RIVISTA
/h
DI FILOLOGIA
D'ISTRUZIONE CLASSICA
"DIUETTO'KI
G. MiJLLER e D. PEZZI
j^lsTlsrO IPIEòin^LO
i^y^A
ROM\ TORINO FIRENZE
ERMANNO LOESCHER
18713.
Torino - Tipografia Bona
PA
9
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v.i
irs"r>IOB OELLE ]VtATI±lT^IEJ
I Direttori. Proemio pag. \
Linguistica
I. Linguistica in genere e linguistica greco-latina in ispecie.
GoRREsio G. Lettera ai Direttori della 1(jvista intorno al signi-
ficato del nome drrds . . . . . . . pag. 5
Inama V. Osservazioni sulla teoria della coniugazione greca 149
Oliva G. Grammatica greca per le scuole di Vigilio Inama » 76
Id. Dizionario italiano-greco compilato per le scuole da
F, Brunetti » 268
Id. Cenni sulla sintasiii della lingua greca. » 3o(
— id. id. . . .. 341
— id. id. . » 480
— id. id. . .. 5i8
Id. Grammatica elementare della lingua greca secondo
il metodo di G. L. Burnouf, nuova edizione rifusa ed am-
pliata per opera di O. Berrini " 594
Pezzi D. La déclinaison latine en Gauleà l'epoque Mérovingienne,
étude sur les origines de la langue fran9aise par D'Arbois de
Jubainville .35
Id. I pretesi genitivi singolari dei temi latini in -0- . >. loi
Id. Die ergebnisse dei- sprachwissenschaft von Braun. —
Aperfu general de la science comparative des langues (2«»
ed.) par Benloew. — Instructions pour l'étude élémentaire
dela linguistique indo-européenne par Hovelacque » 17$
II. Linguistica neo-latina.
D'Ovidio F. Glottologia neolatina, lettem al sig. prof. Flechia » «54
id. Lingua e dialetto ■> 564
Flechia G, Sull'origine dell'unica forma flessionale del nome
italiano, studio di Francesco D'Ovidio . . . . » 8q
IV
Flechia G. Osservazioni alla lettera del signor F. D'Ovidio (Glot-
tologia neolatina) al prof. Flechia .... pag. 260
Id. Saggio della storia della lingua e dei dialetti d'Italia
con un'introduzione sopra l'origine delle lingue neolatine
del dottore Napoleone Caix. — Rivista di filologia romanza,
diretta da L. Manzoni, E. Monaci, E. Stengel . . » 38o
Pezzi D. Dell'origine della voce sarda Nuraghe, congetture eti-
mologiche di G. Flechia » 145
Vegezzi Ruscalla G. Rettificazione di un'erronea asserzione di
A. G. Schlegel >. a8
Id. Di un articolo pleonastico dell'antico provenzale . •> ii5
Id. Traité de versification francaise par G. Weigand » 201
Filologia classica
I. Filologia greca.
Bertini G. M. Saggio sul Clitofonte, dialogo attribuito a Platone » 457
Coen A. Osservazioni sopra un passo dell'Anabasi di Senofonte » 2o5
CoMPARETTi D. Aristofane, Le à^ubi, con note italiane e intro-
duzione di Achille Coen » 72
Giacomino C. Studien zu Aeschylus von N. Wecklein . » 366
MuLLER G. Die Strafe des Tantalus nach Pindar von profess.
D. Comparetti "30
Id. 'OXoqpiXou '€pttiTeXo; xal '€pacT)n{a, storia greca trovata
e volgarizzata da Innocente Demaria . ...» 32
Id. Aus dem Reiche des Tantalus und Croesus von Dr.
K. Bernard Stark "129
Id. Kurzgefasste Geographie von Altgriechenland von A.
Buttmann > i83
Id. Elementi di grammatica greca ad uso delle scuole. —
EevoqpufVToq Kùpou traiòela. Adnotationibus et iilustrationibus
auxit Angelus Tummolo, presb. Neapol. — Biblioteca utile
alla interpretazione dei Classici greci e latini, versione dal-
l'originale tedesco con aggiunte del prof. B. Zandonella e
F. nob. Cipolla » 273
Id. Godofredo Hermann - 297
Peyron B. Notizia di un antico Evangeliario Bobbiese, che in
alcuni fogli palirapsesti contiene frammenti d'un greco trat-
tato di filosofia "53
Thomas G. M. L'influsso continuo dello spirito greco sul pro-
gresso del genere umano » 210
II. Filologia latina.
Rarco G. Frammenti d'iscrizioni etrusche scoperte a Nizza.
Nota del prof. A. Fabretti .• 100
BooT I. e. G. Restaurazione di un epitafio romano . , ]pag. 557
Carutti D, Due varianti alla satira di Sulpicia . . . >. i25
Id. Nicolai Heinsii Italica. E poematum editione Elzevi-
riana a poeta passim correcta edidit I. C. G, Boot . » 142
Id. Della distinzione tra i Britarmi o Brittoni dell'isola
e i Britanni o Brittoni del continente e della sede di questi
ultimi nelle provincie dell'impero romano. Dissertazioni tre
di Vincenzo De-Vit » 282
CoMPARETTi D. Nonii Marcelli peripatetici turbursicensis de
compendiosa doctrinaad filium, collatis quinque pervetustis
codicibus nondum adhibitis cum ceterorum librorum editio-
numque leciionibus et doctorum suisque notis edidit Lud.
Quicherat » i38
Flechia G. Primo supplemento alla raccolta delle antichissime
iscrizioni italiche con l'aggiunta di alcune osservazioni pa-
leografiche e grammaticali di A. Fabretti ..." 33
Id, Sulpiciae Caleni Satira. Recensuit Dominicus Carutti » 41
Id. Ephemeris epigraphica, corporis inscriptionum lati-
narum supplementum, edita iussu Instituti Archaeologici
Romani » i35
Gandino G. B. Osservazioni critiche intorno all'Argomento acro-
stico del Miles Gloriosus di Plauto . . . » 415
Grion G. Ad Alexandri Magni itinerarium coniecturae . >« 553
Jeep L. L'autore del poema Laudes Herculis . . . »> 405
Id. Aurelii Victoris de Caesaribus Historia e l'Epitome de
Caesaribus » 5o5
Id. Quaestiones onomatologicae, scripsit Otto Sievers. —
De actorum in fàbulis Terentianis numero et distributionc,
diss. Curtius Steflen » 600
MoMMSEN T. Di un'iscrizione graffita nel Museo d'antichità del-
l'Ateneo torinese . . . . . » 122
Id. Su alcuni punti della geografia del Piemonte antico,
lettera a Carlo Promis . . .... » 249
Pezzi D. Histoire de l'éloquence latine depuis l'origine de
Rome jusqu'à Cicéron, d'après les notes de M. Adolphe
Berger, réunies et publiées par Victor Cucheval . » 39
Id. Grundriss der romischen Litteratur von Bernhardy. —
Geschichie der romischen Literatur von Teuffel. — Storia
critica della letteratura romana di Errico . » 191
Id. DieAnnalendesTacituskritischbeleuchtetvonPfitzncr » 247
Vitelli G. Studi su Claudiano di Lud. Jeep ...» 33o
Id. Acta societatis philologae lipsiensis ed. Fr. Ritschelius » 334
Pedagogica
Commissione d'inchiesta sull'istruzione secondaria a Torino.
Risposte della Facoltà torinese di filosofia e lettere ad alcuni
dei quesiti da si fatta Commissione proposti . . » 614
VI
CoNESTAEiLE G. C. SuU'insegnamento della Scienza delle An-
tichità in Italia paf^. 541
pEzzr D. Consideraziorc. sull'istruzione, soprattutta classica, in
Italia, a proposito ciel recentissimo libro di M. Bréal sul-
l'istruzione pubblica in Francia '9
— id. id. » 225
id. id. u 3 IO
— id. id. » 432
_ id. id. » 584
id. La grammatica storico-comparativa e l'insegnamento gin-
nasiale delle lingue classiche giusta M. Bréal . . » 552
Thomas G. M. Parte presa nel Consiglio de' Pregadi in Venezia
intorno agli sludii delle belle lettere . . . ■> 126
Zambalbi F. La Commissione d'inchiesta sulla istruzione secon-
daria a Roma » 498
Varietà
Bertini G. M. Alcuni appunti in servigio dei futuri editori di
traduzioni italiane di prosatori greci ....>■ 24
Id. Aristotelcs oder iiber das Gesetz der Geschichtc von
H Doergens . .338
Fi-ECHiA G. Reliquie celtiche raccolte da Costantino Nigra . » 47
LuMBROso G. Carlo Promis (necrologia) . . . » 604
Oliva. G. Die Cultur der Renaissance in Italien von J. Burc-
khardt > 286
Notizie . . ' » 49
Id » 204
ìd. " 3oo
Id. . ..504
DEGLI SCRITTORI DELLA RIVISTA
BARCO Giovanni Battista, professore nel Ginnasio Monviso in Torino.
BERTINI Giovanni Maria, professore nell'Università di Torino.
BOOT I. C. G., segretario dell'Accademia delle Scien,Te ad Amsterdam.
CARUTTI Domenico, deputato al Parlamento.
COEN Achille, professore nel Liceo di Livorno.
GOMPARETTI Domenico, professore nell'Istituto di studii superiori
a Firenze.
CONESTABILE Gian Cario, professore dellUnìversità di Perugia.
D'OVIDIO Francesco, professore nel Liceo di Bologna.
F LEGHI A Giovanni, professore nell'Università di Torino.
GANDINO Giovanni Battista, professore nell'Università di Bologna.
GIACOMINO Claudio, professore nel Liceo di Sondrio.
GORRESIO Gaspare, prefetto della Biblioteca dell'Università di Torino.
GRION Giusto, preside del Liceo di Verona.
IISAMA Vigilio, professore nell'Accademia scientifico-letteraria di
Milano.
JEEP Ludovico, professore nel Collegio Tommaso in Lipsia.
LUMBROSO Giacomo, membro dell'Accademia delle Scienze di
Torino.
MOMMSEN Teodoro, professore nell'Università di Berlino.
MÙLLER Giuseppe, professore nell'Università di Torino.
OLIVA Gaetano, professore nel Liceo di Rovigo.
PEYRON Bernardino, bibliotecario onorario della Biblioteca dell'Uni-
versità di Torino.
PEZZI Domenico, dottore aggregato alla Facoltà di filosofia e lettere
dell'Università di Torino.
THOMAS Martino, bibliotecario della Biblioteca di Corte e Stato in
Monaco di Baviera.
VEGEZZI RU5CALLA Giovenale, dottore aggregato alla Facoltà
di filosofia e lettere dell'Università di Torino.
VITELLI Girolamo, dottore in lettere.
ZAMBALDI Francesco, professore nel Liceo e nell'Università di Roma.
PROEMIO
Rinata ad indipendenza ed a libertà, Tltalia, profonda-
mente conscia del proprio dovere, sente e comprende quanto
manchi ancora alla sua perfetta redenzione, e, anelando a
risorgere intellettualmente, deplora la decadenza di quegli
studi che la onorarono cotanto nei secoli della sventura. Le
nobili parole, che intorno a si grave argomento testé si udi-
rono nell'assemblea rappresentante il popolo italiano, non
furono se non Teco delle lagnanze e dei voti delfltalia che
medita, che ricorda, che teme un avvenire nell'ordine eccelso
della scienza e dell'arte troppo da meno che il suo grande
passato. Ed a temere ci costringe in fatti la rarità e per lo
più eziandio la sterilità del vero sapere classico, già sì fre-
quente, sì vasto e profondo e gloriosamente operoso fra noi-,
e la poca fecondità dello insegnamento delle lingue e delle
lettere greche e latine ne'ginnasii, ne' licei e nelle università
italiane: che rade volte la scienza discende alla scuola e questa
a quella si eleva. E siccome lo studio filologico è presso i
popoli più colti, e debb^essere, il principalissimo fra gli eser-
cizii con cui negl'istituti didattici si svolgono le facoltà intel-
lettuali delle nuove generazioni, così si scorge quanto lo sca-
dimento di esso sia funesto airintera educazione della gio-
ventù. Fiera minaccia alla vita intellettuale di qualsiasi nazione
lijvist4 di Jìlologia ecc , I.
- 2 —
civile sarebbe pertanto la crescente trascuranza delle disci-
pline classiche : pili fiera ancora all'Italia, a Roma. F'orsechè
occorre rammentare a questo paese ricco di tradizioni e di
monumenti, a questo paese segnato ancora dalle orme del-
l'antica civiltà greco-latina, quanto numerosi e stretti siano i
legami che con questa l'avvincono, e quanto più che in ogni
altra contrada qui e sul sacro suolo dell'Eliade la scienza
della vita greca e latina sia parte importante del sapere storico
ed il culto dei linguaggi e delle letterature classiche neces-
sario strumento di educazione intellettuale e morale? La co-
scienza di ciò ch'ella è e di ciò che fu impone all'Italia, civil-
mente e politicamente risorta, di ridestare ne'suoi figli l'amore
della bellezza e della sapienza immortale ch'ebbero a tempii
non perituri Atene e Roma. Ma non la illuda l'orgoglio colla
folle speranza di bastare a sé stessa e collo spregio, stolta-
mente superbo, dell'opera altrui. Fra il lungo e vario volgersi
delle sorti umane, genti, che un giorno ella chiamò barbare
e nemiche, le divennero maestre e sorelle : confessi con socra-
tico candore la propria inferiorità ed impari da loro ; impari
con libera mente e senza ossequio servile (come si addice a
lei che insegnò al mondo due volte), ma senza miserabili in-
vidie e col puro amore del vero; impari e produrrà maestri
pari ai più insigni fra gli odierni stranieri, ne è pegno il suo
passato e lo splendido esempio di qualche italiano nostro
contemporaneo. Emuli la Germania nell'ardire magnanimo
delle nuove investigazioni scientifiche e delle riforme didat-
tiche : ma si ricordi ognora che indarno tende al vero chi
non ha, scorta sicura, l'arte del metodo, e chi non prende
le mosse dai risultati delle più recenti indagini ed esperienze.
Quest'arte, questi risultati sono già abbastanza noti in Italia ?
Noi non crediamo: io stato odierno della scienza e dello in-
segnamento classico m questo paese ci è quanto triste altret-
tanto valida prova che non erriamo m questo nostro giudizio.
~ 3 —
Ma crediamo, e fermamente crediamo, che l'Italia possiede
intelligenze potenti per gagliarda natura ed efficace educa-
zione, capaci non solo d'iniziarla alla filologia ed alla peda-
gogica straniera, ma eziandio di esaminarne con sicuro criterio
i processi e le conclusioni, di trarne il meglio, di adattarlo
airindole speciale dello ingegno italiano e di concorrere anche
esse al progresso di queste due scienze. Stimolare sì fatte in-
telligenze a lavoro veramente proficuo, sì che la loro virtiì
non resti infeconda (come troppo spesso avvenne nei tempi
trascorsi) ed i loro sforzi convergano ad unico centro (il per-
fezionamento del sapere e della istruzione classica in Italia) è
lo scopo che ci proponemmo fondando questa Rivista ed al
quale rimarremo sempre religiosamente fedeli finché avremo
l'onore di poterla dirigere. E che non indarno noi abbiamo
confidato nel buon volere di parecchi valenti italiani (fra cui
alcuno è tale che il suo nome basterebbe ad illustrare una
rivista scientifica) ci è prova il modo cortese e generoso con
cui risposero al nostro invito, e questo stesso primo fascicolo
attesta la sollecita cooperazione di alcuni fra essi : prova ci
è ancora l'applauso che fecero a questa nostra impresa i di-
rettori di parecchi giornali italiani, fra i quali basti citare
l'autorevole e gentile Rivista Europea {i). A tutti questi fau-
tori dell'opera nostra rendiamo grazie dal profondo del cuore.
Forte di cotanto aiuto e di quello eziandio che le promise
qualche illustre straniero, la nostra ^vista tenderà vigoro-
samente e liberamente al suo fine, al progresso della filologia
e della istruzione classica in Italia. E, per ciò che attiensi in
ispecial guisa alla scienza, ella si sforzerà di rendere sempre
più noti i più certi ed utili risultati delle compiute investiga-
zioni e di spingere gli animosi a nuove indagini intorno alla
(i) V. il fascicolo dello scorso giugno, p. ìjZ.
— 4 —
vita greco-latina, considerandola nei varii ordini delle rive-
lazioni ch'essa ci diede di sé, e con metodo storico e compa-
rativo, ossia nelle epoche successive per cui passò trasfor-
mandosi e nei molteplici ed intimi rapporti esistenti fra il
popolo greco ed il latino, fra questi e quanti altri apparten-
gono alla grande famiglia degli Arii. Ci daremo pensiero di
quegli studi che sono necessaria preparazione alle ricerche
filologiche. Ci sarà oggetto in ispecial guisa gradito di analisi
scientifiche la parola ellenica e latina, e questa eziandio tal-
volta nelle forme moderne o neo-latine in cui si continua la
sua vita tante volte secolare. Non meno ci cureremo dello
svolgimento estetico del pensiero e del sentimento greco e ro-
mano e delPartistìca espressione di essi negli scritti di quegli
antichi, pubblicando testi inediti e nuove lezioni , lavori di
ermeneutica, dì critica e di storia letteraria. Verranno poscia
i miti ed i sistemi filosofici : indi le opere delle arti plastiche,
gli usi, le istituzioni e gli avvenimenti sociali della Grecia e
del Lazio. Dei nuovi libri che appariranno intorno a questi
argomenti daremo, giusta la varia loro importanza ed atti-
nenza colla natura della nostra 'Rivista, od un semplice an-
nunzio od una esposizione un po' particolareggiata od eziandio
un esame critico. In ordine alla pedagogica che concerne gli
studi classici sarà compito nostro descrivere colla maggior
possibile esattezza le istituzioni didattiche in Italia e presso
gli altri popoli civili, notando delle medesime i più insigni
pregi e difetti*, far menzione delle riforme che dai singoli
governi verranno proposte e delle opinioni dei piìi dotti ed
esperti, scrutandone diligentemente il valore; accennare le più
importanti novità accademiche italiane e straniere; volgere la
attenzione dei nostri lettori alle opere ed ai giornali didattici
di maggiore utilità che verranno dati alla luce. E così ci sia
prospero il successo come noi siamo volonterosi di attenere
fedelmente le fatte promesse. Ma quand'anche queste nostre
- 5-
speranze avessero ad essere illusioni ed unico premio a questa
nostra non ingenerosa ostinazione Tamaro disinganno, noi
non ci pentiremmo mai di esserci accinti a questa impresa
e continueremmo a promuovere con tutte le nostre forze il
risorgimento della filologia e la riforma dell'istruzione classica
in questa bella contrada, che all'uno di noi è patria carissima,
all'altro terra ospitale, e, come seconda patria, pregiata e
diietta.
1» luglio 1872.
I DIRETTORI.
LETTERA
DI GASPARE GORRESIO AI DIRETTORI DELLA ^KJVISTA
intomo al significato del nome àryàs.
Onorevoli Signori Direttori,
Eglino, signori, m'han fatto la cortesia e Tonore di ma-
nifestarmi il loro desiderio che questo primo fascicolo della
loro l^ivìsta, che ora s'inizia, uscisse in luce con qualche
mio scritto. Compiaccio volentieri e senza esitanza al gentile
loro desiderio. Comincio dal congratularmi che con nobile
intento e fermo volere egli abbiano posto mano ad un'opera
che riuscirà, ne son certo, di grande utilità agli studi in
Italia*, e quanto posso efficacemente li esorto a condurla in-
nanzi con costanza ed amore. Gli studi filologici e linguistici
non sono ancora in Italia pervenuti a quella universalità e
pienezza di diffusione a cui son giunti in altre contrade e che
si richiede perchè possano essere ben conosciuti , merita-
- 6 —
mente apprezzati e coltivati e portare tutti i lor frutti. La
loro ^vista gioverà efficacemente, non ne dubito, ad otte-
nere questo scopo esponendo a mano a mano le idee ed i
Drincipii che informano questi vasti studi ed innestando con
senno e giudizio i nuovi e fecondi trovati scientifici nei
vecchio e robusto tronco della scienza italiana, rinfrescan-
dolo e ravvivandolo con nuovo succo viiaie. E per mostrar
loro quant'io apprezzi l'opera da loro nobilmente iniziata,
quanta speranza io fondi sulla loro ^vista e quanto ne
desideri il buon successo, mi induco a stendere qui alcune
mie linee, forse per mancanza di tempo non abbastanza
elaborate, ed a proporre una mia congettura che si rannoda
appunto a quegli studi che la ^I{ìvista si propone di trattare.
1 nomi propri dì tribi, genti o popoli amichi hanno tutti
generalmente una significazione loro particolare geografica,
storica, od etnografica, che sovente si connette colle memorie
di quei popoli, con qualche fatto della lor vita ; ed il deter-
minarne il vero e proprio valore non è senza importanza per
le indagini e lo studio delle origini. Il nome delle genti e
dei popoli Aryi [àryàs) che sono i nostri antenati etno-
grafici, l'alto stipite in cui mettono capo le origini nostre,
ebbe dai dotti filologi Indo-Europei differenti interpretazioni.
Alcuni io tradussero per onorandi, eccellenti, nobili, e pen-
sarono che gli Aryi qualificassero sé stessi in tale modo
per distinguersi da altre genti di diversa origine e di sel-
vaggia condizione che essi trovarono sulla lor via durante le
lunghe loro migrazioni. Altri han creduto che il vocabolo
àryi dovesse indicare la condizione agricola delie genti che
si chiamarono anticamente Arye; ed in prova di tale giu-
dizio raffrontarono la radice ar d'onde deriva il noEne di
àrya col radicale ar da cui ha origine il verbo arare '^
secondo questa opinione il nome àryàs verrebbe a dire
popoli agricoltori.
_-7-
Altri cercarono di spiegare altramente il nome di àrfi,
ed attribuirono al vocabolo àrya la significazione di uomo
della propria stirpe {der manti des eigenen stammes) o d'uomo
fedele al culto degli Dei della sua schiatta [der den volks-
giyttern des stammes treue). Senza volere in nulla dimi-
nuire il valore di questi vari giudizi, penso che rimanga
tuttora aperta la via ad altre interpretazioni del nome àrya ;
ed una, che non credo punto inverosimile, ne propongo ora
qui al critico esame dei dotti di questi studi.
Fra i popoU dell'antichità più o meno remota molti sono
quelli che presero nome di erranti , migranti , fuggenti.
Turani, Pelasgi, Slavi -Uscochi ecc. son tutti nomi che
ìndìcdino fuggi tipi y migranti, erranti; non parlerò dei po-
poli Semiti, presso cui si trova pure frequente tale deno-
minazione. Or non potrebbe il nome di àryi {àrySs) avere
questo stesso valore e significare migranti, erranti?!^ radice
sanscrita ar da cui si deduce il vocabolo àry-i, ha come molte
altre radici del sanscrito, la significazione generale di moto,
dalla quale nacquero i significati piiì concreti di muoversi,
amarsi, andare. Ad un vocabolo derivato da quella radice
e formato in un^età antichissima da genti che avevano il senso
intuitivo, profondo della parola, della natura e della forma del
vocabolo, parmi meglio si convenga il significato di migranti,
erranti che alcun altro di quelli esposti più sopra. 1 popoli
Arji furono nell'antichità come nei tempi moderni i ini-
graiti per eccellenza. Dall'Himàlaya fino alPAdantico ei si
diffusero migrando per ogni dove ed occuparono quasi tutto
Toccidente. L'India e Tlran, la Scandinavia e la Germania,
leGalie e la Bretagna, la Grecia, Tltalia, riUirio furono le
sedi d verse e successive dei popoli Aryi. Or non par egli
probabile che il nome preso da quei popoli dovesse signi-
ficare nigranti, massime se si consideri che tal nome fu
comune a molti popoli dell'antichità, per le frequenti loro
_ 8 -
migrazioni e che la radice ar donde si deriva significa
muoversi, andare?
11 significato di onorandi, eccellenti, attribuito general-
mente dai filologi al nome di Aryi, molto bene si comprende-
rebbe se quel nome fosse stato preso dagli Aryi in quell'età
in cui trovandosi essi a fronte di popoli avversi e rozzi, dif-
ferenti d'origine, di favella e di culto, e volendo distinguersi
da loro con uti nome che indicasse ad un tempo la loro ec-
cellenza sopra i barbari Dasyu e la differenza che era tra
loro ed essi, si fossero chiamati àryi, gli eccellenti, i nobili.
Ma quel nome è anteriore alle loro lotte coi Dasyu, coi sel-
vaggi aborigeni che essi trovarono stanziati nelle regioni
che si disponevano ad occupare. Quel nome ei già l'avevanc
preso in una delle loro sedi primitive, nell'Airyana-Vaega,
così denominata appunto da dry a, ed era comune agl'In-
diani, ai Persiani, ai Medi. Un'altra ragione dunque gli ir-
dusse ad assumerlo, e non è punto improbabile che qusl
nome alludesse al possente loro istinto di migrazione.
Ecco, egregi signori Direttori, le poche linee forse non
prive di qualche importanza che essi m'invitarono a scrivere
e che io loro indirizzo con sentimento di stima e con lieti
augurii per la loro Rivista.
ì
■ ^ /
Torino, il dì 26 di giugno 1872.
Gaspare Gorresio.
~ 9
COV^SI'DEIiAZlOV^I
SULL'ISTRUZIONE, SOPRATTUTTO CLASSICA, IN ITALIA
a proposito del recentissimo libro di M. BREAL
suir istrupone pubblica in Francia (i).
Se le più belle e seduttrici parvenze non fossero spesso
le più fallaci, noi dovremmo indubbiamente credere che tutti
gl'Italiani intellettualmente educati sentono e comprendono
perfettamente tutta la suprema importanza del problema
didattico. Quanti fra loro non sarebbero disposti ad affer-
mare con E. Renan che « de tous les problèmes de notre
temps, c'est là le plus important » (2)? Quanti non asseri-
rebbero coU'Huxley che lo insegnamento può essere a buon
(i) Bréal, Queìques moissur Vinsiruction publique enFrance, Paris,
Hachette, X872. — Renan, Questions contemporaines, Paris. 1868. —
Id., La ré/orme intellectuelle et morale y Paris, £871 (p. qS-iot). — Bois-
siER, Les ré/ormes de l'enseignement [Revue des deux mondes, t.82, p. 904-
984,6 t. 75, p. 863-884). — Blanchard, Uinstruction generale en France
{Revue des deux mondes, t. 95, p. 81 5-843). — Duruy, La liberté de
l'enseignement supérieur {Revue des deux mondes, t. 85, p. 736-757). —
Htllebrand, L'enseignement supérieur en France {Revue moderne, t. 46,
p. 589-610). — Leger, L'enseignement supérieur et la Sorbonne (Revuc
moderne , t. 5o, p. 259-277). — Rapport sur l'organisation et les prò-
grès de Vinsiruction publique, Paris, 1867; Rapport sur les éludes de
langue et littérature grecque en France, Paris, 1868; Rapport sur Vétude
des lettres lalines ecc. ^ Paris, 1868.
(2) Questions contemporaines, p. V.
- 10 -
diritto considerato come l'opera piià grande onde abbia a
darsi pensiero Tepoca odierna (i)? Quanti finalmente non
esclamerebbero, come il deputato francese signor V. de
Tracy nel i835, che « l'instruction publique est tout))(2)?
E senza fallo imprenderebbero a confermare sì fatte iper-
boli, osservando quale e quanta sia l'azione della mente
sulla volontà e come i saggi pensieri siano di utili opere
ispiratori : come dall' istruzione in gran parte dipenda lo
avvenire dell'individuo e della società (3). Ma intanto i
molti, paghi di avere offerto a questo grande problema lo
inutile tributo di qualche frase sonora, non gli fanno nem-
meno l'onore di una discussione veramente seria e lo pos-
pongono alle questioni politiche, economiche, militari, talora
eziandio alle personali: altri ne tentano 1 ardua soluzione*,
ma, o troppo assuefatti a nebulose astrazioni o troppo ines-
perti ed impazienti di minute indagini, per lo piiì non rie-
scono a scoprire le profonde radici dei mali, onde per con-
senso di tutti è travagliata l'istruzione italiana, e non val-
gono pertanto ad indicarne i pìij sicuri e pronti rimedii.
Indi segue che, tra colpevoli negligenze e vane declama-
li) Blànchard, art. cit., p. 828.
(2) Id., art. cit., p. 845.
(3) « C'est sur ce terrain que se livrent les batailles les plus achar-
nées entre Jes partis qui divìsent la France. Et corament s'en étonner?
Dans cette lutte, ce n'est pas seuìement l'amour de la vérité et le désir
de la voir triompher qui passionnent les combattans, c'est aussi pour
chaque parti le désir de se voir perpétuer dans les genérations qui se lèvent
et qui ont l'avenir dans les mains. » Saint-René Taillandìer, Les
réformes de l'enseigmment primaire [Revue des deux mondes, t. 87,
p. 636). — '.« Une expérience vieille comme l'humanité nous apprend
que le succès ici-bas n'appartieni ni aux àmes les plus aimantes, ni
aux coeurs les plus généreux: c'est aux intelligences les plus aiguìsées
et les plus actives qu'est dévolu l'empire du monde. » Bréal, op. cit.,
p. 73-74.
- 11 -
zioni, gli studi italiani cercano troppo spesso indarno ie vie
benedette del vero progresso: che, fra molti ciechi, pochi
e non sempre creduti sono i veggenti. Noi vorremmo che
alcuni almeno fra questi, ed i più autorevoli, facessero
udire alF Italia, loro patria, una parola severa e libera come
quella che volse alla sua Francia Michele Bréal.
Lo illustre professore del collegio di Francia c'insegna
col suo esempio come si possa e si debba discorrere intorno
a sì fatto argomento in guisa veramente utile al proprio
paese. L'amore deìle idee generali non io distrae dall'esame
particolareggiato dei fatti; la disamina di questi non gli
toglie, non gli scema la tendenza, l'attitudine ad assorgere
a concetti sintetici. Egli si rivela ardilo innovatore, ardito
tanto che osa, iii questi tempi, dopo le sconfitte dei 1870
e la perdita di due provincie, proporre non di rado alla
vinta Francia come modello la vincitrice Germania : ma
pari a sì nobile coraggio ha la prudenza, la moderazione.
Il suo libro ha un vero valore, teoretico e pratico; molte
idee giuste ed opportune ; vivo , profondo ed intelligente
amore della patria; forme esatte, chiare, facili, talvolta
condite di sale veramente francese. E s'intende facilmente
come sì acconcie osservazioni e consigli siano opera
dell'uomo, che, iniziato a tutti i misteri della linguistica e
della filologia tedesca, diede alla Francia la prima versione
della grammatica comparativa di Francesco Bopp con utili
introduzioni e cooperò con eccellenti monografie alla forma-
zione di una nuova scienza, la mitologia comparativa. Così
prima di lui, un altro rinomato filologo, E. Renan, aveva
gravemente e liberamente discorso della istruzione francese:
non pochi scritti di ahri rispettabili cultori della scienza
erano apparsi nelle più importanti riviste. Per le molteplici
e strette attinenze che esistono tra gli studi francesi e gl'i-
taliani la lettura di simili lavori ci destò nella mente buon
-12-
numero di osservazioni intorno allo stato dello insegnamento
in Italia, osservazioni che ci accingiamo ad esporre, e con
quella assoluta indipendenza e franchezza, da cui, special-
mente su questo campo, noi non sapemmo e non sapremo
mai dipartirci. « Nous apporterons», diremo col Bréal, «à
catte étude la plus sincère franchise. Les précautions de
langage, outre qu'elles seraient superflues, seraient comme
une sorte d'offense dans une matière où il importe avant
tout de rechercher et de dire la vérité » (i). E soggiunge-
remo colTHillebrand che « les bons médecins sont ceux qui
accusent le mal, non ceux qui le cachent et le pallient » (2).
E questa libera e schietta esposizione gioverà eziandio a
far conoscere chiaramente quali siano in ordine a parecchie
ed importantissime questioni didattiche la fede e le aspira-
zioni di questa nuova rivista, di cui sarà tanta parte lo
studio dei problemi che concernono lo insegnamento, in
ispecie il classico ed in Italia.
Il Bréal si mantiene, in tutto il suo libro, fedele alla fatta
promessa e vergine di adulazioni codarde. Prendendo le
mosse dairistruzione primaria od elementare (che è la sola
onde i più possano essere forniti) ne accenna liberamente i
difetti e le tristi loro conseguenze. « Une des choses », egli
scrive, " dont l'Europe, pendant la dernière guerre, a été le
plus étonnée, c'est de voir combien la raison du peuple
francais était peu mùrie et peu ferme. Le courage de la
nation s'est montr.é tei qu'on l'avait connu en tous les temps;
mais on a été effrayé de trouver une telle inexpérience de
pensée, un si grand désarroi intellectuel. Il est pénible de
dire, mais il faut avoir le courage de dire que les AUe-
(i) Op. cii., p. 159-160.
(2) Art. cit., p. 590.
- 13 —
mands nous trouvaient naifs» (i). E discorrendo dei fan-
ciulli francesi nota che, giusta i chiari e vivi avvertimenti
della storia degli ultimi cinquant'anni, tutto resta a fare
per l'educazione della loro ragione (2). E giunge sino ad
affermare che « jusqu'à présent il semble que Tinstruction
publique, en France, ait pris à tàche de nourrir nos tra-
vers et de culti ver nos faiblesses » (3), Per ciò che spetta
agli studi secondarli basti citare le parole seguenti: « Au
milieu d'une société qui est ou qui se croit renouvelée,
nous avons donc conserve une organisation des études qui,
dès le dernier siede, paraissait aux meilleurs esprits étroite
et arriérée » (4). Alle quali parole potremmo aggiungere
altre non meno gravi che leggiamo verso la fine del libro:
« rélève de rhétorique et de philosophie, une fois sortì du
collège, ne va pas chercher la science, car on ne lui en a
pas inspiré le désìr, ni mème donne l'idée » (5). Né guari
men severo giudizio è recato dello insegnamento superiore,
in ispecie delle facoltà di lettere: che l'istruzione, la quale
da esse si comparte, ci viene ritratta dal professore francese
come affatto remota dallo scopo che dovrebb'essere suo,-
quello cioè di preparare nuovi ed utili lavoratori alla scienza.
Il Bréal conchiude asserendo che « l'enseignement, à ses
trois degrés, est à réparer et à reconstruire » (6). Per ciò
che attiensi particolarmente alle discipline classiche sono
molte le amare verità dette francamente dal nostro autore
(1) Op. cit., p. 122.
(2) Op. cit,, p. 118.
(3) Op. cit., p. 116.
(4) Op. cit., p. 324.
(5) Op. cit., p. 390.
(6) Op. cit., p. 401.
— 14 —
intorno ai risultati finali degli studi latini e greci (i). Né
più mite è la sentenza che intorno alla istruzione francese
in genere pronunziava E. Renan: e. Tintelligence francaise
s'est affaiblie; il faut la fortifier Notre système d'in-
struction a besoin de réformes radicales » (2). Conforme
ai parere di questi due dotti è quello di parecchi altri fran-
cesi: come poi certi intelligenti stranieri abbiano giudicato
gli studi dei nostri vicini apparirà a chi legga le pagine
che il R.enan consecrava a questo non troppo lieto argo-
mento (3). Ed ora vuoisi osservare che molte fra le accuse
mosse alla istruzione francese si potrebbero eziandio, senza
calunnia, muovere alla italiana. Che lo stato di questa sia
ben lungi dair essere ciò che dovrebbe e ciò che tutti
quanti ci conosciamo un po' dì queste cose vorremmo che
fosse, è ormai tanto noto che non occorre nemmeno ripe-
terlo. E se Torgogiio e la pigrizia c'inducessero a dimenti-
care si fatta nostra miseria, la parola di qualche straniero
basterebbe a rammentarcela. Così, per appagarci di un solo
esempio, nell'anno 1869 il signor Blerzy, in un rinomato
e diffuso giornale francese, dopo aver discorso dello inse-
ji) Intorno a sì fatti studi non vuoisi ommeitere quanto si legge
nell'autorevole Revue critique dliistoire et de littérature, anno 4", n. 5":
« Ne craignons pas de le dire tout haut: cet état (degli studi di lin-
gua e di letteratura greca in Francia) est déplorable. Nous sommes au-
dessous, non seulement de l'AUemagne contemporaine, mais peui-étre
méme de l'érudition francaise au XVI1I« siècle. Sans doute les élèves
de l'ancienne Université n'apprenaient pas le grec ; mais ceux d'au-
jourd'hui n'ont que l'air de l'apprendre; au fond, à la fin deleurs éiudes
ils ne savent quel'épeler. Quant auxtravaux d'érudition, il y avait, sera-
ble-t-il, à la fin du XVI li» siècle un plus grand nombre de gens ayant
la capacité et le goùi d'en exécuter, et sans la Revolution le nombre en
aurait augmenté encore Il est triste de penser que le grec est
florissant chez nous en comparaison du latin.»
(2) Laréforme ecc., p. 95.
(3) Questioni contemporaines, p. aSS-apS.
— 16 —
gnamento secondario in Inghilterra e Scozia, in Germania
e Svizzera, dedicava alcune non troppo lusinghiere osser-
vazioni alla istruzione pubblica in Italia. « S'étonne-
ra-t-on qu'en Italie, oìi les trois quarts des adultes ne sa-
vcnt ni lire ni écrire, les études élevées soient dans un
déplorable état d'abandon? La loi Casati, promulguée
en 1859, est une imitation un peu trop servile des institu-
tions scolaires de la France Le pian d'ensemble de
cette organisation scolaire est bon; mais dans la réalité on n'a
pas été capable de le suivre avec constance Le corps
enseignant est trop nombreux, mal rétribué, et partant peu
instruit. Le niveau moyen des études est si faible que les
examinateurs som souvent forcés d'etra trop induigens, d'où
il résulte que les diplómes sont illusoires L'Italie ne
peut montrer que de louables efforts de réforme » (i). Fac-
ciamoci a scrutare con analisi efficace la intima natura dei
mali che corrodono la istruzione in Francia ed in Italia :
scoprire le cause dei morbi è, spesse volte, trovarne i più
possenti rimedii.
I.
Il primo vizio scolastico, di cui ci sembra opportuno far
cenno ragionando degli studi presso queste due nazioni neo-
latine, è la tendenza soverchiamente pratica dei medesimi :
vizio che ci appare sempre maggiore, quanto piià ci avvez-
ziamo a paragonare l'istruzione francese ed italiana colla ger-
manica. Mentre in Allemagna la scienza è generalmente con-
siderata come degna di essere coltivata per se stessa e come
mezzo efficacissimo di alta educazione intellettuale, suolsi
(i) Blerzy, De l'enseignement secondaire en Europe (Revue des deux
mondesyi. 80, p. 125-127)
~ 16 -
per lo contrario in Francia ed in Italia proporre allo studio
un fine straniero alla scienza, il conseguimento di un grado
accademico, T apprendimento di una nobile professione.
<( C'est une chose étonnante »y nota il Bréal, «combien,
mème chez Ics plus instruits et les meilleurs d'entre nos
jeunes gens, Tamour de la science est rare. On veut ètre
ingénieur, avocat, professeur, médecin : mais irès-peu se
proposent d'étudier les mathématiques, le droit, Pantiquité,
la physiologie » (i). E, prendendo a discorrere, delle facoltà
universitarie del suo paese, osserva che « dans la pensée de
celui qui les a ìnstituées, la collation des grades était la
partie la plus importante de leurs fonctions. Napoléon, chez
qui invincibiement toutes les conceptions se presenta ient sous
la forme hiérarchique et administrative, n'aurait probable-
ment jaraais créé de Facuités des lettres et des sciences, s'il
n^avait faliu quelques personnes pour délivrer les dipló-
mes » (2). Quanto volgo di menti, che pretendono essere e
farsi credere coite, fa eco in Italia a quest'errore francese e
considera gli atenei come fabbriche privilegiate d'avvocati e
di medici, d'ingegneri e di professori! Il dotto a che vale?
Indi la suprema importanza data agli esami. In ordine ai
quali sono degnissime di attenzione le parole del nostro au-
tore: « On perd dès les premières années de la jeunesse la
notion du travail désintéressé; on associe l'idée d'examen si
étroitement à celle de travail, qu'une fois que les derniers
examens sont franchis, le travail ne parait plus avoir de
raison d'etre» (3). E di certi esami italiani ben potremmo
ripetere ciò ch'egli dice dei francesi corrispondenti : « Les
^togrammes des examens, d'abord foft modestes, se sont
(0 Op. cit., p. 362.
(2) Op. cìt-, p. 327-328.
(3) Op. cit., p. 361-362.
— 17 —
peu a peu grossis de matìères nouvelles Il faut donc,
à un moment donne, ctre prét à répondre sur la matière de
plusieurs enseignemems, prolongés chacun pendant un ou
deux ans. Il faut surcharger sa mémoire en prévision d'un
court examen qui décide du sort de la vie entière. Les con-
naissances ainsi acquises ne resteront pas dans Tesprit-, elles
ne iaisseront mème pas après elles ce profit general que pro-
cure à rintelligence un travail librement entrepris et pour-
suivi avec goùt et mesure. Le plus souvent, le seul resultai
de cette préparation hàtive et outrée, c'est la fatigue precoce
et le dégoOt du travail» (i). Chi, ledendo queste parole,
non pensa ai nostri esami di licenza liceale ?
Con questi principii, con questi istinti si connette stretta-
mente l'avversione dei più a tutti quegli studi, di cui essi
non veggono attinenze palesi, numerose, importanti colla
vita pratica. Vogliono la scienza non già per essa, ma per
quelle ch'essi chiamano le applicazioni all'agricoltura, all'in-
dustria, al commercio. Di costoro giusto giudizio profferiva
(i) Op. cit., p. 359-360. — Il Bréal si mostra eziandio poco propizio
ai premii. « Pourexciter nos coUégiens à bien faìre, on n'a rien trouvé
de mjeux que de les classer et de les reclasser sans fin : places, notes, ta-
bleau d'honneur, l'amour-propre est le grand levier. Mais il n'est pas
difficile de voir que ce levier n'a rien qui le rattache spécialement à l'é-
tude : ces moyens d'émulation pourraient ètra appliqués à obtenir des
enfants un tout autre emploi de leur zèle ei de leurs facultés... Amener
les enfants à faire avec passion des exercices qui ne les intéressent poìnt
par eux-mémes, c'est la gageure que les Pères Jésuites paraissent s'étre
donnée et qu'ils ont transmise à l'Université, L'enfant s'babitue de la
sorte à chercher la récompense de ses actes en dehors des actes eux-
mémes... >• (p. 3i8-3i9), n On dit quelepursentimentdudevoir n'existe
pas chez les enfants, et que c'est là une notion trop haute pour des na-
tures encore si légères. Je crois, au contraire, qu'il est plus facile d'ha-
bituer des enfants à travaillerpour se contenter eux-mémes et pour satis-
faire leurs mattres et leurs parents, que de ramener au désintéressement
rhomme qui a grandi dans le désir des récompenses, et qui n'a jamais
séparé dans sa pensée un acte de bonne conduite ou un effort de travail
du signe extérieur qui doit le constater aux yeux du monde *> (p. 1 19).
7(1 vista di Jilologia ecc., 1. a
— 18 —
in Francia il Bìot : « Depuis cinquante ans, les sciences phy-
siques et chimiques ont rempli le monde de leurs merveil-
les Alors, la ibule irréfìéchie, ignorante des causes, n'a
plus vu des sciences que leur resultai, et, comme le sauvage,
elle aurait volontiers trouvé bon qu'on coupàt Tarbre pour
avoir le ^ruit w (i).
A questa irrompente volgarità plebea di concetti e di aspi-
razioni dovrebbe, per la dignità della scienza iialica, opporsi
almeno Talto insegnamento dei nostri atenei e la gioventù
che lo riceve, onorando, non solo in teorica ma eziandio
praticamente, la generosa investigazione del vero per Tamor
puro del vero. Di essa ci sono nobilissimi modelli le uni-
versità germaniche. Lo insegnamento che vi si comparte è,
scrive lo Hillebrand, « purement scientifique, désintéressé ,
j'allais dire inutile, dans le scns vulgaire du mot; car il ne
prépare qu'indirectement aux carrières, et souvent il n'est
qu'un moyen pour arriver à un but plus general et plus
élevé, celui d'enrichir et de faire avancer la science. Tous
les Allemands, à quelque école qu'ils appartiennent , sont
d'accord sur cette manière de voir. « L'enseignement de
rUniversité, dit M. R. de Mofal, doit toujours èrre a la
hauteur de la science; celle ci doit etre cultivée et estimée
pour eile-mème et non-seulement pour son application di-
recte au service public. C'est une opinion bien inintelligente
et vulgaire que celle qui abaìsse l'Université au point d'en
faire une riunion fortuite d'établissements destinés au dres-
sage nécessaire des ouvriers de metier...... L'application
servile et mécanique ne se fera que trop d'elle-méme chez
un grand nombre d*éièves, et l'exercice qui leur manque
au sortir de l'Université, ils i'acquerront bien assez vite
(s) Renan, Qiiestioìis cantcì-^Tporaine:;, p, no.
- 19 -
dans la vìe pratique. Les choses iraient bien mal chez un
peuple dont la plus haute culture intellectuelle consisterait
en une simple aptitude aux affaires, dans un état dont les
fonctionnaires dirigeants ne seraient pas cn mème temps les
esprits les plus cultivés de la nation y> (i).
Le idee e le tendenze soverchiamente pratiche dell'età
nostra più ancora che T insegnamento superiore tentano
invadere con istolta prepotenza T istruzione secondaria.
Non pochi, né, apparentemente almeno, sforniti affatto
di una mediocre educazione intellettuale sono coloro che
vorrebbero sì fatta istruzione ridurre ad una prosaica pre-
parazione del fanciullo alla vita pratica, escludendo spie-
tatamente quei nobilissimi studi, i quali, come i più atti a
svolgere convenientemente le più alte facoltà dello spirito
umano, sono e debbono essere, e, speriamo per l'onore delle
future generazioni, saranno sempre la solida base della istru-
zione secondaria» Compito della quale, più assai che infon-
dere nelle menti giovanili le nozioni letterarie e scientifiche
(i) HiLLKBRAND, L'enseigtiement supérieur en Allemagne CRevue ma'
deme^ t. 45, p,. 193-220; v. in ispecie p, 214 e 21 5). Quindi « l'Uni-
versité allemande ne prépare point directement aux carrièresr elle se
contente de donner à l'étudiant une base scientifique, c'est-à-dire la
méthode et l'ensemble des principes qui régissent les diverses sciences »>
(p. 211). E quando si osserva che sì fatto insegnamento, essenzial-
mente teoretico, tende per av\'emura a produrre maggior numero di
scienziati che non d'uomini atti all'esercizio di una professione libe-
rale, allora, soggiunge l'Hillebrand, i Tedeschi rispondono « qu'après
tout ce n*est jamais que la mìnorité qui a le feu sacre, que l'on peut
parfaitement concilier d'ailleurs l'accomplissement de ses devoirs pro-
fessionnels sans renoncer à cultiver la science, que tous lessavants ne
som pas nécessairement des hommes incapables dans la vie pratique,
qu'cnfin la science a aussi bien le droìt de revendiquer pour elle sa pan
de chaque generation que lesautres intéréts de la vie nationale, et que
des hellénistes et des astronomes sont aussi nécessaires que des pro-
fesseurs de collège et des médecins. D'un autre coté, les Allemands
soutiennent que la science pure est la meilleure préparation à la pra-
tique... » (p. 31 5).
- 20 -
costituenti quella che ora appellano coltura delle classi supe-
riori della società, è, per consenso di tutti i meglio pensanti
ed esperti, educare Tuomo intellettuale e morale ; svolgerne
una nobile e potente personalità, come l'artista trae fuori dal
marmo la statua (i); rafforzare e raffinare, con molteplice
opportuno esercizio, sentimento, immaginativa, intelligenza,
memoria , volontà -, rendere sempre più gagliarda e squisita
Taspirazione delTanima umana al bello, al bene ed al vero.
fi) Esagerando questo concetto profondamente vero, THiUebrand
scrive: « L'insiruction secondaire... ne se propose ou ne dcvrait se
proposer aucuiie utili té pratique. En supposani qu'une intelligence pùt
oublier tous les faits, dates, mots et règics qu'elle à appris au collège,
sans toutefois que cet oubli fùt la suite d'un affaiblissement maladif
des forces mentales, le. but de l'enseigriement secondaire n'en serait
pas moins atieint, puisque cetie intelligence ainsi cultivée serait de-
venue ce qu'on voulait qu'elle devini... On comprend aisément dès
lors que l'esprit general et la méthode de l'en-^^eignement prennent
la première place dans cet ordre, et que les connaissances eiles-mémes
ne difTèient de valeur qu'autant qu'elies se prétent plus ou moins à
appliquer cette méthode et cet esprit general. Donhez-nous, vous dira
tout professeur de lycée qui prendra sa roission au sérieux, donnez-
nou5un meilleur instrument que le grec, le latin, les mathématiques,
l'histoire et la histoire naturelle, pour habituer nos jeunes gens à analyscr
et è jjger, à penser avec logique et à observer avec exactitude., à cias-
serieurs connaissances et à généraliser leurs observations, à sentir enfen
les nuances et à deviner les rapports des choses ; donnez-noMS-le, e»^
nous voas abandonnerons, avec regret assurément, mais ^aiis hésiter,
et Sciences et histoire, et mathématiques et latin, tout cet ensemble,
en un mot, éprouvé et traditionnel, dont nous nous servons depuis
trois cente ans pour former les jeunes esprits » (p, 194). E toccando
di certi padri di famiglia, i quali considerano questi stuui come poco
utilJ praticamente, soggiunge che « l'expérience seulc pourra leur ou-
vrir les yeux et leur prouver qu'il n'y a rien de plus utile, méme
au point de vue pratique, que ces belles inutilités. Cette expérience,
il tàudri, bien que nous la fassions tout comme nos voisins qui, après
avoir priitiqué pendant trente ans le système tant vanté des Realschulen,
reviennent enfin à la bonne vieille coutume d'envoyer leurs enfants
apprendre au collège le grec et le latin, méme quand ils se proposent
d'en faire des industriels ou des négociants, des chimistes ou des in-
génieurs » (p. 195).
-21 -
Strumento fra gli altri tutti efficacissimo di questa educazione
armonica delle potenze estetiche, intellettuali e morali del-
i^uomo furono, dallo splendido evo del rinnovato culto della
civiltà greco-latina alla età nostra, reputati gli studi classici.
E la guerra che loro si mosse per lo passato ed in ispecie
presentemente si muove non altronde procedette né procede
che da un'erronea confusione dell'abuso coll'uso o da un falso
concetto dello scopo supremo che all'insegnamento ginnasiale
e liceale vuol essere proposto (i).
Indi segue che non si potrà mai, senza gravissimo danno
del perfezionamento umano, sostituire nelle nostre scuole
secondarie agli studi classici una istruzione esclusivamente
tecnica, o, come si direbbe in Francia, un'istruzione mera-
mente professionale: né questa, checché ne pensino certi
dottori dalla vista corta, potrà mai staccarsi affatto dalla
scienza pura senza nuocere grandemente a sé stessa. Atto-
nito ammiratore dei grandi risultati pratici , di quelle che
soglionsi ora chiamare applicazioni di scoperte scientifiche,
il volgo degl'inetti a riflettere dimentica, troppo presto dav-
vero, li lungo ed arduo lavorfo puramente teoretico a cui
quelle per lo più si debbono: e intanto non si pensa, e sa-
rebbe pur facile, che, negletta la generosa indagine del vero,
sarà stoltezza l'attenderne i benefici effetti (2).
Ed anche lo stesso insegnamento primario dipende , più
che i molti non credano, dalla istruzione superiore ed il
perfezionamiento di quello col progresso di questa è stretta-
mente connesso. Ed in fatti che cosa è l'insegnamento pri-
mario se non l'esposizione elementare di quelle verità che
debbono essere il patrimonio intellettuale di tutti ? E non
(i) FiCKER, Guida allo studio della letteratura classica antica, trad.
da V. De Castro, 2* ed., Milano, 4844, p. 6-29.
(a) Blanchard, art. cit., p. 818-823.
— 22 —
sono forse queste verità parte del sapere più alto, e non
ispetta forse a questo darne le prove e determinarne esatta-
mente il concetto? E d'onde, se non dalle scuole superiori,
trarremo uomini veramente atti a dirigere l'educazione intel-
lettuale del popolo? Quindi a ragione scrive il Bréal: «L'U-
niversité est un centre d'où rayonne continuellement sur la
nation Tesprit de réflexion et d'examen: car il ne faudrait
point croire que ces grands corps restent sans action sur les
couches popuiaires. Gomme ce sont les anciens élèves des
universités qui remplissent les fonctions publiques et qui
exercent les professions les plus considérées, la société tout
entière adopte, moyennant le grossissement exigé par Tintel-
ligence et par Téducation de chacun , les mèmes facons de
raisonner et de juger. Le journal que lit Thonime du peupie
a pour rédacteur. un homme qui a étudié Thistoire avec
Waitz ou l'economie politique avec Roscher. Le maitre
d'école qui parie aux enfants a recu sa part du courant
scientifique par l'intermédiaire du Directeur de son Ecole
normale, ancien éiève des Universités, et il entretient ce pre-
mier fonds gràce à la lecture des journaux pédagogiques » (i).
Ed a certi signori, i quali sembrano non d'altro mai darsi il
minimo pensiero, quando si tratta di studi, che della istru-
zione elementare, sarebbe proprio opportuno il rammentare,
con E. Renan, che « l'enseignement supérieur est la source
de Tenseignement primaire. Sacrifier le premier au second,
c'est commettre une fante, c'est aller contre le but qu'on se
propose,.., L'instruction primaire n'est solide dans un pays
que quand la partie éclairée de la nation la veut, la com-
prend, en voit Tutilité et la justice. Travaillez à produire
des classes supérieures qui soient animées d' un esprit
(i) Op. cit., p. 396.
-23 —
liberal; sans cela, vous bàtissez sur ie. sable La force
de rinstruction populaire en rAllemagne vient de la force
de renseignement supérieur en ce pays. C'est Puniversité
qui fair Fècole L'instruction du peuple est un effet de
la haute culture de certaines ciasses. Les pays qui, comme
les États-Urxis, ont créé un enseignement populaire con-
sidérable sans instruciion supérieure sérieuse expieront
longtemps encore cette faute par leur médiocrité intellec-
tueile, leur grossièreté de moeurs, leur esprit superSciel,
leur manque d'intelligence generale » (i). Conchiudiamo
pertanto col Bréal: « C'est par Tinstruction supérieure que
doit débuter une réforme de Tenseignement qui veut étre
approfondie et durable, puisqu'un nouvel esprit ne pourra
pénétrer dans les iycées que si le savoìr des professeurs
s'élargit et se transforme, et puisque Tenseignement primaire
ne deviendra ce qu'il doit ètre que si les Écoles Normales
empruntent leurs directeurs et leurs professeurs à Tinstruc-
tion secondai re. Ainsi nos Facultés des lettres et des sciences,
qu"'on regarde ordinairement comme une sorte de luxe, sont
les organes nécessaires pour le renouvellement de notre vie
intellectuelle » (3). Alle quali considerazioni noi aggiungiamo
essere assai più facile attuare una pronta e radicale riforma
nei pochi istituti d'istruzione superiore, che non nelle
molte scuole liceali e ginnasiali e nelle elementari, le quali
ultime sono e debbono essere per la propria natura presso
un popolo inciviUto numerosissime.
(Continua)
D, Pezzi.
(1) Questions contemporaines, p. VI -VII.
(2) Op. cit., p. 327.
— 24 —
IN SERVIGIO DEI FUTURI EDìTORI DI TRADUZIONI ITALIANE
DI PROSATORI GRECI.
Ammesso come un vero incontrastabile che nelle due let-
terature greca e latina si trovino le sorgenti da cui è deri-
vata e da cui si alimenta la cultura letteraria e scientifica
delle nazioni moderne, ne segue manifesta la necessità di
non trascurare alcuna delle vie per cui quei tesori di sa-
pienza possano rendersi accessibili al massimo numero.
Una, e la principale di queste è Tistruzione classica che si
dà nelle scuole con tanto dispendio di tempo per parte della
gioventij, e di denaro per parte del governo. Se i frutti che
se ne ottengono rispondano adequatamente alla grandezza
dei sacrifizi, è questione ch'io non voglio ora toccare. La
seconda via sarebbe l'incoraggiare con concorsi e con premii
la produzione di buone versioni italiane di autori greci e
latini, le quali sarebbero tanto più utili, inquantochè nella
nostra letteratura non sono in gran numero i prosatori leg-
gibili con facilità, con diletto, e con vantaggio educativo
dalle persone di qualche cultura. Le due vie accennate di
promuovere la cognizione delle lettere classiche si connet-
tono intimamente l'una colPaltra. La prima intende a ren-
derla forte e profonda, la seconda a diffonderla e renderla
popolare, il quale secondo scopo non si ottiene in modo
soddisfacente se non a condizione che sia conseguito il primo,
posciachè solo da valenti filologi sono da aspettarsi buone
-25-
traduzioni ed illustrazioni di autori antichi. Tuttavia al ve-
dere la deplorabile condizione in cui trovasi la nostra let-
teratura sotto il rispetto di questo genere di lavori, si di-
rebbe che il grande sviluppo dato al primo dei detti mezzi
sia stato cagione che il secondo venisse trascurato, e che sui
classici volgarizzati si diffondesse quell'uggia che suole ac-
compagnarsi ad ogni cosa prettamente scolastica. E un fatto
che gli autori latini, tanto rimasticati nella scuola, fuori di
questa non si leggono più guari nel testo. Si leggeranno nelle
traduzioni? Neppure, perchè si sa che una traduzione non
può mai equivalere all'originale, e chi ha compiuto il corso
liceale crede che potrà, quando il voglia, leggersi il suo Tito
Livio nel testo. Il male è che egli si contenterà in per-
petuo di poterlo leggere, se pure lo pub, ma in fatti non lo
leggerà mai. Di maniera che quel sì lungo tempestare sul la-
tino nelle nostre scuole riesce a questo curioso risultato che
le opere degli scrittori latini sono di tutte le men comprate
e le meno lette, vuoi nella loro lingua originale, vuoi nella
nostra. La causa però del non leggersi i classici, neppur tra-
dotti, non istà tutta qui : conviene riconoscerla in grandis-
sima parte anche nelle qualità delle traduzioni che se ne
posseggono, le quali, poche eccettuate, sono tali da attutare
ogni rammarico che non siano lette. Le traduzioni di pro-
satori greci sono alquanto più comprate e forse più lette,
essendo minore il numero di quelli che potrebbero leggerli
nel testo : perciò, e per l'intrinseco valore delle opere origi-
nali, è ancor più deplorabile che esse siano, salvo qualche
rara eccezione, eguali a quelle degli autori latini. Noi siamo,
sotto questo rispetto, in condizione inferiore di gran lunga
alla Germania ed anche alla Francia, l'una e l'altra delle
quali possiede tradotti in modo leggibile nella propria lingua
gli autori greci e latini, mentre noi ne abbiamo pochissimi
che siano tradotti con qualche accuratezza.
-me-
lina traduzione di opera classica dì lunga lena si do-
vrebbe considerare come un lavoro progressivo, capace di
successivi miglioramenti, man mano che si vien facendo più
corretta la lezione dei testo, e che si progredisce nella intel-
ligenza del pensiero antico. Perchè ricominciar sempre da
capo, quando le basi siano state ben poste, e si possa colla
minuta disamina ed emendazione dei particolari avvicinare
sempre più l'opera alia perfezione? Perchè prima di por
mano alla ristampa di tali traduzioni, specialmente se dal
greco, non se ne procura una qualche revisione, la quale ne
elimini almeno i più notabili errori? Se così si facesse, si
riuscirebbe col tempo ad avere gii scrittori greci leggibili
con facilità e con diletto nella nostra lingua, e a possedere
così un molto desiderato supplemento alla scarsità di pro-
satori italiani.
A dare un saggio di quello che io desidero in questo ge-
nere, mi propongo di pubblicare alcuni appunti sulle più
note e più spesso ristampate traduzioni dal greco. Comin-
cierò da quella delle Vite parallele di Plutarco, fatta da Gi-
rolamo Pompei.
Pericle I,
Testo secondo Bekher, \
Eévoui; Tivà(; èv 'Pti^iur)
TiXouoiou^ kuviIjv T^Kva
KOl TtlOrìKUJV èv TO'iC, KÓ\-
ttok; nepiqpépovTa? koì
àToirOùvra^ ìbùiv ó Kat-
Oap, (fai; l01K€V, ^ptÙTT)-
acv, €Ì ivaiMa rrap' aÙTOì?
où TiKTOuaiv d YuvaìKÉ?,
i^Y€^oviKÙJ(; acpóbpa vo\)-
Q€xi\aa(; toù<; tò cpùoei
9i\riTiKÒv èv i^ulv Kal qpi-
XòcTTopYov elq Qr]p{a Kax
cevaX((JKOvaa(; àvepiOnoi<;
ò<p€tXó|aevov.
Traduz. letterale.
Visti in Roma alcuni
stranieri ricchi, portanti
in seno cagnolini e ber-
tuccini, e ponenti in essi,
a quanto pareva, ogni
loro affezione, Cesare do-
mandò se presso loro le
donne non partorissero
bambini , ammonendo
cosi in modo veramente
degno di principe coloro
che spendono verso gli
animali bruti queir a-
more ed affezione che la
natura ha in noi posto, e
che è dovuto agli uomini.
Traduz. Pompei.
Cesare veggen do ia
Roma certi ricchi fo-
restieri girar dattorno
con in seno cagnolini e
bertuccini, acquali fa-
ceano affettuose carezze,
gì' interrogò non fuor
di proposito, se fosse
che le donne appo ioix)
non parto risser figliuoli;
ammaestrando c03Ì,ve-
l'amente da sovrano, co-
loro che consumano in
versoi bruti quell'amore
e quegli affetti che in noi
posti ha la natura, e che
noi dobbiamo agli oo-
- 27-
In questo primo periodo non c'è altro da notare se non :
i*> il congiungere che fece il Pompei T uj? ^oikev coir lìpiu-
TTìcTev, mentrechè, secondo il mio parere , deve congiungersi
coir àtaTrujvTa(;, che si deve intendere per contentarsi, com-
piacersi, restringere tutto il suo amore ad un oggetto, la
qual disposizione d'animo non essendo visibile all'occhio
corporeo, ma solo congetrarabile , si capisce il perchè
Plutarco vi abbia soggiunto V<h% Ioikcv; 2" il vov;9eTr!(Taq
tradotto da Pompei per amjnaestrando , mentre significa
piuttosto assennare, ammonire. Proseguiamo :
Testo secondo Behker. j Tradus. letterale. Tradus. Pompei.
fip' ouv, ètcel qpiXo|na9é^' Sarebbe mai vero adua- Avendo pertaato anche
TI KéKTnTCì Kol (piXoOèa-'que che (posciachè l'a- e i cagnolini e i bertuc-
, . . 7 , Inima nostra possiede per Cini un Qualche desme-
Mov fi\XMtv ■f\y]^x^ 'P'J^^f'! natura l'amor dell' im- rio di apparare e di os-
XÓYov lx« véfeiv toò? parai-e e dell'osservare) servare, l'animo nostro
KOTaxpiUjnévou? TouTUJ si abbia ragione di ri- ha bea ragione per la
irpò<; Tà nn&euia^ ggia prendere coloro che a- natura sua di biasimar
., > ■ ' ,'busivamente rivolgono quelli che si abusano di.
anouòf^? àKoua^iaTa Kali^^^gp,^ .^^^^^ ^^ ^^j^.^ ^^^ t^^l desiderio, tratte-
Sedfiaxa, tùjv òè KaXuùv j mirar cose degne di nes- uendosi ad ascoltare ed
Kol U)qpeXi|itjuv irapafie- suno studio, e. trascurano osservar cose che non
XoOvrac- '^® cose belle e giovevoli? meritano cura veruna, e
AouvTus» j trascurando quelle che
I eono utili ed oneste.
La traduzione del Pompei non dà qui né il senso espresso
da Plutarco, né alcun altro senso ragionevole. Il pensiero
dì Plutarco si può compendiare nel seguente modo. Come
sono degni di biasimo coloro che esauriscono verso gli ani-
mali bruti quel bisogno di amare con cui la natura ha vo-
luto congiungere gli uomini cogli uomini, così sono degni
di biasimo coloro che in cose imitili cercano la soddisfa-
zione di quel bisogno di sapere che la natura ha posto in
noi per condurci alla cognizione di cose utili e belle. Pen-
siero sottile che pel lettore della sola traduzione pompe-
iana va intieramente perduto senza alcun compenso.
[Continua)
G. M. Bertini.
_ 28 —
qiETTFFICAZIOV^E
m UN'ERRONEA ASSERZIONE DI A.G.SCHLEGEL
L'illustre storico e filologo Cesare Gantù, nella sua ela-
boratissima Disserta:{ione sull'origine della lingua italiana
stata premiata dall'Accademia pomaniana di Napoli, a pa-
gina 69 in nota riferisce, a prova delle avvenute surroga-
zioni di vocaboli da un significato ad altro nel loro trapasso
dal latino all'italiano, l'osservazione fatta sino dal 1818 dal
chiarissimo filologo A. G. de Schlegel nel suo opuscolo
Observations sur la langue et la littérature provengale:
che non una delle lingue neo-latine ritenne il vocabolo
verbum, ma vi sostituì parola (italiano), parole (francese),
palabra (spagnuolo), palavra (portoghese), paratila (pro-
venzale) (i), tratta dal greco TrapapoXrj, che, quando con-
servato ìntegro nei suddetti idiomi, dinota racconto allego-
rico, attribuendo tale scambio alla peculiare significazione
teologica datagli di Cristo, attalchè l'illustre autore del Ma-
nuale dei dogmi cattolici, il reverendo dottor Klee, osserva
che in S. Giustino Cristo e Verbo sono pretti sinonimi.
Senza qui riferire quanto dice a proposito di siffatto vo-
cabolo il celebre indianista M. Mùller nel suo opuscolo
Uber deuische schattirung rotnanischer worte, mi per-
metterò di notare essere erronea l'asserzione che nessun
idioma neo-latino abbia conservato il vocabolo verbum.
(i) Ecco come alcuni dialetti italiani alterano questo vocabolo: in
Sicilia ed in Terra d'Otranto dicesi palora, in Marebbe parora, nel
Friuli peraule, in Genova, Milano e Bergamo parolla, in Zicavo (Cor-
sica) parodra.
-29 ~
giacché il rumano, tuttoché abbia cuvìnt per parola, adopera
non di meno con maggior frequenza e più estesamente vorba;
inoltre ha il verbo a vorbì {parlare) che non è nel latino
classico, ma forse era nel latino plebeio, perchè in Apultio
riscontrasi verbigerare nell'accezione di ciaramellare.
Rispetto alla anormale permutazione della e tematica in o,
farò osservare che neiridioma rumano ne^ vocaboli di ge-
nere femminile spesso succede lo scambio della tonica latina
con altra e più spesso ancora con dittongo; ma il verna-
colo di Montalto (circondario di Pistoia) offre pure esempi
di eguale permutazione, dicendosi propoten:{ia, proten\ione
(Vedi Nerucci, Saggio sopra i vernacoli della Toscana).
Il francese poi scambia Tè dell'etimo latino nel dittongo oi,
che suona oa; esempligrazia avena, avoine; tela, toile, ecc.
Il vocabolo verbum, dirò per ultimo, nel dialetto della
Borgogna, in cui è adoperato nel solo significato teologico,
è trasmutato in varòe leggendosi in uno dei deliziosi Noels
di queirantica provincia raccolti da La-Monnaye (27* edi-
zione) il verso seguente :
* L'imaige da Varbe fai char ».
Lo scambio adunque d'una in altra vocale è cosa comune
e mi basti citare la Teorica dei suoni e delle forme della
lingua latina di Schweizer Sidler (traduzione di D. Pezzi),
nella quale al § 6 si riferiscono le forme assunte successi-
vamente dal vocabolo piede, cioè: pAdas , pMós , pédUs,
pèdès, pédis , che, nella finale, percorse tutta quanta la
gamma fonetica.
Soggiungerò ancora non essere il rumano la sola favella
neo-latina che non abbia accolto parola per verbum^ giac-
ché la sarda meridionale, cioè la campidanese, dice faedda
t faeddai (parlare), derivante, per sincope, da favella,
sapendosi che i volgari della Sardegna, eccettuato quello
di Sassari, della Sicilia, di Lecce e di Ghisoni in Corsica
- 30 -
scambiano la doppia // in doppia dd , cioè, giusta la
classazione seguita dal mio giovane amico D*" Pezzi, nella
sua Grammatica storico-comparativa della lingua latina,
mutano nella dentale esplosiva sonora la dentale tremola.
— Il romancio del Cantone dei Griggioni adopera alla
sua volta, per significare parola, plaid e plaider (parlare) -,
questo verbo è omofono a quello francese per dinotare le
disputazioni nanti i tribunali ed in Coirà mi fu dal ch»mo
filologo Conradi, or fanno molti anni , segnato qual etimo
del verbo francese, a vece del placitum, basso latino, come
pretendono gli etimologisti da Du-Cange a Brachet, ed
avvalorava siffatta derivazione dallo avere l'egregio Fauriel
{Dante et Ics origines de la langue et de la littérature
italienne) asserito che il romancio dei Griggioni deriva in
gran parte dal latino rustico. Non entrerò in disamina di
tale opinione, sto pago al riferirla.
Reputai non disutile il far avvertiti con queste poche pa-
role ì giovani indagatori delP origine e formazione degli
idiomi romanzi dello sbaglio preso da A. G. Schlegel,
perchè la di lui grande autorità in filologia, se già potè
trarre un Cesare Cantij in errore, altri meno di lui dotti e
saputi potrebbero esserlo assai più facilmente.
VeGEZZI - RUSCALLA .
CE^V^I "BmLIOG^AFICI
Die strofe des Tantatus nach Pindar
von Prof. Domenico Comparettì.
li ch"^ Professore di letteratura greca nella R. Università
di Pisa, autore della dissertazione qui annunciata, consi-
— 31 —
aerando che Tesegesi del più grande dei lirici greci non fu
di gran lunga argomento di sì profondi e minuti studii,
quanto la critica del suo testo, si propone di discutere, con
tutta la minutezza che Todierna scienza filologica richiede,
una serie di luoghi che alla interpretazione presentano le
maggiori difficoltà e per i quali quelle che furono proposte
finora meno possono soddisfare.
Il passo del quale si occupa nel presente suo lavoro è uno
dei più controversi della prima ode Olimpiaca (v. 56 e seg.),
in cui è parola della punizione di Tantalo e che a parer mio,
per la prima volta, dal prof. Comparetti è stato interpretato
in un modo veramente soddisfacente. Mediante un finissimo
ragionamento e con grande corredo di classica erudizione viene
nella conclusione che il senso del passo sia il seguente: Tantalo
ha abusato dei doni, co'quali gU Dei lo hanno reso immor-
tale, e per ciò lo hanno punito convertendo i loro doni in
altrettanti tormenti. Gli hanno sospeso una rupe sul capo
facendogli porre innanzi nettare ed ambrosia. Fra Teterna
paura che questa rupe gli si precipiti addosso e la fame e la
sete che non può appagare, il dono delV immortalità e un
quarto tormento (la maggior difficoltà del passo sta appunio
nelle parole « jiexà ipiuiv Téiapiov nóvov »), a cui senza riposo
e senza fine è sottoposto nel cielo.
Dopo un lavoro che dà un sì bel risultato non possiamo che
desiderare che presto sia pubblicata la continuazione di queste
profonde e minutissime ricerche, le quali spargeranno grande
luce su molti punti ancor contrastati. È vero che vi hanno
degli studiosi di filologia, che facilmente s'acquietano alle in-
terpretazioni antiche, ma studii cow «minuti e fecondi di bei
risultati come quello del prof. Comparetti r^ia^leranno sem-
pre più impossibile il pronunciarsi intorno aUuoghi dei più
celebri classici scrittori come a proposito del p?sso m di-
scorso fa il Flores nelle sue « Odi Oliifpichc di Pindaro
— 32 —
volgarizzate » (Vercelli 1 866), che a pag. 98, not. 1 7 crede
di poter dire : « I tre altri tormenti sarebbero la fame, la sete,
e il disagio di star ritto in mezzo del lago. Ma sieno questi o
altri tormenti, è cosa di poco rilievo, come a me sembra.
Anzi questo luogo e quelli moltissimi che s'incontrano presso
tutti i poeti, dovrebber render persuasi alcuni filologi della
grande verità delle tradizioni locali, intorno alle quali si può
affermare che appena ne conosciamo la minima parte. Onde
deriva dunque la boria di quella scienza, che si fonda sopra
notizie sì imperfette? a Forse io studio delio scritto di Gom-
paretti e l'altro sullo stesso autore (inserito ugualmente nel
Philologus^ voi. 28, p. 385 e seg.), potranno insegnare a
molti che ii serio lavoro ben giunge a sciogliere delie aiificoltà
che incontriamo nei grandi scrittori e quale sia ii metodo da
seguire in simili ricerche, non dovendo il filologo senz'altro
neir interpretazione dei grandi scrittori così facilmente di-
spensarsi delle minute riceixhe ed acquietarsi con un non
liquet per mancanza di notizie.
G, MiJLLER.
'OXocpiXou '€patTeXo? Kaì '€pao,ula {Gli amori di Erogelo e
di Erasmià). — Storia greca trovata e volgari^ata da
Innocente Demaria, Torino^ 1872.
Ghi vede il titolo del presente libro s'aspetta un avanzo
della letteratura greca, fosse anche dei tempi della decadenza,
finora sconosciuto, e l'aprirà forse con una certa avidità. Ma
tosto si vedrà stranamente disingannato, perchè invece d'uno
scritto d'autore greco non troverà nemmeno un abile tentativo
d'impostura letteraria, ma il fascicolo d'uno studioso di lingua
greca, che prima d'avere bene imparata la grammatica e stu-
diato le regole più elementari di sintassi greca, s'è preso lo
- 33 -
strano divertimento di tradurre un insipido racconto italiano
in greco y o dMnventarsene uno per esporlo in lingua macche-
ronica, che non franca la spesa d'indagare ora. Non dubitiamo
menomamente che il giovane editore abbia trovato lo scarta-
faccio, che diede alle stampe, in un vecchio armadio tra l'as-
sito e la parete, né ci maravigliamo, atteso il triste stato in
cui si trova lo studio del greco ne' nostri licei, ch'egli non si
sia accorto come quello, che a lui parve cosa bella e meri-
tevole della diffusione, sia il più strano sproposito da capo a
fondo. Ma dobbiamo davvero esprimere il nostro stupore,
che queir « uomo distintissimo, ottimo intendente delle let-
tere greche ed italiane » da cui prese consiglio, secondo la
prefazione, e che difiicilmente può essere altri che un suo
professore, sia tanto ignorante o tanto maligno da esporre un
allievo, che è certamente di ottima volontà, ad un meritato
severo biasimo. Noi per nostra parte lo consigliamo a leggere
con accuratezza il suo Senofonte, dopo aver studiato per bene
la sua grammatica , e fra breve conoscerà egli stesso qual
cosa ha stampato, credendola greco del buon tempo.
G. MiJI.LER.
Primo supplemento alla raccolta delle antichissime iscrizioni
italiche coni aggiunta di alcune osservazioni paleografiche
e grammaticali di A. Fabretti. Torino, Stamperia Reale,
1872, in-4°, p. 142 (Dalle Memorie della R. Accademia
delle Scienze di Torino, S. Il, T. XXVII).
Sono ben oltre 5oo iscrizioni aggiunte al Corpus inscriptio-
num antiquioris aevi che, come ognun sa, il prof. Fabretti
finiva di pubblicare circa quattro anni sono insieme col
Glossarium italicum. Di queste iscrizioni circa 35o sono
etrusche, il resto latine, umbriche, sabelliche, messapiche.
Hivista di filologia ecc., 1. 3
- 34 -
falische, e qualcuna, tra quelle dell'Italia Superiore, fors'anco
celtica o retica. Sono, buona parte, od inedite o ad ogni
modo scoperte in questi ultimi anni, disposte, come quelle
del Corpus, per ordine geografico , le più importanti accom-
pagnate da dichiarazioni e commenti. Seguono correzioni e
osservazioni intorno alle epigrafi già pubblicate, principal-
mente tra quelle che il Fabretti potè di poi, massime per le
mutate condizioni politiche dell'agro romano, visitare ed
esaminare più attentamente sul luogo e così più sicuramente
fermarne la vera lezione. Viene in ultimo un indice di tutte
le parole contenute nelle iscrizioni, ricco di circa un migliaio
di vocaboli, la maggior parte consistenti, già s'intende, in
nomi proprii di persone, taluni affatto nuovi ; specie di sup-
plemento al Glossarium , se non che nell'indice è maggiore
parsimonia di dichiarazioni. Aggiungonsi alla fine nove tavole
presentanti principalmente i fac- simili delle iscrizioni più
notevoli per singolarità di caratteri.
Si riserva il Fabretti di pubblicare in appresso alcune os-
servazioni paleografiche e grammaticali che verseranno, le
prime, sugli alfabeti italici, le seconde, principalmente sulla
lingua etrusca; sicché è da sperare che mercè i lavori del
Fabretti e di altri , come dire del Gonestabile , del Lattes e
segnatamente di quel gran maestro di antica dialettologia
italica che è Guglielmo Corssen, del quale viene annunziata
come prossima la pubblicazione di una grammatica etrusca,
questa tanto importante fra le antiche favelle d'Itaha, rimasta,
si può dir quasi in sino al giorno d'oggi, una specie di eninima
glottologico, cesserà non solo di essere tale, ma si chiarirà,
secondo che da qualche anno si viene congetturando, ancor
essa per ramo indubitato dello stipite indo-europeo e lascerà
pur vedere finalmente qualcosa di quella sua struttura gram-
maticale, finora non intravveduta pur troppo se non per
qualche lontano ed incerto barlume.
- :35 -
Questo lavoro del prof. Fabretti , mentre viene a darci
novella prova della dottrina ed operosità dell'autore, attesta
eziandio d'altra parte quel maggior fervore che pare essersi
racceso da qualche tempo in Italia per quanto si riferisce
all'illustrazione dei suoi antichi monumenti, secondo che si
raccoglie principalmente dalle notizie che il Fabretti ci viene
qui occasionalmente porgendo di scavi, scoperte e monografie
connesse colle nuove iscrizioni da lui pubblicate.
G. Flechia.
D'Arbois de JuBAiNviLLE, La déclinaison latine en Caule
à l'epoque Mérovingìenne, étude sur les origines de la
langue fran^aìse, Paris, .1872, i voi. di p. i65.
« G'est avec intention», scrive l'autore, «que nous nous
sommes restreint à l'étude de documents qui appartiennent
exclusivement à la Caule ou à l'empire frane. Nous croyons
qu'en Gaule le latin vulgaire a eu certains caractères profon -
dément distincts de ceux qu'il mentre hors de la Gaule, spé-
cialement en Italie » (i). Da questi documenti, che cita sem-
pre accuratamente, egli trae gli esempii opportuni a determi-
nare le forme della flessione nominale e pronominale del
latino in Gallia nella epoca dei Merovingi. Espone prima-
mente le cinque declinazioni nominali, giusta l'ordine della
grammatica empirica comune, ma comprendendo nelle tre
prime quelle degli aggettivi e quei casi della declinazione pro-
nominale dei quali la desinenza è identica a quella dei me-
desimi casi nella declinazione dei nomi: le forme speciali
della flessione pronominale vengono dopo. Gompendieremo
(1) Prefazione, p. 7.
- 36 —
i risultali a cui l'autore si crede giunto colle sue stesse pa-
role : « Trois manières de declinar les noms, les adjectifs et
les participes sont usitées dans les documents rnérovingiens.
— La première est identique à la déclinaison ciassique. —
La seconde n'en diifère que par un phénomène phonétique,
par une modification dans la prononciation des voyelies,
quelquefois, mais rarement, dans la prononciation des con-
sonnes; nous appellerons ce système: déclinaison vulgairedu
premier degré. — La troisième manière de décliner est le
résultat de l'introduction d'une syntaxe nouvelle. Les cas
sont employés autrement qu'autrefois : une partie d'entre
eux remplit concurremment la mème fonction, plusieurs de-
viennent inutiles, et le nombre des cas tend à se réduire à
quatre ou à deux. A ce troisième système, qui a servi de
transition entre ia langue latine et le francais archaique, nous
donnerons le nom de déclinaison vulgaire du second degré...
Le francais commence du jour où les flexions des cas obli-
ques disparaissent ou se confondent en une seule. On trouve
peu de traces de cette forme nouvelle dans les documents
mérovingiens » (i). E conchiude: « A l'epoque mérovingienne,
un principe nouveau régnait dans la déclinaison latine où,
par la puissance de ce principe, une revolution considérable
s'était accomplie Dans le latin classique une fonction
speciale est attribuée à chacune des formes si variées que
l'on désigne par diverses combinaisons des termes de cas, de
genre et de nombre. Dans le latin des temps mérovingiens
ces formes si nombreuses subsistent. Bien plus, une partie de
ces formes nous apparait doublée ou meme triplée. A coté
de la forme classique on trouve souvent une, quelquefois
deux formes secondaires, ordinairement issues de la forme
classique, mais qui, parfois, conservent un son archa'ique
(T/ Prefazione, p. 5-6.
— 37 ->
antérieur à la forme classique Mais à l'epoque méro-
vingienne , malgré ce nombre considérable de formes , le
nombre des fonctions que la pensée concoit et demande à
la parole est considérablement réduit. Dès Tépoque méro-
vingienne, au lieu des six fonctions casuelles distinguées par
la grammaire classique, la syntaxe ne semble distinguer
pour les noms, les pronoms et les adjectifs, que deux fon-
ctions casuelles, sujet et regime : de là l'emploi si fréquent
des cas régimes Tun pour Tautre. En fait de genres, le mas-
culin et le féminin seuls vivent encore come fonction; du
neutre la forme seule subsiste cependant les for-
mes grammaticales inutiles subsistèrent pendant les trois siè-
cles que dura la période mérovingienne. Ce fut seulement
pendant la période carlovingienne que la simplifìcation des
formes mit le matèrie! grammatical en harmonie avec la sim-
plifìcation des idées. Alors le francais naquit» (i).
11 signor D'Arbois de Joubainville ci permetta di osservare
che, se dagli esempii addotti nel suo libro bassi a trarre un
giudizio intorno alla sintassi del latino gallico nell'età dei
Merovingi, non si può credere nemmeno ben conservata la
distinzione capitalissima tra il caso esprimente il soggetto e
quello che indica Toggetto. E veramente egli stesso confessa
che « la première déclinaison mentre une tendance evidente
à réduire les formes latines a deux, l'une pour le singulier,
l'autre pour le pluriel .... » e che nella terza « la distinc-
tion entre le cas sujet et les cas régimes du singulier et du
pluriel, à l'aide de Vs final, ne peut s'y ctablir aussi nette-
ment (che nella prima e nella seconda) » (2). Ora sarebbe
(i) P. 160-161.
(2) Vedi le osservazioni generali sulle declinazioni nominali (p. 148-
149). Cosi nella i* declinazione troviamo esempii di acc. sing. per nom.
sing. (p. io), di acc. plur. e di ahi. plur. per nom. plur. (p. 20, 21,
22); nella 3» di acc. sing. per nom. sing (p. 79) e di nom. sing. per
- 38 —
assurdo e contrario al maggior numero degli esempii addotti
dal nostro autore il supporre che nel latino della Calila sotto
i Merovingi si fossero confusi insieme i due sì distinti con-
cetti del soggetto e dell'oggetto. Ancor più di noi sarebbe
certamente avversa a questa ipotesi ed a quella del nostro
autore la scuola d^illustri filologi francesi la quale, seguendo
A. G- Schlegel, credette scorgere nella trasformazione del
latino antico nei volgari neo-latini Tefifetto di una « tendenza
analitica » (i). Noi pertanto piiì che la teorica del signor
D'Arbois di Joubainville siamo inclinati ad ammettere, come
già altrove facemmo(2), quella dello Schuchardt e del Corssen,
i quali considerano la confusione dei casi come un risultato
di fenomeni meramente fonetici , ossia del graduato dileguo
delle desinenze s, ?«, e del progressivo aftievolimento delle
vocali diventate finali dopo Taccennato dileguo (3).
Ma la nostra diversa opinione intorno a questo argomento
non ci distoglie dal riconoscere i pregi di questo lavoro : la-
voro serio ed utile per la ricca raccolta di farti , concernenti
acc. sing. (p. 98), di abl. sing. per nom. sing. (p. 82) e viceversa (p, 104I,
di gen. sing. per nom. sing. (p. 83) e di questo per quello (p. 92). di
abl. plur. per nom. plur. (p. 107); nella 5» di acc. sing. per nom. sing.
(p, 'liS): e nella flessione pronominale ci appare un acc. sing. in luogo
del nom. sing. (p. i53).
(i) E. BuRNouFCt Lassen, Essai sur le pali ecc., Paris. 1S26, p. 140-
141. — ViLLEMAiN, Lìttérature du moyen dge ecc., Paris, i83o, v. i».
p. 49-54. — Fauriel, Dante et les origines de la langue et de la
littérature italienne, Paris, 1854, v. 2»,' P- 1-29» 3o-44, 45-78, 270-293.
— Renan, De Vorigine du langage, 2» ed., Paris, i858, p. i5i-i68. —
Id.y Histoire generale etsystème compare des langues sémitiques, Paris,
i855, p. 402-414.
(2) V. la nostra Grammatica storico-comparativa della lingua latina
ecc., Torino, 1872. p. 393.
(3) Schuchardt, Der vokalismus des vulg'àrlateins , Leipzig, 1866,
V. 1°, p. 47. — Corssen, Uber aussprache, vokalismus utid betonung
der lateinischen sprache, 2» ed., Leipzig 1868, v. i", p. 293.
- 39 —
un problema importantissimo (e sinora troppo negletto) di
linguistica, per la diligente indicazione dei fonti, e finalmente
pel tentativo di notare l'azione del celto sul latino della
Gallia (i).
D. Pezzi.
i
Histoire de l'éloquence latine depids l'origine de Rome
jusqu'à Cicéron, d'après les notes de M. Adolphe Berger
professeur à la faculté des lettres de Paris, réunies et
pubbliées par M. Victor Cucheval docteur ès lettres^ pro-
fesseur de rhétorique au lycée Saint- Louis^ Paris, Ha-
chette, 1872, 2 voi. di pag. xv-333 e SyS.
Il signor Cucheval onorò, nella più nobile guisa che gli
fosse possibile, la memoria del suo compianto amico, ricom-
ponendo, per mezzo dei sommarli e delle note che questi
aveva lasciate e dei quaderni degli allievi, le applaudite le-
zioni del dotto professore intorno alle origini della letteratura
romana, colmandone le rare lacune colle proprie ricerche per-
sonali ed aggiungendo a ciascun volume un'appendice, in
cui si contengono i principali fra i documenti citati nel libro.
Abbiamo detto « intorno alle origini della letteratura ro-
mana », e veramente si farebbe un concetto inadeguato di
quest'opera chi, ingannato dal titolo, la credesse una mera
storia dell'eloquenza latina dai primi tempi di Roma a Ci-
cerone. L'autore, dopo avere fatto oggetto de' suoi studi le
prime prove ed originali dell'ingegno romano, descrive la
graduata ed inevitabile azione esercitata dalla bellezza e dalla
sapienza greca sulla rozzezza latina ed i progressi dell'arte
(i) V. p. 16-17, 22-24, 3i-33, 64-65, 117-121.
- 40 —
Storica ed oratoria presso i Romani sino al grande rivale e
vincitore di Ortensio. Lo svolgimento letterario del gran po-
polo ci appare continuamente ritratto nelle sue molteplici ed
intime attinenze cogli altri elementi della civiltà di esso, giusta
i principi! supremi della critica odierna. L^accurata e viva
esposizione di fatti, numerosi ed appartenenti ad un periodo
in Francia ed in Italia non troppo studiato della letteratura
latina, ci rende utile e caro questo libro, di cui, senza esage-
rarne la importanza (certo non più che mediocre), puossi
ben dire che è lontano dalle sterili fantasie e dalle vane de-
clamazioni come dalla noiosa aridità. Dopo queste nostre
modeste lodi ci sia lecito osservare che, fra parecchie altre su
cui il dovere della brevità ci consiglia il silenzio, certe opi-
nioni etnografiche destarono la nostra meraviglia. E, per ci-
tarne una sola, è forse lecito affermare presentemente che
«les Ombriens sont des Celtes» ?(i). Saremmo assai grati al
signor Cucheval s'egli avesse, almeno con una breve nota,
esposto su questo e qualche altro argomento li risultato degli
studi pili recenti, in ispecie germanici. E vorremmo ezian-
dio ch'egli, facendo menzione delle famose tavole Eugubine,
avesse almeno accennato il notevolissimo lavoro di Aufrecht
e Kirchhoff, e che in ordine alle iscrizioni italiche antiche da
lui citate avesse avuto ricorso alla insigne opera del nostro
Fabretti. E vi avrebbe trovata a pag. ccliiì-iv, giusta la
lezione di Corssen e dal medesimo interpretata, queiriscri-
zione che si legge a pag. 299-301 del primo volume della
Histoire, nell'appendice, colla spiegazione di alcuni vocaboli
data dallo Schoell !
D. Pezzi.
(r) Op. cit., p. i3 e 16.
— u —
Sulpiciae Calent Satira. Hecensuìt Dominicus Carutti. —
Augustae Taurinorum, MDCCCLXXIl, in -4°, pag. 26
(Dalle memorie della R. Accademia delle Scienze di To-
rino, S. Il, T. XXVIII).
Due Sulpicie ricorda la storia della letteratura latina :
dell'una cantano gli amori con Gerinto alcune elegie attri-
buite a Tibullo -, dell'altra , moglie di Galeno , vissuta al
tempo deir imperatore Domiziano, parlano principalmente
due epigrammi di Marziale , in cui se n'esalta la felicità
coniugale e se ne lodano i versi amorosi improntati di te-
nero e pudico affetto. Questi versi per mala ventura non
giunsero insino a noi •, ma corre sotto il nome di Sulpiciae
Satira un componimento di settanta esametri, in forma di
una specie di dialogo tra la poetessa e la musa, in cui si
lamentano le tristizie del tempo e l'inettezza di chi governa.
La satira di Sulpicia fu primamente pubblicata a Ve-
nezia nel 1498 insieme coi versi latini di alcuni poeti ita-
liani del secolo XV, e datavi come cosa procedente da un
testo scoperto da Giorgio Merula alessandrino, morto circa
quattro anni addietro, letterato di quei tempi assai noto e
primo editore di Plauto, di Marziale e d'altri scrittori latini.
Se ne fecero dipoi varie edizioni e fu ristampata prima colle
opere d'Ausonio, a cui fu da taluni anche attribuita, talvolta
col Satirico di Petronio e più spesso colle satire di Giove-
nale e di Persio, come anche coi poeti minori e separata-
mente. Fu commentata e cercata di ridurre a migliore le-
zione da molti valenti critici , quali il Barth-, il Dousa , il
Boxhorn, il Burmann, il Gannegieter, il Bouher, il Werns-
dorf, lo Schwarz, lo Schlager, ecc.; giudicata variamente
dai critici, fu da taluni lodata come nobile componimento,
da altri detta cosa piiì che mediocre. La satira di Sulpicia
— 42 -
fu inoltre tradotta in italiano, nello scorso secolo da Marco
Aurelio Soranzo, e in questo da Ludovico Canal, come pure
in francese da G. Monnard e in svedese da C. A. F. Moller.
Nel 1869, il Boot, dotto olandese, già noto per alcuni
lavori di critica letteraria, stampava nelle memorie di quella
Accademia delle Scienze (V. Verhandelingen der Kon. Aka-
demie van Wetenschappen. Afdeeling- Letterkunde, Vierde
Deel. Amsterdam, 1869, in-4°), sotto il titolo di Commen-
tatio de Sulpiciae quae fertur satira, una sua dissertazione,
nella quale egli nega ricisamente che una tale satira possa
essere stata scritta sul finire del primo secolo dell'era volgare,
pur sapendo, com''egli nota, che questa sua opinione viene
ad essere contraria a quella di quanti presero a pubblicarla
e che critici di gran valore, quali un Hofmann, un Peerl-
kamp , un Lachmann , un Haupt la tennero per genuina ;
la qual cosa, dice egli, non avrebbero però essi fatto se più
attentamente l'avessero considerata. Egli osserva inoltre,
come già nel secolo XVI L. Gregorio Giraldi (De poetarum
hist. Dial. IV) avesse mosso qualche dubbio circa la sin-
cerità di questo componimento e come ai tempi nostri il
Bernhardy nella sua storia della letteratura latina dicesse
quella satira parergli cosa al tutto indegna di Sulpicia.
Messo innanzi un doppio testo della satira , Tuno colla
forma scorretta dell'edizione principe del 1498, l'altro con
quella che ne risulta dalla recensione dell'Hermann, il Boot,
dopo di averne notato la sproporziojie delle parti e il mal
collegamento de' luoghi, passa in rassegna parecchi esempi
di quelle cose che egli crede doversi qualificare difetti di
prosodia, errori storici, similitudini improprie, barbarismi,
novità di locuzioni e oscurità, quasi enigmatica, di concetti.
Aggiugne quindi, a corroboramento della sua opinione, non
esistere, per quanto sappiasi, alcun codice ms.; nessun edi-
tore aver mai fatto cenno di testi a penna; ed essere al tutto
- 43 -
infondato il sospetto del Burmann e d'altri che questo carme
provenga da un qualche codice del monastero di Bobbio.
Doversi pertanto tener per favola lo scoprimento che di questa
satira il veneto editore dice essere stato fatto da Giorgio
Menila-, smentito anche da ciò, che l'edizione d'Ausonio,
fattasi in Milano dallo Scinzenzeller nel 1497, con prefazione
di esso Merula, non contiene la satira di Sulpicia, come a-
vrebbe verisimilmente fatto, se il Merula ne fosse proprio
stato lo scopritore. E conchiude doversi tenere per lavorio di
qualche ignoto italiano dei XV secolo, il quale, per meglio
coprir la sua frode, ne presentò messi insieme con qualche
disordine i versi e vi sparse qua e colà errate lezioni, quasi
volesse accennare a codice di pessima scrittura.
A cotesta opinione del Boot, che nega la sincerità della
satira sulpiciana, si accosta senza alcuna esitanza G. S.
Teuffel, affermando nella sua storia della letteratura romana
(p. 645), che il critico olandese ebbe al tutto ragione di qua-
lificarne i versi misera compilazione del secolo XV, e aggiu-
gnendo, tra le altre cose, non trovarsi nulla in questa satira
che già non sappiasi da altri libri; solo per necessità di metro
la svetoniana obesitas ventris di Domiziano cambiarsi in un
gozzo {ingluvies)\ e lui di rubicondo farsi pallido; l'arditezza
delle allusioni essere stata certamente più facile al compilatore
che non a Sulpicia; il tono e le espressioni accusar general-
mente il semidotto che vuol far versi e non sa farne di buoni;
quindi le molte rabberciature, le sconcezze di costruzione, ecc.
La pubblicazione del Carutti si propone principalmente
due cose : restituire la satira alla poetessa romana e il testo
a forma più corretta. Confessa il Carutti che le ragioni con
tanto acume di critica accampate dal Boot contro la sincerità
del componimento per poco non l'avevano tratto nella di lui
sentenza; ma ponderata più attentamente la cosa, si persuase
del contrario; non avendo egli trovato nella satira sulpiciana
— 44 —
nulla che faccia contro la storia e i costumi de' Romani , né
locuzioni che sappiano di troppo moderna foresteria; conget-
turar quindi che le mende imputatele dal Boot e da altri
siano piuttosto da recarsi allo scrittore del codice, che non
ad inetto ciurmadore , il quale cerchi darla ad intendere a
suoi coetanei; d'altra parte le pecche dello scrivere latino
non essere proprie solo de' poeti del secolo XV", ma risalire
a' tempi d*Augusto; e i ponderosi volumi delPantologia la-
tina attestare largamente come non tutti i poeti latini abbiano
fatto versi destinati airimmortalità.
Quanto agli altri argomenti estrinseci, coi quali il Boot
si studia di provare la frode, il Carutti, non potendo negare
la disparizione del codice bobbiese, afferma che lo scopri-
mento fattone dal Merula alessandrino sarebbe attestato
dall'unanime consenso de'contemporanei; qualifica supposta
l'edizione milanese del 1497 che nissun bibliografo avrebbe
visto; e conchiude che il punto più essenziale della quistione
starebbe in questo : vale a dire se dal non più trovarsi il codice
ms. della satira si possa fondatamente inferire un contraffaci-
mento letterario; cosa che niuno, dic'egli, vorrebbe affermare.
11 Carutti si fa debito di notare e raccogliere molti luoghi
che accennano a reminiscenze ed imitazioni di antichi poeti;
sicché al poema ne verrebbe quasi cert'aria di lavoro a mo-
saico, la quale, come ognun vede, non che aiutare a met-
terne in sodo la genuinità, servirebbe anzi ad accrescere il
sospetto della frode; ma egli avverte come siffatte imitazioni
di modi e concetti non siano punto rare negli antichi poeti
latini. Non si dissimula però la gravità di due luoghi, dove
una coincidenza di espressioni, che non parrebbe fortuita,
tra lo scrittore della satira e lo storico Giulio Floro, suscite-
rebbe naturalmente la quistione, se si debba credere che
questi, vissuto dopo Sulpicia, abbia voluto contigiar la sua
prosa di qualche fronzolo tolto alla poetessa romana o non
— 45 -
piuttosto il moderno impostore siasi dimenticato che Sul-
picia era vissuta prima di Floro. Circa il che si rimette nei
critici, i quali giudicheranno pure se la poetessa e lo sto-
rico non avessero per avventura potuto accidentalmente in-
contrarsi negli stessi concetti.
Non dirò delie minuzie relative alle varianti che il Ca-
rutti presenta a pie di pagina sotto il testo, né delle osser-
vazioni che gli tengon dietro; nel che tutto egli porge no-
vella prova di quella critica letteraria e di quella dimesti-
chezza co'poeti latini, di cui già aveva dato bel saggio nella
sua edizione di Properzio. Per cinque o sei luoghi della Sa-
tira propone egli nuove lezioni; e così al verso 5: trime-
tro jactor per trimetro jambo {iambo); v, 24: celerà
qua imperium per ceteraque imperia; v. 82: stabat et his
ptr stabat in his; v. 35 : aestuat per inferat; v. 53 : apium
domus arce moventur per quariun domiis arce mot-ente. Non
ragionerò del merito di tali varianti, essendo queste qui-
stioni troppo subordinate al vario giudizio degli individui ;
noterò solo come in domus fatto plurale s'avrebbero, s'io
non prendo errore, una breve e una lunga contro le ragioni
del metro che qui ricercherebbe due brevi.
Sebbene non si possa negare che il Carutti in questo suo
lavoro abbia degnamente soddisfatto al proprio assunto,
vuoisi però riconoscere come la quistione della sincerità della
satira sulpiciana, si valorosamente da luì propugnata , non
possa ancora tenersi per risolta perentoriamente in confor-
mità della sua sentenza. È indubitato che, come coloro i
quali stanno per la genuinità, alle obbiezioni contrarie de-
sunte da intrinseci argomenti potranno rispondere con alle-
gare la corruzione del testo, così, d'altra parte, i non credenti
ad essa genuinità aggiugneranno agli intrinseci anco argo-
menti estrinseci, come a dire la nissuna traccia di codici
mss. e la scinzenzeileriana del 1497, ^^ quale, come con-
— 46 —
tenente una prefazione del creduto scopritore della satira,
ma non essa satira, ne per avventura alcun cenno di quella,
renderebbe men verosimile che il testo ne fosse stato tratto a
luce da) Merula, come s'afferma neiredizione principe dei
1498; asserzione dalla quale sola forse potrebbe avere a-
vuto origine la testimonianza di Raffaello da Volterra citata
dal Boot (p.i8) e dal Carutti (p.8). Ned è probabile che gli
avversari della satira sulpiciana siano per prestare maggior
fede a cotesto scoprimento del Merula pel negare che fa
il Carutti l'edizione del 1497; poiché, quando pure possa
essere assai malagevole il rinvenirne un qualche esem-
plare, non è gran fatto verisimile, che sia immaginaria una
tale edizione, citata non solo dall'Ernesto nella Biblioiheca
latina del Fabrizio, ma da qualche bibliografo anche con
maggior precisione di data, come f)er es. dall'Hain {Reperì,
bibliogr.)^ il quale, registratola come contenente la prefa-
zione di Giorgio Merula, alla data dell'anno 1497 soggiugne
pridie nonas februarii. Ben dee far maraviglia che l'errore
di un3i prefa:{ione di Giorgio Merula data alla veneta edizione
di Ausonio del 1496 in cambio di un'epistola di Bartolomeo
Merula^ del quale errore Boot (p. 2, n. 3) fa colpevole
r Ernesto, e Carutti (p.25) il Fabricio, ma nel quale già era
incorso una decina d'anni prima il Beughem {Inc. typ.)y a
quanto pare ciecamente seguito dal Fabrizio e dall'Ernesto,
siasi mantenuto nell'edizione della Bibl. lat. curata da que-
st'ultimo, che dice di possedere la veneta del 1496, della
quale afferma non essere altro che una ripetizione la milanese
del 1497. Parrebbe adunque che sopra questa scinzenzelle-
riana del 1497 debba pur sem.pre cadere una qualche incer-
tezza; e io credo che s'egli è da sperare qualche decisivo argo-
mento circa la questione della genuinità della satira sulpiciana,
esso ci sarà più probabilmente somministrato da ulteriori
ricerche intorno a quelle antiche edizioni e a quanto si col-
— 47 -
leghi colla storia de' codici bobbiesi trovati e usufruttuati
principalmente sullo scorcio del secolo XV.
^ ^ G. Flechia.
Reliquie celtiche raccolte da Costantino Nigra — I. //
manoscritto irlandese diS. Gallo, Torino, Loescher, 1872,
in-4°, p. 60.
Com'è noto, Tidioma celtico forma uno de'grandi rami
dello stipite indo-europeo ed è la lingua parlata anticamente
dai popoli che, sotto la denominazione generica di Celti, erano
stanziati principalmente nella Francia, nel Belgio, nell'Italia
Superiore, nelle Isole Britanniche, nella Spagna orientale
e nelle provincie renane e danubiane. Se si eccettuano al-
cune iscrizioni galliche e britanniche trovatesi in Francia,
nell'Italia Superiore e in Inghilterra, e parecchi nomi, spe-
cialmente proprii, trasmessici dagji scrittori greci e romani,
noi non possediamo monumento alcuno della lingua parlata
un tempo dai popoli celtici. Questa lingua che sul continente
venne, per così dire, assorbita in massima parte dal romano
volgare e dai dialetti germanici, e che nelle isole britanniche,
fusasi per lo più coll'elemento sassonico e normannico, si
mutò in quella forma d'idioma che or dicesi inglese, viene
ancora oggidì specialmente rappresentata da alcuni dialetti
di fondo essenzialmente cehico, ciò sono dell'Irlanda , delle
montagne scozzesi, del paese di Galles, e della Bassa Bre-
tagna. Dell'irlandese si conservano documenti che vanno fino
al principio del nono e anche dell'ottavo secolo dell'era vol-
gare, preziosissimi per la linguistica, che in essi principal-
mente può studiare l'affinità del celtico colle lingue dello
stesso stipite, sotto l'aspetto così etimologico, come morfo-
logico. Questi documenti sono codici generalmente d'origine
monacale, contenenti per lo più scritture latine, accompa-
- 48-
gnate da glosse scritte in antico irlandese; e tale è appunto
il manoscritto di S. Gallo, di cui tratta l'annunziata pub-
blicazione di Costantino Nigra.
Il codice di S. Gallo è un manoscritto del secolo IX, con-
tenente i primi i6 libri e il principio del 17° della gram-
matica latina di Prisciano, sparsi di glosse interlineari o mar-
ginali, alcune in latino, ma la più parte in antico irlandese.
Questo codice è pregevole per V antichità e l'abbondanza
delle glosse e per la correttezza e nitidezza della scrittura e
pare sia il solo fra i codici continentali, che contenga qualche
iscrizione in caratteri ogmici, che sono una specie d'alfabeto
assai semplice, ma pur singolare (i), adoperato fin dal V se-
colo nell'Irlanda e nel paese di Galles per iscrizioni, che colà
furono trovate, stese in una lingua molto analoga a quella
delle iscrizioni galliche.
Le glosse irlandesi del manoscritto di S. Gallo erano già
state pubblicate buona parte dallo Zeuss nella sua Gram-
matica Celtica; ma il Nigra trovò che ve n'erano ancora
molte e di notevoli assai da spigolare, e raccolse quindi, an-
notò e interpretò le glosse inedite, come anche talune fra le
già pubblicate, di cui credesse doversi correggere la lezione o
propor nuova interpretazione. Alla sposizione delle glosse
tengono dietro quattro tavole che contengono /ac-simz7/ della
scrittura del codice, della quale si distinguono sette od otto
maniere, procedenti tutte, a quanto pare, da mani diverse,
(i) Questo alfabeto consiste quasi tutto in asticciuole generalmente
ritte, aventi valor vario di lettere secondo il numero (da una a cinque),
secondo che sono intiere o dimezzate, le intiere poi con un valore se ritte,
con un altro se inclinate superiormente a destra, ledimezzaie sempre ritte,
ma varianti anche di valore, secondo che sono poste sopra o sotto una
linea trasversale, che taglia nel mezzo tutta la riga, infilzando, per così
dire, le intiere; e cosi per es. unasticciuola sola, intiera e ritta, rappre-
senta a, dimezzata e sottoposta alla linea trasversale, by ecc. Solo i dit-
tonghi e ;? e f sono espressi da segni particolari.
— 49 -
come pure alcune delle iniziali, dì cui s^adorna il nnanoscritto,
assai leggiadramente e bizzarramente figurate.
Annunziando questa pubblicazione non dubitiamo di affer-
mare che sarà lietamente accolta dai celtologi, i quali già
conoscono il Nigra come valoroso cultore di questi studi,
principalmente per le Glossae hibernicae veteres da lui pub-
blicate in Parigi nel 1869; nel qual lavoro TEbel (Bettr.
z. verg-L spr., VI, 284), uno dei più competenti giudici di
tali materie, dice essersi il Nigra mostrato del tutto pari al-
l'altezza dell'odierna filologia celtica.
Noteremo in ultimo come questo libro, pregevole anche
per somma leggiadria di forma, nitidezza ed eleganza di
caratteri, bontà e finezza di carta, attesti come la tipografia
del torinese Bona debba dirsi probabilmente non seconda ad
alcuna né in Italia né fuori.
G. Flechia.
V^OTI Z I E
Italia. — Non parleremo dei nuovo regolamento per gli esami di
licenza liceale, perché (ci si perdoni la schietta confessione) noi confi-
diamo pochissimo tìQÌ regolamenti e le nostre speranze si fondano non
sopra i medesimi {di cui l'esperienza mostrò la troppo frequente ineffi-
cacia), ma sulla libera e sapiente attività d'insegnanti veramente pari al
loro altissimo ufficio. Né faremo menzione dell'aumento degli stipendii
finalmente concesso ai direttori ed ai maestri delle scuole secondarie:
la tenuità, la insufficienza deplorabile di si fatto aumento, la spropor-
zione esistente fra esso e quello che dopo sì langa aspettazione propria
e tante chiacchere altrui e per le inesorabili esigenze economiche dei
tempi nostri poteva ben ripromettersi una fra le più benemerite classi di
cittadini, tutte queste ragioni ci consigliano il silenzio e non ci jiermet-
tono di porgere le nostre congratulazioni né a chi fece né a chi ricevette
questo che alcuni chiameranno per avventura nn favore. Ci arresteremo
piuttosto, reverenti e commossi, innanzi alle due tombe che si aprirono
nello scorso giugno per accogliere Cesare Tamagni e Gregorio Ugdulena.
Cesare Tamagrà studiò eoa onimc successo lilologia greca e latina a
Pavia; insegnò lingue e letterature classiche nel ginnasio di questa cittù,
liiyisla di Jilologia ecc., I. 4
— 50 -
nel liceo Cavour della nostra Torino e lìnalmenie lettere lettine nell'Ac-
cademia scientifico-letteraria di Milano, E non solo colla parola fu tra
i più animosi iniziatori della gioventù italiana alla scienza tedesca, ma
eziandio cogli scritti; fra 1 quali, ommettendo per brevità di menzionare
gli articoli pubblicati nel Tolitccnico e nella Terseveran^a, non accen-
neremo se non la Storia della letteratura romana^ la quale, parte im-
portantissima HqW Italia diX Vallardi, è una critica esposizione dei risul-
tati a cui giunsero i recenti studi germanici, e, sebbene incompiuta per
l'immatura morte dello autore, nondimeno si potrebbe con grande uti-
lità, o, meglio, si dovrebbe sostituire a qualche magro compendio, af-
fatto indegno della filologia odierna, col quale, senza svolgerne la intel-
ligenza, si opprime la memoria e si consuma in deplorabile esercizio
meccanico il tempo preziosissimo di molti giovani studiosi delle lettere
latine, ai quali raccomandiamo l'opera citata del professore lombardo.
Si scorge quindi come da molti e da insigni uomini ne sia stata com-
pianta la sorte, fra i quali ricorderemo il veramente egregio G. 1.
Ascoli, che con eloquenti parole diede l'ultimo addio al collega ed
amico diletto.
Pochi giorni dopo la morte del Tamagni venne meno alla Italia ed
alla scienza anche Gregorio Ugdulena, il quale insegnava lettere
ebraiche e greche nella università di Roma. Cultore degli studi biblici,
egli imprese a pubblicare La Santa Scrittura in volgare, riscontrata
nuovamente con gli originali ed illustrata con breve comento , Palermo,
iSSg: di tale opera ci stanno innanzi i due primi volumi, spettanti
al vecchio testamento.
Prima che da tali perdite, l'Italia che pensa fu profondamente com-
mossa dalla rinunzia di Cesare Correnti, il quale cessò di essere mi-
nistro mentre appunto stava per attuare ciò ch'egli credeva parte ira-
portantissima del proprio compito, e mentre altre riforme si atten-
devano da esso, cui chi scrive ebbe occasione di conoscere uomo di
nobile cuore, sincero fautore del progresso e della gioventù che tenta
cooperarvi, sfidando le prepotenze e gl'intrighi vilissimi di certi così
detti apostoli del passato che muovono stolta guerra all'avvenire. Se
dobbiamo credere ad un annunzio recentissimo della. 'jijf or ma, a. Cesare
Correnti succederà probabilmente Domenico Berti, a cui certamente
nessuno, qualunque opinione religiosa o politica professi, oserà negare
l'amore della scienza e il generoso proposito di promuoverne il culto in
Italia.
Germania. — Un avvenimento della massima importanza per gli
studii germanici è l'apertura dell'Università di Strassburgo che ebbe
luogo con la massima solennità il primo giorno di maggio. Strassburgo
fu sempre , ed anco sotto il dominio francese che aveva dovuto subire
per due secoli, sede di cultura tedesca, e soltanto la rivoluzione
francese distrusse gli studi germanici in essa: ma la Germania nutre
speranza che presto rifioriranno, professati come sono nella novella
— 51 -
Università da valentissimi uomini, e con essi tutti quelli della filologia
classica. Koehler e Sludemund continueranno le gloriose tradizioni
di Schweigh'duser , il celebre editore ed interprete di Erodoto ed
Ateneo, mentre la linguistica è rappresentata da uno de' più rinomati
uomini in questa disciplina, che è Massimiliano Miiller, venuto da
Oxford, che negli ultimi di maggio aprì il suo corso con una pro-
lusione sui risultamenti dell'odierna linguistica testé resa di ragione
pubblica colle stampe.
— I primi giorni dello stesso mese di maggio recarono alla filologia
classica in Germania una grave perdita per la morte di Carlo Lodovico
Kayser, avvenuta in Eidelberga, sua patria, nella cui Università fu
professore delle lettere classiche e direttore del Seminario filologico.
Poco sarebbe a dire della vita esterna dell'uomo, la quale scorse tutta
tranquilla e laboriosa. Nacque da onesta famiglia nel 1808 - suo padre
fu insegnante al liceo di Eidelberga - percorse i suoi studi ginnasiali
in questa città ed in Francoforte sul Meno (1822-23), e studiò poscia
(dal 1825) filologia e teologia sotto Creuzer e Daub, col primo dei
quali visitò Parigi nel 1826; insegnò privatamente in un istituto di-
retto da sua madre, riportò nel 1827 un premio proposto dall'Uni-
versità per il migliore Elogium Jani Gruteri, nel i83o si laureò. Pic-
colo e debole di corpo, aveva grande forza d'animo ed una quasi
erculea forza di lavoro, da potere, secondo il programma de' suoi
lavori, studiare geneticamente la cultura del mondo antico. Valen-
tissimo professore ed amantissimo de' giovani , a cui insegnò con
vero entusiasmo, non fece già una rapida carriera , perchè troppo
modesto, e solo nel i8ó3 venne nominato professore ordinario, dopo
avere professato molti anni come straordinario, e malgrado gl'im-
portanti lavori filologici che rimangono qual monumento della sua
attività. Scelse egli come autore, a cui rivolgeva massimamente i suoi
studii, il mostrato^ senza trascurare veruna parte delle filologiche di-
scipline, e ci lasciò — per non parlare de' suoi piccoli scritti — le
seguenti opere: Dissertatio de diversa origine carminum quae Odys-
seae corpore continentur, Heidelberga, i832. Lectiones Pindaricae, ivi,
1840. Abhandhing ^um Homer, ivi, 1842. Philostratus^ de gymnastica,
ivi, 1840. Flavii Philostrati quae siipersunt; Philostrati iunioris ima-
gines, Callistrati descriptiones , Turici, 1844 " l'opera capitale delia
sua vita ed insieme la prova essere egli una de' maestri della filologia -
Cornifica Rhetoricorum ad C. Herennium , libri IV, Lipsiae, 1S54; le
opere di Cicerone pubblicate insieme a J. G. Baìter a Lipsia, 1S60-69,
e finalmente una nuova edizione di Filostrato nell'edizione de' classici
di Teubner sotto il titolo: Philostrati opera auctiora, acced. Apollinis
epislolae^ Lipsiae, 1870-71.
Pietro Ussili.o, gerente responsabile.
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO
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AVVISO. La Libreria Ermanno Loescher s'incarioa. di ^rovvadera tutte le opere annunziate
in questo oollettino, come pure quelle che sono oggetto d'articoli nella Rivista filologica.
S'incarica inoltre di fornire colla massima sollecitudine e senza spese tutte le opere che le
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Recentissima pdbblicazione.
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rum arti-um studiosis dicaia. la 8" L. 6 —
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BERGK Theodor. Beitraege sur lateinischen Grammatik, I. gr. 8' ,br. L. 4 50
MUFF Christian. Ueher den Yortrag der chorischen Partieen bei Ari-
stophanes. Gr. 8°, br. . » 4 50
PFITZNER Wilhelm. Die Annalen dee Tacitus kritisch beleuchtet. I.
Buch. I-YI, gr. 8», br » 6 —
Di PR03SI.VÀ PUBBLIC&ZIONE :
BENICKEN H. K., Basz fùnfte lied., vom Zorne des Achilleus, nach
Karl Lachmann und Moritz Haupt, aus A und E der Ilias recon-
struirt. Gr. 8*, br » 3 — •
Edizione di Reimer in Berlino.
Ephemeris Epigraphica corporis inscriptionum laiìnarum supplemenium
edita iuBSU Instituti Archaeologici Romani.
La fondazione di un giornale destinato appositamente airepigrafìa latina, di cui i primi 2
fascicoli ora -vengono esposti al pubblico, è giustificata dalla necessità di far seguire al Corpus
inscriptionum latinarum pubblicato sotto l'autorità dall'Accadamia delle Sciense di Bsrlino,
le iscrizioni ritrovate posteriormente. Affinchè i dotti sieno sempre all'ordine del giorno delle
scoperte epigrafiche, si imprende di pubblicarne subito per questo giornale almeno le più im-
portanti, cosicché chi unisce ai Corpus questa Effemeride, abbia sempre a sua disposizione le
iscrizioni di qualche pregio finora conosciute.
Ogni a-nno se ne pubblicheranno quattro fascicoli di quattro o cinque fogli ognuno, i quali
formeranno un 'olume provvisto pure d'Indici.
Siccome probabilmente le iscrizioni da pubblicarsi nell'Effemeride non richiederanno tutto
questo .spazio, ciò che ne avanza si destina a ricerche ed osservazioni d'epigrafìa latina.
Le associazioni si ricevono presso la Libreria Brinannu Loescher. Il prezzo annuale per il
Regno d'Italia è di L. 9, pagabili anticipatamente.
- 53 -
NOTIZIA
D'UN ANTICO EVANGELIARIO BOBBIESE
che in alcuin fogli palimpsesti contiene frammenti d'un greco
trattato di filosofìa.
Fra i codici, che dalla famosa biblioteca di Bobbio pas-
sarono nell'universitaria di Torino, questo, di cui intendiamo
dare un cenno , è notevole per antichità , la quale risale
senza dubbio al sesto secolo, notevole per l'argomento, che
si raccomanda così ai dotti , che attendono agli studi dei
testi latini biblici, come ai cultori della greca paleografia, e
specialmente della greca filosofia. Perocché contiene i quattro
Vangeli in latino, ed ha alcuni fogli rescritti, nei quali si
rinvennero frammenti d'un trattato greco di filosofia, fra
cui un'intera pagina è occupata da un brano del Parmenide.
Quest'antica scrittura può appartenere al quinto secolo.
Mancando delle prime carte , il codice manca altresì ,
seppure l'ebbe, del numero arabico d'ordine, e della nota
di spettanza al monastero di S. Colombano, da cui è con-
trassegnata la maggior parte dei manoscritti, che di là pro-
vengono. Ma ha tutti gli altri caratteri d'un codice Bobbiese ,
e ad assicurarci, che sia tale, una mano abbastanza antica,
perchè debba aversi per autorevole, scrisse nella carta di
guardia: Codex Monasteri] Bobiensis.
Convien dire , che questo volume o emigrasse dalla li-
breria Bobbiese prima della metà del secolo XV, siccome
accadde d'altri suoi consorti, o vi rimanesse ad uso privato
Tiivista di filologia ecc., I. 5
- 54 -
di qualche monaco, dacché non trovasi neirinventario, che
redatto in quel tempo venne a' dì nostri scoperto e pubblicato
dall'abate Amedeo Peyron, non potendosi credere che sia
il codice ivi accennato sotto il n° 8. E veramente Tillustre
editore deirinventario non fece nelle note a quel numero
alcuna menzione di questo codice.
Bensì lo conobbe. Che anzi fu l'abate Peyron che ne
scoperse i fogli palimpsesti, e fece in essi rivivere Tantica scrit-
tura greca con quel suo felice preparato chimico, per mezzo
di cui ridonò alla letteratura latina i frammenti di Cicerone,
ed alle scienze giuridiche i frammenti Teodosiani. Ma egh,
preoccupato da altri lavori , non giudicò di farne tema di
speciale dissertazione. I pochissimi poi, che furono avvertiti
della sua esistenza o dall'indice privato della biblioteca To-
rinese, o da' suoi impiegati, per quanto io sappia, nulla
scrissero di lui, essendo forse argomento estraneo alle loro
ricerche, per modo che il prezioso documento, sebbene
meriti per ogni riguardo d'essere conosciuto, non lo fu né
per annuncio dell'edito inventario, ne per illustrazione di
moderni bibliografi. E però il darne almeno succinta notizia
nelle colonne di questo giornale, è, credo, pregio dell'opera.
I. Il codice è in pergamena, di carte novantaquattro,
e di forma quadrata, in 4° piccolo, scritto in caratteri maiu-
scoli senza distinzione di parole, a linee intere, mancante in
principio. Si compone dei frammenti di tre codici , cui tre
amanuensi, ma tutti appartenenti al secolo VI, diedero opera
a trascrivere. Porta ora la segnatura F. vi, i .
Dalla carta i alla 24 è il Vangelo di S. Matteo. Per l'ac-
cennata lacuna dei primi fogli esso incomincia dal capo XIII,
V. 35. Senza dubbio insieme coi primi fogli andò perduta
una prefazione al Vangelo stesso.
Dalla carta 24 alla 39, capitoli , prefazione d'anonimo, e
Vangelo di S. Marco.
- 55 -
Dalla carta Sg alla 60, prefazione d'anonimo, e Vangelo
di S. Luca.
Dalla carta 60 alla 92, prefazione d'anonimo. Vangelo di
S.Giovanni, lezioni tratte dai profeti sulla natività di S. Gio-
vanni, dei Ss. Pietro e Paolo, ecc.
Nel margine sono i numeri della concordanza degli Evan-
geli secondo i canoni Eusebiani.
Le carte 64, 67, 90, 91 e la massima parte della carta 92
sono rescritte. L'abate Amedeo PejTon, come dissi, ritrasse
con mezzi chimici l'antica scrittura, la quale ricomparve in
un bellissimo carattere greco unciale, ma sovente oppresso,
e talora seppellito dalle grosse lettere latine soprastanti. Le
due ultime carte 98 e 94 non sono più rescritte, ma debbono
stimarsi due intatti brani dell'antico manoscritto greco-, se
non che sono logore dal fregamento, perchè ultime, di modo
che fu necessario sottoporre anch'esse al chimico apparato,
affinchè le lettere ricomparissero, e neppure nel rovescio del-
l'ultima carta esse ricomparvero affatto.
IL 11 testo degli Evangeli è l'Itala vetiis, e s'accosta
moltissimo a quello, che il Bianchini pubblicava nel suo
Evangeliariiim qiiadniplex. I copisti, ai quali la lingua la-
tina sembra essere stata poco famigliare, commettono molti
errori nello scrivere-, ma niun errore trovai, il quale accu-
sasse un copista Longobardo. Nell'ortografia si scambiano
facilmente le lettere e ed i, in ed eu, specialmente poi il b
e V.
Ho accennato, che in capo ad ogni Vangelo sta una pre-
fazione, tranne al Vangelo di S. Matteo, poiché quella, che
certamente v'era premessa, andò perduta. Or bene, queste
prefazioni stesse, oltre la quarta, che a noi manca, scopriva
in un codice della Laurenziana Ferdinando Fleck, e le pub-
blicava nei suoi scritti aneddoti, in Lipsia iSSy, in 8°,
chiamandole nel titolo Opus prctiosissimum et in Europa
- 56 -
unicum. Ornai il codice Laurenziano non può dirsi intiera-
mente unico, dacché tre di quelle prefazioni si contengono
pure nel codice Torinese. Anzi, se delle quattro prefazioni
una manca al nostro codice, per compenso la prefazione al
Vangelo di S. Giovanni, che in quello è mutila, è in questo
compiuta e si legge al foglio 80, verso. L'antichità, la rarità,
e il pregio dello scritto incompleto nel codice di Firenze
consigliano a ripubblicarlo intiero dal codice di Torino.
INC. PRAEFATIO SECUNDUM JOANNEM
Johannes evangelista unus ex discifulis dei qui virgo
electus a Deo est quem de nubtiis voleìitem nubere vocavit
Deus cui virginitas (sic) in hoc duplex testimonium in evan-
gelio datur, quod et prae ceteris dilectus a domino dicitur
et huic matrem suam iens ad crucem conmendavit Deus, ut
virginem virgo servarci, denique manifestans in evangelio,
quod erat ipse incorruptibilis, verbi opus inchoans solus
verbum caro factum esse nec lumen a tenebris conpraehensum
fuisse testatur.primum signum ponens quod in nubtiis fecit
dominus et ostendens quod erat ipse legentibus demonstrarei.
quod ubi dominus invitatus deficere nuptiarum vinum debeat,
ut et veteribus inmutatis noba omnia quae a Christo insti-
tuuntur appareant. hoc autem evangelium scribsit in Asia,
posteaquam in Pathmos insula apocalypsin scribserat. ut
cui in principio canonis incorruptibile principium in genesi
et incorruptibilis finis per virginem in apocalypsin redde-
retur. dicente Christo ego sum A et Q. et hi e' est Johannes
qui sciens supervenisse diem recessus sui convocaiis disci-
pulis suis in Epheso per multa signorum experimenta p?'o-
mens Christum descendens in defossum sepulturae suae
locum. facta oratione positus est ad patres suos. tam extra-
neus a dolore mortis, quam a corruptione carmis invenitur
alienus. tamen post omnes evangelium scribsit. et hoc vir-
gini debebatur quorum tamen vel scribturarum tempore
dispositio vel librorum ordinatio. ideo per singula nobis non
exponitur, ut scienti desiderio conlocata et quaerentibus
fructus laboris. et deo magisterii doctrina servetur. Amen.
Explicit.
III. La parte più leggibile dei frammenti greci contiene
la confutazione d'una teoria sulla trinità, che non è certa-
- 57 —
mente quella di Platone, bensì un''altra , in cui principale
attributo di Dio è la forza (buvajuic), ed in cui sembra man-
care Tunità, Tev platonico. L'ignoto autore dei frammenti
ne confuta la teoria. Del rimanente, egli conchiude, questa
dottrina può benissimo essere vera , seppur è vero , che
gli Dei l'abbiano rivelata, ma è affatto inintelligibile. Così
accade, che può essere vero un discorso sulla diversità
dei colori fatto a ciechi di nascita , ma è ad essi incom-
prensibile, mancando loro T idea dei colori. Imprende
poscia a provare, che coloro i quali insegnarono ciò che Dio
non è, sono più saggi di quelli che insegnarono ciò che
è. In altri frammenti si parla della conoscenza, che ha Dio
di tutte cose, in altri della connessione deìVimo e dQÌV esserle .
Ma i vari squarci paiono appartenere ad un'opera sola.
L'intiera facciata del foglio 67, verso, contiene un brano del
Parmenide.
L'autore cita più volte Platone, e colla sua autorità
cerca combattere quella teoria, che sembra appartenere agli
Stoici. E veramente egli li nomina (fog. 92 verso, Hn. 12) in
modo da cui appare, che intorno ad essi aggirasi il discorso:
01 juèv CUV àiTÒ TTÌc CToac oùk óttotitvuOckouciv ìk Xóyou
Tevéc9ai ctv tivoc KaidXrmJiv irpaYMaTUJV, tòv èm Trecci òè 6eòv
àjurixavov elvai KaiaXapeiv oiik òti ék Xóyou, àXX' oùbè òià
voriceujc.
La grecità ricorda gli scritti de' Neoplatonici. Onde è ,
che il primo sospetto , sorto riguardo all'autore di questi
frammenti, si fu, che essi dovessero attribuirsi a qualche fi-
losofo della scuola Alessandrina, e forse a Proclo. Ma oltre
le vane ricerche fatte fra le opere di Proclo e d'altri, le pa-
role, che spesso occorrono, àvouciov, èvoùciov, npooiiciov
sembrano invece accennare a qualche antico padre della
Chiesa.
Comunque siasi, siccome qui s'intende dare una notizia di
- 58 -
un codice bobbiese, e non l'illustrazione di un brano di greca
filosofia , noi pubblicheremo senza note i frammenti del co-
dice, affinchè veggano i dotti a quale autore debbano riferirsi.
Sarebbe certamente ventura, se il codice potesse sommi-
nistrare qualche inedito argomento ai loro studi. Che se
invece essi trovassero già stampati questi brani filosofici fra
opere conosciute, un merito rimarrebbe forse alla nostra
pubblicazione, quello d'essere fatta da un codice antichissimo
a mo' di saggio paleografico e adorno d'un piccolo fac-
simile della scrittura. Non fu possibile per ragioni tipogra-
fiche riprodurre sempre la stessa ortografia e gli errori
dell'amanuense del codice, che suole segnare superiormente
con un punto le lettere, che vanno tolte, abbreviare in fine
di linea alcune parole, notare fra la linea parole o lettere
ommesse. Parimente si è creduto di tralasciare le poche
parole ancor leggibili sul retto del foglio 64. Si sarebbero
pur volentieri tralasciate le poche linee, che non senza dif-
ficoltà si leggono nel retto del foglio 90, dacché non danno
un senso; ma si stimò bene riprodurle, sì per rendere meno
imperfetta la edizione, e sì per agevolare una più diligente
lettura a chi , riconosciuto il pregio dello scritto , volesse
tentarla nuovamente. Notasi poi , che nei due fogli ( o
carte) 64 o 67 la parte greca è scritta a rovescio della latina,
cosicché la parte retta del latino è la parte versa del greco.
Riguardo al brano del Parmenide, se si confronta colla
edizione del Bekker, e dello Stallbaum, non reca certo
varianti d'importanza, ma tali, che e per l'antichità del co-
dice e per il classico autore, a cui si riferiscono, meritano
d'essere notate da chi intraprendesse un'edizione del testo.
Bernardino Peyron.
ci.
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-59 -
(Foglio 64 verso).
uaGri eie eKeivov avaTteiiTTeiv tuj . . . .
r\}xac eivai tuui ovti to ply\ò^v ei . .
... €1 uri avTi\a)npavoi)ae0a Tr|C coi
TTIPIOU . . TT . . TÌITOC aUTOU . . . TIU eiVttl
5 OTTuuc ouv .... |nev eri auTOu iravia
xa aXXa ecxiv cpiu
TI Tou riXiou Ta eneiTeia ap ouv tiTvujc
CKei 0 9eoc to rrav Kai tocou fiYVuucKei
ouc Yvujciv .... ouK e
10 CTI TToXuc OTi qpniLii eivtti Tvujc .... eHuj
Yvujceuuv Ktti aYVOiac qpr) . . yvujcic . . .
7TUUC flTVUJCUJV ou TI
YVUJCKUJV OUK 6V ttYVOia ecTiv . . . . ou
YIYVUJCK61 oux . • • ev evoc
15 aXXuuc TT ... rie uTtepexujv yv ou
Yap TTOTe voricai ouk eireYiYV v aX
\ auTtt Tri ^^"JC
eaYV ... ri YiYV CTe
POTATI auTri ecTiv n yvuuciv ri . . u . . . ouc exe
20 pOTriTtt eincpaivouca òu eirivoia
evujceujc xai yit
Xuupic Tov ov eauT ... Ka .... , vev . . 0|iOu
YiYVUJCKei . ou jun vo Kai iroiei
25 aXriOric Tpoirov Tiva \a\ji
Pavri etrauTou |uri Triv
Kai CTepn
Gevei lari e . . . . €1 yiYVujckéi koi tou
TO Yvuuceujc Kai aYVOiac
30 . . ujv Ktti iravTUJV yvujctiv .... rrep
luc Ttt aXXa t VTa
YiYVUucKei r\ yvuj
eie eexiv oux YiYVUJC ... x .... xa yvuj
exa . aXX . auxai cu Yap €cxi
35 qpujc cpujxiilojaevov
10
15
20
25
30
35
— 60 —
(Foglio 67 verso).
TOUTOV TOV TpOTTOV « ap OUV OUÒ GV XPO
vuu TO TiapaTTav òuvaiT av eivai to ev ei toi
ouTOV eiri ouk ava-fKìi eav ti ri ev xpovoi
aei TO auTOu irpecpuTepov 'fiTvecGai : a
vttYKti ouKouv TOYe TTpecpuTepov aei
veuuTepou TrpecpuTepov: ti |utiv to
TtpecpuTepov apa eauTOu Yevo)iievov
Ktti veujTepov a)aa eauTou Y^TveTai ei
Trep jLieWei exeiv otou TTpec^uTepov ti ti
YVCTai: TTuuc XeYeic: uuòe òiaqpopov cte
pov eTepou ouòev òei YiTvecBai riti]
ovToc òiacpopou aWa tov |iev ovtoc nòli
eivar tou òe y^TOVOtoc Y^TOvevai tou
òe (aeWovToc jueWeiv . tou be YiTVOjue
vou ou YCTOvevai ouTe jueWeiv ouTe
eivai TTUJ TO òmcpopov . aXXa YiTvecBai Kai
aXXuuc OUK eivai: avaYKr] y«P : ctXXa |uriv
TOYe TTpec^uTepov biacpopoTriTOC veuu
TCpou ecTiv Kai ouòevoc aXXou : ecTiv YCip:
TO apa TTpec^uTepov auTou YiTVO)aevov
avaYKti Kai veuuTepov ajaa eauTou yi
YvecGai : eoiKev : aXXa |Lir|v Kai firiTe ttXc
uu eauTOu xpovov YiYvecGai jurife eXaT
Tuuv aXXa tov icov xPOVOV Kai YiTvecGai
eauTuui Kai eivai Kai Y^TOvevai Kai jaeX
Xeiv ececGai: avaYKri YCip ouv Kai TauTa:
avaYKr) apa ecTiv uuc eoiKe oca ye ev xpo
viui ecTiv Kai jueTex^i tou toioutou e
KacTOv auTuuv Trjv auTrjv Te auTO auTUj
riXiKiav exeiv Kai Tipec^uTepov Te au
TOU afia Kai veujTepov YiYvecGai : kiv
buveuei; aXXa |ar|v tuoi yc evi tuuv toi
ouTujv irpaYiLiaTuuv oubev jtieTriv:
ou Yotp lueTriv oube apa xpovou auTuu |ue
TecTiv oube ecTiv ev tivi xpovuji: oukouv
— 61 —
(Foglio 67 retto).
« òri uuc TÉ 0 XoTOC epei : » aKoXouGiav XajLi
Pavri ovToc auiriv : ei imiie irpec
Puiepov linfe veujTepov ri inv autriv
r|\iKiav TO ev exov eir) ouò av ev xpovuui
5 . . . Tttu T av eivai to tocoutov
€V exei ai òiacpopav . eie to ^irire
Ttpecpuiepov r| veuuiepov r\ iriv auiriv
nXiKiav exov
Trpo . . ov . . TO irapaTtav auTo òuvacGai ei . .
10 . . . avTiCTpeqpeir) ouk avaTKricav ti r) e . .
Xpovuui ò . . . auTou auTO TtpoecpuTepov YiTve
c9ai XaKuuv .... ou ... oti to Ttpec^u . .
pov Kai veiuTepou TrpecpuTepov ecTi
aXXa TTpec^uTepov XeyeTai |aev xa
15 Ka . . . . TTpec^uTepou Ka . tocoutou ovtoc
XeteTtti .... Kai o Yep*JJV TTpec^uTepoc aTtoXu
Tuu . OTav òe TipecpuTepou
iaaivo|u uuc irpoc veiwTepov XeYO|ue
vov uucTrep euuTepov uuc Ttpoc ève
20 CTepov auTOu ouv utto aXX
Tou veuuTepou e . XiKia . . .
ou Tepov auTOu yitvo)li€vov xai
Ttpec^uTepov eauTou YiTveTai . npecpu
Tepov |aev auT . . . TiTvecGai tuu
25 tou piou auTOu tov xpovov rrXeiova YiTve
CTai TO be auT . Kai veuuTepov eauTOu yi
YvecTai ,
. . . evujc YiTveTai |iiri cv TrpoTepov iva
veuuTepov YevriTai . aXXou òe KaTa thv
30 . . . inai av civ eiri tov
Tepov YiTVilT . .
7rpo(; òr) TauTa aXX . . . u ev airriv tuuv oti
cocp .... Koc 0 Xofoc Ktti YUMvacTiKOC ve
ujTep K TipeapuTepou YiTveTai aX
35 Xo . ov aTTOYiYveTtti uuctc OTav priBn oti
62
(Foglio 90 retto)
€ic . . . ajuevrjc eauTOV eiepa a jaev ....
vo)aev Kai tou voouinevou
OU|Ll
5 evov Ktti au
Ktti aWo
TOU evoc òiacpepovToc
10 Ttt ou exepov ouk arrXouv ev jiev ouv
ecTiv KaT airXouv Kaia
Kai au bu
vaiai oTi Ktti xpn ovo)iaZ;eiv ev Xi
. . . uuc
15 TOV
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voou)a .
20 e . TO VOTITOV Kttl CttUTOV
r{\ òio apiCTioc Kaia
oucuuv evepTÉi
evepTeia Ka
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25 vepTeia Km Tap
auTO
ecTìiKcv a|aa au
Kai
30 Kaia be . . . . aurou
TO
OUT€ K€IV ou
T6 CTepov ouTe €V eauTOV ecTiv outé
35 auTo
63
(Foglio 90 verso).
ILievov eie eauTOV eiceXGeiv . Ti|iii fap pXe
Tieic cauTOV tov eiceXGeiv lun buvajue
vov 61 (ir) Tiui evi . Kai tivi cauTOV . . . ov
eicepxecGai aòuvaiei . tic ecTiv outoc o a|bi
5 90Tepoic eq)aKTO|Li£VOC Ka9a to auto ev
Tiui |Lie|aepic|Lievuji T^JV eiepov
eivai TO voouv Kai to voou)ievov . pXeiraiv
uoTe evouTai to voouv tuui vooujLievuu
Kttl TI TT0T6 OU ÒUVaTttl OUV 0 TI ttU
10 Tri r\ evepTeia Tiap €K€ivac ri enava^e^r]
Kuia iracaic Kai xP<JU|iievr| auTaic iracaic
tue opYavo .... av tuuv eqparrTO
Ktti KttTa TO auTO Kai ev ouòeviouca . eKa
CTr| ixev ouv TUUV aWujv upoTOTreTTri
15 Y£ Ktti KaTtt TO eiòoc ira ... . TauTr|i Kai
KttTa TO ovojaa te Ta Kai auTri òe ovòe
voc ecTiv òio cube eiòoc ouòe ovo|ua exeiv
ouòe ouTi av ev ouòev . . . Yap KpaTeiTai aX
X ouòe luopqpouTai urro tivoc ovtoc ou
20 ca arraGnc Kai ovtoc axuupicToc eauTrjc
ou vor|cic ouca ou voriTOV ouk oucia aX
X eneKeiva airav avTuuv aiTi
a cu^uYoc oiCTtep ^evToi vuv opacic
^ev Tou aKoucTou ouk ecpanTeTai ou
25 b aiacpoTepai tou y^uctou ouòe oibev
€KacTr| OTi eTepa ecTiv Trjc eTepac ou
b oTi aKOucTov eTepov tou opaTou . aX
Xn b ecTiv buvaiuiic .... avapeprjxui
a TOUTUJV r\ TauTa biaKpivei Kai to Tau
30 TOV auTUJV YiYvuucKei Kai to eTepov
aaiTrjv ouciav Kai ira aTai
Tracuiv ecpaTTTecGai xpncOai be auTOic
ujc opYavoic bla to kpittov eivai Kai eira
vapePnxevai auTUJV outuuc Kai n • • • • ^iJ
35 vajuiic Ka opaov ouc j^ri buvaiaevoc
- 64 —
(Foglio 91 retto).
aTTO TttUTriC ouv op|Liuj)uievov outoi touc Xo
Youc TTpoc arr . . . obe rauia Ka9 utto
larìc Tric op9ric aiuapiavei appriTOu y«P xai «Ka
TuuvojuacTOu òia noWa tou e .... a cuvovtoc
5 Geou onwc, ouò au eWri .... qpuc . . . au
TOU TUYX«veiv ujc ti tou evoc evvoia . iKavuuc
Yap acpiCTr|civ aTT auTOu rrav ttXiiGoc Kai cuv9e
civ Y • • • oiK . . av Ktti TO arrXouv e . . . iiv òiòot
CI . Ktti TO lariòev irpoc auTou . Kai to apxriv eivai
10 Tuuv aWuuv TO ev r| ^c . ibiai tqtou
acp eauTuuv Kai òiapTe . . . evTa .... aXXa TrXri
9oc el evoc Y£VO|ueva Kai to eivai orrep TLUcrjv
arropepXriKev . ouk av ouòe irXriGoc ovTa eiv .
TOUTO YOUV aUTO UTTCp TIVOC
15 Xrimuevov art auTuuv eTUYxave ju ov a
Treipa . . vop . o Ta ouòajuuj(; ovTa TauTa òe e
CTiv OUK av
ciuvTO . v aX irpoc uj tuui etti ira
CI 9euji Kai Tuj . . . n irep eauTOu cu|u
20 qp e . . . . jurjTe bia CjuiKpoTriTa uk; irepi ttéu
Ci ... OC Kai TI òiaXice av ov t bi
a TI . . . . u . . . . Ke ov Kai . . . . |Li . . . . eivai
Kai acpepoiTO erri irpaYiuaTa aTpiuiTa
Geou aKOucaiTO ei
25 eK .... UJ .... IT ... . oTttv biavori9e
ireipov buvajuiv Kai TiavTUJV tuj
aiTiav Kai tuuv fieTauTUJV Tau
tuj auTHV TUUV
EKeivuuv eTTi ju . . . . Kai bia Triv tou KaTaXei
30 ireiv Kai thv tou evoc enivoiav ou bia cpn
KpoTJiTa ouTe . Xtiv e^nX
XaYiuevoc . . . . rjc . . . eirivori tou urrocTace
uu? . r\v |ur|Te |ueTa itXriGouc |ur|Te |LieTa e
V€pYeia(; )ar|Te jueTa voriceuuc lariTe |u.e
35 Ta aTeXoTiiTOc |ur|Te |iieT aXXrjc tuuv erri
65
(Foglio 91 verso).
YiTVOjuevouv evvoiuuv òia to uTteptepov
auToic eivai Kai iraviiuv eu9u)Lieic9ai . ti . .
TTOu fé òia cjLiiKpoTriTOc tivoc òiaqpeu-foucric
riiLiujv òi oXiTOTiita inv eirivoiav rravra
5 ouv aipeiv bei Kai inri ò ... ev TtpocGeivai Travia
Ò€ aipeiv ouK ev tuui eKTrmieiv eie io larii
òa|iirii iLiriòajuujc ov . ev òe tuj exec9ai |uev Kai
voeiv Travia la Ttap auiou Kai bia auiov riYei
c6ai Oli aiTioc )iiev auioc Kai lou ttXtiOouc Kai
10 lOu eivai auiuuv auioc òe ouie ev ouie TtXrii
0OC . aWa Ttaviujv uTiep ouciac luuv bi auiouv
oviuuv uucie ou TiXriGouc inovouc uTtepavuu
aXXa Kai iric lOu evoc eTtivoiac bi auiov t«P Kai
IO ev Kai juovac . Kai ouiuuc ouie eKTrmieiv eie
15 KevuujLia eveciai ouie loXfiav ii eKeivuui
irpocaTTieiv . lueveiv b ev aKaiaXriTTio) Ka
laXrmjei . Kai |ur|bev evvooucn voricei . aqp rjc
ILieXeiric cu|upriceiai coi Troie Kai aTtociavii
luuv bi auiov UTTO luuv .... vorjceujc cirii
20 vai eTTi iriv auiou appr|iov Tipoc evvoiav
inv eviKOViZ;o|uevr|v auiov bia ciyìic ou
be CTI . . . . TiTvujcKoucav oub eTti eveiKOvi
Zieiai auiov TtapaKoXoucav oube oii KaGaTiaH
. eibuiav aXXouc av laovov iKOva appiiiou io
25 apprjiov appriiuuc oucav aXX oux ujc titviwi
CKOucav . ei |lioi uuc x^Jupuu Xeyeiv . bouvai o Kav
cpaviaciiKuuc T:apaKoXou9r|vai . aXXa iXe
uu jLiev YevoijLieGa auioi auioic bioKeiv ou
iva Ttpoc lov ev9ouciac|aov ipaTteviec lou
30 epavou o ouk ic|Lxev aXXa Yva)C0)ne9a Troie au
IO xiJ^P^c ama yvuìciov aHioi T£V0|ue9a .
0 be TrXaiuuv cujaTrXripuucac lauia eTTi louc ipo
TTOuc eTTaveicev ouc eHe9eio ir|c TU)Livaci
ac )Lie|uvr||Lie9a ^ap .... TiapiivYeXXev utto
35 Gefievoc eivai io TTpopXn9ev CK0TTeic9ai
- 66 -
(Foglio 92 retto).
\xr] oucac TiKtei ev eauTuu : oi òe ap-rracai
eauTOV CK iravTuuv tudv eauTOu emov
ree òuvajLiiv te auTuui òiòoaci Kai vouv
ev TTii anXoTriTi auTou evriviucGai . Kai
5 aXXov iraXi vouv . Kai ttic Tpmòoc auxov
ouK eHeXoviec avaipeiv api6|aov aEiou
civ . tue Kai TO ev Xeteiv aurov eivai irav
reXaic TrapaixeicGai . rauia be ttujc |Liev Xe
Yciai opGuuc te Kai aXriGuuc ei ye ©eoi ujc epa
10 civ 01 TTapapeptiKOtec tauia eHriYTrXav (sic)
cpGavei be rracav ttiv avGpuuTTivnv Kara
Xrjvpiv Ka9 . Kev ujc ei tic toic eK Yevvn
Tr|c TucpXoic Ttepi xpiAJ|Li«fuuv òiacpopac
eXaXei . XoTiKac uTrovoiac eicatuuv auTiuv
15 TUJV TravTOc Xoyou eie Trapactaciv urrep
xepuuv . uuc exeiv |nev Xotouc aXriGivouc
Touc aKOucaviac Trepi xP>JUM«tujv . a^vo
eiv be TI TTOTe ecTiv to xP^M" . tuui |iir| exeiv
eKeivo uj TtecpuKe KaxaXTiTrTOV eivai to
20 XPUJ^ci • XeiTteiv ouv rmac buvajuic eie
empoXriv tou Seou Kav oi ottuucouv auTov
eviKOViZ;o|iievoi epiurjveuujciv rniiiv
XiuTuui UJC buvttTov aKoueiv iiepi auTOu .
eKeivou unep iravTa Xotov Kai rracav vo
25 rjciv ev tx] auTOu irepi ri^ac aTVUJCiai
KttTa^evovTOC . ei bei Tau9 outuj? exei
ajLiivouc 01 TO TI OUK ccTi TtepecpeucavTec
ev TTii Tvujci auTOu tujv ti ecTi . Kav XeTti
Tal aXriGujc |iir| oiujv Te ovtujv aKoueiv
30 UJC XeTCTai . eiri Kav aKOuuj)aev ti irepi au
TOu Toiv UJC qpaci irpocovTUJV Kai bia uà
pabiTiuaTUJV ujv evTeuGev Xaiupavou
civ eie Triv evvoiav auTOu fjeTaXapovtec
Kai aXXujc eKbeEajuevoi aviujiuiev . aXXa
35 Ktti auTOi ouToi uaXiv avacTpenjavTec a
- 67 -
(Foglio 92 verso).
Hiouciv |Lir| Trpocexeiv toic eipr||uevoic
eH eu9iac aqpicTac9ai be Kai toutuuv kqi
TTic Kaia TTiv TOUTUUV vor|civ cuvece
ujc Tou 6eou . uucTe TeXeuTa Kai toutujv
5 r\ òibacKaXia toiv te ujc tujv Ttpoceivai
TrapaòiÒ0|Li£ViJuv . exoi ò av oi)Liai irepiTTOv
TI ec Triv KaGapciv Tr|c evvoiac r) incTa Tr|v
ttKpoaClV TUJV UJC TtpOCOVTUJV aUTUJ ttTTO
CTaceic . Kai toutujv to ex tujv ineticTUiv
10 Triv aTTOCTaciv TiTvec0ai Kai tujv irpoc
exujcav jutT auTOv voriGevTujv oi |uev
OUV aTTO TTIC CTOaC OUK aTTOTlTVUlCKOUClV
EK XoTou YCvecGai av tivoc KaTaXrmJiv
TrpaYlnaTUJV tov erri Traci òe 9eov aiarixa
15 vov eivai KttTaXa^eiv . oux oti €k Xoyou aX
X 0UÒ6 òia vorjceujc . Kai Yotp aXXuj? qpriciv
THC vpuxric ou TO ttoiov €cti ZiriTOucrjc fvu)
vai . aXXa to ti ecTi . Kai ttic qpuceouc Tnc
oucric TOU eivai Kai thc ouciac auTOu yvuj
20 civ KTticacGai . iracai ai YVujcTiKai òuva
)Liic TOU TTOIOV TI ecTiv avaYTcXTiKai ou
X 0 Z:riTOU|Liev KaT ecpeciv aXX o inri ZiriTOu
)Liev avaTTeXXouciv . ouk ecTiv òe toiov
be 0 0eoc aXXa Kai tou eivai Kai tou ecTiv
25 eHrjXXaKTai auTou to Tipoouciov : ouk e
Xei be KpiTHpiov eie Trjv yvujciv auTou
aXXa auTapKec auTri to thc aYvujciac au
TOU eiKOVicjLia . TrapaiTOuinevov rrav eiboc
OTUJi TVUJpiZiovTi Huviciv . ouTe ouv au
30 TOV buvaTai Yvujvai ouTe tov tpottov
Ttic TUJV beuTepujv aTt auTou Kai bi au
TOV Y\ UTT auTOu Tiapobujv . aXXa Tteipujv
Tal jiev eSriT€ic6ai Kai toutov ocoi Ta ko
T auTOV iLirivueiv ujc ecTiv eToX|ar|cav.
35 TieipujvTai be exojuevoi tujv Tiepi auTov
68
(Foglio 93 retto).
eTTi Tou òeuTcpou Kamep inerapac em
TO ov . Ktti ou fietexov rric ouciac . aWov ttoi
citai Tov \oYOV uuc eTTi|ueTexovToc . ouci
ac |Liev ouv to ev uTioGecic ^etexeiv auro
5 ouciac eXetev aioiTOC av r\v o Xotoc . em òe
TO €V uTTopaXXuuv )LieT€xeiv auTO ouciac
qpriciv . òei YiTVuucKeiv . uuc eireiòri ouòe
TO ev ecTiv to aKpaicpvec cuvriXXoiuuTai
òe auTiu ri tou eivai iòiothc . òia touto ixe
10 Texeiv ouciac cpriciv . aie ei tic ev tuu egri
YnTiKuu TOU avGpuuTTOu XoYUJi Xapuuv to
Z^uuiov jueTexeiv auTO ecpacKe Xoyikou .
KaiTOi TOU avGpuuTTOu uuc evoc ovtoc lu)
ou Xoyikou Kai tou Te Z^uuiou cuvrjXXoiuu
15 luevou Kai tou Xoyikou tuui Zuuiuui, outoic
Yap Ktti erri touto Te ev rr\ oucia cuvriX
XoiuuTai . ri Te oucia tuui evi Kai ouk ecTiv
TtapaGecic evoc Kai ovtoc ri uTTOKei|uevov
jLiev TO ev . uuc cuju^epriKOC òe to eivai aX
20 Xa Tic ibiOTHC urrocTaceuuc eviKoviZ;o|ue
vri )iiev Triv arrXoTrjTa tou evoc oux icTa
luevri òe eiricTric aKpaiqpvoTriToc auTou .
aXX eie TO eivai cuvTrepiaYOuca auTO . eirei
Yap ou TO irpuuTOV riv ev to òeuTepov ou
25 òi aXXo aXXa òia to ttpuutov . ouTe |ur]v to au
TO Tuui TrpuuiTuui Euei ouò av y\v eTepov
ouò air eKeivou . out CK^epriKoc air CKeivou
Ktti air aXXou Tric uapoòou Trjv aiTiav exov
aXXo Ti |uev air CKeivou ev òritrou Kai au
30 TO . oTi òe OUK eKeivo ev ov to oXov touto
eKeivou evjuevovToc . rruuc Ycip ctv ev ^e
TttpaXXoi ev ei |uri to |Liev t^v aKpaicpvec
ov TO òe OUK aKpaicpvec . òio ou juct cKeivo
Ktti OUK eKeivo . oti to jueTa ti Kai to ano tou
35 eKeivo Te tpoTiov Tiva ecTiv aqp ou . Kai jue9 o
— 69 —
(Foglio 93 versoj.
ecTiv . Ktti aWo ti ou juovov ouk €ctiv eKCi
vo aqp ou auto ecTiv. aWa Kai ev toic avri
Kei,uevoic cujiipepriKoci 9eujpou)uevov au
TiKa eKeivo ev luovov touto he ev Travia .
5 KaKeivo luev ev avouciov touto òe ev e
vouciov TO ò evouciov eivai Kai ouciujc9ai
l^eTexeiv ouciac eipriKe irXaTujv ou to ov
uTToQeic . Kai to ov ye lueiexeiv ouciac emujv
aXXa TO ev urroGeic . ouciiu^evov òe ev ^e
10 Texeiv ouciac ecpri luriiroTe òe arro tou
TipuuTOu to òeuTepov . òia touto jneGeEei
tou TTpuuTOu TO ÒEUTcpov XefeTai TOU eivai
tou oXou tou ev eivai eK laeToxric t^TO
VOTOC TOU evoc Kai enei |ur| tcTOvev Ttpoi
15 Tov . eiia incTecxe tou evoc . aXX^airo tou evoc
YCTOVOC uqpifievov ouk eppeGn laeiacxo
l^evoc aXXa ev jiieTacxov tou ovtoc . oux oti
TO TTpuuTOv riv OV . aXXo ti ano tou evoc e
TepOTtic nepiriYCiTev auTO eie to ev eivai
20 TO oXov TOUTO . eH auTOu yap ttujc tou òeu
Tepujc Y^TOvevai ev npoceiXriqpe to eivai
ev opa òe |ur| Kai aivicco)aevuji eomev o
TrXaTUJV . OTi to ev to eneKeiva ouciac Kai
OVTOC . ov }xev OUK ecTiv . ouòe oucia . ouòe
25 evepTeia . evepTH òe laaXXov Kai auTO to e
vepTeiv KaGapov . ojctc Kai auio to eivai to
npo TOU ovtoc ou lueiacxov to ov aXXo eS au
TOU exei eKKXeivo)uievov to eivai orrep
ecTi iLicTexeiv ovtoc uucTe òittov to ei
30 vai TO )Liev irpouTrapxei tou ovtoc . to òe o
enaTeTai ck tou ovtoc tou eneKeiva evoc
TOU eivai OVTOC to anoXuTOV . Kai lucTrep i
òea TOU OVTOC ou laeiacxov aXXo ti ev Ttfo
vev . uui cu^uTOV to air auiou emcpepoine
35 vov eivai . ujc ei voriceiac XeuKov eivai
Tifvista di filologia ecc., I.
— 70 —
{Foglio 91 retto).
ovTi ap ouv avo)aoioc o 9eoc xuui voii Kai ere
poc . Kai 61 lar) eiepotric ^etoucia aXX auTUJ
Ye Tuui juri eivai o vovq . iiprjTai ov ori ou
Te o|aoioTr|Toc ouie avo|aoioTriToc irei
5 pav ex^i to ev oxi ovtujv re Kai ixx] ovtujv
Tuuv air auTOu Kai òi auTOV uTTOCxavTujv
aei auTOC triv acu|LxpXr|TOV ex"JV uirepo
Xnv rrpoc rrav otiouv Kai xo irav ouxuuc lu
cav ei |uri<5ev nv ycTovoc xudv |H6x aux . .
10 ou òiecxncev auxov exepoxric air auxuj.
acuvKpixxov ovxa xoic |aex auxov Kai
arrepiXriTTxov. o t^P o^k «v irepiXeicpGeiTì
TTUJC av eiri xouxo exepov aXXou . ujCTrep ouv
ei TTepi òuceuuv r|Xiou Zirixoi^ev . lefei
15 he xic |Liri eivai ri^^iou buciv emep n bu
eie CKOXIC^OC eCXlV CpUJXOC Kttl VUKTOC
eTTaYUJYn n^ioc òe ouberroxe CKOXiZ:exai
oube vuKxa opai aXXoi eni Tnc eiLiirecov
xec eie xo cKiac|ua . Xeyoi av op9ajc TraGiii
20 XeTuuv xujv eiri t^c triv buciv . uJCTrep
oub avaxoXn .Xeyoix av riXiou . Kai Totp n
avaxoXri cpuuxiC|noc ecxiv xou irepiTei
ou aepoc . oubev be rrpoc xov aei cpuuc ovxa
xo TToxe cpujxiZiecGai xov -rrepiTeiov a
25 epa . auxou be TraBouc ovxoc xouxuuv Kai
aneipou buceuuc Kai avaxoXric Ka6 oxi ouxe
(puuxi^exai ouxe CKOxiZ^exai aXX eKaxe
pov XUJV erri thc ecxiv TTa6r|)na Kai xo
rrepi eauxouc eie eKeivov laexacpepouciv
30 ayvoouvxec xo Euju^aivov KaGarcep Kai
01 ixapa YHV rrXeovxec auxoi Keivou)ae
VOI auxTiv KeiveicGai oiovxai ouxuu Kai
eTTi xou 0eou -naca |uev exepoxr|C Kai xau
xoxr|c Kai o)uoioxr|c eK^e^Xiixai Kai avo
35 iLioioxrjC acxexou auxou ovxoc aei rrpoc
- 71 —
(Foglio 94 verso).
Ttt jnet auTov tabe urroctavia aura Kai
avo|uoiou)aeva Kai Ttpoc eauTOV aura cu
vapiav CTteubovia xac irepi aura cxeceic
avTicTpecpeiv Kai irpoc eKeivov oieiai
5 ouòev Tctp 0 0€oc eireKTncaTO eTiei iiv npo
Tepov eWemric ini eniKTricei p\ai|jac
Trjv auTOu TeXeioTiiia aWujc av Kai axoj
piCTOV exujv To eivai )uovov . . . urrep io
. av TT\TipuL)|ua ujv auioc autou òia xric
10 auTou evaòoc Kai |liovul)C eoic e^ei Kai tou
TO acxexov . . la luev e . -npoc . a jiev auiov
Kai òi auTOV uTTOCiavia ouv la laet au
Tov auTUJC aKOueiv XP'I "J^ct ev eauTuu
)l16V urrapxovTuuv r| to . . . ouciac
15 uTTOCTacei Trji auTin . . ouòe Ta TrXripuu
TiKa exovToc Kai tuuv oXujv Ta òeuTe
pa aXX ouTuuc ri evvai l^ieT auTov
uuc aTTopepXìiiLievuuv ov Kai to
. . evov fxev irpoc .... YCtp auxoc
20 TO |aev ov Kai aua tou to yvuj
vai pouXojLiev OTe aXXo ti . . . Kai iravTa Ta
ovTa CTI . . r|v eciaev irpoc auTOV . òi iiv
b V ouK exujpei to Yvuuvai auTOV oti
]ir\ ov ecTiv rravTa Ta aXXa Tipoc auTOv
25 ai òe Yvuuceic xuui 0)lioiuji aipouci to o
luoiov . jLieicouvTO oubev uuc TTpoceKei
V ovTOC be TO i^ovov ovTUJC ov . ei aKouceic
ujca ÉT'JU Trpoc Travia la luexa Tauxa oube
jiiav exoiv irpoc auia napapoXriv n ti
30 va cxeciv oubev TpOTreicaio ttic auTOu
Itiovujceuuc eie neipav cxeceujc Kai TrXri
Gouc iLiovov OTi |Lir|bev ayvoia |Liev ei
TTOTe TUUV eco)aevuuv YiTvo)aeva be e
■fvuupicev 0 iLinbcTTOTe ev a-fvoia -fevo
35 laevoc aXX rnneic eoiKainev Ta nM^Tepa
— 72 -
CECXICX:^ 'BI'BLIOG^AFICI
Aristofane, Le Nubi, con note italiane e introduzione di
Achille Coen. Prato, Aldina editrice, 1871.
Questo volume fa parte della Raccolta di classici greci
per uso deirinsegnamento già da più anni iniziata a Prato
dalPAlberghetti. Al testo delle Nubi è premessa una dotta
introduzione nella quale si espone criticamente la storia
delle due principali questioni sollevate da questo dramma,
quella cioè della doppia edizione di esso, e Taltra più ardua
e più importante circa il fine che si propose Fautore nello
scriverlo. Il testo è riprodotto dall'edizione del Teuffel -, è
accompagnato dalle varianti di maggiore importanza, e cor-
redato di osservazioni sui principali motivi critici delle varie
lezioni e di numerose note esegetiche ed illustrative. Segue
lo schema metrico della commedia, ed infine il prof. Ferrai
aggiunge di suo un'appendice nella quale offre pel testo di
questa commedia una nuova collazione dei codici Raven-
nate e Veneto.
Proporzionatamente allo scopo di queste pubblicazioni il
signor Coen non ha inteso di fare un'opera che fosse di
ragione scientifica \ d'altro lato però egli ha veduto che
Aristofane non essendo un autore da porre nelle mani dei
principianti richiedeva anche per lo scopo a cui mira questa
edizione una maniera d'illustrazione superiore assai all'ele-
mentare. Noi crediamo che in generale egli abbia colto il
segno nel cercare quella giusta misura che è tanto diffìcile
trovare in lavori di questa natura. Certo, per altri paesi
sarebbe stato necessario seguire altra norma*, ma il sig. Coen
- -73
ha giustamente valutato le condizioni dello studioso italiano
il quale non può disporre di un corredo di libri sussidiari
come può farlo lo studioso d'altra nazione. Per supplire a
tale mancanza nelle annotazioni fatte per uso delle nostre
scuole si è costretti ad esser men parchi e pili diffusi di
quello si possa e debba esserlo altrove.
Tutto questo lavoro è prodotto di ben molta fatica gui-
data da una serietà e da una coscienziosità pur troppo rara
fra noi in opere siffatte. Le Nubi sono la commedia di
Aristofane su di cui più si è scritto in edizioni, in mono-
grafìe, in opere di storia e di filosofìa. Questa vasta lette-
ratura il sig. Coen ha voluto conoscerla e studiarla tutta e
utilizzarla pel suo lavoro. Chi sa quali sono le risorse di
cui il cultore degli studi filologici può disporre in Livorno,
è in grado di misurare le difficoltà che deve avere incon-
trato il signor Coen, per mostrarsi così informato di ogni
lavoro relativo al suo soggetto e quanta forza di volontà ci
sia voluta per lottare con quella e vincerla così felicemente.
Certo la storia delle due questioni sopra rammentata non
era stata esposta fin qui né in Italia, né altrove tanto com-
pletamente. Delle conseguenze alle quali arriva per Tuna e
per Taltra Tautore, non istaremo qui a dire, poiché egli nel
suo libro non ha inteso di offrire risultati nuovi, ma di rap-
presentare adeguatamente ciò che la scienza ora stabilisce;
quindi per quelle questioni, come per altre, egli si attiene alla
opinione nella quale più volontieri sogliono accordarsi i dotti
oggidì. Non però ch'egli registri meccanicamente le varie
vedute; di ciascuna definisce con giusta intelligenza le ra-
gioni e il valore. Questo stesso procedere tiene nelle note
là dove trattasi di luoghi controversi. Invero, quantunque
molto siasi scritto su Aristofane, l'esegesi critica di questo
autore lascia tuttora assai da desiderare; né Aristofane è il
solo poeta greco per cui ciò avviene. Per questo lato ci
— 74 —
sembra che correggere alcune interpretazioni accreditate nria
erronee avrebbe potuto farsi anche in una edizione d'uso
puramente scolastico. Rechiamo alcuni esempi :
V. i37 Ktti qppovTiò' èSriMPXuJKa(; èHeupr|,uévriv
a II Kock (riferisce il Coen) considerando che il discepolo
di Socrate espone poi per intiero la sua meditazione, e che
perciò Strepsiade non gliePha fatta abortire^ avanza il
dubbio, che nelle prime Nubi prima della misura del salto
della pulce fosse narrata un'altra storia ». L'osservazione del
Kock non è giusta. La qppovxiq del discepolo di Socrate
abortita per l'interruzione di Strepsiade, non può esser
quella che poi viene esposta dal discepolo, per la semplice
ragione che questa non era cosa sua o trovata da lui, ma
era un trovato di altri e non era neppur più qppovric; ma
(ppóvTicTiua (v. i55). Era bensì divenuta soggetto della cppovti^
di quel discepolo il quale avrà cominciato a meditarvi o a
sofisticarvi sopra e s'avviava (parevagli) a qualche risultato
quando Strepsiade l'interruppe.
V. 248 TUJ YÒp Ò)livut' ; r\
aibapéoiaiv, ujCTTrep èv BuZavriiu ;
Il Kock troppo facilmente crede spuria le parole tu> yàp
ò\xvvie a causa di quel dativo che non si usa per la cosa per
cui si giura. La sola conseguenza legittima di tale osserva-
zione è, che in quel tuj non trattasi della cosa per cui si
giura. Tuj si riferisce a vó)iiicr|ua che precede, ed è chiaro che
qui abbiamo un gioco di parola basato sul doppio significato
di quel vocabolo. Il dativo sta bene, perchè vuol dire secondo
quale usanza ; poi Strepsiade motteggia alla sua maniera al-
ludendo all'altro significato e mantenendo il dativo, come
richiede il gioco di parola.
V, 32 1 éxépuj XÓYUJ a torto viene considerato come retto da
àvTiXofficJai. É un dativo d'istrumento e trattasi di quel XÓYoq
che Sticpsiade vuole imparare da Socrate (cfr. v. 244).
— lo —
V. 337 àepiac,, òiepoK; ad onta delle difficoltà che sono
andati immaginando più critici, sta benissimo, né si richiede
concordanza con oIuuvolk;. Trattasi di una rivista comica dei
vari epiteti e modi perifrastici che poeticamente si usavano
parlando delle nubi. Ciascuno di questi sta da sé ^ àepia*;,
òiepd<;, dipendono anch'essi da ènoiouv e lasciano facilmente
sottinteso veq)éXa(;.
V. 485 alia domanda di Socrate :
eveati ónta aoi XéTeiv èv ix) cpùcrei;
Strepsiade risponde :
Xéfeiv }Àev oùk è'veati, àTToatepeiv ò'è'vi.
Si è dubitato della genuinità di questa lezione perchè, come
dice il Coen, non si capisce bene in che àTTOcnepeiv sia op-
posto a Xéfeiv; talché la risposta di Strepsiade riesce una
freddura. Ma il poeta fa parlare Strepsiade secondo Tidea
fìssa che questi ha in capo:, unica ragione per cui desidera
rinsegnamento di Socrate, e quella idea si traduce in mente
sua nella semplice formola dmocTTepeTv Xéfujv ; secondo questa
dunque ei risponde a Socrate e la sua risposta è perfetta-
mente consentanea al carattere e alla situazione.
V. 700 accetterei la vulgata àTToaiepriTiòa. L'idea di Brunck
il quale preferisce àjrocTTepriTpiòa secondo la formazione di
aùXritpi?, òpxncTTpiq ecc., non può essere giusta. Qui Ari-
stofane forma quel vocabolo comico coerentemente alla im-
magine del vestire, di cui si serve in questo luogo, e quindi
usa una desinenza assai comune nei nomi di vestiti, come
Hucttìi;, xkavi<;, itMjiic, ecc.
Ma bastino questi esempi. Qualche svista in un lavoro
tale può essere scusabile : ne noteremo una. Nella nota al
v. 591 viene rammentato un verso dei Cavalieri secondo
il quale, dice il sig. Coen, sul suggello di Cleone era scritto:
Xdpo^ Kexnvùjq èm néipa^ òrmriTOpiJÙv. E chiaro che queste
parole non possono costituire la scritta di un suggello. Esse
— 76 —
descrivono un cTTHiieTov, come il comico dice apertamente,
cioè la imagine emblematica scolpita su quel suggello.
Il piano della introduzione ci lascia da desiderare. Pare a
noi che per introdurre lo studioso alla lettura delle Nubi il
sig. Coen non avrebbe dovuto limitarsi ad esporre la storia
di quelle due questioni, ma questa storia avrebbe dovuto
incastrare in un lavoro piiì generale in cui si considerasse
anche la ragione artistica di quella composizione. Il lettore
odierno che per la prima volta apre il libro di Aristofane
trovasi dinanzi una forma di arte che gli riesce intieramente
nuova, per intender la quale ha pur bisogno di schiarimenti
e preparazioni. 11 signor Coen pensando allo scopo pratico
del suo lavoro, doveva rammentarsi, che anche per questo
lato quei libri che potrebbero supplire altrove, mancano agli
Italiani.
Ma questi appunti non iscemano gran fatto il merito del
lavoro che è degno di molti elogi e certamente utile anche
per Tinsegnamento superiore, come abbiamo potuto speri-
mentare facendolo adottare per la lezione del decorso anno
scolastico ai nostri allievi della scuola normale superiore di
Pisa.
Pisa, luglio, 1872.
D. COMPARETTl
Grammatica greca per le scuole di Vigilio Inama.
Parte i": Etimologia - Parte 2": Sintassi. Milano, 1869-70.
Non è la prima volta questa, che la stampa italiana prende
in rassegna questa importante pubblicazione del sig. Inama,
poiché, se non andiamo errati, e V Antologia di Firenze nel
Bollettino bibliografico, e la Perseveranza di Milano tennero
-li-
gia, ragione di essa. Ma lo fecero con molta brevità, e quasi
di passata, come del resto voleva l'indole de' succitati perio-
dici; mentre invece è lavoro degno di più largo esame, in
parte per lo scopo immediato cui mira, cioè la scuola, e in
parte anche perchè è il primo tentativo di questo genere,
che si presenti con una certa indipendenza di criteri e di
mezzi nel difficile arringo della letteratura grammaticale della
lingua greca nel nostro paese. A vero dire è cosa poco con-
fortevole il vedere o poco curati o non abbastanza largamente
esaminati lavori di qualche mole e di molto studio e grande
diligenza da' maestri, che pure vantano oggimai chiarissimi gli
Atenei d'Italia, anche nel campo de' studi di grammatica com-
parativa, o di lingua greca -, né a noi, tenendo ragione un
po' distesamente della Grammatica greca dell'Ina ma, è ve-
nuto certo in mente di sostituire la nessuna autorità nostra
a quella dei maestri valenti e provetti-, bensì ci è parso buono
di cogliere il destro, che ne porse la Rivista, per manife-
stare il nostro avviso intorno ad un libro, che, non foss'altro,
è segno non dubbio, che la coscienza dell'alta importanza
degli studi greci si va ridestando anche da noi.
