  «  «elì'Ktruria  il  latino  ha  mantenuto  l'o ,  nella  Sardegna  ha  pie- 
gato verso  Vu.  »  Questo  sarebbe  esatto  se  la  forma  del  pome  di  2*  de- 
clin.  venisse  dall'ablativo.  Noi  diremmo  piuttosto  che  neil'Etruria  Vu 
latino  è  passato  in  o  ['^tr  e.%.:  capo  =>  caput,  petto s=  pectus^' tee);  vatuivc 
nella  Sardegna  si  mantenne;  e  questo  affermeremmo  anche  ammesso 
l'esteso  livellamento  delle  forme  casuali  professato  dai  sig.  D'O.,  pe- 
rocché sarebbe  a  ogni  modo  piuttosto  da  tener  conto,  in  ordine  alla 
forma  originaria ,  del  nom.  dominu{s)  e  dell'acc.  dominu[m)y  che  non 
deU'abl.  domino,  in  quanto  più  possono  due  che  uno. 


—  268  — 
sig.  Adolfo  Tobler  {Goti.  gel.  An-{,  1872.  St'ùck  48,  pp. 
1892- 1907),  in  cui  rillustre.  professore  di  Berlino,  prendendo 
ad  esame  la  monografia  del  sig.  D'Ovidio,  non  solo  pro- 
pugna la  teoria  diziana  deiraccusativo  in  ordine  al  singolare, 
ma  cerca  di  estenderla,  pur  per  Titaliano,  anche  al  plurale 
di  prima  e  seconda  declinazione. 

Torino,  4  dicembre  1872. 

G.  F. 


CE^V^I  'BI'BLI0G1{AFICI 


Dizionario    italiano-greco   compilato   per   le     scuole    da 
-Federico  Brunetti,  Venezia,   1873. 

Ecco  una  pubblicazione  utilissima  per  le  nostre  scuole,  e 
vivamente  desiderata  da  chi  conosce  un  po'  da  vicino  le  con- 
dizioni dell'insegnamento  del  greco  nei  ginnasi!  e  licei  del 
Regno.  Un  lavoro  di  lessicografia  promette  forse  poca  gloria 
al  suo  autore,  ma  certo  molte  più  noie  gli  arreca,  che  altri 
non  creda.  Gii  è  proprio  il  caso  di  esclamare  col  poeta  : 
«  Sic  POS  non  vobis  mdlijicatis  apes  !  » 

I  libri  di  testo  per  le  scuole,  e,  in  generale  le  pubblica- 
zioni che  si  fanno  in  servizio  della  istruzione,  porgono  a 
nostro  giudizio  un  criterio  bastantemente  sicuro  dello  stato 
della  cultura  del  paese  rispetto  a  un  dato  ordine  di  disci- 
pline. Così  ad  esempio ,  chi  gettasse  uno  sguardo  alla  let- 
teratura grammaticale  della  lingua  greca,  che  tenne  il  campo 
in  Italia  negli  ultimi  decennii,  potrebbe  agevolmente  cono- 
scere in  quale  conto  gli  studi  del  greco  fossero  tenuti  dal- 
l'universale. Tanto  che  V  introduzione  della  grammatica 
greca  del  Curtius,  fatta  nelle  scuole  della  Lombardia  e  della 


—  269  — 
Venezia  intorno  alPanno  i855  segna,  come  a  dire,  il  co- 
minciamento  di  una  nuova  èra  nella  storia  dello  studio  del 
greco  nelle  nostre  scuole.  Ma  quanto  a  vocabo'arì  italiano- 
greci  non  fu  fatto  un  passo  oltre  i  termini  antichi ,  segnati 
dal  Fontanella  dapprima,  e  dal  Cusani  dappoi,  cloche 
vuol  dire  che  dal  1846  in  qua  noi  in  questo  rispetto  siamo 
rimasti  fermi.  Vero  è  che  forse  il  bisogno  del  vocabolario 
italiano-greco  era  meno  sentito  nelle  scuole,  massime  dopo 
che  il  libro  di  Eserciti  greci  dello  Schenkl  si  diffuse  nelle 
nostre  Provincie,  contemporaneamente  alle  grammatiche  del 
Curtius  e  del  Kiihner;  poiché  i  dizionarietti  stampati  in 
appendice  a  quel  libro  e  ad  altri  congeneri,  porgevano  un 
sufSiciente  materiale  di  studio  nelPlnsegnamento  elementare 
del  greco.  —  Ma  oggimai,  checché  si  dica  in  contrario,  un 
po'  di  risveglio  c'è  anche  negli  studi  greci  in  Italia*,  cre- 
diamo anzi,  che  e'  sarebbe  oggimai  tempo  di  allargare  il 
campo  degli  studi  grammaticali  e  delle  letture  greche  ne^  licei 
del  Regno,  proponendo  versioni  dall'italiano  in  greco  un 
po'  più  estese,  che  non  permettano  gli  esercizi  dello  Schenkl, 
massime  la  Parte  prima  pe' ginnasi i  (i)  usata  sin  qua.  E 
quanto  alle  letture  ne  pare  che  sarebbe  tempo,  che  oltre  a 
Senofonte  si  pensasse  un  po'  seriamente  allo  studio  delle 
poesie  omeriche,  di  qualche  dialogo  minore  di  Platone,  di 
qualche  brano  d'Erodoto,  il  cui  studio  agevolerebbe  di  molto 
l'intelligenza  e  lo  studio  del  dialetto  epico  antico,  e  di  qualche 
oratore  ateniese,  per  es.    d'Isocrate. 

Ma  per  parlare  oggi  soltanto  delle  versioni  dall'italiano  in 
greco,  crediamo  che  sarebbe  utile  che  gli  insegnanti  tentas- 
sero oggimai  ne'  licei,   massime   negli  ultimi  corsi,  qualche 


(i)  Gli  Esercizi  greci  dello  Schet.kl  pei  Licei  tradotti  dal  prof.  Miil- 
ler,  e  stampati  dal  Loescher,  otfrono  una  messe  ben  più  larga  di  ap- 
plicazione delle  regole  della  sintassi. 


—  270  - 
versione  un  po'  più  larga  ,  cioè  alquanto  diversa  da  quelle 
cui  danno  occasione  i  soliti  Esc'rcÌ7j,  proponendo  agli  alunni 
di  voicjre  in  greco  qualche  luogo  di  Plutarco,  di  Luciano, 
di  Isocrate',  e  qualche  brano  de'  Commentari  di  Cesare  o 
d'altro  autore  latino  facile  a  tradursi  in  greco  :  lavoro  co- 
desto di  grande  utilità  ne'  riguardi  della  sintassi,  pe'  riscontri 
delle  due  lingue.  Chi  conosce  i  Temi  dì  versione  in  greco 
del  Franke  (i),  che  da  molti  anni  servono  come  libro  di 
esercizi  nelle  scuole  tedesche,  sa  fina  a  che  punto  si  possa 
portare  ne'  licei  questo  utilissimo  esercizio  delle  versioni  in 
greco.  —  Certamente  da  noi  sarà  ancora  prudente  che  si 
gridi  :  cyireObe  ppaòéwi;  -  festina  lente  ;  ma  si  persuadano  gli 
onorevoli  insegnanti  delle  scuole  secondarie,  che  molte  volte  la 
è  questione  di  buoni  testi,  di  libri  ben  fatti,  che  coll'esattezza 
scientifica  congiungano  una  qualche  ampiezza  di  tratta- 
zione, e  sopra  tutto  chiarezza.  Non  è  egli  vero  forse,  che  un 
manualetto,  un  trattateli© ,  stampato  con  tipi  eleganti ,  nel 
quale  la  materia  sia  tenuta  dentro  a  termini  discreti ,  nel 
quale  la  sicurezza  del  metodo  e  l'accuratezza  dello  studio 
apparisca  a  primo  tratto,  senza  metter  paura  —  non  è  vero, 
diciamo,  che  un  libro  cosiffatto  invoglia  allo  studio  e  cattiva 
l'animo  di  molti  piiì  insegnanti  e  scolari,  che  non  facciano 
i  regolamenti  e  i  programmi,  sieno  pur  larghi  questi  e  or- 
dinati all'uopo? 

A  quest'ordine  di  considerazioni  ne  richiamava  il  Dizio- 
nario italiano-greco^  edito  or  ora  dal  prof.  Brunetti.  È  un 
libro  fatto  bene  e  con  cura,  condotto  sopra  modelli'  eccellenti, 
come  a  dire  i  dizionari  del  Rost  e  del  Pape,  e  in  parte  an- 
che del  Planche  :  opera  quest'ultima  un  po'  vecchia,  ma  da 
non  disprezzare.  La  stampa  vi  è  correttissima  :  nella  lettera 
A  un  solo  errore   d'accento  abbiamo   riscontrato  alla  voce 


;i)  Lipsia,  Brandsieuer,  1845. 


—  271  — 
assuefare ,  dove  è  stampato  etoiOa  per  cTcuGa  ;  ed  uno  solo 
alla  lettera  Af,  dove  alla  voce  madre  è  stampato  a^riTwp  per 
à^rJTUjp.  Quanto  poi  alla  copia  de'  vocaboli  e  delle  locuzioni  noi 
dobbiamo  lodar  proprio  proprio  di  cuore  il  bravo  prof.  Bru  • 
netti,  il  quale  intravvide  benissimo  dove  stia  il  nodo  delle 
difficoltà  nelle  versioni  dall'italiano  in  greco.  Importare  cioè, 
che  a  vari  usi  di  uno  stesso  vocabolo,  massime  de'  verbi , 
si  pongano  di  rincontro  le  corrispondenti  locuzioni  greche  , 
cogliendone  lo  spirito ,  laddove  il  significato  letterale  non 
quadri.  Ecco  qualche  esempio  : 

Aprire  àvoiTwiiii  \\fendere  (S^x^^u  \\  manifestare  bn^óuu  H  comin- 
ciare apxo^ai  Tivo<;  (1  spiegare  ilr\'^io\xa.\  \\  aprire  gli  occhi 
ad  ale.  =  lo  faccio  rinsavire  vou8eT€u)  xivà  (] ...  una  lettera 
Xùui  11 ...  la  vena  qpXépa  xéiiviu  1|  ...la  mano  Tfjv  x^ìp»  àvaTretàv- 
vum  II ...  una  via  òòorroi^u)  ||  dare  avviamento  TrpoTrapacjKeu- 
dZIuj  II  non   oso  di  aprir  bocca  oùbè  xaiveiv  ToXjuduj. 

Si  riscontrino  inoltre  le  voci  apprendere^  aperto  ,  armif 
sti^io,  acquay  aspro,  maggioranza^  male^  mandar e^  inanOy 
marcio,  modo ,  ed  altre  molte.  —  E  abbiamo  voluto  vedere 
anche  alla  prova  il  Dizionario  del  Brunetti ,  proponendo  a 
tradurre  nel  3°  corso  del  liceo  un  brano  di  Plutarco,  vol- 
garizzato dal  Pompei  {Tiberio  Gracco,  cap.  IV).  —  La  re- 
troversione fatta  in  iscuola  coU'aiuto  del  Dizionario  del 
Brunetti  riuscì  abbastanza  bene,  con  sufficiente  proprietà 
di  lingua,  e  ciò  che  piiì  monta,  senza  gravi  difficoltà  lessicali. 
—  Qui  e  colà  però  abbiamo  riscontrato  qualche  menda, 
che  l'autore  si  darà  premura  di  togliere  in  occasione  di 
una  ristampa,  e  d'altronde  facilmente  scusabile  in  un  lavoro 
di  questo  genere.  Citeremo  qualche  esempio  della  lettera  A  : 
I.  Alla  voce  abbandonarsi  l'autore  fa  corrispondere  il 
grecò  èmbiJ)U)|Lii  éjuauTÓv  rivi  o  irpó?  ti.  —  Quest'uso  è  raris- 
simo, e  soltanto  de'  scrittori  della  decadenza,  e  meglio  col- 


-272- 

!'€!?;  per  es.  €Ì<;  xpuqpnv  (AM. ,  Vili,    525).  L'uso  classico 
di  questo  verbo  è  piuttosto  impersonale. 

2.  Alla  voce  abiura^  abiurare,  T autore  contrappone 
èmopKfa,  èTTiopK^u*.  —  Non  ci  pare  esatto-,  perchè  queste  voci 
greche  significano /a/^o  giuramento,  giurare  il  falso  ^  men- 
tre V abiura  è  la  rinunzia  solenne  di  un  errore,  dottrina, 
opinione ,  perchè  falsa  e  perniciosa ,  e  che  in  greco  sa- 
rebbe àTró|ivu|ai  od  èEófivujLU,  ed  anche  èrroiaócrai;  àTianeTvfi). 

3.  Alla  voce  accusa  ai  tribunali  è  contrapposto  Tpaq)»^. 
Ciò  è  poco ,  perche  v'  è  anche  biKri ,  con  questo  disvario  , 
che  Tpctqpn  è  querela  scritta  contro  un  reo  di  delitto  pub- 
blico: biKTi  è  querela  privat^'r. 

4.  Amicarsi  con  uno  è  reso  con  cruvbiaXXdo"cro|Liat.  Non 
crediamo  che  sia  esatto,  perchè  a  òiaXXào'jeo'Qai  c'è  sempre 
connessa  Tidea  della  riconciliazione.  Si  poteva  almeno  ag- 
giungere 91X0V  Troi€ia8ai  riva,  «vaKTauGai  riva. 

5.  Amissibile  è  reso  con  d7róp\r,To^. —  Non  pare  corretto, 
perchè  questa  voce  greca  suona  dispregievole,  degno  di  di- 
spregio, 

6.  Ammalato  è  reso  con  voaiqpóc,.  Questa  voce  greca  si- 
gnifica piuttosto  «  insalubre  » .  Era  da  tradurre  àaQevr\<i 
ovvero  voaiuòn?- 

7.  Assonnare,  aver  sonno  è  reso  con  KO»)jiao^ai  *,  biso- 
gnava tradurre  vttvluttoi  ;  Koifidofiai  vuol  dire  «  prender 
sonno  )ì . 

8.  Alla  voce  meno  è  detto  di  rendere  e  ancora  meno 
con  uf]  oTi.  Non  è  chiaro  -,  bisogna  dire  seguito  da  àXXà  o 
preceduto  da  oObè.  Per  es.  Mri  òti  ibiiOrnv  tivd,  àXXà  M^'fav 
patJiXéa.  oùbè  riXeiv ,  ]x^  òti  dvaipeiaOai  toCh;  avbpa?  buva- 
TÒv  nv. 


( I  )  Confronta  :  Schenkl,  Deutsch-griechischesSchuhi'Órierbuch  alla  v.; 
Lipsia,  Teubner,  1866,  che  l'autore  nostro  avrebbe  pur  anche  potuto 
consultare  con  profitto. 


—  273  — 

Ma  questi  sono  nei ,  e  il  lavoro  è  buono  nell'insieme  e 
vi  torneremo  sopra  a  miglior  agio. 

Rovigo,  novembre  1874. 

Gaetano  Oliva. 


Elementi  di  grammatica  greca  ad  uso  delle  scuole-^  Roma, 
1872,  —  Eevoqp'jJVTO?  Kupou  rraibeia.  Adnotationibus  et 
illust?^atiombus  auxit  Angelus  Tmmoho^  presb.  NeapoL\ 
Napoli,  1871.  —  biblioteca  utile  alla  interpretaiione  dei 
Classici  greci  e  latini^  versione  dalVoriginale  tedesco  con 
aggiunte  del  Prof.  Bartolomeo  Zandonella  e  Francesco 
nob.  Cipolla-,  Verona,   1869. 

I. 

Finalmente  i  ginnasii  ed  i  licei  italiani  saranno  liberati 
dal  giogo  ^del  barbaro  Curtius  e  dei  non  meno  barbari  ba- 
stardi Italiani  che  se  ne  fecero  seguaci  e  promotori,  credendo 
scioccamente  che  qualche  veramente  utile  innovazione  po- 
tesse provenire  dai  paesi  degli  Iperborei.  Il  redentore  è  l'el- 
lenista di  primissimo  ordine  il  quale  pubblicò  testé  a  Roma 
coi  tipi  della  S.  Congregazione  de  propaganda  fide  gli  Ele- 
menti di  grammatica  greca,  di  cui  ci  accingiamo  a  cantare 
le  lodi.  Certamente  è  già  dovere  di  tutti  gli  uomini  assennati 
e  dabbene  reputare  questa  nuova  grammatica  assai  migh'ore 
che  quella  di  Curtius  sin  dal  giorno  in  cui  questa  verità  fu 
insegnata,  con  tutta  la  competenza  e  Tautorità  desiderabile, 
in  un  articoletto  anonimo  di  un  giornale  religioso  e  politico 
di  parte  clericale  :  ma  a  questi  lumi  di  luna,  fra  tanto  scet- 
ticismo, ci  sembra  fare  opera  buona  tentando  di  confermare, 
con  un  poM  esame  critico,  la  prelodata  sentenza.  E  diciamo 
in  primo  luogo  che  questa  nuova  grammatica  supera  quella 
del  Curtius  in  brevità  :  che  vcdc&i  nella  prima,  proprio  m.i- 


—  274  - 
racolosamente,  esposta  la  sintassi  dei  tempi  e  dei  modi  in 
una  sola  pagina  (p.  70-71)  (i);  si  ommettono  i  verbi  irregolari 
in  jai  (tranne  e\p.i,  tliai  ed  iriM'))  ^  tutti,  certamente  per  amor 
di  brevità  e  perchè  affatto  inutili,  quelli  in  oj  (2),  si  om- 
mette,  finalmente,  tutta  la  esposizione  delle  leggi  foneti- 
che, la  quale  ommissione  non  è  a  dire  quanto  giovi  a  ren  • 
dere  razionale  e  facile  lo  studio  delia  formazione  di  certi 
tempi  dei  verbi  muti.  E  mentre  Schenki  e  Boeckel  (3), 
Tedeschi  che  lavorarono  per  Tedeschi  (cervelli  ottusi),  stima- 
rono necessario  un  volumetto  di  temi  dal  greco  in  italiano 
e  dallo  italiano  in  greco,  Tautore  di  questi  Elementi  a  buon 
diritto  pensò  che,  sotto  il  limpido  cielo  d'Italia,  qui  dove 
tutti  gli  ingegni  sono  belli  e  chiari,  sono  sufficienti  tredici 
sole  pagine  di  esercizi  dallo  italiano  in  greco  (4).  Ma  ciò 


(i)  Crede  fórse  il  nostro  chiarissimo  autore  che  la  cintassi  di  una 
lingua  sì  perfetta  ed  ammirabile  venga  rivelata  per  miracolo  a  que'  giovi- 
netti italiani  che  si  destinano  allo  studio  classico  ,  dacché  sbriga  l'uso 
de' tempi  in  21  linee  (p.  70),  e  l'uso  diiììcile  dei  modi  in  22  {p.  71). 
Poveri  Matthiae,  Kuhner,  Kriiger,  Madvig,  ed  altri,  che  avete  riem- 
piuti de'volumi  con  i  vostri  trattati  di  sintassi,  voi  ben  vedete  che  un 
maestro  della  forza  di  quello  che?  ha  scritto  questo  libro  non  ha  biso- 
gno delle  vostre  elucubrazioni,  e  che  i  suoi  allievi  i  quali  abbiano  un 
pochino  di  memoria ,  in  mezz'ora  al  più  possono  imparare  quella  sin- 
tassi, intorno  alla  quale  que*  pessimi  libri  tedeschi  sciupano  tanta  carta 
e  richieggono  almeno  un  anno  —  tanto  prezioso  nella  vita  giovanile  — 
di  serio  studio. 

(2)  Chi  si  sentisse  disposto  a  giudicare  soverchia  questa  brevità,  noti 
che,  quasi  per  compenso,  si  danno  a  p.  49  e  53  anche  le  forme  €9nv, 
r]<;,  T],  ?6u)v,  luc;,  u»,  che  sono  un*  invenzione  dei  grammatici. 

(3)  Parliamo  solo  di  questi,  perchè  i  loro  esercizi  esistono  in  edi- 
zione italiana,  e  non  già  di  quelli  d'un  Francke,  d'un  Bàumlein,  d'un 
Boehme ,  che  farebbero  rizzare  i  capelli  al  prelodato  critico  per  la 
qitantità  di  materia  che  offrono  agli  studiosi. 

(4)  Dopo  la  p.  76  della  Grammatica.  E  che  fior  d'esercizi  !  Sentite  e. 
smpite:  «  La  testa  della  luna  -  11  mare  della  luna-  Alla  sete  della  lin- 
gtia  -  I  ladri  ai  poeti  ~  1  magistrati  ai  ladri  -  O  libraio  al  poeta  -  Le 
vergini  agli  uomini  -  Ai  pavoni  i  frutti  -  Le  lampadi,di  legno  -  O  te- 
nero bue  »  I  (  p.  2,  linea  17} ,  e  così  via.  Ma  ci  pare  che  basti. 


-  275  - 
non  basta.  Quanta  differenza  fra  la  oscurità  di  certe  regole 
di  Curtius  p.  la  perspicuità,  veramente  greca,  che  ammiriamo, 
V.  g.,  nella  nota  seguente  alla  forma  I9nv:  «  L'altra  forma 
di  Passato  colla  reduplicazione  fa  èiiOnv,  èiiBn?-.-  Si  os- 
servi che  questo  Passato  dei  verbi  in  m,  ha  le  desin€n\e  del- 
l''Konsto  Passivo,  dal  quale  dit'ersijìca  per  la  mancanza  di 
aumento  del  Perfetto,  e  per  il  noi  uso  delle  aspirate  avanti 
la  desinenza^  ove  queste  non  si  trovino  nel  tema,  come  sono 
in  Biiu  »  (p.  49).  E  quanto  riesce  utile  alla  pronta  e  com- 
piuta comprensione  della  flessione  nominale  e  verbale  lo 
avere  liberato  i  paradigmi  della  declinazione  dai  noioso 
duale  «  usato  ben  raramente  in  poesia  »  (p.  4),  e  per  lo  più 
divisa  in  due  parti  la  coniugazione,  una  delle  quali  è  am- 
messa nel  testo,  l'altra  debbe  star  paga  di  essere  accolta 
nelle  note.  Vuoisi  poi  dar  lode  al  nostro  autore  soprat- 
tutto per  ciò  ch'egli  respinse  arditamente  le  temerarie  inno- 
vazioni colle  quali  Currius,  Koch,  Inama  tentarono  rendere 
razionale  lo  insegnamento  del  greco  nelle  scuole  secondarie. 
In  questi  Elementi  vediamo  finalmente  il  venerando  empi- 
rismo dei  secoli  passati  sostituito  allo  insolente  raiionalì- 
$mo  glottologico  dei  novatori  :  così  i  fanciulli  non  si  avvez- 
zeranno a  chiedere  le  ragioni  delle  cose,  e,  continuando 
ad  essere  nelle  scuole  di  grammatica  educati  come  se  do- 
vessero diventar  macchine,  impareranno  a  diventar  dociU  ed 
a  ripetere,  abbassando  le  lunghe  orecchie,  il  salutare  aÙTÒ<; 
£q}a  dei  Pitagorici.  E,  del  resto,  sotto  questo  limpido  cielo, 
il  voler  insegnare  le  ragioni  delle  cose  è  renderle  oscure  : 
lo  insegnamento  non  è  veramente  chiaro  se  non  là  ove,  in 
fatto- di  cause,  c'è  buio  pesto.  Ma  non  si  creda,  che  nel  libro 
che  noi  stiamo  inneggiando  non  si  squarci  talvolta  il  velo 
che  ci  nasconde  Torigine  di  tante  forme  greche  ;  che,  p.  cs., 
v'impariamo  la  derivazione  del  tema  9éui  (di  TÌ9rmi)  da  Iw 
(p.  55,  nota  4)  è  di  l^\l}  da  èuj  (tema  di  cljni),  (p.  cit.).  Non 


—  2r3f3  - 

mancano  dunque  audaci  affermazioni;  anzi  vediamo  risolto 
il  problema  che  concerne  la  pronunzia  antica  del  greco  me- 
diante la  nota  che  si  legge  a  p.  2,  e  nella  quale  s'insegna  che 
la  pronunzia  antica  è  la  moderna,  e  che  questa  è  sostenuta  non 
solo  dall'uso,  ma  dai  documenti,  dalle  lapidi,  e  dai  codici. 
Quindi,  più  logico  che  qualche  professore  torinese,  il  nostro 
autore  e  maestro  vuole  che  anche  Vx\  si  pronunzi  i:  che 
montano  i  contrarii  pareri  degli  odierni  linguisti  e  soprattutto 
di  Schleicher?  ;i)  —  E  chi  potrebbe  mettere  in  dubbio  il 
coraggio  scientifico  o  la  potenza  innovatrice  di  un  ellenista, 
il  quale  non  si  peritò  nemmeno  di  mutare  lo  accento  acuto 
di  varie  forme  del  nome  Xafuut;  in  accento  circonflesso  (p.  7, 
nota  2)? 

Noi  pertanto  chiniamo  la  fronte  innanzi  a  sì  fatto  mae- 
stro, che  compose  questo  libro,  scegliendo  fiore  da  fiore  negli 
studi  grammaticali  degli  antichi  e  dei  moderni,  tentando  ini- 
ziare «  le  giovani  menti  ad  una  retta  filologia  »  e  condurli 
così  alla  cognizione  della  lingua  greca,  «fonte  »  (!  !!???)  «  e 
quasi  maestra  della  lingua  latina  »  (v.  la  prefazione).  Che 
se  ad  alcuno  parranno  per  avventura  soverchie  queste  no- 
stre lodi,  noi  ci  affrettiamo  a  dichiarare  che  il  libro  da  noi 
annunziato  ha  certamente  almeno  due  grandi  pregi  :  i"  quello 
di  mostrare  ad  evidenza  in  quanto  basso  loco  sì  mini  al- 
lorquando si  abbandona  quella  scorta  sicura  che  è  la  scienza; 
2*^  quella  di  rivelare,  nella  più  chiara  guisa  possibile,  l'igno- 
ranza, quasi  incredibile,  di  chi  propose  sì  fatto  libro  ai  pro- 

(i)  «Pronunziare  l'antico  greco  secondo  la  foggia  del  nuovo  è  di- 
fetio  che  si  fonda  in  genere  sopra  la  completa  ignoranza  delle  leggi 
che  governano  la  vita  delle  lingue  e  della  dottrina  dei  suoni.  •=>  Compen- 
dio di  grammatica  comparativa  ecc.,  trad.  dal  Pezzi,  p.  24,  oss.  i*. 
Confr.  poi  l'esposizione  delle  ragioni  scientifiche  e  pedagogiche,  le  quali 
militano  per  la  pronuncia  così  detta  erasmiana  nelle  scuole,  nella  pre- 
fazione, che  chi  scrive  ha  premesso  agli  Esercii  greci  ad  uso  dei  Licei 
di  Carlo  Schenkl.  Torino,  1872. 


-277- 

lessori  italiani  e  la  inettitudine  dei  maestri  die  lo  adotteranno, 
se  pure  alcuno  di  essi  non  si  vergognerà  di  adottarlo. 

IL 

Ma  quando  i  giovinetti,  istruiti  colla  grammatica  sopra- 
lodata,  avranno  acquistato  un  si  solido  fondamento  per  i  loro 
futuri  stuòli  di  lingua  greca,  sarà  pur  d^uopo  dare  loro  in 
mano  un  qualche  libro  di  lettura  per  introdurli  alla  cono- 
scenza degli  autori  greci.  Ad  edizioni  fatte  o  commentate  dai 
Tedeschi (i)  e  dai  loro  seguaci  italiani  (2)  non  dovranno  cer- 
tamente ricorrere,  che  questi  son  testi,  i  quali  dopo  l'esatto 
confronto  dei  codici  più  autorevoli  si  trovano  raffazzonati  in 
un  modo,  che  per  i  critici  della  sopramentovata  scuola  si 
chiama  nientemeno  z\\t  falsiJìca\ione,  e  sarebbero  certamente 
pericolosi  nelle  mani  degli  studiosi  italiani.  Nei  com.menti,  gli 
autori,  per  lo  più  insegnanti  delie  scuole  protestanti  della 
Prussia,  della  Sassonia  ed  altri  paesi  della  nebulosa  Germania, 
vogliono  bensì  additare  allo  studioso  la  via  per  ben  intendere 
l'autore  che  intraprende  a  leggere,  ma  in  guisa  da  non 
risparmiargli  in  verun  modo  una  ben  seria  fatica:  e  in 
fatti  non  gli  danno  una  spiegazione  che  in  luoghi  di  tanto 
difficile  interpretazione  da  non  poter  sperare,  che,  colle  cogni- 
zioni di  cui  dev'essere  già  fornito ,  possa  venire  a  capo  ;  del 
resto  lo  rimandano  ad  una  di  quelle  esecrate  grammatiche. 


(i)  Citiamo,  a  modo  d'esempio,  quella  Raccolta  di  classici  greci  e 
latini,  che  è  diretta  da  Haupt  e  Sauppe,  edita  dal  Weidmann  a  Ber- 
lino ,  in  cui  Senofonte  è  comentato  da  Rehdantz  ,  Hertlein  e  Breì- 
tenbach;  Omero  da  Fasi  e  C.  W.  Kayser;  Sofocle  da  Schneidewin  ; 
Cicerone  da  O.  Jahn ,  C.  Kalm  ed  altri  tali,  il  cui  solo  nome,  quasi 
impossibile  a  pronunziarsi,  fa  orrore. 

[ì]  Fra  queste  ci  piace  segnalare  alle  ire  di  que' critici,  di  cui  sopra, 
specialmente  alcuni  dei  volumi  della  edizione  scolastica  di  autori  greci, 
fatti  dall'Alberghetti  di  Prato,  e  di  cui  fu  discorso  anche  in  questa 
Rivista  fase.  Il  (Agosto),  p.  72. 


—  2'78  — 
o  ad  altri  passi  del  medesimo  autore,  o  lo  costringono  con 
una  domanda  a  pensare,  e  va  dicendo,  insomma,  son  fatte 
da  gente  che  vogliono  anche  lo  studio  dei  classici  adoperare 
per  educare  al  serio,  indefesso  lavoro,  per  aguzzare  Tingegno, 
come  se  io  studio  dei  ct&ssici  fosse  utia  palestra  intellettuale, 
preparatoria  per  la  vita  in  cui  il  giovir.otto  deve  bravamente 
sudare.  E  ciò  potrà  andar  bene  nella  Germania  :  ma  qui  bi- 
sogna spai'gcre  rose  sulla  via  e  far  sì,  che  Tingegno  naturale  e 
vivo  non  venga  guastato  dalla  soverchia  fatica,  e  che  sVcquisti 
ii  sapere,  come  Tape  raccoglie  il  dolce  miele  sui  fiori.  E  che 
bisogno  hawi  di  ricoi'rere  ai  Tedeschi  se  si  presentano  in  Italia 
libri  tanto  opportimìj,  quanto  sono  la  Ciropedia  dei  sig-.  Tum- 
molo  e  la  Biblioteca  utile  alla  interpretazione  dei  classici 
greci  e  latini  dei  signori  Zandonella  e  Cipolla^  di  cui  abbiamo 
sott'occhio  pure  alcuni  fascicoli  della  Ciropedia,  e  cine  felice- 
mente si  completano  a  vicenda  per  sì  fatta  guisa  che,  contem- 
poraneamente adoperandosi,  tolgano  ai  felice  scolaro  tutto  il 
fastidio  e  la  noia  di  dover  tormeniarc  ii  cervellino,  di  faticare, 
di  logorarsi  la  salute  e  ottandc-re  il  suo  vivace  ingegno.  Tutto 
quello  ch^egli  può  desiderare  trova  belio  e  fatto,  purché  si 
procuri  tutt'e  due  questi  aurei  libri.  11  sig.  Tummolo  da 
capo  a  fondo  del  libro  dà  l'analisi  grammaticale  dei  singoli 
vocaboli  (i),  talvolta  con  bellissimi  spropodti,  e  l'opportuna 
versione  parola  per  parola ,  a  mo'  dei  seguenti  brani,  che 
aprendo  a  caso  il  primo  volume,  fedelmente  riportiamo: 


(i)  E  con  che  fior  di  scienza  gratrmatìcalel  Potreste,  per  esempio, 
imparare  sino  dalla  p.  3  che  Toficv  è  dorico  per  \ao.\xev  pres.  ind.  da 
turiiuii,  scio,  e  poi  oI(J8u  eolico  per  oTòa;  di  001  per  toì  ed  dviaoQai  deriva 
a-ldu)  e  centinaia  di  consimili  verità,  che  v'invogliano  proprio  di  cono- 
scere la  grammatica  da  lui  adoperata,  perchè  degna  delle  medesime 
lodi  che  abbiamo  di  sopra  tributato  agli  Elementi,  Lo  sfidiamo  di 
mostrarcele  in  quelle  citate  da  lui  nella  prefazione,  a  meno  che  non  le 
abbia  pescate  nel  Burnouf ,  che  nel  famoso  Estratto  di  Berrini  infesta 
ancora  le  scuole  italiane. 


~  279  — 

«  p.  1 29.  §  4.  (Tùv — TrpoióvTe(;,  qui  cum  uxoribus  praces- 
serunt:  nempe  uxor  Cyaxaris^  Tigranis  filii  eius  maìoris 
et  Jiliae  regis  »  ||  èvéuecrov  el?  toù?;  inciderunt  in  eos:  ab  èv- 
TriiTTiu  aor.  2.  tq\}<;  prò  èKeivou^,  01  =  6  TtaTc;  minor  Sabaris 
Il  édXuucrctv  :  capti  fuere:  ab  dXicXKOuai,  captar  aor.  2.  \\ 
àfóiueva  èruxsv  :  vehebant,  a  tutxo'vuj  W<:/.  //^.  i  e.  vi.  §  32. 
TUTXÓvoi  II  là  TiTVÓ)i€va:  quce  acciderent  ||  ÒTtopiùv  no»  rpctTroiTO: 
quo  se  verteret^  hcesitans:  àrropeu)  hcesito.  » 

E  non  vogliamo  tacere,  che  l'autore,  così  amante  delia 
studiosa  gioventù,  non  pretende  già  che  si  tenga  a  mente 
quello  che  una  volta  ha  detto,  che  queste  stupende  e  recon- 
dite verità  grammaticali  le  ripete  ogni  voita  che  il  libro 
senofonteo  gli  presenta  la  opportunità:  insomma  il  tutto  è 
un  bellissimo  fuggifatica  illustrato  eziandio  da  non  rari  errori 
di  stampa  (i). 


(i)  Ma  egli  ci  ha  data  tutta  la  Ciropedia  e  minaccia  di  pubblicare 
anche  l'intiera  Anabasi.  E  corae  mai  si  pretenderà  che  uno  scolare  di 
liceo  legga  tanta  farraggine  di  greco?  Non  si  è  sempre  praticato,  e  gli 
esami  d'ammissione  ai  corsi  universitari  di  lettere  ne  fanno  fede  ogni 
anno,  di  leggere  nei  tre  anni  di  liceo  pochissime  pagine  di  Senofonte? 
E  si  dovrà  abbandonare  sì  lodevole  abitudine?  Non  già.  Ed  i  libri 
fatti  a  bella  posta  per  corrispondere  anche  a  questi  giusti  desideri  non 
esistono  forse  ?  Chi  non  vuol  spendere  che  cer  tante  paginette  di  greco, 
quante  leggerà  in  liceo,  ricorra  pure  ai  Scelti  luoghi  àcìV Anabasi,  delia 
Ciropedia,  dei  Memorabili,  che  sono  stali  pubblicati  dal  sig.  Benedetto 
BoNAzzi  in  Napoli.  Perchè  poi  il  sig.  Tummolo  non  creda  che  il  nostro 
giudizio  sul  suo  libro  sia  proprio  tutto  nostro,  vogliamo  citargli  quello  che 
può  leggere  nel  Literarisches  Centralblatt  filr  Deuischland  1872,  n.  33, 
e  che  press'a  poco  suona  così  :  <<  Malgrado  la  nostra  benevolenza  per 
tutto  quello  che  concerne  gli  sforzi  che  nella  nuova  Italia  si  fanno  per 
le  scuole  classiche,  dobbiamo  dire  che  il  grado  elementarissimo  che 
occupa  l'edizione  del  sig.  Tummolo,  nella  quale  è  ignorata  affatto  la 
odierna  scienza,  dev'essere  abbandonato.  Se,  a  mo'  d'esempio,  in  una 
sola  e  medesima  pagina  non  meno  di  quattro  volte  è  insegnata  l'alta 
verità  che  olòa  significa  scio,  perchè  mai  dare  in  mano  a  scolari,  che 
non  sanno  nemmeno  ciò,  i  libri  di  Senofonte?...  Se  le  cognizioni  di 
greco  nelle  scuole  classiche  dell'Italia  meridionale  sono  veramente  così 
basse,  quanto  risulterebbe  dal  libro  del  sig.  Tummolo,  non  si  può  dire 


—  280  — 

Ma  vi  potrebbero  pur  essere  alcuni,  a  cui  parrebbe  troppo, 
doversi  il  latino  del  sig.  Tummolo  tradurre  in  italiano,  ed 
improba  fatica  il  dover  ridurre  i  suoi  brani  di  frasi  in 
periodi  italiani.  A  costoro  vengono  poi  in  aiuto  i  signori  Zan- 
donella  e  Cipolla  che  danno  la  traduzione  letterale  del  testo, 
la  quale,  secondo  loro,  serve  mirabilmente  a  far  impratichire 
nella  versione ,  cosi  da  potere  in  tempo  non  l-ungo  cammi- 
nare franco  da  sé,  e  fa  sì  che  chi  abbia  pazientemente  se- 
guito tali  osservazioni  si  trova  alia  fine,  come  per  incanto^ 
padrone  di  quella  sintassi  che  lo  aveva  forse  sconfortato, 
quand'era  costretto  ad  impararla  nella  sua  teoretica  aridità. 

Convien  pure  che  diamo  un  saggio  anche  di  quel  metodo 
incantevole,  che,  al  dire  dei  due  traduttori,  opera  simili  mi- 
racoli, quando  lo  scolare  per  lavoro  di  casa  avrà  copiata  pu- 
ramente e  semplicemente  la  loro  versione  letterale  e  qual- 
cuna delle  loro  osservazioni,  aggiungendo  Tanalisi  prediletta 
dal  prelodato  sig.  Tummolo. 

Prendiamo  subito  a  p.  8  il  §  2  :  tujv  ^oujv,  tujv  iTriraiv,  dipen- 
dono da  apxoviei;.  —  oì  KaXoujLievoi  vojneT?,  che  vengono  detti, 
chiamati  pastori.  àféXa?,  d'ordinario  dicesi  solo  di  buoi  e  pe- 
core, qui  di  animali  domestici  in  particolare. —  ?ti  toìvuv,  serve 
ad  introdurre  un  nuovo  pensiero  «e  di  più»  —  ujq)eXou|névoic; 
àn  aÙToiv,  a  coloro  che.  traggono  da  essi  vantaggio,  diverso 


altro  che  :  i  signori  maestri  imparino  innanzi  tutto  il  greco  per  poter 
mettere  un  argine  alla  ignoranza  dei  loro  scolari,  »  Per  buona  ventura 
siamo  in  grado,  per  quest'ultima  parte  deirosservazione  del  critico  te- 
desco, di  poter  asserire  che,  sebbene  non  informali  particolarmente  del- 
l'andamento dello  studio  del  greco  in  quest'importantissima  parte  d'I- 
talia ,  abbiamo  il  piacere  di  conoscere  bel  numero  d'insegnanti  di 
filologia  classica  usciti  dalia  Scuola  normale  di  Pisa ,  dall'Accademia 
di  Milano,  dall'Università  di  Torino,  che,  ben  versali  nelle  classiche 
discipline,  insegnano  secondo  buon  metodo  anche  nell'Italia  meridio- 
nale; per  cui  amiamo  credere  che  il  libro  del  sig.  Tummolo  rappresenti 
piuttosto  l'insegnamento  in  cer;e  scuole  particolari,  che  qui  non  occorre 
nominare. 


-281  - 
da  iLqpeX.  ùTr'aòTuiv  che  da  essi  sono  vantaggiati  —  èit'  oùòc'va?, 
in  plur.  a  motivo  del  seg.  èm  toutou*;,  conf.  7,  5,  64,  oùbdv€<; 
Yàp  Tti<JTÓT€pa  IpTct  àtrebeiKVUVTO . . .  tujv  cùvoux^v  «  nessuno 
diede  prove  maggiori  dì  fedeltà  che  gli  eunuchi.  »  Aggiun- 
gendo a  queste  spiegazioni  la  versione  letterale  del  passo 
che  trovasi  a  p.  6,  noi  domandiamo  che  lavoro  resti  a  fare 
a  colui  che  deve  studiare  davvero  il  greco  e  prepararsi,  con 
la  fatica  che  farà  in  questo  libro,  a  più  estese  letture? 

Ma,  forse  ci  risponderanno,  sul  titolo  puossi  leggere 
«  versione  dall'originale  tedesco  »,  dunque  abbiamo  dato 
agli  Italiani  uno  di  quei  tanto  vantati  libri  scolastici  della 
Germania.  Adagio,  signori  miei.  Anche  nella  letteratura 
scolastica  tedesca  vi  son  i  libri  cattivi,  come  in  quella  di 
qualsiasi  altra  nazione,  e  voi  vi  siete  proprio  appigliati  ad 
uno  di  questi  —  colle  migliori  intenzioni  del  mondo,  chi 
ve  lo  n^a?  —  ad  uno  di  questi,  che  fa  compagnia  alle 
edizioni  francesi  colla  versione  iuxta  —  lineare^  e  che  un 
buon  insegnante  di  lingue,  che  ha  criterio  pedagogico ,  non 
tollera  nelle  mani  de' suoi  scolari,  mentre  gli  intelligenti 
fautori  dei  classici  studii  non  vorrebbero  che  far  conoscere 
il  meglio  delle  straniere  produzioni  filologiche  e  scolastiche, 
af&nchè  Fltalia,  i  cui  .•nigliori  ingegni  si  dovettero  con- 
sumare per  conquistare  la  sua  indipendenza  e  libertà,  mentre 
altre  nazioni  poterono  dedicarsi  al  tranquillo  lavoro  degli 
studii  e  continuare  Topera  iniziata  in  Italia  nella  splendida 
epoca  del  rinascimento,  possa  il  più  presto  possibile  anche 
in  questo  ramo  dell'umano  sapere,  come  in  tutto  il  resto, 
gareggiare  a  prò'  dell'intiera  umanità  con  le  nazioni  più 
progredite  del  mondo  moderno. 

Torino,  17  novembre  187». 

G.    MULLER. 


Kjvista  di  filologia  ecc.,  I. 


—  282  — 

Della  distinzione  tra  i  Britanni  o  Brittoni  dell'  isola  e  i 
Britanni  o  Brittoni  del  continente  e  della  sede  di  questi 
ultimi  nelle  pr  opifici  e  delVimpero  romano.  —  Dissertazioni 
tre  di  Vincenzo  De-Vit.  —  Modena,   1868-1872. 

Il  dotto  e  modesto  compilatore  del  nuovo  Lessico  For- 
celliniano  e  deir  Onomastico  (i),  mentre  con  pazienza  in- 
stancabile e  diligenza  rara  attende  a  quei  due  grandi  lavori 
sopra  la  lingua  e  la  storia  latina,  compito  della  sua  vita 
letteraria,  trova  nulladimeno  di  tanto  in  tanto  il  tempo  e  il 
modo  di  scrivere  opuscoli,  minori  di  mole,  pari  di  dottrina, 
come  ne  rendono  testimonianza  le  tre  importanti  disserta- 
zioni che  annunciamo. 

Il  Borghesi  scriveva  essere  antica  la  controversia  «  se 
Brito^  Britto.,  Britannus,  Britdnnicus,  Britaunicianus 
siano  tutte  voci  di  un  medesimo  significato,  esprimenti  egual- 
mente Tabitante  della  Britannia  Magna  ossia  deiringhiiterra, 
o  pure  se  le  prime  due  dinotino  un  popolo  diverso;  e  in  tal 
caso  se  sìa  quello  stanziato  nell'antica  Armorica,  cioè  nella 
Bretagna  minore La  sentenza  che  ancor  vige  più  comu- 
nemente, confonde  i  Brittoni  coi  Britanni.  » 

Se  non  che  essendosi  nel  1 843  scopeno  e  pubblicato  dal 
cav.  Arneth  un  diploma  militare  di  Domiziano ,  nel  quale 
sono  ricordate  due  coorti  militanti  nella  Pannonia  nell'anno 
838  di  Roma,  la  Cohors  I.  Britannica  milliaria  e  la  Cohors 
I.  Brittonum  milliaria.,  lo  stesso  Borghesi  affermava  non 
potersi  dopo  di  ciò  negare  «  che  questi  due  popoli  siano 
manifestamente  distinti  tra  loro».  Richiamando  perciò  l'atten- 
zione dei  dotti  sopra  la  patria  e  la  sede  loro,  dichiarava  di 
volere,  quanto  p  sé,  lasciare  intatta  la  questione. 


(i)  Del  Lessico  uscirono  fascicoli  46  che  giungono  alla  fine  della 
lettera  R;  dell'Onomastico  fascicoli  i3  che  vanno  sino  alla  voce  CHIOS. 


—  283  — 

L'egregio  Vincenzo  De-Vit  si  accinse  a  risolverla,  e  chia- 
mati in  rassegna  tutti  i  passi  degli  antichi  autori,  e  recate 
in  mezzo  le  iscrizioni ,  ne  cavò  le  conclusioni  seguenti  : 
1°  che  doveansi  di  necessità  distinguere  i  Britanni  dell'i- 
sola dai  Brittoni  del  continente;  2°  che  parte  di  questi  in 
antico  dovettero  passare  nell'isola  cui  diedero  il  proprio 
nome ,  e  parte  rimaner  tuttavia  nel  continente  ;  3°  che  i 
Britanni  del  continente,  continuando  il  movimento  di  emi- 
grazione, discesero  nelle  terre  dell'impero  romano,  dove 
furono  incontrati  e  quindi  soggiogati  dai  Romani,  i  quali, 
a  distinguerli  dagli  isolani,  chiamarono  questi  Britanni, 
quelli  Bri  toni  o  Brittoni,  pur  durando  promiscuo  l'uso 
della  denominazione  di  Britanni  per  l'uno  e  l'altro  popolo, 
e  presso  il  volgo  e  dove  quella  distinzione  legale  non  ap- 
parisse strettamente  necessaria  ;  4**  e  finalmente  che  i  Brittoni 
del  continente  al  momento  della  invasione  dei  Barbari  nelle 
Provincie  romane  passarono  nell' Armorica,  cui  diedero  in 
appresso  il  nome  di  Britannia  minore. 

Nella  prima  delle  tre  dissertazioni  di  cui  ragioniamo, 
Pàutore  procedendo  in  ordine  inverso,  dimostrò  essere  im- 
possibile che  gli  abitanti  deir  isola  potessero  sbarcare  nella 
Armorica,  al  tempo  della  invasione  Anglo-Sassone,  in  nu- 
mero tale  da  occupare  quella  parte  delle  Gallie  e  dominarla, 
e  chiarì  che  l' Armorica  erasi  anzi  in  allora  già  resa  indi- 
pendente da  Roma.  Proseguendo  l'assunto  suo,  prova  con 
un  passo  di  Plinio  il  vecchio,  che  sino  dal  primo  secolo 
dell'impero  i  Britanni  abitavano  nella  Gallia  Belgica  {Hist. 
Nat.  IV,  e.  3,  §  106);  al  qual  proposito  giova  rammentare 
che  Plinio,  come  quegli  che  avea  militato  in  Germania, 
conosceva  di  per  se  stesso  e  i  popoli  e  i  luoghi  che  andava 
descrivendo.  Il  De-Vit  inoltre,  colla  testimonianza  di  alcune 
lapidi,  argomenta  che  altre  tribù  di  questo  popolo  esistevano 
contemporaneamente  in  altre  pani  della  Germania  e  lungo 


—  284  — 
il  Reno;  donde  inferisce  che  essi  Britanni  doveano  di  ne- 
cessità avere  a  madre  patria  una  regione  più  settentrionale*, 
e  questa  riconosce  nella  Brittia  di  Proccpio,  scrittore  vis- 
suto, è  vero,  assai  più  tardi,  ma  di  molta  autorità,  e  finora 
non  bene  dagli  eruditi  interpretato,  i  quali  non  vollero  scor- 
gere nella  Brittia  di  lui  altro  che  la  stessa  Britannia. 

Nella  seconda  dissertazione  passa  in  rassegna  tutte  le 
lapidi  che  ricordano  le  coorti  dei  Brittoni  e  le  coorti  Britan- 
niche, e  rafferma  che  fra  tutte  le  ipotesi  che  è  lecito  fare, 
quella  sola  è  plausibile,  che  riconosce  nei  Brittoni  del  con- 
tinente un  popolo  geograficamente  diverso  dai  Britanni  del- 
l'isola; e  solo  mercè  cotesta  distinzione  potersi  spiegare  i 
luoghi  degli  autori  che  ne  parlano  e  che  il  nostro  scrittore 
raccoglie  e  illustra  acconciamente. 

Nella  terza  ed  ultima  dissertazione  si  dimostra  che  i  Bri- 
tanni erano  già  conosciuti  ai  Romani  negli  ultimi  tempi 
della  repubblica,  e  che  furono  soggiogati  da  Augusto  stesso. 
Nuova  e  stringente  ne  pare  a  tal  proposito  la  illustrazione 
deirOde  V  del  lib.  3'  di  Orazio  :  Ccelo  tonantem  credidimus 
Jovem  Bequare,  nella  quale  quéiVadJectis  Britanni  imperio 
tornò  sempre  aspro  e  forte  ai  commentatori.  Né  meno  cal- 
zante è  r  interpretazione  del  Virgiliano  Purpuream  intexti 
tolltmt  aulaea  Britanni  (della  Georg.  Ili,  290),  ed  ingegnosa 
l'altra  deirepigramma,  pur  esso  di  Virgilio,  conservatoci  da 
Quintiliano  nel  VII  delle  Istituzioni,  contro  il  Thucydides 
Britannus^  C.  Annio  Cimbro. 

Dopo  la  pubblicazione  della  prima  dissertazione  e  innanzi 
che  venissero  in  luce  la  seconda  e  la  terza,  il  dotto  Carlo 
Promis  in  una  sua  memoria  illustrativa  della  iscrizione 
Cuneese  di  Catavigno,  figlio  di  Ivomago,  soldato  nella  Coorte 
III.  dei  Britanni,  inserita  nel  voL  26  della  Serie  seconda 
delle  Memorie  della  R.  Accademia  delle  Scienze  di  Torino, 
propugnò  l'opinione  che  Britanni  e  Brittoni  significavano 


—  285  - 
non  due  popoli  di  stirpe  differente,  ma  un  solo  e  medesimo 
popolo,  abitante  nell'isola  con  due  nomi  diversi:  col  primo 
designarsi  i  latini  o  romanizzati,  col  secondo  i  tributarli  o 
patteggiati,  e  così  pure  quelli  rimasti  indipendenti.  Le  due 
voci  esprimevano  adunque  una  diversa  condizione  politica, 
secondochè  l'abitante  godeva  o  no  del  diritto  italico. 

Per  la  qua!  cosa  anche  il  Promis  ammetteva  una  distin- 
zione tra  Britanni  e  Brittoni.  Ma  la  ipotesi  sua,  oltreché 
non  è  confortata  da  alcun  documento,  non  sembra  accet- 
tabile, perchè  (osserva  il  De-Vit)  essa  è  affatto  contraria 
alle  consuetudini  dei  Romani,  i  quali  nelle  provincie  da  essi 
conquistate,  e  ne  conosciamo  assai  bene  parecchie,  mai  non 
usarono  distinzione  si  odiosa  tra  popolo  e  popolo  di  una 
stessa  nazione.  Sarebbe  questa  dunque  una  novità  che  non 
ha  esempio  alcuno  in  tutta  quanta  la  storia.  Altre  difficoltà 
poi  sorgerebbero,  dove  si  considerassero  partitamente  i 
tempi  della  formazione  delle  coorti  e  delle  ale  Britanniche, 

La  opinione  del  De-Vit  per  contro  poggia  sopra  docu- 
menti sinceri,  ed  è  conforme  alle  indicazioni  storiche  che 
abbiamo.  Dopo  il  suo  lavoro  la  distinzione  geografica  dei 
due  popoli  giudichiamo  un  fatto  nella  storia  accertato. 

Taluni  crederanno  forse  necessarie  maggiori  prove  prima 
di  affermare  risolutamente  che  la  Briitia  di  Procopio,  cioè 
la  penisola  del  lutland  fu  la  vera  sede  primitiva  dei  Brittoni, 
Nulladimanco  codesta  ipotesi  non  temeraria  è  meritevole  di 
accurate  indagini,  e  ninno  meglio  dei  dotti  Danesi  e  dei  vicini 
Tedeschi  potrebbero  applicarvi  diligente  studio,  come  quelli 
che  da  tradizioni,  da  afiìnità  linguistiche  e  da  nuove  sco- 
perte lapidarie  sono  meglio  in  grado  di  compiere  con  frutto 
le  ricerche  desiderate. 

Roma,  novembre  1871. 

Domenico  Carutti, 


-  286  — 

Jacob  Burckhardt,  Die  Cultur  der  Renaissance  in  Italien, 
Lipsia,   1869,  2*  edizione  riveduta. 

Quantunque  noi  dessimo  contezza  di  questo  importante 
lavoro  di  critica  storico-letteraria  sino  dal  marzo  dell'anno 
1 869,  nel  giornale  di  Firenze,  la  Nazione ,  pure  ne  è  parso, 
che  ai  lettori  della  Rivista  non  tornerà  forse  sgradito  co- 
noscere un  po'  da  vicino  un'opera  che  s'attiene  strettamente 
alla  storia  di  uno  de'  più  splendidi  periodi  dello  incivili- 
mento e  della  cultura  classica  greco-latina.  —  Vero  è  che 
agli  studiosi  di  quell'  epoca  storica ,  che  chiamano  del  Ri- 
nascimento, gioverebbe  forse  più  e  meglio  la  lettura  dell'o- 
pera del  Voigt(i)',  ma  oggimai  uno  studio  compiuto  di 
quell'epoca  non  pare  più  possibile  ,  senza  uscire  un  poco 
dal  campo  della  nuda  erudizione,  e,  per  ciò  stesso,  giudi- 
chiamo che  il  libro  del  Burckhardt  ne  porga,  se  non  ma- 
teriali nuovi  di  indagine,  ma  certo  un  nobile  esempio  e  uno 
efficace  incitamento  a  rintracciare  le  ragioni  storiche  del  no- 
stro incivilimento ,  nelle  loro  attinenze  collo  spirito ,  che 
aleggia  per  entro  agli  studi  dell'antichità  classica. 

La  prima  edizione  di  quest'opera  del  Burckhardt  vide  la 
luce  in  Basilea  nel  1860,  e  questa  seconda,  pubblicata  dal 
S.eemann  in  Lipsia,  non  è  che  una  ristampa  di  quella  né 
più  né  meno;  all'infuori  di  qualche  lievissima  aggiunta  nel 
testo  e  nelle  annotazioni ,  che  sono  a  pie  di  pagina.  Nella 
breve  prefazione,  che  va  innanzi  all'opera  nella  nuova  edi- 
zione, è  detto  che  l'autore  riconosceva  pienamente  la  con- 
venienza di  rimaneggiare  ì  materiali  del  suo  lavoro  nel- 
l'occasione di   questa    ristampa;    ma  che  di  fronte  all'im- 


(i)  Die  Wiederbelebung  des  classischen  Alterthums;  Berlino,  Reimer, 
1859. 


-287  - 
possibilità,  nella  quale  egli  versava,  di  fare  una  dimora  al- 
quanto lunga  in  Italia,  tolse  meglio  di  mantenere  all'opera 
la  sua  forma  primitiva,  piuttosto  che  alterarne  la  fisiono- 
mia col  semplice  dislocamento  di  qualche  capitolo,  o  col- 
rinserzione  di  qualche  aggiunta. 

Questa  confessione,  attinta  alla  coscienza  del  progressivo 
svolgimento  delle  idee  nel  campo  delle  sloriche  discipline  , 
se  dall'una  parte  onora  altamente  il  chiarissimo  autore,  ne 
ammonisce  dall'altra,  che  oggimai  il  sapere  storico  anela  al 
conquisto  obbiettivo  del  vero,  né  permette  a  chicchessia  di 
riposare  tranquillo  sui  proprii  allori ,  mentre  la  febbre  in- 
cessante deir indagine  accumula  materiali  sempre  nuovi,  e 
la  d  mane  preme  e  incalza  Toggi,  con  Tansia  di  chi  si  af- 
fretta alla  meta.  A  dir  vero,  lavori  di  maggior  mole  intorno 
all'epoca  del  Rinascimento  non  vide  neppure  la  Germania, 
negli  anni  corsi  dal  1861  al  1868:  il  tutto  si  restringe  a 
qualche  monografia  ;  nel  qua!  genere  ne  piace  di  ricordare 
quella  di  Giulio  Schueck  intorno  ad  Aldo  Manu:{io^  che 
vide  la  luce  in  Berlino  nel  1862-,  e  l'altra  àé.  dottor  Màhly, 
intorno  ad  Angelo  Poli-{iano^  edita  in  Lipsia  coi  tipi  del 
Teubner,  l'anno  1864  (i).  In  Italia  il  primo  che,  secondo 
noi,  in  quest'ultimo  decennio,  détte  all'indagine  intorno  alla 
coltura  e  allo  incivilimento  di  quell'epoca,  un  indirizzo  molto 
somigliante  quello  avviato  dal  Voigt  e  dal  Burckhardt,  fu 
l'illustre  Settembrini  nelle  sue  Legioni  di  letteratura  italiana. 
Geno  alcuni  capitoli  del  Ter:{0  periodo  del  volume  I.  di 
quest'opera  presentano  molte  attenenze  coUe  opere  speciali, 
di  cui  è  discorso. 

E,  senza  dubbio,  la  storia  del  Rinascimento   delle  lettere 


(i)  Di  questa  abbiamo  una  versione  edita  da  F.  Brunetti  in  Vene- 
zia nel  i865,  E  giova  ricordare  anche  lo  scritto  dell'eminente  filologo 
G.  Vahlen  su  Lorenzo  Valla  ,  inserito  nelle  pubbiica2Ìoni  dell'Acca- 
demia delle  scienze  di  Vienna. 


—  ass- 
iri Italia,  ove  non  la  si  tramuti  in  un  quadro  dello  incivili- 
mento, si  restringe  in  una  ributtante  rassegna  di  opere  che 
l'età  progredita  iia  dannato  airobblio  :  ignara  certamente  che 
fin  là  s'addentrano  le  profonde  radici  delia  sapienza  pre- 
sente. N'  è  ignoto  del  resto,  se  Fautore  delle  Le^^ioni  abbia 
avuto  notizia  delie  opere  del  Burckhardt  e  del  Voigt^  quan- 
tunque ne  sembri  di  vederne  qua  e  colà  riflesso  io  spirito, 
e  il  modo  non  foss'altro  di  concepire  le  movenze  e  il  vario 
atteggiarsi  della  cultura.  Saremmo  forse  piiì  disposti  a  cre- 
dere che  ai  Burckhardt  non  fosse  ignoto  il  volume  del  Set- 
tembrini nella  ristampa  del  suo  lavoro;  e  per  ciò  consen- 
tiamo con  lui,  quando  ne  confessa  che  una  seria  revisione 
dell'opera  l'avrebbe  forse  ravviato  per  altri  sentieri.  —  Ma , 
come  che  sia,  ci  parve  opportuno  l'avvertire  anche  le  più 
leggiere  risonanze"  del  pensiero  nostrale  collo  straniero,  an- 
che nella  supposizione  che  le  forze  operassero,  ciascuna  per 
sé,  o  non  avvertite  l'una  all'altra. 

E  già  da  pezza  che  gli  scrittori  stranieri,  i  Tedeschi  mas- 
sime, ci  accusano  di  egoismo  letterario,  e  ilevano  un  co- 
tale individualismo^  che  noi  chiame  ernmo  isolamento,  nelle 
nostre  ricerche:  pel  quale  siamo  impediti ,  colpa  il  nostro 
orgoglio,  di  unire  quasi  i  nostri  conati  a  grandi  intraprese! 
—  Che  al  genio  italiano  sia  connaturato  un  cotale  pendìo 
al  vivere  solitario,  al  lavoro  indi  duale,  noi  noi  vorremmo 
negare  ricìsamente;  ma  se  ciò  appunto  è  delPindole  nostra, 
e  venne  accresciuto  a  dismisura  dalla  disgregazione  e  quasi 
particolarismo  dei  volghi  italiani,  tanto  maggior  dolore  ne 
arreca  il  vedercelo  apposto,  come  brutto  vi\io  di  gelosia  da 
scrittori,  che  per  l'indole  de' loro  studi  dovrebbero  conoscere 
pili  e  meglio  quello  che  ne  si  deve  ascrivere  a  colpa  ,  e 
quello  che  perdonare  come  abito  di  natura,  addoppiatoci  da 
circostanze  meramente  esteriori.  Questo  rispondiamo  al  si- 
gnor Voigt ,  che  nella  prefazione  al  lavoro  surriferito  si  com- 


—  289  - 
piace  di  mettere  a  nudo  questa  debolezza  degli  Italiani  ;  e 
veniamo  al  proposito  nostro. 

L'opera  del  Burckhardt,  quantunque  si  riveli  a  prima 
fronte  come  lavoro  essenzialmente  tedesco,  pure  non  vi  senti 
per  entro  quella  pesantezza  di  apparato  critico,  quella  me- 
tafisica sottilità  di  forma  e  complessità  di  costrutto,  che  so- 
gliono rendere  di  così  difficile  accostamento  le  opere  lette- 
rarie di  quella  nazione  ,  del  resto  pregevolissime  per  ogni 
conto.  Anzi  ,  in  essa  alla  facilità  del  dettato  è  unita  una 
certa  peispicuità  di  pensiero  e  di  forma,  ed  una  disposizione 
così  equabile  e  discreta  del  materiale  illustrativo ,  da  ren- 
derne la  lettura  proprio  amena,  e  stava  per  dire  seducente. 

Il  signor  Burckhardt  non  attinse  al  certo  d'altronde,  che 
dalle  impressioni,  lasciate  in  lui  dal  nostro  bel  paese,  quel 
cotale  entusiasmo  giovanile,  quelPaurn  tiepida  e  molle,  che 
spira  per  entro  al  suo  lavoro  ;  ma  sopra  tutto  quella  be- 
nevolenza,  queir  affetto  per  l'Italia,  che  s'appalesa  in  tutti 
i  suoi  giudizi  intorno  alle  cose  nostre.  Questo  fare  be- 
nevolo ed  affettuoso  si  rivela  più  spiccatamente  in  alcuni 
luoghi  ,  nei  quali  il  carattere  puramente  obbiettivo  dell'o- 
pera si  eleva  a  tal  grado  d'imparzialità,  da  parere  esage- 
rato ,  al  punto  da  fargli  sospendere  ogni  giudizio  intorno  a 
fatti,  o  a  conseguenze  di  fatti  ,  che  più  da  vicino  gli  son 
parsi  riflettere  il  sentimento  e  l'indole  della  nostra  nazione, 
e  che  per  ciò  appunto  egli  straniero  stimò  pericoloso,  o 
poco  delicato  voler  apprezzare  e  discutere.  —  In  verità,  che 
di  rado  assai,  crediamo,  o  quasi  mai  incontra  di  trovare 
stranieri  così  discreti  ed  equi  nell' intromettersi  delle  cose 
nostre. 

Tutta  quanta  la  materia  dell'  opera  è  scompartita  in  sei 
sezioni,  ciascuna  delle  quali  è  ridivisa  in  un  certo  numero 
di  capitoli ,  il  contenuto  dei  quali  è  reso  quasi  prospettico 
da  brevi  glosse  marginaU.  —  Ecco  i  titoli  delle  sezioni  :  I.  Lo 


—  29()  — 
Stato,  quale  creazione    artificiale.     II.    Lo  svolgimento  del- 
rindividuo.  HI.  Risvegliamento  dello  spirito  antico.  IV.  Di- 
scoprimento   del  mondo  e    dell'  uomo.    V.   Società  e  feste. 
VI.  Moralità  e  religiosità. 

Gli  Stati  d'Italia,  dice  l'autore  a  pag.  71  ,  erano  per  la 
massima  parte  opera  della  ritiessione,  cioè  creazioni  statuite 
sopra  fondamenti  ben  calcolali  e  nettamente  tracciati ,  così 
che  anche  le  attenenze  scambievoli  e  col  di  fuori  doveano 
di  necessità  presentarsi  come  un'  opera  dello  ingegno.  —  La 
speciale  costituzione  degli  Staii  italiani,  vuoi  delle  repubbliche 
vuoi  de'  principati,  è  da  considerarsi,  se  non  come  Tunica, 
certo  però  come  la  principalissima  cagione,  che  dell'italiano 
fece  l'uomo  dei  tempi  moderni,  molto  prima  che  d'ogni  al- 
tro popolo  europeo  (p.  104).  —  Qui  in  Italia,  molto  prima 
che  altrove  ,  s' iniziò  uno  studio  obbiettivo  dell'  ente-Stato  , 
di  contro  al  quale  sì  eleva  potente  il  soggetto^  e  l'uomo  ri- 
conosce e  afferma  sé  stesso  quale  individuo. 

Così  un  tempo  l'uomo  greco  avea  affermata  la  individua- 
lità propria  di  contro  al  barbaro.,  l'arabo  di  contro  alle  al- 
tre razze  dell'Asia.  —  Questo  risveglio  del  sentimento  della 
persona  cominciò  in  Italia  assai  per  tempo,  intorno  al  se- 
colo X;  però  la  massima  affermazione  di  esso  cade  sullo 
scorcio  del  XIII,  allorquando  rAllighieri  nella  Divina  Com- 
media^ rilevava  le  linee  piìi  spiccate  della  fisionomia  italiana. 

Più  tardi  diventa  una  necessità  del  principato  ,  fondato 
colla  violenza  ,  lo  svolgere  in  sommo  grado  la  persona  del 
tiranno ,  del  condottiero,  e  appresso  anche  quella  del  poeta, 
dell'  uomo  erudito ,  del  confidente.  I  quali  tutti  sono  co- 
stretti ad  indagare  tutte  le  sorgenti  di  loro  potenza  intellet- 
tiva. E  cosi  anche  ne'  governi  popolari  non  mancarono  vivi 
impulsi  allo  svolgimento  della  persona  ,  mentre  tra  il  va- 
riare delle  parti  l' individuo  dovea  di  necessità  raccogliersi 
in  sé  medesimo  air  uopo  di  mantenere  il  suo  legittimo  va- 


—  291  — 
lore  (pag.  106-7).  Insomma  dal  i3oo  in  poi  Stato  e  Indi- 
viduo intendono  qui  da  noi  a  dare  risalto  alia  propria  esi- 
stenza; e  in  questo  fatto  il  signor  Burckhardt  vede  la  pre- 
parazione storica  dell' incivilimento  italiano  all'epoca  della 
Rinascenza  (sez.  i.  II). 

Nella  storia  poi  di  questo  incivilimento  l'autore  crede  di 
poter  distinguere  due  elementi  ,  il  primo  dei  quali  è  costi- 
tuito da  tutti  que'  germi  di  nuova  cultura,  che  egli  è  venuto 
annoverando  sin  qua,  come  involuti  nel  carattere  della  na- 
zione; l'altro  elemento  è  porto  dalla  reviviscenza  dello  spi- 
rito afitico,  che  sotto  le  spoglie  del  classicismo  si  consocia 
al  nuovo  (p.   1 36). 

L'autore  crede  che  T appellazione  di  Rinascitnettto  non 
convenga  che  in  parte  a  tutta  quelPepoca,  che  comunemente 
suolsi  designare  con  essa  ;  parendo  a  lui  che  gran  parte  del- 
l'indirizzo preso  dalla  nostra  nazione  sarebbe  stato  possibile, 
o  potremmo  per  lo  meno  raffigurarcelo  come  possibile,  an- 
che senza  quell'elemento  antico.  Però  egli  concede  che  le 
forme  esteriori  di  quell'indirizzo  subirono  assolutamente  la 
pressione  delio  elemento  antico  redivivo,  di  guisa  che  se  ne 
ingenerò  uno  strettissimo  connubio ,  sotto  il  cui  peso  restò 
vinto  e  dòmo  il  mezzogiorno  d'Europa.  E  lo  spirito  nazio- 
nale vi  perdette  gran  parte  della  sua  indipendenza,  la  quale 
iattura  però  non  è  a  deplorare  ad  ugual  misura  nel  campo 
delle  produzioni  intellettive.  Così  ad  esempio  essa  è  mi- 
nore nelle  arti  rappresentative  che  nelle  arti  della  parola  , 
massime  nella  letteratura  della  rinnovellata  latinità  (sez.  111). 

Un  effetto  pertanto  immediato  della  consociazione  della 
personalità  italiana,  svolta  per  forza  propria,  e  dello  ele- 
mento antico,  che  ne  colora  quasi  la  fisionomia,  fu  quel  ra- 
pido di  largarsi  delle  cognizioni  attenenti  al  mondo  esteriore 
e  all'uomo  {pag.  222,  sez.  IV).  Questo  fenomeno  è  consta- 
tato anche  dal  Settembrini  {Le:{ioni,  voi.  I,  pag,  Sbg)-,  però 


—  292  — 
in    seguito  ad  una  premessa  tutta  sua  ;  «  perchè,  cioè,  tutti 
gli  uomini  intendevano   il    cristianesimo    m    un    modo    più 
largo.  » 

A  rendere  compiuto  il  suo  quadro  l'autore  ne  dice  (sez.  V), 
che  la  civiltà  italiana,  all'epoca  della  rinascenza,  anche  nei 
riguardi  della  socialità,  ci  afferma  qualche  cosa  di  partico- 
lare, che  la  contraddistingue  nettamente  dalla  medioevale, 
e  ne  fa  spiccare  la  maniera  del  vivere  moderno.  Subito  al- 
Tingresso  nelP  epoca  egli  trova  mutata  di  già  la  base  della 
socialità  ifcig.  283),  vede  tolto  via  il  disvario  dei  ceti  nei 
rapporti  della  urbana  conviven/.a  ,  trova  un  ceto  colto , 
civile  proprio  proprio  nel  significato  moderno  della  parola, 
dentro  dal  quale  la  nascita  e  il  legnaggio  soltanto  allora  ac- 
quistano un  valore,  quando  s'accompagnino  a  ricchezze  avite, 
e  ad  un  ozio  sicuro  e  durevole.  —  E  superfluo  il  dire,  che 
V umanesimo  usufrutto  largamente  queste  aspirazioni  all'  u- 
guaglianza  sociale,  a  rincalzare  le  sue  teoriche  negative  in- 
torno alla  nobiltà  {pcig.  285). 

Segue  finalmente,  la  sesta  Sezione,  in  cui  è  discorso  della 
moralità  e  della  religiosità  degli  italiani  all'epoca  dei  rina- 
scimento. Qui  l'autore  fa  una  duplice  riserva,  l'una  gene- 
rale come  stcrico,  l'altra  particolare  a  se,  come  a  straniero. 

Come  storico  egli  crede,  che  l'indagine  intorno  alle  at- 
tenenze delle  singole  nazioni  col  mondo  soprasensibile,  cioè 
colla  divinità,  colla  virtù,  colla  immortalità,  non  sia  possi- 
bile, che  fino  ad  un  certo  limite,  massime  in  ordine  alla  mo- 
ralità. L'intendim.ento  umano  non  ha  forze  sufficienti  a  com- 
porre la  somma  delle  svariate  gradazioni  e  quasi  sfumature, 
che  la  storia  delle  nazioni  ci  profferisce  in  questo  rispetto. 
D'altronde  un  gran  popolo,  il  cui  incivilimento  e  le  cui  geste 
sono  strettamente  connesse  colla  vita  di  tutto  il  mondo  mo- 
derno, può  battere  le  sue  vie,  poco  curioso  delle  lodi  e  del 
biasimo  de' teoretici  speculatori. 


-  293- 

Come  straniero  poi,  l'autore  non  si  crede  competente  a 
cogliere  i  battiti  di  una  nazione,  diversa  dalla  sua,  mal  po- 
tendo giudicare,  sopra  fenomeni  puramente  esteriori,  di  ciò 
che  scorre  negli  strati  più  interni,  onde  s' intesse  il  nazio- 
nale organismo,  mal  potendo  discernere  quanta  parte  della 
risultante  delle  varie  forze  sia  da  ascrivere  all' indole  degli 
Italiani,  quanta  agli  avvenimenti  esteriori.  Insomma  in  co- 
siffatti giudizi  havvi  un  elemento  soggettivo,  che  assai  di  leg- 
gieri può  turbarne  la  serenità  ^p^g.  341,  342).  Tutto  com- 
preso però  Tautore  crede  di  poter  dire,  che  T Italia,  all'en- 
trare del  secolo  XVI,  andava  incontro  ad  un  profondo  ri- 
volgimento. L'autore  non  inclina  ad  accagionarne  lo  scadi- 
mento morale,  bensì  il  fatto,  che  gli  Italiani  sono  il  popolo, 
nel  quale  si  svolga  di  preferenza  l'individuo;  e  per  ciò  stesso 
uscirono  di  quelle  vie  della  moralità  e  della  religiosità,  che 
essi  come  stirpe  avriano  potuto  bauere  {pag.  343).  Cosi  che 
il  precoce  svolgimento  della  personalità  italiana  fu  cagione 
di  grandezza  nel  campo  intellettivo,  fu  principio  di  scadi- 
mento nel  campo  morale  e  politico.  —  Ecco  le  tesi  del 
libro. 

Lasciando  per  ora  da  parte  questo  risultamento  finale, 
diremo  prima  di  tutto  quello,  che  abbiamo  provato  dentro 
di  noi  dopo  la  prima  lettura  di  questo  lavoro.  —  Ci  è  parso 
adunque  un  libro,  dettato  con  entusiasmo  giovanile,  in  ser- 
vizio però  più  delVarie^  che  della  scienza.  Ciò  ne  sembra 
manifesto  dal  vedere  l'autore  massimamente  inteso  a  dare 
risalto  a  quei  lati  della  vita  italiana,  nei  quali  essa  ci.  si 
appresenta  svolta  più  artisticamente,  e  quasi  in  modo  dram- 
matico. Ed  è  indubitato,  che  molti  tratti  della  fisionomia  di 
quella  vita  sono  sovranamente  drammatici.  Lo  sforzo  con- 
tinuo ed  evidente  dell'autore  a  costituire  l'individuo  —  na- 
zione fa  sì  che  egli  veda  tutti  i  momenti  della  vita  italiana 
convergere  al  nucleo  fatale  delia  personalità;  né  gli  si  può 


—  «4  — 

contestare  il  merito  di  esservi  in  qualche  parte  riuscito,  mas- 
sime nel  quadro  sbozzato  nella  prima  Sezione  del  libro. 
L'autore  indusse  una  specie  di  fatalismo  nello  svolgimento 
di  cene  fasi  della  vita  nazionale  italiana,  e  l'evidente  ten- 
denza a  rendere  simmetrico  il  tutto  gli  rese  inavvertiti  certi 
punti  di  passaggio  nella  nostra  storia,  i  quali  ci  sembra  di 
sommo  momento  di  rilevare. 

Il  periodo  d'incivilimento,  al  quale  il  nostro  autore  ha 
estese  le  sue  indagini,  prende  le  mosse  dalla  fine  del  se- 
colo XII,  e  va  fino  al  tempo  delle  signorie  straniere  in  Italia^ 
ciò  è  a  dire  s'addentra  nel  secolo  XVI,  Il  fuoco  però  al 
quale  convergono  tutti  i  raggi  della  ricerca  storica,  è  quel- 
l'epoca, in  che  si  vengono  formando  via  via  in  Italia  quei 
principati,  fondati  sulla  violenza,  e  sorretti  da  tutte  quelle 
arti  arcane  d'Imperio,  la  somma  delle  quali  fé' parere  al- 
l'autore lo  stato  COSI  costituito  un  artificioso  organismo,  ar- 
chitettato dal  genio  solitario,  ma  artistico  degli  Italiani. 

Questo  modo  di  considerare  gli  avvenimenti  umani,  come 
il  risultamento  cioè  di  certe  forze  arcanamente  operanti  nel- 
l'interna coscienza  delle  nazioni,  se  giova  molto  alla  simme- 
tria della  composizione  artistica ,  se  esercita  una  cotale  se- 
duzione sulla  fantasia  dello  indagatore,  non  è  però  scevro 
di  pericoli,  tanto  piìi  gravi,  quanto  meno  avvertiti,  e  che  ci 
conducono  talora  ad  induzioni,  che  hanno  tutta  l'apparenza 
della  obbiettività,  ma  nel  fatto  sono  un  parto  puro  e  mero 
della  nostra  individuale  apprezziazione,  sono  soggettive  al- 
l'ultimo. 

Pare  a  noi,  che  il  lungo  periodo  assegnato  dall'autore  alla 
civiltà  del  rinascimento,  dal  secolo  XIII -XVI,  presenti  fe- 
nomeni morali  e  politici,  ai  quali  uè  puossi  attribuire  identità 
d'origine,  né  uniformità  e  quasi  simmetrìa  d'andamento  e 
movenza.  —  Che  il  periodo  di  risveglio  intellettivo  cominci 
in  Italia  coU'Aìlighieri,  anzi,  prima  ancora,  coll'Acqifinate 


-  2S5- 
è  cosa  che  facilmente  concediamo.  Ma  tra  la  civiltà  iniziata 
dalla  Divina  Commedia,  e  quella  indotta  dall'opera  del  Pe- 
trarca, del  Boccaccio,  e  di  quelli ,  che  chiamano  umanisti, 
ci  corre  di  molto.  Certamente  è  difficile  dire,  per  quali  vie 
sariensi  messe  le  nostre  lettere  e  la  nostra  civiltà  senza  quella 
reviviscenza  dello  spirito  antico,  chiamato  a  vita  dagli  studi 
classici  *,  ma  né  per  questo  faremo  un  tutto  del  prima  e  del 
poi,  molto  meno  consentiremo  coll'autore,  là  dove  dice,  che 
la  fisionomia  della  civiltà  italiana  non  ebbe  dal  classicismo 
che  una  cotale  tinta  d'antico,  mentre  invece,  a  nostro  av- 
viso, esso  operò  e  profondamente  sull'indole  nativa  del  ca- 
rattere nazionale  del  nostro  incivilimento. 

Quell'individualismo,  che  l'autore  considera  come  carat- 
tere della  civiltà  italiana  nel  periodo  del  rinascimento  si  era 
di  già  svolto,  e  da  pezza,  prima  del  rinascimento,  sotto  la 
forza  delle  cose,  che  s'instaurarono  via  via  in  Italia  di  fronte 
al  Papato,  di  fronte  all'impero  nelle  lotte  di  quello  contro  a 
questo,  dei  comuni  contro  all'impero.  È  una  disgregazione 
permanente  cioè  delle  forze  della  nazione,  e  per  ciò  stesso 
un  parziale  raggruppamento  delle  medesime,  I  principati 
sursero  in  Italia  più  tardi,  quando  l'individualismo  dei  volghi 
era  passato  di  già  in  abito  ;  e  che  i  singoli  principati  si  stu- 
diassero di  mettere  innanzi  la  loro  persona,  stava  nella  na- 
tura loro.  —  A  dir  breve ,  v'ha  un  certo  ordine  di  farti  e 
di  idee,  che  l'autore  non  dovea  tirare  nel  giro  del  Rina- 
scimento, col  quale  non  possono  avere  che  un'attenenza 
assai  remota.  Sembra  oggimai  infatti,  che  per  civiltà  del  ri- 
nascimento sia  da  intendere  la  somma  di  que'  fenomeni 
morali,  che  si  svolsero  nella  coscienza  degli  Italiani  dap- 
prima e  degli  stranieri  dappoi,  conseguentemente  alla  re- 
staurazione del  classicismo. 

L'effetto  fu  complesso  sopì  ammodo  e  diverso  a  seconda 
del  terreno  sul  quale  esso  venne  operando,  —  Politicamente 


—  296  - 
da  noi  fu  nullo-,  perchè  dei  vani  conati  del  Cola  non  mette 
conto  roccuparci,  e  nel  resto  lasciò  le  cose  come  erano  ,  se 
non  peggiormente  affette,  per  l'abitudine  alla  servitù  resa  più 
tolierabile,  e  perchè  molte  menti  disviò  dietro  a  ideali  im- 
possibili   di   grandezze  passate.   —  Nelle    lettere  indusse  il 
lavorìo  della  riflessione,  della  imitazione  studiata,  della  ele- 
ganza-, preparò  insomma  il  nuovo  periodo  dell'arte.  —  Nella 
scienza  dilargò  daddovero  i   confini    del    mondo  esteriore , 
mercè  lo  spirito  d'indagine,  che  quando    dal  campo  morale 
fu  trasportato  in  quello  delle  esperienze,  partorì  que'  rnira- 
coU  di  gloria  al  Galileo,  al  Keplero,  al  Nevvion.  Nella  fede 
nulla  innovò  qui  da  noi,  all'infuori  di  qualche  concetto  pan- 
teistico qua  e  colà.  In  Germania  invece  chiamò  a  vita  la  Ri- 
forma. Da  noi  adunque  del  Rinascimento  si  vantaggiarono 
veramente  le  scienze  sperimentali-,  e,  quanto  all'altro  sapere, 
l'effetto  principalmente  notevole  ne    sembra    che  sia  stato 
questo  :  che  di  fronte  cioè  alla  potenza  invaditrice  del  dog- 
matismo della    sco'astica ,    crebbe  indipendente   un   sapere 
laico*,  come  nelle  lettere,  di  contro  alla  cavalierla  e  all'a- 
more, si  levò  potente  il  sentimento  di    una  cultura  ,  che , 
quantunque  antica ,   pure  trovava  vive  risonanze  nel  cuore 
degli  Italiani  d'allora,  e  ne  trova  oggidì  ancora. 

Uno  studio  accurato  dell'età  del  Rinascimento  noi  lo 
crediamo  più  che  utile,  necessario  anzi,  a  conoscere  la  sto- 
ria interiore  della  nostra  civiltà  e  delle  nostre  lettere.  Il 
lavoro  del  signor  Burckhardt  ne  porge  ottimi  materiali  a 
quest'uopo ,  e  sopra  tutto  un  nobile  incitamento.  Gli  è  in 
questo  senso ,  che  noi  abbiamo  stimato  opportuno  di  ri- 
chiamare l'attenzione  dei  lettori  della  ^{ivista  ad  un  ordine  di 
concetti  e  dì  opere,  che  s'attengono  strettamente  cogli  studi 
delPantichità  classica,  anzi  rivelano  in  tutta  la  loro  ampiezza 
l'alto  valore  di  questi  studi,  e  in  un  tempo,  nei  quale  l'Italia 
nostra  è  tutta  intesa  a  riandare  il  suo  passato,  per   ispin- 


—  sor- 
gersi poscia  con  nuova  lena  nelle  vie  deiravvenire.  —  Voglia 
il  Cielo,  che  tra  il  perenne  diventare  delle  cose,  gli  studi 
classici  trovilo  anche  in  Italia  quel  posto  che  risponda  alle 
splendide  tradizioni  del  nostro  passato,  all'indole  della  no- 
stra cultura,  e  ai  bisogni  della  nuova  civiltà. 
Rovigo,  novembre  1872. 

Gaetano  Oliva. 


GOn^OF^E'DO  HERMANN. 


28  novembre  1872. 

Cento  anni  or  sono,  in  questo  giorno,  ed  in  Lipsia,  la 
città,  nella  cui  università  furono  sempre  fiorenti  gli  studii 
filologici ,  vide  la  luce  un  uomo ,  di  cui  tutti  i  cultori  degli 
studii  classici  in  ogni  tempo  ricorderanno,  con  grata  me- 
moria, il  nome,  la  cui  operosità,  il  cui  sacro  zelo  neirisiruire 
la  gioventù,  quella  specialmente  che  si  consacra  alia  sua 
volta  all'insegnamento  delle  discipline  filologiche,  alla  pro- 
pagazione del  culto  del  bello  e  del  buono  mediante  lo  stu- 
dio dei  grandi  scrittori  dell' antichità  e  delle  grandi  opere, 
lasciateci  dai  Greci  e  dai  Romani,  saranno  sempre  di  no- 
bile esempio;  un  uomo,  che  meglio  forse  di  qualsiasi  altro, 
dalla  splendida  epoca  del  rinascimento  in  poi,  ha  saputo,  e 
con  più  eflScacia  sugli  animi  dei  suoi  uditori,  interpretare  le 
eterne  opere  della  greca  letteratura,  dei  poeti  tragici  in  ispecìe. 

È  debito  di  gratitudine  che  anche  la  nostra  JRmsta  in 
questo  giorno  ricordi  i  grandi  meriti  di  Godo/redo  Hermantty 
di  quel  grande  luminare  della  scienza  filologica,  di  cuìccn- 


—  29e~ 
tinaia  di  discepoli  e  di  allievi  dei  suoi  discepoli  hanno  gui- 
dato e  guidano  le  novelle  generazioni  alla  vera  e  profonda 
conoscenza  deirantichità  classica. 

Godofredo  Hermann  era  grande  come  filologo  ,  come 
erudiio,  come  insegnante,  come  uomo.  L'insegnare,  l'inter- 
pretare ai  giovani  i  sublimi  autori  antichi,  era  per  lui  una 
sacra  missione,  la  quale  con  indefesso  zelo  adempiva  in  una 
lunga  ed  operosissim.a  vita  (i),  in  cui  non  mai  ha  abbando- 
nato la  sua  cattedra  nel  Paolino  di  Lipsia,  nel  quale  lo  circon- 
davano centinaia  di  uditori  che  pendevano  dal  suo  labbro, 
alle  sue  parole  si  infiamn^avano,  e  che  poi  di  là,  come  apostoli 
dello  studio  dell'antichità  classica,  si  spargevano  per  le  scuole 
della  Germania  e  de'  paesi  vicini.  Come  insegnante  lo  pos- 
siamo chiamare  il  più  vigoroso  rappresentante  dell'umanismo 
de' tempi  nostri  -,  celebratissimo  fu  per  la  sua  facondia,  la  viva- 
cità e  chiarezza  della  forma,  la  singolare  precisione  nell'e- 
sposizione, il  suo  nobile  ardire  nell'esporre  i  suoi  convinci- 
menti, l'amore  per  la  verità,  il  metodo  impareggiabile  nella 
interpretazione  degli  scrittori.  Per  tutto  questo,  e  per  lo 
influsso  suo  pedagogico  sulla  gioventù,  è  stato  uno  dei  più 
grandi  maestri  che  la  Germania  abbia  avuto.  Della  lingua 
latina  con  tutta  la  sua  forza  e  bellezza  egli  si  valeva  come 
della  sua  propria,  e  l'usava  nelle  sue  lezioni,  che  versavano 
però  massimamente  sugli  scrittori  greci  :  lezioni  che  non 
verranno  dimenticate  da  chi  ebbe  la  fortuna  di  udirle. 

Ma  non  in  esse  sole  consumava  la  sua  operosità.  La  filo- 
logia classica  gli  deve  una  lunga  serie  di  opere  importamis- 


'  (i)  Nato  nel  1772,  studiò  privatamente  sotto  Ilgen;  poi  con  Reiz  ed 
a  Jena  con  Reinhold;  si  abilitò  come  docente  nel  1794  a  Lipsia;  di- 
venne professore  straordinario  nel  1798  ed  ordinario  nel  i8o3;  fondò 
nell'Università  di  Lipsia  la  società  greca  nel  1799;  fu  direttore  del  se- 
minario filologico  di  quest'Università,  e  morì,  pure  in  Lipsia,  il  3 1  di- 
cembre 1848., 


—  299  - 

dime.  Fu  egli  che  diede  alla  metrica  greco- latina  un  solido 
fondamento,  trattandola  in  una  serie  di  opere,  che  sono  an- 
cora la  base  di  tutti  i  recenti  studii  sulla  metrica  antica  (i). 
Fu  egli,  che  il  primo  mostrò  la  necessità  di  un  piià  razionale 
metodo  nel  trattare  la  grammatica  greca,  in  quel  suo  cele- 
bre libro:  De  emendanda  ratione  graminatices  grcecx^  com- 
parso a  Lipsia  nel  1801,  dal  quale  data  una  nuova  era 
nello  studio  della  grammatica  della  bella  favella  dei  Greci, 
dacché  all' antico  modo  empirico  (pur  troppo,  almeno  in 
Italia,  non  ancora  del  tutto  abbandonato)  si  potè,  grazie 
alla  sua  scienza  ed  alla  sua  autorità,  sostituire  un  altro  più 
razionale  e  scientifico  che  meglio  risponde  alle  leggi  che  go- 
vernano questa  lingua,  e  che  rese  possibile  poi,  dopo  le 
scoperte  dovute  allo  studio  comparativo  degli  idiomi  ariani, 
una  grammatica  greca  come  quella  del  Curtius  che  attual- 
mente insegna  nella  medesima  università,  in  cui  G.  Her- 
mann passò  l'operosa  sua  vita  (2).  Fu  egli,  che  con  gran- 
dissimo amore  interpretò  una  serie  di  autori  greci ,  ed  i 
tragici  massimamente,  dei  quali  pubblicò  Sofocle  nel  1823, 
mentre  il  suo  Eschilo  non  potè  vedere  la  luce  che  dopo  la 
sua  morte,  per  cura  dello  Haupt  (3).  Una  quantità  di  scritti 
minori  è  raccolta  nei  sette  volumi  dei  suoi  «  Opuscula  » 
Lipsia  1827-30,  in  cui  ognuno  ammirerà  l'eleganza  dello 


[\)  De  metris graecnrum  et  romanorum  poetarunty  Lipsia  i'jg6. Hand' 
buch  der  Afetrik.,  ivi,  1798.  Elementa  doctrinae  ntetricae,  ivi,  1816. 
Epitome  doctrinae  metricae,  ivi,  i8i8;  2*  ediz.  1844.  De  metris  Pin- 
dari  nell'edizione  di  questo  poeta  del  Heyne. 

(2)  Quasi  come  un  supplemento  a  questo  scritto  grammaticale  pos- 
siamo considerare  le  sue  importanti  aggiunte  al  libro  del  Vigero,  De 
idiotismis  linguae  graecae,  ed  i  Libri  IV  de  particula  fiv,  Lipsia  i83i. 

(3)  Diede  alle  stampe  le  Orphica  nel  i8o5,  gl'/wni  omerici  nel  1806, 
il  Trinammo  di  Plauto^  le  Bacchidae  nel  1841  ;  VArs  poetica  di  Ari- 
stotile nel  1820;  il  Lessico  di  Fo^io  nel  i8o5;  il  grammatico  DracoStra.- 
tonicensis  nel  1806. 


—  300  — 
stile  latino,  specialmente  poi  nelle  sue  proprie  poesie  scritte 
in  lingua  latina,  dalle  quali  spira  un'aura  veramente  romana. 
Si  è  voluto  rimproverare  al  grande  uomo,  di  cui  oggi 
riverenti  ricordiamo  il  nome,  d* avere  dato  troppo  peso  al 
lato  formale  della  filologia ,  chiamando  la  sua  scuola  la- 
scuola  grammaticale  e  critica,  quasi  non  avesse  abbastanza 
badato  al  iato  reale;  ma  non  può  essere  oggi  nostro  compito 
entrare  in  una  discussione  su  quest'argomento,  oggi,  che 
solo  vogliamo  rammentarne  il  riverito  nome  ed  additare  il 
suo  nobile  esempio  ai  novelli  cultori  delle  filologiche  di- 
scipline, e  soprattutto  perciò,  che  sarà  sempre  vero  il  suo 
asserto:  essere  la  esatta  e  profonda  conoscenza  delle  lingue 
antiche  l'unica  sicura  via,  che  ci  possa  condurre  alla  vera 
intelligenza  delle  opere  dei  Greci  e  dei  Romani,  e  per 
conseguenza  l'indispensabile,  solido  fondamento  della  Scien:^a 
dell'antichità, 

G.    MULLER. 


V^OTIZIE 

L'ordinamento  della  Facoltà  di  lettere  dell'Università  di  Roma,  con- 
dotto a  compimento  secondo  il  progetto  della  Facoltà  medesima  e  del 
Consiglio  Superiore  d'istruzione  pubblica,  come  Io  rileviamo  da  un 
articolo  della  Perseverant^a,  segnerà  un  grande  progresso  negli  siudii 
filologici  in  Italia,  dacché  alle  cattedre  delle  letterature  antiche  s'ag- 
giungerebbero apposite  cattedre  per  l'insegnamento  scientifico  delh 
grammatica  greca  e  latina;  Varcheologia  sarebbe  divisa  fra  diversi  inse- 
gnanti. Né  verrebbe  dimenticato  l'insegnamento  scientifico  delle  lingue 
moderne  per  l'istituzione  della  cattedra  di  filologia  romanza.  Ma  ci 
rincrescerebbe  di  non  vedere  una  cattedra  particolare  di  lingua  e  lette- 
ratura sanscrita,  ed  avremmo  forse  alcunché  da  osservare  riguardo  alle 
lingue  semitiche,  del  che  converrà  parlare  a  miglior  agio. 


FiETKo  UssELLO,  gerente  responsabile. 


—  301  - 

CENNI   SULLA   SINTASSI 
"DELLA    LIV^GUA    G%ECA. 


I. 

Apollonio  Dìscolo  (i),  celebre  grammatico  Alessandrino, 
il  cui  nome,  finitamente  a  quello  del  figlio  Erodiano,  segna 
come  a  dire  l'apogeo  della  erudizione  grammaticale  nel  2" 
secolo  dell'  era  nostra,  nel  principio  de'  suoi  libri  uepi  cuvtó- 
5euj5  (2),  muove  dal  concetto ,  che  nella  lingua  si  tratti 
sempre  del  collegamento  di  certi  elementi,  1  quali  insieme 
riuniti  s'appresentano  sotto  la  forma  più  larga  e  più  distesa 
di  una  cotale  unità,  della  quale  escono  poi  altri  maggiori 
raggruppamenti.  La  prima  e  più  semplice  parte  di  questa 
unità,  da  lui  vagheggiata,  la  materia  prima  come  a  dire, 
egli  vuol  trovare  in  quegli  elementi,  che  addimanda  o"Toix€Ta, 
i  quali  consociati  e  quasi  conglobati  riescono  poi  all'unità 
massima,  che  è  il  Xófo?.  In  questa  stessa  via  lo  segue 
Teodoro  Gaza,  grammatico  dei  periodo  bizantino;  il  quale 
nel  4°  libro  della  sua  ei(Sa.y'jj^fi,  là  dove  discorre  irepì  cuvTd- 
Heu}^  TU)v  ToO  XÓTou  fiepuiv,  esce,  nelle  parole  seguenti  ; 
«  XeKtéov  Toiviiv  Kttì  6ttujs  Sv  rà  toO  Xóyou  ìxépr\  à\\f\\oi<; 
òpOw?  cuviaTTÓueva  àTtoTeXoirj  tòv  Xóyov...))  (Venezia,  Garoni, 


(i)  Egger,  ApoUonius  Dyscole ,  Essai  sur  l'histoire  des  théories 
grammaticales  dans  l'antiquité.  Parigi,   1854. 

(2)  È  la  sola  scrittura  che  ci  pervenne  intera  di  Apolloni  salvo  qual- 
che lacuna  verso  la  line.  —  O.  Schneider  credo  che  la  scrittura  ucpl 
èmpprjMdTUJv  appartenga  alla  Sintassi.  Di  quesc'  opera  conosco  due 
edizioni  antiche,  l'Aldina  del  1495  e  la  Fiorentina  del  i5i5. 

1(ivista  di  filologia  ecc.,  1.  SI 


—  302  - 

1 527). —  E  Prisciano,  la  cui  ammirazione  per  que'due  sommi 
della  scuola  Alessandrina  non  conosce  ne  confini,  ne  misura 
(Vedi  Comm.  G^^^^^ì.  Lib.  1,  pref.  pag.  534;  I^»  P^g-,  ^^^ 
XII,  pag.  941;  XIV  init.  ed.  Putsch.},  nel  principio  del 
libro  XVII  (pag.  io35),  così  definisce  l'opera  della  sintassi: 
Quemadmodum  literae  apte  coeuntes  faciunt  syllabas,  et 
syllabae  dictiones  (XéHei?),  sic  et  dictiones  orationem.  Hoc 
enim  etiam  de  liteHs  tradita  ratio  demonstravity  quae  bene 
dicuntur  ab  Apollonio  prima  materies  vocis  humanae  indi- 
vidua ((JTOixcTa).  Ea  enim  non  quocumque  modo  iimcturas 
ostendit  fieri  literarum,  sed  per  aptissimam  ordinationem. 
Igitur  manifestum  est,  quod  consequens  est,  ut  etiam  di- 
ctiones, cum  partes  sint  per  constructionem  perfectae  ora- 
tionis  (toO  KttTà  cTuvTaSiv  aÙTOTeXoO?  Xótou)  a^/^w  struciurtfm, 
id  est  ordinationem  recipiant.  Quod  enim  singulis  dictio- 
nibus  paratur  sensibile ,  id  est  intelligibile,  quodatntnodo 
elementum  est  orationis  perfectae. 

Gli  è  chiaro  per  queste  allegazioni,  che  un  solo  pensiero 
è  posto  come  a  fondaniento  di  tutto  l'ordinamento  della 
lingua,  quello  cioè,  <?he  tanto  nella  teorica  degli  elementi 
fonetici  costitutivi  della  parola  (la  fonologia),  quanto  in 
quella  delle  forme  (la  morfologia)  e  de'  costrutti,  domini 
quel  principio  di  collegamento  e  ordinamento  di  parti,  che 
da'  moderni,  ma  con  ben  diverso  e  vario  intendimento,  è 
chiamato  sintassi  (cruviaHis).  Da  questo  modo  di  considerare 
la  sintassi  della  lingua  (e  qui  facciamo  astrazione  da  una 
lingua  particolare)  ne  pare,  che  discenda  questa  conseguenza, 
come  legittima  ;  che,  cioè,  fra  la  teorica  delle  inflessioni, 
presa  nelle  sue  f)iù  ampie  applicazioni,  e  la  teorica  della 
concordanza  corra  tal  nesso  strettissimo,  che  l'efficacia  del- 
Tuna  si  distenda  sull'altra,  e  le  due  parti  mutuamente  si 
ricambino  d'aiutò.  —  In  una  scrittura,  un  po'  antiquata 
per  vero  dire,    che   essa  risale  all'anno  i852,  di  Augusto 


—  803  — 
Haacke  (i)  leggiamo  (pag.  21)  questo  concetto;  che,  cioè, 
a  voler  fondare  sopra  basi  sicure  e  incrollabili  una  teorica 
della  sintassi,  e'  fa  mestieri  un  saldò  collegamento  di  questa 
colla  teorica  delle  inflessioni,  né  bisogna  al  tutto  permettere 
un  modo  {>articolare  di  trattazione  rispetto  a  quella,  cosi 
che  ad  intenderne  le  movenze  e  a  rilevarne  le  fattezze,  ne 
sia  necessario  aver  ricorso  a  criteri,  che  siano  altri  da  quelli, 
che  ne  son  pòrti  da'  fatti  concreti  della  lingua. 

(c  Certamente,  egli  soggiunge,  a  costituire  la  teorica  della 
sintassi  sopra  cosiffatte  sicure  basi,  bisognerà  pensare  ad 
«  una  teorica  delle  inflessioni ,  dalla  quale  traspaiano  evi- 
«  denti  gli  elementi  di  queste,  e  ne  chiarisca  con  sincerità 
«  sulla  originazione  loro,  mentre  invece  nelle  grammatiche^ 
«  che  oggidì  corrono  nelle  mani  di  tutti^  la  teorica  delle 
«(  inflessioni  non  può  mirare  ad  altro  fine,  che  a  rendere 
«  possibile  un  apprendimento  affatto  meccanico  delle  foì'me 
«  coir  aiuto  di  regole  superficiali  e  di  eccezioni.  »  E  su- 
bito dopo  leggiamo  :  —  «  Per  ciò  che  spetta  la  lingua 
<c  tedesca  basterà  certamente,  che  si  comprenda,  come  il 
«  contenuto  e  la  sostanza  di  una  lingua  non  si  possano 
«  d'altronde  rilevare  che  da  essa,  dalle  sue  forme,  né  mai 
f<  astraendo  da  queste,  e  come,  per  ciò  stesso,  la  trattazione 
«  della  sintassi  possa  trovare  il  suo  punto  di  appoggio  nella 
c(  parte  etimologica  della  grammatica,  e  non  altrove;  poiché 
(t  questa  parte  appunto  della  grammatica  tedesca  fu  esposta 
«  da  Giacomo  Grimm  così  compiutamente,  ne'  suoi  tratti 
«  principali  almeno,  come  non  può  dirsi  di  nessuna  altra 
«  lingua.  »  —  Ma  non  andò  guari,  che  il  seme  fecondo, 
sparso  dall'opera  immortale  del  Grimm,  fruttificò  sul  campo 
d'altre  lingue.  In  quell'anno  istesso  i852,  Giorgio  Curtius 


(i)  Der  Gebrauch   der  genera  dcs  griechischen   Verbums.   Berlino, 
Weidmannsche  Buchhandlung,  Il  heft. 


—  304  — 

dava  fuori  la  sua  Grammatica  Greca,  frutto  di  un  lungo 
decennio  di  medity.zi<)ne  e  di  studio.  Né  si  creda,  che  ella 
fosse  allora  facil  cosa  richiamare  gli  studiosi  della  sintassi 
delle  lingue  a  più  modesti  propositi  e  ricondurne  le  teoriche 
verso  criteri,  meno  appariscenti,  ma  di  gran  lunga  più  si- 
curi e  piiì  veraci.  —  Erano  di  quel  tempo  assai  in  voga 
nelle  scuole  tedesche  le  smaglianti  teoriche  di  grammatica 
generale,  che  Carlo  Ferdinando  Becker  avea  rese  assai 
bene  accette,  e  quasi  popolari  colla  sua  grammatica  della 
lingua  tedesca.  Né  si  creda,  che  alla  lingua  nazionale  si 
arrestasse  quella  smania  del  filosofare  in  fatto  di  lingue; 
che  alle  lingue  classiche  ancora  s'era  dilargato  quel  moto. 
Vide  egli  il  Curtius,  se  non  il  primo  né  il  solo,  ma  certo 
fra  i  primi,  che  quel  modo  di  trattare  la  lingua,  come  la 
espressione,  cioè,  di  determinate  forme  dei  pensiero,  a  tutti 
comuni,  era  destituito  di  ogni  solido  fondamento  in  ordine 
alla  scienza,  e  nella  pratica  era  sommamente  dannoso.  Lo 
studio  della  linguistica  infatti,  così  vigorosamente  progredito 
n,egli  ultimi  decenni  di  questo  secolo,  ha  piuttosto  chiarito, 
il  divario,  delle  lingue,  che  confermata  l'antica  fede  nella 
comunione  e  concordanza  de'  linguaggi,  e  collo  studio  di 
lingu,^  di  origine  e  strattura  disparatissime)  come  ad  es.  le 
arie  e  le  semitiche,  ha  dimostrato  in  modo  da  non  poterne 
dubitare,  che  quella  pretesa  universalità  di  schemi  fonda- 
mentali del  linguaggio  umano  non  ha  valore  scientifico.  — 
Né  da  cosiffatti  erramenti  andiamo  esenti  noi  qui  in  Italia^ 
rispetto  alla  lingua  nostra;  noi  vediamo  infatti  coH'autorità 
del  Bonavino  (i),  farsi  strada  nelle  nostre  scuole  un  cotal 
modo  di  trattazione,  che  molto  s'accosta  alle  vedute  del 
Becker,  e  che,  tramutando  la  teorica  della  sintassi  in  un  trat- 


(i)  Elementi  di  grammatica  generale  applicati  alle,  due  lingue  ita- 
liana e  latina.  Edìz.  5*,  Genova,  i863. 


-sos- 
tato di  logica,  costringe  le  tenere  menti  a  pensare  prima,  che 
a  discorrere  con  sempliciià  e  correzione,  svigorendo  cosi  Tef- 
ficacia  dei  pensiero  nell'età,  in  che  gli  sana  mestieri  Tessere 
più  vegeto  e  più  prosperoso-,  con   quanto  vantaggio  delia 
coltura,  della  lingua  e  persino  della  grammatica   lo  sanno 
grinsegnanti    negli   ordini   superiori  delle   scuole,  lo   sa  ii 
paese.  Ben  è  quindi,  ed  è  tempo  oggimaì,   che  anche  per 
l'uso  e  per  lo  studio  della  grammatica  italiana  gli  studiosi 
siano  tirati  fuori   delle  astrattezze ,   e  richiamati   sul   saldo 
terreno    della    indagine   storico-linguistica.  Noi    salutammo 
quindi  con  gioia  l'apparire  di  una  grammatica  storica  della 
Unghia  italiana  (i)-,  la  quale,   tenuta  dentro  a  termini  di- 
screti, varrà  certo  a  richiamare  ad   mdiorem  frugem   gli 
ingegni  e  le  scuole.  Del  resto  questo  della  grammatica  filo- 
sofica, come  la  chiamano,  non  è  sistema  né  nuovo,  né  più 
di  questa  o  di  altra  naziojie.  Già  il  vecchio  gran  Cancelliere 
d'Inghilterra,  Bacone  da  'Verolamio,  parla  di  una  gramma- 
tica letteraria  e  di  una  grammatica  filosofica,  «  Gramma- 
«  ticam   etiam   hipariitam  ponemzis^  egli  dice,  ut  alia  sit 
tt  literaria,  alia  philosophica.  Altera  adhibetur  simpliciter 
«  ad   linguas,  nempe  ut  eas  qitis  aut  celerins  perdiscat , 
«  aut  emenditius  et  purius  loquatur;  altera  t'ero  aliqua- 
ft  tenus  philosophiae  ministrat . . , .  Hac  re  moniti  cogita- 
va tione    cojnplexi  sumus   grnmmaticam  quamdam  ,    quae 
«  analogiam  inter  verta  et  res^  sive  raiionem  sedrxlo  in- 
<c  qiiirat »  (2).  Questo  concetto   della  grammatica  filo- 
sofica s'attiene  stretto  all'altro  della  grammatica  universale  di 
tutte  le  lingue,  strano  mixtum  compositumy  fondato  sulTar- 
bitrio  e  sul  falso  concetto  che  del  linguaggio  si  ebbe  lungo 


(1)  Di  Raffaello  Fornaciaui.  Torino,  Loescher,  1872.  Piegievole 
lavoro  in  questo  risperto  è  anche  quello  del  De-Mauio. 

(2)  De  avf^mentis  scientiarum,  lib.   VI,  cap.  1.  i.ugano>  1763. 


-  306  - 
tempo  nelle  scuole,  reso  popolare  dalla  filosofia  Lockiana(i). 
Infatti  al  passo  di  Bacone,  allegato  quassopra,  precede  il 
seguente:  —  «.  Illa  demum,  ut  arbitramur^  foret  nobilissima 
«  grammaiicae  species ,  si  quis  in  linguis  plurimis  tam 
<(  eruditis.,  quam  vulgaribus^  eximie  doctus^  de  variis  lin- 
ct  guarum  proprietatibus  tractarety  in  quibus  quaeque  ex- 
«  celiai,  in  quibus  dejiciat,  ostendens.  Ita  enim  et  linguae 
e.  mutuo  commercio  locupletavi  passini,  et  Jiet  ex  iiSy  quae 
«  in  singulis  linguis  pulchra  sunt,  orationis  ipsius  quae- 
a  dam  formosissima  imago  et  exemplar  quoddam  insigne 
((  ad  sensus  animi  rite  exprimendos  ». —  Cotesto  ideale  di 
lingua  filosofica,  e  di  una  grammatica  filosofica,  che  neces- 
sariamente si  collega  con  quella,  era  vagheggiato  —  diciamoj 
cosa  notoria,  —  dal  Leibniti,  che  la  chiamava  la  sua  spé- 
cieuse  generale  (2);  e  nella  seconda  m€tà  del  secolo  XVII 
destò  alta  ammirazione  in  Inghilterra  un  saggio  di  una 
vera  scrittura  e  di  una  lingua  filosofica  del  vescovo 
Wilkins,  il  cui  fondamentale  concetto,  rispetto  alla  lingua 
universale,  è  rì^-atto  in  termini  chiari  e  concisi  nel  volume 
primo  delle  Nuove  Letture  di  Max  Miiller  (lettura  II).  — 
Vero  è  che  Tipotesi,  messa  innanzi  da  Giovanni  Locke  (3), 
d£Ì  fanciulli  selvaggi,  che  dal  linguaggio  dei  segni  naturali 
passano  a  costituire,  sospinti  dai  bisogni,  il  linguaggio  dei 
suoni  articolati,  inventandone  dapprima  il  vocabolario, 
appresso  le  inflessioni  e  la  sintassi,  è  oggimai  sfatata  dalla 
linguistica,  il  cui  posto  fra  le  scienze  antropologiche  diffi- 
cilmente le  potrà  venire  contestato  (4);   pure  non  è  male. 


(i)  hocKti,  Suir Intendimento  umano y  lib.  II,  passim. 

(2)  Vedi  GuHRAUER,  G.  W.  Freiherr  von  Leibnitz,  voi.  I,  pag,  328. 

(3)  Suir Intendimento  umano,  lib.  Ili,  cap.  i. 

(4)  Vedi  Guglielmo  Humboldt:  Ueber  die  Ka-wi-Sprache,  ecc.  Ber- 
lino,  i836.  —  Schleicher:  Compendio  con  l'introduzione  del  Pezzi 
(pag.  xxx-xxxi).  —  Max  Muller:  Letture  (sez.  1,  leu.  3*). 


—  307  — 
crediamo,  che  a  quando  a  quando,  di  certe  grandi  questioni, 
che  s'attengono  alla  psicologia ,  più  che  non  paia  di  primo 
tratto,  si  rammentino  i  principi!.  È  strano  infatti  il  vedere, 
come  il  sensismo  di  Locke,  cacciato  dalle  grammatiche  e 
dai  lessici,  abbia  trovata  la  sua  nicchia  nei  Sillabari  e  in 
tutti  quegli  apparati  di  ginnastica  intellettiva^  sui  quali  si 
regge  l'insegnamento  elementare  della  lingua  nazionale.  La 
è  codesta  una  assurda  contraffazione,  vorremmo  anzi  dire 
una  grottesca,  delle  nuove  teoriche  del  linguaggio,  concepito 
come  scienza  fisica.  Ne  di  ciò  terremmo  ragione  qui,  se 
non  fosse  perchè  ne  sembra  di  ravvisare  in  questo  falso 
pendìo  dell'insegnamento  elementare  un'altra  causa  del 
precoce  esaurimento  delle  forze  intellettive  della  gioventù 
nostra,  della  abituale  avversione  della  medesima  allo  studio 
della  grammatica  classica,  nella  quale  l'indirizzo  storico,  e 
lo  studio  del  pensiero  antico,  come  esso  si  concreta  nel 
magistero  della  parola,  devono  di  necessità  prevalere. 

Ma  non  crediamo  fuor  di  proposito  lo  sbozzare  qui  ri- 
strettamente il  concetto,  che  informa  la  teorica  della  sin- 
tassi, fondata  dal  Becker,  per  la  grammatica  tedesca.  —  Muo- 
vendo egli  adunque  dal  presupposto  che  il  fenomeno  della 
lingua  diventi  un  fatto  reale  soltanto  per  ciò  che  uom  parla, 
il  cui  discorso  si  svolge  per  proposizioni  :  cosi  egli,  nella  sua 
indagine  intorno  alla  lingua,  pone  la  proposizione  a  fonda- 
mento del  tutto.  La  proposizione  è  secondo  lui  la  espres- 
sione di  un  pensiero,  fatta  con  parole,  in  quanto  l'uomo, 
in  quella  che  egli  parla,  enunzia  i  suoi  pensieri  colle  pa- 
role. E,  prendendo  le  mosse  dalla  proposizione,  egli  riesce 
alla  classazione  delle  parole,  che  segue  qui  appresso.  —  In 
un  pensiero,  egli  dice,  si  distinguono  le  idee,  che  ne  costitui- 
scono il  contenuto,  la  sustanza,  dalle  relazioni,  nelle  quali 
le  idee,  nel  giro  del  pensiero,  stanno  e  fra  loro  e  dispetto 
a    chi   parla.  I    vocaboli   che   esprimono    la    sustanza   del 


—  308  — 
concetto,  si  addimandano  vocaboli  ideali  {significativi) 
(Begriffsworter)i  le  relazioni .  si  esprimono  dalla  lingua  a) 
coirin  flessione  de  Vocaboli  ideali,  h)  col  mezzo  dì  voci  spe- 
ciali, che  si  appellano  formali  (FormwÒrter).  Siccome  poi 
i  concetti  da  esprimere  col  ministerio  della  lingua  sono 
o  concetti  di  ente ,  come  a  dire  di  persona'  o  di  cosa , 
ovvero  concetti  di  attività,  di  persona  e  di  cosa:  così  si 
hanno  in  conto  di  vocaboli  ideali  il  sostanlivo ,  cioè  l'e- 
spressione del  concetto  di  ente,  ovvero  il  verbo  e  Vaddiet- 
tivo ,  de'  quali  quello  -  il  verbo  -  involge  il  concetto  di 
azione ,  ed  esprime  pure  ad  un  tempo  il  predicato ,  pel 
quale  attività  ed  ente  si  collegano  in  un  solo  pensiero , 
questo  -  Taddiettivo  -  involge  bensì  il  concetto  di  azione,  ma 
non  il  predicato  •,  il  quale  ,  laddove  Fazione  espressa  dal- 
Taddiettivo  debba  collegarsi  coIFente  in  un  sol  concetto  , 
dovrà  aver  ricorso  a  questo  effetto  aila  voce  formale  -  essere  -. 
Tra  i  vocaboli  formali  il  Becker  classifica  a)  il  verbo  essere^ 
come  vocabolo  predicativo  cogli  addlettìvi;  b)  ì  verbi  ausiliari, 
i  quali  o  accennano  a  relazioni  temporali  (come  avere  -  es- 
sere -  diviiìitare  (i),  o  a  relazioni  modali  come  -  kònnen- 
m'ògen - durfen - wollen - sollen - milssen  ( 2 ) ^  e)  i  pronomi , 
siccome  quelli  che  esprìmono  soltanto  il  concetto  di  un 
ente^  per  la  relazione,  che  esso  ha  con  chi  parla,  espri- 
mono cioè  le  relazioni  personali;  d)  i  numerali,  perchè  essi 
esprimono  relazioni  di  grandezza,  di  numero  o  di  quantità 
di  un  ente-,  e)  le  preposizioni  siccome  espressioni  delle 
attinenze  di  spazio  o  d'altre  relazioni  di  un  ente  con  l'at- 
tività;/) le  congiunzioni,  che  esprimono  le  relazioni  scam- 
bievoli fra  i  membri  di  una , proposizione  composta;  g)  gli 


(1)  Haben  -  sein  -  werden. 

(2)  Ausiliari  delia  lingua  tedesca.  V.  Heyse  ,  Leit/aden,  ecc.  Han- 
nover, 186?.,  pag.  53.—  Pel  significato  di  questi  sincmmi,  vedi  Eber- 
HARD  :  Synonomisches  HandwÓrterbuch. 


—  309  — 
avverbi,  in  quanto  essi  siano  voci  formali,  come  espressioni 
delle  relazioni  di  spazio,  di  tempo,  di  luogo,  di  grandezza, 
di  modo. 

La  divisione  preaccennata  deVocaboli  in  ideali  o  signi- 
ficativi (  Begrìffswòrter),  e  f annali  (Formwòrterj  costrinse 
il  Becker  ad  assegnare  alia  teorica  dell'inflessione  un  posto 
assai  strano  nel  processo  della  lingua,  appartato  affatto  dalla 
parola,  e  dal  contenuto  della  medesima.  —  Si  pensi  infatti, 
che  ente  ed  attività  non  esauriscono  il  concetto  di  propo- 
sizione; e'  fa  mestieri  di  un  tej'zo  elemento,  il  predicato 
(KarriTÓpnM»),  che  il  concetto  astratto  di  azione  colleghì  e 
quasi  rinversi  sul  subbietto  (ente)  (tò  ùiroKeijiievov).  —  È  subito 
trovato,  ne  risponde  Tiìlustre  alemanno;  un  segno  morfolo- 
gico. —  Le  desinenze  personali,  ad  es,  :  t-st^  come  stirb-sif 
sing--st  adempiono  all'ufiìcio  di  predicato;  mentre  invece  le 
voci  stirò-  sing-f  accennano  airattività,  fatta  astrazione  dal 
predicato.  Ora  si  badi,  che  senza  suffissi  non  è  possibile 
né  verbo  né  parola,  nonché  azione  ;  poiché  delPistessa  ra- 
dice tu  puoi  derivare  e  nomi  e  verbi,  variando  le  desinenze 
d'inflessione  ;  così  dalla  radice  Ttpar,  hai  irpaY^a  e  TTpacraiu, 
ciò  che  vuol  dire,  che  a'suffissi  spetta  un  posto  notevole 
nella  formazione  dettemi  nominali  e  verbali,  e  per  ciò  stesso 
de'casi,  de'tempi,  numeri  e  persone.  Quindi  non  pare  esatto 
il  classare  Taddiettivo  fra  i  vocaboli  ideali ,  che  esprimono 
attività,  siano  pure  bisognevoli  del  vocabolo  formale  essere, 
per  collegarsi  all'ente  ;  non  pare  esatto,  che  i  suffissi  verbali 
o  le  desinenze  personali  esprimano  soltanto  una  relazione 
predicativa  dell'azione  involuta  nella  nuda  radice  verbale 
coU'ente;  ma  essi  sono  una  funzione  effettuale  e  integrale 
del  concetto  dì  azione  espresso  dal  verbo ,  al  quale ,  nel 
fatto  concreto  della  lins'ua,  esso  verbo  non  perviene  se 
non  per  mezzo  delle  parti  flessibili.  Forma  e  contenuto 
adunque  sono  nella  lingua  concetti  cori'-I^iivi,  così  the  non 


—  310  — 

vi  sia  contenuto  senza  forma,  né  forma  senza  contenuto.  1 
soli  temi ,  e  molto  meno  le  radici ,  non  sono  nell'  indo- 
germanico né  parole,  né  parti  di  proposizioni  (v.  Schleicher, 
Compendio  §  i33). 

Abbiamo  creduto  di  insistere  su  questo  punto,  perchè  il 
nodo  della  questione  è  tutto  lì  riposto.  11  pensiero  non  è 
prima  della  parola,  ma  insieme  alla  parola  —  sia  pur  questa 
pensata,  parlata,  o  scritta  —  e  la  sintassi  quindi  non  può 
sottrarsi  agli  influssi  legittimi  della  teorica  della  i^iflcssione. 

Alla  stregua  di  questo  concetto  verremo  ora  esaminando 
ristrettamente  la  sintassi  greca  del  Matthiae ,  del  Kiihner , 
del  Krìiger,  del  Curtius,  del  Koch,  delPInama. 

Rovigo,  dicembre  1872. 

Gaetano  Ouva^ 


COV^SI'DE^AZIOV^I 

SULL'ISTRUZIONE,  SOPRATTUTTO  CLASSICA  ,  IN  ITALIA 

a  proposito  del  recentissimo  libro  di  M.  BREAL 

suir istruzione  pubblica  in  Francia 

fConu'nuazione ,  v.  fase.  5*,  p.  225-246}. 

III. 

Colle  tendenze  soverchiamente  pratiche  e  retoriche ,  le 
quali  (come  notammo)  si  rivelano  con  evidenza  tristissima 
anche  ai  meno  attenti  ed  acuti  osservatori  in  tanta  e  si  no- 
bile parte  degli  studi  italiani ,  si  connette  strettamente  un 
terzo  vizio  che  qua  e  là  vi  si  scorge ,  né  men  funesto  che 
quei  due  primi,  la  irrazionalità.  Quando  si  studia  il  vero 
non  già  per  amore  di  esso,  ma  solo  per  altri  fini ,  estranei 
affatto  alla  scienza  pura  ,  come  troppo  spesso  avviene  fra 
noi",  quando  si  bada  più  alla  forma  che   alla  sostanza,  ciò 


-  311  - 
che  frequentemente  vediamo  accadere  :  allora  è  perfettamente 
naturale  che,  paghe  di  conoscere  l'esistenza  ed  i  caratteri 
principalissimi  di  una  serie  qualsiasi  di  fatti,  le  menti  più 
non  si  curino  d'investigarne  le  cause  e  questa  investigazione 
sia  dai  molti  non  solo  negletta,  ma  quasi  sprezzata  e  derisa 
come  sterile  follia.  Questo  pregiudizio  regna  soprattutto  sul 
campo  delle  discipline  linguistiche:  su  questo  campo  per- 
tanto noi  Io  combatteremo ,  esaminandone ,  colla  nostra 
solita  libertà  di  pensiero  e  di  parola,  la  natura  e  gli  effetti, 
poscia  indicando  quelli  che  ci  parranno  i  più  efficaci  rimedii 
a  questo  morbo,  il  quale  è  certo  fra  quelli  che  più  tenace- 
mente si  appigliano  alla  nostra  vita  intellettuale. 

Ne  è  prova  deplorabile,  f^a  le  altre,  ciò  che  vediamo  av- 
venire nei  nostri  studi  ginnasiali  e  liceali  di  lingua  greca. 
Già  da  molti  anni  fu  da  uomini  egregi  introdotta  nelle 
scuole  italiane  la  grammatica  eminentemente  razionale  di 
G.  Curtius  e  ne  apparvero  i  benefici  influssi  ogniqualvolta 
essa  fu  spiegata  da  professori  degni  di  questo  nom.e  ;  testé 
le  si  aggiunse  quella,  pregevolissima  anch'essa,  di  V.  Inama. 
Come  se  tutto  ciò  non  fosse  avvenuto,  v'ha  ancora  chi  segue 
il  metodo  del  Burnouf  e  si  vale  nel  suo  insegnamento  di 
certi  compendii,  i  quali  riescono  utili  non  tanto  a  chi  gli 
studia  quanto  a  chi  li  vende  e  mostrano  apertamente  quanta 
sia  ancora  l'ignoranza  e  quanto  possa  il  culto  del  dio  Quat- 
trino. Per  altro,  quando  a  caso  i  nostri  sguardi  cadevano 
su  queste  miserabili  compilazioni,  ci  era  conforto  la  spe- 
ranza che  il  progresso  le  avrebbe  spazzate  via  dalle  scuole 
italiane  ,  o  che  almeno  peggio  non  si  sarebbe  fatto  ;  che  , 
nello  stato  odierno  della  glottologia ,  far  peggio  ci  pareva 
impossibile.  Ma  come  anche  questa  speranza  non  fosse  al- 
tro che  un'illusione  noi  ebbimo  pur  troppo  ad  accorgerci 
allorquando  vedemmo  quei  certi  Elementi ,  dei  quali  si  fece 
menzione  nell'ultimo  fascicolo  della  ^vista,  e  quella  vergo- 


-  312  — 

gna  recentissima  della  stampa  italiana  vedemmo  lodata  e 
proposta  come  cosa  utilissima  ai  nostri  insegnanti.  Più  an- 
cora che  nello  studio  del  greco  sono,  per  nostra  sciagura  ed 
onta,  comunemente  seguiti  i  metodi  irrazionali  in  quello 
del  latino.  A  certe  grammatiche,  adoperate  ancora  in  pa- 
recchi fra  i  ginnasii  dltalia,  ben  converrebbe  il  severo  giu- 
dizio che  intorno  alla  famosa  grammatica  latina  del  Lho- 
mond  ed  a  quelle  tutte  che  furono  composte  ad  imitazione 
di  essa  profferiva  il  Bréal  nel  suo  classico  libro  sull'istru- 
zione pubblica  in  Francia  (i).  Né  punto  piiì  mite  è  la  sen- 


(i)  Ne  citeremo  i  brani  più  importanti:  •< Sous prétexte  de  faciliter  le 
travail du  thème  et  d'aider  rincelligence  des  auteurs,  ils  n'ont  d'auire  idée 
que  d'eluder  l'effori  iogique  et  grammaùcal.  Mettre  un  tour  fran^ais  sous 
un  tour  latin,  et  réciproquement,  c'est  à  quoi  ils  sont  uniquenient  occu- 
pés.  Ils  ne  songent  pas  à  montrer  la  régularité,  la  convenance  de  la  con- 
struction  latine,  ni  à  fai  re  voir  la  raison  des  règles  de  syntaxe  :  tout  cela 

passe  pour  métaphysique  ou  pour  vaine  subtilité Prenez  la  plupartde 

nos  graramaires  latines,  depuis  Lhomond  jusqu'aux  livres  les  plus  récents. 
Vous  y  trouverez  toujours,  quoique  plus  ou  moins  dissimulé,  le  méme 
esprit.  Ce  sont  des  recueilsde  consells  et  de  receties  pour  latraduction... 
Il  semble  que  le  latin  n'exisie  pas  pour  lui-mérae,  mais  seulement  pour 

étre  traduit  en  francais  ou  pour  traduire  le  fran^ais Les  auteurs  de 

ces  manuels  amalgaraent  dans  une  méme  règie  et  sans  en  prevenir  l'en- 
fant, les  consiructions  les  plus  différentes On  croit  faire  l'éloge  de 

ces  ouvrages  quand  on  annonce  que  les  faits  ont  été  ramenés  aux  prin- 
cipes  les  plus  siraples  et  que  les  règles  ont  étédisposées  dans  l'ordre  le 
plus  clair  et  le  plus  facile.  Mais  si  ces  prétendus  principes  sont  simple- 
ment  des  artifices  de  traduction  et  si  cet  ordre  facile  nous  présente  les 

règles  à  contre-sens,  que  faut-il  .penser  de  l'utilité  d'un  tei   livre? 

Mais  on  ne  s'est  pas  arrété  dans  cette  voie.  La  règie  ,  dans  nos  livres 
usuels,  est  la  chose  accessoire:  l'essentiel,  ce  qu'il  faut  retenir  avant  tout, 
c'est  l'exemple.  Le  texte  qui  vient  après  n'est  qu'un  commentaire  de 

l'exemple,  une  explication  sur  la  manière  de  s'en  servir »  E  dopo 

aver  narrato  come  e  quando  la  grammatica  del  Lhomond  s'introdu- 
cesse nelle  scuole  francesi,  ii  Bréal  scrive  :  »>  On  ne  pouvait  guère  faire 
un  choix  pjus  malheureux,  Lhomond ,  qui  a  sa  legende  dans  l'Univer- 
sité,  est  célèbre  pour  son  amour  de  l'enfance  :  mais  à  cet  amour  il  se 
mélait  certainement  une  grande  défiance  des  facuités  iatellectuelles  de 
l'enfant,  car  on  ne  voit  d'autre  préoccuoation  dans  ses  livres  que  de 
réduire  touf.  enseignement  à  uii  sxercice  de  n  émoire  et  de  rendre  su- 


—  313  - 
lenza  di  Renan  (i),  di  Baudry  (2)  e  di  altri  dotti  francesi  e 
stranieri,  verbigrazia   dell'Habn  (3).  Di  questa   grammatica 
non  sono  a  dirsi  guari  migliori  certi  dizionarìi  latini  che  per 


perflu  méme  le  plus  léger  effort  de  la  raison.  La  grammaire  de  Lho- 

mond,  considérée  à  ce  poini  de  vue,  est  un  chef-d'oeuvre On  n'a 

jamais  poussé  plus  Icin  l'art  d'ignorer  les  raisons  des  choses.  Arme  de 
la  grammaire  de  Lhomond,  l'écolier  n'a  plus  besoin  de  penser  :  il  a  un 
mécanisme  qui  travailie  pour  lui.  Vingt  ans  après  que  Rousseau  eut 
pose  ce  principe  dans  son  Emile  qu'il  fallait  obliger  l'enfant  à  trou- 
ver  tout  par  lui-méme  (principe  qui, comme  nous  l'avonsvu,  estdevenu 
i'àme  de  l'éducalion  allemande  ) ,  l'Université  de  Paris  produisait  et 
couvrait  de  son  autoriié  de  pareils  livres.  A  son  insù,  elle  s'était  faite 
l'imitatrice  des  Pères  dont  elle  avait  recueilli  la  succession.  Et  nous , 
Université  de  France,  à  notre  tour,  nous  avons  aJopté,  répandu  à  pro- 
fusion,  impose  à  la  jeunesse  les  mémes  méthodes.  Tandis  que  nous 
prétendons  continuer  la  saine  et  forte  école  de  Port-Royal,  nous  sui- 
vons  en  réalité  la  tradition  des  Jésuires.  Ce  n'estpas  que  des  grammai- 
res  nouvelles  n'aient  été  et  ne  soient  encore  publiées:  mais  sauf  deux 
cu  trois  exceptions,  l'esprit  de  Lhomond  circule  à  traverà  toutes.  11  est 
triste  d'ajouter  que  depuis  vingt  ans  nous  avons  pluiòt  recuié  qu'a- 
vancé».  Op.  cit.  ,  p.  164-173. 

(i)  Nelle  Questions  contemporaines ,  p.  280,  il  libro  del  Lhomond  è 
detto  «  grammaire  artificielle  et  sans  logique  ». 

(2)  «*  Tout  est  défectueux  <ians  l'enseignement  de  la  grammaire ,  de- 
puis la  méthode  qui  consiste  à  énoncer  sèchement  des  règlesetdes  para- 
digmes  cor.. me  s'ils  n'étaient  susceptibles  d'aucune  explication,  jusqu'au 
choix  du  Rudimeni  de  Lhomond,  ce  triste  livre  qui  a  succède  si  pi- 
teusement  à  la  Méthode  de  Port-Royal,  »  V.  a  p.  64  le  recentissime 
Questions  scolaires  ecc.  (Paris,  1873),  opuscolo  con  cui  il  dotto  Bau- 
dry  fece  plauso  al  libro  del  Bréal  ed  alla  ultima  Circulaire  di  J.  Si- 
mon. Fra  coloro  che  già  degnaraenie  accolsero  le  proposte  del  Bréal 
voglionsi  eziandio  notare  il  Théry ,  antico  ispettore  generale  (  v.  il 
Projet  d'une  ré/orme  dans  l'enseignement  des  langues  anciennes,  Paris, 
1872),  l'egregio  Boissier,  professore  di  lingua  e  di  letteratura  latina  al 
Collegio  di  Francia  (v.  la  Revue  des  deux  mondes  ,  n»  del  1°  agosto 
1872),  e,  sovra  tutti,  J.  Simon  (v,  la  citata  Circulaire  del  27  settem- 
bre ultimo  scorso),  ministro  di  pubblica  istruzione  il  quale  mostrò 
splendidamente  di  conoscere  i  bisogni  didattici  de'  nostri  tempi  e  di 
sapervi  provvedere,  checché  ne  pensi  qualche  cieco  laudator  temporis 
adi. 

(3)  V.  Renan,  Op.  cit.,  l.  e 


-314  - 

lo  più  si  adoperano  dagli  studiosi  (i).  Ma  abbiano  noi 
forse  il  diritto  di  meravigliarci  vedendo  prevalere  i  sistemi 
irrazionali  neir  insegnamento  del  latino  e  del  grecf)  in  Fran- 
cia ed  in  Italia,  mentre  lo  stesso  idioma  nazionale  ci  ap- 
pare insegnato  sì  irrazionalmente?  In  quante  scuole  fran- 
cesi, in  quante  scuole  italiane  si  apprendono  a  conoscere 
le  pili  fondamentali  fra  le  leggi  glottiche,  le  quali  governa- 
rono la  trasformazione  della  parola  latina  nella  parola  ita- 
liana, nella  parola  francese  (2)  ?  I  tedeschi  non  sanno  nem- 
meno comprendere  come  un  popolo  possa  trascurare  nella 
istruzione  secondaria  lo  studio  che  noi  diremmo  volontieri 
archeologico  del  proprio  linguaggio  (3).   E  non  si  creda  che 


(1)  «  Nous  voyons  que  dans  nos  dictionnaires  l'ordre  véritable  des 
sens  est  coniinuelleraent  renversé.  Souvent  méme  un  seul  nom  fournit 

deux  articles  à  nos  lexicographes Nos  dictionnaires.   beaucoup  trop 

riches  et  trop  détaillés,  ont  fourni  à  l'élève  un  autre  moyen  de  pas- 
ser  sans  effort  à  travers  les  mailles  du  lexte.  ><  Bréal,  Op.  cit.,  p.  179, 
181  :  vedi  anche  p.  190-2. 

