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Full text of "Rivista di filologia e di istruzione classica"

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^ 


RIVISTA 

^'1 


DI    FILOLOGIA 


D' ISTRUZIONE/  CLASSICA 


'DI'KETTO'KI 

DOMENICO   COMPARETTI  -   GIUSEPPE   MÌJLLER 
GIOVANNI  FLECHIA 


j^isrisro     DEOIDVLO 


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TORINO 
ERMANNO     LOESCHER 

1882 
Roma  e  Firenze  presso  la  stessa  Casa. 


Torino  —  V.  Bona,  Tip.  di  S.  M.  e  RR.  Principi 


PA 


R5S 


INDICE    GENERALE 

DELLE    MATERIE    CONTENUTE    NEL    VOLUME    X 


Glottologia. 


Ascoli  Graziadio  Isaia,  Lettere  glottologiche  (Lettera  primajj^a^.  i 
Canello  a.  Ugo,  Della  posizione  debole  nel  latino         .        »       535 
D'Ovidio  Francesco,  D'un  recente  libro  di  Delbriick    e  della 
traduzione  italiana   del    Merlo   e   di   due  nuove   disserta- 
zioni   del   Whitney »       3 14 

Garlanda    Federico,  Della    lunghezza  di  posizione  nel  latino, 

nel  greco  e   nel    sanscrito »       430 


Archeologia. 


D'Ovidio  Francesco,  D'una  iscrizione  latina  antichissima      »       ii3 
Ferrerò  Ermanno,  Di  una  testa  marmorea  di  fanciullo  auriga 
—  Di  una  antica    base   marmorea   con   rappresentanze    del 
Nilo  —  Di  un  antico  musaico    a   colori    rappresentante   le 
quattro  fazioni  del  circo,  per  Ersilia  Caetani  Lovatblli  »       208 


—  IV   — 

MuLLER  Giuseppe  ,  On   two   inscriptions  from  Olympia  by  D. 

CoMPARETTi    .........  pag.      543 

Oliva   Gaetano,  Iscrizioni   greche    di    Olimpia    e   di    Ithaka. 

Memoria  di  Domenico  Comparetti  .  ...»  92 
Teza  Emilio,  Di  una  iscrizione  etrusca  trovata  in  Magliano  »       53o 


Filologia  greca. 


Arrò  Alessandro,  La  Pitica  X  di  Pindaro.  Saggio  di  G.  Frac- 

CAROLI      ...........  371 

Barco  G.  B.,  La  filosofia  morale  di  Aristotele.  Compendio 
di  Francesco  Maria  Zanotti  con  note  e  passi  scelti  dal- 
l' Etica  Nicomachea  per  cura  di  L.  Ferri  e  di  Fr.  Zam- 
BALDI >        56g 

Cipolla  Francesco,  Lo  Stato  degli  Ateniesi,  studio  e  versione 

di  Giacomo  De  Franceschi 182 

—  Le  Nuvole  di  Aristofane,  tradotte  in  versi  italiani    da    Au- 

gusto Franchetti  ,  con  introduzione  e  note   di    Domenico 

Comparetti    ..........       537 

Jeep  Ludovicus,  Quaestiones  criticae 377 

Morosi  Giuseppe,  Se  i  Greci  odierni  sieno  schietta  discendenza 

degli  antichi  (a  proposito  d'una  recente  pubblicazione)  »  417 
MiJLLER  Giuseppe  ,  Osservazioni  sulla  traduzione  delle  Nuvole 

di  Aristofane,  di  A.  Franchetti »     540 

—  Zakonische  Grammatik  von  Dr.  Michael  Deffner  .  »  375 
Oddenino  Michele,  Le  Nubi  ossia  Aristofane  e  Socrate  .  »  4G5 
Oliva  Gaetano,  Le  parole  greche  usate    in   italiano,  memoria 

del  prof.  Francesco  Zambaldi  .  .  .  .  .  »  198 
Ramorino  Felici;,  Platonis  opera  quae  feruntur  omnia.  —  Ad 

codices  denuo  collatos  edidit  M.  Schanz     ...»  99 

Setti  Giovanni,  Della  fama  di  Aristofane  presso  gli  antichi      ->  i32 

Teza  Emilio,  'ATAGArrEAGI >  4o5 


—  V  — 
Vitelli  Girolamo,  Studi    di   filologia   greca  pubblicati  da  E. 

PiccoLOMiNi pag.       366 

—  Ad  Euripidis  Herc,  190 »      408 


Filologia  latiua. 


Cortese  Giacomo,  Congetture  Catoniane  ....        »      443 

—  M.  PoRcii  Catonis,  De  agri   cultura    liber  —  M.  Terenti 

Varronis,  Rerum  rusticarum  libri  tres,  ex  recensione  Hen- 

Rici  Keilii »       544 

Ferrerò  Ermanno,  Victoris  episcopi  Vitensis  historia  persecu- 

tionis  Africanae  provinciae  recensuit  Michael  Petschenig  »       212 

—  Institutes  de  Gaius,  par  Ernest  Dubois         .         .         .        »       2i3 
Fumagalli  Carlo,  Alcune  osservazioni  sul  nuovo  Vocabolario 

della   lingua  classica  latina  compilato  per  uso  delle  scuole 

dal  prof.  G.  Rigutini     ...         .         .         .         .        »       104 

Pasdera  Arturo,  Commento    metrico  a  XIX    Odi   di    Orazio 

Fiacco  pel  Dott.  Ettore  Stampini      .         .        .        .        »       187 

—  Le  odi  barbare  di  G.  Carducci  e  la  metrica    latina  ,  studio 

comparativo   del    Dott.  Ettore  Stampini   .         .         .        »        igi 
Ramorino  Felice,  Principii  della  stilistica  latina,  per  Antonio 

Cima       ...........       206 

Sabbadini  Remigio,  Historische  Syntax  der  lateinischen  Sprache 

von    F.    A.  Draeger »       199 

Stampini  Ettore,  Virgilio,  La  Georgica,   versione  di  Angelo 

Lo  Jacono    ...  .......       453 

—  Le  Querolus,  comédie  latine  anonyme.  Texte    en  vers   res- 

titué    d'après  un  principe  nouveau  et  traduit  pour  la  pre- 
mière  fois   en   francais ,  ecc.    par    L.    Havet    .        .        »       549 

—  Roma  nella  memoria  e  nelle  immaginazioni  del  Medio  Evo, 

di  Arturo  Graf >^       56o 

—  Tre  letture  sul  grado    di    credibilità  della    Storia  di  Roma 

nei  primi  secoli  della  città,  di  Luigi   Schiaparelli  .         >       5  55 
Tartara  Alessandro,   Dalla  battaglia  della    Trebbia  a   quella 

del  Trasimeno  (Questioni  di  storia  romana)        .         .         »       217 


Istruzione  classica. 


Stampini  Ettore,  Proposte    per   un    riordinamento  della  Fa- 
coltà di  lettere  e  filosofia  nelle  Università  del  Regno  pag.        71 


Necrologia. 


Carlo  Graux »       376 


ELENCO 

DEI    COLLABORATORI    DELLA    RIVISTA 


Arrò  Alessandro,  Dottore  in  lettere  a  Torino. 

Ascoli  Graziadio  Isaia,  Professore  all'Accademia  scientifica  lette- 
raria di  Milano. 

Barco  Giovanni  Battista,  Professore  nel  R.  Liceo  Gioberti  di  To- 
rino. 

Canello  G.  Ugo,  Professore  nella  R.  Università  di  Padova. 

Cipolla  Francesco,  Professore  a  Verona. 

CoMPARETTi  Domenico,  Professore  nel  R.  Istituto  di  Studi  Superiori 
in  Firenze. 

Cortese  Giacomo,  Dottore  in  lettere  a  Savona. 

D'Ovidio  Francesco,  Professore  nella  R.  Università  di  Napoli. 

Ferrerò  Ermanno,  Professore    nella  R.  Università  di  Torino. 

Flechia  Giovanni,  Professore  nella  R.  Università  di  Torino. 

Fumagalli  Carlo,  Professore  nel  R.  Liceo  di  Bergamo. 

Garlanda  Federico,  Dottore  in  lettere  a  Torino. 

Jeep  Lodovico,  Professore  nel  Ginnasio  di  Konigsberg. 

Morosi  Giuseppe,  Professore  nel  R.  Istituto  di  Studii  superiori  a  Fi- 
renze. 

MiJLLER  Giuseppe,  Professore  nella    R.  Università  di  Torino. 

Oddenino  Michele,  Professore  nel  R,  Ginnasio  di  Alcamo. 

Oliva  Gaetano,  Professore  nel  R.  Liceo  di  Firenze. 

Pasdera  Antonio,  Professore  a  Froslone. 

Ramorino  Felice,  Professore  nella  R.  Università  di  Palermo. 

Sabbadini  Remigio,  Professore  nel  R.  Liceo  di  Ventimiglia. 

Setti  Giovanni,  Professore  nel  R.  Liceo  d'Aquila. 

Stampini  Ettore,  Docente  libero  nella  R.  Università  di  Torino. 

Tartara  Alessandro,  Professore  nel  R.  Ginnasio  di  Roma. 

Teza  Emilio,  Professore  nella  R.  Università  di  Pisa. 

Vitelli  Girolamo,  Professore  nel  R.  Istituto  di  Studii  superiori  a 
Firenze. 


LETTERE    GLOTTOLOGICHE 


G.   /.    oASCOLL 


PRIMA    LETTERA, 


[Sommario:  1.  Parole  d'introduzione,  che  valgono  insieme  per  questa 
lettera  e  per  le  successive.  —  II.  I  motivi  etnologici  delle  alte- 
razioni del  linguaggio.  —  III.  Le  combinazioni  originali  del  tipo 
TJA  continuate  per  combinazioni  greche  del  tipo  Tejó  reo.  —  IV.  vìq 
e  oOt;  ;  e  l'applicazione  che  i  Greci  hanno  fatto  di  alcune  lettere 
fenicie.) 


Milano,  21  aprile   1881. 

1.  —  Vi  restituisco,  amico  pregiatissimo,  la  parte  ma- 
noscritta del  vostro  lavoro,  rinnovandovi  le  mie  congratu- 
lazioni più  schiette  e  più  vive.  Voi  andate  veramente  molto 
più  in  là  di  quei  confini,  oltre  i  quali  a  me  non  è  dato  di 
portare,  non  che  un  vero  giudizio,  né  anche  un  esame  ben 
sicuro.  Ma  ho  considerato  ogni  cosa  con  la  migliore  atten- 
zione che  io  potessi  ;  e  mi  sono  sempre  meglio  persuaso  , 
che  all'indagine  vostra,  per  quanto  ella  si  dilati  e  si  divani, 
non  vengono  mai  meno  e  la  bella  sicurezza  dei  metodi  e 
la  più  larga  intelligenza  delle  cose.  Per  quello    che    è    dei 

liivista  di  filologia  ecc.,  X.  1 


—  2  - 
propri  miei  studi,  vedo  poi  con  intima  compiacenza,  come 
abbia  largamente  fruttificato  ,  per  virtù  vostra  ,  quel  poco 
che  ho  io  potuto  darvi,  o  nella  scuola,  o  nelle  mie  pagine 
ahimè  troppo  disperse-,  e  più  ne  godo,  quanto  meno  io  spe- 
rava che  voi  serbaste  amore  a  cotestc  discipline.  Nulla 
perciò  mi  -potrebbe  riuscire  più  grato  e  dilettevole  ,  che  il 
rispondere  ai  quesiti  o  seguir  le  esortazioni  che  mi  avete 
rivolto  con  tanto  garbo  e  con  un  sentimento  cosi  affettuoso  e 
così  lusinghiero.  E  spero  che  in  qualche  modo  le  forze  mi  vi 
bastino-,  ma  certo  non  mi  sarà  dato  di  farlo,  come  pur  vorrei, 
nel  termine  che  voi  m'indicate.  O  tentando  senz'altro  la  teoria, 
o  insistendo  sopra  singoli  fatti,  lo  studio  de'  quali  riconduce 
inevitabilmente  alle  affermazioni  di  principio,  voi  in  effetto  mi 
invitate  a  una  discussione,  che  versi  intorno  a  quanto  hanno 
di  più  dilicato  gli  studi  ne'  quali  io  mi  muovo  e  la  più  re- 
cente loro  storia.  L'assunto  non  mi  par  lieve  per  chi  debba 
pigliarlo,  com'è  il  caso  mio,  in  mezzo  a  infinite  distrazioni-, 
e  non  me  lo  agevola  di  certo  ,  o  anzi  me  lo  aggrava ,  il 
vostro  legittimo  desiderio  che  io  segua  l'  ordine  voluto  dal 
vostro  studio  principale  o  dalle  varie  appendici.  S'aggiunge 
il  desiderio,  più  forse  cortese  che  non  legittimo,  di  V.,,  e 
di  P...,  che  io  abbia  a  scriver  queste  Letter'c  in  un  modo 
alquanto  meno  ostico  dei  soliti  miei  saggi,  quasi  si  presu- 
messe di  parlare  anche  a  chi  non  fa  della  glottologia  V  o- 
bietto  esclusivo  o  principale  dei  propri  suoi  studi. 

Ma,  insomma,  io  mi  proverò,  incominciando  oggi  stesso. 
E  se  a  voi  pare  intanto  ,  che  la  mia  obedienza  mi  possa 
render  lecita  un'ammonizione  d'ordine  generale,  io  mi  pe- 
riterò tanto  meno  a  farvela  sentire,  quanto  più  sono  sicuro 
che  voi  non  mi  dobbiate  frantendere.  V  ha  ,  dunque  ,  un 
vizio  generale  o  come  un  peccato  d'origine  nel  vostro  libro, 
e  massime  per  quanto  concerne  le  cose  glottologiche;  vizio 
che  di  certo  si  risolve  in  un  argomento  di   lode  per  voi,  o 


-  3  — 

almeno  di  gratitudine  per  noi  tutti,  ma  del  quale  pur  gio- 
verebbe, e  per  la  sostanza  e  per  l'effetto  ,  che  i  vostri  bei 
volumi  andassero  esenti.  Egli  sta  nella  foga,  con  la  quale 
voi  rivendicate  o  propugnate  la  parte  che  spetti  alla  scuola 
italiana  negli  ultimi  incrementi  del  sapere.  Vedo  bene,  che, 
per  quanto  è  del  mio  proprio  campicello,  io  vo  doppia- 
mente accagionato  di  questo  impeto  vostro  che  a  me  pare 
soverchio  -,  poiché  c'entrano  insieme  la  vostra  grande  bene- 
volenza per  me  e  V  incuria  apparente  con  la  quale  io  ho 
assistito  a  discussioni  od  a  negligenze  parecchie.  Ma  non  è 
mai  stata  vera  incuria.  E  stato  un  riserbo,  che  in  certa 
parte  m'era  imposto  da  altri  obblighi  miei,  e  per  una  molto 
maggior  parte  m'era  suggerito  dalla  sicura  fiducia  che  non 
sarebbero  mancate  ,  in  favor  mio  ,  voci  ben  più  autorevoli 
ed  efficaci  che  non  la  voce  mia  propria.  Le  citazioni  che 
mi  sono  permesso  di  apporre,  qua  e  colà,  a'  vostri  margini, 
vi  condurranno  senz'altro  a  riconoscere,  che  se  qualche  in- 
sistenza può  ancora  parer  lecita  circa  il  contingente  che  di 
qua  dall'  Alpi  s'  è  dato  agli  ultimi  studi  di  codesta  specie, 
resta  pur  sempre  che  la  rimunerazione  c'è  ormai  venuta, 
anche  d'oltralpe,  non  già  scarsa  o  stentata,  ma  anzi  gene- 
rosa, quando  si  guardi  al  complesso,  e  a  volte  anche  ec- 
cessiva. 11  pericolo  d'essere  ingiustamente  rimeritati  si  fa 
sempre  minore  in  questo  nostro  mondo  un  po'  troppo  ca- 
lunniato. Allargatasi  via  via  la  palestra  degli  studi ,  sì  che 
ormai  non  ha  quasi  alcun  impedimento  pur  dai  confini  tra 
nazione  e  nazione,  né  alcuna  specie  di  giudici  privilegiati  , 
vi  si  rende,  o  impossibile  o  vana,  ogni  sentenza  angusta  od 
astiosa.  Così  possiamo  sempre  starcene  abbastanza  tran- 
quilli circa  l'apprezzamento  dell'opera  nostra-,  o  possiamo 
almeno  aspettare,  con  animo  rassegnato  ,  che  una  qualche 
occasione  di  nuove  indagini,  intrinsecamente  profittevoli  agli 
studi,  ci  dia  modo  di  parlare  ,  con    giusta    misura  ,  anche 


-  4  - 

intorno  alla  storia  ,  più  o  meno   minuta  ,  della    qualunque 
parte  che  già  abbiamo  nello  stesso  campo  sostenuta  (i). 


(i)  Vi  devo  in  ispecie  pregare  di  non  mandare  alla  stampa,  senza 
aver  fatto  precedere  nuove  e  pacate  diligenze,  il  resto  dell'Appendice 
in  cui  venite  a  parlare  delle  aspirate  e  delle  serie  palatine  ecc.,  alle 
quali  serie  vi  prometto  di  ritornare  nella  prossima  Lettera.  Vi  sa- 
rebbe un  po'  d'ipocrisia,  dalla  mia  parte,  se  assolutamente  io  mi  op- 
ponessi alla  vostra  affermazione  che  da  codeste  indagini  della  scuola 
milanese  ripela  il  suo  principio  una  certa  rinnovazione  degli  studi 
fonistorici  intorno  alla  parola  indo-europea  ;  e  vi  concedo  abbastanza 
facilmente  che  paia  strano  il  veder  mandato  il  mio  nome  insieme 
con  altri,  anziché  solo,  per  alcune  di  codeste  percezioni;  né  vi  con- 
dannerò, di  sicuro,  per  il  modo  con  cui  giudicate  di  certe  opposi- 
zioni, le  quali  mi  vedrete  poi  condannare  anche  più  deliberatamente 
che  non  faceste  voi.  Ma,  pur  concessovi  tutto  questo,  qui  più  che  mai 
vi  debbo  porre  in  guardia  contro  il  vostro  zelo  troppo  ardente.  Voi 
tralasciate  molte  distinzioni  :  e  malgrado  lo  schietto  vostro  amore  per 
la  verità  e  la  giustizia,  venite  a  alcune  sentenze,  più  o  meno  generali, 
che  feriscono  a  torto  e  gli  stranieri  e  i  nostrali.  Se  così  il  Dclbriick 
[Einleitiinf;  in  das  sprachstiidium,  Sg,  i36].  malgrado  alcuni  miei  par- 
ticolari schiarimenti  {Si.  crii.,  II,  25  sgg.),  non  ha  fatto  le  parti  L^iuste 
per  ciò  che  è  delle  serie  palatine  ecc.,  voi  vedrete,  a  suo  luogo, 
quanto  malagevole  gli  potesse  tornare  *il  far  diversamente.  Per  ciò 
che  è  poi  delle  aspirate  greco-italiche,  anche  il  Fick  (-loSS)  si  è  espli- 
citamente riferito  alla  mia  ricostruzione;  e  se  l'indicazione  sua  non 
si  ripete  nell'ultima  ristampa,  ciò  non  deve  punto  attribuirsi  a  un'inten- 
zione men  che  benevola.  Il  Pezzi,  dal  canto  suo,  avea  già  studiato  questa 
teoria  nella  sua  Grammatica  storico-comparativa  della  lingua  latina, 
e  l'aveva  molto  accuratamente  esposta  e  applicata,  contrapponendola 
alle  teorie  del  Corssen  con  un  coraggio  che  a  quei  tempi  non  era 
punto  comune.  Posso  anche  soggiungere  ,  senza  commettere  alcuna 
indiscrezione,  che  a  Napoli,  nella  scuoia  di  Kerbaker  .  quella  teoria 
fu  suffragata,  sin  dalle  prime,  di  un'esposizione  così  limpida,  con- 
vinta e  calorosa  ,  da  mettere  invidia  nel  suo  autore.  —  Se  i  Saggi 
indiani  a  voi  piacciono  tanto  e  forse  troppo  (e  avete,  nel  tanto  e  nel 
troppo,  un  buon  compagno,  il  Picchia),  non  c'è  stato  nessuno,  per 
quanto  io  sappia,  che  ne  contestasse  il  valore.  E  quanto  alle  mie 
esercitazioni  romanologiche,  non  potrete  non  convenire  che  i  Flechia, 
i  Mussafia,  gli  Schuchardt.  i  Foerster,  per  non  dire  che  di  questi  . 
mi  abbiano  addirittura  guastato  con  la  loro  bontà.  Ai  PVancesi  bi- 
sogna tener  conto  delle  loro  peculiari  condizioni.  Essi  devono  pri- 
mamente pensare  al  proprio  loro  pubblico,  ed  è  pressoché  inevitabile 
che  assumano  talvolta  certe  loro  particolari    intonazioni ,  quando  in 


Ancora  permettete,  in  questa  specie  d'  esordio  ,  un'  altra 
osservazione,  d'indole  men  generale,  ma  che  pur  tocca  una 
parte  abbastanza  considerevole  dei  ragionamenti  ai  quali 
m'invitate,  e  anche  si  connette  abbastanza  strettamente  con 
Tammonizione  che  ho  fatto  precedere,  perchè  mi  paia  non 
inopportuno  di  qui  innestarla.  Voi  cioè  ,  da  buon  meridio- 
nale, sillogizzate  con  terribile  abondanza  contro  quella  pre- 
tesa rinnovazione  di  principi  che  sarebbe  «  il  decalogo  dei 
Neo-grammatici  ».  Le  stritolate  queste  povere  Tavole  della 
nuova  fede;  e  fate  di  quei  Leviti  e  dei  Diaconi,  e  pur  di 
qualche  più  o  meno  inconsapevole  Suddiacono  cisalpino  , 
uno  scempio  che  ricorda  i  Vespri.  Ora  io  vi  dirò  molto 
candidamente  ,  che  V  acume  e  la  verità  mi  parvero  bensì 
brillare  in  quasi  tutte  quelle  terribili  pagine;  ma  che  il 
vostro  discorso  pur  mi  riconduceva  di  continuo  alla  sentenza 
del  Manzoni  intorno  agli  effetti  della  Biblioteca  Ambrosiana, 
dei  quali  «  sarebbe  facile  dimostrare  in  due  frasi,  al  modo 
«  che  si  dimostra,  che  furono  miracolosi,  o  che  non  furono 
«  niente  ».  Concedo,  che  agli  allievi  delle  nostre  scuole  di 
linguistica  debba  parer  singolare  ,  e  pressoché  incredibile  , 
che  certi  accorgimenti  o  enunciati  elementari,  familiarissimi 
a  loro  da  così  gran  tempo,  or  si  vogliano  proclamare  come 
cose  nuove,  come  canoni  metodologici  di  cui  nessuno  ,  per 
Taddietro,  vedesse  la  grande  e  sicura  portata.   Ho  stentato 


ispecie  si  tratti  di  misurarsi  con  i  Cisalpini.  Sono,  del  rimanente, 
cose  poco  men  che  impercettibili.  —  Più  ragione  potreste  avere  per 
ciò  che  è  di  alcune  percezioni  morfologiche,  d'ordine  più  o  meno 
generale  ;  e  non  tarderò  a  tenervene  discorso.  Ma  qui  è  anche  da 
considerare  la  troppa  dispersione  delle  mie  note  ;  la  quale  in  parte 
dipende  dalla  scarsità  delle  mie  forze,  in  parte  da  una  dura  necessità 
in  cui  si  sono  generalmente  trovati  i  linguisti  italiani  della  genera- 
zione cui  io  appartengo  ;  dal  bisogno,  cioè,  di  raggiungere  e  accom- 
pagnare e  continuare  gli  stranieri  ,  in  ordine  a  troppe  cose  ad  un 
tempo.  Beata  la  generazione  che  ora  è  libera  di  fare  altrimenti  ! 


-  6- 
anch'io  a  prestar  fede  a'  miei  occhi  quando  ebbi  a  leggere 
che  andava  finahnente  riconosciuto  il  bisogno  d' intendere 
Tevoluzione  de'  suoni  secondo  la  ragione  effettiva  della  loro 
entità  naturale:,  o  riconosciuta  Tutilità  grande  che  dalla  con- 
siderazione delle  fasi  moderne  della  parola  si  può  ritrarre 
anche  per  quant'è  della  dichiarazione  o  ricostruzione  delle 
fasi  antiche:,  o  scoverta  Tefficacia  varia  e  grandissima  delle 
spinte  analogiche  ^  o  scoverto  ancora,  che  di  ogni  eccezione 
od  incertezza,  onde  soffrono  o  paiano  soffrire  le  norme  fo- 
nologiche ,  debba  cercarsi  un  perchè,  il  quale  in  effetto  la 
risolva;  e  altro  che  sia  di  simigliante.  Di  certo  voi  potete 
aggiungere,  con  animo  sicuro,  che,  ben  lungi  dall'essere 
per  noi  una  fase  nuova  di  studi  quella  che  sMnformi  a  co- 
deste massime,  le  nostre  scuole  da  un  pezzo  rappresentano 
una  fase  più  inoltrata;  quella,  cioè,  in  cui  maestri  ed  allievi 
hanno  ormai  utilmente  esercitato  un  lavoro  insistente  di 
critica  sperimentale  intorno  a  ogni  affermazione  di  cotal 
maniera.  Né  punto  mi  sembrano  superflui  ,  anche  per  gli 
iniziati,  quei  saggi,  più  o  meno  popolari,  che  voi  imaginate, 
per  esemplificare  l'ampiezza  grandissima  e  la  solidità  tetra- 
gona di  resultanze  ormai  conseguite,  circa  le  quali  sien  pur 
costretti  a  confessare  questi  banditori  della  buona  novella. 
che  nulla  per  essi  ne  debba  andare  detratto  o  vi  possa  an- 
dare aggiunto.  Sono  anzi  pronto  ad  aiutarvi  in  quest'opera; 


e  sono  il  primo  a  conv 
(in  quanto  è  buona), 
è  staio,  per  vari  mod 


'enire,  che,  se  la  dottrina  non  è  nuova 
linguaggio  di  qualche  '^uo  apostolo 
assai  infelice.  Concedo  ancora,  per 
dir  d'un  ultimo  particolare,  che  gli  esempi  di  pretesa  etero- 
dossia (l'esempio  sia  poi  una  singola  dichiarazione,  o  tutto 
un  libro,  o  luii'un  autore^  intorno  ai  quali  la  nuova  Chiesa 
ha  cimentato  lazione  sua  propria,  dovettero  talvolta  parer 
scelti  proprio  a  rovescio;  e  non  nego  che  qualche  redar- 
guizione,   rapida  e  stringente,  possa  ancora  tornare  oppor- 


—  7  — 

tuna  o  doverosa.  —  Ma,  appunto  perchè  è  vero  tutto  questo, 
è  vero  insieme,  che  nessun  turbamento  ce  ne  dee  venire  in 
ordine  alle  sorti  o  al  progresso  della  nostra  disciplina.  Anzi 
è  tutt'  altro.  Si  tratta,  in  realtà  ,  di  valorosi  compagni  di 
studio ,  che  si  vengono  industriando ,  con  particolare  insi- 
stenza ,  intorno  alF  azione  di  alcuni  principi  ,  la  virtù  dei 
quali,  sempre  ammessa,  ora  diventa,  per  loro  merito,  sempre 
più  largamente  manifesta.  Valgono  essi  e  varranno  a  conti- 
nuare e  a  correggere  Topera  di  coloro  che  li  hanno  imme- 
diatamente preceduti,  così  come  l'opera  di  questi  ha  conti- 
nuato e  corretto  quella  dei  maestri  che  avevano  lavorato 
prima  di  loro.  Se  qualche  trovato  li  inebbria  o  qualche  pre- 
sunzione li  illude,  non  li  persuaderemo  del  loro  torto  col 
trasmodare  a  nostra  volta.  Senza  poi  dire,  che  voi  inasprite 
la  disputa  con  argomentazioni  propriamente  personali,  non 
sempre  giuste  ,  e  quasi  sempre  (scusate)  o  inopportune  o 
superflue  (i). 


(i)  Cosi  mi  duole  grandemente,  che  sia  tra' fogli  stampati  quel 
passo  in  cui  discorrete,  con  tanto  acerbo  rigore,  del  sentimento  che 
nutra  1'  OsthofF  per  le  cose  mie.  Ma  voi  siete  confutato  ,  nel  modo 
più  irrefragabile ,  dal  suo  stesso  articolo  nella  Literatur':jeìtung  [di 
Jena,  art.  476  dell'anno  1878],  che  pur  conoscete  e  allegate!  Io  vi 
concedo  subito,  che  nei  tre  punti,  come  voi  dite,  l'Osthoff  abbia  molto 
torto,  e  non  solo  dinanzi  alla  linguistica  ,  ma  anche  un  po'  dinanzi 
alla  moralità  letteraria.  Senonchè,  appunto  per  questo,  io  non  mi  son 
dato  nessuna  premura  di  mandar  per  le  stampe  una  qualunque  mia 
risposta.  Ed  ecco  ora,  se  mei  permettete,  come  io  sarei,  pressappoco, 
proceduto  nella  esposizione  dei  tre  punti  e  nelle  rispettive  risposte  , 
quando  io  mi  fossi  risoluto  di  favellarne  in  pubblico. 

Primo  punto.  —  Io  sono  accusato,  non  solo  di  consentire, 
nella  pratica,  che  le  norme  fonologiche  patiscano  eccezioni ,  ma  an- 
cora di  sostener  quest'eresia  in  sede  teorica;  e  il  grave  peccato  si 
troverebbe  commesso  a  p.  3g  del  sec.  voi.  degli  Studi  Critici. 

Or  la  verità  è  questa,   lo    non    parlo  mai,  né  scrivendo,  né  inse- 


Insomma  ,  io  non  vi  vorrei  parere  epigrammatico  -,  ma 
devo  pur  confessare,  che  in  luogo  delle  vostre  72  (dico  set- 
tantadue) pagine  di  polemica  generale,  io  altro  in  sostanza 


gnando,  di  eccezioni.  Mostro  e  dimostro  che  di  un  dato  suono,  o  di 
una  data  combinazione  di  suoni,  si  possano  anche  avere  esiti  diversi 
in  una  lingua  medesima  o  in  un  medesimo  dialetto  ,  e  cerco  le  ra- 
gioni delle  diversità.  Spesso  le  trovo;  e  quando  io  non  le  trovi,  con- 
chiudo: non  par  possibile  che  la  data  voce  o  la  data  serie  di  voci 
non  abbia  il  fondamento  etimologico  che  le  assegniamo,  ma  la  ra- 
gione della  special  determinazione  fonetica  non  è  ancora  trovata. 
Così  io  credo  che  facciano  tutti  i  veri  linguisti  da  un  gran  numero 
d'anni.  Tutti  così  diciamo,  per  esempio,  chien  frane,  è  canis,  e 
pain  frane,  è  panis;  la  base  -ani  è  identica  in  entrambi  (la 
differenza  di  quantità,  che  è  tra  canis  e  panis,  non  vale,  come  ognun 
sa,  in  ordine  a'  riflessi  neo-latini),  ma  la  resultanza  è  diversa  dall'uno 
all'altro;  e  la  ragione  della  diversità  è  trovata;  vedi,  per  es.,  Arch. 
glott.,  Ili,  71-2.  Oppure  diciamo:  avviene  in  uno  stesso  dialetto,  che 
GL  ecc.  di  fase  anteriore,  o  si  mantenga,  o  si  riduca  a  /  ;  ma  il  primo 
caso  si  verifica  a  formola  protonica,  il  secondo  a  formola  postonica  ; 
vedi,  per  esempio,  Arch.  glott.,  I,  lii.  O  ancora  ci  chiediamo,  perchè 
podio  dia  Fit.  poggio,  e  medio  dia  all'incontro  l'it.  me^:[0,  o 
radio  dia  insieme  raggio  e  ra^:^o;  e  le  distinzioni  cronologiche, 
le  quali  ci  valgono,  per  consimili  differenze,  in  altre  parti  delle  serie 
neo-latine  risalenti  a  dj  (v.,  per  es.,  Arch.  glott.,  l,  5 11),  qui  ancora 
non  si  possono  sicuramente  accampare  ;  come  non  si  possono  ancora 
accampar  sicuramente  di  cotali  distinzioni  in  un  caso  com'è  quello 
di  gabbia  it.  =  cavea  allato  a  pioggia  it.  =  p  1  o  v  i  a  ,  o  in  un 
caso  com't:  quello  di  macchia  e  maglia,  le  due  forme  per  le  quali  si 
continua  nell'italiano,  cioè  nel  dialetto  fiorentino,  il  lat.  macula, 
secondo  le  due  diverse  significazioni  sue  (trattasi  veramente ,  come 
oggi  ognuno  conosce,  di  un  klj  di  fase  anteriore,  che  si  semplifica 
in  kkj  o  in  llj ,  secondo  che  ceda  la  seconda  o  la  prima  delle  tre 
consonanti  aggruppate);  v.,  per  es.,  Arch.  glott.,  Ili,  288.  Si  potrebbe, 
ogni  esperto  lo  sa,  continuare  indefinitamente  con  ricordi  di  siffatta 
specie.  E  c'è  poi  bisogno  d'avvertire,  che  le  ragioni,  non  ancora  tro- 
vate, si  cercan  di  continuo?  E  che  altro  fo  io,  poiché  si  discorre  del 


—  9  — 
non  direi  se  non  ciò  che  si  contiene  nelle  tre  o  quattro  pa- 
ginette  che  ho  qui  fatto  precedere  ,  solo  aggiungendo  ,  per 
quella  che  voi  argutamente   chiamate   la  ga^^^arra  psicolo- 


mio  modesto  esempio,  da  ben  più  di  vent'anni?  Se,  dunque,  le  pa- 
role che  si  trovano  a  p.  39  del  secondo  volume  degli  Studi  Critici 
pur  si  prestassero  a  quell'equivoco  da  cui  par  dipendere  l'imputazione 
deU'OsthofF,  l'equivoco  dovrebbe  senz'altro  andar  respinto,  come  una 
imaginazione  affatto  assurda.  Ma  si  aggiunge,  che  quelle  parole  af- 
fatto non  si  prestano  ad  alcun  equivoco.  Io  cioè  m'opponeva  (nel 
1867)  a  certe  solenni  affermazioni,  dalle  quali  si  sarebbe  dovuto  in- 
ferire che  la  fonologia  comparata  fosse  cosa  estremam.ente  facile  e 
semplice ,  quasi  non  si  trattasse  se  non  «  dell'  unica  e  esclusiva  for- 
mola  A  =  B  »,  e  tutta  la  disciplina  si  potesse  <  tradurre  in  una  specie 
di  tavola  pitagorica  o  di  bussola  delle  lingue.  »  Affermavo  dal  canto 
mio,  come  tutti  dovevano  e  debbono  affermare,  trattarsi  veramente 
di  ben  altro;  poiché,  a  cagion  d'esempio,  il  lat.  uber  non  risponde 
meno  sicuramente  all'indiano  udhar ,  di  quello  che  il  lat.  medio  al- 
l'indiano rnadhja,  comunque  nel  primo  caso  s'abbia  b=dh,  e  nel  se- 
condo: drz^dìi.  E  soggiungevo:  «  Di  certo,  la  saldezza  della  nostra 
«  dottrina  fonologica  proviene  per  molta  parte  dalla  grande  costanza 
«  di  molte  equazioni  della  semplice  formola  A^B;  ma  più  precisa- 
«  mente  sta  in  ciò:  che  per  un  sistema  d'analogie,  geometricamente 
«  perfette,  nel  quale  ciascun  idioma  ha  le  sue  particolari  ragioni  e 
«  ciascun  suono  è  partitamente  considerato  in  ogni  sua  diversa  con- 
«  giuntura,  risaliamo,  dall'un  canto,  alle  condizioni  originali  de'  sin- 
«  goli  elementi,  e,  dall'altro,  ne  seguiamo,  per  infiniti  meandri,  le 
«  infinite  e  spesso  ben  recondite  peripezie.  »  Ora  l' OslhofF  vorrebbe, 
fermandosi  a  cotesto  mio  esempio,  che  l' interdentale  protoitalica 
(una  specie  di  th  inglese  di  pronuncia  sorda)  diventasse  b  in  «Serper 
effetto  del  r;  e  all'incontro  si  determinasse  in  i  nell'altra  voce  (medioj, 
perchè  non  le  era  attiguo  un  r.  Io  qui  non  discuterò  cotesta  spiega- 
zione, e  l'ammetto  senz'altro  per  giusta.  Ma,  imprima,  si  toglie  mai  per 
essa  che  lo  dh  originario  o  sanscrito  abbia  nel  latino  due  diversi  con- 
tinuatori e  entrambi  legittimi,  e  quindi  non  si  regga  il  principio  del- 
l'esclusiva formola  A  =  B  ?  In  secondo  luogo,  una  tal  dimostrazione 
sarà  mai  cosa  che  contraddica  comunque  a  chi  ponea,  nella  sua  de- 


-  10  - 
gica,  una  specie  d' interpellanza,  formulata  pressappoco  in 
questi  termini  :  «  A  voialtri  è  piaciuto  e  piace  continuamente 
((  parlare  di  momenti  psichici^  di  azione  psichica^  di  un'arte 


finizione,  il  sistema  '  geometricamente  perfetto  ,  nel  quale  ciascun 
'suono  è  partitamente  considerato  in  ogni  sua  diversa  congiuntura'? 
E  finalmente,  chi  ha  preparato  all'Osthofif  l'interdentale  paleoitalica, 
dalla  quale  e^li  ripeterebbe  tutto  quanto  il  suo  lavoro?  Gliel'ha  pre- 
parata un  mio  antico  studio,  che  si  riproduceva  in  quello  stesso  mio 
libro! 

Secondo  punto,  quello  che  voi  chiamate  //  ritornello  ar- 
meno. —  Io  ho  espresso  l'opinione  {St.  crit.,  II.  22P),  nella  quale  ri- 
mango sempre  fermo,  che  il  -n  dell'armeno  a-mi-n,  nome,  e  d'altret- 
tali, sia  un'  affissione  seriore,  da  conguagliarsi  con  quella  che  è  nel- 
l'arm.  tii-n,  casa,  e  altrettali.  L'Osthoft' m' oppone,  che  se  io  credo 
perduto  1'  -an  originario  pure  in  esempi  così  antichi  quali  sarebbero 
le  voci  per  '  cane'  e  '  nome  '  (temi  sscr.  cvaii,  miman),  non  si  sa  poi 
vedere  donde  io  voglia  prendere  1'  -an  ascitizio  che  io  presumo  aderir 
più  tardi  a  codeste  serie  di  temi  armeni.  In  quest'occasione,  ripro- 
duce rOsthoft"  una  sua  noterella  [Morpli.  unters.,  1,  iiS^  =Jen.  Li- 
teratur^eit.,  1.  e],  con  la  quale  mi  rimette  bruscamente  a  un  luogo 
in  cui  l'Hubschmann  avrebbe  dimostrato  che  all'armeno  sia  estranea 
la  riduzione   iranica  di  p'  in  sp. 

Ora  ecco  la  troppo  facile  ma  tranquilla  risposta.  —  L' Osthofì'  ha 
manifestamente  creduto  che  V  -an  ascitizio,  del  quale  io  parlava,  così 
per  anitii  ecc.,  come  per  tiin  ecc.,  fosse  1'  -an  originario  del  tipo  na- 
man  o  del  ùpocvanl  Ma  come  poteva  io  fare  un'ipotesi,  che  avrebbe 
appunto  negalo  quel  ch'io  voleva  dimostrare?  Io  parlava  di  un  -an 
ascitizio,  equivalente  a  un  primitivo  -ana  ;  come  appunto  poneva  Fe- 
derigo MlìUer,  che  giustamente  ho  citato  (p.  224)  1  Quindi  io  postu- 
lava uno  c[y'-ana^  come  si  postula  uno  dvar-ana  ecc.,  o  come  si  po- 
stula, con  una  diversa  aggiunzione,  lo  cvaka  che  diede  anoKa,  cane, 
ai  Medi.  Diceva  poi,  tra  parentesi,  che,  per  più  d'una  ra- 
gione, stavo  dubbio  circa  l'attenenza  tra  l'arm.  san,  gen.  ian.  e  il 
sscr.  cvan  cun.  In  cfletto  ,  e'  è.  da  un  lato  ,  che  di  contro  al  med. 
anuKOi  s'abbia  il  p.Ts.  saf[  e  altri  riflessi  iranici  in  cui  non  si  vede 
traccia  del  r  fondamentale,  che  qui   dovrebbe  'anzi    essere  p.   E  c'è. 


—  11  - 

«  psicologica  per  la  quale  s'  innovi  la  nostra  disciplina-,  e 
«  potete  vedere  come  alcuni  adepti,  più  o  meno  digiuni  di 
K  scienza  vera  ,  vadano    facendo  la  voce  grossa    intorno  al 


dall'altro,  l'arm.  skund,  allato  al  pure  arm.  sun  ecc.  Intorno  a  tutto 
ciò,  io  non  ho  affatto  nulla  da  mutare;  e  allego  altrove,  e  commento 
a  tale  proposito,  il  rapporto  che  è  tra  lo  zendo  vicpa,  l'antico  pers. 
vica  e  il  curdo  gisk.  Ma  in  tutto  codesto  non  e' entra  poi,  in 
effetto,  né  punto  né  poco,  l'idea  che  io  mi  fa- 
cessi o  mi  faccia  dell'attinenza  tra  l'armeno  e 
gl'idiomi  persiani  ecc.  Quest'idea,  se  l'Osthotf  o  altri  hanno 
curiosità  di  saperne  qualcosa  di  più,  non  implica  punto  che  io  mandi 
l'armeno,  senz' alcuna  distinzione,  col  gruppo  iranico.  L'opportuna 
distinzione  io  la  ripeto  ogni  anno  a'  miei  allievi  I  Ma  giova  poi  sog- 
giungere, che,  circa  cv  in  sp ,  non  e'  è,  nel  passo  dell'  Hubschmann  , 
quello  che  l'OsthofF  ha  reiteratamente  asseverato  che  ci  sia.  Ivi  non 
si  dice  che  l'arm.  spitak,  bianco,  sia  voce  forastiera.  Di  afva  sscr. 
[acpa  zendo)  ivi  si  avverte  che  ne  manchi  il  continuatore  armeno  , 
l'armeno  adoperando,  pel  nome  del  '  cavallo  ',  voci  d'altre  basi.  L'e- 
sempio dunque  è  semplicemente  sottratto  alla  prova,  ma 
non  fa  prova  contro  cv  in  sp.  Resta  il  controverso  skund,  il  quale 
ha  anche  poi  accanto  a  sé  i  greci  aKÙXAot;  e  okùiuvoc;.  —  Ecco,  dunque, 
come  codeste  escandescenze  iranologiche  portano  in  sé  medesime  il 
giusto  castigo  per  chi  vi  si  è  malamente  abbandonato. 

Rimarrebbe  il  terzo  punto:  l'accusa,  cioè,  che  io  non  abbia 
ben  trattato  1'  Hubschmann.  Quest'accusa  ha,  è  vero,  come  voi  dite, 
l'apparenza  di  un  brutto  scherzo.  Ma  io  non  mi  ci  so  fermare.  Me 
ne  rimetto  alla  coscienza  dell'  Hubschmann  stesso  ,  pel  quale  io  non 
ho,  né  ebbi  mai,  se  non  un  sentimento  di  molta  gratitudine  e  di 
molta  stima.  —  Voi,  intanto,  vogliate  troncare,  o  correggere  almeno, 
vi  prego,  tutto  quanto  a  questo  proposito  vi  viene  da  dire  dei  Te- 
deschi.  Come  mai  ci  può  qui  entrare  questo  strano  modo  di  esagerar 
nella  difesa,  massime  oltrepassandosi,  come  voi  fate,  la  ragione  degli 
studi,  per  entrare  in  considerazioni  d'ordine  prettamente  morale  ?  O 
non  sono  forse  tedeschi  il  Curtius  e  .lohannes  Schmidt  e  lo  Spiegai, 
e  gli  altri  che  voi  stesso  citate  per  lo  schietto  amore  col  quale  è  lor 
piaciuto  di  considerar  le  cose  mie?  Non  è  egli  un  buon  tedesco,    in 


-  12- 
«  capitolo  della  psicologia,  che  dai  vecchi  sarebbe  slato  ne- 
«  gletto!  Ora,  diteci  in  coscienza:  tutta  codesta  psicologia 
«  consiste  essa  in  altro  che  nella  considerazione  di  due  serie 
«  di  agguagliamenti  \  una  delle  quali  si  può  ben  rappresen- 
«  tare  per  l'esempio  delPit.  mietiamo,  con  T  à' che  storica- 
«  mente  non  gli  spetterebbe  e  proviene,  per  livellazione  di 
'■■  forme,  dalle  voci  con  la  prima  accentata  [mièto  ^cc),  a 
<<  cui  storicamente  egli  spetta;  e  l'altra  si  può  rappresentare 
«  per  l'esempio  dell' it.  mossi,  che  assume,  per  un'altra 
«  specie  di  livellazione  di  forme,  il  si  di  scrissi  (scripsi)  ecc., 
«  estraneo  a  lui  nell'ordine  storico  o  latino  ?  —  Dovete  si- 
«  curamente  riconoscere,  che,  in  tutta  la  vostra  psicologia, 
«non  c'è  altro,  non  c'è  assolutamente  altro-, 
<(  e  se  volete  poi  continuare  coi  paroloni  psicologici  e  vi 
«  ostinate  a  non  concedere  che  non  è  punto  nuovo,  ned  è 
«  comunque  in  sé  rinnovato ,  il  principio  di  esercitazioni 
<(  cosiffatte,  noi  non  vi  potremo  più  altro  dire,  se  non  che 
«  tutti  i  gusti  sono  gusti.  »  —  Ma  l'effetto  pratico  rimarrà 
a  ogni  modo,  per  buona  fortuna,  lo  stesso  :  che  cioè  i  gio- 
vani continueranno  a  imparare  dai  vecchi,  e  viceversa  (i). 


ispecie,  il  venerando  Schweizer-Sidler,  che  ha  sempre  messo,  e  mette 
sempre,  un  amore  così  grande  nel  far  valere  l'opera  modesta  di  questo 
Cisalpino  che  gli  deve  tanto  e  non  ha  mai  avuto  la  consolazione  di 
parlargli  ? 

(i)  Se  la  polemica  generale  mi  sembra  soverchia,  credo  all'incontro 
che  gioverebbe  insistere  di  più  ne'  particolari.  Così,  per  esempio,  io 
trovo  assai  curioso  il  saggio  della  '  nuova  dottrina  '  che  qui  ora  v'ad- 
duco : 

«  La  lingua  italiana  riconosce  la  legge  fonetica,  che  il  lat.  qii,  in- 
«  terno  innanzi  a  <?  ed  i  ,  si  palatinizzi  :  cuocere  coquere  ,  laccio  la- 
«  queus,  torcere  lorquere  ,  cucina  coquina;  diversamente  no:  acqua 
<-  aqua,  cuoco  coquo.  Ma  il  numerale  cinque  non  s'adatta  a  questa 
«  regola  ;  laddove  il  rumeno,  all'incontro,  che  segue  la  stessa    norma 


—  13  — 
II.  —  Ma  io  ho  ormai  abusato,  con  queste  prediche,  della 
mia  qualità  di  vostro  antico  maestro,  e  vengo  senz'altro  al- 
l'argomento che  oggi  più  vi  preme,  cioè  ai  motivi   etno- 
logici   nelle    trasformazioni    del    linguaggio. 


«  circa  la  riduzione  palatina  del  qii,  ha  ciuci,  cinque,  in  corrispon- 
«  danza  affatto  normale  con  gli  altri  casi  di  qu  interno  mutato  in  e'  : 
«  nici  ncque,  coace  coquere  ,  stoarce  cxtorquere.  Cfr.  Diez,  gr.,  I* 
«  (13),  264,  265,  481-2.  Il  motivo,  per  cui  1' it.  cinque  devia,  mal  si 
«  potrà,  io  credo,  vedere  in  altro  se  non  in  ciò,  che  qui  intervenisse 
«  un  agguagliamento  col  numerale  per  le  cinque  decine  {cinquanta)  , 
«  nel  quale  il  qu  ^  secondo  norma  fonetica,  resiste  ».  Osthoff  ,  in 
Morphol.  untersuch.  von  Osth.  u.  Brugmann,  I,   129. 

Dunque,  siamo  intesi:  dato  un  lat.  -qiie-  -qui-.,  l'italiano  deve 
avere  -ce-  -ci-;  e  dato  un  lat.  -qua-  o  -quo-,  l'italiano  deve  man- 
tenere incolume  l'antica  formola,  0  almeno  la  gutturale  antica;  quando 
non  intervenga  una  qualche  perturbazione  d'ordine  analogico.  —  Ma, 
se  è  così  ,  perchè  dunque  diciamo  segui  sequeris ,  segue  sequitur  ,  e 
non  seci  seceì  Si  farà  qui  agire  1'  '  attrazione  '  della  gutturale  che  è 
di  ragione  istorica  in  seguo  segua  seguono}  Ma  l'analogia  italiana 
vorrebbe  tutt'altro  (cfr.  torco  torca  ,  allato  a  torce  torci;  oppure  io 
cuoco  e  io  cuoca  o  cuocia,  allato  a  cuoci  cuoce)  !  Oppure  oseremo  in- 
vocar r  aiuto  taumaturgico  del  tipo  distinguo  distingui,  che  insieme 
scusi,  cioè  dia  una  ragione  di  '  adattamento  ',  anche  per  la  trasfor- 
mazione '  irregolare  '  del  quo  di  sequor  in  gito  (cfr.  luogo,  allato  a 
fuoco  e  giuoco)  ?  E  aquila,  non  nc'ila,  come  si  spiega?  Sarà  voce  non 
popolare  ?  O  come  si  spiega  Vdvolo  =  a  q  u  i  1  o  ,  che  è  in  vent-(''Volo, 
l'aquilone  (cfr.,  per  1'  -0-  :  debile  debole,  fievole  ecc.  ecc.)? 

Si  potrebbe  continuare  molto  lungamente  con  questa  serie  di  do- 
mande; e  i  romanisti  si  rallegrerebbero  tutti,  senz'alcun  dubbio,  delle 
risposte  che  un  così  acuto  indagatore,  com'è  l'Osthoff,  si  compiacesse 
di  far  loro  sentire,  a  illustrazione  de'  suoi  apoftegmi.  Ma  a  noi,  semi- 
romanisti più  o  meno  vecchi  e  di  stampo  più  o  meno  antico,  sia  in- 
tanto lecito  dichiarare,  che  il  sentirci  discorrere,  per  torcere  ecc., 
di  'legge  italiana  '  del  que  qui  in  c'è  c'i ,  o  il  sentir  circoscritto  il 
fenomeno  a  que  qui  interni,  o  il  citarsi  il  rumeno  c'inc'i  come  prova 
del  rigore  della  '  legge  rumena  '  di  que  qui  in  c'è  c'i ,  son  tutte  cose 


-   14  — 

Superfluo  che  io  v'assicuri,  non  esser  minore  la  mia  ma- 
raviglia di  quel  che  sia  la  vostra,  nel  veder  così  strana- 
mente trascurati  codesti  motivi  e  tanto  mal  misurata  e  male 


che  ci  fanno  strabiliare.  Ci  sia  perciò  lecito  di  mostrare  insieme,  con 
molta  brevità,  quel  che  noi  poveri  vecchi  modestamente  insegniamo, 
da  una  bella  serie  d'anni,    intorno  a  questa  materia. 

Le  formoie  qve  qvi  perdettero  in  alcune  voci,  sin  da  un  molto  an- 
tico periodo  del  volgare  romano  ,  il  loro  v  ;  e  la  esplosiva  i.;uttu- 
rale,  riuscita  attigua  per  tal  modo  alla  vocale  palatina  ,  venne,  coi 
tempo ,  a  ridursi  a  esplosiva  palatina  ,  cosi  com'era  avvenuto  per 
le  antiche  formoie  kk  ki  [cerno  ecc.).  Una  così  antica  riduzione 
è  avvenuta  pei  seguenti  quattro  esemplari:  quinque  (prima  sillaba), 
laqiicus  ,  torqiicre  ,  coqucre  ;  i  (juali,  passando  per  la  fase  di  kinque  , 
lakeo  [lakjo] ,  torkére  [tórkere]  ,  cokere  ,  si  fecero  c'inqiie ,  lac'c'o  , 
tórc'ere ,  cóc'ere.  Tutte  le  favelle  neolatine  ripercuotono  concor- 
demente cotesta  riduzione  dei  quattro  esempi  ,  cioè  danno  nei  loro 
riflessi  quel  che  darebbero  per  ce  ci  cj  di  fondamento  latino  (v.  Arch. 
glott.,  pass.).  È  solo  un'apparente  eccezione  quella  delle  forme  sarde 
chimbe  tórchere  cògliere,  che  gl'inesperti  potrebbero  voler  condurre 
a  quinque  ecc.  piuttosto  che  a  c'inque  ecc.  11  vero  è  che  quinque,  a 
cagion  d'esempio,  avrebbe  dato  bimbe  al  sardo  (cfr.  bindighi  =quin- 
dici),  e  che  un  e'  di  fase  anteriore  si  continua  normalmente  nel  sardo 
(logudorese)  per  k  [g]  ;  v.  Ardi,  glott.,  11,  143-144,  e  cfr.  Le:;,  di 
fon.  comp.,  §  18,  2.  Il  sardo  chimbe.  tradotto  in  figura  toscana,  so- 
nerebbe c'ingue. 

Il  perchè  di  questa  riduzione  cosi  antica,  la  quale  intaccava  torquet. 
a  cagion  d'esempio,  e  non  intaccava  sequi,  non  è  ben  chiaro,  perora, 
ma  poco  ci  manca.  In  quinque  può  avere  agito  la  tendenza  a  dissi- 
milare, che  in  quindecim  non  aveva  motivo  d'azione.  Per  laqueus  c'è 
da  avvertire,  che  la  vocale  palatina  era  nell'iato,  e  quindi  trattavasi, 
nel  volgare,  di  j  [laqvjo],  cioè  del  più  efficace  tra  gli  elementi  pala- 
tini. I.,a  combinazione  medesima  si  riproduceva,  in  alcune  forme  ca- 
ratteristiche, anche  per  torquere  (torqueo  torqueas,  cioè  torqvjo  ecc.). 
Chi  osi  ancora  ricondurre  secius  a  sequius  (io  ora  non  intendo  pro- 
nunciarmi), qui  pure  avrebbe  il  qvi  nell'  iato;  e  più  in  hi  noi  sa- 
remo nuovamente  condotti  a  questa  medesima  osservazione. 

Anche  per  qualche  altro  esemplare  la  riduzione  resulta  antica  edif- 


—  15  - 
descritta    la    forza    o    razione  d'altre  cause  alterative.  Voi 
avete  ,  con  molta   abilità  e  dottrina  ,  riassunti  e  fecondati  , 
per  alcune  parti,  gl'insegnamenti  della  scuola;  e  così  io  non 


fusa,  ma  la  figura  incolume  dovea  reggersi  nel  volgare  accanto  alla 
ridotta.  Penso  specialmente  a  quercits,  il  quale  ha  pur  potuto  risen- 
tirsi della  tendenza  a  dissimilare  (cfr.  querquetum  e  quercetiim).  Così 
il  sardo  chercu,  quercia,  ritradotto  in  figura  toscana,  giusta  la  norma 
che  sé  testé  ricordata,  ci  dà  veramente  c'ercii,  e  ci  conduce  perciò  al 
napol.  c'iércole,  grosso  ramo  di  quercia,  o  a  c'ersa  del  siciliano  ecc., 
di  contro  al  tose,  quercia.  La  tendenza  a  dissimilare  aveva  incentivo 
non  minore  in  querquediila.  Ma  il  farciglione  del  dizionario  italiano, 
allato  a  farchetola  o  farqiietola  del  dizionario  stesso  cfr.  Flechia  , 
Arch.  gì.,  IV,  385)  ,  dice  poco.  E  il  frane,  cercelle  e  altri  termini 
che  gli  consuonano,  con  entrambi  i  qve  ridotti,  fors'entrano  piuttosto 
in  un'altra  categoria  d'esempi,  delia  quale  or  passo  a  toccare. 

Il  numero  degli  esempi  ridotti  venne  cioè  a  estendersi,  in  varia 
misura,  ma  ancora  assai  anticamente,  nel  volgare  di  qualche  regione 
romana.  Dei  criteri  che  possano  aversi  per  l'antichità  di  codeste  ri- 
duzioni regionali,  s'è  incominciato  a  toccare  neir^rc/2.  gì.,!,  90  n 
(cfr.  522-23  n  ,  524).  Citavo  or'ora  il  frane,  cercelle  ,  che  trova  ac- 
canto a  sé,  oltre  lo  spagn.  cerceta,  la  riduzione  cisalpina  che  si  rap- 
presenterebbe pel  diminutivo  piemont.  cerclót  o  pel  friul.  cercéne 
(anche  vedo  in  qualche  scrittura  di  dotti  italiani  :  cercedola  cerce- 
vola,  che  non  so  bene  da  qual  regione  vadan  ripetuti).  Ma,  nel  Friuli, 
anche  ceri  quaerere,  e  cèd  quiete.  Circa  i  quali  due  esempi,  si  potrebbe 
rinnovare  l'osservazione,  che  già  di  sopra  si  fece  per  la  molto  antica 
riduzione  di  laqueus  ecc.  Qui  ritorniamo,  vale  a  dire,  a  que  qui  nel- 
l'iato :  quiète:  e  quiére  ecc.  delle  voci  caratteristiche  di  quaerere  con 
l'antico  dittongo  volgare  (friul.  cir  =:  ciér  =  quaerìt  ;  cfr.  l'it.  chie- 
dere). S'aggiunge  però  anche  il  friul.  ce  nel  significato  di  '  quid  '. 

Le  formole  qve  qvi,  in  quanto  ancora  incolumi  nel  latino  volgare, 
avrebbero  dovuto  dare,  nel  rumeno,  pe  pi,  come  qva  vi  diede  pa  -pe 
[patru  quattuor ,  ape  aqua).  Ma  l'elemento  labiale  di  qve  qvi  deve  in 
questa  regione  esser  sem.pre  taciuto,  sin  dalle  prime  età  dell'  immis- 
sione latina  (come  vi  tacque  lo  stesso  elemento  pur  nel  qva  di  qualis, 
onde    il    rum.  care    e    non  pare;  cfr.  l'it.  chi  quis  ,  o  il  friul.    aghe 


—  16  — 
avrei  pressoché  nulla  da  aggiungere,  e  non  ho  affatto  nulla 
a  ridire  ,  intorno  alle  dimostrazioni    che  si  riferiscono  alla 
riazione  che  gli  idiomi  aborigeni  dell'India  hanno  esercitato 


aqua,  ecc.)  ;  sempre  cioè  qui  si  parie  da  ke  ki  per  qve  qvi  del  vol- 
gare latino;  e  ke  ki  sempre  poi  qui  danno,  per  norma  specifica  e 
costante:  c'è  c'i  (cfr.  lo  slavo).  Abbiamo  perciò  in  Rumenia  :  c'è  c'i-ne 
di  contro  agli  it.  che  chi,  per  la  stessa  Taglione  che  vi  abbiamo  calc'i 
(it.  calchi]  calce ,  calcas  calcat.  Così  c'inc't  vi  riviene  a  c'inche 
(c'inke)  =  cinque  \  e  il  secondo  e  vi  è  d'un' età  affatto  diversa  dal 
primo;  com'è  di  età  affatto  diversa  dalla  palatina  iniziale  (e  di  mo- 
tivo affatto  diverso),  la  diversa  palatina  finale  del  c'inc"  di  parecchi 
dialetti  ladini  ;  cfr.  Arch.,  I,   206  ecc. 

Già  COSI  riuscimmo  a  negare,  per  via  indiretta,  che  l' it.  cinque  si 
debba  a  un  particolare  '  adattamento  ;  stia  ,  cioè  ,  per  c'inc'e  ,  in 
grazia  di  cinquanta.  Ora  convien  che  segua  e  si  legittimi  la  diretta 
affermazione,  che  l' it.  cinque  è  tal  quale  la  schietta  e  storica  forma 
del  latino  volgare.  A  questa  rivengono  ,  affatto  normalmente  ,  anche 
il  c'unc  del  ladino  di  Sopraselva,  cioè  c'i-u-nk,  con  l'attrazione  del- 
l' u  che  precedeva  a  altra  vocale  (ciunc  :  cinque  ::  liunga  :  lingua  ;  cfr. 
Arch.  gì.,  I,  92,  112  ecc.);  e  il  sardo  chimbe  ^=  c'ingue  ;  e  il  frane. 
cinq  ;  ecc. 

11  latino  volgare  non  aveva  ridotto  a  ke  c'è  la  seconda  sillaba  di 
quinque,  come  non  ebbe  mai  ridotto  a  ki  c'i  il  qui  del  verbo  sequi  o 
di  aquila  ecc.  In  tutti  gli  esempi,  le  cui  antiche  basi  volgari  manten- 
nero incolume  il  qv  di  qve  qvi  ,  se  ne  ebbero  poi,  molto  natural- 
mente, nell'italiano  e  altrove,  esiti  o  continuatori  non  diversi  da 
quelli  che  vi  si  ebbero  per  il  qv  della  base  qva.  Perciò,  nell'italiano: 
cinque,  aquila,  seguire,  'óvilo  (vent-avolo,  aquilone),  così  come  :  ov- 
-unque  ecc.  (-unquam),  acqua,  eguale  e  arale  (entrambi  da  acquale). 
Medesimamente  nel  fondamento  ladino  e  nel  fondamento  francese  : 
seuvere  sequi,  come  auva  aqua  (cfr.  Arch.  gì. ^  I,  211)  ecc.  O  mede- 
simamente nel  sardo:  abile  abilastru  (aquila  aquilotto;  si  parte  da 
agvila  ;  e  la  fase  avila  ritorna  ne'  ladini  'htlja  ecc.,  Arch.  gì..  \,  210), 
come  abba  aqua  (agva)  ;  ecc. 

Il  parallelo  di  media  (lat.  ove  ecc.]  non  può  non  riuscire 
scarso,  poiché  il  latino  non  tollera  le  rispettive  formole  se  non  interne 


-  17  — 

sulla  parola  ariana  a  cui  essi  vennero  soccombendo.  Ma 
credo  che  gioverebbe  una  maggiore  e  migliore  insistenza  in 
ciò  che  risguarda  le  ragioni  etniche  delle  alterazioni  che  pa- 


e  precedute  che  sieno  da  «  or;  vedi  Le^.  difonol.,  §  26.  Pei  riflessi 
volgari  e  neolatini,  ci  riduciamo  veramente  alle  sole  basi  ngua  ngiio 
ngue  ngui.  Pure,  la  congruenza  tra  la  serie  di  media  e  quella  di  tenue, 
resulta  assai  bella  e  piena.  Poniamo  primo  l'esempio  ninguit  [ningit], 
la  cui  forma  incolume,  l'unica  probabilmente  che  in  effetto  risonasse, 
è  attestata,  ben  meglio  che  per  virtù  di  codici,  dall'abruzzese  nengue. 
Né  le  contrasta  il  rum.  niiige,  che  risalirà  a  ninghe,  per  glie  in  gè, 
secondo  la  norma  generale  ricordata  di  sopra  per  le  basi  di  tenue  ; 
onde  pur  sunge  sangue,  e  altri  consimili  riflessi  rumeni,  si  ricondu- 
cono, il  più  probabilmente  ,  a  *sanghe  ecc.  di  fase  immediatamente 
anteriore  ;  cfr.  rogi  rogas,  ecc.  Poi  sia  ricordato  unguere  ungere  , 
dove  la  forma  ridotta  resta  l'unica  nel  verbo  neolatino,  l'altra  conti- 
nuandosi a  mala  pena  nel  nome  unguento.  Circa  extingiiere,  che  è 
estingere  nella  base  ladina,  provenzale  e  francese,  non  vorrei  senten- 
ziare se  l'oscillazione  risalga  a  Roma  antica  (cfr.  Ardi,  gì.,  l,  92-3  n). 
Ma  certo  è  che  il  numero  degli  esemplari  ridotti  si  estende  in  quelle 
stesse  regioni  nelle  quali  vedevamo  che  s' estendesse  per  le  basi  di 
tenue.  Perciò  l'intero  gv  si  continua  negl' ital.  sangue,  inguine  in- 
guinaglia  ,  anguilla  (cfr.  lingua)  ,  o  nei  sardi  sambene  imbena  am- 
bidda  (cfr.  limba);  ma  all'incontro  ho  mostrato  che  inge  stia  a  fon- 
damento del  termine  ladino  e  francese  per  1'  '  inguine  '  [Arch.  gì., 
ib.);  e  un  sange  per  sangue  dee  stare  in  fondo  al  frane,  saigner 
(=sainjare ,  cfr.  l'it.  dissanguare).  Così  a  sange  riviene  il  friul. 
satipt  cornus  sanguinea;  e  a  pinge  angilla  i  frinì. pen^  pingue,  ansile 
anguilla. 

Questa  è  dunque ,  per  ora  ,  la  resultanza  dell'  indagine  veramente 
scientifica,  la  resultanza,  cioè,  per  la  quale  davvero  si  affina  e  si  ac- 
cresce il  sapere,  e  della  quale  si  può  dire,  rimanendo  all'  antica  de- 
terminazione ,  che  sia  'geometricamente  istorica  \  L'opera  si  potrà 
anche  perfezionare,  senz'  alcun  dubbio  ;  ma  avverrà  questo  per  virtù 
di  affermazioni  temerarie,  o  non  piuttosto  per  virtù  d'una  riguardosa 
continuazione  del  lavoro  già  assodato,  riguardosa  e  modesta  tanto  più, 
quanto  più  sarà  viva,  larga  e  profonda  ? 

'^Riviy.la  di  filologia  ecc.     X  - 


—  18  — 
lisce  la  parola  romana.  Alludo  specialmente  a  quelle  tra- 
sformazioni del  latino  che  vadan  ripetute  dalla  riazione  della 
favella  celtica  sulla  romana;  e  vorrei  provarmi  a  darvi 
qualche  saggiuolo  dei  modi  di  esposizione  che  a  me  par- 
rebbero, nel  caso  vostro,  i  meglio  adatti.  Veramente,  non 
sentirete  cose  che  la  Scuola  già  non  v'abbia  dato  per  guisa 
più  o  meno  continua;  ma  forse  vi  accorgerete  \iemeglio, 
che,  sopra  questo  campo,  la  dimostrazione  riesce  e  più  age- 
vole e  più  efficace.  A  ogni  modo,  io  sbozzo,  molto  rapida- 
mente, un  tipo  qualunque,  e  voi  farete  di  più  e  di  meglio. 
Premetto,  sulle  generali,  che  per  quanto  s^  attiene  alle 
mutazioni  direttamente  promosse  dalle  predisposizioni  orali 
degl'indigeni,  noi  abbiamo,  per  ora,  tre  modi  d'induzione 
o  di  riprova.  Un  modo  è  questo:  l'alterazione  della  parola 
latina  si  avverte  entro  quel  territorio  che  la  storia  insegna 
o  consente  che  andasse  contrastato  tra  Romani  e  Celti  o 
più  propriamente  tra  Romani  e  Galli,  e  non  si  avverte,  al- 
l'incontro, al  di  là  di  quei  termini  ;  perciò  s'inferisce,  senza 
altro  ,  dall'  effetto  alla  causa  ,  se  pur  non  ci  sia  ancora 
dato  conseguire  alcuna  particolar  riprova  dell'azione  che  si 
imputa,  nei  caso  determinato,  a  codesta  causa.  Un  secondo 
modo  è  questo  :  l'alterazione  specifica,  che  la  parola  latina 
subisce  nel  territorio  galloromano  ,  si  riproduce  nella  evo- 
luzione del  proprio  linguaggio  dei  Celti  medesimi.  Un  terzo 
modo  è  finalmente  questo:  l'alterazione  specifica,  che  la  pa- 
rola latina  patisce  nel  sovrapporsi  a  quella  dei  Galli,  è  si- 
milmente patita  dalla  parola  germanica  che  si  sovrappone 
anch'  essa  alla  celtica,  o  nella  stessa  contrada  od  in  altre. 
Il  primo  modo  si  potrebbe  dire  di  congruenza  corogra- 
fica; il  secondo,  di  congruenza  intrinseca;  il  terzo, 
di  congruenza  estrinseca.  Una  resultanza  che  sia  otte- 
nuta anche  pel  primo  solo  di  questi  tre  modi  ,  accresce  il 
valore  di  ciascun  altra,  e  a  vicenda  ne  ha  accresciuto  il  va- 


—  19  - 
lore  suo  proprio.  Se  poi  una  resultanza  è  comprovata  per 
più  modi,  nessuno  vorrà  negare  chissà  vada  tra  le  migliori 
scoperte  che  sul  nostro  campo  si  possano  sperare.  Poiché 
la  quantità  o  la  qualità  delle  cose  provate  va  naturalmente 
considerata  anche  sotto  il  rispetto  della  nostra  facoltà  di 
provare  ;  e  questa  facoltà  è  grandemente  ridotta  per  ciò  , 
che  la  diretta  notizia  dei  dialetti  un  tempo  parlati  dai  Galli 
sui  territori  che  andarono  romanizzati,  si  riduce,  ahimè,  a 
presso  che  nulla.  Dobbiamo  ricorrere,  come  a  men  discosti 
ausiliari,  ai  dialetti  britoni,  stretti  parenti  bensì  degli  antichi 
dialetti  della  Gallia  ,  ma  pur  non  altro  che  parenti,  e  tali 
ancora  i  cui  monumenti  non  ci  riconducono  a  età  gran 
fatto  antica.  Tra  i  quali  dialetti  britoni ,  io  intanto  prefe- 
risco citare  quello  del  Galles  o  il  cimrico;  perchè  il  britone 
dell'  Armorica,  rifluito  in  Francia,  dal  di  là  della  Manica, 
qualche  secolo  dopo  Cristo,  può  talvolta  lasciare  in  certuni 
un  qualche  dubbio,  che,  tra  lui  e  il  francese,  anziché  trat- 
tarsi di  evoluzioni  che  analogamente  si  riproducano  ,  non 
d'  altro  si  tratti  se  non  di  mero  influsso  neolatino  nel  cel- 
tico moderno. 

I.  Prendo  le  mosse  da  uno  dei  fenomeni  di  cui  già 
avete  opportunamente  toccato  ,  cioè  dall'  iì  che  tra'  Gallo- 
romani viene  a  rispondere  all'  i^  latino;  per  es.,  frane,  o 
iomb.  diìr  --=  óurus  ^  crii  {e fiìd)  =  crudus. 

La  prova  ,  che  diciamo  corografica,  è  presto  data. 
11  fenomeno  occorre  in  Francia,  nella  zona  ladina  e  pei 
territori   franco -proven-{ali  e  gallo-italici   (i).   Non   occorre 


(i)  [Mandando  ora  alla  stampa  questa  Lettera,  non  mi  pare  super- 
fluo di  aggiungere  qualche  parola  sull'importanza  istoriologica  che  è 
qui  data  all' zV  galloromano,  benché  s'abbiano,  più  in  là,  parecchie 
note,  in  cui  è  generalmente  accennato    alle    ragioni  onde  si  assicura 


—  20  - 
nelle  Spagne,  o  al  versante  mediterraneo  della   penisola  ita- 


tale  importanza  ai  fenomeni  fonetici  del  neolatino  o  del    celtico,  in- 
torno ai  quali  versa  questo    rapido  sbozzo.  Molto  prima  che  1'  inda- 
gine scientifica  venisse  a  tentare  queste  connessioni  (cfr.,  p.  e.,  Schu- 
CHARDT,  VoJc.,  \,  466-7,  per  r  ei  ecc.),  se  ne  aveva  tra  noi  come  una 
persuasione  tradizionale,  e  appunto  il  fenomeno  dell'  iì,  pel  quale  si 
coliegano  Milano ,  Genova,  Torino  e  Parigi,  andava    tra   quelli    che 
eran  citati  di  continuo.  Poi  venne  l'età  dello  'scetticismo  incipiente', 
e  s'incominciò  a  sentir  parlare  dell'  2  =  il  =  m  in  Grecia,  come  d'  una 
prova  del    poco   fondamento  che  sopra  siffatte  cose  si  potesse  fare,  e 
di  un  nuovo  argomento    per   la    bella    conclusione    che   'tutto,  nasce 
dappertutto';  quasi    che,  a  tacer  d'altro,  non  si  trattasse,  nel  gallo- 
romano, d'un  incontro  il  qual  fa  parte  di  un  ampio  sistema  di  con- 
gruenze, e  pel  quale,  come  per    l'intiero    sistema,  una    gran  sezione 
della  romanità  si  distacca  dal  resto.  Piìi  tardi  ancora,  duole  il   con- 
fessarlo, le  dubitazioni  d'uomini  rispettabilissimi,  i  quali ,  con  gene- 
rosa  abnegazione,  molto    utilmente   si    restringono  entro  a  modesti 
confini,  ma  forse  non  voglion    sempre    riconoscere    che    angustia  di 
limiti  non  consente  larghezza  di  giudizi,  vennero  a  turbare  maggior- 
mente le  nostre  acque.  Sia  citato,  honoris  causa,  il  Lucking,  il  quale 
accampa  [Die  'ditesi,  franai,  mundarl.;  Berlino  1877,  p.  i48-4()),  contro 
l'antichità  dell' iV,   i  due  argomenti  che  or  riferisco.   Imprima,  Vu  la- 
tino non    sarebbe    passato  in  il ,  all'  infuori   del    francese,  se  non    in 
'singoli  dialetti',  come   nel    neoprovenzale,  nel  ladino    engadinese  e 
nel  lombardo.   Poi,  nel  latino  de'  documenti  merovingi  occorre  u  per 
6\  e  in  un'età,  in  cui  l'antico  n  già  sonasse  zV  ,  mal  si  potea    venire 
all'idea    di    adoperare   codesto    carattere,  in  luogo  dell'  0,  per  espri- 
mere  un    suono    che    sicuramente  era  diverso    dall'  il  ;    dunque  1'  u  , 
scritto  per  ò,  dev'essere  più  antico   che   non  V  il  pronunziato  per  ù. 
Orbene,  circa  il  primo  argomento,  può  parer  singolare  che    si    por- 
tasse innanzi,  da  tal  valentuomo,  nel   1877.  Di  certo,  non  c'ò  1'  il  in 
tutti  i  dialetti  ladini  de'  Grigioni  ;  ma  i  dialetti  che  non  l'hanno,  lo 
ebbero,  e  anzi  lo  esagerarono,  arrivando  all'  /  =:  ù  ,  come  qui    sopra 
ora  vediamo.   Per  la  Cisalpina,  poi,  c'è  ben  altro  che  un  '  lombardo  ' 
da  mettersi  tra  i  'singoli  dialetti';  e   insomma    è  dimostrato    da    un 
pezzo,  che    anche  per  1'  il  si  ristabilisce    la  continuità  dall'Alpi  Car- 


—  21  — 
liana  (i),o  nelleisole  italiane, o  tra'  Rumeni. Quanto  a  riprove 
intrinseche,  abbiamo  che  nel  britone  si  risponde  per  i 


niche  all'Oceano.  Quanto  al  secondo  argomento,  io  non  me  ne  so 
meravigliare  abbastanza.  Poiché,  ai  tempi  de'  Merovingi  ,  il  francese 
non  si  scriveva  punto,  e  1'  ti  perciò  non  rappresentava  a  que'  scribi 
latini  alcuna  pronunzia  francese  o  alcun  ragguaglio  etimologico  tra 
latino  e  francese.  L'  5  latino,  per  giusta  e  sicura  tradizione,  letteraria 
e  vernacola,  era  un  o  chiuso  e  si  confondeva  con  Y  u\  e  facilmente 
si  scriveva  niis  e  Iionure ,  come  si  scriveva  ubi  e  cruce.  —  Ogni  in- 
dagine metodica,  per  minuto  che  l'obietto  ne  sia,  giova  sicuramente 
anche  alle  ricostruzioni  generali;  e  chi  osi  queste,  senz'aver  sudato 
ostinatamente  intorno  ai  particolari,  sempre  di  certo  fabbricherà  sul- 
l'arena. Ma  anche  sia  lecito,  una  volta  tanto,  avvertire  i  pregiudizi 
e  i  pericoli  a  cui  pur  ci  porta  una  limitazione  o  una  segregazione 
soverchia  e  fittizia.  Le  letterature  volgari  si  schiudono  timide  e  im- 
pacciate, come  vergognose  di  sé,  desiderose  di  nascondere  tutto  ciò 
per  cui  il  loro  linguaggio  soverchiamente  si  distacchi  dalla  illustre 
antichità.  Il  glottologo  che  tuttavolta  non  le  considerasse  con  la  mag- 
giore attenzione,  mostrerebbe  di  non  conoscere  il  proprio  mestiere  ; 
ma  l'antichità  de'  fenomeni  dialettali  va  per  lui,  di  regola,  ben  più  in 
su  che  non  vadano  i  monumenti  letterari;  e  non  già  per  il  solo  fatto 
delle  ricostruzioni,  salde  e  piene,  che  le  estese  comparazioni  gli  con- 
sentano, ma  anche  per  quelle  riprove  particolari  o  autottone,  che 
in  tanti  incontri  gli  duole  di  veder  così  neglette.  Quali  sono,  per 
esempio,  i  più  antichi  giacimenti  di  lingua  francese?  Stanno  nei  nomi 
propri  di  luogo  e  in  quel  tanto  di  francese  che  primamente  assun- 
sero i  Britoni  rifluiti  in  Francia.  Di  poco  posteriore  al  vero  dischiu- 
dersi di  una  letteratura  nazionale,  è  il  giacimento  normanno  che  ci 
è  offerto  dalla  lingua  inglese;  e  questo  pure,  comunque  tutt'altro  che 
trascurato,  non  si  rallegra  ancora  di  tutta  quell'attenzione  eh'  ei  me- 
riterebbe.] 

(i)  Dico  penisola,  per  escludere  il  continente,  dov'è  Vii  nel  ligure, 
e  perciò  pur  nel  versante  mediterraneo  dell' Apennino.  Circa  la  dif- 
ferenza generale  tra  il  versante  adriatico  e  il  mediterraneo  della  pe- 
nisola, potrete  poi  dare  un'occhiata  aìV Italia  dialettale,  nel  XIII  voi. 
della  nuova  edizione  dell' Encic  1  o  paed  ia  Britannica,  o  nella 
prima  puntata  dell'VIII  voi.  deWAr-ch.  glott.  it. 


-  22  - 
aWil  di  fase  anteriore  o  etimologica,  il  quale  si  conserva  nei 
ribernico  (Irlanda  e  Scozia).  Come  sapete,  da  ii ,  general- 
mente parlando  ,  non  si  viene  ad  i  ,  se  non  passando  per 
il  •  e  anclie  tra  i  Galloromani  arriviamo,  per  questa  via^ 
ad  i  =  ti  lat.,  com'è  nel  ladino  di  Sopraselva  ;  dir  durus, 
mitt  mutus,  G.CC.  Così  dunque  alT  irland.  ^ii;z  fortilizio, 
risponde  normalmente  il  cimrico  din,  o  air  irland.  rUn 
mistero  ,  il  cimr.  rin.  Il  fenomeno  ancora  s'  illustra,  per 
riprova  intrinseca,  dal  fatto  dell'  r/  che  nel  cimrico  suc- 
cede air  a  originario  e  irlandese,  come  in  hy-^  irl,  su-  so-, 
sanscr.  su-  (gr.  èu-)  (i).  E  la  congruenza  del  galloromano 
col  britone  punto  non  s'infirma  per  ciò  che  anche  nell'an- 
glosassone, nell'islandese,  nello  svedese  e  nel  danese  s'abbia 
y  per  u  di  antica  fase  -,  poiché  la  mutazione  qui  non  av- 
viene se  non  all'  umlaut ,  cioè  per  effetto  di  un  /  che  e  è 
o  c'era  nella  sillaba  successiva  {y  =  ìì  =  u-i) ,  e  lo  stesso 
è  appunto  il  caso  dell'  //  degli  Alto-Tedeschi  (per  esempio, 
nell'anglosassone:  geryne  mysterium,  allato  a  rtm  \à.\  lyge 
mendacium ,  allato  a  lugon  mentiti  sunt -,  nell'islandese: 
l[jk  claudo  ,  allato  a  lùka  claudere  •,  dylja  celare  ,  allato  a 
dula  velamcn  :,  nel  medio-alto-tedesco  :  lì'ige  mentiretur,  al- 
lato a  lugen  mentiti  sumus).  Ora,  quali  pur  sieno ,  del 
resto,  le  ultime  ragioni  per  cui  l'  umlaut  della  grammatica 
di  Grimm  si  connetta  coli'  infcctio  della  grammatica  di 
Zeuss,  rimane  pur  sempre  che  nell'anglosassone  ecc.  il  fe- 
nomeno dell'  //  oy  da  u  è  transitorio,  dipendente  cioè  da 
una  causa  accidentale  ,  e  in  effetto  ancora  si  risolve  nella 
somma  di  due  suoni  diversi;  laddove,  all'incontro,  per 
entro  al  britone,  così  come  nel  galloromano  rispetto  al  la- 
tino, la  riduzione  dell'  ù  ad  /  {iì)  è  fenomeno  costante  o  di 


(i)  Di  più  e  di  meglio  or    bi  ricava  da  Rhys  ,  Lectiires  on    Welsh 
Philology,  scc.  ed.,  p.  2i3.]6,  .244-4G. 


-  23- 
ordine  assoluto,  tal  cioè  che  non  dipende  dal  riflesso  di  una 
vocale  che  sia  o  fosse  nella  sillaba  successiva.  V'ha  bensì 
un  idioma  germanico,  in  cui  V  il  per  ti  appare  ottenuto  in 
guisa  non  diversa  da  quella  che  s'  avverte  pel  britone  o  il 
galloromano.  È  la  favella  dei  Paesi  Bassi  (per  es.,  oland. 
kns  ,  cioè  quasi  cus  ^  bacio-  duiir  ^  cioè  dììììv ,  la  durata)  ; 
ma  è  quanto  dire  la  favella  germanica  sovrapposta  al  celtico 
de'  Belgi.  Il  principe  dei  germanologi  ,  il  Grimm  (P,  27S, 
cfr.  294), pensava  a  un  influsso  della  limitrofa  lingua  fran- 
cese. Noi  invece  incomincieremmo  ad  affermare  che  si  tratti 
di  effetti  identici,  e  tra  di  loro  indipendenti ,  di  una  causa 
stessa-,  e  così  otterremmo,  pel  nostro  assunto,  pur  una  ri- 
prova di  quell'ordine  che  dicevamo  estrinseco.  Dove  in- 
tanto mi  affretto  a  ricordarvi ,  che  è  celtica  anche  la  gran 
caratteristica  basso-terranea  (olandese)  di  ft  in  cht  {liicht  = 
liift,  aria,  ecc.):,  cfr.  irl.  secht,  cimr.  seith^  septem:,  irl.  necht, 
cimr.  iiith,  neptis. 

Quale  sarà  dunque  la  giusta  spiegazione  di  codesta  ri- 
sposta galloromana  dell'  u  latino?  Manifestamente  questa: 
L'  te  latino  era  uno  schietto  u  ,  come  appunto  suona  nel 
toscano  duro  q.cc.^  laddove  Vii  latino  piegava  all'incontro 
ad  o  (0  chiuso),  come  appunto  suona  nel  tose,  noce  nuce 
ecc.  Ora,  il  suono  che  tra'  Galli  stava  men  rimoto  dallo  schiet- 
to u ,  era  1'  ìì.  E  il  lat.  duro,  per  esempio,  non  potea  dal 
loro  stromento  orale  esser  facilmente  riprodotto  se  non  per 
dììro  [dììro  diir). 

Molto  antico,  cioè  di  latino  volgare,  e  perciò  molto  lar- 
gamente riflesso  nella  romanità  seriore  e  moderna,  è  il  dit- 
tongo dell'  0  breve  fuor  di  posizione  ed  anche  in  posizione, 
che  risuona  ,  per  es.,  nel  tose,  suole  solet,  o  nel  napolit. 
cuoriie  cornu.  Queste  pronuncie  italiane  già  ci  dicono  che 
fosse  uno  schietto  u  anche  il  primo  elemento  di  cotesto 
dittongo    di   volgare  romano-,  e  si  aggiunge  V  ne  spagnuolo 


-  24  - 

(per  es.  nuevo  novus,  cuerda  chorda),  in  cui  la  determina- 
zione del  secondo  elemento  deve  dipendere  dairaccento  che 
un  tempo  era  fermo  sul  primo  (v.,  per  ora  ,  ylrc/z.,  IV, 
4o5)(i).  Analoga  determinazione  s'ebbe  tra'  Galloromani;  ma 
poiché  in  qucst'  ne  (poi  uè)  era  uno  schietto  u,  e  anzi  un  ii 
schietto  e  accentato ,  la  piena  e  specifica  pronunzia  gallo- 
romana ne  dovette  essere  ne.  Così  novo  diede  primamente 
un  gallico  nììevg  niiev ,  forma  positivamente  attestata,  alla 
quale  ora  appunto  miriamo  -,  e  V  ò,  che  risuona  nel  JiÓfdì 
pronuncia  francese  o  lombarda  ,  altro  non  è  se  non  una 
resuhanza  seriore  o  monottonga  di  codesto  ile  galloromano, 
ottenuta  per  quel  processo  di  assimilazione,  che  si  può,  in 
via  approssimativa,  descrivere  cosi:  nììef  niioif  Jiof. 

Qui  l'importanza  degli  idiomi  ladini  si  fa  grande.  La  fase 
dell'  ììc  risuona  ancora  neh'  Engadina  (limitata  alla  for- 
mola  OR  -1-  cons.),  dove  proprio  assistiamo  alla  riduzione  che 
teste  si  poneva  per  la  Francia  o  per  la  Lombardia  (cfr.  gli 
eng.  i'iert  hortus,  oss  osso,  6f  ovo,  ecc.,  allato  agli  spagn. 
Imerto  hucso  huevó).  E  in  Sopraselva,  cioè  in  uno  dei  ter- 
ritori galloromani  dove  V  il  da  u  si  risolve  nello  schietto  / 
{dir  durus,  ecc.),  pur  questo  dittongo  ììe  si  dovea  risolvere 
in  /e,  come  in  effetto  avviene,  senz'alcuna  restrizione  di  for- 
mola  (sopras.  iert  iess  ief  nicf  i^cc). 

Ma  è  un  fenomeno  d^ordine  generale,  e  costante  in  specie 
nelle  regioni  per  le  quali  ora  ci  moviamo,  che  una  conso- 
nante gutturale,  la  quale  riesca  attigua  ad  /  o  ad  altra  vo- 
cale prossima  ad  / ,  si  riduca  tosto  o  tardi  a  consonante 
palatina.  Qui  scriveremo  ,  per  una  semplificazione  che  in 
questo  luogo  non  nuoce  punto,  non   altro    che  e   per  V  al- 


(i)  Un'analogia  abbastanza  notevole, ma  d'ordine  affatto  generico,  è 
offerta  dalla  evoluzione  germanica  :  ?Ve,  '  umlaut  '  medio-alto-ted.  di 
2Y0,  =  got.  ó;  per  es.  mììele  molerem,  allato  a  muol  molui,  got.  mól. 


-  25  - 
terazione  palatina  di  un  k  di  fase  anteriore  ,  qual  pur  sia 
Tetà  in  cui  l'alterazione  si  produce  o  la  sua  più  precisa 
determinazione  fisiologica;  e  ci  ricordiamo  imprima  dell'an- 
tica riduzione  di  q1  v]i,  come  in  cinque  =  kinque  =  quinque 
[v.  sopra,  p.  14  n];  poi  di  quella  che  si  rappresenta  per 
r  inglese  chiit,  cioè  c'in  ,  allato  al  tedesco  kinii  il  mento. 
Per  non  diversa  ragione,  diventava  e'  un  k  che  precedesse, 
nelTengadinese  o  nel  soprasilvano,  alT  il  od  i  del  dittongo 
He  ie  =  ó  latino  -,  e  così  corpus,  passando  per  cùorp  e 
citerp  o  kierp,  dà  finalmente  ai  Soprasilvani  :  c'terp  o  quasi 
c'ìrp  (engad.  c'ìierp).  Ugualmente  cornu,  passando  per 
cùorn  e  ciìeìii  o  kiern  ,  finisce  per  dare  ai  Soprasilvani  : 
ciern  o  quasi  cirii.  E  tollerate  ancora  V  esempio  di  e  o- 
r  i  u  m  ,  che  imprima  dà  cuor  io  ciioiro  ,  onde  regolar- 
mente kìleir  (eng.  cor  da  cue\i\r) ,  o  kieir,  onde  si  finisce 
nel  soprasilvano  air. 

Or  quale  conclusione  si  ricava  ,  da  tutto  ciò ,  in  ordine 
al  quesito  nostro  ?  Molto  semplicemente,  ma  altrettanto  si- 
curamente questa:  che  si  passa  da  osso  a  is  ^  da  horto 
a  irt ,  da  cornu  a  cirn,  da  cor  io  a  czV,  e  via  così  di- 
scorrendo, per  effetto  di  una  semplicissima  e  evidentissima 
causa  d'ordine  etnologico-,  pel  solo  fatto,  cioè,  che  Vìi  fosse 
il  profferimento  celtico  ,  il  quale  meno  si  scostasse  dallo 
schietto  u  di  pronunzia  romana.  Assistiamo  a  una  così  pro- 
fonda trasformazione  della  parola  latina,  senza  aver  bisogno 
d'invocare,  anzi  dovendo  escludere,  in  ultima  analisi,  ogni 
altra  causa  alteratrice.  Di  ragione  subalterna,  o  individua- 
trice,  o  come  altro  mai  la  vogliano  dire,  qui  non  occorre 
se  non  questo  :  che  uno  dei  due  distretti  mantenesse  V  ìì , 
e  dell'  il  poi  naturalmente  risentisse  un  particolare  effetto 
[ììe  6)  -,  mentre  nell'  altro  distretto  l'  il  molto  chiuso  si  ri- 
duceva ad  z  ,  e  dell'  /  ivi  naturalmente  s'avea  qualche  par- 
ticolare effetto  {ie  i).  Ma  è  chiaro  insieme,  che  pur  questa 


-  26  - 
differenza  non  esista  se  non  perchè  s'era  avuto  primamente 
r  il  per  Tantico  u,  e  così  ritorni  essa  medesima  all'  ordine 
etnologico. 

2.  Nella  precedente  dimostrazione  ci  accadeva  d'incon- 
trare la  riduzione  francese  o  lombarda,  per  la  quale  s'  ha 
nov  da  niiev  {nuev),  e  via  così  per  tutta  la  serie.  Questa  ri- 
duzione or  mi  porta  a  un'  osservazione  accessoria,  che  ben 
si  conviene  ,  essa  pure  ,  al  discorso  che   veniamo    facendo. 

Voi  ricordate  giustamente  ciò  che  nelle  Lezioni  si  oppo- 
neva al  supposto  del  Diez  che  nel  francese  vadano  senza 
altro  tra  di  loro  confuse  la  serie  dell'  o  e  quella  dell'  Ó.  Ma 
giova  vedere  ancora  più  in  largo. 

11  dittongo  galloromano  per  l'  Ó  e  per  1'  il  del  latino 
classico,  è  nella  sua  più  schietta  forma  :  óu  (che  vuol  dire 
il  rovescio  dell'  antico  dittongo  volgare  dell'  ó  breve  :  uo)  , 
in  giusta  simmetria  col  dittongo  galloromano  per  V  e  o  V  ì 
del  latino  classico,  che  è  nella  sua  più  schietta  forma  :  éi 
(e  vuol  dire  il  rovescio  dell'  antico  dittongo  volgare  dell'  é 
breve:  ic).  Ricorrono  entrambi  incolumi  tra  gli  Emiliani  : 
bologn.  óiira  hóra,  lóuv  lupus,  allato  a  dvéir  debère,  peil 
pìlus(i).  Incolumi  occorrono  anche  tra  i  dialetti  franco-pro- 
venzali: aost.  óura^  nevóu  nepòte,  lóii  lupus,  allato  a.  pléiìia 
piena,  pei    pìlus.  Son  dittongazioni  estranee  all'  Italia  pro- 


(ij  S'ottien  buona  riprova  dcU'antichilà  o  dell'importanza  organica 
di  questi  dittonghi  emiliani,  quando  si  confrontino  con  V  ci  e  V  oh 
che  altrove  s'hanno  come  sviluppi  seriori  (caratteristici  però  anch'essi). 
Quando  ei  ou  sono  seriori,  non  dipendono  dalle  basi  latine  (ei  =  é),\ 
Oli  ='óu);  cir.  Ardi.,  l,  483;  laddove  nel  bolognese  ne  dipendono; 
e  perciò  Jìour  allato  a  cor;  valeir  allato  a  y/r  beri.  —  Del  resto, 
circa  la  molta  antichità  di  tutti  codesti  fenomeni,  pei  quali  s'ha  così 
larga  e  viva  la  congruenza  corografica  e  intimamente  istorica,  voi 
non  potreste  parlare  più  correttamente  di  quello  che  fate:  e  io  anzi 
sarei  stato  più  rigoroso  circa  1'  inaniti\  di  quegli  argomenti  in  con- 
trario, che  voi  maliziosamente  chiamate  cartapecorini. 


—  27  - 
pria,  alle  isole  italiane,  alle  Spagne  e  alla  Rumenia,  e 
ora  appunto  moviamo  a  rintracciarle  in  Francia  e  nella 
zona  ladina.  La  congruenza  corografica  è  dunque  al- 
trettanto manifesta  che  per  V  il.  Quanto  alla  congruenza 
intrinseca,  essa  è  dimostrata,  per  Fez",  nel  numero  che 
segue.  Per  1'  oii,  non  vedo  che  i  dialetti  britoni  offrano  al- 
cun diretto  riscontro-,  ma  è  un  caso  molto  analogo  quello 
deir  du  cimrico  da  Ù  di  fase  anteriore-,  p.  es.  cimr.  llairn  ~ 
irl.  Icui  pieno,  llaivr,  pi.  lloriaii.,  =  irl.  làr  suolo  (cfr.  cimr. 
dìvr,  pi.  oriaii,  da  non  confondersi  però  senz'altro  colPant. 
fr.  houre,  ingl.  Jioiir,  hóra).  Del  rimanente,  qui  basterebbe, 
per  la  congruenza  che  diciamo  intrinseca,  il  parallelismo 
già  notato  delP  ei  da  e  {e  ì),  e  il  nostro  ragionamento  ha  , 
in  questo  numero  ,  un  assunto  alquanto  diverso  che  non 
negli  altri, 

L'  óu  per  o  (Ó  w)  manca  ai  dialetti  lombardi ,  come  vi 
manca  1'  éi  per  e  [e  ì).  Nel  Piemonte  e  nella  Liguria,  è 
r  ei\  ma  T  óu  (per  Ó  iC)  non  vi  risuona,  o  mal  più  vi  ri- 
suona. 

Tra  i  dialetti  franco-provenzali,  T  ou  per  o  (Ó  w),  che  già 
citammo,  può  anche  allargarsi  in  au ,  corrispondentemente 
air  ei  per  e  (d  t)  che  s''allarghi  in  ai.  Così  nella  Taran- 
tasia  (Savoia)  :  meilldu  meliore,  gdula  giila  ,  analogamente 
ad  avai  habére,  nai  nìve-,  tee.  Per  tal  modo,  la  distanza 
tra  il  dittongo  dell'  o  (o)  e  quello  dell'  o  io),  vi  si  fa  vie- 
maggiore;  e  nel  tarantasio  avremo  p.  e.:  cuér  core,  buén 
bono,  allato  a  Jldur  flore,  nevdii  nepòte. 

Nel  francese,  all'incontro,  come  s'  era  avuta  la  riduzione 
dell'  0  \n  e  nel  dittongo  dell'ó  breve  {no  ue\  già  vedemmo 
similmente:  ne  savoiardo,  ne  spagnuolo,  ecc.),  così  visi  è 
avuta,  meno  anticamente,  la  riduzione  identica  dell'  o  in  e 
nel  dittongo  dell'  Ó  e  dell'  u.  Il  galloromano  Jìóur  flore,  a 
cagion  d'esempio  (che  è  del  piìi  antico  francese,  e,  impor- 


-  28  - 
tato  embrionalmente  neirantica  Inghilterra,  vi  sussiste,  e 
anzi  allargato),  si  ridusse  a  un  ant.  frc.  fleiir^  di  contro  al 
pur  ant.  frc.  cuer  core.  Anche  tra'  Francoprovenzali  occorre 
pur  questa  riduzione;  onde  nel  valsoanino:  doléiir  dolóre, 
allato  R  sucr  soror  {Aìxh.^  Ili  ,  12).  Né  manca  nella  zona 
ladina-,  e  così  nella  sezione  occidentale:  éiwa  hòra ,  iiéiis 
nós  (i).  La  corretta  differenza  {eii  =Ò ,  ne  =  o),  che  è  rap- 
presentata da  Jleur  e  cuer,  si  mantiene  con  bella  costanza 
neir  antico  francese  (2).  Ma  come  ne  finì  per  dare  alla 
Francia  la  riduzione  monottonga  i)  (ciier  cuoer  cor),  così 
ivi  s'ebbe  la  stessa  riduzione  anche  per  V  cu  (fleur  floeur 
flòr),  e  siamo,  in  ultima  analisi,  alla  resultanza  identica  di 
due  identici  fattori  (la  somma  di  //  -f-  e ,  o  di  e  +  «), 
punto  non  ostando  ,  in  questo  caso  ,  la  contraria  disposi- 
zione che  era  tra  le  due  combinazioni    diverse.   Per  questa 


(i)  Ardi.  f^L,  I,  i32.  Nella  sezione  centrale  è  anzi  un  territorio,  in 
cui  r  eii,  dittongo  dell'  ó  e  dell'  ìi  (che  ivi  oscilla  sicurissimamente  con 
r  OH,  malgrado  ogni  testimonianza  che  a  ciò  paia  contraddire),  si 
viene  a  trovare  allato  all'  ne,  dittongo  dell'  0  (p.  e.  Jldiira  allato  a 
ciier),  così  ottenendosi,  qui  pure,  una  condizione  che  grandemente 
si  accosta  a  quella  dell'antico  francese;  v.  ib.  365. 

(2)  Nell'affermare  molto  nitidamente  questa  distinzione,  il  Tobler 
(Li  dis  don  vrai  aniel,  p.  xxvi)  appuntava  1'  eu  degli  ant.  fr.  leu  jeii 
feii,  che  gli  facea  difficoltà,  le  basi  essendo  di  0  breve.  Ma  V  u  di 
queste  tre  voci  è  veramente  1'  u  finale  della  base  latina,  o  meglio  V  ti 
finale  attratto.  Avviene  cioè,  che  nella  base  galloromana  si  ripercuota 
codesi'  u  dopo  la  vocale  accentata  che  precedesse  a  un  ^  primario  o 
secondario.  Così  tagu  ha  dato  /rfw^w,  donde  soltanto  può  aver  ra- 
gione il  lomb.  fo  —  prov.  fan  (cfr.  lomb.  avost  augustus  mcnsis,  ecc.). 
E  similmente:  lóuglu]  jóug[ii] /(hig[u]:  onde,  col  dittongo  dell' o,  il 
frc.  ant.  avrebbe  dovuto  avere:  liieu  jiieii  fiteii ,  che  si  son  semplifi- 
cati in  leu  ecc.  La  base  galloromana  è  nitidamente  continuata  nel 
soprasilvano,  che  dà:  liug  lieus;,  giug  gieug,  fiug  fieug  (fieuc^.  Qui 
r  u  è  affatto  manifestamente  1'  u  finale  ,  attratto,  della  base  latina  , 
poiché  Vu  del  dittongo  [uo  ite)  qui  sta  normalmente  nell'/ (?z;y/ novus 
ecc.,  già  uddotli  di  sopra'.  \'.  Ardi,  gì.,  I,  27  ecc. 


-  29- 
via  le  serie  dell'  o  andarono  finalmente  tra  di  loro  confuse 
e  nella  pronuncia  e  nella  scrittura  francese  (i). 

Come  dunque  si  conchiude  ,  un  po'  più  stringentemente 
di  quello  che  faceste  voi?  Il  francese  ha  smarrito  la  distin- 
zione delle  due  serie  dell  ó  {o  o  :  JÌÓr  cor)  ,  non  già  per 
alcuna  confusione  iniziale,  ma  pel  fatto  che  la  determina- 
zione galloromana  dell'  o  ha  subito  due  ulteriori  fasi  d'  al- 
terazione {oii  :  eu  o),  alle  quali  il  bolognese,  per  esempio, 
o  il  savoiardo,  rimane  estraneo.  Il  lombardo,  alla  sua  volta, 
ha  bensì  la  propria  evoluzione  regionale,  così  dell'  o  ,  come 
dell'  e  [viic  vóce,  sira  sera)  (2),  ma  non  è  evoluzione  speci- 
ficamente galloromana-,  e  così,  non  solamente  distingue  il 
lombardo  tra  la  serie  à\Jìùr,  lira,  e  quella  di  cor,  fora ,. 
ma  serba  insieme,  tra  le  due  serie,  una  differenza  antigal- 
lica, non  dittongando  il  riflesso  dell'  0.  Questa  maggiore 
italianità  del  lombardo,  rispetto  al  francese  o  all'emiliano, 
si  riconferma  per  le  condizioni  diverse  che  sono ,  tra 
lombardo  da  una  parte,  e  francese  e  emiliano  dall'altra,  in 
ordine  alla  espunzione  delle  vocali  fuor  d'accento.  Ma  al- 
l' emiliano,  per  contro,  è  o  si  fece  estraneo  ,  generalmente 
parlando,  l'ii  (e  quindi  1'  o),  comune  al  francese  e  al  lom- 
bardo-, come  non  ebbe  questo  suono,  o  ben  piuttosto  l'ha 
smarrito,  il  friulano,  all'  estremità  orientale  della  zona  la- 
dina (3);  e  la  serie  di  queste  misurazioni,  come  bene  ac- 
cennate, andrebbe  lungamente  continuata  e  ragionata,  anche 


(i)  Cfr.  ScHucHARDT,  Volì.,  II,  147-8;  c  Neumann  ,  Zur  laiit-  und 
flexionslehre  d.  (j/(/"r.,  Heilbronn  1878,  p.  47.  Come  parallelo  d'or- 
dine meramente  fisiologico ,  sien  qui  ricordate  quelle  serie  nordiche 
tra  le  quali  va  1' 0  islandese  per  'umlaut'  dell' a  ,  promosso  da  2/; 
p.  es.  MÓgiin  {*kldiigun  ecc.)  querela,  allato  a  klaga  accusatio. 

(2)  Cfr.  il  siciliano,  Arch.  gì.,  II.  145-46;  e  il  cimrico,  Zeuss  , 
*99-ioo. 

(3)  hlne  ecc.,  allato  a  suéle  ecc.,  Arch.  gì.,  I  ,  499,  494-95;  ma  Va 
è  ancora  nel  Comelico,  ib.,  384-85.  Cfr.  1'  u  e  Va  in  Val  di  Rumo, 
allato  air  11  e  Vue  in  Val  di  Non  (Fondo),  ib.,  324,  327-28. 


—  30  — 
pel  franco-provenzale  e  il  provenzale.  Or  le  differenze  che 
ne  resultano,  in  parte  hanno  di  certo  la  lor  piena  ragione 
dalla  proporzione  diversa  in  cui  entrano  i  due  fattori  etnici, 
il  romano  e  il  gallico  ,  nella  composizione  del  nuovo  ente 
nazionale  •,  in  parte  dalle  diversità  che  pur  certamente  oc- 
correvano nella  qualità  o  nella  composizione  del  substrato 
anteromano  di  queste  medesime  terre  che  diciamo  galliche. 
Ma  intanto,  malgrado  ogni  difficoltà,  noi  ci  accorgiamo  di 
continuo,  che  il  nostro  etnometro  ci  si  viene  affinando  tra 
le  mani. 

3.  Qui  però  ci  affretteremo  a  ritornare  a  più  limpide 
cose,  rifacendoci  a  quel  dittongo  galloromano  per  1*  e  di 
fase  anteriore  (=  e  lat.  ed  ì  iat.),  che,  nella  sua  piìi  schietta 
forma,  suona  ei ,  e  circa  il  quale  è  già  resultata  ,  nel  nu- 
mero precedente ,  quella  congruenza  che  diciamo  coro- 
grafica. 

Lo  schietto  ei,  com'è  a  Torino,  a  Genova  e  a  Bologna  , 
così  è  nel  ladino  di  Sopraselva:  seida,  plein \  beiver,  peil. 
L' engadinese  lo  allarga  in  ai:  saida ,  plain:,  baiver,  p-iil  \ 
e  anche  un  dialetto  franco-provenzale  ci  mostrava,  nel  pre- 
cedente numero,  questo  medesimo  allargamento.  La  Francia 
s'  è  come  bipartita  ;,  e  accanto  alT  ei,  ebbe  V  oi  (cosi,  p.  es., 
aveÌ7^  di  tipo  nornianno,  apoii^  di  picardo).  Che  1'  oi  rap- 
presenti un'  alterazione  delT  ei^  è  cosa  per  sé  manifesta 
(cfr.,  per  entro  a  un  medesimo  dialetto  di  Francia  :  avoine 
avéna,  allato  a  veine  vena);  e  si  riprova  indirettamente 
per  ciò  1  che  i  dialetti  di  Francia ,  ne'  quali  s'  ha  l' oi 
per  e  od  ì  latino  [soie-^  boire,  poil),  danno  oi  ugualmente 
per  ogni  ei  di  fase  anteriore,  comunque  egli  surga-,  e  così: 
droii  (drejt,  directo),  moy.'ii  (mejen  me[d]iano) ,  qcc.  Dal 
profferimento,  che  la  scrittura  continua  sempre  a  rappre- 
sentare  col    suo  oi ,    il  francese  è  poi  passato  a  oe  od  iid. 


—  31  - 
Orbene,  il  normal  continuatore  britone  (cimrico  ecc.)  di 
un  antico  e,  sia  celtico  o  latino,  è  appunto  oi  oe  (o/,  ni, 
jpy).  Così  nel  cimrico  :  ti'oi  triii  trwy  =  ant.  celt,  tré 
(trans),  bliiydyn  bhvydyn  anno  ,  =  ant.  celt.  b  1  e  d  [e]  n  i  ; 
cadwyn  lat.  caténa;  kuyr  hvyr ,  corn,  coir ^  armor.  coar^ 
lat.  céra.  Pur  qui  son  pronte,  se  mai  occorressero ,  le 
prove  indirette  per  la  fase  dell'  d\  poiché  vediamo  che  si 
venga  similmente  air  oi  da  altri  ei  di  fase  anteriore-,  come 
è  p.  e.  nel  cornice  noit  =  "neit,  neptis.  Vorremo  noi  d'al- 
tronde trascurare  1'  argomento  estrinseco  che  pur  s'aggiun- 
gerebbe mercè  V  oa  dell'  inglese  ^  ce  a  anglosassone  =  é 
antico  sassone  (ovveramente  ei,  come  risuona  nell'ant.  alto- 
tedesco;  v.  Grim.m,  I%  357-59,  240,  106,  KocH,  I,  55-6), 
e  vuol  dire  la  serie  in  cui  entra  Tingi,  oath  ,  giuramento, 
di  contro  alTalto-ted.  eid  ?  Non  va  codesto  argomento,  né 
trascurato,  né  valutato  fuor  di  misura  (i).  E  s'esce,  in  com- 
plesso, con  la  persuasione,  che  non  solo  sia  di  effetto  gallico 
la  risposta  dell'  ei  all'  e  di  volgare  romano  [e  7),  ma  che  sia 
specifica  anche  la  spinta  per  le  ulteriori  riduzioni  :  ui  oe 
tee.  (2). 


(i)  Cfr.  Grimm,  ib.,  ^qy;  ScHucHARDT,inGroeber's  Zeitschr.,  IV,i23. 
L'oz  per  ei  è  anche  nel  piacent.  -oin  =-ein  =  -en  =  -in.  Circa  i  feno- 
meni congeneri  nei  dialetti  del  versante  adriatico  degli  Apennini  me- 
ridionali, lasciatemi  ricordare  ancora  1'  Italia  dialettale  che  già  v'  ho 
citato  (n.  a  p.  21). 

(2)  L'  ui  britone  per  è,  dovrà  egli  in  ultima  analisi  andar  racco- 
stato air  eui  che  è  nell'irlandese  per  è  nell'  'infezione'?  È  questo  un 
quesito  che  ci  porterebbe  troppo  in  fondo  !  —  Vedo  io  bene,  del  ri- 
manente, che  all'affermazione  di  un'intima  attenenza  ira  1' 0/  {ui) 
cimrico  e  1'  oi  francese,  la  quale  implica  la  molta  antichità  d'en- 
trambi, si  potrà  opporre,  a  cagion  d'esempio,  che  stia  V  ei ,  anziché 
r  0/,  nei  più  antichi  saggiuoli  di  francese  non  normanno.  Ma  cosi  si 
ritorna  alla  questione  di  principi,  di  cui  già  accadde  toccare  [n.  a 
p.  19  ecc.],  e  della  quale  altrove  parliamo  a  distesa.  Sia  intanto  lecito 
qui  ripetere,  che  lo  spoglio  dei  codici  o  delle  iscrizioni  è  bensì  cosa  di 


-  32  — 
Che  dunque  si  torna  a  conchiudere  per  il  caso  nostro  : 
La  pronuncia,  con  la  quale  lo  stromento  orale  de'  Galli  ha 
meglio  saputo  rendere  queir  é  molto  chiusa  per  cui  nel  la- 
tino volgare  si  continuavano  Ve  e  T  /  (cfr.  tose,  seta,  pelo^., 
è  stato  queir  ci  appunto  per  cui  tra  loro  si  continuava  V  e 
lunga  delle  basi  celtiche,  di  pronunzia  chiusa    sicuramente 


momento  grandissimo  anche  per  l'effettiva  storia  del  linguaggio,  e 
che  voi  perciò  (scusate  ancora)  non  fate  bene  a  non  parlarne  sempre 
con  tutto  quel  molto  rispetto  e  quella  riconoscenza  vivissima  che  a 
siffatti  lavori  da  tutti  si  devono  ;  rda  che  insieme  è  pur  vero,  non 
essere  codesti  spogli  se  non  uno  solo  dei  fattori  delia  storia,  e  tal 
fattore  che  moltissime  volte  riesce  assai  modesto  in  confronto  di  più 
altri,  o  anzi  riesce,  non  di  rado,  per  molteplici  cause  d'imperfezione 
e  d'artifizio,  così  grandemente  mal  fido,  che  solo  la  critica  più  larga 
e  più  severa  ne  può  fare  sicura  e  giusta  ragione.  Un  paio  di  nuovi 
esempi  non  parrà  forse  inopportuno.  Il  Rhys,  nel  suo  bel  lavoro  che 
già  m'accadde  citarvi  [p.  22  n],  dopo  aver  discorso  dei  dittonghi  ir- 
landesi ìa  =z  e  e  ùa  =:  ò  (v.  la  nota  che  ora  qui  segue) ,  avverte  che 
sicure  traccia  non  s'hanno,  né  dell'uno,  né  dell'altro  dittongo,  nelle 
vecchie  iscrizioni  ogmiche  d'Irlanda,  le  quali  son  probabilmente 
posteriori  al  sesto  secolo  (o.  e,  p.  io3-4).  Orbene  ,  non  é  egli  ben 
più  antico  il  distacco  del  gaelico  dall'irlandese?  E  come  si  può  spie- 
gare la  perfetta  congruenza  dei  sistemi  fonetici  di  questi  due  dialetti 
(compresivi  i  dittonghi  di  cui  si  parla),  se  non  riconoscendo  che  i  loro 
caratteri  sono  anteriori  al  distacco?  Del  rimanente,  appunto  nel  sesto 
secolo  è  fiorito  S.  Colombano,  venuto  a  morire,  nel  principio  del 
settimo,  in  Italia.  Le  nostre  antiche  chiose  irlandesi,  provenienti  dal 
suo  chiostro  di  Bobbio  (ottavo  e  nono  secolo),  si  possono  dir  dav- 
vero r  immediata  continuazione  della  sua  tradizione  letteraria  e  di 
quella  de'  primi  suoi  discepoli  o  successori,  quando  sieno  in  ispecie 
confrontate  con  le  tiote  irlandesi  del  Libro  d'  Annasali ,  che  rappre- 
sentan  la  tradizione  letteraria  dell'ottavo  secolo  nell'  Irlanda  stessa. 
Ma  codeste  note  e  chiose  hanno  p.  e.  1'  ia  (ta)  per  è,  V  éiiii  per  1'  è 
'  infetto',  e  insomma  ci  immettono  in  quelle  condizioni  istoriche,  le 
quali  essenzialmente  permangono  per  tutti  i  secoli  seguenti.  Chi  me- 
diti intorno  a  questo  complesso  di  cose,  non  si  lascerà  di  certo  il- 
ludere dalle  apparenze  d'  incolumità  fonetica  che  da  qualche  grama 
iscrizione  si  possan  ricavare.  Solo  un  miracolo  ci  potrebbe  condurre 
da  cotesta  incolumità  alle  condizioni  effettive  dell'antico  irlandese, 
che  ci  sono  con  tanta  e  tanto  viva  copia  attestate  e  rientrano  con  tanto 
viva  congruenza  nel  sistema  istorialefcfr.  p.40  n). —  Or  qualcheesempio 


-  33  - 
anch'essa  (i).  Nelle  ulteriori  evoluzioni  di  questue/  [ai, 
oi  ecc.),  c'entreranno,  lo  ammettiamo,  delle  cause  '  indivi- 
duatrici  ';  ma,  in  queste  medesime  cause,  ormai  s'intravvede 
la  ragione  etnica  [oi  q.cc.)\  e,  a  ogni  modo,  tutte  le  varietà 
dipendono  dalla  prima  dittongazione  che  ha  chiaro  il  suo 
motivo  nazionale.  Di  guisa  che,  se  ancora  teniamo  conto  di 
quel  successivo  esaurimento  del  d  primario  e  secondario 
che  si  compie  per  una  larghissima  distesa  galloromana  (sul 
quale  proposito  si  può  intanto  ricordare ,  a  chi  non  abbia 
di  meglio,  VArcJi.  gì.,  I,  3o5-ii),  resulta  chiaramente  che 
in  una  cosi  gagliarda  riduzione,  com'è  p.  e.  quella  del  frane. 
sud  (seide  soide  soi[d]e)  pel  lat.  seta,  non  v'ha  nulla  che  ci 
porti  a  imaginare  motivi  più  o  meno  arbitrari  e  meschini.  Ci 
vediamo  queir  esito  che  della  voce  latina  era  naturale  che 
si  avesse  nel  determinato  filone  salloromano. 


&"■ 


4.  5.  Vogliamo  ancor  toccare  dell'  a  in  e  ,  e  della  ri- 
duzione palatina  delle  gutturali  susseguite  da  a  ,  cioè  di 
quelle  due  principalissime  caratteristiche,  le  quali  occorrono, 
o  combinate  o  spaiate,  per  una  gran  zona  galloromana  che 
va  dall'Oceano  all'Adriatico,  e  non  occorrono  all' infuori  di 
essa. 

Raffiguriamcele  imprima  con  queste  rapide  serie  d'esempi: 


che  si  riferisca  propriamente  al  neo-latino.  Chi  vorrebbe  oggidì  ne- 
gare che  il  dittongo  dell'  0  {no  qcc.)  risalga  al  volgare  romano  ?  Nes- 
suno, io  credo,  tra  quanti  studiano  ragionando.  Ma  egli  tuttavolta 
non  c'è  affermato  da  alcuna  testimonianza,  o  di  grammatici,  o  d'iscri- 
zioni, o  di  qualsia  altra  maniera.  E  scendendo  ben  più  in  giù  ,  né 
Bonvicino,  cioè  il  più  antico  autore  in  dialetto  milanese,  né  le  Rime 
Genovesi,  che  sono  il  più  antico  testo  ligure,  hanno  qualsiasi  indizio 
di  o  o  di  un  qualunque  dittongo  dell'  0.  Ma  e'  è  più  oggidì  chi  osi 
sostenere  che  il  dittongo  galloitalico,  o  il  suo  esito,  si  debba  ripe- 
tere da  un'età  posteriore  a  que'  testi  ? 

(1)  Nella  risposta  ibernica  dell'  è,  così  celtico,  come  romano,  è  un  i 
lungo  (ì^  ;  cfr.  cTs  census).  Analogamente  é  ti  lungo  («')  in  quella 
deir  ò,  e  s'incontra  con  1'  ù  IH)  del  cimrico. 

lijvista  di  filologia  ecc.,  X.  3 


—  34  — 

frane,  ame?'  amaro,  clef\  sez.  occidcnt.  della  zona  la- 
dina (alto-engad.):  sei  sale,  tt^ef  trabe;  sez.  centrale  della 
stessa  zona  (garden.):  eia  ala,  feyer  fabro;  corrente  gallo- 
ital.:  piem.  de  dare,  moden.  /?a55é  passare  e  passato-,  ecc.  (i). 

frane,  cher  (ant.  chier\  V/er)  caro,  chevre  {diUi.  chievre\ 
"c'ievre)  capra;  franco-prov.  (savoi.):  :{an  ' c'an  campo, 
c'évra\  sez.  occ.  d.  zona  lad.:  alto-eng.  c'er  caro,  c'éin-a-^ 
sez.  centr.  della  stessa  zona  :  nonese  c'ai^  caro  e  carro , 
c'avrà,  garden,  cancàn  calcagno-,  sez.  orient.  (friul.):  calca 
calcare  (2). 

Qui  pure,  la  esplorazione  degli  idiomi  ladini  è  riuscita 
molto  fruttuosa,  discoprendo  una  continuità,  la  quale  è  af- 
fatto impossibile  ripetere  da  alcun'azione  d'ordine  politico  o 
civile,  che  sia  posteriore  alla  conquista  romana,  e  non  può, 
per  conseguenza,  non  essere  un  effetto  delle  peculiari  condi- 
zioni etnologiche,  anteriori  a  quel  conquisto.  Non  si  troverà 
facilmente,  io  credo,  chi  oggi  si  attenti  d'impugnare  una  tale 
affermazione.  Potè  all'incontro  e  può  parere,  che,  appunto 
per  questi  due  fenomeni,  sia  molto  scarsa  o  manchi  la  riprova 
diretta  o  indiretta  che  naturalmente  se  ne  cerca  nei  territori 
celtici  non  romanizzati.  Ma,  sin  d'ora,  non  siamo  poi  così 
poveri  o  sprovvisti,  neanche  d'argomenti  di  siffatta  specie. 

All'antico  a  si  risponde,  nel  cimrico,  come  già  ci  occorse 
di  avvertire  (p.  27),  per  au  ajp  :  llaivn  pieno  (ibern.  Imi), 
paiip  chiunque  (ibern.  cdch),  brawt  fratello  (ibenr.  brdthir), 
priawi  sposo  (derivazione  per  -àt).  Ne  viene  intanto,  che 
l'elemento  si  turbi  di  continuo.  L'  au  si  vede  poi  ridotto  ad 
eUj  in  llenmi  empire,  allato  a  llaìvn  pieno,  per  la  'infezione' 


(1)  Cfr.  Arch.  s^l.,  I,  538  a,  II,  445. 

(2)  Voi  avete  dimenticato,  per  la  geografia  di  ca  in  e  a  ecc.,  la  ben 
utile  scrittura  del  Joret  [Du  c  dans  les  langues  romanes;  Parigi  1874; 
p.  188  sgg.].  Ma  circa  le  serie  picarde  e  normanne,  non  ho  bisogno 
di  dirvi  che  io  sto  per  la  teoria  del  'ricorso'. 


-  35  - 
causata  dall'  -?';  ed  è  il  parallelo  delT  e  che  s'  ha  normal- 
mente, nel  caso  dell'  'infezione',  per  T  a  breve.  Ma  nel  cor- 
novallico  e  neirarmoricano,  ricorre  V  eu,  o  semplicemente 
e,  senza  che  sia  il  caso  delT' infezione':,  e  cosi:  corn.  lenii 
pieno ,  peb  chiunque ,  armor.  leiin  pep ,  breiider  fratelli , 
priet  sposo.  L'Ebel  suppose  {Gramm.  celi.,  ^96),  che  il  cor- 
novallico  e  V  armoricano  altro  in  effetto  non  dieno  se  non 
il  fenomeno  dell'  '  infezione',  portato  al  di  là  de'  suoi  legit- 
timi confini.  Ma  codesta  dichiarazione  si  risolve  appunto  nel 
riconoscere  una  tendenza,  che  ben  conviene  al  nostro  as- 
sunto. —  Per  quello  che  è  poi  in  ispecie  della  riduzione 
dell'  a  [au  eu)  al  solo  e ,  potrebbe  in  taluno  nascere  il 
dubbio ,  se  forse  non  si  tratti  dell'  imperfetta  rappresenta- 
zione di  un  suono  che  in  sé  compendiasse  tutto  l'  eu  (o). 
Senonchè,  l'armoricano  odierno  qui  toglie  ogni  incertezza  , 
per  la  nitida  distinzione  ch'egli  mantiene,  p.  e.,  tra  leùn 
(lòn) ,  breùr  [bror ,  pi.  bì'eiideùr)  ^  e  pép ,  pried  (i).  — 
Un'altra  congruenza  ,  e  questa  d'  ordine  estrinseco,  va  qui 
ancora  ponderata.  Nella  lunga  serie  di  voci  inglesi  ,  alla 
quale  spettano  bathe  (cioè  bceth),  bagnarsi,  di  contro  all'alto- 
ted.  baden,  o  grave  {c\ot  grcev),  incidere,  di  contro  all'alto- 
ted.  grabcn,  noi  veramente  abbiamo  un  a  in  e.  Onde  pro- 
viene ciò?  Proviene,  per  ragione  immediata,  dall'anglo- 
sassone, che  ha  codest'  ce  (1'  a  di  Grimm),  senza  che  c'entri 
la  ragione  dell' 'umlaut'  [badìi  bddhes,  graf).  Ma  l'anglo- 
sassone donde  ha  poi  egli  questi  turbamenti,  che  riman- 
gono estranei  agli  altri  idiomi  germanici ,  eccetto  il  fri- 
sone (2)  ?  La  congruenza  col  frisone  fa  essa   ostacolo    alla 


(i)  L'  aii  da  a  ci  è  nei  Grigioni  per  le  sole  formole  an  e  ant  ecc.; 
p.  es.  soprasilv.  satin  maun,  ant.  alto-engad.  tanni,  maunc'a  manca  ; 
e  si  riduce  ad  e  nell'odierna  pronuncia  dell'alto-engadino  :  scem  sano, 
tcent  ecc.;  v.  Arch.  gì.,  I,   167  ecc.,  e  cfr.  Diez,  P,   389,  449  n. 

(2)  V.  Grimm,  F,  327   sgg.,  377    (cfr.  36o-6i);    4o3    sg.  (cfr.  410); 


—  36  - 
presunzione  di  un  motivo  '  gallo-britannico  '  di  questa  ri- 
duzione, che  si  continua,  pur  con  l'accento  rimosso,  nelle 
voci  romanze  o  latine  importate  in  Inghilterra  (p.  e.  grade 
dot  g-rced ,  ff race  cioè  groec\  labour  cioè  Lvbgr  ^  naiion 
cioè  nxson  nxsn ,  nature  cioè  ncetjur)  ?  Non  vorrei ,  per 
ora,  dover  rispondere  (i). 

Ripassando  alle  gutturali  che  diventan  palatine  {c'ar  caro 
ecc.),  Tàmbito  intiero  delle  riduzioni  galloromane  andrebbe, 
mi  pare,  brevemente  descritto  a  questo  modo:  I.  Si  riduce 
a  e',  e  rispettivamente  a  g  (2),  la  gutturale  innanzi  ad  a,  a 
formola  iniziale,  o  interna  dopo  consonante  (tipi  :  cavai , 
fórca,  vacca\  gal,  lónga).  II.  Il  g  di  ga  interno  preceduto 
da  vocale,  si  riduce  a  / -,  e  ugualmente  il  e  di  ca  nella  stessa 
postura  ,  il  quale  passa  prima  in  g  (tipi  :  nejdr  negare  ; 
prejdr,  pajdr).  III.  Il  g  riuscito  finale,  che  è  quanto  dire 
il  G  delle  formole  finali  go  gu,  passa  analogamente  in  g  e 
y,  secondo  che  sia  preceduto  da  consonante  o  da  vocale  -, 
e  similmente  il  e  di  -co  -cu,  il  quale  anche  passa  prima  in 
g  (tipi:  larg  fang,  roj  rogo,  c'astij  castigo;  arc\  laj  =  lago 
laco,  dij  dico,  amij). 

La  correlazione  tra'  due  esiti  che  abbiamo  segnato  per  1 
e  II  (3),  si  può  ancora  veder  nitida  e  sicura.  Così,  p.  e., 
il  ladino  di  Sopraselva,  o  almeno  il  dialetto  soprasilvano 
che    prevale,  è    alieno  dall'uno  e  dall'altro-,  e    come    dice 


382  sgg.;  Gesch.  d.  deutsch.  spr.,  660,  680;  Koch,  Hist.  gr.  d.  engl. 
spr.,  1,34,  47.  Scarsi  inizii  nello  svezzese  e  nel  danese,  Gr.,  F,499, 
5i5  (cfr.  426). 

(i)  Cfr.  V  ae  nel  'mittelniederlandisch  '  per  à  a  del  'mittelhoch- 
deutsch',  Orimm,  P,  2S1  sgg.,  unitamente  alle  osservazioni  che  circa 
l'olandese  si  son  prima  qui  fatte  (p.  23). 

(2)  Ricordo,  per  la  semplicità  di  queste  trascrizioni,  quel  che  n'ebbi 
a  dire  più  sopra  (p.  24-5). 

(3)  V.  'Saggi  Ladini'  {Ardi,  gì.,  I),  num.  160-Ó1  ,  162-4,  '65  , 
181-2,  per  es.  a  p.  2o5,  210-11. 


-  37  - 
caiild  caldo  e  vacca,  così  ancora  ^J^ar  ecc.  Ai  dialetti  del- 
TEngadina,  per  contro,  son  propri  tutt'e  due^  e  perciò: 
altoeng.  e  od,  pajér  ,  bassoeng.  c'àud,  pagar  [pajdr).  Si- 
milmente in  Savoia  :  ^emije  Vamize  camicia  ,  fuerie  *fuerc'e 
forca,  allato  a  '{Oié  giocare  ,  ple'ié  piegare  ;  o  nel  Friuli  : 
c'amése,  fórce\  ^ujà,  plejà.  —  L^esito  che  abbiamo  segnato 
col  num.  Ili  (i),  resulta  esso  pure  in  manifesta  relazione 
cogli  altri  due,  ma  in  relazione  non  così  ferma-,  i  suoi  confini 
anche  sono,  in  parte,  più  ristretti  -,  e  forse  va  distinta,  in- 
torno ad  esso,  più  d'un'età.  A  ogni  modo,  la  maggiore  evi- 
denza fisiologica  se  ne  ha  dalla  zona  ladina-,  e  da  questa 
sola  ho  io  presenti  degli  esempi  in  cui  il  fenomeno  si 
compia  dietro  a  consonante.  Nello  stesso  soprasilvano  (a- 
lieno  dalla  riduzione  nelle  formole  ca  ecc.)  s'  hanno  p.  e.: 
arx'  arcus,  pasc'  pascuum-,  e  l'intiera  digradazione  si  esem- 
plifica pel  basso-engad.  suole'  sulcus,  accanto  alFalto-engad. 
siiolj ,  soprasilv.  sulj  (sole'  solg  solj).  Nelle  varietà  triden- 
tino-orientali  della  zona  ladina,  molto  propizie  all'esplosiva 
palatina,  è  schietto  lo  -e'  dopo  vocale.  Così  in  Val  di 
Rumo:  foec'  ecc.,  'mbriac'\  in  Val  di  Non  : ///éc'  ecc.,  lac> 
lago.  Per  codesta  formola  ,  1'  evidenza  ci  è  un  po'  turbata 
dalle  ortografie  de'  dialetti  grigioni,  le  quali  però  non  ces- 
sano di  avere  i  loro  pregi.  Così ,  allato  al  vic\  vicus  ,  di 
odierna  pronuncia  soprasilvana  e  basso-engadinese,  c'è  vich 
vih  delle  grafie  alto-engadinesi;  o  accanto  al  soprasilv.  sig 
sucus  (2),  l'antica  grafia  basso-engad.  d:{uch  (Valle  di  Mun- 


ii) V.  ib.,  num.   167,  i83. 

(2)  Cfr.  castig  ecc.,  sempre  però  esempi  in  cui  la  gutturale  era 
preceduta  da  /  soprasilvano.  Uno  schietto  -g  (-c'j,  preceduto  da  altra 
vocale  che  non  sia  l' r,  non  vedo  ne'  Grigioni.  —  Notevole,  a  questo 
proposito,  r  -ic'  da  -ich  tedesco,  in  liadarlic  ecc.,  liederlich,  di  va- 
rietà sopra-  e  sotto-silvane;  cfr  Ardi,  gì.,  1,  144:  e  qui,  più  innanzi, 
la  n.   I   a  p.  41. 


-  38  - 
ster  :  silch  su)^  odierno  alto-eng.  -uj.  NelF  antico  basso- 
engadino,  occorrono  :  /cec/z  fricech  laec/i  fuoco  ecc.,  e  analo- 
gamente l'oech  *ruego  (preghiera),  che  nelF  odierno  diven- 
tano :  fi)  (j'ò  lo  ,  ri).  La  fase  con  la  continua  palatina  so- 
pravvive, a  cagion  d'esempio,  nel  leventinese  :  fai  g'òi  Un, 
o  in  f/ili  di  qualche  dialetto  del  cantone  di  Neufchiìtel.  In 
giusta  analogia  avremo  per  lacus:  ant.  basso-eng.  laich, 
odierno  alto-eng.  leih  lej ,  sotto-silv.  lai,  leventin.  lai  (e 
laigh).  Ugualmente  è  laj  lai  (le)  in  '  varietà  piemontesi  o 
nell'antico  francese,  e  '-ai  =  -ac  nei  nomi  locali  di  Francia 
e  del  Piemonte  (v.  Ardi,  gì.,  II,  128),  o  nel  prov.  ibriai 
ebriacus,  o  noWuvai  vai,  da  opaco,  tra' dialetti  del  Piemonte 
(Flechia,  Ardi,  gì.,  II,  3),  Per  la  qual  via,  s'arriva  anche 
al  dileguo  assoluto,  come  avviene  ne'  nomi  locali  di  Francia 
in  -a  {-at)  =  -ac. 

Se,  dunque,  non  sarà  di  certo  superfluo  che  ben  si  ri-, 
studii  la  serie  qui  segnata  col  num.  Ili ,  mal  si  potrà,  io 
credo,  revocarne  in  dubbio  l'importanza  istorica,  conside- 
rati che  sieno  i  segnacoli  della  sua  estensione  nello  spazio 
e  i  suoi  rapporti  con  le  altre  due  serie.  Ma  non  dovremo 
noi  insieme  considerare  qualche  congruenza  '  britannica  \ 
in  ispecie  per  quant'  è  dei  filoni  di  media  ?  Se  da  argani 
(ant.  irl.  argat),  argento,  si  viene  al  medio-cimrico  aryant 
(odierno  arian),  o  da  bolg  (ant.  irl.  bolo),  sacco,  al  medio- 
cimr.  boly  boi  (odierno  boly  boi,  stomaco  ecc.),  dovremo 
noi  renunziare  all'idea  che  un'intrinseca  somiglianza  inter- 
ceda tra  cotali  esiti  cimrici  e  i  galloromani  di  cui  teste  si 
toccava?  O  non  farà  al  caso  nostro  pur  la  serie  in  cui  en- 
trano i  cimrici  da  (ant.  irl.  dag  -dadi)  (i),  bonus,  e  ly 
(cfr.  ant.  irl.  teg  tedi\  e  gli  od.  pi.  cimr.  fai,  teiaii),  domus-, 


fi]  l  derivati  come  dayoni  ecc.  (cfr.  Zeuss,  '140,  Pi5,  e  il  cimrico 
odierno)  non  oserei  tutlavolta  dividere  in  daj-oni  ecc.;  cfr.  drygioni 
ecc. 


-  39  - 
od  anzi  lo  stesso  dileguo  di  g  tra  vocali,  com'è  nel  medio- 
cimr.  Breit  Brigita?  Vedo  bene,  quante  seduzioni  e  distra- 
zioni, più  o  meno  pericolose,  qui  da  più  parti  ci  vengano,  e 
in  ispecie  dalla  storia  della  parola  tedesca  (i).  Ma,  sul  ter- 
ritorio celtico,  noi  abbiamo  sicuri  fondamenti  per  istabilire 
la  digradazione  :  g,  gli,  gj,  j .  In  effetto,  date  le  basi  rg  , 
LG,  noi  siamo  al  caso  della  più  legittima  delle  '  infezioni  ' 
britanniche ,  e  '  infezione  ',  in  ultima  analisi ,  vorrà  qui 
sempre  dire  *  aspirazione  '•,  onde  occorrono  realmente:  corn. 
arghans,  armor.  arc'hant  (2).  L'  '  infezione  '  sarebbe  legit- 
tima, secondo  le  norme  del  ^  e  del  ^^  pure  pel  g  britannico 
tra  vocali  e  all'uscita (3)-,  e  in  effetto,  se  passiamo  all'Irlanda, 
avremo  p.  es.  il  medio-irland.  tigh  iighe  (cfr.  teg  teck, 
tige,  degli  ant.  codici),  casa,  della  casa,  o  dagli  {dag  dadi 
degli  ant.  cod.),  buono.  Senonchè,  ogni  gh  irlandese,  come 
ogni  dh  j  si  riduce  a  non  valere  se  non  y  {hj  J)'^  e,  alTin- 
tèrno  o  all'uscita,  finisce  per  tacere  affatto-,  onde,  a  cagion 
d'  esempio,  sono  ormai  come  identici  tra  loro  T  irl.  dagli 
(dà)   e   il  cimrico  da,  buono.  Così  il  lat.  sucus  (sugu-)  è 


(i)  P.  es.,  dalla  serie  cui  spetta  V  [ng\.  day  di  contro  all'anglo- 
sassone dag^  {dei  anche  nel  frisone),  o  da  quelle  in  cui  entrano  l'an- 
glo-sass.  beorh  e  lo  svedese  berg  {berj),  monte,  berg ,  -bury.  Ma 
come  sottrarsi  a  quella  per  cui  dall'anglo-sass.  swylic  (swillc)  s' ar- 
riva all'ingl.  such  ? 

(2)  Pei  filoni,  che  or  qui  si  tentano,  aggiungete  a  Zeuss-Ebel: 
Stokes  ,  Middle-Breton  Hours ,  Calcutta  1876,  p.  67;  Rhys,  o.  e, 
p.  59  sg.,  223  sg.;  D'Areois  de  Jubainville  ,  in  Mém.  de  la  Soc.  de 
Lingiiist.,  IV,  2  56  sg. 

(3)  L' '  infezione  '  importa  per  il  d,  ch'egli  successivamente  si  possa 
fare  un'interdentale  sonora  {th  sonoro  ingl.)  e  alternarsi  con  ^;  p.  es. 
corn.  beth,  cimr.  bedd ,  armor.  èe^,  sepolcro,  Zeuss, -142-44  (cfr  154- 
55),  Le  Gonidec,  Gr.,  1839,  P-  7-  Questo  'stato  '  del  d  primario,  ri- 
corda in  particolar  modo  lo  7  =^  d  del  provenzale  (Diez,  1%  234-35, 
cfr.  23o);  e  il  Maestro  dei  romanologi  avrebbe  forse  parlato  con 
minor  riserva  di  cotesto  riscontro,  se  p.  e.  avesse  potuto  considerare 
le  intime  ragioni  del  cimrico  dd. 


-  40  — 
Stato  sugli  neirirlandese,  come  Tortografia  sempre  dice  ;  ma 
ormai,  passato  di  certo  per  siij  (i),  altro  non  è  se  non  sii 
(cfr.  gli  engadin.  luch,  suj  su,  sucus,  addotti  qui  sopra). 
Afferreremmo  veramente  una  norma  generale  e  fondamen- 
tale, da  dirsi  ibernico-britannica,  dalla  quale  resulterebbe  , 
p.  es.,  che  il  nome  proprio  ch'è  in  antica  ortografia,  iber- 
nica o  britannica,  Dagàn  ('  Buonino'),  volgesse  da  antica  età 
a  una  pronuncia  da  scriversi  pressappoco  Daghan  Da- 
ghjan  (2)-,  o  resulterebbe,  in  altri  termini,  che,  p.  es.,  un 


(i)  Cfr.  le  pronunzie  del  gaelico  [Scozia],  ap.  Ahlwardt  in  Vater's 
Vergleichuiif^staf.,  p.  23 1. 

(2)  Con  quest'asserzione  si  ritorna,  più  direttamente  che  mai,  al 
quesito  sulla  differenza  che  intercedesse  tra  la  pronuncia  effettiva  e 
quello  '  stato  fonetico  '  che  parrebbe  rappresentato  dalla  ortografia 
solenne  o  latineggiante  delle  iscrizioni;  e  io  mi  ci  fermo  volontieri, 
anche  per  ripetere  che  nulla  potrebb'essere  più  lontano  dal  mio  pen- 
siero che  il  negare  altissimo  valore  alle  testimonianze  epigrafiche  e 
merito  grandissimo  a  chi  vi  si  affatica  intorno.  Ma  se,  p.  e.,  le  an- 
tiche iscrizioni  cimriche  ci  danno,  come  il  codice  Landavense,  il  g 
di  tigirn-,  signore,  vuol  ciò  mai  dire  che  questo  g  fosse  a  que'  tempi 
una  gutturale  sonora  ancora  intatta?  Pur  l'antico  irlandese  scrive 
semplicemente  tigerna,  ma  nessuno  perciò  vi  contesta  1'  '  infezione  ' 
del  g,  la  quale  dagli  stessi  antichi  codici  si  ricava  per  argomenti  ne- 
gativi {g  non  gg,  ecc.);  e  s'aveva  dunque,  pur  nell'ant.  irlandese,  ti- 
gherna,  com'è  scritto  nel  medio-irlandese,  onde  poi  tace  affatto  il  gh 
nell'odierna  pronuncia,  così  livellandosi  la  voce  ibernica  con  la  bri- 
tannica. Il  nome  pr.  Eu-tegirn  (allato  a  Eu-tigirn)  del  Landavense, 
accenna,  col  suo  e  ,  a  una  pronuncia  non  gran  fatto  diversa  dall'o- 
dierno teyrn,  o  anzi  forse  a  questa  identica  pronuncia.  Non  mi  voglio 
valere  del  gh  per  g  tra  vocali,  che  parrebb' essere  in  un'antica  ma 
incerta  iscrizione  (Rhys,  o.  c,  p.  364-65).  Ma  se  addirittura  avessimo 
tern  (—teirn)  in  iscrizioni  antiche?  lo  lo  credo.  Il  nome  pr.  Ettern- 
Etern-,  che  occorre  in  due  antiche  iscrizioni,  è  tenuto  dal  Rhys  per 
latino,  e  il  t  gli  parrebbe  una  geminazione  arbitraria  (o.  e,  172, 
275,  366,  393).  Non  farò  difficoltà  circa  l'uso,  abbastanza  raro  o  mal 
certo,  del  lat.  Aetermts  in  funzion  di  nome  proprio.  Ma  il  Rhys  tace 
della  serie  Etern  Edern  Edyrn,  che  è  data  dalla  Grammatica  celtica, 
-140-41,  come  di  nome  proprio  composto  in  cui  entri  tigirn.  Si  fida 
egli  della  dift'crcnza  tra  Llanedern  e  Eiitigirn  o  Mordeyrn  ?  Non  do- 
vremo noi  conchiudcrc.  che  la  effettiva  pronuncia    popolare,  Eteint, 


-  41  - 
lat.  negare  dovesse  andar  facilmente  ripercosso  dai  Celti 
per  neghjar.  Dunque,  mi  chiederete,  volete  voi  sempre  qui 
arrivare,  più  o  meno  modernamente,  ma  per  antica  spinta, 
dalla  gutturale  alla  palatina,  passando  per  V  'aspirazione'? 
Ed  ecco  un'altra  domanda,  io  risponderei,  che  ci  porterebbe 
troppo  in  fondo.  Ma  intanto  lasciate  che  vi  ricordi,  come 
questa  vicenda  torni  affatto  manifesta  in  un  caso  ben  di- 
verso, ma  pur  sempre  bene  analogo,  vale  a  dire  in  ct  , 
CHT ,  JT ,  che  è  la  elaborazione  che  si  compie,  così  per  le 
basi  propriamente  celtiche,  come  per  le  galloromane  (tipo 
noci  nocht  nojt,  tipo  che  s'impunta,  senza  turbarci,  anche 
nella  penisola  iberica)  (i).  I  dialettologi  inglesi  come  dichia- 
rano essi  r  ai  (ei)  che  succede  all'  i  anglo-sassone  nel  tipo 
niht  (fris.  nacìit)  notte  ?  Voi  ne  potete  vedere,  in  questo  mo- 
mento, ben  più  che  io  non  possa  (2).  Se  veramente  si  tratta, 
per  stare  a  quest'esempio,  di  nej't  ^=  nij't  =  nig-lit  ^=  niJit 
(cfr.  il  cimr.  teyrn  da  tijirn^  Zeuss,  "140),  noi  riavremmo, 
per  la  terza  volta,  la  medesima  azione  esercitata  da'  Celti 
sopra  la  medesima  sostanza  originale. 

Ma  tanto  più  giova  che  s'esca  per  ora  da  siffatte  spine, 
quanto  è  meno  controverso  (almeno  tra'  linguisti  italiani), 
che  le  due  caratteristiche  di  cui  ora  s'è  parlato  (e  =  A,  e  a 


è  qui  stata  assunta  alla  dignità  dell'epitafio,  perchè  essa  rasentava  una 
molto  nobile  voce  latina?  Mi  sia  lecita  finalmente,  circa  l'antichità 
de'  fenomeni  caratteristici  degli  idiomi  britoni  ,  una  considerazione 
analoga  a  quella  che  piìi  sopra  facevo  per  gli  ibernici  (p.  32  n)  ;  il 
venirle  cioè  una  conferma  incontrovertibile  dall'intima  congruenza 
tra  la  fonetica  del  britone  d'  Inghilterra  e  quella  del  britone  rifluito 
in  Francia  ne"  primi  secoli  dell'era. 

(i)  Per  questa  via,  che  qui  è  indicata  in  modo  affatto  sommario, 
mi  si  è  fatto  chiaro,  come  da  ct  latino  e  da  cht  tedesco  si  arrivi,  nei 
Grigioni,  a  un  prodotto  identico,  profondamente  rimoto  dalla  base. 
S'ebbe,  per  l'una  base  e  per  l'altra,  la  serie  evolutiva:  cht  jt  jtj  c'\ 
p.  es.:  tee'  tecto,  die'  dicht.  Cfr.  Arch.  gì.,  I,  88,  144. 

(2)  [Cfr.  KocH,  o.  e,  p.  i36,Rhys,  o.  c.,p.  62  sg.] 


—  42  — 
ecc.  =  CA  ecc.)  sieno  di  fondamento  regionale  o  d'  ordine 
etnico.  Solo  ancora  ci  vorremo  far  lecito  ,  a  me'  di  con- 
clusione, un  esempio  che  in  se  compendii,  per  qualche  ma- 
niera, quest'ultimo  paragrafo  e  quello  che  Tha  preceduto. 
Sia  un  riflesso  di  cadere,  cioè  del  volgare  cadére.  Per 
CA  in  c'a  e  pei  fenomeni  rappresentati  dianzi  dal  frc.  soie  = 
sei[d\a,  noi  arriviamo  all'ant.  frc.  chaoir,  moderno  choir, 
che  vuol  dire  sudr,  e  con  ciò  a  una  delle  maggiori  diver- 
genze fonetiche  che  si  possano  pensare.  Ma  la  riduzione  si 
spiega,  in  ogni  sua  parte  ,  per  effetto  di  vicende  che  tutte 
ancora  si  riscontrano,  come  a  filoni  continui ,  dalle  Alpi 
Gamiche  airOceano  (i). 


(i)  La  vostra  annotazione  sulle  congruenze  sintattiche  tra  celtico  e 
galloromano,  mi  sembra  corretta  in  ogni  parte.  Senonchè,  ora  do- 
vete vedere  anche  Schuchardt,  in  Groeber's  Zeitschr.,  IV ,  i5o  sgg. 
Le  costruzioni  irlandesi,  a  cui  alludete,  si  potrebbero  rappresentare 
per  questo  esempio:  is-he  arn-dànatu  dun,  che  è  letteralmente:  c'est 
notre  audace  à  nous.  Vedete,  del  resto:  Zeuss  ,  -920-21.  —  Quanto 
alle  congruenze  lessicali,  bisogna  andar  col  pie  di  piombo;  e  pur  qui 
vi  giova  Schuchardt,  1.  e,  p.  i25  sg.  Gli  esempi  che  prendete  al 
NiGRA,  mi  paion  tutti  buoni  ;  e  se  a  voi  urta,  pel  dr  e  per  altro,  il  suo 
confronto  del  canavese  c/ró^(3,  mendicità  ,  coU'irl. /?v7i?- [cfr.frc. /rw^ni; 
cimr.  truan  —  ant.  irl.  trdgàn  ,  onde  poi  truaghan  triiaan],  egli  ora 
potrebbe  per  so  invocare  lo  Zimmer,  in  Kuhn's  Zej7sc//r.,XXIV,  208  sg. 
Circa  bega,  contesa,  che  è  pur  del  vocabolario  italiano,  ma  è  fermo 
in  ispecie  nell'Italia  Superiore,  io  vi  diceva  semplicemente,  che  se  è 
di  vena  celtica  (irl.  bàgli  combattimento,  bàghaim  combatto,  disputo), 
potrebbe  riuscire  esempio  prezioso  per  V  e^=é.  Circa  il  soprasilvano 
digrar  [deghirar  daghirar),  gocciolare,  dicevo  parermi,  più  ingegnosa 
che  giusta,  l'idea  di  mandarlo  col  cimr.  daigr  ,  lagrima,  perchè,  a 
tacer  d'altro,  qui  mi  parrebbe  un  miracolo  la  conservazione  del  g  di 
un  gr  mediano;  e  contro  il  vostro  tentativo  di  combinare  senz'altro 
il  friul.  tòte  [vivanda  liquida]  coll'ant.  cimr.  iot ,  ant.  irl,  Tth  ,  puls , 
sta  il  fatto  che  i  termini  celtici  attestano  una  forma  fondamentale  col 
/  scempio,  e  il  riflesso  friulano  (jote  e  non  jode)  accenna  all'incontro 
a  //  {et,  pt).  Il  Du  Canoe,  d'altronde,  vi  avrebbe  indirettamente  pre- 
venuto (s.  jutta;  cfr.  Diefenbach,  iVov.  i?^/os5.,  1S67,  s.  "^-Ìj^  ajiitta, 
che  fa  capolino  anche  tra'  vernacoli  tedeschi  ,  sarà  da  richiamare 
pur  l'antiquato  spagn.  jota,  sorta  d'intingolo  o  minestra,  che  manca  al 


-  43  - 

Così  abbiamo  sempre  trovato  (num.  i -5),  per  tutta  questa 
tanto  frastagliata  distesa  di  terra,  una  comunione  di  ten- 
denze iniziali,  che  importano  esiti  conformi.  Questo  com- 
plesso di  tendenze,  che  non  si  riproduce  nel  resto  della  ro- 
manità, e  perciò  resulta  specifico,  è  troppo  chiaro  (diciamolo 
pure  più  volte)  che  non  dipenda  da  alcuna  ragione  di  climi,, 
né  s'abbia  a  ripetere  dalla  depravazione  fortuita  delle  pro- 
nunzie di  singoli  individui,  ed  è  all'incontro  ben  chiaro, 
che  in  effetto  egli  si  risolva  in  un  motivo  anteromano.  Questo 
motivo  noi  crediamo  di  coglierlo;  ma  anche  errassimo  in 
ciò,  resterebbero  pur  sempre  le  congruenze  per  le  quali  si 
dimostra  che  tra  di  loro  così  intimamente  si  stringano  i 
parlari  galloromani,  e  resterebbe  Tantitesi  che  ne  proviene 
tra  questi  e  il  rimanente  dei  parlari  neo-latini.  Com'è  dunque 
che  a  siffatte  condizioni  maggiormente  non  si  fermino  i  ri- 
cercatori delle  cause  per  le  quali  la  parola  latina,  o  la  pa- 
rola in  generale,  s'altera  e  si  frange  (0?  Voi  li  accusate  di 


Diez  e  al  Caix.  —  Finalmente,  il  parallelo  ideologico,  a  cui  accennate, 
io  noi  facea  valere  se  non  come  una  coincidenza  d'ordine  meramente 
ideale.  Dicevo,  cioè,  che  l' irl.  Iàai7n  \\o  getto,  mando,  pongo]  si  as- 
socia idealmente  al  lat.  miltere  che  nel  neo-latino  è  'porre'  (mettere), 
e  al  buttare  che  tra  i  Franco-provenzali  e  i  Piemontesi  viene  a  dir 
'  mettere'.  Il  caso  ritorna  per  pdWuu,  che  ai  Greci  moderni  è  '  get- 
tare' e  '  porre  ';  e  rientra  in  quella  gran  corrente  dell'abuso  dell'energia 
ideale,  ch'ò  tutt'uno  con  la  riduzione  del  contenuto  ideale  della  pa- 
rola. 

(i)  [L'amico,  al  quale  era  diretta  questa  lettera,  si  doleva,  in  ispecie, 
della  noncuranza  de'  motivi  etnologici  che  gli  pareva  di  scorgere  in 
due  autori,  dai  quali  nessuno  dissente  senza  grandissimo  dispiacere  : 
il  Whitney  e  il  Delbruck;  ma  non  ignorava  che  non  da  tutti  si  tra- 
scurano codesti  motivi,  e  così  lo  Schuchardt  pensi  di  continuo  alle 
ragioni  celtiche  delle  trasformazioni  per  le  quali  si  determina  il  gal- 
loromano, o  il  MiKLosicH  scruti,  con  quella  serena  larghezza  che  gli 
è  propria,  le  ragioni  '  autottone  '  che  agiscono  sulla  riduzione  della 
parola  latina  in  parola  rumena,  seguito  ora,  con  molto  zelo,  anche 
da  un  valoroso  indigeno,  I'Hasdeu.  Nessuno  però  ha  affermato,  con 
maggior  coraggio  e  maggior  nitidezza,   la  riazionc  celtica  sul  latino. 


—  44  - 
ostinazione;  ma  io  altro  non  so  vedere,  nella  loro  trascu- 
ranza,  se  non  un  effetto  delle  particolari  difficoltà  che  sono 
inerenti  a  tutti  gli  studi  glottologici,  e  devon  rallentare  ogni 


di  quello  che  facesse  il  Nigra:  'Celticae  gentes,  latinam  linguam 
'  magna  ex  parte  utiquc  mutuati  sunt  et  proprio  ingenio  usuique  ac- 
'  commodaverunt.  Eo  autem  facilius  hoc  factum  est,  quo  arctior  erat 
'  nexus  inter  celticas  et  italicas  linguas,  quo  citius  Celtae  in  ditionem 
'  populi  romani  reducti  sunt,  quo  magis  Roma  victrix  subjectas  im- 
'  perio  gentes  armis,  litteris,  artibus,  legibus,  institutis  superabat.  Re- 
'  vera  romanicorum  populorum  glossarium  et  grammaticam  latinam 
'  originem  perhibent,  quamquam  in  utroque  satis  frequentia  celtica 
'vestigia  manent.  Sed  dum  Celtae  a  Romanis  glossarium  et  gram- 
'  maticam  mutuabantur,  propriam  phonologiam  servaverunt.  Latinam 
'  linguam  accommodaverunt  legibus  celticae  phonologiae,  propriis,  ut 
'  ita  dicam,  organis  propriaeque  pronuntiationi  [Glossae  hibern.  vet. 
Cod.  Taiir.;  Parigi  1869,  p.  xxxii)/  Ma  intanto  il  Whitney  dice,  per 
esempio,  nel  suo  bel  libro  La  vita  e  lo  sviluppo  del  linguaggio  (tra- 
duzione del  D'Ovidio,  Milano,  1876,  p.  4,   io  sg.):   «  Né  le  divi- 

«  sioni  linguistiche  coincidono  con  le  geografiche,  e  neanche,  nei  loro 
<;  limili  e  gradi,  con  gli  apparenti  limiti  delle  razze.    Non    di    rado, 

<  ben  più  grandi  son  le  differenze  di  razza  che  s'incontrano  tra  i  par- 
«  lauti  un  sol  linguaggio  0  un  solo  corpo  di  linguaggi  rassomiglianti, 

<;  che  tra  quelli  che  usano  dialetti  affatto  dissimili  l'uno  dall'altro 

e  La  massa  del  popolo  di  Francia  è  di  Celti,  quanto  alla  discen- 
t  denza,  con  tratti  caratteristicamente  celtici  che  niuna  mistura  o 
<■  educazione  è  stata  capace  d'obliterare;  eppure  è  a  mala  pena  di 
t  qualche  conto  quel  tanto  di  celtico  che  vi  è  nel  francese  ;  il  quale 
e  è  quasi  puramente  un  dialetto  romanzo,  un  rappresentante  mo- 
c  derno  dell'antico  latino.  Pochi  linguaggi  vi  sono    a  questo   mondo 

<  scevri  di  mescolanza,  come  poche  razze  vi  sono  cosiffatte  ;  ma  l'una 
t  mistura  non  determina  punto  l'altra,  né  è  la  misura  dell'altra.  L'in- 
«  glese  è  di  ciò  una  prova  sorprendente  ;  dell'elemento  franco-latino, 

<  preponderante  nel  vocabolario  inglese,  la  parte  più  familiare  e  in- 

<  dispensabile  vien  dai  Normanni,  razza  germanica,  che  l'ebbe  dai 
t  Francesi,  razza  celtica,  che  alla  sua  volta  la  ricevette  dagl'Italiani...» 
Orbene,  noi  appunto  stavamo  vedendo,  se  il  celtico  traspaia,  o  no, 
in  questo  '  rappresentante  dell'antico  latino  ',  e  per  ben  altro  che  non 
pe'  cimeli  lessicali  ai  quali  il  NN'hitney  alluderebbe.  Quanto  poi  ai 
vocaboli  francesi,  che  vennero .  in  molto  abondante  misura  ,  a  far 
parte  del  linguaggio  inglese,  la  realtiÀ  ò  ben  altra  da  quello  che  al 
ragionamento  del  nostro  autore  converrebbe.  Di  certo,  feature  (fai- 
ture  feture),  reason  e  nation.  a  cagion  d'esempio,  son  voci    che  ven- 


—  45- 
loro  progresso.  A  voi  è  parso  che  io  esagerassi  nel  misu- 
rare queste  difficoltà  (i),  e  io  mi  proverò,  un  altro  giorno, 
a  capacitarvi  del  contrario.  A  ogni  modo,  è  non  poco  sin- 
golare la  sicurezza  con  cui  taluni  vengono  a  dirci,  quasi  si 
trovassero  in  possesso  del  più  apodittico  di  tutti  gli  argo- 
menti: che  ogni  alterazione  deve  pur  sempre  essere  stato 
un  individuo  a  produrla  egli  per  il  primo,  e  non  rimanerci 
se  non  di  studiare  come  Talterazione  individuale  si  diffonda 
e  finisca  per  diventare  un  fenomeno  generale  e  costante,  o 
quasi  un  canone  del  dato  linguaggio.  Pare  che  non  entri 
pur  nella  loro  imaginazione  un  caso  come  quello  deir  ù 
che  l'abitudine  orale  di  tutt'intiero  un  popolo  avrebbe  pres- 
soché istintivamente  contrapposto  a  ogni  u  nitido  e  accen- 
tato che  era  proposto  nella  parola  romana  alla  imitazione 
sua.  La  dottrina  delle  spinte  individuali,  la  quale  si  risolve 
nell'affermazione  che  la  storia  della  parola  dipenda,  per  la 
massima  sua  parte,  dalla  pronuncia  difettosa    o    arbitraria 


gono  all'Inghilterra  dalla  Francia.  Ma  vi  stanno  esse  incolumi,  come 
piante  cui  sia  ugualmente  favorevole  o  indifferente  ogni  terra  ?  Mainò! 
Vi  stanno  a  questi  patti  :  che  la  prima  diventi  fitjur  ,  la  seconda 
rifn,  la  terza  nés'ii  [v.  sopra,  p.  36].  E  vuol  dire,  che  non  solo 
escono  affatto  dalla  romanità,  per  ciò  che  perdano  l'accento  latino, 
ma  che  anzi  subiscono  un  nuovo  complesso  d'alterazioni,  in  cui  non 
è  punto  assurdo  o  intempestivo  che  il  glottologo  tenti  distinguere  tra 
la  nuova  parte  che  ne  spetti  a  motivo  celtico  e  quella  che  a  motivo 
tedesco,  cioè  a  ciascuno  dei  due  elementi  onde  constava  la  compa- 
gine nazionale  dell'Inghilterra,  quando  vi  si  immetteva  per  terzo  il 
francese.  —  I  motivi  etnologici  sarebbero  poi  singolarmente  trascu- 
rati dal  Delbruck  nella  sua  d'altronde  ben  pregevole  Introduzione  allo 
studio  della  scienza  del  linguaggio,  là  dove  disserisce  sulle  mutazioni 
fonetiche  ecc.,  a  p.  ii6  sgg.  dell'originale,  p.  iiS  sgg.  della  versione 
italiana  di  P.  Merlo,  Torino  (Loescher),  1881,  la  quale  appunto  so- 
prarriva mentre  io  aggiungo  questa  nota.  —  Insieme  sopraggiunge 
anche  La  glottologia  e  i  neogrammatici  del  Fumi,  Napoli  188 1,  che 
verte,  con  savia  temperanza,  intorno  alle  questioni  di  cui  si  toccava 
nella  prima  parte  di  questa  '  Lettera  '.] 
(I)  Sr.  Crit.,  II,  4  sgg. 


-  46  - 
di  singole  persone  (i),  non  sarebbe  tale,  veramente,  di  cui 
avessimo  gran  fatto  a  impermalirci  in  questa  età  che  pro- 
clama così  tenacemente  gli  umilissimi  principi  d'ogni  umana 
cosa  -,  e  avremmo  pronta,  al  postutto,  una  consolazione  non 
piccola,  poiché  simultaneamente  si  afferma,  che  non  solo 
resti  salda  la  dottrina  delle  trasformazioni  regolari  e  speci- 
fiche dei  suoni  di  ciascun  linguaggio,  ma  questa  anzi  si 
debba  intendere,  d'ora  impoi,  con  un  rigore  non  mai  prima 
sentito  e  draconianamente  inesorabile.  Noi  dunque  ascol- 
tiamo sempre  e  ascolteremo  volentieri  tutto  quello  che  ci 
sappiano  insegnare  circa  gli  sconvolgimenti  che  le  pronunzie 
individuali  riescano  a  causare  nelle  tradizioni  glottiche  di 
tutto  un  popolo-,  e  lungi  dal  negare  Tutilità  o  il  bisogno  di 
insistere  anche  nelle  percezioni  di  codesta  maniera,  ci  fer- 
miamo sempre,  per  quanto  è  da  noi ,  a  distinguere  quelle 
determinazioni  particolari  o  subalterne,  che  sogliamo  dire 
à' individuazione  regionale  (2).  Ma  qual  pur  sia  il  modo  in 
cui  si  pensi  che  la  gran  comunità  dei  parlanti  accolga  e  re- 
goli o  simmetrizzi  gli  errori  o  gli  arbitri"  personali,  ne 
verrà  sempre,  che  gli  effetti  di  tale  azione,  se  la  imagi- 
niamo  grande,  avrebbero  dovuto  perturbare  Tordine  storiale 
della  parola,  causarvi  continuamente  dei  salti  o  degli  strappi, 
rendere  insomma  impossibile,  o  anzi  impensabile,  quella 
che  diremmo  la  storia  naturale  e  ragionata  delle  lingue.  Or 
la  verità  è  all'incontro,  che  questa  storia  ci  resulta  sempre 
più  viva  e  più  sicura,  perocché  sia  come  un'ampia  tela,  che 
si  svolge,  di  fase  in  fase,  con  intera  continuità  e  per  via  di 
coerenze  generali.  E  quando  v'hanno  influssi  di  una  lingua 


(i)  L'affermazione  si  potrebbe  accettare,  senza  molta  difficoltà,  in 
quanto  si  volesse  riferire  a  diverse  tendenze  orali  per  cui  andassero 
tra  di  loro  distinti  dei  veri  patriarchi,  generatori  di  primi  nuclei  di 
tribù  o  di  popoletti. 

(2)  [V.   per  es.  qui  sopra,  a  p.  23-6  e  33. J 


-  47  — 

nelTaltra ,  questi  costituiscono  ,  occorre  appena  avvertirlo, 
dei  nuovi  fatti  storiali,  ma  non  interrompono  o  non  con- 
traddicono la  storia.  Noi  cosi  ricomponiamo  le  vicende  più 
che  due  volte  millennari  della  parola  latina-,  e  troviamo 
bensì,  ch'essa  vada  alterata,  e  anche  di  molto  ;  ma  le  alte- 
razioni, da  quali  cause  pur  s'abbiano  a  ripetere,  rispon- 
dono, generalmente  parlando,  alle  ragioni  fondamentali  di 
questa  medesima  parola,  per  guisa  che  s'  ottengano  come 
altrettante  copie,  a  varT  colori,  ma  tutte  a  lor  modo  fedeli, 
di  un-o  stesso  originale.  Nulla,  di  certo,  è  eterno  quaggiiì  ; 
e  può,  per  esempio,  avvenire,  che  la  trasformazione  im- 
porti il  tramonto  di  antiche  differenze,  cioè  il  coincidere  di 
due  o  di  più  elementi,  diversi  in  origine  tra  loro.  Ma  pure 
i  motivi  di  siffatti  avvenimenti  ci  soglion  resultare  perspicui 
e  non  punto  capricciosi.  Così  più  sopra  ci  ricordavamo  del 
come  e  del  perchè  il  continuatore  dell'  o  breve  e  quello 
deir  0  lungo  venissero  a  confondersi  tra  loro  nella  regione 
francese.  Vi  si  confondono  similmente  il  g  delle  antiche 
basi  GÈ  Gì  (col  quale  va,  come  neir  italiano  ecc.,  anche  il 
^  da  J-;  cfr.  it.  gelo  gelu  e  già  jam),  e  il  ^  seriore,  gal- 
loromano, proveniente  dal  g  della  base  ga;  onde,  per  es., 
oggi  s'ode  ugualmente  uno  \  in  gémir  gemere,  jumeau  ge- 
mello, o  in  jambe  gamba  e  large  larga.  La  ragione,  per  la 
quale  una  almeno  delle  due  serie  parrebbe  scardinata  ,  sta 
in  ciò,  che  il  g  seriore,  cioè  quello  che  sorge  dal  g  della 
base  GA,  si  "rallenta  '  anch'esso,  come  si  'rallentava'  1'  altro 
e  diverso  g  delle  basi  gè  gì  ,  o  come  si  'rallenta'  il  e  se- 
riore della  base  ca  {cavai  sevdl)  \  e  i  due  diversi  g  fini- 
scono, in  questo  conforme  processo,  per  andar  tra  di  loro 
confusi.  Lo  d\^  direbbe  un  fonologo  tedesco,  onde  pressap- 
poco constava  ciascuno  dei  due  g ,  perdette ,  in  entrambe 
le  funzioni,  il  proprio  elemento  esplosivo,  cosi  come  lo  per- 
deva lo  ts  onde  constava  il  e   di  c'avdl  ecc.  Ma  nel  parai- 


-  48  - 
lelo  di  'tenue',  il  e'  di  ce  ci  essendosi  ridotto  a  mera  sibi- 
lante dentale  (e  così,  per  conseguenza  ,  anche  lo  se'  di  sce 
sci;  onde,  p.  e.:  ccndre,  cioè  gadve^  cinere,  comQ  poi ss-ou, 
cìoh  piiac-'o,  pisce,  ovveramente  'pesciolino'),  punto  non  av- 
venne che  le  sorti  sue  si  confondessero  con  quelle  del  e'  di 
CA,  il  quale  vedevamo  che  si  riduca  a  s\  e  nessuno  difetto 
o  arbitrio  di  pronuncia  è  entrato  mai  a  turbare  la  nitida 
e  pur  lieve  distinzione  che  è  tra  le  due  serie  {gadre\  seval)\ 
ne  mai  più  la  turberà.  Nella  zona  ladina,  poi,  la  distin- 
zione si  mantiene  ugualmente  sicura,  così  tra  le  due  serie 
di  tenue,  come  tra  le  due  di  media  (tipi:  c'ener  e  casa  ; 
gener  e  gal).  Non  è  bastata  la  scarsità  o  l'assoluta  man- 
canza di  tradizioni  letterarie,  perchè  alcuna  causa,  o  for- 
tuita o  volitiva,  valesse  a  farle  mai  uscire,  o  deviare  co- 
munque, dall'orbita  della  storia.  E  non  solo  per  ciò  che  è 
d'intere  serie,  ma  anche  in  ordine  a  casi  singoli  o  isolati, 
dei  quali  'a  priori'  si  stimerebbe  incredibile  che  potessero 
andare  incolumi  attraverso  a'  secoli,  contrariati  come  pur 
erano  da  analogie  più  o  meno  generali,  si  riscontra  assai 
frequentemente  una  tenacità  che  sa  di  prodigioso.  Vi  ricor- 
date come  dicevamo,  che  sin  da'  tempi  romani,  e  non  per 
ragione  etimologica,  lo  scendere  di  de-scendere  dovesse  con- 
sonare, per  Ve  chiusa  o  lunga,  con  vendere.,  dove  cotest'e 
ha  la  sua  ragione  etimologica ,  cioè  antichissima  o  addirit- 
tura indo-europea  (2^t?;zo  ^=  vesno ,  iLvo-  (tee).  Vedevamo  il 
toscano  darci  vendere  scendere.,  con  V  e  stessa  di  avere  ^cc.^ 
e  tal  quale  il  siciliano  darci  vìnniri  scinniri ,  con  T  i  di 
avìri  Q.cc.\  e  vuol  dire,  che  l'analogia  generale  dell'e  aperta 
toscana  {e  siciliana)  per  T  e  latina  in  'posizione',  analogia 
che  invale  pur  nella  formola  end  {tendere  pendere  prendere 
accendere,  faccenda  merenda:,  sicil.  sténniri  pénniri).,  non  è 
mai  bastata  a  travolgere  que'  due  esemplari  divergenti.  Il  lat. 
stella  dovette  avere  anch' egli,  non  si  sa  bene  perchè,  un'e 


-  49  ~ 
di  pronuncia  lunga  o  chiusa-,  e  malgrado  le  seduzioni,  non 
solo  dell'analogia  generale,  ma  del  filone  amplissimo  in  cui 
r  e  aperta  appunto  risuona  in  -elio  ed  -ella  ,  oggi  ancora 
il  toscano  sta  saldo  allV  chiusa  del  suo  stella,  per  la  quale 
egli  si  combina  esattamente  con  lo  stidda  (non  stedda)  di 
Sicilia,  stéila  de'  Piemontesi  e  de'  Ladini,  savoiardo  esséila, 
frane,  étoile,  tutti  con  la  giusta  ma  come  eccezionale  risposta 
da  e  lunga,  anziché  da  e  breve  latina. 

Ma  ritornando  più  specialmente  alla  noncuranza  dei  mo- 
tivi etnologici,  egli  è  abbastanza  naturale  che  coloro,  i  quali 
non  se  ne  danno  per  intesi  quando  si  tratti ,  per  esempio, 
di  studiar  la  riduzione  della  parola  romana  nelle  Gallie, 
molto  meno  ci  pensino  quando  la  lor  mente  si  rivolge  a 
cose  piià  rimote,  o  tenti  addirittura  le  cause  e  i  modi  per 
cui  si  son  determinate  le  antiche  varietà  della  famiglia  indo- 
europea (il  tipo  indiano,  Tiranico,  il  greco,  il  germanico,  ecc.). 
Nelle  indagini  sulle  particolari  convenienze  che  tra  questi 
vari  tipi  intercedono,  o  sul  diverso  grado  che  loro  spetta 
in  ordine  alla  conservazione  dell'  organismo  primitivo  (  i  ), 
par  davvero,  per  adoperare  una  frase  vostra,  che  '  invalga 
come  una  moda  di  parlar  de  omnibus  rebiis\  tranne  che 
d'incrociamenti  tra  genti  ariane  e  non-ariane,  o  anche  tra 
Arii  di  varie  stirpi,  che  prima  si  andassero  più  o  men  lun- 
gamente divisigli  uni  dagli  altri.  Un  paragone,  com'è  quello 
della  parola  latina  che  per  la  potente  riazione  degli  indigeni 
si  riduca  a  parola  francese  o  a  parola  rumena ,  parrebbe, 
nel  leggere  i  loro  libri,  che  non  istia  tra  le  cose  pensabili. 


(i)  [Una  lucida  e  ragionata  esposizione  delle  due  principali  teorie, 
quella  cioè  dei  vari  distacchi,  simboleggiali  ntW  albero  (Schleicher 
ecc.),  e  l'altra  delle  varietà  imaginate  in  serie  continua,  a  guisa  di 
una  catena  che  ritorni  in  sé  stessa  (Johannes  Schmidt),  è  nell'opera, 
già  ripetutamente  citata,  di  DelbrUck,  p.  129  sgg.  dell'originale,  139 
sgg.  della  traduz.  ital.] 

Tijvista  di  filologia  ecc.,  X.  4 


—  50  — 
Fanno,  si  direbbe,  di  non  vedere  o  di  non  credere,  che  se 
i  due  termini  asiatici  della  parola  ariana  [l'indiano  e  l'ira- 
nico], i  quali  nelle  lor  più  antiche  fasi  letterarie  si  conci- 
liano ancora  così  agevolmente  in  un  termine  solo,  vengono 
successivamente  a  diverger  cotanto  l'uno  dall'altro,  la  causa 
principalissima  della  gran  divergenza  si  tocca,  per  cosi  dire, 
con  mano,  ed  è  quella  di  cui  avete  così  bellamente  parlato. 
L'organismo  ariano  va  sfibrato  e  guasto,  per  Fazione  dele- 
teria ch'esercita  sovr' esso  l'India  aborigena^  e  varT  incro- 
ciamenti si  sono  bensì  avuti  di  certo  anche  nell'Irania,  ma 
gli  effetti  ne  resultarono,  generalmente  parlando,  men  gravi, 
sia  per  la  qualità  degli  elementi  eterogenei  in  cui  V  ariano 
qui  s'imbatteva,  o  sia  piuttosto  per  le  ragioni  del  numero 
e  della  civiltà ,  le  quali  riuscisser  qui  più  favorevoli  agli 
Arii  che  non  sul  continente  indiano  (i).  Or  come  si  fa  a 
non  inferire,  con  giusta  discrezione,  da  questi  casi  a  quelli 
della  prisca  Europa  ?  La  giusta  discrezione  voi  la  sapete 
sùbito  misurare  e  vuole  esser  molta,  poiché  nessuno  di 
noi  può  dimenticare  la  differenza  che  passa  dall'affinità  che 
interviene,  p.  e.,  tra  latino  e  francese  o  tra  sanscrito  e  ben- 
galico,  a  quella  che  all'  incontro  intercede  tra  il  greco  e  il 
latino  o  tra  il  gotico  e  l'antico  slavo.  Nel  primo  caso,  — 
dove  la  parentela  si  può  significare,  per  via  d'  esempi,  col 
lat.  o  ital.  stato,  di  contro  al  frane,  cté,  o  coU'equivalente 
sanscr.  stìnta  (nomin.  sthitas  sthitò),  di  contro  al  sindio 
thio, —  si  dice,  abbastanza  correttamente,  che  una  lingua  sia 
generatrice  dell'altra,  o  pur  che  questa  sia  una  degenerazione 


(i)  La  diversità  delle  resultanze,  secondo  che  c'inollriamo  a  nord- 
ovest o  a  sud-est  dell'Indo,  si  rappresenta,  abbastanza  correttamente, 
per  esempi  come  son  questi:  neopers.  burndar ,  sind.  bJmu ,  fratello, 
che  rispettivamente  risalgono  a  bràtar-  e  bhràtà  (*bhràto);  —  neopers. 
ast,  pracr.  atthi,  è,  prototipo  asti;  — neopers.  haft,  indost.  sàt,  sette, 
che  rispettivamente  risalgono  a  hapta  e  sapta. 


—  51  — 
di  quella.  Nel  secondo  caso,  -—  che  può  essere  rappresen- 
tato pel  greco  a-mélgo,  allato  al  lat.  miilgus  [capri-miilgus  ; 
mulgeo),  o  pel  got.  dauhtar,  allato  al  tema  lituano  dukter-^ 
figlia,  —  gFidiomi  diversi  resultan  tra  loro  nella  relazione 
di  fratello  a  fratello,  o  come  in  una  certa  parità  di  grado. 
Senonchè,  egli  è  ovvio  imprima,  che  dagli  incrociamenti 
(come  già  con  brevi  parole  s'è  testé  accennato  nell'avvertirsi 
la  differenza  generale  tra  neo-persiano  e  neo-indiano,  e 
come  accadrebbe  di  avvertir  facilmente  pure  sul  campo  neo- 
latino) si  possono  avere  effetti  grandemente  diversi,  secondo 
le  proporzioni  e  le  qualità  dei  fattori.  Quando  ci  traspor- 
tiamo a  età  così  remote  come  son  quelle  in  cui  si  matu- 
rano le  differenze  per  le  quali  sorge  il  paleo-italico,  il  go- 
tico ecc.,  le  condizioni  di  quantità  o  di  numero,  per  dir  di 
queste  sole,  dovremo  di  certo  imaginarle  ben  più  modeste 
di  quelle  che  ci  rappresentino,  a  cagion  d'esempio,  il  cozzo 
e  la  mistione  degli  Arii  e  degli  Aborigeni  nella  penisola 
indiana.  Urti  sovversivi  la  parola  ariana  non  ne  avrà  su- 
bito, in  nessuna  parte  dell'antica  Europa-,  ma  gli  urti  si 
saranno  grandemente  moltiplicati,  lungo  la  sterminata  di- 
stesa di  secoli.  C  è  poi  da  considerare,  in  secondo  luogo, 
che  il  rapporto  di  fratellanza  o  di  parità  di  grado,  il 
quale  si  afferma  esistere  tra  il  greco,  il  latino,  il  gotico  ecc., 
va,  alla  sua  volta,  inteso  anch'esso  con  giusta  discrezione. 
O  anzi  diciamo  addirittura,  che  in  codesta  affermazione  vi 
ha  non  poco  di  esagerato  e  di  scorretto.  Sin  che  si  tratti 
del  nucleo  fonetico  della  parola,  potremo  dire,  abbastanza 
giustamente,  che  la  sostanza  primordiale  sia  continuata,  nei 
diversi  termini,  per  modo  che ,  suppergiù,  nessuno  di  essi 
termini  sovrasti  all'altro,  nessuno  abbia  perduto  o  innovato 
più    dell'altro  (i).  Ma  se  veniamo    alla   flessione,  o  anche 


(i)  La  stessa  laiitverschiebung,  piuttosto  che  una  vera  innovazione, 


-  52  — 
alla  sintassi  rudimentale,  come  si  può  sostenere  alcun  che 
di  simigliante?  Il  greco  torreggia  solitario,  per  la  meravi- 
gliosa incolumità  delTorganismo  ariano  che  a  lui  è  propria. 
Il  latino,  o  diciam  pure  il  paleo-italico,  bene  è  di  certo  il 
linguaggio  che  men  d' ogni  altro  si  discosta  dal  greco  ^  e 
chiude  gli  occhi  alla  verità  chi  a  ciò  non  consente;  ma  u- 
gualmente  li  chiude  chi  ciò  non  affermi  con  giusta  discre- 
zione. Poiché,  malgrado  le  particolari  congruenze,  quanto 
grande  non  resta  egli  il  distacco  tra  i  due  linguaggi ,  per 
esempio  nella  flessione  del  verbo  !  Tutte  insieme  sommate 
le  differenze,  per  le  quali  vanno  disgiunte  ira  di  loro  le  lingue 
neo-latine  (la  rumena  compresa),  non  basterebbero  a  coprire 
una  modesta  parte  di  codesto  distacco  (i).  Il  quale  natural- 
mente si  risolve  in  ciò,  che  il  paleo-italico  perda  o  innuovi, 
mentre  il  greco  sta  fermo  airarchetipo.  Or  come  si  spiega 
codesto?  I  climi  è  manifesto  che  non  ci  possono  entrare.  La 
ragione  del  tempo  neanche;  poiché  lo  stesso  numero  di  se- 
coli è  passato  sopra  la  voce  che  è  didòmi  nel  greco  {dd- 
dàmi  sanscrito)  e  sopra  quella  che  è  do  nel  latino,  la  prima 


può  dirsi,  con  linguaggio  musicale,  un  trasporto  che  non  turba  Var- 
monia. 

(i)  Chi  perciò  discorra  dJ italo-greco,  può  non  avere  nessun  torlo, 
e  il  torto  stare  dal  lato  di  chi  frantenda  le  parole  o  l'assunto.  Qui 
anche  il  Deleruck  mi  pare  che  non  veda  assai  felicemente  (o.  e,  alla 
fine).  Basterebbe  la  storia  delle  aspirate  a  dimostrare  un'intima  con- 
gruenza tra  italico  e  greco.  O  anche  basterebbe  la  storia  delle  vocali; 
dove  andrebbe  giustamente  considerata,  oltre  la  congruenza  nelle  an- 
tiche determinazioni,  anche  la  persistenza  eccezionale  di  quei  fo- 
nemi; e  così,  p.  e.  in  ego,  ohtò  (di  contro  al  lit.  as  io,  o  al  got. 
ahtaii ,  od.  ted.  acht ,  otto),  non  solo  badato  alle  congruenze  delle-, 
dell' o-  (comune  questa  al  celtico)  e  dell' -o,  ma  badato  insieme  al 
perdurare  che  fa  1' -o,  oggi  ancora,  nelle  voci  italiane  od  elleniche; 
o  similmente  in  *oinso  {ihfjLoc,  umerus),  per  dir  d'  un  altro  esempio, 
che  oggi  ancora  mantiene,  suppergiù,  le  vocali  di  quell'età  che  di- 
remmo italo-greca.  Quanto  non  c'è  di  caratteristico,  sotto  più  rispetti, 
e  sempre  d'ordine  italo-greco,  nel  -uosco  (conosco)  che  oggi  ancora 
risuona  sul  labbro  italiano  ! 


-  53  - 
rimanendo  incolume  e  la  seconda  riducendosi  di  tanto  -,  così 
come  il  medesimo  numero  di  secoli  è  corso  per  Roma  e 
per  Parigi  dal  punto  in  cui  Cesare  immetteva  nelle  Gallie 
la  voce  stato,  la  quale  è  a  Roma  rimasta  incolume  sempre, 
mentre  a  Parigi  si  riduceva  a  été.  Come  dunque  sfuggire, 
pel  latino  stesso  o  il  paleo-italico,  a  quella  ragione  del  tras- 
formarsi della  parola ,  che  sta  nei  mutamenti  della  com- 
pagine della  nazione,  o  insomma  ai  molivi  etnologici,  pei 
quali  l'antico  organismo  si  perturbi  e  rallenti?  Nella  sintassi 
rudimentale  deirantico  celtico,  voi  trovate  una  tal  differenza 
dall'archetipo  (che  insomma  vuol  dire  dal  greco  e  dagli  i- 
diomi  antichi  dell'Asia  ariana),  da  non  bastare  a  misurarla, 
se  ancor  mi  permettete  la  similitudine  di  prima,  tutte  quante 
unite  le  differenze  che  sono  tra  le  sintassi  rudimentali  di  tutti 
gli  altri  idiomi  indo-europei.  Or  codesta  differenza  non  si 
spiega,  se  non  come  un  effetto  dell'Europa  ante- ariana. 


III.  —  Rimetto  a  un  altro  giorno  il  toccare  delle  vi- 
cende etnogoniche  in  relazione  alla  saldezza  che  s'  avverte 
nelle  trasmutazioni  de'  suoni-,  e  per  questa  volta  non  vi  ag- 
giungerò se  non  delle  note  ben  rapide  (ma  per  voi  suffi- 
cienti) sopra  alcuni  quesiti  a  cui  vi  conduceva  la  Gramma- 
tica greca  di  Gustavo  Meyer.  Del  qual  libro  voi  dite  molto 
bene,  ma  non  ne  dite,  cred'io,  abbastanza.  Le  riserve,  che 
si  possano  o  si  debban  fare,  quando  pur  versino,  come  pare 
a  voi,  intorno  a  questioni  numerose  e  rilevanti,  non  tol- 
gono, in  un  caso  com'è  questo,  che  la  lode  abbia  a  riuscire 
calorosa  e  piena. 

I .  Mostrate  meraviglia  perchè  il  Meyer  non  tocchi  di 
aiepeói;  =  *starja-,  cioè  non  si  dia  per  inteso  di  un  eo  che 
possa  corrispondere  a  Jo,  e  perchè  egli  citi  bensì,  come  pa- 
rente di  èxeÓ!; ,  il  sscr.  satjd- ,  ma  quello   riconduca  a  èie- 


-  54- 
FÓ-?  (i).  Forse  era  più  legittimo  il  fare  qualche  maraviglia 
per  il  silenzio  eh'  egli  serba  intorno  a  K€veó<g,  nel  passo  in 
cui  ragguaglia  correttamente  k€ivÓ(;  kcvó?  col  sscr.  giuijd  , 
origin.  "kvanjd  (§  264)  (2)-,  o  perchè  non  appaiano  espres- 
samente considerati  o  chiariti,  nel  debito  luogo,  i  rapporti 
che  corrono  tra  aieppó*;  e  crieipa,  o  tra  v.vjvoc,  e  Keivó?  (cfr. 
§§  109,  273-74).  In  effetto  è,  che  questi  innovatori,  come 
vedono  che  a  rj  q  a  nj  il  greco  si  sottrae  col  mandare  as- 
similato o  internato  \\j  (lesb.  cpGéppuu  ktévvo);  gr.  com.  ò- 
veipo?  qpaivuj),  così  non  ammettono  questa  diversa  continua- 
zione di  rjo  ecc.  che  sarebbe  peo  ecc.-,  e  similmente,  poiché 
TJ  dà  notoriamente  aa  (tt),  non  potrebbero  mai  ammettere 
un  160=  tjo.  Così  intanto  avete  una  loro  difficoltà  contro 
èieó  =  satjd,  che  è  come  d'ordine  generale  e  perciò  insieme 
abbraccia  pur  gli  ahri  esempi.  Ma  se  ne  aggiungono  altre 
due.  Poiché  satjd  contiene  in  sé,  come  si  crede,  il  participio 
sani  (rad.  as)  in  forma  debole,  la  qual  forma  debole  do- 
vrebbe andar  riflessa  ,  nel  greco,  per  ài  (di)  e  non  per  ix 
{il).  S'è  finalmente  scoverta  un'armilla,  la  quale  porta  i- 
scritto:  EieFavòpiu,  e  perciò  vengono  ormai  agitando,  con 
formidabile  sicurezza,  un  èieFó-?  (3).  Ora,  circa  la  difficoltà 
che  dicemmo  d'ordine  generale,  noi  siamo  qui  appunto  per 
tentarne    la    risoluzione.   E  circa  le  altre    due ,  peculiari   a 


(i)  [Griechische  grammatik  von  Gustav  Meyer  ;  Lipsia  1880;  §  -^21, 
cfr.  §  219.] 

(2)  Lo  scrupolo  vostro  circa  la  scarsa  antichità  che  possa  avere 
questo  derivato  {cùnjà  da  cUnd]^  non  si  regge.  Imprima  non  manca 
al  Veda  (ò  nel  composto  cùnjàisn  dell' Atharva)  ;  poi  c'è  la  riprova 
dell' ant.  slavo  suj  che  1' Hìjbschmann  giustamente  accompagna,  nel 
luogo  già  citato  [Kuhn's  Zeitschr.,XW\\,  17],  coU'armeno  sin.  Questa 
voce  armena ,  del  resto ,  non  prova  neanch'  essa  contro  sp  da  cv 
(v.  sopra,  p.  II,  n);  poiché  null'è  più  naturale  che  riportarla  a  suj  ti, 
come  riflesso  di  un  indo-iranico  pmja.  Ma  di  ciò  altrove. 

(3)  Vedete:  Brugmann,  in  Kuhn's  Zeitschr.,  XXIV,  34;  G.  Meyer, 
ib.  243  ;  OsTHOFF,  ib.  419. 


-  55  - 
èxeó?,  sia  intanto  lecito  dire,  che  vanno  messe  entrambe  in 
lunga  contumacia.  Di  certo  ,  la  sezione  sat-jd  non  si  può 
teoricamente  impugnare  -,  ma  resta  pur  sempre ,  che  non 
si  troverebbe  nell'antico  indiano  un  secondo  esemplare  di 
simil  tipo,  cioè  del  tipo  tiidat-ja  (i),  e  che  altre  sezioni 
non  sieno  impossibili  (ne  tocchiamo  in  appresso),  intorno 
alle  quali  andrebbe  appunto  consultato  il  riflesso  greco. 
Quanto  airEteFavòpuj,  voi  sapete  come  io  non  sia  un  grande 
adoratore  d'ogni  à-nal  \eTÓ|aevov  epigrafico  \  e  codesto  nome 
proprio  deir  'armilla'  non  mi  scuote  gran  che.  Sarà  bene 
aspettare  un  secondo  esempio,  prima  di  credere  a  questo 
èieFó  -,  come  sarà  bene  aspettarne  un  altro  paio ,  prima  di 
risolversi  a  staccare  òq  fi  ò  da  jds  q.cc.  per  grazia  del  fa- 
moso Fon.  —  Così  dunque,  nel  mostrarvi  come  sia  che  il 
Meyer  non  pareggi  tra  loro  i-xeòc,  e  satjds,  vi  avrò  insieme 
confessato  che  io  sempre  ancora  li  pareggi. 

2.  Ma  procedendo,  dovremo  credere  davvero,  che  xe- 
veóq  sia  morfologicamente  diverso  dal  suo  sinonimo  eolico 
KÉvvoq  (=  Kevjo(;),  o  l'att.  aieppóq  diverso  da  aiepeóc,  ?  Ognun 
vede,  che  ciò  repugna,  come  a  priori  (2).  Si  vuole  mal  sicuro 
Teol.  aXXog ,  che  starebbe,  nell'identico  rapporto,  allato 
ad  nXeó^;  ma  non  verrà  conferma,  appunto  da  questo 
rapporto,  a  quella  forma  controversa  ?  E  poi  da  considerare, 
che  son  tutti  ossitoni  gli  esemplari  greci  in  -eo  che  qui  en- 
trino in  questione  :  cJTepeó  iiXeó  Keveó  èxeó,  cui  io  aggiungo. 


(i)  [V.  Grassmann,  WÓrterb.  ^.  Rigv.,  p.  171 1,  cui  ora  si  aggiunge: 
Whitney,  Index  verborum  to  the  piiblished  text  of  the  Atharva-Veda, 
in  Journ.  of  the  Am.  Or.  Soc,  New  Haven  ,  1881,  p.  352.  C'è  5^1- 
hantja  (che  non  vedo  in  Lindner,  Altind.  nominalbild.)  \  ma  parrebbe 
piuttosto  derivare  da  un  *sahanta^  che  non  immediatamente  dal  par- 
ticipio, e  a  ogni  modo  darebbe  il  tipo  tudant-ja.] 

{2)  Va  anche  ricordato  l'argivo  ùj^ea  (Esich.),  accanto  ad  òjiov,  ujóv. 


—  56  - 
come  sapete,  anche  Geo ,  e  abbiamo  ugualmente  ossiioni  i 
sscr.  cùnjd  satjà  divjd  \  laddove  è  o  balena  il  parossitono 
negli  esemplari  eolici ,  con  T  assimilazione,  che  si  possan 
qui  richiamare  (Kévvo<g,  òXkoc,  ;  cui  s'  aggiunge,  malgrado  la 
incertezza  in  ordine  all'elemento  assimilato,  T  eoi.  aiiwoc, 
allato  a  aieivó?  cfTevóg;  v.  Curtius,  ^609).  Non  avremo  qui 
noi  la  corretta  imagine  della  doppia  accentuazione  greca 
(cfr.  dii'jà  allato  a  divja  nel  sanscrito)  e  insieme  la  ragione 
deir  -eo?  Io  lo  credo  fermamente  (i). 

Credo  cioè,  che  pj  vj  \j,  e  così  pure  altri  nessi  congeneri 
di  cui  in  appresso  tocchiamo,  sviluppassero  facilmente  nel 
loro  seno  una  vocal  sottile,  quando  riuscivan  protonici  (2)-,  e 
Kevejó?  così  rappresentare  altrettanto  normalmente  uno  degli 
antichi  tipi  accentuali  del  greco,  quanto  Kévjoq  (cioè  kévvo?) 
rappresenti  normalmente  V  altro.  Da  Kevejó?,  come  sapete , 
si  viene  poi  regolarmente  a  Kcveóq.  Sarebbe  questo  un  ben 
determinato  filone  per  V  dvaitTuSiq  greca,  da  aggiungersi  a 
quelli  che  già  si  sono  esplorati  (cfr.  G.  Meyer,  §§  92  e 
29).  E  diremo,  per  non  tacere  di  ogni  analogia  esteriore , 
che  se  il  greco  ebbe  p.  e.  |ió\upo-,  piombo,  da  )a\upo-,  come 
Tant.  persiano  ebbe  diirug,  mentire,  da  driig^  così  avrebbe  il 
greco  avuto  (JTepejó  q.cc.  da  (jTep)ó  ecc.,  come  Tant.  persiano 
non  potea  più  avere  se  non  tija  nija  ecc.  per  tja  nja  q.cc. 
di  fase  anteriore  :  martija  ani/a  arija  (3).  Non  ho  poi  bi- 
sogno di  ricordare  a  voi  l'analogia  dei  viventi   dialetti  del- 


(i)  Ho  tralascialo,  per  andar  cauto,  di  valermi  dell'accentuazione  di 
oreìpa,  o  di  quella  di  eupeóq,  cfr.  Gaipóq,  ma  Gai  paia,  sscr.  dùrja,  pa- 
rossitono, e  dvàrja. 

(2)  Un  buon  presentimento  sarebbe  in  L.  Meyer,  Vergi,  gr.,  II, 
40  r. 

(3)  Cfr.  Spiegel,  Keilinschr.,  147,  J.  Schmidt,  Vocalism.,  II,  3oo- 
3o2.  Le  analogie  indiane  so  che  le  avete  presenti  ;  ma  non  è  forse 
inutile  ricordare,  come  sia  per  gran  parte  illusoria  la  differenza  che 
sembra  qui  intercedere  tra  1'  antico  persiano  e  lo  zendo.  L' illusione 


—  57  - 
l'Italia  meridionale,  che  vi  danno  p.  es.:  mestérejo  myste- 
rium,  cójera  ('cójra)  coria,  chiéseia  ecclesia,  'mmireja  ('nvi- 
dja),  tee. 

3,  Già  vi  dicevo,  che  non  credo  limitato  il  fenomeno 
greco  alle  sole  basi  che  segneremmo  per  njó  rjó  ljó.  Così 
io  cerco,  non  in  altro  che  negli  effetti  di  un'  accentuazione 


proviene  dalla  scrittura,  o,  a  dir  meglio,  dalla  trascrizione;  poiché 
nella  scrittura  originale  è  veramente  un  doppio  jod  o  un  doppio  van 
per  il  j  o  rispettivamente  per  il  v  delle  trascrizioni,  che  piuttosto 
dovrebbero  darci  ij  e  uv  (vedete  Spiegel  ,  Gramm.  d.  altbaktr.  spr., 
§§  43,  45).  Laonde,  p.  e.,  rimpetto  a  uno  dvitja,  secondo,  che  giusta- 
mente si  pone  come  forma  primitiva,  sono  ben  poco  diversi  tra  di 
loro,  in  ordine  ai  riflessi  di  -tja,  il  sscr.  dvitìja,  l'ant.  pers.  duvitija 
e  lo  zendo  bitiia  (bitja)  ;  il  quale  esempio  giova,  del  resto  ,  anche  a 
mostrare  come  l'ant.  persiano  andasse  più  in  là  per  questa  via  ,  che 
non  facesse  lo  zendo  [duv-  da  dv-).  Similmente  si  ragguagliano  lo  zendo 
Huuacpa,  o  scriviam  pure  addirittura  Hiivacpa,  e  l'ant.  pers.  Uvagpa, 
quel  dai  bei  cavalli  (sscr.  sv-acva).  L'antichità  del  fenomeno  si  ad- 
dimostra, per  modo  particolare,  nel  caso  dello  zendo  huva,  ant.  pers. 
uva,  per  l'origin.  sva-  suus,  il  quale  insieme  dà  allo  zendo  ,  per  via 
affatto  normale,  quel  prodotto  che  si  trascrive  per  qa  e  proviene  da 
uno  speciale  inasprimento  di  hv^=sv  (hva,  khva,  kh[v]a).  La  interca- 
lazione è  dunque  accaduta  quando  il  linguaggio  era  ancora  alla  fase 
hva  (o  sva);  prima  cioè  che  avvenisse  l'inasprimento  che  s'esprime 
per  khva  ecc.  S'ebbero  così,  nell'antica  Irania,  le  due  varietà  hva  e 
huva,  la  prima  delle  quali  subì  ulteriore  e  normale  alterazione  nello 
zendo  (qa),  e  l'altra  ne  subì  una,  pur  normale,  nell'ant.  persiano 
[uva);  onde  si  risolve,  a  cagion  d'esempio,  la  gran  differenza  che  ap- 
pare tra  due  riflessi  della  prima  parte  di  uno  stesso  nome  proprio  : 
Uva-khsatara  ('autocrata')  nelle  iscrizioni  cuneiformi,  e  Kiia-Hdpn<; 
nella  pronuncia  che  ritraevano  i  Greci  (quasi  uno  zendico:  Qa-khsa- 
thra;  onde  Khva- khsahra).  Intanto  io  riafferro,  per  questa  via,  un  altro 
dei  vostri  quesiti,  quello  cioè  che  concerne  il  rapporto  genealogico 
tra  sva  e  sava,  suus,  o  iva  lava,  tuus.  A  voi  probabilmente  parrà  che 
qui  si  navighi  nelle  vostre  acque  ;  e  mi  direte  :  Così  come  1'  antica 
Irania  ebbe  l'epentetico  huva  allato  a  hva,  non  potremo  dunque  am- 
mettere, per  una  fase  ancora  più  antica,  gli  epentetici  sava  lava  da 
sva  tvaì  E  vi  potreste  pur  compiacere  dell'opinione  di  due  gran  va- 
lentuomini, i  quali,  considerando  isolatamente  lo  zendo  hava=:.*sava 
(terza  voce  per  'suo'),  hanno  stimato  pur  questa  una  voce  epentetica; 
JusTi ,    Handb.  d.  :{endspr.,\).  359  a,  Spiegel,    Gramm.  d.  altbaktr. 


—  58  — 
diversa,  la  ragione  della  differenza  che  passa  tra  il  solito 
tipo  del  futuro  greco  e  il  tipo  dorico,  non  estraneo,  per  voci 
mediali,  pure  al  resto  della  grecità  (i).  Credo,  cioè,  alla 
coesistenza  indoeuropea  di  due  tipi  accentuali  di  futuro  ,  i 
quali,  in  via  teorica  ,  rappresento  per  rdik-sja  e  rik-sjd , 
onde,  sempre  in  via  teorica  per  ora,  le  resultanze  greche: 
XeiTc-ajo  e  Xm-crejó. 

Come  vengo  io  a  questa  presunzione  ?  Non  ha  per  me 
alcun  diretto  valore  un  argomento  che  a  prima  vista  par- 
rebbe averne  tanto,  quello,  cioè,  del  costante  tipo  indiano 
dd-sjd  {ddsjàmi),  allato  al  solito  tipo  greco  òuu-au)  (buucruj). 


spr.,  §§  63t,  i6t.  Senonchè,  io  debbo  imprima  confessarvi,  che  non 
vorrei  vedervi  andare  tanto  insù.  E  se  proprio  esigeste  una  mia  opi- 
nione non  altro  che  teorica,  vi  dovrei  poi  dire,  che  date,  per  il  pe- 
riodo unitario,  due  forme  come  sva  e  sava,  le  probabilità  di  gran 
lunga  maggiori  mi  parrebbero  stare  per  l'anteriorità  della  seconda. 
Ma  scendendo  a  più  umili  strati,  mi  piace  piuttosto  ricordarvi,  che 
nell'Asia,  oltre  lo  zendo  hava=^sava  suus,  noi  raccoglievamo,  come 
un  vero  possessivo,  il  genitivo  tara  tui  (pater  tui  =  pater  tuusj,  che 
è  dello  zendo  e  del  sanscrito.  —  Del  rimanente,  l'opinione  che  mi 
attribuite,  nel  toccare  dei  riflessi  greci  di  tva-s  (oó-q)  e  tava-s  (reó-O, 
l'opinione  cioè  che  tv  dia  a  (-aa-)  a  tutti  i  dialetti  greci,  è  veramente 
la  mia;  come  è  vero,  che  per  le  forme  greche  col  -t-  nella  voce  per 
'quattro' (réTope^  ecc.),  io  abbia  detto,  non  doversi  trascurare  gli 
esiti  del  tipo  feminile  [c'dtasr  *TéTeop-),  che  ha  perduto,  nel  greco,  la 
sua  individuale  esistenza. 

(i)  L'OsTHOFF,  seguito  da  G.  Meyer  (§§  538,  SSg),  vorrebbe  che  il 
futuro  dorico  (il  quale,  nella  maggiore  sua  schiettezza,  si  rappresenta 
con  la  voce  òeiEeoine;),  fosse  una  'contaminazione'  del  tipo  òeiHo-  col 
tipo  |uev^o-.  Ora  di  codeste  'contaminazioni',  o,  per  dir  meglio,  di  co- 
desti cumuli  di  esponenti  flessionali,  se  ne  danno  di  certo;  e  un  per- 
fetto sardo,  come  dolfcsi  (dov'è  dol-ui  e  dolsi,  e  più  ancora),  ne  può 
essere  un  buon  esempio.  Ma  è  un  perfetto  tralignatissimo,  cioè  gran- 
demente rimoto  dalla  coscienza  istorica  delle  sue  ragioni,  come  sù- 
bito si  riconosce  anche  dal  presente  dolfo  o  dui  participio  doljìdu.  Le 
condizioni,  in  cui  avvengono  siffatti  cumuli ,  sono  esse  dunque  tali 
da  compararsi  con  quelle  in  cui  òeiEuu  rispondeva  a  beÌKvu|ui?  Non 
chiudiamo  gli  occhi  alla  verità,  se  vogliamo  cercarla  I 


—  59  - 
Poiché  il  sanscrito,  dandoci  p.  e.  daiksjd-  (non  diksjà-) 
o  jaksjd  (non  iksjd-),  accenna  a  una  rimutazione  di  ac- 
cento; richiama  cioè,  in  modo  manifesto,  un  anterior  tipo 
accentuale:  ddiksja-,  che  legittimamente  coincide  col  tipo 
solito  al  greco:  beiSo-,  e  si  mantiene,  per  lo  stesso  antico 
indiano,  nel  prezioso  esemplare  susja-nt-j-ds  (i),  del  quale 
tantosto  si  ritocca.  Ma  perchè  è  ella  poi  avvenuta  nell'an- 
tico indiano  questa  rimutazione  d'accento?  Nessuno  certa- 
mente vorrà  pensare,  io  credo,  a  un  'conguagliamento'  di 
accentuazione  tra  1'  antichissimo  futuro  e  il  futuro  partici- 
piale {dàttt  'smi  ecc.),  formazione  perifrastica,  ben  tarda  e 
affatto  peculiare.  Né  più  alcuno  vorrebbe  sostenere  la  ra- 
gione che  per  codesta  mutazion  d'accento  era  imaginata  da 
Francesco  Bopp  (2).  Tutti  or  penseremo,  piuttosto,  alla 
prevalenza  che  un  tipo  accentuale  abbia  conseguito  sull'altro, 
per  modo  che  lo  stato  del  nucleo  radicale  più  non  corri- 
spondesse di  continuo  alla  ragione  dell'accento;  dove  non 
va  dimenticato,  circa  la  facilità  con  cui  potesse  o  l'uno  o 
l'altro  tipo  prevalere,  che  il  Veda  e  l'Avesta  portano  a  cre- 
dere ben  limitato  l'uso  del  futuro  nelle  più  antiche  età  della 
parola  indoeuropea.  L'antico  indiano  avrà  così  conguagliato 
un  *gdi-sja  {gi  vincere),  a  cagion  d'esempio,  accentato  ori- 
ginalmente sulla  radice,  con  un  dìiak-sjd  (dah  ardere),  che 
sin  dalle  origini  potè  avere  l'accento  sull'esponente  del  fu- 
turo (onde  la  serie  livellata,  che  or  si  forma  per  gaisjd  ecc., 


(i)  Delbrìjck,  Altind.  verbiim,  p.  i83. 

(2)  [Giova  riprodurre,  anche  pel  confronto  con  quant'ahro  qui  poi 
si  dice,  le  parole  del  glorioso  fondatore  della  nostra  disciplina:  'Die 
'  betonung  des  griechischen  und  litauischen  (òiuaiu  ecc.)  scheint  mir 
'  die  ursprlingliche  und  die  sanskritische  cine  folge  der  auch  bei  no- 
'  minal-compositionen  im  sanskrit  vorwaltenden  neigung  zur  verschie- 
'  bung  des  tones  vorri  ersten  glied  auf  das  zweite.  '  Vergleichend.  ac- 
centuations-system,  p.  120.] 


-  60  - 

dhaksjd  tee).  Nel  greco,  air  incontro,  e  nel  lituano  ,  pre- 
valse il  tipo  con  r  accento  sulla  radice  (òoj-ctuj  ,  dù'-siu)  -, 
con  questa  differenza  però,  che  quando  lo  stato  della  ra- 
dice ammetta  distinzioni,  il  greco  sempre  l'abbia  allo  stato 
forte  (costante  cioè  il  tipo  l'dik-sja),  e  il  lituano  allo  stato 
debole  (costante  cioè,  contro  la  ragione  storica  dell'accento, 
un  tipo  rik-sja).  Ha  insomma  il  lituano  la  stessa  accen- 
tuazione e  il  medesimo  stato  di  radice  nel  futuro  e  nell'in- 
finito,  il  quale  riviene  anch'  esso  a  un  tipo  originale  con 
r  accento  sulla  parte  accessoria  (tipo  rik-ti)\  onde  p.  es., 
l'ékìi  (=:leik-)  io  abbandono,  hk-siu  abbandonerò  (XeiTT-cruu), 
hk-ti  abbandonare.  Tra  sanscrito  e  lituano  è  un'antitesi, 
che  è  per  noi  sommamente  istruttiva  (sscr,  raiksjù-mi,  dal 
tipo  rdik-sja\  lit.  hk-siu,  dal  tipo  rik-sjd).  E  resta  lo 
zendo  ;  il  quale  pare  di  non  poco  aiuto  per  la  ricostituzione 
di  qualche  cospicuo  esemplare  asiatico,  in  cui  fosse  di  ra- 
gione storica  l'accento  che  prevalse  nell'indiano;  o,  in  altri 
termini,  pei  diretti  indizi  di  una  condizione  asiatica  la  quale 
si  potrebbe  rappresentare  coi  tre  esempi  :  dà-sjà ,  dik-hjìi 
rdik-sja,  tutti  e  tre  compiutamente  legittimi,  onde  poi,  per 
l'attrazione  vicendevole  degli  ultimi  due,  il  sanscrito  veniva 
a  daikijd.  Il  tema  di  futuro  che  lo  zendo  contrappone  al 
sanscrito  bhav-i-'sjd  (cpucTw,  tema  del  presente:  bhdvà)^  è 
bu-sja  (tema  del  presente:  bara).  Questo  esemplare,  di  gran 
pregio  per  noi  a  ogni  modo,  non  tanto  però  ci  favorisce, 
quanto  a  prima  vista  potrebbe  parere.  La  utilità  ne  può 
in  parte  andare  sminuita  dalla  qualità  della  vocale  (i)  e  dal 
curioso  incontro  coli'  esemplare  vedico  su-sja  ,  che  s"  è  di 
sopra  addotto  e  appunto  ha  V  accento  sulla  radice.  Ma  il 
doppio  tipo   brillerebbe  nello  zendo    per  dl'sa    (=dikh-sja), 


(i)  Cfr.   Bopp.  Vergi,  ^r.,  §  665. 


-  61  - 
tema  futurale  di   die  segnare  ,  insegnare,  allato  a  haosja-y 
tema  futurale  di  hu  spremere  (i). 

Questa  è  dunque  Tintelaiatura,  nella  quale  mi  rientra  il 
doppio  esito  greco:  òeiso- =  déiksjo,  e  h^xito- =^  deiksejó. 
Allato  al  tipo  che  per  lo  stato  della  radice  coincide  col  san- 
scrito e  per  l'accento  col  lituano,  v'ebbe  insieme  tra'  Greci 
quello  che  per  entrambi  i  caratteri  coincide  col  sanscrito. 
Dove  è  da  aggiungere,  che  nulla  osti  a  credere  che  Taccen- 
tuazione,  onde  ripetiamo  Vejo ,  si  mantenesse  incolume  in 
sino  all'ultimo.  Poiché  la  grammatica  ben  può  accentuare, 
a  sua  posta:  -TrpaEéuj  ecc.-,  ma  la  verità  è,  che  noi  non  ab- 
biamo forme  non  contratte  che  ci  mostrino  il  loro  accento, 
quando  si  tolgano  i  due  esempi  esichiani,  e  irecre'ovTai  (Om.)^ 
TTecTéeiai  (Erod.),  le  quali  due  forme  era  per  doppia  ragione 
impossibile  che  i  grammatici  accentuassero  diversamente  da 
quello  che  hanno  fatto.  Gli  altri  esemplari  ,  o  sono  con- 
tratti ,  sia  nelle  epigrafi  ,  sia  negli  autori ,  o  non  contratti 
nelle  epigrafi  (2)-,  e  nessuno  può  dire  che  non  s'abbia  piut- 
tosto a  accentuare:  -TTpaHeiO,  o  che  òoHeTxe  non  risalga  a 
òoEeé-xe  piuttosto  che  a  boHée-xe. 

Ma  procedendo  ancora,  io  vi  confesserò  di  presumere  , 
che,  in  alcuni  casi,  il  fenomeno  epentetico,  di  cui  veniamo 
studiando,  sia  anteriore  alla  vita  individuale  del  greco.  Spero 
così,  che,  malgrado  i  molti  ostacoli ,  ne  debba  venir  luce 
intorno  a'  verbi  greci  e  latini  in  -eo  \  dove  mi  paiono  veri 
precursori,  comechè  rimasti  ben  lontani  dalla  meta,  il  Grass- 


(i)  Cfr.  JusTi,//anii^.,"i56,  401  ;  J.  Schmidt,  Revue  de  linguisiiqiie, 
III,  365.  Non  vedo  però,  che  Spiegel  e  Hovelaque  tengano  conto, 
tra  le  forme  futurali,  di  disà,  disjàt  (e  meràsjàt);  e  non  posso  con- 
sultare, in  questo  momento,  il  Bartholom-c.  Ci  vogliono  forse  ve- 
dere forme  aoristiche  modali  ? 

(2)  V.  Curtius,  Verbum,  IP,  317  sgg. 


—  62  — 
mann  e  il  De  Saussure  (i).  Ugualmente  sarà  un  caso,  che 
oltrepassi  i  limiti  del  greco,   quello  che  appunto  forma  uno 
de'  vostri  quesiti,   e  al  quale  ora  passo. 

4.  Dico  di  -rèo  nellVìggettivo  verbale,  che  si  ripristirta 
in  un  ossitono  -rejó  per  virtù  del  triplice  esempio  d'Esiodo, 
e  risalirà  a  -ijó;  dove  il  nesso  xj,  mercè  l'ossitonia  e  Tepen- 
tesi  che  ne  consegue,  era  per  legittima  ragione  sottratto,  pur 
susseguendo  a  vocale,  alla  sorte  ch'egli  ha  dovuto  subire , 
essendo  postonico,  in  Trpóaaiu,  jnéXiaaa,  ecc.  (2). 


(i)  Il  primo  nel  giornale  di  Kuhn,  XI,  48  sgg.;  il  secondo  nei  Mé- 
moires  de  la  Société  de  Linguist.,  Ili,  279  sgg. 

(2)  V.  Stud.  crit.,  Il,  41 3  sgg.  Non  fu  ivi  potuto  addurre  alcun 
esempio  di  aa  da  xj  che  non  fosse  nella  sillaba  postonica.  Ma  anche 
tra  le  serie  di  era  da  9j  kJ  ecc.,  non  raccogliete  lutt' insieme  se  non 
due  soli  esempi,  in  cui  la  riduzione  appaia  nella  tonica  :  kwoòc,,  ko- 
Xoaoó^,  ib.,  419  sgg.  —  Mi  sia  ancora  lecito  soggiungere  compendio- 
samente, qui  in  nota,  che  il  -rèo  di  òaréov,  osso,  ha  per  me  l'identica 
storia  fonetica  del  -reo  degli  aggettivi  verbali.  Credo,  cioè,  che  si 
debba  partire  da  astjà  (cfr.  Curtius,  Griind!:^.,  num.  2i3),  onde  *ò- 
<jxejó  ecc.,  caso  che  grandemente  rassomiglia  a  quello  di  àvja  (cfr. 
ib.,  num.  597),  che  dà  il  pi.  argivo  ùj^ea  (*òFejó)  della  già  citata  chiosa 
esichiana  ,  allato  ai  ùjiov  (ibóv)  e  al  lat.  ovum.  Come  ad  àvja  sta  il 
lat.  ovo,  così  pressappoco  sta  ad  astja  un  lat.  *osso  (onde  os  oss-is  ; 
come  vas  vas-is  da  vaso,  cfr.  Corssen,  Ausspr.,  II*,  594,  597)  ;  e  *osso 
ci  offrirà  veramente  un  nuovo  esempio  per  l' antichissima  assibila- 
zione  di  tj  dopo  altra  consonante,  non  già  un  esempio  eccezionale  di 
55=5  prim.  -\- t  (cfr.  Frohde  in  Bezzenberger's  Beitr.,  I,  2o5  ,  de 
Saussure,  Mém.  d.  l.  Soc.  d.  Ling.,  Ili,  297).  Codesta  riduzione  di 
5  -f-  ?  in  55,  non  occorre  mai  ;  e  così  è  un'eccezione  apparente  anche 
r  -issimo.  Il  vero  è,  che  da  -timo  si  venne  a  -simo  per  schietta  evo- 
luzione fonetica,  nei  casi  dove  era  legittimo  che  questa  evoluzione 
intervenisse  (p.  es.  in  mac-simo;  cfr.  fic-so  da  fic-to).  Così  da  dives, 
cioè  dal  tema  divit ,  si  sarà  regolarmente  avuto  un  *divissimo  (cfr. 
messiis  da  met-to)  sul  tipo  mac-simo,  allato  a  un  *divitistimo  sul  tipo 
sollistimo  ;  e  siamo  nel  filone  donde  poi  1'  -issimo  si  stacca  e  diffonde 
come  se  in  lui  altro  non  si  contenesse  che  l'esponente  del  superla- 
tivo. Ma  di  più,  un'altra  volta  ;  e  qui  ancora  sia  avvertito  questo  solo: 
che  è  un'  illusione  il  -simo  del  preteso  *celer-simo  celerrimo  ,  poiché 
r  -\-  s  origin.  ben  si  risolve   in  rr  [*fer-se  ferve).;  ma  ?"  -f-  5  second., 


—  63  — 

Non  si  parla  delF aggettivo  verbale  in  -teo,  senza  parlare 
insieme  deiraltro  aggettivo  verbale  in  -to;  o  a  parlar  per 
via  d'esempi,  deve  considerare  cpató-,  'quel  che  si  può  dire', 
chiunque  consideri  (paiéo-,  'quel  che  si  deve  dire'.  —  Ab- 
bandonato, e  a  ragione ,  come  io  pur  credo ,  il  ragguaglio 
-reo  =:  sscr.  tavja  (i),  or  dunque  vorrebbero  persuaderci 
di  questo:  che  il  participio  in  -to  ,  di  significato  ancora 
molto  incerto  ,  e  come  elastico  ,  nella  più  antica  fase  del 
greco,  si  venisse  piegando,  sin  dall'età  omerica,  a  significar 
la  'passività  contingente';  e  che  nella  forma  in -/e/o  (-teo), 
ottenutasi  grecamente  o  anzi  atticamente  da  quella  in  -to  , 
si  sviluppasse,  dopo  Omero,  la  significazione  della  '  passi- 
vità necessaria  '  (2). 

Voi  sapete  ,  quanto  il  punto  di  partenza,  per  sé  stesso , 
qui  mi  debba  repugnare.  L'organismo  del  linguaggio  indo- 
europeo, qual  ci  resulta  per  il  periodo  durante  il  quale  la 
unità  degli  Arii  andò  spezzata,  è  ben  lungi  dalFesser  tale 
a  cui  si  convengano  le  ipotesi  di  funzioni  fluttuanti  o  mal 
fisse.  Le  incertezze  che  si  vogliono  attribuire  ,  nelT  ordine 
della  funzione,  al  periodo  unitario,  si  risolveranno  ben  piut- 
tosto in  altrettante  deviazioni,  che  la  funzione  originale,  così 
come  il  suono,  ha  dovuto,  per  varie  ragioni,  più  tardi  su- 


o  resta,  o  dà  55  5  {vorsus  prosa).  Il  vero  è  all'inconlro ,  che  il  com- 
parativo ridotto  (celer-is-)  qui  s'aggiunge  all'esponente  -i-mo  che  è  in 
minimo  infimo  ecc.;  onde:  celér-is-imo,  che  dà  necessariamente  ce- 
lér\i]rimo.  È  insomma  il  tipo  plo-is-imo  plurimo. 

(i)  Cfr.  Curtius,  Verbum,  IP,   384. 

(2)  V.  Curtius,  ib.,  385  sgg.,  G.  Meyer,  o.  c,  §  600;  Brugmann, 
Morpliol.  iintersuch.,  I,  202  sg.  Qui  mi  sia  permesso  notare,  senza  che 
ne  soffra  la  molta  stima  che  tutti  devono  a  un  così  sagace  e  così  bene- 
merito indagatore  quale  è  il  Brugmann,  come  il  suo  lavoro  sul  pas- 
sivo indo-iranico,  nel  quale  entra  il  passo  testé  citalo,  non  mi  possa 
rimuovere  comunque  da  ciò  che  io  ebbi  a  dirne  in  un  vecchio  mio 
Saggio  ch'egli  non  ha  conosciuto  [Studi   ario-semitici,  II,  §  20). 


-  64  — 
bire.  Ma  venendo  senz'altro  al  concreto,  tollerate  che  io  qui 
faccia  precedere  la  conclusione  alle  dimostrazioni,  e  vi  dica 
sùbito,  che  ben  lungi  dall'aversi,  nel  nostro  caso,  alcun  che 
di  peculiare  al  greco  o  di  post-omerico,  la  nostra  doppia 
forma  e  la  sua  funzione  sta  come  impressa  in  fronte  alla 
umanità  indoeuropea,  con  quel  doppio  e  antichissimo  nome 
che  è  nelle  voci  vediche  marta  e  mdrtja ,  '  T  uomo  ',  cioè 
'il  mortale'.  Non  dicono  codeste  voci,  se  vogliamo  antici- 
patamente esaurire  la  parte  ideale,  non  dicono,  come  ognun 
vede,  'il  morto',  ma  neanche  dicono  senz'altro  'il  mori- 
turo'. Data  questa  funzione  meramente  futurale,  noi  reste- 
remmo a  significazione  attiva  ,  quando  il  nostro  esponente 
si  applicasse  a  verbo  transitivo  (avremmo,  p.  e.,  un  '  fac- 
turus').  Ma  si  tratta  di  'quello  sul  quale  è  dato  o  è  voluto 
'che  si  compia  lo  stato  o  l'azione  che  il  verbo  esprime  '; 
e  perciò  è  legittimo  che  pel  medesimo  esponente  si  ottenga, 
da  'morire':  '  quel  che  può  o  dee  morire',  e  da  'fare': 
*  quel  che  può  o  dev'  esser  fatto  '.  La  riprova  sperimentale 
di  questo  ragionamento,  s'  ottiene  di  leggieri ,  consideran- 
dosi ,  p.  e.,  il  ted.  sierb-lich  mortale  ,  allato  al  pur  ted. 
thun-lich  fattibile;  o  anche,  in  modo  un  po'  indiretto,  guar- 
dando insieme  a  eiindum  viiìii  est  e  faciendiim  mihi  est. 
Circa  poi  al  'potersi  fare'  o  al  'dover  farsi',  ei  son  con- 
cetti che  si  toccano,  massime  nelle  origini,  o  si  confondon 
tra  di  loro;  e  infaiidus,  a  cagione  d'esempio,  è  :  'is  de  quo 
quis  fari  non  debet  vel  non  potest  '. 

Ora  un  po'  di  storia  o  di  dimostrazione,  secondo  che  le 
forze  per  oggi  consentano.  Il  vedico  marta  ,  cui  a  capello 
risponde  lo  zendico  mareta,  non  è  più  se  non  un  sostan- 
tivo (il  mortale,  l'uomo),  onde  viemeglio  si  conferma  l'an- 
tichità del  vocabolo.  La  significazione  aggettivale  balenerebbe 
però  ancora  nell'  oma€  X€YÓ)aevov  amarla  immortalis.  E  pa- 
rossitono   questo  marta ,  e  tal  dalle  origini ,  come    appare 


-65  - 
dallo  stato  della  radice,  il  quale  è  pur  comune  al  termine 
iranico.  A  parlare  in  termini  grammaticali,  il  'participio 
futuro  passivo'  qui  si  differenzia  dal  'participio  perfetto 
passivo',  per  l'accento  e  per  la  conseguente  diversità  nello 
stato  della  radice  (sscr.  mrtd  mortuus,  zend.  meìxta).  Nella 
stessa  funzione  del  -ta  di  marta,  abbiamo  insieme,  per  la 
maggiore  antichità  indoeuropea,  un  -aia  (come  anche  allato 
del  -ià  di  part.  perf.  pass,  apparirebbe  un  -atà  nel  soli- 
tario pac'atd  coctus  (i)).  I  tre  esempi  vedici  che  si  soglion 
citare  (2),  già  li  conoscete  :  darcatd^  che  può  essere  veduto 
o  merita  d'esser  veduto,  videndus,  jagatà  colendus,  sanctus, 
harj'-atd,  tal  da  essere  desiderato-,  e  un  quarto  ne  incon- 
triamo più  in  là.  Sono  diventati  ossitoni  ,  lasciandosi  at- 
trarre dall'analogia  abondantissima  del  participio  di  perfetto 
passivo  ,  col  quale  ormai  non  si  potean  più  confondere , 
stante  1'  -a-  -,  ma  lo  stato  della  radice  (p.  e.  darcaia  e  non 
drcata,  cfr.  drcati)  attesta  un'antica  accentuazione  da  rap- 
presentarsi per  *ddrcata,  e  analoga  perciò  a  quella  di  mdrta. 
Lo  zendo  risponde  sempre  a  capello  :  darecata,  ja^ata.  — 
Quanto  al  greco,  il  continuatore  di  mdrta  vi  è  inopióq  Ppoió?, 
che  ha  ceduto  per  1'  accento  alla  stessa  analogia  cui  cede- 
vano darcatd  ecc.  nell'India,  ma  anche  le  ha  ceduto,  almeno 
in  parte,  per  lo  stato  della  radice  (3);  e  così  il  greco  s'avvia, 


(i)  vratd,  cioè  vr-atd,  venuto  a  funzione  di  sostantivo  (volere,  do- 
vere ,  ecc.) ,  domanderebbe  lunghe  considerazioni.  Vedete  intanto  : 
PoTT,   Wiir^ehvorterb.,  Il  3,  61 5. 

(2)  [Cfr.  Benfey,  Volisi,  gr.,  p.  144;  Lindner,  o.  c,  p.  38.] 

(3)  Qui  avvien  di  confrontare,  almeno  per  quant'  è  delle  sorti  fi- 
siche della  parola,  il  sscr.  rtd  ,  giusto  ecc.,  coW  ar[e]ta  dell'antica 
Irania  (órta).  Andrebbe  poi  ristudiato  il  sscr.  amrta  'immortale* 
(3=  zend.  amesa),  coincidente,  e  per  l'accentuazione  singolare  (cfr. 
àkrta,  dvrta)  e  per  l'accezione,  con  adrsta  non  visibile  (cfr.,  del  resto, 
anche  il  semplice  drstd),  e  insieme  considerato  anche  àdhrsta  irresi- 

1{ivista  di  /ilolof(ia  ecc.,  X.  5 


-  66- 
con  questo  esempio-principe,  a  quella  indistinzione  di  forma 
tra  le  due  diverse  entità  passive  in  -ta,  che  si  rappresente- 
rebbe per  TvuJTÓ?  òapió?  ecc.-,  indistinzione  che  gli  riu- 
sciva tollerabile ,  per  la  ragione  che  nelle  funzioni  di 
schietto  participio  passivo  egli  aveva  in  continua  funzione 
le  forme  in  -fievo.  Dei  riflessi  greci  che  s'abbiano  per  il 
tipo  dàrc-ata  (come  àpi-òeiK-ero),  s'è  il  Benfey  avveduto  per 
il  primo  (i). 

Allato  Si  -ta  e.  -ata,  s'ebbe  anche  -tja  qual  derivatore  di 
'participi  futuri  passivi*;  s'ebbe,  cioè,  a  parlare  con  l'esempio- 
principe ,  mdrtja  mortale  (che  dee  morire) ,  sinonimo  di 
marta.  11  valore  tipico  di  codesto  martja  non  si  sminui- 
rebbe per  nulla  da  chi  pur  lo  volesse  un  'derivato  '  da  marta 
pel  suffisso  ja,  fidandosi  dell'  analogia ,  scarsa  per  più  ra- 
gioni, che  parrebbe  offerta  da  cvaitjd  sinonimo  di  cvaitd  , 
bianco  (2).  Rimarrebbe  pur  sempre,  che  questa  '  deriva- 
zione ',  grandemente  antica,  diventasse  un  vero  tipo.  Nel  più 
antico  strato  della  letteratura  indiana,  è  già  fermo  l'uso  di 
mdrtja  come  sostantivo,  e  anzi  è  il  solo  \  ma  pure  in  quello 
strato  si  sente  lo  schietto  aggettivo  nel  composto  dmartja 
immortale,  come  si  sente,  pur  fuori  del  composto,  nei  Brà- 
hmana  (3).  Nell'antico  persiano  si  risponde  correttamente 
per  martija  al  sanscr.  mdrtja,  e  ne  appare  costante  1'  ac- 
cezion  di  sostantivo,  anche  nel  composto  {ii-martija  euav- 


stibile,  e  qualche  altro  esemplare,  pur  dallo  zendo.  Qui  agiscono  pur 
le  ragioni  del  composto.  'Il  non  mai  conseguito'  rasenta  '  l'incon- 
seguibile';  cfr.  inaccesso,  inaccessibile. 

(i)  [Cfr.  L.  Meyer  ,  o.  e,  II,  92,  Curtius,  Verbum,  11%  387;  e 
molto  felicemente  il  Bezzenberger  aggiunse,  in  Kuhn" sBeitrUge,  Vili, 
120:  à-ait-€To-q.] 

(2)  Con  molto  savia  cautela,  in  Bohtlingk-Roth  non  si  deriva 
mdrtja  da  marta ,  ma  semplicemente  da  mar.  Vedete  anche  Pott  , 
o.  e,  ib.,  525-26. 

(3)  V.    BoHTLINGK-RoTH,    S.    V. 


—  67  - 

òpo?,  ben  popoloso).  Così  è  pur  dello  zend.  masja{-=zmartja 
per  5  =  r/),  Che  se  passiamo  ad  altri  esemplari  asiatici, 
mal  si  potrà  di  qui  staccare  lo  zend.  frakhstja  M'interro- 
gando' (i);  ed  è  grandemente  prezioso  il  ved.  gopajdtja 
custodiendus,  che  accennerebbe  a  un  -a-tja  (come  più  sopra 
incontravamo  V  -a-ta  di  darcata  tee.)  (2),  e  ci  riconduce  a 
satjd,  vero,  che  potrebbe  ammettere  la  medesima  sezione: 
s-atja,\uQ\  che  dev'essere,  deve  stare,  sussistere '(3).  Siamo 
così  arrivati  al  -tja  pel  quale  normalmente  s'ottengono,  in 
grammatica  sanscrita,  participi  futuri  passivi  da  *  radici  in 
vocal  breve',  e  nessuno,  io  credo,  oggi  vorrebbe  sostenere 
che  il  t  ne  sia  un  'fulcro'  della  radice,  e  non  parte  inte- 
grale dell'antico  esponente.  Esempi  vedici  ne  sono:  bhvtja, 
il  mantenendo,  il  servo  (cfr.  bhar-a-td ,  il  mantenendo,  il 
soldato),  e  crùtja,  degno  d'essere  udito.  È  lo  stesso  tipo 
dell'  'assolutivo',  sì  per  l'accento  e  sì  per  lo  stato  della  ra- 
dice, ma  questo  stato  accennerebbe  a  ossitonia  originale. 
—  Passando  al  greco,  non  sapremmo  non  incominciare  da 
Ppóieio?  Ppóieoq,  sebbene,  e  per  l'uso  meramente  aggettivale 
e  per  l'accento,  vi  sien  le  apparenze  di  una  derivazione  no- 
minale, propriamente  greca ,  da  PpoTÓ(; ,  onde  si  potrebbe 
voler  fortuito  ,  malgrado  la  congruenza  fonetica,  l'incontro 
della  forma  tra  Ppóieio*;  e  mdrtja{martijà).  Ma  se  badiamo, 
dall'un  canto,  alla  grande  antichità  e  alla  gran  tenacità  del 
termine  asiatico,  e  consideriamo,  dall'altro,  che  il  nostro 
aggettivo  greco,  ben  lungi  dall'essere  di  fattura  più  o  men 
tarda ,  resulta  estraneo  alla  prosa  e  occorre  ne'  poeti  più 
antichi,  mal  sapremo  rassegnarci  a  non  crederlo  un  diretto 


(i)  Cfr.  JusTi,  o.  e,  3716;  Spiegel,  Gr.  d.  altb.  spr.,  p.  94. 

(2)  Cfr.  Benfey,  Volisi.  gr.,§  goS,  in  f. 

(3)  [Avrebbe  un  esempio  di  -atja  anche  lo  zendo;  v.  Bezzenberger 
in  Kuhn's  Beitr'dge,  Vili,  120.] 


—  68  — 

continuatore  della  stessa  forma  originale  che  si  continua  tra 
gli  Arii  dell'Asia  (i).  Viene  poi,  in  vera  funzione  d" ag- 
gettivo verbale',  e  ossitono,  il  tre  volte  ripetuto  (paieió^  di 
Esiodo:,  onde  la  conclusione  è,  che,  sopra  questo  antico 
stampo  greco  e  secondo  che  lo  stato  della  radice  vuole,  noi 
riportiamo  il  solito  KXutéog  a  *kXut€Jó,  così  tal  quale  come 
prima  portavamo,  secondo  che  lo  stato  della  radice  sempre 
vuole,  il  vedico  crùtja  a  *crutjd.  E  quando  taluno  ci  vo- 
lesse disturbare  in  questo  nostro  ragionamento,  noi  davvero 
ci  sentiremmo  ormai  disposti  a  gridargli  con  buona  maniera: 
àTT-iTÉov!,  che  indianamente  sarebbe:  apa-itja-m  (2). 

Se  poi  gli  spogli  omerici  non  ci  danno  alcun  'aggettivo 
verbale'  in  -reo,  non  ne  può  venire,  a  chi  ben  guardi,  al- 
cuna difficoltà  contro  Taffermazione  che  per  -reo  si  continui 
una  formazione  anteriore  alla  vita  individuale  del  greco. 
L'  uso  dei  'participi  futuri  passivi'  in  -ta  e  tja,  sarà  stato 
scarso  nelle  origini ,  e  molto  scarso  è  sempre  rimasto  tra 
gli  Arii  dell'Asia.  Nell'Europa,  all'incontro  (e  vuol  dire, 
come  tosto  vediamo,  così  tra  i  Celti  come  fra  gli  Elleni), 
egli  si  è  venuto,  lungo  i  secoli,  dilatando.  L'  età  d' Omero 
non  avrà  conosciuto  se  non  pochi  o  pochissimi  di  codesti 
derivati  verbali  per  -teo;  ma  è  assurdo  sostenere  che  le 
fossero  del  tutto  estranei,  quando  Esiodo  ci  mostra  il  suo 
(pareió?  in  una  combinazione  stereotipica  (outi  qpaxeió?,  tal 
quale  un  lat.  infaiidiis\  la  quale  palesa  un  uso  ormai  an- 
tico e  ci  porta  perciò  sicuramente  ad  Omero,  o  anzi  molto 
più  in  su.  Senza  poi  dire,  che,  se  noi  non  abbiamo  ragio- 
nato male.  Omero  ci  dà  tutto  quello  che  vogliamo,  col  darci 


(1)  Notevole  che  il  vocabolario  romaico  ci  offra  Ppoxó^  ti  óv,  mor- 
tale (cfr.  rom.  xP'JOÓ(;=xpvaéoq;  e  per  l'accento:  evr)TÓ(;). 

(2)  [Come  vedo  dopo  scritta  questa  lettera,  l'idea  di  conciliare  -reo 
col  sscr.  -tja  è  balenata  anche  a  G.  Meyer  (Kuhn's  Zeitschr.,  XXII, 
498)  ;  ma  i  pregiudizi  teorici  gli  hanno  impedito  di  coltivarla.] 


-  69  - 
PpoTÓ(;  e  ppÓTeo(;  di  contro   a  marta  e  martja    ìuartija  del 
sanscrito  e  dell'antico  persiano. 

Vi  ho  già  accennato  come  io  creda,  che  la  forma  epen- 
tetica,  o  bisillaba,  vada,  pur  nell'Europa,  al  di  là  del  greco. 
Gli  è  che  il  -Tejó,  ritrovato  in  Grecia,  mi  ritorna  tal  quale 
nel  -ti,  -/-//z/,  dell'ant.  irlandese  (pari  all'  -i-toi  che  è  de- 
sunto dal  cimrico),  onde  appunto  s'ottiene  il  participio  di  fu- 
turo passivo  (i).  Riviene  Tiri,  -ti  a  un  -tejo-s  di  fondamento 
europeo,  così  come  ad  -ejes  V  -i  del  nomin.  plur.  de'  temi 
che  uscivano  per  -i -^  e  il  dittongo  dell'antica  fase  celtica 
{-tei  -i-tei)  è  attestato  dal  britone,  sì  che  ne  venga  un  caso 
analogo  a  quello  dell'irl.  di,  duae,  allato  al  cimrico  dui,  dove 
è  un  ei  di  uscita  originale  (2). 


