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RIVISTA
^'1
DI FILOLOGIA
D' ISTRUZIONE/ CLASSICA
'DI'KETTO'KI
DOMENICO COMPARETTI - GIUSEPPE MÌJLLER
GIOVANNI FLECHIA
j^isrisro DEOIDVLO
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TORINO
ERMANNO LOESCHER
1882
Roma e Firenze presso la stessa Casa.
Torino — V. Bona, Tip. di S. M. e RR. Principi
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INDICE GENERALE
DELLE MATERIE CONTENUTE NEL VOLUME X
Glottologia.
Ascoli Graziadio Isaia, Lettere glottologiche (Lettera primajj^a^. i
Canello a. Ugo, Della posizione debole nel latino . » 535
D'Ovidio Francesco, D'un recente libro di Delbriick e della
traduzione italiana del Merlo e di due nuove disserta-
zioni del Whitney » 3 14
Garlanda Federico, Della lunghezza di posizione nel latino,
nel greco e nel sanscrito » 430
Archeologia.
D'Ovidio Francesco, D'una iscrizione latina antichissima » ii3
Ferrerò Ermanno, Di una testa marmorea di fanciullo auriga
— Di una antica base marmorea con rappresentanze del
Nilo — Di un antico musaico a colori rappresentante le
quattro fazioni del circo, per Ersilia Caetani Lovatblli » 208
— IV —
MuLLER Giuseppe , On two inscriptions from Olympia by D.
CoMPARETTi ......... pag. 543
Oliva Gaetano, Iscrizioni greche di Olimpia e di Ithaka.
Memoria di Domenico Comparetti . ...» 92
Teza Emilio, Di una iscrizione etrusca trovata in Magliano » 53o
Filologia greca.
Arrò Alessandro, La Pitica X di Pindaro. Saggio di G. Frac-
CAROLI ........... 371
Barco G. B., La filosofia morale di Aristotele. Compendio
di Francesco Maria Zanotti con note e passi scelti dal-
l' Etica Nicomachea per cura di L. Ferri e di Fr. Zam-
BALDI > 56g
Cipolla Francesco, Lo Stato degli Ateniesi, studio e versione
di Giacomo De Franceschi 182
— Le Nuvole di Aristofane, tradotte in versi italiani da Au-
gusto Franchetti , con introduzione e note di Domenico
Comparetti .......... 537
Jeep Ludovicus, Quaestiones criticae 377
Morosi Giuseppe, Se i Greci odierni sieno schietta discendenza
degli antichi (a proposito d'una recente pubblicazione) » 417
MiJLLER Giuseppe , Osservazioni sulla traduzione delle Nuvole
di Aristofane, di A. Franchetti » 540
— Zakonische Grammatik von Dr. Michael Deffner . » 375
Oddenino Michele, Le Nubi ossia Aristofane e Socrate . » 4G5
Oliva Gaetano, Le parole greche usate in italiano, memoria
del prof. Francesco Zambaldi . . . . . » 198
Ramorino Felici;, Platonis opera quae feruntur omnia. — Ad
codices denuo collatos edidit M. Schanz ...» 99
Setti Giovanni, Della fama di Aristofane presso gli antichi -> i32
Teza Emilio, 'ATAGArrEAGI > 4o5
— V —
Vitelli Girolamo, Studi di filologia greca pubblicati da E.
PiccoLOMiNi pag. 366
— Ad Euripidis Herc, 190 » 408
Filologia latiua.
Cortese Giacomo, Congetture Catoniane .... » 443
— M. PoRcii Catonis, De agri cultura liber — M. Terenti
Varronis, Rerum rusticarum libri tres, ex recensione Hen-
Rici Keilii » 544
Ferrerò Ermanno, Victoris episcopi Vitensis historia persecu-
tionis Africanae provinciae recensuit Michael Petschenig » 212
— Institutes de Gaius, par Ernest Dubois . . . » 2i3
Fumagalli Carlo, Alcune osservazioni sul nuovo Vocabolario
della lingua classica latina compilato per uso delle scuole
dal prof. G. Rigutini ... . . . . » 104
Pasdera Arturo, Commento metrico a XIX Odi di Orazio
Fiacco pel Dott. Ettore Stampini . . . . » 187
— Le odi barbare di G. Carducci e la metrica latina , studio
comparativo del Dott. Ettore Stampini . . . » igi
Ramorino Felice, Principii della stilistica latina, per Antonio
Cima ........... 206
Sabbadini Remigio, Historische Syntax der lateinischen Sprache
von F. A. Draeger » 199
Stampini Ettore, Virgilio, La Georgica, versione di Angelo
Lo Jacono ... ....... 453
— Le Querolus, comédie latine anonyme. Texte en vers res-
titué d'après un principe nouveau et traduit pour la pre-
mière fois en francais , ecc. par L. Havet . . » 549
— Roma nella memoria e nelle immaginazioni del Medio Evo,
di Arturo Graf >^ 56o
— Tre letture sul grado di credibilità della Storia di Roma
nei primi secoli della città, di Luigi Schiaparelli . > 5 55
Tartara Alessandro, Dalla battaglia della Trebbia a quella
del Trasimeno (Questioni di storia romana) . . » 217
Istruzione classica.
Stampini Ettore, Proposte per un riordinamento della Fa-
coltà di lettere e filosofia nelle Università del Regno pag. 71
Necrologia.
Carlo Graux » 376
ELENCO
DEI COLLABORATORI DELLA RIVISTA
Arrò Alessandro, Dottore in lettere a Torino.
Ascoli Graziadio Isaia, Professore all'Accademia scientifica lette-
raria di Milano.
Barco Giovanni Battista, Professore nel R. Liceo Gioberti di To-
rino.
Canello G. Ugo, Professore nella R. Università di Padova.
Cipolla Francesco, Professore a Verona.
CoMPARETTi Domenico, Professore nel R. Istituto di Studi Superiori
in Firenze.
Cortese Giacomo, Dottore in lettere a Savona.
D'Ovidio Francesco, Professore nella R. Università di Napoli.
Ferrerò Ermanno, Professore nella R. Università di Torino.
Flechia Giovanni, Professore nella R. Università di Torino.
Fumagalli Carlo, Professore nel R. Liceo di Bergamo.
Garlanda Federico, Dottore in lettere a Torino.
Jeep Lodovico, Professore nel Ginnasio di Konigsberg.
Morosi Giuseppe, Professore nel R. Istituto di Studii superiori a Fi-
renze.
MiJLLER Giuseppe, Professore nella R. Università di Torino.
Oddenino Michele, Professore nel R, Ginnasio di Alcamo.
Oliva Gaetano, Professore nel R. Liceo di Firenze.
Pasdera Antonio, Professore a Froslone.
Ramorino Felice, Professore nella R. Università di Palermo.
Sabbadini Remigio, Professore nel R. Liceo di Ventimiglia.
Setti Giovanni, Professore nel R. Liceo d'Aquila.
Stampini Ettore, Docente libero nella R. Università di Torino.
Tartara Alessandro, Professore nel R. Ginnasio di Roma.
Teza Emilio, Professore nella R. Università di Pisa.
Vitelli Girolamo, Professore nel R. Istituto di Studii superiori a
Firenze.
LETTERE GLOTTOLOGICHE
G. /. oASCOLL
PRIMA LETTERA,
[Sommario: 1. Parole d'introduzione, che valgono insieme per questa
lettera e per le successive. — II. I motivi etnologici delle alte-
razioni del linguaggio. — III. Le combinazioni originali del tipo
TJA continuate per combinazioni greche del tipo Tejó reo. — IV. vìq
e oOt; ; e l'applicazione che i Greci hanno fatto di alcune lettere
fenicie.)
Milano, 21 aprile 1881.
1. — Vi restituisco, amico pregiatissimo, la parte ma-
noscritta del vostro lavoro, rinnovandovi le mie congratu-
lazioni più schiette e più vive. Voi andate veramente molto
più in là di quei confini, oltre i quali a me non è dato di
portare, non che un vero giudizio, né anche un esame ben
sicuro. Ma ho considerato ogni cosa con la migliore atten-
zione che io potessi ; e mi sono sempre meglio persuaso ,
che all'indagine vostra, per quanto ella si dilati e si divani,
non vengono mai meno e la bella sicurezza dei metodi e
la più larga intelligenza delle cose. Per quello che è dei
liivista di filologia ecc., X. 1
— 2 -
propri miei studi, vedo poi con intima compiacenza, come
abbia largamente fruttificato , per virtù vostra , quel poco
che ho io potuto darvi, o nella scuola, o nelle mie pagine
ahimè troppo disperse-, e più ne godo, quanto meno io spe-
rava che voi serbaste amore a cotestc discipline. Nulla
perciò mi -potrebbe riuscire più grato e dilettevole , che il
rispondere ai quesiti o seguir le esortazioni che mi avete
rivolto con tanto garbo e con un sentimento cosi affettuoso e
così lusinghiero. E spero che in qualche modo le forze mi vi
bastino-, ma certo non mi sarà dato di farlo, come pur vorrei,
nel termine che voi m'indicate. O tentando senz'altro la teoria,
o insistendo sopra singoli fatti, lo studio de' quali riconduce
inevitabilmente alle affermazioni di principio, voi in effetto mi
invitate a una discussione, che versi intorno a quanto hanno
di più dilicato gli studi ne' quali io mi muovo e la più re-
cente loro storia. L'assunto non mi par lieve per chi debba
pigliarlo, com'è il caso mio, in mezzo a infinite distrazioni-,
e non me lo agevola di certo , o anzi me lo aggrava , il
vostro legittimo desiderio che io segua l' ordine voluto dal
vostro studio principale o dalle varie appendici. S'aggiunge
il desiderio, più forse cortese che non legittimo, di V.,, e
di P..., che io abbia a scriver queste Letter'c in un modo
alquanto meno ostico dei soliti miei saggi, quasi si presu-
messe di parlare anche a chi non fa della glottologia V o-
bietto esclusivo o principale dei propri suoi studi.
Ma, insomma, io mi proverò, incominciando oggi stesso.
E se a voi pare intanto , che la mia obedienza mi possa
render lecita un'ammonizione d'ordine generale, io mi pe-
riterò tanto meno a farvela sentire, quanto più sono sicuro
che voi non mi dobbiate frantendere. V ha , dunque , un
vizio generale o come un peccato d'origine nel vostro libro,
e massime per quanto concerne le cose glottologiche; vizio
che di certo si risolve in un argomento di lode per voi, o
- 3 —
almeno di gratitudine per noi tutti, ma del quale pur gio-
verebbe, e per la sostanza e per l'effetto , che i vostri bei
volumi andassero esenti. Egli sta nella foga, con la quale
voi rivendicate o propugnate la parte che spetti alla scuola
italiana negli ultimi incrementi del sapere. Vedo bene, che,
per quanto è del mio proprio campicello, io vo doppia-
mente accagionato di questo impeto vostro che a me pare
soverchio -, poiché c'entrano insieme la vostra grande bene-
volenza per me e V incuria apparente con la quale io ho
assistito a discussioni od a negligenze parecchie. Ma non è
mai stata vera incuria. E stato un riserbo, che in certa
parte m'era imposto da altri obblighi miei, e per una molto
maggior parte m'era suggerito dalla sicura fiducia che non
sarebbero mancate , in favor mio , voci ben più autorevoli
ed efficaci che non la voce mia propria. Le citazioni che
mi sono permesso di apporre, qua e colà, a' vostri margini,
vi condurranno senz'altro a riconoscere, che se qualche in-
sistenza può ancora parer lecita circa il contingente che di
qua dall' Alpi s' è dato agli ultimi studi di codesta specie,
resta pur sempre che la rimunerazione c'è ormai venuta,
anche d'oltralpe, non già scarsa o stentata, ma anzi gene-
rosa, quando si guardi al complesso, e a volte anche ec-
cessiva. 11 pericolo d'essere ingiustamente rimeritati si fa
sempre minore in questo nostro mondo un po' troppo ca-
lunniato. Allargatasi via via la palestra degli studi , sì che
ormai non ha quasi alcun impedimento pur dai confini tra
nazione e nazione, né alcuna specie di giudici privilegiati ,
vi si rende, o impossibile o vana, ogni sentenza angusta od
astiosa. Così possiamo sempre starcene abbastanza tran-
quilli circa l'apprezzamento dell'opera nostra-, o possiamo
almeno aspettare, con animo rassegnato , che una qualche
occasione di nuove indagini, intrinsecamente profittevoli agli
studi, ci dia modo di parlare , con giusta misura , anche
- 4 -
intorno alla storia , più o meno minuta , della qualunque
parte che già abbiamo nello stesso campo sostenuta (i).
(i) Vi devo in ispecie pregare di non mandare alla stampa, senza
aver fatto precedere nuove e pacate diligenze, il resto dell'Appendice
in cui venite a parlare delle aspirate e delle serie palatine ecc., alle
quali serie vi prometto di ritornare nella prossima Lettera. Vi sa-
rebbe un po' d'ipocrisia, dalla mia parte, se assolutamente io mi op-
ponessi alla vostra affermazione che da codeste indagini della scuola
milanese ripela il suo principio una certa rinnovazione degli studi
fonistorici intorno alla parola indo-europea ; e vi concedo abbastanza
facilmente che paia strano il veder mandato il mio nome insieme
con altri, anziché solo, per alcune di codeste percezioni; né vi con-
dannerò, di sicuro, per il modo con cui giudicate di certe opposi-
zioni, le quali mi vedrete poi condannare anche più deliberatamente
che non faceste voi. Ma, pur concessovi tutto questo, qui più che mai
vi debbo porre in guardia contro il vostro zelo troppo ardente. Voi
tralasciate molte distinzioni : e malgrado lo schietto vostro amore per
la verità e la giustizia, venite a alcune sentenze, più o meno generali,
che feriscono a torto e gli stranieri e i nostrali. Se così il Dclbriick
[Einleitiinf; in das sprachstiidium, Sg, i36]. malgrado alcuni miei par-
ticolari schiarimenti {Si. crii., II, 25 sgg.), non ha fatto le parti L^iuste
per ciò che è delle serie palatine ecc., voi vedrete, a suo luogo,
quanto malagevole gli potesse tornare *il far diversamente. Per ciò
che è poi delle aspirate greco-italiche, anche il Fick (-loSS) si è espli-
citamente riferito alla mia ricostruzione; e se l'indicazione sua non
si ripete nell'ultima ristampa, ciò non deve punto attribuirsi a un'inten-
zione men che benevola. Il Pezzi, dal canto suo, avea già studiato questa
teoria nella sua Grammatica storico-comparativa della lingua latina,
e l'aveva molto accuratamente esposta e applicata, contrapponendola
alle teorie del Corssen con un coraggio che a quei tempi non era
punto comune. Posso anche soggiungere , senza commettere alcuna
indiscrezione, che a Napoli, nella scuoia di Kerbaker . quella teoria
fu suffragata, sin dalle prime, di un'esposizione così limpida, con-
vinta e calorosa , da mettere invidia nel suo autore. — Se i Saggi
indiani a voi piacciono tanto e forse troppo (e avete, nel tanto e nel
troppo, un buon compagno, il Picchia), non c'è stato nessuno, per
quanto io sappia, che ne contestasse il valore. E quanto alle mie
esercitazioni romanologiche, non potrete non convenire che i Flechia,
i Mussafia, gli Schuchardt. i Foerster, per non dire che di questi .
mi abbiano addirittura guastato con la loro bontà. Ai PVancesi bi-
sogna tener conto delle loro peculiari condizioni. Essi devono pri-
mamente pensare al proprio loro pubblico, ed è pressoché inevitabile
che assumano talvolta certe loro particolari intonazioni , quando in
Ancora permettete, in questa specie d' esordio , un' altra
osservazione, d'indole men generale, ma che pur tocca una
parte abbastanza considerevole dei ragionamenti ai quali
m'invitate, e anche si connette abbastanza strettamente con
Tammonizione che ho fatto precedere, perchè mi paia non
inopportuno di qui innestarla. Voi cioè , da buon meridio-
nale, sillogizzate con terribile abondanza contro quella pre-
tesa rinnovazione di principi che sarebbe « il decalogo dei
Neo-grammatici ». Le stritolate queste povere Tavole della
nuova fede; e fate di quei Leviti e dei Diaconi, e pur di
qualche più o meno inconsapevole Suddiacono cisalpino ,
uno scempio che ricorda i Vespri. Ora io vi dirò molto
candidamente , che V acume e la verità mi parvero bensì
brillare in quasi tutte quelle terribili pagine; ma che il
vostro discorso pur mi riconduceva di continuo alla sentenza
del Manzoni intorno agli effetti della Biblioteca Ambrosiana,
dei quali « sarebbe facile dimostrare in due frasi, al modo
« che si dimostra, che furono miracolosi, o che non furono
« niente ». Concedo, che agli allievi delle nostre scuole di
linguistica debba parer singolare , e pressoché incredibile ,
che certi accorgimenti o enunciati elementari, familiarissimi
a loro da così gran tempo, or si vogliano proclamare come
cose nuove, come canoni metodologici di cui nessuno , per
Taddietro, vedesse la grande e sicura portata. Ho stentato
ispecie si tratti di misurarsi con i Cisalpini. Sono, del rimanente,
cose poco men che impercettibili. — Più ragione potreste avere per
ciò che è di alcune percezioni morfologiche, d'ordine più o meno
generale ; e non tarderò a tenervene discorso. Ma qui è anche da
considerare la troppa dispersione delle mie note ; la quale in parte
dipende dalla scarsità delle mie forze, in parte da una dura necessità
in cui si sono generalmente trovati i linguisti italiani della genera-
zione cui io appartengo ; dal bisogno, cioè, di raggiungere e accom-
pagnare e continuare gli stranieri , in ordine a troppe cose ad un
tempo. Beata la generazione che ora è libera di fare altrimenti !
- 6-
anch'io a prestar fede a' miei occhi quando ebbi a leggere
che andava finahnente riconosciuto il bisogno d' intendere
Tevoluzione de' suoni secondo la ragione effettiva della loro
entità naturale:, o riconosciuta Tutilità grande che dalla con-
siderazione delle fasi moderne della parola si può ritrarre
anche per quant'è della dichiarazione o ricostruzione delle
fasi antiche:, o scoverta Tefficacia varia e grandissima delle
spinte analogiche ^ o scoverto ancora, che di ogni eccezione
od incertezza, onde soffrono o paiano soffrire le norme fo-
nologiche , debba cercarsi un perchè, il quale in effetto la
risolva; e altro che sia di simigliante. Di certo voi potete
aggiungere, con animo sicuro, che, ben lungi dall'essere
per noi una fase nuova di studi quella che sMnformi a co-
deste massime, le nostre scuole da un pezzo rappresentano
una fase più inoltrata; quella, cioè, in cui maestri ed allievi
hanno ormai utilmente esercitato un lavoro insistente di
critica sperimentale intorno a ogni affermazione di cotal
maniera. Né punto mi sembrano superflui , anche per gli
iniziati, quei saggi, più o meno popolari, che voi imaginate,
per esemplificare l'ampiezza grandissima e la solidità tetra-
gona di resultanze ormai conseguite, circa le quali sien pur
costretti a confessare questi banditori della buona novella.
che nulla per essi ne debba andare detratto o vi possa an-
dare aggiunto. Sono anzi pronto ad aiutarvi in quest'opera;
e sono il primo a conv
(in quanto è buona),
è staio, per vari mod
'enire, che, se la dottrina non è nuova
linguaggio di qualche '^uo apostolo
assai infelice. Concedo ancora, per
dir d'un ultimo particolare, che gli esempi di pretesa etero-
dossia (l'esempio sia poi una singola dichiarazione, o tutto
un libro, o luii'un autore^ intorno ai quali la nuova Chiesa
ha cimentato lazione sua propria, dovettero talvolta parer
scelti proprio a rovescio; e non nego che qualche redar-
guizione, rapida e stringente, possa ancora tornare oppor-
— 7 —
tuna o doverosa. — Ma, appunto perchè è vero tutto questo,
è vero insieme, che nessun turbamento ce ne dee venire in
ordine alle sorti o al progresso della nostra disciplina. Anzi
è tutt' altro. Si tratta, in realtà , di valorosi compagni di
studio , che si vengono industriando , con particolare insi-
stenza , intorno alF azione di alcuni principi , la virtù dei
quali, sempre ammessa, ora diventa, per loro merito, sempre
più largamente manifesta. Valgono essi e varranno a conti-
nuare e a correggere Topera di coloro che li hanno imme-
diatamente preceduti, così come l'opera di questi ha conti-
nuato e corretto quella dei maestri che avevano lavorato
prima di loro. Se qualche trovato li inebbria o qualche pre-
sunzione li illude, non li persuaderemo del loro torto col
trasmodare a nostra volta. Senza poi dire, che voi inasprite
la disputa con argomentazioni propriamente personali, non
sempre giuste , e quasi sempre (scusate) o inopportune o
superflue (i).
(i) Cosi mi duole grandemente, che sia tra' fogli stampati quel
passo in cui discorrete, con tanto acerbo rigore, del sentimento che
nutra 1' OsthofF per le cose mie. Ma voi siete confutato , nel modo
più irrefragabile , dal suo stesso articolo nella Literatur':jeìtung [di
Jena, art. 476 dell'anno 1878], che pur conoscete e allegate! Io vi
concedo subito, che nei tre punti, come voi dite, l'Osthoff abbia molto
torto, e non solo dinanzi alla linguistica , ma anche un po' dinanzi
alla moralità letteraria. Senonchè, appunto per questo, io non mi son
dato nessuna premura di mandar per le stampe una qualunque mia
risposta. Ed ecco ora, se mei permettete, come io sarei, pressappoco,
proceduto nella esposizione dei tre punti e nelle rispettive risposte ,
quando io mi fossi risoluto di favellarne in pubblico.
Primo punto. — Io sono accusato, non solo di consentire,
nella pratica, che le norme fonologiche patiscano eccezioni , ma an-
cora di sostener quest'eresia in sede teorica; e il grave peccato si
troverebbe commesso a p. 3g del sec. voi. degli Studi Critici.
Or la verità è questa, lo non parlo mai, né scrivendo, né inse-
Insomma , io non vi vorrei parere epigrammatico -, ma
devo pur confessare, che in luogo delle vostre 72 (dico set-
tantadue) pagine di polemica generale, io altro in sostanza
gnando, di eccezioni. Mostro e dimostro che di un dato suono, o di
una data combinazione di suoni, si possano anche avere esiti diversi
in una lingua medesima o in un medesimo dialetto , e cerco le ra-
gioni delle diversità. Spesso le trovo; e quando io non le trovi, con-
chiudo: non par possibile che la data voce o la data serie di voci
non abbia il fondamento etimologico che le assegniamo, ma la ra-
gione della special determinazione fonetica non è ancora trovata.
Così io credo che facciano tutti i veri linguisti da un gran numero
d'anni. Tutti così diciamo, per esempio, chien frane, è canis, e
pain frane, è panis; la base -ani è identica in entrambi (la
differenza di quantità, che è tra canis e panis, non vale, come ognun
sa, in ordine a' riflessi neo-latini), ma la resultanza è diversa dall'uno
all'altro; e la ragione della diversità è trovata; vedi, per es., Arch.
glott., Ili, 71-2. Oppure diciamo: avviene in uno stesso dialetto, che
GL ecc. di fase anteriore, o si mantenga, o si riduca a / ; ma il primo
caso si verifica a formola protonica, il secondo a formola postonica ;
vedi, per esempio, Arch. glott., I, lii. O ancora ci chiediamo, perchè
podio dia Fit. poggio, e medio dia all'incontro l'it. me^:[0, o
radio dia insieme raggio e ra^:^o; e le distinzioni cronologiche,
le quali ci valgono, per consimili differenze, in altre parti delle serie
neo-latine risalenti a dj (v., per es., Arch. glott., l, 5 11), qui ancora
non si possono sicuramente accampare ; come non si possono ancora
accampar sicuramente di cotali distinzioni in un caso com'è quello
di gabbia it. = cavea allato a pioggia it. = p 1 o v i a , o in un
caso com't: quello di macchia e maglia, le due forme per le quali si
continua nell'italiano, cioè nel dialetto fiorentino, il lat. macula,
secondo le due diverse significazioni sue (trattasi veramente , come
oggi ognuno conosce, di un klj di fase anteriore, che si semplifica
in kkj o in llj , secondo che ceda la seconda o la prima delle tre
consonanti aggruppate); v., per es., Arch. glott., Ili, 288. Si potrebbe,
ogni esperto lo sa, continuare indefinitamente con ricordi di siffatta
specie. E c'è poi bisogno d'avvertire, che le ragioni, non ancora tro-
vate, si cercan di continuo? E che altro fo io, poiché si discorre del
— 9 —
non direi se non ciò che si contiene nelle tre o quattro pa-
ginette che ho qui fatto precedere , solo aggiungendo , per
quella che voi argutamente chiamate la ga^^^arra psicolo-
mio modesto esempio, da ben più di vent'anni? Se, dunque, le pa-
role che si trovano a p. 39 del secondo volume degli Studi Critici
pur si prestassero a quell'equivoco da cui par dipendere l'imputazione
deU'OsthofF, l'equivoco dovrebbe senz'altro andar respinto, come una
imaginazione affatto assurda. Ma si aggiunge, che quelle parole af-
fatto non si prestano ad alcun equivoco. Io cioè m'opponeva (nel
1867) a certe solenni affermazioni, dalle quali si sarebbe dovuto in-
ferire che la fonologia comparata fosse cosa estremam.ente facile e
semplice , quasi non si trattasse se non « dell' unica e esclusiva for-
mola A = B », e tutta la disciplina si potesse < tradurre in una specie
di tavola pitagorica o di bussola delle lingue. » Affermavo dal canto
mio, come tutti dovevano e debbono affermare, trattarsi veramente
di ben altro; poiché, a cagion d'esempio, il lat. uber non risponde
meno sicuramente all'indiano udhar , di quello che il lat. medio al-
l'indiano rnadhja, comunque nel primo caso s'abbia b=dh, e nel se-
condo: drz^dìi. E soggiungevo: « Di certo, la saldezza della nostra
« dottrina fonologica proviene per molta parte dalla grande costanza
« di molte equazioni della semplice formola A^B; ma più precisa-
« mente sta in ciò: che per un sistema d'analogie, geometricamente
« perfette, nel quale ciascun idioma ha le sue particolari ragioni e
« ciascun suono è partitamente considerato in ogni sua diversa con-
« giuntura, risaliamo, dall'un canto, alle condizioni originali de' sin-
« goli elementi, e, dall'altro, ne seguiamo, per infiniti meandri, le
« infinite e spesso ben recondite peripezie. » Ora l' OslhofF vorrebbe,
fermandosi a cotesto mio esempio, che l' interdentale protoitalica
(una specie di th inglese di pronuncia sorda) diventasse b in «Serper
effetto del r; e all'incontro si determinasse in i nell'altra voce (medioj,
perchè non le era attiguo un r. Io qui non discuterò cotesta spiega-
zione, e l'ammetto senz'altro per giusta. Ma, imprima, si toglie mai per
essa che lo dh originario o sanscrito abbia nel latino due diversi con-
tinuatori e entrambi legittimi, e quindi non si regga il principio del-
l'esclusiva formola A = B ? In secondo luogo, una tal dimostrazione
sarà mai cosa che contraddica comunque a chi ponea, nella sua de-
- 10 -
gica, una specie d' interpellanza, formulata pressappoco in
questi termini : « A voialtri è piaciuto e piace continuamente
(( parlare di momenti psichici^ di azione psichica^ di un'arte
finizione, il sistema ' geometricamente perfetto , nel quale ciascun
'suono è partitamente considerato in ogni sua diversa congiuntura'?
E finalmente, chi ha preparato all'Osthofif l'interdentale paleoitalica,
dalla quale e^li ripeterebbe tutto quanto il suo lavoro? Gliel'ha pre-
parata un mio antico studio, che si riproduceva in quello stesso mio
libro!
Secondo punto, quello che voi chiamate // ritornello ar-
meno. — Io ho espresso l'opinione {St. crit., II. 22P), nella quale ri-
mango sempre fermo, che il -n dell'armeno a-mi-n, nome, e d'altret-
tali, sia un' affissione seriore, da conguagliarsi con quella che è nel-
l'arm. tii-n, casa, e altrettali. L'Osthoft' m' oppone, che se io credo
perduto 1' -an originario pure in esempi così antichi quali sarebbero
le voci per ' cane' e ' nome ' (temi sscr. cvaii, miman), non si sa poi
vedere donde io voglia prendere 1' -an ascitizio che io presumo aderir
più tardi a codeste serie di temi armeni. In quest'occasione, ripro-
duce rOsthoft" una sua noterella [Morpli. unters., 1, iiS^ =Jen. Li-
teratur^eit., 1. e], con la quale mi rimette bruscamente a un luogo
in cui l'Hubschmann avrebbe dimostrato che all'armeno sia estranea
la riduzione iranica di p' in sp.
Ora ecco la troppo facile ma tranquilla risposta. — L' Osthofì' ha
manifestamente creduto che V -an ascitizio, del quale io parlava, così
per anitii ecc., come per tiin ecc., fosse 1' -an originario del tipo na-
man o del ùpocvanl Ma come poteva io fare un'ipotesi, che avrebbe
appunto negalo quel ch'io voleva dimostrare? Io parlava di un -an
ascitizio, equivalente a un primitivo -ana ; come appunto poneva Fe-
derigo MlìUer, che giustamente ho citato (p. 224) 1 Quindi io postu-
lava uno c[y'-ana^ come si postula uno dvar-ana ecc., o come si po-
stula, con una diversa aggiunzione, lo cvaka che diede anoKa, cane,
ai Medi. Diceva poi, tra parentesi, che, per più d'una ra-
gione, stavo dubbio circa l'attenenza tra l'arm. san, gen. ian. e il
sscr. cvan cun. In cfletto , e' è. da un lato , che di contro al med.
anuKOi s'abbia il p.Ts. saf[ e altri riflessi iranici in cui non si vede
traccia del r fondamentale, che qui dovrebbe 'anzi essere p. E c'è.
— 11 -
« psicologica per la quale s' innovi la nostra disciplina-, e
« potete vedere come alcuni adepti, più o meno digiuni di
K scienza vera , vadano facendo la voce grossa intorno al
dall'altro, l'arm. skund, allato al pure arm. sun ecc. Intorno a tutto
ciò, io non ho affatto nulla da mutare; e allego altrove, e commento
a tale proposito, il rapporto che è tra lo zendo vicpa, l'antico pers.
vica e il curdo gisk. Ma in tutto codesto non e' entra poi, in
effetto, né punto né poco, l'idea che io mi fa-
cessi o mi faccia dell'attinenza tra l'armeno e
gl'idiomi persiani ecc. Quest'idea, se l'Osthotf o altri hanno
curiosità di saperne qualcosa di più, non implica punto che io mandi
l'armeno, senz' alcuna distinzione, col gruppo iranico. L'opportuna
distinzione io la ripeto ogni anno a' miei allievi I Ma giova poi sog-
giungere, che, circa cv in sp , non e' è, nel passo dell' Hubschmann ,
quello che l'OsthofF ha reiteratamente asseverato che ci sia. Ivi non
si dice che l'arm. spitak, bianco, sia voce forastiera. Di afva sscr.
[acpa zendo) ivi si avverte che ne manchi il continuatore armeno ,
l'armeno adoperando, pel nome del ' cavallo ', voci d'altre basi. L'e-
sempio dunque è semplicemente sottratto alla prova, ma
non fa prova contro cv in sp. Resta il controverso skund, il quale
ha anche poi accanto a sé i greci aKÙXAot; e okùiuvoc;. — Ecco, dunque,
come codeste escandescenze iranologiche portano in sé medesime il
giusto castigo per chi vi si è malamente abbandonato.
Rimarrebbe il terzo punto: l'accusa, cioè, che io non abbia
ben trattato 1' Hubschmann. Quest'accusa ha, è vero, come voi dite,
l'apparenza di un brutto scherzo. Ma io non mi ci so fermare. Me
ne rimetto alla coscienza dell' Hubschmann stesso , pel quale io non
ho, né ebbi mai, se non un sentimento di molta gratitudine e di
molta stima. — Voi, intanto, vogliate troncare, o correggere almeno,
vi prego, tutto quanto a questo proposito vi viene da dire dei Te-
deschi. Come mai ci può qui entrare questo strano modo di esagerar
nella difesa, massime oltrepassandosi, come voi fate, la ragione degli
studi, per entrare in considerazioni d'ordine prettamente morale ? O
non sono forse tedeschi il Curtius e .lohannes Schmidt e lo Spiegai,
e gli altri che voi stesso citate per lo schietto amore col quale è lor
piaciuto di considerar le cose mie? Non è egli un buon tedesco, in
- 12-
« capitolo della psicologia, che dai vecchi sarebbe slato ne-
« gletto! Ora, diteci in coscienza: tutta codesta psicologia
« consiste essa in altro che nella considerazione di due serie
« di agguagliamenti \ una delle quali si può ben rappresen-
« tare per l'esempio delPit. mietiamo, con T à' che storica-
« mente non gli spetterebbe e proviene, per livellazione di
'■■ forme, dalle voci con la prima accentata [mièto ^cc), a
<< cui storicamente egli spetta; e l'altra si può rappresentare
« per l'esempio dell' it. mossi, che assume, per un'altra
« specie di livellazione di forme, il si di scrissi (scripsi) ecc.,
« estraneo a lui nell'ordine storico o latino ? — Dovete si-
« curamente riconoscere, che, in tutta la vostra psicologia,
«non c'è altro, non c'è assolutamente altro-,
<( e se volete poi continuare coi paroloni psicologici e vi
« ostinate a non concedere che non è punto nuovo, ned è
« comunque in sé rinnovato , il principio di esercitazioni
<( cosiffatte, noi non vi potremo più altro dire, se non che
« tutti i gusti sono gusti. » — Ma l'effetto pratico rimarrà
a ogni modo, per buona fortuna, lo stesso : che cioè i gio-
vani continueranno a imparare dai vecchi, e viceversa (i).
ispecie, il venerando Schweizer-Sidler, che ha sempre messo, e mette
sempre, un amore così grande nel far valere l'opera modesta di questo
Cisalpino che gli deve tanto e non ha mai avuto la consolazione di
parlargli ?
(i) Se la polemica generale mi sembra soverchia, credo all'incontro
che gioverebbe insistere di più ne' particolari. Così, per esempio, io
trovo assai curioso il saggio della ' nuova dottrina ' che qui ora v'ad-
duco :
« La lingua italiana riconosce la legge fonetica, che il lat. qii, in-
« terno innanzi a <? ed i , si palatinizzi : cuocere coquere , laccio la-
« queus, torcere lorquere , cucina coquina; diversamente no: acqua
<- aqua, cuoco coquo. Ma il numerale cinque non s'adatta a questa
« regola ; laddove il rumeno, all'incontro, che segue la stessa norma
— 13 —
II. — Ma io ho ormai abusato, con queste prediche, della
mia qualità di vostro antico maestro, e vengo senz'altro al-
l'argomento che oggi più vi preme, cioè ai motivi etno-
logici nelle trasformazioni del linguaggio.
« circa la riduzione palatina del qii, ha ciuci, cinque, in corrispon-
« danza affatto normale con gli altri casi di qu interno mutato in e' :
« nici ncque, coace coquere , stoarce cxtorquere. Cfr. Diez, gr., I*
« (13), 264, 265, 481-2. Il motivo, per cui 1' it. cinque devia, mal si
« potrà, io credo, vedere in altro se non in ciò, che qui intervenisse
« un agguagliamento col numerale per le cinque decine {cinquanta) ,
« nel quale il qu ^ secondo norma fonetica, resiste ». Osthoff , in
Morphol. untersuch. von Osth. u. Brugmann, I, 129.
Dunque, siamo intesi: dato un lat. -qiie- -qui-., l'italiano deve
avere -ce- -ci-; e dato un lat. -qua- o -quo-, l'italiano deve man-
tenere incolume l'antica formola, 0 almeno la gutturale antica; quando
non intervenga una qualche perturbazione d'ordine analogico. — Ma,
se è così , perchè dunque diciamo segui sequeris , segue sequitur , e
non seci seceì Si farà qui agire 1' ' attrazione ' della gutturale che è
di ragione istorica in seguo segua seguono} Ma l'analogia italiana
vorrebbe tutt'altro (cfr. torco torca , allato a torce torci; oppure io
cuoco e io cuoca o cuocia, allato a cuoci cuoce) ! Oppure oseremo in-
vocar r aiuto taumaturgico del tipo distinguo distingui, che insieme
scusi, cioè dia una ragione di ' adattamento ', anche per la trasfor-
mazione ' irregolare ' del quo di sequor in gito (cfr. luogo, allato a
fuoco e giuoco) ? E aquila, non nc'ila, come si spiega? Sarà voce non
popolare ? O come si spiega Vdvolo = a q u i 1 o , che è in vent-(''Volo,
l'aquilone (cfr., per 1' -0- : debile debole, fievole ecc. ecc.)?
Si potrebbe continuare molto lungamente con questa serie di do-
mande; e i romanisti si rallegrerebbero tutti, senz'alcun dubbio, delle
risposte che un così acuto indagatore, com'è l'Osthoff, si compiacesse
di far loro sentire, a illustrazione de' suoi apoftegmi. Ma a noi, semi-
romanisti più o meno vecchi e di stampo più o meno antico, sia in-
tanto lecito dichiarare, che il sentirci discorrere, per torcere ecc.,
di 'legge italiana ' del que qui in c'è c'i , o il sentir circoscritto il
fenomeno a que qui interni, o il citarsi il rumeno c'inc'i come prova
del rigore della ' legge rumena ' di que qui in c'è c'i , son tutte cose
- 14 —
Superfluo che io v'assicuri, non esser minore la mia ma-
raviglia di quel che sia la vostra, nel veder così strana-
mente trascurati codesti motivi e tanto mal misurata e male
che ci fanno strabiliare. Ci sia perciò lecito di mostrare insieme, con
molta brevità, quel che noi poveri vecchi modestamente insegniamo,
da una bella serie d'anni, intorno a questa materia.
Le formoie qve qvi perdettero in alcune voci, sin da un molto an-
tico periodo del volgare romano , il loro v ; e la esplosiva i.;uttu-
rale, riuscita attigua per tal modo alla vocale palatina , venne, coi
tempo , a ridursi a esplosiva palatina , cosi com'era avvenuto per
le antiche formoie kk ki [cerno ecc.). Una così antica riduzione
è avvenuta pei seguenti quattro esemplari: quinque (prima sillaba),
laqiicus , torqiicre , coqucre ; i (juali, passando per la fase di kinque ,
lakeo [lakjo] , torkére [tórkere] , cokere , si fecero c'inqiie , lac'c'o ,
tórc'ere , cóc'ere. Tutte le favelle neolatine ripercuotono concor-
demente cotesta riduzione dei quattro esempi , cioè danno nei loro
riflessi quel che darebbero per ce ci cj di fondamento latino (v. Arch.
glott., pass.). È solo un'apparente eccezione quella delle forme sarde
chimbe tórchere cògliere, che gl'inesperti potrebbero voler condurre
a quinque ecc. piuttosto che a c'inque ecc. 11 vero è che quinque, a
cagion d'esempio, avrebbe dato bimbe al sardo (cfr. bindighi =quin-
dici), e che un e' di fase anteriore si continua normalmente nel sardo
(logudorese) per k [g] ; v. Ardi, glott., 11, 143-144, e cfr. Le:;, di
fon. comp., § 18, 2. Il sardo chimbe. tradotto in figura toscana, so-
nerebbe c'ingue.
Il perchè di questa riduzione cosi antica, la quale intaccava torquet.
a cagion d'esempio, e non intaccava sequi, non è ben chiaro, perora,
ma poco ci manca. In quinque può avere agito la tendenza a dissi-
milare, che in quindecim non aveva motivo d'azione. Per laqueus c'è
da avvertire, che la vocale palatina era nell'iato, e quindi trattavasi,
nel volgare, di j [laqvjo], cioè del più efficace tra gli elementi pala-
tini. I.,a combinazione medesima si riproduceva, in alcune forme ca-
ratteristiche, anche per torquere (torqueo torqueas, cioè torqvjo ecc.).
Chi osi ancora ricondurre secius a sequius (io ora non intendo pro-
nunciarmi), qui pure avrebbe il qvi nell' iato; e più in hi noi sa-
remo nuovamente condotti a questa medesima osservazione.
Anche per qualche altro esemplare la riduzione resulta antica edif-
— 15 -
descritta la forza o razione d'altre cause alterative. Voi
avete , con molta abilità e dottrina , riassunti e fecondati ,
per alcune parti, gl'insegnamenti della scuola; e così io non
fusa, ma la figura incolume dovea reggersi nel volgare accanto alla
ridotta. Penso specialmente a quercits, il quale ha pur potuto risen-
tirsi della tendenza a dissimilare (cfr. querquetum e quercetiim). Così
il sardo chercu, quercia, ritradotto in figura toscana, giusta la norma
che sé testé ricordata, ci dà veramente c'ercii, e ci conduce perciò al
napol. c'iércole, grosso ramo di quercia, o a c'ersa del siciliano ecc.,
di contro al tose, quercia. La tendenza a dissimilare aveva incentivo
non minore in querquediila. Ma il farciglione del dizionario italiano,
allato a farchetola o farqiietola del dizionario stesso cfr. Flechia ,
Arch. gì., IV, 385) , dice poco. E il frane, cercelle e altri termini
che gli consuonano, con entrambi i qve ridotti, fors'entrano piuttosto
in un'altra categoria d'esempi, delia quale or passo a toccare.
Il numero degli esempi ridotti venne cioè a estendersi, in varia
misura, ma ancora assai anticamente, nel volgare di qualche regione
romana. Dei criteri che possano aversi per l'antichità di codeste ri-
duzioni regionali, s'è incominciato a toccare neir^rc/2. gì.,!, 90 n
(cfr. 522-23 n , 524). Citavo or'ora il frane, cercelle , che trova ac-
canto a sé, oltre lo spagn. cerceta, la riduzione cisalpina che si rap-
presenterebbe pel diminutivo piemont. cerclót o pel friul. cercéne
(anche vedo in qualche scrittura di dotti italiani : cercedola cerce-
vola, che non so bene da qual regione vadan ripetuti). Ma, nel Friuli,
anche ceri quaerere, e cèd quiete. Circa i quali due esempi, si potrebbe
rinnovare l'osservazione, che già di sopra si fece per la molto antica
riduzione di laqueus ecc. Qui ritorniamo, vale a dire, a que qui nel-
l'iato : quiète: e quiére ecc. delle voci caratteristiche di quaerere con
l'antico dittongo volgare (friul. cir =: ciér = quaerìt ; cfr. l'it. chie-
dere). S'aggiunge però anche il friul. ce nel significato di ' quid '.
Le formole qve qvi, in quanto ancora incolumi nel latino volgare,
avrebbero dovuto dare, nel rumeno, pe pi, come qva vi diede pa -pe
[patru quattuor , ape aqua). Ma l'elemento labiale di qve qvi deve in
questa regione esser sem.pre taciuto, sin dalle prime età dell' immis-
sione latina (come vi tacque lo stesso elemento pur nel qva di qualis,
onde il rum. care e non pare; cfr. l'it. chi quis , o il friul. aghe
— 16 —
avrei pressoché nulla da aggiungere, e non ho affatto nulla
a ridire , intorno alle dimostrazioni che si riferiscono alla
riazione che gli idiomi aborigeni dell'India hanno esercitato
aqua, ecc.) ; sempre cioè qui si parie da ke ki per qve qvi del vol-
gare latino; e ke ki sempre poi qui danno, per norma specifica e
costante: c'è c'i (cfr. lo slavo). Abbiamo perciò in Rumenia : c'è c'i-ne
di contro agli it. che chi, per la stessa Taglione che vi abbiamo calc'i
(it. calchi] calce , calcas calcat. Così c'inc't vi riviene a c'inche
(c'inke) = cinque \ e il secondo e vi è d'un' età affatto diversa dal
primo; com'è di età affatto diversa dalla palatina iniziale (e di mo-
tivo affatto diverso), la diversa palatina finale del c'inc" di parecchi
dialetti ladini ; cfr. Arch., I, 206 ecc.
Già COSI riuscimmo a negare, per via indiretta, che l' it. cinque si
debba a un particolare ' adattamento ; stia , cioè , per c'inc'e , in
grazia di cinquanta. Ora convien che segua e si legittimi la diretta
affermazione, che l' it. cinque è tal quale la schietta e storica forma
del latino volgare. A questa rivengono , affatto normalmente , anche
il c'unc del ladino di Sopraselva, cioè c'i-u-nk, con l'attrazione del-
l' u che precedeva a altra vocale (ciunc : cinque :: liunga : lingua ; cfr.
Arch. gì., I, 92, 112 ecc.); e il sardo chimbe ^= c'ingue ; e il frane.
cinq ; ecc.
11 latino volgare non aveva ridotto a ke c'è la seconda sillaba di
quinque, come non ebbe mai ridotto a ki c'i il qui del verbo sequi o
di aquila ecc. In tutti gli esempi, le cui antiche basi volgari manten-
nero incolume il qv di qve qvi , se ne ebbero poi, molto natural-
mente, nell'italiano e altrove, esiti o continuatori non diversi da
quelli che vi si ebbero per il qv della base qva. Perciò, nell'italiano:
cinque, aquila, seguire, 'óvilo (vent-avolo, aquilone), così come : ov-
-unque ecc. (-unquam), acqua, eguale e arale (entrambi da acquale).
Medesimamente nel fondamento ladino e nel fondamento francese :
seuvere sequi, come auva aqua (cfr. Arch. gì. ^ I, 211) ecc. O mede-
simamente nel sardo: abile abilastru (aquila aquilotto; si parte da
agvila ; e la fase avila ritorna ne' ladini 'htlja ecc., Arch. gì.. \, 210),
come abba aqua (agva) ; ecc.
Il parallelo di media (lat. ove ecc.] non può non riuscire
scarso, poiché il latino non tollera le rispettive formole se non interne
- 17 —
sulla parola ariana a cui essi vennero soccombendo. Ma
credo che gioverebbe una maggiore e migliore insistenza in
ciò che risguarda le ragioni etniche delle alterazioni che pa-
e precedute che sieno da « or; vedi Le^. difonol., § 26. Pei riflessi
volgari e neolatini, ci riduciamo veramente alle sole basi ngua ngiio
ngue ngui. Pure, la congruenza tra la serie di media e quella di tenue,
resulta assai bella e piena. Poniamo primo l'esempio ninguit [ningit],
la cui forma incolume, l'unica probabilmente che in effetto risonasse,
è attestata, ben meglio che per virtù di codici, dall'abruzzese nengue.
Né le contrasta il rum. niiige, che risalirà a ninghe, per glie in gè,
secondo la norma generale ricordata di sopra per le basi di tenue ;
onde pur sunge sangue, e altri consimili riflessi rumeni, si ricondu-
cono, il più probabilmente , a *sanghe ecc. di fase immediatamente
anteriore ; cfr. rogi rogas, ecc. Poi sia ricordato unguere ungere ,
dove la forma ridotta resta l'unica nel verbo neolatino, l'altra conti-
nuandosi a mala pena nel nome unguento. Circa extingiiere, che è
estingere nella base ladina, provenzale e francese, non vorrei senten-
ziare se l'oscillazione risalga a Roma antica (cfr. Ardi, gì., l, 92-3 n).
Ma certo è che il numero degli esemplari ridotti si estende in quelle
stesse regioni nelle quali vedevamo che s' estendesse per le basi di
tenue. Perciò l'intero gv si continua negl' ital. sangue, inguine in-
guinaglia , anguilla (cfr. lingua) , o nei sardi sambene imbena am-
bidda (cfr. limba); ma all'incontro ho mostrato che inge stia a fon-
damento del termine ladino e francese per 1' ' inguine ' [Arch. gì.,
ib.); e un sange per sangue dee stare in fondo al frane, saigner
(=sainjare , cfr. l'it. dissanguare). Così a sange riviene il friul.
satipt cornus sanguinea; e a pinge angilla i frinì. pen^ pingue, ansile
anguilla.
Questa è dunque , per ora , la resultanza dell' indagine veramente
scientifica, la resultanza, cioè, per la quale davvero si affina e si ac-
cresce il sapere, e della quale si può dire, rimanendo all' antica de-
terminazione , che sia 'geometricamente istorica \ L'opera si potrà
anche perfezionare, senz' alcun dubbio ; ma avverrà questo per virtù
di affermazioni temerarie, o non piuttosto per virtù d'una riguardosa
continuazione del lavoro già assodato, riguardosa e modesta tanto più,
quanto più sarà viva, larga e profonda ?
'^Riviy.la di filologia ecc. X -
— 18 —
lisce la parola romana. Alludo specialmente a quelle tra-
sformazioni del latino che vadan ripetute dalla riazione della
favella celtica sulla romana; e vorrei provarmi a darvi
qualche saggiuolo dei modi di esposizione che a me par-
rebbero, nel caso vostro, i meglio adatti. Veramente, non
sentirete cose che la Scuola già non v'abbia dato per guisa
più o meno continua; ma forse vi accorgerete \iemeglio,
che, sopra questo campo, la dimostrazione riesce e più age-
vole e più efficace. A ogni modo, io sbozzo, molto rapida-
mente, un tipo qualunque, e voi farete di più e di meglio.
Premetto, sulle generali, che per quanto s^ attiene alle
mutazioni direttamente promosse dalle predisposizioni orali
degl'indigeni, noi abbiamo, per ora, tre modi d'induzione
o di riprova. Un modo è questo: l'alterazione della parola
latina si avverte entro quel territorio che la storia insegna
o consente che andasse contrastato tra Romani e Celti o
più propriamente tra Romani e Galli, e non si avverte, al-
l'incontro, al di là di quei termini ; perciò s'inferisce, senza
altro , dall' effetto alla causa , se pur non ci sia ancora
dato conseguire alcuna particolar riprova dell'azione che si
imputa, nei caso determinato, a codesta causa. Un secondo
modo è questo : l'alterazione specifica, che la parola latina
subisce nel territorio galloromano , si riproduce nella evo-
luzione del proprio linguaggio dei Celti medesimi. Un terzo
modo è finalmente questo: l'alterazione specifica, che la pa-
rola latina patisce nel sovrapporsi a quella dei Galli, è si-
milmente patita dalla parola germanica che si sovrappone
anch' essa alla celtica, o nella stessa contrada od in altre.
Il primo modo si potrebbe dire di congruenza corogra-
fica; il secondo, di congruenza intrinseca; il terzo,
di congruenza estrinseca. Una resultanza che sia otte-
nuta anche pel primo solo di questi tre modi , accresce il
valore di ciascun altra, e a vicenda ne ha accresciuto il va-
— 19 -
lore suo proprio. Se poi una resultanza è comprovata per
più modi, nessuno vorrà negare chissà vada tra le migliori
scoperte che sul nostro campo si possano sperare. Poiché
la quantità o la qualità delle cose provate va naturalmente
considerata anche sotto il rispetto della nostra facoltà di
provare ; e questa facoltà è grandemente ridotta per ciò ,
che la diretta notizia dei dialetti un tempo parlati dai Galli
sui territori che andarono romanizzati, si riduce, ahimè, a
presso che nulla. Dobbiamo ricorrere, come a men discosti
ausiliari, ai dialetti britoni, stretti parenti bensì degli antichi
dialetti della Gallia , ma pur non altro che parenti, e tali
ancora i cui monumenti non ci riconducono a età gran
fatto antica. Tra i quali dialetti britoni , io intanto prefe-
risco citare quello del Galles o il cimrico; perchè il britone
dell' Armorica, rifluito in Francia, dal di là della Manica,
qualche secolo dopo Cristo, può talvolta lasciare in certuni
un qualche dubbio, che, tra lui e il francese, anziché trat-
tarsi di evoluzioni che analogamente si riproducano , non
d' altro si tratti se non di mero influsso neolatino nel cel-
tico moderno.
I. Prendo le mosse da uno dei fenomeni di cui già
avete opportunamente toccato , cioè dall' iì che tra' Gallo-
romani viene a rispondere all' i^ latino; per es., frane, o
iomb. diìr --= óurus ^ crii {e fiìd) = crudus.
La prova , che diciamo corografica, è presto data.
11 fenomeno occorre in Francia, nella zona ladina e pei
territori franco -proven-{ali e gallo-italici (i). Non occorre
(i) [Mandando ora alla stampa questa Lettera, non mi pare super-
fluo di aggiungere qualche parola sull'importanza istoriologica che è
qui data all' zV galloromano, benché s'abbiano, più in là, parecchie
note, in cui è generalmente accennato alle ragioni onde si assicura
— 20 -
nelle Spagne, o al versante mediterraneo della penisola ita-
tale importanza ai fenomeni fonetici del neolatino o del celtico, in-
torno ai quali versa questo rapido sbozzo. Molto prima che 1' inda-
gine scientifica venisse a tentare queste connessioni (cfr., p. e., Schu-
CHARDT, VoJc., \, 466-7, per r ei ecc.), se ne aveva tra noi come una
persuasione tradizionale, e appunto il fenomeno dell' iì, pel quale si
coliegano Milano , Genova, Torino e Parigi, andava tra quelli che
eran citati di continuo. Poi venne l'età dello 'scetticismo incipiente',
e s'incominciò a sentir parlare dell' 2 = il = m in Grecia, come d' una
prova del poco fondamento che sopra siffatte cose si potesse fare, e
di un nuovo argomento per la bella conclusione che 'tutto, nasce
dappertutto'; quasi che, a tacer d'altro, non si trattasse, nel gallo-
romano, d'un incontro il qual fa parte di un ampio sistema di con-
gruenze, e pel quale, come per l'intiero sistema, una gran sezione
della romanità si distacca dal resto. Piìi tardi ancora, duole il con-
fessarlo, le dubitazioni d'uomini rispettabilissimi, i quali , con gene-
rosa abnegazione, molto utilmente si restringono entro a modesti
confini, ma forse non voglion sempre riconoscere che angustia di
limiti non consente larghezza di giudizi, vennero a turbare maggior-
mente le nostre acque. Sia citato, honoris causa, il Lucking, il quale
accampa [Die 'ditesi, franai, mundarl.; Berlino 1877, p. i48-4()), contro
l'antichità dell' iV, i due argomenti che or riferisco. Imprima, Vu la-
tino non sarebbe passato in il , all' infuori del francese, se non in
'singoli dialetti', come nel neoprovenzale, nel ladino engadinese e
nel lombardo. Poi, nel latino de' documenti merovingi occorre u per
6\ e in un'età, in cui l'antico n già sonasse zV , mal si potea venire
all'idea di adoperare codesto carattere, in luogo dell' 0, per espri-
mere un suono che sicuramente era diverso dall' il ; dunque 1' u ,
scritto per ò, dev'essere più antico che non V il pronunziato per ù.
Orbene, circa il primo argomento, può parer singolare che si por-
tasse innanzi, da tal valentuomo, nel 1877. Di certo, non c'ò 1' il in
tutti i dialetti ladini de' Grigioni ; ma i dialetti che non l'hanno, lo
ebbero, e anzi lo esagerarono, arrivando all' / =: ù , come qui sopra
ora vediamo. Per la Cisalpina, poi, c'è ben altro che un ' lombardo '
da mettersi tra i 'singoli dialetti'; e insomma è dimostrato da un
pezzo, che anche per 1' il si ristabilisce la continuità dall'Alpi Car-
— 21 —
liana (i),o nelleisole italiane, o tra' Rumeni. Quanto a riprove
intrinseche, abbiamo che nel britone si risponde per i
niche all'Oceano. Quanto al secondo argomento, io non me ne so
meravigliare abbastanza. Poiché, ai tempi de' Merovingi , il francese
non si scriveva punto, e 1' ti perciò non rappresentava a que' scribi
latini alcuna pronunzia francese o alcun ragguaglio etimologico tra
latino e francese. L' 5 latino, per giusta e sicura tradizione, letteraria
e vernacola, era un o chiuso e si confondeva con Y u\ e facilmente
si scriveva niis e Iionure , come si scriveva ubi e cruce. — Ogni in-
dagine metodica, per minuto che l'obietto ne sia, giova sicuramente
anche alle ricostruzioni generali; e chi osi queste, senz'aver sudato
ostinatamente intorno ai particolari, sempre di certo fabbricherà sul-
l'arena. Ma anche sia lecito, una volta tanto, avvertire i pregiudizi
e i pericoli a cui pur ci porta una limitazione o una segregazione
soverchia e fittizia. Le letterature volgari si schiudono timide e im-
pacciate, come vergognose di sé, desiderose di nascondere tutto ciò
per cui il loro linguaggio soverchiamente si distacchi dalla illustre
antichità. Il glottologo che tuttavolta non le considerasse con la mag-
giore attenzione, mostrerebbe di non conoscere il proprio mestiere ;
ma l'antichità de' fenomeni dialettali va per lui, di regola, ben più in
su che non vadano i monumenti letterari; e non già per il solo fatto
delle ricostruzioni, salde e piene, che le estese comparazioni gli con-
sentano, ma anche per quelle riprove particolari o autottone, che
in tanti incontri gli duole di veder così neglette. Quali sono, per
esempio, i più antichi giacimenti di lingua francese? Stanno nei nomi
propri di luogo e in quel tanto di francese che primamente assun-
sero i Britoni rifluiti in Francia. Di poco posteriore al vero dischiu-
dersi di una letteratura nazionale, è il giacimento normanno che ci
è offerto dalla lingua inglese; e questo pure, comunque tutt'altro che
trascurato, non si rallegra ancora di tutta quell'attenzione eh' ei me-
riterebbe.]
(i) Dico penisola, per escludere il continente, dov'è Vii nel ligure,
e perciò pur nel versante mediterraneo dell' Apennino. Circa la dif-
ferenza generale tra il versante adriatico e il mediterraneo della pe-
nisola, potrete poi dare un'occhiata aìV Italia dialettale, nel XIII voi.
della nuova edizione dell' Encic 1 o paed ia Britannica, o nella
prima puntata dell'VIII voi. deWAr-ch. glott. it.
- 22 -
aWil di fase anteriore o etimologica, il quale si conserva nei
ribernico (Irlanda e Scozia). Come sapete, da ii , general-
mente parlando , non si viene ad i , se non passando per
il • e anclie tra i Galloromani arriviamo, per questa via^
ad i = ti lat., com'è nel ladino di Sopraselva ; dir durus,
mitt mutus, G.CC. Così dunque alT irland. ^ii;z fortilizio,
risponde normalmente il cimrico din, o air irland. rUn
mistero , il cimr. rin. Il fenomeno ancora s' illustra, per
riprova intrinseca, dal fatto dell' r/ che nel cimrico suc-
cede air a originario e irlandese, come in hy-^ irl, su- so-,
sanscr. su- (gr. èu-) (i). E la congruenza del galloromano
col britone punto non s'infirma per ciò che anche nell'an-
glosassone, nell'islandese, nello svedese e nel danese s'abbia
y per u di antica fase -, poiché la mutazione qui non av-
viene se non all' umlaut , cioè per effetto di un / che e è
o c'era nella sillaba successiva {y = ìì = u-i) , e lo stesso
è appunto il caso dell' // degli Alto-Tedeschi (per esempio,
nell'anglosassone: geryne mysterium, allato a rtm \à.\ lyge
mendacium , allato a lugon mentiti sunt -, nell'islandese:
l[jk claudo , allato a lùka claudere •, dylja celare , allato a
dula velamcn :, nel medio-alto-tedesco : lì'ige mentiretur, al-
lato a lugen mentiti sumus). Ora, quali pur sieno , del
resto, le ultime ragioni per cui l' umlaut della grammatica
di Grimm si connetta coli' infcctio della grammatica di
Zeuss, rimane pur sempre che nell'anglosassone ecc. il fe-
nomeno dell' // oy da u è transitorio, dipendente cioè da
una causa accidentale , e in effetto ancora si risolve nella
somma di due suoni diversi; laddove, all'incontro, per
entro al britone, così come nel galloromano rispetto al la-
tino, la riduzione dell' ù ad / {iì) è fenomeno costante o di
(i) Di più e di meglio or bi ricava da Rhys , Lectiires on Welsh
Philology, scc. ed., p. 2i3.]6, .244-4G.
- 23-
ordine assoluto, tal cioè che non dipende dal riflesso di una
vocale che sia o fosse nella sillaba successiva. V'ha bensì
un idioma germanico, in cui V il per ti appare ottenuto in
guisa non diversa da quella che s' avverte pel britone o il
galloromano. È la favella dei Paesi Bassi (per es., oland.
kns , cioè quasi cus ^ bacio- duiir ^ cioè dììììv , la durata) ;
ma è quanto dire la favella germanica sovrapposta al celtico
de' Belgi. Il principe dei germanologi , il Grimm (P, 27S,
cfr. 294), pensava a un influsso della limitrofa lingua fran-
cese. Noi invece incomincieremmo ad affermare che si tratti
di effetti identici, e tra di loro indipendenti , di una causa
stessa-, e così otterremmo, pel nostro assunto, pur una ri-
prova di quell'ordine che dicevamo estrinseco. Dove in-
tanto mi affretto a ricordarvi , che è celtica anche la gran
caratteristica basso-terranea (olandese) di ft in cht {liicht =
liift, aria, ecc.):, cfr. irl. secht, cimr. seith^ septem:, irl. necht,
cimr. iiith, neptis.
Quale sarà dunque la giusta spiegazione di codesta ri-
sposta galloromana dell' u latino? Manifestamente questa:
L' te latino era uno schietto u , come appunto suona nel
toscano duro q.cc.^ laddove Vii latino piegava all'incontro
ad o (0 chiuso), come appunto suona nel tose, noce nuce
ecc. Ora, il suono che tra' Galli stava men rimoto dallo schiet-
to u , era 1' ìì. E il lat. duro, per esempio, non potea dal
loro stromento orale esser facilmente riprodotto se non per
dììro [dììro diir).
Molto antico, cioè di latino volgare, e perciò molto lar-
gamente riflesso nella romanità seriore e moderna, è il dit-
tongo dell' 0 breve fuor di posizione ed anche in posizione,
che risuona , per es., nel tose, suole solet, o nel napolit.
cuoriie cornu. Queste pronuncie italiane già ci dicono che
fosse uno schietto u anche il primo elemento di cotesto
dittongo di volgare romano-, e si aggiunge V ne spagnuolo
- 24 -
(per es. nuevo novus, cuerda chorda), in cui la determina-
zione del secondo elemento deve dipendere dairaccento che
un tempo era fermo sul primo (v., per ora , ylrc/z., IV,
4o5)(i). Analoga determinazione s'ebbe tra' Galloromani; ma
poiché in qucst' ne (poi uè) era uno schietto u, e anzi un ii
schietto e accentato , la piena e specifica pronunzia gallo-
romana ne dovette essere ne. Così novo diede primamente
un gallico nììevg niiev , forma positivamente attestata, alla
quale ora appunto miriamo -, e V ò, che risuona nel JiÓfdì
pronuncia francese o lombarda , altro non è se non una
resuhanza seriore o monottonga di codesto ile galloromano,
ottenuta per quel processo di assimilazione, che si può, in
via approssimativa, descrivere cosi: nììef niioif Jiof.
Qui l'importanza degli idiomi ladini si fa grande. La fase
dell' ììc risuona ancora neh' Engadina (limitata alla for-
mola OR -1- cons.), dove proprio assistiamo alla riduzione che
teste si poneva per la Francia o per la Lombardia (cfr. gli
eng. i'iert hortus, oss osso, 6f ovo, ecc., allato agli spagn.
Imerto hucso huevó). E in Sopraselva, cioè in uno dei ter-
ritori galloromani dove V il da u si risolve nello schietto /
{dir durus, ecc.), pur questo dittongo ììe si dovea risolvere
in /e, come in effetto avviene, senz'alcuna restrizione di for-
mola (sopras. iert iess ief nicf i^cc).
Ma è un fenomeno d^ordine generale, e costante in specie
nelle regioni per le quali ora ci moviamo, che una conso-
nante gutturale, la quale riesca attigua ad / o ad altra vo-
cale prossima ad / , si riduca tosto o tardi a consonante
palatina. Qui scriveremo , per una semplificazione che in
questo luogo non nuoce punto, non altro che e per V al-
(i) Un'analogia abbastanza notevole, ma d'ordine affatto generico, è
offerta dalla evoluzione germanica : ?Ve, ' umlaut ' medio-alto-ted. di
2Y0, = got. ó; per es. mììele molerem, allato a muol molui, got. mól.
- 25 -
terazione palatina di un k di fase anteriore , qual pur sia
Tetà in cui l'alterazione si produce o la sua più precisa
determinazione fisiologica; e ci ricordiamo imprima dell'an-
tica riduzione di q1 v]i, come in cinque = kinque = quinque
[v. sopra, p. 14 n]; poi di quella che si rappresenta per
r inglese chiit, cioè c'in , allato al tedesco kinii il mento.
Per non diversa ragione, diventava e' un k che precedesse,
nelTengadinese o nel soprasilvano, alT il od i del dittongo
He ie = ó latino -, e così corpus, passando per cùorp e
citerp o kierp, dà finalmente ai Soprasilvani : c'terp o quasi
c'ìrp (engad. c'ìierp). Ugualmente cornu, passando per
cùorn e ciìeìii o kiern , finisce per dare ai Soprasilvani :
ciern o quasi cirii. E tollerate ancora V esempio di e o-
r i u m , che imprima dà cuor io ciioiro , onde regolar-
mente kìleir (eng. cor da cue\i\r) , o kieir, onde si finisce
nel soprasilvano air.
Or quale conclusione si ricava , da tutto ciò , in ordine
al quesito nostro ? Molto semplicemente, ma altrettanto si-
curamente questa: che si passa da osso a is ^ da horto
a irt , da cornu a cirn, da cor io a czV, e via così di-
scorrendo, per effetto di una semplicissima e evidentissima
causa d'ordine etnologico-, pel solo fatto, cioè, che Vìi fosse
il profferimento celtico , il quale meno si scostasse dallo
schietto u di pronunzia romana. Assistiamo a una così pro-
fonda trasformazione della parola latina, senza aver bisogno
d'invocare, anzi dovendo escludere, in ultima analisi, ogni
altra causa alteratrice. Di ragione subalterna, o individua-
trice, o come altro mai la vogliano dire, qui non occorre
se non questo : che uno dei due distretti mantenesse V ìì ,
e dell' il poi naturalmente risentisse un particolare effetto
[ììe 6) -, mentre nell' altro distretto l' il molto chiuso si ri-
duceva ad z , e dell' / ivi naturalmente s'avea qualche par-
ticolare effetto {ie i). Ma è chiaro insieme, che pur questa
- 26 -
differenza non esista se non perchè s'era avuto primamente
r il per Tantico u, e così ritorni essa medesima all' ordine
etnologico.
2. Nella precedente dimostrazione ci accadeva d'incon-
trare la riduzione francese o lombarda, per la quale s' ha
nov da niiev {nuev), e via così per tutta la serie. Questa ri-
duzione or mi porta a un' osservazione accessoria, che ben
si conviene , essa pure , al discorso che veniamo facendo.
Voi ricordate giustamente ciò che nelle Lezioni si oppo-
neva al supposto del Diez che nel francese vadano senza
altro tra di loro confuse la serie dell' o e quella dell' Ó. Ma
giova vedere ancora più in largo.
11 dittongo galloromano per l' Ó e per 1' il del latino
classico, è nella sua più schietta forma : óu (che vuol dire
il rovescio dell' antico dittongo volgare dell' ó breve : uo) ,
in giusta simmetria col dittongo galloromano per V e o V ì
del latino classico, che è nella sua più schietta forma : éi
(e vuol dire il rovescio dell' antico dittongo volgare dell' é
breve: ic). Ricorrono entrambi incolumi tra gli Emiliani :
bologn. óiira hóra, lóuv lupus, allato a dvéir debère, peil
pìlus(i). Incolumi occorrono anche tra i dialetti franco-pro-
venzali: aost. óura^ nevóu nepòte, lóii lupus, allato a. pléiìia
piena, pei pìlus. Son dittongazioni estranee all' Italia pro-
(ij S'ottien buona riprova dcU'antichilà o dell'importanza organica
di questi dittonghi emiliani, quando si confrontino con V ci e V oh
che altrove s'hanno come sviluppi seriori (caratteristici però anch'essi).
Quando ei ou sono seriori, non dipendono dalle basi latine (ei = é),\
Oli ='óu); cir. Ardi., l, 483; laddove nel bolognese ne dipendono;
e perciò Jìour allato a cor; valeir allato a y/r beri. — Del resto,
circa la molta antichità di tutti codesti fenomeni, pei quali s'ha così
larga e viva la congruenza corografica e intimamente istorica, voi
non potreste parlare più correttamente di quello che fate: e io anzi
sarei stato più rigoroso circa 1' inaniti\ di quegli argomenti in con-
trario, che voi maliziosamente chiamate cartapecorini.
— 27 -
pria, alle isole italiane, alle Spagne e alla Rumenia, e
ora appunto moviamo a rintracciarle in Francia e nella
zona ladina. La congruenza corografica è dunque al-
trettanto manifesta che per V il. Quanto alla congruenza
intrinseca, essa è dimostrata, per Fez", nel numero che
segue. Per 1' oii, non vedo che i dialetti britoni offrano al-
cun diretto riscontro-, ma è un caso molto analogo quello
deir du cimrico da Ù di fase anteriore-, p. es. cimr. llairn ~
irl. Icui pieno, llaivr, pi. lloriaii., = irl. làr suolo (cfr. cimr.
dìvr, pi. oriaii, da non confondersi però senz'altro colPant.
fr. houre, ingl. Jioiir, hóra). Del rimanente, qui basterebbe,
per la congruenza che diciamo intrinseca, il parallelismo
già notato delP ei da e {e ì), e il nostro ragionamento ha ,
in questo numero , un assunto alquanto diverso che non
negli altri,
L' óu per o (Ó w) manca ai dialetti lombardi , come vi
manca 1' éi per e [e ì). Nel Piemonte e nella Liguria, è
r ei\ ma T óu (per Ó iC) non vi risuona, o mal più vi ri-
suona.
Tra i dialetti franco-provenzali, T ou per o (Ó w), che già
citammo, può anche allargarsi in au , corrispondentemente
air ei per e (d t) che s''allarghi in ai. Così nella Taran-
tasia (Savoia) : meilldu meliore, gdula giila , analogamente
ad avai habére, nai nìve-, tee. Per tal modo, la distanza
tra il dittongo dell' o (o) e quello dell' o io), vi si fa vie-
maggiore; e nel tarantasio avremo p. e.: cuér core, buén
bono, allato a Jldur flore, nevdii nepòte.
Nel francese, all'incontro, come s' era avuta la riduzione
dell' 0 \n e nel dittongo dell'ó breve {no ue\ già vedemmo
similmente: ne savoiardo, ne spagnuolo, ecc.), così visi è
avuta, meno anticamente, la riduzione identica dell' o in e
nel dittongo dell' Ó e dell' u. Il galloromano Jìóur flore, a
cagion d'esempio (che è del piìi antico francese, e, impor-
- 28 -
tato embrionalmente neirantica Inghilterra, vi sussiste, e
anzi allargato), si ridusse a un ant. frc. fleiir^ di contro al
pur ant. frc. cuer core. Anche tra' Francoprovenzali occorre
pur questa riduzione; onde nel valsoanino: doléiir dolóre,
allato R sucr soror {Aìxh.^ Ili , 12). Né manca nella zona
ladina-, e così nella sezione occidentale: éiwa hòra , iiéiis
nós (i). La corretta differenza {eii =Ò , ne = o), che è rap-
presentata da Jleur e cuer, si mantiene con bella costanza
neir antico francese (2). Ma come ne finì per dare alla
Francia la riduzione monottonga i) (ciier cuoer cor), così
ivi s'ebbe la stessa riduzione anche per V cu (fleur floeur
flòr), e siamo, in ultima analisi, alla resultanza identica di
due identici fattori (la somma di // -f- e , o di e + «),
punto non ostando , in questo caso , la contraria disposi-
zione che era tra le due combinazioni diverse. Per questa
(i) Ardi. f^L, I, i32. Nella sezione centrale è anzi un territorio, in
cui r eii, dittongo dell' ó e dell' ìi (che ivi oscilla sicurissimamente con
r OH, malgrado ogni testimonianza che a ciò paia contraddire), si
viene a trovare allato all' ne, dittongo dell' 0 (p. e. Jldiira allato a
ciier), così ottenendosi, qui pure, una condizione che grandemente
si accosta a quella dell'antico francese; v. ib. 365.
(2) Nell'affermare molto nitidamente questa distinzione, il Tobler
(Li dis don vrai aniel, p. xxvi) appuntava 1' eu degli ant. fr. leu jeii
feii, che gli facea difficoltà, le basi essendo di 0 breve. Ma V u di
queste tre voci è veramente 1' u finale della base latina, o meglio V ti
finale attratto. Avviene cioè, che nella base galloromana si ripercuota
codesi' u dopo la vocale accentata che precedesse a un ^ primario o
secondario. Così tagu ha dato /rfw^w, donde soltanto può aver ra-
gione il lomb. fo — prov. fan (cfr. lomb. avost augustus mcnsis, ecc.).
E similmente: lóuglu] jóug[ii] /(hig[u]: onde, col dittongo dell' o, il
frc. ant. avrebbe dovuto avere: liieu jiieii fiteii , che si son semplifi-
cati in leu ecc. La base galloromana è nitidamente continuata nel
soprasilvano, che dà: liug lieus;, giug gieug, fiug fieug (fieuc^. Qui
r u è affatto manifestamente 1' u finale , attratto, della base latina ,
poiché Vu del dittongo [uo ite) qui sta normalmente nell'/ (?z;y/ novus
ecc., già uddotli di sopra'. \'. Ardi, gì., I, 27 ecc.
- 29-
via le serie dell' o andarono finalmente tra di loro confuse
e nella pronuncia e nella scrittura francese (i).
Come dunque si conchiude , un po' più stringentemente
di quello che faceste voi? Il francese ha smarrito la distin-
zione delle due serie dell ó {o o : JÌÓr cor) , non già per
alcuna confusione iniziale, ma pel fatto che la determina-
zione galloromana dell' o ha subito due ulteriori fasi d' al-
terazione {oii : eu o), alle quali il bolognese, per esempio,
o il savoiardo, rimane estraneo. Il lombardo, alla sua volta,
ha bensì la propria evoluzione regionale, così dell' o , come
dell' e [viic vóce, sira sera) (2), ma non è evoluzione speci-
ficamente galloromana-, e così, non solamente distingue il
lombardo tra la serie à\Jìùr, lira, e quella di cor, fora ,.
ma serba insieme, tra le due serie, una differenza antigal-
lica, non dittongando il riflesso dell' 0. Questa maggiore
italianità del lombardo, rispetto al francese o all'emiliano,
si riconferma per le condizioni diverse che sono , tra
lombardo da una parte, e francese e emiliano dall'altra, in
ordine alla espunzione delle vocali fuor d'accento. Ma al-
l' emiliano, per contro, è o si fece estraneo , generalmente
parlando, l'ii (e quindi 1' o), comune al francese e al lom-
bardo-, come non ebbe questo suono, o ben piuttosto l'ha
smarrito, il friulano, all' estremità orientale della zona la-
dina (3); e la serie di queste misurazioni, come bene ac-
cennate, andrebbe lungamente continuata e ragionata, anche
(i) Cfr. ScHucHARDT, Volì., II, 147-8; c Neumann , Zur laiit- und
flexionslehre d. (j/(/"r., Heilbronn 1878, p. 47. Come parallelo d'or-
dine meramente fisiologico , sien qui ricordate quelle serie nordiche
tra le quali va 1' 0 islandese per 'umlaut' dell' a , promosso da 2/;
p. es. MÓgiin {*kldiigun ecc.) querela, allato a klaga accusatio.
(2) Cfr. il siciliano, Arch. gì., II. 145-46; e il cimrico, Zeuss ,
*99-ioo.
(3) hlne ecc., allato a suéle ecc., Arch. gì., I , 499, 494-95; ma Va
è ancora nel Comelico, ib., 384-85. Cfr. 1' u e Va in Val di Rumo,
allato air 11 e Vue in Val di Non (Fondo), ib., 324, 327-28.
— 30 —
pel franco-provenzale e il provenzale. Or le differenze che
ne resultano, in parte hanno di certo la lor piena ragione
dalla proporzione diversa in cui entrano i due fattori etnici,
il romano e il gallico , nella composizione del nuovo ente
nazionale •, in parte dalle diversità che pur certamente oc-
correvano nella qualità o nella composizione del substrato
anteromano di queste medesime terre che diciamo galliche.
Ma intanto, malgrado ogni difficoltà, noi ci accorgiamo di
continuo, che il nostro etnometro ci si viene affinando tra
le mani.
3. Qui però ci affretteremo a ritornare a più limpide
cose, rifacendoci a quel dittongo galloromano per 1* e di
fase anteriore (= e lat. ed ì iat.), che, nella sua piìi schietta
forma, suona ei , e circa il quale è già resultata , nel nu-
mero precedente , quella congruenza che diciamo coro-
grafica.
Lo schietto ei, com'è a Torino, a Genova e a Bologna ,
così è nel ladino di Sopraselva: seida, plein \ beiver, peil.
L' engadinese lo allarga in ai: saida , plain:, baiver, p-iil \
e anche un dialetto franco-provenzale ci mostrava, nel pre-
cedente numero, questo medesimo allargamento. La Francia
s' è come bipartita ;, e accanto alT ei, ebbe V oi (cosi, p. es.,
aveÌ7^ di tipo nornianno, apoii^ di picardo). Che 1' oi rap-
presenti un' alterazione delT ei^ è cosa per sé manifesta
(cfr., per entro a un medesimo dialetto di Francia : avoine
avéna, allato a veine vena); e si riprova indirettamente
per ciò 1 che i dialetti di Francia , ne' quali s' ha l' oi
per e od ì latino [soie-^ boire, poil), danno oi ugualmente
per ogni ei di fase anteriore, comunque egli surga-, e così:
droii (drejt, directo), moy.'ii (mejen me[d]iano) , qcc. Dal
profferimento, che la scrittura continua sempre a rappre-
sentare col suo oi , il francese è poi passato a oe od iid.
— 31 -
Orbene, il normal continuatore britone (cimrico ecc.) di
un antico e, sia celtico o latino, è appunto oi oe (o/, ni,
jpy). Così nel cimrico : ti'oi triii trwy = ant. celt, tré
(trans), bliiydyn bhvydyn anno , = ant. celt. b 1 e d [e] n i ;
cadwyn lat. caténa; kuyr hvyr , corn, coir ^ armor. coar^
lat. céra. Pur qui son pronte, se mai occorressero , le
prove indirette per la fase dell' d\ poiché vediamo che si
venga similmente air oi da altri ei di fase anteriore-, come
è p. e. nel cornice noit = "neit, neptis. Vorremo noi d'al-
tronde trascurare 1' argomento estrinseco che pur s'aggiun-
gerebbe mercè V oa dell' inglese ^ ce a anglosassone = é
antico sassone (ovveramente ei, come risuona nell'ant. alto-
tedesco; v. Grim.m, I% 357-59, 240, 106, KocH, I, 55-6),
e vuol dire la serie in cui entra Tingi, oath , giuramento,
di contro alTalto-ted. eid ? Non va codesto argomento, né
trascurato, né valutato fuor di misura (i). E s'esce, in com-
plesso, con la persuasione, che non solo sia di effetto gallico
la risposta dell' ei all' e di volgare romano [e 7), ma che sia
specifica anche la spinta per le ulteriori riduzioni : ui oe
tee. (2).
(i) Cfr. Grimm, ib., ^qy; ScHucHARDT,inGroeber's Zeitschr., IV,i23.
L'oz per ei è anche nel piacent. -oin =-ein = -en = -in. Circa i feno-
meni congeneri nei dialetti del versante adriatico degli Apennini me-
ridionali, lasciatemi ricordare ancora 1' Italia dialettale che già v' ho
citato (n. a p. 21).
(2) L' ui britone per è, dovrà egli in ultima analisi andar racco-
stato air eui che è nell'irlandese per è nell' 'infezione'? È questo un
quesito che ci porterebbe troppo in fondo ! — Vedo io bene, del ri-
manente, che all'affermazione di un'intima attenenza ira 1' 0/ {ui)
cimrico e 1' oi francese, la quale implica la molta antichità d'en-
trambi, si potrà opporre, a cagion d'esempio, che stia V ei , anziché
r 0/, nei più antichi saggiuoli di francese non normanno. Ma cosi si
ritorna alla questione di principi, di cui già accadde toccare [n. a
p. 19 ecc.], e della quale altrove parliamo a distesa. Sia intanto lecito
qui ripetere, che lo spoglio dei codici o delle iscrizioni è bensì cosa di
- 32 —
Che dunque si torna a conchiudere per il caso nostro :
La pronuncia, con la quale lo stromento orale de' Galli ha
meglio saputo rendere queir é molto chiusa per cui nel la-
tino volgare si continuavano Ve e T / (cfr. tose, seta, pelo^.,
è stato queir ci appunto per cui tra loro si continuava V e
lunga delle basi celtiche, di pronunzia chiusa sicuramente
momento grandissimo anche per l'effettiva storia del linguaggio, e
che voi perciò (scusate ancora) non fate bene a non parlarne sempre
con tutto quel molto rispetto e quella riconoscenza vivissima che a
siffatti lavori da tutti si devono ; rda che insieme è pur vero, non
essere codesti spogli se non uno solo dei fattori delia storia, e tal
fattore che moltissime volte riesce assai modesto in confronto di più
altri, o anzi riesce, non di rado, per molteplici cause d'imperfezione
e d'artifizio, così grandemente mal fido, che solo la critica più larga
e più severa ne può fare sicura e giusta ragione. Un paio di nuovi
esempi non parrà forse inopportuno. Il Rhys, nel suo bel lavoro che
già m'accadde citarvi [p. 22 n], dopo aver discorso dei dittonghi ir-
landesi ìa =z e e ùa =: ò (v. la nota che ora qui segue) , avverte che
sicure traccia non s'hanno, né dell'uno, né dell'altro dittongo, nelle
vecchie iscrizioni ogmiche d'Irlanda, le quali son probabilmente
posteriori al sesto secolo (o. e, p. io3-4). Orbene , non é egli ben
più antico il distacco del gaelico dall'irlandese? E come si può spie-
gare la perfetta congruenza dei sistemi fonetici di questi due dialetti
(compresivi i dittonghi di cui si parla), se non riconoscendo che i loro
caratteri sono anteriori al distacco? Del rimanente, appunto nel sesto
secolo è fiorito S. Colombano, venuto a morire, nel principio del
settimo, in Italia. Le nostre antiche chiose irlandesi, provenienti dal
suo chiostro di Bobbio (ottavo e nono secolo), si possono dir dav-
vero r immediata continuazione della sua tradizione letteraria e di
quella de' primi suoi discepoli o successori, quando sieno in ispecie
confrontate con le tiote irlandesi del Libro d' Annasali , che rappre-
sentan la tradizione letteraria dell'ottavo secolo nell' Irlanda stessa.
Ma codeste note e chiose hanno p. e. 1' ia (ta) per è, V éiiii per 1' è
' infetto', e insomma ci immettono in quelle condizioni istoriche, le
quali essenzialmente permangono per tutti i secoli seguenti. Chi me-
diti intorno a questo complesso di cose, non si lascerà di certo il-
ludere dalle apparenze d' incolumità fonetica che da qualche grama
iscrizione si possan ricavare. Solo un miracolo ci potrebbe condurre
da cotesta incolumità alle condizioni effettive dell'antico irlandese,
che ci sono con tanta e tanto viva copia attestate e rientrano con tanto
viva congruenza nel sistema istorialefcfr. p.40 n). — Or qualcheesempio
- 33 -
anch'essa (i). Nelle ulteriori evoluzioni di questue/ [ai,
oi ecc.), c'entreranno, lo ammettiamo, delle cause ' indivi-
duatrici '; ma, in queste medesime cause, ormai s'intravvede
la ragione etnica [oi q.cc.)\ e, a ogni modo, tutte le varietà
dipendono dalla prima dittongazione che ha chiaro il suo
motivo nazionale. Di guisa che, se ancora teniamo conto di
quel successivo esaurimento del d primario e secondario
che si compie per una larghissima distesa galloromana (sul
quale proposito si può intanto ricordare , a chi non abbia
di meglio, VArcJi. gì., I, 3o5-ii), resulta chiaramente che
in una cosi gagliarda riduzione, com'è p. e. quella del frane.
sud (seide soide soi[d]e) pel lat. seta, non v'ha nulla che ci
porti a imaginare motivi più o meno arbitrari e meschini. Ci
vediamo queir esito che della voce latina era naturale che
si avesse nel determinato filone salloromano.
&"■
4. 5. Vogliamo ancor toccare dell' a in e , e della ri-
duzione palatina delle gutturali susseguite da a , cioè di
quelle due principalissime caratteristiche, le quali occorrono,
o combinate o spaiate, per una gran zona galloromana che
va dall'Oceano all'Adriatico, e non occorrono all' infuori di
essa.
Raffiguriamcele imprima con queste rapide serie d'esempi:
che si riferisca propriamente al neo-latino. Chi vorrebbe oggidì ne-
gare che il dittongo dell' 0 {no qcc.) risalga al volgare romano ? Nes-
suno, io credo, tra quanti studiano ragionando. Ma egli tuttavolta
non c'è affermato da alcuna testimonianza, o di grammatici, o d'iscri-
zioni, o di qualsia altra maniera. E scendendo ben più in giù , né
Bonvicino, cioè il più antico autore in dialetto milanese, né le Rime
Genovesi, che sono il più antico testo ligure, hanno qualsiasi indizio
di o o di un qualunque dittongo dell' 0. Ma e' è più oggidì chi osi
sostenere che il dittongo galloitalico, o il suo esito, si debba ripe-
tere da un'età posteriore a que' testi ?
(1) Nella risposta ibernica dell' è, così celtico, come romano, è un i
lungo (ì^ ; cfr. cTs census). Analogamente é ti lungo («') in quella
deir ò, e s'incontra con 1' ù IH) del cimrico.
lijvista di filologia ecc., X. 3
— 34 —
frane, ame?' amaro, clef\ sez. occidcnt. della zona la-
dina (alto-engad.): sei sale, tt^ef trabe; sez. centrale della
stessa zona (garden.): eia ala, feyer fabro; corrente gallo-
ital.: piem. de dare, moden. /?a55é passare e passato-, ecc. (i).
frane, cher (ant. chier\ V/er) caro, chevre {diUi. chievre\
"c'ievre) capra; franco-prov. (savoi.): :{an ' c'an campo,
c'évra\ sez. occ. d. zona lad.: alto-eng. c'er caro, c'éin-a-^
sez. centr. della stessa zona : nonese c'ai^ caro e carro ,
c'avrà, garden, cancàn calcagno-, sez. orient. (friul.): calca
calcare (2).
Qui pure, la esplorazione degli idiomi ladini è riuscita
molto fruttuosa, discoprendo una continuità, la quale è af-
fatto impossibile ripetere da alcun'azione d'ordine politico o
civile, che sia posteriore alla conquista romana, e non può,
per conseguenza, non essere un effetto delle peculiari condi-
zioni etnologiche, anteriori a quel conquisto. Non si troverà
facilmente, io credo, chi oggi si attenti d'impugnare una tale
affermazione. Potè all'incontro e può parere, che, appunto
per questi due fenomeni, sia molto scarsa o manchi la riprova
diretta o indiretta che naturalmente se ne cerca nei territori
celtici non romanizzati. Ma, sin d'ora, non siamo poi così
poveri o sprovvisti, neanche d'argomenti di siffatta specie.
All'antico a si risponde, nel cimrico, come già ci occorse
di avvertire (p. 27), per au ajp : llaivn pieno (ibern. Imi),
paiip chiunque (ibern. cdch), brawt fratello (ibenr. brdthir),
priawi sposo (derivazione per -àt). Ne viene intanto, che
l'elemento si turbi di continuo. L' au si vede poi ridotto ad
eUj in llenmi empire, allato a llaìvn pieno, per la 'infezione'
(1) Cfr. Arch. s^l., I, 538 a, II, 445.
(2) Voi avete dimenticato, per la geografia di ca in e a ecc., la ben
utile scrittura del Joret [Du c dans les langues romanes; Parigi 1874;
p. 188 sgg.]. Ma circa le serie picarde e normanne, non ho bisogno
di dirvi che io sto per la teoria del 'ricorso'.
- 35 -
causata dall' -?'; ed è il parallelo delT e che s' ha normal-
mente, nel caso dell' 'infezione', per T a breve. Ma nel cor-
novallico e neirarmoricano, ricorre V eu, o semplicemente
e, senza che sia il caso delT' infezione':, e cosi: corn. lenii
pieno , peb chiunque , armor. leiin pep , breiider fratelli ,
priet sposo. L'Ebel suppose {Gramm. celi., ^96), che il cor-
novallico e V armoricano altro in effetto non dieno se non
il fenomeno dell' ' infezione', portato al di là de' suoi legit-
timi confini. Ma codesta dichiarazione si risolve appunto nel
riconoscere una tendenza, che ben conviene al nostro as-
sunto. — Per quello che è poi in ispecie della riduzione
dell' a [au eu) al solo e , potrebbe in taluno nascere il
dubbio , se forse non si tratti dell' imperfetta rappresenta-
zione di un suono che in sé compendiasse tutto l' eu (o).
Senonchè, l'armoricano odierno qui toglie ogni incertezza ,
per la nitida distinzione ch'egli mantiene, p. e., tra leùn
(lòn) , breùr [bror , pi. bì'eiideùr) ^ e pép , pried (i). —
Un'altra congruenza , e questa d' ordine estrinseco, va qui
ancora ponderata. Nella lunga serie di voci inglesi , alla
quale spettano bathe (cioè bceth), bagnarsi, di contro all'alto-
ted. baden, o grave {c\ot grcev), incidere, di contro all'alto-
ted. grabcn, noi veramente abbiamo un a in e. Onde pro-
viene ciò? Proviene, per ragione immediata, dall'anglo-
sassone, che ha codest' ce (1' a di Grimm), senza che c'entri
la ragione dell' 'umlaut' [badìi bddhes, graf). Ma l'anglo-
sassone donde ha poi egli questi turbamenti, che riman-
gono estranei agli altri idiomi germanici , eccetto il fri-
sone (2) ? La congruenza col frisone fa essa ostacolo alla
(i) L' aii da a ci è nei Grigioni per le sole formole an e ant ecc.;
p. es. soprasilv. satin maun, ant. alto-engad. tanni, maunc'a manca ;
e si riduce ad e nell'odierna pronuncia dell'alto-engadino : scem sano,
tcent ecc.; v. Arch. gì., I, 167 ecc., e cfr. Diez, P, 389, 449 n.
(2) V. Grimm, F, 327 sgg., 377 (cfr. 36o-6i); 4o3 sg. (cfr. 410);
— 36 -
presunzione di un motivo ' gallo-britannico ' di questa ri-
duzione, che si continua, pur con l'accento rimosso, nelle
voci romanze o latine importate in Inghilterra (p. e. grade
dot g-rced , ff race cioè groec\ labour cioè Lvbgr ^ naiion
cioè nxson nxsn , nature cioè ncetjur) ? Non vorrei , per
ora, dover rispondere (i).