(2)  «  Un  motif  qui,  de  tout  temps,  a  éié  invoqué  pour  justifier  l'étude 
du  latin  dans  nos  classes,  c'est  que  le  francala  derive  du  latin  et  qu'il 
nous  serait  impossible  de  comprendre  les  lois  de  notre  propre  langue 
si  nous  ne  connaissions  la  structure  de  la  langue  mère.  Rien  n'est  plus 
exaci.  Mais  l'Université  qui  sait  très  bien  se  servir  de  cet  argument 
les  jours  où  elle  est  obligée  de  se  défendre,  s'empresse  de  l'oublier  dès 
que,  la  baiaille  gagnée,  elle  est  rentrée  dans  ses  murs.  Nous  apprenons 
le  latin  de  Cicéron  et  de  Virgile,  le  francais  de  Corneille  et  de  Bos- 
suet.  Mais  entre  ces  deux  idiomes  s'étend  un  vide  immense  que  nos 
maitres  ne  songent  nuUement  à  combler.  Au  lieu  de  chercher  dans  le 
latin  les  causes  de  la  grammaire  fran^aise,  ils  juxtaposent,  comme  nous 
l'avons  vu ,  les  deux  idiomes  d'une  facon  tout  empirique,  en  opposant 
gailicisme  à  latinisme.  Non-seulement  l'Université,  contrairement  à  ses 
affirmations  publiques,  n'éclaire  point  par  le  latin  la  formation  de  la 
grammaire  fran^aise,  mais  elle  a  un  véritable  éloignement  et  une  ré- 
pulsion  instinctive  pour  ce  genre  d'étude.   Elle  aime  trop  le  bon  latin 

pour  ne  pas  éviter  le  contact  de  la  basse  latinité Ce  som  curiosités 

faites  pour  les  érudits,  qui  ne  pourraient  que  distraire  et  tromper  les 
élèves.  «  BnÉAi.,  Op.  cit.,  p.  23 1-2. 

(3)  Renanj  Op.  cit.,  p.  281-2. 


—  315  — 
nelle  scuole  superiori  del  ginnasio  o  nel  liceo  si  avvezzino 
per  lo  più  i  giovani  a  studiare  di  nuovo  ed  un  po'  meno 
irrazionalmente  lo  italiano  ed  il  latino ,  assorgendo  a  poco 
a  poco  dalla  conoscenza  empirica  di  questi  due  idiomi,  ac- 
quistata coi  soliti  metodi  pappagalleschi ,  ad  una  nozione 
teoretica  dei  medesimi.  S'insegna  a  scrivere  con  eleganza  : 
ma,  se  diam  retta  ai  molti ,  che  impK)rta  comprendere  ie 
ragioni  delle  parole,  dei  costrutti  che  si  adoperano?  Che 
più  ?  Fra  gli  stessi  più  giovani  dottori  in  lettere ,  vale  a 
dire  fra  i  nuovi  professori  ginnasiali  e  liceali ,  non  sono 
certamente  numerosi  quelli  che  ricevettero  un  insegnamento 
compiuto  di  grammatica  storico-comparativa  del  greco,  dei 
latino  e  dell'italiano.  Abbiamo  in  Italia  cattedre  di  sanscrito, 
d'arabo,  di  cinese  :  non  abbiamo  ancora  un  corso  scientifico 
speciale  di  latino  e  degli  altri  idiomi  italici  antichi  né  di  lingue 
neolatine,  alle  quali  appartiene  la  nostra  odierna  favella.  Va- 
dano in  Germania,  si  facciano  allievi  di  professori  tedeschi 
quei  pochi  fra  noi,  cui  piglierà  vaghezza  di  conoscere  pro- 
fondamente l'idioma  dei  nostri  padri  e  quello  che  parliamo 
noi  stessi  !  Si  lasci  agli  stranieri  la  cura  d' insegnarci  anche 
questo  :  se  ci  avverrà  di  sentirci  offesi  nella  nostra  alterezza , 
troveremo  tosto  un  coro  di  retori  che  declameranno  le 
nostre  lodi,  svillaneggiando  la  barbara  Germania  (i)  ! 

Sorti  in  un'epoca,  nella  quale  la  linguistica  odierna  non 
era  nemmeno  concepita  come  possibile  ed  in  cui  lo  studio 
dell'idioma  italiano  e  quello  eziandio  del  latino  erano  go- 
vernati da  tendenze  eminentemente  pratiche  e  reloriche  ,  i 
sistemi  irrazionali  nello  insegnamento  di  queste  due  lingue, 


(  I  )  Fra  le  nuove  cattedre  di  cui ,  giusta  la  Perseveranza ,  si  propose 
l'istituzione  nell'ateneo  romano,  una  sarebbe  consecrata  alla  Gram- 
mati(4  ed  pila  Lessicografia  latina ,  un'altr»  alle  Lingue  e  letterature 
rpmayire.  M9,  per  quanto  sappiamo,  nessuno  vt-nne  ancora  incaricato 
né  del  primo  né  del  secondo  di  questi  due  insegnamenti. 


-  316  - 
forti  della  loro  esistenza  più  volte  secolare  ,  protetti  dalla 
ignoranza,  dairimpotenza  intellettuale  e  dairaccidia  dei  molti, 
infettano  ancora  la  maggior  parte  delle  scuole  italiane  e 
con  parecchi  altri  morbi  concorrono  ad  isterilirle.  È  questa 
la  causa  per  cui  allievi  e  maestri  non  si  addentrano  per  lo 
più  nelle  intime  ragioni  dei  fatti  linguistici  e  quindi  la  co- 
gnizione del  greco,  del  latino,  dell'italiano  stesso  è  quasi 
sempre  assai  poco  profonda  e  capace  di  vero  progresso  (i), 
È  questa  la  causa  per  cui  Finsegnamento  linguistico  ,  non 
assorgendo  alle  sfere  alte  e  luminose  della  scienza,  ma  gia- 
cendo per  contrario  ancora  nei  bassi  ed  oscuri  fondi  dello 
empirismo,  non  educa,  come  e  quanto  dovrebbe  e  potrebbe, 
le  menti  giovanili ,  non  le  prepara  convenientemente  agli 
studi  seguenti;  che  anzi,  da  più  anni  assuefatte  a  non 
iscorgere  che  caso,  capriccio,  disordine,  nei  fenomeni  del 
linguaggio,  le  vittime  miserande  di  questi  metodi  sciagurati 
si  sentono  non  di  rado  quasi  diremmo  oifese  dal  rigore  ine- 
sorabile delie  discipline  scientifiche:  né  pur  lo  stesso  ap- 
prendimento di  lingue  straniere  moderne  è  reso  guari  più 
agevole  dallo  aver  atteso  si  lungo  tempo  al  latino  ed  al 
greco,  seguendo  un  sistema  didattico  ,  il  quale  più  che  a 
svolgere  ie  potenze  intellettuali  degli  allievi  vale  ad  ottundere 


(i)  «  C'est  à  la  méme  cause  qu'il  faut  attribuer,  pour  une  grande 
partie,  l'abandon  des  recherches  grammaticales.  Farmi  les  milliers  de 
professeurs  pour  qui  le  latin  est  une  occupation  de  tous  les  jours,  com- 
bien  s'en  est-i!  trouvé,  depuis  vingt  ou  trente  ans,  qui  aient  seulement 
émis  T-ne  conjecmr';  r'Ouvelle  sur  un  point  de  la  gramraaire  latine?  C'est 
que  ìa  gramiTiairt;,  ielle  que  nous  l'apprenons,  exclut  touie  idée  de  pro- 
grès. Une  fois  que  nous  savons  qu'une  chose  admirable  à  voir  se  dit 
res  visu  ntìrabilis  et  que  j'enseigne  la  grammaire  aux  enfants,  se  tra- 
duit  par  doceo  pueros  grammaticam ,  il  ne  reste  plus  rien  à  ajouier  : 
car  toutes  les  recherches  sur  la  nature  du  supin,  toutes  les  observations 
sur  !e  sens  de  Tacaisatif  ne  changeront  rien  à  ces  deux  règles.  » 
Bréal,  Op.<it. ,  p.  174. 


-  317  - 

lo  ingegno  dei  maestri  (i).  E  questa  finalmente  la  causa  per 
cui,  non  bene  riferiti  i  fatti  gioitici  ai  loro  principii  supremi, 
le  regole  appariscono  numerosissime,  le  eccezioni  soffocano 
le  regole,  e  pertanto  lo  studio  linguistico  è  ancora  neces  a- 
riamente  non  sappiam  bene  se   più    fastidioso  o   prolisso. 
Fastidioso  ai  poveri  alunni,  che  s'indispettiscono   contro   il 
greco,  il  latino   e  spesso  contro  lo  studio   in  genere,  con- 
dannati  a  tediosissimi  esercizii   macchinali ,   e  sovente  con 
frutto  tenuissimo,  nella  più  allegra  ed  impaziente  età  della 
vita:  fastidioso  ai  poveri  maestri,  cui  questo  insegnamento 
meramente    empirico    affatica    ed    umilia ,    massimamente 
quelli  che,  assistendo  a  lezioni    universitarie  di  grammatica 
storico-comparativa,  ebbero  agio  di  scorgere  ìa  radicale  er- 
roneità, il  peccato  originale  di  quanti  sistemi  didattici  irra- 
zionali contaminano  ancora  deplorabilmente  lo  studio  lingui- 
stico nelle  scuole  italiane.  Prolisso  poi ,  non  meno  che  fa- 
stidioso,   esso   ci  appare,   per  guisa  che  non  di  rado  con- 
suma il  tempo  che  dovrebbe  essere  consecrato  ad  altri  studi 
(ben  a  ragione  recentemente  istituiti)  e  rende  impossibile  la 
istituzione  di  altri    (cui   l'epoca  nostra    imperiosamente  ri- 
chiede) :  né  gli  bastano   le  ore  concesse  e  le  usurpate ,  ma 
si  sente  costretto  a  sminuire  la  sua  parte  pratica,  gli  eser- 
cizii; scemati  i  quali  (che  ne  erano  per  lo  passato  il  nerbo 
principale)  per  difetto  di  tempo    e  per  la  crescente  avver- 
sione   de'  giovani   da  ogni  lavoro  materiale  (  soprattutto  di 
greco  e  di  latino),  si  fece  sempre  più  manifesta  la  impotenza 


(i)  «  Loin  d'exercer  la  raison  des  enfants,  la  méthode  usitée  dans 
nos  classes  est  faiie  pour  émousser  le  coup  d'oeil  grammatical.  On  s'est 
souvent  demandé  d'où  provieni  la  difficulté  que  nous  éprouvons  à  ap- 
prendre  Ics  langues  étrangòres:  je  crois  qu'entre  autres  raisons  il  faut 
faire  une  grande  place  à  l'usage  de  méthodes  détestables.  Quind  une 
fois  on  prend  l'habitude  Je  »  tourner  >• ,  on  perd  la  facultc  d'observer 
direciement  les  lois  et  l'organisme  des  auires  idiomes.  »  Bréal  ,  Op. 
cit.  ,  p.  173, 

Idvtsla  di  filologia  ecc.,  I.  3a 


-  318  - 
dei  metodi  empirici  nello  studio  degl'idiomi  classici;  e  non 
pure  lo  scrivere  con  eleganza  e  con  facilità  od  almeno  cor- 
rettamente, ma,  scandalo  enorme  nella  vita  intelleituaie  del- 
ritalia  risorta,  divenne  sempre  men  frequente  fra  noi  anche 
lo  intendere  il  linguaggio  che  fa  degno  dei  padri  nostri.  Le 
scolaresche,  per  l'età  e  per  gl'istinti  soverchiamente  pratici 
dell'epoca  nostra  mal  disposte  a  studi  per  sé  stessi  ardui  e 
da  molte  persone  (che  non  dovrebbero  esser  volgo)  con  cat- 
tedratica asseveranza  dichiarati  inutili  alla  vita,  ributtate  an- 
cora dalla  noia  e  dalla  lunghezza  dello  insegnamento  e  dalla 
coscienza  del  lento  e  scarso  progresso,  si  a\'vezzano  sempre 
più  a  rifuggire  dalle,  discipline  classiche:  anche  su  questo 
campo  filologico  le  genti  neo-latine  indietreggiano,  s'avan- 
zano le  germaniche  (i).  Indi  si  scorge  chiarissimamente 
come  agli  studi  classici  in  Italia  arrechino,  colla  loro  ostinata 
adorazione  dei  vieti  sistemi  didattici,  colle  pazze  e  comiche 
ire  contro  ie  necessarie  innovazioni,  supremo  nocumento 
certi  barbassori,  che,  infaticabili  adulatori  di  sé  stessi,  si  re- 
putano e  si  vantano  palladio  insuperabile  del  classicismo. 
Non  a  questi  signori   pertanto  (che  ben  sappiamo  essere 


(i)  « Le  latin  tieht  dans  nos  classes  une  place  tout  à  fait  predo-- 

minante Le  latin  est  le  fonds  de  l'enseignement  universitaire.  Pen- 
dant huit  ou  neuf  ans  il  n'ya  point  de  jour  que  les  élèves  n'y  emploient 
quelques  heures.  C'est  sur  le  latin  qu'on  mesure  les  progrès  des  ènfants 

et  qu'on  juge  le  mérite  des  professeurs D'après  cela  nous  dcvons 

penser  que  les  études  latines  sont  poussées  chez  nous  à  un  degré  notable 
d'extension  et  de  profondeur.  En  AUemagne,  par  exemple,  il  s'en  faut 
que  le  latin  jouisse  d'une  considération  aussi  exclusive  :  nort-seulement 
le  grec  est  avec  lui  de  plain-pied,  mais  on  étudie  l'allemand  dans  son 
développement  historique,  et  une  pan  beaucoup  plus  large  est  fatte  dès 
les  premièresannées  aux  connaissances  appelées  réeUeSf.c'est-k-dìre  à  la 
géographie ,  à  l'histoire  et  aux  sciences.  D'où  vient  oependant  qu'on 
sait  moins  bien  le  latin  en  France  qu'en  AUemagne,  et  que  la  plupart  de 
nos  élèves  emportent  du  collège  une   connaissance   fort  imparfaite  de 

cette  langue,  à  laquelle  ils  ont  voué  tant  d'années  de  travaii  ? »  Bréal, 

Op.  cit. ,  p,  161-2. 


—  319  — 
certa  sordità  affatto  incurabile  e  nessuno  peggior  sordo  di 
chi  non  vuole  udire),  ma  ci  rivolgeremo  agli  uomini  vera- 
mente intelligenti  ed  imparziali  e  chiederemo  loro  se  sia 
conforme  a  ragione,  che  tanti  anni  e  tanto  lavorio  d'intel- 
letto debbano  essere  consecrati  a  studiar  lingue  giusta  un 
metodo  che  rende  sì  faticoso,  sì  tardo,  sì  scarso  il  profitto. 
Vuoisi  serbare  inalterato  o  mutare  sì  fatto  sistema  didat- 
tico? Chi  osa  fra  voi  esclamare  col  signor  De  Laprade  in 
ordine  al  latino  ed  al  greco  :  «  Conservons  avec  ces  pré- 
cieuses  vieilleries,  si  nous  voulons  les  posseder  sùrement, 
les  vieilles  grammaires,  les  vieilies  méthodes  et  jusqu'à  ce 
vieux  Jardin  des  racines  grecques  qui  a  effarouché  la  poesie 
et  l'atticisme  da  dernier  réformateur  des  coliéges  »  (i)?  A 
noi  par  certo  che  risposta  unanime  sarebbe  la  seguente  : 
«  Vogliamo  un  metodo  più  razionale,  più  educativo,  più 
breve  e  prù  commodo.  Vogliamo  un  metodo  più  razionale, 
0,  che  è  lo  stesso,  tale  che  riveli  àgli  studiosi,  quant' è  pos- 
sibile, non  pure  i  fatti,  ma  le  leggi,  le  cagioni  di  essi  :  tale 
che,  facenao  meglio  manifesta  l'intima  struttura  del  greco, 
del  latino,  dello  italiano,  insegni  a  comprendere  più  pro- 
fondamente il  pensiero,  il  carattere  di  tre  grandi  popoli  ed 
avvezzi  le  nuove  generazioni  a  valersi,  sì  nel  parlare,  sì 
nello  scrivere,  con  maggior  scienza  di  causa  e  con  più  si- 
cura franchezza  della  nostra  favella  -,  affinchè  la  conoscenza 
dei  principii  supremi,  i  quali  governarono  la  formazione  del- 
l'idioma nazionale,  si  venga  sempre  più  sostituendo  alla  ir- 


(i)  Léducation  libérale,  Paris,  1873,  p.  259,  Ma,  sebbene  in  ciò 
che  concerne  il  metodo  siavi  assoluto  divario  dì  opinioni  ira  il  signor 
De  Laprade  e  la  scuola  cui  ci  onoriamo  d'appartenere,  tuttavia  racco- 
mandiamo ai  nostri  lettori  l'opera  da  lui  testé  pubblicata,  come  quella 
che  ci  appare  utilissima  per  gli  ali:  pensieri  e  nobili  sensi  che  la  in- 
formano, e,  ciò  che  vuoisi  da  noi  notare  in  modo  special isjimo,  per  la 
strenua  difesa  che  vi  si  fa  degli  studi  classici  considerati  come  strumento 
potentissimo  di  educazione. 


-  32(1  — 
razionale  e  prepotente  autorità  dei  pedana,  che,  cresciuti 
come  la  maPerba  nei  secoli  funesti  alla  indipendenza  ed  alla 
libertà  nostra,  tollerati  od  eziandio  protetti  dalle  male  si- 
gnorie come  potenti  naicotici,  appariscono,  anche  presente- 
mente, qua  e  là,  tedi'xsi  anacronismi  (ij.  Vogliamo  un  me- 
todo più  educativo,  vale  a  dire  più  atto  a  perfezionare,  con 
forte  ed  utile  esercizio,  le  facoltà  intellettuali  dei  giovani 
alunni,  addestrandole  agli  studi  superiori  coU'avvezzarle  al 
concetto  di  legge  e  di  causa.  Vogliamo,  in  fine,  un  metodo 
più  breve  e  più  commodo,  sì  che,  senza  sopprimere  (come 
vorrebbe  un  volgo  di  ottuse  intelligenze)  nelle  nostre  scuole 
secondarie  né  latino  né  greco,  senza  rendere  meramente  li- 
bero io  apprendimento  di  quest'ultimo  idioma  (come  testé 
propose  il  Janet  (2)),  senza  togliere  ai  corsi  già  fondati  o 
che  dovranno  presto  fondarsi  (v.  g.  di  lingue  moderne)  il 
tempo  loro  dovuto,  s'imparino  seriamente  e  la  lingua  ma- 
terna e  le  due  classiche  antiche  :  impresa  non  punto  impos- 
sibile (ne  sia  prova  Todierna  Germania)  e  che  diverrà  sempre 
meno  ardua  quanto  più  si  ridurranno  i  fenomeni  linguistici  a 
classi  ben  determinate  e  se  ne  indicheranno  le  ragioni  men 
difficili  a  comprendersi;  quanto  più  uniforme  sarà  il  me- 
todo nei  varii  gradi  dello  insegnamento   e  nei  varii    istituti 


(i)  «  L'habitude  d'écrire  en  latin  nous  a  rendus  tirnides  dans  !e 
maniement  de  notre  propre  langxie,  Nous  commencons  à  la  traiter 
comme  une  langue  morte:  on  deraande  des  autorités  pour  les  mots , 
on  condamne  les  tours  qui  ne  sont  pas  dans  les  grammaires.  Je  vois 
beaucoup  de  juges  sévères  toujours  disposés  à  en  retrancher  quelque 
chose  :  mais  les  accroissements  qu'elle  re90it  soni  cu  nuls  cu  de  si  mau- 
vais  alci  qu'on  n'y  peut  voir  un  gain  véritable.  En  remontant  jusqu'aux 
sources  de  l'ancien  franfais  et  jusqu'aux  temps  où  la  langue  avait  plus 
de  li<berté  dans  la  formation  des  mots  et  dans  la  construction  de  la 
pbrase,  nous  retrouverions  quelque  chose  de  cette  initiative  et  de  ce 
don  d'heureuse  invention  qui  ne  sont  pas  moins  nécessaires  à  la  vie 
d'une  langue  qu'à  celle  d'une  liltérature.  »  Bréal,  Op.  cit. ,  p.  236-7. 

(2)  Nella  Revue  des  deux  mondes,  n°  del  i5  novembre  1872. 


—  321  - 
didattici  \  quanto  più  si  faranno  osservare  ai  discenti  le  ana- 
logie esistenti  fra  lo  italiano  ed  il  latino,   fra  il  latino  ed  il 
greco  (i). 

Questo  metodo,  più  razionale,  più  educativo,  più  breve 
e  cotnmodo,  è  quello  pertanto,  il  quale  al  concetto  di  caso, 
di  capriccio  sostituisce ,  ogniqualvolta  lo  stato  odierno  della 
glottologia  e  la  intelligenza  degli  alunni  il  consentono,  Tidea 
di  legge,  di  causa  ;  al  disordine  lordine,  allo  empirismo  la 
scienza.  Ma  badiam  bene  a  non  lasciarci  illudere  da  certe 
innovazioni,  le  quali  di  progresso  scientifico  non  hanno  che 
ifallace  parvenza,   come  quelle   che   inorpellano   con    forme 


(i)  ««  Il  est  impossible de  ne  pas  convenir  que  l'université ,  à  ses 

débuts,  ensaignait  le  latin  et  les  mathématiques  et  n'enseignait  pas 
autre  chose.  On  disait  alors  indilTéremment  : /arre  5es  classes  ou  ap- 
frenare  le  laiin.  Ce  dernier  mot  est  reste  dans  nos  habirudes.  Mais  le 

monopole  du  latin  a  été  successivement  diminué L'opinion  publique 

ne  cessait  de  réclamer  de  nouveaux  enseignements,  et  l'université  ne 
cessaii  de  lui  obéir.  Or  peut  mettre  en  regard  le  programme  de  1802  et 
celui  de  1872  ,  pour  se  rendre  compte  de  ces  accroissements.  Le  pro- 
gramme acìuel  est  toute  une  encyclopédie.  Un  élève  qui  posséderait 
réellement  cet  ensemble  de  connaissances  serait  un  savant  au  sortir  du 
college.  Le  malheur,  c'est  que  la  journée  a  vingt-quatre  heures  en  1872 
comme  en  1802  ;  que  les  enfants  ont  le  méme  besoin  de  repos  et  de  som- 
meil;  qu'en  les  surchargeant  de  travail  outre  mesure,  on  nuit  également 
à  leur  sante  et  à  leur  travail ,  car  il  vaut  mieux  savoir  peu  de  choses  et 
les  bien  savoir,  que  d'effleurer  un  ensemble  d'études ,  dont  il  ne  reste 
rien  ensuite  qu'un  orgueil  mal  justifié.  Toutes  les  études  nouvelles,  qui 

ont  été  introduites,  sont  nécessaires Nous  venons  lout  récemment 

de  faire  à  l'enseignement  des  langues  vivantes  une  large  part  dans  le 
lemps  de  nos  élèves  ;  c'était  un  progrès  nécessaire  Mais  ,  dans  le  mo- 
ment où  nous  prenions  cette  résolution  avec  l'asscntiment  universe!, 
nous  savions  que  nos  enfants  étaient  déjà  surmenés,  qu'ils  n'avaient  pas 
de  temps  pour  la  lecture  et  la  réflexion.  Il  y  a  des  années  que  cette  si- 
tuation  préoccupe  tous  les  esprits ,  et  il  n'existe  que  deux  mcyens  d'en 
sortir  :  supprimer  l'étude  des  langues  anciennes,  ou  la  modifier.  Je  dis 
sur-le-champ  que  ce  serait  un  véritablc  crime  que  de  la  supprimer,  ou 

mime  d'en  diminuer  l'importance la  conséquence  inévitable,  c'est 

qu'il  faut  enseigner  les  langues  anciennes  aussi  bien  que  par  le  passe,  en 
moins  de  temps,  par  d'autres  moyens.  »  J.  Simon,  Circulaire  cit.,  8". 


—  322  ~ 
teoretiche  speciose  sistemi  didattici  meramente  pratici  nella 
loro  essenza.  E  guardiamoci  attentamente  eziandio  dal  con- 
fondere la  vera  scienza  del  linguaggio  (ossia  quella  disci- 
plina eminentemente  positiva,  che  dallo  studio  storico-com- 
parativo dei  fenomeni  glottici  si  sforza  di  assorgere  alle  loro 
leggi,  alle  loro  cause)  con  una  cotale  pretesa  dottrina  del- 
l'eloquio umano,  la  quale  si  mosrr9  sempre  impotente  a  ri- 
velarne la  natura  e  le  origini  (che  non  fu  mai  se  non  un 
tessuto  vaporoso  di  sterili  astrazioni  concernènti  non  già  il 
linguaggio  ma  il  pensiero).  Non  è  scienza  del  linguaggio 
quella  che  si  vanta  -di  spiegare  Tinfinita  m.oltiplicità  dei  fatti 
glottici  (qual  essa  ci  appare  nella  mirabile  varietà  delle 
schiatte,  de'luoghi  e  dei  tempi)  col  solo  sussidio  di  qualche 
schema  logico,  frutto  miserando  di  una  troppo  ristretta  os- 
servazione! (i).  Per  conseguenza  non  ci  rallegra  punto  il 
ricordo  delle  così  dette  analisi  logiche,  supplizio  cui  ve- 
demmo ingiustamente  condannati  deboli  intelletti  infantili: 
e,  se  fra  tanta  manìa  di  mutare  e  di  rimutare  (la  quale  da 
ben  venti  anni  fa  tristo  governo  della  istruzione  fra  noi), 
sussiste  ancora  Tuso  di  tormentare  con  queste  analisi  i  po- 
veri fanciulli,  facciam  voti  affinchè  le  si  rimandint)  alle  scuole 
di  logica  (2).  Dunque  non  già  a  quella  che  chiamano  gram- 
matica generale,  ma  alla  grammatica  storico-comparativa 
debbe  conformarsi,  con  lieta  fiducia  e  insieme  con  prudente 
moderazione,  lo  insegnamento  dei  linguaggi,  vuoi  antichi, 
vuoi  moderni.  Appena  occorre  notare  come  fra  i  risultati 
delle  recenti  investigazioni  glottologiche  solo  i  più  accertati 


(i)  V.  Heyse,  Sistema  della  scienza  delle  lìngue,  trad.  dal  Leone, 
Torino,  1864,  §  7,  p.  7-1Q.  — V.  eziandio  la  nostra  Introduzione  allo 
studio  della  scienza  del  linguaggio,   Torino,  1869,  p.  3  e  7, 

(1)  «  Des  analyses  logiquts!  Ne  devrait-on  pas  renvoyer  cet  exercice 
abstrait  à  la  classe  de  philosophie  !  »  Baudry,  Op.  cit.  ,  p.  19. 


—  323  - 
ed  importanti  si  debbano  accogliere  nelle  nostre  scuole  secon- 
darie, escludendone  i  men  rilevanti  e  sicuri  e  le  lunghe  ed 
ardue  ricerche  che  resero  possibili  quelle  scoperte:  ne  ci  è 
mestieri  osservare  che  vuoisi  nella  esposizione  di  questi 
nuovi  concetti  adoperar  sempre  la  forma  più  esatta  e  chiara 
e  procedere  con  saggia  graduazione,  assorgendo  sempre  più 
alla  scienza  quanto  più  negli  alunni  cresce,  coU'età,  la  copia 
delle  cognizioni  ed  il  vigore  dello  ingegno. 

Non  ignoriamo  quali  e  quanti  argomenti  sogliansi  dai 
molti  avversarli  opporre  alla  introduzione  di  questo  nuovo 
sistema  didattico  nelle  scuole  secondarie.  E,  sebbene  sì  fatti 
argomenti  non  tutti  meritino  di  essere  esaminati  seriamente 
e  siano  già  stati  per  lo  più  spesse  volte  confutati  con  ottimo 
successo-,  sebbene  oltracciò  cotali  avversarli,  fatte  rarissime 
eccezioni,  non  abbiano  (come  parecchi  mostrarono  coi  fatti 
e  nella  guisa  più  evidente)  né  sufficiente  nozione  né  esperienza 
del  metodo  contro  cui  si  scagliano,  tratti  da  quell'amor  del 
passato,  da  quell'odio  d'ogni  innovazione  che  aVecchi  non 
di  rado  sì  tenacemente  si  appigliano:  nondimeno  ci  piace 
sottoporre  le  preaccennate  obbiezioni ,  od  almeno  le  più 
forti  o  frequenti  tra  esse,  a  breve  disamina,  per  isvelarne 
di  nuovo  l'arrogante  impotenza  ed  affinchè  a  tutti  appa- 
risca sempre  più  manifesto  che,  lungi  dal  temere  la  discus- 
sione, siamo  lietissimi  di  provocarla. 

V'ha,  in  primo  luogo,  chi  afferma  non  essere  ancora  la 
recente  investigazione  storico-comparativa  dei  Unguaggi  ariani 
giunta  a  risultati  tanto  numerosi,  certi  ed  ammessi  dall'u- 
nanime consenso  dei  dotti,  quanto  sarebbe  necessario  per 
poterli  porre  a  base  di  un  nuovo  edilìzio  grammaticale  sco- 
lastico. Sappiamo  anche  noi  e  confessiamo  colla  massima 
schiettezza  che  sì  fatti  risultati  non  si  estendono  ancora  in 
egual  modo  a  tutte  le  parti  della  glottologia  e  non  sono  tutti 
in  pari  grado  sicuri  e  come  tali  accolti  dai  giudici   compe- 


—  324- 

tenti  :  ma  sappiamo  eziandio  che  tutti  questi  riconoscono 
come  indubbiamente  conformi  a  verità  molte  e  rilevanti 
scoperte  fonologiche  e  morfologiche,  sulle  quali  può  senza 
fallo  fondarsi  solidamente  un  nuovo  sistema  didattico.  Sono 
verità  note,  in  parte  almeno,  da  ben  mezzo  secolo  *,  verità 
insegnate  dalle  più  illustri  accademie  ed  università  del  mondo 
incivilito  :  con  qual  diritto  voi,  voi  che  non  pubblicaste  mài 
nemmeno  una  monografia  di  linguistica,  voi  di  cui  nessuno 
rispetta  Tautorità  in  fatto  di  questa  scienza,  voi  che  proba- 
bilmente non  ne  conoscete  né  anche  i  primi  elementi,  osate 
dichiararle  dubbie  e  come  tali  escluderle  dai  nostri  ginnasii, 
dai  nostri  licei  ?  —  Non  basta  :  si  afferma  ancora,  sempre 
col  solito  tono  cattedratico,  che  il  nuovo  sistema  didattico, 
quand'anche  valesse  a  rivelare  Tintima  struttura  di  un  idioma 
(verbigrazia  del  latino),  sarebbe  pur  sempre  inetto  ad  in- 
fondere negli  allievi  una  cognizione  pratica  di  esso.  Notiamo 
innanzi  tratto  che  a  noi,  quanti  apparteniamo  anche  intel- 
lettualmente al  secolo  presente  e  non  ai  secoli  passati  come 
certi  nostri  avversarli,  debbe  importare  assai  più  il  com- 
prendere profondamente  che  non  lo  scrivere  ed  il  parlare 
con  facilità  ed  eleganza  il  latino  (i).    Ma  che?  Il  ridurre  a 


(i)  On  étudiera  désormais  le  latin  pourle  comprendre,  et  non  pas  pour 
le  parler.  Il  est  donc  naturel  de  l'enseigner  autrement  qu'on  ne  l'a  fait 
jusqu'ici.  <»  J.  Simon,  Circulaire  citata,  I.  e.  —  »  Écrire  en  latin,  est-ce 
donc  une  chose  si  précieuse  en  soi  et  d'une  inliuence  si  salutaire  qu'il 
faille  le  plus  tòt  possible  et  par  tous  les  artitìces  en  fournir  les  moyeas 
aux  enfants  ?  11  est  certain  qu'avec  l'aide  de  Lhomond  et  avec  le  secours 
de  leurs  dictionnaires,  nos  meiUeurs  élèves  de  sixième  font  déjà  des- 
thèmes  fort  bien  lournés,  et  tels  qu'en  AUemagne  on  les  atiendrait  à 
peine  d'élèves  de  trois  ou  quatre  ans  plus  agés.  Mah?  si  ces  pièces  de 
montre  sont  obtenues  par  une  culture  à  rebours  du  bon  sens ,  où 
est  le  profii  des  enfants,  où  est  le  gain  de  l'État?  Est-ce  donc  pour  en- 
richir  de  bonnes  copies  les  Annales  du  concours  general  et  pour  prò- 
curer  des  éloges  aux  professeurs  habiles  dans  la  production  precoce  du 
thème  latin,  quesont  faites  iesmeilleuresannées  de  nos  enfants  ?  »  Bréal, 
Op.  cit. ,  p.  174-5. 


-  325  ~ 
minor  numero  le  regole  e  le  eccezioni,  ii  far  vedere  la  ra- 
zionalità delle  prime  e  delle  seconde,  il  rendere  più  semplice 
e  più  chiaro  lo  insegnamento  di  una  lingua  può  forse  essere 
cagione  che  altri  meno  apprenda  a  valersene  parlando  e 
scrivendo?  Oltracciò  la  faciìiìA  e  Teleganza  nell'uso  di  qual- 
siasi favella  più  assai  che  dall'insegnamento  grammaticale 
teoretico  dipende  dagli  esercizi!  pratici  :  ora  sarebbero  mai 
questi  diventati  impossibili  per  colpa  del  metodo  nuovo? 
Forsechè  i  temi  greci  del  Boeckel,  ad  esempio,  sebbene 
coordinati  alla  grammatica  (eminentemente  razionale)  di 
G.  Curtius,  non  sono  il  miglior  libro  che  un  professore 
italiano  possa  preporre  ai  proprii  allievi  per  imprimere  nella 
loro  memoria  le  regole  della  tlessione  nominale  e  verbale  e 
le  principali  famiglie  di  vocaboli  greci,  addestrandoli  insieme 
a  tradurre  dal  greco  in  italiano,  dallo  italiano  in  greco  ?  — 
Ma,  osserva  taluno  dei  nostri  aristarchi,  il  nuovo  sistema 
didattico,  avvezzando  le  tenere  menti  degli  alunni  a  scrutare 
minutamente  l'intima  struttura  della  parola,  a  scomporla 
negli  elementi  che  la  costituiscono,  scema  negli  studiosi  la 
potenza  di  considerarla  esteticamente  nei  suo  tutto,  uccide 
il  senso  artistico  della  bellezza  che  vuoisi  ammirare  nel  verbo 
stupendo  delle  genti  italo-greche.  Come?  rispondiamo  noi: 
il  lavorio  dell'analisi  rende  forse  impossibile  la  sintesi  ?  Non 
è  forse  vero,  per  lo  contrario,  che  le  sintesi  più  degne  dello 
spirito  umano  sono  quelle  che  furono  precedute,  preparate 
dalle  analisi  più  diligenti?  Come?  lo  studio  analitico,  di- 
remmo quasi  microscopico,  della  natura  sarebbe  mai  per 
avventura  ostacolo  a  comprenderne,  a  sentirne  la  venustà 
divina?  Dai  più  segreti  penetrali  della  scienza  non  isgor- 
gherebbe  più  forse  altissima  poesia?  Dovremmo  forse  te- 
mere che  lo  apprendere  gli  elementi  della  chimica,  dell'ana- 
tomia, della  fisiologia  vegetale  ed  animale  ottunda  lo  intel- 
letto? Chioserebbe  farsi  difensore  disi  enorme  scempiaggine? 


—  326  - 
Forse  nemmeno  chi  ebbe,  narrano,  il  non  invidiabile  co- 
raggio d'insegnare  che  ottundono  lo  ingegno  i  nuovi  studi 
linguistici  storico-comparativi.  Senza  fallo,  se  questo  inse- 
gnamento fosse  conforme  a  verità,  dovremmo  proprio  de- 
durne che  l'autore  di  esso  non  ad  altro  abbia  probabilmente 
atteso  che  alla  linguistica  recente,  mentre  sappiamo  per  con- 
trario ch'egli  non  provò  mai  di  aver  appreso  nemmeno  l'ab- 
biccì di  questa  scienza,  sebbene  siasi  in  essa  impancato  a 
giudice.  Ma  guardiamoci  bene  dall'onorare  di  seria  confu- 
tazione simili  corbellerie:  che  ormai  a  tutti,  anche  ai  più 
volgari  intelletti,  è  manifesto  essere  un  metodo  tanto  più 
atto  a  perfezionare  le  nostre  facoltà  mentali  quanto  più  esso 
si  accosta  al  vero.  —  Veniamo  piuttosto  all'ultima  pretesa 
ragione  che  accampano  contro  a  noi  e  che  consiste  nel  sup- 
porre troppo  lento  e  troppo  difficile  il  sistema  didattico  che 
propugniamo  :  troppo  lento  e  difficile  sì  ai  maestri  sì  agli 
alunni ,  per  la  tentata  introduzione  di  elementi  scientifici. 
Ora  non  è  egli  vero,  incontestabilmente  vero  per  lo  con- 
trario, che,  irradiando  (per  quanto  lice)  lo  insegnamento 
linguistico  delle  nostre  scuole  secondarie  colla  luce  cui  su 
esso  può  diffondere  la  scienza  storico-comparativa  degl'i- 
diomi ariani,  appariscono  molte  fra  le  leggi,  fra  le  cause 
dei  fenomeni  glottici*,  che  questi  si  ordinano  più  acconcia- 
mente e  spesso  rivelano  le  cagioni  onde  procedono;  che  le 
eccezioni  si  fanno  più  rare,  men  numerose  eziandio  e  più 
comprensibili  le  regole-,  che  la  grammatica  ed  il  lessico  di- 
ventano più  regolari,  più  conformi  a  natura  ed  a  ragione  ; 
che,  pertanto,  questo  studio  diviene  più  breve  e  più  facile? 
E  non  ci  si  opponga  che  le  menti  degli  allievi  sono  inette 
ancora  a  quel  lieve  lavorio  di  riflessione  che  si  richiede  ad 
imparare  in  questa  guisa  :  che  lo  ingegno ,  purché  non  lo 
si  schiacci  sotto  l'enorme  peso  di  certi  lavori  macchinali, 
si  svolge  e  si  avvezza  a  ragionare  prima  che  per  lo  più  si 


-  327  - 

creda,  e  soprattutto  in  Italia,  fra  il  popolo  onde  tanti  stra- 
nieri ammirano  la  pronta  e  viva  intelligenza.  Né  altri  s'im- 
magini che  airintroduzione  di  questo  nuovo  sistema  didat- 
tico sia  ostacolo  non  superabile  la  non  veneranda  antichità 
di  quello  che  ancora  sgoverna  i  nostri  studii  ginnasiali  e 
liceali  di  greco,  di  latino,  d^italiano:  che  sullo  allievo,  il 
quale,  ignaro  v.  g.  di  latino,  si  accinge  allo  studio  di  que- 
sto idioma,  il  vecchio  metodo  non  esercitò  certamente  an- 
cora influsso  di  sorta;  e,  per  ciò  che  attiensi  al  professore, 
ormai  questi  o  è  già  preparato  a  valersi  del  metodo  nuovo, 
od  almeno  può  senza  fallo  prepararvisi  senza  grave  disagio, 
specialmente  per  ciò  che  ogni  trasformazione  di  metodo 
vuol  essere  fatta  non  già  in  guisa  subitanea  e  violenta,  ma 
bensì  graduatamente  e  con  molta  prudenza  (i).  Ne  man- 
cano ormai,  ma  per  contrario  abbondano  ai  maestri  i  mezzi 
d'iniziarsi  alla  scienza  storico-comparativa  degl'  idiomi  che 
sono  chiamati  ad  insegnare  :  basti  accennare  i  corsi  univer- 
sitarii  di  lingue  e  di  letterature  comparate  ed  i  libri  testé 
pubblicati  intorno  a  questo  argomento  e  principalmente  a 
prò  degrinsegnanti  (fra  i  quali  libri  ci  sia  permesso  men- 
zionare il  Compendio  dello  Schleicher  da  noi  volto  in  ita- 
liano con  una  Introduzione  allo  studio  della  scienza  del 
lin£^uaggio^  il  Commento  del  Curtius  tradotto  dal  prof. 
G.  Miiller,  la  nostra  Grammatica  storico-comparativa  della 
ling'ua  latina,  il  Manuel  pour  l'étude  des  racines  grec- 
qiies  et  latines  del  Bailly  e  la  recentissima  versione  francese 
della  Grammatica  romanza  del  Diez).  Né  v'ha  più,  come 
pochi  anni  or  sono,  grave  difetto    di    operette    scolastiche 


(i)  «  Il  ne  s'agit  point  de  fai  re  une  revolution  complète  dans  l'ensei- 
gnement  de  la  grammaire  ;  les  transformations  ^^olentes  sont  dange- 
reuses;  elles  engendrent  le  ucsordre  et  manquent  leur  but.  »  Beaukils, 
Noiivelle  grammaire  latine  J'après  les  principes  de  la  grammaire  (Otti- 
parée ,  Paris,  iSyj,  prel".  ,  p.  i. 


—  328  - 
composte  giusta  la  scienza  odierna  delle  favelle  ariane  :  che 
abbiamo  per  lo  insegnamento  del  greco  le  grammatiche  del 
Curtius,  del  Koch,  dello  Inama;  per  quello  dei  latino 
le  grammatiche  del  Vanicek,  dello  Schweizer-Sidler  ,  del 
Dorschel,  del  Pozzetti-,  infine  per  le  lezioni  di  lingua  ita- 
liana la  Grammatica  stanca  (  fonologia  e  morfologia  ) 
che  il  Fornaciari  estrasse  compendiando  (sebbene  non 
sempre  lodevolmente  )  dal  Diez ,  e,  lavoro  ben  più  degno  di 
nota,  la  Sintassi  del  Demattio.  Non  tutte  queste  operette 
si  possono  proporre  agli  allievi  ;  che  alcune  delle  germaniche 
non  furono  volte  nella  nostra  favella  :  ma  a  tutte ,  anche 
a  queste  ultime,  può  avere  utilmente  ricorso  il  maestro  che 
non  sia  atfatto  ignaro  di  lingua  tedesca  e  voglia  insegnare 
come  s'addice  ad  un  professore  delPetà  nostra,  vale  a  dire, 
seguendo  quel  metodo  che  la  scienza  odierna  dei  linguag- 
gio consiglia,  o,  meglio,  impone.  Ed  alla  scienza  si  ag- 
giunga l'esperienza  :  che,  come  già  notammo,  splendide 
prove  del  suo  valore  didattico  diede  già,  sempre  quando  fu 
convenientemente  adoperata,  la  grammatica  greca  del  Cur- 
tius non  pure  ne'  ginnasii  tedeschi ,  ma  eziandio  negli 
italiani.  Si  aggiungano  le  sentenze  gravissime  di  giudici 
eminentemente  competenti ,  le  vìve  esortazioni  di  uomini 
intelligentissimi  e  delia  pubblica  istruzione  amantissimi,  fra 
ì  quali  basti  ora  citare  Bréal(!),  Baudry(2)j  J.  Simon. 
E  noi  porremo  termine  a  questa  terza  parte  delle  nostre 
Considerazioni  colle  parole  che  sì  leggono  a  questo  propo- 
sito nella  Circulaire  dell'autorevolissimo  ministro  francese  : 
a  Je  voudrais  que  Ton  cessai  presque  compiétement  de  faire 
apprendre  des  règles  par  cceur.  Les  règles  sont  surtoui  une 
matière  d'explications.  L'inappréciable  av.antage  de    Térude 


(i)  Op.  cit.,  p.  175  e  segg. 
{%)  Op.  citi ,  p,  71-2. 


-  329- 

comparée  des  langues,  mème  la  plus  élérnentaire,  c'est  que 
l'enseignement  méthodique  qu'on  en  fait  peut  s'adresser,  de 
bonne  beare,  à  Tesprit.  Il  faut  faire  la  guerre  aux  procédés 
mnémoniques,  qui,  sous  prétexte  de  ménager  des  intelìigen- 
ces  trop  faibles,  les  fatiguent  autrement,  sans  grand  resul- 
tai, et  font,  par  avance,  obstacle  à  l'emploi  des  procédés 
rationnels....»  Ce  sont  les  systèmes  qui  ont  produit  certains 
iivres:  il  ne  faut  pas  que  ces  livres  fasscnt  maintenant 
durer  ces  systèmes.  La  plupart  de  nos  grammaires  datent 
du  temps  où  les  maitres  eux-memes  ne  connaissaient  guère 
qu'une  seule  langue.  Elles  ne  donnent  la  raison  de  rien  , 
parce  que  les  termes  de  comparaison  leurs  font  défaut,  et 
qu'elles  restent  nécessairement  dans  le  particulier.  Au  lieu 
de  ces  règles  étranges,  qui  semblent  ne  s'appuyer  que  sur 
le  caprice,  empruntons  à  l'étude  savante  et  à  la  comparai- 
son des  langues  quelques  faits  positifs  et  quelques  lois  ab- 
solues.  L'essai  que  Ton  fit,  il  y  a  vingt  ans,  d'un  enseigne- 
ment  de  ce  genre  était  premature  :  il  ne  l'est  plus.  La  clarté 
et  la  simplicité  ne  perdront  rien  à  l'étude  de  la  grammaire 
ainsi  renouvelée.  Il  n'y  a  de  clair  que  ce  qui  est  logìque; 
et  qui  voudrait  soutenir  que  ce  n'esi  pas  au  nom  de  la  io- 
gique  et  de  la  raison  qu'il  est  bon  d'instruire  mème  les  plus 
jeunes  esprits?  Les  procédés  empiriques  ne  font  que  jeter 
le  vague  et  Tobscurlté  où  nous  voulons  faire  pénélrer  l'ordre 
et  la  lumière;  et  la  vérité  est  encore  ce  qu'on  a  imaginé  de 
plus  simple». 

{Continua) 

Domenico  Pezzi. 


-  330  - 
CEV^V^I  "BITiLIOGliAFICI 


Qiiaestiones  criticae  ad  emendatìonem  Claudiani  panegyri- 
corum  spectantes  scr.  Ludovicus  Jkfp-,  Numburgi ,  i86g. 

Die  Handschriften  ron   (Jaudian''s  Raptus  Proserpi- 

nae  von  L.  Jeep  (  in  «  Acta  Societ.  phil.  lips.  »  ed.  Fr. 
RiTSCHELiLs ,  I,  2,  p.  345-87).  —  De  Claudìaiit  codice 
Veronae  nupet^  reperto  commentatio  critica  Ludov.  Jeep 
[in  «  Philologos  Germania^,  Lìpsiae  congregatos  in.  maio, 
ati.  MDCCcr-xxii,  perofficiosc  salutant  scholae  Thomanae 
ìnagistri  »,  p.  4?  e  segg.,  Lipsia).  —  Nachtrdgliches  iìber 
die  Handschriften  von  Claudiaus  Raptus  Proserpinae, 
giugno,  1872  {Rhein.Museum,  N.  F.  xxvii,  p.  618-24).  — 
Zu  Claudianiis  de  VI  Consolata  Honorii.  Ein  Beitrag 
liir  rómischen  Topographie  {Rhein.  Museum,  ibid.,  p. 
269-77). 

Di  questi  cinque  lavori  soltanto  l'ultimo  non  ha  per  iscopo 
diretto  remendazione  di  Claudiano  :  lo  separo  perciò  dagli 
altri,  e  mi  affretto  a  farlo  conoscere  in  primo  luogo  ai  miei 
lettori.  Ha  dato  occasione  a  questo  scritto  un  lavoro  del 
prof.  Stark  [Gigantomachie  aufantik,  Reliefs  imd  der  Tem- 
pel  desJuppiter  Tonans  in  Rom.  Heideib,  1869),  nome,  se 
non  erro,  già  noto  a'  lettori  della  ^visia. 

Lo  Stark  vi  sostiene  la  tesi  che  il  rilievo  esisterne  nel 
cortile  di  Belvedere  e  rappresentante  una  Gigantomachia 
debba  essere  un  pezzo  della  cornice  del  tempio  di  Giove 
Tonante  sul  Campidoglio  ;  e  in  conferma  della  sua  tesi  ado- 
pera un  luogo  di  Claudiano  [de  VI  cons.  Hon. ,  v.  44  et 
seqq.),  che  nella  edizione  del  Gesner  (Lips.  1769)  si  legge 
nel  miodo  seguente  : 

V.  44 Juvat  infra  tecta  Tonantìs 

Cernere  Tarpeja  pcndentes  rupe  Gigantas, 
Caelatasque  fores,  iriediisque  voìanlio  signa 
Nubibus,  et  densum  stipantibus  aethera  templis, 
Aeraque  vestitis  numerosa  puppe  c>)lumnis 
Censita,  SLibnixasque  jugis  immanihus  aedes  , 
Naturam  cumulante  rnanu ,  spoliisque  micantes 
Innumeros  arcus. 


—  331  - 

Al  V.  47  però  lo  Stark  legge  deorum  invece  di  densum, 
senza  nessuna. autorità  di  codici,  come  il  Jeep  assicura,  e 
dopo  che  il  Gesner  aveva  benissimo  spiegato  il  densum  : 
sarà  errore  di  stampa,  dice  benignamente  il  Jeep.  —  Il  ra- 
gionamento dello  Stark  è  molto  semplice  e  altrettanto  cu- 
rioso quanto  semplice  :  Claudiano  paria  di  «  Gigantes  Tar- 
peia  rupe pendentes....  infra  teda  Toìiantisyi,  il  nostro  ri- 
lievo rappresenta  appunto  una  Giganto machia,  dunque  nulla 
di  più  naturale  che  Claudiano  alluda  proprio  a  quest'ultimo 
rilievo  che  avrebbe  dovuto  ornare  le  cornici  del  tempio  di 
Giove  Tonante.  Ma  Stark  stesso  osserva  che  l'occhio  dei 
poeta  si  suppone  scorra  «  dal  Palatino  verso  il  foro  co''  suoi 
tempii,  coi  suoi  rostri  e  con  le  sue  statue,  e  finalmente  si 
fermi  sul  Campidoglio  «  :  ora  è  possibile  che,  in  mezzo  a 
tutte  queste  grandiose  costruzioni,  tempii,  colonne  rostrate  e 
statue,  rocchio  del  poeta,  a  tanto  notevole  distanza  quanta 
ne  corre  tra  il  Palatino  e  il  Campidoglio,  distingua  e  si 
fermi  a  considerare  un  rilievo  di  quattro  palmi  e  me^:(0  di 
altezza?  A  questa  giustissima  osservazione  il  Jeep  aggiunge 
altre  di  non  minor  valore  ;  rammenterò  soltanto  la  corre- 
zione proposta  «  iuvat  inter  teda  Tonantis  » ,  correzione 
più  che  probabile,  sebbene  non  vedesi  come  facilmente  possa 
esser  nata  la  lezione  «  intra  tela  vel  tèpla  »  dell'autorevo- 
lissimo codice  Vat. ,  N.  2809, 

li  Jeep  non  si  limita  poi  alia  confutazione  dell'  infelice 
congettura  dello  Stark,  ma  si  serve  anche  de'  versi  di  Clau- 
diano per  determinare  il  luogo  della  rupe  Tarpeia  e  giunge, 
come  di  leggieri  si  può  immaginare ,  alla  conclusione  che 
la  rupe  giacesse  in  un  "posto  dirimpetto  al  Palatino,  con  che 
egli  ritorna  a'  risultati  già  ottenuti  da  Dureau  de  la  Malie. 
Il  Jeep  stesso  ha  visto  però  benissimo  che  la  verità  di 
questa  asserzione  dipende  da  una  ipotesi  sul  luogo  del  tem- 
pio di  Giove  :  ipotesi  che,  per  quanto  sia  probabile  e  abbia 
dalla  sua  quasi  tutti. gli  archeologi  tedeschi,  può  essere  non- 
dimeno messa  in  controversia.  Noi  non  potremmo  che  ral- 
legrarci, se  il  Jeep  volesse  presto  studiare  anche  questa  qui- 
stione,  la  quale  gli  darebbe  occasione  di  mostrare  in  campo 
più  vasto  quella  dottrina  e  quel    retto  e   sano  giudizio  che 


-  332  - 

io  distinguono  a  preferenza  di  molti  e  molti  giovani  filologi 
ed  archeologi.  —  Non  voglio  in  ultimo  omettere  che  ,  a 
quanto  mi  si  assicura,  gli  archeologi  di  Berlino  hanno  fatto 
buon  viso  a  questo  piccolo  lavoro,  del  quale  accenna  anche 
E.  Curtius  nella  Archaologische  Zeitung  di  quest'anno. 

Gli  altri  lavori  dei  Jeep  hanno  per  iscopo  diretto  T  emen- 
dazione di  Claudiano,  e  di  certo  essi  offrono  anche  più  di 
quello  che  sarebbe  necessario  per  poterci  aspettare  dal  loro 
amore  una  buona  edizione  critica  del  poeta  latino.  Questa 
edizione  fu  già  annunziata  tempo  fa  dal  Teubner  ,  quindi 
non  mi  resta  che  esprimere  il  desiderio  di  vederla  presto 
in  commercio,  desiderio  che  son  sicuro  sarà  partecipato  da 
quanti  s  interessano ,  non  dirò  per  Claudiano  ,  ma  per  gli 
studi!  classici  in  generale.  Per  ora  intanto  bisognerà  con- 
tentarsi di  questi  scritti  preparatorii,  del  contenuto  de'  quali 
mi  permetto  accennare  con  la  massima  brevità,  nella  spe- 
ranza di   far  cosa   non  affatto  inutile   pe*  lettori    di   questa 

Il  Jeep  cominciò  le  ricerche  su  Claudiano  colla  sua  dis- 
sertazione di  laurea  (n.  i)  ,  scritta  quando  egli  non  aveva 
potuto  studiare  che  una  diecina  di  codici ,  numero  per  sé 
stesso  rispettabile,  ma  certamente  insignificante  rispetto  al- 
l'ingente  copia  di  quelli  raffrontati  durante  e  dopo  il  suo 
viaggio  in  Italia.  Ciò  premesso,  è  naturale  che  le  sue  idee 
su'  manoscritti  di  Claudiano  debbano  essersi  alquanto  mo- 
dllicate  in  seguito,  come  del  resto  può  dedursi,  per  es.,  dalla 
p,  619  del  quarto  lavoro  citato  in  fronte  a  questo  annun- 
zio, e  come  può  anche  vedersi  da  alcune  giuste  tra  le  os- 
servazioni oppostegli  dal  Bàhrens  (  Fleckeisen's  Jahrb.  fiìr 
PhìLs  1872). 

Chi  dunque  vorrà  occuparsi  della  critica  di  Claudiano 
dovrà  ricordarsi  che  questo  lavoro  quantunque  di  grande 
importanza  non  è  l'ultima  espressione  degli  studii  dell'au- 
tore, epperò  non  è  da  usarsi^  se  non  insieme  co'  posteriori 
e  specialmente  con  un  altro  {Ueber  die  al  teste  Textesrecen- 
sion  des  Claudian)^  che  dovea  far  parte  dell'ultimo  volume 
già  pubblicato  del  Rkeìnisckes  Muse.um ,  e  che  invece  farà 
parte  del  prossimo.  Mi  astengo   quindi  di  esporre  le  con- 


-  333  - 

clusioni  3  cui  il  Jeep  in  questa  dissertazione  era  giunto , 
perchè  sebbene  non  sia  difficile  stabilire  quali  modificazioni 
esse  abbiano  ricevute  col  progredire  dei  suoi  studi' ,  pure 
non  potrei  darne  che  un  resoconto  imperfettissimo.  — 
Grande  importanza  per  gli  studii  posteriori  del  Jeep  e  per 
la  critica  de'  poeti  latmi  delFultimo  secolo  ha  avuto  la  sco- 
perta del  codice  Veronese.  In  esso  si  son  trovati  i  nove 
versi  «m  Sirenas))  (Claud.  I.  Gesn.;  Anth.  lat.  880  Riese), 
pubblicati  come  di  Claudiano  nella  edizione  del  Camers  , 
senza  che  m  seguito  se  ne  sia  potuto  mai  trovare  un  mano- 
scritto; di  più  vi  si  è  trovato  il  «  de Phoenice  »  (di  Lattanzio?), 
di  cui  il  codice  più  antico  che  avevasi  è  posteriore  di  un 
secolo  a  questo  veronese;  e  finalmente  le  u  Laudes  Hercit- 
/rs»,  stampate  anche  queste  come  di  Claudiano  dal  Camers, 
ma  non  trovate  mai  in  alcun  codice.  Si  aggiunga  a  ciò 
l'importanza  che  ha  per  la  critica  di  Claudiano  in  generale 
un  codice  del  IX  secolo,  e  si  vedrà  quanto  si  sia  reso  be- 
nemerito degli  studii  critici  il  nostro  autore  colla  scoperta 
di  esso.  —  Lavoro  notevolissimo  è  ancne  quello  sui  mano- 
scritti del  Raptus  ProserpÌ7iae  ^  essendovi  esteso  lo  studio  a 
quasi  sessanta  codici.  Di  questi  vengono  aistinte  parecchie 
classi,  il  che  forma  in  verità  il  merito  principale  del  lavoro, 
perchè  soltanto  in  questa  guisa  era  possibile  determinarne 
il  valore ,  e  spianare  la  via  a  chi  volesse  accingersi  alla 
emendazione  del  testo.  Il  Jeep  ha  saputo  con  molta  acutezza 
mettere  a  posto  tutta  questa  faraggine  di  codici  giungendo 
così  al-  risultato  «  cne  per  una  trattazione  critica  del  Raptus 
Proserpinae  non  s'  abbia  bisogno  di  attendere  ad  altri  co- 
dici che  ad  un  Laurenziano  {Pliit.  XXIV  sin.  cod.  112), 
ad  un  Vossiano  (n.  294;  cfr.  Qiiaest.  crit.  p.  1 1),  e  forse 
ad  un  rappresentante  della  classe  peggiore,  cioè  ad  un  Gu- 
diano  (n,  228)  n.  —  1  buoni  risultati  degli  studi  del  J'Cp 
possono  giudicarsi  a  prima  vista  dai  luoghi  emendati  .  di 
cui  non  sarà  discaro  a'  lettori  di  Claudiano  vederne  citato 
uno  interessante  abbastanza  e  di  evidenza  immediata. 

«  K  53  «  Longaque  ferratis  evolvimi  '^'lecida  pensts  ■  è 
detto  delle  Parche  :  il  ferracis  pensis  era  veramente  insop- 
portabile, ed  ecco  che  il  Jeep  con   la  fida  scorta  del    Lau- 

Ijiivìita  di  fio  logia  ecc  ,  1.  33 


-  334  ~ 

renziano  e  del  Vossiano  emenda,  ferra tis  fusi s,  lezione  che 
esclude  ogni  dubbio.  Come  esempio  serva  pure  Temenda- 
zione  del  verso  1 3';  del  3'^  libro,  dove  leggesi  di  Cerere  che 
ritorna  dalia  Frigia  : 

'«....      digredilur  templis.  sed  nulla  ruenti 
Mobiiitas.  lardos  queritur  non  ire  jugales.  >< 

Il  Jeep  muove  dall'idea  che  a  comprender  bene  il  luogo 
sia  necessaria  una  parola  che  contenga  V  idea  di  sembrare, 
e  di  fatto  nel  Laurenziano  trova  videtur  al  posto  di  ruenti, 
la  qual  lezione  egli  accetta  senz'  altro  ,  tanto  pivi  che  facil- 
mente spiegasi  r  origine  del  ruenti^  trovandosi  scritto  al 
margine  «  mentì  UH  festinanter^i  a  mo'  di  spiegazione. 
Qui  è  chiaro  che  il  Jeep  ha  tutta  la  ragione  dalla  sua,  e  ogni 
edizione  critica  non  potrà  ammettere  che  questa  lezione  , 
quantunque  il  verso  dal  Iato  poetico  ne  scapiti  non  poco. 
Ma  se  si  trattasse  di  Virgilio  e  di  Orazio  invece  di  Clau- 
diano,  confesso  che  difficilmente  saprei  resistere  alla  tenta- 
zione di  ribellarmi  alla  autorità  de'  codici.  Noterò  incidente- 
mente che  il  sai  congetturato  dallo  Heinsio  al  posto  di  sed 
mi  parrebbe  molto  a  proposito  e  sarei  davvero  contento  se 
rocchio  perspicace  del  Jeep  riescisse  a  scoprirlo  ne'  buoni 
codici. 

Finisco  coi  ripetere  iì  desiderio  di  vedere  in  breve  una 
buona  edizione  di  Claudiano,  e  con  Tesprimere  la  speranza, 
la  quale  non  sarà  di  certo  defraudata,  che  il  bravo  filologo 
non  cessi  in  altri  scritti  di  esercitare  quell'acume  e  quella 
diligenza  che  distinguono  quelli  di  cui  abbiamo  accennato. 

Lipsia,  To  dicembre  1872. 

Girolamo  Vitelli. 


Ada  societatis  philologac  lipsiemis  ed.  Fr.  Ritschelius. 
Tom,  I,  fase.   \  e  2-  Tom.  Il,   i.  Leipzig,   i87!'-72. 

Poiché  uno  de'più  celebri  campioni  della  moderna  filo- 
logia classica,  Federico  Ritschl,  passò  dall'Università  di 
Bonna  a  quella  di  Lipsia,  acquistò   quest'ultima  tanta  ben 


-  335  - 
meritata  rinomanza  in  tale  disciplina  da  non  temere  nessun 
confronto  uè  in  Germania  ne  alFestero.  Alla  quale  rinomanza 
concorse  da  un  altro  lato  la  venuta  di  Giorgio  Curtius,  il 
vero  e  solo  rappresentante  della  scienza  comparata  del  lin- 
guaggio nelle  sue  più  strette  relazioni  con  la  filologia  clas- 
sica. Com'era  naturale,  avvenne  che  intorno  a  questi  due 
formaronsì  due  circoli  di  giovani  studiosi ,  i  quali,  sempre 
restando  nel  campo  della  filologia  classica,  o  attenendosi  di 
pijì  al  Ritsclìl ,  dirigevano  i  loro  studii  specialmente  alla 
critica,  air  ermeneutica,  alle  ricerche  storico -letterari  e  ,  o 
attenendosi  di  più  ai  Curtius ,  avevano  in  mira  principal- 
mente le  lingue  greca  e  latina  più  che  come  altro  come 
lingue.  Di  qui  nacquero  due  distinte  istituzioni  :  la  società 
grammaticale  del  Curtius  e  quella  filologica  dei  Ritschl. 
Frutti  di  queste  due  società,  oltre  l'educazione  severamente 
scientifica  che  la  gioventù  vi  riceve,  sono  gli  Stiidien  ■{ur 
griechischen  tind  lateinischen  Gra??imattk ,  e  gli  Ada  so- 
deiatis  philologae  lipsiensis.  I  primi ,  poiché  in  Italia  i 
grandi  risultavi  della  scienza  del  linguaggio  furono  quelli 
che  appunto  servirono  a  riaccendere  in  qualche  modo 
l'amore  operoso  per  le  lingue  classiche,  sono  abbastanza 
conosciuti   nella  nostra  penisola  (i)*,  mentre  de' primi   non 


(i)  Giova  per  altro  qui  dar  l'elenco  dei  lavori  contenuti  nei   fasci- 
coli sinora  pubblicati: 

Voi.  I  ;  Angermann,  De  patronymicorum  Graecorum  formatione.  — 
Frohwein,  De  adverbiis  Graecis. —  Renneb,  De  dialecto antiquioris  Grae- 
corum poesis  elegiacae  et  iambicae.  —  G.  Curtius,  MìsccUen.  — Roscher, 
De  adspiratione  vulgari  apud  Graecos.  —  Delbrììck,  Einige  Bemerkun- 
gen  uber  ì  und  U  im  Griechischen.  —  Goetze,  De  produciione  syllaba- 
rum  suppletQria  linguae  latinae.  —  Gerth,  Quaestiones  de  Graecae  tra- 
goediac  dialecto.  — G.  Curtius,  Verschiedenes. —  Voi.  II:  Gei.bke,  De 
dialecto  Arcadica.  —  Clemm,  Etymologisches.  —  Leskien,  Die  Formen 
des  Futurums  unddes  Zusammetigesetpen  Aorists  mit  oc  in  den  home- 
rischen  Gedichten.  —  H.  Stier,  Bildiing  des  Conjunctivs  bei  Homer. — 
Roscher,  Verschiedenes.  — G.  Curtius,  Verschiedenes.  —  Delbruck. 
Ueber  ^ux;  und  t€iU(;.  —  Windisch  ,  Untersuchungen  V.ber  den  Ursprung 
des  Relalivpronomens  in  den  indogcrrr.anischen  Sprachen.  —  Roscher  , 
Verschiedenes.  —  Krau&ha/>r  ,  '€duj.  —  G.  Curtius  ,  Epigraphisch- 
Grammatisches.  —  Woì.  lU:  Rau,  De  praeposltionis  -rrapd  usu.  —  Hager, 


-  336  — 

credo  abbiano  noiizia  se  non  pochissimi  dotti.  Non  sarà 
quindi  opera  affatto  vana  il  darne  un  brevissimo  cenno  , 
che  dirigo  in  preferenza  a'  nostri  giovani  filologi  cui  le 
condizioni  delle  nostre  biblioteche  e  forse  ancora  (mi  si 
perdoni  la  non  improbabile  ipotesi)  la  tenuità  dello  stipendio 
non  permisero  di  averne  conoscenza  prima  d'ora. 

Una  miscellanea  iìlólogica  del  genere  de'nostri  Ada  non 
è  cosa  nuova  per  Lipsia  :  il  Ritschl  stesso  ricorda  i  Com- 
mentarii  societ.  philologicae  lipsiensis  pubblicati  da  C.  D. 
Beck,  a'quali  facevano  poi  seguito  gli  Ada  semiitarii  regii 
et  soc.  pini.  lips.\  ricorda  gli  Ada  societatis  graecae  pub- 
blicati da  Westermann  e  Funckhanel  in  onore  di  Gotto- 
fredo  Hermann,  ie  Observationes  criticae  della  societas 
latina  in  onore  dello  stesso  Hermann,  e  finalmente  i  già 
nominati  Studien  -{ur  griechischen  und  lateimschen  Gram- 
matik  del  Curtius. 

Gli  Ada  del  Ritschl  sono  dedicati  alla  memoria  di  Got- 
tofredo  Hermann  e  di  Carlo  Reisig,  alla  memoria  cioè  dei 
due  suoi  grandi  maestri.  Questi  due  nomi  e  quello  del 
Ritschl,  che  suona  anch'esso  venerato  sulle  labbra  di  quanti 
intendano  che  cosa  sieno  davvero  le  discipline  filologiche, 
bastano  a  dimostrare  l'indirizzo  a  cui  sono  informati  i  la- 
vori  della    Società  Ritscheliana,    lavori  tutti    d'importanza 


De graecitate  Hyperidea.—  Angermann,  Zur  griechischen  Etimologie 
und  Wortbildung.  —  Roscher.  Phonetisches  und  Etymologisches.  — 
Benseler,  De  ytommibus  propriis  et  Lcitinis  in  is  prò  ius,  et  graects  in 
k;,  IV  prò  loc,,  lov  tcrminatis.  —  G.  Gurtiiìs,  Crammatisches  und  Ety- 
mologisches. —  Ali.en  ,  De  dialecto  Locrensium.  —  Clemm,  Beitr'dge 
^ur  griechischen  und  lateinischen  Etjymologie.  —  M.  Schmidt.  Das  T:;a- 
konische.  — G.  Curtius,  Zwr  Geschichte  der  griechischen  :[usammenge- 
:(0genen  Verbalformen.  —  Voi.  IV  :  Albrecht  ,  De  accusativi  cum 
infinitivo  coniuncti  origine  et  usti  Homerico.  —  Brugmann,  De  Graecae 
linguae  productione  suppletoria. —  Roscher,  Misccllen.  —  G,  Curtius, 
LUckenbiisser  (ùxeóv).  —  Bricf  Des  Herrn  prof.  Sophus  Bugge  an  G. 
Curtius.  —  G.  Curtius,  Kleinigkeit  (ri^^avev).  —  Grammatisches  und 
Etymologisches.  —  Defvner,  Neograeca.  S.  Bugge,  Beilrage  ^ur 
griechischen  und  lateinischen  Etimologie.  —  Meister,  De  dialecto 
Heracliensiiim  Italicorum.  —  G.  Curtius,  Homerisches. 


—  337  — 

perche  tutti  condotti  con  quel  severo  metodo  filologico  di  cui 
è  oggi  ii  Ritschl  la  più  potente  espressione.  Dare  un  inteso 
ragguaglio  di  questi  lavori  mi  sarebbe  impossibile  per  la  va- 
rietà delle  materie,  e  sarebbe  forse  anche  fuor  di  luogo  : 
ben  posso  darne  però  una  specie  d'indice,  e  lo  do  volentieri, 
sicuro  di  far  cosa  grata  a  tutti  quelli  che  non  avranno 
avuto  occasione  sinora  di  vedere  il  libro   co'proprii  occhi. 

Negli  Ada  dunque  Fr.  Nietzsche  ha  pubblicato  il  Cer- 
tamen  Homeri  et  Hesiodi^  e  Ervino  Rohde  ha  per  la  prima 
volta  reso  di  pubblica  ragione  Isigoni  de  rebus  mirabilibus 
breviarium  da  un  codice  vaticano.  Sieguono  le  Qitaestiones 
Fulgentianae  del  Dr.  Jungmann,  ora  insegnante  nel  ginnasio 
di  S.  Tommaso  di  qui;  una  ricerca  etimologica  (-rrpouaeXeiv) 
di  Guglielmo  Clemm-,  una  Satura  critica  di  Roscher  (ad 
Soph.  frgm.  853  Nauck:  Q.  Tuli.  Cic.  Astron.  XIV  p.  69 
Biicheler;  Soph.  Ai.  839*,  Eurip.  Phoen.  11 23-7  Nauck; 
Soph.  Phil.  29);  emendazioni  al  dialogo  de  oratoribiis  di 
Giorgio  Andresen  (che  poi  ha  curato  una  edizione  teubne- 
riana' del  dialogo  sxqsso)-:^' Quaestiones  Sallustianae  di  Al- 
fredo Weinhold;  De  incisionibus  anapaesti  in  irim.  comicis 
di  Curtius  Bernhardp,  Observaiiones  criticae  in  Dion.  Alte. 
di  Carlo  Jacoby;  studii  sui  mss.  del  Raptus  Proserp,  di 
Claudiano  del  Jeep,  anche  lui  ora  insegnante  nel  ginnasio 
di  S.  Tommaso;  e  finalmente  una  Miscella  critica  de'signori 
Sievers ,  Siegismund  ,  Gilbert ,  Brugmann  ,  Forssmann , 
Mendelssohn,  Lammert  e  Wezel. 

Questo  è  il  contenuto  del  i"  volume  :  di  quello  del  2°  ri- 
corderò soltanto  per  la  loro  grande  importanza  le  Quaestio- 
ones  Eratosthenicae  di  Ludovico  MendelssoHìV  (delle  quali 
riceveranno  forse  in  seguito  una  più  ampia  notizia  i  lettori 
di  questa  Rivista)  e  un  altro  lavoro  De  actorum  in  fahulis 
Terentianis  numero  et  distributione. 

Lipsia,  i5  dicembre  1872. 

GiROiAMo  Vitelli, 


-•  338  — 

Aristoieles  odcr  i'iber  daa  Geset:{  der  Geschichte ,  ron  Her- 
man DoERGENS.  Leipzig,  1872. 

L'A.  rende  ragione  in  una  prefazioncella  del  doppio  ti- 
tolo sotto  cui  egli  manda  alla  luce  il  suo  lavoro.  Conrje 
Platone  intitolò  uno  de'  suoi  maggiori  dialoghi  :  Fedone , 
ossia  dell'immortalità;  come  fra  1  Romani  Terenzio  Var- 
rone  scriveva  nel  frontispizio  di  un  suo  libro  :  Sisenna  , 
ossia  sulla  storia,  cosi  TA.,  riguardando  Aristotele  come 
un  modello  in  quel  genere  di  scritti  a  cui  appartiene  la  sua 
monografìa,  e  confessando  di  averla  elaborata  sotto  i'in- 
Busso  di  questo  filosofo  ,  credette  di  doverla  porre  sotto  il 
patrocinio  di  un  sì  gran  nome.  Che  cosa  abbia  di  comune 
Aristotele  colla  filosofia  della  storia,  non  si  vede  subito,  e 
sarebbe  vano  il  cercarlo  in  qualche  particolare  insegnamento 
aristotelico  interno  a  questa  disciplina,  di  cui,  al  tempo  dello 
Stagirita,  non  si  aveva  neppure  il  sospetto.  Per  Aristotele 
il  genere  umano  esiste  ab  eterno,  ed  è  destinato  a  percor- 
rere infinite  volte  il  cammino  dall'estrema  rozzezza  alla  più 
alta  cultura  e  viceversa  {Metaph.,  XI l,  1074,  a).  Questa 
è  per  lui  tutta  la  filosofia  della  storia.  Pare  quindi  che,  a 
scegliere  quel  nome  come  primo  titolo  del  suo  scritto,  TA., 
anziché  da  alcuna  speciale  dottrina  aristotelica  intorno  alla 
filosofia  della  storia,  sia  stato  determinato  dalla  considera- 
zione del  metodo  inculcato  da  Aristotele  col  precetto  e  col- 
l'esempio,  per  quanto  concerne  le  scienze  naturali,  metodo 
che  consiste  nella  osservazione  dei  fatti  dai  quali  per  via  di 
induzione  si  assorge  di  grado  in  grado  alle  leggi  generali. 
Questo  è  pure  il  metodo  che  l'A.  riconosce  come  l'unico 
conveniente  nella  filosofia  della  storia.  L'A.  vuole  che  nella 
formazione  di  questa  scienza  si  tenga  quel  medesimo  pro- 
cesso con  cui  si  sono  create  le  scienze  naturali  :  soprattutto 
poi  riprova  la  considerazione  esclusiva  e  unilatere  delle  cose 
e  dei  fatti  umani.  Bossuet,  Gòrres  e  Schlegel  (si  sarebbe 
pur  dovuto  ricordare  il  Goti  in  der  Geschichte  del  Bunsen) 
fecero  la  filosofìa  della  storia  dal  punto  di  vista  àtW  illu- 
minismo  ragionale  {Aufkldrung).  Hegel    non   vide    nella 


-^339  — 

storia  altro  che  T  applicazione  dell'idea  logica .  Kant  e  Buckie 
ricercarono  unican^ente  le  leggi  del  progresso  politico.  Per- 
chè VA.  non  esanninò  anche  la  dottrina  del  Vico  ,  di  cui 
nel  suo  scritto  non  si  trova  menzionato  altro  che  il  nome  ? 
Il  filosofo  dcHa  storia  deve  tener  coato  di  tutti  gli  elementi 
della  natura  umana,  e  ricercare  la  legge  che  ne  governa  lo 
svolgimento  e  )a  manifestazione  nella  storia. 

L'A.  riassume  i  risultati  della  sua  discussione  in  una 
serie  di  proposizioni.  Le  prime  sei  sono  dette  da  lui  as- 
siomi etnologici,  i  quali  diamo  qui  tradotti  per  saggio  : 

«  1°  In  ogni  periodo  gli  uomini  sotto  il  rispetto  della 
loro  capacità  di  svolgimento  storico  si  dividono  in  due  razze, 
la  sedentaria  e  la  nomade.  »  Il  criterio  per  cui  si  distin- 
guono è  i  esercizio  costante  (non  meramente  accidemale  e 
transitorio)  dellagricoltura. 

«  2°  In  ciascun  periodo  il  dissimile  istinto  linguistico 
distingue  gli  uomini  di  razza  sedentaria  in  varie  classi  spe- 
cificamente diverse,  secondo  la  loro  diversa  tendenza  a  pen- 
sare, a  imparare,  a  godere. 

«  3^  In  ciascun  periodo  T  incremento  della  lingua  e 
l'incremento  della  potenza  stanno  fra  loro  in  ragione  diretta 
e  si  promuovono  a  vicenda. 

a  4°  in  ciascun  periodo  una  nazione  od  un  consorzio 
di  nazioni  raggiunge  la  preminenza  sulle  altre ,  perchè  il 
suo  sapere,  elaborato  per  mezzo  della  lingua,  è  più  grande 
che  il  sapere  delle  rimanenti.  (Questa  legge,  solo  in  appa- 
renza, ma  non  in  realtà,  è  contraddetta  dal  fatto  che  i  Per- 
siani, i  Romani,  i  Franchi  e  i  Turchi ,  vìnsero  rispettiva- 
mente i  Medi,  i  Greci,  i  Bizantini,  superiori  ad  essi  in  cul- 
tura e  in  sapere,  e  dotati  di  una  lingua  più  ricca;  impe- 
rocché la  potenza  dì  queste  ultime  nazioni  era  oramai  esau- 
sta ,  quando  venne  per  ciascuna  di  esse  il  giorno  della 
prova). 

«  5°  In  ciascun  periodo  le  imprese  della  nazione  pre- 
valente diventano  il  centro  intorno  a  cui  si  raccoglie  tutto 
il  lavoro  storico,  e  tutta  fattività  delle  altre  nazioni,  le  quali 
perciò  si  comportano  verso  di  quella  come  cooperatrici  ri- 
spetto alla  loro  regina  e  maestra. 


-  340  -- 

«  6"  In  ciascun  periodo  la  partecipazione  della  nazione 
predominante  al  lavoro  del  periodo  stesso,  determina  il  ma- 
ximum del  valore  reale  della  nazione  stessa  nella  storia.  » 

Con  questi  sei  assiomi  FA.  vuole  determinare  il  come  sì 
trovi  distribuita  la  potenza  fra  i  diversi  attori  che  agiscono 
sui  teatro  della  storia.  Seguono  quelli  che  egli  chiama  as- 
siomi antropologici ,  concernenti  il  movimento  o  Fazione 
stessa  di  questa  potenza.  L'A.  tocca  la  questione:  qual 
parte  abbiano  gli  uomini  grandi  nella  direzione  di  questo 
movimento.  Attribuire  ad  essi  una  iniziativa  assoluta,  al 
che  propendono,  secondo  FA.,  Io  Schiller  (nel  suo  Mosè 
e  Solone),  il  Cousin  ed  Erm.  Grimm,  sarebbe  un  ricadere 
nel  modo  di  pensare  dei  creatori  delle  mitologie:  conside- 
rarli come  semplici  continuatori  e  perfezionatori  del  lavoro 
universale  ,  sarebbe  un  deprimerli  troppo  basso.  Secondo 
FA. ,  gli  uomini  grandi  sono  il  principio  intellettuale  nella 
storia  ;  la  loro  iniziativa  consiste  nel  concepire  i  grandi  pen- 
sieri, i  quali,  allorché  trovano  il  mondo  esterno  acconcia- 
mente preparato  a  riceverli  ed  attuarli ,  diventano  grandi 
opere  e  mutano  il  corso  delle  cose  umane  ;  quando  avviene 
il  contrario,  il  pensatore  si  rimane  tristamente  allo  stato 
d'uomo  incompreso,  e  Fopera  sua  fa  mala  prova. 

«  Siccome  verme  in  cui  formazion  falla  ». 

In  tutto  il  suo  lavoro  FA.  mostra  ingegno  vigoroso  e  nu- 
drito  di  buoni  studiì.  Trattandosi  di  una  scienza  che  è  an- 
cora nell'infanzia,  sarebbe  desiderabile  che  FA.  si  fosse  in 
gegnato  di  esprimere  i  suoi  pensieri  in  modo  più  chiaro  e 
meno  astratto,  ed  è  a  sperare  che  egli  adempirà  questo  de- 
siderio negli  ulteriori  lavori  di  filosofia  storica,  che,  còme 
egli  ci  promette,  devono  tener  dietro  alla  monografia,  di 
cui  qui  si  è  fatto  questo  breve  cenno. 

Torino,  23  dicembre  1872. 

G.  M.  Bertini. 


Pietro  Ussello,  gerente  responsakile. 


-341  - 

CENNI  SULLA  SINTASSI 
"DELLA  LIV^GUA   G%ECA{i). 


II. 

Riassumendo  ora  i  nostri  pensieri  in  ordine  alle  parti 
costitutive  di  ogni  grammatica  speciale,  diciamo,  che  la 
Fonologia  è  la  dottrina  dei  suoni,  che  costituiscono  la  pa- 
rola; che  la  Morfologia  è  la  dottrma  delle  forme,  intese 
come  funzione  potenziale  delle  singole  parole-,  e  che  final- 
mente la  Sintassi  tratta  delle  funzioni,  che  la  parola  è  chia- 
mata ad  esercitare  nel  discorso  (2).  Questo  ordinamento 
della  grammatica  ne  sembra  anche  molto  rispondente  al 
concetto,  sul  quale  si  fonda  la  moderna  linguistica,  doversi 
cioè  prendere  le  mosse  dall' intuitivo  nella  sua  differenza 
dall'astratto.  Non  possiamo  però  nasconderci  le  grandi  e 
molteplici  difficoltà,  che  oggi  ancora  s'oppongono  ad  una 
compiuta  riforma  della  dottrina  della  Sintassi  delia  lingua 
Greca  (che  di  questa  è  nostro  compito  di  parlare),  sulle 
basi  dei  risultamenti  dell'indagine  comparativa,  tra  per  es- 
sere Incompiuto  per  ancora  il  lavorìo  preparatorio  della 
scienza,  per  ciò  che  s'attiene  agli  usi  sintattici  delle  lingue 
affini,  e  perchè  anche  la  è  tal  questione  cotesta,  che  a  malo 
stento  la  si  potrà  sottrarre  di  sotto  agli  influssi  della  psi- 
cologia, massime  perchè  il  pendìo,  che   è  dell'età  nostra. 


(i)  Vedi  fascicolo  7»,  pag.  3oi-3io 

(2)  Vedi  Ascoli,  Corsi  di  Glottologia;   Torino,   Loescher,    1870, 
pag.   I. 

Hfvista  di  filologia  ecc.,  I.  34 


•erso  quel  bello   insieme,   che  s'appresenta  sotto   le  forme 
più  o   meno  fallaci,    ma  seducenti  pur   sempre,  delP  unità 
organica,  sospinge   gli   intelletti  verso   gli    schemi  generali, 
fondati  a  priori^  ben  lungi  dal  solido  terreno  della  osser- 
vazione (i).   Intanto  ne  giova  porre  in  sodo  questo  princi- 
pio: che,  cioè,  il  pensare  procede  di  pari  passo  colla  parola, 
che  le   forme  del  pensiero   si  svolgono  insieme  colle  forme 
della  lingua,  e  d'un  modo  affatto  istintivo  e  spontaneo,  cor- 
rispondente al  tutto  air  indole  particolare  della  nazione.  — 
Perciò,  come  d'ogni  organismo,  cosi  anche  della  struttura 
sintattica   di   una   lingua  bisognerà   pur  dire,   che  soltanto 
allora  se  ne  conoscerà  lo  svolgimento,  quando,  per  via  della 
ricerca  storica,  se  ne  saranno  rilevate  come  a  dire   le   fat- 
tezze, e  gli  usi  concreti.  —  Si  badi  però,  che  allorquando, 
tenendo  ragione  della   struttura  sintattica  della  lingua,   noi 
adoperiamo  la  parola  organismo,  ciò  facciamo  soltanto  per 
Uso  analogico,  p.  e.  colla  vita  animale.  Ma  la  bisogna  corre 
ben  diversa  qui ,  nella  vita  cioè  degli  esseri  organici  -,  anzi, 
chi  ben  considera,   nella  vita  del  linguaggio  il   concetto   di 
organismo,  se  non  è  fallace  addirittura,  certo  non  risponde 
al   fatto  della  medesima,  come  ce  lo  appresenta  l'indagine 
scientifica.  —  In  ordine  alla  na'tura  infatti,  il  concetto  d'or- 
ganismo  induce  quello   di  tale   svolgimento,  che  immeglia 
col  tempo  e  coll'uso,  così  che  le  parti  del  corpo  umano,  ad 
esempio,   tanto   più    ài   vigorezza   e    di    bontà   acquistano, 
quanto  più  l'organismo  delle  medesime  si  disvolge  e  s'ac- 
costa via  via  al  suo  pieno  assetto.   E  anche  un  altro  con- 
cetto rileva  nell'organismo,    in    ordine  alla   natura,  quello 
cioè  deHa  cospirazione  necessaria  delle  parti  verso  l'unità. 


(i)  Leggansi  a  questo  proposito  le  succinte,  ma  feconde  considera- 
zioni, messe  innanzi  dal  Curtius  nel  Commento^  pagg.  i6o,  e  segg. , 
trad.  dal  Mulier. 


—  343  — 

verso  1^  armonico  intreccio  delle  movenze  e  degli  atti.  —  Ma 
nella  lingua  invece  Tindagine  storico-scientifica  ne  addita  una 
lenta,  ma  incontestata  opera  di  detrito  e  scadimento  e  aftie- 
volimento di  suoni  ^  gli  è  un  perenne  ritraimento  dalla  ricca 
varietà  delle  forme  e  degli  usi  sintattici  più  antichi  verso 
forme  piìi  irrigidite  e  verso  usi  piià  comprensivi.  Il  dis- 
corso, più  tardi,  ti  si  presenta  architettato  e  foggiato  più 
artificiosamente-,  ma  il  rigoglio  antico  tu  cerchi  indarno,  e 
agli  usi  sintattici,  antichi,  andati  in  dileguo,  la  lingua  sup- 
plisce colle  forme,  che  le  sono  rimaste  del  patrimonio  an- 
tico, o  condensando  su  queste  il  peso  di  varie  significazioni, 
oppure  appigliandosi  ad  usi  più  liberi  delle  funzioni  della 
parola  (i).  —  Qualche  esempio 'tolto  all'uso  della  lingua 
epica  antica  potrà  meglio  chiarire  il  nostro  asserto.  Fre- 
quente nelle  canzoni  omeriche  è  il  genitivo  coi  verbi  di 
rrioto,  senza  preposizione,  p.  e.  óèoTo  (sulla  via)  col  verbo 
ftiarpipeiv  (indugiare),  Od.  11,404.  Confr.  (:.Titk^^C)^a\{pd.  Ili, 
284),  XiXcdecrea»  {Od.  I,  3i  6),  ècrctjjiai  {Od,  IV,  733),  npi^ffcTtiv 
{Od.  Ili,  476).  E  più  spesso  incontri  Tttbioio  con  èpxecrSai 
(//.  II,  801),  levai  TroXéoq  treòioio  (//.  V,  597),  e  altri  molti. 

Quest'uso  è  pressoché  scomparso  dalla  prosa  attica.  — 
(Vedi  Krùger,  Gramm.  Greca^  Part.  II,  §  46,  i).  Frequen- 
tissimo è  poi  in  Omero  l'uso  del  locativo ,  alla  domanda: 
doPe?,  senza  preposizione,  corrispondente  all'antico  locativo 
(Kriig,  1.  e.  §  46,2),  forma  posseduta  forse  in  origine  dal 
gfeco,  certo  dalle  lingue  affini.  Confr.  xaMa-^?  TTtòoi  (Esch, 
Prom..,  61 5),  àXXu-i,  tuì  (Gurt.  Comm.^  pag.  70,  versione 
del  Miiller.  Schleicher,  Compend.,  pag.  3 16,  Pezzi). 

Maggiormente  svolti  nella  prosa  attica  troviamo  invece 
altri  usi   del  genitivo;  p.  e.  V assoluto;  raro  è  nelle  poesie 


(i)  Vedi  Haacke,  BeitrSge  ^u    einer  Ncugestaltung  dcr   frriechi- 
schen  Grammatik.   Nordhausen,  i852.  II  Hcft ,  §8  e  segg. 


~  344  - 

omeriche  1'  uso  del  genitivo  possessivo  (Confr.  Kr,  1.  1. 
§  47,  4,  6.).  Straniero  alla  poesia  epica  antica  è  pure  Turo 
del  genitivo  coi  verbi,  che  esprimono  ricordare,  aver  cura^ 
dimenticare^  molto  frequente  invece  nella  prosa  attica.  — 
Tali  verbi  sono  ad  es.  èvOuiicTcJGai ,  òXiTuJpew,  fivri^uoveóeiv, 
dfivriiiioveTv,  èTrijUtXeTaGai,  q)povTÌZ!€iv,  KaxaqppoveTv,  TTpovocicrBai 
(Kr.  1.  e.  §  47,11',  Curt.  Gram.  §  420).  Stranieri  alla  lin- 
gua omerica  sono  altresì  i  verbi  àvTiXappdveaeai  -  èTriXajii- 
pdveo"9ai  -  aTroTUYxaveiv  -  diuxeiv  -  ineTaXaYxdveiv  -  fieiaXaiu- 
^dveiv  -  jLieTabibóvai  -  Koivujveiv,  col  genitivo,  nella  accezione 
di  cogliere  nel  segno,  agognare^  ottenere,  aver  parte^  ecc. 

—  E  neppure  aÌTida6ai  ed  aiTio<;  col  genitivo  conosce  la  lin- 
g»a  epica  antica  (Confr.  Kr.  1.  e.  §  47,22).  —  Assai  fre- 
quente nelle  poesie  omeriche  è  per  lo  contrario  Tuso  dello 
articolo  dimostrativo^  mentre  è  raro  l'uso  attributivo  del 
medesimo  (Kr.  §  5o,  2),  E  quanto  al  collegamento  delle 
proposizioni  {Sintassi  della  proposizione  composta)^  vediamo 
prevalente  nelPepopea  antica  quel  modo  di  collegare  insieme 
le  proposizioni  che  chiamano  paratattico  e  asindetico,  dalle 
movenze  più  libere,  mentre  nell'uso  della  prosa  posteriore 
è  frequente  e  regolare  la  ipotassi  o  siibordinamento  (uTróiaSic). 

—  (Ved.  Inama,  Gram.  Grec.  Sintassi,  pag.  194).  —  Molta 
libertà,  e  quasi  licenza  si  incontra  nelle  poesie  epiche  rispetto 
alla  concordanza  dei  casi  {Ptotica^  v.  Kr. ,  II,  §  6o)-, 
quando  ad  es.  a  due  verbi,  che  hanno  diversa  reggenza,  si 
collega  un  unico  oggetto  comune,  come  nel  passo,  che 
segue  qui  appresso  : 

«  'EcjQXò?  èùjv  Aavaujv  où  Kriòeiai  oùb'  èXeaipci  » 
(Confr.  Kr.  II,  §  60,  4).  —  Questi  pochi  fatti  della  lingua 
accennano  a  un  procedimento  storico,  e  non  già  a  svolgi- 
mento organico ,  anche  nel  giro  degli  usi  sintattici.  —  Le 
prove  poi  degli  scadimenti  fonetici  ci  sono  pòrte  dalla  lin- 
guistica ih  numero  infinito. 


-  345  — 

Ma  vediamo  oggimai  qual  posto  competa  alla  Sintassi 
dirimpetto  aila  inflessione  della  parola,  e  alla  dottrina  di 
essa. 

Nel  concetto,  che  da  Platone  in  poi  {Sophtst.y  pag.  263  E) 
s^è  avuto  della  lìnguay  si  compresero  sempre  due  elementi 
costitutivi  della  natura  di  essa,  Funo  sensibile  o  for^male 
(il  suono  articolato),  interiore  Taltro,  o  intelligibile,  ideale, 
morale,  come  tu  voglia  appellarlo  (i).  —  OùkoOv  bidvoia  j^èv 
Ka\  XÓTOV  TaÙTÒv.  (  sono  le  parole  di  Platone  )  irXnv  ó  uèv 
èvTÒ?  Tri?  vyuxn?  "^pàq  aÙTrjv  òidXoTO<;  aveu  (piuvri(S  TJTVó.uevo^, 
toOt'  aÙTÒ  riiiiv  èTru)VOjado'0Tì  biàvoia  .  .  .  Tò  òè  àn  èKsivriq 
^eOjiia  bla  ToO  GTÒ\xaTO(;  lòv  |i€Tà  cpGÓTTOu  k^kX^toi  Xóto?. 
Non  sempre  però  fu  apprezzata  al  giusto  valore  la  scam- 
bievole attinenza  di  questi  due  elementi.  Laddove  infatti, 
non  già  al  fenomeno  sensibile,  come  sogliono  i  più,  ma, 
come  vuole  ragione,  tu  porti  il  tuo  studio  alla  cagione  effet- 
trice  di  quello,  cioè  allo  elemento  ideale,  che,  come  a  dire, 
si  concreta  nel  fenomeno  sensibile:  troverai,  che  la  lingua  è 
da  considerare  piuttosto  siccome  l'espressione  dell' umano 
pensiero,  reso  intelligibile  per  mezzo  di  suoni  e  di  voci  arti- 
colate che  colpiscono  i  sensi-,  ovvero,  siccome  i  suoni  in  or- 
dine airelemento  ideale,  che  per  essi  cade,  come  a  dire,  nel 
dominio  dei  sensi,  non  sono  opera  del  caso,  né  s'appalesano 
inavvertiti,  ma  sono  imagini  adequate  di  quello,  e  la  espres- 
sione quasi  corporea:  così  la  lingua  si  potrebbe  più  rigoro- 
samente definire:  la  rappresentazione  sensibile  e  corporea 
dell'umano  pensiero,  fatta  per  mezzo  di  suoni  articolati.  — 
Gli  è  chiaro  del  resto,  come  alla  conoscenza  di  un  popolo, 
prima  d'ogni  ahra  cosa,  s'appresenti  il  mondo  esteriore,  che 
lo  circonda,  in  tutta  la  sua  varietà  di  forme  e  colori.  Questo 


(i)  Veggasi  L.  Meyer,  Vergleichende  Gramm.  I,  32i.  Né\\A  Appetì" 
dice  al  Compendio  dello  Schleicher  irad.  dal  Pezzi,  p.  5o5. 


-  346  - 
egli  riproduce  dapprima  sotto  forma  di  rappresentazioni 
ideali,  le  quali  alla  loro  volta,  rientratido  nel  dominio  dei 
sensi  per  mezzo  de' suoni  articolati,  acquistano  un'esistenza 
loro  propria,  indipendente  al  tutto  dal  mondo  esteriore.  Le 
singole  rappresentazioni,  rese  per  tal  modo  intelligibili,  s'indi- 
rizzano alla  lor  volta  di  fuori,  verso  le  cose  esteriori,  e  agli 
accidenti  di  quelle,  che  la  coscienza  del  popolo  in  sé  mede- 
sima accoglie,  ciò  è  come  dire,  che  il  mondo  esterno,  il 
mondo  dei  sensi,  al  quale  s'associa  dappoi  il  mondo  sopras- 
sensibile,  col  progredir  della  civiltà,  diventa  via  via  obbietio 
del  pensiero,  mercè  quelle  rappresentazioni,  rese  di  già  sen- 
sibili ;  e  queste  —  che  son  le  parole  per  l'appunto  —  si  tra- 
mutano in  simboli  e  nomi  del  mondo  esteriore,  d'un  modo 
affatto  ideale  e  astratto. 

Quale  sia  il  compito  del  filosofo  —  meglio  diremo  del  psi- 
cologo—  in  questo  rispetto,  ce  lo  additò  già  la  sapienza  an- 
tica, per  mezzo  del  dotto  Platonico  Nigidio  Figulo  (presso 
Aulo  Gelilo,  A^.  A.y  X,  4);  e  Boezio  {ad  Aristot.  de  In- 
terpr.  II,  pag.  3 14). 

«  Piata  vero  —  son  parole  di  quest'ultimo  —  in  eo  libro 
qui  inscribitur  Cratylus  aliter  esse  constituit,  oratiouein- 
que  dicit  supellectilem  quandam  atque  instrumentum  esse 
significandi  res  eas,  qiice  naturaliter  intellectibus  conci- 
piuntury  eumque  intellecium  vocabulìs  discernendi^  quod  si 
omne  instrumentum  secundum  naturam  est^  ut  videndi  ocu- 
lus,  nomina  quoque  secundum  naturam  esse  arbiiratur^). — 
E,  certamente,  quale  che  sia  l'opinione,  che  tu  possa  avere 
intorno   alle  conclusioni  finali  del   Cratilo  di   Platone  (1), 


(i)  È  noto  che  in  questo  Dialogo  sì  tratta  de  nominum  recta  impo- 
sitìone  (irepì  òvo|uàTUJv  òpGÓTTjToO;  se  cioè  i  nomi  s'imponessero  qpùaci  o 
eé(Tei.  Vedi  C.  Fr.  Hermann,  Geschichte  und  System  der  platonischen 
Philosophie  f  1  Theil,  3**  Lieterung  ;;  Note  464,  466,  473,  474. 


—  347  - 
questo  è  per  noi  fuori  4i  ogni  dubbio,  che  a  quel  divino 
intelletto  non  potea  per  verun  modo  essere  sfuggila  Topera 
di  natura,  e  quasi  istintiva,  nella  formazione  concreta  dei 
linguaggi:  *Apé(JK€i  òè  aùn?»  (a  Piatone)  —  sono  parole  di 
Alcinoo,  cap.  6.  (i)  —  Qéaei  undpxeiv  tuùv  òvo|iidTujv  inv 
òpBÓTTiTa,  où  ixf]v  àTrXu»<;  oùòè  wc,  ^Tuxev,  àW  ujo'ie  Trjv  0é(Jiv 
TcvéaGai  ÓKÓXouGov  t^ì  toO  upuf  fiarot;  cpuaei.  —  Rintracciare  il 
lavorio  di  natura,  seguace  e  rispondente  all'ordine  reale  e 
concreto  del  mondo  esteriore,  ecco  Talto  subbietto  delP in- 
dagine speculativa  intorno  ai  fatti  della  lingua. 

Del  resto  il  compito  della  linguistica,  in  questo  rispetto,  è 
duplice:  essa  deve  dall'una  parte  rintracciare  e  ordinare  le 
singole  voci,  quali  rappresentazioni  dello  spirito,  rese  sensi- 
bili per  Torgano  dei  suoni;  e  studiarne  i  processi  di  forma- 
zione in  ordine  al  genio  popolare,  che  del  mondo  esteriore 
tutto  si  riempie;  e  dall'altra  parte  essa  deve  prendere  in  at- 
tento esame  le  cose  e  gli  accidenti  di  esse,  poiché  le  parole 
sono  e  di  quelle  e  di  questi,  e  segni  e  nomi. 

La  dottrina  pertanto,  che  rintraccia  la  formazione  delle 
parole  ne'  più  reposti  penetrali  della  vita  loro ,  induce  nel 
lavorio  dello  spirito  generatore  de' vocaboli  una  distinzione, 
che  per  l'appunto  non  ha  altro  valore,  che  dottrinale.  A 
quella  guisa  infatti,  che  nel  mondo  esteriore  le  cose,  non 
meno  che  gli  accidenti  di  esse,  si  appresentano  sotto  forma 
di  attinenze  e  di  influssi  scambievoli,  ma  né  per  questo  l'es- 
sere loro  si  rimuta  sostanzialmente,  che  soltanto  varieggia 
nelle  guise  e  nelle  parvenze  ;  cosi  anche  nelle  parole  si  appa- 
lesano scambievoli  le  attinenze  e  i  moti,  e  variabili  assai  le 
forme,  sì  veramente  però,  che  nell'opera  di  trasformazione, 
sotto  le  apparenze  materiali,  permane  invariata  e  immutabile 
la  essenza.  —  La  formazione  di  questi  elementi  stabili  e  fissi 


'i)  Atba(TKa\iKÒ<;  tiI»v  toO  TTXdTtuvo(;  ^0T^<5TUJv.  Hermann. 


-  348  — 

della  parola  si  apparta  al  tutto  dalla  dottrina  della  forma- 
zione degli  elementi  variabili;  quella  appartiene  alla  energia 
dello  spirito  veramente  effettrice  della  parola,  questa  alla 
virtù  che  gli  è  propria,  di  variare  le  forme  colla  inflessione. 
Però  è  da  tener  fermo  questo  concetto,  che,  cioè,  quella  di- 
stinzione o  separazione  non  è  opera  dello  spirito  generatore 
delle  lingue,  poiché  nel  fatto  non  è  a  credere,  che  prima  si 
formi  Telemento  stabile  della  parola  —  che  addimandano  il 
Tema  {Qi\xa  —  TiGniui)  per  contrapposizione  all'elemento  mu- 
tevole —  e  che  dappoi  esso  venga  variato  per  mezzo  di  pre- 
fissi e  suffissi,  allo  scopo  di  produrre  un  simbolo  per  la  rela- 
zione della  sostanza  delle  cose  e  degli  accidenti  di  esse,  e 
una  misura  delle  relazioni  stesse,  sotto  le  quali  esso  si  pre- 
senta. —  Ma  siccome  nel  mondo  esteriore  le  cose  e  gli  acci- 
denti si  appresentano  sotto  forma  di  una  relazione  determi- 
nata, e  non  altram.ente  :  così  anche  il  Tema  delie  parole  si 
presenta  nel  fatto  modificato  concretamente  per  suffissi  e 
prefissi ,  così  che  e  la  formazione  del  Tema ,  e  quella  dei 
prefissi  e  suffissi  che  lo  modificano,  è  un  vero  atto  dello  spirito 
formatore  della  lingua;  il  Tema  puro  invece,  senza  aggiun- 
gimenti  flessibili,  come  suole  rappresentarcelo  la  dottrina 
della  formazione  delle  parole,  è  una  astrazione,  la  quale, 
come  dicemmo  quassopra,  non  ha  per  Tappunto  altro  valore, 
che  dottrinale  e  speculativo. 

1  Temi  (i)  non  sono  ancora  in  se  e  per  se  nell' indo-ger- 
manico parole,  e  molto  meno  parti  di  proposizioni.  Nell'indo- 
germanico ogni  parola,  ogni  elemento  di  proposizione  è  o 
verbo  o  no7ne.  I  temi  per  sé  non  sono  ancora  né  nome,  né 
verbo;  mentre  l'uno  e  l'altro  addiventano  per  mezzo  di  suf- 
fissi formatori  di  casi  e  di  desinenze  personali.  Per  ciò  è 


(i)  Vedi  su  questo  proposito  il  passo  importante  dello  Schleicher , 
Compendio,  §  i33,  Pezzi. 


—  349  — 
vano  il  parlare  di  precedenza  dell'una  o  dell'altra  di  queste 
due  parti.  Vano  è  chiamare  il  verbo  la  parola  per  eccellenza 
—  KttT  ègoxnv  —  perchè  esso ,  nel  contesto  del  discorso, 
«t  esprime  il  contenuto  del  pensiero  »  come  sentenzia  il 
Becker  [Gramm.  Ted,,  p.  4,  nota).  Neppure  gli  antichi  accen- 
narono mai  a  cosiffatta  precedenza,  poiché  per  essi  òvojua  e 
pnjaa,  nomen  e  verbum  valgono  entrambi  come  KupiujTaTa 
\xipx\  ToO  XÓTO'j;  principales  partes  orationis.  Anzi  Pri- 
sciano^  contrariamente  al  Becker,  dice  chiaramente  :  nomen 
est  principalis  omnium  orationis  partium  {Co7nm.  Gramm. ^ 
XIV,  1,1).  E  il  grammatico  Cledonìo.,  che  colle  parole  se- 
guenti (p,  1868,  P.):  verbum  ....  est  pars  principalis,  sine 
quo  loqui  non  possumus  —  sembrerebbe  avvalorare  l'opi- 
nione del  Becker,  intorno  alle  precedenze  da  accordarsi  al 
verbo,  di  11  a  poco  (p.  1889)  esce  in  questa  sentenza:  ex 
nomine  et  verbo  genus  ducunt  ceterce  partes ,  sine  quibus 
loqui  non  possumus  (i).  Ma  v'è  di  più  ancora.  NelP indo- 
germanico non  si  trova  neppure  il  divario  fra  le  radici,  che 
chiamano  verbali  {ideali-signijìcative) ,  e  quelle  che  addi- 
mandano  pronominali  {di  relazione.,  formali).  Infatti  le 
radici  i-ka-ta-ja  sono  tanto  pronominali,  quanto  verbali 
{i  -  dimostrativo,  andare;  ka  interrog.,  esser  acuto;  ta  di- 
mostrativo, stendere).  — (V.  Schleicher,  Co?7tp.  §  100, 
Pezzi-,  L.  Meyer,  Gramm.  Comp.  I,  pag.  323  e  segg.  — 
Pag.  519  segg.  del  Pezzi).  —  Il  nome  ed  il  verbo  adunque 
sono  nati  entrambi  ad  un  tempo.  E  quindi  indifferente,  che 
si  dia  la  precedenza  alla  Declinazione  od  alla  Coniugazione, 
poiché  Vuso  soltanto  decide  qui  (Confr.  Schleich.  Comp. 
§  i33.  Pezzi). 

Di  contro  pertanto  a  quel  duplice  ordine  d'Indagine  e  di 
nozioni,  di  che  toccammo  quassopra,  quello  cioè  che  s'at- 


(i)  Vedi  RosENHEYN,  Aufsaij  ilber  die  wortarten.  Lyk. ,  1839,  p.  -27 


-  350  - 
tiene  alla  formazione  delle  parole,  e  Taltro  che  tratta  delle 
intiessioni,  si  leva  la  sintassi ,  il  cui  compito  adunque  è 
questo:  di  rintracciare,  cioè,  e  studiare  l'uso  e  Tapplica/ione 
delle  modilìcazioni  delle  parole,  che  ne  costituiscono  la  fles- 
sione, considerandole  come  segni  delle  relazioni  scambievoli 
del  mondo  sensibile  ,  e  dello  ideale.  —  Grande  efficacia 
adunque  ha  la  sintassi  sulla  dottrina  della  flessione  ;  ma  non 
minore  è  l'influsso  che  da  questa  si  distende  su  quella.  — 
Questa  quasi  direi  correlazione  d'influssi  fra  la  etimologia 
e  la  sintassi  nella  grammatica  speciale  di  ogni  lingua  scende 
diritta,  secondo  noi,  dal  concetto  psicologico  della  lingua, 
che  noi  vorremmo  che  informasse  la  dottrina  della  sintassi, 
perchè  essa  risponda  dall'una  parte  alla  nuova  teorica  del 
linguaggio,  considerata  come  scienza  antropologica,  e  dall'altra 
alle  positive  e  concrete  rivelazioni  della  linguistica.  —  Due 
principi  infatti  ne  sembra  di  poter  porre  nettamente:  i"  che 
vi  è  relazione  fra  il  pensiero  (biàvom)  e  la  parola  (XÓYoq); 
2"  che  v'è  relazione  fra  la  oparola  (Xó^oi;)  e  le  cose  (f^  toO 
TtpaTMciTOf;  (pùaiq). 

E  quanto  all'essenza  della  lingua  diciamo,  che  in  quanto 
essa  nel  suo  elemento  sensibile  ci  rappresenta  una  somma  di 
voci,  e  nello  ideale  lo  insieme  dei  pensieri  di  un  popolo  : 
così  la  si  potrebbe  concepire  e  definire,  come  la  manifesta- 
zione concreta  del  modo  col  quale  un  popolo  intuisce  e  con- 
cepisce, e  soggioga  quasi  il  mondo  esteriore,  cioè  tutto  che 
vi  ha  di  straniero  ed  estrinseco  all'essere  suo  nel  mondo 
reale  obbiettivo.  —  La  parola  adunque  raccosta  all'umana 
coscienza  i  fatti  del  mondo  esteriore,  e  le  relazioni,  nelle 
quali  essi  mutualmente  s'implicano.  E  quantunque  essa 
cresca  a  cosi  dire  nel  mondo  esteriore  de'sensi  del  quale 
essa  subisce  gl'influssi,  pure  essa  vive  una  vita  individua  e 
indipendente  come  proprietà  vera  dello  spirito  umano;  né 
mai  per  sua  natura  viene  riferita  a  fatti  o  a  cose  particolari 


—  351  - 
e  determinate,  ma  è  tutta  soggetta  alle  leggi,  che  Tuso  e  la 
volontà  del  popolò  le  impone,  al  quale  essa  appartiene  sic- 
come vera  proprietà  sua  e  inalienabile  (i). 

E  qui  s"'affaccia  spontanea  la  domanda:  —  E  in  qual  modo 
possiamo  noi  pervenire  ad  una  conoscenza  compiuta  del  con- 
tenuto dell'idea,  che  ci  è  resa  intelligibile  per  Torgano  sen- 
sibile della  parola?  - —  Noi  rispondiamo:  per  nessuna  altra 
via  che  per  mezzo  della  parola  stessa;  poiché  l'idea  ed  il 
pensiero  non  sono  fuori  della  lingua,  ma  in  essa  e  per  essa, 
tantoché  la  lingua  si  potrebbe  definire:  la  somma  de  pensieri 
possibili  di  un  popolo.  Quello,  che  chiamano  pensiero  ta^ 
cito^  non  è  altramente  possibile,  che  con  parole  ;  esso  è  un 
parlare  interiore  (ó  èvTÒg  xf)?  n/uxn?  irpò?  aurfiv  òmXoTOi;  avcu 
(pujvfì<;  YiTvó)ievo?5  Plat.  Soph.j  pag.  263,  E).  —  Uetimolog-ia 
è  il  solo  mezzo,  che  noi  possediamo,  per  aggiungere  a  quella 
conoscenza-,  essa  segna  il  confine  estremo,  sino  al  quale  è 
a  questa  concesso  di  pervenire.  —  E,  così  concepita,  Teti- 
mologia  riceve  un  valore  e  un'importanza  ben  diversa  da 
quella,  che  le  può  competere,  quando  con  essa  e  per  essa 
a  nuiraltro  si  miri,  che  ad  ottenere  una  cotale  pratica  abi- 
lità di  traslatare  da  una  lingua  straniera  nella  propria,  e  vi- 
ceversa. 

III. 

La  sintassi  di  una  grammatica  speciale  non  può  adunque, 
secondo  noi,  aver  oggimai  altro  sicuro  fondamento,  che  il 
fatto  concreto  della  lingua  parlata  e  scritta  da  un  popolo, 
che  è  come  dire  un  fondamento  storico.  —  Certo  è  poi, 
che,  se  la  dottrina  della  flessione  (etimologia)  nella  lingua 
greca  ha  subito  profonde  e  radicali  riforme,   in   seguito  ai 


(i)  Per  tutti  i  concetti  svolti  in  questa  parte  vedi  Ha  acre,  Beitrdge, 
ecc.  ,  II,  8,  9,  IO,  12. 


-352  - 

risultamenti  della  indagine  comparati  va  j  anche  la  sintassi  di 
questa  lingua  non  può,  né  deve  rimanere  straniera  ai  legit- 
timi influssi  di  quella.  Il  metodo  da  seguire  ci  si  para  in- 
nanzi spontaneo,  è  il  metodo  storico-comparativo.  —  È  un 
arduo  compito  però,  diciamolo  a  bella  prima,  e  contro  al 
quale  grosse  difficoltà  si  sollevano  da  tutte  parti,  e  del  quale 
assai  difficilmente  vedranno  rultimo  termine  i  presenti.  Per- 
chè gli  è  uno  di  que'còmpiti,  rispetto  acquali  e'non  approda 
neppure  l'aspettarsi  a  grandi  ingegni  e  potenti,  quantunque 
ci  sentiamo  compresi  di  profonda  ammirazione  ,  quando 
consideriamo  la  vasta  orma  stampata  anche  su  questo 
terreno  dal  genio  immortale  di  Giacomo  Grimm ,  la  cui 
grammatica  della  lingua  tedesca  vivrà  monumento  eterno 
della  potenza  speculativa  dell'umano  ingegno,  consociata  ad 
una  maravigliosa  sottilità  di  spirito  indagatore.  —  Ma  la 
sintassi  della  lingua  greca,  quanto  a  chiarezza  di  metodo  e 
di  sicura  e  larga  comprensione  de'fatti  della  lingua,  e  a  no- 
vità di  trattazione  e  di  vedute,  è  ben  lungi  ancora  dal  poter 
competere  colia  prima  parte  della  grammatica  -  Tetimologia. 
L'impulso  dato  dal  Butrmann  (1819-27)  produsse  certa- 
mente ottimi  risultamenti  nei  lavori  grammaticali  del  Krùger, 
del  Madvig:,  e  la  nuova  scuola,  fondata  dal  Curtius,  sulle 
orme  però  di  quelli,  sarà  feconda  di  ottimi  frutti,  come  ce  lo 
attestano  gli  eccellenti  lavori  dell' Aken,  del  Koch,  dell'Inama. 
Questi  ultimi  infatti,  e  primo  TAken  nel  libro  Grund^iìge 
der  Lehre  vom  Tempus  und  Modus  im  Griechischeriy  hanno 
dato  alla  dottrina  dei  Modi  e  dei  Tempi  tale  indirizzo,  che 
ne  affida  del  sicuro  effetto  della  indagine  linguistica  sulla 
trattazione  della  sintassi.  —  Ma  di  ciò  per  ordine  e  a  suo 
luogo;  che  troppo  ci  tarda  di  parlare  di  un  libro,  il  quale 
nella  letteratura  grammaticale  della  lingua  greca  fa,  come 
a  dire,  parte  da  se  stesso.  È  la  sintassi  della  lingua  greca 
di  Raffaele   Kiihner  (Hannover,  i834-35). 


—  353  — 

Allorquando,  nella  prima  parte  di  questi  cerini^  noi  sboz- 
zavamo ristrettamente,  come  ne  consentiva  lo  spazio  e  il 
compito  nostro,  il  concetto  fondamentale  della  dottrina  di 
Ferdinando  Becker  (Frankforte  a.  M.,  i836)  intorno  alla  sin- 
tassi generale  e  a  quella  particoiare  della  lingua  tedesca  : 
ci  prefiggevamo  precisam.ente  questo  scopo,  di  aprirci  cioè 
la  strada  a  parlare  della  sintassi  del  Kiihner,  la  quale  s'ac- 
costa assai  ai  sistema  del  Becker,  benché  i  due  lavori  ve- 
nissero alla  luce  quasi  contemporanei.  E  quantunque  questo 
modo  di  trattare  la  sintassi  greca  si  possa  dire  oggimai  ab- 
bandonato e  dismesso  :  pure  non  ci  è  parso  fuor  di  propo- 
sito il  ragionare  partitam.ente  intorno  ad  un'opera,  che  ebbe 
gran  fortuna  nelle  scuole  tedesche,  che  l'anno  i856  era  per- 
venuta di  già  alla  tredicesima  edizione,  e  che  è  conosciuta 
anche  in  Italia  per  la  traduzione,  procurata  dal  compianto 
Ambrosoli  (i). 

La  sintassi  del  Kùhner  si  fonda  tutta  sulla  Dottrina  della 
Proposi'{ione.  La  proposizione  e  V  espressione  di  un  pen- 
siero in  parole  —  tò  póbov  GóXXei,  la  rosa  fiorisce^  ó  àv- 
epWTToq  9vnTÓq  €(jTi,  l'uomo  e  mortale  (§  146,  i)  — .  E  su- 
bito dopo,  —  1°  In  ogni  pensiero  0  in  ogni  proposizione 
trovansidi  necessità  due  concetti  posti  in  rela'{ione  tra  loro 
e  congiunti  per  modo  da  formare  un  tutto;  cioè  il  concetto 
di  un'attività,  e  il  concetto  di  un  ente,  a  cui  questa  atti- 
vità viene  attribuita.  Chiamasi  predicato  il  primo  di  questi 
due  concetti,  soggetto  il  secondo.  —  2**  La  significazione 
del  concetto  viene  determinata  in  parte  colla  inflessione 
della  parola  che  lo  rappresenta,  p.  es.  :  tò  póòov  eàXX-ei  —  *0 


(i)  Vienna,  Tipografia  dei  Mechitaristi ,  i856.  —  Non  v'è  il  nome 
del  traduttore,  ma  crediamo  di  non  tradire  il  vero,  pronunciando  il 
nome  di  Francesco  Ambrosoli^  come  autore  di  quella  eccellente  ver- 
sione. 


—  a^4  — 

(tTpc(Tia)Tri(j  j^óy-tTai ,  //  soldato  combatte;  in  yurte  per 
mc\'{0  di  pili  parole  unite  e  ordinate  a  lai  fine  ^  come:  ó 
dvBpiuTTo*;  evriTÓg  ècTtiv.  Queste  adunque,  predicato  e  sog- 
getto {attività  ed  ente),  sono  le  parti  che  costituiscono  una 
proposizione  semplice.  —  La  dottrina  di  questa,  cioè  della 
proposi'^ione  semplice  —  nella  sua  fornia  più  rudimentale 
di  predicato  e  soggetto,  si  risolve  nella  breve  dottrina  delle 
concordan:;e{^  146- 1 53,  6),  —  E  siccome  il  soggetto  (che  può 
essere  un  sostantivo^  un  pronome  personale,  un  numerale, 
un  aggettivo  e  participio  usati  come  nomi,  un  avverbio, 
wnd.  preposizione  col  suo  caso.,  i  infinito  di  un  verbo  (^  145, 1), 
è  sempre  nei  caso  nominativo,  ed  il  predicato  è  sempre  o 
un  verbo,  o  un  aggettivo  0  un  sostantivo  o  un  numerale  o 
un  proìiome  unito  al  verbo  eivar,  così  la  sintassi  della  pre- 
posizione semplice  si  restringe  tutta  aiFuso  del  noniinalivo, 
e  dv;i  tempi  e  modi  del  ^'crbo,  e  alla  concordanza  di  questi 
con  quello. 

Ma  il  soggetto  (sostantivo)  e  il  predicata  {\cvh6),  possono, 
anche  nella  proposizione  semplice,  essere  determinati  più  da 
vicino,  quello  col  mezzo  doW attributo,  questo  col  mezzo 
àtWoggetto  (Gapp.  2%  3"),  che  è  come  a  dire  per  via  dì 
complementi  e  del  soggetto  e  del  predicato. 

i^  IJattributo  (§  154)  si  presenta  sotto  le  forme  se- 
guenti: a)  di  aggettivo,  tò  koXòv  póbov;  b)  ài  sostantivo  al 
genitivo  —  ó  ToO  paaiXéw^  Kf^tro?  *,  e)  di  sostantivo  unito  a 
preposizione  —  r\  npòc,  Tf)v  ttóXiv  óòóc;;  d)  in  forma  d'avverbio 
—  o\  vOv  dvepujTToi;  e]  in  forma  di  sostantivo  in  apposi^ions 
~    Kpoicyog,  ó  ^aqriUvj»;. 

2"  V oggetto  (§§  i5b  segg.)  che  serve  a  determinare  più 
esattamente  il  predicato  [attività,  concetto  del  verbo),  nel 
suo  più,  largo  senso  della  parola  può  essere  costituito  a)  dai 
casi —  è7Ti8um£»  xfì?  cyo(pia<;;  b)  dalle  preposizioni  unite  ai  loro 
casi  —   ó  arpainTÒ?  Ict\\  uapà  tu)  pacriXei  ;    e)    dalV infinito 


-  356  - 

—  ém6u)nuj  Tpacpeiv  ;  a)  dal  participio  —  -^Ehuv  emov:  e'  dal- 
l'avverbio —  KaXiD<;  èjuax^cravTo  oi  (TTpUTtwrca.  —  Per  ciò  se- 
guendo quell'ordine,  si  tratta  ne'paragrafi  seguenti  (i  56- 177) 
dei  casi^  delle  preposizioni^  de  pronomi^  dell'  infinito^  del 
participio,  dell' oìn^er Ho . 

Ora,  prima  di  passare  alPesame  delia  seconda  pane  della 
sintassi  del  Kùhner,  che  svolge  la  dottrina  della  proposi- 
zione composta,  n'è  forza  sostare  alquanto  intorno  al  con- 
cetto e  al  disegno  della  parte  prima. 

Lo  schema  della  proposizione  semplice,  che  il  Kùhner 
ci  mette  innanzi,  presenta  certamente  qutWimità  organica, 
in  grazia  della  quale  i  fatti  concreti  della  lingua  vengono 
completamente  sacrificati  all'arbitrio  di  certe  categorie,  fon- 
date a  priori,  per  le  quali  si  disgregano  nella  trattazione 
grammaticale  parti  del  discorso,  che  sono  invece  strettamente 
legate,  ahre  si  coilegano,  che  per  loro  natura  sono  aifatio 
disgiunte. 

E  prima  di  tutto,  si  vuole  ad  ogni  modo,  che  al  predi- 
cato, che  è  uno  dei  due  elementi  della  proposizione,  sia 
inerente  {'attività,  cioè  una  forza  copulativa  e  sintetica,  la 
quale  di  per  sé  s'imponga  e  quasi  si  rinversi  sul  soggetto, 
senza  nessuno  riguardo  a  chi  predica  (KaitiTopei)  veramente 
(affermando  o  negando),  con  Tatto  mentale,  che  si  chiama 
giudizio,  che  un  dato  concetto,  che  è  appunto  il  contenuto, 
Videa  espressa  dal  predicato,  appartiene  o  non  ad  un  sog- 
getto.—  Si  dimentica  insomma,  che  la  proposizione  è  un^/«- 
diì{io,  cioè  un'operazione  della  mente,  alla  quale  e  soggetto 
e  predicato  stanno  dinan7-i  contemporaneamente,  senza  neces- 
sità interiore  (logica),  quasi  fossero  due  termini  correlativi. 
Nome  (óvojiia)  e  verbo  (^r^i^a)  non  sono  che  parole,  disuguali,  se 
così  vuoisi,  quanto  al  contenuto,  e  alla  forma  flessibile  -,  ma 
nulla  più  che  parole,  le  quali  collegate  in  quella  certa  unione 
(aujaxrXoKri),  che  addimandasi  proposizione,  assumono  un  va- 


-  356  - 
lore  duplice,  grammaticale   e  logico.    Quello   è   pòrto  loro 
dal  fatto  esterno  e  concreto  del  collegamento  loro  in  forma 
di  proposizione,  questo  -  il  logico  -  è  dato  loro  daìVio  pen- 
sante, che  è  ben  altro  dal  soggetto  grammaticale. 

Quando  il  Kiihner  ne  dice,  che  la  proposizione  consta 
del  concetto  di  un'attività  (predicato)  e  del  concetto  di  un 
ente  (soggetto),  al  quale  questa  attività  viene  attribuita  (§  145), 
e  poi  soggiunge  (§  145,  3)  che  il  predicato  è  o  un  verbo,  o 
un  aggettivo,  o  un  sostantivo^  o  un  numerale^  o  un  pro- 
nome^ unito  al  verbo  dvai,  che  in  questo  caso  chiamasi  co- 
pula, perchè  congiunge  in  un  pensiero  l'aggettivo  ecc.  col 
soggetto:  —  se  ne  deve  inferire  subito,  che  non  è  possibile 
pensare  ad  un  predicato  che  non  sia  verbo,  e  che  non  v'è 
verbo,  che  non  sia  predicato.  Poiché  anche  nel  secondo  caso, 
quando  cioè  il  predicato  consti  ad  es.  di  un  aggettivo  e  del 
verbo  eivai,  come  in  questa  proposizione,  ó  àvBp<jjTXO<;  8vjitó? 
fcCJTiv,  il  predicato  non  è  GvkìtÓì;  ma  6vnTÓ<;  ècCTiv;  così  che  BvnTÓ? 
è(TTiv  sono  da  concepire  come  unSi paì-ola  sola,  e  precisamente 
come  predicato  (verbale),  esprimente  Vattività.  Quando  si 
dice  che  nel  verbo  è  involuto  il  concetto  di  attività,  e  quello 
anche  di  predicato  ;  e  che  nell'aggettivo  è  bensì  il  concetto  di 
attività,  ma  non  il  predicato,  si  afferma  senz'altro  che  il  verbo 
(^fìfia)  è  il  vocabolo  significativo  KaT'èHoxnv;  che  in  esso  è  la  virtiì 
del  predicare  (KairiTopeiv),  e  che  il  verbo  essere  (eivai),  quando 
è  unito  ad  aggettivi  o  nomi  in  forma  predicativa  come  nel- 
l'esempio arrecato  quassopra,  perde  sua  natura  verbale,  e 
diventa 'una  semplice  copula.  —  Ora  noi  abbiamo  dimo- 
strato in  altra  parte  che  il  verbo  (pnM«)  ^'^^  ha  valore  gram- 
maticale più  forte,  quasi  più  rilevato  dei  nome  (òvo^a).  — 
Avrà  un  valore  logico,  più  esteso,  nel  senso  della  categoria, 
[praedicamentum  -  praedicare  -  Kanrfopiot  -  KarrìTopeiv);  ma 
quella  che  il  Ktihner  e  il  Becker  chiamano  attività  (che  nel 
senso  loro  non  può  essere  altro  che  virili  predicativa),  non 


-  357- 
compete  al  verbo  per  virtù  propria,  né  grammaticale  né  logica^ 
ma  è  una  forza  invece  inerente  aìVi'o  giudicante,  il  quale 
afferma  (KaTdq)acn?)  o  tiega  (àTiócpaai?),  che  v'ha  o  non  v'ha 
relazione  fra  due  termini ,  che  egli  (l'fo)  mette  a  riscontro 
fra  loro  KaTàqpaoi?  èffxiv  àTcó(pav(Ti<;  rivo?  xaià  rivo?,  àiró- 
(paai?  òe  èoiiv  àTTÓqjavcri?  nvoq  àuó  tivo?  (Arist.,  TTepì  '€p|iTiv., 
Gap.  4)  (i). 

Del  resto,  questo  concetto  che  del  verbo  ebbero  il  Kuhner 
e  il  Becker  deriva,  secondo  noi,  da  una  meno  corretta  in^ 
terpretazione  del  valore,  che  da  Aristotele  si  attribuiva  alle 
parole,  e  dall'aver  creduto,  che  soltanto  un  concetto  gram- 
maticale guidasse  quel  filosofo  nella  ricerca  delle  categorie. 
—  Il  problema  categorico  per  lui  non  era  controversia  di^- 
lologia,  ma  bensì  una  ricerca  àcìVessere  e  del  pensiero. 
Anzi  può  dirsi,  che  dei  tre  concetti  -  grammaticale,  logico, 
metafisico  (reale)  —  quest'ultimo,  quello  della  realtà,  pre- 
valga sempre  in  Aristotele.  —  Le  parole  (xà  Xexójieva),  se- 
condo Aristotele,  sono  da  considerare  o  come  unite  (Karà 
<yu|LiTrXoKriv,  Categ.  2),  0  come  prese  ciascuna  per  se  (iKaarov 
Tu>v  £'.pri)uévujv  aÙTÒ  xaO'auTÓ,  Ib.  4).  —  Nel  primo  caso  esse 
affermano  o  negano  (iq  npòz  à.\\r\\a  toùtujv  [tujv  elprméviuv] 
ou^TtXoKrì  KaTà(pa(Ji<;  f\  ànò(p(x(yiz  Y^Tverai,  Ib.  4);  nel  secondo 
caso  nulla  di  questo  (^Kadov  tuljv  eìpriiuéviuv  auro  xaG'aÙTÓ 
èv  oòb€)ui^  Karacpacrei  X^T^tai  f\  à7T09àcf€i,  Id.  16).  — Le  pa- 
role prese  separatirnente  non  possono  esprimere  che  una  di 
queste  dieci  cose,  che  sono  per  l'appunto  le  categorie  ,  e 
cioè:  la  sostanza  .^oùaiav),  la  quantità  (rroaóv),  la  qualità' 
(ttoióv),  la  relazione  (npóz  ti),  il  luogo  (rroO),  il  tempo  (ttot^, 
la  situa^iinie  (Kdcy9ai),  la  maniera  di  essere  (lx€iv),  Vallone 


(i)  ÓTTÓcpavoie;  e^t  enuntiatuw  de  eo  quoà  vel  esse  vel  non  esse  statuì- 
tur;  quod poster iores  iudicium  —  U'the.!  — appellaverunt.  — Karà-pacrt^ 
est  affirtnatio,  ànoq>ix(JK  nfgatio.  Ri  iter  et  PatLLER,  H istoria  philcso- 
phiae ,  ecc.  .  §  3i3,  a,  6. 

divista  di  filologia  ecc.,  I.  3$ 


-  358  - 

(ttoiciv),  la  passione  (rrdcrxeiv)  [Cat.  2.  4.).  —  Vero  è  che 
da  qualche  passo  di  Aristotele  si  potrebbe  dedurre,  che  egli 
al  verbo  attribuisse  tale  virtù,  che  senza  di  esso  non  fosse- 
possibile  un  enunziato  qualunque  :  —  óvdfKn  ixdvTa  Xófov 
àTroq)avTiKÒv(e«««/m^ttm)  èK  ^rmaro?  (ver^o)  etvai  (TTepi  '6pvuiv. 
5).  E  altrove  :  ècfiai  nacra  KaTd<|)acri<;  Kaì  àrtócpaCK;  -  il  òvó- 
fiaroq  Ka\  ^/maxo?,  fiveu  bè  piiiiaToq  oùòeiiia  KaTdqjacriq  oùbè 
àitóq)a(yt<;  (trepi  *€p|iTiv.  io).  Di  qua  passò  nelle  scuole  Fuso 
di  considerare  il  verbo  (yerbum ,  ^fliua)  con-ie  il  segno  wxr 
è^oxnv  del  predicato.  —  Ma  si  raffronti  quest'altro  luogo; 
dvo^a  jièv  ouv  èffTÌ  cpuivn  cXTi^oiVTiKt^  Kaià  auv8riKTiv  àveu  xpóvou 
f\<i  nr\bk.v  M^po?  iati  armaviiKÒv  KexiupicTMévov  •  pniua  bè  icii  tò 
TTpoaanjiiaTvov  xpóvov  {Zeitwort)^  ou  n^poq  oùbèv  ^xwmxvìx 
Xiwpi?,  Ka\  ^ativ  dei  tuiv  Ka9'  éi^pou  \v^q[xìw\ìì\  (JrijieTov  [prae- 
dicatum]  (ncpì  ''€p)iT]v.  2).  —  Nel  contesto  del  discorso 
adunque  (èv  irj  aujUTrXoKrì}  acquista  il  verbo  valore  predica- 
tivo, in  quanto  cioè  T/o  afferma  o  nega  la  correspondenza 
de'termini  (soggetto  e  predicato)  fra  loro.  —  La  verità  dei 
nostri  giudizi  si  riscontra  in  questo,  che  cioè  il  pensiero 
corrisponda  alla  cosa  pensata  nella  sua  realtà,  che  cioè  l'or- 
dine logico  corrisponda  all'ordine  metafìsico.  Il  nesso  o  le- 
game sta  nel  pensiero,  che  giudica,  e  non  in  un  necessario 
vincolo  tra  le  cose  reali  e  le  parole;  in  altri  termini  le  pa- 
role sono  legate  alle  cose  mediante  i  pensieri.  —  AfiXov  6ti 
ouTu»?  l\(.\  là  npdT^aTO,  xdv  ]xr\  ó  pèv  Karacpricyr]  ti,  ó  bè  àiro- 
q)yi<Tr}  •  oùbè  ydp  b»à  tò  KaToqpaOnvai  f|  dTroqpaBfjvai  laxai  ì\  oOk 
laiax  (TTepi  '€pgT]v.  9). 

La  definizione  data  dal  Kiihner  delia  proposizione,  che 
essa  cioè  sia  un  tutto,  che  risulta  dallo  attribuire  il  concetto 
di  attività  al  concetto  di  un  ente^  traeva  dietro  a  sé,  come 
conseguente,  il  raggruppamento  delle  varie  parti  del  discorso, 
come  intorno  a  due  centri  maggiori  —  soggetto  e  predicato 
—  sotto  forma  di  concetti  completivi,  e  del  soggetto  sotto  forma 


—  359  — 

di  attributi  (§  154)  e  del  predicato  sotto  forma  d'oggetto  — 
(§  i55  segg.).  —  Noi  ci  siamo  studiati  a  lungo  di  rintrac- 
ciare il  criterio  di  questi  due  gruppi  di  complementi.  E  di 
un  altro  fatto  ancora  abbiamo  cercato  d'indovinare  il  concetto 
direttivo.  —  La  dottrina  dei  casi  cioè  (§  i56  segg.), 
oggetti  del  predicato  (verbo),  si  fonda  tutta ,  seco^ìdo  il 
Kiihner,  sul  concetto  del  moto  (1).  —  Ecco  infatti  come  da 
lui  si  definiscono  i  casi,  e  come  se  ne  raggruppano  le  rela- 
zioni. 

!*>  Il  Genitivo  è  il  caso  del  moto  da  luogo  (terminus  a 
quo),  in  tuue  le  relazioni,  proprie  e  figurate,  locali,  cau- 
sali, d'origine,  ecc.,  in  quanto  V oggetto  genera  q  produce 
(gignit),  e  occasiona  l'azione  del  verbo:  èmeuiau)  ix\c,  àpeTfì<; 
(§  1 56-1 58). 

2*^  'L'Accusativo  è  il  caso  del  moto  a  luogo  (terminus 
ad  quem),  che  nelle  relazioni  causali  dinota  conseguenza, 
esito,  opera,  come  pure  quell'oggetto,  che  per  Va\ione  venne 
posto  in  uno  stato  passivo  (§  169 -160). 

y  II  Dativo  finalmente  è  bensì  il  caso  dello  stato  in 
luogo,  come  antitesi  al  concetto  del  moto;  ma  tuttavia  esso 
indica  ancora  un  oggetto  a  cui  un  soggetto  abbia  bensì  ri- 
volta la  sua  attività,  ma  non  lo  abbia  ancora  raggiunto  0 
colpito.  — .Cosi  si  spie^  ii  Dativus  communionis,  com- 
modi-incommodi,  ecc.  (§  161). 

4°  Le  preposii{ioniy  altro  complemento  dciroggetto,  ser- 
vono come  i  casi  per  indicare  la  relazione  di  luogo,  sempre 
però  nel  senso  dello  estendersi  nello  spazio  (§  161). 

Diremo  cosa,  forse  strana,  ma  certo  pensata.  A  noi  pare, 
che  i  due  gruppi,  di   complemento  del   soggetto  e  comple- 


ti) Sono  le  tre  categorie  deiro*'^  diretto,  luogo  in  cui,  donde,  secondo 
la  dottrina  dei  localisti ,  come  li  chiama  il  Curtius  {Comm.,  p.  ió3, 
Mliller). 