(i)  Per  es.  com-srithi  conserendus  ;  e  insieme  avrebbe  l'ant.  irlan- 
dese anche  il  correlativo  dell'aggettivo  verbale  greco  in  -to  ;  v.,  per 
ora,  Zeuss-Ebel,  1096  <j, 

(2)  Cfr.  Zeuss-Ebel,  479,  Windisch  nei  Beitr'àge  :^.  gesch.  d. 
deutsch.  spr.  di  Paul  e  Braune  ,  IV,  249,  242.  Non  può  arrestarci 
r  -i  cimrico  di  contro  all'i  irlandese  nel  numerale  tri,  irl.  tri  = 
*trejes.  —  Le  lingue  ariane  dell'  Asia  hanno  del  resto  anche  -tva 
(•thwa)  quale  antico  derivatore  di  pari,  fut.  pass.;  onde  taluno  a  prima 
vista  potrebbe  imaginare,  che  s'arrivasse  per  -reFo  al  greco  -reo.  Ma 
il  -T€io  di  Esiodo  ci  ferma  a  -tja.  Per  il  -ti  ecc.  del  celtico,  in  Zeuss- 
Ebel  era  messa  innanzi,  timidamente,  la  ricostruzione  -teiva  (p.  802), 
e  Stokes  [The  old-irish  verb.,  p.  49)  pensava  a  -tavia.  Ma  tacendo 
delle  obiezioni  d'  ordine  storico,  che  distolsero  dal  mandare  insieme 
il  gr.  -TEO  e  il  sscr.  -tavja,  e  pur  trascurando  la  congruenza  che  ora 
avremmo  conseguito  tra  celtico  e  greco,  resta  che  le  ipotesi  di  -teiva 
o  -TAViA  urlano  contro  l'esito  cimrico,  che  non  dovrebbe  perdere  il 
V  ;  la  qual  considerazione  vale  insieme  a  mostrare,  che  mal  si  con- 
venga ,  anche  per  il  celtico,  l' ipotesi  del  -tva.  Stokes,  dunque,  ha 
sempre  ragione,  in  quanto  ha  trovato  che  Tiri.  Jìssi  (=  fid-ti),  scien- 
dus,  risponda  a  capello  a  Fiaréo-;  ma  l'identità  or  sarebbe  dimostrata 
per  diversa  guisa.  Quanto  all'  -ei-os  che  si  estingua  in  un  cimr.  ìvj 
(oi)  =  è,  V.  Zeuss-Ebel,  pp.  96,  532,  816,  83i.  Non  mi  si  vorranno, 
io  credo,  opporre  i  casi  cimrici  di  cons.  -\-  idd  [ydd]  =  cons.  -\- j  , 
stabiliti  dal  Rhys  nella  Reviie  celtique,  II,  ii5;  cfr,  Stokes,  Middle- 
Bret.  Hoiirs,  p.  102,  D'Arbois  de  Jubainville,  1.  c,  266.  La  differenza 


—  70  - 

Questo  povero  -reo,  dunque,  anziché  sottrarsi  alla  inda- 
gine comparativa  e  andarsene  relegalo  tra  le  formazioni 
greche  di  età  meno  antica  che  non  sia  il  più  antico  monu- 
mento letterario  che  dei  Greci  si  conservi,  varrebbe  a  ran- 
nodare, in  assai  notevole  guisa,  e  Celti  e  Greci  con  gli  Irani 
e  cogli  Indi.  —  E  altro,  per  questa  volta,  io  non  posso  (i). 


dipenderebbe  dall'esito  or  vocale  e  or  consonante  di^.  Ci  gioverebbero, 
anzi,  trydydd  =  tritja  e  simili,  in  quanto  darebbero  una  fase  di  tj 
con  vocale  inserta.  Io  poi  nni  fermo,  un  po'  maliziosamente,  a  try- 
dydd —  tritja,  pensando  che  del  cirar.  tritid  s'è  voluto  fare  un  argo- 
mento contro  la  mia  dichiarazione  del  superlativo  greco  in  -toto 
(Bezzenberger,  Beitr.  f .  kiinde  d.  indog.  spr.,  V,  g5)l  Ma  anche  di 
ciò,  la  prossima  volta. 

(i)  IV.  —  Poiché  vedo  che  vi  premon  tanto  e  \)c,  [cfr.  G.  Meyer  , 
o.  e,  §  222]  e  il  qoppa  ecc.  [cfr.  Fabretti,  Le  antiche  lingue  ita- 
liche, Torino  1874,  §  97  ecc.],  vi  servo  sùbito  con  questa  proscritta. 
Circa  la  coesistenza  di  aQc;  e  0?,  il  mio  pensiero,  a  dirlo  un  po'  più 
distesamente  che  voi  non  facciate,  era  e  rimane  questo  che  segue.  Noi 
vedevamo,  che  se,  per  5  -f-  voc.  (sempre  ora  parlandosi  di  formole 
iniziali),  greco  e  iranico  vanno  compiutamente  tra  loro  d'accordo 
(p.e.  éiTTa,  zend.  hapta-,  sscr.  sapta-],  non  è  più  così  per  la  combina- 
zione 5V-;  la  quale,  sempre  per  s  in  h  ,  diventa  nell'iranico:  hv  khv 
(v,  p.  57,  n)  ;  laddove  nel  greco  ,  a  tacer  qui  d'altro,  si  continua  le- 
gittimamente per  a-  (oF-,  aa-\  p.  e.  oiYdiu).  Orbene,  in  quell'incontro 
s'avvertiva  insieme,  che  se  lo  zendo  ci  dà  hu  pel  sù-s  latino,  e  pa- 
recchi dial.  neo-irani  ci  danno  all'  incontro  una  base  khu-,  questa 
condizione  di  cose  accenna  che  nelle  origini  iraniche,  sia  per  ragione 
etimologica  o  sia  per  ragione  di  un  mero  sviluppo  fonetico,  stessero 
due  varietà  sinonime,  da  potersi  scrivere  sTi  e  svù.  Ripensate  in  Grecia 
queste  due  varietà,  e  ne  avrete  simultaneamente,  a  fil  di  regola  :  u<;  e 
aO(;.  Soggiungevo  ,  che  pur  la  variante  sanscrita  pi-kara  allato  a  sù- 
-ìcara,  porco,  veniva  a  indiretta  conferma  di  codesta  ricostruzione,  f 
occorrendo  come  succedaneo  sanscrito  di  5  originario  dinanzi  a  v 
(cfr.  ^va^ura  cvàttra,  e  guarda»^e,  .n  un  momento  d'ozio,  il  I  dei 
Frammenti  linguistici).  —  Qua.ito  al  qoppa  ecc.  lutto  quello  che  voi 
aggiungete  al  §  16  de'le  mie  Legioni,  mi  par  buono  e  giusto  in  ogni 


—  71  — 
parte,  fatta  sempre  eccezione  per  il  tuono  troppo  battagliero.  Mi  sono 
anch'io  meravigliato  che  quelle  mie  indicazioni  non  riuscissero  un 
po'  meno  inefficaci;  ma  alcune  delle  scritture,  che  voi  citate,  riman- 
gono alquanto  rimote  dalle  cose  nostre  ;  e  poi  ve  la  prendete  anche 
cogli  errori  di  stampa  o  di  penna,  come  son  manifestamente  il  nome 
e  la  figura  d'una  lettera  in  fondo  alla  p.  55  della  scrittura  dell'ono- 
rando Fabretti.  Circa  1'  H  (tra'  Fenici,  secondo  le  prove  che  sapete: 
XriT  i^T  e  quasi  rjx),  è  da  dire  più  chiaramente,  che  tutti  e  tre  i  va- 
lori, ch'egli  assume  tra'  Greci  (x,  ',  il),  corrispondono  ai  vari  profFe- 
rimenti  che  tra'  Fenici  risonavano  iniziali  nel  suo  nome. 


IST^IUZ/OV^E  CLqASSICqA 


Proposte  per  un  riordinamento  della  Facoltà  di  lettere  e  filosofia 
nelle  Università  del  Regno. 


I.  Ogni  istituzione,  per  quanto  abbia  dato  buoni  risultati,  allorché 
più  non  corrisponde  ai  bisogni  del  paese  ed  al  progresso  cui  tutte  le 
cose  umane  devono  obbedire,  ha  da  essere  riformata  o  in  tutto  o  in 
parte,  secondo  che  più  non  s'addica  affatto  al  mutato  ambiente,  ov- 
vero possa  ancora  a  questo  con  alcune  modificazioni  convenire.  Per- 
tanto, prima  di  dare  opera  alle  riforme,  è  d'uopo  diligentemente  con- 
siderare la  natura  dell'istituzione  che  vuol  essere  modificata,  cercare 
quali  sieno  i  suoi  lati  difettosi  e  quali  invece  sieno  le  parti  ancor 
buone,  per  procedere  riguardo  a  quella  come  far  si  suole  rispetto  ai 
vecchi  edifizi,  i  quali,  se  sono  riconosciuti  ancora  sufficientemente 
solidi  per  non  dover  essere  interamente  rifatti,  si  riparano  nelle  parti 


—  72  - 
men  buone,  lasciando  stare  il  resto,  ma  nel  caso  contrario  si  abbat- 
tono per  essere  ricostruiti  su  nuove  basi. 

Ora  fra  le  varie  istituzioni  che  si  riferiscono  alla  pubblica  istru- 
zione e  che,  a  parer  mio,  abbisognano  maggiormente  di  riforma, 
devo  annoverare  la  Facoltà  di  lettere  e  filosofia  delle  nostre  Univer- 
sità. Di  questa  voglio  nel  presente  scritto  occuparmi. 

II.  Tutte  le  persone  competenti  in  fatto  di  studi  filologici,  storico- 
geografici  e  filosofici  riconoscono  oramai  che  quella  Facoltà ,  com'è 
presentemente  ordinata,  non  corrisponde  più  guari  al  suo  scopo,  che 
è  quello  non  solo  di  fornire  alla  nazione  quella  coltura  letteraria  e 
filosofica  che  è  tanta  parte  del  civile  progresso,  ma  pur  anche  di  for- 
mare valenti  cultori  delle  singole  discipline  di  cui  vi  s' impartisce 
l'insegnamento,  e  valorosi  maestri  per  le  scuole  secondarie  del  paese. 
Vediamo  dunque  per  quali  ragioni  un  tale  intento  non  si  può  più 
raggiunger  bene  colla  Facoltà  nel  suo  attuale  ordinamento. 

Anzi  tutto  è  cosa  incontestabile  che  il  progresso  fatto  in  questo 
secolo  dalle  varie  discipline,  che  s'insegnano  in  detta  Facoltà,  è  sì 
grande  che  un  sol  uomo,  per  quanto  vasto  ingegno  abbia  sortito  da 
natura,  non  può  riuscire  a  conoscerne  con  certa  profondità  ed  am- 
piezza se  non  alcune  poche  le  quali  abbiano  una  stretta  affinità  con 
quella  disciplina  cui  ciascuno  suole  oramai  rivolgere  in  guisa  speciale 
il  suo  pensiero  e  le  sue  cure.  Perciò  chi  deve  attendere  a  più  materie 
di  svariata  natura  e  debolmente  connesse  fra  loro,  è  posto  senza  dubbio 
neir  impossibilità  di  formarsi  una  cognizione  profonda  ed  estesa  di 
qualche  speciale  parte  del  sapere,  giusta  la  nota  sentenza  : 

«  Pluribus  intentus  minor  est  ad  singula  sensus  », 

che  se  fu  sempre  vera,  lo  è  tanto  più  nei  tempi  nostri  in  cui  la  spe- 
cializzazione del  sapere  s'impone  all'uomo  come  un'assoluta  e  formi- 
dabile necessità. 

Inoltre  chi  è  destinato  all'insegnamento  può  tanto  meglio  compiere 
la  nobile  sua  missione,  quanto  più  è  versato  in  quella  o  in  quelle 
materie  ch'è  suo  debito  insegnare.  È  quindi  necessario  che  per  tempo 
egli  impari  a  restringere  il  campo  de'  suoi  studi  e  concentrarli  su  quelle 
determinate  materie  che  egli  deve  poi  trasmettere  mediante  l'inse- 
gnamento alle  giovani  generazioni  affidate  alle  sue  cure,  se  vuol  ren- 
dere veramente  efficace  ed  utile  l'opera  sua. 


-  73  - 
Ciò  posto,  può  la  Facoltà  di  lettere  e  filosofia  nelle  presenti  con- 
dizioni di  cose  formare  buoni  specialisti  ?  può  dare  al  paese  valenti 
insegnanti?  —  lo  rispondo  risolutamente  no.  Senza  dubbio  vi  sono 
in  Italia  e  valenti  specialisti  e  valenti  insegnanti  nelle  scuole  secon- 
darie, ma  ricercate  un  po'  come  abbiano  raggiunto  una  certa  eccellenza  e 
nel  sapere  e  nella  pratica  dell'insegnamento.  Voi  troverete  che,  usciti 
dall'Università  con  superficialissime  cognizioni  pertinenti  a  numerose 
materie  e  senza  saperne  nessuna  alquanto  a  fondo,  hanno  dovuto  rifare 
i  loro  studi  lottando  contro  numerose  difficoltà,  rimpiangendo  ogni  mo- 
mento il  tempo  che  dovettero  consacrare  a  tante  e  diverse  materie  , 
rubandolo  a  quelle  cui  avrebbero  voluto  attendere  in  particolare  guisa 
come  a  scopo  della  propria  vita  scientifica.  Voi  troverete  che,  usciti 
dalle  aule  universitarie  e  saliti  sulle  catedre  delle  scuole  secondarie, 
si  sono  trovati  come  in  un  ambiente  sconosciuto,  quasi  non  fatto  per 
loro,  senza  nulla  conoscere  del  metodo  da  tenersi,  senza  sapere  adattare 
l'insegnamento  all'intelligenza  degli  alunni:  quindi  altre  fatiche,  altri 
pentimenti  e  rimpianti  cui  si  deve  e  si  può  ovviare  per  l'avvenire  con 
un  migliore  ordinamento  della  Facoltà  di  lettere  e  filosofia. 

Certo  sarebbe  ridicolo  il  pretendere  che  in  quattro  anni  di  studi 
universitari  si  riesca  specialista  consumato  e  praticissimo  insegnante; 
ma  si  può  e  si  deve  pretendere  che  il  neo-laureato  abbia  già  di  quella 
disciplina  speciale,  a  cui  intende  d'applicarsi  ancora  in  seguito,  una 
notizia,  se  non  molto  profonda,  almeno  abbastanza  estesa;  che  pos- 
segga intorno  ad  essa  una  grande  quantità  di  cognizioni  bibliogra- 
fiche, mediante  le  quali  soltanto  si  possono  avere  i  materiali  di  studio 
ed  è  possibile  compiere  pregevoli  ed  utili  lavori  ad  incremento  e 
decoro  della  scienza  che  si  coltiva  ;  che  conosca  bene,  oltre  alla  lingua 
francese,  almeno  la  tedesca,  perchè  si  possa  valere  ne'  suoi  studi  anche 
di  quello  che  riguardo  alla  sua  materia  speciale  fu  scritto  in  paesi 
stranieri-,  che  sia  insomma  così  preparato  e  indirizzato  nel  ramo  di 
studi  che  vuol  seguitare  a  coltivare,  da  non  essergli  forza  di  tornar  da 
capo  all'abbiccì  del  sapere,  come  spesso  accade  ora;  ma  possa  invece 
proseguire  animosamente  nella  via  già  presa.  Quanto  poi  all'insegna- 
mento, cui  debbono  già  essere  preparati  i  neo-dottori,  perchè  non 
si  potrebbe,  nel  periodo  dei  loro  studi  universitari,  con  una  serie  di 
ben  organizzate  conferenze  svolgere  e  perfezionare  in  loro  l'attitu- 
dine didattica  -,  perchè  non  si  potrebbe  insegnar  loro  il  modo  che 
dovranno  tenere  nell'istruzione  della  gioventù  che  sarà  poi  loro  affi- 


—  74  — 
data,  dar  loro  un'idea  chiara  dei  metodi  migliori  che  a  tal  riguardo 
si  possono  seguire? 

Ma  dalle  considerazioni  generali  veniamo  alle  particolari,  facendoci 
anzi  tutto  ad  osservare  il  lato  difettoso  del  presente  ordine    di  cose. 

III.  Primieramente  la  poca  omogeneità  delle  materie,  cui  lo  stu- 
dente deve  attendere,  fa  si  ch'egli,  invece  di  concentrare  i  suoi  sforzi, 
di  convergere  i  suoi  studi  a  quel  gruppo  di  discipline  per  cui  sente  mag- 
giore propensione,  sia  obbligato  a  distrarsi  per  seguire  questo  e  quel- 
l'altro insegnamento  che  ha  nulla  a  che  fare  cogli  studi  cui  egli  ha  deli- 
berato di  coltivare  specialmente.  Di  fatto  per  lo  studente,  che  ha  scelto  a 
materia  di  studio  il  campo  della  filologia,  a  che  cosa  serve  l'insegna- 
mento della  storia  moderna  ch'egli  ora  invece  deve  seguire  per  due 
anni  consecutivi?  A  che  gli  serve  l'insegnamento  delia  filosofia  teore- 
tica, della  geografia,  della  storia  della  filosofia,  materie  tutte  nobi- 
lissime e  degnissime  di  studio,  ma  che  poco  importano  al  giovane 
che  si  vuole  consacrare  alla  filologia?  Tanto  più  che  lo  studente,  il 
quale  entra  all'Università,  non  esce  dalle  scuole  elementari,  ma  sì 
dai  licei  dove  ha  dovuto  apprendere  quel  tanto  di  geografia,  di  storia 
moderna,  di  filosofia  che  deve  far  parte  della  coltura  generale  e  che 
può  bastare  ad  uno  studente  di  filologia.  È  vero  che  i  licei  d'Italia 
non  danno  in  generale  quei  risultati  che  s'avrebbe  il  diritto  di  avere, 
ma  che  perciò?  L'Università  non  deve  formare  la  coltura  generale  dei 
giovani;  questi  devono  già  averla  ricevuta  dai  licei.  —  Ma  ritor- 
nando allo  studente  di  filologia,  ho  menzionato  quattro  materie  che 
assolutamente  non  gli  servono  pe'  suoi  studi  :  vediamo  ora  se  gli 
serva  gran  fatto  V  insegnamento  delle  altre  materie,  quale  è  presen- 
temente ordinato. 

Noto  subito  che,  stando  almeno  a  quanto  avviene  nell'Università 
di  Torino,  nessun  professore  fa  più  di  tre  ore  di  lezione  alla  setti- 
mana, compresa  per  parecchi  di  essi  un'ora  destinata  alle  esercitazioni 
degli  alunni.  Con  tale  orario  quali  cognizioni  di  letteratura  latina  e 
greca  possono  acquistare  gli  studenti  ?  Come  può  il  professore  fare 
con  tale  orario,  in  3  anni,  un'esposizione  alquanto  compiuta  dei  prin- 
cipali periodi  della  storia  letteraria,  far  la  critica  e  l'esegesi  dei  testi, 
far  conoscere  la  storia  e  lo  sviluppo  fonetico  morfologico  e  sintattico 
della  lingua  di  cui  si  occupa  ,  comunicare  ai  giovani  larghe  notizie 
bibliografiche,  tener  loro  parola  delle  principali  pubblicazioni  che  si 


-Ih  — 

ranno  ogni  giorno  facendo  in  quel  ramo  di  studi,  ecc.,  ecc.?  11  pro- 
fessore è  pertanto  obbligato  a  restringersi  ad  una  parte  sola  e  lasciare 
tutto  il  resto  alla  buona  volontà  dei  giovani,  i  quali  spesso,  inesperti 
e  senza  guida  non  possono  di  per  sé  scemare  anche  in  minima  parte 
l'immensa  lacuna.  Per  esempio,  quale  studente  (stando  sempre  a 
quanto  avviene  nell'Università  di  Torino),  terminati  i  suoi  studi  uni- 
versitari, può  dire  di  conoscere  la  storia  della  lingua  latina,  di  quella 
lingua  che  egli  deve  poi  insegnare  nelle  scuole  secondarie?  Che  se 
di  ciò  si  occupi  il  professore  di  letteratura  latina ,  gli  resta  forse 
tempo  per  trattare  la  parte  letteraria  propriamente  detta  ?  E  qui  no- 
tate una  cosa  singolare:  esiste  nell'Università  di  Torino  una  catedra 
di  grammatica  e  lessicografia  greca  che  è  utilissima  :  per  essa  i  gio- 
vani studiosi  possono  essere  messi  in  grado  di  conoscere  lo  svolgi- 
mento della  lingua  greca  ne'  suoi  vari  dialetti,  ed  abilitarsi  quindi  alla 
interpretazione  ed  alla  lettura  dei  numerosi  testi  greci  non  iscritti  nel 
dialetto  attico.  Al  contrario  non  vi  trovi  alcun  insegnamento  che  si 
riferisca  semplicemente  all'idioma  latino,  alle  sue  varie  vicende,  alle 
relazioni  che  esso  ha  cogli  altri-dialetti  italici,  specialmente  con  l'umbro 
e  con  l'osco  di  cui  novantanove  su  cento  fra  i  neo-dottori  non  cono- 
scerebbero neppure  1'  alfabeto,  quando  non  venisse  pietosamente  in 
loro  soccorso  per  questo  rispetto  il  professore  d'archeologia.  E  sì  che 
a  noi  italiani  dev'essere  oggetto  di  special  cura  e,  per  così  dire,  un 
dovere  lo  studio  di  quella  lingua  che  fu  madre  della  nostra  !  Di  guisa 
che  lo  studioso  delle  lettere  latine  esce  dalla  Università  con  cogni- 
zioni superficialissime  del  latino  classico  ,  e  troppo  spesso  ignaro  del 
latino  arcaico,  i  cui  monumenti  non  è  posto  in  grado  di  mediocre- 
mente interpretare. 

Inoltre  quali  cognizioni  di  metrica  greco-romana  reca  general- 
mente con  sé  il  giovane  laureato?  La  metrica  greco-romana  abbraccia 
un  campo  così  vasto  che  appena  un  anno  di  non  interrotto  insegna- 
mento può  bastare  per  dare  agli  alunni  le  più  elementari  e  necessarie 
cognizioni.  Che  cosa  perciò  può  mai  restare  nella  mente  dell'alunno, 
se  anche  i  professori  di  lettere  latine  e  greche  consacrino,  il  che  dif- 
fìcilmente avviene,  qualche  ora  a  tale  materia?  D'altra  parte  come 
può,  p.  e.,  il  professore  di  greco  far  conoscere  in  modo  compiuto  ai 
suoi  uditori  l'organismo  del  dramma  greco  senza  entrare  nelle  più 
intricate  questioni  della  metrica  classica?  E  come  può  l'insegnante 
delle  lettere    latine   dare  un'  idea  adeguata    dello   svolgimento    della 


-  76  - 
poesia  romana  senza  invadere  il  campo  della  metrica  ?  Invece  questa 
povera  scienza  è  abbandonata  e  negletta  compiutamente,  precisamente 
come  tutto  ciò  che  si  riferisce  alla  grammatica   storica  ed  alla  5/1//- 
stica  latina  ! 

Né  in  migliori  condizioni  si  trova  l'insegnamento  delle  lettere  ita- 
liane, giacché  nel  presente  ordinamento  3  anni  assolutamente  non  ba- 
stano per  ragioni  simili  a  quelle  per  cui  ho  dichiarato  insufficiente 
l'insegnamento  delle  lettere  latine  e  greche.  C  è  bensì  nelle  nostre 
Università  un  insegnamento  affine  e  che  può  riuscire,  affidato  com'è 
a  uomini  d' incontestabile  dottrina  ,  d' immensa  utilità  a  chi  brama 
conoscere  profondamente  la  nostra  letteratura  ;  ma  chi  ne  tien  cal- 
colo ?  Intendo  parlare  dell'insegnamento  della  storia  comparata  delle 
letterature  neo-latine,  insegnamento  che  non  è  obbligatorio  se  non  a 
quelli  che  sono  iscritti  alla  Scuola  di  Magistero,  la  quale  alla  sua 
volta  non  é  obbligatoria.  E  qui  sia  detto  una  volta  per  sempre,  che 
lo  studente,  distratto  com'è  da  tante  materie  disparate  ed  obbligatorie, 
non  potendo  valutare  l'importanza  d'una  materia  che  ignora  affatto, 
difficilmente  si  determina  a  frequentare  altri  corsi,  e  tutt'al  più  s'in- 
scriverà a  quelli  che  gli  servono  a  completare  le  18  ore  settimanali 
di  scuola  prescritte  dal  Regolamento,  senza  darsi  pensiero  di  seguirne 
regolarmente  l'insegnamento  e  di  ritrarne  qualche  profìtto.  Ora,  per 
il  corso  in  questione,  quello  cioè  della  storia  comparata  delle  lette- 
rature neo-latine,  che  cosa  succede?  Succede  che  pochissimi  lo  fre- 
quentano ,  quasi  nessuno  ne  approfitta  per  i  suoi  studi  ;  conseguenza 
funestissima  per  il  sapere  ,  chi  consideri  che  non  si  può  altrimenti 
conoscere  la  letteratura  italiana  dei  primi  secoli,  che  collo  studio 
comparativo  di  tutte  le  letterature  neo-latine:  le  origini  di  essa  for- 
mano un  capitolo  rilevantissimo  di  quella  grande  storia  che  ab- 
braccia tutte  quante  le  nazioni  sorte  dal  ceppo  latino  per  quanto 
spetta  alla  loro  civiltà,  al  nascimento  ed  al  successivo  svolgersi  dei 
varii  generi  letterari  ;  talché,  per  recare  un  esempio,  riesce  impossi- 
bile il  formarsi  una  chiara  idea  della  nostra  lirica,  della  nostra  epopea, 
della  nostra  novella,  ecc.,  senza  studiarla  in  relazione  con  quella  degli 
altri  popoli  neo-latini  :  il  fatto  stesso  del  Rinascimento  non  si  può 
assolutamente  studiare  sul  semplice  suolo  italiano. 

Da  quanto  si  è  detto  testé  facilmente  si  vede  che  si  provvederebbe 
assai  meglio,  che  ora  non  si  faccia,  allo  studio  della  letteratura  ita- 
liana, se  il  corso  di  storia  comparata  delle  letterature  neo-latine  fosse 


—  11  — 

reso  obbligatorio,  e  quindi  l'insegnante  di  quella,  lasciando  a  parte  i 
primi  secoli,  rivolgesse  i  suoi  sforzi  ad  illustrare  gli  altri  i  quali,  cosa 
incredibile  ,  generalmente  in  Italia  sono  poco  conosciuti  ,  perchè  , 
mentre  sui  primi  abbondano  le  pubblicazioni  e  gli  studi,  specialmente 
dacché  si  cominciò  ad  esplorare  diligentemente  il  campo  delle  lette- 
rature neo-latine,  sugli  altri  sinora  si  è  lavorato  e  si  lavora  poco.  Né 
va  dimenticato  un  fatto  di  capitalissima  importanza  ed  è  che,  a  mi- 
sura che  progrediscono  gli  studi,  si  fa  tanto  più  sentire  il  bisogno  del 
metodo  comparativo,  il  solo  che  può  veramente  approfondire  il  sa- 
pere e  dichiarare  certe  questioni  senza  intender  le  quali  non  si  può 
dire  d'aver   acquistato  una  seria  coltura  letteraria. 

Procedendo  innanzi  nella  disamina  delle  varie  materie  che  si  rife- 
riscono alla  filologia,  anche  l' insegnamento  della  storia  comparata 
delle  lingue  classiche,  e  neo-latine  è  insufficiente  perchè  dato  in  un 
anno  solo  e  con  un  orario  quale  sopra  si  è  indicato.  Basta  forse  un 
anno  per  dare  ai  giovani  le  più  importami  nozioni  concernenti  la 
fonologia  e  la  morfologia  di  quelle  lingue  ?  Di  più  tale  insegnamento 
si  dà  presentemente  a  giovani  appena  usciti  dal  liceo  dove  ciascun  sa 
quanto  poco  s'impari  di  latino  e  quanto  meno  di  greco,  donde  molti 
escono  senza  nemmen  saper  leggere  il  francese,  non  che  compren- 
derlo; di  quale  utilità  può  dunque  essere  lo  studio  della  glottologia 
comparativa  per  giovani  che  posseggono  sì  scarso  patrimonio  lin- 
guistico? Ben  é  vero  che  allo  studente  di  glottologia  non  occorre  una 
profonda  e  vasta  conoscenza  delle  lingue  di  cui  si  deve  occupare,  ma 
dal  non  molto  al  quasi  nulla  corre  gran  tratto  ;  e  per  il  giovane,  che 
frequenta  un  corso  di  glottologia  con  pochissima  conoscenza  delle 
lingue  onde  si  discorre  ,  tale  insegnamento  perde  la  sua  efficacia  ri- 
ducendosi ad  un  meccanismo  pedantesco  e  noioso. 

Resta  Varcheologia  greco-romana  e  la  storia  antica  da  esaminare. 
Quanto  alla  prima  é  chiaro  che  un  anno  solo  non  è  assolutamente  suf- 
ficiente. Le  relazioni  strettissime  che  questa  scienza  ha  colla  filologia 
classica  impongono  che  se  ne  allarghi  l' insegnamento,  ed  un  anno 
per  l'archeologia  romana  ed  uno  per  la  greca  non  sarebbe  troppa  cosa, 
chi  consideri  come  spetti  all'insegnante  di  questa  materia  il  dare  non 
solo  le  più  importanti  nozioni  di  epigrafia  e  numismatica  greca  e  ro- 
mana, materie  già  per  sé  vastissime,  ma  ancora  il  fornire  agli  alunni 
particolareggiate  nozioni  di  tutte  le  antichità  sì  pubbliche  come  pri- 
vate dei  Greci  e  dei    Romani  che  meglio  conferiscano  a  farne  cono- 


-  78  - 
scere  la  vita.  Rispetto  poi  alla  storia  antica  credo  che  al  cultore  della 
filologia  basterebbero  i  due  anni  che  sono  prescritti  dall'attuale  Rego- 
lamento, purché  r  insegnamento  fosse  esclusivamente  ristretto  alla 
storia  della  Grecia  e  dell'Italia  antica  ed  a  quei  popoli  che  con  queste 
nazioni  ebbero  immediate  relazioni.  Il  resto  dell'  insegnamento  do- 
vrebbe essere  destinato  a  quegli  studenti  soltanto  che  intendono  farsi 
cultori  delle  discipline  storico-geografiche. 

Tale,  io  credo,  è  la  condizione  dell'insegnamento  per  ciò  che 
spetta  allo  studioso  della  filologia,  il  quale,  per  di  più,  non  è  obbli- 
gato né  ad  un  corso  di  paleografia,  che,  se  non  erro,  non  esiste  in 
alcuna  Università  propriamente  detta,  mentre  é  tanto  utile  ai  cul- 
tori della  filologia  ;  né  ad  un  corso  di  pedagogia  che  io  reputo  in- 
dispensabile a  chiunque  voglia  prendere  la  carriera  dell'insegnante  ; 
né,  almeno,  ad  un  corso  di  lingua  tedesca,  senza  la  quale,  volere  o 
volare,  manca  necessariamente  allo  studioso  un  mezzo  poderosissimo 
di  accrescere  la  propria  dottrina  e  perfezionarsi  ne'  suoi  studi.  Né 
vale  il  dire  che,  esistendo  nelle  Università  i  due  ultimi  corsi,  può  il 
giovane  frequentarli  e  valersene  come  se  fossero  obbligatori i.  perché, 
come  fu  già  sopra  osservato,  lo  studente  che  entra  all'Università  non 
può  ancora  valutare  l'importanza  di  quei  corsi,  ed  anche  conoscen- 
dola, per  la  necessità  di  dover  attendere  ad  altre  materie  ,  oltre  a 
quelle  che  riguardano  la  filologia,  è  spesso  costretto  a  non  approfittare 
di  que'  due  insegnamenti.  D'altra  parte  va  notato  che  delle  lacune  del 
proprio  sapere  Io  studioso  non  s'  accorge  mai  se  non  quando  é  al- 
quanto inoltrato  negli  studi  che  coltiva;  allora  poi  intervengono 
sovente  imprevedute  difficoltà  che  gli  impediscono  di  dare  opera  a 
colmare  quella  lacuna.  È  quindi  cosa  savia  fare  in  certa  guisa  vio- 
lenza allo  studente  obbligandolo  ad  occuparsi  di  quelle  materie  che 
sono  riconosciute  necessarie  al  suo  bene  ;  e  lo  studente  non  potrà 
fare  a  meno  di  serbar  riconoscenza  a  chi  ha  provveduto  al  suo  utile 
ed  al  suo  sapere. 

IV.  Esaminate  le  condizioni  dell'insegnamento  per  ciò  che  ri- 
flette i  cultori  degli  studi  filologici,  passiamo  a  considerare  quanto 
avviene  di  chi  intende  avviarsi  allo  studio  delle  discipline  storico- 
geografiche.  Per  costui  si  verifica  anzi  tutto  ciò  che  ho  detto  del  filo- 
logo, vale  a  dire  che  egli  è  obbligato  ad  occuparsi  di  materie  delle 
quali  potrebbe  far  senza,  con  benefizio    inestimabile  del  suo  profitto 


-  79  - 
nelle  discipline  che  direttamente  lo  interessano.  E  per  verità  la  gram- 
matica e  lessicografia  greca,  la  storia  comparata  delle  lingue  clas- 
siche e  neo-latine,  la  filosofia  teoretica  qual  rilevante  giovamento  pos- 
sono recargli  ?  E  non  gli  sono  forse  di  troppo  tre  anni  di  letteratura 
greca  oltre  1'  anno  di  grammatica  e  lessicografia?  Non  basterebbero 
forse  due  anni  di  letteratura  italiana  e  latina  ? 

Al  contrario  l' insegnamento  di  quelle  materie  che  più  interessano 
lo  studioso  della  storia,  come  la  storia  moderna,  la  storia  antica,  la 
geografia,  ^archeologia  greco-romana,  la  storia  della  filosofia  è  estre- 
mamente ristretto.  A  che  servono  per  lui  due  anni  di  storia  moderna 
ed  antica  e  un  anno  solo  per  ciascuna  delle  altre  materie  ?  Come  si 
può  con  tale  distribuzione  di  materie,  con  tale  durata  dell'  insegna- 
mento dare  un  buon  indirizzo  a  chi  si  è  destinato  agli  studi  storico- 
geografici  ?  Anche  qui  i  professori  sono  obbligati  a  strozzare,  per  così 
dire,  il  proprio  insegnamento,  a  lasciare  da  banda  importantissimi 
periodi  di  storia  od  importantissime  questioni  geografiche  etnogra- 
fiche ed  archeologiche,  a  tenere  quasi  all'  oscuro  i  loro  scolari  in  ciò 
che  concerne  la  bibliografia,  le  fonti  della  storia,  le  scoperte  geo- 
grafiche ed  archeologiche,  o  dare  solo  insufficienti  notizie  ;  non  pos- 
sono assolutamente  guidare  i  giovani  alle  indagini ,  alla  critica  sto- 
rica, ecc.,  ecc.  Che  se  poi  allo  studioso  della  filologia  un  solo  anno 
di  archeologia  greco-romana  non  basta,  che  dovrà  dirsi  dello  studioso 
della  storia?  E  dove  lascio  la  paleografia  la  cui  cognizione  è  oramai 
divenuta  un  dovere  per  chiunque  coltivi  la  storia  ?  E  delle  antichità 
orientali  chi  tiene  parola  se  non  se  di  tanto  in  tanto,  alla  sfuggita  , 
l'insegnante  di  storia  antica,  il  quale  col  suo  orario  può  fare  tutt'altro 
che  miracoli?  E  che  cosa  significa  un  anno  solo  di  geografia  con  le 
belle  cognizioni  che  di  essa  portan  seco  i  giovani  licenziati  dalle 
scuole  secondarie  classiche?  Quanto  poi  alla  lingua  tedesca  ed  alia  pe- 
dagogia ci  si  trova  nelle  stesse  condizioni  che  si  sono  sopra  esami- 
nale discorrendo  degli  studi  filologici.  Eppure  le  son  tutte  cognizioni 
che  si  devono  acquistare  da  chi  vuol  divenire  un  serio  cultore  ed  in- 
segnante di  storia  e  geografia,  e  si  devono  acquistare  per  tempo,  alla 
Università,  quando  si  è  giovani  e  non  distratti  dalle  cure  della  vita, 
le  quali  troppo  sovente  distolgono  l'uomo  dall' intraprendere  studi 
nuovi  ;  che  esso  spesse  volle  si  deve  chiamare  assai  lieto  quando 
quelle  gli  permettono  di  proseguire  gli  studi  che  ha  comincialo  sui 
banchi  delle  scuole  nelle  aule  dell'Università.  E   poi  è  tempo  che  si 


-  80  - 
comprenda  che  il  progresso  delle  scienze  tutte  nell'età  nostra  è  in  ra- 
gione direttissima  col  numero  degli  specialisti,  e  che  gli  studiosi  tanto 
piti  possono  approfondire  le  loro  cognizioni  quanto  per  tempo  han 
cominciato  a  volgere  il  loro  pensiero  ad  una  parte  determinata  del 
sapere.  Ecco  il  principio  che  tardi  o  tosto  deve  trionfare  anche  nelle 
Università  ed  in  particolar  modo  in  quelle  Facoltà  che  sono  destinate 
a  formare,  ad  un  tempo,  buoni  cultori  delle  scienze  e  buoni  inse- 
gnanti. 

V.  Volgiamo  ora  un  istante  la  nostra  attenzione  agli  studenti  di 
filosofia.  La  facoltà  filosofica  è,  a  parer  mio,  la  meglio  ordinata  per 
ciò  che  spetta  all'omogeneità  delle  materie,  se  si  riguarda  però  sola- 
mente il  secondo  biennio  d'insegnamento,  poiché  chi  s'avvia  agli 
studi  filosofici  è  costretto  a  studiare  nel  primo  biennio  tutte  le  ma- 
terie che  sono  prescritte  per  il  primo  biennio  del  corso  di  lettere. 
In  altri  termini,  si  comincia  nell'attuale  ordinamento  a  studiar  spe- 
cialmente filosofia  quando  lo  studente  ha  superato  il  così  detto  esame 
di  licenza.  Sin  qui  l' unica  materia  filosofica  ,  cui  sia  obbligato  a 
studiare,  è  la  filosofia  teoretica,  l'insegnamento  della  quale,  come 
ognun  sa,  dura  due  anni  per  gli  studenti  di  filosofia ,  cominciando 
un  anno  prima  della  licenza  e  terminando  un  anno  dopo.  Dunque, 
nel  primo  biennio  ,  lo  studente  onde  si  discorre  è  obbligato  a  fre- 
quentare i  corsi  di  geografia,  di  grammatica  e  lessicografia  greca, 
di  storia  comparata  delle  lingue  classiche  e  neo-latine,  di  storia  an- 
tica, di  storia  moderna  oltre  alle  tre  letterature.  Ora  di  tutti  questi 
corsi  è  chiaro  che  sono  necessari  solo  quelli  di  storia  antica  e  di  let- 
teratura italiana,  latina  e  greca,  e  che  gli  altri  quattro  sono  per  lo 
studente  di  filosofia  un  inutile  ingombro.  Ho  posto  fra  gli  sludi  a 
lui  necessari  anche  quello  della  storia  antica,  come  quella  che  in  ge- 
nerale malamente  si  studia  nelle  nostre  scuole  secondarie  ove  sinora 
s'insegna  solo  nelle  due  ultime  classi  del  ginnasio  e  perchè ,  an- 
corché s'insegnasse  come  dovrebb' essere  insegnata,  viene  affatto  tra- 
scurata e  quindi  pressoché  del  lutto  dimenticata  nel  liceo  ove  non  se 
ne  tiene  più  parola.  Riguardo  poi  alle  tre  letterature,  due  anni  per 
l'italiana  e  la  latina  dovrebbero  bastare,  mentre  per  la  greca  dovreb- 
bero essere  prescritti  quattro  anni.  E  la  ragione  è  chiara,  chi  pensi 
come  la  esatta  e  profonda  cognizione  della  lingua  greca  è  assoluta- 
mente   necessaria   al    filosofo  che  voglia  abbracciare  nella  sua  mente 


-Bi- 
anche l'importantissimo  movimento  filosofico    dell'antichità;  e  però 
non  è  ragionevole  il  limitare  questo  studio,  come    vorrebbe    taluno, 
perchè  lo  studente  di  filosofia  non  è  destinato  ad  insegnare  il  greco. 

Questo  per  la  parte  letteraria  che  è  riconosciuta  d'utilità  immediata 
anche  al  cultore  della  filosofia.  Passando  alla  parte  puramente  filosofica, 
basta  forse  un  anno  solo  per  la  filosofia  morale?  Qaanù  problemi  morali, 
quante  importantissime  questioni  deve  lasciar  da  parte  l' insegnante 
di  quella  materia  se  vuol  darne  ai  suoi  studenti  un'idea  generale  !  Se 
invece  prende  ad  oggetto  del  corso  una  questione  o  più  questioni 
particolari,  quale  idea  precisa  può  farsi  lo  studente  dell'ambito  di 
quella  disciplina,  delle  sue  relazioni  colle  altre  scienze?  I  problemi, 
le  questioni  morali  hanno  troppa  importanza  perchè  non  s'  abbiano 
a  trattare  anche  nelle  aule  dell'Università  con  grande  ampiezza  e  con 
metodo  scientifico.  Quindi,  quale  è  ora,  quest'insegnamento  è  poco 
proficuo;  per  divenir  tale  dev'essere  esteso  almeno  a  tre  anni. 

Né  in  migliori  condizioni  si  trova  l'insegnamento  della  storia  della 
filosofia  ristretta  a  due  soli  anni,  i  quali  si  può  dire  che  bastino  ap- 
pena per  dichiarare  i  punti  principali  concernenti  la  storia  della  filo- 
sofia antica.  Così  succede  che  lo  studente  esca  dall'Università  cono- 
scendo una  minima  parte  di  quanto  dovrebbe  sapere  in  fatto  di  storia 
della  filosofia,  avendo  qualche  notizia  di  due  o  tre  fra  i  maggiori  filo- 
sofi e  non  più,  ma  chiamandosi  per  altro  dottore  in  filosofia!  E 
della  psicologia  che  cosa  avviene  ?  nulla,  perchè  (cosa  veramente  or- 
ribile) non  esiste  nell'insegnamento  universitario  ed  è  un  tanto  di  più 
se  ne  discorra  alquanto  l' insegnante  di  pedagogia.  Così  ,  mentre  nei 
paesi  più  civili  la  psicologia  ,  specialmente  come  scienza  positiva, 
viene  coltivata  con  sommo  ardore  e  con  immensi  risultati,  in  Italia 
non  ha  alcun  luogo  nell'  insegnamento  ufficiale  universitario  !  Sa- 
rebbe quindi  ora  che  si  pensasse  a  fondare  nelle  nostre  Università 
un  corso  speciale  di  psicologia  positiva  (i)  cui  gli  studenti  di  filo- 
sofia, a  mio  avviso,  sarebbero  obbligati  almeno  per  due  anni  di  studio, 
considerato  il  suo  campo  vastissimo  e  le  numerosissime  attinenze  che 
essa  ha  con  altre  scienze  ,  specialmente  colla  fisiologia.  La  quale  ul- 


(1)  Apprendiamo    con    sommo    piacere  che  il    chiaro   fisiologo    Angelo 

Mosso  della  nostra  Università  ha  intenzione  di  aprire  nel  prossimo  anno 
scolastico  un  corso  libero  di  tale  materia. 

■'Hivirta  di  filalo  fia  ecc.     X  6 


—  82  — 
tima  scienza,  sebbene  prescritta  dal  vigente  Regolamento,  è  poco  cu- 
rata dagli  studenti  di  filosofia,  mentre  dovrebbero  studiarla  seria- 
mente e  sostenere  in  tal  materia  un  rigoroso  esame.  Io  non  mi  voglio 
dilungare  qui  a  provare  come  sia  necessario  anche  questo  studio  al 
filosofo;  chi  sa  che  cosa  è  psicologia,  sa  che  alla  sua  compiuta  co- 
noscenza occorrono  cognizioni  fisiologiche  ed  anatomiche  più  che 
elementari  ;  non  sarebbe  quindi  un  pretender  troppo  il  richiedere 
dagli  studenti  almeno  le  principali  nozioni  di  fisiologia,  cosa  questa 
che  non  credo  si  sia  potuta  ottenere  ancora,  se  debbo  prestar  fede 
ad  autorevoli  persone  che  me  ne  parlarono. 

Riguardo  alla  pedagogia  reputo  poter  bastare  un  anno  d' insegna- 
mento precisamente  come  si  fa  ora,  ma  lamento,  anche  per  rispetto 
agli  studi  filosofici,  la  mancanza  d'un  corso  obbligatorio  di  lingua 
tedesca,  senza  di  cui  1'  alunno  è  costretto  a  rimettersi  ne'  suoi  studi 
alle  compilazioni  od  ai  trattati  di  storia  della  filosofia,  od  a  mono- 
grafie più  o  men  esatte,  sieilo  pure  ristrette  ad  uno  o  a  pochi  filosofi 
tedeschi,  e  rinunziare  alla  cognizione  diretta  di  tutta  la  filosofia  ger- 
manica. Se  questo  sia  bene,  veggano  gl'intelligenti.  Sarebbe  anche  de- 
siderabile che  lo  studente  di  filosofia  fosse  costretto  ad  un  corso  di 
lingua  inglese^  poiché  i  sistemi  filosofici  devono  essere  studiati  nella 
loro  forma  genuina,  e  non  attraverso  a  traduzioni  e  compilazioni  di 
ogni  sorta  ;  ed  il  movimento  filosofico  inglese  ha  tale  e  tanta  impor- 
tanza che  deve  essere  conosciuto  da  ogni  mediocre  cultore  della  filo- 
sofia. Ma  nell'attuale  ordinamento  degli  studi  si  può  ciò  fare? 

VI.  Fatta  una  rapida  critica  del  presente  ordinamento  della  Fa- 
coltà di  lettere  e  filosofia  io  credo  bene  di  mettere  innanzi  alcune 
proposte  che  mi  pare  si  possano  attuare  con  bene  inestimabile  degli 
studi  e  degli  studiosi.  Bastano  poche  modificazioni  perchè  si  ringio- 
vanisca l'istituzione  e  la  si  renda  più  adatta  allo  scopo  quale  abbiamo 
superiormente  designato. 

Primieramente  io  propongo  che  la  Facoltà  sia  divisa  in  tre  sezioni 
assumendo  il  titolo,  più  esatto  e  corrispondente  appunto  al  numero 
delle  sezioni,  di  Facoltà  di  filologia,  scien^^e  storico- geografiche  e  filo- 
sofiche. 

La  sezione  filologica  abbraccierebbe  i  seguenti  insegnamenti  obbli- 
gatorii  per  tutti  gli  studenti  ad  essa  inscritti  : 


-  83- 

1.  Letteratura  italiana         .....    per  anni  3 

2.  Letteratura  latina »  3 

3.  Letteratura  greca »  3 

4.  Grammatica  storica  e  stilistica  latina  .        .        .        »  1 

5.  Grammatica  e  lessicografia  greca  .         .         .        »  i 

6.  Storia  comparata  delle  letterature  neo-latine      .        »  2 

7.  Storia  comparata  delle  lingue  classiche  e  neo-latine        »  2 

8.  Archeologia  greco-romana    .....>  2 

9.  Storia  comparata  della  metrica  classica       .         .        »  i 
10.  Storia  antica  .........  2 

1  I .  Paleografia »  i 

12.  Pedagogia .         .        »  i 

i3.  Lingua  tedesca       . »  2. 


La  sezione  storico-geografica  comprenderebbe  le  materie  seguenti; 


1 .  Storia  antica  . 

2.  Storia  moderna 

3.  Storia  della  filosofia 

4.  Geografia 

5.  Archeologia  greco-romana 

6.  Antichità  orientali 

7.  Paleografia 

8.  Letteratura  italiana 

9.  Letteratura  latina  . 

10.  Letteratura  greca  . 

1 1.  Pedagogia 

12.  Lingua  tedesca 


per  anni 


Finalmente  la  sezione  filosofica  darebbe  i  seguenti  insegnamenti: 


1.  Filosofia  teoretica. 

2.  Filosofia  morale    . 

3.  Psicologia 

4.  Storia  della  filosofia 


per  anni  2 

»  3 

»  2 

»  4 


-  84  - 


5.  Fisiologia 

6.  Pedagogia 

7.  Storia  antica 

8.  Letteratura  italiana 

9.  Letteratura  latina  . 

10.  Letteratura  greca  . 

1 1.  Lingua  tedesca 

12.  Lingua  inglese 


per  anni     2 
»      I 


Stabilite  così  le  materie  obbligatorie  per  le  tre  sezioni  in  cui  do- 
vrebbe esser  divisa  la  Facoltà  e  la  durata  dei  singoli  corsi,  passo  a 
determinare  quante ,  secondo  me  ,  dovrebbero  essere  le  lezioni  che 
settimanalmente  lo  studioso  dovrebbe  frequentare.  Osservo  subito  che 
per  uno  studente  che  conosca  e  voglia  fare  il  proprio  dovere,  quattro 
ore  di  lezione  al  giorno  sono  per  nulla  gravose  e  che  si  possono  con 
profitto  ascoltare  giornalmente  anche  cinque  lezioni,  tanto  più  quando 
le  materie,  cui  deve  attendere,  sono  omogenee  o  almeno  non  troppo 
disparate.  Ciascun  vede  quanto  tempo  avanzi  al  vero  studioso  per 
compiere  a  casa  sua  o  nelle  biblioteche  la  propria  istruzione,  per  far 
ricerche  ,  lavori  ,  ecc.  Dunque  mi  pare  che  sia  assai  ragionevole  lo 
stabilire  che  per  le  materie  obbligatorie  l'orario  importi  da  18  a  24 
ore  di  lezione  per  settimana  ,  affinchè  Io  studente  possa  ,  qualora  vi 
abbia  uno  speciale  interesse,  frequentare  qualche  altro  corso  coìnple- 
mentare,  ovvero  i  corsi  dei  liberi  docenti  che  abbiano  efl'etto  legale; 
i  quali  corsi,  se  vengon  fatti  a  dovere,  possono  tornare  d' immenso 
profitto  ai  giovani  che  si  vogliano  perfezionare  in  qualche  materia 
speciale,  anche  quando  non  credano  di  frequentarli  invece  dei  corsi 
ufficiali,  cui  corrispondano  e  per  la  materia  e  per  il  numero  delle 
lezioni.  Pertanto  si  porterebbe  a  3o  il  limite  massimo  delle  lezioni 
che  ogni  studente  potrebbe  frequentare  ogni  settimana  ed  a  18  il  mi- 
nimo, precisamente  com'ò  nell'attuale  Regolamento,  con  questa  diffe- 
renza però  che,  mentre,  p.  e.,  nell'anno  4"  di  lettere  dell'Università 
di  Torino  ,  lo  studente  non  ha  presentemente  che  9  ore  per  setti- 
mana per  i  corsi  obbligatorii,  in  nessun  caso  la  somma  delle  lezioni 
dei  corsi  obbligatorii  dovrebbe  essere  inferiore  a  18  per  settimana. 

Ora,  conforme  a  queste  premesse,  ecco  quale  mi  sembra  dovrebbe 
essere  l'orario  dei  corsi  obbligatorii  per  ogni  settimana  : 


-  85  — 
Sepone  filologica. 


Materie  di  corso 

Anno  i" 

Anno  2» 

Anno  3" 

Anno  4" 

Letteratura  italiana    Ore 

Letteratura  latina  .     .     » 
Letteratura  greca   .     .     » 
Grammatica  storica  e  sti- 
listica latina  ...» 
Grammatica  e  lessicogra- 
fia greca    ....     » 
Storia     comparata    delle 
letterature  neo-latine  » 
Storia    comparata     delle 
lingue  classiche  e  neo- 
latine      » 

Archeologia       greco-ro- 
mana      » 

Storia    comparata    della 
metrica  classica .     .     » 
Storia  antica      ...» 
Paleografia   ....     » 
Pedagogia     ....     » 
Lingua  tedesca  ...» 

3 

4 
4 
3 

3 
3 

3 
6 
6 

3 

3 
3 

3 
6 
6 

3 
3 

3 

6 
6 

3 
3 
3       • 

3 

Totale  Ore 

20 

24 

24 

24 

Se:^ione  storico-geografica. 


Materie  di  corso 

Anno  1° 

Anno  2" 

Anno  3-' 

Anno  4" 

Storia  antica      .     .     Ore 

3 

3 

3 

3 

Storia  mioderna.     .     .     » 

3 

3 

3 

3 

Storia  della  filosofia  .     » 

— 

— 

3 

3 

Geografia       ....     » 

— 

— 

3 

:> 

Archeologia       greco-ro- 

mana      » 

— 

— 

3 

3 

Antichità  orientali      .     » 

— 

— 

— 

3 

Paleografia    ....     » 

— 

— 

3 

— 

Letteratura  italiana    .     » 

3 

3 

— 

— 

Letteratura  latina  .     .     » 

b 

6 

— 

— 

Letteratura  greca  .     .     » 

6 

6 

— 

— 

Pedagogia     ....     » 

— 

— 

— 

3 

Lingua  tedesca  ...» 

3 

:> 

— 

— 

Totale  Ore 

24 

24 

18 

21 

Sezione  filosofica. 


Materie  di  corso 

Anno  1° 

Anno  2" 

Anno  3° 

Anno  4" 

Filosofia  teoretica .     Ore 

3 

3 

Filosofia  morale    .     .     » 

— 

3 

3 

3 

Psicologia     .     .     . 

» 

— 

— 

3 

3 

Storia  della  filosofia 

» 

3 

3 

3 

3 

Fisiologia     .     .     . 

» 

— 

— 

3 

3 

Pedagogia     .     .     . 

» 

— 

— 

3 

Storia  antica     .     . 

» 

3 

— 

— 

— 

Letteratura  italiana 

» 

3 

3 

— 

— 

Letteratura  latina  . 

» 

6 

6 

— 

— 

Letteratura  greca  . 

» 

3 

3 

3 

3 

Lingua  tedesca  .     . 

» 

3 

3 

— 

— 

Lingua  inglese  ...» 

— 

— 

3 

3 

Totale  Ore 

24 

24 

18 

21 

Osservando  queste  tabelle  si  vede  che  per  ogni  materia  io  vorrei 
prescritte  tre  ore  di  lezione  ogni  settimana  ,  eccetto  che  per  l' inse- 
gnamento della  grammatica  storica  e  stilistica  latina,  e  della  gram- 
matica e  lessicografia  greca,  per  cui  reputo  indispensabili  quattro 
ore;  inoltre  all'insegnamento  della  letteratura  latina  e  della  lettera- 
tura greca  sarebbero  prescritte  sei  ore  per  gli  studenti  di  filologia  e 
per  quelli  di  storia  e  geografia,  mentre  gli  studenti  di  filosofia  avreb- 
bero tre  ore  di  greco  e  sei  di  latino  ogni  settimana.  La  ragione  di 
ciò  è  chiara,  chi  consideri  quello  che  ho  sopra  discorso  intorno  al- 
l' insufficienza,  per  gli  studenti  di  filologia  ,  di  sole  tre  ore  settima- 
nali di  letteratura  latina  e  greca;  chi  pensi  inoltre  che,  secondo  le 
mie  proposte  ed  i  ragionamenti  fatti,  gli  studenti  di  storia  e  geografia 
dovrebbero  essere  obbligati  a  frequentare  que'  due  corsi  per  soli  due 
anni,  e  che  gli  studenti  di  filosofia  sarebbero  tenuti  alla  frequentazione 
del  corso  di  letteratura  latina  per  due  anni,  mentre  per  quattro  anni 
seguirebbero  quello  di  letteratura  greca  :  del  che  abbiamo  sopra  dato 
la  ragione. 

Non  si  obbietti  che  si  potrebbe  estendere  a  tutti  i  quattro  anni  di 
corso,  per  gli  studenti  di  storia  e  di  filosofia,  1'  insegnamento  della 
letteratura   latina,  e  per  quelli  di  storia    e  geografia  anche  l'insegna- 


—  87  — 
mento  del  greco;  perchè  è  bene  che  gli  studenti  nel  secondo  biennio 
dei  loro  studi  si  occupino  esclusivamente  di  quelle  materie  che  più 
strettamente  si  riferiscono  o  alla  storia  e  geografia  od  alla  filosofia, 
appunto  per  la  necessità  di  dover  specializzare  i  loro  studi  ;  e  d'altra 
parte,  per  gli  studenti  di  filologia,  i  quali  devono  frequentare  quei 
corsi  per  tre  anni  consecutivi  sino  alla  laurea ,  sono  assolutamente 
richieste  le  sei  ore  da  me  segnate  nell'orario. 

VII.  Nasce  quindi  una  grave  questione  per  l'orario  dei  professori 
di  lettere  latine  e  greche.  È  giusto  raddoppiar  loro  addirittura  il  nu- 
mero delle  lezioni  che  sono  obbligati  a  fare,  senza  pensare  ad  un 
conveniente  compenso?  Ecco  pertanto  interessato  il  bilancio  della 
Pubblica  Istruzione,  interessato  l'erario,  alle  condizioni  del  quale  è 
pur  forza  subordinare  qualsiasi  riforma.  Ora  io  non  so  se  noi  ver- 
siamo in  tali  condizioni  finanziarie  da  poter  accrescere  lo  stipendio 
ai  professori  di  lettere  latine  e  greche  in  proporzione  del  maggior 
numero  di  lezioni  che  loro  vengano  assegnate.  Non  so  nemmeno  se, 
vista  la  necessità  di  dover  aggiungere  alcuni  nuovi  insegnamenti  alla 
Facoltà,  si  potrebbe  anche  semplicemente  dare  ai  detti  insegnanti  una 
indennità  annuale  corrispondente  allo  stipendio  d'un  incaricato  :  ma 
credo  che  anche  non  potendosi  ciò  fare  per  ora,  si  debba  cercare  di 
farlo  al  più  presto  possibile,  ed  intanto  si  trovi  un  qualche  tempe- 
ramento che  permetta  di  subito  attuare  la  riforma  senza  aggravare 
soverchiamente  l'erario. 

A  me  pare  di  aver  trovato  questo  temperamento  proponendo  che 
il  professore  ufficiale  di  dette  materie  continui  per  ora  a  fare  le  sue 
tre  lezioni  settimanali,  e  per  le  altre  tre  si  obblighino  gli  studenti 
tutti  a  frequentare,  in  quelle  Università  ove  si  abbia,  quel  corso  li- 
bero con  effetto  legale,  tanto  di  letteratura  latina  quanto  di  lettera- 
tura greca  che  verrà  dal  Ministro,  anno  per  anno,  designato,  considerati 
i  titoli  e  l'attitudine  didattica  dei  varii  liberi  docenti  di  quelle  stesse 
materie  ,  i  quali  insegnino  effettivamente  e  facciano  ogni  settimana 
un  numero  di  lezioni  uguale  a  quello  prescritto  per  l'insegnante  uf- 
ficiale (i).  Per  tal  guisa  l'erario  non  resta  aggravato  più  di  quello  che 


(1)  Un  inconveniente  che  si  verifica  ogni  anno  all'Università   di  To- 
rino mi  obbliga  a  toccare  qui  di  volo  una  questione  delicata,  quella  dei 


—  88  - 
è  presentemente,  potendosi  anche,  nell'attuale  ordinamento,  dare  il 
caso  che  gli  studenti,  considerata  l'utilità  d'un  corso  libero  con  ef- 
fetto legale,  vi  si  inscrivano  tutti.  D'altra  parte  è  così  piccolo  il  nu- 
mero degli  studenti  di  lettere  e  di  filosofia,  che  l'erario  non  ha  a  ri- 
sentirsene punto  delle  loro  iscrizioni  ai  corsi  liberi.  Certo  sarebbe 
necessario  rimediare  ad  uno  sconcio,  il  quale,  se  non  è  molto  grave 
nelle  Facoltà  numerose  di  studenti,  è  gravissimo  per  quelle  che  ne 
hanno  pochi,  e,  per  di  più,  generalmente  studiosi.  Lo  sconcio  a  cui 
accenno  è  il  corrispondere,  che  ora  si  fa,  la  quota  d'iscrizione  al  li- 
bero docente  solo  in  proporzione  del  numero  degli  studenti  che  pa- 
gano le  tasse.  Si  consideri  che,  in  generale,  chi  studia  lettere  o  filo- 
sofìa non  è  ricco  e  spesso  nemmeno  agiato,  e  quindi  può  collo  studio 
facilmente  ottenere  la  dispensa  dal  pagamento  delle  tasse;  al  libero 
docente  quindi,  non  punto  sovvenuto  altrimenti  dal  governo,  rimane 
quasi  nulla.  Ora  il  nulla,  per  chi  lavora  coscienziosamente,  è  troppo 
poco  ! 

Ma  tornando    all'argomento,  designato  dal  Ministro  il    libero  do- 
cente al  cui  corso  si  debbano  iscrivere  tutti  gli  studenti,  egli  dovrebbe 


Dottori  aggregati.  A  questi,  cui  la  legge  13  novembre  1859,  con  esor- 
bitanza fenomenale,  concede  la  privata  docenza  con  effetti  legali  in  tutte 
le  materie  pertinenti  alla  Facoltà  (art.  93),  viene  sempre  assegnato  l'uf- 
ficio di  supplire  i  professori  assenti  o  infermi,  anche  quando  non  eser- 
citino eflFettivamente  la  privata  docenza,  ponendoli  quindi  al  di  sopra  di 
quelli  che,  talora  con  immensi  sacrifizi  ed  indefesso  studio,  esercitano 
la  loro  qualità  di  privati  insegnanti  regolarmente,  sottoponendosi  anche 
all'orario  stesso  dell'insegnante  ufficiale,  senza  essere  dottori  aggregati. 
Se  ciò  sia  giusto  ,  veggano  le  persone  imparziali  che  più  che  ai  vani 
nomi  riguardano  alla  realtà  delle  cose,  che  non  possono  veder  preferite 
a  chi  onestamente  e  assiduamente  lavora,  persone  che  soventi  volte, 
dopo  aver  sostenuto  un  esame,  non  si  curano  più  di  continuare  i  loro 
studi,  o  non  ne  danno  segno  alcuno,  o  che  ad  ogni  modo  nulla  fanno  per 
il  bene  dell'istruzione  universitaria,  salvo  l'intervenire  alle  riunioni  della 
Facoltà  esercitando  un'ingerenza  che  i  soli  insegnanti  devono  avere. 

Ciò  sia  detto  per  tutti  i  casi  possibili,  che  si  deve  pur  riconoscere  che 
fra  i  Dottori  (tggreqati  si  trovano  persone  dottissime  e  rispettabili  per 
ogni  riguardo,  che  lavorano  indefessamente  e  sono  ottimi  insegnanti. 
Ma  frattanto  sarebbe  giusto  stabilire  per  legge  che  l'incarico  di  supplire 
gli  insegnanti  ufficiali  venga  conferito  ai  liberi  docenti,  o  aggregati  o 
non,  per  ragione  di  merito,  o,  a  parità  di  merito,  per  ragione  dell'an- 
zianità nell'insegnamento  libero  effettivamente  esercitato.  Questo  criterio 
dovrebbe  pur  servire  per  la  formazione   delle  commissioni  esaminatrici. 


—  89  - 
mettersi  d'accordo  col  professore  ufficiale  riguardo  alla  ripartizione 
della  materia  da  trattare  durante  l'anno  scolastico,  per  impedire  ogni 
inconveniente,  ogni  ripetizione  o  contraddizione,  e  rendere  più  pro- 
ficuo ed  omogeneo  l'insegnamento.  Naturalmente  agli  esami  gli  stu- 
denti sarebbero  tenuti  a  dar  ragione  ad  entrambi  gl'insegnanti  di 
quanto  fu  da  loro  esposto  durante  il  corso. 

Vili.  Rimane  la  questione  delle  nuove  catedre  che,  secondo  le 
mie  proposte,  si  dovrebbero  instituire  e  che  ho  dimostrato  affatto 
necessarie.  Queste  si  riducono,  se  ben  si  osserva,  a  quattro.  Le  ca- 
tedre, cui  accenno,  sono  quelle  di  Storia  comparata  della  metrica  clas- 
sica per  la  sezione  filologica,  di  Paleografia  per  le  sezioni  filologica 
e  storico-geografica,  di  Antichità  orientali  per  la  sezione  storica,  e  di 
Psicologia  per  la  sezione  filosofica.  Le  altre  catedre  credo  esistano  in 
quasi  tutte  le  Facoltà  di  lettere  e  filosofia  ,  tranne  quelle  di  Gram- 
matica latina  e  di  Grammatica  greca,  le  quali  sussistono  bensì,  ma 
presentemente,  se  non  erro,  si  escludono  a  vicenda  nelle  varie  Uni- 
versità, per  non  dire  che  in  alcuna  mancano  affatto  e  l'una  e  l'altra. 
Tolta  adunque  quest'irregolarità,  prescrivendo  che  in  ogni  Facoltà 
di  filologia  esistano  entrambe  le  catedre  di  grammatica  che  ho  testé 
menzionato  ,  restano  quattro  sole  catedre  da  instituire.  Riguardo  a 
queste  io  proporrei  che  per  qualche  anno,  sino  a  migliori  condizioni 
finanziarie,  fossero  assegnate,  a  titolo  d'incarico,  a  quelli  fra  gl'inse- 
gnanti ufficiali  o  liberi  di  ciascuna  Facoltà,  che  sieno  riconosciuti 
idonei  a  tali  insegnamenti.  In  questa  maniera  con  tenuissima  spesa 
si  provvederebbe  seriamente  al  migliore  andamento  ,  al  lustro  della 
Facoltà  e,  quel  che  più  monta,  all'incremento  degli  studi  ed  alla 
utilità  degli  studiosi. 

IX.  Prima  di  finire,  non  sarà  male  dir  anche  qualche  cosa  degli 
esami  e  della  Scuola  di  Magistero. 

Gli  esami ,  quali  si  danno  attualmente ,  per  gruppi  ,  riescono 
poco  scrii.  Non  è  il  caso  che  io  spenda  parole  per  dimostrarlo  , 
che  tutti,  e  insegnanti  e  studenti,  ne  sono  malcontenti  e  reclamano 
una  riforma.  Allo  studente  è  un  peso  enorme  dover  rispondere  su 
tre,  quattro  materie,  spesso  disparatissime,  senza  nessun  intervallo  di 
tempo  fra  l'una  e  l'altra;  al  professore  è  un  tormento  il  dover  per- 
dere il  proprio  tempo  per  assistere  ad  esami  che  versano  su  materie 


-  90  - 
che  non  sono  la  propria;  è  quindi  in  generale  disattento,  e  deve  rimet- 
tersi al  voto  del  professore  della  materia.  Ne  avviene  perciò  che  per 
ogni  materia  il  votante  è  uno  solo,  chi  la  insegna ,  e  che  il  libero 
docente,  il  quale  fa  parte  della  commissione,  vota  in  generale  facendo 
la  media  dei  voti  dati  dagli  altri  commissari  ;  ciò  che  non  dev'essere. 
Di  più,  per  via  del  numero  delle  materie  che  formano  il  gruppo  di 
esame,  allo  scopo  di  non  impiegar  troppo  tempo  e  non  prolungare 
il  supplizio  del  candidato,  c'è  sempre  un  solo  che  interroga,  il  pro- 
fessore della  materia;  ed  anche  ciò  è  contrario  allo  spirito  del  Rego- 
lamento vigente. 

Bisogna  pertanto  ovviare  a  quest'inconvenienti,  che  non  sono  nem- 
meno i  più  gravi,  essendocene  altri  ben  maggiori,  fra  cui  il  princi- 
pale è  che  cogli  esami  a  gruppi,  come  sono  ora,  non  si  può  avere 
una  seria  garanzia  del  sapere  degli  studenti,  i  quali  vengono  interro- 
gati per  soli  pochi  minuti  in  ciascuna  materia  ;  per  non  dire  che  so- 
venti volte  giovani  di  vero  merito,  pel  cumulo  delle  materie,  si  con- 
fondono e  non  sanno  più  rispondere  alle  più  semplici  interrogazioni; 
mentre  giovani  di  pochissima  capacità  o  negligenti  riescono  fortunati. 
Si  pensi  adunque  a  ristabilire  gli  esami  speciali  quali  si  davano  un 
tempo  colle  commissioni  composte  di  tre  membri,  cioè  il  professore 
della  materia  e  due  liberi  docenti  della  stessa  materia,  o,  in  loro 
mancanza  ,  due  altri  insegnanti  di  materia  affine  ;  di  più  gli  esami 
sieno  annuali  e  dati  su  tutte  le  materie  prescritte  per  ciascun  anno, 
salvo  quelle  il  cui  corso  duri  tre  o  quattro  anni,  per  le  quali  lo  stu- 
dente dovrebbe  subire  l'esame  solo  due  volte.  In  questa  maniera  sa- 
ranno più  scrii  gli  esami,  e  studenti  e  professori  ne  saranno  più 
soddisfatti. 

Resta  a  dire  della  Scuola  di  Magistero.  Questa  scuola,  nelle  condi- 
zioni in  cui  si  trova  presentemente,  non  dà  alcun  frutto  e,  se  devo 
giudicare  da  quanto  avviene  nell'Università  di  Torino,  è  poco  fre- 
quentata. Primieramente  è  in  facoltà  dello  studente  frequentarla  o 
non,  il  che  è  cosa  veramente  riprovevole,  chi  pensi  che  lo  scopo  di 
cotesta  scuola  deve  essere  non  tanto  quello  di  far  esercitare  i  giovani 
con  conferenze,  lavori  scritti,  ricerche  d'ogni  genere  nelle  singole 
discipline,  quanto  più  specialmente  quello  di  addestrarli  all'  insegna- 
mento sviluppando  la  loro  attitudine  didattica,  facendo  loro  applicare 
i  migliori  metodi  d'insegnamento,  obbligandoli  a  fare  qualche  lezione 
su  argomenti  differenti    e    designando    la  classe  a  cui  la  lezione   do- 


-  91  - 

vrebbe  essere  diretta,  a  correggere  lavori  scritti  di  alunni  delle  scuole 
secondarie,  ecc.,  ecc.;  insomma  la  Scuola  di  Magistero  più  che  uno 
scopo  scientifico  dovrebbe  avere  quello  di  formare  buoni  insegnanti 
per  le  scuole  secondarie.  Quindi  ogni  studente  dovrebbe  essere  ob- 
bligato a  frequentarla  non  solo,  ma  non  dovrebbe  essere  ammesso 
all'esame  di  laurea  senza  aver  ottenuto  dai  singoli  professori  della 
Scuola  suddetta  un  certificato  d'approvazione. 

In  secondo  luogo,  se,  nello  stato  attuale  della  Facoltà,  lo  studente 
è  già  oppresso  dallo  studio  di  materie  disparatissime,  come  può  egli 
trovare  il  tempo  per  frequentare  la  Scuola  di  Magistero,  sia  pur  solo 
per  quella  sezione  di  essa  che  è  piìi  consona  co'  suoi  studi  speciali? 
Invece,  dividendo,  come  propongo,  in  tre  sezioni  la  Facoltà,  le  se- 
zioni corrispondenti  della  Scuola  di  Magistero  serviranno  ottimamente 
allo  studente  non  solo  per  approfondire  in  certe  materie  le  sue  co- 
gnizioni, rischiarare  i  suoi  dubbi,  ecc.,  ma  particolarmente  per  adde- 
strarsi a  comunicare  altrui  ,  per  mezzo  dell'  insegnamento  orale, 
quanto   ha  imparato  nel  corso  dei  suoi  studi. 

Ma  sorge  una  questione:  quando  è  che  si  deve  dallo  studioso  fre- 
quentare questa  Scuola?  Molti  vogliono  che  vi  si  debbano  ammettere 
i  soli  laureati  ;  ma  io  credo  che  cosi  non  debba  essere.  Non  confon- 
diamo la  Scuola  di  Magistero  colle  Scuole  di  Perfe:(ionamento  ;  queste 
devono  seguire  alla  laurea,  quella  deve  precedere,  perchè  la  laurea 
deve  essere  non  solo  un  titolo  che  faccia  fede  della  dottrina  di  chi 
l'ha  ottenuta,  ma  pur  anche  un'abilitazione  all'insegnamento,  e  nes- 
suno dev'  essere  da  un'  Università  abilitato  all'  insegnamento  se  non 
abbia  già  dato  prova  di  essere  idoneo  e  per  sapere  e  per  attitudine  e 
buon  metodo  didattico. 

Quindi  io  sarei  d'avviso  che  fossero  tenuti  a  frequentare  la  Scuola 
di  Magistero  tutti  e  soli  gli  studenti  del  4°  anno  delle  tre  sezioni.  Ma 
siccome  esercitarli  in  tutte  le  materie  sarebbe  troppo  e  l'orario  com- 
plessivo del  Corso  e  della  Scuola  di  Magistero  supererebbe  il  limite 
massimo  delle  ore  in  cui  possono  gli  studenti  essere  occupati  dagli 
insegnanti,  così,  avuto  riguardo  allo  scopo  speciale  di  quella  Scuola, 
io  proporrei  che  dovesse  comprendere  quelle  sole  materie  che  il  di- 
scente presumibilmente  avrà  da  insegnare  nelle  scuole  secondarie.  E 
però  per  gli  studenti  di  filologia  dovrebbe  comprendere  le  seguenti 
materie:  letteratura  italiana^  latina,  greca',  storia  antica:  per  quelli 
di  storia  e  geografia  :  storia  antica  e  moderna,  geografia,  archeologia 


—  92  - 
greco-romana  e  antichità  orientali;  per  quelli  di  tìlosofia  :  filosofia 
teoretica,  filosofia  morale,  psicologia,  storia  della  filosofia.  Così  ,  fis- 
sando un'ora  per  settimana  per  ciascuna  materia,  gli  studenti  di  filo- 
logia sarebbero  complessivamente  occupati  per  28  ore ,  quegli  di 
storia  per  26,  quelli  di  filosofia  per  25  ore  ogni  settimana,  tra  il  corso 
ordinario  e  la  Scuola  di  Magistero. 


Queste  sono  le  proposte  che  io  ho  creduto  bene  di  fare  per  il  mi- 
glioramento degli  studi  e  filologici  e  storico-geografici  e  filosofici, 
valendomi  dell'esperienza  da  me  fatta  nell'Università  di  Torino  e  come 
studente  e  come  libero  insegnante.  Sarò  oltreraodo  lieto  se,  quali  che 
vengano  giudicate  e  la  mia  critica  dell'attuale  ordinamento  e  le  mie 
proposte,  quel  poco  ch'io  ho  scritto  potrà  almeno  sollevare  qualche 
utile  e  seria  discussione  sui  mezzi  più  acconci  per  rendere  più  ri- 
spondente ai  suoi  molteplici  scopi  la  Facoltà  di  lettere  e  filosofia. 

Torino,  24  agosto  1881. 

Ettore  Stampini. 


'BI'BLIOG^AFIA 


Iscrizioni  greche  di  Olimpia  e  di  Ithaka.  Memoria  di  Domenico  Com- 
PARETTi  (Reale  Accademia  dei  Lincei  ,  Memorie  della  Classe  di 
Scienze  morali,  storiche  e  filologiche,  serie  B-*,  voi.  VI,  188 1). 

È  uno  studio,  che  il  prof.  Comparetti  comunicava  all'Accademia 
dei  Lincei  nella  seduta  del  20  febbraio  188 1  intorno  a  tre  iscrizioni 
in  bronzo,  che  la  Direzione  degli  scavi  in  Olimpia  aveva  già  pubbli- 
cate nella  Ga^^etta  archeologica,  ma  con  illustrazioni  affatto  provvi- 
sorie e  parziali  del  Kirchhoff  e  di  G.  Curtius  per  quella  segnata  col 
n"  362  ;  del  Frankel  per  quella  segnata  n"  56,  e  del  Kirchhoft"  ancora 
per  quella  che  è  pubblicata  sotto  il  n"  363.  Della  breve  iscrizione 
d'Ithaka  aveva  dato  qualche  notizia  lo  Schliemann  già  sino  dal  1868 
in  un  libro  intitolato  Ithaka,  il  Peloponneso  e  Troia  :  ma  fu  soltanto 
la  scoperta  dell'americano  signor  Stilimann,  che  ne  rese  possibile  la 
interpretazione.  Delle    iscrizioni    d'Olimpia,  numeri  362,  56,  363  il 


-  93  - 
prof.  Comparetti  ci  dà  qui  un  facsimile  in  litografia;  di  quella  di 
Ithaka  s'aggiunge  una  riproduzione  fotografica,  tratta  dalla  negativa 
della  fotografia,  fatta  sul  marmo  a  cura  del  predetto  signor  Stillmann. 
A  conferma  delle  pubblicazioni,  fatte  dalla  Ga:;^etia  Archeologica,  il 
prof.  Comparetti  dice  di  aver  ricevuto  i  calchi  delle  iscrizioni  n"  362 
e  56,  presi  per  conto  suo  in  Olimpia  dal  valoroso  giovane  Dott.  L. 
Milani,  e  dai  quali  si  rileva,  che  il  facsimile  dell'iscrizione  362  dato 
dalla  Ga^:^.  Arch.  è  meno  esatto  nell'ultima  riga,  dove  nel  calco  si 
legge  chiarissimo  NA  e  non  AA,  e  fra  i  due  0  vedesi  la  traccia  di  I, 
o  senza  dubbio  il  posto  da  questo  occupato.  Il  facsimile  dell'iscrizione 
n"  56  è  del  tutto  conforme  a  quello  pubblicato.  Le  tre  iscrizioni  in 
bronzo,  che  formano  soggetto  di  questo  studio,  appartengono  a  quel 
genere  d'epigrafi,  che  presentano  insolite  difficoltà  d'interpretazione 
a  causa  «  della  loro  antichità  e  delle  caratteristiche  troppo  mal  co- 
nosciute oggidì  del  dialetto  locale  in  cui  furono  scritte  ». 

Sarebbe  difficile  il  riepilogare  in  brevi  cenni  l'efficace  e  sobrio  ra- 
gionamento, che  il  prof.  C.  ha  condensato  in  poche  pagine  per  con- 
fermare la  lezione,  che  egli  dà  del  testo  delle  iscrizioni.  È  l'arte  so- 
vrana veramente  di  questo  insigne  archeologo  e  filologo,  di  farci  pen- 
sare un  mondo  di  cose  con  un  solo  leggero  accenno.  L' iscrizione 
n"  362  è  la  più  lunga,  e  le  conghietture,  che  intorno  a  vari  vocaboli 
fecero  il  Kirchhoff  e  il  Curtius  (Giorgio)  non  recarono  molta  luce. 
Il  prof.  Comp.  in  parte  correggendo,  in  parte  supplendo,  in  parte 
felicemente  congetturando,  é  riuscito  a  darci  una  lezione,  che  segnerà 
un  vero  trionfo  nell'arte  interpretativa,  oltre  che  essa  è  ricca  d'im- 
portanti deduzioni  e  fatti  linguistici  ,  e  di  notizie ,  attinenti  alla 
storia  e  all'archeologia.  E  prima  di  tutto  il  Comp.  vide  e  notò,  ciò 
che  non  vide  il  Kirchhoff,  che  in  questa  rhetra  non  abbiamo  una 
legge  intera  e  completa ,  ma  soltanto  un  articolo  di  aggiunta  ad  una 
legge  anteriore  (p.  5),  e  lo  induce  dal  KAI  che  sta  nell'  intestazione, 
che  si  chiude  colle  parole  KAITAYTO,  che  vanno  lette  xaì  xauxuL),  cioè 
Koì  xà  aÙToO,  anche  queste  cose  qui,  e  non  xarà  tò  aùxó  come  pensa 
il  Kirchhoff. 

Quanto  al  significato  generale  dell'  iscrizione,  pare  al  Comp.  che 
si  tratti  del  caso,  che  uno  degli  Elei  che  onoravano  il  paese,  distin- 
guendosi con  vittorie  nei  giuochi  olimpici,  e  costituivano  un  corpo 
d'onore  (Fdppr|v),  procedesse  ad  una  solenne  consacrazione  sia  di  un'ara, 
o  di  una  statua  o  d'altro.  Una  rhetra  antecedente  deve  aver  prescritto 


-  94  - 

il  da  farsi  per  parte  della  cittadinanza  Elea  e  de'  suoi  principali  rap- 
presentanti, perchè  la  ceremonia  della  KoGi^pujoiq  avesse  la  piìi  grande 
solennità.  Che  cosa  fosse  questo,  che  era  da  farsi,  e  quali  fossero  gii 
obblighi  (xà  òiKaia),  che  venivano  imposti  a'  dignitari,  qui  nominati, 
non  sappiamo;  ma  dalla  possibilità  cui  s'allude  qui  d'essere  tratte- 
ììuti  (ì|udaKoij,  pare  che  primo  dovere  fosse  quello  d'intervenire  alla 
cerimonia,  e  i  verbi  èTiiTiGévai,  èmiTOieìv  tò  òiKaia  accennano  al  pren- 
dervi parte  diretta  con  sacrifici,  offerte  ecc.  (p.  9). 

Lasciando  di  dire  di  molte  importanti  e  acute  osservazioni  in  fatto 
di  lingua  e  di  erudizione,  che  si  trovano  nella  parte,  che  riguarda  la 
interpretazione  di  questa  iscrizione,  rileveremo  con  singolare  com- 
piacimento, perchè  ci  sembrano  degnissimi  di  nota,  i  punti  seguenti. 
L'interpretazione  data  al  vocabolo  eappfiv  nell' intestazione ,  che  il 
Comp.  spiega  come  infinito  con  valore  d'imperativo,  nel  significato 
di  eseguire  ,  o  compiere ,  o  far  compiere  ,  significato  d' uso  locale 
(eleo),  derivato  da  quello  generale  di  Gappéuj  —  osare,  intraprendere 
arditamente,  con  qualche  affinità  forse  con  Geapóc;  (GeuupóO.  che  si  trova 
in  qualche  iscrizione  Elea.  Abbiamo  già  accennato  alla  lezione  Kaì 
TaÙTò),  cioè  Kaì  xà  aùxoO  del  Comp.  contro  il  Kaxà  xò  aùxó  del  Kirch- 
hoff. 

Segue  appresso  la  congettura  veramente  geniale  del  Comp.  nella 
seconda  riga  dell'iscrizione,  e  che  riguarda  la  parola,  che  il  Comp. 
legge  e  interpreta  Kaxiapauaeie,  contro  il  Kirchhoff  e  il  Curtius ,  che 
non  volendo  ammettere  un  verbo  come  sarebbe  KaGiopaùuu,  pensarono 
due  parole  staccate.  Il  prof.  Comp.  accetta  il  digamma,  malgrado  la 
mancanza  d'ogni  analogia,  e  crede  che  la  forma  stia  per  KaBiepuOaeie 
da  KaGiepóo)  (consecrare),  come  koivóuj  diventa  KOivdiu,  èjUTreòóuu  èfi- 
TTebéo),  auXduj  auXéuj  ecc.  E  1'  u  starebbe  a  rappresentare  un  rafforza- 
mento della  sibilante,  assai  comune  nei  dialetti  dorici,  per  tacere  di 
Omero,  cosicché  Kaxiapauaeie  starebbe  per  Kaxiapdaaeie. 

Acutissima  è  pure  l'obbiezione,  che  il  Comp.  fa  al  Kirchhoff  ri- 
spetto all'interpretazione  del  passo  Fdppevoi;  FaXeiuu  della  seconda  linea 
dell'  iscrizione,  che  secondo  il  K.  starebbe  a  significare  lo  iscriversi 
di  un  figliuol  maschio  (-rratt;  dpprjv)  nei  ruoli  della  qppaxpia  Pare 
strano  al  Comp.  che  si  voglia  fare  una  legge  speciale  per  un  fatto 
così  comune  della  vita,  e  più  strano  ancora  l'intervento  di  un  autorità 
panellenica,  come  è  quella  rappresentata  dall'  Ellanodica  ricordato 
più  sotto,  ad  un  atto,  che  avrebbe  carattere  puramente  Eleo.  Prevale 


-  95  — 
qui,  secondo  la  bellissima  congettura  del  Comp.  l' idea   del  maschio 
valore,  della  àvòpia,  della  rivopér),  e    con    la   parola  oippriv  s' indica  in 
forma  collettiva  l'insieme  di  quegli  oXkiiuoi  veaviai,  che  onoravano    la 
patria  Elea  colle  vittorie  ne'  giuochi. 

Somma  importanza  per  gli  studi  epigrafici  e  lessicografici  ha  il 
fatto  linguistico  ,  scoperto  e  chiarito  dal  prof.  Comp.  rispetto  alle 
forme  eTreviroi,  eirevTieTuj  ed  eviroi  delle  linee  5-6  dell'  iscrizione,  per 
le  quali  egli  crede  che  non  si  possa  pensare  al  verbo  Tré|UTruj,  come  fa 
il  Kirchhofif,  e  meno  ancora  all'èiuTraa)  del  Curtius.  Il  signor  Comp. 
riconduce  tutte  queste  forme  a  TTOiéuu,  e  in  relazione  a  ciò  le  ha  com- 
pletate nel  testo,  che  egli  dà  dell'  iscrizione,  stabilendo  come  punto 
di  partenza  1'  èTrnroeóvTujv  della  lin.  4;  così  che  s'avrebbe  la  locuzione 
èTTiTTOieìv  TÙ  òkaia,  che,  sinonima  ad  èirixiGévai  xà  òiKaia,  starebbe  ad 
indicare  l'obbligo  di  que'  cotali  ufficiali  pubblici  di  prender  parte  a 
quel  cotale  atto  della  vita  pubblica. 

Quanto  al  luaaxpaai  della  lin.  6,  il  Comp.  crede  che  la  forma  ori- 
ginaria dovette  essere  luacrxpaia,  che  da  Esichio  sotto  la  forma  di 
luaaxpiai  è  spiegata  per   «  ai  xujv  àpxóvxuuv  eùGùvai  ». 

Resta  infine  un  altro  fatto,  del  tutto  nuovo  pei  nostri  lessici,  la 
spiegazione  cioè  che  il  prof.  Comp.  dà  della  frase  i|uàoKeiv  riva  xuùv 
biKciiujv,  che  egli  intende  nel  senso  di  impedire  qualcuno  dall'eseguire 
il  suo  dovere.  Già  il  KirchhofF  aveva  pensato  al  verbo  iudoauj  ;  ma  la 
novità  della  conghiettura  Comparetti  sta  nell'aver  ricondotto  1'  ifiÓGKiu 
al  sostantivo  i|uac,  derivandone  con  bello  accenno  il  significato  di 
legare. 

Finalmente  il  prof.  Comp.  oppugna  la  cronologia  dell'  iscrizione 
fissata  dal  Kirchhoff,  come  anteriore  all'anno  58o,  ossia  VOlimp.  5o*, 
limite  estremo  dell'epoca,  durante  la  quale  l'ufficio  di  Ellanodica  fu 
esercitato  da  una  persona  sola.  Tutta  l'ipotesi  del  KirchhofF  fondan- 
dosi sul  singolare  'EXXavobiKaq,  il  Comp.  gliela  annienta  ,  mostran- 
dogli come  già  Pindaro,  in  un  inno  che  è  dell'anno  476,  parli  alla 
stessa  maniera  dell'  Ellanodica,  che  corona  il  vincitore.  Ora,  è  ac- 
certato, che  a  quest'epoca  quegl' ufficiali  pubblici  erano  per  lo  meno 
nove. 

Tutto  compreso,  il  Comp.  non  la  crede  anteriore  al  secolo  'V*. 


L'esame,  che  il  prof.  Comp.  ha  fatto    della    iscrizione  n"  56,  pub- 
blicata già  dal  Friinkel  sino  dal   1878  nella  Ga^^.  archeol.,  gli  porse 


-  96  - 
modo  di  esprimere  alcune  conghietture  e  di  dare  schiarimenii ,  che 
i  pratici  della  materia  epigrafica  .  nelle  sue  attinenze  colla  lessico- 
grafia e  colla  storia,  non  tarderanno  a  riconoscere  come  improntati 
alla  più  schietta  originalità.  Mettiamo  in  primo  luogo  l'idea,  signi- 
ficata dal  Comp.  a  p.  i3,  che  il  testo  originario  dell'iscrizione  fosse 
bustrofedo  ,  ma  che  poi  essendo  diventato  meno  intelligibile,  forse 
per  deperimento  della  materia,  venisse  trascritto,  secondo  la  maniera 
invalsa  già  generalmente.  Ciò  che  spiegherebbe  alcuni  errori. 

Quanto  alla  lezione  del  testo  ,  il  Comp.  ,  esposte  alcune  sue  con- 
ghietture sulle  forme  KaQvoac,  della  -z*  linea,  che  egli  inclina  a  ricon- 
durre verso  un  KadQvoiac;  (nome),  e  sull'altra  èKKmuc;  nella  linea  5», 
che  egli  propenderebbe  a  prendere  per  èKKaieuq;  passa  a  parlare  delle 
forme  verbali  èiTei|uPoi,  èvepétu  ed  è'^oi  della  linea  i  ,  3  ,  5  dell'  iscri- 
zione. Ravvisa  il  Comp.  nelle  vicende  di  questo  verbo  un'analogia 
con  quelle  deH'èTTnroeóvTujv  dell'altra  iscrizione. 

Ravvisa  il  Comp.  qualche  cosa  di  metodico  in  siffatte  mutilazioni, 
o  abbreviazioni  di  forme  verbali,  osservazione  questa  di  somma  im- 
portanza per  gli  studi  epigrafici. 

Per  la  storia  e  scienza  dell'antichità  son  di  grande  interesse  le  brevi, 
ma  sostanziali  notizie,  che  il  Comp.  ci  porge  a  p.  14  riguardo  ai  di- 
ritti e  doveri  dei  visitatori  del  santuario  di  Olimpia.  A  suo  avviso  è 
probabile  che  gli  Elei  adoperassero  la  parola  sévo<;  in  quel  senso,  in 
cui  secondo  Erodoto  l'avrebbero  adoperatagli  Spartani,  cioè  nel 
senso  di  pdpPapoq  (non  greco). 


L'illustrazione,  fatta  dal  Kirchhoff  della  iscrizione  n"  363  nella  Ga:^- 
t^etta  Archeologica  è  giudicata  molto  severamente  dal  prof.  Compa- 
retti,  che  la  ritiene  molto  al  di  sotto  della  esperienza  e  del  valore, 
che  egli  pure  riconosce  all'illustre  epigrafista  tedesco.  L'errore  prin- 
cipale del  K.  fu  quello  di  aver  preso  per  dativi ,  in  principio  della 
iscripone.  quelli  che  non  sono  che  due  accusativi.  La  cagione  di  questo 
errore  dipende  da  quella  che  il  Comp.  assai  argutamente  chiama 
routine  degli  archeologi,  pei  quali  è  regola  ,  che  dopo  l' intestazione 
à  FpÓTpa  debba  seguire  sempre  il  dativo,  indicante  la  persona,  a  cui 
la  legge  sarebbe  rivolta.  Crede  il  Comp.  che  tale  non  fosse  la  regola, 
e  che  la  presente  iscrizione  dimostri  in  modo  chiarissimo  ,  che  le 
leggi  s'  intestavano  colla  parola  à  Pparpo,  come  chi  dicesse  :  Legge 
(p.  i5).  L'errore  sarebbe  vecchio,  e  daterebbe  dalla  falsa  interpunzione 


-  97  — 
data  dal  Bòckh  della  iscrizione  Elea  n"  ii  del  Corpus  hìScrip.Graec, 
che  è  la  più  antica  che  si  conoscesse  prima  di  queste,  scoperte  recen- 
temente. 

Il  Cnmp.  segnala  come  degna  di  nota  la  distinzione  che  si  fa  in 
questa  iscrizione  /r^  l'autorità  laica  e  la  relif^iosa,  non  solo  quanto 
ai  limiti  di  loro  competenza,  ma  finche  quanto  al  modo  speciale  di 
considerare  la  stessa  cosa,  essendo  chiaramente  indicate  le  diverse  at- 
tribuzioni de'  irpóìevoi  (autorità  laica)  e  de'  juidvTiec  (indovini  ,  inter- 
preti del  ius  sacrorum).  Quanto  all'epoca,  il  Comp.  giudica  la  pre- 
sente iscrizione  non  meno  antica  della  prima  ;  il  dialetto  è  quello 
dell'Elide,  ma  non  della  stessa  varietà  della  prima  epigrafe. 


Quanto  all'iscrizione  d'Ithaka,  fu  già  notato  come  fosse  comunicata 
al  prof.  Comparetti  dal  signor  Stillmann,  americano,  e  come  di  essa 
si  trovino  già  traccie  nel  libro  dello  Schliemann  (la  fenice  degli  sco- 
pritori!), ricordato  pivi  su. 

Rese  le  dovute  lodi  allo  Stillmann  per  le  cure  spese  per  comple- 
tare le  due  parti  del  blocco  di  m.armo,  sul  quale  è  incisa  l'epigrafe, 
accennato  come  il  Kirchhoff  (che  non  aveva  ancora  il  testo  completo) 
tentasse  indarno  di  cavare  qualche  luce  da  quel  monumento,  il  pro- 
fessor Comp.  passa  all'interpretazione,  e  dice  trattarsi  ivi  d'un  tesoro 
nascosto,  cioè  degli  arredi  sacri  (xò  ^vxea)  di  un  tempio,  nel  quale  si 
veneravano  riunite  le  tre  divinità  Athena,  Rhea  ed  Hera.  L'iscrizione 
ha  sette  linee,  ed  è  bustrofeda.  Il  Comp.  argomenta,  che  fossero  i 
sacerdoti  stessi  che  scolpiron  l'iscrizione,  per  escludere  ogni  testimonio 
del  fatto  da  tenersi  occulto. 

Il  prof.  Comparetti  ha  già  abituato  il  mondo  dei  dotti  a  molle 
altre  prove  del  suo  valore  eccezionale  nell'interpretare  e  papiri  ed  epi- 
grafi ;  ma  tuttavia  confessiamo,-  che  guardando  il  facsimile  fotogra- 
fico di  questo  monumento,  e  pensando  al  senso  evidentissimo  che  egli 
ha  saputo  trarne,  non  si  può  a  meno  di  sentire  una  grande  conten- 
tezza, che  anche  l'Italia  possa  finalmente  misurarsi  con  gli  stranieri 
in  un  campo  che  essi  erano  usi  sin  qua  a  riguardare  come  pro- 
vincia   propria;  almeno    per  ciò    che    concerne    l'epigrafia  greca. 

Un  solo  desiderio  ci  resta  ad  esprimere,  ed  è  che  in  occasione  di 
consimili  pubblicazioni  l'egregio  signor  Comparetti  voglia  contrap- 
porre ai  testi  greci  la  traduzione  letterale  italiana  ,  onde  ovviare  a 
possibili  errate  versioni  d'imperiti,  e  rendere  più  accostabile  a  molti 

liivista  di  filologia  ecc.,  X.  7 


-  98  — 
il  senso  vero  delle  epigrafi.  —  Vero  è,  che  egli  lavora  pei  dotti,  ma 
pure...  sentimmo  il  bisogno  di  esprimergli  questo  desiderio,  che  sap- 
piamo condiviso  da  altri. 

Un  po'  di  conclusione. 

II  prof.  Comparetti  ha  l'arte  di  nascondere  la  erudizione,  che  egli 
possiede  sconfinata  addirittura,  e  di  far  capire  subito  netto  il  suo 
pensiero ,  senza  aff"ogarlo  in  un  pelago  di  apparati  critici.  L'  inter 
utriimque  tene  non  fu  mai  meglio  applicato,  come  in  questi  succosi 
e  preziosissimi  contributi  alla  scienza  della  antichità,  che  il  Comp. 
offre  a  quando  a  quando  agli  studiosi.  Maestri  e  scolari  abbiamo 
dunque  tutti  qualche  cosa  da  apprendere  dal  Comparetti;  oltre  le 
notizie  peregrine,  che  egli  ci  dà,  possiamo  apprendere  da  lui  il  se- 
greto di  conferire  carattere  nazionale  a  quella  scuola,  che  s'ha  il  vezzo 
di  chiamare  straniera,  unicamente  perchè  essa  aspettava  l'uomo  che 
la  richiamasse  a'  suoi  giusti  confini.  E  se  anche  ad  altri  pare,  come 
parrà  di  certo,  che  questi  lavori  del  prof.  Comparetti  accennino  per 
l'appunto  ad  una  compiuta  elaborazione  e  quasi  trasformazione  del 
pensiero  e  de'  metodi  ultramontani  ne'  metodi  e  nell'indole  che  sono 
propri  di  noi,  ringraziamo  l'autore  di  questo  nuovo  indirizzo  dato 
alla  scienza,  e  salutiamo  il  maestro  (*). 

Firenze,  marzo    1881. 

Gaetano  Oliva. 


(*;  Queste  righe  erano  già  scritte  e  composte  da  lungo  tempo,  quando  mi 
pervenne  la  memoria  del  prof.  Do.menico  Pezzi:  Nuovi  studi  intorno  al 
dialetto  deW Elide,  inserita  negli  Atti  della  R.  Accademia  delle  Scienze 
di  Torino,  voi.  XVI  (Adunanza  del  24  aprile  1881).  In  questa  memoria 
il  prof.  Pezzi  prende  ad  esame  il  lavoro  del  prof.  Comparetti ,  conside- 
randolo però  soltanto  in  ordine  alle  questioni  fonologiche  e  dialettali, 
lasciando  le  altre  parti  delle  ricerche  ermeneutiche  e  critiche.  Questi 
Nuovi  studi  del  Pezzi  sono  come  un'appendice  all'altro  suo  lavoro  sul 
Dialetto  dell'Elide .  inserito  negli  Atti  della  stessa  Accademia  di  Torino, 
serie  II,  tom.  XXXIV. 

II  prof.  Pezzi,  pur  riconoscendo  1'  alta  importanza  delle  ricerche  fatte 
dal  Comparetti,  non  consente  perù  con  lui  quanto  ad  alcune  deduzioni , 
e  conclude  col  dire,  che  gravi  ostacoli  si  oppongono  ancora  alla  solu- 
zione di  parecchi  fra  i  problemi  concernenti  le  iscrizioni  in  dialetto  eleo, 
testé  scoperte,  a  superare  le  quali  pare  a  lui  non  siano  bastati  ancora 
l'ingegno  e  la  dottrina  dei  più  insigni  ellenisti,  e  invoca  la  scoperta  di 
nuovi  documenti  a  rimuovere  tali  ostacoli. 

Le  osservazioni  che  il  prof.  Pezzi  fa  alle  conghietture  del  Comparetti 
sono  certamente  degne  di  nota,  derivando  da  un  profondo  studio  sul  fo- 
netismo del  dialetto  eleo,  quale  apparisce  appunto  dal  lavoro  accennato 
quassopra.  Gli  appunti  segnatamente  fatti  allo  restituzioni  suggerite  dal 
prof.  Comparetti,  i-iguardo  alle  forme  e-rrevTioi,  euevirtTO,  eviroi  dell'iscri- 
zione CCCLXII  ;  ed  eve^eo,  e  T  e^oi  della  iscriz.  LYI,  nonché  riguardo 
all'oscuro  KOTipauoeie  dell'iscrizione  CCCLXII,  6,  possono  offrire  materia 


-  99  - 

a  coutroversia.  Nel  complesso  pe)'ò  ci  pare  di  poter  dire,  che  volendo 
sottoporre  ad  un  esame  critico  il  lavoro  comparettiano,  non  si  poteva 
prescindere  dalle  considerazioni  di  ermeneutica  e  critica,  che  accompa- 
gnano le  ricerche  fonetiche  e  morfologiche,  e  sulle  quali  ci  piacque  ri- 
chiamare l'attenzione  degli  studiosi.  G.  0. 


Platonis  opera  quae  fenintur  omnia.  Ad  Codices  demio  collatos  edidit 
M.  SchANz.  Voi.  VII,  Euthvdemus,  Protagoras.  Ex  officina  Bern- 
hardi  Tauchnitz.  Lipsiae,   MDCCCLXXX. 

L'opera  che  annunziamo  fa  parte  della  magnifica  raccolta  di  clas- 
sici greci  e  romani,  che  il  solerte  Tauchnitz  sta  pubblicando  in  tri- 
plice edizione,  di  cui  I' una  in-S»  per  le  scuole,  l'altra  tascabile,  la 
terza  di  lusso;  ed  è  il  7"  volume  delle  opere  di  Platone,  di  cui  già 
son  venuti  a  luce,  oltre  questo,  il  voi.  i"  contenente  V  Eutifrone,  la 
Apologia,  il  Critone,  il  Fedone,  il  fascicolo  i"  del  voi.  2"  contenente 
il  Cratilo,  e  il  12°  che  contiene  le  Leggi.  11  Dr.  Martin  Schan::;  che 
s'assunse  la  cura  di  pubblicare  i  dialoghi  platonici,  è  già  assai  favo- 
revolmente conosciuto  nel  mondo  filologico;  fu  lui  che  sottopose  a 
nuova  disamina  i  principali  manoscritti  di  Platone  che  ancora  esi- 
stono, e  fé'  noti  i  risultati  di  sue  ricerche  in  parecchie  monografie  ; 
tra  l'altro  egli  annunziò  aver  fatto  la  scoperta  che  il  codice  veneto  se- 
gnato T  è  l'archetipo  di  tutta  la  seconda  famiglia  dei  codici  platonici, 
e  dimostrò  che  il  Vaticano  0  in  una  serie  di  dialoghi  non  è  che  una 
copia  de!  più  antico  e  principalissimo  detto  Clarkiano  o  Bodleiano 
(B).  Gli  studi  originali  del  Schanz  lo  ponevano  dunque  in  grado  più 
d'ogni  altro  di  attendere  a  una  nuova  edizione  critica  dei  dialoghi 
platonici;  e  della  stima  che  egli  gode  in  Germania  per  il  Platonismo 
è  prova  il  fatto  eh'  egli  è  incaricato  della  recensione  annuale  delle 
pubblicazioni  relative  a  Platone  nel  Jahresbericht  diretto  da  Conrad 
BuRsiAN,  al  quale,  com'è  noto,  contribuiscono  i  migliori  ingegni  te- 
deschi. —  Noi  ci  limiteremo  ora  ad  esaminare  il  volume  dell' Euti- 
demo  e  del  Protagora  edili  dal  Schanz;  anzi  restringeremo  il  nostro 
studio  al  Protagora,  perchè  ciò  sarà  sufficiente  al  lettore  per  farsi 
un'idea  della  diligenza  usata  da  questo  dotto  sul  testo  platonico. 

È  da  notare  anzitutto  che  l'A.  premette  ai  due  dialoghi  alcune  os- 
servazioni sulla  retta  scrittura  di  certe  parole  greche  conforme  alle 
testimonianze  dei  codici  ;  per  es.  fa  vedere  che  si  deve  scrivere  €i- 
XiYTW  non  i\r(-"fiù),  e  invece  i\iyto<;  non  e'i'XiYToq  (cfr.  Suida,  s.  h.  v.); 
preferisce  ,  come  più  genuina  ,  la  forma   Tràoooqsoc  a  quella  Trdvooqpoq 


—  100  - 
che  crede  invalsa  a  poco  a  poco  per  mal  ragionata  correttura  dei  co- 
pisti. Finora  era  incerto  se  il  pron.  di  3*  pers.  aùxoO  aùxóv  potesse 
adoperarsi  in  luogo  della  2''  oautoO  oauróv,  essendovi  dei  luoghi  dove 
per  comune  consenso  dei  migliori  codici  si  legge  la  prima  maniera 
per  la  -2»,  e  d'altra  parte  essendo  rifiutata  tal  sostituzione  da  alcuni 
grammatici  (v.  le  mie  «  Postille  critiche  ed  esegetiche  al  Protagora 
di  Platone  ».  Estratto  dalla  Rivista  di  Filologia,  1879,  fascic.  ottobre- 
dicembre,  p.  16).  11  Schanz  osservando  che  sono  rari  i  luoghi  dove 
si  fa  tale  sostituzione,  e  che  in  ogni  caso  all'  aùroO  aùróv  precede  un 
e;  (Es.  Prol.,  3i2A  :  oi)  bè  oùk  fiv  aìoxOvoio  eì^  toùc;  "EXXrivat;  aùròv 
aoq)iaTr*iv  Trapéxujv;),  crede  questo  scambio  doversi  pel  singolare  attri- 
buire a  sbaglio  d' ammanuensi,  e  doversi  perciò  escludere  dall'uso 
platonico,  ammettendolo  solo  pel  plurale  ove  i^|ua<;  aÙToOq,  si  dice  in- 
contestabilmente in  tutta  la  grecità.  L'osservazione  è  acuta,  ma  non 
decide  la  quistione,  finché  lo  scambio  di  questi  pronomi  non  sarà 
dimostrato  impossibile  per  tutti  gli  autori  greci,  0  almeno  per  quelli 
del  buon  secolo.  Tali  e  simiglianti  sono  le  noterellc  raccolte  dal 
Schanz  a  titolo  di  prefazione  al  suo  volume  dell'Eutidemo  e  del  Pro- 
tagora, noterelle  sempre  preziose  per  l'ortografia  e  l'ortoepia  greca. 
Passando  ora  al  testo  del  Protagora,  è  da  avvertire  ch'egli  segue 
come  codici  principali  il  Bodleiano  B  e  il  veneto  T,  a  differenza  degli 
altri  editori  che  tennero  il  T  come  secondario.  Ciononostante  si  può 
dire  in  tesi  generale  che  il  suo  testo  non  differisce  da  quello  già  noto, 
per  la  ragione  che  il  codice  veneto  era  già  stato  usufruito  anche  dai 
critici  anteriori.  Ma  il  Schanz  ha  il  merito  di  essersi  tenuto  per  lo 
più  alla  lezione  dei  manoscritti,  avvertendo  il  lettore  con  note  a  pie 
di  pagina  si  delle  varianti  introdotte  per  propria  congettura,  sì  di 
quelle  che  accettò  da  aUri.  Questa  diligenza  rende  la  sua  edizione 
preferibile  ad  altre  recentissime,  nelle  quali  non  si  dubitò  introdurre 
nel  testo  troppo  ardite  novità  (v.  le  citate  Postille,  p.  66}.  Le  varianti 
introdotte  dal  Schanz  sono  veramente  poche  e  di  piccola  importanza; 
cosa  più  degna  di  lode  che  di  biasimo.  A  pag.  54,  linea  22  (p.  3i2  D), 
volendo  emendare  il  controverso  passo  ti  àv  emoi|aev  aùxòv  clvai,  (u 
luiKpatec,  èiriaxaTriv  xoO  TTonìaai  òeivòv  XéYciv,  che  lo  Stallbaum  aveva 
corretto  accettando  da  due  codici  una  particella  i^  prima  di  èmOTaTriv 
(v.  Postille,  p.  iG  e  sgg.),  il  Schanz  propone  si  faccia  una  proposizione 
ipotetica  interponendo  un  eì  prima  di  etiroiiuev.  Tale  emendamento,  a 
dirla  schietta,  non  mi  soddisfa  ;  perchè  in  tale  interrogazione  resta 
spostata  l'invocazione  Cu  luÙKpaTec,  la  quale  pare  interrompa  il   corso 


-  101  - 
della  proposizione  infinitiva  aÙTÒv  eìvai  èmaTÓTriv  kt\.  e  si  aspelle- 
rebbe piuttosto  dopo  il  TI  av  così  :  ti  av,  w  T.  eì  emoiiuev  aÙTÒv  cTvai 
ktX.  Inoltre,  la  maniera  dello  Stallbaum  oltreché  confortata  dalla  te- 
stimonianza di  due  codici,  è  più  conforme  a  tutto  l'andamento  di 
questo  luogo  del  Protagora;  infatti  a  pag.  3i2  C  si  formola  questa 
domanda:  ti  riYeì  elvai  tòv  aoqpiOTriv  ;  ed  a  tale  domanda  risponde 
Ippocrate:  ti  dv  eiiToi|U€v  aÙTÒv  elvai,  iL  X.,  fi  èmcrTàTriv  ktX.;  dove  è 
evidente  che  il  ti  della  risposta  dev'essere  analogo  a  quello  della  do- 
manda, ossia  riferirsi  ad  aÙTÓv,  aocpiOTriv,  non  rimaner  sospeso  come 
sarebbe  nella  congettura  del  Schanz  ;  la  quale  perciò  non  è  accetta- 
bile. E  qualche  dubbio  rimane  altresì  sull'opportunità  delle  cancella- 
ture che  il  Schanz  vorrebbe  fare  qua  e  là,  come  ad  es.  della  parola 
àOTpovo|uiKà  a  pag.  58,  I.  7,  del  rà  KaXcx  (o  meglio  Tà  kokcIi)  a  p.  67, 
1.  28,  del  KttTà  7TapdÒ6iY|na  a  p.  71,  1.  i,  dell'ÒTi  àòiKoOaiv  a  p.  79,1.  22; 
perchè,  sebbene  queste  espressioni  non  sieno  strettamente  necessarie 
all'intelligenza  del  contesto  in  cui  si  trovano  .  pure  non  hanno  nulla 
che  vi  ripugni  (i).  E  dell'ultima  6ti  àòiKoOoiv,  p,  333  D,  affermo  anche 
risolutamente  che  è  una  follia  il  cancellarla.  S'incomincia  ivi  una  di- 
scussione partendo  dall'ipotesi  che  si  possa  esser  savii  pur  commet- 
tendo ingiustizia,  e  Socrate  domanda  a  Protagora:  '  ti  par  egli  vi 
siano  alcuni  i  quali  pur  operando  ingiustamente  sien  savii  ?» .  «Sia» 
risponde  l'altro.  «  E  Tessere  savio  chiami  tu  un  pensar  bene?»  «Si  . 
E  il  pensar  bene  è  egli  un  consigliarsi  bene  perchè  commettono  in- 
giustizia? (tò  ò' 6u  qppoveìv  eu  PouXeueoGai  oti  àòiKoOaiv;)  ».  In  altri 
termini  :  il  commettere  ingiustizia  è  egli  in  tal  caso  fruito  di  una 
ragionata  deliberazione,  e  d'una  deliberazione  buona  ?  E  si  continua 
a  dire  :  ciò  sarà  evidentemente  solo  nel  caso  che  chi  commette  in- 
giustizia riesca  felicemente  nell'impresa  che  tenta,  perchè  se  gli  fal- 
lisse il  tentativo,  allora  chiunque  riconoscerebbe  che  s'è  consigliato 
male.  In  questo  ragionare  il  concetto  di  óòikèiv  è  principalissimo,  ed 
è  questo  concetto  che  si  suppone  per  ipotesi  conciliabile  coli'  altro 
della  saviezza,  del  buon  consiglio.  Dunque  non  solo  non  va  cancel- 
lato r  6ti  àòiKoOaiv,  ma  l'aver  proposto  tal  cancellatura,  basta  a  di- 
mostrare che  il  Schanz  non    ha    ben    capito    questo  passo  del  nostro 


(1)  Eccettua  forse  il  tu  Ka\d  (p.  67,  1.  28,  323  D),  il  quale  si  riconosce 
facilmente  essere  una  glossa  spiegati  va  del  TÓvavTia  toùtok;  ,  mentre 
r  haec  mala  della  traduzione  del  Ficino  non  sarebbe  che  una  traduzione 
parafrastica  del  TaùTa  ,uèv  y«P  kt\. 


-  102  - 
dialogo.  —  Lasciando  stare  per  ultimo  certe  novità  di  niuna  impor- 
tanza, come  il  iravTóe;  che  a  pag.  66,  1.  3o,  sostituisce  ad  arravroc;  dei 
codici,  dell' ^KTr)aai  che  a  pag.  6'i,  1.  20  sostituisce  a  K^Kxriaai.  am- 
messo del  resto  nella  stessa  linea,  non  vi  sono  altre  congetture  ori- 
ginali nel  testo  del  Schanz.  Fra  quelle  che  egli  accettò  da'  suoi  pre- 
decessori stimo  riprovevoli  ,  conforme  alle  prove  datene  nelle  mie 
Postille,  quella  dell'  elvai  suggerita  dall'  Heindorf  in  luogo  dell'  eira 
a  pag.  72,  1.  20  (Postille,  p.  3j),]a  cancellatura  del  tò  6|uoiov  a  p.  77, 
1.  i5  (33i  E)  proposta  dall'Hirschig  e  dall'Henneberger  (Postille,  p.48), 
la  sostituzione  della  voce  dSia  a  p.  io5,  1.  10  (356  A)  alla  lezione 
dei  codici  óvatia,  congettura  ond'  è  autore  lo  Schleiermacher  (Po- 
stille, pag.  61).  Quest'ultima  principalmente  non  so  davvero  spie- 
garmi com'abbia  potuto  essere  accettata  non  solo  contro  il  consenso 
dei  codici  ma  anche  contro  la  testimonianza  di  Cicerone  in  Prisciano 
(v.  lo  stesso  Schanz  a  pag.  io5  nota)  e  del  Ficino,  e  contro  la  ragion 
del  contesto.  Si  parla  ivi  di  quella  volgar  sentenza  per  cui  si  dice  di 
aver  fatto  ciò  che  è  male,  indottivi  dal  piacere,  che  per  la  sinonimia 
in  quel  luogo  supposta  dei  concetti  di  male  dolore,  bene  piacere, 
torna  a  dire  aver  fatto  il  male  vinti  dal  bene,  oppure  aver  fatto  ciò 
che  è  doloroso  vinti  dal  piacere.  Socrate  avverte  che  se  si  riconosce 
d'aver  errato  operando  così,  gli  è  perchè  si  giudica  che  il  bene  fosse 
indegno  di  vincere  il  male,  il  piacevole  fosse  indegno  di  vincere  il 
doloroso;  e  tale  indegnità  non  consiste  in  altro,  seguita  egli,  che  nella 
minore  intensità  del  piacere  o  nel  minor  numero  delle  cose  piacevoli 
in  comparazion  delle  dolorose,  onde  l'unica  differenza  fra  le  une  e 
le  altre  è  differenza  di  quantità.  Ora  ad  esprimere  questo  pensiero 
che  il  piacere  sia  indegno  di  vincere  il  dolore  ,  si  ricorre  nel  testo 
all'aggettivo  àvàhot;,  es.,  pag.  355  B:  àvdtid  èaxi  TàyoGà  tùiv  kokOùv,  e 
pag.  356  A:  òfiXov  6ti  àvaEiiuv  òvtujv  vikQv.  Appresso  volendosi  espri- 
mere l'idea  che  l'indegnità  consiste  soltanto  in  differenza  quantitativa 
bisognò  a  Platone  formare  un  nome  astratto  dell'aggettivo  prima 
adoperato,  e  però  usò  il  vocabolo  óvaSia.  Il  rifiutare  questa  parola 
per  la  sola  ragione  che  è  un  cinaE  eìp>i|uévov,  e  il  sostituirvi  ótia  é 
arbitrio  del  tutto  irragionevole.  Anche  Cicerone,  traducendo  questo 
passo  e  adoperando  il  vocabolo  indignitas,  dovè  sforzare  l'uso  corrente 
di  questa  voce  pigliandola  nel  senso  etimologico,  ossia  come  astratto 
d'indignus;  ed  anche  noi  in  italiano  quando  adoperiamo,  come  s'è 
fatto  più  sopra,  la  parola  indegnità  ci  accorgiamo  d'aver  per  le  mani 
una  parola  non  d'uso    corrente,  ma  necessaria  a  esprimere  il  nostro 


-  103  - 

pensiero.  —  Finalmente  mi  si  conceda  d'insistere  perchè  I'òti  uaGóvra, 
suggerito  dall'  Hermann  in  luogo  dell'  inesplicabile  òri  uaSóvra  dei 
codici  a  pag.  353  D  e  accettato  dal  Schanz,  venga  sostituito  da  altra 
congettura  più  conveniente,  forse  meglio  che  mai  da  un  |uóvov  xe 
come  già  ebbe  a  proporre  il  Cornarlo  (v.  Postille,  p.  59  e  sgg.). 

Del  resto  questa  diversità  d'  opinioni  su  qualche  passo  del  Prota- 
gora, non  vieta  che  riconosciamo  il  merito  di  Martin  Schanz,  la  cui 
edizione  crediamo  meglio  d'ogni  altra  raccomandabile  agli  studiosi 
italiani,  come  quella  che  riproduce  quasi  esattamente  il  testo  dei  ma- 
noscritti, dando  al  lettore  tutte  quelle  informazioni  che  gli  sono  ne- 
cessarie e  sufficienti  per  rifarsi  la  storia  di  esso  testo  e  dei  varii  ten- 
tativi con  cui  lo  si  volle  ridurre  alla  forma  primitiva  e  genuina  (1). 

(1)  Mi  servirò  di  quest'occasione  per  rispondere  ad  alcuni  appunti  fatti 
dallo  stesso  dottor  Schanz  a'  miei  lavori  sul  Protagora,  e  specialmente 
alle  citate  «  Postille  critiche  ed  esegetiche  »  nel  Jahreshericht  di  Bur- 
sian,  1879,  voi.  17,  p.  241.  Nella  recensione  di  quest'ultimo  opuscolo  il 
Schanz  sentenzia  molto  risolutamente  che  io  vi  do  a  vedere  Mangel  an 
Schdrfe  des  Urtheils  ,  ferner  Mangel  an  Methode.\  e  per  tutta  prova 
adduce  il  passo,  p.  312  A,  dove  l'aÙTÓv  sta  per  aauTóv,  di  cui  si  è  par- 
lato pili  sopra.  Rispetto  a  questo  passo  io  m'ero  limitato  a  recare  in 
mezzo  le  opinioni  degli  uni  e  degli  altri  circa  la  possibilità  o  no  di  questo 
scambio  in  Platone,  e  non  mi  arbitrai  di  decidere  la  quistione  né  in  un 
senso  uè  nell'altro  per  mancanza  di  dati.  Ciò  ha  bastato  perchè  il  Schanz 
pronunciasse  quella  condanna  così  severa.  Via,  signor  Schanz,  con  tutto 
il  rispetto  che  le  professo,  mi  permetta  di  dirle  che  la  riservatezza  nel 
sentenziare  per  insuflBcienza  di  dati  è  precisamente  conforme  al  vei'o  me- 
todo scientifico,  e  invece  il  citare  questo  solo  passo  fra  i  41  da  me  di- 
scussi nelle  Postille  è  proprio  disforme  dal  buon  metodo  di  giudicare  i 
lavori  altrui.  Gli  è  che  (noti  bene  chi  legge)  la  ragione  per  cui  il  Schanz 
citò  questo  solo  passo  non  è  stata  il  proposito  di  farne  oggetto  di  critica 
severa,  ma  il  desiderio  di  approfittarsi  dell'occasione  per  annunciare  ai 
suoi  lettori  che  egli  un  anno  dopo  aveva  saputo  decider  la  quistione  nel 
§  12  della  sua  prefazione  all'Eutidemo  e  al  Protagora,  lo  non  mi  so  per- 
suadere che  queste  critiche- annunzi  siano  conformi  al  vero  metodo  scien- 
tifico. —  In  uu  altro  luogo  della  sua  recensione  il  dottor  Schanz  scrive  : 
Endlich  operivi  der  Yerfasser  auch  noch  niit  der  Uebersetzung  des 
Ficinus  und  den  alien  Ausgaben,  irelche  nicht  den  geringsten  M  erth 
f'ùr  sich  heanspruchen  konnen.  Veramente  doveva  avere  la  testa  nel 
sacco  il  Schanz  quando  scrisse  queste  parole.  0  non  insegna  egli  a  me 
che  la  traduzione  del  Ficino  è  importante  non  solo  per  l'esigesi,  ma  anche 
per  la  critica  del  testo?  Non  accetta  anch' egli,  a  p.  309  C,  la  lezione 
0oqpu)Tepov  suggerita  dalla  version  del  Ficino  in  luogo  del  ooqpuJTàTov 
de'  codici?  e  a  p.  323  D  non  ricorda  egli  la  lezione  xà  Kaxà  in  luogo  di 
xà  KoXd,  anche  questa  del  Ficino,  sebbene  poi  egli  cancelli,  e  non  a  torto, 
l'uua  e  l'altra?  11  Schanz  osa  dire  che  io  lavorai  sulle  edizioni  vecchie. 
0  non  ho  anzi  discusso  continuamente  le  opinioni  del  Deuschle  ,  del 
Cron,  del  Kroschel  ?  Voleva  egli  forse  ch'io  citassi  la  sua  edizione  non 
ancora  pubblicata?  E  per  contro  le  edizioni  dello  Stefano  e  del  Cornarlo 
non  le  usufruisce  forse  anche  lui  ?  Come  dunque  osa  aggiungere  che  tali 
edizioni  non  hanno  il  menomo  valore,  quando  è  assioma  indiscutibile  che 
niuna  manifestazione  del  pensiero  va  disprezzata,  ma  tutte  hanno  a  col- 
locarsi nel  loro  clima  storico  che  solo  permette  di  valutarle  convenien- 


-   104  - 

temente?  —  E  assai  fidente  nella  propria  autorità  si  dimostra  anche  il 
Schanz  quando  senza  ragioni  sentenzia  impossibile  la  interpunzione  da 
me  proposta  ti  oOv;  tòvOv  fi  -nap  eKeivou  qpaivei  nel  primo  dialogo  del 
Protagora  in  luogo  di:  ti  oCv  tu  vOv;  rj  kt\.  Io  confesso  volentieri,  che, 
pensandoci  meglio,  respingerei  ora  tale  interpunzione  proposta  due  anni 
fa;  perchè  la  miglior  maniera  d'intendere  queste  parole  dette  dall'amico 
a  Socrate  è  pur  sempre  quella  suggerita  dallo  Sehleiermacher  traducendo  : 
aber  iras  ììunì  ossia  parafrasando:  «  Comunque  sia  ciò  che  tu  dici, 
quello  che  per  ni  presentii  ti  domando  è  se  tu  ne  venga  da  lui  i^.  Onde 
va  letto  :  ti  oùv  tò  vOv  ;  f\  nap'  èkeivou  qpaivei  ;  Ma  con  che  diritto  il 
Schanz  doveva  sentenziare  utrmóf/lich  quella  interpunzione,  sonza  de- 
gnarsi neppure  di  accennarne  il  perchè? 

Del  lesto  la  ragiono  per  cui  il  Schanz  fu  cosi  severo  con  quelle  mie 
povere  Postille  (anche  questo  noti  bene  chi  legge]  non  è  una  ragione  di 
ordine  scientifico,  ma  piuttosto  un  sentimento  di  orgoglio  nazionale.  In 
(lueir  opuscolo  io  affermai,  in  tesi  forse  troppo  generale,  che  i  Tedeschi 
contemporanei  abusano  della  critica  congetturale.  Quest'  accusa  che  il 
Schanz  s'affrettò  a  ripetere  colle  mie  stesse  parole  evidentemente  ha  mal 
disposto  l'animo  di  lui.  Pure  di  questo  stesso  parere,  modificato,  se  si 
vuole,  iiell'espressione,  sono  molti  degli  studiosi  italiani.  Si  riconosce  il 
merito  incontestabile  dei  Tedeschi  che  in  ogni  lamo  della  coltura  scien- 
tifica hanno  raccolto  la  più  copiosa  e  preziosa  messe  di  materiali,  e  nel 
campo  speciale  della  classica  filologia  mediante  la  più  accurata  indagine 
di  codici,  i  più  ingegnosi  raffronti  di  sparse  testimonianze  hanno  fatto 
straordinariamente  progredire  le  nostre  cognizioni  sugli  autori  antichi; 
ma  si  osserva  altresì  che  alcuni  di  loro  riponendo  soverchia  fiducia  nei 
trovati  del  proprio  ingegno  hanno  rimaneggiato,  rifatto  i  testi  lasciatici 
nei  manoscritti  senza  aver  molte  volte  pesato  a  sufficienza  l'opportunità 
di  quelle  innovazioni  né  giustificato  con  approvabili  ragioni  le  proposte 
congetture.  Ciò  fu  ossi-rvato  per  molti  degli  autori  greci  e  più  pei  latini; 
ma  non  si  vuol  con  questo  disconoscere,  che  la  più  efficace  spinta  agli 
studi  critici  ed  esegetici  fu  data  ai  di  nostri  dai  dotti  di  Allemagna.  La 
necessità  di  porre  un  limite  ad  una  critica  congetturale  troppo  ardita  è 
sentita  dallo  stesso  Schanz,  il  quale  nella  pubblicazione  annunciata  si 
guardò  bene  dall'ammettere  nel  testo  varianti  troppo  ipotetiche  e  poco 
probabili.  Onde  rimane  ch'egli  sia  più  giusto  con  quegli  Italiani  che  pur 
non  dissentendo  da  lui.  s'ingegnano  di  contribuire  per  quel  poco  che 
possono  al  progresso  del  sapere  comune. 

Palermo,  giugno   iRf^i.  Felice  Ramorino. 


AlciiiìL'  osservar{ioni  sul  nuovo  Vocabolario  della  lingua  classica  latina 
compilato  per  uso  delle  scuole  dal  Prof.  G.  Rigutini,  Firenze.  G. 
Barbera,  cdiz.    i!^!^o. 

Nella  prefazione  a  questo  suo  lavoro,  l'A.  parlando  dei  vocabolari 
latini,  che  furono  sin  qui  in  uso  nelle  nostre  scuole,  così  si  esprime: 
«  Nei  vocabolari  latini  per  uso  deUe  nostre  scuole  si  vede  fatta  con- 
fusione di  tutto,  e  ripetuti,  come  per  tradizione,  gli  svarioni  dei  pre- 
cedenti: di  vere  e  proprie  definizioni  e  dichiarazioni,  nulla  o  quasi, 
ma  uso  ed  abuso  di  corrispondenti  italiani,  e  spesso  di  quali  corri- 
spondenti, e  di  che  lingua!  di  modo  che  io  non  dubito  di  mettere, 
per    lunga  esperienza  che  ho  avuto    della    scuola,    cosiffatti    libri    tra 


-  105  - 
i  principali  impedimenti  all'apprendimento  della  vera  e  buona  lingua 
italiana  nelle  scuole  di  latino  ».  Quantunque  un  tal  giudizio,  veris- 
simo per  certi  vocabolari,  ci  sembri  un  po'  esagerato  per  quelli  di 
data  più  recente,  tuttavia  tanti  e  così  gravi  sono  i  difetti  che  anche 
a  questi  ultimi  si  possono  apporre,  che  non  senza  grande  soddisfa- 
zione abbiam  veduto  essersi  in  Italia  trovato  chi  si  sobbarcasse  al- 
l'ardua ed  ingrata  fatica  di  dotare  i  nostri  studi  latini  d'un  buon  vo- 
cabolario scolastico.  E  non  ci  parve  tempo  né  fatica  gittata  l'esaminar 
seriamente,  né  sarà  forse  discaro  ai  nostri  colleghi  il  conoscere,  se  e 
come  l'egregio  A.  sia  riuscito  in  questa  sua  commendevolissima  in- 
tenzione. 

Anzitutto  osserveremo  che  i  limiti,  entro  cui  fu  fatta  la  scelta  del 
materiale,  non  ci  sembrano  i  più  opportuni.  Un  vocabolario  compi- 
lato per  uso  delle  scuole  —  cioè  delle  scuole  classiche  secondarie  — 
non  dovrebbe,  o  ben  poco  ,  uscire  dalla  cerchia  di  quegli  scrittori 
che  si  leggono  in  esse  scuole.  Così  ha  fatto  lo  Schenkl  pel  suo  voca- 
bolario greco-italiano,  in  cui,  limitata  opportunamente  la  scelta  dei 
vocaboli,  ha  potuto  largheggiare  nelle  frasi  con  grande  vantaggio  degli 
studiosi:  e  non  altrimenti  si  governarono  1' Heinichen  e  1' Ingerslew 
nei  loro  vocabolari  latini.  Per  contrario  il  prof.  Rigutini  ha  voluto 
abbracciare  tutta  la  letteratura  da  Nevio  a  Svetonio,  cioè  quasi  dalle 
origini  sino  al  così  detto  periodo  di  ferro  (i38d.  C.)  comprendendo 
nel  suo  lavoro  una  serie  di  scrittori  arcaici  (Nevio,  Ennio,  Catone 
Censorio,  Lucilio,  Pacuvio)  e  del  periodo  d'argento  (Columella,  i  due 
Seneca,  Persio,  Lucano,  Silio  Italico,  i  due  Plinii,  Stazio,  Giovenale, 
Marziale,  Svetonioj  che  al  nostro  insegnamento  mezzano  sono  total- 
mente estranei.  Che  se  il  prof.  Rigutini  ci  obbiettasse  non  essere  il 
.suo  lavoro  destinato  solamente  alle  scuole  secondarie  ,  ma  a  tutte 
quante  le  scuole  di  latino,  allora  non  sappiamo  comprendere  l'esclu- 
sione degli  autori  posteriori  al  i38  d.  C,  massime  di  Gelilo  e  Giu- 
stino. Anzi  circa  quest'ultimo  si  può  dire  che  avrebbe  dovuto  trovar 
luogo  anche  in  un  "Vocabolario  scolastico  propriamente  detto,  essendo 
nolo  che  da  molti  insegnanti  questo  scrittore  è  stimato  acconcio  alle 
prime  classi  del  Ginnasio,  e  che  non  pochi  sogliono  cavarne  temi 
pei  compiti  domestici  di  versione  dal  latino  in  italiano.  Ciò  non 
ostante,  atteso  che,  se  bene  il  materiale  del  Vocabolario  riesca  so- 
verchio per  gli  alunni  delle  scuole  secondarie,  tuttavia  questa  mag- 
giore ampiezza  del  libro  fa  che  si  possa  utilmente  consultarlo  in 
molti    altri    casi  .  noi    ci  sentiremmo  disposti    a    non  farne  carico  al 


—  106  - 

compilatore,  se  non  avessimo  con  nostra  grande  meraviglia  verificato 
che  nel  suo  lavoro  si  desiderano  moltissimi  vocaboli  usati  da  quegli 
scrittori  appunto  che  egli  ci  ha  designati  come  fonti  del  suo  lessico.  E 
tra  gli  infiniti  esempi  che  ci  sarebbe  facile  arrecare,  vogliamo,  per 
non  abusare  dello  spazio  e  della  pazienza  di  chi  legge,  restringerci  a 
quelli  che  seguono.  Anacoenetus  (Giovenale),  abnoclo  (Seneca),  abnodo 
(Columella)  ,  aboUa  (Giovenale  e  Marziale) ,  abrotonites  (Columella)  , 
absinthites  (id.),  conseptus  ,  iis  (Q.  Curzio),  concuro  (Plauto),  concu- 
biiim,  sost.  (id.),  diffulmino  (Silio  Italico),  eluacrus  (Catone  Censorio), 
elutrio  (Plinio  il  vecchio),  elumbis  (Tacito),  emacio  (Columella),  ema- 
cresco  (Celso),  emaneo  (Stazio),  edento  (Plauto),  edentulus  (id.),  edicto 
(id.),  inierplico  (Stazio),  interpolaiio  (Plinio) ,  interpolis  o  interpolus 
(Plauto),  interrasilis  (Plinio)  ,  interrado  (Plinio  e  Columella),  inter- 
neco  (Plauto) ,  internidifico  (Plinio)  ,  internigro  (Stazio)  ,  praejìoreq 
(Plinio),  praefiilguro  (Val.  Fiacco),  praefrigidus  (Celso),  praefurnium 
(Catone)  ,  praefiiro  (Stazio)  ,  praelargus  (Persio)  ,  praepedimeniinn 
(Plauto),  jpro/h/»5,  US  {Seneca),  proflatus,  us  (Siazìo),  riscus  (Terenzio), 
risio  (Plauto),  robiginosus  (Plauto  e  Marziale),  rubricosus  (Catone, 
Columella  e  Plinio],  ructatrix  (Marziale),  rudicula  (Cat.  Col.  e  Plinio), 
sortio,  verbo  (Plauto,  Ennio),  sospitalis  (Plauto),  soterìa  (Marziale). 
Così  essendo  le  cose,  e  non  avendo  l'A.  esposto  in  alcun  luogo  della 
sua  Prefazione,  con  qual  criterio  sia  proceduto  in  queste  esclusioni 
di  vocaboli,  il  suo  lavoro  ci  appare  una  cosa  ibrida  ed  inclassifi- 
cabile, come  quello  che  troppe  cose  contiene  per  le  scuole  e  troppo 
poche  per  chi  volesse  colla  sua  scorta  leggere  tutti  gli  scrittori  latini 
da  Nevio  alla  fine  del  periodo  d'argento.  E  poco  sarebbe  ancora  il 
male,  se  queste  omissioni  risguardassero  soltanto  scrittori  di  minor 
conto,  come  sarebbero  Catone,  Columella,  Marziale,  ma  pur  troppo 
tante  sono  le  voci  di  Plauto  e  di  Plinio  il  vecchio  che  non  si  rin- 
vengono nel  Vocabolario  Rigutini  ,  che  chi  volesse  leggere;  loro 
scritti  col  solo  suo  sussidio,  darebbe  opera  all'impossibile.  Questo  per 
ciò  che  riguarda  la  scelta  del  materiale.  Quanto  alla  parte  etimolo- 
gica, richiesta,  come  dice  l'A.,  dalla  nuova  qualità  degli  studi  lessi- 
cografici, egli  si  è  governato  con  lodevole  prudenza,  non  soggiungendo 
—  son  sue  parole  —  l'etimologia  d'un  vocabolo  se  non  quando  essa 
è  certa,  o  almeno  assai  probabile.  In  questa  categoria  noi  non  avremmo 
però  messo  l'etimologia  di  Qiiiris.  itis,  dato  come  derivante  da  Cures, 
città  Sabina,  etimologia,  che,  come  è  noto  ,  risaie  a  Varrone,  ma  la 
cui  autenticità  è  ben  lungi  dall'esser  fuor  d'ogni  dubbio,  tanto    che. 


-  107  — 
come  dice  il  Corssen  [Aiissprache,  Vocalismiis  iiiid  Bctommg  der  la- 
teinischen  Sprache  ,  Il  Band,  Seite  357),  '^  tradizione,  sulla  quale 
essa  riposa,  non  è  più  attendibile  di  qualsivoglia  altro  fatto  dell'anti- 
chissima storia  Romana.  E  Pott,  Becker  e  Lange  vorrebbero  derivare 
questo  vocabolo  da  curia,  ed  altri  dotti  gli  assegnano  origine  diversa; 
e  insomma  la  questione  non  è  peranco  risoluta.  Ancor  più  dubbiosa 
di  questa  è  la  genesi  del  vocabolo  abdomen,  di  cui  il  Rigutini  dice  : 
Sembra  una  sincope  di  adipomen,  da  adeps.  Così  pareva  veramente 
ad  alcuni  filologi,  tra  i  quali  al  Klotz  [Handw'òrterbuch  der  latei- 
nischen  Sprache,  Braunschweig,  1866,  s.  v.  abdomen),  ma  questa  con- 
gettura, che  ripugna  alle  leggi  fonetiche,  è  stata  dai  più  moderni  ab- 
bandonata affatto,  e  il  Georges  nel  suo  Aus/ìiìirliches  Lat.  —  Deutsch. 
Handw'òrterbuch  non  accenna  ad  etimologia  alcuna,  e  il  Vanicek  nel 
suo  Etymologisches  WÓrterbuch  der  lat.  Sprache  (Leipzig,  1874)  la 
comprende  nell'elenco  di  quelle  voci,  di  cui  non  fu  ancora  trovala  una 
derivazione  sicura.  Così,  contro  il  suo  stesso  proposito,  l'A.  esita  tra 
le  due  etimologie  di  abdo,  scrivendo:  Tema  do,  sebbene  altri  lo  de- 
rivi dal  greco  Gè,  onde  T{6r||ui.  Lasciamo,  che  oramai  nessuno  più  du- 
bita che  ab-do,  insieme  con  condo  ,  credo  ,  perdo  e  forse  con  obdo  e 
subdo,  si  debba  riferire  alla  radice  dha  ,  onde  naturalmente  anche 
TiGriiui,  eéjua  ecc.  (cfr.  Vanicek,  op.  cit.,  pag.  76,  e  Meyer,  Lessico  delle 
radici  indo-italico-greche,  irad.  da  Pezzi,  pag.  20);  mai  non  doveva 
l'A.  confondere  le  menti  dei  giovanetti  lasciando  lor  credere  che  il 
vocabolo  latino  derivi  dal  greco,  mentre  fra  l'uno  e  l'altro  non  corre 
che  un  legame  di  affinità,  o,  se  la  parola  è  lecita,  di  fraternità.  Così 
si  riesce  unicamente  a  perpetuare  il  vieto  pregiudizio  che  la  lingua 
latina  derivi  dalh  greca,  opinione  alla  quale  non  crediamo  che  il 
prof.  Rigutini  consentirebbe  a  sottoscrivere.  Né  meno  incerta  di  questa 
ci  sembra  la  derivazione  di  alces  dal  greco  àXKri  —  come  vorrebbe 
l'A.  —  mentre  dai  più  così  fatta  voce  vien  riferita  alla  radice  ark  o 
vark  e  messo  insieme  con  Xuko;  ,  con  ulcus  ,  ulcisci  ecc.  Disforme 
poi  dalle  buone  discipline  linguistiche  ci  pare  che  sia  stato  l'avere 
supposto  —  seguendo,  se  non  andiamo  errati,  il  Georges  —  un  tema 
temum,  e  postolo  a  base  di  abstemius ,  temetum  ,  temulentus  e  simil. 
E  peggio  fece  l'A.  aggiungendo  di  suo  che  temum  si  è  voce  antiquata, 
significante  vino,  cosa  che  non  ci  ricordiamo  d'aver  veduta  né  udita 
mai,  ma  solo  che  temetum  vuol  dire  bevanda  inebriante  e  che  con 
abstemius,  temulentus  ecc.  ripete  la  sua  origine  dalia  radice  tam  (oscu- 
rare) donde  tenebrae  (pel  tramite  di  tam-e-brae,  mediante   dissimila- 


^  108  - 
zione),  e  temere  e  forse  timco.  Né  son  queste  le  sole  elimologie  , 
su  cui  potrebbesi  trovare  a  ridire:  chi,  per  esempio,  vorrebbe  ora 
accettare  che  l'avverbio  alibi  discende  da  alius  e  ubi}  Sarebbe  come 
ammettere  che  ibi  derivi  da  is  e  ubi,  mentre  è  notissimo  che  amcndue 
risultano  dai  temi  di  alius  e  di  is  più  il  suffisso  locativo  bi,  appunto 
come  ubi  proviene  alla  sua  volta  dal  tema  del  pronome  relativo  e 
dal  predetto  suffisso  (ubi  per  cubi,  e  questo  per  quobi,  come  uter  per 
cuter,  e  questo  per  quoterus).  Altre  imperfezioni  etimologiche  abbiamo 
qua  e  colà  osservato:  nullus  ,  anziché  da  ne  e  ullus  ,  è  fatto  derivare 
da  non  e  ullus;  disciplina,  al  dir  dell' A.,  deriva  immediatamente  da 
disco,  anziché  da  discipulus  (sincope  di  discipulina  \  disjicio  da  dis  e 
icio,  nel  che  vorremmo  credere  che  avesse  più  che  altro  colpa  un 
errore  di  stampa,  e  fosse  cioè  stato  impresso  icio  per  iacio,  se  T  or- 
tografia adottata  dall'A.  non  lo  rendesse  inverosimile.  Alcune  deriva- 
zioni sono  superflue,  p.  e.  nobiscum  da  nobis  e  cum\  anzi  in  questo 
proposito  aggiungeremo  che  non  sappiamo  intendere  come  mai  l'A. 
abbia  creduto  di  dover  citare  fra  le  voci  latine  questa  che  non  è  un 
vocabolo  a  sì,  ma  una  composizione  enclitica,  la  cui  spiegazione  ap- 
partiene propriamente  alla  grammatica.  \\  circa  tutta  questa  parte 
dell'Etimologia  slam  forzati  a  concludere,  che  l'egregio  A.  ha  troppo 
scarsamente  profittato  delle  nuove  ricerche,  e  che  quella  parte  di  esse 
di  cui  s'è  giovato,  non  l'ha  per  avventura  riprodotta  colla  desidera- 
bile esattezza.  L'aver  testé  nominato  l'ortografia,  discorrendo  del  verbo 
disjicio,  ci  provoca  a  far  passaggio  a  quest'altro  importantissimo 
punto.  Uno  dei  vizi  più  giustamente  lamentati  nei  vocabolari  latini 
sin  qui  in  uso  nelle  nostre  s:uole  si  era  appunto  che  in  essi  non  rin- 
venivano gli  alunni  alcuna  di  quelle  forme  ortografiche  che  la  mo- 
derna critica  ha  fatto  introdurre  nelle  più  recenti  edizioni.  Da  questo 
disaccordo  dei  testi  coi  lessici  nascono  inestimabili  inconvenienti  , 
come  a  dire  perdita  grandissima  di  tempo,  impossibilità  per  gli  alunni 
che  incominciano  lo  studio  di  raccapezzarcisi  da  sé  medesimi  ,  e  in 
tutti  confusione  somma  nelle  idee  ortografiche  e  quindi  incertezza 
perpetua  nel  modo  di  scrivere.  Non  arriviamo  certo  fino  a  soste- 
nere che  un  nuovo  lessico  debba  dare  il  bando  a  tutte  le  forme 
dell'  ortografia  antica  ;  troppe  sono  ancora  le  edizioni  vecchie  o  cat- 
tive che  si  tollerano  nelle  nostre  scuole  perché  ciò  possa  farsi  senza 
gravi  inconvenienti;  diciamo  soltanto  che  se  v'era  una  via  da  far 
peggio  di  COSI,  questa  é  appunto  quella  nella  quale  s'  è  messo  l'A. 
accogliendo  tutte,  o  quasi,  le  forme  vecchie,  e  omettendo   pressoché 


-  109  — 
tutte  le  moderne.  Noi  non  pretendiamo  dimostrargli  che  le  investiga- 
zioni dei  tedeschi  sono  arrivate  a  risultamenti  così  irrefragabili  da 
render  necessaria  la  completa  abolizione  di  alcune  forme;  solo  di- 
ciamo che  ,  poiché  la  maggior  parte  delle  edizioni  che  ora  s'  ado- 
perano nelle  nostre  sjuole  le  han  seguitate,  il  non  trascurarle  era  de- 
bito di  chi  compilava  un  vocabolario  scolastico.  Invece,  sin  dalla 
prima  pagina  del  Vocabolario  si  scorgono  lacune,  mancandovi  a 
interiezione  (in  luogo  di  ah),  come  più  innanzi  non  è  registrato  em 
per  hem.  La  forma  neglego ,  certificata  dal  noto  passo  di  Festo 
(II.  285,  Ed.  Bip.),  non  solo  non  è,  come  dovrebbe,  preferita  all'altra 
negligo,  ma  è  data,  contrariamente  al  vero,  come  un  arcaismo.  Non 
si  fa  neppure  cenno  dell'  ortografia  oboedio ,  che  ha  per  sé  non  sola- 
mente l'etimologia,  ma  anche  l'uso,  e  si  conserva  obedio  ,  scrittura 
oramai  abbandonata.  I  composti  di  iacio  sono  registrati  con  /  con- 
sonante (j)  e  /  vocale  (abjicio  ecc.),  mentre  nella  massima  parte  delle 
moderne  stampe,  secondo  l'uso,  che  nelle  questioni  ortografiche  deve 
prevalere  alle  ragioni  etimologiche,  si  trovano  tutti  con  i  semplice. 
Anche  nelle  forme  dei  perfetti,  l'A.  o  non  si  pronunzia  (come  in 
absiim)  tra  le  diverse  scritture,  o  'come  in  aheo)  ne  riporta  una  sola, 
e  non  la  migliore.  Noteremo  in  ultimo  che  nel  Vocabolario  non  c'è 
traccia  alcuna  della  distinzione  oramai  universalmente  ammessa  tra 
le  forme  derigo  e  dirigo,  designo  e  dissigno  ,  describo  e  discribo ,  e 
che  le  regole  ortografiche  date  circa  i  mutamenti,  a  cui  vanno  sog- 
gette le  preposizioni  nei  composti  verbali,  non  sempre  sono  esatta- 
mente esposte,  come  lo  prova  ciò  che  si  legge  di  ab  ,  dove  manife- 
stamente l'A.  è  caduto  in  equivoco,  avvegnaché  le  regole  ivi  proposte 
risguardino  propriamente  l'incontro  della  preposizione  ab  con  altra 
parola,  e  non  la  sua  intima  composizione  con  un  tema  verbale. 

Quanto  ai  significati  italiani,  come  non  ci  dispiace  il  metodo  sto- 
rico seguito  dall' A.  nell' ordinarli,  così  dobbiam  dire  che  essi  sono 
in  generale  accuratamente  scelti  e  di  buona  lega  italiana,  talché  per 
questa  parte  il  Vocabolario,  di  cui  discorriamo,  segna  un  reale  e  no- 
tevole progresso.  Ma  non  possiamo  dire  invece  troppo  bene  del  me- 
todo seguito  nel  citare  le  autorità  e  nello  arrecare  i  costrutti,  e  spiegar 
le  frasi.  Talvolta  (ma  questo  inconveniente  si  limitò,  come  avverte 
l'A.  slesso  nella  prefazione,  a  poche  pagine)  le  parole  sono  arrecate 
senza  autorità  alcuna,  anche  quando  non  s' incontrano  che  presso  i 
poeti  (p.  e.  abnormis)\  tal  altra  le  autorità  sono  tali  da  far  dubitare 
che  il  vocabolo  sia  particolarmente    ed    esclusivamente    adoperato  da 


-  110  — 
ceni  scrittori,  p.  e.  in  nimirum,  che  è  dato  per  voce  di  Nipote  e  Te- 
renzio, mentre  è  comune  a  moltissimi  altri  e  usitatissimo  anche  da 
Cicerone.  Nei  costrutti,  massime  verbali,  l'A.  non  segue  un  sistema 
costante  né  esatto  molto;  talora  è  incompleto,  come  in  abalietio,  dove 
dovevasi  din-  che  Vab  (almeno  nella  buona  prosa)  non  si  può  sottin- 
tendere se  si  parla  di  persona,  e  come  in  abdo  ,  dove  da  quel  che 
arreca  l'A.  è  impossibile  farsi  un'idea  esatta  e  sicura  della  co- 
struzione. Alcune  volte  sono  introdotte  frasi  (come  abducere  in  senso 
osceno)  che  in  un  dizionario  scolastico  potevano  omettersi  senza  in- 
convenienti; altre  fiate  ne  mancano  di  quelle  che  vi  starebbero  assai 
bene,  come  sotto  abeo  non  vediam  citata  la  frase  assoluta  e  molto 
frequente  ne  longhts  abeam,  né  quella  di  Nipote:  7'es  a  Consilio  ad 
vires  abierunt.  Leggendo  l'articolo  abhorreo  parrebbe  che  questo 
verbo  potesse  stare  anche  coU'accusativo,  mentre  ciò  non  è  vero  che 
allorquando  si  tratta  di  persona;  e  il  participio  abhorrens,  di  cui  si 
dice  che  non  regge  il  caso  dativo  se  non  presso  gli  scrittori  poste- 
riori ad  Augusto,  trovasi  cosi  costrutto  anche  in  Livio  Ab.  u.  e.  II. 
14,  i).  Della  costruzione  di  abiudico,  verbo  non  molto  frequente,  si 
dice  per  avventura  più  del  necessario;  non  si  parla  punto  invece  di 
abicio,  che  è  pure  vocabolo  di  uso  tanto  comune.  Parlando  delle  frasi 
impersonali,  a  cui  dà  luogo  il  verbo  abesse,  l'A.  è  caduto,  non  sap- 
piamo comprender  come,  in  una  deplorevole  svista,  scrivendo:  «Co- 
struito con  ut,  e  preceduto  da  tantum,  forma  una  maniera  impersonale, 
corrispondente  ai  modi  nostri:  Tanto  è  lontano...  che,  Tanto  manca... 
che  e  sim.  Id  tantum  abest  ab  officio,  ut  nihil  magis  ecc.  (Cic.)  ». 
Or  chi  non  vede  che  questa  frase,  avendo  per  soggetto  il  pronome 
id,  è  lutt'altro  che  impersonale,  anzi  potrebbe  proporsi  per  esempio 
dell'uso  personale  di  tantum  abest,  nel  qual  caso  tantum  abest  non  si 
costruisce  con  due  ut ,  ma  in  luogo  del  primo  ut  deve  usarsi  (come 
nell'esempio  citato;  un  sostantivo.  Esempio  vero  di  costruzione  im- 
personale sarebbe  :  tantum  abest,  ut  eum  reprehendam,  ut  alii  setiam 
praeferam,  e  cangiato  in  personale:  tantum  absum  ab  eius  reprehen- 
sione,  ut  ecc.  Né  più  felice  é  stato  l'A.  soggiungendo  poco  dopo  che 
la  frase  impersonale  formata  col  doppio  ut  può  anche  avere  per  sog- 
getto una  persona,  citando  a  sostegno  della  sua  asserzione  l'esempio: 
Alilites  tantum  abfuenint.  ut  peyturbarcntur.  ut  incensi  potius  ecc.,  e 
attribuendo  questo  passo  a  Livio,  mentre  per  lo  contrario  si  legge 
ncWAuct.  Belli  Alex.,  cap.  22,  e  nessun  grammatico  gli  dà  peso,  come 
ad    esempio  unico  di  uno  scrittore  per  nulla  autorevole.  E    per   non 


—  Ili  - 

uscire  da  questo  verbo,  noi,  senza  pretendere  di  pronunziare  un  giu- 
dizio assoluto,  siam  forte  inclinati  a  credere  che  la  costruzione  di 
abesse  colla  preposizione  de  non  abbia  per  sé  alcun  buono  esempio; 
almeno  avremmo  desiderato  vederla  confortata  da  qualche  autorità, 
come  cosa  appresso  i  grammatici  inaudita.  In  abripio  mancano  i  com- 
pimenti di  provenienza,  e  la  frase  Ciceroniana:  a  similitudine  parentis 
aliquem  abripere  non  ci  sembra  resa  molto  felicemente  colle  parole  : 
Rimuovere  alcuno  da,  ecc.,  che,  a  parer  nostro,  ricalcano  il  latino 
troppo  servilmente,  sì  che  la  frase  italiana  non  riesce  molto  chiara. 
In  aborior  il  significato  di  nascere  avanti  il  tempo,  abortire,  è  posto 
innanzi  agli  altri,  quasi  fosse  il  primitivo,  e  il  vero  senso  fondamen- 
tale di  venir  meno,  perire  è  detto  invece  poetico  e  figurato,  e  a  so- 
stegno di  questa  erronea  asserzione  è  citato  l'esempio:  ubi  omnia 
oriuntur ,  ubi  aboriuntur  che  viene  attribuito  a  Lucrezio  ,  mentre  si 
legge  in  Varrone  ,  de  Lingua  Latina,  5,  27,  ma  in  altra  forma  :  ubi 
omnia  ut  oriuntur,  ita  aboriuntur .  Anche  in  abuti  il  senso  fondamen- 
tale e  primitivo  (usar  completamente)  non  ci  sembra  indovinato;  in 
abusus  poi  dovevasi  avvertire  che  questa  voce  è  termine  tecnico  di 
giurisprudenza  (Cfr.  Cic,  Top.,  3,  17).  In  abundo  dell'uso  assoluto 
non  si  cita  che  un  esempio  di  Lucrezio,  mentre  Io  troviamo  adope- 
rato da  Quintiliano  (lib.  VII,  proem.,  quare  abundabant  et  praemia  et 
opera  vitae)  e  in  Cic.  [De  Div.,  i,  29,  61).  Di  absumo  dovevasi  dire 
che  in  prosa  non  s'adopera  se  non  in  senso  cattivo  ;  di  abrupte  non  si 
può  asserire  che  in  Quintiliano  voglia  dire:  all'improvviso,  senza  pre- 
parazione ,  riferendosi  al  parlare,  perchè  parlare  all'improvviso,  o 
senza  preparazione  vale  comunemente  :  improvvisare  un  discorso , 
mentre  abrupte  incipere  o  cadere  in  narrationem  ,  significa  :  (troppo) 
bruscamente,  cioè  senza  opportuno  preambolo  o  introduzione.  Questo 
forse  avrà  voluto  dire  anche  VA.,  ma  scelse  una  frase  che  troppo  fa- 
cilmente può  essere  intesa  in  altro  modo.  In  absolute  ci  pare  che  tra 
i  varii  significati  avrebbe  potuto  aver  luogo  anche  quello  di:  sen:^'altro 
(Plinio);  in  absque  non  avremmo  omesso  di  notare  che  il  senso  pri- 
mitivo è  locale,  e  che  nel  periodo  d'argento  questa  voce  si  usò  spesso 
anche  nel  senso  di  praeter,  mentre  nell'  età  classica  ricorre  solo  ra- 
rissime volte.  Volendo  uscire  dalle  prime  sei  pagine  noi  potremmo 
moltiplicare  gli  esempi  di  queste  inesattezze;  ma  per  non  abusare 
della  pazienza  di  chi  legge,  noteremo  solo  che  periculum  non  è  sen- 
tenzia, ma  protocollo  del  processo,  e  che  l'esempio  di  Nipote  addotto 
è  assai  incerto  ;  e  che  in  praescriptio  non  è  registrato  il  senso  di  au- 


112 
ctoritates  praescriptae  che  ha  in  Cic,  Leg.  Agr.,  Il,  9,  22.  Non  cre- 
diamo intìne  di  poter  tacere,  che  alle  volte  le  frasi  citate,  o  sono 
arrecate  in  un  modo  che  ne  altera  il  vero  carattere,  o  son  tradotte 
in  maniera  affatto  erronea.  Cosi,  per  esempio,  la  frase  di  Orazio  ci- 
tata sotto  abnego:  nec  comitem  abnegai  [Odi,  lih.  1,  35,  22)  non  con- 
tiene il  riflessivo  se  del  testo.  Amnietti.smo  che  ciò  possa  essere  di- 
peso da  errore  tipografico  (e  la  versione  della  frase  lo  indicherebbe); 
è  certo  nondimeno  che  una  siffatta  svista  altera  profondamente  l'ori- 
ginale e  facilmente  può  confonder  la  mente  dello  studioso.  Sotto 
abjuro  ,  la  frase  Virgiliana  abjiirataeque  rapinae  [Eneide  ,  8,  263i  è 
tradotta  per:  rapine  commesse  contro  ogni  diritto,  mentre  da  tutti  i 
moderni  interpreti  si  conviene  che  debbasi  tradurre  :  e  quella  preda 
(i  buoi),  della  quale  (Caco)  aveva  con  giuramento  affermato  ad  Ercole 
di  nulla  sapere.  Sotto  aboleo  in  senso  ò\  purificare  b  c\xa\a.  l'altra  frase 
Virgiliana:  nec  viscera  qitisquam  Aut  undis  abolere  poteste  aut  ecc. 
{Georg.,  3,  SSg),  e  qui  la  citazione  ci  pare  incompleta  e  la  spiega- 
zione insufficiente,  perchè  così  a  prima  vista  l'allievo  può  credere  che 
abolere  (in  senso  di  purificare)  abbia  per  oggetto  viscera,  mentre  da 
quel  che  precede  nel  testo  si  vede  che  bisogna  interpretare  :  nec  vi- 
scera abolere  a  coriis,  cioè  purgare  affatto  le  pelli  dalla  carne.  Questo, 
senza  uscire  dalle  prime  sei  pagine  del  libro;  pel  resto  noteremo 
solo  che  la  dicitura:  in  beneficiis  ad  aerarium  deferri,  non  significa 
punto:  scrivere  in  appositi  registri  per  cagion  d'onore,  ma:  esser  dato 
in  nota  alla  tesoreria  fra  quelli  a  cui  si  deve  pagare  una  gratificazione; 
che  della  frase  referre  cimi  aliquo  =  confabulare,  data  come  frase  di 
Cicerone  abbiamo  inutilmente  cercato  esempio  negli  scrittori  latini; 
che  finalmente  non  sappiamo  comprendere  come  mai  si  possa  suffra- 
gare l'uso  di  liti  colTaccusativo  mediante  l'esempio  di  Cicerone  [Ep. 
ad  Att.,  .XU,  22):  Ne  Silius  quidem  quidquam  iititur,  traducendolo: 
Neppiir  Silio  si  servì  (sic)  d'alcuna  cosa,  mentre  basta  un'occhiata 
alla  lettera  in  discorso  per  convincersi  che  quidquam  è  accusativo  di 
estensione  e  che  l'oggetto  di  cosa  è  sottinteso  all'ablativo  (/2or//5  5m;5), 
rimanendo  la  costruzione  di  utor  coli' accusativo  di  cosa  limitata  al 
periodo  anteclassico  ed  alla  lingua  popolare,  tranne  il  caso  del  ge- 
rundivo che  si  trova  coll'acc.  anche  negli  autori  del   periodo  aureo. 

Bergamo,  giugno  188 1. 

Carlo  Fcmagallt. 


Pietro  Ussei.lo,  gere.tie  responsabile. 


D'U^A  ISCRIZIONE  LATINA  ANTICHISSIMA 


L'anno  passato  in  Roma,  tra  il  Quirinale  e  il  Viminale, 
furono  scoperte  parecchie  stoviglie,  unite  ad  oggetti  votivi  -, 
e ,  probabilmente  nello  stesso  punto ,  fu  trovato  un  vasel- 
lino  di  terracotta  a  tre  recipienti,  con  una  duplice  iscrizione 
graffita.  Il  eh.  signor  Enrico  Dressel  con  la  solita  diligenza 
ed  abilità  s'interessò  di  codeste  scoperte,  e  pubblicò  la  iscri- 
zione con  ottime  illustrazioni  e  con  bei  facsimili  (i).  Ci  si 
conceda  di  riassumere  la  bella  memoria  del  Dressel ,  e  di 
farvi  qualche  osservazione  e  qualche  giunta. 

La  duplice  iscrizione  consta  di  128  lettere,  graffite  intorno 
al  vaso  capovolto.  L'una  iscrizione,  più  lunga,  cinge 
il  margine  de'  tre  recipienti ,  presso  agli  orifizi ,  e  compie 
tutto  il  giro  ,  anzi  lo  oltrepassa ,  poiché  le  ultime  lettere 
salgono  e  s'arrampicano  sopra  al  principio  della  iscrizione. 
L'altra,  più  breve,  graffila  più  in  mezzo,  sulla  pancia  del 
vaso,  non  compie  che  mezzo  giro.  Alcune  poi  delle  lettere 
di  questa  iscrizione  più  breve  si  prolungano  troppo  in  giù, 


(i)  Negli  Annali  dell  Istituto  di  corrisponden^^a   archeologica,  anno 
1880,  p.   158-195. 

Tiivista  ài  filologia  ecc.,  X.  8 


—  114  - 

sino  ad  intersecare  la  sommità  delle  lettere  della  iscrizione 
più  lunga  (bisogna  ricordarsi  che  si  scrisse  sul  vaso  capo- 
volto) -,  e  siccome  sull'argilla  molle  si  vede  chiaro  qual  è  il 
frego  che  si  è  sovrapposto  air  altro,  così  si  scorge  qui  be- 
nissimo che  riscrizione  più  breve  e  più  centrale  fu  scritta 
dopo  dell'altra.  Di  che  si  ha  anche  un  altro  indizio.  Dopo 
la  prima  parola  della  iscrizione  più  lunga  c'è  un  segno  di 
interpunzione  (i),  il  quale  non  c'è  poi  più  nel  resto  della 
detta  iscrizione  e  manca  affatto  in  tutta  la  iscrizione  più 
breve.  Evidentemente ,  lo  scrittore  cominciò  col  voler  ben 
dividere  le  parole  Tuna  dall'altra,  ma  dopo  se  ne  pentì  su- 
bito ;  ed  altrettanto  evidentemente,  quindi,  la  prima  parola 
ch'e-i^li  scrisse  su  tutto  il  vaso  fu  quella  seguita  dall'  inter- 
punzione, cioè  la  prima  della  iscrizione  più  lunga  (2). 

La  doppia  epigrafe  è  scritta  da  destra  a  sinistra. 
E  il  primo  caso  che  ce  ne  presenti  1'  epigrafia  latina  (3)  -, 
ed  è  perciò  indizio  di  grande  arcaismo. 

La  scrittura  non  è  quadrata  :  è  ad  angoli  acuti  e  a  linee 
regolarmente  oblique ,  come  di  solito  nelle  arcaiche  greche 
ed  italiche,  e  come  finora  s'  era  trovato  appena  in  pochis- 


(i)  È  una  linea  verticale.  Cfr.  Corssen,  Die  Sprache  der  Etrusker, 
I,  43. 

(2)  Dicendo  che  l'iscrizione  più  lunga  è  stata  scritta  prima,  il 
Dressel  intende  certamente  parlare  di  una  priorità  affatto  grafica  e 
momentanea;  non  vuol  certo  dire  che  la  prima  sia  più  arcaica 
dell'altra.  Che  anzi,  se  qui  fosse  il  caso  di  far  questione  di  più  o 
meno  arcaismo,  l'assoluta  indivisione  delle  parole  nella  iscrizione  più 
breve,  sarebbe  un  cert' indizio  di  maggior  arcaismo  per  quest'ultima 
(cfr.  CoRSSEN,  Op.  cit.,  I,  42,  e  Ritschl,  Prisc.  Lat.  Mon.  Ep.,  119). 
E  appunto  l'indivisione  quasi  assoluta  delle  parole  su  tutto  il  vaso  è 
uno  degli  indizi ,  sebbene  il  più  lieve,  dell'arcaismo  della  duplice 
epigrafe. 

(3)  V,  CoRssEN,  Aussprache  ecc.,  1%  5,  e  Dressel  in  questo  scritto, 
a  p.  190,  sebbene  a  p.  175  abbia  un'espressione  poco  felice  che  può 
essere  fraintesa. 


—  115- 

simi  monumenti  latini  antichissimi.  Ma  rappresenta  lo  stadio 
immediatamente  anteriore  a  quello  in  cui  prevalse  la  scrittura 
quadrata,  ad  angoli  retti  e  a  linee  orizzontali.  Che  già  la 
scrittura  quadrata  albeggia  in  questo  vaso.  L'  S  vi  si  trova 
bensì  angoloso  (simile  a  una  nostra  zeta),  ma  vi  si  trova 
pure  serpeggiante,  e  vi  si  trova  ancor  più  in  una  forma  in- 
termedia -,  il  D  e  r  O  vi  occorrono  più  in  forma  curva  che 
nell'angolosa  ;  il  C  è  sempre  curvo.  Solo  il  P  è  sempre 
angoloso  ;  forse  per  non  confondersi  con  R.  Il  quale  qui 
non  è  il  solito  R  romano,  ma  ha  la  forma  P  del  p  greco  ; 
il  che  importa  che  il  latino  è  passato  anch'esso  per  la  fase 
degli  altri  alfabeti  italici  e  devono  cadere  tutte  le  argomen- 
tazioni che  si  fecero  sul  presupposto  che  non  ci  fosse  pas- 
sato. 

L'  O  e  il  C  son  qui  più  piccoli  delle  lettere  attigue  i  che 
è  un  altro  indizio  di  arcaismo. 

Dapprima  l'alfabeto  latino  dovè  essere  del  tutto  conforme 
al  greco  nell'  usare  il  C  o  <  (=  greco  f)  per  indicare  la 
gutturale  media  (g)  e  il  K  per  la  tenue  (e).  Di  poi  il  K  a 
poco  a  poco  andò  quasi  totalmente  in  disuso,  ed  il  G  con 
l'ufficio  originario  di  rappresentare  la  media  cumulò  anche 
quello  di  rappresentare  la  tenue,  ossia  di  sostituire  il  K. 
Ma  questo  cumulo  apparve  poi,  com'è  naturale,  penoso; 
e  dal  C  fu  cavato ,  mercè  una  lieve  appendice ,  un  altro 
segno  un  po'  diverso  (G)  ;  e  a  questo  fu  affidato  1'  ufficio 
che  era  originario  nel  G,  l'indicare  cioè  la  gutturale  media, 
rimanendo  il  C  per  la  sola  tenue,  quindi  come  del  tutto 
pari  al  K.  L'innovazione,  che  fu  già  attribuita  ad  altri,  ora 
si  crede  che  fosse  opera  di  Appio  Claudio  Geco  (cons.  il 
447  ed  il  458  ab  U.  G.).  Orbene,  nel  nostro  vaso  il  G 
vale  ancora  come  e  e  come  g-  (in  virco  =  virgo)  ;  e  il  K 
non  è  interamente  disusato,  ma  due  volte  v'è  scritto  e  poi 
corretto,  pare,  in  G. 


—  116  — 

Si  trova  qui  il  q,  nella  forma  del  dorico  coppa,  O  -,  ed 
è  questo  il  quarto  esempio  che  n'  abbiamo  nel  campo  la- 
tino. Vale  esso  solo  per  qu ,  come  anche  si  trova  poi  in 
epoca  assai  posteriore,  quando  alcuni  scrissero  qis  per  quis 
e  simili.  —  Ci  si  trova  pure  T  M  a  cinque  aste  al  modo  ita- 
lico, e  con  le  forme  varie  di  tale  M  (i).  —  Il  Dressel  vi  tro- 
verebbe pure  la  vecchia  Z  italica ,  su  che  tra  poco  torne- 
remo. 

Dal  lato  paleografico  insomma,  che  il  Dressel  ha  studiato 
da  par  suo,  si  può  dire  che  questo  monumento  latino  sia 
il  più  arcaico  di  quanti  finora  ne  vennero  a  luce,  e  dà  piena 
ragione  a  coloro  i  quali  credono  che  1'  alfabeto  latino  sia 
stato  in  origine  molto  più  simile  agli  alfabeti  italici  e  greci 
di  quello  che  altri  vorrebber  desumere  dalle  condizioni  in 
cui  ce  lo  mostran  ridotto  i  più  antichi  monumenti  la- 
tini (2). 


1 


(i)  Dell' A/  a  cinque  aste  non  s'aveva  finora  esempio  nel  latino, 
salvochè  un'eco  n'appariva  nel  M\  iniziale  ed  abbreviazione  del  pre- 
nome Maniiis  (nelle  abbreviature  dei  prenomi  si  trovano  facilmente 
tracce  d'arcaismo  grafico:  C.  =  Gaiits  ecc.).  E  v'era  chi  negava  che 
in  latino  vi  fosse  dovuta  mai  essere. 

(2)  E  ira  coloro  ai  quali  questa  bella  pubblicazione  del  Dressel 
riuscirà  gradita  conferma  dell'opinione  loro  deve  essere  ricordato  un 
erudito  russo,  il  prof.  Modestow,  autore  di  un  libro  egregio,  rimasto 
forse  ignoto  al  Dressel,  intitolato  Der  Gebrauch  der  Schrift  utiter  den 
romischen  KÓnigen  (Berlino,  Calvary,  1871).  Egli  si  oppone  con  molta 
giustezza  alla  tendenza  troppo  scettica  di  alcuni  eruditi  tedeschi,  che 
vollero  portare  l'origine  dell'alfabeto  romano  ed  i  primordi  del  latino 
scritto  ad  epoca  troppo  recente;  e  passa  in  rassegna  tutte  le  antiche 
Testimonianze  circa  l'esistenza  e  il  contenuto  dei  più  amichi  testi  la- 
tini [leges  regiae  ,  foedera  regum  ,  libri  pontificmn  ecc.)  e  riferisce 
quelli  che  son  giunti  fino  a  noi  (carme  degli  Arvali,  carme  saliare) 
con  le  interpretazioni  più  plausibili.  Non  diciamo  che  nella  scelta  di 
queste  sia  stato  sempre  felicissimo,  ne  che  manchino  in  tutto  il  libro 
affermazioni  poco  accettabili,  e  dati  poco  esatti.  Delle  prime,  p.  cs., 
ci  pare  essere  quella  che  è  a  p.  17,  che  1'  /  pingue  osco  (h)  sonasse 
come  il  greco  u.  Come  un'inesattezza  di  fatto  è  certamente  quella  di 


—  117  — 

Per  r  interpretazione,  il  Dressel  s'  è  rivolto  al  prof.  Bii- 
cheler.  Ed  ecco  in  breve  quel  che  quest'  ultimo  gli  ha  co- 
municato. 

La  prima  iscrizione,  che  suona  :  love  Sat  deivos 
qoi  med  mitat,  nei  ted  endo  cosmis  virco 
sied  asted,  noisi  Ope  Toitesiai  pacari 
vois;  dovrebbe  equivalere  a  questo:  lovi  Sat{iirno)  divis 
qui  me  mittat^  ne  te  indù  comes  virgo  sii,  astet  ;  nisi  Opi 
Tiiiesiae  pacari  vis;  cioè  il  vaso  istesso  direbbe:  «  Agli 
dei  Giove  e  Saturno  chi  mi  offrirà,  né  ti  sia  compagna  là 
entro  (nel  sacro  recinto)  una  vergine  né  sia  presente  -,  se 
non  quando  vuoi  si  sacrifichi  ad  Ope  Tutesia  « .  Dove , 
oltre  il  costrutto  libero  te  comes  sit  per  tibi  e.  s.  o  te  co- 
mitetur,  s'avrebbe  anche  un  grave  anacoluto  fondamentale  : 
a  rigore  dovrebbe  dire  o  «  a  te  che  m'offrirai  non  sia  com- 
pagna ecc.  )),o  «  chi  mi  offrirà  non  prenda  a  compagna  ecc.» 
e  via  via.  Il  Dressel  ricorda  un  anacoluto  alquanto  con- 
simile dQÌVIliade  (XVII,  248  segg.),  e  dal  canto  mio  io  mi 
permetterò  di  ricordare  un  altro  anacoluto  di  una  iscrizione 
osca  pompejana,  la  quale  tuttavia  costituisce  il  più  bello 
forse  ed  il  più  tondo  periodo  osco  giunto  sino  a  noi  :  V. 
Aadirans  V.  eìtiuvam  paam  vereiiaì  Pom- 
paiianaì  trìstamentud  deded,  eìsak  eì- 
tiuvad  V.  Viìnikiìs  Mr.  kvaìsstur  Pom- 
paiians  trììbom  ekak  kombennieìs  tangi- 
nud    opsannam  deded,    ìsìdum    profatte  d  = 


p.  16,  che  nelle  tavole  eugubine  s'incontri  spesso  il  e  col  va- 
lore di  T,  quando  questo  non  accade  in  verità  che  due  volte  sole. 
Con  tutti  però  gli  appunti,  speciali  o  generici,  che  io,  o  altri  di  me 
più  esperti  ,  possa  trovar  da  fare  al  libro  del  Modestow,  esso  è  di 
certo  giudizioso  ed  utile;  e  soprattutto  la  pag.  22  non  potevo  non 
ricordarla  ora,  a  proposito  di  questa  bella  scoperta  del  Dressel  che 
pienamente  la  conferma. 


—  118  — 

Vibius  Adiranus  Vibii  filius  pecuniam  quatti  civitati  Pom- 
pejanae  testamento  dedit ,  ea  pecunia  Vibius  Vinicius 
Marae  filius  quaestor  Pompeianus  aedificium  hìc,  conventus 
scito,  operandum  dedit  -,  idem  probavit. 

Soffermiamoci  a  considerare  un  momento  quanto  di 
nuovo,  rispetto  alla  lingua,  ci  offra  la  nostra  iscrizione  la- 
tina. Le  forme  di  dativo  in  -e  di  Jove,  Ope  ^  le  forme  pro- 
nominali ttied,  ted\  V  ei  di  nei  e  di  deivos  \  il  -d  per  -t 
nelle  forme  sied,  asted-^  la  forma  sied  (=ein)  con  T  e  an- 
cora ben  conservato;  la  consonante  doppia  scritta  come 
scempia  in  ttiitat  \  son  tutte  cose  già  note  come  più  o  meno 
usuali  nel  latino  arcaico  (i).  Nuova  per  contrario  è  la  forma 
deivos  di  dativo  plur.,  parallela  alla  forma  già  nota  della 
i'  declinazione  devas  (2),  e  la  forma  quoi  di  nominativo 
singolare  ,  la  quale  vien  dunque  a  dare  piena  ragione  al 
Corssen,  che  già  Taveva  teoricamente  ricostruita  come  fase 
anteriore  di  quei ,  qui  (3).  Nome  nuovo  è  Toitesia  di  cui 
è  evidente  la  relazione  col  verbo  tutari  \  e  una  piccola  no- 
vità è  pure  r  uso  avverbiale  di  endo,  la  quale  voce  sinora 
s''era  trovata  solo  come  preposizione ,  al  più  in  tmesi  (4). 
Nuova  e  alquanto  sorprendente  è  la  forma  noisi  per  *tieisi, 
nisi.  Perfino  V  osco,  più  arcaico  nei  suoi  dittonghi,  ha  già 


(i)  Si  può  intanto  vedere  Corssen,  Aussprache^,  I  ,  727  seg.,  201 
ecc.,  785,  38i,  igS;  li,  35i  ecc. 

(2)  Il  Corssen  (I*,  764-5,  nota)  si  serviva  della  mancanza  d'ogni 
forma  di  dativo  pi.  in  -os  di  2^  deci,  quasi  come  un  argomento 
contro  il  Biicheler,  che  sosteneva  V  -as  d'i  i*  deci,  dover  rappresen- 
tare la  fase  originaria  donde  sarebbe  poi  derivato  V*-ais,  -eis ,  -is  , 
mediante  l' inserzione  di  un  -i-  congiuntivo.  Oggi  il  Corssen  non  si 
potrebbe  più  servire  di  quel  quasi  argomento  ;  il  che  però  non  vuol 
dire  che  egli  non  avesse  ragione  contro    il    B'ùcheler. 

(3)  1»,  784  ecc. 

(4)  Vedi  Klotz  .  Handnwrterbuch  der  lateinischen  Sprache  ,  sotto 
in,  e  Corssen,   II*,  397. 


-  119- 
neisuae.  C'è  bensì  Tumbro  nosve  a  cui  il  Dressel  (p.  i8o) 
rimanda,  ma  che  è  esso  stesso  alquanto  singolare  (i).  Lo 
spiegano  come  non-sve  pur  riconoscendo  che  del  resto 
Tumbro  non  ci  mostra  punto  un  non  fuori  composizione  ; 
ma  e  per  questo  e  per  altro  è  una  spiegazione  non  del  tutto 
soddisfacente.  Mentre  d'altro  lato,  se  nel  no  di  nosve  s'ha 
a  riconoscere  un  no{i)  =■  lat.  nei=  ne,  ni ,  resta  sempre 
più  singolare  che  il  dittongo  piva  arcaico  si  mantenesse  tanto 
vivo  giusto  neir  umbro ,  che  quanto  a  sostituzione  di  ei  e 
ad  oi  0 ,  è  più  inoltrato  dello  stesso  latino  (cfr.  dativo  : 
umbro  Ikuvine,  lat.  Romano,  osco  Abellanoi).  Sennonché, 
per  quanto  ciò  sia  vero  in  massima,  egli  è  pur  da  consi- 
derare che  Tumbro  ha  poei,  poe,  poi  di  rincontro  al  latino 
qui^  che  è  qiioi  solo  nella  nostra  iscrizione  Dresseliana^  e 
a  questo  case  pare  possa  andare  perfettamente  parallelo 
Taltro  deir  umbro  no{i)sve  rispondente  al  latino  nisi  che  è 
noisi  solo  nella  iscrizione  medesima.  Insomma  questa  forma 
latina  arcaica ,  che  ora  esce  a  luce ,  ci  conduce  a  met- 
tere ìioisi  come  fase  prisca  del  nisi  latino^,  e  ci  consiglia 
una  dichiarazione  tale  delF  umbrico  nosve  che  non  im- 
plichi esserne  non  il  primo  elemento ,  bensì  un  noi  con 
r  i  eliso.  Infine,  se  è  da  accettare  l'equazione  cosmis  =  Co- 
mes proposta  dal  Bùcheler,  che  ricorda  la  glossa  di  Pesto  : 
u  antiqui...  dicebant  cosmi t fere  prò  committere  »,  si  ver- 
rebbe così  a  stabilire  che  la  preposizione  ciini  sonasse  nella 


(i)  Occorre  una  sola  volta  nella  tavola  Vlb,  il  che  vuol  dire  che 
non  abbiam  per  esso  quel  beneficio  che  per  altre  voci  abbiamo,  cioè 
o  di  vedere  la  stessa  forma  ripetuta  più  volte  tal  quale,  così  da  non 
potersene  materialmente  dubitare  ,  o  di  vederla  riprodotta  con  pic- 
cole differenze  in  modo  da  arguirne  più  facilmente ,  mediante  il 
confronto,  la  forma  originaria.  Intanto  ,  si  noti  curiosa  vicenda  :  il 
Bugge,  attirato  dalla  forma  latina  e  osca,  voleva  correggere  nosve  in 
nesve  ;  e  ora  il  Dressel,  o  il  Blicheler  che  sia  ,  spiega  questo  inatteso 
noisi    latino   col  nosve  umbro,  che  così  torna  in  onore! 


—  120  — 
sua  fase  anteriore  cosm.  Finché  si  stava  col  solo  cosmit- 
tere  era  facile  supporre  che  s'avesse  a  dividere  co-smittere 
e  che  Vs  spettasse  alla  radice  verbale;  e  così  difatti  sup- 
pose il  Miklosich  (i).  Ma  cosmis  non  potrebb' essere  che 
cosm-is.  Ora  io,  considerando  che  Huv  è  ritenuto  da  più  di 
un  etimologo  come  derivato  da  uno  '(Jkuv  ,  per  effetto  di 
quello  stesso  invertimento  tra  la  sibilante  e  la  gutturale  che 
è  nel  greco  comune  Hiqjoq  rispetto  alla  forma  rappresentata 
dall'  eolico  (JKiqpo?,  e  nel  gr.  iSó(;  rispetto  al  latino  viscum 
-US  ecc.,  e  considerando  che  il  prototipo  a  cui  lo  Huv  e  il 
coni ,  cum,  mettano  capo  è  ritenuto  essere  uno  *scom  (2), 
sono  troppo  naturalmente  tentato  a  vedere  nel  cosm  della 
nostra  iscrizione  la  fase  intermedia  attraverso  la  quale 
"scom  si  sarebbe  ridotto  a  coni,  cum.  Da  cosm.,  forma  me- 
tatetica  di  *sconi,  si  sarebbe  assai  semplicemente  passato  a 
coni,  come  da  Casmena  ecc.  si  passò  a  Càmena  ecc.  Certo, 
parrebbe  più  ovvio  passare  da  "scom  a  coni  con  la  diretta 
soppressione  della  sibilante  iniziale,  poiché  d'esempi  di  se 
iniziale  ridotto  a  e  ve  n'  ha  parecchi  e  in  latino  (3)  e  in 
greco  (4).  Giova  però  avvertire  che  son  quasi  tutti  esempi 
comuni  al  greco  e  al  latino  insieme ,  e  alcuni  anche  alle 
altre  o  a  quasi  tutte  le  altre  lingue  indoeuropee;  mentre 
lo  {s)coni  latino  non  avrebbe  riscontro  che  nel  ciprioto  kiv, 
essendosi  V  s  del  resto  ben  conservato  nel  greco  comune 
Hùv,  auv.  Si  potrebbe  anche  dire  che  uno  se-  iniziale  era 
troppo  ovvio  e  gradito  al  latino  {scabere,  sculpere,  sci  re  ecc. 
ecc.  Qcc.).^  perchè  questo  dovesse  sentir  voglia  di  sciogliere 


(i)  Vedi   Vanicek  ,  Griechisch-lateinisches  etymologisches  W'órter- 
buch^  p.  692. 

(2)  Vedi  id.,   ibid.,p.  981,  984. 

(3)  CoRSSEN,  Aussprache  ecc.  T,  277,  809. 

(4)  Curtius,   Grund^uge^,  429. 


-  121  - 
il  gruppo  mediante  la  metatesi.  Ma  anche  in  greco,  si  può 
replicare ,  Io  ok-  è  ovvio  e  gradito  (aKÉTrTOinai,  crKaió(;  ecc. 
ecc.  ecc.),  eppur  questo  non  toglie  che  alcuni  ok-  vi  s^  in- 
vertano in  H  (i).  Certo  che  questo  cosmis,  se  per  un  qua- 
lunque rispetto  non  è  illusoria  la  sua  equazione  con  comes, 
non  può  non  esser  preso  in  considerazione  nella  storia  della 
preposizione  greco-latina  ;  e  difficilmente  potrebbe,  mi  pare, 
essere  inteso  altrimenti  da  quel  ch'io  propongo. —  Finalmente, 
deir  altra  voce  nuova  della  nostra  iserizione ,  vois  (per  vis 
vuoi),  dice  il  Dressel  che  vi  si  ha  «  la  variazione  più  di- 
retta da  l'olis  ».  Ma  l'equazione  vois  =  volis ,  che  par  cosi 
semplice,  urta  contro  una  difficoltà  assai  grave  ;  poiché  essa 
importerebbe  una  caduta  di  -/-  tra  vocali,  di  cui  il  latino 
classico,  non  che  l'arcaico,  non  dà  mai  esempio.  Gli  esempi 
addotti  dal  Corssen  per  la  caduta  di  /  (P,  228)  si  riferì-^ 
scono,  già,  a  tutt'altra  epoca;  eppoi,  presentano  condizioni 
speciali  (tipo^//a,  cìoh  Jilja,  p.  es.;  tipo  dulcis  ecc.).  Né 
gioverebbe  il  ricorrere  al  paragone  dell'ital.  vuoi -=1  v noli  \ 
poiché  il  nostro  vuoi,  e  con  esso  puoi  =puoti,  hai  =  habes, 
pai  =vadis,  saizizsapìs  non  sono  che  forme  apocopate 
(cfr.  po'  =  voglio  ,  può  =  puote ,  ha  =  habet ,  va  =  vadit , 
5^  =  sapit)  con  aggiuntovi  quell'  -i  che  dall'  analogia  degli 
altri  verbi  (dai^  stai  ecc.)  risulta  come  esponente  della  se- 
conda persona  singolare  :  che  certo  a  nessun  romanista 
verrebbe  in  mente  di  ammettere  che  vuoi ,  puoi  ecc.,  im- 
portino una  caduta  di  solo  -/-  o  di  solo  -t-  ecc.,  in  ita- 
liano! Tutt'al  più  la  caduta  di  -/-  si  sarebbe  potuta  conce- 
dere allo  Schweizer-Sidler,  che  poneva  vis  =  *vilis,  =  "volis, 
poiché  il  trovarsi  così  V  /,  tra  due  vocali  tutt'  e  due  /,  ne 


(i)  Curtius,  Op.  cit.,  p.  522  e  699  (non  688,  secondo  l'erroneo  ri- 
mando che  il  Curtius  stesso  fa  nella  p.  522). 


122  

rendeva  possibile  la  caduta  per  semplice  abbre- 
viazione (cfr.  SIS  =^  sivis,  che  si  tirò  appresso  il  sultis 
=  si  vultis  -,  che  però  son  sempre  casi  un  po'  diversi,  non 
solo  perchè  il  -v-  cade  davvero  facilmente,  ma  perchè  son 
formule  fisse  di  complimento ,  di  conversazione ,  più  sog- 
gette perciò  ad  una  abbreviazione  volontaria  che  non  una 
forma  grammaticale  vivente  ricorrente  in  casi  svariatissimi). 
Insomma,  in  questo  vois,  se  si  può  subito  riconoscere  vo- 
lentieri il  padre  di  pìs  (i),  essendovi  altri  casi  di  oi  =  i  (2), 
e  due  anzi  essendoci  offerti  da  questa  stessa  iscrizione 
{quoi ,  noisi) ,  non  vi  si  può  però  con  altrettanta  spensie- 
ratezza riconoscere  il  figlio  di  "volis. 

Passiamo  all'altra  iscrizione  più  breve,  che  dice:  Dvenos 
med  feced  en  manom,  einom  d(z)e  noine 
med  ma(n)o  statod.  Ossia  :  Dvenits  me  fecit  in 
inortuum,  et  die  nono  me  mortilo  sistito.  Cioè:  «Dveno» 
(il  figolo,  oppure  l'oblatore)  «  mi  fece  per  il  defunto,  e  nel 
nono  giorno  al  defunto  ponimi  w. 

Quel  che  qui  si  trova  di  nuovo  per  la  lingua  (che  del 
resto  pure  Ten  era  già  noto:  Corssen,  11%  i6ò)tìnànus, 
buono,  usato  eufemisticamente  per  *  mortuus  '  (cfr.  Mànes)^ 
il  verbo  starle  (statodj  usato  in  senso  transitivo  (3), 
r  ei  n  om  {enim)  nel  senso  di  'et'  come  in  umbro  ienom) 
e  in  osco  (imm)  (4)  •,  e  più  di  tutto  quel    d  (z)  e    noine. 


(1)  Ne  anderebbero  così  in  soqquadro  tanto  la  spiegazione  surrife- 
rita dello  Schweizer-Sidler,  quanto  quella  del  Corssen:  vis  =  *ves  =^ 
*vels  (CoBssEN,  IP,  246-7,  in  nota). 

(2)  Corssen,  P,  710,  711. 

(3)  Se  pur  non  è  già,  come  il  Dressel  ricorda,  nel  carme  degli  Ar- 
vali,  dove  sta  berber  è  inteso  dal  Bijcheler  come  *  siste  flagellum  » . 
Altre  interpretazioni  di  codesta  frase  si  possono  vedere  anche  in 
MoDESTOW,  op.  cit.,  p.   121. 

{4)  Sarebbe  il  secondo  esempio,  nella  latinità,  di  questo  uso  pura- 
mente paratattico  àtWenim,  se  fosse  certamente  romana  l'iscrizione 


-  123  - 
Il  quale  par  certo  che  risponda  al  die  noni,  locativo  arcaico 
citato  da  Gelilo  oltre  die  quinti  o  quinte,  die  quarte ,  die 
crastini,  proximi,  pristini  (i)*,  quadrando  anche  benissimo 
per  il  senso,  giacché,  come  dice  il  Dressel,  «  dopo  eseguite 
«  le  cerimonie  richieste  per  la  sepoltura  dell'estinto,  i  membri 
«  superstiti  della  famiglia  osservavano  il  lutto  durante  nove 
«  giorni  :  questo  periodo  di  tristezza  e  di  rimpianto  chia- 
«  masi  novendiale  e  terminava  con  solenne  sacrifizio  offerto 
«  ai  mani,.,  con  una  cena  e  talvolta  anche  con  ludi  funebri 
«  e  gladiatore  ».  —  Sennonché,  v'è  qualche  difficoltà  quanto 
alle  forme  fonetiche.  In  primo  luogo  V  oi  di  noine  riesce 
nuovo,  se  non  strano.  Certo,  d'  oi  che  finisca  ad  o,  almeno 
un  altro  esempio  l'abbiamo,  in  nón  =  noenum=:ne-oÌ7iom 
cioè  'ne  unum'  (2).  Ma  che  un  0/ potesse  aver  luogo  nella 
fase  anteriore  di  Jtónus ,  nessuno ,  eh'  io  sappia  ,  ci  aveva 
pensato  finora.  Né  so  se  ora  questa  forma  epigrafica  venga 
ad  accrescere  o  a  scemare  le  difficoltà  che  si  trovano  nella 
dichiarazione  di  questo  numerale  ordinativo.  —  Quanto  poi 
al  d  z  e ,  a  me  pare  che  presenti  gravi  difficoltà.  Chi 
tracciò  il  graffito  sembra  scrivesse  dapprima  de,  e  poi  ci 
inserisse  tra  mezzo  un'altra  lettera;  la  quale  il  Dressel, 
con  un  ragionamento  correttissimo  dal  lato  paleografico, 
dimostrerebbe  essere  uno  Z:  non  quello  Z  posteriore  che 
il  latino  riprese  dal  greco,  assieme  all'Y,  per  trascrivere  le 
parole  greche,  e  collocò  alla  fine  dell'alfabeto,  bensì  lo  Z 
antichissimo  italico,  che  aveva  il  settimo  posto  nell'alfabeto, 
dopo  r  F,  e  che  poi  cadde  in  disuso ,  lasciando  libero  un 


riferita  dal  Mommsen  [Unt.  Dial.,  S64.  segg.)  contenente  un  hwnt  =; 
'et'.  Ma  il  Dressel  conviene  anch'egli  che  la  romanità  di  quell'iscri- 
zione non  è  certa, 

(i)  Cfr.  postri~die  ecc.,  e  vedi  Corssen,  P,  775;   IP,  855. 

(2)  Curiosa  che  il  Corssen,  che  pure  accetta  questa  etimologia 
(II,  594),  non  dia  poi,  trattando  dell' 0/,  nessun  caso  di  oi  in  0. 


-  124  - 

posto  nell'alfabeto,  che  fu  occupato  dalla  nuova  lettera  G. 
Così  questa  iscrizione,  presentandoci  in  un  monumento  ro- 
mano lo  Z  italico,  di  cui  finora  non  s'aveano  che  due  in- 
certissimi esempi  nel  latino  provinciale,  mostrerebbe  ancora 
un  altro  carattere  d'  arcaismo.  E  dal  lato  paleografico ,  lo 
ripeto,  la  cosa  si  potrebbe  ritenere  come  perfettamente  di- 
mostrata. Però ,  quando  il  Dressel  vien  poi  a  dire  che  lo 
d  z  e  =  die,  ch'egli  ha  così  ottenuto,  sia  una  forma  giustis- 
sima e  preziosa  anche  sotto  il  rispetto  fonologico,  io  credo 
ch'egli  s'immagini  di  trovare  un  nuovo  appoggio  là  dove 
invece  dovrebbe  riconoscere  il  più  grave  degli  ostacoli. 
Rimanda  egli  al  Corssen  ,  P,  2i5  e  segg.:  ma  questi 
non  gli  dà  che  esempi  della  latinità  assai  tar- 
diva, di  cui  poi  nessuno  presenta  mai  la  grafia  d^  per 
^i -h  voc,  bensì  o  •{{  o  y.  Quanto  al  :{tcolom  =  'dieculum, 
deir  osco,  non  so  se  sia  un  mero  caso  che  esso  e  gli  altri 
certi  esempi  di  assibilazione  osca  si  trovino  solamente  sulla 
tavola  di  Bantia,  cioè  nell'osco  più  meridionale  e  più  tardivo. 
Un  '{icolom ,  per  es.,  sul  bronzo  d'Agnone  proverebbe  un 
po'  di  più  a  favore  dell'  assibilazione  nel  latino  arcaico  E 
vero  che  alcune  forme  latine  pajono  supporre  l'assibilazione 
della  dentale  sin  da  epoca  antichissima  nel  latino ,  ma  si 
tratta  di  / ,  e  non  di  d.  Come  nell'umbro  si  tratta  di  k  e 
non  d'altro.  Piuttosto  nell'etrusco  v'è  esempio  d'assibilazioni 
d'ogni  genere.  Ma  rimandando  ad  altro  luogo  la  trattazione 
di  questo  argomento,  qui  concludiamo  che  d'  assibilazione 
di  dj  (i)  il  latino  classico,  non  che  l'arcaico,  non  dà  alcun 
esempio  ;  e  che  inoltre  la  compiacenza  con  cui  il  Dressel 
vede  nello  d^e  la  conferma   che  «  la  fase  di  passaggio  fra 


(t;  Dico  cosi,  perchè  in  una  formola  come  dienone  il  die  veniva  ad 
essere  pronunziato  come  atono,  e  quindi  può  ben  considerarsi ,  vo- 
lendo, come  un  *djenóne. 


—  125  - 
dj  e  :{  h  appunto  d:{  w  è  una  compiacenza  tutt'  altro  che 
legittima,  dappoiché  quella  trafila  di  dj\  d'{,  ^,  che  da  molti 
si  vuole,  non  è  punto  vera,  e  la  vera  è  invece  (quando  ha 
luogo)  dj,  -{j^  \.  11  Dressel  potrebbe  chiedere  se  io  pretenda 
dunque  che  si  debba  leggere  die  nel  suo  graffito.  Io  me  ne 
rimetto  a  lui,  perchè  giudichi  se,  nonostante  in  questa  du- 
plice iscrizione  T  I  sia  sempre  una  semplice  linea,  si  possa 
pur  ammettere  che  in  questo  caso  lo  scrittore  ci  apponesse 
in  cima  e  al  piede  qualche  trasversale  (i),  tanto  piià  che 
codesto  scrittore  si  mostra  pur  un  po'  sbadato  ,  chi  con- 
sideri le  parecchie  cancellature  ch'ei  dovè  fare  e  la  indeci- 
frabile terza  lettera  di  mano.  Ma  comunque  si  sia ,  io 
non  assevero  altro  se  non  che  la  fonologia,  lungi  dalF  ap- 
poggiare la  forma  d\e^  la  contrasta,  per  le  ragioni  sud- 
dette. 

La  duplice  iscrizione  viene  insomma  a  dire  nel  complesso: 
«  questo  vaso  (triplice  forse,  giustamente  sospetta  il  Dressel^ 
perchè  da  offrire  a  triplice  divinità)  fu  fatto  per  un  defunto, 
a  cui  sarà  posto  vicino  nel  nono  giorno  ;  neiroffi'irlo  a  Giove 
e  Saturno  non  ci  sia  presente  una  vergine ,  nell'  offrirlo  a 
Ope  ci  sia  per  contrario  una  vergine  appunto  ».  E  il  nostra 
autore  opportunamente  ricorda  che  il  culto  di  Ope  si  facea 
dalle  sole  vergini  vestali  (oltre  il  sacerdos  piiblictts),  e  che 
pure  dal  culto  della  Bona  Dea,  spesso  identificata  con  Ope, 
erano  esclusi  gli  uomini.  Inoltre,  che  Saturno  e  Ope  ap- 
paiano qui  come  divinità  dei  morti  non  gli  fa  punto  specie, 
essendo  esse  deità  rurali ,  e  quindi  anche  ipoctonie  ,  dap- 
poiché la  terra  «  accoglie  nel  suo  seno  materno,  non  solo 
le  semenze  dei  frutti,  ma  anche  i  morti  )>  (quindi,  pare,  il 


(i)  Di  altri  I  con  trasversali  {com'è  in  sostanza  pure  nell'alfabeto 
maiuscolo  dei  tempi  nostri)  si  possono  vedere  nelle  tre  tavole  del 
CoRSSEN  nel  libro  sull'etrusco,  e  neìVAussprache  ecc.,  P,  p.  5. 


—  126  — 

nome  di  Tutesia  dato  a  Ope)  \  ed  infatti  già  da  tempi  an- 
tichissimi a  pie  del  Campidoglio  esisteva  il  tempio  in  cui 
erano  venerati  Saturno  e  Ope ,  ed  «  accanto  air  altare  di 
Saturno  trovavasi  un'  edicola  consacrata  a  Dis  Pater ,  il 
principe  dell'inferno  ».  Gli  fa  invece  specie  che  assieme  a 
Saturno  ed  Ope  trovisi  Giove,  divinità  luminosa  per  eccel- 
lenza e  tutt'  altro  che  ipoctonia  -,  e  cerca  di  rendersene  ra- 
gione col  considerare  che,  quando  l'influenza  greca  si  fece 
sentire  sulla  religione  romana ,  e  Saturno  ed  Ope  furono 
identificati  con  Kronos  e  Rea  ,  fu  naturalmente  attribuita 
alla  prima  coppia  Giove  per  figlio,  com'era  certo  figlio  della 
seconda.  Così  può  trovarsi  qui  Giove  come  il  figlio  accanto 
ai  suoi  genitori ,  e  naturalmente  preposto  ad  essi ,  come 
iddio  massimo  ch'egli  era. 

Dalle  qualità  estremamente  arcaiche,  sia  paleografiche  sia 
linguistiche,  del  nostro  graffito,  delle  quali  non  occorre  più 
parlare ,  argomenta  il  Dressel  che  esso  sia  non  solo  il  più 
vetusto  monumento  latino,  ma  ancora  molto  più  antico  di 
tutti  i  più  antichi  monumenti  fin  qui  conosciuti.  Egli  lo  fa- 
rebbe risalire  alla  fine  del  IV  o  al  principio  del  V  secolo 
di  Roma  -,  e  credo  gli  si  possa  pienamente  concedere  questa 
data,  anche  se  uno  degli  argomenti  su  cui  la  si  appoggia , 
la  presenza  dello  Z  italico  nel  graffito,  dovesse,  come  s'è  più 
sopra  detto,  esser  messo  in  questione. 

Siccome  però  fra  i  tanti  caratteri  d'arcaismo,  alcune  forme 
pajono  stonare  per  il  loro  aspetto  piuttosto  moderno,  come 
il  Sat(urno),  il  pacari,  anziché  Saetiirno  e  pacasi 
o  pacasier,  e  siccome  vi  son  due  K  corretti  in  C  ed  altre 
tre  correzioni,  così  il  Dressel  penserebbe  che  il  nostro  graf- 
fito sia  una  copia  di  più  antica  iscrizione  preesistente.  Di 
questa  supposizione  io  non  vedo  la  necessità,  come  d'altro 
canto  riconosco  eh'  essa  non  ha  nulla  d'  inverosimile.  Er- 
rori se  ne  trovano    facilmente ,  nessuno    lo    sa    meglio  del 


—  127  — 
Dressel,  in  molte  iscrizioni  anche  senza  che  sieno  copiate,  né 
la  correzione  di  essi  fatta  dall'antico  scrittore  del  graffito  ci 
rende  sicuri  d'altro  se  non  della  sua  postuma  diligenza.  Né 
la  mescolanza  di  forme  linguistiche  più  moderne  con  le  ar- 
caiche deve  sempre  necessariamente  dipendere  dal  sovrap- 
porsi alla  lingua  dell'  autore  la  lingua  del  copista  :  nei 
limiti  che  ha  qui  una  tal  mescolanza  può 
ben  provenire  dal  fatto  generico  che  nell'uso  glottico  d'ogni 
epoca,  d'ogni  paese,  d'ogni  individuo,  v'é  sempre,  accanto 
alle  forme  antiche  e  sempre  vegete,  qualche  forma  arcaica 
ch'è  in  via  di  sparire,  qualche  forma  nuova  ch'é  in  via  di 
stabilirsi. 

Se  poi  lo  scrittore  del  graffito  scrisse  prima  Setiurno), 
correggendolo  dopo  in  Sat{urn6) ,  è  affatto  arbitraria  la 
spiegazione  che  di  tutto  ciò  dà  il  Dressel,  che  cioè  nel  pre- 
teso originale  fosse  scritto  Saet{urno),  che  il  voluto  copista 
lo  pronunziasse  Set{urno) ,  che  perciò  lo  scrivesse  cosi  e 
dopo  lo  correggesse  in  Sat{uriio)  come  si  diceva  ai  suoi 
tempi.  Che  in  epoca  così  arcaica  1'  ae  fosse  pronunziato 
e,  non  é  cosa  così  naturale  come  il  Dressel  mostrerebbe  di 
tenerla,  e  se  il  Corssen  pare  gli  serva  d'appoggio  (P,  32  5, 
417),  in  realtà  il  Corssen  stesso  più  avanti  (a  p.  687-693, 
soprattutto  nella  nota  a  p.  690)  ritira  poi  ogni  supposizione 
arrischiata,  e  si  mostra  convinto  che  nell'antico  latino  V  ae 
non  sonasse  punto  e.  Può  essere  dunque  che  l'  e  per  a  fosse 
uno  sbaglio  semplicemente  casuale.  Ma  volendo  tentar  di 
spiegarlo,  terrei  per  non  men  verosimile  questo  :  che  ai  tempi 
dello  scrittore  del  graffito  si  oscillasse  nell'uso  tra  Saetuvno 
e  Saturno,  e  che  egli  volendo  scrivere  nel  primo  modo  scri- 
vesse dapprima  Set  dimenticando  l'  ^,  e  dopo,  poiché  per 
ficcare  un  a  tra  S  td  e  non  aveva  spazio  ,  e  d'altronde  la 
forma  Sat{urnó)  era  pure  nell'uso,  se  la  cavasse  correggendo 
Set  in  Sat. 


—  128  — 

Finalmente ,  il  Biicheler  trova  che  V  iscrizione  nostra  è 
ritmica-,  e  fa  tre  saturnj  della  iscrizione  più  lunga,  uno 
della  più  breve,  sottraendo  però  da  questa  la  prima  parola 
Dvenos  che  resterebbe  fuori  del  metro.  Il  Dressel  non  ci 
dice  come  tripartisce  il  Bùcheler  la  iscrizione  lunga  -,  ma 
mostra,  ad  ogni  modo,  pienissima  fede  in  questa  ritmicità 
saturnia  del  graffito  -,  a  segno  che  avendo  dapprima  inteso 
dvenos  come  bonus  (cfr.  diioniis ,  bene  tee.)  quasi  dicesse 
«  un  devoto  »,  s'è  persuaso  di  poi  che  debba  essere  un 
nome  proprio,  del  figolo  o  dell'oblatore,  perchè  solo  un  tal 
nome  poteva  restar  fuori  del  ritmo  rituale.  Io,  nell'incerta 
varietà  degli  schemi  che  i  dotti  propongono  e  caldeggiano 
per  «  quell'orrido  numero  saturnio  »,  non  ho  coraggio  di 
riconoscere  dei  saturnj  in  questa  o  in  quella  sentenza  o 
frase,  che  potrebb'anch'essere  prosa  bell'e  buona  \  come  da 
altro  Iato  non  intendo  di  affermare  che  i  saturnj  non  ci 
siano.  Per  far  tanto  a  confidenza  col  saturnio  ci  vuol  molta 
fede:  sola  Jides  sufficit.  Ed  a  me,  come  al  Corssen  (IP, 
962-3,  nota),  manca  la  fede. 

Napoli,  maggio  1881. 

Francesco  d'  Ovidio. 


P.  S.  —  Mi  capitano  in  questo  momento  (per  cortesia 
del  prof.  A.  Sogliano)  alcune  osservazioncelle  di  Jordan  nel 
Biillettino  dell'  Istituto  ecc.  del  maggio  1881  (p.  84-85),  in- 
torno al  graffito  di  cui  abbiamo  qui  trattato.  Si  riducono  a 


—  129  - 
poche  cose.  —  Piuttosto  che  chi  mi  offrirà  vorrebbe  in- 
tendere chiunque  sia  che  mi  voglia  offrire  ecc.  —  Nel- 
r  a  s  t  e  d  ,  per  evitare  Tasyndeton  che  importerebbe  l'inter- 
pretazione ne  Comes  sit  {neve)  adstet^  il  Jordan  vedrebbe  una 
congiunzione  ast  da  unirsi  al  nisi  &cc.  che  segue  e  da  inten- 
dersi come  un  però.  A  lui  par  naturale  che  ast  fosse  antica- 
mente astid  asted,  come  post  fu  postid  posted  (non  ricordo 
esempi  di  posted,  ma  circa  Talternanza  tra  -id  e  -ed  vedi 
CoRSSEN,  P,  734).  E  se  fosse  da  accogliere  codesto  asted  = 
ast  vi  si  potrebbe,  credo,  vedere  una  conferma  dell'  eti- 
mologia del  CoRSSEN  (IP,  604,  85i)  di  ast  da  at  sed:  solo 
che  invece  del  processo  fonetico  escogitato  dal  Gorssen 
{'ats'd,  *assd,  *asst),  bisognerebbe  supporre  un  invertimento 
di  ts  in  st,  seguito  poi  da  apocope  delF  -ed.  Ma  io  dubito, 
e  di  tutti  codesti  processi  fonetici,  e  dell'etimologia  del  Gor- 
ssen, e  della  equazione  del  Jordan  astt  d  =  ast.  Trovo 
sempre  più  plausibile  l'intenderlo  come  verbo ,  né  1'  asyn- 
deton  mi  pare  tanto  duro  quanto  pare  al  Jordan;  e  duro 
invece  mi  pare  Vasi  nisi  ecc.  —  Intenderebbe  manum 
per  sacrum —  E  l'einom  per  ideo  —  E  la  scrittura  si- 
nistrorsa gli  pare  indizio  che  l' iscrizione  sia  di  origine  e- 
sterna  anziché  urbana. 

Alle  osservazioni  del  Jordan  seguono  ivi  stesso  (p.  85-6) 
due  del  Gamurrini.  —  Questi  intende  q  o  i  non  còme  un 
quoi ,  ma  come  una  vera  fase  anteriore  di  qui ,  con  1'  o 
non  ancora  diventato  u  -,  e  V  o  avrebbe  chiamato  il  coppa 
alla  dorica.  Sennonché  il  Gamurrini  non  troverà  un  sol  glot- 
tologo, il  quale  gli  voglia  menar  buono  che  1'  u  di  qui  sia 
originariamente  un  0!  —  Inoltre  fa  di  Toitesiai  una 
fase  anteriore  di  Tutoriae  ,  con  l'  oi  =  «  ,  1'  -s-  =  -r-  (fin 
qui  nulla  di  male),  e  con  e  =  o  che  é  secondo  lui  «  raro 
si,  ma  non  nuovo  »,  ma  che  secondo  noi  é  più  che  nuovo, 
trattandosi  di  un  o  lungo  tra  vocali  (cfr.  Gorssen,  IP,  214). 

liivista  di  ftlolofiia  ecc..  X.  g 


—  130  — 

Perchè  il  chiaro  archeologo  non  cita  quegli  esempi  che  dice 
di  conoscere  di  e  =:  o  ? 

P.  S.  bis.  —  Nell'atto  che  correggiamo  le  bozze,  arriva 
il  Rheinisches  Museum  (fase.  2°  del  1881)  con  un  articolo 
di  Biicheler  (p.  235-44)  *^ove  sono  svolte  un  po'  più  lar- 
gamente le  note  da  lui  comunicate  al  Dressel.  Ecco  quello 
che  ci  troviamo  di  più  importante.  —  Conviene  anch'  egli 
che  dze  è  una  grafia  «  senza  esempio  »,  e  solo  ricorda 
Martses  del  bronzo  del  Fucino ,  come  forma  intermedia 
tra  Martjes  e  Marses.  Gli  farebbe  meno  specie  de  ,  come 
forma  popolare  collaterale  al  dje  de'  comici,  e  che  starebbe 
a  di'j  come  la  prima  parte  di  diuium  a  din  -,  e  ricorda  che 
de  quarte,  de  quinte  si  trova  negli  Hermeneutica  di  Mont- 
pellier. —  Crede  che    noi  ne    supponga  una  ha^st'novine. 

—  A  Tutesia  confronta  Ocresia^  Mimesi j.  —  Crede  che 
r  u.  nosve  sia  *noisve  ,  e  vede  nel  noi  di  questo  e  del  la- 
tino n  o  i  s  i  una  forma  locativale  —  Fa  vois  =  'vols  ,  ma 
conviene  che  la  riduzione  di  /  complicato  in  i ,  al  modo 
neolatino,  è  cosa  «  senza  esempio  »  in  latino.  Solo  s'  at- 
tenta a  ricordare  l'umbro  Voisiener  confrontandolo  al  la- 
tino Volsienus,  Crede  che  a  determinare  un  v  o  i  s  abbia 
potuto  contribuire  l'analogia  di  edis  accanto  a  es  ^  di  legis 
Qcz.  —  Air  e  i  n  o  m  dice  poter  convenire  il  valore  d'  un 
'  itaque  '.  —  Per  lo  'stare'  transitivo  ricorda  praestato  ,  e 
l'umbro  restatu,  e  il  perf.  di  'sisto'  stiti^  variante  di  steti, 
e  status  (dies).  —  Per  'pacare'  nel  senso  sacrificale  ricorda 
\\  futii  pacer,  sii  propizio,  delle  tav.  eug.,  ed  esempi  latini, 
tra  cui  bello  questo  plautino  {Poen.,  I,  2,  4'3)  «  quae  ad 
deum  pacem  oportet  adesse  »  =  l'occorrente  per  il  sacrificio. 

—  A  proposito  di  '  te  comes  sit  '  ricorda  il  venerabundus 
aliquem  ecc.  |Cfr.  il  plaut.  tactio  istunc ,  liane].  —  La 
forma    cosmi s    lo  induce  a  convincersi  che  comes  non  sia 


—  131  - 
da  ciim  -\-  ire,  come  s'era  sempre  creduto,  ma  da  cosmit- 
tere  =  committere.  Questa  nuova  etimologia  non  mi  par 
punto  felice.  E  il  trovarsi  nel  graffito  cosmi s  come  in 
rapporto  con  mitat  non  ha  quel  valore,  mi  pare,  che  il 
chiaro  filologo  gli  attribuisce.  Egli  non  ha  badato  che, 
stando  ivi  mittere  nel  senso  di  'offrire',  non  ci  può  essere 
nessuna  congruenza  tra  il  senso  del  verbo  in  mitat  e 
quello  che  avrebbe  la  radice  smit  in  cosmis  comes  (che 
del  resto  non  si  sa  bene  qual  sarebbe,  ma  certo  non  quello 
d'offrire).  —  Finalmente,  egli  qui  ci  dà  quella  tal  divisione 
in  saturnj-,  e  sarebbero  cinque  in  tutto,  non  quattro  come 
sembrava  dalle  parole  del  Dressel,  cioè  : 

«  love  Sà(e)tùrno  —  deivos  qoi  med  mitat 
«  nei  téd  éndo  cósmis  —  vi'rco  si'ed  àsted, 
«  noisi  Ope  Toitésiài  —  pàcari  vois. 
«  Retùs  Gabinius]  med  —  féced   én  mànom, 
«  einóm  dzé  noi'ne  —  méd  mano  stàtod  ». 

Al  posto  di  D  V  e  n  o  s  ,  che  guasta  il  metro,  ci  vorreb- 
bero e  ci  devono  essere  state  in  origine  sei  sillabe:  questo 
crede  il  B.,  e  solo  questo  ha  voluto  indicare  mettendo  quel 
Retùs  Gabiniùs  per  comparsa.  Infelice  mortale  però  questi, 
se  per  caso  aveva  comune  col  Dio  di  Moisè  la  ripugnanza 
ad  esser  nominato  in  vano  ! 

F.  d'  O. 


-  Ì32  - 


A%JSTOFAV^E 


I. 

Della  fama  di  Aristofane  presso  gli  Antichi. 


I.  Investigare  fra  le  testimonianze,  sincrone  e  poste- 
riori, la  fama  di  uno  scrittore,  vale  quanto  studiare  i  cri- 
terii  con  cui  contemporanei  e  posteri  sentenziarono  del  va- 
lore delle  sue  opere,  e  porgere  i  veri  elementi  per  un  retto 
giudizio  di  esso.  E  questo  studio  dei  criterii ,  meglio  che 
qualunque  altro,  giova  a  svelarci  l'indole  e  il  carattere  spe- 
ciale della  cultura  di  un  popolo ,  ad  addentrarci ,  per  così 
dire,  nelle  sue  intime  ed  essenziali  ragioni.  Noi  ci  propo- 
niamo di  fare  siffatte  ricerche  per  riguardo  ad  Aristofane. 
Fin  qui  la  critica  tedesca,  tanto  benemerita  degli  studi  ari- 
stofaneschi,  non  si  è  occupata  dell'argomento:  e  solo  il 
Roetscher  ed  il  Ranke  ne'  loro  lavori  giovanili,  già  antiquati, 
toccarono  brevemente  o  incidentemente  dei  giudizi  degli  an- 
tichi sul  Comico  ateniese  (i). 


(i)  Roetscher  ,  ludicia  veterum  et  recentiorum  de  Aristoph.  bre- 
viter  in  conspectu  posila,  Bromb.,  1841.  là.,  Disquisitio  de  Aristoph. 
ingenii  principio  ,  Berol.,  1825.  Ranke,  De  Aristoph.  vita  Commen- 
tatio,  Lipsiae,  i83o. 


•-  133  - 

Eppure  lo  studio  non  è  privo  di  speciali  attrattive:  por- 
gendo altresì  occasione  ad  esamina  di  questioni  varie  e  con- 
troverse, nonché  alla  determinazione  più  esatta  del  concetto 
che  sin  qui  si  è  avuto  sulle  vicende  del  nome  aristofanesco. 
Questo  grande  comico  ateniese  ,  che  ha  tanta  parte  nella 
vita  politica  e  letteraria  del  suo  tempo  ;  che  si  pone  in  una 
recisa  e  consapevole  opposizione  col  suo  secolo  stesso  ;  e 
che  della  sua  arte  fa  potente  strumento  contro  i  mali  che 
minacciano  di  turbare  o  dissolvere  l'antico  ordine  di  cose  e 
di  idee  ;  che  nella  difesa  del  suo  patriottico  ideale  mette 
tutta  la  fierezza  e  la  potenza  della  sua  invettiva  :  —  questo 
uomo,  che  non  teme  di  cimentarsi  co'  temuti  demagoghi,  e 
porre  in  ridicolo  personalità  ,  come  Socrate  ed  Euripide , 
doveva  certo  provare  nell'estimazione  dei  posteri  tutti  i  ca- 
pricci e  le  stranezze  degli  umani  giudizi.  A  ciò  conduce 
anche  la  qualità  stessa  della  sua  comedia ,  colle  aperte  ed 
equivoche  allusioni,  coll'arditezza  degli  scherzi,  co'  varii  in- 
tenti, politici,  religiosi,  letterari,  che  propugna  e  combatte. 
Si  aggiunga  infine  l'instabilità  delle  norme  con  cui  un  po- 
polo talora  giudica  o  sente  :  regolate  da  predominio  di 
gusto ,  di  tradizioni ,  di  tendenze.  Noi  vedremo  Aristo- 
fane or  applaudito  ed  or  disconosciuto  dai  contemporanei; 
motteggiato  dai  rivali,  ammirato  dal  sommo  Platone ,  ca- 
lunniato dai  retori  e  dai  sofisti ,  mal  inteso  e  giudicato  da 
Plutarco ,  e  quasi  negletto  dalla  letteratura  latina.  E  noi 
dagli  accenni  dedotti  dalle  sue  comedie;  dalle  vaghe  tra- 
dizioni riferiteci  dai  biografi  ;  dalle  testimonianze  sparse; 
dai  giudizi  e  raffronti  ;  dai  commenti  e  dalle  imitazioni  ; 
dalle  rappresentazioni  dell'arte  figurata  tenteremo  di  deter- 
minare la  varia  considerazione  in  cui  l'antichità  lo  tenne. 
E  insieme  alla  fortuna  della  rinomanza,  noi  vogliamo  ve- 
dere quali  sieno  le  sorti  della  sua  comedia,  quale  l'eredità 
che  ne  viene  alla  cultura    successiva,  e  quale  ne  sia  il  va- 


—  134  —  * 

lore  nella  storia  dello  spirito  umano.  Noi  accompagneremo 
questa  grandiosa  figura  dal  punto  stesso  in  cui  viva  osa  al- 
zarsi sdegnosa  contro  i  potenti  demagoghi  dello  stato ,  o  i 
funesti  corruttori  dell'  arte  e  della  sapienza,  sino  al  pallido 
tramonto  dell'antica  civiltà  :  quando ,  decaduto  ogni  ordine 
sociale  e  civile,  col  sopraggiungere  dei  barbari  e  colT inno- 
varsi delle  idee  politiche  e  religiose,  il  mondo  antico  ro- 
vina per  dar  luogo  ad  un  nuovo  periodo  della  storia.  Né 
ci  verrà  taccia  di  abusare  delPargomento,  se  alla  compiuta 
trattazione  di  esso  faremo  seguire  un  breve  epilogo  in  cui 
si  ragguagli  della  fama  di  Aristofane  nel  medio  evo  e  nei 
tempi  moderni. 

2.  L'acquistarsi  buona  rinomanza  di  poeta  comico  in 
Atene  nei  tempi  in  cui  Aristofane  viveva,  in  mezzo  a  quella 
feconda  e  singolare  produzione  di  opere  letterarie  e  al  ri- 
goglioso svolgimento  delle  nuove  idee  e  delle  nuove  dottrine, 
non  era  certo  facile  cosa  :  ne  ci  volea  di  meno  dell'ingegno 
e  dell'  attività  del  nostro  poeta ,  per  aftermarvisi  e  distin- 
guersi. Pare  sua  speciale  preoccupazione,  questa  di  levar 
grido  e  di  procacciarsi  la  lode  dei  contemporanei  :  tanto  è 
l'amore  che  egli  pone  nel  perfezionamento  dell'  arte  sua,  e 
la  fermezza  di  proposito  con  cui  vi  si  esercita.  Aristofane, 
senza  essere  un  pensatore  molto  elevato  né  un  critico  molto 
profondo ,  senti  i  nuovi  bisogni  dell'arte  comica  ;  ebbe  co- 
scienza delle  sue  grandi  difficoltà,  e  dovette  convincersi  del 
poco  valore  intrinseco,  che  aveva  la  maggior  parte  di  quelle 
produzioni  contemporanee.  Le  condizioni  speciali  della  po- 
litica d'  allora  e  di  quella  società  e  di  quella  cultura  acui- 
scono e  sviluppano  le  natie  qualità  del  poeta  ;  il  quale  eser- 
cita così  la  finezza  e  l'acutezza  dell'osservazione,  e  raccoglie 
le  forze  per  combattere.  Con  queste  ottime  prerogative  egli 
riesce  infatti  ad  ottenere  sin  dalle  prime  il  favore  dei  con- 
cittadini. Però  anche  nel  periodo  contemporaneo,  che   è  il 


—  135  — 
più  splendido  per  il  suo  nome,  Aristofane  non  godette  una 
fama  piena  ed  incontrastata.  Noi  lo  vediamo  costretto  a 
muovere  acerbi  rimbrotti  agli  Ateniesi  (i),  a  palesare  i  suoi 
meriti  e  servigi  (2),  e  talora  a  chiedere  il  favore  degli  spet- 
tatori (3).  Forse  questi  suoi  lamenti  ed  irrequietezze  pro- 
cedono più  da  una  piena  consapevolezza  della  propria  va- 
lentia, che  da  una  ritrosa  disposizione  in  altri  a  riconoscerla. 
S'egli  proclama  i  suoi  diritti  alla  riconoscenza  (4)  ^  se  osa 
affermare  la  peregrina  originalità  de'  suoi  concetti  (5)  ;  e 
può  gloriarsi  dinanzi  agli  spettatori  d'aver  fatto  torreggiare 
l'arte  drammatica  (6)  ;  se  non  teme  di  schiudere  l'animo  al 
lusinghiero  presentimento  dell'immortalità  (7),  bisogna  cre- 
dere che  l'ammirazione  pubblica  non  gli  mancasse,  ma  che 
egli  dovesse  bensì  assicurarsela  dagli  attacchi  degli  invidi 
e  dei  detrattori.  E  le  rivalità  e  le  persecuzioni  non  gli  man- 
cano, a  cominciare  da  quel  tremendo  Cleone,  che  lo  trasse 
in  giudizio,  e  lo  calunniò  e  lo  sputacchiò  di  menzogne  (8); 
per  venir  sino  a  quel  poderoso  suo  competitore,  ad  Eupoli, 
che  lo  accusa  di  ambiziose  peregrinazioni  nelle  palestre  dopo 
la  vittoria  (9).  Ma  c'è  un  passo  importante  nella  parabasi 
delle  Vespe,  in  cui  il  poeta  si  dice  «  innalzato  grandemente 
quanto    niun    altro  in    mezzo    ai    suoi  concittadini  (io)  ». 


(i)  Acam.,  V.  632.  Cav.,  v.  5i8,  Sig. 

(2)  Acarn.,  v.  633. 

(3)  Cav.,v.  545,  546.  Nubi,  V.  56i,  562.  Pace,  v.  768. 

(4)  Acarn., V.  633,  Nubi,  v,  5i2-5i7;    525,  537.  Vespe,  v.  1017, 
1018;  1037;  1043.  Pace,  V.  738;  759-761  -,  764;  773. 

(5)  Nubi,  V.  546-548;  56i.  Vespe,  v.  1022;  1044;   1046;  1047;  1054. 

(6)  Pace,  V.  749. 

(7)  Vespe,  V.  io5i-io59. 

(8)  Acarn.,  V.  378-382. 

(9)  Vespe,  scoi.  io25. 
(io)  Vespe,  v.   102 3  : 

'Ap9eì^  òè  lué-faq  Kaì  Tiiarieeì^  wc,  oùbeìi;  ttujttot  èv  ù^W. 


-  136  — 
Noi  non  dimentichiamo  certo  che  abbiamo  da  fare  con  un 
poeta  comico  ,  il  quale  si  vale  naturalmente  della  libertà  o 
della  licenza,  che  alla  scena  è  concessa  -,  e  non  prendiamo 
alla  lettera  le  sue  orgogliose  attestazioni.  Per  ridurre  le  quali 
ad  un  giusto  valore  approssimativo  ci  conviene  confrontarle 
o  controllarle  colle  altre  testimonianze  contemporanee  più 
attendibili.  I  frammenti  dei  comici  e  le  notizie  didascaliche 
servono  egregiamente  all'uopo.  Nel  primo  caso  le  stesse  in- 
vide allusioni  dei  rivali  contro  il  nostro  comico,  sono  un 
omaggio  alla  gloria  di  lui.  Eupoli  s'indispettisce  del  favore 
che  gli  Ateniesi  concedono  a  poeti  stranieri  :  e,  continuando 
l'allusione  ad  Aristofane,  si  meraviglia,  che  sia  da  loro  te- 
nuto in  concetto  di  uomo  sapiente  (i).  Questa  è  preziosa 
testimonianza  alla  riputazione  contemporanea  del  nostro 
poeta,  ed  è  tanto  più  sicura,  in  quanto  la  dobbiamo  ad  un 
emulo.  Gratino  lo  deride,  come  un  arguto,  un  cavillosetto, 
uno  sputasenno  (2).  Ambedue,  Gratino  ed  Eupoh,  lo  ac- 
cusano di  plagio  (3).  Platone  ,  insieme  a  quest'ultimo,  lo 
burla  per  avere  nella  Pace  innalzato  dinanzi  agli  spettatori 
la  colossale  imagine  della  dea  (4).  I  cattivi  poqti  del  tempo 
imitano  le  graziose  creazioni  del  nostro  comico,  però  ma- 
lamente trattandole  e  riproducendole  (5).  Golia  prima  edi- 
zione delle  Nubi  egli  è  rigettato  nella  gara  tentata  con  Gra- 
tino ed  Amipsia  (6);  nella  rappresentazione  dei  Babilonesi 
il  corego  Antimaco  lo  esclude  dal  banchetto  che  lo  Stato 
somministra  ai  poeti  vincitori,  e  lo  licenza  a  corpo  vuoto  (7). 


(i)  KocK  ,  Com.  Attic.  fragm.,  Lipsiae,   1880,  1  (Eupolis),  fr.  357. 

(2)  Id,,  I  (Cratinus),  fr.  Soy. 

(3)  Id.,  I  (Eupolis),  fr.  78. 

(4)  Id.,  I  (Platon),  fr.  81.  (Eupolis),  fr.  54. 

(5)  Nubi,  V.  559. 

(6)  Nubi,  V.  525. 

(7)  Acarn.,  v.   i  i5o-ii55. 


—  137  - 
Queste  traversie  sono  poca  cosa  dinanzi  all'  entusiastica 
ammirazione,  che  attira  ad  Atene  gli  alleati ,  desiderosi  di 
vedere  il  preclarissimo  poeta  (tòv  7ToiriTf|v  tòv  àpicrtov  (i)). 
In  generale,  nella  comedia  aristofanesca  c'è  un  sentimento 
della  propria  serietà  ed  importanza  :  e'  è  come  un  tono  di 
superiorità ,  che  ce  la  fa  collocare  in  alto ,  sopra  le  altre 
produzioni  contemporanee  dello  stesso  genere.  E  la  supe- 
riorità di  Aristofane  acquista  maggior  valore ,  se  si  pensa 
da  quali  valenti  competitori  nel  poetico  agone  gli  è  contesa 
ed  invidiata.  Antiche  testimonianze ,  fra  le  quali  gli  stessi 
scherzi  aristofaneschi,  ci  fanno  fede  dell'ingegno  fecondis- 
simo e  felicissimo  di  Gratino,  che  il  Meineke  ,  citando  un 
passo  antico,  dice  quasi  antesignano  dei  comici  (2).  Eupoli 
sappiamo  che  fu  ingegnosissimo  nell'invenzione  e  trattazione 
della  favola  :  e  ambedue  contesero  qualche  volta  la  palma 
ad  Aristofane.  Amipsia  lo  vinse  due  volte,  ci  dicono  le  di- 
dascalie. Di  Platone  si  loda  in  special  modo  l'eleganza  ed 
il  candore  della  dizione.  Perdute  le  loro  opere ,  noi  non 
possiamo  giudicarli ,  e  tanto  meno  istituirne  un  confronto 
con  Aristofane  ,  dal  quale  verrebbe  meglio  determinato  il 
valore  e  l' importanza  di  lui  fra  i  comici  del  suo  tempo. 
Certo  non  si  deve  attribuire  al  solo  caso  il  fatto  della  con- 
servazione di  una  parte  de'  suoi  drammi  attraverso  all'im- 
mensa perdita  delle  opere  antiche.  Di  essi  c'è  dato  di  con- 
statare il  favóre  con  che  furono  accolti  dal  pubblico.  Le 
antiche  didascalie  ci  dicono  coU'eloquente  brevità  delle  loro 
notizie,  che  Aristofane  non  riportò  mai  il  terzo  premio  ; 
che  un  solo  insuccesso  turbò  la  serie  regolare  delle  sue  vit- 
torie, nelle  quali  ebbe    un  egual  numero  di  primi  e  di  se- 


(1)  Acarn.,  v.  643-645. 

(2)  Meinecke  ,  Hist.  Critica  j  p.   56o.  Prolegg.  de    Comoed.,  IX  b, 
69.  KocK,  Op.  cit.,  (Cratinus),   186. 


-  138  — 

condi  onori  ;  che  infine  sortì  Y  onore  di  una  seconda  rap- 
presentazione delle  Rane.  Anche  quel  che  sappiamo  della 
attività  letteraria  degli  antichi  comici  ci  porterebbe  alla  stessa 
determinazione  favorevole  ad  Aristofane  ,  il  quale  avrebbe 
quasi  emulato  la  produttività  dei  poeti  tragici.  Nel  vario  e 
periglioso  avvicendarsi  degli  eventi  della  guerra  peloponne- 
siaca Atene  perde  Sofocle,  Euripide,  Gratino,  Eupoli : 

Aristofane  sopravvive,  e  per  molti  anni  ancora  offre  ai  con- 
cittadini i  geniali  prodotti  della  sua  ricca  fantasia.  Otto  co- 
medie  scrisse  Cratete,  21  Gratino,  Ferecrate  i3,  Teleclide  5, 
Eupoli  i5  ,  Frinico  io,  Platone  28,  Amipsia  9  (i);  Ari- 
stofane ne  compose  certo  44  (2).  Si  è  potuto  così  tracciare 
quasi  una  storia  della  sua  attività  letteraria,  di  cui  i  capi, 
pei  drammi  giunti  sino  a  noi,  sono  gli  Acarnesi  ed  il  Pliito. 
Quanta  via  si  è  percorso  in  questo  breve  intervallo  !  La 
virtuosità  del  poeta  si  è  svolta,  ha  toccato  l'apice,  e  si  è  già 
quasi  esaurita ,  seguendo  in  ciò  le  sorti  della  potenza  di 
Atene.  A  leggere  il  Fiuto,  bene  osserva  il  Deschanel,  non 
si  può  difendere  da  una  specie  di  tristezza  :  si  sente  ,  che 
Atene  è  umiliata,  rovinata  :  non  più  libertà,  non  pilli  ric- 
chezza, non  più  gioia  nelle  feste  di  Bacco  !  (3). 

Fu  sventura  per  lui  il  sopravvivere  ai  destini  miserevoli 
della  sua  patria.  Non  solo  era  svanito  l'ideale  della  Grecia 
florida  e  pacifica  ;  non  era  soltanto  perduta  la  speranza  del 
ritorno  del  buon  tempo  antico ,  al  quale  il  poeta  era  pur 
sempre  rimasto  ligio  ;  ma  si  doveva  assistere  alla  grande 
innovazione  che  il  nuovo  spirito  del  tempo   andava  intro- 


(1)  Cfr.  Meinecke.  Hist.  Crit.,p.  64  sgg. 

(2)  Vedi  il  catalogo  recentemente  scoperto  da  F.  Novati  in  un  co- 
dice ambrosiano  (L,  39  sup.)  e  da  lui  pubblicato  neW Hermes,  1879, 
p.  461. 

(3)  Vedi  Étitdes  sur  Aristophane,  Paris,  1867,  p.  222. 


—  139  - 
ducendo  in  tutte  le  istituzioni  della  vita  ateniese.  Le  pub- 
bliche sventure,  lo  sparire  delle  illusioni  dovettero  amareg- 
giare gli  ultimi  anni  del  misero  poeta.  Politica,  letteratura, 
arte,  tutto  prende  altra  via  :  fin  la  comedia,  autore  inconscio 
Aristofane  stesso,  segue  già  un  nuovo  indirizzo.  Cosichè  , 
ben  osservava  il  Ranke,  la  comedia  aristofanesca  ,  pretta- 
mente greca,  è  quasi  V  ultimo  sprazzo  di  luce  nella  storia 
dell'arte  poetica  :  —  <c  lux  fuit  fere  ultima  ,  qua  Graecia 
orbem  terrarum  ornavi t  (i). 

3.  Alla  morte  di  Aristofane  si  rende  tributo  di  omaggio 
con  un  noto  epigramma,  il  quale  sotto  l'allegoria  delle  Grazie 
vaganti  in  cerca  di  un  tempio  immortale,  magnifica  la  gra- 
ziosa leggiadria  come  prerogativa  delle  creazioni  aristofa- 
nesche. È  per  noi  un'importante  documento,  sia  che  se  ne 
voglia  ascrivere  la  paternità  al  Platone  comico,  o  al  filosofo 
omonimo  (2). 

Al  Xapiie?  Te'iuevó?  ti  Xa^eìv,  ònep  oùxì  TreaeTiai 
ZirjToOaai,  MJUxnv  eupov  'Api(JTOcpàvou(;. 

Pochi  anni  dopo,  la  memoria  ne  è  celebrata  da  Platone, 
che  lo  introduce  interlocutore  nel  Simposio.  Si  può  dire, 
che  questo  è  il  suo  monumento  ,  splendido  davvero  e  per 
arte  e  per  concetto.  C  è  il  ritratto  vivo  del  nostro  poeta, 
in  tutta  la  sua  lepida  e  giaconda  natura  :  non  idealizzato  , 
ma   coi   tratti  che  a  noi  sembra  lo  caratterizzino.  La    sua 


(i)  Ranke,  De  vita  Arisiophanis   Comm.,^  i3  (ediz.  del  Meineke). 

(2)  Primo  ad  opporsi  alla  tradizione  comune,  che  il  noto  epi- 
gramma attribuisce  al  filosofo  Platone  fu  lo  Zimmermann  {De  Aristoph. 
et  Platonis  amicitia  aut  simultate ,  Marburg  ,  1834).  Ma  egli  rimase 
senza  seguaci  :  se  si  eccettua  appena  il  Bernhardy,  che  pone  la  cosa 
in  dubbio.  Del  resto  i  suoi  argomenti  non  dimostrano  nulla,  e  pos- 
sono essere  facilmente  confutati. 


—  140  - 

ìndole  gioviale  e  V  abito  intemperante  è  in  modo  reali- 
stico significato  da  quel  comico  incidente  del  singhiozzo  , 
per  cui  gli  vien  tolta  la  facoltà  di  ragionare  alla  sua  volta: 
quando  poi  si  fa  a  parlare,  ogni  parola  sembra  avvivata 
da  quello  spirito  faceto  e  fantastico  che  anima  la  sua 
comedia.  Che  v'  ha  di  più  grazioso  e  buffonesco  di  quella 
storia  immaginaria  delP  origine  della  specie  umana ,  colla 
quale  egli  vuol  spiegare  la  natura  dell'amore  ?  Dopoché 
Fedro  ha  dimostrato  per  mezzo  delle  antiche  tradizioni  poe- 
tiche e  mitologiche  ,  che  V  amore  è  il  piià  antico  ed  il  mi- 
gliore degli  dei^  dopo  che  Pausania  ne  ha  distinto  le  specie, 
in  volgare  e  celeste;  dopo  che  Erisimaco  medico  ne  ha  di- 
chiarato la  potenza  con  argomenti  tratti  dall'  arte  sua  ,  è 
curioso  il  sentire  Aristofane  parlare  di  una  primitiva  razza 
umana  ,  dotata  di  un  corpo  fornito  di  più  membra;  casti- 
gata per  la  sua  empietà  colla  scissione  di  esso  in  due ,  e 
costretta  a  generare  al  modo  delle  cicale.  Così  ogni  metà 
desiderava  Taltra  metà,  ma  non  potevano  congiungersi,  e  la 
razza  umana  deperiva.  Allora  Giove,  compassionando,  prov- 
vide perchè  V  amore  potesse  meglio  soddisfare  le  sue  ten- 
denze sessuali. 

Si  è  voluto  cercare  la  ragione  delPintroduzione  di  Aristo- 
fane nel  Simposio  platonico.  Certo  non  è  ammissibile  l'opi- 
nione dello  Zimmermann  ,  che  ciò  Platone  facesse,  giudi- 
cando poter  Aristofane  meglio  di  tutti  tener  tal  discorso  , 
quale  richiedeva  la  natura  ed  il  disegno  della  sua  opera  (i); 
né  ben  s'appose,  a  nostro  giudizio,  lo  Schnitzer,  quando 
volle  vedere  un  ordine  progressivo  nella  serie  dei  varii  di- 
scorsi sull'Eroe,  e  credette,  che  a  comprendere  il  significato 
dell'  Aristofane  platonico,   convenisse  riscontrarlo  con  So- 


(i)  Op.  cit.,  cap.  I. 


-  141  - 

crate  (i).  Non  bisogna  dimenticare,  ehe  Platone  rappre- 
senta anch'esso  un'  opposizione  nel  mondo  greco  d'  Atene. 
Ha  un  ideale  anch'esso,  e  in  molti  punti  le  sue  idee  colli- 
mano con  quelle  del  grande  comico  (2).  Egli ,  che  poeta 
nella  giovinezza,  rimase  pur  sempre  artista  :  che  pure  so- 
gnava un  nuovo  ideale  di  repubblica,  e  che  da  essa  cacciava 
i  poeti  come  corruttori  :  egli  che  venerava  in  Socrate  il  suo 
sommo  maestro  :  poteva  avere  ed  ebbe  simpatie  per  Ari- 
stofane, che  non  faceva  buon  viso  alle  nuove  dottrine  della 
sofìstica  e  della  speculazione  -,  che  portava  sulla  scena  le 
scurrili  ed  oscene  tresche  delle  Lisistrate,  e  irrideva  alle  pas- 
sioni umane  degli  dei,  e  versava  il  ridicolo  sul  più  grande 
savio  della  Grecia  (3).  Anzi  volle  celebrarne  la  memoria , 
e  lo  addusse  nell'allegra  comitiva,  degno  di  trovarsi  in  mezzo 
a  quelle  grandi  figure ,  a  rappresentare  con  esse  la  varia 
indole  e  pieghevolezza  del  genio  greco. 