Ripassando alle gutturali che diventan palatine {c'ar caro
ecc.), Tàmbito intiero delle riduzioni galloromane andrebbe,
mi pare, brevemente descritto a questo modo: I. Si riduce
a e', e rispettivamente a g (2), la gutturale innanzi ad a, a
formola iniziale, o interna dopo consonante (tipi : cavai ,
fórca, vacca\ gal, lónga). II. Il g di ga interno preceduto
da vocale, si riduce a / -, e ugualmente il e di ca nella stessa
postura , il quale passa prima in g (tipi : nejdr negare ;
prejdr, pajdr). III. Il g riuscito finale, che è quanto dire
il G delle formole finali go gu, passa analogamente in g e
y, secondo che sia preceduto da consonante o da vocale -,
e similmente il e di -co -cu, il quale anche passa prima in
g (tipi: larg fang, roj rogo, c'astij castigo; arc\ laj = lago
laco, dij dico, amij).
La correlazione tra' due esiti che abbiamo segnato per 1
e II (3), si può ancora veder nitida e sicura. Così, p. e.,
il ladino di Sopraselva, o almeno il dialetto soprasilvano
che prevale, è alieno dall'uno e dall'altro-, e come dice
382 sgg.; Gesch. d. deutsch. spr., 660, 680; Koch, Hist. gr. d. engl.
spr., 1,34, 47. Scarsi inizii nello svezzese e nel danese, Gr., F,499,
5i5 (cfr. 426).
(i) Cfr. V ae nel 'mittelniederlandisch ' per à a del 'mittelhoch-
deutsch', Orimm, P, 2S1 sgg., unitamente alle osservazioni che circa
l'olandese si son prima qui fatte (p. 23).
(2) Ricordo, per la semplicità di queste trascrizioni, quel che n'ebbi
a dire più sopra (p. 24-5).
(3) V. 'Saggi Ladini' {Ardi, gì., I), num. 160-Ó1 , 162-4, '65 ,
181-2, per es. a p. 2o5, 210-11.
- 37 -
caiild caldo e vacca, così ancora ^J^ar ecc. Ai dialetti del-
TEngadina, per contro, son propri tutt'e due^ e perciò:
altoeng. e od, pajér , bassoeng. c'àud, pagar [pajdr). Si-
milmente in Savoia : ^emije Vamize camicia , fuerie *fuerc'e
forca, allato a '{Oié giocare , ple'ié piegare ; o nel Friuli :
c'amése, fórce\ ^ujà, plejà. — L^esito che abbiamo segnato
col num. Ili (i), resulta esso pure in manifesta relazione
cogli altri due, ma in relazione non così ferma-, i suoi confini
anche sono, in parte, più ristretti -, e forse va distinta, in-
torno ad esso, più d'un'età. A ogni modo, la maggiore evi-
denza fisiologica se ne ha dalla zona ladina-, e da questa
sola ho io presenti degli esempi in cui il fenomeno si
compia dietro a consonante. Nello stesso soprasilvano (a-
lieno dalla riduzione nelle formole ca ecc.) s' hanno p. e.:
arx' arcus, pasc' pascuum-, e l'intiera digradazione si esem-
plifica pel basso-engad. suole' sulcus, accanto alFalto-engad.
siiolj , soprasilv. sulj (sole' solg solj). Nelle varietà triden-
tino-orientali della zona ladina, molto propizie all'esplosiva
palatina, è schietto lo -e' dopo vocale. Così in Val di
Rumo: foec' ecc., 'mbriac'\ in Val di Non : ///éc' ecc., lac>
lago. Per codesta formola , 1' evidenza ci è un po' turbata
dalle ortografie de' dialetti grigioni, le quali però non ces-
sano di avere i loro pregi. Così , allato al vic\ vicus , di
odierna pronuncia soprasilvana e basso-engadinese, c'è vich
vih delle grafie alto-engadinesi; o accanto al soprasilv. sig
sucus (2), l'antica grafia basso-engad. d:{uch (Valle di Mun-
ii) V. ib., num. 167, i83.
(2) Cfr. castig ecc., sempre però esempi in cui la gutturale era
preceduta da / soprasilvano. Uno schietto -g (-c'j, preceduto da altra
vocale che non sia l' r, non vedo ne' Grigioni. — Notevole, a questo
proposito, r -ic' da -ich tedesco, in liadarlic ecc., liederlich, di va-
rietà sopra- e sotto-silvane; cfr Ardi, gì., 1, 144: e qui, più innanzi,
la n. I a p. 41.
- 38 -
ster : silch su)^ odierno alto-eng. -uj. NelF antico basso-
engadino, occorrono : /cec/z fricech laec/i fuoco ecc., e analo-
gamente l'oech *ruego (preghiera), che nelF odierno diven-
tano : fi) (j'ò lo , ri). La fase con la continua palatina so-
pravvive, a cagion d'esempio, nel leventinese : fai g'òi Un,
o in f/ili di qualche dialetto del cantone di Neufchiìtel. In
giusta analogia avremo per lacus: ant. basso-eng. laich,
odierno alto-eng. leih lej , sotto-silv. lai, leventin. lai (e
laigh). Ugualmente è laj lai (le) in ' varietà piemontesi o
nell'antico francese, e '-ai = -ac nei nomi locali di Francia
e del Piemonte (v. Ardi, gì., II, 128), o nel prov. ibriai
ebriacus, o noWuvai vai, da opaco, tra' dialetti del Piemonte
(Flechia, Ardi, gì., II, 3), Per la qual via, s'arriva anche
al dileguo assoluto, come avviene ne' nomi locali di Francia
in -a {-at) = -ac.
Se, dunque, non sarà di certo superfluo che ben si ri-,
studii la serie qui segnata col num. Ili , mal si potrà, io
credo, revocarne in dubbio l'importanza istorica, conside-
rati che sieno i segnacoli della sua estensione nello spazio
e i suoi rapporti con le altre due serie. Ma non dovremo
noi insieme considerare qualche congruenza ' britannica \
in ispecie per quant' è dei filoni di media ? Se da argani
(ant. irl. argat), argento, si viene al medio-cimrico aryant
(odierno arian), o da bolg (ant. irl. bolo), sacco, al medio-
cimr. boly boi (odierno boly boi, stomaco ecc.), dovremo
noi renunziare all'idea che un'intrinseca somiglianza inter-
ceda tra cotali esiti cimrici e i galloromani di cui teste si
toccava? O non farà al caso nostro pur la serie in cui en-
trano i cimrici da (ant. irl. dag -dadi) (i), bonus, e ly
(cfr. ant. irl. teg tedi\ e gli od. pi. cimr. fai, teiaii), domus-,
fi] l derivati come dayoni ecc. (cfr. Zeuss, '140, Pi5, e il cimrico
odierno) non oserei tutlavolta dividere in daj-oni ecc.; cfr. drygioni
ecc.
- 39 -
od anzi lo stesso dileguo di g tra vocali, com'è nel medio-
cimr. Breit Brigita? Vedo bene, quante seduzioni e distra-
zioni, più o meno pericolose, qui da più parti ci vengano, e
in ispecie dalla storia della parola tedesca (i). Ma, sul ter-
ritorio celtico, noi abbiamo sicuri fondamenti per istabilire
la digradazione : g, gli, gj, j . In effetto, date le basi rg ,
LG, noi siamo al caso della più legittima delle ' infezioni '
britanniche , e ' infezione ', in ultima analisi , vorrà qui
sempre dire * aspirazione '•, onde occorrono realmente: corn.
arghans, armor. arc'hant (2). L' ' infezione ' sarebbe legit-
tima, secondo le norme del ^ e del ^^ pure pel g britannico
tra vocali e all'uscita (3)-, e in effetto, se passiamo all'Irlanda,
avremo p. es. il medio-irland. tigh iighe (cfr. teg teck,
tige, degli ant. codici), casa, della casa, o dagli {dag dadi
degli ant. cod.), buono. Senonchè, ogni gh irlandese, come
ogni dh j si riduce a non valere se non y {hj J)'^ e, alTin-
tèrno o all'uscita, finisce per tacere affatto-, onde, a cagion
d' esempio, sono ormai come identici tra loro T irl. dagli
(dà) e il cimrico da, buono. Così il lat. sucus (sugu-) è
(i) P. es., dalla serie cui spetta V [ng\. day di contro all'anglo-
sassone dag^ {dei anche nel frisone), o da quelle in cui entrano l'an-
glo-sass. beorh e lo svedese berg {berj), monte, berg , -bury. Ma
come sottrarsi a quella per cui dall'anglo-sass. swylic (swillc) s' ar-
riva all'ingl. such ?
(2) Pei filoni, che or qui si tentano, aggiungete a Zeuss-Ebel:
Stokes , Middle-Breton Hours , Calcutta 1876, p. 67; Rhys, o. e,
p. 59 sg., 223 sg.; D'Areois de Jubainville , in Mém. de la Soc. de
Lingiiist., IV, 2 56 sg.
(3) L' ' infezione ' importa per il d, ch'egli successivamente si possa
fare un'interdentale sonora {th sonoro ingl.) e alternarsi con ^; p. es.
corn. beth, cimr. bedd , armor. èe^, sepolcro, Zeuss, -142-44 (cfr 154-
55), Le Gonidec, Gr., 1839, P- 7- Questo 'stato ' del d primario, ri-
corda in particolar modo lo 7 =^ d del provenzale (Diez, 1% 234-35,
cfr. 23o); e il Maestro dei romanologi avrebbe forse parlato con
minor riserva di cotesto riscontro, se p. e. avesse potuto considerare
le intime ragioni del cimrico dd.
- 40 —
Stato sugli neirirlandese, come Tortografia sempre dice ; ma
ormai, passato di certo per siij (i), altro non è se non sii
(cfr. gli engadin. luch, suj su, sucus, addotti qui sopra).
Afferreremmo veramente una norma generale e fondamen-
tale, da dirsi ibernico-britannica, dalla quale resulterebbe ,
p. es., che il nome proprio ch'è in antica ortografia, iber-
nica o britannica, Dagàn (' Buonino'), volgesse da antica età
a una pronuncia da scriversi pressappoco Daghan Da-
ghjan (2)-, o resulterebbe, in altri termini, che, p. es., un
(i) Cfr. le pronunzie del gaelico [Scozia], ap. Ahlwardt in Vater's
Vergleichuiif^staf., p. 23 1.
(2) Con quest'asserzione si ritorna, più direttamente che mai, al
quesito sulla differenza che intercedesse tra la pronuncia effettiva e
quello ' stato fonetico ' che parrebbe rappresentato dalla ortografia
solenne o latineggiante delle iscrizioni; e io mi ci fermo volontieri,
anche per ripetere che nulla potrebb'essere più lontano dal mio pen-
siero che il negare altissimo valore alle testimonianze epigrafiche e
merito grandissimo a chi vi si affatica intorno. Ma se, p. e., le an-
tiche iscrizioni cimriche ci danno, come il codice Landavense, il g
di tigirn-, signore, vuol ciò mai dire che questo g fosse a que' tempi
una gutturale sonora ancora intatta? Pur l'antico irlandese scrive
semplicemente tigerna, ma nessuno perciò vi contesta 1' ' infezione '
del g, la quale dagli stessi antichi codici si ricava per argomenti ne-
gativi {g non gg, ecc.); e s'aveva dunque, pur nell'ant. irlandese, ti-
gherna, com'è scritto nel medio-irlandese, onde poi tace affatto il gh
nell'odierna pronuncia, così livellandosi la voce ibernica con la bri-
tannica. Il nome pr. Eu-tegirn (allato a Eu-tigirn) del Landavense,
accenna, col suo e , a una pronuncia non gran fatto diversa dall'o-
dierno teyrn, o anzi forse a questa identica pronuncia. Non mi voglio
valere del gh per g tra vocali, che parrebb' essere in un'antica ma
incerta iscrizione (Rhys, o. c, p. 364-65). Ma se addirittura avessimo
tern (—teirn) in iscrizioni antiche? lo lo credo. Il nome pr. Ettern-
Etern-, che occorre in due antiche iscrizioni, è tenuto dal Rhys per
latino, e il t gli parrebbe una geminazione arbitraria (o. e, 172,
275, 366, 393). Non farò difficoltà circa l'uso, abbastanza raro o mal
certo, del lat. Aetermts in funzion di nome proprio. Ma il Rhys tace
della serie Etern Edern Edyrn, che è data dalla Grammatica celtica,
-140-41, come di nome proprio composto in cui entri tigirn. Si fida
egli della dift'crcnza tra Llanedern e Eiitigirn o Mordeyrn ? Non do-
vremo noi conchiudcrc. che la effettiva pronuncia popolare, Eteint,
- 41 -
lat. negare dovesse andar facilmente ripercosso dai Celti
per neghjar. Dunque, mi chiederete, volete voi sempre qui
arrivare, più o meno modernamente, ma per antica spinta,
dalla gutturale alla palatina, passando per V 'aspirazione'?
Ed ecco un'altra domanda, io risponderei, che ci porterebbe
troppo in fondo. Ma intanto lasciate che vi ricordi, come
questa vicenda torni affatto manifesta in un caso ben di-
verso, ma pur sempre bene analogo, vale a dire in ct ,
CHT , JT , che è la elaborazione che si compie, così per le
basi propriamente celtiche, come per le galloromane (tipo
noci nocht nojt, tipo che s'impunta, senza turbarci, anche
nella penisola iberica) (i). I dialettologi inglesi come dichia-
rano essi r ai (ei) che succede all' i anglo-sassone nel tipo
niht (fris. nacìit) notte ? Voi ne potete vedere, in questo mo-
mento, ben più che io non possa (2). Se veramente si tratta,
per stare a quest'esempio, di nej't ^= nij't = nig-lit ^= niJit
(cfr. il cimr. teyrn da tijirn^ Zeuss, "140), noi riavremmo,
per la terza volta, la medesima azione esercitata da' Celti
sopra la medesima sostanza originale.
Ma tanto più giova che s'esca per ora da siffatte spine,
quanto è meno controverso (almeno tra' linguisti italiani),
che le due caratteristiche di cui ora s'è parlato (e = A, e a
è qui stata assunta alla dignità dell'epitafio, perchè essa rasentava una
molto nobile voce latina? Mi sia lecita finalmente, circa l'antichità
de' fenomeni caratteristici degli idiomi britoni , una considerazione
analoga a quella che piìi sopra facevo per gli ibernici (p. 32 n) ; il
venirle cioè una conferma incontrovertibile dall'intima congruenza
tra la fonetica del britone d' Inghilterra e quella del britone rifluito
in Francia ne" primi secoli dell'era.
(i) Per questa via, che qui è indicata in modo affatto sommario,
mi si è fatto chiaro, come da ct latino e da cht tedesco si arrivi, nei
Grigioni, a un prodotto identico, profondamente rimoto dalla base.
S'ebbe, per l'una base e per l'altra, la serie evolutiva: cht jt jtj c'\
p. es.: tee' tecto, die' dicht. Cfr. Arch. gì., I, 88, 144.
(2) [Cfr. KocH, o. e, p. i36,Rhys, o. c.,p. 62 sg.]
— 42 —
ecc. = CA ecc.) sieno di fondamento regionale o d' ordine
etnico. Solo ancora ci vorremo far lecito , a me' di con-
clusione, un esempio che in se compendii, per qualche ma-
niera, quest'ultimo paragrafo e quello che Tha preceduto.
Sia un riflesso di cadere, cioè del volgare cadére. Per
CA in c'a e pei fenomeni rappresentati dianzi dal frc. soie =
sei[d\a, noi arriviamo all'ant. frc. chaoir, moderno choir,
che vuol dire sudr, e con ciò a una delle maggiori diver-
genze fonetiche che si possano pensare. Ma la riduzione si
spiega, in ogni sua parte , per effetto di vicende che tutte
ancora si riscontrano, come a filoni continui , dalle Alpi
Gamiche airOceano (i).
(i) La vostra annotazione sulle congruenze sintattiche tra celtico e
galloromano, mi sembra corretta in ogni parte. Senonchè, ora do-
vete vedere anche Schuchardt, in Groeber's Zeitschr., IV , i5o sgg.
Le costruzioni irlandesi, a cui alludete, si potrebbero rappresentare
per questo esempio: is-he arn-dànatu dun, che è letteralmente: c'est
notre audace à nous. Vedete, del resto: Zeuss , -920-21. — Quanto
alle congruenze lessicali, bisogna andar col pie di piombo; e pur qui
vi giova Schuchardt, 1. e, p. i25 sg. Gli esempi che prendete al
NiGRA, mi paion tutti buoni ; e se a voi urta, pel dr e per altro, il suo
confronto del canavese c/ró^(3, mendicità , coU'irl. /?v7i?- [cfr.frc. /rw^ni;
cimr. truan — ant. irl. trdgàn , onde poi truaghan triiaan], egli ora
potrebbe per so invocare lo Zimmer, in Kuhn's Zej7sc//r.,XXIV, 208 sg.
Circa bega, contesa, che è pur del vocabolario italiano, ma è fermo
in ispecie nell'Italia Superiore, io vi diceva semplicemente, che se è
di vena celtica (irl. bàgli combattimento, bàghaim combatto, disputo),
potrebbe riuscire esempio prezioso per V e^=é. Circa il soprasilvano
digrar [deghirar daghirar), gocciolare, dicevo parermi, più ingegnosa
che giusta, l'idea di mandarlo col cimr. daigr , lagrima, perchè, a
tacer d'altro, qui mi parrebbe un miracolo la conservazione del g di
un gr mediano; e contro il vostro tentativo di combinare senz'altro
il friul. tòte [vivanda liquida] coll'ant. cimr. iot , ant. irl, Tth , puls ,
sta il fatto che i termini celtici attestano una forma fondamentale col
/ scempio, e il riflesso friulano (jote e non jode) accenna all'incontro
a // {et, pt). Il Du Canoe, d'altronde, vi avrebbe indirettamente pre-
venuto (s. jutta; cfr. Diefenbach, iVov. i?^/os5., 1S67, s. "^-Ìj^ ajiitta,
che fa capolino anche tra' vernacoli tedeschi , sarà da richiamare
pur l'antiquato spagn. jota, sorta d'intingolo o minestra, che manca al
- 43 -
Così abbiamo sempre trovato (num. i -5), per tutta questa
tanto frastagliata distesa di terra, una comunione di ten-
denze iniziali, che importano esiti conformi. Questo com-
plesso di tendenze, che non si riproduce nel resto della ro-
manità, e perciò resulta specifico, è troppo chiaro (diciamolo
pure più volte) che non dipenda da alcuna ragione di climi,,
né s'abbia a ripetere dalla depravazione fortuita delle pro-
nunzie di singoli individui, ed è all'incontro ben chiaro,
che in effetto egli si risolva in un motivo anteromano. Questo
motivo noi crediamo di coglierlo; ma anche errassimo in
ciò, resterebbero pur sempre le congruenze per le quali si
dimostra che tra di loro così intimamente si stringano i
parlari galloromani, e resterebbe Tantitesi che ne proviene
tra questi e il rimanente dei parlari neo-latini. Com'è dunque
che a siffatte condizioni maggiormente non si fermino i ri-
cercatori delle cause per le quali la parola latina, o la pa-
rola in generale, s'altera e si frange (0? Voi li accusate di
Diez e al Caix. — Finalmente, il parallelo ideologico, a cui accennate,
io noi facea valere se non come una coincidenza d'ordine meramente
ideale. Dicevo, cioè, che l' irl. Iàai7n \\o getto, mando, pongo] si as-
socia idealmente al lat. miltere che nel neo-latino è 'porre' (mettere),
e al buttare che tra i Franco-provenzali e i Piemontesi viene a dir
' mettere'. Il caso ritorna per pdWuu, che ai Greci moderni è ' get-
tare' e ' porre '; e rientra in quella gran corrente dell'abuso dell'energia
ideale, ch'ò tutt'uno con la riduzione del contenuto ideale della pa-
rola.
(i) [L'amico, al quale era diretta questa lettera, si doleva, in ispecie,
della noncuranza de' motivi etnologici che gli pareva di scorgere in
due autori, dai quali nessuno dissente senza grandissimo dispiacere :
il Whitney e il Delbruck; ma non ignorava che non da tutti si tra-
scurano codesti motivi, e così lo Schuchardt pensi di continuo alle
ragioni celtiche delle trasformazioni per le quali si determina il gal-
loromano, o il MiKLosicH scruti, con quella serena larghezza che gli
è propria, le ragioni ' autottone ' che agiscono sulla riduzione della
parola latina in parola rumena, seguito ora, con molto zelo, anche
da un valoroso indigeno, I'Hasdeu. Nessuno però ha affermato, con
maggior coraggio e maggior nitidezza, la riazionc celtica sul latino.
— 44 -
ostinazione; ma io altro non so vedere, nella loro trascu-
ranza, se non un effetto delle particolari difficoltà che sono
inerenti a tutti gli studi glottologici, e devon rallentare ogni
di quello che facesse il Nigra: 'Celticae gentes, latinam linguam
' magna ex parte utiquc mutuati sunt et proprio ingenio usuique ac-
' commodaverunt. Eo autem facilius hoc factum est, quo arctior erat
' nexus inter celticas et italicas linguas, quo citius Celtae in ditionem
' populi romani reducti sunt, quo magis Roma victrix subjectas im-
' perio gentes armis, litteris, artibus, legibus, institutis superabat. Re-
' vera romanicorum populorum glossarium et grammaticam latinam
' originem perhibent, quamquam in utroque satis frequentia celtica
'vestigia manent. Sed dum Celtae a Romanis glossarium et gram-
' maticam mutuabantur, propriam phonologiam servaverunt. Latinam
' linguam accommodaverunt legibus celticae phonologiae, propriis, ut
' ita dicam, organis propriaeque pronuntiationi [Glossae hibern. vet.
Cod. Taiir.; Parigi 1869, p. xxxii)/ Ma intanto il Whitney dice, per
esempio, nel suo bel libro La vita e lo sviluppo del linguaggio (tra-
duzione del D'Ovidio, Milano, 1876, p. 4, io sg.): « Né le divi-
« sioni linguistiche coincidono con le geografiche, e neanche, nei loro
<; limili e gradi, con gli apparenti limiti delle razze. Non di rado,
< ben più grandi son le differenze di razza che s'incontrano tra i par-
« lauti un sol linguaggio 0 un solo corpo di linguaggi rassomiglianti,
<; che tra quelli che usano dialetti affatto dissimili l'uno dall'altro
e La massa del popolo di Francia è di Celti, quanto alla discen-
t denza, con tratti caratteristicamente celtici che niuna mistura o
<■ educazione è stata capace d'obliterare; eppure è a mala pena di
t qualche conto quel tanto di celtico che vi è nel francese ; il quale
e è quasi puramente un dialetto romanzo, un rappresentante mo-
c derno dell'antico latino. Pochi linguaggi vi sono a questo mondo
< scevri di mescolanza, come poche razze vi sono cosiffatte ; ma l'una
t mistura non determina punto l'altra, né è la misura dell'altra. L'in-
« glese è di ciò una prova sorprendente ; dell'elemento franco-latino,
< preponderante nel vocabolario inglese, la parte più familiare e in-
< dispensabile vien dai Normanni, razza germanica, che l'ebbe dai
t Francesi, razza celtica, che alla sua volta la ricevette dagl'Italiani...»
Orbene, noi appunto stavamo vedendo, se il celtico traspaia, o no,
in questo ' rappresentante dell'antico latino ', e per ben altro che non
pe' cimeli lessicali ai quali il NN'hitney alluderebbe. Quanto poi ai
vocaboli francesi, che vennero . in molto abondante misura , a far
parte del linguaggio inglese, la realtiÀ ò ben altra da quello che al
ragionamento del nostro autore converrebbe. Di certo, feature (fai-
ture feture), reason e nation. a cagion d'esempio, son voci che ven-
— 45-
loro progresso. A voi è parso che io esagerassi nel misu-
rare queste difficoltà (i), e io mi proverò, un altro giorno,
a capacitarvi del contrario. A ogni modo, è non poco sin-
golare la sicurezza con cui taluni vengono a dirci, quasi si
trovassero in possesso del più apodittico di tutti gli argo-
menti: che ogni alterazione deve pur sempre essere stato
un individuo a produrla egli per il primo, e non rimanerci
se non di studiare come Talterazione individuale si diffonda
e finisca per diventare un fenomeno generale e costante, o
quasi un canone del dato linguaggio. Pare che non entri
pur nella loro imaginazione un caso come quello deir ù
che l'abitudine orale di tutt'intiero un popolo avrebbe pres-
soché istintivamente contrapposto a ogni u nitido e accen-
tato che era proposto nella parola romana alla imitazione
sua. La dottrina delle spinte individuali, la quale si risolve
nell'affermazione che la storia della parola dipenda, per la
massima sua parte, dalla pronuncia difettosa o arbitraria
gono all'Inghilterra dalla Francia. Ma vi stanno esse incolumi, come
piante cui sia ugualmente favorevole o indifferente ogni terra ? Mainò!
Vi stanno a questi patti : che la prima diventi fitjur , la seconda
rifn, la terza nés'ii [v. sopra, p. 36]. E vuol dire, che non solo
escono affatto dalla romanità, per ciò che perdano l'accento latino,
ma che anzi subiscono un nuovo complesso d'alterazioni, in cui non
è punto assurdo o intempestivo che il glottologo tenti distinguere tra
la nuova parte che ne spetti a motivo celtico e quella che a motivo
tedesco, cioè a ciascuno dei due elementi onde constava la compa-
gine nazionale dell'Inghilterra, quando vi si immetteva per terzo il
francese. — I motivi etnologici sarebbero poi singolarmente trascu-
rati dal Delbruck nella sua d'altronde ben pregevole Introduzione allo
studio della scienza del linguaggio, là dove disserisce sulle mutazioni
fonetiche ecc., a p. ii6 sgg. dell'originale, p. iiS sgg. della versione
italiana di P. Merlo, Torino (Loescher), 1881, la quale appunto so-
prarriva mentre io aggiungo questa nota. — Insieme sopraggiunge
anche La glottologia e i neogrammatici del Fumi, Napoli 188 1, che
verte, con savia temperanza, intorno alle questioni di cui si toccava
nella prima parte di questa ' Lettera '.]
(I) Sr. Crit., II, 4 sgg.
- 46 -
di singole persone (i), non sarebbe tale, veramente, di cui
avessimo gran fatto a impermalirci in questa età che pro-
clama così tenacemente gli umilissimi principi d'ogni umana
cosa -, e avremmo pronta, al postutto, una consolazione non
piccola, poiché simultaneamente si afferma, che non solo
resti salda la dottrina delle trasformazioni regolari e speci-
fiche dei suoni di ciascun linguaggio, ma questa anzi si
debba intendere, d'ora impoi, con un rigore non mai prima
sentito e draconianamente inesorabile. Noi dunque ascol-
tiamo sempre e ascolteremo volentieri tutto quello che ci
sappiano insegnare circa gli sconvolgimenti che le pronunzie
individuali riescano a causare nelle tradizioni glottiche di
tutto un popolo-, e lungi dal negare Tutilità o il bisogno di
insistere anche nelle percezioni di codesta maniera, ci fer-
miamo sempre, per quanto è da noi , a distinguere quelle
determinazioni particolari o subalterne, che sogliamo dire
à' individuazione regionale (2). Ma qual pur sia il modo in
cui si pensi che la gran comunità dei parlanti accolga e re-
goli o simmetrizzi gli errori o gli arbitri" personali, ne
verrà sempre, che gli effetti di tale azione, se la imagi-
niamo grande, avrebbero dovuto perturbare Tordine storiale
della parola, causarvi continuamente dei salti o degli strappi,
rendere insomma impossibile, o anzi impensabile, quella
che diremmo la storia naturale e ragionata delle lingue. Or
la verità è all'incontro, che questa storia ci resulta sempre
più viva e più sicura, perocché sia come un'ampia tela, che
si svolge, di fase in fase, con intera continuità e per via di
coerenze generali. E quando v'hanno influssi di una lingua
(i) L'affermazione si potrebbe accettare, senza molta difficoltà, in
quanto si volesse riferire a diverse tendenze orali per cui andassero
tra di loro distinti dei veri patriarchi, generatori di primi nuclei di
tribù o di popoletti.
(2) [V. per es. qui sopra, a p. 23-6 e 33. J
- 47 —
nelTaltra , questi costituiscono , occorre appena avvertirlo,
dei nuovi fatti storiali, ma non interrompono o non con-
traddicono la storia. Noi cosi ricomponiamo le vicende più
che due volte millennari della parola latina-, e troviamo
bensì, ch'essa vada alterata, e anche di molto ; ma le alte-
razioni, da quali cause pur s'abbiano a ripetere, rispon-
dono, generalmente parlando, alle ragioni fondamentali di
questa medesima parola, per guisa che s' ottengano come
altrettante copie, a varT colori, ma tutte a lor modo fedeli,
di un-o stesso originale. Nulla, di certo, è eterno quaggiiì ;
e può, per esempio, avvenire, che la trasformazione im-
porti il tramonto di antiche differenze, cioè il coincidere di
due o di più elementi, diversi in origine tra loro. Ma pure
i motivi di siffatti avvenimenti ci soglion resultare perspicui
e non punto capricciosi. Così più sopra ci ricordavamo del
come e del perchè il continuatore dell' o breve e quello
deir 0 lungo venissero a confondersi tra loro nella regione
francese. Vi si confondono similmente il g delle antiche
basi GÈ Gì (col quale va, come neir italiano ecc., anche il
^ da J-; cfr. it. gelo gelu e già jam), e il ^ seriore, gal-
loromano, proveniente dal g della base ga; onde, per es.,
oggi s'ode ugualmente uno \ in gémir gemere, jumeau ge-
mello, o in jambe gamba e large larga. La ragione, per la
quale una almeno delle due serie parrebbe scardinata , sta
in ciò, che il g seriore, cioè quello che sorge dal g della
base GA, si "rallenta ' anch'esso, come si 'rallentava' 1' altro
e diverso g delle basi gè gì , o come si 'rallenta' il e se-
riore della base ca {cavai sevdl) \ e i due diversi g fini-
scono, in questo conforme processo, per andar tra di loro
confusi. Lo d\^ direbbe un fonologo tedesco, onde pressap-
poco constava ciascuno dei due g , perdette , in entrambe
le funzioni, il proprio elemento esplosivo, cosi come lo per-
deva lo ts onde constava il e di c'avdl ecc. Ma nel parai-
- 48 -
lelo di 'tenue', il e' di ce ci essendosi ridotto a mera sibi-
lante dentale (e così, per conseguenza , anche lo se' di sce
sci; onde, p. e.: ccndre, cioè gadve^ cinere, comQ poi ss-ou,
cìoh piiac-'o, pisce, ovveramente 'pesciolino'), punto non av-
venne che le sorti sue si confondessero con quelle del e' di
CA, il quale vedevamo che si riduca a s\ e nessuno difetto
o arbitrio di pronuncia è entrato mai a turbare la nitida
e pur lieve distinzione che è tra le due serie {gadre\ seval)\
ne mai più la turberà. Nella zona ladina, poi, la distin-
zione si mantiene ugualmente sicura, così tra le due serie
di tenue, come tra le due di media (tipi: c'ener e casa ;
gener e gal). Non è bastata la scarsità o l'assoluta man-
canza di tradizioni letterarie, perchè alcuna causa, o for-
tuita o volitiva, valesse a farle mai uscire, o deviare co-
munque, dall'orbita della storia. E non solo per ciò che è
d'intere serie, ma anche in ordine a casi singoli o isolati,
dei quali 'a priori' si stimerebbe incredibile che potessero
andare incolumi attraverso a' secoli, contrariati come pur
erano da analogie più o meno generali, si riscontra assai
frequentemente una tenacità che sa di prodigioso. Vi ricor-
date come dicevamo, che sin da' tempi romani, e non per
ragione etimologica, lo scendere di de-scendere dovesse con-
sonare, per Ve chiusa o lunga, con vendere., dove cotest'e
ha la sua ragione etimologica , cioè antichissima o addirit-
tura indo-europea (2^t?;zo ^= vesno , iLvo- (tee). Vedevamo il
toscano darci vendere scendere., con V e stessa di avere ^cc.^
e tal quale il siciliano darci vìnniri scinniri , con T i di
avìri Q.cc.\ e vuol dire, che l'analogia generale dell'e aperta
toscana {e siciliana) per T e latina in 'posizione', analogia
che invale pur nella formola end {tendere pendere prendere
accendere, faccenda merenda:, sicil. sténniri pénniri)., non è
mai bastata a travolgere que' due esemplari divergenti. Il lat.
stella dovette avere anch' egli, non si sa bene perchè, un'e
- 49 ~
di pronuncia lunga o chiusa-, e malgrado le seduzioni, non
solo dell'analogia generale, ma del filone amplissimo in cui
r e aperta appunto risuona in -elio ed -ella , oggi ancora
il toscano sta saldo allV chiusa del suo stella, per la quale
egli si combina esattamente con lo stidda (non stedda) di
Sicilia, stéila de' Piemontesi e de' Ladini, savoiardo esséila,
frane, étoile, tutti con la giusta ma come eccezionale risposta
da e lunga, anziché da e breve latina.
Ma ritornando più specialmente alla noncuranza dei mo-
tivi etnologici, egli è abbastanza naturale che coloro, i quali
non se ne danno per intesi quando si tratti , per esempio,
di studiar la riduzione della parola romana nelle Gallie,
molto meno ci pensino quando la lor mente si rivolge a
cose piià rimote, o tenti addirittura le cause e i modi per
cui si son determinate le antiche varietà della famiglia indo-
europea (il tipo indiano, Tiranico, il greco, il germanico, ecc.).
Nelle indagini sulle particolari convenienze che tra questi
vari tipi intercedono, o sul diverso grado che loro spetta
in ordine alla conservazione dell' organismo primitivo ( i ),
par davvero, per adoperare una frase vostra, che ' invalga
come una moda di parlar de omnibus rebiis\ tranne che
d'incrociamenti tra genti ariane e non-ariane, o anche tra
Arii di varie stirpi, che prima si andassero più o men lun-
gamente divisigli uni dagli altri. Un paragone, com'è quello
della parola latina che per la potente riazione degli indigeni
si riduca a parola francese o a parola rumena , parrebbe,
nel leggere i loro libri, che non istia tra le cose pensabili.
(i) [Una lucida e ragionata esposizione delle due principali teorie,
quella cioè dei vari distacchi, simboleggiali ntW albero (Schleicher
ecc.), e l'altra delle varietà imaginate in serie continua, a guisa di
una catena che ritorni in sé stessa (Johannes Schmidt), è nell'opera,
già ripetutamente citata, di DelbrUck, p. 129 sgg. dell'originale, 139
sgg. della traduz. ital.]
Tijvista di filologia ecc., X. 4
— 50 —
Fanno, si direbbe, di non vedere o di non credere, che se
i due termini asiatici della parola ariana [l'indiano e l'ira-
nico], i quali nelle lor più antiche fasi letterarie si conci-
liano ancora così agevolmente in un termine solo, vengono
successivamente a diverger cotanto l'uno dall'altro, la causa
principalissima della gran divergenza si tocca, per cosi dire,
con mano, ed è quella di cui avete così bellamente parlato.
L'organismo ariano va sfibrato e guasto, per Fazione dele-
teria ch'esercita sovr' esso l'India aborigena^ e varT incro-
ciamenti si sono bensì avuti di certo anche nell'Irania, ma
gli effetti ne resultarono, generalmente parlando, men gravi,
sia per la qualità degli elementi eterogenei in cui V ariano
qui s'imbatteva, o sia piuttosto per le ragioni del numero
e della civiltà , le quali riuscisser qui più favorevoli agli
Arii che non sul continente indiano (i). Or come si fa a
non inferire, con giusta discrezione, da questi casi a quelli
della prisca Europa ? La giusta discrezione voi la sapete
sùbito misurare e vuole esser molta, poiché nessuno di
noi può dimenticare la differenza che passa dall'affinità che
interviene, p. e., tra latino e francese o tra sanscrito e ben-
galico, a quella che all' incontro intercede tra il greco e il
latino o tra il gotico e l'antico slavo. Nel primo caso, —
dove la parentela si può significare, per via d' esempi, col
lat. o ital. stato, di contro al frane, cté, o coU'equivalente
sanscr. stìnta (nomin. sthitas sthitò), di contro al sindio
thio, — si dice, abbastanza correttamente, che una lingua sia
generatrice dell'altra, o pur che questa sia una degenerazione
(i) La diversità delle resultanze, secondo che c'inollriamo a nord-
ovest o a sud-est dell'Indo, si rappresenta, abbastanza correttamente,
per esempi come son questi: neopers. burndar , sind. bJmu , fratello,
che rispettivamente risalgono a bràtar- e bhràtà (*bhràto); — neopers.
ast, pracr. atthi, è, prototipo asti; — neopers. haft, indost. sàt, sette,
che rispettivamente risalgono a hapta e sapta.
— 51 —
di quella. Nel secondo caso, -— che può essere rappresen-
tato pel greco a-mélgo, allato al lat. miilgus [capri-miilgus ;
mulgeo), o pel got. dauhtar, allato al tema lituano dukter-^
figlia, — gFidiomi diversi resultan tra loro nella relazione
di fratello a fratello, o come in una certa parità di grado.
Senonchè, egli è ovvio imprima, che dagli incrociamenti
(come già con brevi parole s'è testé accennato nell'avvertirsi
la differenza generale tra neo-persiano e neo-indiano, e
come accadrebbe di avvertir facilmente pure sul campo neo-
latino) si possono avere effetti grandemente diversi, secondo
le proporzioni e le qualità dei fattori. Quando ci traspor-
tiamo a età così remote come son quelle in cui si matu-
rano le differenze per le quali sorge il paleo-italico, il go-
tico ecc., le condizioni di quantità o di numero, per dir di
queste sole, dovremo di certo imaginarle ben più modeste
di quelle che ci rappresentino, a cagion d'esempio, il cozzo
e la mistione degli Arii e degli Aborigeni nella penisola
indiana. Urti sovversivi la parola ariana non ne avrà su-
bito, in nessuna parte dell'antica Europa-, ma gli urti si
saranno grandemente moltiplicati, lungo la sterminata di-
stesa di secoli. C è poi da considerare, in secondo luogo,
che il rapporto di fratellanza o di parità di grado, il
quale si afferma esistere tra il greco, il latino, il gotico ecc.,
va, alla sua volta, inteso anch'esso con giusta discrezione.
O anzi diciamo addirittura, che in codesta affermazione vi
ha non poco di esagerato e di scorretto. Sin che si tratti
del nucleo fonetico della parola, potremo dire, abbastanza
giustamente, che la sostanza primordiale sia continuata, nei
diversi termini, per modo che , suppergiù, nessuno di essi
termini sovrasti all'altro, nessuno abbia perduto o innovato
più dell'altro (i). Ma se veniamo alla flessione, o anche
(i) La stessa laiitverschiebung, piuttosto che una vera innovazione,
- 52 —
alla sintassi rudimentale, come si può sostenere alcun che
di simigliante? Il greco torreggia solitario, per la meravi-
gliosa incolumità delTorganismo ariano che a lui è propria.
Il latino, o diciam pure il paleo-italico, bene è di certo il
linguaggio che men d' ogni altro si discosta dal greco ^ e
chiude gli occhi alla verità chi a ciò non consente; ma u-
gualmente li chiude chi ciò non affermi con giusta discre-
zione. Poiché, malgrado le particolari congruenze, quanto
grande non resta egli il distacco tra i due linguaggi , per
esempio nella flessione del verbo ! Tutte insieme sommate
le differenze, per le quali vanno disgiunte ira di loro le lingue
neo-latine (la rumena compresa), non basterebbero a coprire
una modesta parte di codesto distacco (i). Il quale natural-
mente si risolve in ciò, che il paleo-italico perda o innuovi,
mentre il greco sta fermo airarchetipo. Or come si spiega
codesto? I climi è manifesto che non ci possono entrare. La
ragione del tempo neanche; poiché lo stesso numero di se-
coli è passato sopra la voce che è didòmi nel greco {dd-
dàmi sanscrito) e sopra quella che è do nel latino, la prima
può dirsi, con linguaggio musicale, un trasporto che non turba Var-
monia.
(i) Chi perciò discorra dJ italo-greco, può non avere nessun torlo,
e il torto stare dal lato di chi frantenda le parole o l'assunto. Qui
anche il Deleruck mi pare che non veda assai felicemente (o. e, alla
fine). Basterebbe la storia delle aspirate a dimostrare un'intima con-
gruenza tra italico e greco. O anche basterebbe la storia delle vocali;
dove andrebbe giustamente considerata, oltre la congruenza nelle an-
tiche determinazioni, anche la persistenza eccezionale di quei fo-
nemi; e così, p. e. in ego, ohtò (di contro al lit. as io, o al got.
ahtaii , od. ted. acht , otto), non solo badato alle congruenze delle-,
dell' o- (comune questa al celtico) e dell' -o, ma badato insieme al
perdurare che fa 1' -o, oggi ancora, nelle voci italiane od elleniche;
o similmente in *oinso {ihfjLoc, umerus), per dir d' un altro esempio,
che oggi ancora mantiene, suppergiù, le vocali di quell'età che di-
remmo italo-greca. Quanto non c'è di caratteristico, sotto più rispetti,
e sempre d'ordine italo-greco, nel -uosco (conosco) che oggi ancora
risuona sul labbro italiano !
- 53 -
rimanendo incolume e la seconda riducendosi di tanto -, così
come il medesimo numero di secoli è corso per Roma e
per Parigi dal punto in cui Cesare immetteva nelle Gallie
la voce stato, la quale è a Roma rimasta incolume sempre,
mentre a Parigi si riduceva a été. Come dunque sfuggire,
pel latino stesso o il paleo-italico, a quella ragione del tras-
formarsi della parola , che sta nei mutamenti della com-
pagine della nazione, o insomma ai molivi etnologici, pei
quali l'antico organismo si perturbi e rallenti? Nella sintassi
rudimentale deirantico celtico, voi trovate una tal differenza
dall'archetipo (che insomma vuol dire dal greco e dagli i-
diomi antichi dell'Asia ariana), da non bastare a misurarla,
se ancor mi permettete la similitudine di prima, tutte quante
unite le differenze che sono tra le sintassi rudimentali di tutti
gli altri idiomi indo-europei. Or codesta differenza non si
spiega, se non come un effetto dell'Europa ante- ariana.
III. — Rimetto a un altro giorno il toccare delle vi-
cende etnogoniche in relazione alla saldezza che s' avverte
nelle trasmutazioni de' suoni-, e per questa volta non vi ag-
giungerò se non delle note ben rapide (ma per voi suffi-
cienti) sopra alcuni quesiti a cui vi conduceva la Gramma-
tica greca di Gustavo Meyer. Del qual libro voi dite molto
bene, ma non ne dite, cred'io, abbastanza. Le riserve, che
si possano o si debban fare, quando pur versino, come pare
a voi, intorno a questioni numerose e rilevanti, non tol-
gono, in un caso com'è questo, che la lode abbia a riuscire
calorosa e piena.
I . Mostrate meraviglia perchè il Meyer non tocchi di
aiepeói; = *starja-, cioè non si dia per inteso di un eo che
possa corrispondere a Jo, e perchè egli citi bensì, come pa-
rente di èxeÓ!; , il sscr. satjd- , ma quello riconduca a èie-
- 54-
FÓ-? (i). Forse era più legittimo il fare qualche maraviglia
per il silenzio eh' egli serba intorno a K€veó<g, nel passo in
cui ragguaglia correttamente k€ivÓ(; kcvó? col sscr. giuijd ,
origin. "kvanjd (§ 264) (2)-, o perchè non appaiano espres-
samente considerati o chiariti, nel debito luogo, i rapporti
che corrono tra aieppó*; e crieipa, o tra v.vjvoc, e Keivó? (cfr.
§§ 109, 273-74). In effetto è, che questi innovatori, come
vedono che a rj q a nj il greco si sottrae col mandare as-
similato o internato \\j (lesb. cpGéppuu ktévvo); gr. com. ò-
veipo? qpaivuj), così non ammettono questa diversa continua-
zione di rjo ecc. che sarebbe peo ecc.-, e similmente, poiché
TJ dà notoriamente aa (tt), non potrebbero mai ammettere
un 160= tjo. Così intanto avete una loro difficoltà contro
èieó = satjd, che è come d'ordine generale e perciò insieme
abbraccia pur gli ahri esempi. Ma se ne aggiungono altre
due. Poiché satjd contiene in sé, come si crede, il participio
sani (rad. as) in forma debole, la qual forma debole do-
vrebbe andar riflessa , nel greco, per ài (di) e non per ix
{il). S'è finalmente scoverta un'armilla, la quale porta i-
scritto: EieFavòpiu, e perciò vengono ormai agitando, con
formidabile sicurezza, un èieFó-? (3). Ora, circa la difficoltà
che dicemmo d'ordine generale, noi siamo qui appunto per
tentarne la risoluzione. E circa le altre due , peculiari a
(i) [Griechische grammatik von Gustav Meyer ; Lipsia 1880; § -^21,
cfr. § 219.]
(2) Lo scrupolo vostro circa la scarsa antichità che possa avere
questo derivato {cùnjà da cUnd]^ non si regge. Imprima non manca
al Veda (ò nel composto cùnjàisn dell' Atharva) ; poi c'è la riprova
dell' ant. slavo suj che 1' Hìjbschmann giustamente accompagna, nel
luogo già citato [Kuhn's Zeitschr.,XW\\, 17], coU'armeno sin. Questa
voce armena , del resto , non prova neanch' essa contro sp da cv
(v. sopra, p. II, n); poiché null'è più naturale che riportarla a suj ti,
come riflesso di un indo-iranico pmja. Ma di ciò altrove.
(3) Vedete: Brugmann, in Kuhn's Zeitschr., XXIV, 34; G. Meyer,
ib. 243 ; OsTHOFF, ib. 419.
- 55 -
èxeó?, sia intanto lecito dire, che vanno messe entrambe in
lunga contumacia. Di certo , la sezione sat-jd non si può
teoricamente impugnare -, ma resta pur sempre , che non
si troverebbe nell'antico indiano un secondo esemplare di
simil tipo, cioè del tipo tiidat-ja (i), e che altre sezioni
non sieno impossibili (ne tocchiamo in appresso), intorno
alle quali andrebbe appunto consultato il riflesso greco.
Quanto airEteFavòpuj, voi sapete come io non sia un grande
adoratore d'ogni à-nal \eTÓ|aevov epigrafico \ e codesto nome
proprio deir 'armilla' non mi scuote gran che. Sarà bene
aspettare un secondo esempio, prima di credere a questo
èieFó -, come sarà bene aspettarne un altro paio , prima di
risolversi a staccare òq fi ò da jds q.cc. per grazia del fa-
moso Fon. — Così dunque, nel mostrarvi come sia che il
Meyer non pareggi tra loro i-xeòc, e satjds, vi avrò insieme
confessato che io sempre ancora li pareggi.
2. Ma procedendo, dovremo credere davvero, che xe-
veóq sia morfologicamente diverso dal suo sinonimo eolico
KÉvvoq (= Kevjo(;), o l'att. aieppóq diverso da aiepeóc, ? Ognun
vede, che ciò repugna, come a priori (2). Si vuole mal sicuro
Teol. aXXog , che starebbe, nell'identico rapporto, allato
ad nXeó^; ma non verrà conferma, appunto da questo
rapporto, a quella forma controversa ? E poi da considerare,
che son tutti ossitoni gli esemplari greci in -eo che qui en-
trino in questione : cJTepeó iiXeó Keveó èxeó, cui io aggiungo.
(i) [V. Grassmann, WÓrterb. ^. Rigv., p. 171 1, cui ora si aggiunge:
Whitney, Index verborum to the piiblished text of the Atharva-Veda,
in Journ. of the Am. Or. Soc, New Haven , 1881, p. 352. C'è 5^1-
hantja (che non vedo in Lindner, Altind. nominalbild.) \ ma parrebbe
piuttosto derivare da un *sahanta^ che non immediatamente dal par-
ticipio, e a ogni modo darebbe il tipo tudant-ja.]
{2) Va anche ricordato l'argivo ùj^ea (Esich.), accanto ad òjiov, ujóv.
— 56 -
come sapete, anche Geo , e abbiamo ugualmente ossiioni i
sscr. cùnjd satjà divjd \ laddove è o balena il parossitono
negli esemplari eolici , con T assimilazione, che si possan
qui richiamare (Kévvo<g, òXkoc, ; cui s' aggiunge, malgrado la
incertezza in ordine all'elemento assimilato, T eoi. aiiwoc,
allato a aieivó? cfTevóg; v. Curtius, ^609). Non avremo qui
noi la corretta imagine della doppia accentuazione greca
(cfr. dii'jà allato a divja nel sanscrito) e insieme la ragione
deir -eo? Io lo credo fermamente (i).
Credo cioè, che pj vj \j, e così pure altri nessi congeneri
di cui in appresso tocchiamo, sviluppassero facilmente nel
loro seno una vocal sottile, quando riuscivan protonici (2)-, e
Kevejó? così rappresentare altrettanto normalmente uno degli
antichi tipi accentuali del greco, quanto Kévjoq (cioè kévvo?)
rappresenti normalmente V altro. Da Kevejó?, come sapete ,
si viene poi regolarmente a Kcveóq. Sarebbe questo un ben
determinato filone per V dvaitTuSiq greca, da aggiungersi a
quelli che già si sono esplorati (cfr. G. Meyer, §§ 92 e
29). E diremo, per non tacere di ogni analogia esteriore ,
che se il greco ebbe p. e. |ió\upo-, piombo, da )a\upo-, come
Tant. persiano ebbe diirug, mentire, da driig^ così avrebbe il
greco avuto (JTepejó q.cc. da (jTep)ó ecc., come Tant. persiano
non potea più avere se non tija nija ecc. per tja nja q.cc.
di fase anteriore : martija ani/a arija (3). Non ho poi bi-
sogno di ricordare a voi l'analogia dei viventi dialetti del-
(i) Ho tralascialo, per andar cauto, di valermi dell'accentuazione di
oreìpa, o di quella di eupeóq, cfr. Gaipóq, ma Gai paia, sscr. dùrja, pa-
rossitono, e dvàrja.
(2) Un buon presentimento sarebbe in L. Meyer, Vergi, gr., II,
40 r.
(3) Cfr. Spiegel, Keilinschr., 147, J. Schmidt, Vocalism., II, 3oo-
3o2. Le analogie indiane so che le avete presenti ; ma non è forse
inutile ricordare, come sia per gran parte illusoria la differenza che
sembra qui intercedere tra 1' antico persiano e lo zendo. L' illusione
— 57 -
l'Italia meridionale, che vi danno p. es.: mestérejo myste-
rium, cójera ('cójra) coria, chiéseia ecclesia, 'mmireja ('nvi-
dja), tee.
3, Già vi dicevo, che non credo limitato il fenomeno
greco alle sole basi che segneremmo per njó rjó ljó. Così
io cerco, non in altro che negli effetti di un' accentuazione
proviene dalla scrittura, o, a dir meglio, dalla trascrizione; poiché
nella scrittura originale è veramente un doppio jod o un doppio van
per il j o rispettivamente per il v delle trascrizioni, che piuttosto
dovrebbero darci ij e uv (vedete Spiegel , Gramm. d. altbaktr. spr.,
§§ 43, 45). Laonde, p. e., rimpetto a uno dvitja, secondo, che giusta-
mente si pone come forma primitiva, sono ben poco diversi tra di
loro, in ordine ai riflessi di -tja, il sscr. dvitìja, l'ant. pers. duvitija
e lo zendo bitiia (bitja) ; il quale esempio giova, del resto , anche a
mostrare come l'ant. persiano andasse più in là per questa via , che
non facesse lo zendo [duv- da dv-). Similmente si ragguagliano lo zendo
Huuacpa, o scriviam pure addirittura Hiivacpa, e l'ant. pers. Uvagpa,
quel dai bei cavalli (sscr. sv-acva). L'antichità del fenomeno si ad-
dimostra, per modo particolare, nel caso dello zendo huva, ant. pers.
uva, per l'origin. sva- suus, il quale insieme dà allo zendo , per via
affatto normale, quel prodotto che si trascrive per qa e proviene da
uno speciale inasprimento di hv^=sv (hva, khva, kh[v]a). La interca-
lazione è dunque accaduta quando il linguaggio era ancora alla fase
hva (o sva); prima cioè che avvenisse l'inasprimento che s'esprime
per khva ecc. S'ebbero così, nell'antica Irania, le due varietà hva e
huva, la prima delle quali subì ulteriore e normale alterazione nello
zendo (qa), e l'altra ne subì una, pur normale, nell'ant. persiano
[uva); onde si risolve, a cagion d'esempio, la gran differenza che ap-
pare tra due riflessi della prima parte di uno stesso nome proprio :
Uva-khsatara ('autocrata') nelle iscrizioni cuneiformi, e Kiia-Hdpn<;
nella pronuncia che ritraevano i Greci (quasi uno zendico: Qa-khsa-
thra; onde Khva- khsahra). Intanto io riafferro, per questa via, un altro
dei vostri quesiti, quello cioè che concerne il rapporto genealogico
tra sva e sava, suus, o iva lava, tuus. A voi probabilmente parrà che
qui si navighi nelle vostre acque ; e mi direte : Così come 1' antica
Irania ebbe l'epentetico huva allato a hva, non potremo dunque am-
mettere, per una fase ancora più antica, gli epentetici sava lava da
sva tvaì E vi potreste pur compiacere dell'opinione di due gran va-
lentuomini, i quali, considerando isolatamente lo zendo hava=:.*sava
(terza voce per 'suo'), hanno stimato pur questa una voce epentetica;
JusTi , Handb. d. :{endspr.,\). 359 a, Spiegel, Gramm. d. altbaktr.
— 58 —
diversa, la ragione della differenza che passa tra il solito
tipo del futuro greco e il tipo dorico, non estraneo, per voci
mediali, pure al resto della grecità (i). Credo, cioè, alla
coesistenza indoeuropea di due tipi accentuali di futuro , i
quali, in via teorica , rappresento per rdik-sja e rik-sjd ,
onde, sempre in via teorica per ora, le resultanze greche:
XeiTc-ajo e Xm-crejó.
Come vengo io a questa presunzione ? Non ha per me
alcun diretto valore un argomento che a prima vista par-
rebbe averne tanto, quello, cioè, del costante tipo indiano
dd-sjd {ddsjàmi), allato al solito tipo greco òuu-au) (buucruj).
spr., §§ 63t, i6t. Senonchè, io debbo imprima confessarvi, che non
vorrei vedervi andare tanto insù. E se proprio esigeste una mia opi-
nione non altro che teorica, vi dovrei poi dire, che date, per il pe-
riodo unitario, due forme come sva e sava, le probabilità di gran
lunga maggiori mi parrebbero stare per l'anteriorità della seconda.
Ma scendendo a più umili strati, mi piace piuttosto ricordarvi, che
nell'Asia, oltre lo zendo hava=^sava suus, noi raccoglievamo, come
un vero possessivo, il genitivo tara tui (pater tui = pater tuusj, che
è dello zendo e del sanscrito. — Del rimanente, l'opinione che mi
attribuite, nel toccare dei riflessi greci di tva-s (oó-q) e tava-s (reó-O,
l'opinione cioè che tv dia a (-aa-) a tutti i dialetti greci, è veramente
la mia; come è vero, che per le forme greche col -t- nella voce per
'quattro' (réTope^ ecc.), io abbia detto, non doversi trascurare gli
esiti del tipo feminile [c'dtasr *TéTeop-), che ha perduto, nel greco, la
sua individuale esistenza.
(i) L'OsTHOFF, seguito da G. Meyer (§§ 538, SSg), vorrebbe che il
futuro dorico (il quale, nella maggiore sua schiettezza, si rappresenta
con la voce òeiEeoine;), fosse una 'contaminazione' del tipo òeiHo- col
tipo |uev^o-. Ora di codeste 'contaminazioni', o, per dir meglio, di co-
desti cumuli di esponenti flessionali, se ne danno di certo; e un per-
fetto sardo, come dolfcsi (dov'è dol-ui e dolsi, e più ancora), ne può
essere un buon esempio. Ma è un perfetto tralignatissimo, cioè gran-
demente rimoto dalla coscienza istorica delle sue ragioni, come sù-
bito si riconosce anche dal presente dolfo o dui participio doljìdu. Le
condizioni, in cui avvengono siffatti cumuli , sono esse dunque tali
da compararsi con quelle in cui òeiEuu rispondeva a beÌKvu|ui? Non
chiudiamo gli occhi alla verità, se vogliamo cercarla I
— 59 -
Poiché il sanscrito, dandoci p. e. daiksjd- (non diksjà-)
o jaksjd (non iksjd-), accenna a una rimutazione di ac-
cento; richiama cioè, in modo manifesto, un anterior tipo
accentuale: ddiksja-, che legittimamente coincide col tipo
solito al greco: beiSo-, e si mantiene, per lo stesso antico
indiano, nel prezioso esemplare susja-nt-j-ds (i), del quale
tantosto si ritocca. Ma perchè è ella poi avvenuta nell'an-
tico indiano questa rimutazione d'accento? Nessuno certa-
mente vorrà pensare, io credo, a un 'conguagliamento' di
accentuazione tra 1' antichissimo futuro e il futuro partici-
piale {dàttt 'smi ecc.), formazione perifrastica, ben tarda e
affatto peculiare. Né più alcuno vorrebbe sostenere la ra-
gione che per codesta mutazion d'accento era imaginata da
Francesco Bopp (2). Tutti or penseremo, piuttosto, alla
prevalenza che un tipo accentuale abbia conseguito sull'altro,
per modo che lo stato del nucleo radicale più non corri-
spondesse di continuo alla ragione dell'accento; dove non
va dimenticato, circa la facilità con cui potesse o l'uno o
l'altro tipo prevalere, che il Veda e l'Avesta portano a cre-
dere ben limitato l'uso del futuro nelle più antiche età della
parola indoeuropea. L'antico indiano avrà così conguagliato
un *gdi-sja {gi vincere), a cagion d'esempio, accentato ori-
ginalmente sulla radice, con un dìiak-sjd (dah ardere), che
sin dalle origini potè avere l'accento sull'esponente del fu-
turo (onde la serie livellata, che or si forma per gaisjd ecc.,
(i) Delbrìjck, Altind. verbiim, p. i83.
(2) [Giova riprodurre, anche pel confronto con quant'ahro qui poi
si dice, le parole del glorioso fondatore della nostra disciplina: 'Die
' betonung des griechischen und litauischen (òiuaiu ecc.) scheint mir
' die ursprlingliche und die sanskritische cine folge der auch bei no-
' minal-compositionen im sanskrit vorwaltenden neigung zur verschie-
' bung des tones vorri ersten glied auf das zweite. ' Vergleichend. ac-
centuations-system, p. 120.]
- 60 -
dhaksjd tee). Nel greco, air incontro, e nel lituano , pre-
valse il tipo con r accento sulla radice (òoj-ctuj , dù'-siu) -,
con questa differenza però, che quando lo stato della ra-
dice ammetta distinzioni, il greco sempre l'abbia allo stato
forte (costante cioè il tipo l'dik-sja), e il lituano allo stato
debole (costante cioè, contro la ragione storica dell'accento,
un tipo rik-sja). Ha insomma il lituano la stessa accen-
tuazione e il medesimo stato di radice nel futuro e nell'in-
finito, il quale riviene anch' esso a un tipo originale con
r accento sulla parte accessoria (tipo rik-ti)\ onde p. es.,
l'ékìi (=:leik-) io abbandono, hk-siu abbandonerò (XeiTT-cruu),
hk-ti abbandonare. Tra sanscrito e lituano è un'antitesi,
che è per noi sommamente istruttiva (sscr, raiksjù-mi, dal
tipo rdik-sja\ lit. hk-siu, dal tipo rik-sjd). E resta lo
zendo ; il quale pare di non poco aiuto per la ricostituzione
di qualche cospicuo esemplare asiatico, in cui fosse di ra-
gione storica l'accento che prevalse nell'indiano; o, in altri
termini, pei diretti indizi di una condizione asiatica la quale
si potrebbe rappresentare coi tre esempi : dà-sjà , dik-hjìi
rdik-sja, tutti e tre compiutamente legittimi, onde poi, per
l'attrazione vicendevole degli ultimi due, il sanscrito veniva
a daikijd. Il tema di futuro che lo zendo contrappone al
sanscrito bhav-i-'sjd (cpucTw, tema del presente: bhdvà)^ è
bu-sja (tema del presente: bara). Questo esemplare, di gran
pregio per noi a ogni modo, non tanto però ci favorisce,
quanto a prima vista potrebbe parere. La utilità ne può
in parte andare sminuita dalla qualità della vocale (i) e dal
curioso incontro coli' esemplare vedico su-sja , che s" è di
sopra addotto e appunto ha V accento sulla radice. Ma il
doppio tipo brillerebbe nello zendo per dl'sa (=dikh-sja),
(i) Cfr. Bopp. Vergi, ^r., § 665.
- 61 -
tema futurale di die segnare , insegnare, allato a haosja-y
tema futurale di hu spremere (i).
Questa è dunque Tintelaiatura, nella quale mi rientra il
doppio esito greco: òeiso- = déiksjo, e h^xito- =^ deiksejó.
Allato al tipo che per lo stato della radice coincide col san-
scrito e per l'accento col lituano, v'ebbe insieme tra' Greci
quello che per entrambi i caratteri coincide col sanscrito.
Dove è da aggiungere, che nulla osti a credere che Taccen-
tuazione, onde ripetiamo Vejo , si mantenesse incolume in
sino all'ultimo. Poiché la grammatica ben può accentuare,
a sua posta: -TrpaEéuj ecc.-, ma la verità è, che noi non ab-
biamo forme non contratte che ci mostrino il loro accento,
quando si tolgano i due esempi esichiani, e irecre'ovTai (Om.)^
TTecTéeiai (Erod.), le quali due forme era per doppia ragione
impossibile che i grammatici accentuassero diversamente da
quello che hanno fatto. Gli altri esemplari , o sono con-
tratti , sia nelle epigrafi , sia negli autori , o non contratti
nelle epigrafi (2)-, e nessuno può dire che non s'abbia piut-
tosto a accentuare: -TTpaHeiO, o che òoHeTxe non risalga a
òoEeé-xe piuttosto che a boHée-xe.
Ma procedendo ancora, io vi confesserò di presumere ,
che, in alcuni casi, il fenomeno epentetico, di cui veniamo
studiando, sia anteriore alla vita individuale del greco. Spero
così, che, malgrado i molti ostacoli , ne debba venir luce
intorno a' verbi greci e latini in -eo \ dove mi paiono veri
precursori, comechè rimasti ben lontani dalla meta, il Grass-
(i) Cfr. JusTi,//anii^.,"i56, 401 ; J. Schmidt, Revue de linguisiiqiie,
III, 365. Non vedo però, che Spiegel e Hovelaque tengano conto,
tra le forme futurali, di disà, disjàt (e meràsjàt); e non posso con-
sultare, in questo momento, il Bartholom-c. Ci vogliono forse ve-
dere forme aoristiche modali ?
(2) V. Curtius, Verbum, IP, 317 sgg.
— 62 —
mann e il De Saussure (i). Ugualmente sarà un caso, che
oltrepassi i limiti del greco, quello che appunto forma uno
de' vostri quesiti, e al quale ora passo.
4. Dico di -rèo nellVìggettivo verbale, che si ripristirta
in un ossitono -rejó per virtù del triplice esempio d'Esiodo,
e risalirà a -ijó; dove il nesso xj, mercè l'ossitonia e Tepen-
tesi che ne consegue, era per legittima ragione sottratto, pur
susseguendo a vocale, alla sorte ch'egli ha dovuto subire ,
essendo postonico, in Trpóaaiu, jnéXiaaa, ecc. (2).
(i) Il primo nel giornale di Kuhn, XI, 48 sgg.; il secondo nei Mé-
moires de la Société de Linguist., Ili, 279 sgg.
(2) V. Stud. crit., Il, 41 3 sgg. Non fu ivi potuto addurre alcun
esempio di aa da xj che non fosse nella sillaba postonica. Ma anche
tra le serie di era da 9j kJ ecc., non raccogliete lutt' insieme se non
due soli esempi, in cui la riduzione appaia nella tonica : kwoòc,, ko-
Xoaoó^, ib., 419 sgg. — Mi sia ancora lecito soggiungere compendio-
samente, qui in nota, che il -rèo di òaréov, osso, ha per me l'identica
storia fonetica del -reo degli aggettivi verbali. Credo, cioè, che si
debba partire da astjà (cfr. Curtius, Griind!:^., num. 2i3), onde *ò-
<jxejó ecc., caso che grandemente rassomiglia a quello di àvja (cfr.
ib., num. 597), che dà il pi. argivo ùj^ea (*òFejó) della già citata chiosa
esichiana , allato ai ùjiov (ibóv) e al lat. ovum. Come ad àvja sta il
lat. ovo, così pressappoco sta ad astja un lat. *osso (onde os oss-is ;
come vas vas-is da vaso, cfr. Corssen, Ausspr., II*, 594, 597) ; e *osso
ci offrirà veramente un nuovo esempio per l' antichissima assibila-
zione di tj dopo altra consonante, non già un esempio eccezionale di
55=5 prim. -\- t (cfr. Frohde in Bezzenberger's Beitr., I, 2o5 , de
Saussure, Mém. d. l. Soc. d. Ling., Ili, 297). Codesta riduzione di
5 -f- ? in 55, non occorre mai ; e così è un'eccezione apparente anche
r -issimo. Il vero è, che da -timo si venne a -simo per schietta evo-
luzione fonetica, nei casi dove era legittimo che questa evoluzione
intervenisse (p. es. in mac-simo; cfr. fic-so da fic-to). Così da dives,
cioè dal tema divit , si sarà regolarmente avuto un *divissimo (cfr.
messiis da met-to) sul tipo mac-simo, allato a un *divitistimo sul tipo
sollistimo ; e siamo nel filone donde poi 1' -issimo si stacca e diffonde
come se in lui altro non si contenesse che l'esponente del superla-
tivo. Ma di più, un'altra volta ; e qui ancora sia avvertito questo solo:
che è un' illusione il -simo del preteso *celer-simo celerrimo , poiché
r -\- s origin. ben si risolve in rr [*fer-se ferve).; ma ?" -f- 5 second.,
— 63 —
Non si parla delF aggettivo verbale in -teo, senza parlare
insieme deiraltro aggettivo verbale in -to; o a parlar per
via d'esempi, deve considerare cpató-, 'quel che si può dire',
chiunque consideri (paiéo-, 'quel che si deve dire'. — Ab-
bandonato, e a ragione , come io pur credo , il ragguaglio
-reo =: sscr. tavja (i), or dunque vorrebbero persuaderci
di questo: che il participio in -to , di significato ancora
molto incerto , e come elastico , nella più antica fase del
greco, si venisse piegando, sin dall'età omerica, a significar
la 'passività contingente'; e che nella forma in -/e/o (-teo),
ottenutasi grecamente o anzi atticamente da quella in -to ,
si sviluppasse, dopo Omero, la significazione della ' passi-
vità necessaria ' (2).
Voi sapete , quanto il punto di partenza, per sé stesso ,
qui mi debba repugnare. L'organismo del linguaggio indo-
europeo, qual ci resulta per il periodo durante il quale la
unità degli Arii andò spezzata, è ben lungi dalFesser tale
a cui si convengano le ipotesi di funzioni fluttuanti o mal
fisse. Le incertezze che si vogliono attribuire , nelT ordine
della funzione, al periodo unitario, si risolveranno ben piut-
tosto in altrettante deviazioni, che la funzione originale, così
come il suono, ha dovuto, per varie ragioni, più tardi su-
o resta, o dà 55 5 {vorsus prosa). Il vero è all'inconlro , che il com-
parativo ridotto (celer-is-) qui s'aggiunge all'esponente -i-mo che è in
minimo infimo ecc.; onde: celér-is-imo, che dà necessariamente ce-
lér\i]rimo. È insomma il tipo plo-is-imo plurimo.
(i) Cfr. Curtius, Verbum, IP, 384.
(2) V. Curtius, ib., 385 sgg., G. Meyer, o. c, § 600; Brugmann,
Morpliol. iintersuch., I, 202 sg. Qui mi sia permesso notare, senza che
ne soffra la molta stima che tutti devono a un così sagace e così bene-
merito indagatore quale è il Brugmann, come il suo lavoro sul pas-
sivo indo-iranico, nel quale entra il passo testé citalo, non mi possa
rimuovere comunque da ciò che io ebbi a dirne in un vecchio mio
Saggio ch'egli non ha conosciuto [Studi ario-semitici, II, § 20).
- 64 —
bire. Ma venendo senz'altro al concreto, tollerate che io qui
faccia precedere la conclusione alle dimostrazioni, e vi dica
sùbito, che ben lungi dall'aversi, nel nostro caso, alcun che
di peculiare al greco o di post-omerico, la nostra doppia
forma e la sua funzione sta come impressa in fronte alla
umanità indoeuropea, con quel doppio e antichissimo nome
che è nelle voci vediche marta e mdrtja , ' T uomo ', cioè
'il mortale'. Non dicono codeste voci, se vogliamo antici-
patamente esaurire la parte ideale, non dicono, come ognun
vede, 'il morto', ma neanche dicono senz'altro 'il mori-
turo'. Data questa funzione meramente futurale, noi reste-
remmo a significazione attiva , quando il nostro esponente
si applicasse a verbo transitivo (avremmo, p. e., un ' fac-
turus'). Ma si tratta di 'quello sul quale è dato o è voluto
'che si compia lo stato o l'azione che il verbo esprime ';
e perciò è legittimo che pel medesimo esponente si ottenga,
da 'morire': ' quel che può o dee morire', e da 'fare':
* quel che può o dev' esser fatto '. La riprova sperimentale
di questo ragionamento, s' ottiene di leggieri , consideran-
dosi , p. e., il ted. sierb-lich mortale , allato al pur ted.
thun-lich fattibile; o anche, in modo un po' indiretto, guar-
dando insieme a eiindum viiìii est e faciendiim mihi est.
Circa poi al 'potersi fare' o al 'dover farsi', ei son con-
cetti che si toccano, massime nelle origini, o si confondon
tra di loro; e infaiidus, a cagione d'esempio, è : 'is de quo
quis fari non debet vel non potest '.
Ora un po' di storia o di dimostrazione, secondo che le
forze per oggi consentano. Il vedico marta , cui a capello
risponde lo zendico mareta, non è più se non un sostan-
tivo (il mortale, l'uomo), onde viemeglio si conferma l'an-
tichità del vocabolo. La significazione aggettivale balenerebbe
però ancora nell' oma€ X€YÓ)aevov amarla immortalis. E pa-
rossitono questo marta , e tal dalle origini , come appare
-65 -
dallo stato della radice, il quale è pur comune al termine
iranico. A parlare in termini grammaticali, il 'participio
futuro passivo' qui si differenzia dal 'participio perfetto
passivo', per l'accento e per la conseguente diversità nello
stato della radice (sscr. mrtd mortuus, zend. meìxta). Nella
stessa funzione del -ta di marta, abbiamo insieme, per la
maggiore antichità indoeuropea, un -aia (come anche allato
del -ià di part. perf. pass, apparirebbe un -atà nel soli-
tario pac'atd coctus (i)). I tre esempi vedici che si soglion
citare (2), già li conoscete : darcatd^ che può essere veduto
o merita d'esser veduto, videndus, jagatà colendus, sanctus,
harj'-atd, tal da essere desiderato-, e un quarto ne incon-
triamo più in là. Sono diventati ossitoni , lasciandosi at-
trarre dall'analogia abondantissima del participio di perfetto
passivo , col quale ormai non si potean più confondere ,
stante 1' -a- -, ma lo stato della radice (p. e. darcaia e non
drcata, cfr. drcati) attesta un'antica accentuazione da rap-
presentarsi per *ddrcata, e analoga perciò a quella di mdrta.
Lo zendo risponde sempre a capello : darecata, ja^ata. —
Quanto al greco, il continuatore di mdrta vi è inopióq Ppoió?,
che ha ceduto per 1' accento alla stessa analogia cui cede-
vano darcatd ecc. nell'India, ma anche le ha ceduto, almeno
in parte, per lo stato della radice (3); e così il greco s'avvia,
(i) vratd, cioè vr-atd, venuto a funzione di sostantivo (volere, do-
vere , ecc.) , domanderebbe lunghe considerazioni. Vedete intanto :
PoTT, Wiir^ehvorterb., Il 3, 61 5.
(2) [Cfr. Benfey, Volisi, gr., p. 144; Lindner, o. c, p. 38.]
(3) Qui avvien di confrontare, almeno per quant' è delle sorti fi-
siche della parola, il sscr. rtd , giusto ecc., coW ar[e]ta dell'antica
Irania (órta). Andrebbe poi ristudiato il sscr. amrta 'immortale*
(3= zend. amesa), coincidente, e per l'accentuazione singolare (cfr.
àkrta, dvrta) e per l'accezione, con adrsta non visibile (cfr., del resto,
anche il semplice drstd), e insieme considerato anche àdhrsta irresi-
1{ivista di /ilolof(ia ecc., X. 5
- 66-
con questo esempio-principe, a quella indistinzione di forma
tra le due diverse entità passive in -ta, che si rappresente-
rebbe per TvuJTÓ? òapió? ecc.-, indistinzione che gli riu-
sciva tollerabile , per la ragione che nelle funzioni di
schietto participio passivo egli aveva in continua funzione
le forme in -fievo. Dei riflessi greci che s'abbiano per il
tipo dàrc-ata (come àpi-òeiK-ero), s'è il Benfey avveduto per
il primo (i).
Allato Si -ta e. -ata, s'ebbe anche -tja qual derivatore di
'participi futuri passivi*; s'ebbe, cioè, a parlare con l'esempio-
principe , mdrtja mortale (che dee morire) , sinonimo di
marta. 11 valore tipico di codesto martja non si sminui-
rebbe per nulla da chi pur lo volesse un 'derivato ' da marta
pel suffisso ja, fidandosi dell' analogia , scarsa per più ra-
gioni, che parrebbe offerta da cvaitjd sinonimo di cvaitd ,
bianco (2). Rimarrebbe pur sempre, che questa ' deriva-
zione ', grandemente antica, diventasse un vero tipo. Nel più
antico strato della letteratura indiana, è già fermo l'uso di
mdrtja come sostantivo, e anzi è il solo \ ma pure in quello
strato si sente lo schietto aggettivo nel composto dmartja
immortale, come si sente, pur fuori del composto, nei Brà-
hmana (3). Nell'antico persiano si risponde correttamente
per martija al sanscr. mdrtja, e ne appare costante 1' ac-
cezion di sostantivo, anche nel composto {ii-martija euav-
stibile, e qualche altro esemplare, pur dallo zendo. Qui agiscono pur
le ragioni del composto. 'Il non mai conseguito' rasenta ' l'incon-
seguibile'; cfr. inaccesso, inaccessibile.
(i) [Cfr. L. Meyer , o. e, II, 92, Curtius, Verbum, 11% 387; e
molto felicemente il Bezzenberger aggiunse, in Kuhn" sBeitrUge, Vili,
120: à-ait-€To-q.]
(2) Con molto savia cautela, in Bohtlingk-Roth non si deriva
mdrtja da marta , ma semplicemente da mar. Vedete anche Pott ,
o. e, ib., 525-26.
(3) V. BoHTLINGK-RoTH, S. V.
— 67 -
òpo?, ben popoloso). Così è pur dello zend. masja{-=zmartja
per 5 = r/), Che se passiamo ad altri esemplari asiatici,
mal si potrà di qui staccare lo zend. frakhstja M'interro-
gando' (i); ed è grandemente prezioso il ved. gopajdtja
custodiendus, che accennerebbe a un -a-tja (come più sopra
incontravamo V -a-ta di darcata tee.) (2), e ci riconduce a
satjd, vero, che potrebbe ammettere la medesima sezione:
s-atja,\uQ\ che dev'essere, deve stare, sussistere '(3). Siamo
così arrivati al -tja pel quale normalmente s'ottengono, in
grammatica sanscrita, participi futuri passivi da * radici in
vocal breve', e nessuno, io credo, oggi vorrebbe sostenere
che il t ne sia un 'fulcro' della radice, e non parte inte-
grale dell'antico esponente. Esempi vedici ne sono: bhvtja,
il mantenendo, il servo (cfr. bhar-a-td , il mantenendo, il
soldato), e crùtja, degno d'essere udito. È lo stesso tipo
dell' 'assolutivo', sì per l'accento e sì per lo stato della ra-
dice, ma questo stato accennerebbe a ossitonia originale.
— Passando al greco, non sapremmo non incominciare da
Ppóieio? Ppóieoq, sebbene, e per l'uso meramente aggettivale
e per l'accento, vi sien le apparenze di una derivazione no-
minale, propriamente greca , da PpoTÓ(; , onde si potrebbe
voler fortuito , malgrado la congruenza fonetica, l'incontro
della forma tra Ppóieio*; e mdrtja{martijà). Ma se badiamo,
dall'un canto, alla grande antichità e alla gran tenacità del
termine asiatico, e consideriamo, dall'altro, che il nostro
aggettivo greco, ben lungi dall'essere di fattura più o men
tarda , resulta estraneo alla prosa e occorre ne' poeti più
antichi, mal sapremo rassegnarci a non crederlo un diretto
(i) Cfr. JusTi, o. e, 3716; Spiegel, Gr. d. altb. spr., p. 94.
(2) Cfr. Benfey, Volisi. gr.,§ goS, in f.
(3) [Avrebbe un esempio di -atja anche lo zendo; v. Bezzenberger
in Kuhn's Beitr'dge, Vili, 120.]
— 68 —
continuatore della stessa forma originale che si continua tra
gli Arii dell'Asia (i). Viene poi, in vera funzione d" ag-
gettivo verbale', e ossitono, il tre volte ripetuto (paieió^ di
Esiodo:, onde la conclusione è, che, sopra questo antico
stampo greco e secondo che lo stato della radice vuole, noi
riportiamo il solito KXutéog a *kXut€Jó, così tal quale come
prima portavamo, secondo che lo stato della radice sempre
vuole, il vedico crùtja a *crutjd. E quando taluno ci vo-
lesse disturbare in questo nostro ragionamento, noi davvero
ci sentiremmo ormai disposti a gridargli con buona maniera:
àTT-iTÉov!, che indianamente sarebbe: apa-itja-m (2).
Se poi gli spogli omerici non ci danno alcun 'aggettivo
verbale' in -reo, non ne può venire, a chi ben guardi, al-
cuna difficoltà contro Taffermazione che per -reo si continui
una formazione anteriore alla vita individuale del greco.
L' uso dei 'participi futuri passivi' in -ta e tja, sarà stato
scarso nelle origini , e molto scarso è sempre rimasto tra
gli Arii dell'Asia. Nell'Europa, all'incontro (e vuol dire,
come tosto vediamo, così tra i Celti come fra gli Elleni),
egli si è venuto, lungo i secoli, dilatando. L' età d' Omero
non avrà conosciuto se non pochi o pochissimi di codesti
derivati verbali per -teo; ma è assurdo sostenere che le
fossero del tutto estranei, quando Esiodo ci mostra il suo
(pareió? in una combinazione stereotipica (outi qpaxeió?, tal
quale un lat. infaiidiis\ la quale palesa un uso ormai an-
tico e ci porta perciò sicuramente ad Omero, o anzi molto
più in su. Senza poi dire, che, se noi non abbiamo ragio-
nato male. Omero ci dà tutto quello che vogliamo, col darci
(1) Notevole che il vocabolario romaico ci offra Ppoxó^ ti óv, mor-
tale (cfr. rom. xP'JOÓ(;=xpvaéoq; e per l'accento: evr)TÓ(;).
(2) [Come vedo dopo scritta questa lettera, l'idea di conciliare -reo
col sscr. -tja è balenata anche a G. Meyer (Kuhn's Zeitschr., XXII,
498) ; ma i pregiudizi teorici gli hanno impedito di coltivarla.]
- 69 -
PpoTÓ(; e ppÓTeo(; di contro a marta e martja ìuartija del
sanscrito e dell'antico persiano.
Vi ho già accennato come io creda, che la forma epen-
tetica, o bisillaba, vada, pur nell'Europa, al di là del greco.
Gli è che il -Tejó, ritrovato in Grecia, mi ritorna tal quale
nel -ti, -/-//z/, dell'ant. irlandese (pari all' -i-toi che è de-
sunto dal cimrico), onde appunto s'ottiene il participio di fu-
turo passivo (i). Riviene Tiri, -ti a un -tejo-s di fondamento
europeo, così come ad -ejes V -i del nomin. plur. de' temi
che uscivano per -i -^ e il dittongo dell'antica fase celtica
{-tei -i-tei) è attestato dal britone, sì che ne venga un caso
analogo a quello dell'irl. di, duae, allato al cimrico dui, dove
è un ei di uscita originale (2).
(i) Per es. com-srithi conserendus ; e insieme avrebbe l'ant. irlan-
dese anche il correlativo dell'aggettivo verbale greco in -to ; v., per
ora, Zeuss-Ebel, 1096 <j,
(2) Cfr. Zeuss-Ebel, 479, Windisch nei Beitr'àge :^. gesch. d.
deutsch. spr. di Paul e Braune , IV, 249, 242. Non può arrestarci
r -i cimrico di contro all'i irlandese nel numerale tri, irl. tri =
*trejes. — Le lingue ariane dell' Asia hanno del resto anche -tva
(•thwa) quale antico derivatore di pari, fut. pass.; onde taluno a prima
vista potrebbe imaginare, che s'arrivasse per -reFo al greco -reo. Ma
il -T€io di Esiodo ci ferma a -tja. Per il -ti ecc. del celtico, in Zeuss-
Ebel era messa innanzi, timidamente, la ricostruzione -teiva (p. 802),
e Stokes [The old-irish verb., p. 49) pensava a -tavia. Ma tacendo
delle obiezioni d' ordine storico, che distolsero dal mandare insieme
il gr. -TEO e il sscr. -tavja, e pur trascurando la congruenza che ora
avremmo conseguito tra celtico e greco, resta che le ipotesi di -teiva
o -TAViA urlano contro l'esito cimrico, che non dovrebbe perdere il
V ; la qual considerazione vale insieme a mostrare, che mal si con-
venga , anche per il celtico, l' ipotesi del -tva. Stokes, dunque, ha
sempre ragione, in quanto ha trovato che Tiri. Jìssi (= fid-ti), scien-
dus, risponda a capello a Fiaréo-; ma l'identità or sarebbe dimostrata
per diversa guisa. Quanto all' -ei-os che si estingua in un cimr. ìvj
(oi) = è, V. Zeuss-Ebel, pp. 96, 532, 816, 83i. Non mi si vorranno,
io credo, opporre i casi cimrici di cons. -\- idd [ydd] = cons. -\- j ,
stabiliti dal Rhys nella Reviie celtique, II, ii5; cfr, Stokes, Middle-
Bret. Hoiirs, p. 102, D'Arbois de Jubainville, 1. c, 266. La differenza
— 70 -
Questo povero -reo, dunque, anziché sottrarsi alla inda-
gine comparativa e andarsene relegalo tra le formazioni
greche di età meno antica che non sia il più antico monu-
mento letterario che dei Greci si conservi, varrebbe a ran-
nodare, in assai notevole guisa, e Celti e Greci con gli Irani
e cogli Indi. — E altro, per questa volta, io non posso (i).
dipenderebbe dall'esito or vocale e or consonante di^. Ci gioverebbero,
anzi, trydydd = tritja e simili, in quanto darebbero una fase di tj
con vocale inserta. Io poi nni fermo, un po' maliziosamente, a try-
dydd — tritja, pensando che del cirar. tritid s'è voluto fare un argo-
mento contro la mia dichiarazione del superlativo greco in -toto
(Bezzenberger, Beitr. f . kiinde d. indog. spr., V, g5)l Ma anche di
ciò, la prossima volta.
(i) IV. — Poiché vedo che vi premon tanto e \)c, [cfr. G. Meyer ,
o. e, § 222] e il qoppa ecc. [cfr. Fabretti, Le antiche lingue ita-
liche, Torino 1874, § 97 ecc.], vi servo sùbito con questa proscritta.
Circa la coesistenza di aQc; e 0?, il mio pensiero, a dirlo un po' più
distesamente che voi non facciate, era e rimane questo che segue. Noi
vedevamo, che se, per 5 -f- voc. (sempre ora parlandosi di formole
iniziali), greco e iranico vanno compiutamente tra loro d'accordo
(p.e. éiTTa, zend. hapta-, sscr. sapta-], non è più così per la combina-
zione 5V-; la quale, sempre per s in h , diventa nell'iranico: hv khv
(v, p. 57, n) ; laddove nel greco , a tacer qui d'altro, si continua le-
gittimamente per a- (oF-, aa-\ p. e. oiYdiu). Orbene, in quell'incontro
s'avvertiva insieme, che se lo zendo ci dà hu pel sù-s latino, e pa-
recchi dial. neo-irani ci danno all' incontro una base khu-, questa
condizione di cose accenna che nelle origini iraniche, sia per ragione
etimologica o sia per ragione di un mero sviluppo fonetico, stessero
due varietà sinonime, da potersi scrivere sTi e svù. Ripensate in Grecia
queste due varietà, e ne avrete simultaneamente, a fil di regola : u<; e
aO(;. Soggiungevo , che pur la variante sanscrita pi-kara allato a sù-
-ìcara, porco, veniva a indiretta conferma di codesta ricostruzione, f
occorrendo come succedaneo sanscrito di 5 originario dinanzi a v
(cfr. ^va^ura cvàttra, e guarda»^e, .n un momento d'ozio, il I dei
Frammenti linguistici). — Qua.ito al qoppa ecc. lutto quello che voi
aggiungete al § 16 de'le mie Legioni, mi par buono e giusto in ogni
— 71 —
parte, fatta sempre eccezione per il tuono troppo battagliero. Mi sono
anch'io meravigliato che quelle mie indicazioni non riuscissero un
po' meno inefficaci; ma alcune delle scritture, che voi citate, riman-
gono alquanto rimote dalle cose nostre ; e poi ve la prendete anche
cogli errori di stampa o di penna, come son manifestamente il nome
e la figura d'una lettera in fondo alla p. 55 della scrittura dell'ono-
rando Fabretti. Circa 1' H (tra' Fenici, secondo le prove che sapete:
XriT i^T e quasi rjx), è da dire più chiaramente, che tutti e tre i va-
lori, ch'egli assume tra' Greci (x, ', il), corrispondono ai vari profFe-
rimenti che tra' Fenici risonavano iniziali nel suo nome.
IST^IUZ/OV^E CLqASSICqA
Proposte per un riordinamento della Facoltà di lettere e filosofia
nelle Università del Regno.
I. Ogni istituzione, per quanto abbia dato buoni risultati, allorché
più non corrisponde ai bisogni del paese ed al progresso cui tutte le
cose umane devono obbedire, ha da essere riformata o in tutto o in
parte, secondo che più non s'addica affatto al mutato ambiente, ov-
vero possa ancora a questo con alcune modificazioni convenire. Per-
tanto, prima di dare opera alle riforme, è d'uopo diligentemente con-
siderare la natura dell'istituzione che vuol essere modificata, cercare
quali sieno i suoi lati difettosi e quali invece sieno le parti ancor
buone, per procedere riguardo a quella come far si suole rispetto ai
vecchi edifizi, i quali, se sono riconosciuti ancora sufficientemente
solidi per non dover essere interamente rifatti, si riparano nelle parti
— 72 -
men buone, lasciando stare il resto, ma nel caso contrario si abbat-
tono per essere ricostruiti su nuove basi.
Ora fra le varie istituzioni che si riferiscono alla pubblica istru-
zione e che, a parer mio, abbisognano maggiormente di riforma,
devo annoverare la Facoltà di lettere e filosofia delle nostre Univer-
sità. Di questa voglio nel presente scritto occuparmi.
II. Tutte le persone competenti in fatto di studi filologici, storico-
geografici e filosofici riconoscono oramai che quella Facoltà , com'è
presentemente ordinata, non corrisponde più guari al suo scopo, che
è quello non solo di fornire alla nazione quella coltura letteraria e
filosofica che è tanta parte del civile progresso, ma pur anche di for-
mare valenti cultori delle singole discipline di cui vi s' impartisce
l'insegnamento, e valorosi maestri per le scuole secondarie del paese.
Vediamo dunque per quali ragioni un tale intento non si può più
raggiunger bene colla Facoltà nel suo attuale ordinamento.
Anzi tutto è cosa incontestabile che il progresso fatto in questo
secolo dalle varie discipline, che s'insegnano in detta Facoltà, è sì
grande che un sol uomo, per quanto vasto ingegno abbia sortito da
natura, non può riuscire a conoscerne con certa profondità ed am-
piezza se non alcune poche le quali abbiano una stretta affinità con
quella disciplina cui ciascuno suole oramai rivolgere in guisa speciale
il suo pensiero e le sue cure. Perciò chi deve attendere a più materie
di svariata natura e debolmente connesse fra loro, è posto senza dubbio
neir impossibilità di formarsi una cognizione profonda ed estesa di
qualche speciale parte del sapere, giusta la nota sentenza :
« Pluribus intentus minor est ad singula sensus »,
che se fu sempre vera, lo è tanto più nei tempi nostri in cui la spe-
cializzazione del sapere s'impone all'uomo come un'assoluta e formi-
dabile necessità.
Inoltre chi è destinato all'insegnamento può tanto meglio compiere
la nobile sua missione, quanto più è versato in quella o in quelle
materie ch'è suo debito insegnare. È quindi necessario che per tempo
egli impari a restringere il campo de' suoi studi e concentrarli su quelle
determinate materie che egli deve poi trasmettere mediante l'inse-
gnamento alle giovani generazioni affidate alle sue cure, se vuol ren-
dere veramente efficace ed utile l'opera sua.
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Ciò posto, può la Facoltà di lettere e filosofia nelle presenti con-
dizioni di cose formare buoni specialisti ? può dare al paese valenti
insegnanti? — lo rispondo risolutamente no. Senza dubbio vi sono
in Italia e valenti specialisti e valenti insegnanti nelle scuole secon-
darie, ma ricercate un po' come abbiano raggiunto una certa eccellenza e
nel sapere e nella pratica dell'insegnamento. Voi troverete che, usciti
dall'Università con superficialissime cognizioni pertinenti a numerose
materie e senza saperne nessuna alquanto a fondo, hanno dovuto rifare
i loro studi lottando contro numerose difficoltà, rimpiangendo ogni mo-
mento il tempo che dovettero consacrare a tante e diverse materie ,
rubandolo a quelle cui avrebbero voluto attendere in particolare guisa
come a scopo della propria vita scientifica. Voi troverete che, usciti
dalle aule universitarie e saliti sulle catedre delle scuole secondarie,
si sono trovati come in un ambiente sconosciuto, quasi non fatto per
loro, senza nulla conoscere del metodo da tenersi, senza sapere adattare
l'insegnamento all'intelligenza degli alunni: quindi altre fatiche, altri
pentimenti e rimpianti cui si deve e si può ovviare per l'avvenire con
un migliore ordinamento della Facoltà di lettere e filosofia.