-  360  - 
mento  del  predicato,  corrispondano  ai  gruppi  delle  categorie 
d'Aristotele,  giusta  i  criteri,  che  intorno  ad  esse  correvano 
nei  primi  decenni  del  secolo,  che  esse  cioè  avessero  soltanto 
valore  grammaticale  e  formale^  come  espressione  dei  iiomi^ 
dei  verbi,  degli  avverbi  (i). 

Le  prime  quattro  categorie —  sostanza,  quantità,  qualità, 
relazione  —  a  cui  corrispondono  i  nomi  sostantivi  con  gli 
aggettivi  enumerali,  costituirebbero  il  i°  gruppo:  soggetto- 
attributo;  le  altre  categorie  —  luogo,  tempo,  situazione,  ma- 
niera d'essere,  azione,  passione  —  le  quali,  massime  le  ul- 
time quattro,  determinano  il  valore  del  verbo,  formerebbero 
i.l  2° gruppo  ;  predicato  —  oggetto^  incentrandosi  questo 
nel  concetto  attività^  moto^  tempo  (èvépTcìa,  xivncyi?,  xpóvo^). 
Ecco  dunque  il  verbo  (pnjua),  il  vocabolo  Kai'èHoxnv,  centro 
di  attività  e  di  moto  nello  spazio  e  nel  tempo,  simbolo  ael- 
Tunità  del  pensiero,  che  afferma  o  nega  la  corrispondenza 
fra  la  realtà  e  Tidea,  nucleo  fatale,  verso  il  quale  tutte  le 
altre  parti  del  discorso  di  necessità  convergono  (2). 

Se  così  è  —  e  potrebbe  anche  non  essere  e  muovere  da 
altri  criteri  la  dottrina  della  proposizione  data  dal  Kiihner 
—  la  tirannide  del  pensiero  sulla  forma,  valore,  posizione  e 
relazione  grammaticale  della  parola  è  saldamente  costituita, 
ned'altro  compito  compete  al  grammatico,  da  quello  infuori, 
ingratissimo  per  vero  dire,  di  forzare  ogni  relazione  sintat- 
tica verso  lo  schema  preconcetto  del  pensiero. 

Ma  passiamo  ad  esporre  il  concetto  àt\\diproposi:{ione  com- 
posta, quale  ci  è  porlo  dal  Kiihner  (§§   178  segg.). 


(i)  Trendelenburo,  Geschichte  der  Kaiegorienlehre,  Berlino,  184^. 
Eìementa  logices  Aristotelicae,  ecc.,  Berlino,  i836. 

(2)  Oggidì  s'inclina  piuttosto  al  valor  reale  delle  categorie  (Prantl  , 
Geftchichte  der  Logik  in  Occident,  1 855-6 1)-  —  Vedi  anche  Fiorentino, 
Saggio  storico,  ecc.,  J864,  pp.  193  e  segg.  —  Ragnisco,  Saggio  t,ri- 
tico,  ecc.  I^  239. 


-  961  - 

«  Trovasi  di  frequente,  così  il  Kùhner  al  §  170,  che  due 
«  proposizioni,  le  quali  insieme  esprimono  un  pensiero  unico. 
«  abbiano  per  loro  contenuto  tal  relazione  fra  loro,  che  l'una 
«  si  presenti  come  mancante  di  esisten:{a  sua  propria  e  de- 
«  stinata  soltanto  a  compiere  e  detei  minare  l'altra.  —  La 
«  proposizione  che  riceve  il  suo  complemento  o  la  sua  de- 
«  terminazione  da  altra,  si  chiama  principale-^  quella  che 
«  serve  di  complemento,  secondaria  ;  e  tutte  due  insieme , 
«  proposizione  composta.  » 

«  Le  proposizioni  secondarie  espriniiono  o  il  soggetto,  0 
«  Vattrihuto,  o  Soggetto  d'un^intiera  proposizione,  e  devono 
H  quindi  riguardarsi  come  sostantivi,  o  aggettivi,  o  avverbi 
«  ampliati  in  una  proposizione.  —  Noi  distinguiamo  perciò 
«  tre  sorte  di  proposizioni  secondarie  :  —  cioè  proposizioni 
«  sostantive,  addietlive  e  avverbiali  (i).  » 

Gli  è  evidente  da  ciò,  che  la  dottrina  della  proposizione 
composta,  come  è  concepita  dal  Kùhner,  si  può  definire,  la 
dottrina  delle  pruposiiioni  completive  trasformate.  Evidente 
è  del  pari,  che  il  concetto,  che  domina  la  dottrina  della  pro- 
posizione semplice,  è  pure  il  fondamento  della  composta. 
—  È  sempre  la  stessa  cerchia  fatale  di  ente  (soggetto)  e  at- 
tività (predicato),  della  quale  non  v'è  uscita.  Là,  nella  pro- 


(i)  Gioverà   molto   per  T intelligenza  lo  arrecare    innanzi   qualche 
esempio  : 

a)  Nella  proposizione  seguente:  fu  annunpata  la  vittoria  di  Ciro, 
si  può  allargate  il  soggetto  (vittoria),  e  dire:/«  annunciato  ||  che  Ciro 
ha  vinto  (prop.  second.). 

b)  Cantami,  0  Musa,  l'uomo  molto  travagliato.  In  questa  propusi- 
zione,  l'attributo  {molto  travagliato)  può  svolgersi  così  :  Cantami ,  o 
Musa,  Vuomo  \\  che  fu  molto  travagliato. 

e)  Egli  arnun^fiò  la  vittoria  di  Ci^'o.  L'oggetto  (vittoria)  può  con- 
vertirsi in:  egli  annunciò  \\  che  Ciro  aveva  vinto. 

d]  Nella  primavera  sbocciano  i  fiori ,  può  risolversi  cosi;  Quando 
viene  la  primavera  \\  i  fiori  sbocciano. 


—  362  - 
posizione  semplice,  dall'una  parte  un  nome,  o  un  a^ctttvo 
che  sotto  forma  d'attributo  o  ó.'' apposizione  determina  più 
da  vicino  li  soggetto^  e  dairaltra  un  c^j-so,  una  pr  epos  l'itone 
unita  al  caso,  un  infinito^  un  avuerbio,  che  sotto  forma  di 
Oj^^f/Zo  svolge  più  distesamente  il /reii/ca/o;  qui  invece,  nella 
proposizione  composta,  è  un'intera  proposizione  che  deter- 
mina più  da  vicino  o  il  soggetto  (proposizione  sostantiva), 
o  Vattributo  (proposizione  addiettiva),  o  il  verbo,  predicato 
(proposizione  avverbiale).  —  E  perchè  Tunilà  simmetrica 
fondamentale  delio  schema  non  sembri  alterata  nella  forma, 
Tautore  s'affretta  a  dirci,  che  queste  colali  proposizioni  com- 
pletive altro  non  sono  che  sostantivi^  aggettivi  e  avverbi 
atnpliati  o  trasformati. 

Ad  un  concetto  identico  risale  tutta  la  dottrina  della  pro- 
posizione composta,  che  ci  è  pòrta  dal  Becker  (Ausfiihrl. 
deutsch.Gramm.j. —  Eccone  la  somma  de'pen?ieri:  —  Le  pro- 
posizioni, così  sentenzia  il  Becker,  sono  o  principali,  quelle 
cioè  che  esprimono  un  pensiero  di  chi  paria,  e  si  dividono 
in  affermative,  interrogative  .,  desiderative ,  imperative  (ur- 
theiis-  frage-  wunsch-  heische-sàtze),  o  secondarie ,  quelle 
cioè  le  quali  presentano  uno  degli  elementi  costitutivi  della 
principale  sotto  forma  di  una  proposi'{ione ;  —  Queste,  le 
secondarie,  si  dividono  perciò:  i''  in  proposizioni  del  caso 
t?'asf ormato  (Caisussàtze)\  2"  in  proposizioni  avverbiali  (dì 
spazio,  di  tempo,  di  causa,  d'intensità):  V  proposizioni  ag- 
gettivali. —  L'essenza  della  proposizione  secondaria,  nella  sua 
relazione  colla  principal*^,  sta  in  ciò  :  che  invece  di  un  caso 
con  o  senza  preposizione  si  può  porre  una  proposizione  se- 
condaria ;  che  un  attributo  o  un  participio  può  venire  so- 
stituito da  una  proposizione  relativa;  che  una  proposizione 
avverbiale  può  essere  ricondotta  ad  un  avverbio.  —  Da  questi 
brevi  cenni  ne  sembra  chiarita  a  sufficienza  l'identità  di  con- 
cetto, che  informa  la  dottrina  delle  due  sintassi  della  proposi- 


—  863  - 
z'tone,  greca  e    tedesca  —  come    l'hanno   voluta  fondare  Ìl 
Kiihner  e  il  Becker  (i). 

Una  crìtica  di  cosiffatte  teoriche,  posto  anche  ce  lo  conce- 
desse lo  spazio,  non  sarebbe  possibile,  che  soltanto  in  parte, 
essendoché  su  questo  campo  (almeno  per  ciò  che  spetta  la 
lingua  greca),  moke  più  tenebre  incombono,  che  a  prima 
fronte  non  sembri.  —  L'indagine  storica  e,  soprattutto,  la 
comparazione,  potranno  solo  esse  spandere  qualche  luce  su 
questa  intricata  materia.  E  tutt'altro  che  esaurito  è  in  questo 
rispetto  il  compito  della  linguistica.  Infatti  la  storia  delia  sin- 
tassi greca  ci  mostra,  anche  allo  stato  odierno  dell'indagine, 
che  quel  nesso,  che  noi  slam  usi  a  considerare  strettissimo 
nei  rapporti  della  subordinazione  (ójrÓTaHi?),  in  origine,  e, 
certo,  in  quello  stadio  della  lingua,  che  ci  è  noto  per  la 
poesia  epica  antica,  era  molto  allentato,  tanto  che  ne'tempi 
più  remoti  la  lingua  non  distingueva  neppure  fra  rapporto 
ipotetico  e  temporale*,  così  che  la  cìassazione,  che  noi  fac- 
ciamo della  proposizione,  è  piuttosto  logica  che  grammati- 
cale. Così  per  rispetto  alla  correla:{ione,  la  linguistica  c'inr 
segna  un  lento  trapasso  dall'uso  coordinato  (trapÓTa^i?),  o 
puramente  dimostrativo,  all'altro  uso,  più  serrato  e  più  stretto, 
della  subordinazione,  ossia  del  relativo^  il  quale  parrebbe 
accennare  ad  una  necessità  intcriore  di  logica  dipendenza. 

Ma  il  fatto,  incontestato  oggimai,  che  la  lingua  greca,  cioè, 
al  pronome  relativo  perviene  per  mezzo  di  due  temi,  diffe- 
renti d'origine,  ma  ugualmente  dimostrativi,  ci  deve  rendere 
ben  cauti  nel  sentenziare  intorno  a  quest'arduo  tema  Così, 
ad  esempio,  nella  lingua  epica  antica  vediamo,  che  le  forme 
del  dimostrativo,  che  cominciano  per  t,  sono  usate  come  re- 
lativi, ciò  che  ne  mostra,  che  il  relativo  si  separò  dal  dimo- 


(i)  Vedi  Haacke,  Beitrdge,  ecc.  II,  §  ai-22. 


—  364  — 
strativo  soltanto   a  poco  a  poco.  —  Così    leggiamo   nella 
Odissea  (III,  yS)- 

Otà  re  Xrii(yTÌpe<;,  urrtìp  aXa,  toi  t'  àXóujvrai 

Vuxà?  7Tap9^)Li€VO»  ...    . 
E  Odiss.  XII  .63 oùbè  rréXeiai 

Tpr|puJV€<;,  Ttti  t'  à)iPpoaÌTiv  Aiì  rrarpi  tpépoucTiv. 
(Confr.  Krijg.,  Gram.  Greca  II,  §  25,  i.  — Curtius,  Comm. 
pag.  77,  Mùller;  Schleicher,  Camp.  pagg.  358  segg.,  Pezzi.) 
Un  posto  assai  importante  tengono  le  congiuniioni  nello 
studio  della  proposizione  composta.  Anche  in  questo  rispetto 
la  linguistica  accenna  di  condurci  per  altre  vie,  da  quelle 
segnate  dal  rigido  e  violento  sistema  del  Kùhner.  Un  at- 
tento esame  infatti  della /urw^  originaria  delle  congiunzioni, 
che  sono  più  usate  nelle  proposizioni  composte,  ci  conduce 
a  radici  di  temi  relativi  —  (Confr.  le  forme  6u  quod^  eou(;- 
xéu)?,  ò-T€,  uJ5-6Truj(;,  ujs-oijtuj<;,  i-va.  Curtius ,  Comm.  pagg. 
i88,  189,  Muller).  —  «  Cosicché^  dice  il  Curtius  (/.  e),  la 
dottrina  delle  proposizioni  si  potrebbe  unire  a  quella  dei 
casi^  e  dalle  forme  stesse  della  lingua  dedurre  un  principio 
per  la  divisione  delle  proposizioni ,  introdotte  nel  discorso 
col  me^o  di  congiunzioni.  ^> 

Per  ciò  poi  che  spetta  le  proposizioni  avverbiali^  cioè 
quelle  che  esprimono  un  oggetto  avverbiale  y  pel  quale 
viene  allargato  e  svolto  più  ampiamente  il  concetto  del  pre- 
dicato, secondo  la  dottrina  del  KiJhner  (§§  i83  segg.),  noi 
osserveremo  semplicemente,  che  tutta  questa  parte  della  teo- 
rica della  proposizione  composta  si  fonda  sopra  una  falsa 
ed  erronea  interpretazione  delia  natura  dell'avverbio.  Anche 
in  questo  rispetto  possiamo  dire  della  linguistica,  che:  — 
Mentem  lymphatam  Mareotico — Redegit  in  veros  timores! 
—  Essa  infatti  accenna  a  statuire,  che  gli  avverbi  sono  casi, 
più  o  meno  riconoscibili  alio  stato  presente  della  forma  loro, 
o  avanzi  di  casi. 


-  365  -  ^ 

La  moderna  dottrina  del  locativo  è  molto  istruttiva  in 
questo  rispetto  (Confr.  Schleicher,  Comp.  §§  145  segg.,  P.; 
Curtius,  Comm.  pag.  189,  M.)  —  tanto  che  persino  la  con- 
giunzione €i  viene  ascritta  ai  locativi.  Tutto  ciò,  che  quelle 
pretese  proposizioni  avverbiali  hanno  di  comune  con  quelle 
parole,  che  comunemente  s'addimandano  avverbi,  si  restringe 
a  questo  solo  fatto ,  che  cioè  e  con  quelle  e  con  questi  si 
risponde  alla  domanda  come,  in  che  modo,  cioè  vien  pòrta 
una  più  precisa  determinazione  di  ciò,  che  è  espresso  nella 
proposizione  principale,  in  riguardo  al  tempo,  al  luogo,  alla 
causa,  e  cosi  di  seguito. 

E  quanto  alle  proposizioni,  che  il  Kùhner  chiama  agget- 
tive, cioè  completive  dell'attributo,  che  per  esse  si  presenta 
sotto  forma  di  proposizione  trasformata  (§  i83),  diciamo 
che  lo  studio  dei  Modi  condotto  sulle  orme  segnate  anche 
su  questo  campo  dalla  linguistica  e  massime  dalla  storia 
della  Sintassi  dei  modi,  va  recando  una  ben  radicale  tras- 
formazione anche  in  questa  parte  della  gramniatica.  L'  uso 
del  relativo,  vuoi  solo,  vuoi  accompagnato  con  av,  insegna, 
che  i  costrutti  relativi  hanno  ben  altro  valore,  che  quello  di 
aggettivi  e  participi  trasformati,  affatto  empirico  e  formale. 
—  In  questo  rispetto  la  dottrina  del  collegamento  dei  modi 
{consecuiio  modorum)  è  progredita  tanto,  quanto  forse  nes- 
suna altra  parte  della  Sintassi  greca ,  ed  alla  medesima  fa 
perfetto  riscontro  la  dottrina  della  consecutio  temporum, 
come  l'ha  fondata  il  Madvig. 

È  proprio  a  deplorare,  che  il  materiale  eccellente  cotanto 
della  Sintassi  dèi  Kuhner,  sia  stato  sacrificato  agli  amori  di 
un  cotale  consequenziarismo  grammaticale,  che  rese  dappoi 
necessaria  una  completa  riforma  nella  trattazione  della  Sin- 
tassi Greca. 

Rovigo,  gennaio  1873. 

Gaetano  Oliva, 


-  :^66  - 


C£t^CC^:/  "BrBLIOG'llAFlCl 


Stiidien  ^u  Aeschylus  von  N.  Wecklein.  Berlin  1872. 

Malgrado  che  molti  eiaditi,  in  ispecìe  della  dotta  Germania, 
abbiano  spesa  ia  vita  nelle  più  accurate  indagini  critiche  in- 
torno agli  scritti  degli  antichi  per  interpretarne  i  passi  più 
difficili  e  per  rimediare,  ove  fosse  possibile,  alle  ingiurie 
del  tempo  e  della  barbarie  medioevale,  si  può  dire  senza 
tema  di  errare,  che  cotesto  lavoro  di  analisi,  lungi  dalPesser 
compiuto,  fornirà  sempre  occasione  di  nobili  studii  a  tutti 
coioro  che  sentono  vivo  Famore  per  la  cultura  greco-latina. 
Questa  affermazione,  pur  vera  rispetto  alla  letteratura  in 
genere  degli  antichi,  è  verissima  qualora  si  riferisca  &  qual- 
che autore  in  particolare,  per  esempio  ad  Eschilo,  il  quale 
nelle  poche  tragedie  rimaste  ci  giunse  in  un  testo  così  scor- 
retto, che  in  molti  luoghi  non  fu  ancor  possibile  ristabilire  una 
lezione  soddisfacente;  e  d'altra  parte  per  la  sublimità  dei 
suoi  concepimenti  e  per  lo  slancio  arditissimo  della  fantasia 
poetica  spesso  lascia  il  lettore  immerso  in  un  crepuscolo 
penoso  anche  in  certi  passi,  nel  quali  sembra  non  si  debba 
accagionare  l'ignoranza  dei  copisti  di  questa  poca  chiarezza 
del  testo.  Intorno  a  simile  autore  rèsta  non  poco  a  farsi; 
ed  un  erudito  tedesco,  il  Wecklein,  esprime  appunto  questo 
suo  convincimento  nella  prefazione  ad  un  lavoro  da  lui  pub- 
blicato di  fresco  a  Berlino ,  e  intitolato  «  Studii  intorno  ad 
Eschilo  ».  Il  Wecklein  osserva,  come  spesso  il  pensiero  del- 
l'autore sia  stato  quasi  sepolto  sotto  la  mole  dei  commenti, 
e  cita  alcuni  esempi  convincentissimi  per  far  vedere,  come 
talvolta  gli  schiarimenti  dei  critici  non  abbiano  servito  ad 
altro,  che  a  sviare  la  mente  del  lettore  dal  significato  più 


naturale  di  un  certo  brano;  tuttavia  non  s'abbandona  per 
ciò  ad  uno  scetticismo  assoluto ,  che  anzi  non  dispera  di 
poter  spesso  trovare  il  filo  d' Arianna ,  valendosi  della  po- 
tenza rìcostiiutiva  della  fantasia,  che  dovrebbe  riprodurre  il 
lavoro  fantastico  già  fatto  dal  poeta,  e  poi  di  quegli  altri 
mezzi,  che  la  critica  moderna  somministra,  cioè  esame  dei 
fonti,  degli  scolii,  osservazioni  gramm.aticali,  studio  coscien- 
zioso degli  abiti  del  poeta  nel  creare  e  nell' esprimere ,  in 
una  parola,  di  tutto  ciò  che  può  gettar  qualche  luce  sui  poemi 
immortali.  Né  si  creda  che  il  dotto  tedesco  appartenga  alla 
schiera  di  coloro,  che  vorrebbero  spiegar  tutto  :  egli  dichiara 
fin  da  principio,  che  si  maltratta  indegnamente  il  poeta 
d'Eleusi,  ogniqualvolta  si  attribuiscono  a  lui  gli  errori  evi- 
denti dei  copisti  e  i  guasti  prodotti  «  da  un  malefico  influsso». 
Infine  egli  chiude  la  sua  prefazione  ripromettendosi  d' aver 
fatto  qualche  cosa  per  T  esegetica  di  un  sommo  scrittore  an- 
tico, e  sottoponendo  ad  un  giudizio  veramente  severo,  egli 
dice,  ma  pur  benevolo,  le  sue  novelle  ricerche-,  ed  egli 
otterrà  senza  dubbio  questo  giudizio,  quale  se  Taugura,  da- 
gli eruditi,  che  prenderanno  ad  esame  Topera  sua,  e  rico- 
nosceranno in  lui  quell'accuratezza  scientifica,  che  non  si 
deve  scompagnar  mai  da  siffatto  genere  di  studii.  Intanto 
l'esimio  filologo  tedesco  perdoni  a  un  debole  cultore  delle  lin- 
gue classiche  alcune  idee  nate  in  lui  spontanee,  in  seguito  alla 
lettura  del  suo  libro  ^  idee  che  egli  non  esporrebbe  certa- 
mente, se  non  gli  servissero  di  occasione  a  parlare  coi  do- 
vuto rispetto  di  questa  nuova  ed  importante  pubblicazione. 

È  buono  premettere  per  quanti  non  li  conoscessero  an- 
cora, che  gli  «  Studii  su  Eschilo  »  del  Wecklein  sono  infor- 
mati a  quello  spirito  critico,  onde  si  onora  tanto  la  filologia 
germanica  ,  e  pel  quale  non  si  trascura ,  non  si  disprezza 
nulla,  ma,  riputandosi  ogni  fenomeno  degno  ugualmente  di 
attirare  a  sé  l'attenzione  dello  scienziato,  si   trascorre  colla 


-  368  — 
analisi  dall^  esame  dei  pensieri  a  quello  delle  parole,  delle 
forme  grammaticali,  dei  costrutti  sintattici,  del  metro,  delle 
peculiarità  dialettali,  ecc.,  non  si  sdegna,  come  si  farebbe 
da  taluno  dei  nostri ,  di  porre  accanto  a  profonde  osserva- 
zioni sui  punti  piij  difficili  dell'arte  drammatica  note  non 
meno  utili  sull'uso  di  un  articolo,  di  una  particella  negativa, 
di  un  participio,  e  così  via,  come  fa  appunto  il  Wecklein. 

Il  suo  lavoro  si  può  naturalmente  dividere  in  due  parti, 
quantunque  esse  si  intreccino  fra  loro  nel  corpo  deiropera, 
cioè  «  Argomenti  che  si  riferiscono  ad  Eschilo  in  generale  » 
e  «  Trattazione  critica  di  brani  particolari  »  :  appartengono 
alla  prima  serie  i  capitoli  in  cui  si  discorre ,  ad  esempio, 
della  similitudine  presso  Eschilo,  dell'uso  della  lingua,  della 
ripetizione  di  una  stessa  parola ,  dell'  artìcolo  usato  come 
pronome  dimostrativo  ,  osservazioni  intorno  alla  dipodia 
anapestica,  alla  formazione  del  quinto  piede  nel  trimetro, 
intorno  ai  manoscritti  ed  agli  scolii;  appartengono  alla  se- 
conda serie  le  illustrazioni  critiche  di  molti  passi  scelti  dalle 
sette  tragedie,  che  ci  sono  rimaste  di  Eschilo.  Sarebbe  cosa 
utilissima  il  rifare  per  intiero  la  strada  che  ha  fatto  il  Weck- 
lein con  passo  sicuro  e  talvolta  un  poco  ardito  attraverso 
a  quegli  splendidi  resti  della  Musa  di  Eschilo;  ma  ciò  non 
è  ora  possibile  per  la  natura  di  questo  scritto,  che  vuol  es- 
sere poco  piìj  dMn  mero  annunzio  bibliografico. 

Ecco  adunque  un  saggio  del  modo  con  cui  il  Wecklein 
si  rende  conto  del  lavoro  fantastico  fatto  dal  poeta.  Par- 
lando dell'espressione  metaforica  e  deila  similitudine  presso 
Eschilo,  mentre  osserva  come  esse  attestino  la  grande  po- 
tenza rappresentativa  del  poeta,  dice  pure  che  spesso  non 
si  possono  intendere  così  facilmente,  ove  l'interpretazione 
non  sappia  riprodurre  lo  slancio  della  fantasia  poetica,  ma 
si  contenti  di  trapassare  da  un  pensiero  a  quello  che  vi  si 
incontra  imTiediatamente  a  fianco.  Cita  a  questo  proposito 


-  369  - 

quelle  parole  che  il  poeta  pone  in  bocca  a  Cassandra,  quando 
nel  calore  della  visione  vede  compiersi  dinnanzi  ai  suoi  oc- 
chi Tuccisione  di  Agamennone,  al  vers.  i  riS:  a  a*  lòoù  lòou- 
àrrexe  ià<;  poò<;  —  xòv  TaOpov  èv  TréTrXoicTiv  —  jaeXaYKépiu  Xa- 
PoOcTa  firiXcivriiuaTi  —  tuitt€i.  L'  autore  ripudia  coir  Hermann 
la  lezione  ueXdTKepuuv,  con  cui  questo  epiteto  è  attribuito  al 
toro,  come  vorrebbero  il  Keck,  il  Wellauer  e  parecchi  altri; 
disapprova  i  mutamenti,  che  fecero  alcuni,  dei  laeXccTKepqi 
in  jiieXaTKpÓKip,  {ueXafKÓnii,  jaeXajairXÓKip,  ecc.^  e  infine  con- 
chiude collo  spiegare  a  questo  modo.  Il  poeta  avendo  per 
bocca  di  Cassandra  paragonato  Agamennone  e  Clitennestra 
ad  un  toro  e  ad  una  vacca,  prosegue  nella  metafora,  e 
allude  col  neXa^Képiy  jLirixavrj^aTi  a  tutto  il  mezzo  dell'ucci- 
sione, talché  Clitennestra  essendo  il  toro  furioso  che  si  av- 
venta sulla  vacca,  le  sue  braccia  sollevate,  che  tengono  alta 
la  nera  veste,  la  rete  fatale  pur  chiamata  dai  poeta  <r  òiktuov 
"Aibou  »,  possono  sembrare  alla  fantasia  accesa  di  Cassandra 
le  corna  dell'animale,  che  giustificano  il  ueXcrfKépifj  applicato 
a  )Linxavri|LiaTu  Questa  interpretazione  già  esposta  in  parte 
dall'Hermann  è  molto  ingegnosa  e  sembra  la  più  verisimile 
fra  le  diverse  spiegazioni  che  si  diedero  di  questo  passo; 
solo  l'autore  nota  come  il  toro  rappresenti  Clitennestra  e  la 
vacca  Agamennone,  asserendo  che  in  caso  contrario,  cioè 
secondochè  parve  a  tutti  i  commentatori,  se  il  toro  rappre- 
sentasse Agamennone  e  la  vacca  Clitennestra,  il  poeta  non 
avrebbe  detto  «  arrexe  la^  poòq  tòv  raupov  ;),  bensì  «  firrexe 
ToO  Taupou  Tàv  poOv  ».  Ma  in  realtà  l'espressione  >(  airexc. 
Tct^  poò?  TÒV  TaOpov  »  vuol  dire  letteralmente  «  tien  lungi 
dalla  vacca  il  toro  »,  e  non  importa  in  modo  esplicito,  come 
suppone  l'autore,  che  debba  esser  piuttosto  il  toro  pericoloso 
alla  vacca  che  non  questa  al  toro;  ci  manifesta  solo  la  ne- 
cessità e  quindi  un  desiderio  che  stiano  disgiunti.  Ora  il 
supporre   che  in  questa   scena  terribile  Agamennone  possa 


—  370  - 

essere  rappresentato  qua!  vacca  debole  percossa  dal  toro 
furioso,  da  Clitennestra ,  presenta  un  lato  a  primo  aspetto 
verosimile,  in  quanto  che  accade  ordinariamente  che  il  più 
forte  atterri  il  più  debole-,  ma  è  uopo  considerare  che  in 
questo  caso  il  forte  è  vinto  colPinganno -,  del  resto  Timagi- 
nare  cosi  invertite  le  parti,  tanto  più  che  si  tratta  di  con- 
sorti, par  ripugnante  all'uso  generale  poetico,  fondato  su 
una  legge  di  naturale  analogia  che  il  poeta  osserva  in  altre 
espressioni  metaforiche  o  paragoni-,  ad  esempio  al  V.  1268, 
ove  Clitennestra  ed  Egisto  diventano  una  leonessa  ed  un 
lupo;  al  V.  1671,  ove  Egisto  è  paragonato  al  gallo  presso 
la  gallina.  Quindi  l"  Enger,  trattandosi  di  spiegare  il  poó? 
e  il  xaOpov,  non  esita  neppure  un  istante  a  dire:  «  invece  di 
moglie  e  marito,  secondo  Toscuro  modo  di  esprimersi  degli 
oracoli  » .  E  poi  qual  motivo  potrebbe  aver  indotto  il  poeta 
a  scegliere  questa  metafora  piuttosto  che  un'  altra,  se  non 
un  facile  ravvicinamento  sorto  nella  sua  mente  all'  idea  di 
una  moglie  e  d'un  marito,  di  un  «  coniugio  «  ? 

In  ordine  alla  similitudine  l'autore,  avvalorando  con  op- 
portuni esempi  le  sue  affermazioni,  nota,  come  Eschilo  spesso 
sia  solito  a  porre  semplicemente  ed  immediatamente  una 
similitudine  in  vece  dell'espressione  propria  e  incaricare  la 
fantasia  di  rappresentarsi  la  giusta  relazione.  Inoltre  libe- 
rissima opera  la  fantasia  di  Eschilo  nel  collegamento  e  nella 
fusione  della  similitudine  e  dell'espressione  propria,  inquan- 
tochè  o  la  espressione  propria  vien  determinata  dalla  pen- 
sata similitudine,  o  la  similitudine  appare  al  posto  della 
espressione  propria,  ma  riceve  compimento  o  più  esatta  de- 
terminazione dal  pensiero  proprio.  Degna  d'osservazione  è 
pure  la  proprietà  di  risospingere  l'espressione  metaforica 
nella  realtà  e  con  una  specie  di  ironia  accrescere  l'illusione 
dell'imagine.  Cosi  spiega  il  Wecklein  nelle  Eumenidi,  quando 
Atena  dice,  V.  40?  :   «  ^vBev  fciiuKoiicr'  n^8ov  àipuiov  nóòa  — 


-^n  - 

TCT€piIjv  dxep  ^oj^òoGaa  kóXttov  aÌTÌi>o<;  —  tvóiìloi^  àK^aioK;  tóvb' 
èniZ:£u2a<;  óxovi».  L'òxov  di  Eschilo  non  è  che  un  carro  imagi- 
nario,  è  una  semplice  espressione  metaforica  per  significare 
che  l'egida  ^scossa  da  Atena  le  tenne  luogo  di  un  carro  tirato 
da  robusti  cavalli;  eppure  Atena  parla  di  questo  carro  in 
modo  da  far  quasi  credere  che  l'abbia  realmente  adoperato. 

Dipoi  l'autore  trattando  dell'uso  della  lingua,  dopo  alcune 
osservazioni  sull'  uso  rarissimo  della  crasi  e  della  sinizesi 
nei  canti  corali  di  Eschilo  e  sulle  forme  verbali  doriche, 
dimostra  con  opportuni  esempi,  che  il  costrutto  participiale 
e  l'uso  dell'infinito  in  Eschilo  ci  presenta  alcune  particola- 
rità, le  quali,  appunto  come  il  costrutto  asindetico  molto 
piij  esteso  in  Eschilo  che  non  in  Sofocle  od  Euripide,  por- 
tano  l'impronta  di  una  hngua  arcaica,  che,  paragonabile 
alle  costruzioni  ciclopiche,  compone  la  fabbrica  dei  periodi 
con  membri  slegati,  mette  giù  il  pensiero  senza  intermediari 
e  lascia,  che  si  sostenga  col  proprio  peso.  A  questo  genere 
appartiene  il  caso,  iq  cui  un  participio  nominativo  trovasi 
usalo  assolutamente.  Di  ^uestq  caso  sonovi  differenti  specie, 
che  l'autore  enumera  partitamente. 

Questi  cenni,  sebbene  incompleti,  possono  fino  a  un  certo 
punto  far  comprendere  altrui  il  modo  con  cui  il  Wecklein 
tratta  le  tesi  piiì  importanti  in  ordine  alle  osservazioni  ge- 
nerali su  Eschilo,  avvertendo  tuttavia,  che  non  è  possibile 
apprezzare  degnamente  il  lavoro  del  Wecklein  senza  leg- 
gerlo con  molta  attenzione  da  capo  a  fondo. 

Anche  nei  singoli  brani  scelti  dalle  sette  tragedie  super- 
stiti, commentati  e  spiegati  dall'autore  sovente  con  felicis- 
sima riuscita,  s'offre  allo  studioso  largo  campo  di  riflessioni, 
di  ipotesi,  di  raffronti;  e  qui  pure  mi  sarà  forza  l'accennare 
solo  ad  alcuni  passi,  specialmente  dell'Agamennone,  diffusa- 
mente illustrato  dal  Wecklein,  in  cui  l'autore  s'abbandona 
a  spiegazioni  forse  trcppo  ardite,  o  non  sempre  necessarie. 


-  372  — 

Nelle  considerazioni  generali,  parlando  delf  uso  speciale 
di  TÒ  MH  colPinfinito,  quando  questo  venga  dopo  un  verbo  o 
un'espressione,  che  indichi  un'attività  opposta,  riluttante 
alla  conseguenza  espressa  per  mezzo  dell'  infinito,  adduce 
in  esempio  quelle  parole  del  qpuXaH,  Ag.  Vers.  !4.  —  q)ópo? 
f  àp  àv6'  uTTvou  napaciarei,  —  tò  un  pepaiuu^  pxécpapa  ffuiuipaXeiv 
uTTVtu-  — ed  a  questo  proposito  combatte  l'opinione  del  Kar- 
sten ,  che  il  tò  mh,  costruendosi  solo  coi  verbi  significanti 
«  impedire,  vietare,  ecc.  »,  sia  mal  costruito  col  TTapoataTeiv, 
poiché,  nota  l'autore,  questo  non  può  essere  considerato  di 
per  sé,  bensì  come  riferentesi  al  q>ópoq;  in  seguito  accetta  la 
osservazione  del  Karsten,  che  la  voce  «  urrvo?  »  ripetuta  stia 
male  «  tiìst  potius  inepte  hoc  dictiim  est<,  somni  loco  timor 
adstat^  oculos  sonino  clauderc  vetans  »-,  perciò  slima  che 
Terrore  stia  nel  primo  uttvou  e  che  quindi  si  debba  elimi- 
nare, poiché  altrimenti  rimarrebbe  sempre  il  pensiero  sgra- 
ziato «  il  timore  »  che  io  non  chiuda  gli  occhi  al  sonno  (mi) 
sta  accanto  in  luogo  del  sonno.  In  conseguenza  modifica  lo 
dv6'  UTTVOU  in  un  aggettivo  àvTiTrvou(;,  confortando  la  forma 
con  buoni  esempi,  e  schivando  a  parer  suo  ogni  inutile  ripe- 
tizione. Ma  a  me  sembra  che  con  una  leggera  differenza  di 
traduzione  il  senso  corra  chiarissimo,  e  non  solo  T' uttvou  non 
sia  una  ripetizione  stucchevole,  ma  torni  necessario  all'esat- 
tezza del  pensiero.  Basterebbe  tradurre  Pàvii  per  !>  contro  » 
in  luogo  di  tradurlo  per  «  invece  »,  cioè  conservare  alla  pre- 
posizione il  significato  più  vicino  all'antico,  ed  allora  avremmo: 
«  il  timore  —  che  io  non  chiuda  saldamente  le  palpebre  al 
sonno  — -  mi  sta  (accanto)  contro  il  sonno  »  cioè,  riducendo 
l'espressione  alla  sua  massima  brevità  «  il  timore  di  addor- 
mentarmi (dovendo  io  vegliare)  mi  impedisce  di  dormire». 
Ora  quale  espressione  potrebbe  essere  più  logica  e  richiedere 
in  modo  più  assoluto  la  ripetizione  del  concetto  «dormire»? 
Il  mutamento  stesso  introdotto  dal  Weckiein  coiràvTiTTVou? 


-  313- 
consiste  principalmente  nelTintendere  àvii  nel  senso  di  «  con- 
tro »,  mentre  prima,  unendola  con  uttvou,  non  sa   tradurlo 
che  con  un  «invece)).  Pertanto,  a  parer  mio,  questo  sa- 
rebbe un  mutamento  superfluo,  e  come  tale  da  evitarsi. 

Alle  parole  di  Calcante  oiov  ixr\  tic,  afa  6eó0€v  Kvecpdc»,!  Tipo- 
Tuirèv  cTTÓjaiov  juéTa  Tpoia<;  —  CipaiiiuGév.  —  oikuj  yàp  €TTÌqp6ovo<; 
K.  T.  X.  (v.  162  e  segg.)  il  Wecklein  osserva:  il  senso  gene- 
rale è  chiaro i  Troia  sarà  presa,  dice  Calcante-,  solo  prima 
di  questo  grande  avvenimento  per  Tira  di  Artemide  una  gran 
disgrazia  piomberà  sull'esercito.  Quindi  spiega  il  Kveqpdcr)  in 
questo  senso  :  «  far  che  Tesercito  non  possa  essere  ciò  che  do- 
vrebbe essere,  cioè  lo  aTÓjuiov  ^éfo.  Tpoia<;))',  sostiene  che  nel 
TTpoTUTtév  v'è  ridea  di  «  percosso  prima  »  cioè  prima  che  giunga 
ad  infrenar  Troia  e  spiega  il  «  percosso  »  aggiungendovi 
«  con  un  colpo  di  fulmine  ».  Per  risolvere  poi  la  difficoltà 
dello  cipaiiuGev,  interpretato ,  egli  dice,  erroneamente  dal- 
l'Hermann come  un  participio  di  un  supposto  <7TpaTo0cr9ai 
in  casiris  esse^  dall' Ahrens  come  n  frenum  ab  exercitu  in- 
iecttim  »,  mutato  invano  dal  Keck  in  (Japuj0€v  per  otte- 
nere un  contrapposto  aKveqxxar),  dallo  Schmidt  in  cfaGpweév, 
mentre  questa  è  parola  della  grecità  posteriore,  finisce  col  so- 
stituire allo  (JTpaTuuGév  un  KapuuGév,  il  quale,  se  corrisponde  al 
concetto  che  si  è  fatto  l'autore  del  TrpoTUTrév,  cioè  percosso  dal 
fulmine,  non  s'addice  molto  all'espressione  metaforica  del 
freno,  inquantochè  ctóiuiov  TtpoTUTrèv  KapoiGév  verrebbe  a  si- 
gnificare «.  freno  percosso  prima,  stordito  (dal  fulmine)  »  ed 
un  «  freno  stordito  »  non  è  il  pensiero  più  elegante  che  si 
possa  imaginare.  D'altra  parte  non  seppi  comprendere  come 
l'autore  combatta  la  spiegazione  dell' Ahrens  <(  frenuin  ab 
exercitu  iniectnm  »  col  dire  unicamente  che  né  il  Kvecpacrri, 
né  il  irpoTuTrév  convengono  all'idea  «  soggiogamento  di  Troia  )>, 
laddove  il  Kve(pdcTi;i  si  vuole  a  ogni  modo  riferire  a  cióiiiov, 
che  dovrà  pur  sempre  reggere  come  genitivo  di  appartenenza 

'Hjvista  d!i  filologia  ecc.,  /.  36 


-  374  - 

il  Tpoia?;  ora  siccome  lo  o"tó|uiiov  rappresenta  metaforicamente 
il  mezzo  della  sottomissione  di  Troia,  il  concetto  del  Kve- 
qpàai}  o  non  è  ripugnante  à  quest'altro,  o  lo  è  pure  colla  spie- 
gazione proposta  dairautore. 

Il  ragionamento  che  fa  l'autore  per  dimostrare  infondata  la 
opinione  di  coloro,  che  appoggiandosi  alle  parole  (v.  2  58) 
fÌKUj,  aegiCouv  o'óv,  KXuTaijavriaTpa,  Kparoq  ecc.  sostengono  il 
coro  presentarsi  in  cospetto  del  palazzo  dì  Clrtennestra  per 
un  ordine  ricevuto  da  lei,  basterebbe  solo  a  chiarire  Tacume 
critico,  con  cui  egli  tratta  coleste  questioni.  Il  Wecklein  am- 
mette con  un  antico  grammatico,  come  sia  carattere  distin- 
tivo del  parodo,  che  in  esso  il  coro  manifesti  il  motivo  del 
suo  presentarsi.  La  Schneidewin  nel  caso  di  cui  si  tratta 
trova  questo  motivo  in  un  ordine  espresso  di  Clitennestra,  e 
quindi  traduce  «  (Sòv  Kpdro^  per  «  il  tuo  comando  »  -,  ma 
Fautore  sostiene  che  queste  parole  sono,  come  una  '<  captatio 
benevolentiae  »  una  semplice  introduzione  alia  preghiera  che 
segue;  il  coro  dice:  Io  sono  un  umile  suddito  e  la  mia  pre- 
ghiera è  quella  d'un  suddito;  se  vuoi  darle  favorevole  ascolto, 
tu  mi  fai  sommo  piacere,  kXuoi^'  gv  eucppwv;  se  poi  tu  !a  re- 
spingi, io  non  vorrò  per  questo  essere  malcontento.  Com- 
batte pure  le  interpretazioni  del  Keck  e  del  Nagelsbaeh  -,  il 
vero  motivo  dell'apparire  del  coro  sta  nella  speranza  e  nella 
curiosità  che  si  desta  in  esso  alla  vista  dei  fuochi  sacrificali 
accesi  per  tutta  la  città-,  il  coro  medesimo  lo  dice  colle  pa- 
role aù  bè,  Tuvbdpeuj  —  ©uYatep,  paciXcia  k.  t.  X  (v.  83).  Ed  a 
proposito  di  queste  parole  l'autore  confuta,  parmi,  vittorio- 
samente le  interpretazioni  quasi  identiche  date  dall'Hermann, 
dallo  Schneidewin,  dal  Keck,  i  quali  asseriscono  che  il  coro 
si  rivolge,  parlando,  a  Clitennestra,  mentre  ella  esce  dal 
palazzo  pei  sacrificio,  ma  non  ne  ottenne  pronta  risposta, 
perchè  ella  non  vuol  essere  disturbata  ne'suoi  atti  di  voti  ; 
quindi  il  coro  intuona  un  canto  sacrificale.  Il  preteso  canto 


-  3T5  - 

sacrificale,  secondo  il  Wecklein,  appartiene  al  parodo  pro- 
priamente detto,  laddove  il  canto  corale  dal  verso  i6o  al 
285  costituisce  pel  contenuto  e  per  la  forma  il  primo  sta- 
simo -,  quanto  a  Clitennestra,  quando  il  coro  dice  «  e  tu,  o 
figlia  di  Tindareo,  o  regina  Clitennestra,  che  bisogno,  che 
novità?  ecc.  »,  ella  non  è  sulla  scena  più  che  non.  lo  sia  Aiace 
nel  parodo  della  tragedia  Sofoclea  di  questo  nome,  quando 
i  suoi  soldati,  temendo  pel  loro  duce  in  seguito  a  dicerie 
funeste  diffuse  sul  suo  conto,  si  presentano  dinanzi  alla  tenda 
deireroe,  che  vi  è  rinchiuso,  perciò  non  visibile  sulla  scena. 
Da  ultimo  l'autore  dimostra  insussistente  l'opinione  di  O. 
Mùller,  che  il  coro  rappresenti  un  alto  consiglio  lasciato  da 
Agamennone  a  far  le  sue  veci  durante  la  sua  assenza  e  sotto 
la  presidenza  di  Clitennestra, 

Una  considerevole  mutazione  è  introdotta  dal  Wecklein  al 
vers.  179:  ajàlii  b'év  S'uttviu  ftpò  Kapbicx<;  —  |avricri7T/||nu;v  rróvo(;, 
per  evitare  parecchie  difficoltà,  che  si  trovano  in  questo  brano. 
Le  principali,  secondo  Fautore,  sarebbero  tre:  la  particella  ré 
in  questo  caso  sconvenevole,  lo  arctCci  riferito  al  ixpò  Kapbla< 
e  il  concetto  di  sonno,  che  indicherebbe  già,  come  osserva 
pure  il  Keck^  un  mitigarsi  del  dolore  e  quindi  sarebbe  dis- 
dicevole al  pensiero.  Perciò  non  accetta  le  varianti  dell'Har- 
tung,  ia-naKey  b'uirvq;,  e  del  Karsten,  OacJoei  b'év  6'<J7tV(j!j , 
e  propenderebbe  ad  uno  ótùI^ì  b'avTÌiTvou<;,  se  non  rima- 
nesse la  difficoltà  dello  czàlti  unito  al  Tipo.  È  certo,  dice, 
che  tutti  ammettono  significare  il  upò  Kapbia<;  la  sede  stabile 
di  quel  )Livn(TiTrf||uujV  novo?  Eschileo.  Dunque  con  uno  an^- 
piZei,  che  indica  stabilità,  e  si  trova  usato  da  Tucidide  in 
modo  analogo,  risolviamo  la  difficoltà  del  itpò  Kapòlaq;  con 
un  ànvou^  attribuito  a  ttóvo^  invece  delPostico  èv  e'i)TTV»4)  ag- 
giungiamo aìTespressione  un  particolare  degno  di  Eschilo. 
.  Lascio  le  considerazioni,  che  si  potrebbero  fare  intorno 
alla  probabilità  della  corruzione,  che   i'autorc  chiama    Icg- 


—  376  - 
gera,  di  uno  CTtìplZei  originario  in  uno  aidCei  ;  dirò  solo  che 
il  Wecklein  mi  sembra  non  migliori  il  testo  colla  sua  va- 
riante. Anzitutto  il  concetto  di  sonno  non  è  così  contrad- 
ditorio come  reputa  Tautore ',  poiché,  se  il  dolore  del  rimorso 
è  più  sentito  quando  lo  spirito  è  veramente  desto,  cionon- 
dimeno, ove  sia  molto  intenso,  conturba  ed  angustia  anche  il 
sonno  con  imagini  funeste;  però  parmi,  che  il  poeta  voglia 
appunto  dir  questo  :  «  anche  nel  sonno  (il  ré  cosi  riceve  la 
sua  spiegazione  e  non  è  più  un'inutile  aggiunta),  allorquando 
la  stanchezza  vince  in  parte  rmterno  travaglio,  il  cuore  è 
torturato  da  imagini,  da  sog-iii  angosciosi  »,  e  codesto  mi 
par  concetto  non  solo  vero,  ma  molto  più  poetico  di  quello 
che  rende  un  àrrvoug  attributo  a  ttóvoc.  Quanto  al  Trpò  Kap- 
biaq  unito  con  aiàlei  e  al  cambiamento  fatto  dal  Wecklein 
in  uno  aiiipiZiei,  si  potrebbe  osservare  come  se  il  ixpà  vuol 
dire  «  innanzi  »  e  va  tradotto  «  ante  cor  »  è  pure  improprio 
il  dire  «  siede,  sta  dinanzi  al  cuore»  e  non  entro\  senza 
notare,  che,  levando  lo  axa^iei,  leviamo  un'idea  poetica  in 
sommo  grado,  quello  della  perpetuità  e  del  lento  accrescersi 
dei  rimorsi,  di  quel  travaglio  che  ci  ricorda  i  delitf.  Ma, 
se  non  fosse  troppa  audacia,  si  potrebbe  perfino  asserire 
che  il  irpò  Kapbia<;  dissuona  meno  dallo  crràZiei  che  dallo  av(\- 
piZiei,  poiché  significando  cnàCei  «  stilla,  sgocciola  »  ci  dà  l'idea 
di  un  moto  ìnnanii  al  cuore,  cosicché  si  potrebbe  anche  in- 
tendere, senza  contraddire  al  Tipo,  «  dall'interno  all'esterno, 
fuori  dal  cuore  »;  e  questo  modo  di  intendere  il  rrpó  greco, 
può  forsanco  ricevere  conferma  dal  corrispondente  jt^j^jf',  prae 
latino,  che  vuol  dire  non  solo  innan\i^  ma  metaforicamente 
anche  per,  cioè  attraverso  {prae  gaudio,  per  la  gioia);  ed 
anche  dal  prò  latino,  che  pur  corrisponde  al  greco  in  pro- 
vento, pronto  ecc.-,  si  paragoni  in  greco  il  significato  di  irpo- 
vojLivi,  Tpovofueijuj;  del  resto  non  è  meraviglia  che  dal  concetto 
«  avanti  »  unito  con  un'idea  di  moto   si   passi   al   concetto 


—  377  - 
«  attraverso  » .  Se  questa  non  è  una  stiracchiatura,  e  se  il 
Tipo  unito  con  Kapbia(;  può  essere  inteso  in  questa  maniera, 
Tespressione  Eschilea  crraZei  irpò  Kapòiotqèdi  grande  efficacia 
ed  esattezza  poetica,  poiché  allora  significherebbe  «  gronda 
attraverso  il  cuore,  fuori  dal  cuore  il  tormento  dei  rimorsi  ». 

Mirabile  e  adatto  consenziente  col  concetto  fondamentale 
della  tragedia  greca  è  tutta  Tesposizione,  con  cui  il  Weck- 
lein  dimostra  la  differejiza  che  passa  fra  il  parodo  ed  il 
primo  stasimo  dell'Agamennone,  e  dopo  un  accurato  esame 
giunge  a  questa  conclusione:  il  parodo  obbiettivamente  ci  dà 
il  motivo  delfavanzarsi  del  coro,  manifestandoci  ridesta  la 
speranza  di  vittoria  e  coi  porre  in  sodo  questa  speranza 
serve  alPesposizione  del  soggetto;  perciò  vibra  d'un  concento 
gioioso  rispondente  all'aspetto  esteriore  della  cosa  e  solo  me- 
diatamente nelle  parole  di  Calcante  fa  sentire  una  nota  dis- 
corde; invece  il  primo  stasimo  ci  offre  una  comprensione 
più  profonda  della  cosa,  discopre  dietro  alla  bella  apparenza 
un  interiore  malsano,  perciò  muta  la  lieta  speranza  in  fo- 
schi presentimenti,  la  serena  disposizione  d'animo  in  una 
ressa  di  timori. 

Per  non  eccedere  i  limiti  proposti,  e  pur  ripetendo  che 
tutti  gli  appunti  critici  del  Wecklein  meriterebbero  d'essere 
discussi,  terminerò  coll'esempio  d'un'altra  mutazione  fatta  da 
lui,  la  quale  non  sembra  migliorare  considerevolmente  la 
lezione. 

Rispetto  alle  parole  del  coro  v.  799  e  segg.:  aù  he  juoi  tót€ 
inèv  axéXXujv  arpaiiàv  —  '€\6vri<?  ^vek',  oùk  èrriKeucru},  —  Kapi' 
à7TO^ou(Juu5  ^aQa  feTpctjiHévoi;  —  oùb'  eu  TTpaTribu.»v  oTaKC  véfiujv, 
—  Gpdaog  éKOuffiov  —  àvbpócrt  BvricTKOuai  ko^iCuuv,  fautore 
accenna  alle  più  importanti  spiegazioni  che  si  diedero 
di  quell'ultima  espressione  6pdao<;  éKOucriov  ecc.^  e  dice 
che  quella  dell'Hermann  «  vehens  (ad  Troiani)  spon- 
taneam  audaciam  mori  volentibus  viris  »  è  distrutta  dall'os- 


—  378  — 

servare  che  «  OvriCKOum  »  significa  «  che  muoiono,  che  vanno 
morendo  »,  oppure  «  morivano  ecc.  »,  il  cambiamento  del- 
TAhrens  di  éKoOoiov  in  un  ìk  Guo'iujv  serve  bensì  a  schivare 
una  difficoltà,  ma  richiede  una  serie  di  commenti,  che  pro- 
babilmente sarebbero  stati  necessari  anche  ai  Greci  per  ca- 
pire il  significato  di  quella  locuzione:;  lo  Schneidewin,  os- 
serva i'autore,  si  è  messo  sulla  buona  via ,  interpretando  : 
«  quando  tu  intraprendesti  la  spedizione  Troiana,  facevi  a 
me  Teffetto  d'uno  che  ispiri  coraggio  ad  un  moribondo  »•,  ri- 
mane tuttavia  réKoucriov  ad  imbarazzare,  perciò  Fautore  lo 
muta  senza  esitare  in  èiéawv  «  vano  »  e  spiega  :  «  tu  mi 
parevi  uno  che  arrecasse  vane  consolazioni  a  un  moribondo  », 
cioè  «  le  tue  promesse  di  vittoria  e  di  bottino,  allora  mi 
facevano  suiratiimo  queireffetto  che  possono  fare  sull'animo 
d'un  moribondo  i  conforti  degli  amici  »  ;  la  spiegazione  è 
plausibile,  ammesso  questo  cambiamento  di  éKOucriov  inèiu»- 
Gìov  ;  ma  quando  si  può  ottenere  un  senso  ugualmente  plau- 
sìbile senza  mutare  alcuna  cosa,  parmi  che  qualsiasi  modi- 
ficazione diventi  per  lo  meno  inutile.  Una  buona  interpre- 
tazione ci  dà  l'Enger  ne'suoi  commenti  all'Agamennone,  né 
so  come  sia  sfuggita  al  Wecklein,  che  non  ne  fa  neppure 
parola.  Dali'Enger  il  ko.uìZwv  è  tradotto  nel  senso  di  «  alens, 
fovens  »  e  l'óvòpàoì  8vr|(JK0uai  diventa  dativo  di  mezzo;  queste 
parole  del  coro  suonerebbero  :  «  allora  (quando  movesti  col- 
l'eserciio),  non  tei  voglio  dissimulare,  mi  pareva  che  tu  non 
fossi  assennato,  alimentando  un'audacia  arbitraria  con  uo 
mini  che  morivano,  cioè  col  morire,  coi  sangue  dei  cittadini 
Argivi  »  -,  così  éKoùaiov  è  spiegato  perfettamente  e  costituiva 
la  colpa  di  Agamennone  agli  occhi  del  coro,  inquantochè 
per  un'offesa  di  famiglia,  per  una  donna  adultera  si  espo- 
nevano le  vite  di  tanti  guerrieri  greci.  Una  conferma  della 
bontà  di  questa  interpretazione  l'abbiamo  nelle  parole 
ironiche  del  medesimo  brano,  l"6\évnc  eveKa,  e  in  queste 


—  379  ~ 
altre,  v.  1458:  noXéo  xXdvxo*;  YuvaiKò?  biai  —  id»  ìiju,  rrapavou? 
'€Véva  —  |i*ia  ràq  TtoXXà?,  là^  Tràvu  rroXXàq  —  ^}^%à(;  ò\éaa(f 
\>m  Tpoiqi.  E  invero  il  Qpdao?  éKouaiov,  l'audacia,  la  baldanza 
arbitraria  è  la  fonte  di  tutti  i  mali  deireroe  e,  se  per  un 
istante  sembra  ai  coro  che  questa  baldanza  sia  stata  coro- 
nata da  prospero  successo,  non  tarderà  ad  accorgersi  che 
anche  la  morte  di  Agamennone  dipende  da  essa  ed  a  quello 
sconfortante  TtoXéa  TXàvTo<;  YuvaiKÒ?  tiai,  soggiungerà  afflitto 
irpò*;  Y^vaiKÒi;  ò'  àT!:fcq)8tffev  piov.  E  a  quella  guisa  che  il  coro 
biasimava  altamente  che  Agamennone  avesse  intrapreso  la 
guerra  Troiana  a  cagione  d'una  donna,  disapprovava  TéKcucnov 
©pctcfo^  a  luì  ed  ai  Greci  tutti  così  funesto,  compiangeva  pure 
la  sorte  dei  Troiani  caduti  per  una  cagione  analoga,  per  un 
Paride,  sdegnosamente  paragonato  dal  coro  stesso  ad  un 
lioncello,  che  piccolo  lambe  la  mano  di  chi  lo  alleva,  adulto 
muta  natura  ed  empie  di  strage  la  casa.  Vers.  717-734. 

Per  queste  cagioni  la  interpretazione  delKEnger  che  si 
adatta  al  testo  qual  è,  e  trova  appoggio  nello  svolgimento 
generale  del  pensiero  Eschileo,  mi  parve  preferibile  a  quella 
proposta  dal  Wecklein. 

Conchiudo  augurando  al  nostro  paese  che  presto  gli  studii 
classici  trovino  in  e.sso  numerosi  cultori  valenti  come  il 
Wecklein  e  tali  da  accrescere,  come  ha  fatto  questo  insigne 
erudito  tedesco  co'suoi  «  Studi  su  Eschilo  »  la  somma  delle 
cognizioni  scientifiche  intorno  alTantichità  le  quali  costitui- 
ranno sempre  parte  essenziale  e  gloriosissima  dello  incivi- 
limento moderno. 

Sondrio,  gennaio  1873. 

Claudio  Giacomino. 


-  380  - 

Saggio  della  storpia  della  lingua  e  dei  dialetti  d'Italia  con 
un  introduzione  sopra  l'origine  delle  lingue  neolatine  del 
don.  Napoleone Caix.  Parte  prima,  Parma,  1872,  pp.  lxxii, 
e   160. 

Rivista  difilologiaroman\ay  diretta  da  L.  Manzoni,  E.  Mo- 
naci, E.  SriìNGEL.  Voi.  I,  fase.  I,  Imola,  1872. 

Del  lavoro  del  Caìx  non  abbiamo  finora  di  pubblicato  se 
non  una  prima  parte,  nella  quale,  dopo  l'introduzione  (vn- 
Lxxxn),  in  cui  principalmente   si  parla  delle  varie  opinioni 
circa  l'origine  delle  lingue  romanze  e  dei  vari  metodi  appli- 
cati alle  linguistiche  investigazioni    e   fannosi  alcune  consi- 
derazioni circa  le  attinenze  deirelemento  germanico   col  la- 
tino, seguono  cinque   capitoli  di  cui   formano  Targomento: 
I.  Le  lingue  neolatine  e  i  dialetti  italiani;  classiJica\ione  ge- 
nerale dei  dialetti  italiani;  II.  I  dialetti  moderni  e  il  latino 
volgare;  Ili.  La  dialettologia  comparata-^  IV.  I  dialetti  to- 
scani e  la  lingua  letteraria;  etimologie  popolari  ;  assimila- 
lione;  alterazioni  fonetiche  ;  formazione  delle  parole;  V.  // 
toscano  e  gli  altri  dialetti   d'Italia.   Questi  capitoli  sono 
come  la  parte   preliminare  dell'opera.  In  appresso  l'autore 
prenderà  ad  «  esaminare  le  relazioni  che  correvano  tra  la- 
tino classico  e  latino  volgare,  le  differenze  che  presentano  il 
latino  volgare  nei  vari  luoghi,  le  cause  che  lo  modificarono, 
le  leggi  secondo  le  quali  si  andò  trasformando   fino  a  dare 
origine  alle  lingue  viventi  e  finalmente  l'influenza,  che  nelle 
sue  trasformazioni    ebbero  gli  antichi   idiomi  delle  popola- 
zioni italiche  »  (p.  lxxu). 

Dal  saggio  che  abbiamo  sott'occhio  appare  come  l'autore 
sia  addimesticato  colle  principali  opere  che  a  giorni  nostri 
presero  a  trattare  metodicamente  cosi  delle  origini  delle  lingue 
neolatine,  come  della  storia  del  latino  e  del  romano  volgare. 
Non  dubitiamo  pertanto  che  quest'opera  non  sia  per  con- 
tribuire notevolmente  all'illustrazione  della  lingua  e  dei  dia- 
letti italiani  ;  il  che  argomentiamo  dal  saggio  che  se  ne  porge 
in  questo  primo  fascicolo,  là  dove  principalmente  egli  si  fa 
od  a  proporre  etimologie  od  a   raffrontar  forme  e   deriva- 


~  381  - 
zioni  di  vocaboli  che  apparentemente  distinti  mostrano  tut- 
tavia, a  chi  ben  vegga,  una  comunanza  d'origine  non  prima 
avvertita.  Non  vogliamo  però  tacere  come  qua  e  là  l'autore, 
al  parer  nostro,  lasci  desiderare  più  rigorosità  di  metodo  e 
maturità  di  criterio  linguistico;  quindi  è  che  mentre  da  un 
lato  riconosciamo  non  di  rado  la  maggiore  o  minor  verisi- 
miglianza  dei  suoi  riscontri  etimologici,  come  per  es.  in  <3^'i7?i- 
rtotto  da  hoc  aniio  (p.  lxvui),  in  gottolcignola  da  gutturanea 
(p.  60),  in  gan:{a  daganea  (ivi),  in  scianto^  respiro,  da  caV?^- 
litus  (p.  61),  nelberg.  sgarle,  trampoli,  da  grallae^  neiremil. 
libia  o  lilbiay  frana,  dall'equivalente  eluvies,  nel  lomb.  lava  o 
lóva,  pannocchia  di  sorgo  e  gran  turco,  dal  lat.  loba  (i),  nel- 
Temil.  bt^ombol ^  tralcio,  dalFequiv.  rumpus  (p.  G3),  nel 
romanesco  Jiara,  fiamma,  da.  JIagra{re)  (p.  65)  (2),  nell'aret. 


(1)  Questa  parola  s'incontra  principalmente  in  dialetti  lombardi  e 
pedemontani;  non  è  quindi  improbabile  che  loba  usata  da  Plinio  co- 
masco {H.  N.  19,  18,  §  3)  per  pannocchia  del  sorgo  [milium  indicum), 
e  da  taluni  avuta  per  falsa  lezione,  sia  voce  gallica  o,  comunque, 
essenzialmente  propria  dell'Italia  superiore,  quindi  vivente  ancora 
oggidì  ne' nostri  dialetti,  principalmente  in  senso  d'i  pannocchia  del 
gran  turco. 

(2)  Questa  vocq  fiar a,  in  senso  Ai  fiamma.,  propria  del  romanesco,  mi 
pare  assai  notevole,  in  quanto  fa  presupporre  per  l'antico  volgare  ro- 
mano un  tema  novaìmÌQ flagra-  fflag-ra-;  cf  per  es.fib-ra.  lib-ra,  scut- 
roy  ecc.),  donde  sarebbe  derivato  flagrare,  come  dall'atRne  flamma 
{r=flag-ma)  flammare,  e  perciò  renderebbe  men  verisimile  la  conget- 
tura del  Sonne  CZeitschr.f.  vergi.  Spr.,  X,  99),  che  flagrare  sia  una 
forma  sincopata  di  flagerare  procedente  (com,"  per  es.  generare  da 
genus)  da  un  ipotetico y7a^M5,  morfologicamente  analogo  cogli  etimolo- 
gicamente identici  sanscr.  bhargas,  splendor  raggiante,  gr,  *q)XeYo<;.  No- 
terò ancora  come  questo  vocabolo  abbia  pur  riscontro  in  volgari  dell'I- 
talia superiore,  come  p.  e.  nel  canavesano,  dove  per  alcune  varietà  dialet- 
tiche ^ì^ra  (da  *fiairaj  significa  appunto  flamma  e  risponderebbe  ad  un 
lat.  nome  flagra,  come  in  questo  stesso  dialetto  la  forma  \erha\e  fièra 
[q  fieirc,  fiairaj,  puzza,  riflette  un  organico  /Ta^'^ra/  per  fragrai  dal  lat. 

fragrare  (odorare)  che,  come  è  noto,  viene  largamente  rappresentato  nel 
sardo  e  ne'  dialetti  dell'Europa  Occidentale  principalmente  in  senso  di 
pu:^^are,  e,  fuori  del  sardo,  accenna  sempre  ad  un  organico  _/7a^rart', 
nato  per  dissimilazione  da  fragrare;  mentre  l'originariamente  latino 
flagrare.,  ait deve,  accendersi,  essere  acceso,  più  non  trova  probabilmente 


~  382  - 

baregno,  lavatoio,  da  balineum^  donde  balneum^  nel  lucch. 
sollingoro,  scilinguagnolo,  da  'sublingulus  (p.  104),  d'altra 
parte  teniartio  per  assai  problematiche  e,  in  certi  casi, 
diremmo  ricisamente  false  ^  talune  delle  etimologie  recate 
dai  Gaix,  secondo  crediamo  sia  per  chiarirsi  dalle  osserva- 
zioni che  ad  alcune  facciamo  qui  appresso. 

Non  credo  ammissibile  per  niun  modo  F  origine  che  a 
pag.  LxiXj  in  nota ,  vorrebbe  dare  all'  italiano  ventdvolo  , 
vento  di  tramontana,  che,  non  solo  il  Diez,  ma  già  gli 
antichi  nostri  scrittori  considerano  come  equivalente  a 
vento  aquilo,  ventaqtiilo  {ventus  aquild'){\%  e  il  Gaix  vor- 
rebbe identificare  col  port.  e  sp.  vendavdl.  Vendami  non 
può  significare  altro  che  vento  d'avalle  {ventus  de  ad-val- 
lem),  cioè  vento  che  viene  da  basso,  dalF ingiù,  secondo 
che  significò  largamente  presso  i  popoli  neolatini  il  co- 
strutto a  valle  (ad  vallem),  come  1^7  monte  [ad  montem)  venne 
a  significare  l'opposto,  cioè  in  alto,  ad  alto,  all' insù;  e 
questa  designazione  si  trova  pure  tra  i  francesi  che  hanno 
così  le  vent  d'amont  (vento  di  levante),  perchè  la  Francia 
ad  oriente  è  più  alta,  come  le  veni  d'aval  (vento  di  ponente), 
perchè  più  bassa  ad  occidente,  mentre  Io  sp.  e  port.  vendaval, 
probabilmente  tolto  ai  Francesi  (van-d-aval),  vale  vento  tra 
mezzodì  e  ponente,  già  dagli  Italiani  chiamato  garbino  o 
libeccio.  Or^a  egli  è  chiaro  che  un  nome  italiano  rispondente 
al  port.  e  sp.  vendaval  sarebbe  ventavalle,  e  non  ventavolo^ 
alterazione  inesplicabile  dal  lato  fonologico;  mentre  venta- 
voloy  confrontato  con  ventaquilo ,  come  proprio  di  dialetto 
italiano  e  segnatamente  toscano,  non  presenta,  procedendo 
da  vent-aquilo,  alcuna  alterazione  che  non  siavene  l'analogo 


altra  connessione  etimologica' popolare  che  nella  detta  sporadica  forma 
nominale  del  romanesco  e  del  piemontese  e  anche  per  avventura  nel 
sardo  mer.  flaria  C^fl^gr'mJ,  fior  di  cenere. 

(i)  Il  Diez  CEt.  W.  IF,  78)  contrappone  dubitativamente  a  ventavolo 
il  lat.  venius  aquilus.  Mi  pare  che  non  aocada  ricorrere  all'ipotetica 
forma  di  aquilus  per  aquilo,  ben  potendo  iì  nome  italiano  stare  al 
nominativo  aquila,  come  per  es.  ladro  a  latro  fcf.  p.  99  di  questo 
giornale), 


—  383  — 

nell'ambito  de' volgari  italiani;  sicché  quanto  alla  vicenda 
della  gutturale  qu-  rappresentata  in  ultimo  da  r^  abbiamo 
per  es,  Liven:{a  =  Liquentia,  piem.  ava^  èva  (=  ant.  aigua 
da  aqua)  come  pure  avannotto  rr:  aguannotto.  aquannotto 
{uguannotto,  cL  uguanno  rrr  uquanno  da  hoc  anno);  e  circa 
Vi  reso  da  o,  il  fenomeno  viene  qui  ad  essere  assai  regolare 
dinanzi  a  nuvola  =  nubila,  temolo  ("per  temilo  thyminus), 
semola  =  simila,  -evole  —  -abilis  (per  es.  lodevole  =  laiida- 
bilis)  Qcz.-^  e  allo  stesso  agola  ■=^  aquila,  di  alcuni  dia- 
letti, come  per  es,  del  trentino  che  ha  comune  col  fior. 
il  postonico  ol  =^  //. 

Se  non  è  ammissibile  la  correzione  che  il  Caix  vorrebbe 
fare  a  ventavolo  come  procedente  da  vent-aquilo,  ben  credo 
debba  accettarsi  l'etimologia  che  nella  stessa  nota  egli  dà  di 
:^oticOy  facendolo  venire  da  idioticus.  Se  non  che  per  giu- 
gnere  a  questa  etimologia  non  occorre  ricorrere  al  porto- 
ghese :{ote  da  idiota^  ma  ci  basta  il  sapere:  che  idioticus, 
come  sinonimo  à'' idiota  e  per  conseguenza  equivalente  a 
gotico,  veniva  già  usato  nei  primi  secoli  dell'era  volgare*,  che 
l'aferesì  dell'/  la  troviamo  anche  nei  diota  dell'antico  fioren- 
tino presso  il  Pucci  {Centiloquió)\  che  \  =  dj  è  nel  volgare 
romanzo  antico  e  comune,  onde  per  es.  già  nei  primi  secoli 
A^abenico  =  Adiabenico,  Zabulius  =  Diabolius ,  Zodorus 
=  Diodorus ,  Zonysius  =  Dionisius,  :{abolus  =  diabolus, 
^aconus  =  diaconus^  ecc.  e  nei  dialetti  odierni,  onde  per  es. 
ven.  :{ago  =  diaconus,  ^orno  z=  diiirnum  ecc.  {Ci.  Corssen, 
Ausspr.  I«,  216).  Lo  stesso  suono  debole  dello  \,  mentre  da 
un  lato  corrobora  questa  derivazione,  fa  contro  non  solo 
alla  derivazione  di  lotico  dal  rabbinico  schoteh,  come  con- 
getturava il  Diez  nella  i*  ediz.  del  suo  Voc.  et,.,  p.  878, 
ma  anche  contro  quella  di  exoticus,  forestiero,  che  nella  3" 
(II,  83)  egli  mette  innanzi  come  primamente  trovata  dal 
Menagio.  Sicché  l'origine  di  gotico  da  idioticus,  idiotay  h(\ 
molto  più  verisimiglianza ,  che  non  abbia  per  avventura  il 
portoghese  \ote .,  il  cui  ;;;■,  potendo  anche  procedere  da  ^  o 
e,  non  torrebbe  punto  di  verisimiglianza  all'origine  semitica 
attribuita  a  questa  voce  dal  Diez. 

A  pag.  17,  il  Caix  trae  il  nap.  vaca,  it.  voga.,  da  voce.  Si 


-  384  — 

può  ben  dubitare  di  questa  etimologia.  È  più  verisimile 
quella  che  deriva  questa  voce  dalFant.  alto  ted.  ivogon  {■•va- 
gon)^  muoversi,  onde  in  ivago  wesan  —■  ètra  en  vogue,  es- 
ser in  voga  (Cf.  DiEZ,  El.  W.  !■*,  447).  Il  suono  aperto 
delTo  di  voga  già  basterebbe  per  accennare  ad  altra  origine 
che  da  voce.  Essere  in  voga  pertanto,  piuttosto  che  essere  in 
voce,  significa  etimologicamente  essere  in  moto,  in  corso,  in 
ina.  Voga  e  vogare  nel  linguaggio  marinaresco  non  hanno 
altro  significato.  Quanto  al  e  per  g  del  nap.  voca  confron- 
tinsi  per  es.  tacola  per  tegola,  astrolaco  per  astrologo, 
arecato  per  origano ,  doca  per  doga  ecc. ,  dello  stesso 
dialetto. 

A  pag.  21,  deriva  il  fr.  ce  da  eccistum  [ecce  istiim).  Ce 
viene  da  ecce  hoc,  donde  pure  l^it.  ciò\  da  eccistum  si  derivò 
Tant.  fr.  icist,  e  l'odierno  cet,  come  da  eccu-istum  venne 
questo. 

Alla  stessa  pag.,  ad  esempio  del  plurale  milanese,  che 
confonde  i  due  generi,  mal  scelgonsi  ad  esempio  i  donn,  e  / 
tosami,  giacché  qui  nella  pronunzia  della  doppia  n  si  sente 
il  femminile-,  mentre  pel  ma-^^chile  direbbcsi  don,  tosan^ 
come  direbbesi  per  es.  roman,  ballarin  pel  maschile,  e  ro- 
ìnann,  ball  arimi  pel  femminile. 

A  pag.  58  pocciola,  specie  di  fungo,  viene  dal  Caix 
etimologicamente  connessa  col  lomb.  spongiceula  o  spons- 
giceura  e  derivata  dal  lat.  spongiolus.  Lasciando  da  parte  le 
difficoltà  fonologiche  che  basterebbero  a  rendere  assai  proble- 
matica tale  etimologia,  osserverò  primieramente  come  pocciola 
sia  vocabolo  aretino  e  come  gli  Aretini  abbiano  insieme  coi 
Sanesi  e  altri  la  parola  poccia,  derivante  da  '  pupi  a  per 
pupa^  con  significato  di  poppa,  manimeUa,  sicché,  pocciola 
non  può  essere  che  una  forma  diminutiva  di  poccia.,  pro- 
priamente significante  mammellina.  Il  popolo  è  assai  pro- 
penso a  denominare  dalle  parti  del  corpo,  con  cui  abbiano 
analogia  di  figura,  come  vari  esseri  del  regno  minerale  e 
animale,  così  anche  prodotti  vegetali-,  e  qui  col  nome  di 
pocciola,  mammellina,  è  venuto  a  dinotare  una  specie  di 
fungo,  o  più  propriamente  una  varietà  di  quella  specie  di 
funghi,  che  dicono  vescia  di  lupo,  ma  più  lunghetta,  sicché 


—  385  — 

veramente  venga  ad  avere  nella  forma  qualcosa  d'analogo 
a  una  poppellina.  Così  altre  sorta  di  funghi  furono  ancora 
chiamati,  per  la  loro  forma  accennante  le  parti  del  corpo, 
col  nome  quali  di  lingua,  quali  d'orecchie,  orecchione^  quali 
di  manine  o  ditola  o  ditellini,  ecc.  e  diedesi  anche  il  nome 
di  pappina  ad  una  specie  di  pera  e  alT  occhio  delle  patate. 

Alla  stessa  pag.  fa  venire  fedelini  (rom.,  ven.,  lomb.  ecc.), 
vermicelli  di  pasta,  da  un  lat.  Jìdulct ,  fides. ,  cordce  cy- 
tharce.  Io  non  dubito  di  dir  falsa  questa  generalmente  se- 
guita etimologia  ed  affermare  che  fìdéi,  fìdelim\  voci  essen- 
zialmente ed  originariamente  proprie  dei  dialetti  dell'  Italia 
superiore,  etimologicamente  non  suonano  altrimenti  che 
fdelli^  filellini,  forme  diminutive  dì  filo  (i). 

A  pag.  62  si  legge;  «  ven.  dcgladiar,  contendere,  lomb. 
g-hià ,  pungolo,  da.  g-laditis  e  digladiari  •».  Dcgladiar  r.on 
può  essere  dell'  odierno  veneziano.  Contro  la  volgarità  di 
questo  verbo  starebbe  il  nesso  gì.,  che  i-l  veneziano  già  da 
secoli  rigetta  insieme  colla  gran  maggioranza  de' dialetti  ita- 
liani. D'altra  parte  esso  non  è  registrato  né  dal  Boerio,  né 
dal  Mutinelli,  né  dal  Patriarchi  \  sicché  non  potrebbe  am- 
mettersi se  non  come  latinismo  o  arcaismo  proprio  di  qual- 
che antico  documento  veneto.  Quanto  ai  lomb.  ghia,  pun- 
golo ,  noto  che  questa  voce  non  viene  già ,  come  crede  il 
Caix,  da  gladius  (che  quanto  alla  sillaba  iniziale  avrebbe 
dato  a  ogni  modo  gici-)^  ma  bensì  da  acideatiim  (fornito 
d'aculeo),  che  darebbe  regolarmente  agujà^  ma  per  aferesi 
e  contrazione,  ghia  (2).  Da  questa   forma  participiale   prò- 


(i)  Mi  contento  solo  di  accennare  questa  etimologia,  in  quanto  ne 
parlo  distesamente,  in  alcune  mie  postille  etimologiche,  cne  sarnimo 
pubblicate  nel  20  volume  àQ.\ì' Archivio  glottologico  italiano  diretto  da 
G.  I.  Ascoli. 

{^)  Come  da  */i/;o  vennero  *  fijo,  fio  (Corssen  Ausspr,  ecc  ,  P,  143), 
co^  da  agujà=  aculiato  dovette  primamente  procedere  agìiijà  ,  indi 
per  aferesi  e  contrazione  ghia.  Circa  questa  specie  di  contrazione  > 
essenzialmente  propria  dei  dialetti  dell'Italia  si:periore,  wdasi  la  mia 
dissertazione:  Di  alcune  forvic  de'  nomi  locali  deli  Italia  superiore, 
pp.  9  e  segg. 


—  386  — 

cedono  inoltre  gli  equivalenti  ven.  agugià ,  mod.  gujh, 
regg.  aghièe,  piem.  tifa  (i),  e  con  forma  diminutiva  parm. 
ghiadell^  mod,  gujadell^  mant.  gojadell  faculiatello),  e  i 
femminili  trent.  gujada ,  friul.  gujade ,  parm.  ghiada 
(aculeata);  mentre  dall' apellativo  aculeus  viene  senza  più  il 
bresc,  goi^  che  erroneamente  il  Caix  in  questa  stessa  pa> 
gina  deriva  con  guiceul  {=:^aculeolus)  dal  lat.  agolum ;  e 
con  forma  d'accrescitivo  vengono  il  tose,  aguglione,  il  piem. 
iijon  {acuitone,  aculeone  coi  diminutivi  ujet ,  ujot  (=  acu- 
lietto,  aculiotto),  e  il  mant.  gojceul  (=:  aculeolus).  Volendo 
poi  trovar  voci  procedenti  da  gladius  in  volgari  neolatini, 
l'autore  avrebbe  dovuto  riferirsi  al  toscano  ghiado,  agghia- 
dat^e,  nap.  Jajo,  agghiajare,  piem.^^m/,  sgiaj\  ^vaw.glay, 
esglaf ,  desglayar  ecc. 

Alla  stessa  pagina  fa  venire  luganega,  salsiccia,  dal  lat. 
longano,  intestino  retto.  Il  ven.  e  lomb.  luganega  non  può 


(i)  Nelle  forme  piemontesi  ujon,  ujett,  ujoit ,  la  vocale  ii-  rappre- 
senta un  risultato  fonetico  =  acu-  ,  come  in  u~ja  ,  u-gia  =  acit-cla 
[acucula],  n-ss  =s^* acu-tius ,  aguzzo,  Mont-ù  n,  1.  (=  Mont-acù-tus). 
Bisogna  perciò  guardarsi  dal  confondere,  come  suol  farsi  generalmenie, 
in  una  stessa  etimologia  le  citate  voci  piemontesi ,  significanti  agu- 
gìione ,  pungolo,  colle  dinotanti  ago,  aghetto  ,  agone,  agugliata, 
come  a  dire  uja,  ujetta,  ujàn,  ujà,  le  quali  insieme  colle  altre  equi- 
valenti varietà  dialettiche  del  piemontese,  quali  agucia,  agucin,  agu- 
cion,  gucia,  gucin,  guciort,  gucià,  ugia,  ugin,  ugiott,  ugià,  procedono 
tutte  da  uno  stesso  prototipo  acucla  ,  acucula,  diminutivo  di  acus. 
Questa  identificazione  etimologica  contradetta  dalla  fonologia,  in  quanto 
solo  -  ja  =  Ija  (per  esempio  solo  ujà  (pungolo)  =aculeato  da  aculeo, 

•  jà  =  /  ujà 

ma  -  cid=^  >  da  (per  es.  gucià  (agugliata)  =  acuclata  da  acucla  ,  a- 

-  gi^=  I  ^g^à 

cucula  ,  si  spiega  assai  facilmente,  stantechè  sotto  l'aspetto  logico  i 
derivati  da  acus  e  aculeus,  procedenti  entrambi  da  una  stessa  radice, 
vengono  naturalmente  a  confondersi  nella  loro  nozione  fondamentale 
di  acume,  acuceìf^a.  Errano  pertanto  i  vocabolaristi  piemontesi  Sant'Al- 
bino e  Pasquale  che  in  ujon  non  sanno  vedere  altro  che  un  accrescitivo 
di  uja  (=  acacia),  tanto  pei  senso  di  agone  (grosso  ago  ),  come  per 
quello  di  aguglione  (pungolo),  il  quale  ultimo  vocabolo  toscano  viene 
ancor  esso ,  in  quanto  vale  grande  ago,  da  aguglia  (»«  acucla),  in 
quanto  pungiglione,  da  aculeo,  aculeone,  aculione. 


cssere  che  un  risultato  regolare  dal  lat.  lucanica,  già  usato 
in  senso  di  salsiccia  dai  Romani;  né  saprei  perchè  s'abbia 
da  rigettare  l'etimologia  che  di  questo  vocabolo  ci  dà  Var- 
rone,  il  quale  dice  che  quella  sorta  di  salsiccia  era  cosi  chia- 
mata perchè  i  soldati  romani  avevano  imparato  a  farla  dai 
popoli  della  Lucania. 

Ivi  pure,  deduce  II  «  lomb .  bagola,  zacchera,  dal  lat. 
popolare  blatea  (bulla  litti^  Festo)  ».  Il  lomb.  bagola  signi- 
fica principalmente  sterco  di  pecora ,  né  può  essere  altro 
che  un  riflesso  del  lat.  bacciila  (bacula)  diminutivo  di  bacca, 
coccola,  che  già  Palladio  adopera  nel  senso  traslato  di  ca- 
cherello di  capra,  per  la  somiglianza  che  esso  ha  colla  coc- 
cola degli  alberi  bacchiferi.  Bagola  da  blatea  sarebbe  fo- 
nologicamente incomprensibile;  perocché  il  risultato  regolare 
così  italiano  come  lombardo  dovrebbe  essere  *  bia^a,  e  pel 
diminutivo,  'bianuola,  '  bia^ola  ,  ''bia^oeula,  * bia'{'{oeura 
(=  *  bla  t  eoi  a). 

A  pag.  63,  sulle,  tracce  del  Pasqualino,  fa  venire  il  sic. 
abbijari,  cacciare,  dal  lai.  abigere.  io  credo  che  molto  più 
verisimilmente  venga  da  avviare,  mettere  in  via,  quindi  cac- 
ciare, il  nap.  ha  appunto  abbiare  per  avviare,  e  gli  antichi 
toscani  chiamavano  il  malfattore  malabbiato  (male  avviato), 
che  ii  vocabolario  goffamente  dichiara  per  che  abbia  in  se 
del  male,  quasi  volendo  accennare  che  malabbiato  si  fondi 
su  abbia,  forma  del  verbo  avere  (i). 

A  pag.  85,  fa  venire  il  lomb.  eroda,  cadere,  detto  prin- 
cipalmente delle  frutta  spiccantisi  dai  rami,  da  *corrutare 
e  il  toscano  crollare  da  "corr ululare,  entrambi  procedenti  da 
corrutus^  participio  di  corruere.  Certamente  sotto  l'aspetto 
logico  questa   etimologia   non   sarebbe   punto  inverosimile; 


(i)  Il  fenomeno  bb=vvèassai  frequente  così  nel  siciliano  come  nel 
napolitano ,  quindi  per  es.  sic.  abbampari  (avvampare),  abbértiri  Cad- 
verierej,  avvertire,  abbivar: ,  avvivare  ,  nap.  abbampare ,  abbecenare , 
avvicinare,  ecc.  Il  tose,  malabbiato  è  dovuto  a  una  specie  di  crasi  ,  per 
cui  da  -avviato  ne  venne  -avviato,  indi  -abbialo,  come  per  es.  da  alle- 
viare aìtebbiare ,  p.-opr.  alleggiare,  alleggerire,  e  fig.  mond;ire,  che  i 
vocabolari  dichiarano,  non  so  come,  per  contaminare  (!). 


—  388  — 

che  la  nozione  del  cadere  ben  potrebbe  essere  resa  da  un 
frequentativo  di  corruerc  che  sarebbe  'corrutare ,  come  di 
ruere'ruiare^  del  quale  ultimo  verbo,  esistito  verosimilmente 
un  tempo  nel  romano  volgare,  si  ha  un  derivato  nel  nome 
ì'utabuluin ,  strumento  di  ferro  per  iscuotere ,  far  cadere , 
che  starebbe  a  'ridare,  come,  per  es.  vectabuliim  a  vectarc, 
e  che  si  conserva  per  avventura  nelTit.  riavolo,  ven.  reda- 
bio  ,  bresc.  e  crem.  redabel ,  mil.  roabbi ,  tee.  Ma  questa 
etimologia  di  corrutare  è  più  speciosa  che  vera  -,  perocché 
contro  di  essa  fanno  ricisamente  le  leggi  fonologiche,  le 
quali  per  contro  appoggiano  unanimemente  Tetimologia  che 
fa  venire  questi  verbi  eroda,  crollare  da  'corrotare,  ' cor- 
rai ulare  {da.  rota).  Le  ragioni  fonetiche  chMo  dico,  ci 
sarebbero  somministrate  principalmente  dalle  forme  del 
verbo  nato  da  'crotare  (sincopato  da  'corrotare;  cf.  cruna 
=  corona),  in  quanto ,  semprechè  1'  o  di  'crotare  viene  ad 
essere  accentato,  esso  presenta  ne' vari  dialetti  quelle  mede- 
sime alterazioni  che  si  notano  nelTo  del  nome  rota.  Quindi 
è  che  presso  tutti  i  dialetti  i  quali  hanno  questo  verbo,  ajla 
3*  pers.  sing.  ind.  pres.,  la  cui  forma  organica  sarebbe  "cro- 
tat,  ci  si  presenta  una  perfetta  corrispondenza  di  suono  fra 
la  prima  vocale  di  esso  verbo  e  To  del  nome  riflettente  il 
latino  ròta,  onde  per  es.  mli.  eroda  e  roda.  piac.  e  parm. 
creuda  e  renda,  var.  piem.  croua  e  rouc^,  crova  e  rova, 
gen.  creua  e  reua,  engadd.  crouda  e  rouda^  bresc.  cruda 
e  ruda,  ecc.  Ora  se  qaesio  verbo  venisse,  secondo  che  vor- 
rebbe il  Caix,  da  un  organico  'crutarc  {'corrutare),  mal  si 
saprebbe  dire  il  perchè  il  suo  u,  quando  è  accentato  (che 
vuol  dire,  quando  verrebbe  ad  essere  governato  da  leggi 
fonologiche  più  determinatamente  regolari) ,  presenti  una- 
dialettica  varietà  di  suoni  che ,  m.entre  per  Vu  sarebbero 
anomale  riflessioni ,  vengono  appunto  ad  esser  normali , 
come  rappresentanti  un  Ó.  Queste  ragioni  fonologiche  sono 
anche  in  crollare ,  il  cui  o ,  quando  è  accentato ,  come  in 
crollo,  crolla,  suona  aperto,  come  di  regola  chiederebbe  un 
o  originario  e  tonico,  quale  avrebbesi  in  'crollo,  'crollai 
(  corrotulo,  'corrotulat)  e  non  chiuso,  quale  avrebbe  dovuto 
essere  se  fosse  proceduto  da  *crutlo,  "cruilat.  Qui  adunque 


la  fonologia  viene,  come  ognun  vede,  a  rivendicare  i  diritti 
dell'etimologia  che  per  crollare  ha  dato  il  Diez,  e  che  qua- 
dra eziandio  per  crodar  e  per  tutte  quelle  altre  forme  dia- 
lettiche che  hanno  una  comune  origine  da  "crotare,  "cor- 
rotare. 

A  pag.  io5,  a  proposito  di  etimologie  popolari,  dice  che  il 
popolo  non  intendendo  anatomia^  lo  convertì  in  notomia^ 
come  se  fosse  derivato  da  noto.  E  più  probabile  che  questa 
forma  debbasi  meramente  ripetere  da  fenomeni  fonetici,  cioè 
dall'aferesideira,  qui  assai  naturale,  e  da  mutamento  del  se- 
condo ^  in  o  sotto  razione  assimilativa  dell'o  seguente. 

A  pag.  1 06  fa  venire  fiata  da  vicata,  e  via  per  volta  da 
vice.  Io  credo  che  così  via  per  volta,  come  ^uv  fiata,  deb- 
bano tenersi  etimologicamente  connessi  col  lat.  ed  it.  via. 
1  modi  avverbiali  dell'antico  tedesco  alle  vege ,  dell'inglese 
alìvays  {ali  ìvays)  hanno  nella  seconda  voce  un  equivalente 
deirit.  W^,  che  abbiamo  nel  significato  di  volta  in  tuttavia-, 
e  tanto  vege  come  ivay  in  quelle  lingue  valgono  via,  cam- 
mino. In  alcuni  dialetti  italiani  la  nozione  di  volta  viene 
anche  espressa  dalla  parola  viaggio  -,  e  così  in  toscano  questo 
viaggio  può  equivalere  a  questa  volta-,  in  qualche  varietà  di 
dialetto  napolitano  viaggio  suona  pure  per  volta,  onde  per 
es.  nel  romaico  delle  province  meridionali  dio  viaggi  vale  due 
volte  ;  i  contadini  lombardi  dicono  per  sto  viagg  in  cambio 
àìper  sta  volta-,  e  in  alcuni  luoghi  del  Piemonte  un  viagg, 
st' viagg,  n'aut  viagg  vogliono  anche  dire  una  volta  ,  un 
tempo,  questa  volta,  U7i'altra  volta.  Essendo  adunque  in- 
dubitato che  la  nozione  di  volta  viene  espressa  da  voce  equi- 
valente od  etimologicamente  connessa  col  lat.  e  it.  via,  da 
questa  trarremo  pure  senza  esitanza  V'ix.via  ^  fia  per  volta  e 
il  derivatone ^<:7/iZ  =  'viata  (i).  Aggiungasi  che  per  l'antico 
toscano,  dove  già  s'incontrano  queste  voci,  male  si  potrebbe 


(i)  Morfologicamente  viata  (donde yia?d)  sta  a  via  ,  come  giornata  a 
giorno,  mesata  a  mese,  serata  a  sera,  annata  ad  anno  ,  ecc.,  dove  le 
forme  in  -ata  vengono  ad  esprimere  meno  determinatamente  lo  spazio 
di  tempo  dinotato  dal  nome  primitivo.  Quanto  a  v  mutato  in  /,  cf.  per 
es.  ver./alagro  ^=  veratrum,  it.  veladro,  ecc. 

Hivista  di  filologia  ecc.,  I.  yj 


-  390-~ 

sotto  Taspetto  fonologico  ammettere  !a  trasformazione  di  j^fce* 
m  ria  e  di  'vicata  in  '  viata  ^  fiata  ^  non  essendovi  quasi 
esempio  di  e,  che  si  dilegui,  come  qui  si  farebbe.  Noterò 
pure  come  il  trovarsi  ii  latino  vices  vivo  nella  sua  popolare 
e  regolare  forma  di  vece  (cf„  in  pece,  ecc.)  accresca  le  inve- 
rosimiglianze della  sua  trasformazione  in  via.  Anche  vicata 
si  trova  usato  popolarmente,  sotto  questa  medesima  forma^ 
nelFant.  pisano  (v.  Stat.  P?.s.  I.  681,  705  ecc.),  ^Tìemre  la 
gutturale  si  sarebbe  indebolita,  ma  non  perduta  neirant.  sp., 
port»e  prov.  vegada^  e  nell'aferetico  gada^  geda^  jada  ecc., 
delle  genti  ladine  (cf.  Ascoli,  Arch.  Gì.  It.,  ind.  less.  s.  v. 
vicata).  Il  vie  per  via,  così  in  senso  di  molto  quale  per  es. 
iaviedentro,  viemeglio,  vieppiù  ecc.  come  in  quello  di  rolta^ 
per  es.  in  :{ero  vie  lero .,  che  potrebbe  per  quel  suo  e  far 
credere  all'origine  da  vices^  e  nel  primo  senso  da  un  av- 
verbio latino  vive,  secondo  che  congettura  il  Diez  (Et.  W. 
IV,  80),  non  può  verisimìlmente  venire  esso  pure,  se  non 
da  pia»  e  debbe  ripetere  e  sostituito  ad  a  da  un  principio 
di  assimilazione  esercitata  dall'/  precedente,  come  per  es.  in 
Dietisalvi,  Dielvoglia,  per  mie  /è,  mieffh  (mìa  fé),  Bietricey 
ecc.  e  nelle  forme  verbali  avieno,  fie,  fieno,  sie^  sieno, 
die,  dienOytcc.  per  aviano,  fia,  fiano  ecc. 

A  pag.  1 1 2  vede  in  forbici  una  fonna  nata  per  metatesi 
adi  forceps.  Non  havvi  ragione  alcuna  per  distaccare  il  vo- 
cabolo forbici  dall'equivalente  latino  forfex  e  tirarlo  ad 
altra  voce  significante  tanaglia.  Forbici  sta  per  /orfici  ed 
ha  mutato  il  secondo  /  in  b,  come  in  p  nel  san.  forvici , 
per  mero  effetto  di  dissimilazione,  non  conosciuto  né  dal 
n&p.  fuorfece,  né  dal  sic.  fórficia,  ne  dal  sardo  (log.) /or- 
fighe,  né  dal  ven.  forfè  ecc.  né  dal  dìm.  forfecchia  -~.for- 
ficla,  forficula.  Come  in  forbici  da  forfices  di  due  /  la 
dissimilazione  ne  mutò  une  in  b,  così,  per  converso,  di  due 
b  ne  cambiò  uno  in  f  in  bufolo,  bufalo  da  bubalus,  e  in 
bifolco  da  bubulcus. 

A  pag.  122  e  123  attribuisce  ad  un  principio  d'assimila- 
zione esercitato  da  vicina  labiale  ii  passaggio  dell'o  protonico 
in  M,  disconoscendo  per  tal  guisa  una  legge  importan- 
tissima e  cardinale  nella  storia  del  vocalismo  de'volgari  ita- 


—  391  — 

Uani,  voglio  dire  il  principio  d'alleggerimento  che  ha  luogo 
nella  vocale  forte  protonica  (e,  o),  per  cui  e  si  attenua  in  / 
ed  o  in  u,  E  perciò  l'w  ài  fucile,  mulino^  ufficio,  puchino, 
furestiero,  ecc.  nato  da  o,  che  il  Gaix  reca  ad  influenza 
assimilativa  di  vicina  labiale,  debbesì  piuttosto  tener  come 
originato  per  quello  stesso  principio  d'alleggerimento,  per  cui 
da  un  0  originario  ne  venne  verbigrazia  Vu  di  giucare,  scu- 
riada,  ì^ugiada^  ucckiello,  uccidere,  ulivo,  Giuseppe  ^cc,  nei 
quali  vocaboli  non  v'ha  punto  una  vicina  labiale  che  deter- 
mini la  nascita  d'w.  L'azione  assimilativa  di  labiale  per  pros- 
sima vocale  non  vuole  pertanto  essere  riconosciuta  se  non 
colà  dove  la  mutazione  così  determinata  contraflfà  ad  altra 
legge  piìj  generale,  come  per  es.  in  romanere,  domani,  do- 
ventare,  rovesciare  ("reversiare),  rovistare  (revisitare),  ecc., 
nei  quali  casi  tutti  Vi  per  l'o  verrebbe  ad  essere,  ed  è  vera- 
mente in  alcuni,  una  rappresentanza  più  normale  dell' e 
primitivo. 

A  pag.  i36,  1 39  e  143  connette  etimologicamente  con 
prudore,  prudere,  provenienti  dal  lat.  prurire,  le  voci 
specialmente  aretine  e  lucchesi  rodere,  rodore  e  rosa  in 
senso  ài  pi\-{icare  e  pii^icore.  Sotto  il  lato  meramente 
fonologico  già  farebbero  difficoltà  e  la  perdita  del  p  ini- 
ziale e  il  passaggio  dell'w  lungo  di  prudere,  prudore  (cf. 
lat.  prurire),  così  nella  sillaba  accentata  come  nella  disac- 
centata, fenomeni  al  tutto  irregolari  per  l'ambiente  in  cui  si 
incontrano  questi  vocaboli.  Ma  contro  questa  etimologia  di 
rodere,  pizzicare,  staccato  da  roderle,  rosicare,  sta  sotto  l'a- 
spetto logico  il  fatto  che  il  significato  del  lat.  prurire,  pru- 
ritus,  prurigo,  oltrecchè  da^li  etimologicamente  connessi 
prudere,  prudore,  viene  reso  ne'vari  dialetti  neolatini  con 
altri  vticaboli  inchiudenti  una  nozione  originariamente  analoga 
a  quella  di  rodere.";,  ed  è  quella  di  mangiare,  a  cui  rodere  sta, 
quasi  direi,  come  la  specie  al  genere.  Quindi  è  che  al  lat, 
prurire,  pruritus  rispondono  logicamente  gli  spagnuoli 
corner  (comedere),  comeson  (comesionem),  fr.  démanger, 
démangeaison,  piem.  smange,  smangison,  gen.  smangia, 
smangiason,  sic.  manciari ,  manciaciumi.  Il  sardo  esprime 
ancor  esso  il  prurito  con  parola  importante  la   nozione  del 


—  392  — 

mangiare,  onde  log.  mandighin'{u  (da  mandigare^  mangiare), 
merid.  pappingiii  (da  pappai^  mangiare),  sett.  magnatone. 
Nel  greco  òo<xh^(5\xòc,^  prurito,  abbiamo  la  rad.  baK  di  bdKvuj, 
mordo  (cf.  Curtius,  Gì\  d.  Griech.  Et.  I,  297),  sicché  pro- 
priamente suoni  morsicatura ;t.  il  vocabolario  della  lingua  ita- 
liana definisce  pi^icorey  come  sinonimo  di  prurito.,  per  w/or- 
dicamento  ecc.  Dunque  le  nozioni  di  ma?igiare,  mordere  e 
rodere  sarebbero  parse  alla  intuitiva  linguistica  popolare  le 
meglio  acconce  ad  esprimere  in  modo  etimologicamente  sen- 
sibile la  nozione  del  latino  jprwn re,  che  alla  sua  volta  in- 
chiude per  avventura  il  senso  traslato  di  bruciare^  non  essendo 
improbabile  che  prurire  venga,  mediante  un  fenomeno  assai 
noto  nella  storia  del  latino  (r  =  5),  da  prusire,  connesso  colla 
radice  ariana  prus-  (sanscr.  prush-,  urere,  ardere),  donde 
verrebbe  anche  prùna  (da  "prusna) ,  carbone  (cf.  Corssen, 
Ausspr.  IP,  1004)-,  nozione  espressa  anche  dal  ven.  brusar, 
per  picegar,  o  pi^^ar  o  spigar ^  prudere.  E  cosi  rodere  e 
rodare  sopraddetti  non  verranno  già  da  prudere,  prudore, 
ma  si  figuratamente  da  rodere  (rosicare),  al  qual  verbo  si  con- 
nette ancora  rosa.,  che,  pronunciato  con  0  chiuso  (i),  vale 
presso  i  Lucchesi  e  altri  popoli  di  Toscana  lo  stesso  che 
prurito,  e  sta  al  verbo  rodere  come  i  sost.  spesa,  resa, 
scesa  ecc.  a  spendere,  rendere,  scendere. 

A  pag.  109  considera  tartufo  come  forma  nata  per  rad- 
doppiamento da  tuber,  rigettando  cosi  Tetimologia  mena- 
giana  di  terrae-tuber  (Cf.  per  es.  la  forma  dialettica  di 
tarmoto  ==:  terrae  motus),  assai  verisimile  anche  pel  Diez, 
alla  cui  citazione  del  sic.  tirituffulu  {^=  tere-t-,  terrae- 1-)  ag- 
giungo, come  pur  notevole,  il  verisimilmente  sanese  tara- 
tufolo  del  Franciosini  {Voc.  esp.  e  it.,  s.  criadillas). 

A  pag.  88  leggasi  in  nota  :  «  spiego  cece  e  pepe  comt  nati 
da  cecere  e  pepere  per  indebolimento  della  vocale  a  cui  suc- 


(i)  Chiuso,  in  quanto  si  origina  da  5  lungo  {ródere) \  al  qual  pro- 
posito noto  un  errore  incorso  nelle  tre  edizioni  della  grammatica  del 
Diez(I'p.  161),  e  ripetuto  nel  compendio  del  Fornaciari  (p.  9),  cioè 
l'italiano  rodo  recato  fra  gli  esempi  dì  eccezione  all'equazione  uó  =8^ 
come  se  riflettesse  un  lat.  ródo,  non  ródo. 


-  393  - 

cedette  la  caduta  di  r  che  rimaneva  in  fine  dì  parola  ».  I 
fenomeni  fonetici  che  qui  si  suppongono  per  ispiegare  una 
procedenza  di  cece,  pepe  da  cicere,  piperà^  nel  campo  toscano 
non  sono  punto  veri  simili.  D  altra  parte  è  da  avvertire  che 
qui  si  tratta  di  forma  che,  come  in  petto  =^  pectus ,  uopo 
=  opus  ecc.,  viene  da  quella  che,  come  di  neutri,  era  co- 
mune al  nom.  e  alfacc,  e  perciò  da  cicer,  piper,  donde 
cadde  la  r  per  via  di  un'apocope  che  si  può  dire  normale 
neiritaliano,  onde,  p.  e.  frate  =^frater,  prete  -=.  presti  ter, 
moglie  =  mulier ,  sarto  =  sartor^  marmo  -■=  marmor  ^ 
suoro  :=  soror^  {tar)tufo  ■^=.  tuber,  vampo  -.=-  vapor  ecc. 

Non  credo  ammissibile  Fazione  assimilativa  della  prece- 
dente vocale  che  a  pag.  109  e  i  io  il  Gaix  vede  nelle  finali 
di  canapa  per  canape,  sorcio  per  sorce  da  sorice,  esente  per 
esento  {=exemvtus).  Le  vocali  finali  del  nome,  come  forte- 
mente soggette  ai  principii  dinamici  della  flessione,  non  ob- 
bediscono gran  fatto  alle  leggi  fonologiche.  Canape  si  mutò 
in  canapa  perchè  femminile,  come  passò  in  canapo  in  quanto 
è  maschile;  così  so7xe  come  maschile  va  in  sorcio,  quale 
per  es.  salce  in  salcio^  dove  Tassimilazione  non  può  avervi 
che  fare.  Quanto  ad  esente  per  esento  credo  sia  piuttosto 
da  vedervi  'f  influenza  de'participi  in  ente  e  segnatameme  di 
presente  ed  assente,  col  quale  ultimo  venne  anche  talvolta 
a  confondersi  di  significato,  comesi  può  vedere  per  l'esempio 
citato  nel  vocabolario. 

A  pag.  107  considera  come  etimologia  popolare  e  conse- 
guentemente erronea  il  tener  novanta  per  derivato  da  itove 
e  non  da  nonaginta.  Io  non  so  che  cosa  pensi  il  popolo 
circa  l'origine  di  novanta^  ma  ben  credo  che  i  dialetti,  i 
quali  come  il  toscano,  il  siciliano,  il  genovese,  il  roma- 
gnolo ecc.  dicono  novanta,  abbiano  veramente  rifatte  questo 
numero  da  nove  per  ridurlo  cosi  all'analogia  degli  altri  nu- 
meri di  decina  fondantisi  tutti  sul  cardinale  e  non,  come 
anormalmente  il  lat.  nonaginta  insieme  col  gr.  èvevnKovra, 
sull'ordinale.  Di  nonaginta  abbiamo  un  riflesso  materiale 
non  solo  in  nonanta,  proprio  del  provenzale  e  di  vari  dialetti 
itahani,  come  il  nap.,  ven.,  boi.  (nunanta),  parm.  ecc.-,  ma 
eziandio  in  noranta  del  mil.,  piem.,  sardo,  cat.   ecc.,  dovf 


—  394  — 

«  passò  in  r,  come  per  es.  in  fiumara  per ^umana^  sche- 
ranr^ia  per  schinani{ia^  ecc.  Novanta  adunque  viene  propria- 
mente da  nove  ed  è  una  specie  di  correzione  operata  dal- 
l'istinto popolare  sull'anomalo  ìionaginta  latino  per  '»o- 
vaginta. 

A  pag,  141  trae  risi  pel  a  o  riaipola  da  rosi  fella  quasi  a 
significare  pruder  di pelle^  mentre  è  troppo  chiaro  che  viene 
dall'equivalente  greco  erysipelas^  con  aferesi  del  primo  e,  e 
passaggio  del  secondo  in  un  o,  come  per  es.  in  aìigiolo  da 
angelo. 

A  pag.  143  vuole  che  gemere,  gemicare  in  senso  di  stil-^ 
lare,  trapelare  vengano  dal  lat.  humere,  mentre  è  molto  più 
verisimile  che  siano  dal  lat.  gemere^  che  confondendo  poi  il 
suo  significato  con  quello  di  lacrimare^  venne,  come  questo 
verbo,  a  significare  figuratamente  ^occzo/4?'e,  stillare.  Quindi 
è  che  trovasi  detto  dagli  scrittori  cosi  geniojio  come  lagri" 
mano  le  viti.  Da  kiimere  ben  puossi  considerare  come  pro- 
veniente per  es.  il  trent.  umegar  (humicare),  trapelare,  goc- 
ciolare. 

A  pag.  69  deriva  il  sardo ca rei ^.'t,  secchia  e  remitiano  cal- 
^idrela  dal  lat.  calces ,  bottiglia  di  piombo.  Sarebbe  stato 
meglio,  parmi,  citar  per  Temiliano,  non  già  la  forma  deri- 
vala di  cal:{idreln,  ma  la  più  vicina  alla  sua  origine,  cioè 
mod.  calieder  y  boL  cal^eider,  romagn,  cal^edar,  secchia 
di  rame,  che  gli  eruditi  emiliani,  italianizzando  in  calcedro. 
derivano,  non  senza  una  qualche  verisimigiianza,  da  un  vo- 
cabolo greco,  composto  di  xoXkó^,  rame,  e  uòpia,  secchia. 
Quest'etimologia  che  il  Galvani  {GIgss.  Alod.,  p.  221)  sembra 
attribuire  al  Parenti,  era  già  stata  messa  avanti  dal  Mono- 
sini  {Floris  It.  linguae  libri  IX^  p.  3o)  più  di  ben  due  se- 
coli addiente  (1604)  e  citata  poi  (i66c)  nel  Vocabolista  Bo- 
lognese dei  Bumaldi  (O.  Montalbani),  p.  121.  Questo  nome 
s'incontra  pure  in  qualche  altro  dialetto  fuor  degli  emiliani, 
e  il  Voc.  roveret.  e  trent.  dell' Azzolini  ne  registra  il  dimi- 
nutivo in  elio  sotto  le  varie  forme  di  calcidrel^  cai:{idrtl,  ca-- 
cìdrel,  ca\idrel,  cracidrel^  cracidd. 

A  questi  nostri  dubbi  ed  appunti  e.ìcuni  altri  potremmo  an- 
cora aggiungere  che  rimandiamo  a  quando  l'opera  sarà  pubbli- 


-  se- 
cata per  intiero;  e  conchiudiamo  a  ogni  modo  con  dire  che  di 
questo  lavoro  del  signor  Caix  debbono  rallegrarsi  e  sapergli 
grado  quanti  si  occupano  di  cosi  fatti  studi,  come  di  lavoro 
che  gioverà  certamente  non  poco  ad  illustrare  la  storia  della 
lingua  e  dei  dialetti  italiani. 

La  Rivista  di  Filologia  Romania  ha  per  iscopo,  secondo 
già  si  può  presumere  dai  titolo,  di  occuparsi  delie  lingue  e 
letterature  romanze,  sicché  es^a  «i  conterrà,  per  servirmi  delle 
stesse  parole  dei  proemio  (p.  8),  monografie  sugli  idiomi,  sui 
dialetti  e  sulle  letterature  neolatine-,  osservazioni,  appunti  cri- 
tici, materiali  per  nuove  edizioni  e  descrizioni  di  manoscritti; 
una  rassegna  delle  opere  più  importanti  e  dei  giornali  che 
si  occupano  di  fìlologia  romanza-,  e  in  ultimo  un  cenno 
compendioso  di  tutte  quelle  notizie  che  direttamente  o  indi- 
rettamente si  riferiscono  alla  vita  esterna  degli  studii  me- 
desimi ».  La  natura  di  questo  giornale  è  pertanto  analoga 
ai  periodici  che  già  si  pubblicanp  oltremonti,  come  per  es. 
la  Romania,  la  Revue  de  langucs  romainesy  il  Jahrbuch  fur 
Romanische  lilUraiur,  ecc.,  ed  era  assai  naturale  che  an- 
che in  Italia,  paese  essenzialmente  romanzo,  un  giornale 
cosiffatto  si  pubblicasse. 

Del  contenuto  di  questo  primo  fascicolo  è  già  stata  data  no- 
tizia sommaria  sulla  coperta  del  nostro  giornale;  sicché  noi  qui 
ci  limiteremo  ad  alcune  osservazioni,  riguardanti  principal- 
mente questioni  di  grammatica  storica  delle  lingue  neolatine, 
e  più  particolarmente  dairitaliano. 

E  cominciando  perciò  dagli  appunti,  la  più  parte  assai 
giusti,  che  il  Canello  fa  sulla  Grammatica  storica  del  Die^ 
della  lingua  italiana  corretta  e  compendiata  da  quella  del 
Diez  per  opera  del  Fomaciari  (p.  67  e  segg.),  noterò  anzi 
tratto  come  si  possa  ben  dubitare  se  lavoro  sia,  come  vuole 
il  Canello,  novamente  foggiato  dal  verbo  lavorare  e  non 
piuttosto  un  nome  riflettente  il  lat.  laborem^  trasportato,  sotto 
rinfluenza  del  gen.  maschile,  alla  seconda  declinazione,  come 
per  es.  povero  {pauperem\  passero  (passerem),  ecc.  L'equiva- 
lente romanesco  lavare  non  può  non  essere  il  lat.  lahorem\  e 
non  par  verisimile  che  questo  nome,    mantenutosi  presso 


-  396  - 

i  Romani,  siasi  estinto  negli  altri  dialetti  deiPItalia  media  e 
meridionale,  per  derivarsi  novamente  dal  verbo  lavorare^ 
laborare^  già  proveniente  esso  stesso  dal  nome  laboì\ 

Il  Ganello  (  p.  58  )  considera  ancora  come  novamente 
foggiato  dal  verbo  furare  il  nome  furo,  che  il  Diez  tiene 
come  procedente  dal  lat.  fur.  All'opinione  de!  Camello  oste- 
rebbe il  significatQ  di  furo  che,  come  personale  e  presen- 
tante un  nome  d'agente,  verrebbe  a  fare  eccezione  a  cosif- 
fatti nomi  derivati  novamente  da  temi  verbali,  i  quali  espri- 
mono l'azione  o  l'astratto.  Se  furo  signifìcasseywr/o(eilsardo 
ne  ha  appunto  una  derivazione  dal  verbo  nella  forma  femmi- 
nile di  fura^  furto,  rapina),  si  potrebbe  ammettere  la  de- 
duzione del  Ganello.  Adunque  circa  furo  procedente  da 
furerrty  come  per  es.  ghiro  da  glirem,  non  si  potrebbe,  se- 
condo me,  accampare  altro  dubbio  che  questo;  cioè  se  Vk.furo 
non  potesse  per  avventura  procedere  dal  nominativo  di  un 
latino  volgare  furOy  furonis  come  ladr^?  da  latro,  latronis^ 
strambo  da  strabo,  strabonis  ecc.  Il  latino  furunculus  per 
ladroncello,  che  abbiamo  in  Cicerone,  rende  non  invero- 
simile l'esistenza  di  un  antico  furo  [furori-),  a  cui  sta- 
rebbe furunculus  ,  come  per  es.  a  latro  latrunculus,  11 
sardo  (mer.),  che  ha  conservato  la  forma  diminutiva  diy«- 
runculu  coU'apocopatoywrMwcw,  ne  conserverebbe  pur  vivo 
il  primitivo /«rowe  (log.),  furoni  (mer.),  ladro,  che  s'incontra 
d'altra  parte  anche  in  antichi  scrittori  toscani,  sicché ///ro 
e  furone  verrebbero  per  avventura  a  darci  una  doppia  forma 
di  un  romano  vo\g3.vefuro,furonis,  quale  abbiamo  in  ladro, 
ladrone,  falco,  falcone,    ti:{io,  ti:{ione,    ecc.  (i).  1  dialetti 


(i)  A  questa  sorta  di  doppioni ,  o  coppiole,  che  vogliamo  dirli, 
oltre  la  serie  presentata  dai  D'Ovidio  a  p.  58  e  segg.  dell'opera  di 
cui  si  parla  a  p.  89  e  segg.  di  questo  giornale,  e  i  quattro  ivi  da  me 
aggiunti  (V.  p.  99),  il  Tobler,  nell'articolo  da  me  citato  a  p.  268  , 
aggìugne:  podestà ,  podestà  ;  deca,  decade;  curato,  curatore;  da:[io , 
dat^ione;  prefapo  ,  prefapone  ;  vnajesta  ,  maestà,  risurresso,  risurre- 
!(ione;  ingratitudo,  ingratitudine;  imago,  immagine  ^  turbo,  turbine; 
passio,  passione;  sta^:;o,  statone.  Alcune  di  queste  forme,  non  essendo 
volgari,  ma  letterarie,  potrebbero  eliminarsi  come  latinismi  ;  tali  sono 
principalmente  ingratitudo,  imago  (citata  anche  dai  D'Ovidio)  e  turbo; 


—  997  - 
deirEuropa  occidentale  serbano  furone  rei  senso  già  dato  da 
Isidoro  ad  un  lat.  furo,  cioè  quello  dell'it.  furetto  che  sta- 
rebbe allatino/«ro  come  falchetta  a  falco.  Il  nome /«ro 
(furori-)  in  senso  di  ladro  s'incontra  ancora  nella  media 
latinità. 

NelTariicolo  del  Canello  avente  per  titolo  S/on'a  di  alcuni 
participii,  a  pag.  io  leggesi  :  «  Il  lat.  amassent  dovrebbe 
essere  diventato  in  italiano  amasseno  come  si  trova  in  an- 
tico. Ora  noi  diciamo  talvolta  amassono  e  più  spesso  amas- 
sero. Donde  ciò  ?  Gli  è  che  amasseno  aveva  un  fratello  mag- 
giore in  amarono,  che  è  il  lat.  amariint  per  amaverunt  ;  e 
per  un^analogia  facile  a  capirsi,  la  desinenza  d'una  forma  fu 
accomunata  all'altra  «. 

Lasciando  stare  la  questione  della  primogenitura  dei  tempi 
o  dei  modi  o  delle  forme  che  qui  si  voglia  intendere,  e  che 
ci  discosterebbe  troppo  dalFargomento,  noterò  primieramente 


la  quale  ultima  voce  viene  perciò  dal  Buri  chiamata  vocabolo  di  gram- 
matica. Quanto  arisurresso,  forma  corrente  presso  gli  antichi  Toscani, 
che  dicevano  pasqua  di  risurresso  per  distinguere  la  pasqua  propria 
dalla  pasqua  rosata  (pentecoste),  dalla  pasqua  di  natale,  e  da  altre 
feste,  a  cui  davan  pure  il  nome  di  pasqua ,  piuttosto  che  tirar  questa 
voce  da  resurrectio,  che  avrebbe  dovuto  dare  fonologicamente  risur- 
re^io  o  risurre^o,  o  risurreccio,  io  credo  che  la  si  debba  derivare  da 
resurrexi,  primo  vocabolo  dell'introito  della  messa  pasquale.  Quindi  è 
che  presso  gli  antichi  abbiamo  anche,  con  forma  più  prossima  alla  la- 
tina, pasqua  di  resurressi  (Passavanti,  G.  Villani,  ecc.),  e  negli  antichi 
statuti  sardi  di  Sassari  la  pasqua  è  chiamata  sa  festa  de  resurrexi.  Così 
pure,  dalle  due  prime  parole  dell'introito  quasi  modo,  i  Francesi  chia- 
marono dimanche  de  Quasimodo  la  prima  domenica  dopo  pasqua ,  e 
fors'anche  ne  venne  lo  squasimodeo  dei  Fiorentini  E  i  cacciatori  te- 
deschi con  quattro  voci  iniziali  d'introiti  delle  domeniche  della  qua- 
resima [reminiscere,  oculi,  laeta^e^judica)  indicano  quattro  pt:riodi  del 
regresso  che  fan  ie  beccacce  verso  primavera.  Ai  più  al  più  potrebbe 
considerarsi  la  forma  in  o  di  resuresso  e  resurressio  introdottasi  dagli 
scrittori  sotto  l'influenza  del  nom.  resurre ctio  ;  mentre  a  quella  di 
resurressi  sono  verisimilmenie  dovute  l'ortografia  di  resurressione  pei 
resurrepone ,  che  s'incontra  in  qualche  antico ,  e  forse  anche  la  sin- 
golarità del  tema  verbale  di  resurressisse  e  resurressiio  (per  risorgesse. 
risorto),  che  si  leggono  la  prima  in  testi  del  Cavalca  (Atti  degli  Ap.). 
e  la  seconda  nell'Alighieri  [Vita  nova). 


—  sys  — 
come  amarono  e  amassero  presentino  due  forme  troppo  di- 
stinte perchè  possa  dirsi  Tuna  essere  stata  deierminara  dai- 
Taltra.  La  pretesa  inrluenza  di  amarono  terminante  in  no 
avrebbe  dail'un  canto  potuto  contribuire  forse  piìi  alia  con- 
servazione del  finimento  no  dìamasseno  che  non  alla  sua  mu- 
tazione in  ro.  Credo  perciò  che  laverà  scona  delie  varie  forme 
tiessionali  della  3'  pers.  plur.  deil'imperf.  del  soggiuntivo 
sia  da  guardarsi  sotto  un  altro  aspetto.  Amassent  ha  il  suo 
più  normale  rappresentante  ndVamasseno^  proprio  essenziai- 
mente  delfant.  pisano,  lucchese  ecc. ,  e,  salva  la  modifica- 
zione à'e  in  o,,  ntlVamassono^  tacessono^  leggessoìto,  sentis- 
sono  dell'antico  fiorentino,  ciie  prima  del  1 5oo  passarono  poi 
in  amassino ,  t acessino,  hggessino,  senti ssino  ^  forme  an- 
cora oggidì  proprie  non  solo  del  fiorendno,  ma  anche  di 
altri  dialetti  italiani,  come  per  es.  dei  romanesco;  mentre 
d'altro  iato  alcuni  voìgari  cambiando  n  in  r,  fecero^  come 
per  es.  il  sanese,  amassero^  tacessero^  leggessero,  sentissero, 
e  altri,  come  per  es.  Tantico  pratese,  mutando  anche  e  in 
0,  ebbero  amassero,,  tacessoro^  leggessoro ,  sentissoro.  Ora 
è  da  notare  che  i  dialetti  i  quali  ebbero  ne'primi  tempi 
storici  la  forma  del  perfetto  in  arono^  come  per  es.  il 
fiorentino  che  disse  primamente  amarono,  poi  amorono, 
poi  amorno,  poi  finalmente,  come  ancora  oggidì,  amorino  (i), 
sarebbero  appunto  nel  numero  di  quelli  che  non  ebbero  la 
forma  in  -assero .  dal  Canello  attribuita  airinfluenza  di 
amaronOf  mentre  alllocontro  il  sanese  che  non  aveva  il  per- 
fetto in  -aì'onoj  ma  in  -aro,  come  per  es.  amaro,  ebbe  la 
forma  dell'imperf,  sogg.  in  -assero,  onde  amassero  ecc.  Non 
vado  oltre  su  questo  campo,  bastando,  mi  pare,  quest'av- 
vertenza per  dmiostrare  che  la  forma  amassero  per  amas- 
seno  non  è  dovuta  all'influenza  di  amarono,  ma  sì  verisimil- 


(i)  Questa  uscita  in. -onno  per -arono  era  ancora  del  unto  ignota 
al  fiorentino  d'intorno  al  i3oo,  e  lo  fti  poi  sin  verso  il  secolo  XVI. 
Quindi  è  che  Dante,  usando  nella  Divina  Commedia  termìnonno  (  Par. 

xxvjiu  To5)  per  ierrnituirono ,  come  pure  uscinno  {Jnf.,  xiv.  45)  per 
uscirono..,  adopera  foririe  non  già  fìoreiìiint',  raa  pisane,  liprovate  ap- 
punto coinepisani.srnì  nel  trattato:  Da  Vidgari  eloquio  (I,   i3). 


—  sgo- 
mente ad  un  mero  fenomerio  fc«ietìco,  cioè  alla  mutazione 
di  n  in  r,  quale  abbiamo  come  per  es.  in  Ringherò  (Zin- 
gano), tanghero  (tangano),  cecero  {;^  cicinus.  cicnus)  (  i),  Capo 
Passavo  (Pachynus),  ecc.;  mutazione  che,  quando  in  questo 
caso  particolare  si  volesse  considerare  come  subordinata  a 
principio  d'analogia,  sarebl>e  piuttosto  da  recarsi ,  non  g)à 
a  forme  come  amarono-,  ma  sì  a  quella  principalmente  dei 
verbi  di  terza  in  éro^  come  v.  gr.  lessero^  vissero,  fe- 
cero, ecc.  che  sono  appunto  le  proprie  dei  dialetti  aventi 
le  forme  de'.rim.perfetto  sogg.  in  -assero^  -essero,  -mero, 
sicché  per  es.  sanese  lesstiro  e  amassero ,  sic.  intisiru  (  in- 
tesero) e  amasstrii,  tcc^  mentre  il  fiorentino  il  quale,  come  già 
fu  notatOj  nonostante  gli  sia  proprio  un  antico  a.»?iarowo,  disse 
sempre  amassono  od  aniassino ,  ha   poi  nel   perfetto   della 


(i)Da  cicinus,  ma  non  da  cicer,  come  vorrebbe  il  Diez  [Gr.  P,  37; 
Et.  W.  P,  121).  L'epentetico  cicinus  da  cicnus  è  foi-roa  amica  del  vol- 
gare romano  quando  pur  non  si  voglia  ieneriacol  Ritschì  come  propria 
della  lingua  di  Plauto  (v.  Op,  PhiL  II,  477  e  segg.  ;  Corssen,  ,4w5:i-/>r. 
1*.  ■Ì67}.  Dato  come  non  infrequente  il  passaggio  di  n  in  7',  la  fornna 
cecero  da  cicinus  si  rende  assai  ovvia  nei  tiorentino  per  la  l'5gge  essen- 
zialmente propria  dì  tal  dialeiio,  in  oSi  la  vocale  postonica  dinanzi  a 
r  semplice  passa  in  e,  sicché,  verbigra^ia  :  e  =^  a  in  baccherà,  cappero, 
gambero.,  '{ucchero,  Gaspero^  La^^ero  ecc.;  i  ij")  =  e  in  diaspcro  [ja- 
Spidem),  dattero  (dactyliis)  ;  e-  =  0  in  albero  {arborem).  elhero  (elboro, 
elleboro]:,  fenomeno  che  il  fiorentino  estende  anche  alla  vocale  proto-" 
nica  seguita  da  r,  semprecchè  essa  vocale  non  sìa  nella  prima  sillaba 
della  parola,  onde  per  es.  margherita,  Liperata  {Reparata)y  botnberaca 
(per  bombaraca,  gomma  arabica  ),  laberinto  {labyrinthus) ,  porperino 
(ftutogr.  d.  Tesi,  del  Boccaccio) ,  per  porporino ,  ecc.  Anche  la  cosi 
condizionala  vocale  epentetica  è  sempre  e;  quindi  canchero,  aghero, 
magherò,  pighero,  Nó/eri,  sopperire,  raverustico,  ecc.. per  cancro,  agro, 
magro,  pigro  (*),  Nófri  (Onofrio),  soppn're  [supplere],  ravrusiico  (da 
labrusca).  Così  di  questa  legge,  essenzialmente  propria  del  fiorentino 
(e  già  del  latino),  come  della  contraria,  prevalente  nella  massima  parte 
dei  dialetti  italiani,  onde  la  dinomi'a  fonetica:  er  =  ar,  ar  >=  er, 
tratterò  assai  minutamente  ed  ampiamente  in  una  monografia  che  uscirà 
ael  già  citato  ylrc/tjv.  Glott.  It.  dell'Ascoli. 

(*)  L'epcntjo\^^  daìVe  di  canchero,  a^hcro,  magherò  ,pif^hero,  proceduli  da 
cancro,  agro,  magro,  pigro,  e  non  già  dal  n<.:pinativo  cancer  ecc.,  viene  «t- 
teslata  dal  precedeutc  sucmo  guUurflle,  che  altrimenti  sarebbe  palatale,  come 
per  es.  in  acero,  non  achero,  da  accrum. 


—  400  - 

tenia  le  forme  in  -uno,  onde  per  es.  lessorio,  vissono  tee.  e  più 
tardi  lessano,  vissano  ecc.,  sicchc  possa  dirsi  generalmente 
esistere  tra  la  terza  pers.  pi,  del  perf.  ind.  e  quella  deirim- 
perf.  sogg.  un  parallelismo  rappresentato  da  ;-  =::  r  (per  es. 
san.  cadd-ero,  cadess-ero),  n  ^=::  n  (per  es.  fior.  cadd-onOy 
cadess-onó). 

Quanto  a  forme  verbali  che  presentano  ancora  la  muta- 
zione di  n  in  r,  quali  per  es.  sediero  [Purg.  II,  49)  per 
sedietio ,  fiero  per  Jìeno,  essenzialmente  proprio  di  Fra  Gior- 
dano da  Ripalta  e  altre,  noterò  ancora  come  in  vari  codici, 
così  danteschi  come  d'aitre  antiche  scritture,  d'origine  o  fio- 
rentina o,  comunque,  toscana,  s'incontrino  per  es.  le  forme 
volgor  per  volgon,  andavar  per  andavan,  devar  per  devan, 
tornir  per  tornin,  ecc.  donde  apparisce  chiara  una  tendenza 
popolare  ai  la  mutazione  di  n  in  r. 

ivi,  pag.  ló.  Non  ciedo  ohe  il  sost.  compito  venga  dal 
lat.  compiere  e  sia  come  una  forma  participiale  di  compiere. 
E  più  probabile  che  compito  sia  da  computus ,  coìnputare, 
e  così  d' una  medesima  origine  con  conto.  Quanto  a\Vu 
mutato  in  i  confrontisi  con  compitare ,  che  non  può  esser 
altro  che  computare  Quanto  alla  connessione  logica  no- 
terò che  propiiameme  compito  significa  lavoro  assegnato, 
misurato,  calcolato,  computato. 

Ivi,  pag.  12,  il  Canello  deriva  il  prov.  JóJt:^,  giaciglio, 
dalla  forma  jacitum.  Questa  voce  provenzale  risponde  in- 
vece ad  un  organico  tema  nominale  jacio^  jaceo-,  derivato 
da  jacerCj  e  a  taie  forma  di  tema  si  connettono  pure  il  nap. 
jaiio,  sic.  jai^u.  geo.  giassu,  piem.  giass  (i).  Il  vocabo- 
lario italiano  registra  agghiaccio  (giaciglio),  di  forma  e  di 
origine  al  tutto  analoga  ai  precedenti,  salvo  il  prefisso  ad- 
{z=iad'jacio-)  (2).  Queste  forme  di  nomi  adunque  starebbero 


(i)  Nei  Promptuarium  di  Vopisco  (Mondovì,  1564)  dove  sono  regi- 
strate molte  voci  piemontesi  con  forma  italiana,  è  «  Giazzo,  i.  lettiera 
di  paglia  per  li  cavalli,  siramen,  Ovid.  stramentum^  Var.  ». 

(2)  Agghiaccio  per  un  più  normale  aggiaccio ,  come  per  es  ag- 
ghiettìvo  per  aggettivo. 


—  401  — 

al  verbo  jacére,  come  per  es.  contegno^  sostegno  a  conitnere, 
sustinere. 

Ivi,  pag.  17,  allo  spagnuolo  miiebdo ,  antico  participio, 
accennante  ad  un  organico  móvitum,  sarebbe  stato  bene  di 
aggiunger  pure  i  participii  nap.  tnoppeto,  sardo  moffitu  (ant.), 
móvidu  (log.),  móviu  (mer.),  móbidu  (sett.),  forme  tutte  che, 
al  pari  della  spagnuola,  accennano  ad  un  prototipo  movitum. 

Noterò  poi  in  genere  circa  questo  scritto  su  forme  parti- 
cipiali, come  l'autore  avrebbe  talvolta  dovuto  per  avventura 
riferirsi  a  prototipi,  non  già  participiali,  ma  sostantivali  e  di 
ben  altra  origine,  voglio  dire  ai  nomi  formati,  non  già  come 
il  participio  per  via  del  suff.  ariano  ta  (lat.  -to,  -so),  ma  si 
da  un  suffisso  originario  tu  (lat.  -tu,  -su),  come  per  es.  nei  sost. 
vomitus,  fremitus,  geimtus,  rediius,  habitus,  Jructus,  pas- 
sus,  defectus,  Jlitus,  gressus ,  in  una  parola,  per  dirla 
empiricamente,  tutti  quei  nomi  c\iq  terminando  in  latino  il 
lor  radicale  in  tu-{su-)^  vengono  ad  essere  non  della  se- 
conda, ma  della  quarta  declinazione,  alla  quale  forma  viene 
pure  a  connettersi  il  supino,  non  avente  punto  a  che  fare 
col  participio-,  e  allora  a  questa  forma,  piuttostochè  alla  par- 
ticipiale, avrebbe  dovuto  più  risolutamente  connettere,  verbi- 
grazia,  premito^  gèttito,  ansito,  bàttito,  a  cui  aggiungerò 
tremito,  del  quale  il  Canello  non  parla,  ma  che  è  di  forma- 
zione romanza,  od  almeno  non  attestato  dal  latino  degli  an- 
tichi scrittori,  e  che  sta  al  lat.  fremere,  come  fremitus  a 
fremere  In  un  solo  caso  accenna  il  Canello  a  questa  forma, 
citando  (p.  n,  n.  3)  i  sostantivi  motus,  cursus,  cubitus,  che 
egli  però  erroneamente  confonde  coi  sostantivi  participiali, 
che  sono  generalmente  neutri  (p.  e.  dicturn)  e  non  di  rado 
femminili  (p  e.  offensa)  e  appartengono  solo,  come  il  par- 
ticipio, alle  due  prime  declinazioni. 

La  nota  filologica  concernente  un  luogo  della  Vita  Nova 
si  riferisce  a  quel  passo  del  §  2,  dove  è  detto:  ««  A  Ili  miei 
occhi  apparve  prima  la  gloriosa  donna  della  mia  mente,  la 
quale  fu  da  molti  chiamata  Beatrice ,  i  quali  non  sapeano 
che  si  eh  amare  ».  In  queste  ultime  ppTole  che  sono  va- 
riamente mterpretate,  il  Caneilo  crede  di  vedere  sotto  la 
forma  di  chiamare  non  già  quella  di  un  infinito,  ma  si  una 


-  402  — 

sporadica  forma  verbale,  derivata  dal  perfetto  del  soggiun- 
tivo, e  procedente  quindi  foneticamente  da  damarint  [da- 
mavcHnl).  la  appoggio  della  quale  opinione  t;gli  cita  più 
luoghi  della  cronaca  mantovana  di  Aliprandino  Bonamente 
(Muratori  ,  Ant.  It..^  v) ,  in  cui  veramente  s' incontrano 
mohe  fonr.e  rispondenti  a  quelle  deirinfinito,  ma  che  hanno 
manjfestaniente  valore  ben  altro  che  d'infinito,  onde  per  e. 
usarti  per  usava,  pigliare  per  pigliava^  dominare  per  domi- 
nava ,  stare  per  stava,  partire  per  partirono  ,  gire  per 
girono  t  compilare  per  compilasse,  ecc.  Queste  forme  pei 
Ganeiio  rappresentano  tante  alterazioni  del  tipo  del  perf, 
del  soggiuntivo ,  sicché  per  es.  dominare  per  dominava 
verrebbe  da  dorninarit  tee. ,  ragionare  per  ragionavano 
da  rationarint  qcc.  E  perciò  egli  considera  quell'ultima  parte 
del  citato  luogo  della  vita  nuova  come  rispondente  letteral- 
mente a  qui  nesciebant  quid  sic  damarint^  che  poi  finirebbe 
per  dare  un  senso  difficile  a  capirsi,  cioè  i  quali  non  sape- 
vano  che  cosa  così  abbiano  chiamato. 

Ora  a  me  pare  strano  che  il  perfetto  del  sogg.  sia  venuto 
a  dar  questa  unica  forma  in  re,  serviente  pei  due  numeri, 
per  piià  tempi  e  modi,  e  anche  per  più  persone ,  tanto  che 
si  trovi  pure  usata  pel  presente  dell'indicativo,  come  per  es. 
nei  verso,  dal  Ganello  non  avvertito:  A  una  città  che  Man- 
tova se  dire  (UH,  B)  ^  cioè  si  dice,  si  chiama,  lo  credo 
piuttosto  che  sia  qui  il  caso  di  vedere  nell'infinuo  cosi  ado- 
perato una,  com'oggi  direbbero,  forma  di  ripiego,  cioè  una 
commoda  forma  di  applicazione  generale,  secondochè  si 
udiva  già  una  volta  usare  dai  lanzichenecchi  parlanti  ita- 
liano, ovvero  come  si  usava  e  usasi  tuttavia  nella  così  detta 
lingua  franca  de^li  scali  di  Levante. 