1  tempi  che  seguono  alla  morte  del  poeta  sono  assai  di- 
sastrosi per  la  sua  fama.  Le  sorti  della  comedia  ,  come 
quelle  della  politica  ateniese,  sono  violentemente  decise  dalle 
mutate  condizioni  sociali.  Una  grande  rinomanza  consacra 
le  opere  dei  tre  grandi  tragici  ateniesi,  ai  quali  con  publico 
decreto  vengono  dedicate  statue  onorifiche.  Lo  Stato  stesso 
provvede ,  perchè  i  loro  drammi  siano  rappresentati ,  e 
perchè  rimangano  immuni  dalle  interpolazioni  o  variazioni 


(i)  ScHNiTZER,  Ueber  die  Persoti  des  Aristoph.  in  Pìató's  Sympo- 
sium, Nurnberg,  i838. 

(2)  Vedi  ZiMMERMANN,  Op.  cit.,  cap.  II,  ove  si  esamina  la  relazione 
fra  le  Ecclesiapise  e  il  lib.  V  della  Politica.  Marxsen  ,  Ueber  die 
Verwandtschaft  des  platon.  Symposiiims  mit  d.  Thesmoph.  de  Aristo- 
phanes  ,  Rendsburg ,  i853.  Teuffel  ,  Studien  iind  Characteristiken, 
p.  i33  sgg. 

(3)  Olimpiodoro,  Vita  Platonis:   «  ...Ixo-xpi  òè  ttóvu  kcì   Apiaxoqpdvei 

TUJ    KUJ|aiKlÙ  n. 


—  142  — 
che  r  arbitrio  degli  attori  potesse  in  quelli  introdurre  col 
tempo  (i).  Ma  della  comedia  antica  nessuna  menzione  nella 
tradizione  posteriore.  Del  resto  si  capisce  bene,  come  quello 
stesso  genere  comico  portasse  in  sé  il  destino  di  una  breve 
durata.  Mancate  le  lotte  ,  dalle  quali  la  comedia  politica 
attingeva  il  suo  vital  nutrimento;  svaniti  gli  ideali  di  cui 
essa  si  era  fatta  magnanima  propugnatrice  :  essa,  che  aveva 
sì  fervorosamente  schiamazzato  nel  turbinio  degrinteressi  e 
nei  disordini  della  democrazia  ,  perde  tosto  ogni  attualità , 
ogni  ragion  d'  essere,  e  illanguidisce.  Aristofane  era  stato 
r  ultimo  poeta  di  quella  forte  generazione  che  s'era  trava- 
gliata e  logorata  nella  conquista  delle  glorie  politiche  e  cit- 
tadine. Dal  momento  che  egli  lascia  la  scena,  non  sappiamo 
più  nulla  di  lui,  neppure  quando  morisse.  Il  suo  nome  le- 
gato alla  comedia  antica,  ne  segue  fedelmente  le  sorti.  Ven- 
gono ora  in  campo  la  comedia  mezzana  e  la  nuova,  tanto 
dissimili  da  quella.  È  questa  la  nuova  forma  drammatica, 
che  i  tempi  richieggono  e  producono,  e  che  il  gusto  domi- 
nante predilige.  Menandro  sorge  a  rendere  sempre  più  sfa- 
vorevoli le  condizioni  della  fama  aristofanesca.  Egli  pare 
prescelto  da  natura  a  ricevere  tutti  gli  omaggi,  che  la  po- 
sterità avrebbe  consacrato  al  poeta,  che  avesse  saputo  scru- 
tare nel  più  profondo  dell'  umana  natura ,  e  indi  trarre  i 
motivi  della  creazione  artistica.  Si  disse,  che  le  api  stesse, 
le  quali  si  pascono  nei  floridi  giardini  delle  muse,  avevano 
versato  sulle  labbra  di  lui  il  loro  miele  (2).  Egli  sarà  detto 
il  più  grande  dei  poeti  e  quasi  un  oracolo  (3);  egli,  ingegno 
senza  rivale,  dalla  natura  formato  a  tutte  le  delicatezze  delle 


(i)  Vedi  il  passo  di  Plutarco,  X,  Orat.  vii.  (Lycurgus,  io,  ii)  e 
la  dotta  illustrazione  del  Sommerbrodt.  Rìiein.  Mus.,  XIX.  p.  i3osgg. 

(2)  Anth.  Pai,  IX,   187. 

(3)  Seneca,  De  brevit.  vitae,   Dia!.  X,  e.  9. 


-  143  - 

lettere  (i)  ;  egli,  scrittore  perfetto  (2).  I  padri  della  Chiesa 
nelle  loro  fanatiche  persecuzioni  risparmieranno  lui  ed  i 
suoi  ammiratori  (3).  La  sua  grande  rinomanza  oscura  quella 
dei  comici  precedenti  :  i  quali  tanto  più  rimangono  dimen- 
ticati, quanto  è  più  viva  l'ammirazione  che  si  prodiga  alla 
nuova  arte.  La  quale,  rotta  T  angusta  cerchia  del  dramma 
politico ,  mitologico  o  letterario ,  si  è  messa  per  la  grande 
via  delle  passioni  umane  a  rappresentarne  le  caratteristiche 
essenziali  e  costanti  :  base  Tuomo  nelle  sue  più  varie  e  ti- 
piche manifestazioni.  Per  questo  fu  giustamente  osservato, 
che  r  arte  di  Menandro  vive  ancora  nell'arte  moderna  :  e 
mentre  Aristofane  ed  Antifane  ci  fanno  mutar  paese ,  ri- 
conducendoci ad  un  mondo  lontano  e  diverso  dal  nostro, 
Menandro  ci  sembra  un  poeta  del  giorno,  e  in  lui  l'anima 
umana  riconosce  e  sente  la  perenne  identità  della  sua  na- 
tura. 

4.  Se  vogliamo  oltre  indagare  la  sorte  della  fama  ari- 
stofanesca, ci  conviene  seguire  le  vicissitudini  della  lettera- 
tura greca ,  e  trasportarci  con  essa  ad  Alessandria  ed  a 
Pergamo  ,  divenute  sedi  del  nuovo  moto  intellettuale  favo- 
rito dalla  liberale  protezione  dei  Tolomei  e  degli  Attali. 
Dobbiamo  ricercare  con  quale  interesse  e  con  qual  metodo 
le  opere  di  Aristofane  sono  studiate  e  illustrate  in  questo 
periodo  dell'erudizione.  Questi  studi  sono  il  testimonio  più 
bello  ed  efficace  alla  fama  del  poeta  :  provvedono  alle  mi- 
gliori sorti  di  essa  nei  tempi  che  seguono.  Ciò  facendo,  in 
mezzo  alla  congerie  confusa  dei  commenti ,  ci  verrà  forse 
dato   di    rintracciare  qualche  testimonianza  diretta  ,  che  ci 


(0  Plinio,  H.  N..  XXX,   1. 

(2)  QuiNTiL.,  lììst.  Orat.,  X,   i. 

(3)  Vedi  GuizoT  ,  Menandre  (Étude  historique    et    littéraire    sur   la 
comédie  et  la  société  grecques),   Paris,   i855. 


—  144  — 
chiarisca  della  riputazione  di  lui  anche  in  questo  nuovo  pe- 
riodo della  storia. 

Se  all'inaugurarsi  delle  ricerche  erudite  le  menti  dei  dotti 
si  sentono  potentemente  attratte  dalla  memoria  del  divino 
poeta,  che  primo  aveva  cantato  le  eroiche  tradizioni  della 
Grecia  :  quando  si  rivolge  l'attenzione  anche  alle  altre  pro- 
duzioni dell'  ingegno  greco,  e  si  ricercano  le  opere  dram- 
matiche, possiamo  dire  col  Bernhardy ,  che  l' interesse  dei 
grammatici  pe' comici  trova  in  Aristofane  il  suo  centro  (i). 
Già  Aristotile  nelle  sue  grandi  ricerche  dell'antichità,  s'era 
occupato  anche  della  letteratura  comica,  raccogliendo  i  testi 
dei  monumenti  didascalici  e  illustrandone  le  storiche  me- 
morie (2).  Dopoché  Licofrone  Calcidense  alla  corte  di  Pto- 
loraeo  Filadelfo  ebbe  raccolto  e  rivisto  le  opere  comiche  (3), 
un  buon  numero  di  quei  grammatici  attende  in  special 
modo  all'illustrazione  delle  comedie  d'Aristofane.  Callimaco 
pel  primo  ne  determina  la  cronologia.  Non  pare  però,  che 
scrivesse  un  commento  speciale  ai  drammi.  Due  scolii  ci 
attestano  i  suoi  studi  sulle  didascalie  (4);  nelle  altre  cita- 
zioni le  note  s'  hanno  a  ritenere  tratte  dalle  stesse  sue  o- 
pere  (5).  Di  Eratostene  si  menziona  in  uno  scolio  il  suo 
terzo  libro  :  Trepl  Kuu^ujbioiv  (G).  Egli  cerca  di  chiarire  i  luoghi 


(1)  Vedi  Grundriss  d.  griech.  Littcrat.,  il,  p.  Ó69. 

(2)  La  grande  perdita  delle  opere  aristoteliche  ci  toglie  di  cono- 
scere quale  speciale  concetto  egli  avesse  del  comico  ateniese.  Lo  cita 
una  sola  volta  nella  Poetica  (e.  Ili)  parlando  dell'imitazione;  nella 
Rettorica  (e.  Ili)  si  ricordano  i  Babilonesi;  e  l'Aristofane  Platonico 
è  menzionato  nella  Politica.  Il,  4.  Cfr.  Prolegg.  de  Comoed.,  IX  a 
p.  XIX,  49. 

(3)  Prolegg.  de  Comoed..  X  a,  4. 

{4)  Nubi,  scoi.  552.  Ucc,  scoi.   1242. 

(5)  Ad  es.,  le  illustrazioni  degli  scolii  a  parecchi  versi  degli  Uc- 
celli possono  esser  derivate  dal  suo  libro  Ti€pì  opveujv. 

(6)  Rati.,  scoi.,  1028. 


—  145  - 
oscuri  delle  comedie  aristofanesche,  e  in  parecchi  scolii  si 
ricordano  le  sue  cure  critiche  ed  esegetiche  (i).  Ad  Aristo- 
fane da  Bisanzio  si  ascrivono  gli  argomenti  in  versi  pre- 
posti ai  drammi:  più,  una  recensione  di  essi  (2).  Inoltre, 
negli  scolii  si  hanno  tracce  delle  sue  fatiche  critiche  e  pro- 
sodiache (3).  Né  minori  cure  prodigò  al  nostro  comico  il 
grande  Aristarco  :  intento  a  dichiarare  versi  o  frasi  diffi- 
cili (4)  o  il  significato  di  espressioni  proverbiali  (5)  o  il  va- 
lore di  parole  comiche  (6):  nonché  ad  assegnare  giustamente 
i  versi  ai  varii  interlocutori  del  dialogo  (7),  o  a  fare  note 
critiche,  storiche  e  prosodiache  (8).  Si  può  credere,  che  si 
occupasse  più  particolarmente  delle  Rane,  intorno  alle  quali 
abbiamo  di  lui  un  maggior  numero  di  scolii.  In  essi  non 
troviamo  soltanto  illustrazioni  storiche  ed  esegetiche  ,  ma 
congetture  critiche  sul  testo  (q) ,  dichiarazioni  delle  pa- 
rodie (io)  e  note  metriche  (i  1).  Callistrato,  che  in  uno  scolio 
è  detto  r  èErìTOu|iAevo(;  (12),  fa  commenti  varii  ad  Aristofane. 
Negli  scolii  troviamo  di  lui  note  dichiarative  (i3),  illustra- 


li Phit. ,  scoi.  797,  1194.  Vedi  Arf^um.  Pacis;  e  Pac,  scoi.  48, 
70,  199,  702,  755.  Nubi,  scoi.,  552,  967.  Rane  ,  scoi.  i263.  Cav., 
scoi.  963.  Vespe,  scoi.  239,  5o2,  !o32.  Ucc,  scoi.  11,  122.  Tesmof., 
scoi.  5 16. 

(2)    Cfr.    Fritzsche  .  Comm.  ad   Thesmof.  seciindas,  Rostock,  i83i, 

p.    52. 

(3;  Niib.,  scoi.   1007,   ii5o.  Ran.,  scoi.  i53,   1142,    1541. 

(4)  /?fl?2.,  scoi.  990,  1144.  Pia;c.,  scoi.   1159.   Z7rc.,  scoi.  76. 

(5)  Ran.,  scoi.  970.  Cav..  scoi.  1279. 

(6)  Vesp.,  scoi.  220.  Ran.^  scoi.  357.  Niib.,  scoi.  109. 

(7)  Ran.,  scoi.  1149,  "08. 

(8)  Pluf.,  scoi.,  3.  Ucc,  scoi.  76.    Ran.,  scoi.  191,  32o  ,   1422.    Tes- 
mof., scoi.  3i.  Cav.,  scoi.  487,  3i8. 

(9)  Ran.,  scoi.    191,    1400,   I4i3,   1437. 
(io)  Ran.,  scoi.  1206,  1270. 

(11)  Ran.,  scoi.  354,  ^7^?   1124.    Ved.  O.  Gerhard,  De    Aristarco 
Aristophanis  interprete,  Bonnae,  i85o. 

(12)  Vesp.,  scoi.  772. 

(t3)  Acarn.,  scoi.  654.    Plut.,  scoi.  718,   11  io.  Ran.,  scoi.  g2  ,  22^  , 

"Tiivista  di  Jiloioi^ia  ecc.  ,X.  io 


-  146  — 
zioni  grammaticali  (i),  letterarie  (2),  storiche  e  geogra- 
fiche (3).  Anche  Eufronio  fu  valente  interprete  di  Aristo- 
fane; e  mentre  segue  il  metodo  d'Aristarco  nella  esegesi  di 
cose  grammaticali  (4) ,  letterarie  (5)  e  prosodiache  (6),  lo 
supera  in  molte  illustrazioni  storiche  od  antiquarie  (7).  Più 
innanzi  troviamo  Didimo  ,  che  fa  pregevoli  commenti  ad 
Aristofane  ,  e  più  specialmente  agli  Uccelli  ed  alle  Rane. 
Anch'esso  dichiara  frasi  e  luoghi  oscuri  (8),  tratta  cose  let- 
terarie con  riscontri  di  versi  o  spiegazione  di  parodie  (9)  \ 
né  tralascia  le  questioni  grammaticali  e  metriche  (10).  Tanta 
copiosa  messe  di  illustrazioni  e  di  commenti  doveva  far 
sentire  il  bisogno  di  una  raccolta  :  e  si  vuole  che  Simmaco 
intendesse  a  questo  lavoro,  compilando  un  esteso  commen- 
tario ai  drammi  d'Aristofane  (11).  Egli  ne  pare  piuttosto 
critico  letterario  :  discute,  qualche    volta  corregge  le  inter- 


790,  826.  Vesp.,  scoi.,  772,  804,  604,  675.  Pac.^scoì.  344,  ii65.  Ucc, 
scoi.  436,  440,  933,  1378. 

(1)  Ran.,  scoi.  270,  567,  694.  Vesp.,  scoi.  2i3.  Ucc,  scoi.  53o. 

(2)  Plut.,  scoi.  385.  Pac,  scoi.  1060.  Ucc,  scoi.  i337. 

(3)  Ran.,  scoi.  588,  791  ,  1422.  Vesp.,  scoi.  07.  Ucc,  scoi.  997. 
Pac,  scoi.  1 126. 

(4)  Vesp.,  scoi.  604,  674,  675,  696,  ioo5  ,  1144,  ii5o.  Plut.,  scoi. 
904.  Nub.,  scoi.  1264.  Ran.,  scoi.  1093.  Z7cc.,  scoi.  266  ,  299,  358, 
765,  798,  933,   1378,   1745. 

(5)  Plut.,  scoi.  385.  Vesp.,  scoi.  606.  Ucc,  scoi.  i536,  i563. 

(6)  Vesp.,  scoi.   1086. 

(7)  Vesp.,  scoi.  675.  f7cc.,  scoi.  873,  997,  1379. 

(8)  Plut.,  scoi.  loii,  1129.  Ran.,  scoi.  55,  104,  186,223,230,775, 
965,  970,  990,  i3o5.  .4cani.,  scoi.  1076,  noi.  Vesp.,  scoi.  io38,  1178, 
i3o9,  i3R8.  Pac,  scoi.  758,  83i,  932,  1254.  Ucc  (frequentissime  ci- 
tazioni);  Tesmof.,  scoi.   162.  Lis.,  scoi.  3i3. 

(9)  Ran.,  scoi.   i3,  704.  Vesp.,  scoi.  io63. 

(io)  Ran.,  scoi.  41,  Vesp.  scoi.  772.  Ucc,  scoi.  58.  Ran.,  scoi.  1028. 
Pac,  scoi.  932. 

(il)  Lo  ScHNEiDKR  nel  suo  pregiato  lavoro  De  veterum  in  Aristoph. 
scoUorum  fontibus,  Sundiae,  i838j  dimostra  che  quello  fu  la  principal 
fonte  dei  nostri  scolii. 


—  147  - 
pretazioni  dei  commentatori  che  lo  precedettero.  Senza  tra- 
lasciare di  chiarire  il  senso  di  parole  o  frasi  (i),  con  qualche 
riguardo  anche  alle  osservazioni  grammaticali  e  prosodia- 
che (2),  egli  intende  particolarmente  ad  illustrare  cose  let- 
terarie, con  richiami  e  riscontri  di  versi  (3).  Chi  infine  si 
occupò  deirillustrazione  metrica  delle  comedie  aristofanesche, 
fu  Eliodoro  -,  il  quale,  sebbene  citato  due  sole  volte  negli 
scolii  (4) ,  pure  devesi  credere  autore  degli  anonimi  com- 
menti metrici  alle  parti  corali  (5).  Commentatori  minori  di 
Aristofane,  o  meno  diretti  o  dei  quali  meno  sappiamo,  sono  : 
Apollonio  Discolo,  Asclepiade^  Dicearco,  Demetrio,  Cratete 
da  Mallo,  Peno  (6).  Né  devesi  qui  omettere  di  accennare 
r  esistenza  di  commentarli  anonimi  (uTTOjuvr) inaia),  di  cui  si 
fa  menzione  più  d'una  volta  negli  scolii  (7).  Aristofane  poi 
doveva  essere  illustrato  e  giudicato  nelle  molte  opere  lette- 
rarie generali,  che  gli  Alessandrini  e  gli  eruditi  posteriori 
scrissero  sulla  drammatica  greca. 

Ci  siamo  alquanto  trattenuti  su  questo  proposito,  perchè 
lo  studio  accurato  e  diligente  delle  opere  del  nostro  comico 


(i)  Pltit.,  scoi.  683.  Nub.,  scoi.  864.  Ran.,  scoi.  1227.  Cav.,  scoi. 
755,  979,  1126,  1256.  Vesp.,  scoi.  2.  Pac,  scoi.  916.  t-^cc,  scoi.  17, 
3o3,  704,  877,  994,  looi,  1121,  1273,  1283,  1681.  7>5mo/.,  scoi.  393, 
710. 

(2)  Ran.,  scoi.  745.  Ucc.  scoi.   58,   i363.  Niib.,  scoi.  817. 

(3)  Plut.,  scoi.  loii.  Cav.,  scoi.  84  ,  963.  Acarn., scoi.  472,  877, 
(128.  Vesp.,  scoi.  i3o2.  Ucc,  scoi.  168,  440,  988,  1294.  1297,  1379, 
1705. 

(4)  Vesp.,  scoi.  1282.  Pac,  scoi.   i353. 

(5)  Ved.  scolii  passim. 

(6)  Cfr.  J.  Stoecker  ,  De  Sophodis  et  Aristophanis  interpretibus 
graecis,  Ammonae,  1826. 

(7;  Plut.,  scoi.,  io38  :  €v  òè  Tuj  iL)TTO|Livri|uaTi.  Pac,  scoi.,  757  :  outujc; 
eOpov  èv  ÙTToiuvriuaTi.  Ved.  la  fine  degli  scolii  agli  Uccelli  (Adn.  in 
sch.ì,  alle  Subì  ed  alla  Pace.  Vesp.,  scoi.  542  ,  962.  Ucc,  scoi.  283, 
557,   1242. 


—  148  — 
nella  tradizione  letteraria  ci  prova  indirettamente  il  concetto 
in  cui  esse  erano  tenute  presso  i  critici  e  gli  eruditi  ,  in 
tempi  difficili  per  le  tradizioni  greche.  Le  sue  comedie,  an- 
cora superstiti,  sono  lette,  commentate,  trascritte.  E  i  com- 
mentatori delle  altre  opere  della  greca  letteratura  ricorrono 
spesso  al  testo  aristofanesco  per  trovare  la  conferma  di  un 
fatto,  e  più  spesso  per  attestare  l'atticismo  di  qualche  espres- 
sione. È  singolare  per  noi  l'espressione  antonomastica  colla 
quale  esso  è  sovente  citato  dagli  antichi  commentatori.  L'ó 
KUJiuiKÓq  ci  dice ,  che  egli  era  considerato  come  il  comico 
per  eccellenza,  noto  a  tutti,  T antesignano  degli  antichi  co- 
mediografi  (i).  Di  lui  si  cerca  ricomporre  la  biografia,  il  ca- 
talogo dei  drammi,  e  determinare  la  caratteristica  della  sua 
poetica.  Naturalmente  questo  studio  riesce  più  difficile  e 
meno  sicuro,  quanto  più  ci  allontaniamo  dai  tempi  che  die- 
dero la  comedia  antica;  e  mano  mano  che  si  perdono  le 
opere  dei  primi  commentatori.  Si  giunge  cosi  ad  un  periodo, 
in  cui,  e  per  mancanza  delle  fonti  autentiche  e  per  difetto 
di  buon  metodo,  la  comedia  aristofanesca  è  male  intesa,  e 
falsamente  illustrata.  Tutto  riesce  oscuro  :  allusioni,  ricordi 
storici,  tradizioni  :  l'interpretazione  che  si  tenta  è  incerta, 
insulsa  o  erronea.  Così  si  formarono  le  inette  compilazioni 
sulla  comedia  attica  e  sulla  vita  di  Aristofane;  cosi  ebbero 
origine  alcune  leggende  sul  comico  ateniese,  che  noi  esami- 
neremo in  appresso. 


(i)  Ved.  Aesch.,  Prome/., scoi.  365:  irapà  tùj  KUj|aiKUj  ;  Soph. ,  Aiax^ 
scoi.  io3,  idem.  Evkipw.,  Orest.,  scoi.  167,  id.  Jon.,  scoi.  55o:  ...oO 
!aé|nvr|Tai  koì  ó  Kiu^iKÓt;.  Aristofane  è  citato  inoltre  negli  scolii  ai  dia- 
loghi di  Platone,  alle  orazioni  dei  retori,  ai  poemi  di  Omero,  alle 
opere  di  Luciano,  Teocrito,  Apollonio  Rodio,  ecc.  Merita  qui  di 
essere  menzionato  il  commentario  omerico  di  Eustazio  ,  ove  in  più 
di  600  passi  si  ricorda  Aristofane  coU'espressione  ó  KuufaiKÓq,  oppure: 
irapà  TLù  KUj)uiKuj.  Cfr.  Bernhardy,  Grundriss  ecc.,  II,  p.  *^i^. 


—  149  - 

È  nullameno  necessario  pel  nostro  assunto  V  esaminare 
brevemente  questi  anonimi  documenti  e  rintracciarvi  indizi 
a  determinare  la  riputazione  di  Aristofane  nella  tradizione 
letteraria.  Né  saranno  semplici  indizi.  Vi  ritroveremo  te- 
stimonianze dirette,  e  formali  giudizi,  espressioni  non  dubbie 
sul  valore  e  sulla  fama  del  grande  comico. 

L'espressione  di  apicrio^  Texviiriq,  che  spesso  incontriamo 
negli  anonimi  compilatori  delle  notizie  intorno  alla  comedia, 
ci  attesta  V  alto  concetto  in  cui  egli  è  comunemente  te- 
nuto (  i  )  ;  come  le  frasi  èvéXajnqjev  e  èv  arraaiv  émar]}AO<;  ci 
affermano  la  sua  superiorità  fra  gli  altri  comici  contempo- 
ranei (2).  In  un  articolo  di  Andronico  irepi  raHeujq  troiriTujv 
Aristofane  è  evidentemente  preposto  a  Gratino  ed  a  Eupoli 
nell'enumerazione  che  si  fa  dei  poeti  èmcrriiuoi  della  comedia 
antica  (3).  La  grazia  ed  urbanità  negli  scherzi  (f)  xàpiq  (èv) 
ToT?  (JKubiuiaacri)  è  rilevata  come  il  carattere  speciale  della  sua 
arte  (4),  e  serve  a  chiarire  il  rapporto  in  che  egli  sta  cogli 

altri  comici,   Gratino    ed    Eupoli:    «   ó    òè  'Apiffiocpàvri? 

TÒv  )iié(Jov  èXi'iXttKe  tuùv  àvòpujv  x«PC"<TfÌpa"  oure  yàp  TtiKpò(S 
Xiav    èailv    ùjcTTTep  ò  KpaTTvo(g ,  ouie    x^pi^i?    ujcnrep   ó   Eutto- 

Xi? »   (5).  I  suoi  biografi    ammirano  in  lui   Turbano  ed 

ingegnoso  poeta  (eùcpuri<;)  (6),  che  alla  comedia  vagante  in 
una  forma  incerta  dà  T  impronta  di  un  carattere  severo  e 
maestoso  (7).  Lo  chiamano  laaKpoXoYuOTaxog  AGrivaiuuv  Kaì 
eOqpuia  nàvjac,  ùirepaipujv  (8]  ;  e  gli    danno   merito  di  avere 


(i)  Prolegg.  de  Comoed.,  IV,  20  ;  IXa,  5i. 

{2)  Prolegg.  de  Comoed.,  V,  26. 

(3)  Id.  id.,  X,  5. 

(4)  Id.  id.,  II,  4. 

(5)  Id.  id.,  II,   19. 

(6)  Ved.  Bioq  'Apiaxoqp.,  IV,  edid.  Meineke. 

(7)  Id.  id. 

(8)  Ex  anonymo  Ttepì  KOiinujòiaq,  I,  ed.  Meineke.  Io  ho  letto  secondo 


-  150- 
pel  primo  mostrato  nel  Cocdo    la    forma  della    nuova  co- 
media  ,  da    cui    prenderanno  le  mosse  Menandro    e   File- 
mone (i).  Fra  le  comedie  aristofanesche  le  Nubi  sono  giu- 
dicate   le    più  belle  ed  artistiche  (tò  bè  bpd)aa  ir\c,  '6\y\<i  ttoi- 
naeujq    KàXXiaTÓv    9aai    Kai    TexviKuuTaTOv)  ;    vengono   quindi 
gli   Uccelli  (tò  òpa.\xa  toOto  tujv  àxav  òuvaruDc;  TreTToiimévujv), 
i  Cavalieri  (tò  òè  òpdjna  tujv  ctTcìv  Y.a\(hc,  TreTTOirmévuuv)  e  gli 
Acarnesi  (tò  òè  hpà\xa  tujv  eu  crqpóòpa  ireTTOirmévujv).  Nel  giu- 
dizio delle  Rane ,  pure  favorevolissimo ,  si  indica  più  spe- 
cialmente il  carattere  del  dramma  (tò  òè  òpa|ua  tujv  cu  ttóvu 
Kai   q)iXoXÓTw<;    TreTTOirmévuJv),  e    si  nota  come    esso    fosse 
tanto  ammirato  per  la  sua  parabasi,  da  meritare  Tonore  di 
una  seconda  rappresentazione  (2).  La    proporzione    in    cui 
gli  antichi  scolii  ci  sono  tramandati  dimostra  però  come  le 
comedie  politiche ,  le  quali  dovevano    sempre    più    riuscire 
difficili  ed  oscure,  sieno  meno  studiate  delle  altre  :  e  come 
invece  il  Pluto^  le  Nubi  e  le  Rane    fossero  le  più  lette  ed 
ammirate  da  tutta  l'antichità  (3).  Anche  Tordine  in  cui   le 
comedie  sono  tramandate  nella  tradizione  manoscritta,   es- 
sendo fondato  ,  come   osserva  il  Nicolai ,  su    un    principio 
pedagogico-estetico  ,  ci  può  chiarire   del    concetto    relativo 
che   di   esse  ebbero  gli  antichi  commentatori,  ed  è  per  noi 
indizio  del  loro    particolar  modo  di  giudicare.    Essi    pone- 
vano il  Fiuto  air  apice  delP  arte  aristofanesca,  e  vicino  ad 
esso  le  Nubi  e  le   Rane,  ordinando  le  altre    nel    seguente 
modo  :  Cavalieri,  Acarnesi^  Vespe,  Pace,  Uccelli,  Tesmofo- 
ria-use,  Ecclesia:{use,  Lisistrata.  Gli  Ateniesi  contemporanei 


la  correzione,  che  il  Bentley  ha  giustamente  fatto  alla  lezione  dei  ma- 
noscritti :  laaKpuj  XoYiwTaxoq. 
(t)  Ved.  Bio^cit.,  IV. 

(2)  Vedi  gli  argomenti  alle  comedie. 

(3)  Nello  stesso  rapporto  stanno  i  manoscritti   delle  comedie.  Ctr. 
Bamberg,  De  ravenn.  et  venet.  Aristoph.  codd.,  Bonn,   i865. 


-  151- 
non  avevano  portato  egual  giudizio  circa  il  valore  relativo 
dei  drammi  del  loro  comico  ,  e  neppure  noi  moderni  ab- 
biamo potuto  accettare  la  regola  stabilita  dai  commentatori 
alessandrini.  Per  noi  la  comedia  degli  Uccelli  è  il  parto 
più  felice  della  mente  aristofanesca-,  e  di  essa  giustamente 
sentenziava  il  Meinecke  :  «  Perfecti  autem  poetae  divinitas 
«  in  nulla  alia  comoedia  tam  dare  enitet,  quam  in  Avibus, 
«  in  qua  quidem  comoedia  nescio  an  omnis  omnino  ars 
«  comicorum  sit  consumata  »  (i). 

Resta  ora  di  determinare,  dopo  avere  dimostrata  la  su- 
periorità del  Comico  ateniese  fra  i  comici  dell'antica  co- 
media,  in  quale  rapporto  la  critica  antica  lo  ponesse  fra  i 
poeti  in  genere.  A  giudizio  del  Ranke,  Aristofane  avrebbe 
uguagliata  la  gloria  dei  grandi  poeti,  e  sarebbe  stato  pos- 
posto soltanto  al  sommo  Omero  (2).  Siffatta  affermazione 
è  assolutamente  smentita  da  tutte  le  antiche  testimonianze  ; 
le  quali ,  affermata  V  incontrastata  superiorità  del  divino 
Cieco,  sono  mirabilmente  concordi  a  concedere  a  Menandro 
la  palma  fra  i  comici ,  e  a  far  seguire-  ad  esso  ,  dei  poeti 
drammatici ,  Euripide.  Aristofane  da  Bisanzio  ,  che  studiò 
con  tanto  amore  il  poeta  omonimo,  rivela  palesemente  la 
sua  preferenza  per  Menandro,  pel  quale  ha  un  entusiasmo 
che  sembra  follia  -,  sicché  non  teme  di  collocarlo  a  fianco 
di  Omero,  il  divino  poeta  dell'antichità  (3).  E  pensando  a 
lui ,  arrivava  a  dire  :  d)  Mévavòpe  Kal  pie,  irÓTepo?  àp'  u|liujv 
TTÓrepov  èjLU)Lir|CfaTo  ;  (4).  Il  poeta  dell'antica  comedia  avrà  po- 
tuto essere  l'interprete  delle  aspirazioni  e  dei  bisogni  del 
suo  tempo,  il  descrittore  geniale  della  società  fra  cui  visse; 


(i)  Ved.  Comic,  graec.  fragm.,  II,  p.  897. 

(2)  Ved.  De  Aristoph.  vita  comm,,  p.  LUI. 

(3)  Ved.  Ant.  Pai.  (Append.),  286. 

(4)  Ved.  Nauck,   Aristophanis  By^antii  gramm.  alex.  fragm.  Halis, 
1848,  p.  249. 


-  152  - 

ma  Menandro  appariva  il  grande  rivelatore  degli  istinti  e 
dei  caratteri  invariabili  delT  umana  natura.  E  poi  :  già  lo 
dicemmo;  era  destino,  che  la  fama  d'Aristofane  non  po- 
tesse accrescersi  o  acquistar  splendore  nella  posterità.  Chec- 
ché affermi  il  Ranke,  opponendosi  in  ciò  al  Roetscher  .  il 
quale  meglio  di  lui  indagò  la  fortuna  della  fama  aristofa- 
nesca ,  la  comedia  del  nostro  poeta  si  disconosce  sempre 
più,  quanto  più  s'allontana  dai  tempi  che  la  produssero; 
talché  verrà  tempo,  che  se  ne  fraintenderanno  gli  intenti  e 
la  natura  ,  né  si  capiranno  più  neppure  gli  scherzi,  le  fa- 
cete invenzioni ,  per  tacere  delle  allusioni  politiche  o  dei 
fatti  storici;  e  si  ammirerà  di  essa,  quello  che  era  soltanto 
possibile,  la  forma.  Tatticismo  (i).  Ciò  verrà  anche  meglio 
in  chiaro  col  seguito  della  trattazione;  nel  tentare  la  quale 
noi  fummo  ben  lontani,  indotti  da  un  falso  amore  delTar- 
gomento  ,  dal  proporci  di  dimostrare  più  di  quello  che  i 
fatti,  le  testimonianze  stesse  ci  avrebbero  constatato. 

5.  È  questo  il  luogo  di  trattare  di  alcune  tradizioni 
leggendarie,  le  quali  hanno  stretta  attinenza  colla  fama  ari- 
stofanesca, sia  che  riescano  a  magnificarla  o  a  denigrarla. 
Dopo  ciò  che  fin  qui  abbiamo  esposto  ,  giova  appena  no- 
tare, come  essa  non  abbia  mai  avuto,  né  potuto  avere  leg- 
gende vere  e  proprie.  Le  nostre  tradizioni  favolose  nascono 
e  si  formano  nella  cerchia  ristretta  dei  commentatori  ,  i 
quali  o  fraintendono  il  testo,  o  non  avvertono  chiara  la  ra- 
gione di  certi  fatti  ,  o  sono  indotti  facilmente  dalla  magra 
ed  incompiuta  tradizione  letteraria  ad  ampliarla  ed  abbel- 
lirla. I  documenti  stessi,  che  ce  le  tramandano,  sono  incerti 
e  vaghi  nella  loro  forma  (qpacrl  òè ),  e  giustificano  i  so- 
spetti sulla  veridicità  del  racconto. 


(i)  Ranke,  Op.  cit.,  p.   LIV.   Del    pari    inesatta    ù  la    sentenza    del 
Bahr,  Aristophanes  (nella   Enciclopedia  del  Paiily). 


—  153  - 
Noi  sappiamo,  per  esempio,  che  la  comedia  delle  Rane 
piacque  tanto  agli  Ateniesi,  da  meritare  Tonore  di  una  se- 
conda rappresentazione.  La  notizia  era  data  da  Dicearco  , 
e  il  grammatico  che  prepose  T  argomento  alla  comedia,  ne 
cita  la  fonte.  Aristofane  avrebbe  dovuto  questo  felice  suc- 
cesso al  fatto  d^aver  posto  Tarte  sua  a  servigio  dello  Stato, 
cercando  per  essa  di  riuscir  utile  alla  città  col  consigliarle 
il  buono  ed  il  decoroso.  Nei  biografi  c'è  una  naturale  ten- 
denza ad  amplificare,  specialmente  quando  si  tratta  di  dar 
lode  e  di  abbellire  così  il  proprio  soggetto  -,  l'onore  di  una 
seconda  rappresentazione  non  parve  bastevole  :  si  accettò 
quindi  ben  volentieri  la  voce  che  diceva  ,  esser  egli  stato 
incoronato  di  un  ramo  d'olivo.  Nel  testo  primitivo  della 
biografia  anonima  d'  Aristofane  si  diceva  soltanto,  che  per 
questi  servigi  patriottici  egli  aveva  raccolto  molta  lode  (|ad- 
XicTia  òè  èTTr]véeri).  L'  riTaTtriBri  che  segue  colla  oziosa  dichia- 
razione dei  mouvi  e  la  più  che  inetta  ripetizione  del  toutou 
Xàpiv  èirrivéG;]  mostrano  chiaro  il  carattere  della  interpola- 
zione, e  come  tale  il  Bergk  la  escluse  dal  testo.  Ma  in  essa  e 
ne!  aqpóòpa  aggiunta  in  un  altro  codice  si  tradisce  già  la  ten- 
denza all'amplificazione.  La  notizia  dell'  incoronazione  poi 
(ècTTecpavajGTi  BaWuJ  ■xr\c,  lepa^  èXaia*;)  ha  una  curiosa  apposi- 
zione, della  cui  inopportunità  e  ridicolezza  occorre  appena 
far  menzione  (...òi;  v€vó|aicrTai  icrÓTi|uo<5  xp^ctmJ  (JTecpdvuj);  né 
in  modo  meno  grottesco  si  dà  ragione  del  fatto,  ascrivendolo 
ad  alcune    parole  pronunziate  dal  poeta  nella  parabasi    (ei- 

TTÙJV  ÈKeTva ).   Quello  che  con  maggior  certezza   sappiamo 

del  favore  degli  Ateniesi  pe!  nostro  comico  non  combina 
colle  entusiastiche  simpatie,  di  cui  egli,  secondo  questo  rac- 
conto ,  sarebbe  stato  fatto  segno.  Essi  non  riconobbero 
sempre  i  generosi  fini  del  poeta  ,  quando  appunto  propu- 
gnava, secondo  il  suo  modo  di  vedere,  la  salute  e  la  pro- 
sperità della  patria.  Del  resto,  non  può  non  sembrar  strano, 


-  154  - 
che  il  commentatore  ,  il  quale    volle    conservata   la   notizia 
della  seconda  rappresentazione  delle  Rane,  non  avesse  anche 
ricordato  Taltra  tradizione  (se  vi  era  da  aggiustar  fede)  più 
lusinghiera  ed  importante,  quella  delTincoronazione, 

Alle  stesse  fonti  molto  incerte  dobbiamo  un'  altra  leg- 
genda, la  quale  mostra  più  palesi  le  tracce  dell'invenzione, 
e  meglio  permette  d'investigarne  la  genesi.  La  lepida  fan- 
tasia del  poeta  aveva  finto,  parlando  di  sé  agli  Ateniesi , 
che  la  sua  fama  fosse  giunta  sino  al  re  di  Persia,  il  quale 
avrebbe  chiesto  agli  ambasciatori  spartani  notizia  di  lui 
magnificando  V  efficacia  politica  de'  suoi  consigli  {Acarn., 
V.  (346-651).  Questa  finzione  dinanzi  al  pubblico  ateniese 
non  potea  far  nascere  equivoco,  né  poteva  illudere  i  com- 
mentatori più  antichi,  i  quali  perciò  non  hanno  bisogno  di 
notare  che  il  fatto  è  pura  invenzione  comica.  Quando  l'e- 
quivoco può  nascere  ,  uno  scoliasta  avverte  l'inganno  e  lo 
scopre:  toOto  bè  x^pievieZió^evog  q;euòuj(;  XéYei  [Acarn.,  scoi. 
649).  Ma  come  vengon  tempi,  che  non  si  vede  più  chiaro 
nelle  allusioni  della  comedia  aristofanesca,  il  lavoro  fanta- 
stico del  poeta  è  accettato  come  un  fatto  vero.  Allora  con- 
viene spogliare  il  racconto  di  ciò  che  in  esso  appariva  meno 
verosimile.  Come  poteva  il  re  di  Persia,  senza  conoscere  se 
il  poeta  fosse  spartano  od  ateniese,  e  contro  qual  parte  ri- 
volgesse i  suoi  sarcasmi,  dire,  che  quella  parte  nella  guerra 
avrebbe  vinto,  che  avesse  avuto  un  tal  consigliere  ?  Cosi  la 
leggenda  ,  accomodata  ,  riporterà  soltanto  il  fatto  ,  che  la 
fama  di  lui  penetrò  in  Persia,  ove  il  re  avrebbe  chiesto  di 
qual  parte  egli  fosse  (i). 

Più  confusa  ed  incerta  si  è  la   tradizione    che    troviamo 


(i)  È  curioso,  che  un  tilologo  moderno,  lo  Stoecker  Op.  cit.), 
abbia  potuto  prendere  sul  serio  la  storiella,  e  trarne  argomento  della 
diffusione  della  fama  contemporanea  di  Aristofane  anche    all'estero. 


-  155  — 
nella  stessa  vita  d'anonimo,  e  che  riguarda  le  relazioni  della 
politica  ateniese  col  governo  tirannico  della  Sicilia.  Essa 
narra,  che  Platone  a  Dionisio  re  di  Siracusa,  desideroso  di 
conoscere  lo  stato  d'  Atene  ,  mandò  le  opere  di  Aristofane. 
Questa  è  una  prima  versione.  Un'altra  dice,  che  mandò  le 
Nubi,  le  quali  hanno  Taccusa  contro  Socrate.  Non  si  vede 
chiaro  l'intento  che  deve  aver  dato  occasione  alla  leggenda, 
né  lo  spirito  che  la  anima.  Volle  Platone  con  quest'atto  dar 
valore  b  riprovare  l'operato  del  comico  ateniese  ?  Ma  poi  : 
perchè  mandò  proprio  le  Nubi  ?  Potevano  esse  giovare  agli 
studi  di  Dionisio?  Potevano  ciò  le  altre  comedie  ?  Osserva 
giustamente  lo  Zimmermann  :  esse  giovano  assai  a  noi , 
tardi  nepoti  e  lontani  da  quei  tempi;  ma  allora,  a  che  a- 
vrebbero  servito?  S'aggiunga,  che  il  grande  filosofo,  pur 
ammirando  l' ingegno  del  poeta,  disapprovò  1'  animosità  di 
lui  contro  Socrate,  il  suo  venerato  maestro  (i).  Nella  forma 
in  cui  ci  è  giunta,  questa  tradizione  giustifica  tutti  i  nostri 
dubbi  e  sospetti.  Il  testo  primitivo  dovea  soltanto  riferire  il 
fatto  della  richiesta  di  Dionisio  e  dell'  invio  per  parte  di 
Platone  dei  drammi  (ifiv  noiricriv)  d'Aristofane.  L'interpo- 
lazione posteriore,  ix\\  Kaià  ZuuKpdTouq  èv  NecpéXai<;  KaxriTO- 
piav,  avendo  inteso  in  senso  ristretto  il  termine  generico  di 
TroìricJiq,  rese  quindi  necessaria  l'altra  aggiunta,  che  ristaura 
il  significato  generale  del  vocabolo,  riuscendo  però  prolissa 
ed  oziosa  nel  suo  contenuto:  xai  au)LipouXeOcrai  xà  ò  p  ol- 
ia a  x  a  aùxoO  à(JKi"i9évxa  |ua6eTv  aùxOùv  xriv  TToXixeiav.  Può 
non  parer  strano,  che  della  leggenda  non  si  faccia  menzione 
nelle  vite  platoniche  di  Olimpiodoro  e  di  Diogene  Laerzio? 
Essa  ha  forse  il  suo  fondamento  nella  qualità  e  nel  carat- 
tere dei    drammi    aristofaneschi ,  e  può  avere  il   significato 


^i)  Ved.  Avoiog.  di  Socrate,  e.   III. 


-  156    -. 
di  designarli  come  il  più  vivo  e  fedele  ritratto  della  politica 
del  loro  tempo. 

In  Olimpiodoro  troviamo  Taltra  tradizione,  che  alla  morte 
di  Platone  furono  trovate  sul  suo  letto  le  opere  di  Aristo- 
fane. Il  motivo  leggendario  di  designare  così  rammirazione 
che  taluno  ha  sentito  per  uno  scrittore  è  assai  comune.  Ma 
quello  che  giova  notare  ,  si  è  che  le  più  antiche  testimo- 
nianze ,  riferentisi  a  Platone,  ricordano  soltanto  il  suo  a- 
more  per  i  mimi  di  Sofrone  (i).  Il  nome  di  Aristofane 
appare  per  la  prima  volta  in  Olimpiodoro,  ove  è  aggiunto 
arbitrariamente  ,  ed  ha  unico  fondamento  di  fatto  il  favo- 
revole giudizio  del  filosofo  verso  il  nostro  comico,  e  il  par- 
ticolare d^averlo  introdotto  interlocutore  nel  Si)?iposio. 

Ci  restano  ancora  da  esaminare  due  tradizioni,  forse  più 
recenti  delle  surrecate,  ma  delle  quali  sostanzialmente  dif- 
feriscono pel  loro  effetto  di  porre  il  poeta  in  una  luce  in- 
arata e  sfavorevole.  Partono  anch'esse  da  qualche  dato  reale, 
o  da  accenni  non  espliciti,  e  la  fantasia  vi  lavora  sopra. 

Riferisce  Ateneo ,  che  Aristofane  scrisse  ebbro  i  suoi 
drammi.  Ciò  si  diceva  di  Eschilo  ed  anche  di  Alceo.  Pro- 
babilmente simili  leggende  si  formano  su  di  uno  stesso  tipo, 
ripetendolo,  e  muovono  primieramente  dall'idea  di  magni- 
ficare il  soggetto.  Si  vuol  spiegare  l'eccellenza  di  quelle  o- 
pere  poetiche,  colTassegnarne  l'ispirazione  ad  uno  stato  di 
eccitazione  e  di  insolita  esaltazione  dello  spirito.  Possono 
anche  derivare  da  una  ristretta  e  materiale  interpretazione 
di  una  frase  alquanto  equivoca,  come  pare  sia  il  caso  nostro. 
Aristofane  avevo  detto  di  sé:  vn  tòv  AióvucJov  tòv  èKGpé- 
qjavid  |ue  {Nubi,  v.  5  U)),  volendo  accennare  alla  sua  giovi- 
nezza interamente  consacrata  alla  musa  comica,  agli  agoni 


(i)  Ved.  QuiNTiL..  I.   IO,   17.  Val.  Mass.,  Vili,  7.  Ateneo,  XI,  (?. 
Off.  anche  Esichio.   Vit.  Sophr.,  e  Suida,  Zi.Oq)piuv. 


-  157  - 
poetici ,  ai  quali  presiedeva  il  dio  Dioniso,  Ma  il  senso 
grossolano  dei  commentatori  prende  la  frase  nella  sua  si- 
gnificazione materiale,  deteriorata  e  ne  forma  una  falsa  tra- 
dizione. Se  si  pensa  poi,  che  Platone  nel  Si/uposìo  lo  aveva 
piacevolmente  ritratto  sotto  un  carattere  di  gioviale  smode- 
ratezza o  intemperanza,  e  gli  aveva  fatto  dire,  che  anch'egli 
era  stato  di  quelli  che  il  giorno  avanti  avevano  solenne- 
mente cioncato;  e  aveva  accennato,  per  bocca  di  Socrate, 
alle  sue  occupazioni  tutte  dedite  a  Dioniso  e  ad  Afrodite 
(,..(!)  uepl  Aióvucrov  Kal  'Aqppoòiiriv  f]  òiaipipri),  si  avranno 
tutti  gli  elementi  per  giudicare  della  genesi  e  della  esplica- 
zione della  leggenda. 

Non  era  sempre  facile  anche  agli  antichi  stessi  il  com- 
prendere e  l'apprezzare  rettamente  gli  intenti,  che  il  poeta 
comico  aveva  nascosto  sotto  il  velo  allegorico  o  fantastico 
delle  sue  invenzioni.  Persino  co'  suoi  contemporanei  egli 
aveva  dovuto  spesso  fare  dichiarazioni  insieme  a  lagnanze. 
In  seguito  la  cosa  riesce  più  comune  e  quasi  naturale.  Ad 
esempio,  quasi  tutta  l'antichità  restò  colpita  dall'irreverente 
persecuzione  di  cui  Aristofane  aveva  fatto  segno  Socrate 
nelle  Nubi.  Quella  comedia  pregiudicò  tanto  la  fama  di 
lui  nella  posterità  !  Non  gli  si  seppe  perdonare  d'aver  de- 
riso il  più  grande  savio  della  Grecia.  Né,  quando  i  tempi 
si  fanno  più  lontani  ed  oscuri,  riesce  facile  il  riconoscere  o 
il  credere  che  il  Comico  ateniese  avesse  perseguitato  in  So- 
crate i  sofisti,  e  che  la  sua  guerra  ardita  indetta  contro  di 
lui ,  non  meno  che  contro  Euripide ,  tendesse  soltanto  a 
scongiurare  la  rovina  imminente  di  Atene.  Si  vuol  cercare 
un  motivo  materiale  che  dia  ragione  del  fatto.  Aristofane 
doveva  esser  stato  corrotto  dall'  oro  dei  nemici  di  Socrate. 
Eliano,  grande  ammiratore  della  filosofia  socratica,  non  si 
perita  di  fare  un  omaggio  al  suo  maestro,  coli' accettare  e 
divulgare  la  calunnia  contro    Aristofane.  Gli    par   naturale 


-  158  — 
che  egli  ricevesse  una  ricompensa  per  T  opera  sua  :  Eìkò^ 
he  Kttì  xP^l^CTiaacrGai  ùnèp  toutujv  'ApifTioqpdvriv.  Ma  biso- 
gnava anche  rivendicare  V  onore  del  grande  filosofo ,  e  la 
leggenda  è  sempre  proclive  a  queste  rivincite.  Essa  vuol 
quasi  ristaurare  la  moralità  dei  fatti ,  compiendo  in  nome 
della  rettitudine,  quello  che  la  realtà  e  la  storia  non  adem- 
pirono. Si  disse  ,  che  Socrate  andò  alla  rappresentazione 
delle  Nubi,  pur  sapendo  di  esservi  fatto  oggetto  di  ridicolo, 
e  sedette  in  luogo  cospicuo.  Il  pubblico  si  divertiva  -,  gli 
stranieri ,  quasi  meravigliando  ,  chiedevano  chi  fosse  quel 
Socrate  che  essi  vedevano  così  deriso  sulla  scena.  Allora 
egli,  a  togliere  ogni  dubbio  o  sospetto  ,  si  levò  in  piedi,  e 
durante  la  rappresentazione  èaTÙj(;  èpXéTieTO.  Come  è  bella 
la  leggenda!  In  questo  sguardo  austero  e  dignitoso  c'è  tutta 
una  condanna  dei  poeti  e  di  Atene  (i). 

La  leggenda  ama  pure  di  collegare  i  fatti,  di  connettere 
cause  ed  effetti.  Non  importa  ,  se  fra  le  une  e  gli  altri  vi 
sono  grandi  lacune  -,  essa  le  colma.  Così  essa  divulgò,  che 
la  condanna  del  filosofo  era  stata  conseguenza  della  comedia 
delle  Nubi.  Aristofane  avrebbe  dovuto  avere  questo  grande 
rimorso  d'  avere  sacrificato  a'  suoi  scherzi  una  vittima  sì 
cara.  Uno  scolio  molto  importante  ci  dice  come  fosse  opi- 
nione divulgata,  che  nessun  odio  personale  avesse  mosso 
Aristofane  a  scrivere  la  sua  comedia  (2)  \  e  la  storia  ci 
mostra,  che  un  intervallo  di  23  anni  corse  fra  la  rappre- 
sentazione e  la  condanna.  Che  questi  fatti  non  fossero  un 
ostacolo  alla  formazione  della  leggenda,  non  v'ò  chi  possa 
maravigliarsene.  Fa  piuttosto  meraviglia  il  vedere  critici 
moderni  accettare  e  dar  peso  alla  favola,  non  altrimenti  che 


I 


(i)  Eliano,   Var.  Hist.,  II,   i?. 
(2)  Nubi,  scoi.  96. 


—  159  — 
fosse  un  fatto  accertato  (i).  Il  racconto  di  Eliano ,  cosi 
ricco  di  particolari  tendenti  a  dargli  un  colorito  omogeneo 
e  naturale;  ispirato  da  tanta  manifesta  animosità  contro  il 
nostro  comico,  di  più  in  opposizione  colle  antiche  testimo- 
nianze, non  dovrebbe  poter  illudere  alcuno. 

Tutte  queste  tradizioni  riflettono  per  così  dire  la  storia 
della  varia  fortuna  della  fama  aristofanesca.  DalP  apoteosi 
essa  scende  giù  giù  sino  all'infamazione.  Aristofane  è  dap- 
prima il  generoso  cittadino,  che  provvede  al  bene  della  città, 
la  quale  riconoscente  lo  fregia  di  quell'alloro,  di  che  onora 
i  grandi  liberatori  dello  Stato;  poscia  è  il  vile  mercenario, 
che  Toro  di  due  abietti  accusatori  induce  a  diffamare  un 
nome,  che  è  gloria  della  patria  stessa. 

6.  Giova  continuare  le  ricerche,  seguendo  il  corso  sto- 
rico della  tradizione  letteraria.  La  Grecia  è  decaduta,  è 
vero,  ma  la  ricca  eredità  della  sua  cultura  non  si  smarrisce 
o  si  sperde;  passa  bensì  dalForiente  all'occidente,  senza  che 
s'interrompa  il  filo  della  continuità.  Le  due  correnti,  greca 
e  romana,  si  mescono,  si  confondono,  e  proseguono  così  il 
loro  cammino  nel  più  vasto  corso  della  civiltà.  Studiamo 
attraverso  ad  esse  le  vicende  del  nome  aristofanesco. 

Senonchè  a  prima  vista,  sembra  che  pel  caso  nostro  spe- 
ciale si  sia  rotto  e  perduto  ogni  filo  di  tradizione.  Le  let- 
tere latine  al  loro  apparire  ci  si  mostrano  bensì  adorne  del 
coturno  e  del  socco.  Ma  sulla  scena  romana  troviamo  Eu- 
ripide e  Menandro  ,  non  già  Sofocle  ed  Aristofane.  E  in 
seguito,  anche  fuori  del  teatro  ,  nel  recesso  tranquillo  dei 
cultori  delle  muse  ,  Menandro  è  quello  che  ne  occupa  le 
menti.  E  Menandro,  che  Orazio  si  prescieglie  a  compagno 
del  viaggio,  quando  chiede  alT  ameno  soggiorno    della   sua 


i)  Ved.,  ad  es.,  Deschanel,  Études sur  Aristophane,  p.  i52,  i54Sgg. 


—  16U  - 
villetta  di  Tivoli  il  riposo  e  lo  svago  dalle  clamorose  brighe 
della  città  (i);  a  Menandro  si  rivolge  Properzio,  per  averne 
refrigerio  alTardente  passione,  che  Tingratitudine  di  Cinzia 
rende  infelice  (2).  Lo  stesso  Orazio,  quando  vuol  pungere 
i  depravati  costumi  del  suo  tempo  ,  e  pensa  ai  poeti  casti- 
gatori dell'antica  comedia    attica,  non  alla  musa  aristofa- 
nesca ,  ma  air  eupolidea  chiede  V  invettiva  per   la    sua  sa- 
tira (3).  Menandro    ha   una  folla    di    successori  nel  teatro 
latino:   Nevio,  Cecilio,  Plauto,  Terenzio,  Trabea,  Afranio; 
Svetonio  ci  dice,  che  Augusto  si  dilettava  molto  del  teatro, 
anche  della  comedia  antica,  che  egli  spesso  offrì  ai  pubblici 
spettacoli  (4).  Ma  bisogna  credere  col  Welcker,  che  proba- 
bilmente colla  denominazione  di   comoedia    vctus  sia  desi- 
gnata la  comedia  antica  greca,  specialmente  di  Menandro, 
in  contrapposto  alla  comedia  romana  posteriore  (5).  Nello 
stesso  senso  va  intesa  la  denominazione  di    àpxaia  KU))aujbia 
di  cui  era  attore    V  ateniese  Aristomene,  che,  a  quanto  ri- 
ferisce Ateneo,  Adriano  teneva   sempre  presso  di  se,  chia- 
mandolo pernice  attica  ('ATTiKOTrépòit)  (6).  Anche  più  tardi, 
i  drammi  che  generalmente  si  leggono,  sono  quelli   imitati 
o  tradotti  dalla    nuova  od  anche    dalla    mezzana  comedia. 
Gellio    parla   chiaro  in  proposito:   «  Comoedias    lectitamus 
«  nostrorum  poetarum  sumptas  ac  versas  de  Graecis,  Me- 
(i  nandro  aut  Posidippo  aut  Apollodoro  aut  Alexide  et  qui- 
«  busdam  item  aliis  comicis  (7)  ».  Si  può  dire  in  generale, 


(i)  Sat.^  II.  3,  V.  II. 

(2)  Eìep.,  Ili,  21,  V.  26-28. 

(3)  Sat.,  II,  3,  V.   12. 

(4)  SvET.,  e.  43  e  89. 

(5)  Welcker,  Die    Griechisch.   Tragodien  ,  Bonn,    1839-1841,  III, 
p.   1409. 

(6)  Aten.,   Ili,  e.  7S.  Cfr.  Welcker,  Op.  cit. 

(7)  Gell.,  Noct.  Att.,  Il,  23. 


—  161  - 
che  i  Romani  hanno  poco  interesse  per  la  grande  lettera- 
tura greca  del  buon  tempo,  fatta  una  sola  eccezione  per 
Euripide.  La  comedia  antica  poi  è  rimasta  un  fossile  del 
vecchio  strato  terroso,  in  cui  l'ha  collocata  la  storia.  Le- 
gata al  tempo  che  la  produsse,  non  poteva  infatti  trasmet- 
tersi od  essere  imitata.  La  sua  sorte  è  dunque  fatale,  in- 
dipendente dal  suo  valore  intrinseco  e  reale.  E  con  questo 
criterio,  che  va  giudicata  la  sfavorevole  condizione  della 
fama  aristofanesca  nella  posterità.  Qualche  po'  dell'eredità 
dell'  antica  comedia  si  può  appena  dire  trasmessa  ai  sa- 
tirici romani  -,  a  Lucilio  (i),  ad  Orazio  (2),  Persio  ,  Gio- 
venale   Le  nostre  ricerche  ci  dimostrano,  che  in  tutto  il 

periodo  romano  Aristofane  è  poco  letto,  poco  studiato,  né 
sempre  inteso.  Si  ricorda  un  Arìstophanes  ^  che  fu  poeta 
veteris  comoediae;  ma  da  queste  stesse  denominazioni  di- 
chiarative, dalle  scarse  e  magre  citazioni  si  vede,  che  poco 
lo  si  conosce.  Nelle  opere  di  Cicerone  troviamo  appena 
cinque  luoghi  in  cui  o  si  cita  Aristofane  o  si  allude  alla 
sua  comedia.  Orazio  lo  nomina  una  sola  volta  insieme  agli 
altri  poeti,  quorum  comoedia  prisca...  est.  Dionigi  d'Ali- 
carnasso  cita  più  d'una  volta  il  tetrametro  anapestico  ari- 
stofaneo,  poi  riporta  un  vocabolo  aristofanico,  e  lo  giudica 
brevemente,  citandolo  insieme  a  Gratino  e  ad  Eupoli.  Una 
sola  volta  è  citato  da  Diodoro  Siculo,  da  Vitruvio,  da  Vel- 
lejo  Patercolo  ,  da  Persio.  Seneca  fa  parlare  Socrate  ,  il 
quale  dice  di  avere  una  volta  offerto  materia  di  scherzo  ad 
Aristofane,  e  di  essere  stato  mordacemente  assalito  da  tutti 
i  comici  di  quel  tempo.  Asserisce  altrove  Seneca,  che  il  fi- 
losofo prese  quelle  facezie  in  buona  parte  e  ne  rise.  Plinio 
nella  sua  Storia  Naturale,  a  proposito  del    baccar,  radice 


(ij   HoRAT.,  Sat.,  1,  4,  6. 
(2;  Sat.,  1,  IO,    16-17. 
T^ivisla  di  teologia  ecc.,  X. 


-  162  - 
da  cui  si  traeva  unguento,  cita  la  testimonianza  di  Aristo- 
fane, priscae  comoediae  poeta  ;  e  a  proposito  dello  scandix 
ricorda  lo  scherzo  aristofanesco  contro  Euripide,  quale  figlio 
di  un'  ortolana,  che  non  vendette  mai  un  buon  cavolo.  La 
sola  volta  che  Valerio  Massimo  lo  menziona,  lo  fa  inesat- 
tamente, attribuendo  a  Pericle  una  sentenza  ,  che  è  invece 
pronunziata  da  Eschilo  nelle  Rane.  Quintiliano  si  vale  due 
volte  della  testimonianza  di  Aristofane ,  e  lo  giudica  nelle 
sue  Istituzioni.  Plinio  Cecilio  allude  indirettamente  in  una 
sua  lettera  alla  qualità  della  comedia  attica  antica  con  spe- 
ciale riguardo  ad  Aristofane;  e  in  un'altra,  citati  alcuni 
versi  di  Eupoli,  riporta  il  noto  verso  degli  Acarncsi  che  si 
riferisce  a  Pericle.  Copiose  menzioni  d'  Aristofane  e  cita- 
zioni di  versi  delle  sue  comedie  troviamo  in  Plutarco,  il 
quale  inoltre  scrisse  un  confronto  fra  i  due  rappresentanti 
deirantica  e  della  nuova  comedia,  che  considereremo  a  suo 
luogo.  Né  sempre  quelle  citazioni  sono  accompagnate  dal 
nome  del  comico  o  del  dramma  da  cui  sono  tratte,  ma  per 
lo  più  fatte  in  generale  e  colla  denominazione  generica  : 
u)<;  01  KiJU)iiiKol  Xéfouai,  oppure:  Kaxd  ye  foijq  Tf|(S  àpxaiacg  kuu- 
fiiuòiaq  TTOiriTà(;.  Due  citazioni  riscontriamo  in  Dione  Criso- 
stomo, in  una  delle  quali  si  dà  un  sommario  giudizio  dei 
comici  dell'  antica  comedia.  Elio  Aristide  menziona  due 
sentenze  aristofanesche,  una  riguardante  Pericle,  V  altra  la 
garrulità  dei  poeti  contemporanei  del  nostro  comico.  Zenobio 
ci  conserva  tre  proverbii  tratti  dalle  comedie.  Appiano  ri- 
porta la  sentenza,  che  prima  bisogna  saper  trattare  il  remo, 
e  poi  reggere  il  timone.  Aulo  Gelilo  cita  le  'OXKdòeq,  e  in 
quattro  luoghi  riporta  versi  delle  Rane,  e  delle  Tesmoforia- 
■yiise.  Galeno  ha  tre  citazioni  aristofanee:,  assai  più  se  ne  tro- 
vano in  Erodiano.  Pausania  una  sola  volta  ricorda  Aristo- 
fane, come  autorità.  Luciano  in  più  passi  allude  a  lui  ed  ai 
comici  del  tempo-,  in  un  viaggio  aereo  ricorda  Niibicuciilia, 


—  163  — 
e  altrove  riporta  versi  degli  Uccelli.  In  quattro  capitoli  della 
Storia  degli  animali  di  Eliano  ,  a  proposito  delle  varie 
specie  di  uccelli,  si  ricorre  all'autorità  o  alla  menzione  ari- 
stofanesca nel  dramma  che  da  essi  s'  intitola.  Nella  Varia 
Istoria  invece  si  cita  Aristofane  per  le  sue  rappresentazioni 
di  tresche  muliebri,  e  si  parla  a  lungo  della  persecuzione 
contro  Socrate  e  della  comedia  delle  Nubi.  Ateneo  ha  quasi 
duecento  citazioni  di  Aristofane,  con  versi  dei  varii  drammi  -, 
ricorda  V  Aristofane  platonico,  e  dà  al  nostro  poeta  T  ap- 
pellativo di  riòicrTO(;.  Nella  copiosa  messe  epigrammatica 
dtW  Antologia  abbiamo,  tolto  il  platonico,  due  soli  epi- 
grammi dedicati  ad  Aristofane  :  1'  uno  di  Diodoro ,  T  altro 
di  Antipatro  di  Tessalonica.  Diogene  Laerzio  accetta  la  tradi- 
zione di  Anito  istigatore  di  Aristofane  contro  Socrate,  e  in 
due  luoghi  cita  versi  delle  comedie.  In  Sesto  Empirico  è 
citato  una  volta  sola.  Clemente  Alessandrino  di  tre  citazioni 
ne  ha  una  preziosissima,  la  quale  ci  conserva  un  lungo 
frammento  delle  seconde  Tesmoforia'{iise.  Longino  ascrive 
il  nostro  comico  nel  numero  di  quei  poeti,  che  non  disposti 
da  natura  ad  elevarsi  nella  creazione  sino  al  sublime,  rie- 
scono nullameno  non  di  rado  a  raggiungerlo.  Giuliano  im- 
peratore ricorda  i  tipi  degli  schiavi  e  dei  vecchi  taccagni, 
introdotti  sulla  scena  dalla  comedia  antica ,  e  parodia  il 
primo  verso  degli  Acarnesi  nel  seguente  modo: 

c(  òdKVO)aai  òè  Kai  òéòiiTluai  rriv  èjuauxoO  Kapòiav  ». 

Anche  Libanio  sofista  menziona  nelle  sue  epistole  le  mal- 
dicenze aristofanesche  contro  Socrate,  e  più  volte  allude 
celatamente  agli  scherzi  del  nostro  poeta ,  senza  riportare 
versi  delle  comedie.  S.  Girolamo  nel  Chronicon  determina 
il  periodo  dell'  attività  del  nostro  comico  sulla  scena.  Eu- 
napio  s'accorda  anch'esso  con  Eliano  per  ciò  che  riguarda 


—  164  — 
la  persecuzione  di  Socrate.  Per  questioni  metriche  due  volte 
lo  citano  Marco  Vittorino  e  Attilio  Fortunaziano  ;  mentre 
Terenziano  Mauro  celebra  in  tre  versi  latini  la  fecondità  e 
varietà  dei  metri,  pei  quali  Aristofane  parve  emulare  la 
musa  archilocheii  : 

e  Aristophanis  ingens  emicat  soUertia, 
Qui  saepe  metris  multiformibus  novus 
Archilochon  arcte  est  aemulatus  musica  ». 

Achille  Tazio  commemora  le  salse  arguzie  aristofanesche, 
introducendo  un  sacerdote,  che  egli  ne  dice  felice  imitatore, 
E  Olimpiodoro,  scrivendo  la  vita  di  Platone,  ne  fa  un  as- 
siduo lettore  di  Aristofane ,  le  cui  opere  si  sarebbero  tro- 
vate sul  letto  del  filosofo  alla  sua  morte.  Nel  suo  Flori- 
legio Stobeo  accoglie  un  discreto  numero  di  luoghi  delle 
comedie,  sebbene  assai  più  abbondante  sia  la  parte  fatta  a 
Menandro  e  ad  Euripide.  Infine,  Aristofane  è  messo  a  pro- 
fitto dai  grammatici  e  dai  lessicografi-,  da  Polluce,  Ero- 
diano,  Esichio,  Macrobio,   Arpocrazione  e  Frisciano. 

Aristofane  dunque  vive  in  tutta  la  lunga  tradizione  greco- 
romana. Il  periodo,  in  cui  la  sua  memoria  è  più  viva  ,  è 
quello  dei  retori  e  dei  sofisti.  Comunemente  lo  si  ricorda, 
come  quegli  che  fu  l'accusatore  di  Socrate,  e  il  persecutore 
di  Euripide  e  delle  donne.  Le  Nubi  e  le  Rane  sono  quindi 
le  comedie  di  lui  più  spesso  menzionate;  il  Fiuto  è  la  più 
facile  e  la  più  intesa.  Il  contenuto  dei  drammi  per  lo  più 
resta  oscuro-,  la  forma  invece  è  costantemente  ammirata  e 
celebrata-,  grazia  e  purezza  d'atticismo,  varietà  di  forme 
ritmiche  e  metriche.  Uno  dei  tratti  che  resta  famoso  e  che 
si  cita  spesso  è  quello  in  cui  il  poeta  ha  rappresentato  Pe- 
ricle V olimpico,  che  della  sua  eloquen/a  folgora,  rintuona, 
sommove  tutta  l'Eliade  [Acarn.,  v.  53 1): 


—  165  — 
ficripaiTT',  èppóvTtt,  HuveKÙKa  rfiv  'EWóba 

Di  imitazioni  aristofanesche,  nel  senso  ampio  e  speciale 
in  cui  va  presa  questa  espressione,  possiamo  citare  due  soli 
esempi  :  la  comedia  di  Vergilio  Romano,  di  cui  ci  ha  ser- 
bato memoria  Plinio  il  Giovane,  e  il  Timone  di  Luciano, 
esemplato  sul  Pliito.  Nelle  altre  opere  di  questo  scrittore 
si  possono  trovare  molti  riscontri  colle  comedie  aristofa- 
nesche ;  imitazioni  di  parole  o  locuzioni,  di  invenzioni  e  di 
pensieri.  Anche  Luciano  deride  gli  dei  forestieri,  e  intro- 
duce barbari  e  peregrini  che  parlano  nel  loro  gergo,  e  de- 
scrive nelTorco  una  gara  fra  Alessandro  ed  Annibale  per 
il  trono  da  assegnarsi  al  più  forte  (i).  Infine  Cicerone  parla 
di  una  lettera  di  suo  fratello  Quinto:  «^  Aristophaneo  modo 
valde    meheixule   et    suavem  et  gravem  {Epist.  Ili,  i,  6). 

Esaminata  la  tradizione,  dobbiamo  ora  occuparci  parti- 
colarmente dei  giudizi,  che  sono  per  noi  la  parte  più  impor- 
tante. Chiediamo  ai  critici  dell'  antichità  la  determinazione 
del  concetto  e  del  valore  poetico  di  Aristofane-,  ci  dicano 
essi  qual  grande  poeta  sia  stato  Aristofane  fra  i  comici 
greci. 

7.  Cicerone  {De  Leg.,  II,  i5)  cita  Aristofane  e  lo 
chÌ3imsi  faceiissimus  poeta  veieris  comoediae.  Egli  lo  leg- 
geva e  lo  preferiva  ad  Eupoli  {Ad  Ait.^  XII,  4).  Un  altro 
suo  giudizio  possiamo  riconoscere  nelle  parole  sopra  citate, 
con  cui  qualifica  la  lettera  scrittagli  dal  fratello  Quinto  : 
Aristophaneo  modo  valde  meìiercide  et  suavem  et  gravem. 
Senza  citare  Aristofane,  egli  determina  altrove  {De  0^\,I, 
29)  assai    esplicitamente    il    carattere    delT  antica   comedia, 


(1)  Ved.  ZiEGELER,  De  Luciano  poetariim  indice  et  imitatore,  Got- 
tingae,   1872. 


-  166  — 
quando  dice  che  quel  geniis  ìocandi  è  elegans ,    itrbanum, 
ingeniosum,  facetiim. 

Un  epigramma  di  Diodoro  assegna  al  poeta  il  titolo  di 
divino,  e  lo  celebra  come  il  maggiore  rappresentante  della 
antica  comedia  (i): 

GeToq 'ApKJTOcpdveug  ùtt'  i\xo\  véku?"  ei  liva  TreuBri 
KUJ|LiiKÒv ,  àpxairi<;  \xva.\xa  xopocTraairiq. 

Naturalmente,  se  un  epigramma  non  si  può  prendere  per 
un  formale  giudizio,  possiamo  però  riconoscervi  l'espres- 
sione d'un  determinato  concetto. 

Dionigi  d' Alicarnasso ,  parlando  della  comedia  antica 
[Ars  Ret.y  XI)  cita  insieme  ad  Aristofane  Gratino  ed  Eu- 
poli,  e  ne  riconosce  sotto  la  forma  comica  e  faceta,  la  se- 
rietà e  l'efficacia:  «r]  òè  Kuujuujòia  òri  rroXiTeuetai  èv  ToTq  òpd- 
l-iacri  Ktti  qpiXoaocpeT,  f]  irepi  tòv  KpaiTvov  Kaì  'Apiaiocpàvriv  Kaì 
EuTToXiv  ,  TI  bei  Kttì  Xéfeiv  ;  r\  yàp  xoi  Kuu|aiuòia  aùif) ,  tò  yc- 
XoTov  TTpocTTriaajuévìT,  qpiXoaocpeT  ».  Nella  Censura  rcterum 
scriptorum,  là  ove  giudica  dei  tragici ,  di  Eschilo,  di  So- 
focle e  di  Euripide,  si  può  dire,  che  sfrutta  la  critica  ari- 
stofanesca delle  Rane:  sebbene  già  vi  si  riveli  il  nuovo  in- 
dirizzo dei  tempi,  e  il  predominio  del  gusto,  che  preferiva 
Euripide  fra  i  tragici,  e  Menandro  fra  i  comici  (2).  Ivi 
parla  pure  dei  comici  in  generale,  ma  con  molta  determi- 
natezza di  espressione:   «  eìai  ye  kqi  xoxc,  vormaai  KaBapoì 

Kaì  aaqpeic;  Kaì  ppaxeTi;  xaì  )LieYaXoTTpeTTei(S  Kaì  òeivoì  Kaì  iìGikoì  ». 

Antipatro  di  Tessalonica,  come  Diodoro,  celebra  in  un  epi- 
gramma, ma  con  maggior  enfasi,  l'opera  aristofanesca,  che 
esso  pure    chiama    divina  (GeToq  7TÓvo<g):  e  nella  cui   lettura 


(1)  Anth.  Fa/.,  VII,  38. 

(2)  Ved.  Top.  cit.  sotto  questi  nomi:  Aeschylus,  Sophocles  et  Eu- 
ripides. 


—  167  — 
gli  par  di  sentire  ancor  viva  la  voce  fiera    del    poeta  ,  ab- 
bellita dalle  grazie  (  i  )  : 

BipXoi  'ApicrTOcpàv€u<;,  OeToi;  ttóvoi;,  alaiv  'Axapveùq 
Kiaaòc,  erri  xXoepf)v  txovXvc,  è'aeiae  KÓ|uriv. 

nviò' oaov  Aióvu(Jov  è'xei  cre\i<g,  ola  òè  |u09oi 
i^XeOaiv,  cpo^epoiv  TTXri9ó)uevoi  x^Pifoiv. 

tu  Kttì  9u)aòv  apicTTc,  Kaì  fi9eaiv  'EWàòoc,  T(Ja 
KUJiLiiKè.  Kaì  cTTÙHaq  àEia  Kaì  jeWuaq. 

Notevole  Tallusione  delle  grazie,  di  cui  l'epigramma  plato- 
nico rappresentava  Timagine  personificata,  e  che  è  la  qua- 
lità caratteristica  avvertita  concordemente  dagli  ammiratori 
del  nostro  comico. 

Due  versi  di  Persio,  nei  quali  egli  ricorda  i  poeti  antesi- 
gnani deir  antica  comedia,  possono  dimostrarci  che  anche 
il  satirico  romano  avvertiva  la  profonda  serietà  delT  opera 
di  Aristofane  ,  il  cui  nome  accompagna  della  qualifica  di 
praegrandis  distinguendolo  cosi  a  preferenza  delF  audace 
Gratino  e  dello  sdegnoso  Eupoli  (2). 

'( Audaci  quicumque  afflate  Gratino, 

Iratum  Eupolidem  praegrandi  cum  sene  palles  ». 

Delle  tre  menzioni  che  riscontriamo  in  Quintiliano,  una 
sola  ci  dà  un  esplicito  giudizio  della  comedia  aristofanesca, 
sebbene  subordinato  al  criterio  con  cui  nel  decimo  libro 
delle  Institityioni  giudica  delle  opere  antiche  :  consideran- 
dole cioè  sotto  il  rapporto  della  maggiore  o  minore  loro 
opportunità  a  formare  il  vero  oratore.  Ad  ogni  modo,  quello 


l'i)  Anth.  Pai.,  IX,  186. 
(2)  Sat.,  1. 


—  168  — 
che  egli  dice  della  comedia  antica,  è  giusto,  e  concorda  col 
sentimento  di  Cicerone  :  «  Antiqua  comoedia  cum  sinceram 
«  illam  sermonis  Attici  gratiam  prope  sola  retinet,  tum  fa- 
ti cundissimae  libertatis,  etsi  est  insectandis  vitiis  praecipua, 
«  plurimum  tamen  virium  etiam  in  ceteris  partibus  habet. 
«  Nam  et  grandis  et  elegans  et  venusta,  et  nescio  an  ulla... 
«  aut  similior  sit  oratoribus  aut  ad  oratores  faciendos  aptior. 
((  Plures  eius  auctores-,  Aristophanes  tamen  et  Eupolis  Cra- 
"  tinusque  praecipui  (i)  ». 

Altrimenti  dell'  opera  aristofanesca  ebbe  a  sentenziare 
Plutarco,  il  quale  del  resto  dimostra  di  conoscere  diffusa- 
mente le  produzioni  della  comedia  antica.  In  generale,  egli 
non  vede  di  buon  occhio  questi  poeti,  appunto  perchè  non 
si  sa  far  ragione  del  carattere  e  della  natura  di  essi  (2).  Egli 
ci  può  esser  testimonio  del  come  a  quel  tempo  già  si  fra- 
intendessero o  mal  si  apprezzassero  le  tradizioni  greche, 
delle  quali  sfugge  il  vero  senso.  Egli  giudica  Aristofane  da 
un  falso  punto  di  vista-,  non  tien  conto  delle  ragioni  sto- 
riche, e  lo  raffronta  con  Menandro,  che  dall'età  sua  era  te- 
nuto per  il  più  gran  poeta  comico.  Posto  in  tal  modo  ,  il 
confronto  non  reggeva,  e  il  risultato  non  poteva  essere  che 
erroneo  ed  ingiusto.  Ma  alla  lor  volta  questi  attacchi  Plu- 
tarchiani  ci  attestano  vieppiiì  la  rinomanza  di  Aristofane  , 
il  quale  si  poteva  dunque  in  certo  modo  creder  degno  di 
esser  paragonato  a  Menandro.  La  critica  di  Plutarco  ci  è 
conservata  soltanto  in  un'epitome,  ma  pure  giova  esami- 
minarla  brevemente  (3).  Essa  riguarda  quattro    capi   prin- 


(1)  List.  Orai  ,  X,   i,  65. 

(2)  Tracce  dell'animosità  di  Plutarco  contro  i  comici  si  possono 
vedere:  Vit.  Perici.,  e.  i3;  Themist..  e.  19;  De  Herod.  malign., 
e.  6;  De  Gloria  Ath.,  e.  G. 

(3)  De  Comparatione  Aristoph.  et  Menandri  epitome  (Opere  morali, 
II,   1039), 


—  169  — 
cipali.  Primo,  Tespressione  di  Aristofane  è  inetta  (cpoptiKii), 
scurrile  (GujueXiKri)  e  rustica  (pdvauao(;) -,  piena  di  antitesi  e 
di  omoioteleuti  e  di  epiteti-  priva  di  un  carattere  peculiare 
(1,  2-3).  Secondo:  il  suo  dialogo  è  sconveniente,  e  non  ac- 
comodato ai  singoli  caratteri,  che  il  poeta  vuol  rappresen- 
tare (I,  6).  Terzo  :  in  ragione  di  questi  difetti  il  poeta  non 
potè  piacere  né  al  popolo,  né  essere  tollerato  dai  saggi. 
Giacché  la  sua  poesia,  a  mo^  d'un^etéra  invecchiata  e  senza 
vigore,  che  poi  vuol  far  da  matrona,  non  riesce  per  la  sua 
insolenza  accetta  ai  più,  ed  é  abbominata  dagli  uomini  gravi 
per  la  sua  impudicizia  e  malizia  (III,  3).  Infine:  mentre  i 
sali  comici  di  Menandro  sono  vivaci  e  graziosi  e  quasi  nati 
dallo  stesso  mare,  da  cui  sorse  Venere*,  quelli  di  Aristo- 
fane sono  amari  ed  aspri,  acri,  mordenti,  esulceranti  (IV, 
2).  Poiché  l'astuzia  ei  non  la  ritrae  urbana,  ma  maliziosa 
(tò...  iravoOpYov,  où  ttoXitikòv,  àXXà  KaKÓnOei;);  la  rustichezza, 
non  semplice,  ma  stolta  (tò  ctTpoiKOv,  oùk  àqpe\è(;,  aWà  nXi- 
Giov)  ;  gli  scherzi  non  suscitano  il  riso ,  ma  son  degni  di 
essere  derisi  (tò  y^^oiov,  oò  Traifviujòe?,  àXXà  KaTaTéXacrrov)', 
infine  ,  la  passione  amorosa  non  é  dipinta  nella  sua  gaia 
ilarità,  ma  nella  sua  libidinosa  intemperanza  (tò  èpujTiKÒv, 
oùx  iXapòv,  àXX'  àKÓXacTTOv).  Talché  conclude:  oùòevl...  ó  av- 
BpujTTO?  èoiKe  juETpiLu  TÌiv  TTOiiiaiv  Tefpa^évai,  dXXà  Tà  |uèv  aì- 
axpà  Ktti  àaeX-fiì  Toi^  àKoXacTTOKg,  Tà  pxdcrqpriiua  òè  Kai  TiiKpà 
ToT(S  paaKdvoig  Km  KaKoiiGecTiv  (IV,  4). 

È  curiosa  la  difesa  che  del  giudizio  plutarchiano  fece 
nel  secolo  XVI  Nicodemo  Frischlino  (i).  Egli  ne  ribatte 
capo  per  capo  le  accuse  ,  con  mólta  indipendenza  di  giu- 
dizio e  con  un  tono  giocondo  e  quasi  scherzoso.  Rico- 
nosce, che  nel   linguaggio  aristofanesco   c'è  l'elemento  scur- 


(i)  Defensio  Arìstophanis  cantra   Plutarchi   criminationes  (nell'ediz. 
di  Aristofane,   Francf.  ad  M.,   i586/. 


—  170  - 
rile  ed  osceno  -,  ma  lo  trova  opportuno  e  conveniente  al 
carattere  del  personaggio  che  il  poeta  vuol  rappresentare. 
E  s'adatta  del  pari  all'indole  dell'antica  comedia,  la  quale 
tende  a  destare  ilarità  e  piacevolezza.  Di  più  osserva,  che 
quello  stesso  Menandro  tanto  glorificato  dal  suo  ammira- 
tore, non  va  esente  dalla  taccia  di  poeta  scurrile,  come  lo 
prova  la  sentenza  di  Plinio ,  che  lo  chiama  omnis  Lii- 
xuriae  interpretem.  Plutarco  avrebbe  notato  che  la  di- 
zione aristofanesca  è  insieme  tragica,  comica,  fastosa,  pe- 
destre, oscura,  volgare,  verbosa  ed  inetta.  11  Frischlino  non 
si  spaventa  di  questa  atroce  conclusione  {atrocem  in  illuni 
clausidam),  né  la  confuta  seriamente,  ma  soggiunge  :  Bona 
pe?'ba,  Plutarche;  nani  talem  esse  dictionetn  Aristophanis 
nunqiiani  probabis.  Plutarco  aveva  rinfacciato  ad  Aristo- 
fane la  sconvenienza  dei  caratteri  da  lui  attribuiti  ai  varii 
personaggi-,  notando,  doversi  il  re  rappresentare  fastoso  e 
superbo;  l'oratore  facondo-,  la  donna,  semplice-,  l'uomo  vol- 
gare, umile;  il  mercante,  protervo  ed  insolente.  Ma  il  Fri- 
schlino confuta  r  assolutezza  eccessiva  della  sentenza  con 
queste  parole:  Prinium  prò  Aristophane  respondeo,  non 
omnibus  regibus  affingendum  in  comoedia  fastuni ,  cum 
multi  sunt  mansueti,  clementes ;  sed  illis  tantum  qui  tales 

sunt Deinde    simplicitatem   in  tnulierum    orationibus 

recte  neglcxit  Aristophanes,  cum  foeminae  sua  natura  non 
sint  simplices,  sed  duplices,  callidae  et  versutissimae.  Poi 
gli  contende,  che  Aristofane  non  godesse  favore  al  suo 
tempo.  Anche  il  figurare  carattere  volgari  era  l'intento  del 
poeta  stesso,  il  quale  li  ritraeva  secondo  la  realtà  che  avea 
dinanzi.  Aristophanes  veras  ^  non  Jlctas  {sicut  Menander) 
personas  in  scenam  producebat . 

Una  migliore  confutazione  della  critica  di  Plutarco  si  po- 
trebbe facilmente  fare  coi  veri  argomenti  tratti  dalla  diver- 
sità di  tempi,  di  tradizioni,  di  criterii.  Ma  non  mette  conto 


—  171  - 

l'intrattenervisi  maggiormente.  N.otiamo  piuttosto,  come  di 
qui  incominci  a  formarsi  nella  tradizione  un  sinistro  con- 
cetto sulla  natura  e  sulP  operato  del  nostro  poeta.  Dione 
Crisostomo  già  non  vede  in  questi  comici  antichi ,  che 
vili  adulatori  del  popolo,  costretti  a  nascondere  i  loro  detti 
mordaci  sotto  forme  ridicole;  a  quel  modo,  che  le  balie 
aspergono  di  miele  la  tazza  ,  per  far  tranguggiare  1'  amara 
bevanda  ai  fanciulli  (i).  Di  tal  guisa  essi  riescono  a  re- 
care più  danno  che  utile  alla  città  :  loiTapoOv  è'pXaTTTOv 
OÙX  riTTOv  TiTTep  ÙjqpéXouv,  àYepuJxicc?  Kai  aKuu^iudTUJV  Kai  puj|uo- 
Xoxia?  àvamiaTTXdvTeq  xfiv  ttóXiv  (2).  Anch^egli  ha  delle  sim- 
patie per  Menandro,  la  cui  grazia  e  la  cui  pittura  univer- 
sale dei  costumi  dice  assai  più  degna  della  terribilità  dei 
comici  antichi  (3).  Eliano  riuscirà  ad  infamare  il  nome 
di  Aristofane,  divulgando  l'opinione,  che  egli  sia  stato  un 
prezzolato  di  Anito  e  di  Melito  (4).  Lo  chiama  puujuoXóxov 
ctvòpa  Ktti  feJ^oTov  òvia  Kai  eivai  cTTreùbovra:  e  si  persuade, 
che  ricevesse  una  mercede  per  T  empia  accusa ,  aùiòv  òè 
Trévriia  d)Lia  Kai  KaTÓpaiov  òvia. 

Presso  gli  scrittori  latini  prevale  un  miglior  concetto. 
Plinio  il  giovane  ci  dà  notizia  d'un  poeta,  amico  suo,  Ver- 
gilio  Romano,  imitatore  dell'antica  comedia  attica:  e  indi- 
rettamente ci  mostra  come  egli  ne  apprezzasse  la  forza,  la 
grandezza,  il  lepore.  «  Atque  adeo  nuper  audivi  Vergilium 
«  Romanum  paucis  legentem  comoediam  ad  exemplar  ve- 
«  teris    comoediae    scriptam  tam  bene,  ut  esset  quandoque 

«  possit  exemplar Non  illi  vis,  non  granditas,  non  su- 

«  blimitas,  non   amaritudo,  non  dulcedo,  non  lepos  defuit  » 


(i)  Orat..  XXXlll,  9. 

(2)  Loc.   cit. 

(3)  Orat.,  XVIIl,  35. 

(4)  Var.  Hist.,  II,   Ti. 


—  172  - 

Aulo  Gellio  s'accorda  pienamente  con  Cicerone,  e  in  due 
passi  segnala  la  vena  faceta  del  comico  ateniese,  chiaman- 
dolo/(3!ce/m/m«5  poeta  (l,  i5),  e  facetissimus  comicorinn 
(XllI,  25). 

Fin  in  Luciano,  ammiratore  non  dubbio  della  poesia  ari- 
stofanesca, si  trova  traccia  di  quella  tradizione  che  aveva 
messo  in  mala  luce  l'operato  di  lui,  là  ove  chiama  Eupoli 
ed  Aristofane  òeivoù<g  avbpac;  èTTiK€pTO|ufìaai  xà  creiuvà  Kaì 
xXeudcTai  xà  òp9LÌj(;  exovxa  (i).  Ma  ne  differisce  essenzial- 
mente nel  giudicare  il  valore  intrinseco  di  quelle  comedie, 
le  cui  fantasie  dovevano  così  favorevolmente  acconciarsi 
alla  sua  indole  vivace  ed  immaginosa.  In  quel  fanta- 
stico viaggio  attraverso  ad  ignote  regioni  esso  si  trova  un 
giorno  trasportato  vicino  alle  nubi  :  dove  egli  ed  i  suoi 
compagni  si  meravigliano  di  vedere  la  città  di  Nubicuculia. 
A  quella  vista  si  ricorda  di  Aristofane,  poeta  saggio  e  ve- 
ritiero, di  cui  temerariamente  si  disconoscono  le  veraci  pa- 
role :  àvòpò?  aocpoO  Kaì  àXri6o0q  kui  laàxrjv  ècp'  ole,  eYpaH'^v 

àTTiaxoufiévou  (2).  Veramente  egli  qui  non  parla  in  sua  per- 
sona, né  quelle  parole  sono  scevre  da  un  senso  faceto ,  il 
quale  peraltro  non  ci  pare  infirmi  la  sostanza  del  concetto. 
Ne  l'avere  il  poeta  deriso  Socrate  è  argomento  che  presso 
lui  valga  a  metterlo  in  mala  parte  \  che  anzi  ne  lo  scusa, 
notando  aver  esso  fatto  ciò  nelle  feste  dionisiache,  quando 
lo  scherzo  era  lecito,  e  lo  stesso  dio  della  comedia  si  com- 
piaceva di  ridicole  rappresentazioni  (3).  Gli  Uccelli  ed  il 
Fiuto  sono  le  comedie  che  egli  mostra  di  prediligere  -,  e 
altrove  vedemmo  come  ne  traesse  materia  d'imitazione. 

Se  si  richiamano  qui  i  fuggevoli  giudizi  che   altrove    ac- 


(1)  Bis  Acc.  33.  Cfr.   Verae  Hist..  1,  29. 

(2)  Ver.  hist.,  1,  29. 

(3)  Pise,  25. 


-  173  - 
cennammo,  di  Ateneo,  di  Longino  e  di  Terenziano  Mauro, 
nonché  le  vaghe  espressioni  dei  grammatici,  che  encomiano 
nell'opera  aristofanesca  la  grazia  attica  e  la  purezza  della 
locuzione,  avremo  dinanzi  tutti  i  giudizi  che  la  critica  an- 
tica in  diversi  tempi  e  per  diversi  scrittori  e  sotto  forme 
diverse  portò  sul  comico  ateniese.  A  dir  vero,  non  abbiamo 
una  messe  ricca,  né  in  tutto  buona.  Quei  giudizi  sono  su- 
perficiali, parziah ,  contradditori.  Ci  dicono,  che  Aristofane 
fu  poeta  grave,  facetissimo ,  che  ebbe  rette  intenzioni,  o  fu 
terribile  derisore  d'  ogni  cosa  sacra-,  che  fece  male  a  per- 
seguitare Socrate  ed  Euripide.  Sono  giudizi  regolati  da  vari 
criteri,  che  non  sempre  penetrano  le  intime  ragioni  dell'an- 
tica comedia,  né  sempre  fanno  ragione  dei  tempi,  o  si  sot- 
traggono airinfìuenza  del  gusto  dominante.  Quintiliano  con- 
sidera Aristofane  sotto  un  rapporto  troppo  speciale  e  ri- 
stretto -,  Plutarco  lo  giudica  in  un  raffronto  che  di  per  sé 
non  regge-,  Eliano  si  rivela  animato  da  sentimenti  perso- 
nali in  suo  disfavore.  Chi  lo  comprese  meglio  fu  Luciano; 
e  i  giudizi  piìi  equi  sono  forse  quelli  di  Cicerone  e  di  Plinio. 

Vin.  Esaurita  la  ricerca  delle  fonti  letterarie,  resta  a 
vedere  ciò  che  nel  campo  dei  monumenti  dell'arte  possiamo 
raccogliere  per  la  fama  di  Aristofane.  Tanto  le  opere  pla- 
stiche che  a  lui  fossero  dedicate ,  quanto  quelle  che  da  lui 
avessero  tratto  ispirazione  o  motivo  della  creazione  artistica, 
formano  materia  che  riguarda  da  vicino  il  nostro  argo- 
mento. 

Se  non  che  anche  qui  la  scarsità  dei  nuovi  documenti  ci 
dimostra,  concorde  in  ciò  colla  tradizione  letteraria,  la  sfa- 
vorevole condizione  della  rinomanza  del  nostro  comico.  Né 
vale  il  dire  ,  che  cotesti  sono  argomenti  negativi  -,  poiché, 
come  già  bene  avvertiva  il  Leopardi ,  sebbene  essi  «  siano 
per  lo  più  di  scarso  peso,  ove  si  tratti  di  rinomanza  non  è 


-  174  - 

COSÌ  ».  Mentre  sappiamo,  che  ai  tre  grandi  tragici  ed  ai 
rappresentanti  della  nuova  comedia  furono  con  decreto  pub- 
blico dedicate  statue  nel  teatro  ateniese;  mentre  ancora  am- 
miriamo, salvate  dalle  rovine  del  tempo  e  degli  uomini,  le 
grandiose  effigie  di  Sofocle  e  di  Euripide,  di  Menandro  e 
di  Posidippo;  di  Aristofane  né  abbiamo  notizia  di  monu- 
menti a  lui  consacrati,  né  fino  a  questi  ultimi  anni  si  co- 
nosceva di  lui  ritratto  alcuno.  Che  non  vale  la  pena  di  ri- 
cordare la  gemma  raffigurante  un  uomo  calvo  incoronato 
d'edera  e  con  ape  in  bocca,  nella  quale  arbitrariamente  si 
volle  riconoscere  T  imagine  del  nostro  comico  (i).  Invece 
con  qualche  fondamento  si  credette  di  avere  V  effigie  di  lui 
neir  erma  medicea,  che  nel  plinto  ha  scolpita  in  tre  righe 
riscrizione  : 

APIITOcDANHI 

OlAinniAOY 

A0HNAIOI 

Senonchè,  né  l'epigrafe  parve  autentica  ,  e  la  testa  senza 
dubbio  non  apparteneva  all'erma,  essendovi  evidentemente 
sovrapposta.  Fu  quindi  respinta  dal  Winckelmann  ;  e  tut- 
toché il  Welcker  abbia  poscia  voluto  riconoscerla  per  buona, 
conviene  annoverarla  fra  le  erme  ancora  dubbie.  11  Dut- 
SCHE  (/!;//.  MarmorbildìV.^  Ili,  n°  420)  la  chiama  Erme  des 
sogeniiantcn  Aristoplianes,  senza  punto  accennare  alla  proba- 
bilità di  quella  denominazione.  Anche  nel  museo  Capitolino 
(n°  3())  trovasi  un  busto ,  che  é  falsamente  attribuito  ad 
Aristofane.  Lo  stesso  devesi  dire  dell'erma  di  Villa  Albani 
(n°  85)  ,  nella  quale  il  \\^elcker,  pur   riconoscendo  la  poca 


[i)  Cfr.  Winckelmann  ,  Alte  Denkm.  d.  Kitnst.,  II.  p.  114,  tav.  191. 


-    17o  — 

espressione  del  ritratto ,  volle  trovare  una  rassomiglianza 
generale  ad  Aristofane  (i).  Ma  il  Welcker  stesso  fu  poi  il 
felice  scopritore  di  un'  erma  bicipite  proveniente  dal  Tu- 
sculo,  la  quale  ci  presenta  le  effigie  di  Aristofane  e  di  Me- 
nandro,  congiunti  assieme,  quali  maggiori  rappresentanti  di 
due  diversi  generi  di  poesia  comica.  Egli  stesso  la  pubblicò 
e  la  illustrò  negli  Annali  dell  Instìtuto  archeologico  di 
Roma  (a.  i853,  p.  25o-266,  mon,  V,  tav.  55),  e  nelle  Alte 
Denkmdler  (V,  p.  40-55).  Trovasi  nel  museo  di  Bonna  , 
ed  è  così  descritta  dal  Kekulé  nel  relativo  catalogo  [Das 
Akad.  Kiinstmus.   ■{U  Bonn,  Bonn,   1872)  sotto  il  n°  688: 

«  Erma  di  Aristofane  e  Menandro.  Dono  di  Fr.  G.  Wel- 
«  cker ,  marmo  greco,  alto  0,26  m.,  trovato  a  Tusculo. 
«  Restaurati  sono  ambedue  i  nasi  e  parte  delPerma  « . 

Alla  determinazione  welckeriana  dell'  erma  si  oppose  lo 
Starck  ,  il  quale  prendendo  argomento  dall'  avere  V  artista 
male  ritratta  la  calvizie  di  Aristofane,  e  citando  alcuni  passi 
antichi  riferibili  a  Gratino,  volle  vedere  l'effigie  di  quest'ul- 
timo nel  busto  contrapposto  a  Menandro  (2).  Ma  all'ob- 
biezione dello  Starck  si  rispose  facilmente,  dimostrando, 
come  l'epiteto  di  cpaXaKpó?,  che  Aristofane,  scherzando,  dà 
a  sé  stesso,  non  dovesse  prendersi  in  un  significato  assoluto 
e  proprio,  ma  nel  senso  d'uno,  che  ha  pochi  capelli  sulla 
fronte  ,  e  che  già  incomincia  a  diventar  calvo  (àvacpdXav- 
T0(;  (3).  Se  poi  si  osserva,  che  l'artista  non  si  occupò  molto 
di  riprodurre  accuratamente  i  capelli  di  quelle  due  teste,  e 
forse  nell'una  volle  anzi  coprire  il  difetto  naturale,  si  vedrà 
quanto  ancor  più  scemi  il  peso  dell'obbiezione  di  quell'  ar- 


(i)  Ved.  Morcelli-Fea-Visconti,  La  Villa  Albani  descritta,  Roma, 
1869,  n»  85  (incognito). 

(2)  Arch'àol.  Zeitung,  iSSg,  p.  87. 

(3)  Ved.  la  risposta  stessa   del   Welcker,  Arch'àol.  Zeitung,  1860, 
p.   IO  sgg.;  Alt.  Denkm.,  V,  p.  55  sgg. 


-  176  — 
cheologo.  Ma  poi  si  domanda  il  Friedrichs  :  con  chi  meglio 
poteva  Menandro,  principe  della  nuova  comedia,  esser  con- 
giunto che  col  rappresentante  della  comedia  antica?  (i).  Le 
ricerche  che  noi  abbiamo  tentato  nella  tradizione  letteraria, 
ci  hanno  chiaramente  dimostrato  che  fu  Aristofane  quello 
che  r  antichità  concorde  denominò  Tó  KUJ|iiiKÓq  per  eccel- 
lenza. 

L'espressione  del  nostro  busto  ben  si  addice  all'aristocra- 
tico oppositore  della  politica  ateniese.  C'è  una  certa  fierezza 
temperata,  addolcita;  ci  si  rivela  l'ingegno  grande,  l'osser- 
vatore serio  e  profondo,  e  in  tutta  la  fisonomia,  come  no- 
tava già  il  Welcker ,  domina  un  tratto  di  dolore  morale, 
pieno  di  presentimenti.  Non  dobbiamo  già  credere  d'avere 
dinanzi  a  noi  i  lineamenti  reali  del  comico  ateniese  ,  sib- 
bene  una  concezione  ideale ,  quale  si  formò  l' artista  nella 
lettura  e  nello  studio  delle  sue  opere.  La  piccola  tenia  che 
ha  sul  capo  non  s'  ha  a  ritenere  distintivo  di  superiorità, 
come  vogliono  i  più,  ma,  come  dichiarava  il  Friederichs, 
un  semplice  ornamento.  Quel  concetto  infatti  non  avrebbe 
fondamento  di  verità  ;  i  due  poeti  appartengono  a  diversi 
generi  di  poesia,  non  potevano  essere  oggetto  di  raffronto, 
né,  qualora  lo  fossero  stato,  si  sarebbe  aggiudicata  ad  Ari- 
stofane la  preminenza. 

Dopo  la  scoperta  dei  Welcker,  il  Braun  credè  di  vedere 
un  altro  ritratto  di  Asistofane  in  un'erma  bicipite  del  Museo 
di  Napoli  ,  nella  quale,  secondo  lui,  è  meglio  significato  il 
carattere  aristocratico  e  sdegnoso  del  sommo  poeta.  Era  già 
pubblicato  nel  Museo  Borbonico  (voi.  VI,  tav.  43);  ed  il 
Pinati  che  la  descrisse,  la  dichiarò  incognita,  né  avventurò 
congettura  alcuna.  Notava  però  che  le  teste  erano  addossate, 


[i]  Berlins  antike  Bildìverke,  1,  n"  Sog. 


—  177  — 
essendo  sensibilissima  la  connessura.  E  singolare  ,  che  il 
Braun,  dopo  la  scoperta  welckeriana,  abbia  potuto  ricono- 
scere in  questi  busti  i  ritratti  di  Aristofane  e  di  Menandro, 
e  come  tali  pubblicarli  negli  Annali  dell' Institiito  (a.  1854, 
con  tavola).  Trova  che  V  effigie  aristofanesca  è  oltre  ogni 
dire  nobile  e  grandiosa,  e  Tespressione  davvero  imponente. 
Ma,  per  noi,  manca  ogni  tratto  di  somiglianza  coi  ritratti 
che  ora  conosciamo  dei  due  poeti,  e  nella  pretesa  imagine 
aristofanesca  è  facile  riconoscervi  una  riproduzione  delle 
belle  teste  tucididee  (i).  E  dunque  questo  monumento  da 
porsi  nel  novero  di  quelli  che  sono  falsamente  ascritti  al 
comico  ateniese. 

Dopo  la  trattazione  deiriconografia,  noi  passiamo  ad  esa- 
minare quei  monumenti  che  si  possono  credere  ispirati  dai 
drammi  di  Aristofane.  La  difficoltà  di  determinare  con  pre- 
cisione il  riscontro  fra  una  rappresentazione  figurata  ed  una 
data  scena  di  comedia,  può  spiegare  lo  scarso  risultato  che 
in  questo  campo  di  ricerche  abbiamo  potuto  ottenere.  Noi 
possediamo  vasi  e  terrecotte  con  comiche  rappresentazioni; 
ma  Tascriverne  il  motivo  ad  un  poeta  più  che  ad  un  altro, 
o  il  riferirle  ad  una  determinata  scena  della  comedia  an- 
tica, neir  immensa  perdita  di  quelle  opere,  è  impresa  non 
meno  arrischiata  che  pericolosa.  Abbiamo,  ad  esempio,  nel 
Museo  di  Berlino  (Armadio  XIX,  n°  ig5o)  un  cratere  ru- 
vese,  nel  cui  dipinto  il  Panofka  vide  una  scena  della  Pu- 
tine  di  Gratino-,  mentre  al  Wieseler  fa  venire  in  mente  la 
scena  di  Filocleone  e  la  venditrice  di  pane  nelle  Vespe  di 
Aristofane,  o  quella  dell'  ostessa  nelle  Rane  (2).   Lo  stesso 


(i)  Ved.  MiCHAEUs,  Die  Bild.  d.    Thiikydides,  Strassburg,  1877. 
(2)  Panofka,  Gherard's  Denkm.  u.  Forsch.,  1849,  P-  -^4'  ^^^-  I^j  '• 
Wieseler,  Mon.  Scenici  [Anìi.  deirinst.,  iS5g,  p.  38,  tav.  d'agg.  A-B, 

n'^  5). 

Tiii'ista  iii  filologia  ecc.,  X.  12 


-  178  - 
Panofka  riscontra  una  terracotta  dello  stesso  museo  (Armadio 
XVII,  B,  323)  e  proveniente  da  Vulci,  col  Cleone  dei  Ca- 
valietti (riproducendo  quella  maschera  un  KuvoKéqpaXoq)  -,  — 
mentre  per  noi  altro  non  è  che  un  attore,  nel  suo  costume 
comico  (i).  In  un  altro  vaso,  di  Parigi,  è  raffigurato  un 
attore  in  atto  di  studiare  la  parte  d'Ercole  dinanzi  ad  una 
statua  di  quel  Dio.  Porta  T iscrizione  osca  fllTWfì^  (Santia) 
e  il  Mùller  lo  crede  senz'  altro  appartenere  alle  Rajie  ari- 
stofanesche (2).  Ma  il  solo  monumento  che  con  qualche 
certezza  si  possa  qui  allegare,  è  il  vaso  berlinese,  a  figure 
gialle  su  fondo  nero  (Armadio  XIX,  n°  1949)  in  cui  si  vede 
riprodotta  la  prima  scena  delle  Rane.  Vi  è  Dioniso,  seguito 
dal  servo  Zantia  a  cavallo  di  un  asino,  nudo  e  portante  in 
spalla  le  aKeOri  {Ran.,y.  i3).  Il  dio  è  in  atto  di  bussare 
KeviaupiKujq  alla  porta  della  casa  d'Ercole,  da  cui  desidera  in- 
formazioni sul  modo  di  scendere  all'Averno  in  cerca  d'Eu- 
ripide. Pare  che  stia  gridando: 

Ttaiòiov,  Trai,   njni,  irai  (v.  37). 

intanto  che  la  pelle  leonina  (Xeovifi)  per  l'impeto  del  battere 
gli  è  caduta  di  dosso.  Il  vaso  proviene  dalla  Magna  Grecia, 
ed  è  assai  importante.  Lo  illustrò  da  prima  il  Panofka  (3), 
poi  il  Wieseler  (4).  Che  nel  rovescio  di  esso  sia  rappresen- 
tato Filonide  ed  Aristofane,  come  crede  il  Panofka,  o  che 
vi  si  abbia  a  vedere  un'  altra  scena  delle  Raìie  ,  le  figure 
cioè  di  Pluto  e  di  Eschilo  nella  casa  infernale,  come  opi- 
nerebbe il  Wieseler,  noi  non    osiamo  di  asserire.   E  nem- 


(i)  Panofka,  Arch.  Zeit.,  1854,   p.  249,  tav.   I^XIX,  3,  4  (Komiker 
und  Komodienscenen). 

(2)  MiJLLER,  GÓtting.  An:ieig.,  i835,  11°  176. 

(3)  Panofka,  Glierard's  Denkm.  u.  Forsch.,  1849,  P-  '^j  t^^-  ^^^'  ■■ 
{4)  Wieseler,  Denkm.  d.  Buhnenw..  p.   1 10  sgg.,  tav.  A,  25. 


—  179  - 
meno  consentiamo  col  Welcker  nel  significalo  che  egli  pare 
vorrebbe  annettere  al  fatto  della  rappresentazione  di  una 
scena  di  Aristofane  su  un  vaso,  di  provenienza  non  greca, 
ma  italica.  E  davvero  -,  non  gli  può  non  parer  strano  il 
fatto,  che  n'indurrebbe:  che  cioè  in  un  dato  periodo  le  co- 
medie  del  nostro  comico  fossero  così  lette  e  diffuse  in  Italia 
da  offrire  argomenti  alle  artistiche  creazioni  dei  pittori  o 
vasellai.  L/esempio  è  unico  ed  isolato,  e  per  noi  ci  mostra 
soltanto,  come  un  artista  da  una  riminiscenza  della  lettura 
dei  drammi  aristofaneschi  traesse  motivo  di  una  rappresen- 
tazione vascolare.  Veggasi,  come  riprodusse  alquanto  libe- 
ramente r  originale,  e  quanto  poco  carattere  comico  seppe 
dare  alle  sue  figure. 

Lo  studio  di  questi  monumenti  figurati  non  ci  conduce  a 
conclusioni  diverse  da  quelle  ottenute  nell'esame  delle  testi- 
monianze storiche  e  letterarie.  Si  può  anzi  dire  che  con- 
ferma le  deduzioni  a  cui  ci  condussero  quelle  ricerche,  at- 
testandoci anch'esso  e  la  preminenza  di  Aristofane  su  gli 
altri  comici  della  comedia  antica  e  la  poca  diffusione  della 
sua  fama  nella  posterità. 

IX.  Tale,  quale  tentammo  descriverla,  è  la  varia  fortuna 
del  nome  di  Aristofane  durante  il  lungo  periodo  della  storia 
antica.  Il  supremo  grado  della  rinomanza  fu  raggiunto  nel- 
l'età contemporanea,  vivo  ancora  il  poeta,  quando  ad  am- 
mirarlo e  ad  applaudirlo  sulla  scena  accorrevano  insieme 
agli  Ateniesi  i  forestieri  delle  altre  parti  della  Grecia.  Le- 
gata intimamente  a  quel  tempo,  la  sua  memoria  si  trasmette 
bensì  nella  tradizione  letteraria,  ma  senza  diffondersi  o  svol- 
gersi, senza  abbellirsi  dei  vivaci  colori  della  leggenda  po- 
polare. Egli  rimane  là  sul  limite  che  divide  la  grande  let- 
teratura del  periodo  florido  della  Grecia;  ultimo  grande 
poeta,  perfezionatore  del  genere  comico  antico,  mentre  già 


—  180  - 
schiude  la  via  alla  forma  nuova  del  dramma.  Raffigurato 
dalla,  satira  contemporanea  come  un  cavillosetto  ed  un  pe- 
dante, è  da  Platone  ritratto  nella  sua  indole  vivace  e  gio- 
viale; mentre  l'età  successiva  se  lo  immagina  per  lo  più 
come  un  burbero  e  licenzioso  partigiano,  o  come  un  buf- 
fone scurrile.  Al  suo  nome  però  e  alle  sue  opere  resta  le- 
gata la  rinomanza  e  Tesempio  dell'antica  comedia.  La  na- 
tura e  il  carattere  peculiare  della  quale  non  gli  permette  di 
rivivere  sotto  le  forme  delTimitazione,  e  di  ricomparire  così 
sul  teatro  latino.  Retori  e  grammatici,  che  della  sua  attica 
e  pura  espressione  ne  faccian  tesoro,  ne  trova  in  ogni  tempo 
e  in  ogni  paese.  Caduto  il  mondo  pagano  ,  la  sua  opera 
subisce  i  danni  del  tempo  e  degli  uomini.  Va  perduto  il 
maggior  numero  delle  sue  comedie  :  delle  poche  salvate,  le 
politiche  non  si  leggono  molto,  e  intorno  a  tre  si  ristringe 
e  si  raccoglie  Tammirazione  concorde  della  tarda  posterità. 
Il  periodo  medioevale  è  disastroso  per  lui,  come  in  generale 
per  le  tradizioni  dell'antica  civiltà.  E  singolare  però  il  fa- 
vore, che  egli  incontra  già  presso  i  padri  della  Chiesa.  Una 
leggenda  gli  dà  per  assiduo  lettore  S.  Giovanni  Crisostomo, 
il  quale  di  notte  avrebbe  avuto  sotto  il  capezzale  le  opere 
aristofanesche,  dal  cui  studio  gli  sarebbe  venuto  l'eleganza 
attica  delia  parola,  e  l'invettiva  acre  e  fiera  contro  il  sesso 
muliebre.  I  grammatici  bizantini  raccolgono  le  sparse  e  varie 
notizie  sulla  biografia  del  poeta,  insieme  alle  reliquie  degli 
studi  che  r  età  erudita  alessandrina  gli  aveva  consacrato  ; 
noti,  e  appena  degni  d'essere  menzionati,  Giovanni  Tzetze, 
Toma  Magistro,  e  Demetrio  Triclinio,  Quando  col  Rina- 
scimento si  ridesta  negli  umanisti  l'amore  e  la  ricerca  delle 
opere  antiche,  le  salvate  comedie  di  Aristofane  sono  studiate 
e  trascritte.  Il  numero  e  1'  estensione  dei  manoscritti  è  in 
rapporto  dell'interesse  che  si  trova  in  quella  lettura  ;  abbiamo 
molti  codici  con  alcune  comedie,  pochi  che  le  comprendano 


-  181  - 
tutte.  Sono  fra  le  prime  opere  che  l'invenzione  della  stampa 
divulga-,  e  poiché  sono  molto  difficili  a  intendersi,  sono  la 
prima  opera  greca  pubblicata  con  un  ampio  corredo  di  note.  Le 
Tesmoforiaiuse  e  la  Lisistrata  non  compariscono  in  quelle 
prime  edizioni-,  e  sono  stampate,  a  parte,  per  la  prima  volta 
nel  I  5 1 5  da  Bernardo  Giunta.  Anche  nel  secolo  che  segue 
egli  è  male  studiato  e  male  inteso  :,  si  applica  a  quei  drammi 
la  divisione  in  atti  e  scene,  propria  del  teatro  latino,  lo  si 
purga  dalle  oscenità,  e  lo  si  interpreta  colT  imitazione  di 
Plauto  e  di  Terenzio.  La  tradizione  letteraria  antica  am- 
mirava più  particolarmente  i  pregi  della  forma  aristofanesca-, 
i  moderni  invece  hanno  utilizzato  la  vis  comica^  le  fan- 
tasie ,  la  satira  viva  e  mordace.  Imitazioni  e  reminiscenze 
della  comedia  o  dell'arte  di  Aristofane  riscontriamo  nei  sa- 
tirici  francesi ,  in    Rabelais  ,  La  Bruyère  ,  Balzac  ,  poi  in 

Erckmann-Chatrian,  in  Goethe Alla  critica  moderna  si 

deve  il  retto  apprezzamento  del  poeta  e  della  sua  opera  -, 
studiato  e  giudicato  coi  criteri  speciali  che  si  richieggono 
per  le  produzioni  di  quella  civiltà  e  di  quel  tempo.  Molto 
si  deve  all'Hegel  per  ciò  che  riguarda  il  metodo  di  questa 
ricerca  storica.  È  notevole,  che  anche  nella  critica  moderna 
si  abbia  traccia  di  quella  discrepanza  di  giudizi  che  tro- 
vammo nella  tradizione  antica.  Bisogna  dire  ,  che  nessun 
poeta  antico  è  così  difficile  a  giudicarsi,  non  tanto  per  ciò 
che  riguarda  il  suo  valore  poetico ,  quanto  per  la  sua  im- 
portanza storica  e  sociale.  Il  Voltaire  è,  fra  i  critici  dissi- 
denti e  sfavorevoli  ad  Aristofane,  il  più  severo-,  egli  ne  di- 
sconosce siffattamente  ogni  merito  artistico,  da  sentenziare 
non  esser  egli  né  poeta  né  comico.  Il  giudizio  del  Grote  è 
più  moderato,  restringendosi  a  notare  nell'opera  aristofa- 
nesca la  mancanza  di  ogni  serio  e  verace  proposito.  In  questa 
critica  negativa  FHartung  ha  toccato  il  limite  estremo-,  non 
contento  di  aver  biasimato  il  poeta,  ha  calunniato  T  uomo 


-  182  - 
ed  il  cittadino;  taciandolo  di  adulatore  e  di  mentitore,  e 
chiamandolo  omnibus  sui  saeculi  vitiis  inquinatissimus. 
In  generale  però  la  critica  tedesca,  come  quella  che  di  Ari- 
stofane ha  fatto  uno  studio  più  ampio,  profondo  ed  accurato, 
è  riuscita  a  darne  un  giudizio  equo  e  sicuro.  Lo  ha  quali- 
ficato grande  poeta  ,  osservatore  acuto  e  geniale ,  sebbene 
privo  di  elevatezza  e  di  senso  filosofico.  Essa  ha  ammirato 
quella  comedia  come  la  più  viva  e  fedele  imagine  del  suo 
tempo  -,  ed  era  giusto  ,  che  questa  lode  ,  la  quale  ha  in  sé 
la  ragione  della  condizione  sfavorevole  di  Aristofane  nella 
tradizione  letteraria,  fosse  poi  adoperata  dai  filologi  moderni 
per  far  giustizia  al  suo  nome  e  per  attestare  i  suoi  meriti 
presso  la  civiltà  successiva. 

Berlino,  19  marzo  1881. 

Giovanni  Setti. 


"BI  ELIOGRAFI  A 


Giacomo  De  Franceschi,  Lo  Stato  degli  Ateniesi,  studio  e  versione. 

Verona  1881. 


Nella  Cronaca  liceale  dell'anno  scolastico  1879-80  il  prof.  De  Fran- 
ceschi pubblicò  questo  lavoretto  che,  come  dice  il  titolo,  si  divide  in 
due  parti,  cioè  a  dire  uno  studio,  a  modo  di  prefazione,  in  cui  si 
discutono  varie  questioni  toccanti  il  libretto  dello  Stato  degli  Ateniesi, 
che  va  sotto  il  nome  di  Senofonte,  e  la   versione  del  libretto  stesso. 

Lo  studio  o  prefazione  si  divide  in  quattro  capitoli.  Condizione 
attuale  del  libro.  Tempo  della  sua  composizione.  —  Della  sua  au- 
tenticità. —  Della  sua  forma  primitiva. 


—  183  — 

L'  opuscolo  senofonteo  abbraccia  tre  capitoli  :  il  primo  ed  il  se- 
condo si  suddividono  in  venti  paragrafi  ciascuno,  e  in  tredici  il  terzo. 
Se  non  che  questa,  nella  condizione  in  cui  il  libro  è  a  noi  pervenuto, 
non  è  che  una  divisione  materiale,  poiché  in  fatto  non  vi  si  riscontra 
nessun  ordine;  si  passa  da  un  argomento  all'altro  a  caso,  e  senza 
alcun  filo  che  colleghi  le  diverse  parti  tra  loro;  vi  sono  interruzioni 
brusche,  e  poi  ritorni  impreveduti.  Insomma  sì  ha  da  fare  con  un 
compendio  malamente  abborracciato.  L'A.  cerca  di  ordinare  i  brani 
staccati,  e  di  dar  loro  una  ragionevole,  o  almeno  una  men  repu- 
gnante disposizione.  Se  non  che  l'argomento  è  difficile,  e  la  cosa, 
per  sua  natura,  resta  sempre  incerta  (p.  1 1  ed  Errata-Corrige,  dove 
si  propone  qualche  modificazione  nuova). 

Per  quel  che  spetta  al  tempo  della  composizione  di  questo  libretto, 
l'A.  dopo  accennate  le  opinioni  di  parecchi  valenti  critici,  come  il 
Fuchs,  il  Sauppe,  il  Bake,  il  Werske  ,  il  Roscher  ,  ecc.,  s' attiene  al 
Kirchhoff,  secondo  il  quale  sarebbe  dimostrato  che  questo  scritto  fu 
composto  tra  l'autunno  dell'ol.  88,4  e  l'estate  dell'ol.  89,  i  ;  in  altri 
termini  nella  prima  metà  del  424  av.  Cr. 

Chi  è  l'autore  dell'opuscolo  in  questione  ?  Tre  soli  degli  antichi  lo 
ricordano,  Polluce,  Diogene  Laerzio  e  Stobeo,  e  tutti  e  tre  lo  ascri- 
vono a  Senofonte.  È  importantissimo  per  altro  il  fatto  che  Diogene 
Laerzio  ricorda  che  Demetrio  Magnete,  contemporaneo  di  Cicerone, 
non  ammetteva  che  fosse  di  Senofonte.  Tra  i  critici  moderni  alcuni 
lo  vollero  rivendicare  a  Senofonte ,  ma  la  massima  parte  tengono 
contraria  sentenza.  11  De  Franceschi  fa  osservare  che  1'  epoca  stessa 
in  cui  il  Kirchhoff  ha  dimostrato  essere  stato  scritto  l'opuscolo,  esclude 
che  Senofonte  ne  sia  l'autore,  poiché  Senofonte,  nato  circa  nel  445 
av,  Cr.,  ha  cominciato  a  pubblicare  i  suoi  lavori  molto  più  tardi  del  • 
424.  Ma  anche  senza  questo  abbondano,  secondo  il  nostro  A.,  le 
prove  per  cui  si  deve  ritenere  che  questo  libretto,  nemmeno  nella 
sua  forma  primitiva,  non  può  essere  stato  scritto  da  Senofonte.  Cosi, 
p.  e.,  Senofonte,  al  quale  era  certamente  nota  la  felice  marcia  di 
Brasida,  Senofonte,  che  guidò  i  diecimila  dal  centro  dell'impero  per- 
siano fino  al  Mar  Nero  ,  Senofonte,  che  accompagnò  Agesilao  nella 
sua  marcia  gloriosa  dall'Asia  Minore  a  Coronea  non  avrebbe  scritto 
il  §  5  del  capo  11,  dove  è  detto  che  «  ai  signori  del  mare  è  dato  di 
navigar  lontano  dal  proprio  territorio  per  un  tratto  di  via  lungo 
quanto  tu  vuoi,  mentre  quelli  di  terra  non  possono  allontanarsi  dal  loro 


—  184  - 
paese  per  un  cammino  di  molti  giorni  ».  Se  l'opuscolo  non  è  di  Se- 
nofonte, di  chi  è  dunque?  De' moderni  critici,  chi  l'attribuisce  ad 
Alcibiade,  chi  a  Crizia,  chi  ad  altri;  ma  le  sono  tutte  ipotesi  cam- 
pate in  aria.  Forse,  dice  il  De  Franceschi,  per  cessare  le  noie  che  gli 
potevano  venire  dai  suoi  concittadini ,  l'A.  stimò  bene  di  conservare 
l'anonimo  ;  come  dunque  pretendere  noi  di  scoprirlo  ? 

Qual  era  la  forma  primitiva  del  libro?  Non  è  facile  la  risposta: 
certo,  se  la  si  volesse  prendere  per  una  scrittura  continuata  si  tro- 
verebbe grave  difficoltà  in  una  perpetua  contradizione ,  per  cui  lo 
Stato  ateniese  viene  a  vicenda,  sotto  i  medesimi  aspetti,  biasimato 
insieme  e  lodato.  11  Cobet  venne  nella  felice  idea  che  in  origine 
questo  scritto  fosse  un  dialogo  in  cui  i  due  interlocutori,  com'è  na- 
turale, opponevano  ragioni  a  ragioni.  11  Cobet  trovò  anche  nel  testo 
molti  innegabili  vestigi  della  forma  dialogica  primitiva.  11  Pankow 
ed  il  Wachsmuth  s'accordarono  col  Cobet,  e  quest'ultimo  credette  di 
poter  ripartire  il  testo  tra  l'avversario,  l'apologista  e  il  compilatore. 
A  vero  dire  questa  ipotesi  del  dialogo,  come  osserva  il  De  Franceschi, 
non  iscioglie  a  pieno  tutte  le  difficoltà,  che  presenta  il  testo  :  ciò  non 
pertanto  sembra  la  sola  ammissibile  perchè  essa  :  «  ha  il  merito  in- 
contestabile di  svelarci  il  perchè  del  disordine  radicale  del  libro  ,  di 
mostrarci  il  vero  valore  di  certe  congiunzioni,  che  altrimenti  o  non 
hanno  senso,  o  avendolo,  recano  imbarazzo;  di  spiegarci  il  fenomeno 
delle  tracce  dialogiche,  insolubile  (almeno  pienamente)  per  altra  via; 
di  renderci  soprattutto  ragione  di  quella,  dirò  così,  duplicità  d'in- 
tento che  spicca  nel  corso  di  tutto  1'  opuscolo,  e  che,  seguendo  ogni 
altra  congettura,  è  fonte  perpetua  d'ambiguità  e  di  contradizioni  ». 
Venendo  alla  versione,  il  De  Franceschi  merita  un  elogio  speciale, 
perchè  le  difficoltà  del  testo  sono  ben  gravi.  Per  amore  di  chiarezza 
egli  distingue  con  carattere  corsivo  le  obiezioni,  con  carattere  tondo 
le  risposte,  e  con  carattere  normando  le  parole  introdotte  dal  com- 
pilatore. Nell'assegnarc  le  dette  parti,  egli  segue  quasi  costantemente 
il  Wachsmuth. 
Mi  permetto  qualche  osservazione  : 

I,  2.  Sono  ommesse  per  inavvertenza  le  parole  koì  oi  7révriTe(;. 

Ivi.  oi  Yevvaioi  koì  oi  xp»1<Jtoì.  Trad.  «  i  nobili  e  gli  egregi  citta- 
dini ».  Pare  che  l'epiteto  egregi  non  sia  il  vero,  perchè  sembra  troppo 
accennare  a  qualità  morale,  piuttosto  che  a  condizione  di  casta. 

1,  5.  Non  ci  sembra  giustificato  l'emendamento  dello  Zeune.  se- 


—  185  - 
guito  dal  De  Franceschi,  il  quale  ad  èvioit;  tìùv  óvBpuuTrujv   sostituisce 

évi   TOIC,  TToWoi^. 

1,  7.  Il  KttKÓvoia  del  testo,  che  sta  in  opposizione  del  precedente 
eOvom  non  ci  piace  parafrasato  in  avversione  verso  il  partito  popolare. 
Si  perde  l'antitesi  e  l'energia. 

I,  8.  «  11  popolo  non  desidera  di  servire  in  una  città  bene  co- 
stituita ».  Qui  s'è  perduta  la  chiarezza  e  l'energia  insieme  del  testo: 
ó  YÒp  òfiiuoc  où  PoùXerai  eL)vo|uou|uévri(;  t^c;  -nóXeoc,  uÙTÒt;  òouXeueiv,  dove 
spicca  l'antitesi  ironica  tra  la  città  bene  costituita  e  la  servitù  ,  anti- 
tesi che  aquista  spicco  dall'oÙTÒq  in  opposizione  alla  città. 

1,  IO.  «  Se  l'uso  comportasse  che  lo  schiavo  fosse  battuto  dal 
libero  o  l'inquilino  o  il  liberto  dal  cittadino  (òtto  toO  àaxoG),  spesso 
alcuno  percoterebbe  l'ateniese  scambiandolo  per  inquilino  o  per  schiavo 
(ri  òoOXov),  giacché,  ecc.  ». 

Le  parole  urtò  xoO  àaroO  e  r|  òoOXov  sono  aggiunte  dal  Wachsmuth 
al  testo  del  Dindorf  e  accettate  dal  Trad.,  ma  parmi  senza  motivo 
plausibile;  diffatti,  nel  primo  luogo  basta  lo  ùnò  toO  èXeuBépou,  e  nel 
secondo  luogo,  se  per  il  parallelismo  .si  vuol  introdurre  il  òoOXoq, 
bisogna  introdurvi  anche  1' àiieXeueepoi;  ;  or  chi  non  vede  che  queste 
sono  pedanterie? 

I,  14.  11  De  Franceschi  s'attenne  allo  SchrÒder,  che  invece  di 
luiooOai  legge  lueioOai,  e  traduce  :  <  La  moltitudine  calunnia  e  abbassa 
i  buoni  ».  lo,  per  me,  non  vedo  nessun  bisogno  di  questo  muta- 
mento, anzi  il  laiffoOai  lo  credo  assicurato  dal  seguente  faioeiaBai. 

II,  12.  Il  Trad.:  «  Oltre  di  ciò  ai  nostri  avversari  non  permet- 
teremo d'esportar  altrove  questi  materiali  (legname,  ferro,  rame,  ecc.), 
o  vieteremo  loro  l'uso  del  mare  ».  Questa  versione  è  condotta  sulla 
lezione  del  Wachsmuth,  che  cambia  lo  èàaouffiv  in  èdaojuev.  Non  trovo 
necessaria  questa  emendazione.  Infatti  qui  si  parla  di  legname,  ferro, 
rame  e  altri  materiali,  che  i  Barbari  non  potevano  smerciare,  se  non 
si  tenevano  amici  i  padroni  del  mare;  epperò,  dice,  gli  Ateniesi  erano 
quelli  che  godevano  di  questo  commercio.  Facevano  però  gli  Ate- 
niesi che  i  loro  stessi  rivali,  o  si  contentassero  di  non  permettere 
che  le  dette  merci  venissero  condotte  altrove,  che  ad  Atene,  ovvero 
minacciavano  di  toglier  loro  l'uso  del  mare.  Intendendo  il  testo  così, 
mi  pare  che  il  dilemma  riesca  piano,  mentre  nella  versione  del  De- 
Franceschi non  lo  si  afferra. 

1,   H-   li  Trad.:   «  Se  gli  Ateniesi    abitassero   un'  isola  e  avessero 


-  186  — 
il  primato  del  mare  ».  Qui  si  sono  fatte  due  proposizioni,  mentre  il 
testo  ne  ha  una,  e  così  mi  sembra  perduta  l'evidenza  del  senso,  che 
è  questo:  se  gli  Ateniesi  fossero  padroni  del  mare,  abitando  un'isola, 
ecc. 

Ivi.   11    brano:    «  Ora    poi    gli   agricoltori davanti    a   loro   si 

piega  »  che  qui  è  scritto  in  corsivo,  mi  sembra  che  deva  scriversi  in 
carattere  rotondo  ,  essendo  parole  di  chi  difende  la  democrazia.  — 
Avendone  fatto  cenno  al  eh.  traduttore,  egli  non  sarebbe  lontano  dal 
consentir  meco. 

II,  17.  La  traduzione  di  questo  paragrafo,  chi  bene  la  medita,  è 
esatta:  tuttavia  non  è  chiara. 

II,  19.  «  E  al  contrario  alcuni  che  appartengono  veramente  al 
popolo,  non  sono  popolari  di  natura  ».  Queste  righe  sono  scritte  in 
carattere  rotondo.  A  me  pare  che  possano  essere  scritte  in  corsivo, 
come  quelle  che  precedono  e  quelle  che  seguono  immediatamente. 
Oltracciò  quel  di  natura,  tììv  qpOoiv  va  riferito  a  ciò  che  precede  ,  e 
non  al  seguente  òrnuoriKOi,  nel  che  ho  meco  consenziente  il  eh.  trad. 
Del  resto  questo  è  un  luogo  molto  oscuro. 

Ili,  4.  Nel  novero  delle  feste  ateniesi,  per  inavvertenza  si  om- 
misero  le  Prometee,  TTpo|ar)9eia. 

Ili,  5.  Legge  il  Dindorf:  oùk  oi'eaGe  XP^vai  òiabiKÓCeiv  ÓTravra,  Il 
Wachsmuth  congettura:  oùk  ol'ea9ai  XPH  XPHvai  biKÓSeiv.  Il  nostro  tra- 
duttore segue  questa  congettura,  ma,  a  dir  vero,  non  posso  adat- 
tarmi ad  un  greco  cosi  cattivo.  Né  mi  fa  difficoltà  lo  oieaOe  che  è  un 
plurale  oratorio. 

Ili,  7.  L'obiettante  dice:  «  I  giudizi  si  devono  tenere  per  tulle 
le  cause,  ma  sarebbe  desiderabile  che  i  Giudici  fossero  in  minor  nu- 
mero ».  A  cui  l'altro  risponde:  «  quando  i  tribunali  fossero  molli, 
pochi  sarebbero  in  ciascuno  i  giudici;  gli  affari  si  sbrigherebbero 
più  presto,  ma  ne  perderebbe  la  giustizia  ».  Ora  il  Kirchhoff  vede 
qui  una  lacuna,  e  raffazona  il  testo  di  suo  capo  così:  àvÓYKri  toìvuv, 
èàv  |uèv  òXiYa  -rroiOùvTai  òiKoarripia  |Lir^  èTrapKeìv,  èàv  bè  iroWà  iroiujvTai 
òiKaoxripia,  ó\ÌYoi  ecc.  Questa  correzione  non  ha  senso,  perchè  nega 
che  i  tribunali  possano  essere  molti,  ma  nega  anche  che  possano  es- 
sere pochi.  Ci  pare  quindi  che  il  nostro  traduttore  non  abbia  fatto 
bene  ad  attenersi  al  KirchhofI". 

Ili,  12,  i3.  Questi  due  paragrafi  sono  molto  difficili.  La  ver- 
sione, chi  ben  la  consideri,  è  esalta  ;  tuttavia  convien  confessare  che 
si  desidererebbe  maggior  chiarezza. 


—  187  — 
Con  questo  ho  terminata  la  mia  rivista.  Ho  notato  semplicemente 
ogni  cosa  che  mi  parve  meno  esatta;  e,  a  dir  vero,  le  sono  minuzie, 
e  forse  forse  pedanterie.  Del  resto  è  una  buona  versione ,  massime, 
per  noi  Italiani,  che,  si  può  dire,  non  ne  avevamo  nessuna.  Si  abbia 
l'egregio  A.  le  nostre  congratulazioni,  e  ci  regali  spesso  di  questi  in- 
teressanti lavori. 

Verona,  luglio   1881, 

Francesco  Cipolla. 


Commento  metrico  a  XIX  odi  di  Orazio  Fiacco 
pel  Dott.  Ettore  Stampini.  —  Torino,   E.  Loescher ,   1881. 

La  triade  delle  arti  musicali,  a  cui  appartiene  la  metrica,  forma, 
giusta  la  teoria  dei  Greci,  è  un  gruppo  in  perfetta  contraddizione  a 
quello  delle  arti  imitative.  Di  queste  caratteristica  è  la  quiete  ;  di 
quelle  in  vece  il  moto.  I  rapporti  delle  prime  sono  temporali;  delle 
altre  locali:  e  la  legge,  seguendo  la  quale  le  arti  della  musica  pos- 
sono esser  regolate  e  corrispondere  all'idea  del  bello,  è  il  ritmo,  ana- 
logo alla  simmetria  delle  arti  imitative.  Senza  il  ritmo  la  metrica  non 
è  comprensibile.  Chi  volesse  limitar  il  ritmo  al  solo  apparato  termi- 
nologico ed  a  schemi  sillabici,  vuoti  d'anima  e  di  senso,  mostrerebbe 
d' ignorare  in  lutto  il  concetto  della  metrica.  Nella  storia  di  questa 
troviamo  in  fatti  un'  epoca  ,  in  cui  quel  concetto  si  smarrisce  total- 
mente. La  disciplina  quindi  si  riduce  a  una  meccanica  di  segni  e  di 
nomi;  talché  a  ripristinare  in  essa  il  senso  della  ritmica,  a  rifarla  a 
scienza,  ci  volle  non  poco,  l  fortunati  tedeschi  quasi  da  un  secolo  si 
trovano  nella  buona  via  grazie  a  G.  Hermann,  ingegno  che  non  senza 
ragione  il  Lehrs  ed  il  Westphal  portano  alle  stelle.  Noi  troppo  alteri, 
o  forse  troppo  negligenti,  ci  siamo  sin  qui  acconciali  con  gli  empirici 
e  scolastici  irattatelli  dei  padri  Barnabiti.  Qual  meraviglia  quindi  se 
in  fatto  di  metrica  restammo  tanto  indietro?  E  saremmo  ancora,  se 
la  comparsa  dei  nuovi  metri  nella  poesia  nostra  non  ci  avesse  destati. 
11  movente  fu  questo,  lo  sanno  tutti  ;  ma  a  che  avrebbe  giovato  se  la 
cosa    non  si  fosse  presa  sul  serio?  De'  metri  classici  chi   avrebbe  co- 


—  188  — 
noscenza,  se  non  ci  fossimo  messi  nella  via  che  altri  avevano  già  per- 
corsa? Gran  merito,  anzi  il  principal  merito  di  ciò  è  dovuto  al  dottor 
Stampini  per  la  pubblicazione  di  tre  lavori  metrici,  e  peculiarmente 
del  sopra  annunziato. 

Non  sono  però  con  l'egregio  autore  quando  ci  vorrebbe  inetti  alla 
metrica  anche  se  al  pari  dei  Tedeschi  avessimo  dei  buoni  trattati.  O 
che  in  Germania  soltanto  si  nasce  col  bernoccolo  della  metrica?  Non 
credo.  11  Miiller  (i),  che  è  tedesco,  mi  dice  che  in  Germania  si  è 
nelle  stesse  condizioni  che  in  Italia  e  in  tutto  il  mondo:  che  ci  vuole 
perseveranza  di  studio  e  fermezza  nel  sostenere  le  prime  noie  :  che 
scopo  delle  scuole  anche  là  è  di  sviluppare  gl'ingegni,  infondere 
amore  ed  intelligenza  dell'antichità  classica  e  non  far  unicamente  dei 
filologi  o  specialisti  di  metrica.  La  metrica  s'impara  seriamente  perchè 
giova  alle  lettere;  e  se  è  vergogna  per  un  colto  tedesco,  come  vuole 
lo  Stampini,  non  averne  almeno  un'infarinatura;  vergogna  è,  state 
pur  certi,  anche  per  noi  —  specie  pei  nuovi  metri  italiani. 

Ma  la  proposizione  dello  Stampini  non  è  senza  un  fine.  Conveniva 
dar  ragione  del  nuovo  metodo  da  lui  usato;  ed  eccola  :  Noi  non  sa- 
remmo in  grado  di  trarre  utile  da  un  completo  trattato  di  metrica; 
onde,  per  ora  almeno,  lasciamo  la  regola,  contentiamoci  dell'esempio. 
—  Lo  scopo  di  agevolare  così  i  principi  d'uno  studio,  che  si  ritenne 
quasi  paradossale,  non  può  esser  altrimenti  che  commendevole.  Ma  la 
scienza  metrica  richiede  molto  e  ben  ordinato  studio  ;  essa  è  un  edi- 
fìcio nella  costruzione  del  quale  la  seconda  pietra  non  sta,  se  non  hai 
ben  fermata  la  prima  —  e  l'esempio  non  basta.  Me  lo  dice  lo  Stam- 
pini stesso  col  premettere  al  Commento  alcune  nozioni  di  metrica  in 
generale;  senza  di  che  non  so  quanto  avrebbero  giovato  ai  princi- 
pianti tutte  le  buone  notizie  sparse  nei  diciannove  commenti.  Nelle 
prenozioni  il  nostro  autore,  seguendo  i  risultati  ultimi  nella  disci- 
plina, ci  dà  in  succinto  tutte  le  regole  elementari  di  essa.  Ma  sarei 
stato  meno  succinto,  meno  avaro  in  questa  parte.  Chi  per  schiari- 
menti delle  note  ricorre  alle  regole,  non  sempre  n'esce  soddisfatto. 
Con  poca  fatica  di  più,  l'egregio  autore  ci  avrebbe  dato  quel  tratta- 
tello  di  elementi  metrici,  che  ancora  si  desidera  nelle  nostre  scuole. 

Il  ritmo  e  il  metro,  si   sa,  sono    parti    integranti    della    metrica  ,  e 


(1)  V.  Metrik  der  Griechen  u.  Rom^r,  Leipzig,  1880,  p.V. 


-  189  — 
come  tali  vogliono  essere  spiegati  bene;  vogliono  essere  intesi.  La 
definizione  che  l'autore  dà  del  ritmo  — un'ordinata  continuità  di 
tempi  —  è  ottima;  ma  non  mi  dice  niente  della  durata,  ed  in  questa, 
dello  scambio,  della  varietà  dei  tempuscoli,  onde  veramente  il  ritmo 
—  se  pure  a  ciò  non  intende  nella  seconda  definizione.  Ma  non  è 
chiaro.  II  ritmo  non  si  trova  naturalmente  improntalo  nella  materia 
linguistica,  né  in  quella  della  musica.  Esso  è  ideale,  spirituale;  lo 
dice  pure  lo  Stampini  e  qui  e  nelle  Odi  barbare  di  G.  Carducci.  Il 
poeta,  o  in  generale  il  ^uQiuoiroióq,  lo  crea  nella  sua  mente  prima  an- 
cora di  aver  la  materia,  nella  quale  introdurlo.  Ora  ,  come  questo 
ritmo  diventi  percettibile,  in  qual  maniera  entri,  e  come  debba  en- 
trare nell'orazione  sciolta  per  dare  il  ^uG|ui2d)ievov,  ecco  le  domande 
principali,  a  cui  deve  rispondere  la  metrica.  Di  conseguenza  allora 
trarrei  il  concetto  del  metro  «  discorso  ritmicamente  informato  -XéSit; 
^uGiuiZoiuévri  ».  E  questo  bisognava  far  capire  a  fine  di  dare  una  volta 
per  sempre  una  giusta  idea  del  ritmo,  del  ritmizomeno  e  del   metro. 

Della  intentio  degli  accenti,  àeWictits  e  della  chiusa  di  verso,  I'óttó- 
0€(Ti(;  ToO  luérpou,  come  1'  addimandano  gli  antichi  ,  in  tutto  il  libro 
non  se  ne  fa  motto.  E  pure  sono  cose  importantissime.  Anche  sui 
rapporti  delle  diverse  battute  metriche,  e  sul  tempo  nei  versi,  ràyaiYn. 
la  diversità  ne'  momenti  temporali  un  breve  cenno  non  sarebbe  stato 
inopportuno.  Anzi  a  proposito  di  quest'  àyuJYiì  mi  piacerebbe  che  ad 
essa  soltanto  fosse  serbato  il  termine  tempiis  che  l'autore  e  parecchi 
altri  danno  al  xpóvo^  itpiJÙTo^. 

Dei  versi  logaedici  il  prof.  Stampini  dice  pochissimo  nella  intro- 
duzione; qualche  cosa  qua  e  là  nel  commento.  Pure  trattando  di 
metri  oraziani,  stante  la  natura,  in  gran  parte  di  essi  logaedica,  una 
più  ampia  trattazione,  ed  in  principio  sarebbe  stata  opportunissima. 
L'apparente  irregolarità  ed  arritmia  di  questi  versi  può  di  leggieri  ti- 
rare il  principiante  in  errore.  Conveniva  dunque  spiegargliela;  accen- 
nare agli  elementi  che  compongono  tali  versi,  e  dire  alcunché  dei 
Tiòh(.c,  ciXoYoi ,  delle  battute  irrar^ionali  (corèo  irraz.) ,  i  rapporti  delie 
quali,  sendo  semplici,  non  si  possono  definire  per  l'unità,  ma  è  me- 
stieri ricorrere  ad  una  frazione  del  xpóvoq  TrpuJTOi;;  onde  a  distinguerli 
lo  Schmidt  trovò  bene  introdurre  un  altro  segno  >  .  Ed  il  dattilo 
trisemo  ciclico  {-^  ^),  e  la  sincope  trocaica,  per  cui  la  sillaba  lunga 
accresciuta  d'un  tempuscolo  tien  luogo  d'un  intera  battuta  ('—  =  -  ^), 
ed  altri  fenomeni  ancora  del  logaedo  sono  indispensabili  a  conoscere 
per  avere  di  lui  un'idea  più  giusta. 


-  190  - 

Per  inéxpa  àavvàpQr\Ta  intende  lo  Stampini  con  Efestione  i  versi  che 
constano  di  ciue  ordini  ritmici.  L'Hermann  che  procedette  così  libero 
riguardo  a  tradizione  di  antichi  da  cambiar  affatto  i  loro  termini,  ed 
a  parecchi  dar  arbitrariamente  un  significato  in  tutto  nuovo,  dice  in 
vece  asinarteto  quel  verso,  nel  cui  mezzo  stia  sillaba  ancipite  o  iato. 
Ora,  si  sa  che  l'influenza  di  G.  Hermann  fu  tanta  nella  disciplina  da 
lui  risuscitata,  che  la  sua  terminologia  prese  il  sopravento,  ed  è  quella, 
a  cui  per  evitar  confusione  dobbiamo  attenerci.  Quanto  ad  asinarteti 
trovo  infatti  che  i  più  dei  trattatisti  sono  coU'Hermann. 

Nel  Commento  il  nostro  autore  distingue  composizioni  monostiche, 
distiche,  tristiche  e  tetrastiche.  Egli  vede  nel  sistema  monocolo  s'empre 
la  composizione  monastica.  Pure  ricordo  nei  carmi  oraziani  essersi 
stabilito  da  autorità  competenti  il  sistema  tetrastico.  Perchè  non  ac- 
cettare questa  maniera?  Il  periodo  di  quattro  versi  è  una  preferenza, 
un  istinto,  direi  quasi,  di  canzonieri  antichi  e  moderni.  Nei  carmi 
d'Orazio  poi  è  tanto  caratteristico  e  distinguibile  spesso  a  prima  vista 
dall'interpunzione,  che  la  critica,  coli'  aiuto  dei  ritrovati  sulle  inter- 
polazioni oraziane,  volle  il  riordinamento  in  quartine  anche  là  dove 
la  tradizione  del  testo  s'opponeva.  Ma  lo  Stampini  afferma  questo 
«  errore  gravissimo  di  una  metrica  preconcetta  »  (i).  Non  saprei 
perchè.  La  sua  distinzione  anzi  in  un  libro,  dove  tutto  tende  a  sno- 
dare l'intelligenza  del  principiante,  e  a  non  confonderlo  colla  farrag- 
gine  dei  termini,  mi  pare  superflua.  Coll'accettare  il  sistema  anzidetto 
sarebbe  stata  permessa  la  riunione  di  metri  d'eguale  natura  e  d'egual 
nome,  con  che,  pel  sinottico  confronto  il  principiante  meglio  li  avrebbe 
distinti  e  ritenuti  loro  schemi. 

Nel  commento  del  saffico  minore,  giusta  il  Trezza,  saffico  (a),  mi 
occorse  più  che  altrove  notare  il  difetto  d'una  migliore  trattazione 
degli  accenti,  opportuna  tanto  anche  per  la  nuova  metrica  italiana. 
Nello  schema  di  questi  versi  vedrà  il  lettore  segnati  cinque  accenti , 
dove  gli  conviene  alzare  la  voce.  Ma  chi  gli  dice  poi  che  tre  sono  i 
principali  ;  che  la  intentio  maggiore  deve  posare  sul  quinto  ,  e  però 
dell'indiflerenza  di  quella  cesura  maschile,  da  Orazio  stesso  di  fre- 
quente trascurata  per  amore  dell'accento  ?  La  qual  cosa  quanto  giova 


(l)  Le  Odi  barbare  di  G.  Carducri  e  la  Metrica  latina.  Il  edizione, 
p.  6,  nota  3. 


-  19]  - 
avvertire,  dimostra  il  tentativo  del  metrico  saffico  in  italiano  del  Ca- 
vallotti (i),  che  per  avere  più  facile  la  cesura,  dopo  l'arsi  del  dattilo 
conservò  costantemente  l'accento  primario  sulla  quarta.  Vedasi  infatti 
la  versione  della  prima  strofe  dell'ode  seconda  di  Saffo  : 

Pari  agli  Idii  ||  sembrami  l'uom  che  a  fronte 
Siedati,  e  '1  guar  1|  do  entro  lo  sguardo  fiso 
Dolce  parlar  ||  t'oda  vicin,  soave- 
mente ridendo. 

Ho  notati,  naturalmente,  quelli  che  parvero  a  me  difetti  nell'opera 
dello  Stampini  e  nel  suo  metodo.  I  pregi,  il  merito  di  lui  e  la  rico- 
noscenza somma  che  gli  dobbiamo  per  aver  iniziato  fra  noi  uno 
studio,  a  cui  gli  stranieri  ci  credevano  inetti,  mi  pare  debba  ricono- 
scersi anche  dai  profani  nelle  discipline  metriche.  Del  resto  il  suo 
libro  potrà  essere  adottato  assai  utilmente  nei  licei  dove  si  devono 
impartire  agli  studiosi  i  principii  della  metrica  oraziana. 


Le  odi  barbare  di  G.  Carducci  e  la  metrica  latina.  Studio  compara- 
tivo del  Dott.  Ettore  Stampini  ,  seconda  edizione.  Torino  ,  E. 
Loescher,  1881. 

Il  Cavallotti,  scherzando  sui  nuovi  metri,  disse  che  a  comporli  la 
ricetta  era  semplicissima,  né  e'  era  da  rompersi  il  capo  sulla  Regia 
Parnassi.  Poi,  a  provare  che  le  odi  barbare  non  sono  alla  latina, 
dettò  —  «  esercizio  di  pazienza  »  —  come  ei  dice,  quei  sette  saggi 
di  metri  all'antica  (2).  Ma  ciò  fece,  se  non  m'inganno,  senza  pensare 
ai  diversi  caratteri,  che  la  metrica  ha  nelle  diverse  lingue;  talché  un 
medesimo  sistema  mentre  a  questa  ripugna,  all'altra  è  naturale. 

Solo  ne' popoli  dell'Asia  troviamo  una  metrica  originariamente 
quantitativa.  In  Europa,  fin  ne'  primi  monumenti  di  poesie  germa- 
niche, tutto  il  ritmo  si  basa  sull'accento:  la  metrica  è   accentuativa. 


(1)  V.  Anticaglie,  Roma,   1879,  a  p.  216,  226  e  269. 

(2)  V.  Anticarilie,  Roma,   1879,  p.  73  e  74. 


-  192  - 
E  prima  che  Ennio  introducesse  V  esametro  greco,  anche  nel  Lazio 
era  in  uso  un  verso  nazionale  accentuativo  (i),  ed  un  altro,  il  sa- 
turnio, sul  carattere  del  quale  sarebbe  ancora  da  discutere  (2).  Anche 
i  Greci,  prima  di  una  poesia  artistica  quantitativa  avevano  dei  versi 
popolari  ad  accenti.  Ne  sia  prova  il  verso  cosi  detto  polìtico,  Vippo- 
natteo  antico  ed  il  coliambo  di  Babrio  ,  che  segna  il  punto  di  pas- 
saggio da  un  sistema  all'altro. 

II  sistema  quantitativo  sì  nella  poesia  dei  Greci  che  in  quella  dei 
Romani,  non  ò  originale;  e  se,  introdotto,  potè  attecchire,  fu  per  il 
senso  finissimo  che  quei  popoli  ebbero  della  quantità.  Ma,  domando: 
sarebbe  possibile  a  noi,  come  a'  rapsodi  greci,  declamare  o  recitare 
quei  versi  in  modo,  che  accenti  ritmici  e  grammaticali  vengan  fuori 
a  un  tempo?  No  certo.  Noi  abbiamo  tutt'altra  idea  dell'accento;  né 
possiamo  badare  alla  quantità  delle  sillabe.  Perciò  nella  poesia  ita- 
liana introdurre  un  sistema  quantitativo  riescirebbe  difficile,  e  per  la 
natura  dei  vocaboli,  e  per  la  struttura  del  periodo;  senza  dire,  che 
per  noi  sarebbe  opera  inutile  ed  insulsa.  Di  fatto  ,  ricordiamo  quei 
ben  noti  distici  dell'Alberti: 

«  Quésta  per  'éstriimÉ\\  miseràbile  epistola  ìnéndo 
é  tè  che  spregi Wmiseràm'ent e  noi  ». 

Ebbe  ragione  davvero  l'autore  delle  Anticaglie  (p.  233)  di  chiamarli 
distici  ostrogoti. 

La  metrica  italiana,  come  in  genere  tutte  le  moderne  europee  ,  è, 
e  deve  essere  accentuativa.  Ma  non  di  meno  l'indole  de'  nuovi  metri 
resta  sempre  latina.  E  a  comprova  di  questo  fatto  viene  opportuno 
lo  studio  comparativo  su  le  odi  barbare  di  G.  Carducci  e  la  metrica 
latina  del  Dott.  Ettore  Stampini.  —  È  il  ritmo ,  è  quella  musica 
ideale,  da  se  esistente,  che  dà  il  verso,  che  dà  V  armonia.  E  come 
cosa  tutta  spirituale,  possiamo  benissimo  far  nostro  ciò,  che  era  pro- 
prio de'  Latini,  de'  Greci,  degli  Indiani  e,  se  volete,  de'  Turani  an- 
cora. Sarà  un'altra  orchestra,  per  dirla  collo  Stampini,  che  eseguirà 


(1)  'Westphal,  Metr.,  II,  2,  p.  36. 

(2)  Westphal,  0.  e,  41  ;  Christ.,  Metr.  d.  Gr.  u.  R5m.^  Leipzig,  1874, 
p.  396;  E.  Stampini,  Prolusione,  Torino,  1881,  p.  14. 


-   193  — 

il  loro  pezzo  musicale;  ma  ciò  non  dice,  che  debba  mutarsi  la  sua 
armonia.  —  Ad  esprimere  il  ritmo  de'  loro  versi,  i  Latini  ed  i  Greci 
ebbero  la  quantità.  Noi  di  quantità  non  ne  vogliamo  sapere  ;  abbiamo 
l'accentuazione,  che  ce  la  riproduce  egualmente.  Se  non  che  qui  con- 
viene osservare  :  i  rapporti  d'accentuazione  nel  verso  latino  sono  tali, 
che  spesso  gli  ictus  ritmici  concordano  con  gli  accenti  ;  sicché  è  fa- 
cile esprimere  in  una  entrambi.  Ed  anche  a  leggere  il  verso  latino  a 
soli  accenti  grammaticali  sentiamo  armonia.  II  Carducci,  profittando 
di  questa  circostanza,  informò  i  suoi  versi  al  semplice  ritmo,  che  si 
ha  dai  soli  accenti  linguistici.  Ma  quel  ritmo  è  accidentale.  Di  fatto, 
che  versi  sarebbero  usciti,  se  l'illustre  poeta,  invece  di  prendere  a 
modello  i  Latini,  con  egual  sistema,  avesse  imitato  i  Greci?  E  pure 
la  difficoltà,  seguendo  la  vera  ritmica  del  verso  romano,  sarebbe  stata 
presso  che  uguale.  Lo  Stampini,  con  una  semplice  proposizione,  ci 
dà  il  bandolo  della  matassa.  Ei  dice  (p.  XV)  :  «  Le  sillabe  accentuate 
si  facciano  corrispondere  alle  arsi  dei  metri  classici,  le  non  accentuate 
alle  tesi.  In  questa  maniera  il  verso  italiano  riprodurrà  l'armonia  del 
metro  classico  letto  ad  arsi,  e  non  la  barbara  armonia  di  quello  letto 
ad  accenti  » . 

Anche  il  Cavallotti  vide  dove  conveniva  modificare  i  versi  carduc- 
ciani per  poterli  dire  fatti  alla  latina;  se  non  che,  sconoscendo  lari- 
produzione  d'una  relativa  immagine  del  modello,  stimò  assolutamente 
necessario  ristabilire  ciò,  che  il  carattere  dell'italiana  favella  non  po- 
teva comportare.  Però  giudica  i  nuovi  metri,  come  fossero  un  accozzo 
di  versi  comuni  italiani,  e  rimprovera  una  novità  meno  novità.  Lo 
Stampini,  che  prima  di  lui  s  occupò  in  quest'argomento,  vide  diver- 
samente, e  gli  sembra  anzi  gratissimo  quel  verso,  che  risulti  dalla 
combinazione  di  più  versi  de'  nostri  (p.  XV).  Lascio  giudicare  dalle 
cose  anzi  esposte,  se  il  nostro  A.  abbia  ragione.  Dice  il  Cavallotti 
(/.  e,  74):  «  Volete  un  endecasillabo  saffico?  Subito  fatto!  Recipe: 
pausa  sulla  5",  accento  sulla  4»,  e  se  volete  essere  scrupolosi,  anche 
suU'S"  ».  Per  lo  Stampini  in  vece  la  cosa  non  è  tanto  spiccia  (p.  7, 
8,  9).  Egli  ci  mostra  del  saffico  carducciano  quattro  diverse  maniere 
circa  l'accentuazione,  tutte  col  loro  corrispondente  latino,  e  delle 
quali  nessuna  si  contenta  del  solo  accento  sulla  4°,  come  vuole  il  Ca- 
vallotti. Peraltro,  sostiene  il  nostro  A.,  che  soltanto  il  saffico  catul- 
liano si  può  riprodurre  giusta  Victus  ritmico  :  quello  d'Orazio,  a  ri- 
durlo diversamente  da  come  fece  il  Carducci,  non  darebbe  una  bella 
l^ivista  di  filologia  ecc.,  X.  i3 


—  194  — 
armonia.  Questo  non  mi  va.  O,  perchè  la  bella  cadenza  de'  versi  ora- 
ziani non  può  continuare  anche  nella  veste  italiana?  Come,  dunque, 
s'ha  a  intendere  il  semplicissimo  processo  accennato  a  pagina  XV? 

Nella  proposta  dello  Stampini  su  la  rima  ne'  nuovi  sistemi  (p.  XV), 
checché  ne  dica  1'  Hegel,  non  vedo  niente  di  paradossale.  GÌ'  Indiani, 
benché  possessori  d'una  metrica  quantitativa  armoniosissima,  fin  dal 
medio  evo  introdussero  col  pracrito  la  rima,  e  l'usano  tuttora.  La 
rima,  senza  dubbio,  non  diminuisce  l'armonia;  e  giova  da  altra 
parte  a  tener  in  certo  modo  uniti  i  varii  periodi  d'una  strofe.  Su- 
perflua riuscirebbe  ne'  nuovi  metri  unicamente  per  la  ragione,  che 
con    essa  perderebbero    la    perfetta    somiglianza  co'  metri  latini. 

Circa  la  tetrastichia  ne'  carmi  d'Orazio,  e  l'avversione,  che  lo  Stam- 
pini mostra  per  essa,  tanto  da  negarla  subito  nella  seconda  saffica  , 
non  dirò  altro  dopo  l'accenno  fatto  nella  rassegna  del  suo  Commento 
metrico  a  XIX  odi  di  Orapo.  Perchè  poi  egli  l'approvi,  anzi  la  con- 
sigli ne'  sistemi  carducciani,  anche  quando  questi  ,  per  loro  natura 
epodica,  sono  distici  come  Velegiaco,  non  so  darmi  ragione. 

Nella  alcaica,  degli  schemi,  che  ci  presenta  l'A.  per  l'endecasillabo 
(p.  i6),  sceglie  il  terzo,  senza  anacrusi,  formato  da  dipod.  giamb. 
ipercat.  -\-  dattilo  -\-  dipod.  troc.  cat..  mentre  adottato  dai  più,  e  dai 
migliori  trattatisti  vedo  il  primo,  che  più  esattamente  segnerei  così  : 

dipod.  troc.  (di  cui    il    secondo    trocheo   spesso  irrazionale)  -f-  dattilo 
trisemo  -j-  dipod.  troc.  cat.,  premessa  al  tutto  una  battuta  in  levare. 

Lo  stesso  dell' enneasillabo  alcaico  (pag.  19)  dirò  col  Grysar  (i): 
«  Alii  autem  rectius  fortasse  hunc  versum  dicunt  esse  dilrochaeum, 
praeposita  anacrusi  »  (2).  Il  quale  riprodotto  in  italiano,  darebbe  la 
composizione  di  un  quinario  piano,  accentato  regolarmente  sulla  2* 
e  4'.  con  un  quadrisillabo  pure  piano  cogli  accenti  sulla  i"  e  3^. 


(1)  De  metr.  hor.  nella  sua  ediz.  di  Orazio,  Vienna,  1879,  p.  XLII. 

(2)  Sulla  Decessila  di  ordinare  le  battute  in  modo,  che  la  tesi  segua 
sempre  l' arsi,  dunque  di  giovarsi  delle  '  battute  in  levare  \  v.  Schmidt, 
Die  ani.  Compositionslehre,  Lpzg.,  1869,  §  2. 


-  195  — 
Essendo  V  alcaica  una  strofe  delle  più  belle,  delle  più  armoniose, 
delle  più  espressive  che  la  poesia  classica  ci  abbia  lasciato,  avre^i  vo- 
luto dal  nostro  A.  più  severità  nello  stabilire,  dirò  col  Cavallotti,  il 
recipe  per  la  riproduzione  in  italiano.  Perchè  il  suo  carattere  fosse 
al  possibile  conservato,  bisognerebbe  seguire  senz'nitro  l'accentuazione 
ritmica,  e  tenersi  ad  uno  schema  quale  è  questo  : 

(w)  !    /,  I     '     >(|    '  I     '  I     '      A    I 

''^)  \  'J.   ^  \  L  C\\  L^  ^  \  L  ^  \  L  ,\  \ 
(w)  i  ,,        \   '   >\\  '  I   /         I 

"  I   '  I   '        I   '    ^  11 

corrispondente  a 

i)  quinario  piano,  accentato  sulla  2»  e  4*  |  pausa  |  settenario  ironco, 
acc.  i«,  4'  e  6^. 

2)  »  »  » 

3)  quinario  piano,  acc.  sulla  2»  e  4"  |  pausa  |  quadrisillabo  piano, 
acc.   i^  e  3^ 

4)  [un  verso  di  dieci  sillabe  cogli  accenti  sulla  i»,  4%  7'  e  9»]. 

«  Insigne  moéstis\\praésidiiim  reis 
Et  consulènti  \\  Pàllio  curine 
Cui  laùrus  aéter\\riós  honóres 

Dalmatico  peperit  triumpho  ».   (Or.,  c.  II,   i). 

Se  noi  di  fatto  confrontiamo  nel  Carducci  e  in  altri  nostri  poeti 
gli  alcaici  modellati  su  questo  ritmo  con  quelli,  in  cui  si  segue  la 
semplice  armonia  linguistica  del  latino,  sarà  facile  avvederci  di  quanto 
differenziano  tra  loro  nell'espressione.  Il  guaio,  seguendo  l'arsi,  sa- 
rebbe nel  quarto  verso  della  strofe.  Per  questo  converrebbe  adottare 
un  nuovo  decasillabo,  accentuato  sulla  i",  4^,  7'  e  9*  ;  verso,  che  non 
abbiamo  nella  poesia  italiana.  Ma  che  c'impedisce  di  farlo  ?  Sarà  una 
creazione,  e  non  brutta  davvero.  Ne  sia  prova  il  seguente  verso  del 
Chiarini; 

«  Càndidi,  lucidi  a  me  fantasmi  ». 


—  196  — 

Un  decasillabo  nuovo,  non  esistente  nella  poesia  nostra,  lo  avremmo 
anche  modellandolo  sugli  accenti  grammaticali  delV  alcaico  latino. 
Perchè  non  preferire  il  più  giusto  e,  senza  dubbio,  il  più  bello? 

L'A.,  a  ragione,  disapprova  il  Carducci  nell'uso,  ch'ei  fa  del  de- 
casillabo comune  italiano  neWalcaica,  alterando  cosi  tutto  il  carattere 
di  quella  strofe.  Il  qual  carattere,  a  parer  mio,  meglio  si  sarebbe 
conservato,  se  il  poeta  si  fosse  servito  più  tosto  della  composizione 
di  due  semplici  adonii.  —  Non  v'ha  dubbio,  accordare  negli  alcaici, 
come  in  ogni  altro  verso  1'  arsi  coU'accento  «  segnerebbe,  come  dice 
lo  Stampini,  la  perfezione  d'ogni  metro  moderno  composto  sul  metro 
antico  ».  Ai  tedeschi  è  riuscita,  è  vero,  questa  maniera,  e  al  Carducci 
pure  in  alcuni  esametri  come  questo  : 

«  Surge  nel  chiaro  inverno  la  fosca,  turrita  Bologna  » 

ma  seguirla  poi  sempre,  non  mi  pare  possibile  co'  nostri  mezzi  lin- 
guistici. 

A  lungo,  e  con  sennato  studio  si  trattiene  il  nostro  A.  suU' e5(i- 
metro,  come  il  più  notevole,  e  il  più  popolar  verso,  che  l'antichità 
classica  ci  abbia  tramandato,  e  come  quello,  che  portato  in  italiano 
nella  varietà  de'  suoi  accidenti  può  arricchire  di  molti  e  bellissimi 
versi  la  nostra  poesia.  È  certo  però,  che  tornerebbe  meglio  assai  con- 
siderare ed  istudiare  il  vario  stile  di  questo  verso,  e  le  sue  molte- 
plici costruzioni  ne'  poeti  greci  anzi  che  nei  soli  romani.  Onde,  penso, 
avrebbero  giovato  forse  non  poco  al  nostro  A.  le  notevoli  opere  del- 
l'Hermann [De  aetate  scriptoris  argonaiiticòn)  e  di  Arturo  Ludwig 
[De  hexam.  spond.).  Né  affatto  inopportuno  per  uno  studio  di  com- 
parazione sarebbe  slato  tener  dietro  alla  storia  di  questo  verso,  e  alle 
varie  congetture  degli  antichi  e  dei  moderni  circa  la  formazione  del 
medesimo. 

Gli  ultimi  metri  di  cui  parla  l'A.  sono  i  due  epodici  di  Archiloco: 
il  sistema  giambico,  ed  il  quadruplice  sistema  archilochio.  Il  Car- 
ducci riproducendo  il  giambico,  lo  ordina  a  quartine  ;  ed  è  qui,  che 
non  so  perchè  l'A.  meni  buono  tal  cambiamento.  Io  trovo  che  me- 
trici antichi  e  moderni  concordano  sulla  distichia  degli  epodi;  e  una 
leggera  discrepanza  c'è  solo  riguardo  aW archilochio  secondo,  che  al- 
cuni vorrebbero  tristico  : 


—  197 


L'  .   .  I  ^   .   .  I  _  À  ]] 

dividendo  il  giambelego  in  una  tetrapd.  giamb.  e  in  un  dimet.  datt., 
come  nella  traduzione  dell'epodo  XII  d'Orazio  di  G.  E.  Voss  (i)  : 

«  Schaudriges  Ungewitter  iimschlos\  den  Himmel;  herab  steigt 
In  Regengus\  und  Flocken  Zeus; 
Meer  min.  und  Waldiingen  min  »  — 

Di  questa  seconda  edizione  parte  importantissima  sono  le  svariate 
note.  In  esse  ci  si  rivela  lo  studio  vasto  e  paziente  del  giovane  au- 
tore, e  una  profonda  conoscenza  del  campo  che  percorre.  L'accennare, 
come  ei  fa,  con  fine  discernimento,  una  quantità  di  ottime  fonti  an- 
tiche e  moderne,  non  può  non  riescire  utilissimo  agli  studiosi.  Mi 
permetta  nondimeno  l'egregio  A.,  ch'io  gli  osservi  (per  quel  che  a 
me  sembra)  una  certa  predilezione  per  le  dottrine  degli  antichi  gram- 
matici. La  qual  cosa  non  posso  giudicar  sempre  opportuna  in  fatto 
di  scienze   metriche. 

Frosolone,  8  settembre  i88i. 


Arturo  Pasdera. 


(I)  Bes  Horaz  sdmtl.  Werke,  ubers.  v.  I.  H.  V.,  Ili  Th.,  Wien  Triest, 
1819. 


198  - 


Le  parole  greche  usate  in  italiano.  —  Memoria  del  prof.  Francesco 
Zambaldi,  inserita  nella  Cronaca  del  Liceo  Ennio  Quirino  Visconti 
di  Roma,  anno   1881. 

È  un  bel  contributo  alla  lessicografia  delle  tre  lingue,  greca,  latina 
e  italiana,  ricco  di  notizie  e  di  riscontri  esatti,  importanti  anche  per 
la  storia  letteraria,  e  per  l'etnografia  e  dialettologia  italica. 

I  vocaboli,  che  o  direttamente,  o  indirettamente  con  l'intermediario 
del  latino,  passarono  nella  nostra  lingua  dal  greco,  formano  ormai 
una  suppellettile  così  ampia  e  svariata  di  materiale  linguistico,  che 
valeva  bene  la  pena  che  uno  studioso  così  attento  e  coscienzioso  come 
lo  Zambaldi  vi  richiamasse  sopra  1'  attenzione  de'  lessicografi  e  dei 
grammatici,  fissando  con  qualche  sicura  norma  le  vicende  storiche, 
e  le  leggi  morfologiche  e  prosodiche,  che  regolano  questa  parte  im- 
portante del  nostro  lessico. 

La  Memoria  contiene  due  parti,  nella  prima  delle  quali  si  espon- 
gono a  larghi  tratti  la  fonologia  e  la  morfologia  delle  parole  greche 
nell'uso  italiano  (pagg.  i-i8)  ;  nella  seconda  si  riassumono  gli  studi 
e  le  ricerche  fatte  dall'egregio  autore  sull'accentuazione  greco-latina, 
e  delle  conseguenti  norme  seguite  dall'uso  italiano  (pagg.  ig-^G).  La 
natura  delle  alterazioni  fonetiche  e  storiche  è  studiata  al  cap.  II  del 
lavoro  (pagg.   io  segg.). 

Nel  §  I  della  Memoria,  che  serve  come  d'introduzione,  l'A.  di- 
stingue quattro  grandi  periodi,  nei  quali  si  può  repartire  la  storia 
del  diverso  modo,  irf'cui  le  parole  greche  furono  trattate  in  Italia  da 
più  di  venticinque  secoli. 

II  P  periodo  incomincia  dai  più  antichi  contatti  dei  Greci  Italioti 
coi  popoli  italici  e  principalmente  coi  Latini. 

Il  II"  comincia  con  Azzio,  e  fu  il  periodo,  nel  quale  la  coltura 
greca  andò  diflondendosi  fra  i  Romani  e  con  essa  un  rispetto  mag- 
giore della  forma. 

Il  HI"  è  il  periodo  dell'influenza  del  Cristianesimo  e  della  Chiesa 
orientale  ;  ed  è  notevole  in  esso  il  progredire  dello  iotacismo. 

Il  W°  è  il  periodo  degli  Umanisti  ,  nel  quale  sono  da  distinguere 
due  età,  l'una  popolare  e  l'altra  erudita. 

L'A.  insiste  su  questa  repartizione,  perchè  egli  crede  essere   utficio 


-  199  - 
del  filologo  il  rispondere  al  quesito:  Data  una  parola  con  determinate 
alterazioni,  in  qital  tempo  entrò  essa  nell'uso  latino  o  italiano'^  E,  in- 
vertendo i  termini  della  domanda  :  In  un  dato  secolo  qual  forma  do- 
veva prendere  una  parola  greca  entrando  in  Italia  ? 

Questo  studio  del  prof.  Zambaldi  non  è  che  l'abbozzo  di  studi  più 
ampi  e  profondi,  che  dall'  egregio  collega  vorremmo  vedere  svolti  e 
classificati  sistematicamente,  con  evidente  utilità  della  lessicografia 
italiana. 

Firenze,  ottobre  1881. 

Gaetano  Oliva. 


Historische   Syntax    der   lateinischen   Sprache  von    F.  A.  Draeger  ; 
zweite  Auflage,  Leipzig,   1878;    1881. 


La  «  Sintassi  storica  della  lingua  latina  »  del  Drager  fu  cominciata 
a  pubblicare  nel  1877  a  Lipsia,  e  già  nel  1878  usciva  la  seconda  edi- 
zione del  primo  volume;  la  seconda  edizione  del  secondo  volume  è 
comparsa  quest'anno. 

Non  voglio  nemmeno  ammettere  il  dubbio  che  questo  importan- 
tissimo libro  non  sia  conosciuto  e  studiato  come  merita  anche  in 
Italia  ;  ad  ogni  modo  non  credo  che  se  ne  possa  parlare  mai  abba- 
stanza, anche  per  attestare,  non  foss'altro,  la  nostra  riconoscenza  al- 
l'autore, il  quale  ha  avuto  il  coraggio  di  condurre  a  felice  compi- 
mento una  tale  opera,  che  a  concepirla  solo  ci  vuole  ingegno  non 
comune.  E  che  il  coraggio  non  gli  sia  mancato,  lo  dimostrano  i  ven- 
ticinque anni  di  assiduo  ed  eroico  lavoro  ch'egli  vi  ha  spesi  intorno. 
Ma  quando  venticinque  anni  sono  stati  tanto  fecondamente  spesi  si 
riesce  a  fare  un  di  quei  libri  che  collocano  un  professore  fra  i  piiì 
grandi  filologi  odierni. 

Era  la  metà  del  presente  secolo,  quando  il  Drager  si  accorse  che 
non  era  troppo  a  fidarsi  delle  sintassi  che  comunemente  si  trovavano 
tra  mano,  e  concepì  fin  da  allora  il  disegno  di  preparare  i  materiali 
per  una  nuova  sintassi,  con  un  metodo  diverso  dagli  usati,  facendo 
cioè  lo  spoglio  uno  per  uno  degli  autori  latini  maggiormente  letti 
nelle  scuole,  e  di  ognuno  raccogliendo  la  sintassi  in  brevi  ma  esatte 
monografie.  E  cominciò  col  raccogliere  la  sintassi  di  Tito  Livio;  ma 


—  200  - 
prer  poter  comprendere  in  che  rapporto  stava  la  sintassi  di  Livio  con 
quella  degli  scrittori  che  lo  precedettero  bisognava  far  lo  spoglio 
anche  di  Cesare  e  Sallustio,  e  questo  fece  il  Driiger;  indi  intraprese 
lo  studio  di  Cicerone  e  si  accorse  che  aveva  avuto  pur  troppo  ra- 
gione rOrelli  di  dire  che  la  sintassi  ciceroniana  non  era  stata  che 
appena  tentata  da  qualche  guastamestieri.  Poi  esaminò  Cornificio,  che 
va  sotto  il  nome  di  auctor  ad  Herennium,  e  in  questo  modo  aveva 
compita  la  sintassi  dei  prosatori  classici  e  di  Livio.  Da  Livio  allora 
estese  le  sue  ricerche  al  periodo  d'argento,  e  studiata  l'influenza  che 
ebbero  i  poeti  classici  sugli  autori  dell'età  d'argento,  iQce.  lo  spoglio 
di  Velleio,  Valerio  Massimo,  Curzio  e  Seneca  il  giovane  ,  e  così  ar- 
rivò a  Tacito.  Intorno  a  Tacito  raccolse  i  due  Plinii,  Svetonio  e 
Quintiliano.  Si  volse  quindi  ad  Apuleio  e  a  Gelilo  e  compì  questo 
periodo  cogli  scrittori  minori,  come  Nepote,  Floro,  Giustino,  Eu- 
tropio, Sesto  Rufo,  Aurelio  Vittore,  i  sei  scrittori  dell'istoria  augusta 
e  alcuni  santi  Padri,  Lattanzio,  Tertulliano  e  Agostino.  Era  per  tal 
guisa  compita  la  sintassi  di  tre  periodi  :  del  periodo  aureo,  del  pe- 
riodo d'argento  e  del  periodo  di  ferro  ;  mancava  l'arcaico,  e  a  questo 
studio  il  Drager  pose  per  base  la  Syntaxis  priscorum  scriptorum  la- 
tinorum di  F.  HoLTZE  (1861-1862).  —  Il  libro,  che  raccoglie  in  una 
grande  e  compatta  unità  tutti  questi  lavori  preparatori  ,  si  intitola 
pertanto,  a  buon  diritto,  sintassi  storica  della  lingua  latina,  e  in 
quell'appellativo  di  storica  consiste  appunto  la  novità  dell'opera;  e 
veramente  oggidì  che  si  è  condotta  a  buon  punto  la  storia  delle  forme 
delle  lingue  classiche  era  da  aspettarsi  anche  una  storia  della  sintassi. 
Chi  crede  ancora  all'  immobilità  di  una  lingua  inarcherà  le  ciglia  a 
quell'appellativo  di  storica;  ma  chi  sappia  come  oggidì  tutto  va  trat- 
tato col  metodo  storico,  nel  che  è  riposta  la  novità  degli  studi  mo- 
derni, darà  il  benvenuto  a  questa  sintassi.  Non  è  però  a  dire  che  il 
Drager  solo  si  sia  messo  a  un  simile  lavoro  ;  contemporaneamente  a 
lui  molti  altri  filologi  hanno  ricercata  la  sintassi  dei  singoli  autori 
latini,  e  su  questo  argomento  furono  pubblicate  in  Germania  nume- 
rose e  lodate  monografie  ;  il  libro  del  Drager  poi  ha  dato  maggior 
impulso  ancora  a  questo  genere  di  studi,  e  una  delle  bellissime  mo- 
nografie, che  potrebbe  servire  come  esemplare  ,  è  quella  del  Rtnge  , 
Ziim  Sprachgebraucìi  des  Caesar,  1880,  in  cui  esamina  l'uso  delle 
congiunzioni  copulative  {et,  que,  atque,  ac)  in  Cesare. 

11    latino  fu  lingua  viva  e  letteraria  per  otto  secoli    circa,  dal  25o 


-  201  — 

av.  Cristo  al  5oo  dopo  Cristo  ;  in  questo  tempo  1'  organismo  gram- 
maticale del  latino  ha  subito  poche  mutazioni,  se  si  eccettuino  al- 
cune terminazioni  nei  nomi  e  nei  verbi,  che  erano  usate  nel  periodo 
arcaico  e  che  scomparvero  nel  periodo  classico,  e  alcune  modifica- 
zioni nella  fonologia,  le  quali  non  riuscirono  però  mai  a  una  vera  e 
compiuta  trasformazione.  Altrimenti  si  deve  dire  del  vocabolario, 
giacché  in  ogni  tempo  della  letteratura  latina,  e  specialmente  nel  pe- 
riodo postclassico,  si  scorge  lo  sforzo  continuo  di  arricchire  il  tesoro 
dei  vocaboli. 

I  primi  tentativi  di  prosa  letteraria  vanno  attribuiti  al  celebre  Appio 
Claudio  Cieco,  la  cui  attività  politica  arrivò  fino  al  280  av.  Cristo. 
Però  ne'  due  secoli  che  corrono  dalia  fondazione  della  repubblica  fino 
ad  Appio  Claudio,  tanto  le  forme  della  lingua  latina  quanto  la  sin- 
tassi si  devono  essere  nella  loro  sostanza  fissate,  e  un  gran  progresso 
deve  aver  avuto  luogo  nel  secolo  terzo,  se  già  Catone  nella  prima 
metà  del  secolo  secondo  seppe  dar  sì  splendidi  saggi  nell'arte  ora- 
toria, come  risulta  dai  frammenti  dei  suoi  discorsi.  Grande  fu  poi  la 
influenza  dei  poeti,  e  già  il  materiale  linguistico  di  Ennio  non  dif- 
ferisce che  per  poche  forme  da  quello  del  periodo  classico  ;  quanto 
a  Plauto,  mostrò  egli  coi  suoi  arditi  neologismi,  massimamente  nei 
composti,  come  potesse  esser  feconda  la  lingua  latina,  la  quale  però 
fu  impedita  di  svilupparsi  liberamente  dall'influenza  greca.  Mollo 
tornito  ed  elegante,  ad  eccezione  di  pochi  costrutti  e  forme  antiche, 
è  già  Terenzio,  l'ultimo  rappresentante  del  periodo  antico. 

Ma  il  suo  apice  toccò  la  prosa  latina  nel  primo  secolo  per  opera 
di  Cicerone,  il  quale  però  non  potè  arricchirla  quanto  da  lui  s'aspet- 
tava, perchè  la  trovò  già  stabilmente  costituita  ;  ad  ogni  modo  dob- 
biamo a  lui  un  buon  numero  di  nomi  verbali  e  astratti  e  molti  di- 
minutivi ;  e  aggettivi  e  avverbi  rinforzati  con  la  preposizione  per. 
Con  Cicerone,  con  Cesare,  Cornificio  e  Sallustio  si  fissa  il  vero  clas- 
sicismo latino;  la  latinità  da  allora  in  poi  si  viene  corrompendo  e 
v'  ha  una  gran  parte  di  poeti  ,  i  quali  introducono  molti  grecismi 
nella  sintassi  latina,  e  il  primo  prosatore  a  risentirne  la  azione  ma- 
lefica fu  Livio,  su  cui  influì  grandissimamente  Vergilio.  La  latinità 
d'argento  da  allora  in  poi  piegò  verso  i  costrutti  greci  ;  parchi  sono 
in  questo  Velleio,  Valerio  Massimo  e  i  due  Seneca,  più  ancora  Quin- 
tiliano, ma  per  nulla  parco  Tacito  ;  parco  tuttavia  in  confronto  di 
Apuleio,  il  quale  creò  una    strana   sintassi,  che    fortunatamente    non 


-  2i02  — 
ebbe  serie  conseguenze,  giacché  finì,  si  può  dire,  con  lui  la  maniera 
grecizzante.  Negli  scrittori  più  tardivi  la  sintassi  va  sempre  più  sco- 
standosi dal  classicismo  e  accostandosi  all'  uso  volgare,  e  già  nel 
quinto  secolo  cominciano  ad  entrarvi  grossolani  errori.  —  Ci  fu 
dunque  un  periodo  di  preparazione,  un  periodo  di  perfezione,  uno  di 
corruzione  e  finalmente  di  dissoluzione  ;  e  questa  è  storia. 

Per  maggior  chiarezza  recherò  tre  esempi.  Il  primo  riguarda  le 
proposizioni  interrogative  indirette  e  l'uso  del  cum.  Le  proposizioni 
nel  periodo  arcaico  tendono  più  alla  forma  coordinata  che  alla  su- 
bordinata, e  così  avviene  delle  interrogative  indirette  ,  le  quali  in 
Plauto,  a  mo'  d'esempio,  quantunque  si  trovino  pure  al  congiuntivo, 
pure  vengono  usate  solitamente  all'indicativo;  e  chi  voglia  vedere 
quanto  lo  stile  di  Plauto  abbia  influito  sullo  stile  dei  nostri  umanisti 
del  quattrocento,  deve  esaminare  la  frequenza  in  loro  delle  interro- 
gative indirette  all'indicativo.  Nel  periodo  classico  di  Roma  invece 
le  interrogative  indirette  vengono  adoperate  sempre  e  assolutamente 
al  congiuntivo,  eccettuato  col  nescio  qui  e  qualche  altro  caso  più  spe- 
ciale. La  stessa  differenza  è  press'a  poco  nell'uso  del  cum  temporale. 
In  Plauto  esso  cum  si  trova  229  volte  all'indicativo,  e  9  volte  al  con- 
giuntivo; in  Terenzio  72  volte  all'indicativo  e  5  volte  al  congiuntivo  ; 
in  Cesare  invece  383  volte  al  congiuntivo  e  35  all'indicativo;  in  Livio 
2864  ^1  congiuntivo  e  272  all'indicativo.  E  questo  basti  per  dimostrare 
qual  differenza  corra  tra  la  sintassi  arcaica  e  la  classica. 

11  secondo  esempio  si  riferisce  all'uso  dell'  infinito  cogli  aggettivi, 
come  indoctus,  docilis,  patiens,  potens,  cautus,  laetus,  bonus  e  via  via, 
il  quale  è  raro  assai  presso  gli  arcaici  ,  ma  frequentissimo  nei  poeti 
classici  e  posteriori,  sotto  l'influenza,  naturalmente,  della  sintassi 
greca,  e  quest'uso  passò  nei  prosatori  del  periodo  argenteo  e  poste- 
riori. 

Il  terzo  esempio  vale  per  le  proposizioni  sostantive,  rispetto  alle 
quali  va  notato  che  da  Vergilio  e  Orazio  in  poi,  sempre  per  l'in- 
fluenza greca,  molti  verbi  indicanti  un  atto  della  volontà  si  costrui- 
scono coU'infinito,  i  quali  fino  allora  erano  stati  costruiti  con  Vut  e 
un  verbo  finito.  Parimenti  dopo  i  verbi  diceìtdi  et  sentiendi  prevalse 
nel  secondo  secolo  dell'  era  volgare  la  costruzione  col  quod ,  anziché 
con  l'infinito,  come  fino  a  quel  tempo  si  era  adoperato  ;  e  anche  qui 
chi  voglia  vedere  quanto  abbiano  influito  gli  scrittori  posteriori  di 
Roma,  anziché  i  classici,  sui    nostri    umanisti  del  quattrocento    non 


-  203- 
ha  che  a  por  mente  alla  frequenza  in  loro  della  costruzione  col  quod. 
—  E  anche  questa,  se  non  m'inganno,  è  storia. 

Prendo  un  altro  fatto  d'ordine  diverso.  Nessuno  ignora  che  una 
delle  differenze  fondamentali  tra  la  lingua  latina  e  l'italiana  e  tra  le 
moderne  in  genere  è  nei  nomi  astratti.  I  nomi  astratti  della  lingua 
latina  sono  in  tutti  3814;  ora  se  altri  vuol  levarsi  la  curiosità  di  per- 
correre con  l'occhio  la  lettera  a  di  un  vocabolario  italiano  anche  pic- 
colo, vi  trova  senza  difficoltà  un  migliaio  di  nomi  astratti.  Questa 
gran  discrepanza  forma  una  delle  difficoltà  dell'  insegnamento  della 
lingua  latina  ,  nella  quale  bisogna  saper  accortamente  trovare  quei 
nomi  concreti  e  quelle  forme  di  aggettivi,  participi  e  pronomi  ,  che 
corrispondano  all'astratto  italiano,  come  speriamo  verrà  lodevolmente 
fatto  dal  dottor  Cima,  il  quale  sta  pubblicando  per  le  stampe  un 
libro  di  stilistica  latina,  che  sarebbe  il  primo  di  tal  genere  stampato 
in  Italia.  Tornando  agli  astratti  latini,  dei  3814  soli  1348  si  trovano 
usati  nel  singolare  e  plurale  e  vanno  distribuiti  in  modo  che  di  quelli 
188  appartengono  esclusivamente  al  periodo  arcaico  e  per  la  massima 
parte  a  Plauto;  altri  52o  sono  del  periodo  classico  e  per  la  massima 
parte  di  Cicerone;  gli  altri  640  sono  usati  esclusivamente  dai  poeti 
classici  e  posteriori  e  dai  prosatori  postclassici,  compreso  Livio.  Ri- 
sulta da  queste  cifre  il  bisogno  che  sentivano  i  Romani  di  accrescere 
il  loro  patrimonio  di  nomi  astratti,  e  come  in  questa  parte  i  più  fe- 
condi siano  stati  Plauto  e  Cicerone.  —  E  questa  pure  è  storia.  Ma 
lascio  di  seguitare  con  gli  esempi,  se  no  dovrei  citare  tutta  l'opera 
del  Drager. 

So  bene  quel  che  fu  obiettato,  e  si  obietterà  contro  questo  me- 
todo. Si  disse  che  una  tale  statistica  manca  di  base,  perchè  non 
tutti  gli  scrittori  antichi  ci  son  pervenuti  ,  ed  è  probabile  che 
quella  parola,  che  noi  troviamo  per  la  prima  volta  usata  nel  secolo 
argenteo,  fosse  in  uso  anche  presso  uno  scrittore  aureo,  ma  perduto. 
Si  può  rispondere  che  la  stessa  probabilità  vale  anche  per  il  caso 
contrario,  mancandoci  ogni  documento.  Si  può  rispondere  che  rite- 
nendo valida  e  seria  1'  obiezione,  non  ci  è  dato  di  far  la  storia  del- 
l'arte,  perchè  solo  una  piccolissima  parte,  e  nemmeno  la  migliore 
dei  monumenti  antichi  ci  è  rimasta.  Eppure  noi  facciamo  egualmente 
la  storia  dell'arte,  pronti  domani  a  modificare  il  nostro  giudizio,  se 
un  nuovo  monumento  verrà  in  luce.  Così  la  lingua  latina  in  tanto  ha 
per  noi  valore,  in    tanto  esiste  per  noi,   in  quanto    la    troviamo   nei 


-  204  — 
libri  e  nei  monumenti  che  il  tempo  ci  ha  risparmiati  e  a  quelle  leggi 
che  dal  loro  esame  risultano  dobbiamo  attenerci,  sia  che  di  essa 
lingua  vogliamo  narrare  la  storia,  sia  che  la  scriviamo  e  la  inse- 
gniamo nella  scuola.  E  quanto  alla  storia  chi  ci  impedisce  di  ten- 
tarla, solo  perchè  ci  manca  la  facoltà  di  indovinare  quello  che  non 
possediamo  ?  quantunque  però  le  leggi  storiche  della  sintassi  latina 
sono  tutt' altro  che  parto  di  mera  fantasia;  e  io  vorrei  supporre  che  si 
scoprisse  una  intera  letteratura  perduta  del  periodo  romano,  ma  quelle 
leggi  verrebbero  luminosamente  confermate;  se  se  ne  scapiterebbe, 
sarebbe  forse  qualche  caso  particolare.  Quanto  poi  allo  scriverla  e 
insegnarla  questa  lingua  latina,  il  libro  del  Drager  porge  ,  indiretta- 
mente, preziosi  ammaestramenti,  e  primo  di  tutti,  che  il  classicismo 
vero  latino  comprende  soli  Cicerone,  Cesare,  Sallustio  e  Cornifìcio 
(parlo  della  prosa)  e  che  è  indiscutibilmente  dimostrato  che  in 
Livio  abbiamo  i  principi  della  decadenza  della  sintassi  latina  e 
che  Cornelio  Nepote  appartiene  alla  decadenza,  il  quale  perciò  deve 
credersi  sia  presentemente  non  inculcato,  ma  tollerato  nelle  scuole  ; 
chi  sa  che  non  venga  il  giorno  in  cui  la  scuola  possa  far  senza  di 
esso  !  ce  lo  auguriamo.  E  della  decadenza,  molto  inoltrata,  sono  pa- 
rimenti Floro  e  Giustino;  i  quali  due  nomi  non  a  caso  ho  qui 
ricordati,  ma  per  uno  scopo  ben  altro  che  biasimevole,  come  io  al- 
meno credo.  Molti  professori  e  più  d'uno  scolaro  sapranno  benissimo 
che  ci  è  un  corso  di  temi  di  versione  dall'  italiano  in  latino  cavati 
dalla  storia  antica  da  Saverio  Baldini,  per  uso  della  quarta  e  quinta 
ginnasiale.  Fin  qui  non  c'è  nulla  di  male,  anzi  tutto  bene  ;  il  male 
incomincia  quando  si  aggiunga  che  di  questi  temi  lo  stesso  Baldini 
ha  pubblicato  la  traduzione  «  per  comodo  degli  insegnanti  ».  Poveri 
insegnanti,  che  vengono  abbassati  al  livello  dei  loro  scolari,  i  quali, 
naturalmente,  cercano,  in  nome  dell'eguaglianza,  di  elevarsi  all'altezza 
dei  professori  e  comperano  anch'essi  per  altra  mano  la  traduzione 
«  fuori  di  commercio  ».  Ma  qui  alla  fin  fine  si  tratterebbe  di  moralità 
e  di  dignità:  cose  di  cui  si  può  anche  non  tener  conto!  Il  più  brutto 
si  ò  che  quella  traduzione  è  cavata  da  Floro  e  da  Giustino  e  che 
questi  autori  vi  son  chiamati  classici.  Io  confesso  schiettamente  che 
non  so  più  allora  come  chiamar  Cicerone  e  Sallustio  ;  bisognerà 
perciò  insegnare  agli  alunni  di  quarta  non  più  la  sintassi  e  la  lingua 
di  Cesare  e  di  Cicerone,  ma  quella  di  Floro  e  Giustino.  Il  Baldini 
non  ha  soggiunto  che  di  quando  in  quando    delle  spruzzate  di  Cor- 


—  205  — 
nello  Nepote  ,  o  ,  per    non    affibbiare    a    questo  grande   scrittore   ciò 
che  non  gli  appartiene,  del  così  detto  Cornelio  Nepote. 

La  sintassi  storica  del  Drager  è  compresa  in  due  volumi,  ognuno 
dei  quali  abbraccia  due  parti  ;  perciò  la  sua  sintassi  consta  di  quattro 
parti.  Nella  prima  esaaiina  le  parti  del  discorso,  facendo  la  storia 
non  della  loro  forma,  ma  del  loro  uso  sintattico;  e  questa  si  può 
considerare  l' introduzione  dell'  opera.  La  seconda  parte  tratta  della 
proposizione  semplice,  in  cui  si  esamina  l'uso  del  soggetto,  del  pre- 
dicato in  tutte  le  sue  forme  e  dell'  attributo.  La  terza  parte  tratta 
della  coordinazione,  la  quarta  della  subordinazione,  dove  le  propo- 
sizioni subordinate  vengono  divise  in  tre  categorie  :  sostantive,  attri- 
butive e  avverbiali.  D'ogni  fatto  sintattico  che  viene  esaminato  vi  si 
trova  la  storia,  seguendo  i  periodi  della  letteratura  e  gli  scrittori  che 
a  ciascuno  di  quelli  appartengono. 

Il  libro  del  Drager  non  è  elementare,  ma  presuppone  in  chi  lo  usa 
la  sicura  conoscenza  di  una  sintassi  latina,  che  sia  informata  ai  nuovi 
studi,  come  io  potrei  citare  quella  del  Vanicek  e  quella  di  un  nostro 
italiano,  il  Baroni.  Però  anche  per  chi  conosca  profondamente  la 
sintassi  latina,  per  chi  abbia  digerito,  ammettiamo  anche,  tutta  la 
sintassi  del  Madvig,  il  libro  del  Drager  serba  delle  stupende  sorprese; 
anzi  di  quando  in  quando  rettifica  quello  che  fu  asserito  dal  Madvig; 
non  parliamo  poi  di  altre  sintassi,  che  pure  vanno  per  le  mani  degli 
studiosi.  Né  vi  ha  dubbio  che  chi  voglia  oggi  scrivere  una  sintassi 
latina,  per  quel  rispetto  che  si  deve  alla  lingua  e  alla  scienza,  abbia 
da  far  capo  al  libro  del  Dr'àger.  Il  quale  è  in  piena  regola  con  la 
critica  dei  testi,  e  lo  sa  il  Klotz,  il  cui  vocabolario  latino,  reputato 
il  migliore  o  fra  i  migliori  che  si  abbiano  in  Germania,  è  tante  volte 
dal  Drager  colto  in  fallo. 

Non  è  a  dire  che  nulla  si  desideri  nel  libro  del  Drager;  vi  si  de- 
sidera una  più  ampia  e  sistematica  trattazione  dei  poeti  classici,  ma 
non  gli  se  ne  può  far  rimprovero,  perchè  è  questa  una  conseguenza 
del  piano  di  studi  propostosi  dall'autore.  E  quindi  non  è  da  meravi- 
gliare se  nel  toccar,  secondo  l'occasione,  della  sintassi  di  essi  poeti, 
fa  qualche  asserzione  non  corrispondente  al  vero,  come  qualche  volta 
io  potrei  constatare  per  Vergilio.  —  Al  §  25,  dove  si  trova  una  serie 
di  sostantivi  che  si  possono  sottintendere  a  certi  aggettivi  adoperati 
sostantivamente,  avrei  voluto  che  si  fosse  notato  anche  il  nome  mensis. 
Ventimiglia,  i8  giugno  i88i.  RejMigio  Sabbadini. 


—  206 


Antonio  Cima.  Priiicipii  della  stilistica  latina.  Milano,  D.  Briola  e  C, 
j88i. 


Il  giovane  prof.  Cima,  già  conosciuto  favorevolmente  ai  lettori  di 
questa  Rivista,  ha  avuto  l'ottimo  divisamento  di  esporre  agli  Italiani 
i  principii  della  stilistica  latina,  servendosi  a  quest'uopo  delle  recenti 
pubblicazioni  tedesche  e  in  particolare  delle  lodate  opere  del  Nagels- 
bach  e  del  Klotz.  Diciamo  subito  eh'  egli  non  poteva  far  cosa  più 
utile  e  più  savia;  perchè  niente  giova  meglio  a  conoscere  nella  sua 
vera  essenza  la  lingua  latina,  e  insieme  ad  approfondire  lo  studio 
della  nostra,  che  il  paragonarle  indagandone  le  analogie  e  le  diffe- 
renze; paragone  tanto  più  proficuo  ai  dì  nostri,  quanto  che,  essendo 
quasi  del  tutto  caduta  in  discredito  l'abitudine  dello  scrivere  latino,  si 
vanno  perdendo  quei  vantaggi  incontestabili  che  da  tale  abitudine 
derivavano.  Le  osservazioni  che  fa  il  Cima  nella  Prefazione  per  di- 
mostrare l'utilità  di  uno  studio  diligente  e  profondo  della  lingua  la- 
tina sono  veramente  giudiziose,  e  otterranno,  credo  ,  1'  approvazione 
dei  ben  pensanti.  Nò  egli  si  scosta  dal  vero  quando  afferma  che  ad 
una  notizia  precisa  del  latino,  una  serie  di  proposizioni,  le  quali 
mettano  in  rilievo  l'indole  sua  peculiare,  non  è  meno  utile  e  meno 
necessaria  che  la  pratica  conoscenza  degli  scrittori. 

Venendo  alla  trattazione  della  materia,  TA.  comincia  a  far  notare 
tra  lo  stile  latino  e  1'  italiano  tre  specie  di  differenze  ;  materiali ,  lo- 
giche e  logico-materiali;  le  fa  vedere  mettendo  a  riscontro  un  periodo 
di  Cicerone  e  la  sua  traduzione  in  istile  moderno.  Poi  in  cinque  ca- 
pitoli tratta  delle  differenze  logiche  consistenti  :  a)  nella  sostituzione 
di  concetti  specifici  o  individuali  a  concetti  generici  o  specifici,  e  vi- 
ceversa; b)  nella  sostituzione  di  espressioni  astratte  o  concrete;  e)  nello 
scambio  di  concetti  subiettivi  e  obiettivi,  attivi  e  passivi  ;  d)  nell'uso 
della  circoscrizione  o  lessicale  o  logica  o  retorica.  11  7"  capitolo  è 
dedicato  alla  proposizione  ed  all'analisi  delle  sue  parti;  1'  8"  all'analisi 
del  periodo;  il  9°  allo  studio  dell'interno  organismo  della  proposi- 
zione e  del  periodo.  Per  ultimo  discorre  degli  arcaismi,  dei  grecismi, 
dei  neologismi,  i  quali  guastando  la  purità  e  proprietà  della  lingua 
lasciano  traccia  anche  nello  stile. 


—  207  — 

Come  si  vede  da  questo  breve  sunto,  e  come  dice  l'A.  medesimo 
(pag.  XIX-XX  della  prefaz.).  egli  si  scosta  nel  determinare  l'ambito 
della  sua  materia  dalle  vedute  del  Klotz,  e  s'accosta  di  preferenza  al 
Nagelsbach  ;  esclude  infatti  dalla  trattazione  della  stilistica  le  teorie 
della  purità,  della  chiare:j:;a,  della  varietà  del  discorso  ,  e  dell'  altre 
onde  il  Klotz  parla  nel  suo  manuale  ,  slimandole  oggetto  della  re- 
torica anziché  della  stilistica,  e  questa  volendo  limitata  a  mettere  in 
rilievo  la  special  maniera  di  concepir  le  cose  ed  esprimersi  dei  La- 
tini. Ma  alla  sua  volta  si  allontana  dal  Nagelsbach  nella  distribuzione 
della  materia  ;  e  cioè  in  vece  di  dividerla  secondo  le  parti  del  di- 
scorso, divisione  ch'egli  stima  più  da  grammatica  che  da  stilistica,  ei 
s' ingegna  di  raggruppare  le  principali  differenze  fra  le  due  lingue 
sotto  certe  classi  caratterizzate  da  quelle  particolarità  nell'atteggia- 
mento del  pensiero,  per  es.,  la  classe  dei  concetti  generici  e  specifici, 
quella  dei  concetti  astratti  e  concreti  ecc.,  discorrendo  poi  in  ciascuno 
di  quei  nomi,  aggettivi,  verbi,  in  cui  tale  differente  atteggiamento  del 
pensiero  si  manifesta.  In  questo,  pare  a  me,  il  Cima  ha  adoperato 
giudiziosamente,  e  la  materia  riesce  così  più  logicamente  ordinata, 
in  guisa  da  far  capire  subito  al  lettore  l'intima  natura  dello  stile  la- 
tino ed  italiano. 

Dubito  se  si  possa  dire  altrettanto  per  avere  escluso  dalla  stilistica 
ogni  considerazione  relativa  alla  chiarezza,  alla  varietà  ,  all'  armonia 
del  discorso  latino  ;  perchè  sebbene  questa  trattazione  sembri  cadere 
nel  dominio  della  retorica,  pure  tali  qualità  danno  anch'esse  uno 
stampo  particolare  al  latino  e  lo  caratterizzano  non  meno  delle  sue 
specialità  logiche.  Per  es.,  niuno  negherà  che  il  rotondamento  del 
periodo  e  il  niimerus  richiesto  da  Cicerone  anche  nella  prosa  sia  un 
carattere  divenuto  costante  nella  latinità,  sebbene  con  molta  varietà 
di  forme.  Considerazioni  di  questo  genere  non  vanno  ommesse  sicu- 
ramente, chi  voglia,  oltre  a  dei  principii  teoretici,  dare  pratici  pre- 
cetti per  tradurre  o  scrivere  in  buon  latino  ;  e  questo  era  anche  uno 
degli  scopi  che  il  Cima  s'era  proposto  col  suo  libro.  Ma  anche  pre- 
scindendo dall'utilità  pratica,  se  per  istile  si  deve  intendere  la  ma- 
niera speciale  di  concepire  le  cose  e  conseguentemente  d'esprimerle, 
una  teoria  dello  stile  mi  sembra  dovrebbre  abbracciare  tutto  quello 
che  a  tale  atteggiamento  del  pensiero  e  della  parola  presso  un  popolo 
si  riferisce,  anche  la  parte  ornamentale,  dato  che  questa  non  sia  una 
manifestazione  sporadica,  ma  proprio  una  forma  costante  e  però  in- 


-  208  — 
tima  del  pensiero  di  quel  popolo;  come  un  libro  d'architettura  trat- 
tando della  maniera  di  far  le  case  o  gli  altri  edifizi  non  è  ragionevole 
che  escluda  i  principi  dell'ornamentazione  che  il  buon  gusto  comune 
esige  omai  in  qualsiasi  costruzione  architettonica. 

Ma  lasciando  stare  tutto  ciò,  e  limitandoci  a  quello  che  il  Cima  ci 
ha  dato  nel  suo  libro  ,  si  può  dire  in  generale  che  le  teorie  vi  sono 
esposte  con  chiarezza  e  corredate  di  buon  numero  d'esempi  che  ser- 
vono a  spiegarle  e  imprimerle  meglio  nella  memoria  di  chi  legge. 
In  una  nuova  edizione  l'A.  avrà  forse  da  migliorare  qua  e  là  qualche 
espressione;  per  cs.,  il  §  i,  ove  si  parla  dello  stile,  nella  sua  forma 
presente  è  un  po'  oscuro,  e  un  giovane  lettore  difficilmente  ne  può 
trarre  un  concetto  preciso.  Sarà  poi  poco  meno  che  indispensabile 
corredar  l'opera  con  un  index  rerum  et  verborum  che  agevoli  la  ri- 
cerca delle  singole  cose. 

Conchiudendo,  noi  ci  rallegriamo  di  cuore  col  prof.  Cima  della 
sua  pubblicazione,  la  quale  stimiamo  che  potrà  divenire  e  un  eccel- 
lente manuale  per  gli  studenti  delle  scuole  secondarie,  e  una  buona 
guida  per  gli  insegnanti. 

Palermo,  giugno  1881. 

Felice  Ramorino. 


Ersilia  Caetani  Lovatf.lli.  Di  una  testa  marmorea  di  fanciullo  au- 
riga, Roma,  1880.  —  Di  una  antica  base  marmorea  con  rappre- 
sentante del  Nilo,  Roma,  1880.  —  Di  un  antico  musaico  a  colori 
rappresentante  le  quattro  fazioni  del  circo.  Roma,   1881. 

Allo  scritto  sul  cratere  dell'Esquilino  con  la  rappresentazione  delle 
nozze  di  Elena  e  Paride,  del  quale  ho  dato  ragguaglio  ai  lettori  della 
Rivista  (i),  la  contessa  Lovatelli  ha  fatto  seguire  in  poco  tempo  tre 
altri    lavori,  di  cui    due  uscirono    come  il  precedente  ed  altri    della 


(1)  Anno  IX,  p    147-151. 


-  209  - 

egregia  autrice,  nel  Biilletlino  della  commissione  archeolos^ica  comu- 
nale di  Roma,  e  il  terzo  fa  parte  delle  Memorie  dell'  Accademia  de' 
Lincei. 

Nel  primo  di  questi  lavori  è  descritta  una  testa  marmorea  scoperta 
nel  marzo  i8*^o  sull' Esquilino  ,  nell'antica  vigna  del  monastero  di 
Sant'Antonio.  La  testa  è  di  un  fanciullo  sui  quattordici  anni  con  un 
elmetto,  da  cui  escono  capelli  ricciuti  ed  originariamente  dorati  se- 
condo un  uso  noto  della  plastica  antica.  La  forma  dell'elmetto  in- 
duce a  ravvisare  in  questa  testa  l' imagine  di  un  agitatore  circense, 
per  il  quale  non  è  sconveniente  l'età  fanciullesca;  giacché  si  cono- 
scono altri  esempii  di  agitatori,  che  in  teneri  anni  incominciarono  la 
vita  del  circo.  Rarissime  sono  !e  figure  iconiche  di  agitatori;  onde 
singolare  pregio  possiede  questa  testa  finamente  e  maestrevolmente 
lavorata,  nella  quale  è  notevole  la  verità  dell'espressione.  La  contessa 
Lovatelli  reputa  sì  fatta  scultura  non  posteriore  al  secondo  secolo 
dell'  era  volgare,  nel  qual  tempo  appunto  i  giuochi  del  circo  erano 
in  grande  voga,  e  destavano  una  vera  smania  .  per  la  quale  agitatori 
e  cavalli  vincitori  con  imagini  ed  iscrizioni  erano  onorati. 

Una  base  cilindrica  di  marmo  parlo,  trovata  riell'ottobrc  dell'anno 
scorso  negli  scavi  per  le  fondamenta  del  nuovo  palazzo  dell'  Esposi- 
zione di  Belle  Arti  è  il  soggetto  del  secondo  scritto.  Su  questa  base, 
dell'altezza  di  m.  0,37  e  del  diametro  di  m  o,33,  sono  scolpiti  all'in- 
giro  bassirilievi,  i  quali,  sebbene  assai  consumati,  mostrano  però  di 
essere  stati  poco  accuratamente  lavorati,  ed  accennano,  col  loro  stile, 
alla  fine  del  secondo  secolo  dell'era  volgare.  Vi  è  effigiato  il  Nilo 
barbuto,  semigiacente,  col  cornucopia  ed  appoggialo  alla  Sfinge,  quale 
si  trova  rappresentato  in  altri  antichi  monumenti.  A  tale  proposito 
è  degna  di  osservazione  la  congettura  della  contessa  Lovatelli  che 
l'ignoto  oggetto  di  forma  piramidale,  che  tra  fiori  e  frutti  s'  inalza 
nel  cornucopia  del  Nilo  in  questo  rilievo  e  in  quello  di  altre  divinità 
in  altri  monumenti,  e  che  talora  è  anche  figurato  rappresentante  offerte 
votive,  sia  il  vomere  significante  che  l'agricoltura  debbe  venire  in 
aiuto  alla  ricchezza  ed  alla  fertilità,  simboleggiale  dal  corno  dell'ab- 
bondanza. Quattro  dei  genielti  solili  ad  accompagnare  le  figure  del 
Nilo  stanno  intorno  alla  imagine  descritta,  la  quale,  come  altre 
rappresentazioni  del  fiume  egizio,  tra  cui  la  colossale  del  museo  Pio 
dementino,  sono,  senza  dubbio,  riprodotte  da  un  qualche  bello  ed 
ammirato  simulacro,   probabilmente    da    quello,  che    Plinio   descrive 

lifvislJ  di  JilolOffia  ecc. .  X  I4 


-  210  - 

esistente  a'  suoi  giorni  a  Roma  nel  tempio  della  Pace  (i).  Alla  sinistra 
del  Nilo  stanno  in  diverso  atteggiamento  due  giovanetto,  di  cui  l'una 
è  pressoché  ignuda  e  l'altra  appena  da  sottili  vesti  coperta.  Esse  sono 
due  ninfe  nilotiche,  e,  come  suppone  la  illustratrice,  probabilmente 
iMenfide  e  Anchirroe,  figliuole  del  fiume.  Alla  destra  del  Nilo  poi 
un  barcaiuolo  nudo,  salvo  il  ventrale  a'  fianchi  e  la  caiisia  sui  capo. 
l'uno  e  l'altra  indumenti  proprii  de  barcaiuoli,  marinai  e  pescatori, 
se  ne  sta  seduto  entro  una  barchetta  con  timone  munito  del  manico 
(ansa)  e  della  manovella  [davus].  Con  la  sinistra  egli  si  appoggia 
alla  barchetta,  e  con  la  destra  tiene  una  canna  per  la  pesca  (arundo). 

L' intiera  scena  sembra  imitata  da  qualche  opera  anteriore  di  più 
valente  artefice,  forse  da  qualche  pittura.  La  base  poi  pare  fosse  de- 
stinata a  sostenere  un  candelabro;  ed  è  probabilissima  la  supposi- 
zione della  contessa  Lovaielli  che  questo  avesse  appartenuto  a  qualche 
tempio,  dove  si  celebravano  le  misteriose  cerimonie  del  culto  egizio, 
così  in  fiore  a  Roma,  specialmente  nell'età  degli  Antonini. 

Come  il  primo  dei  lavori  accennati  e  come  due  altri  scritti  della 
egregia  contessa  (2)  ,  la  terza  ed  ultima  delle  illustrazioni  da  lei  ora 
date  in  luce  concerne  un  soggetto  circense.  Fra  le  rovine  di  una  villa, 
edificata  sul  principio  del  terzo  secolo,  al  decimosettimo  miglio  della 
via  Cassia  non  distante  dalla  stazione  di  Baccanas  (Baccano),  fra  altri 
musaici  se  ne  rinvenne,  alcuni  anni  addietro,  uno  diviso  in  quattro 
quadretti  ,  in  ciascuno  de'  quali  è  rappresentato  un  auriga  in  piedi 
tenente  per  il  freno  un  cavallo  sauro.  Questi  aurighi  hanno  il  solito 
abito  circense  ,  la  tunica  quadrigaria  (xitùjv  vjvioxikóc;)  stretta  al  to- 
race da  striscie  di  cuoio.  In  capo  hanno  un  elmetto  con  un  piccolo 
pennacchio  ad  un  lato;  le  braccia  sono  coperte  da  lunghe  maniche  e 
le  gambe  da  brache  e  cnemidi.  11  colore  della  tunica  è  diverso  in 
ciascuno  degli  aurighi  :  bianco,  verde,  azzurro  e  rosso.  Sono  quindi 
rappresentate  le  quattro  fazioni  del  circo,  albata  ,  prasina ,  veneta  e 
russata,  le  quali,  sul  finire  del  secolo  terzo,  si  ridussero  a  due  sol- 
tanto, fondendosi  Valbata  con  la  prasina  e  la  russata  con  la  veneta^ 
e  tali  si  mantennero  a  Roma  e  poi  nella  nuova  capitale,  Costantino- 
poli, finché  furono  celebrati^  i  ludi  del  circo.  11  musaico,  ora  illu- 
strato, è  certamente  contemporaneo  alla  edificazione   della    villa;  ri- 


(1)  Nat.  Hist.,  XXXVI,  11. 

(2)  Vedi  Rivista,  anno  VII,  p.  399-4UU,  Vili,  p.  295. 


—  211  - 
saie  cioè  al  tempo,  in  cui  fiorenti  erano  gli  spettacoli  circensi,  e  a 
celebrare  i  loro  camp-ioni  si  destinavano  monumenti  d'ogni  maniera. 
Occorre  però  osservare  con  la  contessa  Lovatelli  come  dall'assenza 
de' nomi  presso  gli  aurighi  e  i  cavalli  (evidentemente  i  sinistri /tf- 
nales  di  ogni  quadriga,  cioè  quelli  meglio  addestrati  epperò  più  sti- 
mati e  ai  quali  si  attribuiva  in  gran  parte  la  vittoria)  si  deve  dedurre 
che  nel  musaico  non  si  vollero  effigiare  figure  iconiche,  ma  soltanto 
rappresentare  le  quattro  fazioni  contendentisi  la  palma  ne'  ludi.  Le 
quattro  figure  del  musaico,  confrontate  ira  di  loro  e  con  altri  monu- 
menti, in  cui  sono  rappresentati  agitatori,  mostrano  ancora  qualche 
leggera  differenza  nel  modo  di  vestire;  perciò  si  può  conchiudere 
che  se  uno  solo  era  il  modo  di  vestire  circense,  i  particolari  però  po- 
tevano essere  modificati. 

In  principio  del  suo  nuovo  lavoro  l'egregia  autrice  ci  manifesta 
aver  ella  «  spesse  volte  vagheggiato  l'idea  di  raccogliere  un  giorno 
«  insieme  ed  illustrare  ogni  sorta  di  monumenti  che  ai  giuochi  del 
«  circo  si  riferissero,  ed  offrire  così  ai  cultori  delle  archeologiche 
«  discipline  una  compiuta  e  generale  monografia  circense  ».  Tale  la- 
voro, fatto  da  chi  dimostrò,  come  la  eh.  contessa,  di  conoscere  così 
bene  l'archeologia  circense,  sarebbe  un  graditissimo  dono  agli  stu- 
diosi, che  per  s'i  fatto  argomento  non  posseggono  una  compiuta  mo- 
nografia oltre  a  quella  antica  di  Onofrio  Panvinio  (i).  Se  non  che  la 
egregia  autrice  lasciandoci  indovinare  il  suo  animo  da  gravi  cure 
amareggiato,  mestamente  soggiunge:  «  Se  tale  mio  desiderio  verrà 
V  mai  recato  ad  effetto,  lo  ignoro,  imperocché  pur  troppo  : 

Vitae  siimma  brevis  spam  uos  velat  inchoare  longam   - . 

iMa  noi  soggiungeremo  con  lo  stesso  Venosino    e    in  più  nobile  senso 
interpretando  le  sue  parole  : 

(1)  De  ludis  circensibìis  libri  //,  Venetiis,  16(J0,  lisiampntì  cuin  notis 
Joannis  ArgoLi  et  additamento  Nicolai  Piiielli  noi  volume  IX  del  The- 
saurus antiquitatum  Romanarum  del  Grevio  ,  p.  1-576,  nel  quale  vo- 
lume si  legge  pure  dopo  questa  la  dissertazione  di  Giulio  Cesare  Bu- 
i.KNGER,  De  circo  Romano,  ludisque  circensibus,  etc. 

Una  trattazione  di  questo  soggetto,  breve,  quale  la  richiedeva  1'  eco. 
iiomia  dell'opera,  e  in  relazione  col  disegno  dell' intero  lavoro,  si  ha  nel 
volume  III  della  Romische  Staatsverwaltuìii/  d^l  Marquardt,  pag.  484 
e  segg. 


-  212  - 

Quid  sit  fiitiintm  cras,  fiife  quaerere,  et 
Quem   Fors  dierum  cuuqiie  dabit,  lucro 
Appone. 

E  non  v'  ha  ,  crediamo,  per  yli  uomini  di  studio,  mezzo  migliore 
di  adoperare  utilmente  il  tempo  quando  il  cuore  sanguina  per  pro- 
tonde  ferite  che  dedicare  tutto  sé  stesso  ad  un  lavoro  di  lunga  lena, 
il  quale,  trasportandoci  nelle  serene  regioni  della  scienza,  ci  sollevi 
dai  nostri  dolori,  ce  li  faccia  per  un  poco  obliare.  Tali  lavori  di 
lunga  durata  diventano  amici  e  compagni  per  alcuni  anni  della  vita, 
sono  fonte  di  consolazione,  in  cui  l'animo  affranto  si  ritempra;  e, 
quando  si  ha  la  ventura  di  possedere  l'ingegno  della  contessa  Lova- 
telli,  sono  quasi  un  obbligo  verso  la  scienza  e  i  suoi  cultori,  i  (juali 
hanno  diritto  di  attendere  da  colui  .  che  può  darli,  maturi  e  con- 
siderevoli frutti  del  suo  sapere. 

Torino,   16  luglio   1881. 

Ermanno  Ferrerò. 


Victoris  episcopi  Vitensis   hisloria   persecutionis  Africanae  provinciae 
recensuit  Michael  Petschenig.  Vindobonae,   1881. 

Questa  nuova  edizione  della  storia,  scritta  da  Vittore  vescovo  di 
Vita,  della  persecuzione  contro  i  cattolici  d'Africa  fatta  nel  secolo 
quinto  dai  re  vandali  (ìenserico  e  Unerico,  costituisce  il  volume  set- 
timo del  Corpus  scriptorum  ecclesiasticorum  Latinorum  pubblicato  per 
cura  dell'Accademia  delle  Scienze  di  Vienna  (1).  Stampata  per  la 
prima  volta  a  Colonia  da  Beato  Renano  nel  ib'òy  ,  la  storia  del  ve- 
scovo di  Vita  fu  ripubblicata  più  volte,  e  fra  le  antiche  edizioni  si 
citano  quella  del  l.orichs  e  quella  di  D.  Ruinart  (Parigi  ,  i()94). 
Recentemente    uscì    per    cura   dell" Hai m   ne'  Monumenta    Germaniae 

(1)11  volume  primo  del  detto  Corpus  coni  piemie  Sulpicio  Severo  secondo 
la  recensione  di  Carlo  Halm,  che  curò  pure  il  volume  secondo  contenenle 
Minucio  Felice  e  Giulio  Firmico  Materno.  Nel  volume  terzo  si  hanno 
le  opere  di  San  Cipriano  (comprese  le  spurie)  edite  da  Guglielmo  Hai  tei, 
e  nel  quarto  Ainobio,  secondo  la  recensione  di  A.  lieifl'erscheid.  1  vohimi 
(]iiintu  (*  sosto  sou'i   sol  (o  i   torchi. 


—  213  — 

historica  (i).  Il  prof.  Michele  Petschenig,  che  attese  .'iirultima  edi- 
zione nel  Corpus  menzionato  ,  aveva  già  ragionato  dei  manoscritti 
della  storia  di  Vittore  in  un  accurato  lavoro  inserito  negli  Atti  del- 
l'Accademia viennese  (2).  Per  compiere  questa  sua  recensione  egli  si 
giovò  di  nove  manoscritti,  de'  quali  il  più  antico  e  migliore  è  un  co- 
dice della  biblioteca  di  Bamberga  del  secolo  IX.  De'  rimanenti  co- 
dici parte  deriva  dall'  archetipo,  con  cui  si  connette  il  ban-jbergcnsc, 
parte  da  un'altra  fonte  men  buona.  y\lla  storia  della  persecuzione 
segue  la  Passio  septem  monachorum^  che  soffrirono  il  martirio  sotto 
fJnerico,  attribuita  a  Vittore,  a  cui  però  non  appartiene,  e  la  così 
detta  Notitia  provinciarum  et  civitatum  Africae,  la  quale  contiene  i 
nomi  de'  vescovi  qui  Cartilagine  ex  praecepto  regali  venerunt  prò 
reddenda  ratione  jìdei  die  Kl.  Februarias  anno  sexto  regis  Hunerici, 
e  che  furono  coinvolti  nella  persecuzione. 

Torino.    11   settembre  1881. 

Ermanno  Ferrerò. 


Institutes  de  Gaius  —  6«  édition  (i'"'' francaise)  i\''2i\)VQs,Vapographum 
de  Studemund  par  Ernest  Dubois.   Paris,   1881. 


È  noto  come  nel  1816  il  Niebuhr,  venuto  per  visitare  1'  Italia,  rd- 
lorchè  meditava  di  scrivere  la  sua  storia  roman;i  ,  abbia  tosto  avuto 
la  singolare  fortuna  di  scoprire  in  un  palinsesto  della  biblioteca  ca- 
pitolare di  "Verona  il  testo  delle  perdute  Istituzioni  di  (ìaio.  Il  co- 
dice, secondochè  lo  stesso  Niebuhr  ed  altri  piscia  after marono.  non 
potè  essere  scritto  dopo  Giustiniano;  ma  si  deve  aggiungere  che  non 
pare  scritto  molto  tempo  innanzi,  laonde  conviene  assegnarlo  fra  il 
quinto  secolo  ed  il  sesto.  Più  tardi,  sembra  verso  l'ottavo  secolo,  sul 
testo  primitivo  se  ne  scrisse  un  altro,  quello  delie  lettere  di  San  Gi- 
rolamo; anzi  un  quarto  circa  delle  pagine  dell'intero  codice  porta 
tre  diverse  scritture.  Se  la  grafia  del  codice,   come  quella  in  generale 


(1)  Auctorum  antirjttis.iimorum  t.  Ili,  pars  prior,  Berolini,  1878. 

(2)  Dir.    hunds/hrl ft iirhe    Ueberlieferunc/  dea   Victor    von    Vita  [Si- 
tzungsber.  der  phit.-hist.   Classe,   XCVI  Band ,    1880,  p.  637  e  segg.!. 


-  214  - 

del  tempo,  a  cui  appartiene  non  presenta  grande  difficoltà  di  lettura, 
al  contrario,  la  sovrapposizione  di  altra  scrittura  con  la  necessaria 
cancellazione  o  sbiadimento  della  prima  rende  ardua  la  trascrizione 
esjiitissima  delle  Istituzioni .  interrotte  altresì  da  lacune,  più  o  meno 
lunghe;  onde  non  pochi  i  luoghi  dubhii,  che  aprono  quindi  il  campo 
alle  congetture  ed  alle  differenti  interpretazioni  degli  eruditi. 

La  prima  edizione  di  Gaio  comparve  nell'anno  seguente  alla  sco- 
perta del  Niebuhr,  e  fu  opera  dei  Goeschen,  del  Bekker  e  del  Be- 
thmann-HoUweg  ,  da  cui  fu  copiato  il  codice.  La  trascrizione  del 
Goeschen  fu  riveduta  dal  Bluhmc,  e,  giusta  questa  revisione,  usci  nel 
iS'24  la  seconda  edizione  dello  stesso  Goeschen,  alla  quale  tennero 
dietro  parecchie  altre,  tra  cui  la  terza  del  Goeschen  puhblicata  dal 
Lachmann  nel  1842,  le  cinque  del  Boecking  dal  ìS3j  al  1866,  le  due 
prime  dell'Huschke  ecc.  Il  Bluhme,  servendosi  di  più  energici  mezzi 
chimici,  lesse,  è  vero,  non  pochi  luoghi,  che  il  Goeschen  non  aveva 
potuto  leggere,  ma  la  lettura  di  quello  non  è  sempre  esatta,  più  di 
una  volta  essa  è  arbitraria.  Si  deve  poi  inoltre  lamentare  che  i  mezzi 
chimici  dal  Bluhme  adoperali  abbiano  in  qualche  luogo  gravemente 
danneggiato  il  manoscritto. 

Ma  l'inesattezza  della  trascrizione  del  Bluhmc  non  poteva  essere 
conosciuta  se  altri  non  avesse  assunto  la  grave  fatica  di  una  nuova 
e  compiuta  revisione  dell'intero  palintesto.  Alcuni  tentativi  erano 
stati  fatti  dopo  il  Bluhme;  ma  la  loro  inutilità  faceva  giudicare  di- 
spei-ata  impresa  ciucila,  a  cui  nel  i86t"i  si  accingeva  un  giovane  hlo- 
logo  tedesco,  (ìuglielmo  .'~<tudemund.  Se  non  che  questi,  non  lascian- 
dosi perdere  di  coraggio  dall'affermazione  del  Bethmann- Hollweg 
che  niuna  utilità  avrebbe  avuto  questa  revisione,  la  proseguì  con  co- 
laggio ed  alacrità,  ottenendo  importanti  risultamenti.  Piccole  lacune 
furono  colmate,  lezioni  dubbie  furono  confermate,  altre  respinte; 
in  una  parola,  si  potè  avere  un  testo  di  ({aio  non  solo  esatto,  ma 
meno  manchevole  di  quelli  dati  dalle  trascrizioni  del  Goeschen  e  del 
Bluhmc. 

Abbiam  detto  un  testo  meno  manchevole  ,  poiché  pur  troppo  di 
quell'insigne  monumento  della  romana  giurisprudenza,  che  si  è  il 
libro  di  Gaio,  noi  non  abbiamo  che  il  solo  palinsesto  veronese,  il 
quale,  oltre  a  piccole  lacune,  ha  circa  trenta  pagine  o  interamente  o 
in  massima  jiarie  illeggibili,  ed  è  privo  di  sei  pagine.  Tuttavia  la  tra- 
scrizione studcmundiana  ha  procuralo  il  modo  di  rettiHcare  alcuni 
punti  notevolissimi  non  solo  per  la  restituzione  del  testo  di  Gaio, 
ma  per  la  conoscenza  del  diritto  romano.  Alla  comunicazione,  fatta 
nel    i8Gq  al  congresso  de' filologi  tedeschi  a  Wurzburg,  lo  Studcmund 


-  215  — 

fece  seguire  nel  1874  la  pubblicazione  del  suo  apografo  (1),  e  nel  1877 
col  sussidio  del  Krliger  una  nuova  edizione  dell'opera  del  giurecon- 
sulto romano.  Già  un  dolio  olandese,  il  Polenaar,  l'aveva  preceduto, 
pubblicando  a  Leida,  secondo  il  nuovo  apografo,  un'edizione  di  Gaio. 
Seguirono  poi  nel  1878  l'edizione  dell' Huschke  a  Lipsia,  nel  1880 
quella  pure  lipsiense  dello  Gneisl  e  la  edimburghese  del  Muirhead  e 
in  principio  di  quest'anno  la  parigina  del  sig.  L mesto  Dubois,  pro- 
fessore nella  facoltà  di  diritto  di  Nancv  ,  nolo  per  altri  lodevoli  la- 
vori di  diritto  romano  e  moderno  (2). 

Questa  nuova  edizione  è  superiore  alle  precedenti,  perchè  ripro- 
duce esattamente  l'apografo  studemundiano  e  in  pari  tempo  adem[Mc 
all'ufficio  di  una  buona  edizione  critica  con  la  correzione  cioè  e  i  sup- 
plementi, ma  lasciando  interamente  separato  ciò  che  è  riproduzione 
dei  codice  da  quanto  è  restituzione  o  congettura.  Nelle  edizioni  an- 
tecedenti i  supplementi  erano  bensì  segnati  in  diversa  maniera  ;  m;i 
non  erano  sempre  indicate  le  soppressioni  e  le  correzioni  in  modo 
da  far  tosto  spiccare  ciò  che  era  scrittura  del  codice  da  ciò  che  era 
congettura  del  moderno  editore. 

Provvide  pertanto  il  prof.  Dubois  a  tor  di  mezzo  questo  incon- 
veniente, dando  una  riproduzione  dell'apografo  dello  Studemund  e 
riunendo  nelle  note,  a  pie  di  pagina,  le  restituzioni,  che  furono  pro- 
poste a  cominciare  dal  tempo  del  Niebuhr  sino  agli  ultimi  lavori, 
aggiungendovi  ancora,  ma  parcamente,  proprie  congetture.  Così  lo 
studioso  ad  ogni  luogo  guasto  ha  la  serie  cronologica  delle  emenda- 
zioni fatte  dai  diversi  editori  ed  anche  da  altri  dotti ,  come  dal  Sa- 
vigny,  Rudorff,  Mommsen,  ecc. 

La  riproduzione  dello  apografo  è  fatta  coi  caratteri  di  stampa  con- 
sueti ;  ma  l'editore  ebbe  sempre  cura  d'indicare  dove  finiscono  le 
linee  e  le  pagine  nel  codice  (indicando  in  nota  lo  stato  attuale  delle 
pagine,  sotto  l'aspetto  della  facilità  o  difficoltà  della  lettura),  segnando 
i  tratti  bianchi  nel  codice,  sottolineando  con  punti  le  parole  ancor 
dubbie  secondo  lo  Studemund,  e,  giusta  il  medesimo  trascrittore,  in- 


l)  (raii  Institutionum  commentarii  quatuor  codicis  Veiouensis 
denuo  collati  apographuiri  ooufeoit  et  iussu  Academiae  regiae  scientia- 
rum  Berolinensis  edidit  Guilel.mus  Studemund,  Lipsiae,  1874. 

(2)  Tra  i  primi  :  Le  Sénatus-consulte  Velléien  en  dì'oit  romain  et 
Vincapacité  de  la  femme  mariée  m  droit  fram^ais,  Paris,  1880  ;  La 
tahle  de  C1.es,  édit.  de.  Claude  de  l'  an  46,  Paris,  1872;  La  saisive  hé- 
reditaire  en  droit  romain,  Paris,   1880. 


-  216  - 

dicando  con  lettere  più  piccole  sulle  ordinarie  quelle,  che  in  luoghi 
di  tluhbia  lettura  si  p.ossono  forse  porre  in  luogo  di  queste. 

Il  prof.  Dubois  ha  voluto  pertanto  riprodurre  fedelissimamente  la 
trascrizione  dello  Studemund,  introducendovi  soltanto  la  punteggia- 
tura necessaria  per  la  lettura;  sciogliendo  le  sigle  e  le  note,  ma  in- 
dicando però  in  corsivo  le  lettere  aggiunte  per  lo  scioglimento.  Sopra 
un  punto  ci  pare  di  non  poter  consentire  con  l'egregio  editore;  cine 
sulle  restituzioni,  ch'egli  chiama  antiche  e  che  da  lui  sono  inserite  nel 
testo,  e  sulla  correzione  di  errori  di  copisti.  Quanto  alle  prime,  fon- 
date o  sui  frammenti  di  Gaio  conservati  nelle  Pandette,  o  sui  passi 
delle  Istituzioni  di  Giustiniano,  riprodotti  senza  dubbio  da  quelle  di 
(jaio,  o  suir^.'jL;/7omf  di  Gaio,  o  sulla  Mosaicanim  et  Romanarumlesj^iim 
collatio,  o  sulla  parafrasi  di  leotìlo,  sebbene  imiicate  tra  parentesi  (i), 
tuttavia  ci  sembrano  che  piìi  acconcio  luogo  avrebbero  potuto  avere 
in  nota.  È  vero  che  sono  passi  di  Gaio;  ma  qualche  lieve  alterazione 
non  può  essere  stata  dai  copisti  introdotta  ? 

Nelle  correzioni  poi  di  errori  di  lingua  è  difficilissimo  stabilire  un 
limite  esatto.  Non  conveniva  meglio  lasciare  il  testo  qual  era,  anche 
con  le  sue  scorrezioni,  le  quali  poi  non  sono  sì  gravi  da  impedire  di 
comprenderne  il  senso?  (2). 

Questo  punto,  su  cui  noi  dissentiamo  dall'editore,  è  picciolissima 
cosa  rispetto  alla  intera  opera.  A  noi  e  grato  unirci  a  coloro,  che  ac- 
colsero con  lode  questa  diligente  e  dotta  edizione  del  grande  giure- 
consulto. 

Torino.  9  novembre   1881. 

Erma.nno  Ferrerò. 


(1)  Semplici  per  i  passi  del  Digesto,  doppie  per  le  Istituzioni  giusti- 
nianee, triple  per  le  altre  opere. 

(2)  È  scambiata  ,  per  esempio  ,  sovente  la  v  in  h  ,  come  serhus  per 
servus^  sibe  per  sive\  ma  questo  scambio  che  la  latinità  ammise  (veg- 
gansi  le  iscrizioni,  specialmente  le  cristiane)  non  si  può  davvero  consi- 
derare siccome  un  errore. 


Pietro  Ussello,  gerente  responsabile. 


"BALLA    "BATTAGLIA    T)ELLA    TREBBIA 
qA   QUELLA    DEL    TRASIMENO 

QUESTIONI    DI    STORIA    ROMANA    (l). 

CAPITOLO    SECONDO 

Sulla  partew^a   di  C.  Flaminio   console 
designato  per  Panno  537/217. 


Livio  racconta  che  C.  Flaminio  ,  designato  console  per 
Tanno  537/217,  invece  di  rimanere  a  Roma  almeno  fino 
alle  Idi  di  marzo  che  era  il  giorno  in  cui  i  nuovi  consoli 
entravano  in  carica,  se  ne  andò  quasi  di  nascosto  a  Rimini 
e  assunse  l'ufficio  colà.  Cagione  di  questa  più  fuga  che  par- 
tenza del  console  romano  per  la  sua  provincia  era,  secondo 
lo  stesso  Livio  ,  la  seguente  :  Tutta  la  carriera  politica  di 
Flaminio  era  stata  una  lotta  continua  col  Senato  e  colla 
fazione  aristocratica  ,  quindi  temendo  che  i  suoi  avversari 
meditassero  vendicarsi  di  lui  trattenendolo  in  Roma  e 
cercando  dì  spogliarlo  del  consolato,  egli  pensò  bene  di  al- 
lontanarsi il  più  presto  possibile.  Né  i  legati  del  Senato 
andati  per  farlo  ritornare  a  Roma  a  compiervi  i  doveri  re- 
ligiosi e  civili  che  incombevano  ai  nuovi  consoli,  riuscirono 


;i)  Vedi  Rivista  di  Filologia,  anno  IX,  fase.   10-12,  p.  481-512. 
'Hjvista  di  Jiloloi^ia  ecc.,  A"  i5 


—  218  - 
a  persuaderlo.  «  Consulum  designatorum  alter  Flaminius  , 
cui  eae  legiones,  quae  Placentiae  hibernabant,  sorte  eve- 
nerant,  edictum  et  litteras  ad  consulem  misit,  ut  is  exer- 
citus  Idibus  Martiis  Arimini  adesset  in  castris.  Hic  in 
provincia  consulatum  inire  consilium  erat  memori  vete- 
rum  certaminum  cum  patribus ,  quae  tribunus  plebis  et 
quae  postea  consul  prius  de  consulatu  qui  abrogabatur  , 
dein  de  triumpho  habuerat ,  invisus  etiam  patribus  ob 
novam  legem,  quam  Q.  Claudius  tribunus  plebis  adversus 
senatum  atque  uno  patrum  adiuvante  C.  Flaminio  tu- 
lerat,  ne  quis  senator  cuive  -^enator  pater  fuisset  mariti- 
mam  navem,  quae  plus  quam  trecentarum  amphorarum 
esset ,  haberet.  Id  satis  habitum  ad  fructus  e\  agris  vec- 
tandos;  quaestus  omnis  patribus  indecorus  visus.  Res  per 
summam  contentionem  acta  invidia  apud  nobilitatem  sua- 
sori legis  Flaminio,  favorem  apud  plebem  alterumque  inde 
consulatum  peperit.  Ob  haec  ratus  auspiciis  ementiendis 
Latinarumque  feriarum  mora  et  consularibus  aliis  impedi- 
mentis  retenturos  se  in  urbe,  simulato  itinere  privatus  clam 
in  provinciam  abiit.  Ea  res  ubi  palam  facta  est,  novam  in- 
super iram  infestis  iam  ante  patribus  movit:  non  cum  se- 
natu  modo  sed  iam  cum  diis  immortaiibus  C.  Flami- 
nium  bellum  gerere.  Consulem  ante  inauspicato  factum 
revocantibus  ex  ipsa  acie  diis  atque  hominibus  non  pa- 
ruisse-,  nunc  conscientia  spretorum  et  Capitolium  et  sol- 
lemnem  votorum  nuncupationem  fugisse ,  ne  die  initi 
magistratus  lovis  optimi  maximi  templum  adiret  ;  ne 
senatum  invisus  ipse  et  sibi  unum  invisum  videret  con- 
suleretque  -,  ne  Latinas  indiceret  lovique  Latiari  sol- 
lemne  sacrum  in  monte  faceref,  ne  auspicato  profe- 
ctus  in  Capitolium  ad  vota  nuncupanda,  paludalus  inde 
cum  lictoribus  in  provinciam  iret.  Lixae  modo  sinc  in- 
signibus ,  sine  lictoribus    profectum  clam  ,  furtim  ,  haud 


—  219- 
aliter  quam  si  exilii  causa  solum  vertisset.  Magis  prò  ma- 
iestate  videlicet  imperii  Arimini  quam  Romae  magistra- 
tum  initurum,  et  in  deversorio  hospitali  quam  apud  pe- 
nates  suos  praetextam  sumpturum.  Revocandum  universi 
retrahendumque  censueruni  et  cogendum  omnibus  prius 
praesentem  in  deos  hominesque  fungi  officiis,  quam  ad 
exercitum  et  in  provinciam  iret.  In  eam  legationem  (le- 
gatos  enim  mitti  placuit)  Q.  Terentius  et  M.  Antistius 
profecti  nihilo  magis  eum  moverunt,  quam  priore  consu- 
latu  litterae  moverant  ab  senatu  missae.  Paucos  post  dies 
magistratum  iniit,  inmolantique  ei  vitulus  iam  ictus  e  ma- 
nibus  sacrificantium  se  se  cum  proripuisset,  multos  cir- 
cumstantes  cruore  respersit;  fuga  procul  etiam  maior 
apud  ignaros,  quid  trepidaretur,  et  concursatio  fuit.  Id  a 
plerisque  in  omen  magni  terroris  acceptum.  Legionibus 
inde  duabus  a  Sempronio  prioris  anni  consule,  duabus  a 
C.  Atilio  praetore  acceptis,  in  Etruriam  per  Appennini 
tramites  exercitus  duci  est  coeptus  »   (i). 