Certo sarebbe ridicolo il pretendere che in quattro anni di studi
universitari si riesca specialista consumato e praticissimo insegnante;
ma si può e si deve pretendere che il neo-laureato abbia già di quella
disciplina speciale, a cui intende d'applicarsi ancora in seguito, una
notizia, se non molto profonda, almeno abbastanza estesa; che pos-
segga intorno ad essa una grande quantità di cognizioni bibliogra-
fiche, mediante le quali soltanto si possono avere i materiali di studio
ed è possibile compiere pregevoli ed utili lavori ad incremento e
decoro della scienza che si coltiva ; che conosca bene, oltre alla lingua
francese, almeno la tedesca, perchè si possa valere ne' suoi studi anche
di quello che riguardo alla sua materia speciale fu scritto in paesi
stranieri-, che sia insomma così preparato e indirizzato nel ramo di
studi che vuol seguitare a coltivare, da non essergli forza di tornar da
capo all'abbiccì del sapere, come spesso accade ora; ma possa invece
proseguire animosamente nella via già presa. Quanto poi all'insegna-
mento, cui debbono già essere preparati i neo-dottori, perchè non
si potrebbe, nel periodo dei loro studi universitari, con una serie di
ben organizzate conferenze svolgere e perfezionare in loro l'attitu-
dine didattica -, perchè non si potrebbe insegnar loro il modo che
dovranno tenere nell'istruzione della gioventù che sarà poi loro affi-
— 74 —
data, dar loro un'idea chiara dei metodi migliori che a tal riguardo
si possono seguire?
Ma dalle considerazioni generali veniamo alle particolari, facendoci
anzi tutto ad osservare il lato difettoso del presente ordine di cose.
III. Primieramente la poca omogeneità delle materie, cui lo stu-
dente deve attendere, fa si ch'egli, invece di concentrare i suoi sforzi,
di convergere i suoi studi a quel gruppo di discipline per cui sente mag-
giore propensione, sia obbligato a distrarsi per seguire questo e quel-
l'altro insegnamento che ha nulla a che fare cogli studi cui egli ha deli-
berato di coltivare specialmente. Di fatto per lo studente, che ha scelto a
materia di studio il campo della filologia, a che cosa serve l'insegna-
mento della storia moderna ch'egli ora invece deve seguire per due
anni consecutivi? A che gli serve l'insegnamento delia filosofia teore-
tica, della geografia, della storia della filosofia, materie tutte nobi-
lissime e degnissime di studio, ma che poco importano al giovane
che si vuole consacrare alla filologia? Tanto più che lo studente, il
quale entra all'Università, non esce dalle scuole elementari, ma sì
dai licei dove ha dovuto apprendere quel tanto di geografia, di storia
moderna, di filosofia che deve far parte della coltura generale e che
può bastare ad uno studente di filologia. È vero che i licei d'Italia
non danno in generale quei risultati che s'avrebbe il diritto di avere,
ma che perciò? L'Università non deve formare la coltura generale dei
giovani; questi devono già averla ricevuta dai licei. — Ma ritor-
nando allo studente di filologia, ho menzionato quattro materie che
assolutamente non gli servono pe' suoi studi : vediamo ora se gli
serva gran fatto V insegnamento delle altre materie, quale è presen-
temente ordinato.
Noto subito che, stando almeno a quanto avviene nell'Università
di Torino, nessun professore fa più di tre ore di lezione alla setti-
mana, compresa per parecchi di essi un'ora destinata alle esercitazioni
degli alunni. Con tale orario quali cognizioni di letteratura latina e
greca possono acquistare gli studenti ? Come può il professore fare
con tale orario, in 3 anni, un'esposizione alquanto compiuta dei prin-
cipali periodi della storia letteraria, far la critica e l'esegesi dei testi,
far conoscere la storia e lo sviluppo fonetico morfologico e sintattico
della lingua di cui si occupa , comunicare ai giovani larghe notizie
bibliografiche, tener loro parola delle principali pubblicazioni che si
-Ih —
ranno ogni giorno facendo in quel ramo di studi, ecc., ecc.? 11 pro-
fessore è pertanto obbligato a restringersi ad una parte sola e lasciare
tutto il resto alla buona volontà dei giovani, i quali spesso, inesperti
e senza guida non possono di per sé scemare anche in minima parte
l'immensa lacuna. Per esempio, quale studente (stando sempre a
quanto avviene nell'Università di Torino), terminati i suoi studi uni-
versitari, può dire di conoscere la storia della lingua latina, di quella
lingua che egli deve poi insegnare nelle scuole secondarie? Che se
di ciò si occupi il professore di letteratura latina , gli resta forse
tempo per trattare la parte letteraria propriamente detta ? E qui no-
tate una cosa singolare: esiste nell'Università di Torino una catedra
di grammatica e lessicografia greca che è utilissima : per essa i gio-
vani studiosi possono essere messi in grado di conoscere lo svolgi-
mento della lingua greca ne' suoi vari dialetti, ed abilitarsi quindi alla
interpretazione ed alla lettura dei numerosi testi greci non iscritti nel
dialetto attico. Al contrario non vi trovi alcun insegnamento che si
riferisca semplicemente all'idioma latino, alle sue varie vicende, alle
relazioni che esso ha cogli altri-dialetti italici, specialmente con l'umbro
e con l'osco di cui novantanove su cento fra i neo-dottori non cono-
scerebbero neppure 1' alfabeto, quando non venisse pietosamente in
loro soccorso per questo rispetto il professore d'archeologia. E sì che
a noi italiani dev'essere oggetto di special cura e, per così dire, un
dovere lo studio di quella lingua che fu madre della nostra ! Di guisa
che lo studioso delle lettere latine esce dalla Università con cogni-
zioni superficialissime del latino classico , e troppo spesso ignaro del
latino arcaico, i cui monumenti non è posto in grado di mediocre-
mente interpretare.
Inoltre quali cognizioni di metrica greco-romana reca general-
mente con sé il giovane laureato? La metrica greco-romana abbraccia
un campo così vasto che appena un anno di non interrotto insegna-
mento può bastare per dare agli alunni le più elementari e necessarie
cognizioni. Che cosa perciò può mai restare nella mente dell'alunno,
se anche i professori di lettere latine e greche consacrino, il che dif-
fìcilmente avviene, qualche ora a tale materia? D'altra parte come
può, p. e., il professore di greco far conoscere in modo compiuto ai
suoi uditori l'organismo del dramma greco senza entrare nelle più
intricate questioni della metrica classica? E come può l'insegnante
delle lettere latine dare un' idea adeguata dello svolgimento della
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poesia romana senza invadere il campo della metrica ? Invece questa
povera scienza è abbandonata e negletta compiutamente, precisamente
come tutto ciò che si riferisce alla grammatica storica ed alla 5/1//-
stica latina !
Né in migliori condizioni si trova l'insegnamento delle lettere ita-
liane, giacché nel presente ordinamento 3 anni assolutamente non ba-
stano per ragioni simili a quelle per cui ho dichiarato insufficiente
l'insegnamento delle lettere latine e greche. C è bensì nelle nostre
Università un insegnamento affine e che può riuscire, affidato com'è
a uomini d' incontestabile dottrina , d' immensa utilità a chi brama
conoscere profondamente la nostra letteratura ; ma chi ne tien cal-
colo ? Intendo parlare dell'insegnamento della storia comparata delle
letterature neo-latine, insegnamento che non è obbligatorio se non a
quelli che sono iscritti alla Scuola di Magistero, la quale alla sua
volta non é obbligatoria. E qui sia detto una volta per sempre, che
lo studente, distratto com'è da tante materie disparate ed obbligatorie,
non potendo valutare l'importanza d'una materia che ignora affatto,
difficilmente si determina a frequentare altri corsi, e tutt'al più s'in-
scriverà a quelli che gli servono a completare le 18 ore settimanali
di scuola prescritte dal Regolamento, senza darsi pensiero di seguirne
regolarmente l'insegnamento e di ritrarne qualche profìtto. Ora, per
il corso in questione, quello cioè della storia comparata delle lette-
rature neo-latine, che cosa succede? Succede che pochissimi lo fre-
quentano , quasi nessuno ne approfitta per i suoi studi ; conseguenza
funestissima per il sapere , chi consideri che non si può altrimenti
conoscere la letteratura italiana dei primi secoli, che collo studio
comparativo di tutte le letterature neo-latine: le origini di essa for-
mano un capitolo rilevantissimo di quella grande storia che ab-
braccia tutte quante le nazioni sorte dal ceppo latino per quanto
spetta alla loro civiltà, al nascimento ed al successivo svolgersi dei
varii generi letterari ; talché, per recare un esempio, riesce impossi-
bile il formarsi una chiara idea della nostra lirica, della nostra epopea,
della nostra novella, ecc., senza studiarla in relazione con quella degli
altri popoli neo-latini : il fatto stesso del Rinascimento non si può
assolutamente studiare sul semplice suolo italiano.
Da quanto si è detto testé facilmente si vede che si provvederebbe
assai meglio, che ora non si faccia, allo studio della letteratura ita-
liana, se il corso di storia comparata delle letterature neo-latine fosse
— 11 —
reso obbligatorio, e quindi l'insegnante di quella, lasciando a parte i
primi secoli, rivolgesse i suoi sforzi ad illustrare gli altri i quali, cosa
incredibile , generalmente in Italia sono poco conosciuti , perchè ,
mentre sui primi abbondano le pubblicazioni e gli studi, specialmente
dacché si cominciò ad esplorare diligentemente il campo delle lette-
rature neo-latine, sugli altri sinora si è lavorato e si lavora poco. Né
va dimenticato un fatto di capitalissima importanza ed è che, a mi-
sura che progrediscono gli studi, si fa tanto più sentire il bisogno del
metodo comparativo, il solo che può veramente approfondire il sa-
pere e dichiarare certe questioni senza intender le quali non si può
dire d'aver acquistato una seria coltura letteraria.
Procedendo innanzi nella disamina delle varie materie che si rife-
riscono alla filologia, anche l' insegnamento della storia comparata
delle lingue classiche, e neo-latine è insufficiente perchè dato in un
anno solo e con un orario quale sopra si è indicato. Basta forse un
anno per dare ai giovani le più importami nozioni concernenti la
fonologia e la morfologia di quelle lingue ? Di più tale insegnamento
si dà presentemente a giovani appena usciti dal liceo dove ciascun sa
quanto poco s'impari di latino e quanto meno di greco, donde molti
escono senza nemmen saper leggere il francese, non che compren-
derlo; di quale utilità può dunque essere lo studio della glottologia
comparativa per giovani che posseggono sì scarso patrimonio lin-
guistico? Ben é vero che allo studente di glottologia non occorre una
profonda e vasta conoscenza delle lingue di cui si deve occupare, ma
dal non molto al quasi nulla corre gran tratto ; e per il giovane, che
frequenta un corso di glottologia con pochissima conoscenza delle
lingue onde si discorre , tale insegnamento perde la sua efficacia ri-
ducendosi ad un meccanismo pedantesco e noioso.
Resta Varcheologia greco-romana e la storia antica da esaminare.
Quanto alla prima é chiaro che un anno solo non è assolutamente suf-
ficiente. Le relazioni strettissime che questa scienza ha colla filologia
classica impongono che se ne allarghi l' insegnamento, ed un anno
per l'archeologia romana ed uno per la greca non sarebbe troppa cosa,
chi consideri come spetti all'insegnante di questa materia il dare non
solo le più importanti nozioni di epigrafia e numismatica greca e ro-
mana, materie già per sé vastissime, ma ancora il fornire agli alunni
particolareggiate nozioni di tutte le antichità sì pubbliche come pri-
vate dei Greci e dei Romani che meglio conferiscano a farne cono-
- 78 -
scere la vita. Rispetto poi alla storia antica credo che al cultore della
filologia basterebbero i due anni che sono prescritti dall'attuale Rego-
lamento, purché r insegnamento fosse esclusivamente ristretto alla
storia della Grecia e dell'Italia antica ed a quei popoli che con queste
nazioni ebbero immediate relazioni. Il resto dell' insegnamento do-
vrebbe essere destinato a quegli studenti soltanto che intendono farsi
cultori delle discipline storico-geografiche.
Tale, io credo, è la condizione dell'insegnamento per ciò che
spetta allo studioso della filologia, il quale, per di più, non è obbli-
gato né ad un corso di paleografia, che, se non erro, non esiste in
alcuna Università propriamente detta, mentre é tanto utile ai cul-
tori della filologia ; né ad un corso di pedagogia che io reputo in-
dispensabile a chiunque voglia prendere la carriera dell'insegnante ;
né, almeno, ad un corso di lingua tedesca, senza la quale, volere o
volare, manca necessariamente allo studioso un mezzo poderosissimo
di accrescere la propria dottrina e perfezionarsi ne' suoi studi. Né
vale il dire che, esistendo nelle Università i due ultimi corsi, può il
giovane frequentarli e valersene come se fossero obbligatori i. perché,
come fu già sopra osservato, lo studente che entra all'Università non
può ancora valutare l'importanza di quei corsi, ed anche conoscen-
dola, per la necessità di dover attendere ad altre materie , oltre a
quelle che riguardano la filologia, è spesso costretto a non approfittare
di que' due insegnamenti. D'altra parte va notato che delle lacune del
proprio sapere Io studioso non s' accorge mai se non quando é al-
quanto inoltrato negli studi che coltiva; allora poi intervengono
sovente imprevedute difficoltà che gli impediscono di dare opera a
colmare quella lacuna. È quindi cosa savia fare in certa guisa vio-
lenza allo studente obbligandolo ad occuparsi di quelle materie che
sono riconosciute necessarie al suo bene ; e lo studente non potrà
fare a meno di serbar riconoscenza a chi ha provveduto al suo utile
ed al suo sapere.
IV. Esaminate le condizioni dell'insegnamento per ciò che ri-
flette i cultori degli studi filologici, passiamo a considerare quanto
avviene di chi intende avviarsi allo studio delle discipline storico-
geografiche. Per costui si verifica anzi tutto ciò che ho detto del filo-
logo, vale a dire che egli è obbligato ad occuparsi di materie delle
quali potrebbe far senza, con benefizio inestimabile del suo profitto
- 79 -
nelle discipline che direttamente lo interessano. E per verità la gram-
matica e lessicografia greca, la storia comparata delle lingue clas-
siche e neo-latine, la filosofia teoretica qual rilevante giovamento pos-
sono recargli ? E non gli sono forse di troppo tre anni di letteratura
greca oltre 1' anno di grammatica e lessicografia? Non basterebbero
forse due anni di letteratura italiana e latina ?
Al contrario l' insegnamento di quelle materie che più interessano
lo studioso della storia, come la storia moderna, la storia antica, la
geografia, ^archeologia greco-romana, la storia della filosofia è estre-
mamente ristretto. A che servono per lui due anni di storia moderna
ed antica e un anno solo per ciascuna delle altre materie ? Come si
può con tale distribuzione di materie, con tale durata dell' insegna-
mento dare un buon indirizzo a chi si è destinato agli studi storico-
geografici ? Anche qui i professori sono obbligati a strozzare, per così
dire, il proprio insegnamento, a lasciare da banda importantissimi
periodi di storia od importantissime questioni geografiche etnogra-
fiche ed archeologiche, a tenere quasi all' oscuro i loro scolari in ciò
che concerne la bibliografia, le fonti della storia, le scoperte geo-
grafiche ed archeologiche, o dare solo insufficienti notizie ; non pos-
sono assolutamente guidare i giovani alle indagini , alla critica sto-
rica, ecc., ecc. Che se poi allo studioso della filologia un solo anno
di archeologia greco-romana non basta, che dovrà dirsi dello studioso
della storia? E dove lascio la paleografia la cui cognizione è oramai
divenuta un dovere per chiunque coltivi la storia ? E delle antichità
orientali chi tiene parola se non se di tanto in tanto, alla sfuggita ,
l'insegnante di storia antica, il quale col suo orario può fare tutt'altro
che miracoli? E che cosa significa un anno solo di geografia con le
belle cognizioni che di essa portan seco i giovani licenziati dalle
scuole secondarie classiche? Quanto poi alla lingua tedesca ed alia pe-
dagogia ci si trova nelle stesse condizioni che si sono sopra esami-
nale discorrendo degli studi filologici. Eppure le son tutte cognizioni
che si devono acquistare da chi vuol divenire un serio cultore ed in-
segnante di storia e geografia, e si devono acquistare per tempo, alla
Università, quando si è giovani e non distratti dalle cure della vita,
le quali troppo sovente distolgono l'uomo dall' intraprendere studi
nuovi ; che esso spesse volle si deve chiamare assai lieto quando
quelle gli permettono di proseguire gli studi che ha comincialo sui
banchi delle scuole nelle aule dell'Università. E poi è tempo che si
- 80 -
comprenda che il progresso delle scienze tutte nell'età nostra è in ra-
gione direttissima col numero degli specialisti, e che gli studiosi tanto
piti possono approfondire le loro cognizioni quanto per tempo han
cominciato a volgere il loro pensiero ad una parte determinata del
sapere. Ecco il principio che tardi o tosto deve trionfare anche nelle
Università ed in particolar modo in quelle Facoltà che sono destinate
a formare, ad un tempo, buoni cultori delle scienze e buoni inse-
gnanti.
V. Volgiamo ora un istante la nostra attenzione agli studenti di
filosofia. La facoltà filosofica è, a parer mio, la meglio ordinata per
ciò che spetta all'omogeneità delle materie, se si riguarda però sola-
mente il secondo biennio d'insegnamento, poiché chi s'avvia agli
studi filosofici è costretto a studiare nel primo biennio tutte le ma-
terie che sono prescritte per il primo biennio del corso di lettere.
In altri termini, si comincia nell'attuale ordinamento a studiar spe-
cialmente filosofia quando lo studente ha superato il così detto esame
di licenza. Sin qui l' unica materia filosofica , cui sia obbligato a
studiare, è la filosofia teoretica, l'insegnamento della quale, come
ognun sa, dura due anni per gli studenti di filosofia , cominciando
un anno prima della licenza e terminando un anno dopo. Dunque,
nel primo biennio , lo studente onde si discorre è obbligato a fre-
quentare i corsi di geografia, di grammatica e lessicografia greca,
di storia comparata delle lingue classiche e neo-latine, di storia an-
tica, di storia moderna oltre alle tre letterature. Ora di tutti questi
corsi è chiaro che sono necessari solo quelli di storia antica e di let-
teratura italiana, latina e greca, e che gli altri quattro sono per lo
studente di filosofia un inutile ingombro. Ho posto fra gli sludi a
lui necessari anche quello della storia antica, come quella che in ge-
nerale malamente si studia nelle nostre scuole secondarie ove sinora
s'insegna solo nelle due ultime classi del ginnasio e perchè , an-
corché s'insegnasse come dovrebb' essere insegnata, viene affatto tra-
scurata e quindi pressoché del lutto dimenticata nel liceo ove non se
ne tiene più parola. Riguardo poi alle tre letterature, due anni per
l'italiana e la latina dovrebbero bastare, mentre per la greca dovreb-
bero essere prescritti quattro anni. E la ragione è chiara, chi pensi
come la esatta e profonda cognizione della lingua greca è assoluta-
mente necessaria al filosofo che voglia abbracciare nella sua mente
-Bi-
anche l'importantissimo movimento filosofico dell'antichità; e però
non è ragionevole il limitare questo studio, come vorrebbe taluno,
perchè lo studente di filosofia non è destinato ad insegnare il greco.
Questo per la parte letteraria che è riconosciuta d'utilità immediata
anche al cultore della filosofia. Passando alla parte puramente filosofica,
basta forse un anno solo per la filosofia morale? Qaanù problemi morali,
quante importantissime questioni deve lasciar da parte l' insegnante
di quella materia se vuol darne ai suoi studenti un'idea generale ! Se
invece prende ad oggetto del corso una questione o più questioni
particolari, quale idea precisa può farsi lo studente dell'ambito di
quella disciplina, delle sue relazioni colle altre scienze? I problemi,
le questioni morali hanno troppa importanza perchè non s' abbiano
a trattare anche nelle aule dell'Università con grande ampiezza e con
metodo scientifico. Quindi, quale è ora, quest'insegnamento è poco
proficuo; per divenir tale dev'essere esteso almeno a tre anni.
Né in migliori condizioni si trova l'insegnamento della storia della
filosofia ristretta a due soli anni, i quali si può dire che bastino ap-
pena per dichiarare i punti principali concernenti la storia della filo-
sofia antica. Così succede che lo studente esca dall'Università cono-
scendo una minima parte di quanto dovrebbe sapere in fatto di storia
della filosofia, avendo qualche notizia di due o tre fra i maggiori filo-
sofi e non più, ma chiamandosi per altro dottore in filosofia! E
della psicologia che cosa avviene ? nulla, perchè (cosa veramente or-
ribile) non esiste nell'insegnamento universitario ed è un tanto di più
se ne discorra alquanto l' insegnante di pedagogia. Così , mentre nei
paesi più civili la psicologia , specialmente come scienza positiva,
viene coltivata con sommo ardore e con immensi risultati, in Italia
non ha alcun luogo nell' insegnamento ufficiale universitario ! Sa-
rebbe quindi ora che si pensasse a fondare nelle nostre Università
un corso speciale di psicologia positiva (i) cui gli studenti di filo-
sofia, a mio avviso, sarebbero obbligati almeno per due anni di studio,
considerato il suo campo vastissimo e le numerosissime attinenze che
essa ha con altre scienze , specialmente colla fisiologia. La quale ul-
(1) Apprendiamo con sommo piacere che il chiaro fisiologo Angelo
Mosso della nostra Università ha intenzione di aprire nel prossimo anno
scolastico un corso libero di tale materia.
■'Hivirta di filalo fia ecc. X 6
— 82 —
tima scienza, sebbene prescritta dal vigente Regolamento, è poco cu-
rata dagli studenti di filosofia, mentre dovrebbero studiarla seria-
mente e sostenere in tal materia un rigoroso esame. Io non mi voglio
dilungare qui a provare come sia necessario anche questo studio al
filosofo; chi sa che cosa è psicologia, sa che alla sua compiuta co-
noscenza occorrono cognizioni fisiologiche ed anatomiche più che
elementari ; non sarebbe quindi un pretender troppo il richiedere
dagli studenti almeno le principali nozioni di fisiologia, cosa questa
che non credo si sia potuta ottenere ancora, se debbo prestar fede
ad autorevoli persone che me ne parlarono.
Riguardo alla pedagogia reputo poter bastare un anno d' insegna-
mento precisamente come si fa ora, ma lamento, anche per rispetto
agli studi filosofici, la mancanza d'un corso obbligatorio di lingua
tedesca, senza di cui 1' alunno è costretto a rimettersi ne' suoi studi
alle compilazioni od ai trattati di storia della filosofia, od a mono-
grafie più o men esatte, sieilo pure ristrette ad uno o a pochi filosofi
tedeschi, e rinunziare alla cognizione diretta di tutta la filosofia ger-
manica. Se questo sia bene, veggano gl'intelligenti. Sarebbe anche de-
siderabile che lo studente di filosofia fosse costretto ad un corso di
lingua inglese^ poiché i sistemi filosofici devono essere studiati nella
loro forma genuina, e non attraverso a traduzioni e compilazioni di
ogni sorta ; ed il movimento filosofico inglese ha tale e tanta impor-
tanza che deve essere conosciuto da ogni mediocre cultore della filo-
sofia. Ma nell'attuale ordinamento degli studi si può ciò fare?
VI. Fatta una rapida critica del presente ordinamento della Fa-
coltà di lettere e filosofia io credo bene di mettere innanzi alcune
proposte che mi pare si possano attuare con bene inestimabile degli
studi e degli studiosi. Bastano poche modificazioni perchè si ringio-
vanisca l'istituzione e la si renda più adatta allo scopo quale abbiamo
superiormente designato.
Primieramente io propongo che la Facoltà sia divisa in tre sezioni
assumendo il titolo, più esatto e corrispondente appunto al numero
delle sezioni, di Facoltà di filologia, scien^^e storico- geografiche e filo-
sofiche.
La sezione filologica abbraccierebbe i seguenti insegnamenti obbli-
gatorii per tutti gli studenti ad essa inscritti :
- 83-
1. Letteratura italiana ..... per anni 3
2. Letteratura latina » 3
3. Letteratura greca » 3
4. Grammatica storica e stilistica latina . . . » 1
5. Grammatica e lessicografia greca . . . » i
6. Storia comparata delle letterature neo-latine . » 2
7. Storia comparata delle lingue classiche e neo-latine » 2
8. Archeologia greco-romana .....> 2
9. Storia comparata della metrica classica . . » i
10. Storia antica ......... 2
1 I . Paleografia » i
12. Pedagogia . . » i
i3. Lingua tedesca . » 2.
La sezione storico-geografica comprenderebbe le materie seguenti;
1 . Storia antica .
2. Storia moderna
3. Storia della filosofia
4. Geografia
5. Archeologia greco-romana
6. Antichità orientali
7. Paleografia
8. Letteratura italiana
9. Letteratura latina .
10. Letteratura greca .
1 1. Pedagogia
12. Lingua tedesca
per anni
Finalmente la sezione filosofica darebbe i seguenti insegnamenti:
1. Filosofia teoretica.
2. Filosofia morale .
3. Psicologia
4. Storia della filosofia
per anni 2
» 3
» 2
» 4
- 84 -
5. Fisiologia
6. Pedagogia
7. Storia antica
8. Letteratura italiana
9. Letteratura latina .
10. Letteratura greca .
1 1. Lingua tedesca
12. Lingua inglese
per anni 2
» I
Stabilite così le materie obbligatorie per le tre sezioni in cui do-
vrebbe esser divisa la Facoltà e la durata dei singoli corsi, passo a
determinare quante , secondo me , dovrebbero essere le lezioni che
settimanalmente lo studioso dovrebbe frequentare. Osservo subito che
per uno studente che conosca e voglia fare il proprio dovere, quattro
ore di lezione al giorno sono per nulla gravose e che si possono con
profitto ascoltare giornalmente anche cinque lezioni, tanto più quando
le materie, cui deve attendere, sono omogenee o almeno non troppo
disparate. Ciascun vede quanto tempo avanzi al vero studioso per
compiere a casa sua o nelle biblioteche la propria istruzione, per far
ricerche , lavori , ecc. Dunque mi pare che sia assai ragionevole lo
stabilire che per le materie obbligatorie l'orario importi da 18 a 24
ore di lezione per settimana , affinchè Io studente possa , qualora vi
abbia uno speciale interesse, frequentare qualche altro corso coìnple-
mentare, ovvero i corsi dei liberi docenti che abbiano efl'etto legale;
i quali corsi, se vengon fatti a dovere, possono tornare d' immenso
profitto ai giovani che si vogliano perfezionare in qualche materia
speciale, anche quando non credano di frequentarli invece dei corsi
ufficiali, cui corrispondano e per la materia e per il numero delle
lezioni. Pertanto si porterebbe a 3o il limite massimo delle lezioni
che ogni studente potrebbe frequentare ogni settimana ed a 18 il mi-
nimo, precisamente com'ò nell'attuale Regolamento, con questa diffe-
renza però che, mentre, p. e., nell'anno 4" di lettere dell'Università
di Torino , lo studente non ha presentemente che 9 ore per setti-
mana per i corsi obbligatorii, in nessun caso la somma delle lezioni
dei corsi obbligatorii dovrebbe essere inferiore a 18 per settimana.
Ora, conforme a queste premesse, ecco quale mi sembra dovrebbe
essere l'orario dei corsi obbligatorii per ogni settimana :
- 85 —
Sepone filologica.
Materie di corso
Anno i"
Anno 2»
Anno 3"
Anno 4"
Letteratura italiana Ore
Letteratura latina . . »
Letteratura greca . . »
Grammatica storica e sti-
listica latina ...»
Grammatica e lessicogra-
fia greca .... »
Storia comparata delle
letterature neo-latine »
Storia comparata delle
lingue classiche e neo-
latine »
Archeologia greco-ro-
mana »
Storia comparata della
metrica classica . . »
Storia antica ...»
Paleografia .... »
Pedagogia .... »
Lingua tedesca ...»
3
4
4
3
3
3
3
6
6
3
3
3
3
6
6
3
3
3
6
6
3
3
3 •
3
Totale Ore
20
24
24
24
Se:^ione storico-geografica.
Materie di corso
Anno 1°
Anno 2"
Anno 3-'
Anno 4"
Storia antica . . Ore
3
3
3
3
Storia mioderna. . . »
3
3
3
3
Storia della filosofia . »
—
—
3
3
Geografia .... »
—
—
3
:>
Archeologia greco-ro-
mana »
—
—
3
3
Antichità orientali . »
—
—
—
3
Paleografia .... »
—
—
3
—
Letteratura italiana . »
3
3
—
—
Letteratura latina . . »
b
6
—
—
Letteratura greca . . »
6
6
—
—
Pedagogia .... »
—
—
—
3
Lingua tedesca ...»
3
:>
—
—
Totale Ore
24
24
18
21
Sezione filosofica.
Materie di corso
Anno 1°
Anno 2"
Anno 3°
Anno 4"
Filosofia teoretica . Ore
3
3
Filosofia morale . . »
—
3
3
3
Psicologia . . .
»
—
—
3
3
Storia della filosofia
»
3
3
3
3
Fisiologia . . .
»
—
—
3
3
Pedagogia . . .
»
—
—
3
Storia antica . .
»
3
—
—
—
Letteratura italiana
»
3
3
—
—
Letteratura latina .
»
6
6
—
—
Letteratura greca .
»
3
3
3
3
Lingua tedesca . .
»
3
3
—
—
Lingua inglese ...»
—
—
3
3
Totale Ore
24
24
18
21
Osservando queste tabelle si vede che per ogni materia io vorrei
prescritte tre ore di lezione ogni settimana , eccetto che per l' inse-
gnamento della grammatica storica e stilistica latina, e della gram-
matica e lessicografia greca, per cui reputo indispensabili quattro
ore; inoltre all'insegnamento della letteratura latina e della lettera-
tura greca sarebbero prescritte sei ore per gli studenti di filologia e
per quelli di storia e geografia, mentre gli studenti di filosofia avreb-
bero tre ore di greco e sei di latino ogni settimana. La ragione di
ciò è chiara, chi consideri quello che ho sopra discorso intorno al-
l' insufficienza, per gli studenti di filologia , di sole tre ore settima-
nali di letteratura latina e greca; chi pensi inoltre che, secondo le
mie proposte ed i ragionamenti fatti, gli studenti di storia e geografia
dovrebbero essere obbligati a frequentare que' due corsi per soli due
anni, e che gli studenti di filosofia sarebbero tenuti alla frequentazione
del corso di letteratura latina per due anni, mentre per quattro anni
seguirebbero quello di letteratura greca : del che abbiamo sopra dato
la ragione.
Non si obbietti che si potrebbe estendere a tutti i quattro anni di
corso, per gli studenti di storia e di filosofia, 1' insegnamento della
letteratura latina, e per quelli di storia e geografia anche l'insegna-
— 87 —
mento del greco; perchè è bene che gli studenti nel secondo biennio
dei loro studi si occupino esclusivamente di quelle materie che più
strettamente si riferiscono o alla storia e geografia od alla filosofia,
appunto per la necessità di dover specializzare i loro studi ; e d'altra
parte, per gli studenti di filologia, i quali devono frequentare quei
corsi per tre anni consecutivi sino alla laurea , sono assolutamente
richieste le sei ore da me segnate nell'orario.
VII. Nasce quindi una grave questione per l'orario dei professori
di lettere latine e greche. È giusto raddoppiar loro addirittura il nu-
mero delle lezioni che sono obbligati a fare, senza pensare ad un
conveniente compenso? Ecco pertanto interessato il bilancio della
Pubblica Istruzione, interessato l'erario, alle condizioni del quale è
pur forza subordinare qualsiasi riforma. Ora io non so se noi ver-
siamo in tali condizioni finanziarie da poter accrescere lo stipendio
ai professori di lettere latine e greche in proporzione del maggior
numero di lezioni che loro vengano assegnate. Non so nemmeno se,
vista la necessità di dover aggiungere alcuni nuovi insegnamenti alla
Facoltà, si potrebbe anche semplicemente dare ai detti insegnanti una
indennità annuale corrispondente allo stipendio d'un incaricato : ma
credo che anche non potendosi ciò fare per ora, si debba cercare di
farlo al più presto possibile, ed intanto si trovi un qualche tempe-
ramento che permetta di subito attuare la riforma senza aggravare
soverchiamente l'erario.
A me pare di aver trovato questo temperamento proponendo che
il professore ufficiale di dette materie continui per ora a fare le sue
tre lezioni settimanali, e per le altre tre si obblighino gli studenti
tutti a frequentare, in quelle Università ove si abbia, quel corso li-
bero con effetto legale, tanto di letteratura latina quanto di lettera-
tura greca che verrà dal Ministro, anno per anno, designato, considerati
i titoli e l'attitudine didattica dei varii liberi docenti di quelle stesse
materie , i quali insegnino effettivamente e facciano ogni settimana
un numero di lezioni uguale a quello prescritto per l'insegnante uf-
ficiale (i). Per tal guisa l'erario non resta aggravato più di quello che
(1) Un inconveniente che si verifica ogni anno all'Università di To-
rino mi obbliga a toccare qui di volo una questione delicata, quella dei
— 88 -
è presentemente, potendosi anche, nell'attuale ordinamento, dare il
caso che gli studenti, considerata l'utilità d'un corso libero con ef-
fetto legale, vi si inscrivano tutti. D'altra parte è così piccolo il nu-
mero degli studenti di lettere e di filosofia, che l'erario non ha a ri-
sentirsene punto delle loro iscrizioni ai corsi liberi. Certo sarebbe
necessario rimediare ad uno sconcio, il quale, se non è molto grave
nelle Facoltà numerose di studenti, è gravissimo per quelle che ne
hanno pochi, e, per di più, generalmente studiosi. Lo sconcio a cui
accenno è il corrispondere, che ora si fa, la quota d'iscrizione al li-
bero docente solo in proporzione del numero degli studenti che pa-
gano le tasse. Si consideri che, in generale, chi studia lettere o filo-
sofìa non è ricco e spesso nemmeno agiato, e quindi può collo studio
facilmente ottenere la dispensa dal pagamento delle tasse; al libero
docente quindi, non punto sovvenuto altrimenti dal governo, rimane
quasi nulla. Ora il nulla, per chi lavora coscienziosamente, è troppo
poco !
Ma tornando all'argomento, designato dal Ministro il libero do-
cente al cui corso si debbano iscrivere tutti gli studenti, egli dovrebbe
Dottori aggregati. A questi, cui la legge 13 novembre 1859, con esor-
bitanza fenomenale, concede la privata docenza con effetti legali in tutte
le materie pertinenti alla Facoltà (art. 93), viene sempre assegnato l'uf-
ficio di supplire i professori assenti o infermi, anche quando non eser-
citino eflFettivamente la privata docenza, ponendoli quindi al di sopra di
quelli che, talora con immensi sacrifizi ed indefesso studio, esercitano
la loro qualità di privati insegnanti regolarmente, sottoponendosi anche
all'orario stesso dell'insegnante ufficiale, senza essere dottori aggregati.
Se ciò sia giusto , veggano le persone imparziali che più che ai vani
nomi riguardano alla realtà delle cose, che non possono veder preferite
a chi onestamente e assiduamente lavora, persone che soventi volte,
dopo aver sostenuto un esame, non si curano più di continuare i loro
studi, o non ne danno segno alcuno, o che ad ogni modo nulla fanno per
il bene dell'istruzione universitaria, salvo l'intervenire alle riunioni della
Facoltà esercitando un'ingerenza che i soli insegnanti devono avere.
Ciò sia detto per tutti i casi possibili, che si deve pur riconoscere che
fra i Dottori (tggreqati si trovano persone dottissime e rispettabili per
ogni riguardo, che lavorano indefessamente e sono ottimi insegnanti.
Ma frattanto sarebbe giusto stabilire per legge che l'incarico di supplire
gli insegnanti ufficiali venga conferito ai liberi docenti, o aggregati o
non, per ragione di merito, o, a parità di merito, per ragione dell'an-
zianità nell'insegnamento libero effettivamente esercitato. Questo criterio
dovrebbe pur servire per la formazione delle commissioni esaminatrici.
— 89 -
mettersi d'accordo col professore ufficiale riguardo alla ripartizione
della materia da trattare durante l'anno scolastico, per impedire ogni
inconveniente, ogni ripetizione o contraddizione, e rendere più pro-
ficuo ed omogeneo l'insegnamento. Naturalmente agli esami gli stu-
denti sarebbero tenuti a dar ragione ad entrambi gl'insegnanti di
quanto fu da loro esposto durante il corso.
Vili. Rimane la questione delle nuove catedre che, secondo le
mie proposte, si dovrebbero instituire e che ho dimostrato affatto
necessarie. Queste si riducono, se ben si osserva, a quattro. Le ca-
tedre, cui accenno, sono quelle di Storia comparata della metrica clas-
sica per la sezione filologica, di Paleografia per le sezioni filologica
e storico-geografica, di Antichità orientali per la sezione storica, e di
Psicologia per la sezione filosofica. Le altre catedre credo esistano in
quasi tutte le Facoltà di lettere e filosofia , tranne quelle di Gram-
matica latina e di Grammatica greca, le quali sussistono bensì, ma
presentemente, se non erro, si escludono a vicenda nelle varie Uni-
versità, per non dire che in alcuna mancano affatto e l'una e l'altra.
Tolta adunque quest'irregolarità, prescrivendo che in ogni Facoltà
di filologia esistano entrambe le catedre di grammatica che ho testé
menzionato , restano quattro sole catedre da instituire. Riguardo a
queste io proporrei che per qualche anno, sino a migliori condizioni
finanziarie, fossero assegnate, a titolo d'incarico, a quelli fra gl'inse-
gnanti ufficiali o liberi di ciascuna Facoltà, che sieno riconosciuti
idonei a tali insegnamenti. In questa maniera con tenuissima spesa
si provvederebbe seriamente al migliore andamento , al lustro della
Facoltà e, quel che più monta, all'incremento degli studi ed alla
utilità degli studiosi.
IX. Prima di finire, non sarà male dir anche qualche cosa degli
esami e della Scuola di Magistero.
Gli esami , quali si danno attualmente , per gruppi , riescono
poco scrii. Non è il caso che io spenda parole per dimostrarlo ,
che tutti, e insegnanti e studenti, ne sono malcontenti e reclamano
una riforma. Allo studente è un peso enorme dover rispondere su
tre, quattro materie, spesso disparatissime, senza nessun intervallo di
tempo fra l'una e l'altra; al professore è un tormento il dover per-
dere il proprio tempo per assistere ad esami che versano su materie
- 90 -
che non sono la propria; è quindi in generale disattento, e deve rimet-
tersi al voto del professore della materia. Ne avviene perciò che per
ogni materia il votante è uno solo, chi la insegna , e che il libero
docente, il quale fa parte della commissione, vota in generale facendo
la media dei voti dati dagli altri commissari ; ciò che non dev'essere.
Di più, per via del numero delle materie che formano il gruppo di
esame, allo scopo di non impiegar troppo tempo e non prolungare
il supplizio del candidato, c'è sempre un solo che interroga, il pro-
fessore della materia; ed anche ciò è contrario allo spirito del Rego-
lamento vigente.
Bisogna pertanto ovviare a quest'inconvenienti, che non sono nem-
meno i più gravi, essendocene altri ben maggiori, fra cui il princi-
pale è che cogli esami a gruppi, come sono ora, non si può avere
una seria garanzia del sapere degli studenti, i quali vengono interro-
gati per soli pochi minuti in ciascuna materia ; per non dire che so-
venti volte giovani di vero merito, pel cumulo delle materie, si con-
fondono e non sanno più rispondere alle più semplici interrogazioni;
mentre giovani di pochissima capacità o negligenti riescono fortunati.
Si pensi adunque a ristabilire gli esami speciali quali si davano un
tempo colle commissioni composte di tre membri, cioè il professore
della materia e due liberi docenti della stessa materia, o, in loro
mancanza , due altri insegnanti di materia affine ; di più gli esami
sieno annuali e dati su tutte le materie prescritte per ciascun anno,
salvo quelle il cui corso duri tre o quattro anni, per le quali lo stu-
dente dovrebbe subire l'esame solo due volte. In questa maniera sa-
ranno più scrii gli esami, e studenti e professori ne saranno più
soddisfatti.
Resta a dire della Scuola di Magistero. Questa scuola, nelle condi-
zioni in cui si trova presentemente, non dà alcun frutto e, se devo
giudicare da quanto avviene nell'Università di Torino, è poco fre-
quentata. Primieramente è in facoltà dello studente frequentarla o
non, il che è cosa veramente riprovevole, chi pensi che lo scopo di
cotesta scuola deve essere non tanto quello di far esercitare i giovani
con conferenze, lavori scritti, ricerche d'ogni genere nelle singole
discipline, quanto più specialmente quello di addestrarli all' insegna-
mento sviluppando la loro attitudine didattica, facendo loro applicare
i migliori metodi d'insegnamento, obbligandoli a fare qualche lezione
su argomenti differenti e designando la classe a cui la lezione do-
- 91 -
vrebbe essere diretta, a correggere lavori scritti di alunni delle scuole
secondarie, ecc., ecc.; insomma la Scuola di Magistero più che uno
scopo scientifico dovrebbe avere quello di formare buoni insegnanti
per le scuole secondarie. Quindi ogni studente dovrebbe essere ob-
bligato a frequentarla non solo, ma non dovrebbe essere ammesso
all'esame di laurea senza aver ottenuto dai singoli professori della
Scuola suddetta un certificato d'approvazione.
In secondo luogo, se, nello stato attuale della Facoltà, lo studente
è già oppresso dallo studio di materie disparatissime, come può egli
trovare il tempo per frequentare la Scuola di Magistero, sia pur solo
per quella sezione di essa che è piìi consona co' suoi studi speciali?
Invece, dividendo, come propongo, in tre sezioni la Facoltà, le se-
zioni corrispondenti della Scuola di Magistero serviranno ottimamente
allo studente non solo per approfondire in certe materie le sue co-
gnizioni, rischiarare i suoi dubbi, ecc., ma particolarmente per adde-
strarsi a comunicare altrui , per mezzo dell' insegnamento orale,
quanto ha imparato nel corso dei suoi studi.
Ma sorge una questione: quando è che si deve dallo studioso fre-
quentare questa Scuola? Molti vogliono che vi si debbano ammettere
i soli laureati ; ma io credo che cosi non debba essere. Non confon-
diamo la Scuola di Magistero colle Scuole di Perfe:(ionamento ; queste
devono seguire alla laurea, quella deve precedere, perchè la laurea
deve essere non solo un titolo che faccia fede della dottrina di chi
l'ha ottenuta, ma pur anche un'abilitazione all'insegnamento, e nes-
suno dev' essere da un' Università abilitato all' insegnamento se non
abbia già dato prova di essere idoneo e per sapere e per attitudine e
buon metodo didattico.
Quindi io sarei d'avviso che fossero tenuti a frequentare la Scuola
di Magistero tutti e soli gli studenti del 4° anno delle tre sezioni. Ma
siccome esercitarli in tutte le materie sarebbe troppo e l'orario com-
plessivo del Corso e della Scuola di Magistero supererebbe il limite
massimo delle ore in cui possono gli studenti essere occupati dagli
insegnanti, così, avuto riguardo allo scopo speciale di quella Scuola,
io proporrei che dovesse comprendere quelle sole materie che il di-
scente presumibilmente avrà da insegnare nelle scuole secondarie. E
però per gli studenti di filologia dovrebbe comprendere le seguenti
materie: letteratura italiana^ latina, greca', storia antica: per quelli
di storia e geografia : storia antica e moderna, geografia, archeologia
— 92 -
greco-romana e antichità orientali; per quelli di tìlosofia : filosofia
teoretica, filosofia morale, psicologia, storia della filosofia. Così , fis-
sando un'ora per settimana per ciascuna materia, gli studenti di filo-
logia sarebbero complessivamente occupati per 28 ore , quegli di
storia per 26, quelli di filosofia per 25 ore ogni settimana, tra il corso
ordinario e la Scuola di Magistero.
Queste sono le proposte che io ho creduto bene di fare per il mi-
glioramento degli studi e filologici e storico-geografici e filosofici,
valendomi dell'esperienza da me fatta nell'Università di Torino e come
studente e come libero insegnante. Sarò oltreraodo lieto se, quali che
vengano giudicate e la mia critica dell'attuale ordinamento e le mie
proposte, quel poco ch'io ho scritto potrà almeno sollevare qualche
utile e seria discussione sui mezzi più acconci per rendere più ri-
spondente ai suoi molteplici scopi la Facoltà di lettere e filosofia.
Torino, 24 agosto 1881.
Ettore Stampini.
'BI'BLIOG^AFIA
Iscrizioni greche di Olimpia e di Ithaka. Memoria di Domenico Com-
PARETTi (Reale Accademia dei Lincei , Memorie della Classe di
Scienze morali, storiche e filologiche, serie B-*, voi. VI, 188 1).
È uno studio, che il prof. Comparetti comunicava all'Accademia
dei Lincei nella seduta del 20 febbraio 188 1 intorno a tre iscrizioni
in bronzo, che la Direzione degli scavi in Olimpia aveva già pubbli-
cate nella Ga^^etta archeologica, ma con illustrazioni affatto provvi-
sorie e parziali del Kirchhoff e di G. Curtius per quella segnata col
n" 362 ; del Frankel per quella segnata n" 56, e del Kirchhoft" ancora
per quella che è pubblicata sotto il n" 363. Della breve iscrizione
d'Ithaka aveva dato qualche notizia lo Schliemann già sino dal 1868
in un libro intitolato Ithaka, il Peloponneso e Troia : ma fu soltanto
la scoperta dell'americano signor Stilimann, che ne rese possibile la
interpretazione. Delle iscrizioni d'Olimpia, numeri 362, 56, 363 il
- 93 -
prof. Comparetti ci dà qui un facsimile in litografia; di quella di
Ithaka s'aggiunge una riproduzione fotografica, tratta dalla negativa
della fotografia, fatta sul marmo a cura del predetto signor Stillmann.
A conferma delle pubblicazioni, fatte dalla Ga:;^etia Archeologica, il
prof. Comparetti dice di aver ricevuto i calchi delle iscrizioni n" 362
e 56, presi per conto suo in Olimpia dal valoroso giovane Dott. L.
Milani, e dai quali si rileva, che il facsimile dell'iscrizione 362 dato
dalla Ga^:^. Arch. è meno esatto nell'ultima riga, dove nel calco si
legge chiarissimo NA e non AA, e fra i due 0 vedesi la traccia di I,
o senza dubbio il posto da questo occupato. Il facsimile dell'iscrizione
n" 56 è del tutto conforme a quello pubblicato. Le tre iscrizioni in
bronzo, che formano soggetto di questo studio, appartengono a quel
genere d'epigrafi, che presentano insolite difficoltà d'interpretazione
a causa « della loro antichità e delle caratteristiche troppo mal co-
nosciute oggidì del dialetto locale in cui furono scritte ».
Sarebbe difficile il riepilogare in brevi cenni l'efficace e sobrio ra-
gionamento, che il prof. C. ha condensato in poche pagine per con-
fermare la lezione, che egli dà del testo delle iscrizioni. È l'arte so-
vrana veramente di questo insigne archeologo e filologo, di farci pen-
sare un mondo di cose con un solo leggero accenno. L' iscrizione
n" 362 è la più lunga, e le conghietture, che intorno a vari vocaboli
fecero il Kirchhoff e il Curtius (Giorgio) non recarono molta luce.
Il prof. Comp. in parte correggendo, in parte supplendo, in parte
felicemente congetturando, é riuscito a darci una lezione, che segnerà
un vero trionfo nell'arte interpretativa, oltre che essa è ricca d'im-
portanti deduzioni e fatti linguistici , e di notizie , attinenti alla
storia e all'archeologia. E prima di tutto il Comp. vide e notò, ciò
che non vide il Kirchhoff, che in questa rhetra non abbiamo una
legge intera e completa , ma soltanto un articolo di aggiunta ad una
legge anteriore (p. 5), e lo induce dal KAI che sta nell' intestazione,
che si chiude colle parole KAITAYTO, che vanno lette xaì xauxuL), cioè
Koì xà aÙToO, anche queste cose qui, e non xarà tò aùxó come pensa
il Kirchhoff.
Quanto al significato generale dell' iscrizione, pare al Comp. che
si tratti del caso, che uno degli Elei che onoravano il paese, distin-
guendosi con vittorie nei giuochi olimpici, e costituivano un corpo
d'onore (Fdppr|v), procedesse ad una solenne consacrazione sia di un'ara,
o di una statua o d'altro. Una rhetra antecedente deve aver prescritto
- 94 -
il da farsi per parte della cittadinanza Elea e de' suoi principali rap-
presentanti, perchè la ceremonia della KoGi^pujoiq avesse la piìi grande
solennità. Che cosa fosse questo, che era da farsi, e quali fossero gii
obblighi (xà òiKaia), che venivano imposti a' dignitari, qui nominati,
non sappiamo; ma dalla possibilità cui s'allude qui d'essere tratte-
ììuti (ì|udaKoij, pare che primo dovere fosse quello d'intervenire alla
cerimonia, e i verbi èTiiTiGévai, èmiTOieìv tò òiKaia accennano al pren-
dervi parte diretta con sacrifici, offerte ecc. (p. 9).
Lasciando di dire di molte importanti e acute osservazioni in fatto
di lingua e di erudizione, che si trovano nella parte, che riguarda la
interpretazione di questa iscrizione, rileveremo con singolare com-
piacimento, perchè ci sembrano degnissimi di nota, i punti seguenti.
L'interpretazione data al vocabolo eappfiv nell' intestazione , che il
Comp. spiega come infinito con valore d'imperativo, nel significato
di eseguire , o compiere , o far compiere , significato d' uso locale
(eleo), derivato da quello generale di Gappéuj — osare, intraprendere
arditamente, con qualche affinità forse con Geapóc; (GeuupóO. che si trova
in qualche iscrizione Elea. Abbiamo già accennato alla lezione Kaì
TaÙTò), cioè Kaì xà aùxoO del Comp. contro il Kaxà xò aùxó del Kirch-
hoff.
Segue appresso la congettura veramente geniale del Comp. nella
seconda riga dell'iscrizione, e che riguarda la parola, che il Comp.
legge e interpreta Kaxiapauaeie, contro il Kirchhoff e il Curtius , che
non volendo ammettere un verbo come sarebbe KaGiopaùuu, pensarono
due parole staccate. Il prof. Comp. accetta il digamma, malgrado la
mancanza d'ogni analogia, e crede che la forma stia per KaBiepuOaeie
da KaGiepóo) (consecrare), come koivóuj diventa KOivdiu, èjUTreòóuu èfi-
TTebéo), auXduj auXéuj ecc. E 1' u starebbe a rappresentare un rafforza-
mento della sibilante, assai comune nei dialetti dorici, per tacere di
Omero, cosicché Kaxiapauaeie starebbe per Kaxiapdaaeie.
Acutissima è pure l'obbiezione, che il Comp. fa al Kirchhoff ri-
spetto all'interpretazione del passo Fdppevoi; FaXeiuu della seconda linea
dell' iscrizione, che secondo il K. starebbe a significare lo iscriversi
di un figliuol maschio (-rratt; dpprjv) nei ruoli della qppaxpia Pare
strano al Comp. che si voglia fare una legge speciale per un fatto
così comune della vita, e più strano ancora l'intervento di un autorità
panellenica, come è quella rappresentata dall' Ellanodica ricordato
più sotto, ad un atto, che avrebbe carattere puramente Eleo. Prevale
- 95 —
qui, secondo la bellissima congettura del Comp. l' idea del maschio
valore, della àvòpia, della rivopér), e con la parola oippriv s' indica in
forma collettiva l'insieme di quegli oXkiiuoi veaviai, che onoravano la
patria Elea colle vittorie ne' giuochi.
Somma importanza per gli studi epigrafici e lessicografici ha il
fatto linguistico , scoperto e chiarito dal prof. Comp. rispetto alle
forme eTreviroi, eirevTieTuj ed eviroi delle linee 5-6 dell' iscrizione, per
le quali egli crede che non si possa pensare al verbo Tré|UTruj, come fa
il Kirchhofif, e meno ancora all'èiuTraa) del Curtius. Il signor Comp.
riconduce tutte queste forme a TTOiéuu, e in relazione a ciò le ha com-
pletate nel testo, che egli dà dell' iscrizione, stabilendo come punto
di partenza 1' èTrnroeóvTujv della lin. 4; così che s'avrebbe la locuzione
èTTiTTOieìv TÙ òkaia, che, sinonima ad èirixiGévai xà òiKaia, starebbe ad
indicare l'obbligo di que' cotali ufficiali pubblici di prender parte a
quel cotale atto della vita pubblica.
Quanto al luaaxpaai della lin. 6, il Comp. crede che la forma ori-
ginaria dovette essere luacrxpaia, che da Esichio sotto la forma di
luaaxpiai è spiegata per « ai xujv àpxóvxuuv eùGùvai ».
Resta infine un altro fatto, del tutto nuovo pei nostri lessici, la
spiegazione cioè che il prof. Comp. dà della frase i|uàoKeiv riva xuùv
biKciiujv, che egli intende nel senso di impedire qualcuno dall'eseguire
il suo dovere. Già il KirchhofF aveva pensato al verbo iudoauj ; ma la
novità della conghiettura Comparetti sta nell'aver ricondotto 1' ifiÓGKiu
al sostantivo i|uac, derivandone con bello accenno il significato di
legare.
Finalmente il prof. Comp. oppugna la cronologia dell' iscrizione
fissata dal Kirchhoff, come anteriore all'anno 58o, ossia VOlimp. 5o*,
limite estremo dell'epoca, durante la quale l'ufficio di Ellanodica fu
esercitato da una persona sola. Tutta l'ipotesi del KirchhofF fondan-
dosi sul singolare 'EXXavobiKaq, il Comp. gliela annienta , mostran-
dogli come già Pindaro, in un inno che è dell'anno 476, parli alla
stessa maniera dell' Ellanodica, che corona il vincitore. Ora, è ac-
certato, che a quest'epoca quegl' ufficiali pubblici erano per lo meno
nove.
Tutto compreso, il Comp. non la crede anteriore al secolo 'V*.
L'esame, che il prof. Comp. ha fatto della iscrizione n" 56, pub-
blicata già dal Friinkel sino dal 1878 nella Ga^^. archeol., gli porse
- 96 -
modo di esprimere alcune conghietture e di dare schiarimenii , che
i pratici della materia epigrafica . nelle sue attinenze colla lessico-
grafia e colla storia, non tarderanno a riconoscere come improntati
alla più schietta originalità. Mettiamo in primo luogo l'idea, signi-
ficata dal Comp. a p. i3, che il testo originario dell'iscrizione fosse
bustrofedo , ma che poi essendo diventato meno intelligibile, forse
per deperimento della materia, venisse trascritto, secondo la maniera
invalsa già generalmente. Ciò che spiegherebbe alcuni errori.
Quanto alla lezione del testo , il Comp. , esposte alcune sue con-
ghietture sulle forme KaQvoac, della -z* linea, che egli inclina a ricon-
durre verso un KadQvoiac; (nome), e sull'altra èKKmuc; nella linea 5»,
che egli propenderebbe a prendere per èKKaieuq; passa a parlare delle
forme verbali èiTei|uPoi, èvepétu ed è'^oi della linea i , 3 , 5 dell' iscri-
zione. Ravvisa il Comp. nelle vicende di questo verbo un'analogia
con quelle deH'èTTnroeóvTujv dell'altra iscrizione.
Ravvisa il Comp. qualche cosa di metodico in siffatte mutilazioni,
o abbreviazioni di forme verbali, osservazione questa di somma im-
portanza per gli studi epigrafici.
Per la storia e scienza dell'antichità son di grande interesse le brevi,
ma sostanziali notizie, che il Comp. ci porge a p. 14 riguardo ai di-
ritti e doveri dei visitatori del santuario di Olimpia. A suo avviso è
probabile che gli Elei adoperassero la parola sévo<; in quel senso, in
cui secondo Erodoto l'avrebbero adoperatagli Spartani, cioè nel
senso di pdpPapoq (non greco).
L'illustrazione, fatta dal Kirchhoff della iscrizione n" 363 nella Ga:^-
t^etta Archeologica è giudicata molto severamente dal prof. Compa-
retti, che la ritiene molto al di sotto della esperienza e del valore,
che egli pure riconosce all'illustre epigrafista tedesco. L'errore prin-
cipale del K. fu quello di aver preso per dativi , in principio della
iscripone. quelli che non sono che due accusativi. La cagione di questo
errore dipende da quella che il Comp. assai argutamente chiama
routine degli archeologi, pei quali è regola , che dopo l' intestazione
à FpÓTpa debba seguire sempre il dativo, indicante la persona, a cui
la legge sarebbe rivolta. Crede il Comp. che tale non fosse la regola,
e che la presente iscrizione dimostri in modo chiarissimo , che le
leggi s' intestavano colla parola à Pparpo, come chi dicesse : Legge
(p. i5). L'errore sarebbe vecchio, e daterebbe dalla falsa interpunzione
- 97 —
data dal Bòckh della iscrizione Elea n" ii del Corpus hìScrip.Graec,
che è la più antica che si conoscesse prima di queste, scoperte recen-
temente.
Il Cnmp. segnala come degna di nota la distinzione che si fa in
questa iscrizione /r^ l'autorità laica e la relif^iosa, non solo quanto
ai limiti di loro competenza, ma finche quanto al modo speciale di
considerare la stessa cosa, essendo chiaramente indicate le diverse at-
tribuzioni de' irpóìevoi (autorità laica) e de' juidvTiec (indovini , inter-
preti del ius sacrorum). Quanto all'epoca, il Comp. giudica la pre-
sente iscrizione non meno antica della prima ; il dialetto è quello
dell'Elide, ma non della stessa varietà della prima epigrafe.
Quanto all'iscrizione d'Ithaka, fu già notato come fosse comunicata
al prof. Comparetti dal signor Stillmann, americano, e come di essa
si trovino già traccie nel libro dello Schliemann (la fenice degli sco-
pritori!), ricordato pivi su.
Rese le dovute lodi allo Stillmann per le cure spese per comple-
tare le due parti del blocco di m.armo, sul quale è incisa l'epigrafe,
accennato come il Kirchhoff (che non aveva ancora il testo completo)
tentasse indarno di cavare qualche luce da quel monumento, il pro-
fessor Comp. passa all'interpretazione, e dice trattarsi ivi d'un tesoro
nascosto, cioè degli arredi sacri (xò ^vxea) di un tempio, nel quale si
veneravano riunite le tre divinità Athena, Rhea ed Hera. L'iscrizione
ha sette linee, ed è bustrofeda. Il Comp. argomenta, che fossero i
sacerdoti stessi che scolpiron l'iscrizione, per escludere ogni testimonio
del fatto da tenersi occulto.
Il prof. Comparetti ha già abituato il mondo dei dotti a molle
altre prove del suo valore eccezionale nell'interpretare e papiri ed epi-
grafi ; ma tuttavia confessiamo,- che guardando il facsimile fotogra-
fico di questo monumento, e pensando al senso evidentissimo che egli
ha saputo trarne, non si può a meno di sentire una grande conten-
tezza, che anche l'Italia possa finalmente misurarsi con gli stranieri
in un campo che essi erano usi sin qua a riguardare come pro-
vincia propria; almeno per ciò che concerne l'epigrafia greca.
Un solo desiderio ci resta ad esprimere, ed è che in occasione di
consimili pubblicazioni l'egregio signor Comparetti voglia contrap-
porre ai testi greci la traduzione letterale italiana , onde ovviare a
possibili errate versioni d'imperiti, e rendere più accostabile a molti
liivista di filologia ecc., X. 7
- 98 —
il senso vero delle epigrafi. — Vero è, che egli lavora pei dotti, ma
pure... sentimmo il bisogno di esprimergli questo desiderio, che sap-
piamo condiviso da altri.
Un po' di conclusione.
II prof. Comparetti ha l'arte di nascondere la erudizione, che egli
possiede sconfinata addirittura, e di far capire subito netto il suo
pensiero , senza aff"ogarlo in un pelago di apparati critici. L' inter
utriimque tene non fu mai meglio applicato, come in questi succosi
e preziosissimi contributi alla scienza della antichità, che il Comp.
offre a quando a quando agli studiosi. Maestri e scolari abbiamo
dunque tutti qualche cosa da apprendere dal Comparetti; oltre le
notizie peregrine, che egli ci dà, possiamo apprendere da lui il se-
greto di conferire carattere nazionale a quella scuola, che s'ha il vezzo
di chiamare straniera, unicamente perchè essa aspettava l'uomo che
la richiamasse a' suoi giusti confini. E se anche ad altri pare, come
parrà di certo, che questi lavori del prof. Comparetti accennino per
l'appunto ad una compiuta elaborazione e quasi trasformazione del
pensiero e de' metodi ultramontani ne' metodi e nell'indole che sono
propri di noi, ringraziamo l'autore di questo nuovo indirizzo dato
alla scienza, e salutiamo il maestro (*).
Firenze, marzo 1881.
Gaetano Oliva.
(*; Queste righe erano già scritte e composte da lungo tempo, quando mi
pervenne la memoria del prof. Do.menico Pezzi: Nuovi studi intorno al
dialetto deW Elide, inserita negli Atti della R. Accademia delle Scienze
di Torino, voi. XVI (Adunanza del 24 aprile 1881). In questa memoria
il prof. Pezzi prende ad esame il lavoro del prof. Comparetti , conside-
randolo però soltanto in ordine alle questioni fonologiche e dialettali,
lasciando le altre parti delle ricerche ermeneutiche e critiche. Questi
Nuovi studi del Pezzi sono come un'appendice all'altro suo lavoro sul
Dialetto dell'Elide . inserito negli Atti della stessa Accademia di Torino,
serie II, tom. XXXIV.
II prof. Pezzi, pur riconoscendo 1' alta importanza delle ricerche fatte
dal Comparetti, non consente perù con lui quanto ad alcune deduzioni ,
e conclude col dire, che gravi ostacoli si oppongono ancora alla solu-
zione di parecchi fra i problemi concernenti le iscrizioni in dialetto eleo,
testé scoperte, a superare le quali pare a lui non siano bastati ancora
l'ingegno e la dottrina dei più insigni ellenisti, e invoca la scoperta di
nuovi documenti a rimuovere tali ostacoli.
Le osservazioni che il prof. Pezzi fa alle conghietture del Comparetti
sono certamente degne di nota, derivando da un profondo studio sul fo-
netismo del dialetto eleo, quale apparisce appunto dal lavoro accennato
quassopra. Gli appunti segnatamente fatti allo restituzioni suggerite dal
prof. Comparetti, i-iguardo alle forme e-rrevTioi, euevirtTO, eviroi dell'iscri-
zione CCCLXII ; ed eve^eo, e T e^oi della iscriz. LYI, nonché riguardo
all'oscuro KOTipauoeie dell'iscrizione CCCLXII, 6, possono offrire materia
- 99 -
a coutroversia. Nel complesso pe)'ò ci pare di poter dire, che volendo
sottoporre ad un esame critico il lavoro comparettiano, non si poteva
prescindere dalle considerazioni di ermeneutica e critica, che accompa-
gnano le ricerche fonetiche e morfologiche, e sulle quali ci piacque ri-
chiamare l'attenzione degli studiosi. G. 0.
Platonis opera quae fenintur omnia. Ad Codices demio collatos edidit
M. SchANz. Voi. VII, Euthvdemus, Protagoras. Ex officina Bern-
hardi Tauchnitz. Lipsiae, MDCCCLXXX.
L'opera che annunziamo fa parte della magnifica raccolta di clas-
sici greci e romani, che il solerte Tauchnitz sta pubblicando in tri-
plice edizione, di cui I' una in-S» per le scuole, l'altra tascabile, la
terza di lusso; ed è il 7" volume delle opere di Platone, di cui già
son venuti a luce, oltre questo, il voi. i" contenente V Eutifrone, la
Apologia, il Critone, il Fedone, il fascicolo i" del voi. 2" contenente
il Cratilo, e il 12° che contiene le Leggi. 11 Dr. Martin Schan::; che
s'assunse la cura di pubblicare i dialoghi platonici, è già assai favo-
revolmente conosciuto nel mondo filologico; fu lui che sottopose a
nuova disamina i principali manoscritti di Platone che ancora esi-
stono, e fé' noti i risultati di sue ricerche in parecchie monografie ;
tra l'altro egli annunziò aver fatto la scoperta che il codice veneto se-
gnato T è l'archetipo di tutta la seconda famiglia dei codici platonici,
e dimostrò che il Vaticano 0 in una serie di dialoghi non è che una
copia de! più antico e principalissimo detto Clarkiano o Bodleiano
(B). Gli studi originali del Schanz lo ponevano dunque in grado più
d'ogni altro di attendere a una nuova edizione critica dei dialoghi
platonici; e della stima che egli gode in Germania per il Platonismo
è prova il fatto eh' egli è incaricato della recensione annuale delle
pubblicazioni relative a Platone nel Jahresbericht diretto da Conrad
BuRsiAN, al quale, com'è noto, contribuiscono i migliori ingegni te-
deschi. — Noi ci limiteremo ora ad esaminare il volume dell' Euti-
demo e del Protagora edili dal Schanz; anzi restringeremo il nostro
studio al Protagora, perchè ciò sarà sufficiente al lettore per farsi
un'idea della diligenza usata da questo dotto sul testo platonico.
È da notare anzitutto che l'A. premette ai due dialoghi alcune os-
servazioni sulla retta scrittura di certe parole greche conforme alle
testimonianze dei codici ; per es. fa vedere che si deve scrivere €i-
XiYTW non i\r(-"fiù), e invece i\iyto<; non e'i'XiYToq (cfr. Suida, s. h. v.);
preferisce , come più genuina , la forma Tràoooqsoc a quella Trdvooqpoq
— 100 -
che crede invalsa a poco a poco per mal ragionata correttura dei co-
pisti. Finora era incerto se il pron. di 3* pers. aùxoO aùxóv potesse
adoperarsi in luogo della 2'' oautoO oauróv, essendovi dei luoghi dove
per comune consenso dei migliori codici si legge la prima maniera
per la -2», e d'altra parte essendo rifiutata tal sostituzione da alcuni
grammatici (v. le mie « Postille critiche ed esegetiche al Protagora
di Platone ». Estratto dalla Rivista di Filologia, 1879, fascic. ottobre-
dicembre, p. 16). 11 Schanz osservando che sono rari i luoghi dove
si fa tale sostituzione, e che in ogni caso all' aùroO aùróv precede un
e; (Es. Prol., 3i2A : oi) bè oùk fiv aìoxOvoio eì^ toùc; "EXXrivat; aùròv
aoq)iaTr*iv Trapéxujv;), crede questo scambio doversi pel singolare attri-
buire a sbaglio d' ammanuensi, e doversi perciò escludere dall'uso
platonico, ammettendolo solo pel plurale ove i^|ua<; aÙToOq, si dice in-
contestabilmente in tutta la grecità. L'osservazione è acuta, ma non
decide la quistione, finché lo scambio di questi pronomi non sarà
dimostrato impossibile per tutti gli autori greci, 0 almeno per quelli
del buon secolo. Tali e simiglianti sono le noterellc raccolte dal
Schanz a titolo di prefazione al suo volume dell'Eutidemo e del Pro-
tagora, noterelle sempre preziose per l'ortografia e l'ortoepia greca.
Passando ora al testo del Protagora, è da avvertire ch'egli segue
come codici principali il Bodleiano B e il veneto T, a differenza degli
altri editori che tennero il T come secondario. Ciononostante si può
dire in tesi generale che il suo testo non differisce da quello già noto,
per la ragione che il codice veneto era già stato usufruito anche dai
critici anteriori. Ma il Schanz ha il merito di essersi tenuto per lo
più alla lezione dei manoscritti, avvertendo il lettore con note a pie
di pagina si delle varianti introdotte per propria congettura, sì di
quelle che accettò da aUri. Questa diligenza rende la sua edizione
preferibile ad altre recentissime, nelle quali non si dubitò introdurre
nel testo troppo ardite novità (v. le citate Postille, p. 66}. Le varianti
introdotte dal Schanz sono veramente poche e di piccola importanza;
cosa più degna di lode che di biasimo. A pag. 54, linea 22 (p. 3i2 D),
volendo emendare il controverso passo ti àv emoi|aev aùxòv clvai, (u
luiKpatec, èiriaxaTriv xoO TTonìaai òeivòv XéYciv, che lo Stallbaum aveva
corretto accettando da due codici una particella i^ prima di èmOTaTriv
(v. Postille, p. iG e sgg.), il Schanz propone si faccia una proposizione
ipotetica interponendo un eì prima di etiroiiuev. Tale emendamento, a
dirla schietta, non mi soddisfa ; perchè in tale interrogazione resta
spostata l'invocazione Cu luÙKpaTec, la quale pare interrompa il corso
- 101 -
della proposizione infinitiva aÙTÒv eìvai èmaTÓTriv kt\. e si aspelle-
rebbe piuttosto dopo il TI av così : ti av, w T. eì emoiiuev aÙTÒv cTvai
ktX. Inoltre, la maniera dello Stallbaum oltreché confortata dalla te-
stimonianza di due codici, è più conforme a tutto l'andamento di
questo luogo del Protagora; infatti a pag. 3i2 C si formola questa
domanda: ti riYeì elvai tòv aoqpiOTriv ; ed a tale domanda risponde
Ippocrate: ti dv eiiToi|U€v aÙTÒv elvai, iL X., fi èmcrTàTriv ktX.; dove è
evidente che il ti della risposta dev'essere analogo a quello della do-
manda, ossia riferirsi ad aÙTÓv, aocpiOTriv, non rimaner sospeso come
sarebbe nella congettura del Schanz ; la quale perciò non è accetta-
bile. E qualche dubbio rimane altresì sull'opportunità delle cancella-
ture che il Schanz vorrebbe fare qua e là, come ad es. della parola
àOTpovo|uiKà a pag. 58, I. 7, del rà KaXcx (o meglio Tà kokcIi) a p. 67,
1. 28, del KttTà 7TapdÒ6iY|na a p. 71, 1. i, dell'ÒTi àòiKoOaiv a p. 79,1. 22;
perchè, sebbene queste espressioni non sieno strettamente necessarie
all'intelligenza del contesto in cui si trovano . pure non hanno nulla
che vi ripugni (i). E dell'ultima 6ti àòiKoOoiv, p, 333 D, affermo anche
risolutamente che è una follia il cancellarla. S'incomincia ivi una di-
scussione partendo dall'ipotesi che si possa esser savii pur commet-
tendo ingiustizia, e Socrate domanda a Protagora: ' ti par egli vi
siano alcuni i quali pur operando ingiustamente sien savii ?» . «Sia»
risponde l'altro. « E Tessere savio chiami tu un pensar bene?» «Si .
E il pensar bene è egli un consigliarsi bene perchè commettono in-
giustizia? (tò ò' 6u qppoveìv eu PouXeueoGai oti àòiKoOaiv;) ». In altri
termini : il commettere ingiustizia è egli in tal caso fruito di una
ragionata deliberazione, e d'una deliberazione buona ? E si continua
a dire : ciò sarà evidentemente solo nel caso che chi commette in-
giustizia riesca felicemente nell'impresa che tenta, perchè se gli fal-
lisse il tentativo, allora chiunque riconoscerebbe che s'è consigliato
male. In questo ragionare il concetto di óòikèiv è principalissimo, ed
è questo concetto che si suppone per ipotesi conciliabile coli' altro
della saviezza, del buon consiglio. Dunque non solo non va cancel-
lato r 6ti àòiKoOaiv, ma l'aver proposto tal cancellatura, basta a di-
mostrare che il Schanz non ha ben capito questo passo del nostro
(1) Eccettua forse il tu Ka\d (p. 67, 1. 28, 323 D), il quale si riconosce
facilmente essere una glossa spiegati va del TÓvavTia toùtok; , mentre
r haec mala della traduzione del Ficino non sarebbe che una traduzione
parafrastica del TaùTa ,uèv y«P kt\.
- 102 -
dialogo. — Lasciando stare per ultimo certe novità di niuna impor-
tanza, come il iravTóe; che a pag. 66, 1. 3o, sostituisce ad arravroc; dei
codici, dell' ^KTr)aai che a pag. 6'i, 1. 20 sostituisce a K^Kxriaai. am-
messo del resto nella stessa linea, non vi sono altre congetture ori-
ginali nel testo del Schanz. Fra quelle che egli accettò da' suoi pre-
decessori stimo riprovevoli , conforme alle prove datene nelle mie
Postille, quella dell' elvai suggerita dall' Heindorf in luogo dell' eira
a pag. 72, 1. 20 (Postille, p. 3j),]a cancellatura del tò 6|uoiov a p. 77,
1. i5 (33i E) proposta dall'Hirschig e dall'Henneberger (Postille, p.48),
la sostituzione della voce dSia a p. io5, 1. 10 (356 A) alla lezione
dei codici óvatia, congettura ond' è autore lo Schleiermacher (Po-
stille, pag. 61). Quest'ultima principalmente non so davvero spie-
garmi com'abbia potuto essere accettata non solo contro il consenso
dei codici ma anche contro la testimonianza di Cicerone in Prisciano
(v. lo stesso Schanz a pag. io5 nota) e del Ficino, e contro la ragion
del contesto. Si parla ivi di quella volgar sentenza per cui si dice di
aver fatto ciò che è male, indottivi dal piacere, che per la sinonimia
in quel luogo supposta dei concetti di male dolore, bene piacere,
torna a dire aver fatto il male vinti dal bene, oppure aver fatto ciò
che è doloroso vinti dal piacere. Socrate avverte che se si riconosce
d'aver errato operando così, gli è perchè si giudica che il bene fosse
indegno di vincere il male, il piacevole fosse indegno di vincere il
doloroso; e tale indegnità non consiste in altro, seguita egli, che nella
minore intensità del piacere o nel minor numero delle cose piacevoli
in comparazion delle dolorose, onde l'unica differenza fra le une e
le altre è differenza di quantità. Ora ad esprimere questo pensiero
che il piacere sia indegno di vincere il dolore , si ricorre nel testo
all'aggettivo àvàhot;, es., pag. 355 B: àvdtid èaxi TàyoGà tùiv kokOùv, e
pag. 356 A: òfiXov 6ti àvaEiiuv òvtujv vikQv. Appresso volendosi espri-
mere l'idea che l'indegnità consiste soltanto in differenza quantitativa
bisognò a Platone formare un nome astratto dell'aggettivo prima
adoperato, e però usò il vocabolo óvaSia. Il rifiutare questa parola
per la sola ragione che è un cinaE eìp>i|uévov, e il sostituirvi ótia é
arbitrio del tutto irragionevole. Anche Cicerone, traducendo questo
passo e adoperando il vocabolo indignitas, dovè sforzare l'uso corrente
di questa voce pigliandola nel senso etimologico, ossia come astratto
d'indignus; ed anche noi in italiano quando adoperiamo, come s'è
fatto più sopra, la parola indegnità ci accorgiamo d'aver per le mani
una parola non d'uso corrente, ma necessaria a esprimere il nostro
- 103 -
pensiero. — Finalmente mi si conceda d'insistere perchè I'òti uaGóvra,
suggerito dall' Hermann in luogo dell' inesplicabile òri uaSóvra dei
codici a pag. 353 D e accettato dal Schanz, venga sostituito da altra
congettura più conveniente, forse meglio che mai da un |uóvov xe
come già ebbe a proporre il Cornarlo (v. Postille, p. 59 e sgg.).
Del resto questa diversità d' opinioni su qualche passo del Prota-
gora, non vieta che riconosciamo il merito di Martin Schanz, la cui
edizione crediamo meglio d'ogni altra raccomandabile agli studiosi
italiani, come quella che riproduce quasi esattamente il testo dei ma-
noscritti, dando al lettore tutte quelle informazioni che gli sono ne-
cessarie e sufficienti per rifarsi la storia di esso testo e dei varii ten-
tativi con cui lo si volle ridurre alla forma primitiva e genuina (1).
(1) Mi servirò di quest'occasione per rispondere ad alcuni appunti fatti
dallo stesso dottor Schanz a' miei lavori sul Protagora, e specialmente
alle citate « Postille critiche ed esegetiche » nel Jahreshericht di Bur-
sian, 1879, voi. 17, p. 241. Nella recensione di quest'ultimo opuscolo il
Schanz sentenzia molto risolutamente che io vi do a vedere Mangel an
Schdrfe des Urtheils , ferner Mangel an Methode.\ e per tutta prova
adduce il passo, p. 312 A, dove l'aÙTÓv sta per aauTóv, di cui si è par-
lato pili sopra. Rispetto a questo passo io m'ero limitato a recare in
mezzo le opinioni degli uni e degli altri circa la possibilità o no di questo
scambio in Platone, e non mi arbitrai di decidere la quistione né in un
senso uè nell'altro per mancanza di dati. Ciò ha bastato perchè il Schanz
pronunciasse quella condanna così severa. Via, signor Schanz, con tutto
il rispetto che le professo, mi permetta di dirle che la riservatezza nel
sentenziare per insuflBcienza di dati è precisamente conforme al vei'o me-
todo scientifico, e invece il citare questo solo passo fra i 41 da me di-
scussi nelle Postille è proprio disforme dal buon metodo di giudicare i
lavori altrui. Gli è che (noti bene chi legge) la ragione per cui il Schanz
citò questo solo passo non è stata il proposito di farne oggetto di critica
severa, ma il desiderio di approfittarsi dell'occasione per annunciare ai
suoi lettori che egli un anno dopo aveva saputo decider la quistione nel
§ 12 della sua prefazione all'Eutidemo e al Protagora, lo non mi so per-
suadere che queste critiche- annunzi siano conformi al vero metodo scien-
tifico. — In uu altro luogo della sua recensione il dottor Schanz scrive :
Endlich operivi der Yerfasser auch noch niit der Uebersetzung des
Ficinus und den alien Ausgaben, irelche nicht den geringsten M erth
f'ùr sich heanspruchen konnen. Veramente doveva avere la testa nel
sacco il Schanz quando scrisse queste parole. 0 non insegna egli a me
che la traduzione del Ficino è importante non solo per l'esigesi, ma anche
per la critica del testo? Non accetta anch' egli, a p. 309 C, la lezione
0oqpu)Tepov suggerita dalla version del Ficino in luogo del ooqpuJTàTov
de' codici? e a p. 323 D non ricorda egli la lezione xà Kaxà in luogo di
xà KoXd, anche questa del Ficino, sebbene poi egli cancelli, e non a torto,
l'uua e l'altra? 11 Schanz osa dire che io lavorai sulle edizioni vecchie.
0 non ho anzi discusso continuamente le opinioni del Deuschle , del
Cron, del Kroschel ? Voleva egli forse ch'io citassi la sua edizione non
ancora pubblicata? E per contro le edizioni dello Stefano e del Cornarlo
non le usufruisce forse anche lui ? Come dunque osa aggiungere che tali
edizioni non hanno il menomo valore, quando è assioma indiscutibile che
niuna manifestazione del pensiero va disprezzata, ma tutte hanno a col-
locarsi nel loro clima storico che solo permette di valutarle convenien-
- 104 -
temente? — E assai fidente nella propria autorità si dimostra anche il
Schanz quando senza ragioni sentenzia impossibile la interpunzione da
me proposta ti oOv; tòvOv fi -nap eKeivou qpaivei nel primo dialogo del
Protagora in luogo di: ti oCv tu vOv; rj kt\. Io confesso volentieri, che,
pensandoci meglio, respingerei ora tale interpunzione proposta due anni
fa; perchè la miglior maniera d'intendere queste parole dette dall'amico
a Socrate è pur sempre quella suggerita dallo Sehleiermacher traducendo :
aber iras ììunì ossia parafrasando: « Comunque sia ciò che tu dici,
quello che per ni presentii ti domando è se tu ne venga da lui i^. Onde
va letto : ti oùv tò vOv ; f\ nap' èkeivou qpaivei ; Ma con che diritto il
Schanz doveva sentenziare utrmóf/lich quella interpunzione, sonza de-
gnarsi neppure di accennarne il perchè?
Del lesto la ragiono per cui il Schanz fu cosi severo con quelle mie
povere Postille (anche questo noti bene chi legge] non è una ragione di
ordine scientifico, ma piuttosto un sentimento di orgoglio nazionale. In
(lueir opuscolo io affermai, in tesi forse troppo generale, che i Tedeschi
contemporanei abusano della critica congetturale. Quest' accusa che il
Schanz s'affrettò a ripetere colle mie stesse parole evidentemente ha mal
disposto l'animo di lui. Pure di questo stesso parere, modificato, se si
vuole, iiell'espressione, sono molti degli studiosi italiani. Si riconosce il
merito incontestabile dei Tedeschi che in ogni lamo della coltura scien-
tifica hanno raccolto la più copiosa e preziosa messe di materiali, e nel
campo speciale della classica filologia mediante la più accurata indagine
di codici, i più ingegnosi raffronti di sparse testimonianze hanno fatto
straordinariamente progredire le nostre cognizioni sugli autori antichi;
ma si osserva altresì che alcuni di loro riponendo soverchia fiducia nei
trovati del proprio ingegno hanno rimaneggiato, rifatto i testi lasciatici
nei manoscritti senza aver molte volte pesato a sufficienza l'opportunità
di quelle innovazioni né giustificato con approvabili ragioni le proposte
congetture. Ciò fu ossi-rvato per molti degli autori greci e più pei latini;
ma non si vuol con questo disconoscere, che la più efficace spinta agli
studi critici ed esegetici fu data ai di nostri dai dotti di Allemagna. La
necessità di porre un limite ad una critica congetturale troppo ardita è
sentita dallo stesso Schanz, il quale nella pubblicazione annunciata si
guardò bene dall'ammettere nel testo varianti troppo ipotetiche e poco
probabili. Onde rimane ch'egli sia più giusto con quegli Italiani che pur
non dissentendo da lui. s'ingegnano di contribuire per quel poco che
possono al progresso del sapere comune.
Palermo, giugno iRf^i. Felice Ramorino.
AlciiiìL' osservar{ioni sul nuovo Vocabolario della lingua classica latina
compilato per uso delle scuole dal Prof. G. Rigutini, Firenze. G.
Barbera, cdiz. i!^!^o.
Nella prefazione a questo suo lavoro, l'A. parlando dei vocabolari
latini, che furono sin qui in uso nelle nostre scuole, così si esprime:
« Nei vocabolari latini per uso deUe nostre scuole si vede fatta con-
fusione di tutto, e ripetuti, come per tradizione, gli svarioni dei pre-
cedenti: di vere e proprie definizioni e dichiarazioni, nulla o quasi,
ma uso ed abuso di corrispondenti italiani, e spesso di quali corri-
spondenti, e di che lingua! di modo che io non dubito di mettere,
per lunga esperienza che ho avuto della scuola, cosiffatti libri tra
- 105 -
i principali impedimenti all'apprendimento della vera e buona lingua
italiana nelle scuole di latino ». Quantunque un tal giudizio, veris-
simo per certi vocabolari, ci sembri un po' esagerato per quelli di
data più recente, tuttavia tanti e così gravi sono i difetti che anche
a questi ultimi si possono apporre, che non senza grande soddisfa-
zione abbiam veduto essersi in Italia trovato chi si sobbarcasse al-
l'ardua ed ingrata fatica di dotare i nostri studi latini d'un buon vo-
cabolario scolastico. E non ci parve tempo né fatica gittata l'esaminar
seriamente, né sarà forse discaro ai nostri colleghi il conoscere, se e
come l'egregio A. sia riuscito in questa sua commendevolissima in-
tenzione.
Anzitutto osserveremo che i limiti, entro cui fu fatta la scelta del
materiale, non ci sembrano i più opportuni. Un vocabolario compi-
lato per uso delle scuole — cioè delle scuole classiche secondarie —
non dovrebbe, o ben poco , uscire dalla cerchia di quegli scrittori
che si leggono in esse scuole. Così ha fatto lo Schenkl pel suo voca-
bolario greco-italiano, in cui, limitata opportunamente la scelta dei
vocaboli, ha potuto largheggiare nelle frasi con grande vantaggio degli
studiosi: e non altrimenti si governarono 1' Heinichen e 1' Ingerslew
nei loro vocabolari latini. Per contrario il prof. Rigutini ha voluto
abbracciare tutta la letteratura da Nevio a Svetonio, cioè quasi dalle
origini sino al così detto periodo di ferro (i38d. C.) comprendendo
nel suo lavoro una serie di scrittori arcaici (Nevio, Ennio, Catone
Censorio, Lucilio, Pacuvio) e del periodo d'argento (Columella, i due
Seneca, Persio, Lucano, Silio Italico, i due Plinii, Stazio, Giovenale,
Marziale, Svetonioj che al nostro insegnamento mezzano sono total-
mente estranei. Che se il prof. Rigutini ci obbiettasse non essere il
.suo lavoro destinato solamente alle scuole secondarie , ma a tutte
quante le scuole di latino, allora non sappiamo comprendere l'esclu-
sione degli autori posteriori al i38 d. C, massime di Gelilo e Giu-
stino. Anzi circa quest'ultimo si può dire che avrebbe dovuto trovar
luogo anche in un "Vocabolario scolastico propriamente detto, essendo
nolo che da molti insegnanti questo scrittore è stimato acconcio alle
prime classi del Ginnasio, e che non pochi sogliono cavarne temi
pei compiti domestici di versione dal latino in italiano. Ciò non
ostante, atteso che, se bene il materiale del Vocabolario riesca so-
verchio per gli alunni delle scuole secondarie, tuttavia questa mag-
giore ampiezza del libro fa che si possa utilmente consultarlo in
molti altri casi . noi ci sentiremmo disposti a non farne carico al
— 106 -
compilatore, se non avessimo con nostra grande meraviglia verificato
che nel suo lavoro si desiderano moltissimi vocaboli usati da quegli
scrittori appunto che egli ci ha designati come fonti del suo lessico. E
tra gli infiniti esempi che ci sarebbe facile arrecare, vogliamo, per
non abusare dello spazio e della pazienza di chi legge, restringerci a
quelli che seguono. Anacoenetus (Giovenale), abnoclo (Seneca), abnodo
(Columella) , aboUa (Giovenale e Marziale) , abrotonites (Columella) ,
absinthites (id.), conseptus , iis (Q. Curzio), concuro (Plauto), concu-
biiim, sost. (id.), diffulmino (Silio Italico), eluacrus (Catone Censorio),
elutrio (Plinio il vecchio), elumbis (Tacito), emacio (Columella), ema-
cresco (Celso), emaneo (Stazio), edento (Plauto), edentulus (id.), edicto
(id.), inierplico (Stazio), interpolaiio (Plinio) , interpolis o interpolus
(Plauto), interrasilis (Plinio) , interrado (Plinio e Columella), inter-
neco (Plauto) , internidifico (Plinio) , internigro (Stazio) , praejìoreq
(Plinio), praefiilguro (Val. Fiacco), praefrigidus (Celso), praefurnium
(Catone) , praefiiro (Stazio) , praelargus (Persio) , praepedimeniinn
(Plauto), jpro/h/»5, US {Seneca), proflatus, us (Siazìo), riscus (Terenzio),
risio (Plauto), robiginosus (Plauto e Marziale), rubricosus (Catone,
Columella e Plinio], ructatrix (Marziale), rudicula (Cat. Col. e Plinio),
sortio, verbo (Plauto, Ennio), sospitalis (Plauto), soterìa (Marziale).
Così essendo le cose, e non avendo l'A. esposto in alcun luogo della
sua Prefazione, con qual criterio sia proceduto in queste esclusioni
di vocaboli, il suo lavoro ci appare una cosa ibrida ed inclassifi-
cabile, come quello che troppe cose contiene per le scuole e troppo
poche per chi volesse colla sua scorta leggere tutti gli scrittori latini
da Nevio alla fine del periodo d'argento. E poco sarebbe ancora il
male, se queste omissioni risguardassero soltanto scrittori di minor
conto, come sarebbero Catone, Columella, Marziale, ma pur troppo
tante sono le voci di Plauto e di Plinio il vecchio che non si rin-
vengono nel Vocabolario Rigutini , che chi volesse leggere; loro
scritti col solo suo sussidio, darebbe opera all'impossibile. Questo per
ciò che riguarda la scelta del materiale. Quanto alla parte etimolo-
gica, richiesta, come dice l'A., dalla nuova qualità degli studi lessi-
cografici, egli si è governato con lodevole prudenza, non soggiungendo
— son sue parole — l'etimologia d'un vocabolo se non quando essa
è certa, o almeno assai probabile. In questa categoria noi non avremmo
però messo l'etimologia di Qiiiris. itis, dato come derivante da Cures,
città Sabina, etimologia, che, come è noto , risaie a Varrone, ma la
cui autenticità è ben lungi dall'esser fuor d'ogni dubbio, tanto che.
- 107 —
come dice il Corssen [Aiissprache, Vocalismiis iiiid Bctommg der la-
teinischen Sprache , Il Band, Seite 357), '^ tradizione, sulla quale
essa riposa, non è più attendibile di qualsivoglia altro fatto dell'anti-
chissima storia Romana. E Pott, Becker e Lange vorrebbero derivare
questo vocabolo da curia, ed altri dotti gli assegnano origine diversa;
e insomma la questione non è peranco risoluta. Ancor più dubbiosa
di questa è la genesi del vocabolo abdomen, di cui il Rigutini dice :
Sembra una sincope di adipomen, da adeps. Così pareva veramente
ad alcuni filologi, tra i quali al Klotz [Handw'òrterbuch der latei-
nischen Sprache, Braunschweig, 1866, s. v. abdomen), ma questa con-
gettura, che ripugna alle leggi fonetiche, è stata dai più moderni ab-
bandonata affatto, e il Georges nel suo Aus/ìiìirliches Lat. — Deutsch.
Handw'òrterbuch non accenna ad etimologia alcuna, e il Vanicek nel
suo Etymologisches WÓrterbuch der lat. Sprache (Leipzig, 1874) la
comprende nell'elenco di quelle voci, di cui non fu ancora trovala una
derivazione sicura. Così, contro il suo stesso proposito, l'A. esita tra
le due etimologie di abdo, scrivendo: Tema do, sebbene altri lo de-
rivi dal greco Gè, onde T{6r||ui. Lasciamo, che oramai nessuno più du-
bita che ab-do, insieme con condo , credo , perdo e forse con obdo e
subdo, si debba riferire alla radice dha , onde naturalmente anche
TiGriiui, eéjua ecc. (cfr. Vanicek, op. cit., pag. 76, e Meyer, Lessico delle
radici indo-italico-greche, irad. da Pezzi, pag. 20); mai non doveva
l'A. confondere le menti dei giovanetti lasciando lor credere che il
vocabolo latino derivi dal greco, mentre fra l'uno e l'altro non corre
che un legame di affinità, o, se la parola è lecita, di fraternità. Così
si riesce unicamente a perpetuare il vieto pregiudizio che la lingua
latina derivi dalh greca, opinione alla quale non crediamo che il
prof. Rigutini consentirebbe a sottoscrivere. Né meno incerta di questa
ci sembra la derivazione di alces dal greco àXKri — come vorrebbe
l'A. — mentre dai più così fatta voce vien riferita alla radice ark o
vark e messo insieme con Xuko; , con ulcus , ulcisci ecc. Disforme
poi dalle buone discipline linguistiche ci pare che sia stato l'avere
supposto — seguendo, se non andiamo errati, il Georges — un tema
temum, e postolo a base di abstemius , temetum , temulentus e simil.