È noto, come nelle nostre scuole, e, certo, nell'opinione,
più o meno cosciente, di molti insegnanti, la grammatica del
Curtius tenga indisputato il campo. Questo fatto , per noi
almeno, che dell'uso, qualunque esso sia, che abbiamo della
lingua greca, ci sentiamo debitori a quel libro, torna di non
lieve conforto. Per quanto si voglia concedere all'autorità del
nome, o anche della moda, che non ha guari, tentava di ap-
plicare il sistema del Curtius persino all'insegnamento della
lingua italiana-, bisogna pur credere, che in questa oggimai
celebre grammatica il segreto di farsi comprendere e quasi
amare dagli studiosi ci sia*, bisogna dire, che essa risponda a
qualche sentita necessità del tempo. Tanto ne parve mera-
vigliosa la sua diffusione nelle nostre scuole, e la fama grande
— 78 -
in che è venuta fra noi quasi d\m subito! — Le cagioni
della non comune fortuna di questa grammatica sono, a
nostro giudizio, due : la prima è da ricercare nell'immenso
slancio, preso dalla linguistica negli ultimi decenni di questo
secolo, così che il tradizionale empirismo nelFinsegnamento
della grammatica elementare del greco fu scosso dalle fonda-
menta-, intanto che la convenienza di una trattazione più
conforme alle norme della scienza facevasi strada via via;
Taltra cagione ne sembra riposta in quel giusto e corretto
criterio, col quale il Curtius ha saputo contenere dentro ai
termini strettamente necessari a spiegare il fenomeno lingui-
stico, il nuovo organamento della grammatica greca, destinata
all'uso della scuola. Che alcuni fenomeni della lingua possano
venire raggruppati d'un modo più sinottico, e dietro criteri
più generali, come ad esempio le varie classi de' verbi, in
riguardo alla formazione de' temi; che qui e colà sia lecito
alzare qualche lembo del velo, che ricuopre il nesso interiore,
che unisce la lingua greca de' tempi storici, col periodo an-
teriore, preistorico, italo-greco o ario, e porgere qualche
notizia più estesa sull'influsso che le semivocali V o. J hanno
esercitato sull'alterazioni fonetiche, avvenute nel trapasso dal
periodo più antico all'altro, nel quale il greco si ebbe un'esi-
stenza sua propria, non negheremo noi. — Allo stato attuale
però degli studi greci in Italia, ne pare, che, come farebbe
opera vana e ridevole chi volesse ritornare all'empirismo
antico, così grave ostacolo porrebbe ad una sicura compren-
sione della etimologia greca, chi varcasse senza bisogno quella
giusta misura segnata dal Curtius. Queste cose abbiamo
creduto opportuno di mandare innanzi, perchè il lettore veda
senz'altro il nostro punto di partenza, dal quale muovendo
terremo ragione della grammatica dell'Inama. — S'intende
da sé, che per ora non ci occupiamo che della parte P della
medesima (etimologia). — E badi l'egregio autore, che noi
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ci siamo proposti di esaminare il suo lavoro unicamente dal
punto di vista pratico, della scuola cioè. Certamente anche
il lato scientifico cadrà di necessità nella sfera della nostra
indagine *, ma ciò sarà solo in parte, e, subordinatamente a
quello, più particolare e più vicino allo scopo del libro.
Siamo lieti anzi tutto di poter attestare, che la Gramma-
tica Greca del signor Inama non è né un plagio, né un
compendio, o travestimento delle più note fra le gramma-
tiche greche, scritte dai Tedeschi; mentre essa invece ne
porge sicura prova di profondi e diligenti studi fatti dal-
l'autore sui migliori fonti-, ne mostra lodevole indipendenza
di giudizio, criterio proprio e cosciente. — Il Compendio
dello Schleicher, e la Grammatica comparativa della lingua
Greca e Latina di Leone Meyer, per tacere d'altre scrit-
ture, furono dall'autore in qualche parte eccellentemente
usufruiti, il primo massime nella teorica della formazione
dei temi verbali, il secondo nell'uso ed influsso delle semi-
vocali (J-V). Uno studio accurato dei lavori del Curtius,
massime del Commento alla grammatica greca, si rivela
chiaramente in quelle parti del lavoro dell'Inama, che più
si scostano dalla via tracciata da quel chiaro maestro, mas-
sime nella trattazione del Tema verbale. Le stesse esitanze,
manifestate dal Curtius rispetto alla vocale di congiun-{ione
{Bindevocal), che poi egli inclinò a chiamare vocale tematica
{Commento, § 23o) sembrano aver indotto il nostro autore
a mettersi diritto diritto per questa via, accettando e ten-
tando di svolgere anche nella grammatica particolare della
lingua greca tutte le conseguenze, che discendono dal modo
diverso di considerare l'ufiicio di quella vocale. — La parte
nella quale il signor Inama si discosta maggiormente dai
sistemi delle grammatiche greche più frequenti nell'uso delle
scuole, è la Coniugar{ione del verbo; e in tre punti princi-
palmente : I" Egli non ammette né la vocale di modo del
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Kiihner, né la vocale di congiunzione del Curtius. — 2° Allo
studio del presente e deirimperfetto dei verbi in uu fa se-
guire immediatamente lo studio del presente e deirimper-
fetto dei verbi in fii, contrariamente all'uso invalso nelle
grammatiche greche per uso delle scuole. — 3° Rimessa
in onore Tantica denominazione di aoristo primo e aoristo
secondo, egli chiama aoristo ter\o quello che il Curtius
chiama aoristo forte {aoristo secondo) dei verbi in -MI (per
esempio ècririv).
L'autore dà ragione di queste innovazioni, introdotte nella
grammatica greca per le scuole, nella prefazioncella che egli
fa precedere alla sua Grammatica greca (pag. vii-xii). —
La questione, dal lato scientifico, è piià ardua, che non
possa sembrare di primo tratto •, essa involge tutta l'ampia
e complessa teorica delle radici, del verbo e dei tempi,
come l'ha posta Francesco Bopp dapprima, nell'immortale
Grammatica comparativa del Sanscrito, Zendo, Greco,
Latino, Lituano, Gotico e Tedesco (vedi voi. 1, part. I',
§ 109=^^ voi. II, part. r^, §§ 426 segg; part. IP, §§ 675
segg.) (i)-, e Augusto Schleicher dappoi nel suo Compendio
(vedi §§ 169 segg. della traduzione del Pezzi) (2).
Vediamo ora, ristrettamente, quale sia il punto di veduta
della scienza, e quali le necessità della scuola rispetto a
questa materia. — Con ciò resterà chiarito di per sé il nostro
pensiero intorno al valore scientifico e pratico della gram-
matica del signor Inama.
a) Vocale di modo — Vocale di congiunzione — Vocale
tematica. — Il modo diverso di considerare questa vocale
(0, e per l'indicativo; uj, ri pel congiuntivo-, i per l'ottativo)
involge un'essenziale differenza nel modo di trattare la di-
fi) III» edizione. Berlin, 1870.
(2) Torino. Loescher, 1869.
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visione dei verbi nelle due coniugazioni principali, rispetto
all'uscita dei medesimi nella prima persona singolare del
tempo presente (Verbi in -w e verbi in -m). Nel Sanscrito
la questione è molto più semplice, che nel Greco:, poiché
in quella lingua essendo quella vocale sempre a (che varia
soltanto nella quantità), è facile il riguardarla addirittura
come parte integrante del tema del presente: bhaì^à-mi,
(pépiu-|Lii*, bhara-si-, cpépe-crr, bhara-jnasi-, (pépo-\ie<; (|iev)-(V.
Schleicher, Comp. § i8o-, Bopp, Gramm. §§ 484, 439; Cur-
tius, Comment. al § 23o). Perciò è ovvia la repartizione, che
suol farsi delle coniugazioni dei verbi della lingua Sanscrita,
secondo che essi formano i tempi speciali aggiungendo -a,
oppure sillabe uscenti per a ( -ya, -ayci ) alla radice (e
sono le classi i, 4, 6, io del Bopp, v. § 109^)', ovvero
uniscono le desinenze personali alle radici, senza quella vo-
cale (class. 2, 3, 7 del Bopp, § 109^). Esempi di verbi
della prima specie sarebbero: bhara-, (pepo-, rad. bhar-\
nah-ya (ted. naehen, cucire), rad. nah-, e della seconda
da-dà-mi-, òibo-|LU-.
Nel Greco invece questa vocale è nel fatto mutevole,
essendo ora o, ora uj, ora e. E' parrebbe quindi meno si-
curo il fondare su di essa, come sopra una nota distintiva
molto spiccata, Tessenziale differenza fra le due coniugazioni.
Più razionale e più rigorosamente scientifica sembra quindi
al signor Inama la partizione delle coniugazioni de' verbi
secondo la diversa uscita del tema del presente (Prefazione
pag. vili); e in ciò s'accosta allo Schleicher {Comp. §§ 184
segg.). Secondo noi però l'egregio autore s'è lasciato se-
durre dall'indole puramente comparativa, e, per ciò stesso,
altamente astratta del Compendio dello Schleicher, e, con-
seguentemente a ciò, scambiò i caratteri della classifica-{ione
con quelli della coniugazione. Certamente il concetto di
sintetizzare l'organismo della coniugazione del verbo greco
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è assai lodevole, e accenna a forza comprensiva d' intel-
■ letto, ed è assai conforme alandole degli studi comparativi.
Ma ciò nulla meno noi crediamo che la differenza fra le
due coniugazioni, biella scuola, debb'essere ben più accen-
tuata, a così dire, che non sembri forse all'egregio nostro
autore. Comunque si consideri quella vocale (o, e), nel
greco, egli è certo che fra le due forme òiòo-|Liev (rad. òo-) e
\uo-|a6v (rad. Xu-) e più ancora fra òiòo-t€ (rad. òo-) e Xue-te
(rad. Xu-) il divario è notevole, e tale che allo scolare si
mostra con tutta la forza delF evidenza. Noi teniamo
adunque fermo ancora alla divisione, già in parte antica e
quasi tradizionale, accettata anche dal Curtius, di due con-
iugazioni principali , fondata sulla presenza o meno di
quella vocale, che noi pure collo Schleicher chiamiamo te-
matica. Il signor Inama, guidato sempre dall'unico criterio
della classificazione, né inclinando per ciò a fare una posi-
zione speciale ai verbi in -MI, relega questi in una classe
(la settima - v. § 214). Ma noi non vi possiamo assentire.
Prima di tutto non ci sembra corretto il criterio della
classificazione, avendo questa per base il suffisso del presente,
mentre invece tra i verbi colla vocale tematica e quelli che di
essa vanno privi c'è differenza organica e di flessione nei
tempi speciali. In secondo luogo , se i suffissi -vu e -va po-
tranno per poco indurci a classificarne le rispettive formazioni
accanto agli altri suffissi speciali del presente; laddove si
consideri la inflessione dei tempi speciali, si parrà chiara la
differenza che corre tra Xue-ie, presente Xuo-, suffisso -0-, ra-
dice Xu-, TÙTT-Te-TC, pres. tutt-tg-, sufi', -to-, rad. tutt- e òeiK-vu-ie,
pres. òeiK-vu-)ni, suff. -vu-, rad. beiK-; nella quale ultima forma
vediamo sì un suffisso, ma la vocale tematica manca al
tutto nei tempi speciali -, ciò che conduce a diversità d'infles-
sione. Per ciò diciamo bibuuini e òeÌKvu|ui appartenere oWistessa
coniugazione, ma a classi diverse. Insomma il criterio della
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classificazione per suffissi, che chiameremmo tematico, deve,
secondo noi, tenersi distinto dal criterio della divisione per
coniugazioni , che chiameremmo morfologico-organico o
di inflessione.
La divisione del verbo greco per coniugazioni, noi lo rico-
nosciamo perfettamente, presenta molti inconvenienti, e dal
lato strettamente scientifico non va esente da censure. La
ragione scientifica sarebbe disposta a riconoscere una repar-
tizione delle inflessioni per temi temporali. Ma nella pratica
v'ha qualche sconcio; che molti verbi, nel giro del loro pa-
radigma compiuto., presentano tali anomalie, che costringe-
rebbero il grammatico a moltiplicare quasi alT infinito gli
schemi temporali , e a ripetere Tistesso verbo in più luo-
ghi, smembrandone Tunità del concetto tematico, a spese
della chiarezza. A questo guaio non ha saputo sfuggire
neppure il Curtius-, e chi ha qualche uso dell'insegnamento
sa che i paragrafi 3 1 6 e 3 1 7 della sua grammatica greca
sono fuori di posto. Nella scuola e nella pratica, è all'unità
organica , alla quale ei si vuole aver occhio sopra tutto ,
raggruppando insieme i fenomeni linguistici, giusta la legge
delle maggiori analogie, e dividendo secondo larghi e ben
marcati criteri. A questa necessità della scuola ne pare che
sino ad ora il solo Curtius abbia saputo soddisfare maestre-
volmente; e la sua grammatica in questo riguardo resterà
lungo tempo ancora un modello sempre imitabile della ra-
gione scientifica, accoppiata alla pratica della scuola. Ciò
non toglie che il materiale di quella eccellente grammatica
non presenti delle lacune, e possa anche venir raggruppato
secondo un più rigoroso criterio scientifico, senza danno
della chiarezza.
Quella parte massime, che tratta dei temi verbali, avrebbe
bisogno di una completa revisione, specialmente dacché egli, il
Curtius, abbandonando il concetto della vocale congiuntiva^
— 84 —
combattuto già dal Bopp {Grani, comp., § 494) e abbando-
nato affatto dallo Schleicher, fa costretto a mantenere un
certo equivoco, non modificando la teorica dei rapporti fra
il teìna verbale puro, o radice, e il tema del presente in
analogia al concetto della vocale tematica, a cui s'è accostato
dappoi. — Così ad es, la formazione del futuro e dell'ao-
risto (sigmatici), ammessa la vocale tematica, apparisce sotto
un punto di vista affatto diverso. — Vero è che nel Commento
(ai §§ 2 58 e seg.) il Curtius si accosta all'idea dello Schlei-
cher {Tempi e modi, pag. 3 17), il quale nello sigma del fu-
turo riconosce una composizione col futuro del verbo sostan-
tivo (è<;) ; e parimente per Taoristo debole ammette la stessa
origine, cioè la radice è^ (§ 267). — Ma per lui e Po del fu-
turo e Va dell'aoristo è sempre qualche cosa di aggiunto per
rendere piii facile l'inflessione. Ciò che non pare che sia.
— Nella Grammatica però non v'ha traccia di questo fenomeno
fonetico. — Il signor Inama invece, più conseguente, lo
accolse (V. Grani. §§ 226, 4-, 233, 6).
b) La 5eco«i(i innovazione introdotta dal signor Inama nella
grammatica greca per le scuole è questa, che egli cioè allo
studio del presente e dell'imperfetto dei verbi in -00 fa seguire
immediatamente lo studio del presente e dell'imperfetto dei
verbi in -]x\. — « Così, egli dice, richiede l'ordine rigoroso
e della grammatica, né si ritarda di troppo lo studio di
« questi verbi importantissimi, e non nasce l'opinione, che
'< facilmente s'ingenera nella mente dei giovani coi sistemi
'( sinora tenuti, che questi verbi siano in tutto e affatto di-
'( versi dagli altri » (Pref., pag. ix). — Noi crediamo che a
questo modo di trattare la grammatica speciale della lingua
greca si oppongano ragioni di scienza e altre più di opportunità
e di pratica. — Dal punto di vista della scienza noi crediamo
che le ragioni di tener distinte le due coniugazioni sovrab-
bondino. — Ne allegheremo qualcuna, mentre di altre ab-
— 85 —
biamo già toccato quassopra. — Noi insistiamo anzi tutto
sulla differenza fra radice {ivuriel), tema verbale {verbal-
stamm) e tema del presente {praesensstatnm) e sul modo di
comportarsi di questi elementi verbali rispetto alle desinenze
personali. — La grammatica indiana ne mostra al pari della
greca una notevole diversità in questo riguardo fra i verbi
(Bopp, Gramm. comp.,^ 49^)- Questa diversità è molto an-
tica e risale probabilmente al periodo anteriore alla esi-
stenza del greco come lingua particolare. — Noi conce-
diamo, che To dei verbi in -uu sia un vero carattere di classe,
e che il diverso comportamento delle desinenze personali
nelle due coniugazioni dipenda dall'influsso che esse — le
desinenze personali — hanno esercitato indubbiamente sulla
quantità e intensità delle vocali tematiche. — Noi concediamo
anche che parallelo all'-^ del verbo sanscrito nella desinenza
-à-mi si possa pensare un primitivo greco -oi-iiii (confr, l'omer.
èeé\-uj-|ui), ammettendo che Tabbreviamento delP-uu in o (e)
nei duale e plurale sia da ascrivere al maggior peso quasi
delle desinenze personali -tov, -\x^c, (|nev) -re, -ovti (Bopp.,
Gramjn. comp., §434). Mae che per ciò? Non sarà sempre
un fenomeno degno di nota, che circa 200 verbi greci uni-
scano le desinenze personali al tema verbale senza Tinter-
mezzo della 0 alternante con e, ovvero con suffissi ancor più
lunghi? Noi crediamo che la ricostruzione della probabile
originaria unità di coniugazione ci porti troppo air in-
fuori dei termini della grammatica greca, e ci conduca nelle
astrattezze della tematologia, nel cui campo non tutto per
ancora è luce. — Certo è — e il dialetto epico antico è lì per
attestarlo — che nell'organismo della coniugazione greca note-
voli alterazioni sono avvenute in tempi remoti :, e la desi-
nenza-vai (om. -)Lievai) dell'inf. pres., e il -61 della 2" pers.
imperativo, e Tabbreviazione della vocale radicale o anche
di suffisso (-VU, -VÌ5) nel duale e plurale, messa a riscontro collo
Kivisla di filologia ecc., I. 7
— 86 —
affievolimento della vocale tematica o in e, costituiscono una
cotal somma di differenze non trascurabili neppure scientifi-
camente. — Molto meno vi può passar sopra indifferente la
pratica e Tuso della scuola. Anche a questo rispetto adunque
noi crediamo che nulla sia da innovare nell'uso antico.
e) Ma veniamo alla tej^:{a notevole innovazione, messa in-
nanzi dal signor Inama, a quello cioè che egli chiama ao-
y-isto tcì\o. — Con questa denominazione si designa dallo
autore quella forma di flessione che il Curtius chiama aorislo
forte (aoristo 2°) dei verbi in -MI. È noto che la grammatica
della lingua sanscrita registra sette maniere di formazione
deiraoristo (Bopp, Gramm. comp., II, § 542 e segg.). — Al
nostro autore quindi potè sembrare abbastanza ovvio di se-
gnalare con un nuovo numero progressivo una specie di
forma d'inflessione, la quale, contrariamente alle altre due,
unisce le desinenze personali immediatamente alla radice o
tema verbale, senza l'aggiunta del verbo sostantivo (ic,-) (aor. I
o debole), o della semplice vocale tematica, o di classe (aor. II
o forte). — A noi però sembra che l'analogia che corre fra
queste forme e le altre renda superflua questa terza cate-
goria d'aoristi. — A quella guisa infatti che nella coniuga-
zione dei verbi in -uj abbiamo due forme d'aoristo, Tuna
che chiameremo sig-matica, -aa (ècra), l'altra sen-a sigma,
derivata dalla radice pura, col semplice suffisso o vocale te-
matica (o-e); COSI anche nella coniugazione dei verbi in -MI ab-
biamo due forme, l'una composta col verbo sostantivo (èc,) e
l'altra senza nessun segno , perchè le desinenze personali si
affiggono immediatemente al tema verbale, in analogia al
carattere di questa coniugazione.
Il signor Inama rigetta la denominazione aoristo 2° dei
verbi in -MI, perchè questo aoristo non è proprio di questi
verbi più di quello, che lo sia di quelli in-uj. Questo mo-
tivo è soltanto specioso. L'egregio autore sa, che nella for-
- 87 —
mologia greca, allo stato attuale della scienza, v'ha buon
dato di forme, o fenomeni formologici così irrazionali, che
mal s'apporrebbe chi da essi volesse trarre rigorose conse-
guenze. Certamente le forme è'Pnv, lòpciv, ctvuuv, eòUv, èqpuv,
ecc., dai presenti paivoi, òiòpdaKuu, YiTvuuaKUj, òuuj, qjuuj par-
rebbero giustificare il suo asserto-, ma nell'incertezza, che
regna ancora intorno a questi fenomeni della lingua, il più
sicuro spediente sembra quello di appigliarsi alle analogie.
L'utilità pratica che ne ridonda alla scuola è immensa; e
parmi, che questa non sia da disprezzare, quando non si
tratti addirittura di una bestemmia scientifica, di fare omag-
gio al puro empirismo.
Ora il sistema della coniugazione dei verbi in -MI, preso
nell'insieme de' suoi tratti più generali, ci offre buon dato
di analogie, appunto per la classificazione di quelle forme.
E, a proposito di certe anomalie d'inflessione, che presen-
tano alcune forme verbali, si compiaccia il signor Inama
di leggere, ciò che scrive Jacopo Grimm in un passo
della sua Grammatica Tedesca (2' Edizione , Parte I ,
pag. 967). — H Quando considero certe anomalie nella coniu-
gazione del verbo, egli dice, io sono tratto a credere, che la
coniugazione nel processo del tempo sia come a dire uscita
di carreggiata, ed abbia smarrita la coscienza del suo pieno
e legittimo svolgimento, così che si presentano certe incoe-
renze e quasi a dire mescolanze d'inflessione » . — Certamente
questi lenti adattamenti alla lenta opera di detrito e scadi-
mento, hanno scampata la coniugazione dalla rovina. Si pensi
soltanto alle forme verbali del tedesco moderno: ìveiss, kanu,
mag, begann; si vedrà come la significazione d'azione prete-
rita, che s'è depositata in queste forme, ha cacciato di posto
il presente, e poi coU'aiuto della coniuga\ione debole^ v'ha
sovrapposta una nuova forma di perfetto (confr. nnisste,
konnte).
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Nel greco invece il procedimento avvenne in senso op-
posto, cioè l'alterazione nel significato ha spinto la forma di
presente verso la coniugazione debole (in-uj). Così che
l'analogia ne pare che regga.
Il signor Inama si chiarisce contrario alla appellazione di
aoristo debole e forte^ introdotta dal Curtius nella gram-
matica greca-, e ne dà qualche ragione al § 220 segg. — Lo
Schleicher invece chiama semplici e composte queste forme.
{Comp., §§ i83, 188). E ciò è conforme alla scienza. Questo
solo dovrebbe mostrarne, che qualche grossa questione v' è
sotto, e da non saltarsi a pie pari. È noto che il Curtius
ha foggiato que' due appellativi sull'analogia della gramma-
tica tedesca, come l'ha fondata il Grimm :, e ne porge le ra-
gioni ne' prolegom^eni alla teorica della flessione del verbo.
{Comm.^ pag. 90-91 della versione del Miiller). Il concetto
di forte e debole nasce di qua, che certe radici verbali, cioè,
sembrano avere in sé tanto di vigorìa e quasi di forza inte-
riore da produrre un cambiamento fonetico nella vocale ra-
dicale. [Ablaiit - deflessione - passaggio da un suono ad
un altro, ha chiamata il Grimm codesta legge). Deboli per
lo contrario si addimandano quelle forme, nelle quali non
ha luogo mutamento nel suono vocale della radice, ma che
nascono per aggiungimento esterno di sillabe.
Questa delle forme forti è tal virtù della lingua tedesca,
che ne attesta l'alta antichità, ed è fenomeno strettamente
connesso all'organismo interiore della medesima. Evidente
è pure che la coniugazione forte tedesca è l'originaria, dalle
movenze libere e quasi coscienti. L'inflessione forte scade
via via, e si dilegua, lasciando il posto alla debole. Questo
è il procedimento storico della lingua tedesca. Che qualche
cosa di analogo ci presenti l'insieme dell'organismo della
coniugazione greca, non è chi non veda. Per ciò saremmo
anche noi inclinati a seguire il Curtius. Nella pratica certo
quella denominazione à\ forte e debole non presenta gravi
inconvenienti, ed ha il vantaggio di avvezzare il ragazzo ad
un modo serio e razionale di considerare l'involuto proce-
dimento dei suoni vocali e di raccostargli la conoscenza di una
legge, che può essere facilmente dimostrata anche senza
uscire del campo dell'Ellenismo.
E qui facciamo punto con questa parte. Riassumendo di-
ciamo, che il libro del signor Inama offre largo campo alla
meditazione ed allo studio-, e perciò lo giudichiamo assai com-
mendevole.
Rovigo, luglio 1872.
Gaetano Oliva.
SulV origine dell' unica forma Jlessionale del nome italiano,
studio di Fra.nces,co D'Ovidio, Pisa, 1872.
Come tutti sanno, il nome neolatino sotto l'aspetto gram-
maticale si ditferenzia dal latino principalmente in quanto
questo presenta varietà di forme dette casi, così al singolare
come al plurale, e quello una sola forma così nell'uno come
nell'altro numero. Ora una delle quistioni della grammatica
storica delle lingue romanze sta nell'origine di questa unica
forma del nome, cioè stabilire se vi sia caso, e quale sia quel
caso, che nel deperimento della lingua latina abbia, per così
dire, sopravissuto agli altri e dato forma al nome neolatino
così al singolare come al plurale.
Questa materia è stata variamente trattata da vari, e la
dottrina ora prevalente circa l'origine della forma nominale
è quella del Diez, il fondatore della linguistica neolatina, che
vede generalmente nel singolare una forma risultante da quella
dell'accusativo, e nel plurale una forma che per l'italiano s'im-
pronta essenzialmente dal nominativo della i* e 2'' declina-
zione, nel francese e nelle altre lingue dell'Europa occidentale
dall'accusativo. Il D'Ovidio prendendo a trattare questa qui-
stione, principalmente in quanto riguarda il nome italiano,
- 90 -
dopo passate in rassegna le varie opinioni e segnatamente
gli argomenti allegati dal Diez per la propria tesi, finisce per
dichiararsi partigiano di quella dottrina la quale, professata
fra gli altri dal Pott, dal Gorssen e dallo Schuchardt, con-
sidera la forma unica del nome singolare delle lingue neolatine
come risultante generalmente dalP unificazione de' casi se-
guita per logoramenti fonetici delle forme latine che, perdendo
la 5 e la m finali del nominativo e dell'accusativo, vennero a
confondersi in una, onde, per esempio, da lupus e lupum ne
venne lupu (lupo), esteso poi anco agli altri casi. Questa sa-
rebbe in sostanza la teoria del D'Ovidio circa l'origine della
forma del nome al singolare, ad eccezione, ben s'intende, di
quei casi particolari, in cui la forma procede manifestamente
dal nominativo, come per es. in ladro da latro, sarto da
sartor, moglie da mulier, uomo da homo tcc.^ o da forma
comune al nominativo ed accusativo, in quanto il nome è
neutro, come per es. in cece da cicer, pepe da piper, uopo
da opus, corpo da corpus ecc.
Quanto al plurale, il D'Ovidio deduce la forma nominale
di 1*^ e 2^ declinazione dall'ablativo, che perdendo la s finale
avrebbe dato per es. da coronis, asinis coroni, asini. L'z finale
dei nomi di prima sarebbe passato e fissatosi in e, perchè il
nominativo era in e {ce), quindi da coroni corone \ dove che
Vi di quelli di seconda sarebbesi mantenuto, perchè il nomi-
nativo finiva in i. Veramente noi non sappiamo compren-
dere perchè il nome plurale della i^ e della 2% potendo
prendere immediate la sua forma dal nominativo, dovesse
ricorrere all'ablativo per riuscire in fine a quella del nomina-
tivo. A noi pare molto più probabile che il nominativo abbia
dato senza più la sua forma al plurale di i'^ e 2% sì perchè
terminando in vocale già per ciò solo veniva a dare una
forma la meglio rispondente al genio fonetico del nuovo vol-
gare, sì perchè le due forme in e ed /, già verisimilmente sim-
boleggianti pel plurale i due generi come pel singolare a ed
0 (m), dovevano contenere in sé un elemento di vitalità estra-
neo alle altre forme, sì finalmente perchè se fra tutti i casi
ve ne era alcuno in cui più che negli altri dovesse per così
dire conservarsi un avanzo quasi postumo di funzione ca-
~ 91 -
suale, questi non potevano essere se non il nominativo e
Taccusativo.
Nei plurali maschili e femminili della 3*^ il D'Ovidio nega
l'estensione della forma dei nomi di 2% ma vede un risul-
tato naturale e diretto di quella forma in isy che il nomi-
nativo e l'accusativo vengono non di rado ad avere presso
gli scrittori latini insieme colFaltra più comune in es'^ onde
per es. insieme con fontes, montes anche fontis, montis,
che, preferiti dalla lingua popolare, diedero poi, colla per-
dita della s, fonti, monti.
Le forme spagnolesche, quali per es. montes, naves, proprie
anche di qualche altro volgare neolatino, come verbigrazia del
logudorese, rendono inverisimile la popolarità di questa forma
in is. D'altra parte il plurale della quarta, di cui il D'Ovidio
non fa parola, adottando come fa il finimento dei nomi
della seconda, rende probabile che questa forma sia pure
stata estesa ai nomi della terza -, se non che nel plurale Vi
finale, simboleggiando, come essenzialmente proprio dei nomi
di seconda, il genere maschile, finì per essere più o meno
ripugnante ai femminili di terza, i quali, acconciatisi in gran
parte ad assumere, come i maschili, il finimento e pel sin-
golare, come quello che sessualmente in tal numero può
dirsi neutrale , di mala voglia al plurale pigliano 1'/ , che
per questo numero simboleggia il maschile-, quindi la gran
tendenza che nel parlare popolare cosiffatti nomi, pur atte-
nendosi nel singolare alla terza, hanno di passare alla prima
pel plurale, come verbigrazia in : le parte, cose importante,
grande opere., le mia ragione, le loro orazione, isvenevole
carene , le migliore stan:{e, ecc. ; esempi tolti dal Cellini,
e che si potrebbero moltiplicare all'infinito, desunti da scrit-
tori più o meno popolari d'ogni tempo e d'ogni volgare
italiano. Questa specie di simbolismo sessuale, inerente og-
gidì nella forma del nome italiano, era verisimilmente già
incoato nella coscienza linguistica del deperente latino (1), e
(i) L'appendicista a Probo, dicendo uurus non mira, socrus non
socra {An.gr., Eich. et Endl., p. 4i5j, ci fa intendere come questo
simbolismo avesse già cominciato a operare sulla forma popolare del
nome fin dai primi secoli almeno dell'era volgare.
- 92 -
non dovette essere senza una qualche influenza nel fermar
le forme delle due prime declinazioni, che vennero poscia
assunte non solo da nomi della quarta (cf. nuora, nap. socra,
sardo sogra [soci^us], tose. pop. maria, ecc.) e della quinta (cf.
rabbia, faccia, reqiiia, sardo mer. sangia [sanies]), ma anche
da molti della terza in ambo i numeri {la dota, la tossa, la
ghianda, la pasciona \_pastionem'], Agnesa ecc., lavoro, con-
fesserò, comuno, dogio [duce], consorto, sorcio, ghiro ecc.)
e tra' femminili da moki più anche solo al plurale, come s'è
visto dagli esempi riportati sopra dal Cellini.
Come crediamo si possa ammettere in sostanza per assai
verisimile la teoria propugnata dall'autore per la forma del
nome al singolare, così reputiamo improbabile quella che
egli professa in ordine al plurale.
Veniamo ora ad alcuni particolari, circa i quali avremmo
qualche osservazione da contrapporre.
A pagina 44 leggesi : « I maschili della i" declinazione
che pochi erano in latino e pochissimi rimasero nell'italiano,
mentre pel singolare conservarono la terminazione in a, al
plurale, come maschili che erano, assunsero la forma d'un
plurale di seconda {poeta-poeti) o almeno finirono per as-
sumerla, giacché in verità qualche traccia di più genuina-
mente etimologico plurale rimase nella lingua arcaica (cfr.
omicide, in Dante, Inf. xi, Sy ecc.) ». Si può dubitare se
i nomi veramente popolari conservassero l'^^ finale, peroc-
ché trovinsi , massime negli antichi, le iovmo. pi aneto, aii-
rigo, idioto, ipocrito, eremito, romito, pirato, geometro ecc.
Quanto al plurale, se la forma nasce secondo il D'Ovidio
dall'ablativo in is, sarebbe stato, parmi, più naturale per
questi maschiU ristringersi all'abbandono della s, e per es.
dOi poeti -s iar poeti. Quella traccia poi di piii genuinamente
etimologico plurale, oltre al far contro la teoria stessa della
forma procedente dall'ablativo , male s'appoggerebbe sul-
Vomicide della Divina Commedia, sì perché questa é lezione
assai dubbia, incontrandosi variamente ne'^testi omicida,
omicide, omicidi, omicidii, micidii, sì perchè, quando pure
si fosse certi che Dante avesse scritto omicide, potrebbe es-
sere un latinismo di forma usato arbitrariamente dal poeta
— 93 —
e provante nulla in ordine alla storia dello svolgimento lin-
guistico del romano volgare. Il vero riflesso popolare del
latino homicidae non avrebbe più potuto essere al tempo
di Dante se non micidi ; ma il popolo usava piuttosto in
quella vece micidiali o micidiari, derivazioni romanze da
micidio (omicidio).
A pagina 47 , dopo di avere esposta la sua teoria del
plurale della terza nato da forme in is , adoperate , come
si è detto sopra, pel nominativo e accusativo in es ^ egli
soggiunge: « Deve però anche il nominativo accusativo in
es avere avuto qualche succedaneo, trovandosi per es. in
Dante (Pz^r^., xx, 100) /?rece per j!?rea ecc. )). Quantunque
qui la lezione sia più che mai certa per far rima con fece
e vece^ pure anche qui non crediamo che questa voce abbia
qualche valore per la storia del parlare popolare, perocché
essa non possa essere altro fuorché od un ritiramento di
forma al latino, come Dante fa non di rado, massime per
la rima, ovvero, come credo più verisimile, una forma di
un femminile plurale della terza dovuta a questo stesso
principio, a cui sono da recarsi quelle altre già citate dal
Cellini, cioè a quel simbolismo sessuale, per cui Dante stesso
usava leno invece del maschile lene {Par.^ xxvni, 81), turpa
in luogo del femminino tiirpe[Par.^ xv, 145), e le force ^qv
le forci {Pai\^ xvi, 9), sincopamento di forbici^ il quale
ultimo esempio verrebbe ad essere perfettamente analogo a
prece per preci.
A pag. 41 in nota ha: « imbolo (dim. da nubes) passa a
nuvolo, indi a nugolo ». Credo che qui non s'abbia a far
con un diminutivo di nubes (che sarebbe nubecula)^ ma sì
coll'aggettivo nubiliis che adoperato, com'era, sostantiva-
mente al plurale nubila in senso di nubes ha dato il popo-
lare nuvola e con cui si connette pure il maschile nuvolo e
nugolo. L'o per i dinanzi a / in questo caso é, si può dire,
regolare, come si può vedere per es. in nespolo mespilo,
semola simila,. debole debile, fievole flebile, (ice.
A pag. 53 leggesi: « Vipistrello o pipistrello. Non può
risalire a j'e5'jt7er/z7/o, che ilio avrebbe dato iglio. È piuttosto
da un vespertillus (Diez) ». Mettendosi qui innanzi, come
- 9-1 -
fanno il Diez e il D'Ovidio, un ipotetico vespertilhis^ si viene
naturalmente ad escludere come tipo del nome italiano la
forma nominativale di vespertilio che in pipistrello avreb-
bero dato un analogo per es. di ladro = latro ^ strambo —-.
strabo ecc. La ragione di questa esclusione la dice il D'Ovi-
dio : « ilio avrebbe dato iglio » ; che vuol dire da vesperti-
lio sarebbe nato pipistriglio, non pipistrello. Confesso che
non so acconciarmi a questa cdsì risoluta sostituzione di
Inesperti II US a vespertilio., determinata solo da ragioni fono-
logiche. Se si rimuove vespertilio come forma donde non sia
possibile il venire per mere alterazioni fonetiche vipistrello,
pipistrello, per ispiegarci /a/y^/Zi^ noi dovremo anche dis-
farci di parpalio procedente da papilio e sostituirgli parpal-
liis; il che non vedo essersi fatto né dal Diez né dal D'Ovidio,
sebbene anche cotesto nome si connetta colla storia della forma
del nome neolatino. Io credo pertanto assai probabile che ve-
spertilio sia col tempo soggiaciuto ad un'assimilazione di j (J)
colla / precedente, onde vespertilio., vespertiljo., vespertillo,
vespertello., vipistrello., pipistrello (cfr. fringuello da frin-
guilla). Dell'esistenza volgare di vespertilio fa testimonianza,
oltre lo sporiiglione napolitano, forma aferetica dell'obliquo
vespertilione , anche il veneziano barbastregio , che quanto
al finimento sta a vespertilio come consegio a Consilio, fa-
megia di famiglia, e aggiugnerò, come facente doppiamente
al nostro proposito, pavegio a papilio. Il fenomeno di ve-
spertillo:=.vespertilio, cioè llozuljo (assai comune nella storia
del greco, e in qualche dialetto sardo, ecc.) è, per vero
dire, sporadico nell'ambiente toscano e nell'Italia media e
meridionale, ma non lo credo isolato^ giacché per es. in
assillo da asilus, piuttosto che un raddoppiamento di /,
possiamo scorgere un risultato di asiljus per asilus (cfr.
Diez., R. Gr., IF, p. 3oi), reso pur verisimile dall'emiliano
asej (boi., romagn.), asij (ferr., mod.), che metton capo ad
asilius, donde per via di un dim, asiliolus ne vennero poi le
forme contratte d'asiol (boi., ferr. ecc.), asieul (parm., mant.),
e per via di asilione il parm. e romagn. asion con senso
d'assillo nel primo, d'a :{onio nel secondo. Ho toccato del
ven. pavegio e del tose, farfalla, l'uno direttamente e Taltro
— 95 -
indirettamente procedenti dal nominativo papilio. Questo
nome e le altre varietà di forme che esso venne a prendere
nel romano volgare, cioè papalio, paryilio e parpalio, hanno
rappresentanze che pure attestano a loro tipo il nominativo
e presentano risultati analogi a pipistrello nato da vesper-
tilio, cioè forme originariamente nominative, in cui piuttosto
che ricorrere ad ipotetici papalliis, parpillus, parpallus,
amiamo di vedere semplicemente il fenomeno di // r= Ij.
Quindi mentre da un Iato abbiamo dal nom. papilio il
ven. papegio, friul. papei e con trapasso al femminile ven.
papegia, friul. papée (papeje), dal nom. parpalio il lomb.
parpai, cant. tic. barbai, e, con trapasso al femm., lomb. ed
emil. barbaja e, con s prostetica, sparpaja; d'altra parte,
mediante il fenomeno di // = Ij, vedo nascere da parpilio il
bresc. barbell (^=: parpilio), da papalio la forma vallanza-
schese pavalla che pvesupponQ papalio -^zpapaljo e il sardo
mer. pappagallii {pa-papalio) (i), farfalla, e da parpalio il
pur femm. tose, farfalla per parpalla (dal nom. parpalio
zizparpaljo). NqWsl f di farfalla, piuttosto che un'influenza
dell'antico alto tedesco fifaltra , secondo che congettura
il Diez., (E/. W., P, 172), si può vedere un'aspirazione
della labiale determinata da r, lettera notoriamente aspira-
tiva, secondo che avrebbe avuto per es. luogo vafarabolano,
farabolone, pev parabolano, parabolone. Tutte queste forme,
insieme colle procedenti dal tema obliquo, c^udM padiglione,
parpaglione, pabilloni (sard. mer.), mentre attestano la pre-
esistenza del nome romano volgare colla forma propria
della terza declinazione, avvalorano anche, parmi, la ve-
(i) Senza negare la possibilità dell'essere qui applicato il nome
dell'uccello a significare farfalla ( cf. nap. palomma, farfalla), credo
non improbabile che questo j^appagallu presenti una forma rigeminata
da papalio in pa-papalio (et. mer. pabassa = pa-passa da passa, uva
passola, chighiristaz=chichirista, chicrista, crista, cresta), che fattosi
papapallii , papaballu diede poi, mediante la conversione dì b in g
(cf. mer. ao-uri = buris; guraoni per burdoni, budroni da pórput;; v. log.
budrone), la forma di papagallu, che, perduto del tutto il sentimento
del valore etimologico, si potè con etimologia popolare, idest erronea,
confondere con quello di pappagallu , nome di uccello. 11 fenorneno
lluz=ljo, Ho qui sarebbe proprio a casa sua (cf. Picchia, Dell'origine
della voce sarda nuraghe, p. 17).
- 90 —
risimiglianza di un vespertilio, riflesso non solo dal ven.
barbastregio, ma pur da pipistrello, e, pel tema obliquo,
da sportiglione.
A pagina 55, a proposito di suora, nato dal nomina-
tivo soror, egli dice, che la vocale finale di suora « essendo
un a non etimologica ma analogica, si può trovar tron-
cata al contrario delle altre a {Suor Maria continuazione di
soror Maria, ove Vor finale è venuto a poco a poco affie-
volendosi e dileguandosi))). Non credo si possa dire che
suor siasi troncato perdendo Va, perchè questa vocale non
è, come dice Tautore, etimologica ma analogica, cioè perchè
è uvVa non originaria, ma sostituita ad o come rappresen-
tante tipicamente il femminile. Suora o suoro non si tronca
generalmente in suor, se non quando è seguita dal nome
della suora, come in suor Pulcheria, suor Appellagia, e
in alcuni altri pochissimi casi, come in suor mia, suorsa
(per suor sua; ci. signorso qcc). Ora in tutti questi casi
suor viene a trovarsi in condizione di voce, direi quasi,
proclitica, e si tronca per quello stesso principio per cui
verbigrazia fra si tronca da frate in fra Martino , san
da santo in san Giuseppe, don da donno in don Silvano tee.
Del resto il troncamento di suor non presenta sempre il
dileguo di un a non etimologico , giacché negli antichi pi-
sano e sanese, dove la forma intiera è suoro e non suora,
suor avrebbe fatto getto di o, vocale originaria od etimo-
logica che dir si voglia. Noterò ancora come Va di
suora, venuto ad essere parte costitutiva del tema nomi-
nale e improntante al nome la forma tipica del femminile,
debba trovarsi nella coscienza linguistica equiparato del tutto
ad un a etimologico, quale sarebbe quello per es. di donna,
di figlia, , ecc. E se questa perdita dell'^ di suora viene ad -
esser caso, se non unico, assai raro per un femminile, si
deve alla confusione che da siffatti troncamenti ne verrebbe
del femminile col maschile, essendo la più parte di siffatti
nomi etimologicamente identici nei due generi e il tronca-
mento riserbandosi naturalmente pel maschile; sicché più
non si possa dire don Berta per donna Berta, san Mar-
tina per santa Martina. Suor Maria poi, detto deirautore
- 97 —
continuazione di soror Maria, importerebbe contraddizione
a quello che egli dice innanzi, che cioè suor sia tronca-
mento di suora\ di fatti lo svolgimento delle varie forme
non può essere che questo: soror, soro, suoro, sora, siioj\i.
Soro sta a soror, come sarto a sartor, marfno a marmor,
vampo a vapor ecc. Da soro è venuto suoro come da foco
fuoco, e da suoro suora^ come da nurus mira, iiora, nuora.
Finalmente suor, per le variazioni sopraddette, potè venir così
da suora come da suoro, la quale ultima forma, già propria,
come si disse, del pisano e del sanese, che Tadopera anche
al plurale (onde per es. suoro carnali per sorelle e., St.
San., I, 2i3j e rappresentata pur oggi dal sic, sor^u, potè
in antico essere stata propria di dialetti che ebbero di poi
suora, giù fino ai tempi che ne nacque il tronco suor; sicché
questa forma potrebbe considerarsi come generalmente pro-
cedente piuttosto da suoro che non da suora.
A pag. 37 dice, parmi, troppo assolutamente, che alveare
mantenutosi popolare sarebbe diventato alviare o agliare.
Pure ammettendo la possibilità di queste forme, credo che
una delle più verisimili sarebbe stata pel toscano e quindi
per l'italiano quella di albiare. Alveus, donde alveare, per
quanto ci si riflette volgarmente in toscano, si presenta sotto
la forma à^ albioni), proprio anche del veneziano. Ho detto
una delle forme più verisimili, avuto solo riguardo alla tras-
formazione di -Ivea {Ivja), che è la parte più naturalmente
mutabile d'alveare romano pigliante forma romanza, così
neirambiente italiano come, in genere, nel neolatino. Della
verisimiglianza d'albiare farebbero anche testimonianza le
fórme albi (ferr., boi.), elbi (mod., regg.), aib (boi., ferr.)
arbi (piem.), originati da alveus, come pure albiol (ferr.),
albiceu, arbioeu, elbiceu (mil.), arbieul (berg.), ecc. da al-
(i) Albio non è registrato nel Vocabolario Italiano e neppure in
quello dell'uso toscano del Fanfani , nonostantechè questa voce sia la
sola che più legittimamente rappresenti sotto forma popolare il latino
alveus e giCi si trovi ncW Amalthea Onomastica del Laurenti lucchese
in senso di abbeveratoio da porci (Ven.,1708, On. it.-lat., p. 77).
Oltrecchè nel lucchese, si usa pure dai contadini d'altre parti della
Toscana. È pressoché superfluo il notare che alveo ò forma letterariij,
e foneticamente ibrida come volgare.
- 98 -
veoliis ; significanti tutti qualche sorta di recipiente, segna-
tamente truogolo^ abbevei^atojo. Tra le varie forme derivate
che potrei ancora citare, noterò il boi. aibarola (truogolo),
come accennante a un prototipo alveariola e così confon-
dentesi quasi di organismo con alveare^ dal quale però non
è verisimile che si derivi, venendo più probabilmente da
alreus per via del suffisso complesso -ariolo {ario-olo).
Bastano, parmi, questi cenni per dimostrare le varie foggie
che avrebbe potuto assumere popolarmente alveare {alvjare)^
anche solo considerato nella sua interna trasformazione *,
perocché, insieme con alveare^ avendo il latino anche al-
vearium^ non avvertito dal D'Ovidio, che pure fa cenno di
cochlearium sostituito a cochlear^ di là sarebbe anche po-
tuta venire una forma toscana di albiajo. Si confronti a
questo proposito la forma volgare di milvius e di qualche
nome locale derivato dai gentilizi Fulvius e Molviiis [nibbio^
Fiibbiano^ Mobbiano) e bisognerà anche riconoscere la veri-
simiglianza di forme ipotetiche quali abbiare^ abbialo rispet-
tivamente procedenti da alveare^ alvearium.
Non porrei come letterario e non popolare, secondo che
fece Fautore a pag. 69, il nome Tebro insieme con Dido^
Giiino^ margo^ temo (per timone)^ imago &cc. Tutti questi
nomi sono non solo di forma letteraria, ma hanno il loro
tipo nel nominativo latino, mentre Tebro viene da caso
obliquo (che altrimenti bisognerebbe dedurlo da un Tibei'o^
Tiberonis che non c'è), e presenta fenomeni (cioè mutazione
d'/ in e, sincope e trapasso, come di m.aschile , alla se-
conda), solo proprii delle forme popolari. L'unica impopo-
larità, che sarebbe da notarsi in Tebro dirimpetto alla
forma volgare, è il ^ per v; ma non è improbabile che
ciò devasi a una quasi nobilitazione voluta farsi dai letterati
di una popolar forma Tevro , che io , per vero dire , non
conosco, ma che mi pare assai verisimile, e che, pur pre-
sentando alterazioni varie dinanzi a Tiberini o Tibrim ,
darebbe una forma regolarissima e a un tempo somma-
mente popolare. Quanto alFo finale si confronti con Tevero
fior, e Tevaro san., aret., tee.
* A pag. 2 5, egli dice che in latino serbarono più a lungo
- 99 -
Vo nel nom. e acc. sing. soltanto ì temi in -vo. Sarebbe
stato più esatto il dire i temi in -vo^ -no e -quo^ onde p. es.
servos^ servom^ perpeiiios^ perpetuom ^ reliquos, reliquom.
A pag. 53, parlando di quelle doppie forme di nomi, di
cui l'una muove dal nominativo, l'altra da caso obliquo,
egli cita ad esempio « sage-sdpiens ^ savant-sapiénte(tn] »,
Sage non può staccarsi dalFit. savio^ saggio^ sp. e port.
sabio^ prov. sabi^ che sono il risultato di un antico sapius^
proprio del romano volgare, come si rende anche assai
verisimile dal nesapius {qui non sapit) di Petronio (confr.
Diez, Et/m. Wórt.^ P, 362).
In fine della sua dissertazione il D'Ovidio reca una lista
ch'egli dice di aver procurato di fare quanto più completa
gli è stato possibile, non solo dei nomi aventi una forma sola
procedente dal nominativo, quali per. es. sangue = sangui s^
icomo=liomo^ prete = pvesbytey^ strUyio=struthio^ vieto^=
vetiis^ ecc. •, ma anche di quelli che oltre una forma deri-
vata dal nominativo ne hanno pure una connessa coi casi
obliqui, come per es. sarto {sartor)^ sartore; ladro ^ la-
drone; ti\:{0 ^ ti'iione^ orafo [aurifex)^ orefice {aurijìce)\
moglie^ mogliera\ cespo^ cespite, qcc. Noterò come alla ca-
tegoria di questa sorta di nomi, che il D'Ovidio chiama
doppioni, si potrebbero anche aggiugnere ^e/o(i) o. fetore^
ventavolo (yentus aquilo) e aquilone^ erro e errore (se pure
il primo non viene da errare^ come per es. grido, niego
da gridare [quiì^itai^e] negare)^ nievo {nepos){;i) e nipote;
e come in cambio di cespite , forma letteraria anziché no ,
sarebbe stato meglio porre cesto^ che dà la forma popolare
procedente dal caso obliquo, e presenta una sincope analoga
a quella di oste = hospitem.
(i) Il Fanfani nel Voc. dell'uso tose, reca fleto come voce sanese,
e in quello della lingua italiana come usata dal Caporali; ma questa
parola è non solo sanese ed umbrica , ma anche aretina, romanesca
e napolitana, e appartien pure sotto la forma dì f etti al siciliano.
(2) Nievo è usato dal Pulci e nevo vive in dialetti della Liguria.
Il Voc. It. del Tramaier fa venir nievo dal fr, neveu; ma nievo è risul-
tato italiano di nepos, cosi bello e regolare, che non può esser caso
di una tale stiracchiatura.
— 100 —
Queste sono le osservazioni che ci parve di fare al lavoro
del signor D'Ovidio; ma riconosciamo di buon grado come
generalmente in esso il giovane autore non solo siasi mostrato
peritissimo della sua materia, ma abbia dato bella prova di
quel criterio storico delle lingue che pur troppo in Italia è an-
cora una dote assai rara, anche tra coloro che fan professione
di lettere e filologia; e ci rallegriamo pertanto che la linguistica
venga ad avere in questo egregio professore un valente cul-
tore, che coirinsegnamento e cogli scritti potrà certo giovar
grandemente a promuover questa sorta di studi nel nostro
paese.
G. Flechia.
Frammenti d' iscri'{ioni etrusche scoperte a Ni^^a. Nota
del prof. A. Fabretti, inserita negli Atti della R. Ac-
cademia delle scienze di Torino. Voi. VII, 1872.
Prima il Mommsen, poscia Carlo Promis sollevarono
dubbii sulla sincerità della lapide etrusca che si conserva
nell'atrio dell'università di Torino , l'unica leggenda che
appartenga alle provincie Subalpine scritta coi caratteri proprii
dell'Etruria centrale ; il Promis si fonda specialmente sulla
considerazione, che la presenza di gente Etrusca in queste
regioni non è avvalorata da ricordi storici.
Il prof. Ariod. Fabretti, così diligente nel raccogliere
gli antichi monumenti e cosi acuto nel dichiararli, dal con-
fronto che fa di questa lapide con altre scoperte recente-
mente a Sondrio ed a Nizza, pensa si debba affermare la
autenticità della medesima.
G. Barco.
Avvertenza. Delle opere filologiche inviate finora alla Direzione
della Tiivista dai signori autori od editori, sarà fatto cenno nel fa-
scicolo terzo e nei seguenti.
Pietro Ussello, gerente responsabile.
— 101 —
7 "PRETESI GEV^ITIVI SI^G0LA1{I
DEI TEMI LATINI IN -0-.
I.
Quale sia la vera natura ed origine di quelle numero-
sissime forme latine, che la grammatica empirica (sempre
^ossequiosamente fedele alle sue antiche tradizioni) ci avvezzò
a considerare come genitivi singolari della declinazione se-
conda, non si è potuto ancora dalla nuova linguistica sto-
rico-comparativa mostrare con tale evidenza che non sia più
possibile il dubbio, la contestazione, la varietà delle sentenze.
E siccome è questo un problema glottologico non poco im-
portante sì in ordine alla morfologia, sì ancora per ciò che
concerne la sintassi, così osiamo confidare che gli studiosi
lettori di questa nostra 'Rivista faranno buona accoglienza
alle osservazioni, sebbene per avventura Vl giudizio di alcuno
troppo lunghe e minute, che noi ora ci proponiamo di esporre
intorno alle diverse soluzioni che del preaccennato problema
vennero date da parecchi insigni linguisti, fra i quali ci av-
verrà di trovare taluno che meritamente ha nome di maestro.
Le quali soluzioni ben distinte fra loro sono tre e la prima
di esse si contrappone nettamente alle due altre : che, giusta
quella, i menzionati genitivi furono così appellati impropria-
mente e voglionsi considerare come schietti locativi; mentre,
secondo le altre due, noi dovremmo reputarli veri genitivi
formati col suffisso ariano -as se crediamo agli uni, o colla
primitiva desinenza -sja se agli altri diamo fede.
TUvista di filologia ecc., I. 8
102 -
IL
Lo scopo a cui tende questo nostro lavoro ci consiglia a
prendere le mosse dall'ultima fra le esposte opinioni, giusta
la quale il genitivo latino onde discorriamo sarebbe stato a
buon diritto così denominato, essendo costituito da un tema
nominale e da -sja, elemento formatore dei genitivi singo-
lari in parecchi idiomi ariani (i). È questo il parere di Leone
Meyer(2). Lo -sja^ egli scrive, « trovasi esclusivamente nell^
forme fondamentali onde il tema è terminato nel primi-
tivo a\ lo antico indiano <i^'?'^- - campo-, p. es., forma il
genitivo dg'rasja - del campo -, e, con esso si accorda esat-
tamente l'arcaico àrpoio di pari significazione, nel quale il s
cadde fra le vocali, e senza dubbio , sebbene molti lo ne-
ghino ancora, altresì il latino agri: qui il più antico oi ,
formatosi mediante espulsione del s dal precedente osj ,
venne affievolito prima in ei e poscia in i (come nel nomi-
nativo plurale agrì=à-i90\ - i campi-) e questa vocale lunga
assorbì la breve seguente, del tutto come avvenne, v. g., in
fili - o figfio -, per/F/ze, ed in aiidl - odi - per audie, audieì).
Questa spiegazione sembra vera anche al Clark (3).
E qui si noti in primo luogo che, come rettamente os-
(i) ScHLEicHER, Cotnpendium der vergleichenden grammatik der
indogermanischen sprachen, 2^ ed., Weimar, i866, § 252, p. 554-56i
(§ 143, p. 3o8-3io della nostra versione).
(2) Gedr'dngte vergleichung der griechischen iind laleinischen de-
clination, Berlin, 1862, p. 26-27.
(3) The studente s handbook of comparative grammar ecc., London,
1862, p. I 14-115.
— 103 —
servò G. Corssen (i), il 5 del primigenio -sja^ secondo una
delle leggi che governarono lo svolgimento fonico del latino,
non sarebbe svanito in questo idioma tra vocali (come suole
nel greco), ma si sarebbe trasformato in r, proprio nella mede-
sima guisa e per la medesima causa che vediamo essersi mu-
tata la sibilante nella tremola accennata in er-o per *es-Jo^ in
e?^ìi p. esil ecc. (2) e nelle parole meliorem, plurima, lares,
feriasy aras, arena, Spiirius, Fiiriiis, dari, forme classiche
derivate dalle arcaiche meliosem, plusima, lases, fesias, asas,
asena e fasena, Spusiiis, Fusiiis, dasi ecc., ed in ultimo in
qiiaero da. quaeso che si conservò anche nel latino letterario (3).
E vuoisi eziandio por mente a ciò che non il s, ma i\J sa-
rebbe scomparso, come appare dal primo degli esempi citati,
conforme alle tendenze fonetiche del latino. E finalmente
dichiariamo di non conoscere forma latina, nella quale un 0,
veramente finale (come nel caso di cui ci diamo pensiero),
vale a dire non seguito da alcuna consonante (v. g. da s),
siasi fuso coir 2 precedente in F (4).
Crediamo pertanto avere il diritto di respingere questa
teorica, come quella che non solo ci si presenta sfornita di
prove, ma eziandio non regge ad un critico esame.
(1) Uebcr aiissprache , vocalismus iind betoming der lateinischen
sprache, 2* ed., Leipzig, 1868-1870, voi. 1°, p. 768.
(2) V. la Dissertatone storico-comparativa che publicammo intorno
alla Formatone del futuro attivo uegl' idiomi italici ed ellenici, To-
rino, 1872, p. 28-3o.
(3) V. la nostra Grammatica storico-comparativa della lingua la-
tina, ecc., Torino, i872,§36, p. 156-57. V. anche Meyer, Vergleichendc
grammatik der griechischen und lateinischen sprache, Berlin. i86i-65,
voi. 1°, p. 55-6o.
(4) V. la nostra Grammatica precitata, § 5i, IV, 2°, p. 283.
— 104 —
III.
Ritschl (i), Corssen (2), Schleicher (3), Grassman (4),
Biicheler (5) ed altri (6) scorgono nelle forme latine delle
quali si tratta veri genitivi , onde la terminazione sarebbe
stata anticamente -is, che Corssen considera come un rap-
presentante affievolito d''un primordiale -as ed affatto identico
col suffisso formatore del genitivo singolare nella terza de-
clinazione. La verisimiglianza apparente di questa dottrina,
gli argomenti speciosi che si adducono a sostenerla, T atti-
tudine sua a conciliare la vecchia colla giovane scuola di
grammatici latini, e, soprattutto, il nome chiarissimo degli
uomini che se ne fecero strenui propugnatori la rendono
degnissima della più accurata disamina, mentre Tarnore del
vero esige che questa si compia colla più assoluta indipen-
denza di spirito.
Vuoisi innanzi tratto osservare, che l'esistenza di antichi
genitivi singolari latini della 2* declinazione desinenti in
(i) Passim ed ancora nei Neue plaiitinische excurse, sprachgeschicht-
lìche iintersuchungen, Leipzig, 1869, p. 117.
(2) Op. cit., l'acci., i858-59, voi., 1°, p. 2o3 e 118; 2'' ed., 1S68-70,
voi. I», p. 768-773 ecc.
(3) Op. cit., 1. e, voi. 2°, p. 452 (i» ed., 1861-62), p. 558 (2» ed.,
1866).
(4) Ueber die casusbildung im indo-germanischen (nella Zeitschrift
di Kuhn, voi. 120, p. 252).
(5) Grundriss der lateinischen declination. Leipzig, 1866, p. 36.
(6) V., ad es., le grammatiche scolastiche del Vanicek [Lateinische
schidgrammatik, i» parte, Prag, i856, p. 40), del Bauer {Die elemente
der lateinischen formenlehre , Nordlingen, i865, parte V, p. 3i) ed
anche quella del Giuffrida (Grammatica della lingua latina, Sciacca,
1870, parte 1% p. 24).
— 105 —
-is è meramente ipotetica: niuno di essi ci pervenne a
dimostrare con prova di fatto la realtà storica di questa
supposta terminazione. Questo s finale è « svanito assolu-
tamente », scrive Ritschl (i), e Corssen confessa che « le
più antiche iscrizioni latine a noi pervenute non conoscono
se non forme del genitivo singolare in -i di temi in -o-» (2).
La più solida base su cui si possa fondare sì fatta ipotesi
è la comparazione di questo preteso genitivo latino col ge-
nitivo osco ed umbro terminato in sibilante. Siano esempi
le forme osche senateìs, sakarakleis, Pumpaiianeìs
ecc. (3); le umbre Marties e Martièr, katlés e katlè
ecc. (4). Corssen reputa « impossibile il separare forme osche
del genitivo singolare come sùveis, minstreis dalle forme
latine come suei, ministri^ forme umbre quali sono katlès,
katlè dalle latine a mo' di catidi ». Ma non è punto pro-
vato che le forme latine onde qui si favella appartengano
al medesimo caso cui spettano le osche e le umbre che si
citano come loro corrispondenti : già Bopp notava che Tosco
e Tumbro non danno mai senso di locativo al loro genitivo,
mentre in latino i così detti genitivi singolari delle due prime
declinazioni sono spesso adoperati per significare stato in
luogo, come sogliono insegnare i grammatici (5). Del resto
le differenze fonetiche e morfologiche le quali distinguono
lo idioma antico della Italia media occidentale dai dialetti
(i) Op. ciu, 1. e.
(2) Op. cit., 2^ ed., voi. 1", p. 765.
(3) Enderis, Versuch einer formenlehre der oskischen sprache ecc.,
Zurich, 1871, p. LI.
(4) AuFRECHT e KiRCHHOFF, Die timbrischen sprachdenkmaler, Berlin,
1849, P- ii8. — HuscHKE, Die iguvischen tafeln ecc., Leipzig, 1859,
p. 614-15. — Enderis, Op. cit., 1. e.
(5) Bopp, Grammaire comparée des langiies indo-eiiropéennes, trad.
par Bréal, Paris, 1806-69, § 2,00, voi. 1°, p. 434.
— 106 —
orientali (i) non ci consentono di ammettere fra il primo
ed i secondi un' affinità così intima come farebbe d^ uopo
riconoscerla per non dissentire dal grande investigatore
della pronunzia, del vocalismo e delF accentuazione latina.
E , come osservò opportunamente Ebel , gli stessi temi
in -0- ci presentano in latino nominativi plurali formati ben
altramente che in osco ed in umbro, come appare evidente
a chi paragoni T -i finale di essi in latino (v. g. in equi)
coir ùs, -ds osco (p. es. Nùvlanùs) e coli' umbro -us,
-z/r, -or (p. es. Ikuvinus, lovimir^ screihtor) (2).
E non sapremmo davvero comprendere per qual cagione
sia andato perduto un s finale nella desinenza di questi
pretesi genitivi singolari dei temi in -0-, mentre si conservò
(i) Basti rammentare ai nostri lettori le tre seguenti: 1° la corri-
spondenza del e, qii latino a\p osco-umbro (lat. quis ^= osco ed umbro
pis, lat. quattiior:^ osco petora=umhro petiir-=^eo\. ed om. mavpec,);
2° l'infinito latino in -re formato ben altramente che l'osco in -u-m
e l'umbro in -u-m, -o-m (lat. dice-re , osco deicii-m\ lat. es-se ,
umbro er-u(m) ); 3° il futuro, alla cui formazione concorre in la-
tino la radice /?<, nell'osco e nell'umbro la radice es (lat. da-bi-t, osco
dide-s-t; lat. habe-bi-t , umbro habie-s-t). V. la nostra cit. Dissert.
sulla Formazione del futuro attivo, p. 33-35.
(2) Non ignoriamo che alcuni credettero primitive le forme latine
arcaiche in -es, -eis, -is, di nominativi plurali latini come duoìn-vires,
vireis , magistris. Ma sì fatti nominativi plurali dei temi in -0- non
possono essere i primitivi, dai quali mediante il dileguo del s finale
siano provenuti gli altri : che i terminati in oe, e, ei sono più antichi di
essi, né mai il s della desinenza -es del nominativo plurale andò altrove
perduto in latino. Vuoisi dunque ammettere che le preaccennate forme
con s si svolsero dopo altre sfornite di questa finale. Fra le ipotesi
escogitate a spiegare simile posteriore formazione basti accennare quella
di Bopp [Gramm. comp. ecc., § 228b, voi. 2°^ p. 40 della vers. fr.) e di
GoRssEN [Ueber ausspr. ecc., voi. 1°, p. ySG), la quale ci sembra di tutte
la più semplice e verosimile : che, giusta la medesima, i nominativi
plurali onde discorriamo derivano da temi in -i-, nei quali sonosi mu-
tali temi in -0- corrispondenti. V. la nostra Gramm. st.-comp., § 102,
p. 379-80.
— 107 —
quello dei veri genitivi appartenenti ai temi in consonante
ed in -II-. Né la teorica della declinazione latina ci sommi-
nistra esempii atti a difendere questa ipotesi. Già vedemmo
come nessuna sibilante siasi dileguata in fine dei nominativi
plurali della seconda declinazione: per ciò che spetta ai
singolari noteremo che alle forme arcaiche Cornelio , He-
renio, Sexto, che appariscono in iscrizioni anteriori alla se-
conda guerra punica, subentrarono più tardi le forme piià
antiche ancora con s. A tutti è nota Topera di Ennio e dei
suoi seguaci, i quali riacquistarono al latino quanto esso
non aveva ancora interamente perduto sotto l'azione funesta
di certe tendenze foniche (i). Indarno ci si opporrebbe il
preteso genitivo singolare in -ae, -à-ì dei temi in -a- (i* deci.),
forma che Ritschl (2) ed altri considerano come provenuta,
per dileguo di un 5 finale, da una più antica in -àis. Questa
supposta provenienza non ci sembra ancora dimostrata scien-
tificamente. Che non ne sono valide prove né i genitivi in
-aes (v. g. Heraes , Valeriaes , Dominaes , liinaes) che
irovansi solo in iscrizioni dall'epoca di Siila alla età impe-
riale più tarda ed appariscono evidentemente foggiati ad
imitazione dei greci in -r\c, (3)-, né i genitivi arcaici in -às
(p. es. terràs, aquàs , familiàs i7ionetàs), i quali vedremo
tosto essere veri genitivi che non si possono connettere coi
pretesi in -ae, à-t\ né, finalmente, la stessa forma Prosepnais^
la quale, malgrado dell' opposto parere di Ritschl (4), ci
pare non primitiva , ma rivelante l' influenza del genitivo
(i) Brambach, Die neiigestaltung der lateinischen orthographie in
ihrem verhaltniss ^xir schule, Leipzig, 1868, p. i2-i3.
(2) Op. cit., p. 1 14-7.
(3) V. la nostra Gramm. st.-comp., § 19, p. 68. — Corssen, Op. cit.,
voi. 1", p. 684.
(4) Op. cit.. p. 1 15.
— 108 —
greco, come opinano Mommsen (i) e Corssen (2). Oltracciò
non potrebbesi spiegare la lunghezza della vocale ì in -à-ì
considerando quest'z come un avanzo del suffisso latino -is
=gr. -og=ant. ind. ed ar. -as , che sempre ci si presenta
in latino colla vocale breve {-ós, -ils, is [nelle forme arcaiche
domu-'òs, domu-us, domii-is\ -ès,'is | nell'are. Apolon-cs, nel
class. Apollin-h] (3) ): ma sarebbe affatto necessario ammet-
tere con G. Curtius (4) e Schleicher (5) la origine di questo
genitivo latino da una forma fondamentale in -à-j-as, ipotesi
alla quale noi non possiamo credere , soprattutto perchè i
temi latini in -a- non ci appariscono mai in alcun altro caso
(1) « Declinatio haec videtur hybrida esse et ex genetivo Latino Pro-
serpinae GraecoqueTTepae(póvri(;quodammodo mixta ; nec raro similem
genetivum declinationis primae in es et aes offendimus in titulis grae-
cissantibus maxime aetatis labentis. » V. Inscriptiones latinae antiquis-
simae ad C Caesaris mortem, Berolini, i863, 7). 25 e 554.
(2) «.... Neil' -^/S di questo genitivo si volle riconoscere un avanzo
sporadico della più antica forma in -d-is del genitivo dei temi fem-
minili in -A- Ma si consideri, che tranne questo caso, ci si
presentano nel latino arcaico solo le forme in -d-i, -ai dei genitivi di
questi temi, non mai quelle in -d-is; che la forma Prosepnais ha
perduto il r avanti al jc, mentre fatta questa sola eccezione, il r si con-
servò nella voce Proserpina in ogni tempo ; che questa forma {Pro-
sepnais) non appare se non sopra uno specchio trovato in Etruria con
immagini di maniera greca ; che queste iscrizioni su specchi ci offrono
in buon numero nomi non latini e stranieri; e sarà forza conchiudere,
che V-AIS in questa forma non indica una primitiva desinenza del genitivo
latino più che in Eiitkhiais, né Al rappresenta il primitivo dittongo
latino ai più che nelle forme arcaiche Aisclapi, scaina, ma che in quel
luogo Prosepnais è una forma mista, derivata dalla latina *Proserpinai,
Proserpinae e dalla greca TTepaeqpóvri^, giusta il parere di Mommsen, »
CoRssEN, Op. cit., voi. i", p. 683.
(3) V. Neue, Formenlehre der lateinischen sprache, voi. i", p. 190-2,
36i-2.
(4) Y.Miscellen (nella Zeitschrift di Kuhn, voi. y, p. i56), ed il
Commento alla grammatica greca, Xvsid. da G. Muller, Torino, 1868,
p. 55-56.
(5) Op. cit., § 252, p. 558.
- 109 -
ampliati con un /. E, prima di dar termine a questa ormai
troppo lunga digressione, noteremo ancora che ai così detti
genitivi latini in -à-ì, -ae rispondono perfettamente locativi
oschi colla medesima terminazione. Né da questi pretesi
genitivi si possono separare i locativi in -ae^ v. g. Romae - in
Roma-, domi militiaeqiie, terrae mariqiie (cfr. gr. xcMa-i).
E da queste osservazioni crediamo potersi sicuramente con-
chiudere, che non genitivi, ma locativi singolari hanno a dirsi
le forme latine onde abbiamo discorso e pertanto da esse non
si può trarre verun argomento in favore della teorica di
Ritschl, Corssen e Schleicher, giusta la quale le forme sin-
golari in -i dei temi in -o-, denominati genitivi dalP antica
grammatica empirica, dovrebbero veramente reputarsi tali.
Sì fatta teorica non essendo fondata sui fatti, anzi ripugnando
a parecchi tra i fatti stessi, non corrisponde alle inesorabili
esigenze della linguistica odierna, positiva per eccellenza, e
non può essere accolta da noi, che perciò ci scostiamo,
sebbene a malincuore e reverenti, dalle orme di quei tre in-
signi maestri.
IV.
Resta ora a discutere la opinione di Bopp (i), il quale,
seguendo F. Rosen, insegnò non altro essere i pretesi ge-
nitivi singolari dei temi in -o- (come di quelli in -a-), che
veri locativi, costrutti col suffisso primitivo -/ che in latino
si allunga (2). Si accordano in ciò col padre venerando della
linguistica storico-comparativa indo-europea Ebel (3) , De
(i) Grammaire comparée des langues indo-enropéeivies ecc., trad. par
Bréal, Paris, 1866-69, § -00, voi. 1", p. 434-35.
(2) V. Schleicher, Op. cit., § 254, p. 565-570.
(3) Ein griechischer genetiv locaiiv (nella Zeitschrift di Kuhn, voi. 1 3",
p. 446-48).
— no —
Caix de Saint- Aymour (i), Merguet (-z), Schweizer-Sidler (3)
ed altri minori. Come i genitivi osco-umbri non siano punto
una ragione per respingere questa dottrina boppiana già ci
sembra avere abbastanza dimostrato nella parte precedente
di questa nostra trattazione. V'ha un'altra cagione che per
avventura distoglie parecchi cultori di si fatti studi dallo
adottare la teorica del grande tedesco : è, giusta la sottile os-
servazione di Ebel, il nostro essenzialmente moderno senso
glottico, al quale ripugna lo ammettere nelle due prime de-
clinazioni latine la mancanza del genitivo singolare (caso che
siamo usi di considerare come affatto necessario) e la sur-
rogazione al medesimo di un locativo (caso onde la gram-
matica empirica delle scuole non ci avvezzò nemmeno a
supporre l'esistenza). Ciò parrà strano a taluno, ma la evi-
denza dei fatti è ben superiore a tutti i pregiudizi che si
debbono ad una educazione intellettuale troppo impari
all'altezza della scienza odierna. Ed a dileguare ogni dubbio
addurremo piià sotto forme di locativi singolari greci e cel-
tici, le quali hanno evidentemente valore di genitivi, e fa-
remo con alcuni chiarissimi e certissimi esempii palese la
affinità esistente fra questi due casi, per la quale vediamo
eziandio spesse volte il genitivo adoperato in luogo del loca-
tivo in lingue di stipite ario (4).
(1) La langiie latine étudiée dans V unite indo-eiiropéenne, Paris, 1868,
p. 170.
(2) Die entyvickehmg der lateinischen fonnenbildimg , Berlin, 1870,
p. 77-82.
(3) Teorica dei suoni e delle forme della lingua latina ad uso delle
scuole, da noi tradotta in italiano, Torino, 1871, p. 25-27. — In due
altri lavori didattici di sì fatto genere ci sembra scorgere la medesima
opinione, vale a dire nel libro di Dorschel, Die clemente der lateini-
schen formenlehre ecc., Jena, 1871, p. 5, e nella Grammatica latina ecc.
del Pozzetti, Napoli, 1871, p. 36.
(4) Deleruck, Ablativ localis instnimentalis in altindischen lateini-
schen griechischen und deutschen, Berlin, 1867, p. 27-50.
- Ili —
Passando sotto silenzio il locativo singolare sanscrito dei
temi in -/, considerato da Bopp come un genitivo (i), perchè
questa forma è da altri in altro modo illustrata (2), ci ba-
sterà addurre a prove della nostra asserzione il fenòmeno
che ci presenta lo antico battriano, in cui il luogo del lo-
cativo singolare si adopera per i temi in ii la desinenza del
genitivo (3) , e certi costrutti greci, nei quali il locativo di
spazio e di tempo ci appare espresso per mezzo del geni-
tivo (4) , costrutti che non sono tutti stranieri allo antico
indiano, in cui troviamo, v. gr., genitivi assoluti con signi-
ficazione di locativi. E lo stesso latino ci porge, come bene
osserva il Delbriick, jm^is e Jin'e considtus o pevitiis, vale a
dire tasati promiscuamente il genitivo e l'ablativo, ond'è per lo
pili in latino sintatticamente rappresentato il locativo ariano.
Notisi ancora che in parecchie lingue arie v' ha una forma
(i) Op. cit.,§ 198, voi. i", p. 432-33 della vers. fr.
(2) Benfey, Kìlr^e sanskrit-grammatick, Leipzig, i855, §489, p. 296.
(3) Spiegel , Grammatik der altbaktrischen sprache ecc., Leipzig,
1867, p. 141. — HovELACQUE, Grammaìre de la langne ^fetide. Paris,
1868, p. 85.
(4) Scegliamo alcuni fra i molti esempii che il Delbriick Op. cit.,
I. e.) trasse da Omero, offrendoli ai nostri lettori giusta la edizione di
Bekker (Bonn, i858):
f) oÙK "Apyeoi; rjev 'AxauKoO
(Od.,T, 25i).
oiVi vOv OÙK èOTi YuvìT kot' 'Axaiòa Tcitav,
oìjTe TTuXou \ipf\c, oOt' "Apyeoc; ouxe MuKrivri<;
[out' aÙTr|c; 'IGókìic; oùt' riTreipoio ueXaiviiq]
(Od., q?, 107).
XeXou.u€vo(; 'fìKeavolo
(II., e, 6).
xdujv oì) TTOTe KapiTÒt; àiTÓWuTai oOb' ÓTroXernei
xeijuaxoQ oOòè eépeuq
(Od., il, 117).
Si noti ancora V ini usato assai spesso in Omero col genitivo (v.
Kruger, Griechische sprachlehre , parte 2*, capo 2", §68, 40, i-3,
p. 168-69), nientrc lo zendo aipi regge il locativo.
- 112 —
sola pel genitivo e pel locativo duale (i). Dello scambio che
vedemmo essere avvenuto in latino non è guari difficile
comprendere la natura e la origine. Già De-Caix de Saint-
Aymour notò l'affinità esistente fra il senso di posi:[ione
fssa in un luogo, indicata dal locativo, ed il concetto di
proprietà espresso dal genitivo (2): e Merguet osservò che,
essendo col tempo diventata sempre piiì generale la signi-
ficazione e r uso del locativo, fu adoperato prima soltanto
alcune volte e poi sempre piiì spesso anche in luogo del
genitivo, sì che in ultimo ebbe aspetto di una seconda forma
di-questo caso e come tale fu usato-, ma siccome due forme
col medesimo valore erano superflue, così il linguaggio ri-
nunziò ad una di esse od almeno la lasciò in disparte tras-
curata , e quindi prevalse il locativo in -J presso i temi
in -a-, -e-, -0- (1% 5" e 2=* deci.), il genitivo in -ts, presso
quelli in -z-, -u- ed in consonante (3^ e 4" deci.) (3). Così
Merguet : noi per altro ricordiamo ai nostri lettori che i
temi in -0-, non porgono in latino alcun esempio di un arcaico
genitivo in -h (4).
Ed ora, parendoci di avere coi fatti ragionamenti a suf-
ficienza dimostrata non impossibile né improbabile né strana
la sostituzione del locativo singolare al genitivo di questo
numero nella flessione latina dei temi nominali in -0-, ci
accingiamo ad esporre altri argomenti dai quali, confidiamo,
apparirà provata ai nostri lettori la realtà di tale sostituzione
e la necessità di ammetterla ove si voglia spiegare scienti-
ficamente il preaccennato genitivo latino.
(1) SCHLEICHER, Op. cit.. § 257, P- ^l^'l •
(2) Op. cit., p. 170.
(3) Op. cit., p. 81.
(4) Intorno al valore dei casi in genere v. Heyse , Sistema della
scienza delle lingue, vers. del Leone, Torino, 1864, § 2i5, p. 410-14.
- 113 -
Non faremo più menzione dei già citati pretesi genitivi
singolari in -à-i, -ae della prima declinazione, i quali, es-
sendo (come abbiamo teste veduto) veri locativi, già sareb-
bero per sé soli una non lieve ragione di credere tali anche
quelli della seconda, per la stretta connessione che tra queste
due forme della flessione nominale latina ci si manifesta.
Ma la comparazione del latino col greco e col ceho ci porge
indizi più validi ancora. Ebel(i) consegna che le iscrizioni
tessale ci offrono, fatta una sola eccezione ("6p)Liao xQoviou),
dappertutto forme di genitivi singolari in -oi, corrispondenti
alle latine onde investighiamo la generazione, e, come queste,
costrutte col suffisso del locativo singolare (2). Né voglionsi
ommettere i locativi Foìkoi, Ttéboi (Eschilo, Prometeo, 272),
TTuXoi- in 7TuXoi-Tevr|(; (II., p, 64, e vp, 3o3), irav-oiKei, a\Xu-i.
A questi esempii greci si possono aggiungere ancora quelli
che ci porgono alcuni avanzi degli antichi idiomi parlati
nell'Irlanda e nella Gallia dai Celti (3). E senza punto var-
care i limiti del campo latino, noi chiederemo ai nostri let-
tori se i pretesi genitivi in -J onde si tratta possano venire
disgiunti dalle forme con pari desinenza e derivate anche
(i) Art. cìt.
(2) V. Ahrens , De graecae linguae dialectis , Gottingae, 1839-43,
lib. i", p. 221 ; lib. 2°, p. 529. Non a ragione, giusta il parere di Ebel
ed il nostro, l'insigne ellenista si mostrò inclinato a considerare queste
forme in -01 come genitivi in -010, i quali avrebbero perduto l'-o finale:
che non sapremmo davvero quali esempii si potrebbero addurre a
sostegno di questa ipotesi (v. Gruger, Griechische sprachlehre, 4' ed.,
Berlin, 1861-71, 2» parte, capo i", § 16, i, e § (2, 3, 3, p. 37 e 21). E
crediamo essersi apposto in fallo anche Duntzer {Die iirspriingUchen
casus im griechischen iind lateinischen , nella ZeitscJirift di Kuhn,
voi. 17, p. 47) nel voler scorgere come fece nell' -01 finale di queste
forme un rappresentante tessalico del dittongo ou: della quale opinione
manca evidentemente ogni prova, che nessuno certamente ammette-
rebbe come tale il tess. ui per ou nella declinazione.
(3) V. Stokes nei Beitrage ::fur vcì'gleichenden sprachforschimg ecc.,
voi. 1°, p. 334. — Schleicher, Op. cit., § 252, p. 5Go.
- lU -
esse da temi in -o-, le quali sono veri locativi, come lo stesso
Corssen confessa (i): v. g. Corinihì, supposto genitivo (col
senso -di Corinto-), da Corinthi^ locativo {- in Corinto-) (2) ;,
quinti^ così detto genitivo (-del quinto-), da quinti che il
dotto glottologo riconosce essere locativo in die quinti ,
tee. (3). Indi appare chiaramente quanto sia assurdo quel
precetto della grammatica empirica, secondo il quale i nomi
singolari appartenenti alla prima ed alla seconda declinazione
si debbono, quando vuoisi con essi esprimere stato in luogo,
adoperare nel caso genitivo^ mentre s^ insegna ad usare in
ablativo quelli della terza e della quarta (4): indi appare
(i) Op. cit., voi. i", p. 775. '
(2) Aggiungi humi, domi, belli domlque. V. Meyer , Vergleichende
darstellung ecc., p. 45.
(3) A questi locativi in i {quinti, nomi, crastini,proximi, prìstini con
die), usati come avverbii di tempo futuro, giusta il Bergk {Beitr'dge
^iir lateinischen grammatik, capo i", Halle, 1870, exc. 1", p. 143-46),
se ne potrebbero aggiungere altri in -e, v. g., quarte , quinte (in die
quarte , die quinte) , i quali hanno comune l'origine coi precedenti.
Che tutte le varie forme del locativo singolare latino dei temi in -0-
traggono origine da una fondamentale in -o-T (=gr. -0-1= ant. ind.
-è=z ar. -a-i) che divenne -ce (v. gr. in poploe pilumnoe) ed -ei, dittongo,
onde provennero -7 {populi ecc.) ed -ei, suono intermedio tra i ed é
{quarte, quinte cit.). In senso di locativo può forse essere stata adoperata
anche la voce animi nel lucreziano nec me animi fallii {De rerum
natura, I, iSy, 922, e V., 97). V. per altro Holtze, Sj^ntaxis luci'etianae
lineamenta, Lipsiae, 1868, p. 46-9.
(4) « Ablativus habitus {Locativus). Pertinent huc primum reliquiae
formae locativi, genitivos dico, qui esse videntur, sed non sunt, nomi-
num urbium et insularum, deinde domi, ruri, adverbia hic, illic, istig
peregri. Quod autem ad illos genitivos attinet, impugnandum est hoc
loco praeceptum illud obsoletum antiquiorum grammaticorum, quod
comparatione demum linguarum nostris temporibus deligentissime insti-
tutatam luculentis argumentis expulsum est, ut redire numquam possit,
hoc dico, urbium nomina, si primae vel secundae declinationis sint
numero singulari, in genitivo, sin sint tertiae declinationis vel pluralis
numeri, in ablativo poni. Cuius praecepti si quaerimus quae causa ex
ratione petita esse possit, frustra anquires et circumspicies nullam in-
venies. Immo prò ablativo loci geniyvus harum vocum poni nusquam
— 115 -
quanto sia urgente mondare i nostri ginnasii e licei da certi
pregiudizi troppo indegni della scienza contemporanea ,
affinchè non si continui a violare i sacri diritti delle intel-
ligenze giovanili e più non avvenga che Tuomo di scienza,
allorquando entra in certe scuole, si senta spinto a piangere
di compassione od a sogghignare di sprezzo.
Torino, agosto 1872.
Domenico Pezzi.
"DI C7C^C qARTICOLO "PLEONASTICO
DELL'ANTICO PROVENZALE
Se le favelle romaniche, dette dal Littré alla dantesca
novo-latine , non conservarono tutta la ricchezza gramma-
ticale del latino da cui si svolsero , nulla meno assunsero
alcune nuove forme assai importanti, e precipua è quella
dell'articolo, ad imitazione del greco e del celtico, ma al cui
proposito disse Quintiliano : noster sermo articulos non
desiderai [De istitiit. orator., I. 4).
Però Tutilità dell'articolo, e specialmente delPariicolo defi-
nito, dirò coll'egregio filologo inglese Cornvall-Lewis (i), è
potuit, sed fuit antiquissimis temporibus in lingua latina harum vocum
in singulari casus locativus in i desinens ab ablativo diversus (ut videmus
etiamnum ex formis, quales sunt ////, Sicyoni, Carthagini, Acheruitti,
niri, peregri) qui casus in nominibus, quae sequuntur primam et se-
cundam declinationem, forma a genitivo non fuit diversus (velut/^o??2ai,
Ephesi) et postca quoque permansit, quum in tertiac declinationis
nominibus posterioribus temporibus prò eo ablativus poneretur ».
HoLTZE, Syntaxis priscorum scriptoriim latinarum usque ad Teren-
tium, Lipsiae, 1861-62, voi. i", p. 66-7.
(i) An essay on the origin and formation of the romance languages,
London, 1862, p.54.
iminile
la
id.
la
id.
la.
il
id.
la
id.
a
id.
a
- 116 -
così ovvia da non recar maraviglia se s'introdusse gradata-
mente nelle lingue -, quindi tutti gl'idiomi novo-latini, senza
eccezione veruna, lo accolsero, traendolo dai pronomi ille,
illa, ed ipse, ipsa (i), il primo de' quali era già stato ado-
perato ad uso d'articolo dallo stesso Cicerone qualche rara
volta, ma di frequente poi negli atti dei primi secoli del
medio-evo.
Giovi metterci sott' occhio il quadro delle trasformazioni
fonetiche patite da que' pronomi nel diventare articoli delle
lingue romaniche :
il, lo
eh lo (2)
el, lo
le
0 (3)
ul, le (4)
(i) Anche il tedesco e l'olandese trassero l'articolo dal pronome
personale gotico, come l'inglese dall' anglo-sassone ed il bulgaro dal
paleoslavo.
(2) Lo nello spagnuolo è adoperato solo per la declinazione degli
aggettivi quando non accompagnati da sostantivi.
(3) Il portoghese adopera l'articolo el, castellano, soltanto innanzi
al nome Re.
(4) La nuova grafia rumana sostituita alla cirillica diede origine a
due sistemi, l'uno alquanto fonetico in grazia di molti segni posti sotto
o sopra alle lettere; l'altro strettamente etimologico senza verun segno
ed è quello ammesso in Transilvania per ordine della commissione
professionale del 2 ottobre 1860, e premiato dall'Accademia di Bucu-
resci il 27 settembre 1867; sistema che raddoppia le difficoltà per
imparare a leggere. Secondo il primo l'articolo scrivesi Iti , la breve
indicando che la 11 è muta; secondo l'altro bisogna sapere che la ic in
lu non si pronunzia.
Io, a vece, colle grammatiche di Klein (1780), Molnar (1810), Mar-
chi (1828), Alexi (1826), Blazewitz (1844), Mircescu (i865) ri-
conosco III per articolo , e ciò perchè tutti i nomi maschili rumani,
(eccetto quelli che nell'ultima sillaba hanno le consonanti geminate cr,
gr, tr,fl, e la vocale i) non escono in u, e se oggi lo si scrive non si
Italiano
maschile
Spagnuolo
id.
Provenzale
id.
Francese
id.
Portoghese
id.
Rumano
id.
— 117 -
Le cinque romaniche occidentali antepongono, ma stac-
cato, r articolo al nome -, la sesta, orientale, lo suffigge, al
modo stesso dell'albanese e del bulgaro.
Dal pronome ipse , ipsa trassero T articolo soltanto due
dialetti, cioè quello della Sardegna meridionale e quello delle
isole Baleari, il quale per altro ha anche gli articoli e/, es
e lo maschili, e la femminile.
Sardo maschile su femminile sa
Mallorquino id. » 50 id. sa
Ma il provenzale, limosino, occitanico, catalano o idioma
dei Trovatori che dir si voglia, ebbe ancora un altro tutto
speciale articolo, di soventi pleonastico, limitato al singolare,
che fu , a parer mio , malamente interpretato da quanti si
occuparono di questa lingua dal Barbieri nel secolo XVI al
Nannucci nostro contemporaneo.
Se ai più ciò si può condonare, non lo si può al celebre
Raynouard , che spese tutta la sua vita ad illustrare la
storia, la lessigrafia e la grammatica della lingua dei tro-
vatori. Nobili fatiche che pubblicò in dodici grossi volumi
editi in Parigi dal 1816 al 1844.
Egli, al pari del catalano Basterò {Crusca Proveuiale ^
Roma 1724), trovando di soventissimo preposto ai nomi
proprii maschili il monosillabo en , ed ai femminili na , li
registrò come significanti una qualità gentilizia e nel suo
Di'^ionario occitanico vi pose a riscontro k Signore e Si-
gnora ». Prima di lui il teste citato Basterò e dopo di lui
pronunzia e non se ne tien conto nella misura del verso ; quell' iti
adunque è il vero articolo, ed ha 1'» sonora. Nelle voci finienti in 11
sonoro si riduce al mero/ come in italiano lo innanzi a vocale, quindi
ochiid, non ochiulu.
Il Cihac, nel suo bel vocabolario etimologico del Daco-Rumano
(Francoforte 1870), sfidando l'ultralatinismo dei suoi concittadini, re-
gistra i vocaboli senza quella u finale muta, dando così ottimo esempio.
Notisi che l'articolo le si suffigge ai soli nomi maschili uscenti in e.
'Rivista di filologia ecc., I 9
- 118 -
Honnorat e Cenac-Moncaut (i) asserirono essere na aferesi
di Dona, titolo in uso anche ot^gidi nelP aristocrazia spa-
gnuola, e quanto allVw, dal Perticari e dal Galvani tradotto
sire e ser, V Honnorat lo pretende una stranissima aferesi
di mosseti , che in occitanico e catalano vale il francese
monsienr, essendo composto del pronome possessivo tìios e
dal nome senh (signore) colla perdita dell' h afona finale.
Il più grande investigatore degl'idiomi romanici, il sommo
Dìez nel suo Eiymologisches wórierbuch (Bonn, 1869, 3'
ediz.) alla voce Donno riconosce en per abbreviazione di
dom-en per dom-in e na per quella di dom-na. Malgrado
tutto il mio ossequio per quel gran filologo , io credo che
gli sia sfuggito il passo del libro che citerò qui appresso, ed
ho fiducia che non se ne adonterà, ricordevole come sono di
quanto scrisse al sig. Gaston Paris e che questi stampò nell'in-
troduzione alla sua versione francese del primo libro della
stupenda grammatica comparata delle lingue romaniche.
Che quellV;/ e quella na non siano titoli onorifici, il Ra}^-
nouard poteva arguirlo da questo solo verso di Pons de
Capdeuil da lui riferito a pagina i32 del voi. I del Cìioix
des poésies des Troubadours :
Pues morta es ma dona N' A:{alais
ed egli , per evitare di ripetere il titolo gentihzio , lo tra-
dusse così:
Depuis que morte est ma dame A^alais (2)
(i) Dictionnaire proven^al-francais ou de la langue d'oc. Digne 1846.
— Dictionnaire gascon-francais. Parigi 1867 (ad voc).
(2) Raynouard doveva tradurre non ma dame, ma madame^ perchè
ivi quel ma perdette il valore di pronome possessivo, come il mon in
monsieur e monseigneur. Basterò, già citato, stampò nella sua Crusca
provenzale madompna tutt'unito, come lo scrivevano nel 3oo gl'italiani.
Una prova che quel ma non significa mia ce la porge la crestomazia
del già nominato Dr. Bartsch ; in essa leggesi a pag. 23 1 : •< en la sua
contrada avia una dompna, que avia noni ina dompna Soremunda ».
- 119 -
Che r en non fosse un titolo gentilizio lo dimostrano
eziandio due testi pubblicati dal Bartsch nella sua Chresto-
mathie provengale (Elberfeld 1868) in uno de' quali si legge:
En semblan del gran sign N' Adam
ed in un altro en Romeiis ; chi tradurrebbe sire Adamo e
don Romeo?
Non ravvisandolo un titolo l'abate Zannoni, Accademico
della Crusca, in nota al Tesoi^etto e Favoleito di Brunetto
Latini da lui ridotti a miglior lezione (Firenze 1824), fa
sua la spiegazione data dal Redi nelle annotazioni al Di-
tirambo, cioè che « nella lingua provenzale ad alcune voci
« che cominciano per vocale era costume di aggiungere in
«principio la lettera n, come, per es., invece di Ugo di-
« cevasi Nuc »; eppure all'accademico Zannoni non dovevano
essere sconosciuti Barbieri , Basterò e Raynouard , che
almeno intendevano quella n in modo non così strano.
Se agl'italiani indagatori delTidioma occitanico potè esser
ignoto il Trattato grammaticale e rettorico compilato nel-
r anno i356 da Molinier col curioso titolo: Las flors del
gay saber , estier dichas las leys d' amors , non lo fu al
Raynouard, che fece spoglio dei suoi vocaboli e lo citò nel
suo lessico romanico (vedi al vocabolo habitiit:{).
Il signor Gatien-Arnoult pubblicò nel 1849 il codice eh' è
nella biblioteca di Tolosa, accompagnando il testo con accu-
rata versione. Or bene, in quei codice (voi. II, pag. 126)
si legge aver l'occitanico « articoli onorevoli {habitiit-{ hono-
« rablas) e sono e;z, na^ an, come en Jacmas, na Hiiga^ con
« cui si fa onoranza alla persona di cui si parla, ma si pre-
ce pone eziandio a nomi comuni, come en fìguiers, en lebriers
« e persino a nomi d' animali come en colomb , en marti
(i{VAlcedo hispida, L.) ciò ch'è uso sconveniente; per altro
(( siamo avvezzi a tollerarlo » [empero quar es acostnmat ho
siifertam).
— 120 -
Il codice mi pare si spieghi abbastanza chiaro , eppure
il signor Gatien-Arnoult inserì, dopo Yen e na^ tra due pa-
rentesi, ììionsieiir, madame, e sì che a pagina j 07 al § Do-
ctrina daqiiestas dictio senhor^ già trovasi scritto : « talvolta
« tra il titolo signore ed il nome proprio si colloca l'articolo
(( en [algunas ve^ eritrei senh ci propi nom es aquesta
« habitut:{ en) ».
Dopo ciò come mai Raynouard e successori hanno potuto
avere que' due monosillabi per titoli ? e reca sorpresa che il
dottore Bartsch, già nominato, sebbene conosca Las Jlors del
gay saber e ne abbia inserito nella sua Chrestomatìiie pa-
recchi squarci, e, per essere tedesco, sia accurato filologo,
abbia pur esso errato traducendo en con f)crr e na con frou.
I dialetti valgono, com' è noto, alle indagini filologiche ,
ed eccone una prova novella. Nessuno dei dialetti della
Francia meridionale , della Catalogna , Murcia e Valenza
possiede queir articolo en , na; bene lo ha il mallorquino.
Nella grammatica di quel volgare compilata dal sig. Amen-
guai e stampata a Palma nel i835 si legge: « Los arti-
« culos en y na solo preceden al singular de los nombres de
« persona, comò : en Juan, na Maria ; impropriamente pre-
« ceden al deciertos animales de nuestro immediato servicio,
« comò: en ros, na biava ».
Uguali spiegazioni ci porge il Figuera nel suo Dicionari
Mallorqiii-castella (Palma 1 840) -, ignaro del valore di en
in antico dice: « antepost al nom propi era lo mateis que
senor o don, y are el )>, cioè: ora vale l'articolo el. A na
più non sale al passato, scrivendo soltanto « Artide femmi-
nini en singular y se anteposta al nom propi de dona ,
còm, na Maria ».
Dopo quanto venni sponendo, spero aver convinti i cor-
tesi lettori della vera natura di quelle particelle occitaniche,
epperò ben si era apposto il Biondi, il quale nelle note alla
— 121 —
canzone di Rambaldo da Viguerasso da lui edita in Roma
(1840, p. 117) asserì che taluno le aveva considerate come
articoli. Gli spagnuoli e noi nel linguaggio famigliare usiamo
dire: la Giovanna, la Teresa^ però in quanto agli uomini
preponiamo V articolo al nome di famiglia , e diciamo : il
Petrarca, non il Francesco, il Colombo, non il Cristoforo,
il Tasso, non il Torquato , sebbene dicasi il Michelangelo
come il Buonarroti.
Da qual pronome latino derivino questi en e ita è diffi-
cile a conietturare. Forse un celtista sarebbe tratto a deri-
varlo dall'articolo celtico, giacché in Zeuss (Grammatica cel-
tica, t. I, p. 229, Gottinga i853) si legge che nel vetusto
ibernio la radice delT articolo è 7Z è le forme plenarie in ,
Ita, an, nan. Soggiungerei che negli idiomi celtici oggi vi-
venti r articolo è, neir irlandese e nel gaelico an, nel bret-
tone ami, nel gallese e manxese yn (nell'antico kimrico era
/?'). Notisi per altro che Tarticolo, giusta la lettera iniziale
del nome a cui precede , muta in gaelico la n in m e nel
brettone in r. Nel gallese e manxese dinanzi a vocale la
n si ecclissa.
Sarebbe eziandio a considerarsi che ai tempi d'Erodoto la
Gallia meridionale e Tlberia settentrionale furono ugualmente
abitate da genti celtiche (oltre i Pirenei dette celtibere) e
che debbono quindi aver avuto uno stesso idioma, epperò
potersi supporre che 1' en paleo-provenzale derivi dall' arti-
colo celtico, il quale nell'ibernico preponevasi anche ai nomi
proprii. lo, per altro, non filologo, lascierò tali indagini a
coloro che sono addentro nella scienza etimologica, pago di
aver rettificata V interpretazione di due vocaboli di quella
lingua de' trovatori che, a detta del Bembo, Salvini, Sal-
viati ed altri molti , ebbe grand' influenza nell' italiano del
trecento,
Torino, agosto 1872.
Vegezzi-Ruscali^a.
- 122 -
DI U^'ISC%IZIONE G%AFFITA
NEL MUSEO D'ANTICHITÀ DELL'ATENEO TORINESE
Quando alcuni anni fa impresi ad esaminare le anti-
caglie con iscrizioni conservate nel ricco Museo regio di
Torino, mi meravigliai di trovarvi un certo numero di vasi
d'argento, evidentemente appartenenti ad un medesimo te-
soro , sebbene nessuna notizia ci sia pervenuta né sul
luogo, né sull'epoca del ritrovamento, curiosi non solo per i
disegni, con cui sono in parte fregiati, ma anche per le iscri-
zioni graffite osservabili quasi in tutti. Allora erano inediti.
Testé il chiarissimo prof. A. Fabretti ha supplito a questa
mancanza inserendo queste graffite nel Primo supplemento
alla 7'accolia delle antichissime iscrizioni italiche^ dove si
trovano rapportate a p. 8 e 9, n° 1 3-20 e disegnate nelle tavole
16 2. Tutta volta non so per quale strana combinazione sia
sfuggito al benemerito collega il piccolo vaso n° 534, che,
se è il più piccolo di tutti, porta però riscrizione più lunga
e più interessante. I caratteri a chi abbia ì' occhio eserci-
tato a tali scritture non presentano difficoltà e chiaramente
si legge scritto in tre righe sulla parte esteriore del manubrio
abbastanza lungo:
/
ossia: MAXSIMO ET VRBANO COS:
PRI • KAL • lAN • ACCIPET VERINVS
X XIIS
— 123 -
Si badi, che secondo le leggi di questa scrittura, bene svi-
luppate dallo Zangemeister nel quarto volume del Corpus
inscripiionum latinarum, le lettere K et L di Kal. et || et R
di VERINVS sono intralciate fra loro. Che cosa voglia dire
questa annotazione, non è evidente, tanto piiì che T ACCIPET
(così si legge) può prendersi sia per accepit^ sia per accipiet;
la prima di queste spiegazioni peraltro parmi la più semphce.
Fra le molte conghietture possibili riguardo alla relazione dei-
riscrizione col vasetto istesso preferirei questa, che il proprie-
tario di esso. Verino, Tabbia impegnato a qualcheduno per
la somma di denari (ossia lire) dodici e mezzo, e che per
fissare la somma ricevuta da lui e la data dell'impegno si sia
scritta questa nota sul vaso istesso. Comunque sia (e certa-
mente altri preferirà combinazione diversa di affari parti-
colari naturalmente a noi sconosciuti e nascosti), V impor-
tanza deiriscrizione non sta nella spiegazione materiale del
contenuto, ma nella data che è ben certa e chiara, cioè il
3i dicembre dell'anno 284 dell'era volgare. L'iscrizione
dunque e' insegna ad un dipresso anche 1' epoca delle sue
compagne, e dimostra che tutte sono di più di mezzo secolo
posteriori alle famose tavole cerate scoperte nelle miniere di
oro della Dacia e che perciò possono servire come un buon
saggio della scrittura corsiva del secolo terzo. Questo non
sia detto per rimproverare l'editore di averle ammesse fra
le antichissime, imperocché nessuno dubiterà che le abbia
fatte rappresentare nelle sue tavole soltanto per la loro dif-
ficoltà e per la loro curiosità. Era sempre evidente che co-
tali graffiti appartenevano all'epoca imperiale avanzata \ ma
nondimeno una data certa era assai da desiderare.
Potrei aggiungere altre osservazioni sulle lezioni de' piccoli
vasi pubblicati dal Fabretti : ma alla Rivista filologica non
è lecito ingolfare i suoi lettori nelle minuzie pur troppo
aride dell' epigrafia. Lasciando dunque da parte quei graf-
— 124 —
fili, che come al solito non contengono se non nomi proprii,
accennerò il solo n. 14 del Fabretti, ch'egli legge:
MARINIA A POPPINO (?)
....PIA
mentre io vi lessi :
cioè: MARINIA .... ALLO EMPTA-
Il nome del venditore mi rimase dubbio , tanto più che
un nome somigliante pare ripetersi sopra altri di questi
piccoli vasi-, la lettera ottava forse è il B di questo alfabeto,
siccome apparisce chiaramente nel n. iG'^ del Fabretti, dove
ciò che egli ha letto L TILLINI è effettivamente BELLINI.
Forse anche i segni che seguono X. V si hanno da congiun-
gere aìVemptcì^ leggendosi empta denariis quinque : peraltro,
quando esaminai Toriginale, mi parvero piuttosto di mano
diversa.
Chiudo questa breve notizia rendendo le debite lodi allo
zelantissimo editore di queste curiose antichità ed esortando
que' dotti, che hanno agio di studiare gli originali, a ripren-
derli in mano ed a stabilirne definitivamente la lezione. Chi
conosce questa classe di monumenti, sa per esperienza, che
leggendoli facciamo tutti come i bambini , cioè impariamo
a camminare barcollando.
Berlino, settembre 1872.
Teodoro Mommsen.
125
DUE VARIANTI
qALLA satina "DI SULTICIA
Nella prima dispensa della Rivista di filologia^ il dotto
e cortese amico mio, prof. Giovanni Flechia, pose innanzi
le ragioni per cui è lecito dubitare della sincerità della sa-
tira della poetessa Sulpicia e pende alquanto verso T opi-
nione di I. C. G. Boot che attribuisce ad un ignoto quat-
trocentista italiano Tinvettiva della moglie di Galeno contro
Domiziano. Mi consta che il valoroso olandese ha in animo
di ritornare sopra codesto argomento ; allora verrà in ac-
concio di chiamare a nuova disamina la questione, se ve-
ramente debbasi tenere per apocrifo T unico monumento ,
qualunque ei siasi, che a noi rimanga della poesia femmi-
nile Romana.
Oggi vorrei solamente proporre due varianti che sanano,
a mio avviso, due luoghi tormentatissimi del testo.
Al verso 36: Non trabe sed dorso prolapsus, io inter-
pretai trabe per lancia-, cioè: Domiziano non si affatica,
non si travaglia nelle armi, ma se ne sta sdraiato ecc. Se
non che un amico mio congettura che il luogo sia guasto.
Si potrebbe perciò leggere : Niinc trabea et dorso prolapsus.
Il senso corre , la dizione si veste di eleganza. Gosì Vir-
gilio, Georg. II, 192: pateris libamus et auro.
Al verso 26, che nella edizione principe di Venezia del 1498
suona: Languet et immota secum virtute fa cessi t, io
leggeva: Languet, at immota serus virtute faccssit ,\q\q
a dire: fatigatus quidem sed immota virtute e stadio fa-
cessit , discedity abit. Ma neppure questa lezione mi torna
- 126 -
né torna all' amico mio innominato. Perciò sulle orme di
N. Einsio è da scriversi scniiim in luogo di seciim e inter-
pretare facessit per removere , repellere, che ha pure così
fatto significato. Il concetto per tal guisa diviene chiaro ed
onorevole pei Romani, quale volevalo la poetessa: nti victor
olympìciis immota virtute seniiim , cessationem , otium
repellit, sic Romana pubes ecc.
Colgo in ultimo l'opportunità di notare che apiiim domiis
arce moveniur del verso 53 non pecca contro la quantità
come dubitò il Flechia, perchè qui domiis non è plurale ,
ma singolare. Apium domus è nome collettivo e domanda
così Tuno come l'altro numero. Il che del resto appariva
evidente dalla Animad.XV, dove lodasi la congettura apium
domus arda moventur. Naturalmente arda non poteva ap-
partenere al numero del più (i).
Roma, agosto 1872.
Domenico Carutti.
PARTE PRESA NEL CONSIGLIO DE' PREGADI IN VENEZIA
INTO'F^NO Q^GLI S7U1>II "BELLE "BELLE LETTELE
Quando, anni or sono, percorsi i volumi della ricca col-
lezione di leggi che sotto il titolo di Capitolare de cinque
savij alla mercatantia si conservano nel celebre Archivio
(ì) La congettura ci-tata dal Carutti nsWAnimadv.XV è riportata come
segue: prò arce ingeniose Tommaseiis conjecit arcta, cwz respondet -zb
convenit; e nulla più. Come ognun vede, da questo luogo non sarebbe
da inferirsi che domus , accoppiato con un moventur solo nella va-
riante proposta dal Carutti, non possa assai ovviamente, comportandolo
il senso, prendersi per plurale.
G. F.
— 127 —
di Venezia, fra altri documenti delia civile sapienza della
repubblica ne trovai anche uno che si occupa direttamente
deirinsegnamento superiore e delle belle lettere, e come tale
mi parve meritevole d'essere conosciuto.
Cultore delle filologiche discipline, insegnante delle lingue
classiche , umanista com' io sono , non potei resistere alla
tentazione di trascriverlo, sebbene allora fossi occupato di
ben altre ricerche, e lo pubblico ora nella nuova rivista filo-
logica italiana, sembrandomi che la nobile idea, che informa
la deliberazione dei Pregadi, abbia anche oggi, come trecento
anni fa, il suo valore, perchè vera, e perchè quant' allora fu
detto per Venezia, ha il suo valore per l'Italia d'oggi, come
per tutti gli altri paesi civili, che tutti insieme tanto ancor
possono imparare pel loro vivere civile dalle vecchie carte che
ci hanno lasciati i reggitori della antica regina deirAdriatico,
Forse alcuno sogghignerà alquanto, se parmi tanto eccel-
lente ed espressione del maggior senno politico la sentenza
che si legge nella seguente deliberazione, essere la gramma-
tica il fondamento e principio di tutti li stiidii delle lettere,
eppure è verissima, come è vero che la buona scuola è il pii!i
solido fondamento della prosperità e grandezza delle nazioni,
e che, se la nazione a cui appartengo ha potuto sostenere
l'ultima terribile lotta ed uscirne vittoriosa, lo deve in gran
parte ai suoi maestri di scuola ed alla severa disciplina da
essi praticala, fino da quando cominciano ad insegnare gli
elementi di grammatica.
A parer mio dovrebbesi scrivere sopra la porta d' ogni
scuola, in cui lingue s'insegnano, « Utinam bonus gramma-
ticus essem », e siccome quegli antichi Veneziani danno la
medesima capitale importanza all'insegnamento grammaticale
che io gli vorrei dare, così riferisco senz'altro le loro parole^
che si leggono a foglio i4(? del Volume sesto del Capitolare
de' cinque sarij alla mercatantia.
— 128 -
i55i, 23 marzo.
In cadauna città ben istituita, come per graiia di Dio, et per la
prudenza deili maggiori nostri è questa nostra, si deve poner ogni
opera, che la gioventù di quella sia lodevolmente essercitata, sì che
ella non si nodrisca nell'otio, acciochè crescendo ben disciplinata possa
poi esser di utilità et di ornamento alla Republica, a se stessa et alli
suoi. Onde essendo in questa nostra città una floridissima et numero-
sissima gioventù, si deve procurar, che li sia data commodità di dar
opera alli studij delle buone lettere, acciochè per tal via possi pervenir
a quel fine, che si desidera. Imperochè non vi essendo, se non uno
solo professore publico di humanità, il qual legge a S. Marco, quelli
che habitano lontano non possano all'hora debita venir ad udirlo, et
quello che importa assai, non hanno maestri, che li insegnino la gram-
matica, la qual è il fondamento et principio de tutti li studij delle
lettere, al che si deve anco provedere, si che invitati dalla commodità
tutti li giovani nostri si accendino a voler imparare, però
L'andarà parte, che sia imposto alli Reformatori nostri delli studij
che debbano proveder quanto più presto sia possibile di ritrovar quattro
boni et valenti professori di humanità, oltre li Ecc.'"' Robertello et
Giovita, i quali già sono ritrovati et hanno il lorosalarij, con li quali
del continuo leggono, a cadauno delli quali quattro possono consti-
tuire fino ducati dusenle di salario all'anno, con facoltà di rimoverli,
quando vederanno che non faccino il loro debito, et leggendo il Ro-
bertello in S. Marco, come fa, debbano distribuire li altri cinque a
uno per sestier, come li parerà, deputando quelli luoghi che li pare-
ranno più commodi, et così constituendoli quelle bore che giudiche-
ranno esser opportune al leggere, et oltre di questi debbano li Refor-
matori medesimi dar opera di ritrovar sei buoni altri maestri di
gramma ica, i quali siano distribuiti uno per sestier, et habbino a
coadiuvar li principali maestri, et insegnar la grammatica in quel
modo che sarà bisogno, possendo dar a cadauno di loro fino ducati
sessanta l'anno.
Monaco di Baviera, settembre 1872.
Giorgio ìMariino Thomas.
129 -
CEV^V^I 'BI'BLIOG^AFICI
Aus deni Reiclie des Tantalus inid Croesus.
Voìi Dr. K. Bernard Starr-, Berlin 1872.
V era un tempo in cui V erudito, il filologo in ispecie,
avrebbe stimato far cosa poco degna di sé e della scienza
da lui professata, se in altra favella che in quella del Lazio
avesse esposti i risultamenti delle sue lucubrazioni, destinate
unicamente per altri eruditi; tempo questo in cui molto
più importava scrivere con belle frasi imparate da Cicerone,
che non dar saggio d^una vera e profonda cognizione della
vita intellettuale e morale dei popoli antichi , de' Greci e
de^ Romani massimamente , un' idea chiara e perfetta in-
somma del mondo detto classico per eccellenza. A vero
dire hon mancano nemmeno al giorno d'oggi alcuni avanzi
di questa scuola filologica, uomini, per cui tutto lo studio
dell'antichità si restringe ad imitare classiche frasi per dire
in bellissima lingua bene spesso null'altro che volgari cose
e che ben poco si curano degl' immensi progressi che le
filologiche discipline hanno fatto ai tempi nostri. Ma la più
parte degli odierni cultori di esse hanno un concetto ben più
alto e giusto della scienza filologica, come di quella che ci
deve condurre ad una vera intelligenza del mondo antico. Ed
i seguaci di questa scuola moderna non isdegnano d'esporre
in forma elegante e nelle lingue nazionali e vive quanto hanno
trovato colle loro erudite indagini, affinchè l'uomo colto,
anco quando le occupazioni della vita pratica lo allontanino
dagli studi scientifici, possa nelle sue ore d'ozio ritornare a
quel mondo antico tanto sublime di cui s' è occupato nei
— 130 -
suoi anni giovanili (i). E si fa ancora di più. Con letture
popolari si cerca di vieppiù diffondere la cognizione della
vita dei due grandi popoli dcirantichità,-a cui dobbiamo il
più solido fondamento della moderna nostra coltura, e di
far conoscere quanto di più meritevole della nostra atten-
zione ci è rimasto di essi, in quelTistesso modo, in cui
altre utili o praticamente necessarie cognizioni si spargono
mediante gli scritti popolari.
Ad una serie di tali letture popolari (2) appartiene il
breve scritto di cui m'occupo in questo cenno. È indubitato
che meglio e più chiaramente intendiamo la storia d'un po-
polo e rindole sua, se conosciamo il suolo, su cui vive ed
opera e direi quasi che certi fenomeni della sua vita ci ri-
mangono talvolta inesplicabili senza questa cognizione pre-
liminare. Ma se ad ogni uomo colto della presente genera-
(i) Basti citare quella serie di manuali pubblicati dalla ditta Weid-
mann di Berlino, che hanno per iscopo di diffondere sempre piìi
l'intelligenza dell'antichità, e fra i quali sono comprese opere come
Vlstoria Romana del Mommsen e la Storia Greca di Ernesto Curtius
che hanno avuto già tre edizioni certamente non consumate dai soli
filologi della Germania e di altri paesi. La prima di queste è, sebbene
non troppo felicemente, tradotta in italiano, la seconda meriterebbe
assai di esserlo.
(2) La raccolta è intitolata: Sammlung gemeirnverstandlicher wissen-
schaftlicher Vortrìige, herausgegeben von Rud. Virchow iind Fr. von
Holt^endorf, Berlin, V. G. Luderitz (Cari Habel):essa nelle sette serie
o 168 fascicoletti finora comparsi percorre il vasto campo dell'umano
sapere per renderlo popolare, ed ha fatta larga parte anche all'antichità
greca e romana. Infatti, in essa sono compresi i seguenti scritti di va-
lenti autori che qui c'interessano maggiormente: Meyer, Stimm^und
Sprachbildung; Steinthal, Mythos iind Religione Arnold, Sappho;
RiBBECK, Sophocles undseine Tragoedien ,- Oi^ckeìì, Aristoteles; Zeller,
Religion der R'ómer; Iordan, Kaiserpallaeste in Rem; Nissen, Powpeij,
DoEHLER, Die Orakel, argomenti questi che certamente sono d'interesse
generale, e che tradotti in italiano e raccolti in un volume trovereb-
bero i loro lettori e contribuirebbero forse un pochino a diminuire
il malumore che nelle famiglie si nutre contro quel greco e latino
tanto inutile nell'odierno andamento pratico del mondo.
- 131 -
zione riesce facile una visita all' Italia , ed a Roma , che
nella sua novella condizione di Capitale del Regno fors'anche
ha una nuova attrattiva, alquanto più difficile è ancora il vi-
sitare il sacro suolo della Grecia, massime quando si voglia
penetrare neirinterno del paese od inoltrarsi in quella parte
dell'Asia in cui un tempo fiorirono città greche, sedi di splen-
dida cultura. Pochi essendo quelli che possono accingersi a
tali viaggi, si leggono volentieri gli scritti di coloro che hanno
potuto vedere queste contrade e che ce le sanno descrivere
con vivaci colori in modo che quasi le vediamo noi stessi.
Uno di questi è il nostro autore e i lettori lo seguiranno
volentieri in una escursione ch'esso in compagnia di Ernesto
Curtius, del maggiore Regely , del consigliere Adler e dei
dottori Gelzer e Hirschfeld intraprese da Smirne nella val-
lata inferiore dell'Ermo per ricercare le traccie de' regni del
mitico Tantalo e di quel re cui le sue ricchezze non meno
che la sua amicizia coi poeti e coi filosofi della Grecia re-
sero celebre^' escursione questa ormai più facile dacché la
valle dell'Ermo è almeno in parte percorsa da strada ferrata.
E così il nostro autore , dopo aver stabilito non doversi
cercare la reggia e la tomba di Tantalo là dove alcuni al-
tri la vollero trovare, cioè nelle vicinanze di Cordileo, ci
conduce rapidamente al Sipilo, al centro d'un antico regno
in cui l'agricoltura, l'allevamento del bestiame e la cultura
della vite era fiorente, regno che sino dagli antichissimi
tempi s' era avvicinato al mare ed aveva relazioni con la
Grecia e specialmente col Peloponneso. Inoltre la terra ivi
nascondeva nel suo seno grandi ricchezze v di preziosi me-
talli , che diedero origine alle leggende orientali de' fiumi
auriferi: ma queste terre erano anco soggette ai più violenti
sconvolgimenti ed alle vulcaniche eruzioni, e queste unite a
grandi migrazioni di popolo diedero il crollo a quell'impero
di Tantalo, tanto celebre nella mitologia greca che è prezzo
— 132 —
delTopera lo esaminarne le sedi colla guida del nostro au-
tore.
A formare il mito di Tantalo — questo è evidente per
chi studia i luoghi — contribuirono tanto la storia quanto
i fenomeni naturali. In lui vediamo la piiì grande felicità
umana ed indi la più precipitosa rovina. Egli, figlio di Giove
e di Pluto, cioè dell' abbondanza, convive col padre e co-
gli altri Dei, come coi suoi pari, ammesso alla loro mensa
per saziarsi di ambrosia e di nettare, è il confidente dei
loro segreti, ma non sa reggere a tanta felicità ed è per i
suoi trascorsi crudelmente punito dai suoi antichi commen-
sali, affinchè i mortali imparino
TàvGpuuTTeia |ufi crépeiv à*fav (1).
Ma non solo egli, anche i suoi figli furono tracotanti e
sventurati, Pelope non meno che Niobe , celebrata come
dalla poesia così dall'arte plastica antica (2). Appunto di lei
rimane un monumento a Sipilo ed è egregiamente descritto
dal nostro viaggiatore. Siccome le pagine in cui egli ci dà
contezza delle sue indagini su\Vi}?iniag-ine di Niobe sono un
ottimo commento ad alcuni passi di greci scrittori (3) , mi
(i) Eschilo, Frammenti della Niobe, ed. Dindorf., p. ni. Per il mito
di Tantalo v. Preller, Mitologia greca, li, 38 1.
(2) Giova ricordare il famoso gruppo della galleria di Firenze; confr.
Stark, Niobe imd die Niobiden, Lipsia 1864.
(3) TaÙTr]v tì^v NióP^v Kai oùtò^ eiòov , àveXGubv èc; tòv ZittuXov tò
opoc; • r\ hi TiXriaiov jnèv irérpa Koii Kprmvót; èaxiv oùòèv irapóvxi oyj\\xa
-napexóiaevot; Y'JvaiKÒq ouxe à-Wnìc, oOre irevOoucTTn;. €l òé y^ "noppujTépui
févoio, òeòaKpuu)uévr|v òóEei^ ópav kcI Karricpf) YUvaiKa. Pausania.I, 21, 3.
Conf. Quinto di Smirne, Posthom., I, 299, e seg.:
fixi Geoi Nió3riv Xaav Qiaav, rit; eri òòtKpu
TTOuXù \xò.\a aTuqpeXfj;, KaTaXeipexai ùv(jó6i Trérpric,
KOÌ oi auaxovaxouai poaì iroXurixéot; "€piaou
Kai Kopuqpaì ZittùXou Trepi|LiriK6cc, lDv KaSùirepBev
èxSpi'i liiTXovófaoiaiv dei TrepiTréxax' òiaixXii '
r) òè TTÉXe laéYa GaOiaa irapeacfuiaévoiaiv ppoxolaiv,
ouvek' è'oiK€ YwvaiKÌ ttoXuoxóvuj, fix' èiri XuYpi4J
TiévGei fiupo|Liévri |udXa fiupia òdKpua x^^ei*
Koi xò ]uèv dxpeKeiuje; cprjc; ?|ainevai, óttttóx' dp' aùxiiv
xriXóGev dOpriaeiaq* èiriiv òé oi èYYÙ<; 'inviai,
fpaivexai aÌTTì'ieaaa -rréxpii ZittùXoió x'diTo^^iuE.
— 133 -
sarà lecito di qui riferire le sue parole intorno a quello che
anch'oggi il viaggiatore vede, quando, passata la stazione di
Manissa (l'antica Magnesia), si avvicina al Sipilo. Tutt'una
rupe scoscesa ivi è lavorata dalla mano d' uomo e tagliata
come una cornice quadrata, in cui una nicchia, alta trenta-
cinque piedi, ed in essa sporgente in altissimo rilievo la figura
delia desolata madre, che nella sua parte inferiore dal grembo
in giù assume sempre più forme architettoniche. La gran-
dezza della figura è quattro volte la naturale, con la testa
relativamente grande: le ginocchia sono strette al corpo,
seduto su un seggio ancor visibile d'ambo le parti, con uno
sgabello sotto i piedi ed inferiormente a quello un appoggio,
considerato come la tomba dei figli uccisi dai dardi del Dio.
Le braccia della Niobe si veggono chiaramente: esse posano sul
grembo. Avvicinandosi l'osservatore certamente non iscorge
lineamenti umani nella parte della figura, che rappresenta il
volto: ma questa parte è percorsa da strisele più oscure e
più chiare formate dall' acqua, che la più parte dell' anno
scorrono giù per la rupe. Anche al margine inferiore della
nicchia si distingue chiaramente il lavoro dell' artefice e
dovunque di là tu volga lo sguardo, vedi la mano del-
l'uomo, il quale ha levigate le rupi, tagliate nicchie, allar-
gate le caverne naturali , scavate sepolture , eretti altari
sopra cime sporgenti, praticati pozzi : insomma niun dubbio
possibile - lo osserva già Strabone - sull'esistenza della città
di Sipilo, il centro del regno di Tantalo, distrutta in tempo
antico da invasioni straniere e dalle forze della natura, che
molte volte , e da ultimo neh' anno presente , ha scosso il
suolo in tutta questa regione.
Se poche traccie rimangono d'un grande e florido centro
di potenza appartenente ai tempi mitici, non molte più si
scorgono nemmeno di quello d'un altro regno ampio e po-
tente non solo nella remota antichità, ma eziandio in tempi
lijvista di filologia ecc.^ I. io
- 134 -
posteriori, rischiarati dalla piena luce della storia e d' una
città il cui nome rinveniamo molte volte negli storici del-
l'antichità ed anco del medio evo bisantino, città cui conosce
pur anche il giovinetto che ben poco di greco ha letto fuor-
ché la sua Anabasi, Sardi voglio dire, visitata anch'essa dal
nostro erudito. La storia di Sardi comincia otto secoli prima
deirèra cristiana: prima abitata dai Meoni, fu importante,
ricca e grande sotto Lidi e Persiani , Greci e Macedoni ,
distrutta Tanno 1 7 dopo Cristo, fu ricostruita per essere rag-
guardevole luogo ai tempi degli imperatori di Roma e di
Bisanzio - lo Starck ci espone per sommi capi ma splendi-
damente questa interessante istoria (p. 45-56) - e non ri-
mane deserta, se non alcun tempo prima che il terribile Ta-
merlano devastasse tutta questa parte dell'Asia, quand'ebbe
sconfìtto Bajazette Ildirim ad Angora (1). Ed ora, quelle
una volta fertili e ridenti pianure sotto il Tmolo, percorse
dall' aurifero Fattolo e dalla grande strada regale persiana
che conduceva ad Egbatana, sono una landa incolta e de-
serta-, e della splendida Sardi e della reggia di quel potente,
la cui ricchezza è rimasta proverbiale, che ne rimane? Pochi
avanzi esattamente descritti (p. 38 e segg.) dal nostro autore,
cui in questi cenni non possiamo seguire nei minuti particolari
che dà, dovendoci limitare ad invitare gli studiosi a ricor-
rere al ben interessante libretto istesso che non ha se non
59 pagine , ma è ben degno della penna da cui esce ed è
pur anche corredato d'una piccola carta geografica e di una
veduta delle rovine di Sardi come oggi si presentano al
viaggiatore. Per la scienza archeologica in genere non pos-
(1) Sardi era del tutto deserta già prima della invasione di Timur,
dacché in un documento autentico dell'anno 1 382 si legge : xrì toO KaipoO
àvuj|ua\ia ai Tàphexc, iìqpavia9riaav, djq |ur]òè (JX^I^oi iróXeiui; irepiauj^eiv.
Acta Patriarchatus Constantinopolitani, ed. Fr. Miklosich e 1. Mialler,
Vind. 1862, II, p. 46.
- 135 —
siamo a meno di augurarci che possa comparire presto l'opera
grande che lo Stark prepara insieme co' suoi compagni di
viaggio, dacché essa ci darà esatto conto di tutto quello che
gli esploratori hanno trovato di avanzi antichi di Sardi e che
potranno stabilire intorno alla topografia della città di Creso.
Torino, seitembre 1872.
G. MULLER.
Ephemeris epigraphica, corporis inscripiioniim latinaritm
siippìementiim^ edita iiissu Institiiti Archaeolog-ici Ro-
mani. Venit Romae et Bettolini, in-8.
Come in altre discipline parecchie , cosi anche nell' ar-
cheologia tiene oggidì V AUemagna incontrastabilmente lo
scettro. In servigio di essa fondavasi fin dal iS-icj Vlstituto
archeologico di Roma, per opera principalmente del Ger-
hard, del Bunsen, e di alcuni altri, la più parte tedeschi ,
pigliato poco dopo in protezione dal principe ereditario di
Prussia, che, diventato poi re Federigo Guglielmo IV, fini
per annetterlo alle istituzioni sorrette col denaro della co-
rona. Al giornale dell'Istituto collaborarono poscia, insieme
con alcuni italiani, i più chiari archeologi dell' AUemagna,
quali un Boeckh, un O. Mùller, un Curtius, un Lepsius ,
un Mommsen , &cc. Secondo gli statuti firmati il 2 marzo
1871 dal re Guglielmo a Versailles, l'Istituto ha per fine di
« ravvivare e regolare nel campo dell' archeologia e nei
campi affini della filologia le relazioni fra la patria dell'arte
e della scienza antica e le ricerche degli eruditi, e pubbli-
care i monumenti novamente scoperti nel modo più rapido
e soddisfacente ». Gli scritti che esso manda fuori mirano
quindi principalmente a far conoscere ed illustrare tutte le
scoperte degli scavi, massimamente in quanto si riferiscono
— 13() —
all'arte, alla topografìa e airepigrafica. Per parlare solo di
quest'ultima, colla quale appunto s'identifica la pubblica-
zione sovrenunciata, noteremo come essa, in quanto è scienza,
venga a ricevere uno stabile fondamento principalmente dal
Corpus inscriptionum latinafiim, opera colossale che pub-
blicasi a Berlino sotto la direzione di quell'Accademia delle
Scienze, e di cui sono già usciti il voi. I. Antiquissimarmn
ad Caesarìs mortem, pubblicato dal Mommsen nel i863, il
II. Hispanarum, pubblicato dall' Hìibner nel 1869, il IV.
Pompeianarum, pubblicato dallo Zangemeister nel 1871, e
finalmente la parte prima del voi. V. Inscriptionum Galliae
Cisalpinae che si pubblica per opera del Mommsen. Connessi
colla pubblicazione del Corpus sono ancora il bel volume
Priscae latinitatis monumenta epigraphica ad arclietypo-
rum fìdem exemplis lithographis representata ^ pubblicato
dal Ritschl, le Iscri:{ioni Renane dal Brambach e le Cri-
stiane di Spagna dall'Hubner.
L' efemeride epigrafica soprenunziata è una conseguenza
del Corpus , al quale essa è come destinata a preparare i
materiali e servir come di fondamento pei supplementi che
si verranno di poi pubblicando e che formeranno una specie
di supplemento perpetuo-, tale essendo la natura di que-
ste raccolte che siano per accrescersi del continuo, con ri-
cevere quelle iscrizioni che possono via via scoprirsi princi-
palmente per mezzo di scavi, fattisi tanto in Italia, quanto in
tutte quelle che furono province dell' Impero romano. La
compilazione di questo giornale, quantunque pubblicato a
Berlino, pur viene da quell'Accademia principalmente affi-
data alla cura di coloro che già sovrintendono all' Istituto
archeologico di Roma. Al qual proposito giovi recar le pa-
role stesse dell'avvertenza che viene premessa al primo fa-
scicolo: Nani ut Italia et in Italia maxime iirbs aeterna
hormn studiorum origo est et domicilium, ita Institutum
— 137 —
illud ad ipsum quo nos tendimus, etiam ante sponte sua
iètendit nulliimque hodie extat promptuarium inscriptio-
mim Latinarum nuper repertariim minus imperfectum quam
sinit acta eius maiora minoraque. lam Ephemeris haec licei
ibi edatur, ubi editur Corpus, cuius non est nisi accessio
aliqua et auciarium^ erit et ipsa Jnstituti archaeologici Ro-
mani, speramusqiie fore, ut coniunctis curis Italorum Ger-
manovumque, quorum illis haec studia patria sunt, Jiis iam
adoptiva, adiunctis item ceterarum nationum a communibus
litterarum studiis non abhorrentium officiis, hic inscrip-
tionum Latinarum recens repertarum thesaurus per annos
futuros fontis perpetui instar scaturiat.
I due fascicoli finor pubblicati comprendono le giunte
d^iscrizioni venute ai volumi I, II e IV del Corpus sopra
mentovati. Non essendo possibile che le iscrizioni nova-
mente scoperte somministrino materia che possa alimentare
di per sé sola il giornale, vi si aggiungono perciò scritti trat-
tanti soggetti connessi colle iscrizioni già pubblicate. E così
in questi due primi fascicoli, mentre vi sono per le giunte
d'iscrizioni colle relative dichiarazioni solo pagine 5o incirca,
le 100 rimanenti vengono occupate dagli scritti suddetti che
sono: otto del Mommsen, cioè: I. Ursus togatus vitrea
qui privius pila ; II. De Jiiniis Silanis ; III. De fide Leon-
hardi Gutenstenii ; IV. Grammatica ex Actis Arvalium; V.
De Diocletiani collegarumque nominibus erasis ; VI. Quin-
quefascalis titulus Cirtensis ; VII. De titulis C. Octarii
Sabini cos. a. p. dir. ccxiv, Vili. Titulus atticus Frugi
et Pisonis ; uno del Wilmanns: De praefecto castrorum et
praefecto legionis; uno del Dittenberger : De titulis non-
nullis atticis ad res Romanas spectantibus; uno del Bor-
mann : De qunrundam aedificiorum publicorum urbis Ro-
7nae titulis. Dal semplice annunzio di tali scritti e dei loro
autori ognuno di leggeri comprende, quanta importanza sia
— 138 —
per avere siffatto giornale per tutti coloro che s' occupano
di archeologia, di storia e di filologia in genere.
Gli editori di questo giornale, che sono per Tltalia (Roma)
THenzen e il De-Rossi, per TAllemagna il Mommsen (Ber-
lino), e il Wilmanns (Dorpat), invitano tutti coloro, a cui
cale punto di questi studii, a volervi contribuire, sia comu-
nicando iscrizioni novellamente scoperte, sia somministrando
quelle osservazioni che credessero a proposito. E siccome
questo giornale sarà, come il Corpus, tutto in latino, così
gli scritti che fossero per avventura trasmessi in italiano ver-
ranno per cura degli editori voltati nella lingua del Lazio (i).
G. Flechia.
NoNii Marcelli peripatetici tiibursicensis. De compendiosa
doctrina ad jìliiim, coUatis quinque pervetustis codicibus
nondum adhibitis cum ceterorum librorum editionumque
lectionibus et doctorum suisque notis edidit Lud. Qui-
CHERAT. Parisiis, ap. Hachette et socios, 1872.
In un'epoca in cui con tanto lodevole diligenza e operosità
si cerca di rimediare, per la conoscenza delle lettere antiche,
ai guasti del tempo e di riunire i frammenti di antiche opere
perdute, par singolare come abbia potuto mancare tanto a
lungo una buona edizione dell' opera di Nonio Marcello
che pure è sì ricca di frammenti di antichi scrittori latini
(i) Usciranno di questo giornale quattro fascicoli ogni anno, di quattro
o cinque. fogli ciascuno; e così tanto da formarsene un giusto volume,
ognuno de' quali sarà corredato degli indici opportuni. L'associazione
si può prendere in Italia all'annuo prezzo di L. 8 5o (talleri 2), cosi
presso l'Istituto archeologico di Roma, come presso il libraio Loescher
(Torino, Firenze e Roma). Franco a domicilio per tutta Italia a L. 9.
— 139 —
dei tempi repubblicani. In parte ciò si spiega per questo
che appunto il numero e la varietà degli scrittori, di cui
queir opera conserva frammenti, rendeva necessario che la
purificazione di quel testo si andasse effettuando grado
grado mediante Topera di uomini dotti che a ciascuno o a
ciascuna categoria di quegli scrittori consecrassero ricerche
e lavori speciali. Quest' opera lenta e collettiva era tanto
più necessaria per Nonio che il testo di questo scrittore es-
sendo, cornee ben noto, straordinariamente corrotto nei ma-
noscritti, assai più per esso dovevasi contare sulla critica
congetturale che sulla diplomatica. Così pecca per la base
la sola edizione moderna che esistesse di Nonio , quella
di Gerlach e Roth, i quali di altro non han voluto ser-
virsi che dell'autorità dei manoscritti per istabilire il loro
testo, dal che è avvenuto che, come tutti sanno, quella edi-
zione offre un testo talmente impossibile che mal si rico-
nosce in essa un lavoro filologico del secolo in cui viviamo.
Ormai però Topera che si richiedeva per maturare una edi-
zione di Nonio può dirsi fatta in gran parte, poiché pochi
sono i frammenti di scrittori antichi contenuti in quel libro
che non siano stati esaminati criticamente in raccolte, in
edizioni, o in lucubrazioni filologiche o storiche di natura
speciale. Nondimeno riman sempre un arduo lavoro il dare
un'edizione di Nonio, e forse l'infelice sperimento di Ger-
lach e Roth e la pertinace erroneità dei manoscritti cono-
sciuti ha scoraggiato fin qui i dotti dall' intraprenderla. A
questo scoraggiamento però non ha soggiaciuto il sig. Qui-
cherat, il quale da ben trent'anni si è andato occupando di
Nonio, adoperando a procacciarne una soddisfacente edi-
zione tutti i mezzi dei quali si può disporre oggidì.
Il signor Quichcrat ha veduto bene che dare una edizione
di Nonio senza introdurre lezioni che risultassero da critica
congetturale era un procedere assurdo e ingiustificabile. Ha
— 140 —
fatto uso adunque di quanto era stato proposto da vari cri-
tici, sia che si occupassero direttamente di Nonio, sia che
specialmente si occupassero di taluno degli scrittori da questo
citati: alle congetture altrui adoperate criticamente ha ag-
giunto anche congetture sue e delle varie lezioni congettu-
rali adottate o non adottate nel testo ha reso conto nelle note.
Così la sua edizione differisce essenzialmente da quella di
Gerlach e Roth ; essa offre un testo possibile e leggibile ,
mentre quei due dotti non accettando nel testo nulla che non
si trovasse nei manoscritti, si son rassegnati ad accettare un
grandissimo numero di lezioni non soltanto dubbie ma pal-
pabilmente e grossolanamente erronee, prive affatto di senso
e grammaticalmente impossibili. Non ha però rinunziato il
signor Quicherat a trarre dai manoscritti quel miglior partito
che per lui si poteva, ed ha fatto uso per questa sua edizione
di cinque manoscritti o non adoperati o solo in piccola mi-
sura adoperati da altri; il più antico è un codice Harleiano
del sec. ix, gli altri quattro sono del sec. x. Questi manoscritti
sono anch'essi ben lontani dal potersi chiamare ottimi, ma
sono stati pure di qualche utilità all' editore , offrendo più
d' una buona lezione e talvolta anche confermando felici
congetture. L' editore non esagera punto il loro valore per
definire il quale non sapremmo adoperare parole più giuste
di queste eh' ei scrive nella prefazione: « etsi magnus
fructus ex his coUigitur minor tamen quam velis ac speres-,
ea quae passim deficiunt non supplentur-, quae transposita
sunt non in sedem reponuntur; verba turpiter deformata
non ad linguae latinae leges revocantur; enormia etiam
menda comparent quae ex primis editionibus exterminata
fuerunt. Verum quamplurima vocabula , vulgo perverse
scripta, in illis sana exhibentur; inde quaedam absunt
inepta glossemata-, paucissima etiam nova exempla inve-
niuntur )).
- 141 —
Un uomo che con tanto amore e tanto a lungo si è oc-
cupato di Nonio può essere scusato se nutre una qualche
tenerezza per questo suo autore e se cerca difenderlo nella
prefazione dal molto male che se n'è detto e se ne dice. A
tale sua disposizione va attribuito il trovar egli molto ono-
revole per Nonio 1' essere citato tre volte da Prisciano.
Senza dubbio sarebbe un'assai ingiusta esagerazione voler
attribuire a Nonio tutta T infinita farragine di spropositi
di cui rigurgitano i manoscritti della sua opera. Poche
altre opere antiche danno come questa la misura della
bestiale ignoranza dei chierici medievali. Però il signor
Quicherat non riesce e non si attenta neppure a purgar
Nonio di molti giustissimi appunti che lo fanno apparire un
assai povero autore. Il concetto stesso e il piano e la condotta
dell' opera son tali che mal potrebbe farsene V apologia.
All'uso che Nonio fa di Aulo Gelilo senza nominarlo, cosa
di cui molti si scandalizzano, noi non diamo gran peso, es-
sendo cosa che caratterizza piuttosto quell'epoca che quell'au-
tore. Compilare e compendiare è la formola che definisce la
produttività letteraria e dotta di quei secoli di decadenza.
Gelilo stesso prende di qua e di là. A questi uomini è toc-
cata la sorte che meritavano. L'opera loro quantunque per
certe ragioni d'uso letta e copiata a lungo non ha servito a
dare al loro nome un peso che realmente non gli compete.
Nonio considera Gelilo come uomo di oscura autorità ed ha
ragione. Conviene notare però che quest' uomo di piccola
levatura e intieramente sottoposto all'autorità dei nomi do-
vette essere urtato dalla poca riverenza con cui Gelilo tal-
volta parla di Verrio Fiacco e di altri grammatici illustri.
Nella prefazione il signor Quicherat avrebbe potuto darci
una più esatta e completa definizione di questo autore. So-
prattutto dalla sua esperienza ci saremmo aspettati intorno
ai canoni critici che debbono guidare l' editore di Nonio
— 142 —
qualche cosa meno elementare di quanto ei nota a pag. xxiir.
Notevole è V appunto che leggesi nella prefazione sul nu-
mero primitivo dei libri deir opera Noniana, i quali erano
20 e non 19, come il nuovo editore rileva da un ms. pa-
rigino in cui trovasi segnato nelT indice un 16° libro De
genere calciamentorum, o^gi perduto.
Questa è la prima edizione di Nonio in cui le citazioni
dei poeti trovinsi stampate con distinzione dei versi. Nel-
rindice degli autori però il signor Quicherat avrebbe fatto
bene a segnare, per gli autori oggi superstiti, il numero di
ciascun verso citato e non soltanto il libro in cui quello
ricorre. Per ritrovare nella sua edizione un determinato
verso di Virgilio citato da Nonio convien fare una lunga
ricerca da cui dispensa Tedizione di Gerlach e Roth.
Edizioni definitive non crediamo si diano per alcun au-
tore antico , molto meno per Nonio, ne il sig. Quicherat
pretende che tale sia la sua. Certo a lui spetta il merito
di avere per primo tentato, con successo la difficile prova
di dare una edizione di Nonio proporzionata alle condi-
zioni e ai bisogni della scienza odierna.
Pisa, luglio, 1872.
D. COMPARETTI.
Nicolai Heinsii Italica. E poematinn editione Elzeviriana
a poeta passim correda edidii I. C. G. Boot. Amste-
lodami, MDCCCLXXIL
A chi legge la 1{ipista di Filologia non è mestieri ri-
cordare le benemerenze di Nicolò Einsio verso le lettere
latine. Oltre le edizioni di Ovidio e Virgilio da lui illustrate
e ridotte a più sana lezione, non avvi quasi scrittore romano
cui ora per un verso, ora per un altro non abbia giovato
- 143 -
o col sussidio dei codici o colle ingegnose congetture, le
quali, anche quando non tocchino il segno, indicano la via
o per lo meno ti ammoniscono e provano che certi luoghi
o non avvertiti, o talvolta anche lodati contengono non la
sincera scrittura dell' autore, ma Terrore delPamanuense sba-
dato e mal dotto.
Nicolò Einsio poetò anche in latino, e sebbene in Italia,
la quale vanta schiera così numerosa di ingegni in codesta
arte eccellenti, non siano molto conosciute le cose di lui,
nondimeno egli è certo che possono annoverarsi fra le no-
tabili. Nato nel 1620, visitò due volte la Penisola, vi fece
non breve dimora, ne conobbe gli uomini eruditi , V amò
come seconda patria. Di che fanno fede i due libri di elegie
da lui pubblicati, il primo a Parigi nel 1648, Taltro a Leida
nel i653 {Italica, sive elegiariim liber alter. — Italicorum
liber seciindus, sive elegiariim tertius)\ quello dedicato a
Gassiano Del Pozzo, questo a Carlo Dati. Nel 1666 vennero
ristampate ad Amsterdam con altri componimenti dell'au-
tore. Dopo la morte sua se ne trovò un esemplare con molte
correzioni marginali, e Pietro Burman al tempo suo dise-
gnava pubblicarle- il che non potè poi. L' esemplare coi
pentimenti di mano dell'Einsio andò smarrito, ma una copia
fatta dal Burman giaceva in una privata biblioteca di Am-
sterdam. La discoprì il dotto professore Giovanni Cornelio
Gerardo Boot, continuatore di quella dotta scuola olandese
che per quasi due secoli tenne le prime parti nelle filologiche
discipline.
Come e perchè [egli divisasse e compiesse la ristampa
che annunziamo, dirò colle parole sue, persuaso che un po'
di latino non sarà ostico ai lettori :
« Contingit rniìii ea felici tas , ut bis viagnam Italiae
partem peragrarem. Utroquc in itinere, altero ante XXXIV
annos, altero nuper facto , diibiiis haerebani , quid magis
— 144 —
admirarer, regionis amoenitatem, loca in quìbiis frequentia
antiquorum adsunt vestigia, artis praeclara opera^ erudi-
tionis immensos thesauros , an hominum , quos cognovt
multos, humanitatem et comitatem. Nunquam obliviscar ,
ut olim me adolescentulum viri generis nobilitate et doctri-
nae studiis clarissimi exceperint, et ingratus essem nisi
recordarer quanta benevolentia quantaque comitale nuper,
quum conventus doctissimorum virorum e vdriis Furopae
regionibus Bononiae haberetur^ Bononienses, Mutinenses ,
Ravennates, et quum ad illos pervenissem paucosque dies
inter illos viverem, Fiorentini , Romani^ Taurinenses me
advenamprosecuti sint. Itaque volui palam ostendere quanti
facerem et illos familiares et universam gentem^ quae si
libertate tandem recuperata recte utitur et improbam Si-
rena , quam merito vitandam mokuit Horatius , strenue
vitare didicerit, magnis rebus denuo videtur destinata.
Et quoniam lingua Latina et poesis Latina trans Alpes
nondum piane negligitur, Heinsii autem carmina., quibus
Italiae laudes canuntur, vix ulli in illa terrea nota esse
comperirem, multis nec ingratum nec inutile me facturwn
credo, si curaverOy ut plura nitidi libelli exempla per Ita-
liani sparganiur ».
Il nitido volumetto consta di pag. 64 di testo e XIV di
prefazione, cui precede la dedica seguente : Italiae poeseos
latinae mairi novam recensionem elegiarum elegantis
poetae Baiavi amoris sui testem grati animi arrham mittit
Johannes Corneliiis Gerardus Boot.
Ora per chi voglia conoscere con che stile e con quale
animo scrivesse Nicolò Einsio recherò alcuni distici tratti
dalla elegia con cui il poeta piglia commiato dairitalia. Parla
il cittadino di una patria che erasi gloriosamente sottratta al
giogo spagnolo e vendicata in questa feconda libertà che
tuttora mantiene, disposata all'ordine e alla stabilità delle
istituzioni :
— 145 —
Poscimur in patriam : patria iam vivere tempus.
Huc vocor invitus, terra Latina, vale.
Terra vale dilecta, tui me cura sequetur.
Scilicet id, posthac quo tibi sistar, erit
Nunc Batavae Dryades, qua desidis ultima Rheni
Non bene caeruleis stagna negantur aquis,
Lugdunum spatiosa suis nunc induet ulnis.
Illa mihi patria est, nec pudet, illa domus
Quam sua libertas, dominis obnisa lupatis,
Haud tulit Asturio subdere colla iugo.
Nec Ganda Heinsiacis memoraberis unica cunis.
Di melius! famula non ego natus humo.
Nutriat inflatos tibi pinguis Iberia vales.
Hos fac suspicias : bine tibi plausus eat.
Parcior ingeniis servilibus adflat Apollo
Pectora: totus agit libera corda Deus.
E per avere richiamato alla memoria degli uomini versi
eletti, e per averli con affetto gentile presentati all'Italia che
li ebbe inspirati, abbiasi il filologo di Amsterdam i ringra-
ziamenti nostri.
Roma, agosto 1872. s
Domenico Carutti.
Flechia, Dell' origine della voce sarda NURAGHE^ con-
getture etimologiche, Torino, 1872 (estr. dagli Atti della
R. Accademia delle Sciente di Torino, voi. 7°).
Siamo lieti ed alteri di annunziare ai lettori della nostra
Rivista la nuova monografia, che il prof. Giov. Flechia fece
tener dietro alla Postilla sopra un fenomeno fonetico [clz^tl)
della lingua latina (1) ed alla Disserta\ione linguistica in
cui discorse Di alcune forme de' nomi locali della Italia Su-
(i) Estr. dagli Atti della R. Accad. delle Scienie di Torino, voi. 6".
— 146 —
periore{i)^ lavori accurati, dotti, severi, utili alla scienza.
Come di pari lode siano degnissime queste , eh' egli mo-
destamente intitolava Congetture etimologiche , apparirà ,
confidiamo, anche dai brevi cenni che daremo intorno alle
medesime, scostandoci talvolta dall'ordine che il chiarissimo
autore seguì nello esporle.
Qual è r origine della voce sarda Nuraghe (2) ? Tentò
indarno mostrarla derivata dal greco (veOpa è'xeiv - essere
forte - , o veopaxi? - nuova rupe - ) il Madao : né furono guari
più avventurati T Arri , lo Spano, il Maltzan nel conside-
rare questa parola sarda come composta dalle due fenicie
niir (- fuoco, focolare, casa -) e hagh (- ardente -) od hag,
hagagh (-grande-) od hag (- tetto-) o finalmente hag o
chag (- rotondo -) e nello interpretarla « luogo dove ardeva
e si conservava il fuoco » (Arri), « casa grande, coperta a
culmine » (Spano), « casa rotonda » (Maltzan). La deriva-
zione semitica di questo vocabolo si manifesta sommamente
inverisimile ove si noti quanto strani fenomeni sarebbero e
la perfetta conservazione di sì fatta parola per tre o quat-
tro millennii senza scadimento fonetico (ed, in ispecie, della
gutturale debole che vi si supporrebbe primitiva, suono per
la propria natura assai caduco, e, quando è medio , incli-
(i) Estr. dalle Memorie della preaccennata Accademia, serie 2*, t. 27°.
(2) « I nuraghi sono , com'è noto, antichissimi monumenti, propri
della Sardegna, i quali consistono generalmente in un edifizio di grossi
e ruvidi sassi, commessi insieme senza alcuna sorta di cemento , in-
nalzato a foggia di torrione circolare che sorga a modo di cono tronco.
Di dentro hanno una o piìi camere l'una sull'altra, e per lo più non
ricevono luce se non dall'entrata che è un'apertura posta a pie dell'e-
difizio, e talmente bassa da non potervisi entrare se non carpone.
Queste strutture s'alzano per lo più alle falde o sulle cime de' monti
e delle colline; molte già ne furon distrutte; ma le più stanno tut-
tora in piedi, e si computano ad oltre 4000. Tutti s'accordano nel ri-
peterne la costruzione da un'età molto rimota, perdentesi nel buio de'
tempi preistorici ; ma sono varie le opinioni circa la loro origine e
destinazione, facendosene autori gli Egizii, i Fenicii, i Libii, gl'lberi,
come anche i Pelasgi, i Greci, i Tirreni, ecc., e volendo che siano
chi sepolcri, chi templi, chi case, chi fortezze, ecc. » Flechia, Del-
l'origine, ecc., p. 4-5.
- U7 —
nato a dileguarsi nel sardo), ed il rinforzo del preteso g
primigenio in k, rinforzo che sarebbe affatto necessario am-
mettere per {spiegare le forme arcaiche nurake , nuracu.
Ed è oltracciò un vero errore di metodo il rivolgersi al
greco, al fenicio per iscoprire Torigine di un vocabolo sardo
prima di averla cercata nel latino : che di fondo sostanzial-
mente latino è il sardo, e, soprattuto il logudorese, è fra i
dialetti italici il più fedele conservatore delT organismo e
delle fattezze del latino. S'aggiunga che i monumenti, i quali
d'origine più o meno analoga a quella dei nuraghi s' in-
contrano nelle altre isole del Mediterraneo, sembrano pre-
sentarci nomi comparativamente moderni né punto semitici.
Perchè dunque dovremo credere fenicio il nome sardo nu-
raghe? 11 finimento logudorese -aghe, onde molti sono gli
esempii, od è un riflesso regolare del latino -ace (v. g. in
furraghe=fornacem) od al più un'alterazione di altro suf-
fisso latino ond'è carattere principalissimo la gutturale. Ciò
posto, come forma fondamentale del sardo nuraghe sarebbe
evidentemente ad ammettersi un sardo-romano miiracem
(pron. murakem) da murus , ove si potesse dimostrare la
possibilità, la verisimiglianza della trasformazione del m
iniziale in n. Ora questo fenomeno ci si fa innanzi su
tutto il campo neo-latino : non pochi esempii ne reca il
Flechia, tratti in ispecie dai dialetti italiani (v. p. lo-ii).
Nura per mura ci appare nella locuzione sarda sa mira ca-
bra {■=sa mura craba) e nelle voci nuratiolu ^ nurighe ,
nuracciolu, qcc. : ad un *nuragos (log.), nuragus (merid.)
è manifestamente equivalente la forma muragos, nome spe-
ciale di un nuraghe, ma originariamente indicante due o
più nuraghi-, vi si aggiunga la forma plurale murakcssus.
Ciò basta in ordine alla parola materialmente considerata :
veniamo ora al concetto.
E affatto conforme a natura la ipotesi che i Sardi, fatti
romani, dovendo appellare con nome nuovo quei misteriosi
edifizii, li chiamassero « mura ». Cosi altra più semplice
sorta di antichi monumenti dell'isola denominarono «pietre)),
com' eziandio qualche nuraghe nella sua appellazione spe-
ciale. Né vuoisi ommetterc che, tra i nomi particolajù dei
— 148 —
nuraghi, circa cinquecento (ossia l'ottava parte) sono fon-
dati su munì o mura: della voce muragos già abbiam fatto
menzione. Il suffisso -ac- in nuraghe [z:^ murakem) ha
forse avuto in origine valore di peggiorativo (-muro a secco -,
cfr. muru barbaru, muru hurdu?): forse non ebbe impor-
tante significato. Pertanto il sardo nuraghe si dovrebbe in-
terpretare - muro, o muracelo - (cfr. lomb. muracca^ ven.
mura'{'{i)^ e nessuna nozione storica od archeologica si po-
tr£bbe trarre da questo vocabolo. Questa conclusione verrà,
ne slam certi, accolta dalla scienza, che bada alle solide ra-
gioni e si ride delle vane sentenze che spesso le oppone il
volgo dei non intendenti, massime ove queste siano, come
troppo spesso avviene, quanto insulse nella sostanza, altret-
tanto scortesi nella forma, comicamente burbanzose ed ano-
nime.
Insieme con quella della parola nuraghe viene inciden-
temente dimostrata Torigine latina di altre voci sarde (i) e
sempre con quel fervido e puro amore del vero, con quella
diligenza, con quella perfetta cognizione dell'argomento e con
queir inesorabile rigore di metodo che sono inseparabili da
qualsiasi lavoro di G. Flechia, cui in sì fatte virtù scientifiche
pochi ci sembrano eguali, superiore nessuno. E noi a que-
st'uomo, che primo fra gl'Italiani pubblicò una Grammatica
sanscrita lodata dai più competenti e difficili fra i giudici
stranieri, primo insegnò linguistica nell'Ateneo Torinese e ci
fu dotto ed affettuoso maestro, primo si accinse a comporre
in modo veramente scientifico (ardua e lunga impresa) una
teorica storico-comparativa della lingua e dei dialetti italiani;
a quest' uomo, mirabile esempio di operosità indefessa e
feconda, di bontà e di modestia, auguriamo dal profondo del
cuore che possa compiere degnamente 1' opera non peritura
che da lui attendiamo ansiosamente e ch'egli solo può darci.
Torino, io settembre 1872.
D. Pezzi.
(1) V. g. di sirboni — cinghiale — [s' arboni , su arboni) da ipsum
apronem; di cerila -treggia - da cetra: di madau - ovile- da metatum.
V. l'Appendice alle Congetture etimologiche (p. 25-32).
Pietro Ussello, gerente responsabile.
- 149 -
OSSERVAZIONI SULLA TEORIA
"DELLA CarKJUGAZlOV^E G^HECA
La recensione critica della mia grammatica greca (i) pub-
blicata dal prof. Gaetano Oliva nel secondo fascicolo di
questa ^vista è la più estesa e ragionata fra quelle com-
parse finora, per quanto io sappia, in Italia. Parlarono bensì
del mio libro alcuni giornali, ma assai brevemente e senza
entrare in dettagliate ricerche e discussioni, che all'indole
loro poco sarebbero convenute, cosicché i loro giudizi non
avevano importanza alcuna per la scienza. L'articolo, invece,
del signor Oliva entra a discutere con qualche larghezza e
con serio ragionamento i punti principali ne^ quali la mia
grammatica dalle altre si distingue, e lo fa con una forma
assai urbana e cortese per me, della quale mi è caro ren-
dere pubbliche grazie all'autore. Per questo appunto mi sono
indotto a rispondere, e a cogliere quest'occasione per esporre
alcune mie opinioni intorno a certe questioni di grammatica
greca, dichiarando, meglio che finora non abbia fatto, le
ragioni del metodo seguito nel mio libro, non bene inteso
e giudicato in qualche punto dal recensente,.
Il prof. Oliva riconosce che la mia grammatica non è « ne
« un plagio ne un compendio o travestimento delle più note
« fra le grammatiche greche scritte dai Tedeschi » (pag. 79),
e che v'hanno in essa parecchie innovazioni che possono
(1) Grammatica greca per le scuole di Vigilio Inama, parte I, Eti-
mologia: parte II, Sintassi. Milano, Valentiner e Mues, 1870.
mvisla di filologia ecc., I. il
— 150 —
« offrire largo campo alla meditazione e allo studio » (pag. 89).
Ma nessuna di queste innovazioni, delle principali per lo
meno, egli approva esplicitamente, e, facendo un confronto
fra la mia grammatica e quella del Curtius, preferisce questa
alla mia in tutti i punti ne' quali divergono. Egli per vero
« si propone di esaminare il lavoro unicamente dal punto
« di vista pratico, della scuola cioè »•, benché necessaria-
mente sia poi costretto a comprendere nella sfera della sua
indagine anche « il lato scientifico » (pag. 79); che anzi in
realtà in lutto il corso delFarticolo si considera piuttosto
questo che quello. Di fatti lo scopo d^una grammatica greca
per le scuole non può ormai piià essere quello soltanto di
escogitare un metodo qualunque semplice e mnemonico per
agevolare ai ragazzi Tapprendimenio delle forme e dei co-
strutti della Jingua, ma si richiede da essa che le regole siano
ordinate ed enunciate in modo consentaneo ai principii delia
scienza che indaga le origini e gli storici procedimenti delle
lingue. La questione, come giustamente osserva il prof. Oliva,
si riduce a porre in armonia la pratica della scuola e la
scienza, sicché questa non venga violata o svisata mai, né
quella resa troppo ardua e inaccessibile alle tenere menti
de' giovanetti. E poiché ogni lingua ha caratteri suoi propri
e speciali, e nello stesso tempo caratteri comuni ad altre
lingue affini, e ogni lingua si presenta a noi in una fase di-
versa da quella che essa aveva in tempi anteriori, così biso-
gna che la sua grammatica tenga il giusto mezzo fra le fasi
preistoriche e quelle dei tempi conosciuti, e non oltrepassi
mai quei limiti entro i quali ella é circoscritta e determinata,
invadendo il campo riservato alla grammatica comparata.
Sotto questo aspetto pare al prof. Oliva che la grammatica
ad Curtius abbia colto il giusto segno, e che, per ora al-
meno, non possa farsi né meglio né più di lui. A me invece
era parso che si potesse spingersi un po' più innanzi su
- 151 -
quella stessa via per la quale il Curtius si era messo, e
avvicinarsi di più a quanto la scienza linguistica insegna,
tenendo maggior conto dei risultati di questa, senza uscire
perciò dai limiti dell'e lenismo, e senza dover ricorrere troppo
a confronti colle lingue affini. E mi pareva che tutto questo si
potesse ottenere senza che l'insegnamento diventasse troppo
arduo per la scuola, che anzi, a mio credere, esso sì rendeva
con questo più semplice e più facile. Vedremo più sotto, quanto
e come in tale proposito a me sia parso doversi innovare; per
ora mi limiterò ad osservare che la grammatica del Curtius
così da sola riesce troppo astrusa non solo per noi Italiani,
ma ben anco pei Tedeschi, in questa materia tanto più avanti
di noi, o per lo meno assai meglio di noi provveduti di libri
ausiliari; cosicché il Curtius stesso fu costretto, per rendere
meglio accessibile e ai professori e agli scolari il suo libro, a
pubblicare, non ricordo se dopo la quarta o la quinta edizione
della grammatica, quelPaureo libro degli Schiarimela ì, senza
il quale essa restava ai più in non pochi punti oscura. Questo
fatto stesso potrebbe da alcuno citarsi come argomento di
biasimo pel libro, se non che i più vi risponderebbero che
la rapida diffusione della grammatica del Curtius nelle scuole
di Germania e nelle nostre è prova più che sufficiente della
eccellenza sua. Né questo argomento, che l'Oliva adduce di
fatto, è privo d'importanza, né a me cade in mente di con-
traddirlo nel caso presente, che della bontà della grammatica
del Curtius sono come tutti gli altri persuaso; ricorderò so'o
come la diffusione delle grammatiche del Buttmann, del
Burnouf, del Kiihner e di altre, che ora a ragione si vorreb-
bero, per la parte etimologica almeno, escluse dalle scuole,
fosse non meno rapida, ne meno estesa di quella avuta
finora dal Curtius.
Ma ritorniamo da questa digressione all'argomento di cui
dobbiamo ora occuparci. Io limiterò il mio discorso alla sola
— 152 —
teoria della coniugaiione greca, perchè è in questa chMo
credetti utile proporre le più forti e importanti modificazioni,
ed è di questa sola che il prof. Oliva nella sua recensione
si occupa. Prima però trovo necessario premettere alcune
generali osservazioni , perchè si veda su quali fondamenti
io abbia eretto la mia teoria.
La Odorfologia greca, così nella declinazione dei nomi,
come nella coniugazione dei verbi, si fonda sulla distinzione
del tema e dei suffissi della flessione ; questi sono i segna-
casi pei nomi, le desinente personali pei verbi. Delle ra-
dici propriamente dette la Morfologia non può né deve oc-
cuparsi; di esse tratta specialmente quella parte della gram-
matica greca che s'intitola della formazione delle parole, e
per la quale io proposi la denominazione di Tematologia.
Se nella Morfologia qualche volta accade di avere temi mo-
nosillabi, e quindi coincidenti colle radici, non per questo
è necessario venire in essa a una distinzione dei temi dalle
radici, poiché la lingua, in quanto alla flessione loro, li
tratta tutti egualmente, e tutti quindi sotto l'aspetto morfo-
logico sono veri temi, Diffatti in nessuna grammatica mai,
chHo sappia, si fece distinzione fra la flessione dei temi òn-
(nomin. 6\\i) e q)\e3- (nomin. (pXévp), e quella dei temi XaiXair-
(nomin. XaiXat4i), o x^pvip* {nomin. x^pvi^p), benché i due
primi siano pel greco due radici, e i due secondi no. Ed
egualmente nella coniugazione dei verbi è affatto inutile di-
stinguere i temi monosillabi, equivalenti a radici, dagli altri
polisillabi, perchè tutti formano i loro tempi nel medesimo
modo. E questa distinzione, in realtà, non fu mai fatta da
nessun grammatico, per quanto a me consta', e nemmeno
dal Curtius. Non capisco quindi perchè il prof. Oliva insista
tanto ad inculcare che nella coniugazione debbasi « anzitutto
« tener di mira la differenza fra radice, tema verbale e
« tema del presente » (pag. 85)-, poiché la distinzione dei
— 153 -
due temi per la coniugazione è sufficiente, e l'aggiunta della
radice non ha né scopo, né utilità alcuna. Infatti tra la
flessione, per es., dei temi pXair- {pì^es. pXdTrrai) e kott- {pres.
KÓTTTou), e quella del tema KaXun- {pres. KaXuTTTuu) e altri si-
mili, non v'ha differenza alcuna, quantunque i primi siano
anche fradici, il secondo non lo sia. Che se in certi temi
radicali (monosillabi) v'ha in qualche tempo il tema sem-
plice (per es., Xm-) accanto al rinforzato (peres., Xem-), o
vi ha mutamento di vocale (per es., ipeu- e Tpan-), questo
fatto è accidentale e non comune a tutti ì temi radicali , e
sovr'esso quindi non potrebbe mai fondarsi una classifica-
zione e distinzione morfologica.
La morfologia quindi non deve spingere Tanalisi della pa-
rola più in là del tema. Se non che fra la declinazione e
la coniugazione vi ha un'essenziale e importantissima diffe-
renza. Per la declinazione basta distinguere il tema nominale
dal segna-caso , poiché in qualsiasi forma di nome, levato
il segnacaso e tolte le eventuali alterazioni da esso prodotte
nella parola , resta il tema nominale i^ mentre invece, tolte
alle varie forme del verbo nel modo indicativo le desinenze
personali, restano i temi che sono speciali a ciaschedun
tempo, e bisogna quindi, procedendo oltre nell'analisi, spo-
gliare questo tema di ciò che è speciale a quel dato tempo
per ottenere quel complesso di suoni che resta essenzial-
mente eguale in tutta la flessione, e che si dice per ciò ap-
punto tema verbale. Il tema verbale è dunque il fonda-
mento della coniugazione, e sia poi esso monosillabo, cioè
una radice., o sia polisillabo, poco importa. La morfologia
non ricerca radici*, così, per es., in bibpdcTKo.uev essa trova
come tema bpa- , in èòpa^ov trova come tale bpajuo- ; qui
essa si ferma; spetta alla Tematologia procedere più oltre
nell'analisi, ed arrivare all'unica radice bpa- per tutte e due
le forme.
- 15i -
Premesse queste generali osservazioni, passo ora ad esa-
minare più da presso la teoria della coniugazione greca,
quale è esposta nella mia grammatica. I principT fonda-
mentali sono quelli stessi adottati dal Curtius, ed io vado
superbo di dichiararmi seguace della scuola filologica dal-
rillustre filologo tedesco inaugurata. Tuttavia mi discosto
da lui principalmente in tre punti , come rettamente co-
nobbe Il prof. Oliva, nel modo cioè di considerare la vo-
cale di tongìiiniione ^ nell'anticìpare lo studio dei verbi in
|ii, e nella distinzione à^M'aoristo che io dissi Ur^o. Mi
propongo di discorrere partitamcnte di ciascheduna innova-
zione, considerandola sempre sotto il doppio aspetto e della
scienza e della scuola.
La vocale o, in certe persone €, che precede la desinenza
personale nei verbi in uj (per es., X^T-o-fiev, Xé^-c-te) fu da
tutti i grammatici, nelFanalisi della forma, considerata a
parte, per sé sola, e staccata così dalla desinenza personale
come dal tema del verbo. Ora qual'è Tufficìo di questa
vocale? Alcuni la considerarono come distintivo del modo,
e COSI il KiJhner, tà altri con lui, la denominarono vocale
del modo; diffatti questa vocale che è breve (o, e) nelPin-
dicativo, diventa lunga nel soggiuntivo (w, n)> e ad essa si
aggunge un i (oi) nell'ottativo, ed è in questo appunto
che i tre modi fra loro si distinguono. Ma nelTimperativo,
nell'infinito e nel participio la vocale così detta del modo
non muta, e nell'ottativo stesso non è l'oi tutto invero, bensì
il solo i, come si vede dai verbi in ini, il carattere distintivo
del modo, cosicché questa proprietà di indicare i modi non
rimane a questa vocale che pel modo soggiuntivo dei verbi
in lu; nei verbi in )x\ invece abbiamo tutti i modi distinti
fra loro senz'essa-, come potrà ella dunque dirsi ragione-
volmente vocale del modo, e come si potrà credere che il
suo ufficio sia quello di far distinguere fra loro i variì modi
— 155 —
d'ogni tempo? — Altri considerarono questa vocale come un
semplice elemento fonetico, introdotto nella forma del verbo
per renderne più facile ed armoniosa la pronuncia. Perciò il
Curtius e molti altri grammatici, e prima e dopo di lui, la
dissero vocale di legame o di congitiniione {^indevocal)\
per questi dunque in Xér-c-jiiev e XéT-€-T6, in pXéTr-o-)iev e
pX^TT-e-te l'o e Te avrebbero per ìscopo di evitare l'unione
immediata delle desinenze personali al tema verbale, per
non avere le forme 'XeT'MCv, 'XeK-ie, 'pXen-iiev, '^Xen-xe. Ma le
obbiezioni a questa maniera di considerare la vocale di cui
discorriamo si affollano con troppa facilità alla mente, perchè
si possa acquietarsi a tale ipotesi. Che la lingua ricorra non
di rado a questo espediente, d'introdurre fra i varii elementi
componenti una parola una vocale per renderne piiì facile
la pronuncia, è cosa nota ed ammessa da tutti gli studiosi ;
ma quanto più gli studii linguistici procedettero, tanto più
si conobbe che a questo espediente la lingua non ricorre che
in casi estremi, quando cioè senza di esso la parola riusci-
rebbe o del tutto impossibile a pronunciarsi, od aspra e
dura secondo le regole ordinarie della fonologia. Il numero
quindi di queste vocali, che si dicevano di congiunzione,
andò mano mano scemando col procedere della scienza, e
presentemente non si ammette questo elemento di natura
puramente fonetica nelle parole, se non quando ogni altra
maniera di spiegarlo sia stata esperimentata invano. Ora,
nel caso nostro, non solo non si vede questa necessità di
interpretare come elemento fonetico la vocale che precede
le desinenze personali, ma anzi non di rado la sua prese aza
come tale apparisce incomoda ed assurda. Di fatti non v'ha
legge fonica alcuna che proibisca al greco forme sul tipo
di 'Xetnev, *X€ic.t€, 'pXejnuev, *pXeTTT€ ed altre slmili. Tali com-
binazioni di suoni sono anzi frequentissime non solo nel
perf. medio-passivo , e in altre forme verbali , ma ben
- 156-
anchc nei nomi. Che quando pure si volesse ammettere che
più armoniose dovessero riuscire all'oreccliio greco le forme
colla vocale che dicono di legame, e che per questo essa
venisse inframmessa, come mai potrebbe spiegarsi la sua
presenza anche nei temi che escono in vocale e in dittongo?
Non sarebbero forse egualmente armoniose fra loro le forme
XOoftev e *Xu)uev, pouXeùoiiev e *pouXeun6v e altre simili ? Che
se si vuole ascrivere alla forza dell'analogia, come alcuni
han fatto, l'estendersi della vocale di legame anche a questi
temi, potrà forse ragionevolmente ammettersi che l'analogia
avesse tale e tanta efficacia da far penetrare questa vocale
anche nei temi che escono in vocale forte (a, e, o), nei
quali riusciva ai Greci così ingrata e incomoda, che con ogni
studio e con ogni maniera di contrazione cercavano nascon-
derla o sopprimerla ? In nessuna lingua mai si riscontrereb-
bero esempi di analogie così ii razionali. Né qui ricorro a
confronti col sanscri*^^o, il quale ai verbi in aiu, eiu ed ocu
contrappone verbi in {à)jàmi^ dal che si vede che l'o (e)
greco non poteva essere elemento fonico semplicemente; io
mi sono proposto di non uscire dal campo deirellenismo,
per mostrare che le innovazioni introdotte nella mia gram-
matica, benché posiano essermi state suggerire dai confronti
colle lingue affini, hanno tuttavia la loro unica o precipua
ragione nei fatti stessi della lingua greca , ' quali da soli
bastano, in questo caso speciale, a mostrare quanto sia as-
surdo il considerare la vocale che sta innanzi alle desinenze
personali come elemento fonetico posto là ad agevolare la
congiunzione delie desinenze personali col tema verbale.
L'ufficio dunque di questa vocale né può essere quello di
distinguere i modi fra loro, ne quello di legare fonicamente
due diversi elementi della parola, ma ella deve avere una ra-
gione etimologica in sé stessa. Noi dobbiamo quindi consi-
derarla come un suffisso che si aggiunse al tema verbale in
— lòT -
modo ed ufficio analoghi a quelli che vediamo in tutti gli
altri suffissi derivatori di temi nominali. Cos'i, p. e., l'o di
fipX-o-jaai e di &-f-o-\xev non sarebbe che un suffisso eguale
a quello che abbiamo nei due nomi derivati dalle mede-
sime radici àpx-ó-<; comandante, àt-ó-? condottiero, e presso
a poco eguale sarebbe quello di XéT-o-)H€v a quello di Xó-f-o-?
e così dicasi degli altri verbi di questo tipo.
Nelle altre classi di verbi invece, nelle quali il Curtius ed
altri grammatici pongono come suffissi del presente i suoni
j-, T-, V- (av-), ctk-, noi dobbiamo unire con questi suoni i'o
(e) che segue, e considerarlo come parte integrale dei suf-
fissi, che perciò saranno in forma greca jo-, to-, vo- (avo-),
<Jko-. Così pure nelPaor. secondo (forte del Curtius) To è
suffisso tematico, e non vocale fonetica, e i suffissi pel fut.
e per Taor. i", e pel perf. ecc. dovranno essere ero-, <Ta-, xa-
e non già i soli <t- e k-; la vocale, vale a dire, anche in que-
sti dovrà considerarsi come parte del suffisso e non come
aggiunta fonetica. I suffissi infatti di qualunque genere , è
cosa ormai da tutti ammessa, non sono altro che anti-
che particelle o parole, che, dopo aver avuto nell'origine del
linguaggio un'esistenza indipendente e loro propria, furono
attratte dalle parole cui si accostavano in modo tale da fon-
dersi con esse sotto un solo accento, e scaddero così al sem-
plice ufficio di suffissi. Ora se questa è la loro istoria, è
certo che da princìpio si dovettero poter pronunciare per
se soli, e che quindi anche i supposti suffissi j-, t-, v-, (Tk-
dovettero avere dopo di sé una vocale (originario *:t), altri-
menti non si sarebbero potuti nemmeno pronunciare. Ora
non è egli cosa del tutto assurda il credere che questi suf-
fissi gettassero la loro vocale originaria ed etimologica, per.
assumerne poi un'altra eguale fonetica onde poter essere
pronunciati? La vocale dunque che dissero di congiun-
zione è un vero suffisso tematico, o è parte soltanto d'un
- 158 -
suffisso tematico. I più rinomati linguisti io credo che
su questo siano ormai tutti d'accordo fra loro, e il
Curtius stesso ne è ora persuaso come in parecchi suoi
scritti ebbe a dichiarare-, ma siccome in questa opinione
egli non venne se non dopo la quarta o quinta edizione
della sua grammatica, nella quale la vocale in questione
è riguardata come vocale di legame, cosi per non mul-
tare la vecchia teoria, lasciò che le successive edizioni con-
tinuassero a ripetere quanto nelle prime avea detto, dichia-
rando ch'egli persisteva nella grammatica a considerare
questa vocale come vocale di congiunzione, benché la dicesse
tematica, per ragioni pratiche e didattiche. Queste ragioni
pratiche io non seppi vedere; a me parve anzi che la teoria
della coniugazione, adottando in questo punto quanto la scienza
insegnava, avrebbe guadagnato in semplicità e chiarezza, e
soprattutto in ragionevolezza, togliendosi di mezzo tutte quelle
incongruenze, che più sopra al vecchio sistema abbiamo rim-
proverato. Quanto più l'analisi di una forma grammaticale è
sminuzzata, tanto più riesce difficile ai giovanetti -, ed è quindi
necessario ridurre l'analisi al minor numero d'elementi che sia
possibile*, ora è certo che ai giovani studenti devono riuscire
più ardue le forme t€)li-v-o-)li€v, òiòd-cJK-o-uev e simili, quando
siano divise in quattro elementi, che quando siano divise in tre
come si fa nella mia grammatica (Téji-vo-fiev, òibà-crKO-fiev)*, e
più facilmente distingueranno le forme del futuro da quelle
deil'aoristo, quando per quelle si dia come carattere il ao-,
e per queste il era-, che non quando per le une e per le altre
sì dia il solo <y-, come tutte le grammatiche sogliono fare.