(]}  Livio,  2 1 .  63. 

Occorre  che  facciamo  tre  osservazioni  a  proposito  di  questo  passo 
di  Livio.  I'  Nelle  parole  di  Livio  de  consulatii  qui  abrogabatur  il 
verbo  è  usato  in  senso  lato,  non  in  senso  rigoroso,  perchè  abrogare 
voleva  dire  togliere  un  ufficio  mediante  una  legge  [rogatio]  ;  ma  nel 
53 1/223  Flaminio  e  il  suo  collega  nel  consolato  non  vennero  privati 
dell'ufficio  direttamente  nei  comizi  del  popolo  per  mezzo  d'una  ro- 
gazione,  essi  furono  soltanto  invitati  a  deporlo,  coli' annunziar  loro 
ufficialmente  che  essi  erano  stati  vitio  creati,  cioè  che  la  loro  elezione 
era    viziosa    e    imperfetta.  Questo  sia  detto    a    scanso   d'equivoci.  — 

2»  Le  parole  di  Livio  ratus retenturus  se  in  urbe  secondo  me  non 

possono  significare,  se  non  che  Flaminio  credeva  che  lo  avrebbero 
spogliato  del  consolato,  se  egli  fosse  rimasto  a  Roma,  intendiamoci 
bene,  dico  che  questa  è  l'idea  di  Livio,  non  che  questa  ragione  ad- 
dotta da  Livio  per  spiegare  la  partenza  prematura  di  Flaminio  sia  la 
vera  ;  cf.  §  4"  di  questo  capitolo.  Ma  che  Livio  scrivendo  come  scrisse, 
credesse  come  io  spiego,  non  c'è  dubbio  :  che  un  retinere  in  urbe  così 
temuto  dal  nuovo  console  da  indurlo  a  fuggire  da  Roma  di  nascosto 


—  220  - 

Tale  è  il  fatto  che  imprendiamo  ad  esaminare,  e  tale  è  il 
modo  con  cui  Livio  lo  narra. 

L'  esame  della  quistione  relativa  alle  Fonti  superstiti  di 
esso,  lo  faremo,  naturalmente,  nel  corso  del  capitolo ,  non 
però  in  principio,  contrariamente  alla  consuetudine  generale 
di  aprire  le  investigazioni  storiche  colla  disamina  delle  te- 
stimonianze ;  tali  disamine  infatti,  mirando  a  sceverare  dal 
vero  delle  notizie  ogni  aggiunta  arbitraria  frammischiatasi 
in  processo  di  tempo  alla  verità,  stanno  bene  in  principio, 
generalmente  parlando;  ma  il  nostro  caso  è  eccezionale*,  la 
moltitudine  delle  cose  da  dire  e  la  fisonomia  speciale  che 
la  questione  ,  come  vedremo  ,  viene  questa  volta  ad  assu- 
mere, richiedono  un  ordine  diverso  dal  solito  ;  diverso  nei 
mezzi,  non  nel  fine  che  è  sempre  la  chiarezza  del  disegno 
e  della  disposizione  delle  parti.  Ma  veniamo  senz'altro  alla 
cosa. 

Qual  è  il  motivo  per  cui  vogliamo  esaminare  la  partenza 
prematura  di  Flaminio?  Il  motivo  1' abbiam  detto  nell'in- 
troduzione notando  che  cotesta  partenza  è  un  fatto  pieno  d'in- 
teresse dal  puntq  di  vista  del  diritto  pubblico  dei  Romani, 
essendo  quella  la  prima  volta,  a  quanto  sappiamo,  che  un 
console  lasciava  Roma,  mentre  era  semplice  console  desi- 
gnato, senza  aspettare  d'essere  entrato  effettivamente  in  carica, 
per  recarsi  nella  propria  provincia.  Due  sono  poi  le  parti 
del  nostro  compito  in  questo  proposito:  nella  prima  fa  mestieri 
discutere  la  verità  storica  del  fatto,  per  metterla  in  sodo,  o 
viceversa  per  metterla  in  dubbio-,  nella  seconda,  che  natu- 


doveva  essere  evidentemente  non  soltanto  un  farne  indugiare  la  par- 
tenza, ma  un  impedirgliela  del  tutto,  cioè  dunque  una  spogliazione 
dell'ufficio.  —  3"  Dissi  che  tutta  la  carriera  politica  di  Flaminio  era 
stata  una  lotta  col  Senato;  si  eccettui  però  la  sua  censura:  cf.  più 
innanzi. 


-  221  - 
Talmente  può  aver  luogo  soltanto  nel  caso  che  la  verità  del 
fatto  sia  stata  riconosciuta  incontestabile,  occorre  meditare 
sul  fatto  stesso  nell'intento  di  indagare  meglio  e  quasi  svi- 
scerare lo  stato  interno  della  Repubblica  in  quel  momento. 
Un  esame  così  largamente  concepito  del  fatto  manca  tuttora-, 
però  non  mancano  alcune  ricerche  parziali  :,  ma  esse  sono 
inadeguate  nelP  estensione  e  nel  metodo,  e  paionmi  errate 
nella  conchiusione  a  cui  pervengono  (negando  la  verità  della 
partenza  anticipata  di  Flaminio),  come  si  vedrà  a  suo  luogo, 
quando  passeremo  in  rassegna  ciò  che  in  sostanza  esse  con- 
tengono. Le  molte  cose  che  dobbiamo  dire  sulT  argomento 
di  questo  capitolo  si  possono  acconciamente  dividere  in 
quattro  parti  che  formeranno  dunque  quattro  paragrafi  : 
nel  primo  ricercheremo,  se  in  tesi  generale  l'assenza  da  Roma 
di  uno  dei  nuovi  consoli,  nel  giorno  in  cui  questi  assume- 
vano l'ufficio  e  nei  giorni  seguenti,  fosse  una  cosa  possibile 
o  impossibile  nell'  età  della  seconda  guerra  punica;  e  tro- 
veremo che  era  possibile.  (Son  queste  le  considerazioni  che 
devono  essere  la  base  di  tutta  la  trattazione-,  eppure  esse 
mancano  totalmente  nelle  ricerche  parziali  alle  quali  accen- 
navo ora).  Nel  secondo  paragrafo  indagheremo,  se  la  cosa, 
possibile  in  genere,  paia  probabile  e  vera  nel  caso  concreto 
di  Flaminio;  e  molte  considerazioni  di  più  sorta,  non  fatte 
da  coloro  che  la  negano  ,  ci  porteranno  a  credere  di  sì. 
Così  accertata  la  verità  del  fatto,  passeremo  in  rassegna,  nel 
terzo  paragrafo  ,  le  obbiezioni  sollevate  contro  di  esso.  In 
fine,  nel  quarto  paragrafo,  ci  serviremo  del  fatto  per  spin- 
gere lo  sguardo  un  po'  addentro  nella  storia  interna  di 
Roma  in  que"  giorni  calamitosi. 

^  I.  Se,  e  per  me:[:{0  di  quali  spedienti,  fosse  possibile 
permettere  l'  assenna  da  Roma  ad  uno  dei  nuovi  consoli 
nel  giorno  in  cui  questi  ultimi  assumevano  l'ujfìcio  e  net 


-222  - 
giorni  susseguenti.  Badiamo  bene  che  parliamo  delTassenza 
di  un  solo  dei  due  consoli,  e  non  dell'assenza  di  ambedue. 
La  quistione  che  qui  sollevo  è  importante,  e  nondimeno 
intentata  finora  (i).  Certo  Tavranno  trattata  quegli  antichi 
scrittori  romani  che  discorsero  del  loro  diritto  pubblico  , 
quali  furono,  ad  esempio,  C.  Sempronio  Tuditano  (2),  M. 
Giunio  Gracchano  (3),  e  Cincio  (4)  -,  ma  le  loro  opere  son 
perdute;  né  i  critici  moderni  istituirono  indagini  di  sorta 
su  questo  argomento  (5).  Ora  è  chiaro  che  la  risposta  alla 


(i)  Il  MoMMSEN  (Staatsrecht,  1,  594,  seconda  edizione)  dice  soltanto 
che  l'entrare  in  carica  fuori  di  Roma  era  bensì  procedimento  irrego- 
lare, ma  tuttavia  possibile;  ma  egli  del  tempo  della  Repubblica  non 
cita  che  l'esempio  di  C.  Flaminio,  esempio  di  cui  egli  altrove  {R6- 
mische  Forschungen,  2,  99)  contesta  la  verità  storica.  Il  Lance  poi 
parlando  della  cosa  [RÓmische  Alterthìlmer,  i,  622  segg.,  seconda  edi- 
zione) non  nota  nemmeno  se  1'  ufficio  si  dovesse  assumere  in  Roma 
o  si  potesse  assumere  anche  altrove.  A  questo  proposito  aggiungerò 
che  il  Lange,  discorrendo  delle  formalità  incombenti  ai  nuovi  consoli, 
dice  troppo  recisamente  che  il  trascurarle  era  illegale  e  tuttavia  non 
cagionava  la  perdita  dell'  ufficio.  Vogliono  essere  sempre  evitate  tali 
asserzioni  generiche,  quando  esse  non  sono  la  conclusione  di  un'ana- 
lisi; Fautore  poi  enumerando  le  formalità  dimenticò  il  giuramento 
delle  leggi,  formalità  tanto  essenziale  che  trascurandola  si  perdeva 
l'ufficio;  l'autore,  inoltre,  badò  poco  bene  alla  legge  curiata,  senza  la 
quale  il  console  non  poteva  comandare  gli  eserciti  come  ci  mostrano 
le  testimonianze  degli  scrittori  e  le  questioni  di  diritto  sorte  in  pro- 
posito di  essa;  anche  il  dire  ch'egli  fa  {Róm.  Alterthilm.,  1,  35i,  596, 
seconda  edizione),  che  nei  tempi  posteriori  la  legge  curiata  non  avea 
più  importanza  è  troppo. 

(2)  Nell'opera  intitolata  Libri  magistratiim. 

(3)  Nell'opera  De  potestatibus. 

(4)  Nell'opera  De  consulum  potestate. 

(5)  In  prova  di  consolati  assunti  lungi  da  Roma  i  critici  citano  gli 
esempi  di  C.  Giulio  Cesare  (Dione  Cassio,  41,  39;  Appiano,  Bell, 
civ..  2,  48  ;  cf.  Dru.mann',  Geschichle  Roms,  voi.  3,  475  ;  Seeck,  Hermes, 
8,  164),  di  Cesare  Augusto  (Suetonio  Aug.,  26;  cf.  Mommse^,  Staats- 
recht, I,  594  seconda  edizione)  e  dell'imperatore  Pertinace  [Vita  Per- 
tinacis,  3  ;  cf.  Mo.mmsen,  ivi).  Ma  questi  esempi,  desunti  da  epoche 
siffatte,  non  provano  nulla  per  quanto  concerne  la  buona  età  della 
Repubblica. 


-  223  — 
questione,  se  c'è,  si  deve  trovare  nelle  istituzioni  dei  Romani 
e  nei  fatti  storici.  Certo  le  consuetudini  romane  presuppo- 
nevano la  presenza  dei  due  nuovi  consoli  in  Roma  ,  do- 
vendo essi,  prima  di  partire  per  la  guerra,  compiere  molte 
cerimonie  e  spedire  molti  affari  che  non  soffrivano  dilazione-, 
ma  d'altra  parte  è  naturale  che,  occorrendo,  si  lasciasse 
partire  un  console  designato,  e  che  in  certe  contingenze  spe- 
ciali si  permettesse  che  chi  era  stato  eletto  console  mentre 
era  lontano  da  Roma,  non  vi  facesse  ritorno  pel  giorno  in 
cui  diventava  console  effettivo.  Sembrandomi  anzi  impossi- 
bile che,  in  tanti  secoli  e  per  serie  sì  lunga  di  guerre  ,  a 
Roma  non  sia  mai  accaduto ,  fino  al  tempo  di  Giulio  Ce- 
sare, un  fatto  eccezionale  di  questo  genere ,  e  persuaso  di 
trovare  esempi  molto  più  antichi ,  ho  percorso  le  storie  di 
Livio,  e  la  mia  supposizione  ebbe  piena  conferma.  Proprio 
durante  la  seconda  guerra  punica,  a  distanza  di  qualche 
anno  appena  dal  secondo  consolato  di  C.  Flaminio,  ho  rin- 
venuto tre  esempi  -,  questi  esempi  riguardano  uno  dei  con- 
soli designati  degli  anni  540/214,  544/210,  546/208,  e  sono 
i  seguenti  : 

a)  Sul  finire  del  539/215  i  comizi  centuriali  elessero 
consoli  pel  540/214  M.  Claudio  Marcello  e  Q.  Fabio  Mas- 
simo. Ma  Marcello,  eletto  mentre  era  assente  (i),  non  venne 
poi  nemmeno  a  Roma,  perchè  parlando  degli  arruolamenti 
che  incombevano  ad  ambedue  i  consoli,  Livio  menziona 
Fabio  Massimo  e  non  menziona  Marcello  (2),  e  perchè 
narrando   al    solito  la  partenza    dei  consoli  per  la  guerra , 


(i)  Livio,  24,  9,  9  :  «  Absens  Marcellus  consul  creatus  quum  ad 
exercitum  esset,  praesenti  Fabio  atque  ipso  comitia  habente  consulatus 
continuatus  ». 

(2)  Livio,  24,  11,  6:  «  Dilectu  habilo  el  cemum  navibus  novis  de- 
ductis,  Q.   Fabius  comitia  censoribus  creandis  habuit  ». 


—  224  — 

parla  bensì  di  Fabio,  ma  tace  di  Marcello  (i).  La  cosa  mi 
pare  chiarissima,  sebbene  i  critici,  anche  più  illustri,  siano 
stati  tratti  in  errore  (2). 

P)  M.  Valerio  Levino  fu  creato  console  pel  544/210 
mentre  era  lontano  da  Roma ,  dove  egli  non  era  ancor 
giunto  il  16  marzo,  nel  qual  giorno  nondimeno  assunse  Puf- 
ficio  di  console.  (Livio,  26,  26,  5):  «  M.  Marcellus  quum 
Idibus  Martiis  consulatum  inisset ,  senatum  eo  die  moris 
modo  causa  habuit,  professus  nihil  se  absente  collega  neque 
de  re  publica  neque  de  provinciis  acturum  ».  Dunque  entrò 
in  carica  non  in  Roma  ma  fuori  di  Roma. 

y)  Lo  stesso  Marcello,  dopo  essere  stato  designato  al 
suo  quinto  consolato  per  Tanno  546/208,  venne  spedito  in 
Etruria  dove  erano  scoppiati  moti  di  ribellione  (3).  Livio 
dice  che  bastò  il  solo  ordine  dato  a  xMarcello  perchè  gli 
Etruschi  posassero  ,  donde  parrebbe  inferirsene  che  Mar- 
cello ritornò  subito  a  Roma.  Ma  Plutarco  scrive  che  Mar- 
cello sedò  i  moti  percorrendo  il  paese  (èv  Tuppiivia  ^é^a 
KÌvn)na  Ttpò^  àTTÓCTacTiv  eirauae  Kai  KateTTpàuvev  èTieXGujv  tà? 
7TÓ\ei?,  Marcello,  c.  28)  :  quindi  è  diffìcile  credere  che  egli 
siasi  potuto  trovare  a  Roma  pel   1 5  marzo   a    prendervi  il 


(i)  Livio,  24,  12,  5:  «  Fabius  Maximus ,  postquam  Hannibalem 
Arpis  profectum  el  regredì  in  Campaniam  allatum  est,  nec  die  nec 
nocte  intermisso  itinere  ad  exercitum  redit     . 

{2)  Alludo  al  Rubino  e  al  Mommsen,  dei  quali  il  primo  asserisce 
che  in  principio  del  640/214  ambedue  i  nuovi  consoli  trovavansi  a 
Roma,  e  il  secondo  che  trovavansi  ambedue  lontani  da  Roma.  Ma  di 
ciò  diremo  fra  poco. 

(3)  Livio,  27,  21,  6:  «  Comitiorum  ipsorum  diebus  sollicita  civitas 
de  Etruriae  defectione  fuit.  Principium  eius  rei  ab  Arretinis  fieri  C. 
Calpurnius  scripserat,  qui  eam  provinciam  prò  praetore  obtinebat. 
Itaque  confestim  eo  missus  Marcellus  consul  designatus,  qui  rem  in- 
spiceret  ac,  si  digna  videretur  ,  exercitu  accito  bellum  ex  Apulia  in 
Etruriam  transferret.  Eo  melu  compressi  Etrusci  quieverunt  ».  Cf. 
Plutarco,  Alarceli.,  27. 


-  225  — 
consolato.  Ad  ogni  modo  però ,  col  mandarlo  in  Etruria 
nella  qualità  di  console  designato  (i),  il  Senato  consentiva 
implicitamente  a  lasciargli  assumere  Tufficio  fuori  di  Roma, 
non  potendosi  sapere  se  la  ribellione  degli  Etruschi  sarebbe 
stata  condotta  tanto  prontamente  a  fine,  che  Marcello  po- 
tesse essere  di  ritorno  pel   1 5  marzo. 

Dunque,  nell'età  della  seconda  guerra  punica  al  più  tardi, 
si  cominciò  a  permettere  Tassenza  in  questione  di  un  con- 
sole designato.  La  cosa  mi  par  certa  e  molto  importante. 
Ora  procediamo  innanzi  e  vediamo  gli  spedienti  che  in  tali 
congiunture  si  dovettero  adottare  per  dar  luogo  a  questo 
fatto  eccezionale.  In  Roma,  prima  di  partire  e  mettersi  alla 
testa  degli  eserciti ,  i  nuovi  consoli  avevano  più  sorta  di 
faccende  da  spedire  e  più  sorta  di  cerimonie  religiose  e  non 
religiose  da  compiere-,  importa  quindi  investigare  come  può 
e  deve  essere  avvenuta  la  dispensa  da  siifatte  faccende  e  da 
siffatte  cerimonie ,  accordata  ,  nei  tre  casi  ora  enumerati  e 
in  tutti  i  casi  simili  a  questi,  a  quel  nuovo  console  che  non 


(i)  L'invio  di  Marcello  in  Etruria  sullo  scorcio  del  545/209  nella 
qualità  di  console  designato  non  venne  mai  rilevato;  quindi  non  fu 
nemmeno  sollevata  una  questione  che  necessariamente  ne  scaturisce, 
ed  è  la  seguente.  Al  suo  partire  per  l'Etruria  Marcello  non  possedeva 
ancora  T  imperio  consolare,  perchè  era  semplicemente  console  desi- 
gnato ;  d'altra  parte  però  egli  non  possedeva  più  l'imperio  proconso- 
lare di  cui  era  stato  investito  per  1'  anno  545/209,  perchè  gì'  imperii 
fondati  sopra  semplice  proroga  cessavano  al  varcar  del  pomerio  per 
rientrare  in  Roma.  Con  che  imperio  andò  dunque  Marcello  in  Etruria? 
È  poco  probabile  che  gli  fosse  restituito  l'imperio  proconsolare  per- 
duto rientrando  in  Roma,  perchè  al  promagistrato  non  era  lecito  ri- 
petere gli  auspici  di  guerra,  e  senza  tali  auspici  non  si  prendeva  il 
comando  d'un  esercito.  Piìi  probabile  è  che  gli  sia  stato  consentito 
in  anticipazione,  come  console  designato,  l'esercizio  dell'imperio  con- 
solare. Se  questa  mia  ipotesi  è  vera ,  siccome  il  console  designato 
possedeva  ed  esercitava  più  sorta  di  diritti  (dei  quali  discorre  Mom- 
SEN,  Staatsrecht,  i,  571,  seconda  edizione),  a  questi  diritti  sarebbe  da 
aggiungere  questo  ch'io  dissi. 


-  226  - 
si  sarebbe  trovato  a  Roma  in  principio  delT  anno.  Questa 
investigazione  non  solo  è  utile,  ma  è  altresì  necessaria  perchè 
in  essa  ritroveremo  confermato  che  1'  eccezione  della  quale 
parliamo  non  è  una  semplice  ipotesi.  Per  ciò  che  concerne 
adunque  le  faccende  da  spedire  mi  pare  che  nulla  dovesse 
tornar  più  facile  che  lo  stabilire  che  il  console  presente  in 
Roma  vi  attendesse  da  solo  a  nome  proprio  e  a  nome  del 
collega  nello  stesso  tempo  :  stabilire  ciò  nella  metà  del  sesto 
secolo  era  nient'altro  che  ripristinare  provvisoriamente  una 
istituzione  antica  ,  durata  molto  tempo  e  poi  cessata.  Nei 
primi  secoli  della  Repubblica  non  furono  soliti  i  consoli 
esercitare  per  turno  il  loro  potere  ,  comandando  un  mese 
ciascuno?    (i).    Per    tacere    che    accadendo    che    un   con- 


(i)  Ci  vollero  più  secoli  prima  che  i  Romani  ,  avvezzi,  ali"  uscire 
dalla  forma  monarchica  di  governo ,  a  vedere  un  solo  uomo  al 
comando  ,  si  penetrassero  appieno  della  natura  del  governo  conso- 
lare ,  secondo  la  quale ,  in  teoria  almeno ,  ogni  cosa  doveva  esser 
fatta  da  ambedue  i  consoli  fungenti  insieme  in  forma  di  collegio.  In 
tutto  quel  frattempo  i  consoli  preferirono  avere  il  potere  alternata- 
mente un  mese  per  uno  (parlo  naturalmente  del  principio  dell'anno, 
durante  il  loro  soggiorno  in  Roma  prima  di  partire  per  la  guerra  , 
parlo  cioè  della  sfera  d'  azione  circoscritta  in  Roma,  domi).  Il  con- 
sole a  cui,  secondo  il  turno,  toccava  il  comando,  era  quello  che  avea 
i  fasci  che  erano  il  simbolo  e  l' insegna  dell'  autorità,  ed  era  proba- 
bilmente quello  che  chiamavasi  perciò  console  mags^iore  (Pesto  ed. 
MiJLLER ,  i6i  :  «  maiorem  consulem  L.  Caesar  putat  dici  vel  eum 
penes  qiietn  fasces  sint,  vel  eum  qui  prior  factus  sit  »  ;  cf.  Becker  , 
Antiquitaten,  2,  2,  ii3;  Lance,  Rom.  Altertìiìim.,  2,  617.  seconda 
edizione;  Mommsen,  Siaatsrccht,  i,  38,  seconda  edizione).  Del  resto 
non  per  ogni  funzione  troviamo  ricordato  negli  antichi  l'esercizio  al- 
terno del  potere  fra  i  due  consoli,  anzi  lo  troviamo  ricordato  sol- 
tanto, oltre  che  nell'amministrazione  della  giustizia,  nella  convoca- 
zione e  presidenza  del  Senato  durante  i  secoli  quarto  e  quinto  di 
Roma  (Dionigi,  6,  Sy  ;   io,  57;  Livio,  9,  8,   i  . 

Quando  sia  caduto  in  disuso  cotesto  turno  non  è  noto  ;  certo  era 
cessato  nel  secolo  sesto.  Una,  ma  non  la  sola,  delle  cagioni  che  fe- 
cero cessare  il  turno  e  fecero  nascere  l'operare  collegialmente  dei 
consoli  fu  evidentemente  il  sentimento  dellindole  medesima  dell' uf- 


-  227  - 
sole  fosse    morto  in  principio  delT  anno  sarebbe  toccato  al 
collega  superstite  il  fungere  da  solo  fino  alla  nomina  d'un 
altro  console  che  prendesse  il  luogo  del  console  morto  (i), 


ficio:  due  erano  i  consoli,  e  di  pari  potere,  e  dovevano  quindi  ope- 
rare insieme.  Il  Mommseì^  {Staatsrecht,  1,42,  seconda  edizione),  vede 
poi  un'altra  cagione,  anzi  la  precipua,  nel  bisogno  che  ogni  console 
avea  di  evitare  1'  opposizione  del  collega,  perchè,  com'  è  noto,  anche 
al  console  privo  di  fasci  e  di  potere  competeva  però  il  potere  nega- 
tivo, cioè  il  diritto  del  veto;  secondo  quest'ipotesi  ebbe  fine  il  sistema 
del  turno  quando  i  consoli  dissero  :  operiamo  in  comune  affinchè  non 
accada  che  uno  di  noi  impedisca  quello  che  l'altro  voleva  fare,  lo 
non  so  se  il  Mommsen  abbia  ragione  qui  :  il  diritto  del  veto  e  quindi 
l'inconveniente  dell'opposizione  è  antico  quanto  il  consolato,  e  perciò 
se  questo  inconveniente  fosse  dispiaciuto  a  segno  da  far  abbandonare 
il  sistema  del  turno,  cotesto  turno  non  sarebbe  durato  quanto  è  du- 
rato. Quindi  la  cagione  precipua  per  cui  cessò  il  turno  nell'esercizio 
del  potere  consolare  fu  un'altra;  e  fra  le  varie  che  riflettendo  sulla 
cosa  mi  vennero  in  mente,  la  più  probabile  parmi  la  seguente,  che 
forse  è  la  vera.  È  noto  che  i  Romani  mandavano  ogni  anno  gli  eser- 
citi in  campo;  queste  campagne,  comandate  naturalmente  dai  consoli, 
per  alcuni  secoli  furono  circoscritte  ai  popoli  abitanti  a  breve  distanza 
da  Roma  ;  per  tutto  questo  tempo  adunque  esse  furono  di  breve  du- 
rata, tanto  che  i  consoli  potevano  sempre  passare  piij  mesi  in  Roma 
prima  di  incominciarle,  e,  ritornatine,  di  nuovo  passare  altri  mesi 
prima  che  1'  anno  del  loro  ufficio  fosse  finito  ;  in  tale  condizione  di 
cose  tornava  possibile  ai  consoli  comandare  un  mese  per  uno,  il  loro 
soggiorno  a  Roma  essendo  di  piìi  mesi  tanto  in  principio  quanto  alla 
fine  dell'  anno.  Ma  il  teatro  delle  guerre  andò  sempre  più  allonta- 
nandosi da  Roma,  la  partenza  dei  consoli  si  andò  sempre  maggior- 
mente anticipando,  e  viceversa  differendo  il  ritorno  loro;  troppo 
spesso  il  loro  soggiorno  a  Roma  non  si  protraeva  nemmeno  a  due 
mesi  né  in  principio  né  in  fine  dell'anno;  così  stando  le  cose  era 
impossibile  continuare  nel  sistema  dell'imperare  per  turno,  perchè  se 
l'uno  dei  consoli  risicava  di  non  finire  il  suo  mese  di  comando,  il 
collega  risicava  di  non  poterlo  neppure  principiare. 

(i)  Moralmente  il  console  superstite  era  tenuto,  morendogli  il  col- 
lega ,  a  convocare  incontanente  i  comizi  ceniuriati  pec  dare  un  suc- 
cessore al  morto  [siibropare^  sufficere  collegam)  ;  ma  ,  naturalmente, 
egli  indugiava  come  gli  piaceva.  —  Un"  osservazione  :  se  stiamo  a 
Livio,  dobbiamo  credere  che  la  nomina  del  console  da  sostituire  al 
console  morto  appartenesse,  appunto  come  la  nomina  ordinaria  dei 
consoli,  al  popolo  raccolto  nei  comizi;  ed  invero  non  c'è  ragione  di 


-  228  - 
e  che  in  caso  di  infermità,  finché  durasse  la  malattia  del- 
Tuno,  conveniva  che  Taltro  fosse  incaricato  di  far  tutto  da 
solo.  Ma  anche  per  ciò  che  riguarda  buona  parte  delle  ce- 
rimonie doveva  esser  cosa  molto  naturale,  in  caso  d'assenza 
di  uno  dei  nuovi  consoli,  Taffidarne  il  compimento  all'altro, 
perchè  le  cerimonie  in  questione  si  riducono  essenzialmente 
a  sette  (i),  e    di  queste,  tre  mi   sembrano   tali    da    potere 


non  prestar  fede  al  racconto  dello  storico.  Tuttavia  il  Mommsen  (/^ówz. 
Staatsrecht,  i,  209,  seconda  edizione),  partendo  dal  fatto  che  quando 
nelle  elezioni  ordinarie  accadeva  che  un  solo  dei  candidati  al  conso- 
lato ottenesse  tanti  voti  da  esser  eletto  a  primo  scrutinio  toccava  al 
nuovo  eletto  il  convocare  i  comizi  per  la  nomina  dell'altro  console, 
sospetta  che  in  antico  il  console  superstite  non  facesse  nominare  il 
collega  dal  popolo,  anzi  lo  nominasse  egli  stesso.  Ma  tra  il  diritto  di 
convocare  il  popolo  per  la  nomina  d'un  console,  e  il  diritto  di  no- 
minarlo escludendo  il  popolo,  c'è  un  abisso,  pare  a  me:  come  con- 
cludere, dal  diritto  di  convocare  il  popolo,  al  diritto  di  escludere  il 
popolo  nella  sufl'ezione  del  collega?  In  questa  cosa  il  momento  es- 
senziale è  l'elemento  eleggente  ;  ma  l'elemento  eleggente  è  il  popolo 
anche  nel  fatto  da  cui  parte  l'autore. 

(i)  Nelle  opere  d'antichità  romane  manca  pur  sempre  un  prospetto 
razionale  di  coteste  formalità.  Le  sette  cui  accenno  sono  le  seguenti  : 

i^  Gli  auspici  che  venivano  presi  da  ciascun  console,  il  mattino 
del  giorno  medesimo  in  cui  entravano  in  carica.  Questi  auspici  erano, 
come  a  dire,  quella  sanzione  divina  della  nomina  all'ufficio,  la  quale 
ritenevasi  sempre  necessaria  (Dionigi,  2,  5-6).  Fra  i  moderni  discorse 
ultimamente  di  questi  auspici  il  Mommsen  [Róm.  Staatsrecht  ,  i,  78, 
588,  seconda  edizione). 

2*  Lo  scioglimento,  medesimamente  nel  prinio  giorno  d'ufficio, 
dei  voti  che  i  consoli  dell'anno  prima  avevano  fatti  per  la  salute 
dello  Stato  a  Giove  sul  Capitolio,  e  rinnovamento,  per  parte  dei  nuovi 
consoli  ,  dei  medesimi  voti.  Ciò  dicevasi  vota  nuncupare.  La  ceri- 
monia ò  ricordata  spesso  negli  scrittori  antichi  (Ovidio,  Fast.,  1,  79 
segg.  Lo  stesso  Ex  Ponto,  4,  4,  25  segg.;  Livio,  21,  63,  7;  Cicerone, 
De  leg.  agr.,  2,  34,  93).  Fra  i  moderni  cf.  Mommsen,  A'cim.  Staatsrecht, 
i,  594,  seconda  edizione. 

3»  Il  giuramento  delle  leggi  [iurare  in  leges).  Quando  sia  sorta 
la  consuetudine  di  deferire  ai  magistrati  romani  un  giuramento  delle 
leggi  noi  sappiamo  ;  certo  essa  vigeva  già,  come  si  ricava  da  un  par- 
ticolare di  storia  interna  ricordatoci  da  Livio  (3i,  5o,  7)  nell'anno 
554/200.  Sul  giuramento  deferito  ai  magistrati  e  ai  senatori  vedi,  fra 


--  229  — 
venir  paragonate,  in  un  certo  senso,  alle  faccende  delle  quali 
adesso  parlavamo.  Infatti  mi  pare  che  tanto  i  voti  fatti  dai 
consoli,  per  la  salute    della   Repubblica,  sul  Capitolio  nel 


i  moderni,  specialmente  Mommsen,  Staatsrecht,   i,  pag.  398,  seconda 
edizione. 

4'  La  celebrazione  della  festa  Latina  sul  monte  Albano.  Questa 
solennità  è  così  nota  che  non  occorrono  altre  parole. 

5'^  Il  sacrifizio,  in  Lavinio  ,  fatto  ai  Penati  e  a  Vesta.  Cf.  Ma- 
CROBio  ,  Sat.,  3,  4,  II  ;  Servio  ad  Aen.,  2,  296;  Schol.  Veron.  a 
ViRG.   I,  259;  Mommsen,  Staatsrecht,  i,   597,  seconda  edizione. 

6^  La  presentazione  della  legge  curiata  per  conseguire  r/mjperjMn!, 
cioè  per  conseguire  il  comando  degli  eserciti.  Cf.  Livio,  5,  52,  i5: 
«  Comitia  curiata  quae  rem  militarem  continent».  Cicerone,  De  Leg. 
agr.,  2,  12,  3o  :  «  Consuli,  si  legem  curiatam  non  habet  ,  attingere 
rem  militarem  non  licet».  Della  legge  curiata  avremo  fra  poco  l'oc- 
casione di  discorrere  diffusamente. 

7*  Gli  auspici  che  prendevano  e  i  voti  che  facevano  a  Giove  sul 
Capitolino  i  due  consoli,  il  mattino  del  giorno  medesimo  in  cui  essi 
lasciavano  Roma  per  mettersi  a  capo  degli  eserciti.  Sugli  auspici  cf. 
Festo  ed.  MuLLER ,  pag.  241;  Livio,  21,  63,  9;  22,  i,  e  fra  i  mo- 
derni Mommsen,  Staatsrecht,  i,  61,  G4,  96,  seconda  edizione.  Anche 
questi  voti  chiamavansi  vota  nunciipata. 

II  passo  liviano  che  esaminiamo,  e  che  biasimando  la  partenza  pre- 
matura di  Flaminio  ricorda  i  doveri  trascurati  da  lui,  non  annovera 
tutte  queste  formalità,  sia  perchè  esse  erano  note,  sia  perchè,  come 
spiegherò  in  appresso,  la  fonte  seguita  in  questo  proposito  dallo  sto- 
rico fu  probabilmente  una  fonte  di  genere  oratorio  e  non  di  genere 
storico.  Le  cerimonie  accennate  nel  passo  liviano  sono  queste  :  gli 
auspici  e  i  voti  del  primo  giorno  dell'  anno  (ne  die  initi  Magistratus 
Jovis  optimi  maximi  templum  adiret);  la  convoca  del  Senato  (ne  sena- 
tum  in  visus  ipse  et  sibi  uni  invisum  videret  consuleretque);  le  ferie 
Latine  (ne  Latinas  indiceret  lovique  Latiari  sollemne  sacrum  in  monte 
faceret)  ;  gli  auspici  e  i  voti  del  giorno  della  partenza  (ne  auspicato 
profectus  in  Capitolium  ad  vota  nuncupanda  ,  paludatus  inde  cum 
lictoribus  in  provinciam  iret).  Come  si  vede,  son  toccate  quasi  esclu- 
sivamente le  formalità  religiose. 

Ora  io  vorrei  dividere  coteste  sette  formalità  in  due  classi.  La  se- 
conda, quarta  e  quinta  erano  ,  propriamente  parlando  ,  esercizio  del- 
l'ufficio di  consoli,  dunque  funzioni  del  consolato.  Ma  la  prima, 
terza,  sesta  e  settima,  più  che  esercizio  d'ufficio,  erano,  se  non  isba- 
glio,  compimento  dell'elezione  al  consolato  stesso,  ossia  formalità  che 
rendevano  piena  la  nomina  all'  ufficio,  e  senza  delle  quali  essa  no- 
mina rimaneva  più  o  meno  imperfetta. 


-  230  - 
primo  giorno  dell'anno,  quanto  le  ferie  Latine  sul  monte 
Albano,  quanto  infine  il  sacrifizio  in  Lavinio,  fossero  al- 
trettante attribuzioni  dei  consoli,  altrettante  funzioni  del  con- 
solato, e  quindi  che  anche  per  queste  come  per  tutte  le  altre 
faccende  di  pertinenza  dei  consoli ,  si  potesse  agevolmente 
ordinare  che  il  console  presente  in  Roma  le  compiesse  da 
sé  solo,  ben  inteso  a  nome  di  ambedue  i  colleghi  (i),  anche 
qui  colla  finzione  giuridica  necessariamente  applicata  agli 
affari  civili  ,  cioè  che  le  cose  fatte  dal  console  fungente  si 
considerassero  legalmente  come  opera  del  collegio  dei  su- 
premi magistrati.  Insomma,  nelT  assenza  di  uno  dei  due 
consoli  nuovi,  parmi  cosa  che  venisse  da  sé  che  Taltro  con- 
sole e  facesse  i  voti  pel  bene  della  Repubblica,  e  celebrasse 
le  Latine  e  compiesse  il  sacrificio  a  Lavinio  a  nome  dei 
Magistrati  supremi  di  Roma,  allo  stesso  modo  ch'egli  do- 
veva convocare  il  Senato  ,  fare  gli  arruolamenti ,  espiare  i 
prodigi,  ecc.  qcc.  da  sé  solo  bensì,  ma  senza  dubbio  come 
rappresentante  del  collegio  dei  consoli.  —  Solo  per  ciò  che 
concerne    le    quattro  rimanenti  cerimonie    la    cosa  correva 


(i)  Una  bella  e  saldissima  prova  della  mia  ipotesi  sulla  rappresen- 
tanza del  collegio  dei  consoli  conferita  a  quel  console  che  fosse  ri- 
masto solo  a  Roma  in  principio  dell'anno,  me  l'offrono  i  frammenti 
dei  fasti  delle  ferie  Latine  scoperti  negli  ultimi  tempi,  e  precisamente 
quelli  riguardanti  l'anno  540/214,  Dei  due  consoli  di  quell'anno  ab- 
biam  visto  (e  torneremo  a  vedere)  che  Marcello  fu  creato  mentre  era 
lontano  da  Roma  dove  non  tornò  nemmeno  quando  ebbe  intesa  la 
sua  elezione,  perchè  sarebbe  stata  follia  abbandonare  in  quel  momento 
il  campo;  e  nondimeno  questi  fasti  portano  all'anno  540/214  il  nome 
di  ambedue  i  consoli,  come  se  ambedue  i  consoli  fossero  stati  pre- 
senti alla  festa  Latina  in  Albano  Corpus  Inscript.  Latin.,  voi.  6  , 
pag.  456,  n.  2012);  il  che  significa  che  il  console  Fabio  rappresentò 
anche  il  collega  a  quella  solennità.  —  Di  qui  traggo  pure  la  conse- 
guenza legittima  che  errerebbe  chi  come  il  Mommsen  {RÓmìsche  For- 
schitiìf^en,  2,  99  segg.)  inclinasse  a  credere  che  il  trovarsi  nei  fasti 
suddetti  il  nome  di  ambedue  i  consoli  indichi  che  ambedue  i  consoli 
parteciparono  in  persona  alla  solennità. 


-  231  - 
altrimenti.  Qui  non  era  naturale  che  il  console  che  trova- 
vasi  in  Roma  rappresentasse  senz'altro,  nel  compierle,  anche 
il  collega  assente:  esse  non  erano  doveri  o  funzioni  del 
Collegio  dei  consoli,  erano  anzi  doveri  personali  di  ciasche- 
duno dei  consoli  ,  erano  propriamente  li  compimento  e  la 
sanzione  della  nomina  al  consolato  e  quindi  incombevano 
ad  ognuno  di  essi  :  infatti  gli  auspici  del  primo  giorno  del- 
l''anno  essendo  la  domanda  rivolta  dal  nuovo  magistrato  a 
Giove  neirintento  di  sapere  se  come  magistrato  egli  fosse 
gradito  alla  Divinità  ,  e  potendo  darsi  che  dei  due  consoli 
Tuno  fosse  accetto  al  Dio  e  l'altro  no,  occorreva  che  tanto 
questo  quanto  quel  console  facesse  la  sua  domanda  a  parte  dal 
collega,  e  ottenesse  similmente  una  risposta  a  parte.  Medesi- 
mamente, quanto  al  giuramento  delle  leggi,  poiché  in  via  nor- 
male chi  giura  obbliga  se  stesso,  è  evidente  che  se  ciascuno 
dei  consoli  doveva  obbligarsi,  avevano  da  giurare  ambedue 
in  persona.  In  terzo  luogo  la  legge  curiata  equivaleva,  in 
origine,  ad  una  conferma  dell'elezione  (i)  :  quindi,  come  il 
candidato,  generalmente  parlando,  aveva  chiesto  in  persona 
i  suffragi  del  popolo  nei  comizi  centuriati  per  essere  eletto, 
COSI  doveva  poi  chiedere  in  persona  Vimperium  nei  comizi 
curiati.  Infine  cogli  auspici  presi  dal  console,  nel  giorno  in 
cui  lasciava  Roma  per  assumere  il  comando  delle  legioni  , 
egli  impetrava  l"  assenso  degli  Dei  alla  sua  elezione  a  duce 
degli  eserciti  romani,  e  coi  voti  fatti  nello  stesso  giorno  egli 


(i)  Cicerone  [De  leg.  agr.,  2,  11,  26):  «  Maiores  de  singulis  ma- 
gistratibus  bis  vos  sententiam  ferre  voluerunt  :  nam  quum  centuriata 
lex  censoribus  ferebatur,  quum  curiata  ceteris  patriciis  magistratibus, 
tum  iterum  de  eisdem  iudicabatur.  Secondo  l'autore,  il  conferimento 
dell'imperio  per  mezzo  della  legge  centuriata  ai  censori  e  per  mezzo 
della  legge  curiata  agli  altri  magistrati  patrizi  equivaleva  ad  una  se- 
conda elezione.  Il  che  naturalmente  va  inteso  dell'istituzione  nella 
sua  origine. 


-  5^32  — 
prometteva,  quando  il  Dio  gli  avesse  concesso  di  vincere , 
di  riportar  a  lui  la  palma  della  vittoria  —  tutte  formalità 
eminentemente  personali.  E  chiaro  che  per  decretare  T as- 
senza di  uno  dei  nuovi  consoli  era  necessario  dispensarlo 
da  queste  quattro  ultime  cerimonie  religiose  e  civili,  prov- 
vedendo ad  un  tempo  affinchè  esse  non  fossero  neglette. 
Ma  anche  qui,  così  come  rispetto  al  disbrigo  degli  affari  e 
al  compimento  delle  tre  formalità  accennate  prima,  si  sarà 
ricorso  allo  spediente  di  demandare  la  rappresentanza  del 
collegio  consolare  al  console  presente*,  colla  sola  differenza 
che  qui  lo  spediente  era  più  nuovo  e  rinnovazione  più  im- 
portante. Faccio  soltanto  un'  eccezione  per  gli  auspici  del 
primo  giorno  deiranno,  i  quali  potevano  forse  essere  presi 
anche  fuori  di  Roma  (i)  e  quindi  dal  nuovo  console  as- 
sente ,  senza  che  per  lui  li  prendesse  il  collega  rimasto  a 
Roma  ;  ma  non  esito  ad  affermare  che  per  le  altre  tre  for- 
malità il  Senato  e  il  popolo  (2)  avranno  fatta  facoltà  espressa, 
a  quel  console  che  rimaneva  in  patria,  di  dar  compimento 
ad  esse  non  solamente  per  suo  conto  ma  altresì  a  nome 
del  collega,  rappresentando  in  tal  modo  il  collegio.  A  questa 
affermazione  m' induce,  per  quanto  riguarda  il  giuramento 
delle  leggi,  quello  che  Livio  narra  a  proposito  di  C.  Valerio 
Fiacco,  creato  edile  curulc  per  l'anno  SSó/igcj,  mentre  era 


(i)  Gli  auspici  in  questione  pare  fossero  presi  dal  magistrato  nella 
sua  abitazione  privata:  così  abbiam  visto  che  Livio  (21,  6%  10)  par- 
lando di  Flaminio  scrive  :  «  Magis  prò  maiestate  videlicei  imperii 
Arimini  quam  Romac  magislratum  initurum,  et  in  deversorio  hospi- 
tali  quam  apud  penates  siios  praetcxtam  sumpturum  ^.  Quindi  pote- 
vano forse  esser  presi  in  una  città  qualunque  e  non  esclusivamente  in 
Roma. 

(2)  Popolo  e  Senato  erano  i  poteri  competenti  per  la  dispensa  dalle 
leggi  (Asconio  in  Cornei.,  Orelli,  pag.  57;  Kiessling  et  SchÒll,  p.  5i; 
cf.  Livio,  3i,  5o,  7  e  nota  seguente).  Piìi  tardi,  nell'onnipotenza  sua, 
il  Senato  mise  da  banda  il  popolo  (Asconio,  ivi). 


—  233  - 
Flamine  Diale  (i):  come  Flamine  di  Giove  non  poteva  giu- 
rare, ma  non  giurando  le  leggi,  dopo  cinque  giorni  avrebbe 
perduto  Tufficio  -,  perciò  chiese  di  venir  dispensato  dal  giu- 
ramento, e  infatti  avendo  giurato  in  suo  luogo  il  fratello  di 
lui  che  era  pretore  designato,  il  Senato  e  il  popolo  gli  ac- 
cordarono la  dispensa  ch'egli  avea  sollecitata.  Quindi,  dato 
che  nel  640/214  vigesse  già  l'uso  di  deferire  ai  nuovi  consoli 
il  giuramento  delle  leggi,  a  che  spediente  crediamo  noi  che  sia 
ricorso  il  Senato,  se  non  a  quello  di  ordinare  che  il  console 
Q.  Fabio  Massimo  le  giurasse  nello  stesso  tempo  per  sé  e  pel 
collega  M.  Claudio  Marcello,  il  quale  era  lontano  da  Roma, 
dove  il  giuramento  avea  luogo?  E  ciò  che  diciamo  del  giu- 
ramento delle  leggi  va  detto  a  maggior  ragione  della  pre- 
sentazione della  legge  curiata,  malgrado  il  contrario  parere 
dei  dotti  (2).  In  principio  del  540/214  cercavasi  il  modo 
di  fare  che  i  comizi  curiati  confermassero  V  imperiiim  a 
Marcello  ,  che  fronteggiava  Annibale  in  Campania  ,  senza 
tuttavia  costringerlo  a  venire  a  Roma  per  questa  formalità 
della  legge  curiata.  Ebbene,  io  ho  esaminato  la  storia  di 
questa  formalità,  ed  ho  trovalo  che  la  presentazione  di  essa 
per  parte  della  persona  interessata  aveva  sofferto  e  soffriva 
molte  eccezioni:  in  primo  luogo,  anticamente  i  re  di  Roma(3), 
e,  cacciati  i  re,  i  consoli  (4),  solevano  presentare  la  legge 
curiata  pei  questori;  in  secondo  luogo  sulla  fine  del  settimo 
secolo  trattossi  una  volta  di  demandare    ad    un    pretore  la 


(i)  Livio,  3i,  5o,  6  segg. 

(2)  Per  esempio  del  Mommsen  ,  Rom.  Staatsrecht ,  i,  Sgo  ,  seconda 
edizione. 

(3)  Tacito  [Annui.,  ii,  22):  «  Quaestores  ,  regibus  etiam  tum  im- 
perantibus,  instituti  sunt,  quod  lex  curiata  ostendit  ab  L.  Bruto  re- 
petita  t .  Cf.  Rubino,  Untersuchungen  ìtber  romische  Verfassung  und 
Geschichte,  i,  393  segg.;  Mommsen,  Staatsrecht,  i,  òSg.  seconda  edi- 
zione. 

(4)  Vedi  la  nota  precedente. 

'Hjvista  di  filologia  ecc..  X.  '  16 


—  234  — 
presentazione  della  legge  curiata  a  nome  di  altri  magi- 
strati (i);  in  terzo  luogo  è  probabile  che  al  tempo  di  Ci- 
cerone vigesse  la  consuetudine  di  far  presentare  una  sola 
le^ge  curiata  complessiva  per  tutti  i  magistrati  dell'anno  ad 
un  tempo  (2).  Di  qui  conchiudo  che  Tunico  provvedimento 
naturale  a  prendersi  in  principio  del  540/214  era  quello  di 
incaricare  Fabio  Massimo  che  presentasse  la  legge  curiata 
relativa  al  comando  degli  eserciti,  non  soltanto  per  sé,  ma 
nello  stesso  tempo  per  sé  e  per  il  collega  che  era  assente 
in  servigio  dello  stato.  Anzi  c'è  perfino  un  molto  contestato 
frammento  di  Pesto,  relativo,  evidentemente,  ad  una  riforma 
introdotta  Tanno  640/214  nella  procedura  della  presenta- 
zione della  legge  curiata  per  parte  dei  consoli,  che  forse  e 
senza  forse  si  riferisce  a  questo  provvedimento  eh'  io  dico 
per  l'appunto.  Il  frammento  è  il  seguente  (3)  : 

hominis  gratia  nunc  redintegrari     .... 

ex  curiata  fertur  quo  Hanni  — 

Romae  cum  esset  nec  ex  praesidi 

Q.   Fabius  Maximus  Verru  — 

rcellus  COS.  facere  in  — 

vit  Aelius  in  XII  sig  —  . 

risulcum  fulgur  fu  ■ —  . 

È  noto  che  M.  Vcrrio  Fiacco  ,  di  condizione  liberto,  e 
vissuto  sotto  Augusto  e  Tiberio,  scrisse  un'opera  intitolata 
De  verborum  significatu,  nella  quale  per  ordine  alfabetico 
eran  citati  e  dichiarati  dei  vocaboli.  L'opera  fu  più  tardi 
compendiata   da  Sesto  Pompeo  Pesto  \  e    il    compendio  di 


(i)  Alludo  ai  decemviri    della    legge    agraria    proposta  dal  tribuno 
Servilio  Rullo.  Cicerone.  De  Leg.  agr.,  2,  11,  28. 

(2)  Dione  Cassio,   Sg,   11;  Mo.mmsen  .  Staatsrecht.  i,  589,  seconda 
edizione. 

(3)  Festo,  ed.  MuLLER.  pag.  35i-352. 


-  235  - 
Pompeo  Festo  fu  poi  compendiato  dal  sacerdote  Paolo  ; 
fino  a  noi  pervennero  tanto  il  compendio  quanto  il  com- 
pendio del  compendio  (i);  non  però  Topera  principale.  Or 
bene,  nel  nostro  frammento  è  cosa  notissima  e  fuori  di 
questione  che  la  parola,  la  quale  veniva  dopo  la  parola  red- 
integrari,  era  appunto  un  vocabolo  da  spiegare,  e  che  tal 
vocabolo  principiava  colla  lettera  T  (2).  Noi  ci  troviamo 
dunque  innanzi  ad  un  articolo  o  glossa  in  cui  ignoriamo 
due  cose:  1°  la  prima  parola,  la  quale  veniva  dichiarata 
dalle  parole  che  seguivano  \  2°  gran  parte  delle  parole  che 
la  dichiaravano.  Quanto  al  dove  finisca  1'  articolo  ,  i  piià 
credono  che  finisca  nelF ultima  linea  e  che  [t)risulcum  sia  il 
principio  di  un  nuovo  articolo  ;  recentemente  lo  Scholl  (3) 
opinò  che  finisca  nella  sesta  linea  colla  parola  in{stitue- 
runt)^  e  il  Mommsen  (4)  aderisce  in  ciò  allo  Scholl.  Pel 
nostro  scopo  la  questione  dove  finisca  l'articolo  è  al  tutto 
indifferente.  Ciò  posto  vengo  alle  restituzioni  del  frammento 
proposte  sinora  dai  dotti,  e  poi  darò  la  mia.  La  restituzione 
deirUrsino,  già  confutata  dal  Rubino  (5)  è  la  seguente  : 

(Tribuni  — ) 
(eia  rogatione  l)ex  curiata  fertur,  quo  Hanni  — 
(bai  anno  in  conspectu)  Romae  cum  esset  nec  ex  praesidi  — 
(is  discedere  liceret),   Q.  Fabius  Maximus  Verru  — 
(cosus  id  per  tr.  pi.  et  Ma)rcellus  cos.  facere  in  — 
(stituerunt,  ut  no)tavit  Aelius  in  XII  sig(ni) 
(ficationum  verborum). 


(i)  Del  nostro  frammenlo  nulla  passò  nel  compendio  di  Paolo. 

(2)  La  seconda  lettera  della  parola  non  è  nota.  Cf.  Mìjller,  praef., 
p.  XXVIII. 

(3)  Scholl,  XII  tab.,  p.  28. 

(4)  Mommsen,  Róm.  Forsch.,  2,  411. 

(5)  Untersuchungen  i'iber  róm.   Verfassung    und    Geschichte ,   i,  38 1 
e  segg. 


-  236  - 
E  superfluo  perder  tempo  a  confutare  questa  restituzione  : 
basti  il  dire  che  il  fatto  menzionato  nel  frammento  è  del- 
l'anno 540/214  (cosa  certissima,  perchè  Fabio  e  Marcello 
non  furono  consoli  insieme  se  non  una  sola  volta,  e  preci- 
samente in  quest'anno),  mentre  Tassalto  di  Annibale  contro 
Roma  (che  l'Ursino  suppose  esser  ricordato  nel  frammento), 
è  del  543/211.  Confutato  l'Ursino,  il  Rubino  stesso  restituì 
il  frammento  come  segue  (i)  : 


(i)  Ma  allo  stesso  Rubino  scappò  detto,  nel  confutare  l'Ursino  e  il 
Dacier  suo  seguace,  un  grave  errore,  che  non  fu  avvertito  nemmeno 
dal  Mommsen,  il  quale  a  sua  volta  confutò,  come  stiam  per  vedere, 
l'ipotesi  tutta  quanta  del  Rubino.  Quest'ultimo  adunque,  combattendo 
l'Ursino  e  il  Dacier,  dice  che  non  occorreva  far  presentare  la  legge 
curiata  dai  tribuni  della  plebe  perchè  la  potevano  presentare  i  consoli 
stessi,  i  quali  non  trovavansi  già  al  campo,  ma  bensì  in  Roma,  sul 
principio  del  540/214:  traduco  le  sue  stesse  parole.  Ma  quest'asser- 
zione è  erronea  :  Fabio  era  bensì  in  Roma,  ma  Marcello  no,  perchè 
abbiam  visto  sopra  i"  che  al  tempo  dei  comizi  consolari  Fabio  trovavasi 
a  Roma  e  Marcello  all'esercito  (I.ivio,  24,  9,  9),  2°  che  gli  arruolamenti 
furon  fatti  dal  console  Fabio  soltanto,  senza  che  vi  prendesse  parte 
Marcello  (Livio,  24,  11,  6],  3»  infine,  che  è  bensì  narrata  da  Livio  la 
partenza  di  Fabio  da  Roma,  ma  non  quella  di  Marcello  (Livio,  24, 
12,  5).  Per  trovarsi  a  Roma  Marcello  doveva  ritornarvi,  cosa  che 
Livio  non  dice;  se  vi  fosse  tornato  avrebbe  arruolato  gli  eserciti  in- 
sieme con  Fabio,  cosa  che  Livio,  registrando  in  proposito  soltanto 
il  nome  di  Fabio,  esclude  addirittura;  infine  raccontando  la  partenza 
di  Fabio,  Livio,  il  quale  suole  per  l'appunto  riferire  accuratamente 
la  partenza  dei  magistrati  per  le  loro  provincie,  non  poteva  non  rac- 
contare anche  quella  di  Marcello,  se  questi  fosse  ritornato  un  po' 
prima  a  Roma.  So  bene  che  il  plurale  consules  è  usato  due  volte  da 
Livio  a  questo  proposito,  24,  10,  1  :  «  Quo  die  magistratum  inierunt 
consules,  senatus  in  Capitolio  est  habitus,  decretumque  omnium  pri- 
mum,  ut  consules  sortirentur  compararentve  inter  se,  utcr  censoribus 
creandis  comitia  haberet  »,  e  24,  11,  i  :  «  Perpetratis  quae  ad  pacem 
deum  perlinebant,  de  re  publica  belloque  gerendo  et  quantum  copia- 
rum  et  ubi  quacque  esient,  consules  ad  senatum  rettulerunt  »),  ma  che 
vale  questa  figura  del  plurale  usato  invece  del  singolare,  di  fronte  ai 
fatti  or  ora  notati  ?  Tanto  più  che  quando  il  Senato  era  convocato  da 
un  solo  console,  quest'ultimo  parlava  naturalmente  a  nome  proprio 
e  a  nome  del  collega  nello  stesso  tempo,  e  consules,  figura  rcttorica, 


-  237- 

(Tri  -) 
(ginta  lictoribus  l)ex  curiata  fertur,  quo(d)  Hanni  — 
(bai  in  propinquitate)  Romae  cum  esset  nec  ex  praesidi  — 
(is  discedere  liceret)  Q.  Fabius  Maximus  Verru  — 
(cosus  egit  per  tr.  pi.  et  Ma)rcellus  cos.  facere  in  — 
(stituit,   ut  nota)vit  Aelius  in  XII  sig(ni) 
(ficationum  verborum). 

Questa  restituzione  piacque  specialmente  colla  leggiera 
modificazione  apportatavi  da  O.  Miiller  -,  ma  fu  poi  confu- 
tata ,  e,  credo,  a  buon  diritto,  dal  Mommsen.  Vediamo 
perchè  essa  si  raccomandasse  all'universale  e  poi  fosse  con- 
futata. La  sola  cosa  che  in  essa  non  incontrava  approva- 
zione era  il  supplemento  della  quinta  linea  egit  pr.  tr.  pi. 
et,  supplemento  troppo  lungo ,  e  poi  infelice  per  altri  ri- 
spetti ancora-,  onde  O.  Miiller  soppresse  addirittura  queste 
parole  e  poi  accolse  così  modificata  la  restituzione  del  Ru- 
bino nella  sua  edizione  di  Pesto.  Il  pregio  di  cotesta  resti- 
tuzione consiste  specialmente  in  ciò  ,  che  in  essa  sarebbe 
scoperta  Torigine  di  una  consuetudine  notissima  dei  tempi 
di  Cicerone  -,  è  noto  infatti  che  nell'età  di  Cicerone  i  citta- 
dini non  solevano  più  intervenire  ai  comizi  curiati,  e  che  i 
trenta  littori  delle  Curie  rappresentavano  queste  ultime  (i). 
Ora  ecco  il  concetto  dal  quale  parti  il  Rubino  :  Fabio  Mas- 
simo dopo  la  battaglia  di  Canne  avrebbe  previsto  un  assalto 
di  Roma  per  parte  d'Annibale,  e  avrebbe  in  conseguenza 


era  più  esatto,  dal  punto  di  vista  del  diritto  in  astratto,  che  non  sa- 
rebbe stata  r  espressione  propria  consul.  È  la  stessa  figura  che  tro- 
vammo nei  fasti  delle  ferie  Latine  rispetto  ai  consoli   medesimi. 

(i)  Cicerone  [De  leg.  agr.,-2,,  12,  3i):  «  illis...  comitiis  curiatis... 
ad  speciem  atque  usurpationem  vetustatis  per  XXX  lictores  auspicio- 
rum  causa  adumbratis     . 


-  238  - 
provvisto  alla  difesa  facendo  che  i  cittadini  si  tenessero 
pronti  per  accorrere  alle  mura;  Fabio  avrebbe  inoltre  pre- 
visto che  cadrebbero  in  battaglia  dei  generali  e  si  dovrebbe 
nominarne  in  tutta  fretta  degli  altri,  e  avrebbe  in  conse- 
guenza abbreviato  le  formalità  del  conferimento  dell'  impe- 
rium  -,  quindi  ecco  ogni  curia  delegare  il  proprio  littore  a 
rappresentarla  nei  comizi  convocati  pel  conferimento  del- 
l' imperio  ,  con  che  si  conseguiva  un  altro  duplice  scopo  : 
1°  dispensati  i  cittadini  dall' intervenire  ai  comizi  curiati, 
non  sarebbe  accaduta  quella  confusione,  che  altrimenti  Ta- 
raldo  chiamando  i  cittadini  ai  comizi  curiati  poteva  far  na- 
scere •,  2°  i  cittadini  non  avrebbero  abbandonata  la  difesa 
delle  mura  per  accorrere  ai  comizi.  Il  Mommsen  (i)  confutò 
il  Rubino  osservando  i°  che  i  comizi  curiati  non  eran  con- 
vocati dall'araldo  intorno  alle  mura,  ma  dal  littore  delle 
curie  (li  et  or  curiatus  ,  Laelio  Felice  presso  Gellio  ,  1 5  , 
27);  2°  che  non  è  probabile  che  al  sorgere  della  consuetu- 
dine della  rappresentanza  ,  per  mezzo  dei  rispettivi  littori, 
delle  Curie,  sia  cessata  la  convocazione  dei  comizi  curiati 
addirittura;  3°  che  non  c'era  ragione  di  abolire  la  convo- 
cazione dei  comizi  curiati  pel  solo  scopo  di  non  allontanare 
i  cittadini  dalle  mura,  giacché  i  cittadini  non  erano  obbli- 
gati ad  intervenire  ai  detti  comizi;  4°  che  non  sappiamo 
se  le  trenta  Curie  avessero  facoltà  di  spogliarsi  dei  propri 
diritti  per  attribuirli  ai  loro  rispettivi  littori;  5°  che  il  fatto 
del  non  intervenire  più  i  cittadini,  ai  comizi  curiati  ,  e  del 
rappresentare  i  trenta  littori  le  trenta  curie  ,  non  può  es- 
sere stato  ordinato  con  una  legge  ,  ma  accadde  a  poco  a 
poco  di  per  sé,  quando  divenendo  sempre  minore  il  con- 
corso dei  cittadini  a  cotesti  comizi  convocati  per  mere  for- 


(1)  Rhein.  Mus.,  i3,  565  seg.;  Staatsreclit,  1,  592,  seconda  edizione  ; 
RÓm.  Forschungen,  z,  407  segg. 


-  239  - 
malità,  il  magistrato  per  far  votare  la  sua  legge  videsi  co- 
stretto a  servirsi  dei  littori  ;  né  dee  far  maraviglia  cotesto 
poco  zelo  dei  cittadini  nelTintervenire  a  comizi  d'importanza 
puramente  formale  ,  accadendo  perfino  che  intervenissero 
pochi  individui  agli  stessi  comizi  tributi  (i).  Vediamo  ora 
come  il  Mommsen  stesso  supplisce  il  frammento  (2)  :  la 
legge  curiata ,  cosi  ragiona  il  Mommsen ,  richiedeva  la 
presenza  del  magistrato  che  voleva  F  imperio  :;  ma  in  prin- 
cipio del  540/214  i  nuovi  consoli  Fabio  e  Marcello  trova- 
vansi  in  campo  contro  Annibale  e  sarebbe  stato  pericoloso  e 
irragionevole  farli  venire  a  Roma  per  quella  formalità  :  perciò 
ce'rcossi  il  modo  di  non  richiamarli,  e  il  modo  fu  questo: 
siccome  Fabio  era  stato  console  nel  539/215  e  Marcello  pro- 
console nello  stesso  anno  e  quindi  ambedue  erano  già  in  pos- 
sesso dell'imperio,  si  stabih  che  non  cessasse  il  loro  imperio 
deiranno  innanzi,  ma  continuasse  e  trapassasse  nell'anno 
540/214-,  in  questo  modo,  l'imperio  che  Fabio  e  Marcello 
aveano  avuto  nel  539/215  lo  ebbero  anche  nel  540/214 
senza  che  fosse  stato  conferito  loro  di  nuovo  nei  comizi  cu- 
riati-,  e  in  questo  modo  si  praticò  per  l'avvenire  in  tutti  i 
casi  simili ,  ed  è  cotale  consuetudine  del  far  di  meno  ,  nel 
conferimento  dell'  imperio,  della  legge  curiata,  che  menzio- 
nasi nel  frammento  di  Festo,  il  quale  adunque,  continua  il 
Mommsen,  vuol  essere  supplito  nel  seguente  modo  ,  senza 
pretendere  però  di  restituire  testualmente  la  prima    parola. 

(Transit) 
(ipso  iure  imperium  nec  l)ex  curiata  fertur  :  quo(d),  Hanni  — 
(bai  in  locis  vicinis)  Romae  cum   esset   nec  ex  praesidi  — 


(1)  Cicerone  prò  Sest.,  5i,  loq. 

(2)  Vedi  i  luoghi  citali  nella  nota  penultima. 


—  240  — 

(is  tuto  decedere  possent,)  Q.  Fabius  Maximus  Verru  — 
(cossus  et  M.  Claudius  Ma)rcellus  cos.  facere  in  . — 
(stituerunt). 

Finora  nessuno  trovò  da  ridire  in  questa  interpretazione 
e  restituzione,  ma  essa  non  mi  persuade.  Tutta  l'ipotesi  del 
Mommsen  si  fonda  sulla  supposizione  che  in  principio  del 
540/214  i  nuovi  consoli  Fabio  e  Marcello  si  fossero  trovati 
ambedue  lontani  da  Roma  ^  ma  qui  il  Mommsen  cadde 
nella  svista  opposta  a  quella  in  cui  era  caduto  il  Rubino. 
Se  Marcello  era  lontano  ,  Fabio  però  trovavasi  in  Roma, 
come  abbiamo  sopra  ricavato  dai  tre  luoghi  liviani  :  24,  9, 
9;  24,  II,  6-,  24,  12,  5,  ai  quali  ora  aggiungo  24,  7,  11, 
ove  è  detto  che  Fabio  sul  finire  del  539/215  venne  a  Roma 
a  presiedere  i  comizi  elettorali  (i).  Mancando  così  all'ipo- 
tesi il  suo  fondamento  essa  cade  naturalmente  senz'  altro  -, 
ma  giova  notare  che  anche  considerandola  in  se  stessa,  in- 
dipendentemente dalla  base  su  cui  è  stata  costrutta  ,  essa 
non  solo  non  è  conforme  alle  consuetudini  romane,  le  quali, 
come  spiegammo  sopra,  nel  caso  d'assenza  di  uno  dei  nuovi 
consoli,  piuttosto  che  suggerire  l' ommissione  della  legge 
curiata  avrebbero  consigliato  lo  spediente  della  rappresen- 
tanza in  modo  che  uno  degli  altri  magistrati  (e  di  prefe- 
renza il  collega  medesimo  del  console  assente)  la  presentasse 
alle  Curie  in  nome  del  magistrato  che  era  lontano  da  Roma, 
ma  è  in  contraddizione  col  noto  svolgimento  delle  Magi- 
strature romane  ,  perchè  fondandosi  sopra  il  conferimento 
di  più  imperi  ordinari  dati  ad  una  niedesima  persona  in 
più  anni  successivi  senza  interruzione  ,  come  se  ciò  fosse 
cosa  regolare    ed    ordinaria  ,  essa  presuppone  la  frequenza 


(i)   «  Romam  comitiorum    causa  venicns  ,    in    eum    quem    primum 
diem  comitialem  habuit  comitia  edixit. 


—  24]  — 
di  un  fatto  che  al  tempo  di  cui  parliamo  era  già  stato  vie- 
tato dalle  leggi  (i).  Né  l'autore  mi  persuade  quando  egli  si 


(i)  Fin  dal  principio  del  secolo  quinto  era  stato  prescritto  che  nessuno 
potesse  concorrere  ad  un  medesimo  ufficio  una  seconda  volta,  finché  non 
fossero  trascorsi  dieci  anni  dalla  prima  volta  che  1'  ufficio  era  stato 
da  alcuno  esercitato.  Livio  (7,  42,  2  :  <!  aliis  plebiscitis  cautum  ne 
quis  eundem  magistratum  intra  decem  annos  caperet  »);  e  se  quindi 
innanzi  non  si  lasciarono  passare  sempre  dieci  anni  giusti  fra  la  presa 
e  ripresa  del  medesimo  ufficio,  si  vede  però  dai  fasti  che  un  inter- 
vallo di  più  anni  almeno  non  mancò  mai  di  osservarsi.  Di  queste 
cose  discorse  ultimamente  il  Mommsen,  Rom.  Staatsrecht,  i,  5oo  segg., 
seconda  edizione.  Ivi  son  raccolti  gli  esempi  che  per  amor  di  brevità 
io  ommetto).  Piìi  tardi,  forse  un  secolo  dopo,  prendendo  in  conside- 
razione l'ordine  successivo  dei  diversi  uffici  allo  stesso  modo  che  in 
principio  del  secolo  quinto  lo  era  stata  la  presa  ripetuta  di  un  me- 
desimo ufficio,  si  andò  più  oltre  e  si  vietò  il  passare  immediatamente 
senza  l'intervallo  di  almeno  un  anno  dall'edilità  curule  alla  pretura, 
dall'edilità  curule  al  consolato,  infine  dalla  pretura  al  consolato.  Questo 
divieto  non  lo  leggiamo  in  Livio,  ma  lo  deduciamo  dai  fasti  che  si 
ricavano  dalle  storie  di  lui;  infatti,  gli  esempi  mostrano  costante- 
mente cotesto  intervallo  a  cominciare  dal  554/200  (cf.  Mommsen, 
Staatsrecht,  i,  5o8  dove  essi  sono  raccolti).  Prima  di  lui  avea  di- 
scorso delle  leges  annales  della  repubblica  romana  il  Nipperdey  , 
Die  leges  annales  der  rómischen  Republik  ,  Leipzig,  i8ó5  ;  tale  di- 
vieto però  non  si  creda  sia  stato  emanato  nel  554  di  Roma;  esso  fu 
emanato  molto  prima  del  554/200;  secondo  me  fu  emanato  nello 
spazio  di  tempo  che  corse  tra  l'anno  462/292  e  l'anno  535/219,  che 
è  lo  spazio  di  tempo  stato  descritto  nella  seconda  decade  di  Livio  ora 
perduta;  infatti,  è  impossibile  credere  che  Livio  non  abbia  toccato  a  suo 
luogo  di  cotesto  divieto;  per  il  che,  se  non  lo  troviamo  ricordato 
nelle  sue  storie,  ciò  significa  che  era  stato  narrato  nella  decade  se- 
conda che  più  non  ci  rimane.  Adunque,  come  sul  cominciare  del  se- 
colo quinto  era  stato  proibito  il  chiedere  due  volte  lo  stesso  ufficio 
salvo  a  patto  che  tra  la  prima  e  seconda  volta  fossero  corsi  dieci 
anni,  così  prima  del  536/2 18  fu  proibito  il  chiedere  in  due  anni  di 
seguito  due  uffici  curuli  ;  così  tornava  ornai  impossibile  che  una  per- 
sona diventasse  magistrato  curule  due  anni  di  seguito  ;  due  anni  di 
seguito  non  si  poteva  più  concorrere  né  ad  un  medesimo  ufficio,  né 
a  due  diversi  uffici  curuli;  quindi,  se  rispettavansi  le  leggi  annali 
(annales  chiamavansi  le  leggi  che  determinavano  le  norme  da  osser- 
varsi nel  chiedere  gli  uffici,  e  stabilivano  sia  il  minimum  dell'età  vo- 
luta, sia  l'ordine  in  cui  essi  dovevano  conferirsi,  sia  la  durata  dell'in- 
tervallo fra  l'uno  e  l'altro  di  essi  ;  per  dirla  di  passaggio,  celebre  fu 


-  242  - 
avvisa  di  scorgere  una  conferma  indiretta   della  sua  ipotesi 
sia  in  quei  casi  abbastanza    frequenti,  che  troviamo  prima 


la  lex  Villia  annalis  del  574/180  che  fissava  «  qiiot  annos  nati  quemque 
magistratiim  caperent  »,  Livio,  40,  44)  non  poteva  più  accadere  che 
una  persona  si  trovasse  nel  caso  di  aver  bisogno  della  legge  curiata  per 
due  anni  di  seguito;  notisi  bene:  non  dico  che  era  finito  il  tempo  in 
cui  una  persona  potesse  avere  imperio  due  anni  di  seguilo,  cosa  sempre 
possibile  in  virtù  dell'istituto  di  proroga  dell'imperio,  nulla,  ad 
esempio,  essendo  più  facile  che  diventar  frefore,  poi  successivamente, 
senza  ìniQrvQ.\\o,_  propretore  mediante  la  proroga  dell' imperio  ,  poi 
console;  dico  bensì  che  oramai,  coU'aver  tolto  il  modo  di  essere  pre- 
tore e  console  in  due  anni  successivi,  era  tolto  anche  il  bisogno  della 
legge  curiata  in  due  anni  successivi,  e  ciò  perchè  tutti  i  dotti  sono 
d'accordo  nel  credere  che  erano  soltanto  gl'imperi  ordinari  (cioè 
quelli  che  emanavano  dall'elezione  popolare  nei  comizi)  che  volevano 
essere  conferiti  o  sanzionati  mediante  la  legge  curiata  (dico  a  bella 
posta  conferiti  o  sanzionati  per  evitare  la  questione  relativa  al  valore 
della  legge  curiata  stessa,  la  quale,  secondo  alcuni  conferiva  vera- 
mente al  magistrato  de'  nuovi  diritti,  secondo  altri  era  cosa  di  pura 
forma  e  non  dava  nessun  diritto  nuovo),  non  già  gl'imperi  prorogati. 
E  così  r  ipotesi  del  Mommsen,  della  quale  1'  autore  nella  sua  opera 
sul  diritto  pubblico  dei  Romani  parla  non  già  come  di  un'ipotesi 
probabile,  ma  come  di  cosa  indubitata,  pare  invece  a  me  altamente 
improbabile,  non  solo  perchè  fabbricata  sopra  base  mal  sicura  (sulla 
supposta  ,  ma  non  vera  assenza  di  ambedue  i  consoli  del  540),  ma 
anche  perchè  1'  attuazione  di  essa  suppone  che  fosse  cosa  abbastanza 
frequente  il  diventare  console  o  pretore  due  anni  di  seguito,  o  pre- 
tore un  anno  e  console  l' altro  anno,  mentre  invece  queste  cose  non 
succedevano  più  se  non  per  eccezione,  nel  tempo  al  quale  si  riferisce 
il  provvedimento  ricordato  nel  frammento  di  Pesto;  or  come  può 
credersi  che  si  fondasse  un'  istituzione  permanente  partendo  da  fatti 
meramente  ed  esclusivamente  eccezionali  ?  So  bene  che  questi  fatti 
eccezionali  non  mancarono  nei  momenti  gravi  in  cui  si  ebbe  bisogno 
di  lasciar  al  comando  gli  uomini  provati.  (Così  durante  le  guerre 
Sannitiche  L.  Papirio  Cursore  fu  console  nel  434  e  435  di  Roma,  e 
Q.  Fabio  Massimo  RuUiano  lo  fu  nel  444  e  nel  445.  Nella  guerra  di 
Pirro  M'.  Curio  Dentato  fu  console  nel  479  e  nel  ^'^•o.  Nella  seconda 
guerra  punica  Q.  Fabio  Massimo  Verrucoso  fu  console  nel  53q  ,  e 
nel  540.  M.  Pomponio  Matho  fu  pretore  nel  537  e  nel  538.  Q.  Fulvio 
Fiacco  fu  pretore  nel  539  e  nel  540.  Taccio  dei  tempi  rivoluzionari 
del  secolo  settimo  quando  le  leggi  non  eran  più  leggi  e  la  violenza 
avea  preso  il  luogo  delle  leggi).  Ma  queste  erano  eccezioni,  ed  erano 
talmente    considerate    come    eccezioni,  che    ci    vollero  altre  leggi,  le 


--  243  - 

del  540/214,  di  persone  che  alternavano  con  una  certa  re- 
golarità la  vita  pubblica  colla  vita  privata  coir  essere  ma- 
gistrati un  anno  e  ritornar  privati  l'anno  dopo,  e  diventar 
di  nuovo  magistrati  l'anno  seguente,  e  così  via  (i),  sia  nei 
casi  di  continuazione  d'ufficio,  congiunta  però  col  ritorno 
del  magistrato  a  Roma  sulla  fine  dell'anno  (2). 


quali  sospendessero,  in  que' momenti  gravi,  l'applicazione  degli  or- 
dinamenti sulle  magistrature.  E  anche  di  una  di  queste  leggi,  fatte 
per  dispensare  provvisoriamente  dall'osservanza  di  siffatto  ordina- 
mento, è  giunta  memoria  insino  a  noi  ;  Livio  infatti  tocca,  sebbene 
non  a  tempo  e  luogo,  ma  per  mera  incidenza,  del  plebiscito  fatto  nel 
537/217  dopo  la  battaglia  del  Trasimeno,  col  quale  veniva  sospeso, 
durante  la  seconda  guerra  punica,  l' effetto  dei  plebisciti  portati  in 
principio  del  quinto  secolo  sulla  ripresa  di  un  medesimo  ufficio.  (Livio, 
27,  6,  7:  «  Cn.  Servilio  consule,  cum  C.  Flaminius  alter  consul  ad 
Trasumennum  cecidisset,  ex  auctoritate  patrum  ad  plebem  latum,  ple- 
bemque  scivisse,  ut,  quoad  bellum  in  Italia  esset,  ex  iis,  qui  consules 
fuissent,  quos  et  quotiens  vellet  reficiendi  consules  populo  ius  esset  » . 
Son  parole  dette  dal  dittatore  Q.  Fulvio,  presidente  dei  comizi  rac- 
colti per  creare  i  consoli  del  545/209).  Anzi  eran  così  odiose  siffatte 
eccezioni,  che  malgrado  che  cotesto  plebiscito  del  537/217  dovesse 
aver  valore  per  tutto  il  tempo  che  sarebbe  durata  la  seconda  guerra 
punica,  tuttavia  i  tribuni  della  plebe  s'eran  provati  ad  impedire  che 
fossero  dichiarati  consoli,  pel  545/209,  Fabio  Massimo  e-FuIvio  Fiacco, 
perchè  il  primo  era  stato  console  l'ultima  volta  appena  quattro  anni 
innanzi  nel  540/214,  e  il  secondo  era  stato  console  l'ultima  volta  ap- 
pena due  anni  innanzi  nel  542/212  (Livio,  27,  6).  Ci  furono  adunque 
le  eccezioni,  è  vero;  ma  le  eccezioni  non  servirono  mai  più  che  nel 
nostro  caso  a  confermare  la  regola  ;  e,  lo  ripeto,  non  può  darsi  che 
si  fondasse  un'istituzione  sopra  fatti  eccezionali,  rari  e  odiosi,  perchè 
le  istituzioni,  anzi ,  sogliono  piuttosto  fondarsi  su  ciò  che  è  regolare 
e  succede  ogni  giorno  in  via  normale. 

(1)  L'autore  suppone  che  chi  fosse  stato  magistrato  due  anni  di  se- 
guito, quasi  non  avrebbe  avuto  tempo  di  ritornare  a  Roma.  Tale 
supposizione  ha  poco  fondamento,  perchè  in  quell'  età  le  spedizioni 
militari  duravano  poco,  e  quindi  non  si  vede  come  il  console,  o  il 
tribuno  militare  con  potestà  consolare  non  avrebbero  potuto  ritornare 
a  Roma  indipendentemente  dal  bisogno  di  rinnovare  l' imperio  per 
mezzo  della  legge  curiata.  Del  resto  è  noto  che  le  cagioni  dell'inter- 
vallo tra  due  magistrature  sono  ben  altre. 

(2)  11  ritorno  a  Roma  di  queste  persone,  se  servisse  a  provare  Tipo- 


-  244  — 

Quindi  non  recherà  maraviglia  che  il  Mommsen  stesso 
non  trovi  un  solo  esempio  che  conforti  la  sua  ipotesi,  per 
tacere  poi  che  essa  non  giova  a  spiegare  come  si  procedette 
nesli  altri  casi  d'assenza  di  uno  dei  consoli  nuovi.  —  Tali 
sono  le  interpretazioni  e  le  restituzioni  del  frammento  ten- 
tate fino  ad  oggi,  e  tutte  poco  probabili.  Invece  è  probabile 
che  la  riforma  introdotta  in  principio  del  540/2  14  riguardo 
al  modo  di  presentare  la  legge  curiata,  e  ricordata  nel  fram- 
mento, consistesse  in  nient'altro  che  in  quel  provvedimento 
che  appunto  ,  vista  la  storia  della  legge  curiata  ,  ci  parve 
testé  che  dovesse  naturalmente  esser  preso ,  se  non  si  vo- 
leva, come  non  si  voleva  infatti,  che  la  formalità  della  legge 
curiata  del  console  Marcello  venisse  addirittura  trascurata  (i); 
cioè  consistesse  nello  stabilire  che  quind'  innanzi  uno  qua- 
lunque dei  consoli  bastasse  a  presentare  la  legge  curiata  per 
sé  e  pel  collega  nello  stesso  tempo:,  ed  è  dunque  probabile 
che  il  luogo  di  Pesto,  a  parte  la  prima  parola,  che  non 
saprei  indovinare  io,  come  nessuno  presunse  di  indovinarla, 
dicesse  così  : 

{ab  altero  consule  (2)  l)ex  curiata  fertur   quo(d)  Hanni  — 


tesi  del  Mommsen  servirebbe  egualmente  a  provare  la  nostra,  quindi 
questa  considerazione  è  di  poco  momento  pel  nostro  caso. 

(i)  L'importanza  della  legge  curiata  durava  ancora  al  tempo  di  Ci- 
cerone, quando  le  altre  formalità  l'aveano  perduta,  e  ne  sono  prova 
le  questioni  di  diritto  insorte  in  questo  campo  a  proposito  di  Appio 
Claudio  console  nel  700/54  [Cicerone  ad  fam.,  1,  9,  25;  Ad  Qitint. 
fratr.,  3,  2,  ?>  ;  Ad  Alt.,  4,  16,  2),  a  proposito  del  trionfo  di  C.  Pom- 
ptinio  nello  stesso  anno  (Cicerone  ad  Att.,  4,  16,  2),  e  a  proposito 
delle  elezioni  per  1'  anno  706/48  meditate  dagli  aderenti  di  Pompeo 
(Dione  Cassio,  41,  43  ;  cf.  Cesare,  De  bello  civ.,  i,  6,  6;  cf.  Rubino, 
Untersuchungen  ìiber  rÓm.  Verfassung   iind  Geschichie,   i,  370). 

(2)  Ho  cercato  in  Livio  se  si  dicesse  meglio  alter  consiil  oppure 
consul  alter  ed  ho  trovato  che  alter  consul  era  da  preferirsi.  Nel  nono 
libro  sopra  otto  volte  l'autore  adopera  sei  volte  quest'ultima  forma. 


-  245  — 
(bai  in  locis  vicinis)  Romae  cum  esset   nec    ex  praesidi  — 
f is  alter  consul  discedere  posset)  Q.  Fabius  Maximus  Verru • — 
(cossus  et  M.  Claudius  Ma)rcellus  cos.  facere  in  — 
(stituerunt.) 

Questa  mia  interpretazione  e  restituzione  si  fonda  sulle 
consuetudini  antiche  dei  Romani  e  serve  a  spiegare  non 
solo  come  si  può  e  si  deve  esser  proceduti  in  principio  del 
640/214,  ma  come  si  procedette  anche  in  tutti  gli  altri  casi, 
che  non  mancarono  per  certo  e  in  cui  avvenne  che  dei  con- 
soli nuovi  uno  fosse  assente  e  dovesse  così  ottenere  V  im- 
perio per  mezzo  della  legge  curiata  senza  tuttavia  ritornare 
per  questa  ragione  a  Roma. 

Così  siamo  giunti  alla  fine  del  primo  paragrafo ,  giacché 
degli  auspici  e  dei  voti ,  che  i  consoli  prendevano  e  face- 
cevano  nel  giorno  in  cui  essi  partivano  per  la  guerra,  non 
occorre  dir  altro  se  non  che,  stante  Taffinità  di  questa  for- 
malità con  quella  della  legge  curiata,  si  sarà  proceduto  per 
quelli  come  per  quella  (i).  Ora  riepiloghiamo    brevemente 


cioè:  9,  i3,  io;  9,  29,  3;  9,  32,  2;  9,  38,  u;  9,  41,  5;  9,  43,  7,  e 
due  volte  sole  consul  alter  (9,  iG,  2;  9,  38,  i).  Nel  libro  decimo, 
sopra  sette  volte  l'autore  adopera  sei  volte  la  forma  alter  consul  :  io, 
9,  8  ;  IO,  14,  9  ;  io,  i5,  4;  io,  24,  12  ;  io,  3i,  i  ;  io,  43,  i  ;  e  una 
volta  sola  la  forma  consul  alter:   io,  37,   i. 

(i)  La  relazione  tra  le  due  formalità  è  accennata  da  Cicerone  {De 
leg.  agr.,  2,  11)  dicendo  che  i  comizi  curiati  tantum  auspicìorum 
causa  remanserunt  [ci.  Mommsen  ,  Staatsrecht,  dove  parla  della  legge 
curiata,  nel  luogo  già  citato).  I  critici  affermano  che  il  console  po- 
teva trasandare  questa  formalità  (Becker,  Handbuch  der  rom.  Ant.. 
2,  2,60;  Lance, /^om.  Alterthinn.,  i,  622,  seconda  edizione;  Mommsen, 
Staatsrecht,  i,  65,  seconda  edizione;  Weissenborn  a  Livio,  41,  10,7), 
e  si  fondano  sull'esempio  del  console  C.  Claudio  (Livio,  41,  10).  Par- 
tito senza  aver  preso  gli  auspizi  e  fatti  i  voti,  Claudio  non  venne  ri- 
conosciuto nella  sua  qualità  dai  Generali  suoi  predecessori  e  dai  suoi 
soldati  e  subalterni  ,  prima  di  essere  ritornato  a  Roma  a  compiere 
la  formalità  trasgredita.  A  me  pare  che  questo    esempio   provi    tutto 


-  246  — 
questo  primo  paragrafo:  ricavammo  da  Livio  che  uno  dei 
consoli  del  540/214  non  trovossi  in  Roma  in  principio  del 
suo  ufficio;  che  non  vi  si  trovò  nemmeno  uno  dei  consoli 
del  544/210-,  infine  che  uno  dei  consoli  del  546/208  fu  spe- 
dito alla  guerra  mentre  era  semplice  console  designato  (pro- 
prio come  leggiamo  che  fece  Flaminio)  :  poi  abbiamo  giu- 
dicato che  in  questi  e  simili  casi  gli  affari  e  le  cerimonie 
incombenti  ai  nuovi  consoli  si  affidassero  in  generale  a  quel 
console  che  rimaneva  in  Roma,  uno  spediente  del  quale,  per 
quanto  riguarda  la  legge  curiata,  resta  aperta  testimonianza, 
forse,  nel  frammento  di  Pesto  esaminato. 

Ora  dopo  di  avere  dimostrato,  in  tesi  generale,  che  nel- 
Tetà  della  seconda  guerra  punica  gli  ordini  romani  non  e- 
scludevano  punto  in  modo  assoluto  la  lontananza  da  Roma 
per  parte  di  uno  dei  nuovi  consoli  in  sul  bel  principio  del- 
l'anno, passiamo  a  considerare  nel  secondo  paragrafo  il  caso 
particolare  di  G.  Flaminio  e  della  sua  partenza  avvenuta, 
secondo  il  testimonio  di  Livio,  mentre  egli  era  designato 
console  per  la  seconda  volta. 

§  IL  Se  la  partenia  da  Roma  di  C.  Flaminio,  mentre 
ey^a  console  designato  pel  537/217,  sembri  vera  o  no.  Se 
la  nostra  ipotesi  sul  frammento  di  Festo  cogliesse  nel  segno, 
ne  potremmo  senz'altro  inferire  che  già  prima  cfel  540/214 
r  assenza  da  Roma  di  uno  dei  nuovi  consoli  in  principio 
deir  anno  non  era  cosa  al    tutto  nuova ,  altrimenti    non    si 


il  contrario  :  prima  di  tutto  Claudio  dovette  ritornare  a  compiere  la 
cerimonia,  e  ciò  prova  la  necessità  di  essa;  in  secondo  luogo,  invece 
di  dire  che  egli  partì  sapendo  di  poter  trasgredire  la  formalità,  io 
direi  che  partì  sperando  di  venirne  dispensato,  ma  siccome  la  sua 
precipitosa  partenza  proveniva  da  ambizione  personale  e  non  da  bi- 
sogno dello  Stato,  la  dispensa  non  fu  accordata,  donde  il  suo  ritorno 
a  Roma. 


—  247  - 
spiegherebbe  come  essa  sia  stata  prevista  e  come  si  sia 
provveduto  ad  essa.  Ad  ogni  modo  però,  l'assenza  di  Mar- 
cello in  principio  del  640/214,  quella  di  M.  Valerio  Levino 
in  principio  del  544/210,  ed  infine  la  partenza  di  Marcello 
console  designato  per  Tanno  546/208,  que'  tre  fatti  che  noi 
siamo  stati  i  primi  ad  osservare,  faran  forse  cangiar  d'av- 
viso chi  riguardava  la  partenza  di  C.  Flaminio  come  inve- 
rosimile per  la  sua  novità.  Ora  procediamo  innanzi  per 
vedere  se  ci  sia  ragione  di  credere  che  cotesta  partenza  sia 
un'invenzione  di  qualche  scrittore.  Io  farò  brevemente  le  tre 
considerazioni,  che  meditando  sulP  argomento  mi  parvero 
necessarie  a  farsi  per  trattarlo  colla  larghezza  dovuta,  e  che 
rispondono  ai  tre  dubbi  che  in  questo  proposito  possono 
sorgere  in  mente.  Cotesta  partenza  è  fatto  straordinario  a 
tal  segno  da  doversene  naturalmente  dubitare  ?  In  secondo 
luogo:  è  probabile  una  falsificazione  storica  di  questo  ge- 
nere ?  In  terzo  luogo  :  la  natura  delle  antiche  fonti  super- 
stiti favorisce  forse  V  ipotesi  d'  una  falsificazione  ?  Rispon- 
diamo partitamente  ai  tre  quesiti. 

a)  Al  primo  quesito  si  può  dire  che  fu  già  risposto  nel 
paragrafo  precedente;  infatti  gli  esempi  dei  consoli  M. 
Claudio  Marcello  nel  340/214,  di  M.  Valerio  Levino  nel 
544/210,  e  infine  quello  di  M.  Claudio  Marcello  console 
designato  pel  546/208,  tolgono  alla  partenza  di  Flaminio  il 
carattere  di  straordinaria  che  essa  sembra  avere  agli  occhi 
di  alcuni  critici.  Forse  da  questo  apparente  carattere  stra- 
ordinario del  fatto  c'è  chi  derivò  appunto  i  sospetti  che  lo 
mossero  a  cercare  le  circostanze  storiche  e  cronologiche  che 
parevano  porne  in  dubbio  la  verità-,  noi  non  solo  ripetiamo 
che  tali  sospetti,  visti  i  tre  esempi  suddetti  ,  non  hanno 
ombra  di  fondamento,  ma  stimiamo  di  dover  notare,  inoltre, 
che  certi  fatti  della  storia  antica  di  Roma  non  si  hanno  da 
riguardare  subito  con  diffidenza  a  cagione   di    qualche  ille- 


-  248  — 
galità  che  essi  sembrano  supporre.  Le  illegalità  sono  sempre 
state  più  o  meno  possibili  dovunque.  A  Roma  poi  Tabuso 
di  potere  era  cosa  molto  più  facile  che  non  nei  tempi  mo- 
derni ,  perchè  (non  faccia  velo  il  nome  di  Repubblica)  i 
consoli  avevano  tanta  autorità  e  tanto  prestigio,  che,  se  ca- 
pitava che  fossero  nature  arbitrarie,  tornava  quasi  impossi- 
bile, nella  pratica,  tenerli  a  segno.  L'inconveniente  avea  poi, 
ben  inteso,  il  suo  correttivo ,  che  consisteva  nella  facoltà  , 
e,  aggiungiamo  pure,  nella  facilità,  colla  quale  i  tribuni  della 
plebe  potevano  intentare  un  processo  politico  al  magistrato 
appena  fosse  scaduto  d'ufficio.  Quindi  nessuno  pensò  mai 
a  metter  in  dubbio,  a  cagion  d'  esempio  ,  gli  atti  tirannici 
di  Appio  Claudio  Cieco  (i),  o  di  altri  che  non  mancano 
nella  storia  romana. 

La  maggiore  o  minore  incostituzionalità  della  partenza  in 
quistione  non  prova  nulla  contro  la  medesima  ,  sebbene , 
come  vedremo  poi,  essa  non  sia  incostituzionale  alla  guisa 
e  nel  senso  che  si  crede. 

P)  Or  vediamo  se  in  se  stesso  sia  probabile  che  gli 
scrittori  antichi  abbiano  inventata  la  partenza  di  Flami- 
nio. Nella  storia  romana  sono  forse  meno  rare  che  nella 
storia  di  qualunque  altro  popolo  le  falsificazioni:  parecchi 
secoli  di  dominio  esclusivo  esercitato  da  un  certo  numero 
di  famiglie  patrizie,  la  lunghezza  di  vita  che  ebbe  lo  Stato 
di  Roma,  e  le  vicende  intestine  che  lo  agitarono,  ecco  suf- 
ficienti cagioni  di  falsificazioni  storiche  :  dalla  prima  cagione 
ebbero  origine  quelle  che  avevano  la  loro  ragion  d'  essere 
neir  ambizione    delle  famiglie    antiche  di  voler  figurare  nei 


(i)  Specialmente  la  sua  censura  fu  feconda  di  risultati.  Egli  fu  ri- 
belle al  Senato  e  a  tutte  le  istituzioni  vigenti.  Preziosi  cenni  ci  ser- 
barono gli  antichi  (Diodoro,  20,  36;  Livio,  9,  29,  7  segg.;  9,  3o;  9, 
33,  4  segg.;  9,  46  segg.).  I  moderni  scrissero  molto  su  di  lui;  cf.  fra 
gli  altri  MoMMSEN,  Róm.  Forsch.,  i,  3oi   segg. 


—  249  - 
fasti  consolari  e  nelle  memorie  dei  tempi  andati  più  spesso 
e  con  più  lustro  del  vero  ;  dalle  altre  cagioni  ebbero  origine 
quelle  che  dipendevano  dalle  convinzioni  e  dagli  intenti  po- 
litici speciali  degli  scrittori.  Quindi  nella  storia  romana  più 
che  in  qualunque  altra  affilò  le  sue  armi  quella  critica 
che  si  chiama  moderna,  e  che  in  realtà  incomincia  da  Lo- 
renzo Valla  ;,  e  ad  affilarle  per  estirpare  il  falso  continuò 
sempre  e  continua  essa  più  che  mai,  ed  a  ragione-,  ma  se 
in  tutto  ci  vuol  metodo,  qui  ce  ne  vuole  moltissimo,  ed  uno 
dei  principi  più  ovvii  non  può  non  esser  il  seguente  :,  che 
chi,  senza  argomenti  di  rigore  e  di  certezza  matematica  (e 
quanto  son  rari  in  queste  discipline  siffatti  argomenti  !),  in- 
tende provare  agli  altri  che  c'è  una  determinata  falsificazione, 
ne  deve  prima  di  tutto  far  vedere  il  perchè  e  il  come. 
Ora  in  proposito  del  perchè  io  non  posso  consentire  col 
Seeck  (i)  nel  credere  che  Livio  abbia  inventata  la  partenza 
di  Flaminio  per  poterla  biasimare,  e  così  poter  biasimare 
tacitamente  e  indirettamente  anche  Giulio  Cesare,  che,  fatto 
console  la  seconda  volta  per  Tanno  706/48,  se  ne  andò  da 
Roma  prima  d'esser  console  effettivo,  e  si  trovò  in  Brindisi  f 
il  primo  gennaio,  che  in  quel  tempo  era  il  giorno  in  cui  i 
consoli  entravano  in  carica.  Osservo  che  prima  di  tutto  non 
si  potrebbe  senza  gravi  precedenti ,  e  cosi  alla  leggiera , 
versar  sopra  Livio  il  peso  di  questa  calunnia  (2);  poi  Tir- 


fi)  Dissertazione  citata,  Hermes,  8,   166. 

(2)  È  questione  di  metodo,  che  nelle  ricerche  ha  somma  impor- 
tanza, anche  indipendentemente  dalle  conclusioni  pii^i  o  meno  felici 
e  certe  di  esse.  Qualche  volta  succede  che  il  risultato  loro  sia  errato, 
e  che  nondimeno  alcune  parti  siano  svolle  con  metodo  sano  e  com- 
mendevole. Così,  ad  esempio,  il  Seeck  poteva  ritenere  per  falso  il  rac- 
conto di  Livio,  senza  tuttavia  dare  a  questo  storico  la  taccia  di  partigiano 
menzognero;  il  che  il  critico  poteva  fare  colla  supposizione  bensì  di  uno 
scritto  calunnioso,  ma  non  facendone  autore  il  nostro  storico,  anzi 
immaginando  piuttosto  che  quest'ultimo  fosse  stato  vittima  di  una  mi- 

■'ìiiviòtJ  di  filologia  ecc.,  X.  i7 


-  2ó0  — 
regolarità  in  cui  Cesare  era    incorso   non    era   tanto    grave 
(si  ricordino  gli  esempi  dei  consoli  M.  Claudio  Marcello  e 
M.  Valerio  Levino    nella    metà  del  secolo  sesto  di  Roma) 


stificazione,  servendosi  ingenuamente  del  medesimo  scritto  ;  questa 
ipotesi  non  sarebbe  stata  giusta  secondo  me,  ma  almeno  sarebbe  stata 
possibile.  Ma  che  Livio,  scientemente,  abbia  alterata  la  storia,  obbe- 
dendo ad  istinti  o  ad  istigazioni  di  parte,  mi  pare,  fra  le  ipotesi,  la 
meno  probabile.  —  A  proposito  di  mistificazioni  letterarie  il  Mommsen 
{Die  Scipionenprocesse^  Hermes,  i,  212  segg.;  R'óm.  Farseli.,  2,  5o2 
segg.)  non  crede  che  davvero,  durante  il  celebre  processo  intentato 
dai  tribuni  della  plebe  ai  due  fratelli  Scipione  l'Africano  e  Scipione 
l'Asiatico,  il  tribuno  Tiberio  Gracco  (padre  dei  famosi  Gracchi)  abbia 
tenuto  il  noto  discorso  in  favore  degli  accusati  e  specialmente  in  favore 
dell'Africano,  anzi  crede  che  il  tenore  di  quel  discorso(Liv.,  38,  52-53) 
sia  piuttosto  il  sunto  di  un  libello  pubblicato  allo  scoppiare  della  guerra 
civile,  e  precisamente  nella  primavera  del  705/49  ;  in  quel  tempo, 
com'è  noto,  Cesare  fece  violenza  alla  potestà  sacrosanta  del  tribuno  che 
non  voleva  permettere  che  egli  aprisse  l'erario  ;  allora  un  tale,  secondo 
il  Mommsen,  avrebbe  scritto  un  libello  per  protestare  contro  tale  vio- 
lenza; questo  tale  però  sarebbe  stato  un  aderente  di  Cesare,  e  sarebbe 
stato  mosso  non  da  ira  di  parte,  ma  soltanto  dall'amore  alla  giustizia 
e  alle  istituzioni  ;  quindi  la  protesta  fatta  in  forma  allegorica  col 
ricordare  una  scena  del  celebre  processo,  in  modo  che  le  cose  dette 
da  Tiberio  Gracco  all'Africano  dovessero  intendersi  come  dette,  dal- 
l'autore del  libello,  a  Cesare,  per  ammonir  quest'ultimo  del  rispetto 
dovuto  alle  leggi;  e  Livio  poi,  secondo  il  Mommsen,  avrebbe  letto 
il  libello  e  non  si  sarebbe  accorto  dell'allegoria.  Dirò  di  questa  idea 
del  Mommsen,  che,  se  non  mi  par  vera,  almeno  non  cade  nell'incon- 
veniente in  cui  è  caduto  il  Seeck  colla  sua,  perchè  siffatte  gherminelle 
letterarie,  che  non  ingannano  nessuno  dei  contemporanei,  essendo  al- 
lora la  commedia  un  secreto  pubblico,  diventano  facilmente  fonte  di 
errore  pei  posteri,  uno  dei  quali  era  Livio,  che  nel  yoS  era  fanciullo 
di  dieci  anni  e  quindi  ignaro  degli  affari  pubblici.  —  L'idea  però  del 
Mommsen  non  mi  par  tuttavia  vera;  in  primo  luogo  non  mi  sembra 
che  nel  705/49  si  potesse  pensare  a  dittature  perpetue  e  a  consolati  a 
vita  presagendoli  all'eroe  investito  dall'oratore.  In  secondo  luogo  il 
colore  misto  di  Cesariano  e  di  repubblicano,  che  il  libello  avrebbe 
avuto,  sarebbe  un  fenomeno  poco  rispondente  alla  realtà  delle  cose, 
essendo  chiaro  che  l'autore  non  poteva  essere  che  o  Cesariano,  nel 
qual  caso  avrebbe  lasciato  correre  la  violenza  di  Cesare  senza  far 
motto;  o  contrario  ai  disegni  di  Cesare,  nel  qual  caso  egli  non  sa- 
rebbe stato  profeta  di   onori  a  quest'ultimo.  In  terzo  luogo,  siccome 


—  251  — 
da  porgere  giusta  occasione  di  biasimo,  anzi  sarebbe  stato 
puerile  pretendere  che  nei  momenti  decisivi  della  triste  e 
gigantesca  lotta  che  allora  combattevasi  fra  Pompeo  e  Ce- 
sare, questi  avesse  aspettato  che  fosse  venuto  il  primo  dì 
gennaio  prima  di  muoversi  da  Roma,  invece  di  correre 
prontamente  contro  il  rivale-,  infine  badisi  che  la  somiglianza 
fra  la  partenza  di  Flaminio  e  quella  di  Cesare  è  soltanto 
apparente,  perchè  Cesare  non  commise  le  colpe  che  si  rim- 
proverano a  Flaminio  (che  sono  specialmente  Tommissione 
delle  ferie  Latine  e  quella  delle  sedute  del  Senato),  avendo 
egli  celebrato  le  Latine  (i)  e  nominato  i  governatori  delle 
Provincie  (2):  come  avrebbe  quindi  potuto  il  nostro  storico 
mordere  Cesare  parlando  di  Flaminio?  L'allusione  sarebbe 
stata  oscura-  T  allusione  dunque  non  c'è.  E  non  solo  mi 
pare  errata  la  congettura  del  Seeck  sullo  scopo  della  pretesa 
falsificazione  di  Livio,  ma  a  me  non  riesce  nemmeno  di 
imaginarmene  un  altro  qualunque  un  po'  un  po'  verosimile, 
ossia  d''  indovinare  una  cagione  che  potesse  aver  indotto 
Livio  o  altro  storico  più  antico  ad  inventare  il  fatto  in  que- 
stione. Una  cagione  politica  o  di  parte?  ma  io  non  vedo 
né  a  che  prò  uno  storico  democratico  ,  celebrando  V  eroe 
della  sua  fazione,  avrebbe  intruso  questo  particolare  non 
vero  (come  suppongono  que'  tali  critici)  nella  storia  dei  par- 
titi, né  viceversa  a  qual  fine  uno  scrittore  di  istinti  aristo- 
cratici avrebbe  aggiunto,  alla  serie  degli  affronti  veri  inflitti 
da  Flaminio  al  Senato,  un  affronto  meramente  immaginario. 
Oppure  la  partenza  in  discorso,  e  quindi  anche  le  mancanze 


Livio  slesso  sospettò  che  l'orazione  di  T.  Gracco  non  sia  genuina 
(Livio,  38,  b6,  5),  è  chiaro  ch'egli  si  sarà  occupato  un  momento  della 
cosa;  per  il  che,  se  l'orazione  fosse  stata  un  libello  del  7o5,egli  se  ne 
sarebbe  accorto. 

(i)  Cesare,  De  bello  civ.,  3,  2,   i. 

(2)  Appiano,  Bell.  eh'..  2,  48. 


—  252  — 
di  Flaminio  verso  gli  Dei  (trascuranza  delle  ferie  Latine  e 
di  altre  cerimonie  religiose),  vennero  inventate  semplice- 
mente per  dare  ad  intendere  al  mondo  che  la  sconfitta  toc- 
cata dai  Romani  sul  Trasimeno  non  era  se  non  in  appa- 
renza r  opera  degli  uomini ,  mentre  in  realtà  essa  era  la 
meritata  ed  inevitabile  punizione  divina  di  quelle  mancanze, 
e  che  quindi  ne  rimaneva  salvo  Tonore  delle  armi  romane  ? 
Neppur  questa  ipotesi  ha  valore  di  sorta  nel  nostro  caso 
(per  quanto  essa  sia  tale  da  raccomandarsi  altrui,  quando 
fosse  certo  il  fatto  che  si  tratterebbe  di  dimostrare,  cioè 
la  falsificazione):,  e  valga  il  vero:  se  così  fosse,  lo  storico 
autore  della  falsificazione  avrebbe  messo  espressamente  in 
evidenza  il  nesso  fra  la  cagione  e  T  effetto  ,  avrebbe  detto 
che  la  rotta  di  Flaminio  fu  la  conseguenza  necessaria  e  le- 
gittima della  costui  partenza  anticipata,  e  T  asserzione  sa- 
rebbe poi  stata  via  via  ripetuta  dagli  scrittori  venuti  dopo; 
ma  in  quella  vece,  non  e'  è  autore  antico  che  dica  questo, 
che  anzi  tutti  gli  antichi,  al  contrario,  convengono  nelT as- 
serire che  Flaminio  perì  per  non  aver  tenuto  conto  dei  si- 
nistri prodigi  apparsigli  in  Etruria  (i). 

Non  meno  difficile  sarebbe  trovare  un  come  della  falsi- 
ficazione. I  critici  che  concepirono  Tidea  della  falsificazione 
non  si  diedero  la  pena  di  cercarlo,  ed  io  confesso  d'averlo 


(i)  CicER.,  De  divinat,,  i,  35,  77;  2,  8,  21  ;  2,  3i,  67.  Lo  stesso, 
De  natur.  deor.,2,  3,  7-8;  Valerio  Massimo,  i,  6,  6;  Ovidio,  Fast.^ 
6,  755.  Tanto  consenso  fra  i  classici  è  molto  osservabile;  quindi  è 
che  parmi  si  diparta  molto  dal  vero  il  Lance  quando  afferma  [Rum. 
Alterthiim.,  2,  i55,  seconda  edizione)  che  gli  antichi  immaginando 
quella  partenza  (secondo  l'autore  quella  partenza  è  finta)  intesero  a 
far  manifeste  le  cagioni  scerete  della  rotta  del  Trasimeno.  Meno 
esatto  parmi  pure  il  medesimo  critico,  citando  a  questo  proposito 
Plutarco,  Fabio,  e.  2  ;  questo  storico  menziona  certi  prodigi  tra- 
scurati da  Flaminio,  ma  non  li  mette  in  relazione  alcuna  colla  scon- 
fitta del  Trasimeno. 


-  253  - 
cercato  invano.  Distinguo  due  specie  di  falsificazioni  sto- 
riche. C  è  r  alterare  i  fatti  sopprimendo  particolari  veri  e 
aggiungendone  di  non  veri,  che  è  sempre  possibile.  C'è  Tin- 
ventare  dei  fatti  (come  si  suppone  nel  nostro  caso)  che  non 
è  sempre  facile,  massime  trattandosi  di  tempi  in  cui  fiori- 
scono le  lettere  (i).  Or  badisi  che  la  partenza  irregolare  di 
Flaminio  (irregolare,  come  vedremo  ,  solo  perchè  non  de- 
cretata dal  Senato,  e  non  per  altro)  sarebbe  una  di  quelle 
invenzioni  che  non  vengono  in  mente  che  ai  contemporanei 
a  sfogo  improvviso  di  sdegni  di  parte  ;  or  come  sarebbe 
essa  stata  possibile?  C'erano  allora  scrittori  contemporanei 
delle  cose  di  Roma,  così  fra  i  Romani  come  fra  gli  stra- 
nieri,  quindi  come  avrebbero  osato  e  potuto,  gli  storici, 
affibbiare  ad  un  uomo  celebre  come  Flaminio,  un'azione  di 
quella  sorte,  che  pur  si  era  dovuta  compiere  alla  luce  del 
giorno  ?  avrebbero  osato  e  avrebbero  potuto  dar  colpa  di  una 
azione  scandalosa  ad  un  uomo  morto  pur  dianzi,  mentre 
tutti  ricordavano  benissimo  quello  che  egli  avea  e  quello 
ch'egli  non  avea  fatto,  se  non  si  fossero  fondati  sul  vero? 
Mi  par  di  no.  Questo  sia  detto  degli  storici  contemporanei. 
Quanto  poi  agli  storici  posteriori,  io  notava  or  ora  che  essi 
non  potevano  avere  interesse  alcuno  ad  inventare  e  propa- 


(i)  Questo  è  un  criterio  che  non  tanto  si  esprime  a  parole,  quanto 
si  applica  nella  pratica.  Infatti  i  critici  scoprono  per  lo  più  le  falsi- 
ficazioni nella  storia  dei  tempi  anteriori  allo  sviluppo  delle  lettere, 
scritta  dai  posteri  ma  non  dai  contemporanei,  e  quindi  capace  di  es- 
sere alterata.  Così,  ad  esempio,  sarebbe  stata  travisata  l'immagine  di 
Sp.  Cassio  e  di  M.  Manlio  (Mommsen  ,  Hermes,  5,  228  segg.;  R'óm. 
Forsch.,  2,  i53  segg.),  sarebbe  un'invenzione  la  storia  di  Sp.  Maelio 
aspirante  alla  monarchia  (lo  stesso,  ivi),  sarebbe  un'invenzione  quella 
di  Coriolano  (Mommsen,  Hermes,  4,  i  segg.;  Rom.  Forsch.,  2,  ii3 
segg.  Ma  il  Bonghi,  Nuova  Antologia,  voi.  16,  p.  SgS  segg.,  risguarda 
la  leggenda  di  Coriolano  come  un'amplificazione  poetica,  archeolo- 
gica e  letteraria  ad  un  tempo,  di  un  fatto  vero). 


-  254  — 
gare  una  menzogna  di  questo  genere,  ed  aggiungerò  adesso 
che  C.  Flaminio  sarà  stato  certissimamente  ritratto  dai  con- 
temporanei in  guisa  così  precisa,  che  oramai  doveva  parere 
assunto  vano  e  di  esecuzione  difficile,  l'imprendere  ad  alte- 
rare il  quadro  che  dipingeva  quelTuomo  alle  prese  col  Se- 
nato. 

y)  Esaminando  finalmente  il  modo  in  cui  ci  pervenne 
la  notizia  della  cosa,  non  trovai  ragioni  che  valgano  a  farla 
negare,  sebbene  a  primo  aspetto  tutto  paia  concorrere  a 
metterla  per  l'appunto  in  dubbio.  Al  vedere  infatti  che  Livio 
è  il  solo  storico  che  la  racconta  di  proposito  (i),  e  Valerio 
Massimo  il  solo  scrittore  che  ne  tocchi  una  volta  per  inci- 
denza (2),  mentre  Polibio,  narrando  per  disteso  la  storia 
romana  di  quel  tempo,  la  passa  sotto  silenzio,  e  mentre 
Cicerone  non  fa  mai  allusione  ad  essa  nelle  dieci  volte  che 
egli  parla  o  di  Flaminio  o  almeno  della  catastrofe  del  Tra- 
simeno (3),   saremmo  inclinati  a  credere  che  la  cosa  non  si 


(i)  Naturalmente  Livio  è  poi  coerente  a  se  stesso,  e  tutta  la  storia 
interna  del  principio  del  537/217,  che  leggesi  sul  principio  del  libro 
XXII,  conferma  il  racconto  anteriore.  Infatti  come  sulla  fine  del  XXI 
narra  la  partenza  del  console  designato  C.  Flaminio,  così  sul  prin- 
cipio del  XXII  narra  che  Servilio  fu  //  solo  dei  due  consoli  che  sia 
entrato  in  carica  a  Roma  e  abbia  convocato  il  Senato  (Cn.  Servilius 
consul  Romae  Idibus  Martiis  magistratum  iniit.  Ibi  quum  de  re  pu- 
blica  retulisset,  etc),  e  abbia  espiato  i  prodigi  [consul  de  religione  patres 
consuluit),e  narra  che  fu  il  solo  Servilio  che  arruolò  le  truppe  (Dum 
consul   placandis    Romae    dis    habendoque  dilecta  dat  operam  ,  etc). 

(2)  Val.  Massimo,  4,6,  6  :  «  C.  autem  Flaminius /»^//5jl7/c^/o  co»5m/ 
creatus,  cum  apud  lacum  Trasymennum  cum  Hannibale  conflicturus 
convelli  signa  iussisset,  etc.  ».  Osservo  di  passaggio  che  fonte  di  Va- 
lerio Massimo,  in  questo  luogo,  paionmi  essere  state  le  parole  Liviane 
riferite  in  principio  del  capitolo:  «  consulem  ante  inauspicato  factum 
etc.  »  {21,  63,  7).  E  se  così  ò  notisi  il  qui  prò  quo;  le  parole  di  Livio 
si  riferiscono  al  primo  consolato  di  Flaminio  nel  53 1/223,  ma  Valerio 
Massimo  le  applica  al  secondo  consolato  ! 

(3)  Cicerone  parla  dieci  volte  di  Flaminio,  cioè:  Ad  Brut.,  14, 
^7i   '9>  77'   Acad.  pr.,2,  i5,    i3.  De  invent.,  2,  17,    52.    De   senect., 


—  255  — 
leggesse  negli  autori  conosciuti  a  Polibio  e  a  Cicerone,  e  che 
essa  fosse  stata  inventata  più  tardi  da  Livio  o  almeno  al 
tempo  di  Livio.  Ma  questa  conclusione  sarebbe  precipitata. 
La  cosa  si  riguardò  come  un  aneddoto,  e  quindi  ,  passata 
sotto  silenzio  da  qualche  storico  dei  più  antichi,  essa  ebbe 
la  stessa  sorte  anche  negli  storici  posteriori.  E  oltre  a  questa 
ragione  generale  ci  sono  ragioni  speciali  che  spiegano  il  si- 
lenzio di  ciascheduno  scrittore  in  particolare.  Polibio  in- 
fatti ommise  molte  cose  anche  più  importanti  (i),  le   quali 


4,  1 1 .  De  divinat.,  i,  35,  77;  2,  8,  21  ;  2,  3i,  67.  De  nat.  deor.,  2, 
3,  7  e  8.  De  legg.,  3,  9,  20,  quando  ricordandone  l'eloquenza  che  la 
fama  diceva  non  comune,  quando  menzionando  la  legge  agraria  di 
lui,  quando  narrando  i  portenti  apparsigli  in  Etruria  ,  e  quasi  ad 
ogni  volta  rammentando  la  catastrofe  del  Trasimeno. 

(i)  Ho  esaminato  il  libro  terzo  di  Polibio  (in  esso  vengono  esposte 
le  cose  seguite  dal  principio  della  seconda  guerra  punica  fino  alia 
•battaglia  di  Canne),  che  è  parte  integrante  dell'opera  (viceversa  sono 
semplicemente  un'introduzione  a  tutta  l'opera  i  due  primi' libri,  cf. 
Polibio,  i  ,  3  e  3,  i)  e  che  ci  rimane  intero,  e  1' ho  confrontato  col 
libro  XXI  di  Livio  ;  il  risultato  di  tale  esame  fu  appunto  questo,  che 
gli  autori  romani  o  non  romani  più  antichi,  i  quali  descrissero  la 
seconda  guerra  punica ,  furono  bensì  studiati  tutti  quanti  da  Po- 
libio,  ma  senza  che  egli  abbia  mai  pensato  a  non  ommetier  nulla, 
nelle  sue  storie,  di  quanto  lesse  nei  loro  scritti;  in  effetto,  per 
tacere  che  i  fatti  avvenuti  in  Ispagna  nei  due  primi  anni  della  guerra 
trovansi  esposti  più  diffusamente  presso  Livio  che  non  presso  Polibio 
(del  che  discorre  Bottcher,  Fleckeisens  Jahrbiìcher  Supplementband , 

5,  427,  e  WoLFFLiN,  Hermes,  1875,  pag.  122  segg.),  ci  son  molte  cose, 
la  cui  verità  sarebbe  ridicolo  voler  contestare,  e  la  cui  importanza 
non  potrebbe  essere  maggiore,  che  vennero  per  la  prima  volta  narrate 
dagli  autori  contemporanei  (altrimenti  non  ne  sarebbe  giunta  fino  a 
noi  la  notizia),  e  che  oggi  leggonsi  in  Livio,  le  quali  tuttavia  mancano 
in  Polibio;  tali  sono  le  cose  riferite  da  Livio  21,  ^i,  9,  dove  leggiamo 
che  Annibale,  per  andare  dal  paese  degli  AUobrogi  alle  Alpi ,  passò 
per  le  regioni  dei  Tricastini,  dei  Vocontii  e  dei  Tricorii  ;  tali  sono 
quelle  riferite  da  lui,  21.  49  segg.,  e  che  sono  la  somma  degli  avve- 
nimenti seguiti  in  Sicilia  nel  primo  anno  della  guerra  ;  tali  sono  so- 
pratutto quelle  riferite  da  lui,  21,  19,  6  segg.,  dove  è  fatta  menzione 
di  un  avvenimento  dei  più  caratteristici,  ossia  dell'infelice  tentativo 
che  i  legati  dei  Romani  fecero,  al  rompersi  della  guerra,  percorrendo 


—  256  — 
venivano  però  riferite  necessariamente  dagli  autori  eh'  egli 
consultò  (se  non  le  avessero  riferite  noi  non  ne  avremmo 
più  contezza  alcuna)  ;  perchè  non  crederemo  ch'egli  ommet- 
tesse  anche  la  partenza  di  Flaminio  o  a  bella  posta,  op- 
pure per  dimenticanza?  Noterò  ancora  che  Polibio  è  lo  sto- 
rico che  evita  per  principio  gli  aneddoti:,  non  avea  egli 
prima  d'allora  passato  sotto  silenzio  T  insubordinazione  di- 
mostrata da  Flaminio  al  Senato  nel  53 1/223  ,  quando  era 
console  la  prima   volta?  (i).  —  Per  quanto    concerne    poi 


le  Spagne  e  le  Gallie  in  cerca  di  alleanze  contro  i  Cartaginesi  ;  tali 
sono  infine  molte  imprese  militari  di  poca  importanza,  come  quelle 
narrate  da  Livio,  21,  Sy-Sg,  ed  esaminate  nel  capitolo  precedente,  ed 
altre  che  vedremo  nel  quarto  capitolo;  per  tacere  della  storia  interna 
di  Roma,  e  non  solo  della  storia  interna  consueta,  ma  di  qualche 
fatto  straordinario,  quale  sarebbe,  ad  esempio,  la  primavera  sacra  vo- 
tata dai  Romani  dopo  la  battaglia  del  Trasimeno.  Dopo  ciò  chi  potrà 
più  dire  che  sia  lecito  dubitare  della  verità  di  una  cosa,  solamente 
perchè  c'è  Livio  solo  a  narrarla  e  la  tace  Polibio  ?  Anche  nel  capitolo 
precedente  abbiamo  avuto  l'occasione  di  sollevare  questa  quistione. 
(1)  Polibio  potè  aver  passato  sotto  silenzio  la  partenza  di  Flaminio 
per  una  di  quelle  ragioni  per  le  quali  passò  sotto  silenzio  le  cose  che 
ricordai  nella  nota  precedente,  oppure  perchè  egli  la  poneva  fra  gli 
aneddoti,  dei  quali  non  volle  mai  curarsi.  A  proposito  del  suo  studio 
nello  scansare  gli  aneddoti,  ecco  alcune  cose  raccolte  scorrendo 
l'opera  sua.  Durante  la  prima  guerra  punica,  e  precisanìcnte  nel  5o5 
di  Roma,  ebbe  luogo  1'  infelice  battaglia  di  Trapani  (Drepana),  de- 
scritta minutamente  da  Polibio  (i,  49  segg.)  ;  ma  per  l'aneddoto  dei 
sacri  polli,  che  non  volendo  mangiare  furono  dal  console  P.  Claudio 
Pulcro  gettati  in  mare  a  bere,  Polibio  non  ha  nemmeno  una  parola, 
e  noi  l'ignoreremmo,  se  altri  scrittori  antichi  non  lo  avessero  ricor- 
dato. Nel  53  1/223  era  console  per  la  prima  volta  il  nostro  Flaminio, 
che  partì  col  collega  contro  gli  Insubri,  e  che  alle  lettere  del  Senato 
che  li  richiamava,  i  consoli,  a  Roma,  rispose  col  dar  battaglia  al  ne- 
mico ;  ebbene  Polibio,  che  oltre  al  descrivere  a  lungo  la  battaglia  si 
diffonde  perfino  a  criticare  un  pericolosissimo  errore  strategico  di 
Flaminio  (Polibio,  2,  32  segg.),  non  fa  parola  né  delle  lettere  del 
Senato  né  della  disobbedienza  di  Flaminio  (Zonaras,  8,  20;  Plu- 
tarco Fabio,  c.  2;  Orosio,  4,  i3).Cosl  Polibio  ommise  la  menzione 
dei  prodigi  annunziati  a  Roma  dopo  la  battaglia  della  Trebbia  (dei 
quali  abbiamo  discorso  nel  capitolo  primo;,  e  quella  dei  sinistri  prò- 


—  257  — 
Cicerone,  a  me  non  fa  maraviglia  clie  questo  autore,  par- 
lando di  Flaminio  e  del  sanguinoso  dramma  consumato  al 
lago  Trasimeno,  non  accenni  mai  alla  famosa  partenza-, 
egli  non  ebbe  T  occasione  di  farlo,  almeno  nelle  opere  che 
ci  rimangono  di  lui  ;  difatti  non  trovo  che  egli  sia  venuto 
per  incidenza  a  discorrere  dei  principii  e  delle  consuetudini, 
che  Flaminio  avea  violato  partendo  prima  del  i5  marzo,  e 
quindi  capisco  benissimo  che  Toratore  non  parli  nemmeno 
della  partenza,  né  vedo  dunque  come  sia  lecito  inferirne  che 
nessuno  degli  scrittori  letti  da  lui  ne  avesse  parlato.  Ed  una 
conferma  di  ciò  che  dico,  spiegando  il  silenzio  di  Polibio  e 
di  Cicerone,  Tabbiamo  nel  silenzio  stesso  di  Plutarco,  di  cui 
ho  aspettato  finora  a  bella  posta  a  far  menzione  (i).  Plu- 
tarco, a  proposito  deirelezione  di  Flaminio  al  secondo  con- 
solato del  537/217,  ricorda  gli  aneddoti  relativi  al  primo 
consolato  di  lui,  e  nondimeno  non  parla  della  famosa  par- 
tenza, che  era  l'aneddoto   relativo   al    secondo  (2)-,  si   dirà 


nostici  apparsi  a  Flaminio  in  Etruria  quando  questi  stava  per  ci- 
mentarsi con  Annibale  sul  Trasimeno.  Altre  cose  si  troverebbero  di 
certo  cercando  più  minutamente,  ma  coleste  pel  nostro  scopo  pos- 
sono bastare. 

(i)  Poca  importanza  ha  poi  il  silenzio  degli  storici  latini  minori, 
dipendenti  immediatamente  o  mediatamente  da  Livio;  il  loro  si- 
lenzio dipese  semplicemente  dalla  loro  volontà,  avendo  essi  trovato 
in  Livio,  loro  fonte,  il  racconto  della  cosa.  Poca  ne  ha  parimente 
quello  di  Appiano  e  di  Zonaras  essendo  essi  scrittori  compendiosi 
anzi  che  no. 

(2)  Plutarco  {Fabio,  e.  2)  ricorda  che  nel  53 1/223  Flaminio  e  il  suo 
collega  ricevettero  lettere  dal  Senato  che  li  invitavano  a  deporre  il 
consolato  ,  essendo  incorso  un  vizio  nella  loro  elezione  ;  l' invito  fu 
vano.  Questo  aneddoto  è  narrato  da  Plutarco  ricordando  la  vittoria 
riportala  da  Flaminio  sugli  Insubri  nel  53 1/223,  e  questa  vittoria,  a 
sua  volta,  spiega,  secondo  Plutarco,  la  baldanza  dimostrata  più  tardi 
da  Flaminio  ,  il  quale,  fatto  console  di  nuovo  pel  537/217,  non  si 
lasciò  commuovere  dai  prodigi  naturali  che  vennero  annunziati  a 
Roma  dopo  la  battaglia  della  Trebbia.  Si  dirà  perciò  che  il  silenzio 


-258  - 
perciò  che  gli  scrittori  letti  da  Plutarco  non  la  narrarono  ? 
No,  perchè,  ad  esempio,  è  cosa  certa  che  Plutarco  lesse  Livio. 
Ciò  vuol  dire  che  Plutarco  ,  del  pari  che  Cicerone  ,  non 
venne  a  parlare  della  cosa  o  per  semplice  caso,  o  piuttosto 
per  disattenzione  nel  compilare  Topera  sua,  come  vedremo 
subito. 

Adunque  non  prova  proprio  nulla  il  silenzio  degli  scrit- 
tori, che  a  primo  aspetto  parrebbe  dimostrare  che  gli  sto- 
rici antichi  non  ebbero  notizia  della  partenza  di  Flaminio  , 
e  quindi  parrebbe  dimostrare  che  essa  è  un'invenzione  di 
Livio  o  di  altro  scrittore  poco  anteriore  a  Livio.  Che  se  ci 
volgiamo  alTanalisi  del  racconto  liviano  riconosceremo  forse 
che  esso  deriva,  nella  sua  sostanza  ,  da  uno  scritto  di  un 
contemporaneo  di  Flaminio,  essendo  impossibile  che  uno 
storico  novelliere  dei  tempi  posteriori  riuscisse  a  dare  al 
suo  racconto  quel  colore  di  realtà  che  traspare  ancora  dalla 
pagina  di  Livio  e  traspariva  naturalmente  anche  meglio  dallo 
scritto  usato  da  Livio  in  questo  proposito.  Ecco  le  osserva- 
zioni che  feci  a  questo  riguardo.  Nel  racconto  liviano  viene 
tessuta  per  intero,  quasi,  la  vita  politica  di  Flaminio,  meno 
la  censura  (i)  :  ora  T  ommissione  di  quell'ufficio  altissimo 
che  era  la  censura,  era  bensì  necessaria,  trattandosi  di  met- 
tere sott'occhio  i  momenti  in  cui  Flaminio  contese  col  Se- 
nato, cosa  che  egli  non  pare  aver  fatto  quando  fu  censore; 
ma  in  ciò  io  scorgo  il  fare  di  un  contemporaneo,  perchè  un 
falsario  posteriore  non  avrebbe  forse  avuto  V  avvertenza  di 
distinguere  i  momenti  in  cui   Flaminio  non  contese  col  Se- 


sulla  partenza  di  Haminio  significhi  che  non  la  narravano  nemmeno 
gli  autori  antichi  compilati  da  Plutarco?  No,  tant' ò  vero,  che  Livio, 
letto  molto  da  lui,  è  appunto  quello  che  la  narra  ;  è  dunque  per  ne- 
gligenza o  per  proposito  che  Plutarco  non  lo  narrò. 

(i)  Come  avvertii  fin  dal  principio  del  capitolo.  —  Fu  censore  nel 
534/220;  cf.  Livio,  epit.  20,  e  Livio.  23,  22-23;  24,    11,  7. 


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nato,  dagli  altri  momenti.  In  secondo  luogo  quando  io  leggo 
che  Flaminio  andò  debitore  del  secondo  consolato  all'  aver 
egli  difeso  il  plebiscito  Claudio  (cosa  che  gli  rese  favorevole 
il  popolo),  io  sento  Taffermazione  di  un  avversario  politico  di 
Flaminio  (i),  che  è  quanto  dire  Tasserzione  di  un  contem- 
poraneo. In  terzo  luogo,  siccome  la  provincia  di  Flaminio 
fu  r  Etruria  mentre  quella  di  Servilio  fu  la  Gallia  (capo- 
luogo Rimini)  (2),  crediamo  noi,  se  la  partenza  di  Flaminio 
fosse  mera  invenzione,  che  l'autore  dell'invenzione  avrebbe 
scritto  che  egli  andò  a  Rimini  (3),  che  era  il  capoluogo 
della  provincia  di  Servilio?  L'autore  avrebbe  detto  che  Fla- 
minio andò  in  Etruria.  Infine  nel  racconto  liviano  è  fatta 
menzione  della  legge  o  del  plebiscito  Claudio  ,  e  dei  due 
legati  spediti  dal  Senato  a  richiamare  Flaminio;  or  quanto 
a  questa  legge  non  e'  è  altro  autore  antico,  per  quanto  so 
vedere,  che  ne  faccia  memoria  esplicita  (4),  il  che  ad  ogni 
modo  prova  che  negli  stessi  scritti  del  settimo  secolo  ,  ora 


(i)  Con  ciò  non  voglio  dire  che  l'asserzione  sia  giusta.  È  vero  che 
i  moderni  van  ripetendo  semplicemente  quel  che  Livio  scrive,  che 
cioè  Flaminio  fu  innalzato  ai  fasci  per  la  seconda  volta  in  compenso 
d'avere,  unico  fra  tutti  i  senatori  [uno  patnim  adiuvante  C.  Flaminio, 
son  le  parole  di  Livio,  21,  63,  3).  perorata  la  causa  della  proposta 
fatta  da  un  tribuno  Q.  Claudio  (così  Mommsen,  R'óm.  Gesch.,  1,819, 
829  della  seconda  edizione;  Lance,  RÓm.  Alterthiim.,  2,  i5i,  seconda 
edizione,  e  tutti  gli  altri  critici),  ma  l'asserzione  è  evidentemente  par- 
tigiana, come  è  partigiano  tutto  lo  scritto  donde  deriva  l'intero  luoga 
di  Livio. 

(2)  Delle  Provincie  consolari  parleremo  presto. 

(3)  Naturalmente,  oggi  che  s'è  cominciato  a  negar  che  sia  vera  la 
partenza  di  Flaminio,  si  nega  altresì,  nello  stesso  tempo,  l'andata  di 
lui  a  Rimini;  così  la  negano,  oltre  il  Seeck  nella  dissertazione  più 
volte  citata,  parecchi  altri  venuti  dopo,  e  ultimamente  Gottlob  Ege- 
LHAAF,  Jahrbììchcr  fì'ir  class.  Phil.  und  Padag.  Supplemenlband ,  lO, 
5o6.  Rispondo  però  a  tutti  osservando  che  lo  scrittore  che  avesse  in- 
ventata la  partenza  di  Flaminio,  avrebbe  detto  che  egli  andò  in  Etruria^ 
perchè  fu  questa  la  sua  provincia. 

(4)  Dico  menzione  esplicita. 


—  260  — 
periti,  non  era  punto  frequente  il  ricordo  di  essa;  quindi  io 
starei  quasi  per  dire  che  questo  significa  che  il  racconto 
liviano  proviene,  qui,  da  una  fonte  molto  antica,  e  non  da 
una  falsificazione  recente,  perchè  chi  avesse  più  tardi  in- 
ventata la  cosa,  come  taluni  ora  pretendono,  non  si  sarebbe 
forse  risovvenuto  di  cotesta  legge  oggimai  vecchia  e  poco 
nota;  e  quanto  ai  legati  non  esito  ad  asserire  che  il  nu- 
mero di  due  di  cui  è  fatta  parola  nella  narrazione  di  Livio 
accenna  a  tradizione  genuina,  perchè  un  annalista  del  set- 
timo secolo,  che  avesse  cavato  dalla  sua  fantasia  la  partenza 
straordinaria  di  Flaminio,  e  avesse  dovuto  inventare  ,  ne- 
cessariamente,  anche  l'ambasceria  del  Senato  al  console, 
avrebbe  certamente  pensato  ad  un  numero  maggiore  di  am- 
basciatori ([),  —  Tutto,  tutto  accenna,  nel  racconto  rima- 
stoci in  Livio,  ad  una  fonte  contemporanea ,  della  quale 
vai  ben  la  pena  di  occuparsi  un  momento,  almeno  in  una 
nota  (2). 


(0  Nei  tempi  antichi  i  legati  del  Senato  solevano  essere  in  numero 
di  due;  nei  secoli  posteriori  in  numero  maggiore;  cf.  Mommsen  , 
Staatsrecht ,  2,  óó5,  seconda  edizione;  lo  stesso,  Kóm.  Forsch.,  2, 
304. 

(2)  La  quistione  è  interessante  e  nuova,  ed  ecco  quello  che  a  me 
pare.  Livio  narra  la  partenza  di  Flaminio,  poi  la  biasima  acremente, 
in  un'  invettiva  di  amarezza  che  non  ha  riscontro  presso  questo  Ro- 
mano generoso,  mite  e  gentile.  Or  cotesta  invettiva  guasta  un  po',  a 
mio  credere,  l'economia  della  storia,  sia  perchè  di  molta  lunghezza, 
sia  perchè  posta  in  fine  del  libro  21,  nel  luogo  che  al  solito  è  desti- 
nato a  compendiare  i  fatti  principali  della  storia  interna,  come  a 
dire  comizi,  ludi,  morte  di  sacerdoti,  esimili;  e  badisi  che  viceversa 
queste  notizie  di  fatti  interni  mancano  al  tutto  questa  volta.  L'invet- 
tiva guasta  ancora  l'armonia  dell'opera,  perchè  è  messa  violentemente 
fra  due  semplici  e  brevi  notizie,  vale  a  dire  fra  quella  dell'andata 
di  Flaminio  da  Roma  a  Rimini,  e  quella  dell'andata  di  lui  da  Ri- 
mini ad  Arezzo.  Dall'altra  parte  poi,  guardando  all'intrinseco,  le  pa- 
role dello  storico  sono  ancora  più  osservabili  ;  sono  un'invettiva,  in- 
vece di  essere  una  serie  di  gravi  e  pacate  considerazioni  quali  si 
addicono  alla  storia;   non  espongono  le  cagioni  vere,  ma  soltanto  le 


—  261  - 
Fonia ;no  adunque  fine  a  questo  secondo  paragrafo  con- 
chiudendo  in  favore  della  verità  storica  della  partenza  di 
Flaminio  nei  termini  in  cui  lo  storico  latino  ce  la  racconta, 
e  passiamo  a  dare  nel  seguente  paragrafo  uno  sguardo  a 
tutte  le  obbiezioni  mosse  dai  critici  contro  la  verità  storica 
del  racconto  di  Livio. 

§  III.  Le  obbiezioni.  È  utile  vederle  nel  loro  insieme, 
tanto  quelle  a  cui  fu  già  risposto,  quanto  le  altre  a  cui  do- 
vremo rispondere,  i"  Il  Seeck,  dopo  di  avere  ripudiata 
la  notizia  data  da  Livio  circa  il  tempo  in  cui  furono  tenuti 
i  comizi  per  l'elezione  dei  consoli  del  537/217,  accogliendo 
invece  quella  di  Polibio,  continua  dicendo,  che  la  partenza 


cagioni  apparenti  della  partenza  di  Flaminio,  come  io  farò  vedere 
fra  breve;  il  giudizio,  severo  e  tranquillo,  del  fatto,  manca  intera- 
mente; infine  vi  leggiamo  uno  schizzo  della  vita  politica  di  quel- 
l'uomo, con  molto  gusto  sì,  ma  senza  poterci  trattenere  dal  soggiun- 
gere che  lo  troviamo  dove  meno  ce  lo  aspettavamo.  L'estrinseco  e 
l'intrinseco  del  racconto  liviano  sono  dunque  molto  notevoli,  sebbene 
nessuno  l'abbia  mai  detto.  Ora  è  evidente  che  tutto  ciò  dipende  dalla 
natura  dello  scritto,  dal  quale  proviene,  immediatamente  o  mediata- 
mente che  sia,  il  racconto  medesimo.  Secondo  me,  il  modo  di  capir 
bene  tutte  queste  singolarità  è  un  solo,  quello  cioè  di  supporre  che 
noi  abbiamo  qui  il  sunto  di  un  discorso  tenuto  prima  nel  Senato 
romano  da  un  avversario  politico  di  Flaminio  nell'occasione  della 
partenza  di  questo,  e  poscia  diffuso  per  iscritto.  In  tal  caso  si  capi- 
rebbe la  lunghezza  e  la  violenza  dell'  invettiva,  si  spiegherebbe  la 
mancanza  delle  vere  cagioni  del  fatto  (il  libello  non  ha  bisogno  di 
dire  le  cagioni  ,  fatto  com'è  pei  contemporanei  ai  quali  esse  sono 
note;  la  storia,  che  guarda  ai  posteri,  si),  e  si  vedrebbe  il  perchè 
della  biografia  di  Flaminio,  la  quale,  come  sempre  in  simili  casi,  è 
poi  il  novero  di  quelle  che  all'occhio  malato  dell'uomo  di  parte  pa- 
iono colpe.  Poco  importa  poi  che  sia  difficile  cogliere  nel  segno 
quando  si  tratti  di  dire  il  nome  dell'oratore  ;  del  resto  non  andrebbe 
forse  lungi  dal  vero  chi  pensasse  a  Q.  Fabio  Massimo  antesignano 
dei  nobili  e  quindi  antagonista  di  Flaminio,  e  che,  come  sappiamo 
da  Cicerone  {Calo  Maior,  4,  12)  e  da  Plutarco  [Fabio,  i),  era  al- 
tresì oratore. 


—  262  — 
<di  G.  Flaminio  mentre  era  semplice  console  designato,  cioè 
prima  del  i5  marzo,  era  cronologicamente  impossibile. 
Questa  asserzione  l'abbiamo  già  confutata  nel  capitolo  pre- 
cedente, dimostrando  che  que'  comizi  consolari  ebbero  luo<7o 
dopo  la  battaglia  della  Trebbia,  non  già  prima,  e  qualche 
tempo  innan'{i  al  1 5  di  marzo.  —  2-''  Continua  il  Seeck 
asserendo  che,  secondo  Plutarco  (Fabio  Mass.,  e.  3),  la 
partenza  di  Flaminio  avvenne  nel  modo  consueto ,  come 
sempre  erano  partiti  i  consoli,  senza  incidenti  straordinari. 
Invece  a  me  pare  che  Plutarco  non  tocchi  per  nulla  la  par- 
tenza del  console,  e  che  le  parole  di  lui  tòv  |aèv  aiparòv 
èHaYeiv  ÈKéXeucre  toùc;  xi^iapxou<;,  che  sogliono  riferirsi  alla 
partenza  da  Roma,  s'abbiano  a  intendere  diversamente,  che 
cioè  Flaminio  ,  mentre  era  già  in  Etruria  ,  diede  ordine 
di  muovere  il  campo,  non  già  che  abbia  ordinato  di  par- 
tire da  Roma  per  V  Etruria.  Veggasi  infatti  che  a  queste 
parole  tengono  dietro  quelle  altre  (i)  circa  Timpcnnarsi  del 
cavallo  di  Flaminio  e  il  cader  rovescione  di  quest'ultimo, 
fatto  che  parve  ai  prudenti  un  prodigio  di  sinistro  augurio, 
tale  da  dover  rimuovere  il  console  dalla  risoluzione  di 
combattere,  del  quale  però  egli  non  fece  nessunissimo  conto-, 
ma  il  prodigio  avvenne  in  Etruria,  come  dicono  tutti  gli 
antichi  (2).  Dunque  le  parole  citate  esprimono  il  mover  del 
campo   in  Etruria,  non    l'uscire  di  Roma  (3).    —  3'  Con- 


(1)  aÙTÒt;  ò'^TTÌ  TÒV  iTTTTOv  óXXó.uevoq  e:  oùb6vò(;  alriou  TrpoòrjXou  napa- 
XÓYU)c  èvTpó|uou  ToO  iTTTiou  Y^voiLtévou  Kul  TTTupévTO(;  èSeueoe  Koi  Kaxe- 
vex96Ì<;  ènì  KeqpaXi'iv  òiuiuc;  oùbèv  Irpevjje  xfìq  Yvu)nn<^i  à.\\'  <uc,  ujp|ur|oev  il 
àpxnt;  ànavTiiaai  tlu  'Avvi[?a,  irepì  tì^v  KaXou^évqv  Gpaffuviav  Xi,uvr]v  tvic; 
Tuppriviae;  irapeTciEoiTo. 

(2)  Livio,  22,  3;  Cklio  Antipatro  presso    Cicerone,  De  Divinai., 

I,  :^5. 

(3)  Così,  e  non  altrimenti,  vuol  essere  inteso  il  principio  del  capo 
terzo  della  vita  di  Fabio  Massimo,  che  qui  esamineremo  per  intero 
per  mostrar  dove  sta  la  cagione  dell'  essere  esso  stato    frainteso.   Nel 


—  263  - 
tinua  il  Seeck    asserendo  che  Zonaras  (8,  25)  narra  essere 
i    consoli    Flaminio    e    Servilio   partiti  insieme.  Veramente 
l'appellarsi  a  cotesto  scrittore  greco,  vissuto  cosi  tardi,  per 


secondo  capo,  Plutarco,  racconta  che  i  fenomeni  straordinari  annun- 
ziati a  Roma  dopo  la  battaglia  della  Trebbia  (di  essi  trattammo  nel 
capitolo  precedente)  non  fecero  alcuna  impressione  sull'animo  di  Fla- 
minio, ma  commossero  grandemente  Fabio  Massimo,  il  quale,  in  con- 
seguenza, diede  il  consiglio  di  star  sulle  difese  evitando  ogni  battaglia 
campale,  e  lasciando  che  il  tempo  logorasse  le  forze  nemiche,  che 
erano  poche.  Or  viene  il  capo  terzo  :  «  Tuttavia  non  persuase  Fla- 
«  minio,  ma  dicendo  —  Flaminio  —  di  non  voler  aspettare  che  la 
«  guerra  giungesse  alle  porte  di  Roma  ,  né  di  aver  da  combattere 
«  nella  città  per  difendere  la  città  come  aveva  fatto  Camillo  antica- 
<c  mente,  ordinò  ai  tribuni  di  menar  fuori  1'  esercito  »  ecc.  Sarebbe 
facile  credere,  come  si  crede,  che  Flaminio  mentre  così  parlava,  si 
trovasse  in  Roma,  perchè  pare  che  egli  rispondesse  a  Fabio  nel  Se- 
nato ;  ma  se  c'è  cosa  certa  è  questa  per  l'appunto,  che  queste  parole 
sono  state  dette  da  Flaminio  mentre  stava  già  in  Etruria,  e  che  quella 
che  sembra  essere  una  risposta  di  Flaminio  a  Fabio,  non  è  in  realtà 
che  una  risposta  di  Flaminio  alle  osservazioni  di  quelli  fra  il  suo 
seguito  che  la  pensavano  come  Fabio,  e  che  esortavano  Flaminio  a 
non  venire  alle  mani  con  Annibale;  infatti,  tutti  sanno  che  Annibale 
voleva  combattere,  e  aizzava  Flaminio  mettendo  1' Etruria  a  ferro  e 
fuoco,  donde  in  Flaminio  la  voglia  di  venir  alle  mani,  al  quale  però 
resistevano  i  piìi  prudenti  fra  i  suoi  consiglieri  (Polibio,  3,  82;  Livio, 
22,  .3).  A  questi  rispose  Flaminio  adunque  esortandoli  a  considerare 
che  cosa  direbbesi  a  Roma  vedendo  devastate  le  terre  quasi  fino  a 
Roma,  e  loro  star  accampati  in  Etruria  di  dietro  ai  nemici  ;  così 
scrive  Polibio,  3,  82,  6  ;  secondo  Livio,  22,  3,  io,  Flaminio  rispon- 
deva ironicamente  a  que'  prudenti  consiglieri  :  «  Hannibal  emissus  e 
«  manibus  perpopuletur  Italiam,  vastandoque  et  urendo  omnia  ad  Ro- 
«  mana  nioenia  perveniate  nec  ante  nos  hinc  moverimus  quam,  sicut 
«  olim  Camillus  ab  Veiis,  C.  Flaminium  ab  Arretio  patres  accive- 
«  rint  ».  È  evidente  che  anche  in  Plutarco  la  risposta  di  Flaminio 
succede  in  Etruria  come  presso  Polibio  e  presso  Livio  ;  anzi  che 
cosa  sono  le  parole  di  Plutarco  se  non  la  ripetizione  di  quelle  di 
Livio?  Mi  par  certo  che  Plutarco  attingesse,  qui,  a  Livio,  e  che  l'uno 
e  l'altro  attingesse  ad  un  medesimo  storico  più  antico.  Ad  ogni  modo 
resta  doppiamente  confermato  quello  che  abbiamo  esposto  nel  testo, 
che  cioè  l'ordine  di  menar  fuori  l'esercito  dato  da  Flaminio  ai  tri- 
buni, è  l'ordine  di  muovere  il  campo  mentre  l'esercito  si  trovava  in 
Etruria,  e  non  l'ordine  di  partire  da  Roma.  —  Ed  ora  un' osserva- 


-  264  — 
ciò  che  concerne  le  particolarità  della  cronaca  di  Roma,  non 
si  potrebbe  gran  fatto  raccomandare-,  ma  s'aggiunge  che  Zo- 
naras  non  narra  per  nu\\a.\3i  pari en-a  da  Roì?2a  in  questione-, 
ecco  infatti  le  sue  parole  :  «  Oi  òè  èv  iv[  'Pu))ur]  tòv  OXaiuiviov 
Kal  TÒV  réjaivov  ùttótou*;  auOi^  eiXovio.  'Avvipa(;  ò'  apri  toO 
èapo?  èTTiCTTàvToq  wq  eYVuu  tòv  0\a)Liiviov  |neTà  Xepoui- 
Xiou  rejLiivou  x^ipì  TToXXi]  ÈTt'aÙTÒv  lóvTa,  ktX.  Dal 
dire  che  i  due  consoli  marciavano  uniti  contro  Annibale , 
al  dire  che  i  consoli  partirono  insieme  da  Roma,  ci  corre 
molto;,  per  tacere  che  Zonaras  non  è  storico  che  in  cotesti 
particolari  possa  far  testo.  —  4-'^  Il  Seeck  osserva  che  se 
Flaminio  fosse  andato  a  Rimini  prima  del  i5  marzo,  il 
Senato  avrebbe  poi  mandato  V  altro  console  Servilio  in 
Etruria  ,  invece  di  mandarlo  a  Rimini  e  di  obbligare  così 
Flaminio  a  ritornare  in  Etruria  sua  provincia.  Rispondo 
che  Flaminio  andò  a  Rimini  soltanto  per  prendervi  il  suo 
esercito,  come  racconta  Livio  (i),  e  che  questa  sua  mossa 


zione.  È  chiaro  che  nel  racconto  di  Plutarco  manca  la  partenza  dei 
consoli  da  Roma.  Dal  Senato  romano,  dove  sulla  fine  del  capo  se- 
condo della  vita  di  Fabio  Massmio  ci  troviamo  per  l'appunto  ad 
udire  i  consigli  di  Fabio,  noi  siamo  trasportati  di  botto,  nel  terzo 
capo,  in  Etruria.  Questo  fatto  è  molto  istruttivo  per  capire  il  modo 
tenuto  da  Plutarco  nel  compilare,  perchè  noi  tocchiamo  con  mano, 
in  questo  caso,  che  l'autore  servendosi  contemporaneamente  di  più 
fonti,  finì  per  lasciar  nella  sua  narrazione  una  lacuna. 

(ij  2  1,63,  i5:  «  Legionibus  inde  duabus  a  Sempronio  prioris  anni 
consule,  duabus  a  C.  Atilio  praetore  acceptis,  in  Etruriam  per  Ap- 
pennini tramites  exercitus  duci  est  coeptus  ».  Pare  che  al  partire  di 
Flaminio  le  nuove  legioni  non  fossero  ancora  arruolate;  quindi  Fla- 
minio prese  il  comando  delle  vecchie,  che  allora  si  trovavano  a  Pia- 
cenza. Come  fare  per  farle  venire  ?  Flaminio  diede  loro  la  posta  a 
Rimini.  A  chi  dicesse  che  ciò  non  è  probabile,  e  che  Flaminio  a- 
vrebbc  loro  data  la  posta  ad  Arezzo,  risponderei  ricordando,  che, 
anche  poco  innanzi,  Rimini  era  stato  destinato  a  luogo  di  convegno 
delle  legioni;  infatti,  quando  il  Senato  richiamò  dalla  Sicilia  il  con- 
sole Sempronio,  affinchè  si  congiungesse  col  collega  Scipione  sulla 
Trebbia  incontro  ad   Annibale,  Sempronio  al  suo    partire    dall'  isola 


—  2G5  — 
adunque  non  pregiudicava  per  nulla  la  questione  circa  la 
divisione  delle  provincie  consolari.  —  b°-  11  Seeck  osserva 
ancora  che,  vista  la  brevità  del  tempo,  non  è  credibile  che 
le  legioni,  le  quali  avean  combattuto  sulla  Trebbia,  andas- 
sero da  Piacenza  a  Rimini,  poi  da  Rimini  ad  Arezzo.  Alla 
prima  parte  di  questa  obbiezione  fu  già  risposto  implicita- 
mente nel  primo  capitolo-,  quelle  legioni  si  trovarono  a  Ri- 
mini il  i5  marzo,  e  noi  abbiamo  visto  quanto  tempo  sia 
corso  dalla  battaglia  della  Trebbia  al  1 5  marzo.  Quanto 
poi  alla  marcia  da  Rimini  ad  Arezzo,  l'obbiezione  non 
regge,  perchè  noi  non  sappiamo  quando  le  legioni  siano 
giunte  in  quest'ultimo  luogo.  —  6'  Finisce  il  Seeck  citando 
le  parole  di  Polibio,  secondo  le  quali  Flaminio  e  Servilio 
avrebbero  arruolate  in  comune  le  legioni,  quasi  ciò  im.plichi 
la  presenza  di  Flaminio  in  Roma  dopo  il  i5  marzo.  Potrei 
contrapporre,  al  testimonio  di  Polibio,  il  testimonio  di  Livio, 
citato  sopra,  secondo  il  quale  il  console  Servilio  arruolò  da 
solo  le  legioni ,  ma  non  lo  farò  per  le  ragioni  dette  nel 
capitolo  precedente,  tanto  meno  lo  farò  inquanto  T  obbie- 
zione non  è  formidabile  se  non  in  apparenza.  Le  parole  di 
Polibio  son  queste:  «  Gn,  Servilio  e  C.  Flaminio,  allora 
«  appunto  fatti  consoli ,  raccoglievano  le  truppe  alleate  e 
((  arruolavano  le    legioni  (i)  ».  Ebbene,  o  il  nome   di    C. 


diede  a'  suoi  soldati  la  posta  a  Rimini  per  condurli  poi  di  là  a  Pia- 
cenza (Polibio,  3,  68,  4;  Livio,  21,  5i,  7),  che  geometricamente  par- 
lando non  era  certo  il  cammino  più  breve.  Questo  indica  che  la  via 
tra  Rimini  e  Piacenza  era  comoda,  e  che  quindi  i  Romani  ne  apro- 
fittavano sempre;  e  questa  via  fu  per  l'appunto  una  parte  della  via 
Aemilia  costrutta  più  tardi.  È  altresì  da  notare  che  Rimini  era  co- 
lonia dei  Romani,  ed  anche  piazza  forte.  Anche  queste  considera- 
zioni servano  insieme  con  quanto  fu  detto  altrove,  a  confutare  coloro 
che  negano  l'andata  di  Flaminio  a  Rimini. 

(1)  3,  75.  5:  Tv&ioc,  bk  lepouiXio^  koì  Tdioc;  0Xa,uiviO(;  ,  oirrep  Ituxov 
uiraToi  KaGeoTaf-iévoi,  auvfiTov  toÙ(;  ou,u,uaxou(;,  koì  KareYpctfpov  tu  irap'  aù- 
ToT(;  aTpctTÓTTeòa. 

Vjvis'.a  Ji  lilolo^ia  ecc.,  X.  l8 


-  266  — 
Flaminio  è  messo  per  mera  svista  di  Polibio,  oppure  ,  se 
è  messo  a  ragione,  io  dico  che  la  raccolta  dei  soci  e  T  ar- 
ruolamento dei  legionari,  a  cui  avesse  preso  parte  anche 
Flaminio,  è  avvenuto  prima  del  1 5  marzo,  nel  frattempo 
corso  dall'elezione  dei  consoli  alla  partenza  di  Flaminio. 
Ecco  come  può  essere  stato  messo  il  nome  di  Flaminio, 
per  una  svista  ;  in  sé  era  cosa  possibilissima  Tarruolamento 
delle  truppe  per  opera  di  uno  solo  dei  consoli  \  in  Livio  ne 
ricordo  tre  altri  esempi  (i);  ora  siccome  gli  affari  d'ufficio 
spediti  da  un  console,  formalmente  riguardavansi  come  spe- 
diti da  tutti  e  due,  ne  venne  la  figura  rettorica  del  plurale 
consules  adoperato  dagli  scrittori,  anche  quando  in  realtà  la 
cosa  era  stata  fatta  da  un  solo  console  ;  anche  di  questa  fi- 
gura abbiamo  trovato  più  sopra  due  esempi  in  Livio(2)*,  or  si 
supponga  che  uno  storico  usato  da  Polibio  avesse  detto,  allo 
stesso  modo,  che  i  consoli  del  537/217  facevano  gli  arruola- 
menti, e  si  supponga  che  Polibio,  cogliendo  Toccasione  di  far 
conoscere  il  nome  dei  consoli  nuovi  (cosa  necessaria,  essendo 
essi  gli  eponimi),  sostituisse  al  nome  comune  consoli  il  nome 
proprio  Servilio  e  Flaminio,  e  si  avrà  la  spiegazione  pro- 
babile della  svista  di  Polibio.  Se  poi  le  parole  di  Polibio  van 
prese  alla  lettera  e  anche  Flaminio  ebbe  veramente  parte  nel 
far  gli  arruolamenti,  io  dirò  che  ciò  può  benissimo  riferirsi 
al  tempo  anteriore  al  i5  marzo,  prima  che  Flaminio  par- 
tisse (3)-,  infatti  io  mi  ricordo  che,  dieci  anni  più  tardi,  gli 
apparecchi  fatti  alla  venuta  di  Asdrubale  in  Italia  furono 
fatti  appunto  in  gran  parte  prima  del  i5  marzo,  e  mentre 
i  nuovi  consoli  erano  semplicemente  designati  (4),  e  che  la 


(i)  Livio,  io,  39;  32,  i  ;  44,  21. 

(2)  Livio,  24,  io,  i;  24,   11,   i. 

(3)  In  questo  caso  il   Ka6eaTa|iié voi   di  Polibio    si   riferirebbe  ai 
consoli  designati. 

(4)  Livio,  27,  35. 


—  267  — 
Stessa  cosa  si  ripetè  più  tardi  nel  fare  gli  apparecchi  della 
campagna  del  586/ 1 68  contro  Perseo  (i)-,  e  nel  nostro  caso, 
se  è  vero  che  trascorse  quasi  un  mese  dalla  battaglia  della 
Trebbia  al  1 5  marzo,  era  naturale  che  non  si  aspettasse  il 
i5  marzo  per  incominciare  ad  arruolare  le  truppe.  —  Ri- 
mane Tettava  ed  ultima  obbiezione  del  Laxge  (2).  Quanto 
al  peso  che  questo  autore  dà  al  silenzio  di  Polibio  e  di 
Appiano  sulla  partenza  di  Flaminio,  mi  basti  rimandare  a 
quel  che  discorsi  in  proposito  a  suo  luogo.  Ma  oltre  a  ciò, 
questo  critico,  appellandosi  alla  legge  {Fla)minia  mimis  sol- 
vendi  ricordata  da  Pesto  (3),  osserva  che  se  Flaminio  fece 
fare  questa  legge,  ciò  vuol  dire  che  egli  trovavasi  ancora  in 
Roma  dopo  il  i5  marzo,  le  leggi  essendo  fatte  dai  consoli 
effettivi  e  non  dai  designati.  Io  non  so  se  questo  ragiona- 
mento sia  rigoroso  :  se  un  console  poteva  convocare  il  Se- 
nato a  nome  anche  del  collega  assente ,  perchè  non  avrà 
potuto-  proporre  una  legge  ?  Ma  e'  è  di  peggio  :  il  Lange 
suppone  che  il  Flaminio,  dal  quale  questa  legge  ebbe  il 
nome,  sia  il  console  del  537/217-,  ora  questa  è  unMpotesi 
che  si  ritiene  indubitata,  ma  che  a  me  pare  senza  fonda- 
mento addirittura.  La  questione  sta  nei  seguenti  termini  : 
i  dotti  si  sono  accordati  nel  dire  che  la  legge  Flaminia  men- 
tovata tanto  da  Pesto  colle  seguenti  parole  (quelle  fra  un- 
cini sono  un  supplemento)  :  «  Idem  auctor]  est  numerum 
aeris  perduct[um  esse  ad  XVI  in  denario  lege  Fla]minia 
minus  solvendi,  cu[m  Hannibalis  bello  premere]tur  populus 
Romanus  »,  quanto  da  Plinio  colle  parole:  «  Postea  Han- 
nibale  urguente  Q.  Fabio  Maximo  dictatore  asses  unciales 
facti  placuitque  denarium  sedecim  assibus    permutar!,  qui- 


(i)  Livio,  44,   17;  cf.  44,  21. 

(2)  Lange,  R'óm.  Alterthiimer,  2,  i55,  seconda  edizione. 

(3)  Pesto,  ed.  Muller.  pag.  347. 


-  268  - 
narium  octonis,  sestertium  quaternis,  etc,  »  (i)  è  una  legge 
dei  consoli  del  537/217  ,  denominata  da  Flaminio  T  un  di 
essi.  Io  osservo  che  le  leggi  consolari  paiono  essere  state 
denominate  dal  nome  di  ambedue  i  consoli  (2);,  e  che  non 
è  probabile  che  una  legge  fatta  dopo  la  battaglia  del  Tra- 
simeno sotto  la  dittatura  di  Fabio,  quando  Flaminio  era 
già  morto ,  si  chiamasse  dal  nome  di  quest'  ultimo.  E 
strano  che  a  nessuno  sia  venuto  in  mente  che  questa  legge 
deve  essere  senza  dubbio  ,una  legge  tribunizia,  cioè  un  ple- 
biscito, denominata  dal  nome  di  un  tribuno  di  quell'anno, 
ignoto  a  noi  come  ci  sono  ignoti  tutti  gli  altri  tribuni  meno 
due,  e  chiamata  dal  nome  di  un  solo  ,  come  appunto  era 
la  consuetudine  vigente  (3). 


§  IV.  Perche  mai  uno  dei  consoli  partì  prima  del 
i5  inarco,  ed  an^i  partì  a  dispetto  del  Senato?  —  L:i 
partenza  di  Flaminio  prima  del  i5  marzo  è  avvenimento 
del  quale  non  è  lecito  dubitare.  È  questa  la  conclusione  di 
quanto  siamo  andati  discorrendo  finora  in  questo  capitolo. 


(1)  Plinio,  Nat.  Hist.,  33,   3,  45. 

(2)  Questo  è  un  fatto  già  avvertito  dai  dotti;  cf.  Mommsen,  Staats- 
recht,  I,  43,  seconda  edizione.  Né  si  può  dire  che  in  Festo  la  legge 
fosse  stata  chiamala  Servilia  Flaminia^  e  che  la  parola  Servilia  sia 
perita  come  la  prima  sillaba  della  parola  Flaminia  ,  perchè  non  si 
vede  che  ci  sia  stato  spazio  sufficente  per  ambedue  le  parole. 

(3)  I  plebisciti  nomavansi  ,  com'  è  noto ,  dal  nome  di  uno  dei 
tribuni.  È  noto  similmente  che,  nella  metà  del  secolo  sesto,  anche  i 
plebisciti  aveano  omai  il  nome  di  leges.  È  pure  noto  che,  essendo 
la  gente  Flaminia  plebea,  i  suoi  membri  aveano  adito  al  tribunato 
della  plebe.  Ora,  dei  dieci  tribuni  del  537/217  ne  conosciamo  due,  cioè 
M.  Metello  (Livio,  22,  25;  cf.  Plutarco,  Fafcio ,  7)  e  Q.  Baebio  He- 
rennio  (Livio,  22,  34),  e  nulla  c'impedisce  di  credere  che  fra  i  rima- 
nenti ci  fosse  un  Flaminio,  e  che  questo  Flaminio  abbia  dato  il  nome 
alla  legge  minus  solvendi,  che  ò  stata  fatta  evidentemente  in  quel- 
l'anno, mentre  Fabio  Massimo  copriva  l'ufficio  di  dittatore. 


—  269  — 
Rimane  che    interroghiamo  quel  fatto ,  affinchè  ci  riveli  le 
circostanze,  in  mezzo  alle  quali  esso  si  svolse  e  compì. 

Prima  di  tutto  quel  fatto  ne  suppone  un  altro,  di  cui  non 
c^è  parola  nel  racconto  di  Livio  :  suppone  2ina  contesa  tra 
Flaminio  e  il  Senato,  che  finì  violentemente  nella  partenza 
in  questione,  e  la  cui  ultima  fase  fu  la  protesta  del  Senato 
e  la  deliberazione  di  richiamare  Flaminio  col  mezzo  di  due 
ambasciatori.  E  intendiamoci  bene:  dal  vedere  che  la  serie 
dei  conflitti  tra  Flaminio  e  il  Senato,  esposta  nel  racconto, 
si  riferisce  interamente  agli  anni  antecedenti,  parrebbe  che 
si  dovesse  concludere  che  quella  volta  non  ce  ne  fu  alcuno-, 
ma  così  non  è;  dirò  anzi  che  senza  questo  conflitto,  che 
allora,  a  mio  giudizio,  ebbe  luogo,  noi  non  avremmo  presso 
Livio  il  racconto  nella  sua  forma  presente,  e  non  saremmo 
nemmeno  informati  dei  conflitti  dei  tempi  anteriori,  perchè 
cotesti  conflitti  vecchi,  se  ben  si  guarda,  sono  ricordati  sol- 
tanto a  proposito  dell'ultimo,  il  quale  viceversa,  noto  come 
esso  era  a  tutti  nel  tempo  in  cui  fu  steso  il  libello  che  pro- 
babilmente (come  spiegai  altrove)  servì  di  fonte  ai  narratori 
di  questo  fatto,  non  venne  nemmeno  menzionato.  Così  la 
famosa  partenza  non  è  che  T  espressione  o  manifestazione 
esterna  di  un  altro  fatto  più  rilevante ,  di  un  conflitto  di 
diritto-,  quindi,  investigare  le  cagioni  di  quella,  è,  propria- 
mente parlando,  un  investigare  le  cagioni  di  questo  -,  e  così 
è  delineato  quello  che  ci  resta  a  fare  per  finire  questo  ca- 
pitolo. 

Ma,  prima  di  investigare  queste  cagioni,  c'è  da  eliminare 
quello  che  ne  dice  Livio,  e  forse  ne  aveano  detto  altri  sto- 
rici prima  di  lui,  e  che  altrimenti  pregiudicherebbe  la  nostra 
ricerca.  Livio  narra,  e  noi  moderni  andiamo  ripetendo  che 
Flaminio  scappò  da  Roma  per  timore  che  i  nobili ,  susci- 
tando difficoltà  contro  la  sua  elezione  ,  gli  facessero  per- 
dere r  ufficio,  o  almeno    gli    togliessero   1'  opportunità  ,  col 


—  270  — 
trattenerlo  ,  di  misurarsi  con  Annibale.  Fu  questa  la  vera 
cagione  di  quella  partenza  ?  No,  perchè  le  cagioni  di  essa, 
in  fondo,  sono  le  cagioni  stesse  che  produssero  il  conflitto, 
che  da  Livio  non  è  nemmeno  accennato  -,  no  ,  perchè  sei 
anni  innanzi  gli  avversari  di  Flaminio  erano  riusciti,  mentre 
egli  era  già  partito,  a  far  dichiarare  viziosa  la  sua  elezione- 
ai  primo  consolato,  e  quindi  se  egli  avesse  realmente  temuto 
un  secondo  tiro  di  quella  sorte  ,  sarebbe  anzi  rimasto  in 
Roma  più  a  lungo,  sapendo  per  esperienza  che  i  suoi  ne- 
mici avrebbero  avuto  buon  giuoco,  una  volta  eh'  egli  fosse 
stato  lontano  (i). 

Eliminato  quanto  poteva  pregiudicare  Tinvestigazione,  ve- 
niamo a  questa. 

E  nota  la  lotta  che  ardeva  in  que'  tempi  fra  Taristocrazia 
e  la  democrazia.  E  noto  altresì  in  generale  che,  come  fino 
allora,  così  anche  in  quel  momento,  Flaminio  e  il  Senato 
siavansi  di  fronte  con  disposizioni  poco  benevoli  ;  ma  quale 
fu  precisamente  la  questione  che  li  mise  di  nuovo  alle  prese, 
malgrado  la  guerra  esterna,  che  avrebbe  dovuto  acquetare 
ogni  interna  discordia?  La  risposta  scaturirà  di  per  sé. 
Giunta  a  Roma  la  notizia  della  battaglia  infelice  avvenuta 
sulla  Trebbia,  la  fazione  democratica,  nei  prossimi  comizi 
consolari,  diede  al  suo  capo  Flaminio,  che  nel  primo  con- 
solato si  era  acquistata  fama  di  abile  generale  vincendo  gli 


(i)  La  nostra  ipotesi  di  un  libello  relativo  alia  partenza  di  Flaminio, 
serve  anche  a  spiegare  la  leggerezza  delle  cagioni  che  lo  storico  la- 
lino  vorrebbe  far  credere  essere  state  quelle  della  partenza.  L'autore 
del  libello  credette  utile  pel  suo  scopo  il  richiamare  alla  memoria  le 
gare  anteriori  tra  Flaminio  e  il  Senato;  ma  l'ultima,  che  gli  avea 
fornito  l'occasione  del  libello,  era  troppo  conosciuta  per  poter  pen- 
sare ad  accennarla;  e  lo  stesso  dicasi  delle  cagioni  di  essa.  Più  tardi, 
gli  storici,  non  trovando  in  quel  libello  motivata  la  partenza  di  Fla- 
minio, immaginarono  essi  quelle  cagioni  che  parevano  loro  probabili, 
e  che  noi  non  riconosciamo  per  vere. 


-  271  - 
Insubri,  il  posto  di  console  plebeo  (i),  con  ciò  esprimendo 
il  desiderio  e  la  speranza  di  veder  presto  finita  la  guerra. 
Per  aprire  la  campagna  imminente,  i  Romani  avean  bisogno 
di  ritrovare  tutta  la  loro  energia,  e  la  trovarono  (2).  Certo 
avranno  posto  mano  immediatamente  agli  arruolamenti  delle 
truppe  e  alla  discussione  del  piano  di  guerra,  senza  aspet- 
tare che  fosse  venuto  il  i5  marzo  (anche  in  altre  gravi  con- 
tingenze, come  abbiamo  fatto  vedere  altrove,  si  erano  in  tal 
modo  allontanati  dalla  loro  consuetudine)  ^  e  infatti,  per  te- 
stimonianza espressa  di  Livio,  già  prima  che  Flaminio  fosse 
partito,  prima  cioè  delle  Idi  di  marzo,  erano  state  divise 
fra  i  Generali  le  truppe  o  parte  delle  truppe  (3).  Quanto 
al  piano  di  guerra,  le  questioni  capitali  erano  tre  (4):  con- 
veniva, o  non  conveniva,  discendere  un'altra  volta  ad  una 
battaglia  campale?  era  meglio  che  i  due  eserciti  consolari 
operassero  separati  o  uniti  contro  Annibale?  quante  legioni 
occorrevano  in  tutto?  che  siffatte  questioni  essenziali  si  agi- 
tassero in  Senato,  è  cosa  talmente  naturale,  che  non  e'  è 
bisogno,  per  crederlo,  di  aver  testimonianze  antiche  ;  tut- 
tavia non  mancano  neanche  queste,  nel  capo  secondo  della 
Vita  di    Fabio  Massimo  lasciataci    da    Plutarco  trovandosi 


(t)  In  virtù  delle  leggi  Licinie  uno  dei  due  consoli  doveva  essere 
plebeo,  com'è  noto.  Questa  disposizione,  delusa  spesso  dal  388  al  41 1 
di  Roma,  fu  poi  applicata  regolarmente  senza  eccezione  a  cominciare 
dal  412/342.  Ma  ben  presto  i  plebei  aspirarono  ad  aver  ambedue  i 
consolati;  non  riuscirono  nel  53g/2i5,  ma  riuscirono  nel  582/172.  Su 
questo  veggasi,  fra  i  moderni,  specialmente  Mommsen,  Staatsrecht,  2, 
76,  seconda  edizione;  Rom.  Forsch.,  i,  94. 

(2)  Ritratta  egregiamente  da  Polibio,  3,  75,  4  segg. 

(3)  21,  63,  i:  «  Consulum  designatorum  alter  Flaminius  ,  cui  eae 
legiones,  quae  Placentiae  hibernabant,  sorte  evenerant  »   ecc. 

(4)  Che  in  principio  di  ogni  anno  si  discutesse  in  Senato  il  piano 
di  guerra  è  cosa  che  s'indovina  senz'altro,  e  della  quale  non  si  po- 
teva far  di  meno.  Ma  non  mancano  nemmeno  le  autorità  antiche. 
Polibio  ci  ha  tramandato  un'immagine  della  discussione  tenuta  in 
principio  del  538/2 ló  (Polibio,  3,  t 06- 108;  cf.  Livio,  22,  38,  G  segg.). 


appunto,  come  abbiamo  già  avuto  l'occasione  di  vedere,  il 
parere  di  quell'uomo  di  Stato  circa  la  prima  questione.  Di 
quelle  tre  questioni,  principalissima  era  la  prima,  risolta  la 
quale  il  resto  veniva  da  se;  infatti  ammessa  l'opportunità 
di  condurre  la  guerra  attivamente  e  di  discendere  a  nuova 
battaglia,  ne  seguitava  la  necessità  di  allestire  molte  forze 
e  di  adoperarle  tutte  nello  stesso  tempo  contro  il  nemico, 
precisamente  come  alcuni  avean  consigliato  di  fare  al  rom- 
persi della  guerra  (i),  e  come  s'era  fatto  teste  sulla  Trebbia, 
e  come  si  fece  1'  anno  dopo  a  Canne.  Noi  scopriremo  nei 
fatti  stessi  la  risoluzione  della  prima  non  solo,  ma  anche 
quella  della  terza  questione.  La  battaglia  del  Trasimeno  di- 
mostra che,  malgrado  l'opposizione  della  parte  aristocratica 
condotta  da  Fabio  Massimo,  il  Senato  decise  che  si  venisse 
ad  una  nuova  battaglia  (2),  e  il  grande  numero  di  legioni 
allestite  per  l'anno  537/217  dimostra  che  esso  decise  che  la 
guerra  fosse  condotta  energicamente  (3).  Ed   eccoci    ora  al 


(i)  Livio,  21,  6,  6.  Fra  gli  ordini  del  giorno  presentati,  uno  por- 
tava l'istituzione  di  una  sola  provincia  consolare  (alii  totum  in  His- 
paniani  atqiie  Africani  Hannibalemque  intenderant  belliim)  ;  ma  fu 
adottato  quello  che  ne  istituiva  due  [alii  provincias  consulibus  Hispa- 
niam  atque  Africani  decernentes  terra  marique  rem  gerendam  cense- 
bant.  Vedi  il  primo  capitolo  della  mia  Memoria  sui  luoghi  liviani 
relativi  alle  provincie  e  agli  eserciti  romani,  negli  Atti  delV Accademia 
dei  Lincei,  [881,  serie  3%  voi.  VI).  Però  appena  s'intese  che  Annibale 
avea  varcato  le  Alpi,  fu  ordinala  la  concentrazione  dei  due  eserciti 
consolari  in  Italia,  com'è  noto. 

(2)  L'elezione  di  Flaminio  al  secondo  consolato  significava  già  di 
per  sé,  per  quanto  stava  nella  parte  democratica,  guerra  attiva  e  sfida 
al  nemico.  Ed  ora  vedesi  che  anche  in  Senato  la  maggioranza  la  pen- 
sava in  tal  modo.  Fabio  Massimo  (Plutarco,  Fabio  Mass.,  e.  2)  avea 
invece  consigliato  (ed  egli  parlava  naturalmente  a  nome  dei  conser- 
vatori in  generale),  che  si  evitassero  le  battaglie  finché  il  tempo  non 
avesse  sciupato  le  poche  forze  dei  nemici. 

(3)  L'opinione  corrente  è  che  la  campagna  del  537/217  sia  stata 
aperta  colle  quattro  legioni  consolari  dell'anno  336/2 18  rifornite  di 
nuovo.  Ma  vedremo  presto  che  questo  è  un  grave  errore. 


—  273  — 
nodo  della  cosa.  Secondo  questo  nostro  ragionamento  ci  sa- 
remmo aspettati  di  vedere  i  Romani  ordinare  l'azione  con- 
giunta   dei   due   eserciti   consolari,  ossia,  per  adoperare    il 
linguaggio  scientifico,  istituzione  di  una  sola  provincia  (i) 


(i)  Significava  compito,  ministerio,  ufficio,  la  parola.  Parlandosi  poi 
di  Generali  significava  la  parte  della  condotta  della  guerra  che  affi- 
davasi  a  ciascuno  di  essi.  Essendo  i  consoli  i  generali  supremi,  le 
Provincie  consolari  erano  i  teatri  precipui  di  guerra.  Per  esempio  , 
quando  il  Senato  deliberò  la  seconda  guerra  punica,  esso  decise  di 
aprirla  contemporaneamente  in  Ispagna  e  in  Africa,  mandando  un 
console  in  Ispagna  e  l'altro  in  Africa  ;  questo  esprimevasi  dicendo 
che  le  Provincie  consolari  istituite  furono  due,  la  Spagna  e  l'Africa. 
Qualche  volta  c'era  un  solo  teatro  di  guerra,  e  allora  i  consoli  com- 
battevano insieme;  ciò  esprimevasi  dicendo  che  c'era  una  sola  pro- 
vincia consolare  (cosi  fecesi,  ad  esempio,  in  principio  del  538). 

Manca  finora  una  monografia  sul  potere  competente  nell'istituire  le 
Provincie  consolari,  ed  io  colmerò  questa  lacuna,  cercando  di  accen- 
nare in  breve  quello  che  la  ristrettezza  dello  spazio  e  la  natura  di 
una  nota  non  mi  permettono  di  svolgere  adeguatamente. 

Ci  fu  un  tempo  antico  in  cui  la  facoltà  in  questione  era  intera- 
mente dei  consoli;  ma  nel  63i/i23  una  legge  la  diede  al  Senato.  Però 
invece  di  distinguere  due  periodi  di  tempo,  io  credo  se  ne  debbano 
distinguere  tre;  fra  il  periodo  antico  e  il  nuovo  ce  ne  fu  un  altro, 
durante  il  quale  il  Senato  era  andato  man  mano  tirando  a  sé  tale 
facoltà,  finché  la  legge  del  63i/i23  sanzionò  quanto  in  pratica  era 
già  un  fatto  compiuto. 

1"  Periodo.  Questo  primo  periodo  di  tempo  comincia  natural- 
mente coU'istituzione  del  consolato;  ma  dire  dove  precisamente  fi- 
nisca non  si  può,  perchè  l'autorità  del  Senato  sorse  a  poco  a  poco. 
Siccome  però  la  potenza  del  Senato  è  un  prodotto  del  plebiscito 
Ovinio,  che,  come  vedremo  fra  poco,  pare  essere  della  prima  metà 
del  secolo  quinto ,  è  difficile  che  il  Senato  abbia  avuto  molta  in- 
fluenza prima  della  fine  del  secolo  quinto.  E  con  questa  ipo- 
tesi s'accorda  l'unica  testimonianza  di  valore  che  ci  resti  in  questo 
proposito;  infatti  c'è  un  luogo  di  Livio  relativo  alle  provincie 
consolari  del  457/297  ,  dal  quale  scorgiamo  che  la  facoltà  di  isti- 
tuirle stava  nei  consoli.  Ecco  le  parole  che  leggonsi,  io,  14: 
«  Consules  novi  Q_.  Fabiiis  Maximits  quartum  et  P.  Decius  Mus  ter- 
tiitm,  quum  inter  se  agitarent,  liti  alter  Samnites  hostes,  alter  Etruscos 
deligeret,  quantaeque  in  hanc  aiit  in  illam  provinciam  copiae  satis , 
et  uter  ad  utrum  bellum  dux  idoneus  magis  esset  »  etc.  In  queste 
parole  è  narrata  tanto  l'istituzione  delle  provincie  consolari,  cioè  la 
decisione  sui    teatri    di    guerra    che    convenisse    creare  (furono  due  : 


—  274  ~ 
consolare*,  come   va    adunque   che   un   esercito    consolare, 
quello  di  Flaminio,  operò,  invece,  in  Etruria,  e  quello  di 
Servilio  operò  altrove,  nel  paese   che   avea    per    capoluogo 


Etruria  e  Sannio),  quanto  la  divisione  delle  medesime  fra  i  due  con- 
soli. Altro  non  c'è  da  dire  per  ciò  che  concerne  questo  primo  pe- 
riodo, perchè,  tutte  le  altre  volte  che  Livio  e  Dionigi  parlano  delle 
Provincie  consolari,  dicono  bensì  quali  esse  erano  e  come  i  consoli  se 
le  divisero  insieme,  ma  non  dicono  mai  chiaramente  chi  avesse  avuto 
autorità  nel  fare  che  esse  fossero  queste  piuttosto  che  quelle  ;  né  si 
creda  che  la  questione  fosse  cosi  semplice,  e  che  le  provincie  conso- 
lari fossero  sempre  indicate  di  per  se  stesse;  perchè,  ad  esempio, 
quando  Roma  trovavasi  in  guerra  con  tre  popoli  vicini  mentre  i  con- 
soli erano  due  soli,  e  pretori  non  ce  n'erano  ancora,  bisognava,  fra 
i  ire  nemici,  sceglierne  due  da  combattere  ,  come  appunto  avvenne 
negli  anni  di  Roma  283  e  segg.,  essendo  Roma  in  guerra  coi  Volsci, 
cogli  Aequi  e  coi  Sabini.  Nel  2^3  furono  provincie  consolari  il  paese 
dei  Volsci  e  quello  degli  Aequi  (Livio,  2,  58,  4);  nel  284  lo  furono  i 
Sabini  e  gli  Aequi  (Livio  ,  2,  62)  ;  nel  285  lo  furono  i  Volsci  e  gli 
Aequi  (Livio,  2  ,  63  ,  5),  mentre  i  Sabini,  lasciati  in  pace,  presero 
essi  stessi  l'offensiva  e  corsero  fin  sotto  le  mura  di  Roma  (Livio,  2, 
64,7). 

Del  resto  darò  qui  l'elenco  dei  luoghi  di  Dionigi  e  della  prima 
decade  di  Livio  relativi  alle  provincie  consolari. 

Dionigi  menziona  le  provincie  consolari  e  la  loro  divisione  :  8,  68; 
8,  82;  8,  88;  9,  43;  9,  55;  9,  57;  9,  59;  9,  62;  io,  20-21;  10,  22. 
Accenna  poi  vagamente  al  Senato  come  al  potere  competente  nel- 
l'istituirle  :  9,  16;  9,  3o  ;  9,  61  ;  9,  62;  io,  4?  ;  ma  son  cenni  desti- 
tuiti di  ogni  benché  minimo  valore. 

Livio  accenna  alle  provincie  consolari  senza  dir  nulla  sul  potere 
competente  nell'istituirle  :  2,  33,  3;  2,  53,  5;  2,  54,  i;  2,62;  2,63,  3; 
3,  4,  7;  3,  22,  2;  3,  3i,  3;  4,  37,  6;  5,  32;  7,  6,  8;  7,  12,  6;  7,  16; 
7,  22,  1;  7,  32,  2;  8,  i;  8,  22,  9;  9,  12,  9;  9,  3i,  i;  9,  43.  9,  44,  5. 
II"  Periodo.  11  plebiscito  Ovinio  prescrisse  altri  criteri  per  la 
nomina  dei  senatori;  quind'innanzi  furono  senatori  non  le  persone 
che  piacevano  ai  consoli,  ma  gli  ex  magistrati  e  altre  persone  insigni, 
gente  cioè  che  era  stata  onorata  dal  popolo  nei  comizi,  o  che  risplen- 
deva per  meriti  conosciuti  ;  inoltre  i  senatori  furono  eletti,  quind'in- 
nanzi, a  vita.  Tutto  ciò  sarà  detto  meglio  in  una  delle  prossime  note; 
qui  basti  ricordare  i  risultati  immensi  di  quel  plebiscito  ,  fatto  nella 
prima  metà  del  secolo  quinto. 

Risultando  adunque,  dopo  d'allora,  composto  di  persone  di  grande 
dignità,  il  Senato  crebbe  naturalmente  di  potere,  in  tutte  le  parti  del 
reggimento.  Fermiamoci  alle  provincie  consolari.  È   certo  che,  se  ci 


—  275  — 
Aviminiim  ?   (Queste   furono    infatti  le  due    provincie  con- 
solari del  537/217,  come  stiamo  per  vedere). 


rimanesse  la  seconda  decade  di  Livio ,  noi  vi  vedremmo  il  Senato 
acquistare  man  mano  influenza  nell'istituzione  delle  medesime.  Quindi 
sul  bel  principio  della  terza  ne  scorgiamo  le  traccie  più  evidenti  ; 
discutere  e  proporre  vuol  dire  aver  voce  in  capitolo;  ebbene  noi  sap- 
piamo che  i  senatori  discussero  ampiamente  se  la  seconda  guerra 
punica  si  dovesse  aprire  soltanto  in  Ispagna  dove  trovavasi  Annibale, 
o  in  Ispagna  e  in  Africa  contemporaneamente,  proponendo  appunto 
gli  uni  una  sola  provincia  consolare,  gli  altri  due  (Livio,  21,  6,  5; 
Dione  Cassio,  Fragni.,  55,  1-8;  Zonaras,  8,  22.  Cito  senza  riferire 
testualmente  perchè  scrivo  una  nota,  ma  chi  vuol  capir  bene  legga 
questi  e  gli  altri  passi  che  citerò,  perchè  sono  tutti  di  grande  inte- 
resse). —  Poscia,  per  tutto  il  secolo  sesto,  c'è  una  serie  di  conflitti 
di  poteri  fra  il  Senato  e  ì  consoli  circa  l'istituzione  delle  provincie 
consolari,  prova  manifestissima  della  crescente  autorità  del  Senato  in 
questo  proposito.  Nel  549/205  il  Senato  voleva  che  le  provincie  con- 
solari fossero  Brutlii  et  Sicilia;  il  console  Scipione  voleva  l'Africa; 
la  contesa  fini  con  un  compromesso,  in  virtù  del  quale  furono  pro- 
vincie consolari  i  Bruttii  et  Sicilia,  ma  Scipione,  al  quale  toccò  Si- 
cilia, ebbe  facoltà  di  sbarcare  in  Africa  (Livio,  28,  38,  12;  28,  45,  8). 
II  compromesso  salvava  l'autorità  antica  del  consolato,  ma  ricono- 
sceva il  potere  del  Senato.  —  Nel  552/202  riuscì  ai  Consoli  di  far 
dichiarare  provincie  consolari  l'Italia  e  l'Africa,  ma  riuscì  al  Senato 
l'ottenere  che  il  popolo  decretasse  che  insieme  con  uno  dei  consoli 
rimanesse  però  anche  il  proconsole  P.  Scipione  a  condur  la  guerra 
in  Africa  (Livio,  3o,  27).  Il  potere  del  Senato  e  quello  dei  consoli 
si  contrappcsano.  —  In  principio  del  553/20 1  i  consoli  volevano  che 
una  delle  provincie  consolari  fosse  l'Africa.  C'era  in  vista  la  conclu- 
sione della  pace  con  Cartagine  ,  fatto  glorioso  per  quel  console  che 
avrebbe  stretto  il  trattato.  Ebbene,  il  Senato,  spalleggiato  dai  tribuni, 
si  fece  attribuire  dal  popolo  la  facoltà  di  decidere  in  proposito  ,  e 
poscia  deliberò  che  rimanesse  in  Africa  il  proconsole  Scipione.  A 
sua  volta  però  il  Senato  dovette  acconsentire,  in  omaggio  al  consolato, 
che  mentre  Scipione  conservava  in  Africa  l'imperio  per  terra,  uno  dei 
consoli  lo  avesse  per  mare  (Livio,  3o,  40).  —  In  principio  del  557/197 
contesa  fra  i  consoli  e  i  tribuni;  dietro  i  tribuni  stava  naturalmente  il  Se- 
nato ;  e  di  bel  nuovo,  su  proposta  dei  tribuni,  il  popolo  conferì  al  Se- 
nato facoltà  piena  (Liv.,  32,  28];  cf.  Pol.,  iS,  11-12).  I  consoli  avean 
voluto  la  guerra  di  Macedonia,  ma  il  Senato  decretò  che  continuasse 
a  rimanere  in  Macedonia  T^.  Quinzio  Flaminino.  —  In  principio  del 
560/194  i  consoli  volevano  Italia  e- Macedonia;  ma  il  Senato  diede 
loro  soltanto  l'Italia  (Livio,  ?4,  43,  2).   Non  troviamo  nemmeno   clic 


—  27G  — 
Ognuno  vede,  che,  poiché  sarebbe  stata  naturale    e   ne- 
cessaria l'istituzione  di  una  sola  provincia  consolare,  e  tut- 


siasi  appellato  al  popolo.  —  In  principio  del  367/177  riuscì  al  Senato 
di  istituire  unica  provincia  consolare  la  Liguria.  Sebbene  ci  fossero 
altre  e  ben  maggiori  guerre  in  Grecia  ed  in  Asia,  tuttavia  riuscì  al 
Senato  di  prolungare  il  comando  in  quelle  regioni  a  M.  Fulvio  e  a 
Cn.  Manlio,  malgrado  che  questi  due  duci  l'avessero,  quel  comando, 
fin  dal  555/179.  Neanche  questa  volta  ci  fu  appello  al  popolo,  s'inten- 
deva già  di  per  sé  che  la  volontà  del  Senato  bastava  (Livio,  38,  42,  8). 
—  D'altro  genere  fu  il  conflitto  nel  582/172,  ma  esso  mostra  appuntino 
il  potere  di  fatto  al  quale  era  ornai  salito  il  Senato  (Livio, 42,  10). — 
Infine,  sul  principio  del  587/167,  il  Senato  prorogò  a  Paolo  Emilio 
il  comando  della  guerra  di  Macedonia,  senza  che  i  consoli  fiatassero 
(Livio,  45,   16). 

È  manifesto  adanque  che  a  cominciare  dal  560/194  all' incirca,  il 
Senato  diede  sempre  la  condotta  della  guerra  a  chi  voleva.  Fin  verso 
la  metà  del  secolo  sesto  era  stato  dogma  che  ogni  guerra  fosse  anzi- 
tutto affidata  ai  consoli,  cioè  che  ogni  guerra  fosse,  se  non  ce  n'erano 
più  di  due,  una  provincia  consularis  ;  ora  la  guerra  diventava  pro- 
vincia dei  consoli,  oppure  dei  proconsoli,  secondo  piaceva  al  Senato. 
Anche  le  espressioni  usate  da  Livio  parlando  dell'istituzione  delle 
Provincie  consolari  ritraggono  perfettamente  il  mutamento  avvenuto. 
Nella  prima  decade  Livio  dice  soltanto  che  la  tal  provincia  toccò 
[evenit)  al  tal  console,  oppure  che  il  tal  console  si  recò  [profectus 
est)  nella  tale  provincia  e  l'altro  nella  tale  altra,  oppure  che  i  con- 
soli si  divisero  fra  di  loro  le  tali  o  tal' altre  provincie  [consiiles  par- 
titi siiiìt  provincias),  come  si  può  verificare  cercando  i  luoghi  che 
abbiamo  citato  esaminando  la  questione  delle  provincie  consolari  nel 
suo  primo  periodo.  Ma  mentre  adunque  nella  prima  decade  non  viene 
rilevato  il  potere  competente  nell'  istituirle,  noi  leggiamo  invece,  nella 
decade  terza  e  nelle  seguenti,  senatiis  dccrevit  etc,  patres  censite- 
riint  etc,  provinciae  decretae  siuit,  provinciae  nominatae  siint,  placuit 
provincias  esse  etc.  (Cf.  Livio,  21,  6;  21,  17;  25,  3;  26,  28;  27,  y, 
22,  22;  27,  35;  28,   10;  28,  38;  29,   i3;  33,  43;  35,  20;  37,  5o;  43,  12). 

Si  domanda  ora  che  via  sia  stata  tenuta  dal  Senato  per  tirare  a  sé 
questa  facoltà.  La  via  fu  la  proroga  degli  imperii.  Prorogando  il  co- 
mando, cosa  in  sé  utilissima  (cf.  Livio,  32,  28},  a  Capitani  come 
l'Africano  Maggiore,  Tito  Quinzio  Flaminino,  Paolo  Emilio,  ecc.,  i 
consoli  vennero  ad  essere  privati  della  condotta  delle  guerre,  che  in 
origine  era  stato  il  loro  compito  cssenzialissimo.  Strumento  del  Senato 
furono  in  ciò  i  tribuni;  questi  spiegarono  al  popolo  il  danno  del 
cangiare  ogni  anno  i  generali  delle  guerre  lontane  (Livio,  32,  28),  e 
il  popolo  diede  pieni  poteri  al  Senato  (Già  nel  secolo  innanzi  era  stato 


-  2-7  — 

tavia  ne  furono   fatte   due,  è  ragionevole   il   sospettare   che 
ciò  non  ?ia  avvenuto  senza  conflitto  fra  i  due  poteri,  com- 


il  tribuno  Ovinio  che  avea  creato  la  potenza  futura  del  Senato,  e  nel 
secolo  seguente  fu  il  tribuno  Sempronio  Graccho  che  per  legge  fece 
conferire  al  Senato  la  facoltà  di  determinare  anno  per  anno  le  Pro- 
vincie consolari*.  E  qui  abbiamo  una  conferma  della  nostra  asserzione 
precedente  ;  i  dotti  ebbero  già  a  notare  che  il  diritto  di  prorogare  i 
comandi,  esercitato  dal  Senato  soltanto,  senza  il  concorso  del  popolo, 
è  un  fatto  che  comincia  ad  incontrarsi  nel  55o  di  Roma  (Livio,  29, 
i3;  MoMMSEM,  Staatsrecht,  i,  620,  seconda  edizione;  male  il  Lance, 
RÓm.  Altertìnimer,  2,  404,  seconda  edizione,  che  non  distingue  fra 
età  ed  età);  noi  dicevamo  che  le  proroghe  offrirono  al  Senato  il 
destro  di  disporre  delle  provincie  consolari;  dunque  anche  da  ciò  si 
vede  che  abbiamo  ragione  di  dire  che  a  disporre  di  queste  il  Senato 
principiò  verso  il  560/190. 

Per  quanto  so,  il  Mommsem  [Staatsrecht,  i,  53,  seconda  edizione), 
finora  è  il  solo  che  abbia  cercato  perchè  e  come  il  Senato  acquistasse 
nel  sesto  secolo  questa  facoltà.  La  spiegazione  sua  però  non  mi  con- 
tenta, e  la  mia  mi  pare  preferibile.  È  vero  che  coU'istituzione  delle 
Provincie  pretorie  o  governi  (come  Sicilia,  Sardegna,  Spagna,  ecc.), 
rette  annualmente  da  pretori  o  da  propretori ,  i  consoli  perdettero 
naturalmente  il  diritto  di  comandarvi  gli  eserciti,  a  meno  che  al  Se- 
nato la  guerra  non  paresse  tanto  grande  da  non  bastare  il  governa- 
tore della  provincia,  nel  qual  caso  esso  vi  mandava  un  console  ;  ma 
si  può  tirare  di  qui  la  conseguenza  che,  in  forza  di  questo  precedente 
appunto,  i  consoli  non  potessero  piìi  comandare  nessuna  guerra  trans- 
marina,  se  al  Senato  non  piaceva?  Che  ha  da  fare  una  regione  trans- 
marina qualunque,  con  una  regione  transmarina  costituita  a  provincia 
romana?  Aggiungo  anche  dei  fatti  :  se  quella  conseguenza  fosse  giusta, 
il  Senato  avrebbe  ottenuto  a  un  colpo  il  potere  incontestato  di  deter- 
minare le  Provincie  consolari,  come  aveva  senza  dubbio  il  potere  in- 
contestato di  decidere  quando  fosse  il  caso  di  mandare  un  console  in 
una  provincia  pretoria  o  governo.  xMa  cosi  non  fu.  I  compromessi 
del  552  e  del  553  dimostrano  che  dapprincipio  esso  ebbe  a  lottare 
assai.  —  Dalla  prima,  l'autore  viene  condotto  inevitabilmente  ad  una 
seconda  idea,  non  meno  inesatta,  cioè  che  l'autorità  del  Senato  va- 
lesse nel  determinare  non  tutte  le  provincie  consolari  in  generale, 
ma  quelle  sole  che  erano  fuori  d'Italia.  Questa  restrizione  di  un  prin- 
cipio generale  non  mi  pare  fondata.  In  principio  del  557  "°"  ^^  ^^' 
rebbe  stato  conflitto,  se  i  consoli,  invece  di  aspirare  al  comando  della 
guerra  contro  Filippo  di  Macedonia,  si  fossero  contentali  delle  mi- 
serabili guerre  contro  i  Galli  e  i  Liguri,  che  allora  erano  le  sole  in 
Italia;  questo  è  vero,   ma  questo  è  un  caso,  e  nulla  più;  siccome  le 


—  278  - 
petenti,  di  fatto  almeno,  nella   materia.   11  sospetto   assume 
poi  forma  precisa,  considerando,  da  un  lato,  che  gli  storici 


guerre  e  i  comandi  importanti  erano  ornai  quelli  della  Grecia  e  del- 
l'Asia,  si  capisce  che  il  Senato  mirasse  a  mandarvi  certi  generali 
piuttosto  che  certi  altri,  ma  non  ne  segue  che,  volendolo  ,  esso  non 
avesse  potuto  far  sentire  altrettanto  la  sua  voce  nel  conferimento  dei 
comandi  d'Italia  (Del  resto  le  parole  di  Livio  relativamente  alla  di- 
scussione del  557  (Livio,  32,  28)  non  provano,  come  l'autore  vuole, 
che  i  consoli  procedessero  alla  divisione  delle  provincia  senza  aver 
prima  interrogato  il  Senato;  gli  è  che  le  provincie  dell'anno  innanzi 
erano  state  Italia  e  iMacedonia,  ed  ora  trattavasi  di  mantenere  lo 
status  quo  semplicemente).  Infine  non  so  se  contro  la  distinzione  fra 
Provincie  consolari  in  Italia  e  provincie  consolari  fuorid'Italia,  non 
stia  anche  il  disposto  della  legge  del  63i/i23,  la  quale  non  fece  questa 
distinzione. 

IH»  Periodo.  Quando  nel  63i/i23  C.  Gracco  tribuno  della  plebe 
fece  passare  una  legge  che  attribuiva  al  Senato  la  facoltà  di  istituire 
anno  per  anno  le  provincie  consolari,  venne  posto  semplicemente  il 
suggello  definitivo  ad  una  consuetudine  che  vigeva  da  più  di  sessanta 
anni.  Cosi  compì  la  sua  evoluzione  questa  questione,  e  a  noi  basta 
quindi  essere  arrivati  sin  qui,  senza  che  abbiamo  da  percorrere  anche 
questo  terzo  periodo.  Una  cosa  sola  va  detta.  Gli  errori  che  vigevano 
e  vigono  tuttora  circa  la  questione  sono  due  specialmente,  l'uno  figlio 
dell'altro,  ed  ho  aspettato  a  dirli  sulla  fine,  affinchè,  dopo  quanto 
s'è  detto,  l'enunciarli  equivalesse  al  confutarli.  Si  crede  adunque  che 
il  Senato  abbia  avuto  in  ogni  tempo  la  facoltà  di  stabilire  le  provincie 
consolari  insieme  con  tutto  quanto  concerneva  il  piano  di  guerra 
{Beckkr,  Handbiich  der  róm.  Antiguit.,  2,2,  120;  Walter,  Geschichte 
des  róm.  Reclits,  i,  282;  cf.  i,  i83  ;  Marquardt,  Rómische  Staatsver- 
waltiing,  I,  38i)  ,  e  quindi  si  domandò:  che  cosa  ordinò  la  legge 
tribunizia  del  63i/i23?  Scambiando  una  semplice  conseguenza  della 
legge,  col  disposto  della  medesima,  si  disse  che  nel  63 1  non  si  fece 
altro  che  decretare  che  quind'innanzi  la  determinazione  delle  pro- 
vincie consolari  avesse  luogo  sempre  prima  de  comip  consolari.  Er- 
rore è  il  credere  che  il  Senato  abbia  sempre  avuto,  anche  prima  della 
metà  del  sesto  secolo,  la  facoltà  di  fissare  le  provincie  consolari. 
Errore  è  il  credere  che  la  legge  del  63 1  prescrivesse  che  la  determi- 
nazione delle  medesime  avvenisse  prima  dei  comizi  consolari,  cosa 
che  fu  una  clausola  soltanto  della  legge  o  forse  una  semplice  conse- 
guenza di  essa. 

La  legge  del  63 1  è  ricordata  da  Cicerone,  Pro  domo,  g.  Esempi 
di  Provincie  consolari  deliberate  prima  dei  comizi  consolari  leggonsi 
presso  Cicerone,  De  prov.  coiisuL,  7,  17,  e  presso  Sallustio,  Iug.,2j. 


-  279  — 

antichi  attribuiscono  espressamente  a  Flaminio  la  risoluzione 
di  combattere  col  solo  suo  esercito,  senza  il  collega,  contro 
Annibale  (i),  e  dall'altro  lato  che  i  consiglieri  di  Flaminio 
fecero  di  tutto,  sebbene  senza  prò,  per  indurlo  ad  aspettare 
che  giungesse  V  altro  esercito  consolare  prima  di  accettare 
una  battaglia  (2).  Di  qui,  se  non  mi  sbaglio,  si  deve  infe- 
rire che  tutti,  meno  Flaminio,  stimavano  necessaria  Fazione 
congiunta  dei  due  corpi  consolari,  e  che  nondimeno  nessuno 
era  riuscito  a  persuadere  questo  console  di  voler  sacrificare 
al  bene  comune  Tambizione  di  vincere  i  nemici  da  sé  solo, 
com'egli  sperava. 

Noi  abbiamo  così  scoperto  il  soggetto  della  contesa  tra 
Flaminio  e  il  Senato,  e  non  resta  più  che  ad  indagarne  il 
carattere  probabile  :  se  questo  s''  accorda  coir  esito  di  essa  , 
avremo  certezza  sempre  maggiore  di  non  aver  fabbricato 
un'ipotesi  senza  fondamento.  Ogni  console  un  po'  un  po' 
ambizioso  non  poteva,  dei  due  sistemi  in  vigore  nell'  isti- 
tuire i  comandi  degli  eserciti ,  che  preferire  quello  secondo 
il  quale,  ad  ogni  console,  insieme  colTesercito,  era  affidata 
una  determinata  località  o  cerchia  d'azione,  e  un  determi- 
nato nemico,  in  modo  da  condurre  la  guerra  al  tutto  indi- 
pendentemente dal  collega  -,  una  libertà  e  indipendenza  sif- 
fatta nel  comando  di  un  corpo  d'esercito,  una  propria  pro- 
vincia^ come  dicevasi  allora,  era  la  cosa  più  desiderata,  sia 
per  l'inclinazione  naturale  al  comandare  incondizionato,  sia, 
inoltre,  per  l'onore  che  ognuno  si  riprometteva  dalle  vittorie, 
perchè  se  un  console  vinceva  il  nemico,  egli  otteneva  il 
trionfo,  ma  se  i  due  consoli  aveano  vinto  cogli  eserciti  riu- 
niti, il  trionfo  toccava  ad  un  solo  console,  a  quello  che  nel 
giorno  della  battaglia  avea  avuto  gli  auspici    e    il  comando 


(i)  Polibio,  3,  80,  4;  Zonaras,  S,  zb. 
(2)  Polibio,  3,  82,  4;  Livio.   22,   3,  8. 


—  280  — 
in  capo  dei  due  corpi  consolari.  (Imperciocché  è  noto  che, 
quando  i  due  corpi  d'  esercito  dei  consoli  operavano  con- 
giunti, il  comando  in  capo  alternava  giorno  per  giorno  fra 
i  due  colleghi)  (i).  Per  queste  ragioni  molti  consoli  odiavano 
naturalmente  l'istituzione  di  un'unica  provincia  consolare,  e 
desideravano  Tistituzione  di  due.  Non  è  a  dire,  se  Flaminio 
fosse  nel  numero  di  questi  -,  egli  uomo  dei  più  ambiziosi  e 
vani,  egli  che  sapeva  d'essere  stato  eletto  dalla  sua  fazione 
per  annientare  Annibale!  e  infatti  andava  dicendo  di  voler 
combattere  da  solo  senza  il  collega.  Il  disparere  fra  il  Se- 
nato e  Flaminio  in  proposito  delle  provincie  consolari  non 
era  di  quelli  ai  quali  V  interpretazione  d' una  legge  ve- 
niva a  metter  fine.  A  chi  spettava  Tultima  parola  nelTisti- 
tuire  le  provincie  consolari  ?  al  Senato  o  ai  consoli  ?  Nella 
nostra  nota  sul  potere  competente  nel  determinarle  si  tro- 
veranno ragioni  sufficienti  per  capire  che  il  disparere  po- 
teva facilmente  degenerare  in  conflitto.  Determinare  le  pro- 
vincie consolari  era  stato  affare  dei  consoli  in  antico-,  ma 
il  Senato,  che  in  virtù  del  celebre  plebiscito  Ovinio  (2)  com- 


(i)  Se  questo  sistema  fosse  buono  o  cattivo  è  un'altra  questione.  Le 
discordie  ira  i  due  consoli  che  irovavansi  insieme  erano  spesso  inevi- 
tabili, e  la  storia  delle  battaglie  combattute  sulla  Trebbia  e  a  Canne 
sono  di  grande  ammaestramento  in  questo  proposito. 

(2)  Fu  scritto  molto  su  questo  plebiscito.  Plebisciti  chiamavansi  le 
leggi  deliberale  nei  comizi  dei  plebei  sulla  proposta  dei  magistrati 
della  plebe,  che  erano  i  tribuni-,  col  tempo  però  anch'essi  chiama- 
ronsi  leges,  come  abbiamo  già  avuto  occasione  di  notare.  L'ordina- 
mento fatto  fare  dal  tribuno  Ovinio  (del  resto,  il  tribuno  ci  è  al 
tutto  ignoto)  aboliva  i  criteri  tenuti  fino  allora  nella  nomina  dei 
Senatori ,  e  ne  determinava  dei  nuovi.  Se  concernesse  altre  que- 
stioni ancora,  non  lo  sappiamo.  Sul  tempo  e  sui  particolari  di  questo 
ordinamento  si  può  dire  che  i  dotti  son  d'accordo,  salvo  qualche 
parte  in  cui  non  solo  sono  discordi,  ma  secondo  me  sono  in  errore. 
L'ordinamento  è  ricordato  da  Festo  (p.  246)  colle  parole:  «  Praete- 
riti  senatores  quondam  in  opprobrio  non  erant,  quod,  ut  reges  sibi 
legebant  sublegebantque  quos  in  Consilio  publico  haberent ,  ita    post 


-  281  - 
ponevasi  essenzialmente  di  ex-magistrati,  i  quali   aveano  il 
seggio  a  vita,  andò  rapidamente  acquistando  molta  autorità 


exactos  eos,  consules  quoque  et  tribuni  militum  consulari  potestate 
coniunctissimos  sibi  quosque  patriciorum  et  deinde  plebeiorum  lege- 
bant,  donec  Ovinia  tribunicia  intervenit,  qua  sanctum  est,  ut  censores 
ex  omni  ordine  optimum  queraque  curiati  (curiatim?  iurali  ?)  in  se- 
natum  legerent:  quo  factum  est,  ut  qui  praeteriti  essent  et  loco  moti, 
haberentur  ignominiosi  ».  —  Il  consiliiim  publicuìu  è  il  Senato. 
Quanto  al  tempo,  si  ritiene  che  1'  ordinamento  sia  della  prima  metà 
del  secolo  quinto  (cf.  Hofmann,  Der  r'ómische  Senat,  pag.  12  segg.; 
MoMMSEN,  Staatsrecht,  2,413,  secondi  edizione).  L'ordinamento  abro- 
gava la  procedura  fin  là  seguita  nella  nomina  dei  senatori ,  che  dai 
re,  dai  consoli  e  dai  tribuni,  con  autorità  consolare,  erano  sempre 
stati  eletti  ad  arbitrio,  e  deferiva  la  nomina  ai  censori  imponendo  di 
scegliere  optiniinn  quemqiie  ex  omni  ordine.  Si  tratta  di  sapere  che 
cosa  significa  ordo.  Fu  affermato  che  ordo  in  questo  luogo  significa 
ciascuna  delle  due  classi  dei  patrizi  e  dei  plebei,  fu  affermato  che  si- 
gnifica ciascuno  dei  due  ordini,  senatorio  ed  equestre,  ma  a  torto. 
Con  maggior  ragione  oggi  si  crede  che  ordo  esprima  le  classi  di  ex- 
magistrati. Ma  anche  questo  non  va  inteso  in  modo  assoluto  ;  il 
Lance,  RÓm.  Alterthilmer,  2,  335,  seconda  edizione,  crede  s'intendano 
gli  ex-magistrati  curuii  (quelli  che  erano  sBeti  consoli  o  pretori  o 
edili  curuii),  il  Willems,  Le  Senat  de  la  République  Romaine,  i,  i53 
segg.,  tutti  gli  ex-magistrati  dai  questori  in  su.  lo  credo  che  ordo  si- 
gnifichi, qui,  quello  che  significa  presso  Livio  (23,  23] ,  dove  questo 
storico  descrive  il  procedimento  seguito  nelle  nomine  dei  senatori 
fatte  l'anno  538/2i6;  mi  pare  che  se  la  parola  avea  un  significato 
speciale  nel  luogo  di  Pesto,  lo  debba  avere  necessariamente  anche  nel 
luogo  di  Livio,  un'  analogia  che  è  così  evidente  che  fa  maraviglia 
che  non  si  sia  ancora  avvertita,  o  non  le  sia  stato  dato  tutto  il  peso 
che  merita.  M.  Fabio  Buteone  adunque,  creato  dittatore  per  colmare 
in^  via  straordinaria  le  lacune  del  Senato,  dichiarò  che  procederebbe 
in  modo  ut  ordo  ordini,  non  homo  homini  praelatus  videretur.  Poi  in 
luogo  dei  senatori  morti  nominò  i»  gli  ex-magistrati  curuii  che  an- 
cora non  fossero  stati  eletti  senatori  ;  2°  coloro  che  erano  stati  edili, 
tribuni  o  questori  ;  3"  coloro  che  senza  essere  stati  magistrati  si  erano 
segnalati  in  guerra  ;  le  parole  di  Livio  rispetto  a  questo  ultimo 
punto  devono  essere  state  :  «  qui  magistratus  non  cepissent  »  come 
pensa  anche  il  Mommsen,  Staatsrecht,  1,  56,  nota  2,  prima  edizione, 
e  non  «  magistratus  minores  cepissent  »  come  vogliono  leggere  altri 
(infatti,  se  dopo  i  magistrati  curuii  e  gli  edili  tribuni  e  questori,  fos- 
sero venuti  in  considerazione  altri  magistrati  ancora,  questi  altri  ma- 
gistrati sarebbero  stati  messi  nella  seconda  classe  insieme  cogli  edili, 
l^visla  di  filologia  ecc.,  X.  19 


-  282  - 
in  tutte  le  faccende,  e  anche  in  questa  ;  per  di  più,  questa 
volta  il  Senato  era  dalla  parte  della  ragione.  Con  un  uomo 


tribuni  e  questori  ;  parmi  che  nella  terza  classe  siano  stati  messi  ap- 
punto quelli  che  non  erano  stati  magistrati,  e  che  eransi  soltanto 
segnalati  nelle  battaglie.  Questa  terza  classe  non  sarebbe  stata  fatta 
se  non  fossero  state  ammesse  in  Senato  un  certo  numero  di  persone 
che  non  aveano  avuto  uffici  di  sortaj.  Tornando  al  nostro  proposito 
gli  ordines  accennati  nel  luogo  di  Pesto  sono  certamente  gli  ordines 
che  occorrono  presso  Livio,  23,  23,  cioè  i"  la  classe  degli  ex-magi- 
strati curuli;  2"  la  classe  di  quelli  che  erano  stati  edili,  tribuni  o 
questori;  3"  Una  classe  di  gente  che  non  avea  avuto  uffici,  ma  splen- 
deva per  meriti  personali  acquistati  combattendo. 

Fu  il  noto  luogo  di  Gellio  sui  senatori  pedarii,  che  diede  origine 
al  credere  che  ordines  fossero  le  classi  degli  ex-magistrati  curuli. 
Infatti  il  Lange  (ivi),  vedendo  che  nelle  parole  di  Gellio,  3,  i8,  vien 
dato  il  iiis  sententiae  in  Senato  agli  ex-magistrati  curuli,  e  immagi- 
nando che  r  istituto  dell'  his  sententiae  sia  un  portato  del  plebiscito 
Ovinio,  ne  tirò  la  sua  conclusione.  Ma  io  credo  che  questo  istituto, 
che  consisteva  nel  dare  agli  ex  magistrati  curuli  il  diritto  di  venire 
in  Senato  a  dirvi  il  loro  parere  prima  ancora  che  essi  fossero  sena- 
tori, sia  stata  una  restrizione  del  disposto  del  plebiscito  Ovinio,  e 
quindi  sia  sorto  molto  più  tardi.  La  restrizione  la  vedo  in  ciò  :  poiché 
il  plebiscito  Ovinio  prescriveva  la  nomina  degli  optimi,  poteva  avve- 
nire facilmente  che  i  censori  non  facessero  senatore  una  persona  ap- 
partenente al  primo  di  quei  tre  ordini,  perchè  non  era  ottima,  e  in- 
vece di  essa  prendessero  una  persona  ottima  del  secondo  ordine;  ma 
una  volta  che  fu  concesso  agli  ex-magistrati  curuli  di  entrare  in  Se- 
nato ,  prima  ancora  di  essere  senatori ,  coli'  ius  sententiae  dicendae  , 
è  chiaro  che  i  censori  ebbero  più  difficoltà  a  non  far  Senatore  uno 
che  aveva  già  esercitato  questo  ius  (che  in  fondo  era  precipuo  fra  i 
diritti  dei  senatori)  per  alcuni  anni.  Secondo  me  adunque  l' istituto 
in  discorso  fu  una  restrizione  in  senso  oligarchico  del  plebiscito 
Ovinio,  e  quindi  di  data  posteriore  a  questo.  Chi  voglia  persuadersi 
di  codesto  privilegio  in  senso  oligarchico,  legga  le  notizie  liviane  sulle 
nomine  dei  senatori,  dove  troverà  che  non  avvenne  quasi  mai  che  un 
ex-magistrato  curule  ricevesse  dai  censori  uno  sfregio. 

Nomine  del  545/209,  Livio,  27,  1 1  :  «  inde  alius  leclus  senatus  octo 
praeteritis,  inter  quos  L.  Caecilius  Metellus  >. 

Nomine  del  550/204,  Livio,  29,  37:  «  notati  septem,  nemo  tamen 
qui  sella  curuli  sedisset  ». 

Nomine  del  555/199,  Livio,  ij,  7:  «  magna  inter  se  concordia  se- 
natum  sine  ullius  nota  legerunt  ». 


—  283  — 
della  tempra  di  Flaminio  era  facile  ad  indovinarsi  la  piega 
che  il  conflitto  avrebbe  presa;  forte  degli  antichi  diritti  del 


Nomine  del  560/194,  Livio,  34,  44:  «  tres  omnino  senatores,  tie- 
minem  curuli  Iionore  usum,  praeterierunt  » . 

Nomine  del  565/i89,  Livio,  38,  28:  «  Qualuor  soli  praeteriti,  iiemo 
curuli  usus  ìionore  » . 

Nomine  del  570/184,  Livio,  89,  42:  «  septem  moverunt  senatu,  ex 
quibus  unum  insignem  nobilitate  et  honoribus,  L.  Quinctium  Fla- 
mininum  consularem  ».  Ma  è  la  censura  di  Catone. 

Nomine  del  575/179,  Livio,  40,  5i:  «  censores  fideli  concordia 
senatum  legerunt tres  eiecti  de  senatu  ». 

Nomine  del  580/174,  Livio,  41,  27:  «  de  senatu  novem  eiecerunl. 
Insignes  notae  fuerunt   M.  Cornelii   Maluginensis,  qui    biennio   ante 

praetor  in   Hispania  fuerat,  et  L.  Cornelii    Scipionis  praetor  is et 

L.  Fulvi  ». 

Nomine  del  585/i69,  Livio,  43,  16:   «  septem  e  senatu  eiecti  sunt  » . 

Due  volte,  nel  570  e  nel  58o,  i  censori  furono  inesorabili  anche 
cogli  ex  magistrati  curuli  ;  ma  furono  due  casi  eccezionali,  perchè 
nel  570  era  censore  Catone,  il  nemico  giurato  della  nobiltà,  insieme 
col  suo  amico  L.  Valerio  Fiacco  ;  la  censura  del  58o  poi  passava  per 
una  censura  molto  severa  (Livio,  41,  26:  «  Moribus  regendis  diligens 
et  severa  censura  fuit  »).  Noi  vediamo  che  le  espulsioni  dal  Senato 
inflitte  agli  ex  magistrati  curuli  vennero  segnalate  dagli  storici ,  e 
e  vediamo  nello  stesso  tempo  che  ciò  avvenne  di  rado. 

A  torto  adunque  il  Lange  asserisce  che  l'istituto  àeWius  sententiae 
in  Senatu  dicendae  data  dal  plebiscito  Ovinio.  Peggio  fa  il  Willems, 
opera  citata  ,  pag.  225  e  pag.  5o  ,  asserendo  che  l' istituto  esistette 
sempre,  e  confortando  la  sua  asserzione  col  fatto  che  leggesi  presso 
Livio,  27,  8,  dove  è  narrato  che  Valerio  Fiacco,  Flamine  di  Giove, 
accampò  il  diritto  di  entrare  in  Senato  in  forza  delle  consuetudini 
antiche;  l'autore  confonde  l'essere  in  ufficio,  coH'essere  usciti  d'uf- 
ficio; a  p.  225  parla  di  magistrati  sortis  de  charf^e ,  ma  l'esempio  ci- 
tato a  p.  5o,  dove  egli  rinvia,  risguarda  quelli  che  sié^eaient  sur  la 
chaise  curule. 

Noterò  a  questo  proposito  che  i  dotti  non  pensarono  ancora  a  cer- 
care l'origine  della  singolarissima  consuetudine  del  venire  gli  ex-ma- 
gistrati curuli  in  Senato  a  dire  il  proprio  parere,  prima  ancora  di 
essere  senatori.  Accennerò  quindi  ad  una  mia  ipotesi.  Ho  avuto  oc- 
casione, nel  corso  di  questo  capitolo,  di  accennare  agli  ordini  relativi 
all'intervallo  legale  che  doveva  trascorrere  fra  il  coprire  due  uffici 
curuli.  Secondo  me  adunque,  nello  stesso  tempo  in  cui  fu  stabilito 
che  la  persona  che  copriva  un  ufficio  curule  dovesse  rimanere  almeno 
un    anno    senza  ufficio    prima  di  chiedere  un  altro  ufficio  curule,  fu 


—  284  — 
consolato    egli    non    cedette,  e,  per  sottrarsi  alla  spiacevole 
posizione  in  cui  si  trovava,  se  ne  andò  da  Roma  ,  ben  ri- 
soluto a  non  dividere  col  collega  né  i  pericoli  della  guerra, 
né  gli  onori  della  sperata  vittoria  (i). 

Come  tanti  altri,  anche  questo  conflitto  di  diritti  fu  tron- 
cato violentemente  col  fatto,  alT  altra  parte  interessata  es- 
sendo piaciuto  deporre  le  armi:,  e  la  ragione  delTarrende- 
volezza  del  Senato  fu  questa  per  fermo,  che  col  nemico  alle 
porte  e  colla  fazione  democratica  strapotente  in  casa  ,  non 
parve  quello  il  tempo  opportuno  di  contendere  di  diritti.  Non 
avendo  Flaminio  ottemperato  all'invito  di  ritornare,  fattogli 
dai  due  ambasciatori  mandati  espressamente  dal  Senato  , 
questo  lasciò  correre,  senza  appigliarsi  a  nessuno  degli  altri 
mezzi  atti  a  procacciare  ossequio  ai  propri  voleri ,  sia  ne- 
gandogli la  dispensa    dalle    formalità  incombenti    ai    nuovi 


stabilito  altresì  che  cotesta  persona,  finché  non  potesse  chiedere  e  ot- 
tenere il  secondo  ufficio,  avesse  il  diritto  di  venire  in  Senato  a  dirvi 
il  proprio  avviso,  e  di  essere  presa  in  considerazione  nelle  prossime 
nomine  senatorie.  Fu  dato  il  ius  sententiae  ,  come  un  compenso  al- 
l'interruzione che  le  leggi  sull'intervallo  cagionavano  nella  carriera 
degli  uffici. 

(i)  H.  NissEN  [Rhein.  Miis.,22,  565-586;  Die  Schlacht  ain  Trasi- 
menus)  opina,  a  pag.  578  segg.,  che  i  consoli,  d'accordo,  mirassero  a 
dar  battaglia  uniti  al  nemico,  per  rinnovare  i  fatti  di  otto  anni  in- 
nanzi, quando  i  Galli,  presi  in  mezzo  dai  due  eserciti  consolari,  toc- 
carono quella  rotta  che  diede  tanto  nome  a  Telamone.  Ihne  {Róm. 
Gescli.,  2,  173  segg.)  è  dello  stesso  parere.  Io  ho  spiegato  finora  che 
il  solo  savio  partito  era  quello  di  congiungere  i  due  eserciti  consolari, 
e  consento  che  il  console  Servilio  aderisse  di  buon  grado  a  tale  idea, 
ma  nego  che  Flaminio  vi  aderisse.  Gli  scrittori  dicono  che  Flaminio, 
consigliato  ad  aspettare  il  collega,  non  si  arrese  a  questi  consigli.  Si 
dice  che  queste  sono  calunnie  degli  storici,  un'asserzione  che,  parmi, 
vorrebbe  essere  dimostrata,  da  chi  la  pronuncia,  un  po'  meglio.  Ma 
i  fatti  non  diinno  forse  ragione  agli  storici  ?  Perchè  i  due  consoli 
non  partirono  insieme  subito  dapprincipio  ?  O  se  dapprima  conve- 
niva che  l'uno  spiasse  le  mosse  nemiche  in  Etruria  e  l' altro  nella 
Gallia,  perchè  Flaminio  non  aspettò  poi  il  collega,  prima  di  azzuf- 
farsi con  Annibale  ? 


-  285  - 
consoli,  cosa  che  avrebbe  messo  Flaminio  nel  rischio  di  non 
venir  riconosciuto  dalle  legioni  per  generale  legittimo,  e 
quindi  nella  necessità  di  ritornare  (i),  sia  aggiungendo  ai 
due  ambasciatori  qualche  tribuno  della  plebe  che  lo  ricondu- 
cesse a  forza  (2),  sia  facendone  annullare  reiezione  (3),  sia 
facendone  proporre  nei  comizi  la  deposizione  {4).  Nulla  di 
tutto  questo;  il  Senato  cedette  (5),  sebbene  fosse  destino 
che  a  breve  andare  esso  avesse  a  mettere  i  consoli  intera- 
mente sotto  di  se. 

Partito  da  Roma  Flaminio  si  recò  a  Rimini  a  prendere, 
d^intesa  col  collega,  il  comando  delle  legioni  che  già  prima, 
per  le  ragioni  dette  in  una  delle  note  anteriori ,  aveano 
avuto  l'ordine  di  raccogliersi  colà.  Erano  le  quattro  legioni 
decimate  sulla  Trebbia  ed  ora,  naturalmente,  rifornite  d'uo- 
mini. Così  avvenne  che  nel  giorno  in  cui  entrò  in  carica 
(i5  marzo)  egli  trovossi  a  Rimini,  non  già  che,  come  narra 
Livio ,  egli  avesse  voluto  preferire  Rimini  ad  ogni  altro 
luogo.  Poi  ,  appena  intese  che  il  nemico  aveva  preso  la 
strada  dell'Etruria,  andò  a  quella  volta.  Intanto  a  Roma  fu 
deciso    che    il    console  Servilio,  con  altre  legioni   (quattro, 


(lì  Così  accadde  a  C.  Claudio  uno  dei  consoli  del  577/177;  cf. 
Livio,  41,   io.  Abbiamo  già  discorso  di  ciò  in  una  nota  anteriore. 

(2)  Il  Senato  era  proceduto  così,  quasi  un  secolo  innanzi,  contro  il 
console  Q.  Fabio;  cf.  Livio,  9,  36,  14  ,  e  fu  lì  lì  per  ripetere  l'e- 
sempio nel  549/205  contro  il  console  P.  Scipione;  cf.  Livio,  29,  20. 

(3)  Come  era  avvenuto  al  nostro  Flaminio  e  al  collega  di  lui  nel 
53 1/223,  cosa  che  abbiamo  già  ricordato  altrove. 

(4)  In  quell'anno  stesso  537/217  i  tribuni  macchinarono  di  proporre 
al  popolo  che  destituisse  dall'ufficio  il  dittatore  Fabio  Massimo,  ac- 
cusandolo di  tirar  in  lungo  a  bella  posta  la  guerra  (Livio,  22,  25, 
io).  E  più  tardi  ci  fu  chi  pensò  a  far  cosi  contro  il  grande  Scipione 
nel  suo  consolato  del  549/205  (Livio,  29,   19.  6). 

(5)  Quindi  non  mi  pare  esatto  il  dire  del  Mommsen  [Staatsrecht  , 
1,  590,  seconda  edizione)  che  in  quell'occasione  il  Senato  non  fosse 
disposto  a  transigere. 


-  286  - 
come  vedremo),  si  recasse  a  tenere  in    soggezione   il  paese 
dei  Galli  Senoni. 

Quando  gli  storici  antichi  scrivono  che  a  Flaminio  toccò 
r  Etruria,  e  a  Servilio  la  Gallia  che  avea  per  capoluogo 
Rimini  (i),  essi  espongono  soltanto  lo  scioglimento  defini- 
tivo della  questione  sulle  provincie  consolari  ,  senza  tener 
conto  delle  peripezie  per  le  quali  essa  era  passata,  e  dalle 
quali  si  deve  ripetere  il  procedere  violento  di  Flaminio  '2). 

Ed  ora  che  abbiam  detto  a  sufficienza  di  ciò,  ritorniamo 
indietro  un  momento,  al  piano  di  guerra,  per  vedere  come 
sia  stata  risolta  la  terza  di  quelle  questioni  capitali,  quella 
che  concerneva  il  numero  delle  legioni  da  allestire,  consa- 
crando ad  essa  il  capitolo  seguente. 


(i)  Polibio,  3,  77,  1;  3,  88,8;  cf.  Appiano,  Hawi.,S;  Livio,  22, 
9 ,  ó.  Prima  di  partire  Servilio  eseguì  ,  a  nome  ,  ben  inteso  ,  del 
collegio  consolare,  quanto  ai  consoli  spettava  di  fare  prima  di  lasciar 
Roma  :  egli  convocò  da  solo  il  Senato  ,  fece  una  parte  almeno 
degli  arruolamenti,  espiò  i  prodigi,  ecc.  (Livio,  22,  1-2).  A  propo- 
sito dell'espiazione  dei  prodigi  compiuta  da  Servilio  non  posso  pas- 
sare sotto  silenzio  quello  che  testé  ebbe  a  scrivere  un  critico  tedesco, 
il  prof.  Gottlob  Egelhaaf  [Jahrbiicher  filr  Phil.  iind  Pad..  Supple- 
mentband,  io,  5o6),  il  quale  asserisce  che  gli  storici  gliela  attribui- 
rono soltanto  per  mettere  in  evidenza  maggiore,  rilevando  la  pietà 
di  lui,  l'empietà  di  Flaminio,  Tale  asserzione  può  appena  passare 
per  uno  scherzo,  perchè  sappiam  bene  che  i  consoli  espiando  i  pro- 
digi non  attestavano  un  loro  sentimento  religioso  personale ,  ma 
adempivano  una  delle  loro  attribuzioni. 

(2)  Dalle  cose  dette  emerge  un  giudizio  preciso  e  nuovo  sull'ope- 
rato di  Flaminio.  II  partire  prima  del  i5  marzo,  in  sé,  non  era  né 
colpa  né  merito,  era  procedimento  eccezionale  che  in  altre  circostanze 
sarebbe  stato ,  non  soltanto  approvato  ,  ma  deliberato  addirittura. 
Colpa  di  Flaminio  fu  l'aver  fatto  un  passo  eccezionale,  senza  che  i 
poteri  competenti  per  le  misure  eccezionali  lo  avessero  ordinato. 


287 


CAPITOLO  TERZO 


Sulle  legioni  allestite  per  aprire  la  campagna 
del  b'ò^l-ix']  (i). 


Essendo  prevalso  il  partito  di  accettare  una  battaglia  de- 
cisiva, ci  volevano  molte  forze,  tanto  più  che  P'iaminio  era 
risoluto  di  darla  col  solo  proprio  esercito,  e  che  quattro 
legioni  riunite  non  erano  bastate  sulla  Trebbia  a  far  fronte 
al  nemico*,  questo  serva  di  risposta  agli  storici  moderni,  i 
quali  credettero  che  quella  campagna  sia  stata  incominciata 
con  quattro  sole  legioni  (2). 


(i)  Ne  diedi  un  cenno  negli  Atti  deW Accademia  dei  Lincei  (serie  3', 
voi.  V,  pag.  23 1  segg.).  Adesso  aggiungerò  quello  che  allora  non  ho 
detto. 

(2)  Il  NiEBUHR  (nella  decima  lezione  di  storia  romana)  non  parla 
di  apparecchi  straordinari  e  quindi  suppone  le  quattro  solite  legioni 
consolari.  Peggio  il  Duruy  Histoires  des  Romains,  i,  562  segg.)  che 
non  si  occupa  punto  delle  legioni  consolari.  Atto  Vannucci  le  crede 
quattro  (Storia  delVItalia  antica,  2,  341  segg.),  e  così  pure  il  Momm- 
SE.M  [Rom.  Gesch.,  i,  588,  terza  edizione),  il  quale  asserisce  espressa- 
mente che  non  eran  necessari  apparecchi  straordinari  (Fiir  den  Feldzug 
des  Jahres  53-  wurden  in  Rom  keine  ausserordentlichen  Anstren- 
gungen  gemacht  ;  der  Senat  betrachtete,  und  nicht  mit  Unrecht,  irotz 
der  verlorenen  Schlacht  die  Lage  noch  keineswegs  als  ernstlich  ge- 
fahrvoll)  e  che  i  due  consoli  non  ebbero  nuove  truppe  se  non  per  ri- 
fornire le  quattro  legioni  vecchie.  L'Ihne  (Rom.  Geschichte,  2,  171) 
fece  un  passo  innanzi  tenendo  conto  del  luogo  di  Appiano  di  cui 
diremo,  ma  nell'  interpretarlo  egli  non  procedette  colla  serietà  do- 
vuta, e  giunse  a  conclusioni  erronee.  Il  Seeck  [Hermes,  8,  164)  seb- 
bene abbia  discorso  della  cosa  dopo  l'  Ihne,  non  tenne  conto  delle 
notizie  di  Appiano. 


-  288  - 

Le  fonti  antiche  non  furono  esaminate  a  dovere-,  Polibio 
accenna  soltanto  in  termini  generali  a  quegli  apparecchi  (i), 
e  Livio,  tutto  intento  a  narrare  la  partenza  di  F'Iaminio, 
dimentica  di  riferire  i  provvedimenti  presi  sulle  legioni  e 
sulle  Provincie  -,  ma  e'  è  un  luogo  di  Appiano  che  ha  un 
valore  inestimabile  e  che  ancora  non  venne  ben  capito.  Ecco 
questo  luogo  : 

u  1   Romani raccolsero  altre   truppe  di    cittadini    in 

«  modo   da  fare,  con  quelle   che  trovavansi  sul   Po,  tredici 

«  legioni,  e  ne  intimarono  due  volte  tanto  agli  alleati 

«  E    di    esse    parte  spedirono    in    Ispagna,  parte    in    Sar- 

«  degna parte    in    Sicilia.   Ma    la   più  parte    condus- 

«  sero    contro    Annibale   Cn.    Servilio  e  C.  Flaminio   suc- 

«  cessori    di    Scipione    e  di   Sempronio  nel  consolato 

«  Flaminio  difese  Tltalia  pcìsta  al  di  qua  dei  monti  Appen- 
«  nini  con  trenta  mila  uomini  a  piedi  e  tre  mila  a  cavallo  (2)... 
«  Servilio  con  quaranta  mila  uomini  aiVrettavasi  alla  volta 
«  delPEtruria,  ctc.  »  (3). 

Se  i  ragguagli  di  Appiano  han  qualche  valore,  la  somma 
totale  delle  legioni  allestite  in  principio  del  637/217  fu  di 
tredici,  e  ciascuno  dei  consoli  ne  comandò  quattro  (4).  L^es- 
senziale  sarebbe  trovato,  e  il  poco  che  manca  non  sarebbe 
difficile  a  scoprirsi. 

Ora  il  valore  di  cotesti  ragguagli  mi  pare  indubitato,  per 
le  seguenti  considerazioni  : 


(1)  l'oLuuo,  ■>,  75,  4  segg. 

(2)  Appiano,  Hann.,  S. 

(3)  Appiano,  Hami.,  io. 

(4)  Il  numero  di  35  o  40  mila  uomini  arguisce  quattro  legioni;  cf. 
la  mia  dissertazione,  Tentativo  di  critica  sui  luoghi  liviani  ecc.  negli 
Atti  deir Accademia  dei  Liìicei,  serie  3*.  classe  di  scienze  morali,  ecc.. 
voi.  Vi,  nell'ultima  nota  del  primo  capitolo.  Forse  le  quattro  legioni 
di  Flaminio  non  furono  rifornite  abbastanza  d'uomini,  per  le  ragioni 
che  vedremo  ;  quindi  ebbe  solo  ^^  mila  uomini. 