E peggio fece l'A. aggiungendo di suo che temum si è voce antiquata,
significante vino, cosa che non ci ricordiamo d'aver veduta né udita
mai, ma solo che temetum vuol dire bevanda inebriante e che con
abstemius, temulentus ecc. ripete la sua origine dalia radice tam (oscu-
rare) donde tenebrae (pel tramite di tam-e-brae, mediante dissimila-
^ 108 -
zione), e temere e forse timco. Né son queste le sole elimologie ,
su cui potrebbesi trovare a ridire: chi, per esempio, vorrebbe ora
accettare che l'avverbio alibi discende da alius e ubi} Sarebbe come
ammettere che ibi derivi da is e ubi, mentre è notissimo che amcndue
risultano dai temi di alius e di is più il suffisso locativo bi, appunto
come ubi proviene alla sua volta dal tema del pronome relativo e
dal predetto suffisso (ubi per cubi, e questo per quobi, come uter per
cuter, e questo per quoterus). Altre imperfezioni etimologiche abbiamo
qua e colà osservato: nullus , anziché da ne e ullus , è fatto derivare
da non e ullus; disciplina, al dir dell' A., deriva immediatamente da
disco, anziché da discipulus (sincope di discipulina \ disjicio da dis e
icio, nel che vorremmo credere che avesse più che altro colpa un
errore di stampa, e fosse cioè stato impresso icio per iacio, se T or-
tografia adottata dall'A. non lo rendesse inverosimile. Alcune deriva-
zioni sono superflue, p. e. nobiscum da nobis e cum\ anzi in questo
proposito aggiungeremo che non sappiamo intendere come mai l'A.
abbia creduto di dover citare fra le voci latine questa che non è un
vocabolo a sì, ma una composizione enclitica, la cui spiegazione ap-
partiene propriamente alla grammatica. \\ circa tutta questa parte
dell'Etimologia slam forzati a concludere, che l'egregio A. ha troppo
scarsamente profittato delle nuove ricerche, e che quella parte di esse
di cui s'è giovato, non l'ha per avventura riprodotta colla desidera-
bile esattezza. L'aver testé nominato l'ortografia, discorrendo del verbo
disjicio, ci provoca a far passaggio a quest'altro importantissimo
punto. Uno dei vizi più giustamente lamentati nei vocabolari latini
sin qui in uso nelle nostre s:uole si era appunto che in essi non rin-
venivano gli alunni alcuna di quelle forme ortografiche che la mo-
derna critica ha fatto introdurre nelle più recenti edizioni. Da questo
disaccordo dei testi coi lessici nascono inestimabili inconvenienti ,
come a dire perdita grandissima di tempo, impossibilità per gli alunni
che incominciano lo studio di raccapezzarcisi da sé medesimi , e in
tutti confusione somma nelle idee ortografiche e quindi incertezza
perpetua nel modo di scrivere. Non arriviamo certo fino a soste-
nere che un nuovo lessico debba dare il bando a tutte le forme
dell' ortografia antica ; troppe sono ancora le edizioni vecchie o cat-
tive che si tollerano nelle nostre scuole perché ciò possa farsi senza
gravi inconvenienti; diciamo soltanto che se v'era una via da far
peggio di COSI, questa é appunto quella nella quale s' è messo l'A.
accogliendo tutte, o quasi, le forme vecchie, e omettendo pressoché
- 109 —
tutte le moderne. Noi non pretendiamo dimostrargli che le investiga-
zioni dei tedeschi sono arrivate a risultamenti così irrefragabili da
render necessaria la completa abolizione di alcune forme; solo di-
ciamo che , poiché la maggior parte delle edizioni che ora s' ado-
perano nelle nostre sjuole le han seguitate, il non trascurarle era de-
bito di chi compilava un vocabolario scolastico. Invece, sin dalla
prima pagina del Vocabolario si scorgono lacune, mancandovi a
interiezione (in luogo di ah), come più innanzi non è registrato em
per hem. La forma neglego , certificata dal noto passo di Festo
(II. 285, Ed. Bip.), non solo non è, come dovrebbe, preferita all'altra
negligo, ma è data, contrariamente al vero, come un arcaismo. Non
si fa neppure cenno dell' ortografia oboedio , che ha per sé non sola-
mente l'etimologia, ma anche l'uso, e si conserva obedio , scrittura
oramai abbandonata. I composti di iacio sono registrati con / con-
sonante (j) e / vocale (abjicio ecc.), mentre nella massima parte delle
moderne stampe, secondo l'uso, che nelle questioni ortografiche deve
prevalere alle ragioni etimologiche, si trovano tutti con i semplice.
Anche nelle forme dei perfetti, l'A. o non si pronunzia (come in
absiim) tra le diverse scritture, o 'come in aheo) ne riporta una sola,
e non la migliore. Noteremo in ultimo che nel Vocabolario non c'è
traccia alcuna della distinzione oramai universalmente ammessa tra
le forme derigo e dirigo, designo e dissigno , describo e discribo , e
che le regole ortografiche date circa i mutamenti, a cui vanno sog-
gette le preposizioni nei composti verbali, non sempre sono esatta-
mente esposte, come lo prova ciò che si legge di ab , dove manife-
stamente l'A. è caduto in equivoco, avvegnaché le regole ivi proposte
risguardino propriamente l'incontro della preposizione ab con altra
parola, e non la sua intima composizione con un tema verbale.
Quanto ai significati italiani, come non ci dispiace il metodo sto-
rico seguito dall' A. nell' ordinarli, così dobbiam dire che essi sono
in generale accuratamente scelti e di buona lega italiana, talché per
questa parte il Vocabolario, di cui discorriamo, segna un reale e no-
tevole progresso. Ma non possiamo dire invece troppo bene del me-
todo seguito nel citare le autorità e nello arrecare i costrutti, e spiegar
le frasi. Talvolta (ma questo inconveniente si limitò, come avverte
l'A. slesso nella prefazione, a poche pagine) le parole sono arrecate
senza autorità alcuna, anche quando non s' incontrano che presso i
poeti (p. e. abnormis)\ tal altra le autorità sono tali da far dubitare
che il vocabolo sia particolarmente ed esclusivamente adoperato da
- 110 —
ceni scrittori, p. e. in nimirum, che è dato per voce di Nipote e Te-
renzio, mentre è comune a moltissimi altri e usitatissimo anche da
Cicerone. Nei costrutti, massime verbali, l'A. non segue un sistema
costante né esatto molto; talora è incompleto, come in abalietio, dove
dovevasi din- che Vab (almeno nella buona prosa) non si può sottin-
tendere se si parla di persona, e come in abdo , dove da quel che
arreca l'A. è impossibile farsi un'idea esatta e sicura della co-
struzione. Alcune volte sono introdotte frasi (come abducere in senso
osceno) che in un dizionario scolastico potevano omettersi senza in-
convenienti; altre fiate ne mancano di quelle che vi starebbero assai
bene, come sotto abeo non vediam citata la frase assoluta e molto
frequente ne longhts abeam, né quella di Nipote: 7'es a Consilio ad
vires abierunt. Leggendo l'articolo abhorreo parrebbe che questo
verbo potesse stare anche coU'accusativo, mentre ciò non è vero che
allorquando si tratta di persona; e il participio abhorrens, di cui si
dice che non regge il caso dativo se non presso gli scrittori poste-
riori ad Augusto, trovasi cosi costrutto anche in Livio Ab. u. e. II.
14, i). Della costruzione di abiudico, verbo non molto frequente, si
dice per avventura più del necessario; non si parla punto invece di
abicio, che è pure vocabolo di uso tanto comune. Parlando delle frasi
impersonali, a cui dà luogo il verbo abesse, l'A. è caduto, non sap-
piamo comprender come, in una deplorevole svista, scrivendo: «Co-
struito con ut, e preceduto da tantum, forma una maniera impersonale,
corrispondente ai modi nostri: Tanto è lontano... che, Tanto manca...
che e sim. Id tantum abest ab officio, ut nihil magis ecc. (Cic.) ».
Or chi non vede che questa frase, avendo per soggetto il pronome
id, è lutt'altro che impersonale, anzi potrebbe proporsi per esempio
dell'uso personale di tantum abest, nel qual caso tantum abest non si
costruisce con due ut , ma in luogo del primo ut deve usarsi (come
nell'esempio citato; un sostantivo. Esempio vero di costruzione im-
personale sarebbe : tantum abest, ut eum reprehendam, ut alii setiam
praeferam, e cangiato in personale: tantum absum ab eius reprehen-
sione, ut ecc. Né più felice é stato l'A. soggiungendo poco dopo che
la frase impersonale formata col doppio ut può anche avere per sog-
getto una persona, citando a sostegno della sua asserzione l'esempio:
Alilites tantum abfuenint. ut peyturbarcntur. ut incensi potius ecc., e
attribuendo questo passo a Livio, mentre per lo contrario si legge
ncWAuct. Belli Alex., cap. 22, e nessun grammatico gli dà peso, come
ad esempio unico di uno scrittore per nulla autorevole. E per non
— Ili -
uscire da questo verbo, noi, senza pretendere di pronunziare un giu-
dizio assoluto, siam forte inclinati a credere che la costruzione di
abesse colla preposizione de non abbia per sé alcun buono esempio;
almeno avremmo desiderato vederla confortata da qualche autorità,
come cosa appresso i grammatici inaudita. In abripio mancano i com-
pimenti di provenienza, e la frase Ciceroniana: a similitudine parentis
aliquem abripere non ci sembra resa molto felicemente colle parole :
Rimuovere alcuno da, ecc., che, a parer nostro, ricalcano il latino
troppo servilmente, sì che la frase italiana non riesce molto chiara.
In aborior il significato di nascere avanti il tempo, abortire, è posto
innanzi agli altri, quasi fosse il primitivo, e il vero senso fondamen-
tale di venir meno, perire è detto invece poetico e figurato, e a so-
stegno di questa erronea asserzione è citato l'esempio: ubi omnia
oriuntur , ubi aboriuntur che viene attribuito a Lucrezio , mentre si
legge in Varrone , de Lingua Latina, 5, 27, ma in altra forma : ubi
omnia ut oriuntur, ita aboriuntur . Anche in abuti il senso fondamen-
tale e primitivo (usar completamente) non ci sembra indovinato; in
abusus poi dovevasi avvertire che questa voce è termine tecnico di
giurisprudenza (Cfr. Cic, Top., 3, 17). In abundo dell'uso assoluto
non si cita che un esempio di Lucrezio, mentre Io troviamo adope-
rato da Quintiliano (lib. VII, proem., quare abundabant et praemia et
opera vitae) e in Cic. [De Div., i, 29, 61). Di absumo dovevasi dire
che in prosa non s'adopera se non in senso cattivo ; di abrupte non si
può asserire che in Quintiliano voglia dire: all'improvviso, senza pre-
parazione , riferendosi al parlare, perchè parlare all'improvviso, o
senza preparazione vale comunemente : improvvisare un discorso ,
mentre abrupte incipere o cadere in narrationem , significa : (troppo)
bruscamente, cioè senza opportuno preambolo o introduzione. Questo
forse avrà voluto dire anche VA., ma scelse una frase che troppo fa-
cilmente può essere intesa in altro modo. In absolute ci pare che tra
i varii significati avrebbe potuto aver luogo anche quello di: sen:^'altro
(Plinio); in absque non avremmo omesso di notare che il senso pri-
mitivo è locale, e che nel periodo d'argento questa voce si usò spesso
anche nel senso di praeter, mentre nell' età classica ricorre solo ra-
rissime volte. Volendo uscire dalle prime sei pagine noi potremmo
moltiplicare gli esempi di queste inesattezze; ma per non abusare
della pazienza di chi legge, noteremo solo che periculum non è sen-
tenzia, ma protocollo del processo, e che l'esempio di Nipote addotto
è assai incerto ; e che in praescriptio non è registrato il senso di au-
112
ctoritates praescriptae che ha in Cic, Leg. Agr., Il, 9, 22. Non cre-
diamo intìne di poter tacere, che alle volte le frasi citate, o sono
arrecate in un modo che ne altera il vero carattere, o son tradotte
in maniera affatto erronea. Cosi, per esempio, la frase di Orazio ci-
tata sotto abnego: nec comitem abnegai [Odi, lih. 1, 35, 22) non con-
tiene il riflessivo se del testo. Amnietti.smo che ciò possa essere di-
peso da errore tipografico (e la versione della frase lo indicherebbe);
è certo nondimeno che una siffatta svista altera profondamente l'ori-
ginale e facilmente può confonder la mente dello studioso. Sotto
abjuro , la frase Virgiliana abjiirataeque rapinae [Eneide , 8, 263i è
tradotta per: rapine commesse contro ogni diritto, mentre da tutti i
moderni interpreti si conviene che debbasi tradurre : e quella preda
(i buoi), della quale (Caco) aveva con giuramento affermato ad Ercole
di nulla sapere. Sotto aboleo in senso ò\ purificare b c\xa\a. l'altra frase
Virgiliana: nec viscera qitisquam Aut undis abolere poteste aut ecc.
{Georg., 3, SSg), e qui la citazione ci pare incompleta e la spiega-
zione insufficiente, perchè così a prima vista l'allievo può credere che
abolere (in senso di purificare) abbia per oggetto viscera, mentre da
quel che precede nel testo si vede che bisogna interpretare : nec vi-
scera abolere a coriis, cioè purgare affatto le pelli dalla carne. Questo,
senza uscire dalle prime sei pagine del libro; pel resto noteremo
solo che la dicitura: in beneficiis ad aerarium deferri, non significa
punto: scrivere in appositi registri per cagion d'onore, ma: esser dato
in nota alla tesoreria fra quelli a cui si deve pagare una gratificazione;
che della frase referre cimi aliquo = confabulare, data come frase di
Cicerone abbiamo inutilmente cercato esempio negli scrittori latini;
che finalmente non sappiamo comprendere come mai si possa suffra-
gare l'uso di liti colTaccusativo mediante l'esempio di Cicerone [Ep.
ad Att., .XU, 22): Ne Silius quidem quidquam iititur, traducendolo:
Neppiir Silio si servì (sic) d'alcuna cosa, mentre basta un'occhiata
alla lettera in discorso per convincersi che quidquam è accusativo di
estensione e che l'oggetto di cosa è sottinteso all'ablativo (/2or//5 5m;5),
rimanendo la costruzione di utor coli' accusativo di cosa limitata al
periodo anteclassico ed alla lingua popolare, tranne il caso del ge-
rundivo che si trova coll'acc. anche negli autori del periodo aureo.
Bergamo, giugno 188 1.
Carlo Fcmagallt.
Pietro Ussei.lo, gere.tie responsabile.
D'U^A ISCRIZIONE LATINA ANTICHISSIMA
L'anno passato in Roma, tra il Quirinale e il Viminale,
furono scoperte parecchie stoviglie, unite ad oggetti votivi -,
e , probabilmente nello stesso punto , fu trovato un vasel-
lino di terracotta a tre recipienti, con una duplice iscrizione
graffita. Il eh. signor Enrico Dressel con la solita diligenza
ed abilità s'interessò di codeste scoperte, e pubblicò la iscri-
zione con ottime illustrazioni e con bei facsimili (i). Ci si
conceda di riassumere la bella memoria del Dressel , e di
farvi qualche osservazione e qualche giunta.
La duplice iscrizione consta di 128 lettere, graffite intorno
al vaso capovolto. L'una iscrizione, più lunga, cinge
il margine de' tre recipienti , presso agli orifizi , e compie
tutto il giro , anzi lo oltrepassa , poiché le ultime lettere
salgono e s'arrampicano sopra al principio della iscrizione.
L'altra, più breve, graffila più in mezzo, sulla pancia del
vaso, non compie che mezzo giro. Alcune poi delle lettere
di questa iscrizione più breve si prolungano troppo in giù,
(i) Negli Annali dell Istituto di corrisponden^^a archeologica, anno
1880, p. 158-195.
Tiivista ài filologia ecc., X. 8
— 114 -
sino ad intersecare la sommità delle lettere della iscrizione
più lunga (bisogna ricordarsi che si scrisse sul vaso capo-
volto) -, e siccome sull'argilla molle si vede chiaro qual è il
frego che si è sovrapposto air altro, così si scorge qui be-
nissimo che riscrizione più breve e più centrale fu scritta
dopo dell'altra. Di che si ha anche un altro indizio. Dopo
la prima parola della iscrizione più lunga c'è un segno di
interpunzione (i), il quale non c'è poi più nel resto della
detta iscrizione e manca affatto in tutta la iscrizione più
breve. Evidentemente , lo scrittore cominciò col voler ben
dividere le parole Tuna dall'altra, ma dopo se ne pentì su-
bito ; ed altrettanto evidentemente, quindi, la prima parola
ch'e-i^li scrisse su tutto il vaso fu quella seguita dall' inter-
punzione, cioè la prima della iscrizione più lunga (2).
La doppia epigrafe è scritta da destra a sinistra.
E il primo caso che ce ne presenti 1' epigrafia latina (3) -,
ed è perciò indizio di grande arcaismo.
La scrittura non è quadrata : è ad angoli acuti e a linee
regolarmente oblique , come di solito nelle arcaiche greche
ed italiche, e come finora s' era trovato appena in pochis-
(i) È una linea verticale. Cfr. Corssen, Die Sprache der Etrusker,
I, 43.
(2) Dicendo che l'iscrizione più lunga è stata scritta prima, il
Dressel intende certamente parlare di una priorità affatto grafica e
momentanea; non vuol certo dire che la prima sia più arcaica
dell'altra. Che anzi, se qui fosse il caso di far questione di più o
meno arcaismo, l'assoluta indivisione delle parole nella iscrizione più
breve, sarebbe un cert' indizio di maggior arcaismo per quest'ultima
(cfr. CoRSSEN, Op. cit., I, 42, e Ritschl, Prisc. Lat. Mon. Ep., 119).
E appunto l'indivisione quasi assoluta delle parole su tutto il vaso è
uno degli indizi , sebbene il più lieve, dell'arcaismo della duplice
epigrafe.
(3) V, CoRssEN, Aussprache ecc., 1% 5, e Dressel in questo scritto,
a p. 190, sebbene a p. 175 abbia un'espressione poco felice che può
essere fraintesa.
— 115-
simi monumenti latini antichissimi. Ma rappresenta lo stadio
immediatamente anteriore a quello in cui prevalse la scrittura
quadrata, ad angoli retti e a linee orizzontali. Che già la
scrittura quadrata albeggia in questo vaso. L' S vi si trova
bensì angoloso (simile a una nostra zeta), ma vi si trova
pure serpeggiante, e vi si trova ancor più in una forma in-
termedia -, il D e r O vi occorrono più in forma curva che
nell'angolosa ; il C è sempre curvo. Solo il P è sempre
angoloso ; forse per non confondersi con R. Il quale qui
non è il solito R romano, ma ha la forma P del p greco ;
il che importa che il latino è passato anch'esso per la fase
degli altri alfabeti italici e devono cadere tutte le argomen-
tazioni che si fecero sul presupposto che non ci fosse pas-
sato.
L' O e il C son qui più piccoli delle lettere attigue i che
è un altro indizio di arcaismo.
Dapprima l'alfabeto latino dovè essere del tutto conforme
al greco nell' usare il C o < (= greco f) per indicare la
gutturale media (g) e il K per la tenue (e). Di poi il K a
poco a poco andò quasi totalmente in disuso, ed il G con
l'ufficio originario di rappresentare la media cumulò anche
quello di rappresentare la tenue, ossia di sostituire il K.
Ma questo cumulo apparve poi, com'è naturale, penoso;
e dal C fu cavato , mercè una lieve appendice , un altro
segno un po' diverso (G) ; e a questo fu affidato 1' ufficio
che era originario nel G, l'indicare cioè la gutturale media,
rimanendo il C per la sola tenue, quindi come del tutto
pari al K. L'innovazione, che fu già attribuita ad altri, ora
si crede che fosse opera di Appio Claudio Geco (cons. il
447 ed il 458 ab U. G.). Orbene, nel nostro vaso il G
vale ancora come e e come g- (in virco = virgo) ; e il K
non è interamente disusato, ma due volte v'è scritto e poi
corretto, pare, in G.
— 116 —
Si trova qui il q, nella forma del dorico coppa, O -, ed
è questo il quarto esempio che n' abbiamo nel campo la-
tino. Vale esso solo per qu , come anche si trova poi in
epoca assai posteriore, quando alcuni scrissero qis per quis
e simili. — Ci si trova pure T M a cinque aste al modo ita-
lico, e con le forme varie di tale M (i). — Il Dressel vi tro-
verebbe pure la vecchia Z italica , su che tra poco torne-
remo.
Dal lato paleografico insomma, che il Dressel ha studiato
da par suo, si può dire che questo monumento latino sia
il più arcaico di quanti finora ne vennero a luce, e dà piena
ragione a coloro i quali credono che 1' alfabeto latino sia
stato in origine molto più simile agli alfabeti italici e greci
di quello che altri vorrebber desumere dalle condizioni in
cui ce lo mostran ridotto i più antichi monumenti la-
tini (2).
1
(i) Dell' A/ a cinque aste non s'aveva finora esempio nel latino,
salvochè un'eco n'appariva nel M\ iniziale ed abbreviazione del pre-
nome Maniiis (nelle abbreviature dei prenomi si trovano facilmente
tracce d'arcaismo grafico: C. = Gaiits ecc.). E v'era chi negava che
in latino vi fosse dovuta mai essere.
(2) E ira coloro ai quali questa bella pubblicazione del Dressel
riuscirà gradita conferma dell'opinione loro deve essere ricordato un
erudito russo, il prof. Modestow, autore di un libro egregio, rimasto
forse ignoto al Dressel, intitolato Der Gebrauch der Schrift utiter den
romischen KÓnigen (Berlino, Calvary, 1871). Egli si oppone con molta
giustezza alla tendenza troppo scettica di alcuni eruditi tedeschi, che
vollero portare l'origine dell'alfabeto romano ed i primordi del latino
scritto ad epoca troppo recente; e passa in rassegna tutte le antiche
Testimonianze circa l'esistenza e il contenuto dei più amichi testi la-
tini [leges regiae , foedera regum , libri pontificmn ecc.) e riferisce
quelli che son giunti fino a noi (carme degli Arvali, carme saliare)
con le interpretazioni più plausibili. Non diciamo che nella scelta di
queste sia stato sempre felicissimo, ne che manchino in tutto il libro
affermazioni poco accettabili, e dati poco esatti. Delle prime, p. cs.,
ci pare essere quella che è a p. 17, che 1' / pingue osco (h) sonasse
come il greco u. Come un'inesattezza di fatto è certamente quella di
— 117 —
Per r interpretazione, il Dressel s' è rivolto al prof. Bii-
cheler. Ed ecco in breve quel che quest' ultimo gli ha co-
municato.
La prima iscrizione, che suona : love Sat deivos
qoi med mitat, nei ted endo cosmis virco
sied asted, noisi Ope Toitesiai pacari
vois; dovrebbe equivalere a questo: lovi Sat{iirno) divis
qui me mittat^ ne te indù comes virgo sii, astet ; nisi Opi
Tiiiesiae pacari vis; cioè il vaso istesso direbbe: « Agli
dei Giove e Saturno chi mi offrirà, né ti sia compagna là
entro (nel sacro recinto) una vergine né sia presente -, se
non quando vuoi si sacrifichi ad Ope Tutesia « . Dove ,
oltre il costrutto libero te comes sit per tibi e. s. o te co-
mitetur, s'avrebbe anche un grave anacoluto fondamentale :
a rigore dovrebbe dire o « a te che m'offrirai non sia com-
pagna ecc. )),o « chi mi offrirà non prenda a compagna ecc.»
e via via. Il Dressel ricorda un anacoluto alquanto con-
simile dQÌVIliade (XVII, 248 segg.), e dal canto mio io mi
permetterò di ricordare un altro anacoluto di una iscrizione
osca pompejana, la quale tuttavia costituisce il più bello
forse ed il più tondo periodo osco giunto sino a noi : V.
Aadirans V. eìtiuvam paam vereiiaì Pom-
paiianaì trìstamentud deded, eìsak eì-
tiuvad V. Viìnikiìs Mr. kvaìsstur Pom-
paiians trììbom ekak kombennieìs tangi-
nud opsannam deded, ìsìdum profatte d =
p. 16, che nelle tavole eugubine s'incontri spesso il e col va-
lore di T, quando questo non accade in verità che due volte sole.
Con tutti però gli appunti, speciali o generici, che io, o altri di me
più esperti , possa trovar da fare al libro del Modestow, esso è di
certo giudizioso ed utile; e soprattutto la pag. 22 non potevo non
ricordarla ora, a proposito di questa bella scoperta del Dressel che
pienamente la conferma.
— 118 —
Vibius Adiranus Vibii filius pecuniam quatti civitati Pom-
pejanae testamento dedit , ea pecunia Vibius Vinicius
Marae filius quaestor Pompeianus aedificium hìc, conventus
scito, operandum dedit -, idem probavit.
Soffermiamoci a considerare un momento quanto di
nuovo, rispetto alla lingua, ci offra la nostra iscrizione la-
tina. Le forme di dativo in -e di Jove, Ope ^ le forme pro-
nominali ttied, ted\ V ei di nei e di deivos \ il -d per -t
nelle forme sied, asted-^ la forma sied (=ein) con T e an-
cora ben conservato; la consonante doppia scritta come
scempia in ttiitat \ son tutte cose già note come più o meno
usuali nel latino arcaico (i). Nuova per contrario è la forma
deivos di dativo plur., parallela alla forma già nota della
i' declinazione devas (2), e la forma quoi di nominativo
singolare , la quale vien dunque a dare piena ragione al
Corssen, che già Taveva teoricamente ricostruita come fase
anteriore di quei , qui (3). Nome nuovo è Toitesia di cui
è evidente la relazione col verbo tutari \ e una piccola no-
vità è pure r uso avverbiale di endo, la quale voce sinora
s''era trovata solo come preposizione , al più in tmesi (4).
Nuova e alquanto sorprendente è la forma noisi per *tieisi,
nisi. Perfino V osco, più arcaico nei suoi dittonghi, ha già
(i) Si può intanto vedere Corssen, Aussprache^, I , 727 seg., 201
ecc., 785, 38i, igS; li, 35i ecc.
(2) Il Corssen (I*, 764-5, nota) si serviva della mancanza d'ogni
forma di dativo pi. in -os di 2^ deci, quasi come un argomento
contro il Biicheler, che sosteneva V -as d'i i* deci, dover rappresen-
tare la fase originaria donde sarebbe poi derivato V*-ais, -eis , -is ,
mediante l' inserzione di un -i- congiuntivo. Oggi il Corssen non si
potrebbe più servire di quel quasi argomento ; il che però non vuol
dire che egli non avesse ragione contro il B'ùcheler.
(3) 1», 784 ecc.
(4) Vedi Klotz . Handnwrterbuch der lateinischen Sprache , sotto
in, e Corssen, II*, 397.
- 119-
neisuae. C'è bensì Tumbro nosve a cui il Dressel (p. i8o)
rimanda, ma che è esso stesso alquanto singolare (i). Lo
spiegano come non-sve pur riconoscendo che del resto
Tumbro non ci mostra punto un non fuori composizione ;
ma e per questo e per altro è una spiegazione non del tutto
soddisfacente. Mentre d'altro lato, se nel no di nosve s'ha
a riconoscere un no{i) =■ lat. nei= ne, ni , resta sempre
più singolare che il dittongo piva arcaico si mantenesse tanto
vivo giusto neir umbro , che quanto a sostituzione di ei e
ad oi 0 , è più inoltrato dello stesso latino (cfr. dativo :
umbro Ikuvine, lat. Romano, osco Abellanoi). Sennonché,
per quanto ciò sia vero in massima, egli è pur da consi-
derare che Tumbro ha poei, poe, poi di rincontro al latino
qui^ che è qiioi solo nella nostra iscrizione Dresseliana^ e
a questo case pare possa andare perfettamente parallelo
Taltro deir umbro no{i)sve rispondente al latino nisi che è
noisi solo nella iscrizione medesima. Insomma questa forma
latina arcaica , che ora esce a luce , ci conduce a met-
tere ìioisi come fase prisca del nisi latino^, e ci consiglia
una dichiarazione tale delF umbrico nosve che non im-
plichi esserne non il primo elemento , bensì un noi con
r i eliso. Infine, se è da accettare l'equazione cosmis = Co-
mes proposta dal Bùcheler, che ricorda la glossa di Pesto :
u antiqui... dicebant cosmi t fere prò committere », si ver-
rebbe così a stabilire che la preposizione ciini sonasse nella
(i) Occorre una sola volta nella tavola Vlb, il che vuol dire che
non abbiam per esso quel beneficio che per altre voci abbiamo, cioè
o di vedere la stessa forma ripetuta più volte tal quale, così da non
potersene materialmente dubitare , o di vederla riprodotta con pic-
cole differenze in modo da arguirne più facilmente , mediante il
confronto, la forma originaria. Intanto , si noti curiosa vicenda : il
Bugge, attirato dalla forma latina e osca, voleva correggere nosve in
nesve ; e ora il Dressel, o il Blicheler che sia , spiega questo inatteso
noisi latino col nosve umbro, che così torna in onore!
— 120 —
sua fase anteriore cosm. Finché si stava col solo cosmit-
tere era facile supporre che s'avesse a dividere co-smittere
e che Vs spettasse alla radice verbale; e così difatti sup-
pose il Miklosich (i). Ma cosmis non potrebb' essere che
cosm-is. Ora io, considerando che Huv è ritenuto da più di
un etimologo come derivato da uno '(Jkuv , per effetto di
quello stesso invertimento tra la sibilante e la gutturale che
è nel greco comune Hiqjoq rispetto alla forma rappresentata
dall' eolico (JKiqpo?, e nel gr. iSó(; rispetto al latino viscum
-US ecc., e considerando che il prototipo a cui lo Huv e il
coni , cum, mettano capo è ritenuto essere uno *scom (2),
sono troppo naturalmente tentato a vedere nel cosm della
nostra iscrizione la fase intermedia attraverso la quale
"scom si sarebbe ridotto a coni, cum. Da cosm., forma me-
tatetica di *sconi, si sarebbe assai semplicemente passato a
coni, come da Casmena ecc. si passò a Càmena ecc. Certo,
parrebbe più ovvio passare da "scom a coni con la diretta
soppressione della sibilante iniziale, poiché d'esempi di se
iniziale ridotto a e ve n' ha parecchi e in latino (3) e in
greco (4). Giova però avvertire che son quasi tutti esempi
comuni al greco e al latino insieme , e alcuni anche alle
altre o a quasi tutte le altre lingue indoeuropee; mentre
lo {s)coni latino non avrebbe riscontro che nel ciprioto kiv,
essendosi V s del resto ben conservato nel greco comune
Hùv, auv. Si potrebbe anche dire che uno se- iniziale era
troppo ovvio e gradito al latino {scabere, sculpere, sci re ecc.
ecc. Qcc.).^ perchè questo dovesse sentir voglia di sciogliere
(i) Vedi Vanicek , Griechisch-lateinisches etymologisches W'órter-
buch^ p. 692.
(2) Vedi id., ibid.,p. 981, 984.
(3) CoRSSEN, Aussprache ecc. T, 277, 809.
(4) Curtius, Grund^uge^, 429.
- 121 -
il gruppo mediante la metatesi. Ma anche in greco, si può
replicare , Io ok- è ovvio e gradito (aKÉTrTOinai, crKaió(; ecc.
ecc. ecc.), eppur questo non toglie che alcuni ok- vi s^ in-
vertano in H (i). Certo che questo cosmis, se per un qua-
lunque rispetto non è illusoria la sua equazione con comes,
non può non esser preso in considerazione nella storia della
preposizione greco-latina ; e difficilmente potrebbe, mi pare,
essere inteso altrimenti da quel ch'io propongo. — Finalmente,
deir altra voce nuova della nostra iserizione , vois (per vis
vuoi), dice il Dressel che vi si ha « la variazione più di-
retta da l'olis ». Ma l'equazione vois = volis , che par cosi
semplice, urta contro una difficoltà assai grave ; poiché essa
importerebbe una caduta di -/- tra vocali, di cui il latino
classico, non che l'arcaico, non dà mai esempio. Gli esempi
addotti dal Corssen per la caduta di / (P, 228) si riferì-^
scono, già, a tutt'altra epoca; eppoi, presentano condizioni
speciali (tipo^//a, cìoh Jilja, p. es.; tipo dulcis ecc.). Né
gioverebbe il ricorrere al paragone dell'ital. vuoi -=1 v noli \
poiché il nostro vuoi, e con esso puoi =puoti, hai = habes,
pai =vadis, saizizsapìs non sono che forme apocopate
(cfr. po' = voglio , può = puote , ha = habet , va = vadit ,
5^ = sapit) con aggiuntovi quell' -i che dall' analogia degli
altri verbi (dai^ stai ecc.) risulta come esponente della se-
conda persona singolare : che certo a nessun romanista
verrebbe in mente di ammettere che vuoi , puoi ecc., im-
portino una caduta di solo -/- o di solo -t- ecc., in ita-
liano! Tutt'al più la caduta di -/- si sarebbe potuta conce-
dere allo Schweizer-Sidler, che poneva vis = *vilis, = "volis,
poiché il trovarsi così V /, tra due vocali tutt' e due /, ne
(i) Curtius, Op. cit., p. 522 e 699 (non 688, secondo l'erroneo ri-
mando che il Curtius stesso fa nella p. 522).
122
rendeva possibile la caduta per semplice abbre-
viazione (cfr. SIS =^ sivis, che si tirò appresso il sultis
= si vultis -, che però son sempre casi un po' diversi, non
solo perchè il -v- cade davvero facilmente, ma perchè son
formule fisse di complimento , di conversazione , più sog-
gette perciò ad una abbreviazione volontaria che non una
forma grammaticale vivente ricorrente in casi svariatissimi).
Insomma, in questo vois, se si può subito riconoscere vo-
lentieri il padre di pìs (i), essendovi altri casi di oi = i (2),
e due anzi essendoci offerti da questa stessa iscrizione
{quoi , noisi) , non vi si può però con altrettanta spensie-
ratezza riconoscere il figlio di "volis.
Passiamo all'altra iscrizione più breve, che dice: Dvenos
med feced en manom, einom d(z)e noine
med ma(n)o statod. Ossia : Dvenits me fecit in
inortuum, et die nono me mortilo sistito. Cioè: «Dveno»
(il figolo, oppure l'oblatore) « mi fece per il defunto, e nel
nono giorno al defunto ponimi w.
Quel che qui si trova di nuovo per la lingua (che del
resto pure Ten era già noto: Corssen, 11% i6ò)tìnànus,
buono, usato eufemisticamente per * mortuus ' (cfr. Mànes)^
il verbo starle (statodj usato in senso transitivo (3),
r ei n om {enim) nel senso di 'et' come in umbro ienom)
e in osco (imm) (4) •, e più di tutto quel d (z) e noine.
(1) Ne anderebbero così in soqquadro tanto la spiegazione surrife-
rita dello Schweizer-Sidler, quanto quella del Corssen: vis = *ves =^
*vels (CoBssEN, IP, 246-7, in nota).
(2) Corssen, P, 710, 711.
(3) Se pur non è già, come il Dressel ricorda, nel carme degli Ar-
vali, dove sta berber è inteso dal Bijcheler come * siste flagellum » .
Altre interpretazioni di codesta frase si possono vedere anche in
MoDESTOW, op. cit., p. 121.
{4) Sarebbe il secondo esempio, nella latinità, di questo uso pura-
mente paratattico àtWenim, se fosse certamente romana l'iscrizione
- 123 -
Il quale par certo che risponda al die noni, locativo arcaico
citato da Gelilo oltre die quinti o quinte, die quarte , die
crastini, proximi, pristini (i)*, quadrando anche benissimo
per il senso, giacché, come dice il Dressel, « dopo eseguite
« le cerimonie richieste per la sepoltura dell'estinto, i membri
« superstiti della famiglia osservavano il lutto durante nove
« giorni : questo periodo di tristezza e di rimpianto chia-
« masi novendiale e terminava con solenne sacrifizio offerto
« ai mani,., con una cena e talvolta anche con ludi funebri
« e gladiatore ». — Sennonché, v'è qualche difficoltà quanto
alle forme fonetiche. In primo luogo V oi di noine riesce
nuovo, se non strano. Certo, d' oi che finisca ad o, almeno
un altro esempio l'abbiamo, in nón = noenum=:ne-oÌ7iom
cioè 'ne unum' (2). Ma che un 0/ potesse aver luogo nella
fase anteriore di Jtónus , nessuno , eh' io sappia , ci aveva
pensato finora. Né so se ora questa forma epigrafica venga
ad accrescere o a scemare le difficoltà che si trovano nella
dichiarazione di questo numerale ordinativo. — Quanto poi
al d z e , a me pare che presenti gravi difficoltà. Chi
tracciò il graffito sembra scrivesse dapprima de, e poi ci
inserisse tra mezzo un'altra lettera; la quale il Dressel,
con un ragionamento correttissimo dal lato paleografico,
dimostrerebbe essere uno Z: non quello Z posteriore che
il latino riprese dal greco, assieme all'Y, per trascrivere le
parole greche, e collocò alla fine dell'alfabeto, bensì lo Z
antichissimo italico, che aveva il settimo posto nell'alfabeto,
dopo r F, e che poi cadde in disuso , lasciando libero un
riferita dal Mommsen [Unt. Dial., S64. segg.) contenente un hwnt =;
'et'. Ma il Dressel conviene anch'egli che la romanità di quell'iscri-
zione non è certa,
(i) Cfr. postri~die ecc., e vedi Corssen, P, 775; IP, 855.
(2) Curiosa che il Corssen, che pure accetta questa etimologia
(II, 594), non dia poi, trattando dell' 0/, nessun caso di oi in 0.
- 124 -
posto nell'alfabeto, che fu occupato dalla nuova lettera G.
Così questa iscrizione, presentandoci in un monumento ro-
mano lo Z italico, di cui finora non s'aveano che due in-
certissimi esempi nel latino provinciale, mostrerebbe ancora
un altro carattere d' arcaismo. E dal lato paleografico , lo
ripeto, la cosa si potrebbe ritenere come perfettamente di-
mostrata. Però , quando il Dressel vien poi a dire che lo
d z e = die, ch'egli ha così ottenuto, sia una forma giustis-
sima e preziosa anche sotto il rispetto fonologico, io credo
ch'egli s'immagini di trovare un nuovo appoggio là dove
invece dovrebbe riconoscere il più grave degli ostacoli.
Rimanda egli al Corssen , P, 2i5 e segg.: ma questi
non gli dà che esempi della latinità assai tar-
diva, di cui poi nessuno presenta mai la grafia d^ per
^i -h voc, bensì o •{{ o y. Quanto al :{tcolom = 'dieculum,
deir osco, non so se sia un mero caso che esso e gli altri
certi esempi di assibilazione osca si trovino solamente sulla
tavola di Bantia, cioè nell'osco più meridionale e più tardivo.
Un '{icolom , per es., sul bronzo d'Agnone proverebbe un
po' di più a favore dell' assibilazione nel latino arcaico E
vero che alcune forme latine pajono supporre l'assibilazione
della dentale sin da epoca antichissima nel latino , ma si
tratta di / , e non di d. Come nell'umbro si tratta di k e
non d'altro. Piuttosto nell'etrusco v'è esempio d'assibilazioni
d'ogni genere. Ma rimandando ad altro luogo la trattazione
di questo argomento, qui concludiamo che d' assibilazione
di dj (i) il latino classico, non che l'arcaico, non dà alcun
esempio ; e che inoltre la compiacenza con cui il Dressel
vede nello d^e la conferma che « la fase di passaggio fra
(t; Dico cosi, perchè in una formola come dienone il die veniva ad
essere pronunziato come atono, e quindi può ben considerarsi , vo-
lendo, come un *djenóne.
— 125 -
dj e :{ h appunto d:{ w è una compiacenza tutt' altro che
legittima, dappoiché quella trafila di dj\ d'{, ^, che da molti
si vuole, non è punto vera, e la vera è invece (quando ha
luogo) dj, -{j^ \. 11 Dressel potrebbe chiedere se io pretenda
dunque che si debba leggere die nel suo graffito. Io me ne
rimetto a lui, perchè giudichi se, nonostante in questa du-
plice iscrizione T I sia sempre una semplice linea, si possa
pur ammettere che in questo caso lo scrittore ci apponesse
in cima e al piede qualche trasversale (i), tanto piià che
codesto scrittore si mostra pur un po' sbadato , chi con-
sideri le parecchie cancellature ch'ei dovè fare e la indeci-
frabile terza lettera di mano. Ma comunque si sia , io
non assevero altro se non che la fonologia, lungi dalF ap-
poggiare la forma d\e^ la contrasta, per le ragioni sud-
dette.
La duplice iscrizione viene insomma a dire nel complesso:
« questo vaso (triplice forse, giustamente sospetta il Dressel^
perchè da offrire a triplice divinità) fu fatto per un defunto,
a cui sarà posto vicino nel nono giorno ; neiroffi'irlo a Giove
e Saturno non ci sia presente una vergine , nell' offrirlo a
Ope ci sia per contrario una vergine appunto ». E il nostra
autore opportunamente ricorda che il culto di Ope si facea
dalle sole vergini vestali (oltre il sacerdos piiblictts), e che
pure dal culto della Bona Dea, spesso identificata con Ope,
erano esclusi gli uomini. Inoltre, che Saturno e Ope ap-
paiano qui come divinità dei morti non gli fa punto specie,
essendo esse deità rurali , e quindi anche ipoctonie , dap-
poiché la terra « accoglie nel suo seno materno, non solo
le semenze dei frutti, ma anche i morti )> (quindi, pare, il
(i) Di altri I con trasversali {com'è in sostanza pure nell'alfabeto
maiuscolo dei tempi nostri) si possono vedere nelle tre tavole del
CoRSSEN nel libro sull'etrusco, e neìVAussprache ecc., P, p. 5.
— 126 —
nome di Tutesia dato a Ope) \ ed infatti già da tempi an-
tichissimi a pie del Campidoglio esisteva il tempio in cui
erano venerati Saturno e Ope , ed « accanto air altare di
Saturno trovavasi un' edicola consacrata a Dis Pater , il
principe dell'inferno ». Gli fa invece specie che assieme a
Saturno ed Ope trovisi Giove, divinità luminosa per eccel-
lenza e tutt' altro che ipoctonia -, e cerca di rendersene ra-
gione col considerare che, quando l'influenza greca si fece
sentire sulla religione romana , e Saturno ed Ope furono
identificati con Kronos e Rea , fu naturalmente attribuita
alla prima coppia Giove per figlio, com'era certo figlio della
seconda. Così può trovarsi qui Giove come il figlio accanto
ai suoi genitori , e naturalmente preposto ad essi , come
iddio massimo ch'egli era.
Dalle qualità estremamente arcaiche, sia paleografiche sia
linguistiche, del nostro graffito, delle quali non occorre più
parlare , argomenta il Dressel che esso sia non solo il più
vetusto monumento latino, ma ancora molto più antico di
tutti i più antichi monumenti fin qui conosciuti. Egli lo fa-
rebbe risalire alla fine del IV o al principio del V secolo
di Roma -, e credo gli si possa pienamente concedere questa
data, anche se uno degli argomenti su cui la si appoggia ,
la presenza dello Z italico nel graffito, dovesse, come s'è più
sopra detto, esser messo in questione.
Siccome però fra i tanti caratteri d'arcaismo, alcune forme
pajono stonare per il loro aspetto piuttosto moderno, come
il Sat(urno), il pacari, anziché Saetiirno e pacasi
o pacasier, e siccome vi son due K corretti in C ed altre
tre correzioni, così il Dressel penserebbe che il nostro graf-
fito sia una copia di più antica iscrizione preesistente. Di
questa supposizione io non vedo la necessità, come d'altro
canto riconosco eh' essa non ha nulla d' inverosimile. Er-
rori se ne trovano facilmente , nessuno lo sa meglio del
— 127 —
Dressel, in molte iscrizioni anche senza che sieno copiate, né
la correzione di essi fatta dall'antico scrittore del graffito ci
rende sicuri d'altro se non della sua postuma diligenza. Né
la mescolanza di forme linguistiche più moderne con le ar-
caiche deve sempre necessariamente dipendere dal sovrap-
porsi alla lingua dell' autore la lingua del copista : nei
limiti che ha qui una tal mescolanza può
ben provenire dal fatto generico che nell'uso glottico d'ogni
epoca, d'ogni paese, d'ogni individuo, v'é sempre, accanto
alle forme antiche e sempre vegete, qualche forma arcaica
ch'è in via di sparire, qualche forma nuova ch'é in via di
stabilirsi.
Se poi lo scrittore del graffito scrisse prima Setiurno),
correggendolo dopo in Sat{urn6) , è affatto arbitraria la
spiegazione che di tutto ciò dà il Dressel, che cioè nel pre-
teso originale fosse scritto Saet{urno), che il voluto copista
lo pronunziasse Set{urno) , che perciò lo scrivesse cosi e
dopo lo correggesse in Sat{uriio) come si diceva ai suoi
tempi. Che in epoca così arcaica 1' ae fosse pronunziato
e, non é cosa così naturale come il Dressel mostrerebbe di
tenerla, e se il Corssen pare gli serva d'appoggio (P, 32 5,
417), in realtà il Corssen stesso più avanti (a p. 687-693,
soprattutto nella nota a p. 690) ritira poi ogni supposizione
arrischiata, e si mostra convinto che nell'antico latino V ae
non sonasse punto e. Può essere dunque che l' e per a fosse
uno sbaglio semplicemente casuale. Ma volendo tentar di
spiegarlo, terrei per non men verosimile questo : che ai tempi
dello scrittore del graffito si oscillasse nell'uso tra Saetuvno
e Saturno, e che egli volendo scrivere nel primo modo scri-
vesse dapprima Set dimenticando l' ^, e dopo, poiché per
ficcare un a tra S td e non aveva spazio , e d'altronde la
forma Sat{urnó) era pure nell'uso, se la cavasse correggendo
Set in Sat.
— 128 —
Finalmente , il Biicheler trova che V iscrizione nostra è
ritmica-, e fa tre saturnj della iscrizione più lunga, uno
della più breve, sottraendo però da questa la prima parola
Dvenos che resterebbe fuori del metro. Il Dressel non ci
dice come tripartisce il Bùcheler la iscrizione lunga -, ma
mostra, ad ogni modo, pienissima fede in questa ritmicità
saturnia del graffito -, a segno che avendo dapprima inteso
dvenos come bonus (cfr. diioniis , bene tee.) quasi dicesse
« un devoto », s'è persuaso di poi che debba essere un
nome proprio, del figolo o dell'oblatore, perchè solo un tal
nome poteva restar fuori del ritmo rituale. Io, nell'incerta
varietà degli schemi che i dotti propongono e caldeggiano
per « quell'orrido numero saturnio », non ho coraggio di
riconoscere dei saturnj in questa o in quella sentenza o
frase, che potrebb'anch'essere prosa bell'e buona \ come da
altro Iato non intendo di affermare che i saturnj non ci
siano. Per far tanto a confidenza col saturnio ci vuol molta
fede: sola Jides sufficit. Ed a me, come al Corssen (IP,
962-3, nota), manca la fede.
Napoli, maggio 1881.
Francesco d' Ovidio.
P. S. — Mi capitano in questo momento (per cortesia
del prof. A. Sogliano) alcune osservazioncelle di Jordan nel
Biillettino dell' Istituto ecc. del maggio 1881 (p. 84-85), in-
torno al graffito di cui abbiamo qui trattato. Si riducono a
— 129 -
poche cose. — Piuttosto che chi mi offrirà vorrebbe in-
tendere chiunque sia che mi voglia offrire ecc. — Nel-
r a s t e d , per evitare Tasyndeton che importerebbe l'inter-
pretazione ne Comes sit {neve) adstet^ il Jordan vedrebbe una
congiunzione ast da unirsi al nisi &cc. che segue e da inten-
dersi come un però. A lui par naturale che ast fosse antica-
mente astid asted, come post fu postid posted (non ricordo
esempi di posted, ma circa Talternanza tra -id e -ed vedi
CoRSSEN, P, 734). E se fosse da accogliere codesto asted =
ast vi si potrebbe, credo, vedere una conferma dell' eti-
mologia del CoRSSEN (IP, 604, 85i) di ast da at sed: solo
che invece del processo fonetico escogitato dal Gorssen
{'ats'd, *assd, *asst), bisognerebbe supporre un invertimento
di ts in st, seguito poi da apocope delF -ed. Ma io dubito,
e di tutti codesti processi fonetici, e dell'etimologia del Gor-
ssen, e della equazione del Jordan astt d = ast. Trovo
sempre più plausibile l'intenderlo come verbo , né 1' asyn-
deton mi pare tanto duro quanto pare al Jordan; e duro
invece mi pare Vasi nisi ecc. — Intenderebbe manum
per sacrum — E l'einom per ideo — E la scrittura si-
nistrorsa gli pare indizio che l' iscrizione sia di origine e-
sterna anziché urbana.
Alle osservazioni del Jordan seguono ivi stesso (p. 85-6)
due del Gamurrini. — Questi intende q o i non còme un
quoi , ma come una vera fase anteriore di qui , con 1' o
non ancora diventato u -, e V o avrebbe chiamato il coppa
alla dorica. Sennonché il Gamurrini non troverà un sol glot-
tologo, il quale gli voglia menar buono che 1' u di qui sia
originariamente un 0! — Inoltre fa di Toitesiai una
fase anteriore di Tutoriae , con l' oi = « , 1' -s- = -r- (fin
qui nulla di male), e con e = o che é secondo lui « raro
si, ma non nuovo », ma che secondo noi é più che nuovo,
trattandosi di un o lungo tra vocali (cfr. Gorssen, IP, 214).
liivista di ftlolofiia ecc.. X. g
— 130 —
Perchè il chiaro archeologo non cita quegli esempi che dice
di conoscere di e =: o ?
P. S. bis. — Nell'atto che correggiamo le bozze, arriva
il Rheinisches Museum (fase. 2° del 1881) con un articolo
di Biicheler (p. 235-44) *^ove sono svolte un po' più lar-
gamente le note da lui comunicate al Dressel. Ecco quello
che ci troviamo di più importante. — Conviene anch' egli
che dze è una grafia « senza esempio », e solo ricorda
Martses del bronzo del Fucino , come forma intermedia
tra Martjes e Marses. Gli farebbe meno specie de , come
forma popolare collaterale al dje de' comici, e che starebbe
a di'j come la prima parte di diuium a din -, e ricorda che
de quarte, de quinte si trova negli Hermeneutica di Mont-
pellier. — Crede che noi ne supponga una ha^st'novine.
— A Tutesia confronta Ocresia^ Mimesi j. — Crede che
r u. nosve sia *noisve , e vede nel noi di questo e del la-
tino n o i s i una forma locativale — Fa vois = 'vols , ma
conviene che la riduzione di / complicato in i , al modo
neolatino, è cosa « senza esempio » in latino. Solo s' at-
tenta a ricordare l'umbro Voisiener confrontandolo al la-
tino Volsienus, Crede che a determinare un v o i s abbia
potuto contribuire l'analogia di edis accanto a es ^ di legis
Qcz. — Air e i n o m dice poter convenire il valore d' un
' itaque '. — Per lo 'stare' transitivo ricorda praestato , e
l'umbro restatu, e il perf. di 'sisto' stiti^ variante di steti,
e status (dies). — Per 'pacare' nel senso sacrificale ricorda
\\ futii pacer, sii propizio, delle tav. eug., ed esempi latini,
tra cui bello questo plautino {Poen., I, 2, 4'3) « quae ad
deum pacem oportet adesse » = l'occorrente per il sacrificio.
— A proposito di ' te comes sit ' ricorda il venerabundus
aliquem ecc. |Cfr. il plaut. tactio istunc , liane]. — La
forma cosmi s lo induce a convincersi che comes non sia
— 131 -
da ciim -\- ire, come s'era sempre creduto, ma da cosmit-
tere = committere. Questa nuova etimologia non mi par
punto felice. E il trovarsi nel graffito cosmi s come in
rapporto con mitat non ha quel valore, mi pare, che il
chiaro filologo gli attribuisce. Egli non ha badato che,
stando ivi mittere nel senso di 'offrire', non ci può essere
nessuna congruenza tra il senso del verbo in mitat e
quello che avrebbe la radice smit in cosmis comes (che
del resto non si sa bene qual sarebbe, ma certo non quello
d'offrire). — Finalmente, egli qui ci dà quella tal divisione
in saturnj-, e sarebbero cinque in tutto, non quattro come
sembrava dalle parole del Dressel, cioè :
« love Sà(e)tùrno — deivos qoi med mitat
« nei téd éndo cósmis — vi'rco si'ed àsted,
« noisi Ope Toitésiài — pàcari vois.
« Retùs Gabinius] med — féced én mànom,
« einóm dzé noi'ne — méd mano stàtod ».
Al posto di D V e n o s , che guasta il metro, ci vorreb-
bero e ci devono essere state in origine sei sillabe: questo
crede il B., e solo questo ha voluto indicare mettendo quel
Retùs Gabiniùs per comparsa. Infelice mortale però questi,
se per caso aveva comune col Dio di Moisè la ripugnanza
ad esser nominato in vano !
F. d' O.
- Ì32 -
A%JSTOFAV^E
I.
Della fama di Aristofane presso gli Antichi.
I. Investigare fra le testimonianze, sincrone e poste-
riori, la fama di uno scrittore, vale quanto studiare i cri-
terii con cui contemporanei e posteri sentenziarono del va-
lore delle sue opere, e porgere i veri elementi per un retto
giudizio di esso. E questo studio dei criterii , meglio che
qualunque altro, giova a svelarci l'indole e il carattere spe-
ciale della cultura di un popolo , ad addentrarci , per così
dire, nelle sue intime ed essenziali ragioni. Noi ci propo-
niamo di fare siffatte ricerche per riguardo ad Aristofane.
Fin qui la critica tedesca, tanto benemerita degli studi ari-
stofaneschi, non si è occupata dell'argomento: e solo il
Roetscher ed il Ranke ne' loro lavori giovanili, già antiquati,
toccarono brevemente o incidentemente dei giudizi degli an-
tichi sul Comico ateniese (i).
(i) Roetscher , ludicia veterum et recentiorum de Aristoph. bre-
viter in conspectu posila, Bromb., 1841. là., Disquisitio de Aristoph.
ingenii principio , Berol., 1825. Ranke, De Aristoph. vita Commen-
tatio, Lipsiae, i83o.
•- 133 -
Eppure lo studio non è privo di speciali attrattive: por-
gendo altresì occasione ad esamina di questioni varie e con-
troverse, nonché alla determinazione più esatta del concetto
che sin qui si è avuto sulle vicende del nome aristofanesco.
Questo grande comico ateniese , che ha tanta parte nella
vita politica e letteraria del suo tempo ; che si pone in una
recisa e consapevole opposizione col suo secolo stesso ; e
che della sua arte fa potente strumento contro i mali che
minacciano di turbare o dissolvere l'antico ordine di cose e
di idee ; che nella difesa del suo patriottico ideale mette
tutta la fierezza e la potenza della sua invettiva : — questo
uomo, che non teme di cimentarsi co' temuti demagoghi, e
porre in ridicolo personalità , come Socrate ed Euripide ,
doveva certo provare nell'estimazione dei posteri tutti i ca-
pricci e le stranezze degli umani giudizi. A ciò conduce
anche la qualità stessa della sua comedia , colle aperte ed
equivoche allusioni, coll'arditezza degli scherzi, co' varii in-
tenti, politici, religiosi, letterari, che propugna e combatte.
Si aggiunga infine l'instabilità delle norme con cui un po-
polo talora giudica o sente : regolate da predominio di
gusto , di tradizioni , di tendenze. Noi vedremo Aristo-
fane or applaudito ed or disconosciuto dai contemporanei;
motteggiato dai rivali, ammirato dal sommo Platone , ca-
lunniato dai retori e dai sofisti , mal inteso e giudicato da
Plutarco , e quasi negletto dalla letteratura latina. E noi
dagli accenni dedotti dalle sue comedie; dalle vaghe tra-
dizioni riferiteci dai biografi ; dalle testimonianze sparse;
dai giudizi e raffronti ; dai commenti e dalle imitazioni ;
dalle rappresentazioni dell'arte figurata tenteremo di deter-
minare la varia considerazione in cui l'antichità lo tenne.
E insieme alla fortuna della rinomanza, noi vogliamo ve-
dere quali sieno le sorti della sua comedia, quale l'eredità
che ne viene alla cultura successiva, e quale ne sia il va-
— 134 — *
lore nella storia dello spirito umano. Noi accompagneremo
questa grandiosa figura dal punto stesso in cui viva osa al-
zarsi sdegnosa contro i potenti demagoghi dello stato , o i
funesti corruttori dell' arte e della sapienza, sino al pallido
tramonto dell'antica civiltà : quando , decaduto ogni ordine
sociale e civile, col sopraggiungere dei barbari e colT inno-
varsi delle idee politiche e religiose, il mondo antico ro-
vina per dar luogo ad un nuovo periodo della storia. Né
ci verrà taccia di abusare delPargomento, se alla compiuta
trattazione di esso faremo seguire un breve epilogo in cui
si ragguagli della fama di Aristofane nel medio evo e nei
tempi moderni.
2. L'acquistarsi buona rinomanza di poeta comico in
Atene nei tempi in cui Aristofane viveva, in mezzo a quella
feconda e singolare produzione di opere letterarie e al ri-
goglioso svolgimento delle nuove idee e delle nuove dottrine,
non era certo facile cosa : ne ci volea di meno dell'ingegno
e dell' attività del nostro poeta , per aftermarvisi e distin-
guersi. Pare sua speciale preoccupazione, questa di levar
grido e di procacciarsi la lode dei contemporanei : tanto è
l'amore che egli pone nel perfezionamento dell' arte sua, e
la fermezza di proposito con cui vi si esercita. Aristofane,
senza essere un pensatore molto elevato né un critico molto
profondo , senti i nuovi bisogni dell'arte comica ; ebbe co-
scienza delle sue grandi difficoltà, e dovette convincersi del
poco valore intrinseco, che aveva la maggior parte di quelle
produzioni contemporanee. Le condizioni speciali della po-
litica d' allora e di quella società e di quella cultura acui-
scono e sviluppano le natie qualità del poeta ; il quale eser-
cita così la finezza e l'acutezza dell'osservazione, e raccoglie
le forze per combattere. Con queste ottime prerogative egli
riesce infatti ad ottenere sin dalle prime il favore dei con-
cittadini. Però anche nel periodo contemporaneo, che è il
— 135 —
più splendido per il suo nome, Aristofane non godette una
fama piena ed incontrastata. Noi lo vediamo costretto a
muovere acerbi rimbrotti agli Ateniesi (i), a palesare i suoi
meriti e servigi (2), e talora a chiedere il favore degli spet-
tatori (3). Forse questi suoi lamenti ed irrequietezze pro-
cedono più da una piena consapevolezza della propria va-
lentia, che da una ritrosa disposizione in altri a riconoscerla.
S'egli proclama i suoi diritti alla riconoscenza (4) ^ se osa
affermare la peregrina originalità de' suoi concetti (5) ; e
può gloriarsi dinanzi agli spettatori d'aver fatto torreggiare
l'arte drammatica (6) ; se non teme di schiudere l'animo al
lusinghiero presentimento dell'immortalità (7), bisogna cre-
dere che l'ammirazione pubblica non gli mancasse, ma che
egli dovesse bensì assicurarsela dagli attacchi degli invidi
e dei detrattori. E le rivalità e le persecuzioni non gli man-
cano, a cominciare da quel tremendo Cleone, che lo trasse
in giudizio, e lo calunniò e lo sputacchiò di menzogne (8);
per venir sino a quel poderoso suo competitore, ad Eupoli,
che lo accusa di ambiziose peregrinazioni nelle palestre dopo
la vittoria (9). Ma c'è un passo importante nella parabasi
delle Vespe, in cui il poeta si dice « innalzato grandemente
quanto niun altro in mezzo ai suoi concittadini (io) ».
(i) Acam., V. 632. Cav., v. 5i8, Sig.
(2) Acarn., v. 633.
(3) Cav.,v. 545, 546. Nubi, V. 56i, 562. Pace, v. 768.
(4) Acarn., V. 633, Nubi, v, 5i2-5i7; 525, 537. Vespe, v. 1017,
1018; 1037; 1043. Pace, V. 738; 759-761 -, 764; 773.
(5) Nubi, V. 546-548; 56i. Vespe, v. 1022; 1044; 1046; 1047; 1054.
(6) Pace, V. 749.
(7) Vespe, V. io5i-io59.
(8) Acarn., V. 378-382.
(9) Vespe, scoi. io25.
(io) Vespe, v. 102 3 :
'Ap9eì^ òè lué-faq Kaì Tiiarieeì^ wc, oùbeìi; ttujttot èv ù^W.
- 136 —
Noi non dimentichiamo certo che abbiamo da fare con un
poeta comico , il quale si vale naturalmente della libertà o
della licenza, che alla scena è concessa -, e non prendiamo
alla lettera le sue orgogliose attestazioni. Per ridurre le quali
ad un giusto valore approssimativo ci conviene confrontarle
o controllarle colle altre testimonianze contemporanee più
attendibili. I frammenti dei comici e le notizie didascaliche
servono egregiamente all'uopo. Nel primo caso le stesse in-
vide allusioni dei rivali contro il nostro comico, sono un
omaggio alla gloria di lui. Eupoli s'indispettisce del favore
che gli Ateniesi concedono a poeti stranieri : e, continuando
l'allusione ad Aristofane, si meraviglia, che sia da loro te-
nuto in concetto di uomo sapiente (i). Questa è preziosa
testimonianza alla riputazione contemporanea del nostro
poeta, ed è tanto più sicura, in quanto la dobbiamo ad un
emulo. Gratino lo deride, come un arguto, un cavillosetto,
uno sputasenno (2). Ambedue, Gratino ed Eupoh, lo ac-
cusano di plagio (3). Platone , insieme a quest'ultimo, lo
burla per avere nella Pace innalzato dinanzi agli spettatori
la colossale imagine della dea (4). I cattivi poqti del tempo
imitano le graziose creazioni del nostro comico, però ma-
lamente trattandole e riproducendole (5). Golia prima edi-
zione delle Nubi egli è rigettato nella gara tentata con Gra-
tino ed Amipsia (6); nella rappresentazione dei Babilonesi
il corego Antimaco lo esclude dal banchetto che lo Stato
somministra ai poeti vincitori, e lo licenza a corpo vuoto (7).
(i) KocK , Com. Attic. fragm., Lipsiae, 1880, 1 (Eupolis), fr. 357.
(2) Id,, I (Cratinus), fr. Soy.
(3) Id., I (Eupolis), fr. 78.
(4) Id., I (Platon), fr. 81. (Eupolis), fr. 54.
(5) Nubi, V. 559.
(6) Nubi, V. 525.
(7) Acarn., v. i i5o-ii55.
— 137 -
Queste traversie sono poca cosa dinanzi all' entusiastica
ammirazione, che attira ad Atene gli alleati , desiderosi di
vedere il preclarissimo poeta (tòv 7ToiriTf|v tòv àpicrtov (i)).
In generale, nella comedia aristofanesca c'è un sentimento
della propria serietà ed importanza : e' è come un tono di
superiorità , che ce la fa collocare in alto , sopra le altre
produzioni contemporanee dello stesso genere. E la supe-
riorità di Aristofane acquista maggior valore , se si pensa
da quali valenti competitori nel poetico agone gli è contesa
ed invidiata. Antiche testimonianze , fra le quali gli stessi
scherzi aristofaneschi, ci fanno fede dell'ingegno fecondis-
simo e felicissimo di Gratino, che il Meineke , citando un
passo antico, dice quasi antesignano dei comici (2). Eupoli
sappiamo che fu ingegnosissimo nell'invenzione e trattazione
della favola : e ambedue contesero qualche volta la palma
ad Aristofane. Amipsia lo vinse due volte, ci dicono le di-
dascalie. Di Platone si loda in special modo l'eleganza ed
il candore della dizione. Perdute le loro opere , noi non
possiamo giudicarli , e tanto meno istituirne un confronto
con Aristofane , dal quale verrebbe meglio determinato il
valore e l' importanza di lui fra i comici del suo tempo.
Certo non si deve attribuire al solo caso il fatto della con-
servazione di una parte de' suoi drammi attraverso all'im-
mensa perdita delle opere antiche. Di essi c'è dato di con-
statare il favóre con che furono accolti dal pubblico. Le
antiche didascalie ci dicono coU'eloquente brevità delle loro
notizie, che Aristofane non riportò mai il terzo premio ;
che un solo insuccesso turbò la serie regolare delle sue vit-
torie, nelle quali ebbe un egual numero di primi e di se-
(1) Acarn., v. 643-645.
(2) Meinecke , Hist. Critica j p. 56o. Prolegg. de Comoed., IX b,
69. KocK, Op. cit., (Cratinus), 186.
- 138 —
condi onori ; che infine sortì Y onore di una seconda rap-
presentazione delle Rane. Anche quel che sappiamo della
attività letteraria degli antichi comici ci porterebbe alla stessa
determinazione favorevole ad Aristofane , il quale avrebbe
quasi emulato la produttività dei poeti tragici. Nel vario e
periglioso avvicendarsi degli eventi della guerra peloponne-
siaca Atene perde Sofocle, Euripide, Gratino, Eupoli :
Aristofane sopravvive, e per molti anni ancora offre ai con-
cittadini i geniali prodotti della sua ricca fantasia. Otto co-
medie scrisse Cratete, 21 Gratino, Ferecrate i3, Teleclide 5,
Eupoli i5 , Frinico io, Platone 28, Amipsia 9 (i); Ari-
stofane ne compose certo 44 (2). Si è potuto così tracciare
quasi una storia della sua attività letteraria, di cui i capi,
pei drammi giunti sino a noi, sono gli Acarnesi ed il Pliito.
Quanta via si è percorso in questo breve intervallo ! La
virtuosità del poeta si è svolta, ha toccato l'apice, e si è già
quasi esaurita , seguendo in ciò le sorti della potenza di
Atene. A leggere il Fiuto, bene osserva il Deschanel, non
si può difendere da una specie di tristezza : si sente , che
Atene è umiliata, rovinata : non più libertà, non pilli ric-
chezza, non più gioia nelle feste di Bacco ! (3).
Fu sventura per lui il sopravvivere ai destini miserevoli
della sua patria. Non solo era svanito l'ideale della Grecia
florida e pacifica ; non era soltanto perduta la speranza del
ritorno del buon tempo antico , al quale il poeta era pur
sempre rimasto ligio ; ma si doveva assistere alla grande
innovazione che il nuovo spirito del tempo andava intro-
(1) Cfr. Meinecke. Hist. Crit.,p. 64 sgg.
(2) Vedi il catalogo recentemente scoperto da F. Novati in un co-
dice ambrosiano (L, 39 sup.) e da lui pubblicato neW Hermes, 1879,
p. 461.
(3) Vedi Étitdes sur Aristophane, Paris, 1867, p. 222.
— 139 -
ducendo in tutte le istituzioni della vita ateniese. Le pub-
bliche sventure, lo sparire delle illusioni dovettero amareg-
giare gli ultimi anni del misero poeta. Politica, letteratura,
arte, tutto prende altra via : fin la comedia, autore inconscio
Aristofane stesso, segue già un nuovo indirizzo. Cosichè ,
ben osservava il Ranke, la comedia aristofanesca , pretta-
mente greca, è quasi V ultimo sprazzo di luce nella storia
dell'arte poetica : — <c lux fuit fere ultima , qua Graecia
orbem terrarum ornavi t (i).
3. Alla morte di Aristofane si rende tributo di omaggio
con un noto epigramma, il quale sotto l'allegoria delle Grazie
vaganti in cerca di un tempio immortale, magnifica la gra-
ziosa leggiadria come prerogativa delle creazioni aristofa-
nesche. È per noi un'importante documento, sia che se ne
voglia ascrivere la paternità al Platone comico, o al filosofo
omonimo (2).
Al Xapiie? Te'iuevó? ti Xa^eìv, ònep oùxì TreaeTiai
ZirjToOaai, MJUxnv eupov 'Api(JTOcpàvou(;.
Pochi anni dopo, la memoria ne è celebrata da Platone,
che lo introduce interlocutore nel Simposio. Si può dire,
che questo è il suo monumento , splendido davvero e per
arte e per concetto. C è il ritratto vivo del nostro poeta,
in tutta la sua lepida e giaconda natura : non idealizzato ,
ma coi tratti che a noi sembra lo caratterizzino. La sua
(i) Ranke, De vita Arisiophanis Comm.,^ i3 (ediz. del Meineke).
(2) Primo ad opporsi alla tradizione comune, che il noto epi-
gramma attribuisce al filosofo Platone fu lo Zimmermann {De Aristoph.
et Platonis amicitia aut simultate , Marburg , 1834). Ma egli rimase
senza seguaci : se si eccettua appena il Bernhardy, che pone la cosa
in dubbio. Del resto i suoi argomenti non dimostrano nulla, e pos-
sono essere facilmente confutati.
— 140 -
ìndole gioviale e V abito intemperante è in modo reali-
stico significato da quel comico incidente del singhiozzo ,
per cui gli vien tolta la facoltà di ragionare alla sua volta:
quando poi si fa a parlare, ogni parola sembra avvivata
da quello spirito faceto e fantastico che anima la sua
comedia. Che v' ha di più grazioso e buffonesco di quella
storia immaginaria delP origine della specie umana , colla
quale egli vuol spiegare la natura dell'amore ? Dopoché
Fedro ha dimostrato per mezzo delle antiche tradizioni poe-
tiche e mitologiche , che V amore è il piià antico ed il mi-
gliore degli dei^ dopo che Pausania ne ha distinto le specie,
in volgare e celeste; dopo che Erisimaco medico ne ha di-
chiarato la potenza con argomenti tratti dall' arte sua , è
curioso il sentire Aristofane parlare di una primitiva razza
umana , dotata di un corpo fornito di più membra; casti-
gata per la sua empietà colla scissione di esso in due , e
costretta a generare al modo delle cicale. Così ogni metà
desiderava Taltra metà, ma non potevano congiungersi, e la
razza umana deperiva. Allora Giove, compassionando, prov-
vide perchè V amore potesse meglio soddisfare le sue ten-
denze sessuali.
Si è voluto cercare la ragione delPintroduzione di Aristo-
fane nel Simposio platonico. Certo non è ammissibile l'opi-
nione dello Zimmermann , che ciò Platone facesse, giudi-
cando poter Aristofane meglio di tutti tener tal discorso ,
quale richiedeva la natura ed il disegno della sua opera (i);
né ben s'appose, a nostro giudizio, lo Schnitzer, quando
volle vedere un ordine progressivo nella serie dei varii di-
scorsi sull'Eroe, e credette, che a comprendere il significato
dell' Aristofane platonico, convenisse riscontrarlo con So-
(i) Op. cit., cap. I.
- 141 -
crate (i). Non bisogna dimenticare, ehe Platone rappre-
senta anch'esso un' opposizione nel mondo greco d' Atene.
Ha un ideale anch'esso, e in molti punti le sue idee colli-
mano con quelle del grande comico (2). Egli , che poeta
nella giovinezza, rimase pur sempre artista : che pure so-
gnava un nuovo ideale di repubblica, e che da essa cacciava
i poeti come corruttori : egli che venerava in Socrate il suo
sommo maestro : poteva avere ed ebbe simpatie per Ari-
stofane, che non faceva buon viso alle nuove dottrine della
sofìstica e della speculazione -, che portava sulla scena le
scurrili ed oscene tresche delle Lisistrate, e irrideva alle pas-
sioni umane degli dei, e versava il ridicolo sul più grande
savio della Grecia (3). Anzi volle celebrarne la memoria ,
e lo addusse nell'allegra comitiva, degno di trovarsi in mezzo
a quelle grandi figure , a rappresentare con esse la varia
indole e pieghevolezza del genio greco.
1 tempi che seguono alla morte del poeta sono assai di-
sastrosi per la sua fama. Le sorti della comedia , come
quelle della politica ateniese, sono violentemente decise dalle
mutate condizioni sociali. Una grande rinomanza consacra
le opere dei tre grandi tragici ateniesi, ai quali con publico
decreto vengono dedicate statue onorifiche. Lo Stato stesso
provvede , perchè i loro drammi siano rappresentati , e
perchè rimangano immuni dalle interpolazioni o variazioni
(i) ScHNiTZER, Ueber die Persoti des Aristoph. in Pìató's Sympo-
sium, Nurnberg, i838.
(2) Vedi ZiMMERMANN, Op. cit., cap. II, ove si esamina la relazione
fra le Ecclesiapise e il lib. V della Politica. Marxsen , Ueber die
Verwandtschaft des platon. Symposiiims mit d. Thesmoph. de Aristo-
phanes , Rendsburg , i853. Teuffel , Studien iind Characteristiken,
p. i33 sgg.
(3) Olimpiodoro, Vita Platonis: « ...Ixo-xpi òè ttóvu kcì Apiaxoqpdvei
TUJ KUJ|aiKlÙ n.
— 142 —
che r arbitrio degli attori potesse in quelli introdurre col
tempo (i). Ma della comedia antica nessuna menzione nella
tradizione posteriore. Del resto si capisce bene, come quello
stesso genere comico portasse in sé il destino di una breve
durata. Mancate le lotte , dalle quali la comedia politica
attingeva il suo vital nutrimento; svaniti gli ideali di cui
essa si era fatta magnanima propugnatrice : essa, che aveva
sì fervorosamente schiamazzato nel turbinio degrinteressi e
nei disordini della democrazia , perde tosto ogni attualità ,
ogni ragion d' essere, e illanguidisce. Aristofane era stato
r ultimo poeta di quella forte generazione che s'era trava-
gliata e logorata nella conquista delle glorie politiche e cit-
tadine. Dal momento che egli lascia la scena, non sappiamo
più nulla di lui, neppure quando morisse. Il suo nome le-
gato alla comedia antica, ne segue fedelmente le sorti. Ven-
gono ora in campo la comedia mezzana e la nuova, tanto
dissimili da quella. È questa la nuova forma drammatica,
che i tempi richieggono e producono, e che il gusto domi-
nante predilige. Menandro sorge a rendere sempre più sfa-
vorevoli le condizioni della fama aristofanesca. Egli pare
prescelto da natura a ricevere tutti gli omaggi, che la po-
sterità avrebbe consacrato al poeta, che avesse saputo scru-
tare nel più profondo dell' umana natura , e indi trarre i
motivi della creazione artistica. Si disse, che le api stesse,
le quali si pascono nei floridi giardini delle muse, avevano
versato sulle labbra di lui il loro miele (2). Egli sarà detto
il più grande dei poeti e quasi un oracolo (3); egli, ingegno
senza rivale, dalla natura formato a tutte le delicatezze delle
(i) Vedi il passo di Plutarco, X, Orat. vii. (Lycurgus, io, ii) e
la dotta illustrazione del Sommerbrodt. Rìiein. Mus., XIX. p. i3osgg.
(2) Anth. Pai, IX, 187.
(3) Seneca, De brevit. vitae, Dia!. X, e. 9.
- 143 -
lettere (i) ; egli, scrittore perfetto (2). I padri della Chiesa
nelle loro fanatiche persecuzioni risparmieranno lui ed i
suoi ammiratori (3). La sua grande rinomanza oscura quella
dei comici precedenti : i quali tanto più rimangono dimen-
ticati, quanto è più viva l'ammirazione che si prodiga alla
nuova arte. La quale, rotta T angusta cerchia del dramma
politico , mitologico o letterario , si è messa per la grande
via delle passioni umane a rappresentarne le caratteristiche
essenziali e costanti : base Tuomo nelle sue più varie e ti-
piche manifestazioni. Per questo fu giustamente osservato,
che r arte di Menandro vive ancora nell'arte moderna : e
mentre Aristofane ed Antifane ci fanno mutar paese , ri-
conducendoci ad un mondo lontano e diverso dal nostro,
Menandro ci sembra un poeta del giorno, e in lui l'anima
umana riconosce e sente la perenne identità della sua na-
tura.
4. Se vogliamo oltre indagare la sorte della fama ari-
stofanesca, ci conviene seguire le vicissitudini della lettera-
tura greca , e trasportarci con essa ad Alessandria ed a
Pergamo , divenute sedi del nuovo moto intellettuale favo-
rito dalla liberale protezione dei Tolomei e degli Attali.
Dobbiamo ricercare con quale interesse e con qual metodo
le opere di Aristofane sono studiate e illustrate in questo
periodo dell'erudizione. Questi studi sono il testimonio più
bello ed efficace alla fama del poeta : provvedono alle mi-
gliori sorti di essa nei tempi che seguono. Ciò facendo, in
mezzo alla congerie confusa dei commenti , ci verrà forse
dato di rintracciare qualche testimonianza diretta , che ci
(0 Plinio, H. N.. XXX, 1.
(2) QuiNTiL., lììst. Orat., X, i.
(3) Vedi GuizoT , Menandre (Étude historique et littéraire sur la
comédie et la société grecques), Paris, i855.
— 144 —
chiarisca della riputazione di lui anche in questo nuovo pe-
riodo della storia.
Se all'inaugurarsi delle ricerche erudite le menti dei dotti
si sentono potentemente attratte dalla memoria del divino
poeta, che primo aveva cantato le eroiche tradizioni della
Grecia : quando si rivolge l'attenzione anche alle altre pro-
duzioni dell' ingegno greco, e si ricercano le opere dram-
matiche, possiamo dire col Bernhardy , che l' interesse dei
grammatici pe' comici trova in Aristofane il suo centro (i).
Già Aristotile nelle sue grandi ricerche dell'antichità, s'era
occupato anche della letteratura comica, raccogliendo i testi
dei monumenti didascalici e illustrandone le storiche me-
morie (2). Dopoché Licofrone Calcidense alla corte di Pto-
loraeo Filadelfo ebbe raccolto e rivisto le opere comiche (3),
un buon numero di quei grammatici attende in special
modo all'illustrazione delle comedie d'Aristofane. Callimaco
pel primo ne determina la cronologia. Non pare però, che
scrivesse un commento speciale ai drammi. Due scolii ci
attestano i suoi studi sulle didascalie (4); nelle altre cita-
zioni le note s' hanno a ritenere tratte dalle stesse sue o-
pere (5). Di Eratostene si menziona in uno scolio il suo
terzo libro : Trepl Kuu^ujbioiv (G). Egli cerca di chiarire i luoghi
(1) Vedi Grundriss d. griech. Littcrat., il, p. Ó69.
(2) La grande perdita delle opere aristoteliche ci toglie di cono-
scere quale speciale concetto egli avesse del comico ateniese. Lo cita
una sola volta nella Poetica (e. Ili) parlando dell'imitazione; nella
Rettorica (e. Ili) si ricordano i Babilonesi; e l'Aristofane Platonico
è menzionato nella Politica. Il, 4. Cfr. Prolegg. de Comoed., IX a
p. XIX, 49.
(3) Prolegg. de Comoed.. X a, 4.
{4) Nubi, scoi. 552. Ucc, scoi. 1242.
(5) Ad es., le illustrazioni degli scolii a parecchi versi degli Uc-
celli possono esser derivate dal suo libro Ti€pì opveujv.
(6) Rati., scoi., 1028.
— 145 -
oscuri delle comedie aristofanesche, e in parecchi scolii si
ricordano le sue cure critiche ed esegetiche (i). Ad Aristo-
fane da Bisanzio si ascrivono gli argomenti in versi pre-
posti ai drammi: più, una recensione di essi (2). Inoltre,
negli scolii si hanno tracce delle sue fatiche critiche e pro-
sodiache (3). Né minori cure prodigò al nostro comico il
grande Aristarco : intento a dichiarare versi o frasi diffi-
cili (4) o il significato di espressioni proverbiali (5) o il va-
lore di parole comiche (6): nonché ad assegnare giustamente
i versi ai varii interlocutori del dialogo (7), o a fare note
critiche, storiche e prosodiache (8). Si può credere, che si
occupasse più particolarmente delle Rane, intorno alle quali
abbiamo di lui un maggior numero di scolii. In essi non
troviamo soltanto illustrazioni storiche ed esegetiche , ma
congetture critiche sul testo (q) , dichiarazioni delle pa-
rodie (io) e note metriche (i 1). Callistrato, che in uno scolio
è detto r èErìTOu|iAevo(; (12), fa commenti varii ad Aristofane.
Negli scolii troviamo di lui note dichiarative (i3), illustra-
li Phit. , scoi. 797, 1194. Vedi Arf^um. Pacis; e Pac, scoi. 48,
70, 199, 702, 755. Nubi, scoi., 552, 967. Rane , scoi. i263. Cav.,
scoi. 963. Vespe, scoi. 239, 5o2, !o32. Ucc, scoi. 11, 122. Tesmof.,
scoi. 5 16.
(2) Cfr. Fritzsche . Comm. ad Thesmof. seciindas, Rostock, i83i,
p. 52.
(3; Niib., scoi. 1007, ii5o. Ran., scoi. i53, 1142, 1541.
(4) /?fl?2., scoi. 990, 1144. Pia;c., scoi. 1159. Z7rc., scoi. 76.
(5) Ran., scoi. 970. Cav.. scoi. 1279.
(6) Vesp., scoi. 220. Ran.^ scoi. 357. Niib., scoi. 109.
(7) Ran., scoi. 1149, "08.
(8) Pluf., scoi., 3. Ucc, scoi. 76. Ran., scoi. 191, 32o , 1422. Tes-
mof., scoi. 3i. Cav., scoi. 487, 3i8.
(9) Ran., scoi. 191, 1400, I4i3, 1437.
(io) Ran., scoi. 1206, 1270.
(11) Ran., scoi. 354, ^7^? 1124. Ved. O. Gerhard, De Aristarco
Aristophanis interprete, Bonnae, i85o.
(12) Vesp., scoi. 772.
(t3) Acarn., scoi. 654. Plut., scoi. 718, 11 io. Ran., scoi. g2 , 22^ ,
"Tiivista di Jiloioi^ia ecc. ,X. io
- 146 —
zioni grammaticali (i), letterarie (2), storiche e geogra-
fiche (3). Anche Eufronio fu valente interprete di Aristo-
fane; e mentre segue il metodo d'Aristarco nella esegesi di
cose grammaticali (4) , letterarie (5) e prosodiache (6), lo
supera in molte illustrazioni storiche od antiquarie (7). Più
innanzi troviamo Didimo , che fa pregevoli commenti ad
Aristofane , e più specialmente agli Uccelli ed alle Rane.
Anch'esso dichiara frasi e luoghi oscuri (8), tratta cose let-
terarie con riscontri di versi o spiegazione di parodie (9) \
né tralascia le questioni grammaticali e metriche (10). Tanta
copiosa messe di illustrazioni e di commenti doveva far
sentire il bisogno di una raccolta : e si vuole che Simmaco
intendesse a questo lavoro, compilando un esteso commen-
tario ai drammi d'Aristofane (11). Egli ne pare piuttosto
critico letterario : discute, qualche volta corregge le inter-
790, 826. Vesp., scoi., 772, 804, 604, 675. Pac.^scoì. 344, ii65. Ucc,
scoi. 436, 440, 933, 1378.
(1) Ran., scoi. 270, 567, 694. Vesp., scoi. 2i3. Ucc, scoi. 53o.
(2) Plut., scoi. 385. Pac, scoi. 1060. Ucc, scoi. i337.
(3) Ran., scoi. 588, 791 , 1422. Vesp., scoi. 07. Ucc, scoi. 997.
Pac, scoi. 1 126.
(4) Vesp., scoi. 604, 674, 675, 696, ioo5 , 1144, ii5o. Plut., scoi.
904. Nub., scoi. 1264. Ran., scoi. 1093. Z7cc., scoi. 266 , 299, 358,
765, 798, 933, 1378, 1745.
(5) Plut., scoi. 385. Vesp., scoi. 606. Ucc, scoi. i536, i563.
(6) Vesp., scoi. 1086.
(7) Vesp., scoi. 675. f7cc., scoi. 873, 997, 1379.
(8) Plut., scoi. loii, 1129. Ran., scoi. 55, 104, 186,223,230,775,
965, 970, 990, i3o5. .4cani., scoi. 1076, noi. Vesp., scoi. io38, 1178,
i3o9, i3R8. Pac, scoi. 758, 83i, 932, 1254. Ucc (frequentissime ci-
tazioni); Tesmof., scoi. 162. Lis., scoi. 3i3.
(9) Ran., scoi. i3, 704. Vesp., scoi. io63.
(io) Ran., scoi. 41, Vesp. scoi. 772. Ucc, scoi. 58. Ran., scoi. 1028.
Pac, scoi. 932.
(il) Lo ScHNEiDKR nel suo pregiato lavoro De veterum in Aristoph.
scoUorum fontibus, Sundiae, i838j dimostra che quello fu la principal
fonte dei nostri scolii.
— 147 -
pretazioni dei commentatori che lo precedettero. Senza tra-
lasciare di chiarire il senso di parole o frasi (i), con qualche
riguardo anche alle osservazioni grammaticali e prosodia-
che (2), egli intende particolarmente ad illustrare cose let-
terarie, con richiami e riscontri di versi (3). Chi infine si
occupò deirillustrazione metrica delle comedie aristofanesche,
fu Eliodoro -, il quale, sebbene citato due sole volte negli
scolii (4) , pure devesi credere autore degli anonimi com-
menti metrici alle parti corali (5). Commentatori minori di
Aristofane, o meno diretti o dei quali meno sappiamo, sono :
Apollonio Discolo, Asclepiade^ Dicearco, Demetrio, Cratete
da Mallo, Peno (6). Né devesi qui omettere di accennare
r esistenza di commentarli anonimi (uTTOjuvr) inaia), di cui si
fa menzione più d'una volta negli scolii (7). Aristofane poi
doveva essere illustrato e giudicato nelle molte opere lette-
rarie generali, che gli Alessandrini e gli eruditi posteriori
scrissero sulla drammatica greca.
Ci siamo alquanto trattenuti su questo proposito, perchè
lo studio accurato e diligente delle opere del nostro comico
(i) Pltit., scoi. 683. Nub., scoi. 864. Ran., scoi. 1227. Cav., scoi.
755, 979, 1126, 1256. Vesp., scoi. 2. Pac, scoi. 916. t-^cc, scoi. 17,
3o3, 704, 877, 994, looi, 1121, 1273, 1283, 1681. 7>5mo/., scoi. 393,
710.
(2) Ran., scoi. 745. Ucc. scoi. 58, i363. Niib., scoi. 817.
(3) Plut., scoi. loii. Cav., scoi. 84 , 963. Acarn., scoi. 472, 877,
(128. Vesp., scoi. i3o2. Ucc, scoi. 168, 440, 988, 1294. 1297, 1379,
1705.
(4) Vesp., scoi. 1282. Pac, scoi. i353.
(5) Ved. scolii passim.
(6) Cfr. J. Stoecker , De Sophodis et Aristophanis interpretibus
graecis, Ammonae, 1826.
(7; Plut., scoi., io38 : €v òè Tuj iL)TTO|Livri|uaTi. Pac, scoi., 757 : outujc;
eOpov èv ÙTToiuvriuaTi. Ved. la fine degli scolii agli Uccelli (Adn. in
sch.ì, alle Subì ed alla Pace. Vesp., scoi. 542 , 962. Ucc, scoi. 283,
557, 1242.
— 148 —
nella tradizione letteraria ci prova indirettamente il concetto
in cui esse erano tenute presso i critici e gli eruditi , in
tempi difficili per le tradizioni greche. Le sue comedie, an-
cora superstiti, sono lette, commentate, trascritte. E i com-
mentatori delle altre opere della greca letteratura ricorrono
spesso al testo aristofanesco per trovare la conferma di un
fatto, e più spesso per attestare l'atticismo di qualche espres-
sione. È singolare per noi l'espressione antonomastica colla
quale esso è sovente citato dagli antichi commentatori. L'ó
KUJiuiKÓq ci dice , che egli era considerato come il comico
per eccellenza, noto a tutti, T antesignano degli antichi co-
mediografi (i). Di lui si cerca ricomporre la biografia, il ca-
talogo dei drammi, e determinare la caratteristica della sua
poetica. Naturalmente questo studio riesce più difficile e
meno sicuro, quanto più ci allontaniamo dai tempi che die-
dero la comedia antica; e mano mano che si perdono le
opere dei primi commentatori. Si giunge cosi ad un periodo,
in cui, e per mancanza delle fonti autentiche e per difetto
di buon metodo, la comedia aristofanesca è male intesa, e
falsamente illustrata. Tutto riesce oscuro : allusioni, ricordi
storici, tradizioni : l'interpretazione che si tenta è incerta,
insulsa o erronea. Così si formarono le inette compilazioni
sulla comedia attica e sulla vita di Aristofane; cosi ebbero
origine alcune leggende sul comico ateniese, che noi esami-
neremo in appresso.
(i) Ved. Aesch., Prome/., scoi. 365: irapà tùj KUj|aiKUj ; Soph. , Aiax^
scoi. io3, idem. Evkipw., Orest., scoi. 167, id. Jon., scoi. 55o: ...oO
!aé|nvr|Tai koì ó Kiu^iKÓt;. Aristofane è citato inoltre negli scolii ai dia-
loghi di Platone, alle orazioni dei retori, ai poemi di Omero, alle
opere di Luciano, Teocrito, Apollonio Rodio, ecc. Merita qui di
essere menzionato il commentario omerico di Eustazio , ove in più
di 600 passi si ricorda Aristofane coU'espressione ó KuufaiKÓq, oppure:
irapà TLù KUj)uiKuj. Cfr. Bernhardy, Grundriss ecc., II, p. *^i^.
— 149 -
È nullameno necessario pel nostro assunto V esaminare
brevemente questi anonimi documenti e rintracciarvi indizi
a determinare la riputazione di Aristofane nella tradizione
letteraria. Né saranno semplici indizi. Vi ritroveremo te-
stimonianze dirette, e formali giudizi, espressioni non dubbie
sul valore e sulla fama del grande comico.
L'espressione di apicrio^ Texviiriq, che spesso incontriamo
negli anonimi compilatori delle notizie intorno alla comedia,
ci attesta V alto concetto in cui egli è comunemente te-
nuto ( i ) ; come le frasi èvéXajnqjev e èv arraaiv émar]}AO<; ci
affermano la sua superiorità fra gli altri comici contempo-
ranei (2). In un articolo di Andronico irepi raHeujq troiriTujv
Aristofane è evidentemente preposto a Gratino ed a Eupoli
nell'enumerazione che si fa dei poeti èmcrriiuoi della comedia
antica (3). La grazia ed urbanità negli scherzi (f) xàpiq (èv)
ToT? (JKubiuiaacri) è rilevata come il carattere speciale della sua
arte (4), e serve a chiarire il rapporto in che egli sta cogli
altri comici, Gratino ed Eupoli: « ó òè 'Apiffiocpàvri?
TÒv )iié(Jov èXi'iXttKe tuùv àvòpujv x«PC"<TfÌpa" oure yàp TtiKpò(S
Xiav èailv ùjcTTTep ò KpaTTvo(g , ouie x^pi^i? ujcnrep ó Eutto-
Xi? » (5). I suoi biografi ammirano in lui Turbano ed
ingegnoso poeta (eùcpuri<;) (6), che alla comedia vagante in
una forma incerta dà T impronta di un carattere severo e
maestoso (7). Lo chiamano laaKpoXoYuOTaxog AGrivaiuuv Kaì
eOqpuia nàvjac, ùirepaipujv (8] ; e gli danno merito di avere
(i) Prolegg. de Comoed., IV, 20 ; IXa, 5i.
{2) Prolegg. de Comoed., V, 26.
(3) Id. id., X, 5.
(4) Id. id., II, 4.
(5) Id. id., II, 19.
(6) Ved. Bioq 'Apiaxoqp., IV, edid. Meineke.
(7) Id. id.