Si avrà così inoltre il vantaggio di presentare ai giovani suf-
fissi pronunciabili per sé soli, e non semplici consonanti, o
combinazioni d'impossibile pronuncia, come è, p. e., lo (Jk-.
Né so vedere poi che differenza possa correre, in quanto a
maggiore o minore difficolrà, fra l'insegnare ai giovani, come
— 159 —
fa il Curtius, che la vocale di legame è per certe persone un
0 e per certe altre un e, e Tinsegnare, come faccio io, che il
tema temporale del pres. esce in certe persone in o, in certe
altre in e. La teoria della coniugazione dunque accogliendo
rinsegnamento della scienza non riesce punto più difficile
per la scuola; che quando pure ciò fosse., non dovrebbe tut-
tavia essere lecito insegnare ai giovani, o presentar loro un
fatto grammaticale in una maniera dalla scienza dichiarata
inesatta od erronea. Dall'aver quindi considerata come suf-
fisso o parte di suffisso tematico la vocale di congiunzione
non credo sia derivata difficoltà maggiore alla mia teoria ;
bensì potrebbe biasimarsi la denominazione di suffissi del
preseìtte da me adottata. Io l'adottai per maggiore brevità,
e perchè corrispondesse agli altri suffissi temporali ; che in-
fatti come questi, così quelli servono a far conoscere e di-
stinguere i singoli tempi. Del resto il fatto solo, che il me-
desimo suffisso del presente s'incontri pure nelPimperfetto,
basta a mostrare che esso non aggiunge nessuna nota tem-
porale al verbo, come non credo nemmeno che esso serva
a imprimere nella forma il significato di azione durativa q
perdurante. Questi suffissi di presente, o meglio suffissi di
classe, io credo che siano suffissi derivatori di nomina a-
gentis^ come già egregiamente dimostrò l'illustre prof. Ascoli.
Ma non voglio per ora entrare in questa questione che ri-
chiederebbe per sé sola troppo lungo discorso.
Dal considerare come parte del tema temporale del pre-
sente la vocale che altri dicono di legame ne derivavano due
importanti conseguenze per la teoria della coniugazione nella
grammatica greca, l'una riguardante i verbi in |ii, l'altra la
classificazione dei verbi. Da tutti i grammatici si era detto
finora che ì verbi in )x\ si distinguono dal verbi in ui in
quanto che manchino di vocale di legame, p. e., Tl^^à-o-^€v
a canto a tcTia-iiiev. Ora questa vocale non essendo per noi
- 160 —
che un suffisso, si avrebbe dovuto dire che la differenza fra
gli uni e gli altri consistesse in questo, che ì verbi in w for-
mano il loro presente per mezzo di un suffisso, quelli in jà\
invece senza alcun suffisso. Senonchè la maggior parte dei
verbi in \ii esce in (v)vu)ii, p. e. Ò€Ìk-vD-]lii, e questo (v)vu
che precede le desinenze personali scompare affatto oltre il
presente e l'imperfetto; perciò egli deve riguardarsi, e fu in-
fatti riguardato da tutti i grammatici, come una nota spe-
ciale a questi due tempi. Questa nota è perfettamente ana-
loga a tutti gli altri sufl&ssi del presente che notiamo nei
verbi in uj, e che al par di essa mancano agii altri tempi-,
il (v)vu- quindi è un vero suffisso di presente, nel senso da
me dato a questa parola, ossia un suffisso di classe. Non
era quindi più lecito il dire che i verbi in jii formassero il
loro presente senza suffisso. In che consiste adunque la dif-
ferenza di coniugazione fra i verbi in tu e i verbi in \xi}
La differenza sta in questo, che i verbi in tu hanno un tema
del presente che esce in o, mentre i verbi in jai hanno un
tema del presente il quale esce in ahra vocale. Non fa ec-
cezione che il solo blbujui, verbo in tutta la sua flessione più
o meno irregolare, e che quindi non può punto infirmare
la nostra asserzione. Le due coniugazioni sono dunque fra
loro diverse perchè il tema d^i verbi che appartengono ad
una esce diversamente da quello dei verbi che appartengono
all'altra. Vale quindi pei verbi, come è naturale, la ragione
medesima che vale pei nomi. Questi pure appartengono a
diversa declinazione secondo che il tema loro esce piuttosto
in uno o in altro modo ; e come i temi Xoto-, veavia- e poipu-,
a cagione d'esempio, hanno declinazione diversa perchè e-
scono in vocale diversa, così in modo affano analogo i temi
del presente 9epo- e Wxa-, Xuo- e beiKvu- hanno diversa
flessione perchè diversa è la vocale che hanno all'uscita.
Tuttavia io non voglio dire con questo che la differenza fra
- 161 -
le due coniugazioni sia semplicemente fonetica. No; ve n'ha
una morfologica, e importantissima. Mentre nei verbi in uj
il tema esce in o nelle prime persone di tutti i numeri e
nella terza del plurale, e in e nelle altre persone, nei verbi
in m invece il tema esce in vocale lung-a nelle tre per-
sone del sing. del pres. e imperf. indicat. attivo, ed in
vocale breve in tutte le altre sue forme. Ora questa dif-
ferenza è certo importantissima, ne la grammatica deve ta-
cerla o nasconderla o scerriarla-, nella mia grammatica essa
è posta in evidenza non meno che in tutte le altre gram-
matiche ch'io mi conosca, cosicché mi ftce non poca mara-
viglia il vedermi rimproverare dal prof. Oliva di non aver
tenuto distinte le due coniugazioni (pag. 85). Se non che
tutte le sue osservazioni ed obbiezioni su questo proposito mi
riuscirono poco chiare, e temo ch'egli abbia letto forse troppo
in fretta, e non colla debita attenzione la mia grammatica
in questa sua parte. A che debba attribuirsi questa diffe-
renza organica fra le due coniugazioni non è facile il dire,
ne spetta ad ogni modo il dirlo alla grammatica speciale
della lingua greca. Questa differenza, come è noto a tutti
gli studiosi di lingua greca, e come il prof. Oliva ripete,
non si estende al di là del presente e dell'imperfetto.
Circa all'aoristo secondo dei verbi in ^i, ch'io dissi ter:{o^
terrò discorso più sotto. Al di fuori dunque di questi due
tempi ogni differenza di coniugazione fra i verbi in iw ed i
verbi in ^i sparisce, tutti seguono la medesima flessione,
variata solamente in quanto che il tema verbale ora esce
in vocale ora in consonante muta ora in consonante liquida.
Questo fatto importava che fosse posto nella grammatica
in maggiore evidenza di quello che finora si è fatto. Poiché
dal trattare i verbi in -^i a parte e da soli, separati affatto
dai verbi in uj, s'ingenera facilmente ne'giovani l'opinione
che le due classi di verbi abbiano in tutto coniugazione di-
— 162 —
versa. Ragioni quindi e scientifiche e didattiche consiglia-
vano di far seguire immediatamente dopo la coniugazione
del presente e delibi mperfetto dei verbi in u; quella del pres.
e deli'imperf. dei verbi in \.ix. E questa innovazione mi parve
potesse introdursi nella scuola senza rendere punto più dif-
ficile o più lento lo studio della grammatica greca. La con-
iugazione del pres. e deirimperf. dei verbi in w si apprende
dai giovanetti nelle scuole nostre insieme colla declinazione,
affinchè possano fare i temi e gli esercizi che son necessari
a ben imprimere loro nella memoria tutte le forme dei
nomi. Quando essi arrivano quindi alla teoria della coniu-
gazione del verbo, conoscono già praticamente quella parte
che si riferisce al pres, e alPimperf. dei verbi in w. Non
mi par quindi che possa riuscire difficile l'aggiungere im-
mediatamente ad essa lo studio della coniugazione del pres.
e deli'imperf. dei verbi in fii, la quale differ sce da quella dei
verbi in u) molto meno di quanto a prima giunta può parere,
tanto più dopo che si è cessato di considerare i'o^e) come
vocale di legame. E le difficoltà di questo studio si dimi-
nuivano ancora o si togl'evano affatto per me, dal momento
che aveva creduto necessario, per ragioni che esporrò fra
breve, di separare dai verbi in p.i Vaoristo secondo^ che
tutte le altre grammatiche trattarono insieme, e di riman-
darne ad altro luogo lo studio.
La seconda conseguenza che derivava dal considerare la
vocale di legame come suffisso o parte di suffisso tematico
era una classiJica:{ione dei verbi diversa da quella adottata
dal Curtius o da altri grammatici. Per una teoria della
coniugazione i verbi greci non si potrebbero pratica-
mente classificare che in due sole maniere, o secondo Tu-
scita del tema loro, come si fa pei nomi, secondo cioè che
il tema verbale esce in vocale o in consonante, ovvero
secondo il modo diverso col quale formano il presente. Se
- 163 -
i vocabolari greci, invece di dare ìe parole bell'e fatte, des-
sero le nude radici, o i temi verbali, la prima maniera di
classificazione sarebbe per molte ragioni da preferirsi alla
seconda; ma poiché i vocabolari offrono i verbi nella forma del
presente indicativo, così per ragioni pratiche la grammatica
è costretta ad appigliarsi alla seconda maniera, e a classi-
ficare tutti i verbi secondo la diversa formazione del pre-
sente. Conosciuta questa si può facilmente risalire al tema
verbale, che è il fondamento sul quale tutte le altre forme,
le une indipendentemente dalle altre, vengono ricostruite.
Una classificazione per essere esatta e compiuta deve es-
sere tale che in sé comprenda tutti gli oggetti che sono da
classificarsi, e che abbia un u?iico criterio,
A queste due condizioni, se io non m'inganno, risponde
pienamente la classificazione da me proposta, mentre invece
pecca contro la seconda quella adottata nella sua grammatica
dal Curtius. In questa infatti una prima classe è costituita
dai verbi che hanno il teina del presente eguale al tema
verbale (per es. , XéY-o-nev), e un'altra classe da quelli che
hanno il tema verbale rinfor:{ato al presente (p. es., Xeirr-o-iiiev,
tema verbale Xm-). In queste due classi adunque il criterio
di divisione è una qualità inerente al tema stesso del pre-
sente, mentre invece in cinque altre classi il criterio di divi-
sione è il vario suffisso del presente (j-, t-, v-, (Tk-, vu-), e nel-
l'ottava il criterio è un altro ancora, il ricorrere cioè a temi
diversi per formare certi tempi. E poi, se la prima classe
deve comprendere i verbi che hanno il tema del presente
eguale al tema verbale, perchè non saranno in essa com-
presi anche i verbi ècr-|n^v, (pa-fi^v, T-n€v ed altri simili, che
il Curtius pone in un'altra classe? Nella nostra classifica-
zione invece l'unico criterio di divisione è il suffisso del
presente, e secondo che esso è diverso, diversa è la classe
alla quale il verbo appartiene, e se esso manca, come in
~ 164 -
non pochi verbi (in jii) avviene, tutti questi entrano na-
turalmente in una classe sola, che è la settima nella mia
grammatica. In questa classificazione tutti i verbi greci,
tutti quelli per lo meno che hanno un presente, trovano
il loro posto, dietro un criterio evidente e facilmente rico-
noscibile.
Il prof. Oliva mi rimprovera d'aver scambiato i caratteri
di classifica'{ione con quelli della coniugazione (pag. 8i),
ma se devo dire il vero, per quanta buona volontà ci met-
tessi, non sono riuscito a ben comprendere che cosa egli
volesse dire con questa asserzione.
Nella mia classificazione non volli tener conto dei temi
verbali semplici e dei rinforzati, come fa il Curtius, e ciò
per due ragioni principalmente. Prima di tutto perchè biso-
gnava ch^io scegliessi un unico criterio di divisione, e questo
scelsi, come sopra già dissi, nel suffisso del presente, e in
secondo luogo perchè la differenza fra tema verbale semplice
e tema verbale rinforzato non ha a che far nulla col pre-
sente.
Di fatti il rinforzamento che iì Curtius, e con esso quasi
tutti i grammatici, dicono del presente, si estende non solo
airimperfetto, ma anche a tutti gli altri tempi, ad eccezione
delTaoristo secondo o forte, in alcuni pochi verbi, che per
la prosa attica si riducono a Xeitriu e cpeuTiw e pochissimi
altri. L'avere il tema ingrossato non è dunque una proprietà
del presente, come non è nemmeno una proprietà esclusiva
all'aoristo secondo, né ad alcun altro tempo, l'avere il tema
semplice; in questo la lingua non segue regola sicura, né
su questo criterio si può ragionevolmente istituire una clas-
sificazione dei verbi greci.
L'origine di questi doppi temi nei verbi e la loro esten-
sione ed importanza nella lingua greca meriterebbero piiì
lungo discorso di quello che per ora mi sia concesso. Ma
- 165 —
a me pare che in molte grammatiche moderne, e più che
in tutte forse in quella del Curtius, siasi dato troppe
maggior rilievo a queste doppie forme di quello che esse ab-
biano realmente nella lingua. Nel greco esse sono relativa-
mente poche, benché s'incontrino in verbi assai di frequente
adoperati. La loro importanza è grande principalmente per
la storia della lingua, che in origine, come dal dialetto
d'Omero e dei poeti si può dedurre, esse erano più nume-
rose di quello che sono nel dialetto attico. Ma nella lingua
si scorge evidente la tendenza di ridurre tutta la coniuga-
zione ad un unico tema verbale, e nello stato in cui il
greco ci si presenta, questa riduzione è proceduta ormai
così avanti che nella grammatica la distinzione fra tema
semplice e rinforzato va considerata piuttosto come eccezione
di pochi verbi che come regola generale del maggior nu-
mero. Nel dialetto attico , a parte poche eccezioni , noi
possiamo dire che il tema semplice s'incontri nelFaoristo
secondo soltanto, e solo nei verbi della prima classe-, perchè,
essendo in questa il suffisso dei presente eguale a quello
deiraoristo secondo, la distinzione dei due tempi non
poteva più avvenire per mezzo del suffisso (che, per es.,
l-tpa(p-ov per la sua forma tanto sarebbe imperfetto quanto
aoristo secondo) ; e bisognava quindi o adoperare l'aoristo
i° (ItpaM^a) o imprimere la differenza nel tema stesso del
verbo. Così si ebbe I-Xitt-ov accanto a l-Xeirr-ov, ?-(puT-ov
accanto ad ?-<peuT-ov ed 2-TpaTt-ov accanto a è-Tp€7r-ov, e così
via. Mentre invece in tutti gli altri tempi nei quali il solo suf-
fisso di ciascheduno bastava a impedire che si confondessero
insieme, la lingua conservò intatto un unico tema verbale
(ved. per es. i tempi di neiOiu), come io conservò in quelle
classi di verbi nelle quali il suffisso del presente era diverso
da quello dell'aoristo 2°; co?ì, per es., l-PaX-Xo-v (da *è-paX
-jo-v) ed è-paX-o-v, l-KpqZo-v (da *è-KpaT-jo-v) ed i-KpaT-o-v,
Svista di filologia ecc., l. •*
— 166 -
è-TUTT-To-v ed ?-TUTT-o-v, l-Te|Li-vo-v ed ?-Te|i-o-v ecc. Questa
regola ha come ogni altra le sue eccezioni", né io la accenno
come se fosse costante, ma solamente perchè mi pare che
ad essa tenda sempre pii^ accostarsi nel suo corso la lingua;
e per mostrare entro quali limiti vada ristretta nella gram-
matica la distinzione dei temi verbali semplici e rinforzati.
Ora, per ritornare alla classificazione dei verbi, pare a
me che quella proposta nella mia grammatica sia da pre-
ferirsi a quella adottata dalle altre, tanto se si considera dal
lato scientifico quanto se dal lato praùco e dalla sua utilità
per le scuole.
II numero delle classi è minore dì quello stabilito dal
Curtius, e i caratteri di ciascheduna sono assai facili a di-
stinguersi in qualsiasi verbo. Io credo sia ben raro il caso
che un giovine si trovi impacciato a conoscere immediata-
mente a quale delle sette mie classi un verbo qualunque
appartenga, mentre non so se colla stessa facilità egli possa
riuscire a questo sia nella grammatica del Curtius sia in
altra qualsiasi.
Passo ora alla terza innovazione notata dal prof. Oliva
nella mia grammatica, e più esplicitamente ancor delie
altre da lui riprovata e respinta, quella ddVaoristo ten^o.
L'aoristo ch'io dissi terzo fu finora da tutti i gramma-
tici riguardato come un aoristo secondo speciale ai vei^bi
in MI, e da tutti la sua flessione si è sempre trattata in-
sieme con quella del presente e dell'imperfetto di questi
verbi, e si asseriva concordemente che, meno pochissime
eccezioni, questo aoristo segue nel modo indicativo la con-
iugazione deirimperfetto, negli altri modi quella del rispet-
tivo presente dei verbi in j^ii. La sola differenza che vi
si notava era questa, che Taoristo fosse privo del raddop-
piamento che è proprio degli altri due tempi. Così, p. e.,
essi dicevano: come bìbiufa all'imperfetto fa é~òi-buj-v, l-bi-
- 167 —
Ò10-5, è-òi-bu», così all'aoristo 2° farà è-òm-v, J-òuu-^, è-òui, e come
al plurale l'imperfetto ha è-òi-bo-).iev, é-òi-òo-T€ , è-òi-òo-crav,
così Taoristo ha €-bo-uev, è'^bo-ie , l-bo-cfav. Egualmente
per TÌ0Ti)iii accanto alPimperf. è-Tien-v, è-Ti-Gn-?, è-ti-Qr] si ha
Taoristo 2" è'-Gn-v, ^-Gn-?, è'-Gn, e pel plurale accanto a è-ri-
8£-M€v, è-TÌ-0e-Te, è-xi-Ge-oav le corrispondenti forme deirao-
risto 2° é-0e-|Li€v, e-tì€-Te, e-0e-O"av. Così di 'tcTiriMi ^imperfetto
suona l'UTTiv, iO'tti?, l'cTTri, e Taoristo 2°, sostituendo l'aumento
allì che nell'imperfetto fa le veci del raddoppiamento, ha
normalmente l-arn-v, è-aTTi-(;, è'-cin Se non che, essi dice-
vano, per questo verbo è da notarsi che esso irregolarmente
conserva lunga la vocale del tema anche nel duale e nel
plurale (è'cTTriiuev ecc.), mentre nell'imperfetto, secondo la re-
gola generale, l'ha breve (iCTàMev, idrcLTt ecc.) (i). — Ora
Tesposizione di questi fatti e di questa regola è piena di
inesattezze per non dire che è erronea affatto, ed io non so
comprendere come abbia potuto ripetersi tradizionalmente
in tutte le grammatiche fino ai giorni nostri. Prima di tutto
le forme per Taoristo 2° dei verbi biba))ai e TiGrmi al numero
singolare (èbuuv, tbuuq, Ibu) - éGriv, è'Qri<;, eGr)) sono una inven-
zione gratuita dei grammatici, fatta per avere esatto il paralle-
lismo colia coniugazione dell'imperf. dei verbi in jni. La
lingua di queste forme non sa nulla, e ci mostra sempre
per questi due verbi e pel verbo iriiai neiraoristo 2" al nu-
mero singolare le strane forme col suffisso xa (è'bouKa, èQ»ìKa,
fÌKa) uniche in tutta la grammatica greca, e senza esatti ri-
scontri nelle lingue affini. La corrispondenza quindi della
flessione di questi aoristi con quella deirimpcrfetto dei verbi
(i) Quest'opinione è così radicata nei grammatici che il Kì^hner
nell'ultima edizione della sua pregiatissima Grammatica compiuta della
lingua greca [Ausfiìhrlichc Grammatik der gricchischen Sprachc, Han-
nover, 1869-1872) dà per l'aor. di ictniui le forme èaTrjv, fOTr|(;, écfr)-) e
al piar, laxaiuev, foTOTc, èaxaaay/, benché nel paradigma poi si corregga.
- 168 —
in m è un'asserzione dei grammatici contraddetta dalla lin-
gua stessa. Ne meno erronea è Taltra loro asserzione che
il mantenersi della vocale lunga del tema nel plurale e nel
duale dell'aoristo 2° di latrmi ( ^arnv, pL èatrmev e non
larayiev) sia una irregolarità, poiché tutti gli altri aoristì di
questo tipo («tviuv, èbpciv, ècpOv, Ibuv ecc.) conservano egual-
mente come ècTTTìv la lunga in tutto l'indicativo, e soli i
tre verbi citati hanno la breve nel plurale e nel duale.
Stando quindi ai fatti che la lingua ci offre, noi dovremo
dire che la coniugazione regolare di questo aoristo ci è rap-
presentata da èainv, poiché con esso concordano perfetta-
mente, e in tutti i modìy tutti gli altri aoristi analoghi;
mentre invece dovrà dirsi irregolare la flessione dei tre verbi
bibiuni, xlenfii e in|ii) che non è seguita da nessun altro verbo
e che ha caratteri affatto suoi proprii e speciali. Né la ir-
regolarità di questi tre aoristi si limita al solo modo indi-
cativo^ che essa si estende pure agli altri modi^ cosicché
la loro flessione non coincide esattamente né con quella
del presente e dell'imperfetto dei verbi in ^ii né con quella
degli altri aoristi secondi. Così, p. es., nel modo impera-
tivo avremo nel presente TiBei, biòou, e nell'aoristo se-
condo invece Gè?, bó?; néì'injìnito avremo pel presente
•neévai, bibóvai, e per Taorìsto GcTvai, boOvai; e d'altro canto
tutti gli altri aoristi secondi a queste forme d'*imperativo
(eé?, bó?) e d'infinito (Geivai, boOvai) rispondono con forme
diverse ((TtììBi, tvoiGi ecc., ffxfìvai, fvaivai ecc.). La flessione
dunque di questi tre aoristi é per tutto e in tutto irregolare,
come irregolare in genere é la flessione di questi tre verbi
anche in tutti gli altri loro tempi. A torto quindi i gram-
matici considerarono finora come normale la flessione degli
aoristi di TiGnMt e bibujjni, e come anomala quella degli altri
aoristi, che da essi divergono. Conviene quindi invertire la
teoria, e posta come normale la flessione di Ictttìv, considerare
a parte e come eccezione quella dei tre aoristi in xa. Ora
per la flessione di Icxtriv vale la regola seguente : il tema ha
la vocale lunga nei tre modi indicativo (laxnv), imperativo
(0Tn9i) e infinito (cTinvai), ed ha invece la vocale breve negli
altri tre modi soggiuntivo (cttu) da * aiaui), ottativo (ata-in-v)
e participio (aià-VT-e*;). Dov^è dunque la somiglianza fra que-
sta flessione e quella del pres. e delPimperf. dei verbi in )ii, se
in questi la vocale lunga del tema sMncontra solo nelle tre
persone singolari del modo indicativo , e in tutte le altre
forme abbiamo la breve ? Fra la coniugazione dell'aor, 2*
dunque e quella del pres. e dell'imperf. dei verbi in ini non
vi ha né parallelismo né somiglianza, né v'ha quindi ragione
alcuna né scientifica né didattica perchè la flessione dei tre
tempi si debba trattare insieme.
La flessione di questo aoristo invece coincide perfettamente
con quella dQWaoristo passivo, ne questa coincidenza è certo
accidentale. L'aoristo passivo é tempo composto dal tema ver-
bale e da uno (aor. 2") o da due (aor. 1") verbi ausiliari come
dimostrò già da molti anni il Curtius, la cui ipotesi mi pare
sia stata finora generalmente accettata dai linguisti. Ora
questo ausiliare dovette essere appunto un aoristo sul tipo
dell'aoristo ch'io dico ter:{0^ e poiché in questo è frequente il
significato intransitivo o passivo {laTr\v stetti, e fui posto), così
dovrebbe ora cessare dairapparir strano che Taoristo passivo
abbia la forma con flessione attiva. Accenno di volo a questo
concetto che meriterebbe più largo sviluppo, per ritornare alla
questione che piiì da presso mi riguarda.
Indotto dunque dalle ragioni sovraesposte a distaccare la
teoria della flessione dell'aoristo 3° da quella del pres. e del-
rimperf. dei verbi in m, mi parve che il luogo più razionale
ed opportuno per essa fosse presso alla teoria degli altri ao-
risti, nel qual posto serviva di naturale passaggio allo studio
degli aoristi passivi, coi quali, come abbiamo detto, Taor. 3**
- 170 -
ha identica flessione. Assegnato a questo aoristo un nuovo
posto bisognava dargli un nuovo nome poiché il vecchio non
gii poteva più convenire. Giacché é bensì vero che nessun
verbo in jii forma un aoristo secondo sul tipo dell'aoristo se-
condo dei verbi in cu (p. e. sul tipo di è'Xmov), ma é vero pur
anche che dei verbi in jui sono relativamente assai pochi quelli
che formano 1 aoristo ch'io dico terzo, e che la maggior parte,
più di due terzi, di questi aoristi appartiene ai verbi in uu.
Non può quindi essere lecito né per la flessione speciale
a questo tem.po, né pel numero dei verbi in |ii che lo for-
mano, denominarlo aoristo secondo dei verbi in fii. Le ob-
biezioni che il prof. Oliva (p. 87) fa a questa mia osser-
vazione non mi riescono molto chiare, né so che cosa in-
tenda col dire che queste forme sono irrazionali e che regna
intorno ad esse molta incertezza ancora, per il che il piii
sicuro espediente sembra quello di appigliarsi alle analogie.
Qui non si tratta già di spiegare Torigine delle forme, ma
solo di porre in chiaro i fatti che la lingua ci presenta, e di
ordinarli dietro quelle leggi che vediamo in essa funzionare,
e i fatti e le leggi son quelle esposte da me, non quelli sup-
posti dagli altri grammatici. Io non credo punto che per
questo tempo l'analogia abbia avuto che fare, né che verbi
in uj siano stati trascinati da essa nella flessione dei verbi
in |ii, né viceversa verbi in \xx in quella dei verbi in ai. Ogni
distinzione fra verbi in fu e verbi in tu cessa, come abbiamo
veduto, al di là del pres. e delFimperf., così per tutti gli altri
tempi, come per questo aoristo; e resta solo il fatto, che i
verbi greci hanno tre forme diverse d'aoristo, delle quali
gli uni scelgono l'una, gli altri Taltra per ragioni a noi sco-
nosciute ancora, ma certo indipendenti del tutto dalla diversa
forma del presente del verbo. Il parallelismo notato dal prof.
Oliva (p. 86) fra i verbi in u) e i verbi in ini per ciò che spetta
alla formazione degli aoristi é pura apparenza ed illusione.
- 171 -
A quella guisa, egli dice, che nella coniugazione dei verbi
in lu abbiamo due forme d'aoristo, Tuna sig-matica ^ Taltra
sen^a sigma, così anche nella coniugazione dei verbi in fjii
abbiamo due forme , Tuna composta col verbo sostantivo
(è?) e Taltra senza nessun segno. Ora questo riscontro sa-
rebbe esatto, quando realmente le due forme d'aoristo dei
verbi in uj fossero diverse dalle due forme d'aoristo dei verbi
in |Lii; ma invece la forma d'aoristo che il Curtius dice debole
è la medesima tanto per i verbi in lu quanto per i verbi in m,
e il prof. Oliva per avere almeno l'apparenza del paralle-
lismo fu costretto ad enunciare la cosa in modo alquanto
equivoco e dal quale alcuno potrebbe dedurre che lo aoristo
sigmatico (sufiQsso -ca da *èaa) dei verbi in uu sia diverso
dall'aoristo composto col verbo sostantivo {ì<C) dei verbi in
lai. Fra gli aoristi eXeHa ed IbeiHa di Xétuj e òeiKvU^i, e gli
aoristi ÌT\\vc\oa ed l(Sve\(S(x dei verbi Ti)idio e l'arniLii non v'è
diversità alcuna né d'origine né di forma. Ogni parallelismo
dunque cade, e resta unicamente il fatto che la maggior
parte dei verbi greci, siano in lu siano in |ui, forman Taoristo
col suffisso -aa , che alcuni verbi in uj formano Taoristo
col suffisso -0-, e che alcuni pochi altri finalmente , così in
Mi come in jii, lo formano senza alcun suffisso.
Stabiliti in tal modo i fatti, e i rapporti fra le varie forme
d'aoristo bisognava dar loro un nome che chiaramente le
distinguesse.
Alla vecchia denominazione tradizionale nelle gramma-
tiche greche di aoristo primo e aoristo secondo i gramma-
tici tedeschi moderni sostituirono diversi nomi. Lo Schleicher
e oggidì anche il Kiihner dissero aoristo composto l'aor. i%
e aoristo semplice Taor, 2°. E la denominazione allo stato
presente della scienza può parere esatta, in quanto che Ta-
oristo 1° si ritiene composto del tema verbale, e di un tempo
passato del verbo eivai (rad. èq) aggiunto come ausiliare;
mentre l'aor. 2" è formato per mezzo di un semplice suffisso.
— 172 -
Per me sotto questo aspetto si presentava ovvia la deno-
minazione di aoristo composto, aorisio derivato (aor, 2^
derivato dal tema verbale col suffisso -o-) e aoristo semplice
(aor. y)\ ma non l'accolsi per due ragioni: l'una perchè la
formazione di questi tempi, così come la spiegano i linguisti,
è ancora un'ipotesi, accettata bensì dai più, ma pure un'i-
potesi -, l'altra perchè nella scuola nessuno allievo avrebbe
facilmente capito, senza spiegazioni superiori forse alla sua
intelligenza, perchè dovesse dirsi composto, p. e., è-Xu-cra, e
semplice o derivato è-\ap-o-v.
Il Curtius , seguito anche in questo da altri grammatici,
adottò le denominazioni di aoristo debole per l'aor. i'*, e
di aoristo forte per l'aor. 2°; ma egli non denominò già
cosi questi tempi per le ragioni esposte dall'Oliva (^p. 88). Se
egli avesse detto /or/e l'aor. 2", perchè « certe radici verbali
ft sembrano avere in sé tanto di vigorìa e quasi di forza
« interiore da produrre un cambiamento fonetico nella vocale
« radicale», gli aoristi ?pa\ov, ^Kpatov, èreinov e moltissimi
altri non potrebbero dirsi /or//, poiché in essi la vocale della
radice resta intatta; e d'altro canto, se avesse detto « deboli
« quelle forme, nelle quali non ha luogo mutamento nel suono
« vocale della radice, ma che nascono per aggiungimento
(t esterno di sillabe », non avrebbe potuto dir debole l'aoristo
l<svi\<sa del tema aia-, o avrebbe dovuto dir deboli anche tutti
gli aoristi secondi, perchè anche in è-pa\-o-v si aggiunge ester-
namente una sillaba (-0-) al tema pa\-. La vera ragione per
la quale il Curtius, seguendo l'esempio del Grimm e d'altri
grammatici tedeschi, chiama alcune forme deboli ed altre forti
viene spiegata ne' suoi Schiarimenti (i) e consiste in questo
che nell'aoristo l' il tema verbale per esprimere il tempo ha
(i) Pag. 91 della seconda edizione originale, pag. 90 della versione
italiana di G. MùUer.
- 173 -
bisogno di un suffisso che lo rinforzi, e perciò si móstra più
debole di quello che apparisca nelKaoristo 2*, nel quale il tema
h forte abbastanza per supplire da sé solo all'espressione del
tempo. Ora questa maniera di considerare la cosa pare più
poetica che scientifica, e svanisce e si distrugge da se quando
si ammetta, come oggidì fa il Curtius stesso, che la vocale -0-
che forma Taor. 2° sia un vero suffisso tematico, e non un
semplice elemento fonetico. Le denominazioni del Curtius
dal mio punto di vista non potevano dunque essere più con-
servate*, né mi pare utile per la scuola il conservarle. Agli
occhi del ragazzo si presenta più forte, perchè più corpulenta,
la forma dell'aoristo debole di quella dell'aoristo forte, ed egli
trova quindi contraddizione tra la forma del tempo ed il di
lei nome. Né io so vedere come il dire un aoristo debole
e un altro ^or^e possa « avvezzare il ragazzo ad un modo
« serio e razionale di considerare l'involuto procedimento dei
« suoni vocali e di raccostargli la conoscenza di una legge,
tt che può essere facilmente dimostrata anche senza uscire
« dal campo dell' Ellenismo » (pag. 89). Io credo che il
prof. Oliva sarebbe non poco imbarazzato se dovesse mo-
strare questo procedimento o questa legge cui allude, la
quale è un'illusione dei grammatici più che una legge vera
e costante della lingua.
Né la denominazione dunque di aoristo semplice e com-
posto^ né quella di aoristo forte e debole mi parvero con-
venienti, appunto perchè m'avvidi di tutte le difficoltà che
circondano la questione delle origini e della storia delle forme
degli aoristi, questione che colla scelta del nome si può bensì
pregiudicare, ma non si può sciogliere. Io quindi non la
saltai a pie pari , come dice il prof. Oliva, perché non la
vedessi^ ma avendo io giudi'^ato le denominazioni proposte
inesatte riguardo alla scienza e inopportune riguardo alla
scuola, ritornai modestamente alle vecchie denominazioni di
— 174 —
aoristo primo o di aoristo secondo^ alle quali sponta-
neamente veniva ad aggiungersi come aoristo ter\o quel-
raoristo pel quale i nomi finora adoperati non mi parevano
ormai più convenienti. Queste denominazioni riescono ai
giovani più chiare di tutte le altre , ed hanno il vantaggio
d'indicare la statistica delle forme d'aoristo nella Ungua greca*,
giacché le prime sono frequentissime, meno frequenti le se-
conde, e scarse e limitate a pochi verbi le terze. Notai in
un'osservazione che i tre numeri non devono già indicare la
cronologia delle forme-, che in quanto a questa è assai proba-
bile che Taor. 3° sia forma più antica del 2*^, e questo alla sua
volta forma più antica del i". Le tre diverse maniere di formare
Paoristo rappresentano a mio modo di vedere tre diversi si-
stemi, e tre stadii diversi di coniugazione verbale. Nel primo la
semplice affissione delle desinenze personali al tema verbale
bastava a costituire il verbo-, nel secondo questo si otteneva
col mezzo di un suffisso (per derivazione)-, nel terzo per
mezzo di un ausiliare (per composizione). La prima forma-
zione come più antica è ristretta a pochi verbi, e non si
incontra che con temi radicali : la terza come più recente e
vigorosa è la più estesa. Essa, come sempre avviene delle
forme nuove che soppiantano un po' alla volta le antiche,
si sovrappone nel corso della lingua alle altre due e resta
unica forma d'aoristo al greco moderno. Questo mio modo
d'interpretare la storia degli aoristi greci avrebbe bisogno di
più largo e profondo sviluppo -, ma per ora m'accontento dì
questo cenno fugace, che altrimenti oltrepasserei di troppo
i limiti che mi sono proposto.
Nel corso di queste mie osservazioni m'è accaduto più
volte di dover combattere la teoria della coniugazione greca
esposta nella grammatica di Giorgio Curtius, e lo feci per-
chè l'argomento stesso lo richiedeva, e perchè anche il pro-
fessore Oliva nel giudicare della mia grammatica ebbe sempre
— 175 -
di mira quella deirillustre ellenista alemanno. Or mi dor-
rebbe che da questo fatto alcuno volesse dedurre ch'io tenga
in poco conto il libro del Curtius e abbia poco rispetto
al chiarissimo autore. Le opere pregiatissime del Curtius
furono sempre la guida migliore nei miei studii, e riconosco
in lui il mio maestro, e uno dei piià valenti campioni, certo
di tutti il più conosciuto, di quella scuola filologica che pro-
cura di porre in armonia la vecchia grammatica classica
cogr insegnamenti della linguistica, e reca da questa agli
studi ellenici tutta quella copia di lumi e schiarimenti di che
fìao ai tempi nostri difettarono. Che se nel compilare la
mia grammatica, pur camminando sulle sue orme, credetti
di dovermi allontanare qualche volta da lui, il feci sempre per
convinzione scientifica, come chi lesse queste pagine potrà
aver veduto, e non mai per semplice capriccio o vaghezza
di novità.
Fondo di Trento, settembre 1872.
Vigilio Inama.
CEV^U^I mi'BLIOG'JRAFICI
Braun, Die ergebnisse der sprachìvissertschaft in populàrer
darstellung^ Cassel, 1872.
Benloew, Apercu general de la science comparative des
langues^ 2"* ed. etc, Paris, 1872.
HovELACQUE, Instructious polir l'étude élémentaire de la
linguistique indo-européenne^ Paris, 1 87 1 .
I.
Se v'hanno scienziati, i quali, solleciti solo della gloriosa
scoperta di nuovi veri, non si curino punto né poco di far
- 176 -
conoscere ai molti, profani, i più cei ti ed importanti risultati
delle investigazioni proprie ed altrui, anzi siano usi di acco-
gliere con profonda indifferenza o con sorriso di compasbione
0 mal dissimulato dispetto qualsiasi sforzo altri faccia a tal
fine, noi crediamo aver provato, lavorando piij d'una volta per
conseguirlo, che non siamo dominati dalle idee e dagFistinti
aristocratici, troppo aristocratici, onde abbiamo fatto men-
zione. E, sebbene del tutto intenti presentemente a studi spe-
cialissimi, siamo sempre disposti a salutare con gioia ogni
tentativo diretto a diffondere nozioni scientifiche fra quelle
classi della nostra società, le quali, benché non consecrate
per la varia loro professione alla vita del pensiero, al culto
della verità, nondimeno vi sono iniziate e nobilmente bramose
di accostarvisi sempre più, . e fra coloro, che, quantunque
ad una minima parte della scienza abbiano rivolta in par-
ticolarissima guisa la loro attività, sentono tuttavia, e com-
prendono il bisogno di non ignorare affatto i progressi delle
altre discipline, soprattutto di quelle più affini all'oggetto
delle proprie indagini. Ma vogliamo e fermamente vogliamo
che le esposizioni sintetiche delle nuove rivelazioni delia
scienza a prò dei molti siano, quanto perspicue e compen-
diose, altrettanto esatte, sì nei concetti, sì nella loro espres-
sione, e fornite di tutti ipiù necessarii insegnamenti. E siamo
naturalmente tanto più inesorabili in queste nostre pretese;
quanto più abbondano i mezzi di soddisfarvi. Giusta questi
principii (e perciò appunto li esponemmo) esamineremo i tre
opuscoli glottologici del' Braun, del Benloew e dell'Hove-
lacque, e, se parremo agli autori od a nostri lettori qua e
là troppo severi, si compiacciano gli uni e gli altri di con-
siderare quanto sia importante, specialmente in una scienza
assai giovane ancora ed ancora ai più affatto ignota e da
molti oppugnata come la linguistica, il precetto del signor
Hovelacque « Soyons précis avanl tout » : considerino
— 177 -
eziandio quali e quanti sussidii a simili lavori siano le opere
di M. Miiller, di Schleicher, di Steinthal, di Pictet e di
altri non pochi, in ispecie tedeschi, dai quali suolsi esi-
gere molto, perchè, principalmente in questa parte dello
scibile, ci hanno avvezzi ai miracoli.
II.
Il prof. Braun prende le mosse dall'essenza della lingua
in genere e dalla scienza del linguaggio; indi procede ad
esporre la classificazione morfologica e la genealogica dei lin-
guaggi ed alcune nozioni speciali sulle famiglie dello stipite
indogermanico (com'egli lo appella ancora) ; poscia discorre
intorno al metodo delia linguistica alla vita della favella
umana; finalmente ci dà alcune più particolareggiate in-
formazioni suiridioma tedesco , e naturalmente in ispecie
sull'alto tedesco ne' suoi tre periodi. E, siccome ci riesce più
grato lodare che biasimare, notiamo subito che il Braun
rivela qua e là una pregevole attitudine a significare con
forma assai chiara verità non guari facili ad intendersi. Ma
questo pregio, che ci appare in qualche pagina del suo
libro, non ci sembra sufficiente compenso ai difetti di esso.
E, in primo luogo, mancano parecchie nozioni scientifiche
le quali non dovevano certamente essere ommesse, precipua-
mente da chi si diede pensiero anche di certi concetti che
alla scienza sono affatto stranieri (i): né, giusta il nostro
(i) Così, a pag. IO, vorremmo che l'autore avesse accennato anche
Pott; a p. i8 egli ci porge senza una parola di commento la classifi-
cazione delle lingue data da Steinthal ; a p. 27 si sbriga della fami-
glia celtica con quattro insufficientissirae linee ; a p. 28-29 ci si mostra
troppo avaro di notizie intorno alla famiglia italica; a p. 32-33 e 36
ommette di menzionare voci di alcune famiglie d' idiomi ariani , seb-
bene identiche in origine colle parole citate di altre famiglie del mede-
simo stipile e necessarie alla tentata dimostrazione. E, data una forma
- HR —
parere, puossi in libri sì fatti tralasciare di far conoscere
ai lettori le opere più utili a consultare intorno a ciascun
argomento di cui in essi breveinente si tratti. Osserviamo
secondamente che non tutti gFinsegnamenti del Braun ci
sembrano tanto esatti quanto vorremmo a buon diritto (i).
Vuoisi in ultimo notare che Tordine della trattazione non
è certo il più commendevole. Facciamo voti pertanto, affinchè
a questa operetta del prof. Braun tenga dietro qualche altro
lavoro degno di maggior lode.
III.
Non saremo guari più indulgenti verso il prof. Benloew,
il quale ci diede una seconda edizione di un libro pubbli-
cato nel i858, la quale sarebbe del tutto eguale alla prima
(anche tipograficamente) se non vi avesse aggiunte alcune
latina, a che giova in simil caso aggiungervi forme neo-latine ? Evi-
dentemente tale aggiunta è affatto superflua, affatto inopportuna, come,
la Dio mercè, sono ormai del tutto inutili le confutazioni di certe idee
intorno al linguaggio primitivo (p. 21) ed all'origine della umana fa-
vella (p. 48-49) , delle quali idee la scienza positiva non ha né il dovere
né il diritto di occuparsi.
(i) V. g. in un libro, nel quale l'autore doveva proporsi dì non
esporre se non i più accertati risuliamenti delie ricerche linguistiche,
egli ben poteva astenersi dal discorrere del vario grado di affinità esi-
stente tra le singole famiglie degl'idiomi ariani e della divisione del
linguaggio e del popolo ario primitivo in più linguaggi e popoli (p.40-
41): quale incertezza regni ancora in ordine a questo problema, anche
fra i maestri della scienza glottologica, appare evidentemente a chi
legga, V. g., la Vorlesung di M. Mùller Weber die resultate der sprach-
wissenschaft, Strassburg, 1872, p. 18-21. Non a proposito si cita a p. 4S
rò99a\|uió^ greco, nel quale l'aspirata cp è di mal nota origine: dove-
vansi citare piuttosto le forme òk-t-oWo-^ (beot.), òk-ko-v (Esichio), 6it-
ita (eoi.) (v. Curtius, Grundijuge der gr. etymologie , Leipzig, 1869,
3» ed., p, 423-4Ì Né viene ammesso da tutti i linguisti lo svolgimento
del linguaggio da tenui principii (p. 47); tutti sanno come e quanto sì
fatta ipotesi sìa stata combattuta dai Renan [De Vorigine du langage .
Paris, i858, p. 99-117).
- n9 —
appendici. Saremmo assai grati al nostro autore se avesse
arricchito questo suo trattato di una storia compendiosa
della investigazione linguistica, d'Informazioni un po' parti-
colareggiate intorno agi' idiomi più importanti e d'indica-
zioni bibliografiche. Il difetto di queste nozioni è assai de-
plorabile in un'opera di questa natura : più deplorabile an-
cora è la poca esattezza di parecchie asserzioni (i). Né l'ordine
seguito dal Benloew ci pare più lodevole che quello del
Braun.
A questo giudizio dobbiamo aggiungere poche parole in-
torno a quelle due appendici, onde l'una tratta « Delafor-
mation des hvigues celtiques >• (p. 1 38-45), l'altra e De Vo-
rigine de l'ìnjìnitif présent passi/ dafts Ics langues clas-
si qites y> (p. 1 19-127). Certi caratteri delle lingue celtiche, i
quali non appariscono negli altri idiomi ariani, indussero il
nostro autore a credere il popolo celto « né du mélange
d'une tribù d'Aryàs avec des habitants primitifs de l'Inde
et de rindo-Chme parlant des dialectes dravidiens et malais»
(i). Confessiamo schieiiamente che non possiamo a verun patto cre-
dere col nostro autore che, p. es., fivBpujTroq derivi da àv6T)póc;ed Jjiji(p.i7),
YepovTiKÓ<; da -fépujv ed cikuj, olvripói; da olvo? ed ópi, épi - essere il primo -
(p. 24), |uév e òé da fióvov e ÒOo (p. 25) ecc. : né sappiamo qual esempio
si potrebbe addurre di radici d'origine verbale, e , in pari tempo , pro-
nominale (p. 24). Le forme TroXT-xai, lup-orum (p. 38) non sono certa-
mente divise con sano criterio linguistico. Né siamo guari disposti ad
accogliere la denominazione di « langues normales » (p. 23) per le indo-
europee e le semitiche, come se tutte le altre fossero irregolari ; né ci
sembra validamente dimostrata con esempii tratti da ben poche fami-
glie di linguaggi l'universalità della «grande loi » dello accento (p. 66);
nò possiamo ammettere, dopo gl'insegnamenti di Steinthal, che il copto
sia una lingua atomica (p. 71 e 80}. Cosi ci desta meraviglia il vedere
nel Tableau des langues indo-européennes il lituano nella colonna de-
dicata alle lingue slave (v. anche p. 14S). E pare a noi che il Benloew
non avrebbe dovuto considerare come fatto certissimo un periodo pri-
mitivo di monosilìabismo nella vita delle lingue indo-europee e semi-
tiche (p. 146). Finalmente siamo costretti a giudicare assai male esposta
la classificazione dei linguaggi costrutta da Stein ihai (p. 117-1^1).
- 180 —
(p. 143), e non esservi dubbio clie più tardi «< plus d'une
liorde ougrienne n'ait été englobée... dans la grande migra-
tion dcs Galates ou Gadheles » (p. 144): così il Benloew
ammette e spiega certe influenze dei parlari dravidici e ma-
lesi e degli ugro-giapponesi sui dialetti celtici. Ma a confer-
mare questa ipotesi (che mera ipotesi sembra allo stesso
autore [p. 145]), quali parole da tali parlari passate negli
idiomi celtici citò il Benloew? Egli sa meglio di noi come
la parte lessicale di un linguaggio, posto in contatto di lin-
guaggi eterogenei, ne subisca Fazione ben più che non fac-
ciano i suoni e le forme -, come i caratteri lessicali siano as-
sai meno immutabili che i grammaticali : ciò insegnano gli
odierni linguisti, ciò non rari né lievi esempii solennemente
dimostrano. I linguaggi celtici dovrebbero pertanto offrirci
parecchi vocaboli provenuti da quegli altri idiomi di stipite
diverso. Ma il Benloew sta pago di predire che: « Les
celtistes nous diront un jour peut-ètre où , dans le diction-
naire du vieil erse et de l'irlandais , il se trouve des mots
d^origine dravidienne et finnoise » (p. 144). — Gravi ragioni
ci distolgono eziandio dallo approvare la spiegazione che il
Benloew ci offre dello infinito presente passivo in latino. La
novità di sì fatta spiegazione non in altro ci sembra consi-
stere, che nello estendere a tutte queste forme la ipotesi che
Lange(i) propose soltanto per quelle della terza coniuga-
zione, v. g. amarier {2) = ''ama-re-fier ecc., e nel considerare
il -re- come = se, pronome riflessivo. Ma, giusta il Benloew,
noi dovremmo al r finale di questi infiniti arcaici attribuire
un'origine diversa da quella che suolsi assegnare al r in cui
(i) Ueber die bildung des lateimschen infinitivus praesentis passivi,
Wien, 1859. V. anche SchleicKer, Compendium ecc., § 23o, p. 474-6
(§ 121, p. 260-3 della nostra versione).
(2) V. Neue, Formenlehre der lateinischen sprache , Stuttgart-Mitau,
1861-6, parte 2*, pag. Sog-iS.
- 181 -
escono tsnte altre forme del medio-passivo latino e che con
quelio è secondo ogni verisimiglianza identico. Inoltre, come
bene osservò G. Corssen (i), non abbiamo esempio di
verbo secondario, come fio {~yu-io^ cfr. colico (pu-iuj),
adoperato qual elemento formatore regolare del passivo , a
mo' dei temi semplici es- ^fu- che l'analisi scopre in molte
forme del verbo latino : nei composti in cui ci appare il
^tri questo consers'ò, diremmo quasi, la propria indivi-
dualità, restando membro di composizione col pieno si-
gnificato proprio né mai diventando mero suffisso di flessione.
K ciò s'aggiunga che solo a stento puossi trarre, v. g., hgier
da *lege-re-fier! Nemmeno il Benloev/ può dirsi T Edipo in-
terpretatore di questo enigma : alla sua ipotesi ed a quella
di Lange, alle piiì antiche di Bopp e di Pott ed alla più re-
cente di Schonberg preferiamo quella di Corssen (2). Per
ciò che concerne lo infinito medio-passivo greco in cfSai il
Benloew pensa che il -cr- probabilmente sia identico col s del
se latino, ossia un avanzo di pronome riflessivo, ed il -Gai sia
un locativo di un nomen agentis dalla rad. ©€ o rappresenti
il suffisso scr. 'tha-. Anche questa forma non venne ancora
illustrata come vorrebbe ogni vero studioso dì greco.
IV.
Meglio che il libro del prof. Benloew gioveranno a chi
voglia iniziarsi alla linguistica storico-comparativa le « In-
siructions » del sig. Hovelacque. Dopo una lunga, forse
troppo lunga ne sempre opportuna introduzione intorno alla
(i) V, la Zeitschri/t di Kuhn, voi. io», p. 149-56.
(2] Ueber aussprache, vokalismu^ und betonunp der lateinìschen spra^
che, Leipzig, 1868-70, voi. 2», p. 478-79. Noi responemmo nella no-
stra Grammatica storico-comparativa della lingua latina ecc. (Torino ,
«872), § 9°» P- 5Ó9, nota 4».
lijvisla di filolosia ecc., l. ij
— 182 —
scienza del linguaggio in genere (p. 7-44) l'autore intra-
prende il modesto ma utilissimo lavoro di ammaestrare il
futuro linguista intorno agli studi a cui esso debbe accin-
gersi, all'ordine che vuoisi in essi seguire, alle opere di mag-
gior importanza a cui conviene aver ricorso per conoscere
lo stato odierno della scienza in ordine alle lingue ariane ,
considerate si nell'unità primitiva si nella posteriore varietà
in cui esse ci si presentano. I giovani , i quali coli' ardore
ma eziandio coU'inesperienza della loro età si avviano a
percorrere il vasto campo della linguistica , debbono essere
assai grati a chi si fa loro guida e mostra loro le strade ed
i sentieri da lui già esplorati, che col massimo rispàrmio di
tempo e di fatica li conducono alla meta. E le indicazioni
delPHovelacque ci sembrano per lo più sufficienti per bontà
e per numero. Qualche difetto vi si scorge tuttavia: de-
ploriamo , ad esempio , che egli non abbia fatto menzione
dei Corsi di glottologia ecc. dell'Ascoli, opera importante
onde apparve nel 1870 il primo fascicolo, che fu accolto
come gli si addice non solo in Italia e soprattutto in Ger-
mania, ma eziandio in Francia. E vorremmo inoltre che
l'autore fosse stato meno aspramente severo verso M. Mai-
ler e Pott (p. i3-i7, 58 e 83), innanzi ai quali, e princi-
cipalmente al secondo, c'inchiniamo reverenti. Né meno che
il biasimo inflitto a questi due egregi ci desta meraviglia
l'inno di lode al Chavée, e soprattutto, Io confessiamo schiet-
tamente, ci sorprende il vederlo posto accanto a Schleicher
(p. 47 e 54): a Schleicher, di cui forse la maggiore virtù scienti-
fica fu l'inesorabile rigore del metodo; a Schleicher, onde il va-
lore, come il sig. Hovelacque sa al pari di noi, è ben più una-
nimemente riconosciuto dai cultori della linguistica che non
quello del Chavée (1) ! Lasciamo in fine a coloro, che si diedero
(i) V. il giudizio che uè dà Corssen nella Zeitschrift di Kuhn, t. iS»,
p. 128 e i3o.
- 188-
in ìspecial guisa allo studio degridiomi tedeschi, il compito
di giudicare gl'insegnamenii del signor Hovelacque intorno
alla famosa legge di Grimm. A noi basta aver fatto cenno
dei vantaggi che da questo opuscolo si possono trarre e
notato con franche parole, che l'autore perdonerà certamente
alla nostra sincerità , quanto nel suo lavoro ci parve meno
utile agii studi linguistici dei giovani animosi , per cui egli
con generoso pensiero dettò quelle pagine.
Torino, 8 ottobre 1872.
Domenico Pezzi.
Kur^gefasste Geographie von Altgriechenland. Ehi Làtfa-
denf'ùr den Unterricht in der griechischenGeschichte und
die gi'iechische Lectilrc auf hoheren Untcrrichts - An-
stalten von August Buttmann. Bei'liuy 1872.
Ai dì nostri non si può abbastanza ripetere , che il vero
ultimo fine delle scuole classiche è preparare le giovani
generazioni per la vita, ma non già per una determinata
carriera pratica. I ginnasi i ed i licei non devono mai avere
per mir^ l'insegnare alcunché, perchè sarà d'utilità pratica
per la vita ; essi debbono insegnare le cose che meritano
d'essere conosciute ed imparate dall'uomo veramente culto e
civile, senz'alcun riguardo al loro immediato uso, ed il gio-
vane deve apprenderle, se vuol riuscire uomo tale che
veramente meriti il nome di culto, senza pensare che quelle
cognizioni , nel cui apprendimento occupa i migliori anni
della sua vita giovanile, gli renderanno un frutto materiale
nel tempo susseguente. Solo così governandosi la scuola clas-
sica corrisponde al suo compito fondamentale di preparare
per la vita, per la vita in genere, io dico, non per una deter-
minata forma di essa. La scuola classica deve aver ben altro
— 184 —
e superiore --^copo, che quello di preparare immediatamente
per gli studi universitari e per mezzo di essi al servizio dello
Stato; essa deve innanzi tutto addestrare per la lotta d'i! la
vita, rendere abile a vincere in questa lotta. Essa si trova
sul medesimo terreno collo stato nazionale, e non può che
aiutarlo e servirlo : e io aiuta e lo serve con perfetta co-
scienza di questo suo dovere, perchè essa è quella che alle
generazioni affidate alle sue cure rende possibile di at-
tuare le grandi idee concepite dalla nazione, e così essa
educa alla vita civile. Ma per questo non è semplicemente
serva dello Stato: come la sua ultima meta non è di for-
mare abili uomini d'affari, così non è nemmeno quella
di dare al governo abili impiegati, alla società buoni avvo-
cati, medici od ingegneri. La scuola classica vuole educare
tutto Tuomo, e Tuomo dell'epoca moderna non è, come Tan-
tico spartano, esclusiva proprietà ed istrumento dello Stato.
L'umanità deve continuamente progredire a maggiore mo-
ralità ed anco a maggiore felicità in questa vita terrestre :
in questa continua lotta ci debbono essere potenze che ab-
biano la missione di conservare Teternamente vero e bello,
di diffondere l'amore e la cognizione di esso senza alcun
riguardo ai continui muramenti della vita esteriore e delle
condizioni sociali e politiche ; fra tali potenze è la scuola
classica , se veramente è quale esser deve. 11 dare nutri-
mento intellettuale alla gìoventij, il rendere atto il mag-
gior numero di allievi, non solam.ente quelli che sono dotati
di maggiore ingegno, all'acquisto di utili cognizioni, l'edu-
care la parte eletta del popolo, quest'è un compito che la
scuola classica ha comune con gli altri istituti d'istruzione;
ma essa ne ha uno suo particolare : quello di accrescere le
forze intellettuali della nazione ed il loro valore pel mondo,
di formare uomini di aito e nobile sentire , atti a guidare
le moltitudini, a coltivare l'ingegno, ad appianare la via
- 185 -
al genio; la scuola classica, mi sia lecito i) dirlo, è per
sua natura un'istituzione aristocratica. Come mezzo piij
potente ed efficace a raggiungere questo suo scopo sublime,
la scuola classica si serve dello studio delle lingue e lettera-
ture dei due più grandi popoli deirantichità, dei Greci e dei
Romani, gli eterni, non mai da alcun popolo moderno rag-
giunti modelli di umana grandezza. Nessun' altra materia
d'insegnamento è tanto atta ad esercitare le facoltà intellet-
tuali del giovane, a destare grandi e nobili idee e sentimenti,
quanto il profondo studio e la estesa lettura dei classici greci
e latini. Ben a ragione adunque il greco ed il latino sono il
perno degli studii ginnasiali e liceali, a cui gli altri insegna-
menti servono di necessario complemento. Gli altri rami
sono , almeno in parte , sì strettamente connessi con questo
studio precipuo e fondamentale , da non poterne andare
in verun modo disgiunti. Non voglio dire con ciò che non
abbiano anco un altro fine loro particolare; ma chi ben
pensi quante e quali cognizioni siano necessarie per ret-
tamente intendere e ben interpretare un autore classico,
facilmente mi concederà che questo intimo nesso fra lo
studio delle lingue classiche e quello di altre discipline,
insegnate nella scuola classica , è tale da non poter affidare
l'insegnamento filologico a chi non sia più che mediocre-
mente versato in alcune di queste discipline che qui si con-
siderano come ausiliari della filologia classica, astrazione
fatta deirimportanza loro propria.
Quanto dico vale innanzi tutto per le discipline storiche
e per la. g-eo^rajia {i\ che è l'anello di congiunzione fra le
(j) Non può essere mio intendi oietito di parlare qui dell'importanza \
dell'insegnamento gcognUco in generale, ma inviterò il mio lettore
a leggere un articolo molto ben ra^',ionato di G. Cuno, Uiber die GeO'
graphie als Bildungsmittci auf deutschen Gymnasien , inserito nella
•« Zeitschrift fiìr das Gymnasial-Wesen herausgegeben von H. Bonit\,
- 180 -
prime e le scienze naturali e le matematiche, e alPinsegna-
mento della quale dovrebbe essere data un'importanza molto
maggiore ed un indirizzo ben differente da quello che ora
sembrano avere nelf insegnamento secondario e superiore.
I destini de' popoli appaiono in gran parte come con-
seguenza delle condizioni naturali degli spazii ch'essi abi-
tano e la loro storia, che in parte almeno è una lotta contro
le condizioni naturali in cui si trovano poste, non può es-
sere intesa se non si studiano, e profondamente, le condi-
zioni geografiche, come non ben si potranno intendere le
differenze esistenti fra i varii popoli.^ se non si considerano
attentamente le differenze nella natura del suolo, nel clima,
insomma tutto quel complesso di condizioni il cui studio
forma appunto Targomento della scienza geografica. V'ha un
progresso ed un continuo mutarsi nella vita de' popoli : si
può forse intendere le ragioni di questi mutamenti e Tini-
portanza delle lotte che sostengono in questa non interrotta
lotta se non conosciamo in tutte le loro particolarità grim-
pediment! clic la terra oppone ai popoli per essa dilTasi? Iti
breve, la scienza delia superfìcie della terra e della vita
organica e sociale su essa, che è appunto la geografìa, è una
scienza fondamentale per molte altre, e massimamente per
tutte quelle che s'occupano delle manifestazioni dello spirito
de' popoli.
E siccome il filologo s'occupa appunto dello studio della
vita de' popoli antichi, cosi non potrà esimersi dallo studio
li. Jacobs uni P. Ruhle, Berlin, 1872, an. vi, fase. I, che contiene
alcune verità ed alcune proposte, che pare possano meritare anche in
Italia una seria medita:2ione da chi forse si sarà meravigliato della dis-
cussione della 3* sezione del Congresso Pedagogico in Venezia, fatta
il 16 settembre , ovvero percorra ceni programmi per l'insegnamento
della geografia e sia costretto ad assistere ad esami di questa scienza
in alcuni istituti nostri.
della Geografia antica e sarà costretto ad insegnarla anche
ai suoi allievi, e mi pare perciò a proposito di dire in questa
Q^ìpista alcunché de' recenti studii e pubblicazioni geogra-
fiche, inquantochc s'occupano della Grecia antica. La Ger-
mania ha il vanto d'avere anche in questa parte negli ultimi
tempi dati i migliori lavori , a cui lo studioso può ricorrere
per quest'importante disciplina. Non vo' togliere con queste
parole agli altri popoli i meriti che si sono acquistati coi
loro lavori intorno alla geografia antica ed alla geografia
della Grecia in particolare. Certo senza moki lavori prepa-
ratori! e specialmente senza i molti viaggi intrapresi in tutti
i paesi abitati un tempo da popolazioni greche, senza studii
e lavori profondi ne' luoghi istessi (i) non sarebbero state
possibili le opere dì cui mi propongo di dare qui un cenno,
per venire all'opera scolastica, citata in capo a questo artìcolo.
La grand'epoca della moderna filologia classica, che è
distinta dai nomi di F. A. Wolf, di G. Hermann, di C. O.
Mailer, di A. Bockh, ci aveva dato anche il grande lavoro
di Manr^rt e quello incompiuto di Ukert sulla geografia
antica : ma al giorno d'oggi, senza mancare di riverenza ad
uomini eruditissimi e grandemente benemeriti, le loro opere
si possono chiamare antiquate e per ciò non piiì corrispondenti
all'odierno stato della scienza geografica. La lotta tenacemente
sostenuta da' Greci per l'indipendenza della loro patria
aveva intanto condotto molti eruditi nelle terre greche e la
guerra stessa ha reso servigi alla scienza geografica (2). Fu
necessaria una nuova opera sulla geografia antica ed il For-
(1) Sarebbe impossibile di citare solo anche i più rinomati fra i
viaggiatori moderni in Grecia e neirOrienie greco che ne hanno dis-
corso in pregiate opere, dacché troppo grande è il loro numero.
{2) Basti ricordare la grand'opera dovuta alla spedizione francese
nella Morea.
- !88-
higer {\) c'è l'ha data con un vasto corredo di erudizione. Ma
un altro passo rimaneva da farsi, ed era quello che airerudl-
zione classica acquisUita nel gabinetto di studio s'aggiunges'^e
la personale cognizione dei luoghi, ii che necessariamente
doveva dare maggiore vita ed evidenza all'opera erudita. Ed
appunto la Germania ha trovato fra i suoi scienziati due
uomini che riunissero in sé le due qualità che paiono in-
dispensabili per dare opere geografiche come le dobbiamo
desiderare.
Ernesto Curtius (2) nel suo « Peloponneso » e Corrado
Bursian (3) nella sua k Geografia della Grecia •> ci hanno
fornite, dopo lungo soggiorno nel paese ed estesissimi studi!
preparaiorii, opere per lo studio della geografia della Grecia
antica, che formano veramente epoca per una più profonda
intelligenza dell'antichità greca, e che unite alia nuova edi-
zione « dell'Atlante della Grecia antica », opera del famoso
cartografo e geografo Kiepert (4), sono un corredo ampio
e sufficiente per ogni studioso dell'antichità.
Ma non son opere, per l'estensione loro, che possano util-
{\) Hanàbuch der alien Geographie nack den Quelìen hearheitet, Leip-
zig , 1842-1848, 3 voi. Mi limito a questa citazione, come quella di
un'opera completa, tacendo i nomi di molti talvolta pregevoli com-
pendìi.
(1) Ert<esto Curtius, Peloponnesòs . eh:e historisch-geographiscne
Beschreibung dar Halhinsel. Mit Karten und Hol^schnitten. Gotha ,
t85i-i852.
(3) Conrad Bursian, Geographie von Griechenland , Leipzig, iSGa-
1871; voi. 1: Das nórdliche Griechenland^ 1862; voi. II: Pdopov.nesos
und Inseln. Parte i. Argoiis, Lakonicn ^ Messenien^ 1868. Parte ^,
Arkadìen, Elis, Ackaia, !87i. L'opera none ancora compiuta.
{4) Heinrich Kiepfrt , Neuer Atlas von Helhs und den kellenischen
Kolonlen in i5 BlHttern, Berlin, iSya, opera che non dovrebbe man-
care in nessuna biblioteca ginnasiale e liceale, ed a cui è premesso
un proemio dell'autore , in cui dà contezza delle nuove opere da lui
adoperate nel rendere più perfetta questa seconda edizione del suo
bellissimo atlante.
mente essere studiate da? giovine ed accogliersi nella scuola.
Eppure non è soiamente utile, ma, a parer mio, neces-sdrio
che i progressi della scienza ii più presto possibile passino
nella scuoia^ e per mezzo di essa, ovvero di opere popolati,
diventino comune possesso di tutti, non potendosi permet-
tere in verun modo, che vieti errori o men rette cognizioni
per rincuria od anche la cocciutaggine di chi insegna si
propaghino dall'una all'altra generazione di scolari. Appunto
per queste considerazioni Ìl prof. A. Buttmann fu indotto
a scrivere la sua « Breve Geografia della Grecia antica »,
che non si propone soltanto di dare in arida forma, come
comunemente suol farsi nei compendii di geografia, le cose
più essenziali della geogi^afia ppìitica della Grecia antica,
ma eziandio in modo adatto alla capacità dei giovani una
descrizione del teatro della storia greca, per rendere più
vivo ed efficace io studio di questa ed insieme delle opere
degli autori. Perciò si è, in questo particolare, limitato a
quelle parti della Grecia che sono della massima impor-
tanza per r insegnamento scolastico , approfittando delle
descrizioni che ci hanno dato gli uomini dai quali furono
visitati i luoghi. A mio giudizio è assennata la sua scelta e
le descrizioni che accoglie soli ben appropriate allo scopo.
Perchè il lettore possa formarsi da se un criterio, come
i luoghi più importanti dell'istoria greca siano descritti nel
presente libro, do la breve descrizione di Tebe, come la
leggiamo a pag. Sg, e la scelgo, perchè in grado di giudi-
carla dalle impressioni ricevute quando nel 1870 da Atene
mi recai alla patria di Pindaro. « Nella Beozia meridio-
nale )> , così il Buttmann , « Tebe con la sua acropoli
Cadmea, posta su una collina per cui facilmente si sale, è
situata a meriggio del lago Ilice in una pianura, circondata
tuli* attorno da piccole alturi. e la cui parte settentrio-
nale più bassa portava il nome di campo Aonio, mentre
— 190-
la parte superiore, occidentale, aveva quello di campo
Tenerio. La città era adunque massimamente protetta
dalle sue potenti mura, entro le quali trovavasi anche
Tacropoli e che erano munite di torri e provvedute di
sette porte, mura di cui la leggenda dice essersi connesse le
pietre loro da se stesse al canto d'Anfione, e che formate di
grandi massi di pietra di forma non del tutto regolare si
riconoscono ancora nelle rovine ivi esistenti, massimamente al
iato settentrionale della collina. Che Tebe fosse situata nella
pianura, si rileva già da Omero {Od. XI, 262 e seg.). L'acro-
poli occupava la parte sud-ovest della città di Tebe. Lungo
il muro occidentale di essa, che adunque è anche quello della
città stessa, scorre il ruscello Dirce verso nord e sbocca a
settentrione della città nel campo Aonio nel piccolo fiume
ismeno: questo scorre lungo il muro orientale della città
verso settentrione al lago Ilice. Tra la Cadmea e la città
bassa trovasi un burrone con direzione verso settentrione,
in cui scorre un ruscelletto. Oggi, come già ai tempi dì Pau»
sania, Tebe è circoscritta alla collina. A meriggio e sud-
ovest di Tebe s'innalza il paese a quelP altipiano pieno di
colline che forma la congiunzione fra l'Elicona ed il Cite-
rone, su cui nelle vicinanze di Leuttra scaturisce TAsopo
che per un'alta valle, detta Parasopia, scorre ad oriente
lungo il Citerone ed il Parnes al mare d'Eubea, in cui
sbocca presso Oropo. »
Bastino queste parole e citazioni per raccomandare il libro
agl'insegnanti che devono trattare di geografia e storia an-
tica e di lingua greca, libro che è corredato anche di op-
portunissimi indici} come quello delle File e Demi dell'At-
tica, ed in cui forse non rimane a desiderare, se non una
qualche maggior estensione di alcune parti. A parer mio le
isole, p. e. Gorcira ed Itaca, meritavano qualche descrizione:
è imporrante la prima per Tetà eroica e storica, e la seconda
- 191 -
per la lettura dclVOdissea, e intorno ad esse non mancano
monografie di viaggiatori. Ciò dicasi anclie delle splendide
città greche sulle coste dell'Asia minore, tanto celebri nella
vita ellenica ed argomento di recentissimi studii.
Torino, ottobre 1872.
C MULLER.
Bernhardy , Grundriss der rómischen litteratur , funfte
bearbeitung, Braunschweig, 1872.
Teuffel, Geschichte der rómischen literatur, zweite ver-
besserte auflage, Leipzig, 1872.
Errico , Storia critica della letteratura romana ad uso
delle scuole liceali y normali e universitarie, volume 1%
Napoli, 1872.
I lettori della nostra ^vista potrebbero a buon diritto
reputarsi offesi da noi se tenessimo loro discorso intorno al
valore filologico delle storie della letteratura romana scritte
dal Bernhardy e dal Teuffel e di nuovo edite teste, questa
per la seconda volta e quella per la quinta , come se fos-
sero opere mal note ancora, non già come queste (ed in
ispecial guisa la prima) meritamente famose. Anche Tultimo
dei filologi è u'so di averle in pregio e valersene: per ciò
che concerne ì nostri lettori basterà pertanto aver dato loro
il gratissimo annunzio di una nuova edizione , di cui ap-
pena occorre accennare come sia arricchita di nuove notizie,
soprattutto bibliografiche (1). Noteremo soltanto come nel
simultaneo riapparire di questi due libri si manifesti quella
che alcuni sogliono appellare sapienza del caso. Che en-
(i) V., p. es., i Nachtr'dge aggiunti al libro del Bernhardy, p. xx-xxv.
- 192 ~
trarnbi ci sembrano pecessarii a chi voglia addentrarsi nella
scienza della letteratura romana, onde Teurt'el e Bcrnhardy
con ordine divergo ci espongono la storia. TcuiTel, premesse
alcune considerazioni intorno allo svolgi intn-o dei varii ge-
neri dì letteratura presso i Romani , ci narra (o piuttosto ci
fa narrare dai ioro scrittori stessi, rapportandone continua-
mente i luoghi più opportuni) le vicende delle varie forme
assunte fra essi dall'arte della parola , ma non già tenendo
dietro separatamente ai progressi ed alla decadenza di cia-
scuna delle medesime, bensì tratlando di esse tutte in ognuno
dei quattro periodi cronologici in cui divise la sua narra-
zione, la quale si estende non pure alle creazioni letterarie
di Roma pagana, ma eziandio a quelle in cui il nuovo
pensiero e sentimento cristiano si rivelò con parola latina
nei limiti di tempo segnali dali' autore ai proprio lavoro.
Bernhardy, per io contrario, dopo una introduzione in cui
a lungo e profondamente si occupa dei caratteri generali
delia letteratura romana e dello studio di essa , espone la
storia interna della medesima, investigandone gli elementi
e ritraendone le varie epoche: poscia, e ben più diflusa-
mente , imprende il racconto deiresterna, descrivendo il na-
scere, il crescere, il venir meno delle singole forme poetiche
e prosastiche in cui fece le sue prove l'ingegno letterario
presso i Romani. Il libro, che diremmo piiì storico e pra-
tico, del Teuffei ci sembra ottima preparazione a compren-
dere l'opera, più filosofica e teoretica, del Bernhardy : Tuno
e l'altra poi somministrano alio studioso colla propria ric-
chezza d'indicazioni bibliografiche il mezzo di conoscere
quanto la scienza scoperse, anche intorno ai più minuti e
lievi argomenti, e, diremmo quasi, lo spingono alle inve-
stigazioni speciali e nuove.
L'Italia risorta desidera ancora un' opera che rappresenti
colla maggiox possibile perfezione lo stato odierno della
~ 193 -
scienza intorno alle lettere romane, airarte della parola presso
i nostri padri. A tanto lavoro si era accinto li Tamagni, e,
come attesta la prima parte di esso fatta di pubblica ragione,
egli io avrebbe degnamente compiuto: glielo troncò a mezzo
la morte immatura. Gli. Studi storici e morali sulla ietterà-
tura latina di Atto Vannucci, onde apparve recentemente una
3* edizione, ricca di correzioni e d'aggiunte (in ispecie di cenni
bibliografici concernenti nuovi scritti, soprattutto germanici),
sono meritamente da tutti assai pregiati per la conoscenza della
antichità latina, per la finezza del gusto e l'eleganza severa della
forma , e in ciò ii Vannucci è unanim.ementc riconosciuto
maestro: ma non abbiamo in questo volume che una serie di
monografie fatte per lo più solo con intendimento storico e mo-
rale, non congiunte fra loro, né cosi numerose come sarebbe
necessario per colmare certe grandi lacune. Opuscolo et>sen-
zialmente scolastico , e , più che altro , abbozzo di lezioni
(nel quale sì scorge per altro la dottrina e Io ingegno non
comuni di chi lo ha delineato) è ii Saggio critico sulle let-
tere latine, che il Trezza, Tinsigne autore del Lucrezio, pub-
blicava or sono dieci anni. È bensì vero che al'a nostra
povertà di veri storici delia letteratura roniana sono forse a
parere di molti più che sufficiente compenso i non pochi
che dì e notte vanno in caccili dì parole e di frasi latine ,
cui ci presentano poscia in qualche orazione o poesia con-
nesse insieme con varia fortuna secondo la varia abilità , si
che di cotali lavori gli uni ti rendono immagme di mosaico,
gii altri ti ricordano i paesaggi costrutti dai fanciulli sem-
pre coi medesimi alberi ed animali e colle medesime ca-
panne di legno. Ma, sciaguratamente, v'hanno incontenta-
bili, cui queste glorie non bastano e che deplorano la scarsità
di lavori filologici italiani: per questi incontentabili noi discor-
reremo del primo volume che il prof. Errico testé pubbli-
cava della sua Storia critica della letteratura roinc^na ed
- 194 —
il quale comprende, oltre ai preliminari (p. ix-xxiv), Tespo-
sizione deirorigine e dello svolgimento della letteratura ro-
mana ne' due primi de' cinque periodi, in cui, sebbene non
creda guari possibili si fatte partizioni (p. 19), tuttavia « per
una certa comodità >> Tautore divide la sua storia (p. 21).
Ci affrettiamo di notare che è questo un libro scritto
con molto amore, con tendenze filosofiche e con studio ac-
curato dei fatti. Le tendenze filosofiche, a dir vero, ci sem-
brano avere spinto un po' troppo l'autore alle considerazioni
generali, sempre molto pericolose (1). Che spesso queste
conducono alle asserzioni troppo assolute, come ci sembra,
v. g., la seguente: « In ogni lavoro letterario scorgonsi
armonizzati tra loro il pensiero dello scrittore e quello della
nazione, in grembo a cui si manifesta» (p. 17), Tra questi
due pensieri non v'ha, a nostro avviso, in ogni lavoro lette-
rario armonia : vi ha antitesi e lotta talvolta ed in essa ci si
rivelano certe fiere, ribelli personalità. Ne la dottrina e la
diligenza del nostro autore valsero sempre a salvarlo da
non poche erronee affermazioni in ispecie glottologiche. Ve-
dasi, p. es., quale concetto abbia egli della linguistica. «Vo-
gliamo forse negare », cosi scrive a p. x-xi, « che, in Ger-
mania segnatamente, la linguistica abbia fatto grandissima
progressi, tanto da meritare se non la dignità di scienza, per
non essere stato ancora raggiunto un vero assoluto, e né
eziandio un vero scientifico, quella almeno di nobilissima
disciplina letteraria? » Chiunque sappia davvero che cosa
sia scienia e sia atto ad intendere libri quali sono, v. g.,
(i) Da che ci venne fatto cenno di ciò, vorremmo almeno veder ci-
tato a pag. 18 lo scritto di Cesare Balbo Della letteratura negli un-
dici primi secoli dall'era cristiana, lettere alVabate Amedeo Peyron,
pubblicato nelle Lettere di politica e letteratura edite ed inedite, Fi-
renze, i855, p. 121-170, nel quale scritto si svolgono appunto i con-
cetti accennati dall'Errico.
- 195 -
il System der sprachwissenschafi di K. W. Heyse e la Cha-
rakteristik der haupisdchlichsten typen des sprachèaues leg-
gendoli si convincerà agevolmente che nella linguistica odierna
v'ha già quel « sistema di cognizioni discorsive logicamente
vere »», il quale, come apprendevamo già quando eravamo
in liceo, costituisce una scienza. Ne guari più avventurato è
l'Errico allorquando afferma (p. xvi) essere ora «invalso
un uso presso i cultori della novella scienza del linguaggio,
che, intesi a investigare l'organismo interiore di ciascuna
favella, tanto rispetto ai suoni, quanto rispetto alle forme
delle voci, trascurano la lingua in se stessa ». Forsechè tale
investigazione gli pare estrinseca ai linguaggi, com.e se suoni
e forme non ne fossero elementi integranti? Con ciò egli
volle preparare i lettori ad accogliere la sua sentenza che
« una lingua in tanto si sa, in quanto si scrive » (p, xvi-
xvii), in ordine alla quale fu già notato non sappiam
quante volte e perfettamente a ragione e teste ripetuto so-
lennemente da uomo, che per ingegno, dottrina e grado è
autorevolissimo, essere lo imparare a scrivere una lingua uno
degli scopi principalissimi dello studio che si fa degl'idiomi
ancor vivi, ma soltanto we^^^o e non /?ne, allorquando altri
si travaglia intorno ad una lingua morta, ed allo studio
ginnasiale e liceale del greco e del latino essere ^tie l'edu-
cazione delle potenze intellettuali e morali dei giovani me-
diante il fecondo contatto della classica antichità. E queste
son cose che ormai tutti sanno o almeno dovrebbero sa-
pere. Confessiamo per lo contrario che pochi sapranno
quale sia la « grandissima attenenza », che le lingue orien-
tali, come « oggi è dimostrato», hanno « con la lingua greca
e con la latina, e con tutte quelle altre componenti il gruppo
indo-europeo » (p. x). O le lingue orientali onde si è fatto
cenno sono le indiane ed eraniche, le quali sono fra le
« componenti il gruppo indo-europeo »•, ed in questo caso
- 196 -
s' insegna ch'esse hanno « grandissima attenenza » con altre
del nedesimo stipite e con se stesse: o sj fa menzione di
favelle orientali non appartenenti né alla tanriìgiia indiana,
né alla cranica; ed allora non sappiamo qual « grandissima
attenenza « sia stata dirtioslvata fra k medesime e le indo-
europee. Né approviamo la troppo audace afiermazione di
un periodo italo-greco (p. i6)» la cui esisteriza è ancora
incertissima e negata da alcuni fra i più valorosi linguisti.
È poi dir troppo lo asserire che tra greco e latino v'abbia
'< perfetta analogia di sintassi, di costruzioni, di derivazioni,
e di desinenze -> l'p. 7), soprattutto ove si badi a quanto si
legge a p. io: « Risguardo al verbo latino, niun paragone si
può istituire col verbo greco » ed a p. 1 3- 14 ove s'insegna che
il latino ha forme più regolari e primitive dei greco, insegna-
mento non vero che in parte. Inesatto ci sembra eziandio lo
aiferrnare che nella lingua romana è compreso il fondamento
delle antiche favelle italiche (p. xv), le quali, come a lutti è
noto, da quella si distinguono nettamente per certe proprietà
di suoni e di forme. E non ammettiamo né punto né poco
che il iauno sia lingua «t ricchissima quant'altra mai »
(p. JLYìii), né lo ammetteva Lucrezio, nel cui poema scorgasi
deplorata più di* una volta '< patrii sevinonìs egestas ». K
come potreni credere che il latino classico spiegherà l'arcaico
(p, xix) che lo ha preceduto e che ne e causa, non effetto?
E ci vorrebbe proprio un miracolo di fede per non me'i-
tere in dubbio la ipotesi che fabula sia accorciamento di
factihuìa da /ttc/o (p. i5o, nota) (i); noi con Pott (2),
(i) Più beiìa ancora che questa ipotesi è la citazione di vert'kula da
verto, jlectibula da flecto, mandibula da mando: vi ha forse in ver-
tibula, Jlectibula, mandibula qualche accorciamento?
(2) Etymologische forschungen ecc., 2^' ediz., parte 2*, sez. 2*,
DetmoM, 1867, p. 259.
- 197 —
Curtius (i), Corssen (2) e Pick (3) continueremo a credere
che fa-buia sia nome derivato dalla radice lat. fa z:z gr.
9a = scr. ed ar. bha — parlare -- e significhi — ciò che
si dice — , sia falso sia vero (come appare dal verso di
Fedro « Fictis iocari nos meminerit fabulisv, I, proL,
V. 7). E continueremo anche a credere solennissimo errore
il supporre un primitivo asanti coìVa lungo (p. 14) (4).
Ma di ciò basti : veniamo ora ad alcune considerazioni
intorno ad opinioni filologiche del nostro autore. Egli c'in-
segna a p. 1 1 che « dopo Catone, sino a Tacito, la qualità
che domina e signoreggia dall' un capo all'altro presso che
tutti gli scrittori di Roma è un' attitudine maravigliosa a
stringere e concentrare il pensiero ». Ci pare che collo
scrivere tali parole l'Errico non ritrasse punto il carattere
che nella maggior parte dei più grandi autori dell'età
augustea ci si rivela: le eccezioni non son poche né lievi;
basti citarne una sola, Ovidio. Fummo poi compresi di
profondo stupore nel leggere a p. 6 che i Romani si la-
sciarono addietro di lunga mano i Greci nell'eloquenza e
che l'eloquenza di Demostene non si può ragguagliare con
quella di Cicerone. Intorno a questa questione reputiamo
che, ove non si amino i rancidi e sterili paragoni retorici,
si possa solo affermare, essere stata l'eloquenza Ciceroniana
la più adatta a Roma, quella di Demostene alla Grecia: e
non v'ha chi non sappia, quanto il popolo greco superasse
(1) Grund^uge der gr. etj-m., 3* edizione, Leipzig, 1869, n" 407,
p. 278.
(2) Ueber ausspr. ecc., l, 140, 169, 421: Kritische beitrage ecc.,
p. 362.
(3) Vergleichendes wSrterbuch der indogerm. sprachen , 2* edizione,
Góttingen, 1870, sez. i*, p. 134.
(4) Schleicher, Compendio ecc., § 167, p. 393-5 della nostra ver-
sione.
'Rivista di filologia ecc., /. 14
- 198 -
nel senso squisitissimo dcirarte il romano (i). E restammo
attoniti leggendo a p. 5 che presso i Romani la filosofia
« non ha niente di comune con quella che fu in Grecia » !
Ammettiamo che la filosofia romana ebbe in genere inten-
dimenti assai più pratici che la greca ; ma è sempre veris-
simo e noto ormai anche ai meno dotti di queste cose che
la speculazione latina fu mossa, diretta, sostenuta dalla
greca- ch.3 « la philosophie gréco-romaine r- (come l'appella
Ritter (2) ) « se rapproche très fort, quant au caractère, de
la philosophie grccqae antérieure d. E non comprendiamo
come si possa insegnare a' giovani .studiosi che « così il
quarto come il nono secolo furono pregni di ignoranza »
(p. xiii), mentre vMia un bel divario fra la vita intellettuale
dell'uno e quella dell'altro.
Ma più che queste mende, le quali ci appariscono qua e
là nelTopera del nostro autore, le nuocono alcuni difetti
ond'à tutta viziata. E, in primo luogo, il prof. Errico non
possicvie guari Parte di concentrare i pensieri e di significarli
con forma breve e (come ora dicono) potentemente incisiva:
la sua elocuzione ci pare troppo spesso prolissa, talvolta non
affatto monda da affettazione e non sempre logicamente (3)
né pure grammaticalmente (4) irreprensibile. Secondamente,
(1) Bernhardy, Grundriss dcr rómischen litteratur , Braunschweig,
1872, p, 785 e 817. — Zoncada, Corso di letteratura greca, Milano»
i858, voi. 30, p. 533-541-
(2) Histoire de la philosophie, irad. par Tissot, Paris. iS36, parte i»,
voi. 4% p. 41.
(3) Così ii senso richiederebbe , per maggior perspicuità, che si to-
gliesse il non dopo ninno a p. \^'i, là ove si nota come, fra gli esa-
irieiri Enniani, a Iato di parecchi versi biasimevoli per vane ragioni
vi siano « altri versi, e in grandissimo numero, nei quali m/mmo non sa-
prebbe trovar di leggieri alcuna cosa degna di riprensione, e che sono
simili in.coair.istal>ilnìcnt2 ai più bei versi dei poeti classici >; ecc.
(4) Non ci garba, ad es. , e non vorremmo vedere imitato il seguente
costrutto: <- Buon pel comico latino l'essersi imbattuto nel nostro
— 199 -
siccome certi costrutti speciali appartengono allo stile sog-
gettivo (conrie Io appella He3^se ( i ) ), così reputiamo dover-
sene far cenno nella storia di una letteratura meglio che in
quella di una lingua (p. xxi, nota). E finalmente non pos-
siamo non rimproverare all'autore la deplorabile povertà di
informazioni su quella che dicesi critica dei testi e di noti-
zie bibliografiche, che sono assolutamente necessarie a qual-
siasi studioso di filologia e che tu trovi non pure nelle
grandi opere del Bernhardy e del TeufFel , ma eziandio nel
Grundriss ^u vorUsungm ì'iber die rómìsche litt2ratiirf;-c-
schichte (2) dell'Hùbner. È appena credibile che fra i titoli
delle opere onde lo autore si giovò in questo primo volume
(p. xxHi-xxiv) non solo non si leggano quelli delle storie
letterarie di SchoU e di Munk e di altri non pochi, ma non
vi si trovi accennata nemmeno l'opera fondamentale del
Bernhardy! Sono poi innumerabili le monografie onde sa-
rebbe stato utilissimo far menzione e di cui non fu fatta (3):
basti notare come a proposito delle famose tavole Eugubine
Gravina, i7 quale , per la profonda conoscenza delle eleganze latine e
dell'arte drammatica, possiamo considerarlo giudice competente» (p.
161). Né ci piacerebbe che altri imparasse ad usare raitrovano (p. 40)
^tv ritrovano ^ possegghiamo (p. i56) per possediamo. Sono minuzie,
ma vuoisi badare anche ad esse, soprattutto in un lavoro letterario e
fatto per le scuole.
(i) Sistcmcx della scienza delle lingue ecc., trad. dal Leone, Torino,
18Ó4, § IO7-ÌO9, p. 232-235.
(2) Berlin, 1869
(3) Assai pochi sono i libri scritti in lingua tedesca e non tradotti
che il nostro autore ha citati. V'ha chi suppose che tale idioma non
gli sia guari famigliare. Sarebbe cosa deplorabile, perchè, piaccia o
non piaccia, qualunque parte tu percorra del vastissimo campo filolo-
gico, t'imbatterai in qualche tedesco che ti ha preceduto. Ma , quan-
d'anche quella supposizione non fosse lontana da! vero , l'Errico sa-
rebbe sempre assai meno a riprendersi che certi dottori dalla faccia
invetriata, i quali, senza sapere quattro parole di tedesco, giudicano,
condannano, proscrivono , insultano la scienza, di cui questa fa^ella
è organo stupendo.
- 200-
non sia mentovato il notevolissimo lavoro di Aufrecht e
Kirchhoff (p. 28), Né l'Errico è sempre avventurato nella
scelta dei libri a cui giova ricorrere : che tu trovi , v. g. ,
citata la Storia della letteratura latina del Cantù e non
quella del Bernhardy (p. xxiii), il Trattatello del Bindi
sul teatro comico dei Latini e non la Geschichte des dramas
di Klein (p. i35)!
Conchiudiamo. La Storia criticay onde il prof. Errico ci
diede il primo volume, sarà certamente, assai piià che qual-
che altra, ricca di pregi, e la lettura di essa riuscirà utile a
molti. Ma siamo convinti che la soverchia estensione (i) della
medesima ne renderà quasi impossibile Tuso neMicei(2),
mentre per la scarsità di notizie intorno alla critica dei testi
e d^indicazioni bibliografiche sarà giudicata insufficiente agli
studi di filologia latina che si fanno od almeno si dovreb-
bero fare in qualsiasi scuola normale ed universitaria.
Torino, 12 ottobre 1872.
Domenico Pezzi.
(i) Come si può proporre a giovani studenti liceali, oppressi da
tanti e sì diversi studi, un libro in cui, v. g., 28 pagine sono consecrate
a Pacuv'io (p. 366-394) ? À compiere quest'opera occorreranno, cre-
diamo, almeno due volumi ancora: sarà una Storia un po' troppo
lunga per i licei! Oltracciò, in un libro destinato a queste scuole
vorremmo ancora maggior parsimonia di cenni intorno a certi ar-
gomenti (v. p. 145 e 166-168, nelle quali tre ultime pagine l'autore
rapporta una scena plautina, in cui si descrive un padre parassito, che,
per infame ingordigia, vuole indurre la figliuola, riluttante, a lasciarsi
vendere).
(2) << Così com'è, ci pare che il libro, tuttoché opera di un Italiano,
debba tornare per le nostre scuole molto meno atto che non sarebbe
una traduzione ben fatta dell'aurea storia di Edoardo Mnnk '
Nuova antologia dì 'icien^^e, lettere ed arti, voi. 21°, fase. 9°, Firenze,
1872, p. 23l.
- 201 -
Tratte de versification fran^aise par Gustave Weigand,
docieur en philosophie au collège moderne de Bront'
berg, membre correspondant de la société de Vétude des
langues modernes à Berlin, Bromberg, ^871, nouvelle
èdition revue et augmentée.
Nella Germania si studiano non solo da molti le lingue
classiche, ma da moltissimi e con sempre crescente voga
le lingue eulte viventi, e n'è prova novella la società eretta da
parecchi anni per ciò in Berlino, di cui e corrispondente il
Dott. Weigand, trasformatasi in maggio ultimo in accademia;
essa aprirà i suoi corsi il 28 corrente ottobre, e conta nei
suoi ventitré insegnanti celebrità filologiche, come sono i
prof. Herrig, Mahn, Màtzner, Schuìe e Schnackeuburg. Sif-
fatta diffusione della conoscenza delle lingue -noderne in Ger-
mania contribuì, a detta dei sìgg. Levasseur, Baret e Aron (i),
alle strepitose recenti vittorie delie armi tedesche sulle francesi
che pure avevano fama d'invincibih. Gli è per tale consi-
derazione che il sig. Simon, attuale ministro della pubblica
istruzione in Francia, colla sua applaudita circolare del
27 settembre testé scorso , rese obbligatorio nelle scuole
secondarie dello Stato lo studio del tedesco e deiringlese.
Ma a ciò ottenere in Germania non si scelgono mica ad
insegnanti coloro la cui dottrina consiste ne) parlare spe-
ditamente e pronunziar bene una lingua straniera, sì coloro
che con profondi studi si sono addentrati nella fonologia ,
morfologia e sintassi della lingua che assumono d'insegnare.
In Germania si vuole, come nota il Fuchs (2), che il pro-
li) Uétude et l'enseignement de la géographie. Parigi, 1871. De l'en-
seignement des langues vivantes. Parigi 1S71. V. anche la Circolare del
ministro della pubblica istru^iione io ottobre 1S71, ed il Journal des
Débats 8 ottobre corrente.
(2) Ueber die sogenannten unregelmassigot ^eitwórter in den ro^
manischen sprachen. Berlino, 1840.
- 202 -
fessore sappia il perchè onde bene insegnare il come ai
discenti.
Fra costoro dobbiamo noverare il Dottore Weigand, che
nel libro, argomento di quest'articolo, espone compendiata,
corretta ed accresciuta di prove Topera delPegregio prof, pa-
rigino Quicherat sulla versificazione francese, ma meglio che
trattato avrebbe dovuto intitolarla storia, giacche prende le
mosse dairantico francese, che, distando tanto dall'attuale,
ebbe un incerto e confuso sistema di versificazione, epperò
non può ammaestrarci nelFarte di scrivere versi nel francese
odierno, le licenze antiche superando le regole.
L'esimio autore, a parer mio, trattò troppo brevemente
dell'accento, attenendosi alla dottrina del Dott. Ackermann;
egli avrebbe dovuto fare suo prò delle opere speciali sull'ac-
centuazione venute in luce di poi, cioè del Benloew (i), del
Benloewe del Weil(2) e di Gaston Paris (3), giacché la poesia
ritmica dipende dalla dinamica e collocazione degli accenti
sopra un dato numero di sillabe. Il Biagioli (4), per quanto
io sappia, fu il primo a trascrivere il piede ritmico poetico
colla notazione musicale, sebbene già lo avesse accennato il
Sacchi (5), ed io ricordo come, quando negli anni migliori
mi dilettava nel canto, trovassi impossibile di cantare un
pezzo della Margarita di Angiò del Mayerbeer, perchè co-
stringeva ad entrare nel tempo forte della battuta con sil-
fi) De Vaccentuation dans les langues indo-européennes. Parigi, 1847.
Théorie des rhyihmes fran^ais et latins. Parigi, 1862.
(2) Théorie generale de l'accentuation latine. Parigi, i855.
(3) Étude sur le relè de l'accent latin dans la langue fran^aise. Parigi,
1862.
(4) Grammaire italienne avec un traité de la poesie italienne.
Parigi, 1829.
(5) Della divisione del tempo nella musica, nel ballo e nella poesia.
Milano, 1770.
~ 203 -
laba disaccentuala, il contrasto della tesi musicale colla arsi
poetica distruggendo la prosodia.
Astrazione fatta di ciò è meritevole di molta lode il Dot-
tore Weigand per questo suo bel lavoro. Egli mostrò tanta
perizia del francese antico e moderno da disgradarne non
pochi grammatici della stessa Francia, attalchè reputo il suo
trattato indispensabile a quanti si occupano della filologia
francese. Un solo appunto mi è dato di fargli ed è il se-
guente.
Egli a pag. 49 dice che i mnrlerni scrivono falsamente
grand' mere ^ ora il Brachet (i) c'insegna che nell'antico
francese, imitandosi il latino in cui parecchi aggettivi, come
grandis, fortis, avevano una terminazione comune ai due
generi, si adoprò nella stessa forma tanto innanzi a nomi
maschili come ai femminili, scrivendosi grand' tnère, gi'and'^
route. Col processo del tempo s'introdussero le due termina-
zioni, ma dal naufragio scampò grand innanzi ad alcuni
aggettivi, epperò non è un falso uso, come reputa il Weigand,
sì un uso arcaico.
Uno dei lavori cui vorrei ponesse mano qualche dotto te-
desco, indagatore dell'organismo delle lingue sarebbe questo :
Dellu ritmica comparata delle lingue neo-latine. Esso m.e-
diante conosceremmo le forza e la virtualità dell'accento spe-
ciale ad ognuna di esse, la causa della maggiore o minore
armonia e varietà dei versi e conseguentemente del grado di
musicabilità dei suddetti idiomi.
Torino, ottobre 1872.
Vegezzi-Rlscalla.
(i) Crammaire historiqut de la lanfrue frangaise, Parigi, 1868.
— 204 -
ZNiOTIZIE
Leggemmo con gioia nelle GÓttingische gelehrte anjeigen del 3 lu-
glio ultimo scorso un articolo di R. SchóU intorno ad un recentis-
simo lavoro filologico italiano fDella sublimità, libro attribuito a Cassio
Longino, tradotto Ja Giovanni Canna, Firenze, 1871). Sebbene lo
SchóU dissenta dal Canna in ciò che concerne lo autore di questo
trattato, nondimeno egli ne riconosce e ne loda la dottrina e l'acume,
rallegrandosi che i'Italia, malgrado di coloro che più volte e viva-
mente si opposero allo studio dei greco, possegga ancora pregevoli
cultori di esso e manifestando la sua speranza che il nobile esempio
del Canna sia per essere imitato. Noi ci congratuliamo col valente
professore, deplorando che, se non ci apponiamo in fallo, per la mal
ferma salute egli abbia dovuto rinunziare allo insegnamento liceale
della lingua greca.
Il dì 3 settembre ultimo scorso moriva a Firenze, in età di 24 anni,
l'egregio dottore Felice Pinzi , pochi giorni dopo la pubblicazione di
un dotto lavoro intorno agli Assiri , nel quale egli aveva compendiali
gl'insegnamenti che in due corsi liberi nell'Istituto di studii superiori
aveva dati su questo argomento. Né l'avere studiato da sé il linguaggio
degli Assiri e fatta di pubblica ragione un'opera intorno ai medesimi
è il solo titolo suo alla lode ed alla gratitudine degli studiosi; che fu
eziandio uno dei fondatori àtW Archivio di etnologia e di antropologia,
uno dei promotori della Società orientale in Italia. Non molti, mo-
rendo in tarda età, lasciano di sé così buona memoria come questo
giovane, onde la vita fu tronca da breve morbo negli splendidi giorni
della operosità e della speranza.
Siamo lieti che della Commissione d'inchiesta sull'istruzione secon-
daria sia stato eletto membro anche quel vaiente conoscitore dell'anti-
chità classica che è il prof. R, Bonghi, E confidiamo che questa Com-
missione sentirà e comprenderà il bisogno urgente dì porre in bando
dai nostri ginnasii certi metodi medievali, che, a disdoro della scienza
italiana e per isventura degli allievi, si seguono ancora per lo più e tal-
volta si osano eziandio commendare con temerità pari all' ignoranza.
Questa Rivista concorrerà anch'essa con tutte le sue forze all'opera
riformatrice che alla Commissione venne affidata. Mossi da sì fatto pro-
posito e dalle esortazioni di egregie persone continueremo e compiremo
senza indugio ne' prossimi due fascicoli la pubblicazione delle Conside-
razioni sull'istruzione, soprattutto classica, in Italia, a proposito del re-
centissimo libro di M. Bréal sulla istruzione pubblica in Francia.
Rendiamo grazie di cuore alla Gazzetta di Augusta, zWOpinionc, al
Diritto, alla Gazzetta ufficiale, che testé furono cortesi di lode alla no-
stra Rivista.
Pietro Ussello, ferente responsabile.
206
OSSERVAZIONI
S0P1{A UN PASSO 'BELL'c^NABASI DI SENOFONTE
Nel libro primo dell'Anabasi, cap. V. § \-2, descrivendo
la marcia delPesercito di Ciro bià 'rì\<; 'Apapia^, e precisa-
mente nella parte del bacino dell' Eufrate compresa fra
l'Arasse (detto Aboras da altri scrittori, quali Strabone,
Ammiano Marcellino ^cc,^ oggi Cabur) e il Masca, Seno-
fonte racconta quanto segue : '6v toOtiu òè tiì tóttuj (nell'A-
rabia) fiv )Lièv f) Yn Tteòiov airav 6|uaXè<; uxJTcep GàXarra, dv|;iv6iou
bè TrXfipe<;" eì hi ti Kal àXXo èvfiv \)\r\<^ f^ KaXdjiiou, arravia ^aav
€Òu)òr) ujcTTTep àpuL)|LiaTa* bévbpov b'oìibèv èvfjv, Gtipia bè TravxoTa,
-rrXeicJTOi òvoi arpioi, ttoXXgì bè (TTpoueoì a\ juetaXar èvncrav bè
Kaì obiibe? Kttì bopKabe^* laOra bè xà 8)ipia oi lmTeT(; èvioie
èblujKOV. Kol ol )Lièv òvoi, èirei tk; bitXjKoi, TrpobpaiióvTei; è'aiacrav •
TToXù Yàp Tujv iTTTruuv lipexov OdTTOV Kal TrdXiv èTteì TrXriaidZoiev
q\ Tniro;, taÒTÒv cttoìouv, xaì oùk r\\ Xapevv, eì \à\ biacrravre?
o\ iTTTreTs Gripiliev biabexó^evoi * tu bè Kpéa tujv dXicyKopiéviuv ^v
TrapOTiXricTia toT? èXaqpeioi?, àTraXiuTepa bè" (JTpouGòv bè oùbel^
IXa^ev 01 bè biwHavTe? tujv ÌTméwv Taxù ètrauovTo' ttoXù tdp
ànécTTra (peuTOuffa, toT? nèv irooì bpó)Liiu, toT? bè Trrépugiv at-
pouaa Aatrep icttiu; xpuJ^^vn- Td? bè ùjxibaq dv ti? Taxù dviax^,
iox\ Xdiapàveiv* TrtxovTai Tdp ^paxù ujCTTTep ntpbiKe? Kaì Taxù
dTtaYopeùoucrr Td bè Kpéa aÙTiJùv t^bicrra i^v. TTopeuó^evoi bè bid
TaÙTTiq Tri? Xi"pct? ktX (i), cioè: a In quella regione il ier-
(i)Mi valgo del testo di Carlo Schenkl, Xewof fto«f/5 opera, Berolini
1869, I, p. 16-17. Ma mi pare opportuno di notare le due varianti chr
offre l'edizione di L. Breitenbach (Xeno/7/io«M"5 Anabasis cum apparatu
critico. Halis Saxonum 1867) e di raccomandare le edizioni scolastiche
Hivìsta di filolojia ecc., I i5
- 206 —
reno era una pianura tutta uguale a guisa di mare^ pieno
di assenzio, e se altro vi era di arbusti e di canne, tutto
odorava a modo di aromi. Non pi era poi albero alcuno;
ma animali d'ogni specie; il maggior numero erano asini
selvatici e molli stru^i di gran corpo, Eranvi anche ot-
tarde e caprioli {i) ; a questi animali talpolta i cavalieri
di questo, dei Rehdantz e del Vollbrecht, corredate di opportunissime
note per l'uso delle scuole. Ecco adunque le varianti, sebbene nulla im-
portino per l'argomento che sto trattando: Qv Haraaav-àpaaa. Le diffe-
renze fra queste due edizioni e le altre si veggono nelle note i, 2, 3,
p. 20-21 del Breitenbach. La versione, che faccio seguire, è di Francesco
Ambrosoli, circa la quale giova notare che sono poco precise le parole
stru!^p di gran corpo : ai inefóXai non vuol dire che essi erano grandi,
il che s'intende da sé, ma siccome orpouBó^ vuol dir anche passero,
era necessario aggiungere un epiteto che facesse capire che si parlava
del grande uccello del deserto : m secondo luogo osservo che le parole
sempre freschi sono del traduttore, e finalmente che valendosi delle ali
aliate non corrisponde esattamente a : tcT^ òè ntépuHiv alpouda tSattcp
Kaxvì^ Xp\ìì\xiyY\ : almeno bisognava aggiungere come di vela.
(i) Debbo alla gentilezza del prof. Giuseppe MuUer l'osservazione
che in questo luogo 6opKd(; piuttosto che cavriolo (animale che abita
sempre in luoghi freschi e ombrosi) deve significare antilope o ga^-
^ella e più specialmente la antilope <forca5 di Linneo, di Buffon, di Pal-
las e di altri autorevoli naturalisti, nel che convengono i più recenti
interpreti di Senofonte. Parlando delle Antilopi il dott. Chenu nella
sua Encyclopédie d'Histoire naturelle, voi. 12, pag. i36, osserva che
<« quelques-unes habitent les plaines arides, sablonneuses et rocailleuses
et ne se nourrissent que de plantes aromatiques ». Più sotto, pag. iSg,
trattando specialmente del 50^5 genre Dorcas, dice : « la Gabelle, qu'E-
lien a décrite sous le nom de Dorcas, dénomination anciennement em-
ployée pour le chevreuil, est le niéme animai que VAcora d'H. Smith,
le Dorcas antiquorum de Shaw, probablement VAlga^el des Arabes,
et la dénomination de Gazelle leur a été également donnce par les
mémes peuples...... On les chassefles antilopes) avec soin, car leur chair
est d'un goùt agréable et assez semblable a celui du chevreuil ». Sullo
stesso argomento trovo nel grande Dizionario delle sciente naturali
edito a Firenze dal Batelli, artic. Antilope : <» La carne della gazzella
è molto buona e partecipa un poco di quella del capriuoìo « e il Palias
nel suo Voyage en Russie, voi. I, pag. 379, dice: « La chair, lors
qu'elles sont jeunes, c'est à dire àgées d'un an, serait beaucoup meil-
leure que celle du chevreuil, si elle n'avait communément le goùt de
- 207 —
davano la caccia. E gli asini, quando qualcuno gì' inse-
guisse, fuggivano innan:{i e poi fermavansi {perocché cor-
revano molto pili celeremente dei cavalli); poi facevan di
nuovo lo stesao quando i cavalli accostavansi , di sorte
che noti era possibile pigliarne se i cavalieri appostati a
certi intervalli non gV inseguivano succedendosi gli uni
agli altri con sempre freschi cavalli. Le carni di que che
pigliavano erano simili a quelle de cervi, ma più tenere.
Nessuno per altro prese uno stru\io ; an^i alcuni cava-
lieri, dopo averne inseguiti, se ne rimasero subito, pe-
rocché fuggendo si dilunga gran tratto correndo co' piedi
e valendosi delle ali aliate Ma le ottarde, se Vuomo le
assale improvviso, si possono prendere; perchè volano a
piccoli tratti come le pernici e presto si stancano. Le loro
carni erano saporitissime. Procedendo poi per quella re-
gione, ecc. ».
Nessun editore e nessun commentatore ha mai, per quanto
io sappia, elevato dubbi sulla integrità di questo luogo: a me
sembrando scorgervi una lacuna di qualche rilievo, sotto-
pongo agU studiosi akune brevi osservazioni circa tale ar-
gomento, perchè essi ne facciano il conto che crederanno
migliore.
Primieramente in uno storico minuzioso e diligentissimo,
quale è Senofonte nell'Anabasi, reca meraviglia che dopo
avere noverato quattro specie di animali che vivevano nella
pianura da lui sopra descritta, òvoi fi^piot, (TTpouGoì, iJJTibe?
e bopKdòe^. e dopo essersi dato la pena di esporre il modo
l'absinthe dont elles se nourrissent: queiques personnes s'accomraodent
très-bien à ce goùt. La chair de gazelle rótie le perd totaleraent
lorsqu'elle est refroidie ». Debbo anche le citazioni del Pallas alla
cortesia del prelodato prof. Muller. Il lettore intenderà agevolmente
da ciò che segue perchè mi è parso conveniente determinare fin da
ora il sapore della carne della gazzella.
~ 208 -
in cui i soldati greci tentavano di prendere gli onagri, gli
struzzi e le ottarde, taccia affatto della caccia delle antilopi.
Né a spiegare questo silenzio sembrami sufficiente la consi-
derazione che forse tal caccia non offriva alcunché di notevole
da narrarsi al lettore, giacché sappiamo anzi e dal Pallas (i)
e da altri naturalisti che anche le gazzelle sono animali che
si sottraggono facilmente alle ostilità dei cacciatori, i quali
debbono ricorrere a insidie di varie specie per impadronir-
sene; e in ogni caso l'autore, seguendo la sua consuetudine
di render conto anche dei più minuti particolari, avrebbe
dovuto dire se i soldati presero delle antilopi, se ne presero
poche o molte, ecc.
In secondo luogo apparisce strana la seguente notizia
circa gli onagri: xà bk Kpéa tójv àXKJKOjaévujv ^v TrapauXrjcna
ToT? èXa<peioi?, colla giunta poi; aTtaXiLiepa òé. Il lettore si
immaginerà facilmente che io non ho mai avuto occasione
di mangiare la carne di un animale straniero al nostro
paese, quale è l'onagro; però non parmi verosimile ch'essa
sia più tenera della carne del cervo (2) ; e tanto più forti si
fanno i miei dubbi circa le parole xà bè Kp^a ktX. quando
penso che queste sono per certo applicabilissime alle anti-
(i) Op. cit, voi. V, pag, 408.
(a) Veramente ildott Chenu, op. cit., voi. 12, pag. 54, dice: «i'homme
lui (aironagro) déclare la guerre . ♦ pour se nourrir de sa chair,
qui passe en Tartarie pour un mets des plus délicats ». E il Pallas,
op. cit. , voi. 5, pag. 427, dopo avere descritto con molti particolari
l'aspetto e la natura degli onagri, aggiunge : « Les Toungouses avaient
abattu peu de jours auparavant deux jeunes étalons et les avaieni man-
gés: ils en préfèrent la chair à toui autre gibier ». Ma (anche facendo
astrgy.ione dai gusto dei Tartari, il quale forse non è molto esigente)
da queste indicazioni a quella che si legge ora nell'Anabasi corre gran
tratto. Oppiano, Cineg. Ili, v. 190, parlando dell'onagro dice: àWaùxò^
KpoTepot^ àja^f] péoi^ InXero Gripoi : le quali. parole, se non m'inganno,
darebbero argomento a credere che secondo le cognizioni o l'opinione
dell'autore del poema della caccia, il, quale (giova ricordarlo) era nativo
di Apamea in Siria, gli onagri non sono un buon cibo per gli uomini.
— 209 —
lopi, come appare chiaramente dalle autorevoli notizie che
ho riferito sopra in una nota circa questi animali.
Io stimo che si debba riconoscere in questo luogo una
omissione derivante dalPerrore (lo dirò colle parole che ado-
pera I. N. Madwig nel suo recente ed ottimo libro: Ad-
versarla critica ad scripiores graecos et latinos, voi. i°,
pag. 42) « quo propter duas similes voces intervallo
non ita magno positas librarius, oculo a priore ad alteram
transiliente, alterutram cum interpositis omnibus neglegit et
excludit » . Secondo la mia opinione Senofonte subito dopo
la caccia degli onagri descrisse quella delle antilopi e quindi
quella degli struzzi e delle ottarde (i): egli diede notizia
della carne degli onagri e della carne delle antilopi, ma il
copista ingannato da due periodi che cominciavano simil-
mente (2), dopo avere scritto xà bè Kpéa tujv dXicTKOiaéviwv (pa-
role riferibili agli onagri) saltò, senza accorgersene, a una
altra frase eguale, che si trovava poche righe pira sotto, ri-
feribile alle antilopi; e così fu tralasciata la descrizione della
caccia di queste e fu attribuita alla carne delPonagro una
qualità che poco le si addice e che è propria di quella delle
antilopi.
(i) A chi obbiettasse che in tal guisa l'ordine della descrizione delle
quattro caccie (degli onagri, delle antilopi, degli struzzi e delle ottarde)
non corrisponde all'ordine, in cui questi animali furono nominati la
prima volta dall'autore (onagri, struzzi, ottarde, antilopi), parmi si possa
rispondere che al principio del capitolo Senofonte descriveva l'aspetto
che offriva la pianura arabica ai soldati greci i quali si avanzavano in
essa, ed era naturale che nominasse prima gli animali di maggior mole
e poi i minori; mentre prendendo a esporre le varie maniere di caccia,
la divisione per generi (quadrupedi e uccelli) dovea sembrargli più con-
veniente.
(2) Anche per le ottarde dice : rà bè Kpéa aùTObv f^òtora f^v. È quasi
superfluo avvertire che per gli struzzi manca ogni indicazione di tal
genere, conciossiachè, secondo il racconto dell'autore, OTpoo66v
oòòd<; IXa^cv.
— 210 —
La lacuna da me sospettata avrebbe luogo adunque dopo
àXi(JKO]uévujv, o forse dopo xpéa.
Livorno, ottobre, 1872.
AcHiixE Coen.
L'INFLUSSO CONTINUO DELLO SPIRITO GRECO
SUL PROGRESSO DEL GENERE UMANO.
Quanto più raro è il ripetersi del buono nella vita, tanto
più frequentemente possiamo offrirlo nelP insegnamento, e
quanto più raramente la vera nobiltà riesce nella sua lotta
contro ciò che è volgare, tanto più frequentemente dobbiamo
rappresentare in ogni maniera Timagine della virtù e della
perseveranza al mondo, affinchè si travagli per imitarla,
gareggi a conseguirla, ritemperi la volontà, santifichi il cuore,
nobiliti lo spirito.
Non v'ha verità che non abbia d'uopo d'essere di quando
in quando ripetuta ad alta ed a tutti intelligibile voce , che
non abbia bisogno di tempo in tempo di nuovi martiri. Una
genera^^ione dopo Taltra cresce ed ognuna di essa ha il grande,
il primo dovere di accogliere nell'animo ancor vergine il
seme del buono, del bello, perchè diventi generazione va-
lènte, di alti sentimenti, operosa, utile alla propria nazione
ed all'umanità. Che gli uomini mutano non solo secondo
il tempo e l'età, ma ancora nei loro intendimenti, in quello
che meditano e vogliono, nei loro fini e nelle loro azioni.
Ora, così sembra, una generazione passa indifferente la vita
in oziosa quiete e molte contentezza; ora un'altra, simile ad
un torrente di lava, tenta sconvolgere la terra e si spinge,
— 211 -
infiammata tutta, ad ardite imprese. Ma né in quella, sotto
la superficie apparentemente quieta, manca la forza interna;
ne in questa, fra le procelle, fra i fulmini devastatori, si
scuote il solido fondamento, da cui escono i segnali di fuoco.
Quanto più bella e trasparente è la corrente che attra-
versa un'epoca e commuove gli spiriti, tanto più evidente è
in quel tempo anche il riflesso di una vita anteriore e si-
mile, tanto più chiara si riproduce l'imagine di questa in
quella.
L'intimo nesso degli spiriti, la catena non interrotta nel
progresso dell'umanità a traverso ìe centinaia e la migliaia
d'anni è cosa in verità meravigliosa. Il ricercare questo
nesso, il seguire questa corrente non mai intermettente,
sempre nutrita da nuovi rivoli, è certo una delle più serie
occupazioni dello spirito umano e nel medesmio tempo una
delle più sublimi, E sol chi abbia trovato questo nesso
conosce la storia: egli solo vede le leggi che la governano,
a lui solo si rivela l'eterna legge divina, per lui solo l'istoria
dell'umanità è la manifestazione della divmiià
Ora, se ci domandiamo quali sieao oltre la nazionalità ,
ossia l'indole popolare, le forze che determinano la vita in-
tima dei popoli occidentali in genere, se ci domandiamo,
quale sia il fondamento su cui è eretto il grande e mirabile
edifizio de' suoi stati, e quali siano le leve morali ed intel-
lettuali, che agiscono nell'incivilimento europeo e lo spin-
gono ad un continuo progresso, abbiamo una semplice e ben
chiara risposta. Generalmente parlando noi osserviamo, due
principali correnti intellettuali e morali , due fetenti idee
che informano l'attuale nostra vita europea, vita intellettuale,
morale, eminentemente civile ed umana. Quello che di ve-
ramente buono noi scorgiamo neirincivilìmento moderno, le
virtù disinteressate che operano in silenzio, qual manifesta-
zione di cuore puro e di nobile sentimento, sono frutti dello
- 212 —
spirito cristiano, sono gli effetti benefici del cristianesimo.
Quello che d'altra parte ci alletta e ci rapisce per bel-
lezza di forma e profondità di pensiero, per naturalezza,
altezza, chiarezza d'imagini, per grazia, forza e dignità di
espressione nelle opere delPumano ingegno (sì nella lettera-
tura, SI neirarte), quello che è bello e vero nello stesso
tempo è principalmente frutto dello spirito greco, è l'in-
flusso benefico deUV/Zenz^wo, propagato da un secolo all'altro
per opera de'più grandi ingegni dell'uraan genere. E dovunque
si portino i germi nobili deW ellenismo^ essi volentieri alli-
gnano, germogliano, fioriscono e portano aurei frutti.
Il cristianesimo colla sua legge del fraterno amore verso
tutti i nostri simili, legge di sì difficile applicazione, unito
strettamente coU'ellenismo, che è a dire collo spirito greco»
quale lo conosciamo dalle opere imperiture dell'arte e della
letteratura greca, ha penetrato profondamente tutti i popoli
dell'Europa moderna. E la forza naturale di questi popoli
— delle stirpi germaniche e neolatine — cosi vivificata ha
creato nel corso di mille e più anni un più alto incivilimento
dell'uman genere; ha creato, in una parola, il viver civile
dei tempi nostri.
È vero che questa èra novella vince di gran lunga l'an-
tica, strettamente limitata, quanto a diffusione della cultura
o varietà di cognizioni e di esperienza , e ciò in modo na-
turale; ma con riverente gratitudine essa rivolge il suo
sguardo, quasi figlia alla madre , a quei tempi antichi , con-
templando Tinarrivata grandezza della vita puramente in-
tellettuale, che vediamo nell'arte, nella poesia, nella lettera-
tura della Grecia. Oggi ancora vive l'Atene intellettuale e
vìvrà per tutti i tempi, prescelta dalla provvidenza ad essere
per tutte le future generazioni maestra e duce di ogni cosa
nobile e bella; e non è dimenticata nemmeno la sua gran-
dezza politica, la sua storia, la quale ci rappresenta, insieme
— 213 —
con molte altre pregevoli cose, anche la maggior felicità ter-
restre che possa un popolo conseguire : quel raro fenomeno,
possibile solo allora, quando il pensiero e la vita pratica,
spirito ed azione, siano strettamente uniti e dominati dalle
grazie.
Questo stretto nesso tra pensiero ed azione nell' istoria
dell'umana cultura e deirincivilìmento umano è un fatto da
lungo tempo riconosciuto e non contestato da alcun uomo
veramente coho. Ma per quanto sicuro ed indubitato sia
questo fatto, e ciò per ragioni evidenti, altrettanto fermo ed
incrollabile è il convincimento di tutti quelli i quali dotati
di nobile sentire amano veramente V umanità e la propria
patria, che senza una più profonda conoscenza dello spirito
greco e delle sue manifestazioni nella vita mediante uno studio
accurato, coscienzioso, amoroso dei modelli classici, intra-
preso fino dai primi anni giovanili, non sia possibile una
vera nobile cultura dello spirito umano e tale una'educazione
della società che conduca ad una vita politica degna dell'e-
poca nostra.
Quanto maggiormente si estende questa cultura classica,
ellenica, e quanto maggiore occasione è dato mediante la
scuola e l'insegnamento dì apprendere il greco in età ancor
giovanile e per mezzo di abile maestro , guida sicura alla
conoscenza del greco spirito creatore, e di nutrirsi di vigo-
rosi pensieri ellenici invece delia vana e spesso insipida e
corruttrice letteratura de'eiorni nostri, tanto più solide di-
ventano le fondamenta, su cui deve poggiare il buon ordina-
mento politico che sia arra certissima della prosperità delle
moderne nazioni. Imperocché, rendendo più nobili le aspira-
zioni delle nuove generazioni mediante un'assai elevata cul-
tura intellettuale, cresce anche e va di pari passo la vera in-
telligenza delle umane cose e la convinzione della necessità
dei mutamenti che in esse scorgiamo, si comprendono gli
— 21i —
errori che si commettono ed i difetti che si devono emendare,
e per ciò stesso si forma un retto criterio su quello che è
necessario e possibile, e il tenace volere così .s'accompagna
colla indispensabile riflessione, e le azioni non vanno dis-
giunte dalla generosità e dall'amore fraterno.
Ed il continuo conversare coi più grandi ingegni dell'El-
iade, la non interrotta nostra occupazione delle opere loro è
per Tindividuo come l'iniziazione a sacri misteri^ il suo
sguardo si solleva e si avvezza a considerare le alte cose
ed apprezzare i piaceri intellettuali, il suo spirito s'assuefa
a compiacersi di beni imperituri, delle grandi opere dell'arte
e della poesia e del godimento che ci procura l'indagine
delle verità scientifiche. Quello che è intellettualmente bello
e vero diventa un bisogno giornaliero dello spirito, come
il cibo materialmente è pei corpo, e così altri innalza sé
stesso e tutù quelli, con cui ha frequenti relazioni, nel
regno dei pensieri , nel mondo sublime delle idee.
È vero che per altra via possiamo acquistare infinite co-
gnizioni, utilissime abilità ed arti lodevoli, è vero che anche
da altre fonti e specialmente dalle moderne letterature, e
per ogni popolo innanzi tratto dalla nazionale, deriva grande
copia di utili £ necessarie nozioni ed un tesoro di sapere
e di esperienza, massimamente per quella grande pane del
popolo che è costretta a presto prendere parte alla vita
attiva: ma la società nel suo complesso consiste di diversi
ceti di cui ognuno al suo posto può e deve rendersi utile
a tutti in vario modo.
Un'incalcolabile influenza sulla vita dello stato esercita
quella parte del popolo, la quale sogliamo appellare il ceto
colto. Il grado della sua cultura morale ed intellettuale non
è soltanto la misura della cultura generale e del giudizio
morale, ma anche la guarentigia d'un avvenire felice e d'un
continuo, tranquillo progresso di tutti.
- 215 -
La Vera cultura influisce beneficamente su tutte le rela-
zioni delia vita e le rende più nobili : essa stabilisce dei
modelli per Timitazione, e la moltitudine senza accorgersene
si avvezza piena di fiducia ad imitarli.
La vera cultura è un elemento efficacemente conservatore
nella vita pubblica, perchè custodisce gli inalienabili tesori
del popolo, il diritto e la morale, la legge, la libertà e Ta-
more per la patria diletta. Essa respinge quello che ancora
è immaturo, che è esagerato o dannoso. Essa guida e pro-
tegge l'universale progresso per vie maturamente esaminale
e ben preparate. Essa domina coir irresistibile forza dello
spirito, e Io spirito è e sarà sempre il reggitore e dominatore
di tutte le cose: dux atque imperator vitcs mortalium ani-
mus; le sue grandi opere sono immortali come le anime :
ingenii egregia facinora siculi anima immortalia sunt . (i).
Dove domina questo nobile spirito egli informa tutte
le minute particolarità della vita e si riversa per ogni dove,
quasi una rete di nervi vitali, infondendo ovunque vita,
forza e moto. Dove domina questo spirito si svolge una sva-
riatissima, ricchissima vita, che libera ed indipendente opera
nella più piccola cosa come nella più grande e con piena
coscienza e lieta imparte i suoi doni al benessere universale
nello stato.
L'istoria d'un popolo così memorabile, come è indubbia-
mente il greco, di cui senza esagerazione possiamo dire
che non ha il suo pari, merita la più seria considerazione.
Niun popolo, nello spazio relativamente breve d'un secolo
e mezzo, ha mostrato al mondo più numerosi e più sublimi
modelli di nobili pensamenti, di amore per il paese nativo,
di sagrifizii fatti per la patria, di costante fedeltà ai sacri
diritti e costumi, di ubbidienza alle proprie leggi, che la
(i) Sallustio, lugurtha, introduzione, i, 2.
-216 —
lega degli stati greci dalla battaglia di Maratona fino al grande
Alessandro: niun popolo ha insieme prodotto ingegni più
grandi ed artisti di maggiore rinomanza, che formarono e
resero più nobile tutta la vita nazionale, di quello che fece
l'Atene di Pericle.
Mi sia lecito di valermi qui delle parole di uno de' più
eccellenti umanisti, di Federigo Jacobs, intorno all'eccellenza
del popolo greco. Nell'introduzione all'opera sua, intitolata
Eliade {i), ei così si esprime. « Come gli sguardi del Mus-
sulmano credente, quando prega, si volgono verso la tomba
del profeta, così gli sguardi di tutti gli amici dell'arte e
dell'umanità si dirigono al sacro paese dell'ellenica cultura.
Ancora quando visse questo popolo sulla terra, era circon-
dato da una luce poetica che l'uomo non greco contemplava
con stupore e spesso con amore: ed ora che la nazione è
perita e solo ci rimangono le sue traccie, ci appare quasi
come una creazione della fantasia, inventata per diiettare
il mondo. Una grande parte della sua istoria rassomiglia
ad un'epopea omerica e le opere che ci ha lasciato ap-
paiono come maraviglie di Dei , quali il mondo non più
produce. »
« Molti altri popoli sono stati più potenti de' Greci , ma,
dopo il naufragio della toro potenza politica, non vissero più,
fuorché ne'monumenti storici, senza esercitare influsso, e per
lo più senza stima. Solo i Greci, ed i loro discepoli, i Romani,
fanno eccezione. La potenza intellettuale dell' Eliade non sì
è mai spenta, non v'ha che una Grecia^ come non v'ha
che una eterna Roma. Dalle rovine e dalle ceneri degli stati
(i) HellaSy Vortr'àge uber Heimathy Geschichte, Literatur und Kunst
der Hellenen, herausgegeben von £". F. Wustemann, uno dei libri più
istruttivi e dilettevoli che si raccomandino alla lettura d'ogni uom colto
e che scritto senza pompa d' erudizione offre propriamente , secondo
un detto greco, aurei frutti in nappi d'argento.
-217 -
essa s'innalza con sempre novello splendore, e come la virtù
siede sulla tomba d'Ajace, così II genio della nazione ellenica
siede in eterna bellezza e gioventù sulle rovine del deserto
paese. »
« Il semplice considerare una tale stirpe umana , quale
è Tellenica, è, come il considerare ogni opera eccellente della
natura e dell'arte, cosa che allegra, che consola, che istrui-
sce. L'ardente amor di patria , l'altero disprezzo del pe-
ricolo, la santa venerazione anche per le leggi più severe
che dominava gli animi dei cittadini di Sparta-, la illuminata,
morale cultura, la cui sede fu Atene, l'intimo nesso che esi-
steva fra il più squisito sentimento dell'arte e la più vigorosa
energia dei sensi, della dignità colla grazia, della severità colla
mitezza, della profondità con la facilità de'modi, quest'unione
veramente unica delle più belle qualità del genere umano non
cesserà mai di attirare gli sguardi, finché nel mare de' tempi
si troverà una parte della sua storia. Sparta, Atene, ognuna
un centro di particolare cultura morale, attireranno sempre
gli animi. »
« Udendo i nomi dì un Licurgo e di un Solone, di un
Milziade e di un Leonida , di un Temistocle e di un Ari-
stide, di un Epaminonda e di un Pelopida, di un Focione,
di un Timoleonte, di un Demostene e di un Cleomene, ogni
animo si solleva e considera stupito i tempi, in cui poterono
nascere que' giganti di patriottica virtù. Nella splendente luce
ch'essi spargono intorno a sé non si vedono le macchie
proprie d'ogni fenomeno terrestre e i mali che travagliarono
gli stati dell'antichità si dimenticano, quando godiamo i
mirabili prodotti del suolo greco. »
« Ancora più splendido e più sicuro ci appare l'influsso
della cultura ellenica sul mondo letterario : fu tale il genio
di questa ed operò tanto potentemene , che dovunque egli
rivolgesse i suoi passi, si sentiva un energico movimento, si
- 218 —
diffondeva novella luce, e negli animi nobili eccitavasi più
bella attività. E veramente in ciò appunto sta il meraviglioso
della cultura intellettuale e dell'azione del genio, che si
rinnova e si propaga mediante il contatto e mette radice
ovunque trova gli animi accessibili ed un puro amore. »
« Perciò la Grecia non è ancora perita, essa vive in ogni
anima nobile, e (Jalle opere de^suoi figli geniali emanano
puri raggi, come la luce eterna del cielo che nelle anime no-
bili accendono un fuoco sacro e fanno germogliare il seme
del bello e del nobile. »
Ed infatti Pinflusso non interrotto dello spirito ellenico
sulla cultura delFuman genere, questo continuo ringiovanire
degli spiriti mediante lo studio dei monumenti delParte e
della lingua greca, questo influsso veramente grande e sublime
è un momento storico della massima importanza, è l'opera
stessa della provvidenza.
Consideriamo un momento le creazioni di questo spirito.
E innanzi tratto va osservato, che il popolo greco, il popolo
più intelligente del mondo, in tutte le parti dell'umano sa-
pere o ha aperta la via ovvero le ha in modo notevole
trasformate od estese.
Primo il greco ha coltivata la scienza per sé stessa. L'inda-
gine scientifica fu per lui un atto della libertà umana, ed è
per ciò che seppe creare con forza geniale la scienia del sapere^
la filosofia. Da questo tempo per Tinesauribile forza creatrice
di questo spirito fu scoperto il regno sublime, indistruttibile
del puro pensare, e chi una volta si sia elevato fino all'aure
pure di questa vita dello spirito può contemplare la pro-
fonda, divina armonia dell'universo, come un viandante
dalla vetta del monte contempla rapito un paese che ai
suoi piedi deliziosamente s'estende colla sua luce e colle sue
ombre.
11 Greco ci ha insegnato a scrivere istorie, ed a lui dob-
— 219 —
biamo l'arte déiV eloquenza II Greco ha dato per tutti i tempi
il metodo a tutte le scienze piuttosto pratiche. Alla matema-
tica , come alle sciente naturali , ha insegnato il modo
con cui devono essere trattate, ed anche la materia degli studii
più pratici ha saputo svolgere così maestrevolmente, che senza
tema di errare possiamo farci suoi scolari. E per questo che
anche presentemente i grandi matematici della Grecia servono
come stella polare ai discepoli di questa scienza (i) e non a
torto un grande maestro delle matematiche discipline ha ri-
chiesto un esatto studio della lingua greca come indispensa-
bile anche nelle scuole tecniche (2). Anch'oggi il medico che
pensa ricorre alle opere di Ippocrate -, e per quanto sia pro-
gredita la odierna medicina riguardo alla parte tecnica me-
diante le invenzioni del nostro secolo, pure lo sguardo sicuro,
la chiara osservazione, le idee del celebre uomo di Coo sono
anche presentemente encomiati come cosa non superata.
Ma appunto la chiarei\a delle idee costituisce uno dei
pregi maggi' ri dello spirito greco. Come una corrente del
puro etere la sensitiva anima greca accoglieva i risultamenti
dell'osservazione, i quali si trasformavano in essa ora in vivo
pensiero, ora in viva immagine, ed appunto per ciò tutte le
(i) Con buona pace di certi accaniti avversarii d'Euclide.
La Direzione.
(aj Nelle nostre scuole tecniche non si introduce nemmeno il latino,
sebbene gli esami d'ammissione alle facoltà matematiche prescrivano
la cognizione del latino per coloro, che, provenendo dalle scuole tecni-
che, vogliono attendere agli studii universitarii di matematica. È una
anomalia questa, che dovrebbe cessare, anche quando lo studio del la-
tino non fosse indispensabile per ben comprendere l'italiano e non fosse
la migliore prepara^^ione allo siudio di tutte le altre favelle neolatine.
Non si potrebbe introdurre l'insegnamento della lingua latina nelle
scuole tecniche, almeno come materia libera, per far cessare l'incon-
veniente soprannoiato e dare un più solido fondamento alla cultura
letteraria dei discepoli di quelle scuole, che ne abbisognano davvero?
La Direzione.
— 220 —
sue produzioni sono opere vive, e portano l'impronta della
massima perfezione: esse sono belle e vere.
Da quell'indole intellettuale , da quel puro modo di con-
cepire e dal modo ideale di rappresentare (intimamente
uniti colla più feconda fantasia ) risulta quella mirabile ar-
monia, quella pienezza e varietà , quella bellezza e grazia ,
quell'altezza e sublimità che regnano nei capolavori della
letteratura greca , non mai troppo frequentemente celebrati ,
rivestiti come sono d'eterna bellezza.
Ogni loro forma è nuova , ed ogni loro forma è bella ed
in tutto ubbidiscono ad una legge, al senso non corrotto di
ciò che è nobile, bello e moralmente puro.
Donde quella inarrivabile altezza delle creazioni artistiche,
nell'arte della pittura e nella plastica, come nella poesia e nella
prosa. I soli Elleni sono riusciti ad ispirare la vita al m.armo,
a dare al bronzo movimenti dolci e vigorosi. Quello che
Tarte moderna ha prodotto, specialmente nella plastica, ed
a grande gloria de"* secoli, essa io deve allo studio esatto ed
alla fedele imitazione dei monumenti antichi. E quello an-
cora, che negli utensili della vita giornaliera ci attrae per la
bellezza della forma , è imitazione di vasi greci , diventata
frequente, dacché, specialmente in Italia, la terra s'aperse e
ci ridonò le opere antiche sepolte sotto la polvere o la ce-
nere di lava.
Ma in modo uguale come l'opere d'arte ed anche più
estesamente ci attraggono le creazioni intellettuali degli El-
leni pervenuteci nei monumenti della lingua e della lette-
ratura, monum.enti il cui influsso è evidente ad ognuno
che consideri come l'occidente è progredito in modo da
riuscire nel complesbo della sua cultura sem.pre più illumi-
nato e nobile.
Il Greco ha creato l'arte della prosa^ dacché ha inventata
la struttura artificiosa dei periodi, e, primo, ha espresso i
— 221 -
pensieri con la piena forza della parola e con acconcia
connessione delle singole parti, dalla quale risulta la viva-
cità del discorso.
Il Greco ha svolto la poesia in quelle svariate forme che
tutte le letterature moderne hanno accolte: egli ha stabilite
le norme per le poesie serie e per le liete , per le scherze-
voli e per le sublimi, norme che poi furono generalmente
accettate e riconosciute. Chi fra i moderni ha saputo più
fedelmente imitare questi eterni modelli ne ha coito im-
peritura gloria, ed i contemporanei ed i posteri hanno co-
ronato d'alloro le sue tempia.
Centinaia di melodie , migliaia di versi , ora scherzevoli
ed or serii, tali da allettare e da scuotere gh animi, scatu-
rirono dall'entusiasmo de' cantori ellenici : la più bella e
la più ricca delle lingue scorreva più dolce del miele dalle
labbra dei poeti in mille ritmi pieghevoli ad ogni slancio
del genio, melodiosi come il canto dell'usignuolo, o dura e
rimbombante come il passo delle Eumenidi.
Già la lingua greca per se sola merita lo studio più se-
vero, la più seria applicazione. Chi non conosce la lingua
greca non conosce , per ciò che spetta ai linguaggi , la
creazione più nobile e più perfetta del genio umano, spinto
dal soffio divino. Per chi non sente, per chi non è com-
mosso, rapito, tratto all'entusiasmo dalla grazia e pieghe-
volezza, dalla forza e maestà della lingua greca, valgono
le parole messe da Goethe in bocca al suo Tasso :
Mancane, ahimè, le Grazie, e chi non abbia
Di queste Dive i doni aver può molto
E molto dar, noi nego, e pur non lice
Mai quieti posar sopra il suo seno.
(Atto 2^, scena >»}.
Ed ora ricordiamoci dei tesori che son riposti in quel
prezioso vaso che è la lingua greca, ed innanzi tutto dei
l^viita di filologia ecc., I, i6
- 223 -
gioielli della poesia greca , quella poesia che prima potente-
mente scosse lo spirito della nazione, e destò le sue piij
nobili forze, e, siccome accompagnava la vita in tutti i suoi
sttdii, la innalzò a quella sublime altezza che tutta resi-
stenza di questo popolo eletto vi fa sembrare una me-
ravigliosa poesia. Imperocché avendo tutta la cultura greca
origine dalla poesia, e innalzandosi sempre più e più questa
poesia stessa nei diversi periodi dello svolgimento del po-
polo greco per giungere alla perfezione e maturità virile ,
lo splendore ond'essa era cinta irradiava tutta la vita ed il
contatto con essa abbelliva , vivificando, ogni atto della na-
tura intellettuale. In Grecia tutti gli elementi della cultura
facevan sempre ritorno all'entusiasmo poetico, che, come il
sacro fuoco di Vesta ardeva in mezzo alle città, così alzava
le sue fiamme in mezzo alle arti ed alla vita.
Se adunque vogliamo conoscere l'intima natura della poe-
sìa ed il suo naturale progresso nel libero suo svolgimento,
dobbiamo sempre rivolgere i nostri sguardi indietro ai Greci.
E ciò fecero e fanno, quasi spinti da un' interna, invisi-
bile forza tutti i popoli civili , che dopo i Greci compar-
vero sulla scena del mondo e furono i reggitori e duci di
esso e della sua storia.
Roma, l'antica, eterna Roma, risuonava delle lodi della
Grecia, e solo dopo avere ospitalmente accolto nelle sue
mura il genio dell' Eliade Roma vittoriosa divenne padrona
del mondo.
I fondatori della chiesa cristiana (la quale prima e me-
glio e più sicuramente che altrove prosperava sul terreno
preparato dalla cultura greca), i padri della medesima, or-
namenti e colonne di essa, erano, in parte almeno, nella loro
gioventù i migliori discepoli di scuole greche; studiando la
letteratura ancor fresca dei loro antenati erano pervenuti a
quell'alto grado d'intellettuale cultura , che valse cotanto a
— 223 -
renderli capaci di operare così potentemente per la diffu-
sione od il consolidamento del cristianesimo, in modo che i
loro nomi sono intimamente e rimarranno eternamente uniti
con questo istesso. Le loro opere dimostrano non solo la
loro viva fede, ma anche il loro caldo amore e la loro pro-
fonda conoscenza dell'antichità greca.
Dovunque in séguito ha vinto ed era fiorente la chiesa
cristiana, le sue vittorie erano dovute in parte non lieve alla
nobile cultura de' suoi capi e difensori. I grandi papi del
medio evo, la lunga serie di magnanimi e potenti vescovi
ed arcivescovi che adomano la storia della chiesa cristiana
erano i rappresentanti della cultura universale, della classica;
la loro grandezza intellettuale diede a loro potenza e do-
minio. Roma non dominava il mondo soltanto per la forza
del carattere de' suoi abitanti , essa dominava nello stesso
tempo per la somma intelligenza de' suoi capi e cittadini.
Alla perseverante diligenza del clero ed al suo amore (che
or quasi sembra non più vivo) verso la scienza ed alle sue
celebri corporazioni, soprattutto ai Benedettini andiamo
in gran parte riconoscenti, se i monumenti scritti della Gre-
cia furono salvati e maggiormente diffusi. Essi ci hanno
dati nel medio evo, ed in parte anche ne' tempi moderni,
splendide opere di erudizione classica. E quando nell'avvi-
ccndarsi necessario delle umane cose si mutò lo stato po-
litico dell'occidente, quando la Grecia intellettuale risorse,
non fu l'Italia quella che precedette tutte le altre nazioni
nella via del risorgimento a nuova vita dello spirito, e, prima,
creò una splendida letteratura, aprendo nel medesimo tempo
nelle sue chiese e ne' suoi palazzi novelli templi dell'arte
rinata ?
Ovunque più tardi si pensasse a seriamente cohivare le
scienze, ovunque fiorisse la poesia ovvero si svolgesse l'arte,
la sapienza greca, l'entusiasmo greco, il sentimento greco
— 224 -
furono quelli cLe diedero anima e vita alle forze nazionali.
E prove ne sono le grandi epoche nella storia delle lette-
rature moderne, deir italiana , della francese, dell'inglese,
della tedesca, dell'olandese,
I più grandi uomini di tutte le nazioni hanno deposto il
tributo dei loro più fervidi ringraziamenti davanti ai templi
della sapienza e della cultura ellenica. Centinaia , migliaia
denomini si arricchirono e si arricchiscono degli inesauribili
tesori ch'essa diede e dà loro, pur essendo inconscii della fonte
da cui provengono. Non mai interrotta fu la corrente, con
cui lo spirito greco rese più nobili tutti gli sforzi del genere
umano.
Se si voglia comprendere in parole il più grande, il più
serio insegnamento che l'intiera storia dà ai singoli uomini
come agli stati in tutte le varie condizioni, possiamo ripe-
tere la sentenza dell'antica sapienza greca: Tener misura è
buona cosa ! il divino Omero meglio che alcun altro poeta
la annunzia, e la ripetono esortando ed ammonendo le
scuole filosofiche, gli oratori e gli storiografi, e, più che ogni
altra opera scritta, la più perfetta, come la più commovente
delle produzioni dello spìrito greco, la poesia tragica. Fé»
lice colui che l'accoglie e la mette in opera fino da quando
comincia a pensare ed a meditare ! Felice colui che nel
principio de' suoi studi viene introdotto in quella palestra
intellettuale che è la lingua e letteratura greca, che meglio
d'ogni altro studio addestra alle nobili lotte spirituali ! Beato
il popolo la cui gioventù , speranza della patria , s'invigo-
risce e si nobilita nella severa sì j ma lie^a disciplina delle
scuole classiche! È antico detto di un Romano il seguente:
« Qual migliore servigio si può rendere allo stato, che edu-
cando la gioventù, sì che col fiore delle sue scuole crescano
le speranze del paese ? » Ed io ho detto con pieno convin-
cimento :« delle scuole classiche ». Se negli ultimi tempi an-
-225-
che una riunione dì naturalisii ha espresso il timore che
Toccupazione troppo esclusiva delle scienze così dette posi-
tive, delle discipline matematiche, fisiche, naturali, possa
recar danno alle tendenze ideali , risvegliate e mantenute
vive appunto dallo studio de' classici, il fondamento di questo
timore sta in ciò, che il metodo piuttosto tecnico e profes-
sionale di queste scienze è già penetrato nella trattazione di
esse, e che questo nuoce airumanismo ed alle belle lettere,
pericolo tanto più grande quanto maggiormente si estende
il male principale del nostro secolo, che è la 7tX€ov€Sìo.
E poi da avvertire che, secondo l'unanime parere di tutti
gl'intelligenti, una solida base di studii classici è anche la
migliore preparazione a sì fatti studii tecnici, ed al loro eser-
cìzio nella vita pratica: perciò non puossi che far voti affin-
chè una nuova gara in questi sradii fra i popoli al di qua
ed al di là dell'Alpi possa segnare un nuovo e splendido
periodo nella vita di essi.
Monaco di Baviera, ottobre 1872,
G. M. Thomas,
COV^Sin)E%AZIO^I
SULL'ISTRUZIONE, SOPRATTUTTO CLASSICA, IN ITALIA
a proposito del recentissimo libro di M, BRÉAL
sulV istruzione pubblica in Francia
(Continuazione, v. iascicolo 1°, p. g-sS).
II,
Indizio certissimo, effetto e poi causa nuova di leggerezza
intellettuale veramente deplorabile sono, non meno che le
tendenze soverchiamente pratiche dei nostri studi, gl'istinti
retorici che tiranneggiano, sfruttandole, nelle scuole italiane
e francesi colla potenza propria sempre delle tradizioni ,
— 226 —
delle istituzioni vigenti da secoli. Ad entrambe ie due grandi
nazioni dell'Europa neo-latina si addice il rimprovero che
M. Bréal muove alla sua patria: « Tous ceux qui connais-
ssnt notre instruction publique avoueront que la plaie dont
nous souffrons le plus, non pas seulement à Técole primaire,
mais à tous les degrés de Tenseignement, c'est le verbalisme.
Trop de motSy pas asse\ de choses: sous les mots nou'^ ne
voyons pas les choses qu'ils recouvrent, et le langage, au
lieu de nous servir à découvrir la réalité, le plus souvent
nous la dérobe » (i). Le conseguenze sono fatali. « On ar-
ri ve ainsi à élever une nation qui s'attribue volontiers, à ses
heures de satisfaction , le don de la netteté et de la préci-
sion; malheureusement il est plus exact de dire qu'elle a
le goijt des généralités et d'une certaine logique tonte for-
melle. Sur tous les sujets du monde nous avons une quan-
tité de phrases faites par avance, et qui passent de bouche
en bouche come étoffe et comme aliment de la conversation.
On les retrouve dans les journaux, dans les livres, à la tri-
bune. Elies viennent s'interposer, à la facon des idées repré-
sentatives de Malebranche , entre la réalité et notre esprit.
Bien des gens som si peu habitués à se servir de leur intel-
ligence et ont la tete si remplie d'expressions qu'on les voit
ordinairement occupés non à penser, ni à chercher des mots
pour leurs pensées, mais à attendre la pensée d'autrui pour
y fìxer une des^.nombreuses phrases qu'ils tiennent en ré-
serve. Si Tidée qu'on leur présente se refuse à cette sorte
d'enregistrement, ils la tournent et retournent assez long-
temps pour qu'elle se dépouille de ce qu'elle a d'insolite,
et ils finissent par la faire entrer, mutilée ou travestie,
dans le moule inévitable » (2). Sì profonde radici ha questo
(ij Op. cii. , p. 106-7.
(2) Op. c//.,jf>. 107-8.
— 227 —
vizio, SI largamente si estende ed è sì urgente il bisogno
di estirparlo, che i nostri intelligenti e cortesi lettori ci per-
doneranno indubbiamente le minute considerazioni a cui ci
accingiamo intorno a sì fatto argomento,
1 primi sintomi, e già notevoli, di questo morbo ci appa-
riscono nelle scuole elementari, cui rende inette a conse-
guire non lieve parte del loro scopo. Il quale consiste nei
preparare, con acconcia educazione ed istruzione, alla vita
pratica ed agli studi ginnasiali e tecnici. E compito pertanto
di queste scuole svolgere regolarmente !e potenze dello im-
maginare, del sentire, deirosservare (i), del ragionare (2),
(i) Ci si permetta d'insistere su questo dovere che sembra sì poco
noto a tanti istitutori, i quali dovrebbero finalmente convincersi che:
i»è di suprema importanza, sì nella vita de)''azione sì in quella del pen-
siero, il possedere l'attitudine e l'assuefazione ad osservare come con-
viensi; 2" che questa pratica , quest'abito non si acquistano se non per
mezzo di lunghi e ben diretti esercizio Questo studio delle cose è parte
importantissima della pedagogica moderna. V. le belle pagine che il
Bréal consacra a questo argomento {Op. cit., p. io6-t3). V. ancora i
giudizi che intorno alla assoluta necessitA di siffatto studio pronunzia-
rono Gomenius, Basedow, Pestalozzi, Fellenberg (DoUfus , Ètudes sur
la pédagogie allemande , nella Revue germanique , t. V, p. 520-66).
Come e quanto si eseguiscano questi esercizi! di osservazione nelle scuole
americane, degnissime in ciò di essere imitate, impareranno i precet-
tori dal Rapport del signor Hippeau sopra L'instruction publique aux
États-Unis (Paris, 1870, p. 49-60, 373 esegg., 398-401): agli Ameri-
cani furono maestri gì' Inglesi , presso i quali queste lessons on objects
diventano sempre più comuni, come c'insegna il medesimo autore
{L'instruction publique en Angleterre, Paris, 1872, p. 46).
(2) « Éclairer le patriotisme, faire aimer le devoir pour lui-mSme ,
fortifier la confiance et le respect, appeler l'admiration des enfants sur
les mérites solides et vrais, ouvrir les esprits à l'inteliigence d'une si-
tuation, l'instituteur peut donner ces le9ons sans s'écarter du sujet de
sa classe et sans que l'élève aper90ive l'intention didactique. On nous
preparerà ainsi des générations plus sérieuses et plus mùres... Ceux qui
croient que le peuple aura plus de bon sens si on le maintient dans l'i-
gnorancs, se font une idée étrange de notre raison: comme toutes les
autres facultés, elle a besoin d'étre aidée par ceux qui nous ont précè-
de» dans la vie et d'étre exercée par l'usage Je suis loin de deman-
dar que le maitre d'école se change ep horame politique et initie ses
~ 228 -
del volere . spetta ad esse oltracciò rendere atti i fanciulli a
parlare ed a scrivere correttamente e senza stento il patrio
idioma, comunicar loro le prime nozioni di aritmetica e di
geometria, di scienze naturali ed in ispecie di geografia e di
storia, ed avvezzarli a riflettere intorno a certi grandi con-
cetti onde appariscono irradiati di splendida luce doveri e
diritti.
Se le odierne scuole elementari siano pari od impari al
loro ufficio, quale tentammo descriverlo, giudichi lo esperto
lettore ; noi ci staremo paghi di osservare col nostro autore
che; « L'écoie qui jette dans la vie des enfants munis d^une
instruction banale et superficielle ne mérìte pas le nom d'in-
stitution nationale. Partout où un enseignement public est
solìdement constìtué, de quelque esprit qu'il soit anime d'ail-
leurs, nous voyons qu'il porte ses vues au delà du seuil de
la classe, et qu'il cherche à marquer de son caractère les
élèves aux discussions des partis. Je voudrais au contraire que toutes
les influences de la polttique militante vinssent s'arréter non-seulement
devant la classe, mais devant la maison de l'instituteur. Il exercera la
raison de ses écoliers comme le maitre de gymnastique développe la
vigueur et l'agilìté musculaires de ses éièves. Quel parti aura à se plain-
dre si i'on enseigne dans i'école en langage clair ei par des argumenis
accessibles aux enfants qu'il fautpréférerla patrie à scn parti, qu'il faut,
ea route occasion, mettre les iaiéréts permanems du pays au-dessus d'un
avantage passager, qu'on doit respecter les opinlons d'autrui pour obte-
nir ie respect de ses propres convictions, qu'il faut reteplir ses devoìrs
si I'on veut éire écouté quand on parie de ses droits? N'est-ce pas là un
enseignement dont la France entière profilerà? mais il ne doit pas se
donner par sentences; questionnez l'enfant, obligez-le à trouver les ré-
ponses par iui-méme, faites-lui d^à objections pour qu'il réfléchisse sur
son opinion et pour qu'il apprenne à la défendre. De cette fa9on vous
lesterez ces jeunes tétes de quelques notions fondamentales, qui les em-
pécheront de fletter un jour au vent de ".ous les entratnements et de tous
les sophismes. Pour coaabien ces notions seront ies seules désintéres-
séesqu'ils recevrontsur ce sujet! Car dans la suite de la vie c'est parmi
ies atHrmations contradicioires des pariis et au milieu des raisonne-
ments de l'ambition et de la mauvaise foi qu'ils seront obligés de démé-
ler la vérité. « Bréai-, Op. cit. , p. i23-5.
- 229-
génératìons nouvelles » (i). E. quando troppo Imperfette
sono la educazione e la istruzione dei molti, strana follia
ci sembra la speranza ch'esse possano concorrere efficace-
mente a liberarli da quei pregìudizii, i quali, più che altri
non creda, sogliono nuocere alla conservazione ed al perfe-
zionamento dello individuo, della famiglia, dello stato (a):
a sì fatta redenzione non gioveranno guari certamente né le
amplificazioni retoriche, né i versi, senza poesia, male intesi
e peggio recitati con monotona cantilena e con tedio infinito
di chi è costretto ad assistere a certi esperimenii, a cerre
feste che osano appellare di pubblica istruzione! Delle quali
è sì fattamente noioso pur li semplice ricordo che ci affret-
tiamo di abbandonare lo ingrato argomento e di venire
a discorrere degli studi che si fanno e di quelli che si do-
vrebbero fare nel ginnasio e nel liceo.
Doppio è lo scopo che ad essi vuol essere proposto : con-
tinuare a svolgere con opportune esercitazioni le facoltà
della mente e del cuore-, convertire i fanciulli, appena ini-
ziati allo imparare, in giovani colti , atti , sì pel loro grado
di attività mtellettuale, sì per le cognizioni acquistate, a
compiere degnamente parecchi onorevoli ufficii sociali e ad
intraprendere gli studi superiori e speciali cui debbono es-
sere copsecrati gli atenei. Ora gran parte dello insegnamento
liceale e quasi affatto quello del ginnasio h^nno ad oggetto
le lingue e le letterature greca, latina, italiana : vediamo per-
tanto quali frutti si raccolgano da questo lungo è faticoso
lavorìo, e, innanzi tratto, quanto e come si impari a cono-
scere i più grandi autori della Grecia e dell'Italia antica e
(i) Op. cit. , p. M7.
(2) " Nous veuons d'assister au plus grand débordement d'erreurs et
de mensonges qu'aucun teraps ait ptut-étre jamais wi.... De tels éga-
rements ne démontrent-ils pas qu'il y a une lacune dans le systèroe
d'éducation nationale ? » Bréal, Op. cit., p. 11 5.
- 230 -
moderna. Chiunque non si pasca delle vane illusioni cui
genera troppo spesso la lettura di certi programmi e pos-
segga un esatto concetto di ciò che per lo più si fa nelle
nostre scuole secondarie ammetterà necessariamente con noi
che sono vere, sciaguratamente vere anche in ordine agli
sludi classici dei ginnasii e dei licei italiani le osservazioni
seguenti del Brcal: « Sur les programmes de nos lycées,
nous voyons (ìgurer une serie fort honorable d'auteurs la-
tins et grecs. Dans les circulaires de nos ministres et dans
les discours de nos professeurs, les chefs-d'oeavre de l'an-
tiquité sont continuellement cités et vantés. Homère, Platon,
Démosthène, Eschyle, Sophocle, Euripide (i), Virgile, Ho-
race, Cicéron, Tite-Live, Tacite, sont l'aliment de nos jeunes
collégiens. Mais si vous entrez dans la classe, vous voyez
que ces écrivains y tiennent, en somme, une place assez
modeste » (2). Appena occorre accennare come assai meno
ancora che i latini si leggano gli scrittori greci. E a buon
diritto chiede il Bréal : « Est-ce avec six dialogues de Lu-
cien, la moitié d'une vie de Plutarque, la moitié de deux
chants d'Homère, une tragèdie d'Euripide et une autre
de Sophocle, et le commencement d'un discours de Dé-
mosthène, lentement ànonnés en cinq ans, qu'on prétend
apprendre la langue la plus riche et la plus variée qui ait
jamais existé? Ces moyens, déjà insuffisants pour le latin,
deviennent dérisoires pour le grec » (3). E, siccome l'a-
more del vero ed il proposito di significarlo con libera
(i) Vuoisi per altro notare che, per quanto concerne gli autori greci,
i nostri programmi sono ben più modesti che non quelli onde fa cenno
il Bréal.
(2) Op. cit. , p. 211- 12. V. anche la recentissima Circulaire di J.
Simon [Journal officici de la République frangaise , 3 ottobre 1872,
p. 63o9).
(3) Op. ciL , p. 228.
- 231 -
schiettezza alla patria nostra vale in noi ben più che l'or-
goglio nazionale, così osserveremo che noi, italiani, avremmo
già ragione di rallegrarci se in tutti i nostri licei si faces-
sero le letture greche onde il Bréal notò la insufficienza:
che dei candidati, i quali si presentano fra noi agli esami
di licenza liceale, i più non hanno tradotto che qualche fa-
vola esopea, qualche dialogo di Luciano, poche pagine di
Senofonte, ne guari maggior numero di versi omerici! E
sin delle opere letterarie dell'Italia moderna quanta parte
non resta ignota ai giovani italiani! Ma il legger poco sa-
rebbe minor sciagura se almeno troppo spesso non si leg-
gesse male. E veramente avviene non di rado che si pro-
pongano agli alunni come oggetto di studio e talvolta come
modelli di bellezza letteraria autori di secondo o di terzo
ordine, mentre non si richiama in egual modo la loro
attenzione sopra i più grandi: così vedemmo assai sovente
Cornelio Nipote onorato di un culto che si negava a Cor-
nelio Tacito! E, quasi scarseggiasse o si avesse a schifo la
legittima latinità, non rade volte le si sostituisce la bastarda
colla sua freschezza di vecchia imbellettata (i). A ciò si
aggiunga che spesso l'ordine, giusta il quale si fanno agli
allievi delle nostre scuole classiche secondarie leggere i sin-
goli autori, cozza colle più elementari ed evidenti leggi pe-
dagogiche, le quali c'impongono di procedere sempre con
saggia gradazione dalle minori alle maggiori difficoltà. Si
leggesse almeno per intero qualche grande scrittore, almeno
un'opera di es'io, almeno una parte compiuta di un'opera!
Ma troppo spesso accade che ai poveri alunni non si gettino
(i)« Je suis d'avis quf les recueils da morceaux choisis, les Excerpta,
les Conciones, ies Seiectae , et surtout les ouvrages composés en latin
par des auteurs modemes, à l'usage des joUéges, doiventetre abandon-
nés. II faut étudier une liitérature dans ses chefs-d'oeuvre, et prendre
pour maitres d'une langue ceux qui la savent. » (J. Simon, /. c.)>
- 232 —
se non le bricciole cadute dalla mensa dei classici (i). Non
basta ancora : manca per lo più la necessaria preparazione
a comprendere un autore, un lavoro letterario-, manca tal-
volta gran pane de' commenti che più si richiedono ; manca
troppo sovente una buona edizione dello autore che s'inter-
preta, perchè fra i maestri v'ha ancora (sebbene ormai
sembri impossibile) chi crede non necessaria alle scuole gin-
nasiali e liceali la scelta d'un testo corretto, o aggiusta fede
alle stupide e svergognate calunnie colle quali osasi talora
insultare l'opera emendatrice di critici moderni (2). Indi la
(1) « On est surpris quand on rapproche de cet état de choses les
usagcs de nos voisins. " 11 fautqu'en seconde (laquelle, il est vrai, dure
souvent deux ans) les élèves aient vudix livres deTite-Live, et tn pre-
mière quatorze discours de Cicéron, ainsi que le De Officiis. » Qui parie
ainsi ? Non pas un utopiste, un réformaieur; mais un professeur ren-
dant compie de sa pratique. Dans le cours des études du gymnase, d'a-
près le règlement prussien, Homère doit étre lu tout entier. Trois tra-
gédies grecques, en un an, ne paraissent rien d'excessif. Dans le Ha-
novre, à Texamen qui répond à notre baccalauréat, on exigeait des can-
didats, généralement àgés de dix-sept ans, qu'ils eussent lu les traìtés
de philosophie et de rbétorique de Cicéron , Salluste, Tite-Live, l'É-
néide, les odes d'Horace, l'iliade, l'Odyssée, Hérodoie, l'Anabase, les
Mémorables, quelques diaiogues de Platon. Nous avons peine à nous
figurer de telles lectures. Mais il taui songcr qu'en Allemagne la dasse
est débarassée d'une quamité d'exercices qui encombrent la nótre, A
l'étude, rélève Ut ses auteurs, note à la raarge les passages qu'il ne com-
prend pas, de sorte qu'on passe avec une grande rapidité sur les en-
droits faciles. » Bréal, Op. cit., p. 214-5.V. anche Hippeau, L'wstruc-
tton pitblique aux États-Unis^ p. 4o3.
(2) « Un genre de commentaire déjà recommaadé par RoUin, ce soni
les observations sur l'histoire et la constitution du lexte. Il est bon de
dire aux élèves des ciasses supérieures par quels manuscrits un chef-
d'ceuvre est venu jusqu'à nous. par qui il a été d'abord publié, corrige.
L'ignorance de nos élèves, sur ce sujet, est complète; quelquefois aussi
celle des maitres. Je pourrais citer à ce sujet des passages tirés despré-
faces de nos éditions scolaires, qui montrent que notre éducation est à
refaire sur ce point. On trouverait des professeurs qui croient que les
éditions du quinzième siècle sont les plus conformes aux anciens ma-
nuscrits. La plupart se débarassent du travail d'éditeur par une phrase
SU" les témérités de la critique moderne. >• Bréal, Op. cit. , p. 219.
- 233-
ignoranza, indi Tawersione, che si rivelano chiaramente
nella maggior parte dei giovani per ciò che atiiensi agli
studi classici: sì poco hanno appreso a conoscere il valore
delle due grandi letterature greca e latina, soprattutto della
prima, e riesce loro sì difficile lo intendere gli scrittori del
Lazio e della Grecia (i), che, usciti delle scuole liceali, i
più si rallegrano di essere finalmente liberi dal noioso do-
vere di studiare, con sì scarso profitto, greco e latino (2). E
sapete voi la cagione per cui queste povere vittime dei pre-
giudizii altrui sì poco si addentrano nel santuario della clas-
sica antichità? Osservate con quali intendimenti si facciano
studiare i capolavori delle lettere greche, latine, italiane, e
vedrete che troppo spesso si leggono nelle nostre scuole se-
condarie non altramente che quali modelli di lingua e di
stile, come se i grandi poeti , storici , oratori , filosofi della
Grecia e della Italia antica e moderna non valessero ad
educare, ad istruire la nostra gioventù se non come maestri
di grammatica e di retorica! Indi si scorge come un ma-
laugurato studio della parola soffochi quello dei fatti e delle
(i) « L'élève, invite à gouier les douceurs de la poesie et la séductlorì
de l'éloquence, ne sent que mieux le contraste entre les jouissances
qu'on lui vante et la phrase grecque qu'il a sous les yeux, et dont il ne
parvient pas à débrouiller la construction et à reconnaitre les mots. »
Bréal, Op. cit. , p. aaS.
(2) <i Comment veut-on que notre jeunesse apprenne à connattre et
à-ainier l'antiquité quand on la lui sert ainsi découpée en raorceaux, et
quand le plaisir qu'elie pourrait prendre au peu qu'elle en voit està
cbaquc instane troublé par des préoccupations de style et des airiòre-
pensées de traduction ? Corament nos bons é!èves orendront-ils en af-
feciion quelque auteur latin ou grec , et le choisiront-ils pour lecture
favorite, quand ils sont sous la j^luie continuelle des versions? C'est là,
il n'en faut pas douter, la cause principale pour laquelle, malgré lant
d'années de collège, l'antiquité est si peu connue chez nous ; c'est pour
cela que , hors da lycée, les auteurs classiques ne sont guère lus de per-
sonne, pas memede ceuxqui font métier d'enseigner le grec et le latin.»
Bréal, Op. cit. , p. 213-4.
-234 —
idee: malaugurato abbiamo detto, perchè non solo ci ap-
pare soverchiamente esteso a danno di altri studi, ma ezian-
dio ci sembra ben lungi dallo arrecare que' vantaggi che
molti da esso si ripromettono. In primo luogo soglionsi
nei nostri istituti didattici imparare le lingue con metodi per
lo più affatto empirici , i quali per la loro intima irrazio-
nalità sono necessariamente inetti, come Tesperienza e la
ragione dimostrano, ad educare convenientemente lo ingegno
giovanile : ma di questo argomento discorreremo nella terza
parte di queste nostre Considerazioni. Secondariamente
puossi affermare, a nostra vergogna, che non solo non si
ottiene una cognizione teoretica delle favelle che sono og-
getto di sì lunghi studi alle nostre scolaresche , ma ge-
neralmente non si impara nemmeno ad intendere i più
semplici prosatori greci ed i men facili tra i latini, a
scrivere senza stento e con un po' di eleganza la lingua dei
nostci padri, in otto anni di esercizii grammaticali e retorici
intorno allo idioma dei Lazio, idioma che ormai sembra in
Italia più difficile del basco! (t). Splendide, troppo splendide
prove di questa nostra asserzione sono gli sforzi erculei, e
non di rado assai poco avventurali, che costa a buon nu-
mero de' nostri studenti liceali l'interpretazione di pochi
versi latini, e più ancora gli spropositi, quasi incredibili, di
prosodia, di sintassi , di coniugazione ed anche di declina-
zione, che, come spesso suole avvenire, i padri stessi, seb-
bene non abbiano da molti anni riletto una regola del loro
Nuovo metodo né una pagina di autore latino, correggono,
scandolezzati, ai proprii figliuoli, usciti appena del ginnasio,
del liceo, od ancora ammaestrati nello idioma latino e co-
fi) È noto che l'autore di una grammatica basca intitolò quest'opera
sua : " Lo impossibile superato, ossia Grammatica della lingua basca ■!
- 235 -
stretti a studiarlo (i), allorquando questi leggono i proprii
lavori nella lingua degli avi nostri. Che lo studio dei classici,
soli maestri di veramente antica romana eleganza ai futuri
latinisti, è ora fatto in guisa affatto insufl&ciente a conseguire
questo fine; gli esercizii di versione dallo italiano in latino
non sono per lo piià abbastanza frequenti né saggiamente or-
dinati, sì che non riescono ad infondere negli allievi una
pratica conoscenza di tutte le leggi grammaticali più impor-
tanti, di tutte le voci e le locuzioni più utili (2) -, le compo-
sizioni latine finalmente, a cui né la lettura assidua de' grandi
scrittori romani, né Tabito di tradurre dal patrio idioma in
quello del Lazio prepararono convenientemente i più degli
studiosi, non altro evidentemente possono essere che un
lungo, penoso, ingratissimo lavoro ed insieme una prova di
deplorabile ignoranza (3), E ciò vediamo avvenire in iscuole
(a) Di questo deterioramento innegabile negli studi ginnasiali di
lingua latina, delle cause di esso e dei mezzi alti a cessarlo già discor-
remmo nella prefazione alla nostra Grammatica stoi-ìco-comparativa
della lingua latina ecc., Torino, 1872, p. vm-xu.
(2) Assai meglio si provvederebbe ai bisogni degli s'udenti se si fa-
cessero, in iscuola, tradurre a voce in latino i temi dello Schuitz: rac-
comandiamo in ispecie ai maestri la Raccolta di temi per cserci-^io
della sintassi latina, tradotta dal Fornaciari , edita dal Loescher, To-
rino, 1870-71.
(3) Non possiamo astenerci dal notare che sovente la materia delle
composizioni latine, ed anche non di rado delle italiane, vale poco più
della forma, sì che potrebbe affermarsi veracemente esservi in molte
di esse fra il pensiero e la parola una perfetta corrispondenza. Ciò ha
luogo naturalmente sempre quando lo studio retorico della parola pre-
vale su quello delle idee e dei fatti, quando invece di educare e d'istruire
si insegna a parlare senza intendere, senza sentire profondamente! Si
aggiunga che spesse volte è infelicissima la scelta degli argomenti: certi
temi, in ispecie di filosofiche dissertazioni e di lavori oratorii, sono su-
periori alle cognizioni, all'attività intellettuale del maggior numero di
coloro cui vengono imprudentemente proposti, e ingenerano l'abito
funestissimo di sentenziare con puerile temerità intorno a ciò che si
conosce appena, oltreché l'uso soverchio di certi esercizii oratorii av-
- 236 ~
nelle quali sembra pure che il latino s'insegni « non pour
le savoir, mais pour Técrire », giusta Targiita osservazione
del nostro autore (i). Sì fatta maniera di studi classici è ben
meritevole del severo giudizio che intorno ai medesimi nei
licei della Francia, troppo spesso ed insipientemente imitata
da noi, pronunziarono parecchi francesi stessi (2) e qualche
straniero (3). E t'illuderesti miseramente, cortese lettore, se
vezza un giovane « non à chercher et à dire la vérìté, mais àplaider une
cause », anzi «< à plaider avec chaleur des causes qui ne le touchent
point", come osserva acutamente il Bréal [Op. cit, , p. 246). V. tutto
lo stupendo capitolo Da discours latin et du discours fran^ais (p. 23S-
54): V. anche nella citata Circulaire di J. Simon le osservazioni circa
Les exercices de langue et de littérature fran^aise.
[i) Op. cit., p. 228. Sembra veramente impossibile che da taluni
non siasi ancora compreso, che, come nota J. Simon « on étudiera dé-
sormais le latin pour le comprendre et non pas pour le parler >*, ed in
genere « on apprend les langues vivantes pour les parler, et les langues
morles pour les lire ».
(2) Così il Bréal, là ove discorre dei temi latini , nota essere « trop
clair que ces exercices ont le tort de tourner sur les mots l'attention
que nous devrions avant tout diriger sur les choses. A l'àge où les en-
fants ont tout à apprendre , nous réclamons leur temps et leur peine
pour mettre en balance deux terms plus ou moins classiques ou pour
rechercher de quelle fa^on la phrase tombera le mieux. Encore si ce
était seulement du temps perdu ! Mais l'enfant prend l'habitude d'at-
tacher au mot une importance disproportionnée... » {Op. cit. , p. 208).
V. anche Renan, la Ré/orme ecc., p. 95.
(3) Consulta principalmente il libro di Hahn Das unterrichts-wesen
in Frankreich ecc., Breslau , 1848; il Renan nella sua monografia
L'insiruction publique en France jugée par les AUemands ( Qttestions
contemporaines, p. 263-93) ne fece un compendio , da cui estrarremo
qualche periodo: « L'Université en prenant i'antiquité classique
pour robjet principal et presque exclusif des études, a prétendu rendre
un Service inappréciable à la civiìisation , ainsi qu'à la prépondérance
imaginaire de la culture franjaise en Europe ; elle insiste avec vanite
sur ce bienfait, pour soutenir les intéréts de sa domination absolue ; et
pourtant il est certain qu'au fond elle n'a pas la juste conscience des
vraies études de l'humaniste. Elle entasse avec surabondance la ma-
tière classique , mais sans la vivifier par l'esprit littéraire ; les formes
antiques circulent journellement et passent de main en main ; mais le
- 237 --
tu credessi che questo culto insano della forma, questa tras-
curanza della materia, questo prevalere dell'apparenza sulla
sostanza, questa leggerezza da parolai, questa verbosa su-
perficialità, che venne sì aspramente rinfacciata alla istru-
zione secondaria francese e che rimproverar si potrebbe
eziandio all'italiana, sia almeno ristretta al campo degli studi
Ictterarii e non invada quello delle altre discipline. Vedasi,
a prova di questa nostra affermazione, come e quanto s'in-
segni la storia, soprattutto l'antica in certi ginnasii! In
primo luogo questo insegnamento è considerato da molti
professori e da quasi tutti gli alunni come di gran lunga
inferiore in importanza a quello delle lettere. Secondamente
v'hanno ancora, per nostra sciagura ed onta, maestri
che non si peritano di proporre, anzi d'imporre, ai loro
poveri allievi certi compendii, i quali, fatti da uomini inetti
per mera, turpe e talvolta cinicamente confessata avidità di
subiti e facili guadagni, e quindi nella guisa più accetta alla
poltroneria dei molti, sono si svergognata mutilazione delia
sens du beau antique manque profondémem ; on rassemble laborieuse-
ment des pierres polies pour la construciion, mais jamais elles ne s'^-
lèvent en un édifice harmonieux; jamais on ne passe d'un aride excr-
cice d'intelligence à une nourriture vitale de tout l'homme spirituel.
Tout se borne à des applications étroites et mesquines: au lieu de for-
tifier les facultés iniellectuelles , au lieu d'un développement où la
beauté de la forme serait en harmonie avec les progrès de la raison ,
on acquiert seulement une habilité singulière pour déguiser à soi-mènae
et aux autres le vide de la pensée sous une forme creuse , éblouissante
et pompeuse. On s'imagine conserver et coniinuer les tradition?; philo-
logiques de Port-Royal ; on promet à la nation des fruits comparablcs
à ceux qu'a produits cette vigoureuse école , un nouveau siede d'or en
littérature; mais on ne s'aper90Ìt pas que, de toute cette culture clas-
sique, on a salsi l'écorce et non le fruit , en sorte qu'au lieu d'élever
l'àme, cette culture n'aboutit qu'à erapirer le mal d'un siècle tout ex-
térieur et profondément attelnt de roatérialisme. Un esprit étroit et for-
maliste est le trait caractéristique de l'enseignement en France ; ce n'est
pas une vraie culture de l'esprit ; c'en est la caricature. » (p. ayó-y).