-  289  - 

,a  p,^p(.  (.|-,(>  Appiano  abbia  desunto  questi  ragguagli 
dalla  migliore  delle  fonti,  da  Fabio  Pittore,  romano  e  con- 
temporaneo di  que'  fatti.  Di  fatto.  Appiano  ,  narrando  la 
guerra  d'Annibale,  lo  cita  chiamandolo  tòv  (TuTTP«cpéa  Tujvòe 
TuJv  è'pTUJV  (i).  Or  questa  cita/ione,  e  l'aver  Fabio  scritto  in 
greco,  sono  sempre  stati  considerati  come  due  indizi  (2)  com- 
provanti che  Appiano  attingesse  il  racconto  di  quella  guerra  a 
questo  che  la  vide  e  che  è  il  più  antico  storico  dei  Romani.  C'è 
un'altra  circostanza:  i  particolari  sulle  legioni,  e  in  generale 
sugli  apparecchi  militari  dei  Romani,  interessavano  natu- 
ralmente gli  annalisti  romani  ma  non  gli  stranieri  che  scris- 
sero di  Roma,  il  che  significa  che  lo  scrittore  che  forni  ad 
Appiano  le  notizie  circonstanziate  sugli  eserciti  del  537/217 
fu  romano ,  dunque  Fabio ,  che  oltre  di  essere  T  unico 
autore  nominato  dallo  storico  alessandrino  in  questa  parte 
della  sua  opera,  e  altresì  un  romano,  (rè  un'ultima  circo- 
stanza in  favore  di  Fabio,  il  quale,  infatti,  pare  che  sia 
stato  spesso,  per  quanto  concerne  gli  apparecchi  militari, 
la  fonte  a  cui  attinsero  gli  storici  venuti  dopo  (3). 

2^^  La  fonte  prima  di  tutti  i  particolari  sulla  somma  e 
sulla  divisione  delle   truppe  e  delle    provincie  fu    una  sola, 


(i)  Hann.,  27. 

(2)  Dal  Nicbuhr  nella  nona  delle  lezioni  sulle /on//  della  storia  ro- 
mana, e,  dopo  di  lui,  da  tutti  gli  altri  in  generale. 

(3)  Certo  le  notizie  relative  agli  armamenti  immensi  del  520/225, 
contro  i  Galli,  pervenutici  presso  sei  scrittori  (Poi.inio  ,  2.  24;  Dio- 
DORO,  25,  i3 -,  Livio,  epit.  20;  Plinio,  Nat.  hist.,  3,  20,  i38;  Eu- 
tropio, 3,  5;  Orosio  ,  4,  i3),  provengono  appunto  da  Fabio.  Ne 
provengono,  perchè  Eutropio  ed  Orosio  lo  citano  ;  e  la  loro  citazione 
prova  che  lo  avea  citato  Livio,  al  quale  essi  attinsero  la  citazione  e 
le  notizie  in  questione.  Ne  provengono  ,  inoltre  ,  perchè  questi  sei 
scrittori  che  ce  le  danno  son  concordi  tutti  egregiamente  l'uno  col- 
l'altro  (cf.  MoMMSKN,  Hermes,  1 1,  49  scgg.  e  RiJin.  Forsch.,  2,  382  segg. 
Anche  in  Livio  la  cifra  totale  dc:;li  armati  è  di  DCCC  non  di  CCC). 


-  290  — 
furono  i  decreti  del  Senato  (i).  Quindi,  qualunque  sia  lo 
storico  usato  da  Appiano,  cotesti  ragguagli  provengono  ad 
ogni  modo  dai  decreti  del  Senato,  e  se  prestiamo  loro  intera 
fede  quando  li  leggiamo  presso  Livio  (2),  non  e'  è  ragione 
di  non  far  altrettanto  questa  volta  che  per  caso  se  ne  trova 
anche  presso  Appiano. 

■>  Confrontando  il  luogo  sopra  riferito  di  Appiano, 
colla  descrizione  polibiana  degli  apparecchi  fatti  dai  Romani 
dopo  la  battaglia  della  Trebbia,  si  scopre  che  Tuno  e  Taltro 
di  questi  due  storici  seguirono  il  medesimo  autore,  qui  : 


«  I  Romani raccolsero  altre 

«  truppe  cittadine  in  nìodo  da 
«  formare,  con  quelle  che  trova- 
«  vansi  sul  Po,  tredici  legioni,  e 
«  ne  intimarono  due  volte   tanto 

«  agli  alleati e  di   esse  parte 

«  spedirono  in  Ispagna,  parte  in 

«  Sardegna parte    in    Sicilia. 

«  Ma  la  più  parte  la  condussero 
«  contro  Annibale  Cn.  Servi lio  e 
«  C.  Flaminio  successori  di  Sci- 
«  pione  e  di  Sempronio  nel  con- 
«  solato  ».  (App.,  Hann.,  8). 


«  I   Romani energicamente 

«  si  diedero  ad  apparecchiarsi  e 
«  a  munire  i  luoghi  esposti  man- 
fi  dando  legioni  in  Sardegna  e  in 
«  Sicilia,  e  presidii  a  Taranto  e 
v<  dovunque  occorresse...  Gn.  Ser- 
«  vilio  e  C.  Flaminio,  allora  fatti 
«  consoli,  raccoglievano  gli  alleati 
<  e  arruolavano  le  legioni  » . 

(PoL.,  3,  75.  4). 


Polibio,  conforme  alTeconomia    delle  sue  storie ,   indugiò  a 
narrare  Tinvio  delle  truppe  in  Ispagna,  per  inserire  questa  no- 


(i)  Gf.  l'introduzione  alla  mia  memoria  Tentativo  di  critica  sui 
luoghi  liviani  ecc. 

(2)  A  cominciare  dal  536/2 18  (solo  un  paio  di  volte  nella  prima 
decade:  2,  3o,  7;  7,  25,  8)  Livio  espone- regolarmente,  meno  qualche 
eccezione,  il  prospetto  delle  Provincie  e  delle  legioni  di  ogni  anno, 
e  ciò  prima  di  dar  principio  al  racconto  dei  fatti.  L'anno  537/217  è 
appunto  una  di  queste  eccezioni,  quindi  le  notizie  di  Appiano  ven- 
gono in  taglio  per  colmare  questa  lacuna  di  Livio. 


-  291  — 
tizia  là  dove  egli  espone  le  vicende  seguite  in  quel  paese  (i). 
Nel  resto  la  concordanza  dei  due  storici  è  evidente  (2).  Or- 
bene, Appiano  non  può  aver  desunto  queste  notizie  da  Po- 
libio, perchè  egli  ne  ha  qualcheduna  di  più-,  dunque  tale 
concordanza  dimostra  che  V  uno  e  Taltro  storico  attinse  ad 
una  medesima  fonte.  Quindi  Appiano  in  questo  luogo  me- 
rita la  stessa  fede  che  diamo  a  Polibio. 

4'*^  Finalmente,  se  si  fa  un  esame  accurato  di  tutte  le 
forze  sparse  in  Italia  e  fuori  sul  principio  del  537/217,  e 
si  tien  conto  soltanto  delle  legioni  ,  si  troverà  che  queste 
furono  appunto  tredici  in  tutto.  Facciamo  questo  esame. 
Occorre  perciò  che  c'informiamo  precisamente  dei  consoli  e 
proconsoli,  pretori  e  propretori  d'allora,  e  delle  loro  truppe. 
Veniiono  prima  di  tutti  i  due  consoli,  e  poi  i  governatori 
delle  due  Provincie  possedute  a  quel  tempo  da  Roma,  che 
erano  la  Sicilia  e  la  Sardegna;  questi  quattro  erano  i  duci 
ordinari  degli  eserciti  di  quell'anno.  Duci  straordinari  non 
ce  n'erano,  all' infuori  che  in  Ispagna,  dove  nel  536/2 18 
erasi  recato  Gn.  Scipione  in  qualità  di  luogotenente  del  con- 
sole Publio  suo  fratello  (che  avea  sortito  la  Spagna  per 
combattervi  Annibale,  ma  era  ritornato  in  Italia,  quando, 
strada  facendo,  s'incontrò  col  nemico  che  stava  per  valicare 


(i)  Polibio,  3,  97,   i. 

(2)  Appiano  e  Polibio  attinsero  qui  ad  una  medesima  fonte,  ma 
ciascuno  a  modo  suo.  Oltre  all'  avere  trasferito  altrove  il  ragguaglio 
sulle  forze  mandate  in  Ispagna,  Polibio  lasciò  fuori  i  particolari  mi- 
nuti sulla  somma  delle  legioni  e  sulla  divisione  di  esse  fra  i  varT 
duci,  perchè  queste  cose  non  avevano  interesse  alcuno  pei  Greci,  pei 
quali  egli  scriveva.  Appiano  invece  non  lasciò  fuori  tutto  a  bella 
posta,  ma,  compendiando  secondo  la  sua  consuetudine,  tacque  il  nu- 
mero delle  legioni  mandate  in  Sicilia  ed  in  Sardegna,  tacque  l'invio 
del  presidio  mandato  a  Taranto,  e,  parlando  delle  truppe  consolari, 
ne  disse,  non  le  legioni,  ma  le  migliaia  per  comprendere  insieme  i 
legionari  e  i  socii.  I.a  fonte  comune  dei  due  storici  deve  essere  Fabio 
Pittore. 


-  292  - 
le  Alpi),  e  poco  dopo,  nel  corso  del  537/217,  vi  si  recò  lo 
stesso  Publio  con  autorità  di  proconsole. 

a)  Legioni  del  console  Flaminio.  Per  incidenza  L,ivio 
gli  attribuisce  quattro  legioni  (i),  e  a  quattro  legioni  cor- 
rispondono per  r appunto,  come  notammo,  i  33  mila  uo- 
mini che  Appiano  nel  luogo  riferito  gli  attribuisce.  Si 
aggiunga  che  anche  le  cifre  delle  perdite  romane  al  Trasi- 
meno suppongono  un  esercito  dai  3o  ai  35  mila  uomini  (2). 
Non  c'è  bisogno  di  più  per  persuadersi  che  Flaminio  co- 
mandò quattro  legioni,  sebbene    un  po'  scarse  ,  e  quasi  in- 


(1)  21,  63,  «  legionibus  inde  ÌK(j^»5  a  Sempronio  prioris  anni  con- 
sule,  duabiis  a  C.  Atilio  praetore  acceptis,  in  Etruriam  per  Appen- 
nini iramites  exercitus  duci  est  coeptus  ». 

(2)  Secondo  Fabio  Pittore  perirono,  in  quella  battaglia,  i5  mila 
uomini  (Livio,  22,  7),  se  ne  ridussero  in  salvo  io  mila  (Livio,  ivi), 
e  ne  furono  presi  prigioni  6  mila  (Livio  ,  22,  6.  8.  Evidentemente 
Livio  attinge  qui  a  Fabio  Pittore  nominato  poco  dopo;  in  tutto  3i 
mila.  Secondo  Polibio  perirono  nel  passo  angusto  dove  seguì  la  bat- 
taglia (kotò  tòv  aùXuJva,  Pol..  3,84,  7)  i5  mila  uomini;  prigioni  piìi 
che  altrettanti  (3,  85,  i)  ;  s'aggiungano  quelli  che,  non  essendo  ancor 
giunti,  quando  cominciò  la  battaglia,  in  quel  passo,  vennero  spinti 
nel  lago  stesso  a  morirvi  ancor  più  miseramente  (3,  84,  8:  oi  6è  kotò 
TTopeiav  incToEù  -cric,  XijLivri^  koì  Tri;  fraptupeia^),  e  si  va  a  forse  34  mila 
uomini.  Secondo  Appiano  {Hann.,  io)  perirono  20  mila  uomini  e  ne 
furono  presi  prigioni  io  mila;  queste  sono  naturalmente  cifre  ro- 
tonde. Valerio  Massimo,  Plutarco,  Eutropio  ed  Orosio  ripetono  più 
o  meno  fedelmente  le  cifre  di  Fabio  Pittore  e  di  Livio.  Valerio 
Massimo  (i,  6,  6)  scrive  che  furono  uccisi  i5  mila  uomini,  6  mila 
presi  prigioni,  e  io  mila  fugati,  che  sono  le  cifre  di  Livio  tali  e  quali. 
Plutarco  {Fab.  Mass.,  3)  dice  che  ne  perirono  i5  mila  e  ne  furon 
presi  prigioni  altrettanti,  che  sono  le  cifre  di  Polibio;  Eutropio  che 
ne  perirono  1 5  mila  (3,  9)  che  è  la  cifra  di  Fabio  e  di  Livio;  infine 
Orosio  (4,  1 5)  che  ne  perirono  25  mila  (che  è  la  somma  delle  due 
prime  cifre  di  Fabio  Pittore)  e  ne  caddero  prigioni  ó  mila  (che  è  la 
terza  cifra  di  Fabio  Pittore),  —  Questi  dati  sulle  perdite  fatte  dai 
Romani  lasciano  arguire  un  esercito  dai  33  ai  35  mila  uomini  (non  di 
40  mila  come  dice  il  Seeck,  Hermes,  8,  164),  ossia  quattro  legioni, 
sebbene  un  po'  scarse,  e  ciò  per  la  fretta  che  Flaminio  ebbe  di  par- 
tire. 


-  293  — 
teramente   composte    di   soldati  novizi  (i).  Anche  il  Seeck 
gli   dà    quattro  legioni  -,  Plhne  non  è  chiaro  (2). 

P)  Legioni  del  console  Servilio.  Nel  passo  surriferito 
Appiano  gli  attribuisce  40  mila  uomini  ,  dunque,  quattro 
forti  legioni,  cosa  che  si  sarebbe  potuta  indovinare  senza 
altro,  perchè  le  legioni  consolari  dividevansi  in  parti  uguali 
fra  i  due  consoli.  Ma  i  due  critici  ora  citati  s'  accordano 
nel  dire  che  quel  console  ne  ebbe  due  sole  -,  il  Seeck  dice 
anche  il  perchè:;  poiché  Fabio  Massimo,  quando  fu  creato 
dittatore  dopo  la  battaglia  del  Trasimeno,  disse  che  avrebbe 
preso  l'esercito  di  Servilio  ed  aggiunto  ad  esso  due  nuove 
legioni  (Livio,  22,  11),  e  l'esercito  di  Fabio  fu  poscia  di 
quattro  legioni  (Livio,  22,  27,  io-,  cf.  Plutarco,  Fabio 
Massimo,  io),  quelle  di  Servilio,  conchiude  il  Seeck,  erano 
state  due  legioni. 

Questo  ragionamento  è  più  specioso  che  altro.  Voler  de- 
durre il  numero  delle  legioni  di  Servilio  dai  dati  molto  poste- 
riori riferentisi  a  quelle  di  Fabio,  e  ciò  trattandosi  di  tempi 
straordinari  in  cui  ogni  istante  si  fecero,  inevitabilmente, 
notevoli  movimenti  nei  corpi  d'esercito,  sia  arruolando 
nuove  truppe,  sia  mandandone  altre  da  questo  a  quel  luogo, 
mi  pare  per  lo  meno  un  metodo  pericoloso,  e  ne  do  subito 
la  prova.  Polibio  (3,  88,  7-8)  narra,  in  contraddizione  con 


(i)  Il  nucleo  delle  quattro  legioni  che  avean  combattuto  sulla 
Trebbia,  e  che,  rifornite  d'uomini,  furono  poi  comandate  da  Fla- 
minio, era  stata  trucidato  in  quella  battaglia  ;  la  più  parte  di  quelli 
che  ora  le  componevano  erano  dunque  reclute;  quindi  si  spiega 
perchè  Polibio  faccia  dire  a  Paolo  Emilio  in  principio  del  538/2 16 
che. una  delle  cagioni  delle  sconfìtte  precedenti  era  stata  questa,  che 
le  truppe  romane  erano  state  reclute  non  abbastanza  addestrate  (Po- 
libio, 3,  108,  6). 

(2)  L'Ihne  attribuisce  a  Flaminio  le  reliquie  delle  4  legioni  deci- 
mate alla  Trebbia  ,  più  due  legioni  ;  dunque  o  sei  o  due  legioni. 
Questa  opinione  la  discuteremo  fra  poco. 


—  294  - 

Livio  (22,  11),  che  quando  Fabio  venne  creato  dittatore, 
parti  da  Roma  con  quattro  legioni  arruolate  allora  al- 
lora-, supponiamo  che  il  Seeck  fosse  partito  da  questa  no- 
tizia confrontandola  con  quella  di  Livio  sulT  esercito  di 
Fabio  ;  egli  avrebbe  conchiuso  non  più  che  le  legioni  di 
Servilio  erano  state  due,  ma  che  Servilio  non  avea  avuto 
legioni  di  sorta,  e  sarebbe  così  caduto  neir  assurdo.  Ciò 
mostra  il  pericolo  del  giovarsi,  in  coteste  cose,  di  ragguagli 
del  tempo  posteriore. 

Il  partito  più  savio  è  dunque  evidentemente  questo:  non 
lasciarsi  confondere  dalle  notizie  indirette  contraddicenti 
Tuna  all'altra,  e  stare  alla  sola  notizia  diretta,  che  è  quella 
di  Appiano;  e  così  facciamo,  computando  a  quattro  le  le- 
gioni di  Servilio ,  e  passando  innanzi ,  e  ponendo  in  nota 
alcune  considerazioni  che  varranno  forse  a  portar  luce  nella 
questione  toccata  ora  (i). 


(i)  Bisogna  considerare  non  solo  le  truppe  del  537/217,  ma  anche 
quelle  del  538/2 16.  Ecco  i  ragguagli  che  abbiamo  negli  storici  an- 
tichi : 

a)  Livio,  22,  11,  2-3,  narra  che  il  dittatore  arruolò  due  legioni 
da  aggiungere  all'esercito  di  Servilio. 

P)  Poco  dopo  lo  stesso  Livio,  22,  11,  7-9,  narra  che  si  arruola- 
rono molti  uomini,  perfino  libertini;  chi  aveva  meno  di  35  anni  fu 
messo  a  servire  sulla  flotta,  gli  altri  rimasero  di  presidio  a  Roma. 

Y)  Polibio,  3,  88,  7-8,  narra  che  il  dittatore  Fabio  si  arruolò 
quattro  nuove  legioni,  e  prese  inoltre  le  truppe  di  Servilio. 

ò)  Livio,  22,  36,  narra  che  in  principio  del  538/2 16  vennero  ar- 
ruolate nuove  truppe,  benché  le  fonti  antiche  discordassero  sul  nu- 
mero di  esse;  secondo  alcuni  si  fecero  4  nuove  legioni. 

e)  Appiano,  Hann.^  17,  narra  che  furono  allestite  quattro  nuove 
legioni;  quando?  Parrebbe  verso  la  fine  del  537,  perchè  l'autore 
passa  poi  subito  a  narrare  l'elezione  dei  consoli  per  l'anno  538.  . 

e)  Polibio,  3,  106,  4,  accenna  a  nuove  legioni  allestite  in  prin- 
cipio del  538/216;  cf.  Polibio,  3,  107,  g.  —  Dal  tutto  si  vede  :  i"  che 
dopo  la  battaglia  del  Trasimeno  arruolaronsi  molte  truppe;  2"  che 
ci  fu  un  momento  in  cui  partirono  da  Roma  4  legioni  ;  del  resto  le 
6    notizie    sono    inconciliabili  fra  di  loro.  Se  è  lecito    presumere    di 


-  295  - 
t)  Legioni  di  Sicilia.  Che  in  Sicilia  siano  state  man- 
date, dopo  la  battaglia  della  Trebbia,  alcune  truppe,  ce  lo 
dicono  Appiano  {Hann.,  8)  e  Polibio  (3,  75,  4)  nei  luoghi 
già    esaminati.  E    vedesi  poi  da  calcoli  indiretti  che  quelle 


voler  ordinare  ragguagli  così  disordinati,  io  direi  che  il  ragguaglio  a 
è  una  mera  ipotesi  degli  annalisti,  i  quali,  sapendo  che  l'esercito  del 
dittatore  Fabio  era  forte  di  quattro  legioni  (Livio  ,  22,  27,  io)  e 
credendo  che  Servilio  avesse  comandato  due  legioni  (per  solilo  l'eser- 
cito di  un  console  consisteva  di  due  legioni),  era  naturale  che  opi- 
nassero che  Fabio  si  fosse  arruolato  due  nuove  legioni  da  aggiungere 
all'esercito  di  Servilio.  —  Vero  sarebbe  invece  il  ragguaglio  p,  e  le 
truppe  rimaste  di  presidio  a  Roma  saranno  state  due  legioni;  infatti 
le  legioni  urbane  o  di  presidio  erano  per  solito  in  numero  di  due. 
—  Le  quattro  legioni  di  cui  parla  Polibio  (ragguaglio  y)  sarebbero 
le  4  legioni  di  Servilio,  non  legioni  nuove.  —  Le  quattro  legioni  di 
cui  parla  Appiano  (ragguaglio  e)  e  una  delle  fonti  di  Livio  (rag- 
guaglio ò),  sarebbero  le  truppe  arruolate  pel  538,  delle  quali  parla 
Polibio  (ragguaglio  e,). 

In  cai  modo  Servilio,  e,  dopo  di  lui,  Fabio  Massimo  ,  avrebbe 
avuto  4  legioni.  Due  legioni  si  sarebbero  bensì  arruolate  dopo  la 
battaglia  del  Trasimeno,  ma  tenendole  a  Roma  di  riserva  e  di  pre- 
sidio nello  stesso  tempo,  per  farle  partire  pel  campo,  al  solito,  in  prin- 
cipio del  538/2x6,  insieme  con  altre  quattro  arruolate  allora.  Si  ca- 
pisce, in  tal  modo,  perchè  in  principio  del  538/2 16  si  trovassero  in 
campo  (parliamo  dell'Italia,  non  delle  provincie)  dieci  legioni  ,  cioè 
8  contro  Annibale  (Polibio,  3,  107,  9),  e  due  contro  i  Galli  (Livio, 
23,  24,  6  segg.;  cf.   Polibio,  3,    106,  6). 

Un'osservazione.  Quando  Polibio,  3,  107,  9,  accenna  ad  otto  le- 
gioni del  533/216,  come  a  cosa  fin  là  senza  esempio,  egli  intende 
parlare  delle  otto  legioni  raccolte  in  un  solo  corpo  J'  esercito  sotto  i 
due  consoli,  non  alla  somma  totale  delle  legioni  che  fu  molto  mag- 
giore in  principio  del  538/2 16,  e  che  era  stata  molto  maggiore  anche 
nel  537/217,  e  che  talora  avea  raggiunto  per  lo  meno  quella  cifra  anche 
in  antico  (Livio,  2,  3o,  7  ;  Livio,  7,  25,  8  ;  cf.  Eutropio,  2,  3;  Orosio 
3,  6),  per  tacere  del  529/225.  Perciò  questo  luogo  di  Polibio  (forse 
franteso  generalmente  come  se  lo  storico  dicesse  che  quella  era  la 
prima  volta  che  i  Romani  avevano  messo  in  piedi  otto  legioni)  non 
impedisce  che  crediamo  che  Flaminio  e  Servilio  ebbero  ciascuno 
quattro  legioni  ;  essi  ebbero  otto  legioni  fra  lutti  e  due ,  ma  i  loro 
eserciti  non  formavano  un  sol  corpo  e  quindi  restava  sempre  vero 
che  le  otto  legioni  consolari  congiunte  insieme  nel  538/2 16  erano  un 
fatto  senza  precedenti. 


-  296  - 
truppe  ammontavano  probabilmente  a  due  legioni.  Infatti 
in  tutto  il  resto  del  537/217  e  in  tutto  il  538/2  16  non  oc- 
corre menzione  di  altre  truppe  mandate  in  queir  isola,  e 
nondimeno  in  principio  del  539/215  vi  erano  attendate  due 
legioni  (Livio,  23,  25,  7);  dunque  queste  due  legioni  si 
trovavano  colà  fin  dal  principio  del  537/217. 

ò)  Legioni  di  Sardegna.  Anche  in  Sardegna  vennero 
spedite  alcune  forze,  come  in  Sicilia  (Appiano  e  Polibio,  ivi). 
Or  siccome  nei  due  anni  seguenti  Pisola  non  ricevette  nuove 
truppe  salvochè  una  legione  nel  539/215  (Livio,  23,  24, 
i3),  e  tuttavia  in  principio  del  540/214  la  guarnigione  di 
quella  provincia  ammontava  a  due  legioni  (Livio,  24,  11, 
2),  ne  inferisco  che  in  principio  del  537/217  il  presidio  di 
essa  constava  di  una  sola  legione. 

Non  mancano  più  che  due  legioni  per  andare  a  tredici. 
Eranvi  forse  due  legioni  in  Ispagna  ?  In  apparenza  sì,  in 
realtà  no,  perchè  le  truppe  che  vi  andarono  nel  536,  né 
erano,  né  consideravansi  come  legioni,  ma  come  semplici 
corpi  qualunque,  come  io  dimostrai  altrove  (1);,  e  le  truppe 
che  vi  andarono  nel  537/217  erano  poche  e  specialmente 
di  mare  (2). 

Le  consuetudini  romane  mi  fanno  supporre  che  le  due 
legioni  in  questione  siano  state  tenute  a  Roma  di  riserva 
e  di  presidio  ad  un  tempo  (3),  e  la  storia   della  campagna 


(i)  Nel  secondo  capitolo  della  mia  Memoria  Tentativo  di  critica 
sui  luoghi  liviani  ecc.  negli  Atti  della  R.  Accad.  dei  Lincei,  1881. 

(2)  Come  deduco  da  Polibio,  3,  97,  i;  cf.  Livio,  22,  22,  1;  cf.  il 
secondo  capitolo  della  Memoria  citata  nella  nota  precedente. 

(3)  Tenere  in  pronto,  nelle  guerre  difficili,  per  ogni  evento,  alcune 
legioni,  era  una  necessità;  e  Livio  ne  è  la  miglior  prova.  Tali  le- 
gioni infatti,  che  chiamavansi  iirbanae,  furono  allestite  dopo  la  bat- 
taglia del  Trasimeno  (Livio,  22,  11,  7),  senza  dubbio  perchè  le  ur- 
bane allestite  in  principio  del  537/217,  e  che  sono  quelle  che  ora 
supponiamo,  erano  state  esse  pure  vinte    e    distrutte,  come   vedremo 


—  297  — 
seguente  conferma  appieno   questa  supposizione,  come  ve- 
dremo nel  prossimo  ed  ultimo  capitolo. 

In  conclusione,  il  console  Flaminio  comandò  4  legioni 
il  console  Servilio  altrettante,  il  governatore  di  Sicilia  due 
il  governatore  di  Sardegna  una,  e  due  furono  legioni  urbane 
Tredici  in  tutto  furono  le  legioni  del  537/217,  Anche  di  qu 
apparisce  la  credibilità  delle  notizie  di  x\ppiano,  dalle  quali 
siamo  partiti  appunto  per  cavarne  informazioni  precise  sugi 
apparecchi  fatti  dai  Romani  dopo  la  battaglia  della  Trebbia 

Terminiamo  adunque  questo  capitolo  col  notare  che  quegli 
apparecchi  furono  grandissimi,  conformi  cioè  alla  risoluzione 
presa  di  discendere  nuovamente  ad  una  battaglia  campale 
con  Annibale,  e  che  gli  storici  moderni  errano  credendo 
che  i  consoli  abbiano  deciso ,  malgrado  la  lezione  terribile 
ricevuta  sulla  Trebbia,  di  affrontare  il  nemico  con  due  sole 
legioni  ciascuno.  Perfino    i    termini  generali    di   Polibio  su 


nel  capitolo  seguente.  Trovasi  poi  cenno  di  quelle  del  538  (Livio, 
■z3,  14,  2),  di  quelle  del  539  (Livio,  23,  3i),  di  quelle  del  540  (Livio, 
24,  II,  3),  di  quelle  del  541  (Livio,  24,  44,  6),  di  quelle  del  542 
(Livio,  25,  3,  7),  di  quelle  del  543  (Livio,  26,  28,  4),  di  quelle  del 
544  (Livio,  26,  28),  di  quelle  del  545  (Livio,  27,  8,  11),  di  quelle 
del  546  (Livio,  27,  22,  10),  di  quelle  del  547  (Livio,  27,  36,  i3),  ecc. 
per  parlare  solo  della  terza  decade  di  Livio. 

Delle  legioni  urbane  non  si  occuparono  mai  i  critici;  pochi  mesi 
fa  però  ne  discorse  Th.  Steinwender  {Philologus,  voi.  39,  p.  527  e 
segg.).  Nell'elenco  ch'egli  ne  dà  mancano  quelle  del  404/350  (Livio,  7, 
23,  3),  e  quelle  del  405/349  (Livio,  7,  25,  12),  e  quelle  del  459/295 
(Livio,  io,  26,  14.  Sono  evidentemente  legioni  urbane  anche  queste), 
e  quelle  allestite  dopo  la  battaglia  del  Trasimeno  ,  alle  quali  accen- 
navo or  ora.  Tanto  meno  pensò  1'  autore  a  quelle  del  principio  del 
537/217,  che  io  sono  certo  essere  comprese  nelle  tredici  di  Appiano, 
ma  delle  quali  non  occorre  menzione  espressa. 

Anche  gli  uomini  tenuti  di  riserva  a  Roma  nella  guerra  del  529/225, 
necessariamente  costituiti  in  forma  di  legioni,  erano  dunque  legioni 
urbane;  e  ammontando  a  2i5oo  cittadini  romani  e  32  mila  soci  (Po- 
libio, 2,  24,  9)  formavano  di  certo  4  legioni  urbane.  Per  solito  le 
legioni  urbane  erano  due. 

lijvista  di  filologia  ecc.,  X.  20 


—  298  - 
quegli  apparecchi  avrebbero  dovuto  farli  supporre  straor- 
dinari anche  per  quanto  concerneva  l'Italia;  c'è  senso  co- 
mune, infatti,  nel  credere  che  i  Romani  abbiano  mandato 
truppe  nelle  provincie  ,  e  non  abbiano  voluto  aumentare  il 
numero  delle  legioni  consolari ,  che  pure  eran  quelle  che 
dovevano  venir  alle  mani  con  Annibale  ?  Ma  ora  il  valore 
di  quei  termini  generali  di  Polibio  è  determinato  in  tutta 
la  sua  precisione  per  mezzo  dei  dati  di  Appiano  (i),  che 


(i)  L'Ihne  è  il  solo  che  abbia  preso  ad  esame  i  dati  di  Appiano 
[Romische  Geschichte,  2,  171,  nota  84).  Ma  egli  distribuisce  le  tre- 
dici legioni,  ricordate  da  questo  storico,  a  capriccio  ,  senza  dare  la 
ragione  di  quello  che  fa.  Egli  immagina  che  nella  Sicilia  ci  sìa  stata 
una  legione,  che  è  falso;  dicesse  almeno  perchè,  secondo  lui,  vi  do- 
veva essere  una  sola  legione!  —  Egli  pone  due  legioni  in  Ispagna  ; 
qui  l'errore  è  compatibile,  perchè  senza  una  ricerca  ad  hoc  era  diffi- 
cile scoprire  che  constavano  di  semplici  soci  i  due  corpi  ,  che  mili- 
tavano colà,  e  che,  come  tali,  non  figuravano  fra  le  legioni.  —  Egli 
opina  che  il  presidio  di  Taranto  insieme  con  quelli  di  altri  luoghi 
d'Italia  formasse  una  legione,  il  che  non  può  essere;  forse  ciascuno 
di  questi  presidii  era  una  porzioncella  di  qualche  legione,  ma  certa- 
mente non  si  sbocconcellava  interamente  una  legione  per  farne  molte 
piccole  parti.  —  Flaminio  avrebbe  comandato,  secondo  lui,  quel  che 
rimaneva  delle  quattro  legioni  consolari  decimate  sulla  Trebbia,  più 
due  nuove  legioni  ;  questo  è  assurdo  ;  le  legioni  che  avevano  subito 
grandi  perdite  i  Romani  le  rifornivano  d'uomini,  o  in  caso  diverso 
le  disfacevano  addirittura;  quindi  se  l'ipotesi  dell' Ihne  fosse  vera, 
Flaminio  avrebbe  avuto  sei  legioni,  mentre  egli  ebbe  soltanto  33  mila 
uomini,  che  corrispondevano  a  quattro  scarse  legioni.  —  Servilio, 
l'altro  console,  avrebbe  comandato  due  legioni;  e  qui  non  potrei  ma- 
ravigliarmi abbastanza  vedendo  come  il  Seeck  e  l'ihne  attribuiscano 
il  primo  quattro  e  il  secondo  sei  legioni  a  Flaminio  per  amore  dei 
35  mila  uomini  alFincirca  che  egli  avrebbe  comandato,  e  poi  com- 
putino a  due  legioni  i  40  mila  uomini  di  Servilio.  Quanta  fatica  per 
arrivare  a  questi  40  mila  fa  l'ihne!  Servilio  avrebbe  comandato,  oltre 
alle  due  legioni  rincalzate  colle  solite  truppe  dei  soci,  che  erano,  al 
più,  18  mila  uomini,  altri  20  mila  soci,  non  addetti,  contro  al  so- 
lito, a  legioni  di  sorta  !  Eppure  era  così  facile  pensare  a  4  legioni. 
—  In  conclusione,  di  tutta  la  combinazione  dell'  Ihne  non  c'è  che  un 
punto  solo  che  sia  indovinato  ,  cioè  che  una  legione  si  trovava  in 
Sardegna;  dico  indovinato,  perchè  ragioni  non  ne  dà  l'autore,  ne  egli 
ci  ha  merito  se  non  ha  sbagliato  anche  qui. 


—  299  — 
sono  quelli  di  Fabio  Pittore,  storico  vissuto  in  quei  tempi, 
versato  negli  affari  pubblici,  e  quindi  degno  di  fede  (i). 

Finito  così  di  esaminare  il  piano  di  guerra  del  537/217, 
veniamo  ad  un'  ultima  questione  relativa  alla  breve  cam- 
pagna dltalia  (dico  dltalia  per  escludere  quella  di  Spagna, 
che  era  un  episodio  della  medesima  guerra  punica),  du- 
rata dal  principio  dell'anno  fino  all'assunzione  di  Q.  F'abio 
Massimo  alla  potestà  dittatoria. 


(1)  Degno   di   fede,  ben  inteso,  nei  dati    e    nelle   cifre.  Altra  cosa 
sono  le  opinioni  politiche  (cf.  Polibio,  1,  14). 


—  300  - 


CAPITOLO    QUARTO. 
Le  leg-ioni  urbane  del  principio  del  b'ò']j'i\-;, 


Quello  che  stiamo  per  dire  non  è  meno  importante  di 
quello  che  abbiamo  detto  sin  qui.  Nei  tre  capitoli  prece- 
denti abbiamo  voluto  correggere  le  opinioni  dei  dotti  sulla 
data  della  battaglia  della  Trebbia,  sul  piano  di  guerra  del 
537/217,  e  sulla  partenza  di  Flaminio;  in  questo  confron- 
teremo quello,  che  si  crede  relativamente  alla  campagna  sud- 
detta, colle  fonti  antiche,  e  trarremo  così  in  luce  alcuni 
fatti  male  tramandati  e  caduti  in  dimenticanza. 

Tutta  la  storia  di  quella  campagna,  così  come  ce  la  nar- 
rano Polibio  e  Livio,  e  come  ce  la  ripetono  gli  storici  mo- 
derni, comprende  i  movimenti  dei  due  eserciti  consolari,  e 
termina  colla  catastrofe  del  Trasimeno,  dove  V  uno  di  essi 
accettò  la  sfida  del  nemico  e  venne  distrutto,  senza  che 
Taltro  fosse  giunto  a  tempo  per  unirsegli.  Ma  forse  e  senza 
forse  questi  fatti,  che  sono  i  principalissimi,  non  furono 
però  i  soli. 

Ho  notato,  nel  capitolo  precedente,  il  pregio  della  nar- 
razione di  Appiano  ;  per  essere  coerenti  ne  dobbiamo 
dunque  fare  quel  conto  che  essa  merita.  Or  bene,  presso 
Appiano  vediamo  svolgersi ,  allato  di  que'  fatti  principa- 
lissimi,  alcuni  altri  fatti  non  privi  d'importanza.  Dopo 
aver  narrato  l'invio  delle  truppe  romane  nelle  provincie  e 
la  partenza  dei  consoli  incontro  ad  Annibale,  Appiano  sog- 
giunge un'altra  cosa:  che  cioè  entrato  Annibale  in  Etruria  e 


-  noi  — 
marciando  alla  volta  di  Roma,  i  Romani,  spaventati,  man- 
darono gli  ultimi  otto  mila  uomini,  che  rimanevano  in 
Roma,  al  lago  Plestino  nell'Umbria,  colTordine  di  intercet- 
targli la  strada  occupando  qualche  passo  stretto  e  di  difficile 
accesso-,  e  che  il  comando  di  quelTesercito  venne  conferito 
ad  un  certo  Centenio,  che  era  uomo  allora  privato ,  ma 
nondimeno  illustre  (i).  Poscia,  dopo  aver  narrato  la  bat- 
taglia del  Trasimeno,  Appiano  racconta  che,  nel  tempo  in 
cui  essa  accadde,  da  una  parte  il  console  Servilio  cammi- 
nava a  grandi  giornate  verso  T  Etruria  (per  congiungersi, 
ben  inteso,  col  collega),  dall'altra  parte  Centenio,  occupato 
un  passo  forte  e  oppostosi  al  nemico  ,  fu  vinto  e  disfatto 
totalmente  (2). 

Ora  a  me  pare  che  le  notizie  di  Appiano  sull'esercito  di 
Centenio  e  sulle  costui  gesta,  rivelino  un  frammento  di 
storia,  desunto,  per  opera  di  Appiano,  da  Fabio  Pittore, 
ma  dimenticato  così  da  Polibio,  come  da  Livio ,  che  qui 
attinse  a  Polibio;  e  poscia,  perchè  dimenticato  da  Polibio 
e  da  Livio,  trascurato  anche  dai  moderni.  Non  che  i  cri- 
tici non  avvertissero  le  notizie  di  Appiano-,  ma,  colla  cat- 
tiva applicazione  di  un  principio  buono ,  chiusero  a  sé 
stessi  la  via  buona;  imperciocché  leggendo  in  Polibio  (3, 
86,  8  segg.)  e  in  Livio  (22,  8,  i)  che  il  console  Servilio 
mandò  al  collega  Flaminio  un  aiuto  di  4  mila  uomini  a 
cavallo  sotto  gli  ordini  di  un  certo  Centenio,  il  quale  non 
giunse  a  tempo  e  fu  vinto  da  Maarbale  ,  si  persuasero 
troppo  facilmente  che  il  racconto  di  Appiano  non  fosse 
altro  che  una  versione  più  guasta  del  racconto  polibiano- 
liviano,  e  ambedue  i  racconti  concernessero  un  medesimo 
fatto.   Il  vero  è  che  i  due  racconti  non  hanno  nulla  di  co- 


(i)  Hami.,  9. 

(2)  Hann.,  lo-i  i. 


--  :m  - 
munc  air  infuori  del  nome  di  Centenio  ,  e  che  il  fatto  ri- 
cordato nell'uno  non  ha  che  fare  con  quello  che  è  ricordato 
nell'altro.  11  console  Servilio  mandava  a  Flaminio  parte  del 
proprio  esercito,  destinato  a  combattere  insieme  coU'esercito 
di  Flaminio  contro  Annibale,  mentre  lo  scopo  degli  8  mila 
uomini  di  cui  parla  Appiano  era  quello  di  proteggere  la 
capitale  della  Repubblica.  In  secondo  luogo  i  due  eserciti 
erano  diversi  l'uno  dall'altro  nella  provenienza,  nel  numero 
e  nel  genere  dell'arma  a  cui  appartenevano.  In  terzo  luogo 
le  circostanze  della  battaglia,  nella  quale  perì  1'  uno,  sono 
diverse  per  più  capi  da  quelle  della  battaglia  nella  quale 
perì  l'altro.  Poi  c'è  la  condizione  diversa  dei  due  coman- 
danti (i). 

L'esame  dei  due  racconti  fa  dunque  manifesto  che  quello 
di  Appiano  contiene  una  serie  di  fatti  minori  svoltisi  allato 
dei  principali,  ma  ommessi  da  Polibio  (2).  Quest'è  la  con- 


(i)  Di  tutte  le  differenze  che  passano  fra  i  due  racconti,  ai  critici 
diede  nell'occhio  una  sola  ;  ma  anche  da  questa  difficoltà  essi  seppero 
sciogliersi  con  molta,  con  troppa  disinvoltura.  Era  il  numero  delle 
truppe  S  mila  presso  Appiano,  4  mila  presso  Polibio,  che  si  oppo- 
neva più  evidentemente  all'  identità  supposta  e  voluta  dei  due  rac- 
conti. Ma  il  Drakenborch  usci  a  dire,  nel  suo  commento  liviano 
(voi.  7,  59),  Appiano  aver  confuso  l'esercito  di  Centenio  coU'esercito 
di  un  secondo  Centenio  che  s' incontra  cinque  anni  più  tardi  nella 
storia  romana  (Livio,  25,  19,  9)  e  che  in  effetto  comandò  otto  mila 
uomini.  —  Dopo  questa  trovata  nessuno  più  fiatò,  e  oggi  ancora  la 
si  mette  innanzi  nei  migliori  commenti  di  Livio  (cf.  Weissenborn  a 
Livio,  25,  19,  9).  Non  c'è  bisogno  di  dire  che  quella  trovata  non 
prova  proprio  nulla,  perchè  divergenze  fra  i  due  racconti  ce  ne  sono 
altre  ancora;  anzi  non  spiega  nemmeno  questa,  perchè  Appiano  non 
fa  mai  menzione  di  quel  secondo  Centenio,  ne  poteva  dunque  scam- 
biarlo col  primo. 

(2)  Ho  detto,  nell'ultima  nota  del  primo  capitolo,  che  Polibio  fu 
solito  volgere  la  sua  attenzione  ai  grandi  fatti  militari  apportatori  di 
notevoli  conseguenze,  sorvolando  invece  sui  minori;  e  citai  un'asser- 
zione dello  storico,  il  quale  scrive  di  aver  voluto  passar  sotto  silenzio 
i  fatti  d'armi  avvenuti  fra  l'esercito  romano  e  l'esercito  cartaginese 


-  303  - 
clusione  alla  quale  i  critici  non  seppero  ma  avrebbero  do- 
vuto venire ,   per    cavar  qualche  costrutto    dalle    notizie  di 
Appiano-,  ogni  altro  tentativo  fu  e  doveva  essere  vano  (i"). 


in  principio  del  538/2 16  (mentre  il  primo  di  questi  eserciti  era  co- 
mandato dagli  ex  consoli  Atilio  e  Servilio  in  attesa  dell'arrivo  dei 
consoli  Paolo  Emilio  e  Terenzio  Varrone),  appunto  per  questa  ra- 
gione. E  trovai  un'applicazione  di  questa  stessa  massima  nel  silenzio 
di  Polibio  sui  fatti  che  tennero  dietro  alla  battaglia  della  Trebbia 
durante  il  resto  dell' inverno.  iDra  aggiungo  due  altri  esempi.  La 
battaglia  del  Trasimeno  fu  descritta  a  lungo  da  Polibio;  dopo  di 
essa  accaddero  senza  dubbio  molti  fatti  nell'  Etruria  e  nell'Umbria 
(ad  esempio  le  ostilità  di  Annibale  contro  Spoleto  (Livio,  22,  9)  e  le 
gesta  del  Centenio  di  Appiano.  Questi  due  fatti  vengono  riguardati 
come  un  solo  dall'lHNE,  RÓm.  Gesch.,  2,  179,  a  torto  come  vedremo, 
ma  egli  non  li  narrò,  e  osservò  soltanto  che  Annibale,  non  risolven- 
dosi a  marciare  su  Roma,  attraversò  in  dieci  giorni  l'Umbria  e  il 
Piceno  per  giungere  all'Adriatico  (Pol.,  3,  86,  8  segg.).  —  Di  nuovo, 
Polibio  narrò  a  lungo  il  combattimento  di  Canne,  ma  tacque  i  fatti 
accaduti  nel  resto  di  quell'anno  538/2 16  (quali  erano,  ad  esempio,  le 
gesta  di  Marcello  e  la  distruzione  dell'esercito  del  pretore  L.  Po- 
stumio  avvenuta  nella  Gallia.  È  vero  che  quest'  ultimo  fatto  venne 
toccato  da  Polibio  ,  3,  118,  6,  ma  senza  che  lo  descrivesse;  e  Io  toccò 
soltanto  allo  scopo  di  dare  un'idea  compiuta  della  gravità  delle  cir- 
costanze in  cui  Roma  allora  si  trovò;  descritto  invece  fu  da  Livio,  23, 
24,  6  segg.),  che  chiuse  subito  il  libro  terzo  col  ritrarre  gli  effetti  di 
tanto  avvenimento.  Di  Centenio  parla  Polibio  solamente  in  quanto 
questo  ufficiale  era  destinato  a  congiungersi  con  Flaminio  ,  la  sua 
storia  essendo  così  parte  della  storia  di  Flaminio  e  della  battaglia  del 
Trasimeno. 

(1)  Volgiamoci  un  momento  a  considerare  lo  stato  della  critica  in 
questo  proposito.  Ho  già  detto  che  i  moderni  che  scrissero  la  storia 
prammatica  di  Roma  non  videro  altro  ,  nel  racconto  di  Appiano , 
fuorché  una  versione  guasta  del  racconto  polibiano-liviano,  malgrado 
le  differenze  essenzialissime  che  corrono  fra  i  due  racconti.  Anche 
nei  lavori  speciali  la  critica  fece  poco,  ma  tuttavia  qualche  cosa;  fino 
agli  ultimi  anni  questo  qualche  cosa  si  riduceva  ai  dubbi  del  Kliiver 
sul  lago  Plestino  e  alla  confutazione  di  tali  dubbi  per  opera  dell'abate 
Giovanni  Mengozzi  ;  ma  ora  il  racconto  stesso  di  Appiano  nel  suo 
insieme .  fu  sottoposto  ad  esame.  Vediamo  partitamentc  questi  due 
passi  successivi  della  critica. 

La  questione  sul  lago  Plestino  abbraccia  naturalmente  solo  una 
circostanza    locale   della  narrazione    di    Appiano  ,  e  fu    suscitata    dal 


—  304  - 
Alla  stessa  conclusione  conducono  più  altre  ragioni,  e 
tali,  che  ciascuna  di  esse  basterebbe,  non  che  a  confermarla, 
a  provocarla.  —  i°  Il  titolo  di  praetor  (i),  o,  più  retta- 
mente, di  propraetor  (2)  che  troviamo  dato,  ma  non  però 
da  Polibio ,  a  Centenio ,  prova  che  la  persona  di  questo 
nome  fornita  di  siffatto  titolo  non  ha  che  fare  colla  per- 
sona di  questo    nome   priva    del    titolo  medesimo  ;  il  Cen- 


Kluver  [Italia  Antiqua^  pag.  586  segg.),  che  ,  non  credendo  all'esi- 
stenza di  un  lago  di  tal  nome,  opinò  che  Appiano  propriamente  avesse 
scritto  non  TTAeiaTivr|v  ma  bensì  TTepuoivriv,  e  avesse  chiamato  Peru- 
gino, perchè  vicin  di  Perugia,  il  lago  Trasimeno.  Ma  sulla  fine  del 
secolo  scorso  il  Mengozzi  iDe'  Plestini  Umbri,  del  loro  lago  e  della 
battaglia  appresso  di  questo  seguita  ira  i  Romani  e  i  Cartaginesi  nel 
voi.  XI  delle  Antichità  Picene  di  Giuseppe  Colucci,  pag.  ?  segg.)  con- 
futò il  Klliver  ;  egli  in  primo  luogo  dimostrò  coi  documenti  che  un 
lacus  Pistiae  nell'Umbria  tra  Foligno  e  Camerino  esisteva  ancora  nei 
secoli  XIV  e  XV  dell'era  volgare;  e  dimostrò  in  secondo  luogo  che, 
oltre  al  lago  di  tal  nome,  esistette  anche  una  città  di  tal  nome  (Plinio, 
Hist.  Nat.,  3,  14,  114,  ricorda  fra  i  popoli  umbri  i  Pelestini;  una 
iscrizione  antica  riferita  dal  Mengozzi,  pag.  29,  ed  ora  anche  da  altri, 
per  cs.  dal  Wiimanns  ,  n.  2104,  ricorda  la  res  piiblica  Plestinorum  \ 
Plestcas  occorre  negli  Ada  Sanctoriim.  2,  582;  Plistia  occorre  in  un 
documento  di  Ottone  III  riportato  dal  Mengozzi,  pag.  107;  infine 
sorge  tuttora  colà  la  chiesa  della  Madonna  di  Fistia).  In  tal  modo 
il  Mengozzi  fece  vedere  che  anticamente  una  città  e  un  lago  dei 
Plestini  esistettero  realmente  nell'Umbria,  e  per  questa  parte  speciale 
adunque  mise  in  chiaro  la  bontà  delle  notizie  di  Appiano. 

Ma  fu  solo  negli  ultimi  tempi  che  i  critici  presero  in  considera- 
zione il  racconto  intero  di  Appiano,  sebbene  senza  frutto.  Il  Nissen 
[Rìiein.  Mus.yZO,  227  segg.)  si  provò,  sempre  partendo  dalla  falsa 
supposizione  che  il  Centenio  di  cui  si  parla  nel  racconto  polibiano- 
liviano  sia  il  medesimo  di  cui  si  parla  nel  racconto  di  Appiano,  a 
conciliare  i  due  racconti.  Lo  stesso  fa  I'Ihne.  Rom.  Geschichte,  2, 
174  segg.;  179.  La  conciliazione  non  si  trovò  e  non  poteva  trovarsi, 
perchè  i  due  racconti  non  hanno  di  comune  che  il  nome  di  Centenio. 

(i)  Cornelio  Nepote  ,  Hann.,4.  3.  Luso  di  praetor  e  di  consul 
invece  di  propraetor  e  di  proconsul  era  abuso  frequente  nel  tempo  in 
cui  Cornelio  Nepote  scriveva,  quindi  il  praetor  di  Cornelio  Nepote 
e  il  propraetor  di  Livio  (vedi  nota  seguente),  sono,  nel  nostro  caso, 
la  stessa  cosa. 

(2)  Livio,  22,  8.   I. 


-  305  — 
tenio  di  cui  si  parla  nel  racconto  polibiano-liviano  fu  un 
semplice  ufficiale  incaricato  di  condurre  quattro  mila  uo- 
mini da  un  luogo  all'altro,  non  ebbe  dunque  quel  grado  di 
imperio  chiamato  propveiura  (i),  ed  ecco  perchè  Polibio 
non  gli  dà  titolo  veruno.  Ma  il  Centenio  di  cui  parla  Ap- 
piano era  comandante  di  un  esercito,  era  un  propretore, 
ed  è  di  questa  persona  che  fa  parola  anche  Cornelio  Ne- 
pote,  ed  alla  quale  propriamente  si  riferirebbe  il  propraetor 
di  Livio  (2).  —  2*  Verso  la  fine  del  capitolo  precedente 
abbiamo  messo  in  chiaro  che  in  principio  del  537,'2i7  due 
delle  legioni  vennero  destinate  a  rimanere  a  Roma  come 
truppe  di  riserva  e  di  presidio  nello  stesso  tempo  ;  così 
pure  abbiamo  messo  in  chiaro  che,  dopo  la  battaglia  del 
Trasimeno ,  occorse  fare  nuovi  arruolamenti ,  per  avere 
delle  truppe  da  presidiare  la  città.  Ciò  significa  che  quelle 
due    legioni    (legiones  itrbanae)  ,  nel    frattempo  erano  state 


(i)  Propraetor  era  un  propretore  ordinario,  cioè  un  ex  pretore  al 
quale  era  stato  prorogato  il  comando  ;  oppure  era,  talora,  un  luogo- 
tenente del  generale;  oppure  era  un  privato  al  quale  si  era  conferito, 
in  via  straordinaria,  per  bisogno  improvviso,  l'imperio  di  propretore. 
L'uomo  di  cui  parla  Polibio  non  era  né  l'una,  né  l'altra  cosa.  Tutt'al 
più  quell'uomo  avrebbe  potuto  venir  chiamato  legatiis  Id.  Livio,  23, 
3i,  6:  «  Ad  veterem  exercitum  accipiendum  deducendumque  inde  in 
Siciliam    Ti.    Maecilius    Croto  legatus  ab  Appio  Claudio  est  missus, 

27,  S,  12.   Urbanum    veterem  exercitum  Fulvius  consul  legato in 

Etruriam  dedit  ducendum   ■;. 

(2)  Livio  non  fa  che  riassumere  il  racconto  di  Polibio  ;  però  chia- 
mando propraetor  Centenio,  egli  fa  vedere  di  aver  avuto  contezza 
anche  del  Centenio  di  Appiano  e  di  Cornelio  Nepote,  e  di  aver  con- 
fuso l'uno  coll'altro.  C'è  ancora  un'altra  traccia  che  conferma  questa 
asserzione  :  Livio  narra  che  Centenio  fu  rotto  da  Annibale  'secondo 
Polibio  fu  rotto  da  Maarbale).  Ce  n'è  una  terza:  Livio  narra  che 
Centenio,  inteso  Tesito  del  combattimento  sul  Trasimeno,  entrò  nel- 
l'Umbria, una  circostanza  mancante  in  Polibio  e  che  si  trova  in  Ap- 
piano. Ripeto  adunque  che  il  racconto  di  Livio  nel  punto  essenziale 
è  quello  stesso  di  Polibio,  contiene  però  elementi  secondari  di  quello 
di    Appiano. 


—  :m  - 
mobilizzate,  e  che  gli  otto  mila  uomini  spediti ,  secondo 
Appiano,  a  sbarrar  la  via  ad  Annibale  in  caso  che  si  fosse 
voltato  contro  Roma,  erano  per  V  appunto  coteste  legioni 
stesse,  e  non  hanno  che  fare  coi  quattro  mila  uomini  a 
cavallo  mentovati  nel  racconto  polibiano-liviano.  —  3"  Infine 
c'è  il  ragguaglio  breve  ma  importantissimo  di  Appiano  sulla 
condizione  di  Centenio:,  secondo  il  racconto  di  Appiano  questi 
era  persona  privata  quando  ebbe  il  comando  di  otto  mila 
uomini.  Questo  ragguaglio  dimostra  prima  di  tutto  che  il 
Centenio  di  Polibio  è  diverso  da  quello  di  Appiano.  Esso 
prova  altresì  che  gli  otto  mila  uomini  eran  davvero  le  due 
legioni  urbane  •,  infatti  se  le  legioni  urbane,  destinate  a  ri- 
manere a  Roma ,  nel  corso  dell'  anno  si  mandavano  in 
campo,  ciò  avveniva  per  bisogno  improvviso,  e  la  conse- 
guenza ne  era  che  conveniva  affidare  il  comando ,  essendo 
già  occupati  altrimenti  i  magistrati  e  promagistrati  ordinari, 
a  persone  private,  innalzandole  alla  dignità  di  comandanti 
straordinari  (i). 

Così  sono  separati  i  due  racconti  Tuno  dall'altro.  Quello 
di  Appiano,  calunniato  (2)  quasi  fosse  una  cattiva  versione 
di  quello  di  Polibio,  e  invano  voluto  conciliare  con  questo, 
è  invece  un  racconto  a  sé,  che  contiene  un  nuovo  brano 
di  storia  romana.  Resta  ora  che  mettiamo  nella  debita  luce 
cotesto  brano  di  storia. 

I  due  eserciti  consolari  erano  già  arrivati  a  Rimini  e  ad 


(i)  Due  volte  Livio  ricorda  espressamente  la  mobilizzazione  delle 
legioni  urbane,  e  tutte  e  due  le  volte  il  comando  venne  conferito  ad 
un  privato,  cioè  a  L.  Manlio  Acidino  nel  547  di  Roma  (Livio  ,  27, 
43,  8;  cf.  27,  5o,  6)  e  a  M.  Valerio  Levino  nel  549  (Liv.,28,  46,  i3). 

(2)  Il  prof.  Gottlob  Egelhaaf  [Jahrbucher  filr  Phil.  und  Pad. 
Supplementband,  10,  473)  vede,  nella  discordanza  del  racconto  di  Ap- 
piano da  quello  di  Polibio,  la  prova  più  manifesta  del  nessuno  va- 
lore storico  di  Appiano  ! 


—  307  — 
Arezzo  nelle  regioni  loro  assegnate  ,  quando  le  mosse  di 
Annibale,  che  pareva  volesse  correre  difilato  sopra  Roma , 
indussero  i  Romani  a  mandargli  incontro  le  legioni  ur- 
bane, dandone  il  comando  ad  un  privato  di  nome  Cen- 
tenio  (i)  (investito  a  quest'uopo  del  grado  di  propretore 
straordinario  (2)),  senza  servirsi  né  del  pretore  urbano,  né 
del  pretore  peregrino  (3).  Dove  collocaronsi  le  due    legioni 


(t)  Chi  trovasse  poco  naturale  l'omonimia  del  capitano  in  questione 
coll'ufficiale  del  quale  Servilio  si  servì  per  mandare  i  quattro  mila 
uomini  a  Flaminio,  può  credere  che  il  nome  di  Centenio  fosse  quello 
di  una  sola  persona  e  venisse  poi  esteso  per  errore  a  tutte  e  due  le 
persone.  Ma  viceversa  non  si  potrà  mai  fare  la  seguente  supposizione  : 
Centenio  fu  un  solo,  dunque  tanto  il  racconto  polibiano-liviano. 
quanto  quello  di  Appiano  concernono  un  medesimo  fatto. 

(2)  Questo  era  il  grado  solito  del  comandante  le  legioni  urbane. 
Propretori  furono  appunto,  nel  647  di  Roma,  L.  Manlio  Acidino,  e, 
nel  549,  M.  Valerio  Levino.  S'aggiungano,  nel  459,  i  propretori  Cn. 
Fulvio  e  L.  Postumio  Megello  (Livio,  io,  26,  14)  messi  a  capo  di 
eserciti  di  riserva,  dunque  di  legioni  urbane.  —  Noto,  a  questo  pro- 
posito, che  Cn.  Fulvio  e  Postumio  Megello  erano  perciò  persone 
private  innalzate  alla  proprelura  ;  il  Mommsen  discorre  ,  Staatsrecht, 
2,  633,  seconda  edizione,  degli  imperii  conferiti  ai  privati,  ma  questi 
due  esempi  gli  sfuggirono. 

(3)  Qualche  volta,  anche  il  pretore  urbano  e  il  pretore  peregrino, 
benché  destinati  ad  amministrare  la  giurisdizione  in  Roma,  ebbero 
tuttavia  il  comando  di  un  esercito.  C'è  qualche  cosa  che  a  •  questo 
proposito  non  fu  ancora  osservato  bene.  Cominciamo  dal  pretore  ur- 
bano. 

Finché  il  pretore  urbano  fu  il  solo  pretore,  egli  ebbe  spesso  il  co- 
mando di  un  esercito.  Quattro  sono  gli  esempi  raccolti  dal  Mommsen 
{Staatsrecht,  2,  186,  seconda  edizione):  il  primo  dell'anno  di  Roma 
404  (Livio,  7,  23),  il  secondo  del  4o5  (Livio,  7,  25),  il  terzo  del  469 
(Livio,  Epit.,  12;  Orosio,  3,  22;  Agostino,  De  civit.  d.,3,  17,  3; 
Polibio,  2,  19;  Appiano,  Gali.,  i),  il  quarto  del  5i2)  Zonaras,  8,  12), 
Io  ne  trovai  un  quinto  del  459  (Livio,  io,  3i  ,  3  ,  App.  Claudius 
praetor  cum  exercitu  Deciano  missus).  —  Quando  fu  istituita  la  pre- 
tura peregrina,  si  preferì,  trattandosi  di  imprese  militari  a  molta 
distanza  da  Roma,  servirsi  del  pretore  peregrino.  Ma  questa  fu  con- 
suetudine generale,  non  però,  come  l'intende  il  Mommsen  (ivi.p.  187), 
una  regola  così  assoluta,  che  noi  dobbiamo  dubitare  della  verità  del- 
l'incarico dato  al  pretore  urbano  P.  Lentulo  (che  fu  console  nel  592 


—  308  — 

urbane  per  sbarrare  il  cammino  ad  Annibale,  e  che  cosa 
fecero,  e  clie  sorte  ebbero  ?  Sulle  mosse  e  sulle  gesta  loro 
abbiamo  presso  gli  antichi    parecchi    cenni,  che  forse  sono 


di  Roma),  e  attestato  dagli  scrittori  (Lìciniano,  pag.  i5,  Bonn;  cf. 
Cicero,  De  leg.  agr.,  2,  3o,  82),  come  l'autore  fa.  Non  solo  non  vedo 
ragione  di  non  credere  che  P.  Lentulo  sia  stato  mandato,  mentre 
era  pretore  urbano,  in  Campania,  ma  io  credo  che  fatti  simili  siano 
accaduti  spesso,  specialmente  durante  la  seconda  guerra  punica.  Ciò 
che  m'induce  ad  asserire  questo  è  la  storia  del  538/2 16,  coli' esame 
della  quale  credo  poter  dimostrare  che  il  pretore  urbano  di  questo 
anno,  chiamato  P.  Furio  Filone  ,  fu  spedito  ,  dopo  la  battaglia  di 
Canne,  in  Sicilia  ed  in  Africa  a  capo  di  una  fiotta;  e  lo  dimostro 
nel  modo  seguente. 

Livio,  22,  56,  6,  narra  che  il  governatore  di  Sicilia  fece  sapere  al 
Senato  essere  il  regno  di  Siracusa  molestato  da  una  flotta  cartaginese, 
sé  non  poterlo  proteggere  dovendo  tenere  in  rispetto  un'altra  flotta 
nemica,  la  quale  altrimenti  avrebbe  assalito  Liiibeo  ,  essere  adunque 
necessario  che  il  Senato  mandasse  un'altra  flotta  romana  nelle  acque 
della  Sicilia.  Lo  stesso  Livio  narra  poco  dopo  (22,  bj,  8)  che  Mar- 
cello ,  pretore  e  comandante  di  una  flotta  ancorata  ad  Ostia,  con- 
segnò al  pretore  urbano  Furio  Filone  questa  flotta.  Lo  stesso  Livio 
narra  poi  (23,  21,  2j,  che  il  governatore  di  Sicilia  scrisse  al  Senato 
essere  Furio  Filone  ritornato  dall'Africa  a  Liiibeo.  Che  cosa  dicono 
questi  ragguagli  ?  Dicono,  in  primo  luogo,  che  a  richiesta  del  gover- 
natore di  Sicilia  il  Senato  mandò  il  pretore  urbano  Furio  Filone  con 
una  flotta  in  Sicilia.  Dicono  un'altra  cosa  ancora:  siccome  in  principio 
dell'anno  il  Senato  avea  fatta  facoltiÀ  a  T.  Otacilio,  che  comandava  la 
flotta  di  Sicilia,  di  fare  uno  sbarco  in  Africa  (Livio,  22,  37,  1  3);  ma  T. 
Otacilio  ebbe  che  fare  in  Sicilia  perchè  la  flotta  cartaginese  minacciava 
Liiibeo;  di  qui  si  pare  che  lo  sbarco  in  Sicilia  fu  effettuato  dal  pre- 
tore urbano.  Se  né  Livio  né  i  moderni  scoprirono  che  il  nesso  dei 
detti  ragguagli  è  questo  che  io  dico,  la  colpa  non  è  mia.  Una  con- 
ferma della  mia  asserzione  e'  è  in  Appiano  ;  questo  storico  narra 
{Hann.,  27)  che  Marcello  diede  parte  della  sua  flotta  al  collega  P. 
Furio  Filone  mandandolo  in  Sicilia.  La  cosa  non  potrebbe  esser  più 
chiara  ;  e  nondimeno  il  Weissenborn  commentando  Livio  non  ha 
capito  nulla  di  tutti  questi  ragguagli  di  Livio  e  di  Appiano  (veggasi 
il  commento  del  Weissenborn  ai  luoghi  liviani  ora  citati  ;  il  poco 
spazio  non  mi  permette  di  ripetere  gli  errori  suoi  e  di  confutarli,  ma 
dopo  quello  che  abbiamo  detto,  ognuno  li  vedrà  di  per  sé).  Anche 
al  Mommsen  sfuggì  quel  nesso  ;  egli  crede  (Staatsrecht,  2,  224,  nota  i*) 
che    P.   Furio    Filone  succedesse  semplicemente  a   Marcello    nel  co- 


-309  - 
sufficienti  al  nostro  scopo.    Appiano,  come  abbiamo  detto, 
narra  che  le  legioni  urbane  vennero    mandate  al  lago  Pie- 
stino    in    Umbria-,  d'altra  parte  però  c'è  Zonaras  (8,  25) 


mando  della  flotta  stazionante  ad  Ostia;  non  vede  che  Filone  parli 
per  la  Sicilia  ,  e  quindi  novera  questo  fra  gli  esempi  di  un  pretore 
urbano  adoperato  a  poca  distanza  da  Roma. 

Finisco  di  parlare  del  pretore  urbano  notando  che  ora  abbiamo 
avuto  una  nuova  prova  del  valore  delle  notizie  di  Appiano  (del  che 
abbiamo  parlato  nel  capitolo  precedente),  e  che  se  Livio  non  si  ac- 
corse del  nesso  dei  fatti  da  lui  esposti,  ciò  significa  che  egli  si  servì, 
in  questo  luogo,  di  più  fonti  contemporaneamente,  trascurando  poscia 
di  ridurre  ad  unità  il  suo  racconto. 

Passiamo  al  pretore  peregrino.  Il  Mommsen  [Staatsrecht .  2,  201, 
seconda  edizione),  a  proposito  del  comando  di  eserciti  conferito  di 
preferenza ,  come  osservammo  or  ora,  al  pretore  peregrino  invece 
che  al  pretore  urbano,  nota  che  il  primo  esempio  di  un  tale  fatto  è 
del  539/215  (Livio,  23,  32,  i5).  Quest'osservazione  ha  bisogno,  se 
non  mi  sbaglio,  di  una  correzione.  Io  credo  che  nel  538/2i6,  dopo 
la  battaglia  di  Canne,  e  prima  ancora  che  il  pretore  urbano  P.  Furio 
Filone  fosse  mandalo  in  Sicilia  ,  il  pretore  peregrino  Pomponio 
sia  stato  messo  a  capo  di  un  esercito  ;  credo  perfino  di  poter  dire 
dove  fu  mandato,  cioè  nella  Gallia  che  avea  per  capoluogo  Rimini. 
È  noto  che  pochi  giorni  dopo  la  battaglia  di  Canne  l'esercito  che  si 
trovava  nella  Gallia  ed  era  comandato  dal  pretore  Postumio  fu  di- 
strutto insieme  col  suo  capitano  (Polibio,  3,  118,  6;  Livio,  23,  24, 
6  segg.).  Or  bene  tutto  mostra  che  nella  Gallia  fu  subito  mandato  un 
altro  esercito,  e  che  il  pretore  peregrino  Pomponio  fu  assente  da 
Roma,  cioè  fu  il  comandante  di  quell'  esercito.  L'invio  di  un  nuovo 
esercito  nella  Gallia,  in  luogo  dell'esercito  peritovi,  non  era  cosa  da 
trascurare  ;  se  il  Senato  pensò  a  proteggere  Siracusa,  come  or  ora 
vedemmo,  tanto  più  avrà  pensato  a  tener  a  segno  i  Galli  inviando 
delle  truppe  a  Rimini.  Ma  c'è  anche  un  indizio  positivo:  il  dittatore 
M.  Giunio  Pera,  elevato  alla  dignità  dittatoria  dopo  la  battaglia  di 
Canne,  arruolò  quattro  nuove  legioni  (Livio,  22,  Sy,  9),  lasciandole 
però  a  Roma,  e  prendendo  seco,  all'uscirne,  le  due  legioni  urbane 
state  arruolate  fin  dal  principio  dell'anno  (Livio,  23,  14).  Che  cosa 
succede  di  quelle  quattro  nuove  legioni  ?  Se  noi  esaminiamo  la  divi- 
sione delle  legioni  fattasi  in  principio  dell'  anno  seguente  ,  cioè  del 
539/215,  noi  non  ne  troviamo  memoria;  solo  nelle  due  legioni  ur- 
bane del  539  possiamo  e  dobbiamo  riscontrare  due  di  esse;  ma  le 
altre  due  ?  erano  dunque  state  mandate  nella  Gallia.  La  divisione 
delle  legioni  pel  539  ù*  esposta  presso  Livio,  23,  25,  6  segg.;  2?,  3i, 


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che  scrive  che  Centenio  fu  rotto  a  Narni.  Bisogna  decidere 
prima  di  tutto  se  il  luogo  occupato  da  quelle    legioni  ,  per 
sbarrare  il  cammino  al  nemico,  sia  stato  sul  lago  Plestino  o 


3  segg.;  23,  32,  i  segg.;  23,  32,  i3  segg.  Il  console  Sempronio  ebbe 
un  esercito  composto  di  volontari  e  di  soci.  Il  console  Q.  Fabio 
Massimo  le  legioni  del  dittatore  Giunio  Pera,  quelle  due  colle  quali 
il  dittatore  era  uscito  di  Roma.  Il  pretore  M.  Valerio  Levino  certe 
legioni  richiamate  dalla  Sicilia  e  altre  truppe  trovantisi  in  Apulia. 
Il  pretore  di  Sicilia  ebbe  le  reliquie  degli  eserciti  romani  stati  tru- 
cidati a  Canne.  Il  pretore  di  Sardegna  non  ricevette  nessun  nuovo 
esercito,  come  non  ne  ricevette  il  proconsole  Terenzio  Varrone.  Il 
proconsole  Marcello  ebbe  due  legioni  urbane^  cioè  quelle  due,  fra  le 
quattro  legioni  nuove,  che  erano  state  dapprima  destinate  a  rimanere 
di  presidio  e  di  riserva  a  Roma,  e  che  poi  si  mobilizzarono  dandole 
a  Marcello  ;  di  quelle  quattro  nuove  le  altre  due,  come  asserivo, 
erano  senza  dubbio  state  mandate  nella  Gallia  molto  prima.  — 
Cerchiamo  adesso  gl'indizi  che  dimostrano  l'assenza  da  Roma  del 
pretore  peregrino  nella  seconda  metà  del  538.  Dopo  d' aver  isti- 
tuita la  pretura  peregrina,  i  Romani  preferirono  servirsi ,  fuori  di 
Roma,  del  pretore  peregrino,  e  non  dell'  urbano  ;  perchè  dunque 
il  pretore  urbano  Furio  Filone  venne  mandato  in  Sicilia  e  in 
Africa  con  una  flotta?  Io  dico  perchè  il  pretore  peregrino  Pom- 
ponio avea  già  ricevuto  un'altra  incombenza.  Secondo  indizio:  il 
Senato  romano  fu  convocato  ,  in  quel  tempo  ,  da  T.  Sempronio 
che  era  rnagisier  equitum  del  dittatore  Giunio  Pera  (Livio,  23,  25, 
2;  22,  57,  9);  ma  ciò,  se  non  erro,  significa  che  a  Roma  non 
c'era  più  nessun  pretore,  altrimenti  questo  affare  sarebbe  stato  di 
competenza  dei  pretori,  che  in  grado  erano  superiori  ai  maestri  di 
cavalleria.  Che  i  pretori  fossero  superiori  ai  maestri  di  cavalleria  si 
deduce  da  quei  luoghi  dove  è  fatta  l'enumerazione  degli  uffici  in  or- 
dine gerarchico.  Su  ciò  vedi,  fra  i  moderni,  specialmente  Mommsen, 
Staatsrecht,  1,  542,  seconda  edizione.  Che  poi  il  convocare  il  Senato 
non  competesse  ai  maestri  di  cavalleria,  se  non  quando  non  si  po- 
teva fare  di  meno,  si  deduce  dalla  discordia  che  e'  era  fra  i  dotti  a 
Roma,  in  proposito  di  questo  principio  di  diritto  pubblico;  infatti 
mentre  Cicerone,  De  legibiis,  i,  3,  6,  crede  che  la  convocazione  del 
Senato  fosse  anche  un  diritto  dei  maestri  di  cavalleria,  Varrone  ci- 
tato da  Gellio,  14,  7,  credeva  di  no.  Mi  pare  dunque  cosa  indubi- 
tata, che,  distrutto  l'esercito  di  Postumio  nella  Gallia,  vi  siano  state 
mandate  due  altre  legioni  sotto  Pomponio  pretore  peregrino.  E  e' è 
anche  un'  ultima  prova  di  valore  assoluto  :  quando  Livio  espone  i 
provvedimenti  sulle    provincic,  presi    in    principio  del  540/214,  egli 


-  311  — 
sia  stato  Narni.  E  qui,  siccome  le  circostanze  locali  non  si 
possono  facilmente  inventare,  io  credo  che  ambedue  i  cenni 
di  Appiano  e  di  Zonaras  siano  storici,  e  che  si  tratti  sol- 
tanto di  conciliarli  in  modo  probabile.  La  conciliazione  poi 
si  trova  nella  posizione  strategica  di  Narni  e  in  un'analogia 
storica.  Narni,  forte  per  natura  (Livio,  io,  9,  8),  conqui- 
stata, per  la  stessa  cagione,  a  tradimento  quasi  un  secolo 
innanzi  dai  Romani,  fatta  subito  colonia  ed  eretta  così  a 
baluardo  contro  gli  Umbri  (Livio,  io,  io,  5),  diventò 
poscia  un  punto  strategico  di  grande  importanza,  quando  nel 
534/220  fu  costrutta  la  via  Flaminia  che  la  toccava.  D'allora 
in  poi  un  esercito  romano  che  avesse  voluto  proteggere  Roma 
contro  un  nemico  veniente  dall'Umbria  e  dall'Etruria,  non 
avrebbe  trovato  luogo  più  acconcio  di  Narni-,  e  lo  dimostra 
la  storia-,  nel  547/207  scese  in  Italia  Asdrubale  per  con- 
giungersi col  fratello  Annibale ,  e  Roma,  messa  in  grande 
spavento,  fece  provvedimenti  straordinari  mobilizzando  le 
legioni  urbane,  e  mandando  così  in  campo  un  nuovo  eser- 
cito, oltre  ai  due  che  erano  accampati  in  Etruria  (Livio  , 
27,  35,  2)  e  nella  Gallia  (Livio,  27,  35,  10);  e  a  Narni  ap- 
punto accamparonsi  allora  coteste  legioni  urbane(i).La  storia 


narra  fra  l'altre  cose  che  a  M.  Pomponio  fu  prorogato  l'imperio  nella 
Gallia  (Livio,  24,  io);  dunque  Pomponio  avea  comandalo  nella  Gallia, 
nel  35g/2i5:  ma  nella  storia  del  5'ig  ciò  non  è  detto;  dunque  l'invio 
dì  Pomponio,  dimenticato  da  Livio  e  più  tardi  da  lui  presupposto, 
risale  al  538/2 16.  So  bene  che  una  delle  deliberazioni  prese  dopo  la 
distruzione  dell'  esercito  di  Postumio  era  stata  di  non  presidiare  la 
Gallia  (Livio,  23,  25,  6);  ma  la  deliberazione  non  sarà  stata  posta  ad 
effetto,  come  non  lo  furono  più  altre  deliberazioni  (le  deliberazioni 
per  l'anno  iSg  furono  prese  in  più  volle  e  cangiate  più  volte;  cf.  Livio, 
32,25,  6  segg.;  23,  3i-32). 

(i)  Livio,  27,  43,  8:  «  Literis  Hasdrubalis  F^omam  ad  Senatum 
missis,  simul  et  ipse  paires  conscriptos,  quid  pararet ,  edocet ,  ut, 
cum  in  Umbria  se  occursurum  Hasdrubal  fratri  scribal,  legionem  a 
Capua  Romam  arcessant,  dilectum  Romae  habeant,  exercitum  urba- 
num  ad  Narniam  hosti  opponant  ».  Cf.  2y,  5o,  6. 


-  312  - 

del  547  rischiari  ora  questa  del  óSy  che  ci  occupa;  anche 
nel  537  il  nemico  veniva  da  quella  parte  stessa,  anche  nel 
537  TEtruria  era  presidiata  da  un  esercito  e  la  Gallia  da  un 
altro;  dunque  anche  nel  537  le  legioni  urbane  si  accampa- 
rono a  Narni,  come  del  resto  ci  fa  intendere  Zonaras.  Il 
motivo,  perchè  poi  Appiano  abbia  scritto  che  le  legioni  ur- 
bane furono  mandate  al  lago  Plestino,  troveremo  adesso  in- 
vestigando le  gesta  di  esse.  —  Anche  sulle  gesta  loro  i  cenni 
lasciatici  dagli  antichi,  quando  siano  interpretati  bene,  sono 
atti  a  farci  sapere  qualche  cosa  fin  qui  ignorata.  Secondo 
Appiano  (citato  sopra)  Centenio  venne  rotto  al  lago  Pie- 
stino,  secondo  Zonaras  (1)  a  Narni.  Diremo  adunque,  sempre 
per  la  ragioni  che  le  circostanze  locali  non  sogliono  così 
facilmente  inventarsi,  che  e  a  Narni  e  al  lago  Plestino  ac- 
caddero fatti  d'arme.  Resta  solo  a  scoprire  un  motivo  plau- 
sibile dell'esser  diventato  anche  quest^ultimo  luogo  un  teatro 
di  operazioni.  Gettando  Tocchio  sopra  una  carta  geografica 
si  vede  immediatamente  che  il  lago  Plestino  giaceva,  posto 
com'era  tra  Foligno  e  Camerino,  ad  uguale  distanza  da 
Rimini  e  da  Arezzo ,  dove  erano  accampati  i  due  eserciti 
consolari  ;  inoltre  il  lago  toccava,  come  la  toccava  Narni , 
la  via  Flaminia  ;  di  qui  io  argomento  che  le  legioni  ur- 
bane, giunte  a  Narni,  in  attesa  di  quel  che  gli  eserciti  con- 
solari avrebbero  fatto,  si  dividessero  in  due  parti,  rimanendo 
runa  a  Narni  e  Taltra  procedendo  innanzi  sulla   via    Fla- 


(i)  Luogo    citato.  Ecco    le    parole  testuali  :   «  Annibale,  dopo  aver 
vinto  e  ucciso  Flaminio  al  lago  Trasimeno,  ètri  tì'iv  'Piu,ur|v  l'iTreiTeTo, 

KOÌ  laéxpi  Mév  Napviai;  xriv  re  Ynv  t^ilivijuv TrpofìXee,  Tdióv  xe  évraOGa 

KevTHViov  axpaTTiYÒv  èveòpeuóvxa  Tiepiaxùjv  èqpeeipev.  L'èvToOBa  si 
deve  riferire  non  a  Spoleto  come  si  fa  (Ihne,  RÓtn.  Gesch.,  2,  179, 
nota  198),  ma  a  Narni.  Si  è  incominciato  a  dire  che  Narni  è  soltanto 
il  punto  estremo  a  cui  giunse  l'avanguardia  nemica,  e  si  continua  a 
ripeterlo  (Ihne,  ivi;  Duruy  ,  Histoires  des  Romains,  i,  564,  ecc.), 
ma  ciò  è  inesatto. 


-  313  - 

minia  sino  al  detto  lago,  per  potere,  alPoccorrenza,  dare  una 
mano  all'uno  dei  consoli.  Così  avvenne  la  rotta  di  una  parte 
delle  legioni  urbane  anche  al  detto  lago  (donde  Appiano 
poco  precisamente  scrisse  poi  addirittura  che  esse  erano 
state  spedite  colà).  Ma  per  intendere  bene  le  mosse  di  An- 
nibale dopo  la  battaglia  del  Trasimeno  bisogna  ricordare 
anche  l'assalto  ch'egli  diede  a  Spoleto  (i).  Anche  Spoleto 
toccava  la  via  Flaminia.  Di  qui  appare  adunque,  che  il  Carta- 
ginese, vinto  e  ucciso  Flaminio  al  Trasimeno  ,  si  volse  al 
Nord-Est,  e  prese  la  via  Flaminia ,  colTintenzione  di  correre 
a  Roma  o  almeno  fin  presso  a  Roma  (2).  Per  via  egli  compì 
i  tre  fatti  accennati  (oltre  a  quelli  dei  quali  non  ci  è  per- 
venuta notizia  alcuna),  cioè  ruppe  parte  delle  legioni  ur- 
bane al  lago  Plestino,  assalì  invano  Spoleto,  e  fece  a  pezzi 
il  resto  delle  legioni  urbane  a  Narni,  giungendo  così  per  lo 
meno  fin  là,  e  non  soltanto  fino  a  Spoleto  (3). 

Roma,  settembre,  1881. 

Alessandro  Tartara. 


(1)  Livio,  22,  9:  «  Hannibal  recto  itinere  per  Umbriam  usque  ad 
Spoletium  venir.  Inde  cum  perpopulato  agro  urbem  oppugnare  adortus 
esset,  cum  magna  caede  suorum  repulsus  »  ecc.  Zonaras,  8,  25  :  (jb(; 
bè  TU)  ZiTOjXriTiuj  irpoaPaXuJv  àTreKpouaGr). 

I2)  Polibio,  3,  86,  8,  dice  die  Annibale  mise  da  banda  l'idea  di 
assalire  Roma.  Ma  probabilmente  non  la  mise  da  banda  prima  di 
esser  giunto  fino  a  Narni. 

(3)  Come  parrebbe  doversi  inferire  da  Livio  che  continua,  dopo 
le  parole  citate  nella  noia  precedente  :  «  coniectans  ex  unius  coloniae 
haud  prospere  temptatae  viribus,  quanta  moles  Romanae  urbis  esset, 
in  agrum  Picenum  averlit  iter  ». 

Notiamo  ora  una  cosa.  Di  questi  fatti  minori  svoltisi  allato  dei 
principali  e  da  noi  spiegati  ,  rimangono  traccie,  adunque  ,  oltre  che 
in  Appiano,  anche  in  Zonaras,  in  Cornelio  Nepote  (che  chiama 
praetor  Centenio),  e  perfino,  come  avvertimmo  testé,  nello  stesso 
Livio,  il  quale  compendiò  essenzialmente  il  racconto  di  Polibio,  ma 
lesse  anche  quello  donde  provenne  il  racconto  di  Appiano  derivan- 
done anzi  nella  sua  narrazione  più  d'un  tratto. 


'Hji'ista  di  JiloìOLiia  ecc.^X. 


-  314 


D'UN  RECENTE  LIBRO  DI   DELBRUCK 

E  DELLA  TRADUZIONE   ITALIANA  DEL  MERLO 

E    DI    DUE    NUOVE    DISSERTAZIONI    DEL    WHITNEY 


I.  Einleitung  in  das  Sprachstudium,  ein  Beiirag  ^ur  Geschichte  iind 

Methodik  der  vergleichenden  Sprachforschung,  von  B.  DelbrUck  ; 
Leipzig,  Breitkopf  u.  Hiirtel,   1880  (pp.  VIII-i4'2,  in-S"). 

II.  Introdmjione  allo  studio  della  scienza  del  linguaggio  :  Contributo 
alla  storia  e  alla  metodica  della  glottologia  comparativa  di  B. 
DelbrUck,  traduzione  del  dott.  Pietro  Merlo;  Torino,  Loescher, 
1881  (pp.  XII-I58,  in-8°). 

III.  On  inconsistencj  in  views  of  language  (pp.  21,  in-8");  Logica 
consistency  in  views  of  language  (pp.  17,  in-8'')  :  by  W.  D. 
Whitney. 


Gran  bel  libro  questo  di  Delbruck  :  degno  frutto  di  un  ingegno 
quanto  ardito  nell'analisi  altrettanto  prudente  nella  sintesi,  e  come 
ricco  di  concetti  suoi  propri  così  espertissimo  degli  studj  altrui.  Vi 
si  trova  esposta,  con  grande  equanimità  e  con  la  solita  lucidità  ele- 
gante, la  storia  della  glottologia  indoeuropea  da  Bopp  a  Schleicher  ; 
e  vi  son  poi  indicate  e  giudicate  le  varie  correnti  nuove,  venute 
dopo  prevalendo  nella  scienza,  in  modo  arrendevole  verso  le  no- 
vità e  i  novatori  e  insieme  riverente  e  giusto  verso  i  vecchi  maestri. 
Che  se  qua   e  là    puoi  discordare  in  qualche  modo  da  lui,  e  deside- 


-  315  - 
rare  maggior  fede  in  certi  antichi  postulati  della  nostra  scienza,  in 
complesso  però  devi  convenire  che  maggior  rettitudine  di  mente  e 
d'animo,  e  un  piìi  giusto  temperamen-to  di  fede  e  di  scetticismo,  nes- 
suno avrebbe  potuto  portare  nella  trattazione  d' un  soggetto  quanto 
attraente  altrettanto  spinoso. 

Noi  vogliaaio  qui  riassumere  in  breve  questo  bel  libro  ,  aggiun- 
gendo qua  e  là  parecchie  nostre  osservazioni. 

Si  comincia  dunque  col  Bopp.  —  L'affinità  della  lingua  greca  e 
della  latina,  e  d'altre  lingue  indoeuropee,  con  la  sanscrita,  era  stata 
già  vista  da  Federico  Schlegel,  e  prima,  e  più  correttamente,  dal 
Jones.  11  merito  di  Bopp  fu  il  dimostrarla,  ch'ei  fece,  con  una  com- 
parazione sistematica,  che  dal  verbo  si  estese  via  via  a  tutta  la  lingua, 
e  che  aveva  uno  scopo  ulteriore:  spiegare  come  le  forme  grammati- 
cali protoariane  fossero  nate.  Per  ispiegarle ,  dapprima  mantenne  la 
idea  di  esso  Schlegel,  che  la  flessione  fosse  uno  sviluppo  organico 
della  radice,  cioè  nascesse  da  variazioni  interne  di  questa;  e  solo 
v'aggiunse  di  suo  il  concetto  che  i  tempi  formati  con  un  s,  come 
l'aoristo,  fossero  risultati  da  una  composizione  della  radice  col  verbo 
'  essere  '  (rad.  as-]  ;  il  che  gli  dovè  parere  tanto  più  verosimile,  in 
quanto  che  allora  correva  una  dottrina  sulle  parti  del  discorso,  se- 
condo la  quale  'essere'  era  il  verbo  per  eccellenza,  e  in  ogni  altro 
verbo  1'  'essere'  c'era  incluso,  se  non  altro  ellitticamente.  Ma  già 
nel  rifacimento  del  suo  primo  libro  (il  Conjugationssystem,  1816)  in 
lingua  inglese  (Analytical  comparison,  1819),  Bopp  avea  abbandonata 
l'idea  di  Schlegel  e  spiegava  quasi  tutte  le  forme  come  nate  da  com- 
posizione. Fu  soprattutto  il  concetto  dell'originario  monosillabismo 
delle  radici,  che  già  da  Adelung  in  poi  s'era  fissato,  quel  che  servì  a 
staccare  Bopp  da  Schlegel.  Perchè,  se,  p.  es.,  la  radice  della  forma 
&o9riaóiae9a  non  è  che  òo,  come  mai  credere  che  tutta  la  enorme  ap- 
pendice -9)iao|ue6a  nascesse  da  uno  svolgimento  interno  di  òo  ?  E 
d'altro  lato,  la  somiglianza  di  molte  terminazioni  personali  del  verbo 
coi  pronomi  personali  (p.  es.  quella  di  mi  terminaz.  di  i*  pers.  sing. 
col  pronome  me  ,  è,ué  ecc.)  faceva  nascere  troppo  imperiosamente  il 
concetto  che  le  persone  del  verbo  fossero  una  composizione  della  ra- 
dice con  un  pronome  (^ ai-mi  andare-io);  e  un  tal  concetto  era  altresì 
troppo  naturalmente  raccomandato  dall'esempio  (già  invocato  da  Len- 
nep  e.  da  altri)  della  grammatica  semitica,  in  cui  l'equazione  tra  gli 
afformativi  e  preformativi  dei  verbi  ed  i  pronomi  è  addirittura   pai- 


—  316  — 
pabile  (t).  Modulazioni  interne  della  radice  credea  il  Bopp  doverne 
ancora  vedere  solo  in  poche  forme,  p.  es.  nel  raddoppiamento,  e  nei- 
1'  -ai  del  medio,  che  allora  gli  pareva  un  semplice  guna  dell'  -i  del- 
l'attivo. Ma  negli  ulteriori  scritti,  e  infine  nella  Grammatica  Com- 
parata, V  -ai  stesso  gli  comincia  a  parere  anch'esso  una  composizione 
(-mai  =  *-maìni  =  '  io-me'),  1'  -s  del  nominativo  gli  pare  il  pro- 
nome sa  affisso,  il  -/  dell'ablativo  e  del  neutro  il  pronome  ta  ecc.  ecc. 
Insomma  allarga  sempre  più  il  campo  della  composizione;  e  sempre 
più  raramente  trova  ancora  in  qualche  forma  la  rappresentazione 
simbolica  del  concetto  formale.  Nello  -nti  della  S"  plur.  egli  vede, 
p.  es.,  il  -ti  del  singolare  col  t  ingrossato  mercè  un  inserimento  na- 
sale, il  quale  sarebbe  per  la  consonante  quel  che  è  l' allungamento 
per  la  vocale:  l'ingrossamento  di  ti  in  nti  simboleggerebbe  material- 
mente l'accrescimento  ideale  che  c'è  dal  singolare  al  plurale.  —  Del 
resto,  i  suoi  progressi  teorici  Bopp  non  li  segnala  con  lunghi  ragio- 
namenti generali:  quanto  v'è  in  lui  di  teorico  (così  le  più  volte  av- 
viene nel  vero  scienziato)  è  incarnato  nelle  concrete  spiegazioni  dei 
particolari,  o  sprizza  solo  qua  e  là  a  proposito  di  qualche  particolare 
nel  quale  meglio  riluce  l'idea  generale.  Le  stesse  frequenti  compara- 
zioni prese  dalle  scienze  naturali  non  han  nulla  di  rigoroso  :  sono  pure 
immagini;  le  quali  facilmente  gli  si  presentano  perchè  egli  considera 
ormai  scientificamente  la  parola,  considerata  fin  allora  quasi  solo 
letterariamente.  Forse  un  più  diretto  influsso  delle  scienze  fisiche  si 
può  riconoscere  nella  scoperta  eh'  ei  credette  fare  d'una  legge  m  e  c- 
canica  d'equilibrio,  per  cui  la  radice  pesante  sia  voluta  da  una 
terminazione  leggiera  ,  e  la  radice  leggiera  dalle  terminazioni  pe- 
santi ,  come  si  vede  confrontando  il  sanscrito  émi  io  vado  (gr.  eTiut) 
col  sscr.  imds  noi  andiamo  fgr.  l'|uev);  la  quale  oscillazione  però  oggi 
si  spiega  come  effetto  dell'oscillazione  dell'accento,  cioè  si  tiene  che 
la  radice  s'alleggerisca  quando  perde  l'accento  (il  gr.  l)aev  è  un'accen- 
tuazione posteriore  turbata).  Nel  modo  invece  come  Bopp  considerò 
le  leggi  fonetiche,  raramente  cioè  come  leggi  assolute  quali  oggi 
s' inclina  a  tenerle,  e  il  più  delle  volte  come  semplici  tendenze  sog- 


(1)  Per  es.  iu  ebraico  noi'  al  nominativo  è  '(inàchnù  ecc.  e  all'accu- 
sativo è  nu  ;  e  dalla  rad.  qfltàl  uccidere  abbiamo  qdtàl-niì  uccidiamo  e 
ni-qtGl  uccidevamo,  e  così  via. 


-  317  - 
gette  a  quante  eccezioni  si  vogliano,  ci  si  vede  l'intiusso  della  tradi- 
zione grammaticale  d'allora,  la  quale  ammetteva  eccezioni  in  qualsi- 
voglia numero  alle  regole,  e  quasi  non  ammetteva  vi  potess'  esser 
regola  senza  eccezioni.  Del  rimanente,  in  Bopp,  preoccupato  com'era 
dello  spiegar  la  genesi  delle  forme,  e  del  dimostrar  l'affinità  tra  le 
varie  lingue  ariane  con  l'addurne  i  termini  corrispondenti  cui  anche 
la  sola  intuizione  gli  facesse  scoprire,  il  lavoro  fonologico,  che  è  in- 
somma un  lavoro  ulteriore  di  sistemazione  di  quelle  corrispondenze 
raccolte  e  accumulate,  era  necessariamente  incipiente  ed  immaturo. 
Se  anche  l'ingegno  del  Bopp  fosse  stato  più  inclinato  alla  fonologia 
che  al  resto,  non  era  però  quello  il  momento  di  fermarsi  a  far  ri- 
cami fonologici,  poiché  si  trattava  piuttosto  di  scoprire  e  di  ricono- 
scere il  terreno;  e  il  suo  grande  ingegno  lo  doveva  fare  avvertito  di 
attendere  a  quello  che  era  allora  più  urgente  e  più  opportuno. 
Giacché  una  delle  cose  che  caratterizzano  il  grande  ingegno  è  ,  mi 
pare,  il  senso  dell'opportunità,  nella  scienza  non  men  che  nella  po- 
litica. Il  Delbrùck  ha  fatto  quindi  assai  bene  a  rilevare  i  mancamenti 
e  le  contradizioni  fonologiche  di  Bopp  senza  scandalizzarsene.  Come 
pur  bene  ha  fatto  ad  osservare  che,  se  in  Bopp  il  sapere  filologico  e 
letterario  era  in  seconda  linea,  perchè  di  qualche  lingua  ,  per  la  cui 
classificazione  egli  ha  meriti  immortali  (celtico,  slavo),  avea  egli  una 
cognizione  filologica  scarsa,  e  della  stessa  buona  latinità  non  si  mo- 
strava mai  curante  nei  suoi  scritti  latini,  ciò  è  però  spiegabilissimo 
in  chi  era  tanto  assorbito  dalla  considerazione  dello  stato  natu- 
rale delle  lingue.  E  quando  conclude  che  il  grand'uomo  si  segnalò 
più  per  l'ingegno  scopritore  e  per  l'intuizione  acuta  e  geniale  che  per 
il  metodo  rigoroso,  avrebbe  forse  potuto  aggiungere,  cosa  del  resto 
facile  a  sottintendere,  che  il  simile  si  può  dire  di  chiunque  sia  stato 
primo  fondatore  di  una  scienza. 

Il  bel  giudizio  di  Delbriick  sul  Bopp,  sebbene  elaborato  con  uno 
studio  diretto  ed  originale  delle  fonti,  coincide  però  In  grandissima 
parte  con  quello  datone  dall'Ascoli  nel  primo  dei  suoi  Studj  Critici 
(voi.  II);  e  se  di  questa  coincidenza  il  Delbriick  non  fa  motto,  egli 
è  perchè  il  suo  libro  vuol  essere  svelto  e  rapido  ,  e  deve  correr  dis- 
impacciato il  più  possibile  da  citazioni. 

Bopp  ebbe  molta  gratitudine  e  entusiasmo  per  Guglielmo  di  Hum- 
boldt, come  l'ebbero  di  poi  anche  Pott,  Schleicher,  Curtius.  Eppure, 
nota  il  Delbriick,  un  preciso  influsso  di  Humboldt  su  di  loro  non  si 


—  318- 
può  additare  in  nulla,  e  l'entusiasmo  ch'egli  ispirava  si  spiega  con 
le  grandi  qualità  morali  di  lui,  con  la  sua  coltura  universale,  con  la 
larghezza  e  perfezione  del  suo  spirilo,  sempre  inteso  alla  sintesi  ma 
sempre  nutrito  dell'analisi.  Del  resto,  sempre  il  benefico  influsso  di 
uomini,  come  l'H.,  larghi  di  mente  e  di  cuore,  é  difficile,  credo, 
concretarlo  in  modo  spicciolo,  perchè  consiste  soprattutto  in  quel 
loro  dar  altrui  coraggio  e  impulso,  con  l'aver  l'animo  sempre  pronto 
e  lo  spirito  sempre  adatto  a  finamente  intendere  e  a  calorosamente 
lodare  ogni  ricerca  nuova,  ogni  acuta  analisi,  ogni  ardita  sintesi , 
ogni  alto  pensiero  :  sicché  ognuno  è  sicuro  di  trovar  sempre  in 
loro  corrispondenza,  ajuto,  difesa,  incoraggiamento  ,  anche  in  mo- 
menti che  tutti  gli  altri  uomini  fossero  duri  e  chiusi.  Dall'Ascoli 
poi,  che  è  un  altro  dei  grandi  ammiratori  dell'  Humboldt,  ho  più 
volte  sentita  un'osservazione  assai  piena  di  verità;  che  1'  H.  è  ve- 
nuto troppo  presto  ,  poiché  all'  opera  sintetica,  a  cui  niuno  è  stato 
mai- più  adatto  di  lui,  non  erano  ancor  maturi  i  tempi  in  che  egli 
visse. 

Anche  con  Augusto  Guglielmo  di  Schlegel  era  il  Bopp  assai  legato 
dapprima,  ma  dopo,  per  l'umor  battagliero  dello  Schlegel,  si  guasta- 
rono, e  si  scambiarono  parecchi  frizzi.  Lo  Schlegel  fu  il  fondatore 
della  filologia  sanscritica  ed  è  quindi  «  dovuta  a  lui  una  gran  parte 
di  quella  gratitudine  che  la  grammatica  comparata  deve  alla  filologia 
sanscritica  ».  Ma  dal  Bopp,  che  in  mezzo  ai  suoi  grandi  lavori  com- 
parativi trovava  pure  il  tempo  di  far  buoni  libri  per  lo  studio  filo- 
logico del  sanscrito,  lo  Schlegel  pretendeva  troppo  ,  quando  lo  bia- 
simava pel  poco  studio  diretto  che  Bopp  facesse  dei  grammatici  in- 
digeni dell'India;  studio  per  il  quale  né  c'erano  allora  tutti  gli  ajuti 
necessari,  né  il  Bopp  avea  tutta  la  debita  propensione  o  il  tempo  di- 
sponibile. D'altro  lato,  anche  col  Bopp  in  quanto  comparatore  cre- 
dette doversela  prendere  A.  G.  Schlegel  quasi  per  obbligo  di  famiglia, 
posciaché  il  Bopp  sempre  più  s'allontanava  da  Federico  Schlegel  nel 
modo  di  considerar  la  genesi  delle  forme  grammaticali.  Minacciò 
egli.  Augusto  Guglielmo,  una  grand'opera,  un  Etymolopiciim  noviim 
delle  lingue  ariane,  ma  non  ne  fu  nulla.  Bensì  lo  schlegeliano  Lassen 
attaccò  con  molta  ironia,  in  una  recensione,  fredda  benché  equa,  dei 
lavori  grammaticali  del  Bopp,  la  dottrina  di  questi  intorno  alla  detta 
genesi  :  un  attacco  però  semplicemente  negativo,  che  in  ultimo  non 
sortì  alcun  effetto. 


J 


-  319  — 

Mentre  Bopp  fondava  la  grammatica  comparativa,  contem- 
poraneamente Jacopo  Grimm  dava  un  primo  e  stupendo  esempio  di 
grammatica  storica  nella  sua  Grammatica  tedesca  ;  ove  abbracciò, 
giusta  l'espressione  dell'Ascoli  «  con  gigantesco  amplesso  »,  tutte  le 
fasi  idiomatiche  della  parola  tedesca  dal  gotico  fino  ai  dialetti  mo- 
derni; sicché  da  lui  più  che  dal  Bopp  derivano,  come  nota  lo  stesso 
Ascoli,  il  Diez  (gramm.  neolatina),  il  Zeuss  (gr.  celtica),  il  Miklosich 
(gr.  slava),  ed  anche,  come  ricorda  il  Delbriick,  l'Ahrens  (dialettologia 
greca).  E  siccome  il  Grimm  non  doveva  scovrire  e  riconoscere,  come 
Bopp,  il  terreno,  essendo  l'affinità  del  gotico,  del  tedesco,  dell'olan- 
dese, dell'  islandese,  dell'  inglese,  ecc.,  un  fatto  d'evidenza  intuitiva  e 
da  nessuno  mai  disconosciuto,  cosi  egli  potè  rivolgere  tutta  la  sua 
attenzione  alle  leggi  fonetiche  secondo  cui  la  parola  tedesca  s'  era 
alterata  e  divariata  nel  tempo  e  nello  spazio,  e  soprattutto  a  quella 
gran  legge  della  rotazione  dei  suoni  (Lautverschiebung)  che  era  stata 
già  suppergiù  affermata  dal  danese  Rask,  e  che  diventò  la  bussola 
della  grammatica  tedesca  in  sé  stessa  e  nelle  sue  attinenze.  II  Grimm 
«  non  divenne  mai  un  glottologo  alla  maniera  del  Bopp,  né  dall'opra 
di  questo  trasse  tutti  quegli  ammaestramenti  che  avrebbe  potuto  »; 
ma  da  lui  e  da  Bopp  insieme  deriva  certo  l'indirizzo  storico  in- 
sieme e  comparativo  che  Io  studio  della  favella  ha  definitiva- 
mente assunto,  nonostante  le  resistenze  che  per  un  pezzo  opposero  i 
vecchi  maestri  di  lingue  classiche  (tra  cui  primeggiò  per  dottrina  e 
per  ostinazione  il  Buttmann). 

Sommo  fra  i  seguaci  di  Bopp  è  Augusto  Federico  Pott,  che  nelle 
sue  Ricerche  Etimologiche ,  disciplinando  sempre  più  rigorosamente 
la  fonologia,  dette  il  più  sicuro  fondamento  alla  etimologia,  e  gettò 
le  basi  del  lessico  comparativo.  Più  vicino  a  lui  il  Delbruck  pone 
Teodoro  Benfey,  riconoscendo  però  che  in  quanto  a  fonologia  questi 
non  segnò  alcun  progresso,  e  che  alcune  sue  teorie  son  troppo  arri- 
schiate, e  che  il  maggior  merito  suo  fu  nella  filologia  indiana ,  spe- 
cialmente per  l'avere  ei  primo  offerto  ai  glottologi  materiali  sicuri 
del  dialetto  vedico.  Altri  con  lui  (Rosen,  Roth  ,  Westergaard  ,  Max 
Moller,  Kuhn,  Aufrecht...)  contribuirono  all'accertamento  dei  mate- 
riali indiani,  levando  cosi  di  mezzo  una  causa  potente  d'  errore  pei 
comparatori,  che  non  aveano  usata  sufficiente  diffidenza  verso  i  così 
detti  indici  di  radici  sanscrite  ;  finché  si  venne  al  gran  monumento 
del    dizionario    sanscrito    petropoliiano  di  Bòhiiing    e    Roth  ,  che  fa 


-  320  - 

epoca  per  la  glottologia    non    meno  che  per    la    filologia   indiana.  E 
intanto  anche  pel  lituslavo  e  pel  celtico  gli  studi  progredivano. 

Ma  oltre  l'allargamento  delle  cognizioni  da  servire  di  fondamento 
alla  comparazione,  questo  periodo  della  nostra  scienza,  del  quale  ora 
si  parla,  fu  contrassegnato  da  una  più  rigorosa  determinazione  dei 
caratteri  individuali  propri  de'  singoli  rami  della  famiglia  indoeu- 
ropea. Nel  suo  studio  complessivo  di  tutta  questa  famiglia  Bopp  non 
badò  sempre  a  riconoscere  e  rispettare  quei  caratteri;  ed  è  naturale, 
poich'egli  era  tutto  inteso  alle  conformità  tra  le  lingue  sorelle. 
Egli  era  capace  di  confortare  un  trapasso  fonetico,  da  lui  voluto  per  il 
latino,  con  un  parallelo  armeno  ;  e  di  ridurre,  p.  es.,  xéxuqpa,  e  si- 
mili perfetti  aspirati,  a  perfetti  in  -Ka  come  lutti  gli  altri,  facendoli 
risalire  a  un  "■  xeruTT-Ka  e  simili,  di  cui  il  k  si  fosse  ridotto  a  h 
(T€Ti)n-lia,  TCTUcpa)  al  modo  germanico  (cfr.  ted.  e  ingl.  horn  =i  lat. 
conili,  gr.  Képa<;).  Or  fu  il  Curtius  che  dette  nel  campo  greco  il  più 
bell'esempio  di  reazione  a  quel  non  infrequente  sincretismo  boppiano, 
soprattutto  con  la  sua  classica  opera  sui  Fondamenti  della  etimologia 
greca  (i).   E  il  Corssen  farebbe  bene   il  pajo  con  lui,  come  principe 

(1)  Sul  Curtius  il  Delbriick  avrà  occasione  di  ritornar  più  volte  nei 
corso  del  libro,  sia  per  considerare  la  soluzione  dal  Curtius  tentata  del  pro- 
blema ,  come  via  via  si  formasse  il  sistema  grammaticale  dell'  idioma 
protoariano,  sia  per  lodare  o  discutere  alcuni  criteri  metodici  da  esso  rac- 
comandati per  le  ricerche  glottologiche  in  genere.  Noi  intanto  non  pos- 
siamo qui  tenerci  dal  ricordare  quanto  la  Grammatica  Greca  del  Cur- 
tius abbia  giovato  in  Italia,  sì  a  ravvivai'6  e  raddrizzare  gli  studi  greci, 
e  sì  a  suscitare  e  diftbndere,  insieme  alle  belle  Letture  di  Max  MuUer, 
l'amore  per  gli  studi  comparativi-  E  quando  dalla  grammatica  sou  ri- 
saliti agli  Schiarimenti  alla  f/rammaticai  ai  Fundamenti  di  etim.  (jr., 
e  agli  altri  scritti  del  Curtius,  gli  studiosi  italiani  hanno  trovato  in  esso 
un  geniale  manoduttore,  e  quasi  un  seduttore,  agli  studi  linguistici  :  in 
grazia  soprattutto  dello  stile  suo  limpido,  tranquillo,  lontano  insieme 
dalla  esuberanza  e  dalla  soverchia  densità,  e  non  privo  di  tratti  vivaci 
ed  arguti  (e  sugl'Italiani  le  qualità  dello  stile  hanno  di  solito  molta  ef- 
ficacia, sia  attraente,  sia  repellente);  ed  in  grazia  anche  di  quella  sua 
serenità  e  rettitudine  d'animo,  di  quella  mitezza  senza  fiacchezza,  di  quella 
dignità  senza  orgoglio,  che  traspajon  sempre  da  ogni  pagina  dei  suoi 
libri  e  per  poco  non  ho  detto  perfin  dai  paradigmi  delle  sue  gramma- 
tiche ,  e  che  fan  lui  amato  non  mon  che  ammirato  da  tanti  a  lui  scono- 
sciuti, sì  che  qualcosa  di  simile  a  quel  che  si  disse  dello  Schiller,  che 
cioè  se  anche  non  era  il  più  grande  era  il  più  simpatico  tra  i  poeti  te- 
deschi, si  potrebbe  dire  di  lui  tra  i  tedeschi  glottologi. 


-  321  — 

nel  campo  italico,  se  insieme  a  grandi  pregi  non  fossero  stati  in  lui 
gravi  difetti,  dimostrati  soprattutto  dall'Ascoli,  e  s'egli  non  avesse 
avuto  il  torto  di  spingere  quella  reazione  ad  una  esagerazione  gran- 
dissima. 

Il  terzo  capitolo  è  consacrato  ad  Augusto  Schi.eicher,  così  imma- 
turamente rapito  alla  scienza  !  Mostra  il  Delbruck  assai  giustamente, 
ma  con  più  insistenza  forse  che  non  bisognasse,  che  sullo  Schleicher 
l'influenza  dell'  Hegelismo  negli  anni  giovanili,  e  delle  scienze  natu- 
rali (in  cui  era  più  che  un  dilettante)  nell'età  più  provetta,  fu  molto 
estrinseca  e  superficiale,  e  si  fé'  risentire  piuttosto  nella  terminologia 
e  nelle  comparazioni  e  nelle  immagini,  che  nel  pensiero  scientifico 
vero  e  proprio.  Se  nella  classificazione  ternaria  delle  lingue,  in  iso- 
lanti, agglutinanti  e  flessive,  lo  Schleicher  fu  lieto  di 
ritrovare  i  tre  momenti  hegeliani,  quella  classificazione  però  gli  era 
risultata  per  via  dell'osservazione,  e  sulla  traccia  già  data  da  Federico 
Schlegel  e  da  Guglielmo  di  Humboldt  ;  e  in  sostanza  poi  aveva  la 
sua  vera  base  nel  concetto  boppiano  che  la  flessione  sia  in  fondo  com- 
posizione. Anche  nel  considerare  tutte  le  favelle  ariane,  sin  le  più  an- 
tiche e  superbe,  come  aventi  già  compiuto  il  terzo  momento  e  come 
entrate  nel  periodo  della  decadenza  e  della  dissoluzione,  Schleicher 
seguiva  Bopp;  e  tutt'al  più  hegelizzava  nell' affermare  che  le  fasi  a- 
scensive  del  linguaggio  siano  state  percorse  tutte  nell'epoca  preistorica, 
e  che  nell'epoca  storica  sia  già  cominciata  la  tendenza  discensiva  (i). 

Dal  naturalismo  dello  Schleicher  deriva  invece  la  sua  persuasione 
che  la  lingua  sia  un  organismo  naturale,  vivente  come  tale,  e  che  la 
linguistica  sia  una  scienza  naturale,  e  da  trattarsi  col  metodo  natu- 
ralistico. Tre  sentenze  inesatte,  perchè  né  la  lingua  è  un  vero  o  r- 
g  a  n  i  s  m  o  :  se  mai,  è  una  funzione;  né  può  essere  una  scienza 
naturale  quella  che  studia  un  fatto  umano,  sociale,  storico,  qual  è  il 
linguaggio;  né  infine  esiste  propriamente  un  metodo  che  sia  comune 
a  tutte  le  scienze  naturali. 


(1)  Bisognava  forse  meglio  specificare  perchè  in  questo  concetto  vi  sia 
dell'Hegelismo.  Perchè  quanto  al  concetto  del  preistorico,  non  pare  in 
verità  ch'esso  giuochi  troppo  nel  sistema  dell'  Hegel.  Piuttosto,  siccome 
per  Hegel  ciò  che  risulta  dalla  triplice  evoluzione  dà  luogo  poi  a  una 
nuova  triplice  evoluzione,  così  può  parere  hegeliano  il  concetto  che  la 
lingua,  dopo  i  due  stadi  anteriori  divenuta  flessiva  (terzo  stadio),  entri 
poi  in  un  nuovo  svolgimento  discensivo. 


-  322  — 
Oltre  i  suoi  lavori  d'  indole  più  speculativa  ,  lo  Schleicher  coltivò 
il  campo  slavo,  con  grandissimo  successo;  e  infine  diede  col  suo  ce- 
lebrato Compendio  un  quadro  di  tutta  la  famiglia  ariana,  in  forma 
rigida  e  concisa,  dando  il  debito  risalto  a  ciascuna  favella  nei  suoi 
tratti  individuali,  e  sviluppando  largamente  la  fonologia.  Molto  di- 
verso così  dal  Bopp  per  la  forma,  giacché  Bopp  avea  scrittola  Gram- 
matica nel  calore  della  scoperta,  sotto  forma  d'indagine,  e  Schleicher 
scriveva  colla  tranquilla  precisione  di  chi  espone  una  dottrina  già  da 
un  pezzo  acquisita.  Rimase  però  boppiano  nelle  dottrine  e  nelle  opi- 
nioni ;  pur  ritoccandole  qua  e  là  o  accettando  i  ritocchi  di  Pott  e  di 
altri.  II  suo  ingegno,  più  metodico  che  intuitivo,  lo  portava  a  guar- 
dare con  poca  simpatia  le  ricerche  etimologiche  e  a  dare  alle  leggi 
fonetiche  già  acquisite  un  valore  troppo  definitivo:  dimenticava  un 
poco  che  le  scoperte  etimologiche  son  sempre  la  vera  fonte,  dell'am- 
pliamento della  grammatica  comparata  e  possono  dar  luogo  a  nuove 
leggi  fonetiche,  più  larghe  o  più  strettamente  condizionate  di  prima 
(nella  qual  via  etimologica  è  stato  poi  tanto  benemerito  il  Pick). 
Trattando  poi  la  materia  in  modo  teorematico  anziché  problematico, 
cioè  applicando  la  form-i  deduttiva  a  dottrine  trovate  dal  Bopp  e  da 
altri  per  la  via  induttiva,  naturalmente  lo  Schleicher  venne  a  dare 
maggiore  importanza  alla  ricostruzione  del  termine  protoariano,  che 
gli  dovea  servire  di  punto  di  partenza  per  la  trattazione  del  termine 
indiano,  iranico,  greco,  latino,  germanico,  ecc.  E  così  nella  cura, 
che  mise  nella  ricostruzione  ipotetica  del  linguaggio  indoeuropeo  an^ 
cora  indiviso,  consiste  la  maggior  parte  della  sua  originalità.  Certo. 
talora  eccedette  ricostruendo  una  forma  più  integra  e  perfetta  di  quel 
che  la  comparazione  delle  varie  lingue  additerebbe:  p.  cs.,  come  proto- 
tipo de'  nominativi  màter,  inriTrip,  sscr.  mata,  ant.  alto  ted.  muoter  ecc., 
stabilì  màtars,  dove  invece  bastava  màtàr,  che  è  l'immediato  proge- 
nitore del  termine  latino,  greco,  sanscriiico,  ecc.,  anche  se  in  una 
fase  più  antica  sia  stato  màtars.  Inoltre,  egli  partecipava  alla  ten- 
denza di  parecchi  altri  linguisti,  nel  supporre  che  l'idioma  originario 
avesse  un  numero  più  ristretto  di  suoni,  che  poi  nelle  singole  lingue 
venisse  più  o  meno  aumentando;  dimodoché  lo  stato  del  vocalismo 
protoariano  fosse  rappresentato  dal  sanscrito,  e  quel  del  consonantismo 
dal  greco.  Ora  invece  prevale  fra  molti  linguisti  una  sentenza  op- 
posta ;  la  quale,  ascrivendo  un  più  gran  numero  di  suoni  alla  favella 
originaria,  di    cui    alcuni    si    sarebbero  poi  in  alcune    lingue  nuova- 


—  323  - 

mente  sperduti,  vuole  che  il  vario  e  ricco  vocalismo  greco  rappre- 
senti suppergiù  il  vocalismo  ariano  originario,  e  per  converso  il  con- 
sonantismo originario  sia  suppergiù  conservato  dal  sanscrito.  Una 
volta  si  diceva  :  —  la  lingua  originaria  avea  solo  a  ,  i  qò.  u  ,  poiché 
a  questo  stato  è  rimasto  il  sanscrito,  e  in  un  certo  senso  lo  zendo, 
e  IV,  che  le  lingue  europee  mostrano  in  molti  vocaboli  comuni,  s'è 
sviluppata  in  esse  dopo  la  loro  separazione  del  ramo  asiatico.  E 
quanto  alle  consonanti,  la  lingua  ariana  originaria  avea  solo  il  k  gut- 
turale, come  è  in  greco,  in  latino  (non  neolatino)  ecc.\  il  e'  palatale 
e  la  sibilante  e,  che  sottentrano  talora  al  k  in  sanscrito  e  in  zendo, 
si  sono  sviluppati  nel  ramo  asiatico  quando  questo  era  già  staccato 
dall'europeo.  E  il  lituslavo,  che  solo  tra  gl'idiomi  europei  ha  la  si- 
bilante là  dove  l'ha  il  ramo  asiatico,  l'ha  svolta  per  conto  suo,  o 
la  ha  per  aver  convissuto  un  po'  di  più  col  ramo  asiatico.  —  Ora 
invece  si  dice:  il  k  era  già  intaccato  in  alcune  parole  nel  lin- 
guaggio indoeuropeo  ancora  indiviso,  e  questo  intacco  è  che  ha  dato 
quei  risultati  comuni  al  lituslavo  e  all'indoirano,  ma  nelle  altre  lingue 
europee  l'intacco  è  sparito,  ed  il  suono  gutturale  s'è  risanato.  E 
Ve,  siccome  non  è  estranea  interamente  all'Asia,  perchè  c'è  nell'ar- 
meno, così  la  dev'esserci  stata  nella  lingua  fondamentale,  e  solo  nel- 
l'India e  neirirania  in  epoca  più  o  meno  antica  essersi  poi  fatta  o  ri- 
fatta a.  Tanto  più  che  s'è  osservato  come  bene  spesso  in  Asia  il  suono 
palatale  sorga  dal  suono  gutturale  per  influsso  di  un  /  seguente,  come 
p.  es.  nel  sscr.  ògijàn  comparativo  di  iigri'is  ;  ovvero  per  influsso  di 
un'^,  ma  di  quella  sola  a  cui  corrisponde  nelle  lingue  europee  un'e, 
come  p.  es.  nel  sscr.  c'akara  perfètto  di  kar-  fare,  cui  si  confronti 
KÉKauKa  perfetto  di  kou-  bruciare;  il  che  dunque  vuol  dire  che  quell'a; 
fu  e.  Il  ka-  di  raddoppiamento,  insomma,  prima  che  il  linguaggio 
indoeuropeo  si  scindesse  sarebbesi  fatto  ke,  e  poi  ce  o  almeno  k^e  ^ 
donde  da  un  lato  il  sanscrito  posteriore  c'a-  con  la  vocale  risanata, 
dall'altro  il  greco  K^-{ke)  con  risanata  la  consonante.  E  anche  l'o  do- 
veva essere  già  nato  nell'idioma  ariano,  soprattutto  nelle  terminazioni. 
L'autor  primo  e  vero  della  dottrina  concernente  la  gutturale  ariana 
è  stato  l'Ascoli,  appresso  al  quale  sono  andati  il  Pick,  l'Havet,  e  altri 
glottologi  stranieri.  Ed  io,  come  italiano,  non  posso  pensare  senza 
un  certo  orgoglio  che  l'Italia,  ultima  venuta  negli  studi  linguistici,  sia 
stata  già  in  grado,  grazie  all'Ascoli,  di  fare  una  così  cospicua  espor- 
tazione  di  nuove  dottrine  in  paesi  stranieri,  anche  in   quelli  dove 


—  324  — 
la  glottologia  è  nata  e  divenuta  adulta.  Né  posso  senza  vivo  compia- 
cimento legger  parole  come  quelle  che  il  Curtius  scrive  nella  quinta 
ed  ultima  edizione  del  suo  capolavoro:  «  erst  Ascoli's  mit  ebenso 
staunenswerther  Gelehrsamkeit,  wie  bewundernswurdigem  Scharfsinn 
auf  klare  Ziele gerichtete  Uniersuchungen  brachen  hier  neue  Bahnen  »  (  i  • 
E  l'Ascoli  è  pure  l'autore  indiretto,  1'  air\oc,  se  non  l'autore,  dell'altra 
dottrina  concernente  1'  e  protoariana,  con  tanto  acume  e  tanta  copia 
d'indagini  proposta  e  propugnata  da  dotti  tedeschi  e  da  qualche  fran- 
cese. E  le  due  dottrine  sono  strettamente  connesse,  infatti,  oltreché  da 
contatti  reali,  anche  da  congruenza  metodica;  sicché  non  si  può 
senza  maraviglia  vedere  come  il  Curtius,  che  tanto  buon  viso  fa  alla 
dottrina  de!  duplice  A-,  guardi  ancora  con  tanto  sospetto  e  malavoglia 
la  dottrina  dell' e  {2).  Il  disgusto  ch'egli  mostra  per  la  complicazione 
che  nasce  dalle  notazioni  a*,  a^  (3)  —  disgusto  inverila  che  si  può 
ammettere  dal  punto  di  vista  didattico,  ma  dal  punto  di  vista  scien- 
tifico non  si  sa  capire  —  si  potrebbe  e  dovrebbe  con  altrettanta  ra- 
gione, o  meglio  con  altrettanto  torto,  mostrare  anche  verso  i  A-,  ,  A, 
e  simili  notazioni,  contro  i  quali  il  Curtius  non  è  insorto!  E  un  altro 
po'  di  contradizione  noi  la  troviamo  in  ciò,  che  egli  ai  fautori  dell' e 
protoariana  oppone  che  la  gran  mobilità  che  é  propria  delle  vocali 
renda  molto  difficile  il  fissare  qual  ne  sia  il  suono  più  antico  (op. 
cit.,  p.  9?  ,  mentre  questo  scrupolo  non  ha  mai  impedito  a  lui  di 
fissare  che  il  suono  della  vocale  ariana  fosse  solo  a  (e  non  e  ,  0  \ 
Senza  dire  poi  che  simili  massime  scettiche  colpirebbero  di  sterilità 
prestabilita  tutti  i  piìi  nobili  e  ingegnosi  conati  dei  ricercatori.  An- 
cora vorrei  dire  che  l'osservazione,  in  sé  giustissima,  ch'egli  fa,  come, 
essendo  l'alfabeto  sanscrito  tanto  ricco  e  minuto  e  preciso  nella  distinta 
rappresentazione  dei  suoni ,  debba  parere  strano  che  giusto  esso  si 
rassegnasse  a  confondere  nel  segno  ^  tre  suoni  diversi  [a,e,o],  perde  vjfia 
parte  del  suo  valore  se  si  consideri  che  almeno  Va  breve  non  è  espressa 


(1)  «  Prime  ad  aprir  qui  nuove  vie  furou  le  ricerche  dell'Ascoli,  in- 
dirizzate da  lui  ad  una  meta  precisa,  con  una  erudizione  che  reca  stu- 
pore e  con  un  acume  maraviglioso  »:  Grundznge'',  p.  83. 

(2)  Vedi  Grundzuge,  ^83-94. 

(3)  Con  a'  indicano  alcuni  dei  novatori  Va  ariana  che  suonava,  se- 
condo essi,  già  quasi  e  ^altri  .scrivono  a'  ;  con  a*  1'  a  che  a  parer  loro 
inclinava  al  suono  0   (a"). 


—  325  — 
direttamente  dall'alfabeto  sanscrito  se  non  quando  fa  sillaba  da  sé, 
che  del  resto  ogni  consonante  o  gruppo  di  consonanti  porta  con  sé 
sottintesa,  come  tutti  sanno,  la  sua  a  breve,  se  altra  vocale  non  è 
espressamente  notata  ;  il  che  potrebbe  indicare,  o  almeno  ammettere, 
l'oscillazione  nel  timbro  di  questa  vocale,  che,  considerata  come  sem- 
plice appoggio  della  consonante,  non  si  scriveva  neppure.  Molto  più 
valore  ha  invece  l'altra  objezione  del  Curtius,  che  cioè  la  storia  del- 
l' a  in  altre  favelle,  p.  es.  nelle  romanze,  nelle  germaniche,  dimostri 
come  sia  infinitamente  più  facile  che  1'^  s' annebbi  e  si  restringa  in 
e  e  in  altre  vocali,  anziché  le  altre  vocali  assurgano  ad  a,  il  che  non 
si  verifica  se  non  in  linea  affatto  eccezionale.  Apparisce  dunque  un 
po'  strano  che  nell'indo-perso  avvenisse  un  così  pieno  ritorno  al  suono 
chiaro  della,  quando  questo  fosse  già  stato  in  date  parole  abbando- 
nato. Né  questo  ritorno  si  può  evitare  dai  fautori  dell' e  protoariana, 
poiché,  come  fu  già  da  altri  osservato,  checché  si  pensi  del  sanscrito, 
certo  le  favelle  dell'India  moderna  hanno  chiaramente  1'  a. 

Ma  una  consimile  argomentazione  può,  mi  sembra  ,  applicarsi  in 
un  certo  senso  anche  contro  la  dottrina  del  duplice  k  indoeuropeo  ; 
e  mi  si  consenta  d'insistere  qui  un  poco  su  questo  punto.  Veramente, 
molte  ragioni,  tra  cui  principalissima  la  molta  esitazione  ch'io  debbo 
avere  a  metter  bocca  in  così  ardue  questioni  ,  mi  vorrebbero  disto- 
gliere dall' aggiunger  più  parole  intorno  ad  esse.  Ma  io  non  intendo 
qui  formulare  se  non  dei  dubbi,  nella  speranza  che  essi  mi  sien  tosto 
risoluti  da  qualcuno  dei  molti  che  ne  san  più  di  me  o  dei  pochi  che 
ne  san  più  di  tutti;  e  pur  questi  meri  dubbi  mi  parrebbe  arroganza 
il  presentarli  in  altro  scritto  che  non  fosse,  come  questo,  un  discorso 
bibliografico  molto  alla  buona. 

In  primo  luogo,  senza  affermare  recisamente  con  il  Bréal  che  in 
fonologia  non  si  abbia  esempio  «  di  un  suono  che,  dopo  essersi  al- 
terato, abbia  fatto  ritorno  alla  sua  primiera  purezza  »  (i),  perchè  di 
tali  esempi  invece  ve  n'è  ormai  parecchi,  ei  non  si  può  però  disconve- 
nire che  il  caso  di  un  e  più  o  meno  palatale  o  palato-dentale  che  si 
rifaccia  k  limpidamente  gutturale,  se  occorre  in  questo  o  quel  dia- 
letto (2],  non  si  può  però  dire  un  fatto  fonetico  di  natura  generale  e 


(1)  Citato   dal    sig.  prof.  Pezzi  nella    Glottoloqia    aria    recentissima, 
p.  8-9. 

(2    Per  es.,nel  sardo  logudorose  dulchi;  (dulko)  e  sim.  abbiamo  il  la- 


-326  - 

normale,  bensì  ha  tutto  l'aspetto  d'un'affezione  sporadica  e  quasi  mor- 
bosa (morbosa,  benché  si  tratti  d'un  risanamento;  che  incolga  in  via 
affatto  eccezionale  qualche  singolo  linguaggio.  Di  regola,  una  guttu- 
rale, una  volta  fatta  più  o  men  palatale,  non  ritorna  allo  stato  pri- 
miero gutturale.  Mentre  qui  si  tratterebbe  di  un  ritorno  che  sarebbe 
successo  su  larghissima  scala,  nientemeno  che  in  quasi  tutte  le  fa- 
velle europee  di  origine  ariana  I 

Ma,  in  secondo  luogo,  anche  si  trattasse  di  un  fenomeno  semplicis- 
simo, usuale,  come  può  essere,  p.  es.,  la  degenerazione  delle  aspirate  in 
spiranti  ;  anche  se  il  ripristinamento  della  gutturale  piia  o  meno  palata- 
lizzata non  fosse  un  fatto  di  carattere  anormale  ed  insolito;  resterebbe 
sempre  questo  da  dire  :  poiché  codesto  risanamento  sarebbe  comune 
al  greco,  all'italico,  al  celtico,  al  germanico,  dovrebb'  essere  stato  fatto 


tiuo  dulce-  dulke-)  che  fattosi  prima  dulc'e- in  tutto  il  romano  volgare 
s'è  poi  rifatto  dulke  nel  Logudoro  lArch.  Gioii.,  II,  143;;  e  qualcosa  di 
simile  si  ha  nel  dialetto  dell'isola  di  Veglia  nel  Quarnero  {Arch.  GL,  I, 
437  n.).  Anche  nel  k  piccai'do  e  normanno  a  fronte  del  eh  (che  fu  e'  e 
poi  sh]  francese-comune  in  cheval  e  simili,  vede  1' Ascoli  un  semplice 
ricorso  (in  questa  Rivista,  X,  p.  34  n.).  —  Pel  rumeno  invece  son  da 
vedere  le  osservazioni  del  DiEZ  nella  Grammatica;  e  vedile  anche  per  le 
forme  come  l'it.  rudicn.,  il  uapol.  jureche  ecc.,  per  le  quali  confrontisi 
pure  Arch.,  II,  435;  e  pel  preteso  or  ritorno  or  rinforzo  di  palatale  in 
gutturale  nelle  forme  verbali  italiane  come  fuggo,  salgo,  rimango  ecc. 
si  può  vedere  la  mia  Grammatica  Portoghese ,  p.  38  n.;  e  mera  illu- 
sione, come  avrò  occasione  d'insistere  altrove,  sono  i  gh  [g]  notigiani  di 
Sicilia  per  g  =  g  [e,  i)  latino,  il  valor  dei  quali  fu  già  stremato  dal- 
l'AscoLi,  Arch..  II,  457.  —  Notevole  pure,  sebben  di  natura  alquanto 
diversa  dal  fatto  del  sardo  e  del  veglioto,  è  quello  del  napoletano  rashco 
e  del  leccese  rascu,  io  raschio,  e  simili,  di  fronte  all'abruzzese  rashchjo 
e  simili  (con  chj  s'intende  rappresentato  un  unico  suono  palatino  che  si 
avvicina  al  e"  ladino,  e  non  e  un  bel  k  -\- J  come  quello  del  toscano  ra- 
schio]-^ e  forse  anche  quello  del  valacco  chcm''  chiamare,  ghem  glomus, 
e  simili.  —  Ma  ciò  che  soprattutto  importa  qui  notare  si  è,  che  codesti  fe- 
nomeni di  gutturale  ricorrente  sono,  come  si  vede,  fatti  locali,  speciali 
di  singole  favelle  neolatine,  le  quali  in  ciò  stuonano  non  solo  dalla  in- 
tera famiglia  romanza  ma  anche  dal  particolai'p  ramo  di  questa  a  cui 
ciascuna  di  esse  appartiene.  Ed  appunto  perchè  si  tratta  di  vezzi  locali, 
rarissimi,  isolati  in  mezzo  all'uso,  generale  nel  campo  romanzo,  delle 
palatali  e  lor  succedanei,  è  parso  in  fine  strano  il  più  ravvisarvi  la  con- 
servazione arcaica  e  diretta  dell'antica  gutturale  latina;  la  quale  non  si 
capirebbe  come,  alteratasi  in  tutto  1'  ambiente  neolatino,  si  preservasse 
solo  in  due.o  tre  punti  o  piccole  strisce  idiomatiche. 


-  327  — 
in  comune  da  tutti  codesti  idiomi,  vale  a  dire  in  un'epoca  in 
cui  vivessero  ancora  di  identica  vita,  e  costituissero  ancora  un  unico 
idioma.  È  stato  sempre  un  postulato  concordemente  ammesso  nella 
nostra  disciplina,  anzi  è  il  postulato  su  cui  essa  addirittura  si  fonda, 
questo:  che  un'alterazione  fonetica,  una  forma  grammaticale,  un  dato 
vocabolo,  che  sia  comune  a  tutte  o  quasi  tutte  le  lingue  di  una  data 
famiglia,  debba  essere  stato  proprio  anche  della  rispettiva  lingua 
madre,  prima  che  si  scindesse  nelle  singole  lingue.  E  questo  postu- 
lato, soggetto  certamente  ad  alcune  riserve  (vedi  p.  es.  Ascoli,  Siudj 
Crii.,  II,  p.  83  segg.),  non  pare  sia  per  perder  credito,  che  pur  jeri 
l'Ascoli  nella  sua  bellissima  Lettera  Glottologica  pubblicata  in  questa 
stessa  Rivista,  lo  applicava  all'  no  romano  volgare  da  o  latino.  Né 
può  poi  dirsi  che  non  sia  da  applicare  a  questo  caso  nostro,  in  cui 
si  vedrebbero  greco,  italico,  germanico,  cello,  accordarsi  così  per- 
fettamente in  un  fatto  fonetico  così  cospicuo  ,  quale  il  risanamento 
della  gutturale  già  intaccata  nella  fase  ariana.  Bisognerebbe  dunque 
supporre  che  un  tal  risanamento  avvenisse  in  quella  che  il  Lottner,  il 
Curtius,  il  Fick  e  gli  altri,  han  chiamata  lingua  europea  fon- 
damentale. Ma  allora,  è  il  caso  di  dire,  perchè  il  lituslavo  non 
vi  partecipa  ?  Ed  ecco  che  quella  stonatura  che  faceva  il  lituslavo 
tra  le  lingue  europee  per  aver  sol  esso  fatti  in  comune  coll'indoirano 
una  serie  d'intacchi  del  k,  si  viene  a  riprodurre,  sotto  un  opposto 
punto  di  vista,  se  ammettiamo  che  quegl'intacchi  fossero  stati  già  co- 
muni a  tutte  le  lingue  europee  e  che  tutte  si  accordassero  a  risanarli 
eccetto  il  lituslavo  (i).  Sempre  il  lituslavo  fa  parte  per  se  stesso,  e, 
quale  sfinge,  getta  in  faccia  ai  glottologi  il  suo  enigma. 

L'esempio  del    sardo    logudorese  che  l'Ascoli  ha  ricordato  (2),  — 
con   tanto    più    di    diritto    in   quanto  è  stato  lui  a  mostrare   che  nel 


(1)  Questa  piccola  argomentazione  non  l'ho  tolta  a  nessuno,  essendomi 
sorta  in  mente  fin  da  quando  uscirono  1  Corsi  di  Glottologia.  Ma  vedo 
che  essa  traspare  anche  da  alcune  concise  parole  del  Bréal  riferite  dal 
Pezzi,  op.  cit.,-p.  9:  «  l'ipotesi  non  vale  che  a  spostare  il  problema, 
perocché,  s'ella  ci  mostra  per  qual  causa  l'alterazione  esista  nelle  me- 
desime parole  in  slavo  ed  in  sanscrito,  non  ci  fa  comprendere  la  cagione 
per  cui  la  guarigione  ebbe  luogo  uniformemente  in  latino,  in  greco,  in 
gotico,  in  celtico  ». 

(2)  Studj  Critici^  II,  p.  28. 


-  328  - 
sardo  diilche  e  simili  non  s'avesse  più  a  vedere  la  continuazione  di- 
retta del  suono  latino  come  volea  il  Diez  (i),  — l'esempio,  dico,  del 
sardo,  e  gli  altri  esempt  che  poco  fa  ho  io  ricordati  in  nota,  se  qua- 
dran  benissimo  per  dimostrare  la  possibilità  del  ritorno  della 
palatale  a  gutturale,  non  son  certo  adeguati,  limitati  come  sono  a  sin- 
goli subdialetti  neolatini,  a  dimostrare  la  probabilità  del  fenomeno 
stesso  in  una  così  vasta  estensione  geografica  e  idiomatica,  qual  sa- 
rebbe quella  che  risulta  dal  greco,  latino,  celtico,  germanico,  som- 
mati insieme.  Perfino  il  risanamento  del  kv  in  k  si  mostra  soltanto 
a  strisce  qua  e  là,  cioè  nel  lituslavo,  nel  neojonico  (kujc;  kóte;  ecc.), 
e  nell'ibernio  tra  i  dialetti  celtici  fi):  eppure,  esso  è  ben  più  facile 
intrinsecamente  che  non  sia  quello  di  e'  o  A"'  in  A'  !  Nò  giova  troppo 
il  dire  che  fosse  un  A-  molto  leggermente  intaccato,  e  quindi  assai 
facile  a  ricondursi  '  in  pristinum  '  quel  ìc^  da  cui  sarebbesi  svolta  in- 
dipendentemente la  sibilante  indoirana  da  un  lato  e  la  sibilante  litu- 
slava  dall'altro.  Senza  dire  che  un  cosiffatto  sviluppo  conforme  e  in- 
dipendente della  sibilante  dalla  palatale  in  due  diversi  rami  idiomatici 
presenterebbe  non  poca  difficoltà  anche  se  al  momento  di  separarsi 
essi  avessero  avuto  un  vero  e'  palatale,  e  che  tanto  più  cresce  questa 
difficoltà  quanto  più  il  A"  intaccato  si  suppone  ancora  lontano  dal- 
l'esser  giunto  sino  a  un  vero  e'  palatale  (3)  ;  ei  c'è  inoltre  questo  da  av- 
vertire, che  in  tutti  i  modi  quell'intacco,  toslochè  sarebbe  stato  capace 
di  condurre  o  avviare,  in  quei  due  rami  diversi,  ad  una  degenera- 
zione COSI  profonda  qual  è  quella  in  sibilante,  non  potrebbe  mai  es- 
sere stato  così  misera  cosa,  da  dileguarsi  poi  con  tanta  facilità  nelle 
altre  lingue  europee.  In  altri  termini,  o  quest'intacco  è  quasi  niente 
e  poco  si  capisce  come  abbia  avute  cosi  gravi  conseguenze  in  due 
separati  rami  della  famiglia  ariana,  ovvero  «  pensando  l'alto  effetto 
ch'uscir  dovea  di  lui  »  noi  ce  lo  rappresentiamo  come  qualcosa  di 
cospicuo,  e  allora  non  si  capisce  come  esso  si  sia  cosi  ben  dileguato 


(1)  E  come  avea  ripetuto  pur  allora  il  Joket  nel  suo  libro  ])u  C  dans 
les  langnes  romanes. 

(2)  Cf.  Ascoli,  Corsi  ecc.,  p.  76,  89-90.  —  Qui  naturalmente  prescin- 
diamo dal  k  z=  qu  nelle  fasi  moderne  della  parola  latina  lital.  chi ,  sp. 
quien  l:=kien],  calidad  ecc.),  di  che  vedi  l'Ascoli  stesso  in  questa  Ri- 
vista, X,  14  segg. 

(3)  L'Havet  lo  fa  vero  e'. 


4 


—  329  - 
in  tutti  gli  altri  rami.  Insomma,  a  non  preoccuparsi  di  conseguenze 
ulteriori  che  possan  venire  dalla  storia  delle  gutturali,  a  guardare  ai 
soli  fatti  che  avvertiti  da  Bopp  son  poi  stati  ridotti  a  così  splendida 
evidenza  dall'  Ascoli,  la  cosa  più  verisimile  sarebbe,  che  da  un  lato 
l'indoirano  e  il  lituslavo  abbiano  condotto  in  comune,  prima  di  se- 
pararsi, la  gutturale  fino  a  suonar  sibilante,  e  dall'altro  le  altre 
favelle  europee  abbiano  serbata  la  gutturale  primitiva  senza  averla 
mai,  neanche  transitoriamente,  alterata  o  intaccata  (i).  Sennonché,  è 
egli  poi  necessario  il  dedurre  da  questo,  come  faceva  il  Bopp,  che  il 
lituslavo  fosse  rimasto  in  Asia  più  a  lungo  di  tutte  le  altre  lingue 
europee  ?  O  quel  dualismo  che  è  tra  il  k  europeo  e  la  sibilante  ario- 
slava  non  potrebbe  farsi  risalire  alla  stessa  lingua  madre  indoeuropea, 
ammettendo  che  questa  fosse  già  suddivisa  in  dialetti,  un  gruppo  dei 
quali  tenacemente  conservasse  il  prisco  /e ,  e  un  altro  l'avesse  già  al- 
terato ?  —  Io  ben  vedo  che,  sdrucciolando  così  dai  miei  dubbi  nega- 
tivi in  un'altra  serie  di  dubbi  che  si  potrebbero  dir  positivi,  io  vengo 
a  meritare  sempre  più  la  taccia  d'indiscreto  ;  ma  è  proprio  vero  quel 
che  disse  Cicerone  (fam.  5,  22,  9),  che  «  qui  semel  verecundiae  fines 
transierit,  eum  bene  et  naviter  oportet  esse  impudentem  !  ». 

Che  la  lingua  madre  indoeuropea  dovesse   essere   già   suddivisa  in 
parecchi  dialetti,  sembra  doversi  affermare  a  priori.  Noi    non  cono- 


1)  Qui  parliamo  dell'una  serie  di  k.  Quanto  a  quell'altra  serie  che 
suol  esser  rappresentata  da  kv  europeo,  noi  non  abbiamo  bisogno  d'oc- 
cuparcene. Stando  a  una  dottrina  esposta  da- Giovanni  Schmidt  [Kuhn's 
Ztschft,  XXV,  135  segg.\  e  che  infine  mette  capo  anche  ad  alcune  con- 
fessioni dello  stesso  Curtius  [Griindz.,  '444,  ^486),  il  doppio  esito  greco, 
cioè  l'esito  labiale  in  una  classe  di  parole  (irÓTepoc,  ecc.)  e  dentale  in 
un'altra  (tiì;,  ecc.)  proverrebbe  dal  trovarsi  nella  prima  classe  il  k  avanti 
a  vocale  aspra,  e  nella  seconda  avanti  a  vocale  dolce  (e,  /)  e  a  j.  Cioè 
che  avanti  e,  i,  J,  si  sai'ebbe  avuto  un  e'  palatale  ario-greco,  che  poi  in 
greco  si  sarebbe  fatto  t.  Anche  avanti  a  _;  s'è  detto ,  giacché  per  lo 
Schmidt  la  forma  ■niaow,  p.  es.,  riverrebbe  non  già  a  *TTe7T-ja),  bensì  a 
un  *iTeT-juj,  che  starebbe,  p.  es.,  a  ireTiTÓc; ,  irÉTriJuv  ecc.  come  tic;  a  uó- 
Tepo<;  ;  e  di  cui  il  t  corrisponderebbe  al  e'  del  sanscrito  pac'jf'té,  comi; 
il  T  di  TG  risponde  al  e'  di  c'a.  Se  questa  dottrina,  sulla  quale  non  son 
in  grado  di  portare  alcun  giudizio,  com'è  atti'aente  in  molti  punti,  così 
potesse  dirsi  sicura,  noi  avremmo  che  anche  il  greco  avrebbe  avuto  ab 
origine  le  sue  palatali;  ma  beninteso  in  quell'altra  serie  di  ^,  che  non  è 
quella  che  finisce  a  sibilante  ario-slava. 

'Hivisla  di  filologia  ecc.,  X.  22 


-  330  - 

sciamo  in  questo  mondo  alcuna  favella  che  non  presenti  suddivisioni 
dialettali  ;  e  sebbene  in  massima  queste  mettano  capo  principalmente 
a  incrociamenti  etnologici,  come  ha  con  molta  energia  insistito 
l'Ascoli  in  questa  stessa  Rivista  (X,  p.  i  segg.'),  i  quali  incrociamenti 
possono  non  aver  avuto  luogo  nel  popolo  indoeuropeo  ancora  indi- 
viso, tuttavia  esse  dipendono  insieme  da  altre  cause  concomitanti, 
che  assolutamente  devono  aver  avuto  luogo  anche  per  quel  popolo. 
È  generalmente  ammesso  che  parecchi  secoli  dovettero  correre  perchè 
il  tipo  linguistico  indoeuropeo  si  formasse  e  fermasse  quale  era  al 
momento  che  la  lingua  madre  si  scisse  nelle  varie  lingue  indoeu- 
ropee. Ed  è  pure  necessario  ammettere  che  fosse  già  considerevol- 
mente numerosa  la  popolazione  indoeuropea  in  tal  momento,  perchè 
potesse  andarsi  spargendo  su  tanta  parte  d'Asia  e  d'Europa,  e  assor- 
bire anche  in  sé  le  popolazioni  indigene  che  per  avventura  incon- 
trava nelle  sue  immigrazioni,  senza  smarrire,  se  non  in  parte,  il  suo 
carattere  etnico  e  idiomatico  (i).  Ora,  ei  non  è  concepibile  che  una 
popolazione  abbastanza  numerosa  elaborasse  via  via  per  molti  secoli 
la  comune  favella,  senza  venire  a  quelle  divergenze  dialettali  che 
anche  il  semplice  scorrer  del  tempo  e  la  semplice  mancanza  del  con- 
tatto quotidiano  vien  sempre  a  determinare  fra  i  parlanti  una  me- 
desima lingua,  tanto  più  quando  manca  una  letteratura  vera  e  propria 
che  allarghi  e  moltiplichi  i  contatti  e  faccia  argine  alle  forze  altera- 
tive. Le  divergenze  dialettali  protoariane  potranno  esser  concepite 
come  lievi  e  scarse,  quando  si  creda  che  il  sangue  ariano  nel  periodo 
unitario  si  sia  conservato  purissimo  e  scevro  da  ogni  mescolanza 
straniera,  e  quando  si  pensi  che  quella  stirpe  geniale  ,  destinata  ad 
essere  sovrana  nel  mondo,  dovca  fin  d'allora  avere  una  vivacità 
grandissima,  e  rifondersi  e  riaftVatellarsi  di  continuo  per  via  dei 
commerci,  del  culto  religioso,  delle  tradizioni  mitologiche  ed  eroiche, 
e  serbare  così  viva  ed  accesa  la  coscienza  della  sua  unità.  Ma,  per 
quanto  minime,  quelle  divergenze  ci  dovettero  pur  essere;   e   ormai 


(Ij  Vedi  su  ciò  l'AscoLi  neirarticolo  Lingue  e  Nazioni,  nel  Polite- 
cnico (XXI,  77-100)  ;  soprattutto  a  pag.  77  segg.  e  a  pag.  90.  Quivi 
veramente  insiste  piii  sulla  scarsità  degli  Aborigeni  europei,  che  sulla 
abbondanza  degli  Arii  immigranti;  ma  nel  complesso  egli  vuole  una  im- 
migrazione aria  relativamente  copiosa.  Adesso  poi  egli  dà  anche  mag- 
gior valore  a  quegli  Aborigeni  {Lett.  Glott.). 


-  331  ~ 

non  si  trova,  credo,  nessun  glottologo  che  intenda  negarle,  e  se  ne 
trova  più  d'uno  (non  dico  molti)  che  mostra  di  ricordarsene  (i).  Se 
non  che,  mentre  le  ammettono  in  teoria,  difficilmente  poi ,  quando 
si  viene  al  concreto,  i  glottologi  s'inducono  ad  attribuire  ad  esse  di- 
vergenze la  causa  prima  di  qualsivoglia  anche  minimo  fatto  fonetico 
o  grammaticr.le  o  lessicale  individualmente  proprio  di  qualche  sincoia 
lingua  o  gruppo  di  lingue  indoeuropee,  e  si  sforzano  sempre  di  tro- 
vare una  causa  più  recente,  e  insomma  fanno  sempre  come  se  il  lin- 
guaggio indoeuropeo  indiviso  fosse  stato  perfettissimamente  eguale  in 
tutta  la  sua  estensione  geografica  e  demotica.  Somigliano  un  po'  l'a- 
varo, che  dopo  avere,  a  parole,  messa  tutta  la  sua  casa  a  disposi- 
zione altrui ,  nega  poi  risolutamente  a  una  a  una  tutte  le  cose  ,  per 
quanto  insignificanti,  che  altri  si  facesse  a  domandargli  !  Ma  questa 
cosiffatta  avarizia  dei  glottologi  è,  come  criterio  metodico,  molto 
giusta  e  naturale,  chi  ben  consideri;  poiché  l'arrendevolezza  ch'essi 
mostrassero  verso  quelle  spiegazioni  di  fenomeni  che  s'  appellassero 
alle  suddistinzioni  dialettali  protoariane,  cioè  dire  verso  ipotesi  che 
non  ammettono  alcuna  verificazione  estrinseca  o  controllo  indiretto, 
comincerebbe  davvero  a  compromettere  la  severità  dei  metodi  e  la 
serietà  della  scienza.  Gl'inesperti  ricorrerebbero  troppo  facilmente  a 
tali  ipotesi,  perchè  riuscirebbe  loro  molto  comodo  il  rimandare  tutte 
le  difficoltà  a  quel  periodo  oscuro;  il  quale  diventerebbe  per  le  pigre 
audacie  dei  glottologi  quel  che  i  fondi  segreti  posson  diventare 
per  gli  arbitri  dei  governi.  Tutto  questo  sta  bene  (2):  ma  insomma 
un  criterio  metodico  non  è  mai  un  criterio  reale;  e  il  voler 
per  forza  prescindere  da  quella  articolazione  dialettale  della  lingua 
madre,  che  pure  in  teoria  si  ammette,  potrebbe  condurre  a  voler 
talvolta  r  impossibile  o  almen  l' improbabile.  Una  bella  prova  delle 
attraenti  applicazioni  a  cui  si  può  prestare,  in  mani  ben  esperte,  la 
ipotesi  delle ,  chiamiamle  cosi,  dialettalità  proetniche  della  parola 
ariana,  ce  l'ha  data  l'Ascoli  stesso  in  un  luogo  del  citato  scritto 
Lingue  e  Nazioni.  Ivi  (p.  86),  rifiutata  l'infelice  opinione  di  Grimm 


T)  Vedi  Ascoli,  Lhigue  e  Naz.^  p.  83;  e  Bbéal  nel  Journal  des  sa- 
vants,  1876,  p.  633-4. 

(2)  Uà  caso  di  troppo  pronto  appello  alle  varietà  dialettali  protoariane, 
e  in  persona  di  un  dotto  assai  rispettabile,  lo  ricorda  e  discute  l'Ascoli 
negli  St.   Crit.,  II,  390. 


—  332- 
secondo  cui  la  '  Lautverschiebung  '  sarebbe  avvenuta  tra  i  Germani 
nella  seconda  metà  del  primo  secolo  dell'  èra  volgare  per  un  inga- 
gliardimento  delle  consonanti  mute  corrispondente  all' afForzamento 
allora  avutosi  della  coscienza  nazionale,  l'Ascoli  ricordava  come  degli 
spostamenti  delle  mute  conformi  a  quelle  che  presenta  il  gotico  ne 
oflra  anche  1' osseto  (J?i  =  pater,  con-e  il  gotico  fadar  .  e  perfino  in 
dati  incontri  lo  zendo  [fra  =  Trpó,  come  il  germ.  fni-,  for],  ed  argo- 
mentava che  la  evoluzione  germanica  fosse  un  carattere  dialettale 
«  di  una  qualche  sezione  della  gran  patria  comune  »  ariana,  nell'epoca 
anteriore  al  distacco  degl' Italo-greci  dall'Asia.  Or  non  si  potrebbe, 
ripeto,  argomentare  allo  stesso  modo  circa  la  sibilante  arioslava  ? 

Sui  rapporti  che  si  debbano  supporre  tra  le  singole  lingue  indo- 
europee e  la  così  detta  lingua  madre  le  opinioni  dei  glottologi  hanno 
molto  variato  da  Bopp  in  poi.  Il  Delbrlick  ne  discorre  nel  settimo 
ed  ultimo  capitolo  del  suo  libro  (i),  ma  noi  ne  anticipiamo  qui  i 
cenni,  condottivi  dal  nostro  discorso.  Il  Bopp  stesso  ,  dopo  vari  on- 
deggiamenti, venne  da  ultimo  nel  concetto,  che  dalla  lingua  madre 
primi  si  distaccassero  il  celtico,  il  germanico,  il  greco  e  il  latino, 
più  tardi  il  litushivo;  e  piìi  tardi  il  residuo  asiatico  di  essa  si  scin- 
desse in  indiano  e  medopersiano.  Lo  Schleicher  poi,  considerando  (a 
torto)  casuali  le  coincidenze  tra  il  lituslavo  e  l'indoirano,  e  stabilendo 
invece  certe  coincidenze  tra  slavo  e  tedesco,  opinò  che  dalla  lingua 
madre  prima  si  distaccasse  lo  slavo-tedesco  ,  più  tardi  il  greco-italo- 
celtico,  lasciando  come  residuo  asiatico  1'  indoirano.  1  quali  gruppi 
si  sarebbero  poi  suddivisi  col  tempo  alla  lor  volta,  il  primo  in  slavo 
e  tedesco,  il  secondo  in  greco-albanese  e  italo-celtico,  il  terzo  in  in- 
diano e  iranico.  Così  ei  venne  a  rappresentarsi  tutta  questa  succes- 
siva divisione  e  suddivisione  colla  immagine  di  un  albero,  da  cui 
spuntino  tre  rami,  qual  più  vicino  al  suolo  ,  qual  più  alto,  che  poi 
si  ramifichino  di  nuovo.  Vennero  poi  il  Lottner  e  il  Curtius,  i  quali, 
notati  certi  caratteri  comuni  a  tutte  le  lingue  europee  (2),  stabilirono 


(1)  Anclie  il  prof.  Pezzi  ne  fa  una  esposiziono  piuttosto  larga  nell'ul- 
timo capo  della  sua  opera  citata. 

2)  Il  primo  notò  specialmente  1'  l  spesso  europeo-comune  di  fronte 
air  r  asiatica  (per  es.  ttoXuc;,  plus  ,  got.  filu,  [ted.  viel]  ecc.  contro  al 
sscr.  piiriis,  ant.  pers.  paruft  molto);  l'altro  notò  T  e  che  molte  voci  eu- 
ropee contrappongono  all'  a    lielle  corrisponfienti  asiatiche  fp.  es.  opépai, 


-  333  - 

che  la  madre  lingua  si  scindesse  prima  in  europea  ed  asiatica,  e  di 
poi  la  lingua  europea  fondamentale,  dopo  un  periodo  di  vita  unica, 
si  scindesse  in  settentrionale  e  meridionale,  suddividendosi  poi  nuo- 
vamente la  settentrionale  in  slava  e  tedesca,  la  meridionale  in  greca, 
italica,  celtica.  —  Ma  tutte  e  tre  codeste  opinioni,  da  Bopp  a  Curtius, 
hanno,  oltre  le  congruenze  minori,  questa  base  comune  :  suppongono 
che  sempre  la  determinazione  d'una  singola  lingua  importi  il  distacco 
di  un  popolo  dal  popolo  complessivo.  Indiani  e  Slavi  parlano  la 
stessissima  lingua  finché  convivono  in  Asia;  anzi  non  ci  sono  final- 
lora, a  propriamente  parlare,  né  Indiani  né  Slavi,  ma  Ariani;  il 
giorno  che  un  gruppo  di  Ariani  lascia  l'Asia  e  viene  in  Europa,  ei  co- 
mincian  a  essere  un  popolo  e  una  lingua  a  sé,  e  diventano  gli  Slavi 
coloro,  se  il  distacco  è  avvenuto  in  un  certo  momento,  a  un  certo 
modo,  e  se  si  sono  andati  a  stabilire  in  un  dato  luogo  d'Europa;  e 
così  via.  —  All'ipotesi  dei  distacchi  si  oppose  Giovanni  Schmidt; 
il  quale,  notato  come  tra  le  ling.ue  europee  meridionali  la  piìi  orien- 
tale, cioè  la  greca,  sia  pure  la  più  affine  alle  lingue  dell'Asia,  e  come 
anche  tra  le  europee  settentrionali  la  più  orientale,  la  lituslava  ,  sia 
del  pari  la  più  conforme  alle  asiatiche  ;  e  come  il  lituslavo  abbia 
dall'altro  lato  conformità  speciali  col  tedesco  in  modo  da  parere 
quasi  un  passaggio  dal  tipo  asiatico  al  tipo  tedesco;  e  il  greco  abbia 
conformità  con  l'italico,  sicché  anch'esso  paja  un  colore  intermedio 
tra  italico  e  asiatico;  e  il  celto  si  mostri  da  un  lato  affine  al  tedesco, 
dall'altro  all'italico;  si  risolse  a  credere,  che  tutti  questi  linguaggi 
formino  una  serie  continua,  e  abbiano  un  rapporto  graduale  intrin- 
seco corrispondente  al  rapporto  geografico,  sicché  il  celtico  per  es. 
sia,  come  il  più  lontano  dall'Asia,  così  il  più  dissimile  dall'idioma 
asiatico,  e  il  più  sbiadito  nella  sua  arianità;  allo  stesso  modo  che, 
quando  il  tonfo  d'un  corpo  in  uno  stagno  genera  l'onda  che  via 
via  si  allarga  in  cerchi  concentrici,  questi  come  più  s'allargano  più 
s'attenuano.  Meglio  ancora  la  dottrina  dello  Schmidt  si  può  rappre- 
sentare coir  immagine  (usata  da  Ebel,  e  da  Schmidt  accolta  oltre  !a 


fero,  got.  baira  ecc.  contro  a  bhi'iràmi  sscr.).  Questo  secondo  carattere 
europeo  si  dileguerebbe,  in  parte  almeno,  se  son  vere  le  dottrine,  oggi 
in  voga,  sul  vocalismo  ariano  e  paleoasiatico,  sulle  quali  piti  avanti  ri- 
torneremo. 


-  334  - 

sua  «  onda»)  di  una  catena  che  muove  dall'Asia  e  all'Asia  ritorna, 
e  di  cui  gli  anelli  sono:  indoirano,  (armeno),  lituslavo,  germanico,  cel- 
tico, italico,  greco,  e  daccapo  indoirano.  Se  non  che,  questa  bella 
dottrina  che  si  fonda  sui  fatti  molto  più  che  non  paja  al  Delbrlick, 
sempre  troppo  scettico  nel  riconoscere  affinità  speciali  tra  lingue  e 
lingue  (tra  greco  e  latino,  ecc.),  incontra  pure  un'objezionc:  se  le 
varie  lingue  indoeuropee  non  sono  che  sfumature  dialettali  successive, 
digradanti  via  via  1' una  nell'altra,  come  mai  sui  confine  tra  l' un 
dialetto  e  l'altro,  tra  slavo,  p.  es.,  e  germanico,  non  vi  sono  dei  sub- 
dialetti intermedi  dei  quali  si  resti  incerti  se  ascriverli  allo  slavo  o 
al  germanico?  come  mai  tra  questo  e  quello  v'è  un  taglio  così  netto 
e  preciso?  non  è  chiaro  che  ognuna  delle  lingue  indoeuropee  ha  una 
individuazione  determinatissima  e  propria  ?  —  Orbene,  una  dottrina 
conciliativa  potrebb'essere  questa.  Quella  catena  di  dialetti  supponia- 
mola esistente  nella  stessa  madre  patria  ariana,  supponiamo  che  un 
dialetto  ariano  progenitore  del  futuro  idioma  slavo  si  sia  in  essa  tro- 
vato geograficamente  e  linguisticamente  intermedio  tra  un  dialetto 
proavo  dell'indiano  e  un  altro  proavo  del  germanico;  e  così  via.  Son 
poi  cominciate  le  emigrazioni  ;  e  queste  saran  successe  in  quell'ordine 
che  la  posizione  stessa  geografica  delle  tribù  e  dei  dialetti  indicava.  E 
ad  ogni  data  emigrazione  avran  partecipato  naturalmente  quelli  cui 
già  un  vincolo  comune  collegava,  cioè  tutti  i  parianti  uno  stesso  dia- 
letto, o,  aggruppati,  i  parlanti  di  più  dialetti  affini  e  contermini.  Da 
molti,  in  passsato,  le  emigrazioni  àrie  sembra  s' immaginassero  così, 
che  di  quella  materia  perfettamente  omogenea,  che  era,  secondo  loro, 
la  stirpe  ariana,  oggi  se  ne  staccasse  una  certa  quantità  e  andasse  in 
nuove  sedi,  domani  un'altra  quantità,  e  così  via.  Ma  in  realtà  i  coe- 
migranci  di  oggi  doveano  avere  legami  omoglottici  ecc.,  perchè  coe- 
migrassero, e  così  quei  di  domani.  Non  si  tratta  dunque,  sia  lecito 
anche  a  noi  di  ricorrere  a  un  paragone,  di  una  cannella  d'acqua 
della  stessa  fonte  che  ogni  tanto  s'apra  e  butti  un  tanto  d'  acqua  che 
in  nulla  si  differenzi  dall'acqua  del  butto  antecedente,  bensì  si  tratta 
di  grappoli  diversamente  grandi  e  diversamente  maturi,  che  via  via 
si  distacchino  da  una  vite.  Questi  dialetti  protoariani,  poi,  incontra- 
vano, emigrando,  linguaggi  diversi  di  genti  non  ariane,  già  stanziate 
nelle  regioni  d'Europa  e  d'Asia,  e  così,  per  la  reazione  di  quelli,  su- 
bivano alterazioni  per  cui  si  rendeano ,  assai  più  che  prima  non 
fossero ,    divergenti     dai     dialetti    ariani     ab    antiquo    loro    conter- 


—  335  — 
mini  (i);  aumentandosi  poi  sempre  la  divergenza  per  effetto  degli 
anni,  dei  climi,  delle  vicende  storiche,  ecc.  Volendo  dunque  rappre- 
sentare quest'  ordine  d' idee  con  una  formola,  si  direbbe  :  posto  che 
G  sia  il  greco,  quale  noi  lo  conosciamo  ;  noi  rappresentiamo  con 
g  quel  dialetto  protoariano  che  parlavano  quegli  Arii  che  vennero  a 
occupare  la  Grecia  ,  con  mg  il  miscuglio  eteroglottico  che  ad  essi 
potè  toccar  di  subire,  con  a  tutte  le  altre  cause  che  soglion  produrre 
la  divergenza  di  un  linguaggio  da  un  altro  originariamente  affine  o 
identico,  e  avremo  la  formola 

G  =  g  (mg  +  a). 
Così  il  celtico  darebbe  : 

C  ^  e  [me  -\-  a). 

Se  non  che,  poi,  questa  omologia  tra  le  varie  formule,  venendo  al 
concreto,  nasconde  una  gran  differenza  di  condizioni  reali  e  di  ri- 
sultati ,  giacché  quel  coefficiente  che  rappresentiamo  con  me  per  il 
celtico  avrà  un  valore  numerico  altissimo,  mentre  per  il  greco  l'  mg 
sarà  invece  molto  vicino  allo  zero.  —  Secondo  questa  ipotesi,  in  cui 
si  concilierebbe  la  vecchia  teoria  dei  distacchi  con  la  teoria  schmid- 
tiana  della  serie  continua,  e  che  trovo  accennata  pure  da  un  dotto 
autorevolissimo,  il  Leskien  (2),  noi  avremmo  che  due  linguaggi  in- 
doeuropei possono  aver  comune  tra  loro  soli  un  fenomeno  fonetico 
o  una  forma  o  un  vocabolo,  non  solo  per  speciali  mutui  contatti  nel 
loro  progresso  emigrativo  o  nella  loro  situazione  definitiva,  ma  anche 
per  conformità  dialettali  protoariane.  Noi  oggi  abbiamo  (per  pren- 
dere un  esempio  dal  campo  neolatino)  che  il  toscano  pronunzia  come 
spirante  gutturale  [h]  il  k  di  poco  e  simili,  e  come  sibilante  linguale 
(quasi  sh)  il  e'  di  pace  e  sim.;  invece  il  napoletano  pronunzia  esatta- 
mente, senz'alcuna  degenerazione,  tanto  la  gutturale  di  poco  quanto  la 
palatale  dì  pace  :  e  infine  il  romano  tramezza  come  geograficamente  cosi 
foneticamente,  fra  il  dialetto  che  gli  è  al  nord  e  il  dialetto  del  sud,  e 


(1)  Su  questo  punto,  degl' incrociamenti  etnologici,  vedi  1' Ascoli  in 
questa  Rivista,  anno  X,  fascicolo  1. 

'2]  Citato  da  Delbruck,  pag.  135  (145  nella  traduz.  del  ]ìIerlo),  e  un 
po'  più  largamente  da  Curtius,  Gruvdz.,  ^8G.  Non  so  come  il  Le.skien 
sviluppi  l'ipotesi,  non  avendo  ancor  potuto  vedere  il  suo  libro. 


-  336  — 
pronunzia  poco  come  il  napoletano,  e  pace  come  il  toscano.  Or  non 
potremmo  immaginare  una  situazione  pressappoco  consimile  nel  pro- 
toariano, cioè  che  quella  varietà  dialettale  Is  ,  che  poi  divenne  dopo 
l'emigrazione  V  LS  fil  lituslavo),  avesse  comune  colla  varietà  n',  pro- 
genitrice di  //  (indoirano),  l'alterazione  di  k  in  sibilante  nelle  voci 
'dieci'  'cento'  ecc.,  avendo  d'altro  lato  comune  con  t  (futuro  te- 
desco) con  g  (futuro  greco)  altre  proprietà  ;  le  quali  poi  si  poterono 
anche  aumentare  in  seguito,  quando  ,  emigrando  più  o  meno  in  co- 
mune Is  diveniva  LS ,  e  g  G,  e  t   Ti 

E  qui  è  finita  la  mia  parentesi  sull'ultimo  significato  storico  che 
si  possa  attribuire  alle  congruenze  arioslave  della  sibilante,  e  son  fi- 
niti i  miei  dubbi:  meri  dubbi,  ripeto.  Sarebbero  cioè  finiti,  se  non 
mi  rimanesse  quest'altro  ancora:  non  era  meglio  che  io  sorvolassi 
sopra  una  così  ardua  questione  ? 

Quanto  alle  nuove  dottrine  intorno  al  vocalismo  protoariano  e  pa- 
leoasiatico io  non  mi  sento  in  grado  di  formulare  neanche  dei  dubbi. 
Esse  hanno  avuta  l'ultima  espressione  in  un  lavoro,  ispido  in  verità, 
ma  dotto  assai  e  ingegnoso,  di  Giovanni  Schmidt  (Kuhns  Z.,  XW. 
1-179);  pure  han  bisogno  di  ulteriori  discussioni  e  complementi. 
Certo  che  la  dottrina  dell'  a  suonante  e  in  molte  voci  e  forme  asia- 
tiche ha  il  vantaggio  di  dare  alla  genesi  delle  palatali  asiatiche  una 
ragione  fisiologica  assai  sufficiente,  e  pienamente  conforme  a  quella 
che  risulta  d'una  evidenza  indiscutibile  nelle  lingue  romanze  (il  ganas 
sscr.,  p.  es.,  avrebbe  il  g  perchè  la  prima  a  avrebbe  un  tempo  anche 
in  Asia  sonato  e  come  negli  europei  y^voc  e  gemis,  cioè  per  la  stessa 
ragione  ond'è  sorto  il  g  dell'italiano  genere,  e  così  via).  È  vero  che. 
anche  quando  si  teneva  che  in  ganas  e  simili  la  prima  a  sonasse  pu- 
ramente a,  si  poteva  ricorrere,  come  faceva  l'Ascoli  (Corsi,  p.  45), 
all'  esempio  della  palatale  francese  che  si  sviluppa  avanti  a  in  char 
carro,  in  j ambe  gamba,  e  simili;  ma  restava  sempre  che  mentre  in 
ischietto  francese  è  questo  un  fatto  fisiologico  costante,  nell'indoirano 
invece  appariva  come  fatto  sporadico,  limitato,  non  si  sa  perchè,  ad 
alcuni  vocaboli    o  serie  di  vocaboli  solamente  (1'.  Sennonché,  anche 


(1)  Fiuchè  si  trattasse  di  raddoppiamenti  soltanto,  come  c'akdra  fecit, 
per  *kahó.ra,  si  poteva  forse  ancora  tentar  di  spiegar  la  cosa  com' ef- 
fetto  di    dissimilazione    i  nter  sii  labica,  consimile  a  quella  che  è 


-  337  - 

con  la  dottrina  dell'  e  bisogna  poi  ammettere  perturbazioni  analo- 
giche della  legge  fisiologica  in  un  così  gran  numero,  che  non  ha 
riscontro  nelle  lingue  romanze.  Nelle  quali  i  casi  di  gutturale  analo- 
gica ,  come  in  fuggo  per  *fuggio  (fugio),  salgo,  vengo  ecc.  (ij;  in 
grechi,  fichi  per  greci,  *fici\  in  esco  per  *escio  (exeo)  (2)  —  dove  ve- 
ramente si  tratta  di  sk  da  uno  sC  già  ridotto  a  5/2  —  ;  o  viceversa  di 
palatale  analogica,  o  di  sibilante  in  tutto  o  in  parte  succedanea  sua, 
come  nei  veneziani  stren:fo,  cresso  per  stringo,  cresco  ,  e  piemontesi 
finissii  finissa  ,  e  francesi  je  Jinis  ,  qiie  je  finisse  per  finisco,  finisca 
ecc.  (3),  non  sono  frequentissimi.  Tuttavia,  nulla  infine  vieta  di  am- 
mettere per  le  antiche  lingue  asiatiche,  che  anche  per  altri  rispetti 
presentano  alterazioni  più  profonde  che  non  sian  quelle  delle  moderne 
lingue  europee,  quel  numero  più  esorbitante  di  perturbazioni  analo- 
giche che  si  richiede  per  istabilire  la  legge  che  la  palatale  asiatica 
sia  dovuta  ad  e,  z,  j  seguenti.  Quel  che  invece  resta  sempre  duro  ad 
ammettere  si  è,  come  notavamo  più  sopra  riferendo  le  osservazioni 
de!  Curtius,  che  1'  e  ivi  ritornasse  poi  a  su  tutta  la  linea.  Con  tutto 
ciò  la  fede  nelT  a  ab  origine  rimasta  intatta  del  periodo  unitario  e 
delle  lingue  d'Asia  è  per  lo  meno  non  poco  scossa  dalle  recenti  dot- 
trine. 

Neppure  mi  sembra  potersi  pronunziare  ancora  un  sicuro  giudizio 
intorno  alle  «  scoperte  »  o  meglio  congetture  d'una  r  sonante  in- 
doeuropea al  modo  indiano,  la  quale  si  rifletterebbe  per  ap  e  pa  nel 
greco  (éTpaiTOv  p.  es.  sarebbe  da  un  anteriore  *etrpon),  e  d'una  nasale 
sonante,  formante  sillaba  da  sé  nel  protoariano  (il  sscr.  bharantam  e 
il  gr.  cpépovra  metterebbero  capo  a  un  *bheronim]. 

Ma  ritorniamo  oramai  a  riepilogare  il  libro  di  Delbrlick.  11  quale 
segnala  a  una  a  una  tutte  le  altre  principali  tendenze  che  dalle  nuove 
dottrine  risultano.  Una  è  'quella  di  considerare  con  un  certo  scetti- 
cismo le  spiegazioni,  che  da  Bopp  in  poi  si  danno,  o  che    ancora   si 


in  TÌ9r||Lii,  dadhdmi  ecc.  per  *  6i6r||ai,  *  d/tadhdmi  ecc.  Lo  stesso  poteva 
anche  sospettarsi  per  c'akrds  kùk\oc,  KipKcc;.  Ma  non  si  tratta,  ognuno 
lo  sa,  di  soli  raddoppiamenti. 

(1)  Vedi  la  mia  Gramm.  Portogli.,  p.  H8. 

(2)  Vedi  Ascoli,  Ardi.,  Ili,  447  n. 

f3;  Nei  meridionali  e  romaneschi  diceno,  finfjeno  ecc.  la  palatale  ò  a- 
nalogica.  L'  e  che  vien  dopo  non  ci  ha  avuta  nessuna  parte. 


-  338  - 
vanno  escogitando  ,  della  genesi  delie  singole  forme  grammaticali. 
Ben  resta  in  piedi  la  dottrina  complessiva  di  Bopp  ,  secondo  cui  le 
forme  devono  essere  risultate  da  una  composizione  di  radici  con  ele- 
menti ascitizi!  ;  resta,  nonostante  le  teorie  contrappostele  da  West- 
phal  e  da  Alfredo  Ludwig  (i).  Ma  nelle  applicazioni  a  singole  forme 
le  incertezze  son  venute  sempre  crescendo,  oppure  le  vecchie  dottrine 
sono  state  capovolte.  La  stessa  natura  delle  radici  non  è  esente  da 
disputazioni.   Ecco  alcuni  cenni. 

L  Le  radici  nelle  lingue  ariane,  e  nella  stessa  madre  lingua  nel 
suo  ultimo  stadio,  non  esistono  più  allo  stato  di  purezza,  come  di- 
rebbe un  mineralogo:  sono  estrazioni  che  fa  il  grammatico,  sono 
preparati  scientifici  come  quelli  del  botanico  e  dell'anatomico. 
Certo,  in  origine  esse  furon  parole,  esistettero  per  se  stesse;  seb- 
bene non  solo  alcuni  dotti  balzani,  ma  lo  stesso  Pott,  salvo  qualche 
rara  resipiscenza,  abbia  concepita  la  radice  come  nata  a  un  parto 
colle  terminazioni.  Ma,  oramai,  sono  semplici  estrazioni  del  gram- 
matico, e  il  modo  di  formulare,  di  postulare  la  radice,  può  riu- 
scir vario  a  seconda  del  concetto  che  noi  ci  facciamo  del  vocalismo 
ariano  e  del  suo  movimento,  e  d'altre  cose.  Prima,  p.  es.,si  diceva, 
sulla  scorta  anche  dei  grammatici  indigeni  dell"  India,  che  la  radice 
pura  si  trovasse  in  i-mds  andiamo  (ìl-|U6v)  e  che  in  é-mi  vado  (cioè 
*ai-tni,  gr.  eTiui)  la  radice  fosse  rafforzata  e  ampliata.  Ora  invece  si 
suppone  che  la  forma  ampia  sia  la  forma  fondamentale  (eì-,_  Xem-, 
qpeuy-  ecc.)  e  che  la  forma  più  leggiera  fi-,  Xitt-,  qpuy-  ecc.)  sia  un 
posteriore  assottigliamento.  —  Senza  voler  contrastare  questo  criterio, 
sul  quale  non  intendo  portar  giudizio,  voglio  però  avvertire  che  non 
mi  par  giusto  il  ragionamento  di   Begemann,  accettato  da   Delbruck, 


fi)  Il  Delbruck  espone  e  confuta  codeste  teorie  con  una  cura  e  una 
larghezza,  che  può  parer  soverchia,  visto  che  son  mere  stravaganze. 
Anche  il  Curtius  confuta  Westphal,  nel  primo  volume  del  Verbo  Greco, 
troppo  largamente.  Sennonché,  in  primo  luogo  codeste  esposizioni  e  con- 
l'utazioni  fanno  l'ufficio  delle  ombre  nel  quadro,  e  dan  meglio  risalto  alle 
dottrine  sane;  e  dipoi,  in  Germania  sono  usi  a  discutere  tutto,  senza 
troppe  impazienze;  tanto  più  che  anche  le  stravaganze  lì  soglion  esser 
presentate  col  debito  corredo  della  molta  dottrina,  e  non  è  comoda  noi 
dove  la  bizzarria  è  quasi  sempre  accompagnata  dall'ignoranza. 


à 


-  339  - 
che  cioè  se  da  "eimi  imr'S  si  ricavasse  /-  come  radice,  si  dovrebbe 
conseguentemente  da  àsini  io  sono,  smàs  siamo,  ricavare  una  radice  5-, 
cioè  una  radice  impronunziabile.  Bisogna,  credo,  considerare  che,  se 
al  sanscrito  imds  risponde  in  greco  i,uev,  a  smós  invece  non  corri- 
sponde uno  *a,uév,  bensì  ècr^év,  il  che  vuol  dire  che  nello  smds  e  in 
tutto  il  plurale  e  duale  sanscritico  la  radice  ^5-  può  aver  subita  una 
aferesi  per  un  procedimento  tutto  individuale  di  quella  lingua,  come 
è  quello  che  ha  dato  sum^  sumiis  ecc.  al  latino.  Così  il  sanscrito  ha 
dadmàs  ,  dadhmds  ecc.  di  fronte  a  d'dcimi ,  dódhùmi  (do  ,  pongo), 
mentre  il  greco  ha.  certo  più  etimologicamente,  òiòoiuev.  xiGeiaev.  di 
fronte  a  òiòiwiui.  xiGrifii. 

II.  La  distinzione  tra  radici  verbali  e  pronominali  è  difesa  da 
Delbrlick  per  ciò  che  non  trova  soddisfacente  nessuna  ragione  teorica 
addotta  in  contrario,  né  plausibile  alcuna  delle  derivazioni  escogitate 
di  singole  radici  pronominali  da  radici  verbali  {ma-  io  da  ma  pen- 
sare, ecc.).  Piuttosto,  egli  dice,  forse  queste  due  categorie  non  ba- 
stano: perchè  i  numerali  son  poco  chiari,  e  così  molte  delle  prepo- 
sizioni :  e  certe  particelle  infine,  come  ad  es.  \xr\,  potrebbero  avere 
un  carattere  più  interiettivo  che  pronominale. 

III.  Del  monosillabismo  delle  radici  adduce  la  ragione  filosofica 
messa  innanzi  da  Adelung,  Humboldt,  Curtius,  che  cioè  l'uomo  pri- 
mitivo dovesse  naturalmente  esprimere  con  una  sola  sillaba  l'impres- 
sione sintetica  che  gli  faceva  nell'animo  il  lampo  d'un  concetto;  ed 
adduce  la  prova  sperimentale  che  molte  radici,  tolti  gli  elementi  for- 
mali ,  restano  monosillabiche.  Sennonché,  dice,  qualche  volta  si  può 
non  saper  di  sicuro  dove  gli  elementi  formali  propriamente  comin- 
cino, e  taluno  potrebbe  dire  che  gamati,  egli  va,  piuttosto  che  pam- 
-a-ti  sia  da  divider  gama-ti.  E  qui  passa  ad  esporre  la  teoria  del  Fick 
e  dell'Ascoli,  riconoscendo  la  priorità  del  nostro  Italiano,  intorno 
alia  natura  degli  elementi,  come  li  chiamano,  determinativi, 
da  cui  le  radici  originarie  più  semplici  sono  spesso  ampliate  fp.  es. 
ga  andare  =  Pa,  è  poi  anche  gam-,  e  così  via)  (i);  la  qual  teoria  im- 


il)  Circa  il  seaso  troppo  generico  che  vengono  ad  assumere  le  radici 
fondamentali,  specie  sottratti  i  determinativi,  si  possono  vedere  alcune 
buone  osservazioni  anche  in  Kréal,  scritto  cit.,  p.  635-6,  648. 


-  340  - 
porta  che  quei  determinath  i  sieno  in  origine  intere  sillabe  (p.  es. 
ma),  che,  se  in  certe  voci  verbali  perdon  la  vocale  ,  in  altre  la  ser- 
bano,  come  in  ga-ma-li.  11  Delbruck  biasima  però  giustamente  il 
Fieli,  perchè  questi  anche  a  proposito  delle  radici  av-,  as-,  an-.  am-, 
mette  in  campo,  non  volendo  saperne  dell'esistenza  del  suffisso  -a. 
le  dissezioni  a-va-ti  ecc.,  le  quali  condurrebbero  a  mettere  tante  di- 
verse radici,  suonanti  tutte  una  semplice  a.  Avrebbe  dovuto  quindi 
lodare  la  cautela  dell'Ascoli,  il  quale,  pur  ammettendo,  e  prima  del 
Fick,  la  dissezione  f^a-ma-ti  ecc.,  tien  però  ferma  l'esistenza  d'un 
suffisso  -a  per  i  verbi  come  av-a-ti  ecc.,  e  anzi  trova  quel  suffisso 
amalgamato  in  dà  dare  ,  ma,  misurare  ecc.,  facendo  dà  =^  dei  rad.  -(-  a 
sutì'.,  ma  =  »?'/  -|-  il  ecc.,  appellandosi  anche  alla  pronunzia  bisillabica 
richiesta  spesso  in  simili  radici  dalla  metrica  del  Veda  [Stiidj  Crii., 
II,  54)  (i).  —  Resta  pur  sempre  possibile,  crede  il  Delbruck,  che 
da  gama  si  passasse  a  gam,  e  quindi  questo  ripigliasse  1'  a  come  suf- 
fisso, onde  s'avesse  pur  gam-a-ti  come  av-a-ti.  Possibile  ,  è  ,  non  lo 
nego;  ma  probabile  no. 

W .  11  Bopp  divideva  senza  scrupolo  bo-9ri-oó-f.ieea^  e  simili,  come 
se  fosse  possibile  che  sul  suolo  greco  si  venissero  per  la  prima  volta 
ad  aggregare  tali  elementi  primordiali.  Prima  che  il  linguaggio  ario 
si  scindesse  avca  già  le  sue  flessioni  belTe  stabilite,  constava  già  di 
parole  non  più  radicali,  ma  coniugate,  declinate,  ecc.;  quindi  eran 
bensì  possibili  in  greco  nuove  aggregazioni  e  nuove  forme,  ma  solo 
fatte  analogicamente.  —  Aggiungo  qualche  spiegazione.  La  radice  òo, 
p.  es.,  risultava,  traluceva,  da  òiòo|nev,  da  òoTóq  ecc.;  esisteva  dall'altro 
lato  Qr\ao\xa\  ecc.:  così  s'è  fatto  l'aggregato  nuovo  òo6naoM"i-  Pari- 
mente, nelle  lingue  romanze  si  è  bensì  coniato  un  futuro  novello 
sentirò  ecc.  (sentire  -  habeo),  ma  da  un  infinito  e  dal  presente  di 
'avere'  cioè  da  parole    esistenti;  e  i  condizionali  son  probabilmente 


(1)  Nou  vi  sarà,  spero,  nessuno  che  voglia  trovare  strana  la  fusione  di 
una  vocale-suffisso  ,  cioè  avente  un  propiio  significato,  con  la  vocale 
della  radice.  Non  avviene  la  fusione  istessa  tra  la  vocale  che  costituisce 
l'aumento  dei  tempi  passati  e  la  vocale  iniziale  della  radice,  nel  cosi 
detto  aumento  temporale  del  greco  e  del  sanscrito,  in  fjyov ,  in 
'''sarn  ecc.?  Dove  si  tratta,  come  ognun  sa,  di  *  a-ago-m  ecc.,  cioò  '  al- 
loi'a-conduceute-egli  '  ecc.? 


-  341  - 

venuti  dopo  :  sentir-ei  fsentire  -  habui),  seiitir-ia  isentire  -  habebam), 
sull'analogia  di  sentirà.  Chi  dividesse  sentiremo  in  senti-re-habe- 
-miis,  mettendo  tutte  queste  molecole  foniche  (senti,  re  ecc.)  a  uno 
stesso  livello  cronologico,  commetterebbe  appunto  quella  inesattezza 
che  si  vede  nelle  dissezioni  òo-9rì-ffó-,u69a  e  simili. 

V.  Secondo  la  dottrina  definitiva  del  Bopp  la  maggior  parte  dei 
suffissi  formatori  dei  temi  nominali  avrebbe  origine  pronominale,  e 
sol  una  parte  deriverebbe  da  radice  predicativa.  Schleicher  e  Curtius 
cercarono  derivarli  tutti  da  radici  personali  :  p.  es.  il  tar  dei  nomina 
agentis  {datar-,  òoTrip-,  datar-  e  sim.)  che  Bopp  derivava  dalla  rad.  ver- 
bale tar-  (sscr.  tarami  oltrepasso,  xépiua,  termo,  trans),  'oltrepassare', 
applicata  a  significare  '  compiere'  l'azione  (sicché  da-tor  sarebbe  'quel 
che  compie  il  dare'),  lo  Schleicher  io  deriva  invece  dall'abbinamento 
dei  suffissi  ta  e  ra.  Ma  il  Delbrlick,  d'accordo  in  ciò  con  Scherer  (ed 
anche  col  Corssen  ,  Ausspr.,  1',  567-8  n.),  preferisce  in  massima  le 
derivazioni  da  radici  predicative,  impressionato  soprattutto  dalla  de- 
rivazione certamente  predicativa  di  certi  suffissi  tedeschi,  -bar,  -heit, 
-thiim  (come  il  nostro  -mente).  Deve  però  convenire  egli  stesso  che 
la  coincidenza  materiale  di  molti  suffissi  con  radici  pronominali  è 
innegabile;  benché  gli  faccia  nodo  questo,  che  tanti  diversi  pronomi 
occorrano  in  diversi  suffissi  di  significato  identico  o  quasi  identico, 
e  che  nulla  questi  mostrino  dal  senso  speciale  dei  pronomi  (i).  — 
Accenna,  ma  naturalmente  rifiutandola,  l'ipotesi  del  Benfey,  secondo 
cui  tutti  i  suffissi  sarebbero  rifrazioni  diverse  e  molteplici  dell'unico 
-ant  che  è  suffisso  del  participio  [bharant-  cpepovT-,  ferent-]  e  che  alla 
sua  volta  sarebbe  estratto  dalla  terza  plurale  dei  verbi  [bharanti,  qpé- 
povTi  onde  qpépouai, /<^rin?f):  ipotesi  bisbetica  e  contraria  ad  ogni  cri- 
terio fonologico.  Rigetta  pure  l'ipotesi  di  Scherer,  secondo  cui  il  suf- 
fisso tematico  -a  sarebbe  un  suffisso  locativo  ,  onde  bhara-  direbbe 
'chi  è  nel  portare',  quindi  'portante';  la  rigetta,  perchè  un  suffisso 
locativo  -a  non  è  provato;  e  perchè  tanto  meno  è  provato  che  la  de- 
clinazione de'  nomi  abbia  preceduto  la  tematizzazione  di  essi  ;  e  perché 


\]  Per  es.  tra  il  suffisso  che  è  in  òòup-uó(;  e  il  -ma  del  pronome  di 
prima  persona  è  innegabile  l'identità  fonica;  e  tuttavia  elio  lapporto 
ideologico  apparisce  tra  essi  ? 


-  342  - 
ad    ogni    modo    bhara-  direbbe  tutt'al  più   'nel  portare'     quindi    un 
'portamento'  piuttosto)  e  non  includerebbe  punto  il  'chi  èl 

Vi.  Circa  il  valore  primo  e  l'origine  degli  esponenti  dei  Casi, 
regna  la  maggior  incertezza.  L'esempio  delle  lingue  agglutinanti  por- 
terebbe a  supporre  che  un  segno  ci  dovess'essere  per  ogni  singolo  Caso 
indipendentemente  dal  Numero,  e  che  il  Plurale  s'indicasse  con  un 
segno  unico  che  s'aggiungesse  all'occorrenza  a  qualsivoglia  Caso  (i). 
Lo  Schleicher  s'è  sforzato  di  provare  che  codesto  segno  della  plura- 
lità nell'indoeuropeo  fosse  s  (2),  ma  invano.  Si  pensi  a  irobó;,  ttoòujv, 
padils  paddm  :  e  alla  stessa  varietà  dei  suffissi  d'un  Caso  anche  nello 
stesso  Numero  ,  p.  es.  ttoòó^  e  iTTTtoio  I'ttttou,  padds  e  ócvasja  !  Che  il 
numero  dei  Casi  fosse  maggiore  in  origine,  e  quindi  in  uno  stesso 
Caso  ora  s'abbiano  i  ruderi  di  diversi  Casi  livellatisi  nella  funzione  ?  (3), 
Nelle  spiegazioni  che  si  tentano  di  un  Caso,  si  oscilla  più  o  meno 
tra  due  ipotesi:  o  si  vede  nel  suffisso  del  Caso  un  significato  prepo- 
sizionale o  pronominale,  o  vi  si  vede  un  suffisso  tematico  divenuto 
suffisso  casuale  (4).  Ma  la  difficoltà,  più  che  nella  teoria,  è  nelle  sin- 
gole spiegazioni  concrete;  delle  quali  nessuna  soddisfa  davvero. 

VII.   I  temi    temporali    pure  dan  luogo  a  dispute,  sebben   meno 
sostanziali.  Il  tema  del  presente,  p.  es.,  coincide   spessissimo  con  un 


(1)  PcM"  es.  iu  turco  ev  è  'casa',  ev-ler  '  case  ,  ev-den  'da  casa  o'i- 
Koeev),  ev-ler-den  'dalle  case'.  Cfr.  Whitney,  The  Hfe  and  r/roth  of 
language,   p.  232;  della  mia  traduzione,  282. 

(2)  Che  ò  vei'o  nell'accusativo  plurale:   XÓTOU(;  =  *XoYov-(;. 

(3)  Anche  il  Bréal  nel  citato  artic.  del  Journ.  d.  5.,  p.  038  segg.  in- 
siste sul  concetto  che  i  casi  indoeuropei  debban  raccogliere  in  sé  l'ei'e- 
dità  di  una  ben  più  lussureggiante  declinazione  originaria;  e  ne  deduce 
rimpossibilità  che  riescano  a  bene  i  tentativi  di  Delbrùck  e  di  altri,  di 
trovare  la  originaria  e  fondamentale  funzione  di  un  dato  caso,  mentre 
si  sa  che  ogni  caso  cumula  su  di  sé  la  funzione  anche  di  altri  casi  moi  ti 
[cfr.  il  dativo  greco] . 

(4)  In  questo  secondo  modo,  per  es.,  alcuni  spiegarono  il  sja  del  geni- 
tivo, paleggiando,  mettiamo,  il  genitivo  all'omerica  òn.uoio  col  tema  del- 
l'aggettivo hiiiuóaioe;;  e  richiamando  perciò  alcuni  confronti  della  decli- 
nazione pronominale,  per  es.,  lat.  nostrum,  ted.  unser  =  di  noi.  —  Ma 
perchè  allora  il  -cj-  sarebbe  rimasto  nell'aggettivo  mentr'è  sparito  nel 
genitivo?  Il  vero  è  che  il  genitivo  è  in  sscr.  -sja  e  il  suffisso  dell'agget- 
tivo v'è  -tja-,  cioè  son  due  cose  distinte  ! 


—  343  — 

tema  nominale  (i,  :  cfr.  p.  es.  àyo-iaev  e  à^óc,.  Ora  da  questo  fatto  Io 
Schleicher  dedusse  che  cotali  temi  in  origine  non  siano  né  nomi- 
nali nò  verbali,  ma  indifferenti,  come  le  radici  ;  il  Fick  ne  ha  piut- 
tosto dedotto  che  essi  temi  sieno  primamente  verbali,  volti  poi  a  uso 
nominale;  l'Ascoli  per  contrario,  che  sien  primamente  nominali,  e 
propriamente  <i  nomina  agentis  »,  ed  estende  la  co^a  al  punto,  che 
in  fondo  al  verbo  vede  sempre  il  nome.  La  dottrina  dell'Ascoli  a- 
vrebbe  dovuto  essere  più  largamente  riferita  dal  Delbriick,  nelle  cui 
parole  è  appena  adombrata. 

Accenna  alle  congetture  sui  temi  deli'aoristo  e  del  futuro,  cioè  sul- 
l'origine dell'elemento  sigmatico  di  essi,  e  preferisce  ancora  l'ipotesi 
di  Bopp,  che  deriva  questo  dalla  rad.  ^5-,  a  quella  dell'Ascoli  che  vi 
trova  un  suffisso  nominale  -sa.  Rileva,  ad  ogni  modo  ,  il  carattere 
sommamente  ipotetico  di  tali  speculazioni  tutte. 

Non  so  perchè  il  Delbriick  non  abbia  fatta  alcuna  menzione  del  A" 
del  perfetto  greco  e  dei  tre  aoristi  ,  sul  quale  v'  è  un  accordo  ben 
maggiore.  Forse  non  ne  trattò  perchè  è  cosa  esclusiva  del  greco  (i 
perfetti  con  k  che  il  Corssen  credette  vedere  in  alcune  voci  etrusche, 
come  turce  ecc.,  sono  ben  lungi  dall'esser  provati  o  probabili!);  ma 
al  lettore,  sgomento  da  tante  incertezze  su  questa  specie  di  questioni, 
avrebbe  egli  portato  qualche  conforto  col  fargli  sapere  o  richiamargli, 
che  Ascoli  e  Curtius  s'accordano  nel  considerare  il  -ka  di  X,éX.uKa  ecc. 
come  un  suffisso  tematico  nominale  (2). 

VII.  Tocca  rapidissimamente  delle  speculazioni  fatte  sull'origine 


(1)  La  coincidenza  veramente  appar  minore  adesso  che  non  paresse 
prima  quando  si  credeva  che  nelT  indoeuropeo  ancora  indiviso  non  vi 
fosse  altra  vocale  che  a.  Ora  che  si  ritiene  anteellenica  la  differenza 
della  vocale  radicale  che  è  tra  qpepai  e  qpopóc;,  evidentemente  una  diffe- 
renza tra  cpepo-  e  qpopo-  la  c'è.  Se  non  che,  io  domando,  anche  se  l'in- 
doeuropeo ancora  indiviso  avea  già  e  ed  o,  non  può  esso  avere  avuto  in 
una  fase  più  antica  —  quella  in  cui  il  suo  verbo  si  formò  —  la  sola  a 
[bhara]  ? 

(2)  Fu  il  primo  1'  Ascoli  ad  accennarlo  negli  Studj  Ario-semitici  ;  e 
dipoi  il  Curtius,  senza  ricordarsi  dell'Ascoli  (com'egli  avverte  nei  Grund- 
zi'ige,  ^61  n,),  rimise  in  campo  la  cosa,  e  la  lumeggiò  largamente  nel  suo 
Verbo  Greco  (v,  a  p.  203  segg,  del  1°  voi,,  prima  ediz.ì,  mentre  per  il 
s  dei  tempi  sigmatici  seguita  ad  insistere  sulla  compcsizioue  con  la  rad. 
as-  (v.  la  stessa  opera:  II*,  p.  245  segg.;. 


~  344  - 

dei  Modi  congiuntivo  e  ottativo  [i  Modi  obliqui,  come  li  chiama  fe- 
licemente il  Curtius,  Griech.  Verb.,  II'].  Tocca  qualcuna  delle  diffi- 
coltà che  stanno  contro  la  tradizionale  spiegazione  boppiana  del  ià 
od  i  dell'ottativo  dalla  radicela-  andare;  e  rimettendo  ad  altro 
scritto  la  questione,  riconosce  intanto  la  possibilità  che  l'ottativo  fosse 
in  origine  un  semplice  futuro,  e  che  il  senso  soggettivo  del  desi- 
derio ecc.  vi  si  aggiungesse   dopo  (i).  —  Quanto    al    congiuntivo,  il 


1;  Che  è  la  tesi  già  da  un  pezzo  sostenuta  dal  prof.  Merlo  in  questa 
Rivista.  Il  Merlo  v'aggiunse  anche  una  nuova  interpretazione  e  specifi- 
cazione della  dottrina  (troppo  concisa  epperò  facilmente  frantesa)  dello 
Schleicher,  cioè  che  il  jà  sia  in  fondo  quella  radice  pronominalo  da  cui 
derivò  il  pronome  relativo,  aggregata  al  tema  vei'bale  nel  senso  avver- 
biale di  '  là,  un  giorno,  olim  \  accennante  a  tempo  futuro.  Allo  stesso 
modo  r  a  del  congiuntivo  sarebbe  per  il  Merlo  un'altra  radice  pronomi- 
nale in  funzione  avverbiale,  nel  senso  di  '  qui,  fra  poco  ';  e  così  il  con- 
giuntivo sarebbe  un  futuro  più  prossimo  dell'ottativo,  anche  al  qual  fu- 
turo si  sarebbe  aggiunto  poi  il  valore  soggettivo  di  deliberazione  ecc. 
ln.somma  il  congiuntivo  ayuj  {^=  *aqa-a-nii  ■=.  conducente  —  frappoco 
—  io)  e  r  ottativo  «yoii^i  (=  '^aga-jà-mi  z^  conducente  —  un  giorno  — 
io),  avrebbero  significato  dapprima  semplicemente  'condurrò  ora'  e 
'condurrò  poi',  e  quindi:  '  fia  ch'io  conduca;  ch'io  conduca'  e  'fosse 
ch'io  conducessi;  condurrei  '.  —  Codesto  genere  di  speculazioni  e  di  con- 
getture sopra,  quasi  direi,  le  prime  cellule  della  granomatica  ariana,  la- 
sciano sempre  il  lettore  molto  perplesso  ;  ma  non  è  che  le  proposte  e  i 
raziocini  del  prof.  Merlo  abbiano  nulla  di  particolarmente  arrischiato  o 
di  pili  arrischiato  che  molte  altre  congetture,  le  quali  si  vanno  tuttora 
ripetendo  in  simil  soggetto,  e  metton  capo  ai  più  venerali  maestri  della 
nostra  scienza.  Ma  nocque  ai  lavori  del  Merlo,  ai  quali  io  accenno,  l'an- 
datura troppo  concitata  e  farragginosa,  la  esuberanza  delle  citazioni,  e 
qua  0  là  un  po'  di  prolissità:  la  mancanza  insomma  di  quella  misurata 
sobrietà,  la  quale,  buona  e  bella  sempre,  era  qui  più  che  mai  necessaria, 
trattandosi  di  superare  con  un  eccesso  di  virtù  nella  esposizione  le  molte 
diffidenze  che  naturalmente  suscitavano  e  il  soggetto  trascendentale  e  la 
gioventù  dello  .scrittore.  Che  del  resto  sarebbe  ingiustizia  disconoscere 
che  anche  in  quei  primi  lavori  non  apparisse  già  chiaramente  molta  e 
sicura  coltura  generale,  copiosa  e  precisa  dottrina  speciale  al  soggetto, 
ingegno  acuto  e  svelto,  animo  gentile  e  modesto.  —  E  così  del  Merlo  si 
potesse  ancora  dire:  tenet  mine  Parthenopel  Purtroppo  Ticinenscs  ra- 
puere,  con  molto  loro  vantaggio,  e  con  altrettanto  rammarico  di  noi 
partenopei  ;  i  qua^i  sopportiamo  questo  ratto  con  una  rassegnazione  che 
rassomiglia  a  quella  di  Brabanzio,  allorché  diceva  al  moro:  /  here  do 
give  thee  t\at  ìcith  ali  my  heart,  Which,  bui  thou  hast  already, 
tcith  ali  my  heurt  I  would  heep  from  thee  [Oth.^  I,  3). 


—  345  — 

Delbrlick  inclina  sempre,  benché  con  minor  risolutezza  che  non  fa- 
cesse nelle  sue  Ricerche  Sintattiche,  all'opinione  del  Curtius,  che  esso 
sia  originariamente  un  semplice  indicativo,  cioè  tra  due  forme  d'un 
indicativo  la  forma  più  piena  (i),  venuta  perciò  ad  assumere  un 
senso  più  durativo,  dal  quale  il  senso  di  congiuntivo  sarebbe 
derivato. 

IX.  Quanto  alle  terminazioni  personali,  egli  riconosce  che  la  loro 
connessione  coi  pronomi,  se  è  abbastanza  chiara  per  il  singolare  e 
per  la  prima  e  seconda  plurale,  non  lo  è  del  pari  per  la  terza  plu- 
rale e  per  il  duale.  Anche,  del  resto,  l' equazione  si  =  tva- ,  che  non 
è  punto  impossibile,  importa  però  tal  mutazione  fonetica,  di  cui  si 
vorrebbe  avere  altri  esempì  nella  lingua  madre  per  ismettere  ogni 
perplessità  intorno  ad  essa.  Quanto  poi  allo  n/z  della  3»  plurale  [bhd- 
ranti,  q^épovri,  cpépouai  ecc.)  non  è  soddisfacente  né  la  spiegazione 
simbolica,  già  citata,  del  Bopp ,  né  quella  compositiva  del  Pott 
[nti  ^  na -{- ta  radici  pronom.);  e  d'altronde,  poiché  la  3»  plur.  ha 
col  participio  presente  una  somiglianza  che  colpisce,  non  si  può  non 
guardar  di  buon  occhio  l'ipotesi  di  Ascoli  e  Brugman ,  secondo  cui 
bisognerebbe  dividere  bharant-i ,  cioè:  tema  del  participio,  più  un  i 
desinenziale  verbale  ricavato  dall'analogia  del  singolare  (^/zar^f/ ecc.). 

E  delle  desinenze  mediali  non  si  può  dir  nulla  di  sicuro,  se  non 
che  somigliano  e  son  certamente  coordinate  alle  attive.  Ma  se  |aai, 
aai  ecc.  siano  |ua-|ni,  0a-CTi  ecc.,  o  siano  un  'guna'  di  |ui,  ai  ecc.,  non 
è  punto  chiaro. 

Nulla  dice  il  nostro  autore  della  controversia  che  v' è  intorno  alle 
terminazioni  -uu,  lat.  -o,  dei  più  dei  verbi  greci  e  latini.  Corse  prima 
il  concetto  che  qpépuj  fosse  tronco  da  un  *cpépuj)ui  pari  al  sscr.  bha- 
ràmi;  poi,  ritenuto  specificamente  asiatico  l'allungamento  della  vocale 
tematica,  si  pensò  che  cpepiu  e  fero  siano  un  *bhara-mi  originario  ri- 
dotto a  *bharam  ,  *bharav ,  *hhàraii  (cfr.  òktu)  =  ashtàu  ssc.)  più  o 
meno  europeo  (Ascoli,  St.  Cr.,  II,  Di  un  gruppo  di  desinenze  ecc.); 
ed  ora  finalmente  vien  prevalendo  1'  opinione  dello  Scherer,  secondo 
cui  *bharà  (q)épuj)  ecc.  sarebbe  la  forma  prima  e  vera  della  prima  per- 


(1)  Per  es.  io|uev  è  congiuntivo  rispetto  a  l'uév,  come  cpépuu,uev  rispetto 
a  (pépo|uev. 

lijvista  di  filologia  ecc.,  X.  2  3 


—  346  - 
sona  singolare  dei  verbi  del  tema  in  -a,  la  quale  avrebbe  solo  po- 
steriormente   assunto    in    sanscrito  e  zendo  il  -mi  per  influsso 
analogico  dei  verbi  in  -ini  come  asmi,  addami  ecc.  (i). 

X,  Regnando  tanta  incertezza  nelle  singole  ipotesi  che  si  fanno 
per  spiegare  le  singole  forme,  non  possono  sottrarsi  ad  altrettanta 
incertezza  le  ipotesi  più  complesse  e  generiche  circa  l'ordine  onde  le 
varie  forme  della  flessione  sian  nate,  circa  i  vari  strati  di  formazione 
della  lingua  madre  indoeuropea.  Il  Delbrìick  resta  perplesso  avanti 
al  bel  lavoro  del  Curtius  su  coJesto  argomento,  e  alle  ipotesi  dello 
Scherer,  e  alle  connessioni  aculamente  rintracciate  dall'Ascoli  tra 
r  ario  e  il  semitico.  Conclude  che  tutta  questa  parte  più  sublime 
della  scienza  né  si  può  sopprimere  del  tutto  come  vorrebbero  i  po- 
sitivisti della  linguistica,  né  può  ridursi  a  una  certezza  apodit- 
tica che  dissipi  ogni  dubbiezza. 

Nel  sesto  capitolo  —  che  è  assai  bello,  nonostante  quel  troppo  la- 
sciare e  ripigliare  certi  argomenti  che  in  esso  s'avverte  anche  più  che 
negli  altri  —  il  nostro  autore  ritorna  sul  soggetto  già  toccato  nel 
capo  quarto,  cioè  sulla  rigidità  che  si  debba  attribuire  alle  leggi  fo- 
netiche, sulle  cagioni  onde  le  alterazioni  fonetiche  muovano,  sulla 
forza  che  si  possa  ascrivere  agi'  influssi  analogici  nel  perturbare  le 
dette  leggi,  insomma  su  tutte  quelle  questioni  metodiche  a  cui 
si  riferiscono  le  sentenze  che  oggi  con  molto  sussiego  si  vanno  ban- 
dendo dai  COSI  detti  neogrammatici.  Per  questi  il  Delbrìick 
ha  un'evidente  propensione;  la  quale  però  non  gli  turba  la  piena  li- 
bertà-dei giudizio,  né  lo  distoglie  dall'esser  giusto  verso  i  così  detti 
grammatici  vecchi.  Difatti  egl' incomincia  dal  difendere  il  Curtius 
dagli  assalti  dei  giovani,  mostrando  come  l'onorando  professore  di 
Lipsia  sia  stato  dei  primissimi  a  voler  rendere  più  rigorosa  la  fono- 
logia e  a  riconoscere  l'efficacia  dell'analogia.  Discute  poscia  il  prin- 
cipio propugnato  dal  Curtius  e  dal  Whitney,  che  le  mutazioni  fone- 
tiche siano  logorìi  e  facilitazioni  di  pronuncia  derivanti  dalla  pigrizia 
umana  che  spinge  a  cercare  la  maggior  comodità,  la  maggior  economia 
di  forza  nell'atto  dell'articolazione.  Che  se  il  Curtius  intende  questo 
principio    in    un    senso  troppo  esclusivo,  quasi  che  la  comodità  pro- 


(1)  Vedi  ScHMiDT,  art.  cit.,  p.  7;  Bréal,  art.  cit.,  p.  043  seg. 


—  347  — 
vochi  sempre  suoni  più  deboli  e  più  dolci  (i),  nel  qua!  senso  il  prin- 
cipio non  è  vero,  e  riuscirebbe<subito  insufficiente  a  spiegare  tutti  i 
fatti  fonetici  ;  ei  si  può  invece,  intendendolo  in  più  iato  senso,  spin- 
gerlo, mi  pare,  lino  ad  estremi  limiti,  e  farlo  bastare  a  spiegar  quasi 
tutti  que' fatti  ;  perchè  si  può  dire:  —  se  un  suono  più  debole  si  muta 
in  uno  più  fjrte  per  via  di  adattamento  ai  suoni  vicini,  questo  rin- 
forzo essendo  effetto  d'assimilazione  è  perciò  efletto  di  studio  di  co- 
modità; e  la  maggior  forza  può  essere  in  dati  casi  più  comoda  del 
rilassamento;  e  l'armonia  stessa  è  comodità;  —  la  comodità  è  cosa 
relativa:  per  un  popolo  il  suono  A  più  forte  è  men  comodo,  ed  esso 
quindi  l'indebolisce  nel  suono  B  ;  per  un  altro  popolo  il  suono  più 
debole  B  è  più  incomodo  epperò  Io  rinforza  in  A.  —  Eppure  e'  si 
arriva  in  ultimo  a  tali  mutazioni  fonetiche  che  col  principio  della  co- 
modità non  si  spiegano.  La  '  Lautverschiebung  '  per  esempio!  Applico 
ad  essa  il  principio  della  comodità,  per  mostrare  a  che  assurdi  si 
riesce  per  tal  via. 

Il  d  greco-latino,  p.  es.,  diventa  t  in  inglese  {duo:  hvo]  perchè 
pegl'Inglesi  il  d  è  men  comodo  del  t,  ma  il  i  stesso  però  è 
pegl'  Inglesi  men  comodo  del  tli  perchè  essi  mutano  il  /  classico  in 
th  [tu:  thoii),  e  il  th  finalmente  alla  sua  volta  è  per  loro  men  comodo 
del  d  perchè  mutano  il  th  classico  in  d  (0e-:  do);  che  è  come  dire 
che  il  <i  è  più  comodo  del  th,  che  è  più  comodo  del  /,  che  è  più  co- 


(1)  Il  Delbrùck  adduce  alcune  applicazioni  del  Curtius  (che  forse  nella 
quinta  edizione  dei  Grundzuge  questi  ha  smesse,  poiché  non  l'iesco  a 
i-itrovarcele):  che  cioè  il  suono  che  si  profferisce  nella  parte  più  interna 
della  bocca  si  carabi  volentieri  in  un  suono  più  innanzi,  ma  non  vice- 
versa, sicché  p  sorga  da  k  ,  ina  p  non  si  farebbe  h.  Ma  invece  si  fa, 
all'occorrenza;  come  p.  es.  nel  napol.  chiù  ^z  più  ;  e  come  il  t  si  fa  fa- 
cilmente k  nei  gruppi  il,  cr,  fin  da  epoca  romana,  nel  latino  e  nelle  fa- 
velle che  ne  deiivano  [craindre  -^  tremeve,  ecc.).  Né  si  reggel'altra  ap- 
plicazione che  le  esplosive  si  mutino  in  fricative  ma  non  viceversa:  basta 
solo  ricordare,  nel  campo  neolatino,  gl'it.  crebbi,  cono&6i  =  crevi,  co- 
finovi  ,  gli  abruzzesi  e  sannitici  'mpaccia  in  faccia,  'mponne  infondei-e 
(per  'bagnare'),  e  l'it.  zampogna  =:symphónia,  e  gli  spagnuoli  dipioìigo, 
cue'tiano  =  cophinus,  e  gl'it.  nerbo,  corbo,  e  le  serie  ^l'd,  (/iovane  ecc., 
da  jam,  juvenis,  ecc.,  e  il  tipo  gabbia  :=  cavea,  e  rado  =  raro  ,  arma- 
dio :=  armarium,  il  friulano  roda  m  rosa,  ecc.  E  il  Curtius  stesso  ha  ac- 
cettata la  mutazione  di  oa  in  tt  voluta  dall'Ascoli.  Cfr.  anche  Stiidj 
Crit.,  II,  p.  517,  Indice,  s.  '  AfRevolimenti  progressivi  '. 


—  348  — 
modo  del  d;  o  insomma  il  i  è  pegl'Inglesi  (cioè  pei  loro  progenitori 
germanici)  il  più  comodo  e  il  più  incomodo  dei  suoni!  Veramente, 
questo  circolo  vizioso  si  può  forse  rompere.  L'Ascoli  inclina  a  cre- 
dere che  l'evoluzione  della  aspirata  classica  in  media  inglese  o  gotica 
si  debba  intendere  diversamente  da  quel  che  si  suol  fare:  invece  di 
prendere  a  termine  di  confronto  l'aspirata  sorda  greca,  si  prenda  l'aspi- 
rata sonora  indiana  e  protoariana:  si  confronti  l'inglese  do  non  con 
e€(Ti0r|)ni)  ma  con  dhà  {dddhàmi);  e  allora  la  detta  evoluzione  si  ridurrà 
a  semplice  perdita  dell'elemento  aspirante,  del  /;,  quale  ha  luogo  non 
solo  in  germanico,  ma  anche  in  lituslavo,  in  celtico,  ecc.  [Lingue  e 
Nar^ioni,  p.  86",  Corsi,  p.  i54-5  n.).  Di  veramente  germanico,  dunque, 
non  rimarrebbe  che  questo:  t  da  d,  th  da  t  ;  le  quali  due  evoluzioni 
rappresenterebbero  un  cgual  grado  di  rinforzo,  d'  «  incrassimento  »; 
ossia  tanto  più  forte  è  th  rispetto  a  t,  quanto  ù  t  rispetto  a  d\  sicché 
dal  gotico  tunthus  al  sscr.  dantas  ci  sarebbe  «equidistanza»  in  quanto 
alle  mute  [Lingue  e  Nazioni,  p.  86).  —  Sennonché,  se  noi  dal  primo 
stadio  della  rotazione  delle  mute,  cioè  dallo  stadio  gotico,  inglese, 
bassotedesco,  passiamo  allo  stadio  altodesco,  il  circolo  vizioso  ci  si 
ripresenta.  Difatti  in  questo  secondo  stadio,  d  gotico-inglese  [do  fare) 
diventa  t  in  tedesco  [tun,  o  con  1'  abusiva  ortografia  che  corre:  tliun), 
e  il  th  (ingl.  thou,  three...)  diventa  d  [du,drei),  e  t  '[ìn^ì.  tyvo,  gotico 
masch.  tvai)  diventa  th  e  per  esso  ^  (ted.  pvei).  Or,  se  noi  poniamo 
che  t  sia  sostituito  anche  qui ,  come  nel  primo  stadio  ,  a  «i  ,  perchè 
più  forte  o  crasso  di  esso  d,  e  che  th  [;[)  sia  anche  qui  come  nel 
primo  stadio  sostituito  a  t  perchè  più  forte  o  crasso  di  esso  f,  ci  resta 
poi  che  d  sarebbe  sostituito  a  th  come  più  forte  o  crasso  di  th]  ossia 
che  d  sarebbe  da  un  lato  più  crasso  di  quel  th,  che  pure  è  più  crasso 
di  t,  e  dall'altro  sarebbe  men  crasso  di  t  (i).  La  contradizione  è  an- 
cora più  evidente  nella  'Lautverschiebung  '  armena,  dove,  p.  es.,  in 
Dikran  rispetto  a  Tigranes  la  tenue  si  fa  media  e  la  media  si  fa 
tenue  ;  sicché  si  dovrebbe  dire  che  la  tenue  è  più  comoda  della  media 


(1)  Si  può  rappresentare  la  cosa  con    queste  tre  '  ineguaglianze  ',  che 
nessun  algebrista  accetterebbe  : 

d  >  th 
th  >  t 
«>  d. 


—  349  - 

e  viceversa  !  Che  se  credessimo  di  risolver  la  questione,  dicendo  che 
si  tratta  di  una  comodità  relativa  perchè  l'organo  vocale  di  quel  po- 
polo trova  più  comoda  la  tenue  là  dove  dovrebbe  profferire  la  media, 
e  viceversa,  dovremmo  poi  convenire  che  appunto  questo  quasi  'spi- 
rito di  contradizione  '  della  glottide  è  quello  che  non  intendiamo, 
e  che  ci  ricorda  il  'natura  abhorret  a  vacuo'  degli  scolastici.  La 
lej;ge  di  Grimm  objettivamente  è  chiara,  bella,  simmetrica,  è  un 
trasporto  musicale  «  che  non  turba  l'a  r  m  o  n  i  a  »  come  ha  detto 
l'Ascoli  (in  questa  Rivista,  X,  5 1-2  n.);  ma  una  ragion  sufficiente  su- 
biettiva, psicologica  o  fisiologica,  non  se  ne  trova.  E  la  ragione  della 
comodità  qui  più  che  mai  è  insufficiente. 

Non  so  se  queste  mie  osservazioni  parranno  acconce.  Quelle  di 
Delbriick  mi  son  parse  qui,  contro  il  solito,  languide  e  indecise. 

Così  pure  egli  mi  pare  che  ondeggi  troppo  tra  l'ammettere  che  le 
alterazioni  della  pronuncia  comincino  da  un  individuo  o  da  pochi, 
e  da  questi  si  estendano  agli  altri,  ed  il  riconoscere  che  l'efficacia 
dell'individue  non  può  esser  molta,  in  ispecie  trattandosi  di  pronunzia 
e  non  di  vocaboli.  Assai  meglio  lo  Schuchardt,  con  quella  sua  ar- 
guzia piena  di  senno,  scrisse  nel  '  Vokalismus  '  che  le  mutazioni  fo- 
netiche son  come  le  rivoluzioni  politiche  :  cominciano  quasi  contem- 
poraneamente in  vari  punti  qua  e  là,  finché  dopo  un  poco  tutto  il 
paese  è  in  fiamme;  ben  inteso  se  la  rivoluzione  è  matura  e  non  è 
una  bizzarria  locale  o  personale.  Ricordo  intanto  le  osservazioni  giu- 
stamente ironiche  dell'Ascoli  intorno  alle  ipotesi  delle  '  spinte  indi- 
viduali' (in  questa  Rivista.,  X,  45-6). 

Rileva  il  Delbriick  come  nella  pronunzia  essendoci  molto  d'incon- 
sapevole, ci  debba  quindi  essere  una  specie  di  forza  irresistibile  nel- 
l'alterazione dei  suoni.  E  perciò  la  legge  fonetica  non  debba  a  rigor 
di  termini  patire  eccezioni.  E  se  queste  appajono,  devano  essere  ef- 
fetto di  certe  speciali  correnti  che  perturbino  1'  azione  della  legge,  o 
di  cause  affatto  particolari  alla  singola  parola.  Dalla  coscrizione,  se 
il  paragone  mi  è  concesso,  delle  leggi  fonetiche,  vi  posson  esser  pa- 
role esenti  per  legittimi  motivi,  non  refrattarie  per  renitenza  capric- 
ciosa. Certo  che  come  più  la  fonologia  progredisce,  più  il  campo 
delle  eccezioni  inesplicabili  si  restringe,  sempre  più  si  vengono  a  rin- 
tracciare le  ragioni  perchè  una  voce  o  una  serie  di  voci  si  sottragga 
alla  legge  ;  donde  nasce  la  presunzione  che  anche  sotto  alle  eccezioni 
apparentemente  capricciose  siavi    una    ragion  sufficiente,  quantunque 


—  350  — 

nascosta,  forse  per  sempre,  agli  occhi  nostri.  Soprattutto  la  fonologia 
romanza,  —  perchè  tratta  lingue  viventi,  nelle  quali  è  ancora  in 
parte  vivo  il  sentimento  delle  ragioni  che  ne  determinano  i  fatti  sin- 
goli, e  dove  si  scerne  meglio  ciò  che  è  indigeno  da  ciò  che  è  im- 
portato, e  le  correnti  dotte  perturbatrici  dalle  correnti  schiettamente 
naturali;  lingue  che  partono  da  una  lingua  madre  ben  nota,  qual  è 
la  latina,  non  già  ricostruita  per  sforzo  d'  induzione  come  la  pro- 
toariana o  la  protogermanica,  e  insomma  si  sono  svolte  suppergiù 
sotto  gli  occhi  della  storia,  —  ha  fatto  un  continuo  progredire  nella 
dichiarazione  delle  leggi  e  dei  casi  eccezionali;  e  qui  da  noi  l'Ascoli, 
e  tra  i  giovani  il  Canello,  hanno  lavorato  da  più  anni  in  questo 
senso,  senza  averne  presa  l'imbeccata  da  nessun  neogrammatico. 

Quanto  alle  cause  perturbatrici  delle  leggi  fonetiche,  il  Curtius  ne 
rilevò  soprattutto  due.  L'una  è  che  i  suoni  e  le  sillabe  portatrici  di 
un  dato  significato  formale  son  più  restie  a  sparire  e  resistono  quindi 
alla  tendenza  fisiologica  che  le  vorrebbe  soppresse;  così,  dice  il 
Curtius,  il  i  tra  vocali  spariva  in  greco  (pel  tramite  di  j),  come  si 
vede  nei  verbi  in  -auj  ecc.  e  ne'  genit.  in  -oo  -ov  (=  oio),  ma  resistè 
in  òoii-|v,  in  Xéfoiev  e  simili,  poiché  ivi  il  significalo  d'ottativo  punta 
giusto  sul  i.  No,  dice  Delbriick  ,  tali  voci  han  serbato  il  i  per  sem- 
plice simmetria  con  boì|uev,  òoìxe  ecc.,  dove  il  i  è  avanti  consonante  e 
non  poteva  sparire.  Ma  tra  il  concetto  suo  e  quel  del  Curtius  e'  è 
meno  differenza,  mi  pare,  di  quello  egli  vorrebbe:  c'è  un  punto  ul- 
teriore ove  i  due  concetti  coincidono,  ed  è  che  insomma  se  òoiriv  ecc. 
non  perde  il  i,  gli  è  perchè  non  è  una  parola  isolata  bensì  una  forma 
grammaticale  che  fa  sistema  con  altre.  Del  resto,  io  non  direi  col 
Delbruck  che  nella  coscienza  dei  parlanti  non  vi  sia  più  il  ricono- 
scimento di  ciò  che  un  suono  o  una  sillaba  importi  per  una  data 
forma.  Non  vi  sarà  il  ricordo  del  valore  originario  di  quel  suono  o 
sillaba,  e  del  come  sia  venuto  a  significare  quel  tempo  o  modo  o 
caso  ecc.;  ma  la  coscienza  del  suo  valore  attuale  c'è  :  altrimenti  la 
llessione  non  esisterebbe.  In  a]'rci  V  italiano  non  riconosce  più  che 
r  -ci  è  ebbi,  ma  sente  che  su  quest'  -ei  poggia  la  condizionalità,  per 
così  dire,  di  quella  voce  verbale  ;  e  così  in  cresca  egli  sente  che  il 
congiuntivo  è  tutto  afiidato  all'  a.  Del  pari  il  greco  non  ricordava 
più  che  in  òo-ùi-v  vi  fosse  un  jà  radice  verbale  o  pronominale  o  che 
altro  si  sia,  ma  sapeva  che  quelT -in-  caratterizzava  l'ottativo,  come 
il  -9iv  caratterizzava  l'aoristo  passivo.  —  L'altra  causa   perturbatrice 


-  351  — 

è  l'analogia,  e  il  Delbrlick  ne  tratta  a  lungo  e  giudiziosamente ,  am- 
mettendo che  bisogni  riconoscerla  più  largamente  che  non  si  solesse 
fare  in  passato,  ma  insiem  rilevando,  come  s'è  già  detto,  che  i  vecchi 
linguisti  le  avean  già  fatta  ampia  parte,  e  così  riprovando  implicita- 
mente le  esagerazioni  dei  grammatici  giovani  (cui  ora  tengon  dietro 
i  'giovanissimi';  e,  chi  sa,  tra  poco  anche  i  puerili).  Alle  quali  io 
non  vorrò  consacrar  troppe  parole,  specialmente  dopo  le  efficaci 
quanto  temperate  osservazioni  dell'Ascoli  in  questa  stessa  Rivista  (X). 
Ho  sempre,  e'i  tk;  koì  d\Xoq,  creduto  che  «  la  scienza  non  progredisce 
solamente  per  vere  e  proprie  scoperte,  ma  anche  per  il  rilievo  nuovo 
che  un  nuovo  ricercatore  dia  ad  un  punto  riconosciuto  ab  antiquo, 
e  per  la  luce  abbondante  che  egli  getti  sopra  un  lato  rimasto  prima 
come  in  penombra  »  (i);  e  quindi  non  posso  voler  negare  ai  neo- 
grammatici quella  lode  che  loro  spetta  per  aver  mostrato  più  di  pro- 
spetto una  faccia  della  scienza  che  finora  si  vedeva  più  di  profilo.  E 
ho  pur  sempre  creduto  che  il  movimento  della  scienza  sia  rappre- 
sentabile da  un  'parallelogramma  delle  forze  '  dove  a  far  procedere 
la  scienza  nel  senso  della  risultante  contribuisca  non  solo  l'opra 
dei  dotti  temperati  che  la  tirano  più  o  meno  in  quel  senso  appunto, 
ma  altresì  quella  degli  eccessivi  che  si  sforzano  di  tirarla  nel  senso 
delle  componenti  (2).  È  legge  di  natura  codesta.  Sennonché  è 
anche  legge  di  natura  che  l'arroganza  provochi  un  disgusto  che  non 
si  può  del  tutto  dissimulare.  Tra  quelli  che  aderiscono  più  o  meno 
alla  nuova  scuola  vi  sono  ricercatori  esimi;  e,  p.  es.,  il  Leskien  e 
Gustavo  Meyer  avranno  ammiratori  più  competenti  assai  ch'io  non  sia, 
ma  più  caldi  certamente  no.  Sennonché  non  mancan  tra  loro  quei  che 
ci  parlano  quasi  di  una  «  instauratio  ab  imis  fundamentis  »  che  sia  da 
fare  dell'edifizio  innalzato  dai  vecchi  linguisti,  e  si  danno  l'aria  d'aver 
inventata  la  polvere,  mentre  essi  tutt'al  più  tirano  verso  un  punto 
bersagliato  finora  un  po'  meno  del  dovere,  con  un  fucile  che  i  vecchi 
han  messo  loro  in  mano,  e  col  quale  più  volle  essi  giovani  falliscono 
il  colpo  scottandosi  le  dita!  Una,  p.  es.,  delle  grandi  massime  loro 
è,  che    le   condizioni    naturali  del   linguaggio    umano    si    verifichino 


(1)  Da  un  mio  volume  di  Saggi  Critici,  a  p.  518. 

(2)  Si  veda,  0  meglio  noa  si  veda,  uà  mio  proemietto  alla   traduzione 
del  citato  libro  di  Whitney. 


—  352  — 

meglio  studiando  un  dialetto  vivente  che  un  vecchio  idioma  letterario 
giunto  a  noi  in  monumenti  scritti.  Ma,  lasciando  da  parte  il  Grimm  ecc., 
si  potrebbe  domandare  a  quei  fieri  dialettofili  (non  so  se  anche  dia- 
lettologi) se,  p.  es.,  credono  che  quella  massima    debba  essere   incul- 
cata anche  all'Ascoli,  uno  dei   vecchi  grammatici,  il  quale  interrom- 
peva i  Corsi  di  Glottologia  per  i  Saggi  Ladini  e  per  tutto  «  quel  che 
è    poi    aggiunto  ».  I    neogrammatici    dovrebbero   specchiarsi    in    un 
esempio  moralmente  buono,  nel  modo  cioè  che  tengono  i  cultori  della 
glottologia  romanza,  i  quali,  intesi  tutti  a  correggere,  ad  aumentare  le 
dottrine  di  Federico  Diez  loro  maestro,  son  però  sempre  ben  lontani 
dall' atteggiarsi  a  riformatori    davanti  a  lui.  Né  ne   mancherebbero  i 
pretesti.  Lasciando  i  molti  errori  di  fatto  e  di  criterio  che  tutti  oramai 
notiamo  nella  Grammatica  e  nel  Vocabolario  del  grand'uomo,  ci  sa- 
rebbe   anche,  volendo  ,  da    ingrossar  la  voce  per  certe    parti  del  suo 
metodo  in  genere.  11  Diez  si  fermò  sulle  lingue  letterarie,  e  sui  dia- 
letti die  magri  cenni;  e  non  solo  non  si  prese  la  briga  di  girare  un 
po'  i  paesi  neolatini  per  erudirsi  sopra  luogo  delle  parlate  neolatine, 
ma  neanche  spogliò  tanti  scritti  in  dialetto  che  sarebbero  bastati  per 
cavarne  altrettante  grammatiche  dialettali;  sicché,  p.  es.,  di  certi  fatti 
fonici  o  morfici  o  lessicali,  che  son  subito  avvertiti  da  chiunque   di- 
mori qualche  giorno  a  Napoli,  o  legga  un  brano   della    copiosissima 
non  dico  ricca)  letteratura    napoletana,  il  Diez  alle  volte   non  ne  sa 
se  non  quel  pochissimo  che  se  ne  può  cavare   da  una  poesia  ducen- 
tistica  dì  scuola  meridionale.  Eppure,  mentre  c'ingegniamo  juro  viribiis 
di    fare    quel    eh' ei  non  fece,  tutti,  dai  più    gagliardi    ai    più  umili, 
riconosciamo    che    egli  non  poiea  fare  altrimenti  né  di  più;  che  ab- 
bracciando un  campo  più  vasto  lo  sguardo  e  la  lena  non  gli  pctean 
bastare  ;  che    era    naturale   cominciasse  dalle  grandi  lingue   letterarie 
che   più  premeva    dichiarare.  Ma    forse    questa    riverente  discrezione 
verso  «  il  grandissimo  dei  romanisti  »   proviene  da  ciò,  che  c'è  ancora 
molto  da  fare  nel  campo  romanzo,  e  non  c'è  quindi  bisogno   di    far 
rodomontate  per  chiamar    l'attenzione  sopra  di  sé;  mentre  il  campo 
indoeuropeo,  coltivalo  da  tanti  robusti  cultori,  e  in  tutti  i  sensi,  non 
facilmente  dà  luogo  a  esuberante  messe  di  vere  novità. 

Ma  lasciamo  gli  analogisti  e  torniamo  all'analogia  (i).  Sulle  tracce 


(1)  Dice  il  Delbrùck  che  non  si  sa  bene  se  anche  la  parte    tematica 
d'una  parola  possa  subire  qualche  modificazione  fonetica  per  influsso  aua- 


-  353  — 

del  Misteli  il  Delbriick  enumera  le  varie  categorie  di  analogie  possi- 
bili, e  manifesta  un  temperato  desiderio  che  sia  fatta  una  classifica- 
zione e  un'esemplificazione  più  compiuta  dei  fenomeni  analogici, 
perchè  serva  di  norma  ai  ricercatori.  Il  mio  desiderio  ,  lo  confesso, 
è  anche  più  temperato  del  suo;  poiché  cosiffatte  collezioni  non  sono 
molto  di  più  che  belle  curiosità  scientifiche,  piacevoli  a  leggersi  e 
onorevoli  per  chi  le  fa  bene,  ma  di  poco  effetto  sul  criterio  metodico 
dello  scienziato;  il  quale  più  che  altro  ha  bisogno  di  naturale  senso 
del  probabile  e  del  possibile  per  decidere  volta  per  volta,  quando  si 
imbatte  in  certi  casi,  se  sien  determinati  da  analogia  e  come. 

Una  specie  particolare  di  eccezioni  fonetiche  sono  i  così  detti  dop- 
pioni o  forme  allotropiche.  Alcune  di  esse  si  spiegano  con  ciò  che 
una  forma  è  popolare,  l'altra  è  letteraria,  come,  p.  es.,  padrone  epa- 
troìw;  o  una  indigena,  l'altra  importata,  come  graticola  e  il  france- 
sismo griglia  (entrambi  da  craticula);  le  quali  spiegazioni ,  che  ri- 
sultano facilmente  evidenti  nelle  lingue  moderne ,  son  difficili  ad 
applicare  alle  antiche.  Altre  volte  la  spiegazione  è  invece  in  questo, 
che  una  voce,  tenuta  in  riga  dalle  voci  della  stessa  stirpe  in  quanto 
la  si  usa  come  voce  libera  {grato  ,  influito  da  gratitudine  ecc.),  si 
abbandona  meglio  all'  alterazione  quando  è  incastonata  rigidamente 
in  una  frase  fissa,  dove  perde  il  suo  vero  e  vivo  significato  [grado 
in  'saper  grado',  'malgrado').  O  accade  il  rovescio,  come  si  vede  nei 
latini  quaeso  e  qiiaero.  Ma  altre  volte  i  doppioni  sono  solamente  ap- 
parenti. Il  Curtius,  p.  es.,  spiegava  il  doppio  accusativo  jLieiZIova  , 
ineiluj  (i),  così:  che  la  forma  madre  *|Liei2;ov(j-a  (cfr.  sscr.  mahìjdns-am) 
si  sarebbe  sdoppiata,  facendosi,  colla  soppressione  del  a,  |u£iZov«  (cfr. 
gen.  firivòi;  =  mensis  ,  xnvó<;  =:  anseris  ,  e  colla    soppressione    del    v, 


logico  di  una  parola  correlativa.  In  fondo  al  volume,  poi,  fa  una  specie 
di  rettificazione,  ricordando  che  la  Michaelis  ha  osservato  come  l'ita- 
liano greve  (e  grieve]  debba  il  suo  e  per  a  all'attrazione  del  suo  anti- 
tetico lieve.  Ma  questa  osservazione  è  già  fatta  dal  Diez  fin  dalla  se- 
conda edizione  almeno  della  Grammatica  (1856,  voi.  1,  Vocali  latine,  A); 
non  so  se  fin  dalla  prima.  Io  poi  ci  ho  aggiunto  melo  (malum)  fatto  su 
pero  [Arch.  Gì.,  W,  147).  E  T Ascoli  da  un  pezzo  ha  notato  che  in  molte 
parlate  più  o  meno  italiane  i  riflessi  di  péjus  mostrano  una  vocale  to- 
nica che  supporrebbe  un' <?  breve  (compreso  1' ital.  peggio  con  e  aperta  , 
per  influsso  di  mclius.  E  altro  ancora  si  potrebbe  aggiungere. 

(1)  Perchè  il  Delbrùck  ragiona   sui  genitivi  jaeijovot;    |U€ÌZ:ou;  ?    Dov'è 
questo  genitivo  in  -ouq?!  —  Cfr.  G.  Meyer,  Gr.  Gr.,  p.  269. 


-  354  - 
*[xi\Zoaa  *|ueiZoa  lueiZuu.  Il  Delbriick  respinge  questa  biforcazione  per 
una  questione  di  principio;  che  la  nuova  scuola  giustamente  ripugna 
ad  ammettere  che  una  forma  si  biforchi  così  nello  stesso  linguaggio, 
applicando  due  leggi  fonetiche  diverse.  La  forma  jueiZuj,  dice  il  Del- 
briick, è  la  vera  continuatrice  della  forma  originaria  (*ne\Zo[v']aa);  e 
lueiZova  sarà  una  forma  analogica  plasmata  sul  nominativo  ineiZoiv. 
Cosi  respinge  pure  che  una  legge  fonetica  si  possa  verificare  in  una 
serie  di  parole,  lasciandone  immune  un'altra,  senza  ragioni  speciali. 
E  tocca  un'altra  questione.  Quando  un  suono  si  muta  in  un  altro, 
si  muta  dappertutto  di  punto  in  bianco,  o  si  oscilla  per  un  certo 
tratto  di  tempo  tra  il  vecchio  e  il  nuovo  ?  L'oscillazione  ci  dev'essere 
di  certo,  massmie  se  si  noti  che  in  ogni  comunanza,  per  quanto  pic- 
cola, v' è  sempre  un  certo  numero  di  'conservatori'  più  tenaci  in 
quanto  a  pronunzia,  i  quali  cedono  a  poco  a  poco,  e  spesso  non  ce- 
dono se  non  perchè  se  ne  vanno  da  questo  mondo. 

In  conclusione,  han  ragione  i  novatori  quando  gridano  che  le  leggi 
fonetiche  non  patiscono  eccezioni?  Lasciando  da  parte  le  pronunzie 
antiquate  ,  le  forme  fonetiche  di  non  indigene  penetrate  da  un  dia- 
letto in  un  altro  ,  e  le  forme  letterarie  ,  e  restringendosi  a  quelle 
forme  che  sono  veramente  e  attualmente  proprie  e  native  d'una  data 
parlata,  e  tra  queste  stesse  eliminate  quelle  eccezioni  che  son  deter- 
minate da  influssi  analogici,  o  da  condizioni  particolarissime  della 
parola  [spinta  assimilativa,  dissimilativa,  ecc.),  e  tanto  pili  eliminate 
quelle  eccezioni  che  costituiscono  una  intera  serie,  cioè  una  sub-legge 
fonetica; —  in  tutto  quello  che  resta  si  ha  la  legge  fonetica  a  verificare 
in  un  modo  assoluto,  come  dicono,  infallibile?  Certamente  che  sì. 
Ma  intendiamoci  bene  ;  a  rischio  di  cadere  in  qualche  ripetizione. 
Questo  può  essere  un  postulato;  il  quale  ora  noi  poniamo,  da  un  lato 
perchè  l'esperienza  particolare  della  fonologia  ci  ha  mostrato  che 
come  più  essa  acuisce  lo  sguardo  più  le  eccezioni  capricciose  si  dile- 
guano e  scemano,  e  dall'altro  perchè  un'esperienza  più  generale  della 
stessa  natura  umana  ci  ha  condotti  a  negare  che  le  azioni  degli  uo- 
mini procedano  veramente  da  'libero  arbitrio'.  La  legge  fonetica 
non  è  inesorabile  e  fatale  come  una  legge  fisica,  poiché  il  linguaggio 
è  opera  della  volontà  ;  ma  appunto  la  volontà  non  opera  se  non  d  e- 
terminata  da    motivi    fi).  Ciò  è  vero  della  volontà  individuale 


(I)  Sarebbe  un  lavoro  curioso  da  fare  questo:  raccogliere  tutti  i  passi 


—  355  — 

non  meno  che  della  volontà  sociale,  collettiva;  ma  i  motivi  che 
muovon  quest'ultima  devono  in  massima  esser  più  forti,  più  logici, 
più  facili  a  scoprire,  a  rintracciare.  Ora  il  linguaggio  è  giusto  opera 
della  volontà  collettiva,  e  consta  quindi  di  atti  di  cui  in  parte  si  ve- 
dono, in  parte  s'intravvedono,  in  parte  si  vorrebber  vedere  i  motivi. 
E  il  fonologo  adesso  è  determinista;  egli  è  persuaso  che,  quando  in 
certe  parole  la  volontà  non  cede  al  solito  motivo  fisiologico  da  cui 
nelle  altre  parole  essa  è  tratta  a  modificare  un  dato  suono  in  un  dato 
modo,  deve  ella  a  una  tal  ribellione  essere  indotta  da  un  altro  mo- 
tivo, o  pur  esso  tìsiologico,  o  psicologico;  e  la  fonologia  progredisce 
sempre  in  quanto  riesce  e  a  capire  il  motivo  della  legge,  e  a  indo- 
vinare i  motivi  delle  eccezioni.  Il  non  potere  adunque  la  legge  to- 
netica  subire  eccezioni  capricciose  ,  può  essere  ,  dicevo,  un  postulato 
ragionevole;  e  il  riuscire  a  spiegare,  a  motivare  tutte  le  eccezioni, 
anche  le  apparentemente  capricciose,  può  e  deve  essere  il  nostro 
ideale  scientifico.  Ma  che  poi  questo  ideale  sia  già  raggiunto  ,  o  sia 
pur  raggiungibile,  è  un  tutt'altro  conto.  Che  la  ineccezionalità  asso- 
luta delle  leggi  fonetiche  sia  un  teorema  pienamente  dimostrato,  un 
fatto  positivamente  liquidato,  da  proclamarlo  trionfalmente,  è  una 
presunzione  peggio  che  ingenua;  e  le    applicazioni   che    taluno  n  ha 


di  scrittori  sommi  o  insigni,  i  proverbi  e  le  sentenze  popolari  ecc.,  in 
cui  si  trovi  inconsciamente  professato  e  attestato  il  determinismo,  che 
pure  a  molti  fa  ancora  paura.  Io  ne  noto  qui  due.  L'uno  è  il  primo  ter- 
zetto del  canto  quarto  del  Paradiso  di  Dante; 

«   Intra  duo  cibi,  distanti  e  ìnozenti 
D'un  modo,  prima  si  morria  di  fame. 
Che  liber  uom  l'un  si  recasse  ai  denti  ». 