Noi  crediamo  pertanto  che  il  chiamare  sopracitato  di 
Dante  sia  una  vera  forma  d'infinito  quale  si  usa  con  valore 
onnipersonale  di  soggiuntivo,  come  per  esempio  non  so 
che  mangiare  (nescio  quid  edam),  non  sapevano  che  si 
fare  (nesciebant  quid  agerent)^  non  so  come  chiamarlo 
(nescio  quomodo  vocem  illum) ,  non  so  dove  andare,  a  chi 
rivolgermi,  non  ho  che  fare  con  lui,  ecc.;  e  interpretando 
perciò   analogicamente  il  controverso  luogo  non  si  può  in 


—  408  — 

quel  chiamare  non  vedere  un  infinito  con  senso  dì  soggiun- 
tivo: i  quali  non  sapeano  che  si  chiair.asscro ,  chiamando 
Beatrice,  cioè  con  quale  e  quanto  nome  chiamassero,  ossia, 
per  servirmi  dell'acconcia  interpretazione  del  prof.  D' Anconstj 
citata  dallo  stesso  Canetio:    •<  ignoravano  quanto  directamente 
appropriassero  alla  fanciulla  questo  nome  significativo ,  che 
!e  davano  senza  pesarne  il  valore  ».  Che  Dante  usasse  por 
mente  al  valore  etimologico  delle  parole  Io  prova  ia  terzina: 
O  padre  suo  veramente  Felice, 
O  madre  sua  veramente  Giovanna, 
Se  interpretata  vai  come  si  dice. 

{Purg.  XII,  79-81). 

E  al  valore  etimologico  di  Beatrice,  nome  proprio,  allu- 
deva anche  il  Petrarca  quando  diceva  nella  canzone  alia 
Beata  Vergine  :  Nelh  tue  sante  piaghe^  Prego  che  appaghe 
il  cor,  vera  Beatrice. 

Notevoli  soprattutto  fra  le  pubblicazioni  di  questo  fascicolo 
ci  paiono  gli  Studi  sopra  i  Can^oniei^i  proven\ali  di  Firenze 
e  di  Roma,  di  cui  lo  Stengel  pubblica  qui  solo  una  prima 
parte,  preceduta  da  considerazioni  riguardanti  principal- 
mente r  importanza  della  letteratura  provenzale ,  e  i  varii 
lavori  fatti  sin  qui  ad  illustrazione  di  essa.  Fra  le  poesie 
che  qui  si  recano  (pp.  32-45),  cavate  dai  codici  fioren- 
tini, hawene  alcune  inedite-,  e  tutte  poi,  quali  più,  quali 
meno,  presentano  pregevoli  varianti,  come  segnatamente  la 
novella  del  pappagallo,  notevole  non  solo  per  varietà  di 
lezioni ,  ma  anche  in  genere  per  carattere  più  semplice 
ed  antico,  donde,  secondo  lo  Stengel,  si  potrebbe  fondata- 
mente argomentare  che  questa  forma  sia  quella  che  più  si 
accosti  air  originale.  I  testi  qui  pubblicati  sono  accompa- 
gnati da  \-arianti  e  confronti  che  danno  a  questo  lavoro  un 
carattere  al  tutto  critico,  e  che  gioveranno  assai  alla  resti- 
tuzione della  lezione  originale. 

Quanto  al  documento  in  dialetto  sardo  dell' anno  Ì173 
che  io  Stengel  qui  pubblica  (p.  53),  credendolo  inedito,  vo- 
gliamo notare  come  esso  già  fosse  dato  fuori  dal  Tronci  negli 
Annali  Pisani,  e  ristampato  dal  Tola  nel  primo  volume,  p. 
243,  del  Codex  dipi.  Sardinice  {Hist.  P.  Mon.),  nel  qual 


-  404  - 

volume  vennero,  come  era  ovvio,  pur  ristampati  non  solo 
i  documenti  sardi ,  pubblicati  dal  Muratori  nelle  Ant. 
Ital.^  voi.  li,  ma  anche  gli  inserti  dal  Manno  nel  i°  voi. 
Chartamm  della  stessa  raccolta  degli  Hist.  Patr.  Mon., 
che  lo  Stengel  mostra  credere  impressi  una  volta  sola.  Dob- 
biamo ad  ogni  modo  essere  grati  allo  Stengel  di  questa  sua 
pubblicazione,  in  quanto  la  lezione  è  di  gran  lunga  più 
corretta  che  non  nelle  stampe  precedenti.  E  poiché  siamo 
in  sul  parlare  di  documenti  sardi .  vogliamo  credere  di 
non  commettere  indiscrezione,  annunziando  agli  amanti  di 
questi  studi ,  come  si  stia  preparando  una  critica  edizione 
di  tutti  questi  indubitatamente  genuini  documenti  di  antico 
volgare  sardesco,  molti  inediti,  i  quali,  mentre  gioveranno 
da  un  lato  lo  studio  storico  dei  dialetti  di  quell'isola,  po- 
tranno forse  anche  aiutare  il  risolvimento  della  quistione 
circa  le  oramai  celebri  carte  d'Arborea. 

Ristringendo  a  questo  tanto  i  nostri  cenni  ed  osserva- 
zioni intorno  al  primo  fascicolo  della  ^vista  di  Filologia 
romanza,  concludiamo  esprimendo  il  desiderio  che  possa 
incoPxtrar  favore  presso  gritaliani  questo  giornale,  il  quale 
prendendo  principalmente  ad  illustrare  il  primo  periodo  delle 
letterature  neolatine  e  segnatamente  deiritaliana,  viene  cosi 
a  compiere  una  gran  lacuna  nel  campo  della  cultura  nazio- 
nale. E  che  intanto  sia  da  bène  augurarsi  circa  l'avvenire 
di  esso,  argomentiamo,  così  dal  complesso  della  presente 
puntata,  come  dall'annunzio  di  alcuni  fra  gli  scritti  che 
usciranno  nei  fascicoli  seguenti,  riguardanti,  tra  l'altre  cose, 
antichi  documenti  di  prose  e  poesie  italiane. 


Torino,  gennaio  1873. 


r LEGHI  A. 


Compiamo  un  caro  dovere  rendendo  grazie  slncerissime  per  le  lodi 
onde  ci  volle  cortesemente  onorati  ,alla  Zeitschrift  filr  gymnasialwesen, 
diretta  a  Berlino  da  quell'uomo  autorevoiissimo  che  è  il  prof.  Bonitz. 


Pietro  Ussello,  gerente  responsabile. 


-  405- 

L'AUTORE  DEL  POEMA 
LAVDES  HE%CULIS. 


I  tesori  letterarii  conservati  nelle  biblioteche  italiane  non 
sono  né  anche  al  giorno  d'oggi  perfettamente  conosciuti  ed 
ancora  sempre  avviene  alPaccurato  indagatore,  cui  è  con- 
cesso di  potere  fare  ricerche  in  quelle  raccolte,  d'imbattersi 
per  un  caso  felice  in  codici  di  cui  s'era  perduta  la  memoria, 
od  anche  in  tali  che  sono  perfettamente  sconosciuti,  e  di  poter 
rispondere  col  loro  aiuto  a  quesiti  filologici,  della  cui  solu- 
zione poc'anzi  si  disperava  per  mancanza  della  tradizione 
manoscritta. 

Un  esempio  di  tal  fatta  ci  offre  il  Codice  Veronese  da 
me  ultimamente  tratto  in  luce,  il  quale,  per  tacere  ora  di 
altre  cose,  è  della  massima  importanza  per  poter  decidere, 
chi  sia  l'autore  del  poema  intitolato:   Laudes  Herculis. 

Questa  poesia,  che  si  trova  stampata  nt[V Antologia  di 
Alessandro  Riese,  sotto  il  N°  88 1,  si  legge  per  lo  piii  nelle 
edizioni  di  Glaudiano  senza  nome  d'autore,  dacché  per  la 
prima  volta  fu  pubblicata  da  Giovanni  Camers  nella  sua 
edizione  di  questo  poeta  (i).  Il  Camers  istesso  lo  aveva  senza 
esitanza  stampato  sotto  il  nome  di  Glaudiano  (2);  ma  sic- 


(i)  Vienna,  i5io. 

(2)  Nell'edizione  di  Camers  leggesi  :  Quae  Joannes  Camers  Ordinis 
Minorum  addidit,  nondum  antehac  impressa  : 

Claudiani  laus  Christi  -  Proles. 
Claudiani  miracuia  Christi  -  Angelus. 
Claudiani  laudes  Herculis  -  Pieridum. 
Claudiani  in  Sirenas.  -  Dulce. 

"Hi vista  di  filolosia  ecc.,  I.  a8 


-  405  - 
come  le  posteriori  generazioni  che  s'occuparono  della  seriore 
epopea  romana  non  trovarono  una  tradizione  manoscritta 
di  questo  carme,  pare  che  avessero  qualche  dubbio  sull'au- 
torità di  Camers.  Già  TEinsio,  che  fece  le  più  minute 
indagini  per  rinvenire  un  codice  di  questo  poema ,  fu  co- 
stretto a  confessare  essere  stata  infruttuosa  tutta  la  sua  dili- 
genza. E  siccome  dopo  Einsio'  non  sono  mai  più  state  fatte 
estese  ricerche  concernenti  i  codici  manoscritti  di  Claudiano 
e  dei  suoi  contemporanei ,  così  questa  poesia  nelle  edizioni 
posteriori  fu  sempre  ripetuta  come  anonima. 

Soltanto  poco  tempo  fa  sono  riuscito,  come  di  sopra  ho 
accennato,  a  ritrovare  un  codice  del  poema  di  cui  discorro, 
aiutato  dalla  squisita  cortesia  di  Monsignore  di  Giuliari, 
prefetto  della  Biblioteca  capitolare  di  Verona.  E  questo  il 
Codex  Veronensis  CLXIIl,  del  secolo  IX,  di  cui  ho  dato 
le  prime  notizie  in  uno  scritto  pubblicato  per  dare  il  ben- 
venuto ai  filologi  tedeschi,  riunitisi  a  congresso  in  Lipsia  nel 
1 872,  col  titolo  (c  De  Claudiani  codice  Veronae  nuper  reperto 
commentatio  critica  »,  pp.  43-54  (i). 

In  questo  codice  ci  è  tramandato  il  nostro  poema  sotto 
il  nome  di  Claudiano  (confr.  l.  e.  p.  47),  dacché  pona  il 
titolo:  Eiusdem  (cioè  Claudiani)  laus  Herculis.  Essendo  in 
tal  modo  dimostrata  la  buona  fede  del  Camers  ed  evidente 
che  solo  per  mancanza  di  tradizione  manoscritta  il  poema 
venne  sempre  pubblicato  come  opera  d'ignoto  scrittore,  non 
esitai  a  nuovamente  attribuire  le  Laudes  Herculis  a  Clau- 
diano (l.  e.  p.  47  e  segg.). 

Contro  questo  mio  procedere  si  è  decisamente  dichiarato 
Emilio  Baehrens  nella  sua  critica  dei  due  miei  lavori  che 
sono  intitolati:  Quaestiones  criticae  ad  emendationem  Clau- 
diani, Numburgi,  1869,  ^  ^^  Claudiani  codice^  ecc.,  critica 


(t)  Confr.  Rivista  di  Jilologia,  I,  p.  33o  e  segg. 


—  ion  - 
inserita  nei  Neue  Jahrbùcher  fur  Philologie  und  Pddago- 
gik^  herausg.  von  Fleckeisen  und  Masius,  1872,  p.  499  e 
segg.  L'opinione  sua,  contraria  alla  mia,  merita  tanto  più 
di  essere  esaminata,  in  quanto  che  è  espressa  da  un  filologo 
che  si  è  già  fatto  conoscere,  per  diversi  suoi  lavori  nei 
giornali  filologici  della  Germania,  come  conoscitore  delia 
latinità  seriore,  e  ci  promette  una  nuova  edizione  dei  Poeti 
latini  minores  e  àoìV Anthologia  latina,  lavori  che  devono 
uscire  dalle  officine  del  Teubner. 

Per  il  Baehrens  non  esiste  adunque  alcun  dubbio*,  se- 
condo lui  Claudiana  non  è  l'autore  delle  Lodi  di  Ercole 
(confr.  1.  e.  p.  504).  Ma  io  non  posso  cosi  senz'altro  am- 
mettere le  ragioni,  che  lo  hanno  condotto  a  tale  conclusione 
che  è  così  recisamente  pronunciata  da  lui. 

Consideriamo  innanzi  tutto  la  tradizione  manoscritta.  Già 
da  quanto  sopra  è  detto  intorno  air  origine  deiranonimità 
del  nostro  poema  risulta ,  che  V  opinione  proviene  da  un 
pregiudizio,  che  a  vero  dire  data  da  secoli^  quello  cioè,  che 
il  Camers  non  sia  buona  autorità  in  ordine  ai  codici  mano- 
scritti da  lui  adoperati.  Questa  ragione  apparente  scompare 
per  la  scoperta  del  Codex  Veronensis,  e  si  dovrebbe  credere 
che  così  la  questione  sia  terminata.  Eppure  il  Baehrens,  colla 
scorta  delle  ricerche  da  me  istituite  intomo  all'istoria  dei 
Codici  di  Claudiano,  tenta  di  combattere  in  favore  dell'antico 
dubbio  sull'autenticità  del  poema.  Ei  mi  rimprovera  (1,  e. 
pag.  5o2  e  segg.)  che  io  non  abbia ,  dopo  aver  dimostrato 
essere  perfettamente  uguale  l'autorità  del  codice  G  (Gyraldi- 
nus)<t  la  cui  copia  è  conservata  a  Firenze,  e  del  codice  O 
(che  è  il  Veronensis)  (1),   anche   discusso   il  quesito,  se  la 


(1)  Devesi  qui  trattare  questo  quesiio,  perchè  le  Laudes  Hercvlis 
formano  uaa  parte  della  tradizione  Ciaudianea  e  perciò  il  giudizio  sulla 
tradizione  di  quelle  essenzialmente  dipende  da  questa.  Il  codice  G  è 
andato  perduto,  ma  risulta  da  quanto  ci  fa  conoscere  Gyraldus,  dagli 


—  408  — 

classe  dei  codici  <t)  G  direttamente  risalga  al  codice  origi- 
nale di  Claudiano,  ovvero  se  per  avventura  non  abbia  una 
fonte  comune,  che  dovrebbe  essere  poi  anch'  essa  subordi- 
nata a  quel  codice  originale.  Quest'ultima  è  T opinione  del 
Baehrens,  argomentando  egli  come  segue:  G  contenei'a  una 
parte  del  poema  «  Aetna  »,  per  lo  più  conosciuto  sotto  il 
nome  di  «  Fragmentum  florentinum  »  (i),  di  cui  non  si 
trova  traccia  nel  codice  0  ;  e  questo  alla  sua  volta  contiene 
le  «  Laudes  Herculis^  De  phoenice  »  ecc.  di  cui  non  v'e  orma 
in  G.  E  ciò  ci  conduce  necessariamente  per  la  classe  O  G  alla 
genealogia  seguente: 

Codice  Originale 

1 

[y] 

/    \ 

G  O. 

Secondo  questa  opinione  il  poema  Aetna  sarebbe  in  G 
aggiunto  indipendentemente  da  un  copista,  ed  in  modo  uguale, 
indipendentemente  in  0  le  Laudes  Herculis. 

Se  vi  fosse  la  menoma  probabilità,  che  la  cosa  stesse  in 


Estratti  fiorentini  nella  biblioteca  nazionale (Magliabecchiana,  Claudiani 
eiitio  princeps,  segnata  A.  4.  36),  e  specialmente  dal  fine  della  copia 
dell'avanzo  di  quel  codice  G  ne!  Cod,  Mediceus,  Plut.  xxxni,  cod.  ix, 
che  questo  codice  G  è  stato  di  gran  lunga  il  migliore  di  tutta  la  tra- 
dizione claudianea.  Confr,  Ritschl,  Acta,  p.  348,  2.  A  questo  codice 
dobbiamo  adunque  qui  ritornare  in  modo  particolare. 

(i)  Anche  questo  frammento  è,  come  si  sa,  il  brano  più  considerabile 
fra  i  codici  del  poema  soprannominato.  Rimane  dubbio,  se  il  Gyraldus 
abbia  mai  trovato  e  copiato  per  intiero  questa  poesia.  Non  ne  danno 
sicurezza  le  sue  parole  nei  Dialogi  de  lat.  poetis  IV,  come  io  altra  volta 
opinava,  negli  .4cfa  di  Ritschl,  p.  354.  Probabilmente  il  Gyraldus  copiò 
quella  parte  soltanto,  che  noi  conosciamo  come  estratto  dal  vecchio 
Ernstius,  estratti  per  la  prima  volta  e  perfettamente  adoperati  da  Mat- 
THiAE  nella  Neiie  Bibliothck  der  freien  Kiìnste  und  Wissenschaftert , 
59»  pag-  3"' 5. 


—  409  — 
questi  termini,  vorrei  concedere,  che  Veiusdem  dei  codice 
veronese  non  abbia  ad  avere  gran  valore  per  decidere  chi 
sia  l'autore  di  quest'ultimo  poema. 

Ma  è  evidente  che  la  cosa  sta  altramente.  Il  codice  G  con- 
serva P  ordine  primitivo  delle  poesie ,  che  conosciamo  me- 
diante il  codice  fiorentino.  Di  ciò  ho  già  fatto  cenno  nel 
Museo  Renano  (1872,  p.  622),  in  appendice  al  mio  scritto 
sui  Codici  del  Ratto  di  Proserpina  di  Claudiana  (confr. 
gli  Ada  societatis  philologae  ed.  F.  Ritschl^  I,  p.  345). 
Se  adunque  il  frammento  dell'  Aetna  si  fosse  trovato  alla 
fine  del  codice  G,  si  potrebbe  per  avventura  parlare  di  ag'r 
giunte,  a  cui  non  conviene  dare  troppo  peso^  ma  siccome 
si  trovava  veramente  nel  bel  mezzo  di  esso,  come  rileviamo 
dal  manoscritto  fiorentino,  in  cui  a  vero  dire  è  ridotto  a  se- 
dici versi,  non  si  può  parlare  d'aggiunta,  ma  il  poema  deve 
avere  fatto  parte  della  serie  originaria  delle  poesie  di  Clau- 
diano,  dacché  sarebbe  veramente  inesplicabile ,  come  tutt'ad 
un  tratto  lo  troviamo  in  mezzo  ad  esse. 

Del  non  rinvenirsi  questo-  poema  negli  altri  numerosi  co- 
dici manoscritti  di  Glaudiano  ho  parlato  già  negli  Ada  di 
Ritschl,  I,  p.  378  e  segg.  spiegandolo,  a  mio  parere,  in  modo 
conveniente. 

Ho  detto  ivi ,  che  il  codice  originale  di  Glaudiano  aveva 
ventinove  linee  pver  pagina,  in  modo  che  la  nostra  poesia 
occupava  tre  pagine,  e  che  perciò  bastava  un  procedimento 
affatto  meccanico  perchè  scomparisse  per  sempre  dai  ma- 
noscritti. Il  calcolo  istituito  da  Baehrens  appare  adunque 
infondato  riguardo  al  codice  G. 

Vediamo  ora  come  stia  la  cosa  per  ciò  che  spetta  al  ms.  d). 

Innanzi  tratto  la  mancanza  del  frammento  dt[VAet?ia  nel 
Codice  0  non  può  nulla  decidere  intorno  alla  provenienza 
di  esso,  perchè  il  frammento  in  discorso  originariamente  si 
trovava  prima  delle  poesie  minori  di  Qaudiano,  che  sole  si 


-  410  — 
rinvengono  negli  avanzi  del  Codex  Veronensis,  ed  inoltre  per 
lo  più  in  ordine  arbitrario.  Non  si  può  assolutamente  dire, 
se  si  trovasse  nel  Codex  Veronensis^  quando  fu  intero,  ov- 
vero nella  fonte  da  cui  deriva,  principalmente  eziandio  perchè 
questo  manoscritto  anche  in  tempi  anteriori  era  già  mutilo, 
come  in  altro  luogo  dimostrerò.  Ma  per  ciò  stesso  non  è 
lecito  argomentare  dall' esistenza  o  non  esistenza  di  questo 
frammento  nel  codice  alcunché  sulla  relazione  di  parentela 
in  cui  questo  si  trova  con  altri  codici. 

Nel  medesimo  tempo  risulta  dalla  ricerca  da  me  fatta  [De 
Cod.  Veron.,  p.  5i  e  segg.),  che  <l>  e  G  formano  insieme  una 
classe  di  codici  in  modo  simile  (i),  come  lo  fanno  anche  il 
K(aticanus)  ed  i4(mbrosianus).  Ma  con  ciò  non  concedo  an- 
cora, che,  come  vuole  il  Baehrens,  per  0  e  G  debbasi  am- 
mettere la  medesima  fonte  comune,  che  dev'  essere  subor- 
dinata al  codice  archetipo^  ma  asserisco  soltanto  il  fatto,  che 
in  questi  due  codici  sono  conservate  le  traccie  d'una  lezione 
più  antica  e  migliore  di  quella,  che  ci  offrono  gli  altri  ma- 
noscritti e  che  per  ciò  stesso  si  distinguono  G  <t>  come  un 
gruppo  particolare  a  confronto  degli  altri  manoscritti. 

La  discussione  da  me  ultimamente  fatta  nel  Museo  Renano 
(1872,  p.  62V)  ha  dimostrato  al  contrario,  e  colla  massima 
sicurezza,  che  fra  G  e  ^archetipo  deve  aver  esistito  ancora 
un  altro  codice,  quasi  anello  di  congiunzione,  il  quale 
spiega  certe  arbitrarie  trasposizioni-,  ma  non  abbiamo  alcun 
motivo  per  dire,  che  anche  il  codice  0  debba  essere  subordi- 
nato a  questa  classe,  perchè  ci  manca  ora  quella  parte  del 
codice,  in  cui  esse  si  trovano,  se  pure  ha  esistito,  come 


(i)  Confr.  pag.  Sa:  dubium  esse  non  potest,  quin  codices  <t)  et  G  5t- 
mili  modo  atque  V  q\A  singularem  classem  constituant,  quae  quidem, 
ut  in  Quaest.  crit.  p.  20  seqq.  demonstrasse  videor,  cum  classe  V  A^d 
eundem  librum  archetypum  revocanda  sit.  (F  =  Vaticanus,  N.  2809, 
saec.  XI;  ^  —  Ambrosianus,  M.  9,  sup.,  saec.  XIII). 


—  411  — 
Opina  il  Baeiìrens,  e  perchè  T  ordine  delle  poesie,  del  che 
ho  già  parlato,  e  poi  specialmente  il  contenuto  talmente 
differiscono  dal  codice  G,  che  questa  supposizione  per  me 
diventa  illusoria.  La  stretta  relazione  fra  G  e  0  nelle  singole 
lezioni  è  evidentemente  dovuta  soltanto  a  ciò  che  ambo  i 
codici,  l'uno  indipendentemente  dalP altro,  sono,  quanto  al 
tempo,  vicini  all'  archetipo.  Il  codice  0  non  è  poi  creazione 
originale,  e  ce  lo  provano  facilmente  gli  errori  che  contiene-, 
da  questi  rileviamo  poi  anche  che  fu  scritto  da  uomo  tutt'altro 
che  erudito,  il  quale  copiò  quello  che  trovava  nel  suo  origi- 
nale, egli  non  è  il  redattore  d'una  raccolta  di  poesie  ed  uomo 
capace  d'inserire  per  avventura  poesie,  come  la  nostra  intorno 
ad  Ercole,  per  un  motivo  ragionevole  qualunque. 

Dunque  di  aggiunte  senza  valore  fatte  alla  serie  tradizionale 
delle  poesie  di  Claudiano  non  si  può  menomamente  parlare, 
anzi,  esaminando  attentamente  i  fatti,  dobbiamo  risoluta- 
mente asserire,  che  nel  codice  <t>  ci  sono  conservate  le  Laudes 
Herculis  che  per  antica  tradizione  sono  unite  colle  poesie  di 
Claudiano,  della  cui  autorità  non  si  deve  dubitare,  perchè 
mancano  negli  altri  manoscritti,  dacché  0  risale  all'archetipo, 
ma  indipendentemente  da  G.  Se  non  volessimo  più  ammet- 
tere deduzioni  di  tal  fatta,  allora  saremmo  costretti  a  negare 
eziandio  che  il  Raptus  Proserpince  sia  opera  di  Claudiano, 
perchè  questa  poesia  appare  anonima  nel  codice  Laurenziano 
(Plut.  XXIV.  sm.,  Cod.  H2J,  codice  finora  non  raffrontato 
e  in  paragone  del  quale  la  grande  quantità  degli  altri  niano- 
scritti  ha  ben  poca  autorità,  perchè  essi  nella  massima  parte 
dipendono  da  lui  (confr.  Ritschi.,  Ada  1,  p.  364  e  segg.). 
Ma  siccome  questa  epopea  è  aggiunta  al  corpo  delle  opere 
di  Claudiano,  così  è  attribuita  senz'altro  a  quest'autore,  seb- 
bene la  tradizione  anche  in  questi  libri  sia  separata.  (Confr. 
RrrscHL,  Acta  l,  p.  ^5i  e  segg.). 

Devo  bensì  ammettere,  che  poco  sicura  è  la  mia  suppo- 


—  412  — 

sizione,  che  nel  carme  che  porta  per  titolo  «  Laudes  Herculis  » 
manchino  dopo  il  verso  91  precisamente  cinque  versi,  e  che 
lo  stesso  può  dirsi  del  mio  tentativo  di  distribuire  su  cinque 
pagine  del  sopracitato  codice  archetipo  con  29  righe  per  pa- 
gina i  187  versi,  ai  quali  iSy  versi  conviene  aggiungere  an- 
cora quei  5  versi  e  circa  altri  tre  per  lo  spazio  che  occupava 
l'epigrafe  (in  tutto  adunque  146  versi),  e  di  spiegare  così 
in  modo  meccanico  perchè  sia  frammentaria  la  tradizione. 
Mi  si  concederà  però,  che  altrettanto  malsicuro  è  il  tentativo 
fatto  ultimamente  dal  Baehreqs  (Jahrbiìcher  f'ùr  Phil.  und 
Pàdag-.  herausg,  von  A.  Fleckeisen  und  Masins ,  1873, 
p.  65)  (i)  di  eliminare  questa  lacuna,  od  ammettere,  che 
sìa  di  soli  due  versi,  parendomi  che  la  mìa  congettura  abbia 
il  vantaggio  d'essere  piìi  naturale  e  sia  più  conforme  ad  altri 
fenomeni  nella  tradizione  di  Glaudiano  (v,  più  sopra^. 

Alle  ragioni  fin  qui  esposte  sì  può  aggiungerne  una  gra- 
vissima, voglio  dire  questa,  che  anche  il  Claverio  nella  sua 
edizione  delle  Lattdes  Herculis  conferma  :  «  hoc  poemation 
e  vet.  M.  S.  multis  locis  emendamus;  sed  in  eolegendoparum 
voluptatis  percepì mus:  non  quod  nimium  displiceat  ;  nihil 
enim  gratius  nobis  contìngat,  quam  ea,  quae  venam.  Clau- 
diani  sapiant.  verum  facile  deprehendimus ,  haec  seni  vel 
aegro  v^l  curis  adflicto  cxcidisse  ».  Da  ciò  rileviamo  che 
quest'editore  possedeva  eziandio  un  manoscritto  del  poema, 
in  cui  si  trovava  conservato  sotto  il  nome  di  Glaudiano.  Non 
c'è  ragione  di  sospettare  qui  del  Claverio,  come  fa  Einsio 
(confr.  la  nota  al  v.  81):  «  quem  ille  vetustum  codicem 
in  Carmine  hoc  castigando  advocat  frequenter,  metuo  ne 
Guiacianas  coniecturas  prò   membranis   nobis   obtrudat  )>, 


fi)  Egli  scrive:  «  Vadis  in  itimensae  scrutatwm  devia  si'vae  In  nova 
sanguineOs  armantem  vulnera  rictus  »,  vedendo  un  appoggio  nel  codice 
veronese,  che  omette  dopo  «  Vadis  »  !'«»  et  »,  che  si  legge  nelle  edizioni. 


-  413  - 
anzi  questo  sospetto  è  affatto  gratuito,  dacché  sappiamo 
dairintroduzione  al  Claudiano  edito  dal  Glaverio  (i)  che 
egli  ha  adoperato  dei  codici  assai  buoni  —  lo  provano  le  va- 
rianti spesso  citate,  — e  che  questo  aveva  ricevuto  dal  Cuiacio, 
L'idea  deli'Einsio  è  nata  senza  dubbio,  perchè  ai  suoi  tempi 
mancava  qualsiasi  codice  del  nostro  poema.  Il  fatto  che  il 
codice  del  Cuiacio  rimanesse  nascosto  alPEinsio  ci  può  ancor 
meno  far  meraviglia  di  quell'altro  ,  che  il  codice  veronese, 
il  quale  allora  si  trovava  probabilmente  ancora  nelle  mani 
degli  eredi  dell'Asolano  (confr.  la  prefazione  di  Gamers  e 
Francesco  Asolano,  Venetiis  i525)  potesse  sfuggire  a  quel 
celebre  erudito,  sapendo  noi  ora,  che  la  memoria  dei  ma- 
noscritti del  Cuiacio  presto  si  era  perduta-,  per  cui  i  timori 
di  Einsio  non  devono  destarei  nostri  sospetti. Le  lezioni  di 
Claverio  ci  dimostrano  chiaramente,  che  il  suo  codice  era 
differente  dal  veronese,  cioè  da  0.  E  ciò  risulta  evidente  dai 
seguenti  passi:  v.  62  habebat  O,  Aldina]  habeto  Claverio; 
v.  112  gravato]  gravidato  ^  v.  118  celer]  volans.  È  vero  che 
in  generale  tali  asserzioni  non  si  possono  fare  con  tutta  as- 
severanza, atteso  il  modo  poco  preciso,  con  cui  allora  si  ci- 
tavano manoscritti,  ma  siccome  nel  caso  nostro  il  lavoro 
attinge  le  sue  emendazioni  ad  un  sol  codice,  si  può  certa- 
mente con  ragione  ammettere,  che  segue  il  suo  codice  quando 
s'allontana  dall'antica  tradizione  data  dairAldina.il  verso  72 
sembra  d'altra  parte  dimostrare,  che  questo  codice  fosse 
parente  del  veronese,  che  m  esso  Claverio  ci  offre,  come  il 
manoscritto  di  Verona  :  w  et  aerios  »  mentre  nell'  Aldina 
leggiamo  ;  «  aetherios  ». 


(0  Cum  praeseriim  apud  Jacobus  Cnjacium  vinitn  omnimodis  illu- 
strem  agenti  duo  Claudiani  exemplana  antiqua  man  a  exarata  se  obiu- 
lerint,  unde  poeta,  quem  in  osculis  habtbat,  convaluerit  iam  piane  aut 
celle  multo  ininus  aeger  sit  praestitus  cet. 


—  414  - 

Ora,  come  sta  il  quesito  relativamente  alla  poesia  «  In  Si- 
renas  ->,  che  il  codice  O  ci  ofifre  ugualmente  sotto  il  nome  di 
Ciaudiano  (confr.  De  cod.  Veronens.  eie,  p.  46)  e  che  nei 
secoli  passati  non  si  potè  rinvenire  in  verun  manoscritto? 

Intorno  a  questo  il  Baehrens  tace  affatto.  Deve  essere  ge- 
nuina questa  poesia,  sebbene  per  la  tradizione  sarebbe  ugual- 
mente condannata,  come  le  Laudes  Herculis,  e  questui- 
time  spurie?  Noi  vediamo  che  per  questa  parte  Tidea  di 
Baehrens  è  in  aperta  contraddizione  con  sé  stessa. 

Deboli  assai  sono  poi  le  ragioni  di  lingua,  che  si  vogliono 
far  valere  per  provare  non  essere  di  Ciaudiano  il  poe- 
metto in  discorso.  L'unica  osservazione  di  valore  sarebbe 
v.  1 1  «postviscera  (::rrpostviscera  matris  relieta)  »,  ma  che 
prova  il  preciso  contrario,  dacché  è  modo  veramente  clau- 
dianeo,  come  chiaramente  lo  prova  Claud.  in  Eutrop.  I,  v.  46: 
a  suscipiunt  {sciL  Eutropium)  matris  post  viscera  poenae  » 
(simile  è  anche  Claud.  Rapt.  Pros.  1,  v,  io5:  «  Te  coii- 
sanguineo  recvpìx  post  fulmina  fessum  Juno  sinu  »;  l'uso  del 
verbo  «  corripere  »,  che  per  caso  non  si  rinviene  in  Ciau- 
diano, non  può  in  verità  nulla  provare  prò  o  contro  l'au- 
tore dei  poemetto,  essendo  parola  comunissima;  la  triplice 
ripetizione  di  esso  (v.  67,  96,  i35)ci  mostrerebbe  in  quella 
vece  che  abbiamo  dinanzi  a  noi  un  lavoro,  cui  l'autore  non 
ha  limato,  tanto  più  che  v.  bj  e  g5  col  «  corripere  »  leg- 
giamo unito  «  grandia  guttura  »,  il  che  evidentemente  ci 
indica  aver  scritto  l'autore  in  fretta  e  non  messa  l'ultima 
mano  al  suo  lavoro ,  nonostante  la  poca  estensione  del  poema, 
che  ora  consta  di  soU  i38  versi. 

Il  risultato  sicuro  della  presente  indagine  è  adunque  il 
seguente:  avendo  finalmente  ritrovata  la  tradizione  mano- 
scritta del  nostro  poema  non  possiamo  negare  che  sìa  frutto 
della  musa  di  Ciaudiano,  se  non  vogliamo  procedere  nel 
modo  più  arbitrario  contro  una  tradizione  ben  antica,  che 


—  415  - 

risale  a  tempi  non  troppo  lontani  da  quelli ,   in  cui   visse 

Claudiano  istesso,  e  trovarci  così  in  contraddizione  con  i 

più  saldi  principii  d'una  aitica  metodica. 

Possa  questa  piccola  ricerca,  oltre  alla  positiva  notizia  che 

offro  ai  lettori  intomo  ad  un  quesito  di  letteratura  romana, 

servire  anche  a  sempre  maggiormente  invogliare  gli  eruditi 

italiani,  che  si  occupano  di  studii  critici  e  dimorano  vicino 

alle  fonti,  di  fare  profonde  indagini  nelle  biblioteche  italiane: 

che  certamente  non  poche  cose   simili  a  quella  di  cui   qui 

ho  discorso  si  troveranno  e  per  avventura  anche  di  tali,  che 

abbiano  maggiore  importanza  e  che  necessariamente,  a  meno 

che  non   lo  favorisca   il  caso,  sfuggono   al   viaggiatore,  il 

quale  solo  poco   tempo  può    fermarsi   in  una   biblioteca, 

mentre  piij  agevolmente  le  scopre  chi  pud  consacrare  molto 

tempo  alle  sue  ricerche.  Se   la  filologia  critica,   che  tutta 

riposa  sui  codici,  troverà  tale  aiuto  nel  senso  più  esteso  e 

perfetto,  allora  è  certo  che  farà  ben  più  rapidi  progressi  di 

quelli  che  finora  potè  fare. 

Lipsia,  febbraio  1873. 

D'^'^  Ludovico  Jeep. 


OSSERVAZIONI  CRITICHE 
mtorno  all'Argomento  acrostico 

^EL  miLES  GLO'I{rOSUS  ^DI  ^PLAUTO. 


Chi  si  faccia  ad  esaminare  con  intendimenti  critici  il  tenore 
e  la  forma  delle  due  specie  d'ArgomcJiti  metrici  che  vanno 
innanzi  alle  comcdie  di  Plauto  (i),  non  può  governarsi  con 


(i)  Questi  Argomenti  sono  tutti  distesi  in  trimetri  giambici,  e  sono 
gli  uni  acrostici j  nei  quali  le  iniziali  di  ogni   verso,  lette  di  seguito, 


—  41«  - 
altre  norme  e  tenere  altro  metodo  che  quello  ch'ei  si  pro- 
pone di  seguitare  neir  investigazione  critica  delle  comedie 
stesse.  Non  già  che  quelle  composizioni,  fatte  per  comodità 
dei  lettori  e  ordinate  allo  scojx)  di  dare  un  succinto  conto 
dell'azione  dramatica  che  si  viene  svolgendo  in  ciascuna  co- 
media,  si  debbano  riguardare  per  opera  di  Plauto,  siccome 
mostra  di  credere  il  Linge  nella  sua  operetta  De  hiatu  in 
versibus  plautinis ,  ma  perchè  l'autore  di  esse,  chi  che 
egli  si  fosse  e  in  qual  tempo  vivesse  (i),  ne  imitò  con  ogni 
diligenza  la  lingua  e  lo  stile,  onde  ci  troviamo  quasi  tutte 
le  medesime  voci  e  ì  modi  di  dire  é  le  regole  del  verseg- 
giare; e  perchè  questi  Argomeoti  corsero  la  medesima  for- 
tuna appunto,  e  furono  conservati  per  mezzo  di  quegli 
stessi  codici  in  cui  pervennero  insino  a  noi  le  comedie  Plau- 
tine. Ond'io  pigliando  a  disconere  dell'Argomento  acrostico 
del  Miles  Gloriosus,  nel  disaminare  che  farò  le  varie  lezioni 
che  o  s' incontrano  negli  antichi  codici,  o  furono  escogitate 


formano  il  titolo  della  comedia  a  cui  si  riferiscono  :  gli  altri  non  acro- 
stici, composii  ciascheduno  di  i5  versi,  se  ne  togli  quello  dell'Anfi- 
trione che  ne  ha  soli  dieci.  Ora  dei  primi  Argomenti,  cioè  degli  acro- 
stici, ce  ne  rimangono  19  —  quello  delle  Bacchidi  andò  perduto  insieme 
col  principio  della  comedia  —,  degli  altri,  5  soltanto  pervennero  in- 
•sino  a  noi,  e  son  quelli  dell'Anfitrione,  dell' Aulularia,  del  Mercante, 
del  Milite  e  del  Pseudulo. 

(i)  Per  assai  tempo  fu  creduto  che  ne  fosse  autore  Prisciano:  ma  il 
Ritschl  giudica,  e  non  a  torto,  che  Prisciano  non  era  capace  di  com- 
porre così  bei  versi  (habuisset  pro/ecto  quod  sibi  congratularetur ,  si 
tam  bonos  trimetros  facete  ullo  modo  posset —  Proleg.  pag.  3 17).  Lo 
stesso  Ritschl  e  altri  con  lui  sono  d'av\'is9  che  questi  Argomenti  siano 
opera  di  qualche  grammatico'  vissuto  nel  secolo  degli  Antonini,  quan- 
tunque degli  acrostici  pensano  che  possano  anche  essere  stati  composti 
al  tempo  del  massimo  fiorire  degli  sludi  grammaticali  in  Roma  , 
poiché  allora,  cioè  nel  settimo  secolo  di  Roma,  uomini  dottissimi, 
come  Licinio  Porcio,  Aurelio  Opilio,  Volcazio  Sedigito,  L.  Azzio,  e 
posero  grande  studio  nelle  comedie  di  Plauto  e  scrissero  in  versi.  Del 
resto  che  già  L  Ennio  fosse  autore  di  acrostici,  ne  fa  testimonianza 
Cicerone,  De  divin.  II,  54,  ni. 


-  417- 
dai  correttori,  non  mi  discosterò  punto  dalle  norme  e  dalle 
consuetudini  della  critica  Plautina.  E  prima  di  tutto  dirò 
che  questa  materia  è  già  stata  trattata  con  molta  finezza  e 
dottrina  da  Federico  Ritschl  in  una  particolare  Dissertazione, 
stampata  la  prima  volta  neir  Indice  delle  lezioni  invernali 
deir  Università  di  Bonn  (i  841- 1842)  e  ora  riprodotta  nel 
secondo  volume  dei  suoi  Opuscoli  filologici  (pagg.  404-422). 
In  questo  scritto  Tiliustre  filologo  viene  raffrontando  la  le- 
zione vulgata  di  questo  Argomento  con  quella  dei  mano- 
scritti, discute  le  correzioni  proposte  dai  critici  e  ci  addita 
egli  stesso  il  modo  di  rassettare  un  buon  numero  di  versi  o 
guasti  o  sospetti. 

Perchè  si  possa  vedere  a  colpo  d' occhio  la  differenza  fra 
il  testo  tradizionale  e  quello  datoci  dal  Ritschl,  io  riporterò 
qui  l'intero  Argomento,  così  come  si  legge  nelle  antiche 
stampe,  sottoponendo  a  quei  versi,  che  furono  ritoccati  dal 
Ritschl,  la  lezione  da  lui  proposta: 

Meretricem  Athenis  Ephesum  miles  avehit. 

Id  hero  dum  amanti  servos  nunciare  volt 

{Id  dum  ero  amanti  servos  nuntiare  voli)  R. 

Legato  peregre,  captust  ipsus  in  mari. 

Et  UH  eidem  militi  dono  daiust. 

[Et  eidem  UH  militi  dono  daiust.)  R. 
5  Suum  arcessit  herum  Athenis  et  forai 

{Siium  arcessit  servos  dominum  Athenis  et  forai)  R. 

Geminis  communem  clam  parietem  in  cedibus, 

{Geminis  communem  scite  parietem  cedibus,)  R. 

Licere  ut  quiret  convenire  amantibus. 

{Liceret  ut  clam  convenire  amantibus.)  R. 

Obhcerentes  cusios  hos  vidit  de  tegulis, 

{Oberrans  cusios  hos  videi  de  ieguHs,)  R. 

Ridiculus  autem^  quasi  sii  alia,  luditur. 

{Ridiculis  auiem,  quasi  sii  alia,  luditur.)  R. 


-  ns  - 
IO  Itemque  impeliti  tnilitem  Palcesirio, 
Omiòsam  faciat  concubinam^  quando  ei 
Senis  vicini  cupiat  uxor  nuhere: 
Ultra  abeat  orai,  donai  multa.  Ipse  in  domo 
Senis  prehensiis  pcenas  prò  mcscho  luti. 
Le  ragioni  che  indussero  il  Ritschl  a  emendare  nel  modo 
che  s'è  visto  alcuni  dei  riferiti  versi,  si  posson  leggere  nella 
mentovata  Dissertazione,  lo  mi  limiterò  a  discorrere  di  quelle 
parti,  nelle  quali  non  mi  sembra  accettevole  la  lezione  pro- 
posta dall'insigne  filologo,  e  mentre  esporrò  i  motivi  che  mi 
fanno  discostare  dai  giudizi  di  lui,  dirò  pure  quale  mi  sembri 
essere  il  miglior  modo  di  racconciare  i  luoghi  in  questione. 
(Questi  sono  il  verso  5",  il  6%  il  j''  e  TS". 

Che  la  lezione  dei  5°  verso,  quale  ci  fu  trasmessa  dai  Co- 
dici e  dalle  antiche  stampe ,  sia  guasta ,  ce  lo  dimostra  senza 
altro  la  ragion  del  metro,  il  quale  è  imperfetto  e  manchevole. 
Ora  il  Ritschl  volendo  supplire  quesra  mancanza,  suppone 
che  nel  manoscritto,  da  cui  furono  cavati  gli  esemplari  che 
ora  abbiamo,  fossero  cadute  alcune  lettere  nel  mezzo  della 
voce  erum  che  vi  si  legge  ora,  e  che  questa  parola  sia  nata 
dal  raccozzamento  di  due  parti  di  distinti  vocaboli  che  in 
origine  dovevano  essere  ser\vos  domiti\um. 

Codesta  supposizione  è  molto  ingegnosa,  ma  poco  proba- 
bile. Perchè  ella  avesse  qualche  fondamento,  bisognerebbe, 
mi  pare,  che  in  alcuno  dei  codici  sopravissuti  si  fosse  con- 
servata almeno  la  lettera  s  avanti  er;  il  fatto  del  leggersi  in 
tutti  erum  o  herum  e  in  nessuno  serum,  ci  consiglia  in  con- 
trario a  mantenere  la  parola  erum  come  intera  e  legittima. 
E  volendo  supplire  quel  che  manca  perchè  il  verso  sia  com- 
pleto, parmi  che  sia  regola  di  sana  critica,  prima  di  fissare 
arbitrariamente  la  sede  della  lacuna  che  si  ravvisa  in  questo 
verso,  il  ricercare  nei  principali  e  migliori  testi,  se  mai  ce 
ne  porgessero  alcun  indizio.  Ora  io  trovo  che  nel  Codice  B, 


-  419  — 
che  è  il  Veius  Codex  di  Camerario,  in  luogo  di  arcessit  si 
legge  ars  eessii,  quindi  eon  un  s  soverchio  e  col  distacco 
della  lettera  s  dal  e,  donde  arguisco  che  Vars  non  appar- 
tenesse in  origine  ad  arcessit,  ma  fosse  abbreviatura  di  ar 
(cioè  ad)  sese,  e  che  romissione  di  ar  innanzi  a  eessii  nel 
detto  Codice,  e  quella  di  <ir  sese  negli  altri  avanti  arcessit, 
sia  avvenuta  per  effetto  della  somiglianza  di  queste  lettere 
fra  loro;  siccome  si  vede  accadere  spesso  nei  Manoscritti 
quello  che  già  fu  avvertito  dai  nostri  Deputati  alla  corre- 
zione del  Decamerone,  che,  quando  due  voci  simili  confi- 
nano insieme,  come  vicin  potenti  si  dien  noia  e  discaccino 
luna  l'altra  (i).  Talché  ia  genuina  forma  di  questo  verso 
verrebbe  ad  essere:  Suum  dr  sese  arcessit  erum  Atkenis  et 
forai. 

Non  credo  che  debba  parer  soverchia  l'aggiunta  di  ad 
sese  ad  arcessit,  poiché  serve  anzi  alla  pienezza  ed  evi- 
denza del  costrutto,  e  in  effetto  cosi  troviamo  aver  detto  in 


(i)  Di  queste  allncinazloni  dei  menanti  troppi  esempi  s'incontrano 
nei  testi  a  penna,  perchè  possa  parer  necessario  il  fame  qui  menzione. 
Tuttavia  mi  sembra  che  non  sia  del  tutto  fuori  di  proposito  il  riferirne 
alcuni,  che  per  la  loro  conformazione  molto  s'avvicinano  a  quello  di 
cui  discorriamo.  Così  \i  verso  171  dei  Captivi,  secondo  la  maggior 
parte  dei  Codici  suona  così  :  Propterea  te  vocari  ad  coenam  volo  ;  lad- 
dove, se  non  la  necessità  di  schivar  l'iato,  almeno  la  chiarezza  e  pie- 
nezza del  cosirutto  consigliali  di  leggere  :  Propterea  te  vocari  ad  me 
ad  cendmvolo,  e  così  fu  in  fatto  rassettato  il  verso  dal  Linderoann 
sulle  traccie  della  scrittura  del  Vetus.  Lo  stesso  dicasi  del  verso  366 
della  stessa  comedia,  dove  in  luogo  di  Ad  te  atque  illutn  dei  Codici , 
il  metro  non  meno  che  la  regola  del  parlare  latino  richiedono  Ad  te 
dtque  ad  illutn ,  e  non  vi  si  potrebbe  neppure  sostituire  Ad  téd  atque 
illum,  ma  è  necessaria  la  ripetizione  della  preposizione,  perchè,  come 
giustamente  osserva  il  Lindcmann,  «  Ad  te  atque  illuni  »  unam  ean- 
demqu€,  non  diversam  ^egionem  significai.  Simile  è  ancora  quell'altro 
luogo  del  Trinummo  al  verso  817:  Lumque  hùc  ad  aduiescintem  niedi- 
tatum probe;  dove  ì'ad  richiesto  non  meno  dal  metro  che  dal  senso, 
viene  omesso  in  tutti  i  codici. 


—  420  — 
più  d'un  luogo  i  migliori  scrittori  e  segnatamente  i  comici. 
Per  non  citare  esempi  che  di  questi  ultimi,  leggiamo  in 
Plauto  MiL.  Gl.  V.  70:  ad  sese  arcessi  iubent ;  Men.  v. 
770:  nec  poi  Jìlia  umquam  patretn  ar cessi t  ad  se;  Stick. 
vv.  266  e  267  :  demiror  quid  illcec  me  ad  se  arcessi  ius- 
serit,  Quce  numquam  iussìi  me  ad  se  arcessi  ante  hunc  diem, 
E  in  Terenzio,  Eun.  v.  5 io:  Jam  tum  quom  primum  iussit 
me  ad  se  arcessier;  Hec.  v.  466  :  heri  Philumenam  ad  se 
arcessi  hic  iussit.  Questa  locuzione  adunque  non  può  in- 
contrare opposizione,  sia  che  venga  considerata  per  se  stessa, 
sia  che  si  riscontri  con  l'uso  degli  altri  scrittori  e  massime 
di  Plauto,  Bensì  mi  sembra  di  dover  prevenire  due  obbie- 
zioni che  si  posson  muovere  contro  la  correzione  da  me  pro- 
posta, una  delle  quali  nasce  dal  trovar  qui  ar  in  luogo  di  ad, 
mentre  la  prima  di  queste  due  forme  non  era  più  in  uso  al 
tempo  in  cui  è  probabile  che  l'Argomento  fosse  composto; 
l'altra  riguarda  il  disaccordo  fra  l'accento  ritmico  del  verso 
e  l'accento  tonico  delia  parola  pel  fatto  dtìVarsi  che  va  a 
colpire  la  sillaba  finale  di  arcessit. 

Intorno  alla  prima  difficoltà,  vuoisi  ricordare  anzitutto  la 
massima  da  noi  espressa  nel  principio,  che  cioè  nel  giudi- 
care della  forma  e  del  contenuto  così  di  questo  come  degli 
altri  Argomenti  metrici  delle  comedie  plautine  non  possiamo 
partirci  da  quei  principii  e  quelle  norme  che  ci  servono  di 
guida  nell'esame  delle  comedie  stesse.  Ora  primieramente 
che  in  antico  si  usasse  ar  in  luogo  di  ad^  lo  attesta  espli- 
citamente Prìsciano  con  queste  parole  :  Antiquissimi  vero 
prò  Sid  frequentissime  ar  ponebant :  «  arpenas^  arventores, 
arvocatos^  arjìnes,  arpolare,  arfari  »  dicenies  prò  «  advenas, 
adventores,  advocaios,  adfines,  advolare^  ad/ari  »  (1, 45  H.) 
Che  poi  ar  per  a^i fosse  ancora  in  uso  ai  tempi  di  Plauto  lo  si  de- 
duce dal  trovarsi  nel  Scnatusconsulto  sopra  i  Baccanali  (a.  568 
di  R.)  arfuisse  per  adfuisse  (G.  1.  L.  I,  196,  zi),  arvorsum 


(C  I.  L.  I,  196,  25)  per  advorsum\  e  nei  libro  di  Catone 
De  re  rustica:  aryehant  (i38,  i)  per  advehant  ;  irvectum 
(i35, 7)  pQV  advectum  (v.  Corssen,  Ueber  Ausspracru  ecc.  I, 
238  segg.).  Né  si  può  dire  che  rimanesse  cotal  forma  estranea 
aìie  conedie  plautine,  mentre  leggiamo  nd  Truc.  II,  2,  17: 
arme  adpenius^  dove  il  B.  ha  arme  advenias^  à  C,  {Codex 
alter  del  Camerario,  Der.uriaìus  del  Pareo)  s  il  D.  {Ursi- 
niamis)  arma  advenias  (la  lezione  armillas  aensas  proposta 
dalJo  Studemund  non  puossi  riguardare  che  come  una  con- 
gettura, giacché  la  scrittura  su  cui  si  fonda,  quella  del  pa- 
linsesto ambrosiano,  è  psJ.rsa  qui  vi  allo  Studemund  stesso  poco 
sicura  (i);v.  il  Truc.  dello  Spengel  —  Gottinga  18G8,  pag,  44). 
Che  se  la.  forma  ar  non  si  incontra  altra  volta  ne'  mano- 
scritti di  Plauto,  non  vuoisi  già  dire   per  questo  ch'ei   non 


(i)  Aggiungasi  che  tale  scrittura  non  è  di  prima  mano  (se  almeno 
ho  bene  inteso  la  noia  A&  dello  Spenge!  nella  sopra  citata  edizione 
del  Truculento) ,  e  che  presenta  altre  difficoltà  gravissime  sia  per  la 
ricostruzione  del  vecsc,  sia  pel  concetto  che  si  vorrebbe  espiimere  , 
giacché  non  so  a  cui  p^^sa  piacere  il  cLepis  tihi  [armillas  acneas)  messo 
innanzi  dallo  Speng.'!,  ci  ?-nzì  jh>a  pare  che  piaccia  troppo  allo  stesso 
Spengel,  secondo  -ii^  £i  può  argxiire  AAlì  iiL>ty  ch^  y»  appunr.  ;  cmcn- 
dationc  non  satis  ^erta.  Mi  prepongo  Ji  esaminare  ciUrove  cv.esio  vcrsOf 
che  è  uno  dei  più  disperda  del  Truculento,  intanto  perchè  altri  non  si 
getti  troppo  facilmente  ijlla  correaione  tornitaci  dall'Ambrosiano  col- 
l'intento  di  spa/.zare  il  testo  ui  Plnuto  d'una  ferrar:  cosi  importuna  , 
mi  pare  di  dover  dimostrare  fin  d'ora  come  si  possa  sulle  tracce  dei 
Codici  Palatini  ricostruire  la  lezione,  cos'i  di  questo  verso  come  dei 
due  ciie  lo  piecedono  nel  rriodo  che  segue  : 

'Adveni  stmc  sis  lentaium  cum  éxornatrs  óssibnsì 
Quia  tibin'  iuaso  ìnfecistì  própudiosa  paìUtlam 
'An  eo  bella  's  quia  depisti  critiff?  Ar  med  ildvenas  ! 
Il  tibin'  è  ael  Botiie,  ed  ò  pure   le!  Bofbe  il  sìs  h'nìatum  ;  quanto  al 
cepisti  crines  cfr,  il  verso   236  deità  Mostellaija:    Alorem  geruìuiuhi 
crnseo  tibi  et  capiundas  crinis  (R.);  e  il  verso  791  e  se^.  del  Milite* 
Jtaque  eum  huc  ornatum  adducas  ut  matronarum  tuodc  Capite  compio 
crinis  vittasque  habeat  ;  vedi  ancora  Intorno   al   significato  del  capere 
crines  l'illustrazione  del  Lorenz  al  verso  sopra  allegato    della  Mostel- 
laria  (ed.  Berlino  ,  pag,  229  e  f^cg.) 

'Rivista  ai  filologia  ecc.,  J.  39 


—  423  — 

Tusassc  più  spesso,  quando  è  provato  per  i  citati  esempi 
che  ella  era  tuttavia  in  uso  non  solamente  nei  documenti 
legali  ma  anche  nella  lingua  popolare;  ma  più  tosto  è  da 
credere  che  dopo  la  morte  del  poeta  ella  s'andasse  via  via 
dileguando  dalle  sue  comedie  per  opera  dei  correttori  e  dei 
copisti  che  vi  sostituivano  la  forma  ad,  se  non  più  recente, 
almeno  più  famighare  a  loro  e  più  nota.  Non  si  vuole 
né  pur  dimenticare  che  i  Codici  Palatini  che  ci  presentano 
la  ricordata  forma  ar,  son  quelli  nei  quali  si  sono  più  fe- 
delmente conservate  le  forme  arcaiche  della  lingua,  meglio 
ancora  che  neir Ambrosiano  (v.  Ritschl,  Neu^Jahrbììcher^ 
1868,  pag.  342),  e  che  noi  non  possediamo  ancora  una 
collezione  completa  e  fidata  delle  varianti  dei  sopraddetti 
codici  per  tutte  le  comedie  di  Plauto,  giacché  tale  non  può 
chiamarsi  del  sicuro  quella  del  Pareo  (Ritschl,  Opusc.  PìiiL, 
li,  pag.  474*,  cfr.  Neue  Plaut.  Exc,  I,  pag.  22).  Onde  non 
è  fuor  di  ragione  il  supporre  che  un  nuovo  e  attento  esame 
di  quei  testi  ci  possa  fornire  altri  esempi  o  certi  o  almeno 
probabili  delParcaismo  di  cui  si  discorre,  sopra  tutto  se  si 
consideri  la  grande  incertezza  che  vi  regna  nella  scrittura 
di  questa  particella  che  non  solamente  ondeggia,  come  è 
noto,  fra  ad  e  at,  ma  apparisce  bene  spesso  scambiata  con 
a  e  ac.  Del  resto,  che  l'autore  di  questi  Argomenti,  nelFin- 
tendimento  di  accostarsi  più  da  vicino  al  fare  di  Plauto, 
cercasse  talvolta  a  bello  studio,  come  è  il  solito  degli  arcaisti, 
le  forme  antiquate  e  rancide  della  lingua ,  ne  fa  prova  il 
genitivo  Alcumenas  che  si  legge  nel  1"  verso  dell'Argomento 
acrostico  dell'Anfitrione,  la  qual  forma,  se  ne  io^ìì  familìas 
che  rimase  anche  nei  tempi  più  bassi,  era  già  sparita  dal 
linguaggio  comune  all'età  di  Plauto,  e  non  se  ne  trova  esempio 
sicuro  nelle  sue  comedie  (V.  Ritschl,  Proleg.,  pag.  3 18 
e  3 19*,  confr.  Corssen,  Ueber  Aussprache  ecc.  II,  pag.  722 
nota). 


—  423  — 

Circa  l'altra  difficoltà,  la  quale  nasce  datrintonazione  della 
sillaba  finale  di  arcessit ,  e  dal  conseguente  contrasto  fra 
l'accento  nrietrico  e  Paccento  della  parola,  sarebbe  da  fame 
caso  allora  soltanto  quando  fosse  dimostrata  e  messa  fuori  di 
questione  la  regola  dell'accordo  sistematico  del  due  accenti  nel- 
l'antica poesia  dramatica  de'Romani.  Ma  le  ragioni  addotte 
finora  dal  Ritschl  e  dagli  altri  sostenitori  di  questa  dottrina 
non  sono  tali  che  ce  ne  possiamo  ragionevolmente  quietare. 
La  verità  è,  che  cotesto  accordo  non  è  più  frequente  hei 
metri  di  Plauto  e  di  Terenzio,  di  quello  che  sia  nella  poesia 
dattilica  dell'età  augustea  ;  e  del  resto  è  molto  difficile  a  cre- 
dere, che  Plauto,  il  quale  scriveva  le  sue  comedie  alla 
brava  e  talvolta  in  fretta  e  senza  troppo  pensiero,  volesse 
impacciarsi  a  sua  posta  nella  composizione  dei  metri,  assog- 
gettandoli ad  una  legge  ch'era  rimasta  ignota  così  agli  an- 
tichi poeti  nazionali  del  Saturnio,  come  ai  comici  greci,  ch'ei 
riteneva  per  suoi  modelli.  Ondechè  io  penso  col  Corssen 
(l.  e.  II,  pag.  9^0),  che  nella  restituzione  del  testo  dell'an- 
tica poesia  romana  non  si  debba  mai  deviare  dalla  testimo- 
nianza di  manoscritti  fidati  e  sicuri,  per  la  sola  cagione  di 
toglier  via  il  disaccordo  fra  l'accento  della  parola  e  quello 
del  verso. 

Minore  di  gran  lunga  è  la  difficoltà  che  presenta  la  re- 
stituzione dei  versi  6"  e  7".  Anzi,  quanto  al  6°  verso,  io 
penso  che  non  abbia  bisogno  di  restituzione  alcuna  e  si 
debba  conservare  tal  quale  si  legge  nel  codice  13.:  Geminis 
communem  cldm  parietem  in  aédibus.  I  dubbi  mossi  dai 
critici  intorno  alla  bontà  di  questa  lezione  si  fondano  sopra 
una  falsa  interpretazione,  come  io  credo,  del  costrutto,  es- 
sendo che  tutti  s'impuntarono,  dietro  la  scorta  dello  Schoppe, 
in  voler  collegare  aedibus  con  communem,  donde  si  videro 
costretti  a  levar  via  in  che  faceva  noia  a  tale  accoppiamento; 
laddove  non  v'era  punta  necessità  di  costruire  a  quel  modo, 


—  424  — 
potendo  in  aedibus  considerarsi  e  spiegarsi  molto  bene  per 
un  aggiunto  determinativo  del  luogo,  con  rapportarlo  diret- 
tamente a.  forata  a  questo  modo: /ora/  in  aedibus  gemini s 
parietem  communam^  «  fa  nelPuna  e  nell'altra  casa  un  buco 
nel  muro  comune,  cioè  di  mezzo  ».  II  costrutto  è  adunque 
identico  a  quello  che  si  legge  al  verso  142  della  comedia: 
In  eo  conclavi  ego  per/odivi  parietem  (Ritschi.),  o  come 
legge  ora  lo  stesso  Ritschl  (A^.  PL  Exc.y  pag.  72):  In  eo 
conclavid  ego  perfodi  parietem,  e  il  communem  viene  ag- 
guagliato secondo  la  nostra  interpretazione  al  medium  che 
si  legge  neir Argomento  non  acrostico  al  verso  9  :  Medium 
parietem  perfodit  servos.  Con  questa  semplice  interpreta- 
zione cessa  il  bisogno  di  sopprimere  la  preposizione  in 
innanzi  a  aedibus^  preposizione  che  si  legge  in  tutti  i  codici, 
e  non  si  è  più  costretti  o  di  ammettere  col  Bothe,  col 
Lindernann  e  altri  un  iato  fra  parietem  e  aedibus,  o  ri- 
correre ad  altri  spedienti  per  sanare  il  verso,  come  fa  il 
Ritschl,  il  quale  da  un  sciam  che  si  trova  nel  D  e  da  con^ 
simile  scrittura  di  altri  testi  ne  trae  scite  che  sostituisce  al 
clam  del  sopri  citato  codice  B. 

Per  quel  che  riguarda  il  7"  verso  il  difetto  è  nelle  parole 
ut  quiret  che  si  leggono  presso  che  in  tutti  i  codici ,  con 
questo  però  ch^  il  B  porta  sopra  quiret  la  correzione  fatta 
di  mano  non  recente  coire,  e  TE  (codice  di  terzo  grado  di 
proprietà  del  Ritschl)  ha  scritto  sul  margine  coire  et:  donde 
io  penso  che  si  possa  togliendo  via  ut  e  mutando  quiret 
in  qua  ire  et  restituire  così  il  verso  :  Licéret  qua  ire  et 
convenire  amdntibus.  Cfr.  il  verso  142  segg.  della  comedia  : 
Li  eó  conclavi  ^go  pérf odivi  parietem.  Qua  cómmeaius  clam 
ésset  hinc  huc  midieri\  e  il  v.  gè  segg.  dell'Argomento  non 
acrostico;  medium  parietem  Perfodit  servos,  commeatus 
(fldnculum  Qudifóret  amantum.  Questa,  se  non  m'inganno, 
è  la  più  facile  e  la  più  propria  medicina  di    questo   luogo. 


—  426  — 
Perocché  niente  è  più  facile  deiressersi  le  tre  voci  qua  ire 
et  congiunte  nei  libri  in  un  sola  quiret,  ed  è  pure  assai  pro- 
babile, che  Vut  che  vi  sta  dì  soverchio  siasi  formato  per  iscorso 
di  penna,  occasionato  dalla  somiglievole  uscita  deirantece- 
dcnte  liceret;  se  pure  non  vi  fu  messo  di  sana  pianta  da  qual- 
che malaccorto  correttore,  quando  già  erasi  intruso  ne'testi 
l'erroneo  quiret^  con  intendimento  di  cavarne  la  lezione,  di- 
ventata poi  comune  alle  antiche  stampe:  Licere  utquiret.  La 
qual  lezione,  secondo  che  già  ebbe  ad  avvertire  il  Ritschl,  non 
è  accettabile,  prima  per  la  stranezza  del  costrutto,  e  poi  perchè 
i  codici  hanno  liceret  e  non  licere^  siccome  non  si  deve  mag- 
giormente approvare,  a  parer  mio,  la  correzione  messa  innanzi 
dallo  stesso  Ritschl:  Liceret  ut  clam  convenire  amantibus, 
perchè  clam  non  è  nei  codici,  o  almeno  in  nessun  codice  si 
legge  a  questo  verso ,  ma  fuvvi  trasportato  dal  verso  ante- 
cedente, di  dove  noi  abbiamo  già  dimostrato  non  v'essere 
una  giusta  cagione  di  rimuoverlo.  Taccio  di  aitre  conget- 
ture dell' Acidalio  e  del  Bothe  per  sanar  questo  verso,  con- 
getture già  condannate,  e  con  buone  ragioni,  dal  Ritschl,  e 
vengo  al  verso  8°. 

Questo  verso,  cosi  come  si  legge  ne*codici  e  nelle  antiche 
stampe,  è  sovrabbondante,  cresce  cioè  di  mezzo  piede,  e  i 
critici  si  trovan  d'accordo  in  fissar  la  sede  dell'errore  nel- 
Vobhaerenles.  Prima  di  tutto  il  Ritschl  osserva,  e  con  ragione, 
che  la  spiegazione  che  si  volle  dare  di  obhaerentes  per  am- 
plectentes  se  invicem  non  regge,  non  potendosi  quella  voce 
piegare  a  tal  significato  senza  aggiugnervi  almeno  un  sibì.  Né 
piace  di  vantaggio  al  Ritschl  Vobhaerens  messo  innanzi  dal 
Bothe  ,  che  aggiunto  a  custos  vorrebbe  dire  «  una  guardia 
stabile  e  assidua  »,  ma  che  qui  non  può  essere  il  caso, 
parlandosi  di  un  servo  che  si  trova  là  sui  tetti  per  mero 
accidente,  essendovi  andato  per  agguantare  una  scimmia 
ch^eragli  scappata.  E  il  Ritschl  a  sua  volta  propone  di  leg- 
gere obei^rans  per  obhaerentes 


—  426  — 
Con  questa  lezione,  che  si  avvicina  assai  alla  scrittura 
dei  codici,  è  addirizzato  il  metro  e  il  senso  corre  :  pure 
chi  ben  consideri  non  vi  si  può  acquietare  del  tutto.  Lascio 
stare  che  il  verbo  aberro  non  è  plautino,  e  non  se  ne  hanno 
neanche  esempi  di  scrittori  vissuti  prima  del  secolo  d'Au- 
gusto, poiché  questo  è  tale  appunto  che  si  potrebbe  fare  ad 
altre  voci  e  locuzioni  usate  in  questo  stesso  Argomento (i): 
ma  che  cosa  è  quello  che  qui  fautore  ha  voluto  esprimere, 
forse  l'avere  il  guardiano  semplicemente  veduto  gli  amanti 
o  non  piuttosto  Taverli  veduti  stretti  insieme  e  in  atto  di 
baciarsi  e  abbracciarsi?  Quando  pure  volessimo  far  ragione 
delle  angustie  di  una  composizione  acrostica,  e  per  amor  di 
(]ueste  fossimo  disposti  a  menar  buone  all'autore  alcune  im- 
perfezioni e  difetti,  non  dobbiamo  però  credere  che  egli 
potesse  passarsi  di  notar  qui  una  cosa  tanto  importante; 
giacché,  si  badi,  il  dire  senza  più,  custos  hos  videt  de  ie- 
giilis  non  toglie  neanche  che  chi  legge  possa  intendere  che 
il  guardiano  avesse  veduto  le  due  persone  in  due  luoghi  di- 
versi, cioè  la  donna  in  casa  del  soldato  e  il  giovane  in  quella 
del  vicino  suo  ospite,  che  sarebbe  stata  la  cosa  più  naturale 
del  mondo.  Or  io  non  so  farmi  capace  di  una   tale   disav- 


(i)  Il  Lorenz  nella  sua  bella  edizione  del  Miles  Gloriosus  (Einleit. 
pag.  3,  nota  3)  ha  già  notato  le  locuzioni  non  plautine  che  s'incon- 
trano in  questo  Argomento  ;  egli  però  dovea,  mi  pare,  mostrarsi  più 
respettivo  nel  porre  fra  queste  il  ridiculis  che  si  legge  nel  verso  9  j 
quasi  Plauto  non  avesse  mai  detto  ridicula,  come  i  Greci  Y^^ota,  nel 
sostantivo  neutro  plurale,  ma  soltanto  ridicularia.  Al  Lorenz  non  po- 
teva sfuggire,  e  non  è  sfuggito  del  sicuro  il  verso  455  dello  Stico 
Méum  óptenturum  régem  ridiculis  meis  :  il  fatto  del  trovarsi  ivi  nel- 
l'Ambrosiano iogis  in  iscambio  di  meis,  poteatutt'al  più  dargli  appicco 
a  mettere  in  dubbio  l'uso  plautino  di  cotesta  voce,  non  già  a  negarlo 
ricisamente  come  fa.  Del  resto,  quanto  al  ridiculis  di  questo  Argomento, 
io  trovo  molto  aggiustata  la  correzione  del  SeyfrertfP/z/Zo/.  Tom.  XXV, 
pag.  439):  Ridicule  is  autem,  senza  tuttavia  aderire  agli  appunti  ch'ei 
move  al  ridiculis,  appunti  che  il  Ritschl  ha  già  dimostrato  essere 
infondati  {Opusc.  Phil.  voi.  2,  pag.  41 1  6412  nota). 


—  427  — 
vertenza  per  parte  di  uno  scrittore  così  accurato  e  giudi- 
zioso com'è  l'autore  di  questi  Argomenti,  e  tanto  più  quanto 
io  vedo  che  in  nìuno  de'molti  luoghi  della  comedia  nei 
quali  si  accenna  questo  fatto,  vi  è  taciuta  la  circostanza 
aggravante  detta  di  sopra.  Eccoli  questi  luoghi,  secondo  la 
recensione  del  Ritschl:  Modo  nescio  quìs  inspectavit  vostrum 
familiarìum  Per  nostrum  inpluvìum  intus  aput  nos  Philo- 
comasium  atque  hospiiem  Osculantis,  v.  173  segg.*,  consulo 
Quid  agam^  quem  dolum  doloso  contra  consei'vo  parem,  Qui 
illam  hic  vidit  osculantem,  v.  197  segg.;  Ut,  si  illanc  con- 
criminatus  sit  advorsum  militem  Meus  conservos,  se  eam 
ridisse  hic  cum  alieno  oscularier,  Arguam  hanc  ridisse  aput 
te  contila  conservom  meum  Cum  suo  amatore  amplexantem 
atque  osculantem^  v.  242  segg.;  Hic  illam  vidit  oscularli em, 
quantum  hunc  audivi  loqui,  v.  275;  Atque  ego  illi  aspicio 
osculantem  Philocomasium  cum  altero  Nescio  quo  adule- 
scentey  v.  288  segg.;  Philocomasium  eccam  domi  quam  in 
proxumo  Vidisse  aibas  te  osculantem  atque  amplexantem 
cum  altero,  v.  819  SQgg.\  Atque  arguo  Eam  me  vidisse  oscu- 
lantem hic  intus  cum  alieno  viro,  v.  337  segg.;  Dixtin  Tu  te 
vidisse  in  proxumo  hiCy  sedeste^  me  osculantem?  v.  363  segg.; 
Nam  arguere  in  somnis  me  meus  mihi  familiaris  visust , 
Me  cum  alieno  adulescentulo,  quasi  nunc  tu^  esse  auscula- 
tam;  Quom  illa  ausculata  mea  sor  or  gemina  esset  suumpte 
amicum,  v.  389  segg.;  Ut  ad  id  exemplum  somnium  consi- 
mile somniavit  Atque  ut  tu  suspicatus  es  te  eam  vidisse 
ausculantem^  v.  400,  sg.;  Eam  poi  tu  osculantem  hic  vide- 
ras,  V.  474;  Vidi  et  illam  et  hospitem  Complexum  atque 
osculantem^  v.  633  sg.;  Et  ibi  osculantem  me  aput  te  hanc 
vidisse  hospitam^  v.  555. 

Per  tal  ragione  principalmente  io  non  so  acconciarmi  al- 
Voberrans  del  Ritschl,  e  credo  che  dovendosi  levar  via  lo 
obhcereniis  che  si  legge  ne' Codici,  convenga  mettere  in  sua 


—  128  — 
vece  un  vocabolo  che  slgaifichi  per  Tappuato  l'atteggiamento 
in  cui  furon  veduti  gli  amanti  Ora  raccozzando  quel  che 
si  legge  nei  soprallegati  luoghi  della  comedia,  e  considerando 
che  l'autore  dell' A  sgomento  il  più  delle  volte  csprinnc  i  con- 
cetti suoi  con  le  parole  di  Plauto,  si  è  subito  portati  a  so- 
spettare che  egli  avesse  scritto  Osculantis  e  non  Obknereniis, 
e  tale  fu  in  vero  Topinione  del  Camerario,  alla  quale  hanno 
aderito  il  Lambin  e  il  Taubmann.  Se  non  che  l'andamento 
trocaico  di  osculantis  forma  alla  prima  un  deciso  contrasto 
colla  misura  giambica  del  verso ,  ne  altrimenti  si  potrebbe 
cessare  tale  inconveniente  che  con  leggere  osculantis  come 
se  fosse  osclaniis,  cioè  di  tre  sillabe:  a  che  mostra  di  non 
consentire  il  Ritschl,  il  quale  dopo  aver  riferita  la  congei' 
tura  del  Camerario  e  detto  che  avea  trovato  per  lodatori  il 
Lambin  e  il  Taubmaan ,  soggiunge  queste  parole  :  credo, 
quod  trihus  hoc  syilabis  sferri  posse  sibi  persaase?\int . 
Qui  dunque  sarà  il  caso  di  vedere  se  osculantis  potesse  ai 
tempi  di  Plauto  essere  agguagliato  nella  pronunzia  a  un  tri- 
sillabo. Certamente  se  chi  prende  a  difendere  tale  accorcia- 
mento fosse  obbligato  di  addurre  esempi  di  antiche  scrit- 
ture» dove  si  leggesse  per  l'appunto  la  forma  sincopata  osclor 
o  almeno  quella  di  osclum^  siccome  vi  troviamo  a  quando 
ix  quando  poclum,  periclum ,  oraclum,  miraclum  e  altret- 
tali, gli  converrebbe  smetter  l'impresa,  poiché  quelle  forme 
non  s'incontrano,  per  quei  ch'io  sappia,  ne' codici  e  xiells 
lapidi.  (Il  verso  io  del  Truculento,  dove  ora  si  legge  osciurn 
[Tace,  ed.  Spet'.gei  -  i858]  è  rassettato  per  congettura,  e 
Vosdum  non  iia  per  sé  l'autorità  dei  MSS,)-  Ma  non  può 
sfuggire  a  nissuno  che  gli  accorciamenti  sopra  riferi  ti,  ai 
quali  se  ne  potrebbe  aggiugnere  di  molti  altri  sia  dello  stesso 
genere  sia  di  genere  aSine,  non  erano  abbandonati  al  ca- 
priccio degli  scrittori,  ma  aveano  il  loro  fondamento  nel 
parlar  quotidiano,  e  che  oiuno,  prosatore  o  poeta,  sareb- 


--  429  - 
besi  mai  arbitrato  di  scrivere  oraclum  per  oraculum,  se  Vu, 
compreso  fra  e  e  l ,  avesse  conservare  nella  pronunzia  po- 
polare tutto  iJ  suo  valore,  e  non  fosse  stato  anzi  un  suono 
irrazionale,  cioè  imo  dì  quéi  suoni  che  non  avevano  la  giusta 
quantità  di  una  vocale  breve.  Adunque  per  ragion  di  ana- 
logia ci  è  lecito  di  supporre,  che  anche  in  oscidum  e  oscu- 
lor  r  u  che  precede  a  /.  come  poteva  esser  fognato  nella 
pronunzia,  così  potesse  esser  escluso  dalla  misura  del  verso. 
Che  poi  osculimi  e  oscular  si  trovino  talvolta  agguagliati 
nei  metri  di  Plauto  ad  osclum ,  osclor ,  se  non  si  può  ac- 
certare per  mezzo  della  testimonianza  diretta  dei  codici ,  si 
può  tuttavia  provare  per  indizi  abbastanza  sicuri,  quando 
si  restituiscane  nella  genuina  loro  forma  alcuni  versi  delle 
sue  comedie ,  dove  quelle  voci  s' incontrano.  Così  al  verso 
288   del   MiLES  Glorìosus  ,    che    comunemente  si   legge: 

Atquecgo  illi  asptcio  óscuìaniem  Phìlocornasium  cwv  altero. 

Villi  è  una  correzione  deirAcIdalic;,    adottata  dal  Bothe  e 
dal  Ritschl,  menti  e  i  codici  hanno  illic.  Leggi  dunque  : 

'Atque  ego  illic  aspicio  osclantem  Philocomasium  cum  altero. 

Similmente  a'  verse  32o  della  stessa  comedia,  che  secondo 
il  bothe  e  il  Ritschl  suona  così  : 

Vidisse  aibas  te  óscuLintem  atque  dmplexantem  cum  altero. 

ì  codici  non  hanno  aihas    na   aiebas  ;  onde  si   può  anche 
leggere: 

Vidisse  aiebds  te  osciantcw  r.tque  c.mplcxantem  cum  altero. 

Non  cito  altri  esempi  che  questi  due,  lasciando  stare  quei 
luoghi  in  cui  la  lezione  è  incerta,  e  il  verso  si  può  rasset- 
tare in  più  d'un  modo,  giacche  in  una  questione  di  tal  fatta 
niente  è  più  pericoloso  che  il  procedere  per  congetture;  tut- 


—  430  — 
tavia  gii  addotti  esempi  mi  pare  che  bastino  per  provare 
che  Vu  di  osciilor  è  anche  in  Plauto  un  suono  irrazionale. 
Né  dee  far  meraviglia  che  ne'  sopraliegati  luoghi  niuno  dei 
codici  ci  abbia  conservato  la  forma  osclantem,  giacché  ve- 
diamo lo  stesso  essere  accaduto  altrove  di  vocaboli  consi- 
mili, laddove  il  metro  non  comporta  altra  forma  che  la 
sincopata.  Così,  per  non  citare  che  questi  pochi  esempi, 
di  periculis  e  periculo  che  sono  in  tutti  i  codici  ai  versi 
1087  e  1088  del  Trinummo,  prima  il  Guyet  e  poi  gli 
altri  critici  hanno  fatto  peridis  e  per  telo;  così  al  verso 
1 1 29  del  Pseudolo ,  i  codici  leggono  populo  che  il  Ritschl 
muta  in  poplo;  così  pure  pehiculum ,  che  si  legge  nei 
codici  al  verso  728  del  Persa  il  Bothe  e  il  Ritschl  mu- 
tarono in  vehidum.  E  volendo  assegnare  le  occasioni  di 
questa  discrepanza  fra  la  scrittura  e  la  pronunzia,  mi  pare 
che  se  ne  possa  accagionare  l' inavvertenza  de'  copiatori ,  i 
quali  abbattendosi  in  vocaboli  che  poteano  essere  adoprati 
nel  verso  così  intieri  come  sincopati,  non  posero  sempre 
mente  all'uso  fattone  dal  poeta  in  questo  e  in  quel  luogo. 
Il  che  dovea  ancor  più  facilmente  accadere  in  osdum  e 
osdor  che  non  in  altre  voci  di  simil  fatta,  per  non  essere 
questi  vocaboli  vissuti  a  lungo  nella  favella  popolare,  sic- 
come si  può  argomentare  dal  non  esserne  rimasto  vestigio 
nelle  lingue  romanze  che  vi  sostituirono  altri  termini  cor- 
rispondenti ai  loro  sinonimi  latini  basìum ,  bastare:  onde 
che  non  si  affacciava  spontaneamente  alla  mente  dei  copia- 
tori una  forma  popolare  osdum  simile  a  quelle  altre  odus, 
masdus ,  spedum,  (tcc.^  che  ci  diedero  «  occhio,  maschio, 
specchio  ».  E  poiché  ho  fatto  menzione  di  odus,  non  voglio 
lasciar  di  dire,  che  né  anche  questa  forma  si  legge  ne'codici 
e  nelle  edizioni  di  Plauto,  quantunque  a  parer  mio  si  debba 
restituire  in  più  d'un  luogo.  Ne  citerò  due  soli,  dei  quali 
la  lezione  mi  sembra  più  certa.  Il  verso  596  del  Pseudolo 


—  431  — 
è  un  tetrametro  trocaico,  il  cui  principio  così  si  legge  nei 
codici:  Ut  ego  oculis  ratìonem  capìo\  ivi  il  Ritschl  sop- 
prime ego  leggendo  Ut  oculis  ratiónetn  capio ,  per  evitare, 
corneo  credo,  il  proceleusmatico  che  non  vi  potrebbe  trovar 
luogo  come  sostituzione  d'un  trocheo^  laddove  cessa  tale 
inconveniente,  quando  oculis  venga  mutato  in  oclis:  Ut  ego 
oclis  ratiónem  capio.  Noto  poi  di  passaggio  che  del  quant 
che  si  legge  nei  codici  nel  seguito  di  questo  verso,  mi  sem- 
bra più  agevole  fare  quum,  che  mutarlo  in  nam^  come  vedo 
aver  fatto  i  moderni  editori  dietro  la  scorta  del  Lipsio. 
Similmente  al  verso  1071  del  Trinummo  che  comunemente 
si  legge  su  la  fede  della  maggior  parte  dei  codici:  Satin  ego 
oculis  pldtie  video?  esine  hic  an  non  est?  is  èst,  l'Ambro- 
siano ha  in  vece  Satin  oculis  ego,  la  qual  lezione  sembra 
da  preferirsi,  sol  che  si  scriva  oclis  per  oculis,  essendo  molto 
probabile,  che  la  lezione  degli  altri  codici,  i  quali  tutti  si 
fondano,  com'è  noto,  in  una  comune  recensione  del  testo, 
sia  dovuta  ai  correttori  e  proceda  dalla  stessa  cagione,  da 
cui  fu  mosso  il  Ritschl  nel  sopprimere  Vego  nel  verso  so- 
prallegato del  Pseudolo,  cioè  dal  bisogno  di  schivare  il  pro- 
celeusmatico. 

Che  se,  per  tornare  all'Argomento  acrostico,  si  voglia 
cercar  la  spiegazione  del  come  siasi  propagata  negli  antichi 
testi  la  falsa  lezione  obhcerentis<t  se  ne  possono  assegnare  per 
congettura  due  occasioni:  o  che  i  correttori  aombratisi  nella 
voce  osculantis,  siccome  quella  che  dovea  parere  disadatta  a 
dare  cominciamento  a  un  ritmo  giambico,  la  mutassero 
nell'altra  di  significato  affine  obhcerentis ;  oppure  che  si  co- 
minciasse a  scriver  nei  codici,  per  falsa  analogia  coi  composti 
di  ob t  obsculantis  o  obsclantis,  e  che  da  questa  viziosa 
scrittura  si  originasse  in  seguito  con  più  lieve  mutazione 
obhcerentis. 

Da  quello  che  son  venuto  ragionando  fin  qui,  mi  sembra 


-  432  ~ 
di  poier  conchiudere,  che  la  più  probabile  lezione  dei  versi 
5-8  dì  questo  Argomento  acrostico,  sia  la  seguente: 
5  Suum  dr  aese  arcessit  erum  Athenis  H  forai 
Geminis  commimem  cldm  parieiem  in  aédihus. 
Licere t  qua  ire  et  convenire  amdnttbus. 
Oscldntes  custos  hós  videi  de  iégulis, 

Bologna,  febbraio  1873. 

G.    B.   GANDIf^O. 


CO':h(iSIDE%AZIOV^I 

SULL'ISTRUZIONE,  SOPRATTUTTO  CLASSICA,  IN  ITALIA 

a  proposito  del  recentissimo  libro  di  M.  BKEAL 

suWistrupone  pubblica  in  Francia 

(Continuazione:  v.  taso,  i",  p.  9-23 ;  fasc.  5",  p.  225-246;  fase.  7»,  p.  3 10-329). 


IV. 

A  tutti  gFintelligenti  lettori,  che  ci  seguirono  con  bene- 
vola attenzione  nelle  nostre  analisi  deirìstruzione  italiana, 
parrà  indubbiamente,  quanto  deplorabile,  altrettanto  natu- 
rale che  la  medesima,  isterilita  qual  è  e  quale  la  vedemmo 
da  tendenze  soverchiamente  pratiche,  retoriche,  empiriche, 
sia  eziandio  travagliata  da  quel  morbo  pericolosissimo  che 
è  la  inclinazione  a  dogmatizzare  senza  il  necessario  fonda- 
mento, sì  nell'ordine  dei  fatti,  si  neirordine  delle  idee,  anzi 
pili  in  questo  che  in  quello.  L'abito  di  studiare  il  vero  assai 
meno  pel  nfvbiìe  bisogno  di  conoscerlo  che  per  ragioni  d'in- 
teresse non  punto  scientifico,  di  attribuire  alla  forma  gran 
parte  di  quell'importanza  la  quale  non  può  spettare  che  al 
fatto  ed  airidea,   di  non   investigare  le  cause ,   le  leggi  dei 


—  433  — 
feoomenì,  appagandosi  di  mere  parvenze,  abito  onde  tanii 
intelletti  ci  si  rivelano  sciaguratamente  viziati,  ingenera  natu- 
ralmente, soprattutto  negli  anni  mamri  e  nella  vecchiezza, 
una  cotale  inerzia  di  mente:  inerzia  onde  procede,  come 
figlia  da  madre,  una  certa  fede  che  è  afl-atto  indegna  dello 
spirito  umano.  A  sì  fatta  fede,  che  è  vero  ossequio  irragio- 
nevole, trae  eziandio  la  impazienza,  propria  in  ispecial  guisa 
dell'età  giovanile  (i),  sulla  quale  esercita,  oltracciò,  spesse 
volte  malefico  influsso  il  soverchio  dogmatizzare  d'improvidi 
educatori. 

Questa  tendenza  malaugurata  ti  si  manifesta  già  sulla 
soglia  del  tempio  delia  scienza.  Vedemmo  talvolta,  né  mai 
senza  profonda  compassione,  maestri  cui  niana  lingua  era 
nota  tranne  la  nostra,  e  neppur  questa  a  sufficienza,  sforzarsi 
d'intrudere  nelle  menti  infantili  dei  loro  poveri  alunni  defi- 
nizioni appartenenti  alla  pretesa  grammatica  generale,  e  con 
tale  e  tanta  asseverans^a  che,  se  questa  fosse  misura  del  vasto 
e  profondò  sapere,  tu  dovresti  reputare  sciolti  perfettamente 
da  questi  barbassori  certi  problemi  che  sgomentano-  ancora 
un  linguista  di  primo  ordine.  A  queste  formole  grammati- 
cali di  scuole  elementari  sono  pari  in  certezza  certe  nozioni 
di  storia  antica,  di  estetica  letteraria  e  di  metafisica  che  si 
danno  ancora  in  ginnasii  e  licei.  Quanti  spropositi  si  spac- 
ciano ancora  qua  e  là  intorno  al  più  vetusto  oriente  ed  ai 
primi  tempi  di  Roma!  Quanta  prepotenza  d'arbitrio  in 
alcuni  precetti  letterarii  !  Quanto  spesso  s'insegnò  e  forse  an- 
cora s'insegna  cattedraticamente,  quasi  fosse  scienza  certis- 
sima e  come  tale  riconosciuta  dai  giudici  più  competenti,  un 
complesso  di  teoriche  metafisiche,  cui,  fra  i  meglio  autorevoli, 


(i)  « i  giovani  inclinano  al  dommatismo,  e  se  possono  afferrare 

una  regola  o  una  definizione,  credono  avere  in  mano  la  scienza,  e  stu- 
diano e  giudicano  a  priori ,  secondo  certi  preconceiii.  »  De  Sanctis,  La 
Scuola  {Nuova  antologia yyol.  20,  p.  760). 


—  434  — 

gli  uni  accolgono,  gli  altri  respingono,  sì  che  intorno  al  va- 
lore di  esse  non  v'ha  punto  consenso  fra  ì  piij  pregiati  esti- 
matori! Nelle  stesse  aule  universitarie,  ove  più  estesa,  più 
acuta  ,  più  libera  dovrebb^essere  indubbiamente  la  critica  , 
appare,  né  rade  volte,  principalmente  nei  corsi  di  natura  fi- 
losofica, il  sistema  di  una  scuola  sostituito  alla  larga  e  serena 
imparzialità  della  scienza;  appare  l'avversione  al  dubbio, 
anche  allorquando  è  necessario  ;  appare  la  funesta  tendenza 
ad  imporre  altrui  la  propria  opinione. 

Pessima  educazione  dell'intelletto  è  questa  :  che  non  solo 
non  esercita  la  mente  a  tentare  con  gagliarda  indipendenza 
la  soluzione  di  ardui  problemi,  ma  da  questi  in  certa  guisa 
distoglie  lo  spirito  e  quasi  glieli  nasconde,  non  istimolandolo, 
non  addestrandolo  alle  lotte  feconde,  ma  avvezzandolo  ad 
adagiarsi  in  isterile  pigrizia  (i).  Pessima  educazione  che,  non 
assuefacendo  all'esame,  non  abitua  il  pensiero  a  scoprire  la 
erroneità  di  certi  concetti,  vuoi  storici,  vuoi  filosofici  :  i  quali, 
non  discussi  liberamente,  ma  accolti  con  ossequio  servile, 
assumono  non  di  rado  le  venerande  sembianze  di  tradizioni 
scientifiche  e  sono  trasmessi  di  generazione  in  generazione, 
quasi  insieme  colla  lampana  della  vita,  direbbe  Lucrezio. 
Argomento  degnissimo  delle  meditazioni  di  un  alto  e  vasto 
intelletto  sarebbe  lo  investigare  quale  e  quanto  nocumento 
abbiano  si  fatti  pregiudizii  arrecato  all'umanità,  sì  nella  vita 
del  pensiero,  sì  in  quella  dell'azione  (2).  Indi  un'ignoranza 


(i)  Ben  a  ragione  pertanto  quel  potente  ingegno  di  F.  De  Sanctis, 
dopo  avere  accennata  {/.  e.)  l'inclinazione  dei  giovani  al  dommatismo, 
ci  ammonisce  che  «  questo  impedisce  in  loro  lo  sviluppo  dello  spìrito 
critico,  vizia  l'impressione  e  il  gusto,  sostituisce  alla  loro  spontaneità 
una  coscienza  artificiale  »». 

(2}  Esponendo  al  cortese  ed  accorto  lettore  queste  nostre  considera- 
zioni, non  possiamo  astenerci  dal  ricordare  il  giudizio  che  intorno  ad 
una  certa  filosofia,  ad  una  certa  logica  profferiva  un  egregio  scienziato  : 
•  L'uomo  per  la  sua  avidità  di  sapere  ha  sempre  fatto  così  ;  da  poche 


—  435  — 

ostinata,  tenace  del  passato,  paurosa  delPavvenire,  presun- 
tuosa, intollerante,  né  sempre  soltanto  delle  nuove  idee,  ma 
per  lo  più  eziandio  degli  uomini  che  di  esse  si  fanno  animosi 
banditori. 

Lasciate  pertanto,  se  punto  vi  sta  a  cuore  Teducazione 
della  nostra  gioventù,  ch'essa  vi  reciti  un  po'meno  il  vostro 
credo  scientifico  ed  avvezzatela  un  po'più  a  costruirsi  bene 
il  proprio  con  un  lavorio  intellettuale  veramente  suo  ed  in- 
dipendente. Non  vogliate  che  l'intelligenza  giovanile  cessi  di 
essere  una  forza  libera  e  nobilmente  conscia  della  propria 
libertà,  per  diventare  uno  specchio  che,  inconsapevole,  ri- 
fletta il  vostro  pensiero,  od  un'eco  che  ripeta,  materialmente, 
i  vostri  delfici  responsi.  Il  vostro  compito  non  è  già  imporre 
un  sistema  scientifico  di  non  certo  valore  alla  fede  dei  vostri 
alunni,  ma  infondere  in  essi  il  più  vivo  amore  del  vero  e  ren- 
derli, come  meglio  potrete,  atti  a  ricercarlo  come  si  addice 
allo  spirito  umano  (i).  11  soverchio  dubitare  snerva  la  mente, 
ma  la  snerva  eziandio  il  troppo  credere. 


osservazioni  ha  creduto  poter  dedurre  tutto  lo  scibile,  là  dove  mancava 
il  fatto  sostituendo  il  lavoro  della  ìmaginaiiva  ;  e  ha  voluto  tirare  le 
ultime  conseguenze  e  filosofar  sulla  origine  e  sulla  natura  delle  cose, 
prima  di  aver  imparato  le  ragioni  de'  più  semplici  fenomeni  naturali. 
Orgoglioso  per  essenza ,  creò  la  filosofia  ,  che  intitolò  scienza  delle 
scienne,  prima  di  aver  costituito  una  sola  di  codeste  scienze  che  pur 
supponeva  nel  filosofo  ;  cosicché  tutto  il  sapere  si  ridusse  a  un  po'  di 
logica,  applicata  a  ragionar  su  tutto,  ignorando  ogni  cosa  »,  Govi,  Della 
fisica  ecc.,  prelezione  letta  nel  1862  [Politecnico^  fase.  70,  p.  i3). 

Di  questa  pTcìesa.  filosofia,  di  questa  cosi  detta  logica  esiste  ancora, 
lepido  anacronismo,  qualche  atleta  in  questa  epoca  nostra,  fra  tanto  fio- 
rire di  studiì  positivi.  Ci  rammentiamo  ancora  che  un  tale,  di  cui  ne- 
gammo la  competenza  a  giudicare  intorno  ad  una  certa  scienza,  ci 
rispose  esser  pronto  a  disputare  contro  noi  su  qualsiasi  materia.  II 
valentuomo  non  comprenderà  forse  mai,  quanta  compassione  abbia  de- 
stata in  noi,  che  abbiamo  assai  poca  fiducia  nelle  dispute,  la  sua  smar- 
giassata medioevaie. 

(i)  «  Una  Scuola  non  mi  par  cosa  viva,  se  non  a  questo  patto,  che 
accanto  all'insegnamento  ci  stia  la  parte  educativa,  una  ginnastica  Intel- 


—  436  - 
Noi  vorremmo  che,  per  quanto  fosse  possibile,  s'informasse 
a  questi  principi!  anche  il  primo  insegnamento:  mai  si  ri- 
spettano i  diritt'  delFuomo  quando  si  violano  quelli  del  fan- 
ciullo (i).  Vorremm.o  ancora  che,  con  saggia  gradazione,  si 
avvezzassero  neiristrazioiie  secondaria  gli  allievi  a  far  stmpre 
maggiore  e  miglior  uso  della  propria  libertà  i/)telle:rualc 
quanto  più  si  accostano  agli  studi  supremi  degli  atenei,  e , 
per  far  cenno  di  una  sola  materia  (ma  di  quella  che   esige 


lettuale  e  morale^  che  stimoli  e  metta  in  moto  tutte  le  forze  latenti  dfUo 
spirito.  Il  meno  che  un  giovane  nossa  domandar©  alla  sctiola  è  lo  scibile, 
anzi  io  scibile  è  lui  ciie  dee  trovarlo  e  conquistarlo,  se  vuole  sia  davvero 
cosa  sua.  La  Scuola  gli  può  dare  gli  ulumi  risultati  della  scienza,  e  se 
non  fosse  che  questo,  in  verità  una  Scuola  è  di  troppo;  taato  vale  pi- 
gliarli in  un  libro  quei  risultati.  C'ò  che  un  giovane  dee  domandare 
alla  Scuola  ò  di  esser  messo  in  grado  ch'i  la  scien/ia  la  cerchi  e  la  trovi 
lui.  Perchè  ia  Scuola  è  .;i>  iaboi-atorio,  dove  tutti  sieno  compagni  nel 
lavoro,,  maestro  e  discepoli,  e  il  maestro  non  esponga  solo  e  dimostri, 
ma  cerchi  e  osservi  insieme  con  loro,  si  che  attori  sieno  tutti,  e  tutti 
sieno  come  un  solo  essere  organico,  animato  aaìio  stesso  spirito.  Una 
Scuola  così  fatta  non  vale  solo  a  educare  'a  intelligenza,  ma,  ciò  che  è 
più,  ti  forma  la  volontà,  -  De  Sangtis,  Art.  cit.,  p.  757, 

(i)  <«  ()n  eniend  souveni  dire  qu'avec  les  enfant?  il  faut  étre  dogma- 
tique.  Ceux  qui  parleni  ainsi  n'expri;.-nent  pas  leur  pensée  tout  entiòre. 
Il  Sv>iit  d'avis  égalemeni:  qu'jl  hn  étrf-  dogn->atique  avec  ies  jeunes  gens 
et  avcc  les  hommes.  Car  pourquf  i  refuseraient-ils  à  l'enfant  Ies  cxpli- 
catioiìs  qu'il  peu*'  comprendre^  s'ils  avaient  i'intcntioo  de  raisonoer  sA'ec 
l'homme  fait?  II  sera  trop  tard  alors  pour  faire  entrer  la  raison  dans 
ces  tètcs  qui  n'ont  pas  pris  Thabitudè  de  penser  et  qu'une  longue  obéis- 
sance  a  orivées  de  tout  resse! t.  ■'  Br#,al,  Op.  cit.,  p.  47.  —  Nelle  scuole 
americane,  scrive  il  signor  Hipp^au,  «  dès  ies  pretnières  annèeson  croit 
qu'il  est  uùle  de  ìaisscr  !a  pensee  s'exprim^r  librement,...  le  maitre 
averti»,  conseiile  et  dirige,  mais  ne  se  croit  pas  le  droit  d'imposer  ses 
idées  et  ses  sentimens.  Si  cet  appel  à  la  raison  individuelle,  à  la  réflexion, 
au  libre  e.Kamen,  peut  coniribuer  à  donner  aux  jeunesfillcsc;caox)eunc'S 
gens  une  confiance  exagérée  en  CiiX-mémes,  et  quelquetois  un  ton  de 
sufiisance  qui  a  été  relevé  avec  assez  d'aigreur  par  mistress  TroHope,  on 
ne  peui  nier  qu'il  ne  hats  le  développement  intellectuel  d'une  manière 
beauooup  plus  efficace  que  l'enseignement  dogmatique,  qui  pendant  si 
longtemps  a  donne  pour  criterium  de  la  vériié  la  parole  du  maitre  •. 
L'éduL-ation  desfemmes  et  des  a^ranchis  en  Amérique  [Revue  des  deux 
mondes,  x.  ^^3,  p.  45C). 


-  437  — 
il  maggior  rispetto  alla  indipendenza  del  pensiero  individuale) 
facciam  voti  affinchè  lo  insegnamento  filosofico  liceale  diventi 
sempre  meno  Tesposizione  cattedratica  di  un  sistema  meta- 
fisico e  sempre  più  un  esercizio  fortissimo  dell'intelletto,  una 
ginnastica  mentale  che  generi  nella  studiosa  gioventù  la  ten- 
denza e  Tatiitudine  a  meditare  seriamente,  e  soprattutto  in- 
tomo  ai  più  importanti  e  certi  concetti  della  psicologia  e 
della  morale  (i).  Vorremmo  infine  che  si  mondasse  affatto' 
d'ogni  avanzo  d'arbitrario  dogmatismo  l'istruzione  superiore  : 
che  il  professore  universitario  assai  più  che  di  propagare  le 
proprie  opinioni  si  proponesse  di  accendere  ne'proprii  udi- 
tori, fatti  suoi  compagni  nelle  investigazioni  scientifiche,  il 
generoso  entusiasmo  che  trae  alle  ostinate  indagini  del  vero, 
e,  distogliendoli  dalle  fallaci  lusinghe  dei  metodi  che  l'espe- 
rienza mostrò  inefficaci,  avvezzarli  a  quelli  cui  la  scienza 
deve  i  suoi  più  utili  e  gloriosi  trionfi  (2). 


(i)  Applaudimmo  pertanto  alle  indicazioni,  che  intorno  allo  insegna- 
mento della  filosofìa  nelle  scuole  secondarie  leggemmo  nelle  Istrui^ioyii 
e  programmi  per  V insegnamento  delle  lettere  nei  licei  e  nei  ginnasii, 
approvati  con  R.  Decreto  io  ottobre  1867;  v.  p.  Si-Sg. 

(2)  «t du  moment  que  l'amour  de  la  vérité  doit  étre  la  premidre 

qualité  du  professeur,  son  cours  prendra  une  forme  bien  differente  de 
celle  que  nous  sommes  habitués  à  regarder  comme  la  meilleure.  Au 
lieu  d'écarter  de  ses  le^ons  tout  ce  qui  est  douteux,  conteste,  il  prendra 
soin  d'y  appeler  l'attentiojì  de  ses  auditeurs,  et  de  leur  exposer  sincère- 
ment  les  raisons  des  opinions  contraires.  Mémepour  les  théoriesqui  lui 
seront  le  plus  chères,  il  indiquera  les  points  faibles,  signalera  les  objec- 
tions.  Un  ministre,  qui  a  eu  de  meilleures  inspirations,  déclara  un  jour 
que  les  Facultés  étaient  charcées  d'enseigner  la  science  faite:  iTiais  com- 
ment  les  jeunes  gens  exerceront-ils  leur  jugement  px  leur  critique,  com- 
ment  sauront-ils  sur  quel  point  de  la  science  ils  doivent  porter  leur 
effort,  si  vous  leur  présente/  toujours  l'édifice  par  ses  cótés  achevés?  La 
science  faite  est  dans  les  livres  ;  les  étudiants  deserteront  les  salles  de 
cours  si  la  le^on  du  professeur  ne  fournit  pasautiechose  que  les  biblio- 
thèques.  Nousvoyons  des  hommes  qui  ont  suivi  pendant  des  années  les 
cours  de  nos  Facultés,  ne  pas  savoir  sur  quel  sujet  ils  pourraient  faire 

'Hfvisla  di  filologia  ecc.,  I.  3o 


—  438  - 
Gli  effetti  di  questa  veramente  Ubera  educazione  scientifica 
saranno  indubbiamente  i  seguenti  :  svolgimento  largo  ed  in- 
dipendente della  ragione,  il  quale  non  potrà  non  esercitare 
bexiefico  influsso  sulla  formazione  del  carattere  (i);  incre- 
mento fortissimo  della  tendenza  e  deirattitudine  alle  inda- 
gini nuove  ;  guerra  senza  tregua,  senza  timore  di  sorta  ai 
pregiudizi,  a  qualsiasi  classe  appartengano  e  di  qualunque 
larva  si  coprano-,  tolleranza  sincera  e  generosa  di  quelle  o- 
pinioni,  che,  sebbene  lontane  dalle  nostre,  possono  nondi- 
meno più  che  queste  per  avventura  acrostarsi  alla  verità,  e 
di  coloro  che  le  professano  nobilmente. 

V. 

Là  ove  nella  repubblica  della  scienza  alla  feconda  libertà 
della  indagine  si  tende  non  di  rado  a  sostituire  la  sterile  ti- 
rannia di  formole  malaugurate  ;  ove  il  sapere  è  assai  meno 
pregiato  per  l'intimo  suo  valore  che  per  i  vantaggi  materiali 
onde  si  spera  poter  da  esso  ritrarre  gran  copia;  ove  alla 
efficacia  stupenda  delPidea  e  dell'affetto  si  antepone  sovente 
lo  strepito  inane  dei  paroloni,  italiani  e  latini  (2)*,  ove  non 
poco  volgo  di  menti  suole  star  pago  di  conoscere  superficial- 


des  recherches  origmales.  On  dópense  quelquefois  chez  nous  une  moitié 
de  sa  vie  avaat  d'éire  enfin  rais  au  point  où  l'étudiant  allemand  est  na- 
turellemem  conduit  par  ses  inattresà  vingt-cinq  ans  »  Bhéal,  Oj?.  cit., 
p,  393-4. 

(i)  «  Il  n'y  a  pas  de  fort  développement  de  la  téte  sans  Hberté;  l'energie 
morale  n'est  pas  le  resultai  d'une  doctrine  en  particulier,  mais  de  la  race 
et  de  la  vigueur  de  l'éducation,  »  Rsnan,  La  ré/orme  ecc.,  p.  99 

(2)  «  L'homme  voué  à  i'exposition n'aime  pas  qu'on  change  ses 

partis  pris  et  se&  phrases  toutes  faites,  Moins  soucieux  du  vrai  que  de  la 
forme,  ce  qu'il  voudrait,  ce  seraient  des  thèses  convenues  à  la  facon  de 
la  Chine,  où  l'on  enseigne,  dit-on,  une  fausse  astronomie  en  la  sachant 
fausse,  parce  qu'elle  est  celle  des  bona  auteurs.  »  Renan,  Questions  con- 
temporaines.  p.  96-7. 


-  439  - 
mente  una  serie  qualsiasi  di  fatti,  senza  addencrarsi nella  in- 
vestigazione filosofica  delle  loro  ragioni  di  essere  (i);  ove, 
in  fine,  il  culto  della  lettera  che  uccide  ti  appare  qua  e  là 
più  frequente  che  non  quello  dello  spirito  vivificatore;  ivi 
avviene  che  al  pensiero  vengano  meno  gli  stimoli  al  moto 
e  che  si  adagi  nella  inerzia.  Così  si  genera,  così  si  spiega  il 
quinto  vizio  onde  vediamo  peccar  troppo  spesso  la  istruzione 
italiana,  l'immobilità. 

Questa  nostra  affermazione  farà,  ne  siam  certi ,  inarcare 
le  ciglia  a  molti  lettori.  Come?  Troppo  spesso  immobile  la 
istruzione  italiana  che,  da  cinque  lustri,  colle  sue  incessanti 
rivoluzioni  sembra  aver  sciolto  il  problema  del  moto  per- 
petuo ?  Con  quanta  rapidità  non  succedettero,  ormai  da  ven- 
ticinque anni,  rettori  a  rettori,  riforme  a  riforme,  a  libri 
nuovi  libri  novissimi  !  La  scuola  italiana  non  fu,  non  è  ella 
forse  pur  troppo 

'<.    simigliarne  a  quella  infet  ma. 

Che  non  può  trovar  posa  in  sulle  piume, 
Ma  con  dar  volta  suo  dolore  scherma  »  ? 

A  chi  ci  opponesse  queste  considerazioni  risponderemmo 
esortandolo  a  non  lasciarsi  ingannare  da  fallaci  parvenze,  re- 
putandole realtà.  Fallaci  parvenze  sono  per  lo  più  le  meta- 
morfosi che  vediamo  avvicendarsi  nei  nostri  istituti  didattici, 
dagrinfimi  ai  supremi:  realtà,  deplorabilissima  realtà  il  poco, 
il  lento  progresso.  Le  agitazioni,  onde  ti  appare  da  ben  due 
decennii  senza  tregua  commosso   lo  insegnamento  italiano, 


(i)  « la  grammaire,  telie  que  nous  l'apprenons,  exclut  loute  idée 

de  progrès.  Une  fois  que  nous  savons  qu'une  chose  admirable  à  voir  se 
dit  res  visn  mirabilis  et  que  j'enseigne  la  grammaire  pux  enfants  se 
traduit  par  doceo  pucros  grammaticam,  il  ne  reste  plus  rien  à  ajouter  : 
car  toutes  les  recherches  sur  la  nature  du  supin,  toutes  les  observations 
sur  le  sens  de  l'accusatif  ne  changeront  rien  à  ces  deux  regies.  »  Bréal, 
Op.  cit.,  p.  174. 


—  440-- 
sono  quasi  sempre  agitazioni  a  fior  d'acqua  •  in  fondo  regna 
la  più  oziosa  quiete.  Le  trasformazioni  concernono  general- 
mente assai  più  i  metodi  che  le  idee,  e  dei  metodi  stessi  assai 
più  l'apparenza  che  la  sostanza.  Così  idee  inesatte  o  false  e 
metodi  irrazionali,  ciarpe  da  ferravecchio,  continuano  ad 
essere  in  onore  presso  non  pochi  di  coloro  che  si  chiamano 
rappresentanti  delia  scienza,  educatori  della  gioventù.  Leggi, 
regolamenti,  programmi  tengono  dietro  gli  uni  agli  altri  in- 
calzandosi a  vicenda  con  quella  stessa  prestezza,  con  cui 
passano  sulla  scena  della  istruzione  italiana  gli  uomini  che 
li  fanno e  li  disfanno:  ma  i  concetti,  i  procedimenti  di- 
dattici rimangono  le  più  delle  volte  sostanzialmente  immutati . 
È  senza  posa  l'eruzione  di  nuovi  libri  scolastici:  ma,  nel 
massimo  numero  dei  casi,  per  bontà  di  pensieri  e  di  sistemi 
pedagogici,  i  nuovi  non  valgono  più  dei  vecchi-,  non  è  il  pro- 
gresso che  vinca  l'ignoranza,  è  l'empirismo  surrogato  dal- 
l'empirismo; è  il  compendio  del  professore-libraio  B  che  tende 
a  sostituirsi,  per  vantaggio  dell'autore,  a  quello  equipollente 
del  collega  A,  col  solito  e  esci  di  lì ,  ci  vo'  star  io  »  ;  non 
è  questione  di  opinioni,  ma  di  quattrini;  non  lotta  feconda 
di  principii,  ma,  frequentemente,  è  sterile  gara  d'ingordigie 
schifose  (i).  Fra  tanto  chiasso  di  apparenti  innovazioni  si 
perpetuano  in  mille  istituti  le  tendenze  soverchiamente  pra- 
tiche e  retoriche,  gl'istinti  troppo  irrazionali  e  dogmatici  del 


(i)  Lo  spettacolo  della  rivalità  esistente  fra  certi  «  Elementi,  Com- 
pendiiy  Sunti,  Sommarii  »  ecc.  ecc.  ci  richiamò  sempre  alla  memoria  la 
conclusione  di  un  apologo  che  si  legge  nel  libro  di  G.  Vollo  La  voce 
delle  cose  (Torino.  i856,  p.  i82-5)  Un  1  bercelo  di  divozione  senza  fede 
in  Dio  ed  un  libercolo  democratico  che  non  credeva  nel  popolo  si  rin- 
facciavano a  vicenda  l'ipocrisia. 

«»  Ma  il  libraio  s'interpose  , 

E  sopì  l'inutil  bega: 

—  Siete  entrambi  di  bottega, 

D'una  risma  vi  si  fé'.  —  « 


—  441  — 

nostro  insegnamento:  così  in  Italia,  come  in  Francia  (i),  la 
riforma  è  generalmente  più  presto  parvenza  che  realtà.  Chi 
insegna  storia  antica  come  nel  secolo  scorso,  chi  grammatica 
latina  giusta  principii  e  metodi  i  quali  solo  nella  forma  si 
distinguono  dai  medioevali. 

E  provati  un  po\  cortese  lettore,  di  opporti  a  certe  antica- 
glie, provati  un  po' di  accingerti  a  sradicare  i  vizii  secolari  che 
infettano  la  istruzione  italiana,  od  eziandio  soltanto  di  svelarli 
senza  paure  codarde  scrivendo  o  parlando  pubblicamente. 
Te  beato,  se  non  si  adunerà  tosto  concorde  a  lapidarti  il  volgo 
di  coloro,  che  ne'tuoi  tentativi,  nelle  tue  rivelazioni  scorgono 
senz'altro  fiere  minaccìe  alla  loro  ignoranza,  alla  loro  ambi- 
zione, alla  loro  accidia,  al  loro  traffico  di  libri  scolastici.  Ag- 
giungivi la  schiera  dei  dotti  ed  onesti,  ma  ostinati  adoratori 


(i)  a  II  ne  faut  pas  oublier  que  nous  sommes  le  pays  le  plus  re  belle 
aux  vraies  réformes,  le  plus  fidèle  aux  traditions  séculaires.  Notre  histoire 
est  semée  de  révolutions  à  la  surface:  mais  ce  qui  consume  le  fond 
de  la  vie  intellectuelle  et  morale  s'est  à  peine  modifié  depuis  deux 
siècles.  Nos  enfants  font  les  mémes  exercices  que  RoUin  dictait  à  ses 
élèves,  et  si  la  Revolution  fran9aise  a  étendu  à  une  grande  panie  de 
la  nation  l'éducation  qui  était  autrefois  le  privilége  d'un  petit  nombre, 
elle  n'a  pas  eu  la  force  de  tratìsformer  cette  éducation.  Les  livres  que 
Bossuet  a  composés  pour  le  Dauphin  servent  aujourd'hui  à  l'insiruction 
des  enfants  de  notre  bourgeoisie.  II  y  a  eu  extension  de  l'ancienne 
culture  fran9aise,  mais  elle  ne  s*est  pas  sensiblement  modifiée.  De  pé- 
nétrants  observateurs  de  notre  genie  national  ont  cru  reconnaitre  que 
dans  les  réformes  qui  touchent  aux  choses  de  lesprit,  notre  trait  dis- 
tinctif  é':ait  la  timidité.  Ce  sont  pourtant  les  seuis  changements  vrai- 
ment  féconds,  les  seuIs  qui,  à  la  longue,  amènent  après  eux  tous  les 
autres.  Si  nous  ne  modifions  pas  l'esprit  de  la  nation,  les  mémes  maux 
reparaitront  d'intervalle  en  intervalle,  de  plus  en  plus  aigus  et  cuisants. 
Pas  plus  que  les  révolutions,  les  le^ons  les  plus  dures  de  la  destinée 
ne  pourront  en  empecher  le  retour.  »  Bréai,  Op.  cit.,  p.  3.  —  Del 
difetto  di  progresso  nell'istruzione  universitaria  francese  discorrono 
Bréal  [Op.  cit.,  p.  373-4),  Renan  (Questions  contemporaines,  p.  106-7, 
143-4,  204-10),  PoucHET  (Revue  des  deux  mondes^  t.  83,  p.  44*)=  sulla 
immobilità  dell'insegnamento  secondario  in  Francia  profferiva  giudizio 
severissimo  l'Hahn  (Renan,  Op.  cit.^  p.  ■269-73). 


-    442  — 

d'idoli  antichi.  E  bada  bene  che,  assai  più  delia  guerra  che 
li  si  muove  alla  lace  del  sole  può  riuscirti  funesta  quella 
che  ^assalirà  fra  le  tenebre  e  con  armi  che  tu,  leale  gentil- 
uomo, non  conosci,  né,  conoscendole,  adoprcresti,  perchè 
insozzano  la  mano  che  le  impugna.  Provati  un  po',  ver- 
bigrazia ,  a  lottare  contro  il  cieco  empirismo  che  regna 
ancora,  quasi  unico  signore,  sul  campo  della  grammatica  la- 
tina nelle  scuole  secondarie  :  strappa  la  maschera  ai  sistemi 
irrazionali  e  tenta  tu  stesso  di  sostituirvi  un  metodo  migliore. 
Una  plebe  di  logori  grammatisti,  inetti  a  giudicare  il  tuo  co- 
nato, paurosi  di  dover  leggere  e  spiegare  un  libro  nuovo,  in- 
sieme coi  più  avidi  scombiccheratori  di  grammatichette  em- 
piriche ti  grideranno  ai  quattro  venti  inesperto  novatore,  e, 
biasimando  ciò  che  non  avranno  inteso  e  non  intenderanno 
mai,  spaccieranno  al  credulo  volgo  dei  loro  divoti  con  boria 
cattedratica  corbellerie  cosi  scempie  intorno  ai  tuo  lavoro, 
che  tu,  per  non  degradarti,  dovrai  astenerti  da  ogni  risposta 
o  star  pago  dj  far  manifesta  agi' intelligenti  tutta  l'imbecillità 
mentale  de'tuoi  avversarli.  Provati  un  po'  di  propagar  Topi- 
nione  che  certe  parti  della  storia  antica  si  debbano  insegnare 
con  un  po'  meno  di  vieto  dogmatismo  e  con  ur.  po'  più  di 
critica  odierna-,  che,  soprattutto,  più  critico  e  men  dogmatico, 
meno  rivolto  ad  imprimere  ne'giovani  intelletti  certi  assai 
dubbii  teoremi  metafisici  e  più  che  nei  tempi  passati  diretto 
a  svolgere  con  feconda  libenà  gl'ingegni  giovanili  debb'essere 
lo  insegnamento  filosofico  liceale:  provati  un  po' di  diifondere 
questi  concetti  e  non  meravigliarti  troppo  se  qualche  dabben 
uomo  di  fede  timidissima,  qualche  indefesso  lodator  del  pas- 
sato e  calunniatore  infaticabile  del  presente  e  dell'avvenire , 
qualche  pedante  tenacissimo  del  suo  mestiere  e  sgomentato 
dai  pericolo  di  dover  mutare  ferri  o  bottega,  forse  eziandio 
qualche  ipocrita  di  prima  riga  ti  accuseranno  di  voler  propa- 
gare lo  scetticismo  storico  e  filosofico,  di  voler  diffondere  il 


-  443  - 

dubbio  sisi ematico  intomo  a  splendidi  fatti  o  ad  idee  fonda- 
mentali, viziando  con  quef^t'ablto  funesto  le  tenere  menti  delle 
nuove  generazioni  :  e,  procedendo  (giusta  la  legge  universale 
del  cresci t  eundó)  di  declamazione  in  declamazione,  foi-se  per 
poco  non  ti  diranno  perturbatore  dell'ordine  privato  e  pub- 
blico, dello  individuo  e  della  società  (i;. 

Frattanto  la  scienza  italiana  non  si  muove,  o  spesso  im- 
pacciata, perplessa,  lenta;  parecchie  genti  straniere  ci  pre- 
corrono, e  più  di  tutte  la  tedesca  (2)  -,  il  nostro  ingegno,  come 
se  assai  non  lo  scuotessero  i  suoi  grandi  ricordi  ed  il 
possente  moto  intellettuale  dell'epoca  nostra,  mal  sembra 
destarsi  dal  iungo  e  profondo  letargo. 

VI. 

Se  l'ignoranza  che  non  comprende,  che  non  sente  nem- 
meno il  bisogno  urgentissimo  di  riforme;  se  l'accidia  che 
abborre  da  ogni  novità  che  richieda  un  po' di  lavoro;  se  la 
presunzione  che  s'immagina  scioccamente  di  sapere  ciò  che 
non  ha  mai  imparato  e  dichiara  colla  più  comica  solennità 
di  non  aver  uopo  di  lezioni,  anche  quando  non  è  ancor  nep- 
pure preparata  ad  intenderle;  se  l'insaziabile  ingordigia  di 
subiti  e  facili  guadagni  mediante  il  traffico  di  anticaglie  sco- 


ivi Quali  ostacoli  sì  oppongano  anche  in  Francia  alle  vere  riforme 
appare  evidentemente  dalla  guerra  mossa  testé  al  ministro  di  pubblica 
istruzione,  del  quale  lodammo  e  lodiamo  la  ormai  celebre  Circulaire. 
Leggi,  ad  es.,  il  recentissimo  opuscolo  de!  signor  Cuvillier-Fleury, 
'ntitolato  La  reforme  universitaire  (Paris,  1873  :  v.  in  isptcie  p*  2, 
6-7,  io-i3,  18,  2-ì-2'i).  Davvero,  se  questo  signore  crede  di  aver  con- 
futato efficacemente  Bréal  e  J.  Simon,  egli  è  vittima  di  una  deplora- 
bile illusione. 

(2}  Come  eziandio  nella  scienza  francese  si  scorgano  indizii  d'im- 
mobilità e  qual  giudizio  meritino  certe  vanterie  di  primato  intellet- 
tuale rilevasi  a  sutìicienza  dal  libro  che  il  francese  Marcou  pubblicava 
nel  18Ó9  a  Parigi  col  titolo  De  la  sciencé  en  France. 


-  444  - 

lastiche;  se  tutte  queste  ignobili  cause  d'inerzia  muovono 
guerra  quanto  stolta,  altrettanto  talvolta  ostinata,  maligna  e 
sozzamente  sleale  allo  ingegno  italiano  che  tenta  di  farsi 
innovatore  colle  proprie  forze,  figurati,  accorto  lettore,  quanto 
oneste  e  liete  siano  le  accoglienze,  che  quei  vizii,  e,  ag- 
giunto ad  essi  talora,  l'orgoglio  nazionale,  od  almeno  la 
commoda  larva  di  esso,  sono  usi  di  fare  alle  riforme  scien- 
tifiche e  didattiche  di  origine  straniera  e  principalmente  ger- 
manica. L'indifferenza,  che  è  pur  sì  funesta  alla  diffusione 
di  nuove  idee,  può  alle  volte  parer  quasi  virtù,  quasi  bene- 
vola moderazione,  ove  la  si  paragoni  colla  rabbia,  or  fatta 
fieramente  manifesta,  ora  dissimulata  vigliaccamente,  con  cui 
certi  barbassori  si  opposero  alla  diifusione  di  certi  studi  te- 
deschi in  Italia.  Questa  diffusione  è,  chi  noi  sappia  ancora, 
opera  che  assai  poco  giova  alla  scienza,  ed,  oltracciò,  offende 
la  giusta  alterezza  e  snatura  il  carattere  di  noi   Italiani. 

Che  la  scienza  italiana  basti  all'Italia,  ìa  francese  alla 
Francia,  è  una  di  quel'e  dottrine  che  per  io  più  non  si 
osano  professare  apertamente  e  che  si  possono  solo  susur- 
rare  all'orecchio  dei  più  intimi  amici,  degli  allievi  più  re- 
verenti e  più  avvezzi  a  ripetere  il  pitagorico  aùiò?  I(pa.  Quando 
si  parla  al  pubblico  o  si  scrive  per  esso  si  ammette  gene- 
ralmente che  la  cognizione  degl'intendimenti,  dei  metodi, 
dei  risultati  della  scienza  straniera  può  riuscire  non  poco 
giovevole:  si  ha  eziandio  talvolta  la  incredibile  bontà  di  ag- 
giungere qualche  parola  di  lode  a  quegli  operosi  che  di  essa 
si  fanno  interpreti  alla  patria  loro.  Vuoisi  soltanto,  osser- 
vano, non  varcar  certi  limiti.  Apparentemente  non  si  po- 
trebbe dir  meglio ,  e  chi  non  applaudirebbe  ?  Ma,  ove  dalle 
parole  procedasi  ai  fatti  e  si  astringano  quei  buoni  amici 
del  saper  forestiero  a  segnare  i  confini,  entro  ai  quali  cre- 
dono utile  la  propagazione  di  esso  nel  loro  paese,  sì  fatti 
confini  ti  appariranno  sì    stretti,   che  tu  ti  sentirai  fra   essi 


—  445  — 
angustiato  quasi  come  nel  letto  di  Procuste.  E,  se  ti  la- 
gnerai (ed  a  ragione)  ti  risponderanno  che,  alla  iìn  delle  fini, 
ritalìa,  già  maestra  al  mondo  due  volte,  la  Francia,  già  da 
due  secoli  regina  della  civiltà  (i)  non  hanno  guari  ad  impa- 
rare dalle  altre  nazioni,  verbigrazia  da  quella  Germania  che 
un  giorno  tanto  apprese  da  esse.  E  qui  sta  il  gran  torto. 
Che,  come  ben  nota  il  Bréal,  «  il  est  impossible  qu'un  seul 
peuple  ait  par  lui-meme  i'  idée  de  tous  les  progrès  qui  se 
som  présentés  à  Tesprit  des  autres  nations.  Des  événements 
particuhers  ont  pu  favoriser  à  Pétranger  des  réformes  qui 
ont  pu  etre  contrariées  chez  nous  par  des  circonstances  for- 
tuites.  Il  n'est  pas  jusqu'aux  erreurs  de  nos  voisins  qu'il  ne 
soit  bon  de  connaitre,  pour  ne  pas  tomber  dans  les  mémes 
fautes;  car  il  pourrait  nous  arriver  d'ìntroduire  chez  nous, 


(i)  «  cftte  France  est  grande   malgré  ses  malheurs!    Vaincuo 

dans  une  défaillance  momentanee  de  son  crganisaiion  miiitaire,  elle 
est  restée  reine  par  la  civilisation,  par  le  crédit,  par  l'esprit;  et  per- 
sonne  ne  lui  òtera  cetie  couronne,  qui  vaut  bieiì   celle  de  l'enipereur 

Guillaume.  Pourquoidonc  nous  renvoyer à Técole  des  AUemands ?» 

CtrviLLiER-FLEURY,  Op.  cìt. ,  p.  i8.  Ed  il  signor  De  Laprade  discor- 
rendo del  <!  genie  fran^ais  »  asserisce  che  «  à  coté  de  lui  cette  Alle- 
magne,  aujourd'hui  triomphante,  n'enpeut  pas  moins  éire  réputée  une 
race  barbare  »  {Véducation  libérale,  p.  207).  Se  due  membri  dell'Ac- 
cademia francese  professano  simili  opinioni,  quali,  chiediamo  noi,  non 
saranno  le  illusioni  del  volgo  ?  Come  poi  l'educazione  stessa  concorra 
a  perpetuare  nelle  nuove  generazioni  cetri  pregiudizi  di  questa  natura, 
pregiudizi  funesti ,  apprendiamo  dal  Rréal.  «  Au  lieu  de  contenir 
notre  amour-propre  national  dans  les  limites  d'un  patriotisme  inieJ- 
ligent,  au  lieu  de  l'ennoblir  en  y  gretianl  l'ambition  de  lous  les  mé- 
rites  qui  peuvent  nous  manquer,  on  a  vu  l'école  comme  le  collège 
fiatter  plutót  que  diriger  cette  inclinatlon  naturelle,  Tel  ìivre  répandu 
dans  nos  classes,  par  les  parallòles  qu'il  éiablit  à  chaque  page  entre 
la  France  et  les  autres  nations ,  semble  avoir  été  écrit  exprès  pour 
donner  à  nos  écoliers  la  plus  mediocre  idée  du  reste  du  monde,  Assu- 
réraent  il  est  bon  et  nécessaire  de  nourrir  dans  la  jeunessc  la  plusgéné- 
reuse  des  passions;  mais  le  patriotisme  poussé  jusqu'à  l'infatuaiion  ci 
à  l'aveuglement  n'est  pas  seulemcnt  une  erreur,  c'est  un  danger  pour 
le  pays.  ■'  Op.  cit.y  p.   116-7. 


—  446  — 

comme  réformes,  des  expériences  depuis  longtemps  condain- 
nées  à  l'étranger  »  (i).  E,  per  ciò  che  concerne  la  scienza, 
più  che  a  qualunque  altro  popolo  vuoisi  appunto  presen- 
temente aver  ricorso  al  tedesco.  Il  moto  intellettiiaie  di  questo 
popolo  è,  scrive  il  francese  Renan,  «  le  plus  riche,  le  plus 
flexible,  le  plus  varie ,  dont  Thistoire  de  Tcsprit  humain  ait 
gardé  le  souvenir  (2)  »:  «  prodigieuse  activité  »,  scrive  il 
Pouchet  (3),  «  dont  rien  n'avait  pu,  mème  à  Paris,  nous 
donner  une  idée  ».  Indi  la  odierna  superiorità  scientifica 
della  Germania  sulle  altre  nazioni  :  superiorità  incontestabile, 
come  afferma  Renan  :  superiorità  riconosciuta  da  tutti,  anche 
dallo  stesso  governo  francese,  come  nota  il  Pouchet,  e  dal 
governo  italiano  che  inviò  in  Allemagna  non  pochi  giovani 
egregi  a  compiervi  i  loro  studi  universitarii  e  n'ebbe  eziandio 
qualche  dotto  ed  operoso  maestro. 

Ma  qui  un  coro  di  retori  ci  arresta  e  ci  grida  :  Voi,  che 
non  vi  stancate  di  predicare  alla  vostra  patria  la  necessità 
di  apprendere  molto  da  scuole  straniere,  voi  offendete  la 
giusta  alterezza  che  la  coscienza  del  proprio  valore,  la  me- 
moria del  suo  grande  passato  le  inspira!  Che  ne  direbbero 


(1)  Op.  cit.,  p.  6. 

(2)  Questiorìs  contemporaìnes,  p.  81-2  e  segg,  «  Une  université  alle- 
mande de  deraier  ordre,  Giessen  ou  Greisswald,  avec  ses  peiites  habi- 
tudes  étroites,  ses  pauvres  professeurs  à  ia  mine  gauche  et  efEarée,  ses 
privatdocent  baves  et  faméliques,  fait  plus  pour  l'esprit  humain  que 
l'aristocratique  université  d'Oxford,  a\ec  ses  millions  de  revenu  ,  ses 
colléges  splendides,  ses  riches  traitements,  ses  fellorvs  paresseux.  »  Ib., 
p.  84.  —-  «  Niuno  apprezza  più  di  me  la  nazione  germanica ,  così  per 
la  sua  indole,  come  per  li  suoi  meriti  in  molte  parti  del  sapere ,  e 
specialmente  nell'erudizione,  dove  ella  ha  pochi  pari  fra'  popoli  mo- 
demi.  Anzi  si  può  dire  generalmente,  i  Tedeschi  essere  per  alcuni 
rispetti  i  soli  Europei,  che  sappiano  ancora  studiare.  »  Gioberti,  Intro- 
dusfiotte  allo  studio  della  fJosoJìa,  2»  ed.,  Brusselle,  1844,  voi,  i,  p.  S2 

(3)  L'enseignement  supérieur  des  sciences  en  Allemagne  [Revue  des 
deux  mondes,  t.  83,  p.  43 1). 


—  447  — 
gli  avi?  Non  vi  ripudierebbero  essi  forse^  quasi  degeneri 
nepoti,  quasi  bastardi  Italiani,  se  vi  vedessero  inchinarvi 
con  reverenza  di  allievi  innanzi  ai  discendenti  di  coloro  cui 
essi  chiamarono  barbari?  Gli  stessi  Tedeschi  non  si  faranno 
forse  beffe  di  voi,  di  voi  intenti  ad  imparar  da  loro,  essi  sì 
fieri  di  essere  e  di  conservarsi  Tedeschi?  —  Ti  confessiamo, 
intelligente  ed  onesto  lettore,  che,  quanto  commoda  (come 
quella  che  esenta  da  lunghi  e  laboriosissimi  studi  di  lingue 
e  di  dottrine  forestiere),  altrettanto  strana  ci  sembra  una 
certa  italianità,  la  quale  non  si  rivela  mai  così  viva,  come 
quando  si  scaglia  contro  il  sapere  germanico,  Piii  strana 
ancora  ci  appare  cotale  italianità,  ogniqualvolta  ci  ricorre 
alla  memoria  come  fra  i  più  rabbiosi  e  famigerati  rappresen- 
tanti di  essa  siavi  chi  sembra  essersi  acceso  d'ardentissimo 
zelo  di  difendere  i  sacri  diritd  dello  ingegno  italiano  contro 
i  Teutoni  (i),  soprattutto  da  che,  per  certe  impertinenze,  un 

(i)  Le  armi,  per  buona  ventura  affatto  innocue,  di  qualche  italia- 
nissimo  di  questa  risma  sono  ora  rivolte  principalmente  contro  T. 
Mommsen  per  i  giudizi  severissimi  da  lui  profleriii  nella  sua  Storia 
romana  sulle  attitudini  artistiche  dello  ingegno  italico  e  sopra  parec- 
chi fra  i  nostri  più  celebri  scrittori  antichi  e  moderni.  Non  è  punto 
nostro  intendimento  difendere  T.  Mommsen:  egli  è  tale  che  non  ha 
uopo  di  alcun  difensore,  specialmente  poi  contro  certi  ovversarii,  coi 
quali  egli  non  potrebbe  nemmeno  scendere  a  lotta  senza  parer  Ercole 
che  insacca  i  Pigmei.  Staremo  paghi  di  notare  che  muovono  a  riso  gii 
anatemi  scagliati  ancora  presentemente  sugli  accennati  giudizi  momm- 
scniani,  come  se  questi  fossero  novità  d'oggi  o  di  ieri  e  non  si  tro- 
vasse nelle  opere  di  grandi  pensatori  precedenti  nemmeno  un  germe 
di  sì  fatti  concetti  (v.,  ad  es. ,  ciò  che  intorno  allo  ingegno  romano 
si  legge  nel  Cosmos  di  A.  Humboldt,  parte  i%  cap.  lo,  voi.  2,  p.  i5 
e  segg.  della  vers.  fr.  di  Galusky,  Parigi,  1848).  A  buon  diritto  quel- 
l'uomo egregio  che  è  il  professore  P.  Villari,  dopo  aver  condannale 
quelle  sentenze  dello  storico  tedesco,  protesta  che  non  per  questo  può 
associarsi  «  alle  critiche  puerili  d'alcuni  giornali,  i  quali  dimentica- 
rono che  parlavano  d'uno  dc'più  grandi  pensatori  e  scrittori  moderni  » 
(Scritti  pedagogici,  Torino,  i8ó8,  p.  343).  —  Che  più?  Si  giunse  ad 
accusare  T,  Mommsen  di  aver  errato  in  più  luoghi  nella  versione  di 
una  iscrizione  latina.  Quella  versione  —  ridi ,  o  lettore  —  non  era 
opera  di  Mommsen!!! 