Tijvista di filologia ecc., J. 17
- 238 —
storia che il solo vederli desta ribrezzo e schifo (i). Ed è
spellacelo che muove a piangere per compassione od a
sogghignare di scherno il vedere, come avvenne a noi, un
insegnante ginnasiale costringere la sua scolaresca a studiare
a memoria si fatti libercoli di storia e di geografia! Che
importa se i giovani non hanno un concetto chiaro e di-
stìnto nemmeno delle più grandi divisioni della terra? Essi
sanno recitare senza errori e senza esitazione la paginuccia
del manuale, nella quale si dà un cenno su tale argomento,
e ciò basta a certi professori per cui questo titolo è vera-
mente la più crudele delle ironie. Né di rado accade che
la buona memoria, unico pregio (e spesso troppo iodato)
di certi scolari, veli il difetto deplorabilissimo di nozioni
esatte, quasi diremmo vive, in fatto di fisica, di chimica,
di storia naturale. Effetto doloroso, inevitabile del vizio di-
dattico onde abbiamo discorso è la imperfettissima educa-
zione ed istruzione di cui porgono sì gravi e numerosi in-
dizi!, anche al meno attento ed acuto osservatore, i giovani
che escono dei nostri licei, per io più mal preparati agli
studi universitarii né guari meglio a quel genere dì vita al
quale dovrebbero essere atti. Questo difetto di cognizioni e
di ben regolata energia intellettuale e morale ci si mani-
festa colla più viva evidenza nella deplorabile negligenza di
moki fra essi in ciò che s'attiene al mondo del pensiero e
nella poca serietà con cui non pochi compiono certi do-
veri ed esercitano certi diritti di grande importanza. Sì
fatta povertà dello spirito, povertà che di tutte è la più pe-
ricolosa e che da lunga età funesti errori hanno inflitta
(i) Sarebbe ormai tempo che si mondassero le nostre scuole da si-
mile sucidume e che a certi sunti si sostituissero libri dettali in modo
più degno della scienza, verbigrazia quelli del prof. Schiaparelli per
la storia antica, del prof. Ricotti per la moderna, la quale fu eziandio
da parecchi altri esposta convenientemente ad uso de' nostri licei.
~ 239--
alla patria nostra, sì rivela soprattutto in gran, parte della
stampa periodica e politica, ad esempio nel pessimo vizio
di voler discorrere di tutto, anche di ciò che non si conosce,
e profferir giudizio senza competenza, od eziandio dei più
autorevoli biasimare te sentenze, con una temerità che mo-
verebbe a sdegno anche uomini serii, se dalla esperienza
non fossero avvezzati a sorridere di tanta puerilità.
A questa troppo spesso presuntuosa e prepotente debo-
lezza intellettuale dovrebbe apprestare continuo, efficace ri-
medio la istruzione superiore, universitaria. Sciaguratamente
eziandio in molte parli di essa serpeggia il morbo onde ci
diamo pensiero, le corrode, le strema, le rende inette al
loro altissimo ufficio. E, prendendo naturalmente le mosse
dagli studi filologici ed in ispecie dai greco-latini, ci duole
profondamente dover confessare che non tutti coloro, i
quali pur ne dovrebbero essere valorosi maestri, hanno un
esatto concetto del loro scopo, il quale ci appare doppio,
teoretico e pratico, scientifico e didattico: far conoscere,
storicamente e filosoficamente, le più grandi civiltà, consi-
derate nella mirabile varietà dei loro elementi costitutivi,
delle loro rivelazioni, vale a dire nei linguaggi, nei miti,
nelle religioni, neirarte, ne' sistemi filosofici, ne' costumi,
nelle istituzioni e negli avvenimenti civili, politici, militari;
preparare con si fatto studio e con acconcia pedagogica gli
alunni allo insegnamento letterario, storico, filosofico ne' gin-
nasii e ne' licei. Per isventura nostra e delle nuove genera-
zioni la prima parte di questo compito non fu mai guari
per lo passato, né anche presentemente è ben compresa da
tutti, e v'ha ancora, sebbene ormai sembri impossibile, chi
pensa essere alle facoltà di lettere proposto sovra ogni altro
il fine d'insegnare a scrivere italianamente e latinamente,
come nelle scuole dei retori s'insegnava a parlare! Ciò
posto, non è punto malagevole io intendere come da sì fatti
— 240 —
uomini siano reputati men necessarii, anzi da taluno quasi
inutili od eziandio pericolosi, i veri studi propri! delle pre-
accennate facoltà , verbigrazia l'analisi , storica e filosofica ,
degridionrii, delle letterature; come si oppongano al trionfo
di tali studi e dei loro promotori , né sempre con arti degne
dello scienziato e del gentiluomo-, come una dissertazione la-
tina, fatta con ritagli di latinità sovente spuria e cuciti insieme
per guisa che a noi italiani rammenta Tabito, non certo l'ar-
guzia del nostro Arlecchino, sia qua e là giudicata prova
di sapere filologico: come finalmente le vere prove di esso
siano talvolta accolte con indifferenza, o, peggio, con insano
disprezzo da persone, che, per la propria ignoranza ed im-
potenza di spirito, non ebbero ancora la buona ventura di
comprendere quanto la scoperta, la cognizione di un minimo
fatto, ad esempio di uno fra i meno rilevanti fenomeni fo-
netici , superi in importanza tutti i loro sproloqui! italiani
e latini, ne' quali la pompa retorica della forma e lo strepito
inane di paroloni rimbombanti non vale a nascondere,
fuorché ai più gonzi (loro unici ammiratori), il difetto d'i-
spirazione e la povertà del pensiero. Questo umanismo
bastardo, che, miseramente illuso (i), si crede talvolta della
filologia classica il più strenuo e formidabile campione , le
reca, senz'accorgersene, maggior danno che i nemici di
essa, screditandola colla propria leggerezza. Fosse almen
questo, sebbene gravissimo, il solo indizio che ci rivelasse
nei nostri atenei cotale amore dell'eleganza oratoria a danno
della scienza , cotale inclinazione alla sterile magnificenza
delle declamazioni più che alla feconda austerità delle in-
dagini: ma sciaguratamente sì fatte tendenze ci si mani-
li) E miserabile illusione vuoisi pur dire la folle speranza che le
raerti guaste da sì fatto umanismo possano in breve tempo e con lieve
fatica iniziarsi agli odierni studi linguistici e filologici , avvezzandosi ,
quasi per in^nto, ai metodi nuovi.
-241 -
festano colla più trista evidenza nella indole, veramente
stranissima, di certi corsi universitarii , che ci rammen-
tano le facoltà di scienze e di lettere in Francia , come
le descrissero Renan (i), Bréal (2), Hiilebrand (3), e che
non sono se non un' esposizione dei risultati più importanti
e più certi, a cui giunse la investigazione scientifica intorno
ad UD ordine estesissimo di verità, esposizione che non la-
scia più scorgere il lento e faticoso lavorio intellettuale senza
cui sarebbe stata impossibile la conoscenza di questi risul-
tati, e che non è nemmeno sempre completa, esatta, chiara,
corretta in fatto di stile e di lingua. Ciò prova che alcuni^
pur elevati a queste ardue altezze dello insegnamento, non
hanno né anche un giusto concetto del compito loro affidato.
Odano questi signori le severe, ma opportunissime ammo-
nizioni del Bréal: « Autre chose est de propager la science,
autre chose de Tenseigner. Le ròle de vulgarisateur , fort
utile en lui-mème , n'cst pas celui qui convient au profes-
seur : au moìns n'est-ce qu'une moitié de sa tàche. Il faut
que le professeur, dans son cours, recommence les recher-
ches et refasse le travaìl de Pinventeur, pour mettre ses
élèves en état de comprendre les méthodes scientìfiques et
pour les rendre capables de cominuer les découvertes faites
par leurs ainés dans la vie» (4). No, un ateneo non può
(i) Questiom contemporaines, p. 87-110, 143-4, 204-5.
(2) Op. cit. , p. 338-46.
(3) L'enseignetnent supérieur en Frartce (Revue moderne, t. XLVl ,
p. 596-7).
(4) E continua nel modo seguente: » Tout le monde sait comme nous
que les sujets les plus élevés sont familiers à nos professeurs de Facul-
tés: ils exposent à leur auditoire les origines et les iransformations
des langues et des littératures, le développement des institutions reli-
gieuses et politiques, les grandes découvertes de l'archeologie et de la
épigraphie. Mais, à la rigueur , les journaux et les revues suffiraient
pour cetìe sorte d'enseignement. Un point de l'histoire liitéraire éclairci
d'après les sources, un texte critiqué avec soin, une inscripiion bien
comraentée, vaudraient mieux pour des élèves. » Op. cit., p. 345-6.
— 242 -
essere consecrato esclusivamente a propagare la cognizione
dei veri già scoperti , dimostrati , illustrati compiutamente
dalla scienza ; esso debb'essere eziandio, come il collegio di
Francia quale lo vorrebbe Renan : « le laboratoire toujours
ouvert où se préparent les découvertes, où le public est ad-
mis à voir comment on travaille, comment on découvre,
comment on contròie et vérifie ce qui est découvert » -,
eziandio acciocché « des vocations spéciales se forment»*,
ed a conseguire questo scopo « tout Tappareil de la sciencc
la plus speciale et la plus minutieuse doit ètre ici déployé.
Des démonstrations laborieuses, de patientes analyses, n'ex-
cluant , il est vrai , aucun développenient general , aucune
digression iégitime, tei est le programme de ces cours » (i).
Tale è la natura delle università germaniche (2) , nelle
quali certi corsi di facoltà francesi non sarebbero certo tol-
lerati, come ben nota il francese Renan (3). Sappiam bene
quali argomenti si adducano in Francia (4) ed anche talora
(t) Qiiestions contemporaines, p. 106 e 206,
(2) Bréal, Op. cit. , p. 338 e 342-3 ; Hillebrand , L'enseignement
supérieur en Allemagne ; Pouchet, Uenseignement supérieur des Scien-
ces en Allemagne {Revue des deux monJes, t. LXXXIII, p. 444-5).
(3) « La surprise de l'Allemand qui vient assister à ces cours est très-
grande 11 s'aper^oit qu'il n'apprend rien, et se dit à lui-méme qu'en
Allemagne il ne souscrirait pas à ce cours. Dans un cours assujetti à
une rétribution, ce qu'on veut pour son aigent, c'est de la science po-
sitive , ce sont des résuhats précis. On ne pavé pas pour écouter un
bomme, qui n'a d'autre bur que de vous prouver qu'il sait bien par-
ler. Wilhelm Schlegel , m'a-t-on dit , voulut , à riniitation de la ma-
nière fran9aise, fai re à Bonn de ces cours oratoires ; il n'eul aucun
succès. Personne ne voulut se déranger pour entendre des récitations
brillantes, dont le but principal était de montrer l'esprit du professeur,
et dont le resultai le plus clair était qu'on se dit à la sortie : Il a du
talent. » [Questions contemporaines, p. 90-1).
(4) «t On se représente le savant comme un ètre isole du monde , la
recherche scientifiquc comme un plaisir egoiste, les élèves comme des
gens initiés à un eulte secret. Si ceux qui parlent ainsi avaient seule-
ment goùté une fois la généreuse satisfaciion de transmettre les in-
— 243 —
in Italia contro il genere tedesco d' insegnamento universi-
tario ; sappiamo quali ragioni si rechino a dimostrare la
utilità, la necessità di corsi aventi a scopo Fincremento della
cultura generale ( i ) •, richiedersi assolutamente i medesimi
ad accrescere nelle persone educate quel patrimonio di co-
gnizioni e di attività mentale, che, senz'essi, scemerebbe ben
presto ed in guisa deplorabilissima, soprattutto lungi dai
grandi centri di civiltà ; ne meno a far noti ai cultori di
una parte specialissima della scienza i risultati delle altrui
investigazioni intorno ad altri veri; solo con questo mezzo
potersi sperare che il lavoro intellettuale venga sempre più
pregiato dai molti, e che colora i quali vi consecrarono la
vita apprendano sempre piìi a conoscersi , a stimarsi . ad
amarsi vicendevolmente; finalmente non essere punto im-
probabile che cotal sistema didattico dia a parecchi ingegni,
irrivelatì a tutti , anche a sé stessi , la coscienza possente
della propria vocazione. Tutto ciò ci è notissimo , ne vo-
gliamo punto negare la importanza di sì fatta diffusione
della scienza -, per contrario invitiamo tutti gli uomini amanti
della cultura ad unir le loro forze per fondare istituti nei
quali abbiano luogo lezioni dirette a tal fine; esortiamo i
dotti a non isdegnare il modesto, ma utile ufficio di volga-
rizzare la scienza, ufficio ch'essi soli possono compiere colla
necessaria esattezza; esortiamo tutti i pubblici ufficiali a
promuovere con ogni maniera di favori questa opera emi-
nentemente salutare: ma non vogliamo a ver un patto che
ristruzione universitaria cessi di essere la più alta possibile
strumenta du travail à de jeunes esprits , et la joie de Ics voir entrer
dans la voie des recherches originales, ils changeraiént sans doute de
langage et renonceraient de bon coeur, en échange d'un tei plaisir,
aux applaudissements de leur araphithéàtne. » Bréal, Op. cit., p. 344-5.
(i) V. in ispecie Lecer, L'enseignement supérieur et la Sorbonne
[Revue moderne , t, L, p, 260-4).
- 244 -
per diventare un'istruzione poco superiore alla liceale. Non
lo vogliamo, perchè non solo la dignità del professore ( i ) ,
ma eziandio ne riceverebbe gravissimo nocumento il pro-
gresso della scienza (2). Ben pochi diventano operosi ed utili
investigatori del vero là ove non si ammaestrano, non si
avvezzano con efiScaci esercitazioni, non si stimolano colla
eloquenza della parola, e meglio con quella, assai più po-
tente, dell'esempio i giovani valorosi alle speciali e nuove
investigazioni : peggio ancora è forza attendere, allorquando
queste investigazioni sono non pur neglette, ma sprezzate ,
derise con superbo dileggio da un volgo di presuntuosi im-
potenti (3). Conseguenza naturale, inevitabile di questi vizi
(i) « Dans un grand nombre de cas, le savane solide porterà envie à
son confrère superficiel qui , par une parole aisée , par des aper9us fa-
ciles à saisir , par des lecons détachées dont chacune fait un tout ,
saura mieux attirer et retenir la foule. Une sorte de rivalile souve-
rainement déplacée s'établira, rivalile où ie savant consclencieux, celui
qui aspire à enseigner à ses auditeurs quelque chose de posìtif, aura né-
cessairement le dessous. Ce qu'il faut , c'est que l'oisif qui en passoni
s'est assis durant un quart d'heure sur les siéges d'une salle ouverte à
tous les vents sorte coment de ce qu'il a entendu. Quoi de plus humi-
liant pour le professeur, abaissé ainsi au rang d'un amuseur public ,
constitué par cela seul l'inférieur de son auditoire, assimilé à l'acteur
antique dont le but éiait atteint quand on pouvait dire de lui : Saltavit
et placuitl ^ Renan, Questions contemporaines , p. 90-91. V. anche
Bréal, Op. cit., p. 342-4.
(2) « La recherche pure en soufFrit d'irréparables dommages » scrive
il Renan discorrendo di si fatta istruzione, ben poco universitaria,
nella sua patria {Questions contemporaines , p. 96).
(3) « on ne saurait croire la peine qu'éprouve chez nous un
professeur, non-seulement à devenir un savant , si son goùt le porte
vers rérudition, mais à se faire pardonner de Tètre. La rareté des li-
vres, s'il vit en province, l'absence de ces journaux qui rendent lant
de Services à l'Aliemagne par l'analyse rapide et sùre des ouvrages qui
paraissent sur tous les sujets, le petit nombre des gens capables de lui
donner-de"bons conseils, l'indifFérence universelle qui accueille sespre-
miers travaux, ne sont pas les seuìes difficultés dont il ait à triompher;
il en trouve d'abord d'autres en lui-méme. D'ordinaire il est mal pré-
paré aux études qu'il entreprend. L'éducation à l'École normale esX.
— 245 —
è la poca fecondità scientifica di un popolo, presso cui la
pubblica istruzione sia dai medesimi sciaguratamente isteri-
lita : evidenti dimostrazioni di questa legge intellettuale sono
pur troppo ritalia e la Francia paragonate colla Germania (i).
Auguriamo pertanto alla patria nostra, civilmente e po-
toute pédagogique, et il est difficile qu'elle soit autre chose. On ne lui
a donc appris que son méiier de protesseur , il ne sait rien en dehors
de ce qu'il doit enseigner dans les lycées. C'est à peine s'il a entendu
parler de la philologie, de la grammaire, de la mythologie comparées;
il ne pourrait pas lire une inscripiion. Tous ces prenniers principes
qu'il est aisé d'apprendre en queiques lefons, il les ignore, et il necon-
nait pas les livres où il les trouverait. Il marche donc seul et au ha-
sard, s'égarant dès les premiers pas dans des erreurs depuis longtemps
réfutées ou faisant péniblenient des découvertes qui sont connues de
tout le monde. II use ses forces et sa vie à connaitre ce qu'un étudiant
de Bonn ou de Berlin apprend sans peine en deus ou trois ans dans
son université, En Alleraagne, aucun efFort, aucun travail n'est perdu.
Le jeune docteur qui quitte ses maitres et qui sait ce qu'ils savent petit
se flatter d'aller plus loin qu'eux. Nousautres au contraire, qui n'avons
pas de traditions scientifìques, nous recommencons sans cesse. Personne
chez nous ne profite de ses devanciers et ne sert à ses successeurs
C'est pour remédier à ce mal que M. Duruy a fonde l'Ecole des hau-
tes études. » Boissier , Les réformes de l'enseignement, II (Revue des
deux mondes, t. LXXXIl, p. gSi-z).
L'egregio scrittore nota ancora come, dopo questi, altri ostacoli si
oppongano a diventare un erudito, vale a dire i malefici influssi eser-
citati da molte persone, il cui dovere sarebbe per contrario promuo-
vere gli studi scientifici. « N'avons-nous pas entendu M. Fortoul (già
ministro della pubblica istruzione in Francia) nous dire avec sa solen-
aité habituelle: » L'érudifion , cette passion des peuples vieillisiì}...M.
Fortoul se trompait, le goùt des peuples vieillis , ce n'est pas l'érudi-
lion, c'est la réthorique. » ( p. 933), Né meno importanti sono le pa-
role che leggiamo a pag. 9? i : « Que de fois n'avons-nous pas entendu
soutenir que la scicnce et l'art d'cnseigner ne sont pas seulement dif-
férens, qu'ils sont contraires, et qu'un crudit est rarement un profes-
seur! Cette opinion est propre à la France, les autres nations naia
partagent pas: elles ont la faiblesse de croire qu'on ne parie bien que
des choses qu'on sait à fondu e soprattutto la Germania, mentre in
Italia v'ha chi professa l'opinione francese, sì meritamente dileggiata
dal sig. Boissier.
(i) « Ce mouvemeat prodigieux (dell'Allemagna), on peut s'en fai re '
une idée en se rappelani que le nombre des professeurs d'L'niversités a
toujours été de deux ccnts en moyenne et qu'en moyennc encore cha-
- 246 -
liticamente risorta, vicino il giorno in cui i suoi figli sì con-
vinceranno seriameipte che assai più dello studio retorico delle
parole vaie lo studio scientifico dei fatti e delle loro leggi.
Ma non vorremmo che , come non di rado suole avvenire,
questo studio avvezzasse i giovani italiani a non curare o
peggio a sprezzare la bellezza artistica delia forma (di cui
fummo e dovremmo essere ancora maestri noi, gente la-
tina). E ci piacerebbe che i programmi per lo insegna-
mento scientifico ne' licei comprendessero soltanto i con-
cetti fondamentali delle singole discipline cui si riferiscono
e non. accennassero che le piij rilevanti fra le conseguenze
che neirordine teoretico e nei pratico da cotaJi concetti trag-
gono origine, escludendo le troppo minute ne abbastanza
importanti particolarità, affinchè sì fatti studi concorrano
efficacemente alla educazione delle potenze intellettuali ed al
progresso della cultura generale, invece d; opprimere Pintel-
letto e la memoria, di costringere i giovani ad imparar in
poco tempo un subbisso dì nozioni, che in massima parte
avranno dimenticate dopo tre mesi di vacanze , stanchi ed
attediati della scienza (i).
CContlnuaJ DOMENICO PeZZI.
cun de ces professeurs produit au moins deus travaux scientlfiques par
an, ne fùt-ce que des mémoires d'Académie ou des articles de revues
savantes; cela fait, en ajoutant les thèses de doctorat el tous les travaux
d'érudition qui paraissent dans les programmes semestriels -le quatre
cents lycées et colléges allemands, au moins cinque mille publications
savantes par an , le dècuple peut-étre de ce que produisent , dans le
méme laps de temps, les corps enseignants de ìa France. de l'Angleterre
et de l'Italia réunies.» Hillebrand, Uenseignement srpérieur en Alle-
magne {Revue moderne, t. XLV, p. 21 3).
(i) ^' 11 faui surcharger sa mémoire en prévision d'un court examen
qui décide du sort de la vie eniière. Les connaissances ainsi acquises ne
restcont pas dans l'esprit; elles ne laisseront méme pas après elies ce
profit generai que procure à Tintelligence un travail iibrenient entre-
pris et poursuivi avec goùt et mesure. Le plus souvent, le seul resultai
de ceue préparation hStive et outrée , c'est la fatigue precoce et le de-
goùt du trovai],» Brèal. Op.cit., p. 'iSo-óo.
-247-
CEV^tKI 'BI'BLIOG^AFJCI
Pfitzner, Die Annalen des Tacitus kritisch bekiicktet^
!. Buch I-VI, Halle, 1869.
Tacito è fra quegli autori, onde il testo ha maggior bi-
sogno di essere ancora emendato con quella critica severa ,
che alle più splendide e seduttrici divinazioni dello ingegno
individuale antepone grinsegna menti, cui, sapientemente in-
terrogati, ci danno i codici. Per questa critica, che a buon
diritto possiamo appellare oggettiva, preziosissimi sono i due
manoscritti Medicei del secolo decimo primo , i quali si
conservano entrambi a Firenze e soglionsi indicare colle
lettere M e Ma. Il Mediceo secondo è il codice piiì impor-
tante per le Storie: il primo (di cui in questo articolo dob-
biamo fare speciale menzione) è il solo che contenga i
primi sei libri degli Annali, la malaugurata età di Tiberio:
vuoisi per altro notare ch'esso non ci serba per intero se
non i primi quattro libri; dopo il principio del quinto si
apre una grande lacuna che si estende a quello del sesto,
togliendoci la continuazione del racconto che concerne Tanno
29, tutto quello del 3o e la miglior parte di quello del 5 1 .
Questo codice di supremo valore è probabilmente una copia
di un pili antico manoscritto di Fulda; fu trovato nel chio-
stro di Corvey in Westfalia, portato a Roma Tanno i5o8 e
posseduto dal cardinale de' Medici che fu poscia papa Leon
decimo, indi a Firenze nella biblioteca Medicea ove si trova
ancora: se ne valse il Beroaldo per la edizione ch'egli,
primo, fece di tutte le opere di Tacito nel i5i5 a Roma.
Intorno a questi due codici si travagliarono parecchi fi-
lologi ed in ispecle Baiter e Ritter. I lavori di essi porsero
- 248 —
allo Pfìtzner l'occasione di iiuove indagini. Siccome, egli
scrive, i due codici fiorentini sono opera di amanuensi e
tempi diversi, così, alla critica di essi recò danno sinora il
non averli investigati separatamente. Il libro del nostro au-
tore è consecrato allo esame critico del primo di essi sol-
tanto.
Questo lavoro è diviso in due parti. Nella prima di esse
si tratta delle indicazioni tecniche, delle correzioni lineari,
delle cancellature, della sottopunteggiatura, delle correzioni
interlineari , delle note marginali : nella seconda si discorre
delie alterazioni posteriori del testo, vale a dire dei glos-
semi, delle lacune, delle emendazioni di tre edizioni, ossia
della volgata (ediz. Becker) e di quelle che dobbiamo a
Nipperdej' ed a Ritter. Intrapreso senza preoccupazioni
soggettive e più con tendenze, come ora suoi dirsi, conser-
vatrici che non cogli ardimenti dei novatori , questo lavoro
dello Pfìtzner è uno di quelli, i quali mostrano chiaramente,
anche ai meno mtendenti ma non sleali, di quanto stolida
ed impudente calunnia si renderebbe reo chi accusasse, in
genere, la critica tedesca di guastare a suo capriccio i testi
degli antichi. I pregi di quest'opera sono indubbiamente di
gran lunga superiori ai pochi e lievi difetti che le vennero
rimproverati (i) e dei quali qui non potremmo darci pen-
siero senza addentrarci in troppo minute disquisizioni pa-
leografiche.
Torino, io ottobre 1872.
Domenico Pezzi.
(1) V. il Literarisches centralblatt fUr Deutschland , 4 dicembre
1869, n" 5o, p 1454-5.
Pietro U.S£ei,lo, gerente respontahile.
— 249 —
SU ALCUNI PUNTI
^ELLA GEOGRAFIA "DEL TIEmOV^TE AV^TICO
Lettera a Carlo Promis.
Caro amico.
Vengo ad annunziarvi una piccola scoperta topografica, che
m'immagino, anche a voi non dispiacerà. Non l'ho fatta io ;
ma siccome per la mia intervenzione i miei amici Pavesi e
Pomeranesi si sono combinati per farla, sono in grado di
ragguagllarvene.
È conosciutissima !a lapide Henzeniana , n° Siiy , che
stampata per la prima volta dal prof. Aldini in un libret-
tino uscito nel 1829, e ripetuta poi dai medesimo nelle
Lapidi Ticinesi (p. i25), ha fissato difinitivamente il
sito di uno de' luoghi più celebri nella storia Romana, l'an-
tico Ciastidio, dove il console M. Marcello, il prode de' prodi,
uccise il re Virdumaro, e che poco più tardi fu assediato e
preso da Annibale. Però quando a me toccò la revisione di
questa iscrizione per la nostra raccolta , m' avvidi che era
orribilmente guasta, non tanto per le ingiurie del tempo,
quanto , e lo mostravano le diversità delle due edizioni
Aldiniane , per l'incapacità e la trascuratezza dell'editore ,
pur troppo note a me per tanti altri sassi Comensi e Tici-
nesi da lui malamente riportati. Disgraziatamente la lapide,
poco dopo la sua scoperta, era stata condannata, grazie alla
sua importanza e nobiltà, a ciò che Plinio chiama Vcxìlium
villae. Il nobile D. Galeazzo di Pavia ra\'ea fatta trasportare
T^vista di filologia ecc., I. i8
— 250 —
a Villanteiio, terra situata su! Lambro fra Lodi e Pavia,
e più adatta a dar delizioso riposo di campagna a chi ri-
fugge dallo strepito delle città, che a collocarvi monumenti
di storica importanza e di diritto pubblico, comunque di
ragione privata. Cosi è accaduto, che dopo l'Aldini per ben
quarant'anni nessuno ha riveduta Tiscnzione, e che gli er-
rori di questo dotto si sono quasi perpetuati. Perciò pregai
il mio caro amico , il prof. R. Schoell di Greiiswalde, di
f ecarsi appositamente costi nel suo ultimo viaggio d'Italia,
e così pure l'ottimo mio amico, il conte Camillo Brambilla
di Pavia, assai noto al pubblico numismatico per i suoi bei
lavori sulle medaglie, di facilitargli questa gita. Infatti quei
due amici vollero recarsi insieme sul luogo , ed ecco la
copia esatta, che ebbi da essi insieme con un' impronta, la
quale dimostra , che ogni lettera della pietra è di lettura
facilissima e certissima :
Ascia ?
ATILIAE ■ C ■ F
SECVMDIN " CON
JVG vCASTISSIM
PVOKiSSlMAfcQ
SIBlQ-OPSEQVENTiSSlMAE
QVAE-VIXIT-ANNIS-XVII-M-VI!'D"V!! ITEM
C'ATiLI'SHCVND} ET SERR-M^LIS-VALERIA
NAE • SOCERORVM • KARISSIMOR
M • LASiK • MEMOR
VIVOS-POSViT
ET • ?N • MEMORIAM - EORVM ' ROSA • ET
AMARANTHO- ET • EPVLiS - PERPETVO - CO
LENDAM • COLLEG • CENTONAR • PLACENT
CONSiSTENT'CLASTlDt
_ 251 -
Cioè: Atiliae C. F. Secundiniae) comug-{i) castissim{ae} pu-
dìcissimaeqiue) sìbiq{ue) opsequentissimae^ quae vixit annis
XVII m{ensibus) VII, d{iebus) VII^ item C. Ai ili Secundi
et Serr{iae?) M. lib. Vale^nanae socerorum karissimor{um)
M. Labili {anus) Memor pìuqs posuit et in memoriam eorttm
rosa et amarantho et epulis perpetuo colendam coileg{io)
centonar[iorum) Placent {inorum) consistent {ium) Clastidi
[sestertios tot dedii],
lì nome del marito era certamente non Labicìusj ma
Labicanus, poiché il k non si mette se non quando segue
Va; e che Labicanus è buon gentilizio, a Voi non occorre
dirlo, ii gentilizio della madre mi resta dubbio. La fine
delia disposizione testamentaria, che ho aggiunta, manca,
comunque sia intera la pietra , e vi resti infine spazio non
scritto; infatti di cotali disposizioni sui titoli non si metteva
per lo pi'à che un estratto e spesso un estratto assai mal
fatto, così che i periodi si rifiutano ad ogni costruzione
grammaticale. Ma poco importa. Ciò che è nuovo (tro-
vandosi nella copia Aldiniaoa, invece del PLACENT del
V. 1 3 chiaro e lampante, soltanto un qualche trattino irricono-
scibile) e d'importanza slorica e geografica si è che Clasiidium
appartenne, non come finora si credeva e doveva infcìtti sup-
porsi, al vicinissimo comune Forum Irietisium^ ossia a Vo-
ghera, ma ai territorio di Piacenza. Infatti Piacenza era la
prima città fondata dai Romani in queste parti, e la grande
linea strategica, che fu più tardi la via Postumia, la quale con-
dotta dalle fortezze sul Po, Cremona e Piacenza, per TApen-
nino fino a Genova passava per Casteggio. Si capisce che i
Romani stendessero fin qui il territorio del gran baluardo delle
loro conquiste nella valle del Pado, e se ora Vi rimettete a
leggere il libro XXI di Livio , e quelle mosse di Annibale
per impadronirsi di Clastidio, mentre i Romani si trin-
ceravano sotto le mura di Piacenza . grazie a quella gita
- 252 —
de' miei amici , lo capirete alquanto meglio. — Che il col-
legio de' centonari di Piacenza aveva la sua sede a Clastidio,
non manca d'analogia. Cotali collegi , come Voi ben sapete,
secondo le leggi romane non potevano esistere se non nei
comuni di pieno dritto, o come dicono i Romani, nei mu-
nicipia &t coloni ae ; il vico ne va privo. Ma non è vietato a
tali corporazioni di stabilirsi (consistere) in qualche sito fuori
le mura, e perfin nel territorio. Così avrete letto nel mio
quinto volume (p. 400, 624) che i nocchieri di Verona e di
Brescia dimoravano quelli a Peschiera {Arilica)^ questi a
Riva; e ciò che fa niù al caso nostro, i centonari di Como
avevano ìa loro curia a Clivio presso Arcisate (Orelli,
3936, 407 0-
Aggiungo una qualche conferma di questa scoperta, seb-
bene essa non ne abbisogni. Due anni fa, pure a Casteg-
gio, fu trovato un embrice romano , di cui diedi un cenno
nelle note al n° 4148 del quinto volum.e, il quale fra pa-
recchie iscrizioni in lettere corsive di mani diverse aveva
anche questa, leggendo la quale bisogna cominciare dal verso
posteriore :
FARATICANO
ACTVM-PAGO
Il pagus Farraticanus in Piacentino essendo ben noto dalla
tavola alimentaria Veleiate, questo combina bene coll'at-
tribuzione di Clastidio alla medesima pertica. Però, a dir
vero, perse stesso l'embrice non lo proverebbe, dacché gli
embrici fabbricati nel Piacentino potevano benissimo ado-
perarsi anche fuori di esso ne' siti vicini. — Più importante
si è che, siccome m'insegnano gli amici, Casteggio anche
ne' tempi di mezzo ha sempre appartenuto a Piacenza. Di
questo non conviene che parli io ; invito peraltro gH amici
ad esporre questo fatto di cui forse anche la topografia an-
tica potrà avva ntaggiarsi .
-253-
Siccome ragioniamo di qiaestìoni topografiche, permettetemi
di aggiungere due osservazioni, che sottometto a Voi, perchè
riguardano il vostro Piemonte. L''impronta, che sulla vostra
intercessione Tegregio Barone Manuel mi ha favorito della
pietra conosciuta ora da due secoli , ed ultimamente stam-
pata da Voi in quel vostro ottimo libro sopra Torino (p. 1 57),
dico quella di M. Exomnio Severo serbata vicino a S. Da-
miano nella valle di Maira, ha pure tolto i lunghi dubbi e
ci ha liberati da secolari errori. Quel FOR • CER da cui i vostri
antichi per combinazioni poco felici hanno ricavato il loro
Forum Cereale tanto caro ai vostri falsi ncaiori del secolo pas-
sato, e da cui ultimamente un dotto tedesco ha voluto fare
il noto Forum Cornelii^ ora si è cambiato in un FOR • CER,
nel quale subito avrete riconosciutola R » P • CERMA del no-
tissimo sasso di Carraglio, dove vien nominato insieme con
Gaburrum, cioè Cavour, e Pedo (non Pedona)^ cioè S. Dal-
mazzo. Avremo dunque nelle vicinanze di S. Damiano una
città anticamente detta Forum Germa (tiorum) ^ da confron-
tarsi col Forum Gallorum, ed altri simili,
L^altra osservazione che vorrei sottomettervi , riguarda
l'antica topografia della valle «iuperiore del Po. Il Forum
Viòli nominato da Plinio ed in parecchi titoli militari, oggi
si colloca generalmente ad Envie ; né può mettersi in dub-
bio, che deve trovarsi in quelle vicinanze. Ma se guardiamo
ai marmi trovati colà ed allo stato degli avanzi dell'epoca
romana, l'unico luogo in queste parti che abbia qualche
importanza, è Cavour , e poi sono tanto vicini Cavour e
Envie, che non è già impossibile, ma certamente poco pro-
babile, che vi sieno state due differenti città antiche, lo pro-
porrei di farne una sola detta Forum Vibii Caburrcum^ come
abbiamo il Forum Julii Iriae ossia Iriensium. Del resto si
può anche dimostrare a quale epoca Cavour ricevette il suo
nome latino. Tutti quei Fora che prendono il nome da un
— 254 —
gentilizio romano, sono fondati nell'epoca repubblicana (cioè
prima di Augusto) da generali romani comandanti in quei
luoghi dove furono fondati, come pure le vie militari, a cui
tutti o quasi tutti appartennero; all'epoca imperatoria per
tali denominazioni non si adoperava che il cognome del-
l'imperatore, rare volte il gentilizio di esso, non mai il nome
di un privato. Ora i Vibii sono gente nuova , né si trova
alcun magistrato di essi prima del notissimo C. Vibio Pansa,
che come proconsole reggeva la Gallia citeriore neir anno
di R.oma 709-710, e che poco dopo, essendo console, cadde
nella battaglia di Modena. Egli, se ben m'appongo, facendo
qualche via, forse da Torino a Cavour , ha dato a questo
il nome di Forum Vibii.
Berlino, 16 novembre 1872.
Teodoro Mommsen.
GLOTTOLOGIA ^N^EOLATITNiA
LETTERA AL SIG. PROFESSORE FLECHIA
Onorandissimo sig. Professore ^
11 caso ha voluto che non prima di ieri a sera mi giun-
gesse il fascicolo della 'T{ivista. dove ella ha avuta la cor-
tesia d'intrattenersi del mio hvoro suir origine dell'unica
forma Jlessionale del nome italiano {i)-^ epperò non è mia
colpa se molti giorni sono trascorsi senza che io mi sia
fatto vivo. Ora che ho j&nalmente potuto vedere quel che
(I) V. fase II, p. 80 e
-265-
ella ne ha scritto , non voglio più tardare a ringraziamela
di vero cuore. Il solo essersi degnata , ella così provetto e
illustre maestro, d'occuparsi delle cose mie, era bastato a
generare in me vivo sentimento di gratitudine; tanto più
ora le devo essere riconoscente, dopo lette le giudiziose cor-
rezioni e le preziose aggiunte che ha avuta ia bontà di fare
a parecchi luoghi di quel mio lavoruccio.
A due soie tra le sue critiche, riferibili non a fatti par-
ticolari , bensì a talune delle parti più salienti della mia
teoria, io non posso acconciarmi così di buon grado come
a tutte l'aitre ; e glie ne voglio dir qui le ragioni. Io vera-
mente ho per costume di non rispondere mai alle censure
che mi vengano fatte •, tuttavia nel caso presente io fo senza
scrupolo, per ciò che il mio amor proprio non v' è interes-
sato altroché molto indirettamente, e si tratta invece della
questione stessa di cui io mi sono occupato nel mio scritto.
Prima di tutto mi pernnetterà di rilevare , nella esposi-
zione che ella fa della dottrina da me abbracciata, una frase
che potrebbe dar luogo ad equivoci. Ella dice ch'io ritengo
« Tunificazione de' casi seguita per logoramenti fonetici delle
forme latine, che, perdendo la * e la w finali del nomina-
tivo e dell'accusativo, vennero a confondersi in una , onde
per esempio, da lupus e lupum, ne venne lupu (lupo), esteso
poi anco agli altri casi. » Ora da ciò si ricaverebbe che io
creda la voce lupo derivata esclusivamente dal nominativo
e dall'accusativo , e , nata così , collocata poi in ogni altro
posto, in modo che, per esemplo, quando noi diciamo con
un lupOj del lupOy qui la parola lupo sia succedanea di lu-
pus e lupum. Mentre in queste locuzioni lupo è , secondo
me, succedaneo dell'antico ablativo: cum uno lupo^ de ilio
lupo. L'opinione che tiene essersi il succedaneo di uno o
d'un altro de' casi latini sostituito a tutti gli altri casi è pre-
cisamente quella che io ho combattuta, perchè l'ho creduta
- 256 -
contraria a ogni retto concetto storico sullo svolgimento na-
turale del linguaggio. In una frase come « io vidi un cane
con un lupo » io vedo una naturale continuazione d'una frase
latina foneticamente più piena ; « ego vidi unum canem cum
uno lupo, » Invece una frase come « io vidi un lupo con
un cane » deve essere discesa da un' altra : k ego vidi
unum lupum cum uno cane \ ■» la frase « un cane vide un
lupo » risale a « unus canis vidit unum lupum », da cui è
discesa per logorìi fonetici così ovvii e usuali da non meri-
tare neppure menzione. E la frase « un lupo vide un cane»
deve essere invece derivata da « unus lupus vidit unum ca^
nem. » Siccome i latini non hanno mai smesso di parlare;
siccome frasi simili a coleste ne avran sempre dette e ri-
dette; e siccome rinlacco fonetico era già ab antico co-
minciato, e continuava sempre; cosi doveano ridursi per
forza a trovare livellate e parificate, senza volere, le voci
dei casi. Ora la teoria del Diez, od ogni altra consìmile,
che pretende un caso essersi sostituito agli altri , o non ha
alcun senso, o, se qualcuno ne ha, è questo, che le soprad-
dette frasi italiane rimontino alle frasi latine: ^iego vidi
unum canem cum unum lupum , ego vidi unum lupum cum
unum canem, canem vidit lupum, lupum vidit canem! » In-
somma, secondo me, il nominativo, Taccusativo , l'ablativo
di ogni nome continuarono nel latino popolare ad usarsi
ognuno in quelle frasi dove la sintassi latina ii ricniedeva ;
se non che il nominativo , perduta F 0' , non ebbe più un
suo proprio contrassegno; Taccusativo, perduta Fw, diventò
simile all'amputato nominativo, e nominativo ed accusativo
si fecero indiscernibili dair ablativo, già in epoca più antica
mozzato e vocalizzato. Così Io spirito popolare li trovò e
considerò come simili , e nelF unica forma livellata vide
una voce sola funzionante da questo e da quell'altro, allo
stesso modo come i grammatici empirici del latino dicono
~ 257 -
che domino è dativo ed ablativo , non ostante che il do-
mino che occorre in frasi ove abbisogna il dativo, sia un
succedaneo di dominoì , e il dominp che occorre in frasi
ove abbisogna l'ablativo, sia una smozzicatura di dominod.
Vengo ora alle due critiche : Tana si fonda tutta sopra un
malinteso, nato forse dal non essere stato io così esplicito come
avrei dovuto. Ella ha creduto che a pag. 43 io stabilissi
essere il plurale di i* e di 2"- derivato esclusivamente dal-
Tablativo anziché dal nominativo (asini da asinis, anziché da
asini; corom da coronis^ anziché da coronae.) Ora io non
ho voluto dir questo; ho voluto invece mostrare che nel
plurale, non meno che nel singolare, la voce italiana unica
è derivata da un agguagliamento fonetico delle varie voci
casuali latine; epperò ho cercato di provare che Tablativo
coronis doveva diventare corone^ come il nominativo coronae
era diventato cottone. L'opinione che, certo per colpa delia
poca chiarezza di quella mia pagina, ella mi ha attribuita,
non solo non è la mia , ma è in contraddizione con tutto
il mio modo di pensare sulla questione della sparizione dei
casi neir italiano, lo credo che le voci corone^ asim\ ecc.,
sieno derivate prima di tutto dai nominativi ; tanto è vero
che per rendere possibile il livellamento dei casi del plu-
rale ho ricorso appunto alla supposizione che le voci d'ac-
cusativo si sieno assimilate, per quelle ragioni che colà dico,
ai rispettivi nominativi, e alla supposizione che le voci d'a-
blativo abbiano, dopo espunta Vs finale , quelle di 2* ser-
bato Vi, quelle di 1" mutatolo in e, per influsso dei rispet-
tivi nominativi.
Quanto ai nomi di 3* che in italiano hanno la voce di
plurale terminata in i (1 cani, i monti ^ le voci)^ io ho,
com'ella ben ricorda, espressa l'opinione che una tale ter-
minazione in i non sia altrimenti stata loro comunicata per
analogia dai nomi di 2* , bensì che la derivi direttamente
— 258 -
dalle forme popolari in is (montisy vocis) ^ parallele nel la-
tino a quelle in es. Ella non par disposta ad acconciarsi a
questa mia opinione per due ragioni principalontente. « Il
plurale della quarta, ella àìizz^ adottando come fa il fini-
mento dei nomi delia 2^, rende prob^ibile che questa forma
sia pure stata estesa ai nomi della terza. » Ora io vorrei
osservare che pei nomi della 4* il caso è un po' diverso :
prima di torto e' sono ben pochi \ inoltre sono diventati
perfettamente identici ai nomi di 2* nel singolare ^ ed è
quindi naturale che s' identificassero anche nel plurale ; e
finalmente ii regolare succedaneo del plurale di 4*^ sarebbe
stato indiscernibile dal rispettivo singolare. Nessuna di que-
ste tre così gravi condizioni si verificava nei nomi di 3*.
— L'altra obbiezione che ella mi fa è « che le forme spa-
goolesche, quali per es. , montes, naves , proprie anche di
qualche altro volgare neolatino, come verbigrazia del logu-
dorese, rftndono iaverisimile la popolarità di questa forma
in is. » Ora io, come ella si può essere accorto percorrendo
k pagine 4 e 5 della mia tesi, sono a priori mai disposto
verso cotesta specie d'argomenti, che consiste nell' inferire
da una proprietà del latino di una provincia una proprietà
coasinaUe nel latino di uii'altra. E nel caso nostro, la prego
dì considerare TajSnità grandissima dell' i e dell' e , consi-
mile a quella che Intercede tra l'o e Tw, e il gran diffe-
rire che fanno i varii dialetti, perfino di una provincia sola,
quanto al preferire l'una o l'altra delle due vocali. Nel to-
scano ella h2>. donno r, nel sardo donnu; cioè dire nell'Etruria
il latino ha mantenuto V 0 , nella Sardegna ha piegato verso
Vu; perchè dunque il logudorese naves non è storicamente
conciliabile con un toscano navis? L'essersi finito per dire
in Sicilia la fidi, non ha impedito che in Toscana sì dicesse
la fede, lo dunque non vedo ragione per escludere la sup-
posizione 4he nei dialetti dove ii plurale di 3® termina in ?',
la terminazione antica popolare latina fosse in is piuttosto
che in es. Mi riesce un po' duro Tammettere che tutta ia
gran falange àt nomi di V si assumesse una terminazione
spettante ad altra declinazione , e non avente nessunissin\o
legame con ie forme sue proprie.
Una non lieve difficoltà si può dire che stia invece nel-
l'ammettere, come io faccio a pag. 47, una novella forma-
zione popolare d'ablativo di 3' in is {canis per canibits) ,
coniato sull'analogia dell'ablativo delle due prime declinazioni.
Il prof. Ascoli, al solito tanto felice nel ritrovare spedienti
ingegnosi ed eleganti, mi suggeriva questo : pedibus può es-
sersi popolarmente ridotto a pedib's (cfr. pkbes a plebs) , a
che accennano e Tosco e l'umbro , e da cui si passerebbe
benissimo a pediss , che risolverebbe ogni questione. Mi
perdoni T Ascoli questa indiscrezione, tanto più che, per
accomodarlo al mio intento, ho lievemente modificato il
suo prezioso suggerimento.
Del resto, non voglio terminare senza prima disdire un'o-
piiìione molto sofistica che ho adottata relativamente ai dop-
pioni, come sarto e sartore^ duolo e dolore , i quali ho ri-
tenuto doversi a una doppia eteroclisia, una dagli obbliqui
al nominativo (quindi sartoris^ de sartore , ad sartorem ,
sartorem, etc) , l'altra dal nominativo agli obbliqui (quindi
sarto{r), de sarto, ad sartoim). A questa stiracchiatura io
sono stato spinto da un eccesso di spirito sistematico. A
non voler sofisticare , questi doppioni italiani accennano a
una declinazione minore, a due soli casi, pari a quella del
francese e del provenzale. Tra i quali e l'italiano corre que-
sta sola differenza, che mentre in quei due idiomi il feno-
meno occorse nel maggior numero dei nomi , onde rimase
per un pezzo legge di tutta la categoria nominale, nell'ita-
liano invece esso fenomeno fu sporadico e smarrì ben presto
ogni valore morfologico. Questa differenza avrei solo dovuto
^- 260 -
porre nella mia tesi, e invece, non so perchè, volli andare
al di là del giusto.
Mi perdoni ella questa prevaricazione, e mi perdoni in-
sieme la noia che le ho data con tante ciarle, e mi creda
Napoli, 20 setiembre 1872,
Suo aff.^^o ed obbL"""
Francesco d^ Ovidio.
OSSE^iVAZIOU^l
ALLA LETTERA PRECEDENTE
Nella precedente lettera il sig. prof. D'Ovidio mira, parmi,
principalmente a sostenere tre cose:
r che anche !a forma dell" ablativo debba tenersi per
foneticamente rappresentata nel singolare, onde per es. it.
I lupu{s).
lupo — j lupu{m).
\ lupo.
2° che il plurale di i" e 2* declinazione lo sia non solo
dal nominativo ma anche dall'ablativo, sicché per es. it.
( coronae, , { lupi,
corone = { ., lupi ^= , v x
( coroni{s\ { lupi{s).
y finalmente che il plurale dei nomi di terza proceda
dal nom. e acc. terminanti in is per es, onde per es. monti
da montis per monies.
Su questi tre punti mi permetto d'aggiungere alcune os-
servazioni.
Comincierò, circa la prima quistione, dalPavvertire, come
dicendo io non inverisimiìe la teorica del livellamento dei
- 261 ~
casi, non intendevo punto di negare assolutamente quella
che io credo non minor verisimiglianza della teoria del Diez,
la quale assegna principalmente alf accusativo il privilegio
dell'aver dato la forma al nome singolare E perciò nel toc-
care che io feci, nel mio articolo, della prima di queste dot-
trine, cosi valorosamente propugnata dal prof. D'Ovidio, io
m'ero nell'applicazione d'un esempio ristretto al nom. ed
alfacc, perchè, a vero dire, quando io fossi per risolvermi
a seguire una tal teoria, propenderei ad eliminarne l'abla-
tivo; e facevo senza più una tal ristrizione per non avere
a dilungarmi troppo a dir le ragioni di cotale eliminazione,
le quali, al mio parere, sarebbero, oltre le allegate dal Diez
e accennate nel lavoro dello stesso sig. D'Ovidio, principal-
mente le seguenti:
Pare assai naturale, che l'ablativo, caso di valore dinamico
affatto secondano , come lo prova , tra V altre cose , il suo
dileguamento dalla declinazione greca, partecipasse a quello
spegnersi cosi delle funzioni come delle forme casuali, a cui
soggiacquero il genitivo e il dativo, non ostante che si man-
tenessero vive le preposizioni de, ab e altre che lo reggevano
in latino, passate la prima ad adempiere principalm.ente la
funzione del genitivo {di=de) e de q ab quella dell'ablativo
{da=d'a^ de-\-ab; confr. ant. sardo daba) (i). Tutte coteste
preposizioni reggenti l'ablativo non avrebbero per avventura
(i)Il Diez [Gr., 11,27) considera i<i come nato da. de -\- ad; e cita
il dad ladino (usato insieme con da), il cui d tinaie però ben potrebbe
essere lettera paragogica, come in ned, ched, sed, mad , ed (per è) de-
gli antichi scrittori toscani, e forse anche m ad, ed, od, forme per av-
ventura paragogichc degli apocopati a { = ad) e(==et)o (=^aut). Ar-
roge che generalmente la prep. de prefissa ad altra particella , come
per es. in dentro {de -f intro), donde [de -f tnide), dove {de -f- t^^')-, "'"'n
ne altera punto il significato; mentre qui in modo insolilo sarebbe ve-
nuta a dare alla prep. ad un valore affatto opposlo , cioè quello a]>-
punto di ab, che non par molto verisimile.
- 2«2 ~
giovato punto a salvar la forma di questo caso più che non
avrebber fatto ad e le altre preposizioni chiedenti l'accusa-
tivo per la forma di questo, se esso non si fosse mantenuto
per propria virtù di caso che significante l'oggetto a cui va
direttamente inazione, veniva perciò ad avere, col nominativo
indicante il soggetto, una forza vitale destinata ad esercitare,
conciliabilmente colle esigenze fonetiche de' vari volgari, una
infiuenEa definitiva sulla nuova forma assumentesi dal nome
neolatino. Venuto raccusativo (e secondo la teoria del livel-
lamento, per la i", 2*, 4* e 5" declinazione, anche il nomi-
nativo) a presentare un tipo pel nome del romano volgare,
onde per es. corona = cor ona{m\ lupu, lupo=^lupu{m, s),
questo tipo acquistò un'universalità di funzioni, fin che venne
a dirsi indifrerentem.ente, per es. illu lupu rapir illu agnu
(il lupo rapisce T agnello), de illu lupu (del lupo), ad illu
lupu (al lupo), de ab illu lupu (del lupo).
Per l'esclusione dell'ablativo, e dirò anche per l'ammis-
sione dell'unica forma dell'accusativo, credo si possa agghi-
gnere un argomento desunto dal logudorese, non awenito
punto, ch'io mi sappia, ma che a me pur sembra non privo
ò\ qualche valore.
Il Diez (Gr., ì', 84), lo Schuchardt {Der vocalistìtus des
vulglirlateins^ II, gS) e lo stesso D*Ovidio nella sua mono-
grafia (p. 25) e nella precedente lettera (p. a58) considerano
il sardo come uno di quei dialetti che sostituiscono gene-
ralmente (i), come fa il siciliano, Vu all'o finale. Ora que-
sta regola quanto al sardo non è punto applicabile alla
( j ) Parlando appunto del Logudorese in particolare dice il Diex: Der
auslaut e bleibt, aherfur o tritt u ein (septe, foglio). Fa poi meravi-
glia che ad esempio d» o finsie passato in « citi fogliu , egli che te-
nendo per tipo deil* ioroa tionainale l'accusativo, dovrebbe risoluta-
mente ripetere questa forraa à^folium. Bisogna supporre che qui l'ii-
iuttre maestro avesse piuttosto in vista l'iialìano che non il prototipo
latino.
— 263 -
principale delle sue varietà, voglio dire al logudorese, che
serba tenacemente , come V e, così anche V o e V u finali ,
quale per es. in eo {ego), arno^ cando {quando)^ otto
{peto), corru [cornu), cabu [caput)^ pagu^ segundu {paucunty
secttndum aw.) ecc. Ora egli è chiarvo che in un dialetto go-
vernato da siniii legge, le forme nominali, quali lupu^ donnu^
ecc. non si potrebbero connettere foneticamente colPabiativo,
e ciò tanto meno, in quanto che il logudorese, dove ha mani-
festamente serbato qualche forma ablativalc, vi mantiene
costantemente Vo finale, come per es. in sero (dalFavv, sero)^
sera, negli avverbi chito {—cito)} per tempo, elio (=-- ilio) {i).
dunque, ecc. Alcune forme nominali in -oro, proprie del
logudorese, come oro, tesoro^ moro, tee, ripetono Vo finale,
sostituito air « dell'accusativo, da un principio d' assimila-
zione esercitata dall' o precedente. Quanto aìVo finale di
domoj casa, se non è effetto d'analoga assimilazione, è veri-
ssmilmente dovuto ad una specie dì locativo domo o in domo
che, come sero e altri, darebbe una sporadica forma del
sesto caso.
Ho detto sopra che il logudorese, oltre all'escludere iV
blativo, poteva anche provare Tunica forma deiraccusativo;
e ciò in quanto questo dialetto, possedendo le forme nomi-
nali sing. gidis (sitis), opus, corpus, pi. lupos^ e altreriali
terminanti in s, mostra che avrebbe anche ritenuto la forma
lupus, ecc., qualora il nominativo avesse in questa faccenris.
potuto esercitare ma^ior influenza dell'accusativo. Sono ben
lontano dal voler dire, che questa forma del nome logudo-
rese possa da sé sola risolvere la quistione ^ perocché so bene
(i} Il Porro e lo Spano ne* loro ypcabolariì connettono etimolos!;;-
cataente quesw particella con »n greco «XXiw (^ic),-aiiiìr£riO- CI. lat. id-eo,
composto nell'ultima sua parte d'ili' abi. eo , afhsao n modo di voce
enclitica; egli avverbi greci procedenti da forme ablativali uic;, ^Il^€,
— 264 —
ancor io. come un tal dialetto, non potendo in una sola
forma, quale è per es. lupu^ raccogliere un naturale risul-
tato identico delle tre forme lupus , lupum ^ lupo^ secondo
che lo potrebbe Titaliano lupo^ il sic. lupu^ avrebbe dovuto
di necessità attenersi ad una sola forma casuale. Ma questa,
quale è risultata, non potendo, secondo le leggi fonologiche
dell'ambiente logudorese, essere altra che quella dell'accu-
sativo, presenta un fatto che rivendicando pel sardo a questo
solo caso la somministranza dell'unica forma nominale,
verrebbe , secondo me, a corroborare notabilmente la teoria
dizìana. Né varrebbe, io credo, ad invalidare questo argo-
mento l'obbiezione che altri facesse, notando come per la
mutabilità che nella flessione nominale del latino volgare
presentano le vocali o ed w, non sia da dar gran peso a
queste ragioni meramente fonologiche; perocché non sì possa
dubitare come nel principio dell'era volgare fosse, si può
dir, quasi costante e regolare Vu pel nom. e acc, e l'o
per Tabi.; e da quel tempo, come quasi da punto originale,
si debbano pigliar le mosse per investigare le vicende fone-
tiche del romano volgare trasformantesi in neolatino.
Finalmente, che la succedaneità d'un casoo per dir meglio
di una sola forma casuale a tutte le altre non sia, come
crede il D'Ovidio, contraria allo svolgimento naturale dei
linguaggio, lo proverebbero, parmi, ampiamente, fra gli
altri, i non pochi esempi di forme nominativali del singo-
lare diventate tipi non solo di tutto il singolare , ma anche
dei plurale, come per es. ladro^ ladri dal nom. latro; o. segna-
tamente l'accusativo plurale che per questo numero dà la
forma a tutti i casi delle lingue dell'Europa occidentale, del
sardo e dì alcuni dei nostri dialetti alpini; sicché l'esempio
da me recato di una sola forma del romano volgare, pro-
cedente dall'accusativo singolare, indifferentemente congiunta
con de ^ ad, non avrebbe nulla di piià singolare che non
- 265 -
sia per esempio in de e ad illos amicosj dende lo spagnuolo
de Q a los amigos.
Circa il secondo punto riconosco, come male io affermassi
che ii signor D'Ovidio deriva la forma dei plurali di [' e
di 2' unicamente dall'ablativo ; perocché una più attenta let-
tura del suo scritto avrebbe dovuto farmi capire che egli
voleva, come nel singolare, così anche nel plurale trovare
modo di conciliare foneticamente la forma del nome italiano
tanto con quella del nominativo, quanto dell'ablativo latini.
Contro questa teoria sorgerebbe pur qui naturalmente una
parte delle obbiezioni già accampate per l'esclusione dell'a-
blativo singolare. Foneticamente non si può certo negare
che per es. da lupis non dovesse regolarmente venir liipi^
e, se si vuole, anche da coronis corone, sebben qui la fono-
logia di per se sola nel campo toscano e altrove non
avrebbe forse condotto altrove che a coroni (i). Ma si po-
trebbe bene tener per certo, che quando i nomi così di
prima come di seconda fossero venuti a terminar tutti,
come alcuni, in bus (per es mulabus , natabus^ ejc.fimi-
ciòuSy ecc.), il finimento italiano di essi nomi nel plurale
non potrebbe essere altrimenti da quello che esso è, cioè
(i) Il toscano, e segnatamente ii fiorentino, a cui noi dobbiamo sem-
pre aver l'occhio quando si tratta della storia dell'organismo e della
forma della parola italiana, non presentano la mutazione d'i finale in e
se non in alcune forme, così verbali come nominali, dove il fenomeno
non può dirsi subordmato a mere ragioni fonetiche, ma viene determi-
nato dal bisogno di differenziamento formale , ovvero dall'analogìa,
come, per es,, m legge=legit ,■ sangue=sanguis; sete=sitim, ecc. Più
naturale e meramente fonetico è nel fiorentino il fenomeno contrario,
cioè la mutazione di e finale in i, onde, per es. , lungi-=longe ; tardi=
tarde,' ami '^^amerriy ameSy amet; Chimeriti^sClemente (m.),- Cresci=Cre-
scens, ecc. La forza di questa legge si manifesta principalmente, sebbene
in modo sporadico, nel trarre femminili plurali di i» a finire in », e così
contro il principio del simbolismo sessuale, come, per es., in le porti,
le veni, le calendi, ecc.
"Rivista di filologia ecc., I. 19
— 266 —
improntato della forma del nominativo, e ciò probabilmente
solo perchè l'accusativo, al quale pare che generalmente
fosse riservato l'uffizio del dar la forma al nome neolatino
così nel singolare come nel plurale, in questo numero pei
volgari italiani non avrebbe potuto ridursi foneticamente ad
altra forma che a quella stessa toccata al singolare, onde
ne sarebbero venati per es. da coronas corona , da lupos
hdpOy da canes cane, da spiri tus spirito, ecc. Il sardo, che
è pure dialetto italiano, ma al cui genio fonetico non ripu-
gna punto la 5 finale, dice appunto , come già se n'è toc-
cato sopra, al pi. coronas, lupos (log.), lupus (mer.), canes
(log.), canis (mer.), spiritos (log.), spiritus (mer.), ecc.,
tutte forme procedenti dall'accusativo, che serbando la s finale
non possono generare confusione di plurale col singolare.
In ordine all'argomento delle forme spagnuole e logudo-
resi montes e naves da me citate a negar la verisimiglianza
dei plurali montis, navis ecc. come propri! del romano vol-
gare, che il D'Ovidio non ammette per una diversa proprietà
di latino ch'egli vorrebbe stabilire tra provincia e provincia,
lasciando io da parte lo spagnuolo in cui le due voci da
me recate potrebbero ripetersi egualmente cosi da un tipo
in es, come in is, e riferendomi al solo logudorese, osservo
come questo dialetto, chi ne investighi diligentemente le leggi
fonetiche, accenna risolutamente pei plurali di terza a forma
prototipa in es, non essendo verisimile che esso mutasse per
es. montis, navis in montes, naves (i). Ora se il romano
volgare portato nella Sardegna avea queste forme in es^
noi non abbiamo ragioni per negarle al romano volgare di
(i) È troppo chiaro che un dialetto, il quale da un lato, per es., da
sitis fa sidis^ da habetis he^is^ da tu venis benis, e dall'altro da haberes
(a haperes , da manduces mandigheSy da mulces mulghes, da forme
nominali, quali montes, naves, non può non fare montes, naves, come
dalle ipotetiche montis, navis avrebbe fatto pur montis, navis.
— 967 —
alcun altro paese, dove la fonologia non le contraddica.
Gli esempi di donno , donnu, fi'ii > f^de non mi par che
provino nulla al nostro proposito, non potendosene argo-
mentare altro se non il principio elementare delle varie
peciiiiaruè fonologiche dei dialetti. Il toscano donno e il
sardo donnu mettono entrambi capo ad un solo prototipo,
dominuijn) (i), il sic. Jìdi e il tose, fede ad un solo pro-
totipo Jìde{m), come appunto in Sardegna il log. monteSy
naves e il meridionale montis, nai'is si debbono ripetere
da un unico tipo motites^ naves, mantenutosi inalterato nel
logudorese, mutante e in i nei meridionale, perchè così
porta la rispettiva fonetica di questi due volgari.
Dirò conchiudendo, come al mio giudizio la quistione della
origine dell'unica forma fiessionale del nome italiano possa
tenersi, non ostante la bella monografìa del prof. D'Ovidio,
come tuttora in pendente fra la teoria del conguaglio fone-
tico dei casi e quella delia forma accusativale. Forse una
piij ampia e profonda indagine, che finora non siasi fatta,
circa la declinazione del romano volgar<:, potrà aggiungere
qualche nuovo lume su questo problema, e far definitiva-
mente tracollare ia bilancia per Tuna delle teorie suddette.
G. Flechia.
PS. Ricevo, ora appunto in sul finire di correggere le
bozze di queste mie osservazioni, un dotto articolo del
(() A proposito del toscano donno, sardo donnu, il sig. D'Ovidio dice
che « «elì'Ktruria il latino ha mantenuto l'o , nella Sardegna ha pie-
gato verso Vu. » Questo sarebbe esatto se la forma del pome di 2* de-
clin. venisse dall'ablativo. Noi diremmo piuttosto che neil'Etruria Vu
latino è passato in o ['^tr e.%.: capo => caput, petto s= pectus^' tee); vatuivc
nella Sardegna si mantenne; e questo affermeremmo anche ammesso
l'esteso livellamento delle forme casuali professato dai sig. D'O., pe-
rocché sarebbe a ogni modo piuttosto da tener conto, in ordine alla
forma originaria , del nom. dominu{s) e dell'acc. dominu[m)y che non
deU'abl. domino, in quanto più possono due che uno.
— 268 —
sig. Adolfo Tobler {Goti. gel. An-{, 1872. St'ùck 48, pp.
1892- 1907), in cui rillustre. professore di Berlino, prendendo
ad esame la monografia del sig. D'Ovidio, non solo pro-
pugna la teoria diziana deiraccusativo in ordine al singolare,
ma cerca di estenderla, pur per Titaliano, anche al plurale
di prima e seconda declinazione.
Torino, 4 dicembre 1872.
G. F.
CE^V^I 'BI'BLI0G1{AFICI
Dizionario italiano-greco compilato per le scuole da
-Federico Brunetti, Venezia, 1873.
Ecco una pubblicazione utilissima per le nostre scuole, e
vivamente desiderata da chi conosce un po' da vicino le con-
dizioni dell'insegnamento del greco nei ginnasi! e licei del
Regno. Un lavoro di lessicografia promette forse poca gloria
al suo autore, ma certo molte più noie gli arreca, che altri
non creda. Gii è proprio il caso di esclamare col poeta :
« Sic POS non vobis mdlijicatis apes ! »
I libri di testo per le scuole, e, in generale le pubblica-
zioni che si fanno in servizio della istruzione, porgono a
nostro giudizio un criterio bastantemente sicuro dello stato
della cultura del paese rispetto a un dato ordine di disci-
pline. Così ad esempio , chi gettasse uno sguardo alla let-
teratura grammaticale della lingua greca, che tenne il campo
in Italia negli ultimi decennii, potrebbe agevolmente cono-
scere in quale conto gli studi del greco fossero tenuti dal-
l'universale. Tanto che V introduzione della grammatica
greca del Curtius, fatta nelle scuole della Lombardia e della
— 269 —
Venezia intorno alPanno i855 segna, come a dire, il co-
minciamento di una nuova èra nella storia dello studio del
greco nelle nostre scuole. Ma quanto a vocabo'arì italiano-
greci non fu fatto un passo oltre i termini antichi , segnati
dal Fontanella dapprima, e dal Cusani dappoi, cloche
vuol dire che dal 1846 in qua noi in questo rispetto siamo
rimasti fermi. Vero è che forse il bisogno del vocabolario
italiano-greco era meno sentito nelle scuole, massime dopo
che il libro di Eserciti greci dello Schenkl si diffuse nelle
nostre Provincie, contemporaneamente alle grammatiche del
Curtius e del Kiihner; poiché i dizionarietti stampati in
appendice a quel libro e ad altri congeneri, porgevano un
sufSiciente materiale di studio nelPlnsegnamento elementare
del greco. — Ma oggimai, checché si dica in contrario, un
po' di risveglio c'è anche negli studi greci in Italia*, cre-
diamo anzi, che e' sarebbe oggimai tempo di allargare il
campo degli studi grammaticali e delle letture greche ne^ licei
del Regno, proponendo versioni dall'italiano in greco un
po' più estese, che non permettano gli esercizi dello Schenkl,
massime la Parte prima pe' ginnasi i (i) usata sin qua. E
quanto alle letture ne pare che sarebbe tempo, che oltre a
Senofonte si pensasse un po' seriamente allo studio delle
poesie omeriche, di qualche dialogo minore di Platone, di
qualche brano d'Erodoto, il cui studio agevolerebbe di molto
l'intelligenza e lo studio del dialetto epico antico, e di qualche
oratore ateniese, per es. d'Isocrate.
Ma per parlare oggi soltanto delle versioni dall'italiano in
greco, crediamo che sarebbe utile che gli insegnanti tentas-
sero oggimai ne' licei, massime negli ultimi corsi, qualche
(i) Gli Esercizi greci dello Schet.kl pei Licei tradotti dal prof. Miil-
ler, e stampati dal Loescher, otfrono una messe ben più larga di ap-
plicazione delle regole della sintassi.
— 270 -
versione un po' più larga , cioè alquanto diversa da quelle
cui danno occasione i soliti Esc'rcÌ7j, proponendo agli alunni
di voicjre in greco qualche luogo di Plutarco, di Luciano,
di Isocrate', e qualche brano de' Commentari di Cesare o
d'altro autore latino facile a tradursi in greco : lavoro co-
desto di grande utilità ne' riguardi della sintassi, pe' riscontri
delle due lingue. Chi conosce i Temi dì versione in greco
del Franke (i), che da molti anni servono come libro di
esercizi nelle scuole tedesche, sa fina a che punto si possa
portare ne' licei questo utilissimo esercizio delle versioni in
greco. — Certamente da noi sarà ancora prudente che si
gridi : cyireObe ppaòéwi; - festina lente ; ma si persuadano gli
onorevoli insegnanti delle scuole secondarie, che molte volte la
è questione di buoni testi, di libri ben fatti, che coll'esattezza
scientifica congiungano una qualche ampiezza di tratta-
zione, e sopra tutto chiarezza. Non è egli vero forse, che un
manualetto, un trattateli© , stampato con tipi eleganti , nel
quale la materia sia tenuta dentro a termini discreti , nel
quale la sicurezza del metodo e l'accuratezza dello studio
apparisca a primo tratto, senza metter paura — non è vero,
diciamo, che un libro cosiffatto invoglia allo studio e cattiva
l'animo di molti piiì insegnanti e scolari, che non facciano
i regolamenti e i programmi, sieno pur larghi questi e or-
dinati all'uopo?
A quest'ordine di considerazioni ne richiamava il Dizio-
nario italiano-greco^ edito or ora dal prof. Brunetti. È un
libro fatto bene e con cura, condotto sopra modelli' eccellenti,
come a dire i dizionari del Rost e del Pape, e in parte an-
che del Planche : opera quest'ultima un po' vecchia, ma da
non disprezzare. La stampa vi è correttissima : nella lettera
A un solo errore d'accento abbiamo riscontrato alla voce
;i) Lipsia, Brandsieuer, 1845.
— 271 —
assuefare , dove è stampato etoiOa per cTcuGa ; ed uno solo
alla lettera Af, dove alla voce madre è stampato a^riTwp per
à^rJTUjp. Quanto poi alla copia de' vocaboli e delle locuzioni noi
dobbiamo lodar proprio proprio di cuore il bravo prof. Bru •
netti, il quale intravvide benissimo dove stia il nodo delle
difficoltà nelle versioni dall'italiano in greco. Importare cioè,
che a vari usi di uno stesso vocabolo, massime de' verbi ,
si pongano di rincontro le corrispondenti locuzioni greche ,
cogliendone lo spirito , laddove il significato letterale non
quadri. Ecco qualche esempio :
Aprire àvoiTwiiii \\fendere (S^x^^u \\ manifestare bn^óuu H comin-
ciare apxo^ai Tivo<; (1 spiegare ilr\'^io\xa.\ \\ aprire gli occhi
ad ale. = lo faccio rinsavire vou8eT€u) xivà (] ... una lettera
Xùui 11 ... la vena qpXépa xéiiviu 1| ...la mano Tfjv x^ìp» àvaTretàv-
vum II ... una via òòorroi^u) || dare avviamento TrpoTrapacjKeu-
dZIuj II non oso di aprir bocca oùbè xaiveiv ToXjuduj.
Si riscontrino inoltre le voci apprendere^ aperto , armif
sti^io, acquay aspro, maggioranza^ male^ mandar e^ inanOy
marcio, modo , ed altre molte. — E abbiamo voluto vedere
anche alla prova il Dizionario del Brunetti , proponendo a
tradurre nel 3° corso del liceo un brano di Plutarco, vol-
garizzato dal Pompei {Tiberio Gracco, cap. IV). — La re-
troversione fatta in iscuola coU'aiuto del Dizionario del
Brunetti riuscì abbastanza bene, con sufficiente proprietà
di lingua, e ciò che piiì monta, senza gravi difficoltà lessicali.
— Qui e colà però abbiamo riscontrato qualche menda,
che l'autore si darà premura di togliere in occasione di
una ristampa, e d'altronde facilmente scusabile in un lavoro
di questo genere. Citeremo qualche esempio della lettera A :
I. Alla voce abbandonarsi l'autore fa corrispondere il
grecò èmbiJ)U)|Lii éjuauTÓv rivi o irpó? ti. — Quest'uso è raris-
simo, e soltanto de' scrittori della decadenza, e meglio col-
-272-
!'€!?; per es. €Ì<; xpuqpnv (AM. , Vili, 525). L'uso classico
di questo verbo è piuttosto impersonale.
2. Alla voce abiura^ abiurare, T autore contrappone
èmopKfa, èTTiopK^u*. — Non ci pare esatto-, perchè queste voci
greche significano /a/^o giuramento, giurare il falso ^ men-
tre V abiura è la rinunzia solenne di un errore, dottrina,
opinione , perchè falsa e perniciosa , e che in greco sa-
rebbe àTró|ivu|ai od èEófivujLU, ed anche èrroiaócrai; àTianeTvfi).
3. Alla voce accusa ai tribunali è contrapposto Tpaq)»^.
Ciò è poco , perche v' è anche biKri , con questo disvario ,
che Tpctqpn è querela scritta contro un reo di delitto pub-
blico: biKTi è querela privat^'r.
4. Amicarsi con uno è reso con cruvbiaXXdo"cro|Liat. Non
crediamo che sia esatto, perchè a òiaXXào'jeo'Qai c'è sempre
connessa Tidea della riconciliazione. Si poteva almeno ag-
giungere 91X0V Troi€ia8ai riva, «vaKTauGai riva.
5. Amissibile è reso con d7róp\r,To^. — Non pare corretto,
perchè questa voce greca suona dispregievole, degno di di-
spregio,
6. Ammalato è reso con voaiqpóc,. Questa voce greca si-
gnifica piuttosto « insalubre » . Era da tradurre àaQevr\<i
ovvero voaiuòn?-
7. Assonnare, aver sonno è reso con KO»)jiao^ai *, biso-
gnava tradurre vttvluttoi ; Koifidofiai vuol dire « prender
sonno )ì .
8. Alla voce meno è detto di rendere e ancora meno
con uf] oTi. Non è chiaro -, bisogna dire seguito da àXXà o
preceduto da oObè. Per es. Mri òti ibiiOrnv tivd, àXXà M^'fav
patJiXéa. oùbè riXeiv , ]x^ òti dvaipeiaOai toCh; avbpa? buva-
TÒv nv.
( I ) Confronta : Schenkl, Deutsch-griechischesSchuhi'Órierbuch alla v.;
Lipsia, Teubner, 1866, che l'autore nostro avrebbe pur anche potuto
consultare con profitto.
— 273 —
Ma questi sono nei , e il lavoro è buono nell'insieme e
vi torneremo sopra a miglior agio.
Rovigo, novembre 1874.
Gaetano Oliva.
Elementi di grammatica greca ad uso delle scuole-^ Roma,
1872, — Eevoqp'jJVTO? Kupou rraibeia. Adnotationibus et
illust?^atiombus auxit Angelus Tmmoho^ presb. NeapoL\
Napoli, 1871. — biblioteca utile alla interpretaiione dei
Classici greci e latini^ versione dalVoriginale tedesco con
aggiunte del Prof. Bartolomeo Zandonella e Francesco
nob. Cipolla-, Verona, 1869.
I.
Finalmente i ginnasii ed i licei italiani saranno liberati
dal giogo ^del barbaro Curtius e dei non meno barbari ba-
stardi Italiani che se ne fecero seguaci e promotori, credendo
scioccamente che qualche veramente utile innovazione po-
tesse provenire dai paesi degli Iperborei. Il redentore è l'el-
lenista di primissimo ordine il quale pubblicò testé a Roma
coi tipi della S. Congregazione de propaganda fide gli Ele-
menti di grammatica greca, di cui ci accingiamo a cantare
le lodi. Certamente è già dovere di tutti gli uomini assennati
e dabbene reputare questa nuova grammatica assai migh'ore
che quella di Curtius sin dal giorno in cui questa verità fu
insegnata, con tutta la competenza e Tautorità desiderabile,
in un articoletto anonimo di un giornale religioso e politico
di parte clericale : ma a questi lumi di luna, fra tanto scet-
ticismo, ci sembra fare opera buona tentando di confermare,
con un poM esame critico, la prelodata sentenza. E diciamo
in primo luogo che questa nuova grammatica supera quella
del Curtius in brevità : che vcdc&i nella prima, proprio m.i-
— 274 -
racolosamente, esposta la sintassi dei tempi e dei modi in
una sola pagina (p. 70-71) (i); si ommettono i verbi irregolari
in jai (tranne e\p.i, tliai ed iriM')) ^ tutti, certamente per amor
di brevità e perchè affatto inutili, quelli in oj (2), si om-
mette, finalmente, tutta la esposizione delle leggi foneti-
che, la quale ommissione non è a dire quanto giovi a ren •
dere razionale e facile lo studio delia formazione di certi
tempi dei verbi muti. E mentre Schenki e Boeckel (3),
Tedeschi che lavorarono per Tedeschi (cervelli ottusi), stima-
rono necessario un volumetto di temi dal greco in italiano
e dallo italiano in greco, Tautore di questi Elementi a buon
diritto pensò che, sotto il limpido cielo d'Italia, qui dove
tutti gli ingegni sono belli e chiari, sono sufficienti tredici
sole pagine di esercizi dallo italiano in greco (4). Ma ciò
(i) Crede fórse il nostro chiarissimo autore che la cintassi di una
lingua sì perfetta ed ammirabile venga rivelata per miracolo a que' giovi-
netti italiani che si destinano allo studio classico , dacché sbriga l'uso
de' tempi in 21 linee (p. 70), e l'uso diiììcile dei modi in 22 {p. 71).
Poveri Matthiae, Kuhner, Kriiger, Madvig, ed altri, che avete riem-
piuti de'volumi con i vostri trattati di sintassi, voi ben vedete che un
maestro della forza di quello che? ha scritto questo libro non ha biso-
gno delle vostre elucubrazioni, e che i suoi allievi i quali abbiano un
pochino di memoria , in mezz'ora al più possono imparare quella sin-
tassi, intorno alla quale que* pessimi libri tedeschi sciupano tanta carta
e richieggono almeno un anno — tanto prezioso nella vita giovanile —
di serio studio.
(2) Chi si sentisse disposto a giudicare soverchia questa brevità, noti
che, quasi per compenso, si danno a p. 49 e 53 anche le forme €9nv,
r]<;, T], ?6u)v, luc;, u», che sono un* invenzione dei grammatici.
(3) Parliamo solo di questi, perchè i loro esercizi esistono in edi-
zione italiana, e non già di quelli d'un Francke, d'un Bàumlein, d'un
Boehme , che farebbero rizzare i capelli al prelodato critico per la
qitantità di materia che offrono agli studiosi.
(4) Dopo la p. 76 della Grammatica. E che fior d'esercizi ! Sentite e.
smpite: « La testa della luna - 11 mare della luna- Alla sete della lin-
gtia - I ladri ai poeti ~ 1 magistrati ai ladri - O libraio al poeta - Le
vergini agli uomini - Ai pavoni i frutti - Le lampadi,di legno - O te-
nero bue » I ( p. 2, linea 17} , e così via. Ma ci pare che basti.
- 275 -
non basta. Quanta differenza fra la oscurità di certe regole
di Curtius p. la perspicuità, veramente greca, che ammiriamo,
V. g., nella nota seguente alla forma I9nv: « L'altra forma
di Passato colla reduplicazione fa èiiOnv, èiiBn?-.- Si os-
servi che questo Passato dei verbi in m, ha le desin€n\e del-
l''Konsto Passivo, dal quale dit'ersijìca per la mancanza di
aumento del Perfetto, e per il noi uso delle aspirate avanti
la desinenza^ ove queste non si trovino nel tema, come sono
in Biiu » (p. 49). E quanto riesce utile alla pronta e com-
piuta comprensione della flessione nominale e verbale lo
avere liberato i paradigmi della declinazione dai noioso
duale « usato ben raramente in poesia » (p. 4), e per lo più
divisa in due parti la coniugazione, una delle quali è am-
messa nel testo, l'altra debbe star paga di essere accolta
nelle note. Vuoisi poi dar lode al nostro autore soprat-
tutto per ciò ch'egli respinse arditamente le temerarie inno-
vazioni colle quali Currius, Koch, Inama tentarono rendere
razionale lo insegnamento del greco nelle scuole secondarie.
In questi Elementi vediamo finalmente il venerando empi-
rismo dei secoli passati sostituito allo insolente raiionalì-
$mo glottologico dei novatori : così i fanciulli non si avvez-
zeranno a chiedere le ragioni delle cose, e, continuando
ad essere nelle scuole di grammatica educati come se do-
vessero diventar macchine, impareranno a diventar dociU ed
a ripetere, abbassando le lunghe orecchie, il salutare aÙTÒ<;
£q}a dei Pitagorici. E, del resto, sotto questo limpido cielo,
il voler insegnare le ragioni delle cose è renderle oscure :
lo insegnamento non è veramente chiaro se non là ove, in
fatto- di cause, c'è buio pesto. Ma non si creda, che nel libro
che noi stiamo inneggiando non si squarci talvolta il velo
che ci nasconde Torigine di tante forme greche ; che, p. cs.,
v'impariamo la derivazione del tema 9éui (di TÌ9rmi) da Iw
(p. 55, nota 4) è di l^\l} da èuj (tema di cljni), (p. cit.). Non
— 2r3f3 -
mancano dunque audaci affermazioni; anzi vediamo risolto
il problema che concerne la pronunzia antica del greco me-
diante la nota che si legge a p. 2, e nella quale s'insegna che
la pronunzia antica è la moderna, e che questa è sostenuta non
solo dall'uso, ma dai documenti, dalle lapidi, e dai codici.
Quindi, più logico che qualche professore torinese, il nostro
autore e maestro vuole che anche Vx\ si pronunzi i: che
montano i contrarii pareri degli odierni linguisti e soprattutto
di Schleicher? ;i) — E chi potrebbe mettere in dubbio il
coraggio scientifico o la potenza innovatrice di un ellenista,
il quale non si peritò nemmeno di mutare lo accento acuto
di varie forme del nome Xafuut; in accento circonflesso (p. 7,
nota 2)?
Noi pertanto chiniamo la fronte innanzi a sì fatto mae-
stro, che compose questo libro, scegliendo fiore da fiore negli
studi grammaticali degli antichi e dei moderni, tentando ini-
ziare « le giovani menti ad una retta filologia » e condurli
così alla cognizione della lingua greca, «fonte » (! !!???) « e
quasi maestra della lingua latina » (v. la prefazione). Che
se ad alcuno parranno per avventura soverchie queste no-
stre lodi, noi ci affrettiamo a dichiarare che il libro da noi
annunziato ha certamente almeno due grandi pregi : i" quello
di mostrare ad evidenza in quanto basso loco sì mini al-
lorquando si abbandona quella scorta sicura che è la scienza;
2*^ quella di rivelare, nella più chiara guisa possibile, l'igno-
ranza, quasi incredibile, di chi propose sì fatto libro ai pro-
(i) «Pronunziare l'antico greco secondo la foggia del nuovo è di-
fetio che si fonda in genere sopra la completa ignoranza delle leggi
che governano la vita delle lingue e della dottrina dei suoni. •=> Compen-
dio di grammatica comparativa ecc., trad. dal Pezzi, p. 24, oss. i*.
Confr. poi l'esposizione delle ragioni scientifiche e pedagogiche, le quali
militano per la pronuncia così detta erasmiana nelle scuole, nella pre-
fazione, che chi scrive ha premesso agli Esercii greci ad uso dei Licei
di Carlo Schenkl. Torino, 1872.
-277-
lessori italiani e la inettitudine dei maestri die lo adotteranno,
se pure alcuno di essi non si vergognerà di adottarlo.
IL
Ma quando i giovinetti, istruiti colla grammatica sopra-
lodata, avranno acquistato un si solido fondamento per i loro
futuri stuòli di lingua greca, sarà pur d^uopo dare loro in
mano un qualche libro di lettura per introdurli alla cono-
scenza degli autori greci. Ad edizioni fatte o commentate dai
Tedeschi (i) e dai loro seguaci italiani (2) non dovranno cer-
tamente ricorrere, che questi son testi, i quali dopo l'esatto
confronto dei codici più autorevoli si trovano raffazzonati in
un modo, che per i critici della sopramentovata scuola si
chiama nientemeno z\\t falsiJìca\ione, e sarebbero certamente
pericolosi nelle mani degli studiosi italiani. Nei com.menti, gli
autori, per lo più insegnanti delie scuole protestanti della
Prussia, della Sassonia ed altri paesi della nebulosa Germania,
vogliono bensì additare allo studioso la via per ben intendere
l'autore che intraprende a leggere, ma in guisa da non
risparmiargli in verun modo una ben seria fatica: e in
fatti non gli danno una spiegazione che in luoghi di tanto
difficile interpretazione da non poter sperare, che, colle cogni-
zioni di cui dev'essere già fornito , possa venire a capo ; del
resto lo rimandano ad una di quelle esecrate grammatiche.
(i) Citiamo, a modo d'esempio, quella Raccolta di classici greci e
latini, che è diretta da Haupt e Sauppe, edita dal Weidmann a Ber-
lino , in cui Senofonte è comentato da Rehdantz , Hertlein e Breì-
tenbach; Omero da Fasi e C. W. Kayser; Sofocle da Schneidewin ;
Cicerone da O. Jahn , C. Kalm ed altri tali, il cui solo nome, quasi
impossibile a pronunziarsi, fa orrore.
[ì] Fra queste ci piace segnalare alle ire di que' critici, di cui sopra,
specialmente alcuni dei volumi della edizione scolastica di autori greci,
fatti dall'Alberghetti di Prato, e di cui fu discorso anche in questa
Rivista fase. Il (Agosto), p. 72.
— 2'78 —
o ad altri passi del medesimo autore, o lo costringono con
una domanda a pensare, e va dicendo, insomma, son fatte
da gente che vogliono anche lo studio dei classici adoperare
per educare al serio, indefesso lavoro, per aguzzare Tingegno,
come se io studio dei ct&ssici fosse utia palestra intellettuale,
preparatoria per la vita in cui il giovir.otto deve bravamente
sudare. E ciò potrà andar bene nella Germania : ma qui bi-
sogna spai'gcre rose sulla via e far sì, che Tingegno naturale e
vivo non venga guastato dalla soverchia fatica, e che sVcquisti
ii sapere, come Tape raccoglie il dolce miele sui fiori. E che
bisogno hawi di ricoi'rere ai Tedeschi se si presentano in Italia
libri tanto opportimìj, quanto sono la Ciropedia dei sig-. Tum-
molo e la Biblioteca utile alla interpretazione dei classici
greci e latini dei signori Zandonella e Cipolla^ di cui abbiamo
sott'occhio pure alcuni fascicoli della Ciropedia, e cine felice-
mente si completano a vicenda per sì fatta guisa che, contem-
poraneamente adoperandosi, tolgano ai felice scolaro tutto il
fastidio e la noia di dover tormeniarc ii cervellino, di faticare,
di logorarsi la salute e ottandc-re il suo vivace ingegno. Tutto
quello ch^egli può desiderare trova belio e fatto, purché si
procuri tutt'e due questi aurei libri. 11 sig. Tummolo da
capo a fondo del libro dà l'analisi grammaticale dei singoli
vocaboli (i), talvolta con bellissimi spropodti, e l'opportuna
versione parola per parola , a mo' dei seguenti brani, che
aprendo a caso il primo volume, fedelmente riportiamo:
(i) E con che fior di scienza gratrmatìcalel Potreste, per esempio,
imparare sino dalla p. 3 che Toficv è dorico per \ao.\xev pres. ind. da
turiiuii, scio, e poi oI(J8u eolico per oTòa; di 001 per toì ed dviaoQai deriva
a-ldu) e centinaia di consimili verità, che v'invogliano proprio di cono-
scere la grammatica da lui adoperata, perchè degna delle medesime
lodi che abbiamo di sopra tributato agli Elementi, Lo sfidiamo di
mostrarcele in quelle citate da lui nella prefazione, a meno che non le
abbia pescate nel Burnouf , che nel famoso Estratto di Berrini infesta
ancora le scuole italiane.
~ 279 —
« p. 1 29. § 4. (Tùv — TrpoióvTe(;, qui cum uxoribus praces-
serunt: nempe uxor Cyaxaris^ Tigranis filii eius maìoris
et Jiliae regis » || èvéuecrov el? toù?; inciderunt in eos: ab èv-
TriiTTiu aor. 2. tq\}<; prò èKeivou^, 01 = 6 TtaTc; minor Sabaris
Il édXuucrctv : capti fuere: ab dXicXKOuai, captar aor. 2. \\
àfóiueva èruxsv : vehebant, a tutxo'vuj W<:/. //^. i e. vi. § 32.
TUTXÓvoi II là TiTVÓ)i€va: quce acciderent || ÒTtopiùv no» rpctTroiTO:
quo se verteret^ hcesitans: àrropeu) hcesito. »
E non vogliamo tacere, che l'autore, così amante delia
studiosa gioventù, non pretende già che si tenga a mente
quello che una volta ha detto, che queste stupende e recon-
dite verità grammaticali le ripete ogni voita che il libro
senofonteo gli presenta la opportunità: insomma il tutto è
un bellissimo fuggifatica illustrato eziandio da non rari errori
di stampa (i).
(i) Ma egli ci ha data tutta la Ciropedia e minaccia di pubblicare
anche l'intiera Anabasi. E corae mai si pretenderà che uno scolare di
liceo legga tanta farraggine di greco? Non si è sempre praticato, e gli
esami d'ammissione ai corsi universitari di lettere ne fanno fede ogni
anno, di leggere nei tre anni di liceo pochissime pagine di Senofonte?
E si dovrà abbandonare sì lodevole abitudine? Non già. Ed i libri
fatti a bella posta per corrispondere anche a questi giusti desideri non
esistono forse ? Chi non vuol spendere che cer tante paginette di greco,
quante leggerà in liceo, ricorra pure ai Scelti luoghi àcìV Anabasi, delia
Ciropedia, dei Memorabili, che sono stali pubblicati dal sig. Benedetto
BoNAzzi in Napoli. Perchè poi il sig. Tummolo non creda che il nostro
giudizio sul suo libro sia proprio tutto nostro, vogliamo citargli quello che
può leggere nel Literarisches Centralblatt filr Deuischland 1872, n. 33,
e che press'a poco suona così : << Malgrado la nostra benevolenza per
tutto quello che concerne gli sforzi che nella nuova Italia si fanno per
le scuole classiche, dobbiamo dire che il grado elementarissimo che
occupa l'edizione del sig. Tummolo, nella quale è ignorata affatto la
odierna scienza, dev'essere abbandonato. Se, a mo' d'esempio, in una
sola e medesima pagina non meno di quattro volte è insegnata l'alta
verità che olòa significa scio, perchè mai dare in mano a scolari, che
non sanno nemmeno ciò, i libri di Senofonte?... Se le cognizioni di
greco nelle scuole classiche dell'Italia meridionale sono veramente così
basse, quanto risulterebbe dal libro del sig. Tummolo, non si può dire
— 280 —
Ma vi potrebbero pur essere alcuni, a cui parrebbe troppo,
doversi il latino del sig. Tummolo tradurre in italiano, ed
improba fatica il dover ridurre i suoi brani di frasi in
periodi italiani. A costoro vengono poi in aiuto i signori Zan-
donella e Cipolla che danno la traduzione letterale del testo,
la quale, secondo loro, serve mirabilmente a far impratichire
nella versione , cosi da potere in tempo non l-ungo cammi-
nare franco da sé, e fa sì che chi abbia pazientemente se-
guito tali osservazioni si trova alia fine, come per incanto^
padrone di quella sintassi che lo aveva forse sconfortato,
quand'era costretto ad impararla nella sua teoretica aridità.
Convien pure che diamo un saggio anche di quel metodo
incantevole, che, al dire dei due traduttori, opera simili mi-
racoli, quando lo scolare per lavoro di casa avrà copiata pu-
ramente e semplicemente la loro versione letterale e qual-
cuna delle loro osservazioni, aggiungendo Tanalisi prediletta
dal prelodato sig. Tummolo.
Prendiamo subito a p. 8 il § 2 : tujv ^oujv, tujv iTriraiv, dipen-
dono da apxoviei;. — oì KaXoujLievoi vojneT?, che vengono detti,
chiamati pastori. àféXa?, d'ordinario dicesi solo di buoi e pe-
core, qui di animali domestici in particolare. — ?ti toìvuv, serve
ad introdurre un nuovo pensiero «e di più» — ujq)eXou|névoic;
àn aÙToiv, a coloro che. traggono da essi vantaggio, diverso
altro che : i signori maestri imparino innanzi tutto il greco per poter
mettere un argine alla ignoranza dei loro scolari, » Per buona ventura
siamo in grado, per quest'ultima parte deirosservazione del critico te-
desco, di poter asserire che, sebbene non informali particolarmente del-
l'andamento dello studio del greco in quest'importantissima parte d'I-
talia , abbiamo il piacere di conoscere bel numero d'insegnanti di
filologia classica usciti dalia Scuola normale di Pisa , dall'Accademia
di Milano, dall'Università di Torino, che, ben versali nelle classiche
discipline, insegnano secondo buon metodo anche nell'Italia meridio-
nale; per cui amiamo credere che il libro del sig. Tummolo rappresenti
piuttosto l'insegnamento in cer;e scuole particolari, che qui non occorre
nominare.
-281 -
da iLqpeX. ùTr'aòTuiv che da essi sono vantaggiati — èit' oùòc'va?,
in plur. a motivo del seg. èm toutou*;, conf. 7, 5, 64, oùbdv€<;
Yàp Tti<JTÓT€pa IpTct àtrebeiKVUVTO . . . tujv cùvoux^v « nessuno
diede prove maggiori dì fedeltà che gli eunuchi. » Aggiun-
gendo a queste spiegazioni la versione letterale del passo
che trovasi a p. 6, noi domandiamo che lavoro resti a fare
a colui che deve studiare davvero il greco e prepararsi, con
la fatica che farà in questo libro, a più estese letture?
Ma, forse ci risponderanno, sul titolo puossi leggere
« versione dall'originale tedesco », dunque abbiamo dato
agli Italiani uno di quei tanto vantati libri scolastici della
Germania. Adagio, signori miei. Anche nella letteratura
scolastica tedesca vi son i libri cattivi, come in quella di
qualsiasi altra nazione, e voi vi siete proprio appigliati ad
uno di questi — colle migliori intenzioni del mondo, chi
ve lo n^a? — ad uno di questi, che fa compagnia alle
edizioni francesi colla versione iuxta — lineare^ e che un
buon insegnante di lingue, che ha criterio pedagogico , non
tollera nelle mani de' suoi scolari, mentre gli intelligenti
fautori dei classici studii non vorrebbero che far conoscere
il meglio delle straniere produzioni filologiche e scolastiche,
af&nchè Fltalia, i cui .•nigliori ingegni si dovettero con-
sumare per conquistare la sua indipendenza e libertà, mentre
altre nazioni poterono dedicarsi al tranquillo lavoro degli
studii e continuare Topera iniziata in Italia nella splendida
epoca del rinascimento, possa il più presto possibile anche
in questo ramo dell'umano sapere, come in tutto il resto,
gareggiare a prò' dell'intiera umanità con le nazioni più
progredite del mondo moderno.
Torino, 17 novembre 187».
G. MULLER.
Kjvista di filologia ecc., I.
— 282 —
Della distinzione tra i Britanni o Brittoni dell' isola e i
Britanni o Brittoni del continente e della sede di questi
ultimi nelle pr opifici e delVimpero romano. — Dissertazioni
tre di Vincenzo De-Vit. — Modena, 1868-1872.
Il dotto e modesto compilatore del nuovo Lessico For-
celliniano e deir Onomastico (i), mentre con pazienza in-
stancabile e diligenza rara attende a quei due grandi lavori
sopra la lingua e la storia latina, compito della sua vita
letteraria, trova nulladimeno di tanto in tanto il tempo e il
modo di scrivere opuscoli, minori di mole, pari di dottrina,
come ne rendono testimonianza le tre importanti disserta-
zioni che annunciamo.
Il Borghesi scriveva essere antica la controversia « se
Brito^ Britto., Britannus, Britdnnicus, Britaunicianus
siano tutte voci di un medesimo significato, esprimenti egual-
mente Tabitante della Britannia Magna ossia deiringhiiterra,
o pure se le prime due dinotino un popolo diverso; e in tal
caso se sìa quello stanziato nell'antica Armorica, cioè nella
Bretagna minore La sentenza che ancor vige più comu-
nemente, confonde i Brittoni coi Britanni. »
Se non che essendosi nel 1 843 scopeno e pubblicato dal
cav. Arneth un diploma militare di Domiziano , nel quale
sono ricordate due coorti militanti nella Pannonia nell'anno
838 di Roma, la Cohors I. Britannica milliaria e la Cohors
I. Brittonum milliaria., lo stesso Borghesi affermava non
potersi dopo di ciò negare « che questi due popoli siano
manifestamente distinti tra loro». Richiamando perciò l'atten-
zione dei dotti sopra la patria e la sede loro, dichiarava di
volere, quanto p sé, lasciare intatta la questione.
(i) Del Lessico uscirono fascicoli 46 che giungono alla fine della
lettera R; dell'Onomastico fascicoli i3 che vanno sino alla voce CHIOS.
— 283 —
L'egregio Vincenzo De-Vit si accinse a risolverla, e chia-
mati in rassegna tutti i passi degli antichi autori, e recate
in mezzo le iscrizioni , ne cavò le conclusioni seguenti :
1° che doveansi di necessità distinguere i Britanni dell'i-
sola dai Brittoni del continente; 2° che parte di questi in
antico dovettero passare nell'isola cui diedero il proprio
nome , e parte rimaner tuttavia nel continente ; 3° che i
Britanni del continente, continuando il movimento di emi-
grazione, discesero nelle terre dell'impero romano, dove
furono incontrati e quindi soggiogati dai Romani, i quali,
a distinguerli dagli isolani, chiamarono questi Britanni,
quelli Bri toni o Brittoni, pur durando promiscuo l'uso
della denominazione di Britanni per l'uno e l'altro popolo,
e presso il volgo e dove quella distinzione legale non ap-
parisse strettamente necessaria ; 4** e finalmente che i Brittoni
del continente al momento della invasione dei Barbari nelle
Provincie romane passarono nell' Armorica, cui diedero in
appresso il nome di Britannia minore.
Nella prima delle tre dissertazioni di cui ragioniamo,
Pàutore procedendo in ordine inverso, dimostrò essere im-
possibile che gli abitanti deir isola potessero sbarcare nella
Armorica, al tempo della invasione Anglo-Sassone, in nu-
mero tale da occupare quella parte delle Gallie e dominarla,
e chiarì che l' Armorica erasi anzi in allora già resa indi-
pendente da Roma. Proseguendo l'assunto suo, prova con
un passo di Plinio il vecchio, che sino dal primo secolo
dell'impero i Britanni abitavano nella Gallia Belgica {Hist.
Nat. IV, e. 3, § 106); al qual proposito giova rammentare
che Plinio, come quegli che avea militato in Germania,
conosceva di per se stesso e i popoli e i luoghi che andava
descrivendo. Il De-Vit inoltre, colla testimonianza di alcune
lapidi, argomenta che altre tribù di questo popolo esistevano
contemporaneamente in altre pani della Germania e lungo
— 284 —
il Reno; donde inferisce che essi Britanni doveano di ne-
cessità avere a madre patria una regione più settentrionale*,
e questa riconosce nella Brittia di Proccpio, scrittore vis-
suto, è vero, assai più tardi, ma di molta autorità, e finora
non bene dagli eruditi interpretato, i quali non vollero scor-
gere nella Brittia di lui altro che la stessa Britannia.
Nella seconda dissertazione passa in rassegna tutte le
lapidi che ricordano le coorti dei Brittoni e le coorti Britan-
niche, e rafferma che fra tutte le ipotesi che è lecito fare,
quella sola è plausibile, che riconosce nei Brittoni del con-
tinente un popolo geograficamente diverso dai Britanni del-
l'isola; e solo mercè cotesta distinzione potersi spiegare i
luoghi degli autori che ne parlano e che il nostro scrittore
raccoglie e illustra acconciamente.
Nella terza ed ultima dissertazione si dimostra che i Bri-
tanni erano già conosciuti ai Romani negli ultimi tempi
della repubblica, e che furono soggiogati da Augusto stesso.
Nuova e stringente ne pare a tal proposito la illustrazione
deirOde V del lib. 3' di Orazio : Ccelo tonantem credidimus
Jovem Bequare, nella quale quéiVadJectis Britanni imperio
tornò sempre aspro e forte ai commentatori. Né meno cal-
zante è r interpretazione del Virgiliano Purpuream intexti
tolltmt aulaea Britanni (della Georg. Ili, 290), ed ingegnosa
l'altra deirepigramma, pur esso di Virgilio, conservatoci da
Quintiliano nel VII delle Istituzioni, contro il Thucydides
Britannus^ C. Annio Cimbro.
Dopo la pubblicazione della prima dissertazione e innanzi
che venissero in luce la seconda e la terza, il dotto Carlo
Promis in una sua memoria illustrativa della iscrizione
Cuneese di Catavigno, figlio di Ivomago, soldato nella Coorte
III. dei Britanni, inserita nel voL 26 della Serie seconda
delle Memorie della R. Accademia delle Scienze di Torino,
propugnò l'opinione che Britanni e Brittoni significavano
— 285 -
non due popoli di stirpe differente, ma un solo e medesimo
popolo, abitante nell'isola con due nomi diversi: col primo
designarsi i latini o romanizzati, col secondo i tributarli o
patteggiati, e così pure quelli rimasti indipendenti. Le due
voci esprimevano adunque una diversa condizione politica,
secondochè l'abitante godeva o no del diritto italico.
Per la qua! cosa anche il Promis ammetteva una distin-
zione tra Britanni e Brittoni. Ma la ipotesi sua, oltreché
non è confortata da alcun documento, non sembra accet-
tabile, perchè (osserva il De-Vit) essa è affatto contraria
alle consuetudini dei Romani, i quali nelle provincie da essi
conquistate, e ne conosciamo assai bene parecchie, mai non
usarono distinzione si odiosa tra popolo e popolo di una
stessa nazione. Sarebbe questa dunque una novità che non
ha esempio alcuno in tutta quanta la storia. Altre difficoltà
poi sorgerebbero, dove si considerassero partitamente i
tempi della formazione delle coorti e delle ale Britanniche,
La opinione del De-Vit per contro poggia sopra docu-
menti sinceri, ed è conforme alle indicazioni storiche che
abbiamo. Dopo il suo lavoro la distinzione geografica dei
due popoli giudichiamo un fatto nella storia accertato.
Taluni crederanno forse necessarie maggiori prove prima
di affermare risolutamente che la Briitia di Procopio, cioè
la penisola del lutland fu la vera sede primitiva dei Brittoni,
Nulladimanco codesta ipotesi non temeraria è meritevole di
accurate indagini, e ninno meglio dei dotti Danesi e dei vicini
Tedeschi potrebbero applicarvi diligente studio, come quelli
che da tradizioni, da afiìnità linguistiche e da nuove sco-
perte lapidarie sono meglio in grado di compiere con frutto
le ricerche desiderate.
Roma, novembre 1871.
Domenico Carutti,
- 286 —
Jacob Burckhardt, Die Cultur der Renaissance in Italien,
Lipsia, 1869, 2* edizione riveduta.
Quantunque noi dessimo contezza di questo importante
lavoro di critica storico-letteraria sino dal marzo dell'anno
1 869, nel giornale di Firenze, la Nazione , pure ne è parso,
che ai lettori della Rivista non tornerà forse sgradito co-
noscere un po' da vicino un'opera che s'attiene strettamente
alla storia di uno de' più splendidi periodi dello incivili-
mento e della cultura classica greco-latina. — Vero è che
agli studiosi di quell' epoca storica , che chiamano del Ri-
nascimento, gioverebbe forse più e meglio la lettura dell'o-
pera del Voigt(i)', ma oggimai uno studio compiuto di
quell'epoca non pare più possibile , senza uscire un poco
dal campo della nuda erudizione, e, per ciò stesso, giudi-
chiamo che il libro del Burckhardt ne porga, se non ma-
teriali nuovi di indagine, ma certo un nobile esempio e uno
efficace incitamento a rintracciare le ragioni storiche del no-
stro incivilimento , nelle loro attinenze collo spirito , che
aleggia per entro agli studi dell'antichità classica.
La prima edizione di quest'opera del Burckhardt vide la
luce in Basilea nel 1860, e questa seconda, pubblicata dal
S.eemann in Lipsia, non è che una ristampa di quella né
più né meno; all'infuori di qualche lievissima aggiunta nel
testo e nelle annotazioni , che sono a pie di pagina. Nella
breve prefazione, che va innanzi all'opera nella nuova edi-
zione, è detto che l'autore riconosceva pienamente la con-
venienza di rimaneggiare ì materiali del suo lavoro nel-
l'occasione di questa ristampa; ma che di fronte all'im-
(i) Die Wiederbelebung des classischen Alterthums; Berlino, Reimer,
1859.
-287 -
possibilità, nella quale egli versava, di fare una dimora al-
quanto lunga in Italia, tolse meglio di mantenere all'opera
la sua forma primitiva, piuttosto che alterarne la fisiono-
mia col semplice dislocamento di qualche capitolo, o col-
rinserzione di qualche aggiunta.
Questa confessione, attinta alla coscienza del progressivo
svolgimento delle idee nel campo delle sloriche discipline ,
se dall'una parte onora altamente il chiarissimo autore, ne
ammonisce dall'altra, che oggimai il sapere storico anela al
conquisto obbiettivo del vero, né permette a chicchessia di
riposare tranquillo sui proprii allori , mentre la febbre in-
cessante deir indagine accumula materiali sempre nuovi, e
la d mane preme e incalza Toggi, con Tansia di chi si af-
fretta alla meta. A dir vero, lavori di maggior mole intorno
all'epoca del Rinascimento non vide neppure la Germania,
negli anni corsi dal 1861 al 1868: il tutto si restringe a
qualche monografia ; nel qua! genere ne piace di ricordare
quella di Giulio Schueck intorno ad Aldo Manu:{io^ che
vide la luce in Berlino nel 1862-, e l'altra àé. dottor Màhly,
intorno ad Angelo Poli-{iano^ edita in Lipsia coi tipi del
Teubner, l'anno 1864 (i). In Italia il primo che, secondo
noi, in quest'ultimo decennio, détte all'indagine intorno alla
coltura e allo incivilimento di quell'epoca, un indirizzo molto
somigliante quello avviato dal Voigt e dal Burckhardt, fu
l'illustre Settembrini nelle sue Legioni di letteratura italiana.
Geno alcuni capitoli del Ter:{0 periodo del volume I. di
quest'opera presentano molte attenenze coUe opere speciali,
di cui è discorso.
E, senza dubbio, la storia del Rinascimento delle lettere
(i) Di questa abbiamo una versione edita da F. Brunetti in Vene-
zia nel i865, E giova ricordare anche lo scritto dell'eminente filologo
G. Vahlen su Lorenzo Valla , inserito nelle pubbiica2Ìoni dell'Acca-
demia delle scienze di Vienna.
— ass-
iri Italia, ove non la si tramuti in un quadro dello incivili-
mento, si restringe in una ributtante rassegna di opere che
l'età progredita iia dannato airobblio : ignara certamente che
fin là s'addentrano le profonde radici delia sapienza pre-
sente. N' è ignoto del resto, se Fautore delle Le^^ioni abbia
avuto notizia delie opere del Burckhardt e del Voigt^ quan-
tunque ne sembri di vederne qua e colà riflesso io spirito,
e il modo non foss'altro di concepire le movenze e il vario
atteggiarsi della cultura. Saremmo forse piiì disposti a cre-
dere che ai Burckhardt non fosse ignoto il volume del Set-
tembrini nella ristampa del suo lavoro; e per ciò consen-
tiamo con lui, quando ne confessa che una seria revisione
dell'opera l'avrebbe forse ravviato per altri sentieri. — Ma ,
come che sia, ci parve opportuno l'avvertire anche le più
leggiere risonanze" del pensiero nostrale collo straniero, an-
che nella supposizione che le forze operassero, ciascuna per
sé, o non avvertite l'una all'altra.
E già da pezza che gli scrittori stranieri, i Tedeschi mas-
sime, ci accusano di egoismo letterario, e ilevano un co-
tale individualismo^ che noi chiame ernmo isolamento, nelle
nostre ricerche: pel quale siamo impediti , colpa il nostro
orgoglio, di unire quasi i nostri conati a grandi intraprese!
— Che al genio italiano sia connaturato un cotale pendìo
al vivere solitario, al lavoro indi duale, noi noi vorremmo
negare ricìsamente; ma se ciò appunto è delPindole nostra,
e venne accresciuto a dismisura dalla disgregazione e quasi
particolarismo dei volghi italiani, tanto maggior dolore ne
arreca il vedercelo apposto, come brutto vi\io di gelosia da
scrittori, che per l'indole de' loro studi dovrebbero conoscere
pili e meglio quello che ne si deve ascrivere a colpa , e
quello che perdonare come abito di natura, addoppiatoci da
circostanze meramente esteriori. Questo rispondiamo al si-
gnor Voigt , che nella prefazione al lavoro surriferito si com-
— 289 -
piace di mettere a nudo questa debolezza degli Italiani ; e
veniamo al proposito nostro.
L'opera del Burckhardt, quantunque si riveli a prima
fronte come lavoro essenzialmente tedesco, pure non vi senti
per entro quella pesantezza di apparato critico, quella me-
tafisica sottilità di forma e complessità di costrutto, che so-
gliono rendere di così difficile accostamento le opere lette-
rarie di quella nazione , del resto pregevolissime per ogni
conto. Anzi , in essa alla facilità del dettato è unita una
certa peispicuità di pensiero e di forma, ed una disposizione
così equabile e discreta del materiale illustrativo , da ren-
derne la lettura proprio amena, e stava per dire seducente.
Il signor Burckhardt non attinse al certo d'altronde, che
dalle impressioni, lasciate in lui dal nostro bel paese, quel
cotale entusiasmo giovanile, quelPaurn tiepida e molle, che
spira per entro al suo lavoro ; ma sopra tutto quella be-
nevolenza, queir affetto per l'Italia, che s'appalesa in tutti
i suoi giudizi intorno alle cose nostre. Questo fare be-
nevolo ed affettuoso si rivela più spiccatamente in alcuni
luoghi , nei quali il carattere puramente obbiettivo dell'o-
pera si eleva a tal grado d'imparzialità, da parere esage-
rato , al punto da fargli sospendere ogni giudizio intorno a
fatti, o a conseguenze di fatti , che più da vicino gli son
parsi riflettere il sentimento e l'indole della nostra nazione,
e che per ciò appunto egli straniero stimò pericoloso, o
poco delicato voler apprezzare e discutere. — In verità, che
di rado assai, crediamo, o quasi mai incontra di trovare
stranieri così discreti ed equi nell' intromettersi delle cose
nostre.
Tutta quanta la materia dell' opera è scompartita in sei
sezioni, ciascuna delle quali è ridivisa in un certo numero
di capitoli , il contenuto dei quali è reso quasi prospettico
da brevi glosse marginaU. — Ecco i titoli delle sezioni : I. Lo
— 29() —
Stato, quale creazione artificiale. II. Lo svolgimento del-
rindividuo. HI. Risvegliamento dello spirito antico. IV. Di-
scoprimento del mondo e dell' uomo. V. Società e feste.
VI. Moralità e religiosità.
Gli Stati d'Italia, dice l'autore a pag. 71 , erano per la
massima parte opera della ritiessione, cioè creazioni statuite
sopra fondamenti ben calcolali e nettamente tracciati , così
che anche le attenenze scambievoli e col di fuori doveano
di necessità presentarsi come un' opera dello ingegno. — La
speciale costituzione degli Staii italiani, vuoi delle repubbliche
vuoi de' principati, è da considerarsi, se non come Tunica,
certo però come la principalissima cagione, che dell'italiano
fece l'uomo dei tempi moderni, molto prima che d'ogni al-
tro popolo europeo (p. 104). — Qui in Italia, molto prima
che altrove , s' iniziò uno studio obbiettivo dell' ente-Stato ,
di contro al quale sì eleva potente il soggetto^ e l'uomo ri-
conosce e afferma sé stesso quale individuo.
Così un tempo l'uomo greco avea affermata la individua-
lità propria di contro al barbaro., l'arabo di contro alle al-
tre razze dell'Asia. — Questo risveglio del sentimento della
persona cominciò in Italia assai per tempo, intorno al se-
colo X; però la massima affermazione di esso cade sullo
scorcio del XIII, allorquando rAllighieri nella Divina Com-
media^ rilevava le linee piìi spiccate della fisionomia italiana.
Più tardi diventa una necessità del principato , fondato
colla violenza , lo svolgere in sommo grado la persona del
tiranno , del condottiero, e appresso anche quella del poeta,
dell' uomo erudito , del confidente. I quali tutti sono co-
stretti ad indagare tutte le sorgenti di loro potenza intellet-
tiva. E cosi anche ne' governi popolari non mancarono vivi
impulsi allo svolgimento della persona , mentre tra il va-
riare delle parti l' individuo dovea di necessità raccogliersi
in sé medesimo air uopo di mantenere il suo legittimo va-
— 291 —
lore (pag. 106-7). Insomma dal i3oo in poi Stato e Indi-
viduo intendono qui da noi a dare risalto alia propria esi-
stenza; e in questo fatto il signor Burckhardt vede la pre-
parazione storica dell' incivilimento italiano all'epoca della
Rinascenza (sez. i. II).
Nella storia poi di questo incivilimento l'autore crede di
poter distinguere due elementi , il primo dei quali è costi-
tuito da tutti que' germi di nuova cultura, che egli è venuto
annoverando sin qua, come involuti nel carattere della na-
zione; l'altro elemento è porto dalla reviviscenza dello spi-
rito afitico, che sotto le spoglie del classicismo si consocia
al nuovo (p. 1 36).
L'autore crede che T appellazione di Rinascitnettto non
convenga che in parte a tutta quelPepoca, che comunemente
suolsi designare con essa ; parendo a lui che gran parte del-
l'indirizzo preso dalla nostra nazione sarebbe stato possibile,
o potremmo per lo meno raffigurarcelo come possibile, an-
che senza quell'elemento antico. Però egli concede che le
forme esteriori di quell'indirizzo subirono assolutamente la
pressione delio elemento antico redivivo, di guisa che se ne
ingenerò uno strettissimo connubio , sotto il cui peso restò
vinto e dòmo il mezzogiorno d'Europa. E lo spirito nazio-
nale vi perdette gran parte della sua indipendenza, la quale
iattura però non è a deplorare ad ugual misura nel campo
delle produzioni intellettive. Così ad esempio essa è mi-
nore nelle arti rappresentative che nelle arti della parola ,
massime nella letteratura della rinnovellata latinità (sez. 111).
Un effetto pertanto immediato della consociazione della
personalità italiana, svolta per forza propria, e dello ele-
mento antico, che ne colora quasi la fisionomia, fu quel ra-
pido di largarsi delle cognizioni attenenti al mondo esteriore
e all'uomo {pag. 222, sez. IV). Questo fenomeno è consta-
tato anche dal Settembrini {Le:{ioni, voi. I, pag, Sbg)-, però
— 292 —
in seguito ad una premessa tutta sua ; « perchè, cioè, tutti
gli uomini intendevano il cristianesimo m un modo più
largo. »
A rendere compiuto il suo quadro l'autore ne dice (sez. V),
che la civiltà italiana, all'epoca della rinascenza, anche nei
riguardi della socialità, ci afferma qualche cosa di partico-
lare, che la contraddistingue nettamente dalla medioevale,
e ne fa spiccare la maniera del vivere moderno. Subito al-
Tingresso nelP epoca egli trova mutata di già la base della
socialità ifcig. 283), vede tolto via il disvario dei ceti nei
rapporti della urbana conviven/.a , trova un ceto colto ,
civile proprio proprio nel significato moderno della parola,
dentro dal quale la nascita e il legnaggio soltanto allora ac-
quistano un valore, quando s'accompagnino a ricchezze avite,
e ad un ozio sicuro e durevole. — E superfluo il dire, che
V umanesimo usufrutto largamente queste aspirazioni all' u-
guaglianza sociale, a rincalzare le sue teoriche negative in-
torno alla nobiltà {pcig. 285).
Segue finalmente, la sesta Sezione, in cui è discorso della
moralità e della religiosità degli italiani all'epoca dei rina-
scimento. Qui l'autore fa una duplice riserva, l'una gene-
rale come stcrico, l'altra particolare a se, come a straniero.
Come storico egli crede, che l'indagine intorno alle at-
tenenze delle singole nazioni col mondo soprasensibile, cioè
colla divinità, colla virtù, colla immortalità, non sia possi-
bile, che fino ad un certo limite, massime in ordine alla mo-
ralità. L'intendim.ento umano non ha forze sufficienti a com-
porre la somma delle svariate gradazioni e quasi sfumature,
che la storia delle nazioni ci profferisce in questo rispetto.
D'altronde un gran popolo, il cui incivilimento e le cui geste
sono strettamente connesse colla vita di tutto il mondo mo-
derno, può battere le sue vie, poco curioso delle lodi e del
biasimo de' teoretici speculatori.
- 293-
Come straniero poi, l'autore non si crede competente a
cogliere i battiti di una nazione, diversa dalla sua, mal po-
tendo giudicare, sopra fenomeni puramente esteriori, di ciò
che scorre negli strati più interni, onde s' intesse il nazio-
nale organismo, mal potendo discernere quanta parte della
risultante delle varie forze sia da ascrivere all' indole degli
Italiani, quanta agli avvenimenti esteriori. Insomma in co-
siffatti giudizi havvi un elemento soggettivo, che assai di leg-
gieri può turbarne la serenità ^p^g. 341, 342). Tutto com-
preso però Tautore crede di poter dire, che T Italia, all'en-
trare del secolo XVI, andava incontro ad un profondo ri-
volgimento. L'autore non inclina ad accagionarne lo scadi-
mento morale, bensì il fatto, che gli Italiani sono il popolo,
nel quale si svolga di preferenza l'individuo; e per ciò stesso
uscirono di quelle vie della moralità e della religiosità, che
essi come stirpe avriano potuto bauere {pag. 343). Cosi che
il precoce svolgimento della personalità italiana fu cagione
di grandezza nel campo intellettivo, fu principio di scadi-
mento nel campo morale e politico. — Ecco le tesi del
libro.
Lasciando per ora da parte questo risultamento finale,
diremo prima di tutto quello, che abbiamo provato dentro
di noi dopo la prima lettura di questo lavoro. — Ci è parso
adunque un libro, dettato con entusiasmo giovanile, in ser-
vizio però più delVarie^ che della scienza. Ciò ne sembra
manifesto dal vedere l'autore massimamente inteso a dare
risalto a quei lati della vita italiana, nei quali essa ci. si
appresenta svolta più artisticamente, e quasi in modo dram-
matico. Ed è indubitato, che molti tratti della fisionomia di
quella vita sono sovranamente drammatici. Lo sforzo con-
tinuo ed evidente dell'autore a costituire l'individuo — na-
zione fa sì che egli veda tutti i momenti della vita italiana
convergere al nucleo fatale delia personalità; né gli si può
— «4 —
contestare il merito di esservi in qualche parte riuscito, mas-
sime nel quadro sbozzato nella prima Sezione del libro.
L'autore indusse una specie di fatalismo nello svolgimento
di cene fasi della vita nazionale italiana, e l'evidente ten-
denza a rendere simmetrico il tutto gli rese inavvertiti certi
punti di passaggio nella nostra storia, i quali ci sembra di
sommo momento di rilevare.
Il periodo d'incivilimento, al quale il nostro autore ha
estese le sue indagini, prende le mosse dalla fine del se-
colo XII, e va fino al tempo delle signorie straniere in Italia^
ciò è a dire s'addentra nel secolo XVI, Il fuoco però al
quale convergono tutti i raggi della ricerca storica, è quel-
l'epoca, in che si vengono formando via via in Italia quei
principati, fondati sulla violenza, e sorretti da tutte quelle
arti arcane d'Imperio, la somma delle quali fé' parere al-
l'autore lo stato COSI costituito un artificioso organismo, ar-
chitettato dal genio solitario, ma artistico degli Italiani.
Questo modo di considerare gli avvenimenti umani, come
il risultamento cioè di certe forze arcanamente operanti nel-
l'interna coscienza delle nazioni, se giova molto alla simme-
tria della composizione artistica , se esercita una cotale se-
duzione sulla fantasia dello indagatore, non è però scevro
di pericoli, tanto piìi gravi, quanto meno avvertiti, e che ci
conducono talora ad induzioni, che hanno tutta l'apparenza
della obbiettività, ma nel fatto sono un parto puro e mero
della nostra individuale apprezziazione, sono soggettive al-
l'ultimo.
Pare a noi, che il lungo periodo assegnato dall'autore alla
civiltà del rinascimento, dal secolo XIII -XVI, presenti fe-
nomeni morali e politici, ai quali uè puossi attribuire identità
d'origine, né uniformità e quasi simmetrìa d'andamento e
movenza. — Che il periodo di risveglio intellettivo cominci
in Italia coU'Aìlighieri, anzi, prima ancora, coll'Acqifinate
- 2S5-
è cosa che facilmente concediamo. Ma tra la civiltà iniziata
dalla Divina Commedia, e quella indotta dall'opera del Pe-
trarca, del Boccaccio, e di quelli , che chiamano umanisti,
ci corre di molto. Certamente è difficile dire, per quali vie
sariensi messe le nostre lettere e la nostra civiltà senza quella
reviviscenza dello spirito antico, chiamato a vita dagli studi
classici *, ma né per questo faremo un tutto del prima e del
poi, molto meno consentiremo coll'autore, là dove dice, che
la fisionomia della civiltà italiana non ebbe dal classicismo
che una cotale tinta d'antico, mentre invece, a nostro av-
viso, esso operò e profondamente sull'indole nativa del ca-
rattere nazionale del nostro incivilimento.
Quell'individualismo, che l'autore considera come carat-
tere della civiltà italiana nel periodo del rinascimento si era
di già svolto, e da pezza, prima del rinascimento, sotto la
forza delle cose, che s'instaurarono via via in Italia di fronte
al Papato, di fronte all'impero nelle lotte di quello contro a
questo, dei comuni contro all'impero. È una disgregazione
permanente cioè delle forze della nazione, e per ciò stesso
un parziale raggruppamento delle medesime, I principati
sursero in Italia più tardi, quando l'individualismo dei volghi
era passato di già in abito ; e che i singoli principati si stu-
diassero di mettere innanzi la loro persona, stava nella na-
tura loro. — A dir breve , v'ha un certo ordine di farti e
di idee, che l'autore non dovea tirare nel giro del Rina-
scimento, col quale non possono avere che un'attenenza
assai remota. Sembra oggimai infatti, che per civiltà del ri-
nascimento sia da intendere la somma di que' fenomeni
morali, che si svolsero nella coscienza degli Italiani dap-
prima e degli stranieri dappoi, conseguentemente alla re-
staurazione del classicismo.
L'effetto fu complesso sopì ammodo e diverso a seconda
del terreno sul quale esso venne operando, — Politicamente
— 296 -
da noi fu nullo-, perchè dei vani conati del Cola non mette
conto roccuparci, e nel resto lasciò le cose come erano , se
non peggiormente affette, per l'abitudine alla servitù resa più
tolierabile, e perchè molte menti disviò dietro a ideali im-
possibili di grandezze passate. — Nelle lettere indusse il
lavorìo della riflessione, della imitazione studiata, della ele-
ganza-, preparò insomma il nuovo periodo dell'arte. — Nella
scienza dilargò daddovero i confini del mondo esteriore ,
mercè lo spirito d'indagine, che quando dal campo morale
fu trasportato in quello delle esperienze, partorì que' rnira-
coU di gloria al Galileo, al Keplero, al Nevvion. Nella fede
nulla innovò qui da noi, all'infuori di qualche concetto pan-
teistico qua e colà. In Germania invece chiamò a vita la Ri-
forma. Da noi adunque del Rinascimento si vantaggiarono
veramente le scienze sperimentali-, e, quanto all'altro sapere,
l'effetto principalmente notevole ne sembra che sia stato
questo : che di fronte cioè alla potenza invaditrice del dog-
matismo della sco'astica , crebbe indipendente un sapere
laico*, come nelle lettere, di contro alla cavalierla e all'a-
more, si levò potente il sentimento di una cultura , che ,
quantunque antica , pure trovava vive risonanze nel cuore
degli Italiani d'allora, e ne trova oggidì ancora.
Uno studio accurato dell'età del Rinascimento noi lo
crediamo più che utile, necessario anzi, a conoscere la sto-
ria interiore della nostra civiltà e delle nostre lettere. Il
lavoro del signor Burckhardt ne porge ottimi materiali a
quest'uopo , e sopra tutto un nobile incitamento. Gli è in
questo senso , che noi abbiamo stimato opportuno di ri-
chiamare l'attenzione dei lettori della ^{ivista ad un ordine di
concetti e dì opere, che s'attengono strettamente cogli studi
delPantichità classica, anzi rivelano in tutta la loro ampiezza
l'alto valore di questi studi, e in un tempo, nei quale l'Italia
nostra è tutta intesa a riandare il suo passato, per ispin-
— sor-
gersi poscia con nuova lena nelle vie deiravvenire. — Voglia
il Cielo, che tra il perenne diventare delle cose, gli studi
classici trovilo anche in Italia quel posto che risponda alle
splendide tradizioni del nostro passato, all'indole della no-
stra cultura, e ai bisogni della nuova civiltà.
Rovigo, novembre 1872.
Gaetano Oliva.
GOn^OF^E'DO HERMANN.
28 novembre 1872.
Cento anni or sono, in questo giorno, ed in Lipsia, la
città, nella cui università furono sempre fiorenti gli studii
filologici , vide la luce un uomo , di cui tutti i cultori degli
studii classici in ogni tempo ricorderanno, con grata me-
moria, il nome, la cui operosità, il cui sacro zelo neirisiruire
la gioventù, quella specialmente che si consacra alia sua
volta all'insegnamento delle discipline filologiche, alla pro-
pagazione del culto del bello e del buono mediante lo stu-
dio dei grandi scrittori dell' antichità e delle grandi opere,
lasciateci dai Greci e dai Romani, saranno sempre di no-
bile esempio; un uomo, che meglio forse di qualsiasi altro,
dalla splendida epoca del rinascimento in poi, ha saputo, e
con più eflScacia sugli animi dei suoi uditori, interpretare le
eterne opere della greca letteratura, dei poeti tragici in ispecìe.
È debito di gratitudine che anche la nostra JRmsta in
questo giorno ricordi i grandi meriti di Godo/redo Hermantty
di quel grande luminare della scienza filologica, di cuìccn-
— 29e~
tinaia di discepoli e di allievi dei suoi discepoli hanno gui-
dato e guidano le novelle generazioni alla vera e profonda
conoscenza deirantichità classica.
Godofredo Hermann era grande come filologo , come
erudiio, come insegnante, come uomo. L'insegnare, l'inter-
pretare ai giovani i sublimi autori antichi, era per lui una
sacra missione, la quale con indefesso zelo adempiva in una
lunga ed operosissim.a vita (i), in cui non mai ha abbando-
nato la sua cattedra nel Paolino di Lipsia, nel quale lo circon-
davano centinaia di uditori che pendevano dal suo labbro,
alle sue parole si infiamn^avano, e che poi di là, come apostoli
dello studio dell'antichità classica, si spargevano per le scuole
della Germania e de' paesi vicini. Come insegnante lo pos-
siamo chiamare il più vigoroso rappresentante dell'umanismo
de' tempi nostri -, celebratissimo fu per la sua facondia, la viva-
cità e chiarezza della forma, la singolare precisione nell'e-
sposizione, il suo nobile ardire nell'esporre i suoi convinci-
menti, l'amore per la verità, il metodo impareggiabile nella
interpretazione degli scrittori. Per tutto questo, e per lo
influsso suo pedagogico sulla gioventù, è stato uno dei più
grandi maestri che la Germania abbia avuto. Della lingua
latina con tutta la sua forza e bellezza egli si valeva come
della sua propria, e l'usava nelle sue lezioni, che versavano
però massimamente sugli scrittori greci : lezioni che non
verranno dimenticate da chi ebbe la fortuna di udirle.
Ma non in esse sole consumava la sua operosità. La filo-
logia classica gli deve una lunga serie di opere importamis-
' (i) Nato nel 1772, studiò privatamente sotto Ilgen; poi con Reiz ed
a Jena con Reinhold; si abilitò come docente nel 1794 a Lipsia; di-
venne professore straordinario nel 1798 ed ordinario nel i8o3; fondò
nell'Università di Lipsia la società greca nel 1799; fu direttore del se-
minario filologico di quest'Università, e morì, pure in Lipsia, il 3 1 di-
cembre 1848.,
— 299 -
dime. Fu egli che diede alla metrica greco- latina un solido
fondamento, trattandola in una serie di opere, che sono an-
cora la base di tutti i recenti studii sulla metrica antica (i).
Fu egli, che il primo mostrò la necessità di un piià razionale
metodo nel trattare la grammatica greca, in quel suo cele-
bre libro: De emendanda ratione graminatices grcecx^ com-
parso a Lipsia nel 1801, dal quale data una nuova era
nello studio della grammatica della bella favella dei Greci,
dacché all' antico modo empirico (pur troppo, almeno in
Italia, non ancora del tutto abbandonato) si potè, grazie
alla sua scienza ed alla sua autorità, sostituire un altro più
razionale e scientifico che meglio risponde alle leggi che go-
vernano questa lingua, e che rese possibile poi, dopo le
scoperte dovute allo studio comparativo degli idiomi ariani,
una grammatica greca come quella del Curtius che attual-
mente insegna nella medesima università, in cui G. Her-
mann passò l'operosa sua vita (2). Fu egli, che con gran-
dissimo amore interpretò una serie di autori greci , ed i
tragici massimamente, dei quali pubblicò Sofocle nel 1823,
mentre il suo Eschilo non potè vedere la luce che dopo la
sua morte, per cura dello Haupt (3). Una quantità di scritti
minori è raccolta nei sette volumi dei suoi « Opuscula »
Lipsia 1827-30, in cui ognuno ammirerà l'eleganza dello
[\) De metris graecnrum et romanorum poetarunty Lipsia i'jg6. Hand'
buch der Afetrik., ivi, 1798. Elementa doctrinae ntetricae, ivi, 1816.
Epitome doctrinae metricae, ivi, i8i8; 2* ediz. 1844. De metris Pin-
dari nell'edizione di questo poeta del Heyne.
(2) Quasi come un supplemento a questo scritto grammaticale pos-
siamo considerare le sue importanti aggiunte al libro del Vigero, De
idiotismis linguae graecae, ed i Libri IV de particula fiv, Lipsia i83i.
(3) Diede alle stampe le Orphica nel i8o5, gl'/wni omerici nel 1806,
il Trinammo di Plauto^ le Bacchidae nel 1841 ; VArs poetica di Ari-
stotile nel 1820; il Lessico di Fo^io nel i8o5; il grammatico DracoStra.-
tonicensis nel 1806.
— 300 —
stile latino, specialmente poi nelle sue proprie poesie scritte
in lingua latina, dalle quali spira un'aura veramente romana.
Si è voluto rimproverare al grande uomo, di cui oggi
riverenti ricordiamo il nome, d* avere dato troppo peso al
lato formale della filologia , chiamando la sua scuola la-
scuola grammaticale e critica, quasi non avesse abbastanza
badato al iato reale; ma non può essere oggi nostro compito
entrare in una discussione su quest'argomento, oggi, che
solo vogliamo rammentarne il riverito nome ed additare il
suo nobile esempio ai novelli cultori delle filologiche di-
scipline, e soprattutto perciò, che sarà sempre vero il suo
asserto: essere la esatta e profonda conoscenza delle lingue
antiche l'unica sicura via, che ci possa condurre alla vera
intelligenza delle opere dei Greci e dei Romani, e per
conseguenza l'indispensabile, solido fondamento della Scien:^a
dell'antichità,
G. MULLER.
V^OTIZIE
L'ordinamento della Facoltà di lettere dell'Università di Roma, con-
dotto a compimento secondo il progetto della Facoltà medesima e del
Consiglio Superiore d'istruzione pubblica, come Io rileviamo da un
articolo della Perseverant^a, segnerà un grande progresso negli siudii
filologici in Italia, dacché alle cattedre delle letterature antiche s'ag-
giungerebbero apposite cattedre per l'insegnamento scientifico delh
grammatica greca e latina; Varcheologia sarebbe divisa fra diversi inse-
gnanti. Né verrebbe dimenticato l'insegnamento scientifico delle lingue
moderne per l'istituzione della cattedra di filologia romanza. Ma ci
rincrescerebbe di non vedere una cattedra particolare di lingua e lette-
ratura sanscrita, ed avremmo forse alcunché da osservare riguardo alle
lingue semitiche, del che converrà parlare a miglior agio.
FiETKo UssELLO, gerente responsabile.
— 301 -
CENNI SULLA SINTASSI
"DELLA LIV^GUA G%ECA.
I.
Apollonio Dìscolo (i), celebre grammatico Alessandrino,
il cui nome, finitamente a quello del figlio Erodiano, segna
come a dire l'apogeo della erudizione grammaticale nel 2"
secolo dell' era nostra, nel principio de' suoi libri uepi cuvtó-
5euj5 (2), muove dal concetto , che nella lingua si tratti
sempre del collegamento di certi elementi, 1 quali insieme
riuniti s'appresentano sotto la forma più larga e più distesa
di una cotale unità, della quale escono poi altri maggiori
raggruppamenti. La prima e più semplice parte di questa
unità, da lui vagheggiata, la materia prima come a dire,
egli vuol trovare in quegli elementi, che addimanda o"Toix€Ta,
i quali consociati e quasi conglobati riescono poi all'unità
massima, che è il Xófo?. In questa stessa via lo segue
Teodoro Gaza, grammatico dei periodo bizantino; il quale
nel 4° libro della sua ei(Sa.y'jj^fi, là dove discorre irepì cuvTd-
Heu}^ TU)v ToO XÓTou fiepuiv, esce, nelle parole seguenti ;
« XeKtéov Toiviiv Kttì 6ttujs Sv rà toO Xóyou ìxépr\ à\\f\\oi<;
òpOw? cuviaTTÓueva àTtoTeXoirj tòv Xóyov...)) (Venezia, Garoni,
(i) Egger, ApoUonius Dyscole , Essai sur l'histoire des théories
grammaticales dans l'antiquité. Parigi, 1854.
(2) È la sola scrittura che ci pervenne intera di Apolloni salvo qual-
che lacuna verso la line. — O. Schneider credo che la scrittura ucpl
èmpprjMdTUJv appartenga alla Sintassi. Di quesc' opera conosco due
edizioni antiche, l'Aldina del 1495 e la Fiorentina del i5i5.
1(ivista di filologia ecc., 1. SI
— 302 -
1 527). — E Prisciano, la cui ammirazione per que'due sommi
della scuola Alessandrina non conosce ne confini, ne misura
(Vedi Comm. G^^^^^ì. Lib. 1, pref. pag. 534; I^» P^g-, ^^^
XII, pag. 941; XIV init. ed. Putsch.}, nel principio del
libro XVII (pag. io35), così definisce l'opera della sintassi:
Quemadmodum literae apte coeuntes faciunt syllabas, et
syllabae dictiones (XéHei?), sic et dictiones orationem. Hoc
enim etiam de liteHs tradita ratio demonstravity quae bene
dicuntur ab Apollonio prima materies vocis humanae indi-
vidua ((JTOixcTa). Ea enim non quocumque modo iimcturas
ostendit fieri literarum, sed per aptissimam ordinationem.
Igitur manifestum est, quod consequens est, ut etiam di-
ctiones, cum partes sint per constructionem perfectae ora-
tionis (toO KttTà cTuvTaSiv aÙTOTeXoO? Xótou) a^/^w struciurtfm,
id est ordinationem recipiant. Quod enim singulis dictio-
nibus paratur sensibile , id est intelligibile, quodatntnodo
elementum est orationis perfectae.
Gli è chiaro per queste allegazioni, che un solo pensiero
è posto come a fondaniento di tutto l'ordinamento della
lingua, quello cioè, <?he tanto nella teorica degli elementi
fonetici costitutivi della parola (la fonologia), quanto in
quella delle forme (la morfologia) e de' costrutti, domini
quel principio di collegamento e ordinamento di parti, che
da' moderni, ma con ben diverso e vario intendimento, è
chiamato sintassi (cruviaHis). Da questo modo di considerare
la sintassi della lingua (e qui facciamo astrazione da una
lingua particolare) ne pare, che discenda questa conseguenza,
come legittima ; che, cioè, fra la teorica delle inflessioni,
presa nelle sue f)iù ampie applicazioni, e la teorica della
concordanza corra tal nesso strettissimo, che l'efficacia del-
Tuna si distenda sull'altra, e le due parti mutuamente si
ricambino d'aiutò. — In una scrittura, un po' antiquata
per vero dire, che essa risale all'anno i852, di Augusto
— 803 —
Haacke (i) leggiamo (pag. 21) questo concetto; che, cioè,
a voler fondare sopra basi sicure e incrollabili una teorica
della sintassi, e' fa mestieri un saldò collegamento di questa
colla teorica delle inflessioni, né bisogna al tutto permettere
un modo {>articolare di trattazione rispetto a quella, cosi
che ad intenderne le movenze e a rilevarne le fattezze, ne
sia necessario aver ricorso a criteri, che siano altri da quelli,
che ne son pòrti da' fatti concreti della lingua.
(c Certamente, egli soggiunge, a costituire la teorica della
sintassi sopra cosiffatte sicure basi, bisognerà pensare ad
« una teorica delle inflessioni , dalla quale traspaiano evi-
« denti gli elementi di queste, e ne chiarisca con sincerità
« sulla originazione loro, mentre invece nelle grammatiche^
« che oggidì corrono nelle mani di tutti^ la teorica delle
«( inflessioni non può mirare ad altro fine, che a rendere
« possibile un apprendimento affatto meccanico delle foì'me
« coir aiuto di regole superficiali e di eccezioni. » E su-
bito dopo leggiamo : — « Per ciò che spetta la lingua
<c tedesca basterà certamente, che si comprenda, come il
« contenuto e la sostanza di una lingua non si possano
« d'altronde rilevare che da essa, dalle sue forme, né mai
f< astraendo da queste, e come, per ciò stesso, la trattazione
« della sintassi possa trovare il suo punto di appoggio nella
c( parte etimologica della grammatica, e non altrove; poiché
(t questa parte appunto della grammatica tedesca fu esposta
« da Giacomo Grimm così compiutamente, ne' suoi tratti
« principali almeno, come non può dirsi di nessuna altra
« lingua. » — Ma non andò guari, che il seme fecondo,
sparso dall'opera immortale del Grimm, fruttificò sul campo
d'altre lingue. In quell'anno istesso i852, Giorgio Curtius
(i) Der Gebrauch der genera dcs griechischen Verbums. Berlino,
Weidmannsche Buchhandlung, Il heft.
— 304 —
dava fuori la sua Grammatica Greca, frutto di un lungo
decennio di medity.zi<)ne e di studio. Né si creda, che ella
fosse allora facil cosa richiamare gli studiosi della sintassi
delle lingue a più modesti propositi e ricondurne le teoriche
verso criteri, meno appariscenti, ma di gran lunga più si-
curi e piiì veraci. — Erano di quel tempo assai in voga
nelle scuole tedesche le smaglianti teoriche di grammatica
generale, che Carlo Ferdinando Becker avea rese assai
bene accette, e quasi popolari colla sua grammatica della
lingua tedesca. Né si creda, che alla lingua nazionale si
arrestasse quella smania del filosofare in fatto di lingue;
che alle lingue classiche ancora s'era dilargato quel moto.
Vide egli il Curtius, se non il primo né il solo, ma certo
fra i primi, che quel modo di trattare la lingua, come la
espressione, cioè, di determinate forme dei pensiero, a tutti
comuni, era destituito di ogni solido fondamento in ordine
alla scienza, e nella pratica era sommamente dannoso. Lo
studio della linguistica infatti, così vigorosamente progredito
n,egli ultimi decenni di questo secolo, ha piuttosto chiarito,
il divario, delle lingue, che confermata l'antica fede nella
comunione e concordanza de' linguaggi, e collo studio di
lingu,^ di origine e strattura disparatissime) come ad es. le
arie e le semitiche, ha dimostrato in modo da non poterne
dubitare, che quella pretesa universalità di schemi fonda-
mentali del linguaggio umano non ha valore scientifico. —
Né da cosiffatti erramenti andiamo esenti noi qui in Italia^
rispetto alla lingua nostra; noi vediamo infatti coH'autorità
del Bonavino (i), farsi strada nelle nostre scuole un cotal
modo di trattazione, che molto s'accosta alle vedute del
Becker, e che, tramutando la teorica della sintassi in un trat-
(i) Elementi di grammatica generale applicati alle, due lingue ita-
liana e latina. Edìz. 5*, Genova, i863.
-sos-
tato di logica, costringe le tenere menti a pensare prima, che
a discorrere con sempliciià e correzione, svigorendo cosi Tef-
ficacia dei pensiero nell'età, in che gli sana mestieri Tessere
più vegeto e più prosperoso-, con quanto vantaggio delia
coltura, della lingua e persino della grammatica lo sanno
grinsegnanti negli ordini superiori delle scuole, lo sa ii
paese. Ben è quindi, ed è tempo oggimaì, che anche per
l'uso e per lo studio della grammatica italiana gli studiosi
siano tirati fuori delle astrattezze , e richiamati sul saldo
terreno della indagine storico-linguistica. Noi salutammo
quindi con gioia l'apparire di una grammatica storica della
Unghia italiana (i)-, la quale, tenuta dentro a termini di-
screti, varrà certo a richiamare ad mdiorem frugem gli
ingegni e le scuole. Del resto questo della grammatica filo-
sofica, come la chiamano, non è sistema né nuovo, né più
di questa o di altra naziojie. Già il vecchio gran Cancelliere
d'Inghilterra, Bacone da 'Verolamio, parla di una gramma-
tica letteraria e di una grammatica filosofica, « Gramma-
« ticam etiam hipariitam ponemzis^ egli dice, ut alia sit
tt literaria, alia philosophica. Altera adhibetur simpliciter
« ad linguas, nempe ut eas qitis aut celerins perdiscat ,
« aut emenditius et purius loquatur; altera t'ero aliqua-
ft tenus philosophiae ministrat . . , . Hac re moniti cogita-
va tione cojnplexi sumus grnmmaticam quamdam , quae
« analogiam inter verta et res^ sive raiionem sedrxlo in-
<c qiiirat » (2). Questo concetto della grammatica filo-
sofica s'attiene stretto all'altro della grammatica universale di
tutte le lingue, strano mixtum compositumy fondato sulTar-
bitrio e sul falso concetto che del linguaggio si ebbe lungo
(1) Di Raffaello Fornaciaui. Torino, Loescher, 1872. Piegievole
lavoro in questo risperto è anche quello del De-Mauio.
(2) De avf^mentis scientiarum, lib. VI, cap. 1. i.ugano> 1763.
- 306 -
tempo nelle scuole, reso popolare dalla filosofia Lockiana(i).
Infatti al passo di Bacone, allegato quassopra, precede il
seguente: — «. Illa demum, ut arbitramur^ foret nobilissima
« grammaiicae species , si quis in linguis plurimis tam
<( eruditis., quam vulgaribus^ eximie doctus^ de variis lin-
ct guarum proprietatibus tractarety in quibus quaeque ex-
« celiai, in quibus dejiciat, ostendens. Ita enim et linguae
e. mutuo commercio locupletavi passini, et Jiet ex iiSy quae
« in singulis linguis pulchra sunt, orationis ipsius quae-
a dam formosissima imago et exemplar quoddam insigne
(( ad sensus animi rite exprimendos ». — Cotesto ideale di
lingua filosofica, e di una grammatica filosofica, che neces-
sariamente si collega con quella, era vagheggiato — diciamoj
cosa notoria, — dal Leibniti, che la chiamava la sua spé-
cieuse generale (2); e nella seconda m€tà del secolo XVII
destò alta ammirazione in Inghilterra un saggio di una
vera scrittura e di una lingua filosofica del vescovo
Wilkins, il cui fondamentale concetto, rispetto alla lingua
universale, è rì^-atto in termini chiari e concisi nel volume
primo delle Nuove Letture di Max Miiller (lettura II). —
Vero è che Tipotesi, messa innanzi da Giovanni Locke (3),
d£Ì fanciulli selvaggi, che dal linguaggio dei segni naturali
passano a costituire, sospinti dai bisogni, il linguaggio dei
suoni articolati, inventandone dapprima il vocabolario,
appresso le inflessioni e la sintassi, è oggimai sfatata dalla
linguistica, il cui posto fra le scienze antropologiche diffi-
cilmente le potrà venire contestato (4); pure non è male.
(i) hocKti, Suir Intendimento umano y lib. II, passim.
(2) Vedi GuHRAUER, G. W. Freiherr von Leibnitz, voi. I, pag, 328.
(3) Suir Intendimento umano, lib. Ili, cap. i.
(4) Vedi Guglielmo Humboldt: Ueber die Ka-wi-Sprache, ecc. Ber-
lino, i836. — Schleicher: Compendio con l'introduzione del Pezzi
(pag. xxx-xxxi). — Max Muller: Letture (sez. 1, leu. 3*).
— 307 —
crediamo, che a quando a quando, di certe grandi questioni,
che s'attengono alla psicologia , più che non paia di primo
tratto, si rammentino i principi!. È strano infatti il vedere,
come il sensismo di Locke, cacciato dalle grammatiche e
dai lessici, abbia trovata la sua nicchia nei Sillabari e in
tutti quegli apparati di ginnastica intellettiva^ sui quali si
regge l'insegnamento elementare della lingua nazionale. La
è codesta una assurda contraffazione, vorremmo anzi dire
una grottesca, delle nuove teoriche del linguaggio, concepito
come scienza fisica. Ne di ciò terremmo ragione qui, se
non fosse perchè ne sembra di ravvisare in questo falso
pendìo dell'insegnamento elementare un'altra causa del
precoce esaurimento delle forze intellettive della gioventù
nostra, della abituale avversione della medesima allo studio
della grammatica classica, nella quale l'indirizzo storico, e
lo studio del pensiero antico, come esso si concreta nel
magistero della parola, devono di necessità prevalere.
Ma non crediamo fuor di proposito lo sbozzare qui ri-
strettamente il concetto, che informa la teorica della sin-
tassi, fondata dal Becker, per la grammatica tedesca. — Muo-
vendo egli adunque dal presupposto che il fenomeno della
lingua diventi un fatto reale soltanto per ciò che uom parla,
il cui discorso si svolge per proposizioni : cosi egli, nella sua
indagine intorno alla lingua, pone la proposizione a fonda-
mento del tutto. La proposizione è secondo lui la espres-
sione di un pensiero, fatta con parole, in quanto l'uomo,
in quella che egli parla, enunzia i suoi pensieri colle pa-
role. E, prendendo le mosse dalla proposizione, egli riesce
alla classazione delle parole, che segue qui appresso. — In
un pensiero, egli dice, si distinguono le idee, che ne costitui-
scono il contenuto, la sustanza, dalle relazioni, nelle quali
le idee, nel giro del pensiero, stanno e fra loro e dispetto
a chi parla. I vocaboli che esprimono la sustanza del
— 308 —
concetto, si addimandano vocaboli ideali {significativi)
(Begriffsworter)i le relazioni . si esprimono dalla lingua a)
coirin flessione de Vocaboli ideali, h) col mezzo dì voci spe-
ciali, che si appellano formali (FormwÒrter). Siccome poi
i concetti da esprimere col ministerio della lingua sono
o concetti di ente , come a dire di persona' o di cosa ,
ovvero concetti di attività, di persona e di cosa: così si
hanno in conto di vocaboli ideali il sostanlivo , cioè l'e-
spressione del concetto di ente, ovvero il verbo e Vaddiet-
tivo , de' quali quello - il verbo - involge il concetto di
azione , ed esprime pure ad un tempo il predicato , pel
quale attività ed ente si collegano in un solo pensiero ,
questo - Taddiettivo - involge bensì il concetto di azione, ma
non il predicato •, il quale , laddove Fazione espressa dal-
Taddiettivo debba collegarsi coIFente in un sol concetto ,
dovrà aver ricorso a questo effetto aila voce formale - essere -.
Tra i vocaboli formali il Becker classifica a) il verbo essere^
come vocabolo predicativo cogli addlettìvi; b) ì verbi ausiliari,
i quali o accennano a relazioni temporali (come avere - es-
sere - diviiìitare (i), o a relazioni modali come - kònnen-
m'ògen - durfen - wollen - sollen - milssen ( 2 ) ^ e) i pronomi ,
siccome quelli che esprìmono soltanto il concetto di un
ente^ per la relazione, che esso ha con chi parla, espri-
mono cioè le relazioni personali; d) i numerali, perchè essi
esprimono relazioni di grandezza, di numero o di quantità
di un ente-, e) le preposizioni siccome espressioni delle
attinenze di spazio o d'altre relazioni di un ente con l'at-
tività;/) le congiunzioni, che esprimono le relazioni scam-
bievoli fra i membri di una , proposizione composta; g) gli
(1) Haben - sein - werden.
(2) Ausiliari delia lingua tedesca. V. Heyse , Leit/aden, ecc. Han-
nover, 186?., pag. 53.— Pel significato di questi sincmmi, vedi Eber-
HARD : Synonomisches HandwÓrterbuch.
— 309 —
avverbi, in quanto essi siano voci formali, come espressioni
delle relazioni di spazio, di tempo, di luogo, di grandezza,
di modo.
La divisione preaccennata deVocaboli in ideali o signi-
ficativi ( Begrìffswòrter), e f annali (Formwòrterj costrinse
il Becker ad assegnare alia teorica dell'inflessione un posto
assai strano nel processo della lingua, appartato affatto dalla
parola, e dal contenuto della medesima. — Si pensi infatti,
che ente ed attività non esauriscono il concetto di propo-
sizione; e' fa mestieri di un tej'zo elemento, il predicato
(KarriTÓpnM»), che il concetto astratto di azione colleghì e
quasi rinversi sul subbietto (ente) (tò ùiroKeijiievov). — È subito
trovato, ne risponde Tiìlustre alemanno; un segno morfolo-
gico. — Le desinenze personali, ad es, : t-st^ come stirb-sif
sing--st adempiono all'ufiìcio di predicato; mentre invece le
voci stirò- sing-f accennano airattività, fatta astrazione dal
predicato. Ora si badi, che senza suffissi non è possibile
né verbo né parola, nonché azione ; poiché delPistessa ra-
dice tu puoi derivare e nomi e verbi, variando le desinenze
d'inflessione ; così dalla radice Ttpar, hai irpaY^a e TTpacraiu,
ciò che vuol dire, che a'suffissi spetta un posto notevole
nella formazione dettemi nominali e verbali, e per ciò stesso
de'casi, de'tempi, numeri e persone. Quindi non pare esatto
il classare Taddiettivo fra i vocaboli ideali , che esprimono
attività, siano pure bisognevoli del vocabolo formale essere,
per collegarsi all'ente ; non pare esatto, che i suffissi verbali
o le desinenze personali esprimano soltanto una relazione
predicativa dell'azione involuta nella nuda radice verbale
coU'ente; ma essi sono una funzione effettuale e integrale
del concetto dì azione espresso dal verbo , al quale , nel
fatto concreto della lins'ua, esso verbo non perviene se
non per mezzo delle parti flessibili. Forma e contenuto
adunque sono nella lingua concetti cori'-I^iivi, così the non
— 310 —
vi sia contenuto senza forma, né forma senza contenuto. 1
soli temi , e molto meno le radici , non sono nell' indo-
germanico né parole, né parti di proposizioni (v. Schleicher,
Compendio § i33).
Abbiamo creduto di insistere su questo punto, perchè il
nodo della questione è tutto lì riposto. 11 pensiero non è
prima della parola, ma insieme alla parola — sia pur questa
pensata, parlata, o scritta — e la sintassi quindi non può
sottrarsi agli influssi legittimi della teorica della i^iflcssione.
Alla stregua di questo concetto verremo ora esaminando
ristrettamente la sintassi greca del Matthiae , del Kiihner ,
del Krìiger, del Curtius, del Koch, delPInama.
Rovigo, dicembre 1872.
Gaetano Ouva^
COV^SI'DE^AZIOV^I
SULL'ISTRUZIONE, SOPRATTUTTO CLASSICA , IN ITALIA
a proposito del recentissimo libro di M. BREAL
suir istruzione pubblica in Francia
fConu'nuazione , v. fase. 5*, p. 225-246}.
III.
Colle tendenze soverchiamente pratiche e retoriche , le
quali (come notammo) si rivelano con evidenza tristissima
anche ai meno attenti ed acuti osservatori in tanta e si no-
bile parte degli studi italiani , si connette strettamente un
terzo vizio che qua e là vi si scorge , né men funesto che
quei due primi, la irrazionalità. Quando si studia il vero
non già per amore di esso, ma solo per altri fini , estranei
affatto alla scienza pura , come troppo spesso avviene fra
noi", quando si bada più alla forma che alla sostanza, ciò
- 311 -
che frequentemente vediamo accadere : allora è perfettamente
naturale che, paghe di conoscere l'esistenza ed i caratteri
principalissimi di una serie qualsiasi di fatti, le menti più
non si curino d'investigarne le cause e questa investigazione
sia dai molti non solo negletta, ma quasi sprezzata e derisa
come sterile follia. Questo pregiudizio regna soprattutto sul
campo delle discipline linguistiche: su questo campo per-
tanto noi Io combatteremo , esaminandone , colla nostra
solita libertà di pensiero e di parola, la natura e gli effetti,
poscia indicando quelli che ci parranno i più efficaci rimedii
a questo morbo, il quale è certo fra quelli che più tenace-
mente si appigliano alla nostra vita intellettuale.
Ne è prova deplorabile, f^a le altre, ciò che vediamo av-
venire nei nostri studi ginnasiali e liceali di lingua greca.
Già da molti anni fu da uomini egregi introdotta nelle
scuole italiane la grammatica eminentemente razionale di
G. Curtius e ne apparvero i benefici influssi ogniqualvolta
essa fu spiegata da professori degni di questo nom.e ; testé
le si aggiunse quella, pregevolissima anch'essa, di V. Inama.
Come se tutto ciò non fosse avvenuto, v'ha ancora chi segue
il metodo del Burnouf e si vale nel suo insegnamento di
certi compendii, i quali riescono utili non tanto a chi gli
studia quanto a chi li vende e mostrano apertamente quanta
sia ancora l'ignoranza e quanto possa il culto del dio Quat-
trino. Per altro, quando a caso i nostri sguardi cadevano
su queste miserabili compilazioni, ci era conforto la spe-
ranza che il progresso le avrebbe spazzate via dalle scuole
italiane , o che almeno peggio non si sarebbe fatto ; che ,
nello stato odierno della glottologia , far peggio ci pareva
impossibile. Ma come anche questa speranza non fosse al-
tro che un'illusione noi ebbimo pur troppo ad accorgerci
allorquando vedemmo quei certi Elementi , dei quali si fece
menzione nell'ultimo fascicolo della ^vista, e quella vergo-
- 312 —
gna recentissima della stampa italiana vedemmo lodata e
proposta come cosa utilissima ai nostri insegnanti. Più an-
cora che nello studio del greco sono, per nostra sciagura ed
onta, comunemente seguiti i metodi irrazionali in quello
del latino. A certe grammatiche, adoperate ancora in pa-
recchi fra i ginnasii dltalia, ben converrebbe il severo giu-
dizio che intorno alla famosa grammatica latina del Lho-
mond ed a quelle tutte che furono composte ad imitazione
di essa profferiva il Bréal nel suo classico libro sull'istru-
zione pubblica in Francia (i). Né punto piiì mite è la sen-
(i) Ne citeremo i brani più importanti: •< Sous prétexte de faciliter le
travail du thème et d'aider rincelligence des auteurs, ils n'ont d'auire idée
que d'eluder l'effori iogique et grammaùcal. Mettre un tour fran^ais sous
un tour latin, et réciproquement, c'est à quoi ils sont uniquenient occu-
pés. Ils ne songent pas à montrer la régularité, la convenance de la con-
struction latine, ni à fai re voir la raison des règles de syntaxe : tout cela
passe pour métaphysique ou pour vaine subtilité Prenez la plupartde
nos graramaires latines, depuis Lhomond jusqu'aux livres les plus récents.
Vous y trouverez toujours, quoique plus ou moins dissimulé, le méme
esprit. Ce sont des recueilsde consells et de receties pour latraduction...
Il semble que le latin n'exisie pas pour lui-mérae, mais seulement pour
étre traduit en francais ou pour traduire le fran^ais Les auteurs de
ces manuels amalgaraent dans une méme règie et sans en prevenir l'en-
fant, les consiructions les plus différentes On croit faire l'éloge de
ces ouvrages quand on annonce que les faits ont été ramenés aux prin-
cipes les plus siraples et que les règles ont étédisposées dans l'ordre le
plus clair et le plus facile. Mais si ces prétendus principes sont simple-
ment des artifices de traduction et si cet ordre facile nous présente les
règles à contre-sens, que faut-il .penser de l'utilité d'un tei livre?
Mais on ne s'est pas arrété dans cette voie. La règie , dans nos livres
usuels, est la chose accessoire: l'essentiel, ce qu'il faut retenir avant tout,
c'est l'exemple. Le texte qui vient après n'est qu'un commentaire de
l'exemple, une explication sur la manière de s'en servir » E dopo
aver narrato come e quando la grammatica del Lhomond s'introdu-
cesse nelle scuole francesi, ii Bréal scrive : »> On ne pouvait guère faire
un choix pjus malheureux, Lhomond , qui a sa legende dans l'Univer-
sité, est célèbre pour son amour de l'enfance : mais à cet amour il se
mélait certainement une grande défiance des facuités iatellectuelles de
l'enfant, car on ne voit d'autre préoccuoation dans ses livres que de
réduire touf. enseignement à uii sxercice de n émoire et de rendre su-
— 313 -
lenza di Renan (i), di Baudry (2) e di altri dotti francesi e
stranieri, verbigrazia dell'Habn (3). Di questa grammatica
non sono a dirsi guari migliori certi dizionarìi latini che per
perflu méme le plus léger effort de la raison. La grammaire de Lho-
mond, considérée à ce poini de vue, est un chef-d'oeuvre On n'a
jamais poussé plus Icin l'art d'ignorer les raisons des choses. Arme de
la grammaire de Lhomond, l'écolier n'a plus besoin de penser : il a un
mécanisme qui travailie pour lui. Vingt ans après que Rousseau eut
pose ce principe dans son Emile qu'il fallait obliger l'enfant à trou-
ver tout par lui-méme (principe qui, comme nous l'avonsvu, estdevenu
i'àme de l'éducalion allemande ) , l'Université de Paris produisait et
couvrait de son autoriié de pareils livres. A son insù, elle s'était faite
l'imitatrice des Pères dont elle avait recueilli la succession. Et nous ,
Université de France, à notre tour, nous avons aJopté, répandu à pro-
fusion, impose à la jeunesse les mémes méthodes. Tandis que nous
prétendons continuer la saine et forte école de Port-Royal, nous sui-
vons en réalité la tradition des Jésuires. Ce n'estpas que des grammai-
res nouvelles n'aient été et ne soient encore publiées: mais sauf deux
cu trois exceptions, l'esprit de Lhomond circule à traverà toutes. 11 est
triste d'ajouter que depuis vingt ans nous avons pluiòt recuié qu'a-
vancé». Op. cit. , p. 164-173.
(i) Nelle Questions contemporaines , p. 280, il libro del Lhomond è
detto « grammaire artificielle et sans logique ».
(2) «* Tout est défectueux <ians l'enseignement de la grammaire , de-
puis la méthode qui consiste à énoncer sèchement des règlesetdes para-
digmes cor.. me s'ils n'étaient susceptibles d'aucune explication, jusqu'au
choix du Rudimeni de Lhomond, ce triste livre qui a succède si pi-
teusement à la Méthode de Port-Royal, » V. a p. 64 le recentissime
Questions scolaires ecc. (Paris, 1873), opuscolo con cui il dotto Bau-
dry fece plauso al libro del Bréal ed alla ultima Circulaire di J. Si-
mon. Fra coloro che già degnaraenie accolsero le proposte del Bréal
voglionsi eziandio notare il Théry , antico ispettore generale ( v. il
Projet d'une ré/orme dans l'enseignement des langues anciennes, Paris,
1872), l'egregio Boissier, professore di lingua e di letteratura latina al
Collegio di Francia (v. la Revue des deux mondes , n» del 1° agosto
1872), e, sovra tutti, J. Simon (v, la citata Circulaire del 27 settem-
bre ultimo scorso), ministro di pubblica istruzione il quale mostrò
splendidamente di conoscere i bisogni didattici de' nostri tempi e di
sapervi provvedere, checché ne pensi qualche cieco laudator temporis
adi.
(3) V. Renan, Op. cit., l. e
-314 -
lo più si adoperano dagli studiosi (i). Ma abbiano noi
forse il diritto di meravigliarci vedendo prevalere i sistemi
irrazionali neir insegnamento del latino e del grecf) in Fran-
cia ed in Italia, mentre lo stesso idioma nazionale ci ap-
pare insegnato sì irrazionalmente? In quante scuole fran-
cesi, in quante scuole italiane si apprendono a conoscere
le pili fondamentali fra le leggi glottiche, le quali governa-
rono la trasformazione della parola latina nella parola ita-
liana, nella parola francese (2) ? I tedeschi non sanno nem-
meno comprendere come un popolo possa trascurare nella
istruzione secondaria lo studio che noi diremmo volontieri
archeologico del proprio linguaggio (3). E non si creda che
(1) « Nous voyons que dans nos dictionnaires l'ordre véritable des
sens est coniinuelleraent renversé. Souvent méme un seul nom fournit
deux articles à nos lexicographes Nos dictionnaires. beaucoup trop
riches et trop détaillés, ont fourni à l'élève un autre moyen de pas-
ser sans effort à travers les mailles du lexte. >< Bréal, Op. cit., p. 179,
181 : vedi anche p. 190-2.
(2) « Un motif qui, de tout temps, a éié invoqué pour justifier l'étude
du latin dans nos classes, c'est que le francala derive du latin et qu'il
nous serait impossible de comprendre les lois de notre propre langue
si nous ne connaissions la structure de la langue mère. Rien n'est plus
exaci. Mais l'Université qui sait très bien se servir de cet argument
les jours où elle est obligée de se défendre, s'empresse de l'oublier dès
que, la baiaille gagnée, elle est rentrée dans ses murs. Nous apprenons
le latin de Cicéron et de Virgile, le francais de Corneille et de Bos-
suet. Mais entre ces deux idiomes s'étend un vide immense que nos
maitres ne songent nuUement à combler. Au lieu de chercher dans le
latin les causes de la grammaire fran^aise, ils juxtaposent, comme nous
l'avons vu , les deux idiomes d'une facon tout empirique, en opposant
gailicisme à latinisme. Non-seulement l'Université, contrairement à ses
affirmations publiques, n'éclaire point par le latin la formation de la
grammaire fran^aise, mais elle a un véritable éloignement et une ré-
pulsion instinctive pour ce genre d'étude. Elle aime trop le bon latin
pour ne pas éviter le contact de la basse latinité Ce som curiosités
faites pour les érudits, qui ne pourraient que distraire et tromper les
élèves. « BnÉAi., Op. cit., p. 23 1-2.
(3) Renanj Op. cit., p. 281-2.
— 315 —
nelle scuole superiori del ginnasio o nel liceo si avvezzino
per lo più i giovani a studiare di nuovo ed un po' meno
irrazionalmente lo italiano ed il latino , assorgendo a poco
a poco dalla conoscenza empirica di questi due idiomi, ac-
quistata coi soliti metodi pappagalleschi , ad una nozione
teoretica dei medesimi. S'insegna a scrivere con eleganza :
ma, se diam retta ai molti , che impK)rta comprendere ie
ragioni delle parole, dei costrutti che si adoperano? Che
più ? Fra gli stessi più giovani dottori in lettere , vale a
dire fra i nuovi professori ginnasiali e liceali , non sono
certamente numerosi quelli che ricevettero un insegnamento
compiuto di grammatica storico-comparativa del greco, dei
latino e dell'italiano. Abbiamo in Italia cattedre di sanscrito,
d'arabo, di cinese : non abbiamo ancora un corso scientifico
speciale di latino e degli altri idiomi italici antichi né di lingue
neolatine, alle quali appartiene la nostra odierna favella. Va-
dano in Germania, si facciano allievi di professori tedeschi
quei pochi fra noi, cui piglierà vaghezza di conoscere pro-
fondamente l'idioma dei nostri padri e quello che parliamo
noi stessi ! Si lasci agli stranieri la cura d' insegnarci anche
questo : se ci avverrà di sentirci offesi nella nostra alterezza ,
troveremo tosto un coro di retori che declameranno le
nostre lodi, svillaneggiando la barbara Germania (i) !
Sorti in un'epoca, nella quale la linguistica odierna non
era nemmeno concepita come possibile ed in cui lo studio
dell'idioma italiano e quello eziandio del latino erano go-
vernati da tendenze eminentemente pratiche e reloriche , i
sistemi irrazionali nello insegnamento di queste due lingue,
( I ) Fra le nuove cattedre di cui , giusta la Perseveranza , si propose
l'istituzione nell'ateneo romano, una sarebbe consecrata alla Gram-
mati(4 ed pila Lessicografia latina , un'altr» alle Lingue e letterature
rpmayire. M9, per quanto sappiamo, nessuno vt-nne ancora incaricato
né del primo né del secondo di questi due insegnamenti.
- 316 -
forti della loro esistenza più volte secolare , protetti dalla
ignoranza, dairimpotenza intellettuale e dairaccidia dei molti,
infettano ancora la maggior parte delle scuole italiane e
con parecchi altri morbi concorrono ad isterilirle. È questa
la causa per cui allievi e maestri non si addentrano per lo
più nelle intime ragioni dei fatti linguistici e quindi la co-
gnizione del greco, del latino, dell'italiano stesso è quasi
sempre assai poco profonda e capace di vero progresso (i),
È questa la causa per cui Finsegnamento linguistico , non
assorgendo alle sfere alte e luminose della scienza, ma gia-
cendo per contrario ancora nei bassi ed oscuri fondi dello
empirismo, non educa, come e quanto dovrebbe e potrebbe,
le menti giovanili , non le prepara convenientemente agli
studi seguenti; che anzi, da più anni assuefatte a non
iscorgere che caso, capriccio, disordine, nei fenomeni del
linguaggio, le vittime miserande di questi metodi sciagurati
si sentono non di rado quasi diremmo oifese dal rigore ine-
sorabile delie discipline scientifiche: né pur lo stesso ap-
prendimento di lingue straniere moderne è reso guari più
agevole dallo aver atteso si lungo tempo al latino ed al
greco, seguendo un sistema didattico , il quale più che a
svolgere ie potenze intellettuali degli allievi vale ad ottundere
(i) « C'est à la méme cause qu'il faut attribuer, pour une grande
partie, l'abandon des recherches grammaticales. Farmi les milliers de
professeurs pour qui le latin est une occupation de tous les jours, com-
bien s'en est-i! trouvé, depuis vingt ou trente ans, qui aient seulement
émis T-ne conjecmr'; r'Ouvelle sur un point de la gramraaire latine? C'est
que ìa gramiTiairt;, ielle que nous l'apprenons, exclut touie idée de pro-
grès. Une fois que nous savons qu'une chose admirable à voir se dit
res visu ntìrabilis et que j'enseigne la grammaire aux enfants, se tra-
duit par doceo pueros grammaticam , il ne reste plus rien à ajouier :
car toutes les recherches sur la nature du supin, toutes les observations
sur !e sens de Tacaisatif ne changeront rien à ces deux règles. »
Bréal, Op.<it. , p. 174.
- 317 -
lo ingegno dei maestri (i). E questa finalmente la causa per
cui, non bene riferiti i fatti gioitici ai loro principii supremi,
le regole appariscono numerosissime, le eccezioni soffocano
le regole, e pertanto lo studio linguistico è ancora neces a-
riamente non sappiam bene se più fastidioso o prolisso.
Fastidioso ai poveri alunni, che s'indispettiscono contro il
greco, il latino e spesso contro lo studio in genere, con-
dannati a tediosissimi esercizii macchinali , e sovente con
frutto tenuissimo, nella più allegra ed impaziente età della
vita: fastidioso ai poveri maestri, cui questo insegnamento
meramente empirico affatica ed umilia , massimamente
quelli che, assistendo a lezioni universitarie di grammatica
storico-comparativa, ebbero agio di scorgere ìa radicale er-
roneità, il peccato originale di quanti sistemi didattici irra-
zionali contaminano ancora deplorabilmente lo studio lingui-
stico nelle scuole italiane. Prolisso poi , non meno che fa-
stidioso, esso ci appare, per guisa che non di rado con-
suma il tempo che dovrebbe essere consecrato ad altri studi
(ben a ragione recentemente istituiti) e rende impossibile la
istituzione di altri (cui l'epoca nostra imperiosamente ri-
chiede) : né gli bastano le ore concesse e le usurpate , ma
si sente costretto a sminuire la sua parte pratica, gli eser-
cizii; scemati i quali (che ne erano per lo passato il nerbo
principale) per difetto di tempo e per la crescente avver-
sione de' giovani da ogni lavoro materiale ( soprattutto di
greco e di latino), si fece sempre più manifesta la impotenza
(i) « Loin d'exercer la raison des enfants, la méthode usitée dans
nos classes est faiie pour émousser le coup d'oeil grammatical. On s'est
souvent demandé d'où provieni la difficulté que nous éprouvons à ap-
prendre Ics langues étrangòres: je crois qu'entre autres raisons il faut
faire une grande place à l'usage de méthodes détestables. Quind une
fois on prend l'habitude Je » tourner >• , on perd la facultc d'observer
direciement les lois et l'organisme des auires idiomes. » Bréal , Op.
cit. , p. 173,
Idvtsla di filologia ecc., I. 3a
- 318 -
dei metodi empirici nello studio degl'idiomi classici; e non
pure lo scrivere con eleganza e con facilità od almeno cor-
rettamente, ma, scandalo enorme nella vita intelleituaie del-
ritalia risorta, divenne sempre men frequente fra noi anche
lo intendere il linguaggio che fa degno dei padri nostri. Le
scolaresche, per l'età e per gl'istinti soverchiamente pratici
dell'epoca nostra mal disposte a studi per sé stessi ardui e
da molte persone (che non dovrebbero esser volgo) con cat-
tedratica asseveranza dichiarati inutili alla vita, ributtate an-
cora dalla noia e dalla lunghezza dello insegnamento e dalla
coscienza del lento e scarso progresso, si a\'vezzano sempre
più a rifuggire dalle, discipline classiche: anche su questo
campo filologico le genti neo-latine indietreggiano, s'avan-
zano le germaniche (i). Indi si scorge chiarissimamente
come agli studi classici in Italia arrechino, colla loro ostinata
adorazione dei vieti sistemi didattici, colle pazze e comiche
ire contro ie necessarie innovazioni, supremo nocumento
certi barbassori, che, infaticabili adulatori di sé stessi, si re-
putano e si vantano palladio insuperabile del classicismo.
Non a questi signori pertanto (che ben sappiamo essere
(i) « Le latin tieht dans nos classes une place tout à fait predo--
minante Le latin est le fonds de l'enseignement universitaire. Pen-
dant huit ou neuf ans il n'ya point de jour que les élèves n'y emploient
quelques heures. C'est sur le latin qu'on mesure les progrès des ènfants
et qu'on juge le mérite des professeurs D'après cela nous dcvons
penser que les études latines sont poussées chez nous à un degré notable
d'extension et de profondeur. En AUemagne, par exemple, il s'en faut
que le latin jouisse d'une considération aussi exclusive : nort-seulement
le grec est avec lui de plain-pied, mais on étudie l'allemand dans son
développement historique, et une pan beaucoup plus large est fatte dès
les premièresannées aux connaissances appelées réeUeSf.c'est-k-dìre à la
géographie , à l'histoire et aux sciences. D'où vient oependant qu'on
sait moins bien le latin en France qu'en AUemagne, et que la plupart de
nos élèves emportent du collège une connaissance fort imparfaite de
cette langue, à laquelle ils ont voué tant d'années de travaii ? » Bréal,
Op. cit. , p, 161-2.
— 319 —
certa sordità affatto incurabile e nessuno peggior sordo di
chi non vuole udire), ma ci rivolgeremo agli uomini vera-
mente intelligenti ed imparziali e chiederemo loro se sia
conforme a ragione, che tanti anni e tanto lavorio d'intel-
letto debbano essere consecrati a studiar lingue giusta un
metodo che rende sì faticoso, sì tardo, sì scarso il profitto.