(8) Ex anonymo Ttepì KOiinujòiaq, I, ed. Meineke. Io ho letto secondo
- 150-
pel primo mostrato nel Cocdo la forma della nuova co-
media , da cui prenderanno le mosse Menandro e File-
mone (i). Fra le comedie aristofanesche le Nubi sono giu-
dicate le più belle ed artistiche (tò bè bpd)aa ir\c, '6\y\<i ttoi-
naeujq KàXXiaTÓv 9aai Kai TexviKuuTaTOv) ; vengono quindi
gli Uccelli (tò òpa.\xa toOto tujv àxav òuvaruDc; TreTToiimévujv),
i Cavalieri (tò òè òpdjna tujv ctTcìv Y.a\(hc, TreTTOirmévuuv) e gli
Acarnesi (tò òè hpà\xa tujv eu crqpóòpa ireTTOirmévujv). Nel giu-
dizio delle Rane , pure favorevolissimo , si indica più spe-
cialmente il carattere del dramma (tò òè òpa|ua tujv cu ttóvu
Kai q)iXoXÓTw<; TreTTOirmévuJv), e si nota come esso fosse
tanto ammirato per la sua parabasi, da meritare Tonore di
una seconda rappresentazione (2). La proporzione in cui
gli antichi scolii ci sono tramandati dimostra però come le
comedie politiche , le quali dovevano sempre più riuscire
difficili ed oscure, sieno meno studiate delle altre : e come
invece il Pluto^ le Nubi e le Rane fossero le più lette ed
ammirate da tutta l'antichità (3). Anche Tordine in cui le
comedie sono tramandate nella tradizione manoscritta, es-
sendo fondato , come osserva il Nicolai , su un principio
pedagogico-estetico , ci può chiarire del concetto relativo
che di esse ebbero gli antichi commentatori, ed è per noi
indizio del loro particolar modo di giudicare. Essi pone-
vano il Fiuto air apice delP arte aristofanesca, e vicino ad
esso le Nubi e le Rane, ordinando le altre nel seguente
modo : Cavalieri, Acarnesi^ Vespe, Pace, Uccelli, Tesmofo-
ria-use, Ecclesia:{use, Lisistrata. Gli Ateniesi contemporanei
la correzione, che il Bentley ha giustamente fatto alla lezione dei ma-
noscritti : laaKpuj XoYiwTaxoq.
(t) Ved. Bio^cit., IV.
(2) Vedi gli argomenti alle comedie.
(3) Nello stesso rapporto stanno i manoscritti delle comedie. Ctr.
Bamberg, De ravenn. et venet. Aristoph. codd., Bonn, i865.
- 151-
non avevano portato egual giudizio circa il valore relativo
dei drammi del loro comico , e neppure noi moderni ab-
biamo potuto accettare la regola stabilita dai commentatori
alessandrini. Per noi la comedia degli Uccelli è il parto
più felice della mente aristofanesca-, e di essa giustamente
sentenziava il Meinecke : « Perfecti autem poetae divinitas
« in nulla alia comoedia tam dare enitet, quam in Avibus,
« in qua quidem comoedia nescio an omnis omnino ars
« comicorum sit consumata » (i).
Resta ora di determinare, dopo avere dimostrata la su-
periorità del Comico ateniese fra i comici dell'antica co-
media, in quale rapporto la critica antica lo ponesse fra i
poeti in genere. A giudizio del Ranke, Aristofane avrebbe
uguagliata la gloria dei grandi poeti, e sarebbe stato pos-
posto soltanto al sommo Omero (2). Siffatta affermazione
è assolutamente smentita da tutte le antiche testimonianze ;
le quali , affermata V incontrastata superiorità del divino
Cieco, sono mirabilmente concordi a concedere a Menandro
la palma fra i comici , e a far seguire- ad esso , dei poeti
drammatici , Euripide. Aristofane da Bisanzio , che studiò
con tanto amore il poeta omonimo, rivela palesemente la
sua preferenza per Menandro, pel quale ha un entusiasmo
che sembra follia -, sicché non teme di collocarlo a fianco
di Omero, il divino poeta dell'antichità (3). E pensando a
lui , arrivava a dire : d) Mévavòpe Kal pie, irÓTepo? àp' u|liujv
TTÓrepov èjLU)Lir|CfaTo ; (4). Il poeta dell'antica comedia avrà po-
tuto essere l'interprete delle aspirazioni e dei bisogni del
suo tempo, il descrittore geniale della società fra cui visse;
(i) Ved. Comic, graec. fragm., II, p. 897.
(2) Ved. De Aristoph. vita comm,, p. LUI.
(3) Ved. Ant. Pai. (Append.), 286.
(4) Ved. Nauck, Aristophanis By^antii gramm. alex. fragm. Halis,
1848, p. 249.
- 152 -
ma Menandro appariva il grande rivelatore degli istinti e
dei caratteri invariabili delT umana natura. E poi : già lo
dicemmo; era destino, che la fama d'Aristofane non po-
tesse accrescersi o acquistar splendore nella posterità. Chec-
ché affermi il Ranke, opponendosi in ciò al Roetscher . il
quale meglio di lui indagò la fortuna della fama aristofa-
nesca , la comedia del nostro poeta si disconosce sempre
più, quanto più s'allontana dai tempi che la produssero;
talché verrà tempo, che se ne fraintenderanno gli intenti e
la natura , né si capiranno più neppure gli scherzi, le fa-
cete invenzioni , per tacere delle allusioni politiche o dei
fatti storici; e si ammirerà di essa, quello che era soltanto
possibile, la forma. Tatticismo (i). Ciò verrà anche meglio
in chiaro col seguito della trattazione; nel tentare la quale
noi fummo ben lontani, indotti da un falso amore delTar-
gomento , dal proporci di dimostrare più di quello che i
fatti, le testimonianze stesse ci avrebbero constatato.
5. È questo il luogo di trattare di alcune tradizioni
leggendarie, le quali hanno stretta attinenza colla fama ari-
stofanesca, sia che riescano a magnificarla o a denigrarla.
Dopo ciò che fin qui abbiamo esposto , giova appena no-
tare, come essa non abbia mai avuto, né potuto avere leg-
gende vere e proprie. Le nostre tradizioni favolose nascono
e si formano nella cerchia ristretta dei commentatori , i
quali o fraintendono il testo, o non avvertono chiara la ra-
gione di certi fatti , o sono indotti facilmente dalla magra
ed incompiuta tradizione letteraria ad ampliarla ed abbel-
lirla. I documenti stessi, che ce le tramandano, sono incerti
e vaghi nella loro forma (qpacrl òè ), e giustificano i so-
spetti sulla veridicità del racconto.
(i) Ranke, Op. cit., p. LIV. Del pari inesatta ù la sentenza del
Bahr, Aristophanes (nella Enciclopedia del Paiily).
— 153 -
Noi sappiamo, per esempio, che la comedia delle Rane
piacque tanto agli Ateniesi, da meritare Tonore di una se-
conda rappresentazione. La notizia era data da Dicearco ,
e il grammatico che prepose T argomento alla comedia, ne
cita la fonte. Aristofane avrebbe dovuto questo felice suc-
cesso al fatto d^aver posto Tarte sua a servigio dello Stato,
cercando per essa di riuscir utile alla città col consigliarle
il buono ed il decoroso. Nei biografi c'è una naturale ten-
denza ad amplificare, specialmente quando si tratta di dar
lode e di abbellire così il proprio soggetto -, l'onore di una
seconda rappresentazione non parve bastevole : si accettò
quindi ben volentieri la voce che diceva , esser egli stato
incoronato di un ramo d'olivo. Nel testo primitivo della
biografia anonima d' Aristofane si diceva soltanto, che per
questi servigi patriottici egli aveva raccolto molta lode (|ad-
XicTia òè èTTr]véeri). L' riTaTtriBri che segue colla oziosa dichia-
razione dei mouvi e la più che inetta ripetizione del toutou
Xàpiv èirrivéG;] mostrano chiaro il carattere della interpola-
zione, e come tale il Bergk la escluse dal testo. Ma in essa e
ne! aqpóòpa aggiunta in un altro codice si tradisce già la ten-
denza all'amplificazione. La notizia dell' incoronazione poi
(ècTTecpavajGTi BaWuJ ■xr\c, lepa^ èXaia*;) ha una curiosa apposi-
zione, della cui inopportunità e ridicolezza occorre appena
far menzione (...òi; v€vó|aicrTai icrÓTi|uo<5 xp^ctmJ (JTecpdvuj); né
in modo meno grottesco si dà ragione del fatto, ascrivendolo
ad alcune parole pronunziate dal poeta nella parabasi (ei-
TTÙJV ÈKeTva ). Quello che con maggior certezza sappiamo
del favore degli Ateniesi pe! nostro comico non combina
colle entusiastiche simpatie, di cui egli, secondo questo rac-
conto , sarebbe stato fatto segno. Essi non riconobbero
sempre i generosi fini del poeta , quando appunto propu-
gnava, secondo il suo modo di vedere, la salute e la pro-
sperità della patria. Del resto, non può non sembrar strano,
- 154 -
che il commentatore , il quale volle conservata la notizia
della seconda rappresentazione delle Rane, non avesse anche
ricordato Taltra tradizione (se vi era da aggiustar fede) più
lusinghiera ed importante, quella delTincoronazione,
Alle stesse fonti molto incerte dobbiamo un' altra leg-
genda, la quale mostra più palesi le tracce dell'invenzione,
e meglio permette d'investigarne la genesi. La lepida fan-
tasia del poeta aveva finto, parlando di sé agli Ateniesi ,
che la sua fama fosse giunta sino al re di Persia, il quale
avrebbe chiesto agli ambasciatori spartani notizia di lui
magnificando V efficacia politica de' suoi consigli {Acarn.,
V. (346-651). Questa finzione dinanzi al pubblico ateniese
non potea far nascere equivoco, né poteva illudere i com-
mentatori più antichi, i quali perciò non hanno bisogno di
notare che il fatto è pura invenzione comica. Quando l'e-
quivoco può nascere , uno scoliasta avverte l'inganno e lo
scopre: toOto bè x^pievieZió^evog q;euòuj(; XéYei [Acarn., scoi.
649). Ma come vengon tempi, che non si vede più chiaro
nelle allusioni della comedia aristofanesca, il lavoro fanta-
stico del poeta è accettato come un fatto vero. Allora con-
viene spogliare il racconto di ciò che in esso appariva meno
verosimile. Come poteva il re di Persia, senza conoscere se
il poeta fosse spartano od ateniese, e contro qual parte ri-
volgesse i suoi sarcasmi, dire, che quella parte nella guerra
avrebbe vinto, che avesse avuto un tal consigliere ? Cosi la
leggenda , accomodata , riporterà soltanto il fatto , che la
fama di lui penetrò in Persia, ove il re avrebbe chiesto di
qual parte egli fosse (i).
Più confusa ed incerta si è la tradizione che troviamo
(i) È curioso, che un tilologo moderno, lo Stoecker Op. cit.),
abbia potuto prendere sul serio la storiella, e trarne argomento della
diffusione della fama contemporanea di Aristofane anche all'estero.
- 155 —
nella stessa vita d'anonimo, e che riguarda le relazioni della
politica ateniese col governo tirannico della Sicilia. Essa
narra, che Platone a Dionisio re di Siracusa, desideroso di
conoscere lo stato d' Atene , mandò le opere di Aristofane.
Questa è una prima versione. Un'altra dice, che mandò le
Nubi, le quali hanno Taccusa contro Socrate. Non si vede
chiaro l'intento che deve aver dato occasione alla leggenda,
né lo spirito che la anima. Volle Platone con quest'atto dar
valore b riprovare l'operato del comico ateniese ? Ma poi :
perchè mandò proprio le Nubi ? Potevano esse giovare agli
studi di Dionisio? Potevano ciò le altre comedie ? Osserva
giustamente lo Zimmermann : esse giovano assai a noi ,
tardi nepoti e lontani da quei tempi; ma allora, a che a-
vrebbero servito? S'aggiunga, che il grande filosofo, pur
ammirando l' ingegno del poeta, disapprovò 1' animosità di
lui contro Socrate, il suo venerato maestro (i). Nella forma
in cui ci è giunta, questa tradizione giustifica tutti i nostri
dubbi e sospetti. Il testo primitivo dovea soltanto riferire il
fatto della richiesta di Dionisio e dell' invio per parte di
Platone dei drammi (ifiv noiricriv) d'Aristofane. L'interpo-
lazione posteriore, ix\\ Kaià ZuuKpdTouq èv NecpéXai<; KaxriTO-
piav, avendo inteso in senso ristretto il termine generico di
TroìricJiq, rese quindi necessaria l'altra aggiunta, che ristaura
il significato generale del vocabolo, riuscendo però prolissa
ed oziosa nel suo contenuto: xai au)LipouXeOcrai xà ò p ol-
ia a x a aùxoO à(JKi"i9évxa |ua6eTv aùxOùv xriv TToXixeiav. Può
non parer strano, che della leggenda non si faccia menzione
nelle vite platoniche di Olimpiodoro e di Diogene Laerzio?
Essa ha forse il suo fondamento nella qualità e nel carat-
tere dei drammi aristofaneschi , e può avere il significato
^i) Ved. Avoiog. di Socrate, e. III.
- 156 -.
di designarli come il più vivo e fedele ritratto della politica
del loro tempo.
In Olimpiodoro troviamo Taltra tradizione, che alla morte
di Platone furono trovate sul suo letto le opere di Aristo-
fane. Il motivo leggendario di designare così rammirazione
che taluno ha sentito per uno scrittore è assai comune. Ma
quello che giova notare , si è che le più antiche testimo-
nianze , riferentisi a Platone, ricordano soltanto il suo a-
more per i mimi di Sofrone (i). Il nome di Aristofane
appare per la prima volta in Olimpiodoro, ove è aggiunto
arbitrariamente , ed ha unico fondamento di fatto il favo-
revole giudizio del filosofo verso il nostro comico, e il par-
ticolare d^averlo introdotto interlocutore nel Si)?iposio.
Ci restano ancora da esaminare due tradizioni, forse più
recenti delle surrecate, ma delle quali sostanzialmente dif-
feriscono pel loro effetto di porre il poeta in una luce in-
arata e sfavorevole. Partono anch'esse da qualche dato reale,
o da accenni non espliciti, e la fantasia vi lavora sopra.
Riferisce Ateneo , che Aristofane scrisse ebbro i suoi
drammi. Ciò si diceva di Eschilo ed anche di Alceo. Pro-
babilmente simili leggende si formano su di uno stesso tipo,
ripetendolo, e muovono primieramente dall'idea di magni-
ficare il soggetto. Si vuol spiegare l'eccellenza di quelle o-
pere poetiche, colTassegnarne l'ispirazione ad uno stato di
eccitazione e di insolita esaltazione dello spirito. Possono
anche derivare da una ristretta e materiale interpretazione
di una frase alquanto equivoca, come pare sia il caso nostro.
Aristofane avevo detto di sé: vn tòv AióvucJov tòv èKGpé-
qjavid |ue {Nubi, v. 5 U)), volendo accennare alla sua giovi-
nezza interamente consacrata alla musa comica, agli agoni
(i) Ved. QuiNTiL.. I. IO, 17. Val. Mass., Vili, 7. Ateneo, XI, (?.
Off. anche Esichio. Vit. Sophr., e Suida, Zi.Oq)piuv.
- 157 -
poetici , ai quali presiedeva il dio Dioniso, Ma il senso
grossolano dei commentatori prende la frase nella sua si-
gnificazione materiale, deteriorata e ne forma una falsa tra-
dizione. Se si pensa poi, che Platone nel Si/uposìo lo aveva
piacevolmente ritratto sotto un carattere di gioviale smode-
ratezza o intemperanza, e gli aveva fatto dire, che anch'egli
era stato di quelli che il giorno avanti avevano solenne-
mente cioncato; e aveva accennato, per bocca di Socrate,
alle sue occupazioni tutte dedite a Dioniso e ad Afrodite
(,..(!) uepl Aióvucrov Kal 'Aqppoòiiriv f] òiaipipri), si avranno
tutti gli elementi per giudicare della genesi e della esplica-
zione della leggenda.
Non era sempre facile anche agli antichi stessi il com-
prendere e l'apprezzare rettamente gli intenti, che il poeta
comico aveva nascosto sotto il velo allegorico o fantastico
delle sue invenzioni. Persino co' suoi contemporanei egli
aveva dovuto spesso fare dichiarazioni insieme a lagnanze.
In seguito la cosa riesce più comune e quasi naturale. Ad
esempio, quasi tutta l'antichità restò colpita dall'irreverente
persecuzione di cui Aristofane aveva fatto segno Socrate
nelle Nubi. Quella comedia pregiudicò tanto la fama di
lui nella posterità ! Non gli si seppe perdonare d'aver de-
riso il più grande savio della Grecia. Né, quando i tempi
si fanno più lontani ed oscuri, riesce facile il riconoscere o
il credere che il Comico ateniese avesse perseguitato in So-
crate i sofisti, e che la sua guerra ardita indetta contro di
lui , non meno che contro Euripide , tendesse soltanto a
scongiurare la rovina imminente di Atene. Si vuol cercare
un motivo materiale che dia ragione del fatto. Aristofane
doveva esser stato corrotto dall' oro dei nemici di Socrate.
Eliano, grande ammiratore della filosofia socratica, non si
perita di fare un omaggio al suo maestro, coli' accettare e
divulgare la calunnia contro Aristofane. Gli par naturale
- 158 —
che egli ricevesse una ricompensa per T opera sua : Eìkò^
he Kttì xP^l^CTiaacrGai ùnèp toutujv 'ApifTioqpdvriv. Ma biso-
gnava anche rivendicare V onore del grande filosofo , e la
leggenda è sempre proclive a queste rivincite. Essa vuol
quasi ristaurare la moralità dei fatti , compiendo in nome
della rettitudine, quello che la realtà e la storia non adem-
pirono. Si disse , che Socrate andò alla rappresentazione
delle Nubi, pur sapendo di esservi fatto oggetto di ridicolo,
e sedette in luogo cospicuo. Il pubblico si divertiva -, gli
stranieri , quasi meravigliando , chiedevano chi fosse quel
Socrate che essi vedevano così deriso sulla scena. Allora
egli, a togliere ogni dubbio o sospetto , si levò in piedi, e
durante la rappresentazione èaTÙj(; èpXéTieTO. Come è bella
la leggenda! In questo sguardo austero e dignitoso c'è tutta
una condanna dei poeti e di Atene (i).
La leggenda ama pure di collegare i fatti, di connettere
cause ed effetti. Non importa , se fra le une e gli altri vi
sono grandi lacune -, essa le colma. Così essa divulgò, che
la condanna del filosofo era stata conseguenza della comedia
delle Nubi. Aristofane avrebbe dovuto avere questo grande
rimorso d' avere sacrificato a' suoi scherzi una vittima sì
cara. Uno scolio molto importante ci dice come fosse opi-
nione divulgata, che nessun odio personale avesse mosso
Aristofane a scrivere la sua comedia (2) \ e la storia ci
mostra, che un intervallo di 23 anni corse fra la rappre-
sentazione e la condanna. Che questi fatti non fossero un
ostacolo alla formazione della leggenda, non v'ò chi possa
maravigliarsene. Fa piuttosto meraviglia il vedere critici
moderni accettare e dar peso alla favola, non altrimenti che
I
(i) Eliano, Var. Hist., II, i?.
(2) Nubi, scoi. 96.
— 159 —
fosse un fatto accertato (i). Il racconto di Eliano , cosi
ricco di particolari tendenti a dargli un colorito omogeneo
e naturale; ispirato da tanta manifesta animosità contro il
nostro comico, di più in opposizione colle antiche testimo-
nianze, non dovrebbe poter illudere alcuno.
Tutte queste tradizioni riflettono per così dire la storia
della varia fortuna della fama aristofanesca. DalP apoteosi
essa scende giù giù sino all'infamazione. Aristofane è dap-
prima il generoso cittadino, che provvede al bene della città,
la quale riconoscente lo fregia di quell'alloro, di che onora
i grandi liberatori dello Stato; poscia è il vile mercenario,
che Toro di due abietti accusatori induce a diffamare un
nome, che è gloria della patria stessa.
6. Giova continuare le ricerche, seguendo il corso sto-
rico della tradizione letteraria. La Grecia è decaduta, è
vero, ma la ricca eredità della sua cultura non si smarrisce
o si sperde; passa bensì dalForiente all'occidente, senza che
s'interrompa il filo della continuità. Le due correnti, greca
e romana, si mescono, si confondono, e proseguono così il
loro cammino nel più vasto corso della civiltà. Studiamo
attraverso ad esse le vicende del nome aristofanesco.
Senonchè a prima vista, sembra che pel caso nostro spe-
ciale si sia rotto e perduto ogni filo di tradizione. Le let-
tere latine al loro apparire ci si mostrano bensì adorne del
coturno e del socco. Ma sulla scena romana troviamo Eu-
ripide e Menandro , non già Sofocle ed Aristofane. E in
seguito, anche fuori del teatro , nel recesso tranquillo dei
cultori delle muse , Menandro è quello che ne occupa le
menti. E Menandro, che Orazio si prescieglie a compagno
del viaggio, quando chiede alT ameno soggiorno della sua
i) Ved., ad es., Deschanel, Études sur Aristophane, p. i52, i54Sgg.
— 16U -
villetta di Tivoli il riposo e lo svago dalle clamorose brighe
della città (i); a Menandro si rivolge Properzio, per averne
refrigerio alTardente passione, che Tingratitudine di Cinzia
rende infelice (2). Lo stesso Orazio, quando vuol pungere
i depravati costumi del suo tempo , e pensa ai poeti casti-
gatori dell'antica comedia attica, non alla musa aristofa-
nesca , ma air eupolidea chiede V invettiva per la sua sa-
tira (3). Menandro ha una folla di successori nel teatro
latino: Nevio, Cecilio, Plauto, Terenzio, Trabea, Afranio;
Svetonio ci dice, che Augusto si dilettava molto del teatro,
anche della comedia antica, che egli spesso offrì ai pubblici
spettacoli (4). Ma bisogna credere col Welcker, che proba-
bilmente colla denominazione di comoedia vctus sia desi-
gnata la comedia antica greca, specialmente di Menandro,
in contrapposto alla comedia romana posteriore (5). Nello
stesso senso va intesa la denominazione di àpxaia KU))aujbia
di cui era attore V ateniese Aristomene, che, a quanto ri-
ferisce Ateneo, Adriano teneva sempre presso di se, chia-
mandolo pernice attica ('ATTiKOTrépòit) (6). Anche più tardi,
i drammi che generalmente si leggono, sono quelli imitati
o tradotti dalla nuova od anche dalla mezzana comedia.
Gellio parla chiaro in proposito: « Comoedias lectitamus
« nostrorum poetarum sumptas ac versas de Graecis, Me-
(i nandro aut Posidippo aut Apollodoro aut Alexide et qui-
« busdam item aliis comicis (7) ». Si può dire in generale,
(i) Sat.^ II. 3, V. II.
(2) Eìep., Ili, 21, V. 26-28.
(3) Sat., II, 3, V. 12.
(4) SvET., e. 43 e 89.
(5) Welcker, Die Griechisch. Tragodien , Bonn, 1839-1841, III,
p. 1409.
(6) Aten., Ili, e. 7S. Cfr. Welcker, Op. cit.
(7) Gell., Noct. Att., Il, 23.
— 161 -
che i Romani hanno poco interesse per la grande lettera-
tura greca del buon tempo, fatta una sola eccezione per
Euripide. La comedia antica poi è rimasta un fossile del
vecchio strato terroso, in cui l'ha collocata la storia. Le-
gata al tempo che la produsse, non poteva infatti trasmet-
tersi od essere imitata. La sua sorte è dunque fatale, in-
dipendente dal suo valore intrinseco e reale. E con questo
criterio, che va giudicata la sfavorevole condizione della
fama aristofanesca nella posterità. Qualche po' dell'eredità
dell' antica comedia si può appena dire trasmessa ai sa-
tirici romani -, a Lucilio (i), ad Orazio (2), Persio , Gio-
venale Le nostre ricerche ci dimostrano, che in tutto il
periodo romano Aristofane è poco letto, poco studiato, né
sempre inteso. Si ricorda un Arìstophanes ^ che fu poeta
veteris comoediae; ma da queste stesse denominazioni di-
chiarative, dalle scarse e magre citazioni si vede, che poco
lo si conosce. Nelle opere di Cicerone troviamo appena
cinque luoghi in cui o si cita Aristofane o si allude alla
sua comedia. Orazio lo nomina una sola volta insieme agli
altri poeti, quorum comoedia prisca... est. Dionigi d'Ali-
carnasso cita più d'una volta il tetrametro anapestico ari-
stofaneo, poi riporta un vocabolo aristofanico, e lo giudica
brevemente, citandolo insieme a Gratino e ad Eupoli. Una
sola volta è citato da Diodoro Siculo, da Vitruvio, da Vel-
lejo Patercolo , da Persio. Seneca fa parlare Socrate , il
quale dice di avere una volta offerto materia di scherzo ad
Aristofane, e di essere stato mordacemente assalito da tutti
i comici di quel tempo. Asserisce altrove Seneca, che il fi-
losofo prese quelle facezie in buona parte e ne rise. Plinio
nella sua Storia Naturale, a proposito del baccar, radice
(ij HoRAT., Sat., 1, 4, 6.
(2; Sat., 1, IO, 16-17.
T^ivisla di teologia ecc., X.
- 162 -
da cui si traeva unguento, cita la testimonianza di Aristo-
fane, priscae comoediae poeta ; e a proposito dello scandix
ricorda lo scherzo aristofanesco contro Euripide, quale figlio
di un' ortolana, che non vendette mai un buon cavolo. La
sola volta che Valerio Massimo lo menziona, lo fa inesat-
tamente, attribuendo a Pericle una sentenza , che è invece
pronunziata da Eschilo nelle Rane. Quintiliano si vale due
volte della testimonianza di Aristofane , e lo giudica nelle
sue Istituzioni. Plinio Cecilio allude indirettamente in una
sua lettera alla qualità della comedia attica antica con spe-
ciale riguardo ad Aristofane; e in un'altra, citati alcuni
versi di Eupoli, riporta il noto verso degli Acarncsi che si
riferisce a Pericle. Copiose menzioni d' Aristofane e cita-
zioni di versi delle sue comedie troviamo in Plutarco, il
quale inoltre scrisse un confronto fra i due rappresentanti
deirantica e della nuova comedia, che considereremo a suo
luogo. Né sempre quelle citazioni sono accompagnate dal
nome del comico o del dramma da cui sono tratte, ma per
lo più fatte in generale e colla denominazione generica :
u)<; 01 KiJU)iiiKol Xéfouai, oppure: Kaxd ye foijq Tf|(S àpxaiacg kuu-
fiiuòiaq TTOiriTà(;. Due citazioni riscontriamo in Dione Criso-
stomo, in una delle quali si dà un sommario giudizio dei
comici dell' antica comedia. Elio Aristide menziona due
sentenze aristofanesche, una riguardante Pericle, V altra la
garrulità dei poeti contemporanei del nostro comico. Zenobio
ci conserva tre proverbii tratti dalle comedie. Appiano ri-
porta la sentenza, che prima bisogna saper trattare il remo,
e poi reggere il timone. Aulo Gelilo cita le 'OXKdòeq, e in
quattro luoghi riporta versi delle Rane, e delle Tesmoforia-
■yiise. Galeno ha tre citazioni aristofanee:, assai più se ne tro-
vano in Erodiano. Pausania una sola volta ricorda Aristo-
fane, come autorità. Luciano in più passi allude a lui ed ai
comici del tempo-, in un viaggio aereo ricorda Niibicuciilia,
— 163 —
e altrove riporta versi degli Uccelli. In quattro capitoli della
Storia degli animali di Eliano , a proposito delle varie
specie di uccelli, si ricorre all'autorità o alla menzione ari-
stofanesca nel dramma che da essi s' intitola. Nella Varia
Istoria invece si cita Aristofane per le sue rappresentazioni
di tresche muliebri, e si parla a lungo della persecuzione
contro Socrate e della comedia delle Nubi. Ateneo ha quasi
duecento citazioni di Aristofane, con versi dei varii drammi -,
ricorda V Aristofane platonico, e dà al nostro poeta T ap-
pellativo di riòicrTO(;. Nella copiosa messe epigrammatica
dtW Antologia abbiamo, tolto il platonico, due soli epi-
grammi dedicati ad Aristofane : 1' uno di Diodoro , T altro
di Antipatro di Tessalonica. Diogene Laerzio accetta la tradi-
zione di Anito istigatore di Aristofane contro Socrate, e in
due luoghi cita versi delle comedie. In Sesto Empirico è
citato una volta sola. Clemente Alessandrino di tre citazioni
ne ha una preziosissima, la quale ci conserva un lungo
frammento delle seconde Tesmoforia'{iise. Longino ascrive
il nostro comico nel numero di quei poeti, che non disposti
da natura ad elevarsi nella creazione sino al sublime, rie-
scono nullameno non di rado a raggiungerlo. Giuliano im-
peratore ricorda i tipi degli schiavi e dei vecchi taccagni,
introdotti sulla scena dalla comedia antica , e parodia il
primo verso degli Acarnesi nel seguente modo:
c( òdKVO)aai òè Kai òéòiiTluai rriv èjuauxoO Kapòiav ».
Anche Libanio sofista menziona nelle sue epistole le mal-
dicenze aristofanesche contro Socrate, e più volte allude
celatamente agli scherzi del nostro poeta , senza riportare
versi delle comedie. S. Girolamo nel Chronicon determina
il periodo dell' attività del nostro comico sulla scena. Eu-
napio s'accorda anch'esso con Eliano per ciò che riguarda
— 164 —
la persecuzione di Socrate. Per questioni metriche due volte
lo citano Marco Vittorino e Attilio Fortunaziano ; mentre
Terenziano Mauro celebra in tre versi latini la fecondità e
varietà dei metri, pei quali Aristofane parve emulare la
musa archilocheii :
e Aristophanis ingens emicat soUertia,
Qui saepe metris multiformibus novus
Archilochon arcte est aemulatus musica ».
Achille Tazio commemora le salse arguzie aristofanesche,
introducendo un sacerdote, che egli ne dice felice imitatore,
E Olimpiodoro, scrivendo la vita di Platone, ne fa un as-
siduo lettore di Aristofane , le cui opere si sarebbero tro-
vate sul letto del filosofo alla sua morte. Nel suo Flori-
legio Stobeo accoglie un discreto numero di luoghi delle
comedie, sebbene assai più abbondante sia la parte fatta a
Menandro e ad Euripide. Infine, Aristofane è messo a pro-
fitto dai grammatici e dai lessicografi-, da Polluce, Ero-
diano, Esichio, Macrobio, Arpocrazione e Frisciano.
Aristofane dunque vive in tutta la lunga tradizione greco-
romana. Il periodo, in cui la sua memoria è più viva , è
quello dei retori e dei sofisti. Comunemente lo si ricorda,
come quegli che fu l'accusatore di Socrate, e il persecutore
di Euripide e delle donne. Le Nubi e le Rane sono quindi
le comedie di lui più spesso menzionate; il Fiuto è la più
facile e la più intesa. Il contenuto dei drammi per lo più
resta oscuro-, la forma invece è costantemente ammirata e
celebrata-, grazia e purezza d'atticismo, varietà di forme
ritmiche e metriche. Uno dei tratti che resta famoso e che
si cita spesso è quello in cui il poeta ha rappresentato Pe-
ricle V olimpico, che della sua eloquen/a folgora, rintuona,
sommove tutta l'Eliade [Acarn., v. 53 1):
— 165 —
ficripaiTT', èppóvTtt, HuveKÙKa rfiv 'EWóba
Di imitazioni aristofanesche, nel senso ampio e speciale
in cui va presa questa espressione, possiamo citare due soli
esempi : la comedia di Vergilio Romano, di cui ci ha ser-
bato memoria Plinio il Giovane, e il Timone di Luciano,
esemplato sul Pliito. Nelle altre opere di questo scrittore
si possono trovare molti riscontri colle comedie aristofa-
nesche ; imitazioni di parole o locuzioni, di invenzioni e di
pensieri. Anche Luciano deride gli dei forestieri, e intro-
duce barbari e peregrini che parlano nel loro gergo, e de-
scrive nelTorco una gara fra Alessandro ed Annibale per
il trono da assegnarsi al più forte (i). Infine Cicerone parla
di una lettera di suo fratello Quinto: «^ Aristophaneo modo
valde meheixule et suavem et gravem {Epist. Ili, i, 6).
Esaminata la tradizione, dobbiamo ora occuparci parti-
colarmente dei giudizi, che sono per noi la parte più impor-
tante. Chiediamo ai critici dell' antichità la determinazione
del concetto e del valore poetico di Aristofane-, ci dicano
essi qual grande poeta sia stato Aristofane fra i comici
greci.
7. Cicerone {De Leg., II, i5) cita Aristofane e lo
chÌ3imsi faceiissimus poeta veieris comoediae. Egli lo leg-
geva e lo preferiva ad Eupoli {Ad Ait.^ XII, 4). Un altro
suo giudizio possiamo riconoscere nelle parole sopra citate,
con cui qualifica la lettera scrittagli dal fratello Quinto :
Aristophaneo modo valde meìiercide et suavem et gravem.
Senza citare Aristofane, egli determina altrove {De 0^\,I,
29) assai esplicitamente il carattere delT antica comedia,
(1) Ved. ZiEGELER, De Luciano poetariim indice et imitatore, Got-
tingae, 1872.
- 166 —
quando dice che quel geniis ìocandi è elegans , itrbanum,
ingeniosum, facetiim.
Un epigramma di Diodoro assegna al poeta il titolo di
divino, e lo celebra come il maggiore rappresentante della
antica comedia (i):
GeToq 'ApKJTOcpdveug ùtt' i\xo\ véku?" ei liva TreuBri
KUJ|LiiKÒv , àpxairi<; \xva.\xa xopocTraairiq.
Naturalmente, se un epigramma non si può prendere per
un formale giudizio, possiamo però riconoscervi l'espres-
sione d'un determinato concetto.
Dionigi d' Alicarnasso , parlando della comedia antica
[Ars Ret.y XI) cita insieme ad Aristofane Gratino ed Eu-
poli, e ne riconosce sotto la forma comica e faceta, la se-
rietà e l'efficacia: «r] òè Kuujuujòia òri rroXiTeuetai èv ToTq òpd-
l-iacri Ktti qpiXoaocpeT, f] irepi tòv KpaiTvov Kaì 'Apiaiocpàvriv Kaì
EuTToXiv , TI bei Kttì Xéfeiv ; r\ yàp xoi Kuu|aiuòia aùif) , tò yc-
XoTov TTpocTTriaajuévìT, qpiXoaocpeT ». Nella Censura rcterum
scriptorum, là ove giudica dei tragici , di Eschilo, di So-
focle e di Euripide, si può dire, che sfrutta la critica ari-
stofanesca delle Rane: sebbene già vi si riveli il nuovo in-
dirizzo dei tempi, e il predominio del gusto, che preferiva
Euripide fra i tragici, e Menandro fra i comici (2). Ivi
parla pure dei comici in generale, ma con molta determi-
natezza di espressione: « eìai ye kqi xoxc, vormaai KaBapoì
Kaì aaqpeic; Kaì ppaxeTi; xaì )LieYaXoTTpeTTei(S Kaì òeivoì Kaì iìGikoì ».
Antipatro di Tessalonica, come Diodoro, celebra in un epi-
gramma, ma con maggior enfasi, l'opera aristofanesca, che
esso pure chiama divina (GeToq 7TÓvo<g): e nella cui lettura
(1) Anth. Fa/., VII, 38.
(2) Ved. Top. cit. sotto questi nomi: Aeschylus, Sophocles et Eu-
ripides.
— 167 —
gli par di sentire ancor viva la voce fiera del poeta , ab-
bellita dalle grazie ( i ) :
BipXoi 'ApicrTOcpàv€u<;, OeToi; ttóvoi;, alaiv 'Axapveùq
Kiaaòc, erri xXoepf)v txovXvc, è'aeiae KÓ|uriv.
nviò' oaov Aióvu(Jov è'xei cre\i<g, ola òè |u09oi
i^XeOaiv, cpo^epoiv TTXri9ó)uevoi x^Pifoiv.
tu Kttì 9u)aòv apicTTc, Kaì fi9eaiv 'EWàòoc, T(Ja
KUJiLiiKè. Kaì cTTÙHaq àEia Kaì jeWuaq.
Notevole Tallusione delle grazie, di cui l'epigramma plato-
nico rappresentava Timagine personificata, e che è la qua-
lità caratteristica avvertita concordemente dagli ammiratori
del nostro comico.
Due versi di Persio, nei quali egli ricorda i poeti antesi-
gnani deir antica comedia, possono dimostrarci che anche
il satirico romano avvertiva la profonda serietà delT opera
di Aristofane , il cui nome accompagna della qualifica di
praegrandis distinguendolo cosi a preferenza delF audace
Gratino e dello sdegnoso Eupoli (2).
'( Audaci quicumque afflate Gratino,
Iratum Eupolidem praegrandi cum sene palles ».
Delle tre menzioni che riscontriamo in Quintiliano, una
sola ci dà un esplicito giudizio della comedia aristofanesca,
sebbene subordinato al criterio con cui nel decimo libro
delle Institityioni giudica delle opere antiche : consideran-
dole cioè sotto il rapporto della maggiore o minore loro
opportunità a formare il vero oratore. Ad ogni modo, quello
l'i) Anth. Pai., IX, 186.
(2) Sat., 1.
— 168 —
che egli dice della comedia antica, è giusto, e concorda col
sentimento di Cicerone : « Antiqua comoedia cum sinceram
« illam sermonis Attici gratiam prope sola retinet, tum fa-
ti cundissimae libertatis, etsi est insectandis vitiis praecipua,
« plurimum tamen virium etiam in ceteris partibus habet.
« Nam et grandis et elegans et venusta, et nescio an ulla...
« aut similior sit oratoribus aut ad oratores faciendos aptior.
(( Plures eius auctores-, Aristophanes tamen et Eupolis Cra-
" tinusque praecipui (i) ».
Altrimenti dell' opera aristofanesca ebbe a sentenziare
Plutarco, il quale del resto dimostra di conoscere diffusa-
mente le produzioni della comedia antica. In generale, egli
non vede di buon occhio questi poeti, appunto perchè non
si sa far ragione del carattere e della natura di essi (2). Egli
ci può esser testimonio del come a quel tempo già si fra-
intendessero o mal si apprezzassero le tradizioni greche,
delle quali sfugge il vero senso. Egli giudica Aristofane da
un falso punto di vista-, non tien conto delle ragioni sto-
riche, e lo raffronta con Menandro, che dall'età sua era te-
nuto per il più gran poeta comico. Posto in tal modo , il
confronto non reggeva, e il risultato non poteva essere che
erroneo ed ingiusto. Ma alla lor volta questi attacchi Plu-
tarchiani ci attestano vieppiiì la rinomanza di Aristofane ,
il quale si poteva dunque in certo modo creder degno di
esser paragonato a Menandro. La critica di Plutarco ci è
conservata soltanto in un'epitome, ma pure giova esami-
minarla brevemente (3). Essa riguarda quattro capi prin-
(1) List. Orai , X, i, 65.
(2) Tracce dell'animosità di Plutarco contro i comici si possono
vedere: Vit. Perici., e. i3; Themist.. e. 19; De Herod. malign.,
e. 6; De Gloria Ath., e. G.
(3) De Comparatione Aristoph. et Menandri epitome (Opere morali,
II, 1039),
— 169 —
cipali. Primo, Tespressione di Aristofane è inetta (cpoptiKii),
scurrile (GujueXiKri) e rustica (pdvauao(;) -, piena di antitesi e
di omoioteleuti e di epiteti- priva di un carattere peculiare
(1, 2-3). Secondo: il suo dialogo è sconveniente, e non ac-
comodato ai singoli caratteri, che il poeta vuol rappresen-
tare (I, 6). Terzo : in ragione di questi difetti il poeta non
potè piacere né al popolo, né essere tollerato dai saggi.
Giacché la sua poesia, a mo^ d'un^etéra invecchiata e senza
vigore, che poi vuol far da matrona, non riesce per la sua
insolenza accetta ai più, ed é abbominata dagli uomini gravi
per la sua impudicizia e malizia (III, 3). Infine: mentre i
sali comici di Menandro sono vivaci e graziosi e quasi nati
dallo stesso mare, da cui sorse Venere*, quelli di Aristo-
fane sono amari ed aspri, acri, mordenti, esulceranti (IV,
2). Poiché l'astuzia ei non la ritrae urbana, ma maliziosa
(tò... iravoOpYov, où ttoXitikòv, àXXà KaKÓnOei;); la rustichezza,
non semplice, ma stolta (tò ctTpoiKOv, oùk àqpe\è(;, aWà nXi-
Giov) ; gli scherzi non suscitano il riso , ma son degni di
essere derisi (tò y^^oiov, oò Traifviujòe?, àXXà KaTaTéXacrrov)',
infine , la passione amorosa non é dipinta nella sua gaia
ilarità, ma nella sua libidinosa intemperanza (tò èpujTiKÒv,
oùx iXapòv, àXX' àKÓXacTTOv). Talché conclude: oùòevl... ó av-
BpujTTO? èoiKe juETpiLu TÌiv TTOiiiaiv Tefpa^évai, dXXà Tà |uèv aì-
axpà Ktti àaeX-fiì Toi^ àKoXacTTOKg, Tà pxdcrqpriiua òè Kai TiiKpà
ToT(S paaKdvoig Km KaKoiiGecTiv (IV, 4).
È curiosa la difesa che del giudizio plutarchiano fece
nel secolo XVI Nicodemo Frischlino (i). Egli ne ribatte
capo per capo le accuse , con mólta indipendenza di giu-
dizio e con un tono giocondo e quasi scherzoso. Rico-
nosce, che nel linguaggio aristofanesco c'è l'elemento scur-
(i) Defensio Arìstophanis cantra Plutarchi criminationes (nell'ediz.
di Aristofane, Francf. ad M., i586/.
— 170 -
rile ed osceno -, ma lo trova opportuno e conveniente al
carattere del personaggio che il poeta vuol rappresentare.
E s'adatta del pari all'indole dell'antica comedia, la quale
tende a destare ilarità e piacevolezza. Di più osserva, che
quello stesso Menandro tanto glorificato dal suo ammira-
tore, non va esente dalla taccia di poeta scurrile, come lo
prova la sentenza di Plinio , che lo chiama omnis Lii-
xuriae interpretem. Plutarco avrebbe notato che la di-
zione aristofanesca è insieme tragica, comica, fastosa, pe-
destre, oscura, volgare, verbosa ed inetta. 11 Frischlino non
si spaventa di questa atroce conclusione {atrocem in illuni
clausidam), né la confuta seriamente, ma soggiunge : Bona
pe?'ba, Plutarche; nani talem esse dictionetn Aristophanis
nunqiiani probabis. Plutarco aveva rinfacciato ad Aristo-
fane la sconvenienza dei caratteri da lui attribuiti ai varii
personaggi-, notando, doversi il re rappresentare fastoso e
superbo; l'oratore facondo-, la donna, semplice-, l'uomo vol-
gare, umile; il mercante, protervo ed insolente. Ma il Fri-
schlino confuta r assolutezza eccessiva della sentenza con
queste parole: Prinium prò Aristophane respondeo, non
omnibus regibus affingendum in comoedia fastuni , cum
multi sunt mansueti, clementes ; sed illis tantum qui tales
sunt Deinde simplicitatem in tnulierum orationibus
recte neglcxit Aristophanes, cum foeminae sua natura non
sint simplices, sed duplices, callidae et versutissimae. Poi
gli contende, che Aristofane non godesse favore al suo
tempo. Anche il figurare carattere volgari era l'intento del
poeta stesso, il quale li ritraeva secondo la realtà che avea
dinanzi. Aristophanes veras ^ non Jlctas {sicut Menander)
personas in scenam producebat .
Una migliore confutazione della critica di Plutarco si po-
trebbe facilmente fare coi veri argomenti tratti dalla diver-
sità di tempi, di tradizioni, di criterii. Ma non mette conto
— 171 -
l'intrattenervisi maggiormente. N.otiamo piuttosto, come di
qui incominci a formarsi nella tradizione un sinistro con-
cetto sulla natura e sulP operato del nostro poeta. Dione
Crisostomo già non vede in questi comici antichi , che
vili adulatori del popolo, costretti a nascondere i loro detti
mordaci sotto forme ridicole; a quel modo, che le balie
aspergono di miele la tazza , per far tranguggiare 1' amara
bevanda ai fanciulli (i). Di tal guisa essi riescono a re-
care più danno che utile alla città : loiTapoOv è'pXaTTTOv
OÙX riTTOv TiTTep ÙjqpéXouv, àYepuJxicc? Kai aKuu^iudTUJV Kai puj|uo-
Xoxia? àvamiaTTXdvTeq xfiv ttóXiv (2). Anch^egli ha delle sim-
patie per Menandro, la cui grazia e la cui pittura univer-
sale dei costumi dice assai più degna della terribilità dei
comici antichi (3). Eliano riuscirà ad infamare il nome
di Aristofane, divulgando l'opinione, che egli sia stato un
prezzolato di Anito e di Melito (4). Lo chiama puujuoXóxov
ctvòpa Ktti feJ^oTov òvia Kai eivai cTTreùbovra: e si persuade,
che ricevesse una mercede per T empia accusa , aùiòv òè
Trévriia d)Lia Kai KaTÓpaiov òvia.
Presso gli scrittori latini prevale un miglior concetto.
Plinio il giovane ci dà notizia d'un poeta, amico suo, Ver-
gilio Romano, imitatore dell'antica comedia attica: e indi-
rettamente ci mostra come egli ne apprezzasse la forza, la
grandezza, il lepore. « Atque adeo nuper audivi Vergilium
« Romanum paucis legentem comoediam ad exemplar ve-
« teris comoediae scriptam tam bene, ut esset quandoque
« possit exemplar Non illi vis, non granditas, non su-
« blimitas, non amaritudo, non dulcedo, non lepos defuit »
(i) Orat.. XXXlll, 9.
(2) Loc. cit.
(3) Orat., XVIIl, 35.
(4) Var. Hist., II, Ti.
— 172 -
Aulo Gellio s'accorda pienamente con Cicerone, e in due
passi segnala la vena faceta del comico ateniese, chiaman-
dolo/(3!ce/m/m«5 poeta (l, i5), e facetissimus comicorinn
(XllI, 25).
Fin in Luciano, ammiratore non dubbio della poesia ari-
stofanesca, si trova traccia di quella tradizione che aveva
messo in mala luce l'operato di lui, là ove chiama Eupoli
ed Aristofane òeivoù<g avbpac; èTTiK€pTO|ufìaai xà creiuvà Kaì
xXeudcTai xà òp9LÌj(; exovxa (i). Ma ne differisce essenzial-
mente nel giudicare il valore intrinseco di quelle comedie,
le cui fantasie dovevano così favorevolmente acconciarsi
alla sua indole vivace ed immaginosa. In quel fanta-
stico viaggio attraverso ad ignote regioni esso si trova un
giorno trasportato vicino alle nubi : dove egli ed i suoi
compagni si meravigliano di vedere la città di Nubicuculia.
A quella vista si ricorda di Aristofane, poeta saggio e ve-
ritiero, di cui temerariamente si disconoscono le veraci pa-
role : àvòpò? aocpoO Kaì àXri6o0q kui laàxrjv ècp' ole, eYpaH'^v
àTTiaxoufiévou (2). Veramente egli qui non parla in sua per-
sona, né quelle parole sono scevre da un senso faceto , il
quale peraltro non ci pare infirmi la sostanza del concetto.
Ne l'avere il poeta deriso Socrate è argomento che presso
lui valga a metterlo in mala parte \ che anzi ne lo scusa,
notando aver esso fatto ciò nelle feste dionisiache, quando
lo scherzo era lecito, e lo stesso dio della comedia si com-
piaceva di ridicole rappresentazioni (3). Gli Uccelli ed il
Fiuto sono le comedie che egli mostra di prediligere -, e
altrove vedemmo come ne traesse materia d'imitazione.
Se si richiamano qui i fuggevoli giudizi che altrove ac-
(1) Bis Acc. 33. Cfr. Verae Hist.. 1, 29.
(2) Ver. hist., 1, 29.
(3) Pise, 25.
- 173 -
cennammo, di Ateneo, di Longino e di Terenziano Mauro,
nonché le vaghe espressioni dei grammatici, che encomiano
nell'opera aristofanesca la grazia attica e la purezza della
locuzione, avremo dinanzi tutti i giudizi che la critica an-
tica in diversi tempi e per diversi scrittori e sotto forme
diverse portò sul comico ateniese. A dir vero, non abbiamo
una messe ricca, né in tutto buona. Quei giudizi sono su-
perficiali, parziah , contradditori. Ci dicono, che Aristofane
fu poeta grave, facetissimo , che ebbe rette intenzioni, o fu
terribile derisore d' ogni cosa sacra-, che fece male a per-
seguitare Socrate ed Euripide. Sono giudizi regolati da vari
criteri, che non sempre penetrano le intime ragioni dell'an-
tica comedia, né sempre fanno ragione dei tempi, o si sot-
traggono airinfìuenza del gusto dominante. Quintiliano con-
sidera Aristofane sotto un rapporto troppo speciale e ri-
stretto -, Plutarco lo giudica in un raffronto che di per sé
non regge-, Eliano si rivela animato da sentimenti perso-
nali in suo disfavore. Chi lo comprese meglio fu Luciano;
e i giudizi piìi equi sono forse quelli di Cicerone e di Plinio.
Vin. Esaurita la ricerca delle fonti letterarie, resta a
vedere ciò che nel campo dei monumenti dell'arte possiamo
raccogliere per la fama di Aristofane. Tanto le opere pla-
stiche che a lui fossero dedicate , quanto quelle che da lui
avessero tratto ispirazione o motivo della creazione artistica,
formano materia che riguarda da vicino il nostro argo-
mento.
Se non che anche qui la scarsità dei nuovi documenti ci
dimostra, concorde in ciò colla tradizione letteraria, la sfa-
vorevole condizione della rinomanza del nostro comico. Né
vale il dire , che cotesti sono argomenti negativi -, poiché,
come già bene avvertiva il Leopardi , sebbene essi « siano
per lo più di scarso peso, ove si tratti di rinomanza non è
- 174 -
COSÌ ». Mentre sappiamo, che ai tre grandi tragici ed ai
rappresentanti della nuova comedia furono con decreto pub-
blico dedicate statue nel teatro ateniese; mentre ancora am-
miriamo, salvate dalle rovine del tempo e degli uomini, le
grandiose effigie di Sofocle e di Euripide, di Menandro e
di Posidippo; di Aristofane né abbiamo notizia di monu-
menti a lui consacrati, né fino a questi ultimi anni si co-
nosceva di lui ritratto alcuno. Che non vale la pena di ri-
cordare la gemma raffigurante un uomo calvo incoronato
d'edera e con ape in bocca, nella quale arbitrariamente si
volle riconoscere T imagine del nostro comico (i). Invece
con qualche fondamento si credette di avere V effigie di lui
neir erma medicea, che nel plinto ha scolpita in tre righe
riscrizione :
APIITOcDANHI
OlAinniAOY
A0HNAIOI
Senonchè, né l'epigrafe parve autentica , e la testa senza
dubbio non apparteneva all'erma, essendovi evidentemente
sovrapposta. Fu quindi respinta dal Winckelmann ; e tut-
toché il Welcker abbia poscia voluto riconoscerla per buona,
conviene annoverarla fra le erme ancora dubbie. 11 Dut-
SCHE (/!;//. MarmorbildìV.^ Ili, n° 420) la chiama Erme des
sogeniiantcn Aristoplianes, senza punto accennare alla proba-
bilità di quella denominazione. Anche nel museo Capitolino
(n° 3()) trovasi un busto , che é falsamente attribuito ad
Aristofane. Lo stesso devesi dire dell'erma di Villa Albani
(n° 85) , nella quale il \\^elcker, pur riconoscendo la poca
[i) Cfr. Winckelmann , Alte Denkm. d. Kitnst., II. p. 114, tav. 191.
- 17o —
espressione del ritratto , volle trovare una rassomiglianza
generale ad Aristofane (i). Ma il Welcker stesso fu poi il
felice scopritore di un' erma bicipite proveniente dal Tu-
sculo, la quale ci presenta le effigie di Aristofane e di Me-
nandro, congiunti assieme, quali maggiori rappresentanti di
due diversi generi di poesia comica. Egli stesso la pubblicò
e la illustrò negli Annali dell Instìtuto archeologico di
Roma (a. i853, p. 25o-266, mon, V, tav. 55), e nelle Alte
Denkmdler (V, p. 40-55). Trovasi nel museo di Bonna ,
ed è così descritta dal Kekulé nel relativo catalogo [Das
Akad. Kiinstmus. ■{U Bonn, Bonn, 1872) sotto il n° 688:
« Erma di Aristofane e Menandro. Dono di Fr. G. Wel-
« cker , marmo greco, alto 0,26 m., trovato a Tusculo.
« Restaurati sono ambedue i nasi e parte delPerma « .
Alla determinazione welckeriana dell' erma si oppose lo
Starck , il quale prendendo argomento dall' avere V artista
male ritratta la calvizie di Aristofane, e citando alcuni passi
antichi riferibili a Gratino, volle vedere l'effigie di quest'ul-
timo nel busto contrapposto a Menandro (2). Ma all'ob-
biezione dello Starck si rispose facilmente, dimostrando,
come l'epiteto di cpaXaKpó?, che Aristofane, scherzando, dà
a sé stesso, non dovesse prendersi in un significato assoluto
e proprio, ma nel senso d'uno, che ha pochi capelli sulla
fronte , e che già incomincia a diventar calvo (àvacpdXav-
T0(; (3). Se poi si osserva, che l'artista non si occupò molto
di riprodurre accuratamente i capelli di quelle due teste, e
forse nell'una volle anzi coprire il difetto naturale, si vedrà
quanto ancor più scemi il peso dell'obbiezione di quell' ar-
(i) Ved. Morcelli-Fea-Visconti, La Villa Albani descritta, Roma,
1869, n» 85 (incognito).
(2) Arch'àol. Zeitung, iSSg, p. 87.
(3) Ved. la risposta stessa del Welcker, Arch'àol. Zeitung, 1860,
p. IO sgg.; Alt. Denkm., V, p. 55 sgg.
- 176 —
cheologo. Ma poi si domanda il Friedrichs : con chi meglio
poteva Menandro, principe della nuova comedia, esser con-
giunto che col rappresentante della comedia antica? (i). Le
ricerche che noi abbiamo tentato nella tradizione letteraria,
ci hanno chiaramente dimostrato che fu Aristofane quello
che r antichità concorde denominò Tó KUJ|iiiKÓq per eccel-
lenza.
L'espressione del nostro busto ben si addice all'aristocra-
tico oppositore della politica ateniese. C'è una certa fierezza
temperata, addolcita; ci si rivela l'ingegno grande, l'osser-
vatore serio e profondo, e in tutta la fisonomia, come no-
tava già il Welcker , domina un tratto di dolore morale,
pieno di presentimenti. Non dobbiamo già credere d'avere
dinanzi a noi i lineamenti reali del comico ateniese , sib-
bene una concezione ideale , quale si formò l' artista nella
lettura e nello studio delle sue opere. La piccola tenia che
ha sul capo non s' ha a ritenere distintivo di superiorità,
come vogliono i più, ma, come dichiarava il Friederichs,
un semplice ornamento. Quel concetto infatti non avrebbe
fondamento di verità ; i due poeti appartengono a diversi
generi di poesia, non potevano essere oggetto di raffronto,
né, qualora lo fossero stato, si sarebbe aggiudicata ad Ari-
stofane la preminenza.
Dopo la scoperta dei Welcker, il Braun credè di vedere
un altro ritratto di Asistofane in un'erma bicipite del Museo
di Napoli , nella quale, secondo lui, è meglio significato il
carattere aristocratico e sdegnoso del sommo poeta. Era già
pubblicato nel Museo Borbonico (voi. VI, tav. 43); ed il
Pinati che la descrisse, la dichiarò incognita, né avventurò
congettura alcuna. Notava però che le teste erano addossate,
[i] Berlins antike Bildìverke, 1, n" Sog.
— 177 —
essendo sensibilissima la connessura. E singolare , che il
Braun, dopo la scoperta welckeriana, abbia potuto ricono-
scere in questi busti i ritratti di Aristofane e di Menandro,
e come tali pubblicarli negli Annali dell' Institiito (a. 1854,
con tavola). Trova che V effigie aristofanesca è oltre ogni
dire nobile e grandiosa, e Tespressione davvero imponente.
Ma, per noi, manca ogni tratto di somiglianza coi ritratti
che ora conosciamo dei due poeti, e nella pretesa imagine
aristofanesca è facile riconoscervi una riproduzione delle
belle teste tucididee (i). E dunque questo monumento da
porsi nel novero di quelli che sono falsamente ascritti al
comico ateniese.
Dopo la trattazione deiriconografia, noi passiamo ad esa-
minare quei monumenti che si possono credere ispirati dai
drammi di Aristofane. La difficoltà di determinare con pre-
cisione il riscontro fra una rappresentazione figurata ed una
data scena di comedia, può spiegare lo scarso risultato che
in questo campo di ricerche abbiamo potuto ottenere. Noi
possediamo vasi e terrecotte con comiche rappresentazioni;
ma Tascriverne il motivo ad un poeta più che ad un altro,
o il riferirle ad una determinata scena della comedia an-
tica, neir immensa perdita di quelle opere, è impresa non
meno arrischiata che pericolosa. Abbiamo, ad esempio, nel
Museo di Berlino (Armadio XIX, n° ig5o) un cratere ru-
vese, nel cui dipinto il Panofka vide una scena della Pu-
tine di Gratino-, mentre al Wieseler fa venire in mente la
scena di Filocleone e la venditrice di pane nelle Vespe di
Aristofane, o quella dell' ostessa nelle Rane (2). Lo stesso
(i) Ved. MiCHAEUs, Die Bild. d. Thiikydides, Strassburg, 1877.
(2) Panofka, Gherard's Denkm. u. Forsch., 1849, P- -^4' ^^^- I^j '•
Wieseler, Mon. Scenici [Anìi. deirinst., iS5g, p. 38, tav. d'agg. A-B,
n'^ 5).
Tiii'ista iii filologia ecc., X. 12
- 178 -
Panofka riscontra una terracotta dello stesso museo (Armadio
XVII, B, 323) e proveniente da Vulci, col Cleone dei Ca-
valietti (riproducendo quella maschera un KuvoKéqpaXoq) -, —
mentre per noi altro non è che un attore, nel suo costume
comico (i). In un altro vaso, di Parigi, è raffigurato un
attore in atto di studiare la parte d'Ercole dinanzi ad una
statua di quel Dio. Porta T iscrizione osca fllTWfì^ (Santia)
e il Mùller lo crede senz' altro appartenere alle Rajie ari-
stofanesche (2). Ma il solo monumento che con qualche
certezza si possa qui allegare, è il vaso berlinese, a figure
gialle su fondo nero (Armadio XIX, n° 1949) in cui si vede
riprodotta la prima scena delle Rane. Vi è Dioniso, seguito
dal servo Zantia a cavallo di un asino, nudo e portante in
spalla le aKeOri {Ran.,y. i3). Il dio è in atto di bussare
KeviaupiKujq alla porta della casa d'Ercole, da cui desidera in-
formazioni sul modo di scendere all'Averno in cerca d'Eu-
ripide. Pare che stia gridando:
Ttaiòiov, Trai, njni, irai (v. 37).
intanto che la pelle leonina (Xeovifi) per l'impeto del battere
gli è caduta di dosso. Il vaso proviene dalla Magna Grecia,
ed è assai importante. Lo illustrò da prima il Panofka (3),
poi il Wieseler (4). Che nel rovescio di esso sia rappresen-
tato Filonide ed Aristofane, come crede il Panofka, o che
vi si abbia a vedere un' altra scena delle Raìie , le figure
cioè di Pluto e di Eschilo nella casa infernale, come opi-
nerebbe il Wieseler, noi non osiamo di asserire. E nem-
(i) Panofka, Arch. Zeit., 1854, p. 249, tav. I^XIX, 3, 4 (Komiker
und Komodienscenen).
(2) MiJLLER, GÓtting. An:ieig., i835, 11° 176.
(3) Panofka, Glierard's Denkm. u. Forsch., 1849, P- '^j t^^- ^^^' ■■
{4) Wieseler, Denkm. d. Buhnenw.. p. 1 10 sgg., tav. A, 25.
— 179 -
meno consentiamo col Welcker nel significalo che egli pare
vorrebbe annettere al fatto della rappresentazione di una
scena di Aristofane su un vaso, di provenienza non greca,
ma italica. E davvero -, non gli può non parer strano il
fatto, che n'indurrebbe: che cioè in un dato periodo le co-
medie del nostro comico fossero così lette e diffuse in Italia
da offrire argomenti alle artistiche creazioni dei pittori o
vasellai. L/esempio è unico ed isolato, e per noi ci mostra
soltanto, come un artista da una riminiscenza della lettura
dei drammi aristofaneschi traesse motivo di una rappresen-
tazione vascolare. Veggasi, come riprodusse alquanto libe-
ramente r originale, e quanto poco carattere comico seppe
dare alle sue figure.
Lo studio di questi monumenti figurati non ci conduce a
conclusioni diverse da quelle ottenute nell'esame delle testi-
monianze storiche e letterarie. Si può anzi dire che con-
ferma le deduzioni a cui ci condussero quelle ricerche, at-
testandoci anch'esso e la preminenza di Aristofane su gli
altri comici della comedia antica e la poca diffusione della
sua fama nella posterità.
IX. Tale, quale tentammo descriverla, è la varia fortuna
del nome di Aristofane durante il lungo periodo della storia
antica. Il supremo grado della rinomanza fu raggiunto nel-
l'età contemporanea, vivo ancora il poeta, quando ad am-
mirarlo e ad applaudirlo sulla scena accorrevano insieme
agli Ateniesi i forestieri delle altre parti della Grecia. Le-
gata intimamente a quel tempo, la sua memoria si trasmette
bensì nella tradizione letteraria, ma senza diffondersi o svol-
gersi, senza abbellirsi dei vivaci colori della leggenda po-
polare. Egli rimane là sul limite che divide la grande let-
teratura del periodo florido della Grecia; ultimo grande
poeta, perfezionatore del genere comico antico, mentre già
— 180 -
schiude la via alla forma nuova del dramma. Raffigurato
dalla, satira contemporanea come un cavillosetto ed un pe-
dante, è da Platone ritratto nella sua indole vivace e gio-
viale; mentre l'età successiva se lo immagina per lo più
come un burbero e licenzioso partigiano, o come un buf-
fone scurrile. Al suo nome però e alle sue opere resta le-
gata la rinomanza e Tesempio dell'antica comedia. La na-
tura e il carattere peculiare della quale non gli permette di
rivivere sotto le forme delTimitazione, e di ricomparire così
sul teatro latino. Retori e grammatici, che della sua attica
e pura espressione ne faccian tesoro, ne trova in ogni tempo
e in ogni paese. Caduto il mondo pagano , la sua opera
subisce i danni del tempo e degli uomini. Va perduto il
maggior numero delle sue comedie : delle poche salvate, le
politiche non si leggono molto, e intorno a tre si ristringe
e si raccoglie Tammirazione concorde della tarda posterità.
Il periodo medioevale è disastroso per lui, come in generale
per le tradizioni dell'antica civiltà. E singolare però il fa-
vore, che egli incontra già presso i padri della Chiesa. Una
leggenda gli dà per assiduo lettore S. Giovanni Crisostomo,
il quale di notte avrebbe avuto sotto il capezzale le opere
aristofanesche, dal cui studio gli sarebbe venuto l'eleganza
attica delia parola, e l'invettiva acre e fiera contro il sesso
muliebre. I grammatici bizantini raccolgono le sparse e varie
notizie sulla biografia del poeta, insieme alle reliquie degli
studi che r età erudita alessandrina gli aveva consacrato ;
noti, e appena degni d'essere menzionati, Giovanni Tzetze,
Toma Magistro, e Demetrio Triclinio, Quando col Rina-
scimento si ridesta negli umanisti l'amore e la ricerca delle
opere antiche, le salvate comedie di Aristofane sono studiate
e trascritte. Il numero e 1' estensione dei manoscritti è in
rapporto dell'interesse che si trova in quella lettura ; abbiamo
molti codici con alcune comedie, pochi che le comprendano
- 181 -
tutte. Sono fra le prime opere che l'invenzione della stampa
divulga-, e poiché sono molto difficili a intendersi, sono la
prima opera greca pubblicata con un ampio corredo di note. Le
Tesmoforiaiuse e la Lisistrata non compariscono in quelle
prime edizioni-, e sono stampate, a parte, per la prima volta
nel I 5 1 5 da Bernardo Giunta. Anche nel secolo che segue
egli è male studiato e male inteso :, si applica a quei drammi
la divisione in atti e scene, propria del teatro latino, lo si
purga dalle oscenità, e lo si interpreta colT imitazione di
Plauto e di Terenzio. La tradizione letteraria antica am-
mirava più particolarmente i pregi della forma aristofanesca-,
i moderni invece hanno utilizzato la vis comica^ le fan-
tasie , la satira viva e mordace. Imitazioni e reminiscenze
della comedia o dell'arte di Aristofane riscontriamo nei sa-
tirici francesi , in Rabelais , La Bruyère , Balzac , poi in
Erckmann-Chatrian, in Goethe Alla critica moderna si
deve il retto apprezzamento del poeta e della sua opera -,
studiato e giudicato coi criteri speciali che si richieggono
per le produzioni di quella civiltà e di quel tempo. Molto
si deve all'Hegel per ciò che riguarda il metodo di questa
ricerca storica. È notevole, che anche nella critica moderna
si abbia traccia di quella discrepanza di giudizi che tro-
vammo nella tradizione antica. Bisogna dire , che nessun
poeta antico è così difficile a giudicarsi, non tanto per ciò
che riguarda il suo valore poetico , quanto per la sua im-
portanza storica e sociale. Il Voltaire è, fra i critici dissi-
denti e sfavorevoli ad Aristofane, il più severo-, egli ne di-
sconosce siffattamente ogni merito artistico, da sentenziare
non esser egli né poeta né comico. Il giudizio del Grote è
più moderato, restringendosi a notare nell'opera aristofa-
nesca la mancanza di ogni serio e verace proposito. In questa
critica negativa FHartung ha toccato il limite estremo-, non
contento di aver biasimato il poeta, ha calunniato T uomo
- 182 -
ed il cittadino; taciandolo di adulatore e di mentitore, e
chiamandolo omnibus sui saeculi vitiis inquinatissimus.
In generale però la critica tedesca, come quella che di Ari-
stofane ha fatto uno studio più ampio, profondo ed accurato,
è riuscita a darne un giudizio equo e sicuro. Lo ha quali-
ficato grande poeta , osservatore acuto e geniale , sebbene
privo di elevatezza e di senso filosofico. Essa ha ammirato
quella comedia come la più viva e fedele imagine del suo
tempo -, ed era giusto , che questa lode , la quale ha in sé
la ragione della condizione sfavorevole di Aristofane nella
tradizione letteraria, fosse poi adoperata dai filologi moderni
per far giustizia al suo nome e per attestare i suoi meriti
presso la civiltà successiva.
Berlino, 19 marzo 1881.
Giovanni Setti.
"BI ELIOGRAFI A
Giacomo De Franceschi, Lo Stato degli Ateniesi, studio e versione.
Verona 1881.
Nella Cronaca liceale dell'anno scolastico 1879-80 il prof. De Fran-
ceschi pubblicò questo lavoretto che, come dice il titolo, si divide in
due parti, cioè a dire uno studio, a modo di prefazione, in cui si
discutono varie questioni toccanti il libretto dello Stato degli Ateniesi,
che va sotto il nome di Senofonte, e la versione del libretto stesso.
Lo studio o prefazione si divide in quattro capitoli. Condizione
attuale del libro. Tempo della sua composizione. — Della sua au-
tenticità. — Della sua forma primitiva.
— 183 —
L' opuscolo senofonteo abbraccia tre capitoli : il primo ed il se-
condo si suddividono in venti paragrafi ciascuno, e in tredici il terzo.
Se non che questa, nella condizione in cui il libro è a noi pervenuto,
non è che una divisione materiale, poiché in fatto non vi si riscontra
nessun ordine; si passa da un argomento all'altro a caso, e senza
alcun filo che colleghi le diverse parti tra loro; vi sono interruzioni
brusche, e poi ritorni impreveduti. Insomma sì ha da fare con un
compendio malamente abborracciato. L'A. cerca di ordinare i brani
staccati, e di dar loro una ragionevole, o almeno una men repu-
gnante disposizione. Se non che l'argomento è difficile, e la cosa,
per sua natura, resta sempre incerta (p. 1 1 ed Errata-Corrige, dove
si propone qualche modificazione nuova).
Per quel che spetta al tempo della composizione di questo libretto,
l'A. dopo accennate le opinioni di parecchi valenti critici, come il
Fuchs, il Sauppe, il Bake, il Werske , il Roscher , ecc., s' attiene al
Kirchhoff, secondo il quale sarebbe dimostrato che questo scritto fu
composto tra l'autunno dell'ol. 88,4 e l'estate dell'ol. 89, i ; in altri
termini nella prima metà del 424 av. Cr.
Chi è l'autore dell'opuscolo in questione ? Tre soli degli antichi lo
ricordano, Polluce, Diogene Laerzio e Stobeo, e tutti e tre lo ascri-
vono a Senofonte. È importantissimo per altro il fatto che Diogene
Laerzio ricorda che Demetrio Magnete, contemporaneo di Cicerone,
non ammetteva che fosse di Senofonte. Tra i critici moderni alcuni
lo vollero rivendicare a Senofonte , ma la massima parte tengono
contraria sentenza. 11 De Franceschi fa osservare che 1' epoca stessa
in cui il Kirchhoff ha dimostrato essere stato scritto l'opuscolo, esclude
che Senofonte ne sia l'autore, poiché Senofonte, nato circa nel 445
av, Cr., ha cominciato a pubblicare i suoi lavori molto più tardi del •
424. Ma anche senza questo abbondano, secondo il nostro A., le
prove per cui si deve ritenere che questo libretto, nemmeno nella
sua forma primitiva, non può essere stato scritto da Senofonte. Cosi,
p. e., Senofonte, al quale era certamente nota la felice marcia di
Brasida, Senofonte, che guidò i diecimila dal centro dell'impero per-
siano fino al Mar Nero , Senofonte, che accompagnò Agesilao nella
sua marcia gloriosa dall'Asia Minore a Coronea non avrebbe scritto
il § 5 del capo 11, dove è detto che « ai signori del mare è dato di
navigar lontano dal proprio territorio per un tratto di via lungo
quanto tu vuoi, mentre quelli di terra non possono allontanarsi dal loro
— 184 -
paese per un cammino di molti giorni ». Se l'opuscolo non è di Se-
nofonte, di chi è dunque? De' moderni critici, chi l'attribuisce ad
Alcibiade, chi a Crizia, chi ad altri; ma le sono tutte ipotesi cam-
pate in aria. Forse, dice il De Franceschi, per cessare le noie che gli
potevano venire dai suoi concittadini , l'A. stimò bene di conservare
l'anonimo ; come dunque pretendere noi di scoprirlo ?
Qual era la forma primitiva del libro? Non è facile la risposta:
certo, se la si volesse prendere per una scrittura continuata si tro-
verebbe grave difficoltà in una perpetua contradizione , per cui lo
Stato ateniese viene a vicenda, sotto i medesimi aspetti, biasimato
insieme e lodato. 11 Cobet venne nella felice idea che in origine
questo scritto fosse un dialogo in cui i due interlocutori, com'è na-
turale, opponevano ragioni a ragioni. 11 Cobet trovò anche nel testo
molti innegabili vestigi della forma dialogica primitiva. 11 Pankow
ed il Wachsmuth s'accordarono col Cobet, e quest'ultimo credette di
poter ripartire il testo tra l'avversario, l'apologista e il compilatore.
A vero dire questa ipotesi del dialogo, come osserva il De Franceschi,
non iscioglie a pieno tutte le difficoltà, che presenta il testo : ciò non
pertanto sembra la sola ammissibile perchè essa : « ha il merito in-
contestabile di svelarci il perchè del disordine radicale del libro , di
mostrarci il vero valore di certe congiunzioni, che altrimenti o non
hanno senso, o avendolo, recano imbarazzo; di spiegarci il fenomeno
delle tracce dialogiche, insolubile (almeno pienamente) per altra via;
di renderci soprattutto ragione di quella, dirò così, duplicità d'in-
tento che spicca nel corso di tutto 1' opuscolo, e che, seguendo ogni
altra congettura, è fonte perpetua d'ambiguità e di contradizioni ».
Venendo alla versione, il De Franceschi merita un elogio speciale,
perchè le difficoltà del testo sono ben gravi. Per amore di chiarezza
egli distingue con carattere corsivo le obiezioni, con carattere tondo
le risposte, e con carattere normando le parole introdotte dal com-
pilatore. Nell'assegnarc le dette parti, egli segue quasi costantemente
il Wachsmuth.
Mi permetto qualche osservazione :
I, 2. Sono ommesse per inavvertenza le parole koì oi 7révriTe(;.
Ivi. oi Yevvaioi koì oi xp»1<Jtoì. Trad. « i nobili e gli egregi citta-
dini ». Pare che l'epiteto egregi non sia il vero, perchè sembra troppo
accennare a qualità morale, piuttosto che a condizione di casta.
1, 5. Non ci sembra giustificato l'emendamento dello Zeune. se-
— 185 -
guito dal De Franceschi, il quale ad èvioit; tìùv óvBpuuTrujv sostituisce
évi TOIC, TToWoi^.
1, 7. Il KttKÓvoia del testo, che sta in opposizione del precedente
eOvom non ci piace parafrasato in avversione verso il partito popolare.
Si perde l'antitesi e l'energia.
I, 8. « 11 popolo non desidera di servire in una città bene co-
stituita ». Qui s'è perduta la chiarezza e l'energia insieme del testo:
ó YÒp òfiiuoc où PoùXerai eL)vo|uou|uévri(; t^c; -nóXeoc, uÙTÒt; òouXeueiv, dove
spicca l'antitesi ironica tra la città bene costituita e la servitù , anti-
tesi che aquista spicco dall'oÙTÒq in opposizione alla città.
1, IO. « Se l'uso comportasse che lo schiavo fosse battuto dal
libero o l'inquilino o il liberto dal cittadino (òtto toO àaxoG), spesso
alcuno percoterebbe l'ateniese scambiandolo per inquilino o per schiavo
(ri òoOXov), giacché, ecc. ».
Le parole urtò xoO àaroO e r| òoOXov sono aggiunte dal Wachsmuth
al testo del Dindorf e accettate dal Trad., ma parmi senza motivo
plausibile; diffatti, nel primo luogo basta lo ùnò toO èXeuBépou, e nel
secondo luogo, se per il parallelismo .si vuol introdurre il òoOXoq,
bisogna introdurvi anche 1' àiieXeueepoi; ; or chi non vede che queste
sono pedanterie?
I, 14. 11 De Franceschi s'attenne allo SchrÒder, che invece di
luiooOai legge lueioOai, e traduce : < La moltitudine calunnia e abbassa
i buoni ». lo, per me, non vedo nessun bisogno di questo muta-
mento, anzi il laiffoOai lo credo assicurato dal seguente faioeiaBai.
II, 12. Il Trad.: « Oltre di ciò ai nostri avversari non permet-
teremo d'esportar altrove questi materiali (legname, ferro, rame, ecc.),
o vieteremo loro l'uso del mare ». Questa versione è condotta sulla
lezione del Wachsmuth, che cambia lo èàaouffiv in èdaojuev. Non trovo
necessaria questa emendazione. Infatti qui si parla di legname, ferro,
rame e altri materiali, che i Barbari non potevano smerciare, se non
si tenevano amici i padroni del mare; epperò, dice, gli Ateniesi erano
quelli che godevano di questo commercio. Facevano però gli Ate-
niesi che i loro stessi rivali, o si contentassero di non permettere
che le dette merci venissero condotte altrove, che ad Atene, ovvero
minacciavano di toglier loro l'uso del mare. Intendendo il testo così,
mi pare che il dilemma riesca piano, mentre nella versione del De-
Franceschi non lo si afferra.
1, H- li Trad.: « Se gli Ateniesi abitassero un' isola e avessero
- 186 —
il primato del mare ». Qui si sono fatte due proposizioni, mentre il
testo ne ha una, e così mi sembra perduta l'evidenza del senso, che
è questo: se gli Ateniesi fossero padroni del mare, abitando un'isola,
ecc.
Ivi. 11 brano: « Ora poi gli agricoltori davanti a loro si
piega » che qui è scritto in corsivo, mi sembra che deva scriversi in
carattere rotondo , essendo parole di chi difende la democrazia. —
Avendone fatto cenno al eh. traduttore, egli non sarebbe lontano dal
consentir meco.
II, 17. La traduzione di questo paragrafo, chi bene la medita, è
esatta: tuttavia non è chiara.
II, 19. « E al contrario alcuni che appartengono veramente al
popolo, non sono popolari di natura ». Queste righe sono scritte in
carattere rotondo. A me pare che possano essere scritte in corsivo,
come quelle che precedono e quelle che seguono immediatamente.
Oltracciò quel di natura, tììv qpOoiv va riferito a ciò che precede , e
non al seguente òrnuoriKOi, nel che ho meco consenziente il eh. trad.
Del resto questo è un luogo molto oscuro.
Ili, 4. Nel novero delle feste ateniesi, per inavvertenza si om-
misero le Prometee, TTpo|ar)9eia.
Ili, 5. Legge il Dindorf: oùk oi'eaGe XP^vai òiabiKÓCeiv ÓTravra, Il
Wachsmuth congettura: oùk ol'ea9ai XPH XPHvai biKÓSeiv. Il nostro tra-
duttore segue questa congettura, ma, a dir vero, non posso adat-
tarmi ad un greco cosi cattivo. Né mi fa difficoltà lo oieaOe che è un
plurale oratorio.
Ili, 7. L'obiettante dice: « I giudizi si devono tenere per tulle
le cause, ma sarebbe desiderabile che i Giudici fossero in minor nu-
mero ». A cui l'altro risponde: « quando i tribunali fossero molli,
pochi sarebbero in ciascuno i giudici; gli affari si sbrigherebbero
più presto, ma ne perderebbe la giustizia ». Ora il Kirchhoff vede
qui una lacuna, e raffazona il testo di suo capo così: àvÓYKri toìvuv,
èàv |uèv òXiYa -rroiOùvTai òiKoarripia |Lir^ èTrapKeìv, èàv bè iroWà iroiujvTai
òiKaoxripia, ó\ÌYoi ecc. Questa correzione non ha senso, perchè nega
che i tribunali possano essere molti, ma nega anche che possano es-
sere pochi. Ci pare quindi che il nostro traduttore non abbia fatto
bene ad attenersi al KirchhofI".
Ili, 12, i3. Questi due paragrafi sono molto difficili. La ver-
sione, chi ben la consideri, è esalta ; tuttavia convien confessare che
si desidererebbe maggior chiarezza.
— 187 —
Con questo ho terminata la mia rivista. Ho notato semplicemente
ogni cosa che mi parve meno esatta; e, a dir vero, le sono minuzie,
e forse forse pedanterie. Del resto è una buona versione , massime,
per noi Italiani, che, si può dire, non ne avevamo nessuna. Si abbia
l'egregio A. le nostre congratulazioni, e ci regali spesso di questi in-
teressanti lavori.
Verona, luglio 1881,
Francesco Cipolla.
Commento metrico a XIX odi di Orazio Fiacco
pel Dott. Ettore Stampini. — Torino, E. Loescher , 1881.
La triade delle arti musicali, a cui appartiene la metrica, forma,
giusta la teoria dei Greci, è un gruppo in perfetta contraddizione a
quello delle arti imitative. Di queste caratteristica è la quiete ; di
quelle in vece il moto. I rapporti delle prime sono temporali; delle
altre locali: e la legge, seguendo la quale le arti della musica pos-
sono esser regolate e corrispondere all'idea del bello, è il ritmo, ana-
logo alla simmetria delle arti imitative. Senza il ritmo la metrica non
è comprensibile. Chi volesse limitar il ritmo al solo apparato termi-
nologico ed a schemi sillabici, vuoti d'anima e di senso, mostrerebbe
d' ignorare in lutto il concetto della metrica. Nella storia di questa
troviamo in fatti un' epoca , in cui quel concetto si smarrisce total-
mente. La disciplina quindi si riduce a una meccanica di segni e di
nomi; talché a ripristinare in essa il senso della ritmica, a rifarla a
scienza, ci volle non poco, l fortunati tedeschi quasi da un secolo si
trovano nella buona via grazie a G. Hermann, ingegno che non senza
ragione il Lehrs ed il Westphal portano alle stelle. Noi troppo alteri,
o forse troppo negligenti, ci siamo sin qui acconciali con gli empirici
e scolastici irattatelli dei padri Barnabiti. Qual meraviglia quindi se
in fatto di metrica restammo tanto indietro? E saremmo ancora, se
la comparsa dei nuovi metri nella poesia nostra non ci avesse destati.
11 movente fu questo, lo sanno tutti ; ma a che avrebbe giovato se la
cosa non si fosse presa sul serio? De' metri classici chi avrebbe co-
— 188 —
noscenza, se non ci fossimo messi nella via che altri avevano già per-
corsa? Gran merito, anzi il principal merito di ciò è dovuto al dottor
Stampini per la pubblicazione di tre lavori metrici, e peculiarmente
del sopra annunziato.
Non sono però con l'egregio autore quando ci vorrebbe inetti alla
metrica anche se al pari dei Tedeschi avessimo dei buoni trattati. O
che in Germania soltanto si nasce col bernoccolo della metrica? Non
credo. 11 Miiller (i), che è tedesco, mi dice che in Germania si è
nelle stesse condizioni che in Italia e in tutto il mondo: che ci vuole
perseveranza di studio e fermezza nel sostenere le prime noie : che
scopo delle scuole anche là è di sviluppare gl'ingegni, infondere
amore ed intelligenza dell'antichità classica e non far unicamente dei
filologi o specialisti di metrica. La metrica s'impara seriamente perchè
giova alle lettere; e se è vergogna per un colto tedesco, come vuole
lo Stampini, non averne almeno un'infarinatura; vergogna è, state
pur certi, anche per noi — specie pei nuovi metri italiani.
Ma la proposizione dello Stampini non è senza un fine. Conveniva
dar ragione del nuovo metodo da lui usato; ed eccola : Noi non sa-
remmo in grado di trarre utile da un completo trattato di metrica;
onde, per ora almeno, lasciamo la regola, contentiamoci dell'esempio.
— Lo scopo di agevolare così i principi d'uno studio, che si ritenne
quasi paradossale, non può esser altrimenti che commendevole. Ma la
scienza metrica richiede molto e ben ordinato studio ; essa è un edi-
fìcio nella costruzione del quale la seconda pietra non sta, se non hai
ben fermata la prima — e l'esempio non basta. Me lo dice lo Stam-
pini stesso col premettere al Commento alcune nozioni di metrica in
generale; senza di che non so quanto avrebbero giovato ai princi-
pianti tutte le buone notizie sparse nei diciannove commenti. Nelle
prenozioni il nostro autore, seguendo i risultati ultimi nella disci-
plina, ci dà in succinto tutte le regole elementari di essa. Ma sarei
stato meno succinto, meno avaro in questa parte. Chi per schiari-
menti delle note ricorre alle regole, non sempre n'esce soddisfatto.
Con poca fatica di più, l'egregio autore ci avrebbe dato quel tratta-
tello di elementi metrici, che ancora si desidera nelle nostre scuole.
Il ritmo e il metro, si sa, sono parti integranti della metrica , e
(1) V. Metrik der Griechen u. Rom^r, Leipzig, 1880, p.V.
- 189 —
come tali vogliono essere spiegati bene; vogliono essere intesi. La
definizione che l'autore dà del ritmo — un'ordinata continuità di
tempi — è ottima; ma non mi dice niente della durata, ed in questa,
dello scambio, della varietà dei tempuscoli, onde veramente il ritmo
— se pure a ciò non intende nella seconda definizione. Ma non è
chiaro. II ritmo non si trova naturalmente improntalo nella materia
linguistica, né in quella della musica. Esso è ideale, spirituale; lo
dice pure lo Stampini e qui e nelle Odi barbare di G. Carducci. Il
poeta, o in generale il ^uQiuoiroióq, lo crea nella sua mente prima an-
cora di aver la materia, nella quale introdurlo. Ora , come questo
ritmo diventi percettibile, in qual maniera entri, e come debba en-
trare nell'orazione sciolta per dare il ^uG|ui2d)ievov, ecco le domande
principali, a cui deve rispondere la metrica. Di conseguenza allora
trarrei il concetto del metro « discorso ritmicamente informato -XéSit;
^uGiuiZoiuévri ». E questo bisognava far capire a fine di dare una volta
per sempre una giusta idea del ritmo, del ritmizomeno e del metro.
Della intentio degli accenti, àeWictits e della chiusa di verso, I'óttó-
0€(Ti(; ToO luérpou, come 1' addimandano gli antichi , in tutto il libro
non se ne fa motto. E pure sono cose importantissime. Anche sui
rapporti delle diverse battute metriche, e sul tempo nei versi, ràyaiYn.
la diversità ne' momenti temporali un breve cenno non sarebbe stato
inopportuno. Anzi a proposito di quest' àyuJYiì mi piacerebbe che ad
essa soltanto fosse serbato il termine tempiis che l'autore e parecchi
altri danno al xpóvo^ itpiJÙTo^.
Dei versi logaedici il prof. Stampini dice pochissimo nella intro-
duzione; qualche cosa qua e là nel commento. Pure trattando di
metri oraziani, stante la natura, in gran parte di essi logaedica, una
più ampia trattazione, ed in principio sarebbe stata opportunissima.
L'apparente irregolarità ed arritmia di questi versi può di leggieri ti-
rare il principiante in errore. Conveniva dunque spiegargliela; accen-
nare agli elementi che compongono tali versi, e dire alcunché dei
Tiòh(.c, ciXoYoi , delle battute irrar^ionali (corèo irraz.) , i rapporti delie
quali, sendo semplici, non si possono definire per l'unità, ma è me-
stieri ricorrere ad una frazione del xpóvoq TrpuJTOi;; onde a distinguerli
lo Schmidt trovò bene introdurre un altro segno > . Ed il dattilo
trisemo ciclico {-^ ^), e la sincope trocaica, per cui la sillaba lunga
accresciuta d'un tempuscolo tien luogo d'un intera battuta ('— = - ^),
ed altri fenomeni ancora del logaedo sono indispensabili a conoscere
per avere di lui un'idea più giusta.
- 190 -
Per inéxpa àavvàpQr\Ta intende lo Stampini con Efestione i versi che
constano di ciue ordini ritmici. L'Hermann che procedette così libero
riguardo a tradizione di antichi da cambiar affatto i loro termini, ed
a parecchi dar arbitrariamente un significato in tutto nuovo, dice in
vece asinarteto quel verso, nel cui mezzo stia sillaba ancipite o iato.
Ora, si sa che l'influenza di G. Hermann fu tanta nella disciplina da
lui risuscitata, che la sua terminologia prese il sopravento, ed è quella,
a cui per evitar confusione dobbiamo attenerci. Quanto ad asinarteti
trovo infatti che i più dei trattatisti sono coU'Hermann.
Nel Commento il nostro autore distingue composizioni monostiche,
distiche, tristiche e tetrastiche. Egli vede nel sistema monocolo s'empre
la composizione monastica. Pure ricordo nei carmi oraziani essersi
stabilito da autorità competenti il sistema tetrastico. Perchè non ac-
cettare questa maniera? Il periodo di quattro versi è una preferenza,
un istinto, direi quasi, di canzonieri antichi e moderni. Nei carmi
d'Orazio poi è tanto caratteristico e distinguibile spesso a prima vista
dall'interpunzione, che la critica, coli' aiuto dei ritrovati sulle inter-
polazioni oraziane, volle il riordinamento in quartine anche là dove
la tradizione del testo s'opponeva. Ma lo Stampini afferma questo
« errore gravissimo di una metrica preconcetta » (i). Non saprei
perchè. La sua distinzione anzi in un libro, dove tutto tende a sno-
dare l'intelligenza del principiante, e a non confonderlo colla farrag-
gine dei termini, mi pare superflua. Coll'accettare il sistema anzidetto
sarebbe stata permessa la riunione di metri d'eguale natura e d'egual
nome, con che, pel sinottico confronto il principiante meglio li avrebbe
distinti e ritenuti loro schemi.
Nel commento del saffico minore, giusta il Trezza, saffico (a), mi
occorse più che altrove notare il difetto d'una migliore trattazione
degli accenti, opportuna tanto anche per la nuova metrica italiana.
Nello schema di questi versi vedrà il lettore segnati cinque accenti ,
dove gli conviene alzare la voce. Ma chi gli dice poi che tre sono i
principali ; che la intentio maggiore deve posare sul quinto , e però
dell'indiflerenza di quella cesura maschile, da Orazio stesso di fre-
quente trascurata per amore dell'accento ? La qual cosa quanto giova
(l) Le Odi barbare di G. Carducri e la Metrica latina. Il edizione,
p. 6, nota 3.
- 19] -
avvertire, dimostra il tentativo del metrico saffico in italiano del Ca-
vallotti (i), che per avere più facile la cesura, dopo l'arsi del dattilo
conservò costantemente l'accento primario sulla quarta. Vedasi infatti
la versione della prima strofe dell'ode seconda di Saffo :
Pari agli Idii || sembrami l'uom che a fronte
Siedati, e '1 guar 1| do entro lo sguardo fiso
Dolce parlar || t'oda vicin, soave-
mente ridendo.
Ho notati, naturalmente, quelli che parvero a me difetti nell'opera
dello Stampini e nel suo metodo. I pregi, il merito di lui e la rico-
noscenza somma che gli dobbiamo per aver iniziato fra noi uno
studio, a cui gli stranieri ci credevano inetti, mi pare debba ricono-
scersi anche dai profani nelle discipline metriche. Del resto il suo
libro potrà essere adottato assai utilmente nei licei dove si devono
impartire agli studiosi i principii della metrica oraziana.
Le odi barbare di G. Carducci e la metrica latina. Studio compara-
tivo del Dott. Ettore Stampini , seconda edizione. Torino , E.
Loescher, 1881.
Il Cavallotti, scherzando sui nuovi metri, disse che a comporli la
ricetta era semplicissima, né e' era da rompersi il capo sulla Regia
Parnassi. Poi, a provare che le odi barbare non sono alla latina,
dettò — « esercizio di pazienza » — come ei dice, quei sette saggi
di metri all'antica (2). Ma ciò fece, se non m'inganno, senza pensare
ai diversi caratteri, che la metrica ha nelle diverse lingue; talché un
medesimo sistema mentre a questa ripugna, all'altra è naturale.
Solo ne' popoli dell'Asia troviamo una metrica originariamente
quantitativa. In Europa, fin ne' primi monumenti di poesie germa-
niche, tutto il ritmo si basa sull'accento: la metrica è accentuativa.
(1) V. Anticaglie, Roma, 1879, a p. 216, 226 e 269.
(2) V. Anticarilie, Roma, 1879, p. 73 e 74.
- 192 -
E prima che Ennio introducesse V esametro greco, anche nel Lazio
era in uso un verso nazionale accentuativo (i), ed un altro, il sa-
turnio, sul carattere del quale sarebbe ancora da discutere (2). Anche
i Greci, prima di una poesia artistica quantitativa avevano dei versi
popolari ad accenti. Ne sia prova il verso cosi detto polìtico, Vippo-
natteo antico ed il coliambo di Babrio , che segna il punto di pas-
saggio da un sistema all'altro.