Non  è  un'ironia  quel  'libero'  attribuito  ad  un  uomo  che  obbedisce 
talmente  al  motivo,  da  non  risolversi  più  ad  operare  quando  i  motivi 
«.liversi  sien  due,  e  così  eguali  che  nessuno  preponderi?  L'altro  luogo  è 
nel  Romanzo  del  Manzoni,  là  dove  Agnese,  lamentatasi  di  don  Abbondio 
presso  il  Cardinale,  a  questo  che  promette  di  rimproverare  il  curato, 
risponde:  a  No  signore,  no  signore;  non  ho  parlato  per  questo:  non  lo 
gridi,  perchè  già  quel  che  è  stato  è  stato;  e  poi  non  serve  a  nulla:  è 
un  nomo  fatto  così:  tornando  il  caso  farebbe  lo  stesso  »  (cap.  XXIV). 
Qui  il  naotivo  determinante  è  un  motivo  costante,  è  il  temperamento. 


—  356  — 
fatte  sono  un  bel  saggio  di  precipitazione  (i).  Quella  proclamazione 
cosiffatta  mi  ricorda  un  poco  quella  che  noi  Italiani  facemmo  il  1861 
di  Roma  capitale,  sicché  perfino  nei  nostri  manuali  di  geografia  per 
le  scuole  si  trovava  scritto  molto  tranquillamente:  Italia,  capitale 
Roma  !  Dove  però  occorre  una  differenza  notevole,  e  tutta  a  danno 
dei  neogrammatici  ;  cioè  che  l'unione  di  Roma  all'  Italia  era  final- 
mente un  fatto  possibile,  sebbene  non  ancora  avvenuto;  tanto  possi- 
bile che  dopo  nove  anni  divenne  una  realtà;  laddove,  che  la  scienza 
riesca  mai  a  sgroppare  tutti  i  nodi  che  le  si  presentano,  è  cosa  pra- 
ticamente impossibile.  La  sistemazione  piena  e  precisa  di  tutti  i  fe- 
nomeni che  noi  studiamo  è  solo  il  limite,  direbbe  un  matematico,  a 
cui  noi  ci  avviciniamo  indefinitamente  senza  raggiungerlo  mai  I 

Il  Delbrlick  in  questo  stesso  capitolo  sesto,  sul  quale  abbiam  troppo 
e  troppo  male  ricamato  per  conto  nostro,  tratta  pure  della  questione, 
se  il  clima  infiuisca  nel  determinare  le  caratteristiche  fonetiche  dei 
singoli  linguaggi.  Prima,  a  questo  influsso  si  credeva  molto,  poi 
venne  lo  scetticismo;  ma  ora  tra  i  più  zelanti  novatori  v' è  chi  ri- 
parla del  clima.  Il  D.  resta  perplesso,  poiché,  dice,  mentre  da  un 
lato  «  un  influsso  del  clima  sugli  organi  vocali,  come  su  tutto  il 
corpo,  non  può  mancare,  dall'altro  si  dovrà  pur  concedere  che  i  fi- 
siologi non  hanno  osservato  tale  diversità  degli  organi  vocali  che 
possa  chiarire  le  differenze  di  pronunzia  dei  singoli  suoni  ».  Ma  può 
slare,  io  direi,  che  il  clima  non  influisca  al  punto  da  modificare  la 
costituzione  anatomica  della  laringe  ecc.,  bensi  faccia  risentire  i  suoi 
efletti  sulla  funzione,  sul  modo  di  operare  degli  organi  vocali. 
Certo  è,  che  per  quanto  i  nostri  vecchi  eccedessero  con  quel  loro  ri- 
tornello della  mollezza  delle  lingue  meridionali  e  della  durezza  delle 
nordiche,  e  per  quanto  la  scienza  nostra  abbia  verificato  che  anche 
il  nord  può  presentare  afficvolimenti  di  suoni,  e  il  sud  può  darci 
degl'indurimenti  di  essi,  e  per  quanto  gl'influssi  del  clima  possano 
essere  neutralizzati  od  oltrepassati  da  una  forza  ben  più  potente,  qual 
è  la  tradizione  idiomatica  della  razza;  tuttavia  qualcosa  di  vagamente 
vero  l'abbiam  da  riconoscere  anche  noi  oggi.  O  il  vocalismo,  p.  es.. 


(1)  Uua  di  esse  è  esaminata  dall'AscoLi  in  questa  Rivista  (X,  12segg.); 
e  un'altra  da  Sch-MIDt  nel  citato  lavoro  [KZ.,  XXV,  3  segg.),  precorso 
in  ciò  dairAscoLi  (St.  Crit.,  Il,  254-5). 


—  357  — 
pieno  e  limpido  dell'italiano,  dello  spagnuolo,  del  greco,  rispetto  al 
vocalismo  ridotto,  scarno,  e  spesso  turbato,  della  Gallia,  dell'Anglia, 
della  Germania  ,  s'avrà  a  dire  indipendente  dalla  ragion  dei  climi  ? 
Sennonché  i  fenomeni  di  origine  presumibilmente  climatica  sono  tal- 
mente intrecciati  con  quelli  di  provenienza  etnologica,  che  è  un'im- 
presa poco  men  che  disperata  il  volere  nella  trama  d'un  linguaggio 
distinguere  i  primi  fili  dai  secondi,  e  peggio  il  voler  fondare  sopra 
il  fatto  del  clima  le  divisioni  delle  lingue. 

Dell'ultimo  capitolo  del  nostro  autore  s'è  già  fatto  cenno  più  sopra. 
Non  mi  resta  se  non  da  confessare  il  mio  stupore  per  lo  scetticismo 
che  egli  mostra  avanti  alla  affinità  speciale  tra  il  greco  e  il  latino. 
Le  prove  per  questa  si  riducono,  secondo  lui,  al  comune  possesso  di 
nomi  femminili  di  2,^  declinazione  {pinus,  òòó<;),  e  alla  comune  limi- 
tazione dell'accento  alle  tre  ultime  sillabe  della  parola;  e  anche  queste 
due  dopo  le  revoca  in  dubbio  e  le  fa  sfumare!  Mentre  si  tratta  di 
tante  conformità  specifiche  tra  greco  e  latino,  e  d'una  comune  aria 
di  famiglia  di  un'evidenza  intuitiva  e  immediata!  Lavoro  utilissimo 
e  non  molto  agevole  farebbe  chi  raccogliesse  metodicamente  e  va- 
gliasse tutte  le  conformità  e  disformità  che  sono  tra  le  due  gramma- 
tiche e  i  due  lessici  dei  due  grandi  popoli  dell'antichità.  Ma,  anche 
prima  che  un  tal  lavoro  sia  fatto,  non  si  possono  chiudere  gli  occhi 
alla  luce  del  vero  (i). 


Le  troppe  parole  spese  su  questo  bel  libro  mi  costringono  a  dirne 
poche  sulla  traduzione,  —  buona,  com'era  da  aspettarsi,  sott'ogni  ri- 
spetto, —  che  ce  n'ha  fornita  il  prof.  Merlo.  Che  se  l'opra  di  questi 
è  stata  non  poco  agevolata  dalla  limpidezza  dello  stile  dell'originale 
tedesco,  d'altro  lato  essa  è  stata  resa  più  difficile  da  ciò,  che  il  Merlo 
ha  dovuto,  per  ragioni  che  non  importa  dire,  sbrigarsi  della  tradu- 
zione in  pochissime  settimane,  e  per  di  più  non  ne  ha  potuto  neanche 
rivedere   le   prove  di  stampa.  Se  però  egli  avesse  avuto  più  agio,  ne 


(1)  Vedi  su  ciò  l'AscoLi  in  questa  Rivista  (X,  52). 


—  358  - 
avrebbe  fatte  sparire  alcune  poche  scabrosità  e  parecchie  sviste  che 
ora  qua  e  là  la  macchiano.  Anche  così  com'è,  può  riuscire  utilissima 
agli  studiosi;  ed  è  una  nuova  prova  della  perizia  del  Merlo  nel  te- 
desco e  neir  italiano  e  nella  scienza  glottologica.  Ma  è  pur  vero  che 
questa  traduzione  è  paragonabile  ad  un  bello  e  onesto  viso,  che  avea 
bisogno  semplicemente  d'esser  lavato. 

Farò  alcune  osservazioni  sulle  prime  dieci  pagine.  —  A  p.  i  dice: 
«  Jones,  che  fa  il  primo  presidente  di  una  società  per  le  ricerche 
«  asiatiche,  sorta  a  Calcutta  fin  dal  1786,  si  esprimeva  a  questo  pro- 
«  posito  nel  modo  seguente  »;  mentre  son  le  parole  di  Jones  che  ri- 
salgono al  ijSb:  la  società  asiatica  fu  fondata  il  1774,  se  mal  non 
ricordo;  difaiti  il  testo  dice.  «  ...batte...  der  erste  Priisident  einer 
«  in  Calcutta  zur  Erforschung  Asiens  gestifteten  Gesellschaft  ,  sich 
«  ijber  diesen  Punkt  schon  1786  folgendermassen  geiiussert  >^ .  O 
forse   tutto    si    riduce    allo    spostamento     d'una    virgola?    —    Ibid. 

Non  è  felice  la  dicitura    nel    periodo:   «  Con    esse  la  stringe una 

«  parentela  cosi  stretta,  che  non  si  può  farla  dipendere  dal  caso,  e 
«  che  è  tanto  certa  da  imporre  ad  ogni  filologo...  la  convinzione  ecc.» . 

Era  meglio  dire,  p.  es.:   «  Con  esse    la  unisce una  parentela  cosi 

«  stretta,  che  non  si  può  farla  dipender  dal  caso,  e  tanto  certa,  da 
«  imporre,  ecc.  >^  ;  come  non  è  felice  l'espressione:  <:  che  abbiano 
avuto  col  sanscrito  la  stessa  origine  »,  dovendosi  dire  0:  «  la  stessa 
origine  del  sanscrito  »  o:  «  col  sanscrito  un'origine  comune  >.  —  A 
p.  2,  e  passim  :  <  giovani  lingue  ■>  <  forme  giovani  »  ecc.  a  tutto 
pasto,  ha  l'aria  d'un  tedeschismo  :  per  noi  è  più  proprio  «  recenti  ;>, 
in  tali  casi.  —  Ibid.  Dove  dice:  <  innanzi  al  giudizio  del  tempo  fu- 
turo, dovrà  far  epoca  senz'alcun  dubbio  Topera  dovuta  all'ingegno  di 
Bopp  »,  oltre  alcune  altre  lievissime  imperfezioni,  mi  par  ambiguo 
queir  «  opera  »  che  potrebbe  parere  un  determinato  libro,  mentre 
qui  vuol  dire  l'indirizzo,  l'attività.  Difatti  il  tedesco  dice:  «  die  cpo- 
chemachende  Leistung  des  Bopn'schen  Genius  »  cioè  «  l'opra,  che  fa 
epoca,  del  genio  di  Bopp  ^> .  Anche  quel  «  futuro  •> ,  e  qui  e  altrove, 
e  anche  senza  la  compagnia  di  tempo  »,  per  dir  1'  e  avvenire  >^  'die 
Zukunft)  non  è  troppo  opportuno,  massime  in  un  lavoro  grammati- 
cale. Né  poco  più  giù  è  molto  acconcio  quel  «  notizia  ->  per  <;  no- 
zione »  (Erkenntniss),  né  «  la  cognizione  »  per  «  lo  scandaglio  ,  il 
penetrare  »  e  che  so  io  (Einsicht).  —  Ibid.  <■  Che  fu  introdotta  dal 
Klaproih  (?^  »   si  legge  nella  nota,  dove  il  tedesco  ha     (von  Klaproth 


—  359  — 
aufgebrachte  ?)  >^ .  Il  testo  esprime  il  dubbio  se  K.  sia  stato  l'intro- 
duttore-, invece  la  traduzione,  dando  ciò  per  certo,  domanderebbe 
invece  chi  sia  codesto  Klaproth.  —  A  p.  3,  il  testo  direbbe:  Basti 
ricordare  il  giudizio  di  W.  (e  qui  lo  riporta),  e  citar  poi  l'afferma- 
zione di  B.  (e  la  riporta);  e  il  traduttore,  forse  per  spezzare  il  lungo 
periodo,  scrive:  «  Basta  ricordare,  ecc.  Ma  si  aggiunga,  ecc.  ».  In 
altri  modi,  anche  con  espedienti  tipografici,  si  potea  provvedere  alla 
chiarezza,  senza  commetter  questa  piccola  infedeltà.  Né  mi  piace  di 
più  quella  spezzatura  che  il  traduttore  ha  messa  nel  periodo  largo  e 
simmetrico  del  Benfey.  Questi  dice:  «  scopo  di  quest'opera  (la  Gr. 
Comp.  di  Bopp)  direi  che  fosse  l'intelligenza  della  origine  delle  forme 
grammaticali  delle  lingue  indoeuropee  ,  la  comparazione  di  queste 
lingue  come  mezzo  per  intender  quella  origine,  la  ricerca  delle  leggi 
fonetiche  come  mezzo  per  quella  comparazione.  Il  Merlo  ha  rotto  il 
legame  coordinativo  tra  queste  tre  cose  ,  sostituendovi  la  subordina- 
zione della  seconda  alla  prima,  e  la  separazione  della  terza  da  tutte 
e  due.  —  A  p.  4.  <  Ogni  vento  a  caso  e  di  leggieri  può,  ecc.  »;  sa- 
rebbe meglio  propriamente  :  «  il  vento  del  caso  facilmente  può  ecc.  ». 
—  A  p.  5.  Non  mi  par  bello  «  visibilmente,  ...lo  Schlegel,  ecc.  » 
per  <.  evidentemente...  Io  S.,  qcc.  »;  né  <^  si  avea  formato  la  convin- 
zione »  per  <:  s' era  persuaso  »;  né  quel  <-.  s'immagina  »  per  e  s'im- 
maginava »  (sich  dachte),  perché  toglie  il  colorito  narrativo.  —  A 
p.  5-6,  abbiamo  un  periodo  non  molto  felice:  «  Che  Schlegel  chia- 
«  masse -poi,  ecc.,  questo  avveniva  pienamente  secondo  lo  spirito  del 
«  filosofo  romantico,  2  cui  pensieri  e  le  formole  erano  a  lui  tanto 
«  famigliari  •■> .  Qui,  fra  l'altre  cose,  pare  che  il  filosofo  romantico, 
z  cui  pensieri  eran  familiari  a  Schlegel  fosse  una  persona  diversa  da 
Schlegel.  Avrei  preferito,  p.  es.:  <  Che  Schlegel  chiamasse,  ecc.,  era 
cosa  pienamente  conforme  allo  spirito  del  filosofo  romantico,  del 
quale  egli  aveva  tutto  il  modo  di  pensare  e  d'esprimersi  ».  —  A  p.  8 
si  legge:  «  Sotto  il  nome  di  Verbo  [parola  del  tempo)  è  da  inten- 
dere, ecc.  ».  Or  questa  parentesi  riesce  priva  assolutamente  di  senso 
per  il  lettore  italiano,  salvoché  egli  non  sia  pratico  di  tedesco  e  così 
s'immagini  subito  che  il  testo  debba  avere,  come  difatti  ha  :  «  Unter 
Zeitwort  oder  Verbum...  ».  — ^A  p.  9,  dove  dice  che  il  verbo  essere  si 
nasconde  «  intellettualmente  in  ogni  verbo  »,  era  meglio  dire  men- 
talmente, o  idealmente  (begrifflich).  Poco  più  giù  il  testo  dice  che 
il  Bopp  in  un  certo  suo  periodo  si  rimette  al  lettore  per  la  soluzione 


—  360  - 
d'una  questione  che  sarebbe  toccato  a  lui  di  risolvere,  e  propria- 
mente: «  ...dem  Leser  die  Losung  einer  Schwierigkeit  :^ugeschoben 
wird,  die,  ecc.  »;  e  il  Merlo  traduce  che  «  viene  riferita  al  lettore  la 
soluzione,  ecc.  »,  e  poi  nell'errata  emenda:  «  attribuita  al  lettore  ». 
Doveva,  io  credo,  scrivere:  «  deferita  al  lettore  ».  —  E  qui  io  mi 
fermo.  Il  resto  lo  dirò  in  privato  al  Merlo  s'egli  lo  vuol  sapere;  e 
non  vai  poi  la  pena  ch'egli  voglia,  poiché  si  tratta  o  di  piccoli  nei 
di  stile,  o  di  sviste  (poche  delle  quali  capaci  di  tirar  in  errore  il  let- 
tore) tutte  dovute  alla  fretta;  e  il  Merlo  le  avvertirà  da  sé,  se  rivedrà 
con  pace  il  suo  lavoro.  Il  quale,  tutto  sommato,  è  eccellente. 


In  lingua  turca  sono  espresse  dentro  il  verbo  istesso,  mediante  sil- 
labe formali,  certe  idee  accessorie  che  in  altre  lingue  si  esprimereb- 
bero con  apposite  parole.  E  il  cumulo  di  queste  idee  accessorie  può 
arrivare  a  tal  punto,  ossia  in  una  sola  voce  verbale  se  ne  possono 
concentrar  talora  tante,  da  aversi,  p.  es.,  dalla  radice  sev ,  amare, 
una  forma  cosi  :  sevishdirilememek,  la  quale  significa  '  non  esser  ca- 
paci di  essere  resi  amici  reciprocamente'.  Questa  voce,  aggiungeva 
taluno,  si  applicherebbe,  per  esempio,  benissimo  allo  Czar  e  al  Sul- 
tano, che  non  e'  è  verso  di  far  stare  in  pace  tra  loro.  Ma  essa,  che  è 
riferita  tanto  da  Max  Muller  nelle  sue  Letture,  quanto  dal  Whitney 
nel  suo  libro  sulla  Vita  del  linguaggio,  si  applicherebbe  pur  troppo 
non  meno  bene  anche  agli  stessi  Muller  e  Whitney,  che  non  possono 
stare  senza  pungersi  ogni  tanto  l'un  l'altro  !  Non  abbiam  qui  debito 
né  potere  né  voglia  d'andar  rivangando  il  diritto  e  il  torto  di  questo 
o  di  quello.  Il  certo  è  che  tutti  deploriamo  assai  questo  malumore 
interminabile  tra  due  valentuomini,  degnissimi  entrambi  dell'estima- 
zione e  della  riconoscenza  dei  dotti.  Lo  deploriamo,  nonostante  che 
di  quando  in  quando  esso  ci  frutti  qualche  cosa  di  bello  e  di  buono, 
cioè  le  critiche  aggiustate,  stringenti,  argute,  del  Whitney,  contro  a 
qualcuna  delle  dottrine  linguistiche  troppo  vaporose  ed  avventate  del 
Muller.  Il  Whitney  ha  un  ingegno  logico,  dialettico,  coerente,  scevro 
di  fantasticherie,  ed  un  buon  senso  veramente  americano;  e  quindi 
ha  facilmente  buon  gioco  contro  il  Muller,  uomo  dotto,  certamente, 
e  ingegnosissimo,  ma  facile,  per  la  sua  natura  d'artista,  a  lasciarsi 


-  361  - 
sedurre  da  concetti  e  da  dottrine  più  speciose  che  vere,  e  spesso  con- 
traddicenti  ad  altri  concetti  e  dottrine  da  lui  stesso  accolte. 

Una  nuova  prova  di  tutto  ciò  l'abbiamo  nella  bella  dissertazione 
del  Whitney  «  sull'incocrenza  nelle  teoriche  intorno  al  linguaggio  ». 
La  quale  intanto  s'apre  con  alcuni  colpi,  bene  assestati,  contro  il 
Renan.  Sostiene  questi  (in  quel  suo  mediocre  libro  suU'  origine  del 
linguaggio)  come  i  dialetti  affini  non  sieno  divariazioni  posteriori  di 
un  unico  linguaggio  primordiale,  ma  ogni  linguaggio  sia  ab  origine 
franto  in  varietà  dialettali;  e  di  ciò  adduce  un  esempio  nei  linguaggi 
polinesiaci,  che  sono  estremamente  vari.  Risponde  il  Whitney  che 
non  sa  perchè  questi  debbano  servire  come  esempi  di  un  linguaggio 
primordiale,  quasi  fossero  nati  or  ora;  e  osserva  che  col  criterio  del 
Renan  anche  dei  dialetti  romanzi  si  dovrebbe  dire  che  non  ri.salgano 
a  una  lingua  unica,  e  se  dal  Renan  non  si  dice,  gli  è  solo  perchè  su 
questo  soggetto  egli  è  raffrenato  dall'esplicita  testimonianza  contraria 
della  storia.  E  quando  il  Renan  dice  che  ogni  dato  tipo  linguistico 
(p.  es.  l'indoeuropeo)  non  s'è  formato  lentamente,  ma  è  surto  intero, 
tutto  d'un  colpo,  con  tutta  la  struttura  che  gli  è  propria,  «  come  Mi- 
nerva dal  cervello  di  Giove  »,  il  Whitney  risponde  con  ragionevole 
ironia  che  egli  trova  giustissimo  questo  paragone,  poiché  davvero 
tanto  è  buona  linguistica  l'ammetter  quel  cosiffatto  nascere  dei 
linguaggi,  quanto  è  buona  ostetricia  il  ritener  possibile  quel  cotal 
parto  di  Giove  !  Anche  Max  Mijller  sostien  la  tesi  renaniana  della 
dialettalità  originale, , per  rispetto  alle  lingue  germaniche,  non  am- 
mettendo egli  vi  sia  mai  stato  un  idioma  protogermanico  co- 
mune, e  neppure  u  n  idioma  altotedesco  e  u  n  bassotedesco,  mentre 
pure  conviene  che  i  dialetti  tedeschi,  quanto  più  si  risale  indietro 
nei  secoli,  più  si  trovan  rassomiglianti  e  convergenti.  E  il 
Whitney  risponde  ch'egli  ha  sempre  saputo  che  le  linee  conver- 
genti s' incontrano,  non  importa  poi  se  il  punto  d'incontro  sia, 
all'occorrenza,  fuori  della  nostra  visuale  ;  e  che  del  resto  l'appuntarsi 
di  molte  favelle,  convergenti,  in  un'unica  favella  originaria,  s'è  più 
volte  trovato  dentro  la  nostra  visuale  storica  (lingue  romanze,  ecc.). 
E  intìne,  dove  il  Muller,come  nuovo  argomento  contro  l'esistenza  di 
un  idioma  protogermanico  ,  aggiunge  il  fatto  che  i  vari  popoli  ger- 
manici quando  invasero  l'impero  romano  avean  già  i  loro  proprj  dia- 
letti, il  Whitney  risponde,  che  quest'è  un  argomentare  simile  a  quel 
che  farebbe  un  Inglese  che  dall'essere  Max  MiJller  emigrato  in  In- 
'Bjvista  di  filologia  ecc.,  X.  24 


-  362  — 
ghilierra  già  uomo  fatto  ne  deducesse  ch'egli  non  sia  mai  stato  bam- 
bino. —  Tutta  l'erronea  dottrina  nasce,  dice  il  Whitney,  dall'imma- 
ginarsi,  che  fa  il  Mailer,  una  Germania  e  una  Scandinavia  semibar- 
bare, fin  dal  principio  popolatissime  e  formicolanti  di  tante  tribù 
affini  ma  ostili;  mentre  di  certo  quei  paesi  furono  dapprima  occu- 
pati dalla  immigrazione  di  una  piccola  comunità,  di  lingua  e  costumi 
omogenea,  la  quale  poi  moltiplicandosi,  e  sparpagliandosi,  e  forse  as- 
sorbendo in  sé  popolazioni  indigene  anteriori,  venne  da  ultimo  a  scin- 
dersi in  tante  tribù  serbanti  solo  in  parte  la  primiera  omogeneità. 
Ma  il  più  bello  è,  dice  il  Whitney,  che  il  Miiller  nega  l'unità  origi- 
naria dei  dialetti  germanici  mentre  crede  pienamente  alla  unità  ori- 
ginaria del  germanico  col  celtico,  col  latino,  col  greco  ,  ecc.l  Nega 
l'unità  minore  e  il  principio  su  cui  essa  si  fonda,  e  consente  che  su 
questo  stesso  principio  si  fondi  una  unità  ben  più  cospicua  qual  è 
l'unità  protoariana!  Ecco  le  contradizioni,  le  inconseguenze,  la  '  in- 
consistency  '. 

Né  il  Miiller,  continua  il  suo  avversario,  ha  un'idea  precisa  di  ciò 
che  significhi  una  '  famiglia  '  di  lingue,  là  dove  arriva  a  dire  che  non 
è  maraviglia  che  le  famiglie  sicn  tre  sole,  perchè  già  sisa  che  esse  non 
possono  esser  la  regola,  ma  solo  un'eccezione!  Perchè  delle  lingue 
costituiscano  insieme  una  famiglia  non  occorre  ch'esse  sien  molte  nò 
che  vi  sia,  in  esse  tutte  od  in  alcune,  splendore  di  lettere,  antichità 
di  monumenti,  ecc.:  questo  ci  vorrà  perchè  sia  una  'famiglia  nobile'! 
Ma  una  famiglia  insomma  si  ha  subito  appena  vi  sia  un  qualche  nu- 
mero di  dialetti  affini ,  cioè  risalenti  a  un  unico  linguaggio  origi- 
nario; sien  poi  selvaggi  o  poco  numerosi  quanto  si  voglia.  E  se  un 
linguaggio  apparisce  isolato,  ei  può  essere  ultimo  avanzo  d'  una  fa- 
miglia distrutta,  o  aver  troppo  perdute  le  tracce  della  sua  fratellanza 
con  altri  idiomi  ;  e  quindi  o  f a  o  sembra  fare  famiglia  da  sé.  Ma  lungi 
dall'essere  le  famiglie  un'eccezione,  sono  la  regola;  e  quel  che  ap- 
punto si  sforzan  di  fare  i  linguisti  è  di  ridurre  più  famiglie  ad  una 
famiglia  sola,  per  non  averne  un  numero  esorbitante  (i).  Per  il   MùUer 


(1)  Dice  il  "NY.  che  la  famiglia  turauica  del  Miiller  è  una  specie  di 
'  olla  podrida  ',  di  intruglio  di  lingue  diverse  che  il  M.  non  sapeva 
dove  mettere.  Egli  dice  veramente:  «  a  sort  of  omnium  gatheì'um  ,  or 
refuse-heap  »,  dove  è  notevole  quel  motto  di  'latino  maccheronico'  al- 
l'inglese, che  s' intende  solo  pensando  al  verbo  inglese  gather,  racco- 
e'iiere  ecc. 


-  363  - 

invece  si  ha  nel  mondo  un'  immensa  massa  galleggiante,  fluttuante, 
di  linguaggi  selvatici,  effimeri,  bastevoli  ai  bisogni  mentali  d'una  sola 
generazione;  e  solo  si  formarono  tre  oasi  linguistiche  (ariano,  semi- 
tico, turanico),  perchè  tre  razze  sentirono  spontaneamente  la  necessità 
di  consolidare,  di  render  permanente  e  tradizionale,  di  petrificare, 
di  concentrare  il  linguaggio,  e  farlo,  di  naturale  che  era,  storico. 
Tutte  idee  vaghe  e  inesatte,  dice  il  Whitney,  dappoiché  ogni  lin- 
guaggio è  tradizionale  ,  anche  se  è  selvaggio,  e  nessun  linguaggio  è 
petrificato,  neanche  se  è  coltissimo. 

Intanto  mostra  il  Whitney  il  cattivo  influsso  delle  idee  vaghe  del 
IMuller  sopra  altri  ,  p.  es.  sul  Sayce  (Introduzione  alla  scienza  del 
linguaggio,  in  due  voi.);  che,  mentre  usa  di  continuo  la  voce  famiglia 
nel  senso  che  tutti  i  linguisti  le  danno,  ed  enumera  76  famiglie, 
salta  poi  tutt' a  un  tratto  a  dire  che  le  famiglie  sono  eccezioni.  E 
mentre  parla  sempre  di  '  lingua-madre' ,  di  'primeva  comunità  ariana  ', 
in  cui  Lituani  e  Indiani  fossero  ancora  un  popolo  solo  ecc.  ecc.,  a 
un  bel  momento  scappa  a  dire  che  una  tal  lingua-madre  è  una  e  o- 
struzione  affatto  ipotetica.  E  già,  dice  il  Whitney; 
quando  lambendo  le  coste  di  un  paese  ignoto  noi  vediamo  sboccare 
un  fiume  e  crediamo  subito  che  esso  scenda  da  quei  monti  che  al- 
l'orizzonte si  mostrano  ai  nostri  sguardi,  noi  allora  facciamo  una 
ipotesi,  perchè  la  sorgente  non  la  vediamo  ;  potremmo  anche  farne- 
ticare che  si  trattasse  di  una  coalescenza  d'atomi  d'ossigeno  e  d'idro- 
geno prodotta  da  speciali  condizioni  magnetiche!  Eppure 

Il  Sayce  dice  :  più  barbara  e  più  antica  è  una  società,  più  è  frazio- 
nato il  suo  linguaggio;  più  indietro  andiamo,  e  più  numerosi,  infi- 
niti, sono  i  dialetti.  Il  Whitney  qui  ricorda  quel  dotto  francese,  il 
quale,  considerando  che  ognun  di  noi  ha  due  genitori,  quattro  nonni, 
otto  bisnonni,  argomentò  che  più  si  risale  indietro  e  più  numerosi  fos- 
sero gli  xiomini  sulla  terra;  e  il  W.  dice  al  Sayce:  ecco,  quel  Francese, 
v'ha  giusto  preparato  quei  tanti  uomini  necessari  per  parlare  i  vostri 
infiniti  dialetti!  —  In  altri  termini,  e  fuor  d'ironia,  è  vero  che  è  la 
civiltà  che  accomuna  uno  stesso  linguaggio  a  società  diverse,  e  che 
nella  barbarie  ogni  società  ha  la  sua  propria  favella,  sicché  se  noi 
risalgbiamo  ad  un  tempo  di  minor  civiltà  che  non  sia  la  presente, 
ma  di  egual  popolazione,  noi  troviamo  più  frazionamento  di  loquela 
che  non  adesso  ;  ma  se  noi  poi  risalghiamo  su  su,  a  tal  epoca  in  cui 
la  popolazione  era  ben  minore  ,  non  ancora  troppo  moltiplicatasi    e 


—  364  — 
propagatasi,  noi  troveremo  assai  minor  numero  di  linguaggi  che  norr 
ora;  perchè  ogni  società  parlava,  è  vero,  il  suo,  ma  le  società  appunto 
eran  poche  ! 

Insomma  il  Whitney  non  vuol  che  si  prenda  subito  per  stato  ori- 
ginario uno  stato  tanto  o  quanto  anteriore  al  nostro.  Non  bisogna 
parlar  d'  origini  vere,  se  non  si  oltrepassino  tutte  le  origini  più  o 
men  prossime,  tutti  gli  stadj  intermedi,  per  antichi  che  sieno.  Risa- 
lire per  dieci  scalini,  mentre  per  arrivare  alla  cima  ve  ne  sono  quin- 
dici, e  proclamare  che  dalla  cima  si  veda  solo  quel  che  si  vede  dal 
decimo  scalino,  è  un  solenne  errore.  Il  Whitney  si  sa  bene  collocare 
in  tutte  le  diverse  situazioni  dei  diversi  momenti  storici  e  preistorici 
del  linguaggio,  e  perciò  non  casca,  come  altri,  in  teoriche  unilate- 
rali, paradossali,  insufficienti.  Ogni  nuovo  fatto,  e  ogni  ipotesi  giusta, 
trova  subito  modo  d'allogarsi  nel  suo  sistema  ragionevolmente  largo 
ed  elastico.  E  perciò  tutto  il  ragionamento  suo  contro  la  dialettalità 
originaria  dei  linguaggi  non  mi  è  parso  punto  smentire  quello  che 
io  ho  fatto  più  sopra  sulla  dialettalità  già  sviluppata  nel  protoariano 
ancora  indiviso.  È  questione  puramente  cronologica.  Certo  c'è  stata 
una  fase  primordiale  in  cui  l'idioma  ariano  non  era  suddiviso  in  dia- 
letti; ma  ciò  non  vuol  dire  che  la  suddivisione  in  dialetti  non  sia 
successa  prima  del  distacco  delle  varie  lingue  indoeuropee  dalla  lingua 
madre. 


Sull'altra  memoria  del  nostro  autore,  «  Coerenza  logica  nelle  teo- 
riche sul  linguaggio  »,  non  mi  fermerò  a  lungo,  poiché  essa  non  è 
che  un  riassunto  limpido,  preciso,  conciso,  delle  teoriche  già  esposte 
da  lui  nel  suo  bel  libro  da  me  tradotto.  Gioverebbe  tradurre  anche 
questo  riassunto,  ma  io  non  ho  tempo,  e  qui  non  ho  neppure  luogo. 
Spigolerò    alcuni  periodi  qua  e  là,  che  mi  pajon  più  degni  di  nota. 

Circa  il  principio  dclTeconomia  e  della  comodità  come  ragion  suf- 
ficiente di  tutte  le  mutazioni  fonetiche  egli  qui  fa  più  riserve  che  non 
ne  facesse  nel  libro,  epperò  concorda  con  quel  che  noi  abbiamo  detto 
più  sopra  sullo  stesso  soggetto:  «nearly  evcrything  in  pho- 
netic  change  is  to  be  ascrived  to  the  working  of  the  tendency  to 
economy;  but  the  deiails  of  this  working  are  sometimes  very  intri- 
cate, and,  in  our  present  imperfect   comprehension   of  the   physical 


—  365  — 
processes  of  utterance,  not  a  little  obscure  ».  Circa  la  teoria  boppiana 
della  genesi  delle  forme  mediante  l'agglutinazione,  egli  dice  che  se 
in  sole  poche  forme  si  vede  chiaro  quali  fossero  gli  elementi  agglu- 
tinati, ciò  non  infirma  il  principio  boppiano,  allo  stesso  modo  che 
l'esserci  molte  persone  che  non  hanno  attestato  un  fatto  non  distrugge 
la  testimonianza  di  poche  che  l'assicurano  ;  ed  osserva  che  è  troppo 
naturale  che  la  etimologia  delle  forme  sia  spesso  oscura  come  lo  è 
spesso  la  etimologia  delle  parole.  —  Circa  il  trilittero  semitico,  «  il 
più  arduo  problema,  forse,  nella  storia  del  linguaggio  »  ,  egli  con- 
sente che  esso  dev'essere  uno  sviluppo  secondario  e  peculiare,  anche 
se  non  si  riuscisse  «  a  rintracciare  con  soddisfacente  chiarezza  i  passi 
di  questo  sviluppo  ».  Le  quali  parole  implicano,  se  non  un'adesione 
concreta,  almeno  un  riconoscimento  di  principio  delle 
ricerche  ario-semitiche  dell'Ascoli.  —  Ammette  che  nessun  esempio 
si  dia  di  un  linguaggio  che  diventi  agglutinante  o  flessionale  sotto 
gli  occhi  nostri;  ma  ciò  contrasta  con  le  affermazioni  del  Bohtling 
sulle  lingue  turaniche  riferite  da  Delbruck  nel  libro  di  cui  abbiam  qui 
discorso  (p.  71  seg.,  della  traduz.  76  seg.j. 


Nonostante  le  divergenze  che  ogni  scienza  naturale  o  storica  non 
può  non  avere,  la  glottologia  è  ad  ogni  modo  una  di  quelle  in  cui 
maggiore  è  la  concordia  sostanziale  tra  i  varj  coltivatori;  e  checché 
possa  parerne,  in  certe  ore  di  sgomento,  ad  alcuni  fra  i  più  autore- 
voli suoi  maestri,  come  Delbruck  e  Whitney,  essa  batte  ancora,  fi- 
dente e  sicura,  quella  via  regia  che  le  aperse  a  principio  di  questo 
secolo  il  genio  sovrano  di  Francesco  Bopp. 

Napoli,  ottobre  1881. 

F.  d'  Ovidio. 


D.  S.  —  A  p.  322,  a  metà,  nella  parentesi  che  finisce  con  c(  Pick  » 
aggiungi:  «  e  nel  campo  neolatino  il  Flechia  )).  —  E  a  p,  347,  dove  in 
nota  ho  toccato  deiropinioue  del  Curtius  circa  la  gutturale  che  non  possa 
mutarsi  in  altra  consonante  più  avanzata  verso  le  labbra,  devo  avvertire 
che  il  Curtius  v'ha  ora  fatto  notevoli  e  giusti  ritocchi  [Gruììdc.^,  446-7). 

F.  d'O. 


366 


"BI  B  LIOG%AFIA 


Studi  di  Filologia    Greca    pubblicati  da  E.  Piccolomini.  Voi.  I,  fa- 
scicolo I,  pp.  vii-106.  Torino  (Loescher)   1882. 


Con  questo  fascicolo  inizia  il  prof.  Piccolomini  la  pubblicazione 
di  lavori  di  filologia  greca,  così  suoi  come  dei  suoi  scolari ,  e  ci  dà 
per  ora:  1°  Osservazioni  sopra  alcuni  luoghi  delle  Rane  di  Aristo- 
fane (E.  Piccolomini).  2»  Alcune  favole  dello  ZTecpaviTi];  koì  Mxvii- 
Xàxriq,  secondo  una  redazione  inedita  di  Prete  Giovanni  'EoKaiLijLiaTia- 
luévoc  (Vittorio  Puntoni).  3"  Saggio  sulle  glosse  Aristofanesche  del 
Lessico  d'  Esichio  (Francesco  Novati).  Ai  tre  lavori  è  premesso  un 
'preambolo'  del  Piccolomini,  in  cui  si  diì  ragione  della  pubblicazione 
e  si  esprime  la  speranza,  naturalmente  anche  in  noi  vivissima,  che 
non  manchino  collaboratori  bravi  e  volenterosi  pei  futuri  volumi. 

Io  credo  che  il  Piccolomini  abbia  avuto  un'ottima  idea,  e  non 
avrei  riputato  necessario  che  la  giustificasse  nel  preambolo.  Ho  de- 
plorato anche  io  altrove  che  l'attività  dei  nostri  giovani  filologi  vada 
per  lo  più  spesa  in  lavori  di  poco  men  che  pura  compilazione,  e  non 
posso  quindi  che  applaudire  ad  un  tentativo  diretto  a  far  diventare 
abitudine  generale  della  gioventù  filologica  italiana  quella  che  sven- 
turatamente è  stata  finora  aspirazione  di  pochissimi,  e  tradotta  in 
atto  ha  meritato  persino  disdegni  orgogliosi  e  insolenti  sarcasmi.  Si 
ha  un  bel  parlare  di  diversità  di  razze,  di  diversità  d'inclinazioni,  di 
diversità  d'ingegni  :  il  metodo  scientifico  non  è  che  uno,  e  non  vi  ha 
scienza  che  possa  e  voglia  annoverare  fra  i  suoi  cultori  chi  parassiti- 
camente intenda  coglierne  i  fiori  senza  aver  contribuito  ne  punto  né 


I 


—  367  — 
poco  a  farli  germogliare.  O  sarebbe  forse  la  filologia  classica  più  fa- 
cile ed  arrendevole  delle  sue  altere  sorelle?  Se  dunque  fosse  proprio 
vero  che  noi  non  si  avesse  attitudine  alla  critica  verbale  e  alla  in- 
terpretazione metodica  e,  in  generale,  alle  ricerche  minute  e  noiose, 
se  fosse  proprio  vero  che  noi  non  si  sapesse  far  cosa  che  richiegga 
non  solo  acutezza  di  ingegno,  ma  anche  pertinacia  di  volontà,  abne- 
gazione e  conoscenza  non  dilettantesca  della  base  di  ogni  filologia, 
della  lingua,  ci  sarebbe  senza  dubbio  un  consiglio  da  dare  ai  nostri 
concittadini,  ma  non  sarebbe  già  quello  di  far  della  filologia  a  buon 
mercato,  a  spese  di  chi  ha  lavorato  per  noi,  bensì  quello  di  rinun- 
ziarvi  addirittura  !  Fortunatamente  queste  non  sono  che  comode  ipo- 
tesi di  inerti  e  boriosi  personaggi,  e  le  smentiscono  a  pieno  i  lavori 
di  chi,  senza  scuola,  con  le  sole  risorse  dell'ingegno  e  della  passione 
per  gli  studi  classici,  seppe  indovinare  il  metodo  filologico  e  da  quella 
stessa  cattedra,  onde  oggi  così  degnamente  insegna  il  Piccolomini, 
infervorarci  efficacemente  per  questa  vecchia  scienza  che  non  pro- 
mette né  agi  ne  onori  e  che  in  Italia,  a  preferenza  di  qualsivoglia 
altro  paese,  esige  dai  suoi  adoratori  non  meno  disinteressato  che  caldo 
amore. 

Dalle  Osservazioni  del  Piccolomini  sopra  le  Rane  di  Aristofane, 
anche  se  noi  non  dicessimo  verbo ,  si  aspetterebbero  senza  dubbio 
molto  quelli  dei  lettori  che  conoscono  i  suoi  studi  critici  sulle  Nubi 
e  sugli  Uccelli.  Evidente  mi  è  sembrata  la  prima  osservazione  riguar- 
dante l'interpretazione  delle  parole  (v.  67)  Kaì  xaùTa  toO  xeGvriKÓToi;  ; 
e  del  noto  scolio  su  questo  luogo.  Se  finora  proprio  nessuno  dei  mo- 
derni interpreti  si  è  accorto  che  con  quelle  parole  si  distingue  l'Eu- 
ripide morto  dall'altro  Euripide  figlio  o  nipote  del  morto,  vuol  dire 
che  ciò  sarà  avvenuto  per  influenza  delle  parole  xai  TaOxa,  le  quali 
portano  abbastanza  facilmente  alla  falsa  interpretazione  :  'senti  (amo- 
roso) desiderio  di  lui  quantunque  morto  ?  '. 

Non  senza  interesse  sono  anche  le  osservazioni  sui  vv.  167  sgg., 
quantunque  il  P.  stesso  non  è  sicuro  di  aver  trovato  il  vero.  Certo 
nessuno  vorrà  più  sostenere  l' atetesi  dell' Hamaker,  anche  non  es- 
sendo contenti  delle  congetture  òotk;  aùxóa'  epxexai  ovvero  Sariq  èitì 
toùt' è'pxeTai.  A  me  sembra  che  il  precedente  èKqpepojuévtuv  basti  per 
sé  solo  ad  indicare  la  via  dell'Hades  :  si  potrebbe  allora  pensare,  po- 
niamo, ad  òOTiq  èTTiTàt  èpxefai  oa  qualche  cosa  di  simile.  Per  èiriTdS 
si  vegga  Nauck,   Trag.  Gr.  Fragm..,  p.  355  (EuR.,  Fr.,  294,  2). 


—  368  •- 

Sotto  ogni  rispetto  soddisfacenti  mi  sembrano  invece  la  emenda- 
zione (vv.  100  sg.)  : 

AIO.     T0O6'  è'9'  7]TT0v  Gaxépou. 
10' rJTrep  è'pxei.     ZAN.  òeOpo  òeOp',  iL  òéOTroTa  — 

in  luogo  di  : 

ZAN.    ì'B' iiTtep  è'pxei-  &eOpo  òeOp',  Oj  òéaTTora  — , 

e  la  interpunzione  (v.  655)  : 

OIK.     èireì  TTpOTi,ua(;  y'  ovbév  —  AIO.  oùòév  |aoi  |ué\ei. 
OIK.     pabiaxéov  làp'  èarìv  ktX. 

Per  contrario  lascia  incerti  cosi  noi  come  il  P.  stesso  la  conget- 
tura, ottima  del  resto  quanto  a  senso,  |Lifi  Katpil)  Tilibe  irpéirouffiv 
(v.  358),  e  forse  anche  la  diversa  distribuzione  dei  personaggi  nel 
V.  749.  In  questo  luogo  anzi  crederei  che  con  la  distribuzione 

EAN.     TI  he  -noXÌM  irpaTTiuv  ;  OIK.  die;  |uà  Ai' oùòév.  ZAN.  o'iò' è'f'JU, 
ó|uÓYvie  ZeO  kt\. 

la  parafrasi  che  ci  dà  il  P.  toOto  ttoilùv  outuj;  fi6o|Liai,  iJu;  |nà  Ai'  oùòèv 
TToiAv  l'iòo.uai  non  significherebbe  già,  come  P.  vuole,  'ci  prendo  tanto 
gusto  quanto  in  niun'altra  cosa',  ma  forse  piuttosto  'ci  prendo  tanto 
gusto  quanto  a  non  far  nulla  '. 

E  neppure  pel  lociis  conclamatus  (v.  790)  il  P.  mi  toglie  ogni 
dubbio.  Si  tratterebbe,  a  suo  credere,  di  una  antichissima  interpola- 
zione ;  ma  questo  antico  interpolatore,  che  doveva  pur  sapere  me- 
diocremente il  suo  greco,  avrebbe  scritto  senza  scrupolo  KÒKeìvoc;  ed 
ÙTtexwp^tJev  ?  E  a  che  scopo  avrebbe  interpolato  ?  Ero  piuttosto  pro- 
penso a  credere  che  sotto  KÓKeivo^  si  celasse  il  nome  di  un  poeta;  ma  mi 
avvedo  ora  che  cosi  si  andrebbe  incontro  a  difficoltà  anche  maggiori. 

Finalmente  pel  v.  1124  il  dubbio  del  P,  mi  sembra  giustificato; 
non  può  non  farci  una  certa  impressione  che  con  tòv  èE 'Opeareiat;  si 
indichi  lino  dei  tre  prologhi  dell'  Oresica.  Ma  non  vorrei  neppure  io 
mutare  tòv  in  tiv'  (mutazione  proposta,  del  resto,  già  dal  Wieseler), 
e  opterei  col  P.  per  la  ripetizione  del  v.   112G  innanzi  al  v.  11 25. 

Alle  Osservazioni  tien  dietro  una  collazione  del  codice  Cremonese 


—  369  - 
12229,  L.  6,  28,  fatta  dal  Novati  sulla  edizione  del  Meineke  ;  e  una 
tavola  delle  discrepanze  fra  la  collazione  del  cod.  Ambros.  L.  39  sitp. 
pubblicata  dal  Velsen  nella  sua  recente  edizione  delle  Rane  e  quella 
eseguita  non  ha  molto  dallo  stesso  Novati.  Ma  dell'importanza  di 
queste  collazioni  potrà  dare  giudizio  soltanto  chi  si  sia  occupato  sul 
serio  di  critica  Aristofanea. 

Nel  lavoro  del  Puntoni  abbiamo  trovato  molta  accuratezza  e  dot- 
trina, e  saremmo  troppo  fortunati  se  molti  giovani  facessero  con  la- 
vori di  cgual  merito  la  loro  prima  apparizione  nella  così  detta  re- 
pubblica letteraria.  In  una  non  breve  introduzione  il  Puntoni  deter- 
mina il  valore  della  redazione  da  lui  pubblicata  rispetto  alle  altre 
redazioni  conosciute,  che  egli  ha  tutte  accuratamente  studiate,  e  ac- 
cenna senza  esagerazioni  alla  importanza  che  essa  in  singoli  casi 
potrebbe  avere  per  la  recensione  dello  Zpeqpavixric;  Kaì  'lxvviXdTr|<;  di 
Simeon  Maestro,  donde  appunto  Prete  Giovanni  ha  tratto  le  sue  21 
favole,  per  lo  più  frettolosamente  epitomando,  sempre  aggiungendo  di 
suo  èm|avi6ia  spessissimo  insulsi.  E  con  opportuni  raffronti  stabilisce 
infine  che  la  redazione  di  Prete  Giovanni  deriva  da  un  codice  assai 
diverso  dall'Amburghese,  su  cui  si  fonda  la  recensione  Starkiana 
dello  Stephanites,  e  molto-più  vicino  ai  codici  Valicano,  Laurenziano 
e  Barberiniano ,  dei  quali  il  Puntoni  possiede  collazioni  in  parte 
proprie  e  in  parte  favoritegli  dai  professori  E.  Teza  ed  1.  Guidi.  . 

Ho  letto  non  affatto  disattentamente  queste  favole,  e  per  quanto 
mi  manchi  tutto  il  corredo  di  cognizioni  necessario  (i)  per  giudicare 
di  un  testo  di  tal  natura,  oso  nonostante  assicurare  che  dal  punto  di 
vista  filologico  l'editore  ha  fatto  il  suo  dovere.  Ma  non  vorrei  con 
ciò  garentire  che  proprio  tutte  le  sgrammaticature  che  il  Pun- 
toni, con  prudenza  lodevolissima,  il  più  delle  volte  non  ha  voluto 
neppur  tentare  di  correggere,  sieno  davvero  imputabili  a  Prete 
Giovanni  piuttosto  che  ai  copisti.  Non  ho  gran  stima  di  lui,  ma 
stento,  per  esempio  ,  a  credere  che ,  pur  conoscendo  e  adoperando 
talvolta,  secondo  grammatica,  il  così  detto  genitivo  assoluto,  e' si 
permetta  altre  volte,  in  senso  analogo,  un  nominativo  che  è  troppo 
assoluto  per  non  essere  spt-opositato.  Valga  ad  esempio  òaKoOcra 
(X,  3).  E  in  quella  stessa  favola  (X,  8  sg.)  dovremo  proprio  tollerare 
TTop' l'iuìv  cpepo|uévr|  per  -rrap' ìtuuùv  cpepof-iéviT  ?  Ma  naturalmente  io  temo 


;i)  Cfr.  E.  Teza  nel  Giornale  Napoletano,  3  (1881),  voi.  VI,  p.  161-171. 


-  370  - 

di  citare  i  moltissimi  altri  luoghi  che  a  me,  come  ad  ogni  profano 
di  quella  specie  di  greco,  sembrano  corrotti;  esorto  anzi  ad  avere 
molto  maggior  fiducia  nel  Puntoni  che  in  me,  che  giudico  soltanto 
da  quello  che  egli  ha  pubblicato.  Così  nella  nota  favola  della  scimia 
{mQr\KOc,)  spaccalegna,  di  cui  si  dice  (III,  5)  che  èv  oauj  fjv  óaxoXoù- 
.uevoi;  Ti^  axioei  toO  Eù\ou  ovvé^x],  tùjv  jbriYiadTUjv  toOtou  àiropXriBévTuuv 
Tójv  TTctXujv,  K  par  ri  9  fjv  ai  toù<;  òpxeir.  aùtoO,  io  avrei  avuto  la  tentazione 
di  correggere  KaxepxSiivoi  o  KaBepxOfìvai  :  e  probabilmente  avrei  avuto 
torlo,  perchè  Io  stesso  verbo  KpaxdaGai  ricompare  insistentemente  in 
altre  favole  in  significato  identico  o  affine,  e  forse  sarà  già  nell'  ori- 
ginale donde  epitomava  il  nostro  buon  Prete.  Nonostante  non  so  del 
tutto  resistere  al  '  demone  della  congettura  '  (sempre  preferibile,  del 
resto,  aìVangelo  della  pigrizia  intellettuale),  e  neirènijaù9iov  della  fa- 
vola II  :  ó  juOGoc;  òriXoi  òri  ttoWcìki^  tlù  alqpviòiui  xoù  TrpctvuaToc;  òou- 
Xovvrm  tò  cppóviiiLia  (oi  lax^poi?)  kt\.,  al  bouXoOvrai  per  me  quasi 
inintelligibile  propongo  di  sostituire  òrjXoOvTai  (o  anche  GoXoOvxai  (i)), 
e  chiedo  scusa  se,  a  proposito  di  Prete  Giovanni,  richiamo  alla 
memoria  di  qualcuno  il  qppevoòaXi'ic;  Eschileo. 

Il  nome  del  Nevati  non  è  nuovo  agli  studiosi  di  Aristofane,  i  quali 
ebbero  già  da  lui,  oltre  gli  studi  sul  codice  Cremonese,  la  grata  sor- 
presa di  un  indice  di  commedie  Aristofanee  scoperto  in  un  codice 
notissimo  e  da  molti  studiato,  fra  i  quali  dall'  Elmsley  !  Il  Novati  è 
una  vera  speranza  per  gli  studi  non  solo  di  filologia  classica  ma 
anche  di  filologia  italiana,  anzi  è  da  un  pezzo  ben  più  che  speranza  ; 
ed  io  che  non  ho  avuto  sinora  occasione  di  occuparmi  seriamente 
né  degli  Scolii  ad  Aristofane  né  del  Lessico  Esichiano,  non  ho  dav- 
vero il  coraggio  di  servirmi  di  quello  che  ho  imparato  dal  suo  scritto 
per  muovergli  volgari  obbiezioncelle,  le  quali  potrebbero  provocare 
il  sorriso  delle  persone  competenti.  Invece  nessuno  sperabilmente 
troverà  da  sorridere  o  deridere,  se  dirò  che  il  lavoretto  del  N.  è  dei 
più  interessanti  che  si  potessero  fare  sull'argomento,  e  che  alcuni  dei 
suoi  resultati  hanno  tali  caratteri  di  evidenza  da  imporsi  egualmente 


(1)  V.  i  Lessici  s.  V.  GoXoùv  ed  èiriGoXoOv  e  Dion.  Cass.,  38,  2:  xà 
ILièv  Y«P  ùrrèp  xùjv  óXXoxpiujv  XeYÓueva,  òtto  òpGrc;  koì  óòiaqpGópou  xfiq 
•fvuOuii^  TTpo'iùvxa,  Koipòv  iq  xù  .udXiaxa  XauPdvei  •  oxav  he.  òi'i  TraGr^d  xi 
xi'iv  vuxùv  xaxaXdpi;i,  GoXoOxai  koì  ffKoxoOxai  Kai  oùòèv  f;ùvaxai 
KHipiov  èvvonaai. 


-  371- 

a  profani  e  ad  iniziati.  Fra  questi  resultati  evidenti  metterei  anzi 
anche  quello  che  il  N.  pare  consideri  soltanto  molto  verosimile,  la 
ricostituzione  di  un  articolo  iTo\e|uiaT)'-ipia  tratta  da  Esichio,  da  Fozio 
e  dai  nostri  Scolii  (p.  86).  Degna  di  ogni  lode  e  scritta  molto  luci- 
damente è  la  introduzione  storica  sul  Lessico  di  Esichio,  e  in  ge- 
nerale tutta  la  dissertazione  si  raccomanda  per  chiarezza  di  forma  e 
di  concetti.  Che  se  in  un  annunzio  bibliografico  è  proprio  indispen- 
sabile dichiararsi  meno  contento  di  qualche  cosa,  ho  anche  io  una 
inezia  da  notare.  A  p.  83  il  N.  parla  del  xe^'^óvoiv  .uouaeìa  come 
espressione  di  Euripide  parodiata  da  Aristofane,  in  quanto  questi  la 
avrebbe  volta  ad  altro  significato:  io  per  conto  mio  non  ho  potuto 
mai  dubitare  che  la  parodia  consistè  nel  sostituire  xe^^i&óvujv  alla  pa- 
rola àrjòóviuv  adoperata  da  Euripide,  e  ad  Euripide  (Fr.  89,  2)  re- 
stituita per  felice  divinazione  del  Meineke. 

In  conclusione  noi  ci  auguriamo  che  i  futuri  fascicoli  degli  'Studi 
di  Filologia  Greca'  valgano  sempre  quanto  il  primo,  e  crediamo  così 
di  non  avere  espresso  tiepidi  auguri  per  l'avvenire  dell'Ellenismo  in 
Italia. 

Firenze,  gennaio  i8?2. 

G.  Vitelli. 


La  Pitia  X  di  Pindaro.  Saggio  di  G.  Fraccaroli.  Verona,   1881. 

È  questa  una  versione  ed  un  comento  del  primo  lavoro,  che  si  co- 
nosca, di  Pindaro.  L'A.  prende  le  mosse  indagando  quale  potesse  es- 
sere l'età  del  poeta  allorché  scrisse  quest'ode;  dà  un  breve  sunto  del 
carme,  e  lo  fa  seguire  da  alcune  osservazioni  estetiche ,  le  quali  pa- 
rendomi qua  e  là  soggettive,  meriterebbero  più  ampia  discussione  di 
quello  che  i  limiti  d'un  resoconto  non  mi  consentano  ;  sviluppa  in- 
fine una  questione  che  i  critici  hanno  sollevata  da  un  pezzo,  sopra 
il  significato  fondamentale  della  digressione  che  forma  il  mezzo  del- 
l'ode, nella  quale  il  poeta  ci  canta  d'un  viaggio  di  Perseo  agli  Iper- 
borei col  favore  di  Minerva.  Suppongo  che  il  lettore  conosca  il  com- 
ponimento Pindarico.  Però  basti  dire  riassumendo,  come  il  Dissen  le 
attribuisce  un  valore  puramente  morale,  di  persuadere  la  temperanza 
nei  desideri,  perocché  gl'Iperborei  sono  felicissimi,  non  per  altro  se 


-  372  — 

non  perchè  sono  altresì  molto  pii,  e  si  contentano  di  quel  che  pos- 
sedono.  Il  Boeckh  congetturava  che  Perseo,  progenitore  di  Ercole, 
avesse  culto  speciale  presso  gli  Alevadi.  per  commissione  dei  quali 
r  ode  stessa  fu  scritta.  11  Rauchenstein  faceva  notare  di  proposito, 
come  il  punto  principale  della  digressione  consista  nel  contrapposto 
che  si  fa  spiccare  tra  la  felicità  del  vincitore  e  del  padre  suo,  che  ha 
toccato  gli  ultimi  confini  prescritti  all'uomo;  e  quella  di  Perseo,  il 
quale  col  favore  degli  Dei  (ma  solo  con  questo)  era  potuto  giungere 
a  quei  paesi  fortunati. 

Succedeva  Ticone  Mommsen,  al  quale  aderiva  il  Rauchenstein,  e 
voleva  vedere  nella  digressione  Pindarica  un'allusione  alle  condizioni 
politiche  della  Grecia  :  Scoppiava,  così  egli,  in  quel  torno  la  ribel- 
lione delle  città  ioniche  in  Asia  coU'aiuto  degli  Ateniesi;  e  non  è 
improbabile  che  ambasciatori  persiani  si  trovassero  alla  corte  degli 
Alevadi,  amici,  perchè  principi,  dei  Persiani  e  degli  ottimati,  e  poiché 
i  Greci  facevano  derivare  i  Persiani  da  Perseo,  viene  da  sé  che  Pin- 
daro facesse  profetare  da  Perseo  il  castigo  dei  Nassi  che  nell'Ol.  69 
avevano  scacciata  la  nobiltà.  «  Poiché  Perseo  porta  la  morte  agli 
isolani.  Quando  gli  Dei  ti  sorreggono  nulla  è  meraviglioso.  Ma  chi 
è  poi  la  Gorgone?  Il  popolo  dalle  molte  teste  ». 

Il  Fraccaroli  accenna  bene  a  tutte  queste  opinioni,  ma  non  vi  si 
acqueta,  e  si  domanda  :  Perchè  mai  Pindaro  fa  volgere  a  settentrione 
Perseo,  mentre  la  Gorgone,  cui  l'eroe  doveva  uccidere,  stava,  secondo 
alcuni,  ad  occidente  all'estremità  della  Libia,  e,  secondo  altri,  nelle 
parti  dell'Eritreo  e  dell'Etiopia  a  mezzodì?  E  soggiunge:  «  Nell'an- 
data di  Perseo  agli  Iperborei,  io  ci  vedo  adombrata  la  spedizione  di 
Dario  contro  gli  Sciti.  Perchè  mai,  se  fosse  altrimenti,  avrebbe  il 
poeta  fatto  andar  l'eroe  fin  lassù?  Per  giungere  all'occidente?  Se  al- 
lude all'impresa  di  Dario,  mi  par  tutto  chiaro;  allora  l'escursione 
contro  gli  Sciti  non  è  che  il  prodromo  d'  una  spedizione  nell'  occi- 
dente »;  e  qui  il  Fraccaroli  accennando  che  l'impresa  di  Dario  non 
ebbe,  è  vero,  grande  successo,  conchiudc  (così  interpretando  il  par- 
lare di  Pindaro)  «  badino  dunque  a  se  i^Visolani  (nota  che  non  dice 
quelli  di  Serifo)  che  non  sopraggiunga  loro  rovina  ». 

Non  ho  riportato  così  per  disteso  le  due  ipotesi  del  Mommsen  e  del 
Fraccaroli,  se  non  perch'elle  mi  sembrano  presentare  la  soluzione 
della  questione,  ma  non  esporla  nella  sua  luce.  Non  dirò  col  Mezger, 
come  l'ipotesi  del  primo,  che  nobili  Persiani  si  trovassero  alla  corte 


-  373  - 

degli  Alevadi,  e  che  per  compiacere  ai  medesimi  Pindaro  inserisse 
questa  disgressione,  non  ha  per  sé  veruna  prova  di  fatto  che  la  con- 
forti. Ma  osservo  che  Pindaro,  proprio  nel  principio  della  digres- 
sione, esclama  : 

vauoì  ò'oure  jì^Zòc,  Iùjv  dv  eupoi<; 

èq  'Yueppopéujv  ófiùva  Gauucxxàv  óòóv. 

che  il  F.  stesso  così  traduce  : 

«  La  strada 
Cercar  dell'Iperborea  contrada, 
In  terra  o  in  mar  non  vale  ». 

Or  bene,  o  si  supponga  che  V  ode  sia  stata  scritta  mentre  si  face- 
vano in  Persia  i  preparativi  per  la  spedizione  contro  gli  Sciti,  o  du- 
rante, o  dopo  la  medesima,  la  digressione  intesa  a  modo  del  Frac- 
caroli,  riesce  un  appunto  al  re  di  Persia,  dopo  i  versi  surriferiti. 
Perchè  alla  perfine  anche  Dario  era  un  uomo,  e  non  gli  stava  bene 
tentare  imprese  superiori  alle  forze  dell'umana  natura;  molto  meno 
che  ad  ogni  altro  a  lui,  il  quale  succedeva  a  Perseo  ritenuto  capo- 
stipite della  nazione  persiana.  Ma  Pindaro  ha  voluto  stabilire  una 
proporzione:  come  Perseo  andò  agli  Iperborei,  cosi  Dario  agli  Sciti. 
Senonchè  questo  riscontro  che  cosa  importerebbe  all'argomento  del- 
l'ode ?  Chi  non  vede  come  questa  supposizione  noccia  all'effetto  este- 
tico del  componimento?  Che  Pindaro  abbia  potuto  fare  assegnamento 
sull'interpretazione  possibile  delle  sue  parole,  non  è  solamente  pos- 
sibile, ma  forse  ancora  verosimile,  perchè  ci  spiega  il  tocco  legge- 
rissimo, e  proprio  di  sfuggita,  col  quale  accenna  agli  isolani  spenti 
da  Perseo  colla  testa  della  Gorgone  ;  ma  questo  senso  non  doveva 
essere  il  più  appariscente  e  principale  del  mito,  il  quale  non  doveva 
avere  essenzialmente  altro  valore  dal  morale  accennato  di  sopra. 

Infine,  il  sig.  F.  ci  ha  dato  una  versione  in  versi  del  carme  Pin- 
darico. Versione  che  merita  lode,  sebbene  si  scosti  un  po'  troppo 
qua  e  là  dall'originale.  Così  al  verso  4  il  kot' fiKaipov  è  reso  con  un 
insano  anziché  con  inopportuno;  particolarmente  poi  il  verso  io  e  segg. 
sono  tradotti  con  troppa  libertà  : 


—  374  — 

"AttoWov,  -{Kvkv  b'  dvSpuuTTUjv  tìXoc,  àpx«  Te  óaiuovoc  òpvOvxoc    aù:£Tai' 
ó  |uév  TTOU  Teàc,  ye  jai'ibeai  toOto  e-rrpaEev  " 
Tò  he  auYyevè^  €|Lij3éPaKev  ìxveaiv  irarpòi; — 

E  il  F.: 

«  Liete  le  mosse  auspice  Dio,  —  si  cura 
La  meta  dei  mortai  :  —  Febo,  è  tua  cura 
Questa,  che  lo  incorona. 

Ed  è  del  padre  la  virtù  »,  ecc. 

Nella  quale  versione,  a  tacer  d'altro,  ognun  vede  come  vada  lungi 
dal  senso  del  testo  il  F.  interpretando  il  y^ukù  doppiamente  per  lieto 
e  per  sicuro. 

Convien  però  dire  come  questo  sia  tra  i  luoghi  più  intralciati  del- 
l'ode; e  a  me  sia  lecito  proporre  a  questo  luogo  una  nuova  lezione, 
la  quale,  secondo  me,  agevolerebbe  l'intelligenza  di  questo  luogo, 
perchè  colla  semplice  apocope  del  v  di  àvBpuurrujv,  avremmo  il  duale 
óvepiUTTCu,  o  potremmo  tradurre  così  : 

O  Apollo,  il  fine  ed  il  principio  soave  dei  due  uomini  (d'Ippocle 
e  di  suo  padre),  sarà  abbellito  viemmeglio,  procurandolo  un  Dio  : 
l'uno  toccò  il  primo  (cioè  il  fine)  per  opera  tua;  e  il  discendente  si 
è  già  avviato  sulle  orme  del  padre. 

Quest'interpretazione,  a  mio  avviso,  spiega  meglio  d'ogni  altra  quel 
T^Xoq  ópxd  Te,  riferendolo  a  pjtfre  e.  figlio:  réXo^  del  padre,  ópxoi  del 
figlio.  Permette  di  tradurre  quel  irou  che  altrimenti  non  ha  senso, 
di  contrapporre  1'  ó  \xiv  al  tò  hi,  e  di  voltare  la  voce  auYTevé(;  in 
modo  semplice  e  piano;  perchè  l'intenderlo  per  un  accusativo  di  re- 
lazione :  ad  virtutem  innatam  quod  attiuet,  è  un  darle  il  senso  di 
èjLiqpuri<;,  eMTrecpUKiOi;,  ejuqpUTO^. 

Chiudendo  questi  cenni,  colla  severità  colla  quale  li  abbiamo  con- 
dotti, noi  non  vorremmo  leggere  frasi  e  dizioni  come  queste:  ma 
non  è  mica  neanche  dovere  con  tanti  n  che  si  danno  sulle  calcagna  : 
ovvero:  se  non  si  sapesse...  si  potrebbe  interamente  convincersene  per: 
chi  non  lo  sapesse...  potrebbe  ecc.  Non  lo  vorremmo,  diciamo,  perchè 
vediamo  nel  sig.  F.  un  amoroso  cultore  degli  studi  classici  contem- 
poranei ;  né  a  siffatti  è  permesso  di  essere  né  affettati,  né  trascurati. 

Torino,  gennaio  1882. 

Alessandro  Arrò. 


375 


Zakonische    Grammatik   von    Dr.  Michael    Deffner  ,    Erste    Halfle. 
Berlin,  Weidmann,   iS8i. 

È  un  fatto  che  lo  studio  del  neogreco  e  principalmente  quello  dei 
dialetti  fino  ad  oggi  parlati  nelle  diverse  contrade  abitate  da'  Greci, 
può  riuscire  di  grandissima  importanza  per  la  conoscenza  del  greco; 
ma  è  pur  anche  vero  che  la  maggior  parte  de'  filologi  che  rivol- 
gono le  più  minute  cure  allo  studio  d'ogni  avanzo  antico,  poco  o 
nulla  si  curano  della  lingua  ancor  viva.  Una  delle  ragioni  di  questa 
trascuranza,  non  potendo  qui  accennarle  tutte,  n'è  certamente  il  ben 
piccolo  numero  di  lavori  veramente  scientifici  che  possediamo  in- 
torno ai  dialetti  neogreci;  come  fino  a  questi  ultimi  tempi,  per  la 
mancanza  di  convenienti  edizioni  di  testi  della  grecità  medioevale,  fu 
eziandio  impossibile  il  seguire  lo  svolgersi  della  lingua  letteraria  at- 
traverso i  secoli  tenebrosi  della  decadenza  e  dell'oppressione  straniera 
della  Grecia.  Ma  quanto  più  scarso  è  il  numero  di  lavori  che  ci  pos- 
sono informare  intorno  agli  svariati  dialetti  parlati  dagli  odierni 
Greci,  con  altrettanta  cura,  mi  sembra,  debbonsi  fare  conoscere  gli 
studi  che  sono  diretti  a  riempire  una  lacuna  nel  corredo  nostro  per 
lo  studio  della  grecità  in  tutta  la  sua  estensione.  Ed  è  perciò  che  vo- 
gliamo fare  un  breve  cenno  dell'opera  sopraindicata  intorno  ad  un 
dialetto,  il  cui  studio  riesce  della  massima  importanza  per  la  cono- 
scenza del  dorisrao,  o  per  meglio  dire,  del  dialetto  laconico,  di  cui 
il  zacone  è  il  continuatore.  Niuno  meglio  del  prof.  DefFner  poteva 
fornirci  un  lavoro  che  a  nostro  parere  verrà  accolto  col  massimo 
favore.  Glottologo  di  vaglia  e  da  anni  stabilito  in  Grecia,  ha  potuto 
fare  lungo  soggiorno  nel  distretto  montuoso,  tra  Nauplia  e  Monem- 
basia,  ove  in  una  città,  sei  villaggi  ed  alcuni  casolari  isolati,  dodici 
o  tredici  mila  uomini  parlano  questo  dialetto,  per  lo  studio  del  quale 
la  bocca  del  popolo  è  l'unica  fonte  a  cui  attingere;  popolo  la  cui 
esistenza  in  queir  angusto  tratto  di  terra  è  anco  un  interessante  pro- 
blema isterico.  Le  prime  notizie  di  questo  dialetto  son  dovute  ad  un 
greco  del  XV  secolo,  il  Mazaris ,  poi  ne  parla  il  Gerlach  (1574);  il 
Villoison  nei  Prolegomeni  agli  scolii  dell'Iliade  è  il  primo  che  rico- 
nosce la  sua  vera  natura,  il  Thiersch  prova  che  è  un  dialetto  vera- 
mente greco,  il  Deville  francese  ne  dà  una  notizia  più  completa  (1),  e  ne 
tratta  anche  M.  Schmidt  negli  Studi  di  G.  Curtius,  III,  p.  345-376.  Ma 
ora  soltanto  possiamo,  per  l'opera  del  Deffner,  sperare  uno  studio  ve- 
ramente completo,  fatto  con  tutto  il  corredo  della  scienza  moderna, 
studio    che   era   urgente,  dacché    il    dialetto    stesso    sta    per  iscompa- 


(1)  Vedi  la  recensione   della    sua  «  Étude    sur  le   dialecte    Zaconien  » 
inserita  dal  nostro  Comparetti  nel  voi.  XVIII  della  Zeitschì'ift  di  Kuhn. 


-37G  — 

rire  e  a  cedere  il  posto  al  neogreco  comune.  Il  valente  docente  della 
università  d'Alene  aveva  già  inserito  nel  suo  Archivio  filr  mittel-und 
neugriechische  Philologie  (Atene,  1880,  fase.  I  e  II)  due  dissertazioni 
[Das  Zaconische  ah  Fortentwicklung  des  laconischen  Dialects  —  Das 
^aconische  Verbiim  iind  seine  Formen),  ma  ora  espone,  in  una  gram- 
matica di  questo  dialetto,  di  cui  però  finora  non  è  comparsa  che  la 
prima  parte,  la  fonologia,  i  risultati  de'  suoi  studi,  dei  quali  ci  oc- 
cuperemo estesamente  appena  sia  uscito  tutto  il  volume.  Per  ora  ci 
limitiamo  ad  annunziare  brevemente  l'importantissima  pubblicazione 
agli  studiosi  italiani,  ed  aggiungiamo  che  s'attende  un  altro  frutto 
delle  ricerche  fatte  dal  Deff'ner  con  sacrifizio  ed  abnegazione  in  quella 
interessante  parte  del  Peloponneso  in  cui  per  lungo  tempo  Venezia 
ebbe  dominio  diretto,  cioè  una  «  descrizione  pittorica  della  Zaconia  », 
di  cui  finora  non  abbiamo  visto  che  il  programma. 


rVeci^ologia,. 

Da  Parigi  ci  è  giunto  il  doloroso  annunzio  della  morte  di  CARLO 
GRAUX.  Giovanissimo,  egli  aveva  già  molto  lavorato  pel  pubblico  ; 
e  in  tutto  quello  che  conosciamo  di  lui  ,  dai  primi  tentativi  critici 
negli  Esercizi  della  Conferenza  filologica  del  Tournier  sino  ai  suoi 
piia  recenti  articoli  nella  «  Revue  Critiquc  »,  nel  suo  Coricio  non 
meno  che  nel  suo  Plutarco,  nelle  pazienti  ricerche  sticometriche  del 
pari  che  nello  splendido  volume  sui  mss.  greci  dell' Escuriale,  dap- 
pertutto trovammo  perspicacia,  erudizione,  carattere  di  vero  e  pro- 
prio scienziato.  Ma  dei  suoi  meriti  di  filologo  e  di  paleografo  meglio 
di  noi  parleranno  i  suoi  amici  francesi  ;  noi  non  vogliamo  che  espri- 
mere il  sentimento  di  dolore  che  abbiamo  provato. 

Carlo  Graux  è  morto  vittima  di  violenta  febbre  perniciosa,  soltanto 
pochi  giorni  dopo  che  egli  era  tornato  a  Parigi  da  un  viaggio  scien- 
tifico in  Italia.  Quanti  in  Firenze  lo  conobbero,  ne  ammirarono  le 
cortesi  maniere,  la  dottrina,  l'entusiasmo  di  filologo  e  di  paleografo. 
Tutti  ora  lo  rimpiangono  con  vero  afi"etto,  e  tutti  contrista  il  sospetto 
che  dalla  nostra  Italia  e'  riportasse  in  patria  il  germe  del  terribile 
male  che  lo  spense  cosi  giovane,  cosi  pieno  di  vita  e  di  non  vanitose 
speranze  !  Io  che  scrivo  queste  linee  avevo  trovato  in  lui  un  amico, 
ed  è  soprattutto  l'amico  che  ora  rimpiango.  Nel  tornare  da  Roma 
ripassò  per  Firenze  il  20  dicembre,  oggi  è  un  mese;  e  non  lo  vidi, 
perchè  appunto  in  quei  giorni  la  morte  aveva  visitata  anche  la  casa 
mia. Mi  scrisse  un  biglietto  che  mi  fu  di  consolazione,  e  mi  rimane 
ora  come  doppiamente  mesta  memoria. 

Auguro  di  tutto  cuore  alla  Francia  che  presto  si  trovi  chi  occupi 
degnamente  il  posto  che  il  Graux  ha  lasciato  vacante  nella  Filologia 
francese;  ma  non  meno  caldamente  le  auguro  una  schiera  di  dotti, 
che  possano  contendere  al  nostro  caro  estinto  il  vanto  dell'essere 
molto  amato. 

Firenze,  20  gennaio  1882. 

G.  Vitelli. 

mTniiniiiiiiiwTMMi— iMT—nrn-nrrHimiiiiiii    ii  iiiiiniiiii  iiinii  iiiiwii  imi  "' 

Pietro  L'ssello,  i^'creiitc  rcspoitsatile. 


QUAESTIOV^ES    C%ITICAE 


Ut  inde  quaestiones  meae  proficiscantur,  unde  totius  an- 
tiquitatis  studiorum  principia  ducuntur,  primus  Homerus 
tractetur. 

Constat  dogma  esse  insitum  doctis  illis,  quos  Lachman- 
nianos  appellant  philologi,  esse  in  primo  Homeri  Iliadis 
libro  diversorum  carminum  contaminationem  neque  res  sic 
esse  compositas,  ut  piane  Inter  se  cohaereant.  Idque  cum 
aliis  argumentis  tum  e  v.  490  intelligi  putant 

àXX'  ÒT6  bri  p'  èK  ToTo  buiubeKatri  févej  r\[bc, 

quem  versum  defendi  suo  loco  non  posse,  nisi  quid  sit, 
quo  'èK  ToTo'  referatur.  nihil  auteni  est  in  superioribus  ver- 
sibus  dictum,  ad  quod  pertinet,  neque  versu  Q,  3i  excu- 
satur,  ubi  similem  difficultatem  habemus  atque  hoc  loco; 
nam  ne  eum  quidem  versum  iusto  loco  esse  patet.  Sed  ut 
id  omiltamus,  non  convenit  temporum  ratio^,  qualem  nunc 
habemus  in  v.  423-425,  cum  aliis  rebus,  quas  poeta  nar- 
ravit.  Eis  enim  versibus  luppiter  reversurus  esse  dicitur 
duodecimo  die,  postquam  Thetis  ad  fìlii  colloquium  venerat. 
Et  revertitur  sane  die  duodecimo,  sed  'èK  toTo',  id  quod  quo 

Tiivisla  di  filologia  ecc.,  X  2  5 


—  378  - 
loco  nunc  legitur  tantum  potest  referri  ad  Ulixis  expedi- 
tionem,  quae  antea  descripta  est.  Ergo  si  dies  accurate  nu- 
meramus,  cum  v.  475-477  dies  et  nox  praeterierit,  luppiter 
re  vera  non  duodecimo  die  post  illud  colloquium  redit,  sed 
die  decimo  quarto  seu  quinto.  At  enim  viri  doctissimi,  pe- 
ritissimi carminum  Homeri  ab  liac  scntentia  dissentiunt, 
quorum  auctoritatem  aputi  multos  hoc  tempore  plurimum 
valere  intellego.  Quid  igitur  dicunt  illi  viri  ?  consentiunt 
rectissime  Lachmannum  vidisse,  sed  putant  hoc  loco  tem- 
porum  rationem  non  habuisse  nec  poetam  nec  auditores. 
Quid?  num  ipsos  effugit  illa  contradictio  ?  an  dubitant,  num 
id  quod  ipsi  viderint,  alii  item  perspiciant  ?  vereor,  ne  qui 
librum  primum  lliadis,  qualis  nunc  est,  defendant,  cum 
illas  res  inter  se  repugnantes  animadverterint,  se  ipsi  re- 
fellant.  lam  vero  musae  Homeri  quae  potest  medicina  in- 
veniri?  insani  medici  sunt,  qui  aegrotum  si  vident  nunquam 
piane  posse  sanari,  priusquam  mortuus  sit,  in  partes  dis- 
secare volunt:  sic  ne  bestiam  quidem  tractare  fas  est.  Quae 
cum  ita  sint,  remedia  adhibenda  vel  desperatissimis  et  ea 
semper  vitanda,  quae  ipsam  mortem  afferant.  Atque  illud 
in  primis  iure  me  semper  aegre  tulisse  puto,  quod  eo  qui 
nunc  est  in  libro  primo  rerum  ordine  Ulixis  navigatio  in- 
terrumpitur  non  modo  exercitus  piaculo,  sed  etiam  Bri- 
seidis  ex  AchiUis  tabernaculo  deductione,  quae  deductio  a  dei 
conciliandi  Consilio  prorsus  aliena  est.  Exspectaveris  enim 
post  exercitus  purgationem  Ulixis  expeditionem  ad  tinem 
perduci-,  et  id  ipsum  poetam  voluisse  certissime  puto,  cum 
praesertim  videam  hunc  rerum  contextum  facillime  esse  re- 
stituendum  loco  qui  legitur  v.  430-487  tralato  in  medium 
versum  3 18,  ita  ut  versus  3 18  initium  e.xcipiatur  exitu  v. 
43o  hoc  modo 

LÒq  01  |uèv  rà  TrévovTO  Karà  arpaióv  aùtàp' Oòu(Jcr€Ù(;  cet. 


-  879- 
Multo  vero  verisimilior  fit  res,  quod  etiam  nunc  posse 
videtur  intellegi,  quomodo  Carmen  simili  duarum  particu- 
larum  initio  distortum  sit.  Ncque  enim  dubito,  quin  post 
V.  487  poeta  superiore  versu  ex  usu  Homerico  repetito  (cf. 
VII,  442)  perrexerit  olim  (v.  3  18) 

ijù?  01  |uèv  TtévovTO  Karà  (JTpaióv  •  oùò'  'ATOtiué|uvujv  cet. 
usque  ad  v.  428  et  429 

a)?  àpa  qpuuvi'icraa'  àrrePìiaeTO,  tòv  ò'  l\\n  aÙToO 
Xuuó|U6vov  Kaià  9u|uòv  èuZiuQvoio  YuvaiKÓ<g. 

Quibus  versibus  iam  ea  subiungenda  esse,  quae  a  versu 
493  usque  ad  finem  totius  libri  leguntur,  patet.  sunt  enim 
quae  incipiunt  inde  a  verbis 

àW  OTC  òri  p'  Ik  toTo  òuuuòeKaTri  Tévei'  lìo)^, 

Kal  TÓte  hi]  -apòq  "OXu|uttov  iCav  Geoì  aièv  èóvteq. 

Dimidium  versus  430  :  xriv  pa  pu]  déKOVTO(;  ÓTrriupuuv  cum 
Lachmanno  Lehrsii  observatione  adiuto  expungendum,  quia 
speciem  additamenti  prae  se  fert,  quod  a  quodam  diasceuasta 
videtur  inlatum,ut  disiecta  carminis  membra  consueret.  Re- 
liquum  est,  ut  de  loco  qui  versus  488-492  complectitur  panca 
dicam.  ego  enim  existimo  eos  versus  ,  quos  et  ipse  Zeno- 
dotus  riOéniae,  removendos  esse  a  Carmine  ,  in  quo  neque 
contio  quam  Achilles  adire  neque  pugna  commemoratur 
cuius  particeps  esse  potuisset,  ut  toti  libro  contradicant  ea 
quae  leguntur  v.  491-492. 

oute  TTOT  eì<;  aYopfiv  TTuuXéaKeTO  Kubidveipav 
oute  ttot'  èc,  TTÓXe|uov. 


—  380  — 

Satis  mihi  multa  verba  fecisse  videor,  qua  ratione  esset 
hoc  Carmen  restituendum  :  restat,  ut  de  sententiarum  con- 
textu  qualis  exoritur  versibus  transpositis  pauca  exponam. 
Chryseidem  postquam  Agamemnon  dimisit,  convocato  exer- 
citu  omnibusque  militibus  ad  lustrationem  adhibitis  (v.  3o'S- 
317)  celerìter  mandata  Agamemnonis  peregit  Ulixes  (v.  480- 
487).  Agamemnon  autem,  ubi  altero  die  Ulixis  adventum 
cognovit,  Briseidem  iubet  adduci,  qua  re  permotus  Achilles 
cum  procul  ad  oram  maritimam  abiisset,  matrem  suam 
Thetinad  lovem  mittit  rogatum,  ut  ipsum  ulciscatur  (v.3i8- 
429).  Postquam  id  animum  advertit,  fìlium  suum  Thetis 
relinquit  seque  die  duodecimo  ad  Olympum  confert  (v,  493 
seqq.).  Qua  ratione  praeterea  res  sunt  ita  compositae,  ut 
id  quod  Achillis  mater  dixit,  deos  'heri'  ad  Aethiopes  de- 
cessisse  bene  conveniat  cum  isto  'die  duodecimo';  nam  die 
postquam  filia  sacerdoti  reddita  erat,  quominus  Thetis  cum 
filio  coUoquens  dicat  'deos',  in  iis  Apollinem  et  Minervam 
'beri'  ad  Aethiopes  profectos  esse ,  nihil  prorsus  obstat, 
quoniam  causa  non  est,  cur  negemus  Apollinem  cum  Graecis 
reconciliatum  eodem  die  ceteros  deos  prosecutum  esse.  Li- 
cuit  tamen  deo  usque  ad  vesperum  in  Olympo  preces  Grae- 
eorum  atque  paeanes  audire,  licuit  quoque  altero  die,  ubi- 
cumque  erat,  Graecis  i'K)iievov  oupov  mittere. 

Atque  ita  simul  efficitur,  ut  v.  428-429 

Còg  cipa  q)U)vr|(yao'  àirePricyeTO,  tòv  b'  èXm'  aÙToO 
XUJÓ|Lievov  KttTà  Gu|uòv  èuZiùvoio  YuvaiKÓq 

recte  excipiantur  ab  isto 

àW  ore  òr]  p   ìk  toio  òuiubeKain  Tévei'  rnju(;. 

Ncque  vero  timeo,  ne  quis  contra  me  praesentia  proferat 
in  V.  389-390 


—  381  — 

THV  |uèv  Tàp  crùv  viii  Gorj  éXiKiUTTeq  'Axaioi 
è?  Xpiicfiiv  TTe'jLiTroucriv,  aYOudi  òè  biijpa  avaKTi, 

quamquam  v.  Sqi  poeta  praeterito  tempore  pergit 

tfiv  òè  véov  KXiaitiGev  è'pav  KripuKei;  ctYOVTeq 
Koupriv  Bpicrfìoq,  Trjv  )lioi  bóaav  viec,  'Axaiuùv. 

nam  cum  desint  apud  Homerum  praesentia  historica  quae 
vocantur,  patet  hoc  loco  poetam  praesenti  tempore  dedita 
opera  adhibito  exprimere  voluisse  :  Achillem  Ulixis  expedi- 
tionem,  utrum  iam  prorsus  peracta  esset  necne  non  amplius 
curasse,  cum  ira  incensus  a  ceteris  sese  secrevisset  interque 
Myrmidones  suos  succenseret  Achaeorum  rerum  incuriosior. 

Facile  autem  intellegitur  vitia  eiusmodi  solis  tribuenda 
esse  tribus  illis  viris,  qui  Homeri  carmina  redegerunt  Pi- 
sistrato  iubente,  quibus  nuper  tandem  quartum  rectissime 
videtur  addidisse  Italorum  summus  philologus  Comparetti. 

In  lectorum  faciliorem  usum  infra  versus  Homeri  eo 
ordine  secuntur,  quo  ego  ponendos  arbitror. 

'Aipeiòri?  ò'  apa  vfiot  Gonv  aXaòe  Trpoépucrcrev. 
èi;  ò' èpéTa(;  è'Kpivev  èeiKoaiv,  ic,  b'éKaTÓ|upriv 
Pnae  0€uj,  dvà  òè  Xpuariiòa  KaXXmdpt^ov  310 

eicTev  aYwv  èv  ò'  àpxò?  è'pri  TToXùjuriTK;  'Oòucrcreiii;. 
Oi  |uèv  è'TTeiT  àvapdvTeq  èTréTrXeov  ÙTpà  KéXeu9a, 
Xaoùi;  ò'Atpeiòri?  àTToXi))Liaivtcr6ai  àviwYev  ' 
01  ò'  àrreXuiuaivovTO  xaì  ei^  aXa  XófLiai' è'paXXov. 
epòov  ò"A7TÓXXujvi  TeXrié(y(Ja(;  éKaTÓ|uPa<;  315 

Tttupuuv  ììò' aÌYuJv  Tiapà  6iv' àXò<;  àipuTéioio* 
KVicyri  ò'  oùpavòv  kev  éXKJffoiiiévn  irepl  Kairvo). 
(b<;  01  |uèv  TTÉvovTO  Kaià  cripaTÓv  aùiàp   'Oòu(T(y€Ù?      430 
è<;  Xpucrriv  iKavev  ciyujv  lepfiv  eKaróiLipiiv. 


-  382  - 
01  ò'  oie  òr]  Xi)iévoq  Tro\upeveéo(;  èvTÒ(;  ikovto, 
laiia  |ièv  aieiXavTO,  eécrav  ò'  èv  vifi  |neXaivt,i, 
iaiòv  ò'  icTTOÒÓKìi  TréXacrav  TipoTÓvoiaiv  ócpévieq 
KapTraXimjuq,  inv  ò'  eìq  òp)Liov  rrpoépeaaav  èpeiiaoT?. 
èK  ò' eùvà?  èpaXov,  Kaià  òè  npuiniiai' èòiiaav  436 

ÈK  òè  Kal  aÙTOÌ  ^aivov  èm  priYMÌvi  tìaXdcrari?, 
èK  ò'éKaTÓ|upriv  piìcrav  éKiipóXiu  'ArróXXuuvr 
èK  òè  Xpuarik  vt]òc,  Pn  ttovtottópoio.  439 

tììv  )ièv  eTieiT'  ètti  Puj|lIÒv  òìyujv  TToXu|ui"iTiq  'Oòua(jeù(^ 
Tiaipi  cpiXuj  èv  xep<5ì  TiGei,  Kai  )iiv  rrpoaéeiTrev  • 

i(  'Q  Xpuari,  TTpó  |u'  èrreiLiqjev  dvaE  dvòpuùv  'A'fajuéuvuuv 
iraiòà  Te  croi  àTé|Liev,  Ooi^iy  6'  lepiiv  eKaTÓja^riv 
péHai  ÙTtèp  Aavaujv,  òcpp'  iXaaójU6cr0a  cévaKia, 
oc,  vOv  'ApTcioicTi  TToXucfTOva  Kìiòe'  ècpfìKev  )).  445 

"Q?  eÌTTÙJV  èv  xepcJÌ  TÌ9ei.  ó  ò'  èòégaio  xaipuuv 
Traìòa  cpiXr|V  xoi  ò' u)Ka  Geoi  KXeiifiv  éKaiójaPnv 
é.te\r]C,  èciricrav  èuò|ai"iTOV  irepl  Pai)Liòv, 
XepvivpavTO  ò'  eneiTa  Kaì  oùXoxùiai;  dvéXovTO. 
Toìaiv  òè  XpucJiK  ^le-fóX' eùx^TO  xeip«?  àvaoxójv  450 

.(  KXOGi  laeu,  àprupÓToE'.  6q  Xpuanv  à,uqpipépiiKac;_ 
KiXXav  Te  laQér\v,  Tevéòoió  Te  icpi  àvàaaeiq' 
lìiuèv  òn  TTOT  è)LieO  Txàpoc,  eKXueq  eùEauévoio, 
TÌ|Lir|(J«?  Mèv  èiaè,  )LiéYa  ò' iVao  Xaòv 'Axaiuùv 
r\ò'  eri  Kaì  vOv  |uoi  tóò'  èrcmpririvov  èéXbuup"  455 

libri  vGv  AavaoicJiv  àeiKéa  Xorfòv  ajuuvov  ». 

~^Q<;  è'cpaT'  eùxójiievoq,  toO  ò'  ckXuc  OoT^o?  'AttóXXluv. 
aÙTÒp  ènei  p'  euEavTO  Kai  oùXoxuxaq  irpopdXovTO, 
aùépuffav  \ikv  TipwTa  Kai  èacpaEav  Kai  eòeipav, 
ILiripoùq  t'  èEéTa|Liov  KaTa  Te  KViOri  èKdXuipav  460 

òiTTTuxa  TTOiriOaviec;,  èir'  aÙToiv  ò'  iij|uo9éT»i(Jav. 
Kttie  ò'  èirì  ox\lì}<;  ó  Tépujv,  èm  ò'  aiGoTta  oivov 
Xeipe  •  véoi  òe  nap'  aÙTÒv  èxov  irejUTTiupoXa  x^ptJiv. 
aÙTàp  èrrei  Katà  jaiìp'  èKdn  Kai  ajrXdfxv'  èTidoavTO, 
jiiiaTuXXóv  T  dpa  TÙXXa  Kai  d)aq)'  ò^eXciffiv  èireipav, 


—  383  — 
ujTTTiiadv  T€  TTepicppaòéujq,  epùcravTÓ  re  Travia.  466 

aÙTÒp  èrreì  TtaùaavTO  ttóvou  tétùkovtó  le  òaTia, 
òaivuvi',  oùòé  TI  Qvixòc,  èbeueio  òaiTÒ(;  èiar|(g. 
aùiàp  èireì  iróaiot;  Kaì  èòriTuoq  è?  èpov  evxo, 
KoOpoi  jdèv  KpTiTfìpa(;  érreaTéqiavTO  ttotoio,  470 

vijO|uii(Jav  ò'  dpa  Tiaaiv  è7TapEd)aevoi  beimecrcriv, 
01  òè  Travii.uépioi  .uoXttii  Oeòv  iXdaKovTo, 
KttXòv  deibovre?  iraiiiova,  KoOpoi  'Axaiujv, 
jjeXTTOVteg  eKdepYOV  ó  bè  qppéva  TépTret'  dKOuuuv. 

'H|ao(;  b'  iiéXioi;  xatébu  Kal  ètri  Kvécpa?  fìXBev,  475 

bri  TÓxe  KOi.uricravTO  rrapà  npuiuvricria  vìióc,. 
f\}xo<;  b'  rìprréveia  qpdvn  pobobdKtuXo?  'Hòx;, 
Kal  tòt' eTteii' dvdTOVTO  (LieTÙ  aipaTÒv  eùpuv  'Axaiujv 
TOÌ(Jiv  b'  iK|Lievov  oijpov  \'ei  eKdeproi;  'AttóXXuuv.  479 

oi  b' icTTÒv  CTTricravi'  dvd  G' laTia  XeuKd  rréTaaaav 
èv  b'  dve)ao(g  Trpfiaev  luéaov  laiiov,  d|ucpl  bè  i<0)aa 
aieipi]  TTopcpupeov  lueTdX'ì'axe  \r\ò(;  louarii;" 
fi  b'  eGeev  Kaià  KO)ua  biarrpnaaouaa  KéXeuOov. 
auTàp  èTiei  p'  i'kovto  xaid  aipaiòv  eùpùv  'AxaiOùv, 
viìa  laèv  orf€  uéXaivav  èrr'  lìneipoio  epucraav  485 

ùu»oO  èiTÌ  vpajudGoK;,  òtto  b'  epuaia  |uaKpà  Tdvuaaav  * 
aÒTOì  b'  ècTKibvavTo  Kaid  KXiaia^  Te  véa<;  xe. 

'Qq  oi  )aèv  Td  ttévovto  Kaid  cfTpaTÓv  oùb"ATa|ué)Livujv  318 
XrÌT'  epibo^,  Triv  rrpaiTOv  ènriTreiXria'  'AxiXfji, 
dXX'  6-fe  TaXeùpióv  Te  Kaì  EùpupdTrjV  -rrpoaécmev, 
Tiu  01  èaav  KripuKe  Kaì  òxpripdj  GepdrcovTe"  321 

(  "EpxeaGov  kXktìtiv  TTriXr|idbeuu  'AxiXfioq' 
Xeipò<;  éXóvt'  dTé|uev  Bpi(Jrii&«  KaXXirrdpriov 
ei  bé  Ke  lufi  buui;i(Tiv,  è^ùj  bé  Kev  aÙTÒq  eXujjaai 
èXGùjv  aùv  TtXeóveaar  tó  ol  Kai  pi-fiov  ioiai  ».  325 

"Qc,  eÌTTÙJv  Kpoiei,  Kpaiepòv  b'  éirì  )a06ov  èieXXev. 
tùj  b'  déKOVTC  pdTriv  rrapà  6ìv' dXòt;  dipuféToio. 
Mupjiibóvujv  b'  èm  le  KXiaiai;  Kaì  vna*;  kéffOriv. 
TÒv  b'  eupov  Trapd  Te  KXiaiii  Kaì  vr|ì  )aeXaivi;i 


-  384  - 
fi|i€VOV*  ovh"  àpa  Toi-fe  ì^wv  Yn6^<Jev  'AxiXXeuq.  330 

TÙJ  |uèv  TapPncravTe  Kai  aìòojuévuu  paaiXfia 
Gty\tx\v,  oùòé  TI  |Liiv  TipoffecpOuveov  Oliò' èpéovTO  • 
aÙTÒp  ó  ^Tvuj  rjcfiv  évi  cppedi,  (puOvricrév  xe* 

«  Xaipete,  Ki'ipuKC?,  Aiòq  àfTeXoi  lìòè  Km  àvòpuùv, 
acrcrov  ìV*  outi  luo'i  v^ixe<;  èiraiTioi,  àW'AYaiuéiuvujv, 
6  (Jcpijùi  TTpoiei  BpKJniòo?  e'iveKtt  Koupi-|<;.  336 

dXX'  ctTC,  AloYevè?  TTaipÓKXei^,  eSaxe  Koùpnv 
Ktti  cTcpuuiv  hòc;  ttYeiv.  tùj  b'  aÒTÙj  luapiupoi  ècTiaiv 
Tipóc,  xe  Gea)V  |uaKdpuuv  7Tpó(g  xe  GvrjTujv  àvGpóiTTUJV 
Kttì  npòq  xoO  pacTiXfio?  òiTTìivéoq,  einoxe  ò'  auxe  340 

Xpeiùj  è|aeTo  yéviixai  àeiKéa  Xoiyòv  à|aOvai 
xoT?  ctXXoi?.  f|  Y«P  ot'  òXoivìai  cppem  Guei, 
oùbé  XI  oiòe  vofìcrai  à^a  Ttpócrcruj  Km  òmcsauj 
ÒTTTTUjg  01  Ttapà  vriucTì  (Jóoi  luaxéoivxo  'Axctioi  )). 
"Qg  qpdxo*  TTdTpoKXo(;  òè  qpiXuj  èTreTreiGeG'  éxaiptu,  345 

èK  ò'  dYttYÉ  KXicriii<g  Bpicrniòa  KaXXmdpi;iov, 
òujKe  ò'  ciYCiv,  xùi  ò'  auxK;  ì'xtiv  Ttapà  vfia(g  'Axmuùv, 
fj  ò'  àKéoua'  a|jia  xoTai  Yuvfi  Kiev,  aùxàp  'AxiXXeùq 
òaKpù(ya(;  éxdpiuv  ctcpap  elexo  vócTqpi  Xia(JG€i(S. 
Giv'  èV  à\òc,  TToXifiq,  ópóuuv  in  àTteipova  iróvxov  350 

TToXXà  bè  MTiTpi  cpiXi;)  npn^^aTO  xeipac,  òpeYVu<;  • 

(f  MfiTep,  èTtei  |u'  è'xeKétg  yc  juivuvGdòióv  irep  èóvxa, 
Ti|ur|V  irép  |uoi  òqpeXXev  'OXu|LiTTioq  èYYuaXiHai, 
Zeù<;  \jijJippe|uéxn<;'  vOv  b'  oùbé  |ue  xuxGòv  exicrev. 
Y]  Ydp  M  'Axpeibriq  eùpuKpeiuuv  'AYaM^MViuv  355 

rixi)iiricrev '  éXòiv  Ydp  è'xei  Yépaq,  aòiòq  àrroupa»;  ». 
"Qq  (pdxo  baKpuxéuuv,  xou  b'  eKXue  TTÓxvia  |ur|xrip 
fiiuévri  èv  pévGecraiv  dXò^  Txapà  Tiaxpi  Ytpovxi. 
KapitaXiiauuc;  b'  dvébu  ttoXiìì»;  dXòq  iiux'  ò^ixXn, 
Ktti  pa  rrdpoiG'  aùxoio  KaGéZieTO  baKpuxfcOVxoq,  360 

X€ipi  xé  mv  KaxépeSev,  l-noq  t  Icpax  è'k  x'  òvóiaaZiev 

«  TéKVOv,  XI  KXaieKj:  xi  bé  ere  cppe'vaq  iKexo  TrévGo?; 
èHaùba,  )ufi  KeOGe  vóuj,  'iva  eibo|uev  d)aq)a)  ». 


-  385  - 
Triv  bè  papuarevaxujv  irpocrécpii  ■nóbaq  wKvq  'AxiX^eug 
«  oTcrea*  tiri  toi  laOia  ìòuii]  Travi'  àYopeuoi;  365 

djXÓ|ue9'  ic,  0riPiiv,  lepnv  nóXiv  'HeTiiuvoq, 
THV  òè  bieTrpdOojLiév  te  Kai  fiYOjuev  èvGàbe  Travia. 
Kttì  là  )iièv  eù  òdcfcravio  jueià  (jqpicriv  vieq  'Axaiuùv, 
ÈK  ò'  eXov  'Aipeìòr)  Xpuariiòa  KaXXmdptjov. 
Xpuaiiq  b' au9\  lepeùg  éKaiiiPóXou  'AttóXX(juvo(;,  370 

rjXBe  6oà<;  èTil  vfia<;  'Axanjùv  xcXkoxituuvuuv 
Xu(JÓ|Lievó?  Te  GuTaipa  qpépuuv  i'  àTiepeicri'  aTioiva, 
cfiéiuiuaT  è'xiwv  èv  x^P^^'iv  éKriPóXou 'ATtóXXuuvog 
xpucréuj  ava  (JKnTiipuj,  Kai  èXicrcreio  Travia?  'Axaioù?. 
'Aipeiba  bè  judXicfTa  buuu,  KO(T|urÌTope  Xaojv.  375 

ève'  dXXoi  |uèv  TTdvie<;  èTreuqprmri^yttV  'Axaiol 
aìbeTa6ai  G'iepna  Kai  dTXaà  béxOai  arroiva* 
dXX'  oÙK  'Aipeibi^  'A-fajué)uvovi  iivbave  Gujuuj, 
dXXd  KaKuJ?  dcpiei,  Kpaiepòv  b'  èttì  juOGov  è'ieXXev. 
Xujó|U€vo<;  b'  ó  Ycpuuv  rrdXiv  ujxeio  •  loTo  b'  'AttóXXiuv 
eùHaiuévou  tikouctcv,  èTrei  ladXa  oi  (piXo(;  fìev,  381 

Ve  b'  CTi' 'ApYeioiai  kokòv  péXo(;*  oi  bé  vu  Xaol 
GvfjcyKov  èTTaacruiepoi,  id  b'  èTTÓixeio  ufiXa  GeoTo 
TidvTi;!  dvd  (Tipaiòv  eùpùv  'AxaiuJv.  djLi)ui  bè  ludvin; 
evi  eìbib?  dYÓpeue  GeoTTpoTria(;  eKàioio.  385 

aòiÌK  ÉTib  TipujTO?  KeXójuriv  Geòv  iXdffKeaGar 
"Aipeiuuva  b'  èTieiia  xóXoq  Xd^ev,  aiijja  b'  avacTiài; 
riTTeiXi-ìCTev  juOGov,  o  òr\  leieXecTiuévo?  ècriiv. 
T»iv  fièv  Ydp  crùv  vrjì  Gorì  éXiKUJTre(; 'Axaioi 
ic,  XpucTriv  rré|LiTTOucriv,  aYOuffi  bè  bujpa  dvaKir  390 

TTiv  bè  véov  KXi(Jir|Gev  è'pav  Kì'ipuKeq  aYovieq 
Koùpiiv  Bpi(jfìO<;  tì'tv  )Lioi  bócrav  vxec,  'Axaiujv. 
dXXd  aò,  ei  buvacrai  y£,  Tiepiaxeo  Traibò<;  ir\oq' 
èXGoOa'  OuXu|LiTTÓvbe  Aia  Xicrai,  emoie  bri  ti 
il  eTtei  ùjvricrai;  Kpabiiiv  Alò?  lìè  xai  epYtu.  395 

TToXXdKi  Ydp  creo  Ttaipò?  évi  lueYdpoicriv  dKouffa 
eOxo|uévri?,  oi'  èqpr|(JGa  KeXaiveqpéi  Kpovicuvi. 


—  38t>  — 
oi'r)  èv  à9avdTOi0iv  àeiKéa  Xorfòv  dfiùvai. 
òTTTTÓTe  mv  Euvòfiaai  'OXOfamoi  qGeXov  dWoi, 
"Hpr|  t'  TÌÒè  TToaeiòduov  Kaì  TTaXXàq  'A6nvri.  400 

àXXà  cu  TÓv  y'  èXSoOaa,  6eà,  ÙTreXucrao  òecriaujv, 
ujx'  éKaxÓYX^ipov  KaXéaaa'  èc,  iitaKpòv  "OXu|l17tov, 
6v  Bpidpeujv  xaXéouai  Geoi,  dvòpeq  bé  re  iràvie^ 

Ai-faiuuv'  —  ó  "fdp  aure  piri  ou  rrarpòq  d|ueivujv  — 
6q  pa  TTapd  Kpoviuuvi  Ka6éZ;eT0  KÙÒei  'fctiuuv  405 

TÒv  Kaì  ÙTTé'òòeKJav  iLidKapeq  0eol  oùòé  t'  ebr]CSav. 
Tujv  vOv  mv  jLiVìiCTaaa  -napéleo  Kaì  Xa^è  touvujv, 
ai  KÉv  TTOig  è9éXì;i(Tiv  erri  TpubedcTiv  dpnEai, 
Toùg  òè  Kaid  irpùiuva?  le  Kaì  à|Liqp'  dXa  è'Xaai  'Axaioùq 
KT€ivo)iévouq.  iva  nàvrec,  èTraupuuvtai  paaiXfjOc;,  410 

■fVLÙ  òè  Kaì  'Atpeiòiiq  eupuKpeiouv  'AYa|aé)avuJV 
iìv  diriv,  òt'  dpicfTOV 'Axaiujv  oùòèv  etiaev  ». 
Tòv  ò'  lì^eipei'  eTreita  Qéxic,  Kard  òdKpu  xlouaa 

e  01)1101,  TÈKvov  è)Liòv,  TI  vu  (j' èipccpov  aìvd  TCKOucra; 
aì9'  òcpeXeq  irapà  vnuaìv  ftòdKpuTO<;  Kaì  dirnuoiv  415 

fjaSai,  ènei  vu  xoi  aiaa  inivuvBd  irep,  outi  )LidXa  òì'iv  • 
vOv  ò'  d)Lia  t'  ujKÙ|uopo(;  Kaì  òiZiupò?  nepì  TrdvTUJV 
errXeo*  tlù  (Je  KaKi^  aicTi]  xéKOv  èv  jneYdpoiaiv. 
toOto  òé  Toi  èpeouffa  erroq  Aiì  TepiriKepaùvu) 
eiiu'  aìiiri  npò<;  "0Xu|U7T0V  àfàvvicpov,  ai'  Ke  TiiGiiTai, 
dXXd  (Jù  uèv  vOv  vriucJì  iTapii|uevo<;  djKUTtópoiaiv  421 

ur|vi'  'AxaioicTiv,  -rroXèuou  ò'  àrrorraùeo  TidiLinav  " 
Zeòq  -fdp  iq  'QKeavòv  juei'  d,ui))Liovaq  Aì9iOTTna<; 
XQi^òq  è'pii  Kaid  òaiTa,  Geoì  ò'  d|Lia  TrdvTe?  cttovto" 
òuibeKairi  òé  toi  aÙTi<;  éXeùcreTai  OuXu|littóvÒ€,  425 

Kttì  tòt'  è'rreiTd  toi  eim  Aiò<;  ttotì  xaXKO^aTèq  ÒOù, 
Kai  |Liiv  YOuvdao).iai,  Kai  )aiv  TreicreccGai  òiuj  ». 
"Q<g  dpa  cpujv\]aaa'  dire^naeTO,  tòv  ò'  eXm'  aÙToO 
Xiwò,uevov  KaTd  9u)aòv  èuZiuuvoio  YuvaiKÓ<;. 
'AXX'  òtc  òr\  p  ìk  Toio  òuujòeKdTii  TcveT'  nuuq,  493 

xaì  TÒTE  òr]  npò?  "OXuurrov  ìaav  Geoì  aièv  èòvTec;  eie. 


—  387  — 

Quoniam  de  vetustissima  arte  epica  verba  fecimus  , 
recte  nemini  ineptum  videbiiur,  quod  tetigimus  infra  etiam 
epicum  quendani  posteriorcm. 

Duentzerus  qui  primus  quod  sciam  fragmenta  graecorum 

epicorum  collegit,  Pisaudri  cuiusdam  praeclarum  fragmen- 

tuni  protulit  ex  Zosimo  historico  (V,  29)  :  Toùq  'Ap-fovautaq 

cpaalv  ÙTTÒ  ToO  AiiiTou  òiaiKOjaévou?  laiq  ei<;  tòv  TTóvtov  èK^oXaìq 

ToO  "IcTipou  TTpocropiaia9fivai  Kpivai  le  Ka\u)q  è'xeiv    òià  toutou 

Ttpò<;  àvTiov  TÒV  poOv  àvaxBiìvai  Kai  luéxpi  xoaouTOu  òiaTTXeOaai 

TÒV  TTOTaiLiòv  eìpeaitt  Kai  TTveufAO.TOc;  èmTiibeiou  cpopd,  M^XPi<S  «v 

Ti]  QaXàaO)}  rrXiiaiaiTepoi  tévoivto'  TipaEavTeq  òè  òirep  è'-fvujaav, 

èireiòii  KttTà  toOtov  èTévovTO  tòv    tóttov.  juviiiaiiv  KO.TaXiTróvTe*; 

Tqq  acpeiépaq  dcpiEeuu?  tòv  ti^  TTÓ\euj(g  okiaiiiòv  )urixavaT<;  èTTi- 

eévxag  Tfiv  'Ap-fi-u  Kttì  xeTpaKoaiuuv  aTaòiuuv  òòòv  àxpi  OaXó.cr(Tri(; 

éXKvaavrec;,  outuu  TaT<;  GecrcyaXiuv  aKTaii;  TipoOujpjJi'KJQ^Oav,  tbq 

ò  TroiiiT]ì(;    icTTopei    TTiaavòpo<;  ò  tìì    tlùv    iipuuiKUJV    GeoTamiùv 

ÉTtrfpacpìì  irdcrav  ójq  einexv  icfTopiav  TrepiXa^uòv.  Quo  loco  cum 

mare,  cui  Argonautae  appropinquant,    Hadriaticum    fuisse 

constet  idque  quin  etiam  Olympiodorus  historicus  nomina- 

verit    non    dubium  relinquat   Sozomenus    ecclesiasticae    hi- 

storiae  scriptor  non  spernendus,  prò  GecraaXujv  ?eu    potius 

OeTTttXujv    haud  dubie  scribendum  est  'iTaXuDv,  ut    sententia 

recte  procedat,  Vidit  enim  Duebnerus  qui  paucis  septimanis 

post    Duentzerum    in    fine    voluminis   editionis  Didotianae, 

quod  primo  loco  Hesiodum  a    fratre    Lehrsii  Regimontani 

recensitum    complectitur ,    eadem    fragmenta    contulit ,    re- 

petisse  illa  Sozomenum  idque  ut  rectissime  Duebnerus  1.  e. 

contcndit    ex   Olympiodori    Silvis,    unde  extremam  partem 

suarum  historiarum  etiam  Zosimum  hausisse   Inter    omnes 

nunc  satis  constat.  Neuter  virorum  doctorum  cognovit  etiam 

a  Plinio  H.  N.  111,  i<S  ed.  Detlefs.  similia  narrata  esse.  'De- 

ceptos  credo,  inquit,  quoniam  Argo  navis  fiumine  in  mare 

Hadriaticum  descendit  non  procul  Tergeste,  nec  iam  constat 


-  388  - 
quo  flumine,  umeris  travectam  Alpes  diligentiores  tradunt, 
subisse  autem  Histro,  dein  Savo,  dein  Nauporto,  cui  nomen 
ex  ea  causa  est  Inter  Aemonam  Alpesque  exorienti\  Quam 
narrationem  ex  Pisandri  cannine  fluxisse  nemo  negabit,  cui 
notitia  est  Argonauticorum.  Quae  cuni  ita  sint,  dubitatio- 
nibus  vel  coniecturls,  utri  duorum  Pisandrorum,  quos  no- 
vimus,  fipujiKai  6eoYa|aiai  vindicandae  sint,  non  amplius  opus 
est  ;  neque  enim  dubitari  potest,  quin  Suidas  s.  v.  TTeiaav- 
òpo?  Carmen  illud  iuniori  Pisandro  sub  Alexandro  impe- 
ratore vivente  tribuens  erraverit,  quem  errorem  quidem 
nonnulli  cognoverunt,  sed  certis  argumentis  non  comproba- 
verunt.  Idque  maximi  momenti  est,  quod  Heynius  olim  in 
excursu  primo  ad  lib.  ii  Vergilii  negaverat  Carmen  Pisandri, 
quem  Vergilio  fontem  excidii  Troiae  fuisse  Macrobius  te- 
status  est,  et  quod  quin  idem  sit,  quod  Zosimus  comme- 
morat,  dubitari  nequit,  senioris  Pisandri  esse,  sed  omnia 
a  Macrobio  de  ea  re  exposita  temere  esse  dieta.  Kinkelium 
qui  nuper  denuo  Graecorum  epicorum  fragmenta  coUegere 
coepit,  res  prorsus  effugisse  videtur. 


Postquam  de  Homero  et  poesi  epica  nonnulla  disputa- 
vi mus,  transibimus  ad  illos  ,  qui  leiadxn  tuùv  'Ojui'ipou  lueta- 
Xuuv  òeiTTvuuv  collegerunt.  Atque  primum  quidem  lectores 
relegamus  ad  Sophoclis  Oedipum  Regem  qui  vocatur  v.  420 
seqq. 

pofì<;  bè  Tr\c,  (yf\c,  Txo'wc,  oùk  èaiai  Xi,uiiv, 
7ToTo<;  Ki0aipdjv  oùxi  cfu|Li(pa)VO(;  idxa, 
OTttv  KaiaidGri  tòv  ij|uévaiov,  ov  bó.uoiq 
avopiuov  eìaÉTrXeucrai;  eÙTiXoiai;  lux^v; 


-  389- 
Ut  nunc  alia  omittam,  quae  interpretationi  difficultatem 
attulerunt,  Tiresias  caecus  vates  iam  montes,  inquit,  Oedipi 
lamentationes  repercutient,  cum  cognoverit  nuptias  suas, 
quales  sint  infaustae  ncque  similes  putandae  navi  in  se- 
curum  quendani  portum  intranti.  Sed  ad  singula  accedamus. 
Omnes  adhuc  quantum  scio  u|névaiov  tralata  notione  prò 
ipsis  nuptiis  acceperunt,  ov  autem  idque  quidem  accuratius 
descriptum  avopiuov  attributo  accusativum  esse  voluerunt  in- 
terioris  obiecti  quod  grammatici  recentiores  vocant.  Aó- 
Iliok;  denique  cum  eiaériXeuGac,  coniungi  solet,  ut  tamquam 
meta  navigandi  significetur.  At  qualis  est  illa  meta?  domus 
est,  inquit  poeta.  Esto,  sed  cuius?  Lai  et  locastae  dixeris. 
Id  tamen  non  legitur  apud  poetam.  Sunt  qui  contendunt 
supplendum  esse  et  facile  suppleri  posse.  Fieri  posse  prorsus 
nego*,  nam  si  eam  supplendi  rationem  sequeremur,  quaelibet 
ubique  ex  silentio  scriptorum  supplere  liceret.  Neque  autem 
fieri  potest,  ut  òó|uoi  in  universum  prò  domo  accipiantur, 
quoniam  Tiresias  commemoratione  dignum  non  potest  putare 
Oedipum  omnino  domum  quandam  nuptiis  sortitum  esse, 
sed  domum  illam  certissimam,  unde  ipse  natus  est.  Quo- 
cumque  igitur  òó)uujv  interpretationem  vertimus,  ad  rectam 
sententiam  cum  non  perveniamus,  postquam  levi  mutatione 
YdjLioi<;  prò  òójuIOk;  scriptum  est,  ujuévaiov  primaria  notione 
carminis  nuptialis  accepto,  hoc  modo  putamus  interpre- 
tandum  esse  :  omnes  regiones  Oedipi  clamorem  repercutient, 
cum  cognoverit,  quo  hymenaeo  infausto  ac  tamquam  im- 
portuoso cantato  quamvis  felicem  navigationem  nactus  in- 
sanarum  nuptiarum  portum  ceperit.  Ad  "fÓMOi?  non  opus 
est  supplemento,  ut  eae  nupiiae  significentur,  in  quibus 
totius  fabulae  cardines  vertuntur.  Cf.  v.  i4o3,  ai  tómoi, 
TajLioi. 


—  300    - 

Ad  graecarum  rerum  scriptores  pervenimus,  c\  quorum 
numero  Thucydidem  et  Xenophontem  tractabimus. 

Thucydides  postquam  narravit  (II,  (3)  Thebanos  a  Pla- 
taeensibus  captos  interfeciosesse,  pergit:  toOto  òè  Troii'icravTeq 
(scil.  TTXaTaifÌ!;)  è?  re  jàq  'fK9r]vac,  uTf^Xov  eTteiaTrov  Kai  toù<; 
v€Kpoù(;  ÙTTOcfTróvòou?  àTTÉÒocTav  ToTq  0riPaioi<;.  Miserunt  igitur 
Plataeenses  legatos;  sed  ut  quid  nuntiarent?  mortem  ni- 
mirum  Thebanorum,  cum  non  esset  alia  causa,  cur  post 
victoriam  Athenas  mitterent.  At  id  non  nuntiaverunt,  nam 
infra  Thucydides  ipse  testatur  duos  nuntios  Athenas  missos 
esse,  quorum  neuter  Thebanorum  mortem  in  notitiam  Athe- 
niensium  pertulerat,  ut  eorum  legatus  cum  Plataeas  ve- 
nisse!, praeter  exspectationem  mortuos  inveniret.  Quid? 
tertius  nonne  dimitti  potuit  a  Plataeensibus  ?  potuit  sane, 
concedo,  sed  non  missus  est,  nam  aut  Athenas  re  vera  ve- 
nisset:  tum  Athenienses  non  ignari  fuissent  Thebanorum 
interfectionis  (cL  infra) -,  aut  si  non  advenisset  id  tantum 
reliquum  esset,  ut  praeconi  Atheniensium  eum  obviam 
factum  esse  putaremus;  quod  si  fuisset  verum,  praeco  ad 
Thebas  viam  neque  perfecisset  ncque  id  Thucydides  silenti© 
praetervectus  esset. 

Atnarrat:où  Tàp  lÌTT^XOn  aÒToT?(='A0rivaioi(;),6TiTe6v»iKÓT€q 
eiev  (scil.  OriPaToi)"  a|ua  T^p  xr)  èaóòuj  YiTVO|uév)]  tujv  Gii^aiiuv 
ó  TTpu)TO(;  à-ffe^^oq  èE(iei ,  ó  he  bemepoq  apri  veviKimévuuv  le 
Km  Huvei\ri|Li|iiéva)V  ■  Kaì  tuùv  ucTtepov  oùbèv  ijòeaav.  outuu  bi] 
oÙK  eìòóieq  01  'A9r|vaToi  ènéarikXov  •  ò  òè  Ki^put  àcpiKÓinevoq 
riupe  Toùq  àvòpac,  òieqpBapi^évouq.  Quae  cum  ita  sint,  vitium 
latet  in  Tà<;  'A9iiva(S,  cuius  loco  scribendum  est  'zà<;  Gì'iPaq  , 
ut  h.  1.  nuntius  signitìcetur  missus  qui  interfectos  esse  The- 
banos traderet. 

In  pestilentia  describenda  Thucydides,  II,  48,  3  :  Xeréruu 
|Lièv  oiov,  inquit,  nepì  aùroO  \hq  eKa(JTO(;  YiTVÓ)(JKei  Kai  ìaipòq 
Kttì    ìòiLUTri?,  à(p'  OTOu    eÌKÒq  fiv  YtvéffGai  aOtò    Kaì    tàq  a'iTÌa<; 


—  ;m  - 
àaxivaq  vo|uiZ:ei  locfauTii^  jueiapoXiìq  kavà^  eivai  òùva|uiv  {eiq 
TÒ  laeTacTTiìvail  crxeìv.  Quo  loco  cum  verba.toaauniq  lueia- 
po\fi<;  ita  sint  comparata  ,  ut  a  relativo  dependere  possint 
(cf.  Krueg,  47,  9,  5),  ita  tamen  non  comparata  sint,  ut 
eorum  notio  accurate  sit  disiungenda  a  notione  verbi  ineia- 
(Tifivai  quod  sequitur,  sed  tautologia  exoriatur,  quae  ferri 
nequeat,  quis  dubitabit,  quin  haec  tanta  '•mutandi'  verborum 
coacervatio,  quae  nobis  hoc  loco  ofFertur,  in  contextum  li- 
brarii  interpolatione  irruerit?  At  de  illorum  verborum  re- 
latione  de  quibus  nunc  agitur ,  doctus  Thucydidis  inter- 
pretum  Nestor  ita  exposuit,  non  ut  in  enuntiatione  relativa 
ea  verba  posita  esse  videantur,  sed  ut  videantur  dependere  a 
làc,  aWmc,.  Sed  tamen  vir  peritissimus  Thucj^didis  interpre- 
tationis,  cum  ToaauTri<;  luexapoXfi^  de  a(yTiva(;  pendeat,  illa 
verba  manere  semper  partem  enuntiati  relativi  negare  non 
poterit,  ut  etiam  tautologia  in  eo  remaneat,  praesertim  cum 
propter  ea  quae  secuntur  non  possit  dubium  esse,  ad  quam- 
nam  rem  iKavà^  aÌTÌa<;  scriptor  referre  voluerit.  Quare 
quamquam  viri  doctissimi  auctoritatem  etiam  apud  me  plu- 
rimum  valere  confiteor,  tamen  in  hac  causa  interpretandi 
viam  mihi  intrandam  esse  putavi,  quam  post  Gesnerum 
Stahlius  denuo  nobis  praeivit,  qui  nuper  peregregie  Thu- 
cydidis libros  recensuit.  Qui  vir  doctissimus  eadem  haud 
dubie  ratione  perductus,  quam  supra  demonstravimus ,  in 
adnotatione  critica  iure  reiecto  exemplo,  quod  Poppo  olim 
ad  locum  nostrum  defendendum  ex  Thuc,  vi,  20  attulerat, 
interpretamentum  esse  iudicavit  òùvajuiv  èc,  xò  lueracTTnaai 
(JXeiv  et  inclusit. 

Multo  vero  id  magis  laudaverim,  quia  ne  Reiskio  quidem 
divo  illi  Lipsiensi  philologo  contigit,  ut  kkI  post  eivai  inter- 
iecto  sententiam  restitueret  ;  nam  qui  locus  ex  Demosthenis 
oratione  OU^nthiaca  (II,  §  i3)  a  Wyttenbachio  collatus  est, 
TToWnv  bri  ifiv  |Li€Tà(JTa(Jiv  Kal  jueYaXnv  beiKiéov  rriv  iLierapoXfiv, 


-  392  — 
eum  locum  dico  prorsus  alienum  esse  ab  eo,  de  quo  agitur, 
quoniam  cum  Demosthenes  oratoris  gravitate  usus  copiosius 
saepe  soleat  loqui,  Thucydides  res  gestas  graviter  sane  nar- 
rat,  sed  procul  ab  illis  verborum  ornamentis,  quae  spectant 
ad  forenseni  usum  et  publicum.  Reliquum  est,  ut  id  paucis 
exponamus,  quod  in  Stabili  lectione  vituperandum  esse  pu- 
tamus.  Est  sane  interpretamentum  quoddam  removendum, 
sed  cavendum,  ne  nimia  resecemus.  Si  quid  est  in  me  iu- 
dicii,  aut  TocJauTri?  laeTapoXfì?  aut  è<;  tò  lueTacTifìvai  expun- 
genda  sunt  -,  cur  reliqua  verba  bùva)niv  axeìv  in  suspicioneni 
vocemus,  causa  non  est,  cum  iis  tautologia  efliciatur  nulla, 
Utrum  autem  eorum  cxpungendum  sit,  non  difficile  est  ad 
intellegendum.  Ego  enim  existimo,  alterum  esse  interpola- 
tum,  quo  remoto,  postquam  ToaauTriq  |ueTapo\fì(;  cum  buvajuiv 
coniunximus,  optima  sententia  evadit-,  nam  indicantur  causae, 
quas  aptas  esse  putant ,  quae  facultatem  habuerint  tantae 
mutationis. 

Et  quoniam  de  rerum  scriptoruni  principe  egimus,  unum 
quoque  locum  tractabimus  Xenophontis  anabasis,  qui  diffi- 
cillimus  est  habendus. 

Quo  loco  graecorum  transitus  in  Carduchos  describitur, 
legitur,  IV,  2,  6  :  )aa(JTÒ(;  r[V  uTtèp  aÙTUJV  Trap'ov  nv  r\  oxevr\ 
autri  òboe,,  èqp' f]  éKdGnvTO  oi  cpù\aK€<;*  è'cpobo(;  uevroi  aùróGev 
erri  TOvc,  noXeniovc,  r\v  oì  èm  Tri  qpavepo.  óòuj  èKd9»iVT0.  Ca- 
rolus  Schenkelius  ,  Annal.  Vindob,  Acad.,  18G9,  p.  606: 
(Ttevriv  óòòv  eandem  esse  voluit  atque  9av€pàv  óòóv,  utqpu- 
XaKe(;  et  TToXéjuioi  non  essent  diversi.  Quod  si  recto  dixisset 
vir  doctus,  eodem  iure  irap'  ov  —  01  cpù\aK€(;  interpolationem 
expunxisset.  At  cum  Vollbrechtio,  .1;;;^  Flcck.,  1874, 
p.  622  altera  via  ab  altera  accuratissime  discernenda  est, 
cum  sit  cTievii  óòói;,  quam  viam  voluntarii  Graecorum  in- 
traverant  Carduchos  circumveniendi  causa,  cpavepà  autem 
óbó<;  supra  nominetur  iLiia  auiii  óbò<;    nv   bpàc,  òpSia,  in  qua 


—  393- 
cpuXdxToucTi  Tf]v  èK^acriv  (IV,  i,  20).  Quam  rem  vir  doctus 
mathematicorum  subtilitate  demonstrare  potuisset ,  si  (IV , 
2,  8)  contulisset,  ubi  Cheirisophum  copiis  progredientem  le- 
gimus  avuu  Kaià  xiiv  cpavepàv  óòóv.  Age  vero  qualis  sit  crievri 
òòóq  consideremus.  Xenophon  enim  ipse  (IV,  2,  i3)  de  suo 
itinere  narrat  èm  ttoXù  ò'  fìv  là  vnolv^ia  aie  òià  aTevfi(g  i?\<; 
óòoO  TTopeuójueva,  quam  viam  non  esse  diversam  ab  altera 
via ,  in  qua  hostium  custodes  stationem  habebant ,  verba 
nos  docent ,  quae  ibid,  §  9  leguntur  Eevoqptùv  bè  —  è-rro- 
peueio  TÌTTep  01  tòv  fixeuóva  è'xovT€(;. 

Cave  ne  credas  cum  Schenkelio  viro  doctissimo  nostrae 
sententiae  ea  repugnare  quae  ibidem  secuntur  eùoòuuTdTri 
ToT^  uTToZiuTiouq ;  nam  iumenta  alterum  post  alterum  etiam 
in  angustiis  satis  commode  progredì  posse  patet*,  quae 
ascensu  non  difficiles  sunt.  lam  vero  viis  accurate  distinctis 
etiam  Breitenbachii  conatum,  Zeitsch.  Gymn.,  1868,  p.  69 
seqq.  praeterire  possumus ,  qui  idem  duas  illas  vias  di- 
versas  esse  negavit. 

Reliquum  est,  ut  de  eq)0Ò0(;  quam  definire  nemo  conatus 
est,  pauca  exponamus.  In  tabulis  pictis  Voilbrechtius,  1.  e, 
p.  620  et  in  editione  sua ,  Rehdanzius  in  adnotationibus 
cTievriv  óòòv  et  è'cpoòov  secrevisse  videntur.  Languescit  tamen 
ista  sententia  silentio  Xenophontis  multo  magis  quam  aliis 
rebus  refutata;  nam  tale  trivium  ,  si  ilio  loco  vere  fuisset, 
Xenophon  facere  non  potuit,  quin  commemoraret.  Quid 
multa?  brevissime  dicam,  ecpoòov  aditum  esse,  quem  aievrì 
bhóc,  ad  illos,  o'ì  èm  Trj  qpavepa  óòiL  èKd9riVT0,  eis  dabat  qui 
aievriv  óbòv  fecerant. 

Novam  autem  difficultatem  praebet  ibid.  §  9.  Dicit  enim 
Xenophon  de  se  ipso:  ènopeueTO  f^Tiep  oi  tòv  x\^^\x.óva.  exov- 
Te<;  •  eOo&uuTaTri  -fàp  ^v  toTq  uttoZIutìok;  (cf.  i  ,  24) ,  quae 
eadem  res  2,§  lorepetitur  bisce  verbis  :  kkì  aùioi  i^èv  av  èiro- 
peuGricrav  fJTrep  01  dXXoi,  td  òè  unoW-fia   oùk  fìv  dXX)]  f|  tauTri 

'Rivista  Ji  filologia  ecc.,  X  26 


—  394  — 
èKPnvai.  Verbis  ,  quae  postremo  loco  descripsimus ,  etiam 
narrationis  contextus  prorsus  interrumpitur.  Xenophon 
enim  hostibus  in  clivo  viae  imminenti  inventis  timet,  ne 
milites  dimoverentur  àirò  tujv  àWuuv  'EWiivoiv  id  est  ab  re- 
liquis  Graecis,  quos  Cheirisophus  altera  via  secum  duxerat. 
Errare  patet ,  si  qui  hoc  loco  apud  Xenophontem  excusa- 
tionem  viae  exspectent,  Verbis  igitur  quibus  Xenophon  ti- 
morem  expressit,  ne  a  Cheirisopho  intercluderetur,  statim 
subiungenda  sunt  ea  quibus  Xenophon  narratur  milites 
cohortatus  esse ,  ne  se  admodum  animo  dimitterent ,  sed 
impetum  in  clivum  facerent.  Idque  suadet  etiam  particula 
è'v9a  òri,  unde  incipit  alterum  enuntiatum.  Quae  cum  ita 
sint  inclusis  iis  quae  interpolata  puto  atque  spuria  esse, 
locum  hoc  modo  scribo  (§  io):  TTopeuó|uevoi  b'  èvtuYXavoucri 
Xóqpuj  iiTièp  Tfì<;  óboO  KaieiXTiiuiaévuj  ijttò  tujv  TroXe^iuuv  ,  o\)<;  r\ 
ÓTTOKÓvpai  r\v  àvdYKri  r|  biaZieOxOai  òtto  tujv  aWujv  'EXXrivuJV. 
[Ktti  aÙTol  |uèv  av  èiropeuGiiaav  f^rrep  oi  àXXoi.  là  he  ÙTioZiuYia 
oÙK  iiv  aXXii  fi  TauTri  èKpfivai].  evGa  hi]  irapaKeXeuadiaevoi  àX- 
XriXoi<s  TtpocrpaXXoucyi  7Tpò<;  tòv  Xócpov  cet.  Schenckelio  autem 
teste  utor  ,  qui  praeclara  dlssertatione  1.  e,  p.  6i3  seqq., 
plurimis  exemplis  docet ,  quam  multis  locis  Xenopliontis 
scripta  interpolationibus  foedata  sint. 

Hoc  loco  Demosthenis  locum  sequi  volui  simili  modo  sa- 
nandum  ,  qui  legitur  prima  oratione  in  Philippum  habita 
§  20:  Kttì  Tpocpìiv  TauTì;)  TTopi(Jai  KeXeuuj*  è'cTTai  ò'  auTii  tic,  fi 
òuvajUK;  Ktti  TTÓcrri  Kal  rróGev  tiiv  Tpocpìiv  eHei  Kal  ttOlk;  toOt'  è9e- 
Xrjcrei  TTOieTv,  i^(b  cppdauj ,  Ka9'  eKacTTOv  toùtujv  òieHiùJV  x^J^Pi?- 
Habemus  igitur  hoc  loco  enumerationem  earum  rerum, 
quas  orator  clarissimus  infra  tractaturus  est.  Atque  primum 
quidem  interrogationi  eatai  ò'  auTr)  ti^  fi  òuva|Lii<;;  locus  re- 
spondet  qui  legitur  infra  inde  a  verbis  Eévou?  |uèv  \éfw, 
deinde  alteri  iróaii;  inde  a  Xéru)  bn  Toùq  rrdvTag  0'TpaTHJÓTa(; 
òicrxiXiou?.  De  duabus  denique  postremis  quaestionibus  agitur 


~  395  — 
inde  a  7TÓ9ev  bx]  toutok;  f)  ipocpfi  Tevricretai;  Quae  cum  ita 
sint,  non  intellegitur,  quid  sibi  verba  velint,  quae  partitioni 
supra  praemittuntur  xal  xpoqpfìv  lauiri  nopiaai  KeXeuuu  :  sunt 
enim  praeter  omnem  conexum  cum  iis  quae  secuntur.  Ne- 
quaquam  vero  coniungi  possunt  cum  verbis  antecedentibus. 
Postulat  enim  Demosthenes  superiore  oratione  òuvainiv,  r\ 
ir\c,  TTÓ\euj(;  ecTrai,  kccv  v}.xeic,  èva  kcxv  TrXeiouq  kcxv  tòv  òeTva  Kai 
óvTivoOv  xeipoTovricrriTe  arpairiTÒv,  toùtuj  Treicrerai  Kaì  aKoXou- 
Gncrei.  Cui  postulationi  subiungi  non  possunt  illa  verba, 
quae  sequi  iam  diximus  Kaì  xpocpriv  rauxii  Tropicrai  KeXeuuu 
cum  in  verbis  commemoratis  insit  non  ferenda  TrpóXrin/n; 
tertiae  particulae  divisionis  quae  sequitur.  Ergo  nihil  restat, 
quam  ut  illa  verba  Kal  xpoqpfìv  xauxri  Tropicrai  KeXeOuj  expun- 
gamus.  Est  enim  lemma ,  quod  librarius  quidem  in  mar- 
gine notavit  sive  ad  eum  locum,  quem  supra  descripsimus, 
sive  ad  §  22  iTÓOev  —  Y^vricrexai. 

In  transcursu  denique  commemoro  vix  sanum  esse  in 
§  2  1  xòv  aùxòv  xpÓTTOv.  Ut  enim  superiore  loco  Demosthenes 
voluit  axpaxiuOxa(;  xpóvov  xaKxòv  crxpaxeuo|Liévou(;  nulla  re  de 
bellandi  ratione  addita,  sic  puto  eum  etiam  infra  equites 
significasse  non  xòv  aùxòv  xpótrov  ,  sed  xòv  uùiòv  xpóvov 
(Txpaxeuojuévoug.  Sed  haec  hactenus  de  Demosthene. 


Ne  desint  christiani  inter  paganos,  nonnulla  de  ecclesia- 
sticis  graecis  scripsi,  quos  quod  viri  docti  qui  illius  aetatis 
res  gestas  conscripsere,  nimis  neglexerunt,  studiis  historicis 
detrimento  fuit  maximo. 

Et  vetus  quidem  est  controversia,  uter  prior  scripserit 
historiam  ecclesiasticam,  Socratcs  an  Sozomenus?  Uterque 
enim  eadem  tempora  enarravit,  praeterea  consentit  alter  cum 


—  396  — 
altero  non  modo  in  rebus  earumque  ordine,  sed  etiam  non 
paucis  locis  fere  verbo  tenus.  Valesius  doctissimus  ille  Gal- 
lorum  causidicLis,  ut  decebat  virum  a  Socictatc  Jesu  pro- 
fectum ,  credo,  inquit,  Socratem  Sozomeni  auctorem  fuisse, 
ncque  fìdem  suam  argumentis  comprobavit.  Prorsus  vero 
nihil  profuit  Holzhausenus,  qui  libellum  academico  praemio 
Georgiae  Augustae  ornatum  eumque  tamen  deterrimum 
edidit  qui  ne  dignus  quidem  est,  cuius  titulum  hoc  loco 
commem oremus^  voluit  autem  utrumquescriptorem  eundem 
fontem  adhibuisse.  Valesii  sententiam  denuo  nuper  exce- 
perunt  Gueldenpenning  (Theodosius  Magnus  imperator,  scri- 
pserunt  Gueldenpenning  et  Ifland  1878)  et  Sarrazinus  (de 
Theodoro  Lectore  in  commentt.  phil.  lenens,  1881,  p.  166) 
paulo  confidentius.  Sed  etiam  Gueldenpenning  vir  sane 
summae  industriae  id  tantum  demonstravit  scriptores  illos 
miro  modo  nonnullis  locis  inter  se  convenire.  Omnes  ef- 
fugit  Socr.,  I,  IO  et  Sozom.,  i,  22.  Quibus  locis  contro- 
versia tandem  diiudicatur  secundum  Valesium.  Socrates 
enim  postquam  1.  e.  narratiunculam  quandam  coUoquii 
inter  Constantinum  imperatorem  et  Acesium  episcopum 
commemoravit,  Toùtujv,  inquit,  ouie  ó  TTaiaqpiXou  Eùaépioq, 
ouTe  àWoc,  TE  è|uvri)Lióveucr€  TTiWTroTe'  ì^Oj  òè  irapà  àvòpòg  TiKOuCa 
otibajnujq  qjeuòo)aévou,  oc;  TtaXaióq  Te  rjv  (Jcpóòpa  Kal  dig  \axo- 
prjaaq  TÙ  Kaià  Trjv  0uvoòov  è'XeYev.  Exspectaveris  quidem 
apud  Sozomenum  rem  praetermitti.  Immo  vero,  etiam  apud 
Sozomenum  legitur  neque  is  verborum  convenientia  caret. 
*  Eccum  qucm  quaeris  '  fraudulentum  homunculum. 

Hoc  quod  sequitur  satis  luculentum  omnibus  excmplum 
numeralium  corruptionis  esse  duxi.  Hausit  enim  non  pauca 
Sozomenus  ex  Philostorgio ,  cuius  membra  quod  misere 
tantum  mutilata  nunc  habemus,  valde  dolemus.  Locus  au- 
tem de  Joviani  morte  apud  Philostorgium  frgm.  Vili,  8, 
legitur  hic  :  aòròq  òè  lueià  toù?   ùiroXeicpeévTa?   KaiaXa/apavei 


—  397  — 
là  Attòdciava  "  è'v  rivi  òè  Karakvaac,  araGiua)  Kai  ipocpiìc;  |Lie- 
TttCTxùJV  èv  oiKi'iiuaTi  xivi  àpii  KeKOVia)oiévuj  KaiaKXiveTai  7xpò<; 
UTTVOV.  TTupòq  ò' àva(p0évTO(; ,  ùjate  àXéav  èYYevéaBai  tuj  oìkii- 
\xan.  VOTI!;  |aèv  tuìjv  veocTxpi^JTuuv  toixujv  óvcòiòoto'  iìpé|ua  òè 
olà  tOùv  pivujv  napaòuojuévii  Kal  toù<;  àvarrvuaTiKÒuc;  rrópouq 
eTTicppdTTOucJa  Kal  àTTorrviToucra  òiaqpGeipei  tòv  pacfiXéa. 

Sozom.  VI.  6,  de  eadem  re  scripsit:  èHaTTivri(;  èv  Aabaard- 
voi<;  x^PiMJ  Tiii;  BiBuviac;  KaG'  óòòv  èTeXeùiricFev  •  ìì  àcpeiòécnepov 
ùj<;  Tive<;  XéYOuO"i,  òei7TViiaa(;  ìì  uttò  tìì^  òò)ufi<;  toO  oÌKrijLiaToq 
èv  li)  eKdeeuòev,  dapéatLU  TTpocyqpdTUJig  èTXPi(J9évT0(;"  è7TiYevé(J9ai 
Yàp  ÌKjLidòa  Kal  voTiaGfìvai  xoùq  toixou?  a|uéTpuu(;,  ttoXXujv  dv- 
GpdKujv  aÒTÓGi  Kaio)aévuiv,  uji;  èv  ujpa  xeiM^Jvocg  bià  Tr|v  dXéav. 

Qui  scriptorum  consensus  multo  magis  cognoscitur ,  si 
comparatur  Marcellini  locus  xxv,  io,  12,  qui  non  prorsus 
cum  illis  convenir:  'cum  enim  venisset  Dadastanam,.  qui 
locus  Bithyniam  distinguit  et  Galatas,  exanimatus  inventus 
est  nocte.  super  cuius  obitu  dubietates  emersere  complures. 
fertur  enim  recenti  calce  cubiculi  illiti  ferre  odorem  no- 
xium  nequivisse,  vel  extaberato  capite  perisse  succensione 
prunarum  immensa  aut  certe  ex  colluvione  ciborum  avida 
cruditate  distentus'.  (Cf.  Aur.  Vict.,  ep.  e.  44  cruditate  sto- 
machi, tectorio  novi  operis  gravatus  repente  interiit). 

At  summa  tamen  differentia  inter  Philostorgium  et  So- 
zomenum  eodem  loco  intercedit,  ut  primo  obtutu  compa- 
ratio,  quam  fecimus,  irrita  videatur.  Subiungit  enim  Phì- 
lostorgius  òiavuaavxa  èv  irì  paaiXeia  jufìvaq  èYYÙ<;  òÉKa ,  cum 
Sozomenus  loco,  quem  descripsimus,  praemittit  ò  òè  'lopiavò(; 
d)aq)l  ÒKTib  jufìvaq  èv  paffiXeia  òiaYevó)Lievo(g  (scil.  èreXeuTtìaev). 
Locus  Philostorgii  autem  corruptus  est,  quae  corruptio  de 
itacismo  qui  vocatur  posteriorum  Graecorum  a  nobis  de- 
ducitur.  Signa  enim  numeralium  i'  et  ri'  sunt,  quae  eodem 
modo  illis  temporibus  pronuntiata  et  audita  a  quodam  li- 
brario inter  se  oculis  quoque  commutata  sunt.  Gf.  de  men- 


—  398  — 

sium  numero   Zosim.,  Ili,  35,  yi?\\ac,  \xkv  òktuu  paaiXeuaavii 

(se.  mors  venit)  et  Eutr.,  X,  18,  minus  accurate  '  decessit 

imperii    mense    septixno  \    Et    quoniam    Zosimi    est    facta 

mentio ,  qui    Eunapium  descripsit  cum  aliis  locis  ,  tum  eo 

loco ,  quem   commemoravimus ,  etiam    panca    dicemus   de 

Philostorgio  qui  Eunapium  legisse  videatur.  fuit  enim  con- 

stans  ususecclesiasticis  graecis  paganorum  historias  eorumque 

etiam  pervicacissimorum  legendi ,  quam  rem    cum   Rosen- 

steinius  accurate  demonstravit  de  nono  Sozomeni  libro,  tum 

ego  demonstrabo  opuscolo    peculiari  paulo  post  in  aedibus 

B.  G.  Teubneri   proferendo.  Sed    si   accurate    quaerimus  , 

cur  etiam  Philostorgium    putaverimus    in    rebus   profanis , 

quae  dicuntur,  scribendis  hausisse  ex  Eunapio,  causam  re- 

periemus  verissimam:  quod  Theodosii  Magni   ingenium  et 

natufam   aeque    condemnavit,  ac  Zosimus  fecit  seu  potius 

Eunapius ,  cuius  verba    ipsius    nonnulla  ea  de  re  facta    in 

Suidae  lexico  conservata  sunt.  Cf.  Mueller,  Fì'g.  hist.  g-7\^ 

IV,  p.  36,  49.  Dicit  autem  is  qui  excerpta   ex  Philostorgio 

confecit  :  laOia  Xéf wv  ó  bucfcrepriq  -rrepl  toO  eiiaepeffraTou  0eo- 

boaiou    oÙK    aìffx^veTai  KuuiaLUÒeiv    aùiòv  iit"  òiKpacria    piou  xaì 

ipucpiì»;  àiieipia,  hi  tìv  aùiòv  aXoivai  Ypdqpei  Kal  tuj  toO  iiòépou 

vocri'maTi.  Ad  quem  locum  velini  lectores  conferant  praeter 

ea  quae  Muellerus,   1.  e,  commemoravit,  Zosim.,  IV,  5o, 

qui    de   Theodosio  dixit:  qjucrei  Tàp  u)V  èKjieXfiq,  paGujaia  re 

Ttdai]   èKKeiiaevo?  et  paulo  inferius    mQiaTapievoc,   de,  àvÓYKriv 

craXeueiv  Kaid  ti  là  KaGecTToiia  TTpoaòoKUJ|Liévìiv   àTtexieeTO    |Lièv 

Tfiv  pa8u)aiav  Kaì  tri  Tpucprj   x«ipeiv  eÌTTUJV  cet.    Cf.    Guelden- 

penning,  Ifland,  1.  e,  p.  ■236(de  veritate  eius  iudicii).  Frustra 

Sudhausius  contendit,  ut  ea  similitudo,  quae  Inter  Ammia- 

num  et  Zosimum  (i.  e.  Eunapium)  intercederet,  inde  orta 

csset,  quod   uterque  eorum   Oribasium  medicum  illum  lu- 

liani  praeclarissimum,    qui   sibi   in  bello  Parthico  ùttoiìvii- 

laaia  notaverat,  excripsisset.  Iure  enim  Th.  Opitz  (Ritschl., 


-  399  - 
Act.  II,  p.  260,  adn.  83):  '■Ei,inquit,  sententiae  hoc  obstat, 
quod  Ammiano  et  Zosimo  etiam  de  rebus  ceterorum  prin- 
cipum  convenir ,  Oribasii  autem  ùiróiuvnMa  res  unius  lu- 
liani  compleAum  esse  videtur'.  Ergo  ad  Martini  sententiam 
revertamur  necesse  est,  qui  multis  locis  Eunapium  Am- 
miani  vestigiis  insistere  recte  iudicavit.  Quae  cum  ita  sint, 
non  mirum  est,  quod  quibus  locis  Sozomenus  plus  habet 
quam  auctor  suus  Socrates  ecclesiasticus  cum  Ammiano 
saepius  consentit.  Ncque  enim  dubito,  quin  id  plerumque 
factum  sit  eo,  quod  Sozomenus  Philostorgium  legerit,  qui 
Eunapio  usus  est.  Quomodo  diiudicandum  sit  de  praeclaris 
illis  ecclesiasticorum  locis  qui  ad  Ulphilam  episcopum  per- 
tinent  Maroldius  Fridericiani  collegii  'Gothicus'  peculiari 
libro  iam  est  explicaturus. 


Sed  restant  alia,  quae  ad  Latinos  scriptores  pertinent. 

Et  primum  quidem  locus  Ciceronianus  a  me  tractabitur, 
qui  legitur  in  oratione  de  imperio  Cn.  Pompei,  §  18.  Quo 
loco  nunc  ex  Mommseni  auctoritate  apud  Kayserum  'etenim 
illud  parvi  refert,  nos  republica  bis  amissis  [vectigalia]  po- 
stea  Victoria  recuperare'.  Quamquam  in  Mss.  traditur  *nos 
publicanis  amissis  vectigalia  postea  Victoria  recuperare'. 
Quae  verba  ut  rectam  sententiam  efficiant,  tantum  abest, 
ut  ne  verti  quidem  possint.  Quid  hoc  loco  Cicero  sibi  vo- 
luerit,  si  quid  video,  non  potest  dubium  esse.  Dixit  enim, 
si  ea  quae  res  publica  ex  Asia  cotannis  in  publicum  usum 
accepisset,  perdidisset,  postea  Mithridate  vieto  recuperasset, 
tamen  facultates  eorum,  qui  in  Asia  pecunias  magnas  con- 
locatas  habuissent,  non  restitui,  cum  eorum  fides  et  pecunia 
semel    periisset.    Quare    gravioribus    mutationibus ,    quas 


—  400- 
praeter  Mommsenum  alii  conati  sunt,  non  opus  est,  sed 
scribendum  est,  lenissima  litterarum  mutatione  'etenim  illud 
parvi  refert,  nos  publicis  agris  amissis  vectigalia  postea 
Victoria  recuperare'.  Sententia,  quae  desideratur,  eo  modo 
efficitur.  lam  enim,  inquit  Cicero,  parvi  refert,  nobis  qui 
rempublicam  representant,  publicis  agris  primum  bello 
amissis,  sed  postea  Victoria  recuperatis  vectigalia,  quae  c.\ 
illis  agris  in  aerarium  confluunt,  denuo  comparari,  nam  eo 
modo  nequaquam  restituuntur  privatorum  et  maxime  quidem 
publicanorum  res  semel  amissae.  Sic  igitur  probatur  id 
quod  praecedit:  humanitatis  futurum  esse  populi  magnum 
numerum  civium,  qui  in  Asia  provincia  pecunias  coUoca- 
verant,  a  republica  non  seiunctum  putare.  Tévecri?  quae 
vocatur  corruptelae  quamvis  antiquae  facillime  cognosci  po- 
testi scriptum  olimerat,  ut  fitetiamin  inscriptionibus,  PVBL. 
AGRIS  vel  PVBL.  AGR.  quod  compendium  posterioris 
aetatis  librarius  non  perspexit  ut  prò  uno  vocabulo  legeret 
et  in  PVBLICANIS  corrumperet.  Potuit  quoque  fieri,  ut 
vitium  evaderei  ex  'publicis  agris'  minusculis  litteris  exarato 
sillaba  'is'  postquam  casu  quodam  vel  librarli  temeritate 
omissa  est,  duabus  voculis  in  unum  contractis. 

Nuper  legi  secundi  Titi  Livi  e.  3o  'Multis,  ut  erat,  hor- 
rida  et  atrox  videbatur  Appi  sententia*,  rursus  Vergini 
Larciique  exemplo  haud  salubres,  utique  Larcii  putabant 
sententiam,  quae  totam  fìdem  tolleret'.  Quem  locum  inter- 
polatum  esse  viderunt  onines  fere  qui  Livium  ediderunt. 
Sunt  enim  qui  verba  'putabant  sententiam'  a  contextu  pu- 
tent  esse  removenda,  ut  quamvis  Vergini  Larciique  sen- 
tentiae  haud  salubres  fuerint,  tam  noxia  Larcii  sententia 
videatur  fuisse,  quae  totam  fidem  toUeret.  Sunt  quidem 
quoque  qui  nuUam  censeant  in  hoc"  loco  inesse  corruptionem, 
sed  interpretandum  esse  :  quamquam  Vergini  Larciique 
exemplo  haud  salubres  videbantur  sententiae,  tamen   Larci 


—  401  — 
sententiam  talem  esse  putabant,  ut  totam  tìdem  tolleret. 
At  in  utraque  earum  lectionum  duplex  illa  Larcii  nominis 
repetitio  maxime  offendit,  cum  primo  loco  "haud  salubris' 
eius  sententia  nominetur,  altero  autem  multo  gravius  'quae 
totam  fidem  tolleret'.  Id  ferri  nequit,  cum  praesertim  Appi 
Vergini  Larci  sententias,  sicut  singulae  antea  enumeratae 
sunt,  ita  hoc  capite  singulas  a  scriptore  recensitas  esse  con- 
textus  facile  doceat.  Quae  cum  ita  sint,  non  dubito  uncis 
includere  'Larciique'  et  'salubres'  mutare  in  'salubris',  ut 
illa  quam  deesse  supra  diximus,  sententiarum  distinctio  ef- 
ficiatur.  Sed  ne  sic  quidem  locus  sanatur,  sive  priorem 
quam  commemoravimus  rationem  interpretandi  sequimur, 
sive  alteram-,  nam  cum  scriptor  dicat  Larcii  sententiam, 
quae  totam  fidem  tolleret,  omnino  non  potuisse  accipi,  ita  ut 
patres  eam  prorsus  statim  reicerent,  vocabulum  desideratur, 
quod  'multis'  respondeat  et  'omnes'  significet.  Si  tale  quid 
deesset,  locus  de  ea  sententia  defiecteret,  quam  Livium 
exprimere  voluisse  patet  :  nemini  Larci  propositum  pla- 
cuisse.  Ex  'multis'  enim  ad  ea  quae  secuntur,  nihil  liceret 
supplere,  nisi  iterum  "multi',  quae  res  eo  non  mutatur,  quod 
'utique'  particula  addita  est.  Ergo  in  'utique'  latere  puto 
'cunctique'  saepissime  compendio  'cùctique'  in  Mss.  exa- 
ratum  et  prò  'putabant'  scribendum  esse  'repudiabant',  quod 
ante  me  etiam  ab  altero  quodam  scriptum  nuper  vidi.  Id 
autem  rectissime  factum  esse  propterea  prò  certo  habeo, 
quod  verba  'utique  Larcii  putabant  sententiam,  quae  totam 
fidem  tolleret'  prorsus  a  latinitatis  usu  abhorrere  videtur. 
Restat,  ut  locum  qualis  a  melegitur,  infra  describam  :  'Multis, 
ut  erat,  horrida  et  atrox  videbatur  Appi  sententia  -,  rursus 
Vergini  exemplo  haud  salubris,  cunctique  Larcii  repudia- 
bant  sententiam,  quae  totam  fidem  tolleret'. 

Legenti  mihi  deinde  permirum  videbatur,  quod   editores 
initium  capitis  XL  eiusdem  libri    silentio    praeterierunt    vel 


-  402  - 

pauca  modo  dixerunt,  quae  interpretationem  parum  adiu- 
vabant.  Nunc  enim  legitur  ille  locus  hoc  modo:  *tum  ma- 
tronae  ad  Veturiam  matrem  Coriolani  Volumniamque 
uxorem  frequentes  coeunt,  id  publicum  consilium  an  mu- 
liebris  timor  fuerit,  parum  invenio'.  Quid  ?  num  putemus 
Livium  frequentem  matronarum  convemum  dixisse  'esse' 
publicum  consilium  vel  timorem  muliebrem?  Id  fieri  po- 
tuisse  omnino  negamus  ;  nam  tantum  abest,  ut  ille  con- 
ventus  consilium  vel  timor  quidam  *sit',  ut  Consilio  vel  ti- 
more quodam  'efficiatur'.  Quare  iam  ne  caecum  quidem 
loci  corruptela,  ubi  sit,  effugerit.  Latet  enim  in  'fuerit'  prò 
quo  scribendum  est  'fecerit',  ut  loci  postrema  particula  sic 
egartur  'id  publicum  consilium  an  muliebris  timor  fecerit, 
parum  invenio'.  Sana  ilio  modo  evadit  sententia  :  Livium 
apud  scriptores  quos  adhibuit,  non  invenisse,  utrum  illum 
Romanarum  matronarum  conventum  effecisset  reipublicae 
consilium  an  timor  mulierum. 

Regimonti,  mense  decembri  1881. 

LuDoviCLS  Jeep. 


—  403  — 


AD  EURIPID.  HERC,  190 


Amfitrione,  ad  onore  e  gloria  di  Herakles,  vuol  dimostrare 
a  Lieo  quanto  meno  di  un  TolÓTr\c,  valga  un  Ó7t\ÌTr|(;  : 

àviip  ótt\ìtit<;  òoO\ó<;  èaii  tuùv  ottXuuv  190 

Kaì  ToTai  auvTax6£i(7iv  oucTi  ixx]  aTaGoiq 
aÙTÒi;  TÉGvnKe  òeiXia  ir)  tujv  TreXai;, 
epaùaaig  Te  Xóyxhv  oùk  è'xei  tlu  auujaaTi 
0àvaTOv  à|nuvai,  juiav  exujv  àXKfjv  |uóvov. 

Che  il  luogo  sia  corrotto  mi  pare  lo  abbia  dimostrato  il 
GoMPERz,  Beitrdgc  ;.  Kì'it.  u.  ErkL,  2,  20  [767],  alle  cui 
parole  non  posso  né  aggiunger  nulla  ne  togliere.  Ma  ardisco 
separarmi  da  lui  quando  egli  afferma  che  Euripide  abbia 
dovuto  scrivere  invece  : 

àviìp  Ó7TXiTri(;  òoOXóq  ècrii  tuùv  ottXuuv 
Ktti    TctEeoiv    Taxtìei(g    èv    ouai  ktc. 

Credo  fermamente  che  si  debba  emendare  in  questo  senso, 
ma  credo  anche  che  Euripide  non  abbia  scritto  un  trimetro 
così  cattivo  come  è  questo  che  il  Gomperz  si  è  veduto  co- 
stretto a  prestargli.   E  se  si  vorrà  pensare  anche   alla    vio- 


—  404  — 
lenza  dei  rimedii  adoperati  dal  Gomperz,  non  potremo  es- 
sere soddisfatti  neppure  del  palliativo  ritmico  Tax6eii;  t  èv 
oijtfi,  proposto  non  ha  guari  dal  Mekler  nei  Wiener  Stu- 
dien,  III,  i,p.  41  sg.  Ne  d'altra  parte  vorrò  contentarmi 
della  trasposizione  ammessa  dal  Wilamowitz  (v.  190,  193- 
194,  191 -192),  perchè  essa  richiede  anche  la  mutazione 
del  Kttl  in  Kdv  (così  già  Dobree  prima  del  Kirchhoff),  e 
dopo  tutto  attribuisce  una  pesante  ed  impacciata  TtapaiaSi? 
appunto  a  quel  disinvolto  poeta  che  sa  ridurre  a  cruvxaEi^ 
vivace  persino  le  più  noiose  enumerazioni. 

La  correzione  vera  è,  se  non  m'inganno,  la  semplice  so- 
stituzione di  una  costruzione  più  rara  alla  volgarissima  di 
Òo0\o(;  con  genitivo  : 

àviip  ÓTTXiiriq  òoOXó<;  ècrri    toTc^    ottXok; 
Kal  ToicTi  cTuvTaxOeìcTiv  oucTi  lafi  aYaGotq  • 
amòq  xéGvriKe  Kté. 

Cf.  EuR.,  Tro.,  25o(cfr.  iS5):fi  toì  AaKeòai|uovia  vuficpa  òou- 
Xav;  loji.,  1  3o:  kX€ivÒ(;  ò'ó  ttóvo?  jioi  Oeciffiv  òouXav  xép'  ex^iv. 
Kruger,  48,  i3,  6.  KiiHNER  IP,  §  423,  i5.  E  vero  che  in 
espressioni  analoghe  a  quella  di  cui  abbiamo  parlato,  Euri- 
pide, per  quanto  so,  adopera  sempre  il  genitivo,  ma  in  tesi 
generale  nulla  mi  sembra  dovrebbe  avergli  vietato  di  usare, 
p,  es.,  tanto  del  suo  YvaBou  òoOXoq  (Fr.  284,  5  Nk.),  quanto 
anche  di  un  faajpx  òoOXoi;,  come  pure  dovrebbe  aver  scritto 
DiODORO  DI  Sicilia,  8,  18,  i  Dind.  (ed.  Lips.  II,  p.  i33), 
per  cui  V.  CoBET,  Collectanea  Critica^  p.  238. 

Firenze,  dicembre,  1881. 

GlROL.\MO    ^'ITELLI. 


—  405  — 


'ArAOArrEAOi 


Wer  schafft  aber   von  Florenz  die  kol- 
lation  des  griechischen  textes  ? 

Lag  ARDE  (G.  Ab.,  43). 


Di  quella  storia  di  re  Tiridate  e  di  san  Gregorio  che  corre  sotto 
il  nome  di  Agatangelo  noi  abbiamo  il  testo  armeno  e  un'antica  ver- 
sione in  greco.  L'armeno  fu  stampato  a  Costantinopoli  (1709-1824), 
poi,  sulla  scorta  di  sette  codici,  a  Venezia  nel  i835,  e  nel  1862  fu 
tradotto  da'  Mechitariani,  e  anche  esso,  come  il  corenese,  con  ele- 
ganza rifatto  da  Niccolò  Tommaseo;  di  nuovo,  per  salti  (i),  lo  mise 
in  francese  Vittorio  Langlois,  aprendo  qua  e  là  un  occhio  sul  testo, 
tutti  e  due  spalancandoli  sull'italiano,  guida  che  non  si  volle  appiat- 
tare (2).  Il  greco  diede  fuori  la  prima  volta  Giovanni  Stilting,  con 
versione  latina  e  buone  annotazioni,  negli  Atti  de'  Bollandisti  (3)  ;  e 
lo  trasse  da  un  codice  laurenziano,  forse  l' unico,  sopra  una  copia 
procurata  a'  suoi  colleghi  dal  P.  Daniele  Papebroch  ;  finalmente  gran 
parte  ne  ristampò  per  quei  luoghi  che  rispondevano  a'  capitoli  ar- 
meni che  egli  aveva  prescelti,  il  Langlois.  Dolevasi  lo  Stilting,  critico 
avveduto,  di  non  avere  che  una  copia  riboccante  di  errori  di  quella 
istoria  ;  istoria  che  il  Papebroch  Florentiae  cum  Henschenio  excri- 
bendam  curavit  non  propria  manti  {4)  excripsit,  excriptamve  cum  co- 


X;  Ne  dà  ragione  il  Langlois  nel  suolibro  (I,  102);  ma  al  Gdtschmid 
non  parevano  salti  fatti  con  prudenza  [ZMG.,  31,  1,  nota), 

(2)  Collection   des    historiens    anciens    et   modernes   de    V  Armenie, 
Paris,  1867.  I,  99-194.  Ne  uscirono  due  volumi. 

(3)  Acta  sanctorum,  sept.  voi.,  Vili,  320-402. 

(4)  Non  va   dunque    detto,  col    Langlois  ,  copie  par    le   P.  Papebrock 
{Coli.  I,  201). 


—  406  — 
dice  contulit  :  sed  iitrumqiie  factum,  continua  lo  Stilting,  marni  inihi 
ignota  magisqiie  festinanter  qiiam  diligenter,  nisi  multa  in  codice  sint 
menda  (p.   3o6). 

Al  Langlois  venne  in  soccorso  un  valoroso  grecista,  nel  correggere 
gli  antichi  testi  esercitatissimo,  Francesco  DUbner;  il  quale  non  solo 
a  suo  luogo  ripose  parecchi  accenti  sviatisi  nella  stampa  Stiltingiana, 
ma  spesso  propose  emendazioni  e  accettò  quelle  del  predecessore  ; 
COSI  che  nella  Collection,  per  quelle  buone' lezioni  che  ti  vengono  in- 
nanzi, fra  parentesi,  non  sapresti,  senza  altri  riscontri,  a  quale  dei 
due  critici  spetti  il  merito  e  la  lode  (i). 

Il  greco,  in  que'  capi  ne'  quali  Gregorio  l'Illuminatore  dà  prin- 
cipio alla  lunga  predica,  non  credè  opportuno  di  intrattenerne  i  let- 
tori; come  altrove,  di  suo,  accorcia  o  n'esce  con  un  xai  tu  Xomd 
(part.  57)  ;  non  ci  resta  dunque  di  quella  santa  istruzione  che  il  testo 
armeno  (2),  non  tradotto  da'  Mechitariani  ,  dal  Langlois,  da  nes- 
suno (3j.  E  a  questo  luogo  sarà  acconcio  il  rammentare  una  scrittura 
di  armeno  che,  sulle  dottrine  del  grande  convertitore  del  suo  paese, 
ci  parla  a  lungo,  e  promette  darci  una  versione  di  tutta  la  catechesi, 
utile  di  certo  alla  istoria  dei  dommi  e  alle  vecchie,  non  sopite,  di- 
spute de'  Monofisiti.  Il  libro  al  quale  rimando    è  questo  :   Agathan- 


(1)  Avverte  il  Langlois  [Coli.  I,  vai)  dovere  esser  grato  al  signor 
Dubner  che  s'est  obligeamment  chargé  de  revoir  les  textes  r/recs  et  d'y 
apporter  toutes  les  améliorations  qu'on  est  en  droit  d'' attendre  d'  un 
critique  aussi  éclairé.  —  A  riprova  delle  mie  parole  citerò  qualche  passo. 
Nel  par.  1  xà  èv  TTcXàYecfiv  è  corretto  dal  Dubner  in  toXc,  è.  ir.;  lo  stesso 
aveva  già  fatto  lo  Stilting,  e  anzi  il  primo  amanuense  che  copiò  il  lau- 
renziano.  —  Del  Dubner  è  il  auYYpóqpaiv  iTÓ\e|uov  ;,  accettato  anche  dal 
GuTSCHMiD  [ZMG.,  pag.  4).  —  Di  tutti  e  due,  nel  par.  2,  il  TTdp9oi  e 
r  'ApoaKiòuJv ,  non  contando  che  Io  St.,  per  errore  di  stampa ,  ci  dà 
TTdpToi,  e,  con  peggiore  accento,  'ApaoKiòiuv.  —  Solo  del  Dubner  è  il 
Zaaavibai,  nel  par.  3,  ove  il  codice  scorrettamente  legge  ZaoaiaiKav. 

(2)  Nella  edizione  del  1862  da  pag.   194  a  pag.  539. 

(3)  La  predica  cadrebbe  nel  par.  106,  tra  le  parole  ó\o6u|uiuc;  àKoiioare 
e  quelle  altre  òeOxe  ouv  àòeXqpoi.  II  laureuziano  l'avrebbe  alle  carte  81  : 
unico  segno  della  lacuna  è  questo  che  ,  nel  manoscritto,  il  òeOxe  oOv  è 
a  capo  della  riga,  ed  è  scritto  con  A  maiuscolo,  che  non  è  l'uso  del- 
l'amanuense. 

Anche  il  s.  L.4.uer  traducendo  dall'armeno  Fausto  da  Bisanzio  Ge- 
schichte  Armeniens  ,  Kòln,  1879)  ommette  un  discorso  dommatico  che 
crede  di  poca  importanza  'p.  IV). 


—  407  — 
gelos  et  la  doctrine  de   V  église  arménienne  au  F*"  siècie  :  thèse  prés. 
à  la  fac.  de  tliéol.  de  l'église  libre  du  cantati  de  Vaud   par    Garabed 
Thoumaian  (i),  Lausanne,  1879. 

Intorno  alle  fonti,  dalle  quali  attinse  il  narratore  armeno,  scrisse 
con  quella  erudizione  e  quell'acume  e  quella  sobrietà  che  tutti  cono- 
scono, il  prof.  Alfredo  v.  Gutschmid  in  una  dissertazione  che  ebbe 
posto  nel  giornale  degli  orientalisti  di  Germania  (2),  tradotta  in  parte 
nell'armeno,  con  qualche  nota  del  volgarizzatore,  nel  Bapnavep  (3). 
Qui  il  critico  (4)  spartisce  le  vecchie  storie,  delle  quali  crede  pro- 
babile sia  composto  il  racconto,  in  tre;  senza  contare  i  luoghi  tolti 
a  Koriun.  Le  tre  sorgive  sarebbero:  una  vita  di  san  Gregorio,  di  un 
tarònese  (p.  33)  ;  gli  Atti  del  santo  e  delle  sante  Rhipsime  ,  libro 
greco  (p.  35-36),  rifatto  da  un  prete  armeno  del  Valarsciapatiano 
(p.  39),  e  qui  si  frappone  anche  la  Dottrina  (p.  'ì-j]  ;  finalmente  l'Apo- 
calisse dell'Illuminatore,  di  un  altro  sacerdote  di  Valarsciapate,  verso 
il  462  (p.  42).  Dell'ultimo  riordinatore  sono  il  prologo  e  la  chiusa 
(p.  44). 

Nessuno  giurerebbe  che  ogni  frammento  fosse  parte  proprio  di 
questo  o  di  quel  libro  ;  nuove  ricerche ,  nuovi  ricercatori  possono 
trattenerci  o  spingerci  piìi  in  là  ;  ma  che  l'opera  non  uscisse  di  getto 
parrà  certo  supposizione  ragionevole  a  chi  la  studi  minutamente.  Gior 
vera  anche  paragonare  quello  che  dice  su  queste  origini  e  le  obie- 
zioni che  fa  il  Thoumaian,  meno  pieghevole  de'  critici  non  armeni 
a  disossare  l'antico  libro. 


(1)  Karapet  0  Garabed,  secondo  la  pronuncia  degli  armeni  di  po- 
nente, è  di  que'  nomi  che  confondono;  è  veramente-  il  Precursore,  il  TTpó- 
òpo|LiO(;  de'  Greci,  non  più  usato,  che  io  sappia,  come  nome  di  battesimo. 
Anche  gli  ebrei  spesso,  guidati  dall'orecchio,  traducono  i  nomi  nostri  con 
altri  che  pare  assomiglino  tra  quelli  del  V,  T.;  gli  armeni,  trovando 
affinità  con  Carolus,  cambiarono  spesso  il  Karapet  in  Carlo,  benché  a 
questo  risponda  nell'uso  degli  scrittori  il  Karolos. 

(2)  ZMG.,  1877.  XXXI,    1-60. 

(3)  Nell'annata  del  1878  (pag.  297-304)  e  in  quella  del  1879  (pag.  10- 
16,  97-101).  Ma  la  traduzione  non  va  più  in  là  della  pagina  20  del  testo 
tedesco,  e  chiude  con  le  parole  unterwiesen  habe. 

(4  Poiché  si  tratta  di  erudito  così  sagace  ed  accurato,  avvertirò  che, 
facendo  dire  ai  mechitariani  i  luoghi  citati  dalla  Bibbia  in  Agatangelo, 
essere  gam  conform  alla  versione  della  chiesa,  andò  troppo  in  là.  Af- 
fermavano solo  che  sono  inolio  conformi,  e  per  la  storia  del  libro  non 
va  trascurato. 


—  408  — 

Quello  che  oggi  mi  propongo  è  cosa  di  poco  momento.  Mi  pre- 
meva riconoscere  quali  aiuti  avrebbe  un  nuovo  editore  del  greco  da 
una  diligente  revisione  del  laurenziano  :  se  lo  Slilting  e  il  Dlibner 
avevano  sempre  corretto  il  codice  antico  o  solo  le  negligenze  della 
copia  venuta  in  mano  de'  Bollandisti  :  se,  tìnalmente,  tutti  gli  argo- 
menti che  il  prof.  Gutschmid  traeva  dalle  parole  del  greco  reggevano 
davvero,  o  se  non  aveva  a  sparire  d'  un  tratto  o  a  disdirsi  il  testi- 
monio invocato.  È  strano  poi  che  il  Langlois  preposto  a  così  utile 
impresa,  come  era  quella  di  raccogliere  le  istorie  d'Armenia,  abbia 
schivata  la  piccola  briga;  e  non  la  schiverò  io  che,  per  favore  del 
signor  ministro  ,  e  per  la  cortesia  del  dott.  Anziani  bibliotecario, 
posso  con  mio  agio  consultare  il  codice  laurenziano  qui  in  Pisa,  e 
posso  dire,  a  chi  ne  abbia  la  curiositù,  due  parole. 

Il  codice  (plut.  VII,  cod.  25)  (i)  è  del  secolo  XII  ,  in  quarto  pic- 
colo ,  in  pergamena;  è  di  -buona  lettera,  e  se  togli  gli  scambi  delle 
vocali,  così  frequenti  ne'  testi  per  la  mutata  pronuncia  del  greco,  e 
non  ti  curi  di  qualche  accento  che  non  posa  sopra  il  suo  luogo,  è 
mediocremente  corretto  (2).  Di  altri  manoscritti  da  poter  riscontrare 
non  so  (3),  nò  potrei,  per  la  povertà  delle  nostre  librerie,  assicu- 
rarmene. 

La  prima  considerazione  vuole  esser  fatta  intorno  a'  luoghi  racconci 
dai  due  editori ,  e  l'amore  della  giustizia,  che  non  va  negato  nemmeno 


(1)  Per  isvista,  nel  Langlois,  è  VII,  27  {Coli.  I,  101). 

(2)  Di  troppa  correzione  non  potrebbe  vantarsi  un  galantuomo  che 
forse  fu  padrone  del  codice  0  credeva  poter  far  da  padrone  e  scrisse 
quattro  parole  alla  fine  della  Vita,  cioè  a  carte  135,  e  dicono  così  : 

«  Istud  Librus  non  intentet 
nullus  qmt  esset  Bonus 
Litteratus  nisi  non  esse  in 
Deus  et  debet  essere  si 
sicut  sanctus  pauolo  fuit  ». 

E  accanto,  con  molta  umiltà,  pone    il    suo  nome:  Bernardus    Fatuus. 
È  mano,  se  non  erro,  del  trecento. 

(3)  Il  Langlois  dice  il  laurenziano  le  plus  ancien  manuscrit  connu 
(I,  101).  Ripeto  che  non  so  dove  sieno  i  più  giovani;  se  però  il  francese 
non  avesse  nell'intenzione  di  dire  che  il  Codice  fiorentino  serba  la  più 
vecchia  redazione. 


—  409  — 
ai  poveri  amanuensi,  domanda  che,  dove  il  codice  legge  chiaro  come 
il  senso  la  grammatica  i  correttori  vorrebbero,  s'avverta.  Questo  farà, 
naturalmente,  chi  pensi  a  nuova  recensione  ;  ora  basti  qualche  ap- 
punto. L'  eùeuiuiai;  dello  Stilting  (par.  i)  è  felicemente  corretto  dal 
Dlibner  in  eùGriviat;;  ma  6ù0r|v{a(;  aveva  già  il  codice,  e  nel  codice 
stesso  sono  le  parole  ttpxovto  (per  rjpxóv  te,  par  7);  tòv  èiaauroO  [per 
errore  èjLiauxòv]  kóttov  (par.  23);  ó  yap  (anzi  che  ó  laév,  par.  9,  27); 
irpòt;  Ti'iv  TiiJv  GeuJv  (par.  58,  16).  E  così  altrove. 

Prendiamo  intanto  in  mano  la  Memoria  del  Gutschmid.  Fra  le  la- 
cune che  egli  avverte,  paragonando  il  greco  con  l'armeno,  sarebbero 
anche  le  parole  (par.  142,  2)  irpocpriTou  koì  PaTtTiaToO  'luudwou  Kal 
'AQevoyévouq  xoG  judpTupoq,  Kaì  cpQàaac,-..;  ma  il  codice  le  ha  tutte  alle 
carte  no  (cfr.  GuTSCHMm,  p.  3).  —  Trattandosi  di  lezione  dubbia, 
noterò  che  il  Dlibner,  al  par.  io,  ha  solo  lovàpov,  da  correggere  in 
KaZoudpou  ;  laddove,  così  i  Bollandisti  come  il  nostro  ms.  (f.  11), 
danno  Kaì  Zoudpou  (Gut.,  p,  8).  —  Altrove  (p.  n,  nota)  il  Gutschmid 
tocca  dello  OTriAIrai,  e  gli  piacerà  sapere  che  il  laurenziano  legge  al- 
trimenti ,  cioè  oiTr|XÌTac;  (f.  120),  voce  che  sarà  agevole  mutare  in 
0TTrj\a'iTa(;,  e  così  cascano  i  ragionamenti  che  posavano  sull'età  di  Si- 
meone. 

Un  luogo  principalmente  mi  tormentava  nelle  stampe,  e  fu  quello 
appunto  che  m' invogliò  a  consultare  il  laurenziano.  Solo  il  greco, 
come  accennavano  il  Langlois  (p.  ii5)ed  il  Gutschmid  (p.  3)  ha  nel 
capo  X"  àvaKàjJL^iac,  òè  è-ri'  'EpacreveTt;,  onde  le  note  sul  campus  araxemis- 
dello  Stilting  (p.  327)  e  del  francese;  ma  anche  qui  soffia  un  vento 
e  tutto  sparisce;  il  codice  ha  queste  parole,  óv.  òè  èrrépadev  el;  xriv 
lòiav  irarpiòa.  La  correzione  era  così  ovvia  che  non  se  ne  avvide 
nessuno  ! 

Ma  prima  di  attendere  a  quello  che  abbiamo  nel  codice,  discorrerò 
della  parte  che  manca,  ed  è  una  lacuna  tra  il  capo  Vili  ed  il  IX 
che  lo  Stilting  ed  il  Langlois  riempiono  con  la  versione  latina  di  un 
luogo  corrispondente  nella  vita  di  Gregorio  che  troviamo  tra  quelle 
di  Simeone  il  Metafraste.  Il  codice  in  fatti  ha  due  pagine  (9  B  e 
IO  A)  che  non  si  leggono  più;  la  raschiatura  è  tale  che  in  molti 
luoghi  è  sfaldata  la  pergamena,  e,  nelle  altre  parti,  delle  lettere  rimane 
appena  una  fuggevole  traccia.  Dalle  cose  raccontate  da  Simeone ,  se 
veramente  vi  rispondeva  la  narrazione  del  nostro  testo,  non  si  sco- 
prirebbe la  ragione  che  movesse  un  nuovo  lettore  a  cancellare  le 
liivista  di  filologia  ecc.,X.  27 


—  410  — 
tradizioni  de'  suoi  vecchi  ;  né  l'armeno  ci  può  aiutare  perchè  in  questo 
principio  va  solo,  per  la  sua  strada,  il  greco.  Forse  a  migliori  occhi 
riescirà  di  raccapezzare  i  periodi  compiuti  ;  io  non  leggo  che  parole 
staccate,  e  con  fatica  trovo  nella  prima  pagina  qualche  proposizione 
monca  e  da  non  contentare  che  i  curiosi.  Spesso  non  restano  che  gli 
accenti,  di  sotto  a'  quali  puoi  indovinare,  con  probabilità,  che  cosa 
intendesse  lo  scrittore. 

1.  'ApToPàvnv  'ApT[aai]pà(; 

2.  éauTuj 

3 

4 TÒ  aoO 

5.  Kai KÙpio^  ÒTTCtpxei 

6.  biòou  è|uoì  éKÙJv  TÒ  oréuua  qpopeì  .  .  . 

7.  Trpoobujpnao|uai  gou  xwpav  juiav  èv  fj 

8.  piuuaric;  KaXuJs"  |Lié,uvri<To  òè  tlDv  aOùv 
y.  /iiìiadTUJv    ì^viKU  eipr|Ka<;   tì]  ^aa\Xr\o- 

10.  ai}  ÙTTOpXéi^jat;  eìq  xoùq  bpóp.ovc,  tòjv  ai- 

11.  Tépuuv     év     èKeivr)     tq     l'Tiuépa    ii|ueì^ 

12.  àx[ouov]Tei;  òè  tò óp- 

13.  )ariaa|uev  èTriaTduev[oi]      .     .     .     |uèv 

14.  Ijuiiv  viKriv  ai'iv  he  àTTuuXeiav  x-'-  •  P^i 
lo.  eie,  To.  .  .  Gr|vai.  'ApTa^dvìr;  &è  TTpò;; 
16.  Toùc  à 

Il  òpóuou<;  al  V.  io  non  ho  potuto  mutarlo  perchè  le  lettere  sono 
assai  chiare;  facile  è  il  correggere  airépujv  in  éxépujv.  Per  ora  non  ho 
potuto  fare  nò  meglio  né  più. 

Vengo  ora  alle  lezioni;  scelgo  e  non  do  ogni  cosa;  vedremo  come 
spesso  megliora,  peggiora  qualche  volta,  il  testo  delle  stampe;  gio- 
veranno gli  appunti  o  a  chi  studia  il  greco  o  a  chi  ama  compararlo 
all'armeno.  Di  accenti  errati,  di  sgorbi  di  penna,  di  errori  manifesti, 
non  tocco  ;  e  perchè  non  tutti  hanno  alle  mani  i  Bollandisti ,  andrò 
per  ordine. citando  quo'  paragrafi  che  si  trovano  nella  edizione  Dii- 
bncriana;  serbo  gli  altri  alla  fine  (i). 


;i)  Cito  il  capo  e  le  righe,  poi  le  carte  (f)  del  manoscritto. 


-  411  — 
I,  i6,  de,  toioOto  ouv,  f.  4  |  3,  3,  Kara-{ó}Ji^vo<;,  e  3,  22,  KOTa-fóiaevoi, 
f.  4,  5  I  3,  20.  PaaiXiòa,  f.  5  |  4,  ig,  luexà  Tf]<i  oiKCiac;,  f.  6  |  4,  20,  eXeyev 
oÙTLue;'  ópaxo  Geia,  f.  6  |  7,  9,  toù<;  tu  òeivà  t:.,  f.  S  |  8,  8,  èv  òx^poi- 
TctTi;!,  f.  8  I  8,  i5.  Il  DLibner,  non  già  lo  Stilling ,  suppone  lacuna; 
non  così  lo  scrittore  del  codice.  Abbiamo  forse  a  leggere  :  TTépaai  te 
KOi  TTdp9oi,  f.  9  1  8,  22,  TidXiv  irpòc;  TTÓ\e);iov  eÙTpeirrie;.  Veramente  il 
cod.  ha  eÙTpeiTÓc  ;  il  Dijbner  eurpeTrToi;,  f.  9  |  8,  23,  lurivaK;,  f.  9  |  8, 
23,  TiapoxnowvTujv,  gli  editori;  è  oscura  la  lezione  nel  ms.  f.  9  |  9,  7. 
Luogo  dubbio.  11  cod.  f.  9,  Xoa..a  tuj  'A.  11  Gutschmid  ne  parla  in 
nota  alla  pagina  4  |  9,  i3,  èlé\(.\nev  ó  xpòvoc,,  f.  lO  |  9,  20,  avvevibaac, 
(non  0uvap,uu)aa<;),  f.  11  |  9,  3i,  per  djua  xe  ecpr)  proponeva  il  D'ubncr 
àveaxpdqiri,  e  infatti  il  cod.  legge  àvaaxpéqpei  f .  1 1  |  io,  10,  koì  ei^ 
óqpaviaiaòv  iiiexaBeivai  xàc;,  f.  11  |  11,  3,  Geujpi'iaavxec,  f.  12  |  11,  io,  xi^v 
TTepaÙJv  |  11,  io,  koì  xait;  tt.,  f.  12  |  11,  17,  ÒTToaxaXfivai,  f.  i3  |  i3,  2, 
TTdpGuuv,  non  TTepaiùv;  come  l'armeno,  f.  14  |  14,  16,  è-jTeòeiKvuxo,  f.  14 
I  i5,  21;  19,  21,  vouinevapxoi,  già  corretto  dal  Dubner  |  i5,  32,  ire- 
pieTTou'iaaxo,  f.  16  |  Nel  ms.  la  fine  del  capo  XV  è  congiunta  al  prin- 
cipio del  capo  XVI,  e  a  me  pare  assai  meglio  :  Kai  èyevexo  wc,  ^Kovae, 
f.  16  I  16,  i3,  xoO  xÓTTOu  èKàKei.  Forse  il  prototipo  aveva  xò  òvo|ua  x. 
X.  è,  f.  17  I  16,  9,  e  le  stampe  e  il  codice,  f.  16,  où  laiKpóxaxov  Tiai- 
òiov  :  ma  il  nome  che  precede  è  Kouodpuu,  scritto,  quanto  alle  finali, 
in  modo  spesso  oscuro  ;  credo  dunque  che  ou,  o  segno  che  assomi- 
gliava, appartenesse  a  quel  nome,  e  si  debba  leggere  lu.  x.  tt.  Cosi 
risponderebbe  meglio  all'armeno  (p.  42,  2)  che  vuole  appunto  mankik 
mi  phoqrik,  cioè  un  bimbo  piccino  |  17,  9,  tt.  ò.  éauxóv,  f.  17  |  17,  16, 
òiarpópouq  d'favaKxricren; ,  lezione  ottima,  f.  17  |  18,  12,  ùiroKXivavxec; 
(non  ÒTioK.),  f-  iS  I  18,  fine,  mancano  nelle  stampe  le  parole  del  co- 
dice: fjv  òè  Kai  Trjpriòàxri^  oùv  aùxoì^,  f.  18.  Allo  stesso  modo  dice 
l'armeno  (p.  45,  23)  |  20,  20,  q)paYeXuuaavx€c  ,  f.  19  |  20,  23,  xòv  xiùv 
r.,  f.  19  1  21,  17.  Forse  avanzo  di  migliore  lezione,  il  codice  ha 
questa:  ÈKKXriaiav  l'ìv  Xey,  f.  20  |  23,  6,  TrpoaeòÓKOUv,  f .  2  1  |  23,  i3.  Che 
mancasse  una  parola  si  accorse  lo  Stilting;  il  Dubner  suppose  oe- 
Póvxyjv.  Ecco  la  lezione  del  ms.:  xiiui^v  xuùv  òoEoXotoOvxuuv  èv  è.  x., 
f.  22  I  23,  27.  Le  stampe  oùx  i\  ^m  à\K' ovhevòc,  ì\  èXtrit;;  il  codice  in- 
vece: oùx  n  èfiii  dXXfic;  f^  èXin'c;,  f.  2",  e  correggeremo  à)X i)  oi]  èXiii^. 
Così  anche  l'armeno  (pag.  53,  24)  I  24,  8.  Cancella  il  |Liév,  f.  22  !  28, 
I  5,  eirappiiaidau;  dXÓYoui;,  f.  26  |  3i,  3,  ènì  KeqpaXiìq  Kpe.uaiuévou,  f.  27  | 
Nota  che   il    D.  salta,  al  par.  48,  5,  tra  òeivuùc  e  oùkoOv,  nove  righe 


-  412  — 
che  puoi  vedere  nello  Stilting  |  48,  8,  KoXdjuivov  à,  f.  40  |  49,  2,  a-rrap- 
TÌoi<;  Tùjv  óoKÒiv,  (f.  40),  come  aveva  già  lo  Stilting  |  49,  3,  KaTOKé- 
cpaXa,  f.  40  I  5o,  7.  Qui  il  D.  fa  congettura  di  un  èKaXivòouv;  l'èKKd- 
XiTTTOv  dello  St.  è  proprio  del  codice,  f.  41  |  53,  3,  Karaxeeiv  Kaxà 
ToO  adj}j.aTO<;  aùxoO,  koI  KateKàri  òXov  tò  auJina  aùtoO,  f.  43  |  54,  18, 
Kupiou  Kttl  auuxfìpoc;,  f.  44  |     55,  4,  KaTéoTpevjiev,  f.  44). 

Alla  fine  del  capo  LVIII  leggiamo  le  parole,  citate  già  dal  Ban- 
DiNi  nel  suo  Catalogo  (I,  276),  e  trascurate  dallo  Stilting:  'EvTeOGev 
TÙ  Kaxù  THc;  à^fiac,  fvvaìKac,. 

60,  IO,  yaiuiKriv  (non  YuvaiKeiav);  f.  48  |  62,  3.  Va  restituito  l'àYiorpó- 
qpon;  del  manoscritto  (f.  49),  mutato  in  àYiorpóiron;  dagli  editori;  il 
quale  risponde  alla  voce  armena  srbasne'li  (pag.  116,  2)  |  56,  19.  Di 
chiara  lezione  è  nel  codice  ùeXoupYeìv,  f.  52  |  57,  16,  tòv  èE  aÙTùv 
eàvarov  ùirò  toO  GeoO  oùtujv  òótav,  f.  53  |  68  ,  3,  òieòiiGr),  f.  53  |  68, 
5,  Ti?iv  biòaxnv  aÙTuJv,  f.  53  |  70,  9,  ùnò  tujv  ireZùJv,  f.  55  |  71,  5.  Na- 
turalmente eù|Liopqpia(;  aÙTn<;,  come  ha  il  codice,  f.  56  |  75,  12.  Pare 
dica  èitiiOpac;;  leggerò  èirì  ujpa<;  (non  è-rtì  ópS),  f.  59  |  75,  21,  koì  tu 
Yevó|ueva.  Migliore  lezione  che  il  XeYóiueva,  f.  59  |  77,  5-9.  Il  D.  pro- 
pone riordinare  e  correggere.  Avverto  solo  che  lo  Stilting  segue  alla 
lettera  il  nostro  codice,  f.  60  |  71,  12,  TrapaGriKri,  conservato  anche 
dallo  Stilting,  f.  60  |  78,  5.  11  Diibner  àvaYKciaai  (come  l'armeno,  che 
dice  stipe'l,  145,  i3);  il  ms.  legge,  e  cosi  la  vecchia  stampa,  ài:aTf\om, 
f.  61  1  78,  16,  nvcxYKa^ov  aÙTì'iv  eìireìv  uoieìv  tò  9.,  f.  61  (cf.  nell'ar- 
meno fa  le  voglie  di  lui,  p.  145,  17  |  85,  -23,  eì|ai  èYuù,  f.  66  |  88,  4. 
aùXiaKOi^,  f.  67  I  88,  17,  r^  àYia  faiavri,  f.  68  (come  nell'armeno  siirbn 
G.  p.  163,  21)  I  89,  14,  audYpuuv  àXXaY£Ì<; ,  f.  68  |  90,  6,  ù)uùv,  f.  68 
(non  i^juiijv.  Anche  l'armeno  s'accorda  al  ms.  p.  166,  3  |  90,  i3,  épi- 
v|;a|aev,  f.  69.  (La  stampa  dice  come  l'armeno)  |  90,  14,  òaià  aùroO, 
f.  69  I  90,  23,  èvtJxXei  (le  stampe  èv  òxXuj),  f.  69  |  91,  4,  àndvTncriv  , 
f-  69  1  91,  7,  5pu  Z:ri,  f.  69  (le  stampe  5.  aù.  L'armeno  s'accosta  al 
ms.  chi  sa  ci  sia?  p.  167,  17)  |  91,  9,  xà  Yevójueva  è'pYa,  f.  69  |  92,  8, 
aÙTuJv  b.,  f.  70  I  93,    12,  oùbè  |Li>'iv  uj.,  f.  70  I    108,  6,  rioav  bé,  f.  84  | 

110,  7,  8,  xóxe eqpeacrev,  f.  85  |  no,    12.  Il  Diibner  era  dubbio;  il 

ms.  PpùZiwv,  f.  85  I  iio,  24.  Il  Diibner  corregge  in  irepiKeKXeiajuévoc;  il 
iTepiKeKXuu,uevo(;  dello  Stilting;  il  ms.  TtepiKeKaXumuévOc;  (come  l'armeno 
patate'al ,  Y^.  5bo,23  \    1 1 1,  5,  eù90,uujqj  f.  86  |    1 1 1,  3  1,  ùttò  t.  6.,  f.  87 


-413  - 

I  114,  i8)  oxH^a  ójc,  OKrivi'iv  è.  veq^oqpavf],  f.  88.  Non  c'è  luna,  come 
non  c'è  nell'armeno,  p.  556,  i3  |  ii5,  7,  óiaérpoiv,  f.  89  [  121,  8, 
TrpòaTÉTaYiuévoK;.  Cfr.  anche  122,  6  |  121,  8,  ai  irepi,  f-  94  |  124,  10. 
Il  Koi  è  già  nel  codice,  f.  96  |  124,  24,  toO  èpTou,  f.  97  |  126,  17,  tòv 
TTOu'iaavTa,  f.  98  |  126,  18,  àTreXGùiv  eie,  tòv  tóttov,  f.  98  (cfr.  l'armeno, 
p.  578,  25)  I  129,  9,  TÒV  èKeìae  Puuiuóv,  f.  100  (onde,  nelle  stampe,  tòv 
06Paa|Lióv)  I  Sulla  fine  del  §  129  è  a  vedere  quello  che  propone  lo 
Stilting  ,  e  poi  il  Diibner,  e  gli  avvertimenti  del  Lagarde  [Gesam. 
Abhandl.,  p.  294).  Noto  solo  che  il  codice  legge  eù|uà6riToc;,  f.  100  | 
i3o,  2,  ^Kttuaav  (non  eKXacrav),  f.  100,  come  l'armeno  (ajre'al,  p.  5S4, 
i5)  I  i32,  19,  Bapaajurivri^,  f.  102  |  i33,  2,  'lavi  (non  Maui),  f.  io3.  A 
non  dire  Ani  può  essere  stato  trascinato  dal  leggere  in  fretta  il  suo 
testo  armeno,  cfr.  p.  590,  8,  72^4»!')  |  i33,  22,  ©laòia;  (armeno  Thil, 
p.  591,  iG)  I  i34,  6,  jaeTa^aXeìv,  f.  104  |  134,  9,  koì  oiKeiou?,  f.  104  | 
134,  II,  BaYoapiS  (non  BapadpiZ;,  f.  104  (armeno  Bagajar'ic']  |  136, 
i3.  Il  ms.  ópxujv  toOtluv 'AyTm  e  correggeremo  toO  tujv  'A.,  f.   io5  | 

i36,  22,  fipxuuv  ó  Tf|i;  K apxwv  ó  Tfìc,  Z.,  f.   106  |  i36,  24,  cancella 

il  KOI  1  i36,  25,  ó  Tea.  fipxujv  |  i36,  27,  MaXxaJiOùv,  f.  106  |  140,  11, 
TUJV  èTTiaKÓTruuv,  f.  109  I  141,  I,  Kai  Stg  ^qpGaaev  Tà  opri,  f.  109  (anche 
l'armeno  e'kn,  p.  606,  9  |  141,  2,  1 3,  Oùaunioc,  f.  109  |  141,  14,  Le 
parole  in  parentesi  nel  D.  appartengono  al  codice  \  142,  14,  kotò 
TrpóaTaEiv,  f.  in  i  143,  11,  tóttov  toO  lepoO,  f.  in  |  143,  19,  per  l'è- 
7T6\9óvTa<;,  il  ms.  vuole  àiTeXGóvTa^  che  non  quadra  ;  ma  forse  il  greco 
aveva,  come  l'armeno  (cfr.  p.  618,  18)  partiti  da  Cesarea  |  144, 
12,  àòeXqpriv  aÙToO,  f.  112  ]  149,  6,  k.  aÙTOTTpoaipeTon;,  f.  116  |  1 5o,  5. 
èv6x6évTuuv  luaprupoiv,  f.  117  (anche  l'armeno  dice  cosi,  p.  623,  8)  | 
i5i,  7,  àpoupai;  èv  toìc;  xujpioi?,  èv  òè  -zalc,  Kuj|uoTróXeoiv  éiTTà  àpoOpat; 
eie,.  Parole  che  sono  già  nello  Stilting  e  dimenticate  dal  Dubner  j 
i5r,  9,  èKÉXeuaav,  f.  118  |  i5i,  i5,  òià  TriaTiKtuTdTriq  óbriYiai;,  f.  118  | 
i52,  9,  Tiaiòevo.uévoui;  uJaTe,  f.  118  |  154,  6,  irevGoOai  koi,  f.  120  |  159, 
12,  KOÌ  Totq  TTveuiuaTiKOK,  f.  124  I  160,  3.  Il  ms.  TaaÓTriq  'A0OU1V  wv 
TTapTiòoc;  con  accenti  sopra  uuv  che  sono  rifatti  e  cancellati  si  legge- 
rebbe 'AoourjvJjv,  f.  125.  L'armeno  Asìwt:ikh  (p.  641,  8)  |  161,  8,  koI 
TiXeìov  èv  Tri  TtiaTei  OTripiEri,  f.  126.  L'armeno,  come  le  stampe,  solo 
il  raffermare  (p.  643,  7)  I  iG3,  7,  oùto/i;,  f.  127  |  i63,  io,  iravTec;  Tri 
àXrjBeia  TnaTeùauucJiv,  f.  127  |  i63,  17,  AiKiavóv  (cfr.  l'armeno,  046,  21, 
e  le  correzioni  proposte  dagli  editori)  |  iG5,  iG.  Come  le  stampe  legge 
il  codice,  ma  è  a  vedere  la  congettura  del  Lagarde  [Ges.  Abh.,  1S8), 


-  414  - 
MaaaxoÙTuuv  |  iG6,  8,  trepl  toùtujv,  f.  129  ]   166,   14,  oÌKou.ueviKi'ì,  f.  166 
I  166,    10,  ùvaTTauaovxai  (leggi  -aaivxai)   |    1Ò7,   i  ,  Aióirep    9au,udaa<; , 
f.   i3o  I  167,   19,  èEeÌTiev  òè  koì   |    168,   i3,  'Apapàx    koì    rróXei,  f.    i3i  | 
169,  17,  TriaxeoK;  Kal  à'fiac,,  f.  i32  |    172,  3,  xPl^xcùc;  xpovoYpaqpéac;  xó- 
luoui;  òiÉ'fX^JM'aiuev,  f.   i33  j  172,  12,  òiexctsaxo  |  i63,   16,  0  iravaYioc;  A.|. 


Due  volte  rammentai  il  Lagarde,  e  gioverà  porre  qui  tutti  i  luoghi 
delle  sue  Disscrta:;ioni  (Leipzig,  1866)  che  toccano  del  testo  armeno 
o  del  greco  di  Agatangelo,  e  sono  :  pag.  40,  su  hangaman,  ènixnòeuoK; 
(armeno,  p.  568,  greco,  §  121);  p.  43,  su  Palhav  (arm.,  p.  36,  39,  gr., 
§  i3,  14);  p.  49,  su  tag'ar',  TTaXdxiov  (arm.,  p.  65o,  gr.,  §  i65);  p.  68, 
su  Shahap,  fcGvdpxrn;  (arm.,  p.  65o,  gr.,  §  i65);  p.  69,  su  Shahapivan 
(arm.,  p.  65o,  gr.,  §  i65);  p.  179,  sul  mese  di  Sahmi  (arm.,  p.  611, 
gr.,  §  143);  p.  186,  sullo  spar'apet,  oxpaxoTrfòdpxriq  (arm.,  p.  65o,  gr., 
§  i65),  e  p.   1S7,  su  bdeashkh  (arm.,  p.  ó5o,  gr.,  §  t65). 


Vengo  ora  a'  capitoli  del  greco  che  il  Langlois  mise  da  parte  e  per 
i  quali  abbiamo  a  ricorrere  alla  edizione  dei  Bollandisli  ;  se  non  che 
mi  asterrò  da  lunghe  citazioni,  scegliendo  solo  nelle  mie  note  quei 
passi  ne'  quali  la  revisione  diede  qualche  buon  frutto. 


Capo  XXVII,  19.  Il  luogo  della  Scrittura  (Salmi  CXUI,  i5  =  CXV,  7) 
è  citato  più  ampiamente:  oùk  òaqppavBnaovxai.  x^ìpcc;  e'xo'JOi  koI  où 
xjjriXaqpnaouaiv,  f.  25.  (Così  pure  l'armeno,  p.  60,  8}. 

Capo  XXXIII,  26.  'Eyévexo  uuc;  >i,ueìi;  (invece  che  è.  eùaepfi;),  f.  3o. 
(E  l'arm.,  p.  71,  5). 

Capo  XXXV,   16.  Tò  aT|ua  xiùv  Gucriùjv,  f.  3i. 

Capo  LXIV,  20.  La  stampa:  èv  »ì,uépa  xfjq  biKaioKpiaia;  xr;(;  bóErjq 
aou  ;  il  manoscritto  (f.  5i):  è.  i^  x.  ò.  koI  àTTOKaX.0v|;eLU(;,  e  dopo  una 
riga  raschiata:  Tr\<;  òótn;  crou.  Sotto  alla  raschiatura  si  vede  chiaro 
che  c'erano  le  parole  stesse,  ripetute  per  errore  di  copista.  L'armeno 
infatti  nulla  ha  di  più  del  laurcnziano  (p.    120,   14). 

Capo  LXV,  2[.  La  stampa:  irapaòoOvai  PaadvoK;,  dW'iva  xàt;  \\ivxà(;; 
il  ms.  (f.  5i),  tra  Paodvon;  ed  dXX' iva,  ha  una  riga  cancellata,  e  legge. 


—  415  — 
per  di  più,  oùòè  Yòp  e,ue\\ev  avralc,  (non  aÙTùv).  L'armeno    oltre  ai 
tormenti  ha  la  maldicoi^^a  (p.   122,  2).  Anche    lo    Stilting    avverte  le 
due  lacune. 

Capo  LXXIX,  20.  La  stampa:  é'veKev  aÙToO  GavÓTOu.  lueS'òXiiv  ti'iv 
i*)|.iépav  ;  il  ms.  è.  a.  eavaTou|ue9a  òXriv  t.  iV,  f-  62.  (L'arm.,  p.  148,  12). 
Capo  LXXXII,   i3.  Oùk  è-rreeOuiiaa,  f.  64.  Manca   la  negazione  alla 
stampa,  e  se  n'era  avveduto  lo  Stilting.  (Arm.,  p.   i53,  25). 

Capo  XCVIII,  25.  Pilli  ha  la  stampa  che  l'armeno  (p.  t8o,  11),  e 
più  della  stampa  il  laurenziano  :  -nrpòe;  'laaiv  vjjuxùjv  Kaì  aiuiaÓTUJv  ■  Kai 
ì5où  èpTKTiKÓx;  exoiiuoi  èa\xev  xriv  yhv  tòjv  hjuxujv  ìijuujv,  f.  yS. 

Capo  CVIII,  2.  Leggi  :  eie;  àvóitauoiv  xal  èv  eiprivi]  ÙTTvajffaxe,  f.  83. 
Così  anche  l'armeno  (p.  544,  23). 

Capo  CVIII,  28.  La  stampa:  xà  xfic;  dXr|0ivf|i;  TrapaòujaeuK;  toO  Xpia- 
ToO,  Kaì  Toùc;  TTveujLiaTiKoÙ!;  ttóvoui;,  e  nella  versione  :  cum  vera  tradi- 
tìone  de  Christo,  et  vilam  illoriim  et  spirituales  labores. 

Non  c'è  nel  greco  che  un  salto  fatto  dal  compositore  ;  certo  l'apo- 
grafo aveva,  come  il  laurenziano,  koì  tòv  piov  aÙTiI)v,  f.  84.  (Arm., 
p.  546,  26). 

Cap.  CXVII,  16,  17.  Il  ms.:  aùxujv  (f.  90)  invece  dei  due  aùxoO 
della  stampa,  accordandosi  con  l'armeno  (p.   36 1,   12,  14). 

Capo  CXVIII,  IO.  La  stampa:  òvyriXn  èaxiv  rj  KaBoXiKr]  èKxXiiaia;  il 
ms.:  ù.  è.  ty\c,  KaBòXiKnt;  èKKXriaiat;,  f.  91.  Comparando  l'armeno  (pativ, 
p.  562,  23)  leggeremo  y\  hòtO.  xf|^  k.  e. 

Capo  LXXXVÌI,  2.  Le  parole  Eìkòiv  xì^i;  èmaxoXvìc;  sono  nel  ma- 
noscritto (f.  106)  in  lettere  maiuscole,  e  a  capo  della  pagina.  Come 
fanno  nella  edizione  armena  (p.  598)  i  mechitariani. 

Capo  CXLV,  3i.  Come  la  stampa,  così  il  codice.  Ne  fo  cenno 
perchè  lo  S.  suppone  perduto  un  iravxae;,  che  non  ha  nemmeno  l'ar- 
meno (p.  6 [5,  9). 

Capo  CXLVllI,  i3.  Leggeva  lo  Stilting  xà  irap' aùxiLv  irpoaxe- 
xa"f]néva,  ma  avrebbe  desiderato  rrap'  oùxoO,  e  cosi  appunto  ci  dà  il 
laurenziano  (f.  i  i  5). 

Capo  CLVI,    I.   La  stampa  :  Toùxujv  éauxuj  èmxeeriKuuc;  :  manca  piov 
(x.  p.  é.  e.)  che  è  già    nel    codice  (f.   121)  e  che    suggerito  anche  dal- 
l'armeno, che  bisogna  con  attenzione  comparare  (p.  632,  21). 
Capo  CLVIIl,  7.  EÌTTÓvxoe;  e  non  ttoiouvxoc;  (f.   122). 

Panca  quidem  fateor,  ma  il  lettore  si  contenta.  Né  dovrei   qui  ri- 


—  416  — 
fare  la  storia  delle  ricerche  inlorno  ad  Agatangelo,  alle  quali  ho  in 
parte  accennato.  Un  desiderio  mi  nasce  sempre  più  vivo:  che  i  me- 
chitariani,  così  operosi  illustratori  delle  cose  nazionali,  ci  dieno  di 
quelle  antiche  istorie  una  nuova  edizione,  nella  quale  pongano  il 
greco  accanto  all'  armeno,  seguendo  per  l'uno,  anche  nelle  cose  pic- 
cine ,  il  laurenziano  ,  e  avvertendo  chi  corregge  e  perchè  -,  e  vorrei 
che  per  l'originale,  stampassero  a  pie  di  pagina  quante  varianti  danno 
i  codici  anche  dove,  specialmente  ne'  nomi  propri,  ci  vorrebbero  tra- 
scinare ad  errore.  Ve,  per  esempio,  un  nome  di  paese  non  sufRcien- 
temente  spiegato:  la  stampa  del  1862  legge  Er'otantak  (p.  626,  20), 
e  la  traduzione  italiana  dà  in  nota:  nome  in  varii  modi  scritto  nei 
codici  e  in  tutti  male  (p.  176).  Se  avessimo  tutti  questi  sgorbi  sotto 
gli  occhi  non  potrebbero  forse  giovare?  Il  codice  greco  ci  dà  una 
mano  appena:  di  quel  nome  non  c'è  ombra;  esso  ci  offre  (f.  119), 
come  le  stampe  (§  i52):  èqp6aff€v  oOv  koì  èv  rolc,  ttpujtok;  laépeaiv  ó 
ópxieTTiaKOTTo;  èv  xr)  'Apapàx  Trarpiòi.  Insomma,  nella  giacitura  delle 
parole,  a  quella  voce  oscura  dell'armeno,  risponde  V  arcivescovo  \ 
nasce  dunque  il  dubbio  che  un  prototipo  dicesse  per  modo  che  il 
greco  poteva  farne  una  chiara  traduzione,  e  un  altro  codice,  male 
letto  e  peggio  ricopiato  da  altri,  tramandasse  un  enimma.  Dò  la  con- 
gettura che  so  bene  non  reggersi  sopra  basi  salde  come  vorrei. 

Che  il  greco  sia  versione,  originale  l'armeno  s'ammetteva  con  qualche 
dubbio  dal  Somal  {Qjtadro,p.  11);  con  più  sicurezza  dai  mechitariani 
che  ebbero  cura  della  versione  italiana  (p.  X)  ;  e  da  ultimo  ripetè  e 
accrebbe  le  ragioni  che  ce  lo  confermano  il  P.  Gare'gin  nella  sua 
Storia  della  letteratura  armena  (i)  (I,  116).  E  sono:  a)  l'uso  di 
'Epaadx  (p.  40,  §  i5,  p.  17);  b]  Kpóvo^  per  Arama^t  (p.  Sgo,  §  i33, 
p.  i5i);  e]  "Hcpaiaro^  per  Mihr  (p.  SgS,  §  i34)  ;  d)  l'armeno  Maadx 
(p.  598,  §  i38,  p.  i53);  e)  il  oao\xi  (p.  611,  §  143,  p.  i65)-,  /)  il  plu- 
rale Hevob£KTù)v  eeÙJv  (p.  623,  §  i5o);  g)  il  Mavadpx  (P-  ''H^j  §  '60); 
h)  il  TTaoKaTTexéiJUv  (p.  65o,  §  i65,  p.   172);  e   lìnalmente    i)    il  lapa- 

KnVUJV    (p.    587,    §     l32,    p.     149). 

Anche  contro  l'autenticità  della  Lettera  d'alleanza  combatte  il  nuovo 


(1)  In  armeno,  stampata  a  Venezia;  il  I"  volume  nel  1865,  il  2°  nel 
1878,  e  si  aspetta  il  terzo.  —  In  queste  citazioni  dò  la  pagina  del  testo 
di  Agatangelo,  il  paragrafo  del  greco,  e  la  pagina  dell'italiano,  quando 
le  note  di  questo  s'accordano  col  dire  del  p.  Gare'gin. 


-  417  - 
storico  (i],  come  un  suo  collega  respinge  nel  Ba^mawep  (1878, 
pp.  229-232)  la  supposizione  che  ci  fosse  un  testo  greco  rifatto  in 
armeno  nel  secolo  VII  da  Eznik  il  prete;  così  per  lui  come  per  gli 
altri  mechitariani,  e  intendo  dire  i  nostri  veri  maestri,  lo  stile  del 
libro  ci  porta  al  quattrocento,  alla  età  d'oro  dei  traduttori. 

Pisa,  1°  febbraio  1881. 

Emilio  Teza. 


SE  I  GRECI  ODIERNI 
SIENO  SCHIETTA  DISCENDENZA  DEGLI  ANTICHI 

[a  proposito  d'una  recente  pubblicazione) 


È  nota  la  conclusione  a  cui,  dopo  il  Kopitar  (2),  fu  tratto  il  Fall- 
merayer  dai  vasti,  ma  non  sempre  abbastanza  profondi  suoi  studi  sulla 
storia  e  suU'  onomastico  topografico  della  Grecia  medievale  :  —  Nei 
primi  secoli  del  medio  evo  finoall'Boo  ha  luogo  in  questa  contrada  una 
continua  e  forte  intrusione  di  elementi  etnici  stranieri  ;  dappertutto, 
salvo  nelle  città  marittime,  1'  antica  popolazione,  la  ellenica,  è  so- 
praffatta e  scompare;  quasi  dappertutto  l'odierna  popolazione  è  pro- 
venuta da  quei  diavoli  in  carne  ed  ossa  che  sotto  i  nomi  di  Sciti, 
Sciavi  (Sclavini,  Sclavesiani),  Bulgari,  Unni,  Avari,  Pazinachi  ,  Cu- 
mani,  Alani,  ecc.,  invasero  la  penisola  sterminandone  gli  indigeni,  e 
specialmente  dagli  Slavi.  I  quali  però  vennero   a   poco   a  poco,  nel 


(1)  Vedi  lo  Stilting  (Vili,  401)  e  l'Agatangelo  italiano  (p.  194).  Una 
parte  di  questa  lettera  si  può  vedere  nel  Galano  [Concil.,  I,  31-35). 

Noto  qui,  chiudendo,  che  il  Patkanov  nel  suo  Bibl.  Oc'erk  (pag.  28) 
rammenta  anche  una  versione  in  latino,  stampata  a  Venezia  nel  1835. 
Ma  il  dotto  armeno  fu  tratto  in  errore  da  qualche  catalogo  che  citò  in 
latino  il  testo  armeno  stampato  appunto  in  quell'anno. 

(2)  V.  Deffner,  Aì'chiv  f'ùr  mittel-  und  neugriechische  Philologie, 
I,  p.  3  (1881;:. 


-  418  - 
corso  tii  sei  o  settecent' anni,  ellenizzati  nei   costumi  e  nella    lingua, 
come  nella  religione,  dalla  Chiesa  sempre  potente  e  dal  Governo  bi- 
zantino nelle  sue  diverse  epoche  di  rifiorimento  (i). 

Fin  dal  principio,  a  dotti  anche  non  greci  siffatta  conclusione  parve 
eccessiva  e  temeraria.  Già,  in  opere  ben  note,  l'Hopf,  il  Rambaud,  il 
Paparrigopulos  e  ultimamente  Bern.  Schmidt  (2),  Enr.  Kiepert  (3), 
G.  F.  Hertzberg  {4)  e  Lor.  Diefenbach  (5)  la  ridussero  entro  confini 
più  modesti  e  ragionevoli.  Se  fosse  vero  infatti  che  un  tempo  la 
Grecia  ,  non  eccettuato  il  Peloponneso  ,  fu  presso  che  tutta  slava, 
dovrebbesi  poter  affermare  (il  che  non  si  può)  che  nell'ordine  antro- 
pologico il  tipo  slavo  è  quello  che  oggi  vi  domina  (6),  e  non  si  sa- 
prebbe spiegare  come  gli  idiomi  che  oravi  si  parlano  sieno  continua- 
tori legittimi  della  lingua  antica;  come  questa,  se  non  si  è  propagata  in 
essi  tal  quale  col  suo  primitivo  organismo,  secondo  che  quasi  vorreb- 
bero far  credere  i  dotti  d'Oltre- Jonio,  siasi  però  alterata  e  trasformata 
conforme  a  leggi  organiche  indipendenti  da  ogni  influsso  straniero  , 
analoghe  a  quelle  per  cui  si  convertiva  il  latino,  p.  e.,  nell'italiano;  e 
come  assai  poche  [lo  vedremo  più  sotto)  sieno  le  voci  slave  che  vi 
si  odono,  nel  tempo  stesso  che  rimangono  pure  di  elementi  slavi 
la  fonetica  e  la  morfologia  non  m.eno  della  sintassi.  E  non  è  ammissi- 
bile d'altra  parte  che  una  Grecia  slava  sia  stata  riellenizzata  poi  al 
risorgere  della  potenza  bizantina  e  sotto  l'influsso  della  Chiesa,  perchè 
in  tal  caso  noi  vi  troveremmo  oggi  una  lingua  comune,  uniforme,  por- 
tante, per  così  dire,  in  fronte  il  carattere  di  tale  origine,  in  luogo 
della  più  grande  e  viva  varietà  dialettale  ch'essa  ci  presenta  (7).  Nes- 
suno però  di  quei  dotti  mise  in  dubbio  che  abbondante  sangue  slavo 


(1)  Welchen  Einfluss  hatte  die  Besetzung  Griechenland' s  durch  die 
Slaven ,  ecc.  (1835),  Geschichte  der  Ealhinsel  Morsa  wrihrend  des 
Mittelalters  (1830-36)  ;  Fragmente  aus  dem  Orient,  ecc.  (1845). 

(2)  Das  Volksleban  der  ]<!eugriechen  und  das  hellenische  Alterthum 
(1871). 

(3)  Lehrbuch  der  alien  Geographie  (1878). 

(4)  Geschichte  Griechenlands  seit  dem  Absterben  des  antiken  Lebens 
bis  zur  Gegenioart  (1876-79). 

(5)  Voelkerkunde  Osteuropas ,  insbesondere  der  Eaemoshalbinsel 
und  der  unteren  Donaugebieten,  I  (1880). 

(6)  Diefenbach,  Op.  cit.,  p.  142. 

(7)  Schmidt,  Op.  cit.,  p.  4. 


—  419  - 
col  tempo  si  fosse  trasfuso  nell'ellenico.  Or  la  medesima  quistione  sol- 
levò dianzi  e  intese  di  risolvere  in  senso  affatto  negativo  il  valente 
erudito  greco  Costantino  Sathas  (i);  egli  volle  lavar  via  quella  che  a 
lui  pare  una  macchia  ignominiosa  dal  corpo  della  sua  nazione  e  di- 
mostrare come  il  sangue  ellenico,  il  neo-ellenico,  nominatamente  nel 
Peloponneso,  sia  puro  d'  ogni  miscela  straniera.  Perciò  doveva  egli, 
da  una  parte,  dimostrare  che  l'Ellenismo  nel  Peloponneso  era  persi- 
stito continuo  e  inalterato  dall'antichità  fino  ai  nostri  tempi  e,  dal- 
l'altra, che  non  erano  punto  Slavi  gl'invasori  medievali  di  questa 
regione,  cui  dicono  Slavi  gli  scrittori  bizantini. 

Abbastanza  facile  era  il  primo  compito,  a  cui  avevano  ben  prepa- 
rato il  terreno  le  opere  degli  eruditi  su  citati  e  massime  quelle  del- 
l'Hopf  (2)  e  dell' Hertzberg  e  la  grande  opera  in  cinque  volumi,  in 
greco,  del  Paparrigopulos,  di  cui  in  Occidente,  in  generale,  non  si 
conosce  se  non  il  sunto  pubblicato  in  francese  dall'  autore  mede- 
simo (3).  Ecco  qui,  in  sostanza,  come  ragiona  il  Sathas. 

—  Sebbene  per  origini  e  lingua  e  tradizioni  unita  all'impero  bizan- 
tino o,  com'esso  intitolavasi,  romaico,  l'Eliade  da  questo  non  fu  mai 
voluta  riconoscere  per  madre,  giacché  il  pernio  della  politica  bizan- 
tina, come  ora  dell'austroungarica,  era  la  negazione  d'ogni  naziona- 
lità, della  preminenza  d'una  nazione  sulle  altre.  Nel  quale  disdegnoso 
procedere  la  Corte  aveva  per  compagna  la  Chiesa,  che  non  poteva 
facilmente  dimenticare  l'antica  tradizione  che  nel  motto  Ellenismo 
le  faceva  vedere  un  sinonimo  di  Paganesimo;  tanto  più  che  questo 
in  Eliade  ebbe  infatti  vita  assai  lunga  e  tenace  e  anzi  non  era  ben 
morto  neanche  dopo  il  secolo  X.  Di  qui  tra  Elleni  e  Bizantini  un 
antagonism.o  che  si  andò  facendo  sempre  più  evidente  e  violento:  i 
Bizantini  davano  un  significato  di  spregio  al  nome  di  Occiden- 
tali col  quale  chiamavano  gli  Elleni,  e  questi  a!  nome  di  Orien- 
tali che  applicavano  a  quelli.  Per  più  di  undici  secoli  l'impero  si 
ostinò  a  credersi  e  a  dirsi  romano,  e  gli  Elleni,  quieti  dai  tempi  di 
Alarico   fino    a    tutto  il  VI  secolo  e    poi  fino    alle    Crociate    ostili  e 


1)    Mvriiueìa   xf]^   éWrjviKiìi;    iaropiae; ,    Bocuments    inédits    relatifs   à 
Vhistoire  de  la  Grece  au  Moyen-Age^  T.  I.  (Paris,  1880),  prefazione. 

(2)  Griechenland  im  Mittelaltcr  und  in  der  Neuseit  [vi^WEncycl.  v. 
Ersch.  u.  Grubek,  voi.  83,  18(36). 

(3)  Histoire  de  la  civilisation  h'zllénique  (Paris,  1878). 


-  420  - 
apertamente  ribelli  a  Costantinopoli,  non  esercitano  su  di  esso  in- 
fluenza alcuna.  Ma  ciò  non  vuol  dire  che  gli  Elleni  fossero  estinti. 
Non  mancano  indizi  e  altresì  buone  prove  ch'essi  erano  pur  sempre 
vivi  e  vitali.  Bastino  queste.  Essi  tennero  sempre ,  come  tengono 
tuttavia,  la  medesima  dimora  e  parlarono  sempre,  come  parlano  tut- 
tavia, la  medesima  lingua  dei  loro  antenati  viventi  prima  della  con- 
quista romana.  Nel  secolo  XI  un  uomo  politico  ,  Psello,  e  al  prin- 
cipio del  XV  un  filosofo,  Pletone,  asseveravano  che  gli  abitanti  della 
Grecia  dei  loro  tempi  erano  della  stirpe  degli  Elleni ,  che  tali  erano 
stati  sempre  in  particolare  gli  abitanti  del  Peloponneso,  non  mai  da 
altri  espulsi  e  soppiantati ,  fedeli  conservatori  della  lingua  e  delle 
istituzioni  avite.  E  tanto  in  qualche  modo  confermavano  i  governa- 
tori dei  domini  veneziani  della  Morea,  ricordando  che  quei  di  Tri- 
polizza  erano  vera  progenie  degli  Arcadi  e  che  i  Mistraoti  si  glo- 
riavano di  sangue  spartano. 

Or  come  avvenne  che  si  formasse  l'opinione  che  nell'età  di  mezzo 
il  Peloponneso,  se  non  quasi  tutto,  come  vorrebbe  il  Fallmerayer, 
almeno,  come  credono  presso  che  tutti  gli  altri  dotti  stranieri  alla 
Grecia,  in  buona  parte  venisse  colonizzato  e  rinsangualo  da  Slavi? 
È  un  fatto  che  i  cronografi  bizantini  ci  parlano  di  Sciavi  che  in 
quell'età  invasero  il  Peloponneso.  Ma  erano  essi  veramente  Slavi  ?  — 
11  Sathas  dice  risoluto  di  no.  Ed  ecco  perchè:  —  I.  Questi  invasori 
(ai  quali  va  attribuita  l' introduzione  in  Eliade  del  sistema  feudale, 
così  contrario  allo  spirito  dell'antichità  ellenica)  da  quei  cronografi 
propriamente  più  spesso  che  IkXciPoi  (i=  IXdPoi)  sono  chiamali  ZGXapoi, 
voce  contenente  una  lettera  (0)  ignota  a  tutti  gli  idiomi  slavi  antichi 
e  moderni.  II.  La  cronica  greca  metrica  della  Morea  (BipXiov  -rfic,  Kouy- 
KéoTac,  Tiìt;  'Puuinaviai;  koì  toO  Moipaioit;  o  Lirrc  de  conqueste}  il  più  im- 
portante tra  i  documenti  del  linguaggio  parlato  colà  dal  popolo  nel 
secolo  XIII,  mentre  pur  menziona  sovente  gli  Slavi,  contiene  bensi 
voci  latine,  albanesi  e  persino  turche,  ma  non  una  slava  ,  non  una 
della  schiatta  che  avrebbe,  secondo  il  Fallmerayer,  estirpato  da  quel 
suolo  la  ellenica.  III.  Falsa  è  l'etimologia,  immaginata  dagli  Slavo- 
fili,  di  Mdvri  o  Mdvia  (volgarm.  Maiva)  dallo  slavo  inandjak,  mentre 
non  vi  si  ha  a  vedere  altro  che  una  continuazione  di  Mavia  =:  MdXia, 
nome  originario  del  promontorio  tra  il  golfo  laconico  e  1' argolico, 
estesosi  nel  medio  evo  al  Tenaro.  E  invano  si  cerca  un'etimologia 
slava  al  nome  di  Morea;  il  quale  è  semplicemente  quello  dun'antica 


—  421  — 
città  marittima  d'Elide,  estesosi  via  via  all'intera  regione  al  di  qua 
dell'istmo  di  Corinto  coll'estendersi  della  importanza  politica  di  quella; 
il  nome  d'una  città  esistente  di  certo  nel  1 1 1 1  e  ancora  alla  metà  del 
sec.  XIII  (ó  Mopaiac;,  corrispondente  forse  alla  MapYdXa  o  Mapyaìai  del- 
l'antichità classica)  e  riguardata  come  la  vera  capitale  del  Peloponneso 
da  Ibn-Sayd  (morto  nel  1274)  citato  da  Abulfeda;  ecclissata  poi  da 
Andravida,  la  capitale  di  Villhardouin,  come  questa  da  Clarenza  ;  e 
infine  scomparsa  affatto.  Quei  così  detti  Sciavi  dovevano  essere  di 
stirpe  non  molto  diversi  dagli  EUeni.  Se  i  Bizantini  infatti,  pel  so- 
lito antagonismo  cogli  Elleni,  vedevano  degli  impuri  e  detestabili 
Barbari  in  quegli  invasori  d'una  delle  più  ricche  province  dell'  im- 
pero; gli  Elleni  li  consideravano  all'incontro  come  fratelli  e  libe- 
ratori e  si  sottomettevano  al  giogo  dei  costoro  capi  (toparchi)  più 
volontieri  che  consentire  a  riconoscere  la  legittimità  del  sedicente 
impero  romano  di  Costantinopoli.  Secondo  Costantino  Porfirogen- 
nito  (i)  avevano  essi  occupato  Elide  e  Laconia.  L'Epitome  di  Stra- 
bone,  che  non  è  posteriore  all'  8o3,  dà  come  occupati  da  Sciti-Sclavi 
gli  antichi  territori  di  Olimpia  e  di  Pilo.  Or  un  documento  più  mo- 
derno, la  Bolla  d'oro  attribuita,  se  pur  è  autentica,  all'imperatore 
Niceforo,  chiama  non  già  Sciavi  ma  Avari  quelle  schiere  che  al  prin- 
cipio del  secolo  IX  invasero  l'Acaja,  e  vinte,  come  si  credette,  per 
intercessione  dell'apostolo  S.  Andrea,  si  sottomisero  in  condizione 
di  servi  della  gleba  alla  Chiesa  arcivescovile  di  Patrasso.  Un  altro 
esempio  di  confusione  di  Avari  con  Slavi  lo  abbiamo  nel  e.  29 
dell'  opera  citata  di  Costantino  Porfirogennito.  —  Certo  è  che 
gli  Avari,  dopo  il  secolo  VI,  accampati  oltre  il  Danubio,  se- 
condo ogni  probabilità  intorno  a  Pest,  scorrevano  di  lì  rapinando 
e  devastando  in  Macedonia,  Tracia,  Illirico  e  anche  più  a  mez- 
zogiorno. E  così  fecero  poi  anche  gli  Slavi.  E  loro  s'univano  o 
almeno  con  loro  si  concertavano  nelle  imprese  contro  i  Bizantini  i 
popoli  ch'essi  stessi  avevano  vinti  e  ridotti  in  condizion  di  vassalli  : 
Valachi,  Albanesi,  Bulgari,  Macedoni.  I  quali,  solitamente  nemici  al 
par  degli  Avari  e  degli  Slavi  ai  Bizantini,  venivano  da  questi  confusi 
or  cogli  uni  or  cogli  altri  e  chiamati  or  Avari  or  Sciavi  secondochè 
questi  o  quelli  tenevano  tra  i  barbari  della  penisola  balcanica  l'ege- 
monia. Di  questo  numero,  non  veri  e  propri  Avari  né  Slavi,  dovettero 


(1)  De  admin.  imp.^  e.  60. 


'     —  422  — 

essere  i  barbari  che  dal  secolo  VI  in  poi  attraverso  a  Macedonia, 
Tessalia  e  Beozia,  si  spinsero  fino  in  Peloponneso.  Essi  riconobbero, 
anche  dopo  che  si  furono  insediati  colà,  l'alto  dominio  degli  Avari 
sino  alla  fine  del  secolo  Vili,  sino  alla  distruzione  del  costoro 
impero  effettuata  da  Carlo  Magno,  epperò  conservarono  sino  al 
XV  secolo  (come  risulta  da  parecchie  e  buone  autorità)  il  nome 
di  'ApdPoi,  evidente  metatesi  di  'A^apoi,  od  'Apapaloi,  quasi  Ararci. 
Si  trovano  infatti  cosi  chiamati  ('ApóPoi)  da  Gregorio  Abulfarag' 
(Barebreo)  e  non  già  XGXcipoi  o  IkXci^Joi,  come  hanno  i  Bizantini,  i 
prigionieri  che  Stauracio,  generale  dell'imperatrice  Irene,  prese  ai 
così  detti  Sciavi  di  Macedonia  e  Peloponneso  da  lui  vinti,  intanto 
che  Carlo  Magno  prcparavasi  ad  assalire  gli  Avari  nel  cuore  di 
loro  potenza.  Laonico  Calcondila  poi  ci  leva  ogni  dubbio  intorno 
alla  nazionalità  degli  stranieri  che  già  vedemmo  acquartierati  in 
Elide.  Rammentandoli  a  proposito  della  conquista  del  Pelopon- 
neso fatta  dai  Turchi,  li  chiama  'Apapaìoi  'AXPavoi  (Avari-Albanesi). 
Sono  gli  stessi  che  vediamo  dapprima  in  buoni  termini  con  Murad  II, 
dal  quale  si  fanno  riconoscere  «  legittimi  possessori  della  terra  dei 
loro  padri  »  (così  denominavano  essi  la  parte  del  Peloponneso  da 
loro  abitata)  e  poi  all'incontro  alleati  di  Costantino  Paleologo  (anno 
1446),  e  infine  vinti  dai  Turchi  e  fuggiaschi  in  Sicilia,  ove  ancora 
rimpiangono  nei  loro  canti  la  bella  Morea.  I  così  detti  Avari  o  Sciavi 
del  Peloponneso  non  sono  altro  adunque  che  Albanesi;  come,  secondo 
uno  scritto  di  Giovanni  vescovo  di  Nicio,  nel  secolo  VI,  non  erano 
Sciavi,  ma  A  1  v  a  r  i  k  i ,  cioè  ancora  Albanesi,  gli  alleati  degli  Avari 
nel  famoso  assedio  che  questi  posero  in  quel  secolo  a  Tessalonica. — 
Di  più.  È  noto  che  i  conquistatori  Franchi  incontrarono  la  più  per- 
tinace resistenza  da  parte  dei  pretesi  Sciavi  stabiliti  sulla  catena  e 
intorno  ai  passi  del  monte  anticamente  chiamato  M  i  n  t  h  e,  tra  Elide 
e  Arcadia.  Orbene,  i  nomi  dei  costoro  principi  che  soli  ci  furono 
tramandati  {But:;aras  e  Vranas)  sono  albanesi,  e  albanese  la  denomi- 
nazione medievale  del  classico  monte  Minthe  ,  che  è  Scorta  malja  , 
rispondente  a  capello,  nel  significato,  alla  neoellenica  Kovropoùvia 
«  monti  brevi  »;  per  tacere  che  nella  denominazione  di  Albacna, 
che  trovasi  data  pure  al  monte  medesimo,  si  continua  quella  appunto 
del  popolo  invasore  (i).  —  E   altri    scambi  di  Albanesi    e    anche   di 


(1)  Gli  Albanesi,  com'è  noto,  chiamano  se  stessi  propriamente  Schhi- 


—  423  - 
Greci  con  Slavi  ci  occorrono  in  altri  punti  dei  Peloponneso.  Degli 
Sciavi,  durante  la  peste  del  747,  a  detta  di  Costantino  Porfirogenito, 
presero  stanza  su  ambo  i  versanti,  messenico  e  laconico,  del  Taigeto; 
e  terra  sclavinica  è  detto  il  territorio  abitato  dagli  odierni  Tsàconi 
dal  pellegrino  franco  S.  Winibaldo  che  passava  per  Monembasia 
(Malvasia)  nel  723;  e  terra  degli  Sciavi  la  chiamano  i  documenti  ve- 
neziani fino  al  1485.  Ora,  Laonico  Calcondila  e  Melezio  dicono  Va- 
lachi  gli  Sciavi  del  Taigeto,  ma  merita  più  fede  l'indigeno  Doroteo, 
arcivescovo  di  Monembasia,  del  secolo  XVI,  il  quale  identifica  questi 
altri  Sciavi  coi  Manioti  o  Mainoti  ;  e  noi  sappiamo  dal  già  citato 
Costantino  che  questi  erano  anzi  degli  antichi  Romei,  cioè  dei  Greci, 
a  cui  i  vicini  davano  in  proprio  il  titolo  di  Elleni  per  essere  stati  in 
Grecia  i  più  restii  ad  abbandonare  l'idolatria.  Niun  dubbio  poi  che 
sieno  Elleni  i  Tsaconi.  —  E  circa  agli  altri  supposti  Slavi  dimoranti 
isolati,  per  quanto  appare  dal  Livre  de  conqueste^  in  mezzo  a  popoli 
d'origine  greca,  dai  documenti  veneziani  del  secolo  XV,  come  anche 
da  parecchi  nomi  di  tipo  albanese  che  s'  incontrano  tra  quelli  degli 
antichi  feudatari  del  Peloponneso  [Rendacio,  Bua,  Sgitro)  e  dal  nome 
speciale,  pur  albanese (ApÓYYO(;  =  AóYTO<;))  che  la  or  citata  Cronica  dà 
all'aspro  montuoso  paese  da  loro  abitato  tra  Mainoti  e  Tsàconi,  si 
argomenta  che  fossero  appunto  semplicemente  Albanesi.  Che  infine, 
presso  ai  Tsàconi  sieno  dimorati  da  tempo  remoto  degli  Albanesi,  è 
attestato  dalle  tracce  profonde  d'infiuenza  dei  costoro  dialetti  sul  lin- 
guaggio di  quelli:  tracce  che  erroneamente  si  facevano  risalire  agli 
antichi  Pelasgi  o  si  attribuivano  agli  Albanesi  maomettani  che  nel 
1770  furono  fatti  entrare  dalla  Porta  nel  Peloponneso  per  punirlo 
della  sua  rivolta  ;  e  che  degli  Albanesi  sieno  stati  per  lungo  tempo 
vicini  dei  Mainoti,  lo  dice  il  barbaro  costume  della  vendetta  del 
sangue,  che,  ignoto  a  tutto  1'  Ellenismo,  ritroviamo  sol  presso  gli 
Albanesi  e  i  popoli  che  si  mescolarono  con  questi  o  coi  Mainoti,  p.  e., 
in  Corsica,  in  Sicilia,  in  Calabria;  e  altresì  il  nome  di  cpainéTioi  che 
questi,  i  soli  tra  i  Greci  che  serbino  qualche  traccia  di  feudalesimo, 
danno  ai  clienti  d'una  casa  aristocratica,  nome  che  dev'essere  dal- 
l'alban.  faljmeja,   «  servitù  ».  Il  Sathas   trova    pure  a  che  tribù  ap- 


petar  ;  ma  conoscono  ed  usano  pure  talvolta,  rifoggiato  a  lor  modo 
[Arher  ecc.),  l'altro  nome,  d'origine  certo  antichissima,  che  lor  danno  i 
Greci  di  'A?i(3avìTm,  dond'è  venuto  pure  il  turco  Arnaut. 