Vuoisi serbare inalterato o mutare sì fatto sistema didat-
tico? Chi osa fra voi esclamare col signor De Laprade in
ordine al latino ed al greco : « Conservons avec ces pré-
cieuses vieilleries, si nous voulons les posseder sùrement,
les vieilles grammaires, les vieilies méthodes et jusqu'à ce
vieux Jardin des racines grecques qui a effarouché la poesie
et l'atticisme da dernier réformateur des coliéges » (i)? A
noi par certo che risposta unanime sarebbe la seguente :
« Vogliamo un metodo più razionale, più educativo, più
breve e prù commodo. Vogliamo un metodo più razionale,
0, che è lo stesso, tale che riveli àgli studiosi, quant' è pos-
sibile, non pure i fatti, ma le leggi, le cagioni di essi : tale
che, facenao meglio manifesta l'intima struttura del greco,
del latino, dello italiano, insegni a comprendere più pro-
fondamente il pensiero, il carattere di tre grandi popoli ed
avvezzi le nuove generazioni a valersi, sì nel parlare, sì
nello scrivere, con maggior scienza di causa e con più si-
cura franchezza della nostra favella -, affinchè la conoscenza
dei principii supremi, i quali governarono la formazione del-
l'idioma nazionale, si venga sempre più sostituendo alla ir-
(i) Léducation libérale, Paris, 1873, p. 259, Ma, sebbene in ciò
che concerne il metodo siavi assoluto divario dì opinioni ira il signor
De Laprade e la scuola cui ci onoriamo d'appartenere, tuttavia racco-
mandiamo ai nostri lettori l'opera da lui testé pubblicata, come quella
che ci appare utilissima per gli ali: pensieri e nobili sensi che la in-
formano, e, ciò che vuoisi da noi notare in modo special isjimo, per la
strenua difesa che vi si fa degli studi classici considerati come strumento
potentissimo di educazione.
- 32(1 —
razionale e prepotente autorità dei pedana, che, cresciuti
come la maPerba nei secoli funesti alla indipendenza ed alla
libertà nostra, tollerati od eziandio protetti dalle male si-
gnorie come potenti naicotici, appariscono, anche presente-
mente, qua e là, tedi'xsi anacronismi (ij. Vogliamo un me-
todo più educativo, vale a dire più atto a perfezionare, con
forte ed utile esercizio, le facoltà intellettuali dei giovani
alunni, addestrandole agli studi superiori coU'avvezzarle al
concetto di legge e di causa. Vogliamo, in fine, un metodo
più breve e più commodo, sì che, senza sopprimere (come
vorrebbe un volgo di ottuse intelligenze) nelle nostre scuole
secondarie né latino né greco, senza rendere meramente li-
bero io apprendimento di quest'ultimo idioma (come testé
propose il Janet (2)), senza togliere ai corsi già fondati o
che dovranno presto fondarsi (v. g. di lingue moderne) il
tempo loro dovuto, s'imparino seriamente e la lingua ma-
terna e le due classiche antiche : impresa non punto impos-
sibile (ne sia prova Todierna Germania) e che diverrà sempre
meno ardua quanto più si ridurranno i fenomeni linguistici a
classi ben determinate e se ne indicheranno le ragioni men
difficili a comprendersi; quanto più uniforme sarà il me-
todo nei varii gradi dello insegnamento e nei varii istituti
(i) « L'habitude d'écrire en latin nous a rendus tirnides dans !e
maniement de notre propre langxie, Nous commencons à la traiter
comme une langue morte: on deraande des autorités pour les mots ,
on condamne les tours qui ne sont pas dans les grammaires. Je vois
beaucoup de juges sévères toujours disposés à en retrancher quelque
chose : mais les accroissements qu'elle re90it soni cu nuls cu de si mau-
vais alci qu'on n'y peut voir un gain véritable. En remontant jusqu'aux
sources de l'ancien franfais et jusqu'aux temps où la langue avait plus
de li<berté dans la formation des mots et dans la construction de la
pbrase, nous retrouverions quelque chose de cette initiative et de ce
don d'heureuse invention qui ne sont pas moins nécessaires à la vie
d'une langue qu'à celle d'une liltérature. » Bréal, Op. cit. , p. 236-7.
(2) Nella Revue des deux mondes, n° del i5 novembre 1872.
— 321 -
didattici \ quanto più si faranno osservare ai discenti le ana-
logie esistenti fra lo italiano ed il latino, fra il latino ed il
greco (i).
Questo metodo, più razionale, più educativo, più breve
e cotnmodo, è quello pertanto, il quale al concetto di caso,
di capriccio sostituisce , ogniqualvolta lo stato odierno della
glottologia e la intelligenza degli alunni il consentono, Tidea
di legge, di causa ; al disordine lordine, allo empirismo la
scienza. Ma badiam bene a non lasciarci illudere da certe
innovazioni, le quali di progresso scientifico non hanno che
ifallace parvenza, come quelle che inorpellano con forme
(i) «« Il est impossible de ne pas convenir que l'université , à ses
débuts, ensaignait le latin et les mathématiques et n'enseignait pas
autre chose. On disait alors indilTéremment : /arre 5es classes ou ap-
frenare le laiin. Ce dernier mot est reste dans nos habirudes. Mais le
monopole du latin a été successivement diminué L'opinion publique
ne cessait de réclamer de nouveaux enseignements, et l'université ne
cessaii de lui obéir. Or peut mettre en regard le programme de 1802 et
celui de 1872 , pour se rendre compte de ces accroissements. Le pro-
gramme acìuel est toute une encyclopédie. Un élève qui posséderait
réellement cet ensemble de connaissances serait un savant au sortir du
college. Le malheur, c'est que la journée a vingt-quatre heures en 1872
comme en 1802 ; que les enfants ont le méme besoin de repos et de som-
meil; qu'en les surchargeant de travail outre mesure, on nuit également
à leur sante et à leur travail , car il vaut mieux savoir peu de choses et
les bien savoir, que d'effleurer un ensemble d'études , dont il ne reste
rien ensuite qu'un orgueil mal justifié. Toutes les études nouvelles, qui
ont été introduites, sont nécessaires Nous venons lout récemment
de faire à l'enseignement des langues vivantes une large part dans le
lemps de nos élèves ; c'était un progrès nécessaire Mais , dans le mo-
ment où nous prenions cette résolution avec l'asscntiment universe!,
nous savions que nos enfants étaient déjà surmenés, qu'ils n'avaient pas
de temps pour la lecture et la réflexion. Il y a des années que cette si-
tuation préoccupe tous les esprits , et il n'existe que deux mcyens d'en
sortir : supprimer l'étude des langues anciennes, ou la modifier. Je dis
sur-le-champ que ce serait un véritablc crime que de la supprimer, ou
mime d'en diminuer l'importance la conséquence inévitable, c'est
qu'il faut enseigner les langues anciennes aussi bien que par le passe, en
moins de temps, par d'autres moyens. » J. Simon, Circulaire cit., 8".
— 322 ~
teoretiche speciose sistemi didattici meramente pratici nella
loro essenza. E guardiamoci attentamente eziandio dal con-
fondere la vera scienza del linguaggio (ossia quella disci-
plina eminentemente positiva, che dallo studio storico-com-
parativo dei fenomeni glottici si sforza di assorgere alle loro
leggi, alle loro cause) con una cotale pretesa dottrina del-
l'eloquio umano, la quale si mosrr9 sempre impotente a ri-
velarne la natura e le origini (che non fu mai se non un
tessuto vaporoso di sterili astrazioni concernènti non già il
linguaggio ma il pensiero). Non è scienza del linguaggio
quella che si vanta -di spiegare Tinfinita m.oltiplicità dei fatti
glottici (qual essa ci appare nella mirabile varietà delle
schiatte, de'luoghi e dei tempi) col solo sussidio di qualche
schema logico, frutto miserando di una troppo ristretta os-
servazione! (i). Per conseguenza non ci rallegra punto il
ricordo delle così dette analisi logiche, supplizio cui ve-
demmo ingiustamente condannati deboli intelletti infantili:
e, se fra tanta manìa di mutare e di rimutare (la quale da
ben venti anni fa tristo governo della istruzione fra noi),
sussiste ancora Tuso di tormentare con queste analisi i po-
veri fanciulli, facciam voti affinchè le si rimandint) alle scuole
di logica (2). Dunque non già a quella che chiamano gram-
matica generale, ma alla grammatica storico-comparativa
debbe conformarsi, con lieta fiducia e insieme con prudente
moderazione, lo insegnamento dei linguaggi, vuoi antichi,
vuoi moderni. Appena occorre notare come fra i risultati
delle recenti investigazioni glottologiche solo i più accertati
(i) V. Heyse, Sistema della scienza delle lìngue, trad. dal Leone,
Torino, 1864, § 7, p. 7-1Q. — V. eziandio la nostra Introduzione allo
studio della scienza del linguaggio, Torino, 1869, p. 3 e 7,
(1) « Des analyses logiquts! Ne devrait-on pas renvoyer cet exercice
abstrait à la classe de philosophie ! » Baudry, Op. cit. , p. 19.
— 323 -
ed importanti si debbano accogliere nelle nostre scuole secon-
darie, escludendone i men rilevanti e sicuri e le lunghe ed
ardue ricerche che resero possibili quelle scoperte: ne ci è
mestieri osservare che vuoisi nella esposizione di questi
nuovi concetti adoperar sempre la forma più esatta e chiara
e procedere con saggia graduazione, assorgendo sempre più
alla scienza quanto più negli alunni cresce, coU'età, la copia
delle cognizioni ed il vigore dello ingegno.
Non ignoriamo quali e quanti argomenti sogliansi dai
molti avversarli opporre alla introduzione di questo nuovo
sistema didattico nelle scuole secondarie. E, sebbene sì fatti
argomenti non tutti meritino di essere esaminati seriamente
e siano già stati per lo più spesse volte confutati con ottimo
successo-, sebbene oltracciò cotali avversarli, fatte rarissime
eccezioni, non abbiano (come parecchi mostrarono coi fatti
e nella guisa più evidente) né sufficiente nozione né esperienza
del metodo contro cui si scagliano, tratti da quell'amor del
passato, da quell'odio d'ogni innovazione che aVecchi non
di rado sì tenacemente si appigliano: nondimeno ci piace
sottoporre le preaccennate obbiezioni , od almeno le più
forti o frequenti tra esse, a breve disamina, per isvelarne
di nuovo l'arrogante impotenza ed affinchè a tutti appa-
risca sempre più manifesto che, lungi dal temere la discus-
sione, siamo lietissimi di provocarla.
V'ha, in primo luogo, chi afferma non essere ancora la
recente investigazione storico-comparativa dei Unguaggi ariani
giunta a risultati tanto numerosi, certi ed ammessi dall'u-
nanime consenso dei dotti, quanto sarebbe necessario per
poterli porre a base di un nuovo edilìzio grammaticale sco-
lastico. Sappiamo anche noi e confessiamo colla massima
schiettezza che sì fatti risultati non si estendono ancora in
egual modo a tutte le parti della glottologia e non sono tutti
in pari grado sicuri e come tali accolti dai giudici compe-
— 324-
tenti : ma sappiamo eziandio che tutti questi riconoscono
come indubbiamente conformi a verità molte e rilevanti
scoperte fonologiche e morfologiche, sulle quali può senza
fallo fondarsi solidamente un nuovo sistema didattico. Sono
verità note, in parte almeno, da ben mezzo secolo *, verità
insegnate dalle più illustri accademie ed università del mondo
incivilito : con qual diritto voi, voi che non pubblicaste mài
nemmeno una monografia di linguistica, voi di cui nessuno
rispetta Tautorità in fatto di questa scienza, voi che proba-
bilmente non ne conoscete né anche i primi elementi, osate
dichiararle dubbie e come tali escluderle dai nostri ginnasii,
dai nostri licei ? — Non basta : si afferma ancora, sempre
col solito tono cattedratico, che il nuovo sistema didattico,
quand'anche valesse a rivelare Tintima struttura di un idioma
(verbigrazia del latino), sarebbe pur sempre inetto ad in-
fondere negli allievi una cognizione pratica di esso. Notiamo
innanzi tratto che a noi, quanti apparteniamo anche intel-
lettualmente al secolo presente e non ai secoli passati come
certi nostri avversarli, debbe importare assai più il com-
prendere profondamente che non lo scrivere ed il parlare
con facilità ed eleganza il latino (i). Ma che? Il ridurre a
(i) On étudiera désormais le latin pourle comprendre, et non pas pour
le parler. Il est donc naturel de l'enseigner autrement qu'on ne l'a fait
jusqu'ici. <» J. Simon, Circulaire citata, I. e. — » Écrire en latin, est-ce
donc une chose si précieuse en soi et d'une inliuence si salutaire qu'il
faille le plus tòt possible et par tous les artitìces en fournir les moyeas
aux enfants ? 11 est certain qu'avec l'aide de Lhomond et avec le secours
de leurs dictionnaires, nos meiUeurs élèves de sixième font déjà des-
thèmes fort bien lournés, et tels qu'en AUemagne on les atiendrait à
peine d'élèves de trois ou quatre ans plus agés. Mah? si ces pièces de
montre sont obtenues par une culture à rebours du bon sens , où
est le profii des enfants, où est le gain de l'État? Est-ce donc pour en-
richir de bonnes copies les Annales du concours general et pour prò-
curer des éloges aux professeurs habiles dans la production precoce du
thème latin, quesont faites iesmeilleuresannées de nos enfants ? » Bréal,
Op. cit. , p. 174-5.
- 325 ~
minor numero le regole e le eccezioni, ii far vedere la ra-
zionalità delle prime e delle seconde, il rendere più semplice
e più chiaro lo insegnamento di una lingua può forse essere
cagione che altri meno apprenda a valersene parlando e
scrivendo? Oltracciò la faciìiìA e Teleganza nell'uso di qual-
siasi favella più assai che dall'insegnamento grammaticale
teoretico dipende dagli esercizi! pratici : ora sarebbero mai
questi diventati impossibili per colpa del metodo nuovo?
Forsechè i temi greci del Boeckel, ad esempio, sebbene
coordinati alla grammatica (eminentemente razionale) di
G. Curtius, non sono il miglior libro che un professore
italiano possa preporre ai proprii allievi per imprimere nella
loro memoria le regole della tlessione nominale e verbale e
le principali famiglie di vocaboli greci, addestrandoli insieme
a tradurre dal greco in italiano, dallo italiano in greco ? —
Ma, osserva taluno dei nostri aristarchi, il nuovo sistema
didattico, avvezzando le tenere menti degli alunni a scrutare
minutamente l'intima struttura della parola, a scomporla
negli elementi che la costituiscono, scema negli studiosi la
potenza di considerarla esteticamente nei suo tutto, uccide
il senso artistico della bellezza che vuoisi ammirare nel verbo
stupendo delle genti italo-greche. Come? rispondiamo noi:
il lavorio dell'analisi rende forse impossibile la sintesi ? Non
è forse vero, per lo contrario, che le sintesi più degne dello
spirito umano sono quelle che furono precedute, preparate
dalle analisi più diligenti? Come? lo studio analitico, di-
remmo quasi microscopico, della natura sarebbe mai per
avventura ostacolo a comprenderne, a sentirne la venustà
divina? Dai più segreti penetrali della scienza non isgor-
gherebbe più forse altissima poesia? Dovremmo forse te-
mere che lo apprendere gli elementi della chimica, dell'ana-
tomia, della fisiologia vegetale ed animale ottunda lo intel-
letto? Chioserebbe farsi difensore disi enorme scempiaggine?
— 326 -
Forse nemmeno chi ebbe, narrano, il non invidiabile co-
raggio d'insegnare che ottundono lo ingegno i nuovi studi
linguistici storico-comparativi. Senza fallo, se questo inse-
gnamento fosse conforme a verità, dovremmo proprio de-
durne che l'autore di esso non ad altro abbia probabilmente
atteso che alla linguistica recente, mentre sappiamo per con-
trario ch'egli non provò mai di aver appreso nemmeno l'ab-
biccì di questa scienza, sebbene siasi in essa impancato a
giudice. Ma guardiamoci bene dall'onorare di seria confu-
tazione simili corbellerie: che ormai a tutti, anche ai più
volgari intelletti, è manifesto essere un metodo tanto più
atto a perfezionare le nostre facoltà mentali quanto più esso
si accosta al vero. — Veniamo piuttosto all'ultima pretesa
ragione che accampano contro a noi e che consiste nel sup-
porre troppo lento e troppo difficile il sistema didattico che
propugniamo : troppo lento e difficile sì ai maestri sì agli
alunni , per la tentata introduzione di elementi scientifici.
Ora non è egli vero, incontestabilmente vero per lo con-
trario, che, irradiando (per quanto lice) lo insegnamento
linguistico delle nostre scuole secondarie colla luce cui su
esso può diffondere la scienza storico-comparativa degl'i-
diomi ariani, appariscono molte fra le leggi, fra le cause
dei fenomeni glottici*, che questi si ordinano più acconcia-
mente e spesso rivelano le cagioni onde procedono; che le
eccezioni si fanno più rare, men numerose eziandio e più
comprensibili le regole-, che la grammatica ed il lessico di-
ventano più regolari, più conformi a natura ed a ragione ;
che, pertanto, questo studio diviene più breve e più facile?
E non ci si opponga che le menti degli allievi sono inette
ancora a quel lieve lavorio di riflessione che si richiede ad
imparare in questa guisa : che lo ingegno , purché non lo
si schiacci sotto l'enorme peso di certi lavori macchinali,
si svolge e si avvezza a ragionare prima che per lo più si
- 327 -
creda, e soprattutto in Italia, fra il popolo onde tanti stra-
nieri ammirano la pronta e viva intelligenza. Né altri s'im-
magini che airintroduzione di questo nuovo sistema didat-
tico sia ostacolo non superabile la non veneranda antichità
di quello che ancora sgoverna i nostri studii ginnasiali e
liceali di greco, di latino, d^italiano: che sullo allievo, il
quale, ignaro v. g. di latino, si accinge allo studio di que-
sto idioma, il vecchio metodo non esercitò certamente an-
cora influsso di sorta; e, per ciò che attiensi al professore,
ormai questi o è già preparato a valersi del metodo nuovo,
od almeno può senza fallo prepararvisi senza grave disagio,
specialmente per ciò che ogni trasformazione di metodo
vuol essere fatta non già in guisa subitanea e violenta, ma
bensì graduatamente e con molta prudenza (i). Ne man-
cano ormai, ma per contrario abbondano ai maestri i mezzi
d'iniziarsi alla scienza storico-comparativa degl' idiomi che
sono chiamati ad insegnare : basti accennare i corsi univer-
sitarii di lingue e di letterature comparate ed i libri testé
pubblicati intorno a questo argomento e principalmente a
prò degrinsegnanti (fra i quali libri ci sia permesso men-
zionare il Compendio dello Schleicher da noi volto in ita-
liano con una Introduzione allo studio della scienza del
lin£^uaggio^ il Commento del Curtius tradotto dal prof.
G. Miiller, la nostra Grammatica storico-comparativa della
ling'ua latina, il Manuel pour l'étude des racines grec-
qiies et latines del Bailly e la recentissima versione francese
della Grammatica romanza del Diez). Né v'ha più, come
pochi anni or sono, grave difetto di operette scolastiche
(i) « Il ne s'agit point de fai re une revolution complète dans l'ensei-
gnement de la grammaire ; les transformations ^^olentes sont dange-
reuses; elles engendrent le ucsordre et manquent leur but. » Beaukils,
Noiivelle grammaire latine J'après les principes de la grammaire (Otti-
parée , Paris, iSyj, prel". , p. i.
— 328 -
composte giusta la scienza odierna delle favelle ariane : che
abbiamo per lo insegnamento del greco le grammatiche del
Curtius, del Koch, dello Inama; per quello dei latino
le grammatiche del Vanicek, dello Schweizer-Sidler , del
Dorschel, del Pozzetti-, infine per le lezioni di lingua ita-
liana la Grammatica stanca ( fonologia e morfologia )
che il Fornaciari estrasse compendiando (sebbene non
sempre lodevolmente ) dal Diez , e, lavoro ben più degno di
nota, la Sintassi del Demattio. Non tutte queste operette
si possono proporre agli allievi ; che alcune delle germaniche
non furono volte nella nostra favella : ma a tutte , anche
a queste ultime, può avere utilmente ricorso il maestro che
non sia atfatto ignaro di lingua tedesca e voglia insegnare
come s'addice ad un professore delPetà nostra, vale a dire,
seguendo quel metodo che la scienza odierna dei linguag-
gio consiglia, o, meglio, impone. Ed alla scienza si ag-
giunga l'esperienza : che, come già notammo, splendide
prove del suo valore didattico diede già, sempre quando fu
convenientemente adoperata, la grammatica greca del Cur-
tius non pure ne' ginnasii tedeschi , ma eziandio negli
italiani. Si aggiungano le sentenze gravissime di giudici
eminentemente competenti , le vìve esortazioni di uomini
intelligentissimi e delia pubblica istruzione amantissimi, fra
ì quali basti ora citare Bréal(!), Baudry(2)j J. Simon.
E noi porremo termine a questa terza parte delle nostre
Considerazioni colle parole che sì leggono a questo propo-
sito nella Circulaire dell'autorevolissimo ministro francese :
a Je voudrais que Ton cessai presque compiétement de faire
apprendre des règles par cceur. Les règles sont surtoui une
matière d'explications. L'inappréciable av.antage de Térude
(i) Op. cit., p. 175 e segg.
{%) Op. citi , p, 71-2.
- 329-
comparée des langues, mème la plus élérnentaire, c'est que
l'enseignement méthodique qu'on en fait peut s'adresser, de
bonne beare, à Tesprit. Il faut faire la guerre aux procédés
mnémoniques, qui, sous prétexte de ménager des intelìigen-
ces trop faibles, les fatiguent autrement, sans grand resul-
tai, et font, par avance, obstacle à l'emploi des procédés
rationnels....» Ce sont les systèmes qui ont produit certains
iivres: il ne faut pas que ces livres fasscnt maintenant
durer ces systèmes. La plupart de nos grammaires datent
du temps où les maitres eux-memes ne connaissaient guère
qu'une seule langue. Elles ne donnent la raison de rien ,
parce que les termes de comparaison leurs font défaut, et
qu'elles restent nécessairement dans le particulier. Au lieu
de ces règles étranges, qui semblent ne s'appuyer que sur
le caprice, empruntons à l'étude savante et à la comparai-
son des langues quelques faits positifs et quelques lois ab-
solues. L'essai que Ton fit, il y a vingt ans, d'un enseigne-
ment de ce genre était premature : il ne l'est plus. La clarté
et la simplicité ne perdront rien à l'étude de la grammaire
ainsi renouvelée. Il n'y a de clair que ce qui est logìque;
et qui voudrait soutenir que ce n'esi pas au nom de la io-
gique et de la raison qu'il est bon d'instruire mème les plus
jeunes esprits? Les procédés empiriques ne font que jeter
le vague et Tobscurlté où nous voulons faire pénélrer l'ordre
et la lumière; et la vérité est encore ce qu'on a imaginé de
plus simple».
{Continua)
Domenico Pezzi.
- 330 -
CEV^V^I "BITiLIOGliAFICI
Qiiaestiones criticae ad emendatìonem Claudiani panegyri-
corum spectantes scr. Ludovicus Jkfp-, Numburgi , i86g.
Die Handschriften ron (Jaudian''s Raptus Proserpi-
nae von L. Jeep ( in « Acta Societ. phil. lips. » ed. Fr.
RiTSCHELiLs , I, 2, p. 345-87). — De Claudìaiit codice
Veronae nupet^ reperto commentatio critica Ludov. Jeep
[in « Philologos Germania^, Lìpsiae congregatos in. maio,
ati. MDCCcr-xxii, perofficiosc salutant scholae Thomanae
ìnagistri », p. 4? e segg., Lipsia). — Nachtrdgliches iìber
die Handschriften von Claudiaus Raptus Proserpinae,
giugno, 1872 {Rhein.Museum, N. F. xxvii, p. 618-24). —
Zu Claudianiis de VI Consolata Honorii. Ein Beitrag
liir rómischen Topographie {Rhein. Museum, ibid., p.
269-77).
Di questi cinque lavori soltanto l'ultimo non ha per iscopo
diretto remendazione di Claudiano : lo separo perciò dagli
altri, e mi affretto a farlo conoscere in primo luogo ai miei
lettori. Ha dato occasione a questo scritto un lavoro del
prof. Stark [Gigantomachie aufantik, Reliefs imd der Tem-
pel desJuppiter Tonans in Rom. Heideib, 1869), nome, se
non erro, già noto a' lettori della ^visia.
Lo Stark vi sostiene la tesi che il rilievo esisterne nel
cortile di Belvedere e rappresentante una Gigantomachia
debba essere un pezzo della cornice del tempio di Giove
Tonante sul Campidoglio ; e in conferma della sua tesi ado-
pera un luogo di Claudiano [de VI cons. Hon. , v. 44 et
seqq.), che nella edizione del Gesner (Lips. 1769) si legge
nel miodo seguente :
V. 44 Juvat infra tecta Tonantìs
Cernere Tarpeja pcndentes rupe Gigantas,
Caelatasque fores, iriediisque voìanlio signa
Nubibus, et densum stipantibus aethera templis,
Aeraque vestitis numerosa puppe c>)lumnis
Censita, SLibnixasque jugis immanihus aedes ,
Naturam cumulante rnanu , spoliisque micantes
Innumeros arcus.
— 331 -
Al V. 47 però lo Stark legge deorum invece di densum,
senza nessuna. autorità di codici, come il Jeep assicura, e
dopo che il Gesner aveva benissimo spiegato il densum :
sarà errore di stampa, dice benignamente il Jeep. — Il ra-
gionamento dello Stark è molto semplice e altrettanto cu-
rioso quanto semplice : Claudiano paria di « Gigantes Tar-
peia rupe pendentes.... infra teda Toìiantisyi, il nostro ri-
lievo rappresenta appunto una Giganto machia, dunque nulla
di più naturale che Claudiano alluda proprio a quest'ultimo
rilievo che avrebbe dovuto ornare le cornici del tempio di
Giove Tonante. Ma Stark stesso osserva che l'occhio dei
poeta si suppone scorra « dal Palatino verso il foro co'' suoi
tempii, coi suoi rostri e con le sue statue, e finalmente si
fermi sul Campidoglio « : ora è possibile che, in mezzo a
tutte queste grandiose costruzioni, tempii, colonne rostrate e
statue, rocchio del poeta, a tanto notevole distanza quanta
ne corre tra il Palatino e il Campidoglio, distingua e si
fermi a considerare un rilievo di quattro palmi e me^:(0 di
altezza? A questa giustissima osservazione il Jeep aggiunge
altre di non minor valore ; rammenterò soltanto la corre-
zione proposta « iuvat inter teda Tonantis » , correzione
più che probabile, sebbene non vedesi come facilmente possa
esser nata la lezione « intra tela vel tèpla » dell'autorevo-
lissimo codice Vat. , N. 2809,
li Jeep non si limita poi alia confutazione dell' infelice
congettura dello Stark, ma si serve anche de' versi di Clau-
diano per determinare il luogo della rupe Tarpeia e giunge,
come di leggieri si può immaginare , alla conclusione che
la rupe giacesse in un "posto dirimpetto al Palatino, con che
egli ritorna a' risultati già ottenuti da Dureau de la Malie.
Il Jeep stesso ha visto però benissimo che la verità di
questa asserzione dipende da una ipotesi sul luogo del tem-
pio di Giove : ipotesi che, per quanto sia probabile e abbia
dalla sua quasi tutti. gli archeologi tedeschi, può essere non-
dimeno messa in controversia. Noi non potremmo che ral-
legrarci, se il Jeep volesse presto studiare anche questa qui-
stione, la quale gli darebbe occasione di mostrare in campo
più vasto quella dottrina e quel retto e sano giudizio che
- 332 -
io distinguono a preferenza di molti e molti giovani filologi
ed archeologi. — Non voglio in ultimo omettere che , a
quanto mi si assicura, gli archeologi di Berlino hanno fatto
buon viso a questo piccolo lavoro, del quale accenna anche
E. Curtius nella Archaologische Zeitung di quest'anno.
Gli altri lavori dei Jeep hanno per iscopo diretto T emen-
dazione di Claudiano, e di certo essi offrono anche più di
quello che sarebbe necessario per poterci aspettare dal loro
amore una buona edizione critica del poeta latino. Questa
edizione fu già annunziata tempo fa dal Teubner , quindi
non mi resta che esprimere il desiderio di vederla presto
in commercio, desiderio che son sicuro sarà partecipato da
quanti s interessano , non dirò per Claudiano , ma per gli
studi! classici in generale. Per ora intanto bisognerà con-
tentarsi di questi scritti preparatorii, del contenuto de' quali
mi permetto accennare con la massima brevità, nella spe-
ranza di far cosa non affatto inutile pe* lettori di questa
Il Jeep cominciò le ricerche su Claudiano colla sua dis-
sertazione di laurea (n. i) , scritta quando egli non aveva
potuto studiare che una diecina di codici , numero per sé
stesso rispettabile, ma certamente insignificante rispetto al-
l'ingente copia di quelli raffrontati durante e dopo il suo
viaggio in Italia. Ciò premesso, è naturale che le sue idee
su' manoscritti di Claudiano debbano essersi alquanto mo-
dllicate in seguito, come del resto può dedursi, per es., dalla
p, 619 del quarto lavoro citato in fronte a questo annun-
zio, e come può anche vedersi da alcune giuste tra le os-
servazioni oppostegli dal Bàhrens ( Fleckeisen's Jahrb. fiìr
PhìLs 1872).
Chi dunque vorrà occuparsi della critica di Claudiano
dovrà ricordarsi che questo lavoro quantunque di grande
importanza non è l'ultima espressione degli studii dell'au-
tore, epperò non è da usarsi^ se non insieme co' posteriori
e specialmente con un altro {Ueber die al teste Textesrecen-
sion des Claudian)^ che dovea far parte dell'ultimo volume
già pubblicato del Rkeìnisckes Muse.um , e che invece farà
parte del prossimo. Mi astengo quindi di esporre le con-
- 333 -
clusioni 3 cui il Jeep in questa dissertazione era giunto ,
perchè sebbene non sia difficile stabilire quali modificazioni
esse abbiano ricevute col progredire dei suoi studi' , pure
non potrei darne che un resoconto imperfettissimo. —
Grande importanza per gli studii posteriori del Jeep e per
la critica de' poeti latmi delFultimo secolo ha avuto la sco-
perta del codice Veronese. In esso si son trovati i nove
versi «m Sirenas)) (Claud. I. Gesn.; Anth. lat. 880 Riese),
pubblicati come di Claudiano nella edizione del Camers ,
senza che m seguito se ne sia potuto mai trovare un mano-
scritto; di più vi si è trovato il « de Phoenice » (di Lattanzio?),
di cui il codice più antico che avevasi è posteriore di un
secolo a questo veronese; e finalmente le u Laudes Hercit-
/rs», stampate anche queste come di Claudiano dal Camers,
ma non trovate mai in alcun codice. Si aggiunga a ciò
l'importanza che ha per la critica di Claudiano in generale
un codice del IX secolo, e si vedrà quanto si sia reso be-
nemerito degli studii critici il nostro autore colla scoperta
di esso. — Lavoro notevolissimo è ancne quello sui mano-
scritti del Raptus ProserpÌ7iae ^ essendovi esteso lo studio a
quasi sessanta codici. Di questi vengono aistinte parecchie
classi, il che forma in verità il merito principale del lavoro,
perchè soltanto in questa guisa era possibile determinarne
il valore , e spianare la via a chi volesse accingersi alla
emendazione del testo. Il Jeep ha saputo con molta acutezza
mettere a posto tutta questa faraggine di codici giungendo
così al- risultato « cne per una trattazione critica del Raptus
Proserpinae non s' abbia bisogno di attendere ad altri co-
dici che ad un Laurenziano {Pliit. XXIV sin. cod. 112),
ad un Vossiano (n. 294; cfr. Qiiaest. crit. p. 1 1), e forse
ad un rappresentante della classe peggiore, cioè ad un Gu-
diano (n, 228) n. — 1 buoni risultati degli studi del J'Cp
possono giudicarsi a prima vista dai luoghi emendati . di
cui non sarà discaro a' lettori di Claudiano vederne citato
uno interessante abbastanza e di evidenza immediata.
« K 53 « Longaque ferratis evolvimi '^'lecida pensts ■ è
detto delle Parche : il ferracis pensis era veramente insop-
portabile, ed ecco che il Jeep con la fida scorta del Lau-
Ijiivìita di fio logia ecc , 1. 33
- 334 ~
renziano e del Vossiano emenda, ferra tis fusi s, lezione che
esclude ogni dubbio. Come esempio serva pure Temenda-
zione del verso 1 3'; del 3'^ libro, dove leggesi di Cerere che
ritorna dalia Frigia :
'«.... digredilur templis. sed nulla ruenti
Mobiiitas. lardos queritur non ire jugales. ><
Il Jeep muove dall'idea che a comprender bene il luogo
sia necessaria una parola che contenga V idea di sembrare,
e di fatto nel Laurenziano trova videtur al posto di ruenti,
la qual lezione egli accetta senz' altro , tanto pivi che facil-
mente spiegasi r origine del ruenti^ trovandosi scritto al
margine « mentì UH festinanter^i a mo' di spiegazione.
Qui è chiaro che il Jeep ha tutta la ragione dalla sua, e ogni
edizione critica non potrà ammettere che questa lezione ,
quantunque il verso dal Iato poetico ne scapiti non poco.
Ma se si trattasse di Virgilio e di Orazio invece di Clau-
diano, confesso che difficilmente saprei resistere alla tenta-
zione di ribellarmi alla autorità de' codici. Noterò incidente-
mente che il sai congetturato dallo Heinsio al posto di sed
mi parrebbe molto a proposito e sarei davvero contento se
rocchio perspicace del Jeep riescisse a scoprirlo ne' buoni
codici.
Finisco coi ripetere iì desiderio di vedere in breve una
buona edizione di Claudiano, e con Tesprimere la speranza,
la quale non sarà di certo defraudata, che il bravo filologo
non cessi in altri scritti di esercitare quell'acume e quella
diligenza che distinguono quelli di cui abbiamo accennato.
Lipsia, To dicembre 1872.
Girolamo Vitelli.
Ada societatis philologac lipsiemis ed. Fr. Ritschelius.
Tom, I, fase. \ e 2- Tom. Il, i. Leipzig, i87!'-72.
Poiché uno de'più celebri campioni della moderna filo-
logia classica, Federico Ritschl, passò dall'Università di
Bonna a quella di Lipsia, acquistò quest'ultima tanta ben
- 335 -
meritata rinomanza in tale disciplina da non temere nessun
confronto uè in Germania ne alFestero. Alla quale rinomanza
concorse da un altro lato la venuta di Giorgio Curtius, il
vero e solo rappresentante della scienza comparata del lin-
guaggio nelle sue più strette relazioni con la filologia clas-
sica. Com'era naturale, avvenne che intorno a questi due
formaronsì due circoli di giovani studiosi , i quali, sempre
restando nel campo della filologia classica, o attenendosi di
pijì al Ritsclìl , dirigevano i loro studii specialmente alla
critica, air ermeneutica, alle ricerche storico -letterari e , o
attenendosi di più ai Curtius , avevano in mira principal-
mente le lingue greca e latina più che come altro come
lingue. Di qui nacquero due distinte istituzioni : la società
grammaticale del Curtius e quella filologica dei Ritschl.
Frutti di queste due società, oltre l'educazione severamente
scientifica che la gioventù vi riceve, sono gli Stiidien ■{ur
griechischen tind lateinischen Gra??imattk , e gli Ada so-
deiatis philologae lipsiensis. I primi , poiché in Italia i
grandi risultavi della scienza del linguaggio furono quelli
che appunto servirono a riaccendere in qualche modo
l'amore operoso per le lingue classiche, sono abbastanza
conosciuti nella nostra penisola (i)*, mentre de' primi non
(i) Giova per altro qui dar l'elenco dei lavori contenuti nei fasci-
coli sinora pubblicati:
Voi. I ; Angermann, De patronymicorum Graecorum formatione. —
Frohwein, De adverbiis Graecis. — Renneb, De dialecto antiquioris Grae-
corum poesis elegiacae et iambicae. — G. Curtius, MìsccUen. — Roscher,
De adspiratione vulgari apud Graecos. — Delbrììck, Einige Bemerkun-
gen uber ì und U im Griechischen. — Goetze, De produciione syllaba-
rum suppletQria linguae latinae. — Gerth, Quaestiones de Graecae tra-
goediac dialecto. — G. Curtius, Verschiedenes. — Voi. II: Gei.bke, De
dialecto Arcadica. — Clemm, Etymologisches. — Leskien, Die Formen
des Futurums unddes Zusammetigesetpen Aorists mit oc in den home-
rischen Gedichten. — H. Stier, Bildiing des Conjunctivs bei Homer. —
Roscher, Verschiedenes. — G. Curtius, Verschiedenes. — Delbruck.
Ueber ^ux; und t€iU(;. — Windisch , Untersuchungen V.ber den Ursprung
des Relalivpronomens in den indogcrrr.anischen Sprachen. — Roscher ,
Verschiedenes. — Krau&ha/>r , '€duj. — G. Curtius , Epigraphisch-
Grammatisches. — Woì. lU: Rau, De praeposltionis -rrapd usu. — Hager,
- 336 —
credo abbiano noiizia se non pochissimi dotti. Non sarà
quindi opera affatto vana il darne un brevissimo cenno ,
che dirigo in preferenza a' nostri giovani filologi cui le
condizioni delle nostre biblioteche e forse ancora (mi si
perdoni la non improbabile ipotesi) la tenuità dello stipendio
non permisero di averne conoscenza prima d'ora.
Una miscellanea iìlólogica del genere de'nostri Ada non
è cosa nuova per Lipsia : il Ritschl stesso ricorda i Com-
mentarii societ. philologicae lipsiensis pubblicati da C. D.
Beck, a'quali facevano poi seguito gli Ada semiitarii regii
et soc. pini. lips.\ ricorda gli Ada societatis graecae pub-
blicati da Westermann e Funckhanel in onore di Gotto-
fredo Hermann, ie Observationes criticae della societas
latina in onore dello stesso Hermann, e finalmente i già
nominati Studien -{ur griechischen und lateimschen Gram-
matik del Curtius.
Gli Ada del Ritschl sono dedicati alla memoria di Got-
tofredo Hermann e di Carlo Reisig, alla memoria cioè dei
due suoi grandi maestri. Questi due nomi e quello del
Ritschl, che suona anch'esso venerato sulle labbra di quanti
intendano che cosa sieno davvero le discipline filologiche,
bastano a dimostrare l'indirizzo a cui sono informati i la-
vori della Società Ritscheliana, lavori tutti d'importanza
De graecitate Hyperidea.— Angermann, Zur griechischen Etimologie
und Wortbildung. — Roscher. Phonetisches und Etymologisches. —
Benseler, De ytommibus propriis et Lcitinis in is prò ius, et graects in
k;, IV prò loc,, lov tcrminatis. — G. Gurtiiìs, Crammatisches und Ety-
mologisches. — Ali.en , De dialecto Locrensium. — Clemm, Beitr'dge
^ur griechischen und lateinischen Etjymologie. — M. Schmidt. Das T:;a-
konische. — G. Curtius, Zwr Geschichte der griechischen :[usammenge-
:(0genen Verbalformen. — Voi. IV : Albrecht , De accusativi cum
infinitivo coniuncti origine et usti Homerico. — Brugmann, De Graecae
linguae productione suppletoria. — Roscher, Misccllen. — G, Curtius,
LUckenbiisser (ùxeóv). — Bricf Des Herrn prof. Sophus Bugge an G.
Curtius. — G. Curtius, Kleinigkeit (ri^^avev). — Grammatisches und
Etymologisches. — Defvner, Neograeca. S. Bugge, Beilrage ^ur
griechischen und lateinischen Etimologie. — Meister, De dialecto
Heracliensiiim Italicorum. — G. Curtius, Homerisches.
— 337 —
perche tutti condotti con quel severo metodo filologico di cui
è oggi ii Ritschl la più potente espressione. Dare un inteso
ragguaglio di questi lavori mi sarebbe impossibile per la va-
rietà delle materie, e sarebbe forse anche fuor di luogo :
ben posso darne però una specie d'indice, e lo do volentieri,
sicuro di far cosa grata a tutti quelli che non avranno
avuto occasione sinora di vedere il libro co'proprii occhi.
Negli Ada dunque Fr. Nietzsche ha pubblicato il Cer-
tamen Homeri et Hesiodi^ e Ervino Rohde ha per la prima
volta reso di pubblica ragione Isigoni de rebus mirabilibus
breviarium da un codice vaticano. Sieguono le Qitaestiones
Fulgentianae del Dr. Jungmann, ora insegnante nel ginnasio
di S. Tommaso di qui; una ricerca etimologica (-rrpouaeXeiv)
di Guglielmo Clemm-, una Satura critica di Roscher (ad
Soph. frgm. 853 Nauck: Q. Tuli. Cic. Astron. XIV p. 69
Biicheler; Soph. Ai. 839*, Eurip. Phoen. 11 23-7 Nauck;
Soph. Phil. 29); emendazioni al dialogo de oratoribiis di
Giorgio Andresen (che poi ha curato una edizione teubne-
riana' del dialogo sxqsso)-:^' Quaestiones Sallustianae di Al-
fredo Weinhold; De incisionibus anapaesti in irim. comicis
di Curtius Bernhardp, Observaiiones criticae in Dion. Alte.
di Carlo Jacoby; studii sui mss. del Raptus Proserp, di
Claudiano del Jeep, anche lui ora insegnante nel ginnasio
di S. Tommaso; e finalmente una Miscella critica de'signori
Sievers , Siegismund , Gilbert , Brugmann , Forssmann ,
Mendelssohn, Lammert e Wezel.
Questo è il contenuto del i" volume : di quello del 2° ri-
corderò soltanto per la loro grande importanza le Quaestio-
ones Eratosthenicae di Ludovico MendelssoHìV (delle quali
riceveranno forse in seguito una più ampia notizia i lettori
di questa Rivista) e un altro lavoro De actorum in fahulis
Terentianis numero et distributione.
Lipsia, i5 dicembre 1872.
GiROiAMo Vitelli,
-• 338 —
Aristoieles odcr i'iber daa Geset:{ der Geschichte , ron Her-
man DoERGENS. Leipzig, 1872.
L'A. rende ragione in una prefazioncella del doppio ti-
tolo sotto cui egli manda alla luce il suo lavoro. Conrje
Platone intitolò uno de' suoi maggiori dialoghi : Fedone ,
ossia dell'immortalità; come fra 1 Romani Terenzio Var-
rone scriveva nel frontispizio di un suo libro : Sisenna ,
ossia sulla storia, cosi TA., riguardando Aristotele come
un modello in quel genere di scritti a cui appartiene la sua
monografìa, e confessando di averla elaborata sotto i'in-
Busso di questo filosofo , credette di doverla porre sotto il
patrocinio di un sì gran nome. Che cosa abbia di comune
Aristotele colla filosofia della storia, non si vede subito, e
sarebbe vano il cercarlo in qualche particolare insegnamento
aristotelico interno a questa disciplina, di cui, al tempo dello
Stagirita, non si aveva neppure il sospetto. Per Aristotele
il genere umano esiste ab eterno, ed è destinato a percor-
rere infinite volte il cammino dall'estrema rozzezza alla più
alta cultura e viceversa {Metaph., XI l, 1074, a). Questa
è per lui tutta la filosofia della storia. Pare quindi che, a
scegliere quel nome come primo titolo del suo scritto, TA.,
anziché da alcuna speciale dottrina aristotelica intorno alla
filosofia della storia, sia stato determinato dalla considera-
zione del metodo inculcato da Aristotele col precetto e col-
l'esempio, per quanto concerne le scienze naturali, metodo
che consiste nella osservazione dei fatti dai quali per via di
induzione si assorge di grado in grado alle leggi generali.
Questo è pure il metodo che l'A. riconosce come l'unico
conveniente nella filosofia della storia. L'A. vuole che nella
formazione di questa scienza si tenga quel medesimo pro-
cesso con cui si sono create le scienze naturali : soprattutto
poi riprova la considerazione esclusiva e unilatere delle cose
e dei fatti umani. Bossuet, Gòrres e Schlegel (si sarebbe
pur dovuto ricordare il Goti in der Geschichte del Bunsen)
fecero la filosofìa della storia dal punto di vista àtW illu-
minismo ragionale {Aufkldrung). Hegel non vide nella
-^339 —
storia altro che T applicazione dell'idea logica . Kant e Buckie
ricercarono unican^ente le leggi del progresso politico. Per-
chè VA. non esanninò anche la dottrina del Vico , di cui
nel suo scritto non si trova menzionato altro che il nome ?
Il filosofo dcHa storia deve tener coato di tutti gli elementi
della natura umana, e ricercare la legge che ne governa lo
svolgimento e )a manifestazione nella storia.
L'A. riassume i risultati della sua discussione in una
serie di proposizioni. Le prime sei sono dette da lui as-
siomi etnologici, i quali diamo qui tradotti per saggio :
« 1° In ogni periodo gli uomini sotto il rispetto della
loro capacità di svolgimento storico si dividono in due razze,
la sedentaria e la nomade. » Il criterio per cui si distin-
guono è i esercizio costante (non meramente accidemale e
transitorio) dellagricoltura.
« 2° In ciascun periodo il dissimile istinto linguistico
distingue gli uomini di razza sedentaria in varie classi spe-
cificamente diverse, secondo la loro diversa tendenza a pen-
sare, a imparare, a godere.
« 3^ In ciascun periodo T incremento della lingua e
l'incremento della potenza stanno fra loro in ragione diretta
e si promuovono a vicenda.
a 4° in ciascun periodo una nazione od un consorzio
di nazioni raggiunge la preminenza sulle altre , perchè il
suo sapere, elaborato per mezzo della lingua, è più grande
che il sapere delle rimanenti. (Questa legge, solo in appa-
renza, ma non in realtà, è contraddetta dal fatto che i Per-
siani, i Romani, i Franchi e i Turchi , vìnsero rispettiva-
mente i Medi, i Greci, i Bizantini, superiori ad essi in cul-
tura e in sapere, e dotati di una lingua più ricca; impe-
rocché la potenza dì queste ultime nazioni era oramai esau-
sta , quando venne per ciascuna di esse il giorno della
prova).
« 5° In ciascun periodo le imprese della nazione pre-
valente diventano il centro intorno a cui si raccoglie tutto
il lavoro storico, e tutta fattività delle altre nazioni, le quali
perciò si comportano verso di quella come cooperatrici ri-
spetto alla loro regina e maestra.
- 340 --
« 6" In ciascun periodo la partecipazione della nazione
predominante al lavoro del periodo stesso, determina il ma-
ximum del valore reale della nazione stessa nella storia. »
Con questi sei assiomi FA. vuole determinare il come sì
trovi distribuita la potenza fra i diversi attori che agiscono
sui teatro della storia. Seguono quelli che egli chiama as-
siomi antropologici , concernenti il movimento o Fazione
stessa di questa potenza. L'A. tocca la questione: qual
parte abbiano gli uomini grandi nella direzione di questo
movimento. Attribuire ad essi una iniziativa assoluta, al
che propendono, secondo FA., Io Schiller (nel suo Mosè
e Solone), il Cousin ed Erm. Grimm, sarebbe un ricadere
nel modo di pensare dei creatori delle mitologie: conside-
rarli come semplici continuatori e perfezionatori del lavoro
universale , sarebbe un deprimerli troppo basso. Secondo
FA. , gli uomini grandi sono il principio intellettuale nella
storia ; la loro iniziativa consiste nel concepire i grandi pen-
sieri, i quali, allorché trovano il mondo esterno acconcia-
mente preparato a riceverli ed attuarli , diventano grandi
opere e mutano il corso delle cose umane ; quando avviene
il contrario, il pensatore si rimane tristamente allo stato
d'uomo incompreso, e Fopera sua fa mala prova.
« Siccome verme in cui formazion falla ».
In tutto il suo lavoro FA. mostra ingegno vigoroso e nu-
drito di buoni studiì. Trattandosi di una scienza che è an-
cora nell'infanzia, sarebbe desiderabile che FA. si fosse in
gegnato di esprimere i suoi pensieri in modo più chiaro e
meno astratto, ed è a sperare che egli adempirà questo de-
siderio negli ulteriori lavori di filosofia storica, che, còme
egli ci promette, devono tener dietro alla monografia, di
cui qui si è fatto questo breve cenno.
Torino, 23 dicembre 1872.
G. M. Bertini.
Pietro Ussello, gerente responsakile.
-341 -
CENNI SULLA SINTASSI
"DELLA LIV^GUA G%ECA{i).
II.
Riassumendo ora i nostri pensieri in ordine alle parti
costitutive di ogni grammatica speciale, diciamo, che la
Fonologia è la dottrina dei suoni, che costituiscono la pa-
rola; che la Morfologia è la dottrma delle forme, intese
come funzione potenziale delle singole parole-, e che final-
mente la Sintassi tratta delle funzioni, che la parola è chia-
mata ad esercitare nel discorso (2). Questo ordinamento
della grammatica ne sembra anche molto rispondente al
concetto, sul quale si fonda la moderna linguistica, doversi
cioè prendere le mosse dall' intuitivo nella sua differenza
dall'astratto. Non possiamo però nasconderci le grandi e
molteplici difficoltà, che oggi ancora s'oppongono ad una
compiuta riforma della dottrina della Sintassi delia lingua
Greca (che di questa è nostro compito di parlare), sulle
basi dei risultamenti dell'indagine comparativa, tra per es-
sere Incompiuto per ancora il lavorìo preparatorio della
scienza, per ciò che s'attiene agli usi sintattici delle lingue
affini, e perchè anche la è tal questione cotesta, che a malo
stento la si potrà sottrarre di sotto agli influssi della psi-
cologia, massime perchè il pendìo, che è dell'età nostra.
(i) Vedi fascicolo 7», pag. 3oi-3io
(2) Vedi Ascoli, Corsi di Glottologia; Torino, Loescher, 1870,
pag. I.
Hfvista di filologia ecc., I. 34
•erso quel bello insieme, che s'appresenta sotto le forme
più o meno fallaci, ma seducenti pur sempre, delP unità
organica, sospinge gli intelletti verso gli schemi generali,
fondati a priori^ ben lungi dal solido terreno della osser-
vazione (i). Intanto ne giova porre in sodo questo princi-
pio: che, cioè, il pensare procede di pari passo colla parola,
che le forme del pensiero si svolgono insieme colle forme
della lingua, e d'un modo affatto istintivo e spontaneo, cor-
rispondente al tutto air indole particolare della nazione. —
Perciò, come d'ogni organismo, cosi anche della struttura
sintattica di una lingua bisognerà pur dire, che soltanto
allora se ne conoscerà lo svolgimento, quando, per via della
ricerca storica, se ne saranno rilevate come a dire le fat-
tezze, e gli usi concreti. — Si badi però, che allorquando,
tenendo ragione della struttura sintattica della lingua, noi
adoperiamo la parola organismo, ciò facciamo soltanto per
Uso analogico, p. e. colla vita animale. Ma la bisogna corre
ben diversa qui , nella vita cioè degli esseri organici -, anzi,
chi ben considera, nella vita del linguaggio il concetto di
organismo, se non è fallace addirittura, certo non risponde
al fatto della medesima, come ce lo appresenta l'indagine
scientifica. — In ordine alla na'tura infatti, il concetto d'or-
ganismo induce quello di tale svolgimento, che immeglia
col tempo e coll'uso, così che le parti del corpo umano, ad
esempio, tanto più ài vigorezza e di bontà acquistano,
quanto più l'organismo delle medesime si disvolge e s'ac-
costa via via al suo pieno assetto. E anche un altro con-
cetto rileva nell'organismo, in ordine alla natura, quello
cioè deHa cospirazione necessaria delle parti verso l'unità.
(i) Leggansi a questo proposito le succinte, ma feconde considera-
zioni, messe innanzi dal Curtius nel Commento^ pagg. i6o, e segg. ,
trad. dal Mulier.
— 343 —
verso 1^ armonico intreccio delle movenze e degli atti. — Ma
nella lingua invece Tindagine storico-scientifica ne addita una
lenta, ma incontestata opera di detrito e scadimento e aftie-
volimento di suoni ^ gli è un perenne ritraimento dalla ricca
varietà delle forme e degli usi sintattici più antichi verso
forme piìi irrigidite e verso usi piià comprensivi. Il dis-
corso, più tardi, ti si presenta architettato e foggiato più
artificiosamente-, ma il rigoglio antico tu cerchi indarno, e
agli usi sintattici, antichi, andati in dileguo, la lingua sup-
plisce colle forme, che le sono rimaste del patrimonio an-
tico, o condensando su queste il peso di varie significazioni,
oppure appigliandosi ad usi più liberi delle funzioni della
parola (i). — Qualche esempio 'tolto all'uso della lingua
epica antica potrà meglio chiarire il nostro asserto. Fre-
quente nelle canzoni omeriche è il genitivo coi verbi di
rrioto, senza preposizione, p. e. óèoTo (sulla via) col verbo
ftiarpipeiv (indugiare), Od. 11,404. Confr. (:.Titk^^C)^a\{pd. Ili,
284), XiXcdecrea» {Od. I, 3i 6), ècrctjjiai {Od, IV, 733), npi^ffcTtiv
{Od. Ili, 476). E più spesso incontri Tttbioio con èpxecrSai
(//. II, 801), levai TroXéoq treòioio (//. V, 597), e altri molti.
Quest'uso è pressoché scomparso dalla prosa attica. —
(Vedi Krùger, Gramm. Greca^ Part. II, § 46, i). Frequen-
tissimo è poi in Omero l'uso del locativo , alla domanda:
doPe?, senza preposizione, corrispondente all'antico locativo
(Kriig, 1. e. § 46,2), forma posseduta forse in origine dal
gfeco, certo dalle lingue affini. Confr. xaMa-^? TTtòoi (Esch,
Prom.., 61 5), àXXu-i, tuì (Gurt. Comm.^ pag. 70, versione
del Miiller. Schleicher, Compend., pag. 3 16, Pezzi).
Maggiormente svolti nella prosa attica troviamo invece
altri usi del genitivo; p. e. V assoluto; raro è nelle poesie
(i) Vedi Haacke, BeitrSge ^u einer Ncugestaltung dcr frriechi-
schen Grammatik. Nordhausen, i852. II Hcft , §8 e segg.
~ 344 -
omeriche 1' uso del genitivo possessivo (Confr. Kr, 1. 1.
§ 47, 4, 6.). Straniero alla poesia epica antica è pure Turo
del genitivo coi verbi, che esprimono ricordare, aver cura^
dimenticare^ molto frequente invece nella prosa attica. —
Tali verbi sono ad es. èvOuiicTcJGai , òXiTuJpew, fivri^uoveóeiv,
dfivriiiioveTv, èTrijUtXeTaGai, q)povTÌZ!€iv, KaxaqppoveTv, TTpovocicrBai
(Kr. 1. e. § 47,11', Curt. Gram. § 420). Stranieri alla lin-
gua omerica sono altresì i verbi àvTiXappdveaeai - èTriXajii-
pdveo"9ai - aTroTUYxaveiv - diuxeiv - ineTaXaYxdveiv - fieiaXaiu-
^dveiv - jLieTabibóvai - Koivujveiv, col genitivo, nella accezione
di cogliere nel segno, agognare^ ottenere, aver parte^ ecc.
— E neppure aÌTida6ai ed aiTio<; col genitivo conosce la lin-
g»a epica antica (Confr. Kr. 1. e. § 47,22). — Assai fre-
quente nelle poesie omeriche è per lo contrario Tuso dello
articolo dimostrativo^ mentre è raro l'uso attributivo del
medesimo (Kr. § 5o, 2), E quanto al collegamento delle
proposizioni {Sintassi della proposizione composta)^ vediamo
prevalente nelPepopea antica quel modo di collegare insieme
le proposizioni che chiamano paratattico e asindetico, dalle
movenze più libere, mentre nell'uso della prosa posteriore
è frequente e regolare la ipotassi o siibordinamento (uTróiaSic).
— (Ved. Inama, Gram. Grec. Sintassi, pag. 194). — Molta
libertà, e quasi licenza si incontra nelle poesie epiche rispetto
alla concordanza dei casi {Ptotica^ v. Kr. , II, § 6o)-,
quando ad es. a due verbi, che hanno diversa reggenza, si
collega un unico oggetto comune, come nel passo, che
segue qui appresso :
« 'EcjQXò? èùjv Aavaujv où Kriòeiai oùb' èXeaipci »
(Confr. Kr. II, § 60, 4). — Questi pochi fatti della lingua
accennano a un procedimento storico, e non già a svolgi-
mento organico , anche nel giro degli usi sintattici. — Le
prove poi degli scadimenti fonetici ci sono pòrte dalla lin-
guistica ih numero infinito.
- 345 —
Ma vediamo oggimai qual posto competa alla Sintassi
dirimpetto aila inflessione della parola, e alla dottrina di
essa.
Nel concetto, che da Platone in poi {Sophtst.y pag. 263 E)
s^è avuto della lìnguay si compresero sempre due elementi
costitutivi della natura di essa, Funo sensibile o for^male
(il suono articolato), interiore Taltro, o intelligibile, ideale,
morale, come tu voglia appellarlo (i). — OùkoOv bidvoia j^èv
Ka\ XÓTOV TaÙTÒv. ( sono le parole di Platone ) irXnv ó uèv
èvTÒ? Tri? vyuxn? "^pàq aÙTrjv òidXoTO<; aveu (piuvri(S TJTVó.uevo^,
toOt' aÙTÒ riiiiv èTru)VOjado'0Tì biàvoia . . . Tò òè àn èKsivriq
^eOjiia bla ToO GTÒ\xaTO(; lòv |i€Tà cpGÓTTOu k^kX^toi Xóto?.
Non sempre però fu apprezzata al giusto valore la scam-
bievole attinenza di questi due elementi. Laddove infatti,
non già al fenomeno sensibile, come sogliono i più, ma,
come vuole ragione, tu porti il tuo studio alla cagione effet-
trice di quello, cioè allo elemento ideale, che, come a dire,
si concreta nel fenomeno sensibile: troverai, che la lingua è
da considerare piuttosto siccome l'espressione dell' umano
pensiero, reso intelligibile per mezzo di suoni e di voci arti-
colate che colpiscono i sensi-, ovvero, siccome i suoni in or-
dine airelemento ideale, che per essi cade, come a dire, nel
dominio dei sensi, non sono opera del caso, né s'appalesano
inavvertiti, ma sono imagini adequate di quello, e la espres-
sione quasi corporea: così la lingua si potrebbe più rigoro-
samente definire: la rappresentazione sensibile e corporea
dell'umano pensiero, fatta per mezzo di suoni articolati. —
Gli è chiaro del resto, come alla conoscenza di un popolo,
prima d'ogni ahra cosa, s'appresenti il mondo esteriore, che
lo circonda, in tutta la sua varietà di forme e colori. Questo
(i) Veggasi L. Meyer, Vergleichende Gramm. I, 32i. Né\\A Appetì"
dice al Compendio dello Schleicher irad. dal Pezzi, p. 5o5.
- 346 -
egli riproduce dapprima sotto forma di rappresentazioni
ideali, le quali alla loro volta, rientratido nel dominio dei
sensi per mezzo de' suoni articolati, acquistano un'esistenza
loro propria, indipendente al tutto dal mondo esteriore. Le
singole rappresentazioni, rese per tal modo intelligibili, s'indi-
rizzano alla lor volta di fuori, verso le cose esteriori, e agli
accidenti di quelle, che la coscienza del popolo in sé mede-
sima accoglie, ciò è come dire, che il mondo esterno, il
mondo dei sensi, al quale s'associa dappoi il mondo sopras-
sensibile, col progredir della civiltà, diventa via via obbietio
del pensiero, mercè quelle rappresentazioni, rese di già sen-
sibili ; e queste — che son le parole per l'appunto — si tra-
mutano in simboli e nomi del mondo esteriore, d'un modo
affatto ideale e astratto.
Quale sia il compito del filosofo — meglio diremo del psi-
cologo— in questo rispetto, ce lo additò già la sapienza an-
tica, per mezzo del dotto Platonico Nigidio Figulo (presso
Aulo Gelilo, A^. A.y X, 4); e Boezio {ad Aristot. de In-
terpr. II, pag. 3 14).
« Piata vero — son parole di quest'ultimo — in eo libro
qui inscribitur Cratylus aliter esse constituit, oratiouein-
que dicit supellectilem quandam atque instrumentum esse
significandi res eas, qiice naturaliter intellectibus conci-
piuntury eumque intellecium vocabulìs discernendi^ quod si
omne instrumentum secundum naturam est^ ut videndi ocu-
lus, nomina quoque secundum naturam esse arbiiratur^). —
E, certamente, quale che sia l'opinione, che tu possa avere
intorno alle conclusioni finali del Cratilo di Platone (1),
(i) È noto che in questo Dialogo sì tratta de nominum recta impo-
sitìone (irepì òvo|uàTUJv òpGÓTTjToO; se cioè i nomi s'imponessero qpùaci o
eé(Tei. Vedi C. Fr. Hermann, Geschichte und System der platonischen
Philosophie f 1 Theil, 3** Lieterung ;; Note 464, 466, 473, 474.
— 347 -
questo è per noi fuori 4i ogni dubbio, che a quel divino
intelletto non potea per verun modo essere sfuggila Topera
di natura, e quasi istintiva, nella formazione concreta dei
linguaggi: *Apé(JK€i òè aùn?» (a Piatone) — sono parole di
Alcinoo, cap. 6. (i) — Qéaei undpxeiv tuùv òvo|iidTujv inv
òpBÓTTiTa, où ixf]v àTrXu»<; oùòè wc, ^Tuxev, àW ujo'ie Trjv 0é(Jiv
TcvéaGai ÓKÓXouGov t^ì toO upuf fiarot; cpuaei. — Rintracciare il
lavorio di natura, seguace e rispondente all'ordine reale e
concreto del mondo esteriore, ecco Talto subbietto delP in-
dagine speculativa intorno ai fatti della lingua.
Del resto il compito della linguistica, in questo rispetto, è
duplice: essa deve dall'una parte rintracciare e ordinare le
singole voci, quali rappresentazioni dello spirito, rese sensi-
bili per Torgano dei suoni; e studiarne i processi di forma-
zione in ordine al genio popolare, che del mondo esteriore
tutto si riempie; e dall'altra parte essa deve prendere in at-
tento esame le cose e gli accidenti di esse, poiché le parole
sono e di quelle e di questi, e segni e nomi.
La dottrina pertanto, che rintraccia la formazione delle
parole ne' più reposti penetrali della vita loro , induce nel
lavorio dello spirito generatore de' vocaboli una distinzione,
che per l'appunto non ha altro valore, che dottrinale. A
quella guisa infatti, che nel mondo esteriore le cose, non
meno che gli accidenti di esse, si appresentano sotto forma
di attinenze e di influssi scambievoli, ma né per questo l'es-
sere loro si rimuta sostanzialmente, che soltanto varieggia
nelle guise e nelle parvenze ; cosi anche nelle parole si appa-
lesano scambievoli le attinenze e i moti, e variabili assai le
forme, sì veramente però, che nell'opera di trasformazione,
sotto le apparenze materiali, permane invariata e immutabile
la essenza. — La formazione di questi elementi stabili e fissi
'i) Atba(TKa\iKÒ<; tiI»v toO TTXdTtuvo(; ^0T^<5TUJv. Hermann.
- 348 —
della parola si apparta al tutto dalla dottrina della forma-
zione degli elementi variabili; quella appartiene alla energia
dello spirito veramente effettrice della parola, questa alla
virtù che gli è propria, di variare le forme colla inflessione.
Però è da tener fermo questo concetto, che, cioè, quella di-
stinzione o separazione non è opera dello spirito generatore
delle lingue, poiché nel fatto non è a credere, che prima si
formi Telemento stabile della parola — che addimandano il
Tema {Qi\xa — TiGniui) per contrapposizione all'elemento mu-
tevole — e che dappoi esso venga variato per mezzo di pre-
fissi e suffissi, allo scopo di produrre un simbolo per la rela-
zione della sostanza delle cose e degli accidenti di esse, e
una misura delle relazioni stesse, sotto le quali esso si pre-
senta. — Ma siccome nel mondo esteriore le cose e gli acci-
denti si appresentano sotto forma di una relazione determi-
nata, e non altram.ente : così anche il Tema delie parole si
presenta nel fatto modificato concretamente per suffissi e
prefissi , così che e la formazione del Tema , e quella dei
prefissi e suffissi che lo modificano, è un vero atto dello spirito
formatore della lingua; il Tema puro invece, senza aggiun-
gimenti flessibili, come suole rappresentarcelo la dottrina
della formazione delle parole, è una astrazione, la quale,
come dicemmo quassopra, non ha per Tappunto altro valore,
che dottrinale e speculativo.
1 Temi (i) non sono ancora in se e per se nell' indo-ger-
manico parole, e molto meno parti di proposizioni. Nell'indo-
germanico ogni parola, ogni elemento di proposizione è o
verbo o no7ne. I temi per sé non sono ancora né nome, né
verbo; mentre l'uno e l'altro addiventano per mezzo di suf-
fissi formatori di casi e di desinenze personali. Per ciò è
(i) Vedi su questo proposito il passo importante dello Schleicher ,
Compendio, § i33, Pezzi.
— 349 —
vano il parlare di precedenza dell'una o dell'altra di queste
due parti. Vano è chiamare il verbo la parola per eccellenza
— KttT ègoxnv — perchè esso , nel contesto del discorso,
«t esprime il contenuto del pensiero » come sentenzia il
Becker [Gramm. Ted,, p. 4, nota). Neppure gli antichi accen-
narono mai a cosiffatta precedenza, poiché per essi òvojua e
pnjaa, nomen e verbum valgono entrambi come KupiujTaTa
\xipx\ ToO XÓTO'j; principales partes orationis. Anzi Pri-
sciano^ contrariamente al Becker, dice chiaramente : nomen
est principalis omnium orationis partium {Co7nm. Gramm. ^
XIV, 1,1). E il grammatico Cledonìo., che colle parole se-
guenti (p, 1868, P.): verbum .... est pars principalis, sine
quo loqui non possumus — sembrerebbe avvalorare l'opi-
nione del Becker, intorno alle precedenze da accordarsi al
verbo, di 11 a poco (p. 1889) esce in questa sentenza: ex
nomine et verbo genus ducunt ceterce partes , sine quibus
loqui non possumus (i). Ma v'è di più ancora. NelP indo-
germanico non si trova neppure il divario fra le radici, che
chiamano verbali {ideali-signijìcative) , e quelle che addi-
mandano pronominali {di relazione., formali). Infatti le
radici i-ka-ta-ja sono tanto pronominali, quanto verbali
{i - dimostrativo, andare; ka interrog., esser acuto; ta di-
mostrativo, stendere). — (V. Schleicher, Co?7tp. § 100,
Pezzi-, L. Meyer, Gramm. Comp. I, pag. 323 e segg. —
Pag. 519 segg. del Pezzi). — Il nome ed il verbo adunque
sono nati entrambi ad un tempo. E quindi indifferente, che
si dia la precedenza alla Declinazione od alla Coniugazione,
poiché Vuso soltanto decide qui (Confr. Schleich. Comp.
§ i33. Pezzi).
Di contro pertanto a quel duplice ordine d'Indagine e di
nozioni, di che toccammo quassopra, quello cioè che s'at-
(i) Vedi RosENHEYN, Aufsaij ilber die wortarten. Lyk. , 1839, p. -27
- 350 -
tiene alla formazione delle parole, e Taltro che tratta delle
intiessioni, si leva la sintassi , il cui compito adunque è
questo: di rintracciare, cioè, e studiare l'uso e Tapplica/ione
delle modilìcazioni delle parole, che ne costituiscono la fles-
sione, considerandole come segni delle relazioni scambievoli
del mondo sensibile , e dello ideale. — Grande efficacia
adunque ha la sintassi sulla dottrina della flessione ; ma non
minore è l'influsso che da questa si distende su quella. —
Questa quasi direi correlazione d'influssi fra la etimologia
e la sintassi nella grammatica speciale di ogni lingua scende
diritta, secondo noi, dal concetto psicologico della lingua,
che noi vorremmo che informasse la dottrina della sintassi,
perchè essa risponda dall'una parte alla nuova teorica del
linguaggio, considerata come scienza antropologica, e dall'altra
alle positive e concrete rivelazioni della linguistica. — Due
principi infatti ne sembra di poter porre nettamente: i" che
vi è relazione fra il pensiero (biàvom) e la parola (XÓYoq);
2" che v'è relazione fra la oparola (Xó^oi;) e le cose (f^ toO
TtpaTMciTOf; (pùaiq).
E quanto all'essenza della lingua diciamo, che in quanto
essa nel suo elemento sensibile ci rappresenta una somma di
voci, e nello ideale lo insieme dei pensieri di un popolo :
così la si potrebbe concepire e definire, come la manifesta-
zione concreta del modo col quale un popolo intuisce e con-
cepisce, e soggioga quasi il mondo esteriore, cioè tutto che
vi ha di straniero ed estrinseco all'essere suo nel mondo
reale obbiettivo. — La parola adunque raccosta all'umana
coscienza i fatti del mondo esteriore, e le relazioni, nelle
quali essi mutualmente s'implicano. E quantunque essa
cresca a cosi dire nel mondo esteriore de'sensi del quale
essa subisce gl'influssi, pure essa vive una vita individua e
indipendente come proprietà vera dello spirito umano; né
mai per sua natura viene riferita a fatti o a cose particolari
— 351 -
e determinate, ma è tutta soggetta alle leggi, che Tuso e la
volontà del popolò le impone, al quale essa appartiene sic-
come vera proprietà sua e inalienabile (i).
E qui s"'affaccia spontanea la domanda: — E in qual modo
possiamo noi pervenire ad una conoscenza compiuta del con-
tenuto dell'idea, che ci è resa intelligibile per Torgano sen-
sibile della parola? - — Noi rispondiamo: per nessuna altra
via che per mezzo della parola stessa; poiché l'idea ed il
pensiero non sono fuori della lingua, ma in essa e per essa,
tantoché la lingua si potrebbe definire: la somma de pensieri
possibili di un popolo. Quello, che chiamano pensiero ta^
cito^ non è altramente possibile, che con parole ; esso è un
parlare interiore (ó èvTÒg xf)? n/uxn? irpò? aurfiv òmXoTOi; avcu
(pujvfì<; YiTvó)ievo?5 Plat. Soph.j pag. 263, E). — Uetimolog-ia
è il solo mezzo, che noi possediamo, per aggiungere a quella
conoscenza-, essa segna il confine estremo, sino al quale è
a questa concesso di pervenire. — E, così concepita, Teti-
mologia riceve un valore e un'importanza ben diversa da
quella, che le può competere, quando con essa e per essa
a nuiraltro si miri, che ad ottenere una cotale pratica abi-
lità di traslatare da una lingua straniera nella propria, e vi-
ceversa.
III.
La sintassi di una grammatica speciale non può adunque,
secondo noi, aver oggimai altro sicuro fondamento, che il
fatto concreto della lingua parlata e scritta da un popolo,
che è come dire un fondamento storico. — Certo è poi,
che, se la dottrina della flessione (etimologia) nella lingua
greca ha subito profonde e radicali riforme, in seguito ai
(i) Per tutti i concetti svolti in questa parte vedi Ha acre, Beitrdge,
ecc. , II, 8, 9, IO, 12.
-352 -
risultamenti della indagine comparati va j anche la sintassi di
questa lingua non può, né deve rimanere straniera ai legit-
timi influssi di quella. Il metodo da seguire ci si para in-
nanzi spontaneo, è il metodo storico-comparativo. — È un
arduo compito però, diciamolo a bella prima, e contro al
quale grosse difficoltà si sollevano da tutte parti, e del quale
assai difficilmente vedranno rultimo termine i presenti. Per-
chè gli è uno di que'còmpiti, rispetto acquali e'non approda
neppure l'aspettarsi a grandi ingegni e potenti, quantunque
ci sentiamo compresi di profonda ammirazione , quando
consideriamo la vasta orma stampata anche su questo
terreno dal genio immortale di Giacomo Grimm , la cui
grammatica della lingua tedesca vivrà monumento eterno
della potenza speculativa dell'umano ingegno, consociata ad
una maravigliosa sottilità di spirito indagatore. — Ma la
sintassi della lingua greca, quanto a chiarezza di metodo e
di sicura e larga comprensione de'fatti della lingua, e a no-
vità di trattazione e di vedute, è ben lungi ancora dal poter
competere colia prima parte della grammatica - Tetimologia.
L'impulso dato dal Butrmann (1819-27) produsse certa-
mente ottimi risultamenti nei lavori grammaticali del Krùger,
del Madvig:, e la nuova scuola, fondata dal Curtius, sulle
orme però di quelli, sarà feconda di ottimi frutti, come ce lo
attestano gli eccellenti lavori dell' Aken, del Koch, dell'Inama.
Questi ultimi infatti, e primo TAken nel libro Grund^iìge
der Lehre vom Tempus und Modus im Griechischeriy hanno
dato alla dottrina dei Modi e dei Tempi tale indirizzo, che
ne affida del sicuro effetto della indagine linguistica sulla
trattazione della sintassi. — Ma di ciò per ordine e a suo
luogo; che troppo ci tarda di parlare di un libro, il quale
nella letteratura grammaticale della lingua greca fa, come
a dire, parte da se stesso. È la sintassi della lingua greca
di Raffaele Kiihner (Hannover, i834-35).
— 353 —
Allorquando, nella prima parte di questi cerini^ noi sboz-
zavamo ristrettamente, come ne consentiva lo spazio e il
compito nostro, il concetto fondamentale della dottrina di
Ferdinando Becker (Frankforte a. M., i836) intorno alla sin-
tassi generale e a quella particoiare della lingua tedesca :
ci prefiggevamo precisam.ente questo scopo, di aprirci cioè
la strada a parlare della sintassi del Kiihner, la quale s'ac-
costa assai ai sistema del Becker, benché i due lavori ve-
nissero alla luce quasi contemporanei. E quantunque questo
modo di trattare la sintassi greca si possa dire oggimai ab-
bandonato e dismesso : pure non ci è parso fuor di propo-
sito il ragionare partitam.ente intorno ad un'opera, che ebbe
gran fortuna nelle scuole tedesche, che l'anno i856 era per-
venuta di già alla tredicesima edizione, e che è conosciuta
anche in Italia per la traduzione, procurata dal compianto
Ambrosoli (i).
La sintassi del Kùhner si fonda tutta sulla Dottrina della
Proposi'{ione. La proposizione e V espressione di un pen-
siero in parole — tò póbov GóXXei, la rosa fiorisce^ ó àv-
epWTToq 9vnTÓq €(jTi, l'uomo e mortale (§ 146, i) — . E su-
bito dopo, — 1° In ogni pensiero 0 in ogni proposizione
trovansidi necessità due concetti posti in rela'{ione tra loro
e congiunti per modo da formare un tutto; cioè il concetto
di un'attività, e il concetto di un ente, a cui questa atti-
vità viene attribuita. Chiamasi predicato il primo di questi
due concetti, soggetto il secondo. — 2** La significazione
del concetto viene determinata in parte colla inflessione
della parola che lo rappresenta, p. es. : tò póòov eàXX-ei — *0
(i) Vienna, Tipografia dei Mechitaristi , i856. — Non v'è il nome
del traduttore, ma crediamo di non tradire il vero, pronunciando il
nome di Francesco Ambrosoli^ come autore di quella eccellente ver-
sione.
— a^4 —
(tTpc(Tia)Tri(j j^óy-tTai , // soldato combatte; in yurte per
mc\'{0 di pili parole unite e ordinate a lai fine ^ come: ó
dvBpiuTTo*; evriTÓg ècTtiv. Queste adunque, predicato e sog-
getto {attività ed ente), sono le parti che costituiscono una
proposizione semplice. — La dottrina di questa, cioè della
proposi'^ione semplice — nella sua fornia più rudimentale
di predicato e soggetto, si risolve nella breve dottrina delle
concordan:;e{^ 146- 1 53, 6), — E siccome il soggetto (che può
essere un sostantivo^ un pronome personale, un numerale,
un aggettivo e participio usati come nomi, un avverbio,
wnd. preposizione col suo caso., i infinito di un verbo (^ 145, 1),
è sempre nei caso nominativo, ed il predicato è sempre o
un verbo, o un aggettivo 0 un sostantivo o un numerale o
un proìiome unito al verbo eivar, così la sintassi della pre-
posizione semplice si restringe tutta aiFuso del noniinalivo,
e dv;i tempi e modi del ^'crbo, e alla concordanza di questi
con quello.
Ma il soggetto (sostantivo) e il predicata {\cvh6), possono,
anche nella proposizione semplice, essere determinati più da
vicino, quello col mezzo doW attributo, questo col mezzo
àtWoggetto (Gapp. 2% 3"), che è come a dire per via dì
complementi e del soggetto e del predicato.
i^ IJattributo (§ 154) si presenta sotto le forme se-
guenti: a) di aggettivo, tò koXòv póbov; b) ài sostantivo al
genitivo — ó ToO paaiXéw^ Kf^tro? *, e) di sostantivo unito a
preposizione — r\ npòc, Tf)v ttóXiv óòóc;; d) in forma d'avverbio
— o\ vOv dvepujTToi; e] in forma di sostantivo in apposi^ions
~ Kpoicyog, ó ^aqriUvj»;.
2" V oggetto (§§ i5b segg.) che serve a determinare più
esattamente il predicato [attività, concetto del verbo), nel
suo più, largo senso della parola può essere costituito a) dai
casi — è7Ti8um£» xfì? cyo(pia<;; b) dalle preposizioni unite ai loro
casi — ó arpainTÒ? Ict\\ uapà tu) pacriXei ; e) dalV infinito
- 356 -
— ém6u)nuj Tpacpeiv ; a) dal participio — -^Ehuv emov: e' dal-
l'avverbio — KaXiD<; èjuax^cravTo oi (TTpUTtwrca. — Per ciò se-
guendo quell'ordine, si tratta ne'paragrafi seguenti (i 56- 177)
dei casi^ delle preposizioni^ de pronomi^ dell' infinito^ del
participio, dell' oìn^er Ho .
Ora, prima di passare alPesame delia seconda pane della
sintassi del Kùhner, che svolge la dottrina della proposi-
zione composta, n'è forza sostare alquanto intorno al con-
cetto e al disegno della parte prima.
Lo schema della proposizione semplice, che il Kùhner
ci mette innanzi, presenta certamente qutWimità organica,
in grazia della quale i fatti concreti della lingua vengono
completamente sacrificati all'arbitrio di certe categorie, fon-
date a priori, per le quali si disgregano nella trattazione
grammaticale parti del discorso, che sono invece strettamente
legate, ahre si coilegano, che per loro natura sono aifatio
disgiunte.
E prima di tutto, si vuole ad ogni modo, che al predi-
cato, che è uno dei due elementi della proposizione, sia
inerente {'attività, cioè una forza copulativa e sintetica, la
quale di per sé s'imponga e quasi si rinversi sul soggetto,
senza nessuno riguardo a chi predica (KaitiTopei) veramente
(affermando o negando), con Tatto mentale, che si chiama
giudizio, che un dato concetto, che è appunto il contenuto,
Videa espressa dal predicato, appartiene o non ad un sog-
getto.— Si dimentica insomma, che la proposizione è un^/«-
diì{io, cioè un'operazione della mente, alla quale e soggetto
e predicato stanno dinan7-i contemporaneamente, senza neces-
sità interiore (logica), quasi fossero due termini correlativi.
Nome (óvojiia) e verbo (^r^i^a) non sono che parole, disuguali, se
così vuoisi, quanto al contenuto, e alla forma flessibile -, ma
nulla più che parole, le quali collegate in quella certa unione
(aujaxrXoKri), che addimandasi proposizione, assumono un va-
- 356 -
lore duplice, grammaticale e logico. Quello è pòrto loro
dal fatto esterno e concreto del collegamento loro in forma
di proposizione, questo - il logico - è dato loro daìVio pen-
sante, che è ben altro dal soggetto grammaticale.
Quando il Kiihner ne dice, che la proposizione consta
del concetto di un'attività (predicato) e del concetto di un
ente (soggetto), al quale questa attività viene attribuita (§ 145),
e poi soggiunge (§ 145, 3) che il predicato è o un verbo, o
un aggettivo, o un sostantivo^ o un numerale^ o un pro-
nome^ unito al verbo dvai, che in questo caso chiamasi co-
pula, perchè congiunge in un pensiero l'aggettivo ecc. col
soggetto: — se ne deve inferire subito, che non è possibile
pensare ad un predicato che non sia verbo, e che non v'è
verbo, che non sia predicato. Poiché anche nel secondo caso,
quando cioè il predicato consti ad es. di un aggettivo e del
verbo eivai, come in questa proposizione, ó àvBp<jjTXO<; 8vjitó?
fcCJTiv, il predicato non è GvkìtÓì; ma 6vnTÓ<; ècCTiv; così che BvnTÓ?
è(TTiv sono da concepire come unSi paì-ola sola, e precisamente
come predicato (verbale), esprimente Vattività. Quando si
dice che nel verbo è involuto il concetto di attività, e quello
anche di predicato ; e che nell'aggettivo è bensì il concetto di
attività, ma non il predicato, si afferma senz'altro che il verbo
(^fìfia) è il vocabolo significativo KaT'èHoxnv; che in esso è la virtiì
del predicare (KairiTopeiv), e che il verbo essere (eivai), quando
è unito ad aggettivi o nomi in forma predicativa come nel-
l'esempio arrecato quassopra, perde sua natura verbale, e
diventa 'una semplice copula. — Ora noi abbiamo dimo-
strato in altra parte che il verbo (pnM«) ^'^^ ha valore gram-
maticale più forte, quasi più rilevato dei nome (òvo^a). —
Avrà un valore logico, più esteso, nel senso della categoria,
[praedicamentum - praedicare - Kanrfopiot - KarrìTopeiv); ma
quella che il Ktihner e il Becker chiamano attività (che nel
senso loro non può essere altro che virili predicativa), non
- 357-
compete al verbo per virtù propria, né grammaticale né logica^
ma è una forza invece inerente aìVi'o giudicante, il quale
afferma (KaTdq)acn?) o tiega (àTiócpaai?), che v'ha o non v'ha
relazione fra due termini , che egli (l'fo) mette a riscontro
fra loro KaTàqpaoi? èffxiv àTcó(pav(Ti<; rivo? xaià rivo?, àiró-
(paai? òe èoiiv àTTÓqjavcri? nvoq àuó tivo? (Arist., TTepì '€p|iTiv.,
Gap. 4) (i).
Del resto, questo concetto che del verbo ebbero il Kuhner
e il Becker deriva, secondo noi, da una meno corretta in^
terpretazione del valore, che da Aristotele si attribuiva alle
parole, e dall'aver creduto, che soltanto un concetto gram-
maticale guidasse quel filosofo nella ricerca delle categorie.
— Il problema categorico per lui non era controversia di^-
lologia, ma bensì una ricerca àcìVessere e del pensiero.
Anzi può dirsi, che dei tre concetti - grammaticale, logico,
metafisico (reale) — quest'ultimo, quello della realtà, pre-
valga sempre in Aristotele. — Le parole (xà Xexójieva), se-
condo Aristotele, sono da considerare o come unite (Karà
<yu|LiTrXoKriv, Categ. 2), 0 come prese ciascuna per se (iKaarov
Tu>v £'.pri)uévujv aÙTÒ xaO'auTÓ, Ib. 4). — Nel primo caso esse
affermano o negano (iq npòz à.\\r\\a toùtujv [tujv elprméviuv]
ou^TtXoKrì KaTà(pa(Ji<; f\ ànò(p(x(yiz Y^Tverai, Ib. 4); nel secondo
caso nulla di questo (^Kadov tuljv eìpriiuéviuv auro xaG'aÙTÓ
èv oòb€)ui^ Karacpacrei X^T^tai f\ à7T09àcf€i, Id. 16). — Le pa-
role prese separatirnente non possono esprimere che una di
queste dieci cose, che sono per l'appunto le categorie , e
cioè: la sostanza .^oùaiav), la quantità (rroaóv), la qualità'
(ttoióv), la relazione (npóz ti), il luogo (rroO), il tempo (ttot^,
la situa^iinie (Kdcy9ai), la maniera di essere (lx€iv), Vallone
(i) ÓTTÓcpavoie; e^t enuntiatuw de eo quoà vel esse vel non esse statuì-
tur; quod poster iores iudicium — U'the.! — appellaverunt. — Karà-pacrt^
est affirtnatio, ànoq>ix(JK nfgatio. Ri iter et PatLLER, H istoria philcso-
phiae , ecc. . § 3i3, a, 6.
divista di filologia ecc., I. 3$
- 358 -
(ttoiciv), la passione (rrdcrxeiv) [Cat. 2. 4.). — Vero è che
da qualche passo di Aristotele si potrebbe dedurre, che egli
al verbo attribuisse tale virtù, che senza di esso non fosse-
possibile un enunziato qualunque : — óvdfKn ixdvTa Xófov
àTroq)avTiKÒv(e«««/m^ttm) èK ^rmaro? (ver^o) etvai (TTepi '6pvuiv.
5). E altrove : ècfiai nacra KaTd<|)acri<; Kaì àrtócpaCK; - il òvó-
fiaroq Ka\ ^/maxo?, fiveu bè piiiiaToq oùòeiiia KaTdqjacriq oùbè
àitóq)a(yt<; (trepi *€p|iTiv. io). Di qua passò nelle scuole Fuso
di considerare il verbo (yerbum , ^fliua) con-ie il segno wxr
è^oxnv del predicato. — Ma si raffronti quest'altro luogo;
dvo^a jièv ouv èffTÌ cpuivn cXTi^oiVTiKt^ Kaià auv8riKTiv àveu xpóvou
f\<i nr\bk.v M^po? iati armaviiKÒv KexiupicTMévov • pniua bè icii tò
TTpoaanjiiaTvov xpóvov {Zeitwort)^ ou n^poq oùbèv ^xwmxvìx
Xiwpi?, Ka\ ^ativ dei tuiv Ka9' éi^pou \v^q[xìw\ìì\ (JrijieTov [prae-
dicatum] (ncpì ''€p)iT]v. 2). — Nel contesto del discorso
adunque (èv irj aujUTrXoKrì} acquista il verbo valore predica-
tivo, in quanto cioè T/o afferma o nega la correspondenza
de'termini (soggetto e predicato) fra loro. — La verità dei
nostri giudizi si riscontra in questo, che cioè il pensiero
corrisponda alla cosa pensata nella sua realtà, che cioè l'or-
dine logico corrisponda all'ordine metafìsico. Il nesso o le-
game sta nel pensiero, che giudica, e non in un necessario
vincolo tra le cose reali e le parole; in altri termini le pa-
role sono legate alle cose mediante i pensieri. — AfiXov 6ti
ouTu»? l\(.\ là npdT^aTO, xdv ]xr\ ó pèv Karacpricyr] ti, ó bè àiro-
q)yi<Tr} • oùbè ydp b»à tò KaToqpaOnvai f| dTroqpaBfjvai laxai ì\ oOk
laiax (TTepi '€pgT]v. 9).
La definizione data dal Kiihner delia proposizione, che
essa cioè sia un tutto, che risulta dallo attribuire il concetto
di attività al concetto di un ente^ traeva dietro a sé, come
conseguente, il raggruppamento delle varie parti del discorso,
come intorno a due centri maggiori — soggetto e predicato
— sotto forma di concetti completivi, e del soggetto sotto forma
— 359 —
di attributi (§ 154) e del predicato sotto forma d'oggetto —
(§ i55 segg.). — Noi ci siamo studiati a lungo di rintrac-
ciare il criterio di questi due gruppi di complementi. E di
un altro fatto ancora abbiamo cercato d'indovinare il concetto
direttivo. — La dottrina dei casi cioè (§ i56 segg.),
oggetti del predicato (verbo), si fonda tutta , seco^ìdo il
Kiihner, sul concetto del moto (1). — Ecco infatti come da
lui si definiscono i casi, e come se ne raggruppano le rela-
zioni.
!*> Il Genitivo è il caso del moto da luogo (terminus a
quo), in tuue le relazioni, proprie e figurate, locali, cau-
sali, d'origine, ecc., in quanto V oggetto genera q produce
(gignit), e occasiona l'azione del verbo: èmeuiau) ix\c, àpeTfì<;
(§ 1 56-1 58).
2*^ 'L'Accusativo è il caso del moto a luogo (terminus
ad quem), che nelle relazioni causali dinota conseguenza,
esito, opera, come pure quell'oggetto, che per Va\ione venne
posto in uno stato passivo (§ 169 -160).
y II Dativo finalmente è bensì il caso dello stato in
luogo, come antitesi al concetto del moto; ma tuttavia esso
indica ancora un oggetto a cui un soggetto abbia bensì ri-
volta la sua attività, ma non lo abbia ancora raggiunto 0
colpito. — .Cosi si spie^ ii Dativus communionis, com-
modi-incommodi, ecc. (§ 161).
4° Le preposii{ioniy altro complemento dciroggetto, ser-
vono come i casi per indicare la relazione di luogo, sempre
però nel senso dello estendersi nello spazio (§ 161).
Diremo cosa, forse strana, ma certo pensata. A noi pare,
che i due gruppi, di complemento del soggetto e comple-
ti) Sono le tre categorie deiro*'^ diretto, luogo in cui, donde, secondo
la dottrina dei localisti , come li chiama il Curtius {Comm., p. ió3,
Mliller).
- 360 -
mento del predicato, corrispondano ai gruppi delle categorie
d'Aristotele, giusta i criteri, che intorno ad esse correvano
nei primi decenni del secolo, che esse cioè avessero soltanto
valore grammaticale e formale^ come espressione dei iiomi^
dei verbi, degli avverbi (i).
Le prime quattro categorie — sostanza, quantità, qualità,
relazione — a cui corrispondono i nomi sostantivi con gli
aggettivi enumerali, costituirebbero il i° gruppo: soggetto-
attributo; le altre categorie — luogo, tempo, situazione, ma-
niera d'essere, azione, passione — le quali, massime le ul-
time quattro, determinano il valore del verbo, formerebbero
i.l 2° gruppo ; predicato — oggetto^ incentrandosi questo
nel concetto attività^ moto^ tempo (èvépTcìa, xivncyi?, xpóvo^).
Ecco dunque il verbo (pnjua), il vocabolo Kai'èHoxnv, centro
di attività e di moto nello spazio e nel tempo, simbolo ael-
Tunità del pensiero, che afferma o nega la corrispondenza
fra la realtà e Tidea, nucleo fatale, verso il quale tutte le
altre parti del discorso di necessità convergono (2).
Se così è — e potrebbe anche non essere e muovere da
altri criteri la dottrina della proposizione data dal Kiihner
— la tirannide del pensiero sulla forma, valore, posizione e
relazione grammaticale della parola è saldamente costituita,
ned'altro compito compete al grammatico, da quello infuori,
ingratissimo per vero dire, di forzare ogni relazione sintat-
tica verso lo schema preconcetto del pensiero.
Ma passiamo ad esporre il concetto àt\\diproposi:{ione com-
posta, quale ci è porlo dal Kiihner (§§ 178 segg.).
(i) Trendelenburo, Geschichte der Kaiegorienlehre, Berlino, 184^.
Eìementa logices Aristotelicae, ecc., Berlino, i836.
(2) Oggidì s'inclina piuttosto al valor reale delle categorie (Prantl ,
Geftchichte der Logik in Occident, 1 855-6 1)- — Vedi anche Fiorentino,
Saggio storico, ecc., J864, pp. 193 e segg. — Ragnisco, Saggio t,ri-
tico, ecc. I^ 239.
- 961 -
« Trovasi di frequente, così il Kùhner al § 170, che due
« proposizioni, le quali insieme esprimono un pensiero unico.
« abbiano per loro contenuto tal relazione fra loro, che l'una
« si presenti come mancante di esisten:{a sua propria e de-
« stinata soltanto a compiere e detei minare l'altra. — La
« proposizione che riceve il suo complemento o la sua de-
« terminazione da altra, si chiama principale-^ quella che
« serve di complemento, secondaria ; e tutte due insieme ,
« proposizione composta. »
« Le proposizioni secondarie espriniiono o il soggetto, 0
« Vattrihuto, o Soggetto d'un^intiera proposizione, e devono
H quindi riguardarsi come sostantivi, o aggettivi, o avverbi
« ampliati in una proposizione. — Noi distinguiamo perciò
« tre sorte di proposizioni secondarie : — cioè proposizioni
« sostantive, addietlive e avverbiali (i). »
Gli è evidente da ciò, che la dottrina della proposizione
composta, come è concepita dal Kùhner, si può definire, la
dottrina delle pruposiiioni completive trasformate. Evidente
è del pari, che il concetto, che domina la dottrina della pro-
posizione semplice, è pure il fondamento della composta.
— È sempre la stessa cerchia fatale di ente (soggetto) e at-
tività (predicato), della quale non v'è uscita. Là, nella pro-
(i) Gioverà molto per T intelligenza lo arrecare innanzi qualche
esempio :
a) Nella proposizione seguente: fu annunpata la vittoria di Ciro,
si può allargate il soggetto (vittoria), e dire:/« annunciato || che Ciro
ha vinto (prop. second.).
b) Cantami, 0 Musa, l'uomo molto travagliato. In questa propusi-
zione, l'attributo {molto travagliato) può svolgersi così : Cantami , o
Musa, Vuomo \\ che fu molto travagliato.
e) Egli arnun^fiò la vittoria di Ci^'o. L'oggetto (vittoria) può con-
vertirsi in: egli annunciò \\ che Ciro aveva vinto.
d] Nella primavera sbocciano i fiori , può risolversi cosi; Quando
viene la primavera \\ i fiori sbocciano.
— 362 -
posizione semplice, dall'una parte un nome, o un a^ctttvo
che sotto forma d'attributo o ó.'' apposizione determina più
da vicino li soggetto^ e dairaltra un c^j-so, una pr epos l'itone
unita al caso, un infinito^ un avuerbio, che sotto forma di
Oj^^f/Zo svolge più distesamente il /reii/ca/o; qui invece, nella
proposizione composta, è un'intera proposizione che deter-
mina più da vicino o il soggetto (proposizione sostantiva),
o Vattributo (proposizione addiettiva), o il verbo, predicato
(proposizione avverbiale). — E perchè Tunilà simmetrica
fondamentale delio schema non sembri alterata nella forma,
Tautore s'affretta a dirci, che queste colali proposizioni com-
pletive altro non sono che sostantivi^ aggettivi e avverbi
atnpliati o trasformati.
Ad un concetto identico risale tutta la dottrina della pro-
posizione composta, che ci è pòrta dal Becker (Ausfiihrl.
deutsch.Gramm.j. — Eccone la somma de'pen?ieri: — Le pro-
posizioni, così sentenzia il Becker, sono o principali, quelle
cioè che esprimono un pensiero di chi paria, e si dividono
in affermative, interrogative ., desiderative , imperative (ur-
theiis- frage- wunsch- heische-sàtze), o secondarie , quelle
cioè le quali presentano uno degli elementi costitutivi della
principale sotto forma di una proposi'{ione ; — Queste, le
secondarie, si dividono perciò: i'' in proposizioni del caso
t?'asf ormato (Caisussàtze)\ 2" in proposizioni avverbiali (dì
spazio, di tempo, di causa, d'intensità): V proposizioni ag-
gettivali. — L'essenza della proposizione secondaria, nella sua
relazione colla principal*^, sta in ciò : che invece di un caso
con o senza preposizione si può porre una proposizione se-
condaria ; che un attributo o un participio può venire so-
stituito da una proposizione relativa; che una proposizione
avverbiale può essere ricondotta ad un avverbio. — Da questi
brevi cenni ne sembra chiarita a sufficienza l'identità di con-
cetto, che informa la dottrina delle due sintassi della proposi-
— 863 -
z'tone, greca e tedesca — come l'hanno voluta fondare Ìl
Kiihner e il Becker (i).
Una crìtica di cosiffatte teoriche, posto anche ce lo conce-
desse lo spazio, non sarebbe possibile, che soltanto in parte,
essendoché su questo campo (almeno per ciò che spetta la
lingua greca), moke più tenebre incombono, che a prima
fronte non sembri. — L'indagine storica e, soprattutto, la
comparazione, potranno solo esse spandere qualche luce su
questa intricata materia. E tutt'altro che esaurito è in questo
rispetto il compito della linguistica. Infatti la storia delia sin-
tassi greca ci mostra, anche allo stato odierno dell'indagine,
che quel nesso, che noi slam usi a considerare strettissimo
nei rapporti della subordinazione (ójrÓTaHi?), in origine, e,
certo, in quello stadio della lingua, che ci è noto per la
poesia epica antica, era molto allentato, tanto che ne'tempi
più remoti la lingua non distingueva neppure fra rapporto
ipotetico e temporale*, così che la cìassazione, che noi fac-
ciamo della proposizione, è piuttosto logica che grammati-
cale. Così per rispetto alla correla:{ione, la linguistica c'inr
segna un lento trapasso dall'uso coordinato (trapÓTa^i?), o
puramente dimostrativo, all'altro uso, più serrato e più stretto,
della subordinazione, ossia del relativo^ il quale parrebbe
accennare ad una necessità intcriore di logica dipendenza.
Ma il fatto, incontestato oggimai, che la lingua greca, cioè,
al pronome relativo perviene per mezzo di due temi, diffe-
renti d'origine, ma ugualmente dimostrativi, ci deve rendere
ben cauti nel sentenziare intorno a quest'arduo tema Così,
ad esempio, nella lingua epica antica vediamo, che le forme
del dimostrativo, che cominciano per t, sono usate come re-
lativi, ciò che ne mostra, che il relativo si separò dal dimo-
(i) Vedi Haacke, Beitrdge, ecc. II, § ai-22.
— 364 —
strativo soltanto a poco a poco. — Così leggiamo nella
Odissea (III, yS)-
Otà re Xrii(yTÌpe<;, urrtìp aXa, toi t' àXóujvrai
Vuxà? 7Tap9^)Li€VO» ... .
E Odiss. XII .63 oùbè rréXeiai
Tpr|puJV€<;, Ttti t' à)iPpoaÌTiv Aiì rrarpi tpépoucTiv.
(Confr. Krijg., Gram. Greca II, § 25, i. — Curtius, Comm.
pag. 77, Mùller; Schleicher, Camp. pagg. 358 segg., Pezzi.)
Un posto assai importante tengono le congiuniioni nello
studio della proposizione composta. Anche in questo rispetto
la linguistica accenna di condurci per altre vie, da quelle
segnate dal rigido e violento sistema del Kùhner. Un at-
tento esame infatti della /urw^ originaria delle congiunzioni,
che sono più usate nelle proposizioni composte, ci conduce
a radici di temi relativi — (Confr. le forme 6u quod^ eou(;-
xéu)?, ò-T€, uJ5-6Truj(;, ujs-oijtuj<;, i-va. Curtius , Comm. pagg.
i88, 189, Muller). — « Cosicché^ dice il Curtius (/. e), la
dottrina delle proposizioni si potrebbe unire a quella dei
casi^ e dalle forme stesse della lingua dedurre un principio
per la divisione delle proposizioni , introdotte nel discorso
col me^o di congiunzioni. ^>
Per ciò poi che spetta le proposizioni avverbiali^ cioè
quelle che esprimono un oggetto avverbiale y pel quale
viene allargato e svolto più ampiamente il concetto del pre-
dicato, secondo la dottrina del KiJhner (§§ i83 segg.), noi
osserveremo semplicemente, che tutta questa parte della teo-
rica della proposizione composta si fonda sopra una falsa
ed erronea interpretazione delia natura dell'avverbio. Anche
in questo rispetto possiamo dire della linguistica, che: —
Mentem lymphatam Mareotico — Redegit in veros timores!
— Essa infatti accenna a statuire, che gli avverbi sono casi,
più o meno riconoscibili alio stato presente della forma loro,
o avanzi di casi.
- 365 - ^
La moderna dottrina del locativo è molto istruttiva in
questo rispetto (Confr. Schleicher, Comp. §§ 145 segg., P.;
Curtius, Comm. pag. 189, M.) — tanto che persino la con-
giunzione €i viene ascritta ai locativi. Tutto ciò, che quelle
pretese proposizioni avverbiali hanno di comune con quelle
parole, che comunemente s'addimandano avverbi, si restringe
a questo solo fatto , che cioè e con quelle e con questi si
risponde alla domanda come, in che modo, cioè vien pòrta
una più precisa determinazione di ciò, che è espresso nella
proposizione principale, in riguardo al tempo, al luogo, alla
causa, e cosi di seguito.
E quanto alle proposizioni, che il Kùhner chiama agget-
tive, cioè completive dell'attributo, che per esse si presenta
sotto forma di proposizione trasformata (§ i83), diciamo
che lo studio dei Modi condotto sulle orme segnate anche
su questo campo dalla linguistica e massime dalla storia
della Sintassi dei modi, va recando una ben radicale tras-
formazione anche in questa parte della gramniatica. L' uso
del relativo, vuoi solo, vuoi accompagnato con av, insegna,
che i costrutti relativi hanno ben altro valore, che quello di
aggettivi e participi trasformati, affatto empirico e formale.
— In questo rispetto la dottrina del collegamento dei modi
{consecuiio modorum) è progredita tanto, quanto forse nes-
suna altra parte della Sintassi greca , ed alla medesima fa
perfetto riscontro la dottrina della consecutio temporum,
come l'ha fondata il Madvig.
È proprio a deplorare, che il materiale eccellente cotanto
della Sintassi dèi Kuhner, sia stato sacrificato agli amori di
un cotale consequenziarismo grammaticale, che rese dappoi
necessaria una completa riforma nella trattazione della Sin-
tassi Greca.
Rovigo, gennaio 1873.
Gaetano Oliva,
- :^66 -
C£t^CC^:/ "BrBLIOG'llAFlCl
Stiidien ^u Aeschylus von N. Wecklein. Berlin 1872.
Malgrado che molti eiaditi, in ispecìe della dotta Germania,
abbiano spesa ia vita nelle più accurate indagini critiche in-
torno agli scritti degli antichi per interpretarne i passi più
difficili e per rimediare, ove fosse possibile, alle ingiurie
del tempo e della barbarie medioevale, si può dire senza
tema di errare, che cotesto lavoro di analisi, lungi dalPesser
compiuto, fornirà sempre occasione di nobili studii a tutti
coioro che sentono vivo Famore per la cultura greco-latina.
Questa affermazione, pur vera rispetto alla letteratura in
genere degli antichi, è verissima qualora si riferisca & qual-
che autore in particolare, per esempio ad Eschilo, il quale
nelle poche tragedie rimaste ci giunse in un testo così scor-
retto, che in molti luoghi non fu ancor possibile ristabilire una
lezione soddisfacente; e d'altra parte per la sublimità dei
suoi concepimenti e per lo slancio arditissimo della fantasia
poetica spesso lascia il lettore immerso in un crepuscolo
penoso anche in certi passi, nel quali sembra non si debba
accagionare l'ignoranza dei copisti di questa poca chiarezza
del testo. Intorno a simile autore rèsta non poco a farsi;
ed un erudito tedesco, il Wecklein, esprime appunto questo
suo convincimento nella prefazione ad un lavoro da lui pub-
blicato di fresco a Berlino , e intitolato « Studii intorno ad
Eschilo ». Il Wecklein osserva, come spesso il pensiero del-
l'autore sia stato quasi sepolto sotto la mole dei commenti,
e cita alcuni esempi convincentissimi per far vedere, come
talvolta gli schiarimenti dei critici non abbiano servito ad
altro, che a sviare la mente del lettore dal significato più
naturale di un certo brano; tuttavia non s'abbandona per
ciò ad uno scetticismo assoluto , che anzi non dispera di
poter spesso trovare il filo d' Arianna , valendosi della po-
tenza rìcostiiutiva della fantasia, che dovrebbe riprodurre il
lavoro fantastico già fatto dal poeta, e poi di quegli altri
mezzi, che la critica moderna somministra, cioè esame dei
fonti, degli scolii, osservazioni gramm.aticali, studio coscien-
zioso degli abiti del poeta nel creare e nell' esprimere , in
una parola, di tutto ciò che può gettar qualche luce sui poemi
immortali. Né si creda che il dotto tedesco appartenga alla
schiera di coloro, che vorrebbero spiegar tutto : egli dichiara
fin da principio, che si maltratta indegnamente il poeta
d'Eleusi, ogniqualvolta si attribuiscono a lui gli errori evi-
denti dei copisti e i guasti prodotti « da un malefico influsso».
Infine egli chiude la sua prefazione ripromettendosi d' aver
fatto qualche cosa per T esegetica di un sommo scrittore an-
tico, e sottoponendo ad un giudizio veramente severo, egli
dice, ma pur benevolo, le sue novelle ricerche-, ed egli
otterrà senza dubbio questo giudizio, quale se Taugura, da-
gli eruditi, che prenderanno ad esame Topera sua, e rico-
nosceranno in lui quell'accuratezza scientifica, che non si
deve scompagnar mai da siffatto genere di studii. Intanto
l'esimio filologo tedesco perdoni a un debole cultore delle lin-
gue classiche alcune idee nate in lui spontanee, in seguito alla
lettura del suo libro ^ idee che egli non esporrebbe certa-
mente, se non gli servissero di occasione a parlare coi do-
vuto rispetto di questa nuova ed importante pubblicazione.
È buono premettere per quanti non li conoscessero an-
cora, che gli « Studii su Eschilo » del Wecklein sono infor-
mati a quello spirito critico, onde si onora tanto la filologia
germanica , e pel quale non si trascura , non si disprezza
nulla, ma, riputandosi ogni fenomeno degno ugualmente di
attirare a sé l'attenzione dello scienziato, si trascorre colla
- 368 —
analisi dall^ esame dei pensieri a quello delle parole, delle
forme grammaticali, dei costrutti sintattici, del metro, delle
peculiarità dialettali, ecc., non si sdegna, come si farebbe
da taluno dei nostri , di porre accanto a profonde osserva-
zioni sui punti piij difficili dell'arte drammatica note non
meno utili sull'uso di un articolo, di una particella negativa,
di un participio, e così via, come fa appunto il Wecklein.
Il suo lavoro si può naturalmente dividere in due parti,
quantunque esse si intreccino fra loro nel corpo deiropera,
cioè « Argomenti che si riferiscono ad Eschilo in generale »
e « Trattazione critica di brani particolari » : appartengono
alla prima serie i capitoli in cui si discorre , ad esempio,
della similitudine presso Eschilo, dell'uso della lingua, della
ripetizione di una stessa parola , dell' artìcolo usato come
pronome dimostrativo , osservazioni intorno alla dipodia
anapestica, alla formazione del quinto piede nel trimetro,
intorno ai manoscritti ed agli scolii; appartengono alla se-
conda serie le illustrazioni critiche di molti passi scelti dalle
sette tragedie, che ci sono rimaste di Eschilo. Sarebbe cosa
utilissima il rifare per intiero la strada che ha fatto il Weck-
lein con passo sicuro e talvolta un poco ardito attraverso
a quegli splendidi resti della Musa di Eschilo; ma ciò non
è ora possibile per la natura di questo scritto, che vuol es-
sere poco piìj dMn mero annunzio bibliografico.
Ecco adunque un saggio del modo con cui il Wecklein
si rende conto del lavoro fantastico fatto dal poeta. Par-
lando dell'espressione metaforica e deila similitudine presso
Eschilo, mentre osserva come esse attestino la grande po-
tenza rappresentativa del poeta, dice pure che spesso non
si possono intendere così facilmente, ove l'interpretazione
non sappia riprodurre lo slancio della fantasia poetica, ma
si contenti di trapassare da un pensiero a quello che vi si
incontra imTiediatamente a fianco. Cita a questo proposito
- 369 -
quelle parole che il poeta pone in bocca a Cassandra, quando
nel calore della visione vede compiersi dinnanzi ai suoi oc-
chi Tuccisione di Agamennone, al vers. i riS: a a* lòoù lòou-
àrrexe ià<; poò<; — xòv TaOpov èv TréTrXoicTiv — jaeXaYKépiu Xa-
PoOcTa firiXcivriiuaTi — tuitt€i. L' autore ripudia coir Hermann
la lezione ueXdTKepuuv, con cui questo epiteto è attribuito al
toro, come vorrebbero il Keck, il Wellauer e parecchi altri;
disapprova i mutamenti, che fecero alcuni, dei laeXccTKepqi
in jiieXaTKpÓKip, {ueXafKÓnii, jaeXajairXÓKip, ecc.^ e infine con-
chiude collo spiegare a questo modo. Il poeta avendo per
bocca di Cassandra paragonato Agamennone e Clitennestra
ad un toro e ad una vacca, prosegue nella metafora, e
allude col neXa^Képiy jLirixavrj^aTi a tutto il mezzo dell'ucci-
sione, talché Clitennestra essendo il toro furioso che si av-
venta sulla vacca, le sue braccia sollevate, che tengono alta
la nera veste, la rete fatale pur chiamata dai poeta <r òiktuov
"Aibou », possono sembrare alla fantasia accesa di Cassandra
le corna dell'animale, che giustificano il ueXcrfKépifj applicato
a )Linxavri|LiaTu Questa interpretazione già esposta in parte
dall'Hermann è molto ingegnosa e sembra la più verisimile
fra le diverse spiegazioni che si diedero di questo passo;
solo l'autore nota come il toro rappresenti Clitennestra e la
vacca Agamennone, asserendo che in caso contrario, cioè
secondochè parve a tutti i commentatori, se il toro rappre-
sentasse Agamennone e la vacca Clitennestra, il poeta non
avrebbe detto « arrexe la^ poòq tòv raupov ;), bensì « firrexe
ToO Taupou Tàv poOv ». Ma in realtà l'espressione >( airexc.
Tct^ poò? TÒV TaOpov » vuol dire letteralmente « tien lungi
dalla vacca il toro », e non importa in modo esplicito, come
suppone l'autore, che debba esser piuttosto il toro pericoloso
alla vacca che non questa al toro; ci manifesta solo la ne-
cessità e quindi un desiderio che stiano disgiunti. Ora il
supporre che in questa scena terribile Agamennone possa
— 370 -
essere rappresentato qua! vacca debole percossa dal toro
furioso, da Clitennestra , presenta un lato a primo aspetto
verosimile, in quanto che accade ordinariamente che il più
forte atterri il più debole-, ma è uopo considerare che in
questo caso il forte è vinto colPinganno -, del resto Timagi-
nare cosi invertite le parti, tanto più che si tratta di con-
sorti, par ripugnante all'uso generale poetico, fondato su
una legge di naturale analogia che il poeta osserva in altre
espressioni metaforiche o paragoni-, ad esempio al V. 1268,
ove Clitennestra ed Egisto diventano una leonessa ed un
lupo; al V. 1671, ove Egisto è paragonato al gallo presso
la gallina. Quindi l" Enger, trattandosi di spiegare il poó?
e il xaOpov, non esita neppure un istante a dire: « invece di
moglie e marito, secondo Toscuro modo di esprimersi degli
oracoli » . E poi qual motivo potrebbe aver indotto il poeta
a scegliere questa metafora piuttosto che un' altra, se non
un facile ravvicinamento sorto nella sua mente all' idea di
una moglie e d'un marito, di un « coniugio « ?
In ordine alla similitudine l'autore, avvalorando con op-
portuni esempi le sue affermazioni, nota, come Eschilo spesso
sia solito a porre semplicemente ed immediatamente una
similitudine in vece dell'espressione propria e incaricare la
fantasia di rappresentarsi la giusta relazione. Inoltre libe-
rissima opera la fantasia di Eschilo nel collegamento e nella
fusione della similitudine e dell'espressione propria, inquan-
tochè o la espressione propria vien determinata dalla pen-
sata similitudine, o la similitudine appare al posto della
espressione propria, ma riceve compimento o più esatta de-
terminazione dal pensiero proprio. Degna d'osservazione è
pure la proprietà di risospingere l'espressione metaforica
nella realtà e con una specie di ironia accrescere l'illusione
dell'imagine. Cosi spiega il Wecklein nelle Eumenidi, quando
Atena dice, V. 40? : « ^vBev fciiuKoiicr' n^8ov àipuiov nóòa —
-^n -
TCT€piIjv dxep ^oj^òoGaa kóXttov aÌTÌi>o<; — tvóiìloi^ àK^aioK; tóvb'
èniZ:£u2a<; óxovi». L'òxov di Eschilo non è che un carro imagi-
nario, è una semplice espressione metaforica per significare
che l'egida ^scossa da Atena le tenne luogo di un carro tirato
da robusti cavalli; eppure Atena parla di questo carro in
modo da far quasi credere che l'abbia realmente adoperato.
Dipoi l'autore trattando dell'uso della lingua, dopo alcune
osservazioni sull' uso rarissimo della crasi e della sinizesi
nei canti corali di Eschilo e sulle forme verbali doriche,
dimostra con opportuni esempi, che il costrutto participiale
e l'uso dell'infinito in Eschilo ci presenta alcune particola-
rità, le quali, appunto come il costrutto asindetico molto
piij esteso in Eschilo che non in Sofocle od Euripide, por-
tano l'impronta di una hngua arcaica, che, paragonabile
alle costruzioni ciclopiche, compone la fabbrica dei periodi
con membri slegati, mette giù il pensiero senza intermediari
e lascia, che si sostenga col proprio peso. A questo genere
appartiene il caso, iq cui un participio nominativo trovasi
usalo assolutamente. Di ^uestq caso sonovi differenti specie,
che l'autore enumera partitamente.
Questi cenni, sebbene incompleti, possono fino a un certo
punto far comprendere altrui il modo con cui il Wecklein
tratta le tesi piiì importanti in ordine alle osservazioni ge-
nerali su Eschilo, avvertendo tuttavia, che non è possibile
apprezzare degnamente il lavoro del Wecklein senza leg-
gerlo con molta attenzione da capo a fondo.
Anche nei singoli brani scelti dalle sette tragedie super-
stiti, commentati e spiegati dall'autore sovente con felicis-
sima riuscita, s'offre allo studioso largo campo di riflessioni,
di ipotesi, di raffronti; e qui pure mi sarà forza l'accennare
solo ad alcuni passi, specialmente dell'Agamennone, diffusa-
mente illustrato dal Wecklein, in cui l'autore s'abbandona
a spiegazioni forse trcppo ardite, o non sempre necessarie.
- 372 —
Nelle considerazioni generali, parlando delf uso speciale
di TÒ MH colPinfinito, quando questo venga dopo un verbo o
un'espressione, che indichi un'attività opposta, riluttante
alla conseguenza espressa per mezzo dell' infinito, adduce
in esempio quelle parole del qpuXaH, Ag. Vers. !4. — q)ópo?
f àp àv6' uTTvou napaciarei, — tò un pepaiuu^ pxécpapa ffuiuipaXeiv
uTTVtu- — ed a questo proposito combatte l'opinione del Kar-
sten , che il tò mh, costruendosi solo coi verbi significanti
« impedire, vietare, ecc. », sia mal costruito col TTapoataTeiv,
poiché, nota l'autore, questo non può essere considerato di
per sé, bensì come riferentesi al q>ópoq; in seguito accetta la
osservazione del Karsten, che la voce « urrvo? » ripetuta stia
male « tiìst potius inepte hoc dictiim est<, somni loco timor
adstat^ oculos sonino clauderc vetans »-, perciò slima che
Terrore stia nel primo uttvou e che quindi si debba elimi-
nare, poiché altrimenti rimarrebbe sempre il pensiero sgra-
ziato « il timore » che io non chiuda gli occhi al sonno (mi)
sta accanto in luogo del sonno. In conseguenza modifica lo
dv6' UTTVOU in un aggettivo àvTiTrvou(;, confortando la forma
con buoni esempi, e schivando a parer suo ogni inutile ripe-
tizione. Ma a me sembra che con una leggera differenza di
traduzione il senso corra chiarissimo, e non solo T' uttvou non
sia una ripetizione stucchevole, ma torni necessario all'esat-
tezza del pensiero. Basterebbe tradurre Pàvii per !> contro »
in luogo di tradurlo per « invece », cioè conservare alla pre-
posizione il significato più vicino all'antico, ed allora avremmo:
« il timore — che io non chiuda saldamente le palpebre al
sonno — - mi sta (accanto) contro il sonno » cioè, riducendo
l'espressione alla sua massima brevità « il timore di addor-
mentarmi (dovendo io vegliare) mi impedisce di dormire».
Ora quale espressione potrebbe essere più logica e richiedere
in modo più assoluto la ripetizione del concetto «dormire»?
Il mutamento stesso introdotto dal Weckiein coiràvTiTTVou?
- 313-
consiste principalmente nelTintendere àvii nel senso di « con-
tro », mentre prima, unendola con uttvou, non sa tradurlo
che con un «invece)). Pertanto, a parer mio, questo sa-
rebbe un mutamento superfluo, e come tale da evitarsi.
Alle parole di Calcante oiov ixr\ tic, afa 6eó0€v Kvecpdc»,! Tipo-
Tuirèv cTTÓjaiov juéTa Tpoia<; — CipaiiiuGév. — oikuj yàp €TTÌqp6ovo<;
K. T. X. (v. 162 e segg.) il Wecklein osserva: il senso gene-
rale è chiaro i Troia sarà presa, dice Calcante-, solo prima
di questo grande avvenimento per Tira di Artemide una gran
disgrazia piomberà sull'esercito. Quindi spiega il Kveqpdcr) in
questo senso : « far che Tesercito non possa essere ciò che do-
vrebbe essere, cioè lo aTÓjuiov ^éfo. Tpoia<;))', sostiene che nel
TTpoTUTtév v'è ridea di « percosso prima » cioè prima che giunga
ad infrenar Troia e spiega il « percosso » aggiungendovi
« con un colpo di fulmine ». Per risolvere poi la difficoltà
dello cipaiiuGev, interpretato , egli dice, erroneamente dal-
l'Hermann come un participio di un supposto <7TpaTo0cr9ai
in casiris esse^ dall' Ahrens come n frenum ab exercitu in-
iecttim », mutato invano dal Keck in (Japuj0€v per otte-
nere un contrapposto aKveqxxar), dallo Schmidt in cfaGpweév,
mentre questa è parola della grecità posteriore, finisce col so-
stituire allo (JTpaTuuGév un KapuuGév, il quale, se corrisponde al
concetto che si è fatto l'autore del TrpoTUTrév, cioè percosso dal
fulmine, non s'addice molto all'espressione metaforica del
freno, inquantochè ctóiuiov TtpoTUTrèv KapoiGév verrebbe a si-
gnificare «. freno percosso prima, stordito (dal fulmine) » ed
un « freno stordito » non è il pensiero più elegante che si
possa imaginare. D'altra parte non seppi comprendere come
l'autore combatta la spiegazione dell' Ahrens <( frenuin ab
exercitu iniectnm » col dire unicamente che né il Kvecpacrri,
né il irpoTuTrév convengono all'idea « soggiogamento di Troia )>,
laddove il Kve(pdcTi;i si vuole a ogni modo riferire a cióiiiov,
che dovrà pur sempre reggere come genitivo di appartenenza
'Hjvista d!i filologia ecc., /. 36
- 374 -
il Tpoia?; ora siccome lo o"tó|uiiov rappresenta metaforicamente
il mezzo della sottomissione di Troia, il concetto del Kve-
qpàai} o non è ripugnante à quest'altro, o lo è pure colla spie-
gazione proposta dairautore.
Il ragionamento che fa l'autore per dimostrare infondata la
opinione di coloro, che appoggiandosi alle parole (v. 2 58)
fÌKUj, aegiCouv o'óv, KXuTaijavriaTpa, Kparoq ecc. sostengono il
coro presentarsi in cospetto del palazzo dì Clrtennestra per
un ordine ricevuto da lei, basterebbe solo a chiarire Tacume
critico, con cui egli tratta coleste questioni. Il Wecklein am-
mette con un antico grammatico, come sia carattere distin-
tivo del parodo, che in esso il coro manifesti il motivo del
suo presentarsi. La Schneidewin nel caso di cui si tratta
trova questo motivo in un ordine espresso di Clitennestra, e
quindi traduce « (Sòv Kpdro^ per « il tuo comando » -, ma
Fautore sostiene che queste parole sono, come una '< captatio
benevolentiae » una semplice introduzione alia preghiera che
segue; il coro dice: Io sono un umile suddito e la mia pre-
ghiera è quella d'un suddito; se vuoi darle favorevole ascolto,
tu mi fai sommo piacere, kXuoi^' gv eucppwv; se poi tu !a re-
spingi, io non vorrò per questo essere malcontento. Com-
batte pure le interpretazioni del Keck e del Nagelsbaeh -, il
vero motivo dell'apparire del coro sta nella speranza e nella
curiosità che si desta in esso alla vista dei fuochi sacrificali
accesi per tutta la città-, il coro medesimo lo dice colle pa-
role aù bè, Tuvbdpeuj — ©uYatep, paciXcia k. t. X (v. 83). Ed a
proposito di queste parole l'autore confuta, parmi, vittorio-
samente le interpretazioni quasi identiche date dall'Hermann,
dallo Schneidewin, dal Keck, i quali asseriscono che il coro
si rivolge, parlando, a Clitennestra, mentre ella esce dal
palazzo pei sacrificio, ma non ne ottenne pronta risposta,
perchè ella non vuol essere disturbata ne'suoi atti di voti ;
quindi il coro intuona un canto sacrificale. Il preteso canto
- 3T5 -
sacrificale, secondo il Wecklein, appartiene al parodo pro-
priamente detto, laddove il canto corale dal verso i6o al
285 costituisce pel contenuto e per la forma il primo sta-
simo -, quanto a Clitennestra, quando il coro dice « e tu, o
figlia di Tindareo, o regina Clitennestra, che bisogno, che
novità? ecc. », ella non è sulla scena più che non. lo sia Aiace
nel parodo della tragedia Sofoclea di questo nome, quando
i suoi soldati, temendo pel loro duce in seguito a dicerie
funeste diffuse sul suo conto, si presentano dinanzi alla tenda
deireroe, che vi è rinchiuso, perciò non visibile sulla scena.
Da ultimo l'autore dimostra insussistente l'opinione di O.
Mùller, che il coro rappresenti un alto consiglio lasciato da
Agamennone a far le sue veci durante la sua assenza e sotto
la presidenza di Clitennestra,
Una considerevole mutazione è introdotta dal Wecklein al
vers. 179: ajàlii b'év S'uttviu ftpò Kapbicx<; — |avricri7T/||nu;v rróvo(;,
per evitare parecchie difficoltà, che si trovano in questo brano.
Le principali, secondo Fautore, sarebbero tre: la particella ré
in questo caso sconvenevole, lo arctCci riferito al ixpò Kapbla<
e il concetto di sonno, che indicherebbe già, come osserva
pure il Keck^ un mitigarsi del dolore e quindi sarebbe dis-
dicevole al pensiero. Perciò non accetta le varianti dell'Har-
tung, ia-naKey b'uirvq;, e del Karsten, OacJoei b'év 6'<J7tV(j!j ,
e propenderebbe ad uno ótùI^ì b'avTÌiTvou<;, se non rima-
nesse la difficoltà dello czàlti unito al Tipo. È certo, dice,
che tutti ammettono significare il upò Kapbia<; la sede stabile
di quel )Livn(TiTrf||uujV novo? Eschileo. Dunque con uno an^-
piZei, che indica stabilità, e si trova usato da Tucidide in
modo analogo, risolviamo la difficoltà del itpò Kapòlaq; con
un ànvou^ attribuito a ttóvo^ invece delPostico èv e'i)TTV»4) ag-
giungiamo aìTespressione un particolare degno di Eschilo.
. Lascio le considerazioni, che si potrebbero fare intorno
alla probabilità della corruzione, che i'autorc chiama Icg-
— 376 -
gera, di uno CTtìplZei originario in uno aidCei ; dirò solo che
il Wecklein mi sembra non migliori il testo colla sua va-
riante. Anzitutto il concetto di sonno non è così contrad-
ditorio come reputa Tautore ', poiché, se il dolore del rimorso
è più sentito quando lo spirito è veramente desto, cionon-
dimeno, ove sia molto intenso, conturba ed angustia anche il
sonno con imagini funeste; però parmi, che il poeta voglia
appunto dir questo : « anche nel sonno (il ré cosi riceve la
sua spiegazione e non è più un'inutile aggiunta), allorquando
la stanchezza vince in parte rmterno travaglio, il cuore è
torturato da imagini, da sog-iii angosciosi », e codesto mi
par concetto non solo vero, ma molto più poetico di quello
che rende un àrrvoug attributo a ttóvoc. Quanto al Trpò Kap-
biaq unito con aiàlei e al cambiamento fatto dal Wecklein
in uno aiiipiZiei, si potrebbe osservare come se il ixpà vuol
dire « innanzi » e va tradotto « ante cor » è pure improprio
il dire « siede, sta dinanzi al cuore» e non entro\ senza
notare, che, levando lo axa^iei, leviamo un'idea poetica in
sommo grado, quello della perpetuità e del lento accrescersi
dei rimorsi, di quel travaglio che ci ricorda i delitf. Ma,
se non fosse troppa audacia, si potrebbe perfino asserire
che il irpò Kapbia<; dissuona meno dallo crràZiei che dallo av(\-
piZiei, poiché significando cnàCei « stilla, sgocciola » ci dà l'idea
di un moto ìnnanii al cuore, cosicché si potrebbe anche in-
tendere, senza contraddire al Tipo, « dall'interno all'esterno,
fuori dal cuore »; e questo modo di intendere il rrpó greco,
può forsanco ricevere conferma dal corrispondente jt^j^jf', prae
latino, che vuol dire non solo innan\i^ ma metaforicamente
anche per, cioè attraverso {prae gaudio, per la gioia); ed
anche dal prò latino, che pur corrisponde al greco in pro-
vento, pronto ecc.-, si paragoni in greco il significato di irpo-
vojLivi, Tpovofueijuj; del resto non è meraviglia che dal concetto
« avanti » unito con un'idea di moto si passi al concetto
— 377 -
« attraverso » . Se questa non è una stiracchiatura, e se il
Tipo unito con Kapbia(; può essere inteso in questa maniera,
Tespressione Eschilea crraZei irpò Kapòiotqèdi grande efficacia
ed esattezza poetica, poiché allora significherebbe « gronda
attraverso il cuore, fuori dal cuore il tormento dei rimorsi ».
Mirabile e adatto consenziente col concetto fondamentale
della tragedia greca è tutta Tesposizione, con cui il Weck-
lein dimostra la differejiza che passa fra il parodo ed il
primo stasimo dell'Agamennone, e dopo un accurato esame
giunge a questa conclusione: il parodo obbiettivamente ci dà
il motivo delfavanzarsi del coro, manifestandoci ridesta la
speranza di vittoria e coi porre in sodo questa speranza
serve alPesposizione del soggetto; perciò vibra d'un concento
gioioso rispondente all'aspetto esteriore della cosa e solo me-
diatamente nelle parole di Calcante fa sentire una nota dis-
corde; invece il primo stasimo ci offre una comprensione
più profonda della cosa, discopre dietro alla bella apparenza
un interiore malsano, perciò muta la lieta speranza in fo-
schi presentimenti, la serena disposizione d'animo in una
ressa di timori.
Per non eccedere i limiti proposti, e pur ripetendo che
tutti gli appunti critici del Wecklein meriterebbero d'essere
discussi, terminerò coll'esempio d'un'altra mutazione fatta da
lui, la quale non sembra migliorare considerevolmente la
lezione.
Rispetto alle parole del coro v. 799 e segg.: aù he juoi tót€
inèv axéXXujv arpaiiàv — '€\6vri<? ^vek', oùk èrriKeucru}, — Kapi'
à7TO^ou(Juu5 ^aQa feTpctjiHévoi; — oùb' eu TTpaTribu.»v oTaKC véfiujv,
— Gpdaog éKOuffiov — àvbpócrt BvricTKOuai ko^iCuuv, fautore
accenna alle più importanti spiegazioni che si diedero
di quell'ultima espressione 6pdao<; éKOucriov ecc.^ e dice
che quella dell'Hermann « vehens (ad Troiani) spon-
taneam audaciam mori volentibus viris » è distrutta dall'os-
— 378 —
servare che « OvriCKOum » significa « che muoiono, che vanno
morendo », oppure « morivano ecc. », il cambiamento del-
TAhrens di éKoOoiov in un ìk Guo'iujv serve bensì a schivare
una difficoltà, ma richiede una serie di commenti, che pro-
babilmente sarebbero stati necessari anche ai Greci per ca-
pire il significato di quella locuzione:; lo Schneidewin, os-
serva i'autore, si è messo sulla buona via , interpretando :
« quando tu intraprendesti la spedizione Troiana, facevi a
me Teffetto d'uno che ispiri coraggio ad un moribondo »•, ri-
mane tuttavia réKoucriov ad imbarazzare, perciò Fautore lo
muta senza esitare in èiéawv « vano » e spiega : « tu mi
parevi uno che arrecasse vane consolazioni a un moribondo »,
cioè « le tue promesse di vittoria e di bottino, allora mi
facevano suiratiimo queireffetto che possono fare sull'animo
d'un moribondo i conforti degli amici » ; la spiegazione è
plausibile, ammesso questo cambiamento di éKOucriov inèiu»-
Gìov ; ma quando si può ottenere un senso ugualmente plau-
sìbile senza mutare alcuna cosa, parmi che qualsiasi modi-
ficazione diventi per lo meno inutile. Una buona interpre-
tazione ci dà l'Enger ne'suoi commenti all'Agamennone, né
so come sia sfuggita al Wecklein, che non ne fa neppure
parola. Dali'Enger il ko.uìZwv è tradotto nel senso di « alens,
fovens » e l'óvòpàoì 8vr|(JK0uai diventa dativo di mezzo; queste
parole del coro suonerebbero : « allora (quando movesti col-
l'eserciio), non tei voglio dissimulare, mi pareva che tu non
fossi assennato, alimentando un'audacia arbitraria con uo
mini che morivano, cioè col morire, coi sangue dei cittadini
Argivi » -, così éKoùaiov è spiegato perfettamente e costituiva
la colpa di Agamennone agli occhi del coro, inquantochè
per un'offesa di famiglia, per una donna adultera si espo-
nevano le vite di tanti guerrieri greci. Una conferma della
bontà di questa interpretazione l'abbiamo nelle parole
ironiche del medesimo brano, l"6\évnc eveKa, e in queste
— 379 ~
altre, v. 1458: noXéo xXdvxo*; YuvaiKò? biai — id» ìiju, rrapavou?
'€Véva — |i*ia ràq TtoXXà?, là^ Tràvu rroXXàq — ^}^%à(; ò\éaa(f
\>m Tpoiqi. E invero il Qpdao? éKouaiov, l'audacia, la baldanza
arbitraria è la fonte di tutti i mali deireroe e, se per un
istante sembra ai coro che questa baldanza sia stata coro-
nata da prospero successo, non tarderà ad accorgersi che
anche la morte di Agamennone dipende da essa ed a quello
sconfortante TtoXéa TXàvTo<; YuvaiKÒ? tiai, soggiungerà afflitto
irpò*; Y^vaiKÒi; ò' àT!:fcq)8tffev piov. E a quella guisa che il coro
biasimava altamente che Agamennone avesse intrapreso la
guerra Troiana a cagione d'una donna, disapprovava TéKcucnov
©pctcfo^ a luì ed ai Greci tutti così funesto, compiangeva pure
la sorte dei Troiani caduti per una cagione analoga, per un
Paride, sdegnosamente paragonato dal coro stesso ad un
lioncello, che piccolo lambe la mano di chi lo alleva, adulto
muta natura ed empie di strage la casa. Vers. 717-734.
Per queste cagioni la interpretazione delKEnger che si
adatta al testo qual è, e trova appoggio nello svolgimento
generale del pensiero Eschileo, mi parve preferibile a quella
proposta dal Wecklein.
Conchiudo augurando al nostro paese che presto gli studii
classici trovino in e.sso numerosi cultori valenti come il
Wecklein e tali da accrescere, come ha fatto questo insigne
erudito tedesco co'suoi « Studi su Eschilo » la somma delle
cognizioni scientifiche intorno alTantichità le quali costitui-
ranno sempre parte essenziale e gloriosissima dello incivi-
limento moderno.
Sondrio, gennaio 1873.
Claudio Giacomino.
- 380 -
Saggio della storpia della lingua e dei dialetti d'Italia con
un introduzione sopra l'origine delle lingue neolatine del
don. Napoleone Caix. Parte prima, Parma, 1872, pp. lxxii,
e 160.
Rivista difilologiaroman\ay diretta da L. Manzoni, E. Mo-
naci, E. SriìNGEL. Voi. I, fase. I, Imola, 1872.
Del lavoro del Caìx non abbiamo finora di pubblicato se
non una prima parte, nella quale, dopo l'introduzione (vn-
Lxxxn), in cui principalmente si parla delle varie opinioni
circa l'origine delle lingue romanze e dei vari metodi appli-
cati alle linguistiche investigazioni e fannosi alcune consi-
derazioni circa le attinenze deirelemento germanico col la-
tino, seguono cinque capitoli di cui formano Targomento:
I. Le lingue neolatine e i dialetti italiani; classiJica\ione ge-
nerale dei dialetti italiani; II. I dialetti moderni e il latino
volgare; Ili. La dialettologia comparata-^ IV. I dialetti to-
scani e la lingua letteraria; etimologie popolari ; assimila-
lione; alterazioni fonetiche ; formazione delle parole; V. //
toscano e gli altri dialetti d'Italia. Questi capitoli sono
come la parte preliminare dell'opera. In appresso l'autore
prenderà ad « esaminare le relazioni che correvano tra la-
tino classico e latino volgare, le differenze che presentano il
latino volgare nei vari luoghi, le cause che lo modificarono,
le leggi secondo le quali si andò trasformando fino a dare
origine alle lingue viventi e finalmente l'influenza, che nelle
sue trasformazioni ebbero gli antichi idiomi delle popola-
zioni italiche » (p. lxxu).
Dal saggio che abbiamo sott'occhio appare come l'autore
sia addimesticato colle principali opere che a giorni nostri
presero a trattare metodicamente cosi delle origini delle lingue
neolatine, come della storia del latino e del romano volgare.
Non dubitiamo pertanto che quest'opera non sia per con-
tribuire notevolmente all'illustrazione della lingua e dei dia-
letti italiani ; il che argomentiamo dal saggio che se ne porge
in questo primo fascicolo, là dove principalmente egli si fa
od a proporre etimologie od a raffrontar forme e deriva-
~ 381 -
zioni di vocaboli che apparentemente distinti mostrano tut-
tavia, a chi ben vegga, una comunanza d'origine non prima
avvertita. Non vogliamo però tacere come qua e là l'autore,
al parer nostro, lasci desiderare più rigorosità di metodo e
maturità di criterio linguistico; quindi è che mentre da un
lato riconosciamo non di rado la maggiore o minor verisi-
miglianza dei suoi riscontri etimologici, come per es. in <3^'i7?i-
rtotto da hoc aniio (p. lxvui), in gottolcignola da gutturanea
(p. 60), in gan:{a daganea (ivi), in scianto^ respiro, da caV?^-
litus (p. 61), nelberg. sgarle, trampoli, da grallae^ neiremil.
libia o lilbiay frana, dall'equivalente eluvies, nel lomb. lava o
lóva, pannocchia di sorgo e gran turco, dal lat. loba (i), nel-
Temil. bt^ombol ^ tralcio, dalFequiv. rumpus (p. G3), nel
romanesco Jiara, fiamma, da. JIagra{re) (p. 65) (2), nell'aret.
(1) Questa parola s'incontra principalmente in dialetti lombardi e
pedemontani; non è quindi improbabile che loba usata da Plinio co-
masco {H. N. 19, 18, § 3) per pannocchia del sorgo [milium indicum),
e da taluni avuta per falsa lezione, sia voce gallica o, comunque,
essenzialmente propria dell'Italia superiore, quindi vivente ancora
oggidì ne' nostri dialetti, principalmente in senso d'i pannocchia del
gran turco.
(2) Questa vocq fiar a, in senso Ai fiamma., propria del romanesco, mi
pare assai notevole, in quanto fa presupporre per l'antico volgare ro-
mano un tema novaìmÌQ flagra- fflag-ra-; cf per es.fib-ra. lib-ra, scut-
roy ecc.), donde sarebbe derivato flagrare, come dall'atRne flamma
{r=flag-ma) flammare, e perciò renderebbe men verisimile la conget-
tura del Sonne CZeitschr.f. vergi. Spr., X, 99), che flagrare sia una
forma sincopata di flagerare procedente (com," per es. generare da
genus) da un ipotetico y7a^M5, morfologicamente analogo cogli etimolo-
gicamente identici sanscr. bhargas, splendor raggiante, gr, *q)XeYo<;. No-
terò ancora come questo vocabolo abbia pur riscontro in volgari dell'I-
talia superiore, come p. e. nel canavesano, dove per alcune varietà dialet-
tiche ^ì^ra (da *fiairaj significa appunto flamma e risponderebbe ad un
lat. nome flagra, come in questo stesso dialetto la forma \erha\e fièra
[q fieirc, fiairaj, puzza, riflette un organico /Ta^'^ra/ per fragrai dal lat.
fragrare (odorare) che, come è noto, viene largamente rappresentato nel
sardo e ne' dialetti dell'Europa Occidentale principalmente in senso di
pu:^^are, e, fuori del sardo, accenna sempre ad un organico _/7a^rart',
nato per dissimilazione da fragrare; mentre l'originariamente latino
flagrare., ait deve, accendersi, essere acceso, più non trova probabilmente
~ 382 -
baregno, lavatoio, da balineum^ donde balneum^ nel lucch.
sollingoro, scilinguagnolo, da 'sublingulus (p. 104), d'altra
parte teniartio per assai problematiche e, in certi casi,
diremmo ricisamente false ^ talune delle etimologie recate
dai Gaix, secondo crediamo sia per chiarirsi dalle osserva-
zioni che ad alcune facciamo qui appresso.
Non credo ammissibile per niun modo F origine che a
pag. LxiXj in nota , vorrebbe dare all' italiano ventdvolo ,
vento di tramontana, che, non solo il Diez, ma già gli
antichi nostri scrittori considerano come equivalente a
vento aquilo, ventaqtiilo {ventus aquild'){\% e il Gaix vor-
rebbe identificare col port. e sp. vendavdl. Vendami non
può significare altro che vento d'avalle {ventus de ad-val-
lem), cioè vento che viene da basso, dalF ingiù, secondo
che significò largamente presso i popoli neolatini il co-
strutto a valle (ad vallem), come 1^7 monte [ad montem) venne
a significare l'opposto, cioè in alto, ad alto, all' insù; e
questa designazione si trova pure tra i francesi che hanno
così le vent d'amont (vento di levante), perchè la Francia
ad oriente è più alta, come le veni d'aval (vento di ponente),
perchè più bassa ad occidente, mentre Io sp. e port. vendaval,
probabilmente tolto ai Francesi (van-d-aval), vale vento tra
mezzodì e ponente, già dagli Italiani chiamato garbino o
libeccio. Or^a egli è chiaro che un nome italiano rispondente
al port. e sp. vendaval sarebbe ventavalle, e non ventavolo^
alterazione inesplicabile dal lato fonologico; mentre venta-
voloy confrontato con ventaquilo , come proprio di dialetto
italiano e segnatamente toscano, non presenta, procedendo
da vent-aquilo, alcuna alterazione che non siavene l'analogo
altra connessione etimologica' popolare che nella detta sporadica forma
nominale del romanesco e del piemontese e anche per avventura nel
sardo mer. flaria C^fl^gr'mJ, fior di cenere.
(i) Il Diez CEt. W. IF, 78) contrappone dubitativamente a ventavolo
il lat. venius aquilus. Mi pare che non aocada ricorrere all'ipotetica
forma di aquilus per aquilo, ben potendo iì nome italiano stare al
nominativo aquila, come per es. ladro a latro fcf. p. 99 di questo
giornale),
— 383 —
nell'ambito de' volgari italiani; sicché quanto alla vicenda
della gutturale qu- rappresentata in ultimo da r^ abbiamo
per es, Liven:{a = Liquentia, piem. ava^ èva (= ant. aigua
da aqua) come pure avannotto rr: aguannotto. aquannotto
{uguannotto, cL uguanno rrr uquanno da hoc anno); e circa
Vi reso da o, il fenomeno viene qui ad essere assai regolare
dinanzi a nuvola = nubila, temolo ("per temilo thyminus),
semola = simila, -evole — -abilis (per es. lodevole = laiida-
bilis) Qcz.-^ e allo stesso agola ■=^ aquila, di alcuni dia-
letti, come per es, del trentino che ha comune col fior.
il postonico ol =^ //.
Se non è ammissibile la correzione che il Caix vorrebbe
fare a ventavolo come procedente da vent-aquilo, ben credo
debba accettarsi l'etimologia che nella stessa nota egli dà di
:^oticOy facendolo venire da idioticus. Se non che per giu-
gnere a questa etimologia non occorre ricorrere al porto-
ghese :{ote da idiota^ ma ci basta il sapere: che idioticus,
come sinonimo à'' idiota e per conseguenza equivalente a
gotico, veniva già usato nei primi secoli dell'era volgare*, che
l'aferesì dell'/ la troviamo anche nei diota dell'antico fioren-
tino presso il Pucci {Centiloquió)\ che \ = dj è nel volgare
romanzo antico e comune, onde per es. già nei primi secoli
A^abenico = Adiabenico, Zabulius = Diabolius , Zodorus
= Diodorus , Zonysius = Dionisius, :{abolus = diabolus,
^aconus = diaconus^ ecc. e nei dialetti odierni, onde per es.
ven. :{ago = diaconus, ^orno z= diiirnum ecc. {Ci. Corssen,
Ausspr. I«, 216). Lo stesso suono debole dello \, mentre da
un lato corrobora questa derivazione, fa contro non solo
alla derivazione di lotico dal rabbinico schoteh, come con-
getturava il Diez nella i* ediz. del suo Voc. et,., p. 878,
ma anche contro quella di exoticus, forestiero, che nella 3"
(II, 83) egli mette innanzi come primamente trovata dal
Menagio. Sicché l'origine di gotico da idioticus, idiotay h(\
molto più verisimiglianza , che non abbia per avventura il
portoghese \ote ., il cui ;;;■, potendo anche procedere da ^ o
e, non torrebbe punto di verisimiglianza all'origine semitica
attribuita a questa voce dal Diez.
A pag. 17, il Caix trae il nap. vaca, it. voga., da voce. Si
- 384 —
può ben dubitare di questa etimologia. È più verisimile
quella che deriva questa voce dalFant. alto ted. ivogon {■•va-
gon)^ muoversi, onde in ivago wesan —■ ètra en vogue, es-
ser in voga (Cf. DiEZ, El. W. !■*, 447). Il suono aperto
delTo di voga già basterebbe per accennare ad altra origine
che da voce. Essere in voga pertanto, piuttosto che essere in
voce, significa etimologicamente essere in moto, in corso, in
ina. Voga e vogare nel linguaggio marinaresco non hanno
altro significato. Quanto al e per g del nap. voca confron-
tinsi per es. tacola per tegola, astrolaco per astrologo,
arecato per origano , doca per doga ecc. , dello stesso
dialetto.
A pag. 21, deriva il fr. ce da eccistum [ecce istiim). Ce
viene da ecce hoc, donde pure l^it. ciò\ da eccistum si derivò
Tant. fr. icist, e l'odierno cet, come da eccu-istum venne
questo.
Alla stessa pag., ad esempio del plurale milanese, che
confonde i due generi, mal scelgonsi ad esempio i donn, e /
tosami, giacché qui nella pronunzia della doppia n si sente
il femminile-, mentre pel ma-^^chile direbbcsi don, tosan^
come direbbesi per es. roman, ballarin pel maschile, e ro-
ìnann, ball arimi pel femminile.
A pag. 58 pocciola, specie di fungo, viene dal Caix
etimologicamente connessa col lomb. spongiceula o spons-
giceura e derivata dal lat. spongiolus. Lasciando da parte le
difficoltà fonologiche che basterebbero a rendere assai proble-
matica tale etimologia, osserverò primieramente come pocciola
sia vocabolo aretino e come gli Aretini abbiano insieme coi
Sanesi e altri la parola poccia, derivante da ' pupi a per
pupa^ con significato di poppa, manimeUa, sicché, pocciola
non può essere che una forma diminutiva di poccia., pro-
priamente significante mammellina. Il popolo è assai pro-
penso a denominare dalle parti del corpo, con cui abbiano
analogia di figura, come vari esseri del regno minerale e
animale, così anche prodotti vegetali-, e qui col nome di
pocciola, mammellina, è venuto a dinotare una specie di
fungo, o più propriamente una varietà di quella specie di
funghi, che dicono vescia di lupo, ma più lunghetta, sicché
— 385 —
veramente venga ad avere nella forma qualcosa d'analogo
a una poppellina. Così altre sorta di funghi furono ancora
chiamati, per la loro forma accennante le parti del corpo,
col nome quali di lingua, quali d'orecchie, orecchione^ quali
di manine o ditola o ditellini, ecc. e diedesi anche il nome
di pappina ad una specie di pera e alT occhio delle patate.
Alla stessa pag. fa venire fedelini (rom., ven., lomb. ecc.),
vermicelli di pasta, da un lat. Jìdulct , fides. , cordce cy-
tharce. Io non dubito di dir falsa questa generalmente se-
guita etimologia ed affermare che fìdéi, fìdelim\ voci essen-
zialmente ed originariamente proprie dei dialetti dell' Italia
superiore, etimologicamente non suonano altrimenti che
fdelli^ filellini, forme diminutive dì filo (i).
A pag. 62 si legge; « ven. dcgladiar, contendere, lomb.
g-hià , pungolo, da. g-laditis e digladiari •». Dcgladiar r.on
può essere dell' odierno veneziano. Contro la volgarità di
questo verbo starebbe il nesso gì., che i-l veneziano già da
secoli rigetta insieme colla gran maggioranza de' dialetti ita-
liani. D'altra parte esso non è registrato né dal Boerio, né
dal Mutinelli, né dal Patriarchi \ sicché non potrebbe am-
mettersi se non come latinismo o arcaismo proprio di qual-
che antico documento veneto. Quanto ai lomb. ghia, pun-
golo , noto che questa voce non viene già , come crede il
Caix, da gladius (che quanto alla sillaba iniziale avrebbe
dato a ogni modo gici-)^ ma bensì da acideatiim (fornito
d'aculeo), che darebbe regolarmente agujà^ ma per aferesi
e contrazione, ghia (2). Da questa forma participiale prò-
(i) Mi contento solo di accennare questa etimologia, in quanto ne
parlo distesamente, in alcune mie postille etimologiche, cne sarnimo
pubblicate nel 20 volume àQ.\ì' Archivio glottologico italiano diretto da
G. I. Ascoli.
{^) Come da */i/;o vennero * fijo, fio (Corssen Ausspr, ecc , P, 143),
co^ da agujà= aculiato dovette primamente procedere agìiijà , indi
per aferesi e contrazione ghia. Circa questa specie di contrazione >
essenzialmente propria dei dialetti dell'Italia si:periore, wdasi la mia
dissertazione: Di alcune forvic de' nomi locali deli Italia superiore,
pp. 9 e segg.
— 386 —
cedono inoltre gli equivalenti ven. agugià , mod. gujh,
regg. aghièe, piem. tifa (i), e con forma diminutiva parm.
ghiadell^ mod, gujadell^ mant. gojadell faculiatello), e i
femminili trent. gujada , friul. gujade , parm. ghiada
(aculeata); mentre dall' apellativo aculeus viene senza più il
bresc, goi^ che erroneamente il Caix in questa stessa pa>
gina deriva con guiceul {=:^aculeolus) dal lat. agolum ; e
con forma d'accrescitivo vengono il tose, aguglione, il piem.
iijon {acuitone, aculeone coi diminutivi ujet , ujot (= acu-
lietto, aculiotto), e il mant. gojceul (=: aculeolus). Volendo
poi trovar voci procedenti da gladius in volgari neolatini,
l'autore avrebbe dovuto riferirsi al toscano ghiado, agghia-
dat^e, nap. Jajo, agghiajare, piem.^^m/, sgiaj\ ^vaw.glay,
esglaf , desglayar ecc.
Alla stessa pagina fa venire luganega, salsiccia, dal lat.
longano, intestino retto. Il ven. e lomb. luganega non può
(i) Nelle forme piemontesi ujon, ujett, ujoit , la vocale ii- rappre-
senta un risultato fonetico = acu- , come in u~ja , u-gia = acit-cla
[acucula], n-ss =s^* acu-tius , aguzzo, Mont-ù n, 1. (= Mont-acù-tus).
Bisogna perciò guardarsi dal confondere, come suol farsi generalmenie,
in una stessa etimologia le citate voci piemontesi , significanti agu-
gìione , pungolo, colle dinotanti ago, aghetto , agone, agugliata,
come a dire uja, ujetta, ujàn, ujà, le quali insieme colle altre equi-
valenti varietà dialettiche del piemontese, quali agucia, agucin, agu-
cion, gucia, gucin, guciort, gucià, ugia, ugin, ugiott, ugià, procedono
tutte da uno stesso prototipo acucla , acucula, diminutivo di acus.
Questa identificazione etimologica contradetta dalla fonologia, in quanto
solo - ja = Ija (per esempio solo ujà (pungolo) =aculeato da aculeo,
• jà = / ujà
ma - cid=^ > da (per es. gucià (agugliata) = acuclata da acucla , a-
- gi^= I ^g^à
cucula , si spiega assai facilmente, stantechè sotto l'aspetto logico i
derivati da acus e aculeus, procedenti entrambi da una stessa radice,
vengono naturalmente a confondersi nella loro nozione fondamentale
di acume, acuceìf^a. Errano pertanto i vocabolaristi piemontesi Sant'Al-
bino e Pasquale che in ujon non sanno vedere altro che un accrescitivo
di uja (= acacia), tanto pei senso di agone (grosso ago ), come per
quello di aguglione (pungolo), il quale ultimo vocabolo toscano viene
ancor esso , in quanto vale grande ago, da aguglia (»« acucla), in
quanto pungiglione, da aculeo, aculeone, aculione.
cssere che un risultato regolare dal lat. lucanica, già usato
in senso di salsiccia dai Romani; né saprei perchè s'abbia
da rigettare l'etimologia che di questo vocabolo ci dà Var-
rone, il quale dice che quella sorta di salsiccia era cosi chia-
mata perchè i soldati romani avevano imparato a farla dai
popoli della Lucania.
Ivi pure, deduce II « lomb . bagola, zacchera, dal lat.
popolare blatea (bulla litti^ Festo) ». Il lomb. bagola signi-
fica principalmente sterco di pecora , né può essere altro
che un riflesso del lat. bacciila (bacula) diminutivo di bacca,
coccola, che già Palladio adopera nel senso traslato di ca-
cherello di capra, per la somiglianza che esso ha colla coc-
cola degli alberi bacchiferi. Bagola da blatea sarebbe fo-
nologicamente incomprensibile; perocché il risultato regolare
così italiano come lombardo dovrebbe essere * bia^a, e pel
diminutivo, 'bianuola, ' bia^ola , ''bia^oeula, * bia'{'{oeura
(= * bla t eoi a).
A pag. 63, sulle, tracce del Pasqualino, fa venire il sic.
abbijari, cacciare, dal lai. abigere. io credo che molto più
verisimilmente venga da avviare, mettere in via, quindi cac-
ciare, il nap. ha appunto abbiare per avviare, e gli antichi
toscani chiamavano il malfattore malabbiato (male avviato),
che ii vocabolario goffamente dichiara per che abbia in se
del male, quasi volendo accennare che malabbiato si fondi
su abbia, forma del verbo avere (i).
A pag. 85, fa venire il lomb. eroda, cadere, detto prin-
cipalmente delle frutta spiccantisi dai rami, da *corrutare
e il toscano crollare da "corr ululare, entrambi procedenti da
corrutus^ participio di corruere. Certamente sotto l'aspetto
logico questa etimologia non sarebbe punto inverosimile;
(i) Il fenomeno bb=vvèassai frequente così nel siciliano come nel
napolitano , quindi per es. sic. abbampari (avvampare), abbértiri Cad-
verierej, avvertire, abbivar: , avvivare , nap. abbampare , abbecenare ,
avvicinare, ecc. Il tose, malabbiato è dovuto a una specie di crasi , per
cui da -avviato ne venne -avviato, indi -abbialo, come per es. da alle-
viare aìtebbiare , p.-opr. alleggiare, alleggerire, e fig. mond;ire, che i
vocabolari dichiarano, non so come, per contaminare (!).
— 388 —
che la nozione del cadere ben potrebbe essere resa da un
frequentativo di corruerc che sarebbe 'corrutare , come di
ruere'ruiare^ del quale ultimo verbo, esistito verosimilmente
un tempo nel romano volgare, si ha un derivato nel nome
ì'utabuluin , strumento di ferro per iscuotere , far cadere ,
che starebbe a 'ridare, come, per es. vectabuliim a vectarc,
e che si conserva per avventura nelTit. riavolo, ven. reda-
bio , bresc. e crem. redabel , mil. roabbi , tee. Ma questa
etimologia di corrutare è più speciosa che vera -, perocché
contro di essa fanno ricisamente le leggi fonologiche, le
quali per contro appoggiano unanimemente Tetimologia che
fa venire questi verbi eroda, crollare da 'corrotare, ' cor-
rai ulare {da. rota). Le ragioni fonetiche chMo dico, ci
sarebbero somministrate principalmente dalle forme del
verbo nato da 'crotare (sincopato da 'corrotare; cf. cruna
= corona), in quanto , semprechè 1' o di 'crotare viene ad
essere accentato, esso presenta ne' vari dialetti quelle mede-
sime alterazioni che si notano nelTo del nome rota. Quindi
è che presso tutti i dialetti i quali hanno questo verbo, ajla
3* pers. sing. ind. pres., la cui forma organica sarebbe "cro-
tat, ci si presenta una perfetta corrispondenza di suono fra
la prima vocale di esso verbo e To del nome riflettente il
latino ròta, onde per es. mli. eroda e roda. piac. e parm.
creuda e renda, var. piem. croua e rouc^, crova e rova,
gen. creua e reua, engadd. crouda e rouda^ bresc. cruda
e ruda, ecc. Ora se qaesio verbo venisse, secondo che vor-
rebbe il Caix, da un organico 'crutarc {'corrutare), mal si
saprebbe dire il perchè il suo u, quando è accentato (che
vuol dire, quando verrebbe ad essere governato da leggi
fonologiche più determinatamente regolari) , presenti una-
dialettica varietà di suoni che , m.entre per Vu sarebbero
anomale riflessioni , vengono appunto ad esser normali ,
come rappresentanti un Ó. Queste ragioni fonologiche sono
anche in crollare , il cui o , quando è accentato , come in
crollo, crolla, suona aperto, come di regola chiederebbe un
o originario e tonico, quale avrebbesi in 'crollo, 'crollai
( corrotulo, 'corrotulat) e non chiuso, quale avrebbe dovuto
essere se fosse proceduto da *crutlo, "cruilat. Qui adunque
la fonologia viene, come ognun vede, a rivendicare i diritti
dell'etimologia che per crollare ha dato il Diez, e che qua-
dra eziandio per crodar e per tutte quelle altre forme dia-
lettiche che hanno una comune origine da "crotare, "cor-
rotare.
A pag. io5, a proposito di etimologie popolari, dice che il
popolo non intendendo anatomia^ lo convertì in notomia^
come se fosse derivato da noto. E più probabile che questa
forma debbasi meramente ripetere da fenomeni fonetici, cioè
dall'aferesideira, qui assai naturale, e da mutamento del se-
condo ^ in o sotto razione assimilativa dell'o seguente.
A pag. 1 06 fa venire fiata da vicata, e via per volta da
vice. Io credo che così via per volta, come ^uv fiata, deb-
bano tenersi etimologicamente connessi col lat. ed it. via.
1 modi avverbiali dell'antico tedesco alle vege , dell'inglese
alìvays {ali ìvays) hanno nella seconda voce un equivalente
deirit. W^, che abbiamo nel significato di volta in tuttavia-,
e tanto vege come ivay in quelle lingue valgono via, cam-
mino. In alcuni dialetti italiani la nozione di volta viene
anche espressa dalla parola viaggio -, e così in toscano questo
viaggio può equivalere a questa volta-, in qualche varietà di
dialetto napolitano viaggio suona pure per volta, onde per
es. nel romaico delle province meridionali dio viaggi vale due
volte ; i contadini lombardi dicono per sto viagg in cambio
àìper sta volta-, e in alcuni luoghi del Piemonte un viagg,
st' viagg, n'aut viagg vogliono anche dire una volta , un
tempo, questa volta, U7i'altra volta. Essendo adunque in-
dubitato che la nozione di volta viene espressa da voce equi-
valente od etimologicamente connessa col lat. e it. via, da
questa trarremo pure senza esitanza V'ix.via ^ fia per volta e
il derivatone ^<:7/iZ = 'viata (i). Aggiungasi che per l'antico
toscano, dove già s'incontrano queste voci, male si potrebbe
(i) Morfologicamente viata (donde yia?d) sta a via , come giornata a
giorno, mesata a mese, serata a sera, annata ad anno , ecc., dove le
forme in -ata vengono ad esprimere meno determinatamente lo spazio
di tempo dinotato dal nome primitivo. Quanto a v mutato in /, cf. per
es. ver./alagro ^= veratrum, it. veladro, ecc.
Hivista di filologia ecc., I. yj
- 390-~
sotto Taspetto fonologico ammettere !a trasformazione di j^fce*
m ria e di 'vicata in ' viata ^ fiata ^ non essendovi quasi
esempio di e, che si dilegui, come qui si farebbe. Noterò
pure come il trovarsi ii latino vices vivo nella sua popolare
e regolare forma di vece (cf„ in pece, ecc.) accresca le inve-
rosimiglianze della sua trasformazione in via. Anche vicata
si trova usato popolarmente, sotto questa medesima forma^
nelFant. pisano (v. Stat. P?.s. I. 681, 705 ecc.), ^Tìemre la
gutturale si sarebbe indebolita, ma non perduta neirant. sp.,
port»e prov. vegada^ e nell'aferetico gada^ geda^ jada ecc.,
delle genti ladine (cf. Ascoli, Arch. Gì. It., ind. less. s. v.
vicata). Il vie per via, così in senso di molto quale per es.
iaviedentro, viemeglio, vieppiù ecc. come in quello di rolta^
per es. in :{ero vie lero ., che potrebbe per quel suo e far
credere all'origine da vices^ e nel primo senso da un av-
verbio latino vive, secondo che congettura il Diez (Et. W.
IV, 80), non può verisimìlmente venire esso pure, se non
da pia» e debbe ripetere e sostituito ad a da un principio
di assimilazione esercitata dall'/ precedente, come per es. in
Dietisalvi, Dielvoglia, per mie /è, mieffh (mìa fé), Bietricey
ecc. e nelle forme verbali avieno, fie, fieno, sie^ sieno,
die, dienOytcc. per aviano, fia, fiano ecc.
A pag. 1 1 2 vede in forbici una fonna nata per metatesi
adi forceps. Non havvi ragione alcuna per distaccare il vo-
cabolo forbici dall'equivalente latino forfex e tirarlo ad
altra voce significante tanaglia. Forbici sta per /orfici ed
ha mutato il secondo / in b, come in p nel san. forvici ,
per mero effetto di dissimilazione, non conosciuto né dal
n&p. fuorfece, né dal sic. fórficia, ne dal sardo (log.) /or-
fighe, né dal ven. forfè ecc. né dal dìm. forfecchia -~.for-
ficla, forficula. Come in forbici da forfices di due / la
dissimilazione ne mutò une in b, così, per converso, di due
b ne cambiò uno in f in bufolo, bufalo da bubalus, e in
bifolco da bubulcus.
A pag. 122 e 123 attribuisce ad un principio d'assimila-
zione esercitato da vicina labiale ii passaggio dell'o protonico
in M, disconoscendo per tal guisa una legge importan-
tissima e cardinale nella storia del vocalismo de'volgari ita-
— 391 —
Uani, voglio dire il principio d'alleggerimento che ha luogo
nella vocale forte protonica (e, o), per cui e si attenua in /
ed o in u, E perciò l'w ài fucile, mulino^ ufficio, puchino,
furestiero, ecc. nato da o, che il Gaix reca ad influenza
assimilativa di vicina labiale, debbesì piuttosto tener come
originato per quello stesso principio d'alleggerimento, per cui
da un 0 originario ne venne verbigrazia Vu di giucare, scu-
riada, ì^ugiada^ ucckiello, uccidere, ulivo, Giuseppe ^cc, nei
quali vocaboli non v'ha punto una vicina labiale che deter-
mini la nascita d'w. L'azione assimilativa di labiale per pros-
sima vocale non vuole pertanto essere riconosciuta se non
colà dove la mutazione così determinata contraflfà ad altra
legge piìj generale, come per es. in romanere, domani, do-
ventare, rovesciare ("reversiare), rovistare (revisitare), ecc.,
nei quali casi tutti Vi per l'o verrebbe ad essere, ed è vera-
mente in alcuni, una rappresentanza più normale dell' e
primitivo.
A pag. i36, 1 39 e 143 connette etimologicamente con
prudore, prudere, provenienti dal lat. prurire, le voci
specialmente aretine e lucchesi rodere, rodore e rosa in
senso ài pi\-{icare e pii^icore. Sotto il lato meramente
fonologico già farebbero difficoltà e la perdita del p ini-
ziale e il passaggio dell'w lungo di prudere, prudore (cf.
lat. prurire), così nella sillaba accentata come nella disac-
centata, fenomeni al tutto irregolari per l'ambiente in cui si
incontrano questi vocaboli. Ma contro questa etimologia di
rodere, pizzicare, staccato da roderle, rosicare, sta sotto l'a-
spetto logico il fatto che il significato del lat. prurire, pru-
ritus, prurigo, oltrecchè da^li etimologicamente connessi
prudere, prudore, viene reso ne'vari dialetti neolatini con
altri vticaboli inchiudenti una nozione originariamente analoga
a quella di rodere.";, ed è quella di mangiare, a cui rodere sta,
quasi direi, come la specie al genere. Quindi è che al lat,
prurire, pruritus rispondono logicamente gli spagnuoli
corner (comedere), comeson (comesionem), fr. démanger,
démangeaison, piem. smange, smangison, gen. smangia,
smangiason, sic. manciari , manciaciumi. Il sardo esprime
ancor esso il prurito con parola importante la nozione del
— 392 —
mangiare, onde log. mandighin'{u (da mandigare^ mangiare),
merid. pappingiii (da pappai^ mangiare), sett. magnatone.
Nel greco òo<xh^(5\xòc,^ prurito, abbiamo la rad. baK di bdKvuj,
mordo (cf. Curtius, Gì\ d. Griech. Et. I, 297), sicché pro-
priamente suoni morsicatura ;t. il vocabolario della lingua ita-
liana definisce pi^icorey come sinonimo di prurito., per w/or-
dicamento ecc. Dunque le nozioni di ma?igiare, mordere e
rodere sarebbero parse alla intuitiva linguistica popolare le
meglio acconce ad esprimere in modo etimologicamente sen-
sibile la nozione del latino jprwn re, che alla sua volta in-
chiude per avventura il senso traslato di bruciare^ non essendo
improbabile che prurire venga, mediante un fenomeno assai
noto nella storia del latino (r = 5), da prusire, connesso colla
radice ariana prus- (sanscr. prush-, urere, ardere), donde
verrebbe anche prùna (da "prusna) , carbone (cf. Corssen,
Ausspr. IP, 1004)-, nozione espressa anche dal ven. brusar,
per picegar, o pi^^ar o spigar ^ prudere. E cosi rodere e
rodare sopraddetti non verranno già da prudere, prudore,
ma si figuratamente da rodere (rosicare), al qual verbo si con-
nette ancora rosa., che, pronunciato con 0 chiuso (i), vale
presso i Lucchesi e altri popoli di Toscana lo stesso che
prurito, e sta al verbo rodere come i sost. spesa, resa,
scesa ecc. a spendere, rendere, scendere.
A pag. 109 considera tartufo come forma nata per rad-
doppiamento da tuber, rigettando cosi Tetimologia mena-
giana di terrae-tuber (Cf. per es. la forma dialettica di
tarmoto ==: terrae motus), assai verisimile anche pel Diez,
alla cui citazione del sic. tirituffulu {^= tere-t-, terrae- 1-) ag-
giungo, come pur notevole, il verisimilmente sanese tara-
tufolo del Franciosini {Voc. esp. e it., s. criadillas).
A pag. 88 leggasi in nota : « spiego cece e pepe comt nati
da cecere e pepere per indebolimento della vocale a cui suc-
(i) Chiuso, in quanto si origina da 5 lungo {ródere) \ al qual pro-
posito noto un errore incorso nelle tre edizioni della grammatica del
Diez(I'p. 161), e ripetuto nel compendio del Fornaciari (p. 9), cioè
l'italiano rodo recato fra gli esempi dì eccezione all'equazione uó =8^
come se riflettesse un lat. ródo, non ródo.
- 393 -
cedette la caduta di r che rimaneva in fine dì parola ». I
fenomeni fonetici che qui si suppongono per ispiegare una
procedenza di cece, pepe da cicere, piperà^ nel campo toscano
non sono punto veri simili. D altra parte è da avvertire che
qui si tratta di forma che, come in petto =^ pectus , uopo
= opus ecc., viene da quella che, come di neutri, era co-
mune al nom. e alfacc, e perciò da cicer, piper, donde
cadde la r per via di un'apocope che si può dire normale
neiritaliano, onde, p. e. frate =^frater, prete -=. presti ter,
moglie = mulier , sarto = sartor^ marmo -■= marmor ^
suoro := soror^ {tar)tufo ■^=. tuber, vampo -.=- vapor ecc.
Non credo ammissibile Fazione assimilativa della prece-
dente vocale che a pag. 109 e i io il Gaix vede nelle finali
di canapa per canape, sorcio per sorce da sorice, esente per
esento {=exemvtus). Le vocali finali del nome, come forte-
mente soggette ai principii dinamici della flessione, non ob-
bediscono gran fatto alle leggi fonologiche. Canape si mutò
in canapa perchè femminile, come passò in canapo in quanto
è maschile; così so7xe come maschile va in sorcio, quale
per es. salce in salcio^ dove Tassimilazione non può avervi
che fare. Quanto ad esente per esento credo sia piuttosto
da vedervi 'f influenza de'participi in ente e segnatameme di
presente ed assente, col quale ultimo venne anche talvolta
a confondersi di significato, comesi può vedere per l'esempio
citato nel vocabolario.
A pag. 107 considera come etimologia popolare e conse-
guentemente erronea il tener novanta per derivato da itove
e non da nonaginta. Io non so che cosa pensi il popolo
circa l'origine di novanta^ ma ben credo che i dialetti, i
quali come il toscano, il siciliano, il genovese, il roma-
gnolo ecc. dicono novanta, abbiano veramente rifatte questo
numero da nove per ridurlo cosi all'analogia degli altri nu-
meri di decina fondantisi tutti sul cardinale e non, come
anormalmente il lat. nonaginta insieme col gr. èvevnKovra,
sull'ordinale. Di nonaginta abbiamo un riflesso materiale
non solo in nonanta, proprio del provenzale e di vari dialetti
itahani, come il nap., ven., boi. (nunanta), parm. ecc.-, ma
eziandio in noranta del mil., piem., sardo, cat. ecc., dovf
— 394 —
« passò in r, come per es. in fiumara per ^umana^ sche-
ranr^ia per schinani{ia^ ecc. Novanta adunque viene propria-
mente da nove ed è una specie di correzione operata dal-
l'istinto popolare sull'anomalo ìionaginta latino per '»o-
vaginta.
A pag, 141 trae risi pel a o riaipola da rosi fella quasi a
significare pruder di pelle^ mentre è troppo chiaro che viene
dall'equivalente greco erysipelas^ con aferesi del primo e, e
passaggio del secondo in un o, come per es. in aìigiolo da
angelo.
A pag. 143 vuole che gemere, gemicare in senso di stil-^
lare, trapelare vengano dal lat. humere, mentre è molto più
verisimile che siano dal lat. gemere^ che confondendo poi il
suo significato con quello di lacrimare^ venne, come questo
verbo, a significare figuratamente ^occzo/4?'e, stillare. Quindi
è che trovasi detto dagli scrittori cosi geniojio come lagri"
mano le viti. Da kiimere ben puossi considerare come pro-
veniente per es. il trent. umegar (humicare), trapelare, goc-
ciolare.
A pag. 69 deriva il sardo ca rei ^.'t, secchia e remitiano cal-
^idrela dal lat. calces , bottiglia di piombo. Sarebbe stato
meglio, parmi, citar per Temiliano, non già la forma deri-
vala di cal:{idreln, ma la più vicina alla sua origine, cioè
mod. calieder y boL cal^eider, romagn, cal^edar, secchia
di rame, che gli eruditi emiliani, italianizzando in calcedro.
derivano, non senza una qualche verisimigiianza, da un vo-
cabolo greco, composto di xoXkó^, rame, e uòpia, secchia.
Quest'etimologia che il Galvani {GIgss. Alod., p. 221) sembra
attribuire al Parenti, era già stata messa avanti dal Mono-
sini {Floris It. linguae libri IX^ p. 3o) più di ben due se-
coli addiente (1604) e citata poi (i66c) nel Vocabolista Bo-
lognese dei Bumaldi (O. Montalbani), p. 121. Questo nome
s'incontra pure in qualche altro dialetto fuor degli emiliani,
e il Voc. roveret. e trent. dell' Azzolini ne registra il dimi-
nutivo in elio sotto le varie forme di calcidrel^ cai:{idrtl, ca--
cìdrel, ca\idrel, cracidrel^ cracidd.
A questi nostri dubbi ed appunti e.ìcuni altri potremmo an-
cora aggiungere che rimandiamo a quando l'opera sarà pubbli-
- se-
cata per intiero; e conchiudiamo a ogni modo con dire che di
questo lavoro del signor Caix debbono rallegrarsi e sapergli
grado quanti si occupano di cosi fatti studi, come di lavoro
che gioverà certamente non poco ad illustrare la storia della
lingua e dei dialetti italiani.
La Rivista di Filologia Romania ha per iscopo, secondo
già si può presumere dai titolo, di occuparsi delie lingue e
letterature romanze, sicché es^a «i conterrà, per servirmi delle
stesse parole dei proemio (p. 8), monografie sugli idiomi, sui
dialetti e sulle letterature neolatine-, osservazioni, appunti cri-
tici, materiali per nuove edizioni e descrizioni di manoscritti;
una rassegna delle opere più importanti e dei giornali che
si occupano di fìlologia romanza-, e in ultimo un cenno
compendioso di tutte quelle notizie che direttamente o indi-
rettamente si riferiscono alla vita esterna degli studii me-
desimi ». La natura di questo giornale è pertanto analoga
ai periodici che già si pubblicanp oltremonti, come per es.
la Romania, la Revue de langucs romainesy il Jahrbuch fur
Romanische lilUraiur, ecc., ed era assai naturale che an-
che in Italia, paese essenzialmente romanzo, un giornale
cosiffatto si pubblicasse.
Del contenuto di questo primo fascicolo è già stata data no-
tizia sommaria sulla coperta del nostro giornale; sicché noi qui
ci limiteremo ad alcune osservazioni, riguardanti principal-
mente questioni di grammatica storica delle lingue neolatine,
e più particolarmente dairitaliano.