II sistema quantitativo sì nella poesia dei Greci che in quella dei
Romani, non ò originale; e se, introdotto, potè attecchire, fu per il
senso finissimo che quei popoli ebbero della quantità. Ma, domando:
sarebbe possibile a noi, come a' rapsodi greci, declamare o recitare
quei versi in modo, che accenti ritmici e grammaticali vengan fuori
a un tempo? No certo. Noi abbiamo tutt'altra idea dell'accento; né
possiamo badare alla quantità delle sillabe. Perciò nella poesia ita-
liana introdurre un sistema quantitativo riescirebbe difficile, e per la
natura dei vocaboli, e per la struttura del periodo; senza dire, che
per noi sarebbe opera inutile ed insulsa. Di fatto , ricordiamo quei
ben noti distici dell'Alberti:
« Quésta per 'éstriimÉ\\ miseràbile epistola ìnéndo
é tè che spregi Wmiseràm'ent e noi ».
Ebbe ragione davvero l'autore delle Anticaglie (p. 233) di chiamarli
distici ostrogoti.
La metrica italiana, come in genere tutte le moderne europee , è,
e deve essere accentuativa. Ma non di meno l'indole de' nuovi metri
resta sempre latina. E a comprova di questo fatto viene opportuno
lo studio comparativo su le odi barbare di G. Carducci e la metrica
latina del Dott. Ettore Stampini. — È il ritmo , è quella musica
ideale, da se esistente, che dà il verso, che dà V armonia. E come
cosa tutta spirituale, possiamo benissimo far nostro ciò, che era pro-
prio de' Latini, de' Greci, degli Indiani e, se volete, de' Turani an-
cora. Sarà un'altra orchestra, per dirla collo Stampini, che eseguirà
(1) 'Westphal, Metr., II, 2, p. 36.
(2) Westphal, 0. e, 41 ; Christ., Metr. d. Gr. u. R5m.^ Leipzig, 1874,
p. 396; E. Stampini, Prolusione, Torino, 1881, p. 14.
- 193 —
il loro pezzo musicale; ma ciò non dice, che debba mutarsi la sua
armonia. — Ad esprimere il ritmo de' loro versi, i Latini ed i Greci
ebbero la quantità. Noi di quantità non ne vogliamo sapere ; abbiamo
l'accentuazione, che ce la riproduce egualmente. Se non che qui con-
viene osservare : i rapporti d'accentuazione nel verso latino sono tali,
che spesso gli ictus ritmici concordano con gli accenti ; sicché è fa-
cile esprimere in una entrambi. Ed anche a leggere il verso latino a
soli accenti grammaticali sentiamo armonia. II Carducci, profittando
di questa circostanza, informò i suoi versi al semplice ritmo, che si
ha dai soli accenti linguistici. Ma quel ritmo è accidentale. Di fatto,
che versi sarebbero usciti, se l'illustre poeta, invece di prendere a
modello i Latini, con egual sistema, avesse imitato i Greci? E pure
la difficoltà, seguendo la vera ritmica del verso romano, sarebbe stata
presso che uguale. Lo Stampini, con una semplice proposizione, ci
dà il bandolo della matassa. Ei dice (p. XV) : « Le sillabe accentuate
si facciano corrispondere alle arsi dei metri classici, le non accentuate
alle tesi. In questa maniera il verso italiano riprodurrà l'armonia del
metro classico letto ad arsi, e non la barbara armonia di quello letto
ad accenti » .
Anche il Cavallotti vide dove conveniva modificare i versi carduc-
ciani per poterli dire fatti alla latina; se non che, sconoscendo lari-
produzione d'una relativa immagine del modello, stimò assolutamente
necessario ristabilire ciò, che il carattere dell'italiana favella non po-
teva comportare. Però giudica i nuovi metri, come fossero un accozzo
di versi comuni italiani, e rimprovera una novità meno novità. Lo
Stampini, che prima di lui s occupò in quest'argomento, vide diver-
samente, e gli sembra anzi gratissimo quel verso, che risulti dalla
combinazione di più versi de' nostri (p. XV). Lascio giudicare dalle
cose anzi esposte, se il nostro A. abbia ragione. Dice il Cavallotti
(/. e, 74): « Volete un endecasillabo saffico? Subito fatto! Recipe:
pausa sulla 5", accento sulla 4», e se volete essere scrupolosi, anche
suU'S" ». Per lo Stampini in vece la cosa non è tanto spiccia (p. 7,
8, 9). Egli ci mostra del saffico carducciano quattro diverse maniere
circa l'accentuazione, tutte col loro corrispondente latino, e delle
quali nessuna si contenta del solo accento sulla 4°, come vuole il Ca-
vallotti. Peraltro, sostiene il nostro A., che soltanto il saffico catul-
liano si può riprodurre giusta Victus ritmico : quello d'Orazio, a ri-
durlo diversamente da come fece il Carducci, non darebbe una bella
l^ivista di filologia ecc., X. i3
— 194 —
armonia. Questo non mi va. O, perchè la bella cadenza de' versi ora-
ziani non può continuare anche nella veste italiana? Come, dunque,
s'ha a intendere il semplicissimo processo accennato a pagina XV?
Nella proposta dello Stampini su la rima ne' nuovi sistemi (p. XV),
checché ne dica 1' Hegel, non vedo niente di paradossale. GÌ' Indiani,
benché possessori d'una metrica quantitativa armoniosissima, fin dal
medio evo introdussero col pracrito la rima, e l'usano tuttora. La
rima, senza dubbio, non diminuisce l'armonia; e giova da altra
parte a tener in certo modo uniti i varii periodi d'una strofe. Su-
perflua riuscirebbe ne' nuovi metri unicamente per la ragione, che
con essa perderebbero la perfetta somiglianza co' metri latini.
Circa la tetrastichia ne' carmi d'Orazio, e l'avversione, che lo Stam-
pini mostra per essa, tanto da negarla subito nella seconda saffica ,
non dirò altro dopo l'accenno fatto nella rassegna del suo Commento
metrico a XIX odi di Orapo. Perchè poi egli l'approvi, anzi la con-
sigli ne' sistemi carducciani, anche quando questi , per loro natura
epodica, sono distici come Velegiaco, non so darmi ragione.
Nella alcaica, degli schemi, che ci presenta l'A. per l'endecasillabo
(p. i6), sceglie il terzo, senza anacrusi, formato da dipod. giamb.
ipercat. -\- dattilo -\- dipod. troc. cat.. mentre adottato dai più, e dai
migliori trattatisti vedo il primo, che più esattamente segnerei così :
dipod. troc. (di cui il secondo trocheo spesso irrazionale) -f- dattilo
trisemo -j- dipod. troc. cat., premessa al tutto una battuta in levare.
Lo stesso dell' enneasillabo alcaico (pag. 19) dirò col Grysar (i):
« Alii autem rectius fortasse hunc versum dicunt esse dilrochaeum,
praeposita anacrusi » (2). Il quale riprodotto in italiano, darebbe la
composizione di un quinario piano, accentato regolarmente sulla 2*
e 4'. con un quadrisillabo pure piano cogli accenti sulla i" e 3^.
(1) De metr. hor. nella sua ediz. di Orazio, Vienna, 1879, p. XLII.
(2) Sulla Decessila di ordinare le battute in modo, che la tesi segua
sempre l' arsi, dunque di giovarsi delle ' battute in levare \ v. Schmidt,
Die ani. Compositionslehre, Lpzg., 1869, § 2.
- 195 —
Essendo V alcaica una strofe delle più belle, delle più armoniose,
delle più espressive che la poesia classica ci abbia lasciato, avre^i vo-
luto dal nostro A. più severità nello stabilire, dirò col Cavallotti, il
recipe per la riproduzione in italiano. Perchè il suo carattere fosse
al possibile conservato, bisognerebbe seguire senz'nitro l'accentuazione
ritmica, e tenersi ad uno schema quale è questo :
(w) ! /, I ' >(| ' I ' I ' A I
''^) \ 'J. ^ \ L C\\ L^ ^ \ L ^ \ L ,\ \
(w) i ,, \ ' >\\ ' I / I
" I ' I ' I ' ^ 11
corrispondente a
i) quinario piano, accentato sulla 2» e 4* | pausa | settenario ironco,
acc. i«, 4' e 6^.
2) » » »
3) quinario piano, acc. sulla 2» e 4" | pausa | quadrisillabo piano,
acc. i^ e 3^
4) [un verso di dieci sillabe cogli accenti sulla i», 4% 7' e 9»].
« Insigne moéstis\\praésidiiim reis
Et consulènti \\ Pàllio curine
Cui laùrus aéter\\riós honóres
Dalmatico peperit triumpho ». (Or., c. II, i).
Se noi di fatto confrontiamo nel Carducci e in altri nostri poeti
gli alcaici modellati su questo ritmo con quelli, in cui si segue la
semplice armonia linguistica del latino, sarà facile avvederci di quanto
differenziano tra loro nell'espressione. Il guaio, seguendo l'arsi, sa-
rebbe nel quarto verso della strofe. Per questo converrebbe adottare
un nuovo decasillabo, accentuato sulla i", 4^, 7' e 9* ; verso, che non
abbiamo nella poesia italiana. Ma che c'impedisce di farlo ? Sarà una
creazione, e non brutta davvero. Ne sia prova il seguente verso del
Chiarini;
« Càndidi, lucidi a me fantasmi ».
— 196 —
Un decasillabo nuovo, non esistente nella poesia nostra, lo avremmo
anche modellandolo sugli accenti grammaticali delV alcaico latino.
Perchè non preferire il più giusto e, senza dubbio, il più bello?
L'A., a ragione, disapprova il Carducci nell'uso, ch'ei fa del de-
casillabo comune italiano neWalcaica, alterando cosi tutto il carattere
di quella strofe. Il qual carattere, a parer mio, meglio si sarebbe
conservato, se il poeta si fosse servito più tosto della composizione
di due semplici adonii. — Non v'ha dubbio, accordare negli alcaici,
come in ogni altro verso 1' arsi coU'accento « segnerebbe, come dice
lo Stampini, la perfezione d'ogni metro moderno composto sul metro
antico ». Ai tedeschi è riuscita, è vero, questa maniera, e al Carducci
pure in alcuni esametri come questo :
« Surge nel chiaro inverno la fosca, turrita Bologna »
ma seguirla poi sempre, non mi pare possibile co' nostri mezzi lin-
guistici.
A lungo, e con sennato studio si trattiene il nostro A. suU' e5(i-
metro, come il più notevole, e il più popolar verso, che l'antichità
classica ci abbia tramandato, e come quello, che portato in italiano
nella varietà de' suoi accidenti può arricchire di molti e bellissimi
versi la nostra poesia. È certo però, che tornerebbe meglio assai con-
siderare ed istudiare il vario stile di questo verso, e le sue molte-
plici costruzioni ne' poeti greci anzi che nei soli romani. Onde, penso,
avrebbero giovato forse non poco al nostro A. le notevoli opere del-
l'Hermann [De aetate scriptoris argonaiiticòn) e di Arturo Ludwig
[De hexam. spond.). Né affatto inopportuno per uno studio di com-
parazione sarebbe slato tener dietro alla storia di questo verso, e alle
varie congetture degli antichi e dei moderni circa la formazione del
medesimo.
Gli ultimi metri di cui parla l'A. sono i due epodici di Archiloco:
il sistema giambico, ed il quadruplice sistema archilochio. Il Car-
ducci riproducendo il giambico, lo ordina a quartine ; ed è qui, che
non so perchè l'A. meni buono tal cambiamento. Io trovo che me-
trici antichi e moderni concordano sulla distichia degli epodi; e una
leggera discrepanza c'è solo riguardo aW archilochio secondo, che al-
cuni vorrebbero tristico :
— 197
L' . . I ^ . . I _ À ]]
dividendo il giambelego in una tetrapd. giamb. e in un dimet. datt.,
come nella traduzione dell'epodo XII d'Orazio di G. E. Voss (i) :
« Schaudriges Ungewitter iimschlos\ den Himmel; herab steigt
In Regengus\ und Flocken Zeus;
Meer min. und Waldiingen min » —
Di questa seconda edizione parte importantissima sono le svariate
note. In esse ci si rivela lo studio vasto e paziente del giovane au-
tore, e una profonda conoscenza del campo che percorre. L'accennare,
come ei fa, con fine discernimento, una quantità di ottime fonti an-
tiche e moderne, non può non riescire utilissimo agli studiosi. Mi
permetta nondimeno l'egregio A., ch'io gli osservi (per quel che a
me sembra) una certa predilezione per le dottrine degli antichi gram-
matici. La qual cosa non posso giudicar sempre opportuna in fatto
di scienze metriche.
Frosolone, 8 settembre i88i.
Arturo Pasdera.
(I) Bes Horaz sdmtl. Werke, ubers. v. I. H. V., Ili Th., Wien Triest,
1819.
198 -
Le parole greche usate in italiano. — Memoria del prof. Francesco
Zambaldi, inserita nella Cronaca del Liceo Ennio Quirino Visconti
di Roma, anno 1881.
È un bel contributo alla lessicografia delle tre lingue, greca, latina
e italiana, ricco di notizie e di riscontri esatti, importanti anche per
la storia letteraria, e per l'etnografia e dialettologia italica.
I vocaboli, che o direttamente, o indirettamente con l'intermediario
del latino, passarono nella nostra lingua dal greco, formano ormai
una suppellettile così ampia e svariata di materiale linguistico, che
valeva bene la pena che uno studioso così attento e coscienzioso come
lo Zambaldi vi richiamasse sopra 1' attenzione de' lessicografi e dei
grammatici, fissando con qualche sicura norma le vicende storiche,
e le leggi morfologiche e prosodiche, che regolano questa parte im-
portante del nostro lessico.
La Memoria contiene due parti, nella prima delle quali si espon-
gono a larghi tratti la fonologia e la morfologia delle parole greche
nell'uso italiano (pagg. i-i8) ; nella seconda si riassumono gli studi
e le ricerche fatte dall'egregio autore sull'accentuazione greco-latina,
e delle conseguenti norme seguite dall'uso italiano (pagg. ig-^G). La
natura delle alterazioni fonetiche e storiche è studiata al cap. II del
lavoro (pagg. io segg.).
Nel § I della Memoria, che serve come d'introduzione, l'A. di-
stingue quattro grandi periodi, nei quali si può repartire la storia
del diverso modo, irf'cui le parole greche furono trattate in Italia da
più di venticinque secoli.
II P periodo incomincia dai più antichi contatti dei Greci Italioti
coi popoli italici e principalmente coi Latini.
Il II" comincia con Azzio, e fu il periodo, nel quale la coltura
greca andò diflondendosi fra i Romani e con essa un rispetto mag-
giore della forma.
Il HI" è il periodo dell'influenza del Cristianesimo e della Chiesa
orientale ; ed è notevole in esso il progredire dello iotacismo.
Il W° è il periodo degli Umanisti , nel quale sono da distinguere
due età, l'una popolare e l'altra erudita.
L'A. insiste su questa repartizione, perchè egli crede essere utficio
- 199 -
del filologo il rispondere al quesito: Data una parola con determinate
alterazioni, in qital tempo entrò essa nell'uso latino o italiano'^ E, in-
vertendo i termini della domanda : In un dato secolo qual forma do-
veva prendere una parola greca entrando in Italia ?
Questo studio del prof. Zambaldi non è che l'abbozzo di studi più
ampi e profondi, che dall' egregio collega vorremmo vedere svolti e
classificati sistematicamente, con evidente utilità della lessicografia
italiana.
Firenze, ottobre 1881.
Gaetano Oliva.
Historische Syntax der lateinischen Sprache von F. A. Draeger ;
zweite Auflage, Leipzig, 1878; 1881.
La « Sintassi storica della lingua latina » del Drager fu cominciata
a pubblicare nel 1877 a Lipsia, e già nel 1878 usciva la seconda edi-
zione del primo volume; la seconda edizione del secondo volume è
comparsa quest'anno.
Non voglio nemmeno ammettere il dubbio che questo importan-
tissimo libro non sia conosciuto e studiato come merita anche in
Italia ; ad ogni modo non credo che se ne possa parlare mai abba-
stanza, anche per attestare, non foss'altro, la nostra riconoscenza al-
l'autore, il quale ha avuto il coraggio di condurre a felice compi-
mento una tale opera, che a concepirla solo ci vuole ingegno non
comune. E che il coraggio non gli sia mancato, lo dimostrano i ven-
ticinque anni di assiduo ed eroico lavoro ch'egli vi ha spesi intorno.
Ma quando venticinque anni sono stati tanto fecondamente spesi si
riesce a fare un di quei libri che collocano un professore fra i piiì
grandi filologi odierni.
Era la metà del presente secolo, quando il Drager si accorse che
non era troppo a fidarsi delle sintassi che comunemente si trovavano
tra mano, e concepì fin da allora il disegno di preparare i materiali
per una nuova sintassi, con un metodo diverso dagli usati, facendo
cioè lo spoglio uno per uno degli autori latini maggiormente letti
nelle scuole, e di ognuno raccogliendo la sintassi in brevi ma esatte
monografie. E cominciò col raccogliere la sintassi di Tito Livio; ma
— 200 -
prer poter comprendere in che rapporto stava la sintassi di Livio con
quella degli scrittori che lo precedettero bisognava far lo spoglio
anche di Cesare e Sallustio, e questo fece il Driiger; indi intraprese
lo studio di Cicerone e si accorse che aveva avuto pur troppo ra-
gione rOrelli di dire che la sintassi ciceroniana non era stata che
appena tentata da qualche guastamestieri. Poi esaminò Cornificio, che
va sotto il nome di auctor ad Herennium, e in questo modo aveva
compita la sintassi dei prosatori classici e di Livio. Da Livio allora
estese le sue ricerche al periodo d'argento, e studiata l'influenza che
ebbero i poeti classici sugli autori dell'età d'argento, iQce. lo spoglio
di Velleio, Valerio Massimo, Curzio e Seneca il giovane , e così ar-
rivò a Tacito. Intorno a Tacito raccolse i due Plinii, Svetonio e
Quintiliano. Si volse quindi ad Apuleio e a Gelilo e compì questo
periodo cogli scrittori minori, come Nepote, Floro, Giustino, Eu-
tropio, Sesto Rufo, Aurelio Vittore, i sei scrittori dell'istoria augusta
e alcuni santi Padri, Lattanzio, Tertulliano e Agostino. Era per tal
guisa compita la sintassi di tre periodi : del periodo aureo, del pe-
riodo d'argento e del periodo di ferro ; mancava l'arcaico, e a questo
studio il Drager pose per base la Syntaxis priscorum scriptorum la-
tinorum di F. HoLTZE (1861-1862). — Il libro, che raccoglie in una
grande e compatta unità tutti questi lavori preparatori , si intitola
pertanto, a buon diritto, sintassi storica della lingua latina, e in
quell'appellativo di storica consiste appunto la novità dell'opera; e
veramente oggidì che si è condotta a buon punto la storia delle forme
delle lingue classiche era da aspettarsi anche una storia della sintassi.
Chi crede ancora all' immobilità di una lingua inarcherà le ciglia a
quell'appellativo di storica; ma chi sappia come oggidì tutto va trat-
tato col metodo storico, nel che è riposta la novità degli studi mo-
derni, darà il benvenuto a questa sintassi. Non è però a dire che il
Drager solo si sia messo a un simile lavoro ; contemporaneamente a
lui molti altri filologi hanno ricercata la sintassi dei singoli autori
latini, e su questo argomento furono pubblicate in Germania nume-
rose e lodate monografie ; il libro del Drager poi ha dato maggior
impulso ancora a questo genere di studi, e una delle bellissime mo-
nografie, che potrebbe servire come esemplare , è quella del Rtnge ,
Ziim Sprachgebraucìi des Caesar, 1880, in cui esamina l'uso delle
congiunzioni copulative {et, que, atque, ac) in Cesare.
11 latino fu lingua viva e letteraria per otto secoli circa, dal 25o
- 201 —
av. Cristo al 5oo dopo Cristo ; in questo tempo 1' organismo gram-
maticale del latino ha subito poche mutazioni, se si eccettuino al-
cune terminazioni nei nomi e nei verbi, che erano usate nel periodo
arcaico e che scomparvero nel periodo classico, e alcune modifica-
zioni nella fonologia, le quali non riuscirono però mai a una vera e
compiuta trasformazione. Altrimenti si deve dire del vocabolario,
giacché in ogni tempo della letteratura latina, e specialmente nel pe-
riodo postclassico, si scorge lo sforzo continuo di arricchire il tesoro
dei vocaboli.
I primi tentativi di prosa letteraria vanno attribuiti al celebre Appio
Claudio Cieco, la cui attività politica arrivò fino al 280 av. Cristo.
Però ne' due secoli che corrono dalia fondazione della repubblica fino
ad Appio Claudio, tanto le forme della lingua latina quanto la sin-
tassi si devono essere nella loro sostanza fissate, e un gran progresso
deve aver avuto luogo nel secolo terzo, se già Catone nella prima
metà del secolo secondo seppe dar sì splendidi saggi nell'arte ora-
toria, come risulta dai frammenti dei suoi discorsi. Grande fu poi la
influenza dei poeti, e già il materiale linguistico di Ennio non dif-
ferisce che per poche forme da quello del periodo classico ; quanto
a Plauto, mostrò egli coi suoi arditi neologismi, massimamente nei
composti, come potesse esser feconda la lingua latina, la quale però
fu impedita di svilupparsi liberamente dall'influenza greca. Mollo
tornito ed elegante, ad eccezione di pochi costrutti e forme antiche,
è già Terenzio, l'ultimo rappresentante del periodo antico.
Ma il suo apice toccò la prosa latina nel primo secolo per opera
di Cicerone, il quale però non potè arricchirla quanto da lui s'aspet-
tava, perchè la trovò già stabilmente costituita ; ad ogni modo dob-
biamo a lui un buon numero di nomi verbali e astratti e molti di-
minutivi ; e aggettivi e avverbi rinforzati con la preposizione per.
Con Cicerone, con Cesare, Cornificio e Sallustio si fissa il vero clas-
sicismo latino; la latinità da allora in poi si viene corrompendo e
v' ha una gran parte di poeti , i quali introducono molti grecismi
nella sintassi latina, e il primo prosatore a risentirne la azione ma-
lefica fu Livio, su cui influì grandissimamente Vergilio. La latinità
d'argento da allora in poi piegò verso i costrutti greci ; parchi sono
in questo Velleio, Valerio Massimo e i due Seneca, più ancora Quin-
tiliano, ma per nulla parco Tacito ; parco tuttavia in confronto di
Apuleio, il quale creò una strana sintassi, che fortunatamente non
- 2i02 —
ebbe serie conseguenze, giacché finì, si può dire, con lui la maniera
grecizzante. Negli scrittori più tardivi la sintassi va sempre più sco-
standosi dal classicismo e accostandosi all' uso volgare, e già nel
quinto secolo cominciano ad entrarvi grossolani errori. — Ci fu
dunque un periodo di preparazione, un periodo di perfezione, uno di
corruzione e finalmente di dissoluzione ; e questa è storia.
Per maggior chiarezza recherò tre esempi. Il primo riguarda le
proposizioni interrogative indirette e l'uso del cum. Le proposizioni
nel periodo arcaico tendono più alla forma coordinata che alla su-
bordinata, e così avviene delle interrogative indirette , le quali in
Plauto, a mo' d'esempio, quantunque si trovino pure al congiuntivo,
pure vengono usate solitamente all'indicativo; e chi voglia vedere
quanto lo stile di Plauto abbia influito sullo stile dei nostri umanisti
del quattrocento, deve esaminare la frequenza in loro delle interro-
gative indirette all'indicativo. Nel periodo classico di Roma invece
le interrogative indirette vengono adoperate sempre e assolutamente
al congiuntivo, eccettuato col nescio qui e qualche altro caso più spe-
ciale. La stessa differenza è press'a poco nell'uso del cum temporale.
In Plauto esso cum si trova 229 volte all'indicativo, e 9 volte al con-
giuntivo; in Terenzio 72 volte all'indicativo e 5 volte al congiuntivo ;
in Cesare invece 383 volte al congiuntivo e 35 all'indicativo; in Livio
2864 ^1 congiuntivo e 272 all'indicativo. E questo basti per dimostrare
qual differenza corra tra la sintassi arcaica e la classica.
11 secondo esempio si riferisce all'uso dell' infinito cogli aggettivi,
come indoctus, docilis, patiens, potens, cautus, laetus, bonus e via via,
il quale è raro assai presso gli arcaici , ma frequentissimo nei poeti
classici e posteriori, sotto l'influenza, naturalmente, della sintassi
greca, e quest'uso passò nei prosatori del periodo argenteo e poste-
riori.
Il terzo esempio vale per le proposizioni sostantive, rispetto alle
quali va notato che da Vergilio e Orazio in poi, sempre per l'in-
fluenza greca, molti verbi indicanti un atto della volontà si costrui-
scono coU'infinito, i quali fino allora erano stati costruiti con Vut e
un verbo finito. Parimenti dopo i verbi diceìtdi et sentiendi prevalse
nel secondo secolo dell' era volgare la costruzione col quod , anziché
con l'infinito, come fino a quel tempo si era adoperato ; e anche qui
chi voglia vedere quanto abbiano influito gli scrittori posteriori di
Roma, anziché i classici, sui nostri umanisti del quattrocento non
- 203-
ha che a por mente alla frequenza in loro della costruzione col quod.
— E anche questa, se non m'inganno, è storia.
Prendo un altro fatto d'ordine diverso. Nessuno ignora che una
delle differenze fondamentali tra la lingua latina e l'italiana e tra le
moderne in genere è nei nomi astratti. I nomi astratti della lingua
latina sono in tutti 3814; ora se altri vuol levarsi la curiosità di per-
correre con l'occhio la lettera a di un vocabolario italiano anche pic-
colo, vi trova senza difficoltà un migliaio di nomi astratti. Questa
gran discrepanza forma una delle difficoltà dell' insegnamento della
lingua latina , nella quale bisogna saper accortamente trovare quei
nomi concreti e quelle forme di aggettivi, participi e pronomi , che
corrispondano all'astratto italiano, come speriamo verrà lodevolmente
fatto dal dottor Cima, il quale sta pubblicando per le stampe un
libro di stilistica latina, che sarebbe il primo di tal genere stampato
in Italia. Tornando agli astratti latini, dei 3814 soli 1348 si trovano
usati nel singolare e plurale e vanno distribuiti in modo che di quelli
188 appartengono esclusivamente al periodo arcaico e per la massima
parte a Plauto; altri 52o sono del periodo classico e per la massima
parte di Cicerone; gli altri 640 sono usati esclusivamente dai poeti
classici e posteriori e dai prosatori postclassici, compreso Livio. Ri-
sulta da queste cifre il bisogno che sentivano i Romani di accrescere
il loro patrimonio di nomi astratti, e come in questa parte i più fe-
condi siano stati Plauto e Cicerone. — E questa pure è storia. Ma
lascio di seguitare con gli esempi, se no dovrei citare tutta l'opera
del Drager.
So bene quel che fu obiettato, e si obietterà contro questo me-
todo. Si disse che una tale statistica manca di base, perchè non
tutti gli scrittori antichi ci son pervenuti , ed è probabile che
quella parola, che noi troviamo per la prima volta usata nel secolo
argenteo, fosse in uso anche presso uno scrittore aureo, ma perduto.
Si può rispondere che la stessa probabilità vale anche per il caso
contrario, mancandoci ogni documento. Si può rispondere che rite-
nendo valida e seria 1' obiezione, non ci è dato di far la storia del-
l'arte, perchè solo una piccolissima parte, e nemmeno la migliore
dei monumenti antichi ci è rimasta. Eppure noi facciamo egualmente
la storia dell'arte, pronti domani a modificare il nostro giudizio, se
un nuovo monumento verrà in luce. Così la lingua latina in tanto ha
per noi valore, in tanto esiste per noi, in quanto la troviamo nei
- 204 —
libri e nei monumenti che il tempo ci ha risparmiati e a quelle leggi
che dal loro esame risultano dobbiamo attenerci, sia che di essa
lingua vogliamo narrare la storia, sia che la scriviamo e la inse-
gniamo nella scuola. E quanto alla storia chi ci impedisce di ten-
tarla, solo perchè ci manca la facoltà di indovinare quello che non
possediamo ? quantunque però le leggi storiche della sintassi latina
sono tutt' altro che parto di mera fantasia; e io vorrei supporre che si
scoprisse una intera letteratura perduta del periodo romano, ma quelle
leggi verrebbero luminosamente confermate; se se ne scapiterebbe,
sarebbe forse qualche caso particolare. Quanto poi allo scriverla e
insegnarla questa lingua latina, il libro del Drager porge , indiretta-
mente, preziosi ammaestramenti, e primo di tutti, che il classicismo
vero latino comprende soli Cicerone, Cesare, Sallustio e Cornifìcio
(parlo della prosa) e che è indiscutibilmente dimostrato che in
Livio abbiamo i principi della decadenza della sintassi latina e
che Cornelio Nepote appartiene alla decadenza, il quale perciò deve
credersi sia presentemente non inculcato, ma tollerato nelle scuole ;
chi sa che non venga il giorno in cui la scuola possa far senza di
esso ! ce lo auguriamo. E della decadenza, molto inoltrata, sono pa-
rimenti Floro e Giustino; i quali due nomi non a caso ho qui
ricordati, ma per uno scopo ben altro che biasimevole, come io al-
meno credo. Molti professori e più d'uno scolaro sapranno benissimo
che ci è un corso di temi di versione dall' italiano in latino cavati
dalla storia antica da Saverio Baldini, per uso della quarta e quinta
ginnasiale. Fin qui non c'è nulla di male, anzi tutto bene ; il male
incomincia quando si aggiunga che di questi temi lo stesso Baldini
ha pubblicato la traduzione « per comodo degli insegnanti ». Poveri
insegnanti, che vengono abbassati al livello dei loro scolari, i quali,
naturalmente, cercano, in nome dell'eguaglianza, di elevarsi all'altezza
dei professori e comperano anch'essi per altra mano la traduzione
« fuori di commercio ». Ma qui alla fin fine si tratterebbe di moralità
e di dignità: cose di cui si può anche non tener conto! Il più brutto
si ò che quella traduzione è cavata da Floro e da Giustino e che
questi autori vi son chiamati classici. Io confesso schiettamente che
non so più allora come chiamar Cicerone e Sallustio ; bisognerà
perciò insegnare agli alunni di quarta non più la sintassi e la lingua
di Cesare e di Cicerone, ma quella di Floro e Giustino. Il Baldini
non ha soggiunto che di quando in quando delle spruzzate di Cor-
— 205 —
nello Nepote , o , per non affibbiare a questo grande scrittore ciò
che non gli appartiene, del così detto Cornelio Nepote.
La sintassi storica del Drager è compresa in due volumi, ognuno
dei quali abbraccia due parti ; perciò la sua sintassi consta di quattro
parti. Nella prima esaaiina le parti del discorso, facendo la storia
non della loro forma, ma del loro uso sintattico; e questa si può
considerare l' introduzione dell' opera. La seconda parte tratta della
proposizione semplice, in cui si esamina l'uso del soggetto, del pre-
dicato in tutte le sue forme e dell' attributo. La terza parte tratta
della coordinazione, la quarta della subordinazione, dove le propo-
sizioni subordinate vengono divise in tre categorie : sostantive, attri-
butive e avverbiali. D'ogni fatto sintattico che viene esaminato vi si
trova la storia, seguendo i periodi della letteratura e gli scrittori che
a ciascuno di quelli appartengono.
Il libro del Drager non è elementare, ma presuppone in chi lo usa
la sicura conoscenza di una sintassi latina, che sia informata ai nuovi
studi, come io potrei citare quella del Vanicek e quella di un nostro
italiano, il Baroni. Però anche per chi conosca profondamente la
sintassi latina, per chi abbia digerito, ammettiamo anche, tutta la
sintassi del Madvig, il libro del Drager serba delle stupende sorprese;
anzi di quando in quando rettifica quello che fu asserito dal Madvig;
non parliamo poi di altre sintassi, che pure vanno per le mani degli
studiosi. Né vi ha dubbio che chi voglia oggi scrivere una sintassi
latina, per quel rispetto che si deve alla lingua e alla scienza, abbia
da far capo al libro del Dr'àger. Il quale è in piena regola con la
critica dei testi, e lo sa il Klotz, il cui vocabolario latino, reputato
il migliore o fra i migliori che si abbiano in Germania, è tante volte
dal Drager colto in fallo.
Non è a dire che nulla si desideri nel libro del Drager; vi si de-
sidera una più ampia e sistematica trattazione dei poeti classici, ma
non gli se ne può far rimprovero, perchè è questa una conseguenza
del piano di studi propostosi dall'autore. E quindi non è da meravi-
gliare se nel toccar, secondo l'occasione, della sintassi di essi poeti,
fa qualche asserzione non corrispondente al vero, come qualche volta
io potrei constatare per Vergilio. — Al § 25, dove si trova una serie
di sostantivi che si possono sottintendere a certi aggettivi adoperati
sostantivamente, avrei voluto che si fosse notato anche il nome mensis.
Ventimiglia, i8 giugno i88i. RejMigio Sabbadini.
— 206
Antonio Cima. Priiicipii della stilistica latina. Milano, D. Briola e C,
j88i.
Il giovane prof. Cima, già conosciuto favorevolmente ai lettori di
questa Rivista, ha avuto l'ottimo divisamento di esporre agli Italiani
i principii della stilistica latina, servendosi a quest'uopo delle recenti
pubblicazioni tedesche e in particolare delle lodate opere del Nagels-
bach e del Klotz. Diciamo subito eh' egli non poteva far cosa più
utile e più savia; perchè niente giova meglio a conoscere nella sua
vera essenza la lingua latina, e insieme ad approfondire lo studio
della nostra, che il paragonarle indagandone le analogie e le diffe-
renze; paragone tanto più proficuo ai dì nostri, quanto che, essendo
quasi del tutto caduta in discredito l'abitudine dello scrivere latino, si
vanno perdendo quei vantaggi incontestabili che da tale abitudine
derivavano. Le osservazioni che fa il Cima nella Prefazione per di-
mostrare l'utilità di uno studio diligente e profondo della lingua la-
tina sono veramente giudiziose, e otterranno, credo , 1' approvazione
dei ben pensanti. Nò egli si scosta dal vero quando afferma che ad
una notizia precisa del latino, una serie di proposizioni, le quali
mettano in rilievo l'indole sua peculiare, non è meno utile e meno
necessaria che la pratica conoscenza degli scrittori.
Venendo alla trattazione della materia, TA. comincia a far notare
tra lo stile latino e 1' italiano tre specie di differenze ; materiali , lo-
giche e logico-materiali; le fa vedere mettendo a riscontro un periodo
di Cicerone e la sua traduzione in istile moderno. Poi in cinque ca-
pitoli tratta delle differenze logiche consistenti : a) nella sostituzione
di concetti specifici o individuali a concetti generici o specifici, e vi-
ceversa; b) nella sostituzione di espressioni astratte o concrete; e) nello
scambio di concetti subiettivi e obiettivi, attivi e passivi ; d) nell'uso
della circoscrizione o lessicale o logica o retorica. 11 7" capitolo è
dedicato alla proposizione ed all'analisi delle sue parti; 1' 8" all'analisi
del periodo; il 9° allo studio dell'interno organismo della proposi-
zione e del periodo. Per ultimo discorre degli arcaismi, dei grecismi,
dei neologismi, i quali guastando la purità e proprietà della lingua
lasciano traccia anche nello stile.
— 207 —
Come si vede da questo breve sunto, e come dice l'A. medesimo
(pag. XIX-XX della prefaz.). egli si scosta nel determinare l'ambito
della sua materia dalle vedute del Klotz, e s'accosta di preferenza al
Nagelsbach ; esclude infatti dalla trattazione della stilistica le teorie
della purità, della chiare:j:;a, della varietà del discorso , e dell' altre
onde il Klotz parla nel suo manuale , slimandole oggetto della re-
torica anziché della stilistica, e questa volendo limitata a mettere in
rilievo la special maniera di concepir le cose ed esprimersi dei La-
tini. Ma alla sua volta si allontana dal Nagelsbach nella distribuzione
della materia ; e cioè in vece di dividerla secondo le parti del di-
scorso, divisione ch'egli stima più da grammatica che da stilistica, ei
s' ingegna di raggruppare le principali differenze fra le due lingue
sotto certe classi caratterizzate da quelle particolarità nell'atteggia-
mento del pensiero, per es., la classe dei concetti generici e specifici,
quella dei concetti astratti e concreti ecc., discorrendo poi in ciascuno
di quei nomi, aggettivi, verbi, in cui tale differente atteggiamento del
pensiero si manifesta. In questo, pare a me, il Cima ha adoperato
giudiziosamente, e la materia riesce così più logicamente ordinata,
in guisa da far capire subito al lettore l'intima natura dello stile la-
tino ed italiano.
Dubito se si possa dire altrettanto per avere escluso dalla stilistica
ogni considerazione relativa alla chiarezza, alla varietà , all' armonia
del discorso latino ; perchè sebbene questa trattazione sembri cadere
nel dominio della retorica, pure tali qualità danno anch'esse uno
stampo particolare al latino e lo caratterizzano non meno delle sue
specialità logiche. Per es., niuno negherà che il rotondamento del
periodo e il niimerus richiesto da Cicerone anche nella prosa sia un
carattere divenuto costante nella latinità, sebbene con molta varietà
di forme. Considerazioni di questo genere non vanno ommesse sicu-
ramente, chi voglia, oltre a dei principii teoretici, dare pratici pre-
cetti per tradurre o scrivere in buon latino ; e questo era anche uno
degli scopi che il Cima s'era proposto col suo libro. Ma anche pre-
scindendo dall'utilità pratica, se per istile si deve intendere la ma-
niera speciale di concepire le cose e conseguentemente d'esprimerle,
una teoria dello stile mi sembra dovrebbre abbracciare tutto quello
che a tale atteggiamento del pensiero e della parola presso un popolo
si riferisce, anche la parte ornamentale, dato che questa non sia una
manifestazione sporadica, ma proprio una forma costante e però in-
- 208 —
tima del pensiero di quel popolo; come un libro d'architettura trat-
tando della maniera di far le case o gli altri edifizi non è ragionevole
che escluda i principi dell'ornamentazione che il buon gusto comune
esige omai in qualsiasi costruzione architettonica.
Ma lasciando stare tutto ciò, e limitandoci a quello che il Cima ci
ha dato nel suo libro , si può dire in generale che le teorie vi sono
esposte con chiarezza e corredate di buon numero d'esempi che ser-
vono a spiegarle e imprimerle meglio nella memoria di chi legge.
In una nuova edizione l'A. avrà forse da migliorare qua e là qualche
espressione; per cs., il § i, ove si parla dello stile, nella sua forma
presente è un po' oscuro, e un giovane lettore difficilmente ne può
trarre un concetto preciso. Sarà poi poco meno che indispensabile
corredar l'opera con un index rerum et verborum che agevoli la ri-
cerca delle singole cose.
Conchiudendo, noi ci rallegriamo di cuore col prof. Cima della
sua pubblicazione, la quale stimiamo che potrà divenire e un eccel-
lente manuale per gli studenti delle scuole secondarie, e una buona
guida per gli insegnanti.
Palermo, giugno 1881.
Felice Ramorino.
Ersilia Caetani Lovatf.lli. Di una testa marmorea di fanciullo au-
riga, Roma, 1880. — Di una antica base marmorea con rappre-
sentante del Nilo, Roma, 1880. — Di un antico musaico a colori
rappresentante le quattro fazioni del circo. Roma, 1881.
Allo scritto sul cratere dell'Esquilino con la rappresentazione delle
nozze di Elena e Paride, del quale ho dato ragguaglio ai lettori della
Rivista (i), la contessa Lovatelli ha fatto seguire in poco tempo tre
altri lavori, di cui due uscirono come il precedente ed altri della
(1) Anno IX, p 147-151.
- 209 -
egregia autrice, nel Biilletlino della commissione archeolos^ica comu-
nale di Roma, e il terzo fa parte delle Memorie dell' Accademia de'
Lincei.
Nel primo di questi lavori è descritta una testa marmorea scoperta
nel marzo i8*^o sull' Esquilino , nell'antica vigna del monastero di
Sant'Antonio. La testa è di un fanciullo sui quattordici anni con un
elmetto, da cui escono capelli ricciuti ed originariamente dorati se-
condo un uso noto della plastica antica. La forma dell'elmetto in-
duce a ravvisare in questa testa l' imagine di un agitatore circense,
per il quale non è sconveniente l'età fanciullesca; giacché si cono-
scono altri esempii di agitatori, che in teneri anni incominciarono la
vita del circo. Rarissime sono !e figure iconiche di agitatori; onde
singolare pregio possiede questa testa finamente e maestrevolmente
lavorata, nella quale è notevole la verità dell'espressione. La contessa
Lovatelli reputa sì fatta scultura non posteriore al secondo secolo
dell' era volgare, nel qual tempo appunto i giuochi del circo erano
in grande voga, e destavano una vera smania . per la quale agitatori
e cavalli vincitori con imagini ed iscrizioni erano onorati.
Una base cilindrica di marmo parlo, trovata riell'ottobrc dell'anno
scorso negli scavi per le fondamenta del nuovo palazzo dell' Esposi-
zione di Belle Arti è il soggetto del secondo scritto. Su questa base,
dell'altezza di m. 0,37 e del diametro di m o,33, sono scolpiti all'in-
giro bassirilievi, i quali, sebbene assai consumati, mostrano però di
essere stati poco accuratamente lavorati, ed accennano, col loro stile,
alla fine del secondo secolo dell'era volgare. Vi è effigiato il Nilo
barbuto, semigiacente, col cornucopia ed appoggialo alla Sfinge, quale
si trova rappresentato in altri antichi monumenti. A tale proposito
è degna di osservazione la congettura della contessa Lovatelli che
l'ignoto oggetto di forma piramidale, che tra fiori e frutti s' inalza
nel cornucopia del Nilo in questo rilievo e in quello di altre divinità
in altri monumenti, e che talora è anche figurato rappresentante offerte
votive, sia il vomere significante che l'agricoltura debbe venire in
aiuto alla ricchezza ed alla fertilità, simboleggiale dal corno dell'ab-
bondanza. Quattro dei genielti solili ad accompagnare le figure del
Nilo stanno intorno alla imagine descritta, la quale, come altre
rappresentazioni del fiume egizio, tra cui la colossale del museo Pio
dementino, sono, senza dubbio, riprodotte da un qualche bello ed
ammirato simulacro, probabilmente da quello, che Plinio descrive
lifvislJ di JilolOffia ecc. . X I4
- 210 -
esistente a' suoi giorni a Roma nel tempio della Pace (i). Alla sinistra
del Nilo stanno in diverso atteggiamento due giovanetto, di cui l'una
è pressoché ignuda e l'altra appena da sottili vesti coperta. Esse sono
due ninfe nilotiche, e, come suppone la illustratrice, probabilmente
iMenfide e Anchirroe, figliuole del fiume. Alla destra del Nilo poi
un barcaiuolo nudo, salvo il ventrale a' fianchi e la caiisia sui capo.
l'uno e l'altra indumenti proprii de barcaiuoli, marinai e pescatori,
se ne sta seduto entro una barchetta con timone munito del manico
(ansa) e della manovella [davus]. Con la sinistra egli si appoggia
alla barchetta, e con la destra tiene una canna per la pesca (arundo).
L' intiera scena sembra imitata da qualche opera anteriore di più
valente artefice, forse da qualche pittura. La base poi pare fosse de-
stinata a sostenere un candelabro; ed è probabilissima la supposi-
zione della contessa Lovaielli che questo avesse appartenuto a qualche
tempio, dove si celebravano le misteriose cerimonie del culto egizio,
così in fiore a Roma, specialmente nell'età degli Antonini.
Come il primo dei lavori accennati e come due altri scritti della
egregia contessa (2) , la terza ed ultima delle illustrazioni da lei ora
date in luce concerne un soggetto circense. Fra le rovine di una villa,
edificata sul principio del terzo secolo, al decimosettimo miglio della
via Cassia non distante dalla stazione di Baccanas (Baccano), fra altri
musaici se ne rinvenne, alcuni anni addietro, uno diviso in quattro
quadretti , in ciascuno de' quali è rappresentato un auriga in piedi
tenente per il freno un cavallo sauro. Questi aurighi hanno il solito
abito circense , la tunica quadrigaria (xitùjv vjvioxikóc;) stretta al to-
race da striscie di cuoio. In capo hanno un elmetto con un piccolo
pennacchio ad un lato; le braccia sono coperte da lunghe maniche e
le gambe da brache e cnemidi. 11 colore della tunica è diverso in
ciascuno degli aurighi : bianco, verde, azzurro e rosso. Sono quindi
rappresentate le quattro fazioni del circo, albata , prasina , veneta e
russata, le quali, sul finire del secolo terzo, si ridussero a due sol-
tanto, fondendosi Valbata con la prasina e la russata con la veneta^
e tali si mantennero a Roma e poi nella nuova capitale, Costantino-
poli, finché furono celebrati^ i ludi del circo. 11 musaico, ora illu-
strato, è certamente contemporaneo alla edificazione della villa; ri-
(1) Nat. Hist., XXXVI, 11.
(2) Vedi Rivista, anno VII, p. 399-4UU, Vili, p. 295.
— 211 -
saie cioè al tempo, in cui fiorenti erano gli spettacoli circensi, e a
celebrare i loro camp-ioni si destinavano monumenti d'ogni maniera.
Occorre però osservare con la contessa Lovatelli come dall'assenza
de' nomi presso gli aurighi e i cavalli (evidentemente i sinistri /tf-
nales di ogni quadriga, cioè quelli meglio addestrati epperò più sti-
mati e ai quali si attribuiva in gran parte la vittoria) si deve dedurre
che nel musaico non si vollero effigiare figure iconiche, ma soltanto
rappresentare le quattro fazioni contendentisi la palma ne' ludi. Le
quattro figure del musaico, confrontate ira di loro e con altri monu-
menti, in cui sono rappresentati agitatori, mostrano ancora qualche
leggera differenza nel modo di vestire; perciò si può conchiudere
che se uno solo era il modo di vestire circense, i particolari però po-
tevano essere modificati.
In principio del suo nuovo lavoro l'egregia autrice ci manifesta
aver ella « spesse volte vagheggiato l'idea di raccogliere un giorno
« insieme ed illustrare ogni sorta di monumenti che ai giuochi del
« circo si riferissero, ed offrire così ai cultori delle archeologiche
« discipline una compiuta e generale monografia circense ». Tale la-
voro, fatto da chi dimostrò, come la eh. contessa, di conoscere così
bene l'archeologia circense, sarebbe un graditissimo dono agli stu-
diosi, che per s'i fatto argomento non posseggono una compiuta mo-
nografia oltre a quella antica di Onofrio Panvinio (i). Se non che la
egregia autrice lasciandoci indovinare il suo animo da gravi cure
amareggiato, mestamente soggiunge: « Se tale mio desiderio verrà
V mai recato ad effetto, lo ignoro, imperocché pur troppo :
Vitae siimma brevis spam uos velat inchoare longam - .
iMa noi soggiungeremo con lo stesso Venosino e in più nobile senso
interpretando le sue parole :
(1) De ludis circensibìis libri //, Venetiis, 16(J0, lisiampntì cuin notis
Joannis ArgoLi et additamento Nicolai Piiielli noi volume IX del The-
saurus antiquitatum Romanarum del Grevio , p. 1-576, nel quale vo-
lume si legge pure dopo questa la dissertazione di Giulio Cesare Bu-
i.KNGER, De circo Romano, ludisque circensibus, etc.
Una trattazione di questo soggetto, breve, quale la richiedeva 1' eco.
iiomia dell'opera, e in relazione col disegno dell' intero lavoro, si ha nel
volume III della Romische Staatsverwaltuìii/ d^l Marquardt, pag. 484
e segg.
- 212 -
Quid sit fiitiintm cras, fiife quaerere, et
Quem Fors dierum cuuqiie dabit, lucro
Appone.
E non v' ha , crediamo, per yli uomini di studio, mezzo migliore
di adoperare utilmente il tempo quando il cuore sanguina per pro-
tonde ferite che dedicare tutto sé stesso ad un lavoro di lunga lena,
il quale, trasportandoci nelle serene regioni della scienza, ci sollevi
dai nostri dolori, ce li faccia per un poco obliare. Tali lavori di
lunga durata diventano amici e compagni per alcuni anni della vita,
sono fonte di consolazione, in cui l'animo affranto si ritempra; e,
quando si ha la ventura di possedere l'ingegno della contessa Lova-
telli, sono quasi un obbligo verso la scienza e i suoi cultori, i (juali
hanno diritto di attendere da colui . che può darli, maturi e con-
siderevoli frutti del suo sapere.
Torino, 16 luglio 1881.
Ermanno Ferrerò.
Victoris episcopi Vitensis hisloria persecutionis Africanae provinciae
recensuit Michael Petschenig. Vindobonae, 1881.
Questa nuova edizione della storia, scritta da Vittore vescovo di
Vita, della persecuzione contro i cattolici d'Africa fatta nel secolo
quinto dai re vandali (ìenserico e Unerico, costituisce il volume set-
timo del Corpus scriptorum ecclesiasticorum Latinorum pubblicato per
cura dell'Accademia delle Scienze di Vienna (1). Stampata per la
prima volta a Colonia da Beato Renano nel ib'òy , la storia del ve-
scovo di Vita fu ripubblicata più volte, e fra le antiche edizioni si
citano quella del l.orichs e quella di D. Ruinart (Parigi , i()94).
Recentemente uscì per cura dell" Hai m ne' Monumenta Germaniae
(1)11 volume primo del detto Corpus coni piemie Sulpicio Severo secondo
la recensione di Carlo Halm, che curò pure il volume secondo contenenle
Minucio Felice e Giulio Firmico Materno. Nel volume terzo si hanno
le opere di San Cipriano (comprese le spurie) edite da Guglielmo Hai tei,
e nel quarto Ainobio, secondo la recensione di A. lieifl'erscheid. 1 vohimi
(]iiintu (* sosto sou'i sol (o i torchi.
— 213 —
historica (i). Il prof. Michele Petschenig, che attese .'iirultima edi-
zione nel Corpus menzionato , aveva già ragionato dei manoscritti
della storia di Vittore in un accurato lavoro inserito negli Atti del-
l'Accademia viennese (2). Per compiere questa sua recensione egli si
giovò di nove manoscritti, de' quali il più antico e migliore è un co-
dice della biblioteca di Bamberga del secolo IX. De' rimanenti co-
dici parte deriva dall' archetipo, con cui si connette il ban-jbergcnsc,
parte da un'altra fonte men buona. y\lla storia della persecuzione
segue la Passio septem monachorum^ che soffrirono il martirio sotto
fJnerico, attribuita a Vittore, a cui però non appartiene, e la così
detta Notitia provinciarum et civitatum Africae, la quale contiene i
nomi de' vescovi qui Cartilagine ex praecepto regali venerunt prò
reddenda ratione jìdei die Kl. Februarias anno sexto regis Hunerici,
e che furono coinvolti nella persecuzione.
Torino. 11 settembre 1881.
Ermanno Ferrerò.
Institutes de Gaius — 6« édition (i'"'' francaise) i\''2i\)VQs,Vapographum
de Studemund par Ernest Dubois. Paris, 1881.
È noto come nel 1816 il Niebuhr, venuto per visitare 1' Italia, rd-
lorchè meditava di scrivere la sua storia roman;i , abbia tosto avuto
la singolare fortuna di scoprire in un palinsesto della biblioteca ca-
pitolare di "Verona il testo delle perdute Istituzioni di (ìaio. Il co-
dice, secondochè lo stesso Niebuhr ed altri piscia after marono. non
potè essere scritto dopo Giustiniano; ma si deve aggiungere che non
pare scritto molto tempo innanzi, laonde conviene assegnarlo fra il
quinto secolo ed il sesto. Più tardi, sembra verso l'ottavo secolo, sul
testo primitivo se ne scrisse un altro, quello delie lettere di San Gi-
rolamo; anzi un quarto circa delle pagine dell'intero codice porta
tre diverse scritture. Se la grafia del codice, come quella in generale
(1) Auctorum antirjttis.iimorum t. Ili, pars prior, Berolini, 1878.
(2) Dir. hunds/hrl ft iirhe Ueberlieferunc/ dea Victor von Vita [Si-
tzungsber. der phit.-hist. Classe, XCVI Band , 1880, p. 637 e segg.!.
- 214 -
del tempo, a cui appartiene non presenta grande difficoltà di lettura,
al contrario, la sovrapposizione di altra scrittura con la necessaria
cancellazione o sbiadimento della prima rende ardua la trascrizione
esjiitissima delle Istituzioni . interrotte altresì da lacune, più o meno
lunghe; onde non pochi i luoghi dubhii, che aprono quindi il campo
alle congetture ed alle differenti interpretazioni degli eruditi.
La prima edizione di Gaio comparve nell'anno seguente alla sco-
perta del Niebuhr, e fu opera dei Goeschen, del Bekker e del Be-
thmann-HoUweg , da cui fu copiato il codice. La trascrizione del
Goeschen fu riveduta dal Bluhmc, e, giusta questa revisione, usci nel
iS'24 la seconda edizione dello stesso Goeschen, alla quale tennero
dietro parecchie altre, tra cui la terza del Goeschen puhblicata dal
Lachmann nel 1842, le cinque del Boecking dal ìS3j al 1866, le due
prime dell'Huschke ecc. Il Bluhme, servendosi di più energici mezzi
chimici, lesse, è vero, non pochi luoghi, che il Goeschen non aveva
potuto leggere, ma la lettura di quello non è sempre esatta, più di
una volta essa è arbitraria. Si deve poi inoltre lamentare che i mezzi
chimici dal Bluhme adoperali abbiano in qualche luogo gravemente
danneggiato il manoscritto.
Ma l'inesattezza della trascrizione del Bluhmc non poteva essere
conosciuta se altri non avesse assunto la grave fatica di una nuova
e compiuta revisione dell'intero palintesto. Alcuni tentativi erano
stati fatti dopo il Bluhme; ma la loro inutilità faceva giudicare di-
spei-ata impresa ciucila, a cui nel i86t"i si accingeva un giovane hlo-
logo tedesco, (ìuglielmo .'~<tudemund. Se non che questi, non lascian-
dosi perdere di coraggio dall'affermazione del Bethmann- Hollweg
che niuna utilità avrebbe avuto questa revisione, la proseguì con co-
laggio ed alacrità, ottenendo importanti risultamenti. Piccole lacune
furono colmate, lezioni dubbie furono confermate, altre respinte;
in una parola, si potè avere un testo di ({aio non solo esatto, ma
meno manchevole di quelli dati dalle trascrizioni del Goeschen e del
Bluhmc.
Abbiam detto un testo meno manchevole , poiché pur troppo di
quell'insigne monumento della romana giurisprudenza, che si è il
libro di Gaio, noi non abbiamo che il solo palinsesto veronese, il
quale, oltre a piccole lacune, ha circa trenta pagine o interamente o
in massima jiarie illeggibili, ed è privo di sei pagine. Tuttavia la tra-
scrizione studcmundiana ha procuralo il modo di rettiHcare alcuni
punti notevolissimi non solo per la restituzione del testo di Gaio,
ma per la conoscenza del diritto romano. Alla comunicazione, fatta
nel i8Gq al congresso de' filologi tedeschi a Wurzburg, lo Studcmund
- 215 —
fece seguire nel 1874 la pubblicazione del suo apografo (1), e nel 1877
col sussidio del Krliger una nuova edizione dell'opera del giurecon-
sulto romano. Già un dolio olandese, il Polenaar, l'aveva preceduto,
pubblicando a Leida, secondo il nuovo apografo, un'edizione di Gaio.
Seguirono poi nel 1878 l'edizione dell' Huschke a Lipsia, nel 1880
quella pure lipsiense dello Gneisl e la edimburghese del Muirhead e
in principio di quest'anno la parigina del sig. L mesto Dubois, pro-
fessore nella facoltà di diritto di Nancv , nolo per altri lodevoli la-
vori di diritto romano e moderno (2).
Questa nuova edizione è superiore alle precedenti, perchè ripro-
duce esattamente l'apografo studemundiano e in pari tempo adem[Mc
all'ufficio di una buona edizione critica con la correzione cioè e i sup-
plementi, ma lasciando interamente separato ciò che è riproduzione
dei codice da quanto è restituzione o congettura. Nelle edizioni an-
tecedenti i supplementi erano bensì segnati in diversa maniera ; m;i
non erano sempre indicate le soppressioni e le correzioni in modo
da far tosto spiccare ciò che era scrittura del codice da ciò che era
congettura del moderno editore.
Provvide pertanto il prof. Dubois a tor di mezzo questo incon-
veniente, dando una riproduzione dell'apografo dello Studemund e
riunendo nelle note, a pie di pagina, le restituzioni, che furono pro-
poste a cominciare dal tempo del Niebuhr sino agli ultimi lavori,
aggiungendovi ancora, ma parcamente, proprie congetture. Così lo
studioso ad ogni luogo guasto ha la serie cronologica delle emenda-
zioni fatte dai diversi editori ed anche da altri dotti , come dal Sa-
vigny, Rudorff, Mommsen, ecc.
La riproduzione dello apografo è fatta coi caratteri di stampa con-
sueti ; ma l'editore ebbe sempre cura d'indicare dove finiscono le
linee e le pagine nel codice (indicando in nota lo stato attuale delle
pagine, sotto l'aspetto della facilità o difficoltà della lettura), segnando
i tratti bianchi nel codice, sottolineando con punti le parole ancor
dubbie secondo lo Studemund, e, giusta il medesimo trascrittore, in-
l) (raii Institutionum commentarii quatuor codicis Veiouensis
denuo collati apographuiri ooufeoit et iussu Academiae regiae scientia-
rum Berolinensis edidit Guilel.mus Studemund, Lipsiae, 1874.
(2) Tra i primi : Le Sénatus-consulte Velléien en dì'oit romain et
Vincapacité de la femme mariée m droit fram^ais, Paris, 1880 ; La
tahle de C1.es, édit. de. Claude de l' an 46, Paris, 1872; La saisive hé-
reditaire en droit romain, Paris, 1880.
- 216 -
dicando con lettere più piccole sulle ordinarie quelle, che in luoghi
di tluhbia lettura si p.ossono forse porre in luogo di queste.
Il prof. Dubois ha voluto pertanto riprodurre fedelissimamente la
trascrizione dello Studemund, introducendovi soltanto la punteggia-
tura necessaria per la lettura; sciogliendo le sigle e le note, ma in-
dicando però in corsivo le lettere aggiunte per lo scioglimento. Sopra
un punto ci pare di non poter consentire con l'egregio editore; cine
sulle restituzioni, ch'egli chiama antiche e che da lui sono inserite nel
testo, e sulla correzione di errori di copisti. Quanto alle prime, fon-
date o sui frammenti di Gaio conservati nelle Pandette, o sui passi
delle Istituzioni di Giustiniano, riprodotti senza dubbio da quelle di
(jaio, o suir^.'jL;/7omf di Gaio, o sulla Mosaicanim et Romanarumlesj^iim
collatio, o sulla parafrasi di leotìlo, sebbene imiicate tra parentesi (i),
tuttavia ci sembrano che piìi acconcio luogo avrebbero potuto avere
in nota. È vero che sono passi di Gaio; ma qualche lieve alterazione
non può essere stata dai copisti introdotta ?
Nelle correzioni poi di errori di lingua è difficilissimo stabilire un
limite esatto. Non conveniva meglio lasciare il testo qual era, anche
con le sue scorrezioni, le quali poi non sono sì gravi da impedire di
comprenderne il senso? (2).
Questo punto, su cui noi dissentiamo dall'editore, è picciolissima
cosa rispetto alla intera opera. A noi e grato unirci a coloro, che ac-
colsero con lode questa diligente e dotta edizione del grande giure-
consulto.
Torino. 9 novembre 1881.
Erma.nno Ferrerò.
(1) Semplici per i passi del Digesto, doppie per le Istituzioni giusti-
nianee, triple per le altre opere.
(2) È scambiata , per esempio , sovente la v in h , come serhus per
servus^ sibe per sive\ ma questo scambio che la latinità ammise (veg-
gansi le iscrizioni, specialmente le cristiane) non si può davvero consi-
derare siccome un errore.
Pietro Ussello, gerente responsabile.
"BALLA "BATTAGLIA T)ELLA TREBBIA
qA QUELLA DEL TRASIMENO
QUESTIONI DI STORIA ROMANA (l).
CAPITOLO SECONDO
Sulla partew^a di C. Flaminio console
designato per Panno 537/217.
Livio racconta che C. Flaminio , designato console per
Tanno 537/217, invece di rimanere a Roma almeno fino
alle Idi di marzo che era il giorno in cui i nuovi consoli
entravano in carica, se ne andò quasi di nascosto a Rimini
e assunse l'ufficio colà. Cagione di questa più fuga che par-
tenza del console romano per la sua provincia era, secondo
lo stesso Livio , la seguente : Tutta la carriera politica di
Flaminio era stata una lotta continua col Senato e colla
fazione aristocratica , quindi temendo che i suoi avversari
meditassero vendicarsi di lui trattenendolo in Roma e
cercando dì spogliarlo del consolato, egli pensò bene di al-
lontanarsi il più presto possibile. Né i legati del Senato
andati per farlo ritornare a Roma a compiervi i doveri re-
ligiosi e civili che incombevano ai nuovi consoli, riuscirono
;i) Vedi Rivista di Filologia, anno IX, fase. 10-12, p. 481-512.
'Hjvista di Jiloloi^ia ecc., A" i5
— 218 -
a persuaderlo. « Consulum designatorum alter Flaminius ,
cui eae legiones, quae Placentiae hibernabant, sorte eve-
nerant, edictum et litteras ad consulem misit, ut is exer-
citus Idibus Martiis Arimini adesset in castris. Hic in
provincia consulatum inire consilium erat memori vete-
rum certaminum cum patribus , quae tribunus plebis et
quae postea consul prius de consulatu qui abrogabatur ,
dein de triumpho habuerat , invisus etiam patribus ob
novam legem, quam Q. Claudius tribunus plebis adversus
senatum atque uno patrum adiuvante C. Flaminio tu-
lerat, ne quis senator cuive -^enator pater fuisset mariti-
mam navem, quae plus quam trecentarum amphorarum
esset , haberet. Id satis habitum ad fructus e\ agris vec-
tandos; quaestus omnis patribus indecorus visus. Res per
summam contentionem acta invidia apud nobilitatem sua-
sori legis Flaminio, favorem apud plebem alterumque inde
consulatum peperit. Ob haec ratus auspiciis ementiendis
Latinarumque feriarum mora et consularibus aliis impedi-
mentis retenturos se in urbe, simulato itinere privatus clam
in provinciam abiit. Ea res ubi palam facta est, novam in-
super iram infestis iam ante patribus movit: non cum se-
natu modo sed iam cum diis immortaiibus C. Flami-
nium bellum gerere. Consulem ante inauspicato factum
revocantibus ex ipsa acie diis atque hominibus non pa-
ruisse-, nunc conscientia spretorum et Capitolium et sol-
lemnem votorum nuncupationem fugisse , ne die initi
magistratus lovis optimi maximi templum adiret ; ne
senatum invisus ipse et sibi unum invisum videret con-
suleretque -, ne Latinas indiceret lovique Latiari sol-
lemne sacrum in monte faceref, ne auspicato profe-
ctus in Capitolium ad vota nuncupanda, paludalus inde
cum lictoribus in provinciam iret. Lixae modo sinc in-
signibus , sine lictoribus profectum clam , furtim , haud
— 219-
aliter quam si exilii causa solum vertisset. Magis prò ma-
iestate videlicet imperii Arimini quam Romae magistra-
tum initurum, et in deversorio hospitali quam apud pe-
nates suos praetextam sumpturum. Revocandum universi
retrahendumque censueruni et cogendum omnibus prius
praesentem in deos hominesque fungi officiis, quam ad
exercitum et in provinciam iret. In eam legationem (le-
gatos enim mitti placuit) Q. Terentius et M. Antistius
profecti nihilo magis eum moverunt, quam priore consu-
latu litterae moverant ab senatu missae. Paucos post dies
magistratum iniit, inmolantique ei vitulus iam ictus e ma-
nibus sacrificantium se se cum proripuisset, multos cir-
cumstantes cruore respersit; fuga procul etiam maior
apud ignaros, quid trepidaretur, et concursatio fuit. Id a
plerisque in omen magni terroris acceptum. Legionibus
inde duabus a Sempronio prioris anni consule, duabus a
C. Atilio praetore acceptis, in Etruriam per Appennini
tramites exercitus duci est coeptus » (i).
(]} Livio, 2 1 . 63.
Occorre che facciamo tre osservazioni a proposito di questo passo
di Livio. I' Nelle parole di Livio de consulatii qui abrogabatur il
verbo è usato in senso lato, non in senso rigoroso, perchè abrogare
voleva dire togliere un ufficio mediante una legge [rogatio] ; ma nel
53 1/223 Flaminio e il suo collega nel consolato non vennero privati
dell'ufficio direttamente nei comizi del popolo per mezzo d'una ro-
gazione, essi furono soltanto invitati a deporlo, coli' annunziar loro
ufficialmente che essi erano stati vitio creati, cioè che la loro elezione
era viziosa e imperfetta. Questo sia detto a scanso d'equivoci. —
2» Le parole di Livio ratus retenturus se in urbe secondo me non
possono significare, se non che Flaminio credeva che lo avrebbero
spogliato del consolato, se egli fosse rimasto a Roma, intendiamoci
bene, dico che questa è l'idea di Livio, non che questa ragione ad-
dotta da Livio per spiegare la partenza prematura di Flaminio sia la
vera ; cf. § 4" di questo capitolo. Ma che Livio scrivendo come scrisse,
credesse come io spiego, non c'è dubbio : che un retinere in urbe così
temuto dal nuovo console da indurlo a fuggire da Roma di nascosto
— 220 -
Tale è il fatto che imprendiamo ad esaminare, e tale è il
modo con cui Livio lo narra.
L' esame della quistione relativa alle Fonti superstiti di
esso, lo faremo, naturalmente, nel corso del capitolo , non
però in principio, contrariamente alla consuetudine generale
di aprire le investigazioni storiche colla disamina delle te-
stimonianze ; tali disamine infatti, mirando a sceverare dal
vero delle notizie ogni aggiunta arbitraria frammischiatasi
in processo di tempo alla verità, stanno bene in principio,
generalmente parlando; ma il nostro caso è eccezionale*, la
moltitudine delle cose da dire e la fisonomia speciale che
la questione , come vedremo , viene questa volta ad assu-
mere, richiedono un ordine diverso dal solito ; diverso nei
mezzi, non nel fine che è sempre la chiarezza del disegno
e della disposizione delle parti. Ma veniamo senz'altro alla
cosa.
Qual è il motivo per cui vogliamo esaminare la partenza
prematura di Flaminio? Il motivo 1' abbiam detto nell'in-
troduzione notando che cotesta partenza è un fatto pieno d'in-
teresse dal puntq di vista del diritto pubblico dei Romani,
essendo quella la prima volta, a quanto sappiamo, che un
console lasciava Roma, mentre era semplice console desi-
gnato, senza aspettare d'essere entrato effettivamente in carica,
per recarsi nella propria provincia. Due sono poi le parti
del nostro compito in questo proposito: nella prima fa mestieri
discutere la verità storica del fatto, per metterla in sodo, o
viceversa per metterla in dubbio-, nella seconda, che natu-
doveva essere evidentemente non soltanto un farne indugiare la par-
tenza, ma un impedirgliela del tutto, cioè dunque una spogliazione
dell'ufficio. — 3" Dissi che tutta la carriera politica di Flaminio era
stata una lotta col Senato; si eccettui però la sua censura: cf. più
innanzi.
- 221 -
Talmente può aver luogo soltanto nel caso che la verità del
fatto sia stata riconosciuta incontestabile, occorre meditare
sul fatto stesso nell'intento di indagare meglio e quasi svi-
scerare lo stato interno della Repubblica in quel momento.
Un esame così largamente concepito del fatto manca tuttora-,
però non mancano alcune ricerche parziali :, ma esse sono
inadeguate nelP estensione e nel metodo, e paionmi errate
nella conchiusione a cui pervengono (negando la verità della
partenza anticipata di Flaminio), come si vedrà a suo luogo,
quando passeremo in rassegna ciò che in sostanza esse con-
tengono. Le molte cose che dobbiamo dire sulT argomento
di questo capitolo si possono acconciamente dividere in
quattro parti che formeranno dunque quattro paragrafi :
nel primo ricercheremo, se in tesi generale l'assenza da Roma
di uno dei nuovi consoli, nel giorno in cui questi assume-
vano l'ufficio e nei giorni seguenti, fosse una cosa possibile
o impossibile nell' età della seconda guerra punica; e tro-
veremo che era possibile. (Son queste le considerazioni che
devono essere la base di tutta la trattazione-, eppure esse
mancano totalmente nelle ricerche parziali alle quali accen-
navo ora). Nel secondo paragrafo indagheremo, se la cosa,
possibile in genere, paia probabile e vera nel caso concreto
di Flaminio; e molte considerazioni di più sorta, non fatte
da coloro che la negano , ci porteranno a credere di sì.
Così accertata la verità del fatto, passeremo in rassegna, nel
terzo paragrafo , le obbiezioni sollevate contro di esso. In
fine, nel quarto paragrafo, ci serviremo del fatto per spin-
gere lo sguardo un po' addentro nella storia interna di
Roma in que" giorni calamitosi.
^ I. Se, e per me:[:{0 di quali spedienti, fosse possibile
permettere l' assenna da Roma ad uno dei nuovi consoli
nel giorno in cui questi ultimi assumevano l'ujfìcio e net
-222 -
giorni susseguenti. Badiamo bene che parliamo delTassenza
di un solo dei due consoli, e non dell'assenza di ambedue.
La quistione che qui sollevo è importante, e nondimeno
intentata finora (i). Certo Tavranno trattata quegli antichi
scrittori romani che discorsero del loro diritto pubblico ,
quali furono, ad esempio, C. Sempronio Tuditano (2), M.
Giunio Gracchano (3), e Cincio (4) -, ma le loro opere son
perdute; né i critici moderni istituirono indagini di sorta
su questo argomento (5). Ora è chiaro che la risposta alla
(i) Il MoMMSEN (Staatsrecht, 1, 594, seconda edizione) dice soltanto
che l'entrare in carica fuori di Roma era bensì procedimento irrego-
lare, ma tuttavia possibile; ma egli del tempo della Repubblica non
cita che l'esempio di C. Flaminio, esempio di cui egli altrove {R6-
mische Forschungen, 2, 99) contesta la verità storica. Il Lance poi
parlando della cosa [RÓmische Alterthìlmer, i, 622 segg., seconda edi-
zione) non nota nemmeno se 1' ufficio si dovesse assumere in Roma
o si potesse assumere anche altrove. A questo proposito aggiungerò
che il Lange, discorrendo delle formalità incombenti ai nuovi consoli,
dice troppo recisamente che il trascurarle era illegale e tuttavia non
cagionava la perdita dell' ufficio. Vogliono essere sempre evitate tali
asserzioni generiche, quando esse non sono la conclusione di un'ana-
lisi; Fautore poi enumerando le formalità dimenticò il giuramento
delle leggi, formalità tanto essenziale che trascurandola si perdeva
l'ufficio; l'autore, inoltre, badò poco bene alla legge curiata, senza la
quale il console non poteva comandare gli eserciti come ci mostrano
le testimonianze degli scrittori e le questioni di diritto sorte in pro-
posito di essa; anche il dire ch'egli fa {Róm. Alterthilm., 1, 35i, 596,
seconda edizione), che nei tempi posteriori la legge curiata non avea
più importanza è troppo.
(2) Nell'opera intitolata Libri magistratiim.
(3) Nell'opera De potestatibus.
(4) Nell'opera De consulum potestate.
(5) In prova di consolati assunti lungi da Roma i critici citano gli
esempi di C. Giulio Cesare (Dione Cassio, 41, 39; Appiano, Bell,
civ.. 2, 48 ; cf. Dru.mann', Geschichle Roms, voi. 3, 475 ; Seeck, Hermes,
8, 164), di Cesare Augusto (Suetonio Aug., 26; cf. Mommse^, Staats-
recht, I, 594 seconda edizione) e dell'imperatore Pertinace [Vita Per-
tinacis, 3 ; cf. Mo.mmsen, ivi). Ma questi esempi, desunti da epoche
siffatte, non provano nulla per quanto concerne la buona età della
Repubblica.
- 223 —
questione, se c'è, si deve trovare nelle istituzioni dei Romani
e nei fatti storici. Certo le consuetudini romane presuppo-
nevano la presenza dei due nuovi consoli in Roma , do-
vendo essi, prima di partire per la guerra, compiere molte
cerimonie e spedire molti affari che non soffrivano dilazione-,
ma d'altra parte è naturale che, occorrendo, si lasciasse
partire un console designato, e che in certe contingenze spe-
ciali si permettesse che chi era stato eletto console mentre
era lontano da Roma, non vi facesse ritorno pel giorno in
cui diventava console effettivo. Sembrandomi anzi impossi-
bile che, in tanti secoli e per serie sì lunga di guerre , a
Roma non sia mai accaduto , fino al tempo di Giulio Ce-
sare, un fatto eccezionale di questo genere , e persuaso di
trovare esempi molto più antichi , ho percorso le storie di
Livio, e la mia supposizione ebbe piena conferma. Proprio
durante la seconda guerra punica, a distanza di qualche
anno appena dal secondo consolato di C. Flaminio, ho rin-
venuto tre esempi -, questi esempi riguardano uno dei con-
soli designati degli anni 540/214, 544/210, 546/208, e sono
i seguenti :
a) Sul finire del 539/215 i comizi centuriali elessero
consoli pel 540/214 M. Claudio Marcello e Q. Fabio Mas-
simo. Ma Marcello, eletto mentre era assente (i), non venne
poi nemmeno a Roma, perchè parlando degli arruolamenti
che incombevano ad ambedue i consoli, Livio menziona
Fabio Massimo e non menziona Marcello (2), e perchè
narrando al solito la partenza dei consoli per la guerra ,
(i) Livio, 24, 9, 9 : « Absens Marcellus consul creatus quum ad
exercitum esset, praesenti Fabio atque ipso comitia habente consulatus
continuatus ».
(2) Livio, 24, 11, 6: « Dilectu habilo el cemum navibus novis de-
ductis, Q. Fabius comitia censoribus creandis habuit ».
— 224 —
parla bensì di Fabio, ma tace di Marcello (i). La cosa mi
pare chiarissima, sebbene i critici, anche più illustri, siano
stati tratti in errore (2).
P) M. Valerio Levino fu creato console pel 544/210
mentre era lontano da Roma , dove egli non era ancor
giunto il 16 marzo, nel qual giorno nondimeno assunse Puf-
ficio di console. (Livio, 26, 26, 5): « M. Marcellus quum
Idibus Martiis consulatum inisset , senatum eo die moris
modo causa habuit, professus nihil se absente collega neque
de re publica neque de provinciis acturum ». Dunque entrò
in carica non in Roma ma fuori di Roma.
y) Lo stesso Marcello, dopo essere stato designato al
suo quinto consolato per Tanno 546/208, venne spedito in
Etruria dove erano scoppiati moti di ribellione (3). Livio
dice che bastò il solo ordine dato a xMarcello perchè gli
Etruschi posassero , donde parrebbe inferirsene che Mar-
cello ritornò subito a Roma. Ma Plutarco scrive che Mar-
cello sedò i moti percorrendo il paese (èv Tuppiivia ^é^a
KÌvn)na Ttpò^ àTTÓCTacTiv eirauae Kai KateTTpàuvev èTieXGujv tà?
7TÓ\ei?, Marcello, c. 28) : quindi è diffìcile credere che egli
siasi potuto trovare a Roma pel 1 5 marzo a prendervi il
(i) Livio, 24, 12, 5: « Fabius Maximus , postquam Hannibalem
Arpis profectum el regredì in Campaniam allatum est, nec die nec
nocte intermisso itinere ad exercitum redit .
{2) Alludo al Rubino e al Mommsen, dei quali il primo asserisce
che in principio del 640/214 ambedue i nuovi consoli trovavansi a
Roma, e il secondo che trovavansi ambedue lontani da Roma. Ma di
ciò diremo fra poco.
(3) Livio, 27, 21, 6: « Comitiorum ipsorum diebus sollicita civitas
de Etruriae defectione fuit. Principium eius rei ab Arretinis fieri C.
Calpurnius scripserat, qui eam provinciam prò praetore obtinebat.
Itaque confestim eo missus Marcellus consul designatus, qui rem in-
spiceret ac, si digna videretur , exercitu accito bellum ex Apulia in
Etruriam transferret. Eo melu compressi Etrusci quieverunt ». Cf.
Plutarco, Alarceli., 27.
- 225 —
consolato. Ad ogni modo però , col mandarlo in Etruria
nella qualità di console designato (i), il Senato consentiva
implicitamente a lasciargli assumere Tufficio fuori di Roma,
non potendosi sapere se la ribellione degli Etruschi sarebbe
stata condotta tanto prontamente a fine, che Marcello po-
tesse essere di ritorno pel 1 5 marzo.
Dunque, nell'età della seconda guerra punica al più tardi,
si cominciò a permettere Tassenza in questione di un con-
sole designato. La cosa mi par certa e molto importante.
Ora procediamo innanzi e vediamo gli spedienti che in tali
congiunture si dovettero adottare per dar luogo a questo
fatto eccezionale. In Roma, prima di partire e mettersi alla
testa degli eserciti , i nuovi consoli avevano più sorta di
faccende da spedire e più sorta di cerimonie religiose e non
religiose da compiere-, importa quindi investigare come può
e deve essere avvenuta la dispensa da siifatte faccende e da
siffatte cerimonie , accordata , nei tre casi ora enumerati e
in tutti i casi simili a questi, a quel nuovo console che non
(i) L'invio di Marcello in Etruria sullo scorcio del 545/209 nella
qualità di console designato non venne mai rilevato; quindi non fu
nemmeno sollevata una questione che necessariamente ne scaturisce,
ed è la seguente. Al suo partire per l'Etruria Marcello non possedeva
ancora T imperio consolare, perchè era semplicemente console desi-
gnato ; d'altra parte però egli non possedeva più l'imperio proconso-
lare di cui era stato investito per 1' anno 545/209, perchè gì' imperii
fondati sopra semplice proroga cessavano al varcar del pomerio per
rientrare in Roma. Con che imperio andò dunque Marcello in Etruria?
È poco probabile che gli fosse restituito l'imperio proconsolare per-
duto rientrando in Roma, perchè al promagistrato non era lecito ri-
petere gli auspici di guerra, e senza tali auspici non si prendeva il
comando d'un esercito. Piìi probabile è che gli sia stato consentito
in anticipazione, come console designato, l'esercizio dell'imperio con-
solare. Se questa mia ipotesi è vera , siccome il console designato
possedeva ed esercitava più sorta di diritti (dei quali discorre Mom-
SEN, Staatsrecht, i, 571, seconda edizione), a questi diritti sarebbe da
aggiungere questo ch'io dissi.
- 226 -
si sarebbe trovato a Roma in principio delT anno. Questa
investigazione non solo è utile, ma è altresì necessaria perchè
in essa ritroveremo confermato che 1' eccezione della quale
parliamo non è una semplice ipotesi. Per ciò che concerne
adunque le faccende da spedire mi pare che nulla dovesse
tornar più facile che lo stabilire che il console presente in
Roma vi attendesse da solo a nome proprio e a nome del
collega nello stesso tempo : stabilire ciò nella metà del sesto
secolo era nient'altro che ripristinare provvisoriamente una
istituzione antica , durata molto tempo e poi cessata. Nei
primi secoli della Repubblica non furono soliti i consoli
esercitare per turno il loro potere , comandando un mese
ciascuno? (i). Per tacere che accadendo che un con-
(i) Ci vollero più secoli prima che i Romani , avvezzi, ali" uscire
dalla forma monarchica di governo , a vedere un solo uomo al
comando , si penetrassero appieno della natura del governo conso-
lare , secondo la quale , in teoria almeno , ogni cosa doveva esser
fatta da ambedue i consoli fungenti insieme in forma di collegio. In
tutto quel frattempo i consoli preferirono avere il potere alternata-
mente un mese per uno (parlo naturalmente del principio dell'anno,
durante il loro soggiorno in Roma prima di partire per la guerra ,
parlo cioè della sfera d' azione circoscritta in Roma, domi). Il con-
sole a cui, secondo il turno, toccava il comando, era quello che avea
i fasci che erano il simbolo e l' insegna dell' autorità, ed era proba-
bilmente quello che chiamavasi perciò console mags^iore (Pesto ed.
MiJLLER , i6i : « maiorem consulem L. Caesar putat dici vel eum
penes qiietn fasces sint, vel eum qui prior factus sit » ; cf. Becker ,
Antiquitaten, 2, 2, ii3; Lance, Rom. Altertìiìim., 2, 617. seconda
edizione; Mommsen, Siaatsrccht, i, 38, seconda edizione). Del resto
non per ogni funzione troviamo ricordato negli antichi l'esercizio al-
terno del potere fra i due consoli, anzi lo troviamo ricordato sol-
tanto, oltre che nell'amministrazione della giustizia, nella convoca-
zione e presidenza del Senato durante i secoli quarto e quinto di
Roma (Dionigi, 6, Sy ; io, 57; Livio, 9, 8, i .
Quando sia caduto in disuso cotesto turno non è noto ; certo era
cessato nel secolo sesto. Una, ma non la sola, delle cagioni che fe-
cero cessare il turno e fecero nascere l'operare collegialmente dei
consoli fu evidentemente il sentimento dellindole medesima dell' uf-
- 227 -
sole fosse morto in principio delT anno sarebbe toccato al
collega superstite il fungere da solo fino alla nomina d'un
altro console che prendesse il luogo del console morto (i),
ficio: due erano i consoli, e di pari potere, e dovevano quindi ope-
rare insieme. Il Mommseì^ {Staatsrecht, 1,42, seconda edizione), vede
poi un'altra cagione, anzi la precipua, nel bisogno che ogni console
avea di evitare 1' opposizione del collega, perchè, com' è noto, anche
al console privo di fasci e di potere competeva però il potere nega-
tivo, cioè il diritto del veto; secondo quest'ipotesi ebbe fine il sistema
del turno quando i consoli dissero : operiamo in comune affinchè non
accada che uno di noi impedisca quello che l'altro voleva fare, lo
non so se il Mommsen abbia ragione qui : il diritto del veto e quindi
l'inconveniente dell'opposizione è antico quanto il consolato, e perciò
se questo inconveniente fosse dispiaciuto a segno da far abbandonare
il sistema del turno, cotesto turno non sarebbe durato quanto è du-
rato. Quindi la cagione precipua per cui cessò il turno nell'esercizio
del potere consolare fu un'altra; e fra le varie che riflettendo sulla
cosa mi vennero in mente, la più probabile parmi la seguente, che
forse è la vera. È noto che i Romani mandavano ogni anno gli eser-
citi in campo; queste campagne, comandate naturalmente dai consoli,
per alcuni secoli furono circoscritte ai popoli abitanti a breve distanza
da Roma ; per tutto questo tempo adunque esse furono di breve du-
rata, tanto che i consoli potevano sempre passare piij mesi in Roma
prima di incominciarle, e, ritornatine, di nuovo passare altri mesi
prima che 1' anno del loro ufficio fosse finito ; in tale condizione di
cose tornava possibile ai consoli comandare un mese per uno, il loro
soggiorno a Roma essendo di piìi mesi tanto in principio quanto alla
fine dell' anno. Ma il teatro delle guerre andò sempre più allonta-
nandosi da Roma, la partenza dei consoli si andò sempre maggior-
mente anticipando, e viceversa differendo il ritorno loro; troppo
spesso il loro soggiorno a Roma non si protraeva nemmeno a due
mesi né in principio né in fine dell'anno; così stando le cose era
impossibile continuare nel sistema dell'imperare per turno, perchè se
l'uno dei consoli risicava di non finire il suo mese di comando, il
collega risicava di non poterlo neppure principiare.
(i) Moralmente il console superstite era tenuto, morendogli il col-
lega , a convocare incontanente i comizi ceniuriati pec dare un suc-
cessore al morto [siibropare^ sufficere collegam) ; ma , naturalmente,
egli indugiava come gli piaceva. — Un" osservazione : se stiamo a
Livio, dobbiamo credere che la nomina del console da sostituire al
console morto appartenesse, appunto come la nomina ordinaria dei
consoli, al popolo raccolto nei comizi; ed invero non c'è ragione di
- 228 -
e che in caso di infermità, finché durasse la malattia del-
Tuno, conveniva che Taltro fosse incaricato di far tutto da
solo. Ma anche per ciò che riguarda buona parte delle ce-
rimonie doveva esser cosa molto naturale, in caso d'assenza
di uno dei nuovi consoli, Taffidarne il compimento all'altro,
perchè le cerimonie in questione si riducono essenzialmente
a sette (i), e di queste, tre mi sembrano tali da potere
non prestar fede al racconto dello storico. Tuttavia il Mommsen (/^ówz.
Staatsrecht, i, 209, seconda edizione), partendo dal fatto che quando
nelle elezioni ordinarie accadeva che un solo dei candidati al conso-
lato ottenesse tanti voti da esser eletto a primo scrutinio toccava al
nuovo eletto il convocare i comizi per la nomina dell'altro console,
sospetta che in antico il console superstite non facesse nominare il
collega dal popolo, anzi lo nominasse egli stesso. Ma tra il diritto di
convocare il popolo per la nomina d'un console, e il diritto di no-
minarlo escludendo il popolo, c'è un abisso, pare a me: come con-
cludere, dal diritto di convocare il popolo, al diritto di escludere il
popolo nella sufl'ezione del collega? In questa cosa il momento es-
senziale è l'elemento eleggente ; ma l'elemento eleggente è il popolo
anche nel fatto da cui parte l'autore.
(i) Nelle opere d'antichità romane manca pur sempre un prospetto
razionale di coteste formalità. Le sette cui accenno sono le seguenti :
i^ Gli auspici che venivano presi da ciascun console, il mattino
del giorno medesimo in cui entravano in carica. Questi auspici erano,
come a dire, quella sanzione divina della nomina all'ufficio, la quale
ritenevasi sempre necessaria (Dionigi, 2, 5-6). Fra i moderni discorse
ultimamente di questi auspici il Mommsen [Róm. Staatsrecht , i, 78,
588, seconda edizione).
2* Lo scioglimento, medesimamente nel prinio giorno d'ufficio,
dei voti che i consoli dell'anno prima avevano fatti per la salute
dello Stato a Giove sul Capitolio, e rinnovamento, per parte dei nuovi
consoli , dei medesimi voti. Ciò dicevasi vota nuncupare. La ceri-
monia ò ricordata spesso negli scrittori antichi (Ovidio, Fast., 1, 79
segg. Lo stesso Ex Ponto, 4, 4, 25 segg.; Livio, 21, 63, 7; Cicerone,
De leg. agr., 2, 34, 93). Fra i moderni cf. Mommsen, A'cim. Staatsrecht,
i, 594, seconda edizione.
3» Il giuramento delle leggi [iurare in leges). Quando sia sorta
la consuetudine di deferire ai magistrati romani un giuramento delle
leggi noi sappiamo ; certo essa vigeva già, come si ricava da un par-
ticolare di storia interna ricordatoci da Livio (3i, 5o, 7) nell'anno
554/200. Sul giuramento deferito ai magistrati e ai senatori vedi, fra
-- 229 —
venir paragonate, in un certo senso, alle faccende delle quali
adesso parlavamo. Infatti mi pare che tanto i voti fatti dai
consoli, per la salute della Repubblica, sul Capitolio nel
i moderni, specialmente Mommsen, Staatsrecht, i, pag. 398, seconda
edizione.
4' La celebrazione della festa Latina sul monte Albano. Questa
solennità è così nota che non occorrono altre parole.
5'^ Il sacrifizio, in Lavinio , fatto ai Penati e a Vesta. Cf. Ma-
CROBio , Sat., 3, 4, II ; Servio ad Aen., 2, 296; Schol. Veron. a
ViRG. I, 259; Mommsen, Staatsrecht, i, 597, seconda edizione.
6^ La presentazione della legge curiata per conseguire r/mjperjMn!,
cioè per conseguire il comando degli eserciti. Cf. Livio, 5, 52, i5:
« Comitia curiata quae rem militarem continent». Cicerone, De Leg.
agr., 2, 12, 3o : « Consuli, si legem curiatam non habet , attingere
rem militarem non licet». Della legge curiata avremo fra poco l'oc-
casione di discorrere diffusamente.
7* Gli auspici che prendevano e i voti che facevano a Giove sul
Capitolino i due consoli, il mattino del giorno medesimo in cui essi
lasciavano Roma per mettersi a capo degli eserciti. Sugli auspici cf.
Festo ed. MuLLER , pag. 241; Livio, 21, 63, 9; 22, i, e fra i mo-
derni Mommsen, Staatsrecht, i, 61, G4, 96, seconda edizione. Anche
questi voti chiamavansi vota nunciipata.
II passo liviano che esaminiamo, e che biasimando la partenza pre-
matura di Flaminio ricorda i doveri trascurati da lui, non annovera
tutte queste formalità, sia perchè esse erano note, sia perchè, come
spiegherò in appresso, la fonte seguita in questo proposito dallo sto-
rico fu probabilmente una fonte di genere oratorio e non di genere
storico. Le cerimonie accennate nel passo liviano sono queste : gli
auspici e i voti del primo giorno dell' anno (ne die initi Magistratus
Jovis optimi maximi templum adiret); la convoca del Senato (ne sena-
tum in visus ipse et sibi uni invisum videret consuleretque); le ferie
Latine (ne Latinas indiceret lovique Latiari sollemne sacrum in monte
faceret) ; gli auspici e i voti del giorno della partenza (ne auspicato
profectus in Capitolium ad vota nuncupanda , paludatus inde cum
lictoribus in provinciam iret). Come si vede, son toccate quasi esclu-
sivamente le formalità religiose.
Ora io vorrei dividere coteste sette formalità in due classi. La se-
conda, quarta e quinta erano , propriamente parlando , esercizio del-
l'ufficio di consoli, dunque funzioni del consolato. Ma la prima,
terza, sesta e settima, più che esercizio d'ufficio, erano, se non isba-
glio, compimento dell'elezione al consolato stesso, ossia formalità che
rendevano piena la nomina all' ufficio, e senza delle quali essa no-
mina rimaneva più o meno imperfetta.