—  424  — 

partenevano  questi  Albanesi  di  Laconia;  trova  ch'erano  affini  a  quelli 
che  occupavano  un  tempo,  in  condizion  di  pastori,  il  versante  lessalo 
ed  acarnanico  del  Pindo  allato  o  insieme  coi  Valachi,  che,  sebbene 
poi  rimasti  soli,  continuano  a  chiamarsi  o  ad  essere  chiamati  'Ap^a- 
viTÒfBXaxoi  ;  onde  gli  pare  spiegato  perchè  essi  poi,  in  Peloponneso, 
non  volessero  riconoscere  al  di  sopra  di  sé  né  Bizantini  né  Franchi, 
ma  solo  i  Despoti  d'Epiro,  sotto  la  giurisdizione  dei  quali  stava  ap- 
punto la  Tessalia,  e  si  conservassero  amici  a  Venezia  finché  questa 
li  protesse  contro  gli  uni  e  gli  altri  senz'attentare  alla  loro  indipen- 
denza. Conchiude  ripetendo  ormai  asseverantemente  che  questo  ramo 
peloponnesiaco  degli  Albanesi  per  tutto  quel  medio  evo  ch'ebbe  tanto 
in  orrore  il  nome  di  Elleni  non  vollero  mai  essere  altro  che  EUeni, 
e  che  appunto  per  tali  vennero,  come  vengono  tuttavia,  considerati, 
non  già  per  istranieri,  dagli  indigeni,  e  che  sol  i  Bizantini,  per  igno- 
ranza o  per  disprezzo  e  odio  ai  Peloponneso,  che  volentieri  facevano 
causa  comune  cogli  invasori,  davano  a  questi  il  nome  di  Sciavi. 

Ora,  per  ciò  che  riguarda  la  prima  tesi,  il  Sathas  la  svolge  così 
bene,  che  ormai  non  è  più  permesso  il  dubbio  intorno  alla  persi- 
stenza dell'ellenismo  in  Grecia  dall'antichità  fino  a  noi.  Ma  quanto 
alla  seconda,  si  può  chiedere  se  gli  sia  riescilo  di  provare  (i)  che 
ormai  non  va  più  parlato  di  invasioni  slave  in  Eliade  ,  nominata- 
mente in  Peloponneso,  e  2)  che  quelli  che  i  Bizantini  dissero  Sciavi 
non  erano  altro  che  Albanesi.  Fermiamoci  alla  prima  parte  di  questa 
seconda  tesi.  È  da  dire  innanzi  tutto  che  non  è  ben  chiaro  che  valore 
egli  dia  al  fatto,  che  negli  scrittori  bizantini  allato  a  IkXóPoi  leggesi  anche 
ZGXdpoi.  Il  9  può  essere  qui,  anzi  è  di  certo,  al  pari  del  k,  una  con- 
sonante anorganica  richiesta  dall'eufonia,  inserita  nella  voce  straniera 
dai  Greci  stessi  per  conciliare  tra  loro  in  qualche  maniera  i  due  ele- 
menti della  combinazione  (J-X,  difforme  dall'indole  del  loro  linguaggio. 
Non  pare  ci  sia  qui  nulla  a  sostegno  dell'  opinione  delI'A.  —  Nò  si 
può  affermare  in  modo  assoluto  che  voci  d'origine  slava  manchino 
nel  Livre  de  conqueste,  se,  p.  e.,  è  tale  (come  opina  il  Miklosich  [i]) 
f)oOxov  «  roba,  veste  »,  ch'era  del  resto  allora,  com'è  oggi,  del  lin- 
guaggio comune.  —  Sarebbero  poi  importanti  di  certo  ,  se  fossero 
vere,  le    etimologie   che   il    Sathas    addita    di    Maina    e    Morea.  Ma, 


[1)  Die  slavischen  Elementi!  im  Neitjriechischen ,  Wien,   1870. 


—  425  — 
prima  di  tutto,  è  ben    lecito  dubitare    della    seconda  n);  e,  in    ogni 
caso,  se  valgono  a  restringere    il   campo  d'  azione   dello  Slavismo  in 
Grecia,    non   si    ponno    pretendere    bastevoli   a    provare    che   questo 
non  vi  è  mai  esistito. 

Lo  stesso  va  detto  dell'argomento  che  TA.  accampa  nella  seconda 
parte  della  sua  tesi.  È  grandemente  probabile  (non  oserei  dire,  senza 
altre  prove,  pienamente  sicuro)  ciò  eh'  egli  pel  primo  ha  supposto  : 
che,  nei  casi  da  lui  accennati,  sotto  il  nome  degli  Avari  e  degli 
Sciavi  si  debbano  intendere  gli  Albanesi.  Ma  ad  ogni  modo  si  tratta 
di  pochi  casi  e  non  sarebbe  lecito  tirarne  la  conseguenza,  ch'egli  sot- 
tintende, ch'erano  Albanesi  tutti  gì'  invasori  del  Peloponneso  noti 
nella  storia  sotto  il  nome  di  Avari  e  di  Sciavi.  Ma    è   sol    lecito  ti- 


fi) In  un  articoletto  infatti  del  Bulletin  de  Correspondance  hellé- 
nique  (Athènes-Paris,  mars,  1881),  C.  Paparrigopulos  nega  sia  mai  esi- 
stita una  città  dal  nome  di  Morea  in  Elide  o  in  altra  parte  qualunque 
del  Peloponneso ,  sì  perchè  nei  versi  del  Livre  de  conqueste  che  il 
Sathas  cita  in  suo  favore,  come  in  altri  due  luogbi,  col  nome  di  ó 
Mujpaia(;  è  chiaramente  indicata  non  una  città,  ma  una  regione  ;  sia 
perchè  di  una  città  siffatta  nulla  sa  il  geografo  Edrisi ,  del  XII  secolo, 
di  gran  lunga  più  autorevole  del  suo  connazionale,  a  lui  posteriore, 
Ibn-Sayd.  —  Dallo  stesso  Paparrigopulos  si  apprende  che  anche  Zachariae 
VON  LiNGENTHAL  [Deutsche  Literaturzeitung,  1880,  n»  6)  la  pensa  qui 
come  lui  e  che  del  nome  di  Morea  propone  una  nuova  etimologia.  Ve- 
dendo cioè  che  nei  più  antichi  documenti  questo  nome  ci  appare  sotto 
la  forma  di  Amorea,  egli  volentieri  lo  deriverebbe  da  à,uópeio<;  =  àvó- 
peio?,  aggettivo  qualificativo  della  bassa  Elide,  bene  corrispondendo  la 
denominazione  r|  à)uópeiO(;  'HXic;  alla  KOÌXr|  ^HXii;  dell'  antichità  classica. 
Ma  bene  avverte  il  P.  che  non  si  spiega  perchè  sia  entrato  nell'  uso 
questo  nome  piuttosto  che  un  altro,  se  non  si  prova  almeno  ch'era  ado- 
perato in  Elide  all'epoca  che  vi  arrivarono  i  Franchi  ;  e  conchiude  che 
questa  sfinge  non  ha  trovato  ancora  il  suo  Edipo.  —  Aggiungerò,  per 
esaurire  l'argomento,  che  l'etimologia  ora  preferita  del  nome  di  cui  si 
tratta  è  questa  :  eh'  esso  sia  metatesi  del  nome  'Puj)aaia  che  un  certo 
tempo  sarebbesi  applicato  in  particolare  al  Peloponneso.  A  questa  eti- 
mologia, contro  la  quale  pure,  a  dir  vero,  stanno  non  lievi  difficoltà 
(perchè,  p.  o.,  ó  Mujpéac;  invece  di  i^  Mmpaia?),  inclinano,  rigettate  de- 
finitivamente le  antiche  spiegazioni  da  |uujpéa  (gelso  moro)  e  dallo  slavo 
more  (mare),  I'Hopf  [Monatsber.  der  k.  Berlin  Ahad.,  ]862,  p.  487),  il 
BuRSiAN  [Geographie  von  Griechenland,  li,  p.  3)  e  T  Hertzberg  [Op. 
cit.,  Il,  p.  85).  L'  ultimo  avverte  che  già  l'aveva  proposta  nel  sec.  XVI 
il  Porcacchi. 

TiivisLa  di  filologia  ecc.,  X  28 


—  426  — 
rame  questa  :  che  in  compagnia  e  al  séguito  di  costoro  (ai  quali 
erano  soggetti)  vennero  in  Eliade,  e  quindi  anche  in  Peloponneso,  e 
vi  si  stabilirono  delle  schiere  di  Albanesi  e  verisimilmente  pure  di 
Valachi.  Certo  è  che  nel  medio  evo  Valachi,  Albanesi  e  Slavi  della 
penisola  balcanica  furono  spesso  e  per  lungo  tempo  tra  loro  stretta- 
mente uniti;  lo  attestano,  oltre  la  storia,  i  rispettivi  loro  linguaggi. 
Anche  al  principio  dell'evo  moderno  noi  li  vediamo  emigrare  insieme 
e  insieme  stabilirsi  in  regioni  diverse,  p.  e.,  in  Istria  e  in  Dalmazia (i). 
Non  è  credibile  quindi  (se  anche  prescindasi  dalle  prove  sicure  di 
Slavismo  in  Grecia  di  cui  faremo  cenno  bentosto),  non  è  credibile, 
dico,  che  fossero  tutti  Albanesi  i  così  detti  Avari  che  invasero  l'Elide 
nel  588  e  furono  domi  nell'  8o5  ;  e  i  così  detti  Sciavi  eh'  entrarono 
in  Peloponneso  verso  la  metà  e  poi  ancora  verso  la  fine  del  sec.  VI 
e  ancora  alla  metà  dell'VIII,  soggiogati  quindi  nell'  860  da  Teoctisto, 
generale  di  Michele  III  ;  quando  di  una  parte  di  essi  (dei  Melingi  e 
degli  Ezeriti),  Laonico  Calcondilas  (citato  dall' A.  stesso)  nel  1456, 
allorché  ben  noti  erano  gli  Albanesi  e  non  più  possibile  confonderli 
con  altri  popoli,  dice  ch'erano  i  soli  Sciavi  superstiti  in  Peloponneso; 
quando  un  altro  bizantino,  Mazaris  (2),  al  principio  del  secolo  stesso 
espressamente  distingueva  tra  gli  abitatori  del  Peloponneso,  a'  suoi 
giorni,  gli  Sclavini  e  gli  Illirii.  Né  si  può,  credo,  senz' altra  prova, 
tenere  per  certo  che  gli  Albanesi  a  cui  accennano  i  documenti  vene- 
ziani del  secolo  XV  siano  proprio  i  discendenti  di  quelli  che  sette 
od  otto  secoli  prima  il  Sathas  vede  stanziarsi  in  Elide,  mentre  sap- 
piamo che  già  alla  metà  del  secolo  XIV  ha  principio  il  movimento 
dell'emigrazione  moderna  degli  Albanesi  verso  mezzogiorno. 

Che  il  Peloponneso  poi  sia  soggiaciuto  ad  una  notevole  invasione 
di  elemento  slavo,  non  si  può  mettere  in  dubbio,  anche  se  non  si 
voglia  tenere  in  nessun  conto  l'autorità,  pur  non  sempre  oppugna- 
bile,  degli  scrittori  bizantini.  Rimarrebbero  pur  sempre  fermi  in 
tutta  la  lor  forza  contro  gli  oppositori  questi  due  argomenti  che  il 
Sathas   ha   passato  sotto  silenzio  :   i)  le  voci   slave   entrate   nel    lin- 


(1)  V.  MiKLOSiCH,  Ueber  die  Wanderungen  der  Rùmùnen  in  den  dal- 
matischen  Alpcn  und  den  Karpathen  (Wien,  1879),  e  v.  nella  Romania, 
aprile,  1880,  la  recens.  di  quest'opera  fatta  dal  prof.  Ive. 

(2)  V.  Bar.  Ow,  Die  Ahstammung  der  Griechen  und  die  Irrthuemer 
und  Taeuschungen  des  Dr.  Ph.  Fallmerayer  (Muenchen,  1848J,  p.  103. 


—  427  — 
guaggio  dell'Eliade  e  ancor  in  uso  pur  nel  Peloponneso;  2)  i  nomi 
di  origine  slava  di  luoghi  abitati,  monti,  corsi  d'acqua,  ecc.,  di  cui 
abbonda  l'Eliade  e  massime  appunto  il  Peloponneso.  II  Miklosich  (i) 
ha  trovato  nel  vocabolario  neo-ellenico  qualcosa  più  d'un  centinaio 
di  quelle  voci.  Anche  Bern.  Schmidt  (2),  non  men  geloso  d'un  greco 
della  purezza  della  nazione  ellenica  e  non  men  renitente  ad  acco- 
gliere le  conclusioni  degli  Slavofili ,  è  costretto  ad  ammetterne  pa- 
recchie, cioè,  per  lo  meno  (oltre  ^oOxov  su  citato)  :  PoupKÓ\aKa(;  vam- 
piro, ZoKÓvi  costume,  KÓKKOTa<;  -oc,  gallo  ,  XÓTYoq  bosco,  aavóc;  fieno, 
axàvr]  giaciglio  e  gregge  e  tootx-  TaouTiàvoi;  -r|C  pastore.  Si  aggiunga 
che  ne  ricorrono  alcune  eziandio  nel  dialetto  dei  Tsàconi,  che  sono 
forse  oggidì  i  più  puri  rappresentanti  degli  antichi  Elleni  (3)  ;  e  non 
mancano  del  tatto  (v.,  p.  e.,  ciiscia  capra  e  ^{ambatdri  pastore)  nem- 
meno nelle  colonie  bizantine  d'Italia,  il  cui  nucleo  primitivo  dev'es- 
sere anteriore  al  looo  (4].  —  Quanto  ai  nomi  topografici  che  accusino 
origine  slava,  chi  è  vago  di  conoscerli  ne  trova  dei  lunghi  elenchi 
nell'opera  citata  dell'Hopf,  il  quale,  si  avverta  bene,  riscontra  e  cor- 
regge qui  il  Fallmerayer  (5).  Ne  citerò  qui  in  prova  (oltre  Scla- 
vochóri]  alcuni  fra  i  moltissimi  spettanti  al  Peloponneso  :  CUnova^ 
Vipovo,  Aracova,  Passava,  Liesinova,  Cosava,  Anastasosova,  Varsova, 
Cracova,  Glogova;  Gurnitsa,  Cernit:^a ,  Vorbit^a,  Goritsa  ,  Granitsa , 
Planit^a  ,  Pirnatsa;  Tecnica,  Servianica  ,  Zagara  ecc.  —  Nomi  si- 
mili (che  certo  non  si  potranno  attribuire  tutti  agli  Albanesi,  la  cui 
lingua,  com'è  noto,  subì  non  leggermente  l'influenza  slava)  appaiono 
perfino  nel  territorio  abitato  dagli  Elleni  per  eccellenza,  dai  Tsàconi. 
Lo  stesso  Bar.  Ow,  accanito  avversario  del  Fallmerayer  e  facile  a 
battezzare  per  schiette  greche  altresì  delle  parole  turche,  è  costretto 
a  confessare  che  qualche  denominazione  topografica  del  Peloponneso 
ha  sembiante  slavo. 


(1)  Nell'op.  cit.   Die  slav.  Elem.  im  Neugriech. 

(2)  Op.  cit.,  p.  3. 

(3)  V.  Schmidt,  Op.  cit.,  p.  12;  Deffner,  Op.  cit.,  p.  5:  contro  Hertz- 
BERG,  il  quale  [Op.  cit.,  I,  p.  200)  erroneamente  chiama  ancora  i  Tsàconi 
«  einen  slavischen  Stamm  «. 

(4)  V.  Morosi,  Studi  sui  dialetti  greci  di  Terra  d'  Otranto,  p.  190 
segg.,  e  /  dialetti  romaici  del  mandamento  di  Bava  in  Calabria, 
p.  72  segg. 

(5)  V.  p.  296  segg. 


—  428  — 
Ma  i  dotti  d'Oltre-lonio  non  si  danno   facilmente  per  vinti.   Loro 
sta  sempre  a  cuore    di   purgare  ad  ogni  costo   la   loro   nazione  dal- 
l'onta che,  secondo  loro,  le  si    fa,  di  crederla  non  immune    da   me- 
scolanza d'elementi   stranieri;  così  appunto  come  sta  lor  a  cuore  di 
ricondurre,  a  ritroso  dei  fati,  la   loro  lingua  letteraria   al    tipo  della 
lingua  classica,  di  fare  di  tutto   per  iscostarla,  con  gravissimo  danno 
della  coltura  generale  del  loro  paese,  dalla  viva  sorgente  della  lingua 
parlata.  Eppure  la  miscela  dei  sangui  non  sarebbe  punto  una  macchia 
propria    del    popolo    ellenico,  poich'  è  un  carattere  comune  a  tutti  i 
popoli  odierni  di  Europa.  Qual  è  tra  essi  quello   che  possa   vantarsi 
d'essere  giunto    da    una  remota  antichità    attraverso   ai    secoli  fino   a 
noi  esente  d'ogni    contatto  con  altri?  Forse  che  i  Tedeschi,  p.  e.,  si 
reputano  a  disonore  il  fatto  che  nel  loro  sangue  germanico  s'è  infil- 
trato molto  sangue  slavo  e  celtico?  O  forse  è  cagione  di  rammarico 
a  noi  Italiani  il  sapere  che  nel  nostro  organismo  etnico  quale  si  era 
costituito  sotto  la  dominazione    romana  si  sono  introdotti,  e  in    ab- 
bondanza, elementi  germanici,  greco-bizantini,  arabi  ?    il    sapere  che 
ancora  oggigiorno  vivono  tra  noi  delle  colonie  francesi  o  provenzali, 
tedesche,  greco-bizantine,  albanesi,  e  persino,   in  Molise  e  in  Friuli, 
proprio    delle    colonie    slave?  E  poi  il  fatto  dell'avere    non    già  gli 
Slavi  assimilato  a  se  i  Greci,  ma  i  Greci  gli  Slavi,  nella  lingua,  nella 
religione,  nei  costumi,  nella  coltura  (i),  non  è  la  prova  più  evidente 
e  conclusiva  di  quella  persistenza  della  nazionalità  ellenica  che   1'  A. 
e  i  suoi  compaesani  tanto  si  studiano  di  assodare  e  mettere  in  piena 
luce?  E,  in  ogni  caso,  se  anche    si    riescisse  a  dimostrare   la  Grecia 
pura  d'elementi  slavi,  forse  che  con  ciò  la  si  dimostrerebbe  immune 
d'ogni  elemento  straniero?  Nessuno  vorrà  dire  molto  affini  agli  El- 
leni  i  pastori  erranti  Tsintsari  o  Cutsovlachi,  un  tempo   così   nume- 
rosi sui  due  versanti  del  Pindo,  che  si  nominava  una  Gran  Valacliia 
in  Tcssalia  e  una  Piccola  Valachia  in  Epiro  e  che  il  loro  capo,  tra 
l'XI  e  il  XII  secolo,  portò  il  titolo  di  Gran  Vlaco  ;  i    quali   ancora 
oggi  vivono  in  parecchie  migliaia,  più    o    meno    segregati    dal    con- 
sorzio ellenico,  e  ivi  e  nella  valle  dello  Sperchio  e  ncU'  Eparchia  di 
Calcide  d'Eubea  e  non  iscarseggiano    neppure  nel  centro  e  nel   mez- 
zogiorno della  penisola  (2).  E  che  si  dirà  degli  Albanesi  ?  Li   incon- 


(1)  V.  ScHMiDT,  Op.  cit.,  p.  2  segg. 

(■2j    DlEFENBACH,  Op.    cit.,    p.    187. 


—  429  — 

triamo  in  tutte  le  eparchie,  tranne  (almeno  ora)  in  Etolia,  Acarnania 
e  Laconia,  e  in  parecchie  isole;  furono  sino  a  poco  fa,  se  non  sono 
ancora,  il  nucleo  principale,  l'elemento  preponderante  della  popola- 
zione, non  già  solo  dell'  Epiro,  ma  altresì  del  regno  ellenico,  donde 
si  spiega  nella  parte  maschile  di  questa  l'uso  comune  dell'albanese 
fiistanela,  e  come  (il  che  è  di  gran  lunga  più  importante)  nel  suo 
complesso  questa  riproduca  il  tipo  fisico  albanese  piuttosto  che  il 
greco  classico.  Essi  furono  qua  e  là  assai  bene  ellenizzati,  ma  gene- 
ralmente sono  ancora  abbastanza  distinti  dagli  EUeni  nei  costumi 
e  anche  nella  lingua,  continuando  di  solilo  ad  usare  in  privato  la 
propria  anche  quando  l'hanno  smessa  in  pubblico  (i).  Il  Sathas , 
come  già  il  Paparrigopulos  (2),  afferma  che  i  Greci  non  considera- 
rono mai  come  stranieri  questi  discendenti  degli  Illiri  o  dei  Mace- 
doni, se  non  anzi  dei  Pelasgi,  venuti  a  stabilirsi  tra  loro  ;  che  accol- 
sero anzi  come  fratelli  e  liberatori  dalla  odiata  dominazione  bizantina 
già  quei  primi  che  apparvero  nella  penisola  sotto  il  nome  di  Avari 
o  di  Sciavi.  Questa  asserzione  non  parrà  a  tutti,  così  senz'altro,  am- 
messibile.  Ma,  se  anche  si  ammettesse,  ne  verrebbe  forse*  cancellata 
la  differenza  glottologica  e  proprio  etnica  che  tra  i  due  popoli  inter- 
cede ?  Sì,  gli  Albanesi  calati  in  diversi  tempi  in  Grecia  furono  e 
sono  a  poco  a  poco  attirati  nell'orbita  della  civiltà  della  patria  loro 
adottiva  e  di  questa  non  men  degli  Elleni  si  mostrarono  e  si  mo- 
strano amanti,  né  men  pronti  a  versare  per  questa  il  loro  sangue; 
ma  è  pur  vero,  checché  dica  la  scuola  capitanala  dall'Hahn,  che  essi 
in  sostanza  [derivino  o  no  dagli  antichi  Illiri  o  dai  Macedoni],  sotto 
l'aspetto  glottologico  ed  etnico  insieme,  differiscono  dai  Greci,  non 
dirò  col  Fallmerayer  quanto  gli  Afgani,  ma  certo  non  meno  o  poco 
men  degli  Slavi. 

E  che  fa  ciò  ?  Per  un  popolo  —  piaccia  che  io  ripeta  qui  le  pa- 
role che  un  vero  amico  dei  Greci  odierni,  Ulrico  Koehler,  pronun- 
ziava nella  seduta  de'  i3  dicembre  1877  dell'  Istituto  Archeologico 
Germanico  ad  Atene  (3)  —  per  un  popolo  è  un  privilegio  ben  dubbio 


(1)  DiEFENB.,  ibid.;  e  Schmidt,  Op.  cit.,  p.  14  segg. 

(2)  Op.  cit.,  p.  395. 

(3)  TJeher  die  Zeit  und  den  Ursprung  der  Grabaiilagen  in  Mykenoe 
und  Sputa,  nelle  Mittheil.  des  deutsch,  archaeolog.  Jnstitutos  in  Athen, 
Athen,  1878. 


—  430  — 

quello  d'avere  un  albero  genealogico  assolutamente  puro.  Mentre  delle 
nazioni  che  superbamente  rifuggono  da  ogni  mescolanza  con  altro 
sangue  si  veggono  fiorire  per  poco  e  di  buon'ora  scadere,  insegna  la 
storia  d'  ogni  tempo  che  sono  i  più  atti  a  vivere  e  incivilirsi  quei 
popoli  che  hanno  saputo  accogliere  elementi  stranieri  e  assimilar- 
seli. I  Greci  fino  al  giorno  d'oggi  tale  attitudine  la  mostrarono.  E 
qui  appunto  è  una  delle  più  sicure  guarentige  ch'essi  vivranno  e  sul 
cammino  della  civiltà  andranno  via  via  progredendo. 

* 
Firenze,  gennaio  1882. 

Giuseppe  Morosi. 


DELLA  LUNGHEZZA  DI  POSIZIONE 
NEL   LATINO,   NEL    GRECO   E   NEL   SANSCRITO 


I.  La  questione  ch'io  sto  per  trattare  non  è  forse  senza  impor- 
tanza, come  quella  che  può  dall'una  parte  interessare  il  filologo  e  il 
glottologo,  e  dall'altra  chi  si  occupa  di  studi  metrici.  E  se  considero 
che  in  questi  ultimi  anni  ne  trattarono  il  Corssen,  il  Baudry,  il  Pezzi, 
il  Cannello,  lo  Schmidt,  non  mi  resta  alcun  dubbio  che  la  sua  im- 
portanza ce  l'ha  veramente  e  non  piccola.  Piuttosto  temo  di  aver 
mirato  a  troppo  arduo  segno  prendendo  a  studiare  un  argomento, 
intorno  al  quale  già  si  esercitarono  tante  belle  intelligenze.  E  di  questo 
chiedo  venia  anticipata. 

Intorno  alla  lunghezza  di  posizione  delle  sillabe  gli  antichi  gram- 
matici Pompeo  e  Prisciano  ci  lasciarono  una  teoria  che  il  Corssen 
espone  diligentemente  nella  sua  opera  capitale  :  Ueber  Aussprache, 
Vocalismus  iind  Beionung  der  lateinischen  Sprache  (2»  edizione,  II, 
p.  6i3-i4  e  segg.).  Pompeo  e  Prisciano  ci  insegnano  che  ogni  con- 
sonante semplice,  paragonata  con  l'unità  di  misura  metrica  ossia  con 


-  431  - 

una  inora  (il  xpóvoi;  TipOùToc;  di  Aristosseno),  vale  un  mezzo  tempo, 
cioè  una  mezza  mora  ;  e  che  ogni  consonante  doppia,  e  a  fortiori  due 
consonanti  che  si  seguono  immediatamente  valgono  una  mora  intiera, 
e  perciò  hanno  il  valore  metrico  di  una  vocale  breve.  Questa  teoria 
si    ricava  dai   passi  seguenti:  Pompeii,  p.   ii2Keil:    «  e  brevis  unum 

habet  tempus,  t  dimidium  tempus  habet,  5  dimidium  tempus  habet 

T  consonans  est  et  omnis  consonans  dimidium  habet  tempus...  X,  quae 

duarum   consonantium    fungitur    loco,  unum    habet  tempus Illud 

etiara  sequitur,  esse  aliquas  syllabas  plurimas,  quae  et  plura  habent 
tempora,  quam  oportet,  ut  est  lèx.  Ecceèipsum  naturaliter  duo  tem- 
pora habet  ;  ,v ,  quae  duarum  consonantium  fungitur  loco,  unum 
habet  tempus;  ecce   invenitur  ista  syllaba  habere    tria    tempora ». 

Ne  avviene  che  quando  alla  durata  di  una  vocale  breve  si  aggiunge 
la  durata  di  due  consonanti  semplici  che  le  tengono  dietro  imme- 
diatamente, queste  due  durate,  sommate  insieme,  equivalgono  alla 
durata  di  una  vocale  lunga;  di  qui  nasce  la  lunghe^^^a  di  posi:^ione 
delle  sillabe.  Pompeii,  p.  ii2Keil:  «  quae  positione  fit  longa,  duo 
habet  tempora.  Quomodo  ?  unum  habet  a  vocali,  et  unum  habet  a 
duabus  consonanlibus,  quia  duae  consonantes  dimidium  et  dimidium 
habent  tempus  et  faciunt  longam  syllabam  praecedentem  ». 

I  grammatici  latini  ci  insegnano  eziandio  che  vi  sono  consonanti 
di  una  durata  incommensurabile,  ossia  consonanti  irra:[ionali .  Tra  le 
quali  consonanti  irrai^ionali  essi  annoveravano  le  liquide  r  ed  /  : 
Cledon.,  p.  27  k:  «  liquidae  eo  dictae  quia  liquescunt  in  metro  ali- 
quotiens  et  pereunt  »;  quando  cioè,  spiega  il  Corssen,  in  unione  con 
la  muta  e  la  vocale  breve  precedente,  non  producono  lunghezza  di 
posizione.  Lo  stesso  dicono  dell'  5  iniziale  seguito  da  muta,  dinanzi 
al  quale  s  la  vocale  finale  della  parola  precedente  rimane  breve  : 
Pompeii,  p.  io8:  «  5  littera  hanc  habet  potestatem,  ut,  ubi  opus 
fuerit,  excludatur  de  metro:  «  ponite  spes  sibi  quisque  »;  ergo  talis 
est  5  quales  sunt  liquidae  ». 

Adunque,  conchiude  il  Corssen,  da  questa  incommensurabilità  o 
irrazionalità  di  r,  /,  s  dipende  se  queste  consonanti  spesso  con  una 
muta  e  una  vocale  breve  precedenti  non  compiono  la  durata  di  due 
tempi,  e  quindi  non  producono  lunghe^^a  di  posizione. 

Questa  è  la  teoria  insegnataci  dai  grammatici  antichi  ed  esposta 
dal  Corssen.  Eccone  la  sostanza:  una  vocale  breve  vale  un  tempo; 
una  vocale  lunga,  due  tempi;  una  consonante   mezzo    tempo.  Perciò 


—  432  — 

una  vocale  breve  seguita  da  due  consonanti  semplici  o  da  una  con- 
sonante doppia,  diventa  liaiga  per  posii^^ione  :  perchè  la  durata  della 
vocale  breve  (un  tempo)  sommata  con  la  durata  delle  consonanti  (un 
tempo)  ci  dà  due  tempi  ossia  la  durata  di  una  vocale  lunga.  Però  i 
suoni  r,  l,  s  hanno  valore  incommensurabile;  di  qui  ne  viene  che 
spesso,  quando  a  una  vocale  breve  tengono  dietro  due  consonanti  di 
cui  l'una  è  r  o  /  o  5,  non  abbiamo  lunghe^^a  di  posizione  ;  perchè 
la  somma  della  durata  della  vocale  e  delle  due  consonanti  non  è 
uguale  (non  essendo  da  tener  calcolo  dell'  r  o  l  o  s]  che  a  un  tempo 
e  me:f:io,  cioè  non  è  tale  da  potersi  considerare  come  durata  di  una 
vocale  lunga. 

Questa  teoria  è  talmente  empirica  che  già  fu  combattuta  da  tutti 
coloro  che  in  seguito  si  occuparono  di  quest'argomento  ;  ed  io  dubito 
ancora  che  il  Corssen  1'  abbia  voluto  patrocinare  come  vera  e  soste- 
nibile, ma  che  semplicemente  egli  1'  abbia  esposta  per  far  conoscere 
quali  fossero  a  questo  proposito  le  opinioni  degli  antichi. 

È  al  tutto  empirica  l'affermazione  che  il  suono  d'  una  consonante 
valga  la  metà  di  una  vocale  breve.  A  ogni  modo,  bisognerebbe  sempre 
distinguere  se  nella  sillaba  la  consonante  è  preceduta  o  seguita  dalla 
vocale  :  p.  es.  in  ta  il  valore  del  t  è  ben  diverso  che  in  at.  Ma  di 
questo,  pila  tardi. 

Ancora,  su  qual  fatto  possiamo  noi  fondarci  per  dire  che  i  suoni 
r,  /,  s  sono  irra:;ionali  ? 

E  ammesso  pure  che  lo  siano,  cioè  che  siano  più  brevi  di  un 
mezzo  tempo,  perchè  dunque  r  ed  /  fanno  sempre  posizione  quando 
essi  precedono  la  muta,  e  quando  sono  doppi  ?  Se  tr  può  non  far 
posizione  con  la  vocale  breve  precedente ,  perchè  dovranno  farla 
sempre  rt  ed  rr  ? 

Il  Baudry  [Grammaire  comparée  des  langues  classiques,  p.  lo-i'i) 
dichiara  insufficiente  la  teoria  suddetta,  ed  espone  una  sua  idea,  a 
vero  dire,  un  po'  vaga  e  un  po'  confusetta.  Egli  in  sostanza  attribuisce, 
mi  pare,  la  lunghezza  di  posizione  alia  difficoltà  di  poter  pronun- 
ziare più  consonanti  di  seguito:  «  on  s'en  peut  faire  une  idée  quand 
on  entend  les  Orientaux  qui  parlent  aujourd'  hui  notre  langue  ;  un 
Persan  qui  parie  francais  prononce  ferancais,  obejet...  Il  suffit  qu'une 
difficulté  semblable  se  soit  rencontrée  dans  la  prononciation  des  lan- 
gues anciennes  pour  expliquer  l'allongement  d'une  syllabe  qui,  à  sa 
•  voyelle  briève  valant  un  temps,  ajoutait    un    rctard  cquivalant  à  une 


—  433  — 

fraclion  d'un  autre  temps  ».  Io  non  so  perchè  queste  medesime  dif- 
ficoltà non  si  dovessero  incontrare  nella  pronunzia  di  quelle  conso- 
nanti che  talvolta  non  fanno  posizione  [s,  r,  /)  ;  tanto  è  vero  che  il 
Baudry  stesso  ci  porta  di  tali  esempi  :  f{e]rancais,  ecc. 

Né  credo  che  i  Latini  pronunciassero  am{e)nis  per  amnis,  lon[e)gus 
per  longiis^  f{e)remere,  t{e)remere,  né  i  Greci  Xa|u(e)iTd<;  per  Xa,uTrd<;, 
€p(€)yov  per  6pYov,q)(e)paZ;uj,  P(e)poTÓ<;,  ecc.  Di  più,  già  notava  il  Corssen 
(Op.  cit.,  IP,  6i8)  che  l'ipotesi  della  inserzione  d'un  e  irrazionale  fra 
le  due  consonanti  facienti  posizione,  per  ispiegare  la  lunghezza  di 
posizione,  è  inutile,  e  non  è  in  alcun  modo  confermata  né  dalla  scrit- 
tura né  dalla  metrica  latina. 

Veniamo  ora  alla  teoria  esposta  dal  nostro  professore  Dome- 
nico Pezzi,  il  quale  (ne  sono  certissimo)  nella  franchezza  con  cui  io 
discuto  le  sue  opinioni  non  vorrà  vedere  che  un  attestato,  il  più  alto, 
il  più  sincero  ch'io  gli  possa  dare,  della  mia  stima  e  della  mia  rico- 
noscenza. Egli  adunque,  dopo  analizzate  minutamente  e  respinte  le 
teorie  del  Corssen  e  del  Baudry,  soggiunge  [Gram.  storico-comp.  della 
lìngua  lat..  p.  io6)  :  «  ci  sembra  assolutamente  necessario  in  questa 
investigazione  tener  conto  del  posto  occupato  dalla  liquida  e  sup- 
porre che  la  medesima  possa  esercitare  sulla  muta  precedente  (che  le 
si  addossa)  un'azione  abbreviatrice,  quasi  la  pronunzia,  impaziente  di 
giungere  al  secondo  elemento  della  combinazione  fonetica,  sorvoli 
sul  primo.  Restringendo  il  nostro  discorso,  oramai  troppo  lungo,  su 
questo  argomento  al  solo  studio  del  suono  r,  a  cui  principalmente 
si  riferisce  il  fenomeno  che  investighiamo,  noteremo  che  l'azione  da 
noi  attribuitagli  ipoteticamente  trova,  se  non  ci  apponiamo  in  fallo, 
riscontro  degno  di  nota  nella  potenza,  ch'esso  rivela  già  nel  campo 
latino  e  maggiore  in  quello  degli  idiomi  neo-latini,  di  affievolire 
suoni  esplosivi  precedenti,  facendo  si  che  esplosive  sorde  s'indeboli- 
scano nelle  sonore  corrispondenti,  e  tanto  le  prime  quanto  le  seconde 
in  certi  casi  si  dileguino  compiutamente  senza  lasciar  traccia  di  sé  ». 

Non  é  dubbio  che  1'  r  tenda  ad  affievolire,  e  qualche  volta  riesca 
anche  a  far  dileguare  i  suoni  esplosivi  che  immediatamente  lo  prece- 
dono. Ma,  notiamo,  questo  fatto  avviene  sopratutto  nel  campo  neo- 
latino, mentre  nel  campo  latino  ci  sono  pochissimi  esempi  di  digra- 
damento, nessuno,  ch'io  sappia,  di  dileguo  d'un  suono  esplosivo  in- 
nanzi ad  r.  Resta  adunque  sempre,  sebbene  talvolta  digradata,  resta 
sempre  nel  campo  latino  una  consonante  esplosiva  dinanzi  ad  r  ,  né 


—  434  — 
mi  pare  che  sia  sufficiente   spiegazione    della   posi:^ioiìe   debole  (i)  il 
dire  che  1'  r  tende  ad  abbreviare  la  muta  precedente.  E  la  stessa  spie- 
gazione   potrebbe  poi  valere  per  1'  /?  per  1'  s  seguito  da  muta?  var- 
rebbe pel  campo  greco? 

Del  resto  il  Pezzi  stesso  credo  abbia  rinunziato  a  questa  spiega- 
zione, poiché  in  una  sua  opera  posteriore  [Glottologia  aria  recentis- 
sima, p.  28,  nota  i)  parlando  della  teoria  immaginata  dallo  Schmidt, 
la  dice  «  la  migliore  di  quante  illustrazioni  furono  tentate  di  questo 
fenomeno  (posizione  debole)  ». 

Vediamo  adunque  quale  sia  la  teoria  esposta  dallo  Schmidt,  che  è 
anche  la  pilli  recente  ch'io  conosca  intorno  a  questo  argomento. 

Lo  Schmidt  consacra  il  secondo  volume  della  sua  opera  Ziir  Ge- 
schichte  des  Indogermanischen  VoJcalismus  (Weimar,  1875),  all'investi- 
gazione della  azione  esercitata  da  r  ed  /  sulle  vocali  vicine.  Egli  trova 
che  nella  più  parte  delle  lingue  indogermaniche  il  suono  vocale  ine- 
rente ad  r  ed  /  (der  stimmton  des  r,  /)  si  manifesta  con  tal  forza  che 
sotto  favorevoli  condizioni  si  può  svolgere  in  una  vocale  indipen- 
dente tra  la  liquida  e  le  consonanti  vicine  (p.  i).  Questo  suono  vo- 
cale così  sviluppato  è  detto  dai  grammatici  indiani  svarabhakti,  e  lo 
Schmidt  conserva  questa  denominazione  perchè  più  esatta  delle  greche 
èTrévGeoiq  àvàTrtuEic;  e  del  russo  pollnoglasie. 

Egli  si  accinge  quindi  a  studiare  la  svarabhakti  nel  campo  sanscrito, 
nello  slavo  e  ne' suoi  vari  rami,  nel  lettico,  nel  lituano,  nel  prus- 
siano, neir  antico  cranico,  nel  greco,  nel  latino,  nell'  irlandese,  nel 
germanico.  Noi  lo  seguiremo  nel  campo  sanscrito,  nel  greco  e  nel 
latino,  lasciando  gli  altri  che  non  fanno  al  caso  nostro. 

Sanscrito  [Op.  cit.,  11,  voi.,  p.  1-8):  Dopo  avere  accennato  alle  varie 
opinioni  sulla  qualità  del  suono  che  si  svolge  dopo  ?"  ed  /  (poiché  il 
Whitney,  per  es.,  lo  paragona  alla  vocale  indetcrminata  dell'  inglese 
bui,  mentre  il  Benfey  lo  identifica  con  1'  e  dell'ant.  battriano  svol- 
gentesi  tra  r  e  consonante,  es.:  dadareca  =  skr.  dadarca) ,  il  nostro 
autore  soggiunge  che  negli  inni  vedici  non  ci  sono  tracce  sicure  della 
rappresentazione  grafica  di  questa  svarabhakti.  Ce  ne  sono  però  in 
opere  posteriori;  egJi  trova: 


(1)  Avverto  per  maggior  chiarezza  che  si  dice  esservi  posizione  de- 
bole quando  una  vocale  breve  dinanzi  a  due  consonanti  (cons.  -f  r,  l, 
s  -j-  cons.)  può  restar  breve. 


—  435  - 

dhùrusadam  per  dhursadam  ; 

paracii  per  parca  ; 

bhurag  per  *bharag,  *bharg. 

carad-,  caradu,  autunno,  anno,  deve  dedursi    per   svarabhakti  da 
card. 

palavi,  specie  di  vaso,  lat.  pelvis^  gr.  Txe\\i(;,  iréXXa    da    *TieXF;  — 
senza  svarabhakti  palva-Ia-s,  piccolo  recipiente  da  acqua. 

kararas,  corvo,  lat.  corviis. 

palàvas,  loppa,  pula,  gr.  TrdXri,  sorta  di  farina,  da  *TTaXFr|,  come 
òXot;  da  *  òXFoc;. 

Gli  aoristi  akàrisam,  anvakàrisam  per  akàrsam.  anvakàrsam. 

varisa-,  karisa-  invece  di  rarsa-,  karsa,  e  pochi  altri. 
Anche  dinanp  a  r  (prego  di  notare  queste  parole)  si    trova    svara- 
bhakti (auch  vor   r   findet  sich  svar.)  :  il    trovare    computato    indra , 
riidra,  ecc.  di  tre  sillabe  ,  ci  accenna  a  indara  o  indira,  ritdara,  ecc. 
Troviamo  ancora  tarasanti  per  trasanti,  palava  per  piava. 

Greco  (p.  307-342).  Questo  capitolo  non  contiene  molto  che  faccia 
al  caso  nostro  ;  si  estende  invece  moltissimo  a  proposito  dei  muta- 
menti, delle  metatesi,  degli  allungamenti  e  dei  vari  coloramenti  di 
vocali  cagionati  da  r  ed  /. 

Esempi  di  vocali  lunghe  parassite  che  stanno  dopo  r  ed  /  : 

OKapiqpoe;  accanto  a  OKapqpiov,  KÓpqpoe;. 

àpriYu),  àpuuYÓi;  accanto  ad  ópKéu;. 

àXujq)ó<;,  bianco  =  àXqpò<;,  albus. 

KoXujvó(;,  collina,   lat.  collis  da  *  colnis,  lit.  kdlnas,  monte. 

èpuuòióc;  accanto  ad  ardea. 
Queste  vocali  lunghe  parassite  dovettero  anch'esse  dapprima  esser 
brevi  ;  ma  quando  ebbero  acquistata  una  piena  esistenza  individuale, 
allora  sotto    la    sempre  crescente  influenza  del  suono  vocale  inerente 
al  p,  esse  divennero  lunghe  (p.  3 11). 

Esempi  di  vocali  brevi  parassite  dopo  r  ed  l  :  òpÓYuict  :  òpfuict;  òXe- 
yeivóq  :  àXYeivóc,  ecc.   (p.  3i3}. 

Da  questo  fenomeno  della  svarabhakti  lo  Schmidt  fa  dipendere  la 
posizione  debole  :  «  È  influenza  delia  svarabhakti  non  ancora  svoltasi 
in  una  vocale  piena  e  da  calcolarsi  metricamente,  se  una  consonante 
momentanea  seguita  da  una  liquida  non  fa  posizione.  In  tal  caso  non 
c'è  veramente  una  doppia  consonanza  ;  le  due  consonanti,  per  mezzo 
del  debole  suono  vocale  ancora  metricamente  irrazionale,  sono    così 


—  436  — 
separate  1' una  duU' altra,  che  solamente  la  prima  si  può    computare 
con  la  sillaba  precedente  »   (p.  3i3}. 

Latino  (p.  342070;.  Anche  qui  la  massima  parte  del  capitolo  non 
fa  per  noi.  Teniamoci  strettamente  al  fenomeno  della  svarabhakti. 
Eccone  alcuni  esempi  : 

balairones  :  blaterones  ,  magistaratum  :  uìagistratinn  ,  Terebonio  : 
Trebonio,  trichilinio  :  triclinio,  iirebem  :  urbem  ,  Militiades  :  Miltiades. 

Lo  Schmidt,  contrariamente  al  Corssen,  connette  roliip,  ani.  rolop, 
con  lÀTToiuai,  e  quindi  abbiamo  un  altro  caso  di  svarabhakti. 

Abbiamo  nell'osco  :  sakarater  =  lat.  sacratur ,  alafaternum  accanto 
al  lat.  alfaterna^  aragetud  =  lat.  argento,  ecc. 

Parlando  della  posizione  debole  (p.  343)  combatte  la  teoria  del 
Corssen  che  la  vuole  spiegare  per  mezzo  della  irrazionalità  dei  suoni 
r,  /,  e  soggiunge  svarabhakti  e  mancan-{a  di  posigliene  si  determinano 
a  vicenda. 

Questi  sono ,  molto  succintamente ,  i  risultati  degli  studi  dello 
Schmidt  in  ordine  alla  mancanza  di  posizione  che  spesso  occorre 
quando  dopo  una  vocale  breve  segue  una  consonante  muta  e  una  li- 
quida. Le  vaste  investigazioni  del  dotto  professore  di  Berlino,  delle 
quali  tralascio  ogni  elogio  che  in  bocca  mia  suonerebbe  ridicolo  o 
superbo,  serviranno  certo,  in  molteplici  maniere,  ai  glottologi  e 
anche  ai  filologi  ;  ma  mi  pare  di  potere  affermare  che  esse  non  rie- 
scono punto  a  spiegare  il  fenomeno  della  posizione  debole. 

Anzitutto  io  faccio  osservare  : 

1"  Gli  esempi  di  svarabhakti  recati  dallo  Schmidt  sono  molti  in 
sé,  ma  sono  assai  pochi  se  si  considera  il  grande  numero  di  parole 
sanscrite,  greche  e  latine,  in  cui  s'incontra  il  gruppo  r,  /  -|-  conson. 
oppure  cons.  +  r,  /.  Quindi  io  non  so  se  da  questi  pochi  esempi  ac- 
certati noi  abbiamo  il  diritto  di  dedurre  che  sempre,  in  tutti  i  casi, 
si  svolse  la  svarabhakti. 

2°  Ammesso  pure  che  in  latino  non  si  pronunciasse  supra  ma 
sup[e)ra  o  sup'ara,  io  mi  domando  :  perchè  non  conteremo  noi  questa 
parola  come  avente  tre  sillabe?  e  se  vogliamo  ridurre  le  due  prime 
a  una  sola,  non  sarà  questo  un  motivo  di  più  perchè  questa  una  sia 
lunga?  Non  abbiamo  noi  visto  in  sanscrito,  a  cagione  della  svara- 
bhakti, indra  e  riidra  computati  di  tre  sillabe? 

3°  Se  la  svarabhakti  nella  combinazione  cons.  +  r,  /  produce 
posizione  debole,  perchè  questa  posizione  debole  l'hanno  solamente  il 


—  437  — 
greco  e  il  latino,  e  non  si  trova  nel  sanscrito,  dove    pure    la   svara- 
bhakti  ha  molta  azione  ? 

4"  Faccio  ancora  osservare  che  la  svarabhakti  si  trova  pure,  anzi, 
come  lo  stesso  Schmidt  dichiara  e  come  appare  dagli  esempi  recati, 
è  assai  più  frequente  nel  gruppo  r,  /  -\-  cons.  (es.  artis,  altus)  che  non 
nel  gruppo  cons.  -r  ^i  l  {patris,  delubrum).  Perchè  dunque  nel  primo 
caso  non  fa  posizione  debole,  ma  solamente  nel  secondo? 

Quando  noi  ci  troviamo  davanti  a  un  fenomeno,  il  quale  alcune 
volte  è  accompagnato  e  altre  volte  non  è  accompagnato  da  certa 
condizione,  possiamo  noi  affermare  che  questa  condizione  è  la  causa 
di  quel  fenomeno?  Esempio  :  se  un  patologo,  esaminando  cento  ca- 
daveri tubercolotici,  incontra  in  alcuni  certe  alterazioni  al  fegato, 
negli  altri  non  le  incontra,  mi  pare  non  abbia  il  diritto  di  dire  che 
quelle  tali  alterazioni  epatiche  sono  inseparabili  dalla  tubercolosi, 
tanto  meno  poi  che  esse  sono  causa  della  tubercolosi.  Noi  siamo 
in  presenza  d'  un  fatto  analogo  :  noi  abbiamo  un  certo  numero  di 
vocaboli  affetti  da  svarabhakti;  gli  uni  ci  presentano  posizione  de- 
bole, gli  altri  no  ;  possiamo  noi  dire  che  questi  due  fenomeni  sono 
inseparabili  o  che  l'uno  è  la  causa  dell'altro?  Se  la  logica  vale  qual- 
cosa, mi  pare  possiamo  rispondere  recisamente  no. 

5''  Infine  noi  troviamo  talvolta  posizione  debole  anche  quando  a 
una  vocale  breve  tien  dietro  il  gruppo  5  -{-  cons.;  il  che  gli  antichi 
spiegavano  dicendo  che  anche  1'  5,  come  1'  /  e  V  r  è  un  suono  irra- 
zionale. Come  spiegherebbe  lo  Schmidt  questa  strana  posizione  de- 
bole ?  Qui  la  svarabhakti  non  serve,  perchè  non  so  davvero  e  non 
credo  che  il  gruppo  5  -|-  cons.  abbia  mai  svolto  alcun  suono  paras- 
sita. 

Conchiudo  :  la  teoria  della  svarabhakti  non  serve  a  spiegare  la  lun- 
ghezza di  posizione  né  debole  né  forte. 

Fin  qui  m'è  toccato  di  fare  l'ingrata  parte  dello  spirito  che  nega. 
Ora  m'accingo  molto  volentieri  a  vedere  se  è  possibile  di  affermare 
qualche  cosa,  con  la  speranza  che,  se  non  altro,  avrò  almeno  dato 
prova  di  buona  volontà. 

II.  Nella  teoria  della  lunghezza  di  posizione  io  credo  sia  avve- 
nuto quello  che  avvenne  nella  teoria  della  elettricità  dinamica.  È  noto 
che  Alessandro  Volta  attribuiva  la  for:^a  elettromotrice,  come  egli  la 
chiamava,  al  contatto  di  due  metalli;  si  vide  più  tardi  che  c'era  con- 


—  438  - 
tatto,  ma  e'  era  insieme  reazione  chimica,  e  questa,  non  il  contatto, 
era  la  sorgente  dell'elettricità.  Lo  stesso  errore,  dicevo,  mi  pare  sia 
avvenuto  nella  teoria  della  lunghezza  per  posizione.  Ognuno  avrà  os- 
servato che  tutte  le  teorie  precedentemente  esposte  partono  da  questa 
definizione  :  è  lunga  per  posizione  quella  vocale  breve  che  è  seguita 
da  due  consonanti,  oppure:  è  lunga  per  posizione  quella  sillaba  che 
contiene  una  vocale  breve  seguita  da  due  consonanti.  Vediamo  se 
queste  definizioni  sono  conformi  alla  realtà  delle  cose.  Consideriamo 
questi  due  esempi  : 

dicit  aeque 
dicit  bene. 

Nel  primo  caso  noi  abbiamo  la  sillaba  cit  breve,  nel  secondo  caso 
essa  diventa  lunga.  Perchè  ciò  ?  Io  non  trovo  altra  ragione  all'infuori 
di  questa  :  nel  primo  caso  noi  leggiamo 

di-ci-tae-que 
nel  secondo 

di-cii-  be-ne. 

Mi  pare  impossibile  si  possa  dare  un'altra  ragione  probabile.  La  vo- 
cale i  di  cit  non  diventa  lunga  per  posizione  se  non  perchè,  venen- 
dole dopo  il  b,  noi  non  possiamo  unire  il  t  con  la  sillaba  seguente, 
ma  siamo  costretti  a  sillabarlo  col  ci  precedente;  mentre  nel  primo 
caso  noi  uniamo,  pronunziando,  il  t  con  la  sillaba  seguente  ae. 

Mi  si  dirà:  è  sempre  la  stessa  cosa;  anche  a  questo  modo  si  am- 
mettono due  consonanti  perchè  una  vocale  breve  si  allunghi  per  po- 
sizione. Pare,  ma  non  è  :  e'  è  anzi  una  notevole  differenza.  Per  gli 
altri  il  b  di  bene  viene  unito  col  t  di  dicit.,  e  per  spiegare  la  lun- 
ghezza di  posizione  aggiungono  il  suono  tb  a  ci  ;  per  me  invece  il  b 
fa  sillaba,  com'è  naturale,  con  1'  e  che  gli  tien  dietro  [bene).,  e,  per 
rispetto  a  dicit,  il  b  non  ha  altro  valore  che  quello  di  costringere  il 
t  a  far  sillaba  con  ci.  Non  è  dunque  citb  che  ci  dà  la  lunghezza  per 
posizione,  ma  semplicemente  cit. 

Perciò  io  credo  che  all'antica  si  debba  sostituire  questa  definizione: 
«  È  lunga  per  posizione  quella  sillaba  la  quale  contiene  una  vocale 
breve  ed  è  chiusa  da  una  consonante  ». 


-  439  - 
Ora  veniamo  alla  posizione  debole. Consideriamo  questi  due  esempi: 

legiinto 
patris. 

La  sillaba  gun  è  sempre  lunga  per  posizione  perchè  io  non  posso 
sillabare  in  altro  modo  che  le-gun-to,  e  non  mai,  per  es.,  le-gii-nto. 
La  prima  sillaba  di  patris  invece  può  essere  breve  o  lunga  perchè  si 
può  con  tutta  facilità  sillabare  pa-tris  e  pàt-ris. 

Mi  pare  quindi  si  possa  spiegare  il  fenomeno  della  posizione  de- 
bole osservando  che,  per  la  natura  della  liquida,  la  muta  precedente 
può  unirsi  in  sillaba  tanto  con  la  vocale  precedente  quanto  con  la 
seguente  :  pa-tris  e  pàt-ris,  pub-licus  e  pU-blicus,  ecc. 

Si  noti  ancora  che,  come  già  ho  avvertito,  talvolta  anche  il  gruppo 
s  -\-  cons.  non  faceva  posizione.  E  questo  mi  pare  si  spieghi  natural- 
mente se  si  osserva  che  1'  5,  per  la  sua  natura,  può  far  sillaba  così 
con  la  vocale  precedente  come  portarsi  sulla  sillaba  seguente.  Quindi 
noi  troviamo:  vettis-tatis  e  vetu-statis,  scelès-tus  e  scele-stus,  fenes-tra 
Q  fene-stra  (Corssen,  IP,  p.  66o). 

Lo  stesso  si  dica  del  greco  dove  fenomeni  identici  si  spiegano  con 
identiche  ragioni.  Anzi  qui  troviamo  un  fatto  che  ci  conferma  nella 
nostra  spiegazione.  Il  Curtius  [Grani,  greca,  %  78)  dice  che  quando 
in  un  composto  la  muta  è  finale  di  una  parte,  mentre  la  liquida  è 
iniziale  della  parte  seguente  del  composto,  allora  c'è  sempre  posi- 
zione; es.:  'eK-XéYiu.  Ora  questo  fatto  non  può  dipendere  da  altro  se 
non  da  questo,  che  il  greco,  sentendo  ancora  la  forza  di  ciascuna 
parte  del  composto,  sillabava  sempre  èK-Xéyiw,  non  mai  è-K\éYUJ. 

Per  r  opposto,  tanto  nel  greco  quanto  nel  latino  r,  /  +  cons.  fa 
sempre  posizione,  perchè  non  si  può  far  a  meno  di  sillabare  la  li- 
quida con  la  vocale  precedente:  partem,  artem,  altus,  è\Tc{(;,  6pvi<;... 
non  si  possono  sillabare  altrimenti  che  par- te jn,  àr-tem,  àltus,  'eX-iri^, 
"op-vt<;... 

E  se  in  sanscrito  non  troviamo  la  posizione  debole,  vuol  dire  che 
gli  Indiani  univano  sempre  la  muta  alla  vocale  precedente,  cioè  sil- 
labavano sempre  pit-ra,  mit-ra,  riid-ra,  piit-ra,  ecc. 

Mi  pare  adunque  che  il  fenomeno  della  posizione  debole  si  possa 
così  spiegare  molto  semplicemente  senza  ricorrere  né  alla  irraziona- 
lità delle  liquide  né  alla  azione  della  svarabhakti. 


—  440  — 

10  era  arrivato  a  questo  punto  del  mio  lavoro,  quando,  seguendo 
una  nota  del  prof.  Pezzi  alla  sua  Glottologia  aria  recentissima  (p.  28), 
ebbi  a  consultare  la  Rivista  di  filologia  classica,  anno  II,  p.  226 
e  segg.  Ivi  trovai,  con  mia  grata  sorpresa,  che  già  il  prof.  Cannello 
aveva  proposto  la  spiegazione  della  posizione  debole  con  la  possibi- 
lità di  sillabare,  per  es.,  pa-tris  e  pat-ris.  Senonchè  il  Cannello,  an- 
ziché risalire  ai  primi  principi  della  questione,  ebbe  il  torto  di  fer- 
marsi alla  prima  idea;  tanto  che  dopo  avere  avuto  il  merito  di 
dichiarare  che  pa  di  patris  può  essere  breve  o  lungo  perchè  si  può 
sillabare  pa-tris  e  pat-ris,  misconosce  egli  stesso  il  valore  del  suo 
pronunziato,  si  impaccia  nelle  more  e  nelle  mezze  more,  e  finisce 
per  darsi  la  zappa  sui  piedi,  affermando  (p.  223)  d'accordo  col  Corssen 
e  con  Prisciano  che  il  latino  «  aveva  consonanti  d'  una  durata  in- 
commensurabile, nulla  per  la  prosodia  :  e  a  questa  categoria  di  suoni 
appartenevano  la  5  davanti  a  muta  e  la  r  dopo  muta  >>  (perchè  non 
anche   V  l  ?). 

Per  me  queste  consonanti  che,  in  certi  casi  dati,  hanno  un  suono 
incommensurabile,  nulla  per  la  prosodia,  sono  un  mistero  che  non 
riesco  a  spiegare  e  neppure  a  credere  ;  tanto  più  quando  considero 
che,  anche  in  quei  dati  casi,  l'orecchio  li  avverte,  li  misura  né  più 
né  meno  che  qualunque  altro  suono. 

11  Cannello  inoltre  non  ha  avvertito  che  non  si  può  parlare  di  va- 
lore metrico  delle  consonanti  senza  considerare  la  loro  posizione  ri- 
spetto alle  vocali;  poiché,  come  già  dissi,  ben  diverso,  per  es.,  è  il 
valore  del  t  in  ta  e  in  at.  Egli  invece  seguita  col  Corssen  e  col  Pri- 
sciano ad  attribuire  alle  consonanti,  qualunque  sia  la  loro  colloca- 
zione, il  valore  di  vie^j^a  mora  (fatta  eccezione,  s'intende,  dei  suoni 
5  ed  r  che  in  certi  casi  sono  incommensurabili  o  nulli  .  Egli  adunque 
date  le  parole 

sprè —  tii  —  s    a  —  ìuò  —  re        /rè  —  tii  —  s 

le  calcola  a  more  cosi  : 

3\',  -  I  V,  -  l'A-  ^-V-2  -  l'A  -  3  -    iVi-  (Vi)- 

Donde  risulta  evidente  che,  se  per  es.  1'  e  di  spretus  fosse  breve 
per  natura,  avremmo  spre  =  more  2  Vj.  cioè  mi  par  chiaro  che  questa 


—  441  — 

sillaba  spré  dei  valore  di  more  2  7-i  dovrebbe  essere  computata  come 
lunga  ;  il  che  invece  è  contrario  a  quanto  vediamo  avvenire  nella 
metrica.  Infatti  noi  troviamo  strìi-o,  stre-po,  stm-men,  stro-pha,  sira- 
men,  ecc. 

E  a  questo  inconveniente  egli  cerca  di  rimediare  ricorrendo  alla 
incommensurabilità  dell' 5  innanzi  a  muta  e  dell' r  dopo  muta.  Lad- 
dove a  me  pare  che  basti  avvertire  un  fatto  naturale,  fisiologico,  e 
che  ha  la  propria  spiegazione  nella  natura  delle  consonanti,  il  fatto 
cioè  che  una  consonante,  o  anche  un  gruppo  consonantico,  quando 
precede  a  una  vocale  nella  stessa  sillaba,  si  pronunzia  così  aderente, 
quasi  direi  cosi  compenetrata  con  la  vocale,  che  il  valore  metrico  di 
questa  non  ne  viene  alterato  in  modo  sensibile.  Per  contro,  quando 
la  consonante  tien  dietro  alla  vocale  con  cui  fa  sillaba,  il  nostro  or- 
gano vocale  è  costretto  a  una  tensione  più  grande  e  più  durevole  per 
far  sentire  dopo  la  vocale  anche  il  suono  della  consonante  ;  onde  ri- 
sulta che  quando  abbiamo  da  pronunziare  una  sillaba  composta  di 
una  vocale  breve  e  di  una  consonante  {et,  at,  ecc.),  il  tempo  impie- 
gato a  pronunziare  la  consonante  aggiungendosi  al  tempo  impiegato 
a  pronunziare  la  vocale,  ci  dà  un  tempo,  un  valore  metrico  eguale  a 
quello  di  una  sillaba  lunga. 

Alle  proposizioni  del  Cannello  il  Pezzi  fece  sei  obbiezioni,  a  cui 
egli  non  rispose.  Di  queste  obbiezioni  alcune  sono  rivolte  a  conside- 
rare l'affievolirsi  delle  mute  dinanzi  all'  r,  e  queste  non  fanno  al  caso 
nostro.  Ci  tocca  però,  e  molto  da  vicino,  la  quinta  obbiezione.  Se 
fosse  vero,  dice  il  prof.  Pezzi,  che  1'  a  di  patris  può  restar  breve 
perchè  si  può  sillabare  pa-tris,  perchè  troviamo  lungo  1'  e  di  re- 
stringo, r  e  di  rèsto,  V  e  di  respiro,  ecc.?  «  Né  vi  ha  mezzo  di  con- 
futarci se  non  insegnando  che  simili  composti  debbono  essere  divisi 
per  sillabe  nel  modo  seguente:  res-tringo,  rès-to,  rès-piro  ■» . 

Confesso  che  alle  prime  rimasi  alquanto  imbarazzato.  Ma  poi  mi 
parve  di  scorgere  in  queste  parole,  più  che  un  ostacolo,  un  aiuto, 
più  che  una  obbiezione  che  atterra,  un  fatto  che  conferma.  Ognuno 
mi  vorrà  concedere  agevolmente  che  il  re  di  redico,  di  reduco,  di 
réjìcio  è  al  tutto  lo  stesso  re  che  troviamo  in  restringo,  in  resto,  in 
respiro.  Ora  come  va  che  il  re  in  reduco,  redico,  reficio  è  breve, 
mentre  in  restringo,  rèsto,  respiro  è  lungo  ?  Siccome  non  è  probabile 
che  i  fenomeni  della  metrica  avvengano  a  caso,  una  ragione  ci  ha  da 
essere.  Ora,  in  fede  mia,  non  posso  immaginarne  altra  se    non  am- 

Tiivista  di  filologia  ecc.,  X.  29 


—  442  — 

mettendo  che  i  latini  pronunziassero  res-tringo,  res-to,  res-piro.  Né 
questo  mi  fa  meraviglia:  anzi,  mi  pare  che  di  regola  i  latini  doves- 
sero sillabare  1'  5  seguito  da  consonante  con  la  vocale  precedente  ; 
tanto  è  vero  che  il  gruppo  s  +  cons.  fa  quasi  sempre  posizione, 
mentre  sono  pochissimi  i  casi  in  cui  non  fa  posizione  {vetìistatis,  ve- 
nustatis,  scelestus],  casi  che  non  mi  paiono  spiegabili  se  non  ammet- 
tendo che  r  5  qui  venga  unita,  pronunciando,  con  la  sillaba  seguente. 
Ancora  un'osservazione.  Se  è  vero  che  una  vocale  breve  può  restar 
breve  dinanzi  a  5  +  cons.  e  a  cons.  +  r,  /,  perchè  questi  gruppi  con- 
sonantici possono  trasportarsi  sulla  sillaba  seguente,  è  ovvio  dedurne 
una  conseguenza  la  quale  permette  d'allargare  la  regola  a  questo 
modo:  ci  è  posizione  debole  ossia  «  può  esserci  mancanza  di  posi- 
zione ogniqualvolta  il  gruppo  consonantico  che  tien  dietro  a  una 
vocale  breve  si  può  con  una  certa  agevolezza  sillabare  tutto  con  la 
sillaba  seguente  ».  E,  per  ristringerci  al  campo  latino,  i  gruppi  con- 
sonantici che  (oltre  s  -\-  conson.  e  conson.  -|-  '",  i)  si  possono  con  una 
certa  agevolezza  sillabare  con  la  sillaba  seguente  sono  specialmente 
pt,  ps,  et.  Orbene,  di  ognuno  di  essi  noi  abbiamo  degli  esempi,  dove 
non  fanno  posizione  : 

volìiptatis,  volìiptatem  (Corssen,  II',  p.  662); 
tpse,  ìpsius  (Corssen,  11%  p.  63o); 
sencctutetn  (Corssen,  IP,  p.  662). 

Non  reputo  opportuno  di  entrare  a  parlare  delle  cagioni  per  cui 
la  posizione  debole,  di  uso  quasi  costante  presso  i  poeti  comici  la- 
tini, sia  spessissimo  trascurata  presso  i  poeti  dell'evo  augusteo.  Nep- 
pure mi  fermerò  sulle  frequenti  violazioni  della  legge  di  posizione 
che  occorrono  presso  i  comici  latini,  perchè,  lasciando  stare  che  ho 
inteso  come  il  signor  Edom  ne  fece  poco  fa  il  soggetto  di  una  let- 
tura all'Accademia  di  Francia,  io  sono  persuaso  che  qualunque  pos- 
sano essere  le  ragioni  o  stoniche  o  artistiche  o  glottologiche  o  me- 
triche con  cui  si  vorranno  spiegare  queste  varietà  dell'uso,  esse  non 
potranno  influire  direttamente  sulla  soluzione  del  problema  onde 
nasca  la  lunghezza  di  posizione. 

Torino,  ottobre,   1S81. 

Federico  Gari.anda. 


—  443  — 


CO:;^GETTUTiE    CA70U^IAV^E 


I.  Oltre  a  tutte  quelle  varie  obbiezioni  che  da  Gio.  Matt.  Gessner  (i) 
in  poi  furono  messe  in  campo  per  dimostrare  che  il  libro  De  re  ru- 
stica di  M.  PoRCio  Catone  subì  un  grande  rimaneggiamento  nell'or- 
dine e  nella  lingua  ;  obbiezioni  alle  quali  risposero  per  buona  parte 
Gio.  Ugo  di  Boihuis  (2)  e  Rinaldo  Klotz  (3);  nell'edizione  dei 
Rustici  latini  volgarizzati  (Venezia,  stamperia  Palese,  1792-94,  voi.  I, 
p.  148,  n.  4)  si  legge  la  seguente,  ch'io  credo  gravissima,  alla  quale 
i  critici  non  hanno  per  anco  tentato  di  dare  una  risposta:  «  Ca- 
tone comincia  così  il  suo  libro  :  «  Est  interdum  praestare  (populo  ag- 
giunge un  cod.  della  libreria  di  S.  Marco)  mercaturis  rem  quaerere, 
ni  lam  periculosum  siet  etc.  ».  Per  me  un  tale  modo  di  cominciare 
un'opera  non  va  a  garbo.  Infatti  veggo  che  i  commentatori  si  sbrac- 
ciano a  trovarvi  il  senso  vero.  Ma  checché  sia  della  giustezza  di 
questo  modo  di  cominciamento,  le  ultime  linee  del  Proemio  sem- 
brano sciogliere,  a  mio  favore,  la  questione.  Catone  termina  così  : 
«  Nunc,  ut  ad  rem  redeam,  quod  promisi  institutum  principium  hoc 
erit  ».  Che  è  quanto  dire:  Ora,  ritornando  al  proposito,  ecco  come 
do  principio  a  quanto  promisi.  Se  noi  non  vogliamo  riguardare  Ca- 
tone come  un  babbuino  smemorato,  che  crede  d'  aver  detto  ciò,  che 
non  ha  detto  per  nissun  conto,  siccome    apertamente   consta,  che  in 


(1)  Scriptores  rei  rusticae.  Lipsiae,  MDCCXXXV,  prefaz. 

(2)  Diatribe  literaria  in  M.  Porcii  Catonis  Censorii  quae  supersunt 
scripta  et  fragm.,  Trajecti  ad  Rhenum.  MDCCCXXVI,  p.   17G-187. 

(3)  Ueber  die  urspr.  Gestalt  von  Cato^s  Schrift  de  re  rustica.  Jahn's, 
Jahrbb.,  Suppl.  X,  1844,  p.  5  sg. 


—  444  — 
tutto  il  proemio  suo  nò  ha  specificato  di  voler  trattare  dell'agricol- 
tura, né  lo  ha  promesso,  forza    è   concludere   che    realmente    manca 
buona  parte  del  proemio  scritto  da  Catone,  e  che  questo,  che  ora  ci 
rimane,  è  mutilato ». 

Sorvolando  alle  parole  «  est  interdum  praestare  mercaturis  rem 
quaerere  e.  q.  s.  »  che  non  è  il  caso  di  giustificare,  con  moltissime 
altre,  dalle  accuse  di  commentatori,  i  quali  per  colpa  tutta  loro  non 
intendono  Catone  (i),  vengo  a  proporre  una  variante  nella  chiusa  del 
proemio:  «  nunc,  ut  ad  rem  redeam,  quod  promisi  institulum  prin- 
cipium  hoc  erit  »:  dove  invece  di  promisi  leggerei  promsi ,  modifi- 
cando il  senso  nel  modo  seguente  :  «  Questo  che  [finora]  ho  detto 
sarà  (opp.:  valga  per)  l'introduzione  ch'io  aveva  divisato  [di  premet- 
tere all'opera  mia]  ». 

Per  tal  guisa  sarebbe  tolto  il  sospetto  di  una  lacuna,  la  quale  del 
resto  non  si  saprebbe  dove  ammettere:  non  in  principio  del  proemio, 
perchè  esso  è  troppo  solenne,  se  posso  dirlo,  per  doversi  considerare 
mutilato:  non  in  mezzo,  perchè  la  successione  logica  delle  idee  non 
è  affatto  interrotta. 

Per  altro  contro  questa  congettura  sorge  una  difficoltà.  Nel  periodo 
Catoniano  precitato,  si  legge  il  verbo  redeam,  il  quale  naturalmente 
parrebbe  implicare  l'idea  di  ritorno  ad  una  cosa  alla  quale  l'autore 
sia  di  già  venuto;  ma  di  ciò  si  può  dare  spiegazione. 

Catone,  l'uomo  pratico  per  eccellenza,  che  va  sempre  diritto,  senza 
ambagi,  al  suo  scopo,  tanto  nella  vita  come  nelle  opere  sue  e  segna- 
tamente nel  libro  De  re  rustica,  dove  precetti  sono  aggiunti  a  pre- 
cetti, spesso  perfino  senza  legame,  dopo  aver  premesso  una  prefazione 
alquanto  larga  e  generica,  accennando  ai  pericoli  del  commercio,  alla 
disonestà  dell'usura,  all'eccellenza  dell'agricoltura,  che  fa  gli  uomini 
forti  ed  onesti  e  i  soldati  valorosi,  ed  alla  ingenua  semplicità  de'  co- 
stumi presso  i  maggiori,  i  quali  per  lodare  un  uomo  dabbene  lo 
chiamavano  «  bonum  agricolam  bonumque  colonum  >^ ,  s'accorge  di 
aver  fatto  una  digressione  che  lo  ha  allontanato  dal  dare  principio 
all'argomento  tutto  pratico  ch'egli  si    era    proposto    di    svolgere    nel 


(1)  Chi  volesse  consultare  l'opera  da  me  citata,  avrebbe  più  volte  oc- 
casione di  osservarvi  die  i  saggi  di  spirito  frequentissimi  e  inoppor- 
tuni, si  conciliano  mirabilmente  colla  scarsa  cognizione  del  linguaggio 
Catoniano. 


—  445  — 
De  r.  r.,  e  quindi,  come  pentito,  ritorna  ad  esso   «  nunc,  ut  ad  rem 
redeam,  quod  provisi  inslitutum  principium  hoc  erit  ». 

Questo  va  detto  qualora  s'intenda  il  verbo  redire  nella  significa- 
zione primitiva  di  ritornare.  Se  poi  piacesse  invece  considerarlo  come 
usato  semplicemente  nel  senso  di  venire,  venire  realmente,  ecc.,  giusta 
parecchi  esempi  classici,  la  difficoltà  sarebbe  anche  minore. 

II.  Forse  perchè  in  Prisciano,  lib.  VI,  p.  226  e  266,  ediz.  Hertz, 
si  legge:  «  M.  Cato  in  censura  de  vestitu  et  vehiculis...  »,  Enrico 
Jordan  (i)  credette  che  il  titolo  dell'orazione  Catoniana,  alla  quale  si 
allude,  fosse  «  In  censura  de  vestitu  et  vehiculis  »;  mentre  è  da  ri- 
tenersi, con  molta  probabilità,  per  solo  titolo  genuino  :  «  De  vestitu 
et  vehiculis  ». 

Le  parole  in  censura  sono  state  aggiunte,  a  mio  credere,  dal  gram- 
matico per  indicare  che  Catone  avea  pronunziato  quell'orazione  ìnentre 
era  censore. 

Che  poi  la  cosa  stia  veramente  così  lo  proverebbe  Prisciano  stesso, 
il  quale  al  libro  XIll,  p.  8,  dice  semplicemente:  «  xMarcus  Cato  de 
vestitu  et  vehiculis...  »  senza  aggiungervi  che  l'orazione  era  stata 
detta  in  censura,  perchè  l'avea  già  accennato  due  volte. 

Parimenti,  dalle  parole  di  Gellio,  lib.  V,  i3,  4,  ediz.  Hertz  «  M. 
Cato  in  oratione  quam  dixit  apud  censores  in  Lentulum  »,  se  ne  è 
ricavato  il  titolo  «  In  Lentulum  apud  censores  »  che  ancora  si  legge 
nelle  edizioni  catoniane,  compresa  quella,  del  resto  diligentissima,  di 
Enrico  Jordan  a  p.  Sq,  mentre  il  vero  titolo  parmi  «  In  Lentulum  ». 

III.  Conosceva  Tito  Livio  l'orazione  Catoniana  «  De  lege  Oppia  »? 
Feder.  Lachmann  (2)  dice  :    «  An  Catonis  prò  lege  Oppia  orationem 

legerit  Livius  incertum  est.  Non  in  omnium  manibus  erant  Catonis 
orationes.  Ciceronem  scimus  quasdam  data  opera  invenire  non  po- 
tuisse.  Illa  Catonis  prò  lege  Oppia  oratio  quae  libro  34,  2  et  sq.  le- 
gitur,  Livii  debetur  ingenio,  apte,  ut  Fabricius  dicit,  ad  rem  et  Ca- 
tonis   personam    expressa,  et    in   aliis    locis    Livius,  ubi    orationes  a 


(1)  M.  Catonis   praeter    lihruni    de    re    riist.   quae    exAant.  Lipsiae, 
MDCCCLX,  p.  LO. 

(2)  De  fontibus  Ilistoriarum  T.  Livii,  commentano  altera.  Gottingae, 
JVIDCCCXXVllI,  p.   18. 


—  446  — 
magnis  viris  habitus  superesse  sciret,  alias  ipse  suo  ingenio  proferre 
noluit.  Cfr.  45,  25  ubi  dicit:  non  inseram  simulacrum  viri  copiosi 
quae  dixerit  referendo.  Ipsius  oratio  extat  Originum  quinto  libro  in- 
clusa. Idem  facit  jq,  42,  43  ubi  nonnulla  commemoratur  e  Catonis 
in  Flamininum  oratione  desumpta,  etiam  38,  64  ubi  extare  dicit  ora- 
tionem  de  pecunia  regis  Antiochi,  et  43,  2,  de  qua  re  Catonis  extabat 
oratio  in  P.  Furium  (non  Lucium,  ut  in  fragm.  coli,  legitur),  prò 
Lusitanis  dieta  s.  Lusitanis  Hispanis,  ut  Charis,  p.  198  dicit,  qui 
locus  ad  hanc  orationem  referendus  est.  Et  hi  sunt  loci,  in  quibus 
Catonis  orationibus  usus  est  Livius  e.  q.  s.  ». 

Ora  tutto  questo  si  riduce,  a  parer  mio,  a  dire  in  altre  parole  che 
Livio  quando  conosce  le  orazioni  di  Catone  non  le  riferisce;  ma 
quella  «  De  lege  Oppia  »  la  riferisce,  dunque  non  la  conosce.  Il 
quale  ragionamento  non  sembrami  intieramente  giusto,  poiché  altro 
è  dire  che  nei  quattro  esempi  (il  secondo  e  il  terzo  si  riducono  ad 
uno)  citati  da  Lachmann,  Livio  mostra  di  conoscere  le  orazioni  Ca- 
toniane senza  riferirle,  altro  è  dire  che  ogni  qualvolta  le  conosce  non 
le  riferisce.  Livio  potea  in  quei  luoghi  conoscere  le  orazioni  di  Ca- 
tone e  non  riferirle,  ed  altrove,  pur  conoscendole,  riferirle  se  gli 
pareva  opportuno.  Per  cui,  chi  vorri\  derivare  da  pochissimi  esempi 
una  legge  certa  alla  quale  si  attenesse  strettamente  Livio  senza  riser- 
vare alcuna  libertà  al  suo  ingegno,  non  foss' altro  per  variare?  In 
que'  tempi  la  storia  non  era  ancora  una  scienza,  ma.  come  parte  del- 
l'epopea,  opera  d'arte  (i)  e  quindi  non  si  può  riscontrare  in  essa  il 
metodo  costante,  la  precisione  rigorosamente  scientifica  dei  lavori 
storici  recenti. 

Enrico  Jordan  (2)  che   di    Catone  pubblicò    con    molta  diligenza  i 


(1)  Cfr.  QuiNTiL.,  X,   1,  31-32,  ediz.  Bonnell:  «  Historia est    enim 

proxiraa  poetis,  et    quodammodo    Carmen    solutum,  et   scribitur  ad  nar- 

randiiin  non  ad  probandum  ;   neque  illa  Livii  lactea  ubertas  satis  do- 

cebit  eum  qui  non  speciem  expositionis  sed  fidem  quaerit  )ì. 

(2)  Op.  cit.,  p.  LXIV,  proleg.:  «  Praeclara  extat  oratio  a  Livio,  XXXIV, 
2,  composita,  quo  auctore  quod  ne  titulutn  quidem  orationis  agmea  re- 
liquiarum  ducere  passus  sum,  scio  fora  qui  reprehendaot.  "Veruni  cum 
Livius  ubicunque  Catonis  orationum  memiuit  ibi  fere,  quoniani  integrae 
etiam  tuni  extarent,  «  simulacrum  viri  copiosi  »,  ut  ait  XLV,  25,  aa- 
nalibus  inserero  quasi  religiosnm  habeat,  Oppiae  legis  suasionem,  quam 
uberrime  exposuit,  a  Catone  scriptam  ignorasse  videtur  ». 


—  447  — 
frammenti  superstiti,  non  fa  che  ripetere  l'argomento  di   Lachmann. 
Per  questa  ragione  non  aggiungo  parola  intorno  ad  esso. 

Ermanno  Peter  (i),  dopo  aver  rifatto  il  riscontro  che  Jordan  (2) 
avea  già  tentato  fra  quello  che  dicono  i  frammenti  Catoniani  della 
orazione  «  Dierum  dictarum  de  consulatu  suo  >  (3),  e  Livio  nel 
lib.  XXXIV,  8-21,  esce  in  queste  parole:  «  Vix  enim  mihi  persua- 
dere possum,  Livium,  cum  omnes  res  a  Catone  gestas  conlectas  et 
dispositas  in  Originibus  videret,  ipsum  quae  opus  erant,  ex  oratio- 
nibus  laboriose  conquirere  maluisse,  praesertim  cum  perpaucos  libros, 
qui  non  essent  annales,  in  scribendo  ante  oculos  habuisse  videatur, 
origines  autem  noverit  atque  ita  eorum  mentionem  fecerit,  ut  ma- 
gnam  eius  auctoritatem  habitam  cognoscamus,  Accedit  quod  con- 
sensus  fragmentorum  Catonis  et  Livii  non  est  talis,  ut  quin  Livium 
ipsis  orationibus  usum  esse  statuere  cogamur.  resconcinunt,non  verba. 
atqui  Catonem  consulatum  suum  in  Originibus  silentio  non  praete- 
riisse  eademque  narrasse  quae  in  illis  orationibus  apertum  est:  quid 
ni  igitur  hanc  rerum  expositionem  Livium  secutum  arbitremur?» 

Prima  di  tutto  osserverò  che  se  perpauci  erano  i  libri  consultati 
da  Livio  air  infuori  degli  annali,  non  si  può  a  tutto  rigore  negare 
che  fra  que'  perpauci  si  annoverassero  anche  le  orazioni,  molte  delle 
quali  avevano  stretta  relazione  colle  cose  narrate  nelle  Origini. 

In  secondo  luogo  ancorché  si  ammettesse,  per  voler  essere  più  se- 
veri dello  stesso  Peter,  che  Livio  non  abbia  consultato  altri  libri  che 
annali  (4),  colla  congettura  non  infondata  che  farò  più  sotto,  Livio, 
leggendo  le  Origini  Catoniane  (che  spesso  sono  anche  dette  annali) 
leggeva  pure  implicitamente  molte  delle  di  lui  orazioni,  e  fra  queste 


(1)  Historicorum  romanor.  relliquiae.  Lipsiae,  MDCCCLXX,  voi.  I, 
p.  CLIV-CLVI. 

(2)  Op.  cit.,  p.  LXVI-LVII,  proleg. 

(3)  Vedili  a  p.  33-3G,  Jordan,  Op.  cit. 

(4)  Oltre  a  non  poche  ragioni  si  potrebbe  addurre  in  contrario  anche 
la  seguente  osservazione:  Livio  al  lib.  XXXIII,  15,  9,  dice;  a  Calo  ipse 
haud  sane  detrectator  laudiim  suarum  «,  la  quale  espressione  pare  allu- 
dere alle  orazioni  di  Catone  anziché  alle  origini,  perchè  con  quelle  ebbe 
spesso  a  lodarsi,  ad  opporre,  come  realmente  faceva,  la  propria  condotta 
a  quella  degli  altri  e  a  difendersi  quaranta  e  più  volte  ;  cfr.  1'  orazione 
«  de  suis  virtutibus  centra  Thermum  »,  «  de  sumptu  suo  »  «  ad  litis 
censorias  »  (p,  43.  37.  51  Jordan,  Op.  cit.]  ed  altre. 


—  448  — 
quella  «  De  lege  Oj'fpia  »  perchè,  per  l'importanza  sua,  conferiva  ad 
illustrare  un  punto  non  oscuro  della  vita  di  Catone,  il  consolato.  Al 
che  parrebbe  pure  arrecar  luce  il  seguente  frammento  da  Pesto  (i)  : 
«  Mulieres  opertae  auro  purpuraque:  arsinea,  rete,  diadema,  coronas 
aureas,  rusceas  fascias,  galbeos  lineos,  pelles,  redimicula...  », 

Per  quanto  riguarda  1'  orazione  «  Dierum  dictarum  de  consulatu 
suo  »,  alla  quale  accenna  il  Peter  nel  passo  precitato,  non  dovendo 
discorrerne  qui,  mi  limiterò  ad  osservare  che  mentre  si  trova  pieno 
accordo  se  non  nelle  parole,  almeno  nelle  cose,  fra  Livio  e  Catone, 
non  vedo  la  necessità  di  far  congetture  sulla  possibilità  che  Catone 
abbia  narrato  ciò  stesso  nelle  Origini,  e  che  Livio  abbia  quindi  tolto 
da  esse  quanto  ci  riferisce. 

Né  ciò  basta;  perchè  dall'esame  stesso  dell'orazione  che  sì  legge 
presso  Livio  credo  poter  rilevare  qualche  cosa  di  più.  L' orazione 
comincia  cosi: 

«  Si  in  sua  quisque  nostrum  matre  familiae,  Quirites,  ius  et  ma- 
iestatem  viri  retinere  instiluissent,  minus  cum  universis  feminis  ne- 
gotii  haberemus;  nunc  domi  vieta  libertas  nostra  impotentia  muliebri 
hic  quoque  in  foro  obteritur  et  calcatur,  et  quia  singulas  non  do- 
muinus,  universas  horremus.  Equidem  fabulam  et  ficiam  rem  du- 
cebam  esse,  virorum  omne  genus  in  aliqua  insula  coniuratione  mu- 
liebri (2)  ab   stirpe    sublatum    esse  ;  ab  nullo    genere   non    summum 


fi)  Pag,  265,  ediz,  Mùller.  Nolo  che  l'espressione  auro  purpuraque, 
tutta  catoniana,  si  riscontra  più  volte  nell'orazione  stessa  riferita  da 
Livio, 

(2)  Da  questa  orazione  che  Livio  mette  in  bocca  a  Catone,  come  pure 
dal  primo  paragrafo  del  libro  XXXIV  ed.  Madvig,  al  quale  essa  appar- 
tiene, risulta  chiaro  che  le  donne  avevano  fatto  allora  una  specie  di  con- 
giura: «  Matronae  nulla  nec  auctoritate  nec  verecuudia  aec  imperio  vi- 
rorum contineri  limine  poterant  ;  omnes  vias  urbis  aditusque  in  forum 
obsidebant,  viros  desceudeutes  ad  forum  orantes,  ut,  fiorente  republica, 
crescente  iu  dies  privata  omnium  fortuna,  matronis  quoque  pristinum 
ornamentum  reddi  paterentur  ».  Per  cui  mi  fo  lecito  di  congetturare  che 
all'orazione  Catoniana  «  De  lege  Oppia  »,  anziché  ad  un'altra  supposta 
«  De  coniuratione  »,  come  finora  si  è  sempre  creduto,  appartenesse  la 
parola  precem  conservataci  da  Festo,  p.  242  M.:  a  Preccm  singulai'iter 
Cato  iu  ea  quae  est  de  coniuratione  >. 

Cose  più  ceite  non  dissero  Enrico  Meyer  (Orator.  romanor.  fragni., 
Parisiis,  1837,  p.  129),  Enrico  Jordan  [Op.  cit.,  p,  LXXVII,  proleg.;. 


—  449  — 
periculuni  est,  si  coetus  et  concilia  et  secretas  consultationes  esse 
sinas...  »,e  più  giù,  al  §  3,  i-3:  «  Recensete  animo  muliebria  iura, 
quibus  licentiam  alligaverint  maiores  vestri,  per  quae  cas  subiecerint 
viris;  quibus  omnibus  constrictas  vix  tamen  continere  potestis.  Quid? 
si  carpere  singula  et  extorquere  et  acquari  ad  extremum  viris  pa- 
tiemini,  tolerabiles  vobis  eas  fora  creditis?  Exteraplo,  simul  pares 
esse  coeperint,  superiores  erunt  ». 

Che  così  abbia  veramente  parlato  Catone  non  oserei  dire;  ma  però 
le  idee,  per  lo  meno,  sono  tutte  Catoniane  e  mi  paiono  avere  una 
certa  relazione  con  quello  che  ci  racconta  Plutarco  (i):  «  TTepi  òè  xfiq 
YuvaiKOKpaxiai;  òia\6YÓ]uevoq,  Travres;,  eiitev,  óvBpuuTroi  tujv  yuvaiKtJùv  ap- 
Xouaiv,  »ì|uei(;  he.  iràvTUJV  àvBpujmuv,  iì|aù)v  òè  ai  YVJvaÌKe<;  ». 

Nel  quale  raffronto  bisogna,  ben  s'intende,  tener  conto  di  una  cosa: 
che  cioè  tanto  l'uno  quanto  l'altro  dei  due  autori  riferiscono,  chi  sa 
con  quali  modificazioni,  il  testo  Catoniano,  per  cui  non  si  può  pre- 
tendere una  coincidenza  tale  da  togliere  affatto  ogni  dubbio. 

Inoltre  al  §  4  di  detta  orazione  trovo  scritto  :  «  Saepe  me  que- 
rentem  de  feminarum,  saepe  de  virorum,  nec  de  privatorum  modo, 
sed  etiam  magistratuum  sumptibus  audistis,  diversisqiie  duobiis  vitiis, 
avaritia  et  hixiiria,  civitatem  laborare,  quae  pestes  omnia  magna  im- 
peria everterunt...  »,  dove  oltre  ad  un'immagine  fedele  del  severo 
romano  che  volea,  al  dire  di  Livio  stesso,  «  castigare  nova  flagitia 
et  priscos  revocare  mores  »  (2)  trovo  anche  una  sentenza  che  Livio 
deve  quasi  sicuramente  aver  tolto  da  Catone  e  che  Sallustio,  diligente 
imitatore   di    lui    (3),  ritrasse,  a   mio    credere,  nel    Catil.  cap.  5  ed. 


quali  credettero  si  alludesse  ai  Baccanali  (cfr.  Livio,  XXXIX,  lo,  16), 
né  Greg.  Maians  [Ad  triginta  iurisconsultor.  commentarii,  Genevae, 
1764,  voi.  I,  p.  42)  che  volle  riferirla  ai  tumulti  degli  ostaggi  Cartagi- 
nesi «  qui  Setiae  custodiebautur  »  fLiv.  XXXII,  26). 

(1)  Yita  di  Cat.,  VIII,  2.  ediz.  Blass. 

(2)  XXXIX,  41. 

(3)  Cfr.  iu  QuiNTiL.,  Vili,  3,  29,  il  nolo  distico  d'incerto  autore  : 

«  Et  verba  antiqui  multum  furate  Catonis 
Crispe,  lugurthinae  conditor  histuriae  «. 

e  SvETON.,  Oct.,  86;  De  ili.  gramm.,  10  e  15;  Front.  Epist.  ad  Caes., 
IV,  3;  GusT.  Brùnnert,  De  Sallustio  imitatore  Catonis,  Sisennae..,^ 
Jenae,  1873. 


—  450  — 
DiETSCH  ,  in   questo    modo  :   «  Incilabant    (Catilinam)  praeterea  con- 
rupti  civitatis  mores,  quos  pessuma  ac  divorsa  inter  se  vitìa,  luxiiria 
atque   avaritia   vexabant  ». 

I  frequenti  «  maiores  nostri  »  {2,  11);  «  maiores  vestri  »  (3,  i)  ; 
«  maioribus  nostris  »  (4,  7);  «  patrum  nostrorum  memoria  »  (4,  6), 
che  pur  si  riscontrano  di  sovente  in  Sallustio,  ci  ricordano  il  famoso 
lodatore  del  passato,  il  quale  nel  nuovo  non  vede  altro  che  corru- 
zione. 

Di  più  ricorre  l'espressione:  «  auro  et  purpura  »  (3,  S;  4,  14); 
«  aurum  et  purpuram  »  (4,  io),  che  si  legge  nei  frammenti  Cato- 
niani :  «  auro  purpuraque  »  (p.  28,  i3,  Jord.) ,  «  in  auro  atque  in 
purpura  »   (p.  69,  2  Jord.). 

Per  ultimo,  la  chiusa  stessa  dell'orazione  (4,  21):  «  vos  quod  fa- 
xitis,  deos  fortunare  velim  »  ha  un  sapore  d'arcaismo  purissimo,  che 
Livio  avrà  forse  affettato  ad  arte,  come  del  resto  può  anche  avere 
del  Catoniano  (i). 

Per  tutte  queste  ragioni  non  credo  improbabile  che  Tito  Livio 
abbia  letto  l'orazione  Catoniana  «  De  lege  Oppia  »  e  che  da  essa 
abbia  tolto  più  di  quello  che,  nella  mancanza  assoluta  dell'originale, 
non  ci  è  lecito  congetturare. 

IV.  Fra  tutte  le  orazioni  Catoniane,  Alb.  Bormann  (2)  ed  Enrico 
Jordan  (3)  credono  che  due  sole,  quella  «Pro  Rhodiensibus  »  (lib.  V)  (4) 


(1)  Anche  altrove  sembra  aver  Livio  riprodotto  Catone;  per  es.  al 
lib,  XXXIX,  42,  dopo  aver  riferito  il  fatto  di  L.  Quinzio  Flaminio,  che 
egli  lesse  cortamente,  come  dice,  nell'orazione  Catoniana,  esce  fuori  col 
seguente  periodo  che  egli  probabilmpnte  tolse  da  Catone,  se  si  deve  giu- 
dicare dall'impeto  oratorio  ed  anaforico  tutto  proprio  delle  orazioni  di 
lui:  '.(  Facinus...  saevum  atque  atrox  :  inter  pocula  atque  epulas,  ubi 
diis  dapes,  ubi  bene  precari  mos  esset,  ad  spectaculum  scorti  procacis 
in  sinu  coasulis  recubaatis,  mactatam  humanam  victimam  esse  et  cruore 
mensam  respersam  »;  cfr.  Bolhuis,   Op.  «7. ,  p.   137. 

(2)  M.  Porcii  Catonis  Orir/inum  libri  septetn,  Brandenb.  MDCCCLVIII, 
p.  41. 

(3)  Qitacstionum  Catonian.  capita  duo,  Beroliui,  MDCCCLVI  ,  p.  14 
e  sg.,  e   Op.  cit.,  p.   LVIII,  pioleg. 

(4)  Cfr.  Liv.,  XLV,  25:  «  Non  inseram  simulacrum  viri  copiosi  quae 
dixerit  referendo:  ipsius  oratio  scripta  extat  originum  quinto  libro  in- 
clusa »;  Gellio,  vi,  3,  7. 


—  451  — 
e  quella  «  In  Galbam  prò  Lusitanis  »  (lib.  VII)  (i)  facessero  parte 
delle  Origini;  e  la  ragione  di  ciò,  secondo  lo  slesso  Bormann,  è  che 
se  anche  altre  orazioni  fossero  state  introdotte  da  Catone  nelle  Ori- 
gini, gli  scrittori  romani  che  le  citano  non  avrebbero  detto  solo  per 
le  due  accennate,  che  si  trovano  nelle  Origini. 

A  queste  due  Aug.  Wagener  (2)  ne  aggiunse  per  congettura,  una 
terza,  quella  «  Adversus  Carneadem  »  che  sarebbe  stata  nel  lib.  VI, 
quando  si  riferisca  ad  essa  il  frammento:  «  Itaque  ego  cognobiliorem 
cognitionem  esse  arbitror  »  che  Gellio  (3)  dice  appunto  essere  registrato 
in  quel  libro  medesimo. 

Io  però  a  codeste  opinioni  che  limiterebbero  a  due  o,  al  massimo, 
a  tre  il  numero  delle  orazioni  riferite  rielle  Origini,  muoverò  alcuni 
dubbi. 

È  da  notare  per  prima  cosa,  che  non  avendo  né  tutte,  né  tutte  in- 
tiere le  opere  degli  scrittori  romani,  non  si  può  affermare  in  modo 
veramente  sicuro  che  soltanto  le  predette  orazioni  facessero  parte 
delle  Oricini. 


(1)  Cic,  Brut.,  23,  89,  ediz.  Piderit  :  «  Calo  legem  snadens  in  Galbara 
multa  dixit  ;  quam  orationem  in  Origiues  rettulit,  paucis  antequam  uior- 
tuus  est  diebus  an  mensibus  »;  De  Orat.,  I,  53,  227;  Epit.  Liv.,  XLIX; 
Valer.  Max.,  Vili,  2,  ediz.  Halm  ;  Gellio,  XIII,  25,  15. 

(2)  il/.  Porcii  Catonis  Originum  frar/m.,  Bonnae,  MDCCGXLIX,  p.  65. 

(3)  XX,  5,  13:  «  Hoc  ego  verbura  :  Euvexoì  '{àp  eìaiv  quaereus  uno  iti- 
dem  verbo  dicere,  aliud  non  repperi,  quam  quod  est  scriptum  a  M.  Ca- 
tone in  sexta  origine:  «  itaque  e.  q.  s.  ».  —  Jordan  (Qitaest.  Cai., 
p.  60)  accettando  la  congettura  Wagneriana  tentò  di  completare  le  pa- 
role di  Catone  in  questo  modo  :  «  Cognobiliorem  cognitionem  esse  puto 
iuris,  historiae  etc.  quam  philosophiam ,  quam  vos,  Athenienses,  lau- 
dibus  celebratis  ».  Però  nei  Proleg.  della  seconda  opera  non  ne  tiene 
neppur  parola. 

Che  Catone  abbia  pronunziato,  come  risulta  da  Plutarco  (Vila  di  Ca- 
tone, XXII)  un'orazione  contro  i  filosofi  greci,  sebbene  altri  pensi  di- 
versamente, non  trovo  ragione  per  negarlo  ;  anzi  sarei  d'avviso  che  con 
essa  abbiano  qualche  relazione  le  parole  di  Gellio  (XIII,  23,2):  «  Graecae 
istorum  praestigiae,  philosophari  sese  diceutium  umbrasque  verborum 
inanes  fingentium  »  e  quelle  che  dice  al  lib.  XVIII,  7,  3:  «  Ego  gram- 
niaticus  vitae  iam  atque  morum  disciplinas  quaero,  vos  philosoplii  mera 
eslis,  ut  M.  Cato  ait,  mortualia  ;  glosaria  namque  conlegitis  et  lexidia, 
ras  taetras  et  inanes  et  frivolas,  tamquam  mulierum  voces  praeficarum. 
Atque  utinam,  inquit,  muti  omnes  homiues  essemus  !  miuus  improbitas 
instruiuenti  haberet  ». 


—  452  — 

In  secondo  luogo  non  pare  probabile  che  due  o  tre  orazioni  sol- 
tanto fossero  da  Catone  registrate  nelle  Origini,  mentre  ne  aveva  pa- 
recchie non  certo  inferiori  a  quelle  per  importanza  :  per  es.  quella 
«  De  bello  Karthaginiensi  »   (i)  ed  altre. 

Inoltre,  allo  stesso  modo  che  Cicerone  (Brut.  20,  80),  Gellio  (I,  12, 
17)  e  Quintiliano  (11,  i5,  8),  rispetto  all'orazione  «  In  Galbam  prò 
Lusitanis  »  che  noi  sappiamo  certamente  aver  fatto  parte  delle  Ori- 
gini, non  dicono  nulla  in  proposito,  una  trascuranza  consimile  può 
anche  aver  avuto  luogo  in  ordine  alle  altre  orazioni,  tanto  più  che 
allora  citavasi  di  frequente  con  poca  precisione  e  anche  a  memoria. 

Per  ultimo,  come  si  può  pretendere  che  ci  venga  indicato  dagli 
scrittori  sommi  l'opera  cui  appartenevano  le  orazioni  di  Catone,  se 
vediamo  spesso  non  esserci  neppur  conservati  con  precisione  i  veri 
titoli  di  esse  ? 

11  perchè,  io  credo,  che  parecchie  orazioni  fossero  da  Catone  in- 
tercalate nelle  Origini  :  tutte  quelle  cioè  che  potevano  avere  una  im- 
portanza storica  speciale,  ed  attinenza  colle  cose  narrate  nelle  Ori- 
gini stesse,  le  quali  venivano  a  ricevere  per  cotal  guisa  una  luce  mag- 
giore (2). 

Molte  poi  di  codeste  orazioni  od  anco  tutte  saranno,  com"è  pro- 
babile, state  estratte  dai  grammatici  a  comodità  e  utilità  de'  lettori 
e  delle  scuole,  sia  per  l'importanza  storica,  come  dissi,  sia  perc'nè 
presentavano  certe  particolarità  degne  di  considerazione  :  per  es.  fi- 
gure, sentenze,  locuzioni,  ecc. 

Ad    Oj'ni    modo   se   vogliamo    stare    unicamente  alle  testimonianze 


(1)  Io  favore  della  mia  opinione  sta  il  framni.  4  della  orazione  (p.  56, 
JoRD.)  conservatoci  da  Solino,  Poli/hist.,21  :  «  Urbem  istam  (Kartha- 
gineni),  ut  Calo  in  oratione  senat(;ria  (cfr.  Plut.,  Vita  di  Cat.,  XXII, 
4:  a  uapeXeiJùv  el<;  ti')v  auTKXriTOv  è,uéuij;aTo  k.  t.  X.  »)  autumat,  cum  rex 
lapon  rerum  in  Libya  potiretur,  Elisa  mulier  extruxit  domo  Phoeniix  et 
Karthadam  dixit,  quod  Plioenicum  ore  exprimit  civitatem  uovam  ».  Il 
quale  passo  ci  mostra,  a  mio  avviso,  come  l'orazione  «  De  bello  Kar- 
thaginiensi »  facesse  parte  delle  Origini,  nelle  quali  appunto  si  trattava 
«  uude  quaoque  civitas  orta  sit  ». 

(2)  A  questa  opinione,  sebbene  in  modo  meno  determinato,  si  avvicina 
Peter,  Op.  ci^,  CXXXXllll,  dove  dice:  «  Sed  postea  quam  ad  res  a  se 
gestas  perveuit,  non  soliim  ipsas  rcs  enarravit,  sed  otiam  oratioues  a  se 
habitas  addidit  0.  q.  s.  ». 


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superstiti,  si  può  affermare  che  l'orazione  «  Pro  Rhodiensibus  »  ai 
tempi  di  Gellio  si  leggeva  seorsinn  (i). 

Questa  ragione  può  benissimo  aver  cooperato  a  far  dimenticare  in 
pane  le  Origini  (2),  delle  quali  ne  attesta  Cicerone  (3),  che  a' suoi 
tempi  mancavano  gli  amatores. 

Riguardo  alle  altre  orazioni  poi,  non  parrebbe  lontano  dal  vero  il 
credere  che  Catone  le  raccogliesse  insieme  e  correggesse  in  vecchiaia, 
per  lasciarle  come  una  specie  di  memoriale  (4)  della  sua  vita  poli- 
tica ed  oratoria. 

Savona,  28  gennaio   1882. 

Giacomo  Cortese. 


"BI  ELIOGRAFI  A 


Virgilio  —  La  Georgica,  versione  di  Angelo  Lo  Jacono, 
Catania,    1881. 


Si  potrebbe  far  questione  se  a'  tempi  nostri  coli'  indirizzo  severa- 
mente scientifico  che  hanno  preso  gli  studi  filologici,  colla  necessità 
che  si  fa  ogni  giorno  più  sentire  in  Italia  di  moltiplicare  gli  sforzi, 
di    tener    deste  tutte  le  energie    dello    spirito    per    non   esser  lasciati 


(1)  Gellio,  VI,  3,  7;  Jordan  [Quaest.  Cat.,  p.  18,  e  M.  Catonis  quae 
extant,  p,  LVIII,  proleg.)  dalle  parole  di  Gellio,  XIII,  2o,  15:  «  Cato 
ex  originupa  VII  iu  oratione,  quam  contra  Servium  Galbam  dixit  »  cre- 
dette poter  rilevare  che  anche  questa  si  leggeva  separatamente;  ma  forse 
a  torto,  giacché  anche  altrove  (XIII,  3,  6)  dice  «  quartum  ex  historia 
librura  »,  il  che  equivale  a  «  quartum  historiae  librum  ». 

(2)  Cfr.  Jordan,  M.  Catonis  quae  extant,  p.  LVIII,  proleg. 

(3)  Brut.,  17,  66. 

(4)  Cfr.  MoMMSEN,  Róm.  Gesch.,  Berlin,  1874,  voi.  I,  p.  925. 


—  454  — 

troppo  addietro  dagli  stranieri  in  quegli  studi,  si  possano  conciliare 
certe  pubblicazioni  della  natura  di  quella  che  sto  per  esaminare, 
fatta,  come  ce  lo  dichiara  lo  stesso  signor  Lo  Jacono,  «  per  esercizio 
di  poetico  stile  ».  Io  comprendo  benissimo  che  piuttosto  che  ad  altri 
lavori  volgano  alcuni  le  forze  dell'ingegno  a  tradurre  o  questa  o  quella 
delle  più  segnalate  opere  che  ci  lasciarono  e  Greci  e  Romani  ;  ma  è 
pur  d'uopo  confessare  che  lavori  simili  sono  comportabili,  anzi  sono 
da  valutarsi  assai,  quando  al  loro  artistico  pregio  vada  congiunta  una 
perfetta  interpretazione  dell'opera  tradotta,  cosa  questa  che  difficil- 
mente si  riscontra  e  di  cui  non  v'è  neppur  l'ombra  nel  libro  del  Lo 
Jacono.  Il  quale,  come  colui  che  pensa  «  che  in  un  tempo  che  i  clas- 
sici studii  si  van  tra  noi  facendo  sempre  più  radi,  non  dovrebbe  cer- 
tamente parere  inutile  intento  quello  d'incitar  coli' esempio  la  gio- 
ventù studiosa  ad  esercizii  di  questo  genere»  da  lui  reputati  «  necessarii 
a  ritemprare  in  Italia  il  prosaico  e  snervato  eloquio  delle  Muse  o- 
dierne  »,  avrebbe  provveduto  assai  meglio  a  quella  gioventù,  dato  il 
caso  che  il  suo  libro  le  capitasse  nelle  mani,  e,  dirò  anche,  a  se 
stesso,  e  non  avrebbe  col  proprio  esempio  confermato  quel  decadi- 
mento degli  studi,  di  cui  par  che  si  lagni,  se  avesse  aspettato  a  far 
di  pubblica  ragione  il  suo  lavoro  sino  a  quando,  per  aver  acquistato 
una  migliore  conoscenza  del  testo  virgiliano  ed  una  ben  maggiore 
padronanza  dello  stile  poetico  italiano,  avesse  potuto  purgarlo  degli 
errori  e  delle  innumerevoli  imperfezioni  che  si  riscontrano  quasi  ad 
ogni  verso. 

Di  questi  errori  e  di  queste  imperfezioni  darò  parecchie  prove  con- 
frontando colla  novella  versione  l'originale  latino. 

Virgilio   (I,   loi-io'i)  dice  : 

«  hiberno  laetissima  pulvere  farra, 
Laetus  ager  ;  nullo  tantum  se  Mysia  cultu 
lactat,  et  ipsa  suas  mirantur  Gargara  messcs  »   (i). 


(1)  Nelle  citazioni  dell'originale  latino  mi  servirò  in  generalo  del  testo 
pubblicato  da  E.  Benoist  (Paris,  lib.  Hachotle,  1876,  nella  Collection 
d'éditions  savantes  des  principaux  classiques  latins  et  grecs],  senza 
tenermi  però  strettamente  ad  esso  qualora  per  qualche  rispetto  non  mi 
paresse  accettabile.  Avverto  a  tale  scopo  ch'io  tengo  pure  sott' occhio  le 
edizioni  del  Ribbeck,  del  Forbiger  (4»)  e  del  Ladewig  (sechete  Aufl.  von 

C.    SCHAPERÌ. 


—  455  — 
Ora  ecco  in  qual  modo  questo  passo  è  recalo  in  italiano  : 

«  di  polve  iberna 
Van  lietissimi  i  farri,  e  lieto  il  campo: 
Né  per  veruna  altra  coltura  tanto 
Superbisce  la  Misia,  e  di  sue  messi 
Il  Gargaro  si  loda  »   (i). 

Chi  capisce  quel  Ne  per  veruna  altra  coltura  con  quel  che  segue? 
Che  cos'è  (\\xc\V altra  se  non  un'assurda  superfetazione?  Se  il  tradut- 
tore avesse  pensato  al  valore  di  quel  nullo  cultu,  il  quale,  come  ben 
avverte  il  Forbiger  «  non  stricte  capiendum,  sed  prò  perexiguo  cultu 
positura  esse  patet  »  (2),  e  come  interpretano  altresì  il  Ladewig ,  il 
Benoist,  il  Fornaciari  (3)  e  quanti  han  buon  senso  in  capo,  avrebbe 
facilmente  veduto,  collegando  mediante  il  tantum  i  versi  citati  con 
-quello  che  precede,  cioè  : 

«  Umida  solstitia  atque  hiemes  orate  serenas 
Agricolae  » , 

avrebbe  veduto,  dico,  che  il  poeta  intese  dire  che  con  pochissima 
coltura  possono  la  Misia  e  le  contrade  del  Gargaro  tanto  vantarsi, 
quanto  fanno,  di  lor  fecondità,  perchè  favorite  da  quell'acconcia  di- 
stribuzione di  temperatura  che  trovasi  accennata  nell'espressione  or 
ora  citata. 

Più  sotto  l'espressione 

«  cumulosque  ruit  male  pinguis  arenae  » 

(v.  io5) 

vien  tradotta:  «  e  i  cumuli  arrovescia  »  (p.  i  5),  verbo  questo  che  non 
ci  dà  punto  l'idea  del  ruit  di  Virgilio,  significante  «  appianare  rom- 
pendo», come  interpreta  il  Forbiger  (4),  o,  ma  forse  meno  bene, 
«  appianare  facendo  cadere  »,  come  si  rileva  dal  Forcellino. 


(1)  Pp.  14,  15. 

(2)  Nota  al  luogo  citato. 

(3)  Nell'ediz.  delle  Georgiche  per  uso  delle  scuole,  Firenze,  1868. 

(4)  Anche  il  Ladewig  interpretando  «  die  gròsseren  allzutrocknen  Erd- 
schoUen  zerschlàgt  »  dà  al  verbo  ruit  un  significato  pressoché  identico. 


-  456  — 
Virgilio  poco  appresso  dice  : 

«  Et,  cum  exuslus  ager  morientibus  aestuat  herbis, 

Ecce  supercilio  clivosi  tramitis  undam 

Elicit  ». 

(vv.   107-109). 

La  traduzione  suona  così  : 

«  e  quando 
Adusta  alle  morenti  erbe  la  terra 
Bolle,  ecco  d'  alto  di  pendente  via 
Elice  un  fonte  »  (i), 

dove  s'ha  a  notare  che  il  primo  verso  intero  non  è  né  chiaro  né  ita- 
liano, e  nel  secondo  non  è  indovinato,  non  che  esser  bene  espresso, 
il  pensiero  del  poeta,  specialmente  per  non  aver  capito  il  significato 
di  quel  clivosi  tramitis  mal  tradotto  in  pendente  via,  essendo  chiaro 
che  indica  il  rivo  che  a  guisa  di  sentiero  si  fa  discendere  giù  dal  de- 
clivio. L"  aver  poi  tradotto  in  alto  il  supercilio  di  Virgilio  dimostra 
chiaramente  come  il  Lo  Jacono  non  gusti  punto  le  bellezze  artistiche 
del  poema  che  traduce.  È  noto  che  la  metafora  significata  da  quel 
vocabolo  ò  tolta  da  Omero  : 

«  oi  b' érépiuae  KaBtZiov  èrr' òtppùai  Ka\XiKoXu)vr|<;  », 

(Y,  i5i) 

verso  stupendamente  tradotto  dal  Monti  : 

«  Sul  ciglio  anch'essi  s'adagiar  dell'erto 
Callicolon  gli  opposti  numi  ». 

(vv.  184,   i85). 

Ora  perchè  non  poteva  il  traduttore  valersi  del  vocabolo  ciglio? 
Non  poteva  usare  tale  metafora,  mentre  lo  Strocchi  non  dubitò  di 
tradurre  : 

«  Ecco  dal  ciglio  di  supino  clivo  »? 


(1)  Pag.  lo. 


-  457  - 

Veggasi  come  e  ben  tradotto  il  v.  iii  dello  stesso  libro  I: 

«  Quid,  qui,  ne  gravidis  procumbat  culmus  aristis  », 

sono  otto  monosillabi  e  due  parole  bisillabe  in  un  verso: 

«  E  che  di  lui,  che  acciò  che  poi  non  cada 
Col  pondo  delle  spiche  il  gambo  a  terra  »   (i). 

Nel  verso  seguente,  il  112: 

«  LuKuriem  segetum  tenera  depascit  in  herba  », 

il  Lo  Jacono  non  ha  capito  il  valore  di  quel  depascit,  volgendolo  in 
italiano  con  decima  : 

«  Decima  in  erba  tenera  il  rigoglio 
Soverchio  delle  biade  », 

senza  punto  pensare  al  mezzo,  accennato  dal  poeta,  di  togliere  il 
soverchio  rigoglio  delle  biade  portandovi  a  pascolare  le  pecore,  mezzo 
questo  ricordato  anche  da  Plinio  colle  parole:  «  Luxuria  segetum 
castigatur  dente  pecoris  in  herba  dumtaxat  ;  et  depastae  quidera,  vel 
saepius,  nuUam  in  spica  iniuriam  sentiunt  »  (2). 
Più  innanzi,  sempre  nel  medesimo  libro,  i  due  versi  : 

«  Ut  varias  usus  meditando  extunderet  artes 
Paulatim,  et  sulcis  frumenti  quaereret  herbam  > 

(vv.  i33,   134) 


son  cosi  tradotti 


«  Affinchè  vìa  dì  studi  esperienza 

Gisse  le  varie  in  luce  arti  traendo 

A  mano  a  mano  ;  e  l'erba  del  frumento 

Cercasse  ai  solchi  »   (3); 


(1)  Pag.  cit. 

(2)  H.  N.,  XVIII,  45,  4. 

(3)  Pag.  16. 

n^vistj  dijilolo^ia  ecc.,X- 


3o 


-458  — 
dove,  tralasciando  quel  via  di  studi  che,  a  cagione  del  meditando  di 
Virgilio,  vorrà  forse  dire  ;?(??•  via  di  studi,  si  vede  una  cotale  pretensione 
di  riprodurre  alla  lettera  il  pensiero  del  poeta;  ma  appunto  per  co- 
testa  pretensione  s' ha  il  diritto  di  domandare  se  sulcis  frumenti 
quaereret  hcrbam  significhi  proprio  «  l'erba  del  frumento  Cercasse 
ai  solchi  »,  e  se  non  sia  grave  colpa  l'ignorare  come  la  parola  5i//c?/s 
per  sineddoche  significhi  non  di  rado  l'aratura  stessa,  onde  sulco 
quaerere  vale  quanto  aratione  parare.  Ma  che  il  Lo  Jacono  conosca 
pochissimo  i  varii  significati  dei  vocaboli  ce  lo  dimostra  un  altro 
grave  errore  commesso  nei  versi  su  riferiti,  consistente  nell'avcr  cre- 
duto che  Vusus  di  Virgilio  significasse  esperienza,  mentre  salta  agli 
occhi  la  sua  esatta  corrispondenza  al  greco  xP^i"?  che,  oltre  ad  uso, 
significa  anche  bisogno,  necessità.  E  non  ha  veduto  il  traduttore  che 
il  poeta  stesso  gì' indicava  il  vero  valore  del  vocabolo  sou'giungcndo 
poco  sotto  : 

«  Labor  omnia  vicit 
Improbus  et  duris  urgcns  in  rebus  egcstas  »? 
(vv.   145,   146). 

E  tanto  meno  poi  sarebbe  caduto  in  tale  errore  se  avesse  conosciuto 
il  seguente  luogo  di  Lucrezio,  al  quale  senza  dubbio  ebbe  l'occhio 
Virgilio  : 

«  Navigia  atque  agri  culturas,  mocnia,  legcs, 


usus  et  impigrac  simul  expcrientia  mentis 
paulatim  docuit  pedetemtim  progredientis  »   (i), 

dove  trovandosi  appunto  i  due  vocaboli  usus  ed  e.vperientia,  spicca 
assai  meglio  il  loro  diverso  significato,  sebbene  io  creda  che  Vusus 
di  Virgilio  non  sia  precisamente  nel  senso  deir2/6;/6"  di  Lucrezio,  che 
forse  non  inchiude  l'idea  di  bisogno,  di  necessità,  inchiuso  invece 
nell  »ii/.s'  virgiliano,  che  perciò  sarebbe  propriamente  Vuso  necessario. 
Ma  dal  libro  primo  passiamo  ai  secondo  e  propriamente  all'episodio 
contenente  le  lodi  della  vita  campestre,  che  serve  di  chiusa.  Fa  vera- 


(1)  V,  1446-1451,  ediz.  Bernays. 


—  459  — 
mente  pietà  a  vedere  come  sia  orribilmente  maltrattato  dal  traduttore 
questo  passo  che  è  de' più  belli   del  poema.  Metterò  sott' occhio   al- 
cuni versi  dell'originale  con  accanto  la  versione  corrispondente  : 

«  O  fortunatos  nimium,  sua  si  bona  norint, 
Agricolas  I  Quibus  ipsa  procul  discordibus  armis 
Fundit  humo  facilem  victum  iustissima  tellus  ». 

(vv.  438-460]. 

«  O  fortunato  veramente  assai 

Il  villanel,  se  conoscesse  i  beni 

Che  gli  pendono  intorno  !  Ei,  cui  la  terra, 

Lontano  alle  discordi  arme,  dal  seno 

Profonde  più  che  giusta  un  facil  vitto!  »   (i). 

E  qui,  oltre  alle  gravi  improprietà  ed  alle  viziose  aggiunte,  non  si 
può  non  notare  il  poco  criterio  di  chi  tradusse  il  iustissima  di  Vir- 
gilio in  più  che  giusta,  e  non  vide  che  quella  ragione  stessa,  che  in- 
dusse Virgilio  ad  adoperare  il  superlativo,  doveva  essere  rispettata  dal 
traduttore.  Sappiamo  di  fatto  che  il  poeta  dovette  certamente  aver  in 
mente  un  passo  di  Senofonte:  «  aùiòc,  OKdiTTujv  kkì  OTreipiuv  Kal  |udXa 
jLUKpòv  ^Y\b\ov,  où  juévToi  TTOvripóv  fé,  àWà  Tràvxuuv  òiKaiórarov  » 
(Cyr.  Vili,  3,  ?S),  ed  un  passo  di  Filemone:  «  AiKaiÓTOTov 
KTy]ì.i  ècfTiv  àv9pujTToi;  aYpó:;  »  ^406  —  Meineke).  Onde  bene  tradusse 
lo  Strocchi  : 

«  A  cui  lontan  da  discordate  insegne 

La    giustissima    terra  il  cibo  apporta  »,  (2) 

e  male  il  Delille,  per  avere  ommesso  quell'aggiunto  iustissima  assai 
signiticativo,  o,  meglio,  per   averlo    stemperato   in    un  verso  intero: 

«  Fidèle  à  ses  besoins,  à  ses  travaux  docile, 
La  terre  lui  fournit  un  aliment  facile  »   (3). 


(1)  Pag.  64. 

(2)  L'Arici  tradusse  quindi  non  beno  «  equa  terra  ». 

(3)  (l'Jtivrcs  de  Vin/ll,:  trad.  en  rcr5.  Paris  et  Lyon,  MDCCCXXXVIII, 
p.  43. 


-  460  - 
I  versi  461,  462  : 

«  Si  non  ingentem  foribus  domus  alta  superbis 
Mane  salutantum  totis  vomit  aedibus  undam  » 

sono  tradotti  : 

«  Se  di  porte  superbe  alto  palagio 
Un'immensa  il  mattin  da  tutti  f;li  atn 
Non  gli  versa  di  gente  onda  che  venne 
Per  lo  saluto  »  (i); 

dove,  prendendo  il  totis  nel  significato  che  avrebbe  omnibus^  invece 
di  tradurre  dal  pieno  atrio  si  dice  nientemeno  da  tutti  (!)  f^li  airi. 
Lasciamo  stare  «  Inlusasque  auro  vestes  »  (v.  464)  tradotto  in 
«  adombrate  di  bei  scherzi  d'oro  Vesti  »  (2),  ?  secura  quies  »  (v.  4G7) 
in  «  pace  sicura  »   (3),  ed  osserviamo  come  il  detto  : 

«  Me  vero  primum  dulces  ante  omnia  Musac, 
Quarum  sacra  fero  ingenti  percussus  amore, 
Accipiant  »  (vv.  475-477) 

venga  così  recato  in  italiano  : 

«  Ma  "primamente  me  le  dolci  Muse, 
Me  sopra  tutto  accolgano,  che,  preso 
D'amore  immenso,  al  ministero  sacro 
Di  lor  cose  mi  reco  »   (4). 

Facciasi  grazia  al  Lo  Jacono  dell'orribile  cacofonia  del  primo  verso, 
ma  veggasi  se  si  possa  comportare  ante  omnia  riferito  a  me  invece  che 
a  dulces,  quando  la  disposizione  stessa  della  frase  non  lascia  alcun 
dubbio;  e  se  non  sia  un  prender  lucciole  per  lanterne  tradurre  in 
quel  modo  il  quarum  sacra  fero,  che  significa  semplicemente  quarum 
sacerdos  sum  :  onde  lo  Strocchi  ha  : 

«  Degnino  accoglier  me  lor  sacerdote  ». 


(1)  Pag.  cit.  -  (2)  Pag.  cit.  —  (3)  Pag.  cit.  —  (4)  Pag.  Gr>. 


-   461  - 

Per  non  esser  troppo  lungo  citerò  solo  pochi  altri  svarioni  relativi 
alla  versione  dell'episodio  stesso.  «  Hic  petit  excidiis  urbem  »  (v.  5o5) 
è  tradotto  con  «  ai  miseri  Penati  Altri  cerca  l'eccidio  »;  «  hunc  plausus 
hiantem Corripuit  »  (vv.  5o8,  5 io)  con  «  uno  sgomentò  Grato  sor- 
prende »  (i),  dove,  oltre  al  non  aver  capito  nulla,  viene  affatto  tra- 
lasciato il  lììanlem,  di  cui  non  so  quale  ostrogoto  non  comprende- 
rebbe la  bellezza  e  quindi  l' importanza  che  ha  in  quel  passo.  Tra- 
ducendo poi  più  sotto:  «  quinci  la  sua  patria  e  i  suoi  Figlioletti 
sostien  »  (2),  il  Lo  Jacono  ha  certamente  preferito  la  lezione  «  par- 
vosque  nepotes  »  (v.  i54),  e  forse  non  ha  fatto  male,  ma  non  ha  capito 
quanta  tenerezza  vi  sia  nel  ricordare,  non  i  figli,  ma  i  figli  dei  figli,  ed 
ha  quindi  guastato  interamente  il  delicato  concetto  del  poeta.  Che  dire 
inoltre  di  chi  scrive  «  i  porci  sazii  Gli  riedono  da  ghianda  »  per 
tradurre  «  Glande  sues  laeti  redeunt  »  (v.  Sio)?  Dove,  oltreché  si  po- 
trebbe osservare,  malgrado  l'autorità  del  Wagner  e  del  Benoist ,  che 
non  è  molto  bello  il  far  dipendere  filande  da  }-cdeimt ,  è  egli  ad  ogni 
modo  comportabile  il  dire  riedono  da  ghianda? 

Noterò  ancora  parecchi  degli  errori  o  delle  gravi  imperfezioni  che 
ho  trovato  nella  versione  dei  primi  i3i   versi  del  libro  IV. 

La  proposizione  «  nam  pabula  venti  Ferre  domum  prohibent  » 
(vv.  gè  io)  è  tradotta  con  «  che  non  fanno  i  venti  Cibo  a  casa  portar  » 
(pp.  io5,  106);  «  picti  squalentia  terga  lacerti  »  con  «  splendenti  al 
tergo  Stelleggiate  Incerte  »  (id.),  espressione  questa  che  si  può  sola- 
mente aspettare  da  chi  non  conosca  quale  sia  il  valore  del  verbo 
squalere  in  questo  ed  altri  luoghi  del  poema  virgiliano.  Che  questo 
valore  sia  ignorato  dal  traduttore,  e  che  egli  perciò  non  conosca 
un  passo  di  Aulo  Gellio,  da  cui  viene  chiaramente  spiegato  (3),  lo 
dimostra  la  espressione  «  squalentis  conchas  »  (II,  348)  tradotta  con 
«  squallidi  nicchi  »  (p.  58)  ,  non  che  un  altro  passo  del  medesimo 
libro  IV  (v.  91)  : 

«  Alter  erit  maculis  auro  squalentibus  ardens  », 

dove  il  traduttore  scrivendo  (p.   110): 


(1)  Pag.  67.  —   (2)  Pag.  cit. 

(3)  «  Quicquid  uimis  inculcatura  obsitumque  aliqua  re  erat,  ut  incu- 
terei visentibus  facie  nova  horrorem,  id  squalere  dicebatiu-.  Sic  in  cor- 
poribus  incultis  squamosisque  alta  congeries  sordium  squalor  appella- 
batur  ».  N.  A.,  11,  6;  24,  25. 


-  402  - 

«  L'uno  di  macchie  ì'ifnlgenti  d'auro 

Tutto  fiammante  », 
viene  a  dire  una  cosa  molto  diversa  da  quella  che  si  deve  intendere, 
per  quanto,  come  avverte  il  Forbiger  (i),  il  Wagner  creda  che  squa- 
lentibus  abbia  il  valore  di  fulgentibus  (2),  nel  qual  caso  non  ci  sa- 
rebbe più  il  contrapposto  tra  le  due  specie  di  re  delle  api  e  di  api 
stesse  che  il  poeta  ci  descrive,  giacché 

«  elucent  aliae,  et  fulgore  coruscant 
Ardentes  auro  et  paribus  lita  corpora  guttis  ». 

(vv.  98,  90). 

Ma  su  questo  passo  ritorneremo  tra  poco.  E  rifacendoci  indietro  no- 
tiamo il  «  nidis  immitibus  »  (v.  17)  tradotto  con  «  nidi  inquieti  » 
(p.  106);  «  obvia  arbos  »  (v.  24)  con  «  offerente  alber  »  (id.);  «  fu- 
coque  et  tloribus  oras  Explent  »  (vv.  39,  40)  con  «  e  d'alida  e  fiorì  Ne 
s[»almano  i  vivagni  »  (p.  107),  dove,  oltre  al  non  aver  compreso  len- 
diadi/i/co^u(?  et  fioribiis  che  sta  per  fiicoque  ex  floribits  confecto,  non 
si  può  intendere  quale  significato  dia  il  traduttore  alla  parola  alf^a 
per  farla  corrispondere  al  latino  fuco  qui  non  altro  significante  che 
melligine  e  certamente  sinonimo  di  propolis. 

Continuando  notiamo  «  giardini  e  selve  »  (p.  108)  corrispondente 
a  «saltus  silvasque  »  (v.  53);  «e  dei  dipinti  fiori  Fan  messe  »  a  «  Pur- 
pureosquc  mctunt  fiores  »  (v.  54);  «  i  figli  e  il  nido  covaìw  »  (id.)  a 
«  Progeniem  nidosque  fovent  »  (v.  56)  ;  «  Se  avvien  poi,  che  sorti- 
scano alla  guerra  »  (p.  109)  a  «  Sin  autem  ad  pugnam  exierint  » 
(v.  67);  «  Che  il  suon  rassembra  di  squarciate  trombe»  (id.)  a  «  fractos 
sonitus  imitata  tubarum  »  (v,  72),  mentre  ò  tanto  chiara  e  naturale 
l'interpretazione  dell' Heyne   seguita    dai    migliori  commentatori  (3). 


(1)  Nota  al  v.  91  del  lib.  IV. 

(2)  Molto  meglio  il  Ladewig  al  v.  cit.:  «  mit  Gold  iiberdeckt,  dena  iu 
squalere  liegt  auch  —  und  zwar  seit  V.  —  der  Begriff  der  Fiille  ». 

(3)  Quindi  il  Ladewig  al  v.  cit.  spiega  «  der  gebrochene,  bald  stàr- 
kere,  bald  schwàcheio  Ton  »;  il  Forbiger  ed  il  Benoist  danno  la  stessa 
spiegazione.  Giacomo  Fontano  in  Sijmbolarum  libri  XYII,  quibus  P. 
Virgilii  Maronis  Bucolica,  Georf/ica,  Aeneis,  ex  probatissimis  aucto- 
ribus  declaraniur,  etc.  (Liigduni,  MDCIIII)  scrive  a  tal  riguardo:  «  In- 

nuit   fragorem  Virgilius    et    stridorem qui  rurapi  et  refringi  magis. 

quam    edi    videtur:    quem  murmur    tumultuantium    apum    quodammodo 
imitatur  »  (p.  547). 


—  4G3  — 
Passando  oltre  ai  bei  versi  : 

«  Animo  grande  in  picciol  petto  menano  ; 
E  sì  son  pertinaci  altrui  non  cedere, 

e  questo  tanto 

Arder  di  guerra  a  solamente  un  getto 
Di  poca  polve  si  faranno  queti  » 
(p.  no), 

dove  non  v'è  nemmeno  una  pallidissima  idea  d'eleganza  e  di  grazia; 
torniamo  al  passo  testé  citato,  in  cui  Virgilio  stabilisce  un  confronto 
fra  le  due  specie  di  re.  Ecco  le  sue  parole  : 

«  Verum  ubi  ductores  acie  revocaberis  ambo, 
Deterior  qui  visus,  eum,  ne  prodigus  obsit, 
Dede  neci  ;  melior  vacua  sine  regnet  in  aula. 
Alter  erit  maculis  auro  squalentibus  ardens  ; 
Nam  duo  sunt  genera;  hic  melior,  insignis  et  ore, 
Et  rutilis  clarus  squamis  ;  ille  horridus  alter 
Desidia  latamque  trahens  inglorius  alvum  ». 

(vv.  88-94). 

È  evidente  che  nel  verso  «  Alter  erit  ecc.  si  vuol  indicare  il  re  de- 
terior qui  visus,  e  che  Vhic  melior  ecc.  si  riferisce  all'altro  re  di  cui 
il  poeta  scrive  melior  vacua  sine  regnet  in  aula  ;  così  che  nei  versi 
sopra  citati  con  chiaro  ordine  si  accenna  prima  alla  specie  peggiore 
(si  intende  di  figura)  da  Deterior  a  neci,  poi  alla  migliore  da  melior  ad 
aula,  quindi  nuovamente  alla  peggiore  da  Alter  ad  ardens,  alla  mi- 
gliore da  hic  melior  a  squamis,  e  finalmente  ancora  alla  peggiore  da 
ille  horridus  ad  alvum. 

Ora  di  questo  ordine  bellissimo  e  che  mi  sembra  tanto   chiaro,  il 
Lo  Jacono  ha  nulla  capito  iraducendo  : 

«  Ma  poi  che  richiamato  hai  dalla  pugna 
Ambo  quei  duci  :  qual  ti  par  da  meno, 
Quello  metti  a  morir,  perchè  non  viva 
Ad  altrui  spese;  e  nella  vuota  reggia 
Lascia  quello  regnar,  ch'c  di  piìi  merto. 
L'uno  di  macchie  rifulgenti  d'auro 


—  464  -- 
Tutto  fiammante  (che  due  son  le  specie), 
Ed  è  migliore,  e  nobile  d'aspetto, 
E  di  splendide  anella  :  orrido  l'altro 
D'infingardia,  che  dietro  si  trascina 
Una  lunga  ventraja  inonorato  »   (p.  cit.). 

Tiriamo  innanzi  e  vediamo  altre  belle  interpretazioni  :   «  ceu  pul- 

vcrc  ab  allo  Cum  venit viator  »   (vv.  96,  97)  =  «  Qual  da  lontano 

tutto  polveroso  Vien  pellegrino  »  (p.  cit.);  «  caeli  tempore  certo  » 
(v.  100)  ==  «  A  tai  punti  dell'anno  »  (p.  iii);  «  Dulcia  mella  prcmes, 
ncc  tantum  dulcia,  quantum  Et  liquida  et  durum  Bacchi  domitura 
saporem  »  (vv.  loi,  102)  =r:  «  avremo....  il  dolce  miele,  A^'è  dolce  più, 
che  in  sua  purezza  ancora  Domar  non  sappia  il  gusto  aspro  di  Bacco  » 
(p.  cit.);  «  niger  Galaesus  »  (v.  126)  =  «  V  ombrato  Galeso  »  (p.  112); 
«  vcscumque  papaver  »  (v.  l'ii)  ■=^  «  eduli  papaveri  »  (p.  cit.).  Arre- 
stiamoci un  istante  a  questo  vescumque  papaver  che  è  qui  veramente 
una  pietra  di  paragone  per  valutare  la  conoscenza  che  il  traduttore 
ha  della  lingua  latina.  L'aggettivo  vcscus  non  ha  mai  il  significato 
di  edule  accettato  dal  Lo  Jacono  seguendo  una  falsa  interpretazione 
di  parecchi  commentatori,  ma   bensì    in  un  passo  di  Lucrezio 

«  nec,  mare  quae  impendent,  vesco  sale  saxa  peresa  »   (i) 

ha  il  significato  di  edace.  E  probabilmente  Lucrezio  faceva  nascere 
vescus  da  vescor,  quasi  vescens.  Comunque  sia,  è  certo  che  vescus  non 
ha  mai  il  significato  di  edule,  ma,  derivando  da  un  ve  privativo  e  da 
esca,  e  non  da  vaf^ari,  come  vascus,  secondo  il  Doederlein  (2), signi- 
fica :  che  soffre  tedio  nel  mans^iarc,  gracile,  minuto,  esile,  piccolo^ 
magro  e  simili.  Un  esempio  di  Ovidio  comprova  quanto  affermiamo  : 

«  Vegrandia  farra  colonae 
Quae  male  creverunt,  vescaque  parva  vocant  »   (3). 

E  basti  il  fin  qui  detto.  Scusi  il  lettore  se  sono  stato  un  pò"  lungo. 
Non  voleva  dire  che  la  versione  del  Lo  Jacono  è  un  cattivo  lavoro, 
senza  appoggiare  la  mia  affermazione  a  parecchie  prove. 

Ettore  Stampini. 


(1)  I,  326.  —  (2)  Benoist  al  v.  cit. 

(3)  Fast.,  Ili,  445,  44G,  ediz.  Merkei-.  Vedi  anche,  riguardo  al   signi- 
ficato di  vescus,  A.  Gellio,  N.  A.,  XVI,  5;  6  e  7. 

Pietro  Ussello,  gerente  responsabile. 


A%IS  TOFAV^E 


II. 

Le  Nubi  ossia  Aristofane  e  Socrate. 


Abbattere  opinioni  che  sono  il  frutto  d'  una  convinzione 
tradizionale  e  che  da  personaggi  nella  scienza  eminenti 
hanno  ricevuto,  per  così  dire,  la  loro  sanzione,  è  cosa  sovra 
ogni  altra  malagevole.  L' animo  nostro  è  cosi  fatto  che  , 
senza  pensare  più  oltre,  trova  comodo  adagiarsi  tranquil- 
lamente in  quella  antica  convinzione,  per  quante  ragioni  le 
si  vogliano  opporre,  avvalorate  da  fatti  incontestabili.  E  pur 
nondimeno  si  va  affermando  che  la  scienza  dev'essere  pro- 
gressiva, che  non  devesi  acquietare  in  nessun  fatto,  se  prima 
con  un  severo  esame  non  ne  ha  accertata  la  realtà  ,  che 
deve  apprezzare  le  teorie  giusta  il  grado  di  probabilità  che 
in  sé  contengono  !  Non  dico  che  negli  altri  rami  della  scienza 
ciò  non  sia  avvenuto:  ma  in  quello  della  storia,  dove  la 
materia  il  più  delle  volte  ha  di  già  ricevuto  dal  passato  una 
forma  determinata  e  fissa  per  ragioni  non  sempre  e  total- 
mente intrinseche,  il  principio  di  autorità ,  checché  se  ne 
dica,  possiede  ancora  un  vasto  dominio.  A  toccare  alcune 

Tiivisla  di  filologia  ecc.,  X  3i 


—  466  - 
splendide  figure  innalzate  dalla  credulità  fin  sopra  gli  altari, 
a  spogliarle  di  quell'aureola  onde  sono  state  circondate,  e  a 
strappar  loro  quel  velo  di  misticismo,  che  le  avvolge,  per 
poterle  conoscere  quali  furono,  è  pericoloso  ancora  ai  nostri 
tempi  perchè  facilmente  s'incorre  nella  taccia  di  eretico. 

Ma  ora  io  non  voglio  levare  tanto  in  alto  le  mie  pretese: 
in  primo  luogo  perchè  sento  che  i  passi  miei  nel  campo 
della  filologia  non  sono  ancora  abbastanza  sicuri ,  e  in 
secondo  luogo  perchè  un  siffatto  lavoro,  in  quanto  a  So- 
crate ed  Aristofane,  da  alcuni  anni  fu  di  già  felicemente 
compito  (i).  Io  mi  limiterò  ad  accennare  i  risultati  ottenuti 
per  valermene  nella  spiegazione  di  un  fatto  di  storia  letteraria 
che  fin  ora  ,  malgrado  i  molti  tentativi  fatti,  rimane  ancor 
ravvolto  nelle  tenebre.  Questo  mio  lavoretto  sarà  diviso  in 
tre  parti  :  dopo  di  avere  esposto  lo  stato  della  questione, 
mostrerò  i°  come  Aristofane  doveva  comportarsi  di  fronte 
alla  sofistica;  2°  come  Socrate  poteva  colle  sue  dottrine  po- 
litiche e  morali  offendere  la  suscettibilità  d'un  patriota  ate- 
niese -,  3°  in  qual  modo  e  Aristofane  e  Socrate  si  adope- 
rassero per  il  benessere  d'Atene;  per  ultimo  seguirà  la  so- 
luzione della  questione  propostami,  quale  può  unicamente 
derivare  dal  loro  modo  di  pensare  e  dal  loro  modo  di  ope- 
rare nella  vita  politica  a  cui  presero  parte. 

Stato  della  questione.  —  Fra  i  dieci  argomenti  alle  Nubi 
d'  Aristofane  ,  havvene  due  di  capitale  importanza  per  la 
storia  di  questa  commedia,  e  sono  i  seguenti  (2): 

Argomento  quarto.  —  Ai  Trpuàiai  NecpéXai  èv  àciei  èòiòà- 
X6r|crav  èm  apxovTO^  Mcfdpxou  \0l.  89,    i  =423   a.  Cr.],  ote 


(i)  ¥oKC»H\uuEK,  Die  Athener  und  Socrates.  Berlin,  i837;  Muller- 
Strubing  ,  Aristophanes  und  die  historische  Kritik.  Leipzig,   1873. 
(2]  Vedi  la  raccolta  premessa  all'edizione  delle  Nubi  del  Dindork. 


-  4G7- 
KpaTTvo(g  |Lièv  èvka  TTuTivri,  'AjLieiipiaq  òè  Kóvvlu.  òióirep  'Api- 
OT0cpàvr]c,  dTToppicpBeì<s  TrapaXÓTuuq  ujr|Gr|  òeiv  dvabiòdtai  làq 
NecpéXa^  [làc,  òemépac,]  Kaì  àTT0)ué|U(pea6ai  tò  Géaipov.  aTTOTUxùJV 
òè  TToXù  ludXXov  Kaì  èv  toi(;  eireiTa  oÙKéii  tììv  òiacJKeufiv  elffn- 
YttYev.  al    òè  òeùrepai  NeqpéXai  ini  'A|ueiviou  dpxovTO(;. 

Argoincnlo  sesto.  —  Touto  laùTÓv  ècrii  tuj  Tipotepiu,  òie- 
cTKeuacyTai  òè  èm  luépouq,  u)?  dv  òri  dvabiòdSai  juèv  aÙTÒ  toO 
TTOiriTOu  Trpo6u|uriGévTO(;,  oÒKéii  òè  touto  òi'  r|V  ttote  aÌTiav  ttoi- 
il(JavTO(;"  KaGóXou  |uèv  ouv  cTxeòòv  Trapà  rrdv  \xi^oc,  YeT£vri|uévr| 
òiópGujcriq.  Tà  )uèv  ^dp  irepiripriTai,  Td  òè  TTaparcéTrXeKTai,  Kai  èv 
Tri  TÓHei  Kai  év  Ti]  tujv  TTpoauuTTOJv  òiaXXaT»]  ineTeaxnMdTiaTai. 
là.  òè  óXoaxepoOq  xx\c,  òiadKeufi»;  TOiaÙTa  òvTa  T6Tuxr|Kev.  aÙTiKa 
f)  Ttapdpaaig  toO  xopoO  fiiuemTai,  xai  ottou  ò  òiKaioq  XÓYoq  npòg 
TÒv  dòiKOV  XaXeT,  Kaì  TeXeuTaTov,  ottou  KaieTai  r\  òiaTpipf)  Zuu- 
KpdT0u<g. 

Confrontando  fra  di  loro  questi  due  argomenti ,  noi  ve- 
diamo che  manifestamente  in  due  punti  s'accordano  :  i  )  clie 
Aristofane  scrisse  non  una,  ma  due  commedie  intitolate 
NeqpéXai,  cioè  le  irpijùTai  e  le  òeuTepai;  2)  che  nelle  irpujTai 
(rappresentate  Tanno  423  av.  Cr.  — 01.  89,  i,  rimasto  de- 
luso nelle  aspettazioni  sue ,  credette  necessario  riporre  in 
scena  la  sua  commedia  per  cancellare  V  onta  ricevuta. 
L'autore  delF  argomento  sesto,  è  vero ,  non  ci  dice  che 
Aristofane  avesse  in  pensiero  nelle  sue  seconde  Nubi  di 
far  di  queir  onta  acerbi  rimproveri  a'  suoi  spettatori  ;  ma 
pure  se  badiamo  all'  indole  stizzosa  del  nostro  comico,  io 
credo  che  ciò  si  potrebbe  facilmente  sottintendere.  Ma  egli 
ci  porge  invece  una  notizia  molto  più  importante  ;  vale  a 
dire,  che  Aristofane  dovette  introdurre  parecchie  modifica- 
zioni nella  sua  commedia  prima  di  rappresentarla  una  se- 
conda volta.  E  che  esistesse  presso  i  poeti  comici  la  con- 
suetudine di  ritoccare  Topera  loro  quando  si  trovavano  nella 


-  468  - 
condizione  di  Aristofane,  è  confermato  da  una  testimonianza 
di  Camaleonte,  citato  da  Ateneo  (i),  il  quale  narra  di  un 
tale  Anassandride  :  ttikpòi;  ujv  tò  fi9oq  èTToiei  ti  toioOtov  irepi 
là?  Kuj)aujòia(;  •  ore  fàp  }xf\  viKUjri,  Xaia^àviuv  è'biuKev  eie,  tòv 
XipaviuTÒv  Katareiueiv,  Kal  où  lieiecTKevjaZiev ,  ùjffTrep  oi  ttoXXoi. 
La  qual  cosa  era  assai  naturale  ;  poiché  altrimenti  né  l'ar- 
conte gli  avrebbe  potuto  concedere  un  nuovo  coro  per  la 
seconda  rappresentazione,  ne  il  popolo  ateniese  avrebbe  tol- 
lerato che  si  rimettesse  in  scena  una  commedia  che  egli 
aveva  di  già  riprovata  e  condannata,  senza  che  prima  Fau- 
tore non  l'avesse  emendata  come  le  convenienze  esigevano. 
—  Le  correzioni  introdotte  da  Aristofane  nelle  sue  Nubi, 
secondochè  avverte  per  di  più  lo  stesso  autore  del  sesto  ar- 
gomento, furono  essenzialmente  di  due  specie:  le  une  con- 
sistenti in  semplici  ritoccamenti -,  le  altre  in  vere  ritratta- 
zioni, come  nella  parabasi  (v,  5  1 8-562),  e  in  sostituzioni  di 
scene,  come  quella  della  contesa  fra  il  Xóyoq  òiKaio?  e  il 
XÓTog  àbiKog,  e  dell'incendio  dello  studio  di  Socrate.  Delle 
seconde  (che  sono  pel  nostro  assunto  le  più  degne  di  con- 
siderazione) noi  abbiamo  parecchie  prove.  Lo  Scoliaste  alle 
Nubi  Ci  afferma  anch'egli  al  v.  5 20,  che  la  parabasi  fu  to- 
talmente rifatta,  che  persino  venne  mutato  il  metro  :  oùx  n 
aùrfi  òé  èaiiv  (fi  irapapacTiq),  oùòè  toO  aÙToO  jaérpou  xrì  èv  raiq 
NecpéXaiq  TrpiuTaig  ;  e  al  v.  643,  che  la  commedia  non  ter- 
minava affatto  coirincendio  della  òiaipiPn  di  Socrate:  ictuj? 
éauTUJ  (TrapoveiòiZiei),  ènei  TreTTOiriKev  èv  tuj  réXei  toO  òpa)iaTO(; 
KaiO)iévr|v  rfiv  òiarpipiìv  luuKpdTOu?  —  èv  òè  Toiq  TTpuOraiq  Ne- 
cpéXai?  toOto  où  TreTtoiriKe.  Che  poi  anche  la  contesa  fra  il 
XÓTO(;  òiKaio^  ed  il  XÓT05  dòiKog  sia  una  scena  introdotta  da 
Aristofane  nelle  seconde  Nubi,  mentre  nelle  prime  non  esi- 
steva, si  può  chiaramente  rilevare  da  un  passo  dcWApologia 

(I)  IX,  p.  374  AB. 


—  469  — 
di  Platone,  dove  si  parla  delle  vecchie  accuse  che  a  So- 
crate si  movevano  (cap.  Ili):  ZouKpdxrn;  àòiKei  kkI  irepiepTa- 
Z^eiai  ZiriTUJV  xd  xe  urtò  yh?  ^^^  fa  èTTOupdvia ,  Kal  xòv  fixxiu 
XÓYOV  KpeiTxuu  TTOiujv,  Ktti  dXXouq  xaùxà  òiòócjkujv.  xoiauxri  xii; 
ècTxr  xaOxa  y^p  éuupaxe  Kai  aùxoì  èv  xr]  'Apicrxoqpdvouq  kuu|uuj- 
òia  K.x.X.  Secondo  queste  parole,  Aristofane  avrebbe  nelle 
prime  Nubi  rappresentalo  Socrate  come  un  sognatore  di  cose 
strane,  un  cavillatore,  ma  non  come  un  antesignano  delle 
nuove  idee,  della  riforma,  delTeducazione  antica,  quale  ap- 
pare appunto  dalla  contesa  e  dalla  prevalenza  del  Xóyo?  d- 
òxKoq  sul  òiKaiO(g  nelle  seconde  Nubi.  —  Dove  però  gli  au- 
tori di  questi  due  argomenti  discordano  ,  si  è  intorno  alla 
rappresentazione  delle  seconde  Nubi.  L'autore  del  quarto 
argomento  ci  dà  come  positivo  che  le  seconde  Nubi  sono 
state  realmente  rappresentate,  adducendone  persino  Tanno; 
ai  òè  òeùxepai  NeqpéXai  èm 'Ajueiviou  dpxovxog;  e  per  contrario 
quello  del  sesto  ce  lo  nega  recisamente:  oìiKéxi  òè  xouxo  òi' 
iiv  TTOxe  dxiav  xroiricravxo?.  Ma  che  V  asserzione  delT  autore 
del  quarto  argomento  sia  addirittura  falsa  si  può  sufficien- 
temente provare.  Lo  Scoliaste  alle  Nubi  (v.  549)  insegna, 
che  veramente  non  si  sa  né  in  qual  anno,  ne  in  quale  so- 
lennità siano  state  rappresentate;  Eratostene  (i)  di  più  ci 
dice,  in  termini  assoluti,  che  le  sole  prime  Nubi  sono 
state  rappresentate  :  xà(;  Òiòax9eicra(;  ;  e  come  prova  maggiore 
di  ciò  sta  il  fatto  stesso  che  nelle  seconde  Nubi  si  trovano 
incongruenze  e  lacune,  ed  Aristofane,  nel  caso  di  una 
rappresentazione,  avrebbe  necessariamente  dovuto  provve- 
dere che  scomparissero.  Tali  sono  la  mancanza  del  coro 
dopo  il  verso  888,  parecchie  disgiunzioni  sul  processo  della 
azione,  come  dopo  il  v,  1104,  ed  anche  non  poche  con- 
traddizioni  qua    e   là,   dove  di  Cleone,  ad    esempio,  ora  si 


(I)  Scoi,  alle  Nubi,  v.  552. 


-  470  - 

parla  come  vivente  ed  ora  come  di  già  defunto.  —  Se  le 
cose  adunque  stanno  veramente  in  questi  termini,  io  do- 
mando, perchè  Aristofane  non  ha  persistito  nel  suo  pro- 
posito ?  perchè  non  ci  ha  voluto  dare  un  rifacimento  com- 
piuto della  sua  commedia  ?  quali  sono  stati  i  motivi  potenti 
che  hanno  potuto  distornelo  ?  Tale  questione,  più  grave 
assai  che  a  prima  vista  non  paia,  quando  venisse  sciolta,  ci 
potrebbe  porgere  la  chiave  per  conoscere  le  relazioni  che 
intercedettero  in  fatto  di  sentimenti  politici  fra  Aristofane 
e  Socrate.  E  io  pertanto  tento,  per  quanto  mi  è  possibile, 
questa  soluzione,  ricorrendo  a  tutti  quegli  argomenti  che  la 
critica  e  la  storia  mi  possono  somministrare,  senza  punto 
entrare  nel  campo  delle  teorie  preconcette,  che,  invece  di  ap- 
portarvi la  luce,  ne  accrescerebbero  maggiormente  Toscurità. 
Ecco  i  punti  che  si  debbono  dilucidare  per  riuscire 
con  qualche  probabilità  nelTintento  mio.  C  era  alcun  che 
nella  sofistica  che  potesse  eccitare  la  suscettibilità  di  Ari- 
stofane ?  E  perchè  in  tal  caso  se  la  pigliò  con  Socrate  an- 
ziché con  qualche  altro  sofista  ?  In  qual  rapporto  stanno  le 
accuse  mosse  da  lui  nelle  seconde  Nubi  con  quelle  di  Me- 
leto? Quali  furono  le  vere  cagioni  per  cui  Socrate  venne 
condannato  a  morte  ?  Quale  fu  l'indirizzo  tenuto  dal  nostro 
filosofo  durante  la  breve  sua  vita  politica?  Se  mi  verrà  fatto 
di  dare  a  queste  domande  un'adeguata  risposta,  allora  bal- 
zerà fuori,  come  di  per   sé,  la   soluzione  che   io    ricerco. 

i)  La  sofistica  ed  Aristofane;  Aristofane  oligarchico. 

Come  nel  secolo  VI  av,  Cr.,  dallo  scemare  della  fede  nelle 
credenze  patrie  era  nata  la  filosofia  ionica,  cosi  dai  dispa- 
rati e  inconcludenti  sistemi  escogitati  per  isciogliere  l'arduo 
problema  delle  origini  cosmiche  ,  nasceva  pur  necessaria- 
mente   nel    secolo    V,    la    sofistica.    La    quale    segna    quel 


—  471  — 

punto  in  cui  il  pensiero  ellenico,  sfiduciato  delle  proprie 
forze,  dà  un  eterno  addio  alla  contemplazione  metafisica 
e  rientra  decisivamente  nel  campo  della  pratica.  La  si 
potrà  definire  la  parola  nell'arte  ;  con  che  si  verrebbe  ad 
accennare  a  quel  turgido  vuoto  che  erasi  formato  nella  co- 
scienza del  popolo  greco  dopo  lo  sfacelo  del  vecchio  mondo 
religioso  e  morale.  Se  non  che,  per  la  ragione  che  non  si 
ha  così  un'idea  chiara  dello  stesso  modo  con  cui  è  venuta 
formandosi,  mi  par  meglio  ricorrere  alla  definizione  seguente: 
la  sofistica  fu  specialmente  Tapplicazione  degli  effati  di  due 
sistemi  filosofici,  che  sebbene  contrari  ed  opposti,  nell'  uni- 
versale scetticismo  si  accordarono  su  un  unico  e  identico 
risultato,  la  negazione  della  verità  assoluta. 

Uno  di  questi  due  sistemi  appartenne  alla  scuola  eleatica, 
che  ebbe  il  suo  più  grande  campione  in  Parmenide  e  dal 
quale  ricevette  la  più  rigorosa  e  completa  interpretazione 
in  un  libro  intitolato:  TTepl  qpùaeuug  (i).  Esso  dividevasi  in 
due  parti  :  nella  prima  ,  come  risulta  dai  frammenti  rima- 
stici, trattavasi  della  verità,  nella  seconda,  dell'apparenza  :; 
o  in  altri  termini,  nella  prima  trattavasi  dell'ente,  nella  se- 
conda dei  fenomeni,  chiamata  dal  Bertini  fisica-fenomeno- 
logica. L'ente,  secondo  Parmenide,  è  l'unico  reale,  l'unico 
assoluto  Intelligibile,  principio,  condizione,  legge  ed  oggetto 
essenziale  del  pensiero  eterno,  infinito,  semplice,  immobile, 
indivisibile,  perfettissimo,  identico  colla  sua  idea.  Il  nascere 
e  il  perire  sono  fenomeni  fallaci:  tutta  la  natura  sensibile 
è  un'illusione  (2).  Ogni  essere  dell'universo  non  è  altro  che 
un  fenomeno;  a  costituirlo  concorrono  due  principi  da  lui 
detti  forme  :  la  fiamma  dell'etereo  fuoco,  lieve,  tenuissimo, 


(i)  Come  ben  fa  osservare  il  Berlini,  il  vocabolo  cpuaic;  fu  qui  tolto 
da  Parmenide  in  senso  universale  ed  analogo  alla  natura  naturante 
di  Spinoza. 

(2)  V.  La  filosofia  greca  prima  di  Socrate,  p.   i33. 


—  472  — 
simile  per  ogni  parte  a  sé  stesso,  e  la  notte  oscura,  materia 
densa  e  pesante;  i  quali  essendo  di  natura  del  tutto  opposta 
e  contraria,  debbono  perciò  essere  conciliati  fra  loro  da  Ve- 
nere o  r Amore  (attivo  e  passivo)  (i).  Analoga  e  conscguente 
alla  fisica  è  pure  V  antropologia  di  Parmenide.  «  L'uomo 
non  è,  secondo  lui,  un  composto  di  due  sostanze,  spirito  e 

materia ,  ma  consta  di  quegli  stessi   due    elementi  onde 

risulta  il  mondo,  cioè  di  calore  e  freddo  »  (2Ì.  L'anima 
non  è  distinta  dal  corpo  ;  gli  stati  e  le  azioni  dell'  anima 
per  conseguenza  vengono  determinati  dalT  elemento  predo- 
minante nel  corpo  (3).  Per  cui,  <(  Tanima,  cioè  il  soggetto 
pensante,  essendo  materiale,  ed  ogni  attività  della  materia 
riducendosi  ad  una  mera  esistenza  oggettiva,  cioè  ad  esi- 
stere ad  un  soggetto  che  in  qualche  modo  la  apprenda,  ne 
segue  che  il  sentimento  e  il  pensiero  immanente  non  può 
essere  altro  che  esistenza,  e  che  dove  trovasi  esistenza  ivi 
è  pure  sentimento  e  pensiero;  ne  segue  altresì  che  ogni  sen- 
timento e  pensiero  nuovo, avventizio,  non  può  esser  altro  che 
una  alterazione  della  maniera  di  esistere,  e  viceversa,  ogni  al- 
terazione è  necessariamente  sentita  e  pensata»  (4).  Onde  ve- 
niva ad  essere  logica  la  deduzione  che  trassero  da  questa  dot- 
trina i  due  zelanti  seguaci  di  Parmenide,  Melisso  e  Zenone; 
cioè,  che  la  percezione  sensibile  non  è  un  verace  testimonio, 
e  che  la  coscienza  volgare  è  insussistente  per  tutte  le  con- 
traddizioni intime  onde  viene  travagliata.  —  Ciò  posto,  se  ogni 
sentimento,  ogni  pensiero  nuovo  ed  avventizio  non  è  altro 
che  un'alterazione  della  maniera  di  esistere,  ne  risulta  evi- 
dentemente che  la  verità  e  Terrore  non  sono  altro  anch'essi 


(i)  V.  Bertini.  Op.  cit.,p.  l'ib.  Col  vocabolo  di /orme?  egli  inten- 
deva non  solamente  due  maniere  di  essere  ma  due  diverse  sostanze  : 
così  il  Bertini  al  passo  citato. 

(2)  V.  Bertini,  Op.  cit.,  p.   140. 

(3)  V.  Bertini,  Op.  cit.,  p.   140. 
{4)  V.  Bertini,  Op.  cit.,  p.  141. 


-  473  - 
che  un'alterazione  della  maniera  di  esistere,  e  possono 
quindi  essere  sentiti  e  pensati  -,  ne  risulta  che  tutto  è  per  noi, 
quale  ci  apparisce  in  ogni  alterazione  della  sua  maniera  di 
esistere  e  come  lo  sentiamo  e  come  lo  pensiamo.  E  di  tale 
opinione  era  appunto  Gorgia  Leontino,  il  quale  riusciva 
così  facilmente  a  provare  che  nulla  vi  ha,  o  se  pure  qualche 
cosa  vi  ha,  non  potrà  mai  essere  da  noi  conosciuto ,  o  se 
si  potrà  conoscere  ,  non  si  potrà  tuttavia  ad  altri  comuni- 
care ;  così  che,  venendo  egli  a  dire  ,  in  altri  termini ,  che 
la  conoscenza  non  può  essere  la  mira  dell'  uomo  sapiente, 
altro  non  prometteva  ai  discepoli  suoi  che  di  farli  valenti 
oratori.  Con  queste  teorie  Gorgia  si  recava  in  Atene,  Tanno 
secondo  delTO/.  88  =  427  av.  Cr.,  quattro  anni  prima  della 
rappresentazione  delle  Nubi  di  Aristofane. 

L'altro  sistema,  di  cui  mi  rimane  a  discorrere,  venne  pro- 
fessato da  Eraclito  di  Efeso.  —  Contro  la  determinatezza 
e  l'immutabilità  di  una  natura,  in  cui  si  trova  concreta  la 
essenza  astratta  dell'essere,  egli  dichiarò  che  l'essenza  del- 
l'essere consiste  nel  non  averne  alcuna,  nel  non  rimanersi 
fisso  e  chiuso  in  alcuna  forma,  ma  nell'uscire  sempre  d'una 
per  entrare  in  un'altra  (i).  —  Nel  nascere  d'una  cosa,  nel 
mutarsi,  nel  diventare,  nel  fievi^  egli  ammise  quel  punto, 
in  cui  coincidono  e  si  riuniscono  i  due  contradditori  del- 
l'essere e  del  non  essere  (2).  —  La  tesi  dell'identità  dei  con- 
trari ,  pare  che  da  Eraclito  sia  stata  trattata  con  grande 
amore,  e  di  essa  abbondano  i  frammenti,  piiì  che  di  qua- 
lunque altra  parte  del  suo  sistema  filosofico.  Secondo  Era- 
clito, tenebre  e  luce,  male  e  bene,  nascere  e  morire,  il 
regno  dei  viventi  e  il  regno  dei  morti  è  tutt'uno;  Dio  è 
tutto,  giorno    e    notte,  estate    e    inverno,  guerra    e  pace, 


(i)  V.  Bertini,  Op.  cit.,  p.  222. 
(2)  V.   Bertini,  Op.  cit.,  p.   220. 


—  474  — 

sazietà  e  fame,  ecc.  ecc.  (i).  Nascere  e  vivere  è  un  cor- 
rere alia  morte  -,  dar  vita  a  figli  è  avviarli  alla  morte  • 
la  malattia  rende  piacevole  la  sanità  ;  la  fame  il  saziarsi  ; 
la  fatica  il  riposo,  gcc.  ecc.,  dappertutto  egli  trovava  la  co- 
incidenza dei  contrari  (2).  Persino  Tuomo  stesso  risulta, 
secondo  Eraclito,  dalla  coincidenza  e  riunione  di  due  con- 
trari-, dal  corpo  terreno  e  dall'anima  di  natura  ignea  e  ra- 
zionale, diametralmente  opposti  fra  loro.  Ed  è  questa  la 
ragione  per  cui  egli  era  di  parere  che  Tanima  umana  con- 
giunta al  corpo  sia  meno  capace  di  percepire  le  cose  nel  loro 
vero  essere,  cioè  nel  loro  continuo  mutarsi,  e  vada  soggetta 
air  inevitabile  illusione  di  apprendere  come  stabili  le  cose 
che  si  mutano,  che  si  muovono  continuarnente  (3).  — Ora,  se 
l'essenza  dell'essere  consiste  in  un  continuo  mutarsi  dove 
coincidono  fra  di  loroi  contradditort,  ne  segue  di  necessità  che 
ogni  cosa  dev'essere  per  noi  quale  ci  apparisce  in  ogni  istante 
del  tempo  e  quale  noi  la  sentiamo,  ancorché  sotto  aspetti 
opposti.  E  da  questa  deduzione  ecco  Protagora  formulare 
quella  sua  famosa  sentenza,  che  Tuomo  è  misura  a  se  stesso 
di  ogni  cosa.  Per  lui  ogni  cognizione  è  subiettiva  e  soltanto 
ha  valore  per  un  determinato  uomo,  il  quale  può  giudicare 
delle  cose  sul  modo  che  meglio  gli  talenta  ,  perchè  tali  si 
presenteranno  a'  suoi  sensi.  Onde  per  una  via  del  tutto 
opposta  a  quella  di  Gorgia,  anch'egìi  veniva  a  togliere  ogni 
differenza  fra  la  verità  e  l'errore;  egli  apertamente  diceva 
che  sopra  un  medesimo  obbietto,  secondo  le  sensazioni  di- 
verse che  vengono  da  esso  impresse  nella  successione  del 
tempo,  si  possono  dare  due  giudizi  allatto  contrari.  Di  qui 
le  lagnanze  di   Platone  in  alcuni  de'  suoi  dialoghi,  come  nel 


(1)  V.    BeRTINI,    Op.    Cit.,  p.    22  1. 

(2)  V.    BeRTINI,    Op.    CÌt.,p.    221. 

{3}  V.   Bertini,  Op.  cit.,  p.  228. 


—  475  - 

Teetete  e  nell'  Eutidemo.  Protagora  fu  il  vero  fondatore 
della  sofistica^  fu  il  primo  che  considerò  la  filosofia  come 
una  coltura  universale  in  servigio  della  facoltà  intellettiva 
per  la  pratica  della  vita  (i). 

Fra  Gorgia  e  Protagora,  i  quali  rappresentano  le  due 
principali  direzioni  della  sofistica,  si  collocarono  Prodico  ed 
Ippia.  Meno  entusiasti  di  natura,  e  più  temperati  nelle  loro 
deduzioni  e  nei  loro  pronunciati,  sebbene  internamente  as- 
sentissero alle  teorie  di  Gorgia  e  Protagora,  perchè  anche 
essi  avevano  disperato  di  potersi  acquistare  un  vero  sapere 
intorno  alla  verità  assoluta,  tuttavia  ad  esse  non  diedero 
mai  alcuna  conferma  coir  autorità  del  proprio  nome;  essi 
mirarono  esclusivamente  a  procacciarsi  idee  e  principi  sa- 
lutari per  la  loro  vita  pratica.  Quindi  è  che  sotto  questi 
aspetti  considerati  si  avvicinano  più  che  gli  altri,  special- 
mente Prodico,  a  Socrate. 

Errerebbe  nondimeno  a  partito  chi  credesse  che  Gorgia 
e  Protagora  si  fossero  lasciati  trascinare  nella  pratica  a  tutte 
quelle  estreme  conseguenze  che  nei  loro  principi  si  trova- 
vano implicitamente.  Se  Platone  non  fa  di  loro  così  grandi 
elogi  come  di  Prodico,  ne  rispetta  tuttavia  il  loro  carattere 
personale,  siccome  quelli  che  sopratutto  tennero  in  conto  la 
virtù  e  la  venerazione  degli  Dei.  Protagora  aveva  spogliato 
bensì  di  ogni  realtà  l'assoluto  vero,  ma  riguardo  alla  virtù 
non  si  era  mai    pensato  di  fare  altrettanto  (2).  E  riguardo 


(i)  V.  E.  Ferrai,  Proemio  alla  tradupoìie  del  Protagora  ,  p.  426. 

(2)  Platone  nel  Protagora  si  limita  a  mostrarne  solamente  la  va- 
nità; della  perversità  di  lui  in  fatto  di  virtù  non  ne  fa  mai  parola. 
Al  cap.  XXII  induce  Socrate  a  beffarlo  in  certo  qual  modo,  ed  egli 
è  perchè  Protagora  studiavasi  ne' suoi  discorsi  .di  celare  con  divisioni 
e  sottodivisioni  ed  antitesi  le  sue  sofisticherie.  Se  della  virtù  non 
avesse  tenuto  qualche  conto,  non  lo  avrebbe  detto  Plotone?  E  la  gio- 
ventù ateniese  lo  avrebbe  cotanto  stimato,  come  ci  fa  sapere  lo  stesso 
Platone  al  cap.  VI  del  suo  Protagora  ? 


—  476  - 

agli  Dei,  se  ne  pose  in  dubbio  l'esistenza  in  quel  suo  libro 
intitolato  TTepì  Geujv,  che  gli  valse  il  bando  da  Atene  ,  tut- 
tavia non  la  negò  giammai,  come  si  può  ricavare  da  un 
passo  del  Protagora  (cap.  XI),  dove  Platone  ci  dice  che 
egli  valevasi  dei  miti  nelle  sue  dissertazioni,  come  di  luoghi 
comuni.  Lo  studio  di  Protagora,  come  di  Gorgia  e  degli  altri 
sofisti,  era  specialmente  quello  di  ragionare  prò  e  contro 
sopra  qual  si  fosse  argomento  •,  ma  nel  tempo  stesso  che 
ei  dimostrava,  conformemente  a'suoi  principi,  che  la  ve- 
rità non  esisteva  ,  la  riduceva  a  certi  sentimenti  ,  dietro  ai 
quali  si  sarebbe,  secondo  lui,  dovuta  regolare  la  vita.  — 
Egli  è  di  Prodico  che  Platone  ha  maggior  considerazione 
che  di  qualunque  altro  sofista.  Prodico  dilettavasi  sopra- 
tutto delle  ricerche  grammaticali  e  linguistiche,  massime  di 
sinonimia  (i).  Possedeva  una  bella  parola  e  dava  buoni 
insegnamenti,  per  cui,  oltre  ad  una  sostanza  cospicua  gua- 
dagnossi  parimenti  una  grandissima  fama  {2).  Socrate 
gli  mandò  a  scuola  molti  de'  suoi  discepoli  (3),  e  non  du- 
bitò nemmeno  di  annoverare  se  stesso  fra  i  discepoli  di 
lui  (4).  —  Quanto  ad  Ippia,  pel  contrario,  non  si  sa  ve- 
ramente per  quaU  ragioni  Platone  ci  faccia  di  lui  un  ritratto 
co' peggiori  colori.  Egli  era  molto  vano-,  si  compiaceva  di 
sfoggiare  dappertutto  la  sua  immensa  erudizione,  si  vantava 
di  aver  fatto  più  denari  che  non  tutti  gli  altri  sofisti;  ma 
non  facevano  anche  gli  altri  sofisti  press'a  poco  altrettanto? 


(1)  V.  Carmide,  Lcichete,  Eutidewo,  Menane  e  Cratilo. 

(2)  Protagora,  cap.  \'lll.  Prodico  veniva  considerato  come  uomo 
quasi  divino. 

(3)  V.  il   Teetete,  cap.  VII,  p.   i5i   B. 

(4)  V.  Protagora,  Cratilo,  Carmide  e  Menane.  Intorno  alla  no- 
tizia di  Platone  che  Socrate  sia  stato  discepolo  di  Prodico,  nota  assai 
acconciamente  il  Ferrai  che  devesi  ciò  intendere  con  molta  restri- 
zione; cioè  che  Socrate  abbia  attinto  bensì  alle  dottrine  di  Prodico, 
ma  che  non  le  seguisse  in  tutto  e  per  tutto. 


-  477  — 

Sarei  inclinato  a  credere,  che  la  causa  dell'animosità  di  Pla- 
tone contro  Ippia  sia  stata  quella  di  aver  cominciato  forse, 
nell'attuazione  delle  sue  teoriche,  a  gettarsi  giù  per  la  china, 
per  la  quale  si  precipitarono  ciecamente  i  sofisti  che  ten- 
nero dietro  a  queste  prime. 

Costoro  veramente  non  badando  molto  a  tutti  gli  scru- 
poli che  avevano  frenato  i  loro  maestri,  si  diedero  anima 
e  corpo  alla  rettorica,  che  sola  poteva  guidare  al  possesso 
dell'eloquenza  (òeivóiriq),  che  era  la  molla  per  elevarsi  a  po- 
tenza in  mezzo  alla  democrazia  ateniese.  Fin  a  questo  tempo 
l'eloquenza  aveva  avuto  per  base  la  santità  dei  principi  reli- 
giosi e  morali;,  ma  essi  ne  la  spogliarono  e  la  convertirono 
poco  a  poco  in  un  semplice  giuoco  di  parole  e  cavilli. 
Poscia,  progredendo  nella  loro  audace  impresa,  si  occu- 
parono altresì  degli  altri  rami  dell'umano  sapere,  e  in  o- 
gnuno  aprirono  la  via  al  dubbio  ed  alle  ipotesi;  tutto,  com- 
presa la  religione  ,  divenne  soggetto  di  disputa  ,  e  ad  ogni 
problema  si  volle  rispondere.  Sottentrò  così  l'arbitrio  del- 
l'individuo alla  suprema  legge  naturale  -,  l'opinione  subiettiva 
alla  verità  obbiettiva  (i).  Si  sostenne  che  la  giustizia  e  la 
credenza  negli  Dei  erano  state  inventate  dai  primi  domina- 
tori per  frenare  le  moltitudini,  che  le  leggi  erano  state  fatte 
da  loro  pei  deboli,  col  fine  di  procacciare  a  se  stessi  sicu- 
rezza. E  cos'i  evidentemente  spianavasi  il  cammino  alla  ti- 
rannide, al  diritto  del  più  forte  (2). 

Con  tale  fermento  di  idee  rivoluzionarie,  la  sofistica  ve- 
niva necessariamente  a  porsi  come  un  nuovo  e  più  ter- 
ribile nemico  che  non  fosse  la  democrazia,  di  fronte  alla 
fazione   aristocratica.    Non    erano    più    alcuni    uomini    che 


(i)  V.  Ferrai,  Proemio  alla  tradu:[ione  del  Protagora,  p.  410. 
(2)  Vedi   De   Orat.,  Ili,  59;  I,  21,  102  -^  Accade7n.,]l,  23,  y3  ;  De 
Finibus,  II,   I,  I. 


—  478  - 
questa  doveva  combattere,  persone  che,  col  pugnale  o  con 
la  calunnia,  si  potevano  in  qualche  modo  togliere  di  mezzo  ; 
era  un  movimento  generale  che  penetrando  nella  stessa 
moltitudine ,  minacciava  di  far  crollare  insieme  colle  basi 
delle  antiche  credenze,  pur  quelle  degli  antichi  privilegi  e 
diritti,  I  soli  rimedi  che  in  siffatti  frangenti  potevano  sem- 
brare efficaci  contro  il  male,  erano  due:  arrestarlo  in  sul 
principio ,  accusandone  gli  autori  di  empietà,  ovvero  favo- 
rirlo per  valersene  a  vantaggio  suo  proprio.  Credette  più  op- 
portuno prescegliere  il  primo,  e  quindi  Aristofane,  il  quale 
aveva  già  rotto  qualche  lancia  in  servizio  della  parte  ari- 
stocratica nei  Daitaleis ,  negli  Acarnesi  e  nei  Cavalieri 
(commedie  tutte  inspirate  a  sensi  altamente  aristocratici), 
comparire  l'anno  423  av.  Cr,  colla  commedia  delle  Nubi. 
Che  Aristofane  siasi  indotto  a  questo  passo  di  proprio 
moto  ,  perchè  colpito  dai  pericoli  che  minacciavano  la  so- 
cietà, fu  opinione  universale  degli  eruditi  fino  a  questi  ul- 
timi giorni.  Per  essi  Aristofane  è  l'ardente  patriota,  pieno 
di  entusiasmo  per  Tetà  dei  Maratonomachi,  nemico  di  ogni 
innovazione  che  avesse  potuto  danneggiare  la  fede  nelle  cre- 
denze proprie  e  la  vecchia  educazione.  Secondo  il  Bergk(i), 
Aristofane  alTetà  di  anni  17  «  iuvenis  admodum  qui  pueris 
excesserat  »  già  dimostrava  di  conoscere  perfettamente 
quanta  fosse  la  corruzione  dei  tempi  suoi,  e  quindi  sor- 
geva come  l'index  acerrimus  di  quella  beata  età.  Di  anni 
18  il  nostro  comico,  a  quanto  dice  il  Ranke  (2),  era  già 
assai  versato  nella  conoscenza  della  amministrazione  pub- 
blica: «  artem...  suam  non  vi  comica  solum,  sed  regendae 
reipublicae  scientia  non  minus  niti  credebat  ^),  cosa  che  ri- 
pete e  maggiormente  conferma  lo  stesso  scrittore  là  dove  parla 


(i)  Presso  MEINEK.E,  Fragm.  comic,  11,  p.  S96. 
(2)  Vita  Aristophanis,  p.  ^yS. 


-  479  - 
degli  Acarnesi  :   «  Acharnensibus  dociis  bis  cunctis  in  rebus 

se  non    esse  tyronem    ac  rudem luculenter   demonstra- 

verat  »•,  per  cui  non  dovrebbe  far  meraviglia,  soggiunge 
il  Muller-Striibing  (da  cui  ho  tolto  queste  citazioni  delle 
opere  del  Bergk  e  del  Ranke),  se  Aristofane  all'  età  di  20 
anni  siasi  sollazzato  nei  Cavalieri  intorno  a  Cleone  !  (i). 
Come  pure  non  dovrebbe  far  meraviglia,  se  egli  vedeva  che 
le  nuove  dottrine  sofistiche  andavano  poco  a  poco  minando 
tutte  le  basi  degli  ordinamenti  sociali  e  politici  !  «  Aristo- 
phanem  non  fugit,  dice  il  Bergk,  latius  iam  serpere  pestem 
illam  (novitiae  disciplinae)  et  quam  rerum  privatarum,  eam- 
dem  esse  publicarum  perniciem  et  corruptelam  ».  Ma  chi 
sovr'ogni  altro  esalta  Aristofane  è  specialmente  Carlo  Kock, 
il  quale  ne  fa  veramente  un  apostolo  del  bel  tempo  antico(2). 
Ma  queste  son  opinioni,  che  non    possono  essere  da   altro 


(i)  Vedi  quante  ne  dice  in  proposito  anche  Teodoro  Kock  nella 
sua  Introdupone  a   Cavalieri,  p.  7  e  seg. 

(2)  «  Ar.  ist  nicht  fUr  oder  gegen  bestimmte  einzelne  Einrichtun- 
gen,  er  ist  ein  Feind  der  Gesinnung  seiner  Zeit,  mag  sie  sich  auf 
dcm  Gebiete  des  Staates,  der  Religicn,  der  Sitte  oder  der  Kunst  aus- 
sern.  In  seinem  Geiste  ist  eingeboren  die  unsterbliche  Schonheit  der 
alten  Zeit,  das  reale  Dasein  ,  wie  er  meint ,  des  hellenischen  Ideals. 
Sein  Herz  gliiht  fiir  den  festen ,  gebundenen  Geist  des  alten  Staates, 
fiir  dea  massigen  Sinn  und  unbezwinglichen  Mut  der  Marathonkam- 
pfer,  fiir  den  alten  ,  naiven  und  heitern  Volksglauben  und  fiir  die 
strenge,  unverweichlichte  und  ungeschminkte  Kunst.  Doch  gibt  diese 
Charakteristik  uns  die  Grundlagen  seines  Wesens  an,  dessen  aussere 
Erscheinung  unter  den  wechselvollen  Geschicken  des  Staates  eine 
zeitweìlige  Umwandlung  erlitt.  Wiihrend  der  Strom  neuer  Ideen  in 
dem  gleissnerischen  Gewande  der  Sophistik  von  alien  Seiten  mit 
Macht  auf  das  gesamnte  athenische  Leben  einwirkte,  wahrend  der 
ganze  Staat  die  gewaltigsten  Krisen  einer  stlirmischen  Uebergangs- 
epoche  durchmachte,  und  selbst  fast  daran  zu  Grunde  gieng,  ist  es  da 
ein  Wunder,  wenn  der  klare  Spiegel  des  Dichtergemuths  von  dem 
Wehen  das  neuen  Geistes  voriibergehend  getrlibt  erscheint  ?  » .  Die 
VÓgel  des  Aristophanes-Besonderer  Abdriik  aiis  dem  ersten  Supple- 
mentbande  der  Jahrbiìcher  fiir  classische  Philologie,  p.  11,  E  così  se- 
guita di  questo  passo. 


—  480  — 
derivate  tranne  che  da  un'  inconsulta  e  cieca  ammirazione 
per  Aristofane,  la  quale  non  ha  lasciato  scorgere  chi  Ari- 
stofane fosse,  in  quali  tempi  vivesse  ed  a  quale  partito,  se 
a  quello  della  verità  oppure  a  quello  d'un'idea  politica  ap- 
partenesse (i). 

Non  pertanto,  io  sono  ben  lungi  dal  voler  negare  col  MiiL- 
ler-Strììbing  una  tal  quale  precocità  al  genio  di  Aristofane, 
checché  ne  vada  quegli  dicendo  (2).  Non  si  hanno  forse  esempi 
di  genii  precoci  nelle  storie  letterarie?  Non  fu  il  nostro  Tor- 
quato altrettanto  precoce  nelle  creazioni  sue,  quanto  il  comico 
Ateniese  ?  Ben  so ,  che  altro  è  comporre  un  poema  ,  dove 
la  fantasia  senza  freno  può  liberamente  spaziare,  ed  altro 
è  distendere  una  commedia,  massimamente  di  quelle  del 
genere  aristofanesco,  in  cui  la  facoltà  riflessiva  deve  preva- 
lere ad  ogni  modo  sopra  la  fantasia.  Ma  noi  non  dobbiamo 
dimenticare  giammai  che  la  politica  era  il  principale  ele- 
mento di  vita  pel  popolo  ateniese-,  che  nelle  famiglie,  nelle 
scuole  pubbliche,  nelle  vie,  nei  fori,  nei  comuni  ritrovi  era 
il  soggetto  su  cui  versava  generalmente  la  discussione,  perchè 
la  politica  sola  poteva  somministrare  i  mezzi  per  conser- 
vare la  supremazia  sopra  la  confederazione  ionica,  dalla  quale 
dipendeva  la  stessa  esistenza  d'  Atene.  —  Se  non  che,  per 
quanto  ci  pare,  il  MùUer-Striibing  confonde  insieme  due  cose 
fra  loro  diversissime,  le  quali  possono  stare  congiunte  bensì, 
ma  anche  andare    V  una  dair  altra  separate  :  vale  a  dire  la 


(i)  Per  conferma  di  queste  mie  parole  si  legga,  di  grazia,  la  prima 
parte  dell'opera  già  citata  del  Muller-Strlibing. 

(2)  V.  Op.  cit.,  p.  73:  «  Wahrhaftig,  es  wird  uns  Modernen  schon 
schwer  genug,  eine  solche  Fruhreife  des  poetischen  Talents,  wie  sie 
uns  schon  in  den  «  Acharnern  »,  dem  frùhsien  der  auf  uns  gekom- 
menen  Stiicke.  in  ubermuthiger  und  dennoch  planvoll  besonnerer 
Ausgelassenheit ,  in  maashaltender  Zugellosigkeit  mòchte  ich  sagen  . 
entgegeniritt,  aus  dem  Leben  jener  Avunderbaren  Zeit  heraus  zu  ver- 
stehen,  und  in  ihrem  ganzen  Umfange  zu  wLirdigcn  ! 


-  481  - 
maturità  e  la  giustezza  d'  un  giudizio  medesimo.  Non  può 
essere  un  giudizio  qualsiasi,  maturo  e  falso  nello  stesso 
tempo  ?  specialmente  quando  vi  ha  esercitata  una  qualche 
influenza  lo  spirito  di  parte  ?  E  questo  è  appunto  il  caso 
di  Aristofane.  Onde  si  può  giudicare  quanto  valore  abbia 
queir  argomento  che  a  mo'  d'esempio  adduce  il  Mùller- 
Strubing  in  sostegno  della  sua  asserzione  (i).  A  nostro  giu- 
dizio, Aristofane  mette  alla  rinfusa  Pericle  con  gli  altri 
demagoghi  a  bello  studio  e  non  per  mancanza  di  giusto 
discernimento,  perchè  Pericle  veramente  fu  anche  un  av- 
versario di  quel  partito  che  egli  così  accanitamente  sosteneva. 
Ciò  posto,  se  Aristofane  non  era  quel  patriota,  quell'apo- 
stolo degli  antichi  principi,  che  da  tanto  tempo  si  è  procla- 
mato che  sia,  chi  dunque  era  egli  ?  quale  scopo  proponevasi 
colle  sue  commedie  ?  Secondo  il  Miiller-Strùbing  Aristofane 
altro  non  era  che  un  giovane  pieno  di  vita,  ardente  e  appas- 
sionato, artista  per  natura,  tutto  correttezza  nei  modi,  ele- 
gante e  di  squisito  sentire.  Odiava  egli  la  democrazia  in- 
sieme con  tutti  quanti  i  demagoghi  ?  Non  era  tanto  perchè 
svolgendosi  pienamente  la  democrazia  sarebbero  minati  i 
privilegi  di  casta  che  gli  aristocrati  con  ogni  sforzo  avevano 
procurato  conservare;  quanto  perchè  in  essa  scorgeva  un 
ostacolo  insuperabile,  che  gPimpediva  di  goder  nella  pace  i 
piaceri  della  natura,  per  cui  la  sua  indole  aveva  un  così 
grande  trasporto.  Sentivasi  egli  per  istinto  spinto  ad  odiare 
fra  i  demagoghi  particolarmente  Cleone  ?  Questi  era  un  rozzo 
cuoiaio.  Odiava  anche  Socrate  ed  Euripide?  L'uno  era  un 


(i)  «Nicht  blos  die  Kriegspolitik  des  Pericles  ist  es,  was  er  beson- 
ders  bekiimpft,  vielmehr  ist  ihm  Pericles  ein  Demagoge  ganz  von 
demselben  Schlage  wie  Kleon  und  Hvperbolos,  ja  selbst  Euathlos 
und  Kleonymos,  und  wie  sonst  scine  demokratischen  Gegner  alle 
heissen  —  er  machtkeinen  Unierschied,  fiir  ihn  gehoren  sie  alle  in  den- 
selben  Sack  >   (V.  Op.  cit.,  p.  74). 

lifvista  di  f Mogia  ecc.,X.  32 


-  482  - 
sistematizzatore,  e  V  altro  un  poeta  dialettico,  improvvisa- 
tore, a  cui  poco  importava  la  eleganza  del  dire.  Di  politica 
Aristofane  non  s' intendeva  affatto,  e  non  se  ne  era  mai 
occupato^  il  suo  scopo  precipuo  era  veramente  quello  di 
poter  realizzare  nella  vita  l'ideale  che  andava  accarezzando 
nella  sua  fantasia.  Se  egli  prese  parte  alla  vita  politica,  fu 
perchè  venne  spinto  dagli  amici  suoi.  Erano  costoro  giovani 
al  par  di  lui  eleganti,  gioviali  e  pieni  di  spirito,  figli  delle 
primarie  famiglie  di  Atene,  che  pensavano  specialmente  a 
godersi  la  vita  ,  e  della  politica  non  si  curavano  o  se  ne 
curavano  solo  in  quanto  loro  porgeva  un'  occasione  per  ri- 
dere alle  spalle  dei  demagoghi.  Da  questi  Aristofane  la- 
sciavasi  guidare  ed  imporre  -,  con  essi  rideva  e  li  faceva 
ridere,  ricorrendo  senza  alcuno  scrupolo  ai  più  luridi  e  li- 
cenziosi motti  ,  calpestando  la  religione,  la  morale,  quan- 
tunque mostrasse  di  sforzarsi  per  conservarne  il  prestigio! 
Il  che  viene  a  dire,  che  il  poeta  in  mezzo  a  quella  sfacciata 
e  spensierata  società,  faceva  la  parte  da  buffone,  pronto,  ad 
un  cenno  di  chicchessia  a  versare  il  ridicolo  su  tutto  quanto 
vi  poteva  essere  di  più  santo  e  venerabile  (i).  —  Riguardo 


(i)  Ecco  il  passo  da  cui  particolarmente  ho  tolto  queste  idee:  — 
«  Er,  der  lebensvolle,  heissblutige  JUngling,  liebt  den  Frieden  um 
des  Friedens  willen  ,  schon  deshalb,  weil  der  Friede  alleili  ihm  den 
Genuss  der  Natur  und  des  Landlebens,  fiir  dessen  Reize  er  ein  so 
tiefes  poetisches  Gefuhl  hat,  in  Ruhe  und  Freudigkeit  gestattet.  Da- 
rum  hasst  er  den  Gegner  des  Friedens,  Kleon,  gewiss  mit  Fanatismus, 
aber  mit  dem  naiven  Fanatismus  des  Temperaracnts,  wie  denn  ihm, 
dem  Kijnstler  ,  der  ganze  Mensch  mit  seinem  unfeinen  Wesen .  mit 
seinen  uneleganten  Formen  von  vornhercin  instinctmlissig  zuwider 
gewesen  sein  wird-ganz  ahuiich,  wie  auch  sein  Hass  gegen  Sokrates, 
den  systematisirenden,  und  gegen  Euripides,  den  poetisirenden  Dia- 
lektiker,  urspriinglich  aus  der  tiefen  innerlichen  Antipathie  des  schaf- 
fenden  Dichters.  des  unmittelbar  producirenden  Kunstlers,  mit  voUer 
Naturberechtigung  hervorgegangen  ist 

«  Dies  nun,  das  damals  in  ihm  dominirende  GefUhl  gegen   Kleon, 


—  483  — 
a  questa  teoria,  che  pure  ha  un  lato  di  verità,  poiché  Ari- 
stofane ha  realmente  voluto  militare  in  servigio  della  fa- 
zione oligarchica,  io  vorrei  fare  alcune  osservazioni  di  non 
poca  importanza.  E  primieramente  ripeto  che  la  politica 
non  era  soltanto  un'  occupazione  esclusiva  di  pochi ,  ciò 
che  vorrebbe  farci  credere  il  nostro  critico ,  ma  eziandio 
(sempre  parlando  dei  tempi  che  allora  correvano)  di  qua- 
lunque dei  cittadini  d'Atene,  come  appare  dalla  commedia 
le  Vespe  -,  poiché  la  politica  era  V  unica  base  su  cui  reg- 
gevasi  l'esistenza  di  quella  repubblica,  tolta  la  quale  sa- 
rebbe essa  precipitata  nel  nulla.  In  secondo  luogo,  io 
voglio  dimandare  :  chi  era  adunque  e  donde  usciva  questo 
Aristofane,  così  ignaro  di  politica  in  mezzo  ai  compagni  e 
coetanei  suoi,  che  pure  di  politica  erano  intelligenti,  e  dai 
quali  doveva  tutti  i  momenti  attendere  l'imbeccata  ?  Egli  ci 
pare  che  1'  educazione  stessa,  quale  Aristofane  dimostra  di 
aver  ricevuto,  contraddica  manifestamente  all'asserzione  del 
nostro    critico.  E    finalmente,  quando    anche    volessi   con- 


bringt  ihn  denn  iiaturlich  in  frijhe  Berìihrungg  mit  denen  «  die  den- 
selben  Mann  hassen,  wie  er  »  {Ritter,  5 io)  und  als  ein  achter  Dich- 
ter,  hochst  eindrucksfahig  und  leidenschaftlich,  giebt  er  sich  diesen 
Genossen  und  Freunden  in  voller  Sympathie  hin ,  und  lasst  sich  in 
dem,  wovon  er  nichts  versteht,  auch  schon  dem  Alter  nach  nichts 
verstehen  kann ,  und  womit  er  sich  doch  als  komischer  Buhnen- 
dichter  beschaftigen  muss  ,  beeinflussen  und  leitcn,  niimlich  in  der 
Politik. 

«  Wer  waren  nun  diese  Genossen  und  Freunde,  die  denselben  Mann 
hassen,  wie  er  ?  —  Doch  gewiss  Niemand  anders  —  denn  das  Gleiche 
sucht  sich  und  ziehtsichan  — als  die  geistvollsten,  lebenslustigsten,  ge- 
bildetsten  Junglinge  von  Athen  !  —  und  diese  waren  nalUrlich  die 
Sóhne  der  ersten  Familien  in  Athen  ,  die  Bliithe  der  besten  Gesell- 
schafi,  die  Tonangeber,  wie  das  in  der  Natur  der  Sache  liegt,  in  ge- 
selligen  Verkehr ,  auch  in  litterarischen  Dingen,  kurz ,  die  jungen  . 
reichen,  ubermiithigen  Aristokraten,  denen,  ebenso  natiirlich,  ein  so 
unterhaltender,  so  witziger,  zu  jedem  Uebermuthe,  zu  jeder  genialen 
Tollheit  aufgelegter  Gefàhrte  iinsserst  willkommen  gewesen  sein  muss!» 
(V.  Op.  cit.,  p.  112  e   1 13). 


~  484  — 

cedere  al  Miiller-Strùbing  che  quella  società  elegante  dei 
giovani  aristocratici  di  Atene  avesse  per  precipuo  scopo  di 
godersi  liberamente  la  vita  e  spassarsela,  ridendo  alle  spalle 
dei  demagoghi  (e  avverto  che  in  siffatta  guisa  parimenti 
cooperavano  per  quel  fine  che  le  loro  famiglie  volevano 
raggiungere,  cioè  la  caduta  della  democrazia  e  per  conse- 
guenza la  ruina  di  Atene),  rimarrebbe  da  spiegare  come 
mai  Aristofane,  plebeo  di  nascita  —  che  tale  appare  nella 
teoria  del  nostro  critico  —  riuscisse  a  farsi  ammettere,  sia 
pur  anche  in  qualità  di  buffone,  nei  circoli  segreti  di  quella 
società,  che  in  lui  certamente  doveva  sospettare  e  temere 
un  delatore. 

Ma,  checché  sia  di  ciò,  senza  divagare  in  ipotesi  che 
pel  mio  assunto  non  sarebbero  affatto  proficue,  ritengo  sol- 
tanto che  Aristofane  serviva  la  fazione  aristocratica  e  che 
quindi  aveva  qualche  interesse  a  combattere  la  democrazia 
e  tutti  quelli  che  anche  apparentemente  avessero  voluto 
darle  incremento. 

Alcuno  vorrebbe  forse  sapere  la  ragione  per  cui  Aristo- 
fane volle  prendere  specialmente  di  mira  Socrate  anziché 
Protagora  o  Gorgia  ,  Prodico  od  Ippia,  che  della  sofistica 
erano  i  grandi  maestri.  E  una  tale  ragione,  a  mio  cre- 
dere, sta  principalmente  nell'indole  della  commedia  ateniese. 
L'  arma  di  questa  era  lo  scherzo  liberissimo,  la  caricatura 
sconfinata,  che  estendevasi  a  colpire  persino  le  più  minute 
particolarità  della  vita.  E  perciò  niun  altro  sofista  di  quei 
tempi  avrebbe  potuto  somministrare  ad  Aristofane  la  ma- 
teria per  una  commedia  in  proposito,  tranne  Socrate.  Quale 
degli  altri  era  Ateniese  ?  Non  erano  forse  tutti  forestieri 
che  percorrevano  T  Eliade  insegnando  a  pagamento  le  loro 
dottrine ,  e  che  in  Atene  si  trovavano  soltanto  di  pas- 
saggio ?  Quindi  Aristofane,  anche  nel  caso  che  ne  avesse 
avuto    r  intenzione ,  non    poteva    assolutamente    servirsi   di 


—  485  — 
loro,  perchè  nuU'altro  di  essi  conosceva  che  una  qualche  parte 
delle  loro  dottrine  sofistiche,  delle  quali  ogni  altro  poeta 
comico,  nonché  Aristofane,  avrebbe  creduto  bene  di  va- 
lersi con  assai  discrezione.  Il  popolo,  che  va  al  teatro  per 
trovarvi  un  sollazzo,  in  qual  modo  si  sarebbe  comportato 
alla  rappresentazione  di  una  commedia  di  questo  genere,  in 
cui  non  r  individuo  nelle  sue  dottrine,  ma  le  dottrine  nel- 
Findividuo,  se  così  mi  posso  esprimere,  fossero  state  messe 
in  burla  dal  comico  ?  Giudichiamo  ora  del  popolo  ateniese, 
così  amante  del  riso,  così  appassionato  per  le  feste  e  per  la 
allegria  !  —  Invece  riguardo  a  Socrate  la  cosa  mutava,  di 
aspetto.  Non  solamente  era  egli  in  ogni  particolare  della 
vita  conosciuto  da  tutti,  ma  per  di  più  la  natura  stessa  di 
lui,  i  costumi,  le  consuetudini,  tutto  quanto  Socrate  in- 
somma poteva  diventare  nelle  abili  mani  di  un  comico  ma- 
teria di  ridicolo.  Ed  Aristofane,  colla  perspicacia  che  aveva, 
non  dubitò  menomamente  di  appigliarsi  al  partito  d'inveire 
contro  Socrate,  per  inveire  contro  le  dottrine  sofistiche. 
Quelli  che  affermano,  quasi  per  addurre  una  qualche  scusa 
in  discolpa  di  Aristofane,  che  questi,  punto  filosofo  od  a- 
mante  di  filosofia,  non  abbia  saputo  distinguere  e  giudicare 
i  principi  di  Socrate  e  perciò  Tabbia  messo  in  fascio  cogli 
altri  sofisti,  mostrano  di  ignorare  del  tutto  il  processo  dello 
svolgimento  delle  dottrine  di  Socrate.  Egli  fu  dapprima 
un  pretto  sofista;  fu  seguace  in  qualche  modo  di  Prodico 
e  di  Anassagora,  lo  fu  pure  di  Protagora,  da  cui  tolse 
il  principio,  che  l'uomo  è  misura  a  se  stesso  di  tutte  le 
cose  ;  negò  anch'  egli  ogni  valore  agli  Dei  della  religione 
tradizionale  :,  attese  anch'egli  all'esercizio  della  facoltà  della 
parola,  in  quanto  che  pose  il  fondamento  alla  dialettica 
che  poi  sempre,  dal  nome  di  lui,  venne  chiamata  socratica. 
Quindi  Aristofane  veramente  non  ha,  come  si  dice,  errato, 
ma  ha  bene  colpito  nel  segno,  se  nelle  sue  prime  Nubi  rap- 


—  486  - 
presentò  Socrate  qual  «  syllabarum  aucupem,  artis  dicendi 
putridLim  magisirum,  de  coelestibus  rebus  inaudita  quae- 
dam  somniantem,  praeque  iis  patrios  deos  contemnentem  », 
come  appunto  risulta  dagli  studt  fatti  da  insigni  filologi  (i). 
A  questa  mia  opinione  a  prima  vista  si  opporrebbe  un  fatto 
che  non  è  bene  passare  sotto  silenzio  perchè  intimamente 
con  questi  miei  studi  connesso;  voglio  dire  il  fatto  della 
prima  sconfitta  che  toccò  ad  Aristofane  Tanno  420  av.  Cr. 
allorquando  entrò  in  gara  con  Gratino  rappresentando  le 
sue  prime  Nubi.  Ma  mi  piace  fin  da  principio  far  osservare 
che  le  ragioni  di  ciò  sono  del  tutto  estrinseche  alla  com- 
media di  Aristofane.  Noi  sappiamo  con  certezza  che  la 
commedia  rappresentata  in  questa  occasione  da  Gratino 
portava  il  titolo  di  TTiBùvn  o  la  Bottiglia.^  e  cosa  rara  per  le 
opere  di  Gratino,  persino  quale  ne  sia  stato  l'andamento.  L'an- 
tica moglie  di  Gratino  che  era  la  commedia,  a  cagione  dei  cat- 
tivi trattamenti  del  marito,  il  quale  Taveva  abbandonata  per 
correre  dietro  ad  un'altra  donna,  che  era  la  Bottiglia,  tutta 
adirata  s'indirizza  all'Arconte  portandovi  un'accusa  per  ot- 
tenere il  divorzio.  E  Gratino  ridotto  a  mal  partito,  per  non 
potersi  difendere,  rientra  allora  nuovamente  in  sé,  si  pente 
e  ritorna  a'  suoi  antichi  amori  (2).  Un  tema  siffatto  era 
nuovo  nel  suo  genere  pel  popolo  ateniese;  non  sappiamo,  per 
mancanza  di  sufficienti  notizie  e  frammenti,  se  un  tale  tenta- 
tivo fosse  già  stato  fatto  prima  da  altri;  ma  quello  che  è  certo, 
si  è,  che  Aristofane  non  l'ha  fatto  mai;  dal  che  potrebbesi 
in  qualche  modo  inferire  che  ricorrere  a  temi  di  questo  ge- 
nere ,  in  cui  il  soggetto  è  lo  stesso  poeta,  non  era  in  uso 
presso  i  comici  ateniesi.  Quindi  pensi  ognuno   quale  acco- 


(1)  V.  Teuffel,  Introduzione  alle  Nubi,   p.  7. 

(2)  V.    Gratini     Fragmenta  ,   coli.  Runkel  ;    Meineke  ,  Hist.   crii, 
com.  graecae,  p.  5i. 


—  487  — 
glienza  dovesse  trovare  il  vecchio  Gratino,  allorquando  per 
Tultima  volta  compariva  in  scena  con  questa  commedia, 
rivolgendo  la  sua  satira  non  più  contro  il  popolo  o  qualche 
noto  cittadino,  ma  addirittura  contro  se  stesso.  AlFincontro, 
assai  meno  dilettevole  impressione  fece  la  commedia  d'Ari- 
stofane, perchè  (oltreché  la  sofistica  era  ancora  poco  cono- 
sciuta, trovandosi  solo  allora  ne^  suoi  primordi)  essa  sem- 
brava manifestamente  contraddire  alla  stessa  verità.  E  di 
ciò  possediamo  una  qualche  prova  in  un  passo  di  Plutarco, 
in  cui  è  detto,  che  rappresentandosi  le  Nubi  d'Aristofane  e 
trovandosi  per  caso  presente  Socrate,  un  tale,  avvicinatosi 
a  lui,  gli  domandò  perchè  non  isdegnavasi  contro  il  co- 
mico, il  quale  divertiva  alle  spalle  di  lui  gli  spettatori;  e 
che  Socrate  gli  rispose  ridendo  :  'Qq  tàp  èv  auiurroaiiu  jne- 
YttXuj  TU)  Geórptu  aKuuTTTO|Liai  (i).  Non  si  potrebbe  veramente 
provare  che  il  fatto  sia  reale  \  tuttavia  risulta  da  questo 
racconto ,  che  il  popolo  ateniese  non  prestava  menoma- 
mente fede  alle  accuse  ed  alle  calunnie  che  Aristofane  sca- 
gliava contro  Socrate*,  giacché,  in  caso  contrario,  quel  tale, 
anziché  domandare  al  filosofo  se  non  isdegnavasi,  gli  avrebbe 
piuttosto  dovuto  dimandare,  se  non  pensava  a  mutare  in 
avvenire  il  tenore  della  sua  vita.  E  se  Platone  nel  Prota- 
gora (2)  ci  dice  che  grande  sia  stato  Todio  portato  dal  volgo 
ai  sofisti,  noi  dobbiamo  riferire  questa  asserzione  sua  non 
al  tempo  in  cui  vennero  rappresentate  le  Nubi,  ma  ad  un 
tempo  molto  posteriore,  in  cui  si  era  già  conosciuto  di  quali 
effetti  potevano  essere  causa  le  dottrine  sofistiche.  Invece  al 
tempo  della  rappresentazione  delle  Nubi,  i  sofisti  venivano 
piuttosto  ammirati  dal  volgo,  come  pur  li  ammirava  la  gio- 
ventù che  in  folla  accorreva  alle  scuole  loro;  quelle  grandi 


(i)  V.  Plutarco,  De  educand.  lib.^  e.   14. 
(2)  V.  cap.  IV. 


—  488  — 
ricchezze  acquistate  giorno  per  giorno  cogli  insegnamenti, 
dovevano  abbagliare  e  sbalordire  il  popolo,  e  procacciare 
ai  sofisti  grande  stima  e  venerazione.  Inoltre,  Platone  stesso 
ci  fa  sapere  (i)  che  il  titolo  di  sofista  tardò  molto  ad  essere 
ricevuto  fra  i  Greci  -^  e  ciò  dimostra  ancora  più  chiaramente, 
che  il  popolo  a  nessun  costo  poteva  rassegnarsi  in  sulle 
prime  a  dar  questo  titolo  ai  sofisti  che  suscitavano  il  suo 
entusiasmo  e  formavano  la  sua  ammirazione.  Considerate 
adunque  tutte  queste  ragioni,  si  deve  affermare,  che  se  Ari- 
stofane colle  sue  prime  A^ubi  ha  ricevuto  uno  smacco  che 
giammai  non  si  sarebbe  aspettato,  converrà  attribuirlo  a 
nuiraltro  che  alForiginalità  della  produzione  di  Gratino  ed 
all'entusiasmo  del  popolo  pei  sofisti  allora  non  ancora  esat- 
tamente conosciuti. 

2)  Socrate  filosofo. 
Socrate  e  l'accuse  di  Meleto  —  Socrate  e- le  seconde  yiibi. 

Se  Socrate,  come  ho  detto  di  sopra,  fu  un  pretto  sofista, 
non  era  però  uomo  tale  che  nelle  vane  ciancie,  neir  arte 
fina  della  parola,  unica  cura  dei  sofisti,  potesse  acquietarsi  e 
trovar  sufficiente  appagamento  a  quella  facoltà  religiosa  che 
noi  portiamo  innata  da  natura.  Tutto  il  mondo  olimpico 
degli  Dei  eragli  caduto  in  frantumi-,  il  dubbio  lo  tormentava 
senza  posa-,  il  vuoto  che  gli  era  rimasto  nella  coscienza 
voleva  essere  colmato  -,  egli  pensò  al  mezzo  di  riempirlo  e  lo 
trovò.  Già  due  principi  fra  loro  affini  gli  aveva  inculcato  la 
sofistica-,  quello  di  Protagora,  che  Tuomo  a  se  stesso  è  mi- 
sura di  tutte  le  cose,  e  quello  di  Eraclito:  cerco  me  stesso. 
D'altra  parte  la  religione  tradizionale  facevagli  ancor  ricor- 

(i)  Prot.,  cap.  III. 


—  489  — 

dare  il  delfico  :  rvuj6i  (TauTÓv,  sebbene  con  significato  ben 
diverso  da  quello  che  confusamente  cominciava  a  intrave- 
dervi. Ed  egli  colla  scorta  di  questi  tre  principi  si  accinse 
a  studiare  se  stesso,  per  rifornire  alla  morale,  alla  verità  as- 
soluta, quella  base  fondamentale  che  colla  ruina  dell'Olimpo 
si  era  perduta,  ponendo  Tio  come  centro  di  tutto  il  mondo 
morale.  Se  non  che  per  questo  studio  gli  faceva  di  bisogno 
una  qualche  norma  certa  e  sicura  che  lo  salvasse  da  ogni 
pericolo  di  errore ,  in  cui  tanto  facilmente  sarebbe  potuto 
cadere;  poiché  Tio,  siccome  affatto  individuale  e  perciò  di- 
pendente in  gran  parte  dalle  impressioni  esteriori,  si  muove 
non  in  piena  libertà  di  se  stesso,  ma  va  soggetto  alle  pas- 
sioni che  nell'animo  continuamente  si  sollevano  e  determi- 
nano il  modo  di  pensare  ed  operare.  Perciò  Socrate  si 
propose  di  studiare  la  coscienza  dell'  uomo  che  sa  e  può 
frenare  i  suoi  sensi  e  le  sue  passioni ,  cioè  la  coscienza 
delPuomo  puro,  onesto  e  prudente,  perchè  questa  sola  può 
essere  del  tutto  libera  e  indipendente.  In  questo  modo  si  fece 
a  indagare  le  leggi  della  vita  morale.  E  ne  seguì,  qual  con- 
seguenza immediata,  che  di  fronte  al  criterio  individuale 
di  Socrate,  ogni  relatività  dei  principi  di  Eraclito  e  Pro- 
tagora venne  immantinente  a  dileguarsi  -,  e  si  ricostituì  la 
•verità  assoluta  su  basi  ben  più  solide  che  non  quelle  som- 
ministrate pel  passato  dall'Olimpo  degli  Dei,  e  nel  mede- 
simo tempo  altrettanto  universali,  essendoché  Tuomo  onesto 
e  saggio  pensa  ed  opera  sempre  allo  stesso  modo  in  tutti 
i  luoghi  ed  in  tutti  i  tempi.  Di  qui  l'origine  del  così  detto 
baiiauuv  di  Socrate.  Che  cosa  era  mai  questo  òaiiaujv  ?  Nul- 
r  altro  se  non  una  voce  interiore  che  dall'  armonia  della 
vita,  ottenuta  mediante  la  compressione  dei  bassi  istinti, 
risuonava  nella  sua  coscienza  di  uomo  probo  ed  onesto. 

Ora,  il  principio  del  criterio  individuale  di  Socrate,  poteva 
urtare  col  modo  di  sentire  di  un  Ateniese  allevato  nella  re- 


-  490- 
ligione  patria,  che  pure  di  tutti  i  Greci  era  quello  che  faceva 
in  siffatta  materia  le  più  larghe  concessioni?  Vediamolo.  Ogni 
giovane  ateniese,  pervenuto  all'età  di  anni  diciotto,  doveva 
pubblicamente  prestare  un  giuramento,  col  quale  impone- 
vasi  il  nuovo  cittadino  due  obblighi  assolutamente  infran- 
gibili :  quello  cioè  di  venerare  la  religione  patria  e  di  farla 
venerare,  e  Taltro  di  procacciare  alla  repubblica  tutte  le  mi- 
ghorie  possibili,  difendere  in  ogni  modo  la  costituzione  vi- 
gente ,  ed  obbedire  e  far  obbedire  alle  leggi  che  il  popolo 
avesse  creduto  opportuno  introdurre.  Ciò  posto,  Socrate, 
colla  sua  dottrina  del  criterio  individuale,  non  veniva  a  far 
direttamente  a  cozzi  coi  due  obblighi  suddetti?  Egli  non 
credeva  più  nelle  divinità  greche,  la  cui  esistenza  per  lui 
era  diventata  un  assurdo  ;  seguiva  invece  Eraclito  ed 
Anassagora  nelT  opinione  di  una  divinità  astratta,  d'  una 
mente  ordinatrice  dell'universo  :,  e  se  non  poneva  manife- 
stamente in  discredito  gli  antichi  Dei,  cercava  tuttavia  di 
mutarne  il  concetto,  come  la  ragione  richiedeva  (i).  Egli 
disprezzava  la  costituzione  patria,  perchè  basata  su  principi 
democratici  -,  non  avendo  mai  voluto  assumere  alcun  inca- 
rico pubblico,  se  non  quando  la  democrazia  cominciava  a 
soggiacere  ai  sempre  crescenti  trionfi  dell'  oligarchia  che  la 
aveva,  per  così  dire,  minata*  non  che  desiderare  e  favorire 
il  miglioramento  della  patria  sotto  il  governo  democratico, 
egli  non  credette  che  si  potesse  raggiungere  altrimenti  che 
nella  prevalenza  della  fazione  aristocratica.  Ben  a  ragione 
dice  adunque  il  Forchhammer,  laddove  comprova  la  giu- 
stizia delle  accuse  di  Meleto,  che  il  nostro  filosofo  era  un 
gesetiìvidriger  Oligarche  cioè  un  oligarca  che  osteggiava  la 
costituzione  in  vigore  (2). 


(1)  V.    P'ORCHHAMMER.    Op.    cit.,  p.     IO. 

(2)  V.  Forchhammer,  Op.  cit.,  p.   54. 


—  491  — 

Con  tutto  ciò  non  credasi  che  io  voglia  in  qualche  modo- 
scemare  i  meriti  incontestabili  di  Socrate.  Egli  fu  un  grande 
riformatore  -,  vide  tutto  il  marcio  della  società  fra  cui  vi- 
veva ;  sentì  il  bisogno  di  principi"  che  avessero  forza  di  rial- 
zare il  grado  morale  dei  corrotti  suoi  concittadini-,  e  questi 
principi  escogitò  colla  potenza  del  suo  genio  e  difese  col  sa- 
crifizio della  propria  vita.  Ma  egli  con  questi  principi  veniva 
ad  offendefe  la  costituzione  e  l'educazione  patria-,  e  perciò 
ben  giusto  fu  il  biasimo  che  si  tirò  adosso  da'  suoi  concit- 
tadini e  dai  posteri.  Se  vogliamo  portar  un  adeguato  giu- 
dizio delle  relazioni  di  un  insigne  personaggio  colla  vita 
pubblica  de'  suoi  tempi,  noi  non  dobbiamo  misurarlo  alla 
stregua  dei  nostri  principi  moderni  o  della  bontà  delle  sue 
dottrine:;  noi  dobbiamo  far  invece  astrazione  da  ciò,  dob- 
biamo trasferirci  colla  nostra  fantasia  nel  tempo  in  cui  visse, 
in  mezzo  alla  sua  società,  fra  quei  principi  religiosi  e  civili^ 
sanciti  da  un  rispetto  e  da  una  osservanza  tradizionale  di 
qualche  secolo.  Se  no,  1'  aureola  del  grand'  uomo  ci  abba- 
glierà,  la  sua  superiorità  mentale  ci  si  imporrà,  e  noi  pro- 
nunzieremo  giudizi  pienamente  erronei.  È  questo  un  pre- 
cetto per  lo  storico  ornai  abbastanza  trito  ;,  eppure  quanti 
ancora  lo  pongono  in  non  cale!  Voglio  qui,  ad  esempio, 
citare  Ernesto  Curtius,  1'  autore  della  più  briosa  storia 
della  Grecia  che  la  filologia  moderna  possegga,  il  quale 
parlando  della  giustificazione  della  condanna  di  Socrate, 
dopo  aver  riferito  il  giuramento  che  la  gioventù  ateniese 
doveva  prestare,  soggiunge  :  «  Ora  non  serbò  Socrate  fede 
e  fede  non  comune  a  questo  venerando  giuramento  in  tutte 
le  sue  parti  ?  Non  vi  si  mostrò  devoto  fino  al  sacrificio  di 
se  stesso  ?  Di  fronte  a  Socrate  quindi  e  accusatori  e  giudici 
non  avevano  giustificazione  di  sorta.  Egli  pagò  il  fio  di 
colpe,  delle  quali  non  era  reo,  condannato  da  alcuni  per 
malvagità  d'animo,  da  altri  per  accecamento  e  strettezza  di 


—  492  — 

mente.  Egli  fu  vittima  di  un  fanatismo  politico,  che  aspi- 
rava a  far  rivivere  1'  Atene  dei  tempi  antichi,  senza  avere 
un'idea  chiara  de'  mezzi  e  del  fine  »  (i).  Che  sia  stato  vit- 
tima di  un  fanatismo  politico,  come  la  intende  Ernesto  Cur- 
tius, non  saprei  veramente  come  spiegarmelo,  essendoché  la 
sofistica  aveva  già  nella  coscienza  del  popolo  ateniese  semi- 
nato il  dubbio  e  lo  scetticismo,  lasciandovi  dell'  antica  fede 
soltanto  la  mera  apparenza.  Crederei  invece  che  si  possa 
dire,  che  sia  stato  soltanto  vittima  di  un  fanatismo  di  parte, 
che  malgrado  l'amnistia  concessa  ai  colpevoH  dopo  la  caduta 
dei  Trenta,  cercava  un  qualche  pretesto  per  isfogare  l'odio 
che  nutriva  contro  coloro  i  quali  manifestamente  avevano 
cospirato  pel  trionfo  dell'  abborrita  aristocrazia.  Ma,  dopo 
ciò  che  ho  detto  intorno  alle  teorie  di  Socrate,  potrò  io 
ammettere  che  egli  abbia  pagato  il  fio  di  colpe  delle  quali 
non  era  reo  ?  E  di  che  mai  altro  fu  giudicato  colpevole  ? 
L'accusa  portata  da  Meleto  innanzi  al  tribunale  dell'  ar- 
conte re,  la  primavera  dell'anno  399  av.  Cr.,  sul  principio 
del  mese  Targelione  (che  fu  T  ultimo  dell' arcontato  di  La- 
chete),  come  ce  l'  ha  conservata  Senofonte ,  era  formulata 
nei  seguenti  termini  :  'AòikeT  ZoiRpàrri?  ove,  niv  f\  nóXiq  vo- 
}x\l€i  Qeovq ,  où  vo)liìZ:ujv  ,  eiepa  bè  Kaivà  òaijuóvia  eicrcpépoiv  ' 
àòiKCi  òè  Kal  toìk;  véovq  òiacpGeipuuv.  Come  vedesi,  due  capi  di 
accusa  si  facevano  a  Socrate:  1"  che  egli  non  avesse  degli  Dei 
quel  concetto  che  la  religione  dei  Greci  imponeva,  e  nuove 
divinità  andasse  introducendo  ;  2°  che  egli  corrompesse  la 
gioventù.  Or  bene  ,  del  primo  capo  di  accuse  ,  può  dire 
il  Curtius  che  Socrate  non  fosse  reo  ?  Credeva  egli  negli 
Dei  della  città  ?  Non  voglio  negare  che  credesse  negli  Dei, 
essendo  un  fatto  incontestabile^  ma  non  erano    essi  quegli 


(i)  Fase.  XI,  p.   119,  della    versione    italiana    di    G.  Mììller    e  G. 
Oliva. 


-  493  — 
Stessi  Dei  che  la  città  venerava,  poiché  il  loro  concetto  era 
stato  interamente  mutato.  E  poi,  se  fosse  stato  veramente 
manifesto,  come  dice  Senofonte,  che  Socrate  credeva  negli 
Dei  della  città,  che  li  venerava  ed  a  loro  sacrificava  al 
pari  di  ogni  ahro  buon  Ateniese,  come  mai  avrebbe  potuto 
Meleto  accusarlo  ?  Non  sarebbe  stata  questa  una  men- 
zogna infame  che  a  Meleto  avrebbe  costata  la  vita  ?  —  E 
del  secondo  capo  di  accusa,  quello  cioè  di  corrompere  la 
gioventù,  non  si  può  dire,  ugualmente  colpevole  Socrate  ? 
L'accusatore  su  questa  parte  dell'accusa  di  esso  ha  voluto 
maggiormente  diffondersi  dividendola  in  cinque  punti  di- 
stinti. Egli  affermava  che  Socrate,  i°  induceva  gli  scolari 
a  disprezzare  le  leggi  vigenti  (ossia  la  costituzione  dello 
stato),  come  quegli  che  tacciava  di  pazzi  i  suoi  concittadini, 
che  affidavano  alla  sorte  T  elezione  dei  supremi  magistrati 
della  repubblica,  essi  che  non  avrebbero  alla  sorte  lasciato 
la  scelta  di  un  artefice  per  un  loro  bisogno  (i);  col  quale 
insegnamento  egli  rendeva  intolleranti  e  violenti  quei  gio- 
vani che  alla  sua  scuola  si  recavano  -,  2°  che  tali  appunto 
furono  due  scolari  di  lui,  Alcibiade  e  Crizia,  i  quali  reca- 
rono, Tuno  durante  la  prevalenza  della  democrazia,  e  l'altro 
durante  quella  dell'  oligarchia  ,  il  maggior  male  possibile 
alla  patria  (2)-,  3°  che  insegnava  a'  suoi  discepoli  a  maltrat- 
tare i  padri  loro,  perchè  divenuti  più  sapienti  di  essi,  come 
egli  persuadeva  a  fare,  avrebbero  potuto,  secondo  le  leggi, 
legarli  (ossia  loro  comandare),  quando  li  avessero  convinti 
dinanzi  ai  tribunali,  d'imbecillità,  essendo  del  tutto  legale, 
che  r  ignorante  e  lo  sciocco  venga  legato,  cioè  diretto,  dal 
sapiente  (3);  4°  che  Socrate  parimenti  insegnava  a  tener   in 


(i)  V.  Memorab.,  lib.  I,  cap.   II,  §  9. 

(2)  V.  Memorab.,  lib.  1,  cap.  11,  §  12. 

(3)  V.  Memorab.,  lib.  1,  cap.   II,  §  49. 


—  494  — 

poco  conto  i  congiunti,  giacché,  nel  caso  di  una  malattia 
o  di  una  citazione  dinanzi  ai  tribunali,  ad  esempio,  non 
essi,  ma  i  medici  o  gli  avvocati  avrebbero  potuto  prestare 
qualche  soccorso;  e  che  pure  a  proposito  degli  amici  di- 
ceva, a  nulla  servire  la  benevolenza  loro,  quando  non  po- 
tessero anche  recare  qualche  utilità,  ed  essere  degno  di  a- 
more  solamente  colui  che  conosce  ciò  che  a  noi  è  necessario 
ed  è  in  grado  di  potercelo  procacciare,  al  che  aggiungeva 
esser  lui  il  più  grande  sapiente  e  il  più  capace  di  render 
tali  tutti  gli  altri,  ed  a  far  conoscere  le  cose  suddette  (i); 
5°  finalmente,  che  Socrate  scegliendo  qua  e  là  nei  più  il- 
lustri poeti  i  peggiori  brani,  se  ne  valeva  per  indurre  i  di- 
scepoli suoi  ad  essere  malvagi  e  tirannici  -,  poiché  spiegava 
il  verso  d'Esiodo  : 

"EpYov  ò'  oùòèv  òvexboq,  àepTiri  òè  t'  òveiboq 

nel  senso  che  il  poeta  stesso  avesse  voluto  esortare  a  non 
astenersi  da  qualunque  azione  anche  ingiusta,  purché  fosse 
tornata  di  qualche  utilità-,  e  dal  passo  di  Omero  che  tocca 
di  Ulisse,  da  Senofonte  a  bello  studio  non  riferito  per  in- 
tiero nella  sua  apologia,  come  il  Forchhammer  opportuna- 
mente ha  notato ,  ricavava  che  il  poeta  consigliasse  a  per- 
cuotere (cioè  ad  opprimere)  il  popolo  (2). 

Contro  questi  cinque  punti  del  secondo  capo  di  accusa,  Se- 
nofonte a  tutto  potere  si  studiò  di  difendere  Socrate,  mettendo 
in  campo  quelle  ragioni  che  in  una  causa  tanto  difficile 
il  suo  ingegno  gli  sapeva  additare.  Ma  che  siavi  riuscito, 
non  posso  addirittura  affermarlo.  Molte  volte  a  bella  posta 
sorvolò  suir  essenziale,  fermandosi  soltanto  a  sofisticare  su 


(i)  V.  Memoriib..  lib.   I,  cap.   II,  §  ii-b2. 
(2)  V.  ///..  II,  V.   18S-206. 


—  495  — 
qualche  parola  deir  accusa;  molte  volte  non  trattò  la  que- 
stione che  con  grande  superficialità;  come  ognuno  può  di 
leggieri  convincersi,  ove  legga  con  qualche  attenzione  il  primo 
dei  Memorabili  e  lo  confronti  poscia  con  la  bella  operetta 
del  Forchhammer,  già  da  noi  più  volte  citata,  dove  Tau- 
tore  difende  il  popolo  ateniese  cotanto  infamato  per  la  con- 
danna di  Socrate.  Checche  ne  dica  Ruggiero  Bonghi  nel  suo 
Proemio  alP Apologia  di  Platone,  le  accuse  mosse  da  Meleto 
a  Socrate,  sono  pienamente  conformi  alla  giustizia  ed  alla 
verità.  Senofonte  istesso  ci  conferma  che  Socrate  aborriva 
l'elezione  dei  pubblici  magistrati  a  sorte,  perchè  la  sorte  è 
cieca  e  non  fa  distinzione  alcuna  tra  il  valente  e  il  dap- 
poco. Che  se  volessi  fermarmi  un  momento  su  questa  que- 
stione, potrei  domandare  se  tutte  le  magistrature  ateniesi 
erano  affidate  alla  sorte.  Quelle  che  per  la  pratica  esige- 
vano dal  concorrente  una  debita  conoscenza  e  attività,  non 
erano  forse  abbandonate  alle  disposizioni  del  popolo ,  e 
poscia  l'elezioni  dei  magistrati  sottoposte  alla  docimasia  ?  (i). 
Senofonte  ci  dice  riguardo  a  Crizia  ed  Alcibiade  che  Socrate 
fu  ingiustamente  creduto  causa  della  loro  malvagità,  poiché 
furono  essi  che  vollero  essere  istruiti  puramente  sulla  po- 
litica, lasciando  da  parte  la  morale,  come  cosa  di  nes- 
suna utilità  per  loro  (2).  Ma  che  potrebbe  lo  stesso  Seno- 
fonte addurre  in  sua  discolpa,  qualora  noi  volessimo  ac- 
cusarlo di  tradimento  per  essersi  recato  presso  il  nemico 
della  patria  sua,  presso  quel  Ciro  che,  traditore  egli  pure, 
mirava  a  privare  del  regno  il  proprio  fratello  Artaserse,  suo 
legittimo  signore?  La  così  detta  calocagatia,  insegnata  da  So- 
crate, di  grazia,  in  che  mai  consisteva  ?  Forse   non  nel  pro- 


(i)  V.  S>cHOEM\u^,  Antichità  greche,  voi.  II,  p.   n3  della   versione 
italiana  di  Rodolfo  Pichler. 
(2)  V.  Memorab.,  lib.  I,  cap.   II,  i^   17. 


—  496  — 
prio  utile  ?  Era  questa  una  conseguenza  logica  del  principio 
del  criterio  individuale  che  dovevasi  da  ognuno  ,  secondo 
Socrate,  porre  a  base  di  tutte  le  azioni,  E  perciò,  vediamo 
in  qual  modo  consigliasse  i  propri  scolari.  Nel  caso  che 
fossero  diventati  più  sapienti  dei  loro  genitori  (specioso  pre- 
testo !)  potevano  strappare  loro  di  mano  V  amministra- 
zione domestica,  e  tenerli,  quasi  come  servi,  soggetti. 
Volendo  procurarsi  qualche  amico  ,  dovevano  cercarlo  fra 
quelli  che  avessero  potuto  essere  di  una  qualche  utilità  (i). 
Che  anzi  persino  il  culto  della  divinità  riposava  per  Socrate 
sulle  teorie  del  proprio  utile;  noi  veneriamo  gli  Dei,  fac- 
ciamo loro  sacrifizi",  non  perchè  vi  abbiano  qualche  ti- 
tolo,  bensì  perchè  ci  possono  esser  utili  (2).  Quindi  non 
dovrebbe  far  meraviglia  neppure,  se  egli,  volendo  in  ogni 
modo  spingere  i  suoi  discepoli  alla  sovversione  del  go- 
verno democratico,  valevasi  dei  passi  dei  più  illustri  poeti, 
come  Esiodo  ed  Omero  (3)-,  questa  non  era  che  una  con- 
seguenza di  quei  principi  politici  che  Socrate  voleva  legit- 
timare con  qualche  autorità.  Il  popolo  ateniese  non  poteva 
possedere  quelle  giuste  norme  ch'egli  richiedeva  per  rele- 
zione dei  magistrati  supremi  della  repubblica  ;,  non  po- 
teva sottrarsi  all'  impero  delle  proprie  passioni,  e  volubile 
ed  entusiasta  qual  era  ,  non  poteva  sfuggire  alle  arti  che 
molti  ambiziosi  ponevano  in  opera  per  soddisfare  alle  loro 
mire  segrete.  E  perciò  Socrate  odiava  il  governo  demo- 
cratico, desiderava  che  l'oligarchia  od  anche  qualche  tu- 
pavvo?  (nel  significato  greco  della  parola)  carpisse  il  potere, 
perchè  T  amministrazione  pubblica  sarebbe  venuta  nelle 
mani  di  chi  avrebbe  certamente   posseduto  maggiori  cogni- 


(i)  V.  Memorab.,  lib.  II,  cap.  II,  cap.  V,  cap.  VI. 

(2)  Memorab.,  lib.   I,  cap.  IV,  §  18. 

(3)  V.    FORCHHAMMER,    Of.    cit.,  p.    54   C   SCgg. 


-  497  — 
zioni  in  siffatta  materia  che  non  un  popolo  aggirato  dai  de- 
magoghi. Ciò  è  tanto  vero  che  il  suo  discepolo  Platone, 
il  quale  era  stato  imbevuto  di  questi  principi,  sulla  mede- 
sima base  voleva  costrurre  uno  stato,  che,  sebbene  per  na- 
tura fantastico,  nondimeno  era  in  aperta  contraddizione  collo 
stato  ateniese,  perchè  fondato  su  principi  del  tutto  aristo- 
cratici. Ma  Platone  era  forse  V  unico  dei  discepoli  di  So- 
crate che  nutriva  questi  sentimenti  ?  Di  Crizia  non  vo- 
gliamo parlare,  e  nemmeno  di  Senofonte.  Che  diremo  di 
Teramene,  il  così  detto  coturno  a  due  piedi?  E  di  Caricle, 
di  Carmide  ?  Di  Alcibiade  dirò  più  tardi  quello  che  penso. 
Anch'  essi,  come  Platone,  furono  scolari  di  Socrate  ed  oli- 
garchici. 

Ecco  le  ragioni  ed  i  fatti,  che  si  dovrebbero  avere  di- 
nanzi agli  occhi  per  giudicare  se  giusta  od  ingiusta  sia  stata 
la  condanna  di  Socrate.  Sofisticare  e  sottilizzare  sulle  dot- 
trine di  lui  colle  nostre  idee  moderne ,  oppure  attribuirgli 
certe  idee  e  vedute  che  furono  il  frutto  dei  tempi  seguiti, 
ponendo  in  non  cale  i  fatti  che  ne  furono  la  conseguenza 
diretta,  pare  a  me,  che  non  possa  veramente  essere  la  giusta 
via  da  tenersi  in  siffatta  disamina.  E  venir  oggi  a  dire  che 
Socrate  intendeva  un  detto,  un  principio,  come  Tha  poi  in- 
teso la  riflessione  de'  suoi  discepoli,  e  antichi  e  moderni, 
senza  citare  fatti  e  testimonianze  che  ne  possano  essere  una 
qualche  conferma,  è  cosa,  mi  si  scusi  il  termine,  assai  pue- 
rile. Chi  potrebbe  negare  che  la  teoria  delT  utile  non  sia 
stata  da  lui  escogitata  e  promossa  ?  Non  lo  dice  chiara- 
mente in  pili  luoghi' Senofonte  ?  Nondimeno  si  odono  an- 
cora da  un  insigne  personaggio,  qual  è  Ruggiero  Bonghi, 
le  parole  seguenti:  Un  verso  di  Esiodo,  il  quale,  par- 
lando del  lavoro  dei  campi  ,  dice  ,  che  «  nessun  lavoro  è 
vergogna,  e  bensì  è  vergogna  l'ozio  »,  egli,  dicono,  l'inter- 
pretava, come  se  il  poeta  avesse  voluto  dire,  che    non  bi- 

'^iijvista  di  filoloi;ia  ecc.,  X.  33 


—  498  — 

sognava  astenersi  da  nessuna  azione,  anche  ingiusta  e  turpe, 
anzi  anche  questa  commetterla,  se  ci  si  guadagna.  Ora  ,  il 
vero  è,  che  Socrate  cominciava  col  dimostrare,  che  non  si 
fa,  se  non  quando  si  fa  il  bene  ,  e  non  si  ozia  ,  se  non 
quando  si  ^i  il  male-  e  posto  ciò,  conchiudeva,  che  chi  fa, 
checché  faccia,  è  buono  \  dove  chi  fa  il  male,  checché  faccia, 
è  ozioso  ))  (i).  Non  si  accorge  egli,  il  Bonghi,  che  Seno- 
fonte vuol  farci  fraintendere  le  cose  ?  Qui  non  si  parla  di 
morale,  ma  di  politica,  e  il  verso  dì  Esiodo  veniva  da  So- 
crate spiegato  nel  senso  che,  pur  si  alterasse  il  governo  po- 
polare e  si  sostituisse  un  qualche  altro  governo  più  saggio, 
ogni  mezzo,  qualunque  si  fosse,  era  pienamente  giustificato. 
Ad  avvertirlo  di  ciò,  a  quanto  pare,  avrebbe  dovuto  ba- 
stare, non  dico  la  parola  dello  stesso  accusatore ,  ma  an- 
cora la  citazione  dei  versi  di  Omero,  per  i  quali  nessuna 
altra  spiegazione,  fuorché  politica,  si  potrebbe  accettare!  (2). 
Ma  intanto  che  siffatti  principi",  morali  e  politici  si  fissa- 
vano e  determinavano  nella  mente  di  Socrate,  e  quasi  con- 
temporaneamente venivano  da  lui  propalati  per  le  vie  e  per  le 
piazze,  Aristofane  andava  spiando  e  scrutando  in  ogni  verso 
il  filosofo.  Lo  stimolava  non  tanto  il  rincrescimento  della 
sconfitta  alcuni  anni  indietro  toccatagli,  quanto  la  brama  in- 
tensa di  abbattere  in  Socrate,  come  già  prima  aveva  tentato, 
la  nemica  acerrima  della  aristocrazia ,  vale  a  dire  la  sofi- 
stica. Ed  egli  non  tardò  molto  ad  accorgersi  nella  sua  per- 
spicacia ,  che  Socrate  poco  a  poco  andavasi  discostando 
dagli  altri  sofisti ,  che  nuove  dottrine  da  quei  principi  ve- 
niva deducendo,  le  quali  manifestamente  si  contrappone- 
vano alle  credenze  religiose  del  popolo,  ed  all'antica  educa- 
zione, più  ancora  che  non  le  stesse  teorie  sofistiche.  Allora 


(1)  V.  Proemio  alV Apologia  tradotta  da  Ruggiero  Bonghi,  p.  1S2 

(2)  V.    FORCHAMMER,    Op.   C?7.  ,p.    Sj. 


—  499  - 

probabilmente  si  pose  per  la  seconda  volta  all'opera,  e  ri- 
fece la  sua  commedia  delle  Nubi,  procurando  di  adattarla 
alle  nuove  esigenze.  Noi  abbiamo  di  già  veduto  quali  ac- 
cuse si  potevano  muovere  a  Socrate  dopo  la  riforma  da  lui 
introdotta  nelle  sue  dottrine;,  vediamo  ora,  come  siasi  com- 
portato Aristofane  dal  canto  suo.  —  L'argomento  delle  se- 
conde Nubi,  quali  ci  sono  pervenute,  è  il  seguente:  «  Stre- 
psiades,  senex  rusticus,  sed  per  bellum  nunc  in  urbem 
pertractus,  quum  aere  alieno  uxoris  ac  filli  prodigis  moribus 
conflato  liberar!  cupiat,  Phidippidem  filium  hortatur  ut  a  So- 
crate addiscat  novas  disputandi  et  dicendi  artes,  quibus  ut  in- 
iuria  verti  soleat  iniustum  ita  debita  quoque  devolvendi  spes 
sit.  Quod  quum  nequeat  filio  persuadere  senex  semetipsum  in 
Socratis  disciplinam  traditurus  adit  eius  domum,  -confirma- 
turque  in  proposito  omnibus  iis  rebus  quos  ante  fores  ac 
statim  ab  introitu  audit  ex  aliquo  discipulo.  Quibus  in 
summam  expectationem  adductus  postremo  ipsum  magistrum 
conspicit  ab  coque  edocetur  vulgarium  deorum  nuUam  apud 
ipsos  esse  auctoritatem,  sed  prò  diis  coli  nubes  *,  quae  post- 
quam  Strepsiades,  ut  earum  adspectu  dignus  fiat ,  sordidis 
quibusdam  caeremoniis  initiatus  est,  a  Socrate  invocantur 
(TTpóXoToq,  V.  1-274).  Invocatae  audiuntur  primum  (TTópoòo?, 
275-3 1 3),  paulatim  etiam  cernuntur  mulierum  habitu  in- 
dutae,  et  eas  esse  deas  adeo  probatur  Strepsiadi  ut  ab  iis 
se  voti  compotem  fore  iam  prò  certo  habeat  omniaque  quae 
postulentur  earum  gratia  in  se  recipere  paratus  sit.  Ita 
postquam  de  eius  voluntate  res  est  comperta  et  deinde  mens 
quoque  paululum  explorata ,  ad  erudiendum  introducitur 
Strepsiades  ('Erreiaóbiov  TtpujTOV,  3i4-5oq).  Vacuefacta  scena 
canitur  fi  TTapdpaai<s  {ò  10-626).  Interea  Strepsiadem  suas 
artes  docere  conatus  Socrates  parum  profecit  ^  et  quum  nec 
ea  quae  nunc  cum  eo  molitur  melius  procedant ,  postremo 
abiecta    spe    negat    se    eum    amplius  edocturum.  De  rebus 


—  500  — 
suis  desperanti  Strcpsiadi  Chorus  suadet  ut  prò  ipso  filium 
mittat  ('Eireiaóbiov  òeuiepov  ,  627-800) ,  Socratem  autem 
monet  ut  oblata  opportunitate  gnaviter  utatur  (804-813). 
Minis  precibusque  patris  tandem  victus  Philippides,  quamvis 
invitus,  a  se  impetrat ,  ut  Socratis  disciplinae  se  tradi  pa- 
tiatur  ('ETTeicTóòiov  Tpixov,  814-888).  Nullo  interposito  cantico 
iustus  et  iniustus  orator  ineunt  inter  se  certamen,  uter  sit 
potior  magisque  dignus  qui  adolescentem  accipiat  eru- 
diendum.  Abducit  eum  qui  victor  evasit  iniustus  ('ETreia- 
óòiov  xéiapTov,  889-1104)  et  Socrates  (i  105-1014).  Post 
breve  tempus  (quod  expletur  epirrhemate  (iio5-ii3o)  re- 
versus  Strepsiades  recepto  Alio  penitus  erudito  exsultat  suos- 
que  creditores  male  habet  ('ETreicróòiov  tcilitttov,  1  i3i-i3o2). 
Sed  cele»iter  subsequitur  paena,  quam  pracdixerat  Chorus 
(i3o3-i32o).  E  domo  enim  proripit  se  Strepsiades,  se  mul- 
catum  conquerens  a  filio  ,  qui  rem  non  modo  fatetur  sed 
recte  factam  esse  pollicetur  se  demonstraturum.  Quo  pro- 
bato  quum  matrem  quoque  iure  mulctari  a  filiis  docere 
paret  Phidippides,  iam  pater  perspicit  quid  sit  re  vera  haec 
nova  sapientia  et  quo  perducat ,  eiusque  auctores  incensa 
domo  expellit  »  ("EHoòo^,    1 32i-i5io)  (1). 