E cominciando perciò dagli appunti, la più parte assai
giusti, che il Canello fa sulla Grammatica storica del Die^
della lingua italiana corretta e compendiata da quella del
Diez per opera del Fomaciari (p. 67 e segg.), noterò anzi
tratto come si possa ben dubitare se lavoro sia, come vuole
il Canello, novamente foggiato dal verbo lavorare e non
piuttosto un nome riflettente il lat. laborem^ trasportato, sotto
rinfluenza del gen. maschile, alla seconda declinazione, come
per es. povero {pauperem\ passero (passerem), ecc. L'equiva-
lente romanesco lavare non può non essere il lat. lahorem\ e
non par verisimile che questo nome, mantenutosi presso
- 396 -
i Romani, siasi estinto negli altri dialetti deiPItalia media e
meridionale, per derivarsi novamente dal verbo lavorare^
laborare^ già proveniente esso stesso dal nome laboì\
Il Ganello ( p. 58 ) considera ancora come novamente
foggiato dal verbo furare il nome furo, che il Diez tiene
come procedente dal lat. fur. All'opinione de! Camello oste-
rebbe il significatQ di furo che, come personale e presen-
tante un nome d'agente, verrebbe a fare eccezione a cosif-
fatti nomi derivati novamente da temi verbali, i quali espri-
mono l'azione o l'astratto. Se furo signifìcasseywr/o(eilsardo
ne ha appunto una derivazione dal verbo nella forma femmi-
nile di fura^ furto, rapina), si potrebbe ammettere la de-
duzione del Ganello. Adunque circa furo procedente da
furerrty come per es. ghiro da glirem, non si potrebbe, se-
condo me, accampare altro dubbio che questo; cioè se Vk.furo
non potesse per avventura procedere dal nominativo di un
latino volgare furOy furonis come ladr^? da latro, latronis^
strambo da strabo, strabonis ecc. Il latino furunculus per
ladroncello, che abbiamo in Cicerone, rende non invero-
simile l'esistenza di un antico furo [furori-), a cui sta-
rebbe furunculus , come per es. a latro latrunculus, 11
sardo (mer.), che ha conservato la forma diminutiva diy«-
runculu coU'apocopatoywrMwcw, ne conserverebbe pur vivo
il primitivo /«rowe (log.), furoni (mer.), ladro, che s'incontra
d'altra parte anche in antichi scrittori toscani, sicché ///ro
e furone verrebbero per avventura a darci una doppia forma
di un romano vo\g3.vefuro,furonis, quale abbiamo in ladro,
ladrone, falco, falcone, ti:{io, ti:{ione, ecc. (i). 1 dialetti
(i) A questa sorta di doppioni , o coppiole, che vogliamo dirli,
oltre la serie presentata dai D'Ovidio a p. 58 e segg. dell'opera di
cui si parla a p. 89 e segg. di questo giornale, e i quattro ivi da me
aggiunti (V. p. 99), il Tobler, nell'articolo da me citato a p. 268 ,
aggìugne: podestà , podestà ; deca, decade; curato, curatore; da:[io ,
dat^ione; prefapo , prefapone ; vnajesta , maestà, risurresso, risurre-
!(ione; ingratitudo, ingratitudine; imago, immagine ^ turbo, turbine;
passio, passione; sta^:;o, statone. Alcune di queste forme, non essendo
volgari, ma letterarie, potrebbero eliminarsi come latinismi ; tali sono
principalmente ingratitudo, imago (citata anche dai D'Ovidio) e turbo;
— 997 -
deirEuropa occidentale serbano furone rei senso già dato da
Isidoro ad un lat. furo, cioè quello dell'it. furetto che sta-
rebbe allatino/«ro come falchetta a falco. Il nome /«ro
(furori-) in senso di ladro s'incontra ancora nella media
latinità.
NelTariicolo del Canello avente per titolo S/on'a di alcuni
participii, a pag. io leggesi : « Il lat. amassent dovrebbe
essere diventato in italiano amasseno come si trova in an-
tico. Ora noi diciamo talvolta amassono e più spesso amas-
sero. Donde ciò ? Gli è che amasseno aveva un fratello mag-
giore in amarono, che è il lat. amariint per amaverunt ; e
per un^analogia facile a capirsi, la desinenza d'una forma fu
accomunata all'altra «.
Lasciando stare la questione della primogenitura dei tempi
o dei modi o delle forme che qui si voglia intendere, e che
ci discosterebbe troppo dalFargomento, noterò primieramente
la quale ultima voce viene perciò dal Buri chiamata vocabolo di gram-
matica. Quanto arisurresso, forma corrente presso gli antichi Toscani,
che dicevano pasqua di risurresso per distinguere la pasqua propria
dalla pasqua rosata (pentecoste), dalla pasqua di natale, e da altre
feste, a cui davan pure il nome di pasqua , piuttosto che tirar questa
voce da resurrectio, che avrebbe dovuto dare fonologicamente risur-
re^io o risurre^o, o risurreccio, io credo che la si debba derivare da
resurrexi, primo vocabolo dell'introito della messa pasquale. Quindi è
che presso gli antichi abbiamo anche, con forma più prossima alla la-
tina, pasqua di resurressi (Passavanti, G. Villani, ecc.), e negli antichi
statuti sardi di Sassari la pasqua è chiamata sa festa de resurrexi. Così
pure, dalle due prime parole dell'introito quasi modo, i Francesi chia-
marono dimanche de Quasimodo la prima domenica dopo pasqua , e
fors'anche ne venne lo squasimodeo dei Fiorentini E i cacciatori te-
deschi con quattro voci iniziali d'introiti delle domeniche della qua-
resima [reminiscere, oculi, laeta^e^judica) indicano quattro pt:riodi del
regresso che fan ie beccacce verso primavera. Ai più al più potrebbe
considerarsi la forma in o di resuresso e resurressio introdottasi dagli
scrittori sotto l'influenza del nom. resurre ctio ; mentre a quella di
resurressi sono verisimilmenie dovute l'ortografia di resurressione pei
resurrepone , che s'incontra in qualche antico , e forse anche la sin-
golarità del tema verbale di resurressisse e resurressiio (per risorgesse.
risorto), che si leggono la prima in testi del Cavalca (Atti degli Ap.).
e la seconda nell'Alighieri [Vita nova).
— sys —
come amarono e amassero presentino due forme troppo di-
stinte perchè possa dirsi Tuna essere stata deierminara dai-
Taltra. La pretesa inrluenza di amarono terminante in no
avrebbe dail'un canto potuto contribuire forse piìi alia con-
servazione del finimento no dìamasseno che non alla sua mu-
tazione in ro. Credo perciò che laverà scona delie varie forme
tiessionali della 3' pers. plur. deil'imperf. del soggiuntivo
sia da guardarsi sotto un altro aspetto. Amassent ha il suo
più normale rappresentante ndVamasseno^ proprio essenziai-
mente delfant. pisano, lucchese ecc. , e, salva la modifica-
zione à'e in o,, ntlVamassono^ tacessono^ leggessoìto, sentis-
sono dell'antico fiorentino, ciie prima del 1 5oo passarono poi
in amassino , t acessino, hggessino, senti ssino ^ forme an-
cora oggidì proprie non solo del fiorendno, ma anche di
altri dialetti italiani, come per es. dei romanesco; mentre
d'altro iato alcuni voìgari cambiando n in r, fecero^ come
per es. il sanese, amassero^ tacessero^ leggessero, sentissero,
e altri, come per es. Tantico pratese, mutando anche e in
0, ebbero amassero,, tacessoro^ leggessoro , sentissoro. Ora
è da notare che i dialetti i quali ebbero ne'primi tempi
storici la forma del perfetto in arono^ come per es. il
fiorentino che disse primamente amarono, poi amorono,
poi amorno, poi finalmente, come ancora oggidì, amorino (i),
sarebbero appunto nel numero di quelli che non ebbero la
forma in -assero . dal Canello attribuita airinfluenza di
amaronOf mentre alllocontro il sanese che non aveva il per-
fetto in -aì'onoj ma in -aro, come per es. amaro, ebbe la
forma dell'imperf, sogg. in -assero, onde amassero ecc. Non
vado oltre su questo campo, bastando, mi pare, quest'av-
vertenza per dmiostrare che la forma amassero per amas-
seno non è dovuta all'influenza di amarono, ma sì verisimil-
(i) Questa uscita in. -onno per -arono era ancora del unto ignota
al fiorentino d'intorno al i3oo, e lo fti poi sin verso il secolo XVI.
Quindi è che Dante, usando nella Divina Commedia termìnonno ( Par.
xxvjiu To5) per ierrnituirono , come pure uscinno {Jnf., xiv. 45) per
uscirono.., adopera foririe non già fìoreiìiint', raa pisane, liprovate ap-
punto coinepisani.srnì nel trattato: Da Vidgari eloquio (I, i3).
— sgo-
mente ad un mero fenomerio fc«ietìco, cioè alla mutazione
di n in r, quale abbiamo come per es. in Ringherò (Zin-
gano), tanghero (tangano), cecero {;^ cicinus. cicnus) ( i), Capo
Passavo (Pachynus), ecc.; mutazione che, quando in questo
caso particolare si volesse considerare come subordinata a
principio d'analogia, sarebl>e piuttosto da recarsi , non g)à
a forme come amarono-, ma sì a quella principalmente dei
verbi di terza in éro^ come v. gr. lessero^ vissero, fe-
cero, ecc. che sono appunto le proprie dei dialetti aventi
le forme de'.rim.perfetto sogg. in -assero^ -essero, -mero,
sicché per es. sanese lesstiro e amassero , sic. intisiru ( in-
tesero) e amasstrii, tcc^ mentre il fiorentino il quale, come già
fu notatOj nonostante gli sia proprio un antico a.»?iarowo, disse
sempre amassono od aniassino , ha poi nel perfetto della
(i)Da cicinus, ma non da cicer, come vorrebbe il Diez [Gr. P, 37;
Et. W. P, 121). L'epentetico cicinus da cicnus è foi-roa amica del vol-
gare romano quando pur non si voglia ieneriacol Ritschì come propria
della lingua di Plauto (v. Op, PhiL II, 477 e segg. ; Corssen, ,4w5:i-/>r.
1*. ■Ì67}. Dato come non infrequente il passaggio di n in 7', la fornna
cecero da cicinus si rende assai ovvia nei tiorentino per la l'5gge essen-
zialmente propria dì tal dialeiio, in oSi la vocale postonica dinanzi a
r semplice passa in e, sicché, verbigra^ia : e =^ a in baccherà, cappero,
gambero., '{ucchero, Gaspero^ La^^ero ecc.; i ij") = e in diaspcro [ja-
Spidem), dattero (dactyliis) ; e- = 0 in albero {arborem). elhero (elboro,
elleboro]:, fenomeno che il fiorentino estende anche alla vocale proto-"
nica seguita da r, semprecchè essa vocale non sìa nella prima sillaba
della parola, onde per es. margherita, Liperata {Reparata)y botnberaca
(per bombaraca, gomma arabica ), laberinto {labyrinthus) , porperino
(ftutogr. d. Tesi, del Boccaccio) , per porporino , ecc. Anche la cosi
condizionala vocale epentetica è sempre e; quindi canchero, aghero,
magherò, pighero, Nó/eri, sopperire, raverustico, ecc.. per cancro, agro,
magro, pigro (*), Nófri (Onofrio), soppn're [supplere], ravrusiico (da
labrusca). Così di questa legge, essenzialmente propria del fiorentino
(e già del latino), come della contraria, prevalente nella massima parte
dei dialetti italiani, onde la dinomi'a fonetica: er = ar, ar >= er,
tratterò assai minutamente ed ampiamente in una monografia che uscirà
ael già citato ylrc/tjv. Glott. It. dell'Ascoli.
(*) L'epcntjo\^^ daìVe di canchero, a^hcro, magherò ,pif^hero, proceduli da
cancro, agro, magro, pigro, e non già dal n<.:pinativo cancer ecc., viene «t-
teslata dal precedeutc sucmo guUurflle, che altrimenti sarebbe palatale, come
per es. in acero, non achero, da accrum.
— 400 -
tenia le forme in -uno, onde per es. lessorio, vissono tee. e più
tardi lessano, vissano ecc., sicchc possa dirsi generalmente
esistere tra la terza pers. pi, del perf. ind. e quella deirim-
perf. sogg. un parallelismo rappresentato da ;- =:: r (per es.
san. cadd-ero, cadess-ero), n ^=:: n (per es. fior. cadd-onOy
cadess-onó).
Quanto a forme verbali che presentano ancora la muta-
zione di n in r, quali per es. sediero [Purg. II, 49) per
sedietio , fiero per Jìeno, essenzialmente proprio di Fra Gior-
dano da Ripalta e altre, noterò ancora come in vari codici,
così danteschi come d'aitre antiche scritture, d'origine o fio-
rentina o, comunque, toscana, s'incontrino per es. le forme
volgor per volgon, andavar per andavan, devar per devan,
tornir per tornin, ecc. donde apparisce chiara una tendenza
popolare ai la mutazione di n in r.
ivi, pag. ló. Non ciedo ohe il sost. compito venga dal
lat. compiere e sia come una forma participiale di compiere.
E più probabile che compito sia da computus , coìnputare,
e così d' una medesima origine con conto. Quanto a\Vu
mutato in i confrontisi con compitare , che non può esser
altro che computare Quanto alla connessione logica no-
terò che propiiameme compito significa lavoro assegnato,
misurato, calcolato, computato.
Ivi, pag. 12, il Canello deriva il prov. JóJt:^, giaciglio,
dalla forma jacitum. Questa voce provenzale risponde in-
vece ad un organico tema nominale jacio^ jaceo-, derivato
da jacerCj e a taie forma di tema si connettono pure il nap.
jaiio, sic. jai^u. geo. giassu, piem. giass (i). Il vocabo-
lario italiano registra agghiaccio (giaciglio), di forma e di
origine al tutto analoga ai precedenti, salvo il prefisso ad-
{z=iad'jacio-) (2). Queste forme di nomi adunque starebbero
(i) Nei Promptuarium di Vopisco (Mondovì, 1564) dove sono regi-
strate molte voci piemontesi con forma italiana, è « Giazzo, i. lettiera
di paglia per li cavalli, siramen, Ovid. stramentum^ Var. ».
(2) Agghiaccio per un più normale aggiaccio , come per es ag-
ghiettìvo per aggettivo.
— 401 —
al verbo jacére, come per es. contegno^ sostegno a conitnere,
sustinere.
Ivi, pag. 17, allo spagnuolo miiebdo , antico participio,
accennante ad un organico móvitum, sarebbe stato bene di
aggiunger pure i participii nap. tnoppeto, sardo moffitu (ant.),
móvidu (log.), móviu (mer.), móbidu (sett.), forme tutte che,
al pari della spagnuola, accennano ad un prototipo movitum.
Noterò poi in genere circa questo scritto su forme parti-
cipiali, come l'autore avrebbe talvolta dovuto per avventura
riferirsi a prototipi, non già participiali, ma sostantivali e di
ben altra origine, voglio dire ai nomi formati, non già come
il participio per via del suff. ariano ta (lat. -to, -so), ma si
da un suffisso originario tu (lat. -tu, -su), come per es. nei sost.
vomitus, fremitus, geimtus, rediius, habitus, Jructus, pas-
sus, defectus, Jlitus, gressus , in una parola, per dirla
empiricamente, tutti quei nomi c\iq terminando in latino il
lor radicale in tu-{su-)^ vengono ad essere non della se-
conda, ma della quarta declinazione, alla quale forma viene
pure a connettersi il supino, non avente punto a che fare
col participio-, e allora a questa forma, piuttostochè alla par-
ticipiale, avrebbe dovuto più risolutamente connettere, verbi-
grazia, premito^ gèttito, ansito, bàttito, a cui aggiungerò
tremito, del quale il Canello non parla, ma che è di forma-
zione romanza, od almeno non attestato dal latino degli an-
tichi scrittori, e che sta al lat. fremere, come fremitus a
fremere In un solo caso accenna il Canello a questa forma,
citando (p. n, n. 3) i sostantivi motus, cursus, cubitus, che
egli però erroneamente confonde coi sostantivi participiali,
che sono generalmente neutri (p. e. dicturn) e non di rado
femminili (p e. offensa) e appartengono solo, come il par-
ticipio, alle due prime declinazioni.
La nota filologica concernente un luogo della Vita Nova
si riferisce a quel passo del § 2, dove è detto: «« A Ili miei
occhi apparve prima la gloriosa donna della mia mente, la
quale fu da molti chiamata Beatrice , i quali non sapeano
che si eh amare ». In queste ultime ppTole che sono va-
riamente mterpretate, il Caneilo crede di vedere sotto la
forma di chiamare non già quella di un infinito, ma si una
- 402 —
sporadica forma verbale, derivata dal perfetto del soggiun-
tivo, e procedente quindi foneticamente da damarint [da-
mavcHnl). la appoggio della quale opinione t;gli cita più
luoghi della cronaca mantovana di Aliprandino Bonamente
(Muratori , Ant. It..^ v) , in cui veramente s' incontrano
mohe fonr.e rispondenti a quelle deirinfinito, ma che hanno
manjfestaniente valore ben altro che d'infinito, onde per e.
usarti per usava, pigliare per pigliava^ dominare per domi-
nava , stare per stava, partire per partirono , gire per
girono t compilare per compilasse, ecc. Queste forme pei
Ganeiio rappresentano tante alterazioni del tipo del perf,
del soggiuntivo , sicché per es. dominare per dominava
verrebbe da dorninarit tee. , ragionare per ragionavano
da rationarint qcc. E perciò egli considera quell'ultima parte
del citato luogo della vita nuova come rispondente letteral-
mente a qui nesciebant quid sic damarint^ che poi finirebbe
per dare un senso difficile a capirsi, cioè i quali non sape-
vano che cosa così abbiano chiamato.
Ora a me pare strano che il perfetto del sogg. sia venuto
a dar questa unica forma in re, serviente pei due numeri,
per piià tempi e modi, e anche per più persone , tanto che
si trovi pure usata pel presente dell'indicativo, come per es.
nei verso, dal Ganello non avvertito: A una città che Man-
tova se dire (UH, B) ^ cioè si dice, si chiama, lo credo
piuttosto che sia qui il caso di vedere nell'infinuo cosi ado-
perato una, com'oggi direbbero, forma di ripiego, cioè una
commoda forma di applicazione generale, secondochè si
udiva già una volta usare dai lanzichenecchi parlanti ita-
liano, ovvero come si usava e usasi tuttavia nella così detta
lingua franca de^li scali di Levante.
Noi crediamo pertanto che il chiamare sopracitato di
Dante sia una vera forma d'infinito quale si usa con valore
onnipersonale di soggiuntivo, come per esempio non so
che mangiare (nescio quid edam), non sapevano che si
fare (nesciebant quid agerent)^ non so come chiamarlo
(nescio quomodo vocem illum) , non so dove andare, a chi
rivolgermi, non ho che fare con lui, ecc.; e interpretando
perciò analogicamente il controverso luogo non si può in
— 408 —
quel chiamare non vedere un infinito con senso dì soggiun-
tivo: i quali non sapeano che si chiair.asscro , chiamando
Beatrice, cioè con quale e quanto nome chiamassero, ossia,
per servirmi dell'acconcia interpretazione del prof. D' Anconstj
citata dallo stesso Canetio: •< ignoravano quanto directamente
appropriassero alla fanciulla questo nome significativo , che
!e davano senza pesarne il valore ». Che Dante usasse por
mente al valore etimologico delle parole Io prova ia terzina:
O padre suo veramente Felice,
O madre sua veramente Giovanna,
Se interpretata vai come si dice.
{Purg. XII, 79-81).
E al valore etimologico di Beatrice, nome proprio, allu-
deva anche il Petrarca quando diceva nella canzone alia
Beata Vergine : Nelh tue sante piaghe^ Prego che appaghe
il cor, vera Beatrice.
Notevoli soprattutto fra le pubblicazioni di questo fascicolo
ci paiono gli Studi sopra i Can^oniei^i proven\ali di Firenze
e di Roma, di cui lo Stengel pubblica qui solo una prima
parte, preceduta da considerazioni riguardanti principal-
mente r importanza della letteratura provenzale , e i varii
lavori fatti sin qui ad illustrazione di essa. Fra le poesie
che qui si recano (pp. 32-45), cavate dai codici fioren-
tini, hawene alcune inedite-, e tutte poi, quali più, quali
meno, presentano pregevoli varianti, come segnatamente la
novella del pappagallo, notevole non solo per varietà di
lezioni , ma anche in genere per carattere più semplice
ed antico, donde, secondo lo Stengel, si potrebbe fondata-
mente argomentare che questa forma sia quella che più si
accosti air originale. I testi qui pubblicati sono accompa-
gnati da \-arianti e confronti che danno a questo lavoro un
carattere al tutto critico, e che gioveranno assai alla resti-
tuzione della lezione originale.
Quanto al documento in dialetto sardo dell' anno Ì173
che io Stengel qui pubblica (p. 53), credendolo inedito, vo-
gliamo notare come esso già fosse dato fuori dal Tronci negli
Annali Pisani, e ristampato dal Tola nel primo volume, p.
243, del Codex dipi. Sardinice {Hist. P. Mon.), nel qual
- 404 -
volume vennero, come era ovvio, pur ristampati non solo
i documenti sardi , pubblicati dal Muratori nelle Ant.
Ital.^ voi. li, ma anche gli inserti dal Manno nel i° voi.
Chartamm della stessa raccolta degli Hist. Patr. Mon.,
che lo Stengel mostra credere impressi una volta sola. Dob-
biamo ad ogni modo essere grati allo Stengel di questa sua
pubblicazione, in quanto la lezione è di gran lunga più
corretta che non nelle stampe precedenti. E poiché siamo
in sul parlare di documenti sardi . vogliamo credere di
non commettere indiscrezione, annunziando agli amanti di
questi studi , come si stia preparando una critica edizione
di tutti questi indubitatamente genuini documenti di antico
volgare sardesco, molti inediti, i quali, mentre gioveranno
da un lato lo studio storico dei dialetti di quell'isola, po-
tranno forse anche aiutare il risolvimento della quistione
circa le oramai celebri carte d'Arborea.
Ristringendo a questo tanto i nostri cenni ed osserva-
zioni intorno al primo fascicolo della ^vista di Filologia
romanza, concludiamo esprimendo il desiderio che possa
incoPxtrar favore presso gritaliani questo giornale, il quale
prendendo principalmente ad illustrare il primo periodo delle
letterature neolatine e segnatamente deiritaliana, viene cosi
a compiere una gran lacuna nel campo della cultura nazio-
nale. E che intanto sia da bène augurarsi circa l'avvenire
di esso, argomentiamo, così dal complesso della presente
puntata, come dall'annunzio di alcuni fra gli scritti che
usciranno nei fascicoli seguenti, riguardanti, tra l'altre cose,
antichi documenti di prose e poesie italiane.
Torino, gennaio 1873.
r LEGHI A.
Compiamo un caro dovere rendendo grazie slncerissime per le lodi
onde ci volle cortesemente onorati ,alla Zeitschrift filr gymnasialwesen,
diretta a Berlino da quell'uomo autorevoiissimo che è il prof. Bonitz.
Pietro Ussello, gerente responsabile.
- 405-
L'AUTORE DEL POEMA
LAVDES HE%CULIS.
I tesori letterarii conservati nelle biblioteche italiane non
sono né anche al giorno d'oggi perfettamente conosciuti ed
ancora sempre avviene alPaccurato indagatore, cui è con-
cesso di potere fare ricerche in quelle raccolte, d'imbattersi
per un caso felice in codici di cui s'era perduta la memoria,
od anche in tali che sono perfettamente sconosciuti, e di poter
rispondere col loro aiuto a quesiti filologici, della cui solu-
zione poc'anzi si disperava per mancanza della tradizione
manoscritta.
Un esempio di tal fatta ci offre il Codice Veronese da
me ultimamente tratto in luce, il quale, per tacere ora di
altre cose, è della massima importanza per poter decidere,
chi sia l'autore del poema intitolato: Laudes Herculis.
Questa poesia, che si trova stampata nt[V Antologia di
Alessandro Riese, sotto il N° 88 1, si legge per lo piii nelle
edizioni di Glaudiano senza nome d'autore, dacché per la
prima volta fu pubblicata da Giovanni Camers nella sua
edizione di questo poeta (i). Il Camers istesso lo aveva senza
esitanza stampato sotto il nome di Glaudiano (2); ma sic-
(i) Vienna, i5io.
(2) Nell'edizione di Camers leggesi : Quae Joannes Camers Ordinis
Minorum addidit, nondum antehac impressa :
Claudiani laus Christi - Proles.
Claudiani miracuia Christi - Angelus.
Claudiani laudes Herculis - Pieridum.
Claudiani in Sirenas. - Dulce.
"Hi vista di filolosia ecc., I. a8
- 405 -
come le posteriori generazioni che s'occuparono della seriore
epopea romana non trovarono una tradizione manoscritta
di questo carme, pare che avessero qualche dubbio sull'au-
torità di Camers. Già TEinsio, che fece le più minute
indagini per rinvenire un codice di questo poema , fu co-
stretto a confessare essere stata infruttuosa tutta la sua dili-
genza. E siccome dopo Einsio' non sono mai più state fatte
estese ricerche concernenti i codici manoscritti di Claudiano
e dei suoi contemporanei , così questa poesia nelle edizioni
posteriori fu sempre ripetuta come anonima.
Soltanto poco tempo fa sono riuscito, come di sopra ho
accennato, a ritrovare un codice del poema di cui discorro,
aiutato dalla squisita cortesia di Monsignore di Giuliari,
prefetto della Biblioteca capitolare di Verona. E questo il
Codex Veronensis CLXIIl, del secolo IX, di cui ho dato
le prime notizie in uno scritto pubblicato per dare il ben-
venuto ai filologi tedeschi, riunitisi a congresso in Lipsia nel
1 872, col titolo (c De Claudiani codice Veronae nuper reperto
commentatio critica », pp. 43-54 (i).
In questo codice ci è tramandato il nostro poema sotto
il nome di Claudiano (confr. l. e. p. 47), dacché pona il
titolo: Eiusdem (cioè Claudiani) laus Herculis. Essendo in
tal modo dimostrata la buona fede del Camers ed evidente
che solo per mancanza di tradizione manoscritta il poema
venne sempre pubblicato come opera d'ignoto scrittore, non
esitai a nuovamente attribuire le Laudes Herculis a Clau-
diano (l. e. p. 47 e segg.).
Contro questo mio procedere si è decisamente dichiarato
Emilio Baehrens nella sua critica dei due miei lavori che
sono intitolati: Quaestiones criticae ad emendationem Clau-
diani, Numburgi, 1869, ^ ^^ Claudiani codice^ ecc., critica
(t) Confr. Rivista di Jilologia, I, p. 33o e segg.
— ion -
inserita nei Neue Jahrbùcher fur Philologie und Pddago-
gik^ herausg. von Fleckeisen und Masius, 1872, p. 499 e
segg. L'opinione sua, contraria alla mia, merita tanto più
di essere esaminata, in quanto che è espressa da un filologo
che si è già fatto conoscere, per diversi suoi lavori nei
giornali filologici della Germania, come conoscitore delia
latinità seriore, e ci promette una nuova edizione dei Poeti
latini minores e àoìV Anthologia latina, lavori che devono
uscire dalle officine del Teubner.
Per il Baehrens non esiste adunque alcun dubbio*, se-
condo lui Claudiana non è l'autore delle Lodi di Ercole
(confr. 1. e. p. 504). Ma io non posso cosi senz'altro am-
mettere le ragioni, che lo hanno condotto a tale conclusione
che è così recisamente pronunciata da lui.
Consideriamo innanzi tutto la tradizione manoscritta. Già
da quanto sopra è detto intorno air origine deiranonimità
del nostro poema risulta , che V opinione proviene da un
pregiudizio, che a vero dire data da secoli^ quello cioè, che
il Camers non sia buona autorità in ordine ai codici mano-
scritti da lui adoperati. Questa ragione apparente scompare
per la scoperta del Codex Veronensis, e si dovrebbe credere
che così la questione sia terminata. Eppure il Baehrens, colla
scorta delle ricerche da me istituite intomo all'istoria dei
Codici di Claudiano, tenta di combattere in favore dell'antico
dubbio sull'autenticità del poema. Ei mi rimprovera (1, e.
pag. 5o2 e segg.) che io non abbia , dopo aver dimostrato
essere perfettamente uguale l'autorità del codice G (Gyraldi-
nus)<t la cui copia è conservata a Firenze, e del codice O
(che è il Veronensis) (1), anche discusso il quesito, se la
(1) Devesi qui trattare questo quesiio, perchè le Laudes Hercvlis
formano uaa parte della tradizione Ciaudianea e perciò il giudizio sulla
tradizione di quelle essenzialmente dipende da questa. Il codice G è
andato perduto, ma risulta da quanto ci fa conoscere Gyraldus, dagli
— 408 —
classe dei codici <t) G direttamente risalga al codice origi-
nale di Claudiano, ovvero se per avventura non abbia una
fonte comune, che dovrebbe essere poi anch' essa subordi-
nata a quel codice originale. Quest'ultima è T opinione del
Baehrens, argomentando egli come segue: G contenei'a una
parte del poema « Aetna », per lo più conosciuto sotto il
nome di « Fragmentum florentinum » (i), di cui non si
trova traccia nel codice 0 ; e questo alla sua volta contiene
le « Laudes Herculis^ De phoenice » ecc. di cui non v'e orma
in G. E ciò ci conduce necessariamente per la classe O G alla
genealogia seguente:
Codice Originale
1
[y]
/ \
G O.
Secondo questa opinione il poema Aetna sarebbe in G
aggiunto indipendentemente da un copista, ed in modo uguale,
indipendentemente in 0 le Laudes Herculis.
Se vi fosse la menoma probabilità, che la cosa stesse in
Estratti fiorentini nella biblioteca nazionale (Magliabecchiana, Claudiani
eiitio princeps, segnata A. 4. 36), e specialmente dal fine della copia
dell'avanzo di quel codice G ne! Cod, Mediceus, Plut. xxxni, cod. ix,
che questo codice G è stato di gran lunga il migliore di tutta la tra-
dizione claudianea. Confr, Ritschl, Acta, p. 348, 2. A questo codice
dobbiamo adunque qui ritornare in modo particolare.
(i) Anche questo frammento è, come si sa, il brano più considerabile
fra i codici del poema soprannominato. Rimane dubbio, se il Gyraldus
abbia mai trovato e copiato per intiero questa poesia. Non ne danno
sicurezza le sue parole nei Dialogi de lat. poetis IV, come io altra volta
opinava, negli .4cfa di Ritschl, p. 354. Probabilmente il Gyraldus copiò
quella parte soltanto, che noi conosciamo come estratto dal vecchio
Ernstius, estratti per la prima volta e perfettamente adoperati da Mat-
THiAE nella Neiie Bibliothck der freien Kiìnste und Wissenschaftert ,
59» pag- 3"' 5.
— 409 —
questi termini, vorrei concedere, che Veiusdem dei codice
veronese non abbia ad avere gran valore per decidere chi
sia l'autore di quest'ultimo poema.
Ma è evidente che la cosa sta altramente. Il codice G con-
serva P ordine primitivo delle poesie , che conosciamo me-
diante il codice fiorentino. Di ciò ho già fatto cenno nel
Museo Renano (1872, p. 622), in appendice al mio scritto
sui Codici del Ratto di Proserpina di Claudiana (confr.
gli Ada societatis philologae ed. F. Ritschl^ I, p. 345).
Se adunque il frammento dell' Aetna si fosse trovato alla
fine del codice G, si potrebbe per avventura parlare di ag'r
giunte, a cui non conviene dare troppo peso^ ma siccome
si trovava veramente nel bel mezzo di esso, come rileviamo
dal manoscritto fiorentino, in cui a vero dire è ridotto a se-
dici versi, non si può parlare d'aggiunta, ma il poema deve
avere fatto parte della serie originaria delle poesie di Clau-
diano, dacché sarebbe veramente inesplicabile , come tutt'ad
un tratto lo troviamo in mezzo ad esse.
Del non rinvenirsi questo- poema negli altri numerosi co-
dici manoscritti di Glaudiano ho parlato già negli Ada di
Ritschl, I, p. 378 e segg. spiegandolo, a mio parere, in modo
conveniente.
Ho detto ivi , che il codice originale di Glaudiano aveva
ventinove linee pver pagina, in modo che la nostra poesia
occupava tre pagine, e che perciò bastava un procedimento
affatto meccanico perchè scomparisse per sempre dai ma-
noscritti. Il calcolo istituito da Baehrens appare adunque
infondato riguardo al codice G.
Vediamo ora come stia la cosa per ciò che spetta al ms. d).
Innanzi tratto la mancanza del frammento dt[VAet?ia nel
Codice 0 non può nulla decidere intorno alla provenienza
di esso, perchè il frammento in discorso originariamente si
trovava prima delle poesie minori di Qaudiano, che sole si
- 410 —
rinvengono negli avanzi del Codex Veronensis, ed inoltre per
lo più in ordine arbitrario. Non si può assolutamente dire,
se si trovasse nel Codex Veronensis^ quando fu intero, ov-
vero nella fonte da cui deriva, principalmente eziandio perchè
questo manoscritto anche in tempi anteriori era già mutilo,
come in altro luogo dimostrerò. Ma per ciò stesso non è
lecito argomentare dall' esistenza o non esistenza di questo
frammento nel codice alcunché sulla relazione di parentela
in cui questo si trova con altri codici.
Nel medesimo tempo risulta dalla ricerca da me fatta [De
Cod. Veron., p. 5i e segg.), che <l> e G formano insieme una
classe di codici in modo simile (i), come lo fanno anche il
K(aticanus) ed i4(mbrosianus). Ma con ciò non concedo an-
cora, che, come vuole il Baehrens, per 0 e G debbasi am-
mettere la medesima fonte comune, che dev' essere subor-
dinata al codice archetipo^ ma asserisco soltanto il fatto, che
in questi due codici sono conservate le traccie d'una lezione
più antica e migliore di quella, che ci offrono gli altri ma-
noscritti e che per ciò stesso si distinguono G <t> come un
gruppo particolare a confronto degli altri manoscritti.
La discussione da me ultimamente fatta nel Museo Renano
(1872, p. 62V) ha dimostrato al contrario, e colla massima
sicurezza, che fra G e ^archetipo deve aver esistito ancora
un altro codice, quasi anello di congiunzione, il quale
spiega certe arbitrarie trasposizioni-, ma non abbiamo alcun
motivo per dire, che anche il codice 0 debba essere subordi-
nato a questa classe, perchè ci manca ora quella parte del
codice, in cui esse si trovano, se pure ha esistito, come
(i) Confr. pag. Sa: dubium esse non potest, quin codices <t) et G 5t-
mili modo atque V q\A singularem classem constituant, quae quidem,
ut in Quaest. crit. p. 20 seqq. demonstrasse videor, cum classe V A^d
eundem librum archetypum revocanda sit. (F = Vaticanus, N. 2809,
saec. XI; ^ — Ambrosianus, M. 9, sup., saec. XIII).
— 411 —
Opina il Baeiìrens, e perchè T ordine delle poesie, del che
ho già parlato, e poi specialmente il contenuto talmente
differiscono dal codice G, che questa supposizione per me
diventa illusoria. La stretta relazione fra G e 0 nelle singole
lezioni è evidentemente dovuta soltanto a ciò che ambo i
codici, l'uno indipendentemente dalP altro, sono, quanto al
tempo, vicini all' archetipo. Il codice 0 non è poi creazione
originale, e ce lo provano facilmente gli errori che contiene-,
da questi rileviamo poi anche che fu scritto da uomo tutt'altro
che erudito, il quale copiò quello che trovava nel suo origi-
nale, egli non è il redattore d'una raccolta di poesie ed uomo
capace d'inserire per avventura poesie, come la nostra intorno
ad Ercole, per un motivo ragionevole qualunque.
Dunque di aggiunte senza valore fatte alla serie tradizionale
delle poesie di Claudiano non si può menomamente parlare,
anzi, esaminando attentamente i fatti, dobbiamo risoluta-
mente asserire, che nel codice <t> ci sono conservate le Laudes
Herculis che per antica tradizione sono unite colle poesie di
Claudiano, della cui autorità non si deve dubitare, perchè
mancano negli altri manoscritti, dacché 0 risale all'archetipo,
ma indipendentemente da G. Se non volessimo più ammet-
tere deduzioni di tal fatta, allora saremmo costretti a negare
eziandio che il Raptus Proserpince sia opera di Claudiano,
perchè questa poesia appare anonima nel codice Laurenziano
(Plut. XXIV. sm., Cod. H2J, codice finora non raffrontato
e in paragone del quale la grande quantità degli altri niano-
scritti ha ben poca autorità, perchè essi nella massima parte
dipendono da lui (confr. Ritschi., Ada 1, p. 364 e segg.).
Ma siccome questa epopea è aggiunta al corpo delle opere
di Claudiano, così è attribuita senz'altro a quest'autore, seb-
bene la tradizione anche in questi libri sia separata. (Confr.
RrrscHL, Acta l, p. ^5i e segg.).
Devo bensì ammettere, che poco sicura è la mia suppo-
— 412 —
sizione, che nel carme che porta per titolo « Laudes Herculis »
manchino dopo il verso 91 precisamente cinque versi, e che
lo stesso può dirsi del mio tentativo di distribuire su cinque
pagine del sopracitato codice archetipo con 29 righe per pa-
gina i 187 versi, ai quali iSy versi conviene aggiungere an-
cora quei 5 versi e circa altri tre per lo spazio che occupava
l'epigrafe (in tutto adunque 146 versi), e di spiegare così
in modo meccanico perchè sia frammentaria la tradizione.
Mi si concederà però, che altrettanto malsicuro è il tentativo
fatto ultimamente dal Baehreqs (Jahrbiìcher f'ùr Phil. und
Pàdag-. herausg, von A. Fleckeisen und Masins , 1873,
p. 65) (i) di eliminare questa lacuna, od ammettere, che
sìa di soli due versi, parendomi che la mìa congettura abbia
il vantaggio d'essere piìi naturale e sia più conforme ad altri
fenomeni nella tradizione di Glaudiano (v, più sopra^.
Alle ragioni fin qui esposte sì può aggiungerne una gra-
vissima, voglio dire questa, che anche il Claverio nella sua
edizione delle Lattdes Herculis conferma : « hoc poemation
e vet. M. S. multis locis emendamus; sed in eolegendoparum
voluptatis percepì mus: non quod nimium displiceat ; nihil
enim gratius nobis contìngat, quam ea, quae venam. Clau-
diani sapiant. verum facile deprehendimus , haec seni vel
aegro v^l curis adflicto cxcidisse ». Da ciò rileviamo che
quest'editore possedeva eziandio un manoscritto del poema,
in cui si trovava conservato sotto il nome di Glaudiano. Non
c'è ragione di sospettare qui del Claverio, come fa Einsio
(confr. la nota al v. 81): « quem ille vetustum codicem
in Carmine hoc castigando advocat frequenter, metuo ne
Guiacianas coniecturas prò membranis nobis obtrudat )>,
fi) Egli scrive: « Vadis in itimensae scrutatwm devia si'vae In nova
sanguineOs armantem vulnera rictus », vedendo un appoggio nel codice
veronese, che omette dopo « Vadis » !'«» et », che si legge nelle edizioni.
- 413 -
anzi questo sospetto è affatto gratuito, dacché sappiamo
dairintroduzione al Claudiano edito dal Glaverio (i) che
egli ha adoperato dei codici assai buoni — lo provano le va-
rianti spesso citate, — e che questo aveva ricevuto dal Cuiacio,
L'idea deli'Einsio è nata senza dubbio, perchè ai suoi tempi
mancava qualsiasi codice del nostro poema. Il fatto che il
codice del Cuiacio rimanesse nascosto alPEinsio ci può ancor
meno far meraviglia di quell'altro , che il codice veronese,
il quale allora si trovava probabilmente ancora nelle mani
degli eredi dell'Asolano (confr. la prefazione di Gamers e
Francesco Asolano, Venetiis i525) potesse sfuggire a quel
celebre erudito, sapendo noi ora, che la memoria dei ma-
noscritti del Cuiacio presto si era perduta-, per cui i timori
di Einsio non devono destarei nostri sospetti. Le lezioni di
Claverio ci dimostrano chiaramente, che il suo codice era
differente dal veronese, cioè da 0. E ciò risulta evidente dai
seguenti passi: v. 62 habebat O, Aldina] habeto Claverio;
v. 112 gravato] gravidato ^ v. 118 celer] volans. È vero che
in generale tali asserzioni non si possono fare con tutta as-
severanza, atteso il modo poco preciso, con cui allora si ci-
tavano manoscritti, ma siccome nel caso nostro il lavoro
attinge le sue emendazioni ad un sol codice, si può certa-
mente con ragione ammettere, che segue il suo codice quando
s'allontana dall'antica tradizione data dairAldina.il verso 72
sembra d'altra parte dimostrare, che questo codice fosse
parente del veronese, che m esso Claverio ci offre, come il
manoscritto di Verona : w et aerios » mentre nell' Aldina
leggiamo ; « aetherios ».
(0 Cum praeseriim apud Jacobus Cnjacium vinitn omnimodis illu-
strem agenti duo Claudiani exemplana antiqua man a exarata se obiu-
lerint, unde poeta, quem in osculis habtbat, convaluerit iam piane aut
celle multo ininus aeger sit praestitus cet.
— 414 -
Ora, come sta il quesito relativamente alla poesia « In Si-
renas ->, che il codice O ci ofifre ugualmente sotto il nome di
Ciaudiano (confr. De cod. Veronens. eie, p. 46) e che nei
secoli passati non si potè rinvenire in verun manoscritto?
Intorno a questo il Baehrens tace affatto. Deve essere ge-
nuina questa poesia, sebbene per la tradizione sarebbe ugual-
mente condannata, come le Laudes Herculis, e questui-
time spurie? Noi vediamo che per questa parte Tidea di
Baehrens è in aperta contraddizione con sé stessa.
Deboli assai sono poi le ragioni di lingua, che si vogliono
far valere per provare non essere di Ciaudiano il poe-
metto in discorso. L'unica osservazione di valore sarebbe
v. 1 1 «postviscera (::rrpostviscera matris relieta) », ma che
prova il preciso contrario, dacché è modo veramente clau-
dianeo, come chiaramente lo prova Claud. in Eutrop. I, v. 46:
a suscipiunt {sciL Eutropium) matris post viscera poenae »
(simile è anche Claud. Rapt. Pros. 1, v, io5: « Te coii-
sanguineo recvpìx post fulmina fessum Juno sinu »; l'uso del
verbo « corripere », che per caso non si rinviene in Ciau-
diano, non può in verità nulla provare prò o contro l'au-
tore dei poemetto, essendo parola comunissima; la triplice
ripetizione di esso (v. 67, 96, i35)ci mostrerebbe in quella
vece che abbiamo dinanzi a noi un lavoro, cui l'autore non
ha limato, tanto più che v. bj e g5 col « corripere » leg-
giamo unito « grandia guttura », il che evidentemente ci
indica aver scritto l'autore in fretta e non messa l'ultima
mano al suo lavoro , nonostante la poca estensione del poema,
che ora consta di soU i38 versi.
Il risultato sicuro della presente indagine è adunque il
seguente: avendo finalmente ritrovata la tradizione mano-
scritta del nostro poema non possiamo negare che sìa frutto
della musa di Ciaudiano, se non vogliamo procedere nel
modo più arbitrario contro una tradizione ben antica, che
— 415 -
risale a tempi non troppo lontani da quelli , in cui visse
Claudiano istesso, e trovarci così in contraddizione con i
più saldi principii d'una aitica metodica.
Possa questa piccola ricerca, oltre alla positiva notizia che
offro ai lettori intomo ad un quesito di letteratura romana,
servire anche a sempre maggiormente invogliare gli eruditi
italiani, che si occupano di studii critici e dimorano vicino
alle fonti, di fare profonde indagini nelle biblioteche italiane:
che certamente non poche cose simili a quella di cui qui
ho discorso si troveranno e per avventura anche di tali, che
abbiano maggiore importanza e che necessariamente, a meno
che non lo favorisca il caso, sfuggono al viaggiatore, il
quale solo poco tempo può fermarsi in una biblioteca,
mentre piij agevolmente le scopre chi pud consacrare molto
tempo alle sue ricerche. Se la filologia critica, che tutta
riposa sui codici, troverà tale aiuto nel senso più esteso e
perfetto, allora è certo che farà ben più rapidi progressi di
quelli che finora potè fare.
Lipsia, febbraio 1873.
D'^'^ Ludovico Jeep.
OSSERVAZIONI CRITICHE
mtorno all'Argomento acrostico
^EL miLES GLO'I{rOSUS ^DI ^PLAUTO.
Chi si faccia ad esaminare con intendimenti critici il tenore
e la forma delle due specie d'ArgomcJiti metrici che vanno
innanzi alle comcdie di Plauto (i), non può governarsi con
(i) Questi Argomenti sono tutti distesi in trimetri giambici, e sono
gli uni acrostici j nei quali le iniziali di ogni verso, lette di seguito,
— 41« -
altre norme e tenere altro metodo che quello ch'ei si pro-
pone di seguitare neir investigazione critica delle comedie
stesse. Non già che quelle composizioni, fatte per comodità
dei lettori e ordinate allo scojx) di dare un succinto conto
dell'azione dramatica che si viene svolgendo in ciascuna co-
media, si debbano riguardare per opera di Plauto, siccome
mostra di credere il Linge nella sua operetta De hiatu in
versibus plautinis , ma perchè l'autore di esse, chi che
egli si fosse e in qual tempo vivesse (i), ne imitò con ogni
diligenza la lingua e lo stile, onde ci troviamo quasi tutte
le medesime voci e ì modi di dire é le regole del verseg-
giare; e perchè questi Argomeoti corsero la medesima for-
tuna appunto, e furono conservati per mezzo di quegli
stessi codici in cui pervennero insino a noi le comedie Plau-
tine. Ond'io pigliando a disconere dell'Argomento acrostico
del Miles Gloriosus, nel disaminare che farò le varie lezioni
che o s' incontrano negli antichi codici, o furono escogitate
formano il titolo della comedia a cui si riferiscono : gli altri non acro-
stici, composii ciascheduno di i5 versi, se ne togli quello dell'Anfi-
trione che ne ha soli dieci. Ora dei primi Argomenti, cioè degli acro-
stici, ce ne rimangono 19 — quello delle Bacchidi andò perduto insieme
col principio della comedia —, degli altri, 5 soltanto pervennero in-
•sino a noi, e son quelli dell'Anfitrione, dell' Aulularia, del Mercante,
del Milite e del Pseudulo.
(i) Per assai tempo fu creduto che ne fosse autore Prisciano: ma il
Ritschl giudica, e non a torto, che Prisciano non era capace di com-
porre così bei versi (habuisset pro/ecto quod sibi congratularetur , si
tam bonos trimetros facete ullo modo posset — Proleg. pag. 3 17). Lo
stesso Ritschl e altri con lui sono d'av\'is9 che questi Argomenti siano
opera di qualche grammatico' vissuto nel secolo degli Antonini, quan-
tunque degli acrostici pensano che possano anche essere stati composti
al tempo del massimo fiorire degli sludi grammaticali in Roma ,
poiché allora, cioè nel settimo secolo di Roma, uomini dottissimi,
come Licinio Porcio, Aurelio Opilio, Volcazio Sedigito, L. Azzio, e
posero grande studio nelle comedie di Plauto e scrissero in versi. Del
resto che già L Ennio fosse autore di acrostici, ne fa testimonianza
Cicerone, De divin. II, 54, ni.
- 417-
dai correttori, non mi discosterò punto dalle norme e dalle
consuetudini della critica Plautina. E prima di tutto dirò
che questa materia è già stata trattata con molta finezza e
dottrina da Federico Ritschl in una particolare Dissertazione,
stampata la prima volta neir Indice delle lezioni invernali
deir Università di Bonn (i 841- 1842) e ora riprodotta nel
secondo volume dei suoi Opuscoli filologici (pagg. 404-422).
In questo scritto Tiliustre filologo viene raffrontando la le-
zione vulgata di questo Argomento con quella dei mano-
scritti, discute le correzioni proposte dai critici e ci addita
egli stesso il modo di rassettare un buon numero di versi o
guasti o sospetti.
Perchè si possa vedere a colpo d' occhio la differenza fra
il testo tradizionale e quello datoci dal Ritschl, io riporterò
qui l'intero Argomento, così come si legge nelle antiche
stampe, sottoponendo a quei versi, che furono ritoccati dal
Ritschl, la lezione da lui proposta:
Meretricem Athenis Ephesum miles avehit.
Id hero dum amanti servos nunciare volt
{Id dum ero amanti servos nuntiare voli) R.
Legato peregre, captust ipsus in mari.
Et UH eidem militi dono daiust.
[Et eidem UH militi dono daiust.) R.
5 Suum arcessit herum Athenis et forai
{Siium arcessit servos dominum Athenis et forai) R.
Geminis communem clam parietem in cedibus,
{Geminis communem scite parietem cedibus,) R.
Licere ut quiret convenire amantibus.
{Liceret ut clam convenire amantibus.) R.
Obhcerentes cusios hos vidit de tegulis,
{Oberrans cusios hos videi de ieguHs,) R.
Ridiculus autem^ quasi sii alia, luditur.
{Ridiculis auiem, quasi sii alia, luditur.) R.
- ns -
IO Itemque impeliti tnilitem Palcesirio,
Omiòsam faciat concubinam^ quando ei
Senis vicini cupiat uxor nuhere:
Ultra abeat orai, donai multa. Ipse in domo
Senis prehensiis pcenas prò mcscho luti.
Le ragioni che indussero il Ritschl a emendare nel modo
che s'è visto alcuni dei riferiti versi, si posson leggere nella
mentovata Dissertazione, lo mi limiterò a discorrere di quelle
parti, nelle quali non mi sembra accettevole la lezione pro-
posta dall'insigne filologo, e mentre esporrò i motivi che mi
fanno discostare dai giudizi di lui, dirò pure quale mi sembri
essere il miglior modo di racconciare i luoghi in questione.
(Questi sono il verso 5", il 6% il j'' e TS".
Che la lezione dei 5° verso, quale ci fu trasmessa dai Co-
dici e dalle antiche stampe , sia guasta , ce lo dimostra senza
altro la ragion del metro, il quale è imperfetto e manchevole.
Ora il Ritschl volendo supplire quesra mancanza, suppone
che nel manoscritto, da cui furono cavati gli esemplari che
ora abbiamo, fossero cadute alcune lettere nel mezzo della
voce erum che vi si legge ora, e che questa parola sia nata
dal raccozzamento di due parti di distinti vocaboli che in
origine dovevano essere ser\vos domiti\um.
Codesta supposizione è molto ingegnosa, ma poco proba-
bile. Perchè ella avesse qualche fondamento, bisognerebbe,
mi pare, che in alcuno dei codici sopravissuti si fosse con-
servata almeno la lettera s avanti er; il fatto del leggersi in
tutti erum o herum e in nessuno serum, ci consiglia in con-
trario a mantenere la parola erum come intera e legittima.
E volendo supplire quel che manca perchè il verso sia com-
pleto, parmi che sia regola di sana critica, prima di fissare
arbitrariamente la sede della lacuna che si ravvisa in questo
verso, il ricercare nei principali e migliori testi, se mai ce
ne porgessero alcun indizio. Ora io trovo che nel Codice B,
- 419 —
che è il Veius Codex di Camerario, in luogo di arcessit si
legge ars eessii, quindi eon un s soverchio e col distacco
della lettera s dal e, donde arguisco che Vars non appar-
tenesse in origine ad arcessit, ma fosse abbreviatura di ar
(cioè ad) sese, e che romissione di ar innanzi a eessii nel
detto Codice, e quella di <ir sese negli altri avanti arcessit,
sia avvenuta per effetto della somiglianza di queste lettere
fra loro; siccome si vede accadere spesso nei Manoscritti
quello che già fu avvertito dai nostri Deputati alla corre-
zione del Decamerone, che, quando due voci simili confi-
nano insieme, come vicin potenti si dien noia e discaccino
luna l'altra (i). Talché ia genuina forma di questo verso
verrebbe ad essere: Suum dr sese arcessit erum Atkenis et
forai.
Non credo che debba parer soverchia l'aggiunta di ad
sese ad arcessit, poiché serve anzi alla pienezza ed evi-
denza del costrutto, e in effetto cosi troviamo aver detto in
(i) Di queste allncinazloni dei menanti troppi esempi s'incontrano
nei testi a penna, perchè possa parer necessario il fame qui menzione.
Tuttavia mi sembra che non sia del tutto fuori di proposito il riferirne
alcuni, che per la loro conformazione molto s'avvicinano a quello di
cui discorriamo. Così \i verso 171 dei Captivi, secondo la maggior
parte dei Codici suona così : Propterea te vocari ad coenam volo ; lad-
dove, se non la necessità di schivar l'iato, almeno la chiarezza e pie-
nezza del cosirutto consigliali di leggere : Propterea te vocari ad me
ad cendmvolo, e così fu in fatto rassettato il verso dal Linderoann
sulle traccie della scrittura del Vetus. Lo stesso dicasi del verso 366
della stessa comedia, dove in luogo di Ad te atque illutn dei Codici ,
il metro non meno che la regola del parlare latino richiedono Ad te
dtque ad illutn , e non vi si potrebbe neppure sostituire Ad téd atque
illum, ma è necessaria la ripetizione della preposizione, perchè, come
giustamente osserva il Lindcmann, « Ad te atque illuni » unam ean-
demqu€, non diversam ^egionem significai. Simile è ancora quell'altro
luogo del Trinummo al verso 817: Lumque hùc ad aduiescintem niedi-
tatum probe; dove ì'ad richiesto non meno dal metro che dal senso,
viene omesso in tutti i codici.
— 420 —
più d'un luogo i migliori scrittori e segnatamente i comici.
Per non citare esempi che di questi ultimi, leggiamo in
Plauto MiL. Gl. V. 70: ad sese arcessi iubent ; Men. v.
770: nec poi Jìlia umquam patretn ar cessi t ad se; Stick.
vv. 266 e 267 : demiror quid illcec me ad se arcessi ius-
serit, Quce numquam iussìi me ad se arcessi ante hunc diem,
E in Terenzio, Eun. v. 5 io: Jam tum quom primum iussit
me ad se arcessier; Hec. v. 466 : heri Philumenam ad se
arcessi hic iussit. Questa locuzione adunque non può in-
contrare opposizione, sia che venga considerata per se stessa,
sia che si riscontri con l'uso degli altri scrittori e massime
di Plauto, Bensì mi sembra di dover prevenire due obbie-
zioni che si posson muovere contro la correzione da me pro-
posta, una delle quali nasce dal trovar qui ar in luogo di ad,
mentre la prima di queste due forme non era più in uso al
tempo in cui è probabile che l'Argomento fosse composto;
l'altra riguarda il disaccordo fra l'accento ritmico del verso
e l'accento tonico delia parola pel fatto dtìVarsi che va a
colpire la sillaba finale di arcessit.
Intorno alla prima difficoltà, vuoisi ricordare anzitutto la
massima da noi espressa nel principio, che cioè nel giudi-
care della forma e del contenuto così di questo come degli
altri Argomenti metrici delle comedie plautine non possiamo
partirci da quei principii e quelle norme che ci servono di
guida nell'esame delle comedie stesse. Ora primieramente
che in antico si usasse ar in luogo di ad^ lo attesta espli-
citamente Prìsciano con queste parole : Antiquissimi vero
prò Sid frequentissime ar ponebant : « arpenas^ arventores,
arvocatos^ arjìnes, arpolare, arfari » dicenies prò « advenas,
adventores, advocaios, adfines, advolare^ ad/ari » (1, 45 H.)
Che poi ar per a^i fosse ancora in uso ai tempi di Plauto lo si de-
duce dal trovarsi nel Scnatusconsulto sopra i Baccanali (a. 568
di R.) arfuisse per adfuisse (G. 1. L. I, 196, zi), arvorsum
(C I. L. I, 196, 25) per advorsum\ e nei libro di Catone
De re rustica: aryehant (i38, i) per advehant ; irvectum
(i35, 7) pQV advectum (v. Corssen, Ueber Ausspracru ecc. I,
238 segg.). Né si può dire che rimanesse cotal forma estranea
aìie conedie plautine, mentre leggiamo nd Truc. II, 2, 17:
arme adpenius^ dove il B. ha arme advenias^ à C, {Codex
alter del Camerario, Der.uriaìus del Pareo) s il D. {Ursi-
niamis) arma advenias (la lezione armillas aensas proposta
dalJo Studemund non puossi riguardare che come una con-
gettura, giacché la scrittura su cui si fonda, quella del pa-
linsesto ambrosiano, è psJ.rsa qui vi allo Studemund stesso poco
sicura (i);v. il Truc. dello Spengel — Gottinga 18G8, pag, 44).
Che se la. forma ar non si incontra altra volta ne' mano-
scritti di Plauto, non vuoisi già dire per questo ch'ei non
(i) Aggiungasi che tale scrittura non è di prima mano (se almeno
ho bene inteso la noia A& dello Spenge! nella sopra citata edizione
del Truculento) , e che presenta altre difficoltà gravissime sia per la
ricostruzione del vecsc, sia pel concetto che si vorrebbe espiimere ,
giacché non so a cui p^^sa piacere il cLepis tihi [armillas acneas) messo
innanzi dallo Speng.'!, ci ?-nzì jh>a pare che piaccia troppo allo stesso
Spengel, secondo -ii^ £i può argxiire AAlì iiL>ty ch^ y» appunr. ; cmcn-
dationc non satis ^erta. Mi prepongo Ji esaminare ciUrove cv.esio vcrsOf
che è uno dei più disperda del Truculento, intanto perchè altri non si
getti troppo facilmente ijlla correaione tornitaci dall'Ambrosiano col-
l'intento di spa/.zare il testo ui Plnuto d'una ferrar: cosi importuna ,
mi pare di dover dimostrare fin d'ora come si possa sulle tracce dei
Codici Palatini ricostruire la lezione, cos'i di questo verso come dei
due ciie lo piecedono nel rriodo che segue :
'Adveni stmc sis lentaium cum éxornatrs óssibnsì
Quia tibin' iuaso ìnfecistì própudiosa paìUtlam
'An eo bella 's quia depisti critiff? Ar med ildvenas !
Il tibin' è ael Botiie, ed ò pure le! Bofbe il sìs h'nìatum ; quanto al
cepisti crines cfr, il verso 236 deità Mostellaija: Alorem geruìuiuhi
crnseo tibi et capiundas crinis (R.); e il verso 791 e se^. del Milite*
Jtaque eum huc ornatum adducas ut matronarum tuodc Capite compio
crinis vittasque habeat ; vedi ancora Intorno al significato del capere
crines l'illustrazione del Lorenz al verso sopra allegato della Mostel-
laria (ed. Berlino , pag, 229 e f^cg.)
'Rivista ai filologia ecc., J. 39
— 423 —
Tusassc più spesso, quando è provato per i citati esempi
che ella era tuttavia in uso non solamente nei documenti
legali ma anche nella lingua popolare; ma più tosto è da
credere che dopo la morte del poeta ella s'andasse via via
dileguando dalle sue comedie per opera dei correttori e dei
copisti che vi sostituivano la forma ad, se non più recente,
almeno più famighare a loro e più nota. Non si vuole
né pur dimenticare che i Codici Palatini che ci presentano
la ricordata forma ar, son quelli nei quali si sono più fe-
delmente conservate le forme arcaiche della lingua, meglio
ancora che neir Ambrosiano (v. Ritschl, Neu^Jahrbììcher^
1868, pag. 342), e che noi non possediamo ancora una
collezione completa e fidata delle varianti dei sopraddetti
codici per tutte le comedie di Plauto, giacché tale non può
chiamarsi del sicuro quella del Pareo (Ritschl, Opusc. PìiiL,
li, pag. 474*, cfr. Neue Plaut. Exc, I, pag. 22). Onde non
è fuor di ragione il supporre che un nuovo e attento esame
di quei testi ci possa fornire altri esempi o certi o almeno
probabili delParcaismo di cui si discorre, sopra tutto se si
consideri la grande incertezza che vi regna nella scrittura
di questa particella che non solamente ondeggia, come è
noto, fra ad e at, ma apparisce bene spesso scambiata con
a e ac. Del resto, che l'autore di questi Argomenti, nelFin-
tendimento di accostarsi più da vicino al fare di Plauto,
cercasse talvolta a bello studio, come è il solito degli arcaisti,
le forme antiquate e rancide della lingua , ne fa prova il
genitivo Alcumenas che si legge nel 1" verso dell'Argomento
acrostico dell'Anfitrione, la qual forma, se ne io^ìì familìas
che rimase anche nei tempi più bassi, era già sparita dal
linguaggio comune all'età di Plauto, e non se ne trova esempio
sicuro nelle sue comedie (V. Ritschl, Proleg., pag. 3 18
e 3 19*, confr. Corssen, Ueber Aussprache ecc. II, pag. 722
nota).
— 423 —
Circa l'altra difficoltà, la quale nasce datrintonazione della
sillaba finale di arcessit , e dal conseguente contrasto fra
l'accento nrietrico e Paccento della parola, sarebbe da fame
caso allora soltanto quando fosse dimostrata e messa fuori di
questione la regola dell'accordo sistematico del due accenti nel-
l'antica poesia dramatica de'Romani. Ma le ragioni addotte
finora dal Ritschl e dagli altri sostenitori di questa dottrina
non sono tali che ce ne possiamo ragionevolmente quietare.
La verità è, che cotesto accordo non è più frequente hei
metri di Plauto e di Terenzio, di quello che sia nella poesia
dattilica dell'età augustea ; e del resto è molto difficile a cre-
dere, che Plauto, il quale scriveva le sue comedie alla
brava e talvolta in fretta e senza troppo pensiero, volesse
impacciarsi a sua posta nella composizione dei metri, assog-
gettandoli ad una legge ch'era rimasta ignota così agli an-
tichi poeti nazionali del Saturnio, come ai comici greci, ch'ei
riteneva per suoi modelli. Ondechè io penso col Corssen
(l. e. II, pag. 9^0), che nella restituzione del testo dell'an-
tica poesia romana non si debba mai deviare dalla testimo-
nianza di manoscritti fidati e sicuri, per la sola cagione di
toglier via il disaccordo fra l'accento della parola e quello
del verso.
Minore di gran lunga è la difficoltà che presenta la re-
stituzione dei versi 6" e 7". Anzi, quanto al 6° verso, io
penso che non abbia bisogno di restituzione alcuna e si
debba conservare tal quale si legge nel codice 13.: Geminis
communem cldm parietem in aédibus. I dubbi mossi dai
critici intorno alla bontà di questa lezione si fondano sopra
una falsa interpretazione, come io credo, del costrutto, es-
sendo che tutti s'impuntarono, dietro la scorta dello Schoppe,
in voler collegare aedibus con communem, donde si videro
costretti a levar via in che faceva noia a tale accoppiamento;
laddove non v'era punta necessità di costruire a quel modo,
— 424 —
potendo in aedibus considerarsi e spiegarsi molto bene per
un aggiunto determinativo del luogo, con rapportarlo diret-
tamente a. forata a questo modo: /ora/ in aedibus gemini s
parietem communam^ « fa nelPuna e nell'altra casa un buco
nel muro comune, cioè di mezzo ». II costrutto è adunque
identico a quello che si legge al verso 142 della comedia:
In eo conclavi ego per/odivi parietem (Ritschi.), o come
legge ora lo stesso Ritschl (A^. PL Exc.y pag. 72): In eo
conclavid ego perfodi parietem, e il communem viene ag-
guagliato secondo la nostra interpretazione al medium che
si legge neir Argomento non acrostico al verso 9 : Medium
parietem perfodit servos. Con questa semplice interpreta-
zione cessa il bisogno di sopprimere la preposizione in
innanzi a aedibus^ preposizione che si legge in tutti i codici,
e non si è più costretti o di ammettere col Bothe, col
Lindernann e altri un iato fra parietem e aedibus, o ri-
correre ad altri spedienti per sanare il verso, come fa il
Ritschl, il quale da un sciam che si trova nel D e da con^
simile scrittura di altri testi ne trae scite che sostituisce al
clam del sopri citato codice B.
Per quel che riguarda il 7" verso il difetto è nelle parole
ut quiret che si leggono presso che in tutti i codici , con
questo però ch^ il B porta sopra quiret la correzione fatta
di mano non recente coire, e TE (codice di terzo grado di
proprietà del Ritschl) ha scritto sul margine coire et: donde
io penso che si possa togliendo via ut e mutando quiret
in qua ire et restituire così il verso : Licéret qua ire et
convenire amdntibus. Cfr. il verso 142 segg. della comedia :
Li eó conclavi ^go pérf odivi parietem. Qua cómmeaius clam
ésset hinc huc midieri\ e il v. gè segg. dell'Argomento non
acrostico; medium parietem Perfodit servos, commeatus
(fldnculum Qudifóret amantum. Questa, se non m'inganno,
è la più facile e la più propria medicina di questo luogo.
— 426 —
Perocché niente è più facile deiressersi le tre voci qua ire
et congiunte nei libri in un sola quiret, ed è pure assai pro-
babile, che Vut che vi sta dì soverchio siasi formato per iscorso
di penna, occasionato dalla somiglievole uscita deirantece-
dcnte liceret; se pure non vi fu messo di sana pianta da qual-
che malaccorto correttore, quando già erasi intruso ne'testi
l'erroneo quiret^ con intendimento di cavarne la lezione, di-
ventata poi comune alle antiche stampe: Licere utquiret. La
qual lezione, secondo che già ebbe ad avvertire il Ritschl, non
è accettabile, prima per la stranezza del costrutto, e poi perchè
i codici hanno liceret e non licere^ siccome non si deve mag-
giormente approvare, a parer mio, la correzione messa innanzi
dallo stesso Ritschl: Liceret ut clam convenire amantibus,
perchè clam non è nei codici, o almeno in nessun codice si
legge a questo verso , ma fuvvi trasportato dal verso ante-
cedente, di dove noi abbiamo già dimostrato non v'essere
una giusta cagione di rimuoverlo. Taccio di aitre conget-
ture dell' Acidalio e del Bothe per sanar questo verso, con-
getture già condannate, e con buone ragioni, dal Ritschl, e
vengo al verso 8°.
Questo verso, cosi come si legge ne*codici e nelle antiche
stampe, è sovrabbondante, cresce cioè di mezzo piede, e i
critici si trovan d'accordo in fissar la sede dell'errore nel-
Vobhaerenles. Prima di tutto il Ritschl osserva, e con ragione,
che la spiegazione che si volle dare di obhaerentes per am-
plectentes se invicem non regge, non potendosi quella voce
piegare a tal significato senza aggiugnervi almeno un sibì. Né
piace di vantaggio al Ritschl Vobhaerens messo innanzi dal
Bothe , che aggiunto a custos vorrebbe dire « una guardia
stabile e assidua », ma che qui non può essere il caso,
parlandosi di un servo che si trova là sui tetti per mero
accidente, essendovi andato per agguantare una scimmia
ch^eragli scappata. E il Ritschl a sua volta propone di leg-
gere obei^rans per obhaerentes
— 426 —
Con questa lezione, che si avvicina assai alla scrittura
dei codici, è addirizzato il metro e il senso corre : pure
chi ben consideri non vi si può acquietare del tutto. Lascio
stare che il verbo aberro non è plautino, e non se ne hanno
neanche esempi di scrittori vissuti prima del secolo d'Au-
gusto, poiché questo è tale appunto che si potrebbe fare ad
altre voci e locuzioni usate in questo stesso Argomento (i):
ma che cosa è quello che qui fautore ha voluto esprimere,
forse l'avere il guardiano semplicemente veduto gli amanti
o non piuttosto Taverli veduti stretti insieme e in atto di
baciarsi e abbracciarsi? Quando pure volessimo far ragione
delle angustie di una composizione acrostica, e per amor di
(]ueste fossimo disposti a menar buone all'autore alcune im-
perfezioni e difetti, non dobbiamo però credere che egli
potesse passarsi di notar qui una cosa tanto importante;
giacché, si badi, il dire senza più, custos hos videt de ie-
giilis non toglie neanche che chi legge possa intendere che
il guardiano avesse veduto le due persone in due luoghi di-
versi, cioè la donna in casa del soldato e il giovane in quella
del vicino suo ospite, che sarebbe stata la cosa più naturale
del mondo. Or io non so farmi capace di una tale disav-
(i) Il Lorenz nella sua bella edizione del Miles Gloriosus (Einleit.
pag. 3, nota 3) ha già notato le locuzioni non plautine che s'incon-
trano in questo Argomento ; egli però dovea, mi pare, mostrarsi più
respettivo nel porre fra queste il ridiculis che si legge nel verso 9 j
quasi Plauto non avesse mai detto ridicula, come i Greci Y^^ota, nel
sostantivo neutro plurale, ma soltanto ridicularia. Al Lorenz non po-
teva sfuggire, e non è sfuggito del sicuro il verso 455 dello Stico
Méum óptenturum régem ridiculis meis : il fatto del trovarsi ivi nel-
l'Ambrosiano iogis in iscambio di meis, poteatutt'al più dargli appicco
a mettere in dubbio l'uso plautino di cotesta voce, non già a negarlo
ricisamente come fa. Del resto, quanto al ridiculis di questo Argomento,
io trovo molto aggiustata la correzione del SeyfrertfP/z/Zo/. Tom. XXV,
pag. 439): Ridicule is autem, senza tuttavia aderire agli appunti ch'ei
move al ridiculis, appunti che il Ritschl ha già dimostrato essere
infondati {Opusc. Phil. voi. 2, pag. 41 1 6412 nota).
— 427 —
vertenza per parte di uno scrittore così accurato e giudi-
zioso com'è l'autore di questi Argomenti, e tanto più quanto
io vedo che in nìuno de'molti luoghi della comedia nei
quali si accenna questo fatto, vi è taciuta la circostanza
aggravante detta di sopra. Eccoli questi luoghi, secondo la
recensione del Ritschl: Modo nescio quìs inspectavit vostrum
familiarìum Per nostrum inpluvìum intus aput nos Philo-
comasium atque hospiiem Osculantis, v. 173 segg.*, consulo
Quid agam^ quem dolum doloso contra consei'vo parem, Qui
illam hic vidit osculantem, v. 197 segg.; Ut, si illanc con-
criminatus sit advorsum militem Meus conservos, se eam
ridisse hic cum alieno oscularier, Arguam hanc ridisse aput
te contila conservom meum Cum suo amatore amplexantem
atque osculantem^ v. 242 segg.; Hic illam vidit oscularli em,
quantum hunc audivi loqui, v. 275; Atque ego illi aspicio
osculantem Philocomasium cum altero Nescio quo adule-
scentey v. 288 segg.; Philocomasium eccam domi quam in
proxumo Vidisse aibas te osculantem atque amplexantem
cum altero, v. 819 SQgg.\ Atque arguo Eam me vidisse oscu-
lantem hic intus cum alieno viro, v. 337 segg.; Dixtin Tu te
vidisse in proxumo hiCy sedeste^ me osculantem? v. 363 segg.;
Nam arguere in somnis me meus mihi familiaris visust ,
Me cum alieno adulescentulo, quasi nunc tu^ esse auscula-
tam; Quom illa ausculata mea sor or gemina esset suumpte
amicum, v. 389 segg.; Ut ad id exemplum somnium consi-
mile somniavit Atque ut tu suspicatus es te eam vidisse
ausculantem^ v. 400, sg.; Eam poi tu osculantem hic vide-
ras, V. 474; Vidi et illam et hospitem Complexum atque
osculantem^ v. 633 sg.; Et ibi osculantem me aput te hanc
vidisse hospitam^ v. 555.
Per tal ragione principalmente io non so acconciarmi al-
Voberrans del Ritschl, e credo che dovendosi levar via lo
obhcereniis che si legge ne' Codici, convenga mettere in sua
— 128 —
vece un vocabolo che slgaifichi per Tappuato l'atteggiamento
in cui furon veduti gli amanti Ora raccozzando quel che
si legge nei soprallegati luoghi della comedia, e considerando
che l'autore dell' A sgomento il più delle volte csprinnc i con-
cetti suoi con le parole di Plauto, si è subito portati a so-
spettare che egli avesse scritto Osculantis e non Obknereniis,
e tale fu in vero Topinione del Camerario, alla quale hanno
aderito il Lambin e il Taubmann. Se non che l'andamento
trocaico di osculantis forma alla prima un deciso contrasto
colla misura giambica del verso , ne altrimenti si potrebbe
cessare tale inconveniente che con leggere osculantis come
se fosse osclaniis, cioè di tre sillabe: a che mostra di non
consentire il Ritschl, il quale dopo aver riferita la congei'
tura del Camerario e detto che avea trovato per lodatori il
Lambin e il Taubmaan , soggiunge queste parole : credo,
quod trihus hoc syilabis sferri posse sibi persaase?\int .
Qui dunque sarà il caso di vedere se osculantis potesse ai
tempi di Plauto essere agguagliato nella pronunzia a un tri-
sillabo. Certamente se chi prende a difendere tale accorcia-
mento fosse obbligato di addurre esempi di antiche scrit-
ture» dove si leggesse per l'appunto la forma sincopata osclor
o almeno quella di osclum^ siccome vi troviamo a quando
ix quando poclum, periclum , oraclum, miraclum e altret-
tali, gli converrebbe smetter l'impresa, poiché quelle forme
non s'incontrano, per quei ch'io sappia, ne' codici e xiells
lapidi. (Il verso io del Truculento, dove ora si legge osciurn
[Tace, ed. Spet'.gei - i858] è rassettato per congettura, e
Vosdum non iia per sé l'autorità dei MSS,)- Ma non può
sfuggire a nissuno che gli accorciamenti sopra riferi ti, ai
quali se ne potrebbe aggiugnere di molti altri sia dello stesso
genere sia di genere aSine, non erano abbandonati al ca-
priccio degli scrittori, ma aveano il loro fondamento nel
parlar quotidiano, e che oiuno, prosatore o poeta, sareb-
-- 429 -
besi mai arbitrato di scrivere oraclum per oraculum, se Vu,
compreso fra e e l , avesse conservare nella pronunzia po-
polare tutto iJ suo valore, e non fosse stato anzi un suono
irrazionale, cioè imo dì quéi suoni che non avevano la giusta
quantità di una vocale breve. Adunque per ragion di ana-
logia ci è lecito di supporre, che anche in oscidum e oscu-
lor r u che precede a /. come poteva esser fognato nella
pronunzia, così potesse esser escluso dalla misura del verso.
Che poi osculimi e oscular si trovino talvolta agguagliati
nei metri di Plauto ad osclum , osclor , se non si può ac-
certare per mezzo della testimonianza diretta dei codici , si
può tuttavia provare per indizi abbastanza sicuri, quando
si restituiscane nella genuina loro forma alcuni versi delle
sue comedie , dove quelle voci s' incontrano. Così al verso
288 del MiLES Glorìosus , che comunemente si legge:
Atquecgo illi asptcio óscuìaniem Phìlocornasium cwv altero.
Villi è una correzione deirAcIdalic;, adottata dal Bothe e
dal Ritschl, menti e i codici hanno illic. Leggi dunque :
'Atque ego illic aspicio osclantem Philocomasium cum altero.
Similmente a' verse 32o della stessa comedia, che secondo
il bothe e il Ritschl suona così :
Vidisse aibas te óscuLintem atque dmplexantem cum altero.
ì codici non hanno aihas na aiebas ; onde si può anche
leggere:
Vidisse aiebds te osciantcw r.tque c.mplcxantem cum altero.
Non cito altri esempi che questi due, lasciando stare quei
luoghi in cui la lezione è incerta, e il verso si può rasset-
tare in più d'un modo, giacche in una questione di tal fatta
niente è più pericoloso che il procedere per congetture; tut-
— 430 —
tavia gii addotti esempi mi pare che bastino per provare
che Vu di osciilor è anche in Plauto un suono irrazionale.
Né dee far meraviglia che ne' sopraliegati luoghi niuno dei
codici ci abbia conservato la forma osclantem, giacché ve-
diamo lo stesso essere accaduto altrove di vocaboli consi-
mili, laddove il metro non comporta altra forma che la
sincopata. Così, per non citare che questi pochi esempi,
di periculis e periculo che sono in tutti i codici ai versi
1087 e 1088 del Trinummo, prima il Guyet e poi gli
altri critici hanno fatto peridis e per telo; così al verso
1 1 29 del Pseudolo , i codici leggono populo che il Ritschl
muta in poplo; così pure pehiculum , che si legge nei
codici al verso 728 del Persa il Bothe e il Ritschl mu-
tarono in vehidum. E volendo assegnare le occasioni di
questa discrepanza fra la scrittura e la pronunzia, mi pare
che se ne possa accagionare l' inavvertenza de' copiatori , i
quali abbattendosi in vocaboli che poteano essere adoprati
nel verso così intieri come sincopati, non posero sempre
mente all'uso fattone dal poeta in questo e in quel luogo.
Il che dovea ancor più facilmente accadere in osdum e
osdor che non in altre voci di simil fatta, per non essere
questi vocaboli vissuti a lungo nella favella popolare, sic-
come si può argomentare dal non esserne rimasto vestigio
nelle lingue romanze che vi sostituirono altri termini cor-
rispondenti ai loro sinonimi latini basìum , bastare: onde
che non si affacciava spontaneamente alla mente dei copia-
tori una forma popolare osdum simile a quelle altre odus,
masdus , spedum, (tcc.^ che ci diedero « occhio, maschio,
specchio ». E poiché ho fatto menzione di odus, non voglio
lasciar di dire, che né anche questa forma si legge ne'codici
e nelle edizioni di Plauto, quantunque a parer mio si debba
restituire in più d'un luogo. Ne citerò due soli, dei quali
la lezione mi sembra più certa. Il verso 596 del Pseudolo
— 431 —
è un tetrametro trocaico, il cui principio così si legge nei
codici: Ut ego oculis ratìonem capìo\ ivi il Ritschl sop-
prime ego leggendo Ut oculis ratiónetn capio , per evitare,
corneo credo, il proceleusmatico che non vi potrebbe trovar
luogo come sostituzione d'un trocheo^ laddove cessa tale
inconveniente, quando oculis venga mutato in oclis: Ut ego
oclis ratiónem capio. Noto poi di passaggio che del quant
che si legge nei codici nel seguito di questo verso, mi sem-
bra più agevole fare quum, che mutarlo in nam^ come vedo
aver fatto i moderni editori dietro la scorta del Lipsio.
Similmente al verso 1071 del Trinummo che comunemente
si legge su la fede della maggior parte dei codici: Satin ego
oculis pldtie video? esine hic an non est? is èst, l'Ambro-
siano ha in vece Satin oculis ego, la qual lezione sembra
da preferirsi, sol che si scriva oclis per oculis, essendo molto
probabile, che la lezione degli altri codici, i quali tutti si
fondano, com'è noto, in una comune recensione del testo,
sia dovuta ai correttori e proceda dalla stessa cagione, da
cui fu mosso il Ritschl nel sopprimere Vego nel verso so-
prallegato del Pseudolo, cioè dal bisogno di schivare il pro-
celeusmatico.
Che se, per tornare all'Argomento acrostico, si voglia
cercar la spiegazione del come siasi propagata negli antichi
testi la falsa lezione obhcerentis<t se ne possono assegnare per
congettura due occasioni: o che i correttori aombratisi nella
voce osculantis, siccome quella che dovea parere disadatta a
dare cominciamento a un ritmo giambico, la mutassero
nell'altra di significato affine obhcerentis ; oppure che si co-
minciasse a scriver nei codici, per falsa analogia coi composti
di ob t obsculantis o obsclantis, e che da questa viziosa
scrittura si originasse in seguito con più lieve mutazione
obhcerentis.
Da quello che son venuto ragionando fin qui, mi sembra
- 432 ~
di poier conchiudere, che la più probabile lezione dei versi
5-8 dì questo Argomento acrostico, sia la seguente:
5 Suum dr aese arcessit erum Athenis H forai
Geminis commimem cldm parieiem in aédihus.
Licere t qua ire et convenire amdnttbus.
Oscldntes custos hós videi de iégulis,
Bologna, febbraio 1873.
G. B. GANDIf^O.
CO':h(iSIDE%AZIOV^I
SULL'ISTRUZIONE, SOPRATTUTTO CLASSICA, IN ITALIA
a proposito del recentissimo libro di M. BKEAL
suWistrupone pubblica in Francia
(Continuazione: v. taso, i", p. 9-23 ; fasc. 5", p. 225-246; fase. 7», p. 3 10-329).
IV.
A tutti gFintelligenti lettori, che ci seguirono con bene-
vola attenzione nelle nostre analisi deirìstruzione italiana,
parrà indubbiamente, quanto deplorabile, altrettanto natu-
rale che la medesima, isterilita qual è e quale la vedemmo
da tendenze soverchiamente pratiche, retoriche, empiriche,
sia eziandio travagliata da quel morbo pericolosissimo che
è la inclinazione a dogmatizzare senza il necessario fonda-
mento, sì nell'ordine dei fatti, si neirordine delle idee, anzi
pili in questo che in quello. L'abito di studiare il vero assai
meno pel nfvbiìe bisogno di conoscerlo che per ragioni d'in-
teresse non punto scientifico, di attribuire alla forma gran
parte di quell'importanza la quale non può spettare che al
fatto ed airidea, di non investigare le cause , le leggi dei
— 433 —
feoomenì, appagandosi di mere parvenze, abito onde tanii
intelletti ci si rivelano sciaguratamente viziati, ingenera natu-
ralmente, soprattutto negli anni mamri e nella vecchiezza,
una cotale inerzia di mente: inerzia onde procede, come
figlia da madre, una certa fede che è afl-atto indegna dello
spirito umano. A sì fatta fede, che è vero ossequio irragio-
nevole, trae eziandio la impazienza, propria in ispecial guisa
dell'età giovanile (i), sulla quale esercita, oltracciò, spesse
volte malefico influsso il soverchio dogmatizzare d'improvidi
educatori.
Questa tendenza malaugurata ti si manifesta già sulla
soglia del tempio delia scienza. Vedemmo talvolta, né mai
senza profonda compassione, maestri cui niana lingua era
nota tranne la nostra, e neppur questa a sufficienza, sforzarsi
d'intrudere nelle menti infantili dei loro poveri alunni defi-
nizioni appartenenti alla pretesa grammatica generale, e con
tale e tanta asseverans^a che, se questa fosse misura del vasto
e profondò sapere, tu dovresti reputare sciolti perfettamente
da questi barbassori certi problemi che sgomentano- ancora
un linguista di primo ordine. A queste formole grammati-
cali di scuole elementari sono pari in certezza certe nozioni
di storia antica, di estetica letteraria e di metafisica che si
danno ancora in ginnasii e licei. Quanti spropositi si spac-
ciano ancora qua e là intorno al più vetusto oriente ed ai
primi tempi di Roma! Quanta prepotenza d'arbitrio in
alcuni precetti letterarii ! Quanto spesso s'insegnò e forse an-
cora s'insegna cattedraticamente, quasi fosse scienza certis-
sima e come tale riconosciuta dai giudici più competenti, un
complesso di teoriche metafisiche, cui, fra i meglio autorevoli,
(i) « i giovani inclinano al dommatismo, e se possono afferrare
una regola o una definizione, credono avere in mano la scienza, e stu-
diano e giudicano a priori , secondo certi preconceiii. » De Sanctis, La
Scuola {Nuova antologia yyol. 20, p. 760).
— 434 —
gli uni accolgono, gli altri respingono, sì che intorno al va-
lore di esse non v'ha punto consenso fra ì piij pregiati esti-
matori! Nelle stesse aule universitarie, ove più estesa, più
acuta , più libera dovrebb^essere indubbiamente la critica ,
appare, né rade volte, principalmente nei corsi di natura fi-
losofica, il sistema di una scuola sostituito alla larga e serena
imparzialità della scienza; appare l'avversione al dubbio,
anche allorquando è necessario ; appare la funesta tendenza
ad imporre altrui la propria opinione.
Pessima educazione dell'intelletto è questa : che non solo
non esercita la mente a tentare con gagliarda indipendenza
la soluzione di ardui problemi, ma da questi in certa guisa
distoglie lo spirito e quasi glieli nasconde, non istimolandolo,
non addestrandolo alle lotte feconde, ma avvezzandolo ad
adagiarsi in isterile pigrizia (i). Pessima educazione che, non
assuefacendo all'esame, non abitua il pensiero a scoprire la
erroneità di certi concetti, vuoi storici, vuoi filosofici : i quali,
non discussi liberamente, ma accolti con ossequio servile,
assumono non di rado le venerande sembianze di tradizioni
scientifiche e sono trasmessi di generazione in generazione,
quasi insieme colla lampana della vita, direbbe Lucrezio.
Argomento degnissimo delle meditazioni di un alto e vasto
intelletto sarebbe lo investigare quale e quanto nocumento
abbiano si fatti pregiudizii arrecato all'umanità, sì nella vita
del pensiero, sì in quella dell'azione (2). Indi un'ignoranza
(i) Ben a ragione pertanto quel potente ingegno di F. De Sanctis,
dopo avere accennata {/. e.) l'inclinazione dei giovani al dommatismo,
ci ammonisce che « questo impedisce in loro lo sviluppo dello spìrito
critico, vizia l'impressione e il gusto, sostituisce alla loro spontaneità
una coscienza artificiale »».
(2} Esponendo al cortese ed accorto lettore queste nostre considera-
zioni, non possiamo astenerci dal ricordare il giudizio che intorno ad
una certa filosofia, ad una certa logica profferiva un egregio scienziato :
• L'uomo per la sua avidità di sapere ha sempre fatto così ; da poche
— 435 —
ostinata, tenace del passato, paurosa delPavvenire, presun-
tuosa, intollerante, né sempre soltanto delle nuove idee, ma
per lo più eziandio degli uomini che di esse si fanno animosi
banditori.
Lasciate pertanto, se punto vi sta a cuore Teducazione
della nostra gioventù, ch'essa vi reciti un po'meno il vostro
credo scientifico ed avvezzatela un po'più a costruirsi bene
il proprio con un lavorio intellettuale veramente suo ed in-
dipendente. Non vogliate che l'intelligenza giovanile cessi di
essere una forza libera e nobilmente conscia della propria
libertà, per diventare uno specchio che, inconsapevole, ri-
fletta il vostro pensiero, od un'eco che ripeta, materialmente,
i vostri delfici responsi. Il vostro compito non è già imporre
un sistema scientifico di non certo valore alla fede dei vostri
alunni, ma infondere in essi il più vivo amore del vero e ren-
derli, come meglio potrete, atti a ricercarlo come si addice
allo spirito umano (i). 11 soverchio dubitare snerva la mente,
ma la snerva eziandio il troppo credere.
osservazioni ha creduto poter dedurre tutto lo scibile, là dove mancava
il fatto sostituendo il lavoro della ìmaginaiiva ; e ha voluto tirare le
ultime conseguenze e filosofar sulla origine e sulla natura delle cose,
prima di aver imparato le ragioni de' più semplici fenomeni naturali.
Orgoglioso per essenza , creò la filosofia , che intitolò scienza delle
scienne, prima di aver costituito una sola di codeste scienze che pur
supponeva nel filosofo ; cosicché tutto il sapere si ridusse a un po' di
logica, applicata a ragionar su tutto, ignorando ogni cosa », Govi, Della
fisica ecc., prelezione letta nel 1862 [Politecnico^ fase. 70, p. i3).
Di questa pTcìesa. filosofia, di questa cosi detta logica esiste ancora,
lepido anacronismo, qualche atleta in questa epoca nostra, fra tanto fio-
rire di studiì positivi. Ci rammentiamo ancora che un tale, di cui ne-
gammo la competenza a giudicare intorno ad una certa scienza, ci
rispose esser pronto a disputare contro noi su qualsiasi materia. II
valentuomo non comprenderà forse mai, quanta compassione abbia de-
stata in noi, che abbiamo assai poca fiducia nelle dispute, la sua smar-
giassata medioevaie.
(i) « Una Scuola non mi par cosa viva, se non a questo patto, che
accanto all'insegnamento ci stia la parte educativa, una ginnastica Intel-
— 436 -
Noi vorremmo che, per quanto fosse possibile, s'informasse
a questi principi! anche il primo insegnamento: mai si ri-
spettano i diritt' delFuomo quando si violano quelli del fan-
ciullo (i). Vorremm.o ancora che, con saggia gradazione, si
avvezzassero neiristrazioiie secondaria gli allievi a far stmpre
maggiore e miglior uso della propria libertà i/)telle:rualc
quanto più si accostano agli studi supremi degli atenei, e ,
per far cenno di una sola materia (ma di quella che esige
lettuale e morale^ che stimoli e metta in moto tutte le forze latenti dfUo
spirito. Il meno che un giovane nossa domandar© alla sctiola è lo scibile,
anzi io scibile è lui ciie dee trovarlo e conquistarlo, se vuole sia davvero
cosa sua. La Scuola gli può dare gli ulumi risultati della scienza, e se
non fosse che questo, in verità una Scuola è di troppo; taato vale pi-
gliarli in un libro quei risultati. C'ò che un giovane dee domandare
alla Scuola ò di esser messo in grado ch'i la scien/ia la cerchi e la trovi
lui. Perchè ia Scuola è .;i> iaboi-atorio, dove tutti sieno compagni nel
lavoro,, maestro e discepoli, e il maestro non esponga solo e dimostri,
ma cerchi e osservi insieme con loro, si che attori sieno tutti, e tutti
sieno come un solo essere organico, animato aaìio stesso spirito. Una
Scuola così fatta non vale solo a educare 'a intelligenza, ma, ciò che è
più, ti forma la volontà, - De Sangtis, Art. cit., p. 757,
(i) <« ()n eniend souveni dire qu'avec les enfant? il faut étre dogma-
tique. Ceux qui parleni ainsi n'expri;.-nent pas leur pensée tout entiòre.
Il Sv>iit d'avis égalemeni: qu'jl hn étrf- dogn->atique avec ies jeunes gens
et avcc les hommes. Car pourquf i refuseraient-ils à l'enfant Ies cxpli-
catioiìs qu'il peu*' comprendre^ s'ils avaient i'intcntioo de raisonoer sA'ec
l'homme fait? II sera trop tard alors pour faire entrer la raison dans
ces tètcs qui n'ont pas pris Thabitudè de penser et qu'une longue obéis-
sance a orivées de tout resse! t. ■' Br#,al, Op. cit., p. 47. — Nelle scuole
americane, scrive il signor Hipp^au, « dès ies pretnières annèeson croit
qu'il est uùle de ìaisscr !a pensee s'exprim^r librement,... le maitre
averti», conseiile et dirige, mais ne se croit pas le droit d'imposer ses
idées et ses sentimens. Si cet appel à la raison individuelle, à la réflexion,
au libre e.Kamen, peut coniribuer à donner aux jeunesfillcsc;caox)eunc'S
gens une confiance exagérée en CiiX-mémes, et quelquetois un ton de
sufiisance qui a été relevé avec assez d'aigreur par mistress TroHope, on
ne peui nier qu'il ne hats le développement intellectuel d'une manière
beauooup plus efficace que l'enseignement dogmatique, qui pendant si
longtemps a donne pour criterium de la vériié la parole du maitre •.
L'éduL-ation desfemmes et des a^ranchis en Amérique [Revue des deux
mondes, x. ^^3, p. 45C).
- 437 —
il maggior rispetto alla indipendenza del pensiero individuale)
facciam voti affinchè lo insegnamento filosofico liceale diventi
sempre meno Tesposizione cattedratica di un sistema meta-
fisico e sempre più un esercizio fortissimo dell'intelletto, una
ginnastica mentale che generi nella studiosa gioventù la ten-
denza e Tatiitudine a meditare seriamente, e soprattutto in-
tomo ai più importanti e certi concetti della psicologia e
della morale (i). Vorremmo infine che si mondasse affatto'
d'ogni avanzo d'arbitrario dogmatismo l'istruzione superiore :
che il professore universitario assai più che di propagare le
proprie opinioni si proponesse di accendere ne'proprii udi-
tori, fatti suoi compagni nelle investigazioni scientifiche, il
generoso entusiasmo che trae alle ostinate indagini del vero,
e, distogliendoli dalle fallaci lusinghe dei metodi che l'espe-
rienza mostrò inefficaci, avvezzarli a quelli cui la scienza
deve i suoi più utili e gloriosi trionfi (2).
(i) Applaudimmo pertanto alle indicazioni, che intorno allo insegna-
mento della filosofìa nelle scuole secondarie leggemmo nelle Istrui^ioyii
e programmi per V insegnamento delle lettere nei licei e nei ginnasii,
approvati con R. Decreto io ottobre 1867; v. p. Si-Sg.
(2) «t du moment que l'amour de la vérité doit étre la premidre
qualité du professeur, son cours prendra une forme bien differente de
celle que nous sommes habitués à regarder comme la meilleure. Au
lieu d'écarter de ses le^ons tout ce qui est douteux, conteste, il prendra
soin d'y appeler l'attentiojì de ses auditeurs, et de leur exposer sincère-
ment les raisons des opinions contraires. Mémepour les théoriesqui lui
seront le plus chères, il indiquera les points faibles, signalera les objec-
tions. Un ministre, qui a eu de meilleures inspirations, déclara un jour
que les Facultés étaient charcées d'enseigner la science faite: iTiais com-
ment les jeunes gens exerceront-ils leur jugement px leur critique, com-
ment sauront-ils sur quel point de la science ils doivent porter leur
effort, si vous leur présente/ toujours l'édifice par ses cótés achevés? La
science faite est dans les livres ; les étudiants deserteront les salles de
cours si la le^on du professeur ne fournit pasautiechose que les biblio-
thèques. Nousvoyons des hommes qui ont suivi pendant des années les
cours de nos Facultés, ne pas savoir sur quel sujet ils pourraient faire
'Hfvisla di filologia ecc., I. 3o
— 438 -
Gli effetti di questa veramente Ubera educazione scientifica
saranno indubbiamente i seguenti : svolgimento largo ed in-
dipendente della ragione, il quale non potrà non esercitare
bexiefico influsso sulla formazione del carattere (i); incre-
mento fortissimo della tendenza e deirattitudine alle inda-
gini nuove ; guerra senza tregua, senza timore di sorta ai
pregiudizi, a qualsiasi classe appartengano e di qualunque
larva si coprano-, tolleranza sincera e generosa di quelle o-
pinioni, che, sebbene lontane dalle nostre, possono nondi-
meno più che queste per avventura acrostarsi alla verità, e
di coloro che le professano nobilmente.
V.
Là ove nella repubblica della scienza alla feconda libertà
della indagine si tende non di rado a sostituire la sterile ti-
rannia di formole malaugurate ; ove il sapere è assai meno
pregiato per l'intimo suo valore che per i vantaggi materiali
onde si spera poter da esso ritrarre gran copia; ove alla
efficacia stupenda delPidea e dell'affetto si antepone sovente
lo strepito inane dei paroloni, italiani e latini (2)*, ove non
poco volgo di menti suole star pago di conoscere superficial-
des recherches origmales. On dópense quelquefois chez nous une moitié
de sa vie avaat d'éire enfin rais au point où l'étudiant allemand est na-
turellemem conduit par ses inattresà vingt-cinq ans » Bhéal, Oj?. cit.,
p, 393-4.
(i) « Il n'y a pas de fort développement de la téte sans Hberté; l'energie
morale n'est pas le resultai d'une doctrine en particulier, mais de la race
et de la vigueur de l'éducation, » Rsnan, La ré/orme ecc., p. 99
(2) « L'homme voué à i'exposition n'aime pas qu'on change ses
partis pris et se& phrases toutes faites, Moins soucieux du vrai que de la
forme, ce qu'il voudrait, ce seraient des thèses convenues à la facon de
la Chine, où l'on enseigne, dit-on, une fausse astronomie en la sachant
fausse, parce qu'elle est celle des bona auteurs. » Renan, Questions con-
temporaines. p. 96-7.
- 439 -
mente una serie qualsiasi di fatti, senza addencrarsi nella in-
vestigazione filosofica delle loro ragioni di essere (i); ove,
in fine, il culto della lettera che uccide ti appare qua e là
più frequente che non quello dello spirito vivificatore; ivi
avviene che al pensiero vengano meno gli stimoli al moto
e che si adagi nella inerzia. Così si genera, così si spiega il
quinto vizio onde vediamo peccar troppo spesso la istruzione
italiana, l'immobilità.
Questa nostra affermazione farà, ne siam certi , inarcare
le ciglia a molti lettori. Come? Troppo spesso immobile la
istruzione italiana che, da cinque lustri, colle sue incessanti
rivoluzioni sembra aver sciolto il problema del moto per-
petuo ? Con quanta rapidità non succedettero, ormai da ven-
ticinque anni, rettori a rettori, riforme a riforme, a libri
nuovi libri novissimi ! La scuola italiana non fu, non è ella
forse pur troppo
'<. simigliarne a quella infet ma.
Che non può trovar posa in sulle piume,
Ma con dar volta suo dolore scherma » ?
A chi ci opponesse queste considerazioni risponderemmo
esortandolo a non lasciarsi ingannare da fallaci parvenze, re-
putandole realtà. Fallaci parvenze sono per lo più le meta-
morfosi che vediamo avvicendarsi nei nostri istituti didattici,
dagrinfimi ai supremi: realtà, deplorabilissima realtà il poco,
il lento progresso. Le agitazioni, onde ti appare da ben due
decennii senza tregua commosso lo insegnamento italiano,
(i) « la grammaire, telie que nous l'apprenons, exclut loute idée
de progrès. Une fois que nous savons qu'une chose admirable à voir se
dit res visn mirabilis et que j'enseigne la grammaire pux enfants se
traduit par doceo pucros grammaticam, il ne reste plus rien à ajouter :
car toutes les recherches sur la nature du supin, toutes les observations
sur le sens de l'accusatif ne changeront rien à ces deux regies. » Bréal,
Op. cit., p. 174.
— 440--
sono quasi sempre agitazioni a fior d'acqua • in fondo regna
la più oziosa quiete. Le trasformazioni concernono general-
mente assai più i metodi che le idee, e dei metodi stessi assai
più l'apparenza che la sostanza. Così idee inesatte o false e
metodi irrazionali, ciarpe da ferravecchio, continuano ad
essere in onore presso non pochi di coloro che si chiamano
rappresentanti delia scienza, educatori della gioventù. Leggi,
regolamenti, programmi tengono dietro gli uni agli altri in-
calzandosi a vicenda con quella stessa prestezza, con cui
passano sulla scena della istruzione italiana gli uomini che
li fanno e li disfanno: ma i concetti, i procedimenti di-
dattici rimangono le più delle volte sostanzialmente immutati .
È senza posa l'eruzione di nuovi libri scolastici: ma, nel
massimo numero dei casi, per bontà di pensieri e di sistemi
pedagogici, i nuovi non valgono più dei vecchi-, non è il pro-
gresso che vinca l'ignoranza, è l'empirismo surrogato dal-
l'empirismo; è il compendio del professore-libraio B che tende
a sostituirsi, per vantaggio dell'autore, a quello equipollente
del collega A, col solito e esci di lì , ci vo' star io » ; non
è questione di opinioni, ma di quattrini; non lotta feconda
di principii, ma, frequentemente, è sterile gara d'ingordigie
schifose (i). Fra tanto chiasso di apparenti innovazioni si
perpetuano in mille istituti le tendenze soverchiamente pra-
tiche e retoriche, gl'istinti troppo irrazionali e dogmatici del
(i) Lo spettacolo della rivalità esistente fra certi « Elementi, Com-
pendiiy Sunti, Sommarii » ecc. ecc. ci richiamò sempre alla memoria la
conclusione di un apologo che si legge nel libro di G. Vollo La voce
delle cose (Torino. i856, p. i82-5) Un 1 bercelo di divozione senza fede
in Dio ed un libercolo democratico che non credeva nel popolo si rin-
facciavano a vicenda l'ipocrisia.
«» Ma il libraio s'interpose ,
E sopì l'inutil bega:
— Siete entrambi di bottega,
D'una risma vi si fé'. — «
— 441 —
nostro insegnamento: così in Italia, come in Francia (i), la
riforma è generalmente più presto parvenza che realtà. Chi
insegna storia antica come nel secolo scorso, chi grammatica
latina giusta principii e metodi i quali solo nella forma si
distinguono dai medioevali.
E provati un po\ cortese lettore, di opporti a certe antica-
glie, provati un po' di accingerti a sradicare i vizii secolari che
infettano la istruzione italiana, od eziandio soltanto di svelarli
senza paure codarde scrivendo o parlando pubblicamente.
Te beato, se non si adunerà tosto concorde a lapidarti il volgo
di coloro, che ne'tuoi tentativi, nelle tue rivelazioni scorgono
senz'altro fiere minaccìe alla loro ignoranza, alla loro ambi-
zione, alla loro accidia, al loro traffico di libri scolastici. Ag-
giungivi la schiera dei dotti ed onesti, ma ostinati adoratori
(i) a II ne faut pas oublier que nous sommes le pays le plus re belle
aux vraies réformes, le plus fidèle aux traditions séculaires. Notre histoire
est semée de révolutions à la surface: mais ce qui consume le fond
de la vie intellectuelle et morale s'est à peine modifié depuis deux
siècles. Nos enfants font les mémes exercices que RoUin dictait à ses
élèves, et si la Revolution fran9aise a étendu à une grande panie de
la nation l'éducation qui était autrefois le privilége d'un petit nombre,
elle n'a pas eu la force de tratìsformer cette éducation. Les livres que
Bossuet a composés pour le Dauphin servent aujourd'hui à l'insiruction
des enfants de notre bourgeoisie. II y a eu extension de l'ancienne
culture fran9aise, mais elle ne s*est pas sensiblement modifiée. De pé-
nétrants observateurs de notre genie national ont cru reconnaitre que
dans les réformes qui touchent aux choses de lesprit, notre trait dis-
tinctif é':ait la timidité. Ce sont pourtant les seuis changements vrai-
ment féconds, les seuIs qui, à la longue, amènent après eux tous les
autres. Si nous ne modifions pas l'esprit de la nation, les mémes maux
reparaitront d'intervalle en intervalle, de plus en plus aigus et cuisants.
Pas plus que les révolutions, les le^ons les plus dures de la destinée
ne pourront en empecher le retour. » Bréai, Op. cit., p. 3. — Del
difetto di progresso nell'istruzione universitaria francese discorrono
Bréal [Op. cit., p. 373-4), Renan (Questions contemporaines, p. 106-7,
143-4, 204-10), PoucHET (Revue des deux mondes^ t. 83, p. 44*)= sulla
immobilità dell'insegnamento secondario in Francia profferiva giudizio
severissimo l'Hahn (Renan, Op. cit.^ p. ■269-73).
- 442 —
d'idoli antichi. E bada bene che, assai più delia guerra che
li si muove alla lace del sole può riuscirti funesta quella
che ^assalirà fra le tenebre e con armi che tu, leale gentil-
uomo, non conosci, né, conoscendole, adoprcresti, perchè
insozzano la mano che le impugna. Provati un po', ver-
bigrazia , a lottare contro il cieco empirismo che regna
ancora, quasi unico signore, sul campo della grammatica la-
tina nelle scuole secondarie : strappa la maschera ai sistemi
irrazionali e tenta tu stesso di sostituirvi un metodo migliore.
Una plebe di logori grammatisti, inetti a giudicare il tuo co-
nato, paurosi di dover leggere e spiegare un libro nuovo, in-
sieme coi più avidi scombiccheratori di grammatichette em-
piriche ti grideranno ai quattro venti inesperto novatore, e,
biasimando ciò che non avranno inteso e non intenderanno
mai, spaccieranno al credulo volgo dei loro divoti con boria
cattedratica corbellerie cosi scempie intorno ai tuo lavoro,
che tu, per non degradarti, dovrai astenerti da ogni risposta
o star pago dj far manifesta agi' intelligenti tutta l'imbecillità
mentale de'tuoi avversarli. Provati un po' di propagar Topi-
nione che certe parti della storia antica si debbano insegnare
con un po' meno di vieto dogmatismo e con ur. po' più di
critica odierna-, che, soprattutto, più critico e men dogmatico,
meno rivolto ad imprimere ne'giovani intelletti certi assai
dubbii teoremi metafisici e più che nei tempi passati diretto
a svolgere con feconda libenà gl'ingegni giovanili debb'essere
lo insegnamento filosofico liceale: provati un po' di diifondere
questi concetti e non meravigliarti troppo se qualche dabben
uomo di fede timidissima, qualche indefesso lodator del pas-
sato e calunniatore infaticabile del presente e dell'avvenire ,
qualche pedante tenacissimo del suo mestiere e sgomentato
dai pericolo di dover mutare ferri o bottega, forse eziandio
qualche ipocrita di prima riga ti accuseranno di voler propa-
gare lo scetticismo storico e filosofico, di voler diffondere il
- 443 -
dubbio sisi ematico intomo a splendidi fatti o ad idee fonda-
mentali, viziando con quef^t'ablto funesto le tenere menti delle
nuove generazioni : e, procedendo (giusta la legge universale
del cresci t eundó) di declamazione in declamazione, foi-se per
poco non ti diranno perturbatore dell'ordine privato e pub-
blico, dello individuo e della società (i;.
Frattanto la scienza italiana non si muove, o spesso im-
pacciata, perplessa, lenta; parecchie genti straniere ci pre-
corrono, e più di tutte la tedesca (2) -, il nostro ingegno, come
se assai non lo scuotessero i suoi grandi ricordi ed il
possente moto intellettuale dell'epoca nostra, mal sembra
destarsi dal iungo e profondo letargo.
VI.
Se l'ignoranza che non comprende, che non sente nem-
meno il bisogno urgentissimo di riforme; se l'accidia che
abborre da ogni novità che richieda un po' di lavoro; se la
presunzione che s'immagina scioccamente di sapere ciò che
non ha mai imparato e dichiara colla più comica solennità
di non aver uopo di lezioni, anche quando non è ancor nep-
pure preparata ad intenderle; se l'insaziabile ingordigia di
subiti e facili guadagni mediante il traffico di anticaglie sco-
ivi Quali ostacoli sì oppongano anche in Francia alle vere riforme
appare evidentemente dalla guerra mossa testé al ministro di pubblica
istruzione, del quale lodammo e lodiamo la ormai celebre Circulaire.
Leggi, ad es., il recentissimo opuscolo de! signor Cuvillier-Fleury,
'ntitolato La reforme universitaire (Paris, 1873 : v. in isptcie p* 2,
6-7, io-i3, 18, 2-ì-2'i). Davvero, se questo signore crede di aver con-
futato efficacemente Bréal e J. Simon, egli è vittima di una deplora-
bile illusione.
(2} Come eziandio nella scienza francese si scorgano indizii d'im-
mobilità e qual giudizio meritino certe vanterie di primato intellet-
tuale rilevasi a sutìicienza dal libro che il francese Marcou pubblicava
nel 18Ó9 a Parigi col titolo De la sciencé en France.
- 444 -
lastiche; se tutte queste ignobili cause d'inerzia muovono
guerra quanto stolta, altrettanto talvolta ostinata, maligna e
sozzamente sleale allo ingegno italiano che tenta di farsi
innovatore colle proprie forze, figurati, accorto lettore, quanto
oneste e liete siano le accoglienze, che quei vizii, e, ag-
giunto ad essi talora, l'orgoglio nazionale, od almeno la
commoda larva di esso, sono usi di fare alle riforme scien-
tifiche e didattiche di origine straniera e principalmente ger-
manica. L'indifferenza, che è pur sì funesta alla diffusione
di nuove idee, può alle volte parer quasi virtù, quasi bene-
vola moderazione, ove la si paragoni colla rabbia, or fatta
fieramente manifesta, ora dissimulata vigliaccamente, con cui
certi barbassori si opposero alla diifusione di certi studi te-
deschi in Italia. Questa diffusione è, chi noi sappia ancora,
opera che assai poco giova alla scienza, ed, oltracciò, offende
la giusta alterezza e snatura il carattere di noi Italiani.
Che la scienza italiana basti all'Italia, ìa francese alla
Francia, è una di quel'e dottrine che per io più non si
osano professare apertamente e che si possono solo susur-
rare all'orecchio dei più intimi amici, degli allievi più re-
verenti e più avvezzi a ripetere il pitagorico aùiò? I(pa. Quando
si parla al pubblico o si scrive per esso si ammette gene-
ralmente che la cognizione degl'intendimenti, dei metodi,
dei risultati della scienza straniera può riuscire non poco
giovevole: si ha eziandio talvolta la incredibile bontà di ag-
giungere qualche parola di lode a quegli operosi che di essa
si fanno interpreti alla patria loro. Vuoisi soltanto, osser-
vano, non varcar certi limiti. Apparentemente non si po-
trebbe dir meglio , e chi non applaudirebbe ? Ma, ove dalle
parole procedasi ai fatti e si astringano quei buoni amici
del saper forestiero a segnare i confini, entro ai quali cre-
dono utile la propagazione di esso nel loro paese, sì fatti
confini ti appariranno sì stretti, che tu ti sentirai fra essi
— 445 —
angustiato quasi come nel letto di Procuste. E, se ti la-
gnerai (ed a ragione) ti risponderanno che, alla iìn delle fini,
ritalìa, già maestra al mondo due volte, la Francia, già da
due secoli regina della civiltà (i) non hanno guari ad impa-
rare dalle altre nazioni, verbigrazia da quella Germania che
un giorno tanto apprese da esse. E qui sta il gran torto.
Che, come ben nota il Bréal, « il est impossible qu'un seul
peuple ait par lui-meme i' idée de tous les progrès qui se
som présentés à Tesprit des autres nations. Des événements
particuhers ont pu favoriser à Pétranger des réformes qui
ont pu etre contrariées chez nous par des circonstances for-
tuites. Il n'est pas jusqu'aux erreurs de nos voisins qu'il ne
soit bon de connaitre, pour ne pas tomber dans les mémes
fautes; car il pourrait nous arriver d'ìntroduire chez nous,
(i) « cftte France est grande malgré ses malheurs! Vaincuo
dans une défaillance momentanee de son crganisaiion miiitaire, elle
est restée reine par la civilisation, par le crédit, par l'esprit; et per-
sonne ne lui òtera cetie couronne, qui vaut bieiì celle de l'enipereur
Guillaume. Pourquoidonc nous renvoyer à Técole des AUemands ?»
CtrviLLiER-FLEURY, Op. cìt. , p. i8. Ed il signor De Laprade discor-
rendo del <! genie fran^ais » asserisce che « à coté de lui cette Alle-
magne, aujourd'hui triomphante, n'enpeut pas moins éire réputée une
race barbare » {Véducation libérale, p. 207). Se due membri dell'Ac-
cademia francese professano simili opinioni, quali, chiediamo noi, non
saranno le illusioni del volgo ? Come poi l'educazione stessa concorra
a perpetuare nelle nuove generazioni cetri pregiudizi di questa natura,
pregiudizi funesti , apprendiamo dal Rréal. « Au lieu de contenir
notre amour-propre national dans les limites d'un patriotisme inieJ-
ligent, au lieu de l'ennoblir en y gretianl l'ambition de lous les mé-
rites qui peuvent nous manquer, on a vu l'école comme le collège
fiatter plutót que diriger cette inclinatlon naturelle, Tel ìivre répandu
dans nos classes, par les parallòles qu'il éiablit à chaque page entre
la France et les autres nations , semble avoir été écrit exprès pour
donner à nos écoliers la plus mediocre idée du reste du monde, Assu-
réraent il est bon et nécessaire de nourrir dans la jeunessc la plusgéné-
reuse des passions; mais le patriotisme poussé jusqu'à l'infatuaiion ci
à l'aveuglement n'est pas seulemcnt une erreur, c'est un danger pour
le pays. ■' Op. cit.y p. 116-7.
— 446 —
comme réformes, des expériences depuis longtemps condain-
nées à l'étranger » (i). E, per ciò che concerne la scienza,
più che a qualunque altro popolo vuoisi appunto presen-
temente aver ricorso al tedesco. Il moto intellettiiaie di questo
popolo è, scrive il francese Renan, « le plus riche, le plus
flexible, le plus varie , dont Thistoire de Tcsprit humain ait
gardé le souvenir (2) »: « prodigieuse activité », scrive il
Pouchet (3), « dont rien n'avait pu, mème à Paris, nous
donner une idée ». Indi la odierna superiorità scientifica
della Germania sulle altre nazioni : superiorità incontestabile,
come afferma Renan : superiorità riconosciuta da tutti, anche
dallo stesso governo francese, come nota il Pouchet, e dal
governo italiano che inviò in Allemagna non pochi giovani
egregi a compiervi i loro studi universitarii e n'ebbe eziandio
qualche dotto ed operoso maestro.
Ma qui un coro di retori ci arresta e ci grida : Voi, che
non vi stancate di predicare alla vostra patria la necessità
di apprendere molto da scuole straniere, voi offendete la
giusta alterezza che la coscienza del proprio valore, la me-
moria del suo grande passato le inspira! Che ne direbbero
(1) Op. cit., p. 6.
(2) Questiorìs contemporaìnes, p. 81-2 e segg, « Une université alle-
mande de deraier ordre, Giessen ou Greisswald, avec ses peiites habi-
tudes étroites, ses pauvres professeurs à ia mine gauche et efEarée, ses
privatdocent baves et faméliques, fait plus pour l'esprit humain que
l'aristocratique université d'Oxford, a\ec ses millions de revenu , ses
colléges splendides, ses riches traitements, ses fellorvs paresseux. » Ib.,
p. 84. —- « Niuno apprezza più di me la nazione germanica , così per
la sua indole, come per li suoi meriti in molte parti del sapere , e
specialmente nell'erudizione, dove ella ha pochi pari fra' popoli mo-
demi. Anzi si può dire generalmente, i Tedeschi essere per alcuni
rispetti i soli Europei, che sappiano ancora studiare. » Gioberti, Intro-
dusfiotte allo studio della fJosoJìa, 2» ed., Brusselle, 1844, voi, i, p. S2
(3) L'enseignement supérieur des sciences en Allemagne [Revue des
deux mondes, t. 83, p. 43 1).
— 447 —
gli avi? Non vi ripudierebbero essi forse^ quasi degeneri
nepoti, quasi bastardi Italiani, se vi vedessero inchinarvi
con reverenza di allievi innanzi ai discendenti di coloro cui
essi chiamarono barbari? Gli stessi Tedeschi non si faranno
forse beffe di voi, di voi intenti ad imparar da loro, essi sì
fieri di essere e di conservarsi Tedeschi? — Ti confessiamo,
intelligente ed onesto lettore, che, quanto commoda (come
quella che esenta da lunghi e laboriosissimi studi di lingue
e di dottrine forestiere), altrettanto strana ci sembra una
certa italianità, la quale non si rivela mai così viva, come
quando si scaglia contro il sapere germanico, Piii strana
ancora ci appare cotale italianità, ogniqualvolta ci ricorre
alla memoria come fra i più rabbiosi e famigerati rappresen-
tanti di essa siavi chi sembra essersi acceso d'ardentissimo
zelo di difendere i sacri diritd dello ingegno italiano contro
i Teutoni (i), soprattutto da che, per certe impertinenze, un
(i) Le armi, per buona ventura affatto innocue, di qualche italia-
nissimo di questa risma sono ora rivolte principalmente contro T.
Mommsen per i giudizi severissimi da lui profleriii nella sua Storia
romana sulle attitudini artistiche dello ingegno italico e sopra parec-
chi fra i nostri più celebri scrittori antichi e moderni. Non è punto
nostro intendimento difendere T. Mommsen: egli è tale che non ha
uopo di alcun difensore, specialmente poi contro certi ovversarii, coi
quali egli non potrebbe nemmeno scendere a lotta senza parer Ercole
che insacca i Pigmei. Staremo paghi di notare che muovono a riso gii
anatemi scagliati ancora presentemente sugli accennati giudizi momm-
scniani, come se questi fossero novità d'oggi o di ieri e non si tro-
vasse nelle opere di grandi pensatori precedenti nemmeno un germe
di sì fatti concetti (v., ad es. , ciò che intorno allo ingegno romano
si legge nel Cosmos di A. Humboldt, parte i% cap. lo, voi. 2, p. i5
e segg. della vers. fr. di Galusky, Parigi, 1848). A buon diritto quel-
l'uomo egregio che è il professore P. Villari, dopo aver condannale
quelle sentenze dello storico tedesco, protesta che non per questo può
associarsi « alle critiche puerili d'alcuni giornali, i quali dimentica-
rono che parlavano d'uno dc'più grandi pensatori e scrittori moderni »
(Scritti pedagogici, Torino, i8ó8, p. 343). — Che più? Si giunse ad
accusare T, Mommsen di aver errato in più luoghi nella versione di
una iscrizione latina. Quella versione — ridi , o lettore — non era
opera di Mommsen!!!
- 448 -
gran maestro teutonico lo castigò, dicono, come si castiga-
vano i fanciulli, facendogli assaggiare la sua verga filo-
logica. Stranissima poi e quasi incomprensibile, quasi mi-
stero per noi è questa italianità, allorquando fra i più ac-
caniti banditori di essa udiamo la voce di taluno, il quale,
non sappiam bene per quali ragioni, forse in parte per di-
spetto e per isbaglio, s'imbrancò con quegl'Italiani che vili-
pendono ritalia nuova, ma ne accettò, nondimeno, onori e
stipendii. Supponi ancora, o lettore (se hai imaginativa dì
poeta), supponi, ad esempio, che quella sì gelosa, sì fiera
italianità abbia una volta insultato grossolanamente alla me-
moria di un insigne italiano e n'abbia avuto in pena una
degradazione, e tu avTai un argomento di satira degno di
Giusti (i). Ma, con buona pace di questi italianissimi, noi
continueremo a credere ed a dichiarare senz'ambage, che
qualsiasi popolo, e soprattutto quelli che aspirano a m0.ggior
nobiltà, debbono sempre anteporre ii generoso amore del vero
all'orgoglio nazionale. Ne ci vien fatto di vedere come a
questo possa recare maggiore offesa lo imparar da stranieri,
senza ossequio servile e con perfetta indipendenza di cri-
terio (vale a dire esaminando liberamente, quindi conti-
nuando e forse eziandio migliorando Topera loro), che non
l'ignorare ciò eh' essi sanno, e, tronfii del nostro passato,
paghi del nostro presente, non curanti del nostro avvenire,
rimanere perennemente da meno di coloro, cui, stoltamente
arroganti, non volemmo a maestri (2). E questi si resero e
(i) E degno di versi che la gioventù studiosa impari a memoria
come i quattro famosi:
'« Piango l'Italia
Coi liberali;
E se mi torna
Ne dico coma ».
(2) « il n'y a pas de déshonneur à un peuple d'en prendre de
temps en temps un auire pour modèle; nous » (è il francese Baudry
— 449-
si mantengono tali per ciò che. oltre al loro proprio intenso
lavorio intellettuale, e impararono ed imparano anche pre-
sentemente, ogniqualvolta abbia loro giovato o giovi, da noi
e da tutti: e di ciò sono conscii, né si vergognano di con-
fessare che qualche volta avvenne loro di trapassare il se-
gno (i), non punto temendo, come mostrano certi Italiani,
che lo apprendere dalla scienza forestiera snaturi il carat-
tere nazionale.
E veramente qual uomo di sano intelletto oserebbe mai
affermare che si snaturi un organismo, vuoi vegetale, vuoi
animale, collo appropriarsi certi elementi estrinseci, assolu-
tamente necessarii alla conservazione, allo svolgimento del
medesimo? Così sarebbe vana follia lo asserire che ad un
popolo sia per venir meno ciò che, compenetrando, infor-
mando tutti gl'individui che lo compongono, costituisce il
carattere, la personahtà di esso, allorquando questo popolo,
scorgendo in sé difetto di qualche principio vitale che in
altri si rivela rigoglioso e fecondo, sforzasi di trarne da questi
quanto gli occorre, conformandolo alla propria natura, assi-
milandolo a sé stesso (2). Molti secoli prima che la civiltà
che parla, Questions scolaires, p. 11) « nous l'avons fait plus d'une
fois dans le cours de notre histoire. Notre Renaissance a imité l'Italie;
notre dix-huitième siècle a imiié l'Angleterre. Les étrangers aussi nous
oni copiés sans rougir, car un seul peuple ne peiu tout créer, Avons-
nous eu tort d'emprunter le jury aux Anglais? » E non si tenta forse
d'imitare l'organizzazione dell'esercito tedesco? « Quittons, comme une
puérilité, la prétention de ne rien devoir à personne, et sachons prendre
les bons exemples où ils se trouvent. »
(i) « Tfa i popoli moderni siamo noi Tedeschi, com'è noto, i più
atti e disposti ad approvare e ad accogliere quanto è forestiero ; noi
abbiamo, pur troppo, accolto più che non possiamo combinare coi no-
stro proprio spirito nazionale. » La2arus e Stzwthm., Einleiteude ge^
danken ìiber vólkerpsychologie ecc. {Zeitschrift fiir volkerpsychologie
und sprachwissenscha/ìy voi. i, p. 66).
(2) " Écartons également l'objeciion de la différence des génics et
des races, véritable argument de paresse à l'usage de la routine qu'on
- 450 -
moderna rendesse sempre più numerosi e stretti i legami
tra nazione e nazione, Roma sentì, comprese l'imperioso
bisogno di far suo tutto ciò che utile ad essa pareva nelle
instituzioni degli stranieri, degli stranieri ch'ella aveva vinti
o stava per vincere (i). Imitiamo i padri nostri, ricavando
da quei popoli, che ne sono a dovizia forniti, le forze onde
ci è uopo, e fondendole colla nostra propria natura Né da sì
fatto innesto ci distolga soverchio timore di vederci un
giorno trasformati, verbigra^'.ia, in Tedeschi, come già sem-
brammo diventati prima Spagnuoli e poscia Francesi: che la
conquistata autonomia nazionale ed il grave divario che !e
genti neo-latine discerne dalle germaniche attenuano, ben piià
che altri non abbia mostrato di avvedersene, il valore di
quel paragone.
dérange. Qui n'a pas souri, quand le ministre de l'instruction publique
d'Espagne recornmandaità ses subordonnés de « se défier des vaporeuses
concepticns d'une phiiosophie et d'une critique étrangères au genie es-
pagnol! ■> Nous n'étions pourtant pas moins ridicules, quand, prenant
pour l'espiit franyais les accidenrs de ncir situations, nous le dccfarions
incompatible avec « les reveries de la science germanique » . lì s'est
trouvé que les préiendues reveries étaient la force réelle et positive, et
que les vrais songe-creux, c'étaìt nous, endormis dans rillusion d'une
fausse super iorité. » Baudry, Questions scolaires, p. lo-ii.
(i) Notarono questa tendenza all'assimilazione i grandi investigatori
rooderni della vita ronnana, v. g. Macchiavelli [Discorsi sopra la prima
deca di T. Livio, libro 2», capit, 3"), Vico {Opere, ed. Ferrari, Milano,
i835-7, '^^^' 2°, p. ii3-4), Montesquieu [Considérations sur les causes
de la grandeur des Romains »»cc , Paris, Didot, r8o2, p. aSy). «.. tutte
quelle », leggiamo iu Vico [Le), <■> che stimansi comunemente fortune
de'Romanì, io riduco a questa sapienza, ch'essi seppero far buon uso
de'fruui della doitriua delle altrui repubbliche » ecc. Cosi G. Cesare in
Sallustio (Cat., LI): « Maiores nostri... nequc consiiii, ncque audaciae
umquam eguere : neque illis superbia obstabat, quo minus aliena insti-
tuta, si modo proba erant, imiiarentur. Arma atque tela militarla ab
Samnitibus, insignia magistratuum ab Tuscis pieraque sumpserunt,
postremo quod ubique apud socios aut hostes idoneum videbatur, cum
summo studio domi exequebantur, imitari quam incidere bonis male'
bant » (ed. Gerlach, Basiliae, iS52, voi. i, pag. 34).
- 451 -
Procedendo ora da questi concetti generali ad alcune con-
siderazioni che concernono in ispecie quegli studi, cui questa
Rivista è particolarmente consecrata, noteremo innanzi tratto
che, come alcuni anni or sono era vezzo di alcuni Italiani far
bersaglio dei loro colpi la filosofia di Hegel (anche dappoiché
non era più prevalente nemmeno in Germania) e la critica
storica di Niebuhr, così presentemente l'onore di essere as-
salite con violenza quanto rabbiosa altrettanto impotente da
certi nostrali, in cui la presunzione tiene spesso luogo di
scienza e la supera spesso di gran lunga, spetta singolar-
mente alla filologia classica ed alla hnguistica dei Tedeschi.
Si biasima, si berteggia Tortografia latina ch'essi adope-
rano; ma non la si confuta, non la si discute seriamente,
non se ne conosce neppure il principio supremo (i). Si osa
insegnare cattedraticamente essere sovente lavoro superfluo,
ridicolo e pernicioso quello di tutti coloro che impinguano
le loro edizioni dei classici di varianti innumerevoli; alcune di
queste essere tali che si debbono rigettare come immondizie.
Egregiamente ! Così si lavora assai meno e si passeggia quattro
o cinque ore del giorno, alia barba di que' buoni Tedeschi
che in quel tempo non istaccano gli stanchi occhi dai co-
dici che cercano in tutte le biblioteche del mondo. Qui una
plebe di pedanti, per insipienza, per arroganza, per infin-
gardaggine, per cupidigia, si arrabatta contro i nuovi metodi
germanici più razionali per lo insegnamento del latino e del
greco ne'ginnasii e ne'licei (2) ed erutta scioccherie tali che
non meritano l'onore di una risposta : là un volgo di retori
(1) V. Brambach, Die neugestaliung der lateinischcn orthographie ecc.,
Leipzig, 1868: opera che espone sistematicamente le ragioni deìl'or-
tografia latina onde abbiam fatto cenno ; opera che certi aristarchi doz-
zinali non mostrarono mai di aver letta nò di sapere iiftendere.
(a) V. la terza parte di queste nostre Considerazioni nel fase. 7" della
presente Rivista, p. 310-329.
- 452 —
camuffati da filologi raglia, calunniando, contro la scienza del
linguaggio, della quale fu creatrice ed è ancora suprema
maestra l'AUemagna. Ed ora con lepida gravità dottorale
accusano i linguisti di voler restringere lo studio del latino
a ricerche etimologiche, di non essere altro che uccellatori di
suoni, di sillabe, di distogliere i giovani dal culto dei clas-
sici antichi e di ottundere gl'ingegni : ora, mutando la toga
del professore nella veste di Arlecchino, sgavazzano buffo-
neggiando, proponendo, a nome della odierna glottologia ,
certe strampalate derivazioni di vocaboli. Queste accuse ed
i loro autori sono sì fattamente estranei alla scienza del lin-
guaggio, che questa non potrà. mai, nemmeno un istante, cu-
rarsi né delle prime né dei secondi. È noto a tutti coloro,
i quali di linguistica storico-comparativa non sono così pro-
fondamente ignari come quei signori (i), non essere la investi-
gazione dei suoni e delle radici se non una parte del compito
che si propone il linguista nostro contemporaneo; che altra
parte, né certamente posposta a quella, é T analisi delie
(i) Che diresti, o lettore, se alcuno di questi dottoroni avesse dato
prova di non sapere ancora che la scienza del linguaggio non bassi a
chiamare 7?/o/o^:j, la quale è, per consenso dei più dotti, ben altra disci-
plina; di non accorgersi che muove a riso anche l'ultimo dei linguisti
lo udir discorrere non di suoni, ma di lettere {sicl ! !), aggiunte, tolte,
spostate, e il veder fatto cenno dei suffissi e delle flessioni, come se gli
elementi costitutivi della flessione non fossero suffissi; di credere che
un glottologo odierno non si vergognerebbe di certi paragoni fra parole
appartenenti ad idiomi non affini fra loro ; d'ignorare che nessun vero
erudito considera più la lingua sanscrita quale procreatrice della greca
e della latina, vieto pregiudizio che più non esiste ormai da molti anni?
Che diresti finalmente se, per un quasi incredibile scerpellone, avesse
appellato mw^am^wfo JKOr/b/o^/co un fenomeno che uno scolare di quarta
ginnasiale gl'insegnerebbe a denominare mutamento fonetico } Se poi,
prima di essersi mai mostrato esperto di linguistica storico-compara-
tiva, anzi dopo aver fatta palese anche ai meno dotti la sua ignoranza,
supina di questa scienza, v'ha chi s'impanca tra i giudici di essa, non
si meravigli almeno se altri non se ne dà pensiero o si ride della disap-
provazione di lui, come di giudice incompetente.
- 453 —
forme nominali e verbali; che altra parte ancora è Tìnda-
gare il valore delle radici e delle forme, considerate come
sìmboli di concetti, né chi voglia profferir giudizio sulla lingui-
stica odierna può passare sotto silenzio questa serie di ri-
cerche, estese, profonde, frequenti, senza rendersi degno di
una patente di mala fede o di crassa ignoranza. È noto
eziandio che la linguistica non è punto avversaria, ma amica
e sorella della vera filologia, cui reca e da cui trae giova-
mento ; che non essa ottunde lo ingegno, essa che è la storia
e la filosofia della umana favella, ma bensì quella miserabile
contraffattura dello studio classico, quella bastarda filologia
da ciurmatori, da scimmiotti, che con qualche centinaio di
parole e di frasi, tratte dagli antichi e combinate in varie
forme, inorpella il difetto di dottrina ampia e profonda, di
gagliarda imaginativa, di acuta e vasta intelligenza; che, fi-
nalmente, si fa in un mese maggiore e migliore lettura di
scrittori latini in molti ginnasii di Allemagna, patria della
linguistica, che non, in un anno, in qualche ateneo non ger-
manico, ove il commento, tanto strombazzato, di autori ro-
mani è ristretto a certi limiti di tempo che farebbero ridere
qualunque professore tedesco, e spesso consiste in certe os-
servazioni che parrebbero ben povera cosa anche in un liceo
degno dell'epoca nostra.
Sebbene ne'cenni precedenti siamo stati, com'era nostro
dovere, brevissimi, ci sembra nondimeno apparire da essi a
sufficienza quale e quanta sia la cognizione che della scienza
in genere, in ispecie poi della filologia classica e della lingui-
stica straniera, e, soprattutto, della germanica, mostrarono di
avere certi accaniti avversarli della propagazione di esse fra
noi Italiani. Né ciò farà specie a chi sappia come un liRro te-
desco, ed eziandio un libro inglese, sia proprio un mistero
pel maggior numero di questi signori, che, se venissero per
avventura offesi d'acri censure da un dotto di Allemagna e
— 454 —
nel linguaggio di questo paese, sarebbero costretti, poverini,
a farsele tradurre, anche a costo di dar luogo a qualche
scena sì veramente comica, che il semplice ricordo di essa
potrebbe destare l'ilarità anche dopo parecchi anni. Si direbbe
che cotali aristarchi siano discendenti di quei due gentiluomini,
i quali, narrasi, neiPepoca della famosa contesa fra gli ammi-
ratori di Ariosto e quelli di Tasso, si sfidarono, si' batterono,
si ferirono, e, feriti, confessarono non aver letto mai né
rOriando furioso né la Gerusalemme liberata. Coll'abito lo-
devolissimo di giudicare spesso senza conoscere a sufficienza,
talora eziandio senza intendere punto ciò che si giudica, si
conservò in alcuno dei dottoroni odierni onde discorriamo il
vezzo non meno lodevole d'inveire contro ai proprii avversarli
o di farsene beffe, e qualche volta in guisa sì fattamente plebea
che l'assalito potrebbe, senza far ingiuria alla verità, rispondere
allo assalitore colle parole del pedagogo erasmiano al rozzo
discepolo: « Tu mihi videre non in aida natus, sed in caula^ì{i).
Né meravigliarti, o lettore, se taluno di quei generosi, che
forse si vide molte fiate serrare in faccia le porte di qualche
accademia, si farà, alla sua volta e da suo pari, intoppo a
te per negarti l'adito a qualche società scientifica, appena che
si sarà avveduto che tu sei uno dei propagatori della scienza
germanica nella tua patria.
Se, per ciò che abbiam fatto (senza risparmiarci né fa-
tiche né lotte) collo intento di promuovere nella patria no-
stra il culto della linguistica tedesca, la nostra voce suona
non affatto inefficace alla gioventù studiosa d'Italia, noi l'e-
sortiamo con tutte le nostre forze a non lasciarsi illudere
dai vani argomenti né sgomentare dal cipiglio o dalle beffe
di quei certi Italiani, che la distolgono dal far suo con in-
(i) ERAsm Colloquia /amiliaria, Basileae, 1707, p. 41.
- 455 -
tenso lavoro il saper forestiero. Noi Pesortiamo alio studio
delle lingue e delle scienze straniere (i), per amore del vero
che vogliamo diffuso fra tutta l'umanità, per amore del no-
stro paese che vogliamo pari ai più civili nei desiderii, nelle
opere che affrettano il progresso. E, se non a noi, credete,
giovani italiani, credete a Cesare Balbo, ed imparate da lui
essere ormai un assurdo « quella gretta e stringata e sognata
nazionalità » (2) che abborre da ogni contatto morale di
stranieri: doversi far quistione « se le cose son buone o
no », ma lasciar « quella eterna, se sieno nazionali o stra-
niere » (3); doversi dagli stranieri non prendere « il male
mai, ma il bene sì, senza diflicoltà » (4). Credete a Vincenzo
Gioberti, il quale v'insegna che, ove altri u sappia usarne con
(i) Quando lo studio delle lingue classiche sarà stato reso più breve
e più facile, mediante un metodo più razionale ; quando saranno stati
risireiii a più giusti limiti certi studi scientifici; allora si potrà, imitando
il nobile esempio che ci dà ora la Francia per opera di j. Simon, fon-
dare anche nelle scuole secondarie italiane un serio insegnamento di
qualche lingua moderna, per guisa, ad esempio, che nei due ultimi corsi
del ginnasio s'apprenda dai giovani alunni il francese, e nel liceo s'im-
pari tanto di tedesco, quanto C necessario per intendere la prosa scien-
tifica dettata in questa lingua. V. Brèal, Op. cit., p. 258-9; J. Simon,
Circulaire ecc., 6°.
(2) Pensieri ed esempli, Firenze, i856, p. 221.
(3) Op. cit., p. 38o,
(4) Op. cit., p. 362. — « E voi, non vedete voi quella sm.ania che hanno
tanti di gridare contro le letterature settentrionali, quasi turbanti il no-
stro bel cielo; contro le filosofie straniere, quasi turbanti i nostri animi;
contro ogni invenzione straniera, quasi un pjagio fatto a qualche antico
Italiano? A me par anzi una smania, una monomania universale. » Op.
cit., p. 388. « vorrei che si considerasse oramai la letteratura (cioè
intendo la letteratura colle scienze e colle arti), la coltura, la civiltà in-
tellettuale tutta intiera delle nazioni cristiane, come una sola coltura,
una sola civiltà: che tutti insieme, a gara si, e, se volete, con qualche
emulazione, ma sen:^a gelosie^ sen^a dispute, si cercasse di promuovere
questa comune coltura ; che, quanto a scien:;a e cogni:^ioni positive, si
prendesse gli uni dagli altri, quanto prima, quanto più facilmente , ogni
trovato, ogni novità »• ecc. Op. cit., p. 391.
- 456 —
senno», può giovargli il conoscere anche gli errori dottrinali dei
Tedeschi, errori « talvolta dottissimi » (i). Né vi cadano dalla
memoria le seguenti nobili parole di P. Villari: « L^indole
dell'Italia e della Germania son diverse, e resteranno sempre
tali; ma oggi non vi è nessun popolo civile che possa vi-
vere isolato, perchè la civiltà moderna risulta dalPazione
combinata di tutti. Onde, se si può deplorare in alcuni
Tedeschi quell'orgoglio che s'illude a segno da credere, che
la civiltà moderna debba essere germanica; non ci sono pa-
role bastevoli a condannare la puerilità di tanti fra noi,
i quali credono possibile il fare qualche cosa che duri
nelle lettere o nelle scienze, senza sapere ciò che fanno le
altre nazioni più civili di noi; e vorrebbero addormentarci
sull'idea ridicola di un primato italiano in ogni cosa, pri-
mato che oggi a nessuna nazione può esser concesso.
Queste frasi rettoriche potevano una volta servire a na-
scondere la nostra ignoranza; ma oggi neppure a questo
umile ufficio possono bastare. Non ci resta altro scampo
che il lavoro modesto, paziente, senza presunzione; ma
con fede in noi stessi. Dobbiamo apparecchiarci colle pro-
prie forze a compiere la nostra parte, persuasi che ogni
nazione ha un grande scopo da raggiungere, e che nessuna
può raggiungerlo vivendo isolata. Apparecchiamoci, adunque,
nelle scienze, nelle lettere e nelle istituzioni, ad imparare
qualche cosa da ogni popolo civile, per restituire, poi, a
tutti i popoli qualche parte della nostra civiltà rinno-
vata » (2).
D. Pezzi.
{Continua)
(1) Degli errori filosofici di A. Rosmini, 2» ed,. Brusselle, 1843, voi. 2,
p. 291.
(^) Scritti pedagogici, p. 372.
Pietro Ussello, gerente responsabile.
— 457 -
SAGGIO SUL CLITOFOtKTE
DIALOGO ATTRIBUITO A PLATONE.
Siccome le Istrniiom emanate dal Ministero di pubblica
istruzione nel 1867 molto saviamente prescrivono nell'inse-
gnamento filosofico alcuni esercizi sui testi di filosofi greci o
latini, non parrà fuor di luogo in una ^vista che s'intitola
non solo di filologia, ma anche (l'istruzione classica il
saggio che qui si pubblica sopra un dialogo attribuito a
Platone, dialogo brevissimo, ma, come si vedrà, non privo
d'importanza per la cognizione della filosofia socratica.
Su questo dialogo, che s'intitola Clitofonte, sono a discu-
tersi tre questioni: t** Se sia autentico; 2* Se, non essendo
tale, sia almeno opera di qualche contemporaneo di Platone;
3** Quale sia la sua significazione.
I.
La prima questione è subito risoluta. In ogni dialogo ove
Platone introduce la persona dì Socrate, mostra verso il suo
maestro un'alta ammirazione ed un' affettuosa riverenza a
cui fa strano e spiacevole contrasto il modo orgoglioso e
sprezzante con cui Socrate è trattato in principio del Clito-
fonte, non già da sofisti come Trasimaco o Polo, messi da
lui alle strette ed esacerbati per la meschina figura che ven-
gono facendo nella discussione, ma da un cittadino Ateniese,
di cui si riferisce il discorso con approvazione, e senza con-
trapporvi risposta o correttivo di sorta. In nessuno dei pe-
riodi della «iua operosità come scrittore può Platone avere
Hivista di filologia ecc., I. 3i
- 45S -
usato in riguardo a Socrate espressioni come quelle che ver-
remo notando appiè di pagina nella traduzione del dialogo
che aggiungeremo in fine di questo saggio. Siamo ben lon-
tani da quella rigidezza critica di molti Tedeschi, i quali nel
giudicare dell'autenticità dei dialoghi platonici non ricono-
scendo altro criterio che l'intrinseco, quello cioè che consiste
nei loro maggiore o minor pregio dialettico ed estetico, di-
chiarano spurii tutti quelli che sembrino troppo lontani dalla
perfezione che si ammira nel Protagora, nel Gorgia, nel
Fedone, e nella Repubblica : crediamo che Valiquando bonus
dormiiat sia vero non solo di Omero, ma anche di Pla-
tone; crediamo che il valore di questo come scrittore non
sia stato ne' suoi primi saggi, e nel svio ultimo lavoro, cioè
nelle Leggi, così eminente come nelFapogeo della sua vita let-
teraria. Ma quello che non crediamo abbia mai potato cre-
scere né alterarsi è l'amore, la riverenza e l'ammirazione
ch'egli sentiva per Soci ate. Noi cancelliamo adunque dal
canone platonico il Clitofonte non tanto perchè indegno
dello scrittore, quanto perchè indegno dell'uomo.
II.
A risolvere la seconda questione od almeno a recarvi
qualche luce fa d*uopo richiamarsi alla memoria un passo
di Senofonte {Memor. I, 4, i), che col Finckh e con Eu-
genio Ferrai io leggo nel seguente modo: €ì òé rive? IcuKpàrriv
voiiilovaiv, o\<; (in luogo del vulg. ib?) Ivioi ypàq>Q\)ai t€ km
X^TOwai 7t€pl aÒToO T£K|uaipó|bi€Voi, TTpOTpevpaaeai fièv dvGpwiTOUi;
in' dpeTtiv KpdTiOtov ferov^Ivcti, TTpocfaxaTeiv b' èn' aùTf]y o^x
ivcavóv, (SK&\iàixevox k. t. X. e traduco così: k Se poi alcuni,
tt argomentando da quanto parecchi ne scrivono e ne dicono.
K credono che Socrate fosse valentissimo nei convertire gli
u uomini alla virtù, ma incapace poi di guidarii infìno ad
'< essa, costoro, dopc che avranno considerato ecc. «. 11
— 459 -
qual passo ha una stretta connessione col nostro dialogo,
come già fu accennato da G. F. Hermann nella sua Storia
e sistema della Jilosojìa platonica (p. 325, nota 3o4). Sì
tratta però di vedere di qua! natura sia questa connessione,
di vedere cioè, se, al tempo che Senofonte scriveva le parole
citate, il nostro dialogo già esistesse e fosse appunto uno di
quegli scritti a cui alludeva Senofonte, nei quali sì tacciava
Socrate dì sapere soltanto eccitare gli uomini alla virtù, ma
non mostrar loro in modo preciso la via per arrivarvi: op-
pure, inversamente, se il passo di Senofonte abbia dato oc-
casione ed impulso alla composizione di questo scritto, che
in quelle parole si sperava avrebbe trovato una speciosa
prova della propria autenticità. Per quanto la seconda di
queste due ipotesi possa sorridere alla moderna critica, e
fossero anche più numerosi che non sono gli esempi di
produzioni apocrife fatte nascere da certi luoghi di autori
antichi coi quali si avea speranza di autenticarle, io mi
confesso propenso alla prima ipotesi, e credo che il C/2V0-
fonte sia opera di qualche contemporaneo di Platone, attri-
buita a Piatone stesso in tempi posteriori, quando per avi-
dità di guadagno si fabbricavano opere d'ogni genere che si
attribuivano a celebri filosofi antichi, o si insignivano di quei
gran nomi opere antiche bensì, ma d^gnoti autori, e le une
e le altre si vendevano a caro prezzo ai re di Pergamo e di
Egitto che ne arricchivano le biblioteche novellamente fon-
date. Che al tempo, in cui Senofonte scriveva i Memorabili,
esistessero scritti di un contenuto analogo a quello dei
Clitofonte, è un fatto indubitabile, come quello che è espres-
samente attestato da Senofonte nel passo citato. Che nel
Clitofonte nulla si trovi che escluda Tantichità, e ci vieti di
ammettere che questo dialogo potesse essere uno di tali
scritti, è cosa che io credo abbastanza provata nelle note
che accompagnano la traduzione: che il Clitofonte fosse
- 460 -
realmente uno di tali scritti, è reso probabile da due ra-
gioni, runa estrinseca e l'altra intrinseca, che svolgerò bre-
vemente.
Ragione estrinseca. 11 Grote nella sua opera su Pla-
tone (i) tolse a sostenere niente meno che Tautenticità di
tutti ì dialoghi riconosciuti come autentici da Trasillo, e
da questo distribuiti in quella serie dì tetralogie che ancora
possediamo (2). I critici tedeschi da Schleiermacher in poi,
osserva il Grote, hanno ragionato sopra ciascun dialogo
come se il suo titolo ad essere considerato come genuino
dovesse ancora provarsi o per testimonianza estrinseca,
o per interne prove desunte dalla qualità delio stile, dal
metodo delia trattazione, dalle dottrine ecc., come se, in
una parola, Vonus probandi incombesse a chi ne osserva
la genuinità, e non già a chi la nega o la revoca in dubbio.
Ma, dice il Grote, esiste una presunzione in favore degli
scritti platònici contenuti nel canone di Trasiilo. E in che
consiste questa presunzione r Eccolo in poche parole. La
scuola fondata da Platone ebbe sua stabile residenza in
Atene, prima ntl'i' Accademia^ poscia (a." 87 a. C.,) nell'in-
terno della città per circa due secoli. In questa scuola si
conservavano con gran cura gli scritti di Platone. Non è da
credere che i discepoli di Piatone, così diligenti nel pren-
dere appunti deirinsegnamento orale del loro maestro (3),
(i) Plato and the other companions 0/ Socrates. La discussione sul-
l'autenticità degli scritti di Platone trovasi nel i'^ voi. p. i32-2ii.
(2) Ci è data da Diogene Laerzio.
(3) Questa loro diligenza è provata, secondo Grote, dalia testimo-
nianza di Simplicio in Phys. Aristot. f. 32, p. 334. b. 28., ed. Brandis,
p. 362 a. 12, dove si dice che Senocrate, Speusippo, Eraclide Pon-
tico, Estieo, Aristotele ed altri s'erano trovati presenti alla esposizione
orale {ànpoàcex) fatta da Platone della sua dottrina sul Buono, e tutti
aveano .^critto e conservata memoria di questa dottrina; irdVTe?... auv-
éypa'4>av koI ftièaiLaavTO ti^v òóìav avixoO.
— 461 —
fossero poi tanto negligenti in riguardo ai suoi scrlui da
non provvedere nel miglior modo possibile afiSnchè tutti si
conservassero, e non s'introducesse fra di essi alcuno scritto
non genuino. Da Atene ì libri di Platone passarono alla
biblioteca di ALlessandria; e quivi pure si avevano ampie
guarentigie dell'integrità e purezza del canone platonico.
Diogene Laerzio dice che « alcuni tra i quali anche il
grammatico Aristofane distribuiscono i dialoghi di Platone
in trilogie )>. La loro collezione dovea dunque già trovarsi
nella biblioteca di Alessandria, al tempo che ne aveva la
direzione questo Aristofane di Bisanzio, il quale visse pro-
babilmente fra il 260 e il 184 prima di Cristo. Il lavoro
di Aristofane era analogo a quelli, che i predecessori di
lui neiruffizio bibliotecario avevano eseguiti sopra altri autori,
ì cui libri preesistevano, ma disordinati, in quel grande
Museo (i) È probabile che i libri di Platone ci si trovas-
sero fino dalla sua fondazione, perchè Timpulso alla crea-
zione di quell'istituto era venuto ai Ptolemei da Atene
(Stfab. XI II, 608). La collezione Alessandrina era adunque
un fedele ritratto di quella di Atene, ed aveva gli stessi
pregi, Tintegrità e la purezza. Questi pregi non vi fu più
pericolo che li perdesse dopo che fu incominciato il lavoro
critico che si prosegui fino al retore Trasillo, contemporaneo
di Tiberio. Ben potè avvenire ed avvenne difatto che si
revocasse in dubbio per ragioni intrinseche Tautenticità di
qualche dialogo, come da Panezio fu revocata in dubbio per
fin quella del Fedone (2), perchè a lui stoico, sostenitore
(i) La distribuzione in trilogie si fonda sul considerare i dialoghi
di Platone cóme drammi, i quali si univano tre a tre (trilogie), od
anche quauro a quattro (tetralogie).
(2) È curioso i' passo citato in prova dal Grote: TTovdTio^ T<lp tk
^TÓXuTioe voeeOaai tòv ftidXoTOV èTr€i6i*| ràp fXrfev elvai 6vt]T)^v tVjv ^-
t.i\v, èpoOXcto ouTKaTaairdacn tòv TTXdTwva. k, t, X. Schol. Asclep. in
Metaph. p. 576. a. 38. ed. Brandis),
- 462 -
del dogma del periodico litorno di tutte le cose nell'unità
primitiva, pareva impossibile che un Platone avesse am-
messo una dottrina cosi assurda come era per uno stoico
quella della perpetua conservazione delle anime individue:,
ben poteva avvenire anche dopo Aristofane, ed avvenne
di fatto ehe qualche scritto o antico o recente si facesse
passare sotto il nome di Platone come appunto quei dieci
dialoghi che furono poi esclusi da Trasiilo: ma ringanno
non poteva perpetuarsi, perchè si aveva sempre nell'antico
canone un criterio sufficiente a dissiparlo. E di questo cri-
terio appunto si valse il retore Trasillo nella, nuova ed ul-
tima ricognizione ch'egli fece degli scritti platonici.
Trasiilo, il quale nella distribuzione dei dialoghi in te-
tralogie seguì lo stesso principio che Aristofane, conside-
randoli cioè come composizioni drammatiche, si attenne
probabilmente anche nei lavoro di sceveramento degli au-
tentici dagli spurii ai catalogo dei suo predecessore. Tutti
gli scritti platonici riconosciuti da Aristofane (Biogene Laer-
zio ne dà la lista sfortunatamente incompiuta), si trovano
nel catalogo di Trasillo, dalla quale coincidenza rimane
provata, come crede il Grote, Tautenticità degli scritti più
sospetti alla moderna civiltà, quali sono le Leggi {i),\''Epi-
nomis, il MinoSy le Epistole^ il Sofista^ il Politico. Trasillo
insomma nel suo giudizio seguì un criterio estrinseco, indi-
pendente da ogni apprezzamento del valore fiiosotìco e let-
terario degli scritti, come apparisce evidentemente dal fatto
che egli accolse quali genuini alcuni dialoghi, come VIp-
(i) I critici tedeschi vanno riconciliandosi coll'opcra Delle Leggi.
Zeller, che nei Platonìsche Studien l'aveva negata, ora fammeite, come
anche i'Ueberweg, e persino Carlo Scharschmidt, il quale riduce a soli
nove gli scritti autentici di Platone, comprende fra questi le Leggi. Gli
altri otto soiio il Fedro, il Protagora, il Convito, il Gorgia, ia Repub-
blica, il Timeo, il Teetelo, e il Fedone.
— 463-
parco^ ì\ MinoSy il Teage, il Clitofonie stesso, i quali, giu-
dicati dal loro pregio intrinseco da mi critico cosi competente
come era Trasillo^ avrebbero dorato essere dichiarati spurii
al tìtolo stesso e cui egli dichiarava tali VErfxias, il Sisifo,
il Demodoco. E quale mai poteva essere questo criterio
estrinseco, se non l'antico canone tradizionale, il quale
passato da Atene ad Alessandria era stato riconosciuto e
fissato per sempre da Aristofane? Dalle quali considerazioni
il dotto storico inglese è condot.ro ad affermare Tautenticità
di tutti gli scritti che da Trasiilo sono attribuiti a Platone.
Il Grote ha ragione quando nella questione dell'autenti-
cità dà la prevalenza alle prove estrinseche sulle intrinseche,
le quali consistendo per lo più in apprezzamenti del merito
degli scritti e della loro maggiore o minore conformità col
genio dell'autore, hanno sempre alcunché di soggettivo e
di arbitrario. Egli ha ragione quando scrive : « Mentre io
« aderisco al canone di Trasiilo, io non mi credo obbligato
« a dimostrare che Platone sia sempre stato simile ed eguale,
*c o coeiente a sé stesso in tutti i dialoghi che sono contenuti
a in quel canone, e ^r tutto quel periodo di cinquant' anni
« durante il quale questi dialoghi furono composti. Platone
tt si trova in tutti e in ciascuno dei dialoghi non in un tipo
« imaginarioj ricavato per via dì astrazione da alcuni di essi,
« ad esclusione dei rimanenti. I critici hanno tanta riverenza
« per questo tipo di loro propria creazione, che essi si tra-
<' vagliano per arrivare ad un risultato che con quello si ac-
<t cordi, sia interpretando in nuovi modi, sia ripudiando ciò
K che non vi si accorda. Qifesto sacrificare la diversità e
" distinta individualità dei dialoghi alla conservazione di una
e supposta unità di stile, di tipo, o di proposito, mi sembra
(« un errore. In realtà non esiste per noi un Platone pcrso-
« naie punto piii di quel che esista un Shakespeare perso-
ci naie. Platone (eccetto nelle epìstole) non apparisce mai
- 464 —
h davanti a noi, né ci dà alcuna opinione come sua propria :
« egli è rinvisibile espositore di diversi caratteri che conver-
« sano fra loro in un certo numero di drammi distinti —
« ciascun dramma è un'opera separata, manifestante il suo
« proprio punto di vista, affermativo o negativo, coerente
« o incoerente cogli altri, secondo i casi » (p. 210-11).
Ma quando il Grote dal fatto della somma diligenza dei
discepoli di Platone nel conservarne gl'insegnamenti orali
e gli scritti, vuole inferire che eglino procedessero con eguale
diligenza neliescludere dalla collezione di codesti scruti tut-
tociò che non fosse opera del maestro, è impossibile se-
guirlo ni questa illazione. In un tempo in cui l'interesse
dottrinale prevaleva su quello dell'esattezza storica, in cui
si badava assai piiì ai contenuto di uno scritto , che non
alla sua origine , in cui era ignoto quello spìrito critico,
quella coscienziosità storica che noi moderni vantiamo, una
tale accuratezza, quale il Grote attribuisce agli antichi, ac-
cademici, non si può ammettere. I varii scolarchi e gh stu-
denti scrivevano anch'essi dei dialoghi, i quali, o- col nome
di Platone in fronte, o, più probabilmente, senza alcun nome
si venivano accumulando nella biblioteca della scuola, e vi
formavano una collezione, la quale sotto il nome di Platone
passò poscia da Atene in Alessandria. La munificenza dei
re Attalici e Ptolomei diede impulso alla pseudepigrafia (i),
e può spiegare come tanti dialoghi, che si erano venuti so-
praggiungendo alla genuina collezione platonica, sulla origine
dei quali non si faceva questione in Atene, siano venuti in
(i) E frequentemente citato a questo proposito il passo di Galeno in
Hippocrat. de humor. I, ^ 1, e de nat. hom. II. proem: év fàpTip Kurà
Toù? 'AxTaXtKoyij T£ kcI TrTcAepaiKOùi; paatXéa? XP'^vtp rrpò»; iXXriXoix; àv-
T»q)iXoTiuou|jévo\j<; ftepi K\r\<Si\ì}<^ p<jJÀ.t(uy i^ irépl ràc k-nv^pa(sà.c, tf koI òia-
CKEUiii; aOxLÙv ^pHaro -fìTveo'Sai ^aòiciupYÌa to\<; ?veKa toO Xapetv rtpTÙpiov
àvacpépoumv àq; toù^ paaiXéa; àvòpujv èvòóEiuv Q\)^-^p&]x\xai:<3..
— 465 —
Alessandria con quel gran nome in fronte. L'argomenta-
zione dei Grote non vale a provare che siano di Platone
tatti gli scritti che Aristofane e poscia Trasillo gli attribui-
rono nei loro catalogi ■ essa vale però a dimostrare che essi
sono antichi, che cioè appartengono, dirò così, al periodo
Ateniese della letteratura Socratico-Platonica. Questo risul-
tato si applica pure al Clìtofonte il quale da Trasillo è posto
fra gii autentici.
Ma con ciò non è ancor provato che il nostro dialogo
sia anteriore ai Memorabili di Senofonte, di guisa che
questi abbia potuto riferirvisi nel passo che abbiamo citato.
A provare questo assunto, o almeno a renderlo verosimile,
non ci occorre più alcuna ragione estrinseca e dobbiamo
star contenti alle ragioni intrinseche che si desumono dal-
l'indole e dal contenuto del dialogo stesso. Se si considera
che in esso si parla con irriverenza di Socrate, e si pone
in dispregio il suo inssegnamento morale, come affatto in-
sufficiente, si riconoscerà come assai improbabile che esso
sia opera di qualche falsario, il quale Fabbia composto col
disegno prestabilito di spacciarlo come scritto platonico. Un
falsario fornito di acuto ingegno (e acume d'ingegno non
poteva mancare alFautorf del Clitofonte) dovea facilmente
comprendere che per riu<;circ nel suo intento conveniva
conformarsi a quel tipo di carattere socratico e platonico,
che era in voga al suo tempo, e non già contrastarvi così
^icisamente come si fa nel nostro dialogo. Questo adunque
fu scritto con serietà e con convinzione, allo scopp di mo-
strare rinsufhcienza e la vacuità dell'i nsegnamento socratico.
Eccitamento a comporlo sembra essere stato alPautore la
reazione in favore di Socrate che incominciò poco dopo la
sua morte, e che raggiunse il suo più luminoso apogeo
nella rappresentazione ideale per non dire apoteosi che ^ece
Platone del suo maestro. « Dopo la morte di Socrate », dice
- -^ —
il valente illustratore dei Memorabili (i), « e non appena
« calmata la tremenda reazione della quale cadde vittima,
« fu naturale conseguenza della poderosa azione , da esso
« esercitata su la società del suo tempo, che sorgesse?© in
« gran numero relazioni, apologie, orazioni e scritture di
« ogni maniera su la sua vita, la sua dottrina e la morte
« sua. M Conseguenza non men naturale di questa m.uta-
zione deiropinione pubblica in favore di Socrate fu una
nuova reazione, direi quasi, critica, su tutto Tinsegnamento
del grande filosofo, uno sforzo a rendersi conto una buona
volta di ciò che era stato, di ciò che avea fatto quest'uomo
singolare, ed anche una tendenza a deprimere e a sfatare
quello che altri s''eran messi a glorificare più di quanto
meritasse. Fra ingegni così pronti, come gli Ateniesi, così
versatili, così aperti e sensibili a tutti i più svariati aspetti
della realità, era naturale che sorgesse taluno, il quale, an-
noiato oramai di tutto il romore che si faceva intorno al
nome di Socrate, dicesse seco medesimo: insomma, che cosa
vogliono questi Socratici che, dopo averci lasciati tranquilli
per qualche anno, ora ci son ripiovuti addosso coi loro
rimproveri, colie loro apologie, colle loro discussioni in-
concludenti e interminabili? A che queste nuove scuole di
filosofia a cui essi invitano la gioventù, disviandola da quelle
dei nosti'i grandi retori e sofisti, e dandole a credere che
solo presso di loro si possa imparare quel senno che li
renderà valenti nella vita pratica? Che cosa s'imparava da
Socrate di più e di meglio che da Lisia e da Trasimaco (2)?
Anzi che cosa sUmparava da lui? Nulla di concreto e di
preciso. Egli eccitava gli uomini alla ricerca della virtù, ma
(i) Dei detti e fatti memorabili di Socrate. Libri IV di Senofonte di-
chiarati da Eugenio Ferrai. Voi. 2^ in principio.
(2) Menzionati ambidue nel Clitofonte come preferibili a Socrate.
- 467-
non sapeva guidarvelì. Oh! aveva ben ragione di parago-
nare sé stesso ad un rafano (i) messo ad aizzare quel ca-
vallo generoso che è il popolo d'Atene; ma il cavallo ecci-
tato continuamente e non ben guidato imbizzarrì, e male
ne incolse all'insetto imprudente ed importuno. Fu un gran
male codesto, una solenne ingiustizia ; ma che farci ? Vi si
ripara forse coli aprire delle scuole, col pubblicar degli scritti
in cui non si faceva altro che ripetere le sterilì ed astratte
prediche di Socrate? Anziché inaridire le menti dei giovani
in tali nenie, non è egli meglio avviarli, sotto la direzione
di valenti sofisti, allo studio efficace di quella scienza in cui
anche Socrate av«a, come i sofisti , riposto l'essenza della
virtù, senza però rnai saperci dire in che consistesse Toggetto
di codesta scienza?
Questo soliloquio di un Ateniese di spirito (e quale Ate-
niese non ne aveva?) ridotto a dialogo ci dà il Cliiofonie.
Il quale adunque apparterrebbe, secondo il mio parere, alla
classe di quegli scritti che rappresentavano una reazione
contro la reazione operatasi in favore di Socrate. Alla
stessa classe apparteneva lo scritto con cui il retore Poli-
crate intendeva provare che la condanna di Socrate era stata
conforme a giustizia. Il Cobet (2) prova che la parte apo-
logetica dei Memorabili di Senofonte si riferisce allo scritto
di Pollerà te, anziché ai discor:>i degli antichi accusatori di
Socrate. Le prove del Cobet sono: 1^ il confronto del passo
dei Memorabili I, 2, 12 coll'elogio di Busiride indirizzato
a PoUcrate stesso, dove questi è ripreso da Isocrate come
un inetto accusatore, il quale volendo denigrare Socrate,
gli attribuì per discepolo Alcibiade, che nessuno avea mai
(i) r\i\V Apologia di Platone, Gap. XVIII.
(2) Is'oyae lectiones. Lugd. Batav,, i858, p. 662-682, cf Uebkrwkc,
Gesch., 1" theil, p. 94.
- 468 -
saputo che 'osse stato educato da lui, ma che tutti ricono-
scevano come un uomo superiore (n** 5)*, il che riusciva ad
encomio anziché a biasimo di Socrate. Se niuno, prima che
Policrate lo dicesse nella sua orazione, avea mai saputo che
Alcibiade fosse stato scolaro di Socrate, e se Senofonte (nel
I, 2, 1 2) si crede in debito dì discolpare Socrate dall'accusa
fattagli dairaccusatore (KairiTopo?) di essere stato maestro
di Alcibiade, e complice perciò di tutto il male che questi
avea fatto alla repubblica, ne segue per diritta conseguenza
che il KarriTopo^ a cui si riferisce Senofonte sia Policrate
e non già alcuno tujv fpau^aiixévujv Iujkputtiv menzionati in
principio dei Memorabili. 2° In un luogo dello Scoliaste alle
orazioni dì Aristide (voi. Ili, p. 408, ed, Dindorf) è detto
che Policrate rimproverava a Socrate Tapplicazione anti-
democratica del passo di Omero, //. II, 188, segg. Ora Se-
nofonte (1, 2, 5S, 59), ceroa appunto dì discolpare Socrate
anche da questa taccia, delia quale non si trova alcun cenno
neirapologia di Piatone. 3° Non è verosimile che l'accusa
concernente le relazioni di Socrate con Alcibiade si trovasse
già nell'antico atto d'accusa sostenuto da Anito, o nei di-
scorsi fatti dagli oratori per isvilupparlo, perchè Anito era
stato amico di Alcibiade. Così stando la cosa, è probabile
che Senofonte solo cinque o sei anni dopo la morte di So-
crate abbia posto mano a scrìvere i Memorabili collo scopo:
i" di dissipare le accuse antiche che si tentava di ravvivare
contro di lui, e le nuove che erano state messe in campo
dai retori; s° di mostrare, contro l'asserzione di Clifofonte
e degli altri accennati nel I, e. 4, i dei Memorabili, che
finsegnamento socratico non era così vacuo, cosi astratto,
così predicatorio, come essi dicevano, ma dava un buon
indirizzo pratico ai suoi famigliari. Il Cliiofonte sarebbe
stato scritto qualche anno dopo la morte di Socrate, ma
prima dei Memorabili. Chi confronta il vivace racconto
— 469 —
óqW Anabasi colla disordinata e spesso troppo vaga esposi-
zione del Memorabili^ riconoscerà come probabile che Se-
nofonte, di ritorno dalla sua famosa spedizione, abbia posto
mano a scriverne la storia, e che solo dopo questa, eccitato
dall'amore della verità che si tentava di offuscare, dalla
pietà ed ammirazione verso il suo maestro, si sia accinto a
scriverne Tapologia e a raccogliere le note che egli probiibil-
mente si era prese delle conversazioni socratiche,
III.
Per soddisfare alla terza questione propostami : quale sia
la significazione dei Clito/onle, come anche per compiere la
dimostrazione di alcuni dei precedenti asserti, non credo di
poter far meglio che soggiungere qui la traduzione del dia-
logo, corredandola di alcune note.
OLITOFONTE
^Personaggi del 'Dialogo: Socrate e Gutofonte^
(EdJr. Steph. Ili, pag. 4o6J.
I. Qualcuno ci narrava poco facheClitofonte figlio di Ari-
stonimo, discorrendo con Lisia, biasimava il trattenersi con
Socrate, e lodava a cìelo il conversar con Trasimaco.
Clit. Chiunque sia stato il rapportatore, o Socrate, egli
non ti riferiva esattamente i discorsi da me tenuti intorno
a te con Lisia. Imperocché alcune parti io lodava in te,
alcune altre no. Ma posciachè è chiaro che tu Thai con
- 470 -
me, pur fingendo di non curartene (i), con grandissimo
piacere ti ripeterei que' discorsi , tanto più che siamo soli,
affinchè tu cessi di credere che io sia mal disposto verso
di te. Imperocché ora forses, per avere inteso male, tu sei
alquanto esasperato contro di me , a quel che pare. Se
adunque tu rni concedi facoltà di parlarti liberamente, io il
farò molto volentieri.
SocR. Ma davvero che sarebbe una vergogna se, mentre in
ti studii di giovarmi , io non mi prestassi alla tua buona
volontà : imperocché è chiaro che quando tu mi avrai fatto
conoscere in quali parti io riesco meno bene, e in quali
meglio, mi atterrò a queste e in queste m.i eserciterò, smet-
tendo a tutto potere quelle altre.
(Ed. Steph. in, pag. 407}.
II. Clit. Ascolta adunque. Trovandomi teco, o Socrate,
spesse volte mi sentiva scosso in udirti, e mi pareva che tu
parlassi meglio degli altri, ogni qualvolta rimbrottando gli
uomini, come un Dio dall'alto della macchina teatrale, in-
tonavi loro queste parole (2) : dove correte, o uomini, in-
consapevoli di non far nulla di ciò che far dovreste, voi
che ponete ogni vostro studio neiradunar ricchezze^ e in-
tanto trascurate i figli a cui le lascierete, e non pensate a
far si che essi sappiano poi usarne giustamente, né cercate
loro dei maestri di giustizia, se pure è insegnabile : se poi
(i) TrpooTToioù|a€vo? 6è ixr\biv tppovTi'Z^eiv. Ecco delle parole che Pia-
tone non avrebbe mai messe sulle labbra del personaggio che sosiiere
in questo dialogo la parte principale, e ii cui discorso forma tutta la
sostanza, del dialogo.
(i) Piatone non avrebbe mai rappresentato Socrate come un Deus
ex machina ■ egli sapeva che Socrate non faceva prediche né si rivol-
geva alle masse, agli uomini in generale^ ma all'uomo individuo e lo
chiamava a rendersi conto dei pensieri, delle opinioni spesso, a sua
insaputa, contradittone, che egli accoglie in m.ente.
-4*71 -
la è cosa che s'acquisti per via di esercizio, avete torto di
non cercare chi li eserciti a sufficienza: e già prima nepr
pure a voi stessi avete procurata siffatta cultura, ma vedendo
voi stessi e i figli vostri baste volmente istruiti nel leggere e
scrivere, nella musica e nella ginnastica, la quale istruzione
eraj a vostro credere, una compiuta educazione alla virtù,
in seguito, sebbene vi trovaste non meno malvagi, quando
si tratta di denari, tuttavia non volete riconoscere, quanto
poco valga Tattuaie sistema di educazione, ne cercate chi vi
tolga la vostra rozzezza. Eppure egli è questo fallo e questa
noncuranza, e non già Timperizia del piede a misurare i
suoi movimenti al suon della lira, la causa per cui e fratello
con fratello e città con città comportandosi in modo dismi-
surato e disarmonico, insorgono Tuna contro Taltra-c guer-
reggiandosi si fanno soffrire a vicenda estremi mali. E voi
dire che non per ineducazione o per ignoranza, ma per pro-
pria volontà gl'ingiusti sono ingiusti. E con tuttociò non
esitate poi ad affermare che l'ingiustizia è cosa brutta e odiosa
agli Dei: come mai adunque, e qual uomo al mondo po-
trebbe eleggere volontariamente un male cosiffatto ? — Un
uomo (i), rispondete voi, che sì lasci vincere dai piaceri. Or
non è involontario anche questo, se pure il vincerli è volon-
tario? Di guisa che in ogni caso la ragione ci costringe ad
ammettere che il fare ingiustizia è involontario, e che con-
viene che ciascun privato e ciascuna città ponga maggiore
studiò che ora non si pone alla propria cultura.
III. Quando adunque ti sento dire e ripetere sovente tali
[i) Il greco dice nòi^ oCv ^f^ n; rò ye toooOtov KaKÒv èkc[)v atpott*
fi-*; i\muv 8; fiv ì\ (paté, tiJìv i^bovibv. Vi ha qui una incoerenza fra la
domanda e la risposta, alla domanda: conte mai urto potrebbe ecc.<'
SI risponde: colui il potrebbe, il quale scc. come se la domanda fosse
stata: chi mai potrebbe ecc.} per togliere questa incoerenza ho aggiunto
la domanda- qual uomo ecc. '^
-472-
cose, o Socrate, io ti approvo e ti ammiro, e non rifinisco di
lodarti. E quando, continuando il discorso, soggiungi che co-
loro che esercitano i corpi e trascurano l'anima, con ciò non
fanno altro che trascurare la parie che è chiamata a coman-
dare, e curar solo quella che è destinata ad ubbidire: e
quando affermi che d'una cosa che non si sa usare è meglio
smettere l'uso, epperciò se uno non sa far buon uso degli
occhi o degli orecchi, o di tutta la persona, per costui il non
udire, U non vedere, il non far nulla della propria persona
è meglio che il servirsene pur che sia : e che lo stesso è da
dire rispetto ad un* arte.
(Ediz. Steph. Ili, pag. 4oS).
Imperocché chi non sa servirsi della propria lira, è
chiaro che non sa che farsi neppur di quella del vicino,
e chi non sa adoperare quella di un altro, non sa neppure
adoperare la sua *, e dicendo lo stesso di ogni strumento od
arnese che si possegga, conchiudi ottimamente il discorso,
affermando che chi non sa adoperare l'anima sua, è. meglio
per lui il lasciarla inoperosa e non vìvere, anziché vivere
operando a suo capriccio. Che se gli incomba qualche ne-
cessità di vìvere, sarà megUo per un uomo tale, il passar
la vita in condizione di servo anziché dì libero (i), affi-
dando, per cosi dire, il timone della nave, cioè il governo
della propria volontà, ad un altro, ad uno cioè che abbia
imparato quell'arte di governare gli uomini, che tu sei solito,
(i) Un pensiero analogo a questo trovasi nei Memorabili (I, 5, 5-,
dove Socrate dice che chi è schiavo dei piaceri deve supplicar gli dei
che lo facciano capitare salto buoni padroni. Ma questa consonanza non
prova che l'autore del Clitofonte abbia avuto sotto gii occhi t Memo-
rabili, ma solo che, e questo autore e Senofonte serbavano memoria
di un medesimo detto socratico. Ho tradotto ÒMli/oia per volontà, si-
gnificando la bióvoia non solo il pensiero speculativo, ma anche il pra-
tico, e qualche volta Tanima stessa contrapposta ai corpo.
— 473 -
o Socrate, chiamar politica, e che affermi esser tutt'uno colla
giudiziaria e coila giustizia.