- 230 -
primo giorno dell'anno, quanto le ferie Latine sul monte
Albano, quanto infine il sacrifizio in Lavinio, fossero al-
trettante attribuzioni dei consoli, altrettante funzioni del con-
solato, e quindi che anche per queste come per tutte le altre
faccende di pertinenza dei consoli , si potesse agevolmente
ordinare che il console presente in Roma le compiesse da
sé solo, ben inteso a nome di ambedue i colleghi (i), anche
qui colla finzione giuridica necessariamente applicata agli
affari civili , cioè che le cose fatte dal console fungente si
considerassero legalmente come opera del collegio dei su-
premi magistrati. Insomma, nelT assenza di uno dei due
consoli nuovi, parmi cosa che venisse da sé che Taltro con-
sole e facesse i voti pel bene della Repubblica, e celebrasse
le Latine e compiesse il sacrificio a Lavinio a nome dei
Magistrati supremi di Roma, allo stesso modo ch'egli do-
veva convocare il Senato , fare gli arruolamenti , espiare i
prodigi, ecc. qcc. da sé solo bensì, ma senza dubbio come
rappresentante del collegio dei consoli. — Solo per ciò che
concerne le quattro rimanenti cerimonie la cosa correva
(i) Una bella e saldissima prova della mia ipotesi sulla rappresen-
tanza del collegio dei consoli conferita a quel console che fosse ri-
masto solo a Roma in principio dell'anno, me l'offrono i frammenti
dei fasti delle ferie Latine scoperti negli ultimi tempi, e precisamente
quelli riguardanti l'anno 540/214, Dei due consoli di quell'anno ab-
biam visto (e torneremo a vedere) che Marcello fu creato mentre era
lontano da Roma dove non tornò nemmeno quando ebbe intesa la
sua elezione, perchè sarebbe stata follia abbandonare in quel momento
il campo; e nondimeno questi fasti portano all'anno 540/214 il nome
di ambedue i consoli, come se ambedue i consoli fossero stati pre-
senti alla festa Latina in Albano Corpus Inscript. Latin., voi. 6 ,
pag. 456, n. 2012); il che significa che il console Fabio rappresentò
anche il collega a quella solennità. — Di qui traggo pure la conse-
guenza legittima che errerebbe chi come il Mommsen {RÓmìsche For-
schitiìf^en, 2, 99 segg.) inclinasse a credere che il trovarsi nei fasti
suddetti il nome di ambedue i consoli indichi che ambedue i consoli
parteciparono in persona alla solennità.
- 231 -
altrimenti. Qui non era naturale che il console che trova-
vasi in Roma rappresentasse senz'altro, nel compierle, anche
il collega assente: esse non erano doveri o funzioni del
Collegio dei consoli, erano anzi doveri personali di ciasche-
duno dei consoli , erano propriamente li compimento e la
sanzione della nomina al consolato e quindi incombevano
ad ognuno di essi : infatti gli auspici del primo giorno del-
l''anno essendo la domanda rivolta dal nuovo magistrato a
Giove neirintento di sapere se come magistrato egli fosse
gradito alla Divinità , e potendo darsi che dei due consoli
Tuno fosse accetto al Dio e l'altro no, occorreva che tanto
questo quanto quel console facesse la sua domanda a parte dal
collega, e ottenesse similmente una risposta a parte. Medesi-
mamente, quanto al giuramento delle leggi, poiché in via nor-
male chi giura obbliga se stesso, è evidente che se ciascuno
dei consoli doveva obbligarsi, avevano da giurare ambedue
in persona. In terzo luogo la legge curiata equivaleva, in
origine, ad una conferma dell'elezione (i) : quindi, come il
candidato, generalmente parlando, aveva chiesto in persona
i suffragi del popolo nei comizi centuriati per essere eletto,
COSI doveva poi chiedere in persona Vimperium nei comizi
curiati. Infine cogli auspici presi dal console, nel giorno in
cui lasciava Roma per assumere il comando delle legioni ,
egli impetrava l" assenso degli Dei alla sua elezione a duce
degli eserciti romani, e coi voti fatti nello stesso giorno egli
(i) Cicerone [De leg. agr., 2, 11, 26): « Maiores de singulis ma-
gistratibus bis vos sententiam ferre voluerunt : nam quum centuriata
lex censoribus ferebatur, quum curiata ceteris patriciis magistratibus,
tum iterum de eisdem iudicabatur. Secondo l'autore, il conferimento
dell'imperio per mezzo della legge centuriata ai censori e per mezzo
della legge curiata agli altri magistrati patrizi equivaleva ad una se-
conda elezione. Il che naturalmente va inteso dell'istituzione nella
sua origine.
- 5^32 —
prometteva, quando il Dio gli avesse concesso di vincere ,
di riportar a lui la palma della vittoria — tutte formalità
eminentemente personali. E chiaro che per decretare T as-
senza di uno dei nuovi consoli era necessario dispensarlo
da queste quattro ultime cerimonie religiose e civili, prov-
vedendo ad un tempo affinchè esse non fossero neglette.
Ma anche qui, così come rispetto al disbrigo degli affari e
al compimento delle tre formalità accennate prima, si sarà
ricorso allo spediente di demandare la rappresentanza del
collegio consolare al console presente*, colla sola differenza
che qui lo spediente era più nuovo e rinnovazione più im-
portante. Faccio soltanto un' eccezione per gli auspici del
primo giorno deiranno, i quali potevano forse essere presi
anche fuori di Roma (i) e quindi dal nuovo console as-
sente , senza che per lui li prendesse il collega rimasto a
Roma ; ma non esito ad affermare che per le altre tre for-
malità il Senato e il popolo (2) avranno fatta facoltà espressa,
a quel console che rimaneva in patria, di dar compimento
ad esse non solamente per suo conto ma altresì a nome
del collega, rappresentando in tal modo il collegio. A questa
affermazione m' induce, per quanto riguarda il giuramento
delle leggi, quello che Livio narra a proposito di C. Valerio
Fiacco, creato edile curulc per l'anno SSó/igcj, mentre era
(i) Gli auspici in questione pare fossero presi dal magistrato nella
sua abitazione privata: così abbiam visto che Livio (21, 6% 10) par-
lando di Flaminio scrive : « Magis prò maiestate videlicei imperii
Arimini quam Romac magislratum initurum, et in deversorio hospi-
tali quam apud penates siios praetcxtam sumpturum ^. Quindi pote-
vano forse esser presi in una città qualunque e non esclusivamente in
Roma.
(2) Popolo e Senato erano i poteri competenti per la dispensa dalle
leggi (Asconio in Cornei., Orelli, pag. 57; Kiessling et SchÒll, p. 5i;
cf. Livio, 3i, 5o, 7 e nota seguente). Piìi tardi, nell'onnipotenza sua,
il Senato mise da banda il popolo (Asconio, ivi).
— 233 -
Flamine Diale (i): come Flamine di Giove non poteva giu-
rare, ma non giurando le leggi, dopo cinque giorni avrebbe
perduto Tufficio -, perciò chiese di venir dispensato dal giu-
ramento, e infatti avendo giurato in suo luogo il fratello di
lui che era pretore designato, il Senato e il popolo gli ac-
cordarono la dispensa ch'egli avea sollecitata. Quindi, dato
che nel 640/214 vigesse già l'uso di deferire ai nuovi consoli
il giuramento delle leggi, a che spediente crediamo noi che sia
ricorso il Senato, se non a quello di ordinare che il console
Q. Fabio Massimo le giurasse nello stesso tempo per sé e pel
collega M. Claudio Marcello, il quale era lontano da Roma,
dove il giuramento avea luogo? E ciò che diciamo del giu-
ramento delle leggi va detto a maggior ragione della pre-
sentazione della legge curiata, malgrado il contrario parere
dei dotti (2). In principio del 540/214 cercavasi il modo
di fare che i comizi curiati confermassero V imperiiim a
Marcello , che fronteggiava Annibale in Campania , senza
tuttavia costringerlo a venire a Roma per questa formalità
della legge curiata. Ebbene, io ho esaminato la storia di
questa formalità, ed ho trovalo che la presentazione di essa
per parte della persona interessata aveva sofferto e soffriva
molte eccezioni: in primo luogo, anticamente i re di Roma(3),
e, cacciati i re, i consoli (4), solevano presentare la legge
curiata pei questori; in secondo luogo sulla fine del settimo
secolo trattossi una volta di demandare ad un pretore la
(i) Livio, 3i, 5o, 6 segg.
(2) Per esempio del Mommsen , Rom. Staatsrecht , i, Sgo , seconda
edizione.
(3) Tacito [Annui., ii, 22): « Quaestores , regibus etiam tum im-
perantibus, instituti sunt, quod lex curiata ostendit ab L. Bruto re-
petita t . Cf. Rubino, Untersuchungen ìtber romische Verfassung und
Geschichte, i, 393 segg.; Mommsen, Staatsrecht, i, òSg. seconda edi-
zione.
(4) Vedi la nota precedente.
'Hjvista di filologia ecc.. X. ' 16
— 234 —
presentazione della legge curiata a nome di altri magi-
strati (i); in terzo luogo è probabile che al tempo di Ci-
cerone vigesse la consuetudine di far presentare una sola
le^ge curiata complessiva per tutti i magistrati dell'anno ad
un tempo (2). Di qui conchiudo che Tunico provvedimento
naturale a prendersi in principio del 540/214 era quello di
incaricare Fabio Massimo che presentasse la legge curiata
relativa al comando degli eserciti, non soltanto per sé, ma
nello stesso tempo per sé e per il collega che era assente
in servigio dello stato. Anzi c'è perfino un molto contestato
frammento di Pesto, relativo, evidentemente, ad una riforma
introdotta Tanno 640/214 nella procedura della presenta-
zione della legge curiata per parte dei consoli, che forse e
senza forse si riferisce a questo provvedimento eh' io dico
per l'appunto. Il frammento è il seguente (3) :
hominis gratia nunc redintegrari ....
ex curiata fertur quo Hanni —
Romae cum esset nec ex praesidi
Q. Fabius Maximus Verru —
rcellus COS. facere in —
vit Aelius in XII sig — .
risulcum fulgur fu ■ — .
È noto che M. Vcrrio Fiacco , di condizione liberto, e
vissuto sotto Augusto e Tiberio, scrisse un'opera intitolata
De verborum significatu, nella quale per ordine alfabetico
eran citati e dichiarati dei vocaboli. L'opera fu più tardi
compendiata da Sesto Pompeo Pesto \ e il compendio di
(i) Alludo ai decemviri della legge agraria proposta dal tribuno
Servilio Rullo. Cicerone. De Leg. agr., 2, 11, 28.
(2) Dione Cassio, Sg, 11; Mo.mmsen . Staatsrecht. i, 589, seconda
edizione.
(3) Festo, ed. MuLLER. pag. 35i-352.
- 235 -
Pompeo Festo fu poi compendiato dal sacerdote Paolo ;
fino a noi pervennero tanto il compendio quanto il com-
pendio del compendio (i); non però Topera principale. Or
bene, nel nostro frammento è cosa notissima e fuori di
questione che la parola, la quale veniva dopo la parola red-
integrari, era appunto un vocabolo da spiegare, e che tal
vocabolo principiava colla lettera T (2). Noi ci troviamo
dunque innanzi ad un articolo o glossa in cui ignoriamo
due cose: 1° la prima parola, la quale veniva dichiarata
dalle parole che seguivano \ 2° gran parte delle parole che
la dichiaravano. Quanto al dove finisca 1' articolo , i piià
credono che finisca nelF ultima linea e che [t)risulcum sia il
principio di un nuovo articolo ; recentemente lo Scholl (3)
opinò che finisca nella sesta linea colla parola in{stitue-
runt)^ e il Mommsen (4) aderisce in ciò allo Scholl. Pel
nostro scopo la questione dove finisca l'articolo è al tutto
indifferente. Ciò posto vengo alle restituzioni del frammento
proposte sinora dai dotti, e poi darò la mia. La restituzione
deirUrsino, già confutata dal Rubino (5) è la seguente :
(Tribuni — )
(eia rogatione l)ex curiata fertur, quo Hanni —
(bai anno in conspectu) Romae cum esset nec ex praesidi —
(is discedere liceret), Q. Fabius Maximus Verru —
(cosus id per tr. pi. et Ma)rcellus cos. facere in —
(stituerunt, ut no)tavit Aelius in XII sig(ni)
(ficationum verborum).
(i) Del nostro frammenlo nulla passò nel compendio di Paolo.
(2) La seconda lettera della parola non è nota. Cf. Mìjller, praef.,
p. XXVIII.
(3) Scholl, XII tab., p. 28.
(4) Mommsen, Róm. Forsch., 2, 411.
(5) Untersuchungen i'iber róm. Verfassung und Geschichte , i, 38 1
e segg.
- 236 -
E superfluo perder tempo a confutare questa restituzione :
basti il dire che il fatto menzionato nel frammento è del-
l'anno 540/214 (cosa certissima, perchè Fabio e Marcello
non furono consoli insieme se non una sola volta, e preci-
samente in quest'anno), mentre Tassalto di Annibale contro
Roma (che l'Ursino suppose esser ricordato nel frammento),
è del 543/211. Confutato l'Ursino, il Rubino stesso restituì
il frammento come segue (i) :
(i) Ma allo stesso Rubino scappò detto, nel confutare l'Ursino e il
Dacier suo seguace, un grave errore, che non fu avvertito nemmeno
dal Mommsen, il quale a sua volta confutò, come stiam per vedere,
l'ipotesi tutta quanta del Rubino. Quest'ultimo adunque, combattendo
l'Ursino e il Dacier, dice che non occorreva far presentare la legge
curiata dai tribuni della plebe perchè la potevano presentare i consoli
stessi, i quali non trovavansi già al campo, ma bensì in Roma, sul
principio del 540/214: traduco le sue stesse parole. Ma quest'asser-
zione è erronea : Fabio era bensì in Roma, ma Marcello no, perchè
abbiam visto sopra i" che al tempo dei comizi consolari Fabio trovavasi
a Roma e Marcello all'esercito (I.ivio, 24, 9, 9), 2° che gli arruolamenti
furon fatti dal console Fabio soltanto, senza che vi prendesse parte
Marcello (Livio, 24, 11, 6], 3» infine, che è bensì narrata da Livio la
partenza di Fabio da Roma, ma non quella di Marcello (Livio, 24,
12, 5). Per trovarsi a Roma Marcello doveva ritornarvi, cosa che
Livio non dice; se vi fosse tornato avrebbe arruolato gli eserciti in-
sieme con Fabio, cosa che Livio, registrando in proposito soltanto
il nome di Fabio, esclude addirittura; infine raccontando la partenza
di Fabio, Livio, il quale suole per l'appunto riferire accuratamente
la partenza dei magistrati per le loro provincie, non poteva non rac-
contare anche quella di Marcello, se questi fosse ritornato un po'
prima a Roma. So bene che il plurale consules è usato due volte da
Livio a questo proposito, 24, 10, 1 : « Quo die magistratum inierunt
consules, senatus in Capitolio est habitus, decretumque omnium pri-
mum, ut consules sortirentur compararentve inter se, utcr censoribus
creandis comitia haberet », e 24, 11, i : « Perpetratis quae ad pacem
deum perlinebant, de re publica belloque gerendo et quantum copia-
rum et ubi quacque esient, consules ad senatum rettulerunt »), ma che
vale questa figura del plurale usato invece del singolare, di fronte ai
fatti or ora notati ? Tanto più che quando il Senato era convocato da
un solo console, quest'ultimo parlava naturalmente a nome proprio
e a nome del collega nello stesso tempo, e consules, figura rcttorica,
- 237-
(Tri -)
(ginta lictoribus l)ex curiata fertur, quo(d) Hanni —
(bai in propinquitate) Romae cum esset nec ex praesidi —
(is discedere liceret) Q. Fabius Maximus Verru —
(cosus egit per tr. pi. et Ma)rcellus cos. facere in —
(stituit, ut nota)vit Aelius in XII sig(ni)
(ficationum verborum).
Questa restituzione piacque specialmente colla leggiera
modificazione apportatavi da O. Miiller -, ma fu poi confu-
tata , e, credo, a buon diritto, dal Mommsen. Vediamo
perchè essa si raccomandasse all'universale e poi fosse con-
futata. La sola cosa che in essa non incontrava approva-
zione era il supplemento della quinta linea egit pr. tr. pi.
et, supplemento troppo lungo , e poi infelice per altri ri-
spetti ancora-, onde O. Miiller soppresse addirittura queste
parole e poi accolse così modificata la restituzione del Ru-
bino nella sua edizione di Pesto. Il pregio di cotesta resti-
tuzione consiste specialmente in ciò , che in essa sarebbe
scoperta Torigine di una consuetudine notissima dei tempi
di Cicerone -, è noto infatti che nell'età di Cicerone i citta-
dini non solevano più intervenire ai comizi curiati, e che i
trenta littori delle Curie rappresentavano queste ultime (i).
Ora ecco il concetto dal quale parti il Rubino : Fabio Mas-
simo dopo la battaglia di Canne avrebbe previsto un assalto
di Roma per parte d'Annibale, e avrebbe in conseguenza
era più esatto, dal punto di vista del diritto in astratto, che non sa-
rebbe stata r espressione propria consul. È la stessa figura che tro-
vammo nei fasti delle ferie Latine rispetto ai consoli medesimi.
(i) Cicerone [De leg. agr.,-2,, 12, 3i): « illis... comitiis curiatis...
ad speciem atque usurpationem vetustatis per XXX lictores auspicio-
rum causa adumbratis .
- 238 -
provvisto alla difesa facendo che i cittadini si tenessero
pronti per accorrere alle mura; Fabio avrebbe inoltre pre-
visto che cadrebbero in battaglia dei generali e si dovrebbe
nominarne in tutta fretta degli altri, e avrebbe in conse-
guenza abbreviato le formalità del conferimento dell' impe-
rium -, quindi ecco ogni curia delegare il proprio littore a
rappresentarla nei comizi convocati pel conferimento del-
l' imperio , con che si conseguiva un altro duplice scopo :
1° dispensati i cittadini dall' intervenire ai comizi curiati,
non sarebbe accaduta quella confusione, che altrimenti Ta-
raldo chiamando i cittadini ai comizi curiati poteva far na-
scere •, 2° i cittadini non avrebbero abbandonata la difesa
delle mura per accorrere ai comizi. Il Mommsen (i) confutò
il Rubino osservando i° che i comizi curiati non eran con-
vocati dall'araldo intorno alle mura, ma dal littore delle
curie (li et or curiatus , Laelio Felice presso Gellio , 1 5 ,
27); 2° che non è probabile che al sorgere della consuetu-
dine della rappresentanza , per mezzo dei rispettivi littori,
delle Curie, sia cessata la convocazione dei comizi curiati
addirittura; 3° che non c'era ragione di abolire la convo-
cazione dei comizi curiati pel solo scopo di non allontanare
i cittadini dalle mura, giacché i cittadini non erano obbli-
gati ad intervenire ai detti comizi; 4° che non sappiamo
se le trenta Curie avessero facoltà di spogliarsi dei propri
diritti per attribuirli ai loro rispettivi littori; 5° che il fatto
del non intervenire più i cittadini, ai comizi curiati , e del
rappresentare i trenta littori le trenta curie , non può es-
sere stato ordinato con una legge , ma accadde a poco a
poco di per sé, quando divenendo sempre minore il con-
corso dei cittadini a cotesti comizi convocati per mere for-
(1) Rhein. Mus., i3, 565 seg.; Staatsreclit, 1, 592, seconda edizione ;
RÓm. Forschungen, z, 407 segg.
- 239 -
malità, il magistrato per far votare la sua legge videsi co-
stretto a servirsi dei littori ; né dee far maraviglia cotesto
poco zelo dei cittadini nelTintervenire a comizi d'importanza
puramente formale , accadendo perfino che intervenissero
pochi individui agli stessi comizi tributi (i). Vediamo ora
come il Mommsen stesso supplisce il frammento (2) : la
legge curiata , cosi ragiona il Mommsen , richiedeva la
presenza del magistrato che voleva F imperio :; ma in prin-
cipio del 540/214 i nuovi consoli Fabio e Marcello trova-
vansi in campo contro Annibale e sarebbe stato pericoloso e
irragionevole farli venire a Roma per quella formalità : perciò
ce'rcossi il modo di non richiamarli, e il modo fu questo:
siccome Fabio era stato console nel 539/215 e Marcello pro-
console nello stesso anno e quindi ambedue erano già in pos-
sesso dell'imperio, si stabih che non cessasse il loro imperio
deiranno innanzi, ma continuasse e trapassasse nell'anno
540/214-, in questo modo, l'imperio che Fabio e Marcello
aveano avuto nel 539/215 lo ebbero anche nel 540/214
senza che fosse stato conferito loro di nuovo nei comizi cu-
riati-, e in questo modo si praticò per l'avvenire in tutti i
casi simili , ed è cotale consuetudine del far di meno , nel
conferimento dell' imperio, della legge curiata, che menzio-
nasi nel frammento di Festo, il quale adunque, continua il
Mommsen, vuol essere supplito nel seguente modo , senza
pretendere però di restituire testualmente la prima parola.
(Transit)
(ipso iure imperium nec l)ex curiata fertur : quo(d), Hanni —
(bai in locis vicinis) Romae cum esset nec ex praesidi —
(1) Cicerone prò Sest., 5i, loq.
(2) Vedi i luoghi citali nella nota penultima.
— 240 —
(is tuto decedere possent,) Q. Fabius Maximus Verru —
(cossus et M. Claudius Ma)rcellus cos. facere in . —
(stituerunt).
Finora nessuno trovò da ridire in questa interpretazione
e restituzione, ma essa non mi persuade. Tutta l'ipotesi del
Mommsen si fonda sulla supposizione che in principio del
540/214 i nuovi consoli Fabio e Marcello si fossero trovati
ambedue lontani da Roma ^ ma qui il Mommsen cadde
nella svista opposta a quella in cui era caduto il Rubino.
Se Marcello era lontano , Fabio però trovavasi in Roma,
come abbiamo sopra ricavato dai tre luoghi liviani : 24, 9,
9; 24, II, 6-, 24, 12, 5, ai quali ora aggiungo 24, 7, 11,
ove è detto che Fabio sul finire del 539/215 venne a Roma
a presiedere i comizi elettorali (i). Mancando così all'ipo-
tesi il suo fondamento essa cade naturalmente senz' altro -,
ma giova notare che anche considerandola in se stessa, in-
dipendentemente dalla base su cui è stata costrutta , essa
non solo non è conforme alle consuetudini romane, le quali,
come spiegammo sopra, nel caso d'assenza di uno dei nuovi
consoli, piuttosto che suggerire l' ommissione della legge
curiata avrebbero consigliato lo spediente della rappresen-
tanza in modo che uno degli altri magistrati (e di prefe-
renza il collega medesimo del console assente) la presentasse
alle Curie in nome del magistrato che era lontano da Roma,
ma è in contraddizione col noto svolgimento delle Magi-
strature romane , perchè fondandosi sopra il conferimento
di più imperi ordinari dati ad una niedesima persona in
più anni successivi senza interruzione , come se ciò fosse
cosa regolare ed ordinaria , essa presuppone la frequenza
(i) « Romam comitiorum causa venicns , in eum quem primum
diem comitialem habuit comitia edixit.
— 24] —
di un fatto che al tempo di cui parliamo era già stato vie-
tato dalle leggi (i). Né l'autore mi persuade quando egli si
(i) Fin dal principio del secolo quinto era stato prescritto che nessuno
potesse concorrere ad un medesimo ufficio una seconda volta, finché non
fossero trascorsi dieci anni dalla prima volta che 1' ufficio era stato
da alcuno esercitato. Livio (7, 42, 2 : <! aliis plebiscitis cautum ne
quis eundem magistratum intra decem annos caperet »); e se quindi
innanzi non si lasciarono passare sempre dieci anni giusti fra la presa
e ripresa del medesimo ufficio, si vede però dai fasti che un inter-
vallo di più anni almeno non mancò mai di osservarsi. Di queste
cose discorse ultimamente il Mommsen, Rom. Staatsrecht, i, 5oo segg.,
seconda edizione. Ivi son raccolti gli esempi che per amor di brevità
io ommetto). Piìi tardi, forse un secolo dopo, prendendo in conside-
razione l'ordine successivo dei diversi uffici allo stesso modo che in
principio del secolo quinto lo era stata la presa ripetuta di un me-
desimo ufficio, si andò più oltre e si vietò il passare immediatamente
senza l'intervallo di almeno un anno dall'edilità curule alla pretura,
dall'edilità curule al consolato, infine dalla pretura al consolato. Questo
divieto non lo leggiamo in Livio, ma lo deduciamo dai fasti che si
ricavano dalle storie di lui; infatti, gli esempi mostrano costante-
mente cotesto intervallo a cominciare dal 554/200 (cf. Mommsen,
Staatsrecht, i, 5o8 dove essi sono raccolti). Prima di lui avea di-
scorso delle leges annales della repubblica romana il Nipperdey ,
Die leges annales der rómischen Republik , Leipzig, i8ó5 ; tale di-
vieto però non si creda sia stato emanato nel 554 di Roma; esso fu
emanato molto prima del 554/200; secondo me fu emanato nello
spazio di tempo che corse tra l'anno 462/292 e l'anno 535/219, che
è lo spazio di tempo stato descritto nella seconda decade di Livio ora
perduta; infatti, è impossibile credere che Livio non abbia toccato a suo
luogo di cotesto divieto; per il che, se non lo troviamo ricordato
nelle sue storie, ciò significa che era stato narrato nella decade se-
conda che più non ci rimane. Adunque, come sul cominciare del se-
colo quinto era stato proibito il chiedere due volte lo stesso ufficio
salvo a patto che tra la prima e seconda volta fossero corsi dieci
anni, così prima del 536/2 18 fu proibito il chiedere in due anni di
seguito due uffici curuli ; così tornava ornai impossibile che una per-
sona diventasse magistrato curule due anni di seguito ; due anni di
seguito non si poteva più concorrere né ad un medesimo ufficio, né
a due diversi uffici curuli; quindi, se rispettavansi le leggi annali
(annales chiamavansi le leggi che determinavano le norme da osser-
varsi nel chiedere gli uffici, e stabilivano sia il minimum dell'età vo-
luta, sia l'ordine in cui essi dovevano conferirsi, sia la durata dell'in-
tervallo fra l'uno e l'altro di essi ; per dirla di passaggio, celebre fu
- 242 -
avvisa di scorgere una conferma indiretta della sua ipotesi
sia in quei casi abbastanza frequenti, che troviamo prima
la lex Villia annalis del 574/180 che fissava « qiiot annos nati quemque
magistratiim caperent », Livio, 40, 44) non poteva più accadere che
una persona si trovasse nel caso di aver bisogno della legge curiata per
due anni di seguito; notisi bene: non dico che era finito il tempo in
cui una persona potesse avere imperio due anni di seguilo, cosa sempre
possibile in virtù dell'istituto di proroga dell'imperio, nulla, ad
esempio, essendo più facile che diventar frefore, poi successivamente,
senza ìniQrvQ.\\o,_ propretore mediante la proroga dell' imperio , poi
console; dico bensì che oramai, coU'aver tolto il modo di essere pre-
tore e console in due anni successivi, era tolto anche il bisogno della
legge curiata in due anni successivi, e ciò perchè tutti i dotti sono
d'accordo nel credere che erano soltanto gl'imperi ordinari (cioè
quelli che emanavano dall'elezione popolare nei comizi) che volevano
essere conferiti o sanzionati mediante la legge curiata (dico a bella
posta conferiti o sanzionati per evitare la questione relativa al valore
della legge curiata stessa, la quale, secondo alcuni conferiva vera-
mente al magistrato de' nuovi diritti, secondo altri era cosa di pura
forma e non dava nessun diritto nuovo), non già gl'imperi prorogati.
E così r ipotesi del Mommsen, della quale 1' autore nella sua opera
sul diritto pubblico dei Romani parla non già come di un'ipotesi
probabile, ma come di cosa indubitata, pare invece a me altamente
improbabile, non solo perchè fabbricata sopra base mal sicura (sulla
supposta , ma non vera assenza di ambedue i consoli del 540), ma
anche perchè 1' attuazione di essa suppone che fosse cosa abbastanza
frequente il diventare console o pretore due anni di seguito, o pre-
tore un anno e console l' altro anno, mentre invece queste cose non
succedevano più se non per eccezione, nel tempo al quale si riferisce
il provvedimento ricordato nel frammento di Pesto; or come può
credersi che si fondasse un' istituzione permanente partendo da fatti
meramente ed esclusivamente eccezionali ? So bene che questi fatti
eccezionali non mancarono nei momenti gravi in cui si ebbe bisogno
di lasciar al comando gli uomini provati. (Così durante le guerre
Sannitiche L. Papirio Cursore fu console nel 434 e 435 di Roma, e
Q. Fabio Massimo RuUiano lo fu nel 444 e nel 445. Nella guerra di
Pirro M'. Curio Dentato fu console nel 479 e nel ^'^•o. Nella seconda
guerra punica Q. Fabio Massimo Verrucoso fu console nel 53q , e
nel 540. M. Pomponio Matho fu pretore nel 537 e nel 538. Q. Fulvio
Fiacco fu pretore nel 539 e nel 540. Taccio dei tempi rivoluzionari
del secolo settimo quando le leggi non eran più leggi e la violenza
avea preso il luogo delle leggi). Ma queste erano eccezioni, ed erano
talmente considerate come eccezioni, che ci vollero altre leggi, le
-- 243 -
del 540/214, di persone che alternavano con una certa re-
golarità la vita pubblica colla vita privata coir essere ma-
gistrati un anno e ritornar privati l'anno dopo, e diventar
di nuovo magistrati l'anno seguente, e così via (i), sia nei
casi di continuazione d'ufficio, congiunta però col ritorno
del magistrato a Roma sulla fine dell'anno (2).
quali sospendessero, in que' momenti gravi, l'applicazione degli or-
dinamenti sulle magistrature. E anche di una di queste leggi, fatte
per dispensare provvisoriamente dall'osservanza di siffatto ordina-
mento, è giunta memoria insino a noi ; Livio infatti tocca, sebbene
non a tempo e luogo, ma per mera incidenza, del plebiscito fatto nel
537/217 dopo la battaglia del Trasimeno, col quale veniva sospeso,
durante la seconda guerra punica, l' effetto dei plebisciti portati in
principio del quinto secolo sulla ripresa di un medesimo ufficio. (Livio,
27, 6, 7: « Cn. Servilio consule, cum C. Flaminius alter consul ad
Trasumennum cecidisset, ex auctoritate patrum ad plebem latum, ple-
bemque scivisse, ut, quoad bellum in Italia esset, ex iis, qui consules
fuissent, quos et quotiens vellet reficiendi consules populo ius esset » .
Son parole dette dal dittatore Q. Fulvio, presidente dei comizi rac-
colti per creare i consoli del 545/209). Anzi eran così odiose siffatte
eccezioni, che malgrado che cotesto plebiscito del 537/217 dovesse
aver valore per tutto il tempo che sarebbe durata la seconda guerra
punica, tuttavia i tribuni della plebe s'eran provati ad impedire che
fossero dichiarati consoli, pel 545/209, Fabio Massimo e-FuIvio Fiacco,
perchè il primo era stato console l'ultima volta appena quattro anni
innanzi nel 540/214, e il secondo era stato console l'ultima volta ap-
pena due anni innanzi nel 542/212 (Livio, 27, 6). Ci furono adunque
le eccezioni, è vero; ma le eccezioni non servirono mai più che nel
nostro caso a confermare la regola ; e, lo ripeto, non può darsi che
si fondasse un'istituzione sopra fatti eccezionali, rari e odiosi, perchè
le istituzioni, anzi , sogliono piuttosto fondarsi su ciò che è regolare
e succede ogni giorno in via normale.
(1) L'autore suppone che chi fosse stato magistrato due anni di se-
guito, quasi non avrebbe avuto tempo di ritornare a Roma. Tale
supposizione ha poco fondamento, perchè in quell' età le spedizioni
militari duravano poco, e quindi non si vede come il console, o il
tribuno militare con potestà consolare non avrebbero potuto ritornare
a Roma indipendentemente dal bisogno di rinnovare l' imperio per
mezzo della legge curiata. Del resto è noto che le cagioni dell'inter-
vallo tra due magistrature sono ben altre.
(2) 11 ritorno a Roma di queste persone, se servisse a provare Tipo-
- 244 —
Quindi non recherà maraviglia che il Mommsen stesso
non trovi un solo esempio che conforti la sua ipotesi, per
tacere poi che essa non giova a spiegare come si procedette
nesli altri casi d'assenza di uno dei consoli nuovi. — Tali
sono le interpretazioni e le restituzioni del frammento ten-
tate fino ad oggi, e tutte poco probabili. Invece è probabile
che la riforma introdotta in principio del 540/2 14 riguardo
al modo di presentare la legge curiata, e ricordata nel fram-
mento, consistesse in nient'altro che in quel provvedimento
che appunto , vista la storia della legge curiata , ci parve
testé che dovesse naturalmente esser preso , se non si vo-
leva, come non si voleva infatti, che la formalità della legge
curiata del console Marcello venisse addirittura trascurata (i);
cioè consistesse nello stabilire che quind' innanzi uno qua-
lunque dei consoli bastasse a presentare la legge curiata per
sé e pel collega nello stesso tempo:, ed è dunque probabile
che il luogo di Pesto, a parte la prima parola, che non
saprei indovinare io, come nessuno presunse di indovinarla,
dicesse così :
{ab altero consule (2) l)ex curiata fertur quo(d) Hanni —
tesi del Mommsen servirebbe egualmente a provare la nostra, quindi
questa considerazione è di poco momento pel nostro caso.
(i) L'importanza della legge curiata durava ancora al tempo di Ci-
cerone, quando le altre formalità l'aveano perduta, e ne sono prova
le questioni di diritto insorte in questo campo a proposito di Appio
Claudio console nel 700/54 [Cicerone ad fam., 1, 9, 25; Ad Qitint.
fratr., 3, 2, ?> ; Ad Alt., 4, 16, 2), a proposito del trionfo di C. Pom-
ptinio nello stesso anno (Cicerone ad Att., 4, 16, 2), e a proposito
delle elezioni per 1' anno 706/48 meditate dagli aderenti di Pompeo
(Dione Cassio, 41, 43 ; cf. Cesare, De bello civ., i, 6, 6; cf. Rubino,
Untersuchungen ìiber rÓm. Verfassung iind Geschichie, i, 370).
(2) Ho cercato in Livio se si dicesse meglio alter consiil oppure
consul alter ed ho trovato che alter consul era da preferirsi. Nel nono
libro sopra otto volte l'autore adopera sei volte quest'ultima forma.
- 245 —
(bai in locis vicinis) Romae cum esset nec ex praesidi —
f is alter consul discedere posset) Q. Fabius Maximus Verru • —
(cossus et M. Claudius Ma)rcellus cos. facere in —
(stituerunt.)
Questa mia interpretazione e restituzione si fonda sulle
consuetudini antiche dei Romani e serve a spiegare non
solo come si può e si deve esser proceduti in principio del
640/214, ma come si procedette anche in tutti gli altri casi,
che non mancarono per certo e in cui avvenne che dei con-
soli nuovi uno fosse assente e dovesse così ottenere V im-
perio per mezzo della legge curiata senza tuttavia ritornare
per questa ragione a Roma.
Così siamo giunti alla fine del primo paragrafo , giacché
degli auspici e dei voti , che i consoli prendevano e face-
cevano nel giorno in cui essi partivano per la guerra, non
occorre dir altro se non che, stante Taffinità di questa for-
malità con quella della legge curiata, si sarà proceduto per
quelli come per quella (i). Ora riepiloghiamo brevemente
cioè: 9, i3, io; 9, 29, 3; 9, 32, 2; 9, 38, u; 9, 41, 5; 9, 43, 7, e
due volte sole consul alter (9, iG, 2; 9, 38, i). Nel libro decimo,
sopra sette volte l'autore adopera sei volte la forma alter consul : io,
9, 8 ; IO, 14, 9 ; io, i5, 4; io, 24, 12 ; io, 3i, i ; io, 43, i ; e una
volta sola la forma consul alter: io, 37, i.
(i) La relazione tra le due formalità è accennata da Cicerone {De
leg. agr., 2, 11) dicendo che i comizi curiati tantum auspicìorum
causa remanserunt [ci. Mommsen , Staatsrecht, dove parla della legge
curiata, nel luogo già citato). I critici affermano che il console po-
teva trasandare questa formalità (Becker, Handbuch der rom. Ant..
2, 2,60; Lance, /^om. Alterthinn., i, 622, seconda edizione; Mommsen,
Staatsrecht, i, 65, seconda edizione; Weissenborn a Livio, 41, 10,7),
e si fondano sull'esempio del console C. Claudio (Livio, 41, 10). Par-
tito senza aver preso gli auspizi e fatti i voti, Claudio non venne ri-
conosciuto nella sua qualità dai Generali suoi predecessori e dai suoi
soldati e subalterni , prima di essere ritornato a Roma a compiere
la formalità trasgredita. A me pare che questo esempio provi tutto
- 246 —
questo primo paragrafo: ricavammo da Livio che uno dei
consoli del 540/214 non trovossi in Roma in principio del
suo ufficio; che non vi si trovò nemmeno uno dei consoli
del 544/210-, infine che uno dei consoli del 546/208 fu spe-
dito alla guerra mentre era semplice console designato (pro-
prio come leggiamo che fece Flaminio) : poi abbiamo giu-
dicato che in questi e simili casi gli affari e le cerimonie
incombenti ai nuovi consoli si affidassero in generale a quel
console che rimaneva in Roma, uno spediente del quale, per
quanto riguarda la legge curiata, resta aperta testimonianza,
forse, nel frammento di Pesto esaminato.
Ora dopo di avere dimostrato, in tesi generale, che nel-
Tetà della seconda guerra punica gli ordini romani non e-
scludevano punto in modo assoluto la lontananza da Roma
per parte di uno dei nuovi consoli in sul bel principio del-
l'anno, passiamo a considerare nel secondo paragrafo il caso
particolare di G. Flaminio e della sua partenza avvenuta,
secondo il testimonio di Livio, mentre egli era designato
console per la seconda volta.
§ IL Se la partenia da Roma di C. Flaminio, mentre
ey^a console designato pel 537/217, sembri vera o no. Se
la nostra ipotesi sul frammento di Festo cogliesse nel segno,
ne potremmo senz'altro inferire che già prima cfel 540/214
r assenza da Roma di uno dei nuovi consoli in principio
deir anno non era cosa al tutto nuova , altrimenti non si
il contrario : prima di tutto Claudio dovette ritornare a compiere la
cerimonia, e ciò prova la necessità di essa; in secondo luogo, invece
di dire che egli partì sapendo di poter trasgredire la formalità, io
direi che partì sperando di venirne dispensato, ma siccome la sua
precipitosa partenza proveniva da ambizione personale e non da bi-
sogno dello Stato, la dispensa non fu accordata, donde il suo ritorno
a Roma.
— 247 -
spiegherebbe come essa sia stata prevista e come si sia
provveduto ad essa. Ad ogni modo però, l'assenza di Mar-
cello in principio del 640/214, quella di M. Valerio Levino
in principio del 544/210, ed infine la partenza di Marcello
console designato per Tanno 546/208, que' tre fatti che noi
siamo stati i primi ad osservare, faran forse cangiar d'av-
viso chi riguardava la partenza di C. Flaminio come inve-
rosimile per la sua novità. Ora procediamo innanzi per
vedere se ci sia ragione di credere che cotesta partenza sia
un'invenzione di qualche scrittore. Io farò brevemente le tre
considerazioni, che meditando sulP argomento mi parvero
necessarie a farsi per trattarlo colla larghezza dovuta, e che
rispondono ai tre dubbi che in questo proposito possono
sorgere in mente. Cotesta partenza è fatto straordinario a
tal segno da doversene naturalmente dubitare ? In secondo
luogo: è probabile una falsificazione storica di questo ge-
nere ? In terzo luogo : la natura delle antiche fonti super-
stiti favorisce forse V ipotesi d' una falsificazione ? Rispon-
diamo partitamente ai tre quesiti.
a) Al primo quesito si può dire che fu già risposto nel
paragrafo precedente; infatti gli esempi dei consoli M.
Claudio Marcello nel 340/214, di M. Valerio Levino nel
544/210, e infine quello di M. Claudio Marcello console
designato pel 546/208, tolgono alla partenza di Flaminio il
carattere di straordinaria che essa sembra avere agli occhi
di alcuni critici. Forse da questo apparente carattere stra-
ordinario del fatto c'è chi derivò appunto i sospetti che lo
mossero a cercare le circostanze storiche e cronologiche che
parevano porne in dubbio la verità-, noi non solo ripetiamo
che tali sospetti, visti i tre esempi suddetti , non hanno
ombra di fondamento, ma stimiamo di dover notare, inoltre,
che certi fatti della storia antica di Roma non si hanno da
riguardare subito con diffidenza a cagione di qualche ille-
- 248 —
galità che essi sembrano supporre. Le illegalità sono sempre
state più o meno possibili dovunque. A Roma poi Tabuso
di potere era cosa molto più facile che non nei tempi mo-
derni , perchè (non faccia velo il nome di Repubblica) i
consoli avevano tanta autorità e tanto prestigio, che, se ca-
pitava che fossero nature arbitrarie, tornava quasi impossi-
bile, nella pratica, tenerli a segno. L'inconveniente avea poi,
ben inteso, il suo correttivo , che consisteva nella facoltà ,
e, aggiungiamo pure, nella facilità, colla quale i tribuni della
plebe potevano intentare un processo politico al magistrato
appena fosse scaduto d'ufficio. Quindi nessuno pensò mai
a metter in dubbio, a cagion d' esempio , gli atti tirannici
di Appio Claudio Cieco (i), o di altri che non mancano
nella storia romana.
La maggiore o minore incostituzionalità della partenza in
quistione non prova nulla contro la medesima , sebbene ,
come vedremo poi, essa non sia incostituzionale alla guisa
e nel senso che si crede.
P) Or vediamo se in se stesso sia probabile che gli
scrittori antichi abbiano inventata la partenza di Flami-
nio. Nella storia romana sono forse meno rare che nella
storia di qualunque altro popolo le falsificazioni: parecchi
secoli di dominio esclusivo esercitato da un certo numero
di famiglie patrizie, la lunghezza di vita che ebbe lo Stato
di Roma, e le vicende intestine che lo agitarono, ecco suf-
ficienti cagioni di falsificazioni storiche : dalla prima cagione
ebbero origine quelle che avevano la loro ragion d' essere
neir ambizione delle famiglie antiche di voler figurare nei
(i) Specialmente la sua censura fu feconda di risultati. Egli fu ri-
belle al Senato e a tutte le istituzioni vigenti. Preziosi cenni ci ser-
barono gli antichi (Diodoro, 20, 36; Livio, 9, 29, 7 segg.; 9, 3o; 9,
33, 4 segg.; 9, 46 segg.). I moderni scrissero molto su di lui; cf. fra
gli altri MoMMSEN, Róm. Forsch., i, 3oi segg.
— 249 -
fasti consolari e nelle memorie dei tempi andati più spesso
e con più lustro del vero ; dalle altre cagioni ebbero origine
quelle che dipendevano dalle convinzioni e dagli intenti po-
litici speciali degli scrittori. Quindi nella storia romana più
che in qualunque altra affilò le sue armi quella critica
che si chiama moderna, e che in realtà incomincia da Lo-
renzo Valla ;, e ad affilarle per estirpare il falso continuò
sempre e continua essa più che mai, ed a ragione-, ma se
in tutto ci vuol metodo, qui ce ne vuole moltissimo, ed uno
dei principi più ovvii non può non esser il seguente :, che
chi, senza argomenti di rigore e di certezza matematica (e
quanto son rari in queste discipline siffatti argomenti !), in-
tende provare agli altri che c'è una determinata falsificazione,
ne deve prima di tutto far vedere il perchè e il come.
Ora in proposito del perchè io non posso consentire col
Seeck (i) nel credere che Livio abbia inventata la partenza
di Flaminio per poterla biasimare, e così poter biasimare
tacitamente e indirettamente anche Giulio Cesare, che, fatto
console la seconda volta per Tanno 706/48, se ne andò da
Roma prima d'esser console effettivo, e si trovò in Brindisi f
il primo gennaio, che in quel tempo era il giorno in cui i
consoli entravano in carica. Osservo che prima di tutto non
si potrebbe senza gravi precedenti , e cosi alla leggiera ,
versar sopra Livio il peso di questa calunnia (2); poi Tir-
fi) Dissertazione citata, Hermes, 8, 166.
(2) È questione di metodo, che nelle ricerche ha somma impor-
tanza, anche indipendentemente dalle conclusioni pii^i o meno felici
e certe di esse. Qualche volta succede che il risultato loro sia errato,
e che nondimeno alcune parti siano svolle con metodo sano e com-
mendevole. Così, ad esempio, il Seeck poteva ritenere per falso il rac-
conto di Livio, senza tuttavia dare a questo storico la taccia di partigiano
menzognero; il che il critico poteva fare colla supposizione bensì di uno
scritto calunnioso, ma non facendone autore il nostro storico, anzi
immaginando piuttosto che quest'ultimo fosse stato vittima di una mi-
■'ìiiviòtJ di filologia ecc., X. i7
- 2ó0 —
regolarità in cui Cesare era incorso non era tanto grave
(si ricordino gli esempi dei consoli M. Claudio Marcello e
M. Valerio Levino nella metà del secolo sesto di Roma)
stificazione, servendosi ingenuamente del medesimo scritto ; questa
ipotesi non sarebbe stata giusta secondo me, ma almeno sarebbe stata
possibile. Ma che Livio, scientemente, abbia alterata la storia, obbe-
dendo ad istinti o ad istigazioni di parte, mi pare, fra le ipotesi, la
meno probabile. — A proposito di mistificazioni letterarie il Mommsen
{Die Scipionenprocesse^ Hermes, i, 212 segg.; R'óm. Farseli., 2, 5o2
segg.) non crede che davvero, durante il celebre processo intentato
dai tribuni della plebe ai due fratelli Scipione l'Africano e Scipione
l'Asiatico, il tribuno Tiberio Gracco (padre dei famosi Gracchi) abbia
tenuto il noto discorso in favore degli accusati e specialmente in favore
dell'Africano, anzi crede che il tenore di quel discorso(Liv., 38, 52-53)
sia piuttosto il sunto di un libello pubblicato allo scoppiare della guerra
civile, e precisamente nella primavera del 705/49 ; in quel tempo,
com'è noto, Cesare fece violenza alla potestà sacrosanta del tribuno che
non voleva permettere che egli aprisse l'erario ; allora un tale, secondo
il Mommsen, avrebbe scritto un libello per protestare contro tale vio-
lenza; questo tale però sarebbe stato un aderente di Cesare, e sarebbe
stato mosso non da ira di parte, ma soltanto dall'amore alla giustizia
e alle istituzioni ; quindi la protesta fatta in forma allegorica col
ricordare una scena del celebre processo, in modo che le cose dette
da Tiberio Gracco all'Africano dovessero intendersi come dette, dal-
l'autore del libello, a Cesare, per ammonir quest'ultimo del rispetto
dovuto alle leggi; e Livio poi, secondo il Mommsen, avrebbe letto
il libello e non si sarebbe accorto dell'allegoria. Dirò di questa idea
del Mommsen, che, se non mi par vera, almeno non cade nell'incon-
veniente in cui è caduto il Seeck colla sua, perchè siffatte gherminelle
letterarie, che non ingannano nessuno dei contemporanei, essendo al-
lora la commedia un secreto pubblico, diventano facilmente fonte di
errore pei posteri, uno dei quali era Livio, che nel yoS era fanciullo
di dieci anni e quindi ignaro degli affari pubblici. — L'idea però del
Mommsen non mi par tuttavia vera; in primo luogo non mi sembra
che nel 705/49 si potesse pensare a dittature perpetue e a consolati a
vita presagendoli all'eroe investito dall'oratore. In secondo luogo il
colore misto di Cesariano e di repubblicano, che il libello avrebbe
avuto, sarebbe un fenomeno poco rispondente alla realtà delle cose,
essendo chiaro che l'autore non poteva essere che o Cesariano, nel
qual caso avrebbe lasciato correre la violenza di Cesare senza far
motto; o contrario ai disegni di Cesare, nel qual caso egli non sa-
rebbe stato profeta di onori a quest'ultimo. In terzo luogo, siccome
— 251 —
da porgere giusta occasione di biasimo, anzi sarebbe stato
puerile pretendere che nei momenti decisivi della triste e
gigantesca lotta che allora combattevasi fra Pompeo e Ce-
sare, questi avesse aspettato che fosse venuto il primo dì
gennaio prima di muoversi da Roma, invece di correre
prontamente contro il rivale-, infine badisi che la somiglianza
fra la partenza di Flaminio e quella di Cesare è soltanto
apparente, perchè Cesare non commise le colpe che si rim-
proverano a Flaminio (che sono specialmente Tommissione
delle ferie Latine e quella delle sedute del Senato), avendo
egli celebrato le Latine (i) e nominato i governatori delle
Provincie (2): come avrebbe quindi potuto il nostro storico
mordere Cesare parlando di Flaminio? L'allusione sarebbe
stata oscura- T allusione dunque non c'è. E non solo mi
pare errata la congettura del Seeck sullo scopo della pretesa
falsificazione di Livio, ma a me non riesce nemmeno di
imaginarmene un altro qualunque un po' un po' verosimile,
ossia d'' indovinare una cagione che potesse aver indotto
Livio o altro storico più antico ad inventare il fatto in que-
stione. Una cagione politica o di parte? ma io non vedo
né a che prò uno storico democratico , celebrando V eroe
della sua fazione, avrebbe intruso questo particolare non
vero (come suppongono que' tali critici) nella storia dei par-
titi, né viceversa a qual fine uno scrittore di istinti aristo-
cratici avrebbe aggiunto, alla serie degli affronti veri inflitti
da Flaminio al Senato, un affronto meramente immaginario.
Oppure la partenza in discorso, e quindi anche le mancanze
Livio slesso sospettò che l'orazione di T. Gracco non sia genuina
(Livio, 38, b6, 5), è chiaro ch'egli si sarà occupato un momento della
cosa; per il che, se l'orazione fosse stata un libello del 7o5,egli se ne
sarebbe accorto.
(i) Cesare, De bello civ., 3, 2, i.
(2) Appiano, Bell. eh'.. 2, 48.
— 252 —
di Flaminio verso gli Dei (trascuranza delle ferie Latine e
di altre cerimonie religiose), vennero inventate semplice-
mente per dare ad intendere al mondo che la sconfitta toc-
cata dai Romani sul Trasimeno non era se non in appa-
renza r opera degli uomini , mentre in realtà essa era la
meritata ed inevitabile punizione divina di quelle mancanze,
e che quindi ne rimaneva salvo Tonore delle armi romane ?
Neppur questa ipotesi ha valore di sorta nel nostro caso
(per quanto essa sia tale da raccomandarsi altrui, quando
fosse certo il fatto che si tratterebbe di dimostrare, cioè
la falsificazione):, e valga il vero: se così fosse, lo storico
autore della falsificazione avrebbe messo espressamente in
evidenza il nesso fra la cagione e T effetto , avrebbe detto
che la rotta di Flaminio fu la conseguenza necessaria e le-
gittima della costui partenza anticipata, e T asserzione sa-
rebbe poi stata via via ripetuta dagli scrittori venuti dopo;
ma in quella vece, non e' è autore antico che dica questo,
che anzi tutti gli antichi, al contrario, convengono nelT as-
serire che Flaminio perì per non aver tenuto conto dei si-
nistri prodigi apparsigli in Etruria (i).
Non meno difficile sarebbe trovare un come della falsi-
ficazione. I critici che concepirono Tidea della falsificazione
non si diedero la pena di cercarlo, ed io confesso d'averlo
(i) CicER., De divinat,, i, 35, 77; 2, 8, 21 ; 2, 3i, 67. Lo stesso,
De natur. deor.,2, 3, 7-8; Valerio Massimo, i, 6, 6; Ovidio, Fast.^
6, 755. Tanto consenso fra i classici è molto osservabile; quindi è
che parmi si diparta molto dal vero il Lance quando afferma [Rum.
Alterthiim., 2, i55, seconda edizione) che gli antichi immaginando
quella partenza (secondo l'autore quella partenza è finta) intesero a
far manifeste le cagioni scerete della rotta del Trasimeno. Meno
esatto parmi pure il medesimo critico, citando a questo proposito
Plutarco, Fabio, e. 2 ; questo storico menziona certi prodigi tra-
scurati da Flaminio, ma non li mette in relazione alcuna colla scon-
fitta del Trasimeno.
- 253 -
cercato invano. Distinguo due specie di falsificazioni sto-
riche. C è r alterare i fatti sopprimendo particolari veri e
aggiungendone di non veri, che è sempre possibile. C'è Tin-
ventare dei fatti (come si suppone nel nostro caso) che non
è sempre facile, massime trattandosi di tempi in cui fiori-
scono le lettere (i). Or badisi che la partenza irregolare di
Flaminio (irregolare, come vedremo , solo perchè non de-
cretata dal Senato, e non per altro) sarebbe una di quelle
invenzioni che non vengono in mente che ai contemporanei
a sfogo improvviso di sdegni di parte ; or come sarebbe
essa stata possibile? C'erano allora scrittori contemporanei
delle cose di Roma, così fra i Romani come fra gli stra-
nieri, quindi come avrebbero osato e potuto, gli storici,
affibbiare ad un uomo celebre come Flaminio, un'azione di
quella sorte, che pur si era dovuta compiere alla luce del
giorno ? avrebbero osato e avrebbero potuto dar colpa di una
azione scandalosa ad un uomo morto pur dianzi, mentre
tutti ricordavano benissimo quello che egli avea e quello
ch'egli non avea fatto, se non si fossero fondati sul vero?
Mi par di no. Questo sia detto degli storici contemporanei.
Quanto poi agli storici posteriori, io notava or ora che essi
non potevano avere interesse alcuno ad inventare e propa-
(i) Questo è un criterio che non tanto si esprime a parole, quanto
si applica nella pratica. Infatti i critici scoprono per lo più le falsi-
ficazioni nella storia dei tempi anteriori allo sviluppo delle lettere,
scritta dai posteri ma non dai contemporanei, e quindi capace di es-
sere alterata. Così, ad esempio, sarebbe stata travisata l'immagine di
Sp. Cassio e di M. Manlio (Mommsen , Hermes, 5, 228 segg.; R'óm.
Forsch., 2, i53 segg.), sarebbe un'invenzione la storia di Sp. Maelio
aspirante alla monarchia (lo stesso, ivi), sarebbe un'invenzione quella
di Coriolano (Mommsen, Hermes, 4, i segg.; Rom. Forsch., 2, ii3
segg. Ma il Bonghi, Nuova Antologia, voi. 16, p. SgS segg., risguarda
la leggenda di Coriolano come un'amplificazione poetica, archeolo-
gica e letteraria ad un tempo, di un fatto vero).
- 254 —
gare una menzogna di questo genere, ed aggiungerò adesso
che C. Flaminio sarà stato certissimamente ritratto dai con-
temporanei in guisa così precisa, che oramai doveva parere
assunto vano e di esecuzione difficile, l'imprendere ad alte-
rare il quadro che dipingeva quelTuomo alle prese col Se-
nato.
y) Esaminando finalmente il modo in cui ci pervenne
la notizia della cosa, non trovai ragioni che valgano a farla
negare, sebbene a primo aspetto tutto paia concorrere a
metterla per l'appunto in dubbio. Al vedere infatti che Livio
è il solo storico che la racconta di proposito (i), e Valerio
Massimo il solo scrittore che ne tocchi una volta per inci-
denza (2), mentre Polibio, narrando per disteso la storia
romana di quel tempo, la passa sotto silenzio, e mentre
Cicerone non fa mai allusione ad essa nelle dieci volte che
egli parla o di Flaminio o almeno della catastrofe del Tra-
simeno (3), saremmo inclinati a credere che la cosa non si
(i) Naturalmente Livio è poi coerente a se stesso, e tutta la storia
interna del principio del 537/217, che leggesi sul principio del libro
XXII, conferma il racconto anteriore. Infatti come sulla fine del XXI
narra la partenza del console designato C. Flaminio, così sul prin-
cipio del XXII narra che Servilio fu // solo dei due consoli che sia
entrato in carica a Roma e abbia convocato il Senato (Cn. Servilius
consul Romae Idibus Martiis magistratum iniit. Ibi quum de re pu-
blica retulisset, etc), e abbia espiato i prodigi [consul de religione patres
consuluit),e narra che fu il solo Servilio che arruolò le truppe (Dum
consul placandis Romae dis habendoque dilecta dat operam , etc).
(2) Val. Massimo, 4,6, 6 : « C. autem Flaminius /»^//5jl7/c^/o co»5m/
creatus, cum apud lacum Trasymennum cum Hannibale conflicturus
convelli signa iussisset, etc. ». Osservo di passaggio che fonte di Va-
lerio Massimo, in questo luogo, paionmi essere state le parole Liviane
riferite in principio del capitolo: « consulem ante inauspicato factum
etc. » {21, 63, 7). E se così ò notisi il qui prò quo; le parole di Livio
si riferiscono al primo consolato di Flaminio nel 53 1/223, ma Valerio
Massimo le applica al secondo consolato !
(3) Cicerone parla dieci volte di Flaminio, cioè: Ad Brut., 14,
^7i '9> 77' Acad. pr.,2, i5, i3. De invent., 2, 17, 52. De senect.,
— 255 —
leggesse negli autori conosciuti a Polibio e a Cicerone, e che
essa fosse stata inventata più tardi da Livio o almeno al
tempo di Livio. Ma questa conclusione sarebbe precipitata.
La cosa si riguardò come un aneddoto, e quindi , passata
sotto silenzio da qualche storico dei più antichi, essa ebbe
la stessa sorte anche negli storici posteriori. E oltre a questa
ragione generale ci sono ragioni speciali che spiegano il si-
lenzio di ciascheduno scrittore in particolare. Polibio in-
fatti ommise molte cose anche più importanti (i), le quali
4, 1 1 . De divinat., i, 35, 77; 2, 8, 21 ; 2, 3i, 67. De nat. deor., 2,
3, 7 e 8. De legg., 3, 9, 20, quando ricordandone l'eloquenza che la
fama diceva non comune, quando menzionando la legge agraria di
lui, quando narrando i portenti apparsigli in Etruria , e quasi ad
ogni volta rammentando la catastrofe del Trasimeno.
(i) Ho esaminato il libro terzo di Polibio (in esso vengono esposte
le cose seguite dal principio della seconda guerra punica fino alia
•battaglia di Canne), che è parte integrante dell'opera (viceversa sono
semplicemente un'introduzione a tutta l'opera i due primi' libri, cf.
Polibio, i , 3 e 3, i) e che ci rimane intero, e 1' ho confrontato col
libro XXI di Livio ; il risultato di tale esame fu appunto questo, che
gli autori romani o non romani più antichi, i quali descrissero la
seconda guerra punica , furono bensì studiati tutti quanti da Po-
libio, ma senza che egli abbia mai pensato a non ommetier nulla,
nelle sue storie, di quanto lesse nei loro scritti; in effetto, per
tacere che i fatti avvenuti in Ispagna nei due primi anni della guerra
trovansi esposti più diffusamente presso Livio che non presso Polibio
(del che discorre Bottcher, Fleckeisens Jahrbiìcher Supplementband ,
5, 427, e WoLFFLiN, Hermes, 1875, pag. 122 segg.), ci son molte cose,
la cui verità sarebbe ridicolo voler contestare, e la cui importanza
non potrebbe essere maggiore, che vennero per la prima volta narrate
dagli autori contemporanei (altrimenti non ne sarebbe giunta fino a
noi la notizia), e che oggi leggonsi in Livio, le quali tuttavia mancano
in Polibio; tali sono le cose riferite da Livio 21, ^i, 9, dove leggiamo
che Annibale, per andare dal paese degli AUobrogi alle Alpi , passò
per le regioni dei Tricastini, dei Vocontii e dei Tricorii ; tali sono
quelle riferite da lui, 21. 49 segg., e che sono la somma degli avve-
nimenti seguiti in Sicilia nel primo anno della guerra ; tali sono so-
pratutto quelle riferite da lui, 21, 19, 6 segg., dove è fatta menzione
di un avvenimento dei più caratteristici, ossia dell'infelice tentativo
che i legati dei Romani fecero, al rompersi della guerra, percorrendo
— 256 —
venivano però riferite necessariamente dagli autori eh' egli
consultò (se non le avessero riferite noi non ne avremmo
più contezza alcuna) ; perchè non crederemo ch'egli ommet-
tesse anche la partenza di Flaminio o a bella posta, op-
pure per dimenticanza? Noterò ancora che Polibio è lo sto-
rico che evita per principio gli aneddoti:, non avea egli
prima d'allora passato sotto silenzio T insubordinazione di-
mostrata da Flaminio al Senato nel 53 1/223 , quando era
console la prima volta? (i). — Per quanto concerne poi
le Spagne e le Gallie in cerca di alleanze contro i Cartaginesi ; tali
sono infine molte imprese militari di poca importanza, come quelle
narrate da Livio, 21, Sy-Sg, ed esaminate nel capitolo precedente, ed
altre che vedremo nel quarto capitolo; per tacere della storia interna
di Roma, e non solo della storia interna consueta, ma di qualche
fatto straordinario, quale sarebbe, ad esempio, la primavera sacra vo-
tata dai Romani dopo la battaglia del Trasimeno. Dopo ciò chi potrà
più dire che sia lecito dubitare della verità di una cosa, solamente
perchè c'è Livio solo a narrarla e la tace Polibio ? Anche nel capitolo
precedente abbiamo avuto l'occasione di sollevare questa quistione.
(1) Polibio potè aver passato sotto silenzio la partenza di Flaminio
per una di quelle ragioni per le quali passò sotto silenzio le cose che
ricordai nella nota precedente, oppure perchè egli la poneva fra gli
aneddoti, dei quali non volle mai curarsi. A proposito del suo studio
nello scansare gli aneddoti, ecco alcune cose raccolte scorrendo
l'opera sua. Durante la prima guerra punica, e precisanìcnte nel 5o5
di Roma, ebbe luogo 1' infelice battaglia di Trapani (Drepana), de-
scritta minutamente da Polibio (i, 49 segg.) ; ma per l'aneddoto dei
sacri polli, che non volendo mangiare furono dal console P. Claudio
Pulcro gettati in mare a bere, Polibio non ha nemmeno una parola,
e noi l'ignoreremmo, se altri scrittori antichi non lo avessero ricor-
dato. Nel 53 1/223 era console per la prima volta il nostro Flaminio,
che partì col collega contro gli Insubri, e che alle lettere del Senato
che li richiamava, i consoli, a Roma, rispose col dar battaglia al ne-
mico ; ebbene Polibio, che oltre al descrivere a lungo la battaglia si
diffonde perfino a criticare un pericolosissimo errore strategico di
Flaminio (Polibio, 2, 32 segg.), non fa parola né delle lettere del
Senato né della disobbedienza di Flaminio (Zonaras, 8, 20; Plu-
tarco Fabio, c. 2; Orosio, 4, i3).Cosl Polibio ommise la menzione
dei prodigi annunziati a Roma dopo la battaglia della Trebbia (dei
quali abbiamo discorso nel capitolo primo;, e quella dei sinistri prò-
— 257 —
Cicerone, a me non fa maraviglia clie questo autore, par-
lando di Flaminio e del sanguinoso dramma consumato al
lago Trasimeno, non accenni mai alla famosa partenza-,
egli non ebbe T occasione di farlo, almeno nelle opere che
ci rimangono di lui ; difatti non trovo che egli sia venuto
per incidenza a discorrere dei principii e delle consuetudini,
che Flaminio avea violato partendo prima del i5 marzo, e
quindi capisco benissimo che Toratore non parli nemmeno
della partenza, né vedo dunque come sia lecito inferirne che
nessuno degli scrittori letti da lui ne avesse parlato. Ed una
conferma di ciò che dico, spiegando il silenzio di Polibio e
di Cicerone, Tabbiamo nel silenzio stesso di Plutarco, di cui
ho aspettato finora a bella posta a far menzione (i). Plu-
tarco, a proposito deirelezione di Flaminio al secondo con-
solato del 537/217, ricorda gli aneddoti relativi al primo
consolato di lui, e nondimeno non parla della famosa par-
tenza, che era l'aneddoto relativo al secondo (2)-, si dirà
nostici apparsi a Flaminio in Etruria quando questi stava per ci-
mentarsi con Annibale sul Trasimeno. Altre cose si troverebbero di
certo cercando più minutamente, ma coleste pel nostro scopo pos-
sono bastare.
(i) Poca importanza ha poi il silenzio degli storici latini minori,
dipendenti immediatamente o mediatamente da Livio; il loro si-
lenzio dipese semplicemente dalla loro volontà, avendo essi trovato
in Livio, loro fonte, il racconto della cosa. Poca ne ha parimente
quello di Appiano e di Zonaras essendo essi scrittori compendiosi
anzi che no.
(2) Plutarco {Fabio, e. 2) ricorda che nel 53 1/223 Flaminio e il suo
collega ricevettero lettere dal Senato che li invitavano a deporre il
consolato , essendo incorso un vizio nella loro elezione ; l' invito fu
vano. Questo aneddoto è narrato da Plutarco ricordando la vittoria
riportala da Flaminio sugli Insubri nel 53 1/223, e questa vittoria, a
sua volta, spiega, secondo Plutarco, la baldanza dimostrata più tardi
da Flaminio , il quale, fatto console di nuovo pel 537/217, non si
lasciò commuovere dai prodigi naturali che vennero annunziati a
Roma dopo la battaglia della Trebbia. Si dirà perciò che il silenzio
-258 -
perciò che gli scrittori letti da Plutarco non la narrarono ?
No, perchè, ad esempio, è cosa certa che Plutarco lesse Livio.
Ciò vuol dire che Plutarco , del pari che Cicerone , non
venne a parlare della cosa o per semplice caso, o piuttosto
per disattenzione nel compilare Topera sua, come vedremo
subito.
Adunque non prova proprio nulla il silenzio degli scrit-
tori, che a primo aspetto parrebbe dimostrare che gli sto-
rici antichi non ebbero notizia della partenza di Flaminio ,
e quindi parrebbe dimostrare che essa è un'invenzione di
Livio o di altro scrittore poco anteriore a Livio. Che se ci
volgiamo alTanalisi del racconto liviano riconosceremo forse
che esso deriva, nella sua sostanza , da uno scritto di un
contemporaneo di Flaminio, essendo impossibile che uno
storico novelliere dei tempi posteriori riuscisse a dare al
suo racconto quel colore di realtà che traspare ancora dalla
pagina di Livio e traspariva naturalmente anche meglio dallo
scritto usato da Livio in questo proposito. Ecco le osserva-
zioni che feci a questo riguardo. Nel racconto liviano viene
tessuta per intero, quasi, la vita politica di Flaminio, meno
la censura (i) : ora T ommissione di quell'ufficio altissimo
che era la censura, era bensì necessaria, trattandosi di met-
tere sott'occhio i momenti in cui Flaminio contese col Se-
nato, cosa che egli non pare aver fatto quando fu censore;
ma in ciò io scorgo il fare di un contemporaneo, perchè un
falsario posteriore non avrebbe forse avuto V avvertenza di
distinguere i momenti in cui Flaminio non contese col Se-
sulla partenza di Haminio significhi che non la narravano nemmeno
gli autori antichi compilati da Plutarco? No, tant' ò vero, che Livio,
letto molto da lui, è appunto quello che la narra ; è dunque per ne-
gligenza o per proposito che Plutarco non lo narrò.
(i) Come avvertii fin dal principio del capitolo. — Fu censore nel
534/220; cf. Livio, epit. 20, e Livio. 23, 22-23; 24, 11, 7.
- 259-
nato, dagli altri momenti. In secondo luogo quando io leggo
che Flaminio andò debitore del secondo consolato all' aver
egli difeso il plebiscito Claudio (cosa che gli rese favorevole
il popolo), io sento Taffermazione di un avversario politico di
Flaminio (i), che è quanto dire Tasserzione di un contem-
poraneo. In terzo luogo, siccome la provincia di Flaminio
fu r Etruria mentre quella di Servilio fu la Gallia (capo-
luogo Rimini) (2), crediamo noi, se la partenza di Flaminio
fosse mera invenzione, che l'autore dell'invenzione avrebbe
scritto che egli andò a Rimini (3), che era il capoluogo
della provincia di Servilio? L'autore avrebbe detto che Fla-
minio andò in Etruria. Infine nel racconto liviano è fatta
menzione della legge o del plebiscito Claudio , e dei due
legati spediti dal Senato a richiamare Flaminio; or quanto
a questa legge non e' è altro autore antico, per quanto so
vedere, che ne faccia memoria esplicita (4), il che ad ogni
modo prova che negli stessi scritti del settimo secolo , ora
(i) Con ciò non voglio dire che l'asserzione sia giusta. È vero che
i moderni van ripetendo semplicemente quel che Livio scrive, che
cioè Flaminio fu innalzato ai fasci per la seconda volta in compenso
d'avere, unico fra tutti i senatori [uno patnim adiuvante C. Flaminio,
son le parole di Livio, 21, 63, 3). perorata la causa della proposta
fatta da un tribuno Q. Claudio (così Mommsen, R'óm. Gesch., 1,819,
829 della seconda edizione; Lance, RÓm. Alterthiim., 2, i5i, seconda
edizione, e tutti gli altri critici), ma l'asserzione è evidentemente par-
tigiana, come è partigiano tutto lo scritto donde deriva l'intero luoga
di Livio.
(2) Delle Provincie consolari parleremo presto.
(3) Naturalmente, oggi che s'è cominciato a negar che sia vera la
partenza di Flaminio, si nega altresì, nello stesso tempo, l'andata di
lui a Rimini; così la negano, oltre il Seeck nella dissertazione più
volte citata, parecchi altri venuti dopo, e ultimamente Gottlob Ege-
LHAAF, Jahrbììchcr fì'ir class. Phil. und Padag. Supplemenlband , lO,
5o6. Rispondo però a tutti osservando che lo scrittore che avesse in-
ventata la partenza di Flaminio, avrebbe detto che egli andò in Etruria^
perchè fu questa la sua provincia.
(4) Dico menzione esplicita.
— 260 —
periti, non era punto frequente il ricordo di essa; quindi io
starei quasi per dire che questo significa che il racconto
liviano proviene, qui, da una fonte molto antica, e non da
una falsificazione recente, perchè chi avesse più tardi in-
ventata la cosa, come taluni ora pretendono, non si sarebbe
forse risovvenuto di cotesta legge oggimai vecchia e poco
nota; e quanto ai legati non esito ad asserire che il nu-
mero di due di cui è fatta parola nella narrazione di Livio
accenna a tradizione genuina, perchè un annalista del set-
timo secolo, che avesse cavato dalla sua fantasia la partenza
straordinaria di Flaminio, e avesse dovuto inventare , ne-
cessariamente, anche l'ambasceria del Senato al console,
avrebbe certamente pensato ad un numero maggiore di am-
basciatori ([), — Tutto, tutto accenna, nel racconto rima-
stoci in Livio, ad una fonte contemporanea , della quale
vai ben la pena di occuparsi un momento, almeno in una
nota (2).
(0 Nei tempi antichi i legati del Senato solevano essere in numero
di due; nei secoli posteriori in numero maggiore; cf. Mommsen ,
Staatsrecht , 2, óó5, seconda edizione; lo stesso, Kóm. Forsch., 2,
304.
(2) La quistione è interessante e nuova, ed ecco quello che a me
pare. Livio narra la partenza di Flaminio, poi la biasima acremente,
in un' invettiva di amarezza che non ha riscontro presso questo Ro-
mano generoso, mite e gentile. Or cotesta invettiva guasta un po', a
mio credere, l'economia della storia, sia perchè di molta lunghezza,
sia perchè posta in fine del libro 21, nel luogo che al solito è desti-
nato a compendiare i fatti principali della storia interna, come a
dire comizi, ludi, morte di sacerdoti, esimili; e badisi che viceversa
queste notizie di fatti interni mancano al tutto questa volta. L'invet-
tiva guasta ancora l'armonia dell'opera, perchè è messa violentemente
fra due semplici e brevi notizie, vale a dire fra quella dell'andata
di Flaminio da Roma a Rimini, e quella dell'andata di lui da Ri-
mini ad Arezzo. Dall'altra parte poi, guardando all'intrinseco, le pa-
role dello storico sono ancora più osservabili ; sono un'invettiva, in-
vece di essere una serie di gravi e pacate considerazioni quali si
addicono alla storia; non espongono le cagioni vere, ma soltanto le
— 261 -
Fonia ;no adunque fine a questo secondo paragrafo con-
chiudendo in favore della verità storica della partenza di
Flaminio nei termini in cui lo storico latino ce la racconta,
e passiamo a dare nel seguente paragrafo uno sguardo a
tutte le obbiezioni mosse dai critici contro la verità storica
del racconto di Livio.
§ III. Le obbiezioni. È utile vederle nel loro insieme,
tanto quelle a cui fu già risposto, quanto le altre a cui do-
vremo rispondere, i" Il Seeck, dopo di avere ripudiata
la notizia data da Livio circa il tempo in cui furono tenuti
i comizi per l'elezione dei consoli del 537/217, accogliendo
invece quella di Polibio, continua dicendo, che la partenza
cagioni apparenti della partenza di Flaminio, come io farò vedere
fra breve; il giudizio, severo e tranquillo, del fatto, manca intera-
mente; infine vi leggiamo uno schizzo della vita politica di quel-
l'uomo, con molto gusto sì, ma senza poterci trattenere dal soggiun-
gere che lo troviamo dove meno ce lo aspettavamo. L'estrinseco e
l'intrinseco del racconto liviano sono dunque molto notevoli, sebbene
nessuno l'abbia mai detto. Ora è evidente che tutto ciò dipende dalla
natura dello scritto, dal quale proviene, immediatamente o mediata-
mente che sia, il racconto medesimo. Secondo me, il modo di capir
bene tutte queste singolarità è un solo, quello cioè di supporre che
noi abbiamo qui il sunto di un discorso tenuto prima nel Senato
romano da un avversario politico di Flaminio nell'occasione della
partenza di questo, e poscia diffuso per iscritto. In tal caso si capi-
rebbe la lunghezza e la violenza dell' invettiva, si spiegherebbe la
mancanza delle vere cagioni del fatto (il libello non ha bisogno di
dire le cagioni , fatto com'è pei contemporanei ai quali esse sono
note; la storia, che guarda ai posteri, si), e si vedrebbe il perchè
della biografia di Flaminio, la quale, come sempre in simili casi, è
poi il novero di quelle che all'occhio malato dell'uomo di parte pa-
iono colpe. Poco importa poi che sia difficile cogliere nel segno
quando si tratti di dire il nome dell'oratore ; del resto non andrebbe
forse lungi dal vero chi pensasse a Q. Fabio Massimo antesignano
dei nobili e quindi antagonista di Flaminio, e che, come sappiamo
da Cicerone {Calo Maior, 4, 12) e da Plutarco [Fabio, i), era al-
tresì oratore.
— 262 —
<di G. Flaminio mentre era semplice console designato, cioè
prima del i5 marzo, era cronologicamente impossibile.
Questa asserzione l'abbiamo già confutata nel capitolo pre-
cedente, dimostrando che que' comizi consolari ebbero luo<7o
dopo la battaglia della Trebbia, non già prima, e qualche
tempo innan'{i al 1 5 di marzo. — 2-'' Continua il Seeck
asserendo che, secondo Plutarco (Fabio Mass., e. 3), la
partenza di Flaminio avvenne nel modo consueto , come
sempre erano partiti i consoli, senza incidenti straordinari.
Invece a me pare che Plutarco non tocchi per nulla la par-
tenza del console, e che le parole di lui tòv |aèv aiparòv
èHaYeiv ÈKéXeucre toùc; xi^iapxou<;, che sogliono riferirsi alla
partenza da Roma, s'abbiano a intendere diversamente, che
cioè Flaminio , mentre era già in Etruria , diede ordine
di muovere il campo, non già che abbia ordinato di par-
tire da Roma per V Etruria. Veggasi infatti che a queste
parole tengono dietro quelle altre (i) circa Timpcnnarsi del
cavallo di Flaminio e il cader rovescione di quest'ultimo,
fatto che parve ai prudenti un prodigio di sinistro augurio,
tale da dover rimuovere il console dalla risoluzione di
combattere, del quale però egli non fece nessunissimo conto-,
ma il prodigio avvenne in Etruria, come dicono tutti gli
antichi (2). Dunque le parole citate esprimono il mover del
campo in Etruria, non l'uscire di Roma (3). — 3' Con-
(1) aÙTÒt; ò'^TTÌ TÒV iTTTTOv óXXó.uevoq e: oùb6vò(; alriou TrpoòrjXou napa-
XÓYU)c èvTpó|uou ToO iTTTiou Y^voiLtévou Kul TTTupévTO(; èSeueoe Koi Kaxe-
vex96Ì<; ènì KeqpaXi'iv òiuiuc; oùbèv Irpevjje xfìq Yvu)nn<^i à.\\' <uc, ujp|ur|oev il
àpxnt; ànavTiiaai tlu 'Avvi[?a, irepì tì^v KaXou^évqv Gpaffuviav Xi,uvr]v tvic;
Tuppriviae; irapeTciEoiTo.
(2) Livio, 22, 3; Cklio Antipatro presso Cicerone, De Divinai.,
I, :^5.
(3) Così, e non altrimenti, vuol essere inteso il principio del capo
terzo della vita di Fabio Massimo, che qui esamineremo per intero
per mostrar dove sta la cagione dell' essere esso stato frainteso. Nel
— 263 -
tinua il Seeck asserendo che Zonaras (8, 25) narra essere
i consoli Flaminio e Servilio partiti insieme. Veramente
l'appellarsi a cotesto scrittore greco, vissuto cosi tardi, per
secondo capo, Plutarco, racconta che i fenomeni straordinari annun-
ziati a Roma dopo la battaglia della Trebbia (di essi trattammo nel
capitolo precedente) non fecero alcuna impressione sull'animo di Fla-
minio, ma commossero grandemente Fabio Massimo, il quale, in con-
seguenza, diede il consiglio di star sulle difese evitando ogni battaglia
campale, e lasciando che il tempo logorasse le forze nemiche, che
erano poche. Or viene il capo terzo : « Tuttavia non persuase Fla-
« minio, ma dicendo — Flaminio — di non voler aspettare che la
« guerra giungesse alle porte di Roma , né di aver da combattere
« nella città per difendere la città come aveva fatto Camillo antica-
<c mente, ordinò ai tribuni di menar fuori 1' esercito » ecc. Sarebbe
facile credere, come si crede, che Flaminio mentre così parlava, si
trovasse in Roma, perchè pare che egli rispondesse a Fabio nel Se-
nato ; ma se c'è cosa certa è questa per l'appunto, che queste parole
sono state dette da Flaminio mentre stava già in Etruria, e che quella
che sembra essere una risposta di Flaminio a Fabio, non è in realtà
che una risposta di Flaminio alle osservazioni di quelli fra il suo
seguito che la pensavano come Fabio, e che esortavano Flaminio a
non venire alle mani con Annibale; infatti, tutti sanno che Annibale
voleva combattere, e aizzava Flaminio mettendo 1' Etruria a ferro e
fuoco, donde in Flaminio la voglia di venir alle mani, al quale però
resistevano i piìi prudenti fra i suoi consiglieri (Polibio, 3, 82; Livio,
22, .3). A questi rispose Flaminio adunque esortandoli a considerare
che cosa direbbesi a Roma vedendo devastate le terre quasi fino a
Roma, e loro star accampati in Etruria di dietro ai nemici ; così
scrive Polibio, 3, 82, 6 ; secondo Livio, 22, 3, io, Flaminio rispon-
deva ironicamente a que' prudenti consiglieri : « Hannibal emissus e
« manibus perpopuletur Italiam, vastandoque et urendo omnia ad Ro-
« mana nioenia perveniate nec ante nos hinc moverimus quam, sicut
« olim Camillus ab Veiis, C. Flaminium ab Arretio patres accive-
« rint ». È evidente che anche in Plutarco la risposta di Flaminio
succede in Etruria come presso Polibio e presso Livio ; anzi che
cosa sono le parole di Plutarco se non la ripetizione di quelle di
Livio? Mi par certo che Plutarco attingesse, qui, a Livio, e che l'uno
e l'altro attingesse ad un medesimo storico più antico. Ad ogni modo
resta doppiamente confermato quello che abbiamo esposto nel testo,
che cioè l'ordine di menar fuori l'esercito dato da Flaminio ai tri-
buni, è l'ordine di muovere il campo mentre l'esercito si trovava in
Etruria, e non l'ordine di partire da Roma. — Ed ora un' osserva-
- 264 —
ciò che concerne le particolarità della cronaca di Roma, non
si potrebbe gran fatto raccomandare-, ma s'aggiunge che Zo-
naras non narra per nu\\a.\3i pari en-a da Roì?2a in questione-,
ecco infatti le sue parole : « Oi òè èv iv[ 'Pu))ur] tòv OXaiuiviov
Kal TÒV réjaivov ùttótou*; auOi^ eiXovio. 'Avvipa(; ò' apri toO
èapo? èTTiCTTàvToq wq eYVuu tòv 0\a)Liiviov |neTà Xepoui-
Xiou rejLiivou x^ipì TToXXi] ÈTt'aÙTÒv lóvTa, ktX. Dal
dire che i due consoli marciavano uniti contro Annibale ,
al dire che i consoli partirono insieme da Roma, ci corre
molto;, per tacere che Zonaras non è storico che in cotesti
particolari possa far testo. — 4-'^ Il Seeck osserva che se
Flaminio fosse andato a Rimini prima del i5 marzo, il
Senato avrebbe poi mandato V altro console Servilio in
Etruria , invece di mandarlo a Rimini e di obbligare così
Flaminio a ritornare in Etruria sua provincia. Rispondo
che Flaminio andò a Rimini soltanto per prendervi il suo
esercito, come racconta Livio (i), e che questa sua mossa
zione. È chiaro che nel racconto di Plutarco manca la partenza dei
consoli da Roma. Dal Senato romano, dove sulla fine del capo se-
condo della vita di Fabio Massmio ci troviamo per l'appunto ad
udire i consigli di Fabio, noi siamo trasportati di botto, nel terzo
capo, in Etruria. Questo fatto è molto istruttivo per capire il modo
tenuto da Plutarco nel compilare, perchè noi tocchiamo con mano,
in questo caso, che l'autore servendosi contemporaneamente di più
fonti, finì per lasciar nella sua narrazione una lacuna.
(ij 2 1,63, i5: « Legionibus inde duabus a Sempronio prioris anni
consule, duabus a C. Atilio praetore acceptis, in Etruriam per Ap-
pennini tramites exercitus duci est coeptus ». Pare che al partire di
Flaminio le nuove legioni non fossero ancora arruolate; quindi Fla-
minio prese il comando delle vecchie, che allora si trovavano a Pia-
cenza. Come fare per farle venire ? Flaminio diede loro la posta a
Rimini. A chi dicesse che ciò non è probabile, e che Flaminio a-
vrebbc loro data la posta ad Arezzo, risponderei ricordando, che,
anche poco innanzi, Rimini era stato destinato a luogo di convegno
delle legioni; infatti, quando il Senato richiamò dalla Sicilia il con-
sole Sempronio, affinchè si congiungesse col collega Scipione sulla
Trebbia incontro ad Annibale, Sempronio al suo partire dall' isola
— 2G5 —
adunque non pregiudicava per nulla la questione circa la
divisione delle provincie consolari. — b°- 11 Seeck osserva
ancora che, vista la brevità del tempo, non è credibile che
le legioni, le quali avean combattuto sulla Trebbia, andas-
sero da Piacenza a Rimini, poi da Rimini ad Arezzo. Alla
prima parte di questa obbiezione fu già risposto implicita-
mente nel primo capitolo-, quelle legioni si trovarono a Ri-
mini il i5 marzo, e noi abbiamo visto quanto tempo sia
corso dalla battaglia della Trebbia al 1 5 marzo. Quanto
poi alla marcia da Rimini ad Arezzo, l'obbiezione non
regge, perchè noi non sappiamo quando le legioni siano
giunte in quest'ultimo luogo. — 6' Finisce il Seeck citando
le parole di Polibio, secondo le quali Flaminio e Servilio
avrebbero arruolate in comune le legioni, quasi ciò im.plichi
la presenza di Flaminio in Roma dopo il i5 marzo. Potrei
contrapporre, al testimonio di Polibio, il testimonio di Livio,
citato sopra, secondo il quale il console Servilio arruolò da
solo le legioni , ma non lo farò per le ragioni dette nel
capitolo precedente, tanto meno lo farò inquanto T obbie-
zione non è formidabile se non in apparenza. Le parole di
Polibio son queste: « Gn, Servilio e C. Flaminio, allora
« appunto fatti consoli , raccoglievano le truppe alleate e
(( arruolavano le legioni (i) ». Ebbene, o il nome di C.
diede a' suoi soldati la posta a Rimini per condurli poi di là a Pia-
cenza (Polibio, 3, 68, 4; Livio, 21, 5i, 7), che geometricamente par-
lando non era certo il cammino più breve. Questo indica che la via
tra Rimini e Piacenza era comoda, e che quindi i Romani ne apro-
fittavano sempre; e questa via fu per l'appunto una parte della via
Aemilia costrutta più tardi. È altresì da notare che Rimini era co-
lonia dei Romani, ed anche piazza forte. Anche queste considera-
zioni servano insieme con quanto fu detto altrove, a confutare coloro
che negano l'andata di Flaminio a Rimini.
(1) 3, 75. 5: Tv&ioc, bk lepouiXio^ koì Tdioc; 0Xa,uiviO(; , oirrep Ituxov
uiraToi KaGeoTaf-iévoi, auvfiTov toÙ(; ou,u,uaxou(;, koì KareYpctfpov tu irap' aù-
ToT(; aTpctTÓTTeòa.
Vjvis'.a Ji lilolo^ia ecc., X. l8
- 266 —
Flaminio è messo per mera svista di Polibio, oppure , se
è messo a ragione, io dico che la raccolta dei soci e T ar-
ruolamento dei legionari, a cui avesse preso parte anche
Flaminio, è avvenuto prima del 1 5 marzo, nel frattempo
corso dall'elezione dei consoli alla partenza di Flaminio.
Ecco come può essere stato messo il nome di Flaminio,
per una svista ; in sé era cosa possibilissima Tarruolamento
delle truppe per opera di uno solo dei consoli \ in Livio ne
ricordo tre altri esempi (i); ora siccome gli affari d'ufficio
spediti da un console, formalmente riguardavansi come spe-
diti da tutti e due, ne venne la figura rettorica del plurale
consules adoperato dagli scrittori, anche quando in realtà la
cosa era stata fatta da un solo console ; anche di questa fi-
gura abbiamo trovato più sopra due esempi in Livio(2)*, or si
supponga che uno storico usato da Polibio avesse detto, allo
stesso modo, che i consoli del 537/217 facevano gli arruola-
menti, e si supponga che Polibio, cogliendo Toccasione di far
conoscere il nome dei consoli nuovi (cosa necessaria, essendo
essi gli eponimi), sostituisse al nome comune consoli il nome
proprio Servilio e Flaminio, e si avrà la spiegazione pro-
babile della svista di Polibio. Se poi le parole di Polibio van
prese alla lettera e anche Flaminio ebbe veramente parte nel
far gli arruolamenti, io dirò che ciò può benissimo riferirsi
al tempo anteriore al i5 marzo, prima che Flaminio par-
tisse (3)-, infatti io mi ricordo che, dieci anni più tardi, gli
apparecchi fatti alla venuta di Asdrubale in Italia furono
fatti appunto in gran parte prima del i5 marzo, e mentre
i nuovi consoli erano semplicemente designati (4), e che la
(i) Livio, io, 39; 32, i ; 44, 21.
(2) Livio, 24, io, i; 24, 11, i.
(3) In questo caso il Ka6eaTa|iié voi di Polibio si riferirebbe ai
consoli designati.
(4) Livio, 27, 35.
— 267 —
Stessa cosa si ripetè più tardi nel fare gli apparecchi della
campagna del 586/ 1 68 contro Perseo (i)-, e nel nostro caso,
se è vero che trascorse quasi un mese dalla battaglia della
Trebbia al 1 5 marzo, era naturale che non si aspettasse il
i5 marzo per incominciare ad arruolare le truppe. — Ri-
mane Tettava ed ultima obbiezione del Laxge (2). Quanto
al peso che questo autore dà al silenzio di Polibio e di
Appiano sulla partenza di Flaminio, mi basti rimandare a
quel che discorsi in proposito a suo luogo. Ma oltre a ciò,
questo critico, appellandosi alla legge {Fla)minia mimis sol-
vendi ricordata da Pesto (3), osserva che se Flaminio fece
fare questa legge, ciò vuol dire che egli trovavasi ancora in
Roma dopo il i5 marzo, le leggi essendo fatte dai consoli
effettivi e non dai designati. Io non so se questo ragiona-
mento sia rigoroso : se un console poteva convocare il Se-
nato a nome anche del collega assente , perchè non avrà
potuto- proporre una legge ? Ma e' è di peggio : il Lange
suppone che il Flaminio, dal quale questa legge ebbe il
nome, sia il console del 537/217-, ora questa è unMpotesi
che si ritiene indubitata, ma che a me pare senza fonda-
mento addirittura. La questione sta nei seguenti termini :
i dotti si sono accordati nel dire che la legge Flaminia men-
tovata tanto da Pesto colle seguenti parole (quelle fra un-
cini sono un supplemento) : « Idem auctor] est numerum
aeris perduct[um esse ad XVI in denario lege Fla]minia
minus solvendi, cu[m Hannibalis bello premere]tur populus
Romanus », quanto da Plinio colle parole: « Postea Han-
nibale urguente Q. Fabio Maximo dictatore asses unciales
facti placuitque denarium sedecim assibus permutar!, qui-
(i) Livio, 44, 17; cf. 44, 21.
(2) Lange, R'óm. Alterthiimer, 2, i55, seconda edizione.
(3) Pesto, ed. Muller. pag. 347.
- 268 -
narium octonis, sestertium quaternis, etc, » (i) è una legge
dei consoli del 537/217 , denominata da Flaminio T un di
essi. Io osservo che le leggi consolari paiono essere state
denominate dal nome di ambedue i consoli (2);, e che non
è probabile che una legge fatta dopo la battaglia del Tra-
simeno sotto la dittatura di Fabio, quando Flaminio era
già morto , si chiamasse dal nome di quest' ultimo. E
strano che a nessuno sia venuto in mente che questa legge
deve essere senza dubbio ,una legge tribunizia, cioè un ple-
biscito, denominata dal nome di un tribuno di quell'anno,
ignoto a noi come ci sono ignoti tutti gli altri tribuni meno
due, e chiamata dal nome di un solo , come appunto era
la consuetudine vigente (3).
§ IV. Perche mai uno dei consoli partì prima del
i5 inarco, ed an^i partì a dispetto del Senato? — L:i
partenza di Flaminio prima del i5 marzo è avvenimento
del quale non è lecito dubitare. È questa la conclusione di
quanto siamo andati discorrendo finora in questo capitolo.
(1) Plinio, Nat. Hist., 33, 3, 45.
(2) Questo è un fatto già avvertito dai dotti; cf. Mommsen, Staats-
recht, I, 43, seconda edizione. Né si può dire che in Festo la legge
fosse stata chiamala Servilia Flaminia^ e che la parola Servilia sia
perita come la prima sillaba della parola Flaminia , perchè non si
vede che ci sia stato spazio sufficente per ambedue le parole.
(3) I plebisciti nomavansi , com' è noto , dal nome di uno dei
tribuni. È noto similmente che, nella metà del secolo sesto, anche i
plebisciti aveano omai il nome di leges. È pure noto che, essendo
la gente Flaminia plebea, i suoi membri aveano adito al tribunato
della plebe. Ora, dei dieci tribuni del 537/217 ne conosciamo due, cioè
M. Metello (Livio, 22, 25; cf. Plutarco, Fafcio , 7) e Q. Baebio He-
rennio (Livio, 22, 34), e nulla c'impedisce di credere che fra i rima-
nenti ci fosse un Flaminio, e che questo Flaminio abbia dato il nome
alla legge minus solvendi, che ò stata fatta evidentemente in quel-
l'anno, mentre Fabio Massimo copriva l'ufficio di dittatore.