-  448  - 
gran  maestro  teutonico  lo  castigò,  dicono,  come  si  castiga- 
vano i  fanciulli,  facendogli  assaggiare  la  sua  verga filo- 
logica. Stranissima  poi  e  quasi  incomprensibile,  quasi  mi- 
stero per  noi  è  questa  italianità,  allorquando  fra  i  più  ac- 
caniti banditori  di  essa  udiamo  la  voce  di  taluno,  il  quale, 
non  sappiam  bene  per  quali  ragioni,  forse  in  parte  per  di- 
spetto e  per  isbaglio,  s'imbrancò  con  quegl'Italiani  che  vili- 
pendono ritalia  nuova,  ma  ne  accettò,  nondimeno,  onori  e 
stipendii.  Supponi  ancora,  o  lettore  (se  hai  imaginativa  dì 
poeta),  supponi,  ad  esempio,  che  quella  sì  gelosa,  sì  fiera 
italianità  abbia  una  volta  insultato  grossolanamente  alla  me- 
moria di  un  insigne  italiano  e  n'abbia  avuto  in  pena  una 
degradazione,  e  tu  avTai  un  argomento  di  satira  degno  di 
Giusti  (i).  Ma,  con  buona  pace  di  questi  italianissimi,  noi 
continueremo  a  credere  ed  a  dichiarare  senz'ambage,  che 
qualsiasi  popolo,  e  soprattutto  quelli  che  aspirano  a  m0.ggior 
nobiltà,  debbono  sempre  anteporre  ii  generoso  amore  del  vero 
all'orgoglio  nazionale.  Ne  ci  vien  fatto  di  vedere  come  a 
questo  possa  recare  maggiore  offesa  lo  imparar  da  stranieri, 
senza  ossequio  servile  e  con  perfetta  indipendenza  di  cri- 
terio (vale  a  dire  esaminando  liberamente,  quindi  conti- 
nuando e  forse  eziandio  migliorando  Topera  loro),  che  non 
l'ignorare  ciò  eh'  essi  sanno,  e,  tronfii  del  nostro  passato, 
paghi  del  nostro  presente,  non  curanti  del  nostro  avvenire, 
rimanere  perennemente  da  meno  di  coloro,  cui,  stoltamente 
arroganti,  non  volemmo  a  maestri  (2).  E  questi  si  resero  e 


(i)  E  degno  di  versi  che  la  gioventù  studiosa   impari  a   memoria 
come  i  quattro  famosi: 

'«  Piango  l'Italia 
Coi  liberali; 
E  se  mi  torna 
Ne  dico  coma  ». 

(2)  « il  n'y  a  pas  de  déshonneur   à  un  peuple   d'en   prendre  de 

temps  en  temps  un  auire  pour  modèle;  nous  »  (è  il  francese  Baudry 


—  449- 
si  mantengono  tali  per  ciò  che.  oltre  al  loro  proprio  intenso 
lavorio  intellettuale,  e  impararono  ed  imparano  anche  pre- 
sentemente, ogniqualvolta  abbia  loro  giovato  o  giovi,  da  noi 
e  da  tutti:  e  di  ciò  sono  conscii,  né  si  vergognano  di  con- 
fessare che  qualche  volta  avvenne  loro  di  trapassare  il  se- 
gno (i),  non  punto  temendo,  come  mostrano  certi  Italiani, 
che  lo  apprendere  dalla  scienza  forestiera  snaturi  il  carat- 
tere nazionale. 

E  veramente  qual  uomo  di  sano  intelletto  oserebbe  mai 
affermare  che  si  snaturi  un  organismo,  vuoi  vegetale,  vuoi 
animale,  collo  appropriarsi  certi  elementi  estrinseci,  assolu- 
tamente necessarii  alla  conservazione,  allo  svolgimento  del 
medesimo?  Così  sarebbe  vana  follia  lo  asserire  che  ad  un 
popolo  sia  per  venir  meno  ciò  che,  compenetrando,  infor- 
mando tutti  gl'individui  che  lo  compongono,  costituisce  il 
carattere,  la  personahtà  di  esso,  allorquando  questo  popolo, 
scorgendo  in  sé  difetto  di  qualche  principio  vitale  che  in 
altri  si  rivela  rigoglioso  e  fecondo,  sforzasi  di  trarne  da  questi 
quanto  gli  occorre,  conformandolo  alla  propria  natura,  assi- 
milandolo a  sé  stesso  (2).  Molti  secoli  prima   che  la  civiltà 


che  parla,  Questions  scolaires,  p.  11)  «  nous  l'avons  fait  plus  d'une 
fois  dans  le  cours  de  notre  histoire.  Notre  Renaissance  a  imité  l'Italie; 
notre  dix-huitième  siècle  a  imiié  l'Angleterre.  Les  étrangers  aussi  nous 
oni  copiés  sans  rougir,  car  un  seul  peuple  ne  peiu  tout  créer,  Avons- 
nous  eu  tort  d'emprunter  le  jury  aux  Anglais?  »  E  non  si  tenta  forse 
d'imitare  l'organizzazione  dell'esercito  tedesco?  «  Quittons,  comme  une 
puérilité,  la  prétention  de  ne  rien  devoir  à  personne,  et  sachons  prendre 
les  bons  exemples  où  ils  se  trouvent.  » 

(i)  «  Tfa  i  popoli  moderni  siamo  noi  Tedeschi,  com'è  noto,  i  più 
atti  e  disposti  ad  approvare  e  ad  accogliere  quanto  è  forestiero  ;  noi 
abbiamo,  pur  troppo,  accolto  più  che  non  possiamo  combinare  coi  no- 
stro proprio  spirito  nazionale.  »  La2arus  e  Stzwthm.,  Einleiteude  ge^ 
danken  ìiber  vólkerpsychologie  ecc.  {Zeitschrift  fiir  volkerpsychologie 
und  sprachwissenscha/ìy  voi.  i,  p.  66). 

(2)  "  Écartons  également  l'objeciion  de  la  différence  des  génics  et 
des  races,  véritable  argument  de  paresse  à  l'usage  de  la  routine  qu'on 


-  450  - 
moderna  rendesse  sempre  più  numerosi  e  stretti  i  legami 
tra  nazione  e  nazione,  Roma  sentì,  comprese  l'imperioso 
bisogno  di  far  suo  tutto  ciò  che  utile  ad  essa  pareva  nelle 
instituzioni  degli  stranieri,  degli  stranieri  ch'ella  aveva  vinti 
o  stava  per  vincere  (i).  Imitiamo  i  padri  nostri,  ricavando 
da  quei  popoli,  che  ne  sono  a  dovizia  forniti,  le  forze  onde 
ci  è  uopo,  e  fondendole  colla  nostra  propria  natura  Né  da  sì 
fatto  innesto  ci  distolga  soverchio  timore  di  vederci  un 
giorno  trasformati,  verbigra^'.ia,  in  Tedeschi,  come  già  sem- 
brammo diventati  prima  Spagnuoli  e  poscia  Francesi:  che  la 
conquistata  autonomia  nazionale  ed  il  grave  divario  che  !e 
genti  neo-latine  discerne  dalle  germaniche  attenuano,  ben  piià 
che  altri  non  abbia  mostrato  di  avvedersene,  il  valore  di 
quel  paragone. 


dérange.  Qui  n'a  pas  souri,  quand  le  ministre  de  l'instruction  publique 
d'Espagne  recornmandaità  ses  subordonnés  de  «  se  défier  des  vaporeuses 
concepticns  d'une  phiiosophie  et  d'une  critique  étrangères  au  genie  es- 
pagnol!  ■>  Nous  n'étions  pourtant  pas  moins  ridicules,  quand,  prenant 
pour  l'espiit  franyais  les  accidenrs  de  ncir  situations,  nous  le  dccfarions 
incompatible  avec  «  les  reveries  de  la  science  germanique  »  .  lì  s'est 
trouvé  que  les  préiendues  reveries  étaient  la  force  réelle  et  positive,  et 
que  les  vrais  songe-creux,  c'étaìt  nous,  endormis  dans  rillusion  d'une 
fausse  super iorité.  »  Baudry,  Questions  scolaires,  p.   lo-ii. 

(i)  Notarono  questa  tendenza  all'assimilazione  i  grandi  investigatori 
rooderni  della  vita  ronnana,  v.  g.  Macchiavelli  [Discorsi  sopra  la  prima 
deca  di  T.  Livio,  libro  2»,  capit,  3"),  Vico  {Opere,  ed.  Ferrari,  Milano, 
i835-7,  '^^^'  2°,  p.  ii3-4),  Montesquieu  [Considérations  sur  les  causes 
de  la  grandeur  des  Romains  »»cc  ,  Paris,  Didot,  r8o2,  p.  aSy).  «..  tutte 
quelle  »,  leggiamo  iu  Vico  [Le),  <■>  che  stimansi  comunemente  fortune 
de'Romanì,  io  riduco  a  questa  sapienza,  ch'essi  seppero  far  buon  uso 
de'fruui  della  doitriua  delle  altrui  repubbliche  »  ecc.  Cosi  G.  Cesare  in 
Sallustio  (Cat.,  LI):  «  Maiores  nostri...  nequc  consiiii,  ncque  audaciae 
umquam  eguere  :  neque  illis  superbia  obstabat,  quo  minus  aliena  insti- 
tuta,  si  modo  proba  erant,  imiiarentur.  Arma  atque  tela  militarla  ab 
Samnitibus,  insignia  magistratuum  ab  Tuscis  pieraque  sumpserunt, 
postremo  quod  ubique  apud  socios  aut  hostes  idoneum  videbatur,  cum 
summo  studio  domi  exequebantur,  imitari  quam  incidere  bonis  male' 
bant  »  (ed.  Gerlach,  Basiliae,  iS52,  voi.  i,  pag.  34). 


-  451  - 
Procedendo  ora  da  questi  concetti  generali  ad  alcune  con- 
siderazioni che  concernono  in  ispecie  quegli  studi,  cui  questa 
Rivista  è  particolarmente  consecrata,  noteremo  innanzi  tratto 
che,  come  alcuni  anni  or  sono  era  vezzo  di  alcuni  Italiani  far 
bersaglio  dei  loro  colpi  la  filosofia  di  Hegel  (anche  dappoiché 
non  era  più  prevalente  nemmeno  in  Germania)  e  la  critica 
storica  di  Niebuhr,  così  presentemente  l'onore  di  essere  as- 
salite con  violenza  quanto  rabbiosa  altrettanto  impotente  da 
certi  nostrali,    in   cui   la  presunzione  tiene  spesso  luogo  di 
scienza  e  la  supera  spesso  di  gran  lunga,    spetta   singolar- 
mente alla  filologia  classica  ed  alla  hnguistica  dei  Tedeschi. 
Si   biasima,  si    berteggia  Tortografia   latina   ch'essi   adope- 
rano; ma  non  la  si  confuta,  non   la  si  discute  seriamente, 
non  se  ne  conosce  neppure  il  principio  supremo  (i).  Si  osa 
insegnare  cattedraticamente  essere  sovente  lavoro  superfluo, 
ridicolo  e  pernicioso  quello  di  tutti  coloro   che  impinguano 
le  loro  edizioni  dei  classici  di  varianti  innumerevoli;  alcune  di 
queste  essere  tali  che  si  debbono  rigettare  come  immondizie. 
Egregiamente  !  Così  si  lavora  assai  meno  e  si  passeggia  quattro 
o  cinque  ore  del  giorno,  alia  barba  di  que'  buoni  Tedeschi 
che  in  quel  tempo  non  istaccano  gli  stanchi    occhi  dai  co- 
dici che  cercano  in  tutte  le  biblioteche  del  mondo.  Qui  una 
plebe  di  pedanti,  per  insipienza,  per  arroganza,    per   infin- 
gardaggine, per  cupidigia,  si  arrabatta  contro  i  nuovi  metodi 
germanici  più  razionali  per  lo  insegnamento  del  latino  e  del 
greco  ne'ginnasii  e  ne'licei  (2)  ed  erutta  scioccherie  tali  che 
non  meritano  l'onore  di  una  risposta  :  là  un  volgo  di  retori 


(1)  V.  Brambach,  Die neugestaliung der  lateinischcn  orthographie  ecc., 
Leipzig,  1868:  opera  che  espone  sistematicamente  le  ragioni  deìl'or- 
tografia  latina  onde  abbiam  fatto  cenno  ;  opera  che  certi  aristarchi  doz- 
zinali non  mostrarono  mai  di  aver  letta nò  di  sapere  iiftendere. 

(a)  V.  la  terza  parte  di  queste  nostre  Considerazioni  nel  fase.  7"  della 
presente  Rivista,  p.  310-329. 


-  452  — 

camuffati  da  filologi  raglia,  calunniando,  contro  la  scienza  del 
linguaggio,  della  quale  fu  creatrice  ed  è  ancora  suprema 
maestra  l'AUemagna.  Ed  ora  con  lepida  gravità  dottorale 
accusano  i  linguisti  di  voler  restringere  lo  studio  del  latino 
a  ricerche  etimologiche,  di  non  essere  altro  che  uccellatori  di 
suoni,  di  sillabe,  di  distogliere  i  giovani  dal  culto  dei  clas- 
sici antichi  e  di  ottundere  gl'ingegni  :  ora,  mutando  la  toga 
del  professore  nella  veste  di  Arlecchino,  sgavazzano  buffo- 
neggiando, proponendo,  a  nome  della  odierna  glottologia  , 
certe  strampalate  derivazioni  di  vocaboli.  Queste  accuse  ed 
i  loro  autori  sono  sì  fattamente  estranei  alla  scienza  del  lin- 
guaggio, che  questa  non  potrà. mai,  nemmeno  un  istante,  cu- 
rarsi né  delle  prime  né  dei  secondi.  È  noto  a  tutti  coloro, 
i  quali  di  linguistica  storico-comparativa  non  sono  così  pro- 
fondamente ignari  come  quei  signori  (i),  non  essere  la  investi- 
gazione dei  suoni  e  delle  radici  se  non  una  parte  del  compito 
che  si  propone  il  linguista  nostro  contemporaneo;  che  altra 
parte,  né   certamente   posposta   a   quella,   é  T analisi  delie 


(i)  Che  diresti,  o  lettore,  se  alcuno  di  questi  dottoroni  avesse  dato 
prova  di  non  sapere  ancora  che  la  scienza  del  linguaggio  non  bassi  a 
chiamare  7?/o/o^:j,  la  quale  è,  per  consenso  dei  più  dotti,  ben  altra  disci- 
plina; di  non  accorgersi  che  muove  a  riso  anche  l'ultimo  dei  linguisti 
lo  udir  discorrere  non  di  suoni,  ma  di  lettere  {sicl  !  !),  aggiunte,  tolte, 
spostate,  e  il  veder  fatto  cenno  dei  suffissi  e  delle  flessioni,  come  se  gli 
elementi  costitutivi  della  flessione  non  fossero  suffissi;  di  credere  che 
un  glottologo  odierno  non  si  vergognerebbe  di  certi  paragoni  fra  parole 
appartenenti  ad  idiomi  non  affini  fra  loro  ;  d'ignorare  che  nessun  vero 
erudito  considera  più  la  lingua  sanscrita  quale  procreatrice  della  greca 
e  della  latina,  vieto  pregiudizio  che  più  non  esiste  ormai  da  molti  anni? 
Che  diresti  finalmente  se,  per  un  quasi  incredibile  scerpellone,  avesse 
appellato  mw^am^wfo  JKOr/b/o^/co  un  fenomeno  che  uno  scolare  di  quarta 
ginnasiale  gl'insegnerebbe  a  denominare  mutamento  fonetico  }  Se  poi, 
prima  di  essersi  mai  mostrato  esperto  di  linguistica  storico-compara- 
tiva, anzi  dopo  aver  fatta  palese  anche  ai  meno  dotti  la  sua  ignoranza, 
supina  di  questa  scienza,  v'ha  chi  s'impanca  tra  i  giudici  di  essa,  non 
si  meravigli  almeno  se  altri  non  se  ne  dà  pensiero  o  si  ride  della  disap- 
provazione di  lui,  come  di  giudice  incompetente. 


-  453  — 
forme  nominali  e  verbali;  che  altra  parte  ancora  è  Tìnda- 
gare  il  valore  delle  radici  e  delle  forme,  considerate  come 
sìmboli  di  concetti,  né  chi  voglia  profferir  giudizio  sulla  lingui- 
stica odierna  può  passare  sotto  silenzio  questa  serie  di  ri- 
cerche, estese,  profonde,  frequenti,  senza  rendersi  degno  di 
una  patente  di  mala  fede  o  di  crassa  ignoranza.  È  noto 
eziandio  che  la  linguistica  non  è  punto  avversaria,  ma  amica 
e  sorella  della  vera  filologia,  cui  reca  e  da  cui  trae  giova- 
mento ;  che  non  essa  ottunde  lo  ingegno,  essa  che  è  la  storia 
e  la  filosofia  della  umana  favella,  ma  bensì  quella  miserabile 
contraffattura  dello  studio  classico,  quella  bastarda  filologia 
da  ciurmatori,  da  scimmiotti,  che  con  qualche  centinaio  di 
parole  e  di  frasi,  tratte  dagli  antichi  e  combinate  in  varie 
forme,  inorpella  il  difetto  di  dottrina  ampia  e  profonda,  di 
gagliarda  imaginativa,  di  acuta  e  vasta  intelligenza;  che,  fi- 
nalmente, si  fa  in  un  mese  maggiore  e  migliore  lettura  di 
scrittori  latini  in  molti  ginnasii  di  Allemagna,  patria  della 
linguistica,  che  non,  in  un  anno,  in  qualche  ateneo  non  ger- 
manico, ove  il  commento,  tanto  strombazzato,  di  autori  ro- 
mani è  ristretto  a  certi  limiti  di  tempo  che  farebbero  ridere 
qualunque  professore  tedesco,  e  spesso  consiste  in  certe  os- 
servazioni che  parrebbero  ben  povera  cosa  anche  in  un  liceo 
degno  dell'epoca  nostra. 

Sebbene  ne'cenni  precedenti  siamo  stati,  com'era  nostro 
dovere,  brevissimi,  ci  sembra  nondimeno  apparire  da  essi  a 
sufficienza  quale  e  quanta  sia  la  cognizione  che  della  scienza 
in  genere,  in  ispecie  poi  della  filologia  classica  e  della  lingui- 
stica straniera,  e,  soprattutto,  della  germanica,  mostrarono  di 
avere  certi  accaniti  avversarli  della  propagazione  di  esse  fra 
noi  Italiani.  Né  ciò  farà  specie  a  chi  sappia  come  un  liRro  te- 
desco, ed  eziandio  un  libro  inglese,  sia  proprio  un  mistero 
pel  maggior  numero  di  questi  signori,  che,  se  venissero  per 
avventura  offesi  d'acri  censure  da  un  dotto  di  Allemagna  e 


—  454  — 
nel  linguaggio  di  questo  paese,  sarebbero  costretti,  poverini, 
a  farsele  tradurre,  anche  a  costo  di  dar  luogo  a  qualche 
scena  sì  veramente  comica,  che  il  semplice  ricordo  di  essa 
potrebbe  destare  l'ilarità  anche  dopo  parecchi  anni.  Si  direbbe 
che  cotali  aristarchi  siano  discendenti  di  quei  due  gentiluomini, 
i  quali,  narrasi,  neiPepoca  della  famosa  contesa  fra  gli  ammi- 
ratori di  Ariosto  e  quelli  di  Tasso,  si  sfidarono,  si' batterono, 
si  ferirono,  e,  feriti,  confessarono  non  aver  letto  mai  né 
rOriando  furioso  né  la  Gerusalemme  liberata.  Coll'abito  lo- 
devolissimo  di  giudicare  spesso  senza  conoscere  a  sufficienza, 
talora  eziandio  senza  intendere  punto  ciò  che  si  giudica,  si 
conservò  in  alcuno  dei  dottoroni  odierni  onde  discorriamo  il 
vezzo  non  meno  lodevole  d'inveire  contro  ai  proprii  avversarli 
o  di  farsene  beffe,  e  qualche  volta  in  guisa  sì  fattamente  plebea 
che  l'assalito  potrebbe,  senza  far  ingiuria  alla  verità,  rispondere 
allo  assalitore  colle  parole  del  pedagogo  erasmiano  al  rozzo 
discepolo:  «  Tu  mihi  videre  non  in  aida  natus,  sed  in  caula^ì{i). 
Né  meravigliarti,  o  lettore,  se  taluno  di  quei  generosi,  che 
forse  si  vide  molte  fiate  serrare  in  faccia  le  porte  di  qualche 
accademia,  si  farà,  alla  sua  volta  e  da  suo  pari,  intoppo  a 
te  per  negarti  l'adito  a  qualche  società  scientifica,  appena  che 
si  sarà  avveduto  che  tu  sei  uno  dei  propagatori  della  scienza 
germanica  nella  tua  patria. 

Se,  per  ciò  che  abbiam  fatto  (senza  risparmiarci  né  fa- 
tiche né  lotte)  collo  intento  di  promuovere  nella  patria  no- 
stra il  culto  della  linguistica  tedesca,  la  nostra  voce  suona 
non  affatto  inefficace  alla  gioventù  studiosa  d'Italia,  noi  l'e- 
sortiamo con  tutte  le  nostre  forze  a  non  lasciarsi  illudere 
dai  vani  argomenti  né  sgomentare  dal  cipiglio  o  dalle  beffe 
di  quei  certi  Italiani,  che  la  distolgono  dal  far  suo  con  in- 

(i)  ERAsm  Colloquia  /amiliaria,  Basileae,  1707,  p.  41. 


-  455  - 
tenso  lavoro  il  saper  forestiero.  Noi  Pesortiamo  alio  studio 
delle  lingue  e  delle  scienze  straniere  (i),  per  amore  del  vero 
che  vogliamo  diffuso  fra  tutta  l'umanità,  per  amore  del  no- 
stro paese  che  vogliamo  pari  ai  più  civili  nei  desiderii,  nelle 
opere  che  affrettano  il  progresso.  E,  se  non  a  noi,  credete, 
giovani  italiani,  credete  a  Cesare  Balbo,  ed  imparate  da  lui 
essere  ormai  un  assurdo  «  quella  gretta  e  stringata  e  sognata 
nazionalità  »  (2)  che  abborre  da  ogni  contatto  morale  di 
stranieri:  doversi  far  quistione  «  se  le  cose  son  buone  o 
no  »,  ma  lasciar  «  quella  eterna,  se  sieno  nazionali  o  stra- 
niere »  (3);  doversi  dagli  stranieri  non  prendere  «  il  male 
mai,  ma  il  bene  sì,  senza  diflicoltà  »  (4).  Credete  a  Vincenzo 
Gioberti,  il  quale  v'insegna  che,  ove  altri  u  sappia  usarne  con 


(i)  Quando  lo  studio  delle  lingue  classiche  sarà  stato  reso  più  breve 
e  più  facile,  mediante  un  metodo  più  razionale  ;  quando  saranno  stati 
risireiii  a  più  giusti  limiti  certi  studi  scientifici;  allora  si  potrà,  imitando 
il  nobile  esempio  che  ci  dà  ora  la  Francia  per  opera  di  j.  Simon,  fon- 
dare anche  nelle  scuole  secondarie  italiane  un  serio  insegnamento  di 
qualche  lingua  moderna,  per  guisa,  ad  esempio,  che  nei  due  ultimi  corsi 
del  ginnasio  s'apprenda  dai  giovani  alunni  il  francese,  e  nel  liceo  s'im- 
pari tanto  di  tedesco,  quanto  C  necessario  per  intendere  la  prosa  scien- 
tifica dettata  in  questa  lingua.  V.  Brèal,  Op.  cit.,  p.  258-9;  J.  Simon, 
Circulaire  ecc.,  6°. 

(2)  Pensieri  ed  esempli,  Firenze,  i856,  p.  221. 

(3)  Op.  cit.,  p.  38o, 

(4)  Op.  cit.,  p.  362.  —  «  E  voi,  non  vedete  voi  quella  sm.ania  che  hanno 
tanti  di  gridare  contro  le  letterature  settentrionali,  quasi  turbanti  il  no- 
stro bel  cielo;  contro  le  filosofie  straniere,  quasi  turbanti  i  nostri  animi; 
contro  ogni  invenzione  straniera,  quasi  un  pjagio  fatto  a  qualche  antico 
Italiano?  A  me  par  anzi  una  smania,  una  monomania  universale.  »  Op. 

cit.,  p.  388.  « vorrei  che  si  considerasse  oramai  la  letteratura   (cioè 

intendo  la  letteratura  colle  scienze  e  colle  arti),  la  coltura,  la  civiltà  in- 
tellettuale tutta  intiera  delle  nazioni  cristiane,  come  una  sola  coltura, 
una  sola  civiltà:  che  tutti  insieme,  a  gara  si,  e,  se  volete,  con  qualche 
emulazione,  ma  sen:^a  gelosie^  sen^a  dispute,  si  cercasse  di  promuovere 
questa  comune  coltura  ;  che,  quanto  a  scien:;a  e  cogni:^ioni  positive,  si 
prendesse  gli  uni  dagli  altri,  quanto  prima,  quanto  più  facilmente ,  ogni 
trovato,  ogni  novità  »•  ecc.  Op.  cit.,  p.  391. 


-  456  — 
senno»,  può  giovargli  il  conoscere  anche  gli  errori  dottrinali  dei 
Tedeschi,  errori  «  talvolta  dottissimi  »  (i).  Né  vi  cadano  dalla 
memoria  le  seguenti  nobili  parole  di  P.  Villari:  «  L^indole 
dell'Italia  e  della  Germania  son  diverse,  e  resteranno  sempre 
tali;  ma  oggi  non  vi  è  nessun  popolo  civile  che  possa  vi- 
vere isolato,  perchè  la  civiltà  moderna  risulta  dalPazione 
combinata  di  tutti.  Onde,  se  si  può  deplorare  in  alcuni 
Tedeschi  quell'orgoglio  che  s'illude  a  segno  da  credere,  che 
la  civiltà  moderna  debba  essere  germanica;  non  ci  sono  pa- 
role bastevoli  a  condannare  la  puerilità  di  tanti  fra  noi, 
i  quali  credono  possibile  il  fare  qualche  cosa  che  duri 
nelle  lettere  o  nelle  scienze,  senza  sapere  ciò  che  fanno  le 
altre  nazioni  più  civili  di  noi;  e  vorrebbero  addormentarci 
sull'idea  ridicola  di  un  primato  italiano  in  ogni  cosa,  pri- 
mato che  oggi  a  nessuna  nazione  può  esser  concesso. 
Queste  frasi  rettoriche  potevano  una  volta  servire  a  na- 
scondere la  nostra  ignoranza;  ma  oggi  neppure  a  questo 
umile  ufficio  possono  bastare.  Non  ci  resta  altro  scampo 
che  il  lavoro  modesto,  paziente,  senza  presunzione;  ma 
con  fede  in  noi  stessi.  Dobbiamo  apparecchiarci  colle  pro- 
prie forze  a  compiere  la  nostra  parte,  persuasi  che  ogni 
nazione  ha  un  grande  scopo  da  raggiungere,  e  che  nessuna 
può  raggiungerlo  vivendo  isolata.  Apparecchiamoci,  adunque, 
nelle  scienze,  nelle  lettere  e  nelle  istituzioni,  ad  imparare 
qualche  cosa  da  ogni  popolo  civile,  per  restituire,  poi,  a 
tutti  i  popoli  qualche  parte  della  nostra  civiltà  rinno- 
vata »  (2). 

D.  Pezzi. 

{Continua) 


(1)  Degli  errori  filosofici  di  A.  Rosmini,  2»  ed,.  Brusselle,  1843,  voi.  2, 
p.  291. 
(^)  Scritti  pedagogici,  p.  372. 


Pietro  Ussello,  gerente  responsabile. 


—  457  - 

SAGGIO  SUL  CLITOFOtKTE 
DIALOGO   ATTRIBUITO    A    PLATONE. 


Siccome  le  Istrniiom  emanate  dal  Ministero  di  pubblica 
istruzione  nel  1867  molto  saviamente  prescrivono  nell'inse- 
gnamento filosofico  alcuni  esercizi  sui  testi  di  filosofi  greci  o 
latini,  non  parrà  fuor  di  luogo  in  una  ^vista  che  s'intitola 
non  solo  di  filologia,  ma  anche  (l'istruzione  classica  il 
saggio  che  qui  si  pubblica  sopra  un  dialogo  attribuito  a 
Platone,  dialogo  brevissimo,  ma,  come  si  vedrà,  non  privo 
d'importanza  per  la  cognizione  della  filosofia  socratica. 

Su  questo  dialogo,  che  s'intitola  Clitofonte,  sono  a  discu- 
tersi tre  questioni:  t**  Se  sia  autentico;  2*  Se,  non  essendo 
tale,  sia  almeno  opera  di  qualche  contemporaneo  di  Platone; 
3**  Quale  sia  la  sua  significazione. 

I. 

La  prima  questione  è  subito  risoluta.  In  ogni  dialogo  ove 
Platone  introduce  la  persona  dì  Socrate,  mostra  verso  il  suo 
maestro  un'alta  ammirazione  ed  un'  affettuosa  riverenza  a 
cui  fa  strano  e  spiacevole  contrasto  il  modo  orgoglioso  e 
sprezzante  con  cui  Socrate  è  trattato  in  principio  del  Clito- 
fonte, non  già  da  sofisti  come  Trasimaco  o  Polo,  messi  da 
lui  alle  strette  ed  esacerbati  per  la  meschina  figura  che  ven- 
gono facendo  nella  discussione,  ma  da  un  cittadino  Ateniese, 
di  cui  si  riferisce  il  discorso  con  approvazione,  e  senza  con- 
trapporvi risposta  o  correttivo  di  sorta.  In  nessuno  dei  pe- 
riodi della  «iua  operosità  come  scrittore  può  Platone  avere 

Hivista  di  filologia  ecc.,  I.  3i 


-  45S  - 
usato  in  riguardo  a  Socrate  espressioni  come  quelle  che  ver- 
remo notando  appiè  di  pagina  nella  traduzione  del  dialogo 
che  aggiungeremo  in  fine  di  questo  saggio.  Siamo  ben  lon- 
tani da  quella  rigidezza  critica  di  molti  Tedeschi,  i  quali  nel 
giudicare  dell'autenticità  dei  dialoghi  platonici  non  ricono- 
scendo altro  criterio  che  l'intrinseco,  quello  cioè  che  consiste 
nei  loro  maggiore  o  minor  pregio  dialettico  ed  estetico,  di- 
chiarano spurii  tutti  quelli  che  sembrino  troppo  lontani  dalla 
perfezione  che  si  ammira  nel  Protagora,  nel  Gorgia,  nel 
Fedone,  e  nella  Repubblica  :  crediamo  che  Valiquando  bonus 
dormiiat  sia  vero  non  solo  di  Omero,  ma  anche  di  Pla- 
tone; crediamo  che  il  valore  di  questo  come  scrittore  non 
sia  stato  ne'  suoi  primi  saggi,  e  nel  svio  ultimo  lavoro,  cioè 
nelle  Leggi,  così  eminente  come  nelFapogeo  della  sua  vita  let- 
teraria. Ma  quello  che  non  crediamo  abbia  mai  potato  cre- 
scere né  alterarsi  è  l'amore,  la  riverenza  e  l'ammirazione 
ch'egli  sentiva  per  Soci  ate.  Noi  cancelliamo  adunque  dal 
canone  platonico  il  Clitofonte  non  tanto  perchè  indegno 
dello  scrittore,  quanto  perchè  indegno  dell'uomo. 

II. 

A  risolvere  la  seconda  questione  od  almeno  a  recarvi 
qualche  luce  fa  d*uopo  richiamarsi  alla  memoria  un  passo 
di  Senofonte  {Memor.  I,  4,  i),  che  col  Finckh  e  con  Eu- 
genio Ferrai  io  leggo  nel  seguente  modo:  €ì  òé  rive?  IcuKpàrriv 
voiiilovaiv,  o\<;  (in  luogo  del  vulg.  ib?)  Ivioi  ypàq>Q\)ai  t€  km 
X^TOwai  7t€pl  aÒToO  T£K|uaipó|bi€Voi,  TTpOTpevpaaeai  fièv  dvGpwiTOUi; 
in'  dpeTtiv  KpdTiOtov  ferov^Ivcti,  TTpocfaxaTeiv  b'  èn'  aùTf]y  o^x 
ivcavóv,  (SK&\iàixevox  k.  t.  X.  e  traduco  così:  k  Se  poi  alcuni, 
tt  argomentando  da  quanto  parecchi  ne  scrivono  e  ne  dicono. 
K  credono  che  Socrate  fosse  valentissimo  nei  convertire  gli 
u  uomini  alla  virtù,  ma  incapace  poi  di  guidarii  infìno  ad 
'<  essa,  costoro,  dopc  che   avranno  considerato  ecc.  «.  11 


—  459  - 
qual  passo  ha  una  stretta  connessione  col  nostro  dialogo, 
come  già  fu  accennato  da  G.  F.  Hermann  nella  sua  Storia 
e  sistema  della  Jilosojìa  platonica  (p.  325,  nota  3o4).  Sì 
tratta  però  di  vedere  di  qua!  natura  sia  questa  connessione, 
di  vedere  cioè,  se,  al  tempo  che  Senofonte  scriveva  le  parole 
citate,  il  nostro  dialogo  già  esistesse  e  fosse  appunto  uno  di 
quegli  scritti  a  cui  alludeva  Senofonte,  nei  quali  sì  tacciava 
Socrate  dì  sapere  soltanto  eccitare  gli  uomini  alla  virtù,  ma 
non  mostrar  loro  in  modo  preciso  la  via  per  arrivarvi:  op- 
pure, inversamente,  se  il  passo  di  Senofonte  abbia  dato  oc- 
casione ed  impulso  alla  composizione  di  questo  scritto,  che 
in  quelle  parole  si  sperava  avrebbe  trovato  una  speciosa 
prova  della  propria  autenticità.  Per  quanto  la  seconda  di 
queste  due  ipotesi  possa  sorridere  alla  moderna  critica,  e 
fossero  anche  più  numerosi  che  non  sono  gli  esempi  di 
produzioni  apocrife  fatte  nascere  da  certi  luoghi  di  autori 
antichi  coi  quali  si  avea  speranza  di  autenticarle,  io  mi 
confesso  propenso  alla  prima  ipotesi,  e  credo  che  il  C/2V0- 
fonte  sia  opera  di  qualche  contemporaneo  di  Platone,  attri- 
buita a  Piatone  stesso  in  tempi  posteriori,  quando  per  avi- 
dità di  guadagno  si  fabbricavano  opere  d'ogni  genere  che  si 
attribuivano  a  celebri  filosofi  antichi,  o  si  insignivano  di  quei 
gran  nomi  opere  antiche  bensì,  ma  d^gnoti  autori,  e  le  une 
e  le  altre  si  vendevano  a  caro  prezzo  ai  re  di  Pergamo  e  di 
Egitto  che  ne  arricchivano  le  biblioteche  novellamente  fon- 
date. Che  al  tempo,  in  cui  Senofonte  scriveva  i  Memorabili, 
esistessero  scritti  di  un  contenuto  analogo  a  quello  dei 
Clitofonte,  è  un  fatto  indubitabile,  come  quello  che  è  espres- 
samente attestato  da  Senofonte  nel  passo  citato.  Che  nel 
Clitofonte  nulla  si  trovi  che  escluda  Tantichità,  e  ci  vieti  di 
ammettere  che  questo  dialogo  potesse  essere  uno  di  tali 
scritti,  è  cosa  che  io  credo  abbastanza  provata  nelle  note 
che  accompagnano   la  traduzione:  che  il   Clitofonte  fosse 


-  460  - 
realmente  uno  di  tali  scritti,  è  reso  probabile  da  due  ra- 
gioni, runa  estrinseca  e  l'altra  intrinseca,  che  svolgerò  bre- 
vemente. 

Ragione  estrinseca.  11  Grote  nella  sua  opera  su  Pla- 
tone (i)  tolse  a  sostenere  niente  meno  che  Tautenticità  di 
tutti  ì  dialoghi  riconosciuti  come  autentici  da  Trasillo,  e 
da  questo  distribuiti  in  quella  serie  dì  tetralogie  che  ancora 
possediamo  (2).  I  critici  tedeschi  da  Schleiermacher  in  poi, 
osserva  il  Grote,  hanno  ragionato  sopra  ciascun  dialogo 
come  se  il  suo  titolo  ad  essere  considerato  come  genuino 
dovesse  ancora  provarsi  o  per  testimonianza  estrinseca, 
o  per  interne  prove  desunte  dalla  qualità  delio  stile,  dal 
metodo  delia  trattazione,  dalle  dottrine  ecc.,  come  se,  in 
una  parola,  Vonus  probandi  incombesse  a  chi  ne  osserva 
la  genuinità,  e  non  già  a  chi  la  nega  o  la  revoca  in  dubbio. 
Ma,  dice  il  Grote,  esiste  una  presunzione  in  favore  degli 
scritti  platònici  contenuti  nel  canone  di  Trasiilo.  E  in  che 
consiste  questa  presunzione  r  Eccolo  in  poche  parole.  La 
scuola  fondata  da  Platone  ebbe  sua  stabile  residenza  in 
Atene,  prima  ntl'i' Accademia^  poscia  (a."  87  a.  C.,)  nell'in- 
terno della  città  per  circa  due  secoli.  In  questa  scuola  si 
conservavano  con  gran  cura  gli  scritti  di  Platone.  Non  è  da 
credere  che  i  discepoli  di  Piatone,  così  diligenti  nel  pren- 
dere appunti  deirinsegnamento  orale  del  loro  maestro  (3), 


(i)  Plato  and  the  other  companions  0/  Socrates.  La  discussione  sul- 
l'autenticità degli  scritti  di  Platone  trovasi  nel  i'^  voi.  p.  i32-2ii. 

(2)  Ci  è  data  da  Diogene  Laerzio. 

(3)  Questa  loro  diligenza  è  provata,  secondo  Grote,  dalia  testimo- 
nianza di  Simplicio  in  Phys.  Aristot.  f.  32,  p.  334.  b.  28.,  ed.  Brandis, 
p.  362  a.  12,  dove  si  dice  che  Senocrate,  Speusippo,  Eraclide  Pon- 
tico,  Estieo,  Aristotele  ed  altri  s'erano  trovati  presenti  alla  esposizione 
orale  {ànpoàcex)  fatta  da  Platone  della  sua  dottrina  sul  Buono,  e  tutti 
aveano  .^critto  e  conservata  memoria  di  questa  dottrina;  irdVTe?...  auv- 
éypa'4>av  koI  ftièaiLaavTO  ti^v  òóìav  avixoO. 


—  461  — 
fossero  poi  tanto  negligenti  in  riguardo  ai  suoi  scrlui  da 
non  provvedere  nel  miglior  modo  possibile  afiSnchè  tutti  si 
conservassero,  e  non  s'introducesse  fra  di  essi  alcuno  scritto 
non  genuino.  Da  Atene  ì  libri  di  Platone  passarono  alla 
biblioteca  di  ALlessandria;  e  quivi  pure  si  avevano  ampie 
guarentigie  dell'integrità  e  purezza  del  canone  platonico. 
Diogene  Laerzio  dice  che  «  alcuni  tra  i  quali  anche  il 
grammatico  Aristofane  distribuiscono  i  dialoghi  di  Platone 
in  trilogie  )>.  La  loro  collezione  dovea  dunque  già  trovarsi 
nella  biblioteca  di  Alessandria,  al  tempo  che  ne  aveva  la 
direzione  questo  Aristofane  di  Bisanzio,  il  quale  visse  pro- 
babilmente fra  il  260  e  il  184  prima  di  Cristo.  Il  lavoro 
di  Aristofane  era  analogo  a  quelli,  che  i  predecessori  di 
lui  neiruffizio  bibliotecario  avevano  eseguiti  sopra  altri  autori, 
ì  cui  libri  preesistevano,  ma  disordinati,  in  quel  grande 
Museo  (i)  È  probabile  che  i  libri  di  Platone  ci  si  trovas- 
sero fino  dalla  sua  fondazione,  perchè  Timpulso  alla  crea- 
zione di  quell'istituto  era  venuto  ai  Ptolemei  da  Atene 
(Stfab.  XI II,  608).  La  collezione  Alessandrina  era  adunque 
un  fedele  ritratto  di  quella  di  Atene,  ed  aveva  gli  stessi 
pregi,  Tintegrità  e  la  purezza.  Questi  pregi  non  vi  fu  più 
pericolo  che  li  perdesse  dopo  che  fu  incominciato  il  lavoro 
critico  che  si  prosegui  fino  al  retore  Trasillo,  contemporaneo 
di  Tiberio.  Ben  potè  avvenire  ed  avvenne  difatto  che  si 
revocasse  in  dubbio  per  ragioni  intrinseche  Tautenticità  di 
qualche  dialogo,  come  da  Panezio  fu  revocata  in  dubbio  per 
fin  quella   del  Fedone  (2),  perchè  a  lui  stoico,    sostenitore 


(i)  La  distribuzione  in  trilogie  si  fonda  sul  considerare  i  dialoghi 
di  Platone  cóme  drammi,  i  quali  si  univano  tre  a  tre  (trilogie),  od 
anche  quauro  a  quattro  (tetralogie). 

(2)  È  curioso  i'  passo  citato  in  prova  dal  Grote:  TTovdTio^  T<lp  tk 
^TÓXuTioe  voeeOaai  tòv  ftidXoTOV  èTr€i6i*|  ràp  fXrfev  elvai  6vt]T)^v  tVjv  ^- 
t.i\v,  èpoOXcto  ouTKaTaairdacn  tòv  TTXdTwva.  k,  t,  X.  Schol.  Asclep.  in 
Metaph.  p.  576.  a.  38.  ed.  Brandis), 


-  462  - 
del  dogma  del  periodico  litorno  di  tutte  le  cose  nell'unità 
primitiva,  pareva  impossibile  che  un  Platone  avesse  am- 
messo una  dottrina  cosi  assurda  come  era  per  uno  stoico 
quella  della  perpetua  conservazione  delle  anime  individue:, 
ben  poteva  avvenire  anche  dopo  Aristofane,  ed  avvenne 
di  fatto  ehe  qualche  scritto  o  antico  o  recente  si  facesse 
passare  sotto  il  nome  di  Platone  come  appunto  quei  dieci 
dialoghi  che  furono  poi  esclusi  da  Trasiilo:  ma  ringanno 
non  poteva  perpetuarsi,  perchè  si  aveva  sempre  nell'antico 
canone  un  criterio  sufficiente  a  dissiparlo.  E  di  questo  cri- 
terio appunto  si  valse  il  retore  Trasillo  nella,  nuova  ed  ul- 
tima ricognizione  ch'egli  fece  degli  scritti  platonici. 

Trasiilo,  il  quale  nella  distribuzione  dei  dialoghi  in  te- 
tralogie seguì  lo  stesso  principio  che  Aristofane,  conside- 
randoli cioè  come  composizioni  drammatiche,  si  attenne 
probabilmente  anche  nei  lavoro  di  sceveramento  degli  au- 
tentici dagli  spurii  ai  catalogo  dei  suo  predecessore.  Tutti 
gli  scritti  platonici  riconosciuti  da  Aristofane  (Biogene  Laer- 
zio ne  dà  la  lista  sfortunatamente  incompiuta),  si  trovano 
nel  catalogo  di  Trasillo,  dalla  quale  coincidenza  rimane 
provata,  come  crede  il  Grote,  Tautenticità  degli  scritti  più 
sospetti  alla  moderna  civiltà,  quali  sono  le  Leggi  {i),\''Epi- 
nomis,  il  MinoSy  le  Epistole^  il  Sofista^  il  Politico.  Trasillo 
insomma  nel  suo  giudizio  seguì  un  criterio  estrinseco,  indi- 
pendente da  ogni  apprezzamento  del  valore  fiiosotìco  e  let- 
terario degli  scritti,  come  apparisce  evidentemente  dal  fatto 
che  egli  accolse  quali  genuini  alcuni   dialoghi,   come  VIp- 


(i)  I  critici  tedeschi  vanno  riconciliandosi  coll'opcra  Delle  Leggi. 
Zeller,  che  nei  Platonìsche  Studien  l'aveva  negata,  ora  fammeite,  come 
anche  i'Ueberweg,  e  persino  Carlo  Scharschmidt,  il  quale  riduce  a  soli 
nove  gli  scritti  autentici  di  Platone,  comprende  fra  questi  le  Leggi.  Gli 
altri  otto  soiio  il  Fedro,  il  Protagora,  il  Convito,  il  Gorgia,  ia  Repub- 
blica, il  Timeo,  il  Teetelo,  e  il  Fedone. 


—  463- 
parco^  ì\  MinoSy  il  Teage,  il  Clitofonie  stesso,  i  quali,  giu- 
dicati dal  loro  pregio  intrinseco  da  mi  critico  cosi  competente 
come  era  Trasillo^  avrebbero  dorato  essere  dichiarati  spurii 
al  tìtolo  stesso  e  cui  egli  dichiarava  tali  VErfxias,  il  Sisifo, 
il  Demodoco.  E  quale  mai  poteva  essere  questo  criterio 
estrinseco,  se  non  l'antico  canone  tradizionale,  il  quale 
passato  da  Atene  ad  Alessandria  era  stato  riconosciuto  e 
fissato  per  sempre  da  Aristofane?  Dalle  quali  considerazioni 
il  dotto  storico  inglese  è  condot.ro  ad  affermare  Tautenticità 
di  tutti  gli  scritti  che  da  Trasiilo  sono  attribuiti  a  Platone. 
Il  Grote  ha  ragione  quando  nella  questione  dell'autenti- 
cità dà  la  prevalenza  alle  prove  estrinseche  sulle  intrinseche, 
le  quali  consistendo  per  lo  più  in  apprezzamenti  del  merito 
degli  scritti  e  della  loro  maggiore  o  minore  conformità  col 
genio  dell'autore,  hanno  sempre  alcunché  di  soggettivo  e 
di  arbitrario.  Egli  ha  ragione  quando  scrive  :  «  Mentre  io 
«  aderisco  al  canone  di  Trasiilo,  io  non  mi  credo  obbligato 
«  a  dimostrare  che  Platone  sia  sempre  stato  simile  ed  eguale, 
*c  o  coeiente  a  sé  stesso  in  tutti  i  dialoghi  che  sono  contenuti 
a  in  quel  canone,  e  ^r  tutto  quel  periodo  di  cinquant'  anni 
«  durante  il  quale  questi  dialoghi  furono  composti.  Platone 
tt  si  trova  in  tutti  e  in  ciascuno  dei  dialoghi  non  in  un  tipo 
«  imaginarioj  ricavato  per  via  dì  astrazione  da  alcuni  di  essi, 
«  ad  esclusione  dei  rimanenti.  I  critici  hanno  tanta  riverenza 
«  per  questo  tipo  di  loro  propria  creazione,  che  essi  si  tra- 
<'  vagliano  per  arrivare  ad  un  risultato  che  con  quello  si  ac- 
<t  cordi,  sia  interpretando  in  nuovi  modi,  sia  ripudiando  ciò 
K  che  non  vi  si  accorda.  Qifesto  sacrificare  la  diversità  e 
"  distinta  individualità  dei  dialoghi  alla  conservazione  di  una 
e  supposta  unità  di  stile,  di  tipo,  o  di  proposito,  mi  sembra 
(«  un  errore.  In  realtà  non  esiste  per  noi  un  Platone  pcrso- 
«  naie  punto  piii  di  quel  che  esista  un  Shakespeare  perso- 
ci naie.  Platone  (eccetto  nelle  epìstole)  non  apparisce  mai 


-  464  — 
h  davanti  a  noi,  né  ci  dà  alcuna  opinione  come  sua  propria  : 
«  egli  è  rinvisibile  espositore  di  diversi  caratteri  che  conver- 
«  sano  fra  loro  in  un  certo  numero  di  drammi  distinti  — 
«  ciascun  dramma  è  un'opera  separata,  manifestante  il  suo 
«  proprio  punto  di  vista,  affermativo  o  negativo,  coerente 
«  o  incoerente  cogli  altri,  secondo  i  casi  »  (p.  210-11). 

Ma  quando  il  Grote  dal  fatto  della  somma  diligenza  dei 
discepoli  di  Platone  nel  conservarne  gl'insegnamenti  orali 
e  gli  scritti,  vuole  inferire  che  eglino  procedessero  con  eguale 
diligenza  neliescludere  dalla  collezione  di  codesti  scruti  tut- 
tociò  che  non  fosse  opera  del  maestro,  è  impossibile  se- 
guirlo ni  questa  illazione.  In  un  tempo  in  cui  l'interesse 
dottrinale  prevaleva  su  quello  dell'esattezza  storica,  in  cui 
si  badava  assai  piiì  ai  contenuto  di  uno  scritto ,  che  non 
alla  sua  origine ,  in  cui  era  ignoto  quello  spìrito  critico, 
quella  coscienziosità  storica  che  noi  moderni  vantiamo,  una 
tale  accuratezza,  quale  il  Grote  attribuisce  agli  antichi,  ac- 
cademici, non  si  può  ammettere.  I  varii  scolarchi  e  gh  stu- 
denti scrivevano  anch'essi  dei  dialoghi,  i  quali,  o-  col  nome 
di  Platone  in  fronte,  o,  più  probabilmente,  senza  alcun  nome 
si  venivano  accumulando  nella  biblioteca  della  scuola,  e  vi 
formavano  una  collezione,  la  quale  sotto  il  nome  di  Platone 
passò  poscia  da  Atene  in  Alessandria.  La  munificenza  dei 
re  Attalici  e  Ptolomei  diede  impulso  alla  pseudepigrafia  (i), 
e  può  spiegare  come  tanti  dialoghi,  che  si  erano  venuti  so- 
praggiungendo alla  genuina  collezione  platonica,  sulla  origine 
dei  quali  non  si  faceva  questione  in  Atene,  siano  venuti  in 


(i)  E  frequentemente  citato  a  questo  proposito  il  passo  di  Galeno  in 
Hippocrat.  de  humor.  I,  ^  1,  e  de  nat.  hom.  II.  proem:  év  fàpTip  Kurà 
Toù?  'AxTaXtKoyij  T£  kcI  TrTcAepaiKOùi;  paatXéa?  XP'^vtp  rrpò»;  iXXriXoix;  àv- 
T»q)iXoTiuou|jévo\j<;  ftepi  K\r\<Si\ì}<^  p<jJÀ.t(uy  i^  irépl  ràc  k-nv^pa(sà.c,  tf  koI  òia- 
CKEUiii;  aOxLÙv  ^pHaro  -fìTveo'Sai  ^aòiciupYÌa  to\<;  ?veKa  toO  Xapetv  rtpTÙpiov 
àvacpépoumv  àq;  toù^  paaiXéa;  àvòpujv  èvòóEiuv  Q\)^-^p&]x\xai:<3.. 


—  465  — 
Alessandria  con  quel  gran  nome  in  fronte.  L'argomenta- 
zione dei  Grote  non  vale  a  provare  che  siano  di  Platone 
tatti  gli  scritti  che  Aristofane  e  poscia  Trasillo  gli  attribui- 
rono nei  loro  catalogi  ■  essa  vale  però  a  dimostrare  che  essi 
sono  antichi,  che  cioè  appartengono,  dirò  così,  al  periodo 
Ateniese  della  letteratura  Socratico-Platonica.  Questo  risul- 
tato si  applica  pure  al  Clìtofonte  il  quale  da  Trasillo  è  posto 
fra  gii  autentici. 

Ma  con  ciò  non  è  ancor  provato  che  il  nostro  dialogo 
sia  anteriore  ai  Memorabili  di  Senofonte,  di  guisa  che 
questi  abbia  potuto  riferirvisi  nel  passo  che  abbiamo  citato. 
A  provare  questo  assunto,  o  almeno  a  renderlo  verosimile, 
non  ci  occorre  più  alcuna  ragione  estrinseca  e  dobbiamo 
star  contenti  alle  ragioni  intrinseche  che  si  desumono  dal- 
l'indole e  dal  contenuto  del  dialogo  stesso.  Se  si  considera 
che  in  esso  si  parla  con  irriverenza  di  Socrate,  e  si  pone 
in  dispregio  il  suo  inssegnamento  morale,  come  affatto  in- 
sufficiente, si  riconoscerà  come  assai  improbabile  che  esso 
sia  opera  di  qualche  falsario,  il  quale  Fabbia  composto  col 
disegno  prestabilito  di  spacciarlo  come  scritto  platonico.  Un 
falsario  fornito  di  acuto  ingegno  (e  acume  d'ingegno  non 
poteva  mancare  alFautorf  del  Clitofonte)  dovea  facilmente 
comprendere  che  per  riu<;circ  nel  suo  intento  conveniva 
conformarsi  a  quel  tipo  di  carattere  socratico  e  platonico, 
che  era  in  voga  al  suo  tempo,  e  non  già  contrastarvi  così 
^icisamente  come  si  fa  nel  nostro  dialogo.  Questo  adunque 
fu  scritto  con  serietà  e  con  convinzione,  allo  scopp  di  mo- 
strare rinsufhcienza  e  la  vacuità  dell'i nsegnamento  socratico. 
Eccitamento  a  comporlo  sembra  essere  stato  alPautore  la 
reazione  in  favore  di  Socrate  che  incominciò  poco  dopo  la 
sua  morte,  e  che  raggiunse  il  suo  più  luminoso  apogeo 
nella  rappresentazione  ideale  per  non  dire  apoteosi  che  ^ece 
Platone  del  suo  maestro.  «  Dopo  la  morte  di  Socrate  »,  dice 


-  -^  — 
il  valente  illustratore  dei  Memorabili  (i),  «  e  non  appena 
«  calmata  la  tremenda  reazione  della  quale  cadde  vittima, 
«  fu  naturale  conseguenza  della  poderosa  azione ,  da  esso 
«  esercitata  su  la  società  del  suo  tempo,  che  sorgesse?©  in 
«  gran  numero  relazioni,  apologie,  orazioni  e  scritture  di 
«  ogni  maniera  su  la  sua  vita,  la  sua  dottrina  e  la  morte 
«  sua.  M  Conseguenza  non  men  naturale  di  questa  m.uta- 
zione  deiropinione  pubblica  in  favore  di  Socrate  fu  una 
nuova  reazione,  direi  quasi,  critica,  su  tutto  Tinsegnamento 
del  grande  filosofo,  uno  sforzo  a  rendersi  conto  una  buona 
volta  di  ciò  che  era  stato,  di  ciò  che  avea  fatto  quest'uomo 
singolare,  ed  anche  una  tendenza  a  deprimere  e  a  sfatare 
quello  che  altri  s''eran  messi  a  glorificare  più  di  quanto 
meritasse.  Fra  ingegni  così  pronti,  come  gli  Ateniesi,  così 
versatili,  così  aperti  e  sensibili  a  tutti  i  più  svariati  aspetti 
della  realità,  era  naturale  che  sorgesse  taluno,  il  quale,  an- 
noiato oramai  di  tutto  il  romore  che  si  faceva  intorno  al 
nome  di  Socrate,  dicesse  seco  medesimo:  insomma,  che  cosa 
vogliono  questi  Socratici  che,  dopo  averci  lasciati  tranquilli 
per  qualche  anno,  ora  ci  son  ripiovuti  addosso  coi  loro 
rimproveri,  colie  loro  apologie,  colle  loro  discussioni  in- 
concludenti e  interminabili?  A  che  queste  nuove  scuole  di 
filosofia  a  cui  essi  invitano  la  gioventù,  disviandola  da  quelle 
dei  nosti'i  grandi  retori  e  sofisti,  e  dandole  a  credere  che 
solo  presso  di  loro  si  possa  imparare  quel  senno  che  li 
renderà  valenti  nella  vita  pratica?  Che  cosa  s'imparava  da 
Socrate  di  più  e  di  meglio  che  da  Lisia  e  da  Trasimaco  (2)? 
Anzi  che  cosa  sUmparava  da  lui?  Nulla  di  concreto  e  di 
preciso.  Egli  eccitava  gli  uomini  alla  ricerca  della  virtù,  ma 


(i)  Dei  detti  e  fatti  memorabili  di  Socrate.  Libri  IV  di  Senofonte  di- 
chiarati da  Eugenio  Ferrai.  Voi.  2^  in  principio. 
(2)  Menzionati  ambidue  nel  Clitofonte  come  preferibili  a  Socrate. 


-  467- 
non  sapeva  guidarvelì.  Oh!  aveva  ben  ragione  di  parago- 
nare sé  stesso  ad  un  rafano  (i)  messo  ad  aizzare  quel  ca- 
vallo generoso  che  è  il  popolo  d'Atene;  ma  il  cavallo  ecci- 
tato continuamente  e  non  ben  guidato  imbizzarrì,  e  male 
ne  incolse  all'insetto  imprudente  ed  importuno.  Fu  un  gran 
male  codesto,  una  solenne  ingiustizia  ;  ma  che  farci  ?  Vi  si 
ripara  forse  coli  aprire  delle  scuole,  col  pubblicar  degli  scritti 
in  cui  non  si  faceva  altro  che  ripetere  le  sterilì  ed  astratte 
prediche  di  Socrate?  Anziché  inaridire  le  menti  dei  giovani 
in  tali  nenie,  non  è  egli  meglio  avviarli,  sotto  la  direzione 
di  valenti  sofisti,  allo  studio  efficace  di  quella  scienza  in  cui 
anche  Socrate  av«a,  come  i  sofisti ,  riposto  l'essenza  della 
virtù,  senza  però  rnai  saperci  dire  in  che  consistesse  Toggetto 
di  codesta  scienza? 

Questo  soliloquio  di  un  Ateniese  di  spirito  (e  quale  Ate- 
niese non  ne  aveva?)  ridotto  a  dialogo  ci  dà  il  Cliiofonie. 
Il  quale  adunque  apparterrebbe,  secondo  il  mio  parere,  alla 
classe  di  quegli  scritti  che  rappresentavano  una  reazione 
contro  la  reazione  operatasi  in  favore  di  Socrate.  Alla 
stessa  classe  apparteneva  lo  scritto  con  cui  il  retore  Poli- 
crate  intendeva  provare  che  la  condanna  di  Socrate  era  stata 
conforme  a  giustizia.  Il  Cobet  (2)  prova  che  la  parte  apo- 
logetica dei  Memorabili  di  Senofonte  si  riferisce  allo  scritto 
di  Pollerà  te,  anziché  ai  discor:>i  degli  antichi  accusatori  di 
Socrate.  Le  prove  del  Cobet  sono:  1^  il  confronto  del  passo 
dei  Memorabili  I,  2,  12  coll'elogio  di  Busiride  indirizzato 
a  PoUcrate  stesso,  dove  questi  è  ripreso  da  Isocrate  come 
un  inetto  accusatore,  il  quale  volendo  denigrare  Socrate, 
gli  attribuì  per  discepolo  Alcibiade,  che  nessuno  avea   mai 


(i)  r\i\V Apologia  di  Platone,  Gap.  XVIII. 

(2)  Is'oyae  lectiones.  Lugd.  Batav,,  i858,  p.  662-682,  cf  Uebkrwkc, 
Gesch.,  1"  theil,  p.  94. 


-  468  - 
saputo  che  'osse  stato  educato  da  lui,  ma  che  tutti  ricono- 
scevano come  un  uomo  superiore  (n**  5)*,  il  che  riusciva  ad 
encomio  anziché  a  biasimo  di  Socrate.  Se  niuno,  prima  che 
Policrate  lo  dicesse  nella  sua  orazione,  avea  mai  saputo  che 
Alcibiade  fosse  stato  scolaro  di  Socrate,  e  se  Senofonte  (nel 
I,  2,  1 2)  si  crede  in  debito  dì  discolpare  Socrate  dall'accusa 
fattagli  dairaccusatore   (KairiTopo?)   di   essere  stato   maestro 
di  Alcibiade,  e  complice  perciò  di  tutto  il  male  che  questi 
avea  fatto  alla  repubblica,  ne  segue  per  diritta  conseguenza 
che  il  KarriTopo^  a  cui  si   riferisce  Senofonte   sia    Policrate 
e  non  già  alcuno  tujv  fpau^aiixévujv  Iujkputtiv  menzionati  in 
principio  dei  Memorabili.  2°  In  un  luogo  dello  Scoliaste  alle 
orazioni  dì  Aristide  (voi.  Ili,  p.  408,  ed,  Dindorf)  è  detto 
che   Policrate  rimproverava  a  Socrate  Tapplicazione  anti- 
democratica del  passo  di  Omero,  //.  II,  188,  segg.  Ora  Se- 
nofonte (1,  2,  5S,  59),  ceroa  appunto  dì  discolpare  Socrate 
anche  da  questa  taccia,  delia  quale  non  si  trova  alcun  cenno 
neirapologia  di  Piatone.  3°  Non  è  verosimile  che   l'accusa 
concernente  le  relazioni  di  Socrate  con  Alcibiade  si  trovasse 
già  nell'antico  atto  d'accusa  sostenuto  da  Anito,  o  nei  di- 
scorsi fatti  dagli  oratori  per  isvilupparlo,  perchè  Anito  era 
stato  amico  di  Alcibiade.  Così  stando  la  cosa,  è  probabile 
che  Senofonte  solo  cinque  o  sei  anni  dopo  la  morte  di  So- 
crate abbia  posto  mano  a  scrìvere  i  Memorabili  collo  scopo: 
i"  di  dissipare  le  accuse  antiche  che  si  tentava  di  ravvivare 
contro  di  lui,  e  le  nuove  che  erano  state  messe  in  campo 
dai  retori;  s°  di  mostrare,  contro  l'asserzione  di  Clifofonte 
e  degli  altri  accennati  nel  I,  e.  4,    i  dei  Memorabili,  che 
finsegnamento  socratico  non  era  così  vacuo,  cosi  astratto, 
così  predicatorio,  come   essi  dicevano,   ma  dava  un   buon 
indirizzo  pratico  ai   suoi  famigliari.   Il  Cliiofonte  sarebbe 
stato  scritto  qualche  anno  dopo   la  morte  di  Socrate,  ma 
prima    dei    Memorabili.  Chi  confronta  il   vivace  racconto 


—  469  — 
óqW Anabasi  colla  disordinata  e  spesso  troppo  vaga  esposi- 
zione del  Memorabili^  riconoscerà  come  probabile  che  Se- 
nofonte, di  ritorno  dalla  sua  famosa  spedizione,  abbia  posto 
mano  a  scriverne  la  storia,  e  che  solo  dopo  questa,  eccitato 
dall'amore  della  verità  che  si  tentava  di  offuscare,  dalla 
pietà  ed  ammirazione  verso  il  suo  maestro,  si  sia  accinto  a 
scriverne  Tapologia  e  a  raccogliere  le  note  che  egli  probiibil- 
mente  si  era  prese  delle  conversazioni  socratiche, 

III. 

Per  soddisfare  alla  terza  questione  propostami  :  quale  sia 
la  significazione  dei  Clito/onle,  come  anche  per  compiere  la 
dimostrazione  di  alcuni  dei  precedenti  asserti,  non  credo  di 
poter  far  meglio  che  soggiungere  qui  la  traduzione  del  dia- 
logo, corredandola  di  alcune  note. 


OLITOFONTE 

^Personaggi  del  'Dialogo:  Socrate  e  Gutofonte^ 


(EdJr.  Steph.  Ili,  pag.  4o6J. 

I.  Qualcuno  ci  narrava  poco  facheClitofonte  figlio  di  Ari- 
stonimo,  discorrendo  con  Lisia,  biasimava  il  trattenersi  con 
Socrate,  e  lodava  a  cìelo  il  conversar  con  Trasimaco. 

Clit.  Chiunque  sia  stato  il  rapportatore,  o  Socrate,  egli 
non  ti  riferiva  esattamente  i  discorsi  da  me  tenuti  intorno 
a  te  con  Lisia.  Imperocché  alcune  parti  io  lodava  in  te, 
alcune  altre  no.  Ma   posciachè  è  chiaro  che  tu   Thai   con 


-  470  - 
me,  pur  fingendo  di  non  curartene  (i),  con  grandissimo 
piacere  ti  ripeterei  que'  discorsi ,  tanto  più  che  siamo  soli, 
affinchè  tu  cessi  di  credere  che  io  sia  mal  disposto  verso 
di  te.  Imperocché  ora  forses,  per  avere  inteso  male,  tu  sei 
alquanto  esasperato  contro  di  me ,  a  quel  che  pare.  Se 
adunque  tu  rni  concedi  facoltà  di  parlarti  liberamente,  io  il 
farò  molto  volentieri. 

SocR.  Ma  davvero  che  sarebbe  una  vergogna  se,  mentre  in 
ti  studii  di  giovarmi ,  io  non  mi  prestassi  alla  tua  buona 
volontà  :  imperocché  è  chiaro  che  quando  tu  mi  avrai  fatto 
conoscere  in  quali  parti  io  riesco  meno  bene,  e  in  quali 
meglio,  mi  atterrò  a  queste  e  in  queste  m.i  eserciterò,  smet- 
tendo a  tutto  potere  quelle  altre. 

(Ed.  Steph.  in,  pag.  407}. 

II.  Clit.  Ascolta  adunque.  Trovandomi  teco,  o  Socrate, 
spesse  volte  mi  sentiva  scosso  in  udirti,  e  mi  pareva  che  tu 
parlassi  meglio  degli  altri,  ogni  qualvolta  rimbrottando  gli 
uomini,  come  un  Dio  dall'alto  della  macchina  teatrale,  in- 
tonavi loro  queste  parole  (2)  :  dove  correte,  o  uomini,  in- 
consapevoli di  non  far  nulla  di  ciò  che  far  dovreste,  voi 
che  ponete  ogni  vostro  studio  neiradunar  ricchezze^  e  in- 
tanto trascurate  i  figli  a  cui  le  lascierete,  e  non  pensate  a 
far  si  che  essi  sappiano  poi  usarne  giustamente,  né  cercate 
loro  dei  maestri  di  giustizia,  se  pure  è  insegnabile  :  se  poi 


(i)  TrpooTToioù|a€vo?  6è  ixr\biv  tppovTi'Z^eiv.  Ecco  delle  parole  che  Pia- 
tone non  avrebbe  mai  messe  sulle  labbra  del  personaggio  che  sosiiere 
in  questo  dialogo  la  parte  principale,  e  ii  cui  discorso  forma  tutta  la 
sostanza,  del  dialogo. 

(i)  Piatone  non  avrebbe  mai  rappresentato  Socrate  come  un  Deus 
ex  machina  ■  egli  sapeva  che  Socrate  non  faceva  prediche  né  si  rivol- 
geva alle  masse,  agli  uomini  in  generale^  ma  all'uomo  individuo  e  lo 
chiamava  a  rendersi  conto  dei  pensieri,  delle  opinioni  spesso,  a  sua 
insaputa,  contradittone,  che  egli  accoglie  in  m.ente. 


-4*71  - 
la  è  cosa  che  s'acquisti  per  via  di  esercizio,  avete  torto  di 
non  cercare  chi  li  eserciti  a  sufficienza:  e  già  prima  nepr 
pure  a  voi  stessi  avete  procurata  siffatta  cultura,  ma  vedendo 
voi  stessi  e  i  figli  vostri  baste volmente  istruiti  nel  leggere  e 
scrivere,  nella  musica  e  nella  ginnastica,  la  quale  istruzione 
eraj  a  vostro  credere,  una  compiuta  educazione  alla  virtù, 
in  seguito,  sebbene  vi  trovaste  non  meno  malvagi,  quando 
si  tratta  di  denari,  tuttavia  non  volete  riconoscere,  quanto 
poco  valga  Tattuaie  sistema  di  educazione,  ne  cercate  chi  vi 
tolga  la  vostra  rozzezza.  Eppure  egli  è  questo  fallo  e  questa 
noncuranza,  e  non  già  Timperizia  del  piede  a  misurare  i 
suoi  movimenti  al  suon  della  lira,  la  causa  per  cui  e  fratello 
con  fratello  e  città  con  città  comportandosi  in  modo  dismi- 
surato e  disarmonico,  insorgono  Tuna  contro  Taltra-c  guer- 
reggiandosi si  fanno  soffrire  a  vicenda  estremi  mali.  E  voi 
dire  che  non  per  ineducazione  o  per  ignoranza,  ma  per  pro- 
pria volontà  gl'ingiusti  sono  ingiusti.  E  con  tuttociò  non 
esitate  poi  ad  affermare  che  l'ingiustizia  è  cosa  brutta  e  odiosa 
agli  Dei:  come  mai  adunque,  e  qual  uomo  al  mondo  po- 
trebbe eleggere  volontariamente  un  male  cosiffatto  ?  —  Un 
uomo  (i),  rispondete  voi,  che  sì  lasci  vincere  dai  piaceri.  Or 
non  è  involontario  anche  questo,  se  pure  il  vincerli  è  volon- 
tario? Di  guisa  che  in  ogni  caso  la  ragione  ci  costringe  ad 
ammettere  che  il  fare  ingiustizia  è  involontario,  e  che  con- 
viene che  ciascun  privato  e  ciascuna  città  ponga  maggiore 
studiò  che  ora  non  si  pone  alla  propria  cultura. 
III.  Quando  adunque  ti  sento  dire  e  ripetere  sovente  tali 


[i)  Il  greco  dice  nòi^  oCv  ^f^  n;  rò  ye  toooOtov  KaKÒv  èkc[)v  atpott* 
fi-*;  i\muv  8;  fiv  ì\  (paté,  tiJìv  i^bovibv.  Vi  ha  qui  una  incoerenza  fra  la 
domanda  e  la  risposta,  alla  domanda:  conte  mai  urto  potrebbe  ecc.<' 
SI  risponde:  colui  il  potrebbe,  il  quale  scc.  come  se  la  domanda  fosse 
stata:  chi  mai  potrebbe  ecc.}  per  togliere  questa  incoerenza  ho  aggiunto 
la  domanda-  qual  uomo  ecc. '^ 


-472- 
cose,  o  Socrate,  io  ti  approvo  e  ti  ammiro,  e  non  rifinisco  di 
lodarti.  E  quando,  continuando  il  discorso,  soggiungi  che  co- 
loro che  esercitano  i  corpi  e  trascurano  l'anima,  con  ciò  non 
fanno  altro  che  trascurare  la  parie  che  è  chiamata  a  coman- 
dare, e  curar  solo  quella  che  è  destinata  ad  ubbidire:  e 
quando  affermi  che  d'una  cosa  che  non  si  sa  usare  è  meglio 
smettere  l'uso,  epperciò  se  uno  non  sa  far  buon  uso  degli 
occhi  o  degli  orecchi,  o  di  tutta  la  persona,  per  costui  il  non 
udire,  U  non  vedere,  il  non  far  nulla  della  propria  persona 
è  meglio  che  il  servirsene  pur  che  sia  :  e  che  lo  stesso  è  da 
dire  rispetto  ad  un*  arte. 

(Ediz.  Steph.  Ili,  pag.  4oS). 

Imperocché  chi  non  sa  servirsi  della  propria  lira,  è 
chiaro  che  non  sa  che  farsi  neppur  di  quella  del  vicino, 
e  chi  non  sa  adoperare  quella  di  un  altro,  non  sa  neppure 
adoperare  la  sua  *,  e  dicendo  lo  stesso  di  ogni  strumento  od 
arnese  che  si  possegga,  conchiudi  ottimamente  il  discorso, 
affermando  che  chi  non  sa  adoperare  l'anima  sua,  è.  meglio 
per  lui  il  lasciarla  inoperosa  e  non  vìvere,  anziché  vivere 
operando  a  suo  capriccio.  Che  se  gli  incomba  qualche  ne- 
cessità di  vìvere,  sarà  megUo  per  un  uomo  tale,  il  passar 
la  vita  in  condizione  di  servo  anziché  dì  libero  (i),  affi- 
dando, per  cosi  dire,  il  timone  della  nave,  cioè  il  governo 
della  propria  volontà,  ad  un  altro,  ad  uno  cioè  che  abbia 
imparato  quell'arte  di  governare  gli  uomini,  che  tu  sei  solito, 


(i)  Un  pensiero  analogo  a  questo  trovasi  nei  Memorabili  (I,  5,  5-, 
dove  Socrate  dice  che  chi  è  schiavo  dei  piaceri  deve  supplicar  gli  dei 
che  lo  facciano  capitare  salto  buoni  padroni.  Ma  questa  consonanza  non 
prova  che  l'autore  del  Clitofonte  abbia  avuto  sotto  gii  occhi  t  Memo- 
rabili, ma  solo  che,  e  questo  autore  e  Senofonte  serbavano  memoria 
di  un  medesimo  detto  socratico.  Ho  tradotto  ÒMli/oia  per  volontà,  si- 
gnificando la  bióvoia  non  solo  il  pensiero  speculativo,  ma  anche  il  pra- 
tico, e  qualche  volta  Tanima  stessa  contrapposta  ai  corpo. 


—  473  - 
o  Socrate,  chiamar  politica,  e  che  affermi  esser  tutt'uno  colla 
giudiziaria  e  coila  giustizia. 

IV.  A  questi  discorsi  adunque  e  ad  altri  innumerevoji  con- 
simili, come  per  es.  che  la  virtù  è  insegnabile,  e  che  ognuno 
deve  soprattutto  attendere  alla  coltura  di  sé  medesimo,  io 
guari  non  contradissi  mai,  né  credo  di  avere  a  contradirvi 
in  avvenire:  sono  discorsi  veramente  belli,  ed  io  li  trovo 
efficacissimi  a  convertire  gli  uomini,  e  molto  giovevoli,  come 
quelli  che  noi  quasi  addormentati  riscuotono  dal  nostro 
sonno.  Ma  io  stava  attento  nella  speranza  di  udire  ciò  che 
viene  in  seguito,  e  ne  interrogava  non  te  stesso,  o  Socrate, 
da  principio,  ma  quelli  che  tu  tenevi  in  maggior  conto  fra 
i  tuoi,  non  so  s'io  dica  compagni  d"*età  o  di  aspirazioni,  o 
consorti,  o  con  qual  altro  nome  abbia  a  chiamarsi  la  rela- 
zione che  essi  hanno  teco.  A  costoro  pei  primi  io  mi  ri- 
volsi, domandando  loro  qual  fosse  il  discorso  che  tu  facevi 
seguire  ai  già  detti,  e,  imitando  la  tua  maniera,  li  metteva 
sulla  via  di  rispondermi.  O  valentuomini,  diceva  io  loro, 
questi  discorsi  con  cui  Socrate  ci  vuol  convertire  alla  virtiì, 
come  mai  li  dobbiamo  noi  accogliere?  Come  se  tutto  finisca 
pure  in  questo,  ne  mai  ci  sia  dato  di  metterci  all'opera,  e 
venirne  a  capo?  Come  se  il  compito  nostro  per  tutta  ia 
vita  abbia  ad  essere  questo  solo,  di  convertire  alla  virtù  i 
non  ancor  convertiti,  affinchè  questi  alla  lor  volta  ne  con- 
vertano degli  altri,  e  così  via  via?  Oppure,  rimasti  oramai 
d'accordo  su  questo  punto,  che  l'uomo  deve  cercar  la  ^\u- 
stizia,  conviene  che  in  seguito  domandiamo  a  Socrate,  e  a 
noi  vicendevolmente:  e  appresso?  Come  si  ha  da  incomin- 
ciare l'apprendimento  della  giustizia?  A  quel  modo  che  se 
alcuno,  vedendoci  affatto  trascurati  in  riguardo  al  corpo,  a 
guisa  di  fanciulli  che  non  sanno  neppure  che  esista  un'arte 
ginnastica  e  un'arte  medica,  ci  esortasse  a  pensarci ,  e  per 
farci    arrossire    della  nostra  trascuraggine   ci   diccs.*^e   esser 

Tifvista  di  filologia  ecc.,  I.  33 


~  474  - 
cosa  vergognosa  il  prendersi  ogni  cura  del  frumento,  del- 
Torzo,  della  vite  e  di  tutte  le  cose  che  si  procacciano  con 
tanto  travaglio,  e  iì  acquistano  in  servigio  del  corpo,  e  non 
cercare  aicun'arte,  né  mezzo  per  far  si,  che  questo  corpo 
sia  in  eitimo  «tato,  e  ciò  mentre  una  tale  arte  esiste  -,  e  se 
noi  domandassimo  a  chi  ci  fa  codeste  esortazioni  :  che  arti 
sono  queste  che  tu  dici?  risponderebbe  forse  che  sono  la 
ginnastica  «  la  medicina.  Or  bene  che  arte  diciamo  noi  che 
sia  questa,  che  ha  per  oggetto  la  virtù  dell'anima  '<'  Ce  lo  dica 
alcuno  di  voi. 

(Ediz.  Steph.  IH,  pag.  iog). 

V.  Quegli  adunque  fra  loro,  che  pareva  il  più  valente  in 
queste  cose  mi  rispondeva  essere  appunto  quell'arte  che 
suol  dire  Socrate,  cioè  la  giustizia.  Io  insisteva:  non  dir- 
mene soltanto  il  nome,  ma  procedi  a  questo  modo:  v'ha 
un'arte  che  si  chiama  medicina,  si  è  vero?  Di  questa  due 
sono  le  produzioni:  Tuna  consiste  nel  formar  sempre  nuovi 
medù:i,  oltre  a  quelli  che  già  esìstono;  l'altra  è  la  sanità; 
questa  seconda  poi  non  è  più  arte,  ma  opera  dell'arte  in- 
segnante o  insegnata.  Parimenti  dell'arte  costruttoria  doppio 
è  ii  prodotto ,  la  casa  e  la  preparazione  dell'arte  stesse , 
l'opera  e  l'insegnamento.  Dicasi  adunque  io  stesso  della 
giustizia:  una  delie  3ue  funzioni  sarà  il  formare  uomini 
giusti,  come  eiascun'altra  arte  forma  i  suoi  artefici;  ma 
l'altra  funzione,  cioè  l'opera  che  l'uomo  giusto  è  atto  a 
produrci,  quale  diremo  noi  che  sia?  •—  Quegli,  se  ben  mi 
rammentOj  mi  rispondeva  essere  l'utile,  un  altro  il  conve-» 
nevole,  un  terzo  il  giovevole,  un  quarto  il  tornaconto.  Ma 
io  ritornava  a'  miei  esempi  :  anche  in  quelle  arti  sono  in 
uso  queste  espressioni;  l'operare  rettamente  in  ciascuna  di 
esse  si  chiama  fare  il  convenevole,  l'utile,  il  giovevole,  e  va 
dicendo  ;  ma  ciascun'arte  sa  poi  dire  il  proprio  particolare 


—  475- 
scopo  a  cui  questa  convenienza,  questa  utilità  si  riferisce, 
come  per  es.  Tarte  del  falegname  dirà  che  per  lei  il  bene, 
il  bello,  il  convenevolmente  operare  è  quello  che  serve  alla 
produzione  di  suppellettili  di  legno,  le  quali  certo  non  son 
più  arte.  Ci  si  dica  in  modo  analogo  qual  è  lo  scopo  (i), 
qual  è  Topera  della  giustizia? 

VI.  Da  ultimo  uno  di  que'  tuoi  amici,  o  Socrate,  il  quale 
invero  sembrò  che  più  acconciamente  parlasse,  rispose  che 
Topera  propria  della  giustizia,  opera  che  non  è  di  nessuna 


(i)  L'importante  di  questo  dialogo  sta  nella  critica  che  vi  si  fa  del 
principio  fondamentale  della  morale  socratica,  secondo  cui  la  virtù 
consiste  nella  scienza.  La  virtù  {àpcTf\,  òiKUioauvri,  usando  questo  vo- 
cabolo, come  fa  quasi  s«npre  Platone,  non  già  nel  senso  di  una  y^ar- 
ticolare  virtù,  ma  della  virtù  per  eccellenza,  che  comprende  in  sé  tutte 
le  virtù)  non  è  altro  che  l'esser  valente  nel  fare  le  cose  che  sono  proprie 
dell'uomo,  come  la  virtù,  la  valentia  del  medico  consiste  nel  are  le 
cose  proprie  del  medico  :  ora  come  nell'esercizio  di  tutte  le  arti  spe- 
ciali ia  valentia  dipende  dalla  perizia,  così  pure  la  virtù,  la  valentia 
propria  dell'uomo  come  uomo.  Socrate  ragionava  in  questo  modo 
(Sjtnof.,  Mem.  IH.  9,  IV.  6,  6.,cf.  Laches.  p.  194  D):  La  virtù,  la  bontà 
(nel  senso  etimologico  delia  parola)  consiste  nel  far  cose  buone  e  belle: 
essa  è  quella  qualità  senza  di  cui  non  si  possono  far  cose  buone ,  e 
posta  la  quale  si  fanno  immancabilmente.  Ora  la  scienza  è  appunto 
una  qualità  così  fatta,  giacché  colui  che  sa  quali  cose  convenga  fare, 
non  può  giudicare  che  convenga  farne  altre,  né  determinarsi  a  farne 
altre  (nel  linguaggio  rosminiano  si  direbbe  che  il  giudizio  pratico  non 
pu&  essere  contrario  al  giudizio  speculativo:  dico  nel  linguaggio,  non 
nel  sistema  rosminiano,  poiché  il  Rosmini  non  accetta  il  principio 
socratico,  e  fa  consistere  l'immoralità  nella  discordanza  fra  il  giudizio 
pratico  e  il  giudÌ2Ìo  speculativo)}  e  colui  che  non  sa,  di  necessità  cade 
in  errore.  Dunque  la  virtù  s'immedesima  e  si  concreta  nella  scienza. 
Onde  diceva  essere  impossibile  che,  trovandosi  nell'uomo  la  scienza, 
qualche  altro  principio  potesse  dominarlo  e  trascinarlo  come  schiavo, 
e  riguardava  la  scienza  come  Invincibile  ddminairice  di  tutto  l'uomo 
(Abistot.,  Eth.  Nic.  VII.  1,  Eth.  Eud.  VII,  i3).  -  Ma  qual  è  il  conte- 
nuto, reggette  di  questa  scienza  che  chiamasi  virtù  umana?  11  ben?. 
—  Ma  che  cosa  è  il  bene?  è  il  vero  preso  come  norma  dell'operare.  Ma 
qual  vero?  Forse  il  vero  aritmeMco?  un  calcolo  esatto  sarà  dunque 
un'azione  virtuosa,  come  un  atto  di  giustizia?  Queste  erano  le  difficoltà 
che  sorgevano  contro  il  principio  di  Socrate.  Egli  non  riusciva  a  de- 


—  476  — 

delle  altre  arti,  consisteva  nel  produrre  anaicizia  in  seno 
alle  cÀttk.  Questi  poi,  ad  ulterior  domanda  fattagliene,  ri- 
spose che  Pamicizia  è  sempre  un  bene  e  non  mai  un  male: 
quanto  alle  amicizie  verso  i  giovinetti  ed  a  quelle  verso  i  bruti, 
alle  quali  si  dà  pur  questo  nome,  egli,  rispondendo  ad  una 
nuova  domanda,  negò  che  fossero  amicizie;  imperocché 
dairammettere  che  il  fossero  gliene  derivava  la  conseguenza 
che  le  amicizie  per  la  maggior  parte  fossero  piuttosto  dan- 
nose che  buone  (i).  Volendo  adunque  evitare   questa  con- 


terminare ulteriormente  il  concetto  della  virtù  morale,  e  per  isfuggire 
alia  difficoltà  talvolta  poneva  come  oggetto  di  quella  scienza  la  legge 
positiva  dello  stato,  come  quando  diceva  che  il  giusto  ò  ciò  che  è  le- 
gale {Mem.  IV.  4,  12),  e  inculcava  che   in  fatto  di  religione  conviene 
attenersi  alia  legge  deila  città.  Talvolta  poi  poneva  le  esigenze  dell'in- 
teresse bene  inteso  come  oggetto  di  quella  scienza,  «  Non  conosco  alcun 
bene  che  non  sia  bene  relativamente  ad  gJtro»  [Mem.   ITI.  8,  4).  «  Il 
buono  non  è  altro  che  il  giovevole  »  (ivi,  IV,  6,  8).  Onde  egli  prova 
che  ia  malvagità  è  involontaria,  perchè  niuno  si  appiglia  volontaria- 
mente al  proprio  danno.  I  motivi  che  egli  adduce  di  ossen,'are  i  pre- 
cetti morali  sono  sempre  desunti  da  considerazioni  di  utilità.  Così  noi 
dobbiamo  guardarci  daila  millanteria  perchè  questa  è  causa  di  danno 
e  di  vergogna.  Dobbiamo  star  concordi  coi  fratelli,   perchè  ò  cosa  da 
stolto  l'adoperare  a  proprio  danno  quello  che  ci  tu  dato  come  aiuto. 
Dobbiamo  studiarci  di  acquistar  buoni  amici,  perchè  un  buon  amico  è 
la  cosa  più.  utile  che  si  possa  avere.  Dobbiamo  sobbarcarci  alle  faccende 
dello  stato  perchè  il  benesser  delio  stato  ridonda  anche  a  vantaggio  degli 
individui.  Dobbiamo  ubbidire  alle  leggi,  perchè  ciò  è  il  partito  più  utile 
e  per  noi  e  per  lo  staio.  Dobbiamo  astenerci  dal  fare  ingiustizia,  perchè 
la  pena  colpisce  sempre  l'uomo  ingiusto.  Dobbiamo  insomma  praticare 
la  virtù,  perchè  questa  ci  procura  i  maggiori  vantaggi  e  dal  canto  degli 
Dei  e  da  quello  degli  uomini.  Il  Socrate  senofonieo  è  recisamente  uti- 
litario (Zeixer,  Die  P/zj'/o^ojp/zje  rfer  Gnei:/!e«,  II.  TheiL  p.  lOi-ioS).  E 
tali  sono  pure  i  socratici  messi  in  scena  nel  nostro  dialogo.  Ma  Clito- 
fonte  osserva  che  anche  il  concetto  dell'utile  è  vacuo  ed  astratto,  e  non 
vale  a  discernere  quella  scienza  speciale  che  è  la  giustizia,  da  ogni  altra 
scienza.  Convien  dire  a  quale  scopo  si  riferisca  l'utilità  che  quella  pro- 
cura: ed  è  ciò  che  si  cerca  di  fare  negli  ultimi  due  capi  del  dialogo, 
(i)  Nel  codice  VV  deila  biblioteca  angelica  dell'ord.  erem.  di  S.  A- 
gostino  in  Roma,  citato  da  Bekker,  manca  il  tò?  ToiaCrac.  Invece  di 
queste  parole  io  leggo  xàc,  cpiXia*;,  perchè  nella  lezione  volgata  il   ra- 


—  477  — 
seguenza,  diceva  che  q  lelie  non  erano  neppure  amicizie,  e 
che  a  torto  si  dà  loro,  questo  nome  da  coloro  che  amicizie 
le  chiamano.  Quella  che  è  realmente  e  veramente  amicizia, 
diceva  egli,  è  evidentemente  concordia.  Interrogato  poi  se 
questa  concordia  fosse  secondo  lui  un  concorde  opinare,  od 
un  sapere,  rigettava  con  disprezzo  il  concorde  opinare, 
poiché  di  siffatti  accordi  d'opinioni  molti  si  trovano  che  di 
necessità  sono  dannosi,  laddove  s'era  ammesso  che  T'amicizia 
fosse  assolutamente  un  bene,  opera  come  essa  è  della  giu- 
stizia. Laonde  affermava  esser  tutto  uno  l'amicizia  (i)  e  la 
concordia,  ma  questa  concordia  consistere  nella  scienza  e  non 
neiropinione. 

(EdÌE,  Steph.  Ili,  pag.  4 io). 

Quando  però  ci  trovammo  a  questo  punto  della  discus- 
sione, gli  altri  che  vi  si  trovavano  presenti  davano  addosso 
al  mio  interlocutore,  e  sapevano  benissimo  rimostrargli  come 
il  discorso  fosse  sdrucciolato  sulle  peste  dei  precedenti. 
Anche  la  medicina,  dicevano  essi,   è  una  concordia,  come 


ziocinio  non  corre.  La  proposizione  che  atnieì:(ie  siffatte,  cioè  le  sen- 
suali e  brutali,  siano  dannose,  non  era  quella  che  conseguiva  (auvépaive) 
dalle  premesse,  ma  era  anzi  una  delle  premesse,  presupposta  come  ve- 
rità evidente,  D'ahronde  siccome  amicizie  siffatte  sono  tutte  e  sempre 
dannose,  non  a^rebbe  alcun  senso  il  xà  iiXeCu).  Il  raziocmio  compiuto 
si  potrebbe  esprimere  così:  Le  amicizie  sensuali  e  brutali  sono  sempre 
dannose;  ma  tali  amicizie  sono  le  più  frequenti;  dunque  si  può  affer- 
mare, Tà  TtXeiu)  'còlc,  (piXlac;  pXaPepàq  fi  é-faeàc;  eTva»,  che  cioè  le  amicizie 
siano  per  la  nmggjor  parte  dannose  ;  conclusione  che  ai  Socratico,  che 
qui  discute  con  Clitofonte,  importava  sommamente  di  eyitaré,  come 
quella  che  distruggeva  la  tesi  da  lui  stabilita,  che  l'opera  propria  della 
giustizia  &ia  l'iimicizia  prodotta  in  seno  alle  città;  poiché  la  giustizia, 
cosa  essenzialmente  buona,  non  può  produrre  cosa  che  sia  or  buona 
ed  or  cattiva,  anzi  più  spesso  cattiva  che  buona. 

(i)  La  volgata  dà  cTvai  ó|ji6voiav  koI  èmOTriM»lv  oOaav.  Dalla  quale  le- 
zione non  si  ricava  alcun  costrutto.  C.  F.  Hermann  propone  l'inser- 
zione del  vocabolo  òiKaioaóvriv   dopo  il  Kal ,  leggendo  i   taùròv   fqpnocv 


__  478  - 
altresì  ogni  altr  arte,  e  ognuna  di  esse  ci  sa  dire  intorno  a 
che  cosa  ella  sia   concordia.  Ma   quell'arte  che  tu  chiami 
giustizia  o  concordia,  a  che  miri,  non  s'è  riusciti  a  coglierlo, 
e  ci  rimane  ignoto  quale  sia  Topera  sua. 

VII.  Da  ultimo,  o  Socrate,  io  ne  domandava  anche  aie,  e 
mi  dicevi  essere  proprio  della  giustizia  il  far  del  male  ai 
nemici  e  del  bene  agli  amici  (i).  Ma  poscia  si  riconobbe 
che,  quanto  a  male,  il  giusto  non  ne  farà  mai  a  nessuno. 
Imperocché  tutti  fanno  a  fin  di  bene  tutto  ciò  che  fanno  (2). 


dvai  ó^óvolav  koì  èiKatooOviiv,  èmaTriMviv  oOoav.  Ma  il  senso  richiede 
che  si  supplisca  qpiXiav,  e  non  òiKCioaùvriv.  Imperocché  la  questione  è: 
in  che  si  concreti  quelFamicizia  che  è  opera  della  giustizia?  Il  Socra- 
tico risponde  che  si  concreta  nella  concordia,  e  non  in  qualsisia  con- 
cordia, ma  in  quella  che  deriva  da  scienza.  Secondo  la  lezione  di  Her- 
mann qui  si  affermerebbe  come  conclusione  della  discussione  l'identità 
fra  la  giustizia  e  la  concordia.  Ma  se  la  concordia  (óuóvoia)  è  il  con- 
cetto più  particolare  in  cui  si  concreta  il  concetto  di  cpiXic.  ;  se  la 
q>tX{a  è  l'opera,  il  prodotto  proprio  di  quell'arte  speciale  che  è  la  giu- 
stizia, e  se,  come  ripetutamente  si  è  avvertito  da  Clitofonte ,  il  pro- 
dotto di  un'arte  non  è  più  arte,  come  mai  l'amicizia  o  la  concordia 
può  affermarsi  identica  colla  giustizia?  La  ragione  allegata  da  Hermann 
a  conforto  della  sua  lezione,  e  che  consiste  nel  dire  che  più  sotto  si 
trovano  accoppiati  i  due  vocaboli  òiKaioaùviiv  f^  ó|uóvoiav,  non  ha  va- 
lore, perchè  tale  accoppiamento  non  produce  quivi  un  controsen&o 
taiito  evidente,  quanto  quello  che  nascerebbe  dalla  lezione  da  lui 
proposta. 

(i)  «  Tu  sai  che  la  virtù  dell'uomo  consiste  nel  vincere  gli  amici 
facendo  loro  del  bene,  e  i  nemici  facendo  loro  del  male.  »  Così  parla 
al  suo  amico  Critobulo  il  Socrate  senofouteo  [Mem.  II.  6,  35),  espri- 
mendo il  modo  di  pensare  degli  uomini  del  suo  tempo  e  della  sua 
nazione.  Ma  il  Socrate  platonico  fa  assoluto  divieto  di  render  male 
per  male  o  di  difendersi  dall'ingiustizia coll'ingiustizia.  V.  Critone,  p.  49. 

(2)  Anche  qui  c'è  qualche  lacuna.  Poiché  la  proposizione  ndvra  tàp 
èir'  iÌjq)eXei(;!  iràvraq  òpóv,  è  soltanto  una  premessa  del  raziocinio  con 
cui  si  provava  che  l'uomo  giusto  non  può  far  male  a  chicchessia,  razio- 
cinio che  poteva  essere  del  seguente  tenore  :  Ognuno  fa  a  fin  di  bene 
quello  che  fa.  Se  adunque  alcuno  fa  male,  il  fa  per  ignoranza.  Ma 
l'uomo  giusto  è  l'uomo  peritb  in  quella  scienza  che  versa  circa  il  bene 
e. il  male.  Egli  adunque,  in  qaanto  è  giusto  non  ignora,  né  erra  mai, 
né  quindi  può  fare  alcun  male. 


--  479  - 
Queste  cose  ricercando  io  non  una  né  due  volte  soltanto, 
ma  per  lungo  tempo  e  con  grand?  perseveranza,  ho  infine 
perduto  la  pazienza  e  mi  rimasi  colla  persuasione  che  tu 
riesca  meglio  di  chicchessia  nell'opera  di  convertire  gli  uomini 
ai  culto  della  virtù,  ma  che  del  resto  sia  vero  l'uno  dei  due: 
o  che  tu  sai  fare  solo  questo,  e  nulla  più;  il  che  può  ac- 
cadere anche  in  qualsivoglia  altra  arte,  come  per  es.  può 
accadere  che  chi  non  è  nocchiero  abbia  tuttavia  meditato 
l'encomio  dell'arte  nautica,  nel  quale  dimostri  in  quanto 
pregio  ella  meriti  di  esser  tenuta  dagli  uomini;  e  così  di 
ogni  altra  arte.  Lo  stesso  adunque  potrebbe  uno  credere  di 
te,  per  ciò  che  riguarda  la  giustizia,  che  cioè  Tessere  tu 
così  eloquente  nel  l'encomiarla  non  provi  punto  che  tu  ne 
abbia  la  scienza.  Io  però  non  dico  questo,  ma  dico  che 
Tuno  dei  due  deve  essere;  o  tu  non  hai  la  scienza,  o  non 
vuoi  communicarmela.  Perciò  io  me  ne  anderò  co'  miei 
dubbi  da  altri,  anderò  anche  da  Trasimaco,  posciachè  tu 
non  fai  quello  che  pur  potresti  fare,  volendo:  cessare  cioè 
da  questi  tuoi  discorsi  esortatorii,  trattarmi  come  tratteresti 
uno  già  convertito  allo  studio  della  ginnastica,  già  persuaso 
che  non  si  deve  trascurare  il  corpo  :  con  costui  tu  smetre- 
l'x^sii  certamente  le  esortazioni;  e  procederesti  a  mostrargli  che 
ad  un  corpo  tale  quale  egli  lo  ha  da  natura,  è  confacente 
Un  tratiamenro  tale  o  tale.  Or  dunque,  fa  ragione  che  CU- 
tofonte  ti  si  confessi  convinto  che  è  cosa  ridicola  il  pren- 
dersi cura  di  tutto  il  resto,  e  dell'anima,  in  prò  della  quale 
ogni  altra  cosa  si  ricerca,  non  darsi  alcun  pensiero  :  e  così 
tutto  il  resto  che  viene  in  seguito,  fa  conto  che  io  te  l'abbia 
dettOj  e  procedi  con  me.  te  ne  prego,  come  faresti  con 
quell'altro  della  ginnastica ,  affinchè  io,  parlando  di  te  con 
Lisia  o  con  altri,  non  abbia  più,  come  adesso,  a  lodare  in 
Te  certe  parti  e  certe  altre  a  riprendere,  e  a  dire  che,  con  un 
uomo  non  ancor  convertito,  Socrate  vaie  un  tesoro,  ma  con 


-  480  -- 
chi  è  già  convertito,  beh  lungi   dalFessergii    utile,  gli  è  ben 
anco  d'impedimento  al  conseguire  la  perfezione  della  virtìi 
e  al  viversi  beato.   . 

Torino,  mar^c,  l873. 

G.  M,  Bertini. 


CENNI  SULLA  SINTASSI 
^D.ELLA   LIV^GUA   G%ECA{i). 

IV. 

Tatto  quanto  siamo  venuti  dicendo  intorno  allo  indirizzo, 
voluto  dare  alla  Sintassi  greca  da  Raffaele  Kùhner,  si  può 
riassumere  in  questo  concetto  :  —  essere  cioè  affatto  arbi- 
traria e  violenta  quella  trattazione  sisiematica  della  Sintassi 
speciale  delia  lingua  Greca,  contraria  affatto,  non  pure  ad 
ogni  tradizione  —  ciò  che  non  sarebbe  ancora  una  bestem- 
mia —  ma  eziandio  ad  ogni  ragione  grammaticale  e  storica, 
e,  ciò  che  più  monta,  opposta  ai  risultamenti  più  incon- 
testati e  sicuri  della  indagine  linguistica.  —  E  ci  tardava 
assai  di  additare  questo  vizio  radicale,  onde  è  affetta  quella 
opera,  pure  degna  di  studio  e  di  esame  per  molti  rispetti, 
allo  Jacopo  di  mostrare,  come  noi  non  siamo  ammiratori 
ciechi  di  tutto,  che  viene  d'oltremonte,  massime  di  Ger- 
mania I  sentenza  codesta  pur  ovvia,  ma  non  sempre  voluta 
intendere  dagli  avversarli  più  ostinati  d'ogni  novazione,  ai 
quali  quello,  che  ne'  libri  degli  stranieri  v'ha  di  più  erroneo 
e  fallace  serve  di  pretesto  ad  estendere  il  biasimo  contro 
tutto  che  venga  dal  di  fuori ,  sia  pure  corretto  e  conforme 
a  ragione.  —  A  questo  proposito  anzi  ne  giova  di  ricordare 
il  giudizio  sommario,  che  il  Kriìgsr,  sino  dall'anno  1843, 

(.»)  Vedi  fascicolo  7»,  pa^.  3oi-3io,  fascicolo  8°,  pag,  341-365. 


—  4SI  — 
nel  quale  dava  fuori  la  sua  Grammatica  Greca,  pronunziava 
intorno  a]  sistema,  allora  nuovissimo,  dei  Kiihner.  —  «  Uno 
«  dei  metodi  più  recenti  —  così  il  Kriiger  nella  introduzione 
«  alla  Sintassi  —  l' immortale,  come  ogni  filosofia  tedesca, 
«  ripartisce  e  tratta  la  Sintassi  non  già.  secondo  le  forme 
«  della  lingua,  ma  giusta  le  forme  del  pensiero  :  esso  scam- 

«  bia   la   grammatica  colla   logica I   tentativi  fatti  allo 

«  scopo  di  adattare  questo  metodo  alla  Grammatica  Greca, 
a  sono  evidentemente  sbagliati.  L' ordinamento,  condotto 
«  sulle  orme,  che  ne  addita  il  genio  della  lingua,  s'impone, 
K  per  legge  quasi  di  necessità  interiore,  si  fattamente,  che 
«  quello  strano  metodo  ne  si  presenta  dovunque  siccome 
«  una  veste  che  non  s'attaglia  al  dosso. —  Effetto  di  ciò, 
«  una  figura  storpia  e  rattrappita^  in  luogo  di  un  ordina- 
«  mento  sintattico,  una  sintassi  disordinata.  »  —  Ma  basti 
di  ciò.  — 

Dei  resto  la  storia  moderna,  come  a  dire,  della  Gram- 
matica della  lingua  Greca,  risale,  in  Germania,  a  Godofredo 
Hermann,  cioè  agli  ultimi  decennii  del  secolo  scorso,  e  ai 
primi  anni  del  presente.  —  Abbattuto  V  empirismo  della 
scuola  Olandese,  rappresentato  ddXV Hemsterhuis  (i685- 
1766),  dal  Valckenaer  {\']ib-\']^b)^  dal  Lennep  (1724-1771)1 
VHermann  colla  scrittura,  che  intitolò  De  emendanda  ratione 
grammalicix  grcccce  (Lipsia  iSoi),  dischiuse  la  via  alla 
trattazione  più  razionale  della  lingua. 

Però  la  grande  opera  di  riforma,  iniziata  dall'Hermann^ 
era  più  intesa  a  trarre  l'etimologia  di  sotto  all'arbitrio  de- 
gli Olandesi,  e  de'  loro  settatori  di  Germania.  Era  un  primo 
passo  sulla  grande  strada  maestra,  che  la  indagine  compa- 
rativa dovea  più  tardi  spianare  completamente.  —  Quanto 
alla  Sintassi  l'opera  di  quel  grande  maestro  non  parve  di 
subito  così  fruttuosa-,  ma  il  grande  esempio,  pòrto  da  lui, 
della  osservazione  attenta  dell'  uso  della   lingua  nelle  opere 


-  482  - 

de' classici,  de' riscontri,  della  severa  critica  del  testo,  e  so- 
prattutto io  a^e^  statuito  il  dialetto  attico  a  fondamento 
dello  studio  serio  e  ordinato  del  greco,  dei  quale  egli  il 
primo  rilevò  le  fattezze  germane  e  native  e  le  movenze: 
tutto  ciò,  diciamo,  fu  di  sommo  e  capitale  rinomento  a  fon- 
dare una  dottrina  delia  Sintassi,  che  non  paresse  più  un 
giuoco  di  que'  pretesi  invcntores  constitutoresqiie  sermoms, 
che  sì  largo  pascolo  aveano  offerto  agii  alchimisti  della  gram- 
matica nel  secolo  passato.  —  La  base,  non  foss'altro,  della 
indagine  e  delio  siudio  era  trovata  —  l'uso  reale  e  concreto 
della  lingua.  Al  quale  studio,  come  s'aggiunsero  le  nuove 
idee  intorno  alla  natura  e  alla  vita  della  lingua,  anche  la 
Sintassi  è  potuta  sollevarsi  a  dignità  scientifica  sull'incrolla- 
bile  e  sicuro  fondamento  delle  forme.  —  L'aver  trascurato 
l'uso  della  lingua  negli  scrittori  avea  condotto  ai  pernicioso 
andazzo  di  fabbricare  certe  forme,  secondo  un'analogia  af- 
fatto arbitraria,  le  quali  ne' monumenti  della  letteratura 
Greca  dei  tempi  migliori  non  esistono  al  tutto.  Cosi  ad  es. 
nelle  grammatiche  Greche,  che  prima  dell'Hermann  anda- 
vano per  la  maggiore ,  s'incontrano  forme ,  come  léivixa  e 
TÉTucpa,  come  perfetti  di  tiìtttuì,  che  in  nessun  autore  si  tro- 
vano. E  perchè  dunque  costringere  gli  scolari  ad  impararle? 
Ciò  vuol  dire  come  volerne  sapere  più  degli  antichi  Ate- 
niesi, come  dice  argutamente  il  Curtius  (Comm.^  pag.  1 14, 
Mùll.)^  mentre  il  solo  Polluce  registra  una  forma  TCTiiTTTTiKa 
(Vedi  Kriiger,  Gramm,  Greca  I,  §  40).  —  E  molti  esempi 
si  potriano  recare  innanzi  a  dimostrare,  come  il  seme  git- 
tate dall'Hermann  fosse  fecondo  di  utili  osservazioni  anche 
sul  campo  della  Sintassi.  —  Il  Buttmann  ad  es.  {Ausfuhrl. 
Gramm.  U,  85),  che  segue  dappresso  all'Hermann,  aveva 
osservato  come  la  lingua  Greca  abbia  una  particolare  pre- 
dilezione per  la  forma  media  del  futuro,  che  il  Kriiger 
poi  chiamò  dinamico  (Gramm.  Gr.  I,  Sg,   12,    1.2. 3*,  H, 


-  463  — 

53,  $),  cioè  che  esprime  un'azione  d'un  modo  o  meramente 
esterno,  o  che  proviene  dalla  forza  interna  del  soggetto.  — 
La  è  codesta  una  osservazione,  che  ha  un  grande  valore  per 
la  Sintassi.  —  E  cos?^  quanto  2\\Si  foì^mapone  delle  parole, 
già  il  Buttmann  ne  avea  accertata  quella  legge,  che  il  Lobeck 
chiamava  il  regium  pr'ceceptutn  Scaligeri  (ad  Phrynichmn, 
pag.  56o),  non  potere  cioè,  rispetto  al  verbo,  aver  luogo, 
nel  greco,  altro  modo  di  composizione,  che  co//:i  preposi- 
zione; altramente  il  verbo  cangia  natura.  Tanto  che,  ad 
esempio,  lo  Sc£^ligero  diceva,  che  e\ja*rré>iXuj  non  poteva  es- 
sere un  verbo  greco  (Cfr.  Curtius,  Comm.,  pag.  148,  Muli.). 
—  E  pc:r  rispetto  ai  temi  doppi»  il  Buttmann,  sino  dal  suo 
tempo  ,  cioè  molto  prima  che  gli  studi  della  linguistica  ve- 
nissero applicati  alla  grammatica  speciale  del  greco,  aveva 
riconosciuto,  che  essi  sono  il  punto  di  partenza,  per  giun- 
gere ad  un  ordinamenio  delle  anomalie  del  verbo  greco, 
dicendo,  che  la  maggior  parte  di  esse  nasce  dalla  mesco- 
l^n2;a  di  forme,  che  presuppongono  temi  diversi  (Confr. 
Curtius,  Comm.f  pag.  86,  Miiller).  —  Queste  cose  abbiamo 
voluto  ricordare,  perchè  si  comprenda  ancora  una  volta  e 
per  ^Itre  vie,  come  lo  studio  piià  accurato  e  più  ragionevole 
della  Sintassi  fosse  possibile  soltanto  in  seguito  ad  un  piià 
attento  esame  delle  forme. 

Augusto  Matthice  (i)  dette  il  primo  un  ampio  svolgi- 
mento alla  Sintasai  Greca,  sulVorms  segnate  dall'Hermann, 
cioè  colla  scorta  della  osservazione  diligente  ed  attenta  del- 
Tuso  concreto  della  lingua.  —  «  Fu  principale  mia  cura  — 
così  egli  scrive  nella  introduzione  alla  grammatica  —  di 
iy  disporre  tutte  queste  osservazioni  suUa  lingua  Greca  giusta 


(t)  Ausfuhrliche  Grammatiky  Lipsia,  1807. —  Questa  grammatica  fu 
recata  in  italiano  da  Amedeo  Peyron,  e  pubblicata  in  Torino  l'anno 
1^3  coi  tipi  della  Stamperia  Reale, 


—  484  - 

«  la  naturale  loro  connessione,  ed  i  fondsmentaii  e  primi 
«  principii,  per  quanto  essi  deternninare  e  stabilire  si  pote- 
«  vano  nel  considerare  in  generale  la  lingua  come  materia 
f(  d'  un  fatto  storico ,  e  non  di  specula^io?ic  dedotta  dalla 
K  esperienza  «  (pag.  17  della  versione  del  Peyron).  — Lo 
sforzo  di  collegare  in  una  cotale  unità  i  fatti  della  lingua, 
che  l'osservazione  gii  andava  profferendo  via  via,  apparisce 
evidente  dall'insieme  del  lavoro.  —  «  Nello  studio  del  Greco 
«  -  seguita  a  dire  nella  prefazione  -  è  particolar  dovere  dello 
«(  indagatore  filologo  il  rintracciare  i  vari  individui  casi  se- 
te condo  i  primi  principi!,  che  loro  servono  di  comune  fon- 
«  damento,  ed  il  semplificarli  senza  proporre  altre  conghiet- 
<(  ture  da  quelle  in  fuori,  le  quali  si  deducono  dai  latti,  0 
«  possono  coi  fatti  dimostrarsi  »  (p.   18,  Peyron). 

Il  metodo  di  trattazione,  seguito  dal  Matthiee,  è  quello  dei 
grammatici  antichi ,  greci  e  latini,  nell'  ordinamento  della 
Sintassi,  uno  studio  cioè  del  significato  e  deiTuso  delle  parti 
del  discorso,  che  ia  prima  parte  della  grammatica  —  Tetì- 
mologla  —  ha  esaminato  e  chiarito  in  ordine  alla  forma. — 
Non  sarà  fuor  di  luogo  l'allegare  il  titolo  de'varii  capitoli 
per  ordine.  — Dell'Articolo  (§§  262-291).  — Del  Nominativo 
(§§  2g2-3ii).  — Del  Vocativo  (§§  3i2-3i3).  — Del  Genitivo 
(§§  3 14-380).  —Del  Dativo  (§§  38 1  -404).  ~  Dell'Accusativo 
—  Degli  Aggettivi  —  Dei  Pronomi  —  Del  Verbo  (§  490, 
segg.) — Dei  Tempi  e  Modi — Dell'Imperativo  (§  5i  i).  — Del- 
l'Ottativo e  Congiuntivo  (§  5 12,  segg.):  a)  DelVOttaiivo  e 
Congiuntivo  nelle  proposizioni  astratte  (semplici);  b)  Del- 
l' Ottativo  e  Congiuntivo  nelle  proposizioni  dipendenti 
(composte),  ovvero  dopo  le  Congiunzioni — Dell'Ottativo 
nella  Oratio  obliqua  (§  529)  —  Dell'  Infinito  —  Del  Par- 
ticipio —  Delle  Preposizioni. 

Dalla  sola  lettura  di  questo  indice  della  materia  è  agevole, 
ne  pare,  il  Vedere,  quanto  siamo   lontani  ancora  dal   con- 


-485  — 
certo  della  Sintassi ,  quale  ci  è  pòrco  dalle  migliori  gram- 
matiche più  recenti.  La  è  un'immensa  congerie  di  osserva- 
zioni, desunte  alla  lettura  de'  Classici,  ma  lo  spirito  non  vi 
aleggia  per  entro.  —  Eppure  il  primo  passo  in  sulla  via 
maestra  è  dato.  —  L'osservazione,  lo  studio  sugli  autori  di 
un  periodo  determinato  e  fisso  della  lingua,  lo  sforzo  di 
assorgere  a  un  qualche  principio  ordinatore  dei  fenomeni, 
sulla  base  solida  dell'uso  più  esteso,  riscontrato  col  maggior 
numero  possibile  di  esempi:  —  ecco  il  metodo  vero,  il  buono 
e  fecondo.  —  Le  due  parti  più  notevoli  della  Sintassi  del 
Matthise,  e  più  istruttive  ad  un  tempo  per  la  storia  della 
Sintassi  Greca  sono ,  per  la  Dottrina  dei  Cesi,  quella  che 
tratta  del  Genitivo  (§§  3i3  -  38o),  e  per  la  Dottrina  del 
Verbo  quella  che  svolge  il  concetto  dei  modi  Ottativo  e  Con- 
giuntivo nelle  proposizioni  sempiici  (astratte)  e  composte 
(dipendenti)  (§  612  e  segg,).  —  Destituito  affatto  d'ogni  cri- 
terio abbastanza  largo  e  comprensivo  della  funzione  dei  casi, 
il  Matthiae  non  ci  pòrge  che  un  inventario  come  a  dire  dei 
varii  usi,  avvalorato  bensì  di  una  larga  copia  di  esempi,  che 
è  il  solo  merito  reale  e  incontestato,  che  oggidì  ancora  si 
deve,  secondo  noi,  riconoscere  a  quell'opera  •,  salvo  che  non 
v''è  mantenuta  quella  severa  distinzione  fra  l'uso  poetico, 
quale  incontra  nella  lingua  dell'  epopea  antica ,  e  T  uso  del 
dialetto  attico;  distinzione  codesta  della  più  alta  importanza 
nella  Grammatica  Greca ,  e  la  cui  esatta  e  rigorosa  appli- 
cazione costituisce  il  titolo  principale  di  lode  della  gramma- 
tica del  Kriiger.  —  Al  Genitivo  non  riconosce  il  Matthiae 
altra  funzione,,  che  quella  vaga  e  indeterminata  di  una  rela- 
\ione  generale^  ad  esprìmere  la  quale  esso  volentieri  si  ac- 
concia, unendosi  con  ogni  parola  della  proposizione.  — 
Non  gli  soccorre  neppure  un  criterio ,  che  a  noi  oggi  si 
para  innanzi  ovvio  e  pronto,  quello  di  raggruppare  almeno 
questi  svariati  uffici    del  genitivo   intorno  al    nome  (sostan- 


—  486  - 
tivo  e  aggettivo),  e  intorno  al  verbo.  —  Vero  è  che  egli  tratta 
e  del  Genitivo  co' verbi  (§  3i5),  e  cogli  Ag'gcttivi  e  cogli 
Avperbi  e  persino  co' prenomi  neutri  toOto,  toctoOto,  robe 
ecc.  Ma  in  nessuna  parte  mcns  ag-iìat  molem;  e  un  iden- 
tico concetto  tu  trovi  sminuzzato  e  ripetuto  in  più  luoghi. 
Qui  e  colà  però  balena  qualche  sprazzo  di  luce,  che  rischia- 
rirà più  tardi  la  via.  Cosi  ad  esempio  al  §  324,  -2,  tro- 
viamo raggruppala  assai  acconciamente  un'  intera  classe  di 
concetti  verbali,  che  dinotano  un  g-iudiiio  dell'  intelletto, 
che  dirigesi  verso  il  di  fuori ,  senia  operare  fisicamente 
(II,  §  324,  2.  363,  5  e  altr.). 

Manca  del  resto  assolutamente  al  Matthiae  il  concetto  lo- 
gico delle  funzioni  sintattiche  dei  casi,  che  fu  poi  esagerato 
dai  settatori  della  scuola  del  Becker.  Non  conosce  neppure 
gli  erramenti  dei  localisti  ^  ed  è  poi  straniero  al  tutto  alle 
nuove  teoriche,  indotte  dagli  studi  comparativi,  e  secondo 
le  quali  s'inclina  a  distinguere  nei  casi  un  uso  più  vicino, 
interiore  quasi,  e  un  altro  più  remoto  ed  esterno.  Ma  di 
ciò  non  lo  chiamiamo  certo  in  colpa.  Né  Tavremmo  notato, 
se  non  fosse  stato  per  ribadire  il  principio,  che  oggimai  la 
scienza  non  conosce  altre  barriere,  che  quelle  segnate  dalla 
stona.  —  Ma  più  notevole  e  più  istruttiva  ancora  in  questo 
rispetto  è  quella  parte  della  Sintassi  del  Matthiae,  che  tratta 
dell'  Ottativo  e  del  Congiuntivo  nelle  proposizioni  dipen- 
denti, ovvero  dopo  le  congiuniioni  (§§  5 18  e  segg.). 

Mancando  al  Matthiae  il  concetto  delle  funzioni  dei  casi 
nel  contesto  del  discorso,  cioè  nella  proposizione,  come  fu 
detto  quassopra,  è  affatto  naturale,  che  egli  ci  si  mostri  in- 
differente al  tutto  pel  contenuto  delia  proposizione,  anche 
nella  sua  forma  più  semplice.  Tanto  meno  quindi  potremmo 
aspettarci  ad  una  analisi  e  trattazione  della  proposizione 
composta.  In  questo  rispetto  il  Matthiae  si  discosta  assai 
poco  dai   termini   segnati   dai  grammatici    latini   in  quella 


—  487  - 
parte  >  dóve  parlano  de  consecutione  temporunt;  salvo  che 
egli,  applicando  alla  lingua  greca  il  concetto,  che  informa 
le  teoriche  dei  latini,  ci  parla  di  una  consecutio  modorum^ 
da  porre  in  luogo  di  quella  (§  5i8). 

Delle  due  specie  dClpoiassi^  esposte  con  molto  acume  dai 
grammatici  più  recenti  —  cioè  il  subordinamenio  e  la  corre- 
lazione—  (Confi-.  Ckirtius,  Gr.  Gr.,  §§  619,  esegg.  Miill.)  (i), 
egli  non  distingue  né  idi  forma  esteriore,  né  il  significato^ 
che  risalta  da  questo  importantissimo  collegamento  delle 
proposizioni. 

Quanto  poi  a  quella  forma  di  dipendenza,  che  il  Matthlee 
vorrebbe  chiamare  consecutio  modorum,  diremo  che  essa  si 
fonda  sopra  un  falso  concetto,  che  s'avea  in  passato  dello 
Ottativo;  che  questo  modo  cioè  fosse  il  congiuntivo  dei 
tempi  storici  ;  errore  codesto,  a  cui  s'accosta  anche  il  Kiih- 
ner  [Gramm.Gr.  II,  §  i83).  —  Questo  erroneo  concetto  ha  il 
suo  fondamento  in  ciò,  che  il  verbo,  o,  più  chiaramente, 
l'anione  espressa  dal  verbo  sia  da  considerare  soltanto  ri- 
spetto al  grado,  cioè  rispetto  al  punto,  dal  quale  si  riguarda 
razione.  In  questo  riguardo  essa  è  o  presente  o  passata  o 
futura.  Gli  è  codesto  un  rapporto  quasi  esterno  fra  Tazione 
e  il  soggetto.  Ma  v'è  anche  un  altro  modo  di  considerare 
razione,  cioè  rispetto  alla  sua  durata  nel  tempo;  relazione 
cotesta  tutta  interiore,  e  dalla  quale  rimane  come  affetta 
Vallone  stessa  in  sé  e  per  sé.  In  questo  riguardo  l'azione 
è  o  incipiente,  o  durativa,  o  compiuta.  Ora,  avendoci  lo 
stuolo  della  linguistica,  e  un  più  accurato  esame  dell'uso 
storico  della  lingua  chiaramente  dimostrato,  come,  rispetto 


(i)  Crediamo  opportuno  l'avvenire,  che  questo  duplice  concetto  della 
Ipotassi  non  lo  si  trova  nelle  edizioni  del  Curtcws.,  anteriori  alla  quinta. 

—  In  quelle  egli  tratta  le  correlative  come  proposizioni  indipendenti. 

—  La  versione  italiana  del  Mlilìer  è  fatta  sulla  ottava  originale. 


—  488  — 
alla  durata  nel  tempo,  Tazione,  nei  modi  congiuntivo,  otta- 
tivo, imperativo,  infinito  e  participio,  non  è  soggetta  ad 
altra  modificazione,  da  quella  in  fuori,  che  chiamano  du- 
rativa ;  gli  è  chiaro,  che  la  trattazione  di  tutta  la  dottrina 
della  dipendenza  dei  tempi,  che  si  fonda  sui  vecchio  assioma, 
essere  il  congiuntivo  compagno  dei  tempi  principali  e  l'otta- 
tivo compagno  dei  tempi  storici ,  dovea  necessariamente  an- 
dare incontro  ad  una  completa  trasformazione. 

Tuttavia,  fatta  ragione  del  tempo,  forza  è  confessare,  che 
un  gran  punto  avea  già  vinto  il  Matthiae  col  riconoscere  e 
fissare,  non  foss' altro,  i  termini  veri  dèi  due  grandi  quesiti, 
che  alla  Sintassi  della  Grammatica  Greca  s'impongono,  cioè 
Fuso  dei  casi,  e  il  collegamento  delle  proposizioni,  ne'riguardi 
della  forma  e  del  contenuto.  —  Oltre  di  che  gli  studiosi  gli 
saranno  sempre  riconoscenti  del  largo  m.ateriale  d'esempi, 
rolli  all'uso  dei  meglio  scrittori.  —  li  sentimento  della  lingua 
avea  scolpito  e  profondo  il  Matthige,  ma  invano  si  cerca  in 
lui  quel  largo  spinto  ordinatore,  o  quella  acuta  sottilità  di 
giudizio,  che  contraddistingue  l'opera  geniale  di  Godofredo 
Hermann.  Ad  ogni  modo  la  Sintassi  del  Matthiae  basta 
essa  soia  a  chiarirci  della  verità  della  sentenza,  che  le  sortì, 
cioè,  della  medesima  sono  intimamente  connesse  a  quelle 
dell'indagine  etimologica,  dalla  quale  soltanto  essa  può  rice- 
vere chiarezza  di  luce,  e  saldezza  di  compagine. 

Una  delle  più  importanti  pubblicazioni,  nel  campo  della 
letteratura  grammaticale  della  lingua  Greca,  fatte  in  Ger- 
mania nella  prima  metà  di  questo  secolo,  è  la  Grammatica 
Greca  di  Carlo  Guglielmo  Kriìger,  data  fuori  la  prima 
volta  a  Berlino  Panno  1843.  La  Sintassi  del  Krùger  vive 
vita  prosperosa  e  liorente  oggidì  ancora,  malgrado  l'inconte- 
stato progresso  ottenuto  dalla  scienza  del  linguaggio ,  anche 


-  489  — 
per  questa  parte  della  Grammatica,  dopo  il  libro  del  Krii- 
ger.  Crediamo  anzi  di  poter  affermare,  non  v^ssere  in  Ger- 
mania studioso  di  lingua  Greca,   che  la  Sintassi  del  Krii- 
ger  non  abbia  tra  mano,   non  foss' altro  per   consultarla. 
Ben  nove  mila  passi  d'autori  classici   del   miglior  tempo  — 
escluse  le  Canzoni  Omeriche  —  sono  raccolti  in   quel  libro 
di  mole  non  grande,  a  dichiarazione  delle  regole  (i).  —  Non 
v'è   finezza  del  dialetto  Attico,  non  v'  è  meandro  del  pen- 
siero che  il  Kriiger  non  sappia  cogliere  e  seguire  ne' suoi 
più  reconditi  avvolgimenti.   —  Ned    è  un    freddo  ed   ob- 
biettivo espositore  di  regole,  o  un  rigido  collettore  e  quasi 
musaicista  d'esempi  il  Kriiger^  che  anzi  v'  è  tutto  lo  spi- 
rito  ordinatore  nell'opera  sua,  al  quale  un  ideale  sta  in- 
nanzi,  e  che  ii    contenuto   delle   forme  domina  e  soggioga 
con  mano  artefice,  e  il  pensiero  antico  accalora,  e  ad  insolite 
movenze  costringe.  —  L'opera  dei  Kriiger  noi  chiameremmo 
come  il  risultamento  di  due  polemiche ,  sostenute  dall'  una 
parte  contro  ^'immortali  della  scuola  del  Becker,  e  dall'altra 
contro  r incomposto  tumulto  delle  nuove  vedute,  dischiuse 
dalla  hnguistica,   ma  non  ancora  fermate  a  certa  regola  di 
scienza,  e  meglio  sentite,  che  comprese.  —  Lo  sbozzare,  an- 
che ristrettamente  assai,   il  concetto,  al  quale  s'informa  la 
Sintassi  del  Kriiger,  è  compito  non  lieve,   e  da  non  si  poter 
conchiudere  dentro  da  termini  precisi  e  serrati.  Nel  poscritto 
alla  terza  edizione,   l'autore  si  mostra  disposto  a  pubblicare 
un  piccolo  volume  di  Schiarimenti  alla  sua  grammatica;  ma 
a  'noi  non  consta  ch'ei  lo  facesse  mai,  e  del  non  averli  come 
che  sia  sott'occhio  quei  schiarimenti  ci  duole  non  poco,  poi- 
ché d'un  lavoro  così  importante  gioverebbe  assai  il  conoscere 
le  fila  scerete,  come  a  dire.  Ci  studieremo  perciò  di  mettere 


(i)  Vedi  il  Poscritto  sWa.  terza  edizione  -  Berlino,    iSSi. 
Tiivisla  di  filologia  ecc.,  I.  J3 


-  49C  — 

innanzi  il  disegno  dell'opera,  togliendone  i  contorni ,  non 
d'ai  fronde,  che  dallo  studio  di  esBa. 

La  Sintassi  del  Kriiger  è  divisa  in  due  grandi  sezioni  — 
Analisi  e  Sintesi.  —  La  puma  se:(tone^  che  chiameremo 
analitica,  fa  materia  di  suo  studio  il  contenuto  di  quelle 
forme,  che  la  dottrina  della  flessione  ha  esaminato  nella 
loro  struttura  esteriore;  ne  chiarisce  del  significato  e  del- 
l'uso delle  medesime  (§§  43-56).  — La  seconda  sezione,  che 
è  la  sintetica^  studia  i  vari  modi  di  scambievole  relazione, 
che  hanno  luogo  fra  i  concetti  singoli^  e  quelli  che  occor- 
rono ne'collegamenti  delle  proposizioni  (§§  57-63)«  —  Se- 
guita appresso  a  queste  una  teT\a  se:{ione,  che  tratta  delle 
parti  del  discorso  indeclinabili  [Avverbi  —  Nega'{ioni  — 
Preposizioni  —  Cong-iiin:[ioni)  (§§  66-69).  '^  ^^  concetto,  che 
informa  la  sezione  prima,  si  collega  strettamente  alla  etimo- 
logia, della  quale  essa  costituisce  come  a  dire  il  necessario 
complemento,  dichiarando  la  significazione  concreta  e  usuale 
delle  parti,  che  sono  oggetto  dello  studio  di  quella.  Nel  suo 
insieme  questa  sezione  della  sintassi  del  Kriiger  s'accosta 
assai  alla  nozione,  che  della  <juvTa2i?  ebbero  gli  antichi,  ai 
quali  massimamente  stava  a  cuore  ciò,  che  dalla  etimologia 
alla  sintassi  fosse  naturale,  ovvio  e  come  graduale  il  tra- 
passo. —  La  sezione  seconda  è  ripartita  in  due  capi,  l'uno 
de'quali  corrisponde  assai  da  vicino  alla  sintassi  di  concor 
dan^^a,  l'altro  alla  sintassi  di  reggimento  delle  grammatiche 
nostrali.  ~  La  terza  parte,  che  nella  sintassi  del  Kriiger 
tien  dietro  a  mo'  d'appendice  alle  due  sezioni  principali  ^  è 
come  a  dire/«oW  delia  sintassi^  e,  quanto  ai  concetto, 
che  ne  informa  la  trattazione,  potrebbe  far  parte,  più  ra- 
gionevolmente ne  pare,  deila  sezione  prima.  - —  Conside- 
rando ora  ne'suoi  tratti  pili  generali  il  disegno  dell'opera,  ne 
sembra  di  poter  dire,  che  esso  è  come  surto  per  reazione 
allo  indirizzo  astrattivo  delle  scuole  dei  grammatici  filosofi. 


—  491  — 

fondato  suirarbitrio,  ben  lungi  dalie  manifestazioni  dell'uso 
concreto  della  lingua.  —  Ora,  come  suole,  il  Kruger  s'è 
gittato  al  contrario  opposto  :  e  come  quelli  facevano  della 
proposizione  il  nucleo  fatale,  verso  il  quale  ogni  indagine 
sintattica  dovesse  convergere,  così  egli,  in  odio  a'filosofanti, 
relegò  la  proposizione  allo  estremo  capo  di  sue  ricerche,  ne 
scisse  anzi  ogni  unità  di  concetto ,  né  volle  che  la  parola 
avesse  altra  fun:{ione^  che  la  formale  -,  e  non  vide,  come  non 
sia  possibile  un  contenuto  della  parola,  senza  che  vi  sia 
connessa  una  funzione  sintattica,  o  di  relazione,  o  di  colle- 
gamento. Il  punto  da  vincere  stava  tutto  lì,  neirintuire  cioè 
quasi  con  impeto  preveggente,  qual  posto  la  nuova  scienza 
del  linguaggio  assegni  alla  parola,  considerata  rispetto  al 
suo  contenuto,  nel  contesto  del  discorso,  sulla  base  e  non 
altramente,  delle  funzioni  originarie,  e  quasi  istintive  della 
medesima,  dichiarate  e  appurate  dairindagine  linguistica,  e 
dallo  studio  più  accurato  dell'uso.  —  Ma  la  forza  delle  cose 
la  vinse  sui  fatti  propositi,  e  il  Kruger  si  rese  colpevole, 
secondo  noi,  di  una  grande  contraddizione.  Tutto  quanto 
il  materiale  infatti,  come  lo  troviamo  ammassato  nella  sua 
grammatica,  contraddice  nel  modo  più  aperto  al  disegno, 
da  lui  preconcetto,  nella  ripartizione  del  suo  pur  eccellente 
e  classico  la"«'oro.  —  Ma  già  subito  nella  definizione  della 
parte  analitica  del  suo  lavoro  pare  a  noi  di  ravvisare  l'in- 
teriore contraddizione  (Part.  II,  cap.  I,  Nozioni  pr clini.). 
—  E  come  è  possibile  infatti  svolgere  il  signijjcato  e  Vap- 
plica:{ione  delie  forme  della  parola,  senza  parlare  di  rela- 
zioni, di  concordanze,  di  collegamenti,  di  enunciati,  di  coor- 
dinazioni, di  correlazioni,  di  dipendenze  più  o  meno  ideali? 
E  il  Kruger  infatti  non  si  è  potuto  sottrarre  a  questa  ne- 
cessità. Basta  una  lettura,  anche  superficiale,  della  dottrina 
dei  modi,  che  è  svolta  nella  sezione  analitica  al  §  54,  nei 
capitoli   I.   II.   IIL  IV.  V.  VI.  —  Ne  allegheremo  a  ri- 


-  492  - 
prova  i  titoli:  —  Gap,  I.  /  modi  nelle  proposizioni  indi- 
pendenti—  Gap.  II.  /  modi ^  che  hanno  una  dipendem^a  me- 
ramente ideale  —  Gap.  III.  /  modi  nelle  proposizioni  finali 
—  Gap.  IV.  /  modi  ne''periodi  ipotetici  —  Gap.  V.  /  modi 
nelle  proposizioni  relative  —  Gap.  VI.  /  modi  fielle  proposi  - 
Zioni  temporali.  —  Noi  crediamo  che  ben  a  ragione  altri  po- 
trebbe ritorcere  contro  l'illustre  grammatico  quella  sentenza, 
che,  a  proposito  dei  metodi  immortali,  egli  mette  fuori  nel 
breve  preambolo  della  sintassi.  —  «  L' ordinamento,  cioè, 
della  sintassi,  corrispondente  alVuso  concreto  della  lingua 
imporsi  imperiosamente  colla  interiore  sua  necessità  »  — .  La 
contraddizione,  nella  quale  è  caduto  il  Krùger,  sta,  a  nostro 
giudizio,  in  ciò,  che  mentre  egli  muove  tutto  agguerrito 
contro  il  metodo  astrattivo  degli  immortali ,  non  s'avvide 
poi,  come  egli  dividea  un  concetto,  che  non  può  non  essere 
uno  e  continuo.  —  Tutto  il  materiale  infatti  della  sezione  II 
(sintetica)  poteva  venire  molto  acconciamente  repartito  fra 
i  vari  capitoli  della  prima  sezione,  dove  esso  ha  la  naturale 
sua  sede,  né  può  averla  altrove. 

Gosì,  ad  es.,  la  materia  del  §  67  —  Unione  di  concetti 
nominali —  \)  attributiva.,  2) predicativa, ''ò)  appositiva  — 
tutto  ciò  s'appartiene  naturalmente  al  nome.  Il  §  60,  che  tratta 
della  Ptotica  (dottrina  della  concordanza  dei  casi),  fa  parte 
della  dottrina  dei  casi.  —  E  la  dottrina  del  verbo  —  della 
concordanza  e  reggimento  di  esso  tanto  nelle  proposizioni 
indipendenti,  quanto  in  quelle,  che  si  mostrano  variamente 
collegate  (§§  62-65,  1-2-3)  — questa  dottrina,  diciamo,  ha  la 
sua  naturai  sede  là  dove  appunto  dei  verbo  si  discorre  ; 
poiché  tutto  ciò,  che  il  Kruger  chiama  congruenza  (concor- 
danza) del  verbo,  altro  non  è  che  la  teorica  della  concor- 
danza, che  naturalmente  sì  svolge  nelle  relazioni  di  esso  col 
soggetto,  coll'attributo  e  col  predicato;  e  tutta  quella  parte 
che  tratta  del  reggimento  del  verbo  appartiene  di  fatto  e  di 


--493-- 

diritto  alle  funzioni  temporali  e  modali  di  esso.  —  Cosicché 
il  Kriiger  ha  scisso  daddovero  il  concetto  grammaticale  e 
logico  del  nome  e  del  verbo,  non  ha  esaurito,  anzi  neppure 
bene  adombrato  il  concetto  della  proposizione.  —  Ma  dun- 
que non  c'è  unità  di  disegno  in  questo  pur  grande  lavoro? 
Dunque  il  Kriiger  si  fonda  sopra  una  astrazione,  mentre 
crede  di  poggiare  sul  terreno  solido  della  realtà?  —  Ecco 
due  gravi  quesiti.  Risponderemo,  assai  brevemente,  come 
potremo,  e  senza  nessuna  pretensione  di  apporci  bene. 