IV. A questi discorsi adunque e ad altri innumerevoji con-
simili, come per es. che la virtù è insegnabile, e che ognuno
deve soprattutto attendere alla coltura di sé medesimo, io
guari non contradissi mai, né credo di avere a contradirvi
in avvenire: sono discorsi veramente belli, ed io li trovo
efficacissimi a convertire gli uomini, e molto giovevoli, come
quelli che noi quasi addormentati riscuotono dal nostro
sonno. Ma io stava attento nella speranza di udire ciò che
viene in seguito, e ne interrogava non te stesso, o Socrate,
da principio, ma quelli che tu tenevi in maggior conto fra
i tuoi, non so s'io dica compagni d"*età o di aspirazioni, o
consorti, o con qual altro nome abbia a chiamarsi la rela-
zione che essi hanno teco. A costoro pei primi io mi ri-
volsi, domandando loro qual fosse il discorso che tu facevi
seguire ai già detti, e, imitando la tua maniera, li metteva
sulla via di rispondermi. O valentuomini, diceva io loro,
questi discorsi con cui Socrate ci vuol convertire alla virtiì,
come mai li dobbiamo noi accogliere? Come se tutto finisca
pure in questo, ne mai ci sia dato di metterci all'opera, e
venirne a capo? Come se il compito nostro per tutta ia
vita abbia ad essere questo solo, di convertire alla virtù i
non ancor convertiti, affinchè questi alla lor volta ne con-
vertano degli altri, e così via via? Oppure, rimasti oramai
d'accordo su questo punto, che l'uomo deve cercar la ^\u-
stizia, conviene che in seguito domandiamo a Socrate, e a
noi vicendevolmente: e appresso? Come si ha da incomin-
ciare l'apprendimento della giustizia? A quel modo che se
alcuno, vedendoci affatto trascurati in riguardo al corpo, a
guisa di fanciulli che non sanno neppure che esista un'arte
ginnastica e un'arte medica, ci esortasse a pensarci , e per
farci arrossire della nostra trascuraggine ci diccs.*^e esser
Tifvista di filologia ecc., I. 33
~ 474 -
cosa vergognosa il prendersi ogni cura del frumento, del-
Torzo, della vite e di tutte le cose che si procacciano con
tanto travaglio, e iì acquistano in servigio del corpo, e non
cercare aicun'arte, né mezzo per far si, che questo corpo
sia in eitimo «tato, e ciò mentre una tale arte esiste -, e se
noi domandassimo a chi ci fa codeste esortazioni : che arti
sono queste che tu dici? risponderebbe forse che sono la
ginnastica « la medicina. Or bene che arte diciamo noi che
sia questa, che ha per oggetto la virtù dell'anima '<' Ce lo dica
alcuno di voi.
(Ediz. Steph. IH, pag. iog).
V. Quegli adunque fra loro, che pareva il più valente in
queste cose mi rispondeva essere appunto quell'arte che
suol dire Socrate, cioè la giustizia. Io insisteva: non dir-
mene soltanto il nome, ma procedi a questo modo: v'ha
un'arte che si chiama medicina, si è vero? Di questa due
sono le produzioni: Tuna consiste nel formar sempre nuovi
medù:i, oltre a quelli che già esìstono; l'altra è la sanità;
questa seconda poi non è più arte, ma opera dell'arte in-
segnante o insegnata. Parimenti dell'arte costruttoria doppio
è ii prodotto , la casa e la preparazione dell'arte stesse ,
l'opera e l'insegnamento. Dicasi adunque io stesso della
giustizia: una delie 3ue funzioni sarà il formare uomini
giusti, come eiascun'altra arte forma i suoi artefici; ma
l'altra funzione, cioè l'opera che l'uomo giusto è atto a
produrci, quale diremo noi che sia? •— Quegli, se ben mi
rammentOj mi rispondeva essere l'utile, un altro il conve-»
nevole, un terzo il giovevole, un quarto il tornaconto. Ma
io ritornava a' miei esempi : anche in quelle arti sono in
uso queste espressioni; l'operare rettamente in ciascuna di
esse si chiama fare il convenevole, l'utile, il giovevole, e va
dicendo ; ma ciascun'arte sa poi dire il proprio particolare
— 475-
scopo a cui questa convenienza, questa utilità si riferisce,
come per es. Tarte del falegname dirà che per lei il bene,
il bello, il convenevolmente operare è quello che serve alla
produzione di suppellettili di legno, le quali certo non son
più arte. Ci si dica in modo analogo qual è lo scopo (i),
qual è Topera della giustizia?
VI. Da ultimo uno di que' tuoi amici, o Socrate, il quale
invero sembrò che più acconciamente parlasse, rispose che
Topera propria della giustizia, opera che non è di nessuna
(i) L'importante di questo dialogo sta nella critica che vi si fa del
principio fondamentale della morale socratica, secondo cui la virtù
consiste nella scienza. La virtù {àpcTf\, òiKUioauvri, usando questo vo-
cabolo, come fa quasi s«npre Platone, non già nel senso di una y^ar-
ticolare virtù, ma della virtù per eccellenza, che comprende in sé tutte
le virtù) non è altro che l'esser valente nel fare le cose che sono proprie
dell'uomo, come la virtù, la valentia del medico consiste nel are le
cose proprie del medico : ora come nell'esercizio di tutte le arti spe-
ciali ia valentia dipende dalla perizia, così pure la virtù, la valentia
propria dell'uomo come uomo. Socrate ragionava in questo modo
(Sjtnof., Mem. IH. 9, IV. 6, 6.,cf. Laches. p. 194 D): La virtù, la bontà
(nel senso etimologico delia parola) consiste nel far cose buone e belle:
essa è quella qualità senza di cui non si possono far cose buone , e
posta la quale si fanno immancabilmente. Ora la scienza è appunto
una qualità così fatta, giacché colui che sa quali cose convenga fare,
non può giudicare che convenga farne altre, né determinarsi a farne
altre (nel linguaggio rosminiano si direbbe che il giudizio pratico non
pu& essere contrario al giudizio speculativo: dico nel linguaggio, non
nel sistema rosminiano, poiché il Rosmini non accetta il principio
socratico, e fa consistere l'immoralità nella discordanza fra il giudizio
pratico e il giudÌ2Ìo speculativo)} e colui che non sa, di necessità cade
in errore. Dunque la virtù s'immedesima e si concreta nella scienza.
Onde diceva essere impossibile che, trovandosi nell'uomo la scienza,
qualche altro principio potesse dominarlo e trascinarlo come schiavo,
e riguardava la scienza come Invincibile ddminairice di tutto l'uomo
(Abistot., Eth. Nic. VII. 1, Eth. Eud. VII, i3). - Ma qual è il conte-
nuto, reggette di questa scienza che chiamasi virtù umana? 11 ben?.
— Ma che cosa è il bene? è il vero preso come norma dell'operare. Ma
qual vero? Forse il vero aritmeMco? un calcolo esatto sarà dunque
un'azione virtuosa, come un atto di giustizia? Queste erano le difficoltà
che sorgevano contro il principio di Socrate. Egli non riusciva a de-
— 476 —
delle altre arti, consisteva nel produrre anaicizia in seno
alle cÀttk. Questi poi, ad ulterior domanda fattagliene, ri-
spose che Pamicizia è sempre un bene e non mai un male:
quanto alle amicizie verso i giovinetti ed a quelle verso i bruti,
alle quali si dà pur questo nome, egli, rispondendo ad una
nuova domanda, negò che fossero amicizie; imperocché
dairammettere che il fossero gliene derivava la conseguenza
che le amicizie per la maggior parte fossero piuttosto dan-
nose che buone (i). Volendo adunque evitare questa con-
terminare ulteriormente il concetto della virtù morale, e per isfuggire
alia difficoltà talvolta poneva come oggetto di quella scienza la legge
positiva dello stato, come quando diceva che il giusto ò ciò che è le-
gale {Mem. IV. 4, 12), e inculcava che in fatto di religione conviene
attenersi alia legge deila città. Talvolta poi poneva le esigenze dell'in-
teresse bene inteso come oggetto di quella scienza, « Non conosco alcun
bene che non sia bene relativamente ad gJtro» [Mem. ITI. 8, 4). « Il
buono non è altro che il giovevole » (ivi, IV, 6, 8). Onde egli prova
che ia malvagità è involontaria, perchè niuno si appiglia volontaria-
mente al proprio danno. I motivi che egli adduce di ossen,'are i pre-
cetti morali sono sempre desunti da considerazioni di utilità. Così noi
dobbiamo guardarci daila millanteria perchè questa è causa di danno
e di vergogna. Dobbiamo star concordi coi fratelli, perchè ò cosa da
stolto l'adoperare a proprio danno quello che ci tu dato come aiuto.
Dobbiamo studiarci di acquistar buoni amici, perchè un buon amico è
la cosa più. utile che si possa avere. Dobbiamo sobbarcarci alle faccende
dello stato perchè il benesser delio stato ridonda anche a vantaggio degli
individui. Dobbiamo ubbidire alle leggi, perchè ciò è il partito più utile
e per noi e per lo staio. Dobbiamo astenerci dal fare ingiustizia, perchè
la pena colpisce sempre l'uomo ingiusto. Dobbiamo insomma praticare
la virtù, perchè questa ci procura i maggiori vantaggi e dal canto degli
Dei e da quello degli uomini. Il Socrate senofonieo è recisamente uti-
litario (Zeixer, Die P/zj'/o^ojp/zje rfer Gnei:/!e«, II. TheiL p. lOi-ioS). E
tali sono pure i socratici messi in scena nel nostro dialogo. Ma Clito-
fonte osserva che anche il concetto dell'utile è vacuo ed astratto, e non
vale a discernere quella scienza speciale che è la giustizia, da ogni altra
scienza. Convien dire a quale scopo si riferisca l'utilità che quella pro-
cura: ed è ciò che si cerca di fare negli ultimi due capi del dialogo,
(i) Nel codice VV deila biblioteca angelica dell'ord. erem. di S. A-
gostino in Roma, citato da Bekker, manca il tò? ToiaCrac. Invece di
queste parole io leggo xàc, cpiXia*;, perchè nella lezione volgata il ra-
— 477 —
seguenza, diceva che q lelie non erano neppure amicizie, e
che a torto si dà loro, questo nome da coloro che amicizie
le chiamano. Quella che è realmente e veramente amicizia,
diceva egli, è evidentemente concordia. Interrogato poi se
questa concordia fosse secondo lui un concorde opinare, od
un sapere, rigettava con disprezzo il concorde opinare,
poiché di siffatti accordi d'opinioni molti si trovano che di
necessità sono dannosi, laddove s'era ammesso che T'amicizia
fosse assolutamente un bene, opera come essa è della giu-
stizia. Laonde affermava esser tutto uno l'amicizia (i) e la
concordia, ma questa concordia consistere nella scienza e non
neiropinione.
(EdÌE, Steph. Ili, pag. 4 io).
Quando però ci trovammo a questo punto della discus-
sione, gli altri che vi si trovavano presenti davano addosso
al mio interlocutore, e sapevano benissimo rimostrargli come
il discorso fosse sdrucciolato sulle peste dei precedenti.
Anche la medicina, dicevano essi, è una concordia, come
ziocinio non corre. La proposizione che atnieì:(ie siffatte, cioè le sen-
suali e brutali, siano dannose, non era quella che conseguiva (auvépaive)
dalle premesse, ma era anzi una delle premesse, presupposta come ve-
rità evidente, D'ahronde siccome amicizie siffatte sono tutte e sempre
dannose, non a^rebbe alcun senso il xà iiXeCu). Il raziocmio compiuto
si potrebbe esprimere così: Le amicizie sensuali e brutali sono sempre
dannose; ma tali amicizie sono le più frequenti; dunque si può affer-
mare, Tà TtXeiu) 'còlc, (piXlac; pXaPepàq fi é-faeàc; eTva», che cioè le amicizie
siano per la nmggjor parte dannose ; conclusione che ai Socratico, che
qui discute con Clitofonte, importava sommamente di eyitaré, come
quella che distruggeva la tesi da lui stabilita, che l'opera propria della
giustizia &ia l'iimicizia prodotta in seno alle città; poiché la giustizia,
cosa essenzialmente buona, non può produrre cosa che sia or buona
ed or cattiva, anzi più spesso cattiva che buona.
(i) La volgata dà cTvai ó|ji6voiav koI èmOTriM»lv oOaav. Dalla quale le-
zione non si ricava alcun costrutto. C. F. Hermann propone l'inser-
zione del vocabolo òiKaioaóvriv dopo il Kal , leggendo i taùròv fqpnocv
__ 478 -
altresì ogni altr arte, e ognuna di esse ci sa dire intorno a
che cosa ella sia concordia. Ma quell'arte che tu chiami
giustizia o concordia, a che miri, non s'è riusciti a coglierlo,
e ci rimane ignoto quale sia Topera sua.
VII. Da ultimo, o Socrate, io ne domandava anche aie, e
mi dicevi essere proprio della giustizia il far del male ai
nemici e del bene agli amici (i). Ma poscia si riconobbe
che, quanto a male, il giusto non ne farà mai a nessuno.
Imperocché tutti fanno a fin di bene tutto ciò che fanno (2).
dvai ó^óvolav koì èiKatooOviiv, èmaTriMviv oOoav. Ma il senso richiede
che si supplisca qpiXiav, e non òiKCioaùvriv. Imperocché la questione è:
in che si concreti quelFamicizia che è opera della giustizia? Il Socra-
tico risponde che si concreta nella concordia, e non in qualsisia con-
cordia, ma in quella che deriva da scienza. Secondo la lezione di Her-
mann qui si affermerebbe come conclusione della discussione l'identità
fra la giustizia e la concordia. Ma se la concordia (óuóvoia) è il con-
cetto più particolare in cui si concreta il concetto di cpiXic. ; se la
q>tX{a è l'opera, il prodotto proprio di quell'arte speciale che è la giu-
stizia, e se, come ripetutamente si è avvertito da Clitofonte , il pro-
dotto di un'arte non è più arte, come mai l'amicizia o la concordia
può affermarsi identica colla giustizia? La ragione allegata da Hermann
a conforto della sua lezione, e che consiste nel dire che più sotto si
trovano accoppiati i due vocaboli òiKaioaùviiv f^ ó|uóvoiav, non ha va-
lore, perchè tale accoppiamento non produce quivi un controsen&o
taiito evidente, quanto quello che nascerebbe dalla lezione da lui
proposta.
(i) « Tu sai che la virtù dell'uomo consiste nel vincere gli amici
facendo loro del bene, e i nemici facendo loro del male. » Così parla
al suo amico Critobulo il Socrate senofouteo [Mem. II. 6, 35), espri-
mendo il modo di pensare degli uomini del suo tempo e della sua
nazione. Ma il Socrate platonico fa assoluto divieto di render male
per male o di difendersi dall'ingiustizia coll'ingiustizia. V. Critone, p. 49.
(2) Anche qui c'è qualche lacuna. Poiché la proposizione ndvra tàp
èir' iÌjq)eXei(;! iràvraq òpóv, è soltanto una premessa del raziocinio con
cui si provava che l'uomo giusto non può far male a chicchessia, razio-
cinio che poteva essere del seguente tenore : Ognuno fa a fin di bene
quello che fa. Se adunque alcuno fa male, il fa per ignoranza. Ma
l'uomo giusto è l'uomo peritb in quella scienza che versa circa il bene
e. il male. Egli adunque, in qaanto è giusto non ignora, né erra mai,
né quindi può fare alcun male.
-- 479 -
Queste cose ricercando io non una né due volte soltanto,
ma per lungo tempo e con grand? perseveranza, ho infine
perduto la pazienza e mi rimasi colla persuasione che tu
riesca meglio di chicchessia nell'opera di convertire gli uomini
ai culto della virtù, ma che del resto sia vero l'uno dei due:
o che tu sai fare solo questo, e nulla più; il che può ac-
cadere anche in qualsivoglia altra arte, come per es. può
accadere che chi non è nocchiero abbia tuttavia meditato
l'encomio dell'arte nautica, nel quale dimostri in quanto
pregio ella meriti di esser tenuta dagli uomini; e così di
ogni altra arte. Lo stesso adunque potrebbe uno credere di
te, per ciò che riguarda la giustizia, che cioè Tessere tu
così eloquente nel l'encomiarla non provi punto che tu ne
abbia la scienza. Io però non dico questo, ma dico che
Tuno dei due deve essere; o tu non hai la scienza, o non
vuoi communicarmela. Perciò io me ne anderò co' miei
dubbi da altri, anderò anche da Trasimaco, posciachè tu
non fai quello che pur potresti fare, volendo: cessare cioè
da questi tuoi discorsi esortatorii, trattarmi come tratteresti
uno già convertito allo studio della ginnastica, già persuaso
che non si deve trascurare il corpo : con costui tu smetre-
l'x^sii certamente le esortazioni; e procederesti a mostrargli che
ad un corpo tale quale egli lo ha da natura, è confacente
Un tratiamenro tale o tale. Or dunque, fa ragione che CU-
tofonte ti si confessi convinto che è cosa ridicola il pren-
dersi cura di tutto il resto, e dell'anima, in prò della quale
ogni altra cosa si ricerca, non darsi alcun pensiero : e così
tutto il resto che viene in seguito, fa conto che io te l'abbia
dettOj e procedi con me. te ne prego, come faresti con
quell'altro della ginnastica , affinchè io, parlando di te con
Lisia o con altri, non abbia più, come adesso, a lodare in
Te certe parti e certe altre a riprendere, e a dire che, con un
uomo non ancor convertito, Socrate vaie un tesoro, ma con
- 480 --
chi è già convertito, beh lungi dalFessergii utile, gli è ben
anco d'impedimento al conseguire la perfezione della virtìi
e al viversi beato. .
Torino, mar^c, l873.
G. M, Bertini.
CENNI SULLA SINTASSI
^D.ELLA LIV^GUA G%ECA{i).
IV.
Tatto quanto siamo venuti dicendo intorno allo indirizzo,
voluto dare alla Sintassi greca da Raffaele Kùhner, si può
riassumere in questo concetto : — essere cioè affatto arbi-
traria e violenta quella trattazione sisiematica della Sintassi
speciale delia lingua Greca, contraria affatto, non pure ad
ogni tradizione — ciò che non sarebbe ancora una bestem-
mia — ma eziandio ad ogni ragione grammaticale e storica,
e, ciò che più monta, opposta ai risultamenti più incon-
testati e sicuri della indagine linguistica. — E ci tardava
assai di additare questo vizio radicale, onde è affetta quella
opera, pure degna di studio e di esame per molti rispetti,
allo Jacopo di mostrare, come noi non siamo ammiratori
ciechi di tutto, che viene d'oltremonte, massime di Ger-
mania I sentenza codesta pur ovvia, ma non sempre voluta
intendere dagli avversarli più ostinati d'ogni novazione, ai
quali quello, che ne' libri degli stranieri v'ha di più erroneo
e fallace serve di pretesto ad estendere il biasimo contro
tutto che venga dal di fuori , sia pure corretto e conforme
a ragione. — A questo proposito anzi ne giova di ricordare
il giudizio sommario, che il Kriìgsr, sino dall'anno 1843,
(.») Vedi fascicolo 7», pa^. 3oi-3io, fascicolo 8°, pag, 341-365.
— 4SI —
nel quale dava fuori la sua Grammatica Greca, pronunziava
intorno a] sistema, allora nuovissimo, dei Kiihner. — « Uno
« dei metodi più recenti — così il Kriiger nella introduzione
« alla Sintassi — l' immortale, come ogni filosofia tedesca,
« ripartisce e tratta la Sintassi non già. secondo le forme
« della lingua, ma giusta le forme del pensiero : esso scam-
« bia la grammatica colla logica I tentativi fatti allo
« scopo di adattare questo metodo alla Grammatica Greca,
a sono evidentemente sbagliati. L' ordinamento, condotto
« sulle orme, che ne addita il genio della lingua, s'impone,
K per legge quasi di necessità interiore, si fattamente, che
« quello strano metodo ne si presenta dovunque siccome
« una veste che non s'attaglia al dosso. — Effetto di ciò,
« una figura storpia e rattrappita^ in luogo di un ordina-
« mento sintattico, una sintassi disordinata. » — Ma basti
di ciò. —
Dei resto la storia moderna, come a dire, della Gram-
matica della lingua Greca, risale, in Germania, a Godofredo
Hermann, cioè agli ultimi decennii del secolo scorso, e ai
primi anni del presente. — Abbattuto V empirismo della
scuola Olandese, rappresentato ddXV Hemsterhuis (i685-
1766), dal Valckenaer {\']ib-\']^b)^ dal Lennep (1724-1771)1
VHermann colla scrittura, che intitolò De emendanda ratione
grammalicix grcccce (Lipsia iSoi), dischiuse la via alla
trattazione più razionale della lingua.
Però la grande opera di riforma, iniziata dall'Hermann^
era più intesa a trarre l'etimologia di sotto all'arbitrio de-
gli Olandesi, e de' loro settatori di Germania. Era un primo
passo sulla grande strada maestra, che la indagine compa-
rativa dovea più tardi spianare completamente. — Quanto
alla Sintassi l'opera di quel grande maestro non parve di
subito così fruttuosa-, ma il grande esempio, pòrto da lui,
della osservazione attenta dell' uso della lingua nelle opere
- 482 -
de' classici, de' riscontri, della severa critica del testo, e so-
prattutto io a^e^ statuito il dialetto attico a fondamento
dello studio serio e ordinato del greco, dei quale egli il
primo rilevò le fattezze germane e native e le movenze:
tutto ciò, diciamo, fu di sommo e capitale rinomento a fon-
dare una dottrina delia Sintassi, che non paresse più un
giuoco di que' pretesi invcntores constitutoresqiie sermoms,
che sì largo pascolo aveano offerto agii alchimisti della gram-
matica nel secolo passato. — La base, non foss'altro, della
indagine e delio siudio era trovata — l'uso reale e concreto
della lingua. Al quale studio, come s'aggiunsero le nuove
idee intorno alla natura e alla vita della lingua, anche la
Sintassi è potuta sollevarsi a dignità scientifica sull'incrolla-
bile e sicuro fondamento delle forme. — L'aver trascurato
l'uso della lingua negli scrittori avea condotto ai pernicioso
andazzo di fabbricare certe forme, secondo un'analogia af-
fatto arbitraria, le quali ne' monumenti della letteratura
Greca dei tempi migliori non esistono al tutto. Cosi ad es.
nelle grammatiche Greche, che prima dell'Hermann anda-
vano per la maggiore , s'incontrano forme , come léivixa e
TÉTucpa, come perfetti di tiìtttuì, che in nessun autore si tro-
vano. E perchè dunque costringere gli scolari ad impararle?
Ciò vuol dire come volerne sapere più degli antichi Ate-
niesi, come dice argutamente il Curtius (Comm.^ pag. 1 14,
Mùll.)^ mentre il solo Polluce registra una forma TCTiiTTTTiKa
(Vedi Kriiger, Gramm, Greca I, § 40). — E molti esempi
si potriano recare innanzi a dimostrare, come il seme git-
tate dall'Hermann fosse fecondo di utili osservazioni anche
sul campo della Sintassi. — Il Buttmann ad es. {Ausfuhrl.
Gramm. U, 85), che segue dappresso all'Hermann, aveva
osservato come la lingua Greca abbia una particolare pre-
dilezione per la forma media del futuro, che il Kriiger
poi chiamò dinamico (Gramm. Gr. I, Sg, 12, 1.2. 3*, H,
- 463 —
53, $), cioè che esprime un'azione d'un modo o meramente
esterno, o che proviene dalla forza interna del soggetto. —
La è codesta una osservazione, che ha un grande valore per
la Sintassi. — E cos?^ quanto 2\\Si foì^mapone delle parole,
già il Buttmann ne avea accertata quella legge, che il Lobeck
chiamava il regium pr'ceceptutn Scaligeri (ad Phrynichmn,
pag. 56o), non potere cioè, rispetto al verbo, aver luogo,
nel greco, altro modo di composizione, che co//:i preposi-
zione; altramente il verbo cangia natura. Tanto che, ad
esempio, lo Sc£^ligero diceva, che e\ja*rré>iXuj non poteva es-
sere un verbo greco (Cfr. Curtius, Comm., pag. 148, Muli.).
— E pc:r rispetto ai temi doppi» il Buttmann, sino dal suo
tempo , cioè molto prima che gli studi della linguistica ve-
nissero applicati alla grammatica speciale del greco, aveva
riconosciuto, che essi sono il punto di partenza, per giun-
gere ad un ordinamenio delle anomalie del verbo greco,
dicendo, che la maggior parte di esse nasce dalla mesco-
l^n2;a di forme, che presuppongono temi diversi (Confr.
Curtius, Comm.f pag. 86, Miiller). — Queste cose abbiamo
voluto ricordare, perchè si comprenda ancora una volta e
per ^Itre vie, come lo studio piià accurato e più ragionevole
della Sintassi fosse possibile soltanto in seguito ad un piià
attento esame delle forme.
Augusto Matthice (i) dette il primo un ampio svolgi-
mento alla Sintasai Greca, sulVorms segnate dall'Hermann,
cioè colla scorta della osservazione diligente ed attenta del-
Tuso concreto della lingua. — « Fu principale mia cura —
così egli scrive nella introduzione alla grammatica — di
iy disporre tutte queste osservazioni suUa lingua Greca giusta
(t) Ausfuhrliche Grammatiky Lipsia, 1807. — Questa grammatica fu
recata in italiano da Amedeo Peyron, e pubblicata in Torino l'anno
1^3 coi tipi della Stamperia Reale,
— 484 -
« la naturale loro connessione, ed i fondsmentaii e primi
« principii, per quanto essi deternninare e stabilire si pote-
« vano nel considerare in generale la lingua come materia
f( d' un fatto storico , e non di specula^io?ic dedotta dalla
K esperienza « (pag. 17 della versione del Peyron). — Lo
sforzo di collegare in una cotale unità i fatti della lingua,
che l'osservazione gii andava profferendo via via, apparisce
evidente dall'insieme del lavoro. — « Nello studio del Greco
« - seguita a dire nella prefazione - è particolar dovere dello
«( indagatore filologo il rintracciare i vari individui casi se-
te condo i primi principi!, che loro servono di comune fon-
« damento, ed il semplificarli senza proporre altre conghiet-
<( ture da quelle in fuori, le quali si deducono dai latti, 0
« possono coi fatti dimostrarsi » (p. 18, Peyron).
Il metodo di trattazione, seguito dal Matthiee, è quello dei
grammatici antichi , greci e latini, nell' ordinamento della
Sintassi, uno studio cioè del significato e deiTuso delle parti
del discorso, che ia prima parte della grammatica — Tetì-
mologla — ha esaminato e chiarito in ordine alla forma. —
Non sarà fuor di luogo l'allegare il titolo de'varii capitoli
per ordine. — Dell'Articolo (§§ 262-291). — Del Nominativo
(§§ 2g2-3ii). — Del Vocativo (§§ 3i2-3i3). — Del Genitivo
(§§ 3 14-380). —Del Dativo (§§ 38 1 -404). ~ Dell'Accusativo
— Degli Aggettivi — Dei Pronomi — Del Verbo (§ 490,
segg.) — Dei Tempi e Modi — Dell'Imperativo (§ 5i i). — Del-
l'Ottativo e Congiuntivo (§ 5 12, segg.): a) DelVOttaiivo e
Congiuntivo nelle proposizioni astratte (semplici); b) Del-
l' Ottativo e Congiuntivo nelle proposizioni dipendenti
(composte), ovvero dopo le Congiunzioni — Dell'Ottativo
nella Oratio obliqua (§ 529) — Dell' Infinito — Del Par-
ticipio — Delle Preposizioni.
Dalla sola lettura di questo indice della materia è agevole,
ne pare, il Vedere, quanto siamo lontani ancora dal con-
-485 —
certo della Sintassi , quale ci è pòrco dalle migliori gram-
matiche più recenti. La è un'immensa congerie di osserva-
zioni, desunte alla lettura de' Classici, ma lo spirito non vi
aleggia per entro. — Eppure il primo passo in sulla via
maestra è dato. — L'osservazione, lo studio sugli autori di
un periodo determinato e fisso della lingua, lo sforzo di
assorgere a un qualche principio ordinatore dei fenomeni,
sulla base solida dell'uso più esteso, riscontrato col maggior
numero possibile di esempi: — ecco il metodo vero, il buono
e fecondo. — Le due parti più notevoli della Sintassi del
Matthise, e più istruttive ad un tempo per la storia della
Sintassi Greca sono , per la Dottrina dei Cesi, quella che
tratta del Genitivo (§§ 3i3 - 38o), e per la Dottrina del
Verbo quella che svolge il concetto dei modi Ottativo e Con-
giuntivo nelle proposizioni sempiici (astratte) e composte
(dipendenti) (§ 612 e segg,). — Destituito affatto d'ogni cri-
terio abbastanza largo e comprensivo della funzione dei casi,
il Matthiae non ci pòrge che un inventario come a dire dei
varii usi, avvalorato bensì di una larga copia di esempi, che
è il solo merito reale e incontestato, che oggidì ancora si
deve, secondo noi, riconoscere a quell'opera •, salvo che non
v''è mantenuta quella severa distinzione fra l'uso poetico,
quale incontra nella lingua dell' epopea antica , e T uso del
dialetto attico; distinzione codesta della più alta importanza
nella Grammatica Greca , e la cui esatta e rigorosa appli-
cazione costituisce il titolo principale di lode della gramma-
tica del Kriiger. — Al Genitivo non riconosce il Matthiae
altra funzione,, che quella vaga e indeterminata di una rela-
\ione generale^ ad esprìmere la quale esso volentieri si ac-
concia, unendosi con ogni parola della proposizione. —
Non gli soccorre neppure un criterio , che a noi oggi si
para innanzi ovvio e pronto, quello di raggruppare almeno
questi svariati uffici del genitivo intorno al nome (sostan-
— 486 -
tivo e aggettivo), e intorno al verbo. — Vero è che egli tratta
e del Genitivo co' verbi (§ 3i5), e cogli Ag'gcttivi e cogli
Avperbi e persino co' prenomi neutri toOto, toctoOto, robe
ecc. Ma in nessuna parte mcns ag-iìat molem; e un iden-
tico concetto tu trovi sminuzzato e ripetuto in più luoghi.
Qui e colà però balena qualche sprazzo di luce, che rischia-
rirà più tardi la via. Cosi ad esempio al § 324, -2, tro-
viamo raggruppala assai acconciamente un' intera classe di
concetti verbali, che dinotano un g-iudiiio dell' intelletto,
che dirigesi verso il di fuori , senia operare fisicamente
(II, § 324, 2. 363, 5 e altr.).
Manca del resto assolutamente al Matthiae il concetto lo-
gico delle funzioni sintattiche dei casi, che fu poi esagerato
dai settatori della scuola del Becker. Non conosce neppure
gli erramenti dei localisti ^ ed è poi straniero al tutto alle
nuove teoriche, indotte dagli studi comparativi, e secondo
le quali s'inclina a distinguere nei casi un uso più vicino,
interiore quasi, e un altro più remoto ed esterno. Ma di
ciò non lo chiamiamo certo in colpa. Né Tavremmo notato,
se non fosse stato per ribadire il principio, che oggimai la
scienza non conosce altre barriere, che quelle segnate dalla
stona. — Ma più notevole e più istruttiva ancora in questo
rispetto è quella parte della Sintassi del Matthiae, che tratta
dell' Ottativo e del Congiuntivo nelle proposizioni dipen-
denti, ovvero dopo le congiuniioni (§§ 5 18 e segg.).
Mancando al Matthiae il concetto delle funzioni dei casi
nel contesto del discorso, cioè nella proposizione, come fu
detto quassopra, è affatto naturale, che egli ci si mostri in-
differente al tutto pel contenuto delia proposizione, anche
nella sua forma più semplice. Tanto meno quindi potremmo
aspettarci ad una analisi e trattazione della proposizione
composta. In questo rispetto il Matthiae si discosta assai
poco dai termini segnati dai grammatici latini in quella
— 487 -
parte > dóve parlano de consecutione temporunt; salvo che
egli, applicando alla lingua greca il concetto, che informa
le teoriche dei latini, ci parla di una consecutio modorum^
da porre in luogo di quella (§ 5i8).
Delle due specie dClpoiassi^ esposte con molto acume dai
grammatici più recenti — cioè il subordinamenio e la corre-
lazione— (Confi-. Ckirtius, Gr. Gr., §§ 619, esegg. Miill.) (i),
egli non distingue né idi forma esteriore, né il significato^
che risalta da questo importantissimo collegamento delle
proposizioni.
Quanto poi a quella forma di dipendenza, che il Matthlee
vorrebbe chiamare consecutio modorum, diremo che essa si
fonda sopra un falso concetto, che s'avea in passato dello
Ottativo; che questo modo cioè fosse il congiuntivo dei
tempi storici ; errore codesto, a cui s'accosta anche il Kiih-
ner [Gramm.Gr. II, § i83). — Questo erroneo concetto ha il
suo fondamento in ciò, che il verbo, o, più chiaramente,
l'anione espressa dal verbo sia da considerare soltanto ri-
spetto al grado, cioè rispetto al punto, dal quale si riguarda
razione. In questo riguardo essa è o presente o passata o
futura. Gli è codesto un rapporto quasi esterno fra Tazione
e il soggetto. Ma v'è anche un altro modo di considerare
razione, cioè rispetto alla sua durata nel tempo; relazione
cotesta tutta interiore, e dalla quale rimane come affetta
Vallone stessa in sé e per sé. In questo riguardo l'azione
è o incipiente, o durativa, o compiuta. Ora, avendoci lo
stuolo della linguistica, e un più accurato esame dell'uso
storico della lingua chiaramente dimostrato, come, rispetto
(i) Crediamo opportuno l'avvenire, che questo duplice concetto della
Ipotassi non lo si trova nelle edizioni del Curtcws., anteriori alla quinta.
— In quelle egli tratta le correlative come proposizioni indipendenti.
— La versione italiana del Mlilìer è fatta sulla ottava originale.
— 488 —
alla durata nel tempo, Tazione, nei modi congiuntivo, otta-
tivo, imperativo, infinito e participio, non è soggetta ad
altra modificazione, da quella in fuori, che chiamano du-
rativa ; gli è chiaro, che la trattazione di tutta la dottrina
della dipendenza dei tempi, che si fonda sui vecchio assioma,
essere il congiuntivo compagno dei tempi principali e l'otta-
tivo compagno dei tempi storici , dovea necessariamente an-
dare incontro ad una completa trasformazione.
Tuttavia, fatta ragione del tempo, forza è confessare, che
un gran punto avea già vinto il Matthiae col riconoscere e
fissare, non foss' altro, i termini veri dèi due grandi quesiti,
che alla Sintassi della Grammatica Greca s'impongono, cioè
Fuso dei casi, e il collegamento delle proposizioni, ne'riguardi
della forma e del contenuto. — Oltre di che gli studiosi gli
saranno sempre riconoscenti del largo m.ateriale d'esempi,
rolli all'uso dei meglio scrittori. — li sentimento della lingua
avea scolpito e profondo il Matthige, ma invano si cerca in
lui quel largo spinto ordinatore, o quella acuta sottilità di
giudizio, che contraddistingue l'opera geniale di Godofredo
Hermann. Ad ogni modo la Sintassi del Matthiae basta
essa soia a chiarirci della verità della sentenza, che le sortì,
cioè, della medesima sono intimamente connesse a quelle
dell'indagine etimologica, dalla quale soltanto essa può rice-
vere chiarezza di luce, e saldezza di compagine.
Una delle più importanti pubblicazioni, nel campo della
letteratura grammaticale della lingua Greca, fatte in Ger-
mania nella prima metà di questo secolo, è la Grammatica
Greca di Carlo Guglielmo Kriìger, data fuori la prima
volta a Berlino Panno 1843. La Sintassi del Krùger vive
vita prosperosa e liorente oggidì ancora, malgrado l'inconte-
stato progresso ottenuto dalla scienza del linguaggio , anche
- 489 —
per questa parte della Grammatica, dopo il libro del Krii-
ger. Crediamo anzi di poter affermare, non v^ssere in Ger-
mania studioso di lingua Greca, che la Sintassi del Krii-
ger non abbia tra mano, non foss' altro per consultarla.
Ben nove mila passi d'autori classici del miglior tempo —
escluse le Canzoni Omeriche — sono raccolti in quel libro
di mole non grande, a dichiarazione delle regole (i). — Non
v'è finezza del dialetto Attico, non v' è meandro del pen-
siero che il Kriiger non sappia cogliere e seguire ne' suoi
più reconditi avvolgimenti. — Ned è un freddo ed ob-
biettivo espositore di regole, o un rigido collettore e quasi
musaicista d'esempi il Kriiger^ che anzi v' è tutto lo spi-
rito ordinatore nell'opera sua, al quale un ideale sta in-
nanzi, e che ii contenuto delle forme domina e soggioga
con mano artefice, e il pensiero antico accalora, e ad insolite
movenze costringe. — L'opera dei Kriiger noi chiameremmo
come il risultamento di due polemiche , sostenute dall' una
parte contro ^'immortali della scuola del Becker, e dall'altra
contro r incomposto tumulto delle nuove vedute, dischiuse
dalla hnguistica, ma non ancora fermate a certa regola di
scienza, e meglio sentite, che comprese. — Lo sbozzare, an-
che ristrettamente assai, il concetto, al quale s'informa la
Sintassi del Kriiger, è compito non lieve, e da non si poter
conchiudere dentro da termini precisi e serrati. Nel poscritto
alla terza edizione, l'autore si mostra disposto a pubblicare
un piccolo volume di Schiarimenti alla sua grammatica; ma
a 'noi non consta ch'ei lo facesse mai, e del non averli come
che sia sott'occhio quei schiarimenti ci duole non poco, poi-
ché d'un lavoro così importante gioverebbe assai il conoscere
le fila scerete, come a dire. Ci studieremo perciò di mettere
(i) Vedi il Poscritto sWa. terza edizione - Berlino, iSSi.
Tiivisla di filologia ecc., I. J3
- 49C —
innanzi il disegno dell'opera, togliendone i contorni , non
d'ai fronde, che dallo studio di esBa.
La Sintassi del Kriiger è divisa in due grandi sezioni —
Analisi e Sintesi. — La puma se:(tone^ che chiameremo
analitica, fa materia di suo studio il contenuto di quelle
forme, che la dottrina della flessione ha esaminato nella
loro struttura esteriore; ne chiarisce del significato e del-
l'uso delle medesime (§§ 43-56). — La seconda sezione, che
è la sintetica^ studia i vari modi di scambievole relazione,
che hanno luogo fra i concetti singoli^ e quelli che occor-
rono ne'collegamenti delle proposizioni (§§ 57-63)« — Se-
guita appresso a queste una teT\a se:{ione, che tratta delle
parti del discorso indeclinabili [Avverbi — Nega'{ioni —
Preposizioni — Cong-iiin:[ioni) (§§ 66-69). '^ ^^ concetto, che
informa la sezione prima, si collega strettamente alla etimo-
logia, della quale essa costituisce come a dire il necessario
complemento, dichiarando la significazione concreta e usuale
delle parti, che sono oggetto dello studio di quella. Nel suo
insieme questa sezione della sintassi del Kriiger s'accosta
assai alla nozione, che della <juvTa2i? ebbero gli antichi, ai
quali massimamente stava a cuore ciò, che dalla etimologia
alla sintassi fosse naturale, ovvio e come graduale il tra-
passo. — La sezione seconda è ripartita in due capi, l'uno
de'quali corrisponde assai da vicino alla sintassi di concor
dan^^a, l'altro alla sintassi di reggimento delle grammatiche
nostrali. ~ La terza parte, che nella sintassi del Kriiger
tien dietro a mo' d'appendice alle due sezioni principali ^ è
come a dire/«oW delia sintassi^ e, quanto ai concetto,
che ne informa la trattazione, potrebbe far parte, più ra-
gionevolmente ne pare, deila sezione prima. - — Conside-
rando ora ne'suoi tratti pili generali il disegno dell'opera, ne
sembra di poter dire, che esso è come surto per reazione
allo indirizzo astrattivo delle scuole dei grammatici filosofi.
— 491 —
fondato suirarbitrio, ben lungi dalie manifestazioni dell'uso
concreto della lingua. — Ora, come suole, il Kruger s'è
gittato al contrario opposto : e come quelli facevano della
proposizione il nucleo fatale, verso il quale ogni indagine
sintattica dovesse convergere, così egli, in odio a'filosofanti,
relegò la proposizione allo estremo capo di sue ricerche, ne
scisse anzi ogni unità di concetto , né volle che la parola
avesse altra fun:{ione^ che la formale -, e non vide, come non
sia possibile un contenuto della parola, senza che vi sia
connessa una funzione sintattica, o di relazione, o di colle-
gamento. Il punto da vincere stava tutto lì, neirintuire cioè
quasi con impeto preveggente, qual posto la nuova scienza
del linguaggio assegni alla parola, considerata rispetto al
suo contenuto, nel contesto del discorso, sulla base e non
altramente, delle funzioni originarie, e quasi istintive della
medesima, dichiarate e appurate dairindagine linguistica, e
dallo studio più accurato dell'uso. — Ma la forza delle cose
la vinse sui fatti propositi, e il Kruger si rese colpevole,
secondo noi, di una grande contraddizione. Tutto quanto
il materiale infatti, come lo troviamo ammassato nella sua
grammatica, contraddice nel modo più aperto al disegno,
da lui preconcetto, nella ripartizione del suo pur eccellente
e classico la"«'oro. — Ma già subito nella definizione della
parte analitica del suo lavoro pare a noi di ravvisare l'in-
teriore contraddizione (Part. II, cap. I, Nozioni pr clini.).
— E come è possibile infatti svolgere il signijjcato e Vap-
plica:{ione delie forme della parola, senza parlare di rela-
zioni, di concordanze, di collegamenti, di enunciati, di coor-
dinazioni, di correlazioni, di dipendenze più o meno ideali?
E il Kruger infatti non si è potuto sottrarre a questa ne-
cessità. Basta una lettura, anche superficiale, della dottrina
dei modi, che è svolta nella sezione analitica al § 54, nei
capitoli I. II. IIL IV. V. VI. — Ne allegheremo a ri-
- 492 -
prova i titoli: — Gap, I. / modi nelle proposizioni indi-
pendenti— Gap. II. / modi ^ che hanno una dipendem^a me-
ramente ideale — Gap. III. / modi nelle proposizioni finali
— Gap. IV. / modi ne''periodi ipotetici — Gap. V. / modi
nelle proposizioni relative — Gap. VI. / modi fielle proposi -
Zioni temporali. — Noi crediamo che ben a ragione altri po-
trebbe ritorcere contro l'illustre grammatico quella sentenza,
che, a proposito dei metodi immortali, egli mette fuori nel
breve preambolo della sintassi. — « L' ordinamento, cioè,
della sintassi, corrispondente alVuso concreto della lingua
imporsi imperiosamente colla interiore sua necessità » — . La
contraddizione, nella quale è caduto il Krùger, sta, a nostro
giudizio, in ciò, che mentre egli muove tutto agguerrito
contro il metodo astrattivo degli immortali , non s'avvide
poi, come egli dividea un concetto, che non può non essere
uno e continuo. — Tutto il materiale infatti della sezione II
(sintetica) poteva venire molto acconciamente repartito fra
i vari capitoli della prima sezione, dove esso ha la naturale
sua sede, né può averla altrove.
Gosì, ad es., la materia del § 67 — Unione di concetti
nominali — \) attributiva., 2) predicativa, ''ò) appositiva —
tutto ciò s'appartiene naturalmente al nome. Il § 60, che tratta
della Ptotica (dottrina della concordanza dei casi), fa parte
della dottrina dei casi. — E la dottrina del verbo — della
concordanza e reggimento di esso tanto nelle proposizioni
indipendenti, quanto in quelle, che si mostrano variamente
collegate (§§ 62-65, 1-2-3) — questa dottrina, diciamo, ha la
sua naturai sede là dove appunto dei verbo si discorre ;
poiché tutto ciò, che il Kruger chiama congruenza (concor-
danza) del verbo, altro non è che la teorica della concor-
danza, che naturalmente sì svolge nelle relazioni di esso col
soggetto, coll'attributo e col predicato; e tutta quella parte
che tratta del reggimento del verbo appartiene di fatto e di
--493--
diritto alle funzioni temporali e modali di esso. — Cosicché
il Kriiger ha scisso daddovero il concetto grammaticale e
logico del nome e del verbo, non ha esaurito, anzi neppure
bene adombrato il concetto della proposizione. — Ma dun-
que non c'è unità di disegno in questo pur grande lavoro?
Dunque il Kriiger si fonda sopra una astrazione, mentre
crede di poggiare sul terreno solido della realtà? — Ecco
due gravi quesiti. Risponderemo, assai brevemente, come
potremo, e senza nessuna pretensione di apporci bene.
La repartizione della sintassi in analitica e sintetica ^
messa innanzi dal Kriiger, ci richiama al pensiero la di-
stinzione xiQ.'' giudici analitici e sintetici, fatta dal Kant{\),
Ne'giudizi analitici, col predicato non si aggiunge nulla al
soggetto, ma soltanto lo si rischiara, lo si notomizza e divide
nelle sue parti, le quali si pensano, benché talora oscura-
mente, come inerenti da natura al soggetto -, come ad es.
nel giudizio : — « il triangolo è una figura di tre lati » .
— All'opposto i giudizi sintetici aggiungono alPidea del
soggetto un attributo, che non è punto inerente per inte-
riore necessità al soggetto , come quando io dico ad esempio
« quest'uomo è bianco ». Il soggetto uomo non racchiude
in sé necessariamente l'attributo della biancheria, potendo
anche essere nero, o color di rame o d'altro colore : mentre
il triangolo non può avere che tre lati, né più né meno. —
Ora a noi sembra che l'appellativo di analitica, dato dal
Kriiger alla prima grande sezione della sua Sintassi, o lo si
intende nel senso Kantiaiip, o altramente non s'esce di questo
dilemma — quello appellativo o non ha senso, o involge
contraddizione. — Noi pertanto concepiamo la Sintassi ana-
litica del Kriiger nel modo seguente : Esposizione del con-
tenuto, della significaiione e dell'uso delle parti del dis-
(i) Critica della Ragione Pura. Imrod. VL
- 494 —
coròO^ nella misura, che è succiente ad esaurire il concetio
del valore ideale e delle conseguenti necessarie relazioni
e quasi influssi delle medesime, nell'uso concreto della lin-
gua. — E vi sono intatti modalità e funzioni necessarie
delle parti del discorso, nell'uso. Prendiamo ad esempio il
nome (sostantivo, aggettivo., pronome). Di esso sono mo-
dalità e relazioni necessarie il genere^ il numero, i casi.
— E la funzione del perbo si esplica necessariamente nel
genere, nel modo, nel tempo., e nelle relazioni di persona
e di numero. E laddove si pensi alle funzioni modali del
verbo, vedremo scaturire da esse con evidente necessità molte
relazioni di correlazione e di dipendenza logica, se non sempre
reali, così da parere, non fossVltro, di concorrere ad esau-
rire il valore del concetto del verbo e la pienezza delle sue
funzioni. — Intesa così, V analisi sintattica del Kriiger
non manca certo di unità di disegno, che anzi essa, a mo'di
compiuto organismo, ti sembra incedere serrata e stretta
dentro da'termini d'una interiore necessità. — Ma Terrore,
secondo noi, del Kriiger sta nell'avere sottratto nella parte
analitica al nome ed al verbo alcune funzioni e relazioni ,
che al concetto loro si collegano con evidente necessità. —
E come non penseremmo, siccome necessariamente connesse
al nome (sostantivo, aggettivo, pronome) quelle relazioni di
concordanza, che il Kriiger, sotto il titolo di unione sintat-
tica di concetti nominali ^ ha violentemente staccate dal-
l'analisi del nome, e ascritte alla sintesi di esso (§ 67)? E le
funzioni tutte di soggetto, oggetto, non appartengono esse
di necessità al nome ? Perchè dunque scinderne l'unità, e
parte ascriverne alla analisi , parte alla sintesi di quello
(§61)?
E, quanto al verbo, noi non arriviamo proprio a com-
prendere, perchè il Kriiger abbia sottratto al concetto ana-
litico di esso, che è come a dire all'intima sua natura, le
- 495 -
relazioni dì concordanza (congruenza, § 63) rispetto al sog-
getto', perchè abbia ascritto alla sintesi ^ cioè sottratto alla
virtù significativa del contenuto, e al concetto delle funzioni,
inerenti airuso, le proposizioni indipendenti (§ 64). E non
cadono queste sotto il concetto della modalità? E qual v'è
cagione di considerare certi collegamenti di proposizioni
[Sai:{gefuge, § 65) come aggregati esteriori e quasi superfe-
tazioni delle modalità del verbo? — Delle proposizioni com-
poste, ossia insieme collegate, noi abbiamo questo concetto,
che esse possono venire considerate 0 in ordine allafonna^
o in ordine al contenuto. Rispetto a quella esse sono o coor-
dinate, o correlative, o subordinate: rispetto a questo esse
sono o affermative (enunciative), o finali, o ipotetiche, o re-
lative, o temporali. — La è codesta una distinzione quanto
semplice, altrettanto ovvia e rispondente al fatto della lingua
neiruso. — Ma nella trattazione , forma e contejiuto in
questi enunciati non possono essere distinti, perchè e quella
e questo si raggruppano intorno all'unico concetto del modo
e del tempo. Lo indurre ora una distinzione nell'unico con-
tenuto, così che vi sia un contenuto, pel quale il fatto del
collegamento non abbia valore grammaticale, come sarebbe
nel concetto analitico di esso — e un altro contenuto, ri-
spetto al quale il lato formale (grammaticale) del contenuto
abbia valore quasi predicativo — come è nel concetto sin-
Utico del medesimo: ciò ne pare che conduca a questa
necessaria illazione: — che ogni sintesi vera della relazione
fra la forma e il contenuto degli enunciati e impossibile ,
nella grammatica non foss'altro. — Quali inconvenienti pe-
dagogici presenti un cosiffatto modo di trattazione, fa ap-
petia mestieri che sì dica. — Rechiamo tuttavia qualche
esempio. — Delle proposi-^ioni finali discorre a lungo il
Kriiger nella pane analitica (§ 54, 8). — Parrebbe a primo
tratto, che in questo luogo si considerasse principalmcnie
- 496 -
la. forma delle medesime , come qualche cosa, che s'imponga
necessariamente a chi voglia esprimere quel dato contenuto
che si appella ^«(^/e. Pare che Fautore ti dica quasi: « Vedi
« come la forma (la modalità del verbo) s'impone qui al
« contenuto! Ma verrà tempo, che sciorremo questo fatale
« complesso: allora ciascuno enunciato starà da sé, e lo
« considereremo airinfuori della sua forma. Le congiun-
« zioni iva, ib?, èniaq, ^x] s'incaricheranno esse dell'ufficio di
(c conciliatrici ». — E infatti nella parte sintetica^ al § 65,
4, si parla ancora delle proposizioni finali, in ordine al loro
ufficio completivo nelle proposizioni composte. Ora ecco
ciò che ne dice il Krùger in questo passo : « Die be~
ppeckte oder beabsichtichte Folge be\eichnen wa, d»?, ottuj?,
wie negativ fjirj, iva |iri, uj? jiri, Sttuj? \xx\ mit dem Conjunctiv
oder Optativ (i) ». — Altro esempio: — Le proposizioni
ipotetiche — che il Kriiger addimanda periodi (§ 54, 9) —
sono trattate con molta larghezza e concisione nella parte
analitica della sintassi. — Ma poi se ne riparla nella parte
sintetica al § 65, 5. — Ma là se ne discorre come d'una
applicazione del concetto modale del verbo : qui come d'una
relazione (collegamento esterno, quasi formale) fra causa ed
effetto. « Ein Verhaeltnis\ von Grund und Folge jìndet
sich auch bei den hypothetischen Sdt\eti. •» Una relazione fra
causa ed effetto ha luogo anche negli enunciati ipotetici. —
Questa seconda sezione della Sintassi del Kriiger — la sin-
tesi — a noi sembra piuttosto un'appendice alla sintassi,
svolta nella prima parte, nata via via, lungo il cammino,
(i) <i La conseguenza, tanto quella voluta, quanto quella che si desi-
dera, è espressa dalle congiunzioni Ivo ecc., ovvero, in forma negativa,
da ixr\ ecc., col congiuntivo, o coU'ottativo » ( Confr. § 54, 8, 2 ). Se-
condo il KrUger, in questi enunciati, dall'uso del congiuntivo emerge
più chiaro il fine voluto raggiungere ; dall'uso dell'ottativo l'intenzione
di raggiungerlo.
— 497 —
e quando la materia era cresciuta tra mano airautore. Tanto
ne pare poco giustificato il posto, che essa tiene in questo
classico libro!
Ma ben altro criterio s'ha a farsi delia Sintassi del Kriiger,
allorquando si discende alTesame àt' particolari. — Fon-
data essa sulla rigida distinzione del dialetto attico dal-
V ionico (tanto l'antico, che è proprio delPepopea, quanto il
nuovo, che è rerodoteo) fu posta così in parte sicura da
ogni fluttuazione-, e per tal modo un servizio inapprezza-
bile fu reso alla scienza e agli studiosi delle lettere greche,
delle quali il Kriiger sarà sempre proclamato promovitore
indefesso e acutissimo. Le più minute particolarità, le sfu-
mature più sottili e sfuggevoli sono notate e studiate in quel
libro; né già colla fredda e obbiettiva indifferenza del mu-
saicista, ma con tutta la energia e la vivezza di uno spirito
penetrativo, che la morta materia ravviva colTacceso senso
della vicina realtà. — La grammatica del Kriiger è scritta
per gli studiosi d'indole più meditativa, concisa ne'modi ,
serrata ne'pensieri, sottile e stringata nelle definizioni, tutta
succo e nervi-, ma perciò appunto di difficile accostamento.
— Ciò nullameno noi facciam voti, perchè quest'opera per-
venga alla conoscenza de'nostrali, che dallo studio di essa
potranno inferire quanto sia feconda l'osservazione, portata
sull'uso della lingua. {Continua)
Rovigo, mar:jo, 1873.
Gaetano Oliva.
— 498 —
LA COMMISSIONE D^iNCHIESTA
SULLA IST^UZIOU^E S E C O^K'J^ A 'KJ A
A ROMA.
È naturale, che la nostra Rivista apra una larga discussione sui que-
siti proposti dalla commissione d'inchiesta, dacché molta parte di essi
si riferisce direttamente all'insegnamento di quelle discipline, per pro-
muovere le quali è stato fondato il nostro giornale. Nei prossimi nu-
meri si ragionerà adunque di quelli in particolare che concernono
l'insegnamento dei greco e del latino, che per noi sono la incrollabile
base d'ogni più elevata cultura e perciò di capitale importanza. Oggi
intanto possiamo offrire ai nostri lettori una succinta relazione delle
risposte fatte alla Commissione stessa in Roma da autorevoli persone,
cenni questi che speriamo non saranno discari ai nostri lettori.
1.
Roma, ^i febbraio iS^S.
Come avrete veduto nei giornali, la Commissione dell'inchiesta sco-
lastica ormai pose termine alle sue prime sedute in Roma ed e partila
per Napoli.
Qui si apprezza generalmente in tutto il suo valore la risoluzione
del ministro, che ordinò di fare in così larghe proporzioni lo scandaglio
dell'opinione pubblica intorno ai gravi ed intralciali problemi, che
sono di tanto peso ]jcr l'avvenire della nostra patria. Senonchè gli uo-
mini egregi, a cui fu commessa l'importante ricerca, nel formulare i
loro quesiti ebbero forse più in mira di conoscere le opinioni che di
constatare i fatti dal riscontro dei quali l'opinione doveva formarsi. È
questo il difetto capitale che la gente pratica in queste cose trova nel
fascicolo pubblicato dalla Commissione, dove sono aggruppate in 77
numeri più centinaia di domande. Ciò forse dipende in parte dall'in-
dole della materia, dove non trattasi di raccogliere una serie di fatti
puramente empirici, come nell'inchiesta industriale, ma tali fatti che
possono derivare da opinioni diverse, da errori più o meno diffusi e che
importa di constatare ; in parte dipende da quell'indirizzo subbiettivo,
da quell'a priori che è tanta parte del nostro passato e che rimane an-
cora ad attestare quanto importi di dare alle menti giovanili un'altra
svolta e fare un divorzio perpetuo con ogni idea preconcetta.
Per darvi un rendiconto esatto intorno ai lisuliati dell'inchiesta quj
«- 499 —
in Roma dovrei oltrepassare di molto i limiti di una modesta corrispon-
denza; il che non potrei fare né per lo spazio vostro né per il tempo
mio. MI restringerò dunque a pochissime cose, ma tali che a parer mìo
è bene si sappiano e si discutano affinchè la Conirnissione nei suo pei-
iegrinaggio trovi in certe questioni di grande importanza per cosi dire
circoscritta la lotta in un campo determinato evitando i divagamenti ed
anche i capricci individuali che spostano i problemi e fanno perdere il
tempo.
Gli nomini chiamati finora a rispondere furono de'più sperimentati
sia nell'istruzione militante sia neìramministrazione di essa. Tutti fu-
rono d'accordo nel riconoscere che le condizioni presenti in cui trovasi
la carriera di professore ncn sono tali da attirarvi i giovani d'ingegno,
né da pretendere modelli di scienza e di virtù in quelli che vi si tro-
vano; che i rimedii non vogliono essere omeopatici, come quelli del
Sella, ma tali da pareggiarla a)!e altre carriere nobili di avvocato, in-
gegnere, medico. Tutti affermarono che le questioni dei programmi ,
dei metodi, e in generale dell'organismo dell'istruzione secondaria di-
ventano tutte veramente secondarle rispetto a quella del personale; che
dato il buon professore c'è la buona scuola, e il buon professore costa
caro come ogni cosa buona. Anzi vi fu un uomo d'ingegno vivace e spi-
gliato che disse alla Commissione : di tuiti i vostri quesiti io rispondo
ad uno solo, sciolto il quale avrò risposto a tutti : nobilitate material-
mente e moralmente la carriera di professore e vedrete ogni cosa pro-
cedere in modo da poter abolire questo sistema burocratico che, in
luogo di mettere orarne, intralcia l'andamento dell'istruzione.
Il quesito a cui fu risposto dal maggior numero di persone fu
quello che riguarda l'istruzione religiosa (i)
Altro argomento di cui si occuparono parecchi fra gl'interrogati e
nel quale fu manifestata qualche idea nuova fu quello delle ispezioni.
(i) Non potendo riferir qui tutto ciò che il nostro egregio corri-
spondente ci scrisse intorno a si fatta questione, estranea alla natura
di questa *7(/v«5^i, né parendoci tuttavia opportuno passare affatto sotto
silenzio un argomento cui a Roma si attribuì universalmente grande
importanza, noi compendieremo colla massima brevità questa parte-
delia lettera inviataci cortesemente dal prof. Zambaldi, valendoci,
quanto potremo, delle sue stesse parole. — Fu generale l'accordo
nel deplorare che nell'istruzione pubblica italiana manchi o non sia
abbastanza efficace lo insegnamento religioso, « Vi fu chi propose che
fosse rinvigorito e vi si desse un novello impulso : ma il maggior nu-
mero e la gente più pratica riconobbe che il nodo della questione non
è nel catechista e nel suo programma, ma nelle condizioni religiose
dell'Italia... . A questa conaizione degli animi, fruito di cause ormai
secolari, quasi tutti riconobbero che non f'' dato rimediiijc ne in ^r>
mese né in un anno », soprattu'to fra le lotte ora ferventi. « Pertanto
crinterroeati risposero quasi ad una voce, essere bensì deplorabile il di-
fetto di educazione religiosa, ma nessuno aver facoltà di riparare a que-
sto male », e, nello stato presente delle co.se, non potersi conservare nelle
— 500 —
!n generale fu osservato che nel modo in cui ora si fanno riescono
presso che inutili; non essere raro il caso che un ispettore contrad-
dica all'altro ; poter gl'ispettori riconoscere qualche grave abuso, ma
non esercitare un'azione costante e benefica sull'andamento dell'istru-
zione. Il maggior numero propose che gl'ispettori sieno slabili, e si
parlò di affidare questo incarico ai provveditori, ma più d'uno osservò
che i provveditori, anche quando si scegliessero fra gl'insegnanti, alla
lunga s'ingranano nella ruota burocratica e restano in arretrato nella
scienza ; inoltre per quanto sieno persone istrutte, la loro dottrina non
andrà al di là di una o due materie, non saranno mai tali da misurarsi
con tutti i professori dei diversi rami né quindi avranno bastante
autorità da tenerli in riga.
Migliore accoglienza e nessuna opposizione trovò la mia proposta
di cui vi riassumo in breve il ragionamento. Io dissi : perchè le ispe-
zioni sieno utili è necessario che sieno per così dire costanti ed
abbiano un qualche accordo di principii almeno per un certo numero
di istituti. Uno dei mali che si lamentano nell'istruzione governativa
è appunto il difetto di metodo e di accordo fra i professori, princi-
palmente nella parte letteraria , difetto dovuto alle condizioni pre-
senti della nostra coltura. E in vero molti professori furono educati
all'antica scuola, che se teneva un certo conto dell'arte, seguiva quasi
inconsciamente metodi empirici e in contraddizione coi risultati della
scienza; altri, educati ai sistemi moderni, in luogo di prenderne i ri-
sultati danno nell'insegnamento tale risalto al lato scientifico da lasciare
inerti e inesplicate le facoltà più vigorose dei giovani, il sentimento
e la fantasia ; finalmente un certo mxmero di professori, istruiti di per
sé soli, o come ora si direbbero autodidacti , vanno a tentoni senza
alcuna guida e facendo esperienze sugli allievi come in anime vili. 1
nostri istituti sono giovani o rinnovati di fresco ; perciò non hanno
tradizioni, né cominciarono a formarle per la natura dei tempi che
scuole del governo il preaccennato insegnamento, « raccomandando però
di dare un certo sviluppo alle dottrine morali e di destare con ogni
mezzo possibile il sentimento del dovere. Nelle condizioni morali e
religiose d'Italia trova altresì spiegazione quel fatto avvertito nel nu-
mero 14, che alcuni istituti religiosi e tenuti da corpi morali hanno
maggior numero di alunni degli istituti governativi. » 11 comm. Al-
lievi notò a questo proposito come fra noi non piaccia per lo più
ai padri consecrar l'opera propria all'educazione religiosa dei loro fi-
gliuoli, « E poiché per quanto uno sia miscredente e di facili costumi
sente dentro di sé qualche cosa che lo stringe ad informare l'animo dei
figli ad alcuni principii morali, crediamo sdebitarci di questa responsabi-
lità e tranquillare la nostra coscienza affidando la nostra prole ad
istituti religiosi. Aggiunse però l'onorevole Allievi che a parer suo
questi padri s'ingannano né ottengono lo scopo desiderato; anzi af-
fermò risolutamente , e con lui quanti si occuparono di questa ma-
teria, che l'istruzione governativa è sotto ogni aspetto migliore di
quella impartita da corpi morali e da ordini religiosi. »
— 501 —
rese necessari e desiderati trasferimenti continui ; i nuovi venuti non
trovano un sentiero comune da percorrere e da cui non possano
deviare, come nelle vecchie scuole inglesi e in quelle di Gennania ;
manca insomma quella che in arte direbbesi scuola , perchè l'antica
non serve più, e la nuova appena importata non potè ancora modifi-
carsi conforme alle nostre attitudini e diventare italiana. Inoltre i pro-
fessori hanno fama di genie indisciplinata , suscettiva , talora anche
riottosa; ed è naturale che sia, perchè abituata nella scienza alla cri-
tica rigorosa e a mettere tutto in discussione, non ha motivo di dar
retta all'ispettore in cose, nelle quali ha coscienza di poter insegnare
a lui. Quando trattasi del loro insegnamento i professori non possono
riconoscere altra autorità che quella della scienza.
Volete adunque mettere un po' d'ordine in questa confusione, un
po' di disciplina nelle menti? Organizzate fortemente le scuole nor-
mali, non solo in maniera che i giovani vi apprendano bene e ordi-
natamente le varie discipline, ma altresì che tutti gl'insegnanti nuovi
debbano passare di là. E se il bisogno vi costringe a prendere anche
dal di fuori, non abbiate premura di concedere patenti, ina date loro
tempo di orientarsi, di mettersi in rapporto con la scuola normale, di
sottoporsi ad esami scrii, come quelli che si danno a Padova, con pro-
grammi ben definiti e dati in modo che riescano insuperabili a chi non
sa o a chi sa male. Quando poi il giovane professore incomincia la sua
dura milizia, non fate che mandi un eterno addio alla scuola normale,
non segnate una linea di separazione fra essa e la scuola secondaria, ma
stringetele insieme con vincoli diretti e continui, dando alla prima la
direzione scientifica e didattica della seconda. Fate cioè che i profes-
sori delie scuole normali sieno, ciascuno per la propria materia, gli
ispettori ordinarli d'un dato numero di licei, di ginnasi , di scuole
tecniche. Così il discepolo, che fa le sue prime prove come insegnante,
verrebbe spesso guidato da'suoi antichi maestri, per i quali rimane in
ogni animo onesto una stima mista d'affezione, o se educato in altra
circoscrizione avrebbe pur sempre la scorta di quelli che sono per così
dire gli ufficiali superiori della scienza militante. In tal modo l'ispe-
zione perderebbe quel che di pauroso che ha presentemente, e che de-
riva soprattutto dall'ignorare i metodi, le idee didattiche, e convien
pur dirlo, anche l'umore degl'ispettori, così gl'insegnanti in luogo di
una faccia nuova e spesso arcigna vedrebbero un viso benevolo ed
amico. Inoltre le ispezioni potrebbero farsi ad intervalli minori di tre
anni ed avverrebbero in gran parte extra-ufficialmente e mediante rela-
zioni private. Finalmente questi rapporti continui e necessari fra gl'istituti
secondarii e le scuole normali, agevolando la diffusione di novità scien-
tifiche e di esperienze didattiche, recherebbero non piccolo beneficio alla
coltura di molti professori che stretti da difficoltà economiche trascu-
rano gli studii. Ciò richiederebbe senza dubbio un'opera assidua, una
specie di abnegazione nei professori delle scuole normali ; ma potreb-
besi pur fare assegnamento in parte su quel desiderio naturale che ha
- 502 ~
ciascuno di acquistare importanza alla materia a cui ha dedicato tutto
sé stesso e di diffonderne lo studio, in parte su quell 'affezione che lega il
maestro a'suoi scolari antichi, in parte finalmente sull'interesse generale
per la coltura e snll'araore di patria.
in quamo al liceo fu lamentato generalmente il predominio delle
scienze sulle lettere. Più d'uno propose di abbreviare d'un anno il gin-
nasio a beneficio del liceo, riducendo ambedue i corsi a quattro anni.
Ogni distinzione fra ginnasio e liceo non si vorrebbe tolta, poiché du-
rerebbe pur sempre la differenza essenziale del metodo intuitivo nel
piimo, scientifico ne! secondo. — Fu espresso da molti il desiderio
che si prescrivano i testi per uniformità di metodo e risparmio di
spesa; fu ossen/ato per altro come in alcune materie tornerebbe inutile
la prescrizione, perchè il professore, quando si vede legato suo mal-
grado ad un dato testo, a furia di omissioni, di aggiunte, di rettifica-
zioni lo ridurrà pur sempre a modo suo.
SuH'amministrazionc scolastica provinciale parlarono principalmente
alcuni prefetti, i quali furono concordi v.eì trovar buona l'istituzione
del consiglio scolastico, e raccomandarono che continui ad essere pre-
sieduto dal prefetto, il cui ufficio acquista nobiltà dall'interesse che è
tenuto a prendere per la coltura delia provincia, e la cui parola trova
di solito più facile ascolto dai comuni, principalmente dai piccoli ,
dove le spese dell'istruzione non sono le più popolari. Se il consiglio
scolastico avesse un altro capo, incontrerebbe certo maggiori difficoltà.
Duolmi non avere agio bastante per diffondermi sopra questi argo-
menti ; devo lim.itarmi a segnalarli all'attenzione vostra come quelli
che qui destarono l'interesse d'un certo numero di persone e provoca-
rono risposte abbastanza concordi. Terminerò toccandovi d'un sog-
getto che riguarda più da vicino il vostro giornale, cioè dell'insegna-
mento del greco.
Fra le cause diverse che furono esposte per cui la diffusione di questo
studio incontra in Italia tante difficoltà, cioè la poca coltura del paese,
i dubbi suU'udlità dei medesimo, gii scarsi frutti dati finora.^ e le altre
di cui si parlò le mille volte, piacemi segnalarne una che non è senza
importanza. Fu osservato cioè che paragonato ii programma liceale
del greco con quello dei latino, appare così scarso che ogni profes-
sore di liceo ha per necessità e per debito d'ufficio di diventare lati-
nista ma non grecista. E invero nel liceo coxiviene interpretare gli au
tori più difficili come Orazio e Tacilo, conviene guidare i giovani a
comporre in latino con proprietà; le quali cose suppongono una cono-
scenza non comune della lingua e delia letteratura ; nel greco invece
non si va più in là della grammatica e del più facile fra i prosatori,
essendo pochi quegl'istiluti dove s'arrivi ad assaggiare un briciolo di
Iliade. Manca adunque in ìtaiia una classe di persone che abbia per
istituto di spingersi avanti in questo studio e senta lo stim^olo dell'amor
proprio a progredire in questa piuttosto che in un'altra via ; poiché
quando un ^professore sa bene il latino, sente di meritare il suo posto
e di soddisfare a nove decimi del suo compito.
--S03-
Per rimediare a questo danno furono proposti due rimedi : il primo
di ridurre nel liceo lo studio del greco pressoché a livello del latino
in modo da leggervi Omero, Demostene , qualche dialogo di Platone,
a, data una buona s'alala , anche Sofocle ; l'altro di creare una cat-
tedra speciale di greco, divisa da quella del latino, lì primo rimedio
fu riconosciuto più utile del secondo, non solo perchè al presente la
coltura classica costituisce una così completa unità che non sarebbe de-
siderabile il dividerla, ma anche perchè solo cosi potcebbesi sperare
qualche frutto dall'insegnamento dei greco. Si comprende come tra
scuola possa limitarsi alla grammatica ed ai primi esercizi d'una lingua
moderna, perchè il giovane trora poi nella vita mille occasioni e in-
centivi e talora anche la necessità di progredire; ma non si comprende
l'utile di arrestarsi ai primo passo in una letteratura antica, se, quando
uno non arriva a fiar suo lo spirito greco, a sentire l'armonia e la sere-
nità di quelle creazioni in maniera da destare il desiderio di letture
ulteriori, siamo sicuri che superato appena l'esame di licenza sacrifi-
cherà a Vulcano il suo Senofonte e donerà il suo Curtius al fratellino
minore con uno sguardo di compassione.
Eccovi per sommi capi quanto di più interessante fu detto qui alla
Commissione, la quale, come si afferma, non ha per anco finito il suo
compito a Roma, ma dopo il viaggio si propone d'invitare a sé altre
persone.
È una domanda ripetuta universalmente : quali fruiti recherà l'in-
chiesta? Lascierà anch'essa il tempo che trova?
Io credo che in alcuna parte la commissione dovrà limitarsi a de-
plorare dei mali, a riconoscerne le cause nello spirito dei tempi, nelle
tradizioni, nella storia, senza potervi rimediare, come vi accennai a
proposito dell'istruzione religiosa. In altre parti ritengo che potrà
prodiirre qualche bene, perchè molto rimane a fare al governo e molta
all'opera individuale che può essere eccitata efficacemente ed util-
mente diretta. Mostrerebbe però d'ignorare l'indole di tali quistioni
chi in seguito all'inchiesta pretendesse vedere effetti immediati e pronti
miglioramenti. Ma un bene sarà incontrastabilmente quello d'avere
interessato tutto il paese nella questione educativa, d'aver fatto pen-
sare e promosso la discussione di molli e gravi problemi, d'avere per-
suaso un gran numero della loro importanza e di apparecchiare l'o-
pinione pubblica a risolverli presto o tardi in modo conforme agli
interessi della civiltà e della coltura nazionale.
FuANrESCO ZAMBALni.
— 504 -
Siamo dolentissimi di non avere ancora potuto, per mancanza di
spazio, raccomandare airattenzione dei nostri lettori il primo volume,
testé pubblicato, dcU'c^ri/iJVJO gìottoiogico iialiano, diretto da quel-
l'eminente linguist'ì che e il prof. G. I. Ascoli, edito da E. Loesche-.
È dedicato a F. Diez « il glorioso fondatore della scienza dei lin-
guaggi neo-latini », piaccia o non piaccia a certi italianissimi calun-
niatori della scienza germanica. Contiene, oltre ad un lungo proemio
(p. V-LIV), una dJligentissima monografia del direttore, intitolata
Saggi ladini (p. 1-537), seguita da quattro Indici, da numerose Giunte
e corre^ioni^ e corredata di una Carta diedettologica della zona ladina
secondo p;li odierni <\xoì limiti. Speriamo che ben presto si legge-
ranno nella nostra Rivista intorno a questo nuovo importantissimo
lavoro dell'Ascoli cenni critici dettati da quell'illustre glottologo, che
noi reputiamo il \n\i coai petente dei giudici in sì fatta materia e cui
l'Ascoli stesso dichiarò essere « il vero e l'acclamato antesignano »
di quanti studiano i dialetti italiani (v. Op. cit., proemio, p. XLI).
Pochi giorni or sono, 'icevemmo dalla cortesia del prof. Ascoli al-
cuni Squarci di una Lettura da lui fatta nel R. Istituto Lombardo di
scienze e lettere sopra La Queslione della lingua e gli studi storici in
Italia. L'autore vi dimostra sapientemente che « dal fatto della salda
unità di linguaggio, di cui si rallegra la Francia o la Germania, non
può.... venire alcun argomento di legittimità, od alcuna speranza di
facile conseguimento, al proposito di ridurre tutta l'Italia alla pretta
favella di Firenze » e che la differenza, esistente tra Italia e Germa-
nia in ordine alia unità di linguaggio, dipende '* da questo doppio
inciampo della civiltà italiana : la scarsa densità della cultura e l'ec-
cessiva preoccupazione della forma ».
Ricevemmo pure dal prof. F. Corazzini un Programma per una
Società dialettologica italiana in Firenze.
La mancanza di spazio fu eziandio Ta sola causa, per cui non ab-
biarao ancora fatto cenno della dotta ed interessante dissertazione,
cortesemente inviataci dal prof. Lignana, intorno ad una Ta:{:[a d'ar-
gento d'arte orientale. Ci rallegriamo vivamente che la scienza ita-
liana sia stata, qualche mese fa. nell'ìnstiiuto di corrispondenza ar-
cheologica sì degnamente rappresentata dall'erudito ed ingegnoso fi-
lologo, a cui molta gratitudine dovrà l'Ateneo romano per ciò che
attiensi agli studi indiani ed cranici.
Ci rallegriamo vivamente anche pel R, Decreto, con cui venne stabilito
che nell'L'niversità di Roma si daranno grinsegnamenti di Gramma-
tica e lessicografia greca e di Grammatica e lessicografia latina. Ce
ne rallegreremo più ancora, quando sapremo essersi provveduto anche
ai secondo di essi, affidandolo a qualche insegnante che con lavori
scientifici abbia dato pubbliche prove di esserne d^gno. A questo
proposito siamo costretti a notare che deploransi parecchie lacune
nell'istruzione filologica superiore, specialmente nell'insegnamento
delle lingue e letterature classiche. Queste lacune sono funestissime
non solo alla preaccennata istruzione superiore, ma eziandio alla se-
condaria che da quella trae i suoi maestri, onde il valore determina
il valore delle scuole. Confidiamo che il Ministro, in cui il buono e
forte volere debb'essere pari all'ingegno, saprà vincere gli ostacoli e
colmare gueste lacune: così egli promoverà efficacemente la riforma
degli stuai universi tarli, liceali e ginnasiali di filologia greco-latina;
darà a parecchi Italiani ciò che loro compete; e libererà noi dallo
ingrato dovere d'insistere su questo argomento.
Pietro Ussello, inerente rcsfonsabile.
505 —
AURELII VIGTORIS DE CAESARIBUS HISTORIA
L' ETITOÓME "DE CAESAIWBUS.
Dei rapporto reciproco fra VHistoria de Caesaribus di
Aurelio Vittore e VEpttome de Caesaribus variamente hanno
giudicato gli eruditi: gli uni vollero sostenere, essere af-
fatto indipendente l'uno di questi scritti dall'altro, mentre
altri credettero di poter provare, che VEpitome non sia in
verità che un estratto owerossia una specie di redazione della
Historia de Caesaribus. Altri ancora furono d'opinione, es-
sere tanto VHistoria de Caesaribus^ quanto VEpitome^ il ri-
stretto d'un'opera maggiore, ed autore di quest'ultima Aurelio
Vittore.
Le due prime opinioni non hanno d'uopo di essere con-
futate seriamente ai giorni nostri, quand'anche esista qual-
che erudito che le sostenga ancora: che i due scritti non
possono essere affatto indipendenti l'uno dall'altro, mentre
in varii luoghi concordano letteralmente. La seconda di que-
ste opinioni poi, facendo anche astrazione dagli svariati mi-
glioramenti e dalle frequenti aggiunte che VEpitome presenta
in confronto alla Historia de Caesaribus^ si mostra senza
alcun fondamento anche per questo, che VEpitome contiene
eziandio una continuazione dell'istoria romana fino alla morte
di Teodosio, che manca iìqW Historia.
Anche supposto che questa continuazione potesse essere
TU vista di filologia ecc., I. 34
— 506 —
Opera di un epitomatore senza che fosse fatto cenno di lui,
tutta repitome, compresa questa continuazione, non sarebbe
stata diffusa sotto il titolo di LIBELLVS DE VITA ET
MORIBVS IMPERATORVM BREVIATVS EX LIBRIS
SEXTI AVRELII VICTORIS A CAESARE AVGVSTO
VSQVE ADTHEODOSIVM (così il codice Gudiano N° 84,
del sec. IX-X, ed il Gudiano N° 1 3 1 , del secolo XI ; tutti e
due per la prima volta da me raffrontati (i)). Più ampia-
mente dobbiamo discutere la terza opinione.
Questo riguardo non le dobbiamo, perchè espressa da
Bechmann (2) od Ulrici (3) così per incidente ed alla sfug-
gita, ma perchè in questi ultimi tempi ha trovato un difen-
sore, che è Theodoro Opit:{, giovane erudito tedesco e disce-
polo del celebre Federico Ritschl. Egli Tha esposta nelle sue
Quaestiones de Sex. Aurelio Vietare (4).
Per quanto diligenti e profonde siano le ricerche da lui
fatte, pure non hanno condotto ad un risultato definitivo.
(i) I titoli delle edizioni di Arntzen e Genner non hanno per se
l'autorità di codici.
(2) De Aurelio Vietare^ ed. II. Altorf, 1726, § XIII (non, come
dice Opitz, § XIV), che suona come segue: Quartum Victori nostro
adiungi solitum scriptum, non quidem, uti nunc habetur, ab ipso ilio
profectum est, ab aliquo tamen, quisquis etiam ille fuerit, ex libro
eiusmodi excerptum, qualem Sex. Aurelius Victor de Caesaribus, pecu-
liari dicendi characterc-, et maiori ac prior de iisdem conscriptus
eral amplitudine exaravit, qui tamen cum aliis multis veterum scrip
torum voluminibus iniuria temporum periit.
(3) CharakteristiJt der antiken Hisioriographie, p. i56, not. 4: Che
il ilibro de Caesaribus e la sua così detta Epitome siano estratti di una
sola e medesima opera fatti da mani diverse, riesce abbastanza chiaro,
quando si vede, che alcune cose nei due scritti letteralmente concor-
dano, ed altre, né poche, nell'epitome si rinvengono, che l'oper»
principale non contiene.
(4) Lipsiae, B. G. Teubner, 1872. La medesima dissertazione verrà
ripetuta in unione ad altre ricerche su Aurelio Vittore negli Ada so-
cietatis philologae Lipsiensis di Ritschl II, p. 199 segg.
— 507 -
In ogni indagine sul nostro quesito bisogna innanzi tutto avet
per certo, a meno che non vogliamo negare ogni fede alFau-
torità dei codici , che la così detta Epitome — cosi diremo
quind' innanzi per amor di brevità — è in realtà l'estratto
d'un'opera di Aureho Vittore. Ma di ciò per vero dire non si
dubita neanche. Ma dobbiamo anche ammettere, cosa che
risulta eziandio dal già detto, che V intiera Epitome è tolta
a quest'opera di Aurelio.
L^asserzione peraltro, che anche VHisioria de Caesaribus
non sia fuorché Testratto di quell'opera del nostro storico,
ha ben poco fondamento.
Nel discutere le ragioni della sua opinione TOpitz prende
le mosse dall'Epigrafe del codice di Bruxelles, che» a quanto
mi consta, è Tunico, il quale ci abbia conservato VHistoria
de Caesaribus. Quest'intitolazione è la seguente: Aurelii
Victoris historiae ABBREviArAE ab Augusto Octapiano, id est
a fine Titi Livi usque ad consulaium X Constantii Augusti
et Juliani Caesaris III. L'espressione historiae abbreviatae
pare al nostro autore ragione sufficiente per poter asserire,
com'egli fa a pag. 14: is liber de Caesaribus, qui nunc su-
per stes est, non videtur esse historia Caesarum a Sex. A^u-
relio Vietare conscripta, sed potius et Caesares et Epitomae
capita XI priora ex illa excerpta sunt.
Per chi è conoscitore di codici manoscritti occorre appena
avvertire, che tali aggiunte ne' manoscritti non hanno alcun
valore, specialmente quando per l'asserzione in esse conte-
nuta non abbiano diverse testimonianze, i'una indipendente
dall'altra, e quando Tinica esistente Tion risale nemmeno ad
epoca antica (»}
Se poi VHistoria Caesarum fosse in realtà un estr-tto dtU
|i) Il codice di cui discorriamo è del secolo XV. Conf. Johuan nel-
VHennes, IH p. 390.
- 508 —
VHisioria ài A.urelio Vittore, sarebbe strano dav\'ero che
non ci fosse pervenuta la menoma notizia, neanche una leg-
giera traccia che di ciò ci avvenisse.
Ma lasciamo pur da parte una tale considerazione. Quel-
V abbrevia tae non significa quello che TOpitz vorrebbe che
dicesse. Ne Vabbrevtare o brevìare ha nei secoli posteriori
di per sé il significato : fare un ristretto di opera maggiore,
e questo ce Io insegna il Glossarium mediae et infimae lati-
nitatis del Du-Cange, ma soltanto quello di in brevia redi-
gere, cioè dare un'esposizione più succinta; né nell'antichità
più remota significava ciò, quando si trovano formazioni di
tale radice. E lo prova chiaramente il titolo dell'opera dì
Eutropio-. Breviarium historiae Romanae, e di quella di Sesto
Rufo : Breviarium rerum gestarum populi Romani. Tutti e
due questi titoli sono accertati da buone autorità. Qui non
si tratta d'un compendio d'opera maggiore, ma semplice-
mente di più breve e succinta esposizione. In questo senso
spiega Eutropio istesso il titolo dell'opera sua nella dedica a
Valente: les Romatias. .. per ordinem temporum brevi nar-
RATioNE collegi strictim, e Rufo parimente nella dedica al-
l'imperatore: rcs gestas signabo, non eloquar. Accipe ergo
quae breviter dieta brevius compuientur .
Ben diversamente sta la cosa, quando abbiamo delle ag-
giunte che ben chiaramente alla lor volta accennano ad un
ristretto od estratto. E questo è il caso dei codici della bi-
blioteca di Wolfenbiittel, Gudtanus N. 846 i3i, che di-
cono. LIBELLVS... BREVI A.TVS EX LIBRIS SEXTI
AVRELII VICTORIS. Qui non può essere dubbio: ab-
biamo in essi il ristretto d'un'opera maggiore di Aurelio
Vittore, come ho già detto più sopra. Ma il titolo del co-
dice di Bruxelles : Aurelii Vicioris historiae abbreviatae
non può secondo Tuso della lingua latina di tutti i tempi
dir altro che: breve storia scritta da Aurelio Vittore.
- 509 —
Anche le diligenti investigazioni sulle fonti dei primi un-
dici capi dei libri od estratti di Aurelio Vittore (i) non pos-
sono dimostrare quello ch^egli vorrebbe provare. Al piiì, la-
sciando da parte ogni pregiudizio, fanno vedere, come la
nota Epitome non è estratta daìVHistoria Caesarum, vale a
dire che i LIBRI AVRELIl VICTORIS, di cui parla il
titolo, che è chiaro e perfettamente autorevole > non sono
VHistoria Caesarutn, i quali devono poi ancora, come già
innanzi abbiamo detto, estendersi A CAESARE VSQVE
AD THEODOSIVM.
Per questa via adunque non giungiamo ad una decisione
intorno al quesito di cui ci occupiamo ; dopo qualche giro
vizioso ci troviamo sempre in faccia al medesimo enimma,
per sciogliere il quale evidentemente dobbiamo muovere da
considerazioni differenti da quelle che ci suggeriscono i codici
soli. Dobbiamo innanzi tutto ritornare di nuovo alle notizie
riguardanti Aurelio Vittore, che troviamo altrove, e partendo
da quelle trame le nostre conclusioni.
Innanzi tutto ci si presenta il fiorissimo luogo di Ammiano
Marcellino (XXI, io): ubi Victorem apud Sirmium vìsum
scRiPTOREM HisTORtaTM exifideque venire praeceptum Panno-
niae secundae consularem praefecit et honoravìt aenea statua,
virum sobrietatis gratta aemulandum multo post urbi
praefectum.
L'altra notizia che c^importa, leggiamo in Grutero, InscH-
ptiones ant. I, 286, N. 5 (2):
(1) Pag. i5-3o.
(j) E non nelle Inscript. Regni Neapolitani. n. 2618, come sempre
sì legge presso Opitz.
— 510 -
. . lERVM • PRINCIPVM CLEMENTIAM
.... NCTITVDINEM • MVNIFICENTIAM
Sv'PERGRESSO
D • N • FL • THEODOSIO • PIO • VICTORI
SEMPER AVCVSTO
SEX • AVR • VICTOR • V • C • VRBi • PRAEF •
IVDEX • SACRARVM • COGNITIONVM
D-NM-Q-E- (i)
Dì rado possediamo intorno ad un autore dell'antichità no-
tizie, le quali, malgrado che siano isolate, abbiano rapporti
tanto diretti con le quistioni che la critica filologica propone
intorno al medesimo.
Gli eruditi che si sono occupati del quesito, di cui anche
noi qui discorriamo, vale a dire del rapporto che esiste fra
YKpitome di Aurelio Vittore e VHistoria de Caesaribus,
non hanno avvertito che nella prima parte del luogo di Am-
miano Marcellino or ora citato: Victorem apud Sirmium
visum scriptorem historicum exiìideque venire praeceptum
Pannoniae secundae consularem praefecit (scil. Julianus)
havvi una relazione importantissima con la fine della nostra
Hi storia de Caesaribus.
Quest'ultima è scritta nell'anno 36o d. C, come bene di-
mostra rOpitz (pag. 8 e segg.), o per dir meglio condotta
a termine in quell'anno ; il che risulta specialmente da ciò,
che l'imperatore Costanzio è chiamato noster imperator (2),
e che nel Jib. XLII, 20, si parla del suo governo come di
quello che dura già da ventitré anni, cioè precisamente del-
l'anno 36o d. C, mentre di Giuliano si discorre soltanto
(i) Cioè: Devotus numini maiestatique eius.
(2) P. e. De Caes. XLII, 5, E lo stesso rileviamo da altre espres-
sioni citate dairOpitz, p. 5.
— 511 —
come di Cesare, mentre nulla è ancor noto della sua dignità
(T Augusto, alla quale venne elevato dai soldati verso lo scor-
cio dell'anno 36o.
Nell'anno seguente 36 1 ebbe luogo rincontro fra Giuliano
ed Aurelio Vittore e ne venne l'ammessione di quest'ultimo
nel servigio dello stato come governatore della Pannonia.
E troppo strana la coincidenza di queste date per credere
che sia opera del caso. Anzi ognuno che una volta sia avver-
tito di essa, vorrà facilmente concedere, essere affatto natu-
rale, che la chiamata d'Aurelio Vittore da Sirmio ove certa-
mente era vissuto sin'allora ed il suo entrare in un ufficio per
lui affatto nuovo e che gl'imponeva insoliti doveri abbia avuta
per necessaria conseguenza un' interruzione de' suoi studii.
Aggiungiamo questo fatto a quello che abbiamo detto più so-
pra, e, mi sembra, non si potrà menomamente dubitare, che
néiVHistoria de Caesaribus abbiamo infatti un'opera dovuta
alla penna di Aurelio Vittore. E vero peraltro che ci si po-
trebbe opporre l'aridità di questo compendio storico e dirci :
L'autore d'un'opera così magra ed arida, qual'è Vllistoria,
poteva egli mai esser noto veramente come uno scriptor histo-
ricuSy e quella grettezza istessa non ci dimostra che abbiamo
sott'occhio il ristretto d'un'opera maggiore a noi perduta?
Contro tale osservazione possiamo addurre l'esempio d'un
Eutropio e d'un Sesto Rufo, de' quali abbiamo già prima
parlato. Quell'aridissima trattazione dell'istoria, che ci fa
vedere piuttosto il lavoro d'uno scolare, che quello d'un au-
tore, è proprietà di quel tempo e noi non abbiamo ragione,
per amore ad Aurelio, a mutare la nostra opinione sul gusto
9 sull'erudizione di quell'epoca, opinione che ci siamo for-
mata dai monumenti, i quali ci ha tramandati.
Ora veniamo alla parte seconda della nostra ricerca, alla
così detta Epitome di Aurelio Vittore.
11 tempo, in cui quest'opera stessa fu scritta e che certa-
- 512 —
mente si può fissare per mezzo della tradizione manoscritta,
il che ne' suoi Praemonenda promette TOpitz di fare, non ha
per ora interesse per noi, che il giudizio nostro intorno al
contenuto ddVEpitome non ne verrebbe in verun caso mo-
dificato.
Innanzi tutto importa il trovare nella materia contenuta
nélVEpitome istessa dei punti che ci permettano un giudizio
sicuro intorno ai LIBRI SFXTI AVRELII VIGTORIS
dai quali V Epitome fu estratta^ in altri e più precisi termini,
bisogna cercare e stabilire definitivamente, se infatti possa
reggere quello che di sopra, appoggiati alla tradizione mano-
scritta, enunciammo come cosa sicura, se il contenuto del-
l'Epitome nella sua interena può essere tolto all'opera mag-
giore di Aurelio Vittore.
Il miglior punto di cui servirci per convalidare la nostra
opinione ci offre la vita Theodosii (cap. XLVIII). Dai noti
passi della medesima § 8 e segg. : futi autem Theodosius mo-
ribus et corpore Traiano similis, quantum scripta veterum
et picturae docent. Sic eminens status, membra eadem, par
caesaries etc, e § 9; mens vero prorsus similis, adeo ut nihil
dici queat, quod non ex librìs in istum videatur transferri,
risulta chiaramente che colui, il quale scrisse originariamente
quest^istoria, debbe avere conosciuto personalmente Timpe-
ratore Teodosio, Ciò aveva già avvertito il Griiner nella sua
prefazione (i). Nel primo di questi passi confronta eviden-
temente la figura di Teodosio, che aveva sott'occhi, con i ri-
tratti di Traiano, che solo a questo possono riferirsi le scripta
veterum et picturae, e nel secondo parla del carattere di
quello in modo da poter tosto conoscere, che l'autore deve
aver avuto occasione di conoscerlo e farne esperienza.
(i) De aetate auctoris nolo temere decernere, is tamen Theodosium
Augustum vidisse cap. XLVIIIy 8, non obscure significare videtur.
-513-
L'estensione molto maggiore della vita di Teodosio e le sper-
ticate lodi del medesimo, che seguono a questi capitoli citati
e continuano fino al termine della vita, accrescono la verosimi-
glianza della nostra opinione. L'autore si estende evidente-
mente molto più, quando racconta l'istoria contemporanea,
come fanno pure in modo simile gli storici greci Eunapio e
Zosimo; si ferma volentieri nel parlare dell'epoca di Teodosio,
relativamente grande, e tratta più profondamente la sua sto-
ria, anche perchè egli stesso aveva ricevuto i beneficii di
quest'imperatore.
Queste sono le semplici osservazioni, che farà ognuno, alla
cui attenzione sia indicato questo punto. Ma esse concordano
d'altra parte in ogni rispetto con le notizie pervenuteci intorno
alla vita di Aurelio Vittore, di cui abbiamo parlato in prm-
cipio di questa dissertazione.
Dalla iscrizione riferita più sopra risulta, che il nostro sto-
rico visse ancora sotto il governo di Teodosio, certamente
come praefectus urbi, dacché questa notizia ottimamente
concorda con il racconto di Ammiano Marcellino, il quale
ci dice avere Giuliano il nostro Aurelio Vittore preposto
come Consolare alla Pannonia e molto tempo dopo {multo
post) essere questo stato nominato urbi praefesfus.
Il risultato di tutte queste considefc'zioni noslre si può
adunque brevemente riassumere come segue:
In primo luogo non abbiamo ragioni per ammettere che
Vffistoria de Caesaribus sia l'estratto di un'opera maggiore
scritta da Aurelio Vittore.
In secondo luogo la così detta Epitome è certamente il
ristretto d'un'opera d'Aurelio Vittore e questa non potendo
essere quell'^/s /orza, così non v'ha ragione, per cui non
possiamo ammettere che
In terzo luogo V Epitome tutta quanta sia tratta dalla opera
principale di Aurelio Vittore.
— 514 -
Ma qui ci troviamo anco una volta a fronte d'un nuovo
dilemma. E questo consiste in ciò che da una parte pos-
sediamo un'opera originale di Aurelio Vittore, e come
abbiamo dimostrato pili sopra , un'opera in sé finita , e
questa è VHistoria de Caesarìbus : dall" altra rileviamo
àdXVEpitome^ che quella Historia de Caesarìbus non è
l'opera originale, di cui si servì il compilatore àtVCEpitome.
Se anche., al primo aspetto, questa contraddizione sembra
abbastanza forte per farci disperare che riusciremo a deci-
dere la questione nostra od almeno ci fa ritornare all'antica
idea nostra, pure piìi matura e pacata riflessione ci deve
mostrare che havvi un modo per venire ad una conclusione,
il quale, sebbene non possa valersi di positive prove e testi-
monianze, è pur tanto naturale e quasi da se ci si presenta,
così che siamo per meravigliarci, come non prima sia stato
trovato. Devono, cioè, avere esistito due opere di Aurelio
Vittore^ luna V Historia de Caesarìbus^ a noi pervenuta^ ed
un'altra da cui £ tolta l'Epitome ed andò perduta.
Quella fu il povero frutto del principio degli studii storici
dall'autore intrapresi in una lontana provincia, e in cui non
potè disporre di mezzi scientifici : questa invece il risultato
delle veglie di lunghi anni, di studii ripresi nelle circostanze
più favorevoli, nel centro della vita politica dell'impero ro-
mano, provveduto eziandio di tutti i sussidii letterarii, in
Roma stessa in somma, ed in un tempo in cui gli affari
del suo ufficio, che lo obbligarono di rimanersi fermo in
Roma, ad Aurelio Vittore concessero il necessario ozio per
studii e lavori scientifici.
Anche la natura dei due scritti parla in favore della no-
stra ipotesi.
Una serie d'inesattezze, che rinveniamo ne\V Historia
de Caesarìbus, e che possiamo rilevare mediante il confronto
delle altre fonti, appaiono corrette nell'Epitome^ il che è a
— 515 -
dire nella seconda edizione migliorata dQÌVMìsioria. Siano
ad esempio: Epit. Caes. II, io, in cui si danno a Tiberio
giustamente 78 anni (e 4 mesi), come risulta da Svetonio,
Tib.^ j'h, p. 117, 3, Tacito, Ann. VI, 56, ed Eutropio,
VII, II, mentre Caes. Ili Aurelio Vittore dà erroneamente
a questo imperatore 79 anni {cum... octagesìmum iwo minus
annòs egisset)\ Epitome Vili, ove corregge riguardo agli anni
di Vitellio Terrore di Caes. Vili, 6, aìinos natus septuaginta
quinque amplius, dacché ivi leggiamo il numero giusto :
Vixit annos qiiiìiquaginta septem. Di Tito leggiamo Caes.
X, 5 : vejieno interiit, mentre VEpitome^ d'accordo con le
altre fonti ci offre :/ei^r/ interiit. Sta scritto, Caes. X, 5;
biennio post ac menses fere novem, ndV Epitome X, i , in-
vece, probabilmente con maggiore verità ed in conformità
con Svetonio ed altri : imperavi t annos diios et menses duos
dicsque viginti. L'Opitz interpreta tutti questi luoghi per
lo più così . che le differenze deriverebbero dalle varianti
dell'originale comune.
Ammettendo la nostra ipotesi si spiega poi molto sempli-
cemente, come tutte le concordanze strane si trovino nei
primi undici capitoli.
È affatto erroneo quello che TOpitz (i), in ciò d'accordo
con M'àhly, sostiene, cioè in questo scritto consensum inde
vita Domitiani omnino non comparere., si unum locum
excipias {Caes. XL, 2 ed Epit. XLI, 2), intorno al qual
passo rOpitz, a vero dire, soggiunge: demonstrabo ali ter
iudicandum esse. Ciò dimostrano per esempio : De Caesa-
RiBus XIII, 8: Acquus, clemens, patientissimus atque in
amicos perfdelis: quippe qui Surae familiari opus sacra-
verit., quae Suranae sunt; ed Epit. XIII, 6: Liberalis in
(i) Confr. p. i^
- 516 -
amicos et ianquam vitae condì tiene par, societatibus per/mi.
Rie ob honorem Stirae, ciiius studio imperium arripuerat,
lavacra condidit. Caes. XIV, 2 . Ibi Graecorum more seu
Pompila Numae^ caerìmonias, leges^ g-vmnasia, doctoresque
curare occoepit, adeo quidem ut etiam ludum ìngenuarum
artium, quod Athenaeum vocant ^ consti tueret-, ed Epit.
XIV, 2: Hic Graects litteris impensius erudi tus^ a plerisque
Graecidus appellatus est Atheniensium studia moresque
hausit, politus non sermone tantum, sed et ceteris disci-
plinis, ecc. Caes. XVI, 2 ; Jgitur Aurelius, socero apud
Lorios... mortuo, ed Epit. XV, 7: Igi tur apud Lorios....
consumptus est (scil. Antoninus Pius socer). Caes. XVII, 4.:
Immiti prorsus feroquc ingenio, adeo quidem ut gladia-
tores specie depugnandt crebro trucidaret^ cum ipse ferrum,
obiectum veroni bus plu77ibeis, uteretur, ed Epit. XVII, 3:
Saevior omnibus libidine atque avaritia , crudelitate —
in tantum depravai us, ul gladiatoris armis saepissime in
amphitheatro dìmicarit. Ibid. 6: Ad extremum ab im-
misso validissimo palaestrita compressis faucibus exspira-
y//; e Caes. XVII, 8, 9: in palaestrajfi perrexit. Ibipermini-
strum unguendi — faucibus quasi arte cxercitii bracchiorum
nodo validius pressi s exspi rapii.
È adunque vero che una così evidente concordanza fra
i due scritti, che in alcuni luoghi qua e là è letterale, non
si trova più dopo il Capii. XI. Nulla di più naturale. Au-
relio Vittore, e lo ha dimostrato anche TOpitz passo per
passo, doveva per quei tempi, che sono descritti oltreché da
Tacito anche da Svetonio, valersi di quest'ultimo scrittore.
E lo aveva fatto già prima che s' accingesse al secondo
e più esteso lavoro intorno all'istoria degl'imperatori. Fonti
affatto nuove e più autorevoli per quel periodo il nostro
autore non potè adoperare né anche quando s'era trasfe-
rito a Roma, semplicemente perchè non ne esìstevano, per
— 517 —
cui è evidente che di nuovo accolse nel secondo suo lavoro
storico; e testualmente, alcune cose nel principio del novello
libro, mentre le altre parti del suo scritto richiedevano un
più profondo lavoro di variazione.
Il luogo citato da Opitz a p. 24 (i), cìohOaes. VII, 2 (2),
non distrugge la nostra idea riguardo air /Ustoria de Oaesa-
ribus. Posto il caso che sia giusta la lezione praecognitis
di questo luogo, essendo tal passo così isolato, molto più
facile sarà l'ammettere che qui siavi una lacuna nel testo,
che non tirare una conseguenza così grave, com' è quella di
inferirne, avere il libro carattere di epitome.
Per conclusione ci sia lecito di avvertire, come la latinità
àtWEpitome è molto più scorrevole, che quella ddVJIistoria^
osservazione che verrebbe facilmente confermata da ricerche
speciali. Persino si riconosce nell'Epitome una lingua più
squisita formata posteriormente in Roma, in età più avan-
zata dell'autore e nella conversazione con la gente colta,
mentre VHistoria ci oflre l'immagine non troppo lieta della
latinità de'Provinc'ali.
Finalmente non si può abbastanza insistere su un punto,
ed è questo, che sarebbe veramente strano, anzi inesplicabile,
come i due abbreviatori di una sola e medesima opera solo in
undici capitoli per caso talvolta avrebber oattinta la medesima
parola alla loro fonte comune, ma più tardi per un caso
uguale non avrebbe mai più avuto luogo questa concordanza,
anche quando si può provare un rapporto fra i due autori.
(i) Quae Caes. a narrantiir de Oxhoms praecognitis moribus intellegi
nequeunt, nisi iam antca his de moribus actum sit. Unde apparent
talia qualia leguntur Epit VH. Vita omni turpiSy riaxime adulescentia
vel similia etiam apud Victnrem antecessisse.
(2) Tutto il passo suona: Qui dies fere quinque et octoginta prae-
cognitis moribus potitus. postquam a Vitellio, qui "e Gallia desccnde-
rat, Veronensi proelio pulsus est, moriem sibi conscivit.
- 518 -
come di sopra abbiamo veduto Questa osservazione ci pare
un argomento convincente per poter asserire che è impossi-
bile la supposizione di una doppia Epitome e per dire che
siamoquasi costretti airipotesi che abbiamo più sopra esposto.
Lipsia, aprile 1873.
Ludovico Jeep.
CENNI SULLA SINTASSI
<T)ELLA LIV^GUA G7^EC^(i).
VI.
Alla sintassi della lingua greca di G. Curtius accadde,
ciò che di solito incontra di udire di tutte le opere, che
hanno in sé alcuna eccellenza, che cioè alcuni le chiamino
in colpa di cose, per le quali altri invece danno loro lode.
Mentre alcuni valentissimi maestri consigliavano il Curtius
ad allargare i termini della sua trattazione, altri d'uguale
autorità e valore vantavano come pregio principalissimo
di quella scrittura la brevità e concisione somma del ma-
teriale accolto nella medesima. Quelli che l'accusano di
soverchia parsimonia e di qualche oscurità ritorcono in ar-
gomento d'accusa contro di lui il fatto , certamente non co-
mune, che Fautore stesso ha creduto opportuno di dar fuori
degli schiarimenti al suo laroro ; della quale cosa noi in-
(i) Vedi fascicolo 7», pag. 3oi-3io, fascicolo 8°, pag. 341-365, fa-
scicolo X*, pag., 480-497.
— 519 -
vece, per conto nostro, ce gli professiamo debitori, come di
un gran servizio reso airinsegnamento, agli studiosi ed alla
scienza. Ma, comunque sia di ciò, è probabile assai, che il
vero, come suole, non stia tutto da una parte, massime ri-
spetto ad un lavoro, la cui perfezione non può non essere
graduale, come quello, che strettamente si collega alle fortune
progressive deirindagine linguistica. D'altronde lo stesso
egregio autore confessa d'essere andato molto a rilento nel-
l'accogliere la materia sintattica nella sua grammatica {Cotnm.
p. 160 MuUer). Né bisogna perder di vista il punto di par-
tenza deirindagine scientifica del Curtius, i risultamenti cioè
delia linguistica, e delle ricerche comparative, non potuti
ancora collegare a qualche unità di dottrina, per ciò che ha
tratto colla sintassi. — Il terreno, sul quale dovea sorgere il
nuovo edificio, paiea solido e fermo; poiché da quanto s'era
operato sul campo della morfologia, potea una mente pre-
veggente e di larghe vedute trarre buono auspicio anche per
la sintassi. E il quarto volume della grammatica tedesca di
Giac. Grimm potea parere molto istruttivo in questo rispetto.
Ma ad ogni modo bisognerà pur confessare che all'autore di
una sintassi greca sulla base dei risultamenti della linguistica,
grande riserbo era imposto dal fatto stesso, che una grande
incognita gli stava dinanzi da risolvere. Chi avesse voluto,
riconducendo i particolari a generali principi, dar forma più
attrattiva al lavoro spaziando per vacue generalità, avrebbe
forse potuto dar nel genio a qualcuno, ma non avrebbe posto
il seme fecondo di un'opera durevole. — Del resto il Curtius
ebbe anche sempre dinanzi il detto di Quintiliano: tnter
virtutes grammatici habebitur aliqua nescire. Di che fa te-
stimonianza solenne quel suo procedere cauto e circospetto,
per non varcare i termini segnati airellenismo, che è la meta
costante delle sue ricerche.
li disegno della sintassi del Curtius è semplice e chiaro.
— 520 —
Tutta la materia deirindagine è raccolta intorno a due punti
cardinali — i casi ed / modi. — Ecco la divisione naturale
dell'opera — dottrina dei^ casi , dottrina dei modi. Delle
altre parti, quelle che hanno una funzione sintattica, come le
preposi'{i<mi e le congiuniioni^ l'autore fa come due appen-
dici ; una delle quali si collega alla dottrina dei casi (le pre-
posizioni), Taltra (le congiunzioni) seguita appresso alla dot-
trina de'modi. — Legge invariabile e severa della tratta-
zione : — l'uso normale della lingua.
Il concetto, sul quale il Curtius fonda la dottrina dei casi,
è quello che la storia della lingua sembra additarne, e che
puossi riassumere in questa sentenza : — da un numero ab-r
bastanza esteso e accertato di relazioni e collegamenti pò-
tersi inferire, che nelle fiiniioni dei casi la lingua distingue
un uso prossimo, e un altro più remoto; cosi che l'ultimo
passo su questa via sia Fuso avverbiale. — Abbandonata la
teorica del localismo^ il Curtius fìssa come punto di par-
tenza nella sua indagine intorno all'uso dei casi la forma
(confr.. Comm. pagg. i6o, 164 Muli.). — La lingua greca
degli otto casi del sanscrito, ha conservato il Nominativo,
V Accusativo, il Genitivo, il Dativo. — Il caso locativo e i
due strumentali in -à e -bhi del sanscrito (strumentale I
singolare e li singolare e plurale dello Schleicher, Comp,
§§ 149, i5o Pezzi) andarono perduti nel greco, che ne con-
servò soltanto qualche traccia. Corrispondenti alla prima
{'0) sarebbero alcune forme greche avverbiali in n «^ a>
come TTavTìi, Tctxa, aua, iva; e al secondo {-bht) risponde-
rebbe il suffisso omerico (pi=bhi, che non ha però sempre
sìgnìficsLXo istrumentale {confr. Y\(piy pln^piy Od. q), 3i5. OKaìi}
^TXo? eXuJV, éxépnqpi bè XàSexo Tréipov, //. tt, 734). Talfiata esso
esprime compagnia (uso sociativo) (confr. &}x ^0? cpaivo-
Mévncpi, //. i, 618, 682); tal altra è locativo come in 6x€(J-
q«(v), '!Xió-q)vv, aÙTÓ-qpiv, kXkjìt)-?» (confr. Schleicher, //. ce).
-S21 -
Altre traccie di casi perduti veggansi presso Curtius {Comm.
p. 164 segg. Muli.). Il vocativo non è un caso, anzi nemmeno
una parola, nello stretto senso-, poiché esso non ha fun-
zione grammaticale, ma è una interiezione (confr. Schlei-
cher, Comp, § i34 Pez.). Nelle lingue Ariane, esso o non
ha desinenza, o assume quella del nominativo. Confr. màtar
(Sanscr.), infÌTep (Grec), màler (lat.) (Bopp. Gramm. Comp.
§ 204, Voi. I). Il concetto fondamentale, rispetto all'uso
dei casi, messo innanzi dal Curtius, sembra oggimai uni-
versalmente accettato. Gli scrittori di Sintassi, tanto tedeschi,
che nostrali, come il Koch (Griech. Schulgr. §§ 82 segg.) {i)
e Vlnama {Sintassi, §§ 347 segg.) (2), si son messi franca-
mente sulla via aperta dal Curtius, salvo qualche disvario
nella ripartizione della materia, e nella terminologia-, disvario
però, che in qualche rispetto è sostanziale.
Tenendo ragione di una grammatica greca, destinata al-
l'uso delle scuole, potrebbe parere un fuor d'opera lo inda-
gare le ragioni interiori e quasi speculative delle dottrine
sulle quali si fonda ■ si bada più all'effetto, che ne deriva
in ordine all'insegnamento ed alla pratica. Questo potrebbe
dirsi delle tre Sintassi greche, che ora ci stanno dinnanzi.
Gli è che a un cosiffatto empirismo mal sapremmo accon-
ciarci ; e tanto meno in quanto avendo queste tre scritture
molti punti di contatto fra ioro^. si presentano più oppor-
tune ai riscontri in ordine a ciò che le unisce o le differenzia
ne' riguardi più generali della scienza, salvo che nel Curtius
noi salutiamo l'autore e maestro principalissimo del nuovo
indirizzo dato anche alla trattazione della Sintassi.
Allorquando, nello esporre la dottrina dei casi, i gram-
(i) Lipsin, 1871, //• Edi:(. — La I» edizione di questa Grammatica
è dell'anno 1868.
[i) Grammatica Greca, Parte seconda. — Milano, Valentiner, 1870.
Vjvista di Jitologia ecc., I. 35
- 522 —
malici, che noi chiameremo più recemi, sentenziano, che si
debba prender le mosse dalla forma, come da unico punto
di partenza sicuro , essi affermano cosa, della quale nessuno
potrà andare più di noi coìivinto; poiché della Sintassi eb-
bimo sempre questo concetto, che ella sia una cotale somma
di osservazioni, raccolte all'uso della lingua, con istretto ri-
ferimento anche al lato formale della parola. Allo stato pre-
sente però dell'indagine scientifica, la questione, rispetto ai
casi, non pare risolta, che da un lato solo, compiutamente,
che è il negativo. Non v'essere cioè ragione sufficiente in
ordine alla scienza per lasciar correre le dottrine dei loca-
listi. Infatti dei cinque casi rimasti al greco, il nominativo^
il vocativo, Vaccusativo costituiscono uìi gruppo. Ma il no-
minativo è designato dalla sua stessa originaria uscita prono-
minale, — sa, ó — ad essere il caso del soggetto (Schleicher,
Comp. § i37 Pez.j, 11 vocativo è già stato eliminato dal
ruolo dei casi (vedi sopra), e Vaccusativo mal s'acconcia
all'originario ufficio di terminus ad quem, nel senso de' lo-
calisti, perchè l'indagine linguistica ci persuaderebbe piut-
tosto a rappresentarcelo come vicario del nominativo, in un
periodo assai remoto delia vita delle lingue Ariane; quanto
all'altro gruppo di casi, cioè al genitivo e dativo, sui quali
s'è venuto concentrando via via un maggior numero ^i fun-
zioni (confr. Schleicher, Comp., Declinaz. dei nomi, passim),
forza è pur confessare, che per la grammatica speciale della
lingua greca mal si potrebbe accettare il locativo, come si-
gnificazione fondamentale di essi. Ma quale significato e uso
dei casi sia da ammettere, come originario, dal quale gli
usi posteriori fossero come derivati, l'indagatore prudente e
circospetto non può affermare per ancora. E così fu ab-
bandonato il mal vezzo di voler forzare e significato e uso
dei casi, per ricondurli a certe formule significative, fermate
a priori. Proscritto adunque l'arbitrio, abbandonato il con-
-^523 —
cetto del localismo, ne si potendo ancora, allo stato presente
delle cose, fermare nessun contenuto generale, inerente a
principio al concetto de' casi, la soia via di uscita,, clic pa-
reva restare, era questa: raggruppare intorno alle forme
dei casi i vari ordini e specie di /milioni e relaiioni, che
l'osserva-^ione delVuso concreto e accertato della lingua fosse
venuta additando^ colla scorta di corretto criterio analo-
gico, e muovendo sempre dall'uso normale e piii diffuso.
Non ci sfugge però, che per tale maniera una grossa e se-
ria difScoltà s'affacciava alla grammatica, quella cioè di dover
procedere sempre con somma cautela. Non è però a cre-
dere, che la linguistica ci abbia destituiti affatto d'ogni cri-
terio di ordinamento rispetto alle funzioni dei casi. Noi lo
abbiamo già accennato quassopra, che la lingua cioè distingue
fra un uso più normale e un uso più raro e più remoto.
Nella pratica della grammatica speciale f[uesta tendenza delle
lingue si presta ad una trattazione abbastanza chiara e ordinata,
ne molto disforme dalle buone tradizioni. In questo concetto
generale, fissato dal Curtius, concordano il Koch e Tlnama,
salvo che quest''ultimo raggruppa, p. es., molto opportuna-
mente le varie funzioni dell'accusativo nelle due rubriche A)
di accusativo dipendente (§§ 264, segg.), che abbraccia gli
accusativi interno, esterno, dell'oggetto doppio, del predi-
cato del Curtius, e B) di accusativo indipendente, che cor-
risponde sXV accusativo più. libero del Curtius. E poiché
siamo a parlare dell'accusativo, diremo di quell'appellativo
interno, che il Curtius applica a questi accusativi che hanno
affinità di radice, o affinità di significato col verbo, al quale
sono uniti come oggetto {Gr. Gr. § 400, a, b, e). Anche
al nostro Inama è parso buono questo concetto, e l'ha in-
trodotto nella sua Sintassi (^ 356). — E in sostanza quello
che gli antichi chiamavano axniiia èiui-ioXoTiKÓv (figura ety-
mologica). 11 Koch lo addimanda invece accusativo del con-
— 524 —
tenuto {des Inhalts , § 83, iv) , suiresempio del Kriiger
{Gr. Gr. § 46, 5). È una tendenza assai notevole della lin^
gua greca, e che meritava certo di essere segnalata nella
grammatica particolare. Il Kuhner Tha pur esso notato
(§ 159, 2), ma a modo suo, ascrivendolo agli accusativi di
eletto. Il Krùger (/. e.) tratta questa particolarità della
lingua con molta cura e diifusione e dovizia grande di esempi.
A vero dire noi non saremmo inclinati ad approvare né
Tuno né Taltro appellativo, parendoci che in parte dicano
troppo, in parte siano difficili ad essere compresi. La no-
zione di quest'uso fu messa innanzi la prima volta, cre-
diamo, da Federico Haase nelle Annotazioni alle legioni del
Reisig (1839, Lipsia. Not. 609, 559). Il Curtius {Comm.
pag. 168, Miiller) vorrebbe .^stenderne il concetto anche ad
usi liberi ed affatto avverbiali , come nella nota locuzione
omerica dKfiv eaav ; e vorrebbe trovare un riscontro a questo
uso nel supino dei latini in -tnm^ come in nuticiaium ire,
e poi nei modi injìiias ire, e persino nel passo di Plauto:
alias res est impejise improbus {Epid. iv, i, 39). E la non
sarebbe codesta forse un'illazione un po' azzardata per amor
di sistema ? Quanto airdKfjv eaav, l'osservazione del Curtius
si fonda sulla natura' del verbo sostantivo (etvai), il quale
ammetterebbe il concetto d'un oggetto interno. Però, noi
domanderemo, e come si spiega ràKfjv icrav (7/., ò, 429),
dove quel preteso accusativo interno è unito ad un verbo di
moto ? E l'altra locuzione omerica OKriv èTévovTo (5\\ymf\ {IL, 8,
95) ci farebbe considerare ÓKriv come un avverbio. Quanto
poi alla denominazione accusativo del contenuto, usato dal
Kriiger e dal Koch, n^ pare che la sia troppo vaga e in-
determinata. Ecco con quali parole la definisce il Kriiger
(§ 46, 5) : « Egli accade in greco, con più di frequenza che
« in altre lingue, di trovare unito al verbo un . accusati\ o
« di radice o di significato affine, talfiata come oggetto tran-
- 525 —
k sitivo, tal'altra come segno dell'oggetto, al quale l'azione
«si estende, come <7 suo contenuto ». Esempi di ciò sono:
(puXaKÙ? qpuXÓTTeiv - bouXeiac òouXeueiv - eàvarov ànoevricrKeiv
- vó(Jou<s KÓjaveiv - tòv lepòv nóKeiuiov èorpaieucrav - étTravra
bouXeOeiv - jj juetaXa buvaaSai - 9pov€Ìv èXacWova - oùbèv
(ppovrijuj - e molti altri. Da questi esempi, che abbiamo ar-
recato togliendoli in gran parte al Krliger, massime quelli
che abbiamo posto dopo le due linee verticali, e in molti
altri è facile vedere come per questa vìa si pervenga all'uso
puramente avverbiale. Ma ad ogni modo non possiamo in-
tendere perchè debbasi chiamare del contemdo un cosiffatto
accusativo, in opposizione ad altri usi, nei quali l'oggetto
sarà forse un po' più remoto , ma che ciò nullameno sarà
sempre il contenuto, ossia il termine dell'azione. P. es. tutttuj
TÒV boOXov - qpiXov Ùjqp€Xfì(jai - ecc. La denominazione poi di
accusativo interno indurrebbe quasi a credere che l'azione re-
stc\sse quasi nel soggetto, ciò che non e, perchè nell'uso in <pu-
XaKà(; qpuXàTTcìv, è bensì vero che l'oggetto sembra come legato
al verbo con un vìncolo interiore -, ma ad ogni modo, gram-
maticalmente, il passaggio dell'azione è chiaramente indi-
cato dalla forma del costrutto. A noi sembra talfiata che
questo accusativo potrebbe senz'altro addimandarsi di rela-
zione prossima, se l'oggetto è affine di radice, remota se af-
fine dì significato col verbo. Cosr p. es. noi vediamo che il
Kriiger allega il vócTou? Kà)av€iv fra gli accusativi del con-
tenuto; e rinama (§ 359) fra gli accusativi di rela-^ione
cita KÓiiveiv toù? nóba?. Parrebbe quindi che un modo d'in-
tendersi ci fosse. Ma d'altra parte , quando consideriamo
locuzioni simili alle seguenti : ^Xkqi; oÙTacTai - òpKia rciiaveiv -
Ypacpriv biduKeiv - *OXujiuia vikùv - vóOtov òbupófievoi , che sono
allegati dal Curtiiis alla rubrica àcVCoggetto interno (§ 400)*,
crediamo al postutto che tutta questa categoria fosse da ri-
maneggiarQ, e fosse da vedere piuttosto se per avventura
— 526 —
non ne sia stata allargata di troppo la sfera , in parte per
amor di sistema, in parte perchè da qualche uso più raro
siasi voluto inferire ad analogie più larghe, alle quali avrebbe
obbedito il genio della lingua in questo rispetto. A noi pare
che locuzioni come son le seguenti: iróXeiaov rcoXeiieiv - 'é\-
K0<; oÙTctaai - '0Xu|ui7na viKav - òpKia TcijLiveiv, non possano es-
sere ridotte ad un concetto grammaticale unico; salvo che
nel giro di una categoria, non s'introducano delle sub-ca-
tegorie, come ha fatto il Curtius; ciò che ne pare artiticioso
troppo. E si potrebbe ragionare anche così. EJfetio, e quindi
oggetto necessario e diretto di uoXeiiieTv non può essere che
TTÓXeiaov. Ma né effetto né oggetto necessario di viKàv è
r'OXujbiTtia, né di Tà|iveiv TopKia. Così del Kàjaveiv effetto ne-
cessario è vóaou?, ma non toìjc, -nàhac,, potendo altri KÓfiveiv
xfiv KecpaXiiv. Ve quindi un effetto diretto ed uno indiretto
dell'azione di certi verbi. Abbiamo messe innanzi queste con-
siderazioni al solo scopo di mostrare agli avversari dei nuovi
metodi che neanche fra i novatori s'è detta ancora V ultima
parola rispetto a molte questioni. Prima di chiudere questi
cenni sulla dottrina dei casi, ci rechiamo a debito di ri-
chiamare l'attenzione degli studiosi sul cap. xv della Sintassi
dell'egregio prof. Inama , che tratta delia ^roposii^ìone atn-
pliata,Q cht ci sembra notevole per c/izare:?^^, novità e cor-
retto criterio di trattazione. Importanti sono pure le os-
servazioni che seguono al § 847, che tratta del genere, nu-
mero e caso dei nomi. Alla dottrina dell'accusativo nella
Sintassi del signor Inama segue un capitolo (§§ 366-371),
dove si tratta degli usi del genitivo e del dativo per in-
dicare rapporti di luogo e di tempo. Il materiale scienti-
fico di questi paragrafi è eccellente; approviamo anche il
concetto di raggruppare questi usi avverbiali. Ne pare però
che l'egregio autore vi avrebbe potuto unire anche Vaccusa-
tivOf che ha pur esso usi affini. Ancora, noi desidereremmo
- 527 —
che questo capitolo fosse dislocato e posto come appendice
in calce alia dottrina dei casi. Scientificamente forse questa
repartizione non sarebbe esente da censure, perchè di cia-
scun caso è bene che si veda il trapasso dall'uso proprio
all'uso più remoto e più libero e avverbiale. Ma noi va-
gheggiamo una repartizione delia dottrina dei casi, che, pur ,
rispettando i postulati della scienza, serva alla chiarezza e
ai bisogni dello insegnamento. Il signor Inama, se non er-
riamo, accenna a cosiffatto indirizzo, e noi l'approviamo.
La Sintassi dell'Inama dispone la dottrina dei tre casi ob-
bliqui nell'ordine che segue qui appresso : a) dell'accusativo,
b) del dativo, e) del genitivo. La ragione scientifica di que-
sta novazione non può essere, crediamo, altra di questa,
di raccostare cioè il dativo all'accusativo, parendo che il
punto normale di partenza per la trattazione di questi due
casi sia la loro unione co' verbi ; mentre pel genitivo è l'u-
nione co^ sostantivi. Questa osservazione è forse sfuggita
al Curtius nel repartire la materia dei casi, perchè la distri-
buzione fatta dairinama scende diritta dal principio pur ac-
cennato chiaramente dal Curtius nel Commento (pag. 168
Mliller).
Ma veniamo alla dottrina dei Tempi e dei Modi.
Questa parte della sintassi greca , come quella che pa-
reva più necessitosa di aiuto e di riforma , attirò sopra di
sé in principalità l'attenzione e la cura degli studiosi. E
bisogna pur confessare che la messe raccolta su questo
campo fu ricca e abbondante. L'indagine storico-compara-
tiva dischiuse daddovero un nuovo orizzonte, sotto il quale
la dottrina della proposizione composta, rischiarata di nuova
luce, fu collocata sopra l'incrollabile fondamento della forma
e dell'uso accertato. Anche in questo riguardo il nome di
G. Curtius si collega a tutto che v'ha di progressivo e di
nuovo e veramente razionale-, quantunque molto utili ed
— 628-
acuie osservazioni sull'uso e significato, dei tempi massime,
avesse fattt già il Krliger (i). 11 merito principalissimo dei
Curtius sta, secondo noi, in ciò: nelPaver saputo cioè col -^
legare la dottrina della pi^pposi^ione composta alla teorica
dei modi, sciogliendo così il problema vero di ogni sintassi,
che è lo studio delle funzioni della parola nel discorso. Il
quesito fu posto dal Curtius in modo chiaro, scientificamente
esatto e conciso, da non lasciare più dubbio sul metodo non
foss'altro della trattazione. La propQsi\ione adunque non è
un contenuto logico, al quale la grammatica non possa ac-
costarsi, se non a traverso d'una qualche formola psicolo-
gica, più o meno astratta. Il coìitenuto e la forma si chia-
rirono perfettamente concordi nel procedimento. La scienza
adunque confermò il detto antico della scuola ; Quod enim
in singulis dictionibus paratur sensibile, id est intelligi-
bile , quodammodo elementum est orationis perfectae »
{Prisc. xvii, pag. io35 P.). Dì grande momento per la co-
noscenza dell'uso e della significazione dei Tempi e dei
Modi fu lo studio comparativo intorno alla natura: a) del-
Vaumento, che in seguito all'indagine scientifica si chiarì come
il solo mezzo che la lingua possieda per indicare il passato
(confr. Schleich. Comp. §§ 169, i83 Pez,)*, b) della rad-
doppia\ione ^ come carattere dell'anione compiuta (Id. i^.,
§ 182); e) intorno al disvario fra la qualità dell'azione,
espressa da tempi derivati dalle Radici pure verbali, ovvero
dai Temi del presente-, d) intorno ell'origine e natura delle
congiunzioni ; e) intorno alla forma vera e storicamente ac-
certata del collegamento delle proposizioni; cioè della pa-
ratassi e della ipotassi, nelle tre forme della coordina{ione,
correla:{ione e subordinamento.
Queste ricerche, e i risultamenti che a quelle seguirono,
(i) Vedi il § 53 della Gramm. Greca, che ha per titolo Zeitformen.
- 539 —
infusero tutto il rigoglio di una vita nuova in questa parte
della grammatica, sfatando la vecchia dottrina delia, cojisec ut io
modorurfiy alla quale ancora il Krùger fa omaggio, non fosse
altro perchè /JiM succinta e pili spedita {Grainm. Gr. § 54,
5 Not.). Alcune innovazioni degne di nota ha recato a questa
parte della Sintassi Ad. Fed. Aken colla scrittura, che ha per
titolo : Grundiìige der Lehre vom Tentpus und Modus im
Griechischen, historisch und verghichend {\)\ delle quali ter-
remo ragione qui appresso. Alle vedute deirAken, massime
per ciò che spetta la repartizione dei tempi e dei modi, si
accosta Ernesto Koch nella sua opera « Griechische Schid-
grammatik auf Grund der Ergebnisse der vergleicheriden
Sprachforschung » (Lipsia, 187 1, 2* ediz.). Il prof. Inama
consultò e studiò queste opere, ma neiraccettarne i risulta-
menti stimò opportuno di procedere assai circospetto, e nella
trattazione di questa spinosissima materia seppe mantenersi
affatto indipendente da spirito sistematico.
Nel fissare la repartizione dei tempii il Curtius ha voluto
determinare con vocaboli particolari e significativi il duplice
punto di partenza, dal quale, secondo lui, e' si vuol pren-
dere le mosse nello studio delle relazioni temporali del verbo.
Nell'azione adunque vuoisi considerare a) il grado; b) la
qualità {Grattini, grec. §§ 484 segg.). Con quello egli designa
// putito dal quale si considera l'anione [Comtti. pag. 177,
Muli.). L'azione 0 è contemporanea a quel punto, dal quale
la considera chi parla, o è anteriore ad esso, come un grado
già passato; o è posteriore ad esso, come un grado, che
si vuole raggiungere. La qualità del tetnpo poi indica la
differenza intima nel giro dell'anione istessa, prescindendo
dalla relazione con qualche cosa, che sia estraneo alla me-
desima. La tabella seguente chiarirà meglio il concetto del
Curtius.
(i) Rostock, 1861.
-530
qualità'
C3rJR jf^lD CD
PRESENTE
PASSATO j FUTURO
Durativa
Indie. Pres.
Gong. Ott. Imper,
Indie. Imperfetto
Inf, Part.
—
Incipiente
— —
Indie. Aoristo
Gong. Imp. Inf. Ott,
deìl'Àoristo
Futuro
Compiuta
Indie. Perfetto
Gong. Ott. Imper.
Inf. Part. del Per/etto
Piuccheperfetto
Futuro esatto
Il Koch (§§ 95, 96) s'accosta alle vedute del Curtius ri-
spetto alla repartizione dei tetnpi del verbo*, però egli tra-
scura il concetto del grado del tempo., come punto di par-
tenza, dal quale si considera l'azione, e la triplice qualità
del tempo egli fonda sul criterio in parte formale, in parte
logico, quale ne è pòrto dalla linguistica in ordine alla dif-
ferenza che corre fra i tempi che derivano dal tema del pre-
sente, e quelli che derivano dal tema verbale.
Ecco lo schema della repartizione, secondo il Koch:
QUALITÀ' \DELL q4Z107<ÌE
2?
cs
9»
*5
s
cs
eo
SS
1®
1 —
il
Dal
Tema Verbale
(Radice)
_
Aoristo
(ànéSavov)
Futuro
(àiToGavoOjiai)
Dal
Tema del Presente
Presente
^aiio0vfiaKui)
Imperfetto
(à7té6vr}aKOv)
—
Dal
Tema del Perfetto
Perfetto
(réevTjKo)
Piuccheperfetto
(fcreBvriKeiv)
Futuro esalto
(xeevnEui)
-531 -
Sette tempi adunque possiede la lingua per esprimere la
triplice qualità deirazione-, due tempi dd presente, due dei
futuro, tre del passato; ma questi tre sono propri soitanco
ddVtndicatìPOy essendo Vaumento il solo e vero carattere del
passato. La dottrina dei tre temi^ fondata dalFAken, e ac-
cettata dal Koch, si basa sul concetto seguente: i) I tempi
che derivano dal tema verbale puro (radice) esprimono l'a-
zione assolutamente ; sovente però essi accennano al comin-
c/izmen/o dell'azione (azione incipiente) (confr. Kriig. Gramm.
Greca, § 53, 6 dell' aoristó)\ 2) I tempi derivati dal tema
del presente designano un'azione, che addiviene, o che si
sta svolgendo, e che per ciò appunto perdura (azione du-
rativa) ; 3) I tempi derivati dal tema del perfetto accennano
ad un'azione, che è nello stato di suo compimenio (azione
compiuta) (V. Koch, § gS). Ecco qualche esempio;
Anione incipiente Apone durativa Apone compiuta,
o passata indefinita.
(porsi airope- (^^ ^^*^ ^^"°^° ( "" t^^^'« ^'?"
uoif^oaira, por mano itoi6ivM^-'/°'?'^o'=- ntiroiriKévui to,hoassolto
] a.Q r ] capato intor- ' ) il mio córn-
' ^* ' ' no a q. e. ' pito, lavoro.
(darsi alla fu- iei fugge, va er- /
9UTÉ^v _- ^f,,prj\r(. «peÙTeiv rando fuggi- ireqpcuTévai sono al sicuro.
( &^' Sfuggire. I ^j^Q I
, i . fxvf^\mi studio di . , ^^'^''^ imparato
Yvùvai riconoscere jj^^jy conoscere ^*v<JUKévai a conoscere,
( ( ' (so.
Con questi ed altri esempi il Koch si studia di chiarire
il suo concetto intorno alla triplice qualità dell'azione, fon-
dato sulla differenza del tema, onde il tempo è derivato.
Crediamo che per ridurre a rigore di principio scienziale
cosiffatta teoria saria mestieri forzare in troppi luoghi il
lessico, e un po' anche il pensiero degli scrittori. E in ciò
siamo perfettamente dell'avviso del professore Inama [In-
trod. pag. iv). Che il sentimento della lingua fosse inteso a
designare con quel fenomeno dei temi doppi, nei verbi, nei
- 532 -
quali hanno luogo, qualche cosa di più significativo che non
sia per avventura il criterio formale ed esterno; in tesi ge-
nerale potrà forse parer probabile (confr. Curtius, Comm.
pag. 87 Milli.). Ma la è codesta una grossa questione, di
grande momento anche per la morfologia. Però il fondare
su questo fenomeno una dottrina cosi importante, come è
quella dell'uso dei tempi, può parer cosa un po' arrischiata.
Il valore infatti, che allo stato presente dell'indagine si può
attribuire alle forme derivate dal tema verbale, non è di re-
gola un valore significativo, quale sarebbe quello di azione
incipiente^ salvo in qualche caso, come ad es. in qpuTeiv,
ma piuttosto un valore etimologico. Ciò apparisce chiaro
massime da quelle forme, che il Grimm chiamò forti^ che
nascono come dire per effetto di una forza interiore, la quale
produce un cambiamento nella radice, senza aggiungimenti
esterni. Che delPaoristo sia molto diifuso il significato di azione
incipiente, contrariamente all'azione durativa del presente e
dell'imperfetto, è cosa accertata oggimai. Ma non di rado
Taoristo accenna anche ad azione passata indefinita. Ad ogni
modo questo divario nella qualità dell'azione è attestato dal-
l'uso, e non da criteri morfologici ; esso si fonda sopfa un
vago sentimento della lingua.
D'altra parte non in tutti i verbi il tema verbale si diffe-
renzia dal tema del presente; cosi ad es. tutti i vei^bi puri,
salvo alcuni pochi in €iy (-eFuj), e molti degli impuri^ come
ópX-u), Xéx-iw non presentano il disvario, voluto dal Koch, per
fondare su di esso la sua dottrina dei tre temi. Quei pochi
verbi poi della categoria dei puri, come paOiXeuu), fiTéo)nai,
ìaxuuj, ttXout^u», noXen^u), Oapfféiu, épàiu (?pa)nai), oìk€uj, i cui
aoristi èpaor!X€u(5a, f^fn<7aMnv, tcTxoaa, énXoiiTnoa, èiToXéjiTìOa,
èeàpOTicra, Vjpdcyetiv, dJKricfa, ai quali è da aggiungere ^pHa da
dpxuj, quantunque non derivati da un tema verbale diverso
dal tema del presente, pure nell'uso dinotano chiaramente
-533 -
l'anione incipiente, il diventare, l'entrare in un certo stato
o condizione; accennano insomma ad un moto per sé, con-
trariamente al presente, che dinota lo siato, l'essere o tro-
varsi in uno siato o condizione {i) \ questi, diciamo, testi-
moniano tutti contro la dottrina dei tre temi verbali. La
sola classe degli incoativi^ la vi* del Curtius, potrebbe con-
fortare quella teorica : ma di questi è troppo ristretto il nu-
mero, e d'altronde di nessun altro suffisso, crediamo, si po-
trla fissare il valore significativo con pari certezza. Arroge,
che nei verbi di questa cUsse, il concetto d'azione incipiente
si collega piuttosto alla forma del presente che a quella del-
Taoristo.
Il prof. Inama, nello svolgere la dottrina dell'uso dei tempi
(§§ 421 segg.), s'è discostato dal modo di trattazione seguito
dal Curtius e dal Koch. Perciò egli non ha creduto oppor-
tuno di fermare quasi a priori le categori»;, fissate da quelli;
s'attenne strettamente all'uso della lingua, la quale nella de-
terminazione del tempo non pare che fosse intesa come a
statuire concetti assoluti di azione, salvo che per Wwristo
forse. In ciò il prof. Inama sembra accostarsi alle vedute del
Kriiger {Gramm. Gr. § 53, I, i). « Ogni determinazione
« temporale è relativa, così il Kriiger (/. e), cioè essa ha
« bisogno di riferirsi ad un'altra azione, in ordine alla quale
« essa ci apparisce tale, quale la sua forma ce l'appresenta.
« Non V è perciò nessun tempo assoluto. Molto meno po-
« triasi concepire come tale il presente^ il quale si contrap-
« pone a due termini, al passato e al futuro, de' quali esso
« è il termine divisorio. » L'Inama quindi repartisce le forme
dei tempi in tre gruppi: A) tempi dei presente {presente e
per/etto; §§ 422-424); B) tempi del passato {imperfetto e
piuccheperfetto; §§ 425-426); C) tempi del futuro {futuro
(i) Vedi Kruger, Gramm. Gì. 53, b, i. — Inama, ^ 4-27, 1.
- 534 -
semplice e futuro perfetto; l^ 430-431). In questa riparti-
zione il termine relativo deirazione h o la persona che parla,
rispetto alla quale l'azione è per Tappanto o presente o pas-
sata o futura (è ciò che il Curtius chiama il grado dell'azione):
ovvero un'altra anione; e in questo rispetto Fazione si con-
sidera o come coìitinua, ocome compiuta, nel giro di ciascun
gruppo, salvo che nel primo (gruppo del presente)^ al con-
cetto deirazione che diventa o perdura ovvero che è già ac-
caduta e compiuta, mentre la si enuncia si connette pur quello
di azione contemporanea a chi parla.
Riassumiamo questa dottrina in uno schema.
!!
il
(A)
Tempidel Presente
(B) (C)
Tempi dei Passato Tempi del Fularo
1 Azione continua
tj relativa a chi parla,
e contemporanea
Azione compiuta
e relativa al presente
Presente
Imperfetto
Futuro
semplice
Perfetto
Azione compiuta
e relativa
ad altra anione
—
Piuccheperfetto
Futuro perfetto
Azione passata,
ma indefinita
~
Aorìsto
—
Uaoristo, come si pare da questo schema, fa parte da se-,
esso indica un^azione passata, senza altra determinazione
[Sin. § 427, i). Al prof. Inama non sorride troppo il con-
cetto di azione incipiente, tanto accarezzato dal Curtius-, egli
vi accenna vagamente al § 427, 2. Per cui Taoristo è il tempo
del passato, xar 4Hoxnv, il tempo storico, nelle narrazioni.
La dottrina dell'uso dei modi ebbe sinora, nella gramma-
-sa-
lica speciale della lingua Greca, miglior fortuna, oper lo meno
riuscì a risultamenti più chiari e più accertati, che non si
abbiano avuto ìe altre parti della Sintassi. L'aver fondato
sovr'essa tutta la dottrina della proposizione composta, traen-
dola fuori dai vieto empirismo di quella che le scuole chia-
mavano consecutio modoj'um, fu un vero progresso in ordine
alla scienza, del quale gli studiosi del Greco vanno debitori al
Curtius. Al quale noi ascriviamo a merito principahssimo
l'aver ricostituita la grande unità della proposizione compo-
sta, stata bistrattata prima dal Kùhner, e scissa dappoi dal
Krùger. Parimente noi gli ascriviamo a merito Taver fis-
sati nettamente i termini e le forme del collegamento delle
proposizioni, in ordine ai tipi tradizionali della paratassi e
della ipotassi, fermandone il contenuto con brevi e chiare
nozioni. Quanto a copia d'esempi lascia forse a desiderare
qualche cosa^ ma in parte vi sopperì nelle edizioni posteriori,
in parte gli valga di scusa un fatto, non sempre apprezzato
ai suo giusto valore, che egli cioè sopra tutto e prima d'ogni
altra cosa è un linguista comparatore. Ciò che poi gli ri-
donda a maggior lode, essendo stato il primo che abbia sa-
puto e potuto costruire il nuovo edificio della Sintassi Greca
sui fondamenti dell'indagine storico-comparativa. Anzi il
Curtius è il vero rappresentante della scienza comparata del
linguaggio nelle sue attinenze colla grammatica classica.
Alquanto manchevole, è pur forza il dirlo, è la dottrina
àtWd. proposizione semplice (^ 5o7-5i8). In questo rispetto
la Sintassi del Koch segna un vero progresso. Il capitolo
della proposiiione indipendente {^ 104-107), elaborato sullo
schema fondato dall'Aken [Gì-iindiuge ecc. § 59), è meri-
tevole al tutto di studio e di considerazione. Ivi le propo-
sizioni indipendenti (semplici) sono distinte in due categorie;
A) delle proposiiioni affermative; B) delle proposizioni
volitive (Urtheilssatz-Begehrungssatz), nell'ordine che segue
qui appresso:
— 536 —
A) Proposizioni affermative. B) Proposizioni volitive.
i) Indicativo (où). a) Imperativo {)xr\).
3] [Congiuntivo coll'fiv (où)]. 4) Congiuntivo senza &v (jurj).
5) Ottativo coil'fiv (où), 6) Ottativo senza fiv (\xr\).
7) Passato coll'dv (où). 8) Passato senza óv {\xr\).
Esempi: i) KaXiij? exiu (où). 2) qpeuTC {m). 3) Kaì note T15
e^TrncTiv [Om. II. 6, 459). 4) vOv ?a)|iiev xaì àKovjcruJiaev toO
óvòpói; [Plat. Prof, 3 14 B). 5) òìq i(; tòv aÙTÒv Troraiiòv
oOk àv eupairi? (P/^^ Cratfl. 402 A). 6) eiGt htIttotc Tvoin?
6? el {Sopii. Oed. 1{. 1068). 7) <t>ai5 eì |Lif| cTxonev, S^oioi
ToT<; TuqpXoT^ av nfiev {Senof.y Mem., IV, 3, 2). 8) àXX' u)9€Xe
)ièv KOpo? Z:fìv èira bè leTeXeuTriKe {Seno/. An. II, i, 4).
I modi poi, considerati come la espressione significativa
della relazione fra rattività, come essa viene enunciata, e la
realtà, sono distinti in quattro categorie (§ 104). i) Il modo
della realtà (modus realis), che è Vindicatipo. 2) Il modo
delia aspettazione, che è il congiuntivo. 3) Il modo del-
Tazione puramente pensata o presupposta, che è Vottativo.
4) II modo della ineffettuazionc, dell'azione preterita (der
Nichtwifklichkeit, modus irrealis). A quest'uso serve W pas-
sato. Il concetto di questo modo {irrealis) si fonda sul-
l'osservazione di un cotale uso, molto esteso, dei passati,
comune tanto al greco, quanto al latino. La è una strana
particolarità di queste due lingue quella per cui azioni o
credute possibili ancora^ ovvero non credute possibili og-
gimai pili., per esserne trascorso il tempo o l'occasione,
vengono espresse col modo della realtà, ossia coi tempi sto-
rici deirindicativo (imperf., piucch., aoristo in greco, e col-
l'imperf., piucch. e perfetto in latino). Si pensi alle forme:
eòei, xP^v, Kaipò? f|V, TTpoafìKev, fiHiov nv, €Ìkò<; fjv, bÌKaiov fjv
- oportehat, oportuit, poteram, potui, debebatn, debui,
aequum erat, decebat, oportuerat, utilius fuii, ^cc. (confr.
— 537 —
Zumpt, Gratnm. Lat. § 5i8; Schultz, Gramm. Lai. §336;
Madvig, Gramm. Lat. § 348 e). È difficile il poter dire,
crediamo, a qual impulso obbedisse il sentimento della lin-
gua nel foggiare quest'uso. Pare ad ogni modo che la realtà
della effettuazione fosse il punto di partenza di esso. Uotia-
tivo invece, accompagnato dall' dv, come il presente congiun-
tivo del latino {yelim, passim) accenna a possibilità astratta,
a desiderio vago, indistinto delPeffettuazione. Il sentimento
moderno sospinge la lingua piuttosto verso l'ipotetico, il con-
dizionale, il desiderativo. — Del resto siccome quest'uso dei
tempi storici (passati) ha poi una larga e importante parte
ne' costrutti della correlazione ipotetica (Tipo 2° del Curtius,
§ 537; Tipo 4° deir/w^w^, §438, 4, 4', Tipo 4^ del Koch,
§ 114, 4): così ne sembra, che non vi sia sufficiente ragione
per statuire un modo particolare per quest'uso dell' indica-
tivo, come fa il Koch, e che sarebbe sufficiente, che si par-
lasse di un uso ipotetico delV indicativo nelle proposizioni
indipendenti (semplici).
Questa parte della Grammatica del Koch (§ io5, S —
loC, 3) non manca di una certa novità: però qualche di-
stinzione v'è troppo sottile, come ad es. quella al § io6, 2,
dove Tautore si studia d'indurre una distinzione fra la lin-
gua greca che adopera il modo della ineffettuazione {irre-
alis) , anche quando si pensa come fuori della realtà , non
già la facoltà (das Konnen), ma \''a':[ione espressa coU'infì-
nito -— e la lingua latina, che, più logica, usa il modo della
realtà.
I^a parte, che segue a questa, nella Grammatica del Koch,
{^l j I o - 1 1 8), e che tratta dei modi nelle proposizioni di-
pendenti (dottrina della proposizione composta), ci sembra
distinta per chiarezza, ordine, copia di esempi, e correzione
scientifica. — E così, riassumendo della sintassi del Koch,
ne pare di poter dire, che in quelle parti, nelle quali essa
Tiivista di filologia ecc., I. 36
- 538 —
cammina sulForma segnata dal Curtius, procede sicura, cor-
retta e abbondevole: dove l'autore se ne discosta e segue
le vedute dell' Aken, accenna a cose nuove, e le espone in-
fatti con ordine sistematico; ma non è sempre chiaro, tal
fiata incerto, e talora un po' arrischiato. Nell'insieme però,
crediamo abbastanza giustificato il titolo del libro, che suona
cosi: Grammatica Greca ad uso deVe scuole^ elaborata
sulla base dei risultamenti della indagine linguistica com-
parata.
Il prof. Inama, anche nella dottrina dei Modi (§§ 433-
452), procede circospetto e prudente. È osservatore rigido
dell'uso della lingua; si vale di tutto, che di sicuro e accer-
tato l'indagine linguistica ha potuto constatare in ordine alle
funzioni sintattiche delle forme verbali , ben guardandosi
dagli schemi generali, — La parte della sua sintassi, che
tratta della proposizione principale e secondaria (§§ 435 e
segg.), cioè del collegamento delle proposizioni fra loro, è
fatta bene, è svolta con chiarezza, è ricca di materiali scien-
tifici e di esempi, e nel disegno non manca di una certa
novità, che anche nell'uso della scuola non deve essere senza
utilità pratica. — Le proposizioni secondarie egli distingue:
A) in secondarie di complemento i) al nome o pronome
{relative) y 2) al verbo [oggettive, temporali^ locali, modali)
— B) in secondarie di dipenden^a^ in ordine i) alle cause
{casuali), i?) all'effetto (consecutive e finali), 3) alla condi-
zione [ipotetiche e concessive). — L'esposizione generale, che
delle varie guise di collegamento e dipendenza, tanto per
rispetto alla forma, quanto per riguardo al contenuto, viene
pòrta nei §§ 435-437, è chiara, concisa e ordinata.
Nel concetto della correlazione il prof. Inama si scosta
in parte dalle vedute del Curtius. Così ad es. : i costrutti
ipotetici dal signor Inama sono trattati come proposizioni
di dipendenza (ipotassi), mentre il Curtius invece pone le
- 539 -
condizionati fra quelle proposizioni, che si col legano fra loro
per correlazione (V, 534.) E noi stiamo coirinama. Nella
frase ipotetica crediamo che vi sia vero subordinamento del
condizionato al condizionale, giustificato e dalla forma e dal
contenuto. E come si potrà dire che in un costrutto ipote-
tico né Tuna né T altra delle due proposizioni può venire
considerata come assolutamente dominante (Curtius, Comm.^
pag. i85, Muli.)? Non alleghiamo esempi, come di cosa
ovvia.
Nel periodo ipotetico — § 488 — [proposizioni condizio-
nali del Curtius §§ 634 ^ segg.) il prof. Inama distingue
fra conseguenza necessaria e conseguenza possibile. Questa
distinzione è utile neirinsegnamento, e scientificamente esatta.
Negli schiarimenti ed esempi, che l'egregio autore fa seguire
alla esposizione dei quattro tipi fondamentali, v'è raccolto
un materiale eccellente. Forse sariasi potuto disporlo in
guisa, che a ciascun tipo seguissero le dichiarazioni ed
esempi necessaria Qui e colà anche sariasi forse potuto di-
chiarare un po' più distesamente il concetto di qualche tipo.
Cosi ad es. al tipo N° 4 {doìV indicativo de' tempi storici)
ne pare che la distinzione fra imperfetto ed aoristo — che
rileva pur tanto! — sarcbbesi dovuto accentare un po' più, e
subito nella definizione, che se ne dà al N" 4; perchè si
vedesse di primo tratto la differenza di questo collegamento
da quello del tipo N° 3 (dell' ottativo). — Ci pare troppo
poco, per una distinzione così importante per l'uso, il dire:
« In italiano si traduce questa forma di periodo ipotetico
come l'antecedente (quella colV ottativo)-, p. e. €i toCto ènoiei
(èTro(r|<re) eùbaifiujv &v ^v (èTéveto). Se questo facesse (ovvero
avesse fatto) sarebbe (o sarebbe stato) felice m. — Che, tanto
coirimperfetto, quanto coU'aoristo s'accenni oXVopposto della
realtà^ ciò sta bene. Ma Tegregio signor Inama m'insegna
che coir imperfetto si enuncia una condizione, che non ha
— 540 —
luogo nel momento attuale — c'è adunque riferimento al pre-
sente — ; e, nell'uso o per lo meno 7iel sentimento della lin-
gua^ con questo schema non si rimuove sempre e di regola
ogni possibilità, o per lo meno si crede ancora perdurante
l'obbligo, la convenienza di fare una cosa, o di non farla.
— Ciò sì spiega dalla natura stessa àtW imperfetto, il quale
in questi costrutti nega sì la realtà, ma il concetto della du-
rata dell'azione gli è pur sempre connesso. — Ecco qualche
esempio — Senof. Cir, Vili, 3, 44 — el tò Ix^iv outuj? w?
TÒ Xa^pdveiv fjbù rjv, TroXù civ òiéq)epov eùbaijioviqi 01 uXoucTioi
tOùv irevriTUJv. — E Plat. Prot. 356 D: eì ouv èv touti|) fiiiiv
fjv TÒ eu Ttparreiv — ti? av fmiv aiuTTipia écpàvn toO piou; que-
st'ultimo luogo, massime, è molto istruttivo in questo riguardo;
perchè si contrappone l'aoristo coll'àv dell'apodosi, e all'im-
perfetto coire! della protasi. — Colla protasi infatti non si
esclude aifatto la possibilità, che altri possa porre il quesito
della umana felicità (tò eO TrpdTTeiv) nella scienza del misu-
sare (jacTpnTiKfj Téxvn). Tant'è vero che Protagora, più sotto
(pag, 357 B), è costretto appunto a questa conclusione, che
cioè peTpriTiKTÌ ti? t^xvti si mostra come criwTripia toO piou —
(Conf« Kriig. Gramm, Gr. §§ 54, 10, 3; Koch, §§114, 4, 1-2).
— Vero è, che negli schiarimenti al tipo N" 4 il prof. Iijama
ne dice « che V imperfetto ordinariamente accenna a cosa
presente , e T aoristo a cosa passata » — e più sotto si ri-
torna ancora su questa differenza: ma tuttavia questo luogo
ci lascia a desiderare qualche cosa. — Non insisteremmo su
questo punto, se non fosse, che questa de' costrutti ipotetici
è la parte forse più astrusa e più artificiosa nella dottrina
delle proposizioni composte. — Anche non vediamo ragione
di invertire l'ordine della trattazione nelle proposizioni se-
condarie. Infatti, mentre nt\ prospetto troviamo le dipendenti
poste dopo le completive, nell'esposizione che vi segue ap-
presso è data la precedenza a quelle. — Quando non vi
— 541 -
siano' ragioni superiori scientifiche, — e qui non arriviamo a
vedercene nessuna — è bene secondo noi, che, posto in capo
uno schema colle sue distinzioni e ripartizioni, quello si
segua e disvolga via via. È questione d'ordine pedagogico.
Il signor professore Inama ci perdonerà questi leggieri
appunti. GU è che in un libro, come è il suo, che noi giu-
dichiamo tale da fare onore al paese e alla scienza, crediamo
che, anche nei più minuti particolari, il disegno dell'opera e
l'andamento della esposizione debbano procedere con dirit-
tura e chiarezza.
Rovigo aprile 1873.
Gaetano Oliva.
SULL' INSEGNAMENTO
DELLA SCIENZA DELLE AtK'^ICHITÀ IN ITALIA.
Non credo di recare offesa ai miei concittadini, se oso affermare
che in Italia la scuola di archeologia e qualsivoglia insegnamento cat-
tedratico relativo alle antichità monumentali, scritte e figurate, che
pervennero sino a noi, riguardansi generalmente come cosa di lusso,
buona per pochissimi, e perciò superflua ed inutile alla grande mag-
gioranza. E questo giudizio, in fin dei conti, trova anche una parte
delle sue ragioni in due fatti che si presentano nei regolamenti gover-
nativi, vale a dire, l'assenza completa di ogni ammaestramento archeo-
logico dalle scuole secondarie classiche, ed il modo in cui sono ordi-
nati i corsi della Facoltà dì lettere nelle nostre Università. Quella po-
vera scienza non può quivi far capolino che al quarto anno, durante
il quale, secondo un antico e impossibile programma, si dovrebbero
percorrere i vari rami della medesima. Il professore, ancorché valen-
tissimo, non può non trovarsi in imbarazzo per le strette in cui è
-542 —
messo, e non ha modo di uscirne che facendo quel che può e quel che
vuole. Là ne avete uno che si occupa di una sola parte del corso, la-
sciandone ignorare il resto ai suoi ascoltatori, che, s'intende, dovreb-
bero essere anche in questo da lui ammaestrati: qua ne trovate invece
un altro che tratta alla meglio un po' di tutto, un po' di arte, un po'
di epigrafia, un po' di numismatica., un po' di costumi, ecc., spac-
ciandosene in quelle poche lezioni dell'anno, e per conseguenza con la
maggior brevità possibile. In conclusione, il professore eletto a quel
compito non deve che fare almeno sembiante di compiere ciò che è ri-
chiesto dall'ordinamento generale dei corsi suddetti, ed agevolare il
modo ai laureandi di passare anche nel corso di archeologia un esame
comunque. I giovani naturalmente, salvo poche eccezioni, non possono
prendervi interesse, perchè non ne hanno il tempo; i più lo seguono
per mero obbligo, non ne intendono a dovere né l'utilità, né l'impor-
tanza, e delle poche e mal digerite nozioni acquistate in quel solo quarto
anno, appena ottenuti i punti necessari ai conseguimento del diploma
finale, il maggior numero di essi non può giovarsi o non crede oppor-
tuno di serbar memoria negli anni avvenire. Cosicché, esclusa affatto
dall'insegnamento secondario, tollerata per convenienza o per necessità
nelle aule universitarie, è naturale che il pubblico giudichi al modo
che dissi la sfavorita scienza degli antichi monumenti ; è naturale che
i veri cultori della medesima addivengano sempre più scarsi dinu.mero;
non è a meravigliare infine che dai Musei di antichità non si ritragga
a prò dei giovani studenti italiani quell'utilità scientifica che si do-
vrebbe e potrebbe. Non v'ha dubbio, che se il corso degli studi classici
s'immedesimasse, per dir cosi, con le reliquie monumentali in essi con-
servate, mediante un sodo insegnamento filologico-archeologico, da un
lato il futuro professore di lettere ne uscirebbe più erudito e più forte,
e dall'altro ci metteremmo meglio in condizione di avere finalmente in
Italia i filologi e gli archeologi capaci d'interpretare e illustrare ciò che
di antico è venuto e verrà fuori dal suolo della Penisola,
Ora, stando le cose qui da noi nella guisa che accennai, chi mai
avrebbe osato d'intromettere, per es., nelle risposte aWinchiesta sul-
ristruponi secondaria che sta facendosi per ordine del Governo, qual-
che avviso tendente ad accordare nelle scuole classiche preparatorie al-
l'Università, un posticino, sia pur modestissimo, allo studio dei monu-
menti di antichità?... A dare ivi un po' d'iniziamento agli studi di ar-
cheologia?,.. In mezzo alle idee materialiste che ci stringono da ogni
lato, di fronte alfopposizione più o meno palese che incontra tutto ciò
- 543 —
che inclina ad allargare il dominio delle lettere, della filosofia, dell'este-
tica sotto qualunque forma si presenti, con la schiera compatta e nume-
rosissima, che ci sta dinanzi nelle scuole, dei combattenti per l'unica
mira del guadagno, con la trista disposizione che si scorge negli animi
dei giovani lontani atiatto dal più alto concetto di studiare per la
scienza e non unicamente per il lucro professionale o lo stipendio av-
venire, in mezzo a tutto questo, voleva dire, colui, che si fosse presen-
tato alla Commissione od al Governo con una proposta di quel genere,
si sarebbe detto che veniva dall'altro mondo. Fortunatamente, per quei
poveri illusi che persistono in Italia nel credere all'importanza degli
studi classici, filologici, archeologici, alla necessità di rialzarli e soste-
nerli nel nostro paese, viene a quando a quando un po' di conforto dal-
l'esempio di altre nazioni, dalla parola di dotti stranieri. Se ciò non
vale a mutar lo stato delle cose fra noi, giova almeno all'animo dei pochi
cultori di siffatti studi, li incoraggia a spendere nuove parole, ancorché
vane, in prò dei medesimi, persuadendoli che non hanno poi bisogno di
uscire dal mondo, che tutti abitiamo, per trovare chi intenda il loro
linguaggio, dia ragione alle loro idee, e possa far conto dei loro senti-
menti scientifici. Basterà che essi passino le Alpi, al di là delle quali,
in fatto di sludi archeologici, ciò che qui sembrerebbe un sogno, una
impossibilità, una follia, è riguardato invece come un eìemento indis-
peniabife al p^^scsso di una compiuta e force istruzione classica nel
giovine, necessario a tener alto il livello della cultura intellettuale della
nazione.
Essendomi occorso in questi dì un conforto di quella fatta, non ho sa-
puto rassegnarmi a lasciarlo passare senza farne partecipi almeno i let-
tori di queste pagine, e toglierne motivo ad accennar di volo idee e de-
sideri di antica data. — In una delie migliori riviste di Parigi !a Kevue
Archéologique, il signor G. Perrot, collega del mio chiaro amico
A. Bertrand nella direzione della medesima, antico membro della
Scuola di Atene, archeologo e professore valentissimo, autore del Viai,^-
gio archeologico in Galapa, Bitinia, ecc., nel prendere ad esame l'ec-
cellente libro di Michele Bréal su\\'lstru!(ione pubblica in Francia e nel
farne rilevare il gran pregio in ordine al metodo che egli vorrebbe se-
guito per l'insegnamento delle lingue classiche, espone le seguenti con-
siderazioni : (i)
«4 Dans ces études ou doit dominer désormais la méthode historique,
(i) 9?eu. "Virchcol. 1873, ianvicr. rag, 70-71.
„. 544 —
ne devons-nous pas rechercher tour ce qui peut rapprocher de nous
l'antiquité er lui rendre un caractère réel et vivant, que ne suflisent
point à lui donner les textes des auieurs? Par malheur, il nous est im-
possible de conduire tous nos élèves de rhétorique visiter Herculanum
et Pompei; mais, sans donner le méme éblouissement, cette méme hal-
lucination de la vie antique, un peu d'archeologie, mélée avec discré-
tion à l'explication des auteurs, interesse singuliOirement une classe,
nous l'avons souvent éprouvé come professeur. Les personnages des
historiens et des poetes sortent ainsi du nuage où, pour la plupart des
esprits, ils avaient jusque-là comme flotte entre ciel et terre, ombres
vides et pales,
veKÙuJv à|i6VTivà Koipriva,
ils redescendenl jusqu'à nous et leurs pieds posent sur le sol, leurs
traits se dessinent et se colorent. C'est une des voies par lesquelles on
méne le plus aisément ies jeunes gens à deviner la grande loi qui do-
mine touie recherche historique, la constance des rapports, l'idée que
le fond de l'homme n'a pas varie, que de tout temps des railieux, des
situations analogues ont affecté et affecteront de la méme manière la
nsture humaine. Il est mèrae tei;; esprits, auxqueis Homère etVirgile,
Hérodote, Tite-Live ou Tacite n'avaient rien dit jusqu'alors, et qui
tout d'un coup se prennent à l'antiquité par cet endroit; ils ont l'ima-
gination plastique ; quelques dessins, quelques médailles, quelques bi-
joux qu'on leur t'ait passer sous les yeux, quelques promenades au Mu-
sée des antiques leur en apprennent plus que ces textes sur lesquels ils
se trainaient depuis des années, un peu par la faute de leurs maltres,
sans les avoir jamais pris au sérieux, sans presque s'étre doutés que Pé-
riclès et Démosthène, Philippe et Alexandre, Cicéron et Cesar, Au-
guste et Trajan, ont été des hommes en chair et en os, dont les succès
et les revers, les sentiments et les ouvrages s'expliquent par les mémes
raisons et doivent se juger d'après les mémes règles que s'il s'agissait
de personnages des temps modernes. »
Queste parole sono d'oro. Non so come si potrebbe porre in chiaro,
meglio di quel che esse non fanno, l'utilità dell'associazione degli studi
archeologici ai corsi classici, in dose avveduta e discreta, anche nelle
scuole secondarie; ed io avrei voluto posseder la penna e l'autorità
scientifica di quell'illustre archeologo per potere largamente esporre lo
stesso concetto e richiamare su di esso l'attenzione di chi era in grado
di applicarlo, allorché nella Nuova Antologia del marzo 1869 osai di
— 545 —
darne cenno, mosso unicamente dal bisogno di dire ciò che mi sugge-
risce l'amore della scienza, ma con la certezza che nessuno si sarebbe
dato il menomo carico né di approvarlo, né di contraddirlo. Oggi
però che ci vengono da uno dei paesi, che, in questo, se ne intendono
più di noi, parole così giuste e così confortanti per le idee che da
lunga mano probabilmente sono maturate anche nella mente dei miei
colleghi, si cadrebbe in colpa di noncuranza o di abbattimento d'animo,
se non ce ne giovassimo per il destro di richiamare l'attenzione del
Ministero su questo punto interessantissimo degli studi di cui parliamo;
e ciò, sia per l'accesso che potrebbe essere accordato, come si disse,
nelle scuole secondarie ai primi rudimenti archeologici, o piuttosto
all'esame pratico di qualche serie di antichi monumenti messo d'ac-
cordo con l'esposizione della storia antica e delle due principali let-
terature del mondo classico, sia per le riforme che sarebbero neces-
sarie nell'ordinamento del corso di archeologia greco-romana, quale
è stabilito nella maggior parte delle primarie nostre Università. Con
pivi coraggio adunque vengo oggi ad affermare che ambedue i consigli
meritano di esser presi in considerazione, e specialmente poi il se-
condo. In fatto, giova il ripeterlo, noi non otteniamo al presente da
quel corso che un lieve esame di più per i futuri dottori di lettere. Se
vogliamo però all'incontro veder soddisfatto il desiderio, il bisogno
sovra esternato, che esso, cioè, ci fornisca archeologi e filologi ben
basati e bene av\'iati, pronti a rendere la vita ad ogni antico avanzo
che torna in luce, capaci di sottrarre, con il mezzo più efficace della
parola, le nostre raccolte di antichità a quel mistero in che sono av-
volte, almeno per la maggioranza di coloro che le visitano, a divul-
garne i legami con la storia, con l'arte, con la lingua, con la geografia,
con i costumi, con i governi, con la grandezza, con la decadenza delle
nazioni che furono, se vogliamo, ripeto, raggiungere questo scopo, ci
occorrono mutamenti nelle Università. Meglio stabilito ed allargato
per mezzo di essi (purché ben fatti) l'insegnamento delle antichità
scritte e figurate e insieme quello della filologia, noi potremo avere
anche dai Musei epigrafico-archeologici quei risultati, quei benefizi, che
gli studi di altro genere, come la ideologia, Vanatomia comparata, Ja
mineralogia, la fisica, la chimica, ecc., sanno cavare dalle collezioni
scientifiche ad essi attenenti. È così che la Germania conta ogni anno
fra i suoi prodotti universitari una serie di giovani filologi ed archeo-
logi atti a salire, senza molto indugio e con solido pie, sulle cattedre
delle sue Università, ed a mettersi all'opera per fornire, alla lor volta,
— 546 -
la scienza di nuovi maestri. Profondità di cultura storico-letteraria,
larga conoscenza e dimestichezza con la lingua ed,i testi dei classici,
esame critico dei monumenti nei Musei ed c;,ercitazioni pratiche sui
medesimi congiunte all'esposizione teorica delle dottrine deha scienza
con quell'ampiezza che essa addinianda, ecco le basì principali degli
splendidi successi delle passate scuole di C. O. Miiller, di F. G. Wel-
cker, di E, Gerhard, di O. Jahn, di A. Boeckh, ecc., ed ecco come si
tengono alte ai nostri dì quelle di Ritschl, di Michaelis, di Mommsen,
di OvcTbeck, di E. Brunn, di A. Gonze, ecc. Aggiungasi che tanto la
Germania da lungo tempo, quanto la Francia più di fresco, convinte
ambedue della necessità di dare un largo sviluppo allo studio di quei
mirabili documenti dell'antica storia, ci pruovano col fatto the esse
non potrebbero bene adempiere quello scopo, qualora non si giovas-
sero delle nostre grandi ricchezze di monumentali reliquie. 11 governo
francese decretava testé che i membri della scuola francese di Atene,
prima di trasferirsi in Grecia, dovranno soggiornare d'ora innanzi un
anno intero in Italia, ed uno scienziato eletto a posta sarà incaricato
di fare a Roma, per l'istruzione di quei giovani, un corso di archeo-
logia, secondo un programma proposto d'dìì'Q/lccademia d'iscnponi e
belle lettere. Ed a molti lettori di questa 1<Jvis!a è ben noto che la Ger-
mania nel mandare periodicamente iill'estero per un viaggio scientifico di
qualche anno un certo numero di giovani dottori, già provvisti nelle
scuole tedesche di una solidissima erudizione, li fa sostare abbastanza lun-
gamente in Italia e massime in Roma, affine di compierne l'educazione
filologica ed archeologica per mezzo di ricerche ad essi indicate, e di
lezioni date sui monumenti della capitale, e dei suoi Musei, dai diret-
tori deirinstituto. E noi Italiani che ci troviamo circondati da questi
tesori archeologici a cui copiosamente attingono le altre nazioni, noi,
che ci troviamo possessori di questi tesori, raccolti in casa nostra,
perduriamo tranquilli in un grado sconveniente, inesplicabile di po-
vertà di studi e di risultati di fronte soprattutto alla Germania ! !... Dalla
qual povertà o almeno inferiorità non ci tireremo mai fuori, se non
si toglie di mezzo (torniamo lì) la causa principale, che è il meschino
e male ordinato insegnamento. Posto che a questo non vogliasi prov-
vedere dietro concetti ben definiti, ben chiari, la scienza del 'Visconti,
dei Marini, dei Borghesi, dei Lanzi, dei Cavedoni, andrà sempre più
decadendo fra noi. Né varrebbe l'obbiettarmi che l'Italia conta anche
a questi dì archeologi, a cui fanno di cappello i dotti di tutte le altre
nazioni. Ciò non può attenuare in nulla la forza di questi lamenti; né
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per le pochissime eccezioni sì oserà giudicar buono il sistema, e mi-
gliore di quel che a me non sembra l'aspetto generale delle cose. Le
illustrazioni scientifiche, che abbiamo l'onore di possedere, debbono la
posizione, a cui sono giunte, ai loro studi, ai loro sforzi, alle loro ri-
cerche individuali. Nulla, o quasi nulla, essi hanno certamente che
lare col pubblico sistema d'insegnamento classico, non pur presente
ma passato; e nessuno certamente perverrà mai a dimostrarmi che il
sistema, contro cui parlo, varrebbe a darci, non dirò un Minervini,
un De Rossi, un Fiorelli (che questa è merce rara dappertutto], ma
anche un solo dei migliori scolari del Brunn, del Ritschl, del Mommsen,
del Gonze e di altri professori che potrei citare.
Senza andar più oltre, vengo ora adunque ad esporre succintamente,
e in misura molto parca, alcuni de' miei voti. — Sperando, che in or-
dine allo studio delle due grandi letterature, il risultato dell'inchiesta
aeoDa condurre ad allargarlo ed assodarlo negl'istituti classici, io
muovo dalla supposizione che sia da quind'innanzi migliore e più
forte di quello che è; altrimenti sarebbe vana ogni mutazione nelle
scuole superiori. Ciò premesso torno sul già manifestato desiderio
d'interessare i giovani fino dal ginnasio-liceo ai monumenti, che, come
l)en dice il Perrot. >eur en apprenntvt plus quc ces textes sur lesquels
ils se trainaient depuis des années sans les avoir jamais pris au
sérieux. Si formino qua e là, come nei ginnasi tedeschi, delle piccole
collezioni di s^essi^ riproducenti antichi personaggi, antichi avveni-
menti, antichi utensili, antiche opere di arte, antiche iscrizioni, ecc. 1
corsi di storia naturale non hanno i loro piccoli Musei nei nostri
stabilimenti secondari? Perchè non potrebbe in conseguenza aversi
qualche cosa di simile per il giovamento dei corsi classici?... I pro-
fessori di storia antica, di lettere greche e latine potrebbero valersene
per chiarire, raffrontare, ed ampliare le loro esposizioni, i loro com-
menti. — Nelle Università poi, almeno nelle principali, si suddivida
e si determini chiaramente nelle sue partizioni l'insegnamento, che
ora e tutto compreso in quel Corso di Archeologia del solo quarto
anno del corso generale di lettere. E qui comincierei dal lasciar da
pwirte il titolo >?enerico di Corso di Antichità Greche e Romane, che
in qualche Università, per es. a Roma, ha preso il posto dell'altro
di Corso di Archeologia, e che addimostra, secondo il n)io povero
avviso, poca chiarezza nei concetti, che si hanno in Italia in ordine
al migliore e più pratico ordinamento di una scuola di questa fatta.
Si è prefento, a quanto pare, quel titolo in seguito dcll'otiimo pen-
— 548 —
siero di cominciare a dividere maggiormente le materie nella Facoltà.
Ma la preferenza non tu felice. Quel nome lascia in dubbio, anche
più deiraltro, se essa cattedra debba trattare o di arte, o di J5/ifwfiowt,
o dei monamenti epigrafici, numismatici, ecc., o di tutte queste cose
insieme, press'a poco come l'omonimo dizionario del Rich e delio
Smith. Chi vi sale o si prepara a salirvi la potrà rivolgere da quel
lato che gli parrà ; forse accadrà che ei tolga a sé una parte dell'inse-
gnamento generale diversa da quella che dovrebbe esporre, secondo
il programma, o almeno la mente del Ministero ; e il giovane, come
al solito, rimarrà con idee sconnesse e incomplete riguardo a questa
povera scienza, su cui sembra che pesi la fatalità di non potersi met-
tere in buon assetto nelle nostre scuole. Mi si risponderà che anche
il xMommsen a Berlino, per es., tratta in qualche semestre delle anti-
chità romane; ma in questo caso, come in altri consimili, è il nome
del professore e l'insieme del suo , insegnamento che tolgono subito
di mezzo ogni dubbio, e vi mettono nella certezza che la serie mo-
numentale, di cui principalmente ei si giova, è il gran corpo delle
iscrizioni, e che dai suo corso si sarà ammaestrali precisamente sulle
instituzioni politiche, amministrative, militari, ecc. dell'antica Roma.
Lo stesso dicasi dell'Hubner, altro epigrafista di primo rango nell'U-
niversità di Berlino; mentre al contrario, quando veggo il Gerhard,
il Friederichs e simiti trattare delle Greche antichità, dal loro nome
e da tutto il rimanente dei loro corsi capisco subito che lo studio
àf^Warte antica ne ò la base principale. Del resto il così detto index
lecticniim delle Università di Germania, e di quelle che a loro somi-
gliano, presenta una così ampia divisione di materie, e una specifi-
cazione così esatta delle medesime, che non saprebbesi veramente
cavar di là un esempio per dar ragione del titolo di cui abbiamo
parlato, e che vorremmo escluso. — Noi non possiamo estenderci
di molto con le suddivisioni, per il difetto, in. cui siamo, di uomini
e di quattrini. Si muova almeno innanzi rutto dal concetto delle due
grandi divisioni delle antichità monumentali, in letterate ed artistiche,
o scritte e figurate. Si lasci al nome di archeologia, per essere me-
glio intesi da tutti, il significato che gli si è attribuito nelle scuole te-
desche ed anche in Francia, relativo principalmente alVarte, come ne
fanno fede fra gli altri il notissimo Handbuch di C. O. Mùller, le
Coiirs d'archeologie di R. Rochelte e di Beulé alla Biblioteca Nazio-
nale a F*arigi; e, dietro questa norma, si stabilisca in primo luogo
un corso i) cui argomento sia l'arte greca e romana {architettura.