Esaminiamo  ora  diligentemente  la  commedia  del  nostro 
comico  e  specialmente  quelle  scene  che  toccano  più  da  vi- 
cino le  dottrine  di  Socrate.  Strepsiade  bussa  alla  porta  della 
scuola  di  Socrate,  ma  in  modo  così  villano,  da  far  cadere 
ad  uno  scolaro  un  concetto  che  aveva  trovato.  Questi  si 
adira  e  ne  dice  il  perchè.  Allora  Strepsiade  preso  da  cu- 
riosità, vuole    conoscere   questo   concetto.   Lo  scolaro  s'ar- 


(i)  V.  Teuffel,  lììtrod.  alle  Nubi,  p.  14.  Ho  creduto  bene  di  togliere 
dal  Teuffel  questo  argomento  delle  Nubi,  perchè  nel  tempo  stesso 
che  è  breve  e  preciso,  offre  anche  una  chiara  idea  di  tutto  l'anda- 
mento della  commedia. 


—  501  — 
rende  al  desiderio  di  lui,  ma  prima  Tammonisce  che  deve 
tenere  ciò  che  nella  scuola  s'  insegna  e  si  specola  in  conto 
di  misteri  (v.  143),  i  quali  non  si  possono  svelare  se  non 
agli  iniziati.  Strepsiade  ascolta  avidamente  la  rivelazione  di 
alcuni  ritrovati  di  Socrate,  e,  viemmaggiormente  confermato 
nel  suo  proposito  ,  dimanda  di  essere  in  quei  misteri  ini- 
ziato ^  cosa  che  Socrate  volentieri  gli  concede.  Del  tutto 
secondo  i  riti  prescritti  per  gli  altri  misteri,  Socrate  gli 
chiede,  se  desideri  veramente  di  conoscere  le  cose  divine 
(là  Geia,  v.  25o-25i)  e  di  venire  a  colloquio  colle  Nubi , 
sue  òai|iiove(;,  così  chiamate  da  Aristofane  in  allusione  al 
òaìinuuv  di  Socrate.  Avutane  risposta  affermativa  ,  com'  era 
da  credere,  Socrate  lo  fa  sedere  sul  sacro  letticiuolo,  da 
lui  destinato  a  servire  per  T  iniziazione  dei  nuovi  disce- 
poli (v.  254)  e  poscia  gli  presenta  una  corona  e  gli  or- 
dina di  mettersela  in  testa  (v.  2  56),  perchè,  come  Socrate 
stesso  soggiunge  (v.  2  58),  così  debbono  fare  tutti  quelli  che 
vengono  da  lui  iniziati.  —  Da  queste  due  scene  del  prologo 
cominciamo  a  vedere  ,  che  Aristofane  vuol  rappresentare 
Socrate  come  ierofante  di  nuovi  misteri,  da  lui  introdotti,  a 
somiglianza  dei  misteri  di  AriiLiriTrip  e  TTepO'eopóvri;  e  che  le  di- 
vinità di  Socrate  ,  in  onore  delle  quali  questi  misteri  ven- 
gono celebrati,  sono  le  Nubi,  NecpéXai.  —  Chi  siano,  ce  lo 
dicono  esse  stesse  più  tardi  :  sono  quelle  divinità  che  con- 
cedono ai  mortali  i  maggiori  beni  (v.  8o5),  cioè  abilità  nel 
parlare,  intelletto,  ciarlataneria,  loquacità,  arte  d'ingannare 
altrui,  fare  stupire  gli  uditori  e  cattivarsi  i  loro  animi  (i). 
E  perciò  son  esse  le  Dee  alimentatrici  di  molti  sofisti,  degli 
indovini  di  Turi,  dei  moderni  cerretani,  di  quelli  che  por- 


(i)  Vedi   V.  3i7-3i8  e  l'interpretazione    dello    Scoliaste  a  pag.  6; 
delle  Nubi  del  Teuffel. 


-  r:02  - 
tano  le  dita  cariche  d'anella,  dei  noiosi  cantori  di  canti  ci- 
clici e  di  cori,  e  di  quelli  ancora  che  ragionando  delle  cose 
celesti  e  divine,  si  beffano  degli  altri;  ossia  Dee  che  pascono 
oziosi,  i  quali  le  lodano  nei  loro  versi  (v.  33 1-334),  ^  ^^^ 
essi  viene  pure  annoverato  Socrate,  vecchio  annoso  che  va 
a  caccia  di  discorsi  cari  alle  Muse  ,  sacerdote  di  sottilis- 
sime baie,  che  tutti  gli  altri  sorpassa  in  questo  mestiere, 
e  a  cui  le  Dee  si  manifestano  e  prestano  volentieri  l'orec- 
chio, poich'  egli  va  superbamente  per  le  vie,  lanciando  lo 
sguardo  qua  e  là,  senza  calzari,  molti  mali  sopporta,  e 
da  esse  pigliando  T  esempio  (v.  358-363)  compone  a  gra- 
vità il  suo  volto.  —  Non  par  egli ,  che  dipingendo  So- 
crate in  questo  modo,  Aristofane  voglia  far  ancora  allusione 
agli  insegnamenti  dei  sofisti,  fra  i  quali  seguita  a  com- 
prendere anche  Socrate  ?  Una  maggiore  conferma  di  ciò  noi 
Tabbiamo  nella  scena,  in  cui  Socrate  si  sforza  ad  inse- 
gnare certe  inezie  al  rozzo  Strepsiade,  come  i  ritmi,  le  mi- 
sure dei  versi,  e  il  genere  dei  nomi  (forse  qui  e'  è  un'  al- 
lusione agli  insegnamenti  di  Prodico),  e,  per  ultimo,  il 
modo  di  vincere  le  liti.  La  spiegazione  di  questo  fatto  ,  a 
mio  credere ,  non  può  esser  altra  se  non  la  seguente  : 
questa  scena  doveva  appartenere  di  già  alle  prime  Nubi , 
da  cui  Aristofane  credette  bene  di  toglierla  ,  aspettando  a 
correggerla  quando  avesse  interamente  abbozzata  la  sua  com- 
media. E  vedremo  più  sotto  quanto  essa  stuoni  colle  rima- 
nenti, dove  Socrate  viene  ritratto  con  maggiore  verità,  cioè 
come  filosofo  che  corrompe  la  gioventù,  impartendole  una 
educazione  contraria  alle  leggi.  —  Strepsiade,  costretto  ad 
abbandonare,  perchè  troppo  ottuso,  la  scuola  di  Socrate, 
corre  difilato  a  casa,  e  dopo  molti  sforzi  finalmente  riesce 
a  persuadere  suo  figlio  Fidippide  a  recarvisi  in  vece  sua , 
come  il  coro  l'aveva  consigliato.  Allora  innanzi  a  Fidippide 
s' impegna    una    viva    lotta    fra    il    Xófo^  òiKaioq  e  il  Xófoq 


—  503  - 
àòiKO<;,  rappresentanti  Tuno  Tantica  e  l'altro  la  nuova  edu- 
cazione-, vince  r  cibiKo^,  e  Fidippide  si  consegna  nelle  mani 
di  Socrate  per  essere  educato  conforme  ai  nuovi  principi 
ed  i  nuovi  metodi.  Qui  mi  viene  in  acconcio  di  fare  notare 
che  Socrate  non  figura  come  un  abile  precettore  che  sia  di- 
sposto indifferentemente  ad  impartire  tanto  l'antica  quanto 
la  nuova  educazione ,  ma  come  il  rappresentante  esclu- 
sivo dell'ultima,  alla  quale  tutto  si  è  dedicato-,  che  altri- 
menti, r  effetto,  che  Aristofane  si  studiava  di  raggiungere, 
non  l'avrebbe  punto  ottenuto,  essendo  in  tal  caso  da  im- 
putarsi i  fatali  risultamenti  della  nuova  educazione  a  chi 
voleva  frequentare  la  scuola  di  Socrate.  Tale,  per  con- 
trario ,  ossia  rappresentante  e  dell'  una  e  dell'  altra  educa- 
zione, sebbene  alquanto  più  propenso  per  l'antica,  dobbiamo 
dire  che  sia  il  coro  delle  Nubi,  dal  quale  dipendono  en- 
trambi i  logoi.  Egli  vede  il  trionfo  del  \óto<;  àòiKOt^,  e  fin 
d'allora  predice  malanni  allo  sciagurato  Strepsiade  (v.  1 1 13). 
Quando  compaiono  in  scena  i  due  creditori  Pasia  ed  Aminia, 
e  Strepsiade  duramente  li  scaccia,  il  coro  ai  giusti  rimpro- 
veri che  gli  muove  ,  aggiunge  ancora  nuovi  pronostici  di 
future  disgrazie.  Di  più ,  veniamo  agli  effetti  dell'  insegna- 
mento socratico.  Entra  in  scena  Strepsiade  tutto  in  lamenti 
per  le  percosse  ricevute  dal  figlio  in  seguito  a  un  diverbio 
che  era  nato  fra  di  loro  da  un  diverso  modo  di  pensare  sugli 
antichi  poeti,  e  le  Nubi  nobilmente  gli  rispondono:  incol- 
pane te  stesso  che  ti  sei  volto  a  malvagio  operare  (v.  1454  e 
1455)  i  poiché  noi  vogliamo  precipitare  nelle  disgrazie  tutti 
quelli  che  vediamo  amanti  del  mal  operare,  affinchè  im- 
parino a  temere  gli  Dei  (v.  1458-1461).  In  questo  modo,  a 
parer  mio,  si  viene  a  toglier  di  mezzo  la  contraddizione 
apparente  che  esiste  fra  la  negazione  assoluta  di  ogni  divi- 
nità, fuorché  delle  Nubi,  per  parte  di  Socrate,  e  la  credenza 
in  Giove  e  in  tutti  gli  altri  antichi  Dei  per  parte  del  coro: 


—  504  — 

esso,  e  voglio  ripeterlo,  rappresenta  sì  T  antica  come 
la  nuova  educazione;  Socrate  invece  è  un  ministro  delle 
Nubi  bensì ,  ma  solo  per  diffondere  i  nuovi  principi  e  le 
nuove  idee  ,  che  noi  vediamo  comicamente  esposti  da  Fi- 
dippide  nella  penultima  scena.  —  I  vecchi  sono  due  volte 
fanciulli,  egli  risponde  a  suo  padre:  or  bene,  se  tu  hai  ba- 
stonato me  quand'  era  fanciullo,  ragion  vuole  che  bastoni 
ora  io  te  e  ti  faccia  piangere  tanto  più,  quanto  meno  è 
giusto  che  i  giovani  cadano  in  errore  (v.  141 5-14 19).  Le 
leggi  deir  antica  educazione  per  lui  hanno  cessato  di  esi- 
stere ;  furono  uomini  quelli  che  le  fecero,  e  perciò  può  egli 
pure  ,  siccome  uomo  al  pari  di  loro  ,  farsene  altre  a  suo 
talento  (v.  142 1-1424).  E  poi  non  deve  egli  tener  conto 
delle  battiture  ricevute  quand'era  fanciullo  ?  deve  senz'altro 
condonarle  ?  Gli  dice  il  padre  ,  che  potrà  poi  rifarsene  sui 
propri  figli  -,  ma  egli  risponde  :  e  qualora  non  ne  avessi, 
dovrò  avere  inutilmente  pianto?  (v.  1436-37).  E  perchè 
non  abbia  a  dolersi  di  essere  stato  lui  solo  bastonato ,  gli 
promette  di  bastonare  anche  la  madre.  —  Tali  dovevano 
essere  i  risultati  d'alcuni  principi  socratici,  quando  veni- 
vano presi  alla  lettera.  E  forse  di  questi  fatti  Aristofane 
ne  avrà  avuto  alcuni  sotto  gli  occhi ,  se  ce  ne  ha  dato  un 
esempio  nell'ultima  parte  della  sua  commedia,  che  è  la  più 
stupenda. 

Riassumiamo  ora  brevemente  quali  accuse  muove  Aristo- 
fane a  Socrate  nelle  seconde  Nubi.  Due  son  esse ,  come 
quelle  di  Meleto,  ma  non  tutte  e  due  come  quella  com- 
plete: r  una ,  risguardante  la  religione  patria,  e  l'altra  la 
educazione  antica,  considerata  però  soltanto  dal  lato  morale: 
Socrate  nega  le  antiche  divinità,  e  altre  nuove  ne  introduce: 
Socrate  corrompe  i  giovani  instillando  loro  principi  fatali, 
come  quello  di  poter  battere  i  genitori,  ove  di  questi  essi  siano 


-  505  - 
diventati  più  sapienti  (i).  Orbene,  come  va  clie  Aristofane 
non  fa  nessuna  menzione  dei  principi"  politici  di  Socrate  che 
pure  erano  avversi  alla  costituzione  d^Atene  ?  Ne  ha  forse 
Aristofane  a  bello  studio  taciuto  ?  E  allora  perchè  non  va- 
lersene e  quindi  condurre  a  termine  il  rifacimento  della  sua 
commedia  ?  Chi  mi  ha  seguito  fino  a  questo  punto  non  avrà 
nessuna  difficoltà  a  dare  un'adeguata  risposta.  Ma  il  Teuffel 
crede  bene  spiegare  nel  seguente  modo  il  fatto  del  rifaci- 
mento incompleto  delle  Nubi  d'Aristofane:   «  ut   rectc 

videtur  coniecisse  Sch.  ad  v.  691,  Aristophanem  per  ali- 
quantum  temporis  spatium  suum  agitasse  consilium  fabulae 
in  scenam  reducendae  ideoque  ad  intermissum  aliquandiu 
opus  retractationis  alio  tempore  esse  reversum,  ita  eodem 
iure  coUigas  poetam  illud  consilium  postremo  abieciisse , 
quippe  qui  non  fuisset  passurus  ut  in  eadem  fabula  tam 
diversorum  temporum  vestigia  remanerent,  partim  cum  no- 
tatione  iam  non  amplius  congrua,  utve  in  eadem  Gleo  et 
vivus  et  mortuus  esse  narraretur,  in  eademque  et  impugna- 
retur  Hyperbolus  et  de  assiduis  eius  impugnationibus  ri- 
deretur.  Abiecisse  autem  videtur  istud  consilium  restincto 
per  interlapsum  tempus  paulatim  operis  studio  et  amore  , 
cum  modo  composita  inseguentibus  rebus  statim  antiqua - 
rentur,  ut  Cleonis  morte  epirrhema  de  aliis  poetae  dubitatio 
oriretur  num  starent  cum  ventate  ,  ut  de  ìis  maxime  cre- 
dibile est  quae  finxerat  de  Socrate  (2).  —  Che  nelle  seconde 


(i)  Al  V.  1400,  dove  Fidippide  esclama  in  tuono  di  compiacenza: 
«  Come  è  dolce  aver  dimestichezza  con  nuove  cose  ed  astute,  e  poter 
fare  nessun  conto  delle  leggi  esistenti  !  Ma  non  havvi  nessuna  allusione 
a  idee  politiche  imparate  da  Socrate,  per  le  quali  si  permettesse  di 
disprezzare  la  costituzione  dello  stato,  ma  sì  bene  ai  nuovi  principi 
morali,  con  cui  egli  poteva  calpestare  quelle  leggi  naturali  sanzionate 
dal  comune  ateniese,  che  imponeva  al  figlio  il  rispetto    del  padre  ». 

(2)  Teuffel,  Introduzione  alle  Nubi,  p.   lo-ii. 


—  506  — 
Nubi  realmente  esistano  siffatte  incongruenze  e  contraddi- 
zioni non  si  può  contestare  -,  ma  che  appunto  per  V  esi- 
stenza di  queste  incongruenze  e  contraddizioni ,  Aristofane 
debba  avere  smesso  il  pensiero  di  compire  l'opera  sua,  ci 
pare  assolutamente  inammessibile.  Non  avrebbe  egli  potuto 
facilmente  superare,  quando  T  avesse  voluto,  tutte  queste 
difficoltà,  come  ha  pur  fatto  per  la  commedia  del  Pluto  ? 
Mi  risponde  il  Teuffel,  che  gli  è  venuto  meno  il  buon  vo- 
lere, senza  avvedersi  che  in  tal  caso  fa  un  gran  torto  ad 
Aristofane.  Socrate  continuava  intrepido  nella  sua  via,  per- 
fezionava e  propalava  fra  il  popolo,  con  sempre  maggiore 
alacrità,  le  sue  dottrine,  nuovi  e  gravi  danni  ogni  di  più  an- 
dava recando  alle  antiche  idee  religiose  e  politiche;  ed  Ari- 
stofane, il  campione  dell'educazione  antica,  come  il  Teuffel 
lo  reputa  con  molti  altri,  spaventato  da  così  leggiere  diffi- 
coltà, se  ne  stava  spettatore  inerte  dei  progetti  di  questo  in- 
novatore !  Io  invece  vorrei  a  ben  altre  ragioni  attribuire 
questa  inerzia  d'Aristofane,  ragioni  né  inerenti  né  relative 
all'intreccio  dell'  azione,  ma  totalmente  estrinseche  alla  sua 
commedia.  Ma  prima  di  addurle  è  necessario  dare  un  ra- 
pido sguardo  agli  ultimi  anni  della  guerra  peloponnesiaca, 
dove  troveremo    fatti    che    manifestamente  le  comprovano. 


3)  Socrate  ed  Aristofane  nella  loro  vita  pubblica. 

Corre\a  Tanno  418  av.  Cr.  {01.  91,  3).  Per  i  disastri 
toccati  in  Sicilia,  Atene  trovavasi  ridotta  agli  estremi.  Non 
possedeva  più  armate;  eran  vuoti  gli  arsenali,  e  l'erario  com- 
pletamente esausto;  le  città  della  confederazione  ionica,  sia 
per  i  danni  sofferti  in  quella  malaugurata  spedizione,  sia 
per  la  brama  di  scuotere  una  buona  volta  il  giogo  pesante 
che  le  opprimeva  ,  rialzavano  il  capo   baldanzose    più    che 


-  507  — 
mai.  Il  nemico,  per  consiglio  di  Alcibiade,  aveva  occupato 
Decelea,  situata  a  tre  miglia  da  Atene  sul  monte  Parnete-,  e 
così,  non  solamente  le  era  stata  tolta  ogni  comunicazione  per 
terra  coll'Eubea,  ma  ancora  correva  rischio  di  perdere  quel- 
l'isola, che  forniva  alla  città  la  maggior  parte  de'  suoi  ap- 
provvigionamenti. Un  terzo  del  territorio  dell'Attica  non 
era  più  nelle  sue  mani,  ed  il  rimanente  era  divenuto  incolti- 
vabile per  le  continue  scorrerie  dei  nemici  che  si  avanzavano 
fin  sotto  le  mura  della  città,  mentre  essa  era  piena  di  una 
popolazione  rustica,  la  quale  era  stata  costretta  ad  abbando- 
nare le  campagne  per  sottrarsi  alle  spade  nemiche,  inetta 
alle  armi,  costernata  e  lamentevole,  soltanto  capace  di  in- 
ceppare maggiormente  qualunque  deliberazione  si  fosse 
presa.  —  Non  si  volevano  più  udire  gli  oratori  popolari  •, 
i  personaggi  eminenti  che  godevano  di  qualche  autorità  si 
erano  dileguati;  con  ansia  febbrile  si  andava  in  cerca  di 
chi  avesse  voluto  porsi,  in  mezzo  a  tali  frangenti,  al  timone 
sconquassato  della  repubblica.  Solamente  gli  oligarchici  pro- 
vavano fra  tanti  mali  un  certo  qual  interno  sentimento  di 
compiacenza  e  di  soddisfazione;  or  finalmente  era  giunto  quel 
momento  decisivo  da  tanto  tempo  sospirato,  di  riprendere 
sulla  democrazia  la  loro  rivincita.  Avevano  essi  accortamente 
seguito  gli  andamenti  della  guerra;  ogni  mezzo  per  man- 
dare a  vuoto  qualsiasi  provvida  deliberazione  avevano,  senza 
scrupoli,  posto  in  opera.  Di  Alcibiade,  che  solo  avrebbe 
potuto  sorreggere  e  condurre  a  buon  termine  quell'impresa 
arrischiata,  colla  scusa  del  mozzamento  delle  Erme,  ave- 
vano fatto  senz'  altro  un  nemico  della  propria  patria  ;  di 
più,  per  tutta  quanta  la  confederazione,  d'accordo  colla  ri- 
vale Sparta  e  colle  fazioni  aristocratiche  delle  città  ioniche, 
essi  avevano  ordito  una  trama  scellerata  che  aveva  per 
iscopo  di  demolire  la  base  su  cui  posava  la  potenza  di 
Atene.  E  in  conseguenza  di  tali  maneggi  la  caduta  d'Atene 


-  508  — 
-era  divenuta  ora  certa  più  che  mai-,  il  loro  intento  stava  per 
essere  infallantemente  raggiunto.  Ma  pur  sempre  Atene, 
anche  in  questi  estremi  momenti,  non  era  tale  da  pigliarsi 
a  giuoco  con  tanta  facilità.  E  perciò  gli  oligarchici  astuta- 
mente cominciarono  ad  unirsi  col  partito  moderato  che 
osteggiava  anch'esso  gli  ordinamenti  liberi.  Fecero  inten- 
dere al  popolo  che  la  cagione  di  tutti  i  patiti  rovesci  era  la 
grande  leggerezza,  con  la  quale  si  era  presa  ogni  delibera- 
zione neir  assemblea*,  non  esservi  guarentigie  di  buon  suc- 
cesso nel  consiglio  dei  cinquecento,  così  com'era  costituito^ 
esservi  bisogno  urgentissimo  di  qualche  riforma  per  impedire 
che  certe  proposte  potessero  pervenire  alla  deliberazione  del- 
Tassemblea,  senza  prima  essere  state  accuratamente  esami- 
nate (i).  E  la  cittadinanza,  da  tanti  mali  oppressa  e  resa 
docile  e  pieghevole,  facilmente  si  persuase  ;  per  universale 
consenso  venne  subito  istituito  un  magistrato  che,  a  somi- 
glianza dell'  Areopago,  esercitasse  una  specie  di  sindacato 
sulle  proposte  che  si  dovessero  presentare  all'assemblea  po- 
polare. Così  venne  creato  un  nuovo  magistrato  che  fu  quello 
dei  Probuli,  dieci  di  numero,  forse  eletti  dalle  dieci  tribù. 
Per  tal  modo  venne  ristabilito  l'ordine,  e  l'infelice  Atene 
cominciò  nuovamente  a  respirare-,  guidata  dal  partito  mo- 
derato riprese  animo,  si  dispose  volenterosa  ad  ogni  sacri- 
fizio ed  improvvisò  un'altra  armata,  con  la  quale,  mercè 
la  irresolutezza  di  Agide,  le  discordie  dei  partiti  di  Sparta, 
l'interesse  personale  dei  Corinzi  e  la  baldanza  generale  dei 
Peloponnesi,  abbatteva  la  flotta  nemica  che  dal  golfo  Saro- 
nico  salpava  per  la  Ionia,  come  se  Atene  gicà  non  fosse  più 
esistita. 

Ma  a  trattenere    ed   arrestare  Atene  a  mezzo    della    sua 


(i)  V.  Ernesto  Curtius,  Op.  e//.,  fase.  X,  p.  (144  della  traduzione 
italiana  di  Giuseppe  Muli.er  e  Gaetano  Oliva. 


—  509  - 
precipitosa  ruina  ogni  sforzo  era  ornai  iniuilc;  si  oppone- 
vano gli  oligarchi  ;  mancavano  gli  uomini  capaci  a  resi- 
stere alla  ostile  e  prepotente  attività  di  Alcibiade,  che  non 
sazio  ancora  di  aver  ferita  nel  cuore  la  sua  patria,  la  vo- 
leva ad  ogni  costo,  nella  sete  di  vendetta,  prostrata  ai  suoi 
piedi.  Vedendo  egli  l'inazione  di  Sparta,  cagionata  in  mas- 
sima dalla  recente  sconfitta,  con  sole  cinque  navi  parte 
alla  volta  della  Ionia-,  approda  a  Chio  e  la  fa  insorgere;, 
ed  Eritre  e  Clazomene  seguono  V  esempio.  Vi  accorrono 
gli  Ateniesi  con  una  nuova  armata  (poiché  l'altra  bloccava 
quella  dei  Corinzi)  allestita  mediante  i  mille  talenti  che 
erano  stati  posti  in  serbo  da  Pericle-,  ma  non  riescono  a 
rallentare  i  progressi  di  Alcibiade.  Egli  continuando  nella 
sua  impresa,  naviga  verso  Mileto-,  gli  Ateniesi  si  fermano 
a  Lade,  e  i  Milesi  da  lui  guadagnati  si  ribellano.  Sparta 
desiderava,  per  proseguire  la  guerra,  di  valersi  dell'oro  della 
Persia  -,  ed  egli  senza  nessuno  scrupolo,  la  collega  con  ver- 
gognoso trattato  alla  Persia.  Quindi  altre  nuove  città  fa 
insorgere,  come  Lesbo,  Mitilene  e  persino  la  fida  Metinna. 
Si  accosta  anche  a  Samo-,  ma  il  popolo  aiutato  da  tre  sole 
navi  ateniesi  sterminò  gli  oligarchi,  ch'erano  i  fautori  del 
moto.  Sembrava  che  l'aura  volesse  nuovamente  spirare  fa- 
vorevole agli  Ateniesi.  Partendo  da  Samo,  come  da  un  si- 
curo punto  d'appoggio,  riacquistarono  Mitilene  e  Clazomene 
e  punirono  severamente  Chio.  Sul  finire  dell'estate  (412 
av.  Cr.)  sopraggiungeva  Frinico  con  una  nuova  armata  nelle 
acque  della  Ionia,  e  venuto  a  battaglia  coi  Milesi,  Pelo- 
ponneso e  Persiani,  aveva  la  fortuna  cosi  favorevole,  che 
già,  coi  vantaggi  ottenuti  si  accingeva  ad  assediare  la  stessa 
Mileto.  Ma,  sventuratamente  per  Atene,  pervengono  ad  Al- 
cibiade inaspettati  aiuti.  Era  Ermocrale ,  il  quale  spinto 
dal  suo  odio  contro  Atene  ,  per  continuare  la  guerra  nel 
mar  Egeo,  entrava  con  una  liotta  peloponnesiaca  nel  golfo 


—  510  — 
di  laso.  Alcibiade  accorre  colà,  e  con  essa  si  reca  in  tutta 
fretta  a  Mileto  che  di  gic\  pericolava.  Gli  Ateniesi  allora  si 
ritirarono  e  la  vittoria  riportata  rimase  senza  importanti  ef- 
fetti. 

Ma  la  fortuna  voleva  ancora  ad  ogni  costo  illudere  per 
qualche  tempo  le  speranze  di  Atene.  La  posizione  di 
Alcibiade  nel  campo  nemico  si  era  andata  poco  a  poco 
mutando.  All'  odio  personale  di  Agide  si  era  aggiunta 
la  gelosia  pubblica  di  Sparta ,  a  cui  sapeva  male  di  esser 
debitrice  ad  uno  straniero  di  tutti  questi  grandissimi  suc- 
cessi. Quindi  i  suoi  nemici  ottennero  facilmente  da  Sparta 
che  si  mandasse  l'ordine  segreto  ad  Astioco,  il  coman- 
dante della  fiotta  dei  Confederati,  di  togliere  di  mezzo  in 
qualche  modo  Alcibiade.  Ma  egli  ne  ebbe  avviso  dalla  moglie 
stessa  di  Agide;  abbandonò  subito  il  campo  dei  Peloponnest, 
e  si  rifugiò  presso  Tissaferne,  tutto  pieno  di  veleno  contro 
Sparta  per  tanta  ingratitudine.  E  per  vendicarsi  tanto  quanto 
eran  grandi  i  servigi  prestati,  pensò  di  distaccarla  senza  altro 
dall'alleanza  colla  Persia,  e  sostituirle  la  sua  stessa  patria. 
Grandissima  era  certamente  la  difficoltà-,  ben  egli  sapeva 
che  Tissaferne  non  avrebbe  giammai  acconsentito  ad  una 
alleanza  con  Atene,  finché  fosse  durata  nel  governo  la  pre- 
valenza della  democrazia.  Ma  il  genio  di  Alcibiade  era  tale 
da  sormontare  ogni  ostacolo-,  egli  si  volse  a  far  introdurre  un 
rimutamento  nella  costituzione  della  sua  patria.  Il  terreno  era 
preparato-,  in  Atene,  da  una  parte  si  era  sfiniti  da  una  già  così 
lunga  guerra  e  che  non  sembrava  ancora  vicina  al  suo  ter- 
mine, si  bramava  la  pace,  qualunque  essa  fosse,  per  avere 
un  sollievo  da  tanti  mali;  dall'altra  si  era  certi  omai,  che  per 
venire  ad  un  accordo  colla  rivale,  dovevasi  necessariamente' 
abolire  il  governo  democratico.  E  queste  voci  che  venivano 
sparse  fra  il  popolo  a  bello  studio  dagli  oligarchi,  ricevet- 
tero un  valido  impulso  da  Alcibiade.  Egli  si  pose  in  rcla- 


-  511  — 
zione  con  gli  oligarchi  dell'  armata  di  Samo  e  promise  la 
alleanza  della  Persia,  qualora  venisse  loro  fatto  di  riuscire  ad 
una  riforma  che  fosse  andata  a  versi  al  gran  re.  Gli  oligarchi, 
com''era  da  prevedersi,  si  entusiasmarono  di  quel  disegno  e 
malgrado  Topposizione  di  Frinico  furono  continuati  i  segreti 
accordi  con  Alcibiade*  quasi  certi,  che  anche  la  gran  folla 
se  ne  sarebbe  persuasa,  come  di  già  la  flotta,  a  cui  avevano 
fatto  balenare  la  speranza  di  un  aumento  di  soldo,  inviarono 
in  Atene  Pisandro  colle  debite  istruzioni.  —  Ora,  a  rag- 
giungere questo  scopo  anche  Aristofane,  siccome  di  principi 
oligarchici,  doveva  concorrervi  colTopera  sua-,  doveva  cioè 
rappresentare  una  commedia,  dove  si  confermasse  maggior- 
mente l'idea  della  necessità  di  modificare  la  costituzione  , 
per  venire  ad  una  pace  -,  e  questa  commedia  fu  la  Lisi- 
strata.  Così  T  ardente  patriota,  come  s' ostinano  molti  a 
chiamarlo  ancora  oggidì,  patrocinava  la  costituzione  politica 
di  Atene  !  —  Rassicurati  i  più  devoti  alla  libertà,  e  gua- 
dagnati alla  causa  anche  quegli  oligarchi  che  avversavano 
Alcibiade,  sia  in  causa  di  motivi  personali,  sia  per  diffi- 
denza verso  quell'uomo,  che  avevano  già  fatto  bandire  dalla 
patria,  si  mandarono  messi  a  Magnesia  per  le  trattative 
colla  Persia.  Se  non  che  Alcibiade  aveva  promesso  più  di 
quello  che  era  in  suo  potere  di  mantenere ,  e  Tissaferne 
non  era  tale  da  lasciarsi  tanto  facilmente  abbindolare  da 
lui,  sebbene  lo  tenesse  per  suo  confidente.  Il  satrapa  vo- 
leva ruminazione  completa  di  Atene ,  e  gli  inviati  che  ave- 
vano ottenuto  dal  popolo  i  più  gravi  sacrifici,  inducendolo 
persino  a  rinunciare  a  tutta  la  Ionia  ed  a  tutte  le  ìsole  adia- 
centi, non  avevano  facoltà  di  soddisfare  alle  esorbitanti  pre- 
tese di  lui.  Ritornarono  adunque  in  Atene  a  mani  vuote. 
Tuttavia  ciò  non  fu  di  ostacolo  agli  oligarchi,  i  quali  vo- 
levano ad  ogni  costo  una  riforma  della  costituzione:,  la  quale 
se  prima  veniva  fatta  sentire  come  un  mezzo  necessario  per 


—  512  - 
Ottenere  la  vittoria  e  la  pace,  ora  diventò  Tunico  scopo ,  a 
cui  essi  miravano  a  viso  scoperto.  L'esito  infelice  dell'am- 
basceria spedita  a  Magnesia  fu  tenuto  celato  a  bello  studio-, 
si  lasciava  credere  al  popolo  che  le  trattative  si  fossero 
conchiuse  secondo  le  sue  speranze,  acciocché  più  facilmente 
s'inducesse  a  favorire  le  loro  mire.  Molte  ragioni  furono 
messe  in  campo;  alcune  derivate  dai  difetti  intrinseci  della 
costituzione  medesima,  ma  la  maggior  parte  consistenti  vera- 
mente in  vie  di  fatto,  mediante  le  quali  si  toglievano  d'in- 
nanzi senz'  altro  tutti  quelli  che  avessero  potuto  suscitare 
contro  gli  oligarchi  una  qualche  opposizione.  E  la  folla 
in  parte  persuasa,  in  parte  atterrita  lasciava  fare;  i  Pro- 
buli,  o  erano  della  combriccola ,  oppure  inetti  ad  oppor- 
visi.  —  E  intanto  Aristofane  rappresentava  le  Tesmoforia- 
:{use!  Invece  di  scuotere  il  popolo  da  quel  mortifero  letargo, 
egli  sollazzavasi  dolcemente  a  far  la  satira  del  dramma 
euripideo  e  delle  donne  ateniesi  !  —  Pisandro  propose, 
che  si  eleggesse  una  commissione  di  venti  consiglieri  oltre 
i  Probuli,  con  poteri  illimitati,  ai  quali  si  dovesse  affi- 
dare r  incarico  di  eseguire  le  convenienti  riforme.  Ma  vi 
si  opponeva  una  legge  che  concedeva  il  diritto  d'intentare 
un'accusa  pubblica  contro  chiunque  avesse  voluto  introdur 
modificazioni  nella  costituzione  dello  stato  ,  e  questa  legge 
con  un  decreto  venne  allora  subito  abrogata.  Poscia  si 
convocò  il  popolo  fuori  d' Atene,  sul  Colono,  perchè  la 
Pnice  offriva  uno  spazio  troppo  ampio  ;  e  i  punti  principali 
delle  riforme  credute  necessarie  ed  esposte  a  quell'adunanza 
di  cittadini,  che  per  la  maggior  parte  eran  favorevoli  agli 
oligarchi ,  furono  i  seguenti  :  cessata  ogni  indennità  pub- 
blica, tranne  quella  richiesta  pel  servizio  del  campo;  si  for- 
masse un  consiglio  di  quattrocento  membri  elettivi  ,  con 
pieni  poteri  di  governar  la  repubblica;  si  sostituisse  all'as- 
semblea generale  un  corpo  di  5ooo  cittadini  da  convocarsi 


—  513  — 
a  piacere  del  consiglio  dei  quattrocento  ,  e  fossero  tutte  le 
cariche  indistintamente  gratuite.  E  il  popolo,  così  com'  era 
sul  Colono  rappresentato,  le  approvò!...  Allora,  dopo  sif- 
fatte deliberazioni,  le  persone  poco  gradite  furono  allonta- 
nate dagli  uffici  oppure  tolte  di  mezzo,  e  l'oligarchia  sfac- 
ciata e  impudente  si  pose  a  sgovernare  a  suo  talento. 

Ma  nondimeno  i  quattrocento  erano  in  gravi  apprensioni, 
per  timore  che  Tarmata  di  Samo  non  riconoscesse  le  sud- 
dette riforme.  Siccome  essa  rappresentava  il  nerbo  della  po- 
polazione ateniese,  che  si  doveva  fare  nel  caso  che  si  fosse 
dimostrata  contraria  alle  misure  prese  in  favor  delToligarchia? 
E  queste  apprensioni  maggiormente  s'accrebbero  allorquando 
s'intese  in  Atene  che  a  Samo  la  congiura  ordita  da  Pisandro 
era  stata  sventata  e  repressa.  Balenò  allora  alla  mente  degli 
oligarchi,  qual  più  efficace  espediente  in  siffatti  frangenti, 
impedire  ogni  comunicazione  all'  armata  di  Samo  dei  mu- 
tamenti introdotti  nella  costituzione,  fintantoché  anch'essa 
non  fosse  stata  persuasa  di  tale  necessità.  Perciò  i  marinai 
della  Paralos  che  aveva  recato  quella  novella  in  Atene, 
furono  subito  in  parte  carcerati  e  in  parte  collocati  su 
altre  navi.  Ma  Cherea,  che  ne  era  il  comandante,  riuscì  a 
fuggire:  andò  in  tutta  fretta  a  Samo  e,  forse  con  qualche 
esagerazione,  espose  alla  flotta  la  situazione  di  Atene.  L' im- 
pressione che  fece  la  relazione  di  Cherea,  fu  oltre  modo 
grave.  L'armata  giurò  subito  di  tenersi  salda  alle  antiche 
libertà,  e  con  ardita  ma  generosa  deliberazione,  erigendosi 
a  corpo  deliberante,  costituì  se  stessa  come  il  vero  rappre- 
sentante di  Atene.  I  generali,  per  sospetto  che  aderissero 
ai  mutamenti  introdotti  dagli  oligarchi,  vennero  subito  mu- 
tati, e  scelti  in  loro  luogo  Trasibulo  e  Trasiilo,  la  cui  fede 
alla  costituzione  antica  era  a  tutti  manifesta.  Ma  con  questo 
passo,  un  nuovo  nemico  veniva  ad  aggiungersi  al  vec- 
chio ;  le  difficoltà,  già  enormi,  ancora  aumentavano.  E    fu 

T{ivist.i  di  filologia  ecc.,  X.  34 


-  5U  - 
allora  che  Trasibulo  riconoscendosi  inabile  a  sormon- 
tarle, propose  all'armata  di  richiamare  Alcibiade,  come 
quegli  che  solo  poteva  ancor  essere  la  salvezza  di  Atene  , 
perchè  il  ritorno  di  tanto  personaggio,  mentre  da  una 
parte  a\Tebbe  gettato  lo  spavento  e  la  discordia  fra  gli  oli- 
garchi, dair  altra  avrebbe  pur  ricondotta  la  vittoria  alle 
armi  ateniesi.  Il  sentimento  comune,  è  vero ,  gli  era  con- 
trario: ma  le  ragioni  addotte  da  Trasibulo  e  forse  molto  più 
gr  imminenti  pericoli  prestamente  prevalsero,  e  il  richiamo 
di  Alcibiade  fu  acconsentito  e  determinato.  L'effetto  che  si 
aspettava  da  siffatta  deliberazione  realmente  fu  ottenuto:  si 
rialzarono  gli  animi,  gli  Spartani  perdettero  ogni  criterio 
direttivo  rispetto  a  Tissaferne,  e  gli  oligarchi  gravemente  si 
impensierirono. 

Frattanto  in  Atene  quella  condizione  di  cose  non  poteva 
a  lungo  durare.  Già  i  quattrocento  per  natura  erano  fra 
loro  discordi,  perchè  parecchi  erano  stati  scelti  senza  essere 
aflatto  a  pane  di  quella  congiura.  E  allorquando  s'intese 
che  l'armata  erasi  posta  a  difesa  della  costituzione  antica, 
e  che  n'  era  alla  testa  Alcibiade,  si  generò  subito  nel  seno 
stesso  di  quel  consiglio  una  controrivoluzione  in  favore  della 
democrazia;  la  cittadinanza  irritata  contro  gli  oligarchi,  che 
non  paghi  di  aver  dato  nelle  mani  del  nemico  TEubea,  vo- 
levano ancora  tradire  la  stessa  loro  patria,  spontaneamente 
r appoggiò-,  e  quindi  nell'anno  411  si  aboliva  il  consiglio 
dei  quattrocento,  e  si  restituiva  al  popolo  la  sua  sovranità. 
Ma  che  veramente  la  costituzione  antica  sia  stata  richia- 
mata in  vigore  nella  sua  piena  integrità,  non  si  può  affer- 
mare. Si  tentò  invece  di  contemperare,  come  era  possi- 
bile, i  principi  aristocratici  ed  i  principi  democratici  in  una 
nuova  specie  di  governo  ;  poiché  fu  bensì  ricostituito  il  Se- 
nato dei  cinquecento  di  Clistene,  eletti  dalia  sorte,  ma  la 
assemblea   generale    doveva  venir  sostituita  da'  cinquemila 


—  515  — 
cittadini,  disegnati  fra  i  più  facoltosi,  com'era  già  stato  sta- 
bilito sotto  i  quattrocento.  Dopo  di  ciò,  per  cattivarsi  la 
flotta,  Crizia  proponeva  il  richiamo  ufficiale  di  Alcibiade. 
—  Così  veniva  provvisoriamente  stipulata  una  specie  di 
compromesso  per  toglier  Toccasione  a  più  gravi  dissidi,  per 
ricondurre  la  pace  interna  e  riamicare  la  flotta  alla  patria  di 
cui  era  il  necessario  ed  unico  sostegno  !  Ma  era  questo  un 
compromesso  che  imponeva  ali"  oligarchia  sol  un  debole 
freno,  giacché,  continuando  ad  essere  le  cariche  gratuite, 
restavano  esse  esclusivamente  nelle  mani  dei  facoltosi,  i 
quali  soli,  com'era  richiesto,  potevano  provvedersi  di  una 
completa  armatura.  Però,  se  non  altro  ,  in  qualche  modo 
se  ne  frenavano  gli  arbitrii ,  che  nello  spazio  di  quattro 
mesi  non  avevano  avuto  limiti.  Ed  il  popolo  ridotto  alle 
strette  dal  più  profondo  bisogno,  qual  era  quello  dell'  ali- 
mento, di  cui  ogni  via  gli  era  stata  preclusa  colla  perdita 
della  Ionia  e  dell"  Eubea,  facilmente  si  accontentò!  —  Ed 
Aristofane  taceva  ! 

Alcibiade  frattanto  venne  rivestito  di  poteri  illiinitati;  dì 
lui  si  era  concepita  la  speranza  che  avrebbe  salvata  la  pa- 
tria, ed  egli  ben  tosto  fece  conoscere  a'  suoi  concittadini  che 
non  aveva  punto  in  animo  di  venir  meno  all'aspettazione. 
Incrociava  con  una  flotta  di  ventidue  navi  nelle  acque  della 
Caria  ,  riduceva  all'obbedienza  le  città  ribelli  della  costa, 
dalle  quali  riscuoteva  somme  enormi,  di  molto  superiori 
all'  importo  dei  tributi,  e  poscia  fortificava  l' isola  di  Coo. 
Indi,  quando  ebbe  esercitate  in  rapide  corse  le  sue  triremi, 
muoveva  a  settentrione  dov'erasi  oramai  trasportato  il  teatro 
della  guerra  e  donde  l'Attica  poteva  ancora  trar  copia  di 
frumento.  Egli  giungeva  in  tempo  assai  opportuno.  Trasi- 
bulo  e  Trasiilo  erano  venuti  a  battaglia  con  Mindaro  presso 
Abido  (la  quale  già  era  caduta  in  poter  dei  nemici)  ed  ave- 
vano sconfitto  la  flotta    peloponnesiaco-siracusana.  Se   non 


—  510  — 
che  Mindaro,  senza  punto  darsi  per  vinto ,  rinforzatosi  di 
nuove  navi  offriva  nuovamente  battaglia  agli  Ateniesi.  E 
già  la  vittoria  cominciava  a  piegare  in  suo  favore,  allor- 
quando sopraggiungendo  Alcibiade  ne  faceva  mutare  ad  un 
tratto  le  sorti.  Mindaro  fu  completamente  sconfitto  -,  le  sue 
navi  fuggirono  precipitose  verso  la  costa  ,  e  forse  anche 
sarebbero  state  prese,  se  con  le  sue  genti  Farnabazo,  a 
cui  si  era  accostata  Sparta,  non  le  difendeva  ponendo  a 
rischio  persino  la  propria  vita.  Malgrado  questa  seconda 
vittoria,  r  Ellesponto  non  rimaneva  ancor  libero  agli  Ate- 
niesi •  il  nemico  possedeva  alle  spalle  un  forte  esercito  di 
terra,  e  gli  Ateniesi  si  trovavano  in  grande  penuria  di  ogni 
cosa.  Ed  allora  Alcibiade  pensò  di  ricorrere  per  aiuti  a 
Tissaferne,  recandosi  egli  stesso  da  lui,  che  ancora  se  lo 
credeva  amico.  Ma  fu  proditoriamente  fatto  prigioniero  e 
condotto  a  Sardi.  Riesce  egli  nondimeno  a  fuggire  e  si 
reca  a  Clazomene,  e  di  là  con  una  flotta  di  sei  navi  a 
Lesbo.  Ma  gli  Ateniesi  mancanti  del  loro  capo  avevano 
intanto  perduto  i  pochi  vantaggi  riportati  colla  recente 
vittoria  di  Abido,  e  si  trovavano  già  in  tale  condizione 
da  abbandonare  celatamente  Sesto  per  sottrarsi  ad  una 
completa  ruina.  Il  momento  era  decisivo;  quando  ecco 
ricomparire  nuovamente  ed  inaspettato  Alcibiade.  Egli  ra- 
duna la  flotta  ateniese,  prende  i  provvedimenti  necessari, 
dispone  tutto  con  fine  accorgimento,  e  poi  dà  il  segnale 
dell'assalto  contro  la  flotta  nemica.  Molti  furono  gli  sforzi, 
e  molte  le  prove  d'inaudito  coraggio;  alla  fine  gli  Ateniesi 
riescono  vincitori,  e  il  giorno  dopo  occupano  Cizico  (anno 
410,  01.  92,  2),  dove  trovano  un  immenso  bottino.  —  L'an- 
nunzio di  così  insigne  vittoria,  com'era  da  aspettarsi,  ridestò 
in  Atene  gli  antichi  spiriti  popolari  ed  ogni  limitazione  nel- 
l'esercizio dei  diritti  politici  si  volle  abolita  ;  le  misure  in- 
nanzi prese  non  essere  stato  altro  che  uno  espediente  qua- 


-  517  - 
lunque  per  sopperire  ai  bisogni  delle  finanze  •,  or  nuove  vie 
per  far  danaro  essere  state  aperte;  esser  risorta  ormai  la 
antica  Atene;  epperò  essere  nuovamente  mestieri  che  ri- 
sorga r  antica  costituzione  colla  sua  eguaglianza  non  solo 
civile  ma  anche  politica.  E  Toligarchia  credette  conveniente 
non  fare  alcuna  opposizione.  Ciò,  perchè  sperava  di  non 
perdere  del  potere  se  non  Tapparenza,  e  di  continuare  ad 
occupare  le  principali  cariche  dello  stato.  Ricomparvero 
all'assemblea  i  focosi  demagoghi,  e  il  popolo  trascinato  dalla 
sua  fantasia,  credendosi  nuovamente  pervenuto  all'apice  della 
potenza,  rifiutava  la  pace  che  Sparta  affranta  di  forze  offeriva, 
ed  osava  aprire  una  seconda  campagna  per  la  riconquista 
della  Ionia!  La  fortuna  pareva  favorir  davvero  le  sue  spe- 
ranze; Alcibiade  nell'Ellesponto  correva  di  vittoria  in  vittoria, 
prendeva  Calcedone,  stringeva  una  pace  con  Farnabazo  che 
faceva  ormai  della  politica  propria,  e  poscia  con  uno  stra- 
tagemma s'impadroniva,  senza  colpo  ferire,  di  Bisanzio;  la 
sorte  di  Atene  pendeva  da  Alcibiade.  Ed  egli  fu  in  questo 
tempo  che  il  popolo  ateniese  entusiasmato  per  tali  progressi 
lo  richiamava  solennemente  in  patria ,  cassava  tutti  i  de- 
creti fatti  contro  di  lui,  gli  restituiva  ogni  avere  e  lo  eleg- 
geva a  comandante  assoluto  di  tutte  le  forze  di  terra  e  di 
mare  col  potere  di  valersi  a  beneplacito  suo  di  tutti  i  mezzi 
dello  stato;  maggiori  onori  e  maggior  soddisfazione  egli 
non  avrebbe  potuto  desiderare.  —  Intanto  Aristofane  in 
questa  occasione  (a.  408,  01.  98,  i)  rappresentava  il  primo 
Plitio,  in  cui  (se  pensiamo  che  nel  rifacimento  di  questa 
commedia  non  avvennero  modificazioni  così  radicali  come 
in  quelle  delle  Nubi)  egli  mostrava  che  il  Dio  dell'oro  era 
capitato  nelle  mani  degli  uomini  peggiori  !  —  Così  la  demo- 
crazia si  era  ristabilita;  l'aristocrazia  ora  doveva  ritirarsi  in 
disparte  ed  abbandonare  a  quella  la  direzione  del  governo. 
Di  qui,  ecco  risorgere  l'odio  antico  contro  Alcibiade;  se  vo!e- 


—  518  — 

vasi  toccare  la  meta,  vicina  ornai,  conveniva  nuovamente  e 
per  sempre  disfarsene.  Ma  come?  Finché  rimaneva  in  Atene 
sotto  r  egida  del  favor  popolare,  egli  era  certamente  in- 
vulnerabile. Bisognava  dapprima  cercare  d'allontanarlo  da 
Atene,  lasciare  sbollire  Tentusiasmo  del  popolo  e  poscia  ri- 
correre a  quelTarma,  che  aveva  fatto  già  sì  buona  prova  nel 
processo  delle  Erme.  Per  questa  infame  e  scellerata  im- 
presa gli  oligarchi  traevano  coraggio  dal  fatto  che  alla  testa 
della  flotta  nemica  era  stato  collocato  Lisandro,  il  quale  ri- 
cevendo questo  incarico  si  era  deliberato  di  condurre  la 
guerra  una  buona  volta  a  termine:;  per  cui  aveva  stretto 
alleanza  con  Ciro,  il  nuovo  satrapo  dell'Asia  Minore  e,  ad 
esempio  di  Brasida,  si  era  messo  in  comunicazione  con  tutte 
le  società  oligarchiche  della  Ionia.  Non  posero  tempo  in 
mezzo  •,  col  pretesto  che  non  si  doveva  trattenere  il  loro 
generale  nel  corso  delle  sue  vittorie,  cominciarono  ad  otte- 
nere che  fosse  inviato  contro  Lisandro.  Egli  avrebbe  voluto 
venir  subito  a  battaglia  per  ritornare  prestamente  in  patria, 
sapeva  che  il  suolo  per  lui  non  era  ancora  molto  ben 
fermo  -,  se  non  che  Lisandro,  sia  perchè  conosceva  qual  ne- 
mico aveva  di  fronte,  sia  perchè  doveva  essere  a  parte  dei 
disegni  della  fazione  aristocratica,  nemica  di  Alcibiade,  an- 
dava a  bello  studio  temporeggiando,  onde  Alcibiade  fu  co- 
stretto a  perdere  molto  tempo  prezioso  presso  Andro.  E 
intanto  la  moltitudine  che  da  lui  si  aspettava  ormai  l'im- 
possibile, stimolata  dagli  oligarchi  cominciò  a  impazientirsi 
e  mormorare  per  questo  procedere  cosi  per  le  lunghe.  Ci 
volevano  ancora  altri  tristi  avvenimenti  !  Alcibiade  per  to- 
gliersi dalla  sua  inoperosità  si  era  assunto  l'impresa  di  ri- 
conquistare ad  Atene  la  Ionia,  ed  aveva  lasciato  una  parte 
della  flotta  ad  Antioco  per  bloccare  Lisandro  ,  con  ordine 
di  evitare  qualunque  occasione  di  venire  a  battaglia.  Ma 
Antioco  venne  tratto  in  inganno  e  rimase  gravemente  scon- 


-  519  — 
fitto.  Inoltre,  un  tale  Trasibulo  figlio  di  Trasone,  che  era 
stato  guadagnato  dagli  oligarchi,  lascia  V  esercito  e  si  reca 
in  Atene  per  accusare  Alcibiade  a  cagione  della  condotta 
che  teneva.  E  in  prova  di  ciò  ,  sempre  per  alimentare  le 
incertezze  e  i  dubbi  del  popolo,  venivano  fatti  capitare  in 
Atene  continui  messaggi  spediti  appositamente  da  quegli 
oligarchi  che  si  trovavano  nella  flotta.  Per  tal  modo  si  riuscì 
a  persuadere  il  popolo  che  Alcibiade  invece  di  prendersi 
cura  degli  interessi  comuni,  mirava,  mediante  gli  aiuti  della 
Persia  e  Tamicizia  del  satrapo  che  aveva  il  comando  delle 
Provincie  dell'Ellesponto,  a  fondare  una  signoria  indipen- 
dente nella  Tracia,  dove  aveva  già  fatti  fortificare  parecchi 
punti.  E  in  conseguenza  del  buon  esito  di  tali  maneggi, 
Alcibiade  veniva  una  seconda  volta  destituito  e  cacciato  in 
bando  da  quella  patria,  che  nuovamente  aveva  fatto  risor- 
gere !  Da  questo  punto  la  stella  di  Atene  volse  definitiva- 
mente al  tramonto.  —  Ed  Aristofane  taceva  ! 

Venne  sostituito  nel  comando  della  flotta  Cenone  -,  ma 
questi  non  era  pari  in  perspicacia  e  larghezzza  di  ve- 
dute al  suo  predecessore.  Egli  lasciavasi  chiudere  da  Calli- 
cratida  ,  successo  a  Lisandro  ,  nel  porto  settentrionale  di 
Mitilene.  Fu  avvisata  Atene  del  pericolo  per  mezzo  di  due 
navi,  che  Conone,  mediante  uno  stratagemma,  riuscì  ad  in- 
viarle -,  e  facendo  estremi  sforzi  gli  mandava  in  soccorso 
una  nuova  flotta  che  potè  mettere  insieme  con  quelle  navi 
che  Alcibiade  aveva  tolto  al  nemico.  Ma  era  questa  l'ultima 
armata  che  Atene  inviava  nei  mari  della  Ionia.  Si  venne  a 
battaglia  presso  le  isole  Arginuse  (a.  406,  01.  ()3,  3)  e.  la 
vittoria  per  Tultima  volta  sorrideva  ad  Atene.  La  flotta  ne- 
mica fu  così  completamente  disfatta,  che  gli  Spartani  atter- 
riti spedirono  nuovamente  ambasciatori  ad  Atene  per  trat- 
tare della  pace.  Ma  per  consiglio  di  Cherofonte  le  offerte 
furono  respinte-,  non  si  voleva    dar  tempo  agli  Spartani  di 


-  520  - 
riprendere  forza  e  coraggio,  si  voleva  continuare  la  guerra  sino 
ad  una  decisione  finale.  Infelice  Atene,  che  non  si  accorgeva 
qual  serpe  covava  in  seno  !  Per  la  vittoria  delle  Arginuse  più 
ancora  che  non  gli  Spartani  furono  atterriti  gli  oligarchi,  i 
quali  avevano  creduto  di  avere  colla  cacciata  di  Alcibiade  pri- 
vato Atene  deirunico  generale  che  potesse  trionfare  di  Sparta; 
invece  di  uno  parecchi  ne  vedevano  ora  sorgere  airimprov- 
viso,  se  non  uguali  a  quello,  tuttavia  abbastanza  formidabili. 
Che  occorreva  adunque  per  rovinare  il  più  presto  possibile 
la  loro  patria  ?  Disfarsi  di  essi,  come  già  si  erano  disfatti  di 
Alcibiade.  Ed  ecco,  che  ricorrono  alla  loro  arma  scellerata, 
fanno  accusare  i  dieci  generali  vincitori  di  non  avere  pen- 
sato a  raccogliere  e  seppellire  i  cadaveri  di  quelli  che  erano 
caduti  nel  combattimento.  1  generali  degli  Ateniesi  in  quella 
battaglia  erano  stati  i  seguenti:  Aristocrate,  Diomedonte,  il 
giovane  Pericle,  Erasinide,  Protomaco,  Trasiilo,  Lisia  ed 
Aristogene-,  i  trierarchi,  Trasibulo  e  Teramene.  Due  di  loro, 
Trasiilo  e  Teramene  avevano  ricevuto  Tincarico  di  attendere 
appunto  a  quel  pio  dovere,  come  voleva  la  religione  patria, 
mentre  gli  altri  sarebbero  andati  celeremente  al  golfo  di  Mi- 
tilene  per  liberare  dal  blocco  la  fiotta  di  Conone,  che  era  il 
nucleo  dell'armata  ateniese.  Ma  in  causa  delle  forti  agitazioni 
del  mare  i  loro  tentativi  erano  riusciti  inutili,  e  quindi  i  ge- 
nerali avevano  scritto  ad  Atene  che  avevano  bensì  riportata  la 
vittoria,  ma  che  il  salvamento  dei  naufraghi  era  stato  reso  im- 
possibile dalla  furia  della  tempesta.  A  un  determinato  giorno 
si  doveva  leggere  la  loro  lettera  alFassemblea.  Ma  in  questo 
frattempo  il  popolo  fu  così  astutamente  sobillato  dagli  oligar- 
chi, che  invece  di  accoglierne  la  lettura  con  quella  gioia  e  con 
quell'entusiasmo  che  parevano  naturali,  scoppiò  in  un  terribile 
furore  contro  i  generali,  perchè  avevano  trascurato  il  loro  do- 
vere. Subito  fu  spedita  a  Samo  la  nave  Salaminia  con  l'or- 
dine pei  generali  di  abbandonare  all'istante  il  loro  comando 


-  521  - 
e  recarsi  in  Atene-,  due  di  loro  presentirono  la  tempesta  da 
lungi  e  fuggirono  in  luogo  sicuro-,  ma  Pericle,  Erasinide, 
Trasiilo,  Lisia,  Aristofane  e  Diomedonte,  consapevoli  della 
propria  innocenza,  ubbidirono.  E  furono  appena  giunti  in 
Atene,  che  con  un  primo  atto  d'illegalità  vennero  tosto  in- 
carcerati. Qualcuno  doveva  intentare  contro  di  essi  Taccusa, 
e  questi  fu  lo  stesso  Teramene,  il  coturno  a  due  piedi,  che 
sentendosi  più  di  tutti  colpevole,  era  nuovamente  passato  al 
partito  oligarchico  colla  speranza  di  salvarsi.  Ai  generali  fu 
soltanto  concesso  per  loro  difesa  di  esporre  il  fatto  in  bre- 
vissimi termini.  Nondimeno  il  popolo  si  commosse  a  quella 
succinta  narrazione  -,  già  la  maggioranza  inclinava  a  respin- 
gere l'accusa-,  quand'ecco,  sotto  pretesto  che  la  notte  si  ap- 
pressava il  processo  venne  ad  un  tratto  aggiornato  per  le 
mene  degli  oligarchi.  A  favorire  maggiormente  i  loro  raggiri 
avvicinavasi  anche  la  festa  così  detta  delle  Apaturie  (che 
cadeva  nel  mese  di  ottobre),  nella  quale  si  riunivano  tutti 
quelli  che  appartenevano  alla  stessa  tribù ,  s' inscrivevano 
nella  fratrie  i  neo-nati,  e  verosimilmente  i  giovani  e  le  don- 
zelle facevano  le  loro  promesse  di  matrimonio  da  celebrarsi 
nel  prossimo  mese  di  gennaio-,  inoltre,  si  ricordavano  i 
membri  mancanti  delle  famiglie,  e  per  loro  si  facevano  sa- 
crifizi alle  divinità  sotterranee.  Teramene  e  gli  oligarchi 
colsero  quesf  occasione  per  eccitare  i  sentimenti  di  uma- 
nità della  cittadinanza.  Alla  seconda  apertura  del  consi- 
glio, con  un  decreto  formulato  da  un  tale  Calosseno,  stru- 
mento della  combriccola,  in  cui  accusa  e  difesa  si  dovevano 
considerare  come  un  fatto  già  deciso,  si  invitò  il  popolo  a 
giudicare  se  i  generali  avessero  trasgredito  il  loro  dovere  non 
prendendosi  cura  dei  naufraghi  -,  il  giudizio  dovevasi  dare 
complessivamente  su  tutti  i  generali  e  con  votazione  palese. 
A  questa  scelleratezza  si  oppose  vivamente  Eurittolemo,  il 
figlio  di  Pisianatte,  col  dire  che  in  questo  modo  si  sarebbero 


—  522  - 
violate  le  norme  della  procedura  giudiziaria;  ma  il  popolo 
infuriò  contro  di  lui.  Allora  egli  ricorse  ad  un'altra  via-, 
oppose  a  quel  decreto  una  contro-proposta,  ed  ottenuta  la 
parola,  procurò  di  fare  una  qualche  difesa  degli  accusati. 
Già  lo  stratagemma  stava  per  avere  un  esito  felice  ,  allor- 
quando i  congiurati  fanno  sorgere  un  nuovo  incidente,  per 
cui  la  votazione  viene  una  seconda  volta  differita.  In  questo 
frattempo  il  popolo  fu  da  essi  così  bene  persuaso,  che,  ri- 
presa la  votazione,  la  contro-proposta  venne  subito  respinta, 
fu  accettata  la  proposta  del  Consiglio,  ed  i  generali  furono 
condannati  a  morte.  —  Aristofane,  intanto,  assisteva  impas- 
sibile a  così  nefando  giudizio,  a  così  scellerata  condanna. 
Forse  per  amor  della  pace,  come  vuole  il  MuUer-Strlibing  ? 
Noi  dobbiamo  avere  in  mente  che  i  Pritani  del  Consiglio 
erano  per  natura  oligarchi  o  fautori  degli  oligarchi,  di  opi- 
nioni politiche  contrarie  alla  democrazia-,  il  Consiglio  era 
stato  così  composto  dai  congiurati  per  dare  V  ultimo  colpo 
all'infelice  Atene!  —  Fra  costoro  quale  dei  personaggi  che 
noi  di  già  conosciamo  troviamo  pure?  Troviamo  anche  So- 
crate. Egli,  è  vero,  fu  il  solo  membro  del  Consiglio  che 
diede  il  suo  voto  favorevole  per  Tassoluzione  di  quegli  scia- 
gurati ;  ma  perchè  era  un  «  buon  uomo  »  come  lo  chiama 
il  FoRCHHAMMER  (i)',  però  ciò  non  viene  a  dire  che  non  fosse 
egli  pure  palesemente  avverso  alla  democrazia  perchè  in 
caso  contrario  non  l'avrebbero  fatto  membro  di  quel  con- 
siglio che  doveva  decidere  la  ruina  di  Atene  (anno  406  av. 
Cristo). 

Nuovi  generali  vennero  tosto  nominati  invece  dei  condan- 
nati-, ma  essendo  tutti  del  partito  dei  congiurati,  nessun  pro- 
fitto vollero  trarre  dall'insigne  vittoria  riportata  alle  Arginuse, 
e  se  ne  stettero  con  1 80  triremi  inoperosi  a  Samo  per  dare 

(i)  Op.  cit.,  p.  32. 


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tempo  al  nemico  di  riaversi.  Ciro  inviò  a  Sparta  un'amba- 
sceria-, il  partito  favorevole  alla  guerra  nuovamente  prevalse, 
e  Lisandro  fu  rimandato  alla  flotta,  apparentemente  col  grado 
di  epistoleo ,  ma   in    realtà,  come    navarca ,  poiché    Araco 
non  lo  era  che  di  nome.  Ed  egli,  siccome  non  aveva  più  di 
fronte  Alcibiade,  quand'ebbe  compiuti  gli  armamenti  mosse 
rapidamente  nelle  acque  dell'Ellesponto,  assaltò  Lampsaco 
dov'era  un  presidio  degli  Ateniesi,  e  la  costrinse  ad  arren- 
dersi.   I    nuovi    generali    accorsero,  e   si    accamparono  ad 
Egospotamo  a  i5  stadi  da  Sesto-,  Alcibiade,  che  erasi  ri- 
coverato nella  Tracia   si  presentò  loro  coli'  offerta   di   aiuti 
dalla    parte    di    alcuni  re  di  quella  regione^  ma  essi  li  re- 
spinsero :  volle  che  almeno  accettassero  il  consiglio  dì  non 
isbandarsi  per  la  costa,  come    facevano,  perchè    avrebbero 
offerta  l'occasione  a  Lisandro  di  una  facile  vittoria-,  ma  essi 
lo  derisero  :  erano  manifestamente   complici    di    Lisandro  1 
Ed  ecco   che,  dopo  quattro  giorni,  questi  coglie  il  momento 
opportuno  che  le  navi  ateniesi  si  trovavano  senza  difensori 
e  dà  r  ordine   dell'  assalto.    Poche    navi  gli  poterono    sfug- 
gire :  le  otto  di  Gonone  colla  Paralos,  quelle  di  Nausimaco 
di    Palerò,  e  altre  due  triremi  staccate-,  le  rimanenti   cad- 
dero in  suo  potere  con  3ooo  prigionieri,  che  trasportati  a 
Lampsaco  furono  tutti  condannati  a  morte. —  Per  un  si  grave 
disastro  l'infelice  Atene  si  sentì  annichilita.  Nulla  di  meglio 
poteva  fare  in  così  triste  circostanze,  che  attendere  lo  svol- 
gersi degli  avvenimenti.  Ma  la  stella  di  Atene  era  tramontata 
per  sempre  !  Gli  oligarchi,  cogliendo  l'occasione  favorevole  e 
cotanto  sospirata,  afferrano  il  timone  dello  stato,  e  volgono 
i  loro  pensieri  a  modificare   la    costituzione  a  loro  talento, 
senza  punto  curarsi  delle  tristi  novelle,  che  venivano  ripor- 
tate in  Atene,  di  sempre  crescenti  disastri  (i).  Le  città  fede- 


(i)  Aristofane  rappresentava  le  Rane  nell'anno  4o5. 


-  524- 
rate  poste  alle  strette  dagli  oligarchi  si  ribellano  e  si  gettano 
in  braccio  a  Lisandro.  E  questi  ne  lasciò  uscir  liberaniente 
i  fautori  della  democrazia,  affinchè  si  recassero  in  Atene  ad 
accrescerne  di  più  lo  sgomento,  persuaso  che  in  tal  modo 
Tavrebbe  avuta  senza  fatica  a  sua  discrezione.  Se  non  che 
veramente  s'ingannò:  cessato  il  primo  spavento,  i  cittadini 
si  rincorarono  e  si  prepararono  air  assedio  imminente. 
Ma  che  potevano  fare  contro  due  nemici  ?  Si  era  affidato 
l'incarico  delle  opere  di  difesa  agli  ufficiali  dello  stato  ;  e 
gli  oligarchi  ne  rendevano  nulla  T  azione,  e  queir  incarico 
si  recavano  in  loro  potere-,  mentre  che  un  tale  Patroclide, 
per  accrescere  maggiormente  la  confusione,  sorgeva  a  pro- 
porre un  decreto  di  amnistia  per  tutti  quelli  che  avevano 
perduti  i  diritti  di  cittadinanza.  —  Intanto,  Lisandro  si  av- 
vicinò ad  Atene  e  vi  pose  il  blocco.  —  La  penuria  di  viveri 
che  già  pel  rigurgitare  della  gente  arrivata  di  fresco  si  era  fatta 
sentire,  allora  diventò  spaventevole  :  nessun  rimedio  rima- 
neva, tranne  quello  di  stipulare  una  pace  qualunque  con  la 
rivale,  e  di  ciò  fu  incaricato  appositamente  Teramene  1  Le 
pretese  di  Sparta  furono  esagerate,  ma  bisognò  cedere.  Ecco 
le  condizioni  :  distrurre  le  lunghe  mura,  smantellare  il  Pireo, 
consegnare  tutte  le  navi  da  guerra  airinfuori  di  dodici,  di- 
chiarare libere  le  città  alleate  e  dipendenti,  riamettere  i 
fuorusciti,  e  far  lega  offensiva  e  difensiva  coirabborrita  ri- 
vale, con  patto  di  seguirla  dovunque,  e  per  terra  e  per  mare. 
Dopo  si  provvide  al  riordinamento  della  costituzione  in  modo 
che  potesse  soddisfare  ai  desideri  di  Sparta;  si  collocarono 
al  governo  trenta  personaggi,  eletti  fra  i  più  ligi  a  lei,  co- 
nosciuti nella  storia  col  nome  dei  trenta  tiranni,  fra  cui  si 
trovavano  pure  Teramene  e  Crizia,  discepoli  di  Socrate. 

Che  anche  durante  questi  ultimi  avvenimenti  della  guerra 
peloponnesiaca  Socrate  abbia  continuato  a  prendere  parte 
alla  amministrazione  dello    stato,  per  mancanza  di  notizie. 


non  si  potrebbe  in  alcun  modo  affermare.  Nondimeno  egli 
è  indubitato,  e  noi  lo  sappiamo  da  Platone  (i)  e  da  Se- 
nofonte (2),  ad  esempio,  che  sotto  lo  sgoverno  dei  Trenta 
occupava  qualche  carica.  I  Trenta  seguendo  il  loro  si- 
stema orribile,  col  quale  volevano  disfarsi  di  tutti  quelli 
che  nutrivano  ancora  sentimenti  democratici,  avevano  dato 
l'incarico  a  Socrate  e  ad  altri  quattro  funzionari  pubblici, 
di  condurre  da  Salamina  in  Atene  Leone  il  salaminio  per 
esservi  giustiziato.  L'esecuzione  di  un  tal  ordine  ripugnava 
ai  principi  morali  di  Socrate*,  perciò  egli,  senz'altro,  si  recò 
alla  sua  abitazione,  abbandonando  fors'anco  la  carica.  Certa- 
mente è  da  lodarsi  una  tale  disubbidienza-,  essa  mostra  chia- 
ramente che  Socrate  aveva  un  ben  fermo  carattere.  Ma  non  si 
potrebbe  dimandare  se  egli  non  poteva  anche  fare  qualche 
cosa  di  meglio  ?  Primieramente,  perchè  non  parlar  contro 
a  quell'ordine  scellerato  ?  E  poscia,  perchè  non  pensare 
menomamente  allo  scampo  di  Leone  ?  Perchè  non  ha  con- 
sultato allora  il  suo  demone,  come  ben  dice  il  Forchham- 
MER  (3),  che  gli  avrebbe  senza  dubbio  risposto  :  Affrettati, 
Socrate,  va  tu  stesso  a  Salamina,  oppure  mandavi  qualcuno 
che  ne  rechi  la  novella  a  Leone.  V'era  adunque  una  ra- 
gione che  induceva  il  nostro  filosofo  ad  operare  così  ;  e 
questa  non  era  altra,  fuorché  l'odio  cordiale  che  portava 
alle  istituzioni  democratiche  ed  a  chiunque  le  favoriva  ;  odio 
tale,  che  gli  aveva  off"uscato  la  vista  in  modo,  da  non  ve- 
dere piìi  quanti  malanni  si  erano  precipitati  sulF  infelice 
sua  patria  per  cagione  di  quel  partito,  al  cui  trionfo  aveva 
anch'egli  cooperato. 

Ora  che  noi  abbiamo  veduto  in  qual  modo  Aristofane  e 


(1)  V.  Apologia,  cap.  XX. 

(2)  Hellenica,  II,  3,  3g. 

(3)  Op.  cit.,  p.  34  e  più  oltre. 


—  526  — 
Socrate  si  sono  comportati    in    mezzo    agli    ultimi  avveni- 
menti della  guerra  peloponnesiaca,  che  hanno  preparata  ed 
effettuata  la  ruina  completa  di  Atene,  dovremmo  forse  an- 
cora   tenere  come  strano    quel    fatto  che  Aristofane   abbia 
deposto    il    pensiero   di    condurre  a  termine  il    rifacimento 
delle  sue  Nubi  ?  Doveva  egli  essere  così  malaccorto  da  non 
accorgersi  di  aver  preso  un  abbaglio  riguardo  alle  idee  po- 
litiche di  Socrate,  da  non  conoscere  che  era  un  dottrinario 
di  sentimenti    oligarchici,  e  quindi  che    in  fatto  di  politica 
veniva  a  porsi  pienamente  d'accordo  con  lui  e  co'  suoi  Ca- 
valieri ?  Per  simile  ragione,  e  non  per  altra,  come  comu- 
nemente si  crede,  parimenti  si  astenne    dall'  inveire  contro 
i  Trenta  e  specialmente  contro  Crizia  e  Teramene-,  quando 
vide  che  quel  partito,  per  la  cui  causa  a  tutto  potere  s'era 
adoperato,  aveva  trionfato,  allora  abbandonò  il  campo  della 
politica   e   si    diede   tranquillamente   alla    critica   letteraria, 
checché  voglia  dire  il  Suevern  (i)  in  contrario.  Egli  è  di  opi- 
nione che  Aristofane  deve  pur   aver   inveito  contro  Crizia, 
Teramene  e  gli  altri  dei  Trenta  in  commedie  andate  sventu- 
ratamente perdute,  e  che  anche  in  quelle  che  ci  son  rimaste 
si  potrebbero  trovar   allusioni  istoriche  e  satiriche   al    loro 
sgoverno,  che  noi  non  siamo  più  in  grado    di   potere   sco- 
prire. Ma  bene    a    dovere    confuta   e   respinge  il  Mùller- 
STRliBiNGuna  siffatta  opinione  con  la  sua  pungente  ironia  (2). 
Perchè,  egli  dice,  Aristofane  ha  voluto  ravvolgere  nell'oscu- 
rità quei  motti  che  toccavano  gli  oligarchi,  mentre  che  lasciò 
così  manifesti  i  suoi  assalti  contro  la    democrazia  ?  E  sog- 
giunge ancora  :  molto  strano  invero  sarebbe  poi,  che  a  noi 
siano  pervenute  solamente  quelle  commedie  che  contengono 


(i)   Ueber   die    Wolken   des  Aristophanes.   V.    il    passo   citato  dal 
MUller-Strììbing  a  p.   it6. 
(2)  V.  Op.  cit.,  p.  I  iC,   117,  "iiS- 


—  527  - 

la  satira  della  democrazia,  e  che  le  altre  siano  andate  total- 
mente perdute,  senza  che  nemmeno  una  notizia,  un  fram- 
mento ci  sia  giunto  per  mezzo  di  Ateneo,  di  Plutarco,  per 
mezzo  degli  Scoliasti  alle  altre  commedie,  a  Platone,  ad  Ari- 
stide, a  Luciano,  per  mezzo  di  Eliano,  Esichio,  Snida  ed  altri, 
che  in  qualche  modo  ci  possa  comprovare  resistenza  di  tali 
commedie.  —  Io  anzi  sostengo  col  Mùller-Strùbing ,  che 
nemmeno  contro  Alcibiade,  per  vart  motivi  anche  politici,  non 
ebbe  mai  in  pensiero  di  scagliarsi  Aristofane ,  quantunque 
la  pensi  diversamente  il  Forchhammer  (i),  il  quale  vorrebbe 
vedere  nei  due  personaggi  delle  Nubi^  Strepsiade  e  Fidippide, 
i  pseudonimi  di  Clinia  e  di  Alcibiade    (2).  Se  non   che  mi 


(1)  Op.  cit.,  pp.  24  e  25. 

(2)  Ecco  le  ragioni  che  adduce,  in  proposito  il  Mìjller-Strubing 
{Op.  cit.,Tp.  34G)  :  «  Hier  ist  es'nur  noch  als  charakteristisch  her- 
vorzuheben  ,  wie  sich  der  Dichter  ftìr  jetzt  zu  Alkibiades  stellt.  Er 
ist  offenbar  mit  seinem  politischen  Treiben  und  seinem  Auftreten  in 
der  Gerichtsverhandlungen  nicht  zufrieden,  abcr  er  wagt  es  entweder 
nicht,  oder,  was  mir  wahrscheinlicher  ist,  er  kann  es  nicht  iiber  sich 
gewinnen,  da  ihm  des  Alkibiades  ganze  Natur  sonst  sympathisch  ist, 
ihn  scharf  und  entschieden  auzugreifen.  Und  dennoch  kann  er  der 
Versuchung  nicht  widerstehen,  ihm  halb  schuchtern  im  Vorbeigehen 
einen  kleinen  Hieb  zu  versetzen.  Mehr  ist  es  ja  nicht  !  Denn  dass 
er,  wenn  er  ihn  auch  nicht  direct  als  Euryproktos  bezeichnet,  ihn 
doch  in  verdiichtige  Nahe  eines  solchen  setzt  [toIc,  véaiq  b'  eùpuirpujK- 
Toq  Kai  XdXo^  Koì  ó  (xùj)  K\€iviou),  das  hat  in  des  Dichters  Augen  nicht 
viel  auf  sich,  und  batte  er  sicherlich  auch  nicht  in  den  Augen  des 
Alkibiades  —  man  denke  nur  an  dessen  widerwartige  Erziihlung  in 
Plato's  Gastmal,  die  doch,  wenigstens  dem  Tone  nach  und  in  dem, 
was  die  Charakteristik  des  Sprechers  anbelangt,  wohl  nicht  ganz  aus 
der  Luft  gegriffen  ist.  Denn  der  Vorwurf,  den  dies  Wort  implicirt 
[das  iibrigens ,  um  das  gegen  Herrn  Deimling's  Auffassung  in  Schwei- 
zer  Museum  (III,  5,  314)  beilaufig  zu  erwlihnen,  nicht  der  «  Eh- 
renname  der  Ehebrecher  »  ist,  wenigstens  nicht  immer,  und  hier 
gewiss  nicht!]  ist  in  ja  unserm  Dichter  hochstens  der  einer  liebens- 
wiirdigen  Schwache  !  Man  denke  nur  an  den  Schluss  der  Contro- 
verse zwischen  den  beiden  Logoi  in  den  Wolken!  Denn  wenn  der 
Dichter  auf  den  Vorwurf,  ein  Euryproktos  zu  sein,  den  Beschuldigten 
so    antworten   lasst  :  Freilich  bin    ich's  !  aber   wer  ist's    denn   nicht? 


-  528  - 
pare  veramente,  non  essere  la  prima  ragione  addotta  dal 
Miiller-Strubing  abbastanza  plausibile.  Fino  ad  un  certo 
punto  può  essere  accaduto,  che  Aristofane  sia  stato  amma- 
liato da  Alcibiade,  ma  secondo  il  mio  modo  di  pensare  l'as- 
serzione mi  pare  troppo  assoluta.  Chi  era  Alcibiade  ?  La  leg- 
genda della  sua  fanciullezza  ce  lo  rappresenta  dì  una  tale  na- 
tura da  farci  argomentare  che  in  lui  esistesse  in  germe,  per 
così  dire,  la  stoffa  di  un  principe  assoluto.  Or  bene,  che  in 
realtà  così  fosse,  noi  lo  possiamo  dedurre  da  uno  dei  capi  di 
accusa  che  gli  vennero  mossi,  allorquando  la  seconda  volta, 
come  abbiamo  veduto,  venne  per  gì'  intrighi  della  fazione 
oligarchica  bandito  da  Atene  -,  cioè  che  egli  macchinasse  di 
crearsi,  mediante  Tarmata  ateniese  e  T  aiuto  della  Persia, 
una  signoria  nella  Tracia.  Ad  un  tale  disegno  la  fazione 
oligarchica  doveva  essere  necessariamente  contraria,  perchè 
esso  incagliava  i  proprii  progetti.  Ma  la  fazione  oligarchica 
non  era  tutto  il  corpo  dei  Cavalieri,  a  cui  serviva  Aristo- 
fane. Il  corpo  dei  Cavalieri,  come  dice  lo  stesso  MùUer- 
Strùbing,  componevasi  di  giovani  appasionati  pel  piacere, 
che  solo  indirettamente  si  occupavano  di  politica.  Quindi, 
noi  crediamo,  che  forse  costoro  insieme  ad  Aristofane  non 
avrebbero  veduto  di  mal  occhio  che  il  loro  compagno  d'in- 
fanzia e  di  gioventù  si  fosse  costituito  signore  di  Atene. 
Sarebbe  stata  questa  la  riproduzione  del  fatto  dei  nobili 
giovani  romani  che  desideravano  la  ricostituzione  della  ti- 
rannide di  Tarquinio,  perchè  sotto  di  lui  potevano  vivere  a 


sind's  nicht  die  Dichter,  die  Redner,  die  Staatsmanner  ?  und  untcr 
den  Zuschauern  dort ,  isl's  nicht  der  da?  und  der  ?  und  der  ?  sind 
sie's  nicht  alle  ?  oder  doch  bei  Weitem  die  meisten  ?  —  wer  so  ant- 
worten  lasst ,  sage  ich ,  der  bricht  dem  Vorwurf  die  Spitze  ab  ,  der 
stellt  durch  diese  Verallgemeinerung  die  Sache  als  harmloss  dar  und 
beschonigt  sie-wie  das  ùbrigens,  wenn  ich  mich  recht  erinnere,  schon 
K.  A.  Becker  im  Charikles  richtig  erkannt  hai  »  (Cfr.  il  suo  Excursus 
alla  quinta  scena,  voi.  II,  p.  290  e  seg.). 


-  529  — 
loro  beiragio.  Ed  una  prova  che  Aristofane  abbia  deside- 
rato di  vedere  Alcibiade  signore  di  Atene  noi  la  possiamo 
ricavare  da  un  passo  delle  sue  Rane,  dove  invita  gli  Ate- 
niesi in  mezzo  alle  calamità,  da  cui  erano  stati  oppressi, 
a  piegarsi  al  genio  prepotente  di  Alcibiade  (i)  : 

ou  xpn  Xe'ovToq  (TKU)uvov  èv  iróXei  xpécpeiv. 
[jLiaXicrta  \ikv  Xéovia  \xx\  v  iróXei  ipéqpeiv], 
\\v  ò'  èKTpaqpfì  TI?,  ToTi;  xpóiroK;  ùrnipeTeiv, 

E  che  sotto  la  tìgura  di  questo  leone  sia  appunto  nascosto 
Alcibiade,  è  l'opinione  del  Meier  e  di  Ottofredo  Mììller  (2). 
Ma  di  ciò  basti. 

Concludo.  Dapprima  Socrate  fu  un  pretto  sofista  ,  ed 
Aristofane  lo  tolse  ad  argomento  delle  sue  Nubi  \  di  poi , 
Socrate  mutò  indirizzo  e  diventò  filosofo,  ed  Aristofane  an- 
cora persuaso  in  sulle  prime  di  vedere  in  lui  un  nemico  del 
suo  partito,  intraprese,  per  non  darsi  vinto,  a  raffazzonare 
le  prime  Nubi  -,  alla  fine  poi  accortosi  che  Socrate,  come 
lui  e  gli  altri  oligarchi ,  osteggiava  la  costituzione  demo- 
cratica ,  e  vedutolo  anche  occupare  qualche  carica  nella 
prevalenza  oligarchica  ,  depose  il  pensiero  di  condurre  a 
termine  il  rifacimento  della  sua  commedia.  Ecco  la  ra- 
gione probabile,  a  mio  giudizio  ,  di  questo  fatto  ,  ragione 
che  emana  dallo  stesso  svolgersi  delle  dottrine  socratiche, 
e  dal  posto  che  il  filosofo  occupò  in  alcuni  tempi  nella 
amministrazione  dello  stato. 

Piazza  Armerina,  11   marzo  1881. 

Michele  Oddenino. 


(i)  Ranae,  v.  1431  seg. 

(2)  V.  Meyeri  ,  De  Aristoph.  Ranis  commentatio  tertia  ,  Halac  , 
i852,  e  Ottofredo  Mììli.er  ,  Storia  della  letteratura  greca  tradotta 
da  Giuseppe  Mììller  ed  Eugenio  P'errai,  voi.   II,  p.  2'35. 


lifviila  di  Jilolo^ia  ecc.,  X.  35 


—  530  — 


^/    IJV^A    ISCRIZIONE    ET%USCA 


TROVATA    L\   MAGLI  ANO 


Lettera  al  comm.  prof.  Ariodante  Fabretti 


Cjto  collega. 


A  Magliano  (  i  ),  o  per  dir  meglio,  a  Magliano  in  To- 
scana, si  scoprono  da  qualche  anno  anticaglie-,  vasi  pietre  (2) 
monete.  Ne  donò  spesso  agli  amici  il  signor  Gustavo  Bu- 
satti,  e  fece  bene:  ora  invece  raccoglie  con  amore  ogni 
cosa,  e  fa  meglio.  Appunto  in  un  suo  podere,  a  Santa 
Maria  in  Borraccia  (che  vedrete  chiamato  anche  Monastero 
Diruto)^  in  un  campo  che  ha  il  nome  di  Pian  di  Santa 
Maria,  si  trovò  il  mese  scorso,  lavorando  (2  5  febr.),  proprio 
a  fior  di  terra,  una  piastra  in  piombo,  opisthographa  :  e 
con    molta  cortesia,  me   la    portò,  lasciando    che  io   ne  usi 


(1)  Si  aiuterebbe  un  forestiere  avvisandolo  di  cercarlo  tra  Grosseto 
e  Orbetello,  dentro  terra,  e  propriamente  a  42°, 35  lat.  28", Sg  long. 
(Ferro). 

(25  Una,  con  iscrizione,  fu  regalata,  ma  nessuno  rammenta  a  chi. 
Un'altra,  con  incisavi  una  testa  di  animale,  è  in  casa. 


-  531  - 
come  più  giova  alla  scienza,  il  dottor  Luigi  Busatti,   aiuto 
alla  cattedra  di  mineralogia,  qui  in  Fisa:  siamo  dunque  in 
famiglia, 

1  vasi  furono  dissotterrati  qua  e  là:  ma  in  questo  Pian 
di  Santa  Maria  la  nostra  iscrizione  è  il  primo  segno  che 
n'esca  dell'antica  vita,  e  speriamo  che  non  sarà  l'ultimo: 
né  di  altre  piastre  trovate  in  luoghi  vicini  si  sa  nulla.  Se 
ne  occupano  e  il  dott.  Busatti,  e  il  suo  padre,  e  il  suo  fra- 
tello; e  quando  verrà  fuori  qualcosa  di  buono  ce  ne  avvi- 
seranno (i). 

La  piastra  ha  forma  quasi  di  cuore  (2):  l'orlo  è  irregolare, 
fatto  proprio  così  e  non  guasto  dal  tempo:  ha  una  patina 
di  carbonato  al  diritto  (come  lo  chiamerò,  per  esser  breve) 
con  quella  tinterella  di  bigio  chiaro  che  agevola  la  lettura 
e  che  ricoprì  il  piombo  dopo  che  fu  inciso-,  più  leggera  è 
la  patina,  qua  e  là  interrotta,  al  rovescio  :  torno  torno  si 
veggono  poi  macchioline  rossastre  che  accennano  ad  ossidi 
di  piombo.  Questo  dico  aiutato  da  buoni  colleghi  :  e  posso 
anche  aggiungere,  come  pare  che  il  piombo  fosse  gettato 
in  terra,  che  vi  lasciò  impronte  di  sassolini  o  di  grossa 
sabbia,  poi  si  spianasse  a  martello  la  piastra,  nella  quale 
rimarrebbero  segno  di  quel  getto  certe  grinze  che  calano 
d'alto  in  basso,  presso  all'orlo,  a  destra  e  a  sinistra. 

La  iscrizione  è  in  etrusco.  Nel  diritto  va  a  spire,  come 
serpente  che  si  raggomitoli,  e,  dove  il  margine  fa  seno,  lo 


(i)  Ebbi  in  mano  tre  monete  che  ci  conducono  al  primo  e  al  terzo 
secolo,  a  Domiziano  e  a  Cerino.  Nell'una  non  si  ravvisano  più  ne  le 
immagini  né  le  parole;  una  seconda  è  rosa  da  una  parte,  nell'altra 
si  legge  o  indovina  IMP.  CAES.  DOMIT.  AUG.  GERM.  COS.  XIII. 
GENS.  PERP.  Meglio  conservata  è  l'ultima:  CARINVS  NOBIL. 
CAES.  I  PRINCIPI  IVVENTVT.  —  Sono  in  rame. 

(2)  D'alto  in  basso  ha  otto  centimetri;  poco  più  di  sette  dove  il 
cuore  è  più  largo. 


—  532  — 
segue  e  si  ristringe,  comincia  in  alto  a  sinistra  e,  lungo 
Torlo  sinistro,  scende  ravvolgendosi  in  cinque  giri,  e  chiude 
nel  centro.  Le  righe  si  addossano  fitte  fitte,  ma  tra  V  una 
e  l'altra  corre  un  solco  che  le  divide.  Di  buona  forma,  ar- 
caica, sono  le  lettere;  ha  sempre  il  punto  nel  mezzo  il  ///, 
spesso  gli  angoli  acuti  il  e,  e  tra  parola  e  parola  il  punto 
si  vede  quasi  dapertutto,  o  ve  ne  sono  due,  e  anche  tre.  Di 
ogni  cosa  pòi,  e  dei  dubbi  e  di  quello  che  suppongo,  farò 
minute  avvertenze  dopo  che  vi  avrò  messo  sotto  gli  occhi 
la  iscrizione.  Ed  è  questa  : 

CAUTHAS  .  TUTHIU  •  AVILS  •  LXXX  •  EZ  • 
CHIMTHM  •  CASTHIALTH  •  LACTH  •  HEVN  • 
AVIL  .  NENL  .  MAN  :  MURINASIE  •  FAL  TATHI  : 
AISERAS  .  IN  •  ECS  •  MENE  •  MLATHCEMARNI  • 
TUTHI  .  TIU  .  CHIMTHM  •  CATHIALTHI  . 
ATH  :  MARISLME  NITLA  •  AFRS  •  CI  •  ALATH  • 
CHIMTHM  .  AVILSCH  •  ECA  •  CEPEN  •  TUTHIU  • 

THUCH  .  ICHUTEVR  •  HESNI  •  MULVENI  •  ETH  • 
TUCI  .  AM  .  ARS 

Caiithas  (v.  i):  il  e  non  è  angoloso,  ma  somiglia  al  la- 
tino; come  più  sotto,  in  mlathccmarni  ed  in  cca.  —  Nel 
numero  LXXX  (v.  i),  come  è  naturale,  il  cinquanta  è  rap- 
presentato da  un  lamda  colTasticina  che  cala  dal  vertice.  — 
Murinas'ic  (v.  3):  logore  e  oscure  le  tre  ultime  lettere:   m 


—  533  — 

con  Tasta  destra  che  scende  più  delle  altre  (come  poi  in 
-me  di  maris'lme).  Si  leggono  con  difficoltà  la  finale  dxfal, 
e  l'iniziale  di  tathi  :  dubbio  è  se  li  divida  un  punto.  — 
Tilt  (v.  5):  prolungato  in  basso  V  i.  —  Maris'lme  (v.  6): 
fra  questa  e  la  parola  che  segue  c'è  spazio  vuoto;  ma  senza 
punti.  —  Avilsch  (v.  7):  proprio  avils  e  un  eh  :  non  già 
il  segno  per  cinquanta.  —  Mulveni  (v.  8):  mi  par  di  ve- 
dere -ni  e  non  -m.  —  Tra  eth  e  tuci  (v.  9)  c'è  una  specie 
di  /  che  viene  sotto  la  linea  :  pare  un  frego  fatto  per  errore. 
Più  dà  a  fare  il  rovescio.  Nel  quale  si  cammina  pur 
sempre  a  spira  ma  il  solco  che  ci  guidi  non  e'  è  più  ;  le 
lettere,  più  grandi,  più  brutte,  più  irregolari,  si  leggono 
a  fatica.  Da  questa  parte  la  iscrizione,  fatti  tre  giri,  muta 
il  verso,  e,  nel  bel  mezzo  della  piastra,  chiude  con  tre 
righe,  naturalmente  da  destra  a  sinistra,  l'una  sopra  l'altra. 
Nella  copia  sono  le  ultime  quattro  parole. 


MLACHTHAN  •  CALUSG  •  ECNIA  •  AVIL  •  MI- 
MENICAC  .  MARCALURCAC  .  ETHTUTHIUNESL  • 
MAN  .  RIVACH  •  LES'CEM  .  TNUGASl  •  SURISES  < 
TEIS  .  EVITIURAS  •  MULSLE  •  MLACH  .  LACHE  - 
TINS  .  LURSTH  .  TEV 

AUVITHUN 
LURSTHSAL 
EFRS  .   NAC 


-  534  - 

Comincio  da  destra,  all^  orlo,  quasi  a  metà  :  e  il  mlach- 
than  è  inciso  in  lettere  più  piccole  assai  delle  altre.  Ma  ho 
colto  nel  segno  ?  principia  proprio  di  qui  ? 

Poco  chiaro  è  il  s'uriscs  (v.  3)  :  forse  è  s'iiriseis  e  po- 
trebbe parere  anche  s'urisvis.  —  Tra  evithiras  e  miilsle 
(v.  4)  non  si  può  dire  esattamente  se  vi  sieno  punti  : 
tutte  le  lettere  sono  accostate.  —  Prima  di  lacìic  (v.  4)  c'è 
un  segno:  forse  ilache.   —  Oscuro  V  r  in  liirsihsal  (v.  7). 

So  come  abbondino  le  imposture  tra  coloro  che  amano 
di  fare  o  chiasso  o  quattrini-,  ma  per  questa  piastra,  vi  ri- 
peterò solo  che  siamo  in  famiglia,  e  famiglia  di  galantuo- 
mini. 

Ogni  parola  che  di  lontano  ci  dicono  i  nostri  vecchi  va 
raccolta,  anche  quando  si  legge  e  non  s'intende;  anche  la 
parola  etrusca  che  non  mi  vergogno  dire  come  mi  si  rav- 
volga di  tenebre  ogni  di  pili.  Non  già  che  io  chiudessi  gli 
occhi,  o  non  facessi  come  gli  altri  :;  la  tentai  di  certo  con 
meno  acume,  ma  forse  ancora  con  timidità  più  grande,  e 
non  me  ne  pento.  Se  della  iscrizione  mi  riuscirà  cavare 
buone  immagini  in  fotografia  ne  farò  dono  ai  pochi  studiosi 
che  possono  goderne-,  intanto  si  contenteranno  di  meno,  A 
voi  non  ho  bisogno  di  dir  altro,  né  perchè  mandi  a  voi 
una  mia  lettera;  un  buon  italiano,  se  v'avessi  dimenticato, 
m'avrebbe  detto  che  facevo  male.  Vogliatemi  bene  e  cre- 
detemi 


Pisa,  5  aprile  1882. 


Vostro  amico  aff.mo 

E.  Teza. 


—  535  — 


DELLA   «  POSIZIONE   DEBOLE  »  NEL    LA  TINO 


11  signor  F.  Garlanda  ha  di  recente  messo  a  nuovo  e  confortato 
di  buona  dottrina  una  mia  vecchia  spiegazione  Della  posizione  de- 
bole nel  latino  ;  ed  io  gli  sono  grato  eh'  egli  si  sia  ricordato  di  me, 
che  già  da  tempo  avevo  dimenticato  quello  scritto  (iSyS).  Se  non  che, 
tra  le  cose  ch'egli  afferma  a  mio  riguardo,  ve  n'ha  taluna  che  non 
sembra  del  tutto  vera;  e  siccome  l'esperienza  m'insegna  che  chi  tace 
fa  credere  d'aver  torto,  questa  volta  parlerò. 

Dice  il  sig.  Garlanda  che  alle  obbiezioni  mossemi  dal  dott.  Pezzi 
io  non  risposi;  e  lo  dice  in  modo  che  fa  supporre  io  non  abbia  ri- 
sposto, perchè  non  avevo  che  rispondere.  Ora  sta  invece  il  fatto,  che 
il  mio  esemplare  di  quei  fascicolo  della  Rivista  reca  in  margine  alle 
obbiezioni  del  Pezzi  parecchie  mie  osservazioni,  che  non  pubblicai 
supponendo  ogni  accorto  lettore  le  avrebbe  potuto  pensare  da  sé.  Né 
le  riprodurrò  io  qui,  ora  specialmente  che  il  sig.  Garlanda  ne  ha 
fatto  il  debito  apprezzamento.  Ad  una  sola  di  quelle  obbiezioni  darò 
qui  la  mia  risposta  ;  all'obbiezione  che  i  Latini  non  potessero  affatto 
sillabare:  res-to,  res-tringo  e  simili;  e  la  dò,  perchè  neanche  il  sì- 
gnor  Garlanda  la  ribatte  abbastanza.  Per  quanto  io  so,  nulla  ci  di- 
cono i  grammatici  latini  su  questo  punto  ;  e  però  noi  siamo  ridotti 
a  cercare  il  modo  della  sillabazione  latina  nelle  succedanee  sillaba- 
zioni neolatine.  Ora  è  noto,  per  primo,  a  tutti  quanti  che  i  Francesi 
sillabano  :  res-ter,  es-prit  e  simili,  e  che  gli  Spagnuoli  scrivono  :  des- 
nudo, des-pacho,  ves-tir.  Ed  è  pur  noto  che  nel  francese  e  nello  spa- 
gnuolo  si  ovvia  all'  5  impura  col  preporle  un  e,  così  che  spiritus  di- 
venta esprit,  espirito  ecc.;  e  che  la  stessa  tendenza  fonetica  si  rivela 
anche  nell'  italiano,  quando  si  dice  :  in  ispirito,  in  isciiola  e  simili. 
Che  cosa  provano    questi    fatti  ?  Provano  che  una  grossa  parte    della 


—  536  — 
Romania  non  riusciva  a  pronunciare  il  nesso  st  sp  ecc.,  e  però  nel- 
r  interno  delle  parole  Vs  alla  vocale  precedente,  e  in  principio  di 
parola  profferiva  una  lieve  vocale,  alla  quale  qui  pure  allora  si  ap- 
poggiava quel  s  incomoda,  che  finì  poi  col  cadere  del  tutto  nel 
campo  francese  (scìiola  =  escole  =  école).  Che  queste  condizioni  glot- 
tiche  sieno  nel  campo  romanzo  assai  antiche  è  provato  dagli  esempi 
riferiti  dallo  Schuchardt  ;  e  noi  siamo  indotti  a  credere  che  pur  i 
Romani  dell'età  classica  sillabassero:  res-tat,  res-tringo,  cosi  che 
queir  e,  naturalmente  breve,  divenisse  lunga  per  posizione. 

Nota  poi  il  sig.  Garlanda  (p.  i3  dell'Estratto)  che  io  dopo  aver 
data  la  vera  ragione  per  cui  1'  a  di  patris  poteva  essere  o  breve  o 
lungo  secondo  che  si  proferiva  pa-tris  o  pàt-ris^  m'impaccio  poi  colle 
more  e  colle  mezze  more  e  finisco  col  darmi  la  zappa  sui  piedi 
(grazie  della  gentilezza  !).  Ed  è  vero  in  fatti  che  io  mi  lasciai  per  un 
momento  arrestare  dalla  difficoltà  di  spiegare  come  mai  1'  e  di  strepit 
contasse  per  una  sola  breve,  mentre  nella  teoria  delle  more  in  sire- 
si  avrebbero  ben  due  tempi  e  mezzo  !  Ma  io,  senza  saperne  dare  una 
buona  spiegazione,  notavo  pure  che  «  il  nesso  STR  [in  strepit]  pe- 
sava non  più  di  mezza  mora,  ossia  quanto  una  semplice  consonante  » 
(p.  232).  E  più  innanzi  venivo  a  questa  conclusione  :  «  che  la  vocale 
sia  preceduta  da  un  iato,  o  da  una  consonante  semplice,  o  da  un 
nesso  di  consonanti,  la  sillaba  non  può  venirne  allungata  che  d'una 
sola  mezza  mora  ;  ed  è  per  questo,  io  credo,  che  i  grammatici  latini 
trascurarono  di  calcolare  nella  sillaba  questa  quantità,  la  quale  era 
costante  »  (p.  234).  Ora  io  posso  bene  ingannarmi;  ma  sono  ancora 
d'opinione  che  questa  dichiarazione  sia  ancora  meglio  accettabile  di 
quella  del  sig.  Garlanda,  il  quale  afferma  che  «  una  consonante,  o 
anche  un  gruppo  consonantico,  quando  precede  a  una  vocale  nella 
stessa  sillaba,  si  pronuncia  cosi  aderente,  quasi  direi  così  compene- 
trata con  la  vocale,  che  il  valore  metrico  di  questa  non  ne  viene  al- 
terato in  modo  sensibile  »   (p.   14  dell'Estratto). 

Padova,  maggio,   1882. 

U.  A.  Canello. 


-  537  — 


"BIBLIOGRAFIA 


Augusto  Franchetti.  Le  Nuvole  di  Aristofane  tradotte  in  versi  ita- 
liani con  introduzione  e  note  di  Domenico  Comparetti.  Firenze, 
Sansoni,  1882. 


L'Introduzione  del  Comparetti  è  scritta  con  rigore  scientifico  e  in- 
sieme con  facilità  popolare.  Si  divide  in  due  parti  :  nella  prima  si 
parla  della  commedia  antica  in  generale  ;  nella  seconda  delle  Nuvole 
d'Aristofane  in  particolare.  —  La  Commedia  antica  nasce  nei  festevoli 
e  liberi  ritrovi  della  villa;  gli  Ateniesi  la  sollevano  ad  opera  d'arte: 
essa  ritiene  tuttavia  le  tracce  della  origine  rusticana,  specialmente 
nel  coro  e  nella  paratasi.  Anche  il  suo  contenuto  seguita  a  basarsi 
sul  satirico  e  sul  ridicolo,  e  il  suo  ambiente  è  la  società  grossolana 
e  plebea.  Ciò  non  toglie  che  i  grandi  poeti,  come  Aristofane,  non 
la  rivolgano  a  scopi  seri  e  d'alto  interesse  cittadino.  Anzi  tu  ammiri 
qui  il  sommo  dell'arte:  giungere  al  serio  per  la  via  del  ridicolo  e 
del  triviale.  Questa  era  la  Commedia  antica;  però  essa,  a  differenza 
della  tragedia,  chiusa  ne' suoi  temi  tradizionali,  godeva  di  libertiÀ 
d'apone  e  di  caratteri.  Vi  si  mostravano  in  giuoco  tutte  le  passioni: 
le  passioni,  dico,  volgari,  non  le  nobili  e  delicate.  Così  l'amore  non 
entra  mai  nell'antica  commedia:  v'entra  invece  l'oscenità,  e  v'entra  in 
modo  anche  troppo  indecente  :  però  la  donna  o  non  figura  in  questa 
commedia,  o  vi  figura  in  modo  trivialmente  ridicolo.  La  stessa  libertà 
che  c'è  nell'invenzione  e  nell'organismo  dell'azione,  la  si  ha  pure  nel 
coro;  anch'esso  si  tiene  generalmente  nell'ambiente  del  ridicolo:  ta- 
lora peraltro,  quando  s' accosta  ad  un'  idea  per  se  stessa  solenne  e 
poetica,  osa  togliersi  per  un  momento  la  maschera  comica  e  far  sen- 


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tire  versi  ammirabili  di  sublime  poesia  :  di  che  si  hanno  bellis- 
simi esempì  nelle  Nuvole,  negli  Uccelli  e  nelle  Rane  di  Aristofane. 
—  Lingua  e  metro  sono  di  purissima  lega;  la  dizione  è  tutta  spe- 
ciale, e  va  distinta  coH'appellativo  di  comica  :  l'ufficio  del  traduttore 
è  quindi  spinosissimo,  e  spesso  bisogna  accontentarsi  di  approssima- 
zioni, massimamente  chi  pensi  che  talora  il  linguaggio  comico  non 
è  che  una  fine  parodia  del  linguaggio  tragico. 

Nella  seconda  parte  dell'Introduzione,  il  Comparetti  dà  in  breve  il 
tessuto  della  favola  delle  Nuvole,  mostrando  che  si  divide  in  due 
parti,  ciascuna  di  tre  scene  principali.  Analizza  quindi  il  contenuto. 
Scopo  precipuo  d'Aristofane  è  di  satireggiare  la  dialettica  nuova  dei 
sofisti,  presa  nel  suo  peggior  senso,  come  arte,  cioè,  di  far  parere 
diritto  «ciò  che  è  storto;  giusto  ciò  che  è  ingiusto,  abbattendo  così 
ogni  principio  di  religione  e  di  moralità.  Luogo  rilevantissimo  della 
commedia  delle  iVz/vo/e  è  il  dialogo  tra  i  due  parlari,  il  giusto  e  l'in- 
giusto, dove  viene  anco  satireggiata  l'educazione  contemporanea  in 
confronto  dell'antica,  mettendo  in  rilievo  le  tristi  conseguenze  di 
quelle  teoriche  nuove.  Oltre  che  la  dialettica,  i  sofisti  promovevano 
in  genere  ogni  studio,  sia  fisico  sia  speculativo.  Al  commediografo 
conservatore  tutte  queste  paiono  vanità  (e  in  parte  non  avea  torto), 
e  però  le  mette  in  burla  colla  creazione  delle  Dee  Nuvole.  Le  Nu- 
vole, Socrate,  Strepsiade,  e  Fidippide  sono  i  quattro  caratteri  della 
commedia,  e  Strepsiade,  dopo  che  è  stato  a  scuola  nel  Pensatoio 
(cppovTiOTfipiov)  non  vuol  più  saperne  di  pagare  i  suoi  debiti,  e  si 
beffa  de'  creditori.    Indarno  Pasia  incollerito  gli  grida  : 

«  Ah  no!  pel  sommo  Zeus,  per  tutti  i  Numi, 
Non  t'hai  da  pigliar  giuoco  impunemente 
Di  me  !  » . 

Strepsiade  ormai  non  crede  più  a  Numi,  e  gli  risponde: 

«  Mi  svaghi  proprio  co'  tuoi  Numi, 
Udir  Zeus  invocato  in  giuramento 
Fa  ridere  oggimai  color  che  sanno  ». 

Il  figlio  Fidippide,  che  prima  non  ci  voleva  andare,  per  accontentare 
il  padre,  alla  fine  si  piega  e  va  anch' egli  al  Pensatoio,  e  vi    impara 


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l'arte  così  bene,  che  si  mette  a  picchiare  il  padre,  e  dice  che  vuol 
battere  anche  la  madre,  e  prova  che  ha  ragione  lui.  In  tal  maniera 
Aristofane  colpisce  e  satireggia  nella  sua  applicazione  pratica,  l'idea 
che  egli  ha  tolto  a  combattere.  —  Una  cosa  sola  non  può  non  pa- 
rerci per  lo  meno  assai  strana,  il  vedere  cioè  Socrate  posto  qua  come 
tipo  de'  vani  e  cavillosi  sofisti.  Su  questo  punto  le  osservazioni  del 
Comparetti  sono  acute  e  belle.  È  un  fatto,  egli  dice,  che  Socrate, 
sia  pur  giustamente,  combatteva  le  abitudini  del  popolo  ateniese,  e 
i  vecchi  pregiudizi  del  pensiero  comune,  usando  il  metodo  della  di- 
scussione e  del  fino  raziocinio:  come  poteva  non  parere  parados- 
sale? Quanto  non  era  facile  allora  mettere  a  fascio  il  suo  con  quel 
raziocinare  ardito  e  falso,  proprio  dei  sofisti,  e  dal  quale  vedeva 
Aristofane  derivare  tanti  mali  ?  L'attività  e  l'influenza  d'un  uomo 
grande  può  essere  giudicata  ben  diversamente  dai  contemporanei  e 
nel  suo  paese,  che  da  uomini  lontani  che  dopo  ventiquattro  secoli 
contemplano  il  suo  nome  e  veggono  il  suo  vero  posto  nella  storia  della 
umanità  civile.  E  si  noti  che  il  Socrate  delle  Nuvole  è  bensì  il  So- 
crate reale,  ma  è  insieme  il  tipo  di  quel  genere  di  filosofanti,  contro 
cui,  con  tutta  ragione,  Aristofane  appuntava  i  suoi  dardi  satirici  : 
però  alcuni  tratti  caratteristici  del  Socrate  reale  qui  non  si  trovano, 
e  se  ne  trovano  invece  altri  che  non  sono  propri  del  Socrate  della 
storia.  Vuoisi  anche  osservare  che  Aristofane  non  inveisce  contro  So- 
crate, e  non  lo  tratta  alla  maniera  con  cui  tratta  Euripide  e  Cleone. 
Da  ultimo  è  bene  osservare  che  non  fu  solo  Aristofane  che  abbia 
preso  di  mira  Socrate,  ma  altri  comici  lo  attaccarono  nei  loro 
drammi  e  più  violentemente  di  lui.  Epperò  il  Comparetti  crede  di 
poter  affermare  che  tra  la  commedia  delle  Nuvole  e  la  morte  di  So- 
crate ,  avvenuta  ventisei  anni  dopo,  non  ci  sia  alcuno  special  rap- 
porto di  causa  ed  effetto,  e  osserva  che  in  Platone  vediamo  che  i 
discepoli  stessi  ed  amici  di  Socrate  erano  ben  lungi  da  attribuire  ad 
Aristofane  alcuna  responsabilità  di  questo  fatto.  —  Il  Comparetti 
chiude  la  dissertazione  mostrando  come  la  commedia  nello  stato  in 
cui  è  a  noi  pervenuta,  non  potè  essere  rappresentata  :  in  esso  infatti 
si  rileva  un  rifacimento  cominciato  e  non  terminato,  per  cui  vi  si 
notano  lacune  e  contraddizioni.  Non  mancano  memorie  antiche  che 
ci  dicono,  che  le  Nuvole,  in  seguito  all'insuccesso  avuto  nella  prima 
rappresentazione,  furono  dall'autore  rivedute  e  corrette. 

La  versione  del  Franchetti,  ha  i  due  grandi  meriti  della  fedeltà  e 


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della  evidenza.  Leggendola  tu  vi  senti  il  sale  comico  del  testo,  per 
cui  ci  pare  d'essere  trasportato  in  Atene  ai  tempi  d'Aristofane,  e  nel 
tempo  stesso  non  vi  trovi  stento  nessuno  né  di  lingua,  nò  di  metro. 
Voglia  il  Franchetti  continuare  e  condurre  a  termine  la  traduzione 
d'Aristofane, e  l'Italia  gliene  sarà  grata. 

Verona,  marzo   1882. 

Francesco  Cipolla. 


Uguale  giudizio  favorevole  sulla  versione  del  Franchetti  dà  nel 
Giornale  napoletano  V  egregio  collaboratore  di  questa  Rivista,  il  pro- 
fessore Francesco  D'Ovidio,  chiamandola  ottima  e  fedelissima,  es- 
sendo egli  in  complesso  riuscito  a  tutto,  salvo  all'  impossibile,  anzi 
un  po'  anche  a  questo.  Egli  ha  confrontata  la  traduzione  parola  per 
parola  col  testo,  con  pochissima  speranza  di  trovare  tante  imperfe- 
zioni da  smentire  la  diligenza  del  traduttore  ed  ha  dato  nel  citato 
giornale  il  piccolo  numero  delle  osservazioni  che  aveva  da  fare. 
L'ho  confrontata  anch'io  coli' edizione  di  F.  Kock  (Berlin,  1862)  e 
registro  qui  le  mie  osservazioni  ed  i  miei  dubbi  tanto  per  dimo- 
strare al  Franchetti  il  vivo  interesse  che  m'ha  ispirato  il  suo  la- 
voro. Egli  farà  poi  delle  mie  osservazioncelle  quel  conto  che  crede. 
Quanto  al  verso  24  il  Franchetti  si  è  attenuto  alla  lezione  del  Ku- 
ster,  èEeKÓTrri,  ma  pare  assolutamente  preferibile  la  lezione  èEeKÓTrriv; 
mi  fosse  stato  cavato  un  occhio,  cioè  successo  qualsiasi  altra  maggior 
disgrazia.  L' èEcKÓirti  si  capisce  a  stento.  Verso  28,  credo  si  tratti 
d'una  gara,  SpinaTi  iroXeiiiiaTripiuJ  (vedi  Senof.,  Hipparch.  3,  5),  per  cui 
s' intende  TÒ  uoXejniaTi'ipia  se.  àTuuvia|uaTa ,  curule  certamen.  Incli- 
nerei poi  di  leggere  èXóti;  per  èXa.  v.  Sy,  òÓKvei  |H6  Tiq  ò.  Iy.  twv  axp. 
è  tradotto  :  «  m'ha  pinzato  fra  le  coltri  » ,  ma  è  più  espressivo  il  greco  : 
«mi  morde  sì,  da  farmi  balzar  dal  letto»,  v.  44,  eùpiuTiiùv,  ÒKÓpriToc;, 
eÌKfj  Kei|Lievo(;,  «  vita  volgare,  senza  lussi  e  senza  pene  »  son  parole 
troppo  gemili  per  Strepsiade,  che  si  rimane  contento  adirittura  nel 
sudiciume.  Al  v.  47  vedi  l'osservazione  di  D'Ovidio,  v.  55  il  Fr. 
traduce  :  «  Io  colla  scusa  di  mostrarle  questo  abito  da  lei  fatto  » . 
Mi  pare  sbagliato.  Strepsiade  mostrava  alla  moglie  l'abito  sdrucito  e 
lacero,  che  porta  anche  ora  (xoòi),  per  rimproverarle   la    sua  noncu- 


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ranza  del  marito  e  delle  cose  sue.  v.  70,  Zvaxic,  è  un  abito  splendido  in 
genere,  v.  71,  qjeWéiuc,  probabilmente  non  è  un  nome  proprio,  ma  dinota 
in  genere  un  pendio  scosceso,  sassoso  e  con  poca  vegetazione.  Arpo- 
CRAZiONE  :  Tà  irerpiOòri  Kaì  aÌYiPoTa  x^wpia  qpeXXéa^  èxdXouv.  Confr.  Se- 
nofonte, Cineg.  5,   18.  Pel  V.  140  vedi  D'Ovidio,  v.   180-82,  avoiy' ó- 
vvoac,  TÒ  qpp.  Kaì  òeììov  iu<;  Tdx-  |uoi  tòv  Z.  è  tradotto  troppo  liberamente 
con  :    «   Fammici    entrare   nel    pensatoio.  Sbrigati    a    presentarmi   a 
Socrate  ».    Lo   Scoliasta    dice:    ire-n-oiriKe   tò   TrpooxaxQèv   ó   cpi\óaoqpo(; 
Kaì  óvéiuHe  toc;  GOpaq.  ó  òè   eìaeXGÙJv   koì   Geaad|uevo^   aÒTOù<;   ibxpoùi; 
Ka6ri|uévou(;   Te0aO|naKev.    Mediante    1'  lKKÙKX|U|aa,    gli    spettatori   vede- 
vano l'interno  della  casa,  senza  che  gli  scolari  uscissero,  v.  271,  vedi 
D'  Ovidio    e   la   versione    latina  :     «    in  gratiam   et   honorem  nym- 
pharum  ».  Riguardo  al  v.  272  veda  poi  il  Franchetti,  se  non  abbia 
ragione  il  Kock  colTosservare  che  è  strano  quel  itpoxoalc;  senza  pre- 
posizione e  che  pare  mancare  un  epiteto  all'  òòdriuv,  p.  e.,  Tpocpi|uu)v 
da  sostituire  al  Trpoxoaìq,  il  che  renderebbe  certamente  più  espressivo 
il  verso.  È  strana  pur  la  lezione  del  v.  282,  Kapuoùq  t'  dpòoiuévav  ecc., 
e  non  dà  un  senso    soddisfacente.  Il    Kock    propone    di    leggere    per 
KapTTOiiq  -KprivaK  o  Kpouvoìi;.  II  Bergk  legge  KapiToO<;,  cioè  il  nome  del- 
l'Ora Carpo.  Cosi  è  pure  poco  soddisfacente  la  lezione  del  v.  336,  elr 
depiac;,    òiepó?  ecc.  Fra  le  conghietture   de' più   recenti  interpreti 
alcuna  potrebbe  per  avventura  rendere  il  verso  più  vigoroso,  v.  375, 
li)  Trdvra  toXhujv  :   «  sfacciato  »  è  troppo    debole,  verso  407  :   «  Forza 
è  (confr.  il  b'  dvdyKvii;  del  verso  377)  ch'esca  violento  per  la  densità  » 
è  tradotto:   «e  poi  che  violento   le    ha  rotte  (le  nubi),  per    V avversa 
densità  »,  V avversa    è    di  troppo,  v.  417,  il  yuiuvaaiaiv    è    certamente 
falso,  dacché  non  ha  da  astenersi   dai    ritrovi  del  ginnasio  chi  vuol 
rendere  robusto  il  suo  corpo.   Diogene   Laerzio    legge  :  dòriqpaYiai;,  il 
Kock  propone  paXavedjuv.  Anche  nel  verso  461  il  lesinante  dà  da  pen- 
sare. Il  Fr.  s'è  attenuto  alla  lezione   vulgata  :  luanoXoixòc;,  il  Bentley 
ha  proposto  iuottuoXoixóc;.  In  ogni  caso  «  il  lesinante  »  è  poco  adat- 
tato come  ultimo  di  quella  serie  di  titoli  dati  all'  avvocato,  v.  486- 
487.  V  era  da  avvertire  il  poco  nesso,  in  cui  i  due  versi  si  trovano  col 
resto  della  scena.  Non  sarebbe  forse  stato  inopportuno  l'accennare,  che 
in  questa  parte  specialmente  si  rinvengono  le  traccie  di  una  seconda  re- 
dazione, cfr.  il  Kock  ai  versi  e  il  n.  44  della  sua  introduzione,  v.   528. 
La  lezione  ole,  ì^òù  Kaì  Xéyeiv  tradotta  con  :   «  che  è  già  piacere    l' in- 
dirizzarsi ad  essi  »  dà  un  senso  poco  conveniente.  L'errore  in  cui  il 


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Fr.  è  incorso  nella  traduzione  del  v.  53o  ha  già  avvertilo  il  D'Ovidio. 
Per  i  V.  595  e  seg.,  e  624  e  767  conf.  le  osservazioni  del  D'Ovidio. 
L'ultimo  di  questi  versi  è  tradotto  da  G.  Hermann  :    «  Tu  ipse  p^rimus 
aliquid  inveni  idque  mihi  espone  » .  v.  66 1 ,  l'ètciiuapTe  non  mi  par  tra- 
dotto con  «  svagati  a  tuo  piacere  » .  Str.  vuol  dire,  che  il  figlio  poi  potrà 
scialacquare  a  suo  piacimento,  dacché  frodi  ed   inganni  gli  procure- 
ranno i  mezzi  per  farlo.  Per  il  v.  925  e  seg.  avrei  desiderato  qualche 
nota  ;  così  come  si  leggono  comunemente  danno  luogo  a  grandi  dubbi 
e  rimangono  oscuri  non  meno  dei  v.  912-913.  Il  v.  gb5  è    tradotto, 
forse  in  causa  della  rima  :   «  che  a  grave  cimento  gli  amici  porrà  ».  Il 
concetto  del  fjt;  (aoqpiaq)  uépi  Toìq  èfaoìe;  qpiXoic;  èaxiv  à^ùjv  .uétic^to;  esprime 
meglio  la  versione  latina  dell'ed.  Didot:  «de  qua  meis  amicis  maximum 
est  certamen  ».  A  tal  condiscendenza  alla  rima  attribuisco   anche   il 
irpòc;  toùtok;  del   v.   1022,  tradotto   con:   «  per  tal  cagione  ».  Vorrei 
dire  anche  contro  l\  echeggiavano  »  del  v.  968,  con  cui  rende  l'èv- 
Tewaixévovc,  «  ed  intuonavan  l'armonie  ».  Nel  v.  920  il  Fr.  non  rende 
r  apirdZeiv  «  servirsi  prima  ».   Il  KixXiZeiv  presso  gli  Attici  vuol   dire 
mangiar  tordi,  ed  in  genere  cose  ghiotte,  cioè  quasi  lo  stesso  cheòvjjo- 
(payelv,  nella  posteriore  grecità  vale  anche  «  ridere  sottecchi  »;  tratte- 
rebbesi  di  ragazzi  che  discorrendo  tra  loro  scherzano,  ridono  e  sghignaz- 
zano, il  «  darsi  ad  oscena  risata»   è  certamente  troppo  forte.  Al  v.  loot 
osservo  che  il  Kock  cita  solo  due  figli  d'Ippocrate,  Telesippo  e  De- 
mofonte, mentre  lo  Scoliaste  aggiunge  Pericle;  i  passi  de'comici  che  ad 
essi  si  riferiscono  e  son  citati  dal  Kock,  hanno  il  plurale,  non  il  duale, 
v.   1040,  il  Toìaiv  vófioiq  tv  Tale,  òìkok;  Tàvavri'  dvriXéEai  «io  pel  primo 
mi  son  accinto  a  contraddire  le  leggi  ne'  processi  »  non  è  certamente 
ben    tradotto    con   «  primo    a    contraddir    mi   feci  le  leggi  e   la  giu- 
stizia »,  segue  un  xal,  e  non   «  ma  ».  Nel  v.  112Ó  non  è  tradotto  l'u- 
ao|aev.  v.  1242,  pare  che  il  Fr.  legga  fj  luèv  av  ttóvtuuv,  lezione  che 
non  trovo  registrata  ;  la   comune  è  toutoiv,  il  Kock   seguendo  il  co- 
dice   di    Ravenna  legge   toùtoi,  e    lo    riferisce  all'  antecedente    Zevc,, 
contro   il    quale  ha    egli    massimamente    peccato.   La    traduzione   del 
V.   1255  è  sbagliata,  come  ha  osservato  il  D'Ovidio.  Quanto    ai  versi 
1 365-1 368  credo  che  sia  da  accettare  la  trasposizione  del  Kock,  i365, 
i367,  i368,  i366.  Il  1418  è  certamente  guasto,  e  poco  hanno  giovato 
le  emendazioni  fin  qui  proposte,  per    il    senso    però  è  quello  che  ne 
dà  il  Fr.  Nel  v.   1435    guardi  il  Fr.  se  il  suo   «  e  busse  io  prendo  » 
possa  stare.   I  versi  14SS-89  si  potrebbero  per  avventura  tradurre  piìi 


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fedelmente.  Per  il  v.  i5o6  confr.  il  D'Ovidio,  che  fece  pure  osservare 
altre  minori  cose,  che  il  lettore  vorrà  vedere  nel  citato  giornale,  in  cui 
il  nostro  egregio  collaboratore  esprime  ancora  il  desiderio,  al  quale 
mi  associo,  che  cioè  il  Comparetti  fosse  stato  meno  parco  colle  sue  op- 
portune note,  dacché  parecchi  passi  potrebbero  pur  abbisognarne  per 
il  lettore,  che  vuol  gustare  1'  Aristofane  reso  italiano  dal  Franchetti, 
senza  ricorrere  al  testo  ed  ai  suoi  commentatori.  Ne'  pii^i  recenti  di 
questi  il  traduttofe,  confrontandoli  fra  loro,  potrà  per  avventura  rin- 
venire proposte  di  lezioni  ed  emendamenti,  di  cui  giovarsi  in  una  se- 
conda edizione  e  nella  continuazione  della  sua  nobile  fatica. 

Torino,  maggio,  1882. 

Giuseppe  Mììller. 


D.  Comparetti,  On  tivo  inscriptions  front  Olympia.  Reprintcd  from 
the  Journal  of  Hellenic  studies.  London,  1881. 


Già  altra  volta  la  Rivista  ha  reso  conto  delle  dotte  fatiche  che  il 
Comparetti  dedica  all'illustrazione  delle  iscrizioni  greche,  dovute  agli 
scavi  di  Olimpia.  Ora  non  può  che  brevemente  accennare  al  lavoro 
inserito  in  uno  dei  volumi  di  «  Studi  ellenici  »  che  si  pubblicano  in 
Inghilterra  ed  in  cui  intraprende  in  contradittorio  coi  Kirchhoff  e 
col  Purgold,  che  se  ne  sono  occupati  nella  «Gazzetta  archeologica  di 
Berlino  »,  l'illustrazione  nelle  due  epigrafi  n"  882  e  383.  Il  Kirchhoff 
trascrivendole  aveva  addirittura  dichiarato  di  non  poter  interpretare  il 
loro  contenuto.  Il  Comparetti,  sebbene  dovesse  soltanto  lavorare  con 
un  facsimile,  è  riuscito,  a  parer  mio,  ad  una  lezione  di  molto  migliore 
del  Kirchhoff,  emendando  con  molto  acume  e  con  vasta  dottrina  i 
non  pochi  errori  dei  due  bronzi  che  portano  le  iscrizioni,  ed  a  giun- 
gere ad  una  intelligenza  generale  dei  due  frammenti,  di  cui  il  primo, 
secondo  lui,  è  il  frammento  d'una  legge,  concernente  i  GeoKÓXoi  (ca- 
rica intorno  ai  diritti  e  doveri,  dei  quali  si  sperano  ulteriori  notizie 
dalle  iscrizioni  d'Olimpia,  ancora  inedite).  Sembra  che  essi,  oltre  al- 
l'ufficio sacro,  avessero  anche  parte  nell'amministrazione  del  terri- 
torio appartenente  al  tempio,  e  fossero  persino  possessori  di  porzione 


-  544  - 

di  esso,  e  che  il  frammento  contemplasse  il  caso  in  cui  potessero  ad 
altro  cedere  parte  del  loro  diritto.  Il  frammento  della  seconda  iscri- 
zione sembra  quello  d'una  legge  intesa  a  guarentire  al  Dio  il  rispetto 
dovutogli.  L'importanza  particolare  dello  scritto  del  Comparetti  con- 
siste poi  nelle  sue  considerazioni  sui  singoli  vocaboli  dei  due  fram- 
menti, considerazioni  che  accrescono  notabilmente  le  nostre  notizie 
sul  dialetto  dell'Elide,  ancora  si  poco  conosciuto. 

Torino,  maggio,   1^82. 

G.    MuLLER. 


M.  PoRcii  Catonis,  De  agri  cultura  liber  —  M.  Terenti  Varronis, 
Rerum  rusticarum  libri  tres  ex  recensione  Henrici  Keilii,  voi.  I, 
fase.  I,  Lipsiae,  MDCCCLXXXII. 


Nella  mancanza  assoluta  di  un'edizione  critica  degli  Scriptores  rei 
rusticae,  non  è  a  dire  se  la  presente,  annunziata  .già  da  qualche 
anno  (i),  fosse  attesa  vivamente  da  chi  si  occupa  dì  tali  studi. 

11  primo  fascicolo,  di  cui  ora  discorro,  è  unicamente  dedicato  al- 
l'opera di  M.  Porcio  Catone,  per  la  quale  il  Keil  si  è  attenuto  quasi 
per  intiero  all'edizione  di  Pier  Vettori  (Lugduni,  1541},  e  agli  Ex- 
cerpta che  Angelo  Poliziano  avea  fatto  dal  codice  Marciano,  collazio- 
nandolo coll'edizione  principe  (2). 

Ciò  mi  risulta  dall'esame  del  lest9  ;  che  il  presente  fascicolo  non 
porta  prefazione. 

Già  fin  dal  1849,  nelle  Observationes  criticae  in  Catonis  et  Varronis 
de  re  rustica  libros  (p.  66-67)  i'  K.  avea  detto  che  per  vero  titolo  del 
libro  Catoniano    era    da    ritenersi  De  asrricultura   anziché  De  re  ru- 


(1)  Cfr.  Teubner's,  Mittheilungen,  18~8,  Nr.  2,  S.  25. 

(2)  Cfr.  A.  M.  Bandini,  Ragionamento  (storico  sopra  le  collasioni 
delle  fiorentine  Pandette  fatte  da  Angelo  Poi.izianu,  Livoruo,  1762, 
p.  67. 


—  545  — 
stica  :  ed  oggi,  col  fatto,  mostra  di  essere  della  medesima   opinione. 
Ma  non  parmi  che  la  cosa  sia  così  definitivamente  decisa  come  l'as- 
serzione del  K.  potrebbe  far  credere. 

Ecco  le  testimonianze  che  riguardano  la  quistione  : 

Varrone  (r.  r.,  I,  2,  28,  ed.  Gessner)  dice:  «  An  non  in  magni 
illius  Catonis  libro,  qui  De  agriciiliura  est  editus,  scripta  sunt  per- 
multa  similia?  ». 

Ed  Aui.o  Gellio  {N.  A.,  Ili,  14,  17,  ed.  Hertz):  «  M.  Cato  in 
libro  quem  De  agriciiltura  conscripsit  »   (1). 

Peraltro  lo  stesso  Gellio  (X,  26,  8)  dice:  «  Cato  in  libro  De  re 
rustica  »  e  Catone  presso  Cicerone  [De  se}ìect.,XV,  54,  ed.  Meissner): 
«  Quid  de  utilitate  loquar  stercorandi  ?  Dixi  in  eo  libro  quem  De 
rebus  rusticìs  scripsi  ». 

Di  fronte  a  tali  testimonianze,  sebbene  si  possa  restare  a  prima 
giunta  indecisi  sul  vero  titolo  del  libro,  cionondimeno  mi  pare  che, 
con  tutto  il  rispetto  dovuto  all'autorità  dell' eruditissimo  Varrone 
(giacché  bisogna  escludere  Gellio,  come  colui  che  non  decide  né  per 
l'uno  né  per  l'altro  dei  due  titoli),  si  potrebbe  con  maggiore  proba- 
bilità ritenere  per  vero  il  titolo  De  re  rustica  ;  cui  mi  sembra  poter 
anche  ricavare  dalle  parole  precitate  di  Cicerone,  il  quale  non  avrebbe 
osato  mettere  in  bocca  a  Catone  stesso  un  titolo  di  una  di  lui  opera, 
se,  per  la  conoscenza  ottima  ch'ei  mostra  spesso  di  avere  degli  scritti 
catoniani,  non  fosse  stato  certo  che  quello  era  il  vero. 

Né  contro  questo  varrebbe  il  dire  che  Cicerone  usando  De  rebus 
rusticis  e  non  De  re  rustica  dia  prova  con  ciò  stesso  di  non  riferirci 
il  vero  titolo,  come  parrebbe  credere  il  K.  [Op.  cit.,  p.  67);  giacché 
devesi  ritenere  che  a  Cicerone  erano  grati  codesti  plurali,  come  egli 
medesimo  ne  attesta  dicendo  ad  Attico  {XVI,  ep.  XI)  di  preferire  a 
De  officio  il  titolo    De   officiis,  che  per  lui  è  «  inscriptio   plenior  ». 


(I)  Il  passo  di  Plinio  (XIV,  4,  44,  ed.  Detlefsen)  :    «    Catonum    ille 

primus  triumpho    et    censura    super    cetera    insignis praeceptisque 

omnium  rerum iuter  prima  vero    agrum  colendi,  ille  (al.   illius)  aevi 

confessione    optimus  ac  sine  aemulo  agricola...  »,  e  quell'altro  di  Colu- 

mella  (/•.  r.,  I,  1,  ed.  Gessner^  :   « M.  Catonem  Censorium  illuni  me- 

moremus  qui  eam  (agricolatiouem)  latine  loqui  primus  instituit  >  che 
altri  citano  a  sostegno  del  titolo  De  agricultura,  sembrano  doversi  tra- 
scurare affatto,  come  quelli  che  non  riguardano  il  titolo  dell'opera  Ca- 
toniana. 

Kjvista  di  filologia  ecc.,  X.  36 


—  546  — 
In  quanto  ai  codici,  non  mi  varrò  della  considerazione  che  i3  (i) 
di  essi  portano  il  titolo  De  re  rustica  e  soli  6  De  agricultura,  perchè 
accade  talvolta  che  i  più  numerosi  non  sieno  i  migliori  e  i  più  auto- 
revoli ;  ma  mi  basterà  notare  che  il  codice  Marciano,  il  più  antico  ed 
autorevole,  portava  il  titolo  De  re  rustica,  secondo  mi  parrebbe  do- 
versi ricavare  dalle  parole  seguenti  di  Pier  Vettori,  che  del  mede- 
simo si  valse  per  la  sua  edizione  :  -  Vetuslissimum  volumen  est  in 
divi  Marci  Bibliotheca,  in  quo  M.  Catonis  unus  liber  est,  quem  De 
re  rustica  scripsit  :  ac  tres  M.  Terentii  Varronis  rerum  item  rusti- 
cariim.  Is  unus  liber,  ut  verum  fatear,  et  ut  veris  laudibus  ornem, 
maiores  mihi  utilitates  praebuit,  quam  universi  alii  :  superai  enim 
reliquos,  quos  habui,  longo  intervallo,  et  vetustate  et  fidelitate  »  (2). 
Ma  alcuno  potrebbe  chiedere  :  se  vi  sono  maggiori  probabilità  per 
credere  che  il  titolo  dell'  opera  Catoniana  fosse  De  re  rustica  piut- 
tostochè  De  agricultura,  come  si  spiega  l'uso  di  quest'ultimo  ? 

A  ciò  si  potrebbe  dare  con  verosomiglianza  una  spiegazione,  sup- 
ponendo che  ogniqualvolta  fu  mantenuta  la  denominazione  De  agri- 
cultura,  siasi  badato  più  al  contenuto  che  al  titolo  vero  :  cosa  non 
infrequente  presso  gli  antichi,  allorché  il  contenuto  si  connetteva  al- 
l'argomento da  essi  trattato. 

Premesso  questo  pel  titolo  vengo  subito  all'edizione,  che  del  resto 
è  per  molti  risguardi  commendevole. 

Anche  qui  il  K.  mantiene,  forse  senza  sufficiente  ragione,  l' indice 
dei  lemmata,  che  si  legge  in  molte  precedenti  edizioni. 

Io  sarei  invece  d'avviso,  e  in  ciò  mi  conferma  un  esame  non  indi- 
ligente dell'  opera,  che  sebbene  si  possa  ammettere  la  divisione  per 
paragrafi  (dico  divisione  e  non  nimiera'^ione],  codesti  lemmata,  o  co- 
munque si  vogliano  chiamare,  che  il  K.  ne  riproduce,  sieno  piut- 
tosto le  parole  stesse  con  cui  Catone  cominciava  a  trattare  di  una 
data  materia,  variamente  modificate  e  redatte  a  guisa   di   indice   dai 


(1)  A  completare  le  notizie  forniteci  dal  K.  [Op.  cit.,  p.  5-12)  intorno 
ai  codici,  noterò  che  il  Ricardiano,  cart.  n.  XXVII  ora  lo3,  non  consul- 
tato dal  K.,  è  autografo  di  Bartolomeo  Ponzio  e  porta  la  data  del  26  set- 
tembre 1476.  Contiene  una  raccolta  di  excerpta  dal  De  re  rustica  di 
Catone,  come  pure    da   Varrone  e  parecchi   altri  scrittori  latini  e  greci. 

(2)  Cfr.  ExpUcatio  suarum  in  Catoìiem,  Yarronem,  Cohtmellam  ca- 
stigationiim,  Lugduni,  1542,  prefazione. 


—  547  — 
grammatici  per  comodità  dei  lettori.  E  prova   ne  è  pure    il   discor- 
•dare  stesso  dei  codici  su  questo  punto  e  il  trovarsi   non    di    rado    le 
stesse  cose  ridette  con  pressoché  identiche  parole  nell'indice,  in  prin- 
cipio e  dentro  ai  paragrafi  del  testo. 

Né  difficile  mi  sembra  a  rintracciarsi  la  ragione  di  questo  fatto. 
Dapprima  si  sarà  condensato  in  breve,  per  così  dire,  e  possibilmente 
con  parole  Catoniane,  il  contenuto  di  ogni  paragrafo  e  fatto  quindi 
un  indice  a  comodità  dei  lettori  ;  poscia  per  facilitare  anche  più,  le 
parole  dell'indice  si  saranno  ripetute  dentro  al  libro,  o  nel  margine 
o  in  capo  ad  ogni  paragrafo,  distinte  dal  testo  con  colore  diverso  ; 
ma  col  procedere  del  tempo,  sia  per  ignoranza,  sia  per  negligenza, 
trascurata  tale  distinzione,  quello  che  era  opera  di  grammatici,  ebbe 
l'onore  di  far  parte  del  lesto. 

Inoltre  io  non  intendo  perchè  il  K.  non  faccia  corrispondere  la 
numerazione  dell'indice  a  quella  dei  paragrafi  del  testo.  Con  ciò  si 
genera  confusione  non  poca  (i),  e  l'indice  ch'egli  premette  diventa 
quasi  inservibile.  Mi  si  potrà  dire,  è  vero,  che  l'indice  serve  anco  a 
far  conoscere  per  sommi  capi  il  contenuto  dell'opera;  ma  allora 
perchè  la  numerazione  ? 

In  quanto  al  testo  farò  alcune  brevi  osservazioni. 

Farmi  che  i  pochi  wnis,  tres^  quinque  ecc.  si  potrebbero  ridurre 
a  I,  III,  V,  giacché  è  cosa  incoerente  scrivere  (X,  i):  «  ...operarios 
quinque,  bubulcos  III,  asinarium  I,  subulcum  I...  ». 

Al  II,  I,  dove  si  dice:  «  Ubi  cognovit,  quo  modo  fundus  cultus 
siet.  operaque  quae  facta  infectaque  sient  »,  antica  congettura  che  il 
K.  accetta,  leggerei  operaque  facta,  infecta  quae   sient. 

Nel  XVI,  I  :  «  Calcem  partiario  coquendam  qui  dant,  ita  datur  » 
con  qualche  codice  e  colle  antiche  edizioni  scriverei  dant  e  non 
datur;  cfr.  il  proem.  2:  «  Virum  bonum  quem  laudabant,  ita  lau- 
dabant amplissime  laudari  existimabatur  qui  ita  laudabatur  ». 

Nel  XXI,  2,  anziché  lamnis  metterei  lamminis  che  è  pur  di  qualche 
codice  e  che  il  K.  accetta  per  tre  volte  di  seguito  nel  medesimo  pa- 
ragrafo. 

Nel  LXXXXV,  2,  invece  di  sub  dio  caelo  leggerei  semplicemente 
sub  dio  come  si  legge  al  CVIII,  2  e  CXII,  2, 


(1)  Per  es,  il  lemma  XLII  (indice,  p.  5):  «  Quae  mala  in  segete  sint  » 
corrisponde  al  paragrafo  XXXVII, 


-  548  — 

Nel  CLVII,  i5,  invece  di  «  Si  polypus  in  naso  intro  erit ,  leggerei 
introierit,  giacché  altrimenti  avrebbe  dovuto  dirsi  intiis.  In  quanto 
alla  costruzione  del  verbo  introire  coll'abl.  cfr.  Holtze  ,  Syntaxis 
priscorum  scriptoriim  latinor.,  voi.  I,  p.  85,  e  Draeger,  Historische 
Syntax  der  latein.  Sprache,  voi.  I,  p.  652. 

Inoltre  parecchi  5//  e  sint  che  il  K.  accoglie  nella  sua  edizione  di 
fronte  a  72  tra  siet  e  sient,  parmi  che  si  dovrebbero,  senz'essere 
troppo  audaci ,  ridurre  alla  loro  forma  arcaica.  Per  es.  nel  V,  2  : 
«  Vilicus  ne  sit  ambulator,  sobrius  siet  »  non  si  potrebbe  mutare  il 
ììe  sit  in  ne  siet,  non  foss'aitro,  per  analogia  del  CXLIII,  i  :  «  (Vi- 
lica)...  neve  ambulatrix  siet...   >  ? 

lì  posueris  del  XXXVII,  3,  si  potrebbe  ridurre  a  posiveris  ;  cfr.  po- 
siverunt  (proem.  i),  posiveris  (UH,  i),  imposivi  (framm.  dell'orazione 
De  sumto  suo,  presso  Jordan,  M.  Catonis  praeter  librum  de  r.  r.  qiiae 
extantf  p.  87,  8). 

Al  XLVI,  I  e  XLVIII,  i,  anziché  bipalio  vertito,  leggerei  bipalio 
vortito  come  si  trova  al  VI,  3  e  GLI,  2. 

Così  pure  in  analogia  a  vorsum,  versato,  quoquo  vorsum,  susiim 
vorsinn,  avrebbe  dovuto  ridurre  a  forma  arcaica  :  versus,  adversus, 
adversum,  quoquo  versutn,  transversum  ecc. 

Le  forme  poi  acerviis,  alvus,  ervum,  novus,  ovum,  servus,  vulnus  si 
sarebbero  potute  scrivere:  acervos,  alvos...  volnus\  cfr.  convolvolus  ^^^ 
del  LXXXXV. 

Nel  CXXIV,  accanto  ad  obmoveris,  obmoveto,  obmovenda  stuonano 
le  forme  assimilate  onunoveto,  ommovenda;  lo  stesso  dicasi  di  alli- 
gato ,  corrupta  eie,  accanto  alle  forme  più  accettabili:  conligato, 
conlibrato,  conlatis,  adponito ,  adpetet,  subripiatur  [subrupiaturl],  in- 
rigivus  ed  altre. 

Ma  di  ciò  basti  per  ora:  che  io  non  intendo  di  far  qui  un'edizione 
del  De  re  rustica  di  Catone,  né  togliere  a  quella  del  Keil  il  valore 
che  ha  meritamente. 

Savona,  25  maggio  1882. 

GiAco.MO  Cortese. 


—  549  — 


Le  Qiierolus,  comédie  latine  anonime.  Texte  en  vers  restitué  d'après 
un  principe  nouveau  et  traduit  pour  la  première  fois  en  francais,  ecc. 
par  L.  Havet,  Paris,  1880  (Bibliothèque  de  l' École  des  Hautes 
Etudes,  41*  fascic). 


È  noto  come  dell'età  imperiale  sia  a  noi  pervenuta  una  sola  com- 
media latina,  così  che  ben  a  ragione  può  dirsi  che,  tolti  pochi  fram- 
menti, quanto  ci  rimane  del  teatro  comico  latino  appartiene  a  Plauto, 
a  Terenzio  ed  all'autore  del  Qiierolus.  Ora  intorno  a  questa  com- 
media molte  questioni  si  sono  agitate,  le  quali  non  sono  ancora  to- 
talmente risolte.  Si  tratta  in  fatti  di  sapere  chi  ne  sia  l'autore  ed  in 
qual  tempo  sia  vissuto;  se  l'abbia  destinata  al  teatro;  se  la  sua  pri- 
mitiva redazione  sia  quale  è  a  noi  pervenuta,  vale  a  dire  in  prosa. 

Intorno  all'autore  ben  si  può  dire  che  la  questione  è  risolta  nega- 
tivamente. Sebbene  il  Qiierolus  sia  una  commedia  designata  nei  ma- 
noscritti colle  due  parole  Plauti  Aididaria,  non  ostante  basta  leggere 
poche  righe  del  Prologo  per  convincerci  che  Plauto  vi  è  affatto 
estraneo. 

«  Aululariam  hodie  sumus  acturi,  non  veterem  at  rudem, 
Investigatam  atqiie  inventam  Plauti  per  vestigia. 

Sed  Querolus  an  Aulularia  haec  dicatur  fabula, 

(_  ^  _)  vestrum  hinc  judicium,  vestra  erit  sententia  »   (1). 

D'altra  parte  il  vedere  citali  Cicerone  ed  Apicio  ed  il  trovarvi  allu- 
sioni a  passi  di  Virgilio,  di  Seneca,  di    Marziale  e  di   Giovenale  in- 


(1)  Nelle  citazioni  mi  servirò  del  testo  quale  è  stato  l'estituito  dal- 
l' Havet  stesso  :  per  tal  guisa  il  lettore  potrà  farsi  un'  idea  più  chiara 
del  suo  metodo.  I  segni  metrici  indicano,  come  si  vedrà  pure  appresso, 
che  alla  redazione  in  prosa  manca,  per  soppressione  di  vocaboli,  certo 
numero  di  sillabe  e  talora  di  piedi  per  ricostituire  il  verso  primitivo.  Ciò, 
s'intende,  secondo  l'opinione  dell' H.,  opinione  che  ci  pare  assai  discu- 
tibile. 


—  550  — 
sieme  con  parecchi  altri  indizi  abbastanza  chiari,  provano  che  il  testo 
appartiene  all'epoca  del  basso  impero.  L' Havet  sostiene  a  ragione 
che  l'autore  doveva  vivere  in  Gallia  e  propriamente  nella  metà  me- 
ridionale di  essa  e  che  s'indirizzava  ad  un  pubblico  gallo  fp.  4),  ma  ci 
avverte  che  «  jusqu'  ici  nous  n' avons  absolument  aucune  lumière  sur 
le  nom  de  l'auteur.  Il  est  peut-ètre  sage  de  ne  pas  prétendre  à  percer 
ce  mystère  »  (p.  7).  Resta  quindi  incerto  il  nome,  ma  non  incerta  la 
patria,  sebbene  il  Blicheler  abbia  trovato  nel  Qiierolus  un'  origine 
africana  per  certi  versi  analoghi  che  offrono  alcune  iscrizioni  barbare 
dell'Africa  (i),  opinione  questa  che  fu  del  pari  sostenuta  da  Gaston 
Paris  (2),  ma  senza  ragione  di  sorta. 

Riguardo  all'autore  rimane  a  sapere  a  quale  epoca  possa  apparte- 
nere. Per  tal  rispetto  l'H.  nota  assai  ragionevolmente  come  un'allu- 
sione, che  si  trova  nella  commedia,  ai  briganti  delle  rive  della  Loira, 
vale  a  dire  ai  Bagaudi,  accordata  colla  dedica  che  1'  autore  fa  della 
sua  commedia  ad  un  Rutilio  da  lui  detto  venerando  e  vir  inlustris  (3) 
(il  quale  non  può  essere  altri  che  Rutilio  Namaziano)  ci  conduca  al- 
l'epoca dell'impero  di  Arcadio  ed  Onorio.  L'H.  anzi  crede  che  si 
possa  assegnare  alla  commedia  una  data  nei  venti  o  trenta  primi  anni 
del  quinto  secolo  (pp.  5  e  6). 

Dall'autore  passiamo  alla  commedia  stessa  e  vediamo  che  si  debba 
dire  della  questione  che  abbiamo  posta,  se  cioè  il  Querolus  sia  stato 
destinato  al  teatro. 

«  Nos  hunc  fabellis  atque  mensis  librum  scripsimus  >>, 

dice  l'autore  nella  Dedica  (v.  17,  p.  i85),  e  perciò  ben  dice  l'H.  che  «  Le 
Querolus  est  ce  qu'on  appellerait  de  nos  jours  unecomédie  de  salon  », 
giacché  «  la  salle  à  manger  des  anciens  était  l'équivalent  de  nctre 
salon  »  (4).  Era  dunque  un  pubblico  assai  differente  dell'ordinario 
quello  a  cui  s'indirizzava  l'autore,  erano  gli  amici  di  casa  Rutilio  gli 
unici  spettatori,  e  quindi  al  gusto,  alla  coltura  del  padrone  di  casa 
e  de'  suoi  convitati  doveva  accordarsi  interamente  la  commedia.  In- 


(1)  Rheniìsches  Miiseum,  1872,  p.  474. 

(2)  Revue  Critiqiie,  p.  376,  nota  2. 

(3)  Dedica,  v.  18. 

(4)  Pag.  11,  testo  e  nota  2'. 


-  551  - 
gegnosamente  l'H.  nota  che  quest'origine   artificiale  si  riconosce   su- 
bito all'incoerenza    dei    dati  (p.  cit.),  essendoci  da   una    parte  un  in- 
trigo assai  bizzarro,  che  l'autore  deve  certamente  aver   tolto   da    un 
originale  greco,  come  colui 

«  Qui  Graecorum  disciplinas  ore  narrat  barbaro  »   (i), 

e  dall'altra  un  lungo  diverbio  filosofico  tra  il  Lare  domestico  e  Que- 
rolo,  cosa  questa  che  ci  spiega  perchè  l'autore  nella  dedica  a  Rutilio 
abbia  detto  : 

«  Sermone  ilio  philosophico  ex  tuo  materiam  sumpsimus  »   (2). 

Non  convengo  tuttavia  con  1'  H.  riguardo  al  giudizio  che  dà  del 
valore  della  commedia.  Certo  egli  non  giunge  all'  esagerazione  del 
Magnin,  a  dire  cioè  che  «  Cast  à  la  fois  une  comédie  de  caractère, 
de  moeurs  et  d'intrigue,  étincelante  d'esprit,  de  verve  et  de  poesie  »  (3); 
ma  sebbene  egli  vi  riconosca  non  pochi  difetti,  non  dubita  però  di 
asserire  che  il  poeta  anonimo  del  Qiieroliis  sostiene  la  vicinanza  di 
Plauto  «  sans  en  étre  trop  accablé  »,  aggiungendo  che  «  Piante  a  un 
genie  plus  puissant,  mais  notre  auteur  a  peut-étre  un  talent  plus 
égal  »  (p.  20).  Credo  pertanto  che  sarebbe  più  prudente  accostarsi 
all'opinione  di  Gaston  Paris  che  giudica  il  Qiierolus,  malgrado  l'in- 
trigo ben  concepito,  una  cosa  mediocre  (loc.  cit.). 

Veniamo  ora  alla  questione  mollo  seria  e  che  riguarda  la  natura 
del  testo.  L'H.  dedica  a  tale  questione  il  3°  capitolo  della  sua  In- 
troduzione prendendo  ad  esame  le  opinioni  diverse  dei  filologi  e  pro- 
ponendo una  nuova  soluzione  egli  stesso,  soluzione  che  in  massima 
sembrami  ragionevolissima.  Delle  tre  supposizioni  che  si  possono 
fare  intorno  alla  natura  del  testo,  se  cioè  originariamente  fosse  scritto 
in  versi,  o  in  prosa  o  parte  in  versi  e  parte  in  prosa,  egli  accoglie 
la  prima,  come  quella  che  è  resa  più  verosimile  dall'andamento  stesso 
della  prosa  in  cui  ci  è  pervenuta  la  commedia,  non  che  dalle  parole 
stesse  dell'autore  che  cosi  conchiude  il  prologo: 


(1)  Prologo,  V.  2,  p.  186. 

(2)  V.  12,  p.  184. 

(3)  Revue  des  Deux-mondes,  1835,  t.  Il,  p.  G73. 


—  oo2  — 

«  Prodire  autem  in  agendum  non  elodo  auderemus  cum  pede, 
Nisi  magnos  praeclarosque  hac  in  parie  sequeremur  duces  »   (i). 

Certo  sarebbe  una  vera  stravaganza  il  credere  che  con  l'espressione 
elodo  Clivi  pede  si  designasse  lo  scrivere  prosaico  ovvero  un  fluttuare 
tra  verso  e  prosa.  D'  altra  parte  quei  magoni  praeclarique  duces  che 
l'autore  dice  di  seguire  non  poterono  certo  scrivere  altrimenti  che  in 
versi,  non  essendo  in  uso  presso  l'antichità  classica  la  commedia  in 
prosa.  È  questa  un'  osservazione  che  mi  pare  debba  avere  un  Certo 
peso  nella  questione  e  che  dà  ragione  all'ipotesi  dell'H.,  sebbene  non 
mi  sembri  che  egli  ne  abbia  tenuto  conto. 

Stabilito  con  l'H.  che  il  Querolus  nella  sua  forma  primitiva  do- 
veva essere  versificato,  rimane  a  vedere  che  cosa  sia  quel  pes  clodus 
e  quante  specie  di  versi  si  possano  ravvisare  nel  testo.  Convengo  con 
l'H.  in  quanto  riferisce  il  pes  clodus  al  '{évoc,  óvictov,  considerandolo 
come  un  piede  Trepiooói;  o  Trópiaot;,  ma  non  mi  limiterei,  come  egli 
fa,  al  solo  févoc,  òmÀdaiov,  ma  comprenderei  del  pari  1' i^fiióXiov  ;  e 
quindi,  oltre  al  giambo  ed  al  trocheo,  accoglierei  anche  i  piedi  di  ge- 
nere peonico,  come  a  dire  il  eretico  ed  il  bacchio  che  hanno  tanta 
parte  nella  metrica  di  Plauto.  Così  la  parola  pes  indicherebbe  il  ge- 
nere  e  non  una  particolare  specie,  come  del  resto  ammette  evidente- 
mente r  H.  stesso,  dicendo  che  «  1'  oppose  de  pes  clodus  (iambe  ou 
trochèe)  est  tzoxic,  fipxioq  (dactyle,  anapeste,  spondée)  »  (p.  54,  n.  4).  E 
però  non  posso  assolutamente  indurmi  a  credere  che  nel  Chterolus  non 
ci  sieno  che  due  sorta  di  versi,  il  tetrametro  trocaico  catalettico  ed  il 
tetrametro  giambico  acataletto  in  un  numero  press'a  poco  uguale  (2). 
E  non  è  certo  una  ragione  sufficiente  per  provare  tale  asserto  il  dire 
che  la  pronunzia  dei  tempi  dell'autore  era  essenzialmente  mutata  da 
quella  dei  tempi  di  Plauto  e  di  Terenzio  e  quindi  era  imperiosa- 
mente richiesta  una  serie  ritmica  uniforme  (nel  nostro  caso,  di  mi- 
sure quadruple  a  6/8),  un  carattere  musicale  identico  da  un  capo  al- 
l'altro della  commedia.  Tanto  più  che  il  pubblico  non  era,  come 
ammette  Io  stesso  H.,  l'ordinario  pubblico  de'  teatri,  ma  «  un  public 


I 


(1)  Pag.  188. 

(2)  Pag,  51  —  Vedi  anche  la  nota  2  alla  stessa  pagina. 


-  553  — 
peu  nombreux,  forme  de  personnes    choisies   et    toutes   éminemment 
cidtivées,  très-capable  de  goùter    les  mérites  de  \a  fonne  »   (p.  ii),  e 
che  poteva  quindi  gustare  la  varietà  dei  metri  nel  Qiterolus  come  in 
qualunque  altro  genere  di  poetici  componimenti. 

Ad  ogni  modo,  posto  pure  che  il  pes  clodiis  si  riferisse  al  giambo  ed 
al  trocheo  soltanto,  e  che  perciò  l'autore  del  Qiierolus  si  accostasse 
piuttosto  a  Terenzio,  che  dà  pochissima  parte  ad  altri  piedi  (i),  per 
le  ragioni  dette  non  sembra  assai  verosimile  che  nel  Querolus  non 
si  desse  luogo  ad  altre  specie  di  metri  giambici  e  trocaici  che  quelli 
dall'H.  supposti. 

Perciò  dalle  premesse  fatte  dall'H.  e  poste  come  fondamento  della 
questione,  che  egli  tenta  di  risolvere,  dovrà  necessariamente  seguire 
un  metodo  poco  sicuro  nella  ricostituzione  del  testo  nella  sua  pri- 
mitiva forma  poetica.  Di  fatto  il  suo  testo  non  risultando  di  altri 
versi  che  di  que'  due,  che  ho  sopra  menzionato,  non  ci  può  guari 
soddisfare  per  le  notevoli  lacune  che  è  costretto  a  riconoscervi;  ed 
io  non  credo  verosimile  che  colui  che  volse  la  commedia  in  prosa 
sia  giunto  persino  al  punto  da  tralasciare  intere,  sebbene  brevi,  par- 
late. Ammettere  una  cosa  simile  s'intende  facilmente  quando  si  vuol 
far  servire  un  testo  ai  propri  preconcetti.  Diamo  qualche  esempio. 
All'atto  li,  scena  III,  pezzo  45,  parlano  il  Sicofanta  e  Mandroge- 
ronte.  Quegli  d'accordo  con  questo  per  ingannare  Querolo  lo  sup- 
plica di  rivelargli  l'avvenire  et  ea  tantum  modo  quae  sunt  bona  (v.  2). 
Mandrogeronte  esponendo  le  cose  a  capite  (v.  3)  gli  dice  che  egli  è  di 
nobile  schiatta,  che  ab  initio  era  un  uomo  nequam,  che  ora  è  mise- 
rabile, che  è  minacciato  da  pericoli  di  varia  specie,  e  finalmente  ci 
troviamo  a  questo  punto  : 

Mand.  Datum  tibi  est 
De  proprio  nihil  habere.  Sycof.  Intellego. 
Mand.  Sed  de  alieno  plurimum. 

(vv.  7,  8). 

A  queste  ultime  parole  viene  naturalissima  la  risposta  del  Sicofanta: 


(1)  ìiseWAndria  sono  bacchiaci  i  vv.  481-484  (ediz.  Flecreisen  e  637, 
638;  il  v.  625  è  dattilico,  e  626-634  eretici;  negli  Adelphi  sono  coriambici 
i  versi  612  e  613:  tutti  gli  altri  versi  sono  trocaici  0  giambici. 


—  554  — 

«  lam  istud  nobis  sufficit  >; 

•        .  (v.  9) 

ma  IH.,  il  quale  non  trovava  modo  di  fare  i  suoi  giambici  secondo 
il  suo  sistema,  ecco  come  ristabilisce  il  dialogo  : 

ìMand.  Datum  tibi  est 

8  De  proprio  nihil  habere.  Sycof.  Intellego. 

Mano.  Sed  de  alieno  plurimum. 

9  Stcof.  I  w  II  -  v,^  -  ^.  Mano.  -  .^  -  v.,-. 

Stcof.  I  lam  istud  nobis  sufficit. 

In  verità  non  credo  che  una  cosa  simile  si  possa  prendere  troppo  sul 
serio.  Altrove  (è  il  Lare  che  parla  a  Querolo)  così  il  testo  è  rista- 
bilito l'p.  204,  atto  I,  scena  II,  pezzo  8). 

«  Quanto  mallem,  labcretur  ut  sermo,  et  staret  fides  ! 

Tune  credis  absolutum,  Querole,  verbis  esse  te  ? 

Pejerat  [^     _  ^  _  ^  -  J  saepe  qui  lacet. 

Tantum  enim  tacere  verum  est,  quantum  et  falsum  dicere  », 

dove  non  si  sa  capire  come  ci  possa  stare  una  lacuna,  mentre  l'ul- 
timo verso  citato,  che  deve  spiegare  il  contenuto  del  precedente,  non 
ci  lascia  supporre  una  qualche  ommissione  in  quel  Peìerat  saepe  qui 
tacet,  espressione  proverbiale,  significativa  e  chiarissima  per  se  stessa. 
Di  questo  passo  potrei  moltiplicare  gli  esempi:  ma  bastino  i  due 
recati  per  dare  un'idea  del,  secondo  me,  erroneo  procedere  dell' H. 
Qui  per  altro  voglio  aggiungere  un'osservazione,  ed  è  che  non  sempre 
mi  pare  che,  anche  col  presupposto  dell'  H.,  vale  a  dire  che  non  si 
debbano  ammettere  più  di  due  specie  di  versi,  si  debbano  ritrovare 
parecchie  delle  non  poche  lacune  da  lui  ammesse,  e  che  quindi,  pure 
seguendo  il  prestabilito  concetto,  si  sarebbero  potute  ridurre  ad  un 
numero  minore.  Per  es.,  l' H.  avrebbe  potuto  ridurre  a  quattro  i 
versi  18-22  del  pezzo  7  della  scena  11  dell'atto  I  (pp.  199,  200),  che 
tali  sono  a  me  riusciti  coli' aggiungere  un  semplice  monosillabo  sic 
e  col  cangiare  postime  in  post,  aggiunta  e  cambiamento  che  egli  può 
concedere,  avendone  dato  non  pochi  esempi  nella  sua  edizione. 


{ 


i 


—  oco  — 
Ad  ogni  modo  resta  all'H.  un  merito  indiscutibile  e  grande,  quello 
cioè  di  aver  indicato  una  nuova  via  per  risolvere  l'ardua  questione  :  e 
quantunque  un  malaugurato  preconcetto  gli  abbia  impedito  di  giungere 
egli  stesso  ad  una  totale  soluzione,  è  certo  tuttavia  che  difiRcilmente 
potrebbe  altri  mettersi  alla  difficilissima  impresa  con  maggior  copia 
di  erudizione,  con  maggiore  conoscenza  della  lingua  e  della  metrica 
latina,  per  non  parlare  della  diligenza  usata  nel  riscontrare  le  va- 
rianti di  parecchi  manoscritti  e  nel  confrontare  egli  stesso  il  codice 
Parigino  che  sembra  essere  del  principio  del  secolo  XII.  Se  non  che 
pur  troppo  l'aver  relegalo  le  varianti  in  appendice  al  libro  (pp.  327- 
363),  anziché  al  piede  di  ciascuna  pagina  del  testo,  ne  rende  assai 
malagevole  l'uso,  obbligando  il  lettore  a  cercare  per  ogni  verso  le 
varianti  in  quattro  distinti  luoghi. 


Torino,  i"  febbraio  1882. 


Ettore  Stampini. 


Tre  letture  sul  grado  di  credibilità  della  Storia  di  Roma  nei  primi 
secoli  della  città  di  Luigi  Schiaparelli.  Torino,  E.  Loescher,  1881 
(Estratto  dal  voi.  XVI  degli  «  Atti  della  R.  Accademia  delle 
Scienze  di  Torino  >). 


Malgrado  le  diligenti  ricerche  sinora  fatte  da  strenuissimi  cultori 
delle  scienze  storiche,  archeologiche  e  linguistiche,  è  cosa  inconte- 
stabile, come  r  egregio  autore  osserva,  che  quel  rimoto  periodo  di 
storia  italica  indicato  nel  titolo  del  suo  lavoro  «  rimane  tuttora  in 
buona  parte  un  vero  problema  storico  ed  etnografico  in  molti  parti- 
colari »  (p.  2),  sì  che  può  lasciar  largo  campo  a  ricerche  ulteriori,  a 
studi  pazienti,  a  nuove  rivelazioni.  D'altra  parte,  allorquando  intorno 
ad  un'ardua  ed  intricata  questione,  come  è  quella  della  storia  dei 
primi  secoli  di  Roma,  si  sono  scritte  tante  cose  in  tempi  diversi 
e  con  opinioni  tanto  varie ,  è  sempre  assai  utile  che  taluno  si 
ponga  all'impresa  di  riassumere  brevemente  e  chiaramente  quanto  da 
altri   s'è   già   fatto,  affinchè  piili  distinto   e   spiccato  risulti    lo   stato 


—  ooC  — 
della  questione  e  si  possa  vie  meglio  misurare  il  campo    che  ancora 
si  deve  percorrere. 

Per  questo  secondo  rispetto  io  credo  sia  specialmente  degna  di 
considerazione  la  dissertazione  del  professore  Schiaparelli,  senza  per 
altro  negare  che  qualche  osservazione  nuova,  qualche  nuovo  punto  di 
veduta  non  s'abbia  a  trovare,  come  non  di  rado  ne'  suoi  eruditi  scritti. 
Una  succinta  analisi  della  dissertazione  proverà  il  nostro  asserto. 

Anzi  tutto  l'A.,  dopo  aver  notato  la  tendenza  di  molti  scrittori 
delle  diverse  contrade  d'Europa  ad  occuparsi  della  storia  primitiva  di 
Roma  con  diversi  risultamenti,  passa  ad  esaminare  i  caratteri  delle  due 
scuole  storiche  dei  tempi  moderni,  la  tradizionale  e  la  critica,  osser- 
vando che  «  se  i  partigiani  della  credibilità  assoluta  mostrano  talora 
grave  difetto  di  storico  acume,  non  è  men  vero  che  i  più  illustri  dei 
moderni  critici  della  storia  romana  eccedettero  bene  spesso  tanto 
nella  parte  negativa  quanto  nella  positiva  ;  sostituendo  talora  le  pro- 
prie congetture  e  l'interna  loro  convinzione  ai  monumenti  che  man- 
cano, e  interpretando  nello  interesse  ed  appoggio  del  proprio  si- 
stema quelli  che  ci  rimasero  »  (p,  3).  Da  queste  parole  si  può  facil- 
mente dedurre  il  sistema  che  tiene  l'A.  nella  sua  disamina,  sistema 
che  chiamerei  quasi  di  conciliazione,  per  cui,  senza  negare  una  certa 
importanza  alla  tradizione  nelle  sue  parti  meno  inverosimili  e  spe- 
cialmente in  ordine  alle  istituzioni,  si  accettano  le  più  ragionevoli 
conclusioni  che  si  sono  proposte  dalla  scuola  critica  coli' efficace 
aiuto  degli  studi  preistorici,  dell'antropologia,  della  linguistica,  della, 
epigrafia,  ecc.  È  una  prudente  riserva  che  vai  certo  meglio  delle  con- 
getture arrischiate  e  delle  teorie  chimeriche,  ma  che,  mi  pare,  viene 
talora  dall'egregio  A.  spinta  tropp'oltre  ai  giusti  limiti,  come  si  potrà 
rilevare  da  quel  poco  che  qui  si  dirà. 

Accennati  a  guisa  di  introduzione  e  dichiarati  i  due  fatti  più  emi- 
nenti della  politica  interna  dei  Romani,  cioè  lo  «  spirito  di  aggre- 
gazione degli  alleati  e  dei  vinti  nel  loro  consorzio  civile  e  politico  » 
e  lo  «  spirito  di  espansione  dei  proprii  cittadini  colle  colonie»  (p.  4), 
e  fatto  un  cenno  del  sentimento  religioso  che  dominava  in  Roma 
(p.  7-10),  viene  tosto  a  notare  la  scarsità  e  poca  antichità  dei  fonti 
della  primitiva  storia  romana,  e  per  dar  ragione  di  questi  fatti,  dà 
alcuni  brevi  cenni  sulla  introduzione  nella  penisola  italiana,  special- 
mente nel  Lazio,  delle  lettere  e  della  scrittura  alfabetica  (p.  11-16), 
conchiudendo  che  «  Rispetto  a  Roma  ed  al  La^io,  la  scrittura   alfa- 


—  557  — 
betica  era  certamente  nota  nel  principio  della  monarchia  »  p.  i5); 
ma  soggiungendo  tosto  «  che  l'uso  della  scrittura  doveva  essere  som- 
mamente raro,  secondo  la  esplicita  indicazione  di  Livio  <  tiinc  lit- 
terae  erant  parvae  et  ad  modum  rarae  »,  riferendosi  non  solo  al  pe- 
riodo della  monarchia,  ma  ancora  al  primo  secolo  della  repubblica, 
anzi  fino  alla  invasione  gallica  »  'p.  i(>),  della  quale  espone  accura- 
tamente le  conseguenze.  Quindi,  notata  la  poca  importanza  degli  au- 
tori etruschi,  greci  e  italioti  riguardo  a  quel  periodo  di  storia  ro- 
mana, mette  in  rilievo  la  mancanza  assoluta  di  storici  contemporanei 
nazionali  prima  del  sesto  secolo  di  Roma.  Così  termina  il  primo 
capitolo. 

Nel  secondo  capitolo  si  tratta  di  parecchi  monumenti  incisi  e  scritti 
anteriori  all'incendio  gallico,  come  il  trattato  coi  Latini  sotto  Servio; 
il  trattato  di  Roma  coi  Gabinii  ;  il  trattato  politico  e  commerciale 
«  conchiuso  dai  Romani  coi  Cartaginesi  nel  primo  anno  della  re- 
pubblica e  prima  della  invasione  etrusca  »;  il  trattato  imposto  da 
Porsena  ai  Romani;  i  patti  di  alleanza  coi  Latini  nell'anno  261  di 
Roma;  la  legge  Icilia  dell'anno  298;  la  lista  delle  ferie  latine;  il 
foedus  ardeatinum  dell'anno  3ii  ;  e  finalmente,  nono  documento,  la 
cora^^a  di  Lino  di  Volunnio  ;  monumenti  tutti  «  contemporanei  agli 
avvenimenti,  ai  quali  accennavano...  autentici  e  sfuggiti  alla  distru- 
zione gallica  »  (p.  27)  e  perciò  «  pervenuti  in  tutta  la  loro  autenti- 
cità ai  romani  annalisti,  anzi  agli  storici  del  secolo  di  Augusto  > 
(p.  24).  Né  si  dimenticano  i  monumenti  muti;  ma  l'A.  dà  loro  forse, 
come  ad  alcuno  dei  precedenti,  troppo  grande  importanza,  affer- 
mando senza  sufficienti  ragioni  che  <  concorrono...  a  scuotere  dalle 
fondamenta  il  sistema  della  incredibilità  assoluta  della  storia  dei  primi 
secoli  di  Roma  e  dei  primordii  della  medesima  »  [p.  28).  Tali  sono  le 
muraglie  di  Romolo  ;  il  carcere  Tulliano  e  Mamertino  ;  le  muraglie 
di  Servio;  la  cloaca  massima  ecc.  Ancora  io  non  posso  capire  come 
l'A.  si  limiti  solo  a  dare  importanza  minore  e  non  osi  risolutamente 
negare  un  vero  valore  storico  ad  una  serie  di  monumenti  della  vecchia 
Roma,  come  le  statue  degli  otto  re,  quella  di  Aito  Navio,  di  Ora:{io 
Coclite,  di  Clelia  ecc.,  oltre  ad  altri  monumenti  «  esistenti  ancora  sul 
fine  della  repubblica  e  ricordati  piia  volte  dagli  scrittori  »  [p.  29), 
come  la  casa  di  Romolo,  ed  il  suo  bastone  augurale  ;  //  fico  ruminale; 
gli  anelli  0  scudi  di  cui  uno  caduto  dal  cielo  ;  i  sandali  e  la  conoc- 
chia di  Tanaquilla  ecc.,  cose  tutte  che  uno  storico  non  può  prendere 


—  Ó5S  — 
sul  serio,  e  sono,  come  l'A.  stesso  inclina  a  credere,  da  considerarsi 
«  come  il  risultamento  di  leggende  posteriori  »   ai  fatti  cui  accenne- 
rebbero. 

Passa  quindi  1'  A.  a  parlare  degli  annali  massimi  o  dei  pontefici, 
che  chiama  di  poco  valore  in  ordine  ai  primi  secoli  della  città  (p.  32), 
dimostrando  che  quelli  del  periodo  anteriore  all'incendio  gallico  do- 
vettero essere  distrutti  per  quest'avvenimento,  ma  che,  d'altra  parte, 
sia  che  sfuggissero  alla  distruzione  dell'  incendio,  sia  che  venissero 
restaurati,  la  loro  importanza,  come  storico  documento,  era  assai 
poca,  perchè  «  dovettero  limitarsi  a  contenere  i  nomi  dei  consoli  e 
dei  principali  magistrati,  che  nel  principio  della  repubblica  erano  po- 
chissimi, colla  semplice  indicazione  dei  fenomeni  fisici,  che  essi  chia- 
mavano e  consideravano  come  miracoli,  di  cui  Livio  fa  menzione 
anche  nei  primi  cinque  libri,  e  di  qualche  straordinario  politico  o 
civile    avvenimento  »  (p.  35). 

Fa  pure  menzione  dei  commentarii  pontificum,  dei  libri  poutificuin, 
dei  libri  augurali,  ariispiciui  e  fulgurali,.àeì  libri  sibillini;  delle 
leges  regiae  ossia  del  ius  papirianum,  negando  a  ragione  «  che  an- 
teriore all'incendio  esistesse  una  collezione  di  leggi  scritte,  quale  esi- 
stette veramente  in  tempi  posteriori  »  col  titolo  menzionato  (p.  Sg), 
e  sostenendo  giustamente  che  «  La  prima  collezione  di  leggi  scritte  a 
Roma  fu  senza  dubbio  quella  delle  dodici  tavole  »  (p.  40).  Parimente 
menziona  i  commentarii  dei  re  e  dei  magistrati  ;  le  tavole  censorie, 
i  libri  di  lino  ;  i  fasti  consolari  e  calendari  urbani  e  rustici  ;  le  me- 
morie e  cronache  pubbliche  e  private;  gli  elogi  funebri,  immagini, 
titoli  e  nenie  ;  le  tavole  delle  leggi  ;  gli  atti  del  Senato  e  del  Popolo  ; 
le  tavole  di  bronzo;  le  iscrizioni  ed  i  canti  popolari  nazionali. 

Cosi ,  dopo  aver  fatto  tale  rassegna  da  me  qui  molto  sommaria- 
mente indicata,  1'  A.  domanda  :  <  Con  tanta  copia  di  storici  monu- 
menti come  mai  puossi  da  un  lato  accusare  di  assoluta  incredibilità 
la  storia  dei  primi  tre  o  quattro  secoli  della  città  di  Roma,  e  ne  potè 
dall'altro  venir  fuora  una  narrazione  di  quel  periodo  così  piena  di 
contraddizioni,  di  assurdità  e  d'incertezza  rispetto  ai  fatti,  mentre 
riuscì  così  fondata,  ragionevole  ed  istruttiva  in  ordine  alle  istitu- 
zioni ?  »  (p.  56).  —  Il  capitolo  III  è  appunto  destinato  «  a  distrug- 
gere questa  evidente  contraddizione  con  progressive  osservazioni  di 
fatto  e  col  ragionamento  ad  un  tempo  »  (id.). 

A  tale  scopo,  accennate  le  cause  dell'incertezza  della  storia  romana 


—  559  — 
nei  primi  secoli  della  città  rispetto  agli  avvenimenti,  passa  ad  esa- 
minare la  massima  di  Newton  e  di  Volney  relativamente  alla  durata 
della  tradizione  orale  in  un  popolo,  presso  cui  non  sia  in  vigore 
l'uso  della  scrittura;  ma  la  crede  <>  applicabile  per  Roma,  in  ordine 
ai  fatti  anteriori  alla  fondazione  della  città  con  piccola  riserva,  ma 
non  ugualmente  rispetto  agli  avvenimenti  posteriori  >  (p.  Sg).  Ad 
ogni  modo  però  «  Non  havvi...  alcun  dubbio  che  la  storia  tradizionale 
di  Roma  fu  spesso  sistematicamente  alterata  e  falsificata  dallo  spirito 
di  vanità  e  d'orgoglio  municipale  più  ancora  che  nazionale  dei  Ro- 
mani »  (p.  60),  dall'  esagerato  patriottismo,  dal  sentimento  religioso 
popolare,  dall'interesse  del  Senato,  ecc.  Pisone  Frugi,  Dionisio,  Po- 
libio, Livio  stesso.  Cicerone  mostrano  bene  spesso  pochissima  fede 
quanto  ai  primitivi  fatti  a  quelle  tradizionali  narrazioni;  d'altra 
parte,  né  da  questi  né  da  altri  presso  i  Romani,  o  annalisti,  o  sto- 
rici, o  antiquarii,  fu  istituito  un  lavoro  critico  su  quel  primo  pe- 
riodo della  storia  romana,  per  parecchie  ragioni  ;  tra  cui  gli  ostacoli 
gravissimi  che  un  somigliante  lavoro  presentava  per  le  enormi  e  ra- 
dicali mutazioni  verificatesi  in  Roma  in  quattro  o  cinque  secoli,  ri- 
spetto a  lingua,  religione,  costumi,  commercio  e  istituzioni.  Oltre  a 
ciò  gli  «  annalisti  romani  del  VI  e  VII  secolo  furono  quasi  tutti  uo- 
mini politici,  che  di  quel  lavoro  critico  non  avevano  né  voglia,  né  tempo, 
né  attitudine  »  (p.  68),  per  non  dire  «  che  opponevasi  indirettamente 
alle  conclusioni  negative,  le  quali  da  un  serio  lavoro  critico  su  quel 
primitivo  periodo  della  storia  romana  sarebbero  derivate,  il  senti- 
mento religioso  e  nazionale  del  popolo  »  (p.  71).  Quindi  sembra  al- 
l'A.  «  di  potere  con  tutta  sicurezza  conchiudere,  che  la  storia  di  Roma 
fino  alla  ricostruzione  della  città  per  Io  spazio  di  364  anni,  quale  noi 
troviamo  negli  antichi  scrittori,  rispetto  ai  fatti,  è  piena  d'incertezza 
ne'  generali,  di  contraddizione  e  di  favole  in  molti  particolari,  a  cui 
neppure   gli    antichi    scrittori    prestavano    molta  fede  »   (p.  cit.). 

Ma  quanto  alle  istituzioni  l' A.  non  crede  ugualmente  giusta  né 
applicabile  una  tale  conclusione  ;  giacché,  considerati  parecchi  fatti 
di  diverso  genere  ed  irrefutabili,  si  vede  che  il  caratare  della  pri- 
mitiva storia  di  Roma  rispetto  alle  istituzioni  contiene  «  tutti  gli 
elementi  di  quella  certezza  morale  e  relativa,  di  cui  anche  la  critica 
più  esigente  si  contenta  e  debbe  contentarsi  nella  storia  antica,  nella 
quale  la  certezza  assoluta,  specialmente  nei  particolari,  è  più  desi- 
derabile che  possibile,  tranne  rarissime  eccezioni  »    (pp.  73,  74). 


—  oGO  — 
Da  questo  rapido  cenno  può  ognuno  farsi  un'idea  dell'  importanza 
che  ha  questa  nuova  pubblicazione  dello  Schiaparelli,  specialmente 
per  noi  Italiani  che  difettiamo,  rispetto  a  tali  studi,  di  pubblica- 
zioni che  riassumano  quanto  sparsamente  si  è  fatto  e  detto  dagli  uo- 
mini più  competenti.  E  sebbene  relativamente  ai  fatti  dei  due  primi 
secoli  della  storia  romana,  talora  l' A.  mi  sembri  troppo  conser- 
vatore e  troppo  perplesso  nell' accettare  parecchie  conclusioni  della 
scuola  critica  che  non  mi  sembrano  affatto  destituite  di  fondamento, 
certo  è  che  la  sua  Memoria  riuscirà  di  non  poca  utilità  agli  studiosi 
dell'antica  storia  di  Roma  non  solo,  ma  pur  anche  a  coloro  che 
amano  conoscere  il  movimento  degli  studi  storici  in  generale  e  de- 
siderano non  ignorare,  come  molti  pur  troppo  fanno,  gli  ultimi  ri- 
sultati delle  indagini  odierne. 


Torino,   io  febbraio,  1S82. 


Ettore  Stampini. 


Roma  nella  memoria   e   nelle   immagina^jioni  del  Medio  Evo  di  Ar- 
turo Graf.  —   Volume    I,  Torino,  Loescher,  1882. 


Uno  de'  sentimenti  più  spiccati  che  si  manifestano  nella  letteratura 
romana,  sotto  qualunque  forma  la  si  riguardi,  è,  come  è  noto,  il 
sentimento  patrio.  L'  idea  di  Roma,  della  sua  gloria,  della  sua  po- 
tenza, della  sua  immobile  ed  eterna  grandezza  è  costantemente  fissa 
nella  mente  dei  romani  scrittori,  non  pur  ne'  tempi  più  splendidi 
dell'impero,  ma  anche  nella  sciagurata  età,  in  cui,  per  un  formidabile 
concorrere  di  dhuse  dissolventi,  minacciava  da  ogni  parte  rovina  l'im- 
menso colosso  innalzato  dalla  virtù,  dalla  costanza,  dal  senno,  dalla 
fortuna  della  stirpe  latina.  Roma  è  non  solo  paragone  di  ogni  gran- 
dezza, ma  si  può  dire  quasi  che  l'idea  di  essa  incombendo  sugli  spi- 
riti s' identifichi  con  quella  dell'  eternità  ;  tanto  che,  quando  il  poeta 
esaltandosi   nella   coscienza   della   propria   grandezza    intravvede  nel 


—  561  — 
buio  dell'  avvenire   una    gloria    imperitura,  si    augura    che  possano  i 
suoi  carmi  durare 

«  Dum  domus  Aeneae  Capitoli  immobile  saxum 
Accolet  imperiumque  pater  Romanus  habebit  ». 
(Vero.,  Aen.,  IX,  448,  449). 

Così  pure  Orazio,  inneggiando    alla    propria   grandezza,  al   monu- 
mento che  colla  sua  poesia  ha  innalzato 

«  aere  perennius 
Regalique  situ  pyramidum  altius  » 

[Od.,  Ili,  3o;   I,  2) 

esprime  questo  voto  : 

«  usque  ego  posterà 
Crescam  laude  recens,  dum  Capitolium 
Scandet  cum  tacita  virgine  pontifex  » 
(id.,  id.,  7-9). 

E  Rutilio  Namaziano,  per  tacere  di  Claudiano  i  cui  scritti  palesano 
uno  straordinario  entusiasmo  per  Roma,  anche  dinanzi  agli  orrori 
dell'  Italia  scorazzata  dai  barbari,  di  Roma  saccheggiata  e  rovinata  da 
Alarico,  non  può  credere  che  questa  possa  perire  e  le  innalza  nel 
principio  del  libro  I  del  poemetto  De  redini  suo  un  inno  stupendo, 
in   cui,  fra  le   altre  cose,  le  dice  in  tono  fatidico  : 

«  lUud  te  reparat,  quod  cetera  regna  resolvit: 
Ordo  renascendist,  crescere  posse  malis. 


e  Aeternum  tibi  Rhenus  aret,  tibi  Nilus  inundet  : 
Altricemque  suam  fertilis  orbis  alai. 

«  Fortunatus  agam  votoque  beatior  omni, 
Semper  digneris  si  meminisse  mei.  » 

(i  39-164,  ediz.  L.  Mueller). 

Né  sarebbe    senza    grande    interesse  uno  studio  in  cui  si  venissero 
Tiivista  di  filologia  ecc. ,  X.  '7 


—  562  — 
raccogliendo  diligentemente  tutti  quei  luoghi    degli  scrittori  romani, 
ne'  quali  più  si  manifesti  il  sentimento,  la  coscienza  di  Roma  e  della 
sua  grandezza,  sentimento  e  coscienza  che  perdura  e,  quasi   direi,  si 
accresce  anche  dopo  la  caduta  ignominiosa  dell'impero. 

Il  libro  del  prof.  Graf  è  lì  per  provare  la  verità  di  quanto  affer- 
miamo. Il  suo  libro  con  una  quantità  innumerevole  di  fatti  ci  di- 
mostra chiaramente  «  la  tendenza  degli  spiriti  nel  medio  evo  a  stringere 
intorno  a  Roma  l'errante  popolo  delle  favole,  a  raccorlo  sotto  la  sua 
alta  dominazione  morale  »  (p.  244);  le  svariatissime  leggende  da  lui 
esposte  «  affermano  la  virtù  attrattiva  di  quella  Roma  medesima, 
divenuta  centro  di  gravitazione  a  tutto  il  pensiero  dei  tempi  »  (id.). 

Non  bastano  poche  parole  per  tessere  di  questo  libro  un  elogio  a- 
deguato.  Basii  il  dire  che  è  una  pubblicazione  della  quale  il  nostro 
paese  deve  andare  orgoglioso  ;  che  non  saprei  quale  altro  libro,  nel 
suo  genere,  gli  si  possa  metter  di  sopra,  sia  per  '  molteplice  erudi- 
zione e  dottrina,  sia  per  acume  di  vedute  e  profondità  di  osserva- 
zioni, sia  per  una  esposizione  chiara,  linda,  senza  presunzione  e  senza 
fronzoli,  ma  cheti  alletta  e  ti  fa  talora  quasi  parer  romanzo  un  libro 
severamente  scientifico.  La  mente  del  Graf  domina  sull'immenso  ma- 
teriale da  lui  raccolto,  vi  domina  ordinandolo  acconciamente,  facendo 
vedere  i  nessi  tra  i  fatti,  traendone  le  leggi,  le  ragioni  intime  :  il  suo 
libro  è  un  vero  edifizio  dove  il  materiale  ha  già  avuto  quel  posto 
che  gli  spetta  e  adempie  gli  uffizi  che  gli  competono.  Enorme  è  la 
quantità  dei  libri  e  dei  manoscritti  letti  e  studiati  dal  Graf:  lo  atte- 
stano i  numerosissimi  estratti  da  lui  dati  di  opere  e  codici  in  varie 
lingue  che  egli  andò  a  cercare  nelle  principali  biblioteche  italiane  ed 
estere,  a  Firenze,  Roma,  Bologna,  Modena,  Milano,  Venezia,  Parma, 
Novara,  Torino;  Vienna,  Monaco,  Parigi,  Londra,  Oxford,  Berna. 
Cosi  che,  se  taluno  per  avventura  non  potrà  convenire  con  lui  nell'in- 
terpretazione di  qualche  leggenda,  nelTorigine  che  le  assegna,  nelle 
ipotesi  che  talora  è  costretto  a  sostituire  al  fatto  che  manca,  nessuno 
potrà  certamente  disconoscere  1'  importanza  della  sua  pubblicazione 
che  colloca  il  poeta  della  Medusa  fra  i  più  chiari  critici  ed  i  più 
eruditi  uomini  del  nostro  paese. 

Diamo  un  breve  riassunto  di  questo  insigne  lavoro,  avvertendo  però 
che  per  la  mole  straordinaria  dei  fatti  che  vi  sono  raccolti  ci  rie- 
scirà  appena  di  dare  una  pallidissima  idea  delle  cose  principali, 
tanta  è  la  moltitudine  dei  fatti  raccolti,  tante  le  osservazioni  acute  e 


-  563- 
profonde    colle    quali  l'autore  cerca    di    leggere   nell'immenso  libro 
delle  leggende. 

Il  volume  è»  diviso  in  ii  capitoli.  Nel  primo,  che  ha  per  titolo 
La  Gloria  e  il  Primato  di  Roma  (pp.  i-43),  l'A.  mostra  come  nel 
medio  evo  «  Principio  e  fonte  di  ogni  potestà,  Roma  è  il  simbolo 
della  universale  cittadinanza,  è  la  patria  comune  in  cui  tutti  si  rico- 
noscono »  (p.  2).  Esaminando  come  «  nel  medio  evo  si  ricordasse  la 
grandezza  di  Roma,  e  quali  sentimenti,  e  quali  atti  si  generassero 
dal  ricordo  »  (p.  4),  ci  fa  vedere  come  dai  titoli  che  le  si  davano, 
di  aurea,  di  mater  orbis,  di  mater  imperii,  di  domina  mundi  e  spe- 
cialmente di  caput  mundi,  si  possa  riconoscere  che  essa  era  la  più  no- 
bile, la  massima  fra  le  città  del  mondo.  Il  suo  primato  «  è  ricono- 
sciuto da  tutti,  Italiani  e  non  Italiani  »  (p.  9).  Anzi  il  concetto  che 
se  ne  ha  è  tale  «  che  in  Roma  s'immagina  quasi  tutta  raccolta  l'an- 
tichità »  (p.  II).  Ammirata  e  magnificata  da  tutti,  l'eterna  città  «  di- 
venta come  il  naturai  paragone  di  ogni  umana  grandezza  »  (p.  18), 
onde  le  città  andranno  a  gara  «  per  potersi  fregiare,  quasi  titolo 
singolare  di  nobiltà,  del  nome  di  Nova  Roma,  o  di  Roma  secunda  » 
(id.).  «  Città  e  popoli  si  studiano  di  tenersi  stretti  a  Roma  quanto 
più  possono  »  (p.  21);  popoli  diversissimi  per  lingua  e  per  costume 
tentano  di  far  risalire  a'  Troiani  le  loro  origini  per  dirsi  consan- 
guinei di  Roma  (p.  22)  :  anche  «  famiglie  patrizie,  e  persino  dina- 
stie »  cercano  «  in  qualche  romano  illustre  il  primo  loro  stipite  » 
(p.  29). 

Ma  accanto  a  questo  sentimento  di  ammirazione  un  altro  si  eleva 
ed  è  «quello  di  una  profonda  tristezza  e  di  un  vivo  rammarico  al  co- 
spetto della  formidabile  rovina  di  Roma  »  (p.  33).  Ecco  dunque  sor- 
gere «  tutto  un  mondo  di  colorite  finzioni  »  che  si  raggira  intorno 
alle  mura  di  Roma,  alle  sue  maggiori  vicende,  agli  uomini  «  che 
più  con  l'opre  ne  illustrarono  o  ne  offuscarono  il  nome  »  (p.  38).  Ma 
il  ricordo  della  passata  grandezza,  del  perduto  splendore  rende  più 
amara  negli  spiriti  la  coscienza  del  presente  miserabile  stato  dell'in- 
signe città;  quindi  «  le  voci  che  nella  età  di  mezzo  suonano  intorno 
a  Roma,  non  tutte  sono  di  ammirazione  e  di  lode  »   (p.   39). 

Il  secondo  capitolo  (pp.  44-77)  ha  per  argomento  Le  rovine  di 
Roma  e  i  «Mirabilia  » .  In  esso,  dopo  aver  parlato  delle  rovine  de'  mo- 
numenti, della  decadenza  morale  ed  economica,  della  scarsa  popola- 
zione, della    profonda  notte    d' ignoranza  che  pesava  su   Roma,  delle 


—  564  — 
«  grandi  aree  spopolate,  invase  da  tìna  selvaggia  vegetazione,  o  co- 
perte d'acque  stagnanti  »  (p.  48),  delle  mortifere  esalazioni  che  in- 
fettavano l'aria,  dei  terribili  contagi,  ma  soprattutto  della  quoti- 
diana opera  distruttrice  dei  grandi  e  superbi  monumenti,  a  cui  «  si 
aggiungono  le  devastazioni  subitanee  e  generali  »  fp.  5o),  ci  fa  co- 
noscere come  quegli  avanzi  qua  e  là  sparsi  commovessero  «  col  trista 
e  solenne  aspetto  gli  animi  dei  riguardanti  »  e  li  levassero  «  alla 
contemplazione  delle  glorie  passate  ^>  (p.  5i).  Ma  quelli  che  «  dove- 
vano di  certo  rimanere  più  profondamente  impressionati  alia  vista 
delle  rovine  che  non  gli  stessi  Romani  »  (p.  56),  erano  i  pellegrini, 
ai  quali  crede  l'A.  che  si  debbano  «  la  maggior  parte  delle  imma- 
ginazioni raccolte  nei  Mirabilia  e  nella  Graphia  ■»  (id.).  Dal  sec.  VII 
in  giù  si  facevano  sempre  più  numerosi  i  pellegrinaggi  a  Roma  : 
dalle  menti  dei  pellegrini  «  riscaldate  dal  sentimento  religioso  e  dalle 
peripezie  del  viaggio  »  dovevano  certo  nascere  molte  strane  imma- 
ginazioni, dalle  quali  «  dovettero  avere  origine,  almeno  in  parte,  i 
Mirabilia  »  (p.  58).  E  qui  l'A.  si  accinge  a  trattare  una  serie  dì 
questioni  intorno  ai  Mirabilia  ed  alla  Graphia,  e  le  tratta  da  par  suo 
con  profonda  dottrina,  prendendo  ad  esaminare  le  opinioni  di  mol- 
tissimi dotti.  Riguardo  ai  Mirabilia  poi  accenna  alle  diversità  più  o 
meno  rilevanti  che  ne  presenta  il  testo  negli  innumerevoli  mano- 
scritti ed  alle  variazioni  cui  esso  andò  soggetto  in  processo  di  tempa 
(p.  68  e  segg.);  quindi  passa  a  discorrere  della  Polistoria  di  Giovanni 
Cavallino  de' Cerroni  che  l'A.  crede  si  possa  considerare  «come  il 
primo  trattato  di  antichità  romane  che  siaci  rimasto  »   (p.  77). 

Argomento  del  capitolo  terzo  (pp.  78-108)  è  La  fonda^fione  dì 
Roma.  Fatto  un  cenno  di  parecchie  leggende  risalenti  all'antichità 
classica  e  degli  autori  che  ce  le  conservarono,  l'A.  nota  come  per 
l'intimo  legame  che  stringeva  nelle  menti  del  medio  evo  le  sorti  di 
Roma  con  quelle  del  cristianesimo,  «  ragion  voleva  che  la  leggenda 
si  prolungasse  innanzi  e  indietro,  nel  futuro  e  nel  passato,  sino  a 
quegli  estremi  termini  a  cui  la  storia  stessa,  cosi  com'era  figurata  e 
limitata  nel  dogma,  le  poteva  concedere  di  pervenire.  Per  una  parte 
dunque  la  leggenda  si  stende  sin  quasi  alla  catastrofe  del  gran  dramma 
dell'umanità,  il  Giudizio  Universale:  l'Anticristo  porrà  fine  al  sacro 
romano  impero.  Per  un'altra  essa  rimonta  indietro  sino  a  Noè  »  (p.  80). 
La  leggenda  di  Noè  primo  fondatore  si  trova  per  la  prima  volta  no- 
tata nella  Graphia  aiireae  urbis  Roiìiae  (p.  81)  :  ne  parlnno  molti  scrit- 


—  565  — 
tori  del  medio  evo,  sebbene  non  si  possa  dire  che  attingano  sempre 
alla  stessa  fonte  (pp.  82,  83).  Riportata  quindi  una  «  ingarbugliatis- 
sima  storia  di  Giovanni  d'Outremeuse  »  e  toccate  parecchie  altre  leg- 
gende, specialmente  una  rabbinica  assai  curiosa  (pp.  91,92),  passa 
alle  leggende  di  Romolo  e  Remo,  lasciando  a  parte  i  successori  di 
Enea  ;  alla  favola  della  lupa  nutrice  ;  alla  fondazione  di  Roma  per 
opera  dei  due  fratelli  ;  alla  morte  di  Renio  dopo  aver  fondato  Reims; 
alla  leggenda  orientale  riguardante  1'  «  espiazione  del  fratricidio  com- 
piuta da  Romolo  nelle  feste  Lemurie  »  (p.  106);  al  matrimonio  di 
Romolo,  altrimenti  detto  Armelo,  con  Bisanzia,  figlia  di  Bisas  re  di 
Bisanzio,  leggenda  parimente  orientale;  ai  sepolcri  di  Romolo  e 
Remo,  ecc. 

Assai  interessante  è  il  capitolo  quarto  (pp.  log-iSi)  riguardante  Le 
meraviglie   e   le   curiosità  di  Roma.  La  celebrità  delle    sue  rovine  è 

assai  grande  e  diffusa    nel    medio  evo.   «  Nei  Mirabilia alle  sette 

meraviglie  del  mondo,  fra  cui  è  il  Campidoglio,  fanno  degno  ri- 
scontro le  sette  meraviglie  di  Roma,  le  quali  sono  :  l'Acquedotto 
Claudio,  le  Terme  di  Diocleziano,  il  Foro  di  Nerva,  il  Palazzo  Mag- 
giore, il  Pantheon,  il  Colosseo,  la  Mole  Adriana  »  (pp.  112,  113).  11 
Palazzo  maggiore,  sotto  il  cui  nome  «  si  comprendevano,  pare,  tutte 
le  rovine  del  Palatino  »,  «  si  credeva  fosse  stato  sede  ordinaria  degli 
imperatori  e  della  suprema  potestà  del  mondo  »  (p.  cit.).  Celebrità 
ancor  maggiore  ebbe  il  Colosseo,  che  «  fu  nel  medio  evo,  com'è 
tuttora,  la  rovina  più  cospicua  della  città,  e  la  più  acconcia  a  inspi- 
rare un  alto  concetto  della  ricchezza  e  della  potenza  de'  suoi  co- 
struttori »  (pp.  I  i"^,  119).  Passando  poi  a  discorrere  del  colosso  di 
Nerone  (p.  120),  che  il  medioevo  sapeva  come  rappresentasse  il  Sole, 
l'A.  nota  che  per  «  una  certa  attrazione,  provocata,  se  non  altro,  dalla 
somiglianza  dei  nomi  »  (p.  122),  il  colosso  del  Sole  «  finisce  per  en- 
trare nel  Colosseo  che  gli  sta  dinanzi,  e  il  Colosseo  diventa  a  dirit- 
tura il  Tempio  del  Sole»(id.).  Notate  parecchie  altre  leggende  che  si 
riferiscono  al  Colosseo,  prende  a  parlare  del  Pantheon  (pp.  i3o-i32), 
della  cui  sontuosità  peraltro  non  si  narrano  nel  medio  evo  gran  me- 
raviglie ;  del  Mausoleo  di  Adriano  (pp.  i33,  i34);  del  Circo  Massimo 
(pp.  i35,  i36);  dei  palazzi  ricordali  nei  Mirabilia,  neWa  Graphia,  ecc. 
Viene  poscia  a  discorrere  delle  terme;  degli  acquedotti;  dei  ponti; 
dei  due  gruppi  colossali  di  Monte  Cavallo,  su  cui  racconta  una  strana 
favola    contenuta  nei  Mirabilia  (pp.   141,   142),  ecc.  Detto   della    Co- 


—  566  — 
lonna  Antonina  (p.  146),  riferisce  l'A.  alcune  stravagantissime  imma- 
ginazioni degli  Arabi  intorno  a  Roma  :  alle  quali  fan  degno  riscontro 
le  rabbiniche  con  cui  si  chiude  il  capitolo. 

Nel  quinto  (pp.  1 52-181)  si  parla  dei  tesori  di  Roma.  «  La  fama 
della  ricchezza  di  Roma  era  pari  alla  fama  della  sua  potenza  »  (p.  i52). 
Si  credeva  che  ne'  suoi  bei  tempi  dovesse  riboccare  di  tesori;  e  questa 
opinione  veniva  avvalorata  dalie  monete,  dai  vasi,  dalle  gemme  che 
si  ritrovavano  qua  e  là  per  l'Europa  e  che  risguardavano  la  romana 
opulenza  (p.  i55).  Era  perciò  naturale  che  si  credesse  del  pari  che 
sotto  le  sue  rovine  dovessero  essere  sepolti  grandi  tesori.  Di  qui  una 
serie  di  leggende  curiose  e  diverse,  parecchie  delle  quali  hanno  in 
comune  una  statua   «  che  copertamente  indica  il  tesoro  »   (p.   167). 

E  «  poiché  Roma  toccò  il  sommo  della  prosperità  e  della  gloria 
sotto  il  magnifico  reggimento  di  Augusto  così  per  quella  consuetu- 
dine propria  del  medio  evo  di  tutto  riferire  al  principe  quanto  v' è 
di  più  spiccato  nella  vita  di  un  popolo,  si  cominciò  a  considerare  il 
primo  imperatore  di  Roma  come  un  rappresentante,  anzi  come  un 
depositario  della  universale  ricchezza  romana  »  (pp.  171,  172).  Ed 
ecco  nascere  una  quantità  di  leggende  di  tesori  inestimabili  ammas- 
sati da  Ottaviano  e  che  «  giacciono  sepolti  entro  certe  cavità  della 
terra,  affidati  alla  custodia  di  spiriti  maligni,  o  di  singolari  ingegni, 
artifiziosamente  e  per  arte  magica  composti  »  (p.  173).  Non  è  quindi 
a  stupire  che  nelle  immaginazioni  medievali  a  poco  a  poco  il  libe- 
rale e  magnifico  Augusto,  come  dice  l'A.  (p.  180),  si  trasformi  in  un 
principe  cupido  e  avaro. 

La  potenza  di  Roma  è  argomento  del  capitolo  sesto  (pp.  182-229). 
«  Durante  lutto  il  medio  evo,  nei  tempi  più  sciagurati,  in  fondo  alla 
maggior  miseria,  Roma  serba  un'  aria  di  signoria  che  impone  ri- 
spetto »  (p.  182).  Tuttavia  «  quella  potenza,  che  non  ebbe  l'eguale 
nel  mondo,  appare  agli  spiriti  inesplicabile  e  miracolosa  »  (p.  i83). 
Ed  ecco  che  si  ricorre  alle  spiegazioni  soprannaturali  :  ed  ecco  sor- 
gere la  famosa  leggenda  della  Salratio  Romae.  della  quale  discorre 
diffusamente  l'A.  allontanandosi,  quanto  all'origine  di  essa,  dalle  opi- 
nioni del  Massmann,  del  Bock  e  del  Comparctti.  Egli  crede  questa 
leggenda  nata  in  Roma  nel  quarto  o  nel  quinto  secolo  (p.20i)daun 
complesso  di  cause  che  qui  sarebbe  troppo  lungo  riferire,  ma  che, 
a  parer  mio,  rendono  non  inverosimile  l'opinione  dell'A.,  cui  sembra 
dare  conferma  anche  la  narrazione  dell'Anonimo  Salernitano  (pp. 
20  5,  206), 


_  567  - 

Di  fronte  alla  Salvatio  ed  alle  leggende  molteplici  cui  diede  nasci- 
mento troviamo  «  alcune  leggende  di  carattere  al  tutto  opposto,  le 
quali  mostrano  Roma  esposta  a  pericoli,  o  vinta  da  nemici  di  cui 
la  storia  non  serba  ricordo  >■>  (p.  214).  Riguardano  tali  leggende  e 
Alessandro  Magno  e  Davide  e  i  Sicambri  e  i  re  della  Persia,  gli  Un- 
gheresi, i  Danesi,  Attila,  ecc.  È  da  dirsi  però  che  nella  credenza  del 
medio  evo  Roma  non  doveva  soltanto  agli  aiuti  sovrannaturali  del- 
l'arte magica  la  sua  grandezza  e  la  sua  signoria  ;  che  «  La  giustizia, 
il  senno  e  il  valore  dei  Romani  sono  ricordati  continuamente,  e  pro- 
posti come  nobile  esempio  da  imitare  »  (pp.  222,  223).  «  Il  senno  la- 
tino è  riconosciuto  e  ammirato  »   (p.  227). 

Gli  altri  cinque  capitoli  (pp.  230-402)  riguardano  gl'imperatori. 
Nel  settimo  si  discorre  della  Leggenda  degli  imperatori  in  generale  : 
Giulio  Cesare,  Ottaviano  Augusto  e  Nerette  sono  ciascuno  argomento 
di  un  capitolo;  di  Tiberio,  Vespasiaito ,  Tito  si  paria  nell'ultimo 
capitolo. 

L' A.  divide  in  due  classi  le  leggende  imperiali:  «  la  prima,  di 
quelle  che  si  appiccano  a  imperatori  reali,  la  seconda,  di  quelle  che 
creano  imperatori  immaginarii  »  (p.  238).  Di  questi  ultimi  si  tratta 
nello  stesso  capitolo  settimo  già  citato.  Non  solo  si  notano  trasposi- 
zioni d'ogni  maniera  nelle  liste  degl'imperatori  (pp.  238-244);  ma  tro- 
viamo in  libri  del  medio  evo  una  lunghissima  filza  di  imperatori 
fantastici  dei  quali  l'A.  dà  un  cenno. 

Venendo  a  Cesare  (cap.  Vili),  ci  dice  l'A.  che  «  è  generalmente 
considerato  nel  medio  evo  quale  primo  imperatore  »  (p.  248).  La  sua 
celebrità  è  maggiore  di  quella  di  Augusto  :  moltissimi  libri  del  medio 
evo  trattarono  delle  sue  imprese.  La  fantasia  lavora  intorno  al  suo 
nome,  alla  sua  nascita,  alle  sue  guerre;  s'inventano  nuove  guerre  da 
lui  combattute  ;  sono  celebrati  i  suoi  trionfi  :  gli  si  fanno  fondare 
molte  città,  ecc.  La  sua  morte  violenta  è  poi  il  fatto  che  sopra  tutti 
gli  altri  si  ricorda,  e  viene  narrata  e  spiegata  in  varii  modi.  Né  meno 
notevole  è  quanto  s'inventò  riguardo  al  suo  sepolcro,  creduto  anche 
da  taluno  opera  di  Virgilio.  Insomma  Cesare  «  è  agli  occhi  degli 
uomini  del  medio  evo  la  più  grande  e  nobile  personificazione  della 
potenza  >>  ;  e  la  sua  gloria  «  oscura  quella  di  Alessandro  Magno  » 
(p.  302). 

Il  capo  IX  è  consacrato  ad  Ottaviatto  Augusto.  La  sua  celebrità 
<  nasce  di  due  cagioni  principalmente  :  1'  avere    egli  levata  Roma  al 


-  568  - 
più  alto  grado  di  prosperità;  l'esser  nato  sotto  il  suo  reggimento  il 
Redentore  del  mondo  »  (p.  Sog).  Di  qui  la  leggenda  della  sua  visione 
e  della  origine  di  Ara  Caeli  (pp.  3o9-32i),  cui  se  ne  aggiungono  pa- 
recchie altre  riguardanti  ora  la  bellezza  dell'  imperatore,  ora  le  sue 
crudeltà  e  la  sua  lussuria,  ora  costruzioni  che  fece  di  templi  che  ro- 
vinano la  notte  del  nascimento  di  Cristo,  la  cui  venuta  è  annunziata 
da  molti  segni  e  vaiicinii  ;  ora  la  sua  morte  e  la  sua  sepoltura. 

Non  meno  celebre  è  nel  medio  evo  Nerone  (cap.  X),  ritenuto  dopo 
Giuda  «  l'uomo  più  empio  e  scelerato  che  sia  mai  vissuto  al  mondo  » 
(p.  332).  Di  lui  si  ricordano  inaudite  crudeltà  ed  infamie.  «  Quasi 
che  i  delitti  da  lui  veramente  commessi  non  fossero  abbastanza  nu- 
merosi, altri  gliene  sono  imputati  che  non  commise,  e  non  poteva 
commettere  »  (p.  334).  Di  lui  si  nota  il  lusso  stravagante  e  l'insensata 
prodigalità  ;  le  dissolutezze  e  le  lascivie,  al  che  si  lega  la  strana  leg- 
genda della  sua  gravidanza  (pp.  338-342)  e  dell'origine  del  Laterano  ; 
la  condanna  a  morte  di  san  Pietro  e  san  Paolo  ><  per  vendicare  l'a- 
mico suo  Simon  Mago  »  (p.  347),  del  quale  1' A.  discorre  alquanto; 
la  sua  morte  ignominiosa,  il  suo  sepolcro,  la  sua  futura  risurrezione 
precedendo  immediatamente  l'Anticristo;  i  monumenti  cui  è  legato 
il  suo  nome  ,  sebbene  viva  pure  nel  medio  evo  la  memoria  de'  suoi 
buoni  principii  sino  a  «  fare  di  lui  un  amico  di  Cristo  e  quasi  un 
credente  »  (p.  345). 

Molta  importanza  ha  il  capitolo  XI  ed  ultimo,  come  quello  che 
tratta  ampiamente,  con  ingegnose  osservazioni  e  verosimili  ipotesi 
basate  su  fatti  molteplici,  della  'Vendetta  di  Cristo  considerata  nella 
sua  forma  piena  e  finale,  vendetta  cui  nelle  immaginazioni  medievali 
sono  legati  i  nomi  di  Tiberio,  Vespasiano,  Tito,  da  cui  s'intitola  il 
capitolo,  lo  credo  che  questa  sia  la  parte  del  libro  del  Graf  ove 
meglio  si  può  scorgere  la  singolare  sua  attitudine  a  coordinare  fra 
loro  i  fatti  leggendarii,  a  scoprirne  i  punti  di  contatto  e  le  diver- 
genze ;  a  rintracciare  il  nucleo  primitivo  di  ogni  leggenda  e  quindi 
seguitare  le  molteplici  accessioni  onde  si  venne  ampliando  ;  a  notare 
gl'incontri  e  le  fusioni,  gli  scambii,  le  variazioni  avvenute  in  quel 
mondo  bizzarro  e  cotanto  interessante.  Di  fatto  la  leggenda  della 
Vendetta  di  Cristo  è  molto  complessa  e  risulta  di  diverse  parti  che 
vennero  aggregandosi  in  tempi  diversi,  lo  non  posso  qui  darne  nep- 
pure un'idea,  che  la  troppa  complessità  della  leggenda  richiederebbe 
anche   in  un  riassunto  uno  spazio  assai  grande.  Dirò    solo    che    l'A. 


—  569  — 
riconosce  in  quella  leggenda  cinque  gradi  ;  che  la  leggenda  di  Ti- 
berio, il  quale  prima  propone,  per  gli  onori  divini,  Cristo  al  senato 
e  poi  diventa  a  dirittura  suo  vendicatore,  si  fonde  con  quella  della 
Veronica,  ed,  insieme  con  questa,  finisce  per  fondersi  con  quella 
della  distruzione  di  Gerusalemme.  —  Al  capitolo  XI  sono  aggiunte 
tre  appendici  (pp.  403-460);  la  prima  contenente  importanti  indica- 
zioni sulle  versioni  e  redazioni  che  di  quella  leggenda  si  hanno  nelle 
varie  letterature  d'  Europa  ;  la  seconda  contenente  una  leggenda  di 
Pilato  in  vecchio  francese  (482  versi)  tratta  da  un  codice  della  Na- 
zionale di  Torino;  la  terza  contenente  in  1189  versi  un  racconto, 
anche  in  vecchio  francese ,  tratto  da  un  codice  della  medesima  bi- 
blioteca, della  vendetta  che  Vespasiano  fece  di  Cristo. 

Conchiudo  facendo  voti  che  il  chiaro  professore  possa  presto  pub- 
blicare il  secondo  volume.  Gliene  sapranno  grado  quanti  amano  una 
solida  e  larga  coltura,  non  che  quelli  che  desiderano  accrescere  le 
proprie  cognizioni  riguardo  ad  un  argomento  che  ha  tanti  punti  di 
contatto  cogli  studi  dell'antichità  classica. 


Torino,   1"  marzo,   1882. 

Ettore  Stampini. 


La  filosofia  morale  di  Aristotele.  Compendio  di  Francesco  Maria 
Zanotti  con  note  e  passi  scelti  òeìVEtica  Nicomachea  per  cura  di 
L.  Ferri  e  di  Fr.  Zambaldi  professori  nella  R.  Università  di  Roma. 
—  Ditta  G.  B.  Paravia,  Torino-Roma-Milano-Firenze,   1882. 


I  nuovi  Programmi  per  le  scuole  secondarie  (16  giugno,  1881),  nei 
quali  è  prescritto  che  l'insegnamento  della  Filosofia  morale  sia  impar- 
tito sui  libri  di  Aristotele  a  Nicomaco  avrebbero  dovuto  parere  assai 
meno  strani  di  quello  che  furono  comunemente  giudicati,  se  fossero 
stati  esaminati  più  tranquillamente  e  spassionatamente,  senza    quella 


—  570  — 
profonda  preoccupazione,  che  valse  a  fuorviare  la  mente  di  alcuni, 
che  cioè  con  essi  s'accampava  la  pretesa  che  i  dottori  in  filosofìa 
avessero  conservato  e  coltivato  quella  notizia  di  greco,  che  d'altra 
parte,  a  vero  dire,  avevano  potuto  e  molti  anche  dovuto  apprendere 
nel  corso  dei  loro  studi  universitari.  Non  fu  la  prima  l'Italia  ad  in- 
trodurre nelle  scuole  quest'opera  aristotelica,  sulla  quale  omai  passa- 
rono ben  ventidue  secoli  senza  che  ne  deformassero  le  molte  bellezze  ; 
ma  essa  era  già  in  parte  stala  prevenuta  dalla  Repubblica  Francese, 
che  appunto,  due  anni  or  sono,  volle  che  nelle  classi  di  filosofìa  si 
facesse  la  lettura  di  alcuno  tra  i  libri  della  medesima  (Cf.  Revue 
Critique  dliistoire  et  de  littérature,  1881,  p.  82,  art.  161).  Una  inva- 
sione delle  più  strane  e  disparate  dottrine  era  incominciata  e  si  stava 
compiendo  nelle  nostre  classi  liceali  ;  con  Aristotele  tutto  scompare, 
e  mentre  dall'un  lato  i  nostri  giovani  sono  invitati  a  meditare  sopra 
uno  de'  più  pregevoli  scritti  del  più  grande  pensatore  che  sia  mai 
sorto  tra  gli  uomini,  dall'altro  si  presenta  loro  una  dottrina,  che 
certo  non  è.  senza  imperfezioni,  ma  che  pur  non  dà  luogo  a  quei 
molti  inconvenienti  che  si  lamentavano  in  altre.  Né  devesi  badare 
più  che  tanto  alla  difficoltà  opposta,  che  i  dottori  di  filosofìa  non 
debbono  dar  prova  di  saper  interpretare  il  greco  difficilissimo  dì  Ari- 
stotele ;  innanzi  tutto  quel  non  debbono  vorrebbe  essere,  come  ognun 
vede,  un  po'  meglio  determinato;  quel  difficilissimo  poi  non  è  altro 
che  una  esagerazione.  Cito  a  sostegno  delle  mie  parole  quelle  di 
F.  Figliucci  (1)  :  «  Sono  ancora  le  scienze  morali  più  agevoli  che 
le  speculative,  perchè  con  più  facilità  le  ha  trattate  il  filosofo  (Ari- 
stotile) e  con  termini  più  usati  e  con  stile  piano  e  chiaro,  dove  negli 
altri  suoi  libri  è  stato  oscuro  e  breve,  ecc.  »  e  quelle  del  Ramsauer(2): 
«  ...  quumque  intellexissem,  plerumque  ad  Nicomachea  legenda  ac- 
cedere qui  librorum  Aristotelicorum  paene  rudes  essent,  non  tan- 
tum, etc.  ». 

Appena  pubblicati  i  programmi,  si  procacciò  subito  da  uomini  vo- 
lonterosi di  venire  in  soccorso  degli  insegnanti   con   opportune  pub- 


(1)  Della  filosofia  inorale,  libri  dieci  sopra  i  dieci  libri  deW Etira  di 
AristotiU,  p.  4,  Venezia,   lr52. 

(2)  Aristoteus,  Etìlica  Nicomachea.,  edidit  et  commentario    continuo 
instruxit  G.  Ramsauer,  p.  V,  Lipsiae,  1878. 


-  571  - 
blicazioni  ;  l'editore    Berardino  Ciao  di  Napoli    fece  stampare    dalla 
tipografia  Festa  un  libro  che  portava  sulla  copertina  il  seguente  titolo: 

ARISTOTILE 


La    morale    a    Nicomaco. 

Versione    italiana    fatta  sull'edizione    del    Bekker 

per 

Francesco    Maria    Zanotti 

proposta  come  libro  di  testo  ne'  licei  d'Italia  col  regolamento  Baccelli 

del  Giugno  1881. 

Non  occorre  neppure  che  io  metta  qui  l' una  di  fronte  all'altra  le 
due  date,  della  morte  dello  Zanotti  e  della  nascita  del  Bekker,  per 
rendere  palese  la  sciocca  menzogna  ;  ma  soggiungerò  che  poi  vera- 
mente il  libro  non  contiene  altro  che  la  morale  dello  Zanotti  senza 
note  e  senza  grande  accuratezza  tipografica  ;  note  ed  accuratezza  ti- 
pografica che  non  mancano  nell'edizione  fattane  dal  Barbèra,  quan- 
tunque le  note  siano  una  ben  povera  cosa  (i).  Una  vera  tradu- 
zione àeW Etica  a  Nicomaco  fu  pubblicata  nel  passato  novembre  in 
Torino  dal  Paravia  (2);  non  voglio  negare  che  il  giovane  autore  della 
medesima  abbia  dato  una  cotal  prova  del  suo  ingegno,  della  sua  pe- 
rizia nella  lingua  greca  e,  aggiungerò  anche,  del  suo  singolare  ardi- 
mento coU'accingersi  a  tradurre  in  italiano  quest'opera  in  tale  spazio 
di  tempo  che  ad  altri  sarebbe  parso  troppo  breve  per  intenderne  a 
dovere  poche  pagine;  ma,  come  era  naturale,  furono  tante  le  cadute, 
che   ad   enumerarle    tutte    converrebbe    trascrivere  qui    buona    parte 


(1)  La  filos.  mor.  ecc.,  nuovamente  pubblicata    per    uso    delle   scuole 
per  cura  di  un  dottore  in  filosofia,  Firenze,   1881. 

(2)  Aristotile,  La  morale  a  Nicomaco,  traduzione   letterale  italiana 
fatta  sull'edizione  del  Bekker. 


del  volume  ;  taccio  de'  periodi  fieramente  distratti  fra  loro  e  ince- 
denti ciascuno  per  conto  proprio  (l'autore  del  sillogismo  ci  appare  in 
questa  traduzione  uno  sconclusionato  parolaio)  e  cito  solo  alcuno  dei 
gravi  errori  che  trovo  disseminati  qua  e  là,  aprendo  a  caso  il  volume. 
A  pag.  1 1  si  legge  questo  periodo  :  «  Più  finale  poi  diciamo  il  ri- 
cercabile per  sé,  del  ricercabile  per  altro,  e  il  non  mai  eleggibile  per 
altri  dei  fini  e  per  sé,  e  per  quello  eleggibili  e  semplicemente  fi- 
nale, il  fine  sempre  eleggibile  per  sé,  e  non  mai  per  altro  »;  mentre 
si  poteva  e  forse  si  doveva  rendere  italiane  le  parole  di  Aristotele 
{log-ja  3o}  nel  modo  seguente  :  «  Diciamo  poi  che  quel  bene,  che 
si  ricerca  per  sé,  è  più  perfetto  di  quello  che  si  ricerca  per  ca- 
gione d'altro  bene,  e  che  quel  bene,  il  quale  non  si  elegge  mai  per 
cagione  d'altro,  è  più  perfetto  de'  beni  che  si  eleggono  e  per  sé  e  per 
cagione  di  questo  ;  ed  è  poi  senza  dubbio  perfettissimo  tra  i  beni 
quello  che  sempre  si  elegge  per  sé  stesso  e  non  mai  per  cagion 
d'altro  ».  —  Nella  medesima  pagina  (1097  Z»  14):  «  ora  stabiliamo 
essere  bastante  a  se  stesso  ciò  che  da  sé  solo  preso  fa  [in  nota:  co- 
stituisce), la  vita  e  di  nulla  abbisogna  »;  mentre  si  poteva  e  forse  si 
doveva  dire  :  «  per  ora  teniamo  fermo  che  sufficiente  per  se  stesso  è 
ciò  che  anche  da  solo  fa  la  vita  desiderabile  e  di  niuna  cosa  biso- 
gnevole »;  a  pag.  29:  «  Ma  quello  prima  si  accordi  che,  ogni  di- 
scorso intorno  alle  cose  operabili,  in  genere,  e  non  con  esattezza, 
conviene  sia  fatto,  come  anche  riguardo  ai  principii  dicemmo,  che, 
secondo  la  materia  si  devono  esigere  i  ragionamenti  »;  mentre  pur  si 
poteva  e  forse  si  doveva  dire  {iio'ib  34):  «  Ma  questo  ci  sia  innanzi 
tutto  concesso,  che  ogni  ragionamento  intorno  alle  cose  agibili  debba 
procedere  a  un  digrosso  e  non  con  esattezza,  perchè,  secondo  quello 
che  s'è  detto  fin  da  principio  (i),  i  ragionamenti  si  debbono  esigere 
tali,  che  rispondano  alla  materia  ».  —  Quindi  io  conchiudo  che  se  si 


(1)  11  Kax'  àpxà;  è  reso  dal  traduttore  malaineute  per  secondo  i  prin- 
cipii \  bene  invece  il  Segni  per  sì  come  da  prima  fu  detto;  cioè  a 
p.  1094  6  13,  dove  si  legge  :  «  imperoccliè  l'esattezza  non  s'ha  da  cercare 
a  un  modo  in  tutti  i  ragionamenti,  ecc.  ».  Sembra  aver  fatto  intoppo 
al  traduttore  il  plur.  ópxóc,  e  non  doveva,  se  si  fosse  ricordato  del  Cur- 
tius [Gramm.  Gr.,  459,  B,  b]  o  meglio,  se  avesse  consultato  I'Eucren 
{Ueber  die  Sprachgehraxich  des  Arisioteles,  li,  p.  41,  Berlino,  1868), 
che  fa  un  utile  paragone  fra  Kax'  àpxa;  e  kot'  àpX'ìv  ed  èv  ùpxfl- 


—  573  — 
voleva  una  traduzione  letterale,  era    meglio   ripubblicare    quella    del 
Lambino,  e  che,  se  se  ne  voleva  un'altra  più  elegante,  era  meglio  ri- 
pubblicare quella  del  Segni,  oramai  fatta  rarissima. 

Sembra  che  gli  egregi  professori  Luigi  Ferri  e  Fr.  Zambaldi  abbiano 
degnamente  provveduto  ai  bisogni  delle  nostre  scuole  col  libro  che 
qui  si  annunzia,  curando  il  primo  un'edizione  con  note  del  Manuale 
dello  Zanotti ,  commentando  il  secondo  una  serie  di  capitoli,  rac- 
colti daìV  Etica  a  Nicomaco  dal  Ferri,  i  quali  contengono  la  parte 
capitale  della  dottrina  aristotelica. 

Dapprincipio  il  Ferri  riassume  la  vita  dello  Zanotti,  toccando  delle 
principali  sue  opere;  a  pag.  12  facendo  speciale  menzione  dell'aureo 
libretto  di  lui  intorno  alla  morale  de'  Peripatetici,  mostra  in  che  dif- 
ferisca la  dottrina  aristotelica  da  quella  dello  Zanotti,  il  quule  si  al- 
lontana dal  suo  maestro  specialmente  sopra  quattro  punii,  che  sono: 
1  Ma  legge  morale;  2"  il  piacere  e  la  sua  relazione  col  bene;  3Me  idee  e 
le  verità  ideali  ;  4"  la  vita  futura.  —  Per  dare  una  chiara  idea  del  libro 
e  del  modo  con  cui  venne  acconciamente  preparato  per  uso  delle 
scuole,  accennerò  qui  alle  note  più  importanti  che  corredano  la  prima 
parte.  —  A  p.  24  si  tratteggia  a  grandi  linee  la  vita  di  Aristotele  e  si 
tocca  brevemente  delle  opere  di  lui  ;  a  pag.  39  si  fa  particolare  men- 
zione de'  suoi  scritti  etici,  indicandone  il  diverso  scopo.  (Qui  avrei 
aggiunto,  a  far  cessare  la  meraviglia  degli  scolari  e  forse  anche  quella 
di  qualche  insegnante,  il  perchè  1'  Etica  detta  grande  sia  poi  la  più 
piccola  di  tutte).  A  pag.  40  si  mostra  come  A.  per  determinare  il 
concetto  di  fine  ultimo  dell'uomo  o  sommo  bene  muova  dalla  divi- 
sione delle  specie  fondamentali  della  vita,  vegetativa,  sensitiva  e  ra- 
zionale, indicandone  le  funzioni;  a  pag.  41  {nota  2)  si  espone  da 
quale  ragionamento  sia  stato  condotto  A.  ad  immedesimare  il  sommo 
bene  colla  felicità  perfetta  o  beatitudine;  a  pag.  43  si  nota  l'oscilla- 
zione che  si  trova  nelT  Etica  di  A.  fra  l'elemento  sensibile  e  il  ra- 
zionale, oscillazione  che  creò  sempre  un  grande  impaccio  a'  suoi 
espositori  ;  dalla  nota  che  è  a  pag.  46  trascrivo  le  seguenti  parole, 
che  mi  paiono  molto  assennate:  «  Zanotti,  fedele  ad  Aristotele,  tratta 
le  due  parti  del  bene  sommo  da  lui  chiamato  felicità,  come  se  fos- 
sero due  concetti  di  ugual  valore,  come  se  si  potessero  sommare,  al 
pari  di  due  quantità  omogenee,  per  ottenere  il  perfetto  bene;  mentre 
il  bene  è  un  genere,  che  comprende  la  specie  del  piacere  (bene  sen- 
sibile) e  della    razionale    attività    pratica  (bene  morale)  ».  A  pag.  49 


—  574  - 
{nota  i]  ed  a  pag.  5o  {nota  i)  ed  a  pag.  5i  {ìioia  i)  si  fanno  utilis- 
simi paragoni  delle  dottrine  platoniche  colle  aristoteliche;  a  pag.  54 
si  citano,  dal  capo  Vili  del  lib.  I  deWEtica  a  N.,  alcune  importanti 
proposizioni  che  affermano  l'unione  della  felicità  colla  virti^i.  Il  libro, 
come  era  da  aspettarsi  dal  Ferri,  è  fatto  con  grandissima  diligenza 
ed  acutezza  ;  molte  notizie  storiche,  attinte  ad  ottime  fonti,  chiari- 
scono, quanto  ò  necessario,  le  dottrine  dei  filosofi  menzionate  dallo 
Zanotti  (i). 

Né  è  da  dire  che  sia  venuto  meno  all'ufficio  suo  il  prof.  Zambaldi, 
il  quale,  seguendo  di  preferenza  il  commento  di  C.  L.  Michelet  (2), 
ci  dà  con  piena  competenza  la  dichiarazione  delle  più  diffìcili  frasi 
aristoteliche.  Egli  fece  con  buon  criterio  una  scelta  dei  più  impor- 
tanti passi  ddVEtica  a  N.,  e  questi  poi  viene  corredando  di  oppor- 
tune note,  con  utili  confronti  di  luoghi  paralleli  e  citazioni  di  an- 
tichi commentatori;  se  non  che,  quei  luoghi  paralleli  e  queste  cita- 
zioni avrei  preferito  che  fossero  ridotte  in  un  italiano  semplice  e  fa- 
cile, che  alleviasse  la  fatica  dell'  insegnante  e  spianasse  la  strada  al 
buon  volere  de'  discenti  ;  nel  che  non  tenne  sempre  eguale  misura, 
perchè  mentre  ci  dà  la  versione  di  frasi  semplicissime,  ad  esempio,  di 
Tr\c,  avTr\c,  >^|uépa<;  (p.  257),  non  ci  dice  poi  nulla  di  altre  che  hanno 
maggior  difficoltà.  Leggendo  le  note  dello  Z.  mi  vennero  in  mente 
alcune  osservazioni  ;  in  esse,  come  si  vedrà,  non  si  vuole  già  cogliere 
in  fallo  il  chiaro  Ellenista,  ma  soltanto  fargli  qualche  proposta,  che 
a  me  non  parrebbe  senza  alcuna  utilità.  A  pag.  194,  data  la  in- 
terpretazione dello  Zeli  e  del  Gifanio,  potevasi  molto  utilmente  citare 
il  passo  della  Metafisica  (1,  i,  q'^ia  3o),  dove  sono  fra  loro  parago- 
nati gli  ópxiTéKToveq  ed  i  x^ipoTcxvai ,  col  relativo  commento  del 
Bonitz  ;  a  pag.  iq5  si  spiega  la  frase  cip' oi3v  coU'autorità  grandissima 
del  Mureto;  ma  il  fatto  che  A.  usa  talvolta  di  interrogare  in  luogo 
di  affermare  è  molto  meglio  dichiarato  dal  Bonitz  (Ind.  Ar.,  gob 
38):    «  ipsum  fipa  in  interrogationibus  simplicibus  non  raro  ita  usur- 


(1)  Del  Ferri  si  potrà  anche  molto  utilmente  consultare  lo  scritto  pub- 
blicato nella  Filosofia  delle  scuole  italiane  (anno  XIII,  voi.  25,  disp.  2') 
col  titolo:  «  Dottrina  aristotelica  del  Bene  e  sue  attinente  colla  ci- 
viltà Greca  e  Italiana  >i. 

(2)  Caroli  Ludovici  Michelet,  Cowm(?M<a>-ìa  in  Aristotelis  Ethicorum 
Nichomacheorum  libros  decem.,  Ed.  Il,  Berolini,  1848. 


—   O/O   — 

patur,  ut  interrogatio  vim  habeat  enunciati  modeste  vel  dubitanter 
affirmantis  »;  nella  medesima  pagina  per  far  meglio  intendere  il  va- 
lore di  TUTTUJ  irepiXaPeTv  potevasi  addurre  la  spiegazione  del  Trende- 
LENBURG  [Elementa  Log.  Arìst.,  -^as,.  5o,  Ed.  VI),  e  poi  paragonare 
tOttiu  irepiXaiuPàveiv,  òiopiZeiv,  Gempeìv  con  ùiroYpàqpeiv  (le  due  espres- 
sioni irovansi  accoppiate  nel  D^  ^»nn(3,  II,  i,4i3a  io:  tvjttuj  toùti^ 
GeujpeiaGuu  koX  ÙTT0YeTP<iqp9uJ  frepi  qpux>ì<;),  per  conchiudere  che  A.  alla 
trattazione  ampia  e  precisa  della  materia  talvolta  ne  contrappone  o 
premette  un'altra  così  in  di  grosso,  in  abbozzo  (ciò  che  egli  indica 
con  frasi  tolte  ad  imprestito  dallo  scultore,  p.  e.,  tùttuj  iiepiXaiLiPdveiv 
o  semplicemente  ùttotuttouv,  o  dal  pittore  ùnofpdqpeiv  oppure  àva^pd- 
qpeiv)  e  che  finalmente  tùttlu  XÉYeiv  viene  a  significare  un  ragiona- 
mento probabile  in  opposizione  ad  un  altro  certo  ed  esatto.,  come  nel- 
l'esempio :  Tiàc,  ò  irepl  tùjv  irpaKxiùv  Xóyo^  tuttuj  koì  oùk  àKpiPOLn;  òqpeiXei 
Xé^eaQai  [Eth.  a  Nic.,  I,  2,  1104^  i).  A  pag.  197  si  legge:  «  il  pre- 
dicato è  neutro  come  spesso  nelle  sentenze,  ecc.  »;  molto  meglio  il 
BoNiTZ  {Ind.  Ar.,  4.84  a  5o)  :  «  Apud  Aristotelem  perinde  atque  apud 
omnes  scriptores  Graecos  (Matthiae,  Gr.Gr.,  §  4?7)  adiectivum  prae- 
dicati  loco  positum   interdum  non    sequitur    genus    subiecti,  sed  sub- 

stantivi  instar  genere  neutro  ponitur Peculiaris  Aristoteli  videtur 

esse  negligentia  quaedam  et  inconcinnitas  in  coniungendo  genere 
neutro  cum  aliis  generibus  ».  —  A  pag.  198  è  bellissima  l'osserva- 
zione :  «  Dopo  la  vita  sensitiva  non  ricorda  qui,  come  fa  altrove  la 
vita  appetitiva,  1^  òpeKxiKn  luuri ,  forse  perchè  V  òpe£i<;,  in  quanto  è 
istintiva,  è  compresa  nell'  alaBriTiKri  ecc.  »,  ma  potevasi  dare  maggior 
fede  a  questo  breve  ragionamento  riferendo  dal  De  Anima  (II,  2, 
413^  20)  le  parole  seguenti:  «  perocché  ciascun  segmento  (degli  in- 
setti) ha  sensibilità  e  moto  locale,  e,  se  sensibilità,  anche  fantasia  ed 
appetito  (òpetic;);  perchè  dove  è  sensibilità,  ivi  è  anche  piacere  e  do- 
lore, e  dove  piacere  e  dolore,  necessariamente  anche  desiderio  ». 
Connettendo  in  tal  modo  le  facoltà  dell'anima,  non  è  meraviglia  che 
A.  talvolta  nella  enumerazione  delle  medesime  ne  ommetta  qualcuna, 
come  fece,  per  es.,  nel  De  Anima  (II,  2,  4i3b  12),  dove  erroneamente 
lo  Steinhart  a  Kivt'iaei  vorrebbe  far  seguire  òpéEei  (1). 


(1)  Quosta  osservazione  ci  aiuterà  a  sciogliere  un  piccolo  nodo  che  si 
incontra    nel    Convito    di   Dante.  Ivi  (Tratt.,  IV,  7;  pag.  431,  83,  ediz. 


—  576  — 

Come  già  dissi  più  innanzi,  a  me  sembra  molto  lodevole  la  scelta, 
che  il  Ferri  fece  dei  passi  commentati  dallo  Zambaldi  ;  citerò  il  ti- 
tolo di  quelli  che  sono  ricavati  dal  libro  I  : 

Gap.  I,  Diversità  dei  fini  e  dei  beni.  Fine  ultimo  e  bene  sommo. 
Ordine  delle  scienze  e  delle  arti  conforme  a  quello  dei  fini  e  dei 
beni. 

Gap.  VII.  11  fine  ultimo  e  la  felicità. 

Gap.  X.  Elementi  costitutivi  della  vita  felice:  virtù,  piacere,  beni 
esterni  e  di  fortuna. 

Ma  a  questo  punto  non  avrei  tralasciato  quel  tratto  del  cap.  XIII 
(ii02a  27  —  noia  io)  in  cui  si  ricerca  la  natura  delle  due  parti 
dell'anima,  perchè  «  secondo  la  differenza,  dice  A.,  di  queste  due 
parti  si  dividono  pure  le  virtù,  e  così  diciamo  che  alcune  di  esse 
sono  intellettive,  e  alcune  sono  dette  morali:  la  sapienza,  l'intelli- 
genza e  la  sagacità  sono  virtù  intellettive  ;  la  liberalità  e  la  tempe- 
ranza sono  morali  » . 

Torino,    18  maggio  1882. 

G.  B.  Barco. 


Giuliani)  leggiamo  :  «  Siccome  dice  Aristotile,  nel  secondo  delV Anima, 
vivere  è  l'essere  dalli  viventi  ;  e  perciocché  vivere  è  per  molti  modi  (sic- 
come nelle  piante  vegetare,  negli  animali  vegetare  e  sentire,  negli  uo- 
mini vegetare,  sentire  e  ragionare  ovvero  intendere],  e  le  cose,  ecc.  ». 
Gli  editori  milanesi,  seguendo  un  unico  codice,  a  seyìtire  aggiungono 
muovere.  Contro  tal  lezione  non  solo  si  può  citare  l'altro  testo  di  Dante 
[Conv.,  III,  2)  :  Aristotele  «  dice  che  l'Anima  principalmente  ha  tre  po- 
tenze, cioè  vivere,  sentire  e  ragionare',  e  dice  anche  muovere  \  ma 
questa  si  può  col  sentire  fare  una,  ecc.  »,  dove  quell'anche  rischiara 
subito  ogni  cosa;  ma  potevasi  far  meglio,  recando  innanzi  queste  bel- 
lissime parole  del  filosofo  di  Dante  [De  A«.,  Il,  2,  AVÒh  I):  «  Pertanto 
la  vita  è  negli  esseri  viventi  mediante  questo  principio  (vegetativo),  e 
Vanimale  poi  è  essenzialmente  costituito  tale  per  via  della  sensibilità; 
ed  invero,  noi  diciamo  animali  e  non  soltanto  esseri  viventi  anche 
quelli  che  non  si  muovono  e  non  mutano  posizione,  ma  che  sono  dotati 
della  sensibilità  ». 


Pietro  Ussello,  gerente  responsabile. 


PA 

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istruzione  classica 


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