La  repartizione  della  sintassi  in  analitica  e  sintetica  ^ 
messa  innanzi  dal  Kriiger,  ci  richiama  al  pensiero  la  di- 
stinzione xiQ.'' giudici  analitici  e  sintetici,  fatta  dal  Kant{\), 
Ne'giudizi  analitici,  col  predicato  non  si  aggiunge  nulla  al 
soggetto,  ma  soltanto  lo  si  rischiara,  lo  si  notomizza  e  divide 
nelle  sue  parti,  le  quali  si  pensano,  benché  talora  oscura- 
mente, come  inerenti  da  natura  al  soggetto  -,  come  ad  es. 
nel  giudizio  :  —  «  il  triangolo  è  una  figura  di  tre  lati  » . 
—  All'opposto  i  giudizi  sintetici  aggiungono  alPidea  del 
soggetto  un  attributo,  che  non  è  punto  inerente  per  inte- 
riore necessità  al  soggetto ,  come  quando  io  dico  ad  esempio 
«  quest'uomo  è  bianco  ».  Il  soggetto  uomo  non  racchiude 
in  sé  necessariamente  l'attributo  della  biancheria,  potendo 
anche  essere  nero,  o  color  di  rame  o  d'altro  colore  :  mentre 
il  triangolo  non  può  avere  che  tre  lati,  né  più  né  meno.  — 
Ora  a  noi  sembra  che  l'appellativo  di  analitica,  dato  dal 
Kriiger  alla  prima  grande  sezione  della  sua  Sintassi,  o  lo  si 
intende  nel  senso  Kantiaiip,  o  altramente  non  s'esce  di  questo 
dilemma  —  quello  appellativo  o  non  ha  senso,  o  involge 
contraddizione.  —  Noi  pertanto  concepiamo  la  Sintassi  ana- 
litica del  Kriiger  nel  modo  seguente  :  Esposizione  del  con- 
tenuto, della  significaiione  e  dell'uso  delle  parti  del  dis- 


(i)  Critica  della  Ragione  Pura.  Imrod.  VL 


-    494  — 

coròO^  nella  misura,  che  è  succiente  ad  esaurire  il  concetio 
del  valore  ideale  e  delle  conseguenti  necessarie  relazioni 
e  quasi  influssi  delle  medesime,  nell'uso  concreto  della  lin- 
gua. —  E  vi  sono  intatti  modalità  e  funzioni  necessarie 
delle  parti  del  discorso,  nell'uso.  Prendiamo  ad  esempio  il 
nome  (sostantivo,  aggettivo.,  pronome).  Di  esso  sono  mo- 
dalità e  relazioni  necessarie  il  genere^  il  numero,  i  casi. 
—  E  la  funzione  del  perbo  si  esplica  necessariamente  nel 
genere,  nel  modo,  nel  tempo.,  e  nelle  relazioni  di  persona 
e  di  numero.  E  laddove  si  pensi  alle  funzioni  modali  del 
verbo,  vedremo  scaturire  da  esse  con  evidente  necessità  molte 
relazioni  di  correlazione  e  di  dipendenza  logica,  se  non  sempre 
reali,  così  da  parere,  non  fossVltro,  di  concorrere  ad  esau- 
rire il  valore  del  concetto  del  verbo  e  la  pienezza  delle  sue 
funzioni.  —  Intesa  così,  V analisi  sintattica  del  Kriiger 
non  manca  certo  di  unità  di  disegno,  che  anzi  essa,  a  mo'di 
compiuto  organismo,  ti  sembra  incedere  serrata  e  stretta 
dentro  da'termini  d'una  interiore  necessità.  —  Ma  Terrore, 
secondo  noi,  del  Kriiger  sta  nell'avere  sottratto  nella  parte 
analitica  al  nome  ed  al  verbo  alcune  funzioni  e  relazioni , 
che  al  concetto  loro  si  collegano  con  evidente  necessità.  — 
E  come  non  penseremmo,  siccome  necessariamente  connesse 
al  nome  (sostantivo,  aggettivo,  pronome)  quelle  relazioni  di 
concordanza,  che  il  Kriiger,  sotto  il  titolo  di  unione  sintat- 
tica di  concetti  nominali  ^  ha  violentemente  staccate  dal- 
l'analisi del  nome,  e  ascritte  alla  sintesi  di  esso  (§  67)?  E  le 
funzioni  tutte  di  soggetto,  oggetto,  non  appartengono  esse 
di  necessità  al  nome  ?  Perchè  dunque  scinderne  l'unità,  e 
parte  ascriverne  alla  analisi ,  parte  alla  sintesi  di  quello 
(§61)? 

E,  quanto  al  verbo,  noi  non  arriviamo  proprio  a  com- 
prendere, perchè  il  Kriiger  abbia  sottratto  al  concetto  ana- 
litico di  esso,  che  è  come  a  dire  all'intima  sua   natura,  le 


-  495  - 
relazioni  dì  concordanza  (congruenza,  §  63)  rispetto  al  sog- 
getto', perchè  abbia  ascritto  alla  sintesi ^  cioè  sottratto  alla 
virtù  significativa  del  contenuto,  e  al  concetto  delle  funzioni, 
inerenti  airuso,  le  proposizioni  indipendenti  (§  64).  E  non 
cadono  queste  sotto  il  concetto  della  modalità?  E  qual  v'è 
cagione  di  considerare  certi  collegamenti  di  proposizioni 
[Sai:{gefuge,  §  65)  come  aggregati  esteriori  e  quasi  superfe- 
tazioni delle  modalità  del  verbo?  —  Delle  proposizioni  com- 
poste, ossia  insieme  collegate,  noi  abbiamo  questo  concetto, 
che  esse  possono  venire  considerate  0  in  ordine  allafonna^ 
o  in  ordine  al  contenuto.  Rispetto  a  quella  esse  sono  o  coor- 
dinate, o  correlative,  o  subordinate:  rispetto  a  questo  esse 
sono  o  affermative  (enunciative),  o  finali,  o  ipotetiche,  o  re- 
lative, o  temporali.  —  La  è  codesta  una  distinzione  quanto 
semplice,  altrettanto  ovvia  e  rispondente  al  fatto  della  lingua 
neiruso.  —  Ma  nella  trattazione ,  forma  e  contejiuto  in 
questi  enunciati  non  possono  essere  distinti,  perchè  e  quella 
e  questo  si  raggruppano  intorno  all'unico  concetto  del  modo 
e  del  tempo.  Lo  indurre  ora  una  distinzione  nell'unico  con- 
tenuto, così  che  vi  sia  un  contenuto,  pel  quale  il  fatto  del 
collegamento  non  abbia  valore  grammaticale,  come  sarebbe 
nel  concetto  analitico  di  esso  —  e  un  altro  contenuto,  ri- 
spetto al  quale  il  lato  formale  (grammaticale)  del  contenuto 
abbia  valore  quasi  predicativo  —  come  è  nel  concetto  sin- 
Utico  del  medesimo:  ciò  ne  pare  che  conduca  a  questa 
necessaria  illazione:  —  che  ogni  sintesi  vera  della  relazione 
fra  la  forma  e  il  contenuto  degli  enunciati  e  impossibile , 
nella  grammatica  non  foss'altro.  —  Quali  inconvenienti  pe- 
dagogici presenti  un  cosiffatto  modo  di  trattazione,  fa  ap- 
petia  mestieri  che  sì  dica.  —  Rechiamo  tuttavia  qualche 
esempio.  —  Delle  proposi-^ioni  finali  discorre  a  lungo  il 
Kriiger  nella  pane  analitica  (§  54,  8).  —  Parrebbe  a  primo 
tratto,  che  in  questo  luogo   si  considerasse   principalmcnie 


-  496  - 
la.  forma  delle  medesime ,  come  qualche  cosa,  che  s'imponga 
necessariamente  a  chi  voglia  esprimere  quel  dato  contenuto 
che  si  appella ^«(^/e.  Pare  che  Fautore  ti  dica  quasi:  «  Vedi 
«  come  la  forma  (la  modalità  del  verbo)  s'impone  qui  al 
«  contenuto!  Ma  verrà  tempo,  che  sciorremo  questo  fatale 
«  complesso:  allora  ciascuno  enunciato  starà  da  sé,  e  lo 
«  considereremo  airinfuori  della  sua  forma.  Le  congiun- 
«  zioni  iva,  ib?,  èniaq,  ^x]  s'incaricheranno  esse  dell'ufficio  di 
(c  conciliatrici  ».  —  E  infatti  nella  parte  sintetica^  al  §  65, 
4,  si  parla  ancora  delle  proposizioni  finali,  in  ordine  al  loro 
ufficio  completivo  nelle  proposizioni  composte.  Ora  ecco 
ciò  che  ne  dice  il  Krùger  in  questo  passo  :  «  Die  be~ 
ppeckte  oder  beabsichtichte  Folge  be\eichnen  wa,  d»?,  ottuj?, 
wie  negativ  fjirj,  iva  |iri,  uj?  jiri,  Sttuj?  \xx\  mit  dem  Conjunctiv 
oder  Optativ  (i)  ».  —  Altro  esempio:  —  Le  proposizioni 
ipotetiche  —  che  il  Kriiger  addimanda  periodi  (§  54,  9)  — 
sono  trattate  con  molta  larghezza  e  concisione  nella  parte 
analitica  della  sintassi.  —  Ma  poi  se  ne  riparla  nella  parte 
sintetica  al  §  65,  5.  —  Ma  là  se  ne  discorre  come  d'una 
applicazione  del  concetto  modale  del  verbo  :  qui  come  d'una 
relazione  (collegamento  esterno,  quasi  formale)  fra  causa  ed 
effetto.  «  Ein  Verhaeltnis\  von  Grund  und  Folge  jìndet 
sich  auch  bei  den  hypothetischen  Sdt\eti.  •»  Una  relazione  fra 
causa  ed  effetto  ha  luogo  anche  negli  enunciati  ipotetici.  — 
Questa  seconda  sezione  della  Sintassi  del  Kriiger  —  la  sin- 
tesi —  a  noi  sembra  piuttosto  un'appendice  alla  sintassi, 
svolta  nella  prima  parte,  nata  via  via,  lungo   il   cammino, 


(i)  <i  La  conseguenza,  tanto  quella  voluta,  quanto  quella  che  si  desi- 
dera, è  espressa  dalle  congiunzioni  Ivo  ecc.,  ovvero,  in  forma  negativa, 
da  ixr\  ecc.,  col  congiuntivo,  o  coU'ottativo  »  (  Confr.  §  54,  8,  2  ).  Se- 
condo il  KrUger,  in  questi  enunciati,  dall'uso  del  congiuntivo  emerge 
più  chiaro  il  fine  voluto  raggiungere  ;  dall'uso  dell'ottativo  l'intenzione 
di  raggiungerlo. 


—  497  — 

e  quando  la  materia  era  cresciuta  tra  mano  airautore.  Tanto 
ne  pare  poco  giustificato  il  posto,  che  essa  tiene  in  questo 
classico  libro! 

Ma  ben  altro  criterio  s'ha  a  farsi  delia  Sintassi  del  Kriiger, 
allorquando  si  discende  alTesame  àt' particolari.  —  Fon- 
data essa  sulla  rigida  distinzione  del  dialetto  attico  dal- 
V ionico  (tanto  l'antico,  che  è  proprio  delPepopea,  quanto  il 
nuovo,  che  è  rerodoteo)  fu  posta  così  in  parte  sicura  da 
ogni  fluttuazione-,  e  per  tal  modo  un  servizio  inapprezza- 
bile fu  reso  alla  scienza  e  agli  studiosi  delle  lettere  greche, 
delle  quali  il  Kriiger  sarà  sempre  proclamato  promovitore 
indefesso  e  acutissimo.  Le  più  minute  particolarità,  le  sfu- 
mature più  sottili  e  sfuggevoli  sono  notate  e  studiate  in  quel 
libro;  né  già  colla  fredda  e  obbiettiva  indifferenza  del  mu- 
saicista,  ma  con  tutta  la  energia  e  la  vivezza  di  uno  spirito 
penetrativo,  che  la  morta  materia  ravviva  colTacceso  senso 
della  vicina  realtà.  —  La  grammatica  del  Kriiger  è  scritta 
per  gli  studiosi  d'indole  più  meditativa,  concisa  ne'modi , 
serrata  ne'pensieri,  sottile  e  stringata  nelle  definizioni,  tutta 
succo  e  nervi-,  ma  perciò  appunto  di  difficile  accostamento. 
—  Ciò  nullameno  noi  facciam  voti,  perchè  quest'opera  per- 
venga alla  conoscenza  de'nostrali,  che  dallo  studio  di  essa 
potranno  inferire  quanto  sia  feconda  l'osservazione,  portata 
sull'uso  della  lingua.  {Continua) 

Rovigo,  mar:jo,  1873. 

Gaetano  Oliva. 


—  498  — 

LA  COMMISSIONE  D^iNCHIESTA 
SULLA     IST^UZIOU^E    S  E  C  O^K'J^  A 'KJ  A 

A     ROMA. 


È  naturale,  che  la  nostra  Rivista  apra  una  larga  discussione  sui  que- 
siti proposti  dalla  commissione  d'inchiesta,  dacché  molta  parte  di  essi 
si  riferisce  direttamente  all'insegnamento  di  quelle  discipline,  per  pro- 
muovere le  quali  è  stato  fondato  il  nostro  giornale.  Nei  prossimi  nu- 
meri si  ragionerà  adunque  di  quelli  in  particolare  che  concernono 
l'insegnamento  dei  greco  e  del  latino,  che  per  noi  sono  la  incrollabile 
base  d'ogni  più  elevata  cultura  e  perciò  di  capitale  importanza.  Oggi 
intanto  possiamo  offrire  ai  nostri  lettori  una  succinta  relazione  delle 
risposte  fatte  alla  Commissione  stessa  in  Roma  da  autorevoli  persone, 
cenni  questi  che  speriamo  non  saranno  discari  ai  nostri   lettori. 

1. 

Roma,  ^i  febbraio  iS^S. 

Come  avrete  veduto  nei  giornali,  la  Commissione  dell'inchiesta  sco- 
lastica ormai  pose  termine  alle  sue  prime  sedute  in  Roma  ed  e  partila 
per  Napoli. 

Qui  si  apprezza  generalmente  in  tutto  il  suo  valore  la  risoluzione 
del  ministro,  che  ordinò  di  fare  in  così  larghe  proporzioni  lo  scandaglio 
dell'opinione  pubblica  intorno  ai  gravi  ed  intralciali  problemi,  che 
sono  di  tanto  peso  ]jcr  l'avvenire  della  nostra  patria.  Senonchè  gli  uo- 
mini egregi,  a  cui  fu  commessa  l'importante  ricerca,  nel  formulare  i 
loro  quesiti  ebbero  forse  più  in  mira  di  conoscere  le  opinioni  che  di 
constatare  i  fatti  dal  riscontro  dei  quali  l'opinione  doveva  formarsi.  È 
questo  il  difetto  capitale  che  la  gente  pratica  in  queste  cose  trova  nel 
fascicolo  pubblicato  dalla  Commissione,  dove  sono  aggruppate  in  77 
numeri  più  centinaia  di  domande.  Ciò  forse  dipende  in  parte  dall'in- 
dole della  materia,  dove  non  trattasi  di  raccogliere  una  serie  di  fatti 
puramente  empirici,  come  nell'inchiesta  industriale,  ma  tali  fatti  che 
possono  derivare  da  opinioni  diverse,  da  errori  più  o  meno  diffusi  e  che 
importa  di  constatare  ;  in  parte  dipende  da  quell'indirizzo  subbiettivo, 
da  quell'a  priori  che  è  tanta  parte  del  nostro  passato  e  che  rimane  an- 
cora ad  attestare  quanto  importi  di  dare  alle  menti  giovanili  un'altra 
svolta  e  fare  un  divorzio  perpetuo  con  ogni  idea  preconcetta. 

Per  darvi  un  rendiconto  esatto  intorno  ai  lisuliati  dell'inchiesta  quj 


«-  499  — 

in  Roma  dovrei  oltrepassare  di  molto  i  limiti  di  una  modesta  corrispon- 
denza; il  che  non  potrei  fare  né  per  lo  spazio  vostro  né  per  il  tempo 
mio.  MI  restringerò  dunque  a  pochissime  cose,  ma  tali  che  a  parer  mìo 
è  bene  si  sappiano  e  si  discutano  affinchè  la  Conirnissione  nei  suo  pei- 
iegrinaggio  trovi  in  certe  questioni  di  grande  importanza  per  cosi  dire 
circoscritta  la  lotta  in  un  campo  determinato  evitando  i  divagamenti  ed 
anche  i  capricci  individuali  che  spostano  i  problemi  e  fanno  perdere  il 
tempo. 

Gli  nomini  chiamati  finora  a  rispondere  furono  de'più  sperimentati 
sia  nell'istruzione  militante  sia  neìramministrazione  di  essa.  Tutti  fu- 
rono d'accordo  nel  riconoscere  che  le  condizioni  presenti  in  cui  trovasi 
la  carriera  di  professore  ncn  sono  tali  da  attirarvi  i  giovani  d'ingegno, 
né  da  pretendere  modelli  di  scienza  e  di  virtù  in  quelli  che  vi  si  tro- 
vano; che  i  rimedii  non  vogliono  essere  omeopatici,  come  quelli  del 
Sella,  ma  tali  da  pareggiarla  a)!e  altre  carriere  nobili  di  avvocato,  in- 
gegnere, medico.  Tutti  affermarono  che  le  questioni  dei  programmi , 
dei  metodi,  e  in  generale  dell'organismo  dell'istruzione  secondaria  di- 
ventano tutte  veramente  secondarle  rispetto  a  quella  del  personale;  che 
dato  il  buon  professore  c'è  la  buona  scuola,  e  il  buon  professore  costa 
caro  come  ogni  cosa  buona.  Anzi  vi  fu  un  uomo  d'ingegno  vivace  e  spi- 
gliato che  disse  alla  Commissione  :  di  tuiti  i  vostri  quesiti  io  rispondo 
ad  uno  solo,  sciolto  il  quale  avrò  risposto  a  tutti  :  nobilitate  material- 
mente e  moralmente  la  carriera  di  professore  e  vedrete  ogni  cosa  pro- 
cedere in  modo  da  poter  abolire  questo  sistema  burocratico  che,  in 
luogo  di  mettere  orarne,  intralcia  l'andamento  dell'istruzione. 

Il  quesito  a  cui  fu  risposto  dal  maggior  numero  di  persone  fu 
quello   che  riguarda  l'istruzione   religiosa (i) 

Altro  argomento  di  cui  si  occuparono  parecchi  fra  gl'interrogati  e 
nel  quale  fu  manifestata  qualche  idea  nuova  fu  quello  delle  ispezioni. 


(i)  Non  potendo  riferir  qui  tutto  ciò  che  il  nostro  egregio  corri- 
spondente ci  scrisse  intorno  a  si  fatta  questione,  estranea  alla  natura 
di  questa  *7(/v«5^i,  né  parendoci  tuttavia  opportuno  passare  affatto  sotto 
silenzio  un  argomento  cui  a  Roma  si  attribuì  universalmente  grande 
importanza,  noi  compendieremo  colla  massima  brevità  questa  parte- 
delia  lettera  inviataci  cortesemente  dal  prof.  Zambaldi,  valendoci, 
quanto  potremo,  delle  sue  stesse  parole.  —  Fu  generale  l'accordo 
nel  deplorare  che  nell'istruzione  pubblica  italiana  manchi  o  non  sia 
abbastanza  efficace  lo  insegnamento  religioso,  «  Vi  fu  chi  propose  che 
fosse  rinvigorito  e  vi  si  desse  un  novello  impulso  :  ma  il  maggior  nu- 
mero e  la  gente  più  pratica  riconobbe  che  il  nodo  della  questione  non 
è  nel  catechista  e  nel  suo  programma,  ma  nelle  condizioni  religiose 
dell'Italia...  .  A  questa  conaizione  degli  animi,  fruito  di  cause  ormai 
secolari,  quasi  tutti  riconobbero  che  non  f''  dato  rimediiijc  ne  in  ^r> 
mese  né  in  un  anno  »,  soprattu'to  fra  le  lotte  ora  ferventi.  «  Pertanto 
crinterroeati  risposero  quasi  ad  una  voce,  essere  bensì  deplorabile  il  di- 
fetto di  educazione  religiosa,  ma  nessuno  aver  facoltà  di  riparare  a  que- 
sto male  »,  e,  nello  stato  presente  delle  co.se,  non  potersi  conservare  nelle 


—  500  — 

!n  generale  fu  osservato  che  nel  modo  in  cui  ora  si  fanno  riescono 
presso  che  inutili;  non  essere  raro  il  caso  che  un  ispettore  contrad- 
dica all'altro  ;  poter  gl'ispettori  riconoscere  qualche  grave  abuso,  ma 
non  esercitare  un'azione  costante  e  benefica  sull'andamento  dell'istru- 
zione. Il  maggior  numero  propose  che  gl'ispettori  sieno  slabili,  e  si 
parlò  di  affidare  questo  incarico  ai  provveditori,  ma  più  d'uno  osservò 
che  i  provveditori,  anche  quando  si  scegliessero  fra  gl'insegnanti,  alla 
lunga  s'ingranano  nella  ruota  burocratica  e  restano  in  arretrato  nella 
scienza  ;  inoltre  per  quanto  sieno  persone  istrutte,  la  loro  dottrina  non 
andrà  al  di  là  di  una  o  due  materie,  non  saranno  mai  tali  da  misurarsi 
con  tutti  i  professori  dei  diversi  rami  né  quindi  avranno  bastante 
autorità  da  tenerli  in  riga. 

Migliore  accoglienza  e  nessuna  opposizione  trovò  la  mia  proposta 
di  cui  vi  riassumo  in  breve  il  ragionamento.  Io  dissi  :  perchè  le  ispe- 
zioni sieno  utili  è  necessario  che  sieno  per  così  dire  costanti  ed 
abbiano  un  qualche  accordo  di  principii  almeno  per  un  certo  numero 
di  istituti.  Uno  dei  mali  che  si  lamentano  nell'istruzione  governativa 
è  appunto  il  difetto  di  metodo  e  di  accordo  fra  i  professori,  princi- 
palmente nella  parte  letteraria  ,  difetto  dovuto  alle  condizioni  pre- 
senti della  nostra  coltura.  E  in  vero  molti  professori  furono  educati 
all'antica  scuola,  che  se  teneva  un  certo  conto  dell'arte,  seguiva  quasi 
inconsciamente  metodi  empirici  e  in  contraddizione  coi  risultati  della 
scienza;  altri,  educati  ai  sistemi  moderni,  in  luogo  di  prenderne  i  ri- 
sultati danno  nell'insegnamento  tale  risalto  al  lato  scientifico  da  lasciare 
inerti  e  inesplicate  le  facoltà  più  vigorose  dei  giovani,  il  sentimento 
e  la  fantasia  ;  finalmente  un  certo  mxmero  di  professori,  istruiti  di  per 
sé  soli,  o  come  ora  si  direbbero  autodidacti ,  vanno  a  tentoni  senza 
alcuna  guida  e  facendo  esperienze  sugli  allievi  come  in  anime  vili.  1 
nostri  istituti  sono  giovani  o  rinnovati  di  fresco  ;  perciò  non  hanno 
tradizioni,  né  cominciarono  a  formarle  per  la  natura  dei  tempi   che 


scuole  del  governo  il  preaccennato  insegnamento,  «  raccomandando  però 
di  dare  un  certo  sviluppo  alle  dottrine  morali  e  di  destare  con  ogni 
mezzo  possibile  il  sentimento  del  dovere.  Nelle  condizioni  morali  e 
religiose  d'Italia  trova  altresì  spiegazione  quel  fatto  avvertito  nel  nu- 
mero 14,  che  alcuni  istituti  religiosi  e  tenuti  da  corpi  morali  hanno 
maggior  numero  di  alunni  degli  istituti  governativi.  »  11  comm.  Al- 
lievi notò  a  questo  proposito  come  fra  noi  non  piaccia  per  lo  più 
ai  padri  consecrar  l'opera  propria  all'educazione  religiosa  dei  loro  fi- 
gliuoli, «  E  poiché  per  quanto  uno  sia  miscredente  e  di  facili  costumi 
sente  dentro  di  sé  qualche  cosa  che  lo  stringe  ad  informare  l'animo  dei 
figli  ad  alcuni  principii  morali,  crediamo  sdebitarci  di  questa  responsabi- 
lità e  tranquillare  la  nostra  coscienza  affidando  la  nostra  prole  ad 
istituti  religiosi.  Aggiunse  però  l'onorevole  Allievi  che  a  parer  suo 
questi  padri  s'ingannano  né  ottengono  lo  scopo  desiderato;  anzi  af- 
fermò risolutamente ,  e  con  lui  quanti  si  occuparono  di  questa  ma- 
teria, che  l'istruzione  governativa  è  sotto  ogni  aspetto  migliore  di 
quella  impartita  da  corpi  morali  e  da  ordini  religiosi.  » 


—  501  — 

rese  necessari  e  desiderati  trasferimenti  continui  ;  i  nuovi  venuti  non 
trovano  un  sentiero  comune  da  percorrere  e  da  cui  non  possano 
deviare,  come  nelle  vecchie  scuole  inglesi  e  in  quelle  di  Gennania  ; 
manca  insomma  quella  che  in  arte  direbbesi  scuola  ,  perchè  l'antica 
non  serve  più,  e  la  nuova  appena  importata  non  potè  ancora  modifi- 
carsi conforme  alle  nostre  attitudini  e  diventare  italiana.  Inoltre  i  pro- 
fessori hanno  fama  di  genie  indisciplinata  ,  suscettiva  ,  talora  anche 
riottosa;  ed  è  naturale  che  sia,  perchè  abituata  nella  scienza  alla  cri- 
tica rigorosa  e  a  mettere  tutto  in  discussione,  non  ha  motivo  di  dar 
retta  all'ispettore  in  cose,  nelle  quali  ha  coscienza  di  poter  insegnare 
a  lui.  Quando  trattasi  del  loro  insegnamento  i  professori  non  possono 
riconoscere  altra  autorità  che  quella  della  scienza. 

Volete  adunque  mettere  un  po'  d'ordine  in  questa  confusione,  un 
po' di  disciplina  nelle  menti?  Organizzate  fortemente  le  scuole  nor- 
mali, non  solo  in  maniera  che  i  giovani  vi  apprendano  bene  e  ordi- 
natamente le  varie  discipline,  ma  altresì  che  tutti  gl'insegnanti  nuovi 
debbano  passare  di  là.  E  se  il  bisogno  vi  costringe  a  prendere  anche 
dal  di  fuori,  non  abbiate  premura  di  concedere  patenti,  ina  date  loro 
tempo  di  orientarsi,  di  mettersi  in  rapporto  con  la  scuola  normale,  di 
sottoporsi  ad  esami  scrii,  come  quelli  che  si  danno  a  Padova,  con  pro- 
grammi ben  definiti  e  dati  in  modo  che  riescano  insuperabili  a  chi  non 
sa  o  a  chi  sa  male.  Quando  poi  il  giovane  professore  incomincia  la  sua 
dura  milizia,  non  fate  che  mandi  un  eterno  addio  alla  scuola  normale, 
non  segnate  una  linea  di  separazione  fra  essa  e  la  scuola  secondaria,  ma 
stringetele  insieme  con  vincoli  diretti  e  continui,  dando  alla  prima  la 
direzione  scientifica  e  didattica  della  seconda.  Fate  cioè  che  i  profes- 
sori delie  scuole  normali  sieno,  ciascuno  per  la  propria  materia,  gli 
ispettori  ordinarli  d'un  dato  numero  di  licei,  di  ginnasi ,  di  scuole 
tecniche.  Così  il  discepolo,  che  fa  le  sue  prime  prove  come  insegnante, 
verrebbe  spesso  guidato  da'suoi  antichi  maestri,  per  i  quali  rimane  in 
ogni  animo  onesto  una  stima  mista  d'affezione,  o  se  educato  in  altra 
circoscrizione  avrebbe  pur  sempre  la  scorta  di  quelli  che  sono  per  così 
dire  gli  ufficiali  superiori  della  scienza  militante.  In  tal  modo  l'ispe- 
zione perderebbe  quel  che  di  pauroso  che  ha  presentemente,  e  che  de- 
riva soprattutto  dall'ignorare  i  metodi,  le  idee  didattiche,  e  convien 
pur  dirlo,  anche  l'umore  degl'ispettori,  così  gl'insegnanti  in  luogo  di 
una  faccia  nuova  e  spesso  arcigna  vedrebbero  un  viso  benevolo  ed 
amico.  Inoltre  le  ispezioni  potrebbero  farsi  ad  intervalli  minori  di  tre 
anni  ed  avverrebbero  in  gran  parte  extra-ufficialmente  e  mediante  rela- 
zioni private.  Finalmente  questi  rapporti  continui  e  necessari  fra  gl'istituti 
secondarii  e  le  scuole  normali,  agevolando  la  diffusione  di  novità  scien- 
tifiche e  di  esperienze  didattiche,  recherebbero  non  piccolo  beneficio  alla 
coltura  di  molti  professori  che  stretti  da  difficoltà  economiche  trascu- 
rano gli  studii.  Ciò  richiederebbe  senza  dubbio  un'opera  assidua,  una 
specie  di  abnegazione  nei  professori  delle  scuole  normali  ;  ma  potreb- 
besi  pur  fare  assegnamento  in  parte  su  quel  desiderio  naturale  che  ha 


-  502  ~ 

ciascuno  di  acquistare  importanza  alla  materia  a  cui  ha  dedicato  tutto 
sé  stesso  e  di  diffonderne  lo  studio,  in  parte  su  quell 'affezione  che  lega  il 
maestro  a'suoi  scolari  antichi,  in  parte  finalmente  sull'interesse  generale 
per  la  coltura  e  snll'araore  di  patria. 

in  quamo  al  liceo  fu  lamentato  generalmente  il  predominio  delle 
scienze  sulle  lettere.  Più  d'uno  propose  di  abbreviare  d'un  anno  il  gin- 
nasio a  beneficio  del  liceo,  riducendo  ambedue  i  corsi  a  quattro  anni. 
Ogni  distinzione  fra  ginnasio  e  liceo  non  si  vorrebbe  tolta,  poiché  du- 
rerebbe pur  sempre  la  differenza  essenziale  del  metodo  intuitivo  nel 
piimo,  scientifico  ne!  secondo.  —  Fu  espresso  da  molti  il  desiderio 
che  si  prescrivano  i  testi  per  uniformità  di  metodo  e  risparmio  di 
spesa;  fu  ossen/ato  per  altro  come  in  alcune  materie  tornerebbe  inutile 
la  prescrizione,  perchè  il  professore,  quando  si  vede  legato  suo  mal- 
grado ad  un  dato  testo,  a  furia  di  omissioni,  di  aggiunte,  di  rettifica- 
zioni lo  ridurrà  pur  sempre  a  modo  suo. 

SuH'amministrazionc  scolastica  provinciale  parlarono  principalmente 
alcuni  prefetti,  i  quali  furono  concordi  v.eì  trovar  buona  l'istituzione 
del  consiglio  scolastico,  e  raccomandarono  che  continui  ad  essere  pre- 
sieduto dal  prefetto,  il  cui  ufficio  acquista  nobiltà  dall'interesse  che  è 
tenuto  a  prendere  per  la  coltura  delia  provincia,  e  la  cui  parola  trova 
di  solito  più  facile  ascolto  dai  comuni,  principalmente  dai  piccoli , 
dove  le  spese  dell'istruzione  non  sono  le  più  popolari.  Se  il  consiglio 
scolastico  avesse  un  altro  capo,  incontrerebbe  certo  maggiori  difficoltà. 

Duolmi  non  avere  agio  bastante  per  diffondermi  sopra  questi  argo- 
menti ;  devo  lim.itarmi  a  segnalarli  all'attenzione  vostra  come  quelli 
che  qui  destarono  l'interesse  d'un  certo  numero  di  persone  e  provoca- 
rono risposte  abbastanza  concordi.  Terminerò  toccandovi  d'un  sog- 
getto che  riguarda  più  da  vicino  il  vostro  giornale,  cioè  dell'insegna- 
mento del  greco. 

Fra  le  cause  diverse  che  furono  esposte  per  cui  la  diffusione  di  questo 
studio  incontra  in  Italia  tante  difficoltà,  cioè  la  poca  coltura  del  paese, 
i  dubbi  suU'udlità  dei  medesimo,  gii  scarsi  frutti  dati  finora.^  e  le  altre 
di  cui  si  parlò  le  mille  volte,  piacemi  segnalarne  una  che  non  è  senza 
importanza.  Fu  osservato  cioè  che  paragonato  ii  programma  liceale 
del  greco  con  quello  dei  latino,  appare  così  scarso  che  ogni  profes- 
sore di  liceo  ha  per  necessità  e  per  debito  d'ufficio  di  diventare  lati- 
nista ma  non  grecista.  E  invero  nel  liceo  coxiviene  interpretare  gli  au 
tori  più  difficili  come  Orazio  e  Tacilo,  conviene  guidare  i  giovani  a 
comporre  in  latino  con  proprietà;  le  quali  cose  suppongono  una  cono- 
scenza non  comune  della  lingua  e  delia  letteratura  ;  nel  greco  invece 
non  si  va  più  in  là  della  grammatica  e  del  più  facile  fra  i  prosatori, 
essendo  pochi  quegl'istiluti  dove  s'arrivi  ad  assaggiare  un  briciolo  di 
Iliade.  Manca  adunque  in  ìtaiia  una  classe  di  persone  che  abbia  per 
istituto  di  spingersi  avanti  in  questo  studio  e  senta  lo  stim^olo  dell'amor 
proprio  a  progredire  in  questa  piuttosto  che  in  un'altra  via  ;  poiché 
quando  un  ^professore  sa  bene  il  latino,  sente  di  meritare  il  suo  posto 
e  di  soddisfare  a  nove  decimi  del  suo  compito. 


--S03- 

Per  rimediare  a  questo  danno  furono  proposti  due  rimedi  :  il  primo 
di  ridurre  nel  liceo  lo  studio  del  greco  pressoché  a  livello  del  latino 
in  modo  da  leggervi  Omero,  Demostene ,  qualche  dialogo  di  Platone, 
a,  data  una  buona  s'alala  ,  anche  Sofocle  ;  l'altro  di  creare  una  cat- 
tedra speciale  di  greco,  divisa  da  quella  del  latino,  lì  primo  rimedio 
fu  riconosciuto  più  utile  del  secondo,  non  solo  perchè  al  presente  la 
coltura  classica  costituisce  una  così  completa  unità  che  non  sarebbe  de- 
siderabile il  dividerla,  ma  anche  perchè  solo  cosi  potcebbesi  sperare 
qualche  frutto  dall'insegnamento  dei  greco.  Si  comprende  come  tra 
scuola  possa  limitarsi  alla  grammatica  ed  ai  primi  esercizi  d'una  lingua 
moderna,  perchè  il  giovane  trora  poi  nella  vita  mille  occasioni  e  in- 
centivi e  talora  anche  la  necessità  di  progredire;  ma  non  si  comprende 
l'utile  di  arrestarsi  ai  primo  passo  in  una  letteratura  antica,  se,  quando 
uno  non  arriva  a  fiar  suo  lo  spirito  greco,  a  sentire  l'armonia  e  la  sere- 
nità di  quelle  creazioni  in  maniera  da  destare  il  desiderio  di  letture 
ulteriori,  siamo  sicuri  che  superato  appena  l'esame  di  licenza  sacrifi- 
cherà a  Vulcano  il  suo  Senofonte  e  donerà  il  suo  Curtius  al  fratellino 
minore  con  uno  sguardo  di  compassione. 

Eccovi  per  sommi  capi  quanto  di  più  interessante  fu  detto  qui  alla 
Commissione,  la  quale,  come  si  afferma,  non  ha  per  anco  finito  il  suo 
compito  a  Roma,  ma  dopo  il  viaggio  si  propone  d'invitare  a  sé  altre 
persone. 

È  una  domanda  ripetuta  universalmente  :  quali  fruiti  recherà  l'in- 
chiesta? Lascierà  anch'essa  il  tempo  che  trova? 

Io  credo  che  in  alcuna  parte  la  commissione  dovrà  limitarsi  a  de- 
plorare dei  mali,  a  riconoscerne  le  cause  nello  spirito  dei  tempi,  nelle 
tradizioni,  nella  storia,  senza  potervi  rimediare,  come  vi  accennai  a 
proposito  dell'istruzione  religiosa.  In  altre  parti  ritengo  che  potrà 
prodiirre  qualche  bene,  perchè  molto  rimane  a  fare  al  governo  e  molta 
all'opera  individuale  che  può  essere  eccitata  efficacemente  ed  util- 
mente diretta.  Mostrerebbe  però  d'ignorare  l'indole  di  tali  quistioni 
chi  in  seguito  all'inchiesta  pretendesse  vedere  effetti  immediati  e  pronti 
miglioramenti.  Ma  un  bene  sarà  incontrastabilmente  quello  d'avere 
interessato  tutto  il  paese  nella  questione  educativa,  d'aver  fatto  pen- 
sare e  promosso  la  discussione  di  molli  e  gravi  problemi,  d'avere  per- 
suaso un  gran  numero  della  loro  importanza  e  di  apparecchiare  l'o- 
pinione pubblica  a  risolverli  presto  o  tardi  in  modo  conforme  agli 
interessi  della  civiltà  e  della  coltura  nazionale. 

FuANrESCO    ZAMBALni. 


—  504  - 

Siamo  dolentissimi  di  non  avere  ancora  potuto,  per  mancanza  di 
spazio,  raccomandare  airattenzione  dei  nostri  lettori  il  primo  volume, 
testé  pubblicato,  dcU'c^ri/iJVJO  gìottoiogico  iialiano,  diretto  da  quel- 
l'eminente linguist'ì  che  e  il  prof.  G.  I.  Ascoli,  edito  da  E.  Loesche-. 
È  dedicato  a  F.  Diez  «  il  glorioso  fondatore  della  scienza  dei  lin- 
guaggi neo-latini  »,  piaccia  o  non  piaccia  a  certi  italianissimi  calun- 
niatori della  scienza  germanica.  Contiene,  oltre  ad  un  lungo  proemio 
(p.  V-LIV),  una  dJligentissima  monografia  del  direttore,  intitolata 
Saggi  ladini  (p.  1-537),  seguita  da  quattro  Indici,  da  numerose  Giunte 
e  corre^ioni^  e  corredata  di  una  Carta  diedettologica  della  zona  ladina 
secondo  p;li  odierni  <\xoì  limiti.  Speriamo  che  ben  presto  si  legge- 
ranno nella  nostra  Rivista  intorno  a  questo  nuovo  importantissimo 
lavoro  dell'Ascoli  cenni  critici  dettati  da  quell'illustre  glottologo,  che 
noi  reputiamo  il  \n\i  coai petente  dei  giudici  in  sì  fatta  materia  e  cui 
l'Ascoli  stesso  dichiarò  essere  «  il  vero  e  l'acclamato  antesignano  » 
di  quanti  studiano  i  dialetti    italiani  (v.    Op.   cit.,  proemio,  p.  XLI). 

Pochi  giorni  or  sono,  'icevemmo  dalla  cortesia  del  prof.  Ascoli  al- 
cuni Squarci  di  una  Lettura  da  lui  fatta  nel  R.  Istituto  Lombardo  di 
scienze  e  lettere  sopra  La  Queslione  della  lingua  e  gli  studi  storici  in 
Italia.  L'autore  vi  dimostra  sapientemente  che  «  dal  fatto  della  salda 
unità  di  linguaggio,  di  cui  si  rallegra  la  Francia  o  la  Germania,  non 
può....  venire  alcun  argomento  di  legittimità,  od  alcuna  speranza  di 
facile  conseguimento,  al  proposito  di  ridurre  tutta  l'Italia  alla  pretta 
favella  di  Firenze  »  e  che  la  differenza,  esistente  tra  Italia  e  Germa- 
nia in  ordine  alia  unità  di  linguaggio,  dipende  '*  da  questo  doppio 
inciampo  della  civiltà  italiana  :  la  scarsa  densità  della  cultura  e  l'ec- 
cessiva preoccupazione  della  forma  ». 

Ricevemmo  pure  dal  prof.  F.  Corazzini  un  Programma  per  una 
Società  dialettologica  italiana  in  Firenze. 

La  mancanza  di  spazio  fu  eziandio  Ta  sola  causa,  per  cui  non  ab- 
biarao  ancora  fatto  cenno  della  dotta  ed  interessante  dissertazione, 
cortesemente  inviataci  dal  prof.  Lignana,  intorno  ad  una  Ta:{:[a  d'ar- 
gento d'arte  orientale.  Ci  rallegriamo  vivamente  che  la  scienza  ita- 
liana sia  stata,  qualche  mese  fa.  nell'ìnstiiuto  di  corrispondenza  ar- 
cheologica sì  degnamente  rappresentata  dall'erudito  ed  ingegnoso  fi- 
lologo, a  cui  molta  gratitudine  dovrà  l'Ateneo  romano  per  ciò  che 
attiensi  agli  studi  indiani  ed  cranici. 

Ci  rallegriamo  vivamente  anche  pel  R,  Decreto,  con  cui  venne  stabilito 
che  nell'L'niversità  di  Roma  si  daranno  grinsegnamenti  di  Gramma- 
tica e  lessicografia  greca  e  di  Grammatica  e  lessicografia  latina.  Ce 
ne  rallegreremo  più  ancora,  quando  sapremo  essersi  provveduto  anche 
ai  secondo  di  essi,  affidandolo  a  qualche  insegnante  che  con  lavori 
scientifici  abbia  dato  pubbliche  prove  di  esserne  d^gno.  A  questo 
proposito  siamo  costretti  a  notare  che  deploransi  parecchie  lacune 
nell'istruzione  filologica  superiore,  specialmente  nell'insegnamento 
delle  lingue  e  letterature  classiche.  Queste  lacune  sono  funestissime 
non  solo  alla  preaccennata  istruzione  superiore,  ma  eziandio  alla  se- 
condaria che  da  quella  trae  i  suoi  maestri,  onde  il  valore  determina 
il  valore  delle  scuole.  Confidiamo  che  il  Ministro,  in  cui  il  buono  e 
forte  volere  debb'essere  pari  all'ingegno,  saprà  vincere  gli  ostacoli  e 
colmare  gueste  lacune:  così  egli  promoverà  efficacemente  la  riforma 
degli  stuai  universi  tarli,  liceali  e  ginnasiali  di  filologia  greco-latina; 
darà  a  parecchi  Italiani  ciò  che  loro  compete;  e  libererà  noi  dallo 
ingrato  dovere  d'insistere  su  questo  argomento. 


Pietro  Ussello,  inerente  rcsfonsabile. 


505  — 


AURELII  VIGTORIS  DE  CAESARIBUS  HISTORIA 


L'  ETITOÓME  "DE  CAESAIWBUS. 


Dei  rapporto  reciproco  fra  VHistoria  de  Caesaribus  di 
Aurelio  Vittore  e  VEpttome  de  Caesaribus  variamente  hanno 
giudicato  gli  eruditi:  gli  uni  vollero  sostenere,  essere  af- 
fatto indipendente  l'uno  di  questi  scritti  dall'altro,  mentre 
altri  credettero  di  poter  provare,  che  VEpitome  non  sia  in 
verità  che  un  estratto  owerossia  una  specie  di  redazione  della 
Historia  de  Caesaribus.  Altri  ancora  furono  d'opinione,  es- 
sere tanto  VHistoria  de  Caesaribus^  quanto  VEpitome^  il  ri- 
stretto d'un'opera  maggiore,  ed  autore  di  quest'ultima  Aurelio 
Vittore. 

Le  due  prime  opinioni  non  hanno  d'uopo  di  essere  con- 
futate seriamente  ai  giorni  nostri,  quand'anche  esista  qual- 
che erudito  che  le  sostenga  ancora:  che  i  due  scritti  non 
possono  essere  affatto  indipendenti  l'uno  dall'altro,  mentre 
in  varii  luoghi  concordano  letteralmente.  La  seconda  di  que- 
ste opinioni  poi,  facendo  anche  astrazione  dagli  svariati  mi- 
glioramenti e  dalle  frequenti  aggiunte  che  VEpitome  presenta 
in  confronto  alla  Historia  de  Caesaribus^  si  mostra  senza 
alcun  fondamento  anche  per  questo,  che  VEpitome  contiene 
eziandio  una  continuazione  dell'istoria  romana  fino  alla  morte 
di  Teodosio,  che  manca  iìqW Historia. 

Anche  supposto  che  questa  continuazione  potesse  essere 

TU  vista  di  filologia  ecc.,  I.  34 


—  506  — 
Opera  di  un  epitomatore  senza  che  fosse  fatto  cenno  di  lui, 
tutta  repitome,  compresa  questa  continuazione,  non  sarebbe 
stata  diffusa  sotto  il  titolo  di  LIBELLVS  DE  VITA  ET 
MORIBVS  IMPERATORVM  BREVIATVS  EX  LIBRIS 
SEXTI  AVRELII  VICTORIS  A  CAESARE  AVGVSTO 
VSQVE  ADTHEODOSIVM  (così  il  codice  Gudiano  N°  84, 
del  sec.  IX-X,  ed  il  Gudiano  N°  1 3 1 ,  del  secolo  XI  ;  tutti  e 
due  per  la  prima  volta  da  me  raffrontati  (i)).  Più  ampia- 
mente dobbiamo  discutere  la  terza  opinione. 

Questo  riguardo  non  le  dobbiamo,  perchè  espressa  da 
Bechmann  (2)  od  Ulrici  (3)  così  per  incidente  ed  alla  sfug- 
gita, ma  perchè  in  questi  ultimi  tempi  ha  trovato  un  difen- 
sore, che  è  Theodoro  Opit:{,  giovane  erudito  tedesco  e  disce- 
polo del  celebre  Federico  Ritschl.  Egli  Tha  esposta  nelle  sue 
Quaestiones  de  Sex.  Aurelio  Vietare  (4). 

Per  quanto  diligenti  e  profonde  siano  le  ricerche  da  lui 
fatte,  pure  non  hanno  condotto  ad  un  risultato  definitivo. 


(i)  I  titoli  delle  edizioni  di  Arntzen  e  Genner  non  hanno  per  se 
l'autorità  di  codici. 

(2)  De  Aurelio  Vietare^  ed.  II.  Altorf,  1726,  §  XIII  (non,  come 
dice  Opitz,  §  XIV),  che  suona  come  segue:  Quartum  Victori  nostro 
adiungi  solitum  scriptum,  non  quidem,  uti  nunc  habetur,  ab  ipso  ilio 
profectum  est,  ab  aliquo  tamen,  quisquis  etiam  ille  fuerit,  ex  libro 
eiusmodi  excerptum,  qualem  Sex.  Aurelius  Victor  de  Caesaribus,  pecu- 
liari dicendi  characterc-,  et  maiori  ac  prior  de  iisdem  conscriptus 
eral  amplitudine  exaravit,  qui  tamen  cum  aliis  multis  veterum  scrip 
torum  voluminibus  iniuria  temporum  periit. 

(3)  CharakteristiJt  der  antiken  Hisioriographie,  p.  i56,  not.  4:  Che 
il  ilibro  de  Caesaribus  e  la  sua  così  detta  Epitome  siano  estratti  di  una 
sola  e  medesima  opera  fatti  da  mani  diverse,  riesce  abbastanza  chiaro, 
quando  si  vede,  che  alcune  cose  nei  due  scritti  letteralmente  concor- 
dano, ed  altre,  né  poche,  nell'epitome  si  rinvengono,  che  l'oper» 
principale  non  contiene. 

(4)  Lipsiae,  B.  G.  Teubner,  1872.  La  medesima  dissertazione  verrà 
ripetuta  in  unione  ad  altre  ricerche  su  Aurelio  Vittore  negli  Ada  so- 
cietatis  philologae  Lipsiensis  di  Ritschl  II,  p.  199  segg. 


—  507  - 

In  ogni  indagine  sul  nostro  quesito  bisogna  innanzi  tutto  avet 
per  certo,  a  meno  che  non  vogliamo  negare  ogni  fede  alFau- 
torità  dei  codici ,  che  la  così  detta  Epitome  —  cosi  diremo 
quind' innanzi  per  amor  di  brevità  —  è  in  realtà  l'estratto 
d'un'opera  di  Aureho  Vittore.  Ma  di  ciò  per  vero  dire  non  si 
dubita  neanche.  Ma  dobbiamo  anche  ammettere,  cosa  che 
risulta  eziandio  dal  già  detto,  che  V intiera  Epitome  è  tolta 
a  quest'opera  di  Aurelio. 

L^asserzione  peraltro,  che  anche  VHisioria  de  Caesaribus 
non  sia  fuorché  Testratto  di  quell'opera  del  nostro  storico, 
ha  ben  poco  fondamento. 

Nel  discutere  le  ragioni  della  sua  opinione  TOpitz  prende 
le  mosse  dall'Epigrafe  del  codice  di  Bruxelles,  che»  a  quanto 
mi  consta,  è  Tunico,  il  quale  ci  abbia  conservato  VHistoria 
de  Caesaribus.  Quest'intitolazione  è  la  seguente:  Aurelii 
Victoris  historiae  ABBREviArAE  ab  Augusto  Octapiano,  id  est 
a  fine  Titi  Livi  usque  ad  consulaium  X  Constantii  Augusti 
et  Juliani  Caesaris  III.  L'espressione  historiae  abbreviatae 
pare  al  nostro  autore  ragione  sufficiente  per  poter  asserire, 
com'egli  fa  a  pag.  14:  is  liber  de  Caesaribus,  qui  nunc  su- 
per stes  est,  non  videtur  esse  historia  Caesarum  a  Sex.  A^u- 
relio  Vietare  conscripta,  sed  potius  et  Caesares  et  Epitomae 
capita  XI  priora  ex  illa  excerpta  sunt. 

Per  chi  è  conoscitore  di  codici  manoscritti  occorre  appena 
avvertire,  che  tali  aggiunte  ne'  manoscritti  non  hanno  alcun 
valore,  specialmente  quando  per  l'asserzione  in  esse  conte- 
nuta non  abbiano  diverse  testimonianze,  i'una  indipendente 
dall'altra,  e  quando  Tinica  esistente  Tion  risale  nemmeno  ad 
epoca  antica  (»} 

Se  poi  VHistoria  Caesarum  fosse  in  realtà  un  estr-tto  dtU 


|i)  Il  codice  di  cui  discorriamo  è  del  secolo  XV.  Conf.  Johuan  nel- 
VHennes,  IH    p.  390. 


-  508  — 
VHisioria  ài  A.urelio  Vittore,  sarebbe   strano  dav\'ero  che 
non  ci  fosse  pervenuta  la  menoma  notizia,  neanche  una  leg- 
giera traccia  che  di  ciò  ci  avvenisse. 

Ma  lasciamo  pur  da  parte  una  tale  considerazione.  Quel- 
V abbrevia tae  non  significa  quello  che  TOpitz  vorrebbe  che 
dicesse.  Ne  Vabbrevtare  o  brevìare  ha  nei  secoli  posteriori 
di  per  sé  il  significato  :  fare  un  ristretto  di  opera  maggiore, 
e  questo  ce  Io  insegna  il  Glossarium  mediae  et  infimae  lati- 
nitatis  del  Du-Cange,  ma  soltanto  quello  di  in  brevia  redi- 
gere, cioè  dare  un'esposizione  più  succinta;  né  nell'antichità 
più  remota  significava  ciò,  quando  si  trovano  formazioni  di 
tale  radice.  E  lo  prova  chiaramente  il  titolo  dell'opera  dì 
Eutropio-.  Breviarium  historiae  Romanae,  e  di  quella  di  Sesto 
Rufo  :  Breviarium  rerum  gestarum  populi  Romani.  Tutti  e 
due  questi  titoli  sono  accertati  da  buone  autorità.  Qui  non 
si  tratta  d'un  compendio  d'opera  maggiore,  ma  semplice- 
mente di  più  breve  e  succinta  esposizione.  In  questo  senso 
spiega  Eutropio  istesso  il  titolo  dell'opera  sua  nella  dedica  a 
Valente:  les  Romatias. ..  per  ordinem  temporum  brevi  nar- 
RATioNE  collegi  strictim,  e  Rufo  parimente  nella  dedica  al- 
l'imperatore: rcs  gestas  signabo,  non  eloquar.  Accipe  ergo 
quae  breviter  dieta    brevius  compuientur . 

Ben  diversamente  sta  la  cosa,  quando  abbiamo  delle  ag- 
giunte che  ben  chiaramente  alla  lor  volta  accennano  ad  un 
ristretto  od  estratto.  E  questo  è  il  caso  dei  codici  della  bi- 
blioteca di  Wolfenbiittel,  Gudtanus  N.  846  i3i,  che  di- 
cono. LIBELLVS...  BREVI A.TVS  EX  LIBRIS  SEXTI 
AVRELII  VICTORIS.  Qui  non  può  essere  dubbio:  ab- 
biamo in  essi  il  ristretto  d'un'opera  maggiore  di  Aurelio 
Vittore,  come  ho  già  detto  più  sopra.  Ma  il  titolo  del  co- 
dice di  Bruxelles  :  Aurelii  Vicioris  historiae  abbreviatae 
non  può  secondo  Tuso  della  lingua  latina  di  tutti  i  tempi 
dir  altro  che:  breve  storia  scritta  da  Aurelio  Vittore. 


-  509  — 
Anche  le  diligenti  investigazioni  sulle  fonti  dei  primi  un- 
dici capi  dei  libri  od  estratti  di  Aurelio  Vittore  (i)  non  pos- 
sono dimostrare  quello  ch^egli  vorrebbe  provare.  Al  piiì,  la- 
sciando da  parte  ogni  pregiudizio,  fanno  vedere,  come  la 
nota  Epitome  non  è  estratta  daìVHistoria  Caesarum,  vale  a 
dire  che  i  LIBRI  AVRELIl  VICTORIS,  di  cui  parla  il 
titolo,  che  è  chiaro  e  perfettamente  autorevole  >  non  sono 
VHistoria  Caesarutn,  i  quali  devono  poi  ancora,  come  già 
innanzi  abbiamo  detto,  estendersi  A  CAESARE  VSQVE 
AD  THEODOSIVM. 

Per  questa  via  adunque  non  giungiamo  ad  una  decisione 
intorno  al  quesito  di  cui  ci  occupiamo  ;  dopo  qualche  giro 
vizioso  ci  troviamo  sempre  in  faccia  al  medesimo  enimma, 
per  sciogliere  il  quale  evidentemente  dobbiamo  muovere  da 
considerazioni  differenti  da  quelle  che  ci  suggeriscono  i  codici 
soli.  Dobbiamo  innanzi  tutto  ritornare  di  nuovo  alle  notizie 
riguardanti  Aurelio  Vittore,  che  troviamo  altrove,  e  partendo 
da  quelle  trame  le  nostre  conclusioni. 

Innanzi  tutto  ci  si  presenta  il  fiorissimo  luogo  di  Ammiano 
Marcellino  (XXI,  io):  ubi  Victorem  apud  Sirmium  vìsum 
scRiPTOREM  HisTORtaTM  exifideque  venire  praeceptum  Panno- 
niae  secundae  consularem  praefecit  et  honoravìt  aenea  statua, 
virum  sobrietatis  gratta  aemulandum  multo  post  urbi 
praefectum. 

L'altra  notizia  che  c^importa,  leggiamo  in  Grutero,  InscH- 
ptiones  ant.  I,  286,  N.  5  (2): 


(1)  Pag.  i5-3o. 

(j)  E  non  nelle  Inscript.  Regni  Neapolitani.  n.  2618,  come  sempre 
sì  legge  presso  Opitz. 


—  510  - 

. .  lERVM  •  PRINCIPVM  CLEMENTIAM 
....  NCTITVDINEM  •  MVNIFICENTIAM 

Sv'PERGRESSO 
D  •  N  •  FL  •  THEODOSIO  •  PIO  •  VICTORI 

SEMPER  AVCVSTO 
SEX  •  AVR  •  VICTOR  •  V  •  C  •  VRBi  •  PRAEF  • 
IVDEX  •  SACRARVM  •  COGNITIONVM 
D-NM-Q-E-  (i) 

Dì  rado  possediamo  intorno  ad  un  autore  dell'antichità  no- 
tizie, le  quali,  malgrado  che  siano  isolate,  abbiano  rapporti 
tanto  diretti  con  le  quistioni  che  la  critica  filologica  propone 
intorno  al  medesimo. 

Gli  eruditi  che  si  sono  occupati  del  quesito,  di  cui  anche 
noi  qui  discorriamo,  vale  a  dire  del  rapporto  che  esiste  fra 
YKpitome  di  Aurelio  Vittore  e  VHistoria  de  Caesaribus, 
non  hanno  avvertito  che  nella  prima  parte  del  luogo  di  Am- 
miano  Marcellino  or  ora  citato:  Victorem  apud  Sirmium 
visum  scriptorem  historicum  exiìideque  venire  praeceptum 
Pannoniae  secundae  consularem  praefecit  (scil.  Julianus) 
havvi  una  relazione  importantissima  con  la  fine  della  nostra 
Hi  storia  de  Caesaribus. 

Quest'ultima  è  scritta  nell'anno  36o  d.  C,  come  bene  di- 
mostra rOpitz  (pag.  8  e  segg.),  o  per  dir  meglio  condotta 
a  termine  in  quell'anno  ;  il  che  risulta  specialmente  da  ciò, 
che  l'imperatore  Costanzio  è  chiamato  noster  imperator  (2), 
e  che  nel  Jib.  XLII,  20,  si  parla  del  suo  governo  come  di 
quello  che  dura  già  da  ventitré  anni,  cioè  precisamente  del- 
l'anno 36o  d.  C,   mentre  di  Giuliano  si  discorre  soltanto 


(i)  Cioè:  Devotus  numini  maiestatique  eius. 

(2)  P.  e.  De  Caes.  XLII,  5,  E  lo  stesso  rileviamo  da  altre  espres- 
sioni citate  dairOpitz,  p.  5. 


—  511  — 
come  di  Cesare,  mentre  nulla  è  ancor  noto  della  sua  dignità 
(T Augusto,  alla  quale  venne  elevato  dai  soldati  verso  lo  scor- 
cio dell'anno  36o. 

Nell'anno  seguente  36 1  ebbe  luogo  rincontro  fra  Giuliano 
ed  Aurelio  Vittore  e  ne  venne  l'ammessione  di  quest'ultimo 
nel  servigio  dello  stato  come  governatore  della  Pannonia. 

E  troppo  strana  la  coincidenza  di  queste  date  per  credere 
che  sia  opera  del  caso.  Anzi  ognuno  che  una  volta  sia  avver- 
tito di  essa,  vorrà  facilmente  concedere,  essere  affatto  natu- 
rale, che  la  chiamata  d'Aurelio  Vittore  da  Sirmio  ove  certa- 
mente era  vissuto  sin'allora  ed  il  suo  entrare  in  un  ufficio  per 
lui  affatto  nuovo  e  che  gl'imponeva  insoliti  doveri  abbia  avuta 
per  necessaria  conseguenza  un'  interruzione  de'  suoi  studii. 
Aggiungiamo  questo  fatto  a  quello  che  abbiamo  detto  più  so- 
pra, e,  mi  sembra,  non  si  potrà  menomamente  dubitare,  che 
néiVHistoria  de  Caesaribus  abbiamo  infatti  un'opera  dovuta 
alla  penna  di  Aurelio  Vittore.  E  vero  peraltro  che  ci  si  po- 
trebbe opporre  l'aridità  di  questo  compendio  storico  e  dirci  : 
L'autore  d'un'opera  così  magra  ed  arida,  qual'è  Vllistoria, 
poteva  egli  mai  esser  noto  veramente  come  uno  scriptor  histo- 
ricuSy  e  quella  grettezza  istessa  non  ci  dimostra  che  abbiamo 
sott'occhio  il  ristretto  d'un'opera  maggiore  a  noi  perduta? 

Contro  tale  osservazione  possiamo  addurre  l'esempio  d'un 
Eutropio  e  d'un  Sesto  Rufo,  de'  quali  abbiamo  già  prima 
parlato.  Quell'aridissima  trattazione  dell'istoria,  che  ci  fa 
vedere  piuttosto  il  lavoro  d'uno  scolare,  che  quello  d'un  au- 
tore, è  proprietà  di  quel  tempo  e  noi  non  abbiamo  ragione, 
per  amore  ad  Aurelio,  a  mutare  la  nostra  opinione  sul  gusto 
9  sull'erudizione  di  quell'epoca,  opinione  che  ci  siamo  for- 
mata dai  monumenti,  i  quali  ci  ha  tramandati. 

Ora  veniamo  alla  parte  seconda  della  nostra  ricerca,  alla 
così  detta  Epitome  di  Aurelio  Vittore. 

11  tempo,  in  cui  quest'opera  stessa  fu  scritta  e  che  certa- 


-  512  — 
mente  si  può  fissare  per  mezzo  della  tradizione  manoscritta, 
il  che  ne'  suoi  Praemonenda  promette  TOpitz  di  fare,  non  ha 
per  ora  interesse  per  noi,  che  il  giudizio  nostro  intorno  al 
contenuto  ddVEpitome  non  ne  verrebbe  in  verun  caso  mo- 
dificato. 

Innanzi  tutto  importa  il  trovare  nella  materia  contenuta 
nélVEpitome  istessa  dei  punti  che  ci  permettano  un  giudizio 
sicuro  intorno  ai  LIBRI  SFXTI  AVRELII  VIGTORIS 
dai  quali  V Epitome  fu  estratta^  in  altri  e  più  precisi  termini, 
bisogna  cercare  e  stabilire  definitivamente,  se  infatti  possa 
reggere  quello  che  di  sopra,  appoggiati  alla  tradizione  mano- 
scritta, enunciammo  come  cosa  sicura,  se  il  contenuto  del- 
l'Epitome  nella  sua  interena  può  essere  tolto  all'opera  mag- 
giore di  Aurelio  Vittore. 

Il  miglior  punto  di  cui  servirci  per  convalidare  la  nostra 
opinione  ci  offre  la  vita  Theodosii  (cap.  XLVIII).  Dai  noti 
passi  della  medesima  §  8  e  segg.  :  futi  autem  Theodosius  mo- 
ribus  et  corpore  Traiano  similis,  quantum  scripta  veterum 
et  picturae  docent.  Sic  eminens  status,  membra  eadem,  par 
caesaries  etc,  e  §  9;  mens  vero  prorsus  similis,  adeo  ut  nihil 
dici  queat,  quod  non  ex  librìs  in  istum  videatur  transferri, 
risulta  chiaramente  che  colui,  il  quale  scrisse  originariamente 
quest^istoria,  debbe  avere  conosciuto  personalmente  Timpe- 
ratore  Teodosio,  Ciò  aveva  già  avvertito  il  Griiner  nella  sua 
prefazione  (i).  Nel  primo  di  questi  passi  confronta  eviden- 
temente la  figura  di  Teodosio,  che  aveva  sott'occhi,  con  i  ri- 
tratti di  Traiano,  che  solo  a  questo  possono  riferirsi  le  scripta 
veterum  et  picturae,  e  nel  secondo  parla  del  carattere  di 
quello  in  modo  da  poter  tosto  conoscere,  che  l'autore  deve 
aver  avuto  occasione  di  conoscerlo  e  farne  esperienza. 


(i)  De  aetate  auctoris  nolo  temere  decernere,  is  tamen  Theodosium 
Augustum  vidisse  cap.  XLVIIIy  8,  non  obscure  significare  videtur. 


-513- 

L'estensione  molto  maggiore  della  vita  di  Teodosio  e  le  sper- 
ticate lodi  del  medesimo,  che  seguono  a  questi  capitoli  citati 
e  continuano  fino  al  termine  della  vita,  accrescono  la  verosimi- 
glianza della  nostra  opinione.  L'autore  si  estende  evidente- 
mente molto  più,  quando  racconta  l'istoria  contemporanea, 
come  fanno  pure  in  modo  simile  gli  storici  greci  Eunapio  e 
Zosimo;  si  ferma  volentieri  nel  parlare  dell'epoca  di  Teodosio, 
relativamente  grande,  e  tratta  più  profondamente  la  sua  sto- 
ria, anche  perchè  egli  stesso  aveva  ricevuto  i  beneficii  di 
quest'imperatore. 

Queste  sono  le  semplici  osservazioni,  che  farà  ognuno,  alla 
cui  attenzione  sia  indicato  questo  punto.  Ma  esse  concordano 
d'altra  parte  in  ogni  rispetto  con  le  notizie  pervenuteci  intorno 
alla  vita  di  Aurelio  Vittore,  di  cui  abbiamo  parlato  in  prm- 
cipio  di  questa  dissertazione. 

Dalla  iscrizione  riferita  più  sopra  risulta,  che  il  nostro  sto- 
rico visse  ancora  sotto  il  governo  di  Teodosio,  certamente 
come  praefectus  urbi,  dacché  questa  notizia  ottimamente 
concorda  con  il  racconto  di  Ammiano  Marcellino,  il  quale 
ci  dice  avere  Giuliano  il  nostro  Aurelio  Vittore  preposto 
come  Consolare  alla  Pannonia  e  molto  tempo  dopo  {multo 
post)  essere  questo  stato  nominato  urbi  praefesfus. 

Il  risultato  di  tutte  queste  considefc'zioni  noslre  si  può 
adunque  brevemente  riassumere  come  segue: 

In  primo  luogo  non  abbiamo  ragioni  per  ammettere  che 
Vffistoria  de  Caesaribus  sia  l'estratto  di  un'opera  maggiore 
scritta  da  Aurelio  Vittore. 

In  secondo  luogo  la  così  detta  Epitome  è  certamente  il 
ristretto  d'un'opera  d'Aurelio  Vittore  e  questa  non  potendo 
essere  quell'^/s /orza,  così  non  v'ha  ragione,  per  cui  non 
possiamo  ammettere  che 

In  terzo  luogo  V Epitome  tutta  quanta  sia  tratta  dalla  opera 
principale  di  Aurelio  Vittore. 


—  514  - 

Ma  qui  ci  troviamo  anco  una  volta  a  fronte  d'un  nuovo 
dilemma.  E  questo  consiste  in  ciò  che  da  una  parte  pos- 
sediamo un'opera  originale  di  Aurelio  Vittore,  e  come 
abbiamo  dimostrato  pili  sopra ,  un'opera  in  sé  finita ,  e 
questa  è  VHistoria  de  Caesarìbus  :  dall"  altra  rileviamo 
àdXVEpitome^  che  quella  Historia  de  Caesarìbus  non  è 
l'opera  originale,  di  cui  si  servì  il  compilatore  àtVCEpitome. 
Se  anche.,  al  primo  aspetto,  questa  contraddizione  sembra 
abbastanza  forte  per  farci  disperare  che  riusciremo  a  deci- 
dere la  questione  nostra  od  almeno  ci  fa  ritornare  all'antica 
idea  nostra,  pure  piìi  matura  e  pacata  riflessione  ci  deve 
mostrare  che  havvi  un  modo  per  venire  ad  una  conclusione, 
il  quale,  sebbene  non  possa  valersi  di  positive  prove  e  testi- 
monianze, è  pur  tanto  naturale  e  quasi  da  se  ci  si  presenta, 
così  che  siamo  per  meravigliarci,  come  non  prima  sia  stato 
trovato.  Devono,  cioè,  avere  esistito  due  opere  di  Aurelio 
Vittore^  luna  V Historia  de  Caesarìbus^  a  noi  pervenuta^  ed 
un'altra  da  cui  £  tolta  l'Epitome  ed  andò  perduta. 

Quella  fu  il  povero  frutto  del  principio  degli  studii  storici 
dall'autore  intrapresi  in  una  lontana  provincia,  e  in  cui  non 
potè  disporre  di  mezzi  scientifici  :  questa  invece  il  risultato 
delle  veglie  di  lunghi  anni,  di  studii  ripresi  nelle  circostanze 
più  favorevoli,  nel  centro  della  vita  politica  dell'impero  ro- 
mano, provveduto  eziandio  di  tutti  i  sussidii  letterarii,  in 
Roma  stessa  in  somma,  ed  in  un  tempo  in  cui  gli  affari 
del  suo  ufficio,  che  lo  obbligarono  di  rimanersi  fermo  in 
Roma,  ad  Aurelio  Vittore  concessero  il  necessario  ozio  per 
studii  e  lavori  scientifici. 

Anche  la  natura  dei  due  scritti  parla  in  favore  della  no- 
stra ipotesi. 

Una  serie  d'inesattezze,  che  rinveniamo  ne\V Historia 
de  Caesarìbus,  e  che  possiamo  rilevare  mediante  il  confronto 
delle  altre  fonti,  appaiono  corrette  nell'Epitome^  il  che  è  a 


—  515  - 
dire  nella  seconda  edizione  migliorata  dQÌVMìsioria.  Siano 
ad  esempio:  Epit.  Caes.  II,  io,  in  cui  si  danno  a  Tiberio 
giustamente  78  anni  (e  4  mesi),  come  risulta  da  Svetonio, 
Tib.^  j'h,  p.  117,  3,  Tacito,  Ann.  VI,  56,  ed  Eutropio, 
VII,  II,  mentre  Caes.  Ili  Aurelio  Vittore  dà  erroneamente 
a  questo  imperatore  79  anni  {cum...  octagesìmum  iwo  minus 
annòs  egisset)\  Epitome  Vili,  ove  corregge  riguardo  agli  anni 
di  Vitellio  Terrore  di  Caes.  Vili,  6,  aìinos  natus  septuaginta 
quinque  amplius,  dacché  ivi  leggiamo  il  numero  giusto  : 
Vixit  annos  qiiiìiquaginta  septem.  Di  Tito  leggiamo  Caes. 
X,  5  :  vejieno  interiit,  mentre  VEpitome^  d'accordo  con  le 
altre  fonti  ci  offre :/ei^r/  interiit.  Sta  scritto,  Caes.  X,  5; 
biennio  post  ac  menses  fere  novem,  ndV Epitome  X,  i ,  in- 
vece, probabilmente  con  maggiore  verità  ed  in  conformità 
con  Svetonio  ed  altri  :  imperavi t  annos  diios  et  menses  duos 
dicsque  viginti.  L'Opitz  interpreta  tutti  questi  luoghi  per 
lo  più  così .  che  le  differenze  deriverebbero  dalle  varianti 
dell'originale  comune. 

Ammettendo  la  nostra  ipotesi  si  spiega  poi  molto  sempli- 
cemente, come  tutte  le  concordanze  strane  si  trovino  nei 
primi  undici  capitoli. 

È  affatto  erroneo  quello  che  TOpitz  (i),  in  ciò  d'accordo 
con  M'àhly,  sostiene,  cioè  in  questo  scritto  consensum  inde 
vita  Domitiani  omnino  non  comparere.,  si  unum  locum 
excipias  {Caes.  XL,  2  ed  Epit.  XLI,  2),  intorno  al  qual 
passo  rOpitz,  a  vero  dire,  soggiunge:  demonstrabo  ali  ter 
iudicandum  esse.  Ciò  dimostrano  per  esempio  :  De  Caesa- 
RiBus  XIII,  8:  Acquus,  clemens,  patientissimus  atque  in 
amicos  perfdelis:  quippe  qui  Surae  familiari  opus  sacra- 
verit.,  quae  Suranae  sunt;  ed  Epit.  XIII,  6:  Liberalis  in 


(i)  Confr.  p.  i^ 


-  516  - 
amicos  et  ianquam  vitae  condì  tiene  par,  societatibus  per/mi. 
Rie  ob  honorem  Stirae,  ciiius  studio  imperium  arripuerat, 
lavacra  condidit.  Caes.  XIV,  2 .  Ibi  Graecorum  more  seu 
Pompila  Numae^  caerìmonias,  leges^  g-vmnasia,  doctoresque 
curare  occoepit,  adeo  quidem  ut  etiam  ludum  ìngenuarum 
artium,  quod  Athenaeum  vocant  ^  consti tueret-,  ed  Epit. 
XIV,  2:  Hic  Graects  litteris  impensius  erudi tus^  a  plerisque 
Graecidus  appellatus  est  Atheniensium  studia  moresque 
hausit,  politus  non  sermone  tantum,  sed  et  ceteris  disci- 
plinis,  ecc.  Caes.  XVI,  2  ;  Jgitur  Aurelius,  socero  apud 
Lorios...  mortuo,  ed  Epit.  XV,  7:  Igi tur  apud  Lorios.... 
consumptus  est  (scil.  Antoninus  Pius  socer).  Caes.  XVII,  4.: 
Immiti  prorsus  feroquc  ingenio,  adeo  quidem  ut  gladia- 
tores  specie  depugnandt  crebro  trucidaret^  cum  ipse  ferrum, 
obiectum  veroni  bus  plu77ibeis,  uteretur,  ed  Epit.  XVII,  3: 
Saevior  omnibus  libidine  atque  avaritia ,  crudelitate  — 
in  tantum  depravai  us,  ul  gladiatoris  armis  saepissime  in 
amphitheatro  dìmicarit.  Ibid.  6:  Ad  extremum  ab  im- 
misso  validissimo  palaestrita  compressis  faucibus  exspira- 
y//;  e  Caes.  XVII,  8,  9:  in  palaestrajfi  perrexit.  Ibipermini- 
strum  unguendi  — faucibus  quasi  arte  cxercitii  bracchiorum 
nodo  validius  pressi s  exspi rapii. 

È  adunque  vero  che  una  così  evidente  concordanza  fra 
i  due  scritti,  che  in  alcuni  luoghi  qua  e  là  è  letterale,  non 
si  trova  più  dopo  il  Capii.  XI.  Nulla  di  più  naturale.  Au- 
relio Vittore,  e  lo  ha  dimostrato  anche  TOpitz  passo  per 
passo,  doveva  per  quei  tempi,  che  sono  descritti  oltreché  da 
Tacito  anche  da  Svetonio,  valersi  di  quest'ultimo  scrittore. 
E  lo  aveva  fatto  già  prima  che  s' accingesse  al  secondo 
e  più  esteso  lavoro  intorno  all'istoria  degl'imperatori.  Fonti 
affatto  nuove  e  più  autorevoli  per  quel  periodo  il  nostro 
autore  non  potè  adoperare  né  anche  quando  s'era  trasfe- 
rito a  Roma,  semplicemente  perchè  non  ne  esìstevano,  per 


—  517  — 
cui  è  evidente  che  di  nuovo  accolse  nel  secondo  suo  lavoro 
storico;  e  testualmente,  alcune  cose  nel  principio  del  novello 
libro,  mentre  le  altre  parti  del  suo  scritto  richiedevano  un 
più  profondo  lavoro  di  variazione. 

Il  luogo  citato  da  Opitz  a  p.  24  (i),  cìohOaes.  VII,  2  (2), 
non  distrugge  la  nostra  idea  riguardo  air /Ustoria  de  Oaesa- 
ribus.  Posto  il  caso  che  sia  giusta  la  lezione  praecognitis 
di  questo  luogo,  essendo  tal  passo  così  isolato,  molto  più 
facile  sarà  l'ammettere  che  qui  siavi  una  lacuna  nel  testo, 
che  non  tirare  una  conseguenza  così  grave,  com'  è  quella  di 
inferirne,  avere  il  libro  carattere  di  epitome. 

Per  conclusione  ci  sia  lecito  di  avvertire,  come  la  latinità 
àtWEpitome  è  molto  più  scorrevole,  che  quella  ddVJIistoria^ 
osservazione  che  verrebbe  facilmente  confermata  da  ricerche 
speciali.  Persino  si  riconosce  nell'Epitome  una  lingua  più 
squisita  formata  posteriormente  in  Roma,  in  età  più  avan- 
zata dell'autore  e  nella  conversazione  con  la  gente  colta, 
mentre  VHistoria  ci  oflre  l'immagine  non  troppo  lieta  della 
latinità  de'Provinc'ali. 

Finalmente  non  si  può  abbastanza  insistere  su  un  punto, 
ed  è  questo,  che  sarebbe  veramente  strano,  anzi  inesplicabile, 
come  i  due  abbreviatori  di  una  sola  e  medesima  opera  solo  in 
undici  capitoli  per  caso  talvolta  avrebber  oattinta  la  medesima 
parola  alla  loro  fonte  comune,  ma  più  tardi  per  un  caso 
uguale  non  avrebbe  mai  più  avuto  luogo  questa  concordanza, 
anche  quando  si  può  provare  un  rapporto  fra  i  due  autori. 


(i)  Quae  Caes.  a  narrantiir  de  Oxhoms  praecognitis  moribus  intellegi 
nequeunt,  nisi  iam  antca  his  de  moribus  actum  sit.  Unde  apparent 
talia  qualia  leguntur  Epit  VH.  Vita  omni  turpiSy  riaxime  adulescentia 
vel  similia  etiam  apud  Victnrem  antecessisse. 

(2)  Tutto  il  passo  suona:  Qui  dies  fere  quinque  et  octoginta  prae- 
cognitis moribus  potitus.  postquam  a  Vitellio,  qui  "e  Gallia  desccnde- 
rat,  Veronensi  proelio  pulsus  est,  moriem  sibi  conscivit. 


-  518  - 
come  di  sopra  abbiamo  veduto    Questa  osservazione  ci  pare 
un  argomento  convincente  per  poter  asserire  che  è  impossi- 
bile la  supposizione  di  una  doppia   Epitome  e  per  dire  che 
siamoquasi  costretti  airipotesi  che  abbiamo  più  sopra  esposto. 

Lipsia,  aprile  1873. 

Ludovico  Jeep. 


CENNI  SULLA  SINTASSI 
<T)ELLA     LIV^GUA    G7^EC^(i). 


VI. 


Alla  sintassi  della  lingua  greca  di  G.  Curtius  accadde, 
ciò  che  di  solito  incontra  di  udire  di  tutte  le  opere,  che 
hanno  in  sé  alcuna  eccellenza,  che  cioè  alcuni  le  chiamino 
in  colpa  di  cose,  per  le  quali  altri  invece  danno  loro  lode. 
Mentre  alcuni  valentissimi  maestri  consigliavano  il  Curtius 
ad  allargare  i  termini  della  sua  trattazione,  altri  d'uguale 
autorità  e  valore  vantavano  come  pregio  principalissimo 
di  quella  scrittura  la  brevità  e  concisione  somma  del  ma- 
teriale accolto  nella  medesima.  Quelli  che  l'accusano  di 
soverchia  parsimonia  e  di  qualche  oscurità  ritorcono  in  ar- 
gomento d'accusa  contro  di  lui  il  fatto ,  certamente  non  co- 
mune, che  Fautore  stesso  ha  creduto  opportuno  di  dar  fuori 
degli  schiarimenti  al  suo  laroro  ;  della  quale  cosa  noi  in- 


(i)  Vedi  fascicolo  7»,  pag.  3oi-3io,  fascicolo  8°,  pag.  341-365,  fa- 
scicolo X*,  pag.,  480-497. 


—  519  - 
vece,  per  conto  nostro,  ce  gli  professiamo  debitori,  come  di 
un  gran  servizio  reso  airinsegnamento,  agli  studiosi  ed  alla 
scienza.  Ma,  comunque  sia  di  ciò,  è  probabile  assai,  che  il 
vero,  come  suole,  non  stia  tutto  da  una  parte,   massime  ri- 
spetto ad  un   lavoro,  la  cui  perfezione  non  può  non  essere 
graduale,  come  quello,  che  strettamente  si  collega  alle  fortune 
progressive    deirindagine   linguistica.   D'altronde    lo   stesso 
egregio  autore  confessa  d'essere  andato  molto  a  rilento  nel- 
l'accogliere  la  materia  sintattica  nella  sua  grammatica  {Cotnm. 
p.  160  MuUer).  Né  bisogna  perder  di  vista  il  punto  di  par- 
tenza deirindagine  scientifica  del  Curtius,  i  risultamenti  cioè 
delia   linguistica,    e  delle  ricerche  comparative,   non  potuti 
ancora  collegare  a  qualche  unità  di  dottrina,  per  ciò  che  ha 
tratto  colla  sintassi.  —  Il  terreno,  sul  quale  dovea  sorgere  il 
nuovo  edificio,  paiea  solido  e  fermo;  poiché  da  quanto  s'era 
operato  sul  campo  della  morfologia,  potea  una  mente  pre- 
veggente e  di  larghe  vedute  trarre  buono  auspicio  anche  per 
la  sintassi.  E  il  quarto  volume  della  grammatica  tedesca   di 
Giac.  Grimm  potea  parere  molto  istruttivo  in  questo  rispetto. 
Ma  ad  ogni  modo  bisognerà  pur  confessare  che  all'autore  di 
una  sintassi  greca  sulla  base  dei  risultamenti  della  linguistica, 
grande  riserbo  era  imposto  dal  fatto  stesso,  che  una  grande 
incognita  gli  stava  dinanzi  da  risolvere.  Chi  avesse  voluto, 
riconducendo  i  particolari  a  generali  principi,  dar  forma  più 
attrattiva  al  lavoro  spaziando  per  vacue  generalità,  avrebbe 
forse  potuto  dar  nel  genio  a  qualcuno,  ma  non  avrebbe  posto 
il  seme  fecondo  di  un'opera  durevole.  —  Del  resto  il  Curtius 
ebbe  anche  sempre  dinanzi   il   detto  di  Quintiliano:  tnter 
virtutes  grammatici  habebitur  aliqua  nescire.  Di  che  fa  te- 
stimonianza solenne  quel  suo  procedere  cauto  e  circospetto, 
per  non  varcare  i  termini  segnati  airellenismo,  che  è  la  meta 
costante  delle  sue  ricerche. 

li  disegno  della  sintassi  del  Curtius  è  semplice  e  chiaro. 


—  520  — 
Tutta  la  materia  deirindagine  è  raccolta  intorno  a  due  punti 
cardinali  —  i  casi  ed  /  modi.  —  Ecco  la  divisione  naturale 
dell'opera  —  dottrina  dei^  casi ,  dottrina  dei  modi.  Delle 
altre  parti,  quelle  che  hanno  una  funzione  sintattica,  come  le 
preposi'{i<mi  e  le  congiuniioni^  l'autore  fa  come  due  appen- 
dici ;  una  delle  quali  si  collega  alla  dottrina  dei  casi  (le  pre- 
posizioni), Taltra  (le  congiunzioni)  seguita  appresso  alla  dot- 
trina de'modi.  —  Legge  invariabile  e  severa  della  tratta- 
zione :  —  l'uso  normale  della  lingua. 

Il  concetto,  sul  quale  il  Curtius  fonda  la  dottrina  dei  casi, 
è  quello  che  la  storia  della  lingua  sembra  additarne,  e  che 
puossi  riassumere  in  questa  sentenza  :  —  da  un  numero  ab-r 
bastanza  esteso  e  accertato  di  relazioni  e  collegamenti  pò- 
tersi  inferire,  che  nelle  fiiniioni  dei  casi  la  lingua  distingue 
un  uso  prossimo,  e  un  altro  più  remoto;  cosi  che  l'ultimo 
passo  su  questa  via  sia  Fuso  avverbiale.  —  Abbandonata  la 
teorica  del  localismo^  il  Curtius  fìssa  come  punto  di  par- 
tenza nella  sua  indagine  intorno  all'uso  dei  casi  la  forma 
(confr..  Comm.  pagg.  i6o,  164  Muli.).  —  La  lingua  greca 
degli  otto  casi  del  sanscrito,  ha  conservato  il  Nominativo, 
V Accusativo,  il  Genitivo,  il  Dativo.  —  Il  caso  locativo  e  i 
due  strumentali  in  -à  e  -bhi  del  sanscrito  (strumentale  I 
singolare  e  li  singolare  e  plurale  dello  Schleicher,  Comp, 
§§  149,  i5o  Pezzi)  andarono  perduti  nel  greco,  che  ne  con- 
servò soltanto  qualche  traccia.  Corrispondenti  alla  prima 
{'0)  sarebbero  alcune  forme  greche  avverbiali  in  n  «^  a> 
come  TTavTìi,  Tctxa,  aua,  iva;  e  al  secondo  {-bht)  risponde- 
rebbe il  suffisso  omerico  (pi=bhi,  che  non  ha  però  sempre 
sìgnìficsLXo  istrumentale  {confr.  Y\(piy  pln^piy  Od.  q),  3i5.  OKaìi} 
^TXo?  eXuJV,  éxépnqpi  bè  XàSexo  Tréipov,  //.  tt,  734).  Talfiata  esso 
esprime  compagnia  (uso  sociativo)  (confr.  &}x  ^0?  cpaivo- 
Mévncpi,  //.  i,  618,  682);  tal  altra  è  locativo  come  in  6x€(J- 
q«(v),  '!Xió-q)vv,  aÙTÓ-qpiv,  kXkjìt)-?»  (confr.  Schleicher,  //.  ce). 


-S21  - 
Altre  traccie  di  casi  perduti  veggansi  presso  Curtius  {Comm. 
p.  164  segg.  Muli.).  Il  vocativo  non  è  un  caso,  anzi  nemmeno 
una  parola,  nello  stretto  senso-,  poiché  esso  non  ha  fun- 
zione grammaticale,  ma  è  una  interiezione  (confr.  Schlei- 
cher,  Comp,  §  i34  Pez.).  Nelle  lingue  Ariane,  esso  o  non 
ha  desinenza,  o  assume  quella  del  nominativo.  Confr.  màtar 
(Sanscr.),  infÌTep  (Grec),  màler  (lat.)  (Bopp.  Gramm.  Comp. 
§  204,  Voi.  I).  Il  concetto  fondamentale,  rispetto  all'uso 
dei  casi,  messo  innanzi  dal  Curtius,  sembra  oggimai  uni- 
versalmente accettato.  Gli  scrittori  di  Sintassi,  tanto  tedeschi, 
che  nostrali,  come  il  Koch  (Griech.  Schulgr.  §§  82  segg.)  {i) 
e  Vlnama  {Sintassi,  §§  347  segg.)  (2),  si  son  messi  franca- 
mente sulla  via  aperta  dal  Curtius,  salvo  qualche  disvario 
nella  ripartizione  della  materia,  e  nella  terminologia-,  disvario 
però,  che  in  qualche  rispetto  è  sostanziale. 

Tenendo  ragione  di  una  grammatica  greca,  destinata  al- 
l'uso delle  scuole,  potrebbe  parere  un  fuor  d'opera  lo  inda- 
gare le  ragioni  interiori  e  quasi  speculative  delle  dottrine 
sulle  quali  si  fonda  ■  si  bada  più  all'effetto,  che  ne  deriva 
in  ordine  all'insegnamento  ed  alla  pratica.  Questo  potrebbe 
dirsi  delle  tre  Sintassi  greche,  che  ora  ci  stanno  dinnanzi. 
Gli  è  che  a  un  cosiffatto  empirismo  mal  sapremmo  accon- 
ciarci ;  e  tanto  meno  in  quanto  avendo  queste  tre  scritture 
molti  punti  di  contatto  fra  ioro^.  si  presentano  più  oppor- 
tune ai  riscontri  in  ordine  a  ciò  che  le  unisce  o  le  differenzia 
ne'  riguardi  più  generali  della  scienza,  salvo  che  nel  Curtius 
noi  salutiamo  l'autore  e  maestro  principalissimo  del  nuovo 
indirizzo  dato  anche  alla  trattazione  della  Sintassi. 

Allorquando,  nello  esporre  la  dottrina  dei  casi,   i  gram- 


(i)  Lipsin,  1871,  //•  Edi:(.  —  La  I»  edizione  di  questa  Grammatica 
è  dell'anno  1868. 

[i)  Grammatica  Greca,  Parte  seconda.  —  Milano,  Valentiner,  1870. 

Vjvista  di  Jitologia  ecc.,  I.  35 


-  522  — 
malici,  che  noi  chiameremo  più  recemi,  sentenziano,  che  si 
debba  prender  le  mosse  dalla  forma,  come  da  unico  punto 
di  partenza  sicuro ,  essi  affermano  cosa,  della  quale  nessuno 
potrà  andare  più  di  noi  coìivinto;  poiché  della  Sintassi  eb- 
bimo  sempre  questo  concetto,  che  ella  sia  una  cotale  somma 
di  osservazioni,  raccolte  all'uso  della  lingua,  con  istretto  ri- 
ferimento anche  al  lato  formale  della  parola.  Allo  stato  pre- 
sente però  dell'indagine  scientifica,  la  questione,  rispetto  ai 
casi,  non  pare  risolta,  che  da  un  lato  solo,  compiutamente, 
che  è  il  negativo.  Non  v'essere   cioè  ragione   sufficiente  in 
ordine  alla  scienza  per  lasciar  correre  le  dottrine  dei  loca- 
listi.  Infatti  dei  cinque  casi  rimasti  al  greco,  il  nominativo^ 
il  vocativo,  Vaccusativo  costituiscono  uìi  gruppo.  Ma  il  no- 
minativo è  designato  dalla  sua  stessa  originaria  uscita  prono- 
minale, —  sa,  ó  —  ad  essere  il  caso  del  soggetto  (Schleicher, 
Comp.  §  i37  Pez.j,  11  vocativo  è  già  stato  eliminato  dal 
ruolo  dei  casi  (vedi  sopra),   e  Vaccusativo  mal   s'acconcia 
all'originario  ufficio  di  terminus  ad  quem,  nel  senso  de'  lo- 
calisti,  perchè  l'indagine  linguistica  ci  persuaderebbe  piut- 
tosto a  rappresentarcelo  come  vicario  del  nominativo,  in  un 
periodo  assai  remoto  delia  vita  delle  lingue  Ariane;  quanto 
all'altro  gruppo  di  casi,  cioè  al  genitivo  e  dativo,  sui  quali 
s'è  venuto  concentrando  via  via  un  maggior  numero  ^i  fun- 
zioni (confr.  Schleicher,  Comp.,  Declinaz.  dei  nomi,  passim), 
forza  è  pur  confessare,  che  per  la  grammatica  speciale  della 
lingua  greca  mal  si  potrebbe  accettare  il  locativo,  come  si- 
gnificazione fondamentale  di  essi.  Ma  quale  significato  e  uso 
dei  casi  sia  da  ammettere,   come    originario,   dal  quale  gli 
usi  posteriori  fossero  come  derivati,  l'indagatore  prudente  e 
circospetto  non  può  affermare  per  ancora.   E   così  fu  ab- 
bandonato il  mal  vezzo  di  voler   forzare  e  significato  e  uso 
dei  casi,  per  ricondurli  a  certe  formule  significative,  fermate 
a  priori.  Proscritto  adunque  l'arbitrio,  abbandonato  il  con- 


-^523  — 

cetto  del  localismo,  ne  si  potendo  ancora,  allo  stato  presente 
delle  cose,  fermare  nessun  contenuto  generale,  inerente  a 
principio  al  concetto  de'  casi,  la  soia  via  di  uscita,,  clic  pa- 
reva restare,  era  questa:  raggruppare  intorno  alle  forme 
dei  casi  i  vari  ordini  e  specie  di  /milioni  e  relaiioni,  che 
l'osserva-^ione  delVuso  concreto  e  accertato  della  lingua  fosse 
venuta  additando^  colla  scorta  di  corretto  criterio  analo- 
gico, e  muovendo  sempre  dall'uso  normale  e  piii  diffuso. 
Non  ci  sfugge  però,  che  per  tale  maniera  una  grossa  e  se- 
ria difScoltà  s'affacciava  alla  grammatica,  quella  cioè  di  dover 
procedere  sempre  con  somma  cautela.  Non  è  però  a  cre- 
dere, che  la  linguistica  ci  abbia  destituiti  affatto  d'ogni  cri- 
terio di  ordinamento  rispetto  alle  funzioni  dei  casi.  Noi  lo 
abbiamo  già  accennato  quassopra,  che  la  lingua  cioè  distingue 
fra  un  uso  più  normale  e  un  uso  più  raro  e  più  remoto. 
Nella  pratica  della  grammatica  speciale  f[uesta  tendenza  delle 
lingue  si  presta  ad  una  trattazione  abbastanza  chiara  e  ordinata, 
ne  molto  disforme  dalle  buone  tradizioni.  In  questo  concetto 
generale,  fissato  dal  Curtius,  concordano  il  Koch  e  Tlnama, 
salvo  che  quest''ultimo  raggruppa,  p.  es.,  molto  opportuna- 
mente le  varie  funzioni  dell'accusativo  nelle  due  rubriche  A) 
di  accusativo  dipendente  (§§  264,  segg.),  che  abbraccia  gli 
accusativi  interno,  esterno,  dell'oggetto  doppio,  del  predi- 
cato del  Curtius,  e  B)  di  accusativo  indipendente,  che  cor- 
risponde sXV  accusativo  più.  libero  del  Curtius.  E  poiché 
siamo  a  parlare  dell'accusativo,  diremo  di  quell'appellativo 
interno,  che  il  Curtius  applica  a  questi  accusativi  che  hanno 
affinità  di  radice,  o  affinità  di  significato  col  verbo,  al  quale 
sono  uniti  come  oggetto  {Gr.  Gr.  §  400,  a,  b,  e).  Anche 
al  nostro  Inama  è  parso  buono  questo  concetto,  e  l'ha  in- 
trodotto nella  sua  Sintassi  (^  356).  —  E  in  sostanza  quello 
che  gli  antichi  chiamavano  axniiia  èiui-ioXoTiKÓv  (figura  ety- 
mologica).  11  Koch  lo  addimanda  invece  accusativo  del  con- 


—  524  — 
tenuto  {des  Inhalts ,  §  83,  iv) ,  suiresempio  del  Kriiger 
{Gr.  Gr.  §  46,  5).  È  una  tendenza  assai  notevole  della  lin^ 
gua  greca,  e  che  meritava  certo  di  essere  segnalata  nella 
grammatica  particolare.  Il  Kuhner  Tha  pur  esso  notato 
(§  159,  2),  ma  a  modo  suo,  ascrivendolo  agli  accusativi  di 
eletto.  Il  Krùger  (/.  e.)  tratta  questa  particolarità  della 
lingua  con  molta  cura  e  diifusione  e  dovizia  grande  di  esempi. 
A  vero  dire  noi  non  saremmo  inclinati  ad  approvare  né 
Tuno  né  Taltro  appellativo,  parendoci  che  in  parte  dicano 
troppo,  in  parte  siano  difficili  ad  essere  compresi.  La  no- 
zione di  quest'uso  fu  messa  innanzi  la  prima  volta,  cre- 
diamo, da  Federico  Haase  nelle  Annotazioni  alle  legioni  del 
Reisig  (1839,  Lipsia.  Not.  609,  559).  Il  Curtius  {Comm. 
pag.  168,  Miiller)  vorrebbe  .^stenderne  il  concetto  anche  ad 
usi  liberi  ed  affatto  avverbiali ,  come  nella  nota  locuzione 
omerica  dKfiv  eaav  ;  e  vorrebbe  trovare  un  riscontro  a  questo 
uso  nel  supino  dei  latini  in  -tnm^  come  in  nuticiaium  ire, 
e  poi  nei  modi  injìiias  ire,  e  persino  nel  passo  di  Plauto: 
alias  res  est  impejise  improbus  {Epid.  iv,  i,  39).  E  la  non 
sarebbe  codesta  forse  un'illazione  un  po'  azzardata  per  amor 
di  sistema  ?  Quanto  airdKfjv  eaav,  l'osservazione  del  Curtius 
si  fonda  sulla  natura'  del  verbo  sostantivo  (etvai),  il  quale 
ammetterebbe  il  concetto  d'un  oggetto  interno.  Però,  noi 
domanderemo,  e  come  si  spiega  ràKfjv  icrav  (7/.,  ò,  429), 
dove  quel  preteso  accusativo  interno  è  unito  ad  un  verbo  di 
moto  ?  E  l'altra  locuzione  omerica  OKriv  èTévovTo  (5\\ymf\  {IL,  8, 
95)  ci  farebbe  considerare  ÓKriv  come  un  avverbio.  Quanto 
poi  alla  denominazione  accusativo  del  contenuto,  usato  dal 
Kriiger  e  dal  Koch,  n^  pare  che  la  sia  troppo  vaga  e  in- 
determinata. Ecco  con  quali  parole  la  definisce  il  Kriiger 
(§  46,  5)  :  «  Egli  accade  in  greco,  con  più  di  frequenza  che 
«  in  altre  lingue,  di  trovare  unito  al  verbo  un .  accusati\  o 
«  di  radice  o  di  significato  affine,  talfiata  come  oggetto  tran- 


-  525  — 
k  sitivo,  tal'altra  come  segno  dell'oggetto,  al  quale  l'azione 
«si  estende,  come  <7  suo  contenuto  ».  Esempi  di  ciò  sono: 
(puXaKÙ?  qpuXÓTTeiv  -  bouXeiac  òouXeueiv  -  eàvarov  ànoevricrKeiv 
-  vó(Jou<s   KÓjaveiv  -  tòv    lepòv    nóKeiuiov    èorpaieucrav  -  étTravra 
bouXeOeiv  -    jj    juetaXa    buvaaSai  -    9pov€Ìv    èXacWova  -  oùbèv 
(ppovrijuj  -  e  molti  altri.  Da  questi  esempi,  che  abbiamo  ar- 
recato togliendoli  in  gran  parte  al  Krliger,  massime  quelli 
che  abbiamo  posto  dopo  le  due  linee  verticali,  e  in  molti 
altri  è  facile  vedere  come  per  questa  vìa  si  pervenga  all'uso 
puramente  avverbiale.  Ma  ad  ogni  modo  non  possiamo  in- 
tendere perchè  debbasi  chiamare  del  contemdo  un  cosiffatto 
accusativo,  in  opposizione   ad  altri  usi,  nei  quali  l'oggetto 
sarà  forse  un  po'  più  remoto ,  ma  che  ciò  nullameno  sarà 
sempre  il  contenuto,  ossia  il  termine  dell'azione.  P.  es.  tutttuj 
TÒV  boOXov  -  qpiXov  Ùjqp€Xfì(jai  -  ecc.  La  denominazione  poi  di 
accusativo  interno  indurrebbe  quasi  a  credere  che  l'azione  re- 
stc\sse  quasi  nel  soggetto,  ciò  che  non  e,  perchè  nell'uso  in  <pu- 
XaKà(;  qpuXàTTcìv,  è  bensì  vero  che  l'oggetto  sembra  come  legato 
al  verbo  con  un  vìncolo  interiore  -,  ma  ad  ogni  modo,  gram- 
maticalmente,  il  passaggio  dell'azione  è  chiaramente  indi- 
cato dalla  forma  del  costrutto.   A  noi   sembra  talfiata  che 
questo  accusativo  potrebbe  senz'altro  addimandarsi  di  rela- 
zione prossima,  se  l'oggetto  è  affine  di  radice,  remota  se  af- 
fine dì  significato  col  verbo.  Cosr  p.  es.  noi  vediamo  che  il 
Kriiger  allega  il  vócTou?  Kà)av€iv  fra  gli   accusativi  del  con- 
tenuto; e  rinama   (§  359)  fra   gli    accusativi  di    rela-^ione 
cita  KÓiiveiv  toù?  nóba?.  Parrebbe  quindi  che  un  modo  d'in- 
tendersi ci  fosse.  Ma   d'altra   parte ,  quando   consideriamo 
locuzioni  simili  alle  seguenti  :  ^Xkqi;  oÙTacTai  -  òpKia  rciiaveiv  - 
Ypacpriv  biduKeiv  -  *OXujiuia  vikùv  -  vóOtov  òbupófievoi ,  che  sono 
allegati  dal  Curtiiis  alla  rubrica  àcVCoggetto  interno  (§  400)*, 
crediamo  al  postutto  che  tutta  questa  categoria  fosse  da  ri- 
maneggiarQ,  e  fosse  da   vedere  piuttosto  se  per  avventura 


—  526  — 
non  ne  sia  stata  allargata  di  troppo  la  sfera ,  in  parte  per 
amor  di  sistema,  in  parte  perchè  da  qualche  uso  più  raro 
siasi  voluto  inferire  ad  analogie  più  larghe,  alle  quali  avrebbe 
obbedito  il  genio  della  lingua  in  questo  rispetto.  A  noi  pare 
che  locuzioni  come  son  le  seguenti:  iróXeiaov  rcoXeiieiv  -  'é\- 
K0<;  oÙTctaai  -  '0Xu|ui7na  viKav  -  òpKia  TcijLiveiv,  non  possano  es- 
sere ridotte  ad  un  concetto  grammaticale  unico;  salvo  che 
nel  giro  di  una  categoria,  non  s'introducano  delle  sub-ca- 
tegorie, come  ha  fatto  il  Curtius;  ciò  che  ne  pare  artiticioso 
troppo.  E  si  potrebbe  ragionare  anche  così.  EJfetio,  e  quindi 
oggetto  necessario  e  diretto  di  uoXeiiieTv  non  può  essere  che 
TTÓXeiaov.  Ma  né  effetto  né  oggetto  necessario  di  viKàv  è 
r'OXujbiTtia,  né  di  Tà|iveiv  TopKia.  Così  del  Kàjaveiv  effetto  ne- 
cessario è  vóaou?,  ma  non  toìjc,  -nàhac,,  potendo  altri  KÓfiveiv 
xfiv  KecpaXiiv.  Ve  quindi  un  effetto  diretto  ed  uno  indiretto 
dell'azione  di  certi  verbi.  Abbiamo  messe  innanzi  queste  con- 
siderazioni al  solo  scopo  di  mostrare  agli  avversari  dei  nuovi 
metodi  che  neanche  fra  i  novatori  s'è  detta  ancora  V ultima 
parola  rispetto  a  molte  questioni.  Prima  di  chiudere  questi 
cenni  sulla  dottrina  dei  casi,  ci  rechiamo  a  debito  di  ri- 
chiamare l'attenzione  degli  studiosi  sul  cap.  xv  della  Sintassi 
dell'egregio  prof.  Inama ,  che  tratta  delia  ^roposii^ìone  atn- 
pliata,Q  cht  ci  sembra  notevole  per  c/izare:?^^,  novità  e  cor- 
retto criterio  di  trattazione.  Importanti  sono  pure  le  os- 
servazioni che  seguono  al  §  847,  che  tratta  del  genere,  nu- 
mero e  caso  dei  nomi.  Alla  dottrina  dell'accusativo  nella 
Sintassi  del  signor  Inama  segue  un  capitolo  (§§  366-371), 
dove  si  tratta  degli  usi  del  genitivo  e  del  dativo  per  in- 
dicare rapporti  di  luogo  e  di  tempo.  Il  materiale  scienti- 
fico di  questi  paragrafi  è  eccellente;  approviamo  anche  il 
concetto  di  raggruppare  questi  usi  avverbiali.  Ne  pare  però 
che  l'egregio  autore  vi  avrebbe  potuto  unire  anche  Vaccusa- 
tivOf  che  ha  pur  esso  usi  affini.  Ancora,  noi  desidereremmo 


-  527  — 
che  questo  capitolo  fosse  dislocato  e  posto  come  appendice 
in  calce  alia  dottrina  dei  casi.  Scientificamente  forse  questa 
repartizione  non  sarebbe  esente  da  censure,  perchè  di  cia- 
scun caso  è  bene  che  si  veda  il  trapasso  dall'uso  proprio 
all'uso  più  remoto  e  più    libero  e  avverbiale.  Ma  noi  va- 
gheggiamo una  repartizione  delia  dottrina  dei  casi,  che,  pur    , 
rispettando  i  postulati  della  scienza,  serva  alla  chiarezza  e 
ai  bisogni  dello  insegnamento.  Il  signor  Inama,  se  non  er- 
riamo, accenna  a  cosiffatto  indirizzo,  e  noi   l'approviamo. 
La  Sintassi  dell'Inama  dispone  la  dottrina  dei  tre  casi  ob- 
bliqui  nell'ordine  che  segue  qui  appresso  :  a)  dell'accusativo, 
b)  del  dativo,  e)  del  genitivo.  La  ragione  scientifica  di  que- 
sta novazione  non  può  essere,  crediamo,  altra  di   questa, 
di  raccostare  cioè   il  dativo   all'accusativo,   parendo  che  il 
punto  normale  di  partenza  per  la  trattazione  di  questi  due 
casi  sia  la  loro  unione  co'  verbi  ;  mentre  pel  genitivo  è  l'u- 
nione co^  sostantivi.  Questa  osservazione   è  forse   sfuggita 
al  Curtius  nel  repartire  la  materia  dei  casi,  perchè  la  distri- 
buzione fatta  dairinama  scende  diritta  dal  principio  pur  ac- 
cennato chiaramente  dal  Curtius  nel  Commento  (pag.   168 
Mliller). 
Ma  veniamo  alla  dottrina  dei  Tempi  e  dei  Modi. 
Questa  parte  della  sintassi  greca ,  come   quella   che  pa- 
reva più  necessitosa  di  aiuto  e  di  riforma ,  attirò  sopra  di 
sé  in  principalità  l'attenzione  e   la   cura   degli  studiosi.  E 
bisogna  pur    confessare   che  la   messe  raccolta  su   questo 
campo  fu  ricca  e  abbondante.  L'indagine  storico-compara- 
tiva dischiuse  daddovero  un  nuovo  orizzonte,  sotto  il  quale 
la  dottrina  della  proposizione  composta,  rischiarata  di  nuova 
luce,  fu  collocata  sopra  l'incrollabile  fondamento  della  forma 
e  dell'uso  accertato.  Anche  in  questo   riguardo  il  nome  di 
G.  Curtius  si  collega  a  tutto   che  v'ha    di  progressivo  e  di 
nuovo  e  veramente   razionale-,  quantunque   molto    utili    ed 


—  628- 
acuie  osservazioni  sull'uso  e  significato,  dei  tempi  massime, 
avesse  fattt  già  il  Krliger  (i).  11  merito  principalissimo  dei 
Curtius  sta,  secondo  noi,  in  ciò:  nelPaver  saputo  cioè  col -^ 
legare  la  dottrina  della  pi^pposi^ione  composta  alla  teorica 
dei  modi,  sciogliendo  così  il  problema  vero  di  ogni  sintassi, 
che  è  lo  studio  delle  funzioni  della  parola  nel  discorso.  Il 
quesito  fu  posto  dal  Curtius  in  modo  chiaro,  scientificamente 
esatto  e  conciso,  da  non  lasciare  più  dubbio  sul  metodo  non 
foss'altro  della  trattazione.  La  propQsi\ione  adunque  non  è 
un  contenuto  logico,  al  quale  la  grammatica  non  possa  ac- 
costarsi, se  non  a  traverso  d'una  qualche  formola  psicolo- 
gica, più  o  meno  astratta.  Il  coìitenuto  e  la  forma  si  chia- 
rirono perfettamente  concordi  nel  procedimento.  La  scienza 
adunque  confermò  il  detto  antico  della  scuola  ;  Quod  enim 
in  singulis  dictionibus  paratur  sensibile,  id  est  intelligi- 
bile ,  quodammodo  elementum  est  orationis  perfectae  » 
{Prisc.  xvii,  pag.  io35  P.).  Dì  grande  momento  per  la  co- 
noscenza dell'uso  e  della  significazione  dei  Tempi  e  dei 
Modi  fu  lo  studio  comparativo  intorno  alla  natura:  a)  del- 
Vaumento,  che  in  seguito  all'indagine  scientifica  si  chiarì  come 
il  solo  mezzo  che  la  lingua  possieda  per  indicare  il  passato 
(confr.  Schleich.  Comp.  §§  169,  i83  Pez,)*,  b)  della  rad- 
doppia\ione  ^  come  carattere  dell'anione  compiuta  (Id.  i^., 
§  182);  e)  intorno  al  disvario  fra  la  qualità  dell'azione, 
espressa  da  tempi  derivati  dalle  Radici  pure  verbali,  ovvero 
dai  Temi  del  presente-,  d)  intorno  ell'origine  e  natura  delle 
congiunzioni  ;  e)  intorno  alla  forma  vera  e  storicamente  ac- 
certata del  collegamento  delle  proposizioni;  cioè  della  pa- 
ratassi e  della  ipotassi,  nelle  tre  forme  della  coordina{ione, 
correla:{ione  e  subordinamento. 

Queste  ricerche,  e  i  risultamenti  che  a  quelle  seguirono, 

(i)  Vedi  il  §  53  della  Gramm.  Greca,  che  ha  per  titolo  Zeitformen. 


-  539  — 
infusero  tutto  il  rigoglio  di  una  vita  nuova  in  questa  parte 
della  grammatica,  sfatando  la  vecchia  dottrina  delia,  cojisec  ut  io 
modorurfiy  alla  quale  ancora  il  Krùger  fa  omaggio,  non  fosse 
altro  perchè /JiM  succinta  e  pili  spedita  {Grainm.  Gr.  §  54, 
5  Not.).  Alcune  innovazioni  degne  di  nota  ha  recato  a  questa 
parte  della  Sintassi  Ad.  Fed.  Aken  colla  scrittura,  che  ha  per 
titolo  :  Grundiìige  der  Lehre  vom  Tentpus  und  Modus  im 
Griechischen,  historisch  und  verghichend  {\)\  delle  quali  ter- 
remo ragione  qui  appresso.  Alle  vedute  deirAken,  massime 
per  ciò  che  spetta  la  repartizione  dei  tempi  e  dei  modi,  si 
accosta  Ernesto  Koch  nella  sua  opera  «  Griechische  Schid- 
grammatik  auf  Grund  der  Ergebnisse  der  vergleicheriden 
Sprachforschung  »  (Lipsia,  187 1,  2*  ediz.).  Il  prof.  Inama 
consultò  e  studiò  queste  opere,  ma  neiraccettarne  i  risulta- 
menti  stimò  opportuno  di  procedere  assai  circospetto,  e  nella 
trattazione  di  questa  spinosissima  materia  seppe  mantenersi 
affatto  indipendente  da  spirito  sistematico. 

Nel  fissare  la  repartizione  dei  tempii  il  Curtius  ha  voluto 
determinare  con  vocaboli  particolari  e  significativi  il  duplice 
punto  di  partenza,  dal  quale,  secondo  lui,  e'  si  vuol  pren- 
dere le  mosse  nello  studio  delle  relazioni  temporali  del  verbo. 
Nell'azione  adunque  vuoisi  considerare  a)  il  grado;  b)  la 
qualità  {Grattini,  grec.  §§  484  segg.).  Con  quello  egli  designa 
//  putito  dal  quale  si  considera  l'anione  [Comtti.  pag.  177, 
Muli.).  L'azione  0  è  contemporanea  a  quel  punto,  dal  quale 
la  considera  chi  parla,  o  è  anteriore  ad  esso,  come  un  grado 
già  passato;  o  è  posteriore  ad  esso,  come  un  grado,  che 
si  vuole  raggiungere.  La  qualità  del  tetnpo  poi  indica  la 
differenza  intima  nel  giro  dell'anione  istessa,  prescindendo 
dalla  relazione  con  qualche  cosa,  che  sia  estraneo  alla  me- 
desima. La  tabella  seguente  chiarirà  meglio  il  concetto  del 
Curtius. 


(i)  Rostock,  1861. 


-530 


qualità' 

C3rJR  jf^lD  CD 

PRESENTE 

PASSATO                j        FUTURO 

Durativa 

Indie.  Pres. 
Gong.  Ott.  Imper, 

Indie.  Imperfetto 
Inf,  Part. 

— 

Incipiente 

—    — 

Indie.  Aoristo 

Gong.  Imp.  Inf.  Ott, 

deìl'Àoristo 

Futuro 

Compiuta 

Indie.  Perfetto 
Gong.  Ott.  Imper. 
Inf.  Part.  del  Per/etto 

Piuccheperfetto 

Futuro  esatto 

Il  Koch  (§§  95,  96)  s'accosta  alle  vedute  del  Curtius  ri- 
spetto alla  repartizione  dei  tetnpi  del  verbo*,  però  egli  tra- 
scura il  concetto  del  grado  del  tempo.,  come  punto  di  par- 
tenza, dal  quale  si  considera  l'azione,  e  la  triplice  qualità 
del  tempo  egli  fonda  sul  criterio  in  parte  formale,  in  parte 
logico,  quale  ne  è  pòrto  dalla  linguistica  in  ordine  alla  dif- 
ferenza che  corre  fra  i  tempi  che  derivano  dal  tema  del  pre- 
sente, e  quelli  che  derivano  dal  tema  verbale. 

Ecco  lo  schema  della  repartizione,  secondo  il  Koch: 

QUALITÀ'  \DELL  q4Z107<ÌE 


2? 

cs 
9» 

*5 

s 

cs 

eo 

SS 

1® 

1 — 

il 

Dal 

Tema  Verbale 

(Radice) 

_ 

Aoristo 
(ànéSavov) 

Futuro 
(àiToGavoOjiai) 

Dal 
Tema  del  Presente 

Presente 
^aiio0vfiaKui) 

Imperfetto 
(à7té6vr}aKOv) 

— 

Dal 
Tema  del  Perfetto 

Perfetto 
(réevTjKo) 

Piuccheperfetto 

(fcreBvriKeiv) 

Futuro  esalto 
(xeevnEui) 

-531  - 
Sette  tempi  adunque  possiede  la  lingua  per  esprimere  la 
triplice  qualità  deirazione-,  due  tempi  dd  presente,  due  dei 
futuro,  tre  del  passato;  ma  questi  tre  sono  propri  soitanco 
ddVtndicatìPOy  essendo  Vaumento  il  solo  e  vero  carattere  del 
passato.  La  dottrina  dei  tre  temi^  fondata  dalFAken,  e  ac- 
cettata dal  Koch,  si  basa  sul  concetto  seguente:  i)  I  tempi 
che  derivano  dal  tema  verbale  puro  (radice)  esprimono  l'a- 
zione assolutamente  ;  sovente  però  essi  accennano  al  comin- 
c/izmen/o  dell'azione  (azione  incipiente)  (confr.  Kriig.  Gramm. 
Greca,  §  53,  6  dell' aoristó)\  2)  I  tempi  derivati  dal  tema 
del  presente  designano  un'azione,  che  addiviene,  o  che  si 
sta  svolgendo,  e  che  per  ciò  appunto  perdura  (azione  du- 
rativa) ;  3)  I  tempi  derivati  dal  tema  del  perfetto  accennano 
ad  un'azione,  che  è  nello  stato  di  suo  compimenio  (azione 
compiuta)  (V.  Koch,  §  gS).  Ecco  qualche  esempio; 

Anione  incipiente  Apone  durativa  Apone  compiuta, 

o  passata  indefinita. 

(porsi   airope-  (^^  ^^*^  ^^"°^°  (  ""  t^^^'« ^'?" 

uoif^oaira,  por  mano  itoi6ivM^-'/°'?'^o'=-  ntiroiriKévui    to,hoassolto 

]  a.Q    r  ]  capato  intor-  '         )   il  mio  córn- 

'      ^*    '  '  no  a  q.  e.  '  pito,  lavoro. 

(darsi  alla  fu-  iei fugge, va  er-  / 

9UTÉ^v    _-    ^f,,prj\r(.  «peÙTeiv    rando  fuggi-  ireqpcuTévai  sono  al  sicuro. 
(  &^'  Sfuggire.  I  ^j^Q  I 

,      i  .  fxvf^\mi    studio   di    .         ,         ^^'^''^  imparato 

Yvùvai  riconoscere         jj^^jy     conoscere         ^*v<JUKévai      a    conoscere, 
(  (  '  (so. 

Con  questi  ed  altri  esempi  il  Koch  si  studia  di  chiarire 
il  suo  concetto  intorno  alla  triplice  qualità  dell'azione,  fon- 
dato sulla  differenza  del  tema,  onde  il  tempo  è  derivato. 
Crediamo  che  per  ridurre  a  rigore  di  principio  scienziale 
cosiffatta  teoria  saria  mestieri  forzare  in  troppi  luoghi  il 
lessico,  e  un  po'  anche  il  pensiero  degli  scrittori.  E  in  ciò 
siamo  perfettamente  dell'avviso  del  professore  Inama  [In- 
trod.  pag.  iv).  Che  il  sentimento  della  lingua  fosse  inteso  a 
designare  con  quel  fenomeno  dei  temi  doppi,  nei  verbi,  nei 


-  532  - 
quali  hanno  luogo,  qualche  cosa  di  più  significativo  che  non 
sia  per  avventura  il  criterio  formale  ed  esterno;  in  tesi  ge- 
nerale potrà  forse  parer  probabile  (confr.  Curtius,  Comm. 
pag.  87  Milli.).  Ma  la  è  codesta  una  grossa  questione,  di 
grande  momento  anche  per  la  morfologia.  Però  il  fondare 
su  questo  fenomeno  una  dottrina  cosi  importante,  come  è 
quella  dell'uso  dei  tempi,  può  parer  cosa  un  po'  arrischiata. 
Il  valore  infatti,  che  allo  stato  presente  dell'indagine  si  può 
attribuire  alle  forme  derivate  dal  tema  verbale,  non  è  di  re- 
gola un  valore  significativo,  quale  sarebbe  quello  di  azione 
incipiente^  salvo  in  qualche  caso,  come  ad  es.  in  qpuTeiv, 
ma  piuttosto  un  valore  etimologico.  Ciò  apparisce  chiaro 
massime  da  quelle  forme,  che  il  Grimm  chiamò  forti^  che 
nascono  come  dire  per  effetto  di  una  forza  interiore,  la  quale 
produce  un  cambiamento  nella  radice,  senza  aggiungimenti 
esterni.  Che  delPaoristo  sia  molto  diifuso  il  significato  di  azione 
incipiente,  contrariamente  all'azione  durativa  del  presente  e 
dell'imperfetto,  è  cosa  accertata  oggimai.  Ma  non  di  rado 
Taoristo  accenna  anche  ad  azione  passata  indefinita.  Ad  ogni 
modo  questo  divario  nella  qualità  dell'azione  è  attestato  dal- 
l'uso, e  non  da  criteri  morfologici  ;  esso  si  fonda  sopfa  un 
vago  sentimento  della  lingua. 

D'altra  parte  non  in  tutti  i  verbi  il  tema  verbale  si  diffe- 
renzia dal  tema  del  presente;  cosi  ad  es.  tutti  i  vei^bi  puri, 
salvo  alcuni  pochi  in  €iy  (-eFuj),  e  molti  degli  impuri^  come 
ópX-u),  Xéx-iw  non  presentano  il  disvario,  voluto  dal  Koch,  per 
fondare  su  di  esso  la  sua  dottrina  dei  tre  temi.  Quei  pochi 
verbi  poi  della  categoria  dei  puri,  come  paOiXeuu),  fiTéo)nai, 
ìaxuuj,  ttXout^u»,  noXen^u),  Oapfféiu,  épàiu  (?pa)nai),  oìk€uj,  i  cui 
aoristi  èpaor!X€u(5a,  f^fn<7aMnv,  tcTxoaa,  énXoiiTnoa,  èiToXéjiTìOa, 
èeàpOTicra,  Vjpdcyetiv,  dJKricfa,  ai  quali  è  da  aggiungere  ^pHa  da 
dpxuj,  quantunque  non  derivati  da  un  tema  verbale  diverso 
dal  tema  del  presente,  pure  nell'uso  dinotano   chiaramente 


-533  - 
l'anione  incipiente,  il  diventare,  l'entrare  in  un  certo  stato 
o  condizione;  accennano  insomma  ad  un  moto  per  sé,  con- 
trariamente al  presente,  che  dinota  lo  siato,  l'essere  o  tro- 
varsi in  uno  siato  o  condizione  {i)  \  questi,  diciamo,  testi- 
moniano tutti  contro  la  dottrina  dei  tre  temi  verbali.  La 
sola  classe  degli  incoativi^  la  vi*  del  Curtius,  potrebbe  con- 
fortare quella  teorica  :  ma  di  questi  è  troppo  ristretto  il  nu- 
mero, e  d'altronde  di  nessun  altro  suffisso,  crediamo,  si  po- 
trla  fissare  il  valore  significativo  con  pari  certezza.  Arroge, 
che  nei  verbi  di  questa  cUsse,  il  concetto  d'azione  incipiente 
si  collega  piuttosto  alla  forma  del  presente  che  a  quella  del- 
Taoristo. 

Il  prof.  Inama,  nello  svolgere  la  dottrina  dell'uso  dei  tempi 
(§§  421  segg.),  s'è  discostato  dal  modo  di  trattazione  seguito 
dal  Curtius  e  dal  Koch.  Perciò  egli  non  ha  creduto  oppor- 
tuno di  fermare  quasi  a  priori  le  categori»;,  fissate  da  quelli; 
s'attenne  strettamente  all'uso  della  lingua,  la  quale  nella  de- 
terminazione del  tempo  non  pare  che  fosse  intesa  come  a 
statuire  concetti  assoluti  di  azione,  salvo  che  per  Wwristo 
forse.  In  ciò  il  prof.  Inama  sembra  accostarsi  alle  vedute  del 
Kriiger  {Gramm.  Gr.  §  53,  I,  i).  «  Ogni  determinazione 
«  temporale  è  relativa,  così  il  Kriiger  (/.  e),  cioè  essa  ha 
«  bisogno  di  riferirsi  ad  un'altra  azione,  in  ordine  alla  quale 
«  essa  ci  apparisce  tale,  quale  la  sua  forma  ce  l'appresenta. 
«  Non  V  è  perciò  nessun  tempo  assoluto.  Molto  meno  po- 
«  triasi  concepire  come  tale  il  presente^  il  quale  si  contrap- 
«  pone  a  due  termini,  al  passato  e  al  futuro,  de'  quali  esso 
«  è  il  termine  divisorio.  »  L'Inama  quindi  repartisce  le  forme 
dei  tempi  in  tre  gruppi:  A)  tempi  dei  presente  {presente  e 
per/etto;  §§  422-424);  B)  tempi  del  passato  {imperfetto  e 
piuccheperfetto;  §§  425-426);  C)  tempi  del  futuro  {futuro 


(i)  Vedi  Kruger,  Gramm.  Gì.   53,   b,   i.  —  Inama,  ^  4-27,  1. 


-  534  - 

semplice  e  futuro  perfetto;  l^  430-431).  In  questa  riparti- 
zione il  termine  relativo  deirazione  h  o  la  persona  che  parla, 
rispetto  alla  quale  l'azione  è  per  Tappanto  o  presente  o  pas- 
sata o  futura  (è  ciò  che  il  Curtius  chiama  il  grado  dell'azione): 
ovvero  un'altra  anione;  e  in  questo  rispetto  Fazione  si  con- 
sidera o  come  coìitinua,  ocome  compiuta,  nel  giro  di  ciascun 
gruppo,  salvo  che  nel  primo  (gruppo  del  presente)^  al  con- 
cetto deirazione  che  diventa  o  perdura  ovvero  che  è  già  ac- 
caduta e  compiuta,  mentre  la  si  enuncia  si  connette  pur  quello 
di  azione  contemporanea  a  chi  parla. 

Riassumiamo  questa  dottrina  in  uno  schema. 


!! 

il 

(A) 
Tempidel  Presente 

(B)                       (C) 
Tempi  dei  Passato  Tempi  del  Fularo 

1      Azione  continua 
tj  relativa  a  chi  parla, 
e  contemporanea 

Azione  compiuta 
e  relativa  al  presente 

Presente 

Imperfetto 

Futuro 

semplice 

Perfetto 

Azione  compiuta 

e  relativa 
ad  altra  anione 

— 

Piuccheperfetto 

Futuro  perfetto 

Azione  passata, 
ma  indefinita 

~ 

Aorìsto 

— 

Uaoristo,  come  si  pare  da  questo  schema,  fa  parte  da  se-, 
esso  indica  un^azione  passata,  senza  altra  determinazione 
[Sin.  §  427,  i).  Al  prof.  Inama  non  sorride  troppo  il  con- 
cetto di  azione  incipiente,  tanto  accarezzato  dal  Curtius-,  egli 
vi  accenna  vagamente  al  §  427,  2.  Per  cui  Taoristo  è  il  tempo 
del  passato,  xar  4Hoxnv,  il  tempo  storico,  nelle  narrazioni. 

La  dottrina  dell'uso  dei  modi  ebbe  sinora,  nella  gramma- 


-sa- 
lica speciale  della  lingua  Greca,  miglior  fortuna,  oper  lo  meno 
riuscì  a  risultamenti  più  chiari  e  più  accertati,  che  non  si 
abbiano  avuto  ìe  altre  parti  della  Sintassi.  L'aver  fondato 
sovr'essa  tutta  la  dottrina  della  proposizione  composta,  traen- 
dola  fuori  dai  vieto  empirismo  di  quella  che  le  scuole  chia- 
mavano consecutio  modoj'um,  fu  un  vero  progresso  in  ordine 
alla  scienza,  del  quale  gli  studiosi  del  Greco  vanno  debitori  al 
Curtius.  Al  quale  noi  ascriviamo  a  merito  principahssimo 
l'aver  ricostituita  la  grande  unità  della  proposizione  compo- 
sta, stata  bistrattata  prima  dal  Kùhner,  e  scissa  dappoi  dal 
Krùger.  Parimente  noi  gli  ascriviamo  a  merito  Taver  fis- 
sati nettamente  i  termini  e  le  forme  del  collegamento  delle 
proposizioni,  in  ordine  ai  tipi  tradizionali  della  paratassi  e 
della  ipotassi,  fermandone  il  contenuto  con  brevi  e  chiare 
nozioni.  Quanto  a  copia  d'esempi  lascia  forse  a  desiderare 
qualche  cosa^  ma  in  parte  vi  sopperì  nelle  edizioni  posteriori, 
in  parte  gli  valga  di  scusa  un  fatto,  non  sempre  apprezzato 
ai  suo  giusto  valore,  che  egli  cioè  sopra  tutto  e  prima  d'ogni 
altra  cosa  è  un  linguista  comparatore.  Ciò  che  poi  gli  ri- 
donda a  maggior  lode,  essendo  stato  il  primo  che  abbia  sa- 
puto e  potuto  costruire  il  nuovo  edificio  della  Sintassi  Greca 
sui  fondamenti  dell'indagine  storico-comparativa.  Anzi  il 
Curtius  è  il  vero  rappresentante  della  scienza  comparata  del 
linguaggio  nelle  sue  attinenze  colla  grammatica  classica. 

Alquanto  manchevole,  è  pur  forza  il  dirlo,  è  la  dottrina 
àtWd.  proposizione  semplice  (^  5o7-5i8).  In  questo  rispetto 
la  Sintassi  del  Koch  segna  un  vero  progresso.  Il  capitolo 
della  proposiiione  indipendente  {^  104-107),  elaborato  sullo 
schema  fondato  dall'Aken  [Gì-iindiuge  ecc.  §  59),  è  meri- 
tevole al  tutto  di  studio  e  di  considerazione.  Ivi  le  propo- 
sizioni indipendenti  (semplici)  sono  distinte  in  due  categorie; 
A)  delle  proposiiioni  affermative;  B)  delle  proposizioni 
volitive  (Urtheilssatz-Begehrungssatz),  nell'ordine  che  segue 
qui  appresso: 


—  536  — 

A)  Proposizioni  affermative.  B)  Proposizioni  volitive. 

i)  Indicativo  (où).  a)  Imperativo  {)xr\). 

3]  [Congiuntivo  coll'fiv  (où)].          4)  Congiuntivo  senza  &v  (jurj). 

5)  Ottativo  coil'fiv  (où),  6)  Ottativo  senza  fiv  (\xr\). 

7)  Passato  coll'dv  (où).  8)  Passato  senza  óv  {\xr\). 

Esempi:  i)  KaXiij?  exiu  (où).  2)  qpeuTC  {m).  3)  Kaì  note  T15 
e^TrncTiv  [Om.  II.  6,  459).  4)  vOv  ?a)|iiev  xaì  àKovjcruJiaev  toO 
óvòpói;  [Plat.  Prof,  3 14  B).  5)  òìq  i(;  tòv  aÙTÒv  Troraiiòv 
oOk  àv  eupairi?  (P/^^  Cratfl.  402  A).  6)  eiGt  htIttotc  Tvoin? 
6?  el  {Sopii.  Oed.  1{.  1068).  7)  <t>ai5  eì  |Lif|  cTxonev,  S^oioi 
ToT<;  TuqpXoT^  av  nfiev  {Senof.y  Mem.,  IV,  3,  2).  8)  àXX'  u)9€Xe 
)ièv  KOpo?  Z:fìv  èira  bè  leTeXeuTriKe  {Seno/.  An.  II,  i,  4). 

I  modi  poi,  considerati  come  la  espressione  significativa 
della  relazione  fra  rattività,  come  essa  viene  enunciata,  e  la 
realtà,  sono  distinti  in  quattro  categorie  (§  104).  i)  Il  modo 
della  realtà  (modus  realis),  che  è  Vindicatipo.  2)  Il  modo 
delia  aspettazione,  che  è  il  congiuntivo.  3)  Il  modo  del- 
Tazione  puramente  pensata  o  presupposta,  che  è  Vottativo. 
4)  II  modo  della  ineffettuazionc,  dell'azione  preterita  (der 
Nichtwifklichkeit,  modus  irrealis).  A  quest'uso  serve  W  pas- 
sato. Il  concetto  di  questo  modo  {irrealis)  si  fonda  sul- 
l'osservazione di  un  cotale  uso,  molto  esteso,  dei  passati, 
comune  tanto  al  greco,  quanto  al  latino.  La  è  una  strana 
particolarità  di  queste  due  lingue  quella  per  cui  azioni  o 
credute  possibili  ancora^  ovvero  non  credute  possibili  og- 
gimai  pili.,  per  esserne  trascorso  il  tempo  o  l'occasione, 
vengono  espresse  col  modo  della  realtà,  ossia  coi  tempi  sto- 
rici deirindicativo  (imperf.,  piucch.,  aoristo  in  greco,  e  col- 
l'imperf.,  piucch.  e  perfetto  in  latino).  Si  pensi  alle  forme: 
eòei,  xP^v,  Kaipò?  f|V,  TTpoafìKev,  fiHiov  nv,  €Ìkò<;  fjv,  bÌKaiov  fjv 
-  oportehat,  oportuit,  poteram,  potui,  debebatn,  debui, 
aequum  erat,  decebat,  oportuerat,  utilius  fuii,  ^cc.  (confr. 


—  537  — 
Zumpt,  Gratnm.  Lat.  §  5i8;  Schultz,  Gramm.  Lai.  §336; 
Madvig,  Gramm.  Lat.  §  348  e).  È  difficile  il  poter  dire, 
crediamo,  a  qual  impulso  obbedisse  il  sentimento  della  lin- 
gua nel  foggiare  quest'uso.  Pare  ad  ogni  modo  che  la  realtà 
della  effettuazione  fosse  il  punto  di  partenza  di  esso.  Uotia- 
tivo  invece,  accompagnato  dall'  dv,  come  il  presente  congiun- 
tivo del  latino  {yelim,  passim)  accenna  a  possibilità  astratta, 
a  desiderio  vago,  indistinto  delPeffettuazione.  Il  sentimento 
moderno  sospinge  la  lingua  piuttosto  verso  l'ipotetico,  il  con- 
dizionale, il  desiderativo.  —  Del  resto  siccome  quest'uso  dei 
tempi  storici  (passati)  ha  poi  una  larga  e  importante  parte 
ne' costrutti  della  correlazione  ipotetica  (Tipo  2°  del  Curtius, 
§  537;  Tipo  4°  deir/w^w^,  §438,  4,  4',  Tipo  4^  del  Koch, 
§  114,  4):  così  ne  sembra,  che  non  vi  sia  sufficiente  ragione 
per  statuire  un  modo  particolare  per  quest'uso  dell' indica- 
tivo, come  fa  il  Koch,  e  che  sarebbe  sufficiente,  che  si  par- 
lasse di  un  uso  ipotetico  delV  indicativo  nelle  proposizioni 
indipendenti  (semplici). 

Questa  parte  della  Grammatica  del  Koch  (§  io5,  S  — 
loC,  3)  non  manca  di  una  certa  novità:  però  qualche  di- 
stinzione v'è  troppo  sottile,  come  ad  es.  quella  al  §  io6,  2, 
dove  Tautore  si  studia  d'indurre  una  distinzione  fra  la  lin- 
gua greca  che  adopera  il  modo  della  ineffettuazione  {irre- 
alis) ,  anche  quando  si  pensa  come  fuori  della  realtà ,  non 
già  la  facoltà  (das  Konnen),  ma  \''a':[ione  espressa  coU'infì- 
nito  -—  e  la  lingua  latina,  che,  più  logica,  usa  il  modo  della 
realtà. 

I^a  parte,  che  segue  a  questa,  nella  Grammatica  del  Koch, 
{^l  j  I  o  -  1 1 8),  e  che  tratta  dei  modi  nelle  proposizioni  di- 
pendenti (dottrina  della  proposizione  composta),  ci  sembra 
distinta  per  chiarezza,  ordine,  copia  di  esempi,  e  correzione 
scientifica.  —  E  così,  riassumendo  della  sintassi  del  Koch, 
ne  pare  di  poter  dire,  che  in  quelle  parti,  nelle  quali  essa 

Tiivista  di  filologia  ecc.,  I.  36 


-  538  — 
cammina  sulForma  segnata  dal  Curtius,  procede  sicura,  cor- 
retta e  abbondevole:  dove  l'autore  se  ne  discosta  e  segue 
le  vedute  dell' Aken,  accenna  a  cose  nuove,  e  le  espone  in- 
fatti con  ordine  sistematico;  ma  non  è  sempre  chiaro,  tal 
fiata  incerto,  e  talora  un  po'  arrischiato.  Nell'insieme  però, 
crediamo  abbastanza  giustificato  il  titolo  del  libro,  che  suona 
cosi:  Grammatica  Greca  ad  uso  deVe  scuole^  elaborata 
sulla  base  dei  risultamenti  della  indagine  linguistica  com- 
parata. 

Il  prof.  Inama,  anche  nella  dottrina  dei  Modi  (§§  433- 
452),  procede  circospetto  e  prudente.  È  osservatore  rigido 
dell'uso  della  lingua;  si  vale  di  tutto,  che  di  sicuro  e  accer- 
tato l'indagine  linguistica  ha  potuto  constatare  in  ordine  alle 
funzioni  sintattiche  delle  forme  verbali ,  ben  guardandosi 
dagli  schemi  generali,  —  La  parte  della  sua  sintassi,  che 
tratta  della  proposizione  principale  e  secondaria  (§§  435  e 
segg.),  cioè  del  collegamento  delle  proposizioni  fra  loro,  è 
fatta  bene,  è  svolta  con  chiarezza,  è  ricca  di  materiali  scien- 
tifici e  di  esempi,  e  nel  disegno  non  manca  di  una  certa 
novità,  che  anche  nell'uso  della  scuola  non  deve  essere  senza 
utilità  pratica.  —  Le  proposizioni  secondarie  egli  distingue: 
A)  in  secondarie  di  complemento  i)  al  nome  o  pronome 
{relative) y  2)  al  verbo  [oggettive,  temporali^  locali,  modali) 
—  B)  in  secondarie  di  dipenden^a^  in  ordine  i)  alle  cause 
{casuali),  i?)  all'effetto  (consecutive  e  finali),  3)  alla  condi- 
zione [ipotetiche  e  concessive).  —  L'esposizione  generale,  che 
delle  varie  guise  di  collegamento  e  dipendenza,  tanto  per 
rispetto  alla  forma,  quanto  per  riguardo  al  contenuto,  viene 
pòrta  nei  §§  435-437,  è  chiara,  concisa  e  ordinata. 