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scultura, pittura, glittica, ecc., e arti affini) e insieme Vetrusca e Van-
tico-italica sì perchè in Italia non possono nerarnen queste lasciarsi
in obbifo, e sì per i legami che esse hanno con la Grecia, con Roma,
con il Lazio. Il titolo di Corso di archeologia classica sarà chiaris-
simo, ed anche più quello di archeologia deWarte adottato dal chia-
rissimo professore Stark per il suo nuovo Manuale ; né senza ragione
v'inclusi V antico-italica, giacché ormai è noto che nella Penisola (come
in Grecia) si presentano le norme di un'arte precedente Vetrusca della
quale si terrà conto anche nell'opera testé citata dello Stark ai capi-
toli 43-44, ecc., tomo secondo. Colui che assume quell'insegnamento
(e per conseguenza il giovine che va ad ascoltarlo) saprà benissimo
qual è la serie di monumenti di cui deve occuparsi, quale parte
della Storia antica, nonché della Geografia e Topografia, dovrà rial-
legare ai medesimi, quale è il corredo di dottrina di cui debbe esser
fornito. Egli avrà senza dubbio capito, com'ei debba conoscer l'Oriente
almeno per le origini e i primi periodi dell'arte greca; tener conto della
Numismatica per l'importanza, varietà, bellezza, idealismo e indivi-
dualità dei tipi monetari ; della letteratura, filologia e epigrafia affine
di trarne giovamento e sussidio alla storia dei monumenti, alla de-
terminazione dell'età dei medesimi, alla storia in genere dell'arte per
i monumenti perduti; punti, in ordine ai quali gli antichi scrittori, i
poeti classici, le iscrizioni e le loro forme alfabetiche costituiscono, come
ben lo dichiarava il Gonze in una sua prelezione all'Università di
Vienna (i), costituiscono (dico) una base indispensabile di buona critica,
di sana interpretazione, di retto giudizio. Non posso poi nemmeno du-
bitare, che il professore destinato aìVarcheologia non sia persuaso della
necessità di esser dotto alquanto nella Mitologia, non per allargarsi
oltre misura nelle ricerche delle antiche rappresentanze mitiche e per
invadere il campo della Storia delle religioni spettante anche ad altri
rami della scienza delle antichità, ma soprattutto per i rapporti della
mitologia stessa con l'arte e le sue forme, per l'ideale artistico degli
Dei, degli Eroi, e di tutto il loro séguito, il carattere e la storia dei
loro miti, il costume che ad essi conviene. Questo Corso di archeo-
logia dovrebbe essere almeno biennale; e dico almeno, giacché se il
numero delle lezioni di un'ora dovesse rimanere così ristretto come
lo è di presente, due anni non potrebbero mai essere sufficienti. — Ve-
(1) Ueber die Bedcutung der classischen Archàologie, Wien, 1869. V. su di essa HOnsKH
ntWArch. Zeit,, 1869, p. 92-93.
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niamo ora all'altra serie di ammaestramenti sul mondo greco-romano,
che non è compresa affatto, o che lo è solo indirettamente, nel Corso
di cui ho parlato. Per questa passa in primo rango, delle diverse
classi di antichi monumenti, soprattutto quella degli epigrafici. Le
istituzioni pubbliche e private della Grecia e di Roma, l'amministra-
zione civile, l'ordinamento militare, l'organizzazione politica, gli sta-
bilimenti di beneficenza, la finanza, Teconomia pubblica, il corso
degli onori, la cronologia, la storia, il culto, la paleografia, ecc.,
trovano nei grandi corpi d'iscrizioni, che oggi pos.sediamo, un tale com-
plesso di documenti da potersi quasi, anche solo con essi, esporre pie-
namente tutte quelle materie, le quali poi ad ogni modo, senza le
iscrizioni, e con la sola guida degli antichi scrittori, sarebbe presen-
temente impossibile di ben trattare. Questa parte del Corso di anti-
chità potrebbe anche essere ricongiunta ai Corso di storia antica
Greca e Romana, dividendo in questo la Grecia da Roma, onde am-
bedue le storie in tutte le loro particolarità, considerevolmente arric-
chite dalle grandi scoperte epigrafiche, potessero essere esposte con
quell'ampiezza e con quella critica che oggi richiedesi. Ma questa as-
sociazione, che sarebbe molto naturale, e che in Germania si trova
nelle materie speciali messa in pratica, forse da noi, almeno per ora,
potrebbe tornare a danno dello studio e della conoscenza del vero va-
lore degli antichi monumenti epigrafici, di cui siamo così ricchi nei
nostri Musei. Ond'è che mi pare preferibile l'adottare un altro inse-
gnamento speciale col titolo di Corso di epigrafia e di Numismatica
applicato allo studio delle istitu^iorii pubbliche e private della Grecia
e di Roma; titolo il quale mi pare che debba mettere egualmente
tanto il professore quanto lo studente nel concetto chiaro di ciò che
hanno alla lor volta da insegnare e da apprendere. Se insisto su questo
punto che potrebbe sembrar superfluo, si è perchè, ripeto, in ordine
a studi classici e di antichità le idee in Italia sono alquanto confuse;
e mentre in medicina e nelle scienze naturali tutto è ben determinato
e distinto, nel ramo di cui parliamo il maestro e l'allievo o vagano
troppo, o non s'incontrano, o non s'intendono. Almeno a me pare
cos\, e perdoni il lettore alla mia ristrettezza di mente se sono in
inganno. II professore adunque, a cui sarà affidato questo secondo corso
dovrà soprattutto aver coscienza di essere buon filologo, esperto numi-
smatico ed epigrafista, e sentirsi munito di una soda erudizione nelle an-
tiche opere storico-politiche, storico-legislative, e grammaticali di
ambedue quelle regioni, i) modello di questo professore dobbiamo
-561 ~
vederlo in un Borghesi, in un Boeckh, in un Mommsen, in un Henzen
e simili; e se potremo averne davvero su quel tipo, vedremo subito
di che bella luce sieno capaci risplendere, anche agli occhi dei meno
colti, quei marmi e quegli armadi di cui quasi tutti i visitatori dei
Musei sono costretti a ripetere neiranimo •< Non ti curar di lor, ma
guarda e passa ». Naturalmente egli dovrà esser dotto anche dei mo-
numenli dell'arte per tutto quello che si riconnette agli usi, costumi, e
pratiche di ogni genere attenenti ai detti monumenti, o che i medesimi
ci rappresentano. Dissi poi che in lui richiedesi anche il filologo, e
ciò a motivo dei rapporti strettissimi che legano la filologia alVepi-
grafia, senza voler per questo dare ad intendere che un corso di
questo genere possa valere come corso di filologia. Non mai. Le due_^--
lologie, greca e latina, eguaìmeniQ che V antico-italica, dovrebbero avere
in alcune almeno delle nostre prime Università, come è stabilito, se-
condo mi dicono, per quella di Roma, i loro corsi speciali separati
da quelli delle rispettive letterature^ i quali sono soprattutto destinati ad
occuparsi della parte estetica, filosofica, storica, morale dei loro classici
prodotti. La biennalità infine, che si è proposta per il Corso di archeo-
logia^ mi pare si debba assolutamente ammettere anche per quello di cui
abbiamo testé ragionato. — Ma basta ormai sull'argomento. Che se del
resto le modificazioni, di cui manifestammo il desiderio e l'utilità,
nell'insegnamento della scienza degli antichi monumenti, andassero
congiunte, per es., in ordine allo studente, con la cessazione dell'ob-
bligo di qualche altro corso, meno necessario al filologo ed all'archeo-
logo, con un aumento di ore nel corso di lettere greche e latine, e
di filologia o grammatica comparata, con la introduzione di una terza
laurea nella facoltà, cioè la laurea <ii filologia e archeologia, avremmo
certamente fatto qualche passo di più verso quell'ordinamento defi-
nitivo, che, sulle norme tedesche, vivamente auguriamo per le nostre
facoltà filosofico-letterarie, allo scopo di non rimanere troppo lungo
tempo discepoli delle altre nazioni , alle quali avemmo in passato
l'onore di esser maestri.
Torino, aprile 1873,
(jiAN Carlo Conestabile.
— 552 -
La grammatica storico-comparativa
e lo insegnamento ginnasiale delle lingue classiche giusta M. Bréal.
Nella a^vue oArchéologique di febbraio ultimo scorso leggiamo
(p. i22-i35ì la prelezione, con cui il chiarissimo prof. M. Bréal rico-
minciò, addì y dicembre 5872, il suo corso di grammatica compara-
tiva al Collegio di Francia, investigando opportunamente « dans quelle
mesure et sous quelle forme la grammaire cnmparée peut et doit étre
introduite dans Ics études du collège ». Vuoisi, nota il Bréal, innanzi
tratto distinguere lo insegnamento del latino da quello del greco. « Le
latin est commencé plus tòt: ce soni des enfants de neuf à dix ansa
qui nous avons affaire. Le latin n 'a pas de dialectes, ou plutòt les dia-
lectes qui lui faisaient cortége ont éte étoutTés. ou ne nous sont par-
venus qu'en courts fragments sans valeur littéraire. Enfin le latin est
enseigné le premier, de sorte que tout terme de coraparaison autre
que le francais, qui est lui-méme issu du latin, manque au maitre
comme à l'elève L'enfant qui comroence le latin a besoin avant
tout d'apprendre la déclinaison et la conjugaison. » Per tutte queste
ragioni la grammatica storico-comparativa avrà, almeno nei primi anni,
minor parte nello insegnamento del latino che in quello del greco ed
il maestro si rivolgerà prima alla memoria, poi, un po' più tardi,
alla intelligenza de' suoi allievi coli' analisi e comparazione. « Je ne
veux pas dire cependant, soggiunge il nostro autore, c^ue nos écoliers
de sixième et de cinquième ne doivent pas étre touches des lumières
de la grammaire comparée ils en profiteront sans le savoir, comme
l'enfant, en sucant le lait de sa nourrice. profite des aliments qu'elle
a pris. Quandce ne seraient qu'un certain nombre d'erreurs dont nos
livres classiques seraient débar'rassés, nous leur aurions déjà renda le
service de ne pas les obliger à désapprendre un jour ce qu'ils ont pris
la peine de retenir » come suole avvenire anche in Italia. Si potrebbe,
verbigrazia, cessare finalmente d'insegnare che l'infinito, il supino, il
participio sono modi!!! S; potrebbero avvezzare gli alunni a consi-
derare attentamente la derivazione dei vocaboli, come già fece nel 1677
in P" rancia Pietro Danet e come si fa nel ginnasii tedeschi. Si potrebbe,
infine, rendere molto più razionale lo insegnamento della sintassi, in-
troducendo anche in esso, anzi soprattutto in esso, il metodo storico.
Così il Bréal. Noi crediamo che anche il primissimo apprendimento
del latino diventerà più facile allorquando si sarà messo un po' d'or-
dine vero nelle declinazioni e nelle coniugazioni; crediamo che a que-
sta prima esposizione elementarissima della grammatica debba tener
dietro una seconda, assai meno ristretta e più conforme alla scienza;
crediamo che si debba badar molto alle attinenze esistenti tra il lin-
guaggio latino ed i neo-latini d'Italia e di Francia. — Cominciato lo
studio del greco « la grammaire comparée pourra trouver utileraent
des applications plus multipliées ». Nondimeno, osser/a il Bréal, an-
che in questo nuovo studio la comparazione ha i suoi limiti. Che essa
non può nelle scuole secondarie essere coltivata per sé stessa, ma solo
in servizio degli studi classici ; né vuoisi farla precedere allo appren-
dimento mnemonico delle forme; né puossi aver ricorso allo idioma
sanscrito od all'ariano primitivo, cui la linguistica odierna tentò rico-
struire, idiomi entrambi affatto ignoti agli scolari dei ginnasii; né, in
ultimo, è possibile l'analisi delle desinenze.
L'autore conchiude notando che, indubbiamente, tutti i maestri di
lingue classiche dovrebbero conoscere la grammatica comparativa. Ciò
dipende dalla istruzione superiore: vi provveda finalmente, e in modo
efficace, il governo francese e l'italiano! D. Pezzi.
Pietro Ussello, gerente responsabile.
— 553 —
AD ALEXANDRl MAGNI ITINERARIUM
C0'7<iIECTU%AE
Praeclarissimi amici humanitas dono mihi misit e Ger-
mania gratissimo Itinerarium Magni Alexandri, quod Dide-
ricus Volkmannus trecentesimo daodetricesimo anniversario
gymnasii Portae dicavit, cum uno superstite Ambrosiano
codice denuo, post Angeli Maii editionem principem (i),
diligentissime coUatum, plurimorum emaculatum opera a
Volkmanno discriminata (2). Qui cum innumeras voces a
librario corruptas prudenter restituii, tum quattuor saltem
locis, cruce signatis, scripturam codicis intactam ac litem
interpretum sub iudice reiiquit: quos proinde novo subiicere
tentamini et licet et libet.
I. Primum supplici! interpretum signum prodit in prima
periodo opusculi, quae in codice Ambrosiano ita se habet :
« Dexirum admodum sciens et ome tibi et magisterio
« fiiturorum, DOMINE CONSTANTI bonis melior impe-
« rator, si orso fcliciter iam accinctoque persicam expedi-
« tionem ITINERARIVM principum eodem opere glorio-
ft sorum, Alexandri scilicct magni Traianique, componerem,
« libens sane et laboris cum amore succubui, quodque -f id
« rnrn uelle enim id et exigit suspensique est, quodque re-
ti gentium prospera in partem subditos uocant. »
(1) Med.jiani MDCCCXVII.
(2) Einladungs-Pio';ìamm zu der... Stifiungsfeicr der k. Landes-
schule Pforta. Naùoi-jurg 1871.
liivisla .1 filQic^ii\ ei:c., I. 37
-564 -
Dubium articulum interpretati sunt:
Maìus: quodque meum uelie enimuero id exigit suspensique
est,
Peiperus: quod quìdem meum uelle eniti (?) id et exigit
suspensique est,
Kochiiis: quodque haud magna uelle animi perexigui sus-
pensique est,
Kiesslingius et Guilelmus Wagnerus: id denuere vel re-
nuere uelle animi et exigui suspensique est.
Nihil in articulo mutandum censeo, nonnisi compendium
mm rigido nec arbitrario iure explicandum:
quodque id raagistrum uelle enim id et exigit suspen-
sique est.
Opus gloriosum persicae expeditionis nempe a magistro
tironis sui exigit, ut id velif, et magistrum vacantem a pu-
blicis muneribus (prò sententia Angeli Mali) itinerarium
gloriosae expeditionis componere decet. Insolita nota mm
prorsus inexstricabilis sive in arbitrio lectoris foret, nisi in
ipsa periodo eadem fere vox praecederet, quae paolo post
repetita concise scribi posset. Auctor vero Itinerarii Ale-
xandri Magni nccnon vitae fabulosae ipsius, quam in eodem
volumine Maius prodidit, in prolegomenis quae gestis fabu-
losis Alexandri Magni ex gallico sermone in vulgarem nostrum
Dantis aetate translatis nuper a me editis ( i ) adieci, visus mihi
est Polemiusconsulannip. Ch. n. 338, qui Alexandria oriun-
dus bello Achilleo libertatem amiserit , Constantii Chlori
servus et libertus, Constanti ni Magni a secretis, Gonstantii
institutor et magister fuerit. Nec a tanto viro, quem Atha-
nasius [Ad Solit. pag. 637) inter amicissimos Constantii co-
mites enumerat, alienum est opusculum suum dextrum et
omini et magisterio futurorum eventuum imperatori prae-
U) 1 nobili fatti d'Alessandro Magno, Bononiae, Id. decembr. 1872.
- 555-
dicare, quod alioquin dedeceret dedicantem libertum pariter
ac paironum dedicatum. — Quodsi Angeli Maii sententia
de verbo suspensigue^ analogia exempli Ammiani Marcellini
suffulcita, non liqueat, emendano sui pensique in promptu erit.
2. Alterum locum in capite XV (VI) turpiter defor-
matum in integrum restitui posse diffisus est editor :
« Multus ad imperia difficultatum, onercsior tamen exem-
« pli proprii irritamentis, quoniam bone opere praeueniri
« pudibile ducebat, iuuentae munus e corpore alacriter pe-
« tens, ipse -f- barbae acutae durior et cetera candidus , et
« quae sibi sane quisque rectiub consulat, aut ipsi certe im-
« peratori uel militi uelit. d
Barbarae uitae coniecit Vlriciis de 'Willamowii\, uerbis
ac \xìX3i Kochius. Nobis placet: iuuentae munus e corpore
alacriter petens, ipse barbara cute durior; ax cetera candidus
Mt ^Mz quae sibi sane quisque rectius consulat, etiamì^si etc.
3. Ad finem capitis GV editionis principis, XXXXVI
Volkmanni, in codice legitur:
« Ducenta denique triginta boum milia ìllic capta formae
« merito destinatuna captiuis Machedio cultum agrossuorum
K et '\' suascitum. »
Maìus interpretatur: Macedoniae cultum agros suorum et
suosce,
Kochius '. suos et suorum amicorum aut amicum,
Volkmannus: Macedoniam etc, adiungens: equidem in nera
lectione inuestiganda frustra desudaui.
Agros familiarium Alexandri et gentis Macedonum intel-
ligendos esse iam satis patet; restat ut vocabulum novum,
a barbaro Alexandrino declinatum, sobrie explanetur per
analogiam. Derivatum mihi videtur sicut nostras, nostratis,
vestras, vestratis, cuias, cuiatis a suus =z suas, suatis, addita
particula intensiva ce =: suasce, quam vocem barbarus de-
clinaverit suasce, suascitis; nisi mavis ce niectare genitivum
- 556 —
pluralis suatiunty cui inserta ore parum rotundo litera s,
suastium^ et sibilo adaucto et i transposila: suascitum.
4. Quarto loco cruciat caput L Volkmanni, CXII-XIII
editionis Mediolanensis:
« Exim magnas Pecanum et Musicanum regiones exse-
« quitur ac sibi congregat. Petram quoque quae Aornis uo-
« catur affectat, cuius proceritudo sunt stadii quadringenti,
« supra cultoribus diues ^au<f minus locupletibus quam se-
ti curis ; et est ei nomen ex celsitudine, quam nec alites su-
« peruolitent. Sed enim hic quoque optinet fìxu uec^ium ,
« uia scansili -f- acsididas petitam. Nam magnitudine cum
« primatibus, quod ultra gentes, quas belio idoneas com-
« perisset experire/«r. Quo aduersum eas animo arderet ?
« Milites uero ad haec ultra laborcTW uel pericula depreca-
« bantur, annos decem, uulnera et suorum desiderium nu-
« merantes. Data igitur fessìs quiete, uolentibus utilur. Suc-
« centuriari tamen dimissis alios e patria iubet. Itaque
« uictoriae auaritia usus oceanum uenit ».
Cui Volkmannus notas subiecit : quas add. Maius — ^aui,
cod. aut — hic, Maius hanz — uec^ium corr. Maius cod.
ueccium — scansili acsisidas pentitam cod.^ scansili ac in-
sidiis appetitam {scribendum erat petitam) Maius parum
probabiliter ; scansili, at ardua petitam Kochius ; codicis
scripturam intactam reliqui, dum quis meliora protulerit
— Nam magnitudine cum primatibus cod. lam de magni-
tudine belli ortus est questus cum primatibus ' Maius \ la-
cunam indicaui • — bello cod.^ Helladi Klugius coli, Ps.
Callisth. Ili, I — quas add. Kochius. — comperisset expe-
rire cod.^ coegisset experiri Maius, compulisset experiri Klu-
gius; in conf or mandi s uerbis Kochium secutus sunt — quae
cod., quo Maius — labore cod. — quieti cod.
Lacuna sponte evanescit, dummodo liceat figmentum cru-
ciatum aliter explicare:
- 557 —
« Exim magnas Pecanum et Musicanum regiones exse-
(c quitur ac sibi congregat. Petram quoque (Aornis uocatur)
(( affectat, cuius proceritudo sunt stadii quadringenti, supra
« cultoribus diues /laut minus locupletibus quam securis-,
« et est ei nomen ex celsitudine, quam nec alites superuo-
« litent. Sed enim hanc quoque optinet fixu uec/ìum, uia
« scansili, Ac sic I»d/'a^n pene totam, Nam magnitudine?»
« cum ipnmum e/us, quo^ ultra gentes bello idoneas com-
« perìssewt experir/, quae aduersum eos animo arderewt,
« miiites uero ad haec ultra laborem uel pericula depreca-
« bantur, annos decem, uulnera et suorum desiderium nu-
<c merantes. Data igitur fessis quiete, uolentibus utitur, Suc-
« centuriari tamen dimissis alios e patria iubet, Itaque uìcta
« iam Aornìde uersus oceanum uenit. »
Veronae, X. Kai. Maias 1873.
JusTus Grion.
RESTAURAZIONE
"DI f/CNC ETITAFIO %OmAV^O
Nello scavo della via Appia, fatto nel i85i, fu scoperto
ad una distanza di circa quattro miglia da Roma un se-
polcro che conteneva le ceneri di fratello e sorella morti in
giovanile età e dal mesto padre in un bel carme elegiaco
compianti. La lapide rinvenuta nel sepolcro ci conservò la
iscrizione, ma non mtiera, poiché nella piij grande parte
dei versi lettere o voci sono dal tempo cancellate. E gran
danno questo, perchè rcpitafio appartiene al buon tempo
- 558 —
della poesia latina, e, come si può dedurre dal verso sesto,
risale al primo secolo dell'era cristiana.
Non molto dopo la sua scoperta una copia fedele del ti-
tolo fu spedita al Borghesi, e quelPillustre epigrafista tentò
di spiegarne il terzo distico, lasciando ai cultori della poesia
latina la cura di restaurarlo, impresa secondo lui agevole,
perchè in genere il senso s'intende bastantemente e perchè
non contiene se non lamenti comuni a tutti i genitori. Questo
parere del Borghesi poco tempo fa da me letto nelle sue
Opere (Tom. V, pag. 341), colla stessa iscrizione rivista sulla
pietra dal signor Guglielmo Henzen (i), accese il mio ardore
di tentare la prova della restaurazione, non sapendo che fosse
già stata fatta da altri. Il mio saggio non dispiacque a giudici
competenti, ma non avrei avuto l'ardire di pubblicarlo, se non
l'avessi paragonato colla restaurazione di P. E. Visconti
(i) Pare opportuno riferire qui, per comodo del lettore, che vo-
glia fare il confronto, la lezione sopraccitata, proposta dal comra.
Visconti in grazia dell'illustrazione della lapide pubblicata dal Bor-
ghesi nell'appendice dell'articolo del signor Jacobini, non ignorando
che il verso 5 avrebbe così un piede di troppo. Ecco adunque la
lezione :
Hic soror et frater vìv{entis damn)a. par(e)ntis
Aetate in prima saev(a rapi)nz {iu!ì)t.
Pompeia his tumulis co{mes ajnteit {/ime)rìs,
Haeret et puer immites que(m rapuere) Dei.
Sex. Pompeius Sexti Praec(o) ii.[gnomine ijusius
<3;uem tenuit magn(t maxima honore ^omjus;
Infelix genitor gemina [iam prole re/ijctus
A natis spenrans qui ded(er?? titul]os {sic)
Amissum auxiliunj functae post [funera] natae,
Funditus ut traherent invidfa fata /)arem.
Quanta iacet probitas, pie.tas quam ver (a sep]u\m est!
Mente senes aevo sta periere [brev)\.
Quis non fiere tneos casus poasiiqv»e dolore {sic)l
{Cur rfjurare queam bis datus ecce rogis?
Si sunt Di Manes iam nati numen habetis,
Per vos cu(m) voti non venit hora mei?
-559 -
adottata dal lodato Henzen ed inserita a pagina 3i5 del
volume XXIV degli Annali dell'Istituto di corrispondenza
archeologica. Ora dico che la mia restauraziohe mi par
meglio rispondere che quella del Visconti alle leggi delia pro-
sodia ed all'intenzione di chi fece porre Tepitafio.
Sulla lapide si legge :
HIC • SOROR • ET • FRATER • VIViMH ' lliA • PAR i NTIS
AETATE-IN • PRIMA -SAEVi iiliNA- iiliiT
POMPEIA-HIS'TVMVLIS- conili- i NTEIT" miRIS
HAERET-ET-PVER- INMITES • QVEl • liil iDEI
SEX-POMPEIVS-SEXTI • PRAE /All' limi- IVSTVS
QVEM -TENVIT- MAGN i ' innm' inii-tiiVS
INFELIX -CENITOR-GEMINA ' iiii- mn niiCTVS
A-NATIS-SPENRANS-QVi-DEDir mi i.iOS
AMISSVM ' AVXILIVM • FVNCTAE • POST ' lllit • NATAE
FVNDITVS-VT-TRAHERENT- INVIO r liii ' lAREM
QVANTA • lACET • PROBITAS • PIETAS • QVAM • VERi "
liiVLTA-EST
MENTE -SENES-AEVO-SED -PERIERE. mH
QVIS • NON • FLERE - MEOS • CASVS • POSSITQ • DOLORE
Hi • ' VRARÉ • QVEAM • BIS • DATVS - ECCE • ROGIS
SI • SVNT • Di -MANES • lAM • NATI • NVMEN -HABETIS
PER • VOS • evi • VOTI • NON • VENIT • HORA • MEI
Valendomi d'una egregia correzione del signor Henzen
nel verso quinto e di alcune osservazioni ingegnose del mio
amico Pietro Esseiva di Friburgo, valente poeta latino, au-
tore della Urania^ d'una Satira ad iuvenem e delTelegia
Gaudia domestica premiate nel 1870, 1872 e 187*3 dalla
Reale Accademia di Amsterdam, io propongo la seguente
ricostruzione deirepitafio :
- 560-
Hic soror et fra:er, viventes cura parenris,
Aetate in prima saeva rapina iacent,
Pompeia his tumulis comitem anteit faneris, haeret
Et puer, inmites quem rapuere Dei,
Sextus Pompeius praeclaro nomine Justus,
Queni tenuit Magni laudibus ampia domus.
Infelix genitor, gemina male prole relictus,
A natis sperans, qui dedit ante, cibos.
Amissum auxilium functae post ardua natae,
Funditus ut traherent invida fata larem.
Quanta iacet probitas, pietas quam vera sepulta est !
Mente senes, aevo sed periere brevi.
Quis non Aere meos casus possitque dolere?
Num durare queam bis datus qccq rogis?
Si sunt Di Manes, iam, nati, numen habetis;
Per vos cur voti non venit bora mei ?
Non mi pare inutile l'aggiugnere alcune spiegazioni a que-
sto testo. La prima si riferisce al primo paio di versi. Che la
sorella e il fratello siano chiamati cura parentis, mentre
vivevano, e dopo la loro morte saeva rapina, è assai na-
turale. Tuttavia giova addurre per il primo quel che Orazio
scrisse di Barine, iuvenumque prodis publica cura {Od. II,
8, 7) e un verso più opportuno di Ovidio negli Amori
(III, 9, 17): At sacri vates et Dipum cura vocamur\ per
Taltro un passo di Properzio, dove Iscomache è chiamata
Centauris medio saeva rapina mero (II, 2, 62).
La restituzione del secondo distico è più incerta e più
difficile. Incominciando dal pentametro, in cui il compi-
mento del vuoto ci si offriva a prima vista, quem rapuere Deiy
osservo che il verso ha due sillabe di troppo, donde segue
che o il verbo haeret o il nome puer devesi cancellare. Ma
siccome, tolto il primo, il soggetto puer dovrebbe riferirsi
— 561 ~
aìVanteti , donde nascerebbe un cattivo senso, da prima io
pensava di attribuire il puer ad un errore dello scarpellino e
leggeva: Haeret et inmites quem rapiiere Dei, col soggetto
Sextus Pompeius nel verso seguente. Ma per quanti sforzi
facessi, non mi riusciva una probabile restaurazione del verso
terzo; per lo che fui costretto d'adottare il parere del signor
Esseiva, il quale trasporta haeret dal principio del pentametro
alla fine deiresametro. Il lettore, che aveva le orecchie avvezze
alla poesia, sapeva che anteit era pronunziato anilt (come
si vede nel verso d'Orazio, Te semper anteit saeva Necessiias
{Od. I, 35, 17) e in questo altro di Ovidio {Met. XIII,
366): ratem qui temperata anteit Remigis ojfìcium), e si ac-
corgeva subito che lo scarpellino aveva posta Tultima voce
del verso terzo a capo del quarto, perchè la lunghezza della
riga non lo permetteva a suo luogo.
Il quinto verso serba il nome, non del padre, come il
Borghesi stimava, ma del figlio, cioè Sextus Pompeius Ju-
stus. 11 nome del defunto non manca mai in un titolo se-
polcrale, ma abbiamo esempi, nei quali non si trova il nome
di chi jfece il monumento. Borghesi giudicava così, poiché
nella sua copia v'era un punto dopo Praec, che l'indusse a
compiere il vuoto in tal guisa: praeco agnomine Justus. Il
figlo defunto aetate in prima e puer, non poteva esser stato
pratco; anzi lo era il padre. Ma la congettura non può essere
approvata. Reca meraviglia, chela sola lettera finale d^\ praeco
sarebbe omessa, mentre che non vi sono altre abbreviazioni
che levolgari di Sex. prò Sextus e dipossitq. nel verso i3 prò
vossitqtie. D'altronde il sig, Henzen afferma d'aver veduto
sulla laolde non già un punto fra Praec e a, ma un tratto
poco dbtinto, che parevagli essere il resto d'una L. Però
avremo da leggere con lui la seconda parte del verso: prae-
da7'o nonine Justus, Nulladimeno il verso rimane vizioso,
se non si ammette che lo scarpellino si sia smarrito scoi-
- 562 -
pendo due volte il prenome , quantunque in casi diversi,
Sek. e poi Sexti. Se non mi sbaglio, dovea scolpire : Sextus
Pompeiiis praedaro nomine Jiistiis^ o con inversione non
infrequente: Pompeiiis Sextus praedaro nomine Justus.
Per dare alcuna base a questa ipotesi basterà l'indicazione
di due errori da lui commessi, spenrans v. 8, invece di spe-
rans, e nel v. Ti dolore^ dove il senso richiede dolere.
11 verso sesto offre la più grande lacuna, in parte già
colmata dal Borghesi. Non è da dubitare che nel suo
Magni — domus abbia trovato il vero. Manca nello spazio
di mezzo alcuna designazione di domuSy per esempio ma-
xima honore, proposta dal Visconti, o, come mi pare più
elegante, laudibus ampia. In ogni caso queste parole aquem
tenui t Magni — domus •» indicano che il ragazzo morto.
Sesto Pompeio Giusto, era stato il figlio di un liberto di un
Pompeio Magno.
Sfortunatamente questo nome non basta per indicare
con certezza chi fosse la persona voluta. Borghesi indica
due della famiglia di Cneo Pompeio, che primo prese
questo cognome, ornati dei medesimo e pare inclinato a ri-
conoscere in esso il console del 767 Sex. Pompeius Sex. T.
Sex. N.y detto Magnus nei fasti siculi e da vari scrittori.
Senza rifiutare questa congettura indicherò un terzo Magno,
di cui abbiamo contezza. Egli è il genero dell'imperatore
Claudio, il anale ^li restituiva Tantico cognome loltoai da
Cesare Caligola, come narra Svetonio in Calig. 35 e Cassio
Dione LX, 5. Inoltre sappiamo che questo d'allora in poi
non fu chiamato Cn. Pompeio Magno, ma Magno Pcmpeio,
come si legge negli atti dei Fratelli Arvali (Marini F. 76),
o col solo nome di Magno, come ne fa fede Dione LX, 2 1 .
Gemina male prole relictus , supplito nel verse settimo
dairEsseiva, non s'allontana molto dal gemina Ì2m prole
relictus di Visconti. La lunghezza deirultinia b gemina
-583 —
prova eh' e un ablativo, e la terminazione ctus deirultimo
vocabolo non permette la restituzione: gemina modo prole
beatus. Di buon grado cederemo il supplemento per uno
migliore, sebbene la costruzione di relictus col nudo ablativo
possa scusarsi colUVutorità di Properzio nel verso seguente:
Et modo servato sola relicia viro (II, 19, 32).
Il dattilo perito nel v. 9 non si può indovinare con cer-
tezza. Visconti scrisse funera. Ma è più acconcio schivare
la cacofonia, prodotta dallo stesso suono delle voci functae,
funera, functus, né mólto piace la locuzione post funera
natae f linci ae^ poiché ào^o funera la giunta dì functae, che
vale defunctae, vita functae, è affatto inutile. Quel ch'io
scrissi, functae post ardua natae, sarà la voce propria, in
caso chela figlia sia estinta dopo una vita malagevole, dopo
molti aifanni, perchè ardua, sostantivamente adoperato, vale
lo stesso che res ardua, nel verso notissimo: Aequam me-
mento rebus in arduis Servare mentem. La brevità della sua
vita almeno non esclude questa supposizione.
Il resto delPepitafio è meno guasto e la restaurazione si
fa senza fatica e senza grande tema di errare. Dunque non
parlerò di ciò e finirò queste spiegazioni sviluppando il mio
parere sulla interpunzione del penultimo verso, che per
buona fortuna è serbato integro.
Tanto la usata combinazione di Dii Manes in titoli se-
polcrali, quanto Tuso del genitivo singolari? nati nella frase
nati numen habetis^ dove il padre dovea parlare di due figli
e dire natorum, vieta l'accettare Manes per vocativo. Dunque
il padre indirizza il discorso ai figli, e nati è vocativo. Così
il padre, forse ricordandosi del properziano Sunt aliquìd
Manes, letum non omnia finii, a'inenonon incredulo, come
coloro che negavano esse, aliqvi^s manes et subterranea
regna,, di cui parla Giovenale (^Sa^ II, 149}, deduce dalla
supposta esistenza degli Dii Manes, cho i saoi figli avitl^-
— 534 -
bero già un nume, una potestà divina, e li prega di acce-
lerare la venuta dell'ora da'suoi voti domandata. E affinchè
niun dubbio rimanga sul nume attribuito ai defunti, alle-
gherò la preghiera di Briseide presso Ovidio {Heroid. Ili,
io5): Perque trium fortes antmas, mea numina, fratrum
e un passo nel poema di Silio VI, 1 13; testor mea numina
Manes.
Ciò detto, congedo il benevolo lettore, coi due notissimi
versi:
Vive^ vale. Si quid novisti rectius istis,
Candidus imperti; si non, his iitere mecum.
A msterdam , , Maggio 1873.
I. C. G. BooT.
LIV^GUA E "DIALETTO
Tutti ricordano, o dovrebbero ricordare, le molte dispute che nella
primavera dell'anno 1868 ebbe a suscitare la lifilapone suir unità
della lingua e sui me^!(i di diffonderla, che, per rispondere all'in-
vito fattogli dal Broglio, allora ministro dell'Istruzione Pubblica, la-
sciò stampare in un reputato periodico fiorentino l'onorando Manzoni.
Molli che la Relazione fini di persuadere o addirittura convertì pre-
sero a divulgare e a difendere le dottrine del maestro; ma non minore
fu il numero di coloro che voHero oppugnarle. Se non che questi,
bisogna dirlo per amor del vero, pur accennando qua e là ad osser-
vazioni giuste e ragionevoli, non seppero in fondo che ricantare dot-
trine vecchie e sfatate, fraintesero bene spesso il formidabile avver-
sario, e non tutti si ricordarono, purtroppo; quanta riverenza do-
vesse usarsi nel contraddirgli, È inutile dire che niuno riuscì a
fare una critica compiuta e profonda della tesi manzoniana, e ad
esporre altra dottrina ragionata ed organica. È inutile anche dire che
- 565 -
quegli i quali si attennero ad una via naezzana non riuscirono a nuìla
di preciso e di giusto. La vecchia massima che la virtù sta nel mezzo
è una grande allettatrice ; ma si dovrebbe pensare che essa, come
tutte le massime generali, non è vera se non in parte e sotto un certo
aspetto; giacché il mettersi in mezzo fra due opinioni estreme può
menare del pari a cose assai diverse, a conciliare cioè quel che c'è
di vero in entrambe, o ad accozzare invece quel che v' è in entrambe
di erroneo (i).
Io sono stato per un bel pezzo un manzoniano arrabbiato (curiosi
scherzi del linguaggio che trova mezzo d'accozzare insieme Manzoni
e rabbia!), ed ho fatto anch'io qualche piccola scaramuccia in difesa
della rcÀafede, riserbandomi di giustificare con molte ragioni tutto il
mio credo^ in un lavoro che mi proponevo di fare sul famoso libro di
Dante intorno alla volgare eloquenza (lavoro che ancora spero fra
non molto di dar fuori, ma senza più ninno intento polemico]. A
quando a quando però certi dubbii mi si affacciavano alla mente, a
cui rispondevo alla meglio. Soprattutto la questione della pronunzia
che generalmente è stata appena sfioraia, ed a cui io ho prestala in-
vece moltissima attenzione, mi suscitava di quei tali dubbii in gran
numero, e non poco tormentosi; non tanto a dir vero per l'impor-
tanza che pur la questione della pronunzia deve avere, ma principal-
mente perchè vedevo gli stessi dubbii per l'appunto potersi analoga-
mente fare altresì per gli altri elementi della lingua.
I dubbii mi venivan sempre crescendo, finché un bel di dalla ge-
nerosa indulgenza dell'autore mi giunse il Proemio dell'Ascoli al suo
prezioso Archivio glottologico. Colà ritrovai tutti i miei dubbii mu-
tati in obbiezioni sicure e poderose, vi ritrovai dentro tutte le ragioni che
(i) Io non ho né il mezzo né la voglia di fare qui una compiuta biblio-
grafia delle dispute che si fecero. Solo non voglio lasciare di ramnnentare al-
cuni scritti o allora o poco dopo venuti in luce, che per un verso o per l'altro
nii paiono degni di nota. Oltre gli Scritti varii sulla lingua e VQ/ippendice
alla ^ela^ione del Manzoni stesso, e la lettera a (Quintino Sella premessa dal
Giorgini al U^ovo Vocabolario italiano che s'è cominciato a stampare a Fi-
renze il 1870, sono notevoli gli scritti del Puccianti (Pisa i8d8), del Buscaino-
Campo (a4ppendice agli studii varii. Trapani 1871), dei Bernardi (d'avvia'
mento all'aite del dire, Montecassino 1869; lez. XH), del De Meis {fDopo la
Laurea, v. 1°, p. 437-42), del Fornrri (Propugnatore, a. 1°, fase, i"), del
Tabarrini('7^e/a;fio«e sui lavori della Crusca nel 69 e 70), dell'Imbriani (*Z)/a-
loghetii sei, inseriti nella 'Tatria di Napoli, marzo 1868), di Pier-Vincenzo
Pasquini, del Broglio, ecc., ecc.
— 566 -
laute volte mi erano balenate alla mente, e molte altre ancora a cui non
avevo mai pensato, e tutte mirabilmente concatenate e vigorosamente
ed argutamente espresse. Mi trovai allora posto in una nuova corrente
d'idee, e subito mi sentii la voglia di riprodurre la nuova . sequela
di pensieri che i dubbii vecchi e l'influsso nuovo determinavano in
mente mia, e mi vennero così scritte ìe pagine che oui seguono. Le
quali sarebbe addirittura inutile dare in luce se pretendessero di com-
pendiare o di parafrasare il robusto Proemio dell'Ascoli; ma che, es-
sendomi venute spontanee e naturali dopo la lettura di quello, e ri-
producendone solo alcuni concetti in un ordine e in una forma al
tutto diversa e più facilmente atta a divulgarli presso un maggior nu-
mero di lettori, non riusciranno, credo, interamente vane.
Non mi vergogno d'avere un po' mutato di parere, perchè non credo
d'esser tornato indietro. Dei resto nella dottrina manzoniana io scorgo
ancora molti lati veri, anzi nessuna dottrina pare a me che si sia
tanto avvicinata alla vera, quanto quella del gran Lombardo. E se
trovo qualche obbiezione da farci, non è certo il Perticari che me la
suggerisce.
In punto di lingua è generalmente usato fra noi di confondere la
questione storica con la questione pratica. V'è chi ha negato che la
lingua colta comune sia nata a Firenze e ne ha quindi dedotto che
non ci fosse bisogno d'andarla ora a studiare colà; v'è chi ha invece
sostenuto che la lingua che noi tutti scriviamo oggidì è nata in Fi-
renze, e ne ha quindi concluso che a Firenze debba andarsi a cercare
il compimento e la purificazione della lingua, che sentiamo ancora
imperfetta. Ma si sarebbe dovuto, mi pare, distinguere l'una questione
dall'altra. Può esser vero, come è vero Infatti, che la lingua sia nata
a Firenze, e può insieme esser vero che una volta uscitane non sia
né lecito né attuabile il farcela tornare per forza.
Fare un'accurata distinzione tra le due questioni e dimostrare come
vadano risolute ognuna per conto suo, è lo scopo che io mi propongo
di raggiungere con queste pagine.
11 Trissino, il Perticari e i seguaci loro pretendevano che la lingua
colta d'Italia fosse stata non si sa come fabbricata dagli scrittori, mo-
dellata secondo un certo ideale linguistico ; gli scrittori l'avrebbero
formata ripulendo ciascuno il suo dialetto nativo secondo un tipo
astratto di gentilezza e di pulito favellare. Ma quale potè mai essere
questo ideale astratto che facesse preferire un suono a un altro, quando
tra i due suoni nessuno era intrinsecamente più bello o più armo-
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nioso ? L'Abruzzese era dal suo dialetto spinto a dire e scrivere isso
e quisto, che non suonano punto male e per giunta serbano intatto l'i
latino; e avrebbe scritto esso e questo, che sono più alterati e non
sono più belli, per amore della gentilezza e dell'armonia? E il Ro-
mano avrebbe smesso il suo latinissimo e armoniosissimo pèrsica e
adottata quella contrazione che è pèsca, per ingentilire la sua parola?.'
E il Milanese abbandonò il suo se pò no (logicissimo quanto il tede-
sco man kann nicht) e disse non si può, per assumere forse un costrutto
più logico e naturale? Ma allo spiritò del Milanese niente è più lo-
gico e conforme che il suo se pò no, che ei dura anzi infinita fatica a
smettere, e a cui torna avidamente quando può! — Tutte adunque
queste preferenze di suoni, di parole, di costrutti alieni dal dialetto
proprio, ai suoni, parole e costrutti suoi naturali, ogni colto Italiano
deve averle fatte, non per cercare cosa che al suo spirito paresse più
regolare, ma sagrificando anzi quel che per lui era naturalmente sem-
plice e regolare! E quando di più si pensa che tutti gl'Italiani si
sono incontrati nel preferire le stesse forme per l'appunto, il che sa-
rebbe stato impossibile quando fossero dovuti arrivare alle forme scritte
mediante sottili giudizii artistici; e quando la più superficiale osserva-
zione basta poi a farci vedere che queste sono quasi sempre le forme del
dialetto fiorentino, forza è concludere che tutti gl'Italiani non hanno
abbandonato i vezzi, le abitudini, le leggi, le forme del dialetto pro-
prio, se non per adottare i vezzi e le forme del fiorentino ; e solo per-
chè il fiorentino s'è saputo imporre a tutta Italia come lingua della
coltura. Cosa del resto naturalissima, quando si considera che per più
di due secoli la Toscana, e Firenze in ispecie, fu il centro della col-
tura- italiana; che spiegò un'energia non solo superiore ad ogni altra
città d'Italia, ma mirabile e singolare in tutta la storia umana, da
non trovar confronto che in Atene ; e diede alla nazione intera una
serie di maestri d'ogni arte e d'ogni dottrina, Dante, Petrarca, Boccaccio,
Lionardo, Machiavelli, Guicciardini, Michclngnolo, Galilei! Il pen-
siero venne a noi di Toscana, incarnato in forma toscana, e noi ci
sentimmo irresistibilmente tratti ad assimilarci l'uno e l'altra. E quando
quest'assimilazione fu più o meno raggiunta, allora, un po' per natu-
rale illusione, un po' per maliziosa ingratitudine, molti non Toscani
credettero d'essersi fatto da sé quel linguaggio che loro era venuto di
Toscana; decrescendo sempre più l'energia della Toscnna e crescendo
quella d'altre provincie parve sempre più legittimo il rinnegare ogni
dipendenza da quella; e nacquero le quistioni sulla lingua. L'uomo fatto
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adulto morse la mammella della madre ormai vecchia, dalla quale
aveva da bambino avuto il nutrimento. L'uomo disse che ei si mo-
veva benissimo da sé, e che non sapeva capire come la madre sua
dicesse averlo già portato nel suo grembo.
Non mancarono i Fiorentini, e talora anche altri Italiani, di met-
tere in rilievo il fatto della origine fiorentina della lingua colta ita-
liana (i); molti scrittori lo confessarono di transito come la cosa più
naturale del mondo; i volghi stessi italiani seguitano ad attestarlo
chiamando tosco o toscano il parlare scelto e pulito. Ed ormai chiun-
que abbia la benché minima intelligenza della scienza glottologica e
professi il più elementare ossequio alla storia, non può aver dubbio,
che il fondo della lingua che parliamo e scriviamo fra noi Italiani
sia il dialetto fiorentino, che gli antichi nostri scrittori, fiorentini la
più parte, adoprarono negli scritti loro, incorporandovi, tutt'al più,
qualche voce o modo, preso o da altri dialetti italiani, o dal francese
e dal provenzale, o dal latino che, come lingua antica e tradizionale
della nazione, esercitava un'influenza continua ed efficacissima sulla
nascente lingua volgare (2). Se non che le dottrine trissiniane e per-
ticariane hanno per si lungo tempo confuse le idee ai letterati nostri,
che deve farsi un gran merito alla scuola manzoniana, d'averci ri-
chiamati con tanta insistenza e con tanta eloquenza alla verità slorica.
Ma oltre la tesi storica i manzoniani sostengono anche una tesi pra-
tica: l'unità di linguaggio tra le varie provincie italiane, essi dicono;
la compiutezza idiomatica che ci dia il mezzo di chiamare ogni cosa
con un suo nome certo, fisso, preciso ; la vivacità e freschezza popò-"
lare, sono adesso assai imperfettamente conseguite. Per ottenerle dav-
vero non e' è altro mezzo che scegliere un dialetto solo e quello ge-
neralizzare; e tra i dialetti la scelta deve senza dubbio cadere su quel
dialetto che per nove decimi è già divulgato in tutta Italia, sul dia-
letto fiorentino.
Anche in questa tesi pratica si racchiudono alcuni desiderii ed al-
cune esigenze assai ragionevoli, le quali possono anche stare senza
(i) Chi non rammenta, p. es., con quanta verità abbia difeso i diritti del
fiorentino il V'archi neWErcolano'i
(2) Il latinismo si risente spesso persino nella fonetica. Tt'bblico p. es. si è
scritto per influsso latino, che altrimenti il gruppo bl ripugnerebbe all'organo
popolare loscano'col quale s'accordano in ciò moltissimi altri dialetti italiani).
Infatti le voci toscane plebee sono, o con mutazione d' / in r prubbico, o con
metatesi dell' / e col normale trapasso di pi in pj piuvico.
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l'adozione dell'uso attuale fiorentino (si badi bene), ma che ad ogni
modo sono state esse a far concepire il desiderio di una tale ado-
zione, e che mediante questa, se la fosse possibile, verrebbero ad es-
sere certamente appagate. Eccole qui esposte.
Se Firenze avesse seguitato ad avere una coltura concentrata, vivace,
mobilissima, efficace su tatta Italia, la lingua si sarebbe andata sem-
pre movendo colà assieme al pensiero, e di colà sarebbe stata attinta
via via da tutta Italia. Oppure se invece vi fosse stata una equa distri-
buzione di attività in tutta Italia, se l'energia del pensiero vi fosse
stata grande ed operosissima, la lingua, pur restando in fondo del vec-
chio stampo fiorentino, si sarebbe mossa ed aumentata per aggiunte
fatte da scrittori d'ogni parte d'Italia, sarebbe risultata dalla grande
conversazione delle iiiiellige}ì:[e nazionali. Ma in Italia non è successa né
l'una, né l'altra cosa. Firenze ha deposto il suo prinaato e la sua dit-
tatura; l'Italia tutta non ha avuto un moto intellettuale omogeneo e
vivido; sentendosi dunque sfuggire una norma viva e sicura di favella,
la lingua nazionale genuina si è dovuta andarla a cercare in quei
primi classici, in quei grandi che primi ce l'avevano insegnata. Le
tendenze stesse artistiche della nazione nostra ci spinsero ad inna-
morarci della tersità classica, della lingua già nobilitala e santificata
dall'arte degli scrittori. Quindi fonti veri di lingua furono ritenuti gli
scrittori anteriori. Ai quali si venne perciò ad attribuire un'autorità
strana ed enorme.
Sceltine un certo numero, fattone una specie di canone^ si stabilì
che a scriver bene si dovessero usare voci e frasi e costruui usati da
loro. Per tutta giustificazione dell'uso d'una parola ecc. si cominciò a
dire: ce n'è esempio nel tale o nel tal altro classico; senza considerare se
cotesto fosse pure ammirabilissimo scrittore l'avesse o no ragione-
volmente adoprata; e senza riflettere se fuori del luogo dov'egli l'avea
posta, e fuori del tempo a cui egli apparteneva, fosse o no conve-
niente l'usarla. Si confuse il dizionario storico della lingua, lo spoglio
di tutti gli scrittori a noi pervenuti, col dizionario dell'uso, nel quale
allo scrittore non si può concedere altra parte, se non quella di far
testimonianza (quando secondo una sana critica veramente la fa) che
una data parola o modo sia usato in quel dato tempo comunemente,
o quella di farci scorgere donde sta nata un'espressione che, inventata
o introdotta la prima volta da esso scrittore, diventò poi di uso co-
mune. Si dimenticò che quel che fa una parola o un modo adope-
rabile è non già l'essere stato, comecchessia, usato da un tale, sia pur
li} vista di filologia ecc., 1 38
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grande, ma bensì un consenso comecchessia stabilitosi fra quelli che
della lingua si servono, un accordo tra loro conclusosi di dare quel
dato nome a quella data idea. Il manzonianismo anche su ciò ha ri-
stabilite le idee sane e giuste, le quali non è che non fossero prima
più o meno trasparenti in questo o quel trattatista, più o meno rico-
nosciute od invocate in questa o quella questione speciale, ma non
erano mai state così accentuate, e così logicamente coordinate e con-
dotte sino alla più rigorosa conseguenza, come dai manzoniani si è
fatto.
Il purismo teneva buone sole le parole di certi scrittori e di certi
dati secoli, e invaghito dell'arcaismo teneva che le parole possano
avere come un merito e una bellezza intrinseca, prescindendo rial loro
essere o no ricevute comunemente e dal riuscire per tutti significative
di certe idee. Il manzonianismo ha scosso, o meglio finito di scuo-
tere cotesta idolatria, e cotesto vezzo di attaccare alle parole un certo
pre^^o d'affezione, se così si può dire; e ha sostenuto con gran ra-
gione che le parole in tanto han valore in quanto richiamano pronta-
mente le idee che son destinate a significare, cosicché le parole attual-
mente usate e che spontaneamente ci vengono sulle labbra o alla penna
son perciò solo buone, ed anzi le sole buone, non essendo più buone
in niun modo le parole che per una ragione qualunque, sieno pure
state adoprate da scrittori valentissimi in epoche di grande splendore
di lettere, son oggi divenute oscure, o troppo insolite e ricercate.
Inoltre la scuola manzoniana, ribellatasi alla maniera e al conven-
zionalismo in qualunque campo dell'arte e sotto qualsivoglia rispetto,
ha combattuta acremente la vecchia abitudine della pomposa forma
accademica e (d'accordo, bisogna notarlo, con altre felici tendenze
dell'etì nostra) ci ha inoculato come un abborrimento per quegli am-
biziosi travestimenti del pensiero, a cui eravamo usi, e un desiderio
intensissimo di esprimere i nostri concetti in forma semplice e natu-
rale, conforme all'indole vera delle nostre favelle volgari, quale la si
rivela nei dialetti, mentre vedesi per contrario continuamente falsata
nei periodoni artefatti, e spesso latineggia nti, di molti dei nostri classici.
Tuni cotesti ragionevoli e utili principi! della scuoia manzoniana,
come ho già detto, possono anche stare e valere di per sé, senza che
si parli punto di fiorentino (i) ; però chi proclami l'uso attuale fiorcn-
(I) Difatti il Maestro gli aveva tutti anche prima di pigliare a proteggere il
fiorentino, e di mettersi, com'egli disse, a lavare i suoi cenci In Arno. Oltreché
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tino, cotesti principii li viene necessariamente ad includere, insieme
col resto. E, sia detto in parentesi per non anticipare troppo, può
forse con la ragionevolezza loro dare una luce di riverbero anche a
quel resto ; e può dimenticare facilmente che di questo resto quei prin-
cipii possono anche far senza.
Ad ottenere una lingua unica, fissa, popolare, moderna^ non e' è
mezzo più adatto che adottare l'uso attuale fiorentino ; questo si dice.
Ma io ho parecchi dubbi : i* se la mancanza d'unità di lingua sia
tanto notevole quanto si dice; — 2» se non si sia già formato un uso aU
tuale letterario^ un consenso cioè di lutti i colti Italiani rispetto all'or-
tografìa, alla grammatica, alla sintassi, al lessico, consenso che si ri-
ferisce a quelle tra le tante forme, voci e costrutti, che han finito per
prevalere, fra coloro beninteso che non si mettono di proposito a ri-
produrre le forme arcaiche e ricercate; — 3» se dove cotesto uso attuale
letterario è in discordia coll'uso attuale dialettale di Firenze, sia legit-
timo sbandire l'uso letterario già costituito per sostituirgli l'uso dia-
lettale; — 4* se, anche dove l'uso letterario è realmente insufficiente, sia
teoricamente legittimo e praticamente attuabile il supplirvi con l'uso
dialettale fiorentino.
£ incominciando dal primo dubbio, che l'unità della lingua sia così
scarsa come si dice e come pur dovrebbe essere per preoccuparsene
così premurosamente, mi sembra, se ho a dirla schietta, una esage-
razione.
Volta e gira, quando scendono al concreto (che non è cosa frequente)
e recano qualche esempio, i manzoniani non riescono mai a citare un
concetto astratto, un sentimento, od altra cosa simile, che non si sap-
pia italianamente denominare, ma sempre devono fermarsi a qualche
oggetto materiale: al grappolo d'uva, alle falde da tener su i bambini
che non si reggono ancor ritti, ai piselli, al soffietto e cose simili. Ora
io non dico che la stessa unità di nomenclatura degli oggetti materiali
non sia per una nazione un bene desiderabilissimo; voglio solo dire
che se si tratta solo di questo, della mancanza cioè di una certa parte
di nomenclatura materiale, e' non c'è poi da disperarsi tanto; è proprio
anzi il caso di dar tempo al tempo.
ognuno può aver osservato che oggi moiti, senza la minima intenzione di fio-
rentineggiare, sol perchè intenti più al pensiero che alle ambizioni della forma,
o perchè dcstderoei di farsi capir bere e di piacere a tutti, acrivono in modo
da avvicinarsi moltissimo alla forma inculcata dai manzoniani.
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Il fatto è che da secoli noi Italiani stiamo comunicando e disputando
gli uni cogli altri di poesia, di arte, di storia, di scienza politica, di
critica letteraria, di estetica, di morale, di filosofia, e, mettiamoci an-
che, della quistione della linguai Eppure chi oserebbe dire che le in-
venzioni più o men belle, le dottrine più o men sane, le ragioni più o
men giuste, i frizzi più o men ingegnosi, le insolenze più o men vil-
lane, che abbiam voluto scambiarci, non si sia riuscito ad esprimerle e
ad intenderle? Di piìi; si sono introdotte ai dì nostri in Italia scienze
nate oltralpe, p. es. la linguistica; si son create attività novelle, esempio
la vita parlamentare ; or con questa lingua che si dice carica di ricchezza
inutile, povera di ricchezza vera, non abbiam riprodotti i più sottili
concetti della scienza straniera; e non siam riusciti perfettamente ad
intenderci nelle nostre pubbliche discussioni sopra soggetti d'ogni spe-
cie? Se il malanno è di non aver pronto un linguaggio fisso comune per
denominare alcuni oggetti relativi alla vita familiare, rassegniamoci, e,
seguitando su essi ad intenderci (come pur facciamo) per ora alla me-
glio, speriamo che lo scambio maggiore, che c"è ora d'ogni fatta d'idee,
di parole e di cose tra noi Italiani, ci faccia acquistare presto un'unità
di nomenclatura; onde si possa fra poco intendersi perfettamente anche
sopra queste piccolezze, come sopra cose più serie (e non bisogna scor-
darselo che son più serie) ci intendiamo da tanto tempo!
Io so bene che cosa si risponde: una lingua, si dice, che delle cento
cose dicuigl'Italiani'vorrebbLTo (o meglio, potrebbero voler) discorrere
fra loro, solo novanta può esprimerle con sicurezza, e le altre dieci si
trova imbarazzata a nominarle, sarà bene una parte grandissima di lin-
gua, ma non è proprio una lingua ; la quale dev'essere un complesso di
voci che bastino ad esprimere una totalità di relazioni ideali che pos-
sano occorrere tra gli individui d'una società che la usa; la è insomma
un organismo, quindi o è tutto o è nulla. Se non che quesl' or g-ani-
smo benedetto temo che sia una di quelle tante metafore che sogliono
trarre in inganno lo spirito umano. Certo la lingua è un che di orga-
nico rispetto alle forme grammaticali e alla sintassi, ma quanto al les-
sico sarà pure, se si vuole, un organismo, ma un organismo non tanto
collegato, e, per così dire, articolato, che a togliergli una parte e' resti
mutilato; sarà tutt'al più come uno di quegli organismi di specie infe-
riore, in cui più individui si coliegano a vivere una vita comune, ma
senza che, avulso uno di essi, il lutto ne venga a patire. I vocaboli non
son legati fra loro da un tal vincolo necessario, che, toltine parecchi,
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la lingua resti mutilata o disorganata: tutt'al più resta scemata, im-
poverita, ma resta una lingua davvero \
Inoltre, ei non si dovrebbe dimenticare che le lingue scritte, sebbene
per lo più non sietio che il dialetto portato dalla parlata alla scrittura,
tosto però che le son diventate scritte, e si son proseguite per un pezzo
a scrivere, vengono a stabilire via via una cena tradizione letteraria, e
da questa tradizione non è mai facile distaccarle, tanto meno poi là
dove il dialetto, onde prima esse uscirono, per una ragione qualunque
non è più stato in intimo nesso con loro. 11 dialetto di un paese solo
è diventato il linguaggio degli uomini colli di più paesi, e come tale
si è seguitato a svolgere, e dove è andato più in là, dove è rimasto
più indietro del dialetto locale. Che fare quando l'abitudine stabilitasi
fra i colti della nazione diverge da quella, o tenacemente rimasta,
o nuovamente creatasi, fra i parlanti della città? Devono i colti della
nazione smetter l'abitudine loro, per assumere quella della città? — Ve-
niamo a qualche esempio. I manzoniani scrivono ora bono, core, novo
anziché buono, cuore, nuovo, e si giustificheranno così: come secoli
sono fu legittimo scrivere buono, benché il latino tradizionale desse bO'
nus, perché in bocca al popolo era tal voce diventata buono, cosi sarà
legittimo scrivere oggi bono, tostochè il popolo ha a tal punto ridotto
il buono tradizionale. E certo se il fatto avvenisse spontaneamente, e
per conseguenza di un salto così brusco com'era quello dal latino al
volgare, niente sarebbe più ragionevole. Ma questo brusco trapasso e
totale cangiamento di linguaggio non è il caso nostro, e il bono, voi,
perchè altri lo scriva, dovete sudare a comandarlo e raccomandarlo,
come un toscanesimo da adottare, e gli altri non vi s'adageranno fa-
cilmente; anzi voi stessi poi sdrucciolate involontariamente a scrivere
buono, «omOj cuore ! Direte che humanum est peccare ; ma io, a dir vero,
quando peccano uomini come voi , quando voi, fermamente intenzio-
nati a scrivere in un modo, cascate ognitanto nel modo che volete
sbandire, io comincio a capire che ci é su queste, come su altre molte
parole consimili, un accordo, un'abitudine già consolidata fra gli Ita-
liani, e che il vostro bon toscano, e il vostro novo modo di scrivere,
che volete impiantare per amor dell'unificazione, viene piuttosto che
a creare, a turbare un accordo e un'unificazione già operata. E conti-
nuando ad argomentare ad hominem — giacché gli argomenti a tali, ad
ejusmodi homines, son poco meno che argomentazioni ex visceribus
causae — io direi che se per seguire l'attuale uso di Firenze si deve scri-
vere bono, s'avrebbe per la stessa ragione a scrivere sceti^a (parola che
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in latino è quatrisillaba, in poesia italiana trisillaba e nella lingua no*
stra antica e tradizionale è bissilhiba, ma con vero dittongo nella prima
sillaba), e C05ce«fa, e così spece, effige, e si dovrebbe scrivere e pro-
nunziare sempre de\ a', co\ pe' (i), senza mai attaccarci quell'/ finale
che più non si pronunzia a Firenze, e così si dovrà, o almeno si po-
trà scrivere a tutto pasto il mi' bambino, la mi' figliola, la su' mo-^
glie, e ha' per hai, e (apriti terra!) un invece di non, giacché è risa-
putQ che in tutta Toscana e da qualunque classe di persone così si
dice attualmente! Gli esempi potrebbero moltiplicarsi, ma questi ba-
stano a mostrare che d'attenersi davvero all'uso attuale fiorentino man-
cherebbe a tutti il coraggio; o che questo, quando pur si avesse, si
avrebbe a chiamare piuttosto temerità ; temerità cioè di voler imporre
modi di scrivere che riescono o nuovi o almeno troppo ricercali, e
disturbare così consuetudini già ferme e divenute istintive presso ogni
colto italiano. Si potrà forse dire che questa è quistione di pronunzia
e non di lingua veramente; ma all'argomentazione mia che corre per
la pronunzia altre analoghe se ne potrebbero fare per la lingua. Ol-
treché la pronunzia, la fonetica, spetta a quanto vi è di più caratteri-
stico ed organico in un linguaggio o in una data epoca d'un linguaggio,
ed è poi così tremendamente estesa che molte questioni si potrebbero
in fondo ridurre a questione di pronunzia. Il fiorentino dice oggi
radino, e noi pur seguitiamo a scrivere vadano (che non è più vi-
vente) ; in omaggio a che, di grazia, se non all'uso tradizionale lette-
rario ? E perchè non scriviamo, qvialche volta almeno, volse per volle,
se non perchè l'uso letterato ha prescelto questo > Anzi, si badi, vadino
e volse, ecc., si potrebbero giustificare' anche con molti esempi di scrit-
tori classici, oltreché con l'uso attuale fiorentino; eppure noi, come
avremmo trovato reo d'affettazione un purista che l'avesse scritto per
mare una forma di classico, così daremmo ora la stessa taccia a chi
lo scrivesse in omaggio all'uso attuale. Sicché per diverse vie pare si
possa riuscire allo stesso, alla pedanteria.
Che s'avrebbe poi a dire dei possano per possono, dei dicano per di-
cono, dei potrebbano per potrebbero, che oggi, fuori del caso che in-
(i) Difatto in una sua bella Prolusione, letta, mi pare, a Siena il i85g, il
Gjorgini scrìve addirittura de (sic) per dei. Si potrebbe dire ch'io vado in cerca
di minuzie, ma non potrebbero però lagnarsi di questo i manzoniani, i quali
in questa faccenda han portato b cose a tale logica conseguenza, che presso
loro ogni più piccolo fatto deve poter provare per tutto il complesso.
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tenzionalmente vogliano seguir l'uso letterato, esclusivamente adoprano
parlando i Toscani? Non è che io ritenga reprobe e spyrie cotali forme,
sol perchè non note alla lingua colta ; le sono anzi per me, come per
ogni buon studioso di linguistica, forme spiegabilissime e legittime
quanto ogni altra forma di ogni altro linguaggio. Ma solo mi parrebbe
ridicolo l'adottarle artificialmente in una lingua che non ne sente il
bisogno, e che anzi finirebbe a riceverne Dio sa quale confusione,
stanti alcune coincidenze delle forme attuali, p, es. dell'indicativo,
con quelle tradizionali del congiuntivo, del possano popolare indi-
cativo col possano tradizionale congiuntivo.
Ma il fatto è che anche gli scrittori, a furia di discorrere con la penna
tra loro per anni e secoli, vengono a prendere delle abitudini comuni
e delle inlese e degli accordi spontanei od anche riflessi, e cosi un uso
letterario si forma ; uso trasmutabile anch'esso, ma uso a sé e per sé.
E se questo uso in Itaha si è facilmente sconosciuto, egli è stato per-
chè per uso degli scrittori si è solitamente inteso tutto il complesso
delle parole, modi, capricci, bizzarrie, che un certo numero di scrit-
tori canonizzati han creduto di adoprare ; e sì è creduto di poter giu-
stificare l'uso d'una parola o d'una forma col solo provare che ce n'è
esempio in Machiavelli o in altro autore, non sceverando così di tutto
l'inventario delle parole degli scrittori le ancor vive dalle già morte; e
dall'altro Iato poi ostinandosi a far sì che nell'uso letterario non avesse
a entrare nulla di nuovo, di cui paresse bensì sentirsi il bisogno, ma di
cui la lingua mummificata e santificata non avesse avuto sentore quando
era viva. Ma chi, scossi cotesti pregiudizi!, cerchi in buona fede l'uso
vivente letterario, lo troverà certamente, e lo ravviserà in tutte quelle
forme e in quelle voci che un consenso, comunque formatosi, fra gli
scrittori e i colti parlanti (e non si può negare che in Italia si é stabilito
incerti casi in modo irragionevole ; ma ormai è formato!) ha preferite,
sopprimendo per ragioni buone o cattive le altre. Così è potuto seguire
che alcuni prosatori, che certo non hanno avuta nessuna pretesa di tosca-
neggiare, han pure scritto in un modo di che il gusto moderno non
si offende menomamente; e il Leopardi sia citato per tutti. E a un
tale uso letterario alludeva Orazio in quei famosi versi, ove gli attri-
buisce « arbiirium et ius et norma loquendi », il che si può certo ap-
plicare anche all'uso popolare dialettale, ma non attribuendo però,
come da alcuni si è fatto, ad Orario stesso l'intenzione di una tale
applicazione, tostochè il contesto suo vi ripugna assolutamente.
In tesi generale, il dialetto non è certo niente di sostanzialmente
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diverso dalla lingua, ed era un grossolano pregiudizio quello di ve-
dere nel dialetto un non so che d'illegittimo, di triviale, di corrotto.
La lingua stessa deve aver per base uno, o almeno più dialetti affini (i .
Se non che, dal momento che l'uno o i più dialetti si scrivono e di-
ventano organo di comunicazione fra una società di scriventi e di
parlanti con arte, quel linguaggio che ne risulta, non solo essendo più
elaborato dalla riflessione si svolge da indi in là con un certo proce-
dimento non del tutto identico a quello .:oa che svolgesi un dialetto
puramente parlato in un sol luogo ; ma, quando pur si voglia credere
che si svolga in modo perfettamente analogo a quello di un dialetto
qualunque, si svolge però sempre in un modo propriamente suo giac-
ché esso è ormai diventato un altro dialetto, se si vuole, e niente di
meglio, ma sempre un dialetto a sé, un altro dialetto, il dialetto de-
gli scrittori, soggetto a vicende sue proprie. Vicende, siano fonetiche,
siano ideologiche, dello stesso genere suppergiù di quelle che possono
aver luogo in linguaggi dialettali; ma che sono in esso proprio quelle
tali ed in quel certo numero senza riguardo a ciò che al dialetto
parlato, onde prima ei sorse, possa piacer di fare. 11 dialetto è la
lingua di quei che un muro ed una fossa serra ; la lingua è il dia-
letto degli uomini colti e scriventi di una o di più città.
Tutt'al più, colà dove la società dei colti coincide materialmente
col popolo di una data città, là dove il pomerio della città è insieme
il limite della sua coltura, com'era per esempio in Atene, là il dia-
letto e la lingua saran quasi una cq§a sola (con questo però di diffe-
renza che la lingua colta va sempre più a rilento nell 'adottare le forme
pur mo* nate). Ed egli è certo naturalissimo che Platone, ateniese, scri-
vendo in Atene e per gli Ateniesi, e riproducendo artisticamente quelle
lepide e vivaci e sottili conversazioni che tuttodì si facevano sotto i
portici e nei viali ateniesi, scrivesse press'a poco come ogni colto ate-
niese parlava ! Ed è quindi anche naturalissimo che egli dica la lingua
non si poter imparar dal maestro, bensì succhiarsi col latte! (2). An-
(i) Non per forza uno solo, come si dice fondandosi sull'esempio del latino
e del francese, e trascurando i molti esempii contrarli.
(2) Il Bonghi nelle sue eccellenti Lettere critiche, riferendo cotesto detto di
Platone, nota che esso avrebbe fatto ridere di compassione il Cesari ed il
Puoti, che tra i meriti principali della nostra lingua mettevano questo, che,
anche a studiarla tutta la vita, non si viene mai a capo di saperla tutta. Cer-
tamente bisogna dire che il Cesarie il Puoti avessero della lingua un ben cu-
rioso concetto! Ma d'altro lato, se il concetto che n'avea Platone era adatto
— 577 —
che là dove la società degli uomini colti e scriventi, sebbene diffusa
sopra ampio paese, s'accentra però in una città sola, com'ha luogo
p. es. in Francia, dove Parigi raccoglie e attira a sé il fiore delle in-
telligenze nazionali, è il gran crogiuolo del pensiero comune, «è,
come fu detto, il cervello (se vogliamo, non sempre immune da
congestioni e da ebbrezze, ma insomma il cervello) della nazione;
anche là dialetto e lingua quasi coincidono ; anche perchè il dialetto
stesso non è più il dialetto quale sarebbe divenuto abbandonato a sé
stesso, ma quale risulta per essersi usato di continuo come lingua ,
vale a dire come istrumento d'un pensiero più colto e destinato a più
larga diffusione che non sarebbe quella limitata al suolo ov'esso nasce.
Ma laddove centro non v'è, o è mutabile; laddove è, come in Italia,
avvenuto, che un dialetto locale, dopo essere stato organo del pen-
siero dei grandi spiriti di una città, è stato assunto da tutti i colti
uomini di una intera nazione a strumento di un pensiero a cui i po-
steri concittadini di quei grandi non han presa più parte se non se-
condaria; si può egli ritenere non dico praticamente attuabile, ma in
diritto e in "teoria desiderabile che tutti gli uomini colti della nazione
smettano la lingua con cui alla meglio s'iotendono presentemente, e
corrano a informarsi con premura a che ne sia ora quella lingua fio-
rentina cui già fece sentire, quale era ai lor tempi, a tutti gl'Italiani
la voce robusta ed ascoltata di Dante, di Boccaccio, di Machiavelli
e di Galilei? Se i Fiorentini volevano che la lingua non si staccasse
dal lor dialetto, toccava a loro di farcela continuamente sentire. Che
c'importa che i Fiorentini non dicano più altro che lui, quando a noi
tutti Vegli viene spontaneo sulle labbra e alla penna ? — E, per fer-
marci a un altro esempio, il dativo non enfatico del pronome di terza
persona è per il maschile gli (gli dissi = a lui dissi); per il femminile
era, nel toscano antico, oltre di le {le dissi = a lei dissi) , anche gli
come pel maschile. E bene sta; gli femminile è una legittima deri-
vazione romanza del dativo femminile latino illi (illa, illius, illi) omò-
fono al maschile, quindi persin più legittimo, latinamente parlando,
di le, che è derivato dal dativo femminile latino-volgare illae, coniato
sull'analogia de* nomi femminili in a (rosa, rosae). Se non che la lin-
eile condizioni del suo attico, chi potrebbe dire sul serio che un tal concetto
sia applicabile ad altri casi in cui quelle condizioni deiratcniese e di Platone
non ci son nemmeno per idea^ Dove anderenao a mungere tanto latte da ab-
beverare di buona lingua ventisei milioni di uomini?
— 578 —
gua letteraria, spinta da un certo desiderio di differenziare il dativo ma<
schile dal dativo fcmiuinile (desiderio tutt'altro che riprovevole, sebbene
nulla imponga di appagarlo sempre, come di fatti resta inappagato nel
latino e nel francese: illi, /u/), è stata propensa ad usare pel femmi-
nile piuttosto il neologico le che il più arcaico gli (perciò gli esempi
di gli = a lei non mancano negli scrittori, ma san rari). Vennero poi
i grammatici, che un po'per la stessa ragione, un po'appoggiandosi
sull'autorità degli scrittori, un po'per pregiudizio (credendo essi che
gli per a lei non fosse che un'abusiva estensione della forma maschile
al femminile), stabilirono s'avesse a scrivere e dire sempre le per a
lei. Ed ormai siamo avvezzi a questo, e non è certo uno svantaggio il
poter nettamente distinguere i due generi. Ebbene, la parlata fioren-
tina ha ora gli per a lei, esclusivamente, e ha fatta (né c'è da fargliene
rimprovero) una diversa scelta uaturaley da quella che nel linguaggio
italiano s'è fatta. Ma, dovremo noi mutare abitudine per attenerci
al dialetto? (i) — E, tornando di nuovo alla pronunzia, si deve ben
prescrivere agl'Italiani di pronunziare chiusa Ve di vero, aperta Ve
di petto giacché questo è di quella parte di fonetica toscana che sì è
imposta di fatto all'Italia, e commetterebbe parimenti un brutto pro-
vincialismo il napoletano che dicesse certamènde con e aperta e d per t
(quantunque lo stacco dalla Toscana è stato tanto, che cotesti pro-
vincialismi non ci si attenterebbe forse a dirli spropositi, come pur
sono) ; ma chi però oserebbe prescrivere il così detto e aspirato to-
scano? (a) Eppure se la buona pronunzia deve essere la fiorentina,
(x) Gli pera loro (in funzione non enfatica, ma atonica), occorrente anche
esso qua e là nei classici e d'uso comune ed esclusivo attualmente a Firenze,
incontra più favore e meglio si ride dell'abbominio dei grammatici rigorosi per
ciò che il loro o lor in funzione non enfatica è troppo pesante ed addirittura
sconveniente.
(a) Ho sentito dire da parecchi avversarii, e persino (oh, la logica!) da dei
seguaci del toscano, che del e aspirato non si può tener conto, perchè le
aspirate ripugnano assolutamente al genio della lingua italiana. Cosioro mi
fanno venire a mente un certo paragone non mollo decente, ma molto do-
cente (se il bisticcio mi si permette), che è nella bellissima poesia del gran
Carlo Porta sul Romanticismo! Come mai ripugnano all'organo italiano le
aspirate, quando in una provincia d'Italia, e a confessione di tutti più pros-
sima all'italiano scritto, le ci sono?! E lascio poi stare che in molte Pro-
vincie italiane occorrono non gli stessi suoni ma degli analoghi, come è
per es. in molte parti del Napoletano, dove si ode quel che si potrebbe dire,
per seguire la nomenclatura comune, g aspirato {pogheta poeta, tre ghanni
tre anni, ecc.). Ed ho detto per seguire la nomenclatura comune, giacché ve-
— 579 —
cotesto suono anderebbe raccomandato con tutto il resto! E non è
egli peggio quando si tratta di vocaboli addirittura? Prendere voci fio-
rentine, non note all'Italia colta, e scriverle e metterle in giro , non
già come nuove parole proposte (che ciò è legittimo, e quando si sa
fare riesce), ma come parole della lingua che ciascuno sia tenuto ad
intendere e gustare, par egli un partito giusto?
Alla ripugnanza degl'Italiani ad adottare il fiorentino si assegnano
per motivo primo le maledette gelosie municipali ; ma è presumibile
che tutti si muovano per passioni così ignobili, che in tante altre cose
ei non sentono? Se le gelosie mimicipali e l'amor proprio di ciascuno
che vi si compenetrava furono principal cagione che molti nel cinque-
cento negassero l'innegabile fatto storico, esser la lingua colta sorta a
Firenze, ed esser essa la lingua fiorentina divulgala e ripulita con l'arte;
non si può dire però che quelle gelosie sieno oggi la principal cagione
ramente la scienza non chiama aspirato il e fiorentino (che è una consonante
protraibile all'infinito come il eh tedesco, il x greco moderno, il th inglese, il h
e kl 6 greco-moderno, 1'/, l'r, l'^) ma spirante, o in qualche altro modo. Lo
stesso 8i potrebbe dire del t aspirato fiorentino (a Firenze si sente continuamente
• Napolethano » e così in altri casi di t fra due vocali); ed anche di esso si
troverebbe il correlativo suono mediale nel d di molti dialetti meridionali, ove
in sudore, dolore, ecc. il d ha l'identico suono spirante del 6 greco-moderno e
deU/i dolce degli Inglesi. — Orbene, se Firenze avesse avuta su tutta Italia una
influenzacontinua e vigorosa come Parigi sulla Francia, certo oggi tutti gl'Italiani
procurerebbero di dire le horna, la havalla: molti forse non ci riuscirebbero,
ma non si direbbe esser ridicolezza persino il tentarlo, come invece ora si
dice. Non riuscendoci si compatirebbero, come infatti si compatisce adesso il
napoletano che dica angora, il veneto che dia frate lo, il ligure che imponga
scilensiu all'assemblea che presiede. Ma, come ora si dà per legge di dire an-
cora, fratello, si7ew.fio, così nell'ipotesi da noi fatta sarebbe stata legge pro-
nunziare la havalla: una legge però, s'intende bene, non iscevra dal, vantag-
gio che han tutie le leggi, di poter essere frodate. Se oggi dunque nessun si
sente di impor di dire la havalla., i hani^ egli è perchè ognun sente istinti-
vamente come sia assurdo imporre alla nazione quel che non è da sé saputo
uscire dai limiti d'una provincia. — M<?tterò qui un'osservazione all'Ascoli, e
servirà almeno a mostrare che a quell'alta intelligenza professo non una cacca
fides, ma un rationale obsequium. Egli scrive imagine, abondare, abominio,
aborrire, àcademia, per attenersi all'ortografia e alla fonia etimologica. Ma
in tali parole il raddoppiamento della consonante protonìca è di antica data
nel toscano e abbastanza insinuatosi per conseguenza nell'abitudine di tutu
Italia. Come dunque giustificare questa velleità etimologica, questa smania di
latinità? Il Gherardini almeno anda^^a molto più in là, sostituendo quasi si-
stematicamente (anch'egli però non potendo arrivare fino alle ultime conse-
guenze) il criterio etimologico al criterio fonetico. Ma questa dell'Ascoli è una
Gherardinite sporadica, che non mi riesce di trovare giusta.
— 580 —
per che molti si oppongano alla tesi pratica dell'adozione dell'attuale
uso fiorentino. È cosa anzi notevolissima, che chi più dubita della pos-
sibilità e della legittimità di tale adozione sono i Toscani e i Fio-
rentini, e certo non per gelosia municipale! Mi ricordo che a me na-
tivo del mezzogiorno è toccato spesso di difendere, quando dimoravo
in Toscana, contro dei Fiorentini il lor fiorentino (i). Forse i Fioren-
tini, che conoscono minutamente il loro linguaggio, sono più colpiti
da ciò che il lor dialetto ha di non letterario, di noi, che impressio-
nati di sentire colà dalia bocca persin del volgo molte parole perfet-
tamente simili a quelle che siam avvezzi a considerare come eleganze
dei libri, siam naturalmente propensi a esagerare l'accordo e perdere di
vista le molteplici discordanze tra l'uso fiorentino e l'uso letterario.
Non nego adunque che qualche pregiudizio più o men vieto, qualche
passioncella più o meno gretta non induca alcuni non Toscani a mostrare
una riluttanza troppo risentita; ma in verità quello che spinge i Fiorentini
ad]essere spassionati e modesti, e fa noi altri tutti ripugnanti a sottomet-
terci, all'autorità loro, è un intimo senso che tutti ci avverte, come non
perchè moltissime parole di Firenze seppero divulgarsi e farsi italiane,
tutte le altre debbano per ciò solo essere ora ricercate da noi e impo-
steci senz'alcuna loro fatica. Noi, quanti sappiamo che l'italiano è sto-
ricamente in fondo lingua fiorentina, possiamo per le voci fiorentine
che non han passata incerchia antica ammettere tutt'al più che abbiano
una certa luce di riverbero, che quasi portino un titolo di nobiltà, un
casato, una parentela illustre; non già che sol perchè parenti di quelle
altre italianizzatesi debba a loro attribuirsi un'autorità riconosciuta. —
Ma sono utili quei fiorentinismi, è desiderabile la loro diffusione! Eb-
bene, se vi pare che un fiorentinismo sia bene farlo italiano come gli
altri, che sia degno di far fortuna, come suol dirsi, fnites-la lui faire!
giacché benissimo si ritorce contro loro la bella risposta dell'Accademia
francese al Voltaire, che i manzoniani citano così spesso e volentieri a
proposito d'altro.
Mentre però non riesco più a convincermi della compiuta verità ed
attuabilità della tesi manzoniana, credo si debba pure riconoscere per
(i) Ecco perchè non posso approvare quel modo satirico ed acre che molti,
avversando la dottrina manzoniana, adoprano contro i presenti Toscani.
Avranno questi \ loro gran difetti, se si vuole, ma spregiarli per questa que-
stione, nella quale essi non hanno pretese punto esagerate, ed hanno ad av-
vocati, e non pregati, dei non Toscani, mi pare ingiusto.
-581-
quanti versi ella abbia giovato a metterci sulla vera via, e l'utilità
grande che ha prodotto sin qui, sebbene indirettamente, o meglio nega-
tivamente. Giacché l'abuso di parole morte, di costrutti slavati e senza
disinvoltura, di modi astratti senza alcuna vivacità, è stato corretto, ol-
treché da altri impulsi, dalla smania (legittima o no ch'ella sia) di fio-
rentineggiare. E ne addurrò un esempio tolto dal capolavoro della prosa
italiana. Jn un luogo deiTultimo capò dei Promessi Sposi, in un pe-
riodo mirabilmente commentato da un mio illustre amico in una sua
bella lettera ad un altro illustre di cui pur troppo non ci resta ormai che
la memoria ( i ) , si paragona la vita umana ad un letto, e si dice che l'uomo
posto sul suo letto si vede attorno tanti altri letti rifatti, dove si figura che
ci si deve star benone, e dove, se riesce a mutare, appena accomodato,
sente, pigiando, qua um lisca che lo punge, iì un bernoccolo che lo
preme, in modo che poco dopo toma alla storia di prima. Ora, prima
che il Manzoni facesse quel famoso bucato in Arno, invece di si figura
che ci si deve star benone, diceva con modo punto soave: crede che si
debba giacervi soave ,- e invece di qui una lisca, diceva qui uno stecco,
e invece di lì un bernoccolo, diceva lì una durerà, parola, come ognun
vede, astratta e slavata, mentre quel bernoccolo è assai concreto e vivace,
e arto a dare una certa tinta satirica, che a quel periodo ò tanto appro-
priata ! Orbene coteste correzioni gli sono srate di certo insinuate dal
desiderio di fiorentineggiare. Ma ciò, mentre mostra come un tale
desiderio abbia resi di bei servigi, non basta a legittimarlo teoricamente.
Giacché (se ben si guarda), se quelle parole star benone, lisca, bernoc-
colo son quasi messe in vista, e raccomandate dall'attual fiorentino, in
realtà però sono pur parole già divenute italianissime, e che sarebbero
potute venire in mente al Manzoni anche prima ch'egli si proponesse di
fiorentineggiare. A voler vedere invece quanto sia poco legittimo il to-
scaneggiare, non per contravveleno ai vizii del passato, ma in sé e per sé,
si immagini il caso che invece di star benone, lisca e bernoccolo, parole
che tutti intendono e gustano, avesse il Manzoni scritte tre parole fio-
rentine prette, non ancora italianizzate, di quelle tali insomma le quali
orasi pretende che gli Italiani si sforzino di capirle e le gustino per pro-
getto, e si pensi che bel gusto sarebbe stato mai e come il periodo ei lo
avrebbe sciupato, invece che accomodato! lo credo adunque utile l'infìo-
rentinarsi(sit venia verèo) bene bene, per questa ragione, che, coincidendo
(i) n)ue letti, Lettera critica ad Q^l/oitso 'Delta Valle di Casanova per
Federico Tersico. Estratto dal periodico napoletano la Carità^ quad. XII, a. V.
- 582 —
l'attuai fiorentino con gran parte dell'uso tradizionale, ci aiuta a imparare
prontamente cotest'uso, ci suggerisce anche voci e modi che potendo es-
sere generalmente intesi, sebbene non sieno generalmente usati, fuor di
Toscana, si possono, usandoli accortamente, divulgare e sostituire via via
a modi o troppo slavati o troppo stranieri che oggi usiamo : e un certo
intuito felice, un certo gusto delicato avverte io scrittore come e quando
possa egli fare opnortunamente una tale sostituzione. Come una buona
tuffata nella letteratura del trecento giova a darci una buona educazione
linguistica, così la dimora in Toscana, o qualunque altro mezzo la si-
muli, conferisce a farci prendere una certa freschezza, e purezza insieme,
di linguaggio. Ma a quel modo come il primo fatto non coonesta l'ido-
latria sentimentale del Padre Cesari per il trecento, così il secondo non
giustifica l'idolatria ragionata del Manzoni per il fiorentino. E, fortuna
che la sua rigorosa e inesorabile teoria questi l'ha corretta nella pratica,
per quel felice istinto che nelle grandi intelligenze serve a temperare
gli eccessi teorici ; che se no forse avremmo oggi pieno di ricercatezze
e di affettazioni il più perfetto dei libri nostri! E fortuna ancora che i di-
scepoli più zelanti hanno anch'essi robusto ingegno e alieno d'ogni pedan-
teria; e riescono così scrittori piacevolissimi. Giacché invero quale forma
si può immaginare più netta, efficace e briosa, di quella onde dà saggio
il Giorgini nei suoi scritti; i quali non han che un sol difetto (e lo dico
non a maggior raffinatezza di elogio, ma con seria intenzione di bia-
simo), quello d'essere pochi? E chi è che per la moltiplicità dei soggetti
che tratta, per lucidezza d'idee, per finezza di satira e di brio, e per
garbo nel saper dire qualunque cosa con tutti gli scaltrimenti e le
cautele dell'arte superi oggi il Bonghi? Eppure questi, che nel i855 si
diede con le « Lettere critiche » a fare scaramucce da bersagliere
(com'egli disse), in prò della tesi manzoniana, e nel 1868 fece assieme
al Carcano (dirò io) da aiutante di campo al Manzoni, sul punto che
questi con la « Relazione » impegnava la gran lotta; e' si è così di-
lungato dalla norma dell'uso fiorentino, ha tanto spogliato oramai il
fiorentino pretto, e tanto ripreso della lingua colta tradizionale, che
un vero manzoniano lo troverebbe ora ogni momento in colpa!
Ma se la dottrina del maestro penetrasse in menti non egualmente
sobrie ed assennate, noi ci vedremmo presto inondati di popolari pe-
danterie, da farci, se non desiderare, che eran troppo noiosi, di certo
rammentare i linci e squinci dei pedanti arcaisti.
Un po' se n'hanno anche le prove di fatto. Il Giusti, di cui i Manzo-
niani dicono che se ce ne fosse stati parecchi la questione della lingua
- 583 -
si sarebbe risolta da sé; il Giusti, e perchè toscano di nascita, e perchè
abborrente dalla pedanteria arcaistica, s'era già spontanean^ente dato ai
toscaneggiare (ma non propriamente al fiorentineggiare), pur restando
in teoria imbevuto di molti pregiudizii letterari! (tantoché, come il
Manzoni stesso narra non vo' dir dove, diceva che la prima edizione
dei Promessi Sposi gli garbava più della seconda infiorentinata ; il che
dopo sconfessò recisamente). Conobbe poi il Manzoni, e se ne lasciò
persuadere a credere legittimo anche in teoria quel ch'egli s'era dato a
fare per suo gusto, ed a continuare a disegno quel che sin lì avea fatto
per mero istinto. Ora, che il Giusti con le sue prose, e più ancora
con le sue mirabili poesie satiriche, contribuisse molto a farci odiare
e smettere, e nella lingua e nello stile, la ricercatezza accademica
tradizionale; che egli, escludendo quella parte di lingua che è ormai
vieta e affettata, e mettendo bene in vista la pane viva e conforme
ai sentimento moderno, ci insinuasse il desiderio di riuscire efficaci
con la semplicità, ed eleganti a furia di naturalezza-, chi lo potrebbe
negare senza mancare, non d'co di riverenza a quel vivace ingegno,
ma della più ovvia ragionevolezza? Ma chi ancora può in buona fede
disconvenire, che colà dov'egli, o nelle sue poesie, o peggio nelle
sue prose, specialmente nelle sue lettere (e più specialmente ancora
in quelle al Manzoni, per captatio henevolentiae), accumula voci pret-
tamente toscane, e sfoggia in parole, frasi, costrutti, modi proverbiali,
popolari, molto toscani e punto italiani, riesce proprio a ristuccarci?
E a ristuccare non solo i non Toscani, che anche talora si stizziscono
di non capire, ma i letterati toscani persino? E a che grado non ar-
riverebbe la nausea se egli non fosse l'arguto e brioso Giusti?
Eppure là dove il Giusti ha messe in vista parole toscane di fa-
cile intelligenza pei non Toscani e veramente utili, egli ha a quelle
fatto far fortuna. Tutto il resto è rimasto a lui, come cosa morta.
Giacché non è possìbile che una nazione s'induca ad accettare per
progetto, e qtiasi a freddo, una parte di lingua che non sia per la
solita via spontanea e naturale entrata nella sua mente. Per divul-
gare in una nazione intera, non che una parte di lingua, un sol
vocabolo, v'occorre quel mtzio, per il quale ogni dialetto colto è
potuto diventare universalmente ricevuto da una nazione: l'uco felice
e fortunato degli scrittori.
Bologna, tnaggio, 1873.
Francesco n'Ovmio.
— 584 —
CO^Sin[)E%AZJO^Ì
sulla istruzione, soprattutto classica, in Italia
a proposito del recentissimo libro di M. BREAL
sulV istruzione pubblica in Francia
(Conlinu3zione e fine: v. tast:. .", p. o-23; fase. .S", p. 225-246; fase. 7°, p. 3 10-329;
fase. 9°, p. 432-455).
VII.
Dalle considerazioni che ti abbiamo invitato a fare con
noi, intelligente ed attento lettore, intorno a parecchi vizii
gravissimi da cui è travagliata ed isterilita in gran parte la
istruzione italiana, ossia sopra gristinti soverchiamente pra-
tici, retorici, empirici, sulle tendenze al troppo dommatiz-
zare ed allo starsene immobile e finalmente suUavversione
alla scienza straniera e sopranutto alla tedesca, tu hai già
senza fallo potuto e dovuto scorgere chiaramente quanto sia
ancora in realtà, ad onta di tante illusioni e di tante decla-
mazioni , deplorabilmente raro fra noi il vero spirito di
scienza. In ciò sta la causa e la spiegazione di un fatto, il
quale, per le funeste conseguenze che ne derivano inevità-
bilmente, è ben degno delle più accurate osservazioni : vo-
gliam dire il fatto, che, allorquando si pensa a combattere
con nuovi e più efiBcaci rimedi! i morbi ond'è infermo evi-
dentemente lo insegnamento italiano, molti, eziandio fra gli
uomini colti, onesti e sinceramente desiderosi di vero pro-
gresso, sono pur sempre coloro i quali chiedono quei ri-
medii non già alla scienza, ma bensì ad altre forze che alla
medesima sono estranee.
E qui primo ci si fa innanzi uno stuolo con una ban-
diera su cui sta scritto « Ordine ». U ordine^ e solo V ordine,
èia panacea, come di tante altre bellissime cose, così eziandio
della pubblica istruzione. Volete che ì bimbi d'Italia diven-
tino, in pochi anni di studio, arche di scienza universale,
-585 -
biblioteche ambulanti, vive enciclopedie? li mezzo è pronto.
Fate una nuova legge di pubblica istruzione, nuovi regola-
menti, nuove circolari (come le appellano) , nuove istru-
zioni, nuovi programmi che determinino sempre più stretta*
mente il senso della legge e limitino, quant'è possibile, Tin-
dipendenza del professore; fate che quanto resta ancora,
pur troppo, di questa pericolosa indipendenza venga scemato
da una gerarchia di amministratori, alta come la scala di
Giacobbe ; fate, insomma, che il maestro sia non un uomo,
ma un automa insegnante, e voi avrete tocco il cielo con un
dito. Sciaguratamente né leggi, né regolamenti (i), né cir-
colari, né istruzioni, né programmi, in gran parte sovente
assai poco utili al buon professore, valgono ad infondere
miracolosamente la virtù dello insegnar bene in chi non né
è capace : né v'ha direttore, ne preside, né provveditore, né
consiglio scolastico, né ispettore, né ministro che possa far
questo prodigio. La legge a che giova se il maestro non è,
sì per ingegno si per dottrina, atto a compierne i decreti?
Impotente a scoprire nuovi veri e metodi nuovi, né per lo
più guari propizia alle innovazioni, ella non é certo uno
dei più efficaci strumenti del progresso: soggetta a mutarsi
sotto razione di cause politiche, essa é instabile come le parti.
(i) «Jc crois peu à l'efficacité des règlements ; non qu'ils soient in-
différents, mais rarement le bien qui résulte des réformes compensa
l'inconvénient de changer ce qui est établi. Jccongois une administra-^
tion ideale qui ne ferait pas un seni arrété nouveau, et se bornerait à
un choix de personnes. Les hommes sont tout; les règlements ^ trèS"
peu de ckose. » Renan, Questtons contemporaines, p. 103-4. — ^"^ Ger-
mania il professore universitario non è servo del programma (v. HiL-
LEERAND, L'cnscignemeni supérieur en Allemagne [Revue moderne^
t. 45, p. 306); PoucHET, Venseignement supérieur des scicnces en Alle-
magne {Revue des deux mondes^t. 83, p. 443)): nel Belgio « les hautes
études ont été écrasées sous la plus dure des tyrannies, celle du pro-
gramma » Laveleye , La liberté de Venseignement supérieur en Belgi'
que (Revue des deux mondts, t. 86, p. 886;.
Tiivisla di filologia ecc., I. 39
— 586 —
come gli uomini che salgono al potere e poi ne scendono o
ne cadono con perpetua vicenda. Eguali considerazioni si
possono fare e furono fatte da uomini autorevolissimi intorno
all'amministrazione scolastica (i). Il perfezionamento delia
(i) Ce n'est pas le grand maitre de l'Université, ni le conseil su-
périeur, ce ne sont point les recteurs et les proviseurs qui peuvent per-
fectionner les mélhodes : ils ne peuvent qu'encourager, accueillir, gé-
néraliser les améliorations faites spontanément par l'initiative des pro-
fesseurs. Le maitre, dans toute corporation enseignante, est la force
organique d'où doit partir la vie et le mouvement. Si vous le rédui-
sez au ròle d'un instrument de transmission, vous changez l'ensemble
du corps enseignant en un mécanisme qui ne peut ni se perfectionner,
ni se renouveler de lui-méme. Comment le professeur modifieraìt-il
la forme ou la matière de ses le^ons si la méihode lui est prescrite,
si les livres sont indiqués, s'il est jugé d'après les compositions heb-
domadaires de sa classe, s'il est enchainé à son programme par des
concours périodiques ainsi que par la nécessité de préparer les élèves
aux concours ou aux écoles, si des inspecteurs viennent constater l'exé-
cuuon du règlement, sans compter le recteur et le proviseur, qui peu-
vent à tout instant le rappeler à l'ordre? Plus d'un maitre sent que
ce qu'il enseigne n'est pas ce qu'il y aurait de plus utile ni de meil-
leur; mais quoi? toute, la machine universitaire pése sur lui: il se
soumet et devient peu à peu un rouage. Plus souvent encore , l'idée
d'un changement ne s'est méme pas présentée à son esprit; car, forme
lui-méme par l'Université, passe à l'engrenage des compositions, des
examens, des écoles, des concours, ordinairement prive de connaissances
pédagogiques, il n'a eu ni l'occasion, ni le temps de réfléchir sur ce qu'il
aappris et sur ce qu'il enseigne... Une grande administration est fermée
au progrès par en haut comme par en bas; le chef qui voudrait faire une
réforme ne sait sur quel point de ce grand mécanisme, où tout se
tient, il doit l'essayer; il n'a pas les hommes qu'il faudrait pour la
mettre à exécution ; enfin, chose plus decisive encore , pour tenter
une innovation, il faut qu'elle se soit déjà montrée quelque part d'elle-
méme; or, tout est prévu et combine pour l'empécher précisément
de se produire. » Bréai-, Op.cit., p. 269-71. —V. anche LenormanT, Es-
sais sur V instruction publique, publiés par sonjìls, Paris 1873, p. 174-87;
Marcou, De la science en France, Paris, 1860, parte r, p. 7 e 14-16
(ove parla molto liberamente degl'ispettori generali francesi); Renan,
La réforme intellectuelle et morale, Paris, 1871, p. o"). — Il soverchio
potere dell'amministrazione scolastica sull'istruzione francese venne
fieramente biasimato daU'HAHN (v. Renan. Qiiestions contemporaines,
p. 269-73), e, prima ancora, da F. Thiersch, giudice di cui nessuno
negherà la competenza (v. Lenormant, Ov.at.^-^. s8o-i).
— 587 -
istruzione in qualsiasi paese ed in qualsiasi tempo è opera
che debbe essere affidata a coloro che hanno consecrata la
vita al progresso delle singole scienze : è opera che debb'es-
sere continuata regolarmente e con calma serena , e senza
dipendere da altre rivoluzioni che quelle le quali lenta-
mente si compiono nel mondo del pensiero. Per non essersi
sufficientemente attenuta a queste norme , la nuova Italia
non conseguì sino a questi giorni nell'istruzione pubblica né
progresso né stabilità ond'essa possa star paga : l'odierna in-
chiesta sull istru\ione secondaria ci mostra colla più viva
evidenza in quale stato deplorabile noi siamo caduti.
« Volete risorgere ? » ci grida una seconda schiera. « Se-
guite il nostro vessillo, su cui abbiamo scritta una sola pa-
rola, ma tale che è magico rimedio a tutti i mali, passati,
presenti e futuri, reali e possibili , lievi e gravissimi : Li-
bertà. Lasciate libero il moto delle forze individuali, libera
la concorrenza, e voi vedrete portenti. Né vi sgomentino
certi abusi : la libertà, come la lancia di Achille, ferisce e
risana. » C'inchiniamo profondamente innanzi a questa teo-
rica ed a questa similitudine, ma chiediamo umilmente ci si
permetta qualche domanda, che, nella nostra dabbenaggine,
ci sembra proprio necessaria. Che la libertà sia ambiente
propizio allo svolgimento di germi già esistenti, é fatto in-
contestabile : ma, se questi germi non esistono , la libertà
può ella crearli ? Può ella creare, ha ella mai creato qualche
cosa la libertà (i)? E che avverrà mai se i germi funesti
superano gli altri in numero, in potenza? Che avverrà se
(i) «' La liberté, quoi qu'en aient dit Ics déclamateurs de toutcs les
écoles , ne produit rieri par elle-métne: elle permet aux germes qui
sont déjà de se dcvclopper, » Bbéal, Op. cit., p. i55, — < si la li-
berté offre le milieu le plus favorable aux germes nouveaux, elle ne
produit pas [de gennes par elle-mcmc. » Baudry, Questions scolaircsl.
Paris, 1873, p. io5.
- 588 —
l'azione di cause esterne promoverà lo incremento di ele-
menti malefici, e di quelli che sarebbero per sé stessi fecon-
dissimi di bene si opporrà al trionfo o corromperà la na-
tura ? No, non v'ha libertà che valga, verbigrazia sul campo
della istruzione, ad infondere in genitori ignoranti e sprez-
zatori del sapere la volontà di fare istruire i proprii figliuoli,
ne a trasformarvi un maestro inetto al proprio ufficio in un
valente e nemmeno in un mediocre insegnante. Le scuole
private, sì numerose e frequentate da parecchi anni in qual-
che parte del nostro paese, non superarono certo per lo più
le pubbliche, ma delle pubbliche furono e sono general-
mente non altro che imitazioni, né mai scorgemmo in alcuna
di quelle che potemmo conoscere nemmeno uno di quegli
arditi tentativi di vero perfezionamento, che, secondo certe
teoriche, o, per dir meglio, certe illusioni, dovrebbero na-
scere frequenti e splendidi su qualunque suolo appena che
l'abbia tocco colla sua verga quella fata onnipotente che
chiamano Libertà (i). Si aggiunga che, sottratta all'autorità
(i) « Plusieurs demandent aujourd'hui la suppression des lycées:
ce serait la ruine de la culture littéraire dans notre pays. L'Univer-
sité a sì bien établi son règne, qu'il n'existe rien en dehors d'elle.
En 1793, la Conveniion supprima tous les Colléges, toutes les Facultés,
confisqua leurs biens, dispersa les corporations savantes, et sur les
ruines de l' epseigneraent public proclama la Hberté de l'enseigne-
ment. La chute du monopole ne fit point de raìracles: les écoles pri-
vées, en petit nombre, qui s'élevèrent , recueillirent les anciens mat-
tres avec leurs méthodes , leurs manuels et leurs cahiers. Pareille
chose se reproduirait aujourd'hui. Si les lycées disparaissaient , des
copies affaiblies de nos lycées s' éléveraient bienlòt dans nos grandes
villes. Quelques instituts à moitié politiques , à moitié littéraires cu
scientifiques, telles seraient sans doute les créations originales de Ti-
nìtiative privée. Les écoles centrales de la première République peu-
vent nous servir d'avertissement; ne recommen9ons pas une expérience
fatalement destinée à échouer, et qui nous ramènerait bientót les vieil-
les méthodes. » Bréal, Op. cit , p. 325^6. V. anche p, i55. — « On
pourrait nous reprocher qu'en prenant toujours pour objet les établis-
sements de l'État et leur réforme, nous avons manqué de confiance
— 589 —
del governo, la scuola, soprattutto presso certi popoli ed in
certe epoche, è grandemente soggetta al grave pericolo di es-
sere tramutata in un campo di battaglia, sul quale vedremmo
non già le generose e feconde lotte del vero contro Terrore,
ma quelle, troppo spesso sterili ed ignobili, con cui le varie
parti politiche e religiose con sciagurata frequenza si trava-
gliano ferocemente e si consumano a vicenda. Né Petà no-
stra fu raramente spettatrice di questi mali, né di quelli cui
videro i secoli passati perì la memoria. Quindi, trattando
deirazione esercitata dallo stato sull'insegnamento superiore,
ben potè scrivere il Boissier, che mentre « on l'accuse »
[l'étai) « de opprimer la liberté, au contraire il la main-
tieni » (i), salvando Tistruzione dalle prepotenze di certe
sette, le quali sono avvezze a voler la libertà per se sole
ed a negarla altrui, quasi ella fosse un privilegio loro do-
vuto. Che. pertanto l'azione dello stato sia necessaria ed alla
conservazione ed al perfezionamento della coltura e della
envers la liberté de l'enseignement, qui va, dit-on, apporter avec elle
tous les genres de progrès. Mais c'est justement de quoi nous ne nous
flattons pas, car, depuis plus de vingt-cinq ans quo l'enseignement se-
condaire est libi-e, il n'a produit, chez les lai'ques et chez le clergé,
que de plus ou raoins pàles copies des lycées. » Bauory , Questions
scolaires, p. io5. — Anche C. Lenormant , autore manifestamente
non avverso al clero, scrisse le seguenti parole: << L'obligation de se
conformer aux errements adoptés dans les colléges de l'Etat ne serait
pas en elle-méme un embarras pour le clergé , qui est généralement
accoutumé à les suivre dans ses propres établissements. » [Op. cit. ,
p. 287). — " Je crois que ces universités libres produiraieni de très-
médiocres resultata; toutes les fois que la liberté existe réellemcnt
dans l'université, la liberté hors de l'université est de peu de consc-
quence; mais, en leur perraettant de s'établir, on aurait la conscicnce
en règie et on fermerait la bouche aux personnes naives toujours por-
lées à croire que sans la tyrannie de l'Etat elles feraient des mervoil-
les. » Renan, Ré/orme etc. , p. 104-5.
(1) L'enseignement supérieur (Revue des deux monde s , t. 75, p.
866-8.) V. anche Duruy,. La liberté de l'enseignement supéricur ( Re-
vue des deux mondes, t, 85, p. 75G-71.
-500 -
educazione intellettuale di un popolo -, che alla legge ed al
governo non solo competa il diritto, nria spetti il dovere di
far sì che l'istruzione primaria diventi il patrimonio di tutti i
cittadini e che lo insegnamento nella universa varietà de'suoi
gradi e delle sue forme corrisponda sempre meglio al proprio
fine, è opinione d^uomini per ingegno, per dottrina," per
esperienza, per amore del progresso autorevolissimi (i).
Ne l'uno ne l'altro pertanto dei due principii , dei quali
esaminammo l'efficacia, vale a dire ne Vordine né la libertà^
basta per sé solo ad esercitare sulla istruzione quella potente
azione riformatrice, che due scuole avversarie ed entrambe,
se non c'inganniamo, vittime di deplorabili illusioni, da essi
attendono invano. Non vuoisi per altro affermare, che questi
principii non possano essere fecondi di molto bene, a patto
che siano insieme sapientemente contemperati : solo ci par
dimostrato che, nemmeno in questo ultimo caso (che certo
né facilmente né spesso ha luogo), l'opera loro benefica può
essere sufficiente ad infondere nell'istruzione nuova vita ed
anima nuova. Che manca dunque e quale é la forza neces-
saria a compiere questo che a taluno parrebbe quasi mira-
(i) Per ciò che attìensi alla necessità dell'istruzione elementare ob-
bligatoria vedi soprattutto Simon, L école ^ Paris, i865 , pane 3*,
p. 209-323 ; Laveleye, Uinstruction du peuple, Paris, 1872 (libro
ricco di notizie statistiche utilissime), p. 16-39; Rendu, Uinstruction
primaire devànt r assemblée nationale , Paris, 1873, p. 11 e segg. —
In ordine alla ingerenza del pubblico potere nella direzione dello in-
segnamento V. Bréal , /.e. ; Baudry , /. e. ; Laveleye , Op. cit. ,
p. 8-16; DuRUY, Art. cit.; Laveleye, La liberté de Tenseignement
supérieur en Belgique; Renan, /. e. Poniam fine a queste citazioni,
adducendo il parere di Guizot, quale lo riferisce il Laveleye [Uins-
truction du peuple f p. 11): « Jamais dans un grand pays , un grand
changement, une amélioration considérable dans le système de l'édu-
cation nationale n'a été l'oeuvre de l'industrie particulière. li y faut
un détachement de tout intérét personnel, une élévation de vues, un
ensemble, une permanence d'action qu'elle ne saurait atteindre ».
-591 -
colo? Cerchiamo e ricerchiamo con pazienza, con calma, e,
soprattutto, con sincera imparzialità.
Nella istruzione scolastica il profitto procede direttamente
da due cause : vale a dire dal modo con cui lo insegnamento
è dato dal maestro e. da quello con cui è accolto dagli al-
lievi. Ma su questa seconda causa può esercitare grande in-
fluenza la prima: che Tallievo è sempre piij o meno acconcio
ad essere modificato dal maestro. Oltracciò la maggiore o
minore disposizione a lasciarsi istruire ed educare dipende,
nello alunno , in parte dalla varia natura della società (e
principalissimamente della famiglia ) in cui si svolge , né
puossi negare che sulla società influisca perfezionandola ,
sebbene lentamente, l'attività di buoni maestri : in parte da
certi caratteri indelebili dell'indole individuale, che potenza
umana non vale a mutare. Hassi adunque a considerare
qui, soprattutto, la prima delle due cause accennate, ossia
Popera del maestro. Il valore di qaest'opera sarà evidente-
mente, data qualsiasi legge e qualsiasi amministrazione sco-
lastica, tanto maggiore quanto piìj varrà Tautore di essa.
Forza suprema fra tutte quelle che concorrono al grande
lavoro della pubblica istruzione, e tale che nessun' altra
può ad essa nemmeno accostarsi in efficacia, è pertanto il
maestro: ne guari erra chi afferma che, quanto vale il maestro,
altrettanto la scuola. Da questo fatto incontestabile deriva
questa conseguenza, anch'essa certissima, che a perfezionare
la scuola, vuoisi, sovr'ogni altra cosa, perfezionare il mae-
stro. E in tutti voi, che dite voler la riforma della istruzione
italiana, veramente sincero e vivo questo desiderio ? Ebbene
fate, in primo luogo, che la carriera dello insegnamento non
abbia più a distogliere dal medesimo i più tra i giovani
intelligenti ed operosi : fate che, per lo contrario, la certezza
di miglior avvenire li tragga alle facoltà universitarie, alle
scuole normali superiori che sono preparazione al nobile,
-592 ->-
ma arduo compito dello insegnamento. Fate che non siano
costretti ad attendere, con pari intensità di sforzo intellet-
tuale, a soverchio numero di corsi, ma che ciascuno possa
consecrarsi in particolar guisa a quegli studi cui la propria
natura lo chiama. Fate che i loro maestri siano valenti e
noti a tutti come tali per lavori scientìfici, e che gii allievi
possano assistere alle loro lezioni e studiare sotto la dire-
zione di essi, ne si vedano forzati dai bisogni materiali della
vita ad abbandonare le scuole ed a insegnare altrui ciò che
non hanno ancora essi imparato a sufficienza. Fate che gli
esami siano dati con inesorabile giustizia, ma che coloro,
i quali sapranno superarli con più splendido successo, siano
ricompensati giusta il proprio valore colFottenere le migliori
fra le cattedre vacanti. Fate che gr insegnanti approvati
dopo severo esame, educati a severa scuola, siano lasciati
liberi quanto lo permettono le necessarie esigenze delFor-
dine bene inteso; chela loro energia personale non si senta
schiacciata ne dal peso della legge ne da quello , men tol-
lerabile ancora, di superiori prepotenti ed inetti. Fate che
al maestro non manchino affatto i mezzi di continuare i
proprii studi, ma che gli siano, quanto più liberalmente sarà
possibile, somministrati da buone biblioteche liceali, ginna-
siali : a lui non basta il cibo del corpo, gli è necessario
quello deirintelletto, e questo pane che voi gli date egli ren-
derà moltiplicato ai vostri figli; male insegna altrui chi non
insegna continuamente a sé stesso, che, in tanto e sì rapido
moto della scienza odierna, chi non progredisce indietreggia,
chi non s'innalza ruina sempre piìi a basso. Fate che la
carriera di chi insegna dipenda dallo ingegno, dalla dottrina,
dallo zelo ond'egli si rivela fornito, non mai dalParbitrio,
dal capriccio altrui; riconoscetene, ricompensatene i meriti
e fate che siano rispettati: con qual animo può attendere
questo apostolo del sapere al suo troppo sovente penoso la-
voro, se voi lo lasciate incerto del suo avvenire e smesse
— 593 -
volte avvilito dairaltrui indifferenza? No, Pistruzione non ri-
sponderà mai ai voti di tutti, finché il maestro sarà frequen-
temente, come ancora vediamo troppe volte avvenire, con-
dannato ad essere il martire dello insegnamento.
Vili.
Concludiamo. Combattere il culto soverchio dell'interesse
pratico, Tadorazione fanatica della forma, il cieco empirismo,
l'ebete ossequio irrazionale ora a vere or eziandio a false
autorità ed all'uso, la stolta avversione alla scienza stra-
niera, la fede pazzamente riposta più nelle leggi e nell'am-
ministrazione scolastica che nel valore dei maestri^ difendere
contro queste forze fatali, or cospiranti in favore dell'igno-
ranza, la causa della scienza: ecco, o lettore, il fine che ci
proponemmo dettando queste Considerazioni. Prendemimo
le mosse dal classico libro del francese Bréal, traemmo
esempii ed ammonimenti dalla Francia, affinchè a tutti ap-
parisse chiaramente quanto in quel paese, che fu già troppo
spesso oggetto di servile imitazione a troppi Italiani, quei
vizii siano stati riconosciuti funesti e maledetti dai più in-
telligenti amici del vero progresso *, citammo non di rado la
Germania, per dimostrare con evidenza quanto siano feconde
di civiltà le virtù intellettuali che ai vizii accennati si con-
trappongono : paragonammo, ogniqualvolta ce se ne offerse
il destro, la nostra povertà nella scienza colla ricchezza altrui;
che c'incalza la necessità di destarci e di lavorare per non
diventar gli ultimi noi che fummo i primi. Parlammo libe-
ramente, perchè ormai la dissimulazione intorno a certi
argomenti ci sembra imperdonabile viltà, e perchè, quand'an-
che queste nostre libere parole avessero a riuscir vane o fu-
neste a noi stessi, vorremmo nondimeno, e fortemente vor-
remmo, essere consci! di aver fatto quanto credemmo compito
nostro e di non essere stati timidi amici del vero.
D. Pezzi.
- 594 -
CENNI BIBLIOGRAFICI
Grammatica Elementare della lingua Greca secondo il metodo di G. L.
BuRNOui'. Nuova edizione rifusa ed ampliata per opera di Osvaldo
Berrini. — Torino, 1872.
Che vi sia ancora fra gli insegnanti chi si tiene a vecchi
metodi, lo sappiamo pur troppo; nò la è cosa del resto che
ci arrechi stupore. La scienza, come tutti gli altri grandi
portati dello spirito umano, ha i- suoi sacerdoti, ma anche i
suoi detrattori. A questi uhimi è fomento Tinvidia, o, peg-
gio, il torpore dell'animo e l'indifferenza. Ma di ciò ci pas-
seremmo, come di un fatto umano, de' più ovvii e consueti,
ove non ne andasse di mezzo Tutile della gioventià nostra, il
decoro del paese, e, ciò che più monta, il buon senso.
li prof. Berrini, alla cui operosità, al cui zelo, alla cui in-
telligenza noi vorremmo pur rendere ogni maggior lode, ci
porge invece occasione di grande rammarico, di dolore anzi
vero, con questa sua pubblicazione. E doppia cagione ab-
biamo di dolerci; in primo luogo per vedere avvalorato del-
Tautorità d'un insegnante, pur rispettabile e provetto, un
metodo d'insegnamento grammaticale della lingua greca, il
quale ripugna assolutamente ad ogni ragione scientifica, e ne
riconduce al cieco ed arbitrano empirismo della scuola Olan-
dese, contro del quale già negli ultimi decenni del secolo pas-
sato avea affilato le sue armi Godofredo Hermann. Davvero
che nella patria di Amedeo Peyron, che il primo fece cono-
scere all'Italia dalla dotta Torino i frutti della scuola storica,
volgarizzando la grammatica del Matthiae, sarebbe tempo
oggimai che si comprendesse, come certi amori a un passato,
che non ha più ritorno, perchè il moto della scienza è pro-
gressivo di sua natura, tornano alla fin fine a tutta vergogna
nostra. Scnonchè non è ciò di che abbiamo maggiormente a
dolerci. Noi vediamo inflitti sotto il nome dello stesso pro-
fessore Berrini recato alle mani della gioventù studiosa un
Corso di eserciii Greci secondo le grammatiche di G. Curtius
-595 —
e R. Kiìhner, con questa raccomandazione, che esso, cioè,
si vantaggia su parecchi altri di così fatti libri per l'accu-
rata osservaìi^a del metodo di G. Curtius. Ecco quello che
più ne rattrista: questo cotale scetticismo pratico, che tende
a sospingere la scuola verso due direzioni di studio, che cor-
rono vie affatto opposte fra loro, ingenerando negli animi
quello stato d'incertezza alia quale seguita appresso Tindif-
ferenza verso ogni corretto criterio di dottrina e di scienza.
Vero è che il signor prof. Berrini, nel breve preambolo del
libro che ci sta dinnanzi, fa omaggio agli splendidi risulta-
menti, che col metodo storico-comparativo si ottennero nel
secolo presente nella scienza deirumano linguaggio, per cui
la questione parrebbe ornai dover tenersi decisa in favore di
esso: ma subito dopo è detto, che ragioni eccellenti militano
in favore deiraltro metodo — Tempirico — , riuscendo evi-
dente, che esso, col limitarsi ad un'esatta e ordinata rappre-
sentazione dei fatti, si adatta meglio alle condizioni di un
insegnamento elementare del greco. L'autore crede — certo
in buona fede — che un siffatto procedimento di studio, ben
lungi dal nuocere, spiani anzi la via al metodo rivale, col ren-
dere i giovani più voghosi dello studio del greco, una volta
addimesticati coi fatti della lingua e fondati nelle regole
piti semplici della grammatica. Noi invece, con buona pace
del sig, prof. Berrini, crediamo ancora al vecchio dettato:
quo semel est imbuta recens, servàbit odorem — testa din; e
non siamo affatto affatto d'avviso, che sia lecito insegnare ma-
lamente e con metodi disapprovati sia pure anche i rudi-
menti primi di una dottrina, nella speranza di poter più tardi
raddirizzare le opinioni storte e i pregiudizii più volgari. E
un errore pedagogico codesto, secondo noi, per non dire che
un cosiffatto metodo è la negazione della scienza. Ma veniamo
al fatto. Il sig. prof. Berrini ci presenta il metodo del Bur^nouf,
siccome quello che considera le lingue classiche separatamente
luna dall'altra, e si contenta di mostrarcele quali vennero
a trovarsi nelV epoca della loro massima coltura, quali giun-
sero a noi ne' piii solenni monumenti delle loro letterature
(vedi Pref). Ce n'ha anche di troppo nel solo primo inciso
di codesta definizione, per avviare una polemica , potendoci
-596-
stare contenti, quanto al resto di essa, a mostrare gli errori
di fatto, che si vorrebbero ammannire alla gioventù nostra,
nello stadio preparatorio dello studio del greco. Diciamo
adunque che la pretesa di piantare lo studio delle lingue
classiche sul principio delia loro separazione è contraria af-
fatto al concetto della scienza dell'antichità classica, tradisce
la generazione crescente, la quale ha diritto, che nella scuola
le si apprestino gli elementi del sapere nella forma, che più
e meglio risponda al progresso scientifico, e agli avversarli
degli studi classici in generale, e della lingua greca in parti-
colare porge gradila e facile occasione a reclamare contro un
insegnamento, del quale essi non vedono nessuna ragione
d'ordine scìenziale, nessuno addentellato coirinsieme delPin-
dagine e della coltura, tanto nel campo delle scienze storico-
morali, quanto in quello delle sperimentali, massime fisiolo-
giche. L'alto valore degli studi classici soltanto allora potrà
venire addimostrato e difeso con sicura efficacia, quando lo
sì presenti come inerente alla storia del pensiero, dell'arte,
della civiltà Italo-Greca. L'alta e straordinaria importanza
degli studii greci sta appunto in questo, che essi cioè sino
da' primi passi, a così dire, vengono condotti sulla grande
strada maestra delio incivilimento Greco-Latino, il quale si
presenta a noi come un fatto complesso, di cui neppure
l'analisi la più sottile e minuta potrà mai rompere la con-
nessila; poiché la civiltà e coltura greca s'è così compene-
trata via vìa nella Romana, per opera de' grandi ingegni, per
forza di circostanze esteriori e per una virtù assimilatrice, che.
era nell'indole Romana, che se ne formò un bello insieme,
come di felice innesto, che non pare opportuno ormai di dis-
gregare, o trattare come che sia disgiuntamente.
Ma non è neppure corretto quello, che il sig. prof. Berrini
afferma intorno al metodo, che chiameremo storico-compara-
tivo, che esso cioè ci venga additando ciascuna delle favelle
antiche nell'atto del suo formarsi, dimostrando per quali
vicende e trasformazioni si condussero in quello stato, in cui
le abbiamo ricevute (Vedi Pref). Codesto potrà dirsi — con-
siderando la cosa cosi all'indigrosso — della linguistica. Ma
il prof, Berrini, che mostra di conoscere anche il metodo del
-597 -^
Curtius, saprà anche che questo chiaro maestro di nessuna
cosa fu tanto sollecito nello scrivere la sua grammatica greca,
quanto del contenere lo studio elementare del greco nei limiti
corretti e precisi del fenomeno linguistico. Se gli oppositori
di quel classico libro si fossero data la briga di leggere le
savie considerazioni, messe innanzi dal prof. Arm. Bonitz,
per Indirizzare e maestri e scolari nell'uso di esso — consi-
derazioni ormai note, per la versione e pubblicazione fattane
dal Miiller, nella prefazione al Commento dei Curtius, siamo
di credere, che molte inutili ciarle, piuttosto che dispute, sa-
nano già da pezza state tolte di mezzo. Ora il succo delle
avvertenze del Bonitz si ristringe in questi termini : che, poi-
ché v'è una scienza del linguaggio, bella e cresciuta, poiché
v'è una grammatica, che le leggi, meglio accertate di quella,
ha applicato allo studio del Greco, con tutta discrezione,
così che non si va oltre il fatto concreto della forma, non
v'è nessun motivo ragionevole di non servirsene nella scuola.
Siccome poi il Curtius avea trovato di unire insieme, quasi
a mo' di preambolo e preparazione allo studio della declina-
zione e della coniugazione, le leggi più sicure della dottrina
dei suoni, così il Bonitz avverte gli studiosi, che quelle re-
gole saranno da scompartire a tempo e a luogo. In tutto
questo non c'entra per nulla né il diventare, né il trasfor-
marsi; c'entra bensì, e per moltissima parte, Io spirito vi-
vificatore della morta materia, c'entra il senso pratico del
pedagogo, che sotto umili parvenze prepara le giovani menti
alle maggiori indagini della scienza. Ora noi vorremmo do-
mandare al sig. prof. Berrini, che cosa impedisca agli stu-
diosi della lingua greca col metodo del Curtius di pervenire
alla conoscenza dei monumenti più solenni dell'epoca classica
dell'Ellenismo*, la quale, secondo quello che egli ne dice
nella sua prefazione al Burnouf, dovrebbe uscire quasi per
incanto dal metodo, che da questo s'intitola. A nostro avviso
invece ne pare, che la cosa sarà per sortire contrario effetto,
e che, cioè, il metodo empirico non condurrà a nessuna si-
cura conoscenza, non diciamo de' monumenti più solenni
della letteratura greca, che potrebbe parere un<\ celia, ma
neppure ad una esatta e sicura notizia della inflessione, anzi
neppure a saper usare il vocabolario.
— 598 -
Infatti se v'ha difficoltà nello studio elementare del greco,
quella è per fermo' che deriva dalla varietà delle forme;
delle quali ove tu non abbia sicura notizia, fondata sullo
studio razionale delle medesime, è impossibile ritenere a me-
moria la fisionomia, come dire, e le movenze ; e d'altra parte
Tuso spedito e sicuro del lessico non è altramente possibile,
che per uno studio accurato e preciso de\'ewi, e delle varie
loro modificazioni nella inflessione, e nella composizione e
derivazione. Ora noi domandiamo a tutti gli uomini impar-
ziali, se ciò sia possibile, trattando la grammatica greca
nel modo, che segue qui appresso.
Citiamo testualmente dal testo del sig. prof, Berrini, § 79,
(pag. 68). « Oltre il futuro in -(Ttu e Taoristo in -aa, alcuni
« verbi hanno ancora un futuro secondo in -éuj, e per con-
« trazione -u», e un aoristo secondo in -ov. Anzi tutto di-
« remo che questi tempi occorrono specialmente in ceni
•< verbi di forma allungata, come Xajnpdvu), il cui primitivo
« disusato èXrjpu} ('!); ovvero in verbi che hanno nel presente
« due consonanti dinanzi alFiu, come tOtttuj ; oppure in verbi
« che darebbero cattivo suono al futuro ed aoristo di forma
« prima. »
E al § 80 « Finora abbiamo sempre formato il futuro at-
« tivo in -Cui e l'aoristo in -era. Ma si può supporre, che
« la terminazione -ffa» del futuro sia un abbreviazione di
« -ecTu) (io sarò) donde sopprimendo il a rimarrà -éuj, che
« contratto in -ui ci dà appunto la forma del futuro secondo"
« attivo. Così da Tuiréauj, forma primitiva del futuro di
« TUTTTUJ in luogo di Tuijiu), rigettando il cr, avremo la seconda
« forma del futuro tuttéul» e per contrazione tutto». Prepon-
« gasi ora Taumento e cangisi uj in ov, come si fa per Tim-
« perfetto, e si avrà Taoristo secondo: ^tuttov. »
Saremmo davvero davvero molto tenuti al sig. prof. Ber-
rini, se volesse dirne, in quali solenni monumenti della let-
teratura greca si trovino i futuri secondi Xapu) e tuttiD, che ci
fa supporre la sua teorica. Ma e perchè alia voce Xajnpdvu),
al § 1 5o del suo Bumoiif,. non registra il futura secondo
di questo verbo, e scrive invece F. Xfjvijoi^ai ?
Al § 88 (p. 74) si leggv^; « In greco vi sono alcuni verbi
- 599 -
che terminano in |ii, essi derivano dai primitivi in -tui, -auj;
-óuj, -ùuj, ■» Questo è nel testo, ma in una noterella è subito
detto: « Potrebbe essere però che la vera forma primitiva
fosse anzi quella in \xi. »
E altrove (§ 1 49, 7) leggiamo : « eìcxcpépuj fa airimperativo
« elcrcppe?, come se venisse da ttcrcppriMi- >>
Né possiamo ristarci dal recare alcune delle molte forme
verbali disusate dei verbi primitivi, che il sig. prof. Berrini
ha trovato di registrare (§ 149 segg.): ^Xiu (Aor. elXov) -,
èXeuGuj (Fut. èXeucTOfiat, aor. fiXueov); eibiu, òtttuj (eiòov, òvììo-
jiai); èvéYKU), èvéKUJ ; pXdaiiu, briKuu, òapeuu, XiiGu), luriGiu, )uà8iw,
Sdvuj, Trr|6uj (eTtaBov), ftvuu (YiTvojaai), ecc. ecc. — Ad un
metodo che si contenta di mostrarci le lingue quali vennero
a trovarsi nell'epoca della loro massima coltura, come dice
il sig. prof. Berrini, è inutile che tu chiegga un inven-
tario esatto del patrimonio piià antico della lingua; la fan-
tasia può sbizzarrirsi a suo talento, e lo studioso, come il
vero credente, non rintracci il passato.
Ma, e si crede forse che il giovine risparmi fatica con
questo metodo? Mai no, mai no! si tortura la memoria con
un esercizio meccanico affatto sterile, in fondo al quale sta
la noia e il disamore. E, si badi ancora, che con questo m.e-
todo noi dubitiamo assai, che sia possibile un utile , pratico,
graduale esercizio di applicazione delle forme negli esercizii
di versione dairitaliano in greco, pur tanto necessari! mas-
sime ne'primi anni di studio. Noi non arriviamo a compren-
dere, come lo studioso possa declinare nomi , e coniugare
verbi, senza conoscere Tintima struttura delle inflessioni, i
mutamenti fonetici, il rapporto fra il tema verbale, e il tema
del presente. L'analogia^ se ne persuada il sig. prof. Berrini,
non e criterio né sufficiente, né sicuro per fondarvi sopra
l'edifìcio della grammatica greca ; appena in qualche raris-
simo caso, sul quale l'indagine storico-comparativa non abbia
potuto gittare ancora la sua luce, se ne potrà valere il gram-
matico, come d'uno spediente. Ma elevata a criterio generale
di classazione de'fenomeni linguistici, essa ci conduce all'arbi-
trio, al caos. — E poi abbia presente il sig. prof. Berrini, che,
allo stato attuale degli studi greci nelle nostre scuole, e molto
— 600 —
più sicuro indurre negli animi Tabitudine dell'indagine scien-
tifica e della osservazione, seguendo il metodo comparativo,
dentro a que'termini discreti, che ha segnato il Curtius. Sarà
tanto di guadagnato per la coltura generale della gioventù
nostra, anche nella peggiore ipotesi che sia ancora lontano
il momento di poter prendere un più lontano abbrivo. —
Le forme grammaticali, papagallescamente apprese, vanno
presto in dileguo dalla memoria. Ma le leggi fonetiche, in-
segnate parcam-cnte, ma con chiarezza e severa concisione
di metodi, s'imprimono ben più fortemente nell'animo, mas-
sime laddove, con qualche riscontro del latino o di qualche
lino'ua moderna, di stipite germanico, si lasci intravvedere
la più larga applicazione delle medesime. S'adusi la mente
giovanile a vedere per entro all'arcana vita de'linguaggi, e
la curiosità ne sarà stimolata, e l'attenzione legata, e le
prime difficoltà, che sono le più ardue, saranno superate e
vinte ^
Non è senza esitanza, che noi ci siamo fatti a parlare
di questo lavoro di un collega. Gli è, che siccome vediamo il
sig. prof. Berrini non avverso al tutto a nuovi metodi, ai quali
anzi egli viene in aiuto con opportune pubblicazioni : cosi
ci siamo lasciati condurre dalia lusinga di vederlo mettersi
francamente e sinceramente per quella via, che il decoro e
la ragione ornai ci additano.
Rovigo, maggio 1873.
Gaetano Oliva.
Otto Sievers, Quaestiones onomatologicae e Curtius Steffen, De
actorum in fahulis Terentìanis numero et distributione . {Acta so-
cietatis philologae iipsiensis ed. Fr. Ritschelius, voi. II}.
Il dott. Girolamo Vitelli in Firenze si occupò di già in
questa l^ìvista (i) degli Ada societatis philologae Iipsiensis
che si pubblicano in Lipsia sotto la direzione del celebre
Ritschl. Mentre egli parla alquanto diffusamente del tomo
(i) Fascicolo VI1> p. i34 e segg.
— 601 -
primo N, I 6 2, non dà che l'elenco dei lavori contenuti
nel volume 2°, ommettendo peraltro le Quaestiones onomato-
log-icae di Otto Sievers in Brunsvic, p. 53-107 e le Lee-
tiones Stobenses di Otto Hensiì in Halle, p, !-53.
Lasciando ad altri la cura di far cenno di queste ultime
come pure delle Quaestiones Eraiosthenicae di Mendelsohn
su cui il Vitelli istesso ha promesso di darci un lavoro, vo-
gliamo intrattenere i nostri lettori delle Quaestiones onoma-
tologicae di Sievers e della dissertazione di Curt. Steffen,
De actorum in fabidis Terentianis numero et distribu-
tione (i).
Questi due lavori devono essere di grande interesse per
tutti i filologi, perchè si riferiscono ad una parte della filolo-
gia, di cui massimamente s'occupò il famoso editore degli
Acta^ il fondatore della grammatica storica del latino e della
critica di Plauto e di Terenzio. Si ammetterà facilmente che
lavori presentati al pubblico con l'approvazione di tale mae-
stro devono contenere notizie, le quali aumentano il patri-
monio del sapere filologico.
Ora il Sievers, valendosi d'un materiale assai vasto, tratta
delle trasformazioni che subirono nomi proprii greci nelle
iscrizioni latine, cosi che registra i metaplasmi che si rin-
vengono e ricercando la loro genesi trova metodicamente la
loro spiegazione.
In generale deve ammettersi come ragione di essi la falsa
analogia. Cosi i nomi proprii in -es (§1), a cui non stanno
di fronte parole greche corrispondenti in -rii; (gen. -tito^), ci
mostrano un'inclinazione a conformarsi a parole come0dXì-i(; e
simili, formando un gen. in -etis., come p. e. Eutyches-Eu~
tychetis. E lo stesso fenomeno osserviamo ne' nomi proprii
in -cles, p. e. Pericles — Pericletis, confr. 'HpaKXa(; — 'Hpa-
KXaTO(;. E cosi pure va la bisogna pur anche in riguardo ai nomi
proprii in -genes (Diageneti), ed ai femmini (§2) in -e {Ire-
netis)y ì quali spesso si scambiavano coi nomi in C5, dacché
r^ nella lingua giornaliera non si pronunciava e poi passavano
nella declinazione in -eiis ecc., come dim.ostra l'esempio el-
fi) Ivi, p, 107-159.
"Hìvisla di filologia ecc., I.
- 602 -
tato. I medesimi fenomeni si ripetono nei nomi proprii in
-as (§ 4), p. e. Niciati. Spe:ialmente interessanti sono forme
come Eronis, Phileronis, che il Sievers riconduce a nomi-
nativi come EVo, Philero, ammettendo un s finale che spa-
risce. E questi si declinavano poi come nomi proprii la-
tini in -o, qual Cicero^ ecc.
Mentre peraltro tutti i fenomeni finora citati apparten-
gono all'epoca imperiale, nel § 6 il nostro autore viene a di-
scorrere dei tempi della repubblica. E per questa attirano
la nostra attenzione in primo luogo i nomi proprii in -is
col genetivo in -inis, p. e. Hymninis, che spiega con buona
ragione dall'analogia con formazioni greche come ZaXani? —
XaXajiiTvoi;, perchè anch'essi avevano originariamente ì lunga.
Una classe particolare (§ 7I costituiscono quei metaplasmi
nati dalla pronuncia di ri = i, come talvolta persino si scri-
veva. A questa appartiene p. e. Pamaces (Parnacis), Par-
nacìni ecc. E in ugual modo si spiegano anche forme come
Tychinis (§ 8) dal femminino Tyche ( Tychi), credendo che Ty-
cAi stesse per TychtSy la cui 5 finale non si pronunciava, e de-
clinandolo per conseguenza col genetivo in inis qcc. Accanto
troviamo genetivi, come Hedonéi ^ formato all'analogia di
spes, spei, considerando Hedone come IIedone{s\ e decli-
nandolo per conseguente secondo la quinta declinazione. Im-
portante è pur anche il § 9, in cui sono spiegate forme come
Philemationi («PiXi^fidTiov) ed altri, dimostrando il nostro
autore, che bisogna ammettere un nominativo in -io, invece
di uno in -ium. La fine di queste importanti ricerche forma
un secondo capitolo — Miscelle — , dì contenuto onomatolo-
gico esso pure, in cui si fa tesoro di risultamenti ottenuti
dalle investigazioni antecedenti per altri problemi onoma-
tologici.
Nella seconda dissertazione, il cui titolo si legge in capo a
questi cenni, il sig. Steffen, dopo una breve discussione in-
torno.alla divisione delle parti fra i diversi personaggi del
drama greco [Cap. I.) ed in cui viene al risultato, doversi
ammettere come molto probabile che l'uso greco anche per
questo riguardo sia stato trasferito a Roma, prende nel capo
secondo a trattare il suo speciale argomento. Il pensiero fonda-
— 603 —
mentale, su cui egli si appoggia nello svolgimento del suo tema,
è quello esposto da Ritschl nella seconda edizione del Tri-
numinus (p. LV) intorno alle lettere greche A B f A Z K,
di cui sono sempre segnate le parti nel codex Bembinus ed in
parte anche nei Codex Vetus Cameram. Le parole di Ritschl
sono le seguenti : graecae litterae illae non distinguendis tan-
tum aliquo scribcndi compendio personis inserviunt, sed ad
actarum agendarumque fahularum consìlium atqiie appa-
ratum spectant: ita quidem, ut quaepartes quot et quontm
histrionum fuerinty iotidem litterarufn notis dedaretur.
Lo Steffen movendo da questo asserto studia queste lettere
del Codex Bembinus di Terenzio e dimostra irrefragabil-
mente, che la teoria di Ritschl è applicabile pur anche a Te-
renzio, m.algrado che m alcuni punti riscontriamo degli er-
rori, dovud alla poca attenzione dei copisti. 11 capitolo terzo
serve poi a dimostrare Tapplicazione di questa teoria per
ognuna delle comcdie terenzianc in particolare. 11 risultato
della sua ricerca è; eo tempore quo litterae graecae ad fa-
bulas re vera agendas spectabant. rationem graecam qua
quam paucissimis acloribus ad fabulas agendas uteba?itur,
apud Romanos non valuisse , septenarium vero nu-
merum non esse excessum (confr. p. 144-145). La grande
difficoltà della ricerca che consisteva nella distribuzione delle
parti fra i singoli attori, mentre atteso il piccolo numero de-
gli attori ognuno di essi doveva agire in diverse., è stata molto
chiaramente esposta, con grande lucidità discussa ed a nostro
parere vinta in modo che il nostro autore difficilmente verrà
contraddetto, e tutto ciò malgrado dei non pochi errori che si
sono introdotti nelle lettere greche per la disattenzione dei
copisti.
Nel quarto capitolo lo Steffen dimostra, che queste lettere
greche appartengono in ogni caso a quel tempo, a cui dob-
biamo eziandio la recensione delle comedie di Plauto e di
Terenzio, che possediamo, cioè al principio del setnmo secolo,
e che probabilmente furono già in uso ai tempi di Plauto e di
Terenzio. Un excursus de personarum {i. e. larvarum) in
fabulis Terenlianis uSu, dal quale risulta che tutte le comedie
di Terenzio, ad eccezione forse della sola Andria, furono
rappresentate con maschere, chiude quest'eccellente lavoro.
— 604 —
Mentre rendiamo conto di questi due scritti, ci compiacciamo
di poter annunziare che, secondo V Indicatore delle novità fi-
lologiche del Teubner, si trova di già un nuovo volume degli
Actasonoi torchi, il quale oltre ad un esteso lavoro di Schu-
ster su Eraclito (che occuperò quasi tutto il volume), conterrà
eziandio dissertazioni di Opit^ su Aurelio Vittore^ di Gil-
bert su Eschilo, di Stììrenburg su Lucrei^io^ dì Oehini-
chen su Varrone^ dì Lùttjohan su Apuleio. Considerando
la varietà di questi lavori si dovrà ben ammettere che gli studi,
che sono diretti dairillustre editore degli Acta^ percorrono
tutto il campo delle filologiche discipline, e che la sua scuola
non coltiva soltanto la critica filologica propriamente detta,
ma eziandio, e con uguale successo, il campo delle ricerche
storiche e della grammatica delle lingue classiche.
Lipsia., maggio 1873.
Ludovico Jeep.
CA%LO TI^O^IIS
Martedì 20 maggio alle ore 6 del mattino, cessò dì vi-
vere dopo lunga e dolorosa malattia, per affezione organica
del cuore, Tinsigne e riverito professor Carlo Promis', gra-
vissima perdita, com'è noto, per più d'una scienza-, acer-
bissima per i diletti saoi e per molti , vicini e lontani, av-
vinti, oltreché dall'ingegno suo, da quell'indole indipendente
e leale, di decoro ripiena e di sodezza, tranquillamente
tenace, pura di ogni macchia d'egoismo e di superbia, non
detti volente ma fatti, per natura, per educazione altamente
locata sopra tutto ciò che volgare sia e dappoco, ricca di fi-
nissimo sentimento artistico, di maravigliosa memoria, di
ponderosa dottrina, di squisito buon senso-, a tutt'uomo
— 605 -
ingegnandosi di celar se, quasi a livellare le disparità ed a
fomentar schietti e liberi commerci.
Non l'accecò amor di sé, di professione, di patria. Piac-
quegli sì, il vecchio Piemonte; ma per ragionamento; sic-
come stimava sinceramente paesi più nordici; in questi
scorgendo con mite e facile imparzialità gloria e potenza
e la grandezza dell'oprar collettivo; negli altri, solo conforto
facendogli scorgere la sua mente ignuda d'illusioni, nell'opera
dell'individuo.
Ricordava sovente l'animo candido, privo di sospetti, del
napolitano amico suo Carlo Troya; dell'amicizia, dei pen-
sieri e dell'opere di Cesare Balbo custodiva cara memoria,
narrandone le furie verso molti, non mai verso di lui, tosto
sedate e senza traccia di rancore; tacerò nomi d'illustri vi-
venti che lo amarono e ch'egli amò, onde lettere piene di
atti benigni, di notizie e d'uffici che forse un giorno si pub-
blicheranno; come de' molti minori che ad ogni istante, pre-
murosamente, notizie chiedevan di lui, dal suo mite e spi-
ritoso conversare venendo loro impensati insegnamenti e cari
sollievi. Perchè egli, sebbene di pochi amici, stava e parlava
con tutti, everisimilmente anche la scuola, doveva farla socra-
ticamente. Allora soprattutto veniva a voi, che pochi sareb-
bero venuti, e in ciò non badava nò a rango, né ad età,
né a vincente causa, suprema legge di sua vita essendo il
culto della verità e giustizia; traendo!© pur questo a dili-
genti e critiche indagini nella storia, traendolo a spiriti in-
dipendenti nella considerazione delle presenti cose.
Il vivere suo era metodico, assoggettato alle regole da lui
credute migliori e a sé medesimo prefisse. Destavasi per tem-
pissimo, estate ed inverno; innanzi al lavoro, usciva e faceva
lunghe marcie, quali, un di, nella campagna e tra' monu-
menti di Roma, in quei fecondi e begli anni giovanili, so-
briamente ricordati nella prefazione alla Storia dell'antica
Torino. Il rimanente era studio, lettura e lavoro, senza im-
pegni, senza dependenze, senza pregiudizi, senza procaci
desiderii, senza pompa, senza vanità; rigido per sé, tolle-
rante verso gli altri. — Non era alto della persona, vi sop-
periva il fare da gentiluomo, la nitidezza dell'abito, la sem-
— 606 —
plicilà, il decoro. Alta era la fronte-, profondo ed impera-
tivo lo sguardo-, le labbra atteggiate a concisione e brevità*,
raro ma ingenuamente gaudente il riso. Osserva un intimo
ed amato amico suoch''egli « non avea delizia alcuna di cibo,
di sonno, d'amore, di passatempi, di vino, di caccia, di spet-
tacoli, di cavalli, di suppellettili, di ville, ecc. «. I.a sua vita,
la sua persona era cosi governata, che in lui, ultima, quasi
spregiata cosa era il corpo, prevalente tutto ciò che spettava
all'intelletto. Nella moltiforme applicazione di questo, sem-
pre era capace d'amore; m.a dalla passione fortemente si ri-
traeva; ond' evitarne il predominio e mantenere la rigida
osservanza de' suoi doveri. Spiacevangli i troppi. Di Mentore
in gioventù sarebbe stato, io credo, intollerante; era ricerca-
tore del buon amico, ed avea l'arte di farsi amici e di ser-
barli. Niuna invidia il prendeva della meta da altri raggiunta.
Con chi noi capisse, non sprecava parole. Piacevagli poter
difendere l'assente. Non si adagiava comodamente nell'opi-
nione altrui. Pensier suo e pensier di lucro eran destinati a
non incontrarsi mai. Siccom'ebbe sempre, fino all'ultimo dì,
il fuoco sacro dell'attività, e d'altra parte l'età presente non
fu sempre, anzi fu di rado capace della sua idea, così fu il
meno apatico ed il piiì apatico degli uomini. Gli era odiosa
la loquacità; eloquente egli nell'intimità, negli scritti, e ma-
gniloquente, non di forma ma di sostanza; alieno da violenza,
abuso, lenocinlo, viltà ; non liberale, libero veramente. Non
saprò mai spiegare e dipingere la bellezza di quell'anima in-
cessantemente, studiosamente intesa ed appressantesi al tipo
della divina bellezza ; in sé racchiudente drittura, operosità,
disciplina, fortezza d'animo, voluttà di sentimento, acume di
uom nudrito d'esperienza e di storia, profondità d'insigne
conoscitor dell'uman cuore, veracità incorruttibile, ardente
fede. Era alla comune degli uomini, sto per usare una com-
parazione sua, ciò che alla casa edificata secondo gretti bi-
sogni, è l'edificio eretto al fine del grande imperituro utile
pubblico, o il tempio disegnato nell'oblio di ogni terrena e
misera necessità.
Voglio notare che con signore, con signorine, era di una
riservatezza, di una decenza ese.mplare. — Osservava negli
— 607 -
uomini la fisica prestanza, alla maniera degli antichi, che a
queste cose apertamente e francamente badavano. Di beile
donne non parlava; nella donna oltre il cuore, un merito
solo, un solo demerito vedea, un solo fallo, un solo trionfo.
— - Aveva nel suo studiolo un quadro delizioso di Lorenzo
di Credi, da lui discoperto in un magazzeno di antichità
in Torino, rappresentante Santa Caterina della Ruota. Ai
pochi amici mostrava talvolta quella fanciulla nel tormento,
che non era più corpo propriamente ed aveva nel sembiante
una dolcezza e mansuetudine da Paradiso. — Per quanto
insistessero parenti o discepoli, non volle farsi fotogra-
fare. Fortunatamente , V unico modo gentile di porgere
aiuto ad un artista, lo indusse nel 1847, mentre aveva 39
anni, a commettere il proprio ritratto, che dieci anni dopo
tirò dal dimenticatoio e diede alla sorella, ed è ora, siccome
esattissimo, caro conforto a questa, al fratello, ai nipoti;
tutti, diversi solo di vocazione e d'attitudine, strettamente
congiunti di principii, d'operosità, di affetti, di non inter-
rotta convivenza.
Nacque in Torino il 18 di febbraio 1808 da Felicita
Burquier, Savoiarda (i), morta quand'egli aveva quattr'anni,
e da Matteo Promis, uomo probissimo, tesoriere alla Zecca,
morto nel 1823. Di quattr'anni lo precedette nella vita il
fratello Domenico. — Comode furono le facultà di Cario
Promis. — Osserva il sullodato amico suo che « fin da
quando era garzoncello, già faceva portendere che avrebbe
un giorno toccata qualche alta meta : poiché neppure in quel-
l'età egli si dilettò mai de' trastulli fanciulleschi, né mai at-
tese a divertimenti, ad inezie, a futilità, ma sempre si ap-
plicò fin d'allora allo studio con alacrità e passione: e se
ne ha una prova negli onori e ne' premii da lui conseguiti
nelle piccole scuole ». Fu laureato nel 1828; per la laurea
fece un disegno d'arsenale. Dal 1828 al i832, poi nuova-
(i) «Claudio Guichard nato in Savoia (caro paese, che poteva allor
Francia strappar al Piemonte, comprarlo non mai, né barattarlo) •>
{Storia dell'Antica Torino, p. 3 17).
" GOS —
menledal i833 al i83ó, soggiornò in Roma- stette un anno
in Toscana. In quegli otto anni in Roma (debbo tutti i cenni
di sua vita ed operosità d'architetto al suo amato discepolo
Gastellazzi) « misurò, rilevò e disegnò tanti di quei monu-
menti antichi, medievali e moderni, da riempire due volu-
minose cartelle ». Trasselo in Roma amor dell'arte-, ne tornò
ricco d'un' altra facoltà, cioè l'estimazione ed intelligenza
dtW Epigrafia Latina, origine di varie sue opere insigni. E
perchè questi chiestimi cenni, troppo tumultuarli e indegni
troppo, possano coll'autorità del suo nome generar qualche
bene, dirò ch'ei lamentava, persino negli ultimi giorni, il
trattamento inflitto alle lapidi antiche, incastrate nell'atrio
dell'Università, smosse di continuo ora per l'apertura di una
porta o finestra, ora pei bisogni della bustifica\ione\ e spe-
cialmente l'iscrizione di Caio Gavio Silvano, uccisore di
Seneca il filosofo , unico monumento Torinese di uomo
mentovato da un classico, da Tacito, che altrove, diceva
egli, m.etterebbesi sotto vetro, lamentava che testé fosse
posta in oscuro luogo ed umido.
Tornato in patria, fu nominato ispettore de' Monumenti
d'antichità nei RR. Stati, poi R. Archeologo nel iSStj, pro-
fessore di Architettura all'Università nel 1843 e tale rimase,
passando alla scuola del Valentino nel 1860, fino al 1869,
nel qual anno ottenne il riposo. « Sentendo il bisogno di dare
alla scuola un nuovo e più pratico indirizzo, dovette pro-
crearsi da sé gli elementi necessarii, ed all'uopo fece di suo
pugno circa ottocento à\sQ:gm. Dei quali quelli che rappresen-
tano progetti architettonici, cioè svariati esempi di villette e
di case quali richiedonsi nella comune pratica, allo scopo di
far produrre al denaro impiegato in loro costruzione il mag-
giore interesse » , sono quelli che assieme ad altri si pubbli-
cano ora presso i fratelli Bocca nell'opera intitolata : Fabbriche
moderne inventate da Carlo Promis ad uso degli studenti di
architettura e pubblicate con note ed aggiunte dal suo allievo
Giovanni Castella'{ii , colonnello del Genio e professore
straordinario alla scuola di applicazione per gli ingegneri
in Torino.
Nell'anno 1845, « d'ordine di Re Carlo Alberto fece
- 609 -
il progetto di una grande chiesa che avevasi a costrurre nei
pressi del Real Castello del Valentino, e il progetto esiste
nella Biblioteca del Re ed è nnolto pregevole, massime nello
scomparto della pianta, la quale presenta molte novità, tut-
toché improntata alla forma delle antiche Basiliche cristiane,
col quale nome Tautore si è appunto compiaciuto d'intito-
lare questa Chiesa ».
Nel 1848-49, essendosi creata una Commissione di mi-
litari e deputati col mandato d'investigare le cause de' di-
sastri dell'esercito piemontese, ne fu eletto segretario, avendo
egli posto all'accettazione due condizioni : la niuna rimune-
razione e la facoltà di dimettersi a piacimento. Dopo la pub-
blicazione del suo lavoro sugli Avvenimenti militari^ l'eser-
cito piemontese fece dono di una spada lavorata con bel ma-
gistero « al suo difensore ^uQWoSn in quel tempo il generale
Della Rocca, ministro della guerra, il posto di p'imo ufficiale,
al Ministero della Guerra, ch'ei ricusò. Fu poi membro e
segretario di un'altra Commissione, presieduta dal Duca di
Genova, e incaricata di studiare i mezzi di difesa dello stato.
Nel i85i consigliere municipale e membro del consiglio
degli Edili si occupò dell'ingrandimento della città di Torino,
ed emise il progetto col quale furono erette le case di Porta
Nuova e Corso a piazza d'armi. Queste case insieme a quella
prospiciente alla chiesa della Ss. Consolata sono i soli edi-
fizii costrutti di pianta secondo i suoi disegni ». Al Municipio
a presentò in gennaio 1862, delineato in 3o fogli, il progetto
della strada e piazza porticata che in allora era da farsi in
prosecuzione della via dell'Arco. Dal 19 agosto al 5 ottobre
del medesimo anno eseguì in 29 tavole 4 progetti (di cui gli
si era dato incarico) per l'erezione in piazza Bodoni di un
edifizio che doveva contenere l'Accademia di Belle Arti e la
Galleria di quadri : codesto progetto per distribuzione d'im-
pianto, ricerca dì luce e maestà di elevazione era ed è vera-
mente una stupenda cosa e la sua inattuazione gli costò molte
pene ». Nel i853 « fece il progetto di case ponicute sul corso
della cittadella ora piazza Solferino, ideando ad un tempo di
congiungere i portici a Porla Nuova con quelli a farsi lungo
la via Cerna ja e da questi uitimi portarsi a piazza dello
— CIO —
Statuto. Fu in tale occasione ch'egli propose da 20 a 3o
soluzioni diverse delParduo problema che gli si presentava
ed era il passaggio coperto attraversante via S. Teresa.
Quesi^ultimo progetto avendo coi precedenti sortito nissun
effetto.. Cario Promis lasciò Municipio e Consiglio degli Edili,
e chiusosi neirumile stanzetta che aveva tolta a pigione in
piazza Carlo Alberto (casa Se3'ssei), ivi nel i855e 1856 diede
sfogo alla sua fantasia ideando e disegnando molteplici progetti
di case e di chiese, i quali, siccome fatti senza alcuna preoc-
cupazione di spesa o d'altro, sono riusciti veri giojelli d'in-
venzione e di bellezza ». Questi progettti ch'egli fece per
se, e mostrò a pochissimi intimi, saranno in parte pubbli-
cati nell'annunziata opera del Gastellazzi. Più tardi, pregato
dal sindaco del progetto di una casa da costruirsi davanti
alla Caserma della Gernaja, nel i863, produsse due disegni
i quali sgraziatamente non furono accettati. Finalmente
Tanno scorso pregato e scongiurato da un assessore munici-
pale fece per Porsia Palatina {ci. Bidlett. dell'Instit. Ar-
cheol. 1872, p. 27) un progetto di restauro che i colleghi in
arte stimano degno dei tempi d'Augusto ». Oltre il Castel-
lazzi, tra suoi allievi lodava soprattutto il conte Ceppi che
ha riportato il premio nel primo concorso della facciata di
S. Maria del Fiore, ed il Comotto che ha tanto operato,
nel trasloco della capitale in Firenze, e fatto a Roma il
Parlamento ».
Ecco ora la paì^s vitae dimtdia, l'elenco delle opere ar-
cheologiche, storico-artistiche, storico-militari di Carlo Pro-
mis, ricavato, sino al n" 20, da una sua risposta dello scorso
gennaio, ad un signore che trovavasi in Napoli ; poi da in-
dicazioni del nipote Vincenzo:
1 . Le antichità di Alba Fucense negli Equi. — Roma 1 836;
in-8'' p. 267, tav. 3, 8" e 3 fase.
2. Noti:[ie epigrafiche degli artefici marmorarii romani dal
Xal XV secolo. — Torino, 1837; in-4% p. 3i.
3. Dell'antica città di Luni e del suo stato presente. Me-
morie. — Torino, i838*, in-4% P« ''^7*
4. Storia del Forte di Sar^anello. — Torino, i838; in-8%
p. 82 con 2 tav. f'.
— 611 —
5. Trattato di architettura civile e militare di Francesco
di Giorgio Martini architetto senese del secolo XV, con
dissertazioni e note per servire alla storia militare ila-
liana. — Torino, 1841-, 2 voi. in-4% p. 341 e 356-, atlante
f° di tav. xxxviu.
6. Regum Langobardorum leges de structorihus, quas C.
Baiidius a Vesme primus edebat^ Carolus Promis com-
mentariis auxit. — Torino, 1846; in-8°, p. Sy, con 3
stampe nel testo.
7. Guerra dell' indipendenza d'Italia nel 1848. — Torino,
1848: in-8°, p. 3oi (sui manoscritti in lingua francese,
communicatigli dal Re Carlo Alberto).
8. Considerazioni sopra gli avvenimenti militari del mar^o
1849. — Torino, 1849-, in- 12", di p. 191.
9. Le antichità di Aosta (Augusta Praetoria Salassorum)
misurate, disegnate, illustrate. — Torino, 1862; in-4°,
p. 207; atlante di tav. xiv f".
10. La vita di Girolamo Maggi d'Anghiari ingegnere mi-
litare, poeta, filologo, archeologo, jurisperito del secolo
XVI. — Torino, 1862; in-8% p. 40.
lì. La vita di Francesco Paciotto da Urbino architetto
civile e militare del secolo xvr. — Torino, i8G3; in-8%
pag. 86.
12. GV ingegneri e gli scrittori militari Bolognesi del xv
e XVI secolo. — Torino, i863; in-8°, p. 114.
i3. GV ingegneri militari della Marca d' Ancona che opera-
rono 0 scrissero dall'anno mdc all'anno mdcl. — Torino,
i865-, in-8% p. 116.
14. Storia delV antica Torino (lulia Augusta Taurinorum).
— Torino, 1869; in -8% p. 53o con tre tav. f°.
i5. L' iscrizione Cuneesedi Catavignus Ivomagi Filius Miles
Cohortis ni Britannorum Exercitus Raetici. — Torino,
1870*, in -4% p. 84.
16. Gli Architetti e V Architettura presso i Romani. — To-
rino, 1871 ; in-4°, p. 190.
17. Lettere di Francesco Paciotto a Guidobaldo li Duca di
Urbino. — Torino, 1871 ; in 8% p. 90.
18. Ricerche storico-artistiche su quattro monumenti di
— 612 -
Torino del secolo xv. — Torino, 1872-, in-8°, p, 67 con
tavole, 2 P.
19. Gl'ingegneri militari che operarono 0 scrissero in Pie-
monte dall'anno ucccalVanno mdcl. — Torino, 1872", in-
8", p. 238.
20. Della necessità delVerudiiione per gli architetti. Pre-
lezione. — Torino, 1844; in-8'\ p. 58.
21. Avvertimento circa la Rela'^ione dell assedio di Cuneo
dell'anno ibb'] scritta da Aìionimu Contenipoì^aneo (Ar-
chivio storico italiano. — Firenze, 1846; Append. i. n,
pag. 75).
22. Epitafio metrico latino composto da Dante per Dieterico
Ti^manjio^ Landgravio di Turingia e Marchese di Lu~
sa:{ia e di xWsjiia {Antologìa Ital. — Torino, 1846, 1, p.99).
23. La coltura e la civiltà^ loro injluenia sull'arte e segna-
tamente suir architettura ecc. (Antologia, Torino, 1846,
IV, p. 453).
24. Nota sulla fortuna del Marchese di Caluso Governatore
di Vercelli q.cc. (Archivio storico, Firenze, 1847, t. xin,
pag. 5 18).
25. Vita di Mu^io Oddi ingegnere e matematico 1 569-1639,
(Antologia, Torjno, 1848, xxii, p. 377-400).
26. Delle operazioni e della situazione presente dell esercito
Ligure-Piemontese (l. cit. disp. cit», p. 495).
27. Condiiioni militari dello Stato Pontificio e della To-
scana (Torino, 11 gennaio 1849, estratto dal giornale La
Nazione).
2S. La Guerra dei Popoli e la Guerra dei Principi in Italia
(Torino, 11 febbraio 1849, estr. dal giornale la Nazione).
29. Necrologia di Cesare Saluto {Archìvio storico, Firenze
1853, Append. t. ix, p. 3o2-3o6).
30. Storia dell' Archi tettm^a in Italia dal secolo vi al xviii
scritta dal marchese Amico Ricci (Estratto dalla Gaietta
Ufficiale del regno dltalia, n. i55, del 1861).
3i. Scavi alla porta Augustea di Torino, ora detta Porta
Palalo o Palatina {Bull. delVInst. di Corrispondenza
Archeologica., Roma 1872, p. 27}.
~ 613 —
Lascia inedito un (( Lessico delle voci architettoniche sco^
nosciute a Vìtriivio^ oppure venute m uso posteriormente
all'età sua », ed un « Trattato di Architeitura )>; mano-
scritte e depositate già tra le carte di Carlo i.\lberto ed ora
nella Biblioteca del Re: una « Relazione delle ricerche di
antichità e degli scavi fatti nella città e Valle d'Aosta d'or-
dine di Sua Sacra Real Maestà nell'agosto e settembre del
i838 (Mise. Patr., Cod. 148); un'altra Relazione circa le
anfore scoperte al Borgo di Dora presso Torino nel i838
(Mise. Patr., Cod. loi)*, una v Pianta degli scavi aperti
nelVarea deWantica citta di Luni l'anno 1887 » (Cod. cit.),
eduna Memorietta del marzo 1843, annessa al citato progetto
d'una gran chiesa, col titolo « Exposé des motifs qui doivent
diriger les archi tectes dans la formation des plans des é-
glises et dans leur décoration , puisés dans les écrits des
Ss. PèreSf l'Histoire ecclésiastique et la Liturgie ». Non
dimenticherò finalmente un « Giornale di scavi in Pie-
monte.,. », nel quale contengonsi più cose, e che teneva
presso di sé.
Fu deirAccademia delle Scienze, della Deputazione di
Storia Patria, dell'Accademia di Belle Arti in Torino e di
cinquant'altre d'Italia e fuori; dell'Instituto Archeologico in
Roma, dell'Accademia delle Scienze di Berlino.
Ricusò, in varii tempi di sua vita, i proposti uffizi di di-
rettore generale, come sì disse, al Ministero di Guerra, di
Prefetto della Biblioteca dell'Università, di Sindaco della
città di Torino, di Deputato al Parlamento per Torino, per
Aosta (che gli diede la cittadinanza dopo il suo libro), di
Senatore del Regno-, scansò, con altre, la croce del merito;
e so che dicendogli allora non so più chi, mentr'era fama
che gli fosse stata conferita, essere pur cosa ghiotta, oltre
ronore, una pensioncella di dieci o dodici centinaia di lire,
rispose ch'era nell'ordine del possibile ch^egli avesse accettata
la decorazione semplice, ma che in ogni caso avrebbe di
sicuro ricusato la pensione. Aveva la coscienza, la volontà,
e (si vedrà forse un giorno) Parte del ridato, — Ed eradi vo-
lontà veramente ferrea. — Non già egli nel suo libro, ma qual-
che superstite spettatore delle sue disquisizioni antiquarie nella
_ 614 ~
Valle d'Aosta può narrarvi come fosse talvolta, per anior
d'esattezza e di verità, ardinicniobo e noncurante dei peri-
glio. — Bellissima era, rongiunta a fortezza e severità, la
somma bontà delPanimo suo, la cara mitezza. Soprammodo
caratteristico in lui i';iborrimento dalP adular chicchessia,
massime i più, la moltitudine, per farsene sgabello ^ aborrendo
egli onninamente dall'inganno. — Verissimo, giustissimo è
poi e soprattutto il verso di Dante che a lui applica uno dei
suoi amici : Tutto suo amor quaggiù post a drittura.
Torino, a 3 maggio 1873.
Giacomo IìUmbroso.
LA COMMISSIONE D'INCHIESTA
S ULV ! S ri^VZ IO V^E S EC OV^'DA%IA
A T O R i N O
La Facoltà di lettere e di Rlosolia dell'Ateneo torinese deliberò di
rispondere a quelli tra i Quesiii della Commissione d'inchiesta sulla
istruzione secondaria., dei quali le paresse più stretta ed evidente la
Cv>nnessiOà'ie colia propria speciale natura ed intorno a cui ella potesse
venir da tutti meglio riconosciuta come giudice competente. Essa per-
tanto affidò l'esame di si fatti Qjiesiti ad una Commissione composta
di cinque suoi membri (i professori Rertini, Garelli, Peyretti, Schia-
parelli, Pezzi) ed avendo approvate le risposfe che i medesimi le pro-
posero si affrettò di tfasrnetìerle al Presidetite della Commissione
d'inchiesta. Siamo lieti che ci sia stato permesso di far noli ai nostri
lettori i risultati di questo lavoro, colle medesime parole con cui ven-
nero significati.
Quesito I. — Q^l bisogno delle scuole secondarie non è sufficiente il
numero dei professori istruiti ed approvali dalle scuole normali supe-
riori e dalle Facoltà universitarie ai lettere e di filosofia. Così, sebbene
l'Ateneo torinese sia quello che dà il maggior numero dei dottori in
lettere, nondimeno avvenne già che, non bastando più questi, si doves-
sero chiamare allo insegnamp.nto studenti del ^° ed anche del "iranno del
corso di lettere. Per rendere questo corso più ricco di studenti si propone:
1» che siano di nuovo appropriati ai medesimo tutti quei posti ch'esso
possedeva al Collegio delle provincie giusta l'istituzione primitiva del
medesimo, che il numero di tali posti venga (per quanto sarà possibile)
accresciuto, e si affidi di nuovo integralmente alla Facoltà letteraria e
filosofica di Torino l'esame, scritto ed orale, che schiude l'adito ad essi ^
per ottenere che in ciascun anno del corso di lettere e filosofia sianyi
giovani di provato ingegno ed operosità ffine che tentasi ora conseguire
sì a Roma si a Firenze colla liberalità' muniapafej ; 1* che facciasi
piti attraente la carriera dello inse^jiamsmo col migliorarne le condi-
zioni economiche e morali.
-615 —
C\2<3M si crede giovevole il « ristabilire le sessioni annuali d'esame
presso alcune Università per abilitare allo insegnamento secondario
anche quelli che non hanno fatto studi universitarii >'. // 50/0 esame
non può aversi a prova sufficiente della capacità dei professori. Gli
aspiranti allo insegnamento inferiore ne' ginnasii ed a quello della let-
teratura, storia e geografia nelle scuole tecniche e normali frequentino
per un biennio le scuole universiiari^i di lettere come allievi del 1*, poi
del 1" anno di sì fatto corso. Al quale debbonsi rendere nello Ateneo
torinese le due cattedre di grammatica greca e di istituzioni letterarie,
dando loro il medesimo compito che venne assegnato agl'insegìxamenli
di grammatica e lessicografia greca e latina con recentissimo R, De-
creto istituiti nella Università di Roma. Questa Facoltà fece manifesto
sin dall'estate scorsa al Ministero di pubblica istruirtone il bisogno di
ristabilire nell'Università di Torino la cattedra di grammatica greca :
ma né a questa né ad altra proposta, concernenie la durata del corso
di storia antica^ potè ancora ottenere una risposta.
Quesito 2. — Ugello ammaestrare i futuri professori non curasi per
lo più abbastan:{a la importantissima parie linguistica, che il maggior
numero di essi è poi chiamato ad insegnare nelle scuole secondarie.
Appare assolutamente necessario istituire un corso di grammatica sto-
neo-comparativa delle due lingue classiche e della italiana, coordinan-
dolo al corso che presentemente, con assurda qualificazione, si appella
di Lingue e Letterature comparate.
Per ciò che spelta al tirocinio scolastico de'nuovi dottori in lettere
ed in filosofia, parrebbe utile nominarli aggiunti ad una cattedra in un
istituto d'istruzione secondaria, incaricandoli di supplire eziandio ai
professori di materie affini, con annuo, fisso ed equo compenso.
I giovani che escono dai licei non sono generalmente ahhastanzn pre-
parati agli studi de'corsi normali superiori. Ove gli esami di amme»-
sione a questi ultimi venissero dati sen^a indulgenza, di cento candidati
nemmeno venti potrebbero essere promossi nella parie linguistica, let-
teraria, storica e filosofica.
Quesito 3. — <ò'illa domanda a Quali frutti diedero i corsi speciali
istituiti presso alcune Facoltà universitarie per abilitare i professori delle
scuole tecniche e magistrali? .> noi risvondiamo che, per quanto attiensi
alla Facoltà letteraria e filosofica dell'Ateneo torinese, questi corsi non
poterono avere luogo, non essendo mai stati altuaxi i regolamenti chi-^sti
alla medesima dal ministero, da essa proposti e dal mittistero appro-
vati per simili corsi.
Quesito 9. — Il governo farebbe opera utilissima, an^i necessaria, pro-
movendo, contutti I mezzi onde può disporre, la pubblicazione diungrande
giornale pedagogico, in cui si disc lessero i problemi di pubblica istru-
zione e st facessero conoscere le migliori soluzioni che di essi furono pro-
poste presso le nazioni piif civili.
Quesito 10. — Si propone che, divisa l'Italia in tante circoscrizioni,
quanti sono gl'istituti d'istruzione superiore in cui si hanno Facoltà 0
scuole normali che somministrino professori di tutte le materie letterarie
e scientifiche insegnate nelle scuole secondarie, si attribuisca alle Facoltà
e scuole normali di lettere e filosofia, di matematica e fisica la imme-
diata direzione, scientifica e pedagogica, della istruzione secondaria in
ognuna di tali circoscrizioni.
Quesito II. — .Si scelgano, per [ciascuna parte dello insegnamento,
ispettori che siano ben conosciuti come cultori speciali della medesima o
per fama acquistata con opere fatte di pubblica ragione o per insegna-
menti universitarii da loro dati lodevolmente, e noti come uomini esperti
della i.ttruzione secondaria.
Quesito 18. — !• F necessario che ri stano e si adoperino in realtà
- 616 —
libri di testo riè troppo dijfusi né soverchiamente compendiosi per tutte
le materie e s'interdica l uso dei sunti dettati in iscuola dal professore o
compilati a casa daf^li scolari; 2" tutù, per quanto è possibile, questi libri
di testo, assolutaynente poi le grammatiche, dovrebbero essere identici
nella medesima circoscrizione od almeno concordi nei principii fonda-
mentali e nel linguaggio tecnico; 3* nessuno di essi potrebbe venire ado-
perato nelle scuole senz'essere prima approvato dalle facoltà 0 scuole
normali superiori, cui spetterebbe, secondo queste proposte, la direzione
immediata della istruzione secondaria nelle singole circoscrizioni.
Pare che si potrebbe permettere Vuso di antologie, ma a patto che
nessun limite sia segnato da esse alla libertà dei professori nella scelta
delle opere classiche e delle parti di queste a spiegarsi.
Quesito 28. — Ove si vogliano prescrivere programmi di esame e con-
servare gli esami di ammcssione ai corsi universitarii, occorrerebbe al-'
meno che i programmi di questi ultimi rispondessero a quelli degli esami
di licenza per le scuole secondarie.
Quesito 34. — Si fanno voti affinchè, ristretti fcom'è assolutamente
necessario] a limiti più ragionevoli, soprattutto nella parte matematica
e fisica, gli studi del liceo classico, siano questi dichiarati obbligatorii
come preparazione a qualsiasi corso universitario.
Quesito 36. — Lo insegnamento classico nelicei debbe consistere prin^
cipalissimamente nella spie gallone dei più grandi scrittori greci e romani.
Vuoisi conservare lo studio del greco, facendolo imparare seriamente
con metodo migliore e cominciando almeno dal 3° corso ginnasiale , a
patto che il governo, promovendo piìi alacremente gli studi greci negli
Atenei, si procuri un maggior numero d'insegnanti capaci e che sì cori'
secri alle lezioni di greco il tempo che presentemente è dato aWaritme-
tica, perchè la Facoltà reputa che entrambi questi insegnamenti non si
possano fare contcmporaneamenle con frutto nelle scuole ginnasiali.
Siccome oggetto dei .orsi universitarii non ù già la coltura generale
{a cui tende il liceo], ma bensì La speciale; siccome ancora, quand'anche
si dimenticassero molte delle nozioni particolari apprese mediante un
intenso studio classico, nondimeno durerebbe in chi lo avesse fatto a do-
vere l'influenza benefica di esso, ossia l'alta educazione della mente e del
cuore : cosi non sembra necessario né opportuno che negli Atenei si con-
tinuino gli studi greco-latini del liceo anche per tutti coloro che non si
fanno iscrivere alle Facoltà di lettere e di filosofìa.
Quesito 3g. — C^Con è certo sufficiente il profitto che si trae dallo studio
della filosofia ne'licei: ne sono pi ova gli esami di ammessione alPUniver'
" mo saggio di essere abbastanza
di essa vuol essere conservato
efficaci preparazioni agli studi
universiiarii. Alla logica ed alla psicologia dovrebbesi, giusta il parere
dei professori Peyreiti e Berlini, aggiungere di nuovo l'etica e la me-
tafisica, intesa in senso aristotelico. Lo insegnamento della filosofia si
avrebbe a fare teoreticamente nei due primi corsi liceali ed a continuare
nel terzo sotto forma pratica col commento di filosofi greci e latini, nel
quale eser^^izio dovrebbe consistere tutto lo yUidio ckissico di questo ul-
timo anno.
Quesiti 41 e 42. — J>Ce/ liceo si dà presentemente soverchia esten-
sione allo insegnamento della matematica e della fisica: ciò aggrava
troppo i giovani alunni e li distoglie dagli rtudi letterarìi. La facoltà
riconosce l'alta importanza di questi studi , massimamente nell'epoca
nostra : ma ella crede che, essendo scopo del liceo la coltura generale
(come già abbiamo accennatoj e /' armonica educazione delle facoltà
intellettuali e morali, Vinsegnamento matematico e fisico non debba var-
care quei confini che da si fatto duplice scopo gli sono prescritti.
Pietro Ussello, gerente responsabile
PA Rivista di filologia e di
9 istruzione classica
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Voi
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