— 269 —
Rimane che interroghiamo quel fatto , affinchè ci riveli le
circostanze, in mezzo alle quali esso si svolse e compì.
Prima di tutto quel fatto ne suppone un altro, di cui non
c^è parola nel racconto di Livio : suppone 2ina contesa tra
Flaminio e il Senato, che finì violentemente nella partenza
in questione, e la cui ultima fase fu la protesta del Senato
e la deliberazione di richiamare Flaminio col mezzo di due
ambasciatori. E intendiamoci bene: dal vedere che la serie
dei conflitti tra Flaminio e il Senato, esposta nel racconto,
si riferisce interamente agli anni antecedenti, parrebbe che
si dovesse concludere che quella volta non ce ne fu alcuno-,
ma così non è; dirò anzi che senza questo conflitto, che
allora, a mio giudizio, ebbe luogo, noi non avremmo presso
Livio il racconto nella sua forma presente, e non saremmo
nemmeno informati dei conflitti dei tempi anteriori, perchè
cotesti conflitti vecchi, se ben si guarda, sono ricordati sol-
tanto a proposito dell'ultimo, il quale viceversa, noto come
esso era a tutti nel tempo in cui fu steso il libello che pro-
babilmente (come spiegai altrove) servì di fonte ai narratori
di questo fatto, non venne nemmeno menzionato. Così la
famosa partenza non è che T espressione o manifestazione
esterna di un altro fatto più rilevante , di un conflitto di
diritto-, quindi, investigare le cagioni di quella, è, propria-
mente parlando, un investigare le cagioni di questo -, e così
è delineato quello che ci resta a fare per finire questo ca-
pitolo.
Ma, prima di investigare queste cagioni, c'è da eliminare
quello che ne dice Livio, e forse ne aveano detto altri sto-
rici prima di lui, e che altrimenti pregiudicherebbe la nostra
ricerca. Livio narra, e noi moderni andiamo ripetendo che
Flaminio scappò da Roma per timore che i nobili , susci-
tando difficoltà contro la sua elezione , gli facessero per-
dere r ufficio, o almeno gli togliessero 1' opportunità , col
— 270 —
trattenerlo , di misurarsi con Annibale. Fu questa la vera
cagione di quella partenza ? No, perchè le cagioni di essa,
in fondo, sono le cagioni stesse che produssero il conflitto,
che da Livio non è nemmeno accennato -, no , perchè sei
anni innanzi gli avversari di Flaminio erano riusciti, mentre
egli era già partito, a far dichiarare viziosa la sua elezione-
ai primo consolato, e quindi se egli avesse realmente temuto
un secondo tiro di quella sorte , sarebbe anzi rimasto in
Roma più a lungo, sapendo per esperienza che i suoi ne-
mici avrebbero avuto buon giuoco, una volta eh' egli fosse
stato lontano (i).
Eliminato quanto poteva pregiudicare Tinvestigazione, ve-
niamo a questa.
E nota la lotta che ardeva in que' tempi fra Taristocrazia
e la democrazia. E noto altresì in generale che, come fino
allora, così anche in quel momento, Flaminio e il Senato
siavansi di fronte con disposizioni poco benevoli ; ma quale
fu precisamente la questione che li mise di nuovo alle prese,
malgrado la guerra esterna, che avrebbe dovuto acquetare
ogni interna discordia? La risposta scaturirà di per sé.
Giunta a Roma la notizia della battaglia infelice avvenuta
sulla Trebbia, la fazione democratica, nei prossimi comizi
consolari, diede al suo capo Flaminio, che nel primo con-
solato si era acquistata fama di abile generale vincendo gli
(i) La nostra ipotesi di un libello relativo alia partenza di Flaminio,
serve anche a spiegare la leggerezza delle cagioni che lo storico la-
lino vorrebbe far credere essere state quelle della partenza. L'autore
del libello credette utile pel suo scopo il richiamare alla memoria le
gare anteriori tra Flaminio e il Senato; ma l'ultima, che gli avea
fornito l'occasione del libello, era troppo conosciuta per poter pen-
sare ad accennarla; e lo stesso dicasi delle cagioni di essa. Più tardi,
gli storici, non trovando in quel libello motivata la partenza di Fla-
minio, immaginarono essi quelle cagioni che parevano loro probabili,
e che noi non riconosciamo per vere.
- 271 -
Insubri, il posto di console plebeo (i), con ciò esprimendo
il desiderio e la speranza di veder presto finita la guerra.
Per aprire la campagna imminente, i Romani avean bisogno
di ritrovare tutta la loro energia, e la trovarono (2). Certo
avranno posto mano immediatamente agli arruolamenti delle
truppe e alla discussione del piano di guerra, senza aspet-
tare che fosse venuto il i5 marzo (anche in altre gravi con-
tingenze, come abbiamo fatto vedere altrove, si erano in tal
modo allontanati dalla loro consuetudine) ^ e infatti, per te-
stimonianza espressa di Livio, già prima che Flaminio fosse
partito, prima cioè delle Idi di marzo, erano state divise
fra i Generali le truppe o parte delle truppe (3). Quanto
al piano di guerra, le questioni capitali erano tre (4): con-
veniva, o non conveniva, discendere un'altra volta ad una
battaglia campale? era meglio che i due eserciti consolari
operassero separati o uniti contro Annibale? quante legioni
occorrevano in tutto? che siffatte questioni essenziali si agi-
tassero in Senato, è cosa talmente naturale, che non e' è
bisogno, per crederlo, di aver testimonianze antiche ; tut-
tavia non mancano neanche queste, nel capo secondo della
Vita di Fabio Massimo lasciataci da Plutarco trovandosi
(t) In virtù delle leggi Licinie uno dei due consoli doveva essere
plebeo, com'è noto. Questa disposizione, delusa spesso dal 388 al 41 1
di Roma, fu poi applicata regolarmente senza eccezione a cominciare
dal 412/342. Ma ben presto i plebei aspirarono ad aver ambedue i
consolati; non riuscirono nel 53g/2i5, ma riuscirono nel 582/172. Su
questo veggasi, fra i moderni, specialmente Mommsen, Staatsrecht, 2,
76, seconda edizione; Rom. Forsch., i, 94.
(2) Ritratta egregiamente da Polibio, 3, 75, 4 segg.
(3) 21, 63, i: « Consulum designatorum alter Flaminius , cui eae
legiones, quae Placentiae hibernabant, sorte evenerant » ecc.
(4) Che in principio di ogni anno si discutesse in Senato il piano
di guerra è cosa che s'indovina senz'altro, e della quale non si po-
teva far di meno. Ma non mancano nemmeno le autorità antiche.
Polibio ci ha tramandato un'immagine della discussione tenuta in
principio del 538/2 ló (Polibio, 3, t 06- 108; cf. Livio, 22, 38, G segg.).
appunto, come abbiamo già avuto l'occasione di vedere, il
parere di quell'uomo di Stato circa la prima questione. Di
quelle tre questioni, principalissima era la prima, risolta la
quale il resto veniva da se; infatti ammessa l'opportunità
di condurre la guerra attivamente e di discendere a nuova
battaglia, ne seguitava la necessità di allestire molte forze
e di adoperarle tutte nello stesso tempo contro il nemico,
precisamente come alcuni avean consigliato di fare al rom-
persi della guerra (i), e come s'era fatto teste sulla Trebbia,
e come si fece 1' anno dopo a Canne. Noi scopriremo nei
fatti stessi la risoluzione della prima non solo, ma anche
quella della terza questione. La battaglia del Trasimeno di-
mostra che, malgrado l'opposizione della parte aristocratica
condotta da Fabio Massimo, il Senato decise che si venisse
ad una nuova battaglia (2), e il grande numero di legioni
allestite per l'anno 537/217 dimostra che esso decise che la
guerra fosse condotta energicamente (3). Ed eccoci ora al
(i) Livio, 21, 6, 6. Fra gli ordini del giorno presentati, uno por-
tava l'istituzione di una sola provincia consolare (alii totum in His-
paniani atqiie Africani Hannibalemque intenderant belliim) ; ma fu
adottato quello che ne istituiva due [alii provincias consulibus Hispa-
niam atque Africani decernentes terra marique rem gerendam cense-
bant. Vedi il primo capitolo della mia Memoria sui luoghi liviani
relativi alle provincie e agli eserciti romani, negli Atti delV Accademia
dei Lincei, [881, serie 3% voi. VI). Però appena s'intese che Annibale
avea varcato le Alpi, fu ordinala la concentrazione dei due eserciti
consolari in Italia, com'è noto.
(2) L'elezione di Flaminio al secondo consolato significava già di
per sé, per quanto stava nella parte democratica, guerra attiva e sfida
al nemico. Ed ora vedesi che anche in Senato la maggioranza la pen-
sava in tal modo. Fabio Massimo (Plutarco, Fabio Mass., e. 2) avea
invece consigliato (ed egli parlava naturalmente a nome dei conser-
vatori in generale), che si evitassero le battaglie finché il tempo non
avesse sciupato le poche forze dei nemici.
(3) L'opinione corrente è che la campagna del 537/217 sia stata
aperta colle quattro legioni consolari dell'anno 336/2 18 rifornite di
nuovo. Ma vedremo presto che questo è un grave errore.
— 273 —
nodo della cosa. Secondo questo nostro ragionamento ci sa-
remmo aspettati di vedere i Romani ordinare l'azione con-
giunta dei due eserciti consolari, ossia, per adoperare il
linguaggio scientifico, istituzione di una sola provincia (i)
(i) Significava compito, ministerio, ufficio, la parola. Parlandosi poi
di Generali significava la parte della condotta della guerra che affi-
davasi a ciascuno di essi. Essendo i consoli i generali supremi, le
Provincie consolari erano i teatri precipui di guerra. Per esempio ,
quando il Senato deliberò la seconda guerra punica, esso decise di
aprirla contemporaneamente in Ispagna e in Africa, mandando un
console in Ispagna e l'altro in Africa ; questo esprimevasi dicendo
che le Provincie consolari istituite furono due, la Spagna e l'Africa.
Qualche volta c'era un solo teatro di guerra, e allora i consoli com-
battevano insieme; ciò esprimevasi dicendo che c'era una sola pro-
vincia consolare (cosi fecesi, ad esempio, in principio del 538).
Manca finora una monografia sul potere competente nell'istituire le
Provincie consolari, ed io colmerò questa lacuna, cercando di accen-
nare in breve quello che la ristrettezza dello spazio e la natura di
una nota non mi permettono di svolgere adeguatamente.
Ci fu un tempo antico in cui la facoltà in questione era intera-
mente dei consoli; ma nel 63i/i23 una legge la diede al Senato. Però
invece di distinguere due periodi di tempo, io credo se ne debbano
distinguere tre; fra il periodo antico e il nuovo ce ne fu un altro,
durante il quale il Senato era andato man mano tirando a sé tale
facoltà, finché la legge del 63i/i23 sanzionò quanto in pratica era
già un fatto compiuto.
1" Periodo. Questo primo periodo di tempo comincia natural-
mente coU'istituzione del consolato; ma dire dove precisamente fi-
nisca non si può, perchè l'autorità del Senato sorse a poco a poco.
Siccome però la potenza del Senato è un prodotto del plebiscito
Ovinio, che, come vedremo fra poco, pare essere della prima metà
del secolo quinto , è difficile che il Senato abbia avuto molta in-
fluenza prima della fine del secolo quinto. E con questa ipo-
tesi s'accorda l'unica testimonianza di valore che ci resti in questo
proposito; infatti c'è un luogo di Livio relativo alle provincie
consolari del 457/297 , dal quale scorgiamo che la facoltà di isti-
tuirle stava nei consoli. Ecco le parole che leggonsi, io, 14:
« Consules novi Q_. Fabiiis Maximits quartum et P. Decius Mus ter-
tiitm, quum inter se agitarent, liti alter Samnites hostes, alter Etruscos
deligeret, quantaeque in hanc aiit in illam provinciam copiae satis ,
et uter ad utrum bellum dux idoneus magis esset » etc. In queste
parole è narrata tanto l'istituzione delle provincie consolari, cioè la
decisione sui teatri di guerra che convenisse creare (furono due :
— 274 ~
consolare*, come va adunque che un esercito consolare,
quello di Flaminio, operò, invece, in Etruria, e quello di
Servilio operò altrove, nel paese che avea per capoluogo
Etruria e Sannio), quanto la divisione delle medesime fra i due con-
soli. Altro non c'è da dire per ciò che concerne questo primo pe-
riodo, perchè, tutte le altre volte che Livio e Dionigi parlano delle
Provincie consolari, dicono bensì quali esse erano e come i consoli se
le divisero insieme, ma non dicono mai chiaramente chi avesse avuto
autorità nel fare che esse fossero queste piuttosto che quelle ; né si
creda che la questione fosse cosi semplice, e che le provincie conso-
lari fossero sempre indicate di per se stesse; perchè, ad esempio,
quando Roma trovavasi in guerra con tre popoli vicini mentre i con-
soli erano due soli, e pretori non ce n'erano ancora, bisognava, fra
i ire nemici, sceglierne due da combattere , come appunto avvenne
negli anni di Roma 283 e segg., essendo Roma in guerra coi Volsci,
cogli Aequi e coi Sabini. Nel 2^3 furono provincie consolari il paese
dei Volsci e quello degli Aequi (Livio, 2, 58, 4); nel 284 lo furono i
Sabini e gli Aequi (Livio , 2, 62) ; nel 285 lo furono i Volsci e gli
Aequi (Livio, 2 , 63 , 5), mentre i Sabini, lasciati in pace, presero
essi stessi l'offensiva e corsero fin sotto le mura di Roma (Livio, 2,
64,7).
Del resto darò qui l'elenco dei luoghi di Dionigi e della prima
decade di Livio relativi alle provincie consolari.
Dionigi menziona le provincie consolari e la loro divisione : 8, 68;
8, 82; 8, 88; 9, 43; 9, 55; 9, 57; 9, 59; 9, 62; io, 20-21; 10, 22.
Accenna poi vagamente al Senato come al potere competente nel-
l'istituirle : 9, 16; 9, 3o ; 9, 61 ; 9, 62; io, 4? ; ma son cenni desti-
tuiti di ogni benché minimo valore.
Livio accenna alle provincie consolari senza dir nulla sul potere
competente nell'istituirle : 2, 33, 3; 2, 53, 5; 2, 54, i; 2,62; 2,63, 3;
3, 4, 7; 3, 22, 2; 3, 3i, 3; 4, 37, 6; 5, 32; 7, 6, 8; 7, 12, 6; 7, 16;
7, 22, 1; 7, 32, 2; 8, i; 8, 22, 9; 9, 12, 9; 9, 3i, i; 9, 43. 9, 44, 5.
II" Periodo. 11 plebiscito Ovinio prescrisse altri criteri per la
nomina dei senatori; quind'innanzi furono senatori non le persone
che piacevano ai consoli, ma gli ex magistrati e altre persone insigni,
gente cioè che era stata onorata dal popolo nei comizi, o che risplen-
deva per meriti conosciuti ; inoltre i senatori furono eletti, quind'in-
nanzi, a vita. Tutto ciò sarà detto meglio in una delle prossime note;
qui basti ricordare i risultati immensi di quel plebiscito , fatto nella
prima metà del secolo quinto.
Risultando adunque, dopo d'allora, composto di persone di grande
dignità, il Senato crebbe naturalmente di potere, in tutte le parti del
reggimento. Fermiamoci alle provincie consolari. È certo che, se ci
— 275 —
Aviminiim ? (Queste furono infatti le due provincie con-
solari del 537/217, come stiamo per vedere).
rimanesse la seconda decade di Livio , noi vi vedremmo il Senato
acquistare man mano influenza nell'istituzione delle medesime. Quindi
sul bel principio della terza ne scorgiamo le traccie più evidenti ;
discutere e proporre vuol dire aver voce in capitolo; ebbene noi sap-
piamo che i senatori discussero ampiamente se la seconda guerra
punica si dovesse aprire soltanto in Ispagna dove trovavasi Annibale,
o in Ispagna e in Africa contemporaneamente, proponendo appunto
gli uni una sola provincia consolare, gli altri due (Livio, 21, 6, 5;
Dione Cassio, Fragni., 55, 1-8; Zonaras, 8, 22. Cito senza riferire
testualmente perchè scrivo una nota, ma chi vuol capir bene legga
questi e gli altri passi che citerò, perchè sono tutti di grande inte-
resse). — Poscia, per tutto il secolo sesto, c'è una serie di conflitti
di poteri fra il Senato e ì consoli circa l'istituzione delle provincie
consolari, prova manifestissima della crescente autorità del Senato in
questo proposito. Nel 549/205 il Senato voleva che le provincie con-
solari fossero Brutlii et Sicilia; il console Scipione voleva l'Africa;
la contesa fini con un compromesso, in virtù del quale furono pro-
vincie consolari i Bruttii et Sicilia, ma Scipione, al quale toccò Si-
cilia, ebbe facoltà di sbarcare in Africa (Livio, 28, 38, 12; 28, 45, 8).
II compromesso salvava l'autorità antica del consolato, ma ricono-
sceva il potere del Senato. — Nel 552/202 riuscì ai Consoli di far
dichiarare provincie consolari l'Italia e l'Africa, ma riuscì al Senato
l'ottenere che il popolo decretasse che insieme con uno dei consoli
rimanesse però anche il proconsole P. Scipione a condur la guerra
in Africa (Livio, 3o, 27). Il potere del Senato e quello dei consoli
si contrappcsano. — In principio del 553/20 1 i consoli volevano che
una delle provincie consolari fosse l'Africa. C'era in vista la conclu-
sione della pace con Cartagine , fatto glorioso per quel console che
avrebbe stretto il trattato. Ebbene, il Senato, spalleggiato dai tribuni,
si fece attribuire dal popolo la facoltà di decidere in proposito , e
poscia deliberò che rimanesse in Africa il proconsole Scipione. A
sua volta però il Senato dovette acconsentire, in omaggio al consolato,
che mentre Scipione conservava in Africa l'imperio per terra, uno dei
consoli lo avesse per mare (Livio, 3o, 40). — In principio del 557/197
contesa fra i consoli e i tribuni; dietro i tribuni stava naturalmente il Se-
nato ; e di bel nuovo, su proposta dei tribuni, il popolo conferì al Se-
nato facoltà piena (Liv., 32, 28]; cf. Pol., iS, 11-12). I consoli avean
voluto la guerra di Macedonia, ma il Senato decretò che continuasse
a rimanere in Macedonia T^. Quinzio Flaminino. — In principio del
560/194 i consoli volevano Italia e- Macedonia; ma il Senato diede
loro soltanto l'Italia (Livio, ?4, 43, 2). Non troviamo nemmeno clic
— 27G —
Ognuno vede, che, poiché sarebbe stata naturale e ne-
cessaria l'istituzione di una sola provincia consolare, e tut-
siasi appellato al popolo. — In principio del 367/177 riuscì al Senato
di istituire unica provincia consolare la Liguria. Sebbene ci fossero
altre e ben maggiori guerre in Grecia ed in Asia, tuttavia riuscì al
Senato di prolungare il comando in quelle regioni a M. Fulvio e a
Cn. Manlio, malgrado che questi due duci l'avessero, quel comando,
fin dal 555/179. Neanche questa volta ci fu appello al popolo, s'inten-
deva già di per sé che la volontà del Senato bastava (Livio, 38, 42, 8).
— D'altro genere fu il conflitto nel 582/172, ma esso mostra appuntino
il potere di fatto al quale era ornai salito il Senato (Livio, 42, 10). —
Infine, sul principio del 587/167, il Senato prorogò a Paolo Emilio
il comando della guerra di Macedonia, senza che i consoli fiatassero
(Livio, 45, 16).
È manifesto adanque che a cominciare dal 560/194 all' incirca, il
Senato diede sempre la condotta della guerra a chi voleva. Fin verso
la metà del secolo sesto era stato dogma che ogni guerra fosse anzi-
tutto affidata ai consoli, cioè che ogni guerra fosse, se non ce n'erano
più di due, una provincia consularis ; ora la guerra diventava pro-
vincia dei consoli, oppure dei proconsoli, secondo piaceva al Senato.
Anche le espressioni usate da Livio parlando dell'istituzione delle
Provincie consolari ritraggono perfettamente il mutamento avvenuto.
Nella prima decade Livio dice soltanto che la tal provincia toccò
[evenit) al tal console, oppure che il tal console si recò [profectus
est) nella tale provincia e l'altro nella tale altra, oppure che i con-
soli si divisero fra di loro le tali o tal' altre provincie [consiiles par-
titi siiiìt provincias), come si può verificare cercando i luoghi che
abbiamo citato esaminando la questione delle provincie consolari nel
suo primo periodo. Ma mentre adunque nella prima decade non viene
rilevato il potere competente nell' istituirle, noi leggiamo invece, nella
decade terza e nelle seguenti, senatiis dccrevit etc, patres censite-
riint etc, provinciae decretae siuit, provinciae nominatae siint, placuit
provincias esse etc. (Cf. Livio, 21, 6; 21, 17; 25, 3; 26, 28; 27, y,
22, 22; 27, 35; 28, 10; 28, 38; 29, i3; 33, 43; 35, 20; 37, 5o; 43, 12).
Si domanda ora che via sia stata tenuta dal Senato per tirare a sé
questa facoltà. La via fu la proroga degli imperii. Prorogando il co-
mando, cosa in sé utilissima (cf. Livio, 32, 28}, a Capitani come
l'Africano Maggiore, Tito Quinzio Flaminino, Paolo Emilio, ecc., i
consoli vennero ad essere privati della condotta delle guerre, che in
origine era stato il loro compito cssenzialissimo. Strumento del Senato
furono in ciò i tribuni; questi spiegarono al popolo il danno del
cangiare ogni anno i generali delle guerre lontane (Livio, 32, 28), e
il popolo diede pieni poteri al Senato (Già nel secolo innanzi era stato
- 2-7 —
tavia ne furono fatte due, è ragionevole il sospettare che
ciò non ?ia avvenuto senza conflitto fra i due poteri, com-
il tribuno Ovinio che avea creato la potenza futura del Senato, e nel
secolo seguente fu il tribuno Sempronio Graccho che per legge fece
conferire al Senato la facoltà di determinare anno per anno le Pro-
vincie consolari*. E qui abbiamo una conferma della nostra asserzione
precedente ; i dotti ebbero già a notare che il diritto di prorogare i
comandi, esercitato dal Senato soltanto, senza il concorso del popolo,
è un fatto che comincia ad incontrarsi nel 55o di Roma (Livio, 29,
i3; MoMMSEM, Staatsrecht, i, 620, seconda edizione; male il Lance,
RÓm. Altertìnimer, 2, 404, seconda edizione, che non distingue fra
età ed età); noi dicevamo che le proroghe offrirono al Senato il
destro di disporre delle provincie consolari; dunque anche da ciò si
vede che abbiamo ragione di dire che a disporre di queste il Senato
principiò verso il 560/190.
Per quanto so, il Mommsem [Staatsrecht, i, 53, seconda edizione),
finora è il solo che abbia cercato perchè e come il Senato acquistasse
nel sesto secolo questa facoltà. La spiegazione sua però non mi con-
tenta, e la mia mi pare preferibile. È vero che coU'istituzione delle
Provincie pretorie o governi (come Sicilia, Sardegna, Spagna, ecc.),
rette annualmente da pretori o da propretori , i consoli perdettero
naturalmente il diritto di comandarvi gli eserciti, a meno che al Se-
nato la guerra non paresse tanto grande da non bastare il governa-
tore della provincia, nel qual caso esso vi mandava un console ; ma
si può tirare di qui la conseguenza che, in forza di questo precedente
appunto, i consoli non potessero piìi comandare nessuna guerra trans-
marina, se al Senato non piaceva? Che ha da fare una regione trans-
marina qualunque, con una regione transmarina costituita a provincia
romana? Aggiungo anche dei fatti : se quella conseguenza fosse giusta,
il Senato avrebbe ottenuto a un colpo il potere incontestato di deter-
minare le Provincie consolari, come aveva senza dubbio il potere in-
contestato di decidere quando fosse il caso di mandare un console in
una provincia pretoria o governo. xMa cosi non fu. I compromessi
del 552 e del 553 dimostrano che dapprincipio esso ebbe a lottare
assai. — Dalla prima, l'autore viene condotto inevitabilmente ad una
seconda idea, non meno inesatta, cioè che l'autorità del Senato va-
lesse nel determinare non tutte le provincie consolari in generale,
ma quelle sole che erano fuori d'Italia. Questa restrizione di un prin-
cipio generale non mi pare fondata. In principio del 557 "°" ^^ ^^'
rebbe stato conflitto, se i consoli, invece di aspirare al comando della
guerra contro Filippo di Macedonia, si fossero contentali delle mi-
serabili guerre contro i Galli e i Liguri, che allora erano le sole in
Italia; questo è vero, ma questo è un caso, e nulla più; siccome le
— 278 -
petenti, di fatto almeno, nella materia. 11 sospetto assume
poi forma precisa, considerando, da un lato, che gli storici
guerre e i comandi importanti erano ornai quelli della Grecia e del-
l'Asia, si capisce che il Senato mirasse a mandarvi certi generali
piuttosto che certi altri, ma non ne segue che, volendolo , esso non
avesse potuto far sentire altrettanto la sua voce nel conferimento dei
comandi d'Italia (Del resto le parole di Livio relativamente alla di-
scussione del 557 (Livio, 32, 28) non provano, come l'autore vuole,
che i consoli procedessero alla divisione delle provincia senza aver
prima interrogato il Senato; gli è che le provincie dell'anno innanzi
erano state Italia e iMacedonia, ed ora trattavasi di mantenere lo
status quo semplicemente). Infine non so se contro la distinzione fra
Provincie consolari in Italia e provincie consolari fuorid'Italia, non
stia anche il disposto della legge del 63i/i23, la quale non fece questa
distinzione.
IH» Periodo. Quando nel 63i/i23 C. Gracco tribuno della plebe
fece passare una legge che attribuiva al Senato la facoltà di istituire
anno per anno le provincie consolari, venne posto semplicemente il
suggello definitivo ad una consuetudine che vigeva da più di sessanta
anni. Cosi compì la sua evoluzione questa questione, e a noi basta
quindi essere arrivati sin qui, senza che abbiamo da percorrere anche
questo terzo periodo. Una cosa sola va detta. Gli errori che vigevano
e vigono tuttora circa la questione sono due specialmente, l'uno figlio
dell'altro, ed ho aspettato a dirli sulla fine, affinchè, dopo quanto
s'è detto, l'enunciarli equivalesse al confutarli. Si crede adunque che
il Senato abbia avuto in ogni tempo la facoltà di stabilire le provincie
consolari insieme con tutto quanto concerneva il piano di guerra
{Beckkr, Handbiich der róm. Antiguit., 2,2, 120; Walter, Geschichte
des róm. Reclits, i, 282; cf. i, i83 ; Marquardt, Rómische Staatsver-
waltiing, I, 38i) , e quindi si domandò: che cosa ordinò la legge
tribunizia del 63i/i23? Scambiando una semplice conseguenza della
legge, col disposto della medesima, si disse che nel 63 1 non si fece
altro che decretare che quind'innanzi la determinazione delle pro-
vincie consolari avesse luogo sempre prima de comip consolari. Er-
rore è il credere che il Senato abbia sempre avuto, anche prima della
metà del sesto secolo, la facoltà di fissare le provincie consolari.
Errore è il credere che la legge del 63 1 prescrivesse che la determi-
nazione delle medesime avvenisse prima dei comizi consolari, cosa
che fu una clausola soltanto della legge o forse una semplice conse-
guenza di essa.
La legge del 63 1 è ricordata da Cicerone, Pro domo, g. Esempi
di Provincie consolari deliberate prima dei comizi consolari leggonsi
presso Cicerone, De prov. coiisuL, 7, 17, e presso Sallustio, Iug.,2j.
- 279 —
antichi attribuiscono espressamente a Flaminio la risoluzione
di combattere col solo suo esercito, senza il collega, contro
Annibale (i), e dall'altro lato che i consiglieri di Flaminio
fecero di tutto, sebbene senza prò, per indurlo ad aspettare
che giungesse V altro esercito consolare prima di accettare
una battaglia (2). Di qui, se non mi sbaglio, si deve infe-
rire che tutti, meno Flaminio, stimavano necessaria Fazione
congiunta dei due corpi consolari, e che nondimeno nessuno
era riuscito a persuadere questo console di voler sacrificare
al bene comune Tambizione di vincere i nemici da sé solo,
com'egli sperava.
Noi abbiamo così scoperto il soggetto della contesa tra
Flaminio e il Senato, e non resta più che ad indagarne il
carattere probabile : se questo s'' accorda coir esito di essa ,
avremo certezza sempre maggiore di non aver fabbricato
un'ipotesi senza fondamento. Ogni console un po' un po'
ambizioso non poteva, dei due sistemi in vigore nell' isti-
tuire i comandi degli eserciti , che preferire quello secondo
il quale, ad ogni console, insieme colTesercito, era affidata
una determinata località o cerchia d'azione, e un determi-
nato nemico, in modo da condurre la guerra al tutto indi-
pendentemente dal collega -, una libertà e indipendenza sif-
fatta nel comando di un corpo d'esercito, una propria pro-
vincia^ come dicevasi allora, era la cosa più desiderata, sia
per l'inclinazione naturale al comandare incondizionato, sia,
inoltre, per l'onore che ognuno si riprometteva dalle vittorie,
perchè se un console vinceva il nemico, egli otteneva il
trionfo, ma se i due consoli aveano vinto cogli eserciti riu-
niti, il trionfo toccava ad un solo console, a quello che nel
giorno della battaglia avea avuto gli auspici e il comando
(i) Polibio, 3, 80, 4; Zonaras, S, zb.
(2) Polibio, 3, 82, 4; Livio. 22, 3, 8.
— 280 —
in capo dei due corpi consolari. (Imperciocché è noto che,
quando i due corpi d' esercito dei consoli operavano con-
giunti, il comando in capo alternava giorno per giorno fra
i due colleghi) (i). Per queste ragioni molti consoli odiavano
naturalmente l'istituzione di un'unica provincia consolare, e
desideravano Tistituzione di due. Non è a dire, se Flaminio
fosse nel numero di questi -, egli uomo dei più ambiziosi e
vani, egli che sapeva d'essere stato eletto dalla sua fazione
per annientare Annibale! e infatti andava dicendo di voler
combattere da solo senza il collega. Il disparere fra il Se-
nato e Flaminio in proposito delle provincie consolari non
era di quelli ai quali V interpretazione d' una legge ve-
niva a metter fine. A chi spettava Tultima parola nelTisti-
tuire le provincie consolari ? al Senato o ai consoli ? Nella
nostra nota sul potere competente nel determinarle si tro-
veranno ragioni sufficienti per capire che il disparere po-
teva facilmente degenerare in conflitto. Determinare le pro-
vincie consolari era stato affare dei consoli in antico-, ma
il Senato, che in virtù del celebre plebiscito Ovinio (2) com-
(i) Se questo sistema fosse buono o cattivo è un'altra questione. Le
discordie ira i due consoli che irovavansi insieme erano spesso inevi-
tabili, e la storia delle battaglie combattute sulla Trebbia e a Canne
sono di grande ammaestramento in questo proposito.
(2) Fu scritto molto su questo plebiscito. Plebisciti chiamavansi le
leggi deliberale nei comizi dei plebei sulla proposta dei magistrati
della plebe, che erano i tribuni-, col tempo però anch'essi chiama-
ronsi leges, come abbiamo già avuto occasione di notare. L'ordina-
mento fatto fare dal tribuno Ovinio (del resto, il tribuno ci è al
tutto ignoto) aboliva i criteri tenuti fino allora nella nomina dei
Senatori , e ne determinava dei nuovi. Se concernesse altre que-
stioni ancora, non lo sappiamo. Sul tempo e sui particolari di questo
ordinamento si può dire che i dotti son d'accordo, salvo qualche
parte in cui non solo sono discordi, ma secondo me sono in errore.
L'ordinamento è ricordato da Festo (p. 246) colle parole: « Praete-
riti senatores quondam in opprobrio non erant, quod, ut reges sibi
legebant sublegebantque quos in Consilio publico haberent , ita post
- 281 -
ponevasi essenzialmente di ex-magistrati, i quali aveano il
seggio a vita, andò rapidamente acquistando molta autorità
exactos eos, consules quoque et tribuni militum consulari potestate
coniunctissimos sibi quosque patriciorum et deinde plebeiorum lege-
bant, donec Ovinia tribunicia intervenit, qua sanctum est, ut censores
ex omni ordine optimum queraque curiati (curiatim? iurali ?) in se-
natum legerent: quo factum est, ut qui praeteriti essent et loco moti,
haberentur ignominiosi ». — Il consiliiim publicuìu è il Senato.
Quanto al tempo, si ritiene che 1' ordinamento sia della prima metà
del secolo quinto (cf. Hofmann, Der r'ómische Senat, pag. 12 segg.;
MoMMSEN, Staatsrecht, 2,413, secondi edizione). L'ordinamento abro-
gava la procedura fin là seguita nella nomina dei senatori , che dai
re, dai consoli e dai tribuni, con autorità consolare, erano sempre
stati eletti ad arbitrio, e deferiva la nomina ai censori imponendo di
scegliere optiniinn quemqiie ex omni ordine. Si tratta di sapere che
cosa significa ordo. Fu affermato che ordo in questo luogo significa
ciascuna delle due classi dei patrizi e dei plebei, fu affermato che si-
gnifica ciascuno dei due ordini, senatorio ed equestre, ma a torto.
Con maggior ragione oggi si crede che ordo esprima le classi di ex-
magistrati. Ma anche questo non va inteso in modo assoluto ; il
Lance, RÓm. Alterthilmer, 2, 335, seconda edizione, crede s'intendano
gli ex-magistrati curuii (quelli che erano sBeti consoli o pretori o
edili curuii), il Willems, Le Senat de la République Romaine, i, i53
segg., tutti gli ex-magistrati dai questori in su. lo credo che ordo si-
gnifichi, qui, quello che significa presso Livio (23, 23] , dove questo
storico descrive il procedimento seguito nelle nomine dei senatori
fatte l'anno 538/2i6; mi pare che se la parola avea un significato
speciale nel luogo di Pesto, lo debba avere necessariamente anche nel
luogo di Livio, un' analogia che è così evidente che fa maraviglia
che non si sia ancora avvertita, o non le sia stato dato tutto il peso
che merita. M. Fabio Buteone adunque, creato dittatore per colmare
in^ via straordinaria le lacune del Senato, dichiarò che procederebbe
in modo ut ordo ordini, non homo homini praelatus videretur. Poi in
luogo dei senatori morti nominò i» gli ex-magistrati curuii che an-
cora non fossero stati eletti senatori ; 2° coloro che erano stati edili,
tribuni o questori ; 3" coloro che senza essere stati magistrati si erano
segnalati in guerra ; le parole di Livio rispetto a questo ultimo
punto devono essere state : « qui magistratus non cepissent » come
pensa anche il Mommsen, Staatsrecht, 1, 56, nota 2, prima edizione,
e non « magistratus minores cepissent » come vogliono leggere altri
(infatti, se dopo i magistrati curuii e gli edili tribuni e questori, fos-
sero venuti in considerazione altri magistrati ancora, questi altri ma-
gistrati sarebbero stati messi nella seconda classe insieme cogli edili,
l^visla di filologia ecc., X. 19
- 282 -
in tutte le faccende, e anche in questa ; per di più, questa
volta il Senato era dalla parte della ragione. Con un uomo
tribuni e questori ; parmi che nella terza classe siano stati messi ap-
punto quelli che non erano stati magistrati, e che eransi soltanto
segnalati nelle battaglie. Questa terza classe non sarebbe stata fatta
se non fossero state ammesse in Senato un certo numero di persone
che non aveano avuto uffici di sortaj. Tornando al nostro proposito
gli ordines accennati nel luogo di Pesto sono certamente gli ordines
che occorrono presso Livio, 23, 23, cioè i" la classe degli ex-magi-
strati curuli; 2" la classe di quelli che erano stati edili, tribuni o
questori; 3" Una classe di gente che non avea avuto uffici, ma splen-
deva per meriti personali acquistati combattendo.
Fu il noto luogo di Gellio sui senatori pedarii, che diede origine
al credere che ordines fossero le classi degli ex-magistrati curuli.
Infatti il Lange (ivi), vedendo che nelle parole di Gellio, 3, i8, vien
dato il iiis sententiae in Senato agli ex-magistrati curuli, e immagi-
nando che r istituto dell' his sententiae sia un portato del plebiscito
Ovinio, ne tirò la sua conclusione. Ma io credo che questo istituto,
che consisteva nel dare agli ex magistrati curuli il diritto di venire
in Senato a dirvi il loro parere prima ancora che essi fossero sena-
tori, sia stata una restrizione del disposto del plebiscito Ovinio, e
quindi sia sorto molto più tardi. La restrizione la vedo in ciò : poiché
il plebiscito Ovinio prescriveva la nomina degli optimi, poteva avve-
nire facilmente che i censori non facessero senatore una persona ap-
partenente al primo di quei tre ordini, perchè non era ottima, e in-
vece di essa prendessero una persona ottima del secondo ordine; ma
una volta che fu concesso agli ex-magistrati curuli di entrare in Se-
nato , prima ancora di essere senatori , coli' ius sententiae dicendae ,
è chiaro che i censori ebbero più difficoltà a non far Senatore uno
che aveva già esercitato questo ius (che in fondo era precipuo fra i
diritti dei senatori) per alcuni anni. Secondo me adunque l' istituto
in discorso fu una restrizione in senso oligarchico del plebiscito
Ovinio, e quindi di data posteriore a questo. Chi voglia persuadersi
di codesto privilegio in senso oligarchico, legga le notizie liviane sulle
nomine dei senatori, dove troverà che non avvenne quasi mai che un
ex-magistrato curule ricevesse dai censori uno sfregio.
Nomine del 545/209, Livio, 27, 1 1 : « inde alius leclus senatus octo
praeteritis, inter quos L. Caecilius Metellus >.
Nomine del 550/204, Livio, 29, 37: « notati septem, nemo tamen
qui sella curuli sedisset ».
Nomine del 555/199, Livio, ij, 7: « magna inter se concordia se-
natum sine ullius nota legerunt ».
— 283 —
della tempra di Flaminio era facile ad indovinarsi la piega
che il conflitto avrebbe presa; forte degli antichi diritti del
Nomine del 560/194, Livio, 34, 44: « tres omnino senatores, tie-
minem curuli Iionore usum, praeterierunt » .
Nomine del 565/i89, Livio, 38, 28: « Qualuor soli praeteriti, iiemo
curuli usus ìionore » .
Nomine del 570/184, Livio, 89, 42: « septem moverunt senatu, ex
quibus unum insignem nobilitate et honoribus, L. Quinctium Fla-
mininum consularem ». Ma è la censura di Catone.
Nomine del 575/179, Livio, 40, 5i: « censores fideli concordia
senatum legerunt tres eiecti de senatu ».
Nomine del 580/174, Livio, 41, 27: « de senatu novem eiecerunl.
Insignes notae fuerunt M. Cornelii Maluginensis, qui biennio ante
praetor in Hispania fuerat, et L. Cornelii Scipionis praetor is et
L. Fulvi ».
Nomine del 585/i69, Livio, 43, 16: « septem e senatu eiecti sunt » .
Due volte, nel 570 e nel 58o, i censori furono inesorabili anche
cogli ex magistrati curuli ; ma furono due casi eccezionali, perchè
nel 570 era censore Catone, il nemico giurato della nobiltà, insieme
col suo amico L. Valerio Fiacco ; la censura del 58o poi passava per
una censura molto severa (Livio, 41, 26: « Moribus regendis diligens
et severa censura fuit »). Noi vediamo che le espulsioni dal Senato
inflitte agli ex magistrati curuli vennero segnalate dagli storici , e
e vediamo nello stesso tempo che ciò avvenne di rado.
A torto adunque il Lange asserisce che l'istituto àeWius sententiae
in Senatu dicendae data dal plebiscito Ovinio. Peggio fa il Willems,
opera citata , pag. 225 e pag. 5o , asserendo che l' istituto esistette
sempre, e confortando la sua asserzione col fatto che leggesi presso
Livio, 27, 8, dove è narrato che Valerio Fiacco, Flamine di Giove,
accampò il diritto di entrare in Senato in forza delle consuetudini
antiche; l'autore confonde l'essere in ufficio, coH'essere usciti d'uf-
ficio; a p. 225 parla di magistrati sortis de charf^e , ma l'esempio ci-
tato a p. 5o, dove egli rinvia, risguarda quelli che sié^eaient sur la
chaise curule.
Noterò a questo proposito che i dotti non pensarono ancora a cer-
care l'origine della singolarissima consuetudine del venire gli ex-ma-
gistrati curuli in Senato a dire il proprio parere, prima ancora di
essere senatori. Accennerò quindi ad una mia ipotesi. Ho avuto oc-
casione, nel corso di questo capitolo, di accennare agli ordini relativi
all'intervallo legale che doveva trascorrere fra il coprire due uffici
curuli. Secondo me adunque, nello stesso tempo in cui fu stabilito
che la persona che copriva un ufficio curule dovesse rimanere almeno
un anno senza ufficio prima di chiedere un altro ufficio curule, fu
— 284 —
consolato egli non cedette, e, per sottrarsi alla spiacevole
posizione in cui si trovava, se ne andò da Roma , ben ri-
soluto a non dividere col collega né i pericoli della guerra,
né gli onori della sperata vittoria (i).
Come tanti altri, anche questo conflitto di diritti fu tron-
cato violentemente col fatto, alT altra parte interessata es-
sendo piaciuto deporre le armi:, e la ragione delTarrende-
volezza del Senato fu questa per fermo, che col nemico alle
porte e colla fazione democratica strapotente in casa , non
parve quello il tempo opportuno di contendere di diritti. Non
avendo Flaminio ottemperato all'invito di ritornare, fattogli
dai due ambasciatori mandati espressamente dal Senato ,
questo lasciò correre, senza appigliarsi a nessuno degli altri
mezzi atti a procacciare ossequio ai propri voleri , sia ne-
gandogli la dispensa dalle formalità incombenti ai nuovi
stabilito altresì che cotesta persona, finché non potesse chiedere e ot-
tenere il secondo ufficio, avesse il diritto di venire in Senato a dirvi
il proprio avviso, e di essere presa in considerazione nelle prossime
nomine senatorie. Fu dato il ius sententiae , come un compenso al-
l'interruzione che le leggi sull'intervallo cagionavano nella carriera
degli uffici.
(i) H. NissEN [Rhein. Miis.,22, 565-586; Die Schlacht ain Trasi-
menus) opina, a pag. 578 segg., che i consoli, d'accordo, mirassero a
dar battaglia uniti al nemico, per rinnovare i fatti di otto anni in-
nanzi, quando i Galli, presi in mezzo dai due eserciti consolari, toc-
carono quella rotta che diede tanto nome a Telamone. Ihne {Róm.
Gescli., 2, 173 segg.) è dello stesso parere. Io ho spiegato finora che
il solo savio partito era quello di congiungere i due eserciti consolari,
e consento che il console Servilio aderisse di buon grado a tale idea,
ma nego che Flaminio vi aderisse. Gli scrittori dicono che Flaminio,
consigliato ad aspettare il collega, non si arrese a questi consigli. Si
dice che queste sono calunnie degli storici, un'asserzione che, parmi,
vorrebbe essere dimostrata, da chi la pronuncia, un po' meglio. Ma
i fatti non diinno forse ragione agli storici ? Perchè i due consoli
non partirono insieme subito dapprincipio ? O se dapprima conve-
niva che l'uno spiasse le mosse nemiche in Etruria e l' altro nella
Gallia, perchè Flaminio non aspettò poi il collega, prima di azzuf-
farsi con Annibale ?
- 285 -
consoli, cosa che avrebbe messo Flaminio nel rischio di non
venir riconosciuto dalle legioni per generale legittimo, e
quindi nella necessità di ritornare (i), sia aggiungendo ai
due ambasciatori qualche tribuno della plebe che lo ricondu-
cesse a forza (2), sia facendone annullare reiezione (3), sia
facendone proporre nei comizi la deposizione {4). Nulla di
tutto questo; il Senato cedette (5), sebbene fosse destino
che a breve andare esso avesse a mettere i consoli intera-
mente sotto di se.
Partito da Roma Flaminio si recò a Rimini a prendere,
d^intesa col collega, il comando delle legioni che già prima,
per le ragioni dette in una delle note anteriori , aveano
avuto l'ordine di raccogliersi colà. Erano le quattro legioni
decimate sulla Trebbia ed ora, naturalmente, rifornite d'uo-
mini. Così avvenne che nel giorno in cui entrò in carica
(i5 marzo) egli trovossi a Rimini, non già che, come narra
Livio , egli avesse voluto preferire Rimini ad ogni altro
luogo. Poi , appena intese che il nemico aveva preso la
strada dell'Etruria, andò a quella volta. Intanto a Roma fu
deciso che il console Servilio, con altre legioni (quattro,
(lì Così accadde a C. Claudio uno dei consoli del 577/177; cf.
Livio, 41, io. Abbiamo già discorso di ciò in una nota anteriore.
(2) Il Senato era proceduto così, quasi un secolo innanzi, contro il
console Q. Fabio; cf. Livio, 9, 36, 14 , e fu lì lì per ripetere l'e-
sempio nel 549/205 contro il console P. Scipione; cf. Livio, 29, 20.
(3) Come era avvenuto al nostro Flaminio e al collega di lui nel
53 1/223, cosa che abbiamo già ricordato altrove.
(4) In quell'anno stesso 537/217 i tribuni macchinarono di proporre
al popolo che destituisse dall'ufficio il dittatore Fabio Massimo, ac-
cusandolo di tirar in lungo a bella posta la guerra (Livio, 22, 25,
io). E più tardi ci fu chi pensò a far cosi contro il grande Scipione
nel suo consolato del 549/205 (Livio, 29, 19. 6).
(5) Quindi non mi pare esatto il dire del Mommsen [Staatsrecht ,
1, 590, seconda edizione) che in quell'occasione il Senato non fosse
disposto a transigere.
- 286 -
come vedremo), si recasse a tenere in soggezione il paese
dei Galli Senoni.
Quando gli storici antichi scrivono che a Flaminio toccò
r Etruria, e a Servilio la Gallia che avea per capoluogo
Rimini (i), essi espongono soltanto lo scioglimento defini-
tivo della questione sulle provincie consolari , senza tener
conto delle peripezie per le quali essa era passata, e dalle
quali si deve ripetere il procedere violento di Flaminio '2).
Ed ora che abbiam detto a sufficienza di ciò, ritorniamo
indietro un momento, al piano di guerra, per vedere come
sia stata risolta la terza di quelle questioni capitali, quella
che concerneva il numero delle legioni da allestire, consa-
crando ad essa il capitolo seguente.
(i) Polibio, 3, 77, 1; 3, 88,8; cf. Appiano, Hawi.,S; Livio, 22,
9 , ó. Prima di partire Servilio eseguì , a nome , ben inteso , del
collegio consolare, quanto ai consoli spettava di fare prima di lasciar
Roma : egli convocò da solo il Senato , fece una parte almeno
degli arruolamenti, espiò i prodigi, ecc. (Livio, 22, 1-2). A propo-
sito dell'espiazione dei prodigi compiuta da Servilio non posso pas-
sare sotto silenzio quello che testé ebbe a scrivere un critico tedesco,
il prof. Gottlob Egelhaaf [Jahrbiicher filr Phil. iind Pad.. Supple-
mentband, io, 5o6), il quale asserisce che gli storici gliela attribui-
rono soltanto per mettere in evidenza maggiore, rilevando la pietà
di lui, l'empietà di Flaminio, Tale asserzione può appena passare
per uno scherzo, perchè sappiam bene che i consoli espiando i pro-
digi non attestavano un loro sentimento religioso personale , ma
adempivano una delle loro attribuzioni.
(2) Dalle cose dette emerge un giudizio preciso e nuovo sull'ope-
rato di Flaminio. II partire prima del i5 marzo, in sé, non era né
colpa né merito, era procedimento eccezionale che in altre circostanze
sarebbe stato , non soltanto approvato , ma deliberato addirittura.
Colpa di Flaminio fu l'aver fatto un passo eccezionale, senza che i
poteri competenti per le misure eccezionali lo avessero ordinato.
287
CAPITOLO TERZO
Sulle legioni allestite per aprire la campagna
del b'ò^l-ix'] (i).
Essendo prevalso il partito di accettare una battaglia de-
cisiva, ci volevano molte forze, tanto più che P'iaminio era
risoluto di darla col solo proprio esercito, e che quattro
legioni riunite non erano bastate sulla Trebbia a far fronte
al nemico*, questo serva di risposta agli storici moderni, i
quali credettero che quella campagna sia stata incominciata
con quattro sole legioni (2).
(i) Ne diedi un cenno negli Atti deW Accademia dei Lincei (serie 3',
voi. V, pag. 23 1 segg.). Adesso aggiungerò quello che allora non ho
detto.
(2) Il NiEBUHR (nella decima lezione di storia romana) non parla
di apparecchi straordinari e quindi suppone le quattro solite legioni
consolari. Peggio il Duruy Histoires des Romains, i, 562 segg.) che
non si occupa punto delle legioni consolari. Atto Vannucci le crede
quattro (Storia delVItalia antica, 2, 341 segg.), e così pure il Momm-
SE.M [Rom. Gesch., i, 588, terza edizione), il quale asserisce espressa-
mente che non eran necessari apparecchi straordinari (Fiir den Feldzug
des Jahres 53- wurden in Rom keine ausserordentlichen Anstren-
gungen gemacht ; der Senat betrachtete, und nicht mit Unrecht, irotz
der verlorenen Schlacht die Lage noch keineswegs als ernstlich ge-
fahrvoll) e che i due consoli non ebbero nuove truppe se non per ri-
fornire le quattro legioni vecchie. L'Ihne (Rom. Geschichte, 2, 171)
fece un passo innanzi tenendo conto del luogo di Appiano di cui
diremo, ma nell' interpretarlo egli non procedette colla serietà do-
vuta, e giunse a conclusioni erronee. Il Seeck [Hermes, 8, 164) seb-
bene abbia discorso della cosa dopo l' Ihne, non tenne conto delle
notizie di Appiano.
- 288 -
Le fonti antiche non furono esaminate a dovere-, Polibio
accenna soltanto in termini generali a quegli apparecchi (i),
e Livio, tutto intento a narrare la partenza di F'Iaminio,
dimentica di riferire i provvedimenti presi sulle legioni e
sulle Provincie -, ma e' è un luogo di Appiano che ha un
valore inestimabile e che ancora non venne ben capito. Ecco
questo luogo :
u 1 Romani raccolsero altre truppe di cittadini in
« modo da fare, con quelle che trovavansi sul Po, tredici
« legioni, e ne intimarono due volte tanto agli alleati
« E di esse parte spedirono in Ispagna, parte in Sar-
« degna parte in Sicilia. Ma la più parte condus-
« sero contro Annibale Cn. Servilio e C. Flaminio suc-
« cessori di Scipione e di Sempronio nel consolato
« Flaminio difese Tltalia pcìsta al di qua dei monti Appen-
« nini con trenta mila uomini a piedi e tre mila a cavallo (2)...
« Servilio con quaranta mila uomini aiVrettavasi alla volta
« delPEtruria, ctc. » (3).
Se i ragguagli di Appiano han qualche valore, la somma
totale delle legioni allestite in principio del 637/217 fu di
tredici, e ciascuno dei consoli ne comandò quattro (4). L^es-
senziale sarebbe trovato, e il poco che manca non sarebbe
difficile a scoprirsi.
Ora il valore di cotesti ragguagli mi pare indubitato, per
le seguenti considerazioni :
(1) l'oLuuo, ■>, 75, 4 segg.
(2) Appiano, Hann., S.
(3) Appiano, Hami., io.
(4) Il numero di 35 o 40 mila uomini arguisce quattro legioni; cf.
la mia dissertazione, Tentativo di critica sui luoghi liviani ecc. negli
Atti deir Accademia dei Liìicei, serie 3*. classe di scienze morali, ecc..
voi. Vi, nell'ultima nota del primo capitolo. Forse le quattro legioni
di Flaminio non furono rifornite abbastanza d'uomini, per le ragioni
che vedremo ; quindi ebbe solo ^^ mila uomini.
- 289 -
,a p,^p(. (.|-,(> Appiano abbia desunto questi ragguagli
dalla migliore delle fonti, da Fabio Pittore, romano e con-
temporaneo di que' fatti. Di fatto. Appiano , narrando la
guerra d'Annibale, lo cita chiamandolo tòv (TuTTP«cpéa Tujvòe
TuJv è'pTUJV (i). Or questa cita/ione, e l'aver Fabio scritto in
greco, sono sempre stati considerati come due indizi (2) com-
provanti che Appiano attingesse il racconto di quella guerra a
questo che la vide e che è il più antico storico dei Romani. C'è
un'altra circostanza: i particolari sulle legioni, e in generale
sugli apparecchi militari dei Romani, interessavano natu-
ralmente gli annalisti romani ma non gli stranieri che scris-
sero di Roma, il che significa che lo scrittore che forni ad
Appiano le notizie circonstanziate sugli eserciti del 537/217
fu romano , dunque Fabio , che oltre di essere T unico
autore nominato dallo storico alessandrino in questa parte
della sua opera, e altresì un romano, (rè un'ultima circo-
stanza in favore di Fabio, il quale, infatti, pare che sia
stato spesso, per quanto concerne gli apparecchi militari,
la fonte a cui attinsero gli storici venuti dopo (3).
2^^ La fonte prima di tutti i particolari sulla somma e
sulla divisione delle truppe e delle provincie fu una sola,
(i) Hann., 27.
(2) Dal Nicbuhr nella nona delle lezioni sulle /on// della storia ro-
mana, e, dopo di lui, da tutti gli altri in generale.
(3) Certo le notizie relative agli armamenti immensi del 520/225,
contro i Galli, pervenutici presso sei scrittori (Poi.inio , 2. 24; Dio-
DORO, 25, i3 -, Livio, epit. 20; Plinio, Nat. hist., 3, 20, i38; Eu-
tropio, 3, 5; Orosio , 4, i3), provengono appunto da Fabio. Ne
provengono, perchè Eutropio ed Orosio lo citano ; e la loro citazione
prova che lo avea citato Livio, al quale essi attinsero la citazione e
le notizie in questione. Ne provengono , inoltre , perchè questi sei
scrittori che ce le danno son concordi tutti egregiamente l'uno col-
l'altro (cf. MoMMSKN, Hermes, 1 1, 49 scgg. e RiJin. Forsch., 2, 382 segg.
Anche in Livio la cifra totale dc:;li armati è di DCCC non di CCC).
- 290 —
furono i decreti del Senato (i). Quindi, qualunque sia lo
storico usato da Appiano, cotesti ragguagli provengono ad
ogni modo dai decreti del Senato, e se prestiamo loro intera
fede quando li leggiamo presso Livio (2), non e' è ragione
di non far altrettanto questa volta che per caso se ne trova
anche presso Appiano.
■> Confrontando il luogo sopra riferito di Appiano,
colla descrizione polibiana degli apparecchi fatti dai Romani
dopo la battaglia della Trebbia, si scopre che Tuno e Taltro
di questi due storici seguirono il medesimo autore, qui :
« I Romani raccolsero altre
« truppe cittadine in nìodo da
« formare, con quelle che trova-
« vansi sul Po, tredici legioni, e
« ne intimarono due volte tanto
« agli alleati e di esse parte
« spedirono in Ispagna, parte in
« Sardegna parte in Sicilia.
« Ma la più parte la condussero
« contro Annibale Cn. Servi lio e
« C. Flaminio successori di Sci-
« pione e di Sempronio nel con-
« solato ». (App., Hann., 8).
« I Romani energicamente
« si diedero ad apparecchiarsi e
« a munire i luoghi esposti man-
fi dando legioni in Sardegna e in
« Sicilia, e presidii a Taranto e
v< dovunque occorresse... Gn. Ser-
« vilio e C. Flaminio, allora fatti
« consoli, raccoglievano gli alleati
< e arruolavano le legioni » .
(PoL., 3, 75. 4).
Polibio, conforme alTeconomia delle sue storie , indugiò a
narrare Tinvio delle truppe in Ispagna, per inserire questa no-
(i) Gf. l'introduzione alla mia memoria Tentativo di critica sui
luoghi liviani ecc.
(2) A cominciare dal 536/2 18 (solo un paio di volte nella prima
decade: 2, 3o, 7; 7, 25, 8) Livio espone- regolarmente, meno qualche
eccezione, il prospetto delle Provincie e delle legioni di ogni anno,
e ciò prima di dar principio al racconto dei fatti. L'anno 537/217 è
appunto una di queste eccezioni, quindi le notizie di Appiano ven-
gono in taglio per colmare questa lacuna di Livio.
- 291 —
tizia là dove egli espone le vicende seguite in quel paese (i).
Nel resto la concordanza dei due storici è evidente (2). Or-
bene, Appiano non può aver desunto queste notizie da Po-
libio, perchè egli ne ha qualcheduna di più-, dunque tale
concordanza dimostra che V uno e Taltro storico attinse ad
una medesima fonte. Quindi Appiano in questo luogo me-
rita la stessa fede che diamo a Polibio.
4'*^ Finalmente, se si fa un esame accurato di tutte le
forze sparse in Italia e fuori sul principio del 537/217, e
si tien conto soltanto delle legioni , si troverà che queste
furono appunto tredici in tutto. Facciamo questo esame.
Occorre perciò che c'informiamo precisamente dei consoli e
proconsoli, pretori e propretori d'allora, e delle loro truppe.
Veniiono prima di tutti i due consoli, e poi i governatori
delle due Provincie possedute a quel tempo da Roma, che
erano la Sicilia e la Sardegna; questi quattro erano i duci
ordinari degli eserciti di quell'anno. Duci straordinari non
ce n'erano, all' infuori che in Ispagna, dove nel 536/2 18
erasi recato Gn. Scipione in qualità di luogotenente del con-
sole Publio suo fratello (che avea sortito la Spagna per
combattervi Annibale, ma era ritornato in Italia, quando,
strada facendo, s'incontrò col nemico che stava per valicare
(i) Polibio, 3, 97, i.
(2) Appiano e Polibio attinsero qui ad una medesima fonte, ma
ciascuno a modo suo. Oltre all' avere trasferito altrove il ragguaglio
sulle forze mandate in Ispagna, Polibio lasciò fuori i particolari mi-
nuti sulla somma delle legioni e sulla divisione di esse fra i varT
duci, perchè queste cose non avevano interesse alcuno pei Greci, pei
quali egli scriveva. Appiano invece non lasciò fuori tutto a bella
posta, ma, compendiando secondo la sua consuetudine, tacque il nu-
mero delle legioni mandate in Sicilia ed in Sardegna, tacque l'invio
del presidio mandato a Taranto, e, parlando delle truppe consolari,
ne disse, non le legioni, ma le migliaia per comprendere insieme i
legionari e i socii. I.a fonte comune dei due storici deve essere Fabio
Pittore.
- 292 -
le Alpi), e poco dopo, nel corso del 537/217, vi si recò lo
stesso Publio con autorità di proconsole.
a) Legioni del console Flaminio. Per incidenza L,ivio
gli attribuisce quattro legioni (i), e a quattro legioni cor-
rispondono per r appunto, come notammo, i 33 mila uo-
mini che Appiano nel luogo riferito gli attribuisce. Si
aggiunga che anche le cifre delle perdite romane al Trasi-
meno suppongono un esercito dai 3o ai 35 mila uomini (2).
Non c'è bisogno di più per persuadersi che Flaminio co-
mandò quattro legioni, sebbene un po' scarse , e quasi in-
(1) 21, 63, « legionibus inde ÌK(j^»5 a Sempronio prioris anni con-
sule, duabiis a C. Atilio praetore acceptis, in Etruriam per Appen-
nini iramites exercitus duci est coeptus ».
(2) Secondo Fabio Pittore perirono, in quella battaglia, i5 mila
uomini (Livio, 22, 7), se ne ridussero in salvo io mila (Livio, ivi),
e ne furono presi prigioni 6 mila (Livio , 22, 6. 8. Evidentemente
Livio attinge qui a Fabio Pittore nominato poco dopo; in tutto 3i
mila. Secondo Polibio perirono nel passo angusto dove seguì la bat-
taglia (kotò tòv aùXuJva, Pol.. 3,84, 7) i5 mila uomini; prigioni piìi
che altrettanti (3, 85, i) ; s'aggiungano quelli che, non essendo ancor
giunti, quando cominciò la battaglia, in quel passo, vennero spinti
nel lago stesso a morirvi ancor più miseramente (3, 84, 8: oi 6è kotò
TTopeiav incToEù -cric, XijLivri^ koì Tri; fraptupeia^), e si va a forse 34 mila
uomini. Secondo Appiano {Hann., io) perirono 20 mila uomini e ne
furono presi prigioni io mila; queste sono naturalmente cifre ro-
tonde. Valerio Massimo, Plutarco, Eutropio ed Orosio ripetono più
o meno fedelmente le cifre di Fabio Pittore e di Livio. Valerio
Massimo (i, 6, 6) scrive che furono uccisi i5 mila uomini, 6 mila
presi prigioni, e io mila fugati, che sono le cifre di Livio tali e quali.
Plutarco {Fab. Mass., 3) dice che ne perirono i5 mila e ne furon
presi prigioni altrettanti, che sono le cifre di Polibio; Eutropio che
ne perirono 1 5 mila (3, 9) che è la cifra di Fabio e di Livio; infine
Orosio (4, 1 5) che ne perirono 25 mila (che è la somma delle due
prime cifre di Fabio Pittore) e ne caddero prigioni ó mila (che è la
terza cifra di Fabio Pittore), — Questi dati sulle perdite fatte dai
Romani lasciano arguire un esercito dai 33 ai 35 mila uomini (non di
40 mila come dice il Seeck, Hermes, 8, 164), ossia quattro legioni,
sebbene un po' scarse, e ciò per la fretta che Flaminio ebbe di par-
tire.
- 293 —
teramente composte di soldati novizi (i). Anche il Seeck
gli dà quattro legioni -, Plhne non è chiaro (2).
P) Legioni del console Servilio. Nel passo surriferito
Appiano gli attribuisce 40 mila uomini , dunque, quattro
forti legioni, cosa che si sarebbe potuta indovinare senza
altro, perchè le legioni consolari dividevansi in parti uguali
fra i due consoli. Ma i due critici ora citati s' accordano
nel dire che quel console ne ebbe due sole -, il Seeck dice
anche il perchè:; poiché Fabio Massimo, quando fu creato
dittatore dopo la battaglia del Trasimeno, disse che avrebbe
preso l'esercito di Servilio ed aggiunto ad esso due nuove
legioni (Livio, 22, 11), e l'esercito di Fabio fu poscia di
quattro legioni (Livio, 22, 27, io-, cf. Plutarco, Fabio
Massimo, io), quelle di Servilio, conchiude il Seeck, erano
state due legioni.
Questo ragionamento è più specioso che altro. Voler de-
durre il numero delle legioni di Servilio dai dati molto poste-
riori riferentisi a quelle di Fabio, e ciò trattandosi di tempi
straordinari in cui ogni istante si fecero, inevitabilmente,
notevoli movimenti nei corpi d'esercito, sia arruolando
nuove truppe, sia mandandone altre da questo a quel luogo,
mi pare per lo meno un metodo pericoloso, e ne do subito
la prova. Polibio (3, 88, 7-8) narra, in contraddizione con
(i) Il nucleo delle quattro legioni che avean combattuto sulla
Trebbia, e che, rifornite d'uomini, furono poi comandate da Fla-
minio, era stata trucidato in quella battaglia ; la più parte di quelli
che ora le componevano erano dunque reclute; quindi si spiega
perchè Polibio faccia dire a Paolo Emilio in principio del 538/2 16
che. una delle cagioni delle sconfìtte precedenti era stata questa, che
le truppe romane erano state reclute non abbastanza addestrate (Po-
libio, 3, 108, 6).
(2) L'Ihne attribuisce a Flaminio le reliquie delle 4 legioni deci-
mate alla Trebbia , più due legioni ; dunque o sei o due legioni.
Questa opinione la discuteremo fra poco.
— 294 -
Livio (22, 11), che quando Fabio venne creato dittatore,
parti da Roma con quattro legioni arruolate allora al-
lora-, supponiamo che il Seeck fosse partito da questa no-
tizia confrontandola con quella di Livio sulT esercito di
Fabio ; egli avrebbe conchiuso non più che le legioni di
Servilio erano state due, ma che Servilio non avea avuto
legioni di sorta, e sarebbe così caduto neir assurdo. Ciò
mostra il pericolo del giovarsi, in coteste cose, di ragguagli
del tempo posteriore.
Il partito più savio è dunque evidentemente questo: non
lasciarsi confondere dalle notizie indirette contraddicenti
Tuna all'altra, e stare alla sola notizia diretta, che è quella
di Appiano; e così facciamo, computando a quattro le le-
gioni di Servilio , e passando innanzi , e ponendo in nota
alcune considerazioni che varranno forse a portar luce nella
questione toccata ora (i).
(i) Bisogna considerare non solo le truppe del 537/217, ma anche
quelle del 538/2 16. Ecco i ragguagli che abbiamo negli storici an-
tichi :
a) Livio, 22, 11, 2-3, narra che il dittatore arruolò due legioni
da aggiungere all'esercito di Servilio.
P) Poco dopo lo stesso Livio, 22, 11, 7-9, narra che si arruola-
rono molti uomini, perfino libertini; chi aveva meno di 35 anni fu
messo a servire sulla flotta, gli altri rimasero di presidio a Roma.
Y) Polibio, 3, 88, 7-8, narra che il dittatore Fabio si arruolò
quattro nuove legioni, e prese inoltre le truppe di Servilio.
ò) Livio, 22, 36, narra che in principio del 538/2 16 vennero ar-
ruolate nuove truppe, benché le fonti antiche discordassero sul nu-
mero di esse; secondo alcuni si fecero 4 nuove legioni.
e) Appiano, Hann.^ 17, narra che furono allestite quattro nuove
legioni; quando? Parrebbe verso la fine del 537, perchè l'autore
passa poi subito a narrare l'elezione dei consoli per l'anno 538. .
e) Polibio, 3, 106, 4, accenna a nuove legioni allestite in prin-
cipio del 538/216; cf. Polibio, 3, 107, g. — Dal tutto si vede : i" che
dopo la battaglia del Trasimeno arruolaronsi molte truppe; 2" che
ci fu un momento in cui partirono da Roma 4 legioni ; del resto le
6 notizie sono inconciliabili fra di loro. Se è lecito presumere di
- 295 -
t) Legioni di Sicilia. Che in Sicilia siano state man-
date, dopo la battaglia della Trebbia, alcune truppe, ce lo
dicono Appiano {Hann., 8) e Polibio (3, 75, 4) nei luoghi
già esaminati. E vedesi poi da calcoli indiretti che quelle
voler ordinare ragguagli così disordinati, io direi che il ragguaglio a
è una mera ipotesi degli annalisti, i quali, sapendo che l'esercito del
dittatore Fabio era forte di quattro legioni (Livio , 22, 27, io) e
credendo che Servilio avesse comandato due legioni (per solilo l'eser-
cito di un console consisteva di due legioni), era naturale che opi-
nassero che Fabio si fosse arruolato due nuove legioni da aggiungere
all'esercito di Servilio. — Vero sarebbe invece il ragguaglio p, e le
truppe rimaste di presidio a Roma saranno state due legioni; infatti
le legioni urbane o di presidio erano per solito in numero di due.
— Le quattro legioni di cui parla Polibio (ragguaglio y) sarebbero
le 4 legioni di Servilio, non legioni nuove. — Le quattro legioni di
cui parla Appiano (ragguaglio e) e una delle fonti di Livio (rag-
guaglio ò), sarebbero le truppe arruolate pel 538, delle quali parla
Polibio (ragguaglio e,).
In cai modo Servilio, e, dopo di lui, Fabio Massimo , avrebbe
avuto 4 legioni. Due legioni si sarebbero bensì arruolate dopo la
battaglia del Trasimeno, ma tenendole a Roma di riserva e di pre-
sidio nello stesso tempo, per farle partire pel campo, al solito, in prin-
cipio del 538/2x6, insieme con altre quattro arruolate allora. Si ca-
pisce, in tal modo, perchè in principio del 538/2 16 si trovassero in
campo (parliamo dell'Italia, non delle provincie) dieci legioni , cioè
8 contro Annibale (Polibio, 3, 107, 9), e due contro i Galli (Livio,
23, 24, 6 segg.; cf. Polibio, 3, 106, 6).
Un'osservazione. Quando Polibio, 3, 107, 9, accenna ad otto le-
gioni del 533/216, come a cosa fin là senza esempio, egli intende
parlare delle otto legioni raccolte in un solo corpo J' esercito sotto i
due consoli, non alla somma totale delle legioni che fu molto mag-
giore in principio del 538/2 16, e che era stata molto maggiore anche
nel 537/217, e che talora avea raggiunto per lo meno quella cifra anche
in antico (Livio, 2, 3o, 7 ; Livio, 7, 25, 8 ; cf. Eutropio, 2, 3; Orosio
3, 6), per tacere del 529/225. Perciò questo luogo di Polibio (forse
franteso generalmente come se lo storico dicesse che quella era la
prima volta che i Romani avevano messo in piedi otto legioni) non
impedisce che crediamo che Flaminio e Servilio ebbero ciascuno
quattro legioni ; essi ebbero otto legioni fra lutti e due , ma i loro
eserciti non formavano un sol corpo e quindi restava sempre vero
che le otto legioni consolari congiunte insieme nel 538/2 16 erano un
fatto senza precedenti.
- 296 -
truppe ammontavano probabilmente a due legioni. Infatti
in tutto il resto del 537/217 e in tutto il 538/2 16 non oc-
corre menzione di altre truppe mandate in queir isola, e
nondimeno in principio del 539/215 vi erano attendate due
legioni (Livio, 23, 25, 7); dunque queste due legioni si
trovavano colà fin dal principio del 537/217.
ò) Legioni di Sardegna. Anche in Sardegna vennero
spedite alcune forze, come in Sicilia (Appiano e Polibio, ivi).
Or siccome nei due anni seguenti Pisola non ricevette nuove
truppe salvochè una legione nel 539/215 (Livio, 23, 24,
i3), e tuttavia in principio del 540/214 la guarnigione di
quella provincia ammontava a due legioni (Livio, 24, 11,
2), ne inferisco che in principio del 537/217 il presidio di
essa constava di una sola legione.
Non mancano più che due legioni per andare a tredici.
Eranvi forse due legioni in Ispagna ? In apparenza sì, in
realtà no, perchè le truppe che vi andarono nel 536, né
erano, né consideravansi come legioni, ma come semplici
corpi qualunque, come io dimostrai altrove (1);, e le truppe
che vi andarono nel 537/217 erano poche e specialmente
di mare (2).
Le consuetudini romane mi fanno supporre che le due
legioni in questione siano state tenute a Roma di riserva
e di presidio ad un tempo (3), e la storia della campagna
(i) Nel secondo capitolo della mia Memoria Tentativo di critica
sui luoghi liviani ecc. negli Atti della R. Accad. dei Lincei, 1881.
(2) Come deduco da Polibio, 3, 97, i; cf. Livio, 22, 22, 1; cf. il
secondo capitolo della Memoria citata nella nota precedente.
(3) Tenere in pronto, nelle guerre difficili, per ogni evento, alcune
legioni, era una necessità; e Livio ne è la miglior prova. Tali le-
gioni infatti, che chiamavansi iirbanae, furono allestite dopo la bat-
taglia del Trasimeno (Livio, 22, 11, 7), senza dubbio perchè le ur-
bane allestite in principio del 537/217, e che sono quelle che ora
supponiamo, erano state esse pure vinte e distrutte, come vedremo
— 297 —
seguente conferma appieno questa supposizione, come ve-
dremo nel prossimo ed ultimo capitolo.
In conclusione, il console Flaminio comandò 4 legioni
il console Servilio altrettante, il governatore di Sicilia due
il governatore di Sardegna una, e due furono legioni urbane
Tredici in tutto furono le legioni del 537/217, Anche di qu
apparisce la credibilità delle notizie di x\ppiano, dalle quali
siamo partiti appunto per cavarne informazioni precise sugi
apparecchi fatti dai Romani dopo la battaglia della Trebbia
Terminiamo adunque questo capitolo col notare che quegli
apparecchi furono grandissimi, conformi cioè alla risoluzione
presa di discendere nuovamente ad una battaglia campale
con Annibale, e che gli storici moderni errano credendo
che i consoli abbiano deciso , malgrado la lezione terribile
ricevuta sulla Trebbia, di affrontare il nemico con due sole
legioni ciascuno. Perfino i termini generali di Polibio su
nel capitolo seguente. Trovasi poi cenno di quelle del 538 (Livio,
■z3, 14, 2), di quelle del 539 (Livio, 23, 3i), di quelle del 540 (Livio,
24, II, 3), di quelle del 541 (Livio, 24, 44, 6), di quelle del 542
(Livio, 25, 3, 7), di quelle del 543 (Livio, 26, 28, 4), di quelle del
544 (Livio, 26, 28), di quelle del 545 (Livio, 27, 8, 11), di quelle
del 546 (Livio, 27, 22, 10), di quelle del 547 (Livio, 27, 36, i3), ecc.
per parlare solo della terza decade di Livio.
Delle legioni urbane non si occuparono mai i critici; pochi mesi
fa però ne discorse Th. Steinwender {Philologus, voi. 39, p. 527 e
segg.). Nell'elenco ch'egli ne dà mancano quelle del 404/350 (Livio, 7,
23, 3), e quelle del 405/349 (Livio, 7, 25, 12), e quelle del 459/295
(Livio, io, 26, 14. Sono evidentemente legioni urbane anche queste),
e quelle allestite dopo la battaglia del Trasimeno , alle quali accen-
navo or ora. Tanto meno pensò 1' autore a quelle del principio del
537/217, che io sono certo essere comprese nelle tredici di Appiano,
ma delle quali non occorre menzione espressa.
Anche gli uomini tenuti di riserva a Roma nella guerra del 529/225,
necessariamente costituiti in forma di legioni, erano dunque legioni
urbane; e ammontando a 2i5oo cittadini romani e 32 mila soci (Po-
libio, 2, 24, 9) formavano di certo 4 legioni urbane. Per solito le
legioni urbane erano due.
lijvista di filologia ecc., X. 20
— 298 -
quegli apparecchi avrebbero dovuto farli supporre straor-
dinari anche per quanto concerneva l'Italia; c'è senso co-
mune, infatti, nel credere che i Romani abbiano mandato
truppe nelle provincie , e non abbiano voluto aumentare il
numero delle legioni consolari , che pure eran quelle che
dovevano venir alle mani con Annibale ? Ma ora il valore
di quei termini generali di Polibio è determinato in tutta
la sua precisione per mezzo dei dati di Appiano (i), che
(i) L'Ihne è il solo che abbia preso ad esame i dati di Appiano
[Romische Geschichte, 2, 171, nota 84). Ma egli distribuisce le tre-
dici legioni, ricordate da questo storico, a capriccio , senza dare la
ragione di quello che fa. Egli immagina che nella Sicilia ci sìa stata
una legione, che è falso; dicesse almeno perchè, secondo lui, vi do-
veva essere una sola legione! — Egli pone due legioni in Ispagna ;
qui l'errore è compatibile, perchè senza una ricerca ad hoc era diffi-
cile scoprire che constavano di semplici soci i due corpi , che mili-
tavano colà, e che, come tali, non figuravano fra le legioni. — Egli
opina che il presidio di Taranto insieme con quelli di altri luoghi
d'Italia formasse una legione, il che non può essere; forse ciascuno
di questi presidii era una porzioncella di qualche legione, ma certa-
mente non si sbocconcellava interamente una legione per farne molte
piccole parti. — Flaminio avrebbe comandato, secondo lui, quel che
rimaneva delle quattro legioni consolari decimate sulla Trebbia, più
due nuove legioni ; questo è assurdo ; le legioni che avevano subito
grandi perdite i Romani le rifornivano d'uomini, o in caso diverso
le disfacevano addirittura; quindi se l'ipotesi dell' Ihne fosse vera,
Flaminio avrebbe avuto sei legioni, mentre egli ebbe soltanto 33 mila
uomini, che corrispondevano a quattro scarse legioni. — Servilio,
l'altro console, avrebbe comandato due legioni; e qui non potrei ma-
ravigliarmi abbastanza vedendo come il Seeck e l'ihne attribuiscano
il primo quattro e il secondo sei legioni a Flaminio per amore dei
35 mila uomini alFincirca che egli avrebbe comandato, e poi com-
putino a due legioni i 40 mila uomini di Servilio. Quanta fatica per
arrivare a questi 40 mila fa l'ihne! Servilio avrebbe comandato, oltre
alle due legioni rincalzate colle solite truppe dei soci, che erano, al
più, 18 mila uomini, altri 20 mila soci, non addetti, contro al so-
lito, a legioni di sorta ! Eppure era così facile pensare a 4 legioni.
— In conclusione, di tutta la combinazione dell' Ihne non c'è che un
punto solo che sia indovinato , cioè che una legione si trovava in
Sardegna; dico indovinato, perchè ragioni non ne dà l'autore, ne egli
ci ha merito se non ha sbagliato anche qui.
— 299 —
sono quelli di Fabio Pittore, storico vissuto in quei tempi,
versato negli affari pubblici, e quindi degno di fede (i).
Finito così di esaminare il piano di guerra del 537/217,
veniamo ad un' ultima questione relativa alla breve cam-
pagna dltalia (dico dltalia per escludere quella di Spagna,
che era un episodio della medesima guerra punica), du-
rata dal principio dell'anno fino all'assunzione di Q. F'abio
Massimo alla potestà dittatoria.
(1) Degno di fede, ben inteso, nei dati e nelle cifre. Altra cosa
sono le opinioni politiche (cf. Polibio, 1, 14).
— 300 -
CAPITOLO QUARTO.
Le leg-ioni urbane del principio del b'ò']j'i\-;,
Quello che stiamo per dire non è meno importante di
quello che abbiamo detto sin qui. Nei tre capitoli prece-
denti abbiamo voluto correggere le opinioni dei dotti sulla
data della battaglia della Trebbia, sul piano di guerra del
537/217, e sulla partenza di Flaminio; in questo confron-
teremo quello, che si crede relativamente alla campagna sud-
detta, colle fonti antiche, e trarremo così in luce alcuni
fatti male tramandati e caduti in dimenticanza.
Tutta la storia di quella campagna, così come ce la nar-
rano Polibio e Livio, e come ce la ripetono gli storici mo-
derni, comprende i movimenti dei due eserciti consolari, e
termina colla catastrofe del Trasimeno, dove V uno di essi
accettò la sfida del nemico e venne distrutto, senza che
Taltro fosse giunto a tempo per unirsegli. Ma forse e senza
forse questi fatti, che sono i principalissimi, non furono
però i soli.
Ho notato, nel capitolo precedente, il pregio della nar-
razione di Appiano ; per essere coerenti ne dobbiamo
dunque fare quel conto che essa merita. Or bene, presso
Appiano vediamo svolgersi , allato di que' fatti principa-
lissimi, alcuni altri fatti non privi d'importanza. Dopo
aver narrato l'invio delle truppe romane nelle provincie e
la partenza dei consoli incontro ad Annibale, Appiano sog-
giunge un'altra cosa: che cioè entrato Annibale in Etruria e
- noi —
marciando alla volta di Roma, i Romani, spaventati, man-
darono gli ultimi otto mila uomini, che rimanevano in
Roma, al lago Plestino nell'Umbria, colTordine di intercet-
targli la strada occupando qualche passo stretto e di difficile
accesso-, e che il comando di quelTesercito venne conferito
ad un certo Centenio, che era uomo allora privato , ma
nondimeno illustre (i). Poscia, dopo aver narrato la bat-
taglia del Trasimeno, Appiano racconta che, nel tempo in
cui essa accadde, da una parte il console Servilio cammi-
nava a grandi giornate verso T Etruria (per congiungersi,
ben inteso, col collega), dall'altra parte Centenio, occupato
un passo forte e oppostosi al nemico , fu vinto e disfatto
totalmente (2).
Ora a me pare che le notizie di Appiano sull'esercito di
Centenio e sulle costui gesta, rivelino un frammento di
storia, desunto, per opera di Appiano, da Fabio Pittore,
ma dimenticato così da Polibio, come da Livio , che qui
attinse a Polibio; e poscia, perchè dimenticato da Polibio
e da Livio, trascurato anche dai moderni. Non che i cri-
tici non avvertissero le notizie di Appiano-, ma, colla cat-
tiva applicazione di un principio buono , chiusero a sé
stessi la via buona; imperciocché leggendo in Polibio (3,
86, 8 segg.) e in Livio (22, 8, i) che il console Servilio
mandò al collega Flaminio un aiuto di 4 mila uomini a
cavallo sotto gli ordini di un certo Centenio, il quale non
giunse a tempo e fu vinto da Maarbale , si persuasero
troppo facilmente che il racconto di Appiano non fosse
altro che una versione più guasta del racconto polibiano-
liviano, e ambedue i racconti concernessero un medesimo
fatto. Il vero è che i due racconti non hanno nulla di co-
(i) Hami., 9.
(2) Hann., lo-i i.
-- :m -
munc air infuori del nome di Centenio , e che il fatto ri-
cordato nell'uno non ha che fare con quello che è ricordato
nell'altro. 11 console Servilio mandava a Flaminio parte del
proprio esercito, destinato a combattere insieme coU'esercito
di Flaminio contro Annibale, mentre lo scopo degli 8 mila
uomini di cui parla Appiano era quello di proteggere la
capitale della Repubblica. In secondo luogo i due eserciti
erano diversi l'uno dall'altro nella provenienza, nel numero
e nel genere dell'arma a cui appartenevano. In terzo luogo
le circostanze della battaglia, nella quale perì 1' uno, sono
diverse per più capi da quelle della battaglia nella quale
perì l'altro. Poi c'è la condizione diversa dei due coman-
danti (i).
L'esame dei due racconti fa dunque manifesto che quello
di Appiano contiene una serie di fatti minori svoltisi allato
dei principali, ma ommessi da Polibio (2). Quest'è la con-
(i) Di tutte le differenze che passano fra i due racconti, ai critici
diede nell'occhio una sola ; ma anche da questa difficoltà essi seppero
sciogliersi con molta, con troppa disinvoltura. Era il numero delle
truppe S mila presso Appiano, 4 mila presso Polibio, che si oppo-
neva più evidentemente all' identità supposta e voluta dei due rac-
conti. Ma il Drakenborch usci a dire, nel suo commento liviano
(voi. 7, 59), Appiano aver confuso l'esercito di Centenio coU'esercito
di un secondo Centenio che s' incontra cinque anni più tardi nella
storia romana (Livio, 25, 19, 9) e che in effetto comandò otto mila
uomini. — Dopo questa trovata nessuno più fiatò, e oggi ancora la
si mette innanzi nei migliori commenti di Livio (cf. Weissenborn a
Livio, 25, 19, 9). Non c'è bisogno di dire che quella trovata non
prova proprio nulla, perchè divergenze fra i due racconti ce ne sono
altre ancora; anzi non spiega nemmeno questa, perchè Appiano non
fa mai menzione di quel secondo Centenio, ne poteva dunque scam-
biarlo col primo.
(2) Ho detto, nell'ultima nota del primo capitolo, che Polibio fu
solito volgere la sua attenzione ai grandi fatti militari apportatori di
notevoli conseguenze, sorvolando invece sui minori; e citai un'asser-
zione dello storico, il quale scrive di aver voluto passar sotto silenzio
i fatti d'armi avvenuti fra l'esercito romano e l'esercito cartaginese
- 303 -
clusione alla quale i critici non seppero ma avrebbero do-
vuto venire , per cavar qualche costrutto dalle notizie di
Appiano-, ogni altro tentativo fu e doveva essere vano (i").
in principio del 538/2 16 (mentre il primo di questi eserciti era co-
mandato dagli ex consoli Atilio e Servilio in attesa dell'arrivo dei
consoli Paolo Emilio e Terenzio Varrone), appunto per questa ra-
gione. E trovai un'applicazione di questa stessa massima nel silenzio
di Polibio sui fatti che tennero dietro alla battaglia della Trebbia
durante il resto dell' inverno. iDra aggiungo due altri esempi. La
battaglia del Trasimeno fu descritta a lungo da Polibio; dopo di
essa accaddero senza dubbio molti fatti nell' Etruria e nell'Umbria
(ad esempio le ostilità di Annibale contro Spoleto (Livio, 22, 9) e le
gesta del Centenio di Appiano. Questi due fatti vengono riguardati
come un solo dall'lHNE, RÓm. Gesch., 2, 179, a torto come vedremo,
ma egli non li narrò, e osservò soltanto che Annibale, non risolven-
dosi a marciare su Roma, attraversò in dieci giorni l'Umbria e il
Piceno per giungere all'Adriatico (Pol., 3, 86, 8 segg.). — Di nuovo,
Polibio narrò a lungo il combattimento di Canne, ma tacque i fatti
accaduti nel resto di quell'anno 538/2 16 (quali erano, ad esempio, le
gesta di Marcello e la distruzione dell'esercito del pretore L. Po-
stumio avvenuta nella Gallia. È vero che quest' ultimo fatto venne
toccato da Polibio , 3, 118, 6, ma senza che lo descrivesse; e Io toccò
soltanto allo scopo di dare un'idea compiuta della gravità delle cir-
costanze in cui Roma allora si trovò; descritto invece fu da Livio, 23,
24, 6 segg.), che chiuse subito il libro terzo col ritrarre gli effetti di
tanto avvenimento. Di Centenio parla Polibio solamente in quanto
questo ufficiale era destinato a congiungersi con Flaminio , la sua
storia essendo così parte della storia di Flaminio e della battaglia del
Trasimeno.
(1) Volgiamoci un momento a considerare lo stato della critica in
questo proposito. Ho già detto che i moderni che scrissero la storia
prammatica di Roma non videro altro , nel racconto di Appiano ,
fuorché una versione guasta del racconto polibiano-liviano, malgrado
le differenze essenzialissime che corrono fra i due racconti. Anche
nei lavori speciali la critica fece poco, ma tuttavia qualche cosa; fino
agli ultimi anni questo qualche cosa si riduceva ai dubbi del Kliiver
sul lago Plestino e alla confutazione di tali dubbi per opera dell'abate
Giovanni Mengozzi ; ma ora il racconto stesso di Appiano nel suo
insieme . fu sottoposto ad esame. Vediamo partitamentc questi due
passi successivi della critica.
La questione sul lago Plestino abbraccia naturalmente solo una
circostanza locale della narrazione di Appiano , e fu suscitata dal
— 304 -
Alla stessa conclusione conducono più altre ragioni, e
tali, che ciascuna di esse basterebbe, non che a confermarla,
a provocarla. — i° Il titolo di praetor (i), o, più retta-
mente, di propraetor (2) che troviamo dato, ma non però
da Polibio , a Centenio , prova che la persona di questo
nome fornita di siffatto titolo non ha che fare colla per-
sona di questo nome priva del titolo medesimo ; il Cen-
Kluver [Italia Antiqua^ pag. 586 segg.), che , non credendo all'esi-
stenza di un lago di tal nome, opinò che Appiano propriamente avesse
scritto non TTAeiaTivr|v ma bensì TTepuoivriv, e avesse chiamato Peru-
gino, perchè vicin di Perugia, il lago Trasimeno. Ma sulla fine del
secolo scorso il Mengozzi iDe' Plestini Umbri, del loro lago e della
battaglia appresso di questo seguita ira i Romani e i Cartaginesi nel
voi. XI delle Antichità Picene di Giuseppe Colucci, pag. ? segg.) con-
futò il Klliver ; egli in primo luogo dimostrò coi documenti che un
lacus Pistiae nell'Umbria tra Foligno e Camerino esisteva ancora nei
secoli XIV e XV dell'era volgare; e dimostrò in secondo luogo che,
oltre al lago di tal nome, esistette anche una città di tal nome (Plinio,
Hist. Nat., 3, 14, 114, ricorda fra i popoli umbri i Pelestini; una
iscrizione antica riferita dal Mengozzi, pag. 29, ed ora anche da altri,
per cs. dal Wiimanns , n. 2104, ricorda la res piiblica Plestinorum \
Plestcas occorre negli Ada Sanctoriim. 2, 582; Plistia occorre in un
documento di Ottone III riportato dal Mengozzi, pag. 107; infine
sorge tuttora colà la chiesa della Madonna di Fistia). In tal modo
il Mengozzi fece vedere che anticamente una città e un lago dei
Plestini esistettero realmente nell'Umbria, e per questa parte speciale
adunque mise in chiaro la bontà delle notizie di Appiano.
Ma fu solo negli ultimi tempi che i critici presero in considera-
zione il racconto intero di Appiano, sebbene senza frutto. Il Nissen
[Rìiein. Mus.yZO, 227 segg.) si provò, sempre partendo dalla falsa
supposizione che il Centenio di cui si parla nel racconto polibiano-
liviano sia il medesimo di cui si parla nel racconto di Appiano, a
conciliare i due racconti. Lo stesso fa I'Ihne. Rom. Geschichte, 2,
174 segg.; 179. La conciliazione non si trovò e non poteva trovarsi,
perchè i due racconti non hanno di comune che il nome di Centenio.
(i) Cornelio Nepote , Hann.,4. 3. Luso di praetor e di consul
invece di propraetor e di proconsul era abuso frequente nel tempo in
cui Cornelio Nepote scriveva, quindi il praetor di Cornelio Nepote
e il propraetor di Livio (vedi nota seguente), sono, nel nostro caso,
la stessa cosa.
(2) Livio, 22, 8. I.
- 305 —
tenio di cui si parla nel racconto polibiano-liviano fu un
semplice ufficiale incaricato di condurre quattro mila uo-
mini da un luogo all'altro, non ebbe dunque quel grado di
imperio chiamato propveiura (i), ed ecco perchè Polibio
non gli dà titolo veruno. Ma il Centenio di cui parla Ap-
piano era comandante di un esercito, era un propretore,
ed è di questa persona che fa parola anche Cornelio Ne-
pote, ed alla quale propriamente si riferirebbe il propraetor
di Livio (2). — 2* Verso la fine del capitolo precedente
abbiamo messo in chiaro che in principio del 537,'2i7 due
delle legioni vennero destinate a rimanere a Roma come
truppe di riserva e di presidio nello stesso tempo ; così
pure abbiamo messo in chiaro che, dopo la battaglia del
Trasimeno , occorse fare nuovi arruolamenti , per avere
delle truppe da presidiare la città. Ciò significa che quelle
due legioni (legiones itrbanae) , nel frattempo erano state
(i) Propraetor era un propretore ordinario, cioè un ex pretore al
quale era stato prorogato il comando ; oppure era, talora, un luogo-
tenente del generale; oppure era un privato al quale si era conferito,
in via straordinaria, per bisogno improvviso, l'imperio di propretore.
L'uomo di cui parla Polibio non era né l'una, né l'altra cosa. Tutt'al
più quell'uomo avrebbe potuto venir chiamato legatiis Id. Livio, 23,
3i, 6: « Ad veterem exercitum accipiendum deducendumque inde in
Siciliam Ti. Maecilius Croto legatus ab Appio Claudio est missus,
27, S, 12. Urbanum veterem exercitum Fulvius consul legato in
Etruriam dedit ducendum ■;.
(2) Livio non fa che riassumere il racconto di Polibio