Nel  concetto  della  correlazione  il  prof.  Inama  si  scosta 
in  parte  dalle  vedute  del  Curtius.  Così  ad  es.  :  i  costrutti 
ipotetici  dal  signor  Inama  sono  trattati  come  proposizioni 
di  dipendenza  (ipotassi),   mentre   il  Curtius  invece  pone  le 


-  539  - 

condizionati  fra  quelle  proposizioni,  che  si  col  legano  fra  loro 
per  correlazione  (V,  534.)  E  noi  stiamo  coirinama.  Nella 
frase  ipotetica  crediamo  che  vi  sia  vero  subordinamento  del 
condizionato  al  condizionale,  giustificato  e  dalla  forma  e  dal 
contenuto.  E  come  si  potrà  dire  che  in  un  costrutto  ipote- 
tico né  Tuna  né  T  altra  delle  due  proposizioni  può  venire 
considerata  come  assolutamente  dominante  (Curtius,  Comm.^ 
pag.  i85,  Muli.)?  Non  alleghiamo  esempi,  come  di  cosa 
ovvia. 

Nel  periodo  ipotetico  —  §  488  —  [proposizioni  condizio- 
nali del  Curtius  §§  634  ^  segg.)  il  prof.  Inama  distingue 
fra  conseguenza  necessaria  e  conseguenza  possibile.  Questa 
distinzione  è  utile  neirinsegnamento,  e  scientificamente  esatta. 
Negli  schiarimenti  ed  esempi,  che  l'egregio  autore  fa  seguire 
alla  esposizione  dei  quattro  tipi  fondamentali,  v'è  raccolto 
un  materiale  eccellente.  Forse  sariasi  potuto  disporlo  in 
guisa,  che  a  ciascun  tipo  seguissero  le  dichiarazioni  ed 
esempi  necessaria  Qui  e  colà  anche  sariasi  forse  potuto  di- 
chiarare un  po'  più  distesamente  il  concetto  di  qualche  tipo. 
Cosi  ad  es.  al  tipo  N°  4  {doìV indicativo  de'  tempi  storici) 
ne  pare  che  la  distinzione  fra  imperfetto  ed  aoristo  —  che 
rileva  pur  tanto!  —  sarcbbesi  dovuto  accentare  un  po'  più,  e 
subito  nella  definizione,  che  se  ne  dà  al  N"  4;  perchè  si 
vedesse  di  primo  tratto  la  differenza  di  questo  collegamento 
da  quello  del  tipo  N°  3  (dell'  ottativo).  —  Ci  pare  troppo 
poco,  per  una  distinzione  così  importante  per  l'uso,  il  dire: 
«  In  italiano  si  traduce  questa  forma  di  periodo  ipotetico 
come  l'antecedente  (quella  colV ottativo)-,  p.  e.  €i  toCto  ènoiei 
(èTro(r|<re)  eùbaifiujv  &v  ^v  (èTéveto).  Se  questo  facesse  (ovvero 
avesse  fatto)  sarebbe  (o  sarebbe  stato)  felice  m.  — Che,  tanto 
coirimperfetto,  quanto  coU'aoristo  s'accenni  oXVopposto  della 
realtà^  ciò  sta  bene.  Ma  Tegregio  signor  Inama  m'insegna 
che  coir  imperfetto   si  enuncia  una  condizione,  che  non  ha 


—  540  — 
luogo  nel  momento  attuale  —  c'è  adunque  riferimento  al  pre- 
sente —  ;  e,  nell'uso  o  per  lo  meno  7iel  sentimento  della  lin- 
gua^ con  questo  schema  non  si  rimuove  sempre  e  di  regola 
ogni  possibilità,  o  per  lo  meno  si  crede  ancora  perdurante 
l'obbligo,  la  convenienza  di  fare  una  cosa,  o  di  non  farla. 

—  Ciò  sì  spiega  dalla  natura  stessa  àtW imperfetto,  il  quale 
in  questi  costrutti  nega  sì  la  realtà,  ma  il  concetto  della  du- 
rata dell'azione  gli  è  pur  sempre  connesso.  —  Ecco  qualche 
esempio  —  Senof.  Cir,  Vili,  3,  44  —  el  tò  Ix^iv  outuj?  w? 
TÒ  Xa^pdveiv  fjbù  rjv,  TroXù  civ  òiéq)epov  eùbaijioviqi  01  uXoucTioi 
tOùv  irevriTUJv.  —  E  Plat.  Prot.  356  D:  eì  ouv  èv  touti|)  fiiiiv 
fjv  TÒ  eu  Ttparreiv  — ti?  av  fmiv  aiuTTipia  écpàvn  toO  piou;  que- 
st'ultimo luogo,  massime,  è  molto  istruttivo  in  questo  riguardo; 
perchè  si  contrappone  l'aoristo  coll'àv  dell'apodosi,  e  all'im- 
perfetto coire!  della  protasi.  —  Colla  protasi  infatti  non  si 
esclude  aifatto  la  possibilità,  che  altri  possa  porre  il  quesito 
della  umana  felicità  (tò  eO  TrpdTTeiv)  nella  scienza  del  misu- 
sare  (jacTpnTiKfj  Téxvn).  Tant'è  vero  che  Protagora,  più  sotto 
(pag,  357  B),  è  costretto  appunto  a  questa  conclusione,  che 
cioè  peTpriTiKTÌ  ti?  t^xvti  si  mostra  come  criwTripia  toO  piou  — 
(Conf«  Kriig.  Gramm,  Gr.  §§  54,  10,  3;  Koch,  §§114, 4,  1-2). 

—  Vero  è,  che  negli  schiarimenti  al  tipo  N"  4  il  prof.  Iijama 
ne  dice  «  che  V  imperfetto  ordinariamente  accenna  a  cosa 
presente ,  e  T  aoristo  a  cosa  passata  »  —  e  più  sotto  si  ri- 
torna ancora  su  questa  differenza:  ma  tuttavia  questo  luogo 
ci  lascia  a  desiderare  qualche  cosa.  —  Non  insisteremmo  su 
questo  punto,  se  non  fosse,  che  questa  de'  costrutti  ipotetici 
è  la  parte  forse  più  astrusa  e  più  artificiosa  nella  dottrina 
delle  proposizioni  composte.  —  Anche  non  vediamo  ragione 
di  invertire  l'ordine  della  trattazione  nelle  proposizioni  se- 
condarie. Infatti,  mentre  nt\  prospetto  troviamo  le  dipendenti 
poste  dopo  le  completive,  nell'esposizione  che  vi  segue  ap- 
presso è  data  la   precedenza  a  quelle.  —  Quando  non  vi 


—  541  - 
siano'  ragioni  superiori  scientifiche,  —  e  qui  non  arriviamo  a 
vedercene  nessuna  —  è  bene  secondo  noi,  che,  posto  in  capo 
uno  schema  colle  sue  distinzioni  e  ripartizioni,  quello  si 
segua  e  disvolga  via  via.  È  questione  d'ordine  pedagogico. 
Il  signor  professore  Inama  ci  perdonerà  questi  leggieri 
appunti.  GU  è  che  in  un  libro,  come  è  il  suo,  che  noi  giu- 
dichiamo tale  da  fare  onore  al  paese  e  alla  scienza,  crediamo 
che,  anche  nei  più  minuti  particolari,  il  disegno  dell'opera  e 
l'andamento  della  esposizione  debbano  procedere  con  dirit- 
tura e  chiarezza. 

Rovigo  aprile  1873. 

Gaetano  Oliva. 


SULL'  INSEGNAMENTO 

DELLA  SCIENZA  DELLE  AtK'^ICHITÀ  IN  ITALIA. 


Non  credo  di  recare  offesa  ai  miei  concittadini,  se  oso  affermare 
che  in  Italia  la  scuola  di  archeologia  e  qualsivoglia  insegnamento  cat- 
tedratico relativo  alle  antichità  monumentali,  scritte  e  figurate,  che 
pervennero  sino  a  noi,  riguardansi  generalmente  come  cosa  di  lusso, 
buona  per  pochissimi,  e  perciò  superflua  ed  inutile  alla  grande  mag- 
gioranza. E  questo  giudizio,  in  fin  dei  conti,  trova  anche  una  parte 
delle  sue  ragioni  in  due  fatti  che  si  presentano  nei  regolamenti  gover- 
nativi, vale  a  dire,  l'assenza  completa  di  ogni  ammaestramento  archeo- 
logico dalle  scuole  secondarie  classiche,  ed  il  modo  in  cui  sono  ordi- 
nati i  corsi  della  Facoltà  dì  lettere  nelle  nostre  Università.  Quella  po- 
vera scienza  non  può  quivi  far  capolino  che  al  quarto  anno,  durante 
il  quale,  secondo  un  antico  e  impossibile  programma,  si  dovrebbero 
percorrere  i  vari  rami  della  medesima.  Il  professore,  ancorché  valen- 
tissimo, non   può   non   trovarsi    in    imbarazzo    per  le  strette  in  cui  è 


-542  — 

messo,  e  non  ha  modo  di  uscirne  che  facendo  quel  che  può  e  quel  che 
vuole.  Là  ne  avete  uno  che  si  occupa  di  una  sola  parte  del  corso,  la- 
sciandone ignorare  il  resto  ai  suoi  ascoltatori,  che,  s'intende,  dovreb- 
bero essere  anche  in  questo  da  lui  ammaestrati:  qua  ne  trovate  invece 
un  altro  che  tratta  alla  meglio  un  po'  di  tutto,  un  po'  di  arte,  un  po' 
di  epigrafia,  un  po'  di  numismatica.,  un  po'  di  costumi,  ecc.,  spac- 
ciandosene in  quelle  poche  lezioni  dell'anno,  e  per  conseguenza  con  la 
maggior  brevità  possibile.  In  conclusione,  il  professore  eletto  a  quel 
compito  non  deve  che  fare  almeno  sembiante  di  compiere  ciò  che  è  ri- 
chiesto dall'ordinamento  generale  dei  corsi  suddetti,  ed  agevolare  il 
modo  ai  laureandi  di  passare  anche  nel  corso  di  archeologia  un  esame 
comunque.  I  giovani  naturalmente,  salvo  poche  eccezioni,  non  possono 
prendervi  interesse,  perchè  non  ne  hanno  il  tempo;  i  più  lo  seguono 
per  mero  obbligo,  non  ne  intendono  a  dovere  né  l'utilità,  né  l'impor- 
tanza, e  delle  poche  e  mal  digerite  nozioni  acquistate  in  quel  solo  quarto 
anno,  appena  ottenuti  i  punti  necessari  ai  conseguimento  del  diploma 
finale,  il  maggior  numero  di  essi  non  può  giovarsi  o  non  crede  oppor- 
tuno di  serbar  memoria  negli  anni  avvenire.  Cosicché,  esclusa  affatto 
dall'insegnamento  secondario,  tollerata  per  convenienza  o  per  necessità 
nelle  aule  universitarie,  è  naturale  che  il  pubblico  giudichi  al  modo 
che  dissi  la  sfavorita  scienza  degli  antichi  monumenti  ;  è  naturale  che 
i  veri  cultori  della  medesima  addivengano  sempre  più  scarsi  dinu.mero; 
non  è  a  meravigliare  infine  che  dai  Musei  di  antichità  non  si  ritragga 
a  prò  dei  giovani  studenti  italiani  quell'utilità  scientifica  che  si  do- 
vrebbe e  potrebbe.  Non  v'ha  dubbio,  che  se  il  corso  degli  studi  classici 
s'immedesimasse,  per  dir  cosi,  con  le  reliquie  monumentali  in  essi  con- 
servate, mediante  un  sodo  insegnamento  filologico-archeologico,  da  un 
lato  il  futuro  professore  di  lettere  ne  uscirebbe  più  erudito  e  più  forte, 
e  dall'altro  ci  metteremmo  meglio  in  condizione  di  avere  finalmente  in 
Italia  i  filologi  e  gli  archeologi  capaci  d'interpretare  e  illustrare  ciò  che 
di  antico  è  venuto  e  verrà  fuori  dal  suolo  della  Penisola, 

Ora,  stando  le  cose  qui  da  noi  nella  guisa  che  accennai,  chi  mai 
avrebbe  osato  d'intromettere,  per  es.,  nelle  risposte  aWinchiesta  sul- 
ristruponi  secondaria  che  sta  facendosi  per  ordine  del  Governo,  qual- 
che avviso  tendente  ad  accordare  nelle  scuole  classiche  preparatorie  al- 
l'Università, un  posticino,  sia  pur  modestissimo,  allo  studio  dei  monu- 
menti di  antichità?...  A  dare  ivi  un  po'  d'iniziamento  agli  studi  di  ar- 
cheologia?,.. In  mezzo  alle  idee  materialiste  che  ci  stringono  da  ogni 
lato,  di  fronte  alfopposizione  più  o  meno  palese  che  incontra  tutto  ciò 


-  543  — 

che  inclina  ad  allargare  il  dominio  delle  lettere,  della  filosofia,  dell'este- 
tica sotto  qualunque  forma  si  presenti,  con  la  schiera  compatta  e  nume- 
rosissima, che  ci  sta  dinanzi  nelle  scuole,  dei  combattenti  per  l'unica 
mira  del  guadagno,  con  la  trista  disposizione  che  si  scorge  negli  animi 
dei  giovani  lontani  atiatto  dal  più  alto  concetto  di  studiare  per  la 
scienza  e  non  unicamente  per  il  lucro  professionale  o  lo  stipendio  av- 
venire, in  mezzo  a  tutto  questo,  voleva  dire,  colui,  che  si  fosse  presen- 
tato alla  Commissione  od  al  Governo  con  una  proposta  di  quel  genere, 
si  sarebbe  detto  che  veniva  dall'altro  mondo.  Fortunatamente,  per  quei 
poveri  illusi  che  persistono  in  Italia  nel  credere  all'importanza  degli 
studi  classici,  filologici,  archeologici,  alla  necessità  di  rialzarli  e  soste- 
nerli nel  nostro  paese,  viene  a  quando  a  quando  un  po'  di  conforto  dal- 
l'esempio di  altre  nazioni,  dalla  parola  di  dotti  stranieri.  Se  ciò  non 
vale  a  mutar  lo  stato  delle  cose  fra  noi,  giova  almeno  all'animo  dei  pochi 
cultori  di  siffatti  studi,  li  incoraggia  a  spendere  nuove  parole,  ancorché 
vane,  in  prò  dei  medesimi,  persuadendoli  che  non  hanno  poi  bisogno  di 
uscire  dal  mondo,  che  tutti  abitiamo,  per  trovare  chi  intenda  il  loro 
linguaggio,  dia  ragione  alle  loro  idee,  e  possa  far  conto  dei  loro  senti- 
menti scientifici.  Basterà  che  essi  passino  le  Alpi,  al  di  là  delle  quali, 
in  fatto  di  sludi  archeologici,  ciò  che  qui  sembrerebbe  un  sogno,  una 
impossibilità,  una  follia,  è  riguardato  invece  come  un  eìemento  indis- 
peniabife  al  p^^scsso  di  una  compiuta  e  force  istruzione  classica  nel 
giovine,  necessario  a  tener  alto  il  livello  della  cultura  intellettuale  della 
nazione. 

Essendomi  occorso  in  questi  dì  un  conforto  di  quella  fatta,  non  ho  sa- 
puto rassegnarmi  a  lasciarlo  passare  senza  farne  partecipi  almeno  i  let- 
tori di  queste  pagine,  e  toglierne  motivo  ad  accennar  di  volo  idee  e  de- 
sideri di  antica  data.  —  In  una  delie  migliori  riviste  di  Parigi  !a  Kevue 
Archéologique,  il  signor  G.  Perrot,  collega  del  mio  chiaro  amico 
A.  Bertrand  nella  direzione  della  medesima,  antico  membro  della 
Scuola  di  Atene,  archeologo  e  professore  valentissimo,  autore  del  Viai,^- 
gio  archeologico  in  Galapa,  Bitinia,  ecc.,  nel  prendere  ad  esame  l'ec- 
cellente libro  di  Michele  Bréal  su\\'lstru!(ione  pubblica  in  Francia  e  nel 
farne  rilevare  il  gran  pregio  in  ordine  al  metodo  che  egli  vorrebbe  se- 
guito per  l'insegnamento  delle  lingue  classiche,  espone  le  seguenti  con- 
siderazioni :  (i) 

«4  Dans  ces  études  ou  doit  dominer  désormais  la  méthode  historique, 

(i)  9?eu.    "Virchcol.  1873,  ianvicr.  rag,  70-71. 


„.  544  — 

ne  devons-nous  pas  rechercher  tour  ce  qui  peut  rapprocher  de  nous 
l'antiquité  er  lui  rendre  un  caractère  réel  et  vivant,  que  ne  suflisent 
point  à  lui  donner  les  textes  des  auieurs?  Par  malheur,  il  nous  est  im- 
possible  de  conduire  tous  nos  élèves  de  rhétorique  visiter  Herculanum 
et  Pompei;  mais,  sans  donner  le  méme  éblouissement,  cette  méme  hal- 
lucination  de  la  vie  antique,  un  peu  d'archeologie,  mélée  avec  discré- 
tion  à  l'explication  des  auteurs,  interesse  singuliOirement  une  classe, 
nous  l'avons  souvent  éprouvé  come  professeur.  Les  personnages  des 
historiens  et  des  poetes  sortent  ainsi  du  nuage  où,  pour  la  plupart  des 
esprits,  ils  avaient  jusque-là  comme  flotte  entre  ciel  et  terre,  ombres 
vides  et  pales, 

veKÙuJv  à|i6VTivà  Koipriva, 

ils  redescendenl  jusqu'à  nous  et  leurs  pieds  posent  sur  le  sol,  leurs 
traits  se  dessinent  et  se  colorent.  C'est  une  des  voies  par  lesquelles  on 
méne  le  plus  aisément  ies  jeunes  gens  à  deviner  la  grande  loi  qui  do- 
mine touie  recherche  historique,  la  constance  des  rapports,  l'idée  que 
le  fond  de  l'homme  n'a  pas  varie,  que  de  tout  temps  des  railieux,  des 
situations  analogues  ont  affecté  et  affecteront  de  la  méme  manière  la 
nsture  humaine.  Il  est  mèrae  tei;;  esprits,  auxqueis  Homère  etVirgile, 
Hérodote,  Tite-Live  ou  Tacite  n'avaient  rien  dit  jusqu'alors,  et  qui 
tout  d'un  coup  se  prennent  à  l'antiquité  par  cet  endroit;  ils  ont  l'ima- 
gination  plastique  ;  quelques  dessins,  quelques  médailles,  quelques  bi- 
joux  qu'on  leur  t'ait  passer  sous  les  yeux,  quelques  promenades  au  Mu- 
sée  des  antiques  leur  en  apprennent  plus  que  ces  textes  sur  lesquels  ils 
se  trainaient  depuis  des  années,  un  peu  par  la  faute  de  leurs  maltres, 
sans  les  avoir  jamais  pris  au  sérieux,  sans  presque  s'étre  doutés  que  Pé- 
riclès  et  Démosthène,  Philippe  et  Alexandre,  Cicéron  et  Cesar,  Au- 
guste et  Trajan,  ont  été  des  hommes  en  chair  et  en  os,  dont  les  succès 
et  les  revers,  les  sentiments  et  les  ouvrages  s'expliquent  par  les  mémes 
raisons  et  doivent  se  juger  d'après  les  mémes  règles  que  s'il  s'agissait 
de  personnages  des  temps  modernes.  » 

Queste  parole  sono  d'oro.  Non  so  come  si  potrebbe  porre  in  chiaro, 
meglio  di  quel  che  esse  non  fanno,  l'utilità  dell'associazione  degli  studi 
archeologici  ai  corsi  classici,  in  dose  avveduta  e  discreta,  anche  nelle 
scuole  secondarie;  ed  io  avrei  voluto  posseder  la  penna  e  l'autorità 
scientifica  di  quell'illustre  archeologo  per  potere  largamente  esporre  lo 
stesso  concetto  e  richiamare  su  di  esso  l'attenzione  di  chi  era  in  grado 
di  applicarlo,  allorché  nella  Nuova  Antologia  del  marzo  1869  osai  di 


—  545  — 
darne  cenno,  mosso  unicamente  dal  bisogno  di  dire  ciò  che  mi  sugge- 
risce l'amore  della  scienza,  ma  con  la  certezza  che  nessuno  si  sarebbe 
dato  il  menomo  carico  né  di  approvarlo,  né  di  contraddirlo.  Oggi 
però  che  ci  vengono  da  uno  dei  paesi,  che,  in  questo,  se  ne  intendono 
più  di  noi,  parole  così  giuste  e  così  confortanti  per  le  idee  che  da 
lunga  mano  probabilmente  sono  maturate  anche  nella  mente  dei  miei 
colleghi,  si  cadrebbe  in  colpa  di  noncuranza  o  di  abbattimento  d'animo, 
se  non  ce  ne  giovassimo  per  il  destro  di  richiamare  l'attenzione  del 
Ministero  su  questo  punto  interessantissimo  degli  studi  di  cui  parliamo; 
e  ciò,  sia  per  l'accesso  che  potrebbe  essere  accordato,  come  si  disse, 
nelle  scuole  secondarie  ai  primi  rudimenti  archeologici,  o  piuttosto 
all'esame  pratico  di  qualche  serie  di  antichi  monumenti  messo  d'ac- 
cordo con  l'esposizione  della  storia  antica  e  delle  due  principali  let- 
terature del  mondo  classico,  sia  per  le  riforme  che  sarebbero  neces- 
sarie nell'ordinamento  del  corso  di  archeologia  greco-romana,  quale 
è  stabilito  nella  maggior  parte  delle  primarie  nostre  Università.  Con 
pivi  coraggio  adunque  vengo  oggi  ad  affermare  che  ambedue  i  consigli 
meritano  di  esser  presi  in  considerazione,  e  specialmente  poi  il  se- 
condo. In  fatto,  giova  il  ripeterlo,  noi  non  otteniamo  al  presente  da 
quel  corso  che  un  lieve  esame  di  più  per  i  futuri  dottori  di  lettere.  Se 
vogliamo  però  all'incontro  veder  soddisfatto  il  desiderio,  il  bisogno 
sovra  esternato,  che  esso,  cioè,  ci  fornisca  archeologi  e  filologi  ben 
basati  e  bene  av\'iati,  pronti  a  rendere  la  vita  ad  ogni  antico  avanzo 
che  torna  in  luce,  capaci  di  sottrarre,  con  il  mezzo  più  efficace  della 
parola,  le  nostre  raccolte  di  antichità  a  quel  mistero  in  che  sono  av- 
volte, almeno  per  la  maggioranza  di  coloro  che  le  visitano,  a  divul- 
garne i  legami  con  la  storia,  con  l'arte,  con  la  lingua,  con  la  geografia, 
con  i  costumi,  con  i  governi,  con  la  grandezza,  con  la  decadenza  delle 
nazioni  che  furono,  se  vogliamo,  ripeto,  raggiungere  questo  scopo,  ci 
occorrono  mutamenti  nelle  Università.  Meglio  stabilito  ed  allargato 
per  mezzo  di  essi  (purché  ben  fatti)  l'insegnamento  delle  antichità 
scritte  e  figurate  e  insieme  quello  della  filologia,  noi  potremo  avere 
anche  dai  Musei  epigrafico-archeologici  quei  risultati,  quei  benefizi,  che 
gli  studi  di  altro  genere,  come  la  ideologia,  Vanatomia  comparata, Ja 
mineralogia,  la  fisica,  la  chimica,  ecc.,  sanno  cavare  dalle  collezioni 
scientifiche  ad  essi  attenenti.  È  così  che  la  Germania  conta  ogni  anno 
fra  i  suoi  prodotti  universitari  una  serie  di  giovani  filologi  ed  archeo- 
logi atti  a  salire,  senza  molto  indugio  e  con  solido  pie,  sulle  cattedre 
delle  sue  Università,  ed  a  mettersi  all'opera  per  fornire,  alla  lor  volta, 


—  546  - 

la  scienza  di  nuovi  maestri.  Profondità  di  cultura  storico-letteraria, 
larga  conoscenza  e  dimestichezza  con  la  lingua  ed,i  testi  dei  classici, 
esame  critico  dei  monumenti  nei  Musei  ed  c;,ercitazioni  pratiche  sui 
medesimi  congiunte  all'esposizione  teorica  delle  dottrine  deha  scienza 
con  quell'ampiezza  che  essa  addinianda,  ecco  le  basì  principali  degli 
splendidi  successi  delle  passate  scuole  di  C.  O.  Miiller,  di  F.  G.  Wel- 
cker,  di  E,  Gerhard,  di  O.  Jahn,  di  A.  Boeckh,  ecc.,  ed  ecco  come  si 
tengono  alte  ai  nostri  dì  quelle  di  Ritschl,  di  Michaelis,  di  Mommsen, 
di  OvcTbeck,  di  E.  Brunn,  di  A.  Gonze,  ecc.  Aggiungasi  che  tanto  la 
Germania  da  lungo  tempo,  quanto  la  Francia  più  di  fresco,  convinte 
ambedue  della  necessità  di  dare  un  largo  sviluppo  allo  studio  di  quei 
mirabili  documenti  dell'antica  storia,  ci  pruovano  col  fatto  the  esse 
non  potrebbero  bene  adempiere  quello  scopo,  qualora  non  si  giovas- 
sero delle  nostre  grandi  ricchezze  di  monumentali  reliquie.  11  governo 
francese  decretava  testé  che  i  membri  della  scuola  francese  di  Atene, 
prima  di  trasferirsi  in  Grecia,  dovranno  soggiornare  d'ora  innanzi  un 
anno  intero  in  Italia,  ed  uno  scienziato  eletto  a  posta  sarà  incaricato 
di  fare  a  Roma,  per  l'istruzione  di  quei  giovani,  un  corso  di  archeo- 
logia, secondo  un  programma  proposto  d'dìì'Q/lccademia  d'iscnponi  e 
belle  lettere.  Ed  a  molti  lettori  di  questa  1<Jvis!a  è  ben  noto  che  la  Ger- 
mania nel  mandare  periodicamente  iill'estero  per  un  viaggio  scientifico  di 
qualche  anno  un  certo  numero  di  giovani  dottori,  già  provvisti  nelle 
scuole  tedesche  di  una  solidissima  erudizione,  li  fa  sostare  abbastanza  lun- 
gamente in  Italia  e  massime  in  Roma,  affine  di  compierne  l'educazione 
filologica  ed  archeologica  per  mezzo  di  ricerche  ad  essi  indicate,  e  di 
lezioni  date  sui  monumenti  della  capitale,  e  dei  suoi  Musei,  dai  diret- 
tori deirinstituto.  E  noi  Italiani  che  ci  troviamo  circondati  da  questi 
tesori  archeologici  a  cui  copiosamente  attingono  le  altre  nazioni,  noi, 
che  ci  troviamo  possessori  di  questi  tesori,  raccolti  in  casa  nostra, 
perduriamo  tranquilli  in  un  grado  sconveniente,  inesplicabile  di  po- 
vertà di  studi  e  di  risultati  di  fronte  soprattutto  alla  Germania  !  !...  Dalla 
qual  povertà  o  almeno  inferiorità  non  ci  tireremo  mai  fuori,  se  non 
si  toglie  di  mezzo  (torniamo  lì)  la  causa  principale,  che  è  il  meschino 
e  male  ordinato  insegnamento.  Posto  che  a  questo  non  vogliasi  prov- 
vedere dietro  concetti  ben  definiti,  ben  chiari,  la  scienza  del  'Visconti, 
dei  Marini,  dei  Borghesi,  dei  Lanzi,  dei  Cavedoni,  andrà  sempre  più 
decadendo  fra  noi.  Né  varrebbe  l'obbiettarmi  che  l'Italia  conta  anche 
a  questi  dì  archeologi,  a  cui  fanno  di  cappello  i  dotti  di  tutte  le  altre 
nazioni.  Ciò  non  può  attenuare  in  nulla  la  forza  di  questi  lamenti;  né 


-  547  — 

per  le  pochissime  eccezioni  sì  oserà  giudicar  buono  il  sistema,  e  mi- 
gliore di  quel  che  a  me  non  sembra  l'aspetto  generale  delle  cose.  Le 
illustrazioni  scientifiche,  che  abbiamo  l'onore  di  possedere,  debbono  la 
posizione,  a  cui  sono  giunte,  ai  loro  studi,  ai  loro  sforzi,  alle  loro  ri- 
cerche individuali.  Nulla,  o  quasi  nulla,  essi  hanno  certamente  che 
lare  col  pubblico  sistema  d'insegnamento  classico,  non  pur  presente 
ma  passato;  e  nessuno  certamente  perverrà  mai  a  dimostrarmi  che  il 
sistema,  contro  cui  parlo,  varrebbe  a  darci,  non  dirò  un  Minervini, 
un  De  Rossi,  un  Fiorelli  (che  questa  è  merce  rara  dappertutto],  ma 
anche  un  solo  dei  migliori  scolari  del  Brunn,  del  Ritschl,  del  Mommsen, 
del  Gonze  e  di  altri  professori  che  potrei  citare. 

Senza  andar  più  oltre,  vengo  ora  adunque  ad  esporre  succintamente, 
e  in  misura  molto  parca,  alcuni  de'  miei  voti.  —  Sperando,  che  in  or- 
dine allo  studio  delle  due  grandi  letterature,  il  risultato  dell'inchiesta 
aeoDa  condurre  ad  allargarlo  ed  assodarlo  negl'istituti  classici,  io 
muovo  dalla  supposizione  che  sia  da  quind'innanzi  migliore  e  più 
forte  di  quello  che  è;  altrimenti  sarebbe  vana  ogni  mutazione  nelle 
scuole  superiori.  Ciò  premesso  torno  sul  già  manifestato  desiderio 
d'interessare  i  giovani  fino  dal  ginnasio-liceo  ai  monumenti,  che,  come 
l)en  dice  il  Perrot.  >eur  en  apprenntvt  plus  quc  ces  textes  sur  lesquels 

ils  se  trainaient  depuis  des  années sans  les  avoir  jamais  pris  au 

sérieux.  Si  formino  qua  e  là,  come  nei  ginnasi  tedeschi,  delle  piccole 
collezioni  di  s^essi^  riproducenti  antichi  personaggi,  antichi  avveni- 
menti, antichi  utensili,  antiche  opere  di  arte,  antiche  iscrizioni,  ecc.  1 
corsi  di  storia  naturale  non  hanno  i  loro  piccoli  Musei  nei  nostri 
stabilimenti  secondari?  Perchè  non  potrebbe  in  conseguenza  aversi 
qualche  cosa  di  simile  per  il  giovamento  dei  corsi  classici?...  I  pro- 
fessori di  storia  antica,  di  lettere  greche  e  latine  potrebbero  valersene 
per  chiarire,  raffrontare,  ed  ampliare  le  loro  esposizioni,  i  loro  com- 
menti. —  Nelle  Università  poi,  almeno  nelle  principali,  si  suddivida 
e  si  determini  chiaramente  nelle  sue  partizioni  l'insegnamento,  che 
ora  e  tutto  compreso  in  quel  Corso  di  Archeologia  del  solo  quarto 
anno  del  corso  generale  di  lettere.  E  qui  comincierei  dal  lasciar  da 
pwirte  il  titolo  >?enerico  di  Corso  di  Antichità  Greche  e  Romane,  che 
in  qualche  Università,  per  es.  a  Roma,  ha  preso  il  posto  dell'altro 
di  Corso  di  Archeologia,  e  che  addimostra,  secondo  il  n)io  povero 
avviso,  poca  chiarezza  nei  concetti,  che  si  hanno  in  Italia  in  ordine 
al  migliore  e  più  pratico  ordinamento  di  una  scuola  di  questa  fatta. 
Si  è  prefento,  a  quanto  pare,  quel  titolo  in  seguito  dcll'otiimo  pen- 


—  548  — 
siero  di  cominciare  a  dividere  maggiormente  le  materie  nella  Facoltà. 
Ma  la  preferenza  non  tu  felice.  Quel  nome  lascia  in  dubbio,  anche 
più  deiraltro,  se  essa  cattedra  debba  trattare  o  di  arte,  o  di  J5/ifwfiowt, 
o  dei  monamenti  epigrafici,  numismatici,  ecc.,  o  di  tutte  queste  cose 
insieme,  press'a  poco  come  l'omonimo  dizionario  del  Rich  e  delio 
Smith.  Chi  vi  sale  o  si  prepara  a  salirvi  la  potrà  rivolgere  da  quel 
lato  che  gli  parrà  ;  forse  accadrà  che  ei  tolga  a  sé  una  parte  dell'inse- 
gnamento generale  diversa  da  quella  che  dovrebbe  esporre,  secondo 
il  programma,  o  almeno  la  mente  del  Ministero  ;  e  il  giovane,  come 
al  solito,  rimarrà  con  idee  sconnesse  e  incomplete  riguardo  a  questa 
povera  scienza,  su  cui  sembra  che  pesi  la  fatalità  di  non  potersi  met- 
tere in  buon  assetto  nelle  nostre  scuole.  Mi  si  risponderà  che  anche 
il  xMommsen  a  Berlino,  per  es.,  tratta  in  qualche  semestre  delle  anti- 
chità romane;  ma  in  questo  caso,  come  in  altri  consimili,  è  il  nome 
del  professore  e  l'insieme  del  suo  ,  insegnamento  che  tolgono  subito 
di  mezzo  ogni  dubbio,  e  vi  mettono  nella  certezza  che  la  serie  mo- 
numentale, di  cui  principalmente  ei  si  giova,  è  il  gran  corpo  delle 
iscrizioni,  e  che  dai  suo  corso  si  sarà  ammaestrali  precisamente  sulle 
instituzioni  politiche,  amministrative,  militari,  ecc.  dell'antica  Roma. 
Lo  stesso  dicasi  dell'Hubner,  altro  epigrafista  di  primo  rango  nell'U- 
niversità di  Berlino;  mentre  al  contrario,  quando  veggo  il  Gerhard, 
il  Friederichs  e  simiti  trattare  delle  Greche  antichità,  dal  loro  nome 
e  da  tutto  il  rimanente  dei  loro  corsi  capisco  subito  che  lo  studio 
àf^Warte  antica  ne  ò  la  base  principale.  Del  resto  il  così  detto  index 
lecticniim  delle  Università  di  Germania,  e  di  quelle  che  a  loro  somi- 
gliano, presenta  una  così  ampia  divisione  di  materie,  e  una  specifi- 
cazione così  esatta  delle  medesime,  che  non  saprebbesi  veramente 
cavar  di  là  un  esempio  per  dar  ragione  del  titolo  di  cui  abbiamo 
parlato,  e  che  vorremmo  escluso.  —  Noi  non  possiamo  estenderci 
di  molto  con  le  suddivisioni,  per  il  difetto,  in.  cui  siamo,  di  uomini 
e  di  quattrini.  Si  muova  almeno  innanzi  rutto  dal  concetto  delle  due 
grandi  divisioni  delle  antichità  monumentali,  in  letterate  ed  artistiche, 
o  scritte  e  figurate.  Si  lasci  al  nome  di  archeologia,  per  essere  me- 
glio intesi  da  tutti,  il  significato  che  gli  si  è  attribuito  nelle  scuole  te- 
desche ed  anche  in  Francia,  relativo  principalmente  alVarte,  come  ne 
fanno  fede  fra  gli  altri  il  notissimo  Handbuch  di  C.  O.  Mùller,  le 
Coiirs  d'archeologie  di  R.  Rochelte  e  di  Beulé  alla  Biblioteca  Nazio- 
nale a  F*arigi;  e,  dietro  questa  norma,  si  stabilisca  in  primo  luogo 
un   corso  i)   cui  argomento  sia   l'arte  greca  e  romana  {architettura. 


—  549  — 
scultura,  pittura,  glittica,  ecc.,  e  arti  affini)  e  insieme  Vetrusca  e  Van- 
tico-italica  sì  perchè  in  Italia  non  possono  nerarnen  queste  lasciarsi 
in  obbifo,  e  sì  per  i  legami  che  esse  hanno  con  la  Grecia,  con  Roma, 
con  il  Lazio.  Il  titolo  di  Corso  di  archeologia  classica  sarà  chiaris- 
simo, ed  anche  più  quello  di  archeologia  deWarte  adottato  dal  chia- 
rissimo professore  Stark  per  il  suo  nuovo  Manuale  ;  né  senza  ragione 
v'inclusi  V antico-italica,  giacché  ormai  è  noto  che  nella  Penisola  (come 
in  Grecia)  si  presentano  le  norme  di  un'arte  precedente  Vetrusca  della 
quale  si  terrà  conto  anche  nell'opera  testé  citata  dello  Stark  ai  capi- 
toli 43-44,  ecc.,  tomo  secondo.  Colui  che  assume  quell'insegnamento 
(e  per  conseguenza  il  giovine  che  va  ad  ascoltarlo)  saprà  benissimo 
qual  è  la  serie  di  monumenti  di  cui  deve  occuparsi,  quale  parte 
della  Storia  antica,  nonché  della  Geografia  e  Topografia,  dovrà  rial- 
legare ai  medesimi,  quale  è  il  corredo  di  dottrina  di  cui  debbe  esser 
fornito.  Egli  avrà  senza  dubbio  capito,  com'ei  debba  conoscer  l'Oriente 
almeno  per  le  origini  e  i  primi  periodi  dell'arte  greca;  tener  conto  della 
Numismatica  per  l'importanza,  varietà,  bellezza,  idealismo  e  indivi- 
dualità dei  tipi  monetari  ;  della  letteratura,  filologia  e  epigrafia  affine 
di  trarne  giovamento  e  sussidio  alla  storia  dei  monumenti,  alla  de- 
terminazione dell'età  dei  medesimi,  alla  storia  in  genere  dell'arte  per 
i  monumenti  perduti;  punti,  in  ordine  ai  quali  gli  antichi  scrittori,  i 
poeti  classici,  le  iscrizioni  e  le  loro  forme  alfabetiche  costituiscono,  come 
ben  lo  dichiarava  il  Gonze  in  una  sua  prelezione  all'Università  di 
Vienna  (i),  costituiscono  (dico)  una  base  indispensabile  di  buona  critica, 
di  sana  interpretazione,  di  retto  giudizio.  Non  posso  poi  nemmeno  du- 
bitare, che  il  professore  destinato  aìVarcheologia  non  sia  persuaso  della 
necessità  di  esser  dotto  alquanto  nella  Mitologia,  non  per  allargarsi 
oltre  misura  nelle  ricerche  delle  antiche  rappresentanze  mitiche  e  per 
invadere  il  campo  della  Storia  delle  religioni  spettante  anche  ad  altri 
rami  della  scienza  delle  antichità,  ma  soprattutto  per  i  rapporti  della 
mitologia  stessa  con  l'arte  e  le  sue  forme,  per  l'ideale  artistico  degli 
Dei,  degli  Eroi,  e  di  tutto  il  loro  séguito,  il  carattere  e  la  storia  dei 
loro  miti,  il  costume  che  ad  essi  conviene.  Questo  Corso  di  archeo- 
logia dovrebbe  essere  almeno  biennale;  e  dico  almeno,  giacché  se  il 
numero  delle  lezioni  di  un'ora  dovesse  rimanere  così  ristretto  come 
lo  è  di  presente,  due  anni  non  potrebbero  mai  essere  sufficienti.  —  Ve- 


(1)  Ueber  die  Bedcutung  der  classischen  Archàologie,  Wien,  1869.  V.  su  di  essa  HOnsKH 
ntWArch.  Zeit,,  1869,  p.  92-93. 


-  550  -  - 
niamo  ora  all'altra  serie  di  ammaestramenti  sul  mondo  greco-romano, 
che  non  è  compresa  affatto,  o  che  lo  è  solo  indirettamente,  nel  Corso 
di  cui  ho  parlato.  Per  questa  passa  in  primo  rango,  delle  diverse 
classi  di  antichi  monumenti,  soprattutto  quella  degli  epigrafici.  Le 
istituzioni  pubbliche  e  private  della  Grecia  e  di  Roma,  l'amministra- 
zione civile,  l'ordinamento  militare,  l'organizzazione  politica,  gli  sta- 
bilimenti di  beneficenza,  la  finanza,  Teconomia  pubblica,  il  corso 
degli  onori,  la  cronologia,  la  storia,  il  culto,  la  paleografia,  ecc., 
trovano  nei  grandi  corpi  d'iscrizioni,  che  oggi  pos.sediamo,  un  tale  com- 
plesso di  documenti  da  potersi  quasi,  anche  solo  con  essi,  esporre  pie- 
namente tutte  quelle  materie,  le  quali  poi  ad  ogni  modo,  senza  le 
iscrizioni,  e  con  la  sola  guida  degli  antichi  scrittori,  sarebbe  presen- 
temente impossibile  di  ben  trattare.  Questa  parte  del  Corso  di  anti- 
chità potrebbe  anche  essere  ricongiunta  ai  Corso  di  storia  antica 
Greca  e  Romana,  dividendo  in  questo  la  Grecia  da  Roma,  onde  am- 
bedue le  storie  in  tutte  le  loro  particolarità,  considerevolmente  arric- 
chite dalle  grandi  scoperte  epigrafiche,  potessero  essere  esposte  con 
quell'ampiezza  e  con  quella  critica  che  oggi  richiedesi.  Ma  questa  as- 
sociazione, che  sarebbe  molto  naturale,  e  che  in  Germania  si  trova 
nelle  materie  speciali  messa  in  pratica,  forse  da  noi,  almeno  per  ora, 
potrebbe  tornare  a  danno  dello  studio  e  della  conoscenza  del  vero  va- 
lore degli  antichi  monumenti  epigrafici,  di  cui  siamo  così  ricchi  nei 
nostri  Musei.  Ond'è  che  mi  pare  preferibile  l'adottare  un  altro  inse- 
gnamento speciale  col  titolo  di  Corso  di  epigrafia  e  di  Numismatica 
applicato  allo  studio  delle  istitu^iorii  pubbliche  e  private  della  Grecia 
e  di  Roma;  titolo  il  quale  mi  pare  che  debba  mettere  egualmente 
tanto  il  professore  quanto  lo  studente  nel  concetto  chiaro  di  ciò  che 
hanno  alla  lor  volta  da  insegnare  e  da  apprendere.  Se  insisto  su  questo 
punto  che  potrebbe  sembrar  superfluo,  si  è  perchè,  ripeto,  in  ordine 
a  studi  classici  e  di  antichità  le  idee  in  Italia  sono  alquanto  confuse; 
e  mentre  in  medicina  e  nelle  scienze  naturali  tutto  è  ben  determinato 
e  distinto,  nel  ramo  di  cui  parliamo  il  maestro  e  l'allievo  o  vagano 
troppo,  o  non  s'incontrano,  o  non  s'intendono.  Almeno  a  me  pare 
cos\,  e  perdoni  il  lettore  alla  mia  ristrettezza  di  mente  se  sono  in 
inganno.  II  professore  adunque,  a  cui  sarà  affidato  questo  secondo  corso 
dovrà  soprattutto  aver  coscienza  di  essere  buon  filologo,  esperto  numi- 
smatico ed  epigrafista,  e  sentirsi  munito  di  una  soda  erudizione  nelle  an- 
tiche opere  storico-politiche,  storico-legislative,  e  grammaticali  di 
ambedue  quelle  regioni,    i)   modello  di   questo   professore  dobbiamo 


-561  ~ 

vederlo  in  un  Borghesi,  in  un  Boeckh,  in  un  Mommsen,  in  un  Henzen 
e  simili;  e  se  potremo  averne  davvero  su  quel  tipo,  vedremo  subito 
di  che  bella  luce  sieno  capaci  risplendere,  anche  agli  occhi  dei  meno 
colti,  quei  marmi  e  quegli  armadi  di  cui  quasi  tutti  i  visitatori  dei 
Musei  sono  costretti  a  ripetere  neiranimo  •<  Non  ti  curar  di  lor,  ma 
guarda  e  passa  ».  Naturalmente  egli  dovrà  esser  dotto  anche  dei  mo- 
numenli  dell'arte  per  tutto  quello  che  si  riconnette  agli  usi,  costumi,  e 
pratiche  di  ogni  genere  attenenti  ai  detti  monumenti,  o  che  i  medesimi 
ci  rappresentano.  Dissi  poi  che  in  lui  richiedesi  anche  il  filologo,  e 
ciò  a  motivo  dei  rapporti  strettissimi  che  legano  la  filologia  alVepi- 
grafia,  senza  voler  per  questo  dare  ad  intendere  che  un  corso  di 
questo  genere  possa  valere  come  corso  di  filologia.  Non  mai.  Le  due_^-- 
lologie,  greca  e  latina,  eguaìmeniQ  che  V antico-italica,  dovrebbero  avere 
in  alcune  almeno  delle  nostre  prime  Università,  come  è  stabilito,  se- 
condo mi  dicono,  per  quella  di  Roma,  i  loro  corsi  speciali  separati 
da  quelli  delle  rispettive  letterature^  i  quali  sono  soprattutto  destinati  ad 
occuparsi  della  parte  estetica,  filosofica,  storica,  morale  dei  loro  classici 
prodotti.  La  biennalità  infine,  che  si  è  proposta  per  il  Corso  di  archeo- 
logia^ mi  pare  si  debba  assolutamente  ammettere  anche  per  quello  di  cui 
abbiamo  testé  ragionato.  —  Ma  basta  ormai  sull'argomento.  Che  se  del 
resto  le  modificazioni,  di  cui  manifestammo  il  desiderio  e  l'utilità, 
nell'insegnamento  della  scienza  degli  antichi  monumenti,  andassero 
congiunte,  per  es.,  in  ordine  allo  studente,  con  la  cessazione  dell'ob- 
bligo di  qualche  altro  corso,  meno  necessario  al  filologo  ed  all'archeo- 
logo, con  un  aumento  di  ore  nel  corso  di  lettere  greche  e  latine,  e 
di  filologia  o  grammatica  comparata,  con  la  introduzione  di  una  terza 
laurea  nella  facoltà,  cioè  la  laurea  <ii  filologia  e  archeologia,  avremmo 
certamente  fatto  qualche  passo  di  più  verso  quell'ordinamento  defi- 
nitivo, che,  sulle  norme  tedesche,  vivamente  auguriamo  per  le  nostre 
facoltà  filosofico-letterarie,  allo  scopo  di  non  rimanere  troppo  lungo 
tempo  discepoli  delle  altre  nazioni ,  alle  quali  avemmo  in  passato 
l'onore  di  esser  maestri. 

Torino,  aprile  1873, 

(jiAN  Carlo  Conestabile. 


—  552  - 

La  grammatica  storico-comparativa 
e  lo  insegnamento  ginnasiale  delle  lingue  classiche  giusta  M.  Bréal. 

Nella  a^vue  oArchéologique  di  febbraio  ultimo  scorso  leggiamo 
(p.  i22-i35ì  la  prelezione,  con  cui  il  chiarissimo  prof.  M.  Bréal  rico- 
minciò, addì  y  dicembre  5872,  il  suo  corso  di  grammatica  compara- 
tiva al  Collegio  di  Francia,  investigando  opportunamente  «  dans  quelle 
mesure  et  sous  quelle  forme  la  grammaire  cnmparée  peut  et  doit  étre 
introduite  dans  Ics  études  du  collège  ».  Vuoisi,  nota  il  Bréal,  innanzi 
tratto  distinguere  lo  insegnamento  del  latino  da  quello  del  greco.  «  Le 
latin  est  commencé  plus  tòt:  ce  soni  des  enfants  de  neuf  à  dix  ansa 
qui  nous  avons  affaire.  Le  latin  n 'a  pas  de  dialectes,  ou  plutòt  les  dia- 
lectes  qui  lui  faisaient  cortége  ont  éte  étoutTés.  ou  ne  nous  sont  par- 
venus  qu'en  courts  fragments  sans  valeur  littéraire.  Enfin  le  latin  est 
enseigné  le  premier,  de  sorte  que  tout  terme  de  coraparaison  autre 
que  le  francais,  qui   est   lui-méme   issu   du  latin,   manque   au   maitre 

comme  à  l'elève L'enfant   qui  comroence  le  latin  a  besoin  avant 

tout  d'apprendre  la  déclinaison  et  la  conjugaison.  »  Per  tutte  queste 
ragioni  la  grammatica  storico-comparativa  avrà,  almeno  nei  primi  anni, 
minor  parte  nello  insegnamento  del  latino  che  in  quello  del  greco  ed 
il  maestro  si  rivolgerà  prima  alla  memoria,  poi,  un  po'  più  tardi, 
alla  intelligenza  de'  suoi  allievi  coli' analisi  e  comparazione.  «  Je  ne 
veux  pas  dire  cependant,  soggiunge  il  nostro  autore,  c^ue  nos  écoliers 
de  sixième  et  de  cinquième  ne  doivent  pas  étre  touches  des  lumières 

de  la  grammaire  comparée ils  en  profiteront  sans  le  savoir,  comme 

l'enfant,  en  sucant  le  lait  de  sa  nourrice.  profite  des  aliments  qu'elle 
a  pris.  Quandce  ne  seraient  qu'un  certain  nombre  d'erreurs  dont  nos 
livres  classiques  seraient  débar'rassés,  nous  leur  aurions  déjà  renda  le 
service  de  ne  pas  les  obliger  à  désapprendre  un  jour  ce  qu'ils  ont  pris 
la  peine  de  retenir  »  come  suole  avvenire  anche  in  Italia.  Si  potrebbe, 
verbigrazia,  cessare  finalmente  d'insegnare  che  l'infinito,  il  supino,  il 
participio  sono  modi!!!  S;  potrebbero  avvezzare  gli  alunni  a  consi- 
derare attentamente  la  derivazione  dei  vocaboli,  come  già  fece  nel  1677 
in  P" rancia  Pietro  Danet  e  come  si  fa  nel  ginnasii  tedeschi.  Si  potrebbe, 
infine,  rendere  molto  più  razionale  lo  insegnamento  della  sintassi,  in- 
troducendo anche  in  esso,  anzi  soprattutto  in  esso,  il  metodo  storico. 
Così  il  Bréal.  Noi  crediamo  che  anche  il  primissimo  apprendimento 
del  latino  diventerà  più  facile  allorquando  si  sarà  messo  un  po'  d'or- 
dine vero  nelle  declinazioni  e  nelle  coniugazioni;  crediamo  che  a  que- 
sta prima  esposizione  elementarissima  della  grammatica  debba  tener 
dietro  una  seconda,  assai  meno  ristretta  e  più  conforme  alla  scienza; 
crediamo  che  si  debba  badar  molto  alle  attinenze  esistenti  tra  il  lin- 
guaggio latino  ed  i  neo-latini  d'Italia  e  di  Francia.  —  Cominciato  lo 
studio  del  greco  «  la  grammaire  comparée  pourra  trouver  utileraent 
des  applications  plus  multipliées  ».  Nondimeno,  osser/a  il  Bréal,  an- 
che in  questo  nuovo  studio  la  comparazione  ha  i  suoi  limiti.  Che  essa 
non  può  nelle  scuole  secondarie  essere  coltivata  per  sé  stessa,  ma  solo 
in  servizio  degli  studi  classici  ;  né  vuoisi  farla  precedere  allo  appren- 
dimento mnemonico  delle  forme;  né  puossi  aver  ricorso  allo  idioma 
sanscrito  od  all'ariano  primitivo,  cui  la  linguistica  odierna  tentò  rico- 
struire, idiomi  entrambi  affatto  ignoti  agli  scolari  dei  ginnasii;  né,  in 
ultimo,  è  possibile  l'analisi  delle  desinenze. 

L'autore  conchiude  notando  che,  indubbiamente,  tutti  i  maestri  di 
lingue  classiche  dovrebbero  conoscere  la  grammatica  comparativa.  Ciò 
dipende  dalla  istruzione  superiore:  vi  provveda  finalmente,  e  in  modo 
efficace,  il  governo  francese  e  l'italiano!  D.  Pezzi. 


Pietro  Ussello,  gerente  responsabile. 


—  553  — 

AD  ALEXANDRl  MAGNI  ITINERARIUM 
C0'7<iIECTU%AE 


Praeclarissimi  amici  humanitas  dono  mihi  misit  e  Ger- 
mania gratissimo  Itinerarium  Magni  Alexandri,  quod  Dide- 
ricus  Volkmannus  trecentesimo  daodetricesimo  anniversario 
gymnasii  Portae  dicavit,  cum  uno  superstite  Ambrosiano 
codice  denuo,  post  Angeli  Maii  editionem  principem  (i), 
diligentissime  coUatum,  plurimorum  emaculatum  opera  a 
Volkmanno  discriminata  (2).  Qui  cum  innumeras  voces  a 
librario  corruptas  prudenter  restituii,  tum  quattuor  saltem 
locis,  cruce  signatis,  scripturam  codicis  intactam  ac  litem 
interpretum  sub  iudice  reiiquit:  quos  proinde  novo  subiicere 
tentamini  et  licet  et  libet. 

I.  Primum  supplici!  interpretum  signum  prodit  in  prima 
periodo  opusculi,  quae  in  codice  Ambrosiano  ita  se  habet  : 

«  Dexirum  admodum  sciens  et  ome  tibi  et  magisterio 
«  fiiturorum,  DOMINE  CONSTANTI  bonis  melior  impe- 
«  rator,  si  orso  fcliciter  iam  accinctoque  persicam  expedi- 
«  tionem  ITINERARIVM  principum  eodem  opere  glorio- 
ft  sorum,  Alexandri  scilicct  magni  Traianique,  componerem, 
«  libens  sane  et  laboris  cum  amore  succubui,  quodque  -f  id 
«  rnrn  uelle  enim  id  et  exigit  suspensique  est,  quodque  re- 
ti gentium  prospera  in  partem  subditos  uocant.  » 


(1)  Med.jiani  MDCCCXVII. 

(2)  Einladungs-Pio';ìamm    zu  der...    Stifiungsfeicr    der  k.   Landes- 
schule  Pforta.  Naùoi-jurg  1871. 

liivisla   .1  filQic^ii\  ei:c.,  I.  37 


-564  - 

Dubium  articulum  interpretati  sunt: 
Maìus:  quodque  meum  uelie  enimuero  id  exigit  suspensique 

est, 
Peiperus:  quod  quìdem  meum   uelle  eniti  (?)   id   et  exigit 

suspensique  est, 
Kochiiis:  quodque  haud  magna  uelle  animi  perexigui   sus- 
pensique est, 
Kiesslingius  et  Guilelmus  Wagnerus:  id  denuere  vel  re- 

nuere  uelle  animi  et  exigui  suspensique  est. 

Nihil  in  articulo  mutandum  censeo,  nonnisi  compendium 
mm  rigido  nec  arbitrario  iure  explicandum: 

quodque  id  raagistrum  uelle  enim  id  et  exigit  suspen- 
sique est. 

Opus  gloriosum  persicae  expeditionis  nempe  a  magistro 
tironis  sui  exigit,  ut  id  velif,  et  magistrum  vacantem  a  pu- 
blicis  muneribus  (prò  sententia  Angeli  Mali)  itinerarium 
gloriosae  expeditionis  componere  decet.  Insolita  nota  mm 
prorsus  inexstricabilis  sive  in  arbitrio  lectoris  foret,  nisi  in 
ipsa  periodo  eadem  fere  vox  praecederet,  quae  paolo  post 
repetita  concise  scribi  posset.  Auctor  vero  Itinerarii  Ale- 
xandri  Magni  nccnon  vitae  fabulosae  ipsius,  quam  in  eodem 
volumine  Maius  prodidit,  in  prolegomenis  quae  gestis  fabu- 
losis  Alexandri  Magni  ex  gallico  sermone  in  vulgarem  nostrum 
Dantis  aetate  translatis  nuper  a  me  editis  (  i  )  adieci,  visus  mihi 
est  Polemiusconsulannip.  Ch.  n.  338,  qui  Alexandria  oriun- 
dus  bello  Achilleo  libertatem  amiserit ,  Constantii  Chlori 
servus  et  libertus,  Constanti  ni  Magni  a  secretis,  Gonstantii 
institutor  et  magister  fuerit.  Nec  a  tanto  viro,  quem  Atha- 
nasius  [Ad  Solit.  pag.  637)  inter  amicissimos  Constantii  co- 
mites  enumerat,  alienum  est  opusculum  suum  dextrum  et 
omini  et  magisterio  futurorum  eventuum  imperatori  prae- 


U)  1  nobili  fatti  d'Alessandro  Magno,  Bononiae,  Id.  decembr.  1872. 


-  555- 

dicare,  quod  alioquin  dedeceret  dedicantem  libertum  pariter 

ac  paironum  dedicatum.  —  Quodsi  Angeli  Maii  sententia 

de  verbo  suspensigue^  analogia  exempli  Ammiani  Marcellini 

suffulcita,  non  liqueat,  emendano  sui pensique  in  promptu  erit. 

2.  Alterum  locum  in  capite   XV    (VI)  turpiter  defor- 
matum  in  integrum  restitui  posse  diffisus  est  editor  : 

«  Multus  ad  imperia  difficultatum,  onercsior  tamen  exem- 
«  pli  proprii  irritamentis,  quoniam  bone  opere  praeueniri 
«  pudibile  ducebat,  iuuentae  munus  e  corpore  alacriter  pe- 
«  tens,  ipse  -f-  barbae  acutae  durior  et  cetera  candidus ,  et 
«  quae  sibi  sane  quisque  rectiub  consulat,  aut  ipsi  certe  im- 
«  peratori  uel  militi  uelit.  d 

Barbarae  uitae  coniecit  Vlriciis  de  'Willamowii\,  uerbis 
ac  \xìX3i  Kochius.  Nobis  placet:  iuuentae  munus  e  corpore 
alacriter  petens,  ipse  barbara  cute  durior;  ax  cetera  candidus 
Mt  ^Mz  quae  sibi  sane  quisque  rectius  consulat,  etiamì^si  etc. 

3.  Ad  finem  capitis  GV  editionis  principis,   XXXXVI 
Volkmanni,  in  codice  legitur: 

«  Ducenta  denique  triginta  boum  milia  ìllic  capta  formae 
«  merito  destinatuna  captiuis  Machedio  cultum  agrossuorum 
K  et  '\'  suascitum.  » 
Maìus  interpretatur:  Macedoniae  cultum  agros  suorum  et 

suosce, 
Kochius '.  suos  et  suorum  amicorum  aut  amicum, 
Volkmannus:  Macedoniam  etc,  adiungens:  equidem  in  nera 

lectione  inuestiganda  frustra  desudaui. 

Agros  familiarium  Alexandri  et  gentis  Macedonum  intel- 
ligendos  esse  iam  satis  patet;  restat  ut  vocabulum  novum, 
a  barbaro  Alexandrino  declinatum,  sobrie  explanetur  per 
analogiam.  Derivatum  mihi  videtur  sicut  nostras,  nostratis, 
vestras,  vestratis,  cuias,  cuiatis  a  suus  =z  suas,  suatis,  addita 
particula  intensiva  ce  =:  suasce,  quam  vocem  barbarus  de- 
clinaverit  suasce,  suascitis;  nisi  mavis  ce  niectare  genitivum 


-  556  — 
pluralis  suatiunty  cui  inserta   ore  parum  rotundo  litera  s, 
suastium^  et  sibilo  adaucto  et  i  transposila:  suascitum. 

4.  Quarto  loco  cruciat  caput  L  Volkmanni,  CXII-XIII 
editionis  Mediolanensis: 

«  Exim  magnas  Pecanum  et  Musicanum  regiones  exse- 
«  quitur  ac  sibi  congregat.  Petram  quoque  quae  Aornis  uo- 
«  catur  affectat,  cuius  proceritudo  sunt  stadii  quadringenti, 
«  supra  cultoribus  diues  ^au<f  minus  locupletibus  quam  se- 
ti curis  ;  et  est  ei  nomen  ex  celsitudine,  quam  nec  alites  su- 
«  peruolitent.  Sed  enim  hic  quoque  optinet  fìxu  uec^ium , 

«  uia  scansili  -f-  acsididas  petitam.  Nam magnitudine  cum 

«  primatibus,  quod  ultra  gentes,  quas  belio  idoneas  com- 
«  perisset  experire/«r.  Quo  aduersum  eas  animo  arderet  ? 
«  Milites  uero  ad  haec  ultra  laborcTW  uel  pericula  depreca- 
«  bantur,  annos  decem,  uulnera  et  suorum  desiderium  nu- 
«  merantes.  Data  igitur  fessìs  quiete,  uolentibus  utilur.  Suc- 
«  centuriari  tamen  dimissis  alios  e  patria  iubet.  Itaque 
«  uictoriae  auaritia  usus  oceanum  uenit  ». 

Cui  Volkmannus  notas  subiecit  :  quas  add.  Maius —  ^aui, 
cod.  aut  —  hic,  Maius  hanz  —  uec^ium  corr.  Maius  cod. 
ueccium  —  scansili  acsisidas  pentitam  cod.^  scansili  ac  in- 
sidiis  appetitam  {scribendum  erat  petitam)  Maius  parum 
probabiliter  ;  scansili,  at  ardua  petitam  Kochius  ;  codicis 
scripturam  intactam  reliqui,  dum  quis  meliora  protulerit 
—  Nam  magnitudine  cum  primatibus  cod.  lam  de  magni- 
tudine belli  ortus  est  questus  cum  primatibus  ' Maius  \  la- 
cunam  indicaui  • —  bello  cod.^  Helladi  Klugius  coli,  Ps. 
Callisth.  Ili,  I  —  quas  add.  Kochius.  —  comperisset  expe- 
rire  cod.^  coegisset  experiri  Maius,  compulisset  experiri  Klu- 
gius; in  conf or  mandi  s  uerbis  Kochium  secutus  sunt  —  quae 
cod.,  quo  Maius  —  labore  cod.  —  quieti  cod. 

Lacuna  sponte  evanescit,  dummodo  liceat  figmentum  cru- 
ciatum  aliter  explicare: 


-  557  — 
«  Exim  magnas  Pecanum  et  Musicanum  regiones  exse- 
(c  quitur  ac  sibi  congregat.  Petram  quoque  (Aornis  uocatur) 
((  affectat,  cuius  proceritudo  sunt  stadii  quadringenti,  supra 
«  cultoribus  diues  /laut  minus  locupletibus  quam  securis-, 
«  et  est  ei  nomen  ex  celsitudine,  quam  nec  alites  superuo- 
«  litent.  Sed  enim  hanc  quoque  optinet  fixu  uec/ìum,  uia 
«  scansili,  Ac  sic  I»d/'a^n  pene  totam,  Nam  magnitudine?» 
«  cum  ipnmum  e/us,  quo^  ultra  gentes  bello  idoneas  com- 
«  perìssewt  experir/,  quae  aduersum  eos  animo  arderewt, 
«  miiites  uero  ad  haec  ultra  laborem  uel  pericula  depreca- 
«  bantur,  annos  decem,  uulnera  et  suorum  desiderium  nu- 
<c  merantes.  Data  igitur  fessis  quiete,  uolentibus  utitur,  Suc- 
«  centuriari  tamen  dimissis  alios  e  patria  iubet,  Itaque  uìcta 
«  iam  Aornìde  uersus  oceanum  uenit.  » 

Veronae,  X.  Kai.  Maias  1873. 

JusTus  Grion. 


RESTAURAZIONE 

"DI    f/CNC   ETITAFIO   %OmAV^O 


Nello  scavo  della  via  Appia,  fatto  nel  i85i,  fu  scoperto 
ad  una  distanza  di  circa  quattro  miglia  da  Roma  un  se- 
polcro che  conteneva  le  ceneri  di  fratello  e  sorella  morti  in 
giovanile  età  e  dal  mesto  padre  in  un  bel  carme  elegiaco 
compianti.  La  lapide  rinvenuta  nel  sepolcro  ci  conservò  la 
iscrizione,  ma  non  mtiera,  poiché  nella  piij  grande  parte 
dei  versi  lettere  o  voci  sono  dal  tempo  cancellate.  E  gran 
danno  questo,  perchè  rcpitafio  appartiene  al  buon   tempo 


-  558  — 

della  poesia  latina,  e,  come  si  può  dedurre  dal  verso  sesto, 
risale  al  primo  secolo  dell'era  cristiana. 

Non  molto  dopo  la  sua  scoperta  una  copia  fedele  del  ti- 
tolo fu  spedita  al  Borghesi,  e  quelPillustre  epigrafista  tentò 
di  spiegarne  il  terzo  distico,  lasciando  ai  cultori  della  poesia 
latina  la  cura  di  restaurarlo,  impresa  secondo  lui  agevole, 
perchè  in  genere  il  senso  s'intende  bastantemente  e  perchè 
non  contiene  se  non  lamenti  comuni  a  tutti  i  genitori.  Questo 
parere  del  Borghesi  poco  tempo  fa  da  me  letto  nelle  sue 
Opere  (Tom.  V,  pag.  341),  colla  stessa  iscrizione  rivista  sulla 
pietra  dal  signor  Guglielmo  Henzen  (i),  accese  il  mio  ardore 
di  tentare  la  prova  della  restaurazione,  non  sapendo  che  fosse 
già  stata  fatta  da  altri.  Il  mio  saggio  non  dispiacque  a  giudici 
competenti,  ma  non  avrei  avuto  l'ardire  di  pubblicarlo,  se  non 
l'avessi  paragonato  colla  restaurazione  di  P.    E.   Visconti 


(i)  Pare  opportuno  riferire  qui,  per  comodo  del  lettore,  che  vo- 
glia fare  il  confronto,  la  lezione  sopraccitata,  proposta  dal  comra. 
Visconti  in  grazia  dell'illustrazione  della  lapide  pubblicata  dal  Bor- 
ghesi nell'appendice  dell'articolo  del  signor  Jacobini,  non  ignorando 
che  il  verso  5  avrebbe  così  un  piede  di  troppo.  Ecco  adunque  la 
lezione  : 

Hic  soror  et  frater  vìv{entis  damn)a.  par(e)ntis 

Aetate  in  prima  saev(a  rapi)nz  {iu!ì)t. 
Pompeia  his  tumulis  co{mes  ajnteit  {/ime)rìs, 

Haeret  et  puer  immites  que(m  rapuere)  Dei. 
Sex.  Pompeius  Sexti  Praec(o)  ii.[gnomine  ijusius 

<3;uem  tenuit  magn(t  maxima  honore  ^omjus; 
Infelix  genitor  gemina  [iam  prole  re/ijctus 

A  natis  spenrans  qui  ded(er??  titul]os  {sic) 
Amissum  auxiliunj  functae  post  [funera]  natae, 

Funditus  ut  traherent  invidfa  fata  /)arem. 
Quanta  iacet  probitas,  pie.tas  quam  ver  (a  sep]u\m  est! 

Mente  senes  aevo  sta  periere  [brev)\. 
Quis  non  fiere  tneos  casus  poasiiqv»e  dolore  {sic)l 

{Cur  rfjurare  queam  bis  datus  ecce  rogis? 
Si  sunt  Di  Manes  iam  nati  numen  habetis, 

Per  vos  cu(m)  voti  non  venit  hora  mei? 


-559  - 
adottata  dal  lodato  Henzen  ed  inserita  a  pagina  3i5  del 
volume  XXIV  degli  Annali  dell'Istituto  di  corrispondenza 
archeologica.  Ora  dico  che  la  mia  restauraziohe  mi  par 
meglio  rispondere  che  quella  del  Visconti  alle  leggi  delia  pro- 
sodia ed  all'intenzione  di  chi  fece  porre  Tepitafio. 
Sulla  lapide  si  legge  : 

HIC  •  SOROR  •  ET  •  FRATER  •  VIViMH  '  lliA  •  PAR  i  NTIS 

AETATE-IN  •  PRIMA -SAEVi     iiliNA-  iiliiT 
POMPEIA-HIS'TVMVLIS- conili-  i  NTEIT"  miRIS 

HAERET-ET-PVER-  INMITES  •  QVEl  •  liil  iDEI 
SEX-POMPEIVS-SEXTI  •  PRAE  /All'  limi- IVSTVS 

QVEM  -TENVIT-  MAGN  i  '  innm'  inii-tiiVS 
INFELIX  -CENITOR-GEMINA  '  iiii-  mn    niiCTVS 

A-NATIS-SPENRANS-QVi-DEDir  mi    i.iOS 
AMISSVM  '  AVXILIVM  •  FVNCTAE  •  POST  '  lllit  •  NATAE 

FVNDITVS-VT-TRAHERENT-  INVIO  r  liii  '  lAREM 

QVANTA  •  lACET  •  PROBITAS  •  PIETAS  •  QVAM  •  VERi  " 

liiVLTA-EST 

MENTE -SENES-AEVO-SED  -PERIERE.  mH 
QVIS  •  NON  •  FLERE  -  MEOS  •  CASVS  •  POSSITQ •  DOLORE 

Hi  •  '  VRARÉ  •  QVEAM  •  BIS  •  DATVS  -  ECCE  •  ROGIS 
SI  •  SVNT  •  Di  -MANES  •  lAM  •  NATI  •  NVMEN  -HABETIS 

PER  •  VOS  •  evi  •  VOTI  •  NON  •  VENIT  •  HORA  •  MEI 

Valendomi  d'una  egregia  correzione  del  signor  Henzen 
nel  verso  quinto  e  di  alcune  osservazioni  ingegnose  del  mio 
amico  Pietro  Esseiva  di  Friburgo,  valente  poeta  latino,  au- 
tore della  Urania^  d'una  Satira  ad  iuvenem  e  delTelegia 
Gaudia  domestica  premiate  nel  1870,  1872  e  187*3  dalla 
Reale  Accademia  di  Amsterdam,  io  propongo  la  seguente 
ricostruzione  deirepitafio  : 


-  560- 

Hic  soror  et  fra:er,  viventes  cura  parenris, 

Aetate  in  prima  saeva  rapina  iacent, 
Pompeia  his  tumulis  comitem  anteit  faneris,  haeret 

Et  puer,  inmites  quem  rapuere  Dei, 
Sextus  Pompeius  praeclaro  nomine  Justus, 

Queni  tenuit  Magni  laudibus  ampia  domus. 
Infelix  genitor,  gemina  male  prole  relictus, 

A  natis  sperans,  qui  dedit  ante,  cibos. 
Amissum  auxilium  functae  post  ardua  natae, 

Funditus  ut  traherent  invida  fata  larem. 
Quanta  iacet  probitas,  pietas  quam  vera  sepulta  est  ! 

Mente  senes,  aevo  sed  periere  brevi. 
Quis  non  Aere  meos  casus  possitque  dolere? 

Num  durare  queam  bis  datus  qccq  rogis? 
Si  sunt  Di  Manes,  iam,  nati,  numen  habetis; 

Per  vos  cur  voti  non  venit  bora  mei  ? 

Non  mi  pare  inutile  l'aggiugnere  alcune  spiegazioni  a  que- 
sto testo.  La  prima  si  riferisce  al  primo  paio  di  versi.  Che  la 
sorella  e  il  fratello  siano  chiamati  cura  parentis,  mentre 
vivevano,  e  dopo  la  loro  morte  saeva  rapina,  è  assai  na- 
turale. Tuttavia  giova  addurre  per  il  primo  quel  che  Orazio 
scrisse  di  Barine,  iuvenumque  prodis  publica  cura  {Od.  II, 
8,  7)  e  un  verso  più  opportuno  di  Ovidio  negli  Amori 
(III,  9,  17):  At  sacri  vates  et  Dipum  cura  vocamur\  per 
Taltro  un  passo  di  Properzio,  dove  Iscomache  è  chiamata 
Centauris  medio  saeva  rapina  mero  (II,  2,  62). 

La  restituzione  del  secondo  distico  è  più  incerta  e  più 
difficile.  Incominciando  dal  pentametro,  in  cui  il  compi- 
mento del  vuoto  ci  si  offriva  a  prima  vista,  quem  rapuere  Deiy 
osservo  che  il  verso  ha  due  sillabe  di  troppo,  donde  segue 
che  o  il  verbo  haeret  o  il  nome  puer  devesi  cancellare.  Ma 
siccome,  tolto  il  primo,  il  soggetto  puer  dovrebbe  riferirsi 


—  561  ~ 
aìVanteti ,  donde  nascerebbe  un  cattivo  senso,  da  prima  io 
pensava  di  attribuire  il  puer  ad  un  errore  dello  scarpellino  e 
leggeva:  Haeret  et  inmites  quem  rapiiere  Dei,  col  soggetto 
Sextus  Pompeius  nel  verso  seguente.  Ma  per  quanti  sforzi 
facessi,  non  mi  riusciva  una  probabile  restaurazione  del  verso 
terzo;  per  lo  che  fui  costretto  d'adottare  il  parere  del  signor 
Esseiva,  il  quale  trasporta  haeret  dal  principio  del  pentametro 
alla  fine  deiresametro.  Il  lettore,  che  aveva  le  orecchie  avvezze 
alla  poesia,  sapeva  che  anteit  era  pronunziato  anilt  (come 
si  vede  nel  verso  d'Orazio,  Te  semper  anteit  saeva  Necessiias 
{Od.  I,  35,  17)  e  in  questo  altro  di  Ovidio  {Met.  XIII, 
366):  ratem  qui  temperata  anteit  Remigis  ojfìcium),  e  si  ac- 
corgeva subito  che  lo  scarpellino  aveva  posta  Tultima  voce 
del  verso  terzo  a  capo  del  quarto,  perchè  la  lunghezza  della 
riga  non  lo  permetteva  a  suo  luogo. 

Il  quinto  verso  serba  il  nome,  non  del  padre,  come  il 
Borghesi  stimava,  ma  del  figlio,  cioè  Sextus  Pompeius  Ju- 
stus.  11  nome  del  defunto  non  manca  mai  in  un  titolo  se- 
polcrale, ma  abbiamo  esempi,  nei  quali  non  si  trova  il  nome 
di  chi  jfece  il  monumento.  Borghesi  giudicava  così,  poiché 
nella  sua  copia  v'era  un  punto  dopo  Praec,  che  l'indusse  a 
compiere  il  vuoto  in  tal  guisa:  praeco  agnomine  Justus.  Il 
figlo  defunto  aetate  in  prima  e  puer,  non  poteva  esser  stato 
pratco;  anzi  lo  era  il  padre.  Ma  la  congettura  non  può  essere 
approvata.  Reca  meraviglia,  chela  sola  lettera  finale  d^\ praeco 
sarebbe  omessa,  mentre  che  non  vi  sono  altre  abbreviazioni 
che  levolgari  di  Sex.  prò  Sextus  e  dipossitq.  nel  verso  i3  prò 
vossitqtie.  D'altronde  il  sig,  Henzen  afferma  d'aver  veduto 
sulla  laolde  non  già  un  punto  fra  Praec  e  a,  ma  un  tratto 
poco  dbtinto,  che  parevagli  essere  il  resto  d'una  L.  Però 
avremo  da  leggere  con  lui  la  seconda  parte  del  verso:  prae- 
da7'o  nonine  Justus,  Nulladimeno  il  verso  rimane  vizioso, 
se  non  si  ammette  che  lo  scarpellino  si  sia  smarrito   scoi- 


-  562  - 
pendo  due  volte  il  prenome ,  quantunque  in  casi  diversi, 
Sek.  e  poi  Sexti.  Se  non  mi  sbaglio,  dovea  scolpire  :  Sextus 
Pompeiiis  praedaro  nomine  Jiistiis^  o  con  inversione  non 
infrequente:  Pompeiiis  Sextus  praedaro  nomine  Justus. 
Per  dare  alcuna  base  a  questa  ipotesi  basterà  l'indicazione 
di  due  errori  da  lui  commessi,  spenrans  v.  8,  invece  di  spe- 
rans,  e  nel  v.  Ti  dolore^  dove  il  senso  richiede  dolere. 

11  verso  sesto  offre  la  più  grande  lacuna,  in  parte  già 
colmata  dal  Borghesi.  Non  è  da  dubitare  che  nel  suo 
Magni  —  domus  abbia  trovato  il  vero.  Manca  nello  spazio 
di  mezzo  alcuna  designazione  di  domuSy  per  esempio  ma- 
xima honore,  proposta  dal  Visconti,  o,  come  mi  pare  più 
elegante,  laudibus  ampia.  In  ogni  caso  queste  parole  aquem 
tenui t  Magni  —  domus  •»  indicano  che  il  ragazzo  morto. 
Sesto  Pompeio  Giusto,  era  stato  il  figlio  di  un  liberto  di  un 
Pompeio  Magno. 

Sfortunatamente  questo  nome  non  basta  per  indicare 
con  certezza  chi  fosse  la  persona  voluta.  Borghesi  indica 
due  della  famiglia  di  Cneo  Pompeio,  che  primo  prese 
questo  cognome,  ornati  dei  medesimo  e  pare  inclinato  a  ri- 
conoscere in  esso  il  console  del  767  Sex.  Pompeius  Sex.  T. 
Sex.  N.y  detto  Magnus  nei  fasti  siculi  e  da  vari  scrittori. 
Senza  rifiutare  questa  congettura  indicherò  un  terzo  Magno, 
di  cui  abbiamo  contezza.  Egli  è  il  genero  dell'imperatore 
Claudio,  il  anale  ^li  restituiva  Tantico  cognome  loltoai  da 
Cesare  Caligola,  come  narra  Svetonio  in  Calig.  35  e  Cassio 
Dione  LX,  5.  Inoltre  sappiamo  che  questo  d'allora  in  poi 
non  fu  chiamato  Cn.  Pompeio  Magno,  ma  Magno  Pcmpeio, 
come  si  legge  negli  atti  dei  Fratelli  Arvali  (Marini  F.  76), 
o  col  solo  nome  di  Magno,  come  ne  fa  fede  Dione  LX,  2 1 . 

Gemina  male  prole  relictus ,  supplito  nel  verse  settimo 
dairEsseiva,  non  s'allontana  molto  dal  gemina  Ì2m  prole 
relictus  di   Visconti.   La  lunghezza   deirultinia  b  gemina 


-583  — 
prova  eh'  e  un  ablativo,  e  la  terminazione  ctus  deirultimo 
vocabolo  non  permette  la  restituzione:  gemina  modo  prole 
beatus.  Di  buon  grado  cederemo  il  supplemento  per  uno 
migliore,  sebbene  la  costruzione  di  relictus  col  nudo  ablativo 
possa  scusarsi  colUVutorità  di  Properzio  nel  verso  seguente: 
Et  modo  servato  sola  relicia  viro  (II,  19,  32). 

Il  dattilo  perito  nel  v.  9  non  si  può  indovinare  con  cer- 
tezza. Visconti  scrisse  funera.  Ma  è  più  acconcio  schivare 
la  cacofonia,  prodotta  dallo  stesso  suono  delle  voci  functae, 
funera,  functus,  né  mólto  piace  la  locuzione  post  funera 
natae  f linci ae^  poiché  ào^o  funera  la  giunta  dì  functae,  che 
vale  defunctae,  vita  functae,  è  affatto  inutile.  Quel  ch'io 
scrissi,  functae  post  ardua  natae,  sarà  la  voce  propria,  in 
caso  chela  figlia  sia  estinta  dopo  una  vita  malagevole,  dopo 
molti  aifanni,  perchè  ardua,  sostantivamente  adoperato,  vale 
lo  stesso  che  res  ardua,  nel  verso  notissimo:  Aequam  me- 
mento rebus  in  arduis  Servare  mentem.  La  brevità  della  sua 
vita  almeno  non  esclude  questa  supposizione. 

Il  resto  delPepitafio  è  meno  guasto  e  la  restaurazione  si 
fa  senza  fatica  e  senza  grande  tema  di  errare.  Dunque  non 
parlerò  di  ciò  e  finirò  queste  spiegazioni  sviluppando  il  mio 
parere  sulla  interpunzione  del  penultimo  verso,  che  per 
buona  fortuna  è  serbato  integro. 

Tanto  la  usata  combinazione  di  Dii  Manes  in  titoli  se- 
polcrali, quanto  Tuso  del  genitivo  singolari?  nati  nella  frase 
nati  numen  habetis^  dove  il  padre  dovea  parlare  di  due  figli 
e  dire  natorum,  vieta  l'accettare  Manes  per  vocativo.  Dunque 
il  padre  indirizza  il  discorso  ai  figli,  e  nati  è  vocativo.  Così 
il  padre,  forse  ricordandosi  del  properziano  Sunt  aliquìd 
Manes,  letum  non  omnia  finii,  a'inenonon  incredulo,  come 
coloro  che  negavano  esse,  aliqvi^s  manes  et  subterranea 
regna,,  di  cui  parla  Giovenale  (^Sa^  II,  149},  deduce  dalla 
supposta  esistenza  degli  Dii  Manes,  cho  i  saoi  figli  avitl^- 


—  534  - 
bero  già  un  nume,  una  potestà  divina,  e  li  prega  di  acce- 
lerare la  venuta  dell'ora  da'suoi  voti  domandata.  E  affinchè 
niun  dubbio  rimanga  sul  nume  attribuito  ai  defunti,  alle- 
gherò la  preghiera  di  Briseide  presso  Ovidio  {Heroid.  Ili, 
io5):  Perque  trium  fortes  antmas,  mea  numina,  fratrum 
e  un  passo  nel  poema  di  Silio  VI,  1 13;  testor  mea  numina 
Manes. 

Ciò  detto,  congedo  il  benevolo  lettore,  coi  due  notissimi 
versi: 

Vive^  vale.  Si  quid  novisti  rectius  istis, 
Candidus  imperti;  si  non,  his  iitere  mecum. 

A  msterdam , ,  Maggio  1873. 

I.  C.  G.  BooT. 


LIV^GUA   E  "DIALETTO 


Tutti  ricordano,  o  dovrebbero  ricordare,  le  molte  dispute  che  nella 
primavera  dell'anno  1868  ebbe  a  suscitare  la  lifilapone  suir  unità 
della  lingua  e  sui  me^!(i  di  diffonderla,  che,  per  rispondere  all'in- 
vito fattogli  dal  Broglio,  allora  ministro  dell'Istruzione  Pubblica,  la- 
sciò stampare  in  un  reputato  periodico  fiorentino  l'onorando  Manzoni. 
Molli  che  la  Relazione  fini  di  persuadere  o  addirittura  convertì  pre- 
sero a  divulgare  e  a  difendere  le  dottrine  del  maestro;  ma  non  minore 
fu  il  numero  di  coloro  che  voHero  oppugnarle.  Se  non  che  questi, 
bisogna  dirlo  per  amor  del  vero,  pur  accennando  qua  e  là  ad  osser- 
vazioni giuste  e  ragionevoli,  non  seppero  in  fondo  che  ricantare  dot- 
trine vecchie  e  sfatate,  fraintesero  bene  spesso  il  formidabile  avver- 
sario, e  non  tutti  si  ricordarono,  purtroppo;  quanta  riverenza  do- 
vesse usarsi  nel  contraddirgli,  È  inutile  dire  che  niuno  riuscì  a 
fare  una  critica  compiuta  e  profonda  della  tesi  manzoniana,  e  ad 
esporre  altra  dottrina  ragionata  ed  organica.  È  inutile  anche  dire  che 


-  565  - 
quegli  i  quali  si  attennero  ad  una  via  naezzana  non  riuscirono  a  nuìla 

di  preciso  e  di  giusto.  La  vecchia  massima  che  la  virtù  sta  nel  mezzo 
è  una  grande  allettatrice  ;  ma  si  dovrebbe  pensare  che  essa,  come 
tutte  le  massime  generali,  non  è  vera  se  non  in  parte  e  sotto  un  certo 
aspetto;  giacché  il  mettersi  in  mezzo  fra  due  opinioni  estreme  può 
menare  del  pari  a  cose  assai  diverse,  a  conciliare  cioè  quel  che  c'è 
di  vero  in  entrambe,  o  ad  accozzare  invece  quel  che  v'  è  in  entrambe 
di  erroneo  (i). 

Io  sono  stato  per  un  bel  pezzo  un  manzoniano  arrabbiato  (curiosi 
scherzi  del  linguaggio  che  trova  mezzo  d'accozzare  insieme  Manzoni 
e  rabbia!),  ed  ho  fatto  anch'io  qualche  piccola  scaramuccia  in  difesa 
della  rcÀafede,  riserbandomi  di  giustificare  con  molte  ragioni  tutto  il 
mio  credo^  in  un  lavoro  che  mi  proponevo  di  fare  sul  famoso  libro  di 
Dante  intorno  alla  volgare  eloquenza  (lavoro  che  ancora  spero  fra 
non  molto  di  dar  fuori,  ma  senza  più  ninno  intento  polemico].  A 
quando  a  quando  però  certi  dubbii  mi  si  affacciavano  alla  mente,  a 
cui  rispondevo  alla  meglio.  Soprattutto  la  questione  della  pronunzia 
che  generalmente  è  stata  appena  sfioraia,  ed  a  cui  io  ho  prestala  in- 
vece moltissima  attenzione,  mi  suscitava  di  quei  tali  dubbii  in  gran 
numero,  e  non  poco  tormentosi;  non  tanto  a  dir  vero  per  l'impor- 
tanza che  pur  la  questione  della  pronunzia  deve  avere,  ma  principal- 
mente perchè  vedevo  gli  stessi  dubbii  per  l'appunto  potersi  analoga- 
mente fare  altresì  per  gli  altri  elementi  della  lingua. 

I  dubbii  mi  venivan  sempre  crescendo,  finché  un  bel  di  dalla  ge- 
nerosa indulgenza  dell'autore  mi  giunse  il  Proemio  dell'Ascoli  al  suo 
prezioso  Archivio  glottologico.  Colà  ritrovai  tutti  i  miei  dubbii  mu- 
tati in  obbiezioni  sicure  e  poderose,  vi  ritrovai  dentro  tutte  le  ragioni  che 


(i)  Io  non  ho  né  il  mezzo  né  la  voglia  di  fare  qui  una  compiuta  biblio- 
grafia delle  dispute  che  si  fecero.  Solo  non  voglio  lasciare  di  ramnnentare  al- 
cuni scritti  o  allora  o  poco  dopo  venuti  in  luce,  che  per  un  verso  o  per  l'altro 
nii  paiono  degni  di  nota.  Oltre  gli  Scritti  varii  sulla  lingua  e  VQ/ippendice 
alla  ^ela^ione  del  Manzoni  stesso,  e  la  lettera  a  (Quintino  Sella  premessa  dal 
Giorgini  al  U^ovo  Vocabolario  italiano  che  s'è  cominciato  a  stampare  a  Fi- 
renze il  1870,  sono  notevoli  gli  scritti  del  Puccianti  (Pisa  i8d8),  del  Buscaino- 
Campo  (a4ppendice  agli  studii  varii.  Trapani  1871),  dei  Bernardi  (d'avvia' 
mento  all'aite  del  dire,  Montecassino  1869;  lez.  XH),  del  De  Meis  {fDopo  la 
Laurea,  v.  1°,  p.  437-42),  del  Fornrri  (Propugnatore,  a.  1°,  fase,  i"),  del 
Tabarrini('7^e/a;fio«e  sui  lavori  della  Crusca  nel  69  e  70),  dell'Imbriani  (*Z)/a- 
loghetii  sei,  inseriti  nella  'Tatria  di  Napoli,  marzo  1868),  di  Pier-Vincenzo 
Pasquini,  del  Broglio,  ecc.,  ecc. 


—  566  - 
laute  volte  mi  erano  balenate  alla  mente,  e  molte  altre  ancora  a  cui  non 
avevo  mai  pensato,  e  tutte  mirabilmente  concatenate  e  vigorosamente 
ed  argutamente  espresse.  Mi  trovai  allora  posto  in  una  nuova  corrente 
d'idee,  e  subito  mi  sentii  la  voglia  di  riprodurre  la  nuova .  sequela 
di  pensieri  che  i  dubbii  vecchi  e  l'influsso  nuovo  determinavano  in 
mente  mia,  e  mi  vennero  così  scritte  ìe  pagine  che  oui  seguono.  Le 
quali  sarebbe  addirittura  inutile  dare  in  luce  se  pretendessero  di  com- 
pendiare o  di  parafrasare  il  robusto  Proemio  dell'Ascoli;  ma  che,  es- 
sendomi venute  spontanee  e  naturali  dopo  la  lettura  di  quello,  e  ri- 
producendone solo  alcuni  concetti  in  un  ordine  e  in  una  forma  al 
tutto  diversa  e  più  facilmente  atta  a  divulgarli  presso  un  maggior  nu- 
mero di  lettori,  non  riusciranno,  credo,  interamente  vane. 

Non  mi  vergogno  d'avere  un  po'  mutato  di  parere,  perchè  non  credo 
d'esser  tornato  indietro.  Dei  resto  nella  dottrina  manzoniana  io  scorgo 
ancora  molti  lati  veri,  anzi  nessuna  dottrina  pare  a  me  che  si  sia 
tanto  avvicinata  alla  vera,  quanto  quella  del  gran  Lombardo.  E  se 
trovo  qualche  obbiezione  da  farci,  non  è  certo  il  Perticari  che  me  la 
suggerisce. 

In  punto  di  lingua  è  generalmente  usato  fra  noi  di  confondere  la 
questione  storica  con  la  questione  pratica.  V'è  chi  ha  negato  che  la 
lingua  colta  comune  sia  nata  a  Firenze  e  ne  ha  quindi  dedotto  che 
non  ci  fosse  bisogno  d'andarla  ora  a  studiare  colà;  v'è  chi  ha  invece 
sostenuto  che  la  lingua  che  noi  tutti  scriviamo  oggidì  è  nata  in  Fi- 
renze, e  ne  ha  quindi  concluso  che  a  Firenze  debba  andarsi  a  cercare 
il  compimento  e  la  purificazione  della  lingua,  che  sentiamo  ancora 
imperfetta.  Ma  si  sarebbe  dovuto,  mi  pare,  distinguere  l'una  questione 
dall'altra.  Può  esser  vero,  come  è  vero  Infatti,  che  la  lingua  sia  nata 
a  Firenze,  e  può  insieme  esser  vero  che  una  volta  uscitane  non  sia 
né  lecito  né  attuabile  il  farcela  tornare  per  forza. 

Fare  un'accurata  distinzione  tra  le  due  questioni  e  dimostrare  come 
vadano  risolute  ognuna  per  conto  suo,  è  lo  scopo  che  io  mi  propongo 
di  raggiungere  con  queste  pagine. 

11  Trissino,  il  Perticari  e  i  seguaci  loro  pretendevano  che  la  lingua 
colta  d'Italia  fosse  stata  non  si  sa  come  fabbricata  dagli  scrittori,  mo- 
dellata secondo  un  certo  ideale  linguistico  ;  gli  scrittori  l'avrebbero 
formata  ripulendo  ciascuno  il  suo  dialetto  nativo  secondo  un  tipo 
astratto  di  gentilezza  e  di  pulito  favellare.  Ma  quale  potè  mai  essere 
questo  ideale  astratto  che  facesse  preferire  un  suono  a  un  altro,  quando 
tra  i  due  suoni  nessuno  era  intrinsecamente  più  bello  o  più  armo- 


-  567  - 
nioso  ?  L'Abruzzese  era  dal  suo  dialetto  spinto  a  dire  e  scrivere  isso 
e  quisto,  che  non  suonano  punto  male  e  per  giunta  serbano  intatto  l'i 
latino;  e  avrebbe  scritto  esso  e  questo,  che  sono  più  alterati  e  non 
sono  più  belli,  per  amore  della  gentilezza  e  dell'armonia?  E  il  Ro- 
mano avrebbe  smesso  il  suo  latinissimo  e  armoniosissimo  pèrsica  e 
adottata  quella  contrazione  che  è  pèsca,  per  ingentilire  la  sua  parola?.' 
E  il  Milanese  abbandonò  il  suo  se  pò  no  (logicissimo  quanto  il  tede- 
sco man  kann  nicht)  e  disse  non  si  può,  per  assumere  forse  un  costrutto 
più  logico  e  naturale?  Ma  allo  spiritò  del  Milanese  niente  è  più  lo- 
gico e  conforme  che  il  suo  se  pò  no,  che  ei  dura  anzi  infinita  fatica  a 
smettere,  e  a  cui  torna  avidamente  quando  può!  —  Tutte  adunque 
queste  preferenze  di  suoni,  di  parole,  di  costrutti  alieni  dal  dialetto 
proprio,  ai  suoni,  parole  e  costrutti  suoi  naturali,  ogni  colto  Italiano 
deve  averle  fatte,  non  per  cercare  cosa  che  al  suo  spirito  paresse  più 
regolare,  ma  sagrificando  anzi  quel  che  per  lui  era  naturalmente  sem- 
plice e  regolare!  E  quando  di  più  si  pensa  che  tutti  gl'Italiani  si 
sono  incontrati  nel  preferire  le  stesse  forme  per  l'appunto,  il  che  sa- 
rebbe stato  impossibile  quando  fossero  dovuti  arrivare  alle  forme  scritte 
mediante  sottili  giudizii  artistici;  e  quando  la  più  superficiale  osserva- 
zione basta  poi  a  farci  vedere  che  queste  sono  quasi  sempre  le  forme  del 
dialetto  fiorentino,  forza  è  concludere  che  tutti  gl'Italiani  non  hanno 
abbandonato  i  vezzi,  le  abitudini,  le  leggi,  le  forme  del  dialetto  pro- 
prio, se  non  per  adottare  i  vezzi  e  le  forme  del  fiorentino  ;  e  solo  per- 
chè il  fiorentino  s'è  saputo  imporre  a  tutta  Italia  come  lingua  della 
coltura.  Cosa  del  resto  naturalissima,  quando  si  considera  che  per  più 
di  due  secoli  la  Toscana,  e  Firenze  in  ispecie,  fu  il  centro  della  col- 
tura- italiana;  che  spiegò  un'energia  non  solo  superiore  ad  ogni  altra 
città  d'Italia,  ma  mirabile  e  singolare  in  tutta  la  storia  umana,  da 
non  trovar  confronto  che  in  Atene  ;  e  diede  alla  nazione  intera  una 
serie  di  maestri  d'ogni  arte  e  d'ogni  dottrina,  Dante,  Petrarca,  Boccaccio, 
Lionardo,  Machiavelli,  Guicciardini,  Michclngnolo,  Galilei!  Il  pen- 
siero venne  a  noi  di  Toscana,  incarnato  in  forma  toscana,  e  noi  ci 
sentimmo  irresistibilmente  tratti  ad  assimilarci  l'uno  e  l'altra.  E  quando 
quest'assimilazione  fu  più  o  meno  raggiunta,  allora,  un  po'  per  natu- 
rale illusione,  un  po'  per  maliziosa  ingratitudine,  molti  non  Toscani 
credettero  d'essersi  fatto  da  sé  quel  linguaggio  che  loro  era  venuto  di 
Toscana;  decrescendo  sempre  più  l'energia  della  Toscnna  e  crescendo 
quella  d'altre  provincie  parve  sempre  più  legittimo  il  rinnegare  ogni 
dipendenza  da  quella;  e  nacquero  le  quistioni  sulla  lingua.  L'uomo  fatto 


—  568  — 
adulto  morse  la  mammella  della  madre  ormai   vecchia,    dalla   quale 
aveva  da  bambino  avuto  il  nutrimento.   L'uomo  disse  che  ei  si  mo- 
veva benissimo  da  sé,  e  che   non  sapeva  capire  come  la  madre   sua 
dicesse  averlo  già  portato  nel  suo  grembo. 

Non  mancarono  i  Fiorentini,  e  talora  anche  altri  Italiani,  di  met- 
tere in  rilievo  il  fatto  della  origine  fiorentina  della  lingua  colta  ita- 
liana (i);  molti  scrittori  lo  confessarono  di  transito  come  la  cosa  più 
naturale  del  mondo;  i  volghi  stessi  italiani  seguitano  ad  attestarlo 
chiamando  tosco  o  toscano  il  parlare  scelto  e  pulito.  Ed  ormai  chiun- 
que abbia  la  benché  minima  intelligenza  della  scienza  glottologica  e 
professi  il  più  elementare  ossequio  alla  storia,  non  può  aver  dubbio, 
che  il  fondo  della  lingua  che  parliamo  e  scriviamo  fra  noi  Italiani 
sia  il  dialetto  fiorentino,  che  gli  antichi  nostri  scrittori,  fiorentini  la 
più  parte,  adoprarono  negli  scritti  loro,  incorporandovi,  tutt'al  più, 
qualche  voce  o  modo,  preso  o  da  altri  dialetti  italiani,  o  dal  francese 
e  dal  provenzale,  o  dal  latino  che,  come  lingua  antica  e  tradizionale 
della  nazione,  esercitava  un'influenza  continua  ed  efficacissima  sulla 
nascente  lingua  volgare  (2).  Se  non  che  le  dottrine  trissiniane  e  per- 
ticariane  hanno  per  si  lungo  tempo  confuse  le  idee  ai  letterati  nostri, 
che  deve  farsi  un  gran  merito  alla  scuola  manzoniana,  d'averci  ri- 
chiamati con  tanta  insistenza  e  con  tanta  eloquenza  alla  verità  slorica. 

Ma  oltre  la  tesi  storica  i  manzoniani  sostengono  anche  una  tesi  pra- 
tica: l'unità  di  linguaggio  tra  le  varie  provincie  italiane,  essi  dicono; 
la  compiutezza  idiomatica  che  ci  dia  il  mezzo  di  chiamare  ogni  cosa 
con  un  suo  nome  certo,  fisso,  preciso  ;  la  vivacità  e  freschezza  popò-" 
lare,  sono  adesso  assai  imperfettamente  conseguite.  Per  ottenerle  dav- 
vero non  e'  è  altro  mezzo  che  scegliere  un  dialetto  solo  e  quello  ge- 
neralizzare; e  tra  i  dialetti  la  scelta  deve  senza  dubbio  cadere  su  quel 
dialetto  che  per  nove  decimi  è  già  divulgato  in  tutta  Italia,  sul  dia- 
letto fiorentino. 

Anche  in  questa  tesi  pratica  si  racchiudono  alcuni  desiderii  ed  al- 
cune esigenze  assai   ragionevoli,    le  quali  possono  anche  stare  senza 


(i)  Chi  non  rammenta,  p.  es.,  con  quanta  verità  abbia  difeso  i  diritti  del 
fiorentino  il  V'archi  neWErcolano'i 

(2)  Il  latinismo  si  risente  spesso  persino  nella  fonetica.  Tt'bblico  p.  es.  si  è 
scritto  per  influsso  latino,  che  altrimenti  il  gruppo  bl  ripugnerebbe  all'organo 
popolare  loscano'col  quale  s'accordano  in  ciò  moltissimi  altri  dialetti  italiani). 
Infatti  le  voci  toscane  plebee  sono,  o  con  mutazione  d'  /  in  r  prubbico,  o  con 
metatesi  dell'  /  e  col  normale  trapasso  di  pi  in  pj  piuvico. 


-569  — 
l'adozione  dell'uso  attuale  fiorentino  (si  badi   bene),  ma  che  ad  ogni 
modo  sono   state  esse  a  far   concepire  il  desiderio  di  una  tale   ado- 
zione, e  che  mediante  questa,  se  la  fosse  possibile,  verrebbero  ad  es- 
sere certamente  appagate.  Eccole  qui  esposte. 

Se  Firenze  avesse  seguitato  ad  avere  una  coltura  concentrata,  vivace, 
mobilissima,  efficace  su  tatta  Italia,  la  lingua  si  sarebbe  andata  sem- 
pre movendo  colà  assieme  al  pensiero,  e  di  colà  sarebbe  stata  attinta 
via  via  da  tutta  Italia.  Oppure  se  invece  vi  fosse  stata  una  equa  distri- 
buzione di  attività  in  tutta  Italia,  se  l'energia  del  pensiero  vi  fosse 
stata  grande  ed  operosissima,  la  lingua,  pur  restando  in  fondo  del  vec- 
chio stampo  fiorentino,  si  sarebbe  mossa  ed  aumentata  per  aggiunte 
fatte  da  scrittori  d'ogni  parte  d'Italia,  sarebbe  risultata  dalla  grande 
conversazione  delle  iiiiellige}ì:[e  nazionali.  Ma  in  Italia  non  è  successa  né 
l'una,  né  l'altra  cosa.  Firenze  ha  deposto  il  suo  prinaato  e  la  sua  dit- 
tatura; l'Italia  tutta  non  ha  avuto  un  moto  intellettuale  omogeneo  e 
vivido;  sentendosi  dunque  sfuggire  una  norma  viva  e  sicura  di  favella, 
la  lingua  nazionale  genuina  si  è  dovuta  andarla  a  cercare  in  quei 
primi  classici,  in  quei  grandi  che  primi  ce  l'avevano  insegnata.  Le 
tendenze  stesse  artistiche  della  nazione  nostra  ci  spinsero  ad  inna- 
morarci della  tersità  classica,  della  lingua  già  nobilitala  e  santificata 
dall'arte  degli  scrittori.  Quindi  fonti  veri  di  lingua  furono  ritenuti  gli 
scrittori  anteriori.  Ai  quali  si  venne  perciò  ad  attribuire  un'autorità 
strana  ed  enorme. 

Sceltine  un  certo  numero,  fattone  una  specie  di  canone^  si  stabilì 
che  a  scriver  bene  si  dovessero  usare  voci  e  frasi  e  costruui  usati  da 
loro.  Per  tutta  giustificazione  dell'uso  d'una  parola  ecc.  si  cominciò  a 
dire:  ce  n'è  esempio  nel  tale  o  nel  tal  altro  classico;  senza  considerare  se 
cotesto  fosse  pure  ammirabilissimo  scrittore  l'avesse  o  no  ragione- 
volmente adoprata;  e  senza  riflettere  se  fuori  del  luogo  dov'egli  l'avea 
posta,  e  fuori  del  tempo  a  cui  egli  apparteneva,  fosse  o  no  conve- 
niente l'usarla.  Si  confuse  il  dizionario  storico  della  lingua,  lo  spoglio 
di  tutti  gli  scrittori  a  noi  pervenuti,  col  dizionario  dell'uso,  nel  quale 
allo  scrittore  non  si  può  concedere  altra  parte,  se  non  quella  di  far 
testimonianza  (quando  secondo  una  sana  critica  veramente  la  fa)  che 
una  data  parola  o  modo  sia  usato  in  quel  dato  tempo  comunemente, 
o  quella  di  farci  scorgere  donde  sta  nata  un'espressione  che,  inventata 
o  introdotta  la  prima  volta  da  esso  scrittore,  diventò  poi  di  uso  co- 
mune. Si  dimenticò  che  quel  che  fa  una  parola  o  un  modo  adope- 
rabile è  non  già  l'essere  stato,  comecchessia,  usato  da  un  tale,  sia  pur 

li} vista  di  filologia  ecc.,  1  38 


-  -  570  - 
grande,  ma  bensì  un  consenso  comecchessia  stabilitosi  fra  quelli  che 
della  lingua  si  servono,  un  accordo  tra  loro  conclusosi  di  dare  quel 
dato  nome  a  quella  data  idea.  Il  manzonianismo  anche  su  ciò  ha  ri- 
stabilite le  idee  sane  e  giuste,  le  quali  non  è  che  non  fossero  prima 
più  o  meno  trasparenti  in  questo  o  quel  trattatista,  più  o  meno  rico- 
nosciute od  invocate  in  questa  o  quella  questione  speciale,  ma  non 
erano  mai  state  così  accentuate,  e  così  logicamente  coordinate  e  con- 
dotte sino  alla  più  rigorosa  conseguenza,  come  dai  manzoniani  si  è 
fatto. 

Il  purismo  teneva  buone  sole  le  parole  di  certi  scrittori  e  di  certi 
dati  secoli,  e  invaghito  dell'arcaismo  teneva  che  le  parole  possano 
avere  come  un  merito  e  una  bellezza  intrinseca,  prescindendo  rial  loro 
essere  o  no  ricevute  comunemente  e  dal  riuscire  per  tutti  significative 
di  certe  idee.  Il  manzonianismo  ha  scosso,  o  meglio  finito  di  scuo- 
tere cotesta  idolatria,  e  cotesto  vezzo  di  attaccare  alle  parole  un  certo 
pre^^o  d'affezione,  se  così  si  può  dire;  e  ha  sostenuto  con  gran  ra- 
gione che  le  parole  in  tanto  han  valore  in  quanto  richiamano  pronta- 
mente le  idee  che  son  destinate  a  significare,  cosicché  le  parole  attual- 
mente usate  e  che  spontaneamente  ci  vengono  sulle  labbra  o  alla  penna 
son  perciò  solo  buone,  ed  anzi  le  sole  buone,  non  essendo  più  buone 
in  niun  modo  le  parole  che  per  una  ragione  qualunque,  sieno  pure 
state  adoprate  da  scrittori  valentissimi  in  epoche  di  grande  splendore 
di  lettere,  son  oggi  divenute  oscure,  o  troppo  insolite  e  ricercate. 

Inoltre  la  scuola  manzoniana,  ribellatasi  alla  maniera  e  al  conven- 
zionalismo in  qualunque  campo  dell'arte  e  sotto  qualsivoglia  rispetto, 
ha  combattuta  acremente  la  vecchia  abitudine  della  pomposa  forma 
accademica  e  (d'accordo,  bisogna  notarlo,  con  altre  felici  tendenze 
dell'etì  nostra)  ci  ha  inoculato  come  un  abborrimento  per  quegli  am- 
biziosi travestimenti  del  pensiero,  a  cui  eravamo  usi,  e  un  desiderio 
intensissimo  di  esprimere  i  nostri  concetti  in  forma  semplice  e  natu- 
rale, conforme  all'indole  vera  delle  nostre  favelle  volgari,  quale  la  si 
rivela  nei  dialetti,  mentre  vedesi  per  contrario  continuamente  falsata 
nei  periodoni  artefatti,  e  spesso  latineggia nti,  di  molti  dei  nostri  classici. 

Tuni  cotesti  ragionevoli  e  utili  principi!  della  scuoia  manzoniana, 
come  ho  già  detto,  possono  anche  stare  e  valere  di  per  sé,  senza  che 
si  parli  punto  di  fiorentino  (i)  ;  però  chi  proclami  l'uso  attuale  fiorcn- 


(I)  Difatti  il  Maestro  gli  aveva  tutti  anche  prima  di  pigliare  a  proteggere  il 
fiorentino,  e  di  mettersi,  com'egli  disse,  a  lavare  i  suoi  cenci  In  Arno.  Oltreché 


—  571  - 
tino,  cotesti  principii  li  viene  necessariamente  ad  includere,  insieme 
col  resto.  E,  sia  detto  in  parentesi  per  non  anticipare  troppo,  può 
forse  con  la  ragionevolezza  loro  dare  una  luce  di  riverbero  anche  a 
quel  resto  ;  e  può  dimenticare  facilmente  che  di  questo  resto  quei  prin- 
cipii possono  anche  far  senza. 

Ad  ottenere  una  lingua  unica,  fissa,  popolare,  moderna^  non  e'  è 
mezzo  più  adatto  che  adottare  l'uso  attuale  fiorentino  ;  questo  si  dice. 
Ma  io  ho  parecchi  dubbi  :  i*  se  la  mancanza  d'unità  di  lingua  sia 
tanto  notevole  quanto  si  dice;  —  2»  se  non  si  sia  già  formato  un  uso  aU 
tuale  letterario^  un  consenso  cioè  di  lutti  i  colti  Italiani  rispetto  all'or- 
tografìa, alla  grammatica,  alla  sintassi,  al  lessico,  consenso  che  si  ri- 
ferisce a  quelle  tra  le  tante  forme,  voci  e  costrutti,  che  han  finito  per 
prevalere,  fra  coloro  beninteso  che  non  si  mettono  di  proposito  a  ri- 
produrre le  forme  arcaiche  e  ricercate;  —  3»  se  dove  cotesto  uso  attuale 
letterario  è  in  discordia  coll'uso  attuale  dialettale  di  Firenze,  sia  legit- 
timo sbandire  l'uso  letterario  già  costituito  per  sostituirgli  l'uso  dia- 
lettale; —  4*  se,  anche  dove  l'uso  letterario  è  realmente  insufficiente,  sia 
teoricamente  legittimo  e  praticamente  attuabile  il  supplirvi  con  l'uso 
dialettale  fiorentino. 

£  incominciando  dal  primo  dubbio,  che  l'unità  della  lingua  sia  così 
scarsa  come  si  dice  e  come  pur  dovrebbe  essere  per  preoccuparsene 
così  premurosamente,  mi  sembra,  se  ho  a  dirla  schietta,  una  esage- 
razione. 

Volta  e  gira,  quando  scendono  al  concreto  (che  non  è  cosa  frequente) 
e  recano  qualche  esempio,  i  manzoniani  non  riescono  mai  a  citare  un 
concetto  astratto,  un  sentimento,  od  altra  cosa  simile,  che  non  si  sap- 
pia italianamente  denominare,  ma  sempre  devono  fermarsi  a  qualche 
oggetto  materiale:  al  grappolo  d'uva,  alle  falde  da  tener  su  i  bambini 
che  non  si  reggono  ancor  ritti,  ai  piselli,  al  soffietto  e  cose  simili.  Ora 
io  non  dico  che  la  stessa  unità  di  nomenclatura  degli  oggetti  materiali 
non  sia  per  una  nazione  un  bene  desiderabilissimo;  voglio  solo  dire 
che  se  si  tratta  solo  di  questo,  della  mancanza  cioè  di  una  certa  parte 
di  nomenclatura  materiale,  e'  non  c'è  poi  da  disperarsi  tanto;  è  proprio 
anzi  il  caso  di  dar  tempo  al  tempo. 


ognuno  può  aver  osservato  che  oggi  moiti,  senza  la  minima  intenzione  di  fio- 
rentineggiare, sol  perchè  intenti  più  al  pensiero  che  alle  ambizioni  della  forma, 
o  perchè  dcstderoei  di  farsi  capir  bere  e  di  piacere  a  tutti,  acrivono  in  modo 
da  avvicinarsi  moltissimo  alla  forma  inculcata  dai  manzoniani. 


—  572  — 

Il  fatto  è  che  da  secoli  noi  Italiani  stiamo  comunicando  e  disputando 
gli  uni  cogli  altri  di  poesia,   di  arte,  di  storia,  di  scienza  politica,  di 
critica  letteraria,  di  estetica,  di  morale,  di  filosofia,  e,  mettiamoci  an- 
che, della  quistione  della  linguai  Eppure  chi  oserebbe  dire  che  le  in- 
venzioni più  o  men  belle,  le  dottrine  più  o  men  sane,  le  ragioni  più  o 
men  giuste,  i  frizzi  più  o  men  ingegnosi,  le  insolenze  più  o  men  vil- 
lane, che  abbiam  voluto  scambiarci,  non  si  sia  riuscito  ad  esprimerle  e 
ad  intenderle?  Di  piìi;  si  sono  introdotte  ai  dì  nostri  in  Italia  scienze 
nate  oltralpe,  p.  es.  la  linguistica;  si  son  create  attività  novelle,  esempio 
la  vita  parlamentare  ;  or  con  questa  lingua  che  si  dice  carica  di  ricchezza 
inutile,  povera  di  ricchezza  vera,  non  abbiam  riprodotti  i  più  sottili 
concetti  della  scienza  straniera;  e  non  siam  riusciti  perfettamente  ad 
intenderci  nelle  nostre  pubbliche  discussioni  sopra  soggetti  d'ogni  spe- 
cie? Se  il  malanno  è  di  non  aver  pronto  un  linguaggio  fisso  comune  per 
denominare  alcuni  oggetti  relativi  alla  vita  familiare,  rassegniamoci,  e, 
seguitando  su  essi  ad  intenderci  (come  pur  facciamo)  per  ora  alla  me- 
glio, speriamo  che  lo  scambio  maggiore,  che  c"è  ora  d'ogni  fatta  d'idee, 
di  parole  e  di  cose  tra  noi  Italiani,  ci  faccia  acquistare  presto  un'unità 
di  nomenclatura;  onde  si  possa  fra  poco  intendersi  perfettamente  anche 
sopra  queste  piccolezze,  come  sopra  cose  più  serie  (e  non  bisogna  scor- 
darselo che  son  più  serie)  ci  intendiamo  da  tanto  tempo! 

Io  so  bene  che  cosa  si  risponde:  una  lingua,  si  dice,  che  delle  cento 
cose  dicuigl'Italiani'vorrebbLTo  (o  meglio,  potrebbero  voler)  discorrere 
fra  loro,  solo  novanta  può  esprimerle  con  sicurezza,  e  le  altre  dieci  si 
trova  imbarazzata  a  nominarle,  sarà  bene  una  parte  grandissima  di  lin- 
gua, ma  non  è  proprio  una  lingua  ;  la  quale  dev'essere  un  complesso  di 
voci  che  bastino  ad  esprimere  una  totalità  di  relazioni  ideali  che  pos- 
sano occorrere  tra  gli  individui  d'una  società  che  la  usa;  la  è  insomma 
un  organismo,  quindi  o  è  tutto  o  è  nulla.  Se  non  che  quesl'  or g-ani- 
smo  benedetto  temo  che  sia  una  di  quelle  tante  metafore  che  sogliono 
trarre  in  inganno  lo  spirito  umano.  Certo  la  lingua  è  un  che  di  orga- 
nico rispetto  alle  forme  grammaticali  e  alla  sintassi,  ma  quanto  al  les- 
sico sarà  pure,  se  si  vuole,  un  organismo,  ma  un  organismo  non  tanto 
collegato,  e,  per  così  dire,  articolato,  che  a  togliergli  una  parte  e'  resti 
mutilato;  sarà  tutt'al  più  come  uno  di  quegli  organismi  di  specie  infe- 
riore, in  cui  più  individui  si  coliegano  a  vivere  una  vita  comune,  ma 
senza  che,  avulso  uno  di  essi,  il  lutto  ne  venga  a  patire.  I  vocaboli  non 
son  legati  fra  loro  da  un  tal  vincolo  necessario,  che,  toltine  parecchi, 


-573  — 

la  lingua  resti  mutilata  o  disorganata:  tutt'al  più  resta  scemata,  im- 
poverita, ma  resta  una  lingua  davvero  \ 

Inoltre,  ei  non  si  dovrebbe  dimenticare  che  le  lingue  scritte,  sebbene 
per  lo  più  non  sietio  che  il  dialetto  portato  dalla  parlata  alla  scrittura, 
tosto  però  che  le  son  diventate  scritte,  e  si  son  proseguite  per  un  pezzo 
a  scrivere,  vengono  a  stabilire  via  via  una  cena  tradizione  letteraria,  e 
da  questa  tradizione  non  è  mai  facile  distaccarle,  tanto  meno  poi  là 
dove  il  dialetto,  onde  prima  esse  uscirono,  per  una  ragione  qualunque 
non  è  più  stato  in  intimo  nesso  con  loro.  11  dialetto  di  un  paese  solo 
è  diventato  il  linguaggio  degli  uomini  colli  di  più  paesi,  e  come  tale 
si  è  seguitato  a  svolgere,  e  dove  è  andato  più  in  là,  dove  è  rimasto 
più  indietro  del  dialetto  locale.  Che  fare  quando  l'abitudine  stabilitasi 
fra  i  colti  della  nazione  diverge  da  quella,  o  tenacemente  rimasta, 
o  nuovamente  creatasi,  fra  i  parlanti  della  città?  Devono  i  colti  della 
nazione  smetter  l'abitudine  loro,  per  assumere  quella  della  città?  —  Ve- 
niamo a  qualche  esempio.  I  manzoniani  scrivono  ora  bono,  core,  novo 
anziché  buono,  cuore,  nuovo,  e  si  giustificheranno  così:  come  secoli 
sono  fu  legittimo  scrivere  buono,  benché  il  latino  tradizionale  desse  bO' 
nus,  perché  in  bocca  al  popolo  era  tal  voce  diventata  buono,  cosi  sarà 
legittimo  scrivere  oggi  bono,  tostochè  il  popolo  ha  a  tal  punto  ridotto 
il  buono  tradizionale.  E  certo  se  il  fatto  avvenisse  spontaneamente,  e 
per  conseguenza  di  un  salto  così  brusco  com'era  quello  dal  latino  al 
volgare,  niente  sarebbe  più  ragionevole.  Ma  questo  brusco  trapasso  e 
totale  cangiamento  di  linguaggio  non  è  il  caso  nostro,  e  il  bono,  voi, 
perchè  altri  lo  scriva,  dovete  sudare  a  comandarlo  e  raccomandarlo, 
come  un  toscanesimo  da  adottare,  e  gli  altri  non  vi  s'adageranno  fa- 
cilmente; anzi  voi  stessi  poi  sdrucciolate  involontariamente  a  scrivere 
buono,  «omOj  cuore  !  Direte  che  humanum  est  peccare  ;  ma  io,  a  dir  vero, 
quando  peccano  uomini  come  voi ,  quando  voi,  fermamente  intenzio- 
nati a  scrivere  in  un  modo,  cascate  ognitanto  nel  modo  che  volete 
sbandire,  io  comincio  a  capire  che  ci  é  su  queste,  come  su  altre  molte 
parole  consimili,  un  accordo,  un'abitudine  già  consolidata  fra  gli  Ita- 
liani, e  che  il  vostro  bon  toscano,  e  il  vostro  novo  modo  di  scrivere, 
che  volete  impiantare  per  amor  dell'unificazione,  viene  piuttosto  che 
a  creare,  a  turbare  un  accordo  e  un'unificazione  già  operata.  E  conti- 
nuando ad  argomentare  ad  hominem  —  giacché  gli  argomenti  a  tali,  ad 
ejusmodi  homines,  son  poco  meno  che  argomentazioni  ex  visceribus 
causae  —  io  direi  che  se  per  seguire  l'attuale  uso  di  Firenze  si  deve  scri- 
vere bono,  s'avrebbe  per  la  stessa  ragione  a  scrivere  sceti^a  (parola  che 


-B74  — 
in  latino  è  quatrisillaba,  in  poesia  italiana  trisillaba  e  nella  lingua  no* 
stra  antica  e  tradizionale  è  bissilhiba,  ma  con  vero  dittongo  nella  prima 
sillaba),  e  C05ce«fa,  e  così  spece,  effige,  e  si  dovrebbe  scrivere  e  pro- 
nunziare sempre  de\  a',  co\  pe'  (i),  senza  mai  attaccarci  quell'/  finale 
che  più  non  si  pronunzia  a  Firenze,  e  così  si  dovrà,  o  almeno  si  po- 
trà scrivere  a  tutto  pasto  il  mi'  bambino,  la  mi'  figliola,  la  su'  mo-^ 
glie,  e  ha'  per  hai,  e  (apriti  terra!)  un  invece  di  non,  giacché  è  risa- 
putQ  che  in  tutta  Toscana  e  da  qualunque  classe  di  persone  così  si 
dice  attualmente!  Gli  esempi  potrebbero  moltiplicarsi,  ma  questi  ba- 
stano a  mostrare  che  d'attenersi  davvero  all'uso  attuale  fiorentino  man- 
cherebbe a  tutti  il  coraggio;  o  che  questo,  quando  pur  si  avesse,  si 
avrebbe  a  chiamare  piuttosto  temerità  ;  temerità  cioè  di  voler  imporre 
modi  di  scrivere  che  riescono  o  nuovi  o  almeno   troppo  ricercali,  e 
disturbare  così  consuetudini  già  ferme  e  divenute  istintive  presso  ogni 
colto  italiano.  Si  potrà  forse  dire  che  questa  è  quistione  di  pronunzia 
e  non  di  lingua  veramente;  ma  all'argomentazione  mia  che  corre  per 
la  pronunzia  altre  analoghe  se  ne  potrebbero  fare  per  la  lingua.  Ol- 
treché la  pronunzia,  la  fonetica,  spetta  a  quanto  vi  è  di  più  caratteri- 
stico ed  organico  in  un  linguaggio  o  in  una  data  epoca  d'un  linguaggio, 
ed  è  poi  così  tremendamente  estesa  che  molte  questioni  si  potrebbero 
in  fondo  ridurre  a  questione  di  pronunzia.   Il  fiorentino  dice  oggi 
radino,  e  noi  pur   seguitiamo  a  scrivere  vadano  (che  non  è  più  vi- 
vente) ;  in  omaggio  a  che,  di  grazia,  se  non  all'uso  tradizionale  lette- 
rario ?  E  perchè  non  scriviamo,  qvialche  volta  almeno,  volse  per  volle, 
se  non  perchè  l'uso  letterato  ha  prescelto  questo  >  Anzi,  si  badi,  vadino 
e  volse,  ecc.,  si  potrebbero  giustificare' anche  con  molti  esempi  di  scrit- 
tori classici,  oltreché  con  l'uso  attuale  fiorentino;  eppure  noi,  come 
avremmo  trovato  reo  d'affettazione  un  purista  che  l'avesse  scritto  per 
mare  una  forma  di  classico,  così  daremmo  ora  la  stessa  taccia  a  chi 
lo  scrivesse  in  omaggio  all'uso  attuale.  Sicché  per  diverse  vie  pare  si 
possa  riuscire  allo  stesso,  alla  pedanteria. 

Che  s'avrebbe  poi  a  dire  dei  possano  per  possono,  dei  dicano  per  di- 
cono, dei  potrebbano  per  potrebbero,  che  oggi,  fuori  del  caso  che  in- 


(i)  Difatto  in  una  sua  bella  Prolusione,  letta,  mi  pare,  a  Siena  il  i85g,  il 
Gjorgini  scrìve  addirittura  de  (sic)  per  dei.  Si  potrebbe  dire  ch'io  vado  in  cerca 
di  minuzie,  ma  non  potrebbero  però  lagnarsi  di  questo  i  manzoniani,  i  quali 
in  questa  faccenda  han  portato  b  cose  a  tale  logica  conseguenza,  che  presso 
loro  ogni  più  piccolo  fatto  deve  poter  provare  per  tutto  il  complesso. 


-575- 

tenzionalmente  vogliano  seguir  l'uso  letterato,  esclusivamente  adoprano 
parlando  i  Toscani?  Non  è  che  io  ritenga  reprobe  e  spyrie  cotali  forme, 
sol  perchè  non  note  alla  lingua  colta  ;  le  sono  anzi  per  me,  come  per 
ogni  buon  studioso  di  linguistica,  forme  spiegabilissime  e  legittime 
quanto  ogni  altra  forma  di  ogni  altro  linguaggio.  Ma  solo  mi  parrebbe 
ridicolo  l'adottarle  artificialmente  in  una  lingua  che  non  ne  sente  il 
bisogno,  e  che  anzi  finirebbe  a  riceverne  Dio  sa  quale  confusione, 
stanti  alcune  coincidenze  delle  forme  attuali,  p,  es.  dell'indicativo, 
con  quelle  tradizionali  del  congiuntivo,  del  possano  popolare  indi- 
cativo col  possano  tradizionale  congiuntivo. 

Ma  il  fatto  è  che  anche  gli  scrittori,  a  furia  di  discorrere  con  la  penna 
tra  loro  per  anni  e  secoli,  vengono  a  prendere  delle  abitudini  comuni 
e  delle  inlese  e  degli  accordi  spontanei  od  anche  riflessi,  e  cosi  un  uso 
letterario  si  forma  ;  uso  trasmutabile  anch'esso,  ma  uso  a  sé  e  per  sé. 
E  se  questo  uso  in  Itaha  si  è  facilmente  sconosciuto,  egli  è  stato  per- 
chè per  uso  degli  scrittori  si  è  solitamente  inteso  tutto  il  complesso 
delle  parole,  modi,  capricci,  bizzarrie,  che  un  certo  numero  di  scrit- 
tori canonizzati  han  creduto  di  adoprare  ;  e  sì  è  creduto  di  poter  giu- 
stificare l'uso  d'una  parola  o  d'una  forma  col  solo  provare  che  ce  n'è 
esempio  in  Machiavelli  o  in  altro  autore,  non  sceverando  così  di  tutto 
l'inventario  delle  parole  degli  scrittori  le  ancor  vive  dalle  già  morte;  e 
dall'altro  Iato  poi  ostinandosi  a  far  sì  che  nell'uso  letterario  non  avesse 
a  entrare  nulla  di  nuovo,  di  cui  paresse  bensì  sentirsi  il  bisogno,  ma  di 
cui  la  lingua  mummificata  e  santificata  non  avesse  avuto  sentore  quando 
era  viva.  Ma  chi,  scossi  cotesti  pregiudizi!,  cerchi  in  buona  fede  l'uso 
vivente  letterario,  lo  troverà  certamente,  e  lo  ravviserà  in  tutte  quelle 
forme  e  in  quelle  voci  che  un  consenso,  comunque  formatosi,  fra  gli 
scrittori  e  i  colti  parlanti  (e  non  si  può  negare  che  in  Italia  si  é  stabilito 
incerti  casi  in  modo  irragionevole  ;  ma  ormai  è  formato!)  ha  preferite, 
sopprimendo  per  ragioni  buone  o  cattive  le  altre.  Così  è  potuto  seguire 
che  alcuni  prosatori,  che  certo  non  hanno  avuta  nessuna  pretesa  di  tosca- 
neggiare, han  pure  scritto  in  un  modo  di  che  il  gusto  moderno  non 
si  offende  menomamente;  e  il  Leopardi  sia  citato  per  tutti.  E  a  un 
tale  uso  letterario  alludeva  Orazio  in  quei  famosi  versi,  ove  gli  attri- 
buisce «  arbiirium  et  ius  et  norma  loquendi  »,  il  che  si  può  certo  ap- 
plicare anche  all'uso  popolare  dialettale,  ma  non  attribuendo  però, 
come  da  alcuni  si  è  fatto,  ad  Orario  stesso  l'intenzione  di  una  tale 
applicazione,  tostochè  il  contesto  suo  vi  ripugna  assolutamente. 

In  tesi  generale,  il  dialetto  non  è  certo  niente  di  sostanzialmente 


-  576  - 
diverso  dalla  lingua,  ed  era  un  grossolano  pregiudizio  quello  di  ve- 
dere nel  dialetto  un  non  so  che  d'illegittimo,  di  triviale,  di  corrotto. 
La  lingua  stessa  deve  aver  per  base  uno,  o  almeno  più  dialetti  affini  (i  . 
Se  non  che,  dal  momento  che  l'uno  o  i  più  dialetti  si  scrivono  e  di- 
ventano organo  di  comunicazione  fra  una  società  di  scriventi  e  di 
parlanti  con  arte,  quel  linguaggio  che  ne  risulta,  non  solo  essendo  più 
elaborato  dalla  riflessione  si  svolge  da  indi  in  là  con  un  certo  proce- 
dimento non  del  tutto  identico  a  quello  .:oa  che  svolgesi  un  dialetto 
puramente  parlato  in  un  sol  luogo  ;  ma,  quando  pur  si  voglia  credere 
che  si  svolga  in  modo  perfettamente  analogo  a  quello  di  un  dialetto 
qualunque,  si  svolge  però  sempre  in  un  modo  propriamente  suo  giac- 
ché esso  è  ormai  diventato  un  altro  dialetto,  se  si  vuole,  e  niente  di 
meglio,  ma  sempre  un  dialetto  a  sé,  un  altro  dialetto,  il  dialetto  de- 
gli scrittori,  soggetto  a  vicende  sue  proprie.  Vicende,  siano  fonetiche, 
siano  ideologiche,  dello  stesso  genere  suppergiù  di  quelle  che  possono 
aver  luogo  in  linguaggi  dialettali;  ma  che  sono  in  esso  proprio  quelle 
tali  ed  in  quel  certo  numero  senza  riguardo  a  ciò  che  al  dialetto 
parlato,  onde  prima  ei  sorse,  possa  piacer  di  fare.  11  dialetto  è  la 
lingua  di  quei  che  un  muro  ed  una  fossa  serra  ;  la  lingua  è  il  dia- 
letto degli  uomini  colti  e  scriventi  di  una  o  di  più  città. 

Tutt'al  più,  colà  dove  la  società  dei  colti  coincide  materialmente 
col  popolo  di  una  data  città,  là  dove  il  pomerio  della  città  è  insieme 
il  limite  della  sua  coltura,  com'era  per  esempio  in  Atene,  là  il  dia- 
letto e  la  lingua  saran  quasi  una  cq§a  sola  (con  questo  però  di  diffe- 
renza che  la  lingua  colta  va  sempre  più  a  rilento  nell 'adottare  le  forme 
pur  mo*  nate).  Ed  egli  è  certo  naturalissimo  che  Platone,  ateniese,  scri- 
vendo in  Atene  e  per  gli  Ateniesi,  e  riproducendo  artisticamente  quelle 
lepide  e  vivaci  e  sottili  conversazioni  che  tuttodì  si  facevano  sotto  i 
portici  e  nei  viali  ateniesi,  scrivesse  press'a  poco  come  ogni  colto  ate- 
niese parlava  !  Ed  è  quindi  anche  naturalissimo  che  egli  dica  la  lingua 
non  si  poter  imparar  dal  maestro,  bensì  succhiarsi  col  latte!  (2).  An- 


(i)  Non  per  forza  uno  solo,  come  si  dice  fondandosi  sull'esempio  del  latino 
e  del  francese,  e  trascurando  i  molti  esempii  contrarli. 

(2)  Il  Bonghi  nelle  sue  eccellenti  Lettere  critiche,  riferendo  cotesto  detto  di 
Platone,  nota  che  esso  avrebbe  fatto  ridere  di  compassione  il  Cesari  ed  il 
Puoti,  che  tra  i  meriti  principali  della  nostra  lingua  mettevano  questo,  che, 
anche  a  studiarla  tutta  la  vita,  non  si  viene  mai  a  capo  di  saperla  tutta.  Cer- 
tamente bisogna  dire  che  il  Cesarie  il  Puoti  avessero  della  lingua  un  ben  cu- 
rioso concetto!  Ma  d'altro  lato,  se  il  concetto  che  n'avea  Platone  era  adatto 


—  577  — 
che  là  dove  la  società  degli  uomini  colti  e  scriventi,  sebbene  diffusa 
sopra  ampio  paese,  s'accentra  però  in  una  città  sola,  com'ha  luogo 
p.  es.  in  Francia,  dove  Parigi  raccoglie  e  attira  a  sé  il  fiore  delle  in- 
telligenze nazionali,  è  il  gran  crogiuolo  del  pensiero  comune, «è, 
come  fu  detto,  il  cervello  (se  vogliamo,  non  sempre  immune  da 
congestioni  e  da  ebbrezze,  ma  insomma  il  cervello)  della  nazione; 
anche  là  dialetto  e  lingua  quasi  coincidono  ;  anche  perchè  il  dialetto 
stesso  non  è  più  il  dialetto  quale  sarebbe  divenuto  abbandonato  a  sé 
stesso,  ma  quale  risulta  per  essersi  usato  di  continuo  come  lingua  , 
vale  a  dire  come  istrumento  d'un  pensiero  più  colto  e  destinato  a  più 
larga  diffusione  che  non  sarebbe  quella  limitata  al  suolo  ov'esso  nasce. 
Ma  laddove  centro  non  v'è,  o  è  mutabile;  laddove  è,  come  in  Italia, 
avvenuto,  che  un  dialetto  locale,  dopo  essere  stato  organo  del  pen- 
siero dei  grandi  spiriti  di  una  città,  è  stato  assunto  da  tutti  i  colti 
uomini  di  una  intera  nazione  a  strumento  di  un  pensiero  a  cui  i  po- 
steri concittadini  di  quei  grandi  non  han  presa  più  parte  se  non  se- 
condaria; si  può  egli  ritenere  non  dico  praticamente  attuabile,  ma  in 
diritto  e  in  "teoria  desiderabile  che  tutti  gli  uomini  colti  della  nazione 
smettano  la  lingua  con  cui  alla  meglio  s'iotendono  presentemente,  e 
corrano  a  informarsi  con  premura  a  che  ne  sia  ora  quella  lingua  fio- 
rentina cui  già  fece  sentire,  quale  era  ai  lor  tempi,  a  tutti  gl'Italiani 
la  voce  robusta  ed  ascoltata  di  Dante,  di  Boccaccio,  di  Machiavelli 
e  di  Galilei?  Se  i  Fiorentini  volevano  che  la  lingua  non  si  staccasse 
dal  lor  dialetto,  toccava  a  loro  di  farcela  continuamente  sentire.  Che 
c'importa  che  i  Fiorentini  non  dicano  più  altro  che  lui,  quando  a  noi 
tutti  Vegli  viene  spontaneo  sulle  labbra  e  alla  penna  ?  —  E,  per  fer- 
marci a  un  altro  esempio,  il  dativo  non  enfatico  del  pronome  di  terza 
persona  è  per  il  maschile  gli  (gli  dissi  =  a  lui  dissi);  per  il  femminile 
era,  nel  toscano  antico,  oltre  di  le  {le  dissi  =  a  lei  dissi) ,  anche  gli 
come  pel  maschile.  E  bene  sta;  gli  femminile  è  una  legittima  deri- 
vazione romanza  del  dativo  femminile  latino  illi  (illa,  illius,  illi)  omò- 
fono al  maschile,  quindi  persin  più  legittimo,  latinamente  parlando, 
di  le,  che  è  derivato  dal  dativo  femminile  latino-volgare  illae,  coniato 
sull'analogia  de*  nomi  femminili  in  a  (rosa,  rosae).  Se  non  che  la  lin- 


eile condizioni  del  suo  attico,  chi  potrebbe  dire  sul  serio  che  un  tal  concetto 
sia  applicabile  ad  altri  casi  in  cui  quelle  condizioni  deiratcniese  e  di  Platone 
non  ci  son  nemmeno  per  idea^  Dove  anderenao  a  mungere  tanto  latte  da  ab- 
beverare di  buona  lingua  ventisei  milioni  di  uomini? 


—  578  — 
gua  letteraria,  spinta  da  un  certo  desiderio  di  differenziare  il  dativo  ma< 
schile  dal  dativo  fcmiuinile  (desiderio  tutt'altro  che  riprovevole,  sebbene 
nulla  imponga  di  appagarlo  sempre,  come  di  fatti  resta  inappagato  nel 
latino  e  nel  francese:  illi,  /u/),  è  stata  propensa  ad  usare  pel  femmi- 
nile piuttosto  il  neologico  le  che  il  più  arcaico  gli  (perciò  gli  esempi 
di  gli  =  a  lei  non  mancano  negli  scrittori,  ma  san  rari).  Vennero  poi 
i  grammatici,  che  un  po'per  la  stessa  ragione,  un  po'appoggiandosi 
sull'autorità  degli  scrittori,  un  po'per  pregiudizio  (credendo  essi  che 
gli  per  a  lei  non  fosse  che  un'abusiva  estensione  della  forma  maschile 
al  femminile),  stabilirono  s'avesse  a  scrivere  e  dire  sempre  le  per  a 
lei.  Ed  ormai  siamo  avvezzi  a  questo,  e  non  è  certo  uno  svantaggio  il 
poter  nettamente  distinguere  i  due  generi.  Ebbene,  la  parlata  fioren- 
tina ha  ora  gli  per  a  lei,  esclusivamente,  e  ha  fatta  (né  c'è  da  fargliene 
rimprovero)  una  diversa  scelta  uaturaley  da  quella  che  nel  linguaggio 
italiano  s'è  fatta.  Ma,  dovremo  noi  mutare  abitudine  per  attenerci 
al  dialetto?  (i)  —  E,  tornando  di  nuovo  alla  pronunzia,  si  deve  ben 
prescrivere  agl'Italiani  di  pronunziare  chiusa  Ve  di  vero,  aperta  Ve 
di  petto  giacché  questo  è  di  quella  parte  di  fonetica  toscana  che  sì  è 
imposta  di  fatto  all'Italia,  e  commetterebbe  parimenti  un  brutto  pro- 
vincialismo il  napoletano  che  dicesse  certamènde  con  e  aperta  e  d  per  t 
(quantunque  lo  stacco  dalla  Toscana  è  stato  tanto,  che  cotesti  pro- 
vincialismi non  ci  si  attenterebbe  forse  a  dirli  spropositi,  come  pur 
sono)  ;  ma  chi  però  oserebbe  prescrivere  il  così  detto  e  aspirato  to- 
scano? (a)  Eppure  se  la  buona  pronunzia  deve  essere  la  fiorentina, 


(x)  Gli  pera  loro  (in  funzione  non  enfatica,  ma  atonica),  occorrente  anche 
esso  qua  e  là  nei  classici  e  d'uso  comune  ed  esclusivo  attualmente  a  Firenze, 
incontra  più  favore  e  meglio  si  ride  dell'abbominio  dei  grammatici  rigorosi  per 
ciò  che  il  loro  o  lor  in  funzione  non  enfatica  è  troppo  pesante  ed  addirittura 
sconveniente. 

(a)  Ho  sentito  dire  da  parecchi  avversarii,  e  persino  (oh,  la  logica!)  da  dei 
seguaci  del  toscano,  che  del  e  aspirato  non  si  può  tener  conto,  perchè  le 
aspirate  ripugnano  assolutamente  al  genio  della  lingua  italiana.  Cosioro  mi 
fanno  venire  a  mente  un  certo  paragone  non  mollo  decente,  ma  molto  do- 
cente (se  il  bisticcio  mi  si  permette),  che  è  nella  bellissima  poesia  del  gran 
Carlo  Porta  sul  Romanticismo!  Come  mai  ripugnano  all'organo  italiano  le 
aspirate,  quando  in  una  provincia  d'Italia,  e  a  confessione  di  tutti  più  pros- 
sima all'italiano  scritto,  le  ci  sono?!  E  lascio  poi  stare  che  in  molte  Pro- 
vincie italiane  occorrono  non  gli  stessi  suoni  ma  degli  analoghi,  come  è 
per  es.  in  molte  parti  del  Napoletano,  dove  si  ode  quel  che  si  potrebbe  dire, 
per  seguire  la  nomenclatura  comune,  g  aspirato  {pogheta  poeta,  tre  ghanni 
tre  anni,  ecc.).  Ed  ho  detto  per  seguire  la  nomenclatura  comune,  giacché  ve- 


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cotesto  suono  anderebbe  raccomandato  con  tutto  il  resto!  E  non  è 
egli  peggio  quando  si  tratta  di  vocaboli  addirittura?  Prendere  voci  fio- 
rentine, non  note  all'Italia  colta,  e  scriverle  e  metterle  in  giro ,  non 
già  come  nuove  parole  proposte  (che  ciò  è  legittimo,  e  quando  si  sa 
fare  riesce),  ma  come  parole  della  lingua  che  ciascuno  sia  tenuto  ad 
intendere  e  gustare,   par  egli  un  partito  giusto? 

Alla  ripugnanza  degl'Italiani  ad  adottare  il  fiorentino  si  assegnano 
per  motivo  primo  le  maledette  gelosie  municipali  ;  ma  è  presumibile 
che  tutti  si  muovano  per  passioni  così  ignobili,  che  in  tante  altre  cose 
ei  non  sentono?  Se  le  gelosie  mimicipali  e  l'amor  proprio  di  ciascuno 
che  vi  si  compenetrava  furono  principal  cagione  che  molti  nel  cinque- 
cento negassero  l'innegabile  fatto  storico,  esser  la  lingua  colta  sorta  a 
Firenze,  ed  esser  essa  la  lingua  fiorentina  divulgala  e  ripulita  con  l'arte; 
non  si  può  dire  però  che  quelle  gelosie  sieno  oggi  la  principal  cagione 


ramente  la  scienza  non  chiama  aspirato  il  e  fiorentino  (che  è  una  consonante 
protraibile  all'infinito  come  il  eh  tedesco,  il  x  greco  moderno,  il  th  inglese,  il  h 
e  kl  6  greco-moderno,  1'/,  l'r,  l'^)  ma  spirante,  o  in  qualche  altro  modo.  Lo 
stesso  8i  potrebbe  dire  del  t  aspirato  fiorentino  (a  Firenze  si  sente  continuamente 
•  Napolethano  »  e  così  in  altri  casi  di  t  fra  due  vocali);  ed  anche  di  esso  si 
troverebbe  il  correlativo  suono  mediale  nel  d  di  molti  dialetti  meridionali,  ove 
in  sudore,  dolore,  ecc.  il  d  ha  l'identico  suono  spirante  del  6  greco-moderno  e 
deU/i  dolce  degli  Inglesi.  —  Orbene,  se  Firenze  avesse  avuta  su  tutta  Italia  una 
influenzacontinua  e  vigorosa  come  Parigi  sulla  Francia,  certo  oggi  tutti  gl'Italiani 
procurerebbero  di  dire  le  horna,  la  havalla:  molti  forse  non  ci  riuscirebbero, 
ma  non  si  direbbe  esser  ridicolezza  persino  il  tentarlo,  come  invece  ora  si 
dice.  Non  riuscendoci  si  compatirebbero,  come  infatti  si  compatisce  adesso  il 
napoletano  che  dica  angora,  il  veneto  che  dia  frate  lo,  il  ligure  che  imponga 
scilensiu  all'assemblea  che  presiede.  Ma,  come  ora  si  dà  per  legge  di  dire  an- 
cora, fratello,  si7ew.fio,  così  nell'ipotesi  da  noi  fatta  sarebbe  stata  legge  pro- 
nunziare la  havalla:  una  legge  però,  s'intende  bene,  non  iscevra  dal,  vantag- 
gio che  han  tutie  le  leggi,  di  poter  essere  frodate.  Se  oggi  dunque  nessun  si 
sente  di  impor  di  dire  la  havalla.,  i  hani^  egli  è  perchè  ognun  sente  istinti- 
vamente come  sia  assurdo  imporre  alla  nazione  quel  che  non  è  da  sé  saputo 
uscire  dai  limiti  d'una  provincia.  —  M<?tterò  qui  un'osservazione  all'Ascoli,  e 
servirà  almeno  a  mostrare  che  a  quell'alta  intelligenza  professo  non  una  cacca 
fides,  ma  un  rationale  obsequium.  Egli  scrive  imagine,  abondare,  abominio, 
aborrire,  àcademia,  per  attenersi  all'ortografia  e  alla  fonia  etimologica.  Ma 
in  tali  parole  il  raddoppiamento  della  consonante  protonìca  è  di  antica  data 
nel  toscano  e  abbastanza  insinuatosi  per  conseguenza  nell'abitudine  di  tutu 
Italia.  Come  dunque  giustificare  questa  velleità  etimologica,  questa  smania  di 
latinità?  Il  Gherardini  almeno  anda^^a  molto  più  in  là,  sostituendo  quasi  si- 
stematicamente (anch'egli  però  non  potendo  arrivare  fino  alle  ultime  conse- 
guenze) il  criterio  etimologico  al  criterio  fonetico.  Ma  questa  dell'Ascoli  è  una 
Gherardinite  sporadica,  che  non  mi  riesce  di  trovare  giusta. 


—  580  — 
per  che  molti  si  oppongano  alla  tesi  pratica  dell'adozione  dell'attuale 
uso  fiorentino.  È  cosa  anzi  notevolissima,  che  chi  più  dubita  della  pos- 
sibilità e  della  legittimità  di  tale  adozione  sono  i  Toscani  e  i  Fio- 
rentini, e  certo  non  per  gelosia  municipale!  Mi  ricordo  che  a  me  na- 
tivo del  mezzogiorno  è  toccato  spesso  di  difendere,  quando  dimoravo 
in  Toscana,  contro  dei  Fiorentini  il  lor  fiorentino (i).  Forse  i  Fioren- 
tini, che  conoscono  minutamente  il  loro  linguaggio,  sono  più  colpiti 
da  ciò  che  il  lor  dialetto  ha  di  non  letterario,  di  noi,  che  impressio- 
nati di  sentire  colà  dalia  bocca  persin  del  volgo  molte  parole  perfet- 
tamente simili  a  quelle  che  siam  avvezzi  a  considerare  come  eleganze 
dei  libri,  siam  naturalmente  propensi  a  esagerare  l'accordo  e  perdere  di 
vista  le  molteplici  discordanze  tra  l'uso  fiorentino  e  l'uso  letterario. 
Non  nego  adunque  che  qualche  pregiudizio  più  o  men  vieto,  qualche 
passioncella  più  o  meno  gretta  non  induca  alcuni  non  Toscani  a  mostrare 
una  riluttanza  troppo  risentita;  ma  in  verità  quello  che  spinge  i  Fiorentini 
ad]essere  spassionati  e  modesti,  e  fa  noi  altri  tutti  ripugnanti  a  sottomet- 
terci, all'autorità  loro,  è  un  intimo  senso  che  tutti  ci  avverte,  come  non 
perchè  moltissime  parole  di  Firenze  seppero  divulgarsi  e  farsi  italiane, 
tutte  le  altre  debbano  per  ciò  solo  essere  ora  ricercate  da  noi  e  impo- 
steci senz'alcuna  loro  fatica.  Noi,  quanti  sappiamo  che  l'italiano  è  sto- 
ricamente in  fondo  lingua  fiorentina,  possiamo  per  le  voci  fiorentine 
che  non  han  passata  incerchia  antica  ammettere  tutt'al  più  che  abbiano 
una  certa  luce  di  riverbero,  che  quasi  portino  un  titolo  di  nobiltà,  un 
casato,  una  parentela  illustre;  non  già  che  sol  perchè  parenti  di  quelle 
altre  italianizzatesi  debba  a  loro  attribuirsi  un'autorità  riconosciuta.  — 
Ma  sono  utili  quei  fiorentinismi,  è  desiderabile  la  loro  diffusione!  Eb- 
bene, se  vi  pare  che  un  fiorentinismo  sia  bene  farlo  italiano  come  gli 
altri,  che  sia  degno  di  far  fortuna,  come  suol  dirsi,  fnites-la  lui  faire! 
giacché  benissimo  si  ritorce  contro  loro  la  bella  risposta  dell'Accademia 
francese  al  Voltaire,  che  i  manzoniani  citano  così  spesso  e  volentieri  a 
proposito  d'altro. 

Mentre  però  non  riesco  più  a  convincermi  della  compiuta  verità  ed 
attuabilità  della  tesi  manzoniana,  credo  si  debba  pure  riconoscere  per 


(i)  Ecco  perchè  non  posso  approvare  quel  modo  satirico  ed  acre  che  molti, 
avversando  la  dottrina  manzoniana,  adoprano  contro  i  presenti  Toscani. 
Avranno  questi  \  loro  gran  difetti,  se  si  vuole,  ma  spregiarli  per  questa  que- 
stione, nella  quale  essi  non  hanno  pretese  punto  esagerate,  ed  hanno  ad  av- 
vocati, e  non  pregati,  dei  non  Toscani,  mi  pare  ingiusto. 


-581- 

quanti  versi  ella  abbia  giovato  a  metterci  sulla  vera  via,  e  l'utilità 
grande  che  ha  prodotto  sin  qui,  sebbene  indirettamente,  o  meglio  nega- 
tivamente. Giacché  l'abuso  di  parole  morte,  di  costrutti  slavati  e  senza 
disinvoltura,  di  modi  astratti  senza  alcuna  vivacità,  è  stato  corretto,  ol- 
treché da  altri  impulsi,  dalla  smania  (legittima  o  no  ch'ella  sia)  di  fio- 
rentineggiare. E  ne  addurrò  un  esempio  tolto  dal  capolavoro  della  prosa 
italiana.  Jn  un  luogo  deiTultimo  capò  dei  Promessi  Sposi,  in  un  pe- 
riodo mirabilmente  commentato  da  un  mio  illustre  amico  in  una  sua 
bella  lettera  ad  un  altro  illustre  di  cui  pur  troppo  non  ci  resta  ormai  che 
la  memoria  (  i  ) ,  si  paragona  la  vita  umana  ad  un  letto,  e  si  dice  che  l'uomo 
posto  sul  suo  letto  si  vede  attorno  tanti  altri  letti  rifatti,  dove  si  figura  che 
ci  si  deve  star  benone,  e  dove,  se  riesce  a  mutare,  appena  accomodato, 
sente,  pigiando,  qua  um  lisca  che  lo  punge,  iì  un  bernoccolo  che  lo 
preme,  in  modo  che  poco  dopo  toma  alla  storia  di  prima.  Ora,  prima 
che  il  Manzoni  facesse  quel  famoso  bucato  in  Arno,  invece  di  si  figura 
che  ci  si  deve  star  benone,  diceva  con  modo  punto  soave:  crede  che  si 
debba  giacervi  soave ,-  e  invece  di  qui  una  lisca,  diceva  qui  uno  stecco, 
e  invece  di  lì  un  bernoccolo,  diceva  lì  una  durerà,  parola,  come  ognun 
vede,  astratta  e  slavata,  mentre  quel  bernoccolo  è  assai  concreto  e  vivace, 
e  arto  a  dare  una  certa  tinta  satirica,  che  a  quel  periodo  ò  tanto  appro- 
priata !  Orbene  coteste  correzioni  gli  sono  srate  di  certo  insinuate  dal 
desiderio  di  fiorentineggiare.  Ma  ciò,  mentre  mostra  come  un  tale 
desiderio  abbia  resi  di  bei  servigi,  non  basta  a  legittimarlo  teoricamente. 
Giacché  (se  ben  si  guarda),  se  quelle  parole  star  benone,  lisca,  bernoc- 
colo son  quasi  messe  in  vista,  e  raccomandate  dall'attual  fiorentino,  in 
realtà  però  sono  pur  parole  già  divenute  italianissime,  e  che  sarebbero 
potute  venire  in  mente  al  Manzoni  anche  prima  ch'egli  si  proponesse  di 
fiorentineggiare.  A  voler  vedere  invece  quanto  sia  poco  legittimo  il  to- 
scaneggiare, non  per  contravveleno  ai  vizii  del  passato,  ma  in  sé  e  per  sé, 
si  immagini  il  caso  che  invece  di  star  benone,  lisca  e  bernoccolo,  parole 
che  tutti  intendono  e  gustano,  avesse  il  Manzoni  scritte  tre  parole  fio- 
rentine prette,  non  ancora  italianizzate,  di  quelle  tali  insomma  le  quali 
orasi  pretende  che  gli  Italiani  si  sforzino  di  capirle  e  le  gustino  per  pro- 
getto, e  si  pensi  che  bel  gusto  sarebbe  stato  mai  e  come  il  periodo  ei  lo 
avrebbe  sciupato,  invece  che  accomodato!  lo  credo  adunque  utile  l'infìo- 
rentinarsi(sit venia  verèo)  bene  bene,  per  questa  ragione,  che,  coincidendo 


(i)  n)ue  letti,  Lettera  critica  ad  Q^l/oitso  'Delta  Valle  di  Casanova  per 
Federico  Tersico.  Estratto  dal  periodico  napoletano  la  Carità^  quad.  XII,  a.  V. 


-  582  — 
l'attuai  fiorentino  con  gran  parte  dell'uso  tradizionale,  ci  aiuta  a  imparare 
prontamente  cotest'uso,  ci  suggerisce  anche  voci  e  modi  che  potendo  es- 
sere generalmente  intesi,  sebbene  non  sieno  generalmente  usati,  fuor  di 
Toscana,  si  possono,  usandoli  accortamente,  divulgare  e  sostituire  via  via 
a  modi  o  troppo  slavati  o  troppo  stranieri  che  oggi  usiamo  :  e  un  certo 
intuito  felice,  un  certo  gusto  delicato  avverte  io  scrittore  come  e  quando 
possa  egli  fare  opnortunamente  una  tale  sostituzione.  Come  una  buona 
tuffata  nella  letteratura  del  trecento  giova  a  darci  una  buona  educazione 
linguistica,  così  la  dimora  in  Toscana,  o  qualunque  altro  mezzo  la  si- 
muli, conferisce  a  farci  prendere  una  certa  freschezza,  e  purezza  insieme, 
di  linguaggio.  Ma  a  quel  modo  come  il  primo  fatto  non  coonesta  l'ido- 
latria sentimentale  del  Padre  Cesari  per  il  trecento,  così  il  secondo  non 
giustifica  l'idolatria  ragionata  del  Manzoni  per  il  fiorentino.  E,  fortuna 
che  la  sua  rigorosa  e  inesorabile  teoria  questi  l'ha  corretta  nella  pratica, 
per  quel  felice  istinto  che  nelle  grandi  intelligenze  serve  a  temperare 
gli  eccessi  teorici  ;  che  se  no  forse  avremmo  oggi  pieno  di  ricercatezze 
e  di  affettazioni  il  più  perfetto  dei  libri  nostri!  E  fortuna  ancora  che  i  di- 
scepoli più  zelanti  hanno  anch'essi  robusto  ingegno  e  alieno  d'ogni  pedan- 
teria; e  riescono  così  scrittori  piacevolissimi.  Giacché  invero  quale  forma 
si  può  immaginare  più  netta,  efficace  e  briosa,  di  quella  onde  dà  saggio 
il  Giorgini  nei  suoi  scritti;  i  quali  non  han  che  un  sol  difetto  (e  lo  dico 
non  a  maggior  raffinatezza  di  elogio,  ma  con  seria  intenzione  di  bia- 
simo), quello  d'essere  pochi?  E  chi  è  che  per  la  moltiplicità  dei  soggetti 
che  tratta,  per  lucidezza  d'idee,  per  finezza  di  satira  e  di  brio,  e  per 
garbo  nel  saper  dire  qualunque  cosa  con  tutti  gli  scaltrimenti  e  le 
cautele  dell'arte  superi  oggi  il  Bonghi?  Eppure  questi,  che  nel  i855  si 
diede  con  le  «  Lettere  critiche  »  a  fare  scaramucce  da  bersagliere 
(com'egli  disse),  in  prò  della  tesi  manzoniana,  e  nel  1868  fece  assieme 
al  Carcano  (dirò  io)  da  aiutante  di  campo  al  Manzoni,  sul  punto  che 
questi  con  la  «  Relazione  »  impegnava  la  gran  lotta;  e'  si  è  così  di- 
lungato dalla  norma  dell'uso  fiorentino,  ha  tanto  spogliato  oramai  il 
fiorentino  pretto,  e  tanto  ripreso  della  lingua  colta  tradizionale,  che 
un  vero  manzoniano  lo  troverebbe  ora  ogni  momento  in  colpa! 

Ma  se  la  dottrina  del  maestro  penetrasse  in  menti  non  egualmente 
sobrie  ed  assennate,  noi  ci  vedremmo  presto  inondati  di  popolari  pe- 
danterie, da  farci,  se  non  desiderare,  che  eran  troppo  noiosi,  di  certo 
rammentare  i  linci  e  squinci  dei  pedanti  arcaisti. 

Un  po'  se  n'hanno  anche  le  prove  di  fatto.  Il  Giusti,  di  cui  i  Manzo- 
niani dicono  che  se  ce  ne  fosse  stati  parecchi  la  questione  della  lingua 


-  583  - 
si  sarebbe  risolta  da  sé;  il  Giusti,  e  perchè  toscano  di  nascita,  e  perchè 
abborrente  dalla  pedanteria  arcaistica,  s'era  già  spontanean^ente  dato  ai 
toscaneggiare  (ma  non  propriamente  al  fiorentineggiare),  pur  restando 
in  teoria  imbevuto  di  molti  pregiudizii  letterari!  (tantoché,  come  il 
Manzoni  stesso  narra  non  vo'  dir  dove,  diceva  che  la  prima  edizione 
dei  Promessi  Sposi  gli  garbava  più  della  seconda  infiorentinata  ;  il  che 
dopo  sconfessò  recisamente).  Conobbe  poi  il  Manzoni,  e  se  ne  lasciò 
persuadere  a  credere  legittimo  anche  in  teoria  quel  ch'egli  s'era  dato  a 
fare  per  suo  gusto,  ed  a  continuare  a  disegno  quel  che  sin  lì  avea  fatto 
per  mero  istinto.  Ora,  che  il  Giusti  con  le  sue  prose,  e  più  ancora 
con  le  sue  mirabili  poesie  satiriche,  contribuisse  molto  a  farci  odiare 
e  smettere,  e  nella  lingua  e  nello  stile,  la  ricercatezza  accademica 
tradizionale;  che  egli,  escludendo  quella  parte  di  lingua  che  è  ormai 
vieta  e  affettata,  e  mettendo  bene  in  vista  la  pane  viva  e  conforme 
ai  sentimento  moderno,  ci  insinuasse  il  desiderio  di  riuscire  efficaci 
con  la  semplicità,  ed  eleganti  a  furia  di  naturalezza-,  chi  lo  potrebbe 
negare  senza  mancare,  non  d'co  di  riverenza  a  quel  vivace  ingegno, 
ma  della  più  ovvia  ragionevolezza?  Ma  chi  ancora  può  in  buona  fede 
disconvenire,  che  colà  dov'egli,  o  nelle  sue  poesie,  o  peggio  nelle 
sue  prose,  specialmente  nelle  sue  lettere  (e  più  specialmente  ancora 
in  quelle  al  Manzoni,  per  captatio  henevolentiae),  accumula  voci  pret- 
tamente toscane,  e  sfoggia  in  parole,  frasi,  costrutti,  modi  proverbiali, 
popolari,  molto  toscani  e  punto  italiani,  riesce  proprio  a  ristuccarci? 
E  a  ristuccare  non  solo  i  non  Toscani,  che  anche  talora  si  stizziscono 
di  non  capire,  ma  i  letterati  toscani  persino?  E  a  che  grado  non  ar- 
riverebbe la  nausea  se  egli  non  fosse  l'arguto  e  brioso  Giusti? 

Eppure  là  dove  il  Giusti  ha  messe  in  vista  parole  toscane  di  fa- 
cile intelligenza  pei  non  Toscani  e  veramente  utili,  egli  ha  a  quelle 
fatto  far  fortuna.  Tutto  il  resto  è  rimasto  a  lui,  come  cosa  morta. 
Giacché  non  è  possìbile  che  una  nazione  s'induca  ad  accettare  per 
progetto,  e  qtiasi  a  freddo,  una  parte  di  lingua  che  non  sia  per  la 
solita  via  spontanea  e  naturale  entrata  nella  sua  mente.  Per  divul- 
gare in  una  nazione  intera,  non  che  una  parte  di  lingua,  un  sol 
vocabolo,  v'occorre  quel  mtzio,  per  il  quale  ogni  dialetto  colto  è 
potuto  diventare  universalmente  ricevuto  da  una  nazione:  l'uco  felice 
e  fortunato  degli  scrittori. 

Bologna,  tnaggio,  1873. 

Francesco  n'Ovmio. 


—  584  — 
CO^Sin[)E%AZJO^Ì 

sulla  istruzione,  soprattutto  classica,  in  Italia 

a  proposito  del  recentissimo  libro  di  M.  BREAL 

sulV istruzione  pubblica  in  Francia 

(Conlinu3zione  e  fine:  v.  tast:.  .",  p.  o-23;  fase.  .S",  p.  225-246;  fase.  7°,  p.  3 10-329; 
fase.  9°,  p.  432-455). 

VII. 

Dalle  considerazioni  che  ti  abbiamo  invitato  a  fare  con 
noi,  intelligente  ed  attento  lettore,  intorno  a  parecchi  vizii 
gravissimi  da  cui  è  travagliata  ed  isterilita  in  gran  parte  la 
istruzione  italiana,  ossia  sopra  gristinti  soverchiamente  pra- 
tici, retorici,  empirici,  sulle  tendenze  al  troppo  dommatiz- 
zare  ed  allo  starsene  immobile  e  finalmente  suUavversione 
alla  scienza  straniera  e  sopranutto  alla  tedesca,  tu  hai  già 
senza  fallo  potuto  e  dovuto  scorgere  chiaramente  quanto  sia 
ancora  in  realtà,  ad  onta  di  tante  illusioni  e  di  tante  decla- 
mazioni ,  deplorabilmente  raro  fra  noi  il  vero  spirito  di 
scienza.  In  ciò  sta  la  causa  e  la  spiegazione  di  un  fatto,  il 
quale,  per  le  funeste  conseguenze  che  ne  derivano  inevità- 
bilmente, è  ben  degno  delle  più  accurate  osservazioni  :  vo- 
gliam  dire  il  fatto,  che,  allorquando  si  pensa  a  combattere 
con  nuovi  e  più  efiBcaci  rimedi!  i  morbi  ond'è  infermo  evi- 
dentemente lo  insegnamento  italiano,  molti,  eziandio  fra  gli 
uomini  colti,  onesti  e  sinceramente  desiderosi  di  vero  pro- 
gresso, sono  pur  sempre  coloro  i  quali  chiedono  quei  ri- 
medii  non  già  alla  scienza,  ma  bensì  ad  altre  forze  che  alla 
medesima  sono  estranee. 

E  qui  primo  ci  si  fa  innanzi  uno  stuolo  con  una  ban- 
diera su  cui  sta  scritto  «  Ordine  ».  U ordine^  e  solo  V ordine, 
èia  panacea,  come  di  tante  altre  bellissime  cose,  così  eziandio 
della  pubblica  istruzione.  Volete  che  ì  bimbi  d'Italia  diven- 
tino, in  pochi  anni  di  studio,  arche  di   scienza   universale, 


-585  - 
biblioteche  ambulanti,  vive  enciclopedie?  li  mezzo  è  pronto. 
Fate  una  nuova  legge  di  pubblica  istruzione,  nuovi  regola- 
menti, nuove  circolari  (come  le  appellano) ,  nuove  istru- 
zioni, nuovi  programmi  che  determinino  sempre  più  stretta* 
mente  il  senso  della  legge  e  limitino,  quant'è  possibile,  Tin- 
dipendenza  del  professore;  fate  che  quanto  resta  ancora, 
pur  troppo,  di  questa  pericolosa  indipendenza  venga  scemato 
da  una  gerarchia  di  amministratori,  alta  come  la  scala  di 
Giacobbe  ;  fate,  insomma,  che  il  maestro  sia  non  un  uomo, 
ma  un  automa  insegnante,  e  voi  avrete  tocco  il  cielo  con  un 
dito.  Sciaguratamente  né  leggi,  né  regolamenti  (i),  né  cir- 
colari, né  istruzioni,  né  programmi,  in  gran  parte  sovente 
assai  poco  utili  al  buon  professore,  valgono  ad  infondere 
miracolosamente  la  virtù  dello  insegnar  bene  in  chi  non  né 
è  capace  :  né  v'ha  direttore,  ne  preside,  né  provveditore,  né 
consiglio  scolastico,  né  ispettore,  né  ministro  che  possa  far 
questo  prodigio.  La  legge  a  che  giova  se  il  maestro  non  è, 
sì  per  ingegno  si  per  dottrina,  atto  a  compierne  i  decreti? 
Impotente  a  scoprire  nuovi  veri  e  metodi  nuovi,  né  per  lo 
più  guari  propizia  alle  innovazioni,  ella  non  é  certo  uno 
dei  più  efficaci  strumenti  del  progresso:  soggetta  a  mutarsi 
sotto  razione  di  cause  politiche,  essa  é  instabile  come  le  parti. 


(i)  «Jc  crois  peu  à  l'efficacité  des  règlements  ;  non  qu'ils  soient  in- 
différents,  mais  rarement  le  bien  qui  résulte  des  réformes  compensa 
l'inconvénient  de  changer  ce  qui  est  établi.  Jccongois  une  administra-^ 
tion  ideale  qui  ne  ferait  pas  un  seni  arrété  nouveau,  et  se  bornerait  à 
un  choix  de  personnes.  Les  hommes  sont  tout;  les  règlements  ^  trèS" 
peu  de  ckose.  »  Renan,  Questtons  contemporaines,  p.  103-4.  —  ^"^  Ger- 
mania il  professore  universitario  non  è  servo  del  programma  (v.  HiL- 
LEERAND,  L'cnscignemeni  supérieur  en  Allemagne  [Revue  moderne^ 
t.  45,  p.  306);  PoucHET,  Venseignement  supérieur  des  scicnces  en  Alle- 
magne {Revue  des  deux  mondes^t.  83,  p.  443)):  nel  Belgio  «  les  hautes 
études  ont  été  écrasées  sous  la  plus  dure  des  tyrannies,  celle  du  pro- 
gramma »  Laveleye  ,  La  liberté  de  Venseignement  supérieur  en  Belgi' 
que  (Revue  des  deux  mondts,  t.  86,  p.  886;. 

Tiivisla  di  filologia  ecc.,  I.  39 


—  586  — 
come  gli  uomini  che  salgono  al  potere  e  poi  ne  scendono  o 
ne  cadono  con  perpetua  vicenda.   Eguali  considerazioni  si 
possono  fare  e  furono  fatte  da  uomini  autorevolissimi  intorno 
all'amministrazione  scolastica  (i).   Il  perfezionamento  delia 


(i)   Ce  n'est  pas  le  grand  maitre  de  l'Université,  ni  le  conseil  su- 
périeur,  ce  ne  sont  point  les  recteurs  et  les  proviseurs  qui  peuvent  per- 
fectionner  les  mélhodes  :  ils  ne  peuvent  qu'encourager,  accueillir,  gé- 
néraliser  les  améliorations  faites  spontanément  par  l'initiative  des  pro- 
fesseurs.  Le  maitre,  dans  toute  corporation  enseignante,  est  la  force 
organique  d'où  doit  partir  la  vie  et  le  mouvement.  Si  vous  le  rédui- 
sez  au  ròle  d'un  instrument  de  transmission,  vous  changez  l'ensemble 
du  corps  enseignant  en  un  mécanisme  qui  ne  peut  ni  se  perfectionner, 
ni  se  renouveler  de  lui-méme.  Comment  le  professeur  modifieraìt-il 
la  forme  ou  la  matière  de  ses  le^ons  si  la  méihode  lui  est  prescrite, 
si  les  livres  sont  indiqués,  s'il  est  jugé  d'après  les  compositions  heb- 
domadaires  de  sa  classe,  s'il  est  enchainé  à   son  programme  par  des 
concours  périodiques  ainsi  que  par  la  nécessité  de  préparer  les  élèves 
aux  concours  ou  aux  écoles,  si  des  inspecteurs  viennent  constater  l'exé- 
cuuon  du  règlement,  sans  compter  le  recteur  et  le  proviseur,  qui  peu- 
vent à  tout  instant  le  rappeler  à  l'ordre?  Plus  d'un   maitre  sent  que 
ce  qu'il  enseigne  n'est  pas  ce  qu'il  y  aurait  de  plus  utile  ni  de  meil- 
leur;  mais  quoi?  toute,  la  machine   universitaire  pése  sur  lui:    il   se 
soumet  et  devient  peu  à  peu  un  rouage.  Plus   souvent  encore ,  l'idée 
d'un  changement  ne  s'est  méme  pas  présentée  à  son  esprit;  car,  forme 
lui-méme  par  l'Université,  passe  à  l'engrenage  des  compositions,  des 
examens,  des  écoles,  des  concours,  ordinairement  prive  de  connaissances 
pédagogiques,  il  n'a  eu  ni  l'occasion,  ni  le  temps  de  réfléchir  sur  ce  qu'il 
aappris  et  sur  ce  qu'il  enseigne...  Une  grande  administration  est  fermée 
au  progrès  par  en  haut  comme  par  en  bas;  le  chef  qui  voudrait  faire  une 
réforme  ne  sait  sur  quel  point  de  ce  grand   mécanisme,  où  tout  se 
tient,  il  doit  l'essayer;  il  n'a  pas  les  hommes  qu'il  faudrait  pour  la 
mettre  à  exécution  ;  enfin,  chose   plus  decisive  encore ,   pour   tenter 
une  innovation,  il  faut  qu'elle  se  soit  déjà  montrée  quelque  part  d'elle- 
méme;  or,  tout  est  prévu   et  combine  pour  l'empécher   précisément 
de  se  produire.  »  Bréai-,  Op.cit.,  p.  269-71.  —V.  anche  LenormanT,  Es- 
sais  sur  V instruction  publique,  publiés  par  sonjìls,  Paris  1873,  p.  174-87; 
Marcou,  De  la  science  en  France,  Paris,  1860,  parte  r,  p.  7  e  14-16 
(ove  parla  molto  liberamente  degl'ispettori  generali  francesi);  Renan, 
La  réforme  intellectuelle  et  morale,  Paris,  1871,  p.  o").  —  Il  soverchio 
potere  dell'amministrazione  scolastica  sull'istruzione  francese  venne 
fieramente  biasimato  daU'HAHN  (v.  Renan.  Qiiestions  contemporaines, 
p.  269-73),  e,  prima  ancora,  da  F.  Thiersch,  giudice  di  cui  nessuno 
negherà  la  competenza  (v.  Lenormant,  Ov.at.^-^.   s8o-i). 


—  587  - 
istruzione  in  qualsiasi  paese  ed  in  qualsiasi  tempo  è  opera 
che  debbe  essere  affidata  a  coloro  che  hanno  consecrata  la 
vita  al  progresso  delle  singole  scienze  :  è  opera  che  debb'es- 
sere  continuata  regolarmente  e  con  calma  serena ,  e  senza 
dipendere  da  altre  rivoluzioni  che  quelle  le  quali  lenta- 
mente si  compiono  nel  mondo  del  pensiero.  Per  non  essersi 
sufficientemente  attenuta  a  queste  norme ,  la  nuova  Italia 
non  conseguì  sino  a  questi  giorni  nell'istruzione  pubblica  né 
progresso  né  stabilità  ond'essa  possa  star  paga  :  l'odierna  in- 
chiesta sull istru\ione  secondaria  ci  mostra  colla  più  viva 
evidenza  in  quale  stato  deplorabile  noi  siamo  caduti. 

«  Volete  risorgere  ?  »  ci  grida  una  seconda  schiera.  «  Se- 
guite il  nostro  vessillo,  su  cui  abbiamo  scritta  una  sola  pa- 
rola, ma  tale  che  è  magico  rimedio  a  tutti  i  mali,  passati, 
presenti  e  futuri,  reali  e  possibili ,  lievi  e  gravissimi  :  Li- 
bertà. Lasciate  libero  il  moto  delle  forze  individuali,  libera 
la  concorrenza,  e  voi  vedrete  portenti.  Né  vi  sgomentino 
certi  abusi  :  la  libertà,  come  la  lancia  di  Achille,  ferisce  e 
risana.  »  C'inchiniamo  profondamente  innanzi  a  questa  teo- 
rica ed  a  questa  similitudine,  ma  chiediamo  umilmente  ci  si 
permetta  qualche  domanda,  che,  nella  nostra  dabbenaggine, 
ci  sembra  proprio  necessaria.  Che  la  libertà  sia  ambiente 
propizio  allo  svolgimento  di  germi  già  esistenti,  é  fatto  in- 
contestabile :  ma,  se  questi  germi  non  esistono ,  la  libertà 
può  ella  crearli  ?  Può  ella  creare,  ha  ella  mai  creato  qualche 
cosa  la  libertà  (i)?  E  che  avverrà  mai  se  i  germi  funesti 
superano  gli  altri  in  numero,  in  potenza?   Che  avverrà  se 


(i)  «'  La  liberté,  quoi  qu'en  aient  dit  Ics  déclamateurs  de  toutcs  les 
écoles ,  ne  produit  rieri  par  elle-métne:  elle  permet  aux  germes  qui 
sont  déjà  de  se  dcvclopper,  »  Bbéal,  Op.  cit.,  p.  i55,  —  < si  la  li- 
berté offre  le  milieu  le  plus  favorable  aux  germes  nouveaux,  elle  ne 
produit  pas  [de  gennes  par  elle-mcmc.  »  Baudry,  Questions  scolaircsl. 
Paris,  1873,  p.  io5. 


-  588  — 
l'azione  di  cause  esterne  promoverà  lo  incremento  di  ele- 
menti malefici,  e  di  quelli  che  sarebbero  per  sé  stessi  fecon- 
dissimi di  bene  si  opporrà  al  trionfo  o  corromperà  la  na- 
tura ?  No,  non  v'ha  libertà  che  valga,  verbigrazia  sul  campo 
della  istruzione,  ad  infondere  in  genitori  ignoranti  e  sprez- 
zatori  del  sapere  la  volontà  di  fare  istruire  i  proprii  figliuoli, 
ne  a  trasformarvi  un  maestro  inetto  al  proprio  ufficio  in  un 
valente  e  nemmeno  in  un  mediocre  insegnante.  Le  scuole 
private,  sì  numerose  e  frequentate  da  parecchi  anni  in  qual- 
che parte  del  nostro  paese,  non  superarono  certo  per  lo  più 
le  pubbliche,  ma  delle  pubbliche  furono  e  sono  general- 
mente non  altro  che  imitazioni,  né  mai  scorgemmo  in  alcuna 
di  quelle  che  potemmo  conoscere  nemmeno  uno  di  quegli 
arditi  tentativi  di  vero  perfezionamento,  che,  secondo  certe 
teoriche,  o,  per  dir  meglio,  certe  illusioni,  dovrebbero  na- 
scere frequenti  e  splendidi  su  qualunque  suolo  appena  che 
l'abbia  tocco  colla  sua  verga  quella  fata  onnipotente  che 
chiamano  Libertà  (i).  Si  aggiunga  che,  sottratta  all'autorità 


(i)  «  Plusieurs  demandent  aujourd'hui  la  suppression  des  lycées: 
ce  serait  la  ruine  de  la  culture  littéraire  dans  notre  pays.  L'Univer- 
sité  a  sì  bien  établi  son  règne,  qu'il  n'existe  rien  en  dehors  d'elle. 
En  1793,  la  Conveniion  supprima  tous  les  Colléges,  toutes  les  Facultés, 
confisqua  leurs  biens,  dispersa  les  corporations  savantes,  et  sur  les 
ruines  de  l' epseigneraent  public  proclama  la  Hberté  de  l'enseigne- 
ment.  La  chute  du  monopole  ne  fit  point  de  raìracles:  les  écoles  pri- 
vées,  en  petit  nombre,  qui  s'élevèrent ,  recueillirent  les  anciens  mat- 
tres  avec  leurs  méthodes ,  leurs  manuels  et  leurs  cahiers.  Pareille 
chose  se  reproduirait  aujourd'hui.  Si  les  lycées  disparaissaient ,  des 
copies  affaiblies  de  nos  lycées  s' éléveraient  bienlòt  dans  nos  grandes 
villes.  Quelques  instituts  à  moitié  politiques ,  à  moitié  littéraires  cu 
scientifiques,  telles  seraient  sans  doute  les  créations  originales  de  Ti- 
nìtiative  privée.  Les  écoles  centrales  de  la  première  République  peu- 
vent  nous  servir  d'avertissement;  ne  recommen9ons  pas  une  expérience 
fatalement  destinée  à  échouer,  et  qui  nous  ramènerait  bientót  les  vieil- 
les  méthodes.  »  Bréal,  Op.  cit ,  p.  325^6.  V.  anche  p,  i55.  —  «  On 
pourrait  nous  reprocher  qu'en  prenant  toujours  pour  objet  les  établis- 
sements  de  l'État  et  leur  réforme,  nous  avons  manqué  de  confiance 


—  589  — 
del  governo,  la  scuola,  soprattutto  presso  certi  popoli  ed  in 
certe  epoche,  è  grandemente  soggetta  al  grave  pericolo  di  es- 
sere tramutata  in  un  campo  di  battaglia,  sul  quale  vedremmo 
non  già  le  generose  e  feconde  lotte  del  vero  contro  Terrore, 
ma  quelle,  troppo  spesso  sterili  ed  ignobili,  con  cui  le  varie 
parti  politiche  e  religiose  con  sciagurata  frequenza  si  trava- 
gliano ferocemente  e  si  consumano  a  vicenda.  Né  Petà  no- 
stra fu  raramente  spettatrice  di  questi  mali,  né  di  quelli  cui 
videro  i  secoli  passati  perì  la  memoria.  Quindi,  trattando 
deirazione  esercitata  dallo  stato  sull'insegnamento  superiore, 
ben  potè  scrivere  il  Boissier,  che  mentre  «  on  l'accuse  » 
[l'étai)  «  de  opprimer  la  liberté,  au  contraire  il  la  main- 
tieni  »  (i),  salvando  Tistruzione  dalle  prepotenze  di  certe 
sette,  le  quali  sono  avvezze  a  voler  la  libertà  per  se  sole 
ed  a  negarla  altrui,  quasi  ella  fosse  un  privilegio  loro  do- 
vuto. Che.  pertanto  l'azione  dello  stato  sia  necessaria  ed  alla 
conservazione  ed  al  perfezionamento  della  coltura   e  della 


envers  la  liberté  de  l'enseignement,  qui  va,  dit-on,  apporter  avec  elle 
tous  les  genres  de  progrès.  Mais  c'est  justement  de  quoi  nous  ne  nous 
flattons  pas,  car,  depuis  plus  de  vingt-cinq  ans  quo  l'enseignement  se- 
condaire  est  libi-e,  il  n'a  produit,  chez  les  lai'ques  et  chez  le  clergé, 
que  de  plus  ou  raoins  pàles  copies  des  lycées.  »  Bauory  ,  Questions 
scolaires,  p.  io5.  —  Anche  C.  Lenormant  ,  autore  manifestamente 
non  avverso  al  clero,  scrisse  le  seguenti  parole:  <<  L'obligation  de  se 
conformer  aux  errements  adoptés  dans  les  colléges  de  l'Etat  ne  serait 
pas  en  elle-méme  un  embarras  pour  le  clergé ,  qui  est  généralement 
accoutumé  à  les  suivre  dans  ses  propres  établissements.  »  [Op.  cit. , 
p.  287).  —  "  Je  crois  que  ces  universités  libres  produiraieni  de  très- 
médiocres  resultata;  toutes  les  fois  que  la  liberté  existe  réellemcnt 
dans  l'université,  la  liberté  hors  de  l'université  est  de  peu  de  consc- 
quence;  mais,  en  leur  perraettant  de  s'établir,  on  aurait  la  conscicnce 
en  règie  et  on  fermerait  la  bouche  aux  personnes  naives  toujours  por- 
lées  à  croire  que  sans  la  tyrannie  de  l'Etat  elles  feraient  des  mervoil- 
les.  »  Renan,  Ré/orme  etc.  ,  p.   104-5. 

(1)  L'enseignement  supérieur  (Revue  des  deux  monde s ,  t.  75,  p. 
866-8.)  V.  anche  Duruy,.  La  liberté  de  l'enseignement  supéricur  (  Re- 
vue des  deux  mondes,  t,  85,  p.  75G-71. 


-500  - 
educazione  intellettuale  di  un  popolo  -,  che  alla  legge  ed  al 
governo  non  solo  competa  il  diritto,  nria  spetti  il  dovere  di 
far  sì  che  l'istruzione  primaria  diventi  il  patrimonio  di  tutti  i 
cittadini  e  che  lo  insegnamento  nella  universa  varietà  de'suoi 
gradi  e  delle  sue  forme  corrisponda  sempre  meglio  al  proprio 
fine,  è  opinione  d^uomini  per  ingegno,  per  dottrina,"  per 
esperienza,  per  amore  del  progresso  autorevolissimi  (i). 

Ne  l'uno  ne  l'altro  pertanto  dei  due  principii ,  dei  quali 
esaminammo  l'efficacia,  vale  a  dire  ne  Vordine  né  la  libertà^ 
basta  per  sé  solo  ad  esercitare  sulla  istruzione  quella  potente 
azione  riformatrice,  che  due  scuole  avversarie  ed  entrambe, 
se  non  c'inganniamo,  vittime  di  deplorabili  illusioni,  da  essi 
attendono  invano.  Non  vuoisi  per  altro  affermare,  che  questi 
principii  non  possano  essere  fecondi  di  molto  bene,  a  patto 
che  siano  insieme  sapientemente  contemperati  :  solo  ci  par 
dimostrato  che,  nemmeno  in  questo  ultimo  caso  (che  certo 
né  facilmente  né  spesso  ha  luogo),  l'opera  loro  benefica  può 
essere  sufficiente  ad  infondere  nell'istruzione  nuova  vita  ed 
anima  nuova.  Che  manca  dunque  e  quale  é  la  forza  neces- 
saria a  compiere  questo  che  a  taluno  parrebbe  quasi  mira- 


(i)  Per  ciò  che  attìensi  alla  necessità  dell'istruzione  elementare  ob- 
bligatoria vedi  soprattutto  Simon,  L école  ^  Paris,  i865  ,  pane  3*, 
p.  209-323 ;  Laveleye,  Uinstruction  du  peuple,  Paris,  1872  (libro 
ricco  di  notizie  statistiche  utilissime),  p.  16-39;  Rendu,  Uinstruction 
primaire  devànt  r assemblée  nationale ,  Paris,  1873,  p.  11  e  segg.  — 
In  ordine  alla  ingerenza  del  pubblico  potere  nella  direzione  dello  in- 
segnamento V.  Bréal  ,  /.e.  ;  Baudry  ,  /.  e.  ;  Laveleye  ,  Op.  cit. , 
p.  8-16;  DuRUY,  Art.  cit.;  Laveleye,  La  liberté  de  Tenseignement 
supérieur  en  Belgique;  Renan,  /.  e.  Poniam  fine  a  queste  citazioni, 
adducendo  il  parere  di  Guizot,  quale  lo  riferisce  il  Laveleye  [Uins- 
truction du  peuple  f  p.  11):  «  Jamais  dans  un  grand  pays  ,  un  grand 
changement,  une  amélioration  considérable  dans  le  système  de  l'édu- 
cation  nationale  n'a  été  l'oeuvre  de  l'industrie  particulière.  li  y  faut 
un  détachement  de  tout  intérét  personnel,  une  élévation  de  vues,  un 
ensemble,  une  permanence  d'action  qu'elle  ne  saurait  atteindre  ». 


-591  - 
colo?  Cerchiamo  e  ricerchiamo  con  pazienza,  con  calma,  e, 
soprattutto,  con  sincera  imparzialità. 

Nella  istruzione  scolastica  il  profitto  procede  direttamente 
da  due  cause  :  vale  a  dire  dal  modo  con  cui  lo  insegnamento 
è  dato  dal  maestro  e. da  quello  con  cui  è  accolto  dagli  al- 
lievi. Ma  su  questa  seconda  causa  può  esercitare  grande  in- 
fluenza la  prima:  che  Tallievo  è  sempre  piij  o  meno  acconcio 
ad  essere  modificato  dal  maestro.  Oltracciò  la  maggiore  o 
minore  disposizione  a  lasciarsi  istruire  ed  educare  dipende, 
nello  alunno ,  in  parte  dalla  varia  natura  della  società  (e 
principalissimamente  della  famiglia  )  in  cui  si  svolge ,  né 
puossi  negare  che  sulla  società  influisca  perfezionandola , 
sebbene  lentamente,  l'attività  di  buoni  maestri  :  in  parte  da 
certi  caratteri  indelebili  dell'indole  individuale,  che  potenza 
umana  non  vale  a  mutare.  Hassi  adunque  a  considerare 
qui,  soprattutto,  la  prima  delle  due  cause  accennate,  ossia 
Popera  del  maestro.  Il  valore  di  qaest'opera  sarà  evidente- 
mente, data  qualsiasi  legge  e  qualsiasi  amministrazione  sco- 
lastica, tanto  maggiore  quanto  piìj  varrà  Tautore  di  essa. 
Forza  suprema  fra  tutte  quelle  che  concorrono  al  grande 
lavoro  della  pubblica  istruzione,  e  tale  che  nessun' altra 
può  ad  essa  nemmeno  accostarsi  in  efficacia,  è  pertanto  il 
maestro:  ne  guari  erra  chi  afferma  che,  quanto  vale  il  maestro, 
altrettanto  la  scuola.  Da  questo  fatto  incontestabile  deriva 
questa  conseguenza,  anch'essa  certissima,  che  a  perfezionare 
la  scuola,  vuoisi,  sovr'ogni  altra  cosa,  perfezionare  il  mae- 
stro.  E  in  tutti  voi,  che  dite  voler  la  riforma  della  istruzione 
italiana,  veramente  sincero  e  vivo  questo  desiderio  ?  Ebbene 
fate,  in  primo  luogo,  che  la  carriera  dello  insegnamento  non 
abbia  più  a  distogliere  dal  medesimo  i  più  tra  i  giovani 
intelligenti  ed  operosi  :  fate  che,  per  lo  contrario,  la  certezza 
di  miglior  avvenire  li  tragga  alle  facoltà  universitarie,  alle 
scuole  normali  superiori  che  sono  preparazione  al  nobile, 


-592  ->- 
ma  arduo  compito  dello  insegnamento.  Fate  che  non  siano 
costretti  ad  attendere,  con  pari  intensità  di  sforzo  intellet- 
tuale, a  soverchio  numero  di  corsi,  ma  che  ciascuno  possa 
consecrarsi  in  particolar  guisa  a  quegli  studi  cui  la  propria 
natura  lo  chiama.  Fate  che  i  loro  maestri  siano  valenti  e 
noti  a  tutti  come  tali  per  lavori  scientìfici,  e  che  gii  allievi 
possano  assistere  alle  loro  lezioni  e  studiare  sotto  la  dire- 
zione di  essi,  ne  si  vedano  forzati  dai  bisogni  materiali  della 
vita  ad  abbandonare  le  scuole  ed  a  insegnare  altrui  ciò  che 
non  hanno  ancora  essi  imparato  a  sufficienza.  Fate  che  gli 
esami  siano  dati  con  inesorabile  giustizia,  ma  che  coloro, 
i  quali  sapranno  superarli  con  più  splendido  successo,  siano 
ricompensati  giusta  il  proprio  valore  colFottenere  le  migliori 
fra  le  cattedre  vacanti.  Fate  che  gr  insegnanti  approvati 
dopo  severo  esame,  educati  a  severa  scuola,  siano  lasciati 
liberi  quanto  lo  permettono  le  necessarie  esigenze  delFor- 
dine  bene  inteso;  chela  loro  energia  personale  non  si  senta 
schiacciata  ne  dal  peso  della  legge  ne  da  quello ,  men  tol- 
lerabile ancora,  di  superiori  prepotenti  ed  inetti.  Fate  che 
al  maestro  non  manchino  affatto  i  mezzi  di  continuare  i 
proprii  studi,  ma  che  gli  siano,  quanto  più  liberalmente  sarà 
possibile,  somministrati  da  buone  biblioteche  liceali,  ginna- 
siali :  a  lui  non  basta  il  cibo  del  corpo,  gli  è  necessario 
quello  deirintelletto,  e  questo  pane  che  voi  gli  date  egli  ren- 
derà moltiplicato  ai  vostri  figli;  male  insegna  altrui  chi  non 
insegna  continuamente  a  sé  stesso,  che,  in  tanto  e  sì  rapido 
moto  della  scienza  odierna,  chi  non  progredisce  indietreggia, 
chi  non  s'innalza  ruina  sempre  piìi  a  basso.  Fate  che  la 
carriera  di  chi  insegna  dipenda  dallo  ingegno,  dalla  dottrina, 
dallo  zelo  ond'egli  si  rivela  fornito,  non  mai  dalParbitrio, 
dal  capriccio  altrui;  riconoscetene,  ricompensatene  i  meriti 
e  fate  che  siano  rispettati:  con  qual  animo  può  attendere 
questo  apostolo  del  sapere  al  suo  troppo  sovente  penoso  la- 
voro, se  voi  lo  lasciate  incerto  del  suo  avvenire   e   smesse 


—  593  - 

volte  avvilito  dairaltrui  indifferenza?  No,  Pistruzione  non  ri- 
sponderà mai  ai  voti  di  tutti,  finché  il  maestro  sarà  frequen- 
temente, come  ancora  vediamo  troppe  volte  avvenire,  con- 
dannato ad  essere  il  martire  dello  insegnamento. 

Vili. 

Concludiamo.  Combattere  il  culto  soverchio  dell'interesse 
pratico,  Tadorazione  fanatica  della  forma,  il  cieco  empirismo, 
l'ebete  ossequio  irrazionale  ora  a  vere  or  eziandio  a  false 
autorità  ed  all'uso,  la  stolta  avversione  alla  scienza  stra- 
niera, la  fede  pazzamente  riposta  più  nelle  leggi  e  nell'am- 
ministrazione scolastica  che  nel  valore  dei  maestri^  difendere 
contro  queste  forze  fatali,  or  cospiranti  in  favore  dell'igno- 
ranza, la  causa  della  scienza:  ecco,  o  lettore,  il  fine  che  ci 
proponemmo  dettando  queste  Considerazioni.  Prendemimo 
le  mosse  dal  classico  libro  del  francese  Bréal,  traemmo 
esempii  ed  ammonimenti  dalla  Francia,  affinchè  a  tutti  ap- 
parisse chiaramente  quanto  in  quel  paese,  che  fu  già  troppo 
spesso  oggetto  di  servile  imitazione  a  troppi  Italiani,  quei 
vizii  siano  stati  riconosciuti  funesti  e  maledetti  dai  più  in- 
telligenti amici  del  vero  progresso  *,  citammo  non  di  rado  la 
Germania,  per  dimostrare  con  evidenza  quanto  siano  feconde 
di  civiltà  le  virtù  intellettuali  che  ai  vizii  accennati  si  con- 
trappongono :  paragonammo,  ogniqualvolta  ce  se  ne  offerse 
il  destro,  la  nostra  povertà  nella  scienza  colla  ricchezza  altrui; 
che  c'incalza  la  necessità  di  destarci  e  di  lavorare  per  non 
diventar  gli  ultimi  noi  che  fummo  i  primi.  Parlammo  libe- 
ramente, perchè  ormai  la  dissimulazione  intorno  a  certi 
argomenti  ci  sembra  imperdonabile  viltà,  e  perchè,  quand'an- 
che queste  nostre  libere  parole  avessero  a  riuscir  vane  o  fu- 
neste a  noi  stessi,  vorremmo  nondimeno,  e  fortemente  vor- 
remmo, essere  consci!  di  aver  fatto  quanto  credemmo  compito 
nostro  e  di  non  essere  stati  timidi  amici  del  vero. 

D.  Pezzi. 


-  594  - 


CENNI   BIBLIOGRAFICI 


Grammatica  Elementare  della  lingua  Greca  secondo  il  metodo  di  G.  L. 
BuRNOui'.  Nuova  edizione  rifusa  ed  ampliata  per  opera  di  Osvaldo 
Berrini.  —  Torino,  1872. 

Che  vi  sia  ancora  fra  gli  insegnanti  chi  si  tiene  a  vecchi 
metodi,  lo  sappiamo  pur  troppo;  nò  la  è  cosa  del  resto  che 
ci  arrechi  stupore.  La  scienza,  come  tutti  gli  altri  grandi 
portati  dello  spirito  umano,  ha  i-  suoi  sacerdoti,  ma  anche  i 
suoi  detrattori.  A  questi  uhimi  è  fomento  Tinvidia,  o,  peg- 
gio, il  torpore  dell'animo  e  l'indifferenza.  Ma  di  ciò  ci  pas- 
seremmo, come  di  un  fatto  umano,  de'  più  ovvii  e  consueti, 
ove  non  ne  andasse  di  mezzo  Tutile  della  gioventià  nostra,  il 
decoro  del  paese,  e,  ciò  che  più  monta,  il  buon  senso. 

li  prof.  Berrini,  alla  cui  operosità,  al  cui  zelo,  alla  cui  in- 
telligenza noi  vorremmo  pur  rendere  ogni  maggior  lode,  ci 
porge  invece  occasione  di  grande  rammarico,  di  dolore  anzi 
vero,  con  questa  sua  pubblicazione.  E  doppia  cagione  ab- 
biamo di  dolerci;  in  primo  luogo  per  vedere  avvalorato  del- 
Tautorità  d'un  insegnante,  pur  rispettabile  e  provetto,  un 
metodo  d'insegnamento  grammaticale  della  lingua  greca,  il 
quale  ripugna  assolutamente  ad  ogni  ragione  scientifica,  e  ne 
riconduce  al  cieco  ed  arbitrano  empirismo  della  scuola  Olan- 
dese, contro  del  quale  già  negli  ultimi  decenni  del  secolo  pas- 
sato avea  affilato  le  sue  armi  Godofredo  Hermann.  Davvero 
che  nella  patria  di  Amedeo  Peyron,  che  il  primo  fece  cono- 
scere all'Italia  dalla  dotta  Torino  i  frutti  della  scuola  storica, 
volgarizzando  la  grammatica  del  Matthiae,  sarebbe  tempo 
oggimai  che  si  comprendesse,  come  certi  amori  a  un  passato, 
che  non  ha  più  ritorno,  perchè  il  moto  della  scienza  è  pro- 
gressivo di  sua  natura,  tornano  alla  fin  fine  a  tutta  vergogna 
nostra.  Scnonchè  non  è  ciò  di  che  abbiamo  maggiormente  a 
dolerci.  Noi  vediamo  inflitti  sotto  il  nome  dello  stesso  pro- 
fessore Berrini  recato  alle  mani  della  gioventù  studiosa  un 
Corso  di  eserciii  Greci  secondo  le  grammatiche  di  G.  Curtius 


-595  — 
e  R.  Kiìhner,  con  questa  raccomandazione,  che  esso,  cioè, 
si  vantaggia  su  parecchi  altri  di  così  fatti  libri  per  l'accu- 
rata osservaìi^a  del  metodo  di  G.  Curtius.  Ecco  quello  che 
più  ne  rattrista:  questo  cotale  scetticismo  pratico,  che  tende 
a  sospingere  la  scuola  verso  due  direzioni  di  studio,  che  cor- 
rono vie  affatto  opposte  fra  loro,  ingenerando  negli  animi 
quello  stato  d'incertezza  alia  quale  seguita  appresso  Tindif- 
ferenza  verso  ogni  corretto  criterio  di  dottrina  e  di  scienza. 
Vero  è  che  il  signor  prof.  Berrini,  nel  breve  preambolo  del 
libro  che  ci  sta  dinnanzi,  fa  omaggio  agli  splendidi  risulta- 
menti,  che  col  metodo  storico-comparativo  si  ottennero  nel 
secolo  presente  nella  scienza  deirumano  linguaggio,  per  cui 
la  questione  parrebbe  ornai  dover  tenersi  decisa  in  favore  di 
esso:  ma  subito  dopo  è  detto,  che  ragioni  eccellenti  militano 
in  favore  deiraltro  metodo  —  Tempirico  — ,  riuscendo  evi- 
dente, che  esso,  col  limitarsi  ad  un'esatta  e  ordinata  rappre- 
sentazione dei  fatti,  si  adatta  meglio  alle  condizioni  di  un 
insegnamento  elementare  del  greco.  L'autore  crede  —  certo 
in  buona  fede  —  che  un  siffatto  procedimento  di  studio,  ben 
lungi  dal  nuocere,  spiani  anzi  la  via  al  metodo  rivale,  col  ren- 
dere i  giovani  più  voghosi  dello  studio  del  greco,  una  volta 
addimesticati  coi  fatti  della  lingua  e  fondati  nelle  regole 
piti  semplici  della  grammatica.  Noi  invece,  con  buona  pace 
del  sig,  prof.  Berrini,  crediamo  ancora  al  vecchio  dettato: 
quo  semel  est  imbuta  recens,  servàbit  odorem  —  testa  din;  e 
non  siamo  affatto  affatto  d'avviso,  che  sia  lecito  insegnare  ma- 
lamente e  con  metodi  disapprovati  sia  pure  anche  i  rudi- 
menti primi  di  una  dottrina,  nella  speranza  di  poter  più  tardi 
raddirizzare  le  opinioni  storte  e  i  pregiudizii  più  volgari.  E 
un  errore  pedagogico  codesto,  secondo  noi,  per  non  dire  che 
un  cosiffatto  metodo  è  la  negazione  della  scienza.  Ma  veniamo 
al  fatto.  Il  sig.  prof.  Berrini  ci  presenta  il  metodo  del  Bur^nouf, 
siccome  quello  che  considera  le  lingue  classiche  separatamente 
luna  dall'altra,  e  si  contenta  di  mostrarcele  quali  vennero 
a  trovarsi  nelV epoca  della  loro  massima  coltura,  quali  giun- 
sero a  noi  ne'  piii  solenni  monumenti  delle  loro  letterature 
(vedi  Pref).  Ce  n'ha  anche  di  troppo  nel  solo  primo  inciso 
di  codesta  definizione,  per  avviare  una  polemica ,  potendoci 


-596- 

stare  contenti,  quanto  al  resto  di  essa,  a  mostrare  gli  errori 
di  fatto,  che  si  vorrebbero  ammannire  alla  gioventù  nostra, 
nello  stadio  preparatorio  dello  studio  del  greco.  Diciamo 
adunque  che  la  pretesa  di  piantare  lo  studio  delle  lingue 
classiche  sul  principio  delia  loro  separazione  è  contraria  af- 
fatto al  concetto  della  scienza  dell'antichità  classica,  tradisce 
la  generazione  crescente,  la  quale  ha  diritto,  che  nella  scuola 
le  si  apprestino  gli  elementi  del  sapere  nella  forma,  che  più 
e  meglio  risponda  al  progresso  scientifico,  e  agli  avversarli 
degli  studi  classici  in  generale,  e  della  lingua  greca  in  parti- 
colare porge  gradila  e  facile  occasione  a  reclamare  contro  un 
insegnamento,  del  quale  essi  non  vedono  nessuna  ragione 
d'ordine  scìenziale,  nessuno  addentellato  coirinsieme  delPin- 
dagine  e  della  coltura,  tanto  nel  campo  delle  scienze  storico- 
morali,  quanto  in  quello  delle  sperimentali,  massime  fisiolo- 
giche. L'alto  valore  degli  studi  classici  soltanto  allora  potrà 
venire  addimostrato  e  difeso  con  sicura  efficacia,  quando  lo 
sì  presenti  come  inerente  alla  storia  del  pensiero,  dell'arte, 
della  civiltà  Italo-Greca.  L'alta  e  straordinaria  importanza 
degli  studii  greci  sta  appunto  in  questo,  che  essi  cioè  sino 
da'  primi  passi,  a  così  dire,  vengono  condotti  sulla  grande 
strada  maestra  delio  incivilimento  Greco-Latino,  il  quale  si 
presenta  a  noi  come  un  fatto  complesso,  di  cui  neppure 
l'analisi  la  più  sottile  e  minuta  potrà  mai  rompere  la  con- 
nessila; poiché  la  civiltà  e  coltura  greca  s'è  così  compene- 
trata via  vìa  nella  Romana,  per  opera  de'  grandi  ingegni,  per 
forza  di  circostanze  esteriori  e  per  una  virtù  assimilatrice,  che. 
era  nell'indole  Romana,  che  se  ne  formò  un  bello  insieme, 
come  di  felice  innesto,  che  non  pare  opportuno  ormai  di  dis- 
gregare, o  trattare  come  che  sia  disgiuntamente. 

Ma  non  è  neppure  corretto  quello,  che  il  sig.  prof.  Berrini 
afferma  intorno  al  metodo,  che  chiameremo  storico-compara- 
tivo, che  esso  cioè  ci  venga  additando  ciascuna  delle  favelle 
antiche  nell'atto  del  suo  formarsi,  dimostrando  per  quali 
vicende  e  trasformazioni  si  condussero  in  quello  stato,  in  cui 
le  abbiamo  ricevute  (Vedi  Pref).  Codesto  potrà  dirsi  —  con- 
siderando la  cosa  cosi  all'indigrosso  —  della  linguistica.  Ma 
il  prof,  Berrini,  che  mostra  di  conoscere  anche  il  metodo  del 


-597  -^ 

Curtius,  saprà  anche  che  questo  chiaro  maestro  di  nessuna 
cosa  fu  tanto  sollecito  nello  scrivere  la  sua  grammatica  greca, 
quanto  del  contenere  lo  studio  elementare  del  greco  nei  limiti 
corretti  e  precisi  del  fenomeno  linguistico.  Se  gli  oppositori 
di  quel  classico  libro  si  fossero  data  la  briga  di  leggere  le 
savie  considerazioni,  messe  innanzi  dal  prof.  Arm.  Bonitz, 
per  Indirizzare  e  maestri  e  scolari  nell'uso  di  esso  —  consi- 
derazioni ormai  note,  per  la  versione  e  pubblicazione  fattane 
dal  Miiller,  nella  prefazione  al  Commento  dei  Curtius,  siamo 
di  credere,  che  molte  inutili  ciarle,  piuttosto  che  dispute,  sa- 
nano già  da  pezza  state  tolte  di  mezzo.  Ora  il  succo  delle 
avvertenze  del  Bonitz  si  ristringe  in  questi  termini  :  che,  poi- 
ché v'è  una  scienza  del  linguaggio,  bella  e  cresciuta,  poiché 
v'è  una  grammatica,  che  le  leggi,  meglio  accertate  di  quella, 
ha  applicato  allo  studio  del  Greco,  con  tutta  discrezione, 
così  che  non  si  va  oltre  il  fatto  concreto  della  forma,  non 
v'è  nessun  motivo  ragionevole  di  non  servirsene  nella  scuola. 
Siccome  poi  il  Curtius  avea  trovato  di  unire  insieme,  quasi 
a  mo'  di  preambolo  e  preparazione  allo  studio  della  declina- 
zione e  della  coniugazione,  le  leggi  più  sicure  della  dottrina 
dei  suoni,  così  il  Bonitz  avverte  gli  studiosi,  che  quelle  re- 
gole saranno  da  scompartire  a  tempo  e  a  luogo.  In  tutto 
questo  non  c'entra  per  nulla  né  il  diventare,  né  il  trasfor- 
marsi; c'entra  bensì,  e  per  moltissima  parte,  Io  spirito  vi- 
vificatore della  morta  materia,  c'entra  il  senso  pratico  del 
pedagogo,  che  sotto  umili  parvenze  prepara  le  giovani  menti 
alle  maggiori  indagini  della  scienza.  Ora  noi  vorremmo  do- 
mandare al  sig.  prof.  Berrini,  che  cosa  impedisca  agli  stu- 
diosi della  lingua  greca  col  metodo  del  Curtius  di  pervenire 
alla  conoscenza  dei  monumenti  più  solenni  dell'epoca  classica 
dell'Ellenismo*,  la  quale,  secondo  quello  che  egli  ne  dice 
nella  sua  prefazione  al  Burnouf,  dovrebbe  uscire  quasi  per 
incanto  dal  metodo,  che  da  questo  s'intitola.  A  nostro  avviso 
invece  ne  pare,  che  la  cosa  sarà  per  sortire  contrario  effetto, 
e  che,  cioè,  il  metodo  empirico  non  condurrà  a  nessuna  si- 
cura conoscenza,  non  diciamo  de'  monumenti  più  solenni 
della  letteratura  greca,  che  potrebbe  parere  un<\  celia,  ma 
neppure  ad  una  esatta  e  sicura  notizia  della  inflessione,  anzi 
neppure  a  saper  usare  il  vocabolario. 


—  598  - 

Infatti  se  v'ha  difficoltà  nello  studio  elementare  del  greco, 
quella  è  per  fermo' che  deriva  dalla  varietà  delle  forme; 
delle  quali  ove  tu  non  abbia  sicura  notizia,  fondata  sullo 
studio  razionale  delle  medesime,  è  impossibile  ritenere  a  me- 
moria la  fisionomia,  come  dire,  e  le  movenze  ;  e  d'altra  parte 
Tuso  spedito  e  sicuro  del  lessico  non  è  altramente  possibile, 
che  per  uno  studio  accurato  e  preciso  de\'ewi,  e  delle  varie 
loro  modificazioni  nella  inflessione,  e  nella  composizione  e 
derivazione.  Ora  noi  domandiamo  a  tutti  gli  uomini  impar- 
ziali, se  ciò  sia  possibile,  trattando  la  grammatica  greca 
nel  modo,  che  segue  qui  appresso. 

Citiamo  testualmente  dal  testo  del  sig.  prof,  Berrini,  §  79, 
(pag.  68).  «  Oltre  il  futuro  in  -(Ttu  e  Taoristo  in  -aa,  alcuni 
«  verbi  hanno  ancora  un  futuro  secondo  in  -éuj,  e  per  con- 
«  trazione  -u»,  e  un  aoristo  secondo  in  -ov.  Anzi  tutto  di- 
«  remo  che  questi  tempi  occorrono  specialmente  in  ceni 
•<  verbi  di  forma  allungata,  come  Xajnpdvu),  il  cui  primitivo 
«  disusato  èXrjpu}  ('!);  ovvero  in  verbi  che  hanno  nel  presente 
«  due  consonanti  dinanzi  alFiu,  come  tOtttuj  ;  oppure  in  verbi 
«  che  darebbero  cattivo  suono  al  futuro  ed  aoristo  di  forma 
«  prima.  » 

E  al  §  80  «  Finora  abbiamo  sempre  formato  il  futuro  at- 
«  tivo  in  -Cui  e  l'aoristo  in  -era.  Ma  si  può  supporre,  che 
«  la  terminazione  -ffa»  del  futuro  sia  un  abbreviazione  di 
«  -ecTu)  (io  sarò)  donde  sopprimendo  il  a  rimarrà  -éuj,  che 
«  contratto  in  -ui  ci  dà  appunto  la  forma  del  futuro  secondo" 
«  attivo.  Così  da  Tuiréauj,  forma  primitiva  del  futuro  di 
«  TUTTTUJ  in  luogo  di  Tuijiu),  rigettando  il  cr,  avremo  la  seconda 
«  forma  del  futuro  tuttéul»  e  per  contrazione  tutto».  Prepon- 
«  gasi  ora  Taumento  e  cangisi  uj  in  ov,  come  si  fa  per  Tim- 
«  perfetto,  e  si  avrà  Taoristo  secondo:  ^tuttov.  » 

Saremmo  davvero  davvero  molto  tenuti  al  sig.  prof.  Ber- 
rini, se  volesse  dirne,  in  quali  solenni  monumenti  della  let- 
teratura greca  si  trovino  i  futuri  secondi  Xapu)  e  tuttiD,  che  ci 
fa  supporre  la  sua  teorica.  Ma  e  perchè  alia  voce  Xajnpdvu), 
al  §  1 5o  del  suo  Bumoiif,.  non  registra  il  futura  secondo 
di  questo  verbo,  e  scrive  invece  F.  Xfjvijoi^ai  ? 

Al  §  88  (p.  74)  si  leggv^;  «  In  greco  vi  sono  alcuni  verbi 


-  599  - 

che  terminano  in  |ii,  essi  derivano  dai  primitivi  in  -tui,  -auj; 
-óuj,  -ùuj,  ■»  Questo  è  nel  testo,  ma  in  una  noterella  è  subito 
detto:  «  Potrebbe  essere  però  che  la  vera  forma  primitiva 
fosse  anzi  quella  in  \xi.  » 

E  altrove  (§  1 49,  7)  leggiamo  :  «  eìcxcpépuj  fa  airimperativo 
«  elcrcppe?,  come  se  venisse  da  ttcrcppriMi-  >> 

Né  possiamo  ristarci  dal  recare  alcune  delle  molte  forme 
verbali  disusate  dei  verbi  primitivi,  che  il  sig.  prof.  Berrini 
ha  trovato  di  registrare  (§  149  segg.):  ^Xiu  (Aor.  elXov) -, 
èXeuGuj  (Fut.  èXeucTOfiat,  aor.  fiXueov);  eibiu,  òtttuj  (eiòov,  òvììo- 
jiai);  èvéYKU),  èvéKUJ  ;  pXdaiiu,  briKuu,  òapeuu,  XiiGu),  luriGiu,  )uà8iw, 
Sdvuj,  Trr|6uj  (eTtaBov),  ftvuu  (YiTvojaai),  ecc.  ecc.  —  Ad  un 
metodo  che  si  contenta  di  mostrarci  le  lingue  quali  vennero 
a  trovarsi  nell'epoca  della  loro  massima  coltura,  come  dice 
il  sig.  prof.  Berrini,  è  inutile  che  tu  chiegga  un  inven- 
tario esatto  del  patrimonio  piià  antico  della  lingua;  la  fan- 
tasia può  sbizzarrirsi  a  suo  talento,  e  lo  studioso,  come  il 
vero  credente,  non  rintracci  il  passato. 

Ma,  e  si  crede  forse  che  il  giovine  risparmi  fatica  con 
questo  metodo?  Mai  no,  mai  no!  si  tortura  la  memoria  con 
un  esercizio  meccanico  affatto  sterile,  in  fondo  al  quale  sta 
la  noia  e  il  disamore.  E,  si  badi  ancora,  che  con  questo  m.e- 
todo  noi  dubitiamo  assai,  che  sia  possibile  un  utile ,  pratico, 
graduale  esercizio  di  applicazione  delle  forme  negli  esercizii 
di  versione  dairitaliano  in  greco,  pur  tanto  necessari!  mas- 
sime ne'primi  anni  di  studio.  Noi  non  arriviamo  a  compren- 
dere, come  lo  studioso  possa  declinare  nomi  ,  e  coniugare 
verbi,  senza  conoscere  Tintima  struttura  delle  inflessioni,  i 
mutamenti  fonetici,  il  rapporto  fra  il  tema  verbale,  e  il  tema 
del  presente.  L'analogia^  se  ne  persuada  il  sig.  prof.  Berrini, 
non  e  criterio  né  sufficiente,  né  sicuro  per  fondarvi  sopra 
l'edifìcio  della  grammatica  greca  ;  appena  in  qualche  raris- 
simo caso,  sul  quale  l'indagine  storico-comparativa  non  abbia 
potuto  gittare  ancora  la  sua  luce,  se  ne  potrà  valere  il  gram- 
matico, come  d'uno  spediente.  Ma  elevata  a  criterio  generale 
di  classazione  de'fenomeni  linguistici,  essa  ci  conduce  all'arbi- 
trio, al  caos.  —  E  poi  abbia  presente  il  sig.  prof.  Berrini,  che, 
allo  stato  attuale  degli  studi  greci  nelle  nostre  scuole,  e  molto 


—  600  — 

più  sicuro  indurre  negli  animi  Tabitudine  dell'indagine  scien- 
tifica e  della  osservazione,  seguendo  il  metodo  comparativo, 
dentro  a  que'termini  discreti,  che  ha  segnato  il  Curtius.  Sarà 
tanto  di  guadagnato  per  la  coltura  generale  della  gioventù 
nostra,  anche  nella  peggiore  ipotesi  che  sia  ancora  lontano 
il  momento  di  poter  prendere  un  più  lontano  abbrivo.  — 
Le  forme  grammaticali,  papagallescamente  apprese,  vanno 
presto  in  dileguo  dalla  memoria.  Ma  le  leggi  fonetiche,  in- 
segnate parcam-cnte,  ma  con  chiarezza  e  severa  concisione 
di  metodi,  s'imprimono  ben  più  fortemente  nell'animo,  mas- 
sime laddove,  con  qualche  riscontro  del  latino  o  di  qualche 
lino'ua  moderna,  di  stipite  germanico,  si  lasci  intravvedere 
la  più  larga  applicazione  delle  medesime.  S'adusi  la  mente 
giovanile  a  vedere  per  entro  all'arcana  vita  de'linguaggi,  e 
la  curiosità  ne  sarà  stimolata,  e  l'attenzione  legata,  e  le 
prime  difficoltà,  che  sono  le  più  ardue,  saranno  superate  e 
vinte  ^ 

Non  è  senza  esitanza,  che  noi  ci  siamo  fatti  a  parlare 
di  questo  lavoro  di  un  collega.  Gli  è,  che  siccome  vediamo  il 
sig.  prof.  Berrini  non  avverso  al  tutto  a  nuovi  metodi,  ai  quali 
anzi  egli  viene  in  aiuto  con  opportune  pubblicazioni  :  cosi 
ci  siamo  lasciati  condurre  dalia  lusinga  di  vederlo  mettersi 
francamente  e  sinceramente  per  quella  via,  che  il  decoro  e 
la  ragione  ornai  ci  additano. 
Rovigo,  maggio  1873. 

Gaetano  Oliva. 


Otto  Sievers,  Quaestiones  onomatologicae  e  Curtius  Steffen,  De 
actorum  in  fahulis  Terentìanis  numero  et  distributione .  {Acta  so- 
cietatis  philologae  iipsiensis  ed.  Fr.  Ritschelius,  voi.  II}. 

Il  dott.  Girolamo  Vitelli  in  Firenze  si  occupò  di  già  in 
questa  l^ìvista  (i)  degli  Ada  societatis  philologae  Iipsiensis 
che  si  pubblicano  in  Lipsia  sotto  la  direzione  del  celebre 
Ritschl.  Mentre  egli  parla  alquanto  diffusamente  del  tomo 


(i)  Fascicolo  VI1>  p.  i34  e  segg. 


—  601  - 

primo  N,  I  6  2,  non  dà  che  l'elenco  dei  lavori  contenuti 
nel  volume  2°,  ommettendo  peraltro  le  Quaestiones  onomato- 
log-icae  di  Otto  Sievers  in  Brunsvic,  p.  53-107  e  le  Lee- 
tiones  Stobenses  di  Otto  Hensiì  in  Halle,  p,   !-53. 

Lasciando  ad  altri  la  cura  di  far  cenno  di  queste  ultime 
come  pure  delle  Quaestiones  Eraiosthenicae  di  Mendelsohn 
su  cui  il  Vitelli  istesso  ha  promesso  di  darci  un  lavoro,  vo- 
gliamo intrattenere  i  nostri  lettori  delle  Quaestiones  onoma- 
tologicae  di  Sievers  e  della  dissertazione  di  Curt.  Steffen, 
De  actorum  in  fabidis  Terentianis  numero  et  distribu- 
tione  (i). 

Questi  due  lavori  devono  essere  di  grande  interesse  per 
tutti  i  filologi,  perchè  si  riferiscono  ad  una  parte  della  filolo- 
gia, di  cui  massimamente  s'occupò  il  famoso  editore  degli 
Acta^  il  fondatore  della  grammatica  storica  del  latino  e  della 
critica  di  Plauto  e  di  Terenzio.  Si  ammetterà  facilmente  che 
lavori  presentati  al  pubblico  con  l'approvazione  di  tale  mae- 
stro devono  contenere  notizie,  le  quali  aumentano  il  patri- 
monio del  sapere  filologico. 

Ora  il  Sievers,  valendosi  d'un  materiale  assai  vasto,  tratta 
delle  trasformazioni  che  subirono  nomi  proprii  greci  nelle 
iscrizioni  latine,  cosi  che  registra  i  metaplasmi  che  si  rin- 
vengono e  ricercando  la  loro  genesi  trova  metodicamente  la 
loro  spiegazione. 

In  generale  deve  ammettersi  come  ragione  di  essi  la  falsa 
analogia.  Cosi  i  nomi  proprii  in  -es  (§1),  a  cui  non  stanno 
di  fronte  parole  greche  corrispondenti  in  -rii;  (gen.  -tito^),  ci 
mostrano  un'inclinazione  a  conformarsi  a  parole  come0dXì-i(;  e 
simili,  formando  un  gen.  in  -etis.,  come  p.  e.  Eutyches-Eu~ 
tychetis.  E  lo  stesso  fenomeno  osserviamo  ne'  nomi  proprii 
in  -cles,  p.  e.  Pericles  —  Pericletis,  confr.  'HpaKXa(;  — 'Hpa- 
KXaTO(;.  E  cosi  pure  va  la  bisogna  pur  anche  in  riguardo  ai  nomi 
proprii  in  -genes  (Diageneti),  ed  ai  femmini  (§2)  in  -e  {Ire- 
netis)y  ì  quali  spesso  si  scambiavano  coi  nomi  in  C5,  dacché 
r^  nella  lingua  giornaliera  non  si  pronunciava  e  poi  passavano 
nella  declinazione  in  -eiis  ecc.,  come  dim.ostra  l'esempio  el- 


fi) Ivi,  p,  107-159. 

"Hìvisla  di  filologia  ecc.,  I. 


-  602  - 

tato.  I  medesimi  fenomeni  si  ripetono  nei  nomi  proprii  in 
-as  (§  4),  p.  e.  Niciati.  Spe:ialmente  interessanti  sono  forme 
come  Eronis,  Phileronis,  che  il  Sievers  riconduce  a  nomi- 
nativi come  EVo,  Philero,  ammettendo  un  s  finale  che  spa- 
risce. E  questi  si  declinavano  poi  come  nomi  proprii  la- 
tini in  -o,  qual  Cicero^  ecc. 

Mentre  peraltro  tutti  i  fenomeni  finora  citati  apparten- 
gono all'epoca  imperiale,  nel  §  6  il  nostro  autore  viene  a  di- 
scorrere dei  tempi  della  repubblica.  E  per  questa  attirano 
la  nostra  attenzione  in  primo  luogo  i  nomi  proprii  in  -is 
col  genetivo  in  -inis,  p.  e.  Hymninis,  che  spiega  con  buona 
ragione  dall'analogia  con  formazioni  greche  come  ZaXani?  — 
XaXajiiTvoi;,  perchè  anch'essi  avevano  originariamente  ì  lunga. 
Una  classe  particolare  (§  7I  costituiscono  quei  metaplasmi 
nati  dalla  pronuncia  di  ri  =  i,  come  talvolta  persino  si  scri- 
veva. A  questa  appartiene  p.  e.  Pamaces  (Parnacis),  Par- 
nacìni  ecc.  E  in  ugual  modo  si  spiegano  anche  forme  come 
Tychinis  (§  8)  dal  femminino  Tyche  (  Tychi),  credendo  che  Ty- 
cAi  stesse  per  TychtSy  la  cui  5  finale  non  si  pronunciava,  e  de- 
clinandolo per  conseguenza  col  genetivo  in  inis  qcc.  Accanto 
troviamo  genetivi,  come  Hedonéi  ^  formato  all'analogia  di 
spes,  spei,  considerando  Hedone  come  IIedone{s\  e  decli- 
nandolo per  conseguente  secondo  la  quinta  declinazione.  Im- 
portante è  pur  anche  il  §  9,  in  cui  sono  spiegate  forme  come 
Philemationi  («PiXi^fidTiov)  ed  altri,  dimostrando  il  nostro 
autore,  che  bisogna  ammettere  un  nominativo  in  -io,  invece 
di  uno  in  -ium.  La  fine  di  queste  importanti  ricerche  forma 
un  secondo  capitolo  —  Miscelle  — ,  dì  contenuto  onomatolo- 
gico  esso  pure,  in  cui  si  fa  tesoro  di  risultamenti  ottenuti 
dalle  investigazioni  antecedenti  per  altri  problemi  onoma- 
tologici. 

Nella  seconda  dissertazione,  il  cui  titolo  si  legge  in  capo  a 
questi  cenni,  il  sig.  Steffen,  dopo  una  breve  discussione  in- 
torno.alla  divisione  delle  parti  fra  i  diversi  personaggi  del 
drama  greco  [Cap.  I.)  ed  in  cui  viene  al  risultato,  doversi 
ammettere  come  molto  probabile  che  l'uso  greco  anche  per 
questo  riguardo  sia  stato  trasferito  a  Roma,  prende  nel  capo 
secondo  a  trattare  il  suo  speciale  argomento.  Il  pensiero  fonda- 


—  603  — 

mentale,  su  cui  egli  si  appoggia  nello  svolgimento  del  suo  tema, 
è  quello  esposto  da  Ritschl  nella  seconda  edizione  del  Tri- 
numinus  (p.  LV)  intorno  alle  lettere  greche  A  B  f  A  Z  K, 
di  cui  sono  sempre  segnate  le  parti  nel  codex  Bembinus  ed  in 
parte  anche  nei  Codex  Vetus  Cameram.  Le  parole  di  Ritschl 
sono  le  seguenti  :  graecae  litterae  illae  non  distinguendis  tan- 
tum aliquo  scribcndi  compendio  personis  inserviunt,  sed  ad 
actarum  agendarumque  fahularum  consìlium  atqiie  appa- 
ratum  spectant:  ita  quidem,  ut  quaepartes  quot  et  quontm 
histrionum  fuerinty   iotidem    litterarufn  notis  dedaretur. 
Lo  Steffen  movendo  da  questo  asserto  studia  queste  lettere 
del  Codex   Bembinus  di  Terenzio  e  dimostra  irrefragabil- 
mente,  che  la  teoria  di  Ritschl  è  applicabile  pur  anche  a  Te- 
renzio, m.algrado  che  m  alcuni  punti  riscontriamo  degli  er- 
rori, dovud  alla  poca  attenzione  dei  copisti.  11  capitolo  terzo 
serve  poi  a  dimostrare  Tapplicazione  di   questa  teoria  per 
ognuna  delle  comcdie  terenzianc   in  particolare.   11  risultato 
della  sua  ricerca  è;  eo  tempore  quo  litterae  graecae  ad  fa- 
bulas  re  vera  agendas  spectabant.    rationem  graecam  qua 
quam  paucissimis  acloribus  ad  fabulas  agendas  uteba?itur, 
apud  Romanos    non  valuisse ,    septenarium    vero    nu- 
merum  non  esse  excessum  (confr.  p.  144-145).  La  grande 
difficoltà  della  ricerca  che  consisteva  nella  distribuzione  delle 
parti  fra  i  singoli  attori,  mentre  atteso  il  piccolo  numero  de- 
gli attori  ognuno  di  essi  doveva  agire  in  diverse.,  è  stata  molto 
chiaramente  esposta,  con  grande  lucidità  discussa  ed  a  nostro 
parere  vinta  in  modo  che  il  nostro  autore  difficilmente  verrà 
contraddetto,  e  tutto  ciò  malgrado  dei  non  pochi  errori  che  si 
sono  introdotti  nelle  lettere  greche  per  la  disattenzione  dei 
copisti. 

Nel  quarto  capitolo  lo  Steffen  dimostra,  che  queste  lettere 
greche  appartengono  in  ogni  caso  a  quel  tempo,  a  cui  dob- 
biamo eziandio  la  recensione  delle  comedie  di  Plauto  e  di 
Terenzio,  che  possediamo,  cioè  al  principio  del  setnmo  secolo, 
e  che  probabilmente  furono  già  in  uso  ai  tempi  di  Plauto  e  di 
Terenzio.  Un  excursus  de  personarum  {i.  e.  larvarum)  in 
fabulis  Terenlianis  uSu,  dal  quale  risulta  che  tutte  le  comedie 
di  Terenzio,  ad  eccezione  forse  della  sola  Andria,  furono 
rappresentate  con  maschere,  chiude  quest'eccellente  lavoro. 


—  604  — 
Mentre  rendiamo  conto  di  questi  due  scritti,  ci  compiacciamo 
di  poter  annunziare  che,  secondo  V  Indicatore  delle  novità  fi- 
lologiche del  Teubner,  si  trova  di  già  un  nuovo  volume  degli 
Actasonoi  torchi,  il  quale  oltre  ad  un  esteso  lavoro  di  Schu- 
ster  su  Eraclito  (che  occuperò  quasi  tutto  il  volume),  conterrà 
eziandio  dissertazioni  di  Opit^  su  Aurelio  Vittore^  di  Gil- 
bert su  Eschilo,  di  Stììrenburg  su  Lucrei^io^  dì  Oehini- 
chen  su  Varrone^  dì  Lùttjohan  su  Apuleio.  Considerando 
la  varietà  di  questi  lavori  si  dovrà  ben  ammettere  che  gli  studi, 
che  sono  diretti  dairillustre  editore  degli  Acta^  percorrono 
tutto  il  campo  delle  filologiche  discipline,  e  che  la  sua  scuola 
non  coltiva  soltanto  la  critica  filologica  propriamente  detta, 
ma  eziandio,  e  con  uguale  successo,  il  campo  delle  ricerche 
storiche  e  della  grammatica  delle  lingue  classiche. 

Lipsia.,  maggio  1873. 

Ludovico  Jeep. 


CA%LO  TI^O^IIS 


Martedì  20  maggio  alle  ore  6  del  mattino,  cessò  dì  vi- 
vere dopo  lunga  e  dolorosa  malattia,  per  affezione  organica 
del  cuore,  Tinsigne  e  riverito  professor  Carlo  Promis',  gra- 
vissima perdita,  com'è  noto,  per  più  d'una  scienza-,  acer- 
bissima per  i  diletti  saoi  e  per  molti ,  vicini  e  lontani,  av- 
vinti, oltreché  dall'ingegno  suo,  da  quell'indole  indipendente 
e  leale,  di  decoro  ripiena  e  di  sodezza,  tranquillamente 
tenace,  pura  di  ogni  macchia  d'egoismo  e  di  superbia,  non 
detti  volente  ma  fatti,  per  natura,  per  educazione  altamente 
locata  sopra  tutto  ciò  che  volgare  sia  e  dappoco,  ricca  di  fi- 
nissimo sentimento  artistico,  di  maravigliosa  memoria,  di 
ponderosa    dottrina,   di   squisito   buon  senso-,  a  tutt'uomo 


—  605  - 

ingegnandosi  di  celar  se,  quasi  a  livellare  le  disparità  ed  a 
fomentar  schietti  e  liberi  commerci. 

Non  l'accecò  amor  di  sé,  di  professione,  di  patria.  Piac- 
quegli  sì,  il  vecchio  Piemonte;  ma  per  ragionamento;  sic- 
come stimava  sinceramente  paesi  più  nordici;  in  questi 
scorgendo  con  mite  e  facile  imparzialità  gloria  e  potenza 
e  la  grandezza  dell'oprar  collettivo;  negli  altri,  solo  conforto 
facendogli  scorgere  la  sua  mente  ignuda  d'illusioni,  nell'opera 
dell'individuo. 

Ricordava  sovente  l'animo  candido,  privo  di  sospetti,  del 
napolitano  amico  suo  Carlo  Troya;  dell'amicizia,  dei  pen- 
sieri e  dell'opere  di  Cesare  Balbo  custodiva  cara  memoria, 
narrandone  le  furie  verso  molti,  non  mai  verso  di  lui,  tosto 
sedate  e  senza  traccia  di  rancore;  tacerò  nomi  d'illustri  vi- 
venti che  lo  amarono  e  ch'egli  amò,  onde  lettere  piene  di 
atti  benigni,  di  notizie  e  d'uffici  che  forse  un  giorno  si  pub- 
blicheranno; come  de'  molti  minori  che  ad  ogni  istante,  pre- 
murosamente, notizie  chiedevan  di  lui,  dal  suo  mite  e  spi- 
ritoso conversare  venendo  loro  impensati  insegnamenti  e  cari 
sollievi.  Perchè  egli,  sebbene  di  pochi  amici,  stava  e  parlava 
con  tutti,  everisimilmente  anche  la  scuola,  doveva  farla  socra- 
ticamente. Allora  soprattutto  veniva  a  voi,  che  pochi  sareb- 
bero venuti,  e  in  ciò  non  badava  nò  a  rango,  né  ad  età, 
né  a  vincente  causa,  suprema  legge  di  sua  vita  essendo  il 
culto  della  verità  e  giustizia;  traendo!©  pur  questo  a  dili- 
genti e  critiche  indagini  nella  storia,  traendolo  a  spiriti  in- 
dipendenti nella  considerazione  delle  presenti  cose. 

Il  vivere  suo  era  metodico,  assoggettato  alle  regole  da  lui 
credute  migliori  e  a  sé  medesimo  prefisse.  Destavasi  per  tem- 
pissimo, estate  ed  inverno;  innanzi  al  lavoro,  usciva  e  faceva 
lunghe  marcie,  quali,  un  di,  nella  campagna  e  tra'  monu- 
menti di  Roma,  in  quei  fecondi  e  begli  anni  giovanili,  so- 
briamente ricordati  nella  prefazione  alla  Storia  dell'antica 
Torino.  Il  rimanente  era  studio,  lettura  e  lavoro,  senza  im- 
pegni, senza  dependenze,  senza  pregiudizi,  senza  procaci 
desiderii,  senza  pompa,  senza  vanità;  rigido  per  sé,  tolle- 
rante verso  gli  altri.  —  Non  era  alto  della  persona,  vi  sop- 
periva il  fare  da  gentiluomo,  la  nitidezza  dell'abito,  la  sem- 


—  606  — 

plicilà,  il  decoro.  Alta  era  la  fronte-,  profondo  ed  impera- 
tivo lo  sguardo-,  le  labbra  atteggiate  a  concisione  e  brevità*, 
raro  ma  ingenuamente  gaudente  il  riso.  Osserva  un  intimo 
ed  amato  amico  suoch''egli  «  non  avea  delizia  alcuna  di  cibo, 
di  sonno,  d'amore,  di  passatempi,  di  vino,  di  caccia,  di  spet- 
tacoli, di  cavalli,  di  suppellettili,  di  ville,  ecc.  «.  I.a  sua  vita, 
la  sua  persona  era  cosi  governata,  che  in  lui,  ultima,  quasi 
spregiata  cosa  era  il  corpo,  prevalente  tutto  ciò  che  spettava 
all'intelletto.  Nella  moltiforme  applicazione  di  questo,  sem- 
pre era  capace  d'amore;  m.a  dalla  passione  fortemente  si  ri- 
traeva; ond' evitarne  il  predominio  e  mantenere  la  rigida 
osservanza  de'  suoi  doveri.  Spiacevangli  i  troppi.  Di  Mentore 
in  gioventù  sarebbe  stato,  io  credo,  intollerante;  era  ricerca- 
tore del  buon  amico,  ed  avea  l'arte  di  farsi  amici  e  di  ser- 
barli. Niuna  invidia  il  prendeva  della  meta  da  altri  raggiunta. 
Con  chi  noi  capisse,  non  sprecava  parole.  Piacevagli  poter 
difendere  l'assente.  Non  si  adagiava  comodamente  nell'opi- 
nione  altrui.  Pensier  suo  e  pensier  di  lucro  eran  destinati  a 
non  incontrarsi  mai.  Siccom'ebbe  sempre,  fino  all'ultimo  dì, 
il  fuoco  sacro  dell'attività,  e  d'altra  parte  l'età  presente  non 
fu  sempre,  anzi  fu  di  rado  capace  della  sua  idea,  così  fu  il 
meno  apatico  ed  il  piiì  apatico  degli  uomini.  Gli  era  odiosa 
la  loquacità;  eloquente  egli  nell'intimità,  negli  scritti,  e  ma- 
gniloquente, non  di  forma  ma  di  sostanza;  alieno  da  violenza, 
abuso,  lenocinlo,  viltà  ;  non  liberale,  libero  veramente.  Non 
saprò  mai  spiegare  e  dipingere  la  bellezza  di  quell'anima  in- 
cessantemente, studiosamente  intesa  ed  appressantesi  al  tipo 
della  divina  bellezza  ;  in  sé  racchiudente  drittura,  operosità, 
disciplina,  fortezza  d'animo,  voluttà  di  sentimento,  acume  di 
uom  nudrito  d'esperienza  e  di  storia,  profondità  d'insigne 
conoscitor  dell'uman  cuore,  veracità  incorruttibile,  ardente 
fede.  Era  alla  comune  degli  uomini,  sto  per  usare  una  com- 
parazione sua,  ciò  che  alla  casa  edificata  secondo  gretti  bi- 
sogni, è  l'edificio  eretto  al  fine  del  grande  imperituro  utile 
pubblico,  o  il  tempio  disegnato  nell'oblio  di  ogni  terrena  e 
misera  necessità. 

Voglio  notare  che  con  signore,  con  signorine,  era  di  una 
riservatezza,  di  una  decenza  ese.mplare.  —  Osservava  negli 


—  607  - 

uomini  la  fisica  prestanza,  alla  maniera  degli  antichi,  che  a 
queste  cose  apertamente  e  francamente  badavano.  Di  beile 
donne  non  parlava;  nella  donna  oltre  il  cuore,  un  merito 
solo,  un  solo  demerito  vedea,  un  solo  fallo,  un  solo  trionfo. 
— -  Aveva  nel  suo  studiolo  un  quadro  delizioso  di  Lorenzo 
di  Credi,  da  lui  discoperto  in  un  magazzeno  di  antichità 
in  Torino,  rappresentante  Santa  Caterina  della  Ruota.  Ai 
pochi  amici  mostrava  talvolta  quella  fanciulla  nel  tormento, 
che  non  era  più  corpo  propriamente  ed  aveva  nel  sembiante 
una  dolcezza  e  mansuetudine  da  Paradiso.  —  Per  quanto 
insistessero  parenti  o  discepoli,  non  volle  farsi  fotogra- 
fare. Fortunatamente ,  V  unico  modo  gentile  di  porgere 
aiuto  ad  un  artista,  lo  indusse  nel  1847,  mentre  aveva  39 
anni,  a  commettere  il  proprio  ritratto,  che  dieci  anni  dopo 
tirò  dal  dimenticatoio  e  diede  alla  sorella,  ed  è  ora,  siccome 
esattissimo,  caro  conforto  a  questa,  al  fratello,  ai  nipoti; 
tutti,  diversi  solo  di  vocazione  e  d'attitudine,  strettamente 
congiunti  di  principii,  d'operosità,  di  affetti,  di  non  inter- 
rotta convivenza. 

Nacque  in  Torino  il  18  di  febbraio  1808  da  Felicita 
Burquier,  Savoiarda  (i),  morta  quand'egli  aveva  quattr'anni, 
e  da  Matteo  Promis,  uomo  probissimo,  tesoriere  alla  Zecca, 
morto  nel  1823.  Di  quattr'anni  lo  precedette  nella  vita  il 
fratello  Domenico.  —  Comode  furono  le  facultà  di  Cario 
Promis.  —  Osserva  il  sullodato  amico  suo  che  «  fin  da 
quando  era  garzoncello,  già  faceva  portendere  che  avrebbe 
un  giorno  toccata  qualche  alta  meta  :  poiché  neppure  in  quel- 
l'età egli  si  dilettò  mai  de'  trastulli  fanciulleschi,  né  mai  at- 
tese a  divertimenti,  ad  inezie,  a  futilità,  ma  sempre  si  ap- 
plicò fin  d'allora  allo  studio  con  alacrità  e  passione:  e  se 
ne  ha  una  prova  negli  onori  e  ne'  premii  da  lui  conseguiti 
nelle  piccole  scuole  ».  Fu  laureato  nel  1828;  per  la  laurea 
fece  un  disegno  d'arsenale.  Dal    1828  al   i832,  poi  nuova- 


(i)  «Claudio  Guichard  nato  in  Savoia  (caro  paese,  che  poteva  allor 
Francia  strappar  al  Piemonte,  comprarlo  non  mai,  né  barattarlo)  •> 
{Storia  dell'Antica  Torino,  p.  3 17). 


"  GOS  — 
menledal  i833  al  i83ó,  soggiornò  in  Roma-  stette  un  anno 
in  Toscana.  In  quegli  otto  anni  in  Roma  (debbo  tutti  i  cenni 
di  sua  vita  ed  operosità  d'architetto  al  suo  amato  discepolo 
Gastellazzi)  «  misurò,  rilevò  e  disegnò  tanti  di  quei  monu- 
menti antichi,  medievali  e  moderni,  da  riempire  due  volu- 
minose cartelle  ».  Trasselo  in  Roma  amor  dell'arte-,  ne  tornò 
ricco  d'un' altra  facoltà,  cioè  l'estimazione  ed  intelligenza 
dtW Epigrafia  Latina,  origine  di  varie  sue  opere  insigni.  E 
perchè  questi  chiestimi  cenni,  troppo  tumultuarli  e  indegni 
troppo,  possano  coll'autorità  del  suo  nome  generar  qualche 
bene,  dirò  ch'ei  lamentava,  persino  negli  ultimi  giorni,  il 
trattamento  inflitto  alle  lapidi  antiche,  incastrate  nell'atrio 
dell'Università,  smosse  di  continuo  ora  per  l'apertura  di  una 
porta  o  finestra,  ora  pei  bisogni  della  bustifica\ione\  e  spe- 
cialmente l'iscrizione  di  Caio  Gavio  Silvano,  uccisore  di 
Seneca  il  filosofo ,  unico  monumento  Torinese  di  uomo 
mentovato  da  un  classico,  da  Tacito,  che  altrove,  diceva 
egli,  m.etterebbesi  sotto  vetro,  lamentava  che  testé  fosse 
posta  in  oscuro   luogo  ed   umido. 

Tornato  in  patria,  fu  nominato  ispettore  de'  Monumenti 
d'antichità  nei  RR.  Stati,  poi  R.  Archeologo  nel  iSStj,  pro- 
fessore di  Architettura  all'Università  nel  1843  e  tale  rimase, 
passando  alla  scuola  del  Valentino  nel  1860,  fino  al  1869, 
nel  qual  anno  ottenne  il  riposo.  «  Sentendo  il  bisogno  di  dare 
alla  scuola  un  nuovo  e  più  pratico  indirizzo,  dovette  pro- 
crearsi da  sé  gli  elementi  necessarii,  ed  all'uopo  fece  di  suo 
pugno  circa  ottocento  à\sQ:gm.  Dei  quali  quelli  che  rappresen- 
tano progetti  architettonici,  cioè  svariati  esempi  di  villette  e 
di  case  quali  richiedonsi  nella  comune  pratica,  allo  scopo  di 
far  produrre  al  denaro  impiegato  in  loro  costruzione  il  mag- 
giore interesse  » ,  sono  quelli  che  assieme  ad  altri  si  pubbli- 
cano ora  presso  i  fratelli  Bocca  nell'opera  intitolata  :  Fabbriche 
moderne  inventate  da  Carlo  Promis  ad  uso  degli  studenti  di 
architettura  e  pubblicate  con  note  ed  aggiunte  dal  suo  allievo 
Giovanni  Castella'{ii ,  colonnello  del  Genio  e  professore 
straordinario  alla  scuola  di  applicazione  per  gli  ingegneri 
in  Torino. 
Nell'anno   1845,   «  d'ordine  di   Re   Carlo  Alberto  fece 


-  609  - 
il  progetto  di  una  grande  chiesa  che  avevasi  a  costrurre  nei 
pressi  del  Real  Castello  del  Valentino,  e  il  progetto  esiste 
nella  Biblioteca  del  Re  ed  è  nnolto  pregevole,  massime  nello 
scomparto  della  pianta,  la  quale  presenta  molte  novità,  tut- 
toché improntata  alla  forma  delle  antiche  Basiliche  cristiane, 
col  quale  nome  Tautore  si  è  appunto  compiaciuto  d'intito- 
lare questa  Chiesa  ». 

Nel  1848-49,  essendosi  creata  una   Commissione  di  mi- 
litari e  deputati  col  mandato  d'investigare   le  cause  de'  di- 
sastri dell'esercito  piemontese,  ne  fu  eletto  segretario,  avendo 
egli  posto  all'accettazione  due  condizioni  :  la  niuna  rimune- 
razione e  la  facoltà  di  dimettersi  a  piacimento.  Dopo  la  pub- 
blicazione del  suo  lavoro  sugli  Avvenimenti  militari^  l'eser- 
cito piemontese  fece  dono  di  una  spada  lavorata  con  bel  ma- 
gistero «  al  suo  difensore  ^uQWoSn  in  quel  tempo  il  generale 
Della  Rocca,  ministro  della  guerra,  il  posto  di  p'imo  ufficiale, 
al  Ministero  della  Guerra,  ch'ei  ricusò.  Fu   poi  membro  e 
segretario  di  un'altra  Commissione,  presieduta  dal  Duca  di 
Genova,  e  incaricata  di  studiare  i  mezzi  di  difesa  dello  stato. 
Nel   i85i    consigliere    municipale  e  membro   del   consiglio 
degli  Edili  si  occupò  dell'ingrandimento  della  città  di  Torino, 
ed  emise  il  progetto  col  quale  furono  erette  le  case  di  Porta 
Nuova  e  Corso  a  piazza  d'armi.  Queste  case  insieme  a  quella 
prospiciente  alla  chiesa  della  Ss.  Consolata  sono  i  soli  edi- 
fizii costrutti  di  pianta  secondo  i  suoi  disegni  ».  Al  Municipio 
a  presentò  in  gennaio  1862,  delineato  in  3o  fogli,  il  progetto 
della  strada  e  piazza  porticata  che  in  allora  era  da  farsi  in 
prosecuzione  della  via  dell'Arco.  Dal  19  agosto  al  5  ottobre 
del  medesimo  anno  eseguì  in  29  tavole  4  progetti  (di  cui  gli 
si  era  dato  incarico)  per  l'erezione  in  piazza  Bodoni  di  un 
edifizio  che  doveva  contenere  l'Accademia  di  Belle  Arti  e  la 
Galleria  di  quadri  :  codesto  progetto  per  distribuzione  d'im- 
pianto, ricerca  dì  luce  e  maestà  di  elevazione  era  ed  è  vera- 
mente una  stupenda  cosa  e  la  sua  inattuazione  gli  costò  molte 
pene  ».  Nel  i853  «  fece  il  progetto  di  case  ponicute  sul  corso 
della  cittadella  ora  piazza  Solferino,  ideando  ad  un  tempo  di 
congiungere  i  portici  a  Porla  Nuova  con  quelli  a  farsi  lungo 
la  via  Cerna ja  e  da   questi   uitimi   portarsi  a  piazza  dello 


—  CIO  — 

Statuto.  Fu  in  tale  occasione  ch'egli  propose  da  20  a  3o 
soluzioni  diverse  delParduo  problema  che  gli  si  presentava 
ed  era  il  passaggio  coperto  attraversante  via  S.  Teresa. 
Quesi^ultimo  progetto  avendo  coi  precedenti  sortito  nissun 
effetto..  Cario  Promis  lasciò  Municipio  e  Consiglio  degli  Edili, 
e  chiusosi  neirumile  stanzetta  che  aveva  tolta  a  pigione  in 
piazza  Carlo  Alberto  (casa  Se3'ssei),  ivi  nel  i855e  1856  diede 
sfogo  alla  sua  fantasia  ideando  e  disegnando  molteplici  progetti 
di  case  e  di  chiese,  i  quali,  siccome  fatti  senza  alcuna  preoc- 
cupazione di  spesa  o  d'altro,  sono  riusciti  veri  giojelli  d'in- 
venzione e  di  bellezza  ».  Questi  progettti  ch'egli  fece  per 
se,  e  mostrò  a  pochissimi  intimi,  saranno  in  parte  pubbli- 
cati nell'annunziata  opera  del  Gastellazzi.  Più  tardi,  pregato 
dal  sindaco  del  progetto  di  una  casa  da  costruirsi  davanti 
alla  Caserma  della  Gernaja,  nel  i863,  produsse  due  disegni 
i  quali  sgraziatamente  non  furono  accettati.  Finalmente 
Tanno  scorso  pregato  e  scongiurato  da  un  assessore  munici- 
pale fece  per  Porsia  Palatina  {ci.  Bidlett.  dell'Instit.  Ar- 
cheol.  1872,  p.  27)  un  progetto  di  restauro  che  i  colleghi  in 
arte  stimano  degno  dei  tempi  d'Augusto  ».  Oltre  il  Castel- 
lazzi,  tra  suoi  allievi  lodava  soprattutto  il  conte  Ceppi  che 
ha  riportato  il  premio  nel  primo  concorso  della  facciata  di 
S.  Maria  del  Fiore,  ed  il  Comotto  che  ha  tanto  operato, 
nel  trasloco  della  capitale  in  Firenze,  e  fatto  a  Roma  il 
Parlamento  ». 

Ecco  ora  la  paì^s  vitae  dimtdia,  l'elenco  delle  opere  ar- 
cheologiche, storico-artistiche,  storico-militari  di  Carlo  Pro- 
mis, ricavato,  sino  al  n"  20,  da  una  sua  risposta  dello  scorso 
gennaio,  ad  un  signore  che  trovavasi  in  Napoli  ;  poi  da  in- 
dicazioni del  nipote  Vincenzo: 

1 .  Le  antichità  di  Alba  Fucense  negli  Equi.  —  Roma  1 836; 
in-8''  p.  267,  tav.  3,  8"  e  3  fase. 

2.  Noti:[ie  epigrafiche  degli  artefici  marmorarii  romani  dal 
Xal  XV secolo.  —  Torino,   1837;  in-4%  p.  3i. 

3.  Dell'antica  città  di  Luni  e  del  suo  stato  presente.  Me- 
morie. —  Torino,  i838*,  in-4%  P«  ''^7* 

4.  Storia  del  Forte  di  Sar^anello.  —  Torino,  i838;  in-8% 
p.  82  con  2  tav.  f'. 


—  611  — 

5.  Trattato  di  architettura  civile  e  militare  di  Francesco 
di  Giorgio  Martini  architetto  senese  del  secolo  XV,  con 
dissertazioni  e  note  per  servire  alla  storia  militare  ila- 
liana. — Torino,  1841-,  2  voi.  in-4%  p.  341  e  356-,  atlante 
f°  di  tav.  xxxviu. 

6.  Regum  Langobardorum  leges  de  structorihus,  quas  C. 
Baiidius  a  Vesme  primus  edebat^  Carolus  Promis  com- 
mentariis  auxit.  —  Torino,  1846;  in-8°,  p.  Sy,  con  3 
stampe  nel  testo. 

7.  Guerra  dell' indipendenza  d'Italia  nel  1848.  —  Torino, 
1848:  in-8°,  p.  3oi  (sui  manoscritti  in  lingua  francese, 
communicatigli  dal  Re  Carlo  Alberto). 

8.  Considerazioni  sopra  gli  avvenimenti  militari  del  mar^o 
1849.  —  Torino,   1849-,  in- 12",  di  p.  191. 

9.  Le  antichità  di  Aosta  (Augusta  Praetoria  Salassorum) 
misurate,  disegnate,  illustrate.  —  Torino,  1862;  in-4°, 
p.  207;  atlante  di  tav.  xiv  f". 

10.  La  vita  di  Girolamo  Maggi  d'Anghiari  ingegnere  mi- 
litare, poeta,  filologo,  archeologo,  jurisperito  del  secolo 
XVI.  — Torino,  1862;  in-8%  p.  40. 

lì.  La  vita  di  Francesco  Paciotto  da  Urbino  architetto 
civile  e  militare  del  secolo  xvr.  —  Torino,  i8G3;  in-8% 
pag.  86. 

12.  GV ingegneri  e  gli  scrittori  militari  Bolognesi  del  xv 
e  XVI  secolo.  —  Torino,  i863;  in-8°,  p.  114. 

i3.  GV  ingegneri  militari  della  Marca  d' Ancona  che  opera- 
rono 0  scrissero  dall'anno  mdc  all'anno  mdcl.  —  Torino, 
i865-,  in-8%  p.  116. 

14.  Storia  delV antica  Torino  (lulia  Augusta  Taurinorum). 
—  Torino,  1869;  in -8%  p.  53o  con  tre  tav.  f°. 

i5.  L' iscrizione  Cuneesedi  Catavignus Ivomagi Filius  Miles 
Cohortis  ni  Britannorum  Exercitus  Raetici.  —  Torino, 
1870*,  in -4%  p.  84. 

16.  Gli  Architetti  e  V Architettura  presso  i  Romani.  —  To- 
rino,  1871  ;  in-4°,  p.  190. 

17.  Lettere  di  Francesco  Paciotto  a  Guidobaldo  li  Duca  di 
Urbino.  — Torino,   1871  ;  in  8%  p.  90. 

18.  Ricerche  storico-artistiche  su  quattro  monumenti  di 


—  612  - 

Torino  del  secolo  xv.  —  Torino,  1872-,  in-8°,  p,  67  con 
tavole,   2  P. 

19.  Gl'ingegneri  militari  che  operarono  0  scrissero  in  Pie- 
monte dall'anno  ucccalVanno  mdcl.  —  Torino,  1872",  in- 
8",  p.  238. 

20.  Della  necessità  delVerudiiione  per  gli  architetti.  Pre- 
lezione. —  Torino,  1844;  in-8'\  p.  58. 


21.  Avvertimento  circa  la  Rela'^ione  dell  assedio  di  Cuneo 
dell'anno  ibb']  scritta  da  Aìionimu  Contenipoì^aneo  (Ar- 
chivio storico  italiano.  —  Firenze,  1846;  Append.  i.  n, 
pag.  75). 

22.  Epitafio  metrico  latino  composto  da  Dante  per  Dieterico 
Ti^manjio^  Landgravio  di  Turingia  e  Marchese  di  Lu~ 
sa:{ia  e  di  xWsjiia  {Antologìa  Ital.  —  Torino,  1846, 1,  p.99). 

23.  La  coltura  e  la  civiltà^  loro  injluenia  sull'arte  e  segna- 
tamente suir architettura  ecc.  (Antologia,  Torino,  1846, 
IV,  p.  453). 

24.  Nota  sulla  fortuna  del  Marchese  di  Caluso  Governatore 
di  Vercelli  q.cc.  (Archivio  storico,  Firenze,  1847,  t.  xin, 
pag.  5 18). 

25.  Vita  di  Mu^io  Oddi  ingegnere  e  matematico  1 569-1639, 
(Antologia,  Torjno,   1848,  xxii,  p.  377-400). 

26.  Delle  operazioni  e  della  situazione  presente  dell  esercito 
Ligure-Piemontese  (l.  cit.  disp.  cit»,  p.  495). 

27.  Condiiioni  militari  dello  Stato  Pontificio  e  della  To- 
scana (Torino,  11  gennaio  1849,  estratto  dal  giornale  La 
Nazione). 

2S.  La  Guerra  dei  Popoli  e  la  Guerra  dei  Principi  in  Italia 
(Torino,   11  febbraio  1849,  estr.  dal  giornale  la  Nazione). 

29.  Necrologia  di  Cesare  Saluto  {Archìvio  storico,  Firenze 
1853,  Append.  t.  ix,  p.  3o2-3o6). 

30.  Storia  dell' Archi  tettm^a  in  Italia  dal  secolo  vi  al  xviii 
scritta  dal  marchese  Amico  Ricci  (Estratto  dalla  Gaietta 
Ufficiale  del  regno  dltalia,  n.  i55,  del  1861). 

3i.  Scavi  alla  porta  Augustea  di  Torino,  ora  detta  Porta 
Palalo  o  Palatina  {Bull.  delVInst.  di  Corrispondenza 
Archeologica.,  Roma  1872,  p.  27}. 


~  613  — 

Lascia  inedito  un  ((  Lessico  delle  voci  architettoniche  sco^ 
nosciute  a  Vìtriivio^  oppure  venute  m  uso  posteriormente 
all'età  sua  »,  ed  un  «  Trattato  di  Architeitura  )>;  mano- 
scritte e  depositate  già  tra  le  carte  di  Carlo  i.\lberto  ed  ora 
nella  Biblioteca  del  Re:  una  «  Relazione  delle  ricerche  di 
antichità  e  degli  scavi  fatti  nella  città  e  Valle  d'Aosta  d'or- 
dine di  Sua  Sacra  Real  Maestà  nell'agosto  e  settembre  del 
i838  (Mise.  Patr.,  Cod.  148);  un'altra  Relazione  circa  le 
anfore  scoperte  al  Borgo  di  Dora  presso  Torino  nel  i838 
(Mise.  Patr.,  Cod.  loi)*,  una  v  Pianta  degli  scavi  aperti 
nelVarea  deWantica  citta  di  Luni  l'anno  1887  »  (Cod.  cit.), 
eduna  Memorietta  del  marzo  1843,  annessa  al  citato  progetto 
d'una  gran  chiesa,  col  titolo  «  Exposé  des  motifs  qui  doivent 
diriger  les  archi tectes  dans  la  formation  des  plans  des  é- 
glises  et  dans  leur  décoration ,  puisés  dans  les  écrits  des 
Ss.  PèreSf  l'Histoire  ecclésiastique  et  la  Liturgie  ».  Non 
dimenticherò  finalmente  un  «  Giornale  di  scavi  in  Pie- 
monte.,. »,  nel  quale  contengonsi  più  cose,  e  che  teneva 
presso  di  sé. 

Fu  deirAccademia  delle  Scienze,  della  Deputazione  di 
Storia  Patria,  dell'Accademia  di  Belle  Arti  in  Torino  e  di 
cinquant'altre  d'Italia  e  fuori;  dell'Instituto  Archeologico  in 
Roma,  dell'Accademia  delle  Scienze  di  Berlino. 

Ricusò,  in  varii  tempi  di  sua  vita,  i  proposti  uffizi  di  di- 
rettore generale,  come  sì  disse,  al  Ministero  di  Guerra,  di 
Prefetto  della  Biblioteca  dell'Università,  di  Sindaco  della 
città  di  Torino,  di  Deputato  al  Parlamento  per  Torino,  per 
Aosta  (che  gli  diede  la  cittadinanza  dopo  il  suo  libro),  di 
Senatore  del  Regno-,  scansò,  con  altre,  la  croce  del  merito; 
e  so  che  dicendogli  allora  non  so  più  chi,  mentr'era  fama 
che  gli  fosse  stata  conferita,  essere  pur  cosa  ghiotta,  oltre 
ronore,  una  pensioncella  di  dieci  o  dodici  centinaia  di  lire, 
rispose  ch'era  nell'ordine  del  possibile  ch^egli  avesse  accettata 
la  decorazione  semplice,  ma  che  in  ogni  caso  avrebbe  di 
sicuro  ricusato  la  pensione.  Aveva  la  coscienza,  la  volontà, 
e  (si  vedrà  forse  un  giorno)  Parte  del  ridato, —  Ed  eradi  vo- 
lontà veramente  ferrea.  —  Non  già  egli  nel  suo  libro,  ma  qual- 
che superstite  spettatore  delle  sue  disquisizioni  antiquarie  nella 


_  614  ~ 

Valle  d'Aosta  può  narrarvi  come  fosse  talvolta,  per  anior 
d'esattezza  e  di  verità,  ardinicniobo  e  noncurante  dei  peri- 
glio. —  Bellissima  era,  rongiunta  a  fortezza  e  severità,  la 
somma  bontà  delPanimo  suo,  la  cara  mitezza.  Soprammodo 
caratteristico  in  lui  i';iborrimento  dalP adular  chicchessia, 
massime  i  più,  la  moltitudine,  per  farsene  sgabello  ^  aborrendo 
egli  onninamente  dall'inganno.  —  Verissimo,  giustissimo  è 
poi  e  soprattutto  il  verso  di  Dante  che  a  lui  applica  uno  dei 
suoi  amici  :   Tutto  suo  amor  quaggiù  post  a  drittura. 

Torino,  a 3  maggio  1873. 

Giacomo  IìUmbroso. 


LA  COMMISSIONE  D'INCHIESTA 
S  ULV  !  S  ri^VZ  IO  V^E    S  EC OV^'DA%IA 

A     T  O  R  i  N  O 


La  Facoltà  di  lettere  e  di  Rlosolia  dell'Ateneo  torinese  deliberò  di 
rispondere  a  quelli  tra  i  Quesiii  della  Commissione  d'inchiesta  sulla 
istruzione  secondaria.,  dei  quali  le  paresse  più  stretta  ed  evidente  la 
Cv>nnessiOà'ie  colia  propria  speciale  natura  ed  intorno  a  cui  ella  potesse 
venir  da  tutti  meglio  riconosciuta  come  giudice  competente.  Essa  per- 
tanto affidò  l'esame  di  si  fatti  Qjiesiti  ad  una  Commissione  composta 
di  cinque  suoi  membri  (i  professori  Rertini,  Garelli,  Peyretti,  Schia- 
parelli,  Pezzi)  ed  avendo  approvate  le  risposfe  che  i  medesimi  le  pro- 
posero si  affrettò  di  tfasrnetìerle  al  Presidetite  della  Commissione 
d'inchiesta.  Siamo  lieti  che  ci  sia  stato  permesso  di  far  noli  ai  nostri 
lettori  i  risultati  di  questo  lavoro,  colle  medesime  parole  con  cui  ven- 
nero significati. 

Quesito  I.  —  Q^l  bisogno  delle  scuole  secondarie  non  è  sufficiente  il 
numero  dei  professori  istruiti  ed  approvali  dalle  scuole  normali  supe- 
riori e  dalle  Facoltà  universitarie  ai  lettere  e  di  filosofia.  Così,  sebbene 
l'Ateneo  torinese  sia  quello  che  dà  il  maggior  numero  dei  dottori  in 
lettere,  nondimeno  avvenne  già  che,  non  bastando  più  questi,  si  doves- 
sero chiamare  allo  insegnamp.nto  studenti  del  ^°  ed  anche  del  "iranno  del 
corso  di  lettere.  Per  rendere  questo  corso  più  ricco  di  studenti  si  propone: 
1»  che  siano  di  nuovo  appropriati  ai  medesimo  tutti  quei  posti  ch'esso 
possedeva  al  Collegio  delle  provincie  giusta  l'istituzione  primitiva  del 
medesimo,  che  il  numero  di  tali  posti  venga  (per  quanto  sarà  possibile) 
accresciuto,  e  si  affidi  di  nuovo  integralmente  alla  Facoltà  letteraria  e 
filosofica  di  Torino  l'esame,  scritto  ed  orale,  che  schiude  l'adito  ad  essi ^ 
per  ottenere  che  in  ciascun  anno  del  corso  di  lettere  e  filosofia  sianyi 
giovani  di  provato  ingegno  ed  operosità  ffine  che  tentasi  ora  conseguire 
sì  a  Roma  si  a  Firenze  colla  liberalità' muniapafej ;  1*  che  facciasi 
piti  attraente  la  carriera  dello  inse^jiamsmo  col  migliorarne  le  condi- 
zioni economiche  e  morali. 


-615  — 

C\2<3M  si  crede  giovevole  il  «  ristabilire  le  sessioni  annuali  d'esame 
presso  alcune  Università  per  abilitare  allo  insegnamento  secondario 
anche  quelli  che  non  hanno  fatto  studi  universitarii  >'.  //  50/0  esame 
non  può  aversi  a  prova  sufficiente  della  capacità  dei  professori.  Gli 
aspiranti  allo  insegnamento  inferiore  ne'  ginnasii  ed  a  quello  della  let- 
teratura, storia  e  geografia  nelle  scuole  tecniche  e  normali  frequentino 
per  un  biennio  le  scuole  universiiari^i  di  lettere  come  allievi  del  1*,  poi 
del  1"  anno  di  sì  fatto  corso.  Al  quale  debbonsi  rendere  nello  Ateneo 
torinese  le  due  cattedre  di  grammatica  greca  e  di  istituzioni  letterarie, 
dando  loro  il  medesimo  compito  che  venne  assegnato  agl'insegìxamenli 
di  grammatica  e  lessicografia  greca  e  latina  con  recentissimo  R,  De- 
creto istituiti  nella  Università  di  Roma.  Questa  Facoltà  fece  manifesto 
sin  dall'estate  scorsa  al  Ministero  di  pubblica  istruirtone  il  bisogno  di 
ristabilire  nell'Università  di  Torino  la  cattedra  di  grammatica  greca  : 
ma  né  a  questa  né  ad  altra  proposta,  concernenie  la  durata  del  corso 
di  storia  antica^  potè  ancora  ottenere  una  risposta. 

Quesito  2.  —  Ugello  ammaestrare  i  futuri  professori  non  curasi  per 
lo  più  abbastan:{a  la  importantissima  parie  linguistica,  che  il  maggior 
numero  di  essi  è  poi  chiamato  ad  insegnare  nelle  scuole  secondarie. 
Appare  assolutamente  necessario  istituire  un  corso  di  grammatica  sto- 
neo-comparativa  delle  due  lingue  classiche  e  della  italiana,  coordinan- 
dolo al  corso  che  presentemente,  con  assurda  qualificazione,  si  appella 
di  Lingue  e  Letterature  comparate. 

Per  ciò  che  spelta  al  tirocinio  scolastico  de'nuovi  dottori  in  lettere 
ed  in  filosofia,  parrebbe  utile  nominarli  aggiunti  ad  una  cattedra  in  un 
istituto  d'istruzione  secondaria,  incaricandoli  di  supplire  eziandio  ai 
professori  di  materie  affini,  con  annuo,  fisso  ed  equo  compenso. 

I  giovani  che  escono  dai  licei  non  sono  generalmente  ahhastanzn pre- 
parati agli  studi  de'corsi  normali  superiori.  Ove  gli  esami  di  amme»- 
sione  a  questi  ultimi  venissero  dati  sen^a  indulgenza,  di  cento  candidati 
nemmeno  venti  potrebbero  essere  promossi  nella  parie  linguistica,  let- 
teraria, storica  e  filosofica. 

Quesito  3.  —  <ò'illa  domanda  a  Quali  frutti  diedero  i  corsi  speciali 
istituiti  presso  alcune  Facoltà  universitarie  per  abilitare  i professori  delle 
scuole  tecniche  e  magistrali?  .>  noi  risvondiamo  che,  per  quanto  attiensi 
alla  Facoltà  letteraria  e  filosofica  dell'Ateneo  torinese,  questi  corsi  non 
poterono  avere  luogo,  non  essendo  mai  stati  altuaxi  i  regolamenti  chi-^sti 
alla  medesima  dal  ministero,  da  essa  proposti  e  dal  mittistero  appro- 
vati per  simili  corsi. 

Quesito  9.  —  Il  governo  farebbe  opera  utilissima,  an^i  necessaria,  pro- 
movendo, contutti  I  mezzi  onde  può  disporre,  la  pubblicazione  diungrande 
giornale  pedagogico,  in  cui  si  disc  lessero  i  problemi  di  pubblica  istru- 
zione e  st  facessero  conoscere  le  migliori  soluzioni  che  di  essi  furono  pro- 
poste presso  le  nazioni  piif  civili. 

Quesito  10.  —  Si  propone  che,  divisa  l'Italia  in  tante  circoscrizioni, 
quanti  sono  gl'istituti  d'istruzione  superiore  in  cui  si  hanno  Facoltà  0 
scuole  normali  che  somministrino  professori  di  tutte  le  materie  letterarie 
e  scientifiche  insegnate  nelle  scuole  secondarie,  si  attribuisca  alle  Facoltà 
e  scuole  normali  di  lettere  e  filosofia,  di  matematica  e  fisica  la  imme- 
diata direzione,  scientifica  e  pedagogica,  della  istruzione  secondaria  in 
ognuna  di  tali  circoscrizioni. 

Quesito  II. — .Si  scelgano,  per  [ciascuna  parte  dello  insegnamento, 
ispettori  che  siano  ben  conosciuti  come  cultori  speciali  della  medesima  o 
per  fama  acquistata  con  opere  fatte  di  pubblica  ragione  o  per  insegna- 
menti universitarii  da  loro  dati  lodevolmente,  e  noti  come  uomini  esperti 
della  i.ttruzione  secondaria. 

Quesito  18.  —  !•  F  necessario  che  ri  stano  e  si  adoperino  in  realtà 


-  616  — 

libri  di  testo  riè  troppo  dijfusi  né  soverchiamente  compendiosi  per  tutte 
le  materie  e  s'interdica  l  uso  dei  sunti  dettati  in  iscuola  dal  professore  o 
compilati  a  casa  daf^li  scolari;  2"  tutù,  per  quanto  è  possibile,  questi  libri 
di  testo,  assolutaynente  poi  le  grammatiche,  dovrebbero  essere  identici 
nella  medesima  circoscrizione  od  almeno  concordi  nei  principii  fonda- 
mentali e  nel  linguaggio  tecnico;  3*  nessuno  di  essi  potrebbe  venire  ado- 
perato nelle  scuole  senz'essere  prima  approvato  dalle  facoltà  0  scuole 
normali  superiori,  cui  spetterebbe,  secondo  queste  proposte,  la  direzione 
immediata  della  istruzione  secondaria  nelle  singole  circoscrizioni. 

Pare  che  si  potrebbe  permettere  Vuso  di  antologie,  ma  a  patto  che 
nessun  limite  sia  segnato  da  esse  alla  libertà  dei  professori  nella  scelta 
delle  opere  classiche  e  delle  parti  di  queste  a  spiegarsi. 

Quesito  28.  —  Ove  si  vogliano  prescrivere  programmi  di  esame  e  con- 
servare gli  esami  di  ammcssione  ai  corsi  universitarii,  occorrerebbe  al-' 
meno  che  i  programmi  di  questi  ultimi  rispondessero  a  quelli  degli  esami 
di  licenza  per  le  scuole  secondarie. 

Quesito  34.  —  Si  fanno  voti  affinchè,  ristretti  fcom'è  assolutamente 
necessario]  a  limiti  più  ragionevoli,  soprattutto  nella  parte  matematica 
e  fisica,  gli  studi  del  liceo  classico,  siano  questi  dichiarati  obbligatorii 
come  preparazione  a  qualsiasi  corso  universitario. 

Quesito  36.  —  Lo  insegnamento  classico  nelicei  debbe  consistere prin^ 
cipalissimamente  nella  spie  gallone  dei  più  grandi  scrittori  greci  e  romani. 
Vuoisi  conservare  lo  studio  del  greco,  facendolo  imparare  seriamente 
con  metodo  migliore  e  cominciando  almeno  dal  3°  corso  ginnasiale ,  a 
patto  che  il  governo,  promovendo  piìi  alacremente  gli  studi  greci  negli 
Atenei,  si  procuri  un  maggior  numero  d'insegnanti  capaci  e  che  sì  cori' 
secri  alle  lezioni  di  greco  il  tempo  che  presentemente  è  dato  aWaritme- 
tica,  perchè  la  Facoltà  reputa  che  entrambi  questi  insegnamenti  non  si 
possano  fare  contcmporaneamenle  con  frutto  nelle  scuole  ginnasiali. 

Siccome  oggetto  dei  .orsi  universitarii  non  ù  già  la  coltura  generale 
{a  cui  tende  il  liceo],  ma  bensì  La  speciale;  siccome  ancora,  quand'anche 
si  dimenticassero  molte  delle  nozioni  particolari  apprese  mediante  un 
intenso  studio  classico,  nondimeno  durerebbe  in  chi  lo  avesse  fatto  a  do- 
vere l'influenza  benefica  di  esso,  ossia  l'alta  educazione  della  mente  e  del 
cuore  :  cosi  non  sembra  necessario  né  opportuno  che  negli  Atenei  si  con- 
tinuino gli  studi  greco-latini  del  liceo  anche  per  tutti  coloro  che  non  si 
fanno  iscrivere  alle  Facoltà  di  lettere  e  di  filosofìa. 

Quesito  3g.  —  C^Con  è  certo  sufficiente  il  profitto  che  si  trae  dallo  studio 
della  filosofia  ne'licei:  ne  sono  pi  ova  gli  esami  di  ammessione  alPUniver' 

"  mo  saggio  di  essere  abbastanza 
di  essa  vuol  essere  conservato 
efficaci  preparazioni  agli  studi 
universiiarii.  Alla  logica  ed  alla  psicologia  dovrebbesi,  giusta  il  parere 
dei  professori  Peyreiti  e  Berlini,  aggiungere  di  nuovo  l'etica  e  la  me- 
tafisica, intesa  in  senso  aristotelico.  Lo  insegnamento  della  filosofia  si 
avrebbe  a  fare  teoreticamente  nei  due  primi  corsi  liceali  ed  a  continuare 
nel  terzo  sotto  forma  pratica  col  commento  di  filosofi  greci  e  latini,  nel 
quale  eser^^izio  dovrebbe  consistere  tutto  lo  yUidio  ckissico  di  questo  ul- 
timo anno. 

Quesiti  41  e  42.  —  J>Ce/  liceo  si  dà  presentemente  soverchia  esten- 
sione allo  insegnamento  della  matematica  e  della  fisica:  ciò  aggrava 
troppo  i  giovani  alunni  e  li  distoglie  dagli  rtudi  letterarìi.  La  facoltà 
riconosce  l'alta  importanza  di  questi  studi ,  massimamente  nell'epoca 
nostra  :  ma  ella  crede  che,  essendo  scopo  del  liceo  la  coltura  generale 
(come  già  abbiamo  accennatoj  e  /'  armonica  educazione  delle  facoltà 
intellettuali  e  morali,  Vinsegnamento  matematico  e  fisico  non  debba  var- 
care quei  confini  che  da  si  fatto  duplice  scopo  gli  sono  prescritti. 

Pietro  Ussello,  gerente  responsabile 


PA       Rivista  di  filologia  e  di 
9  istruzione  classica 

H55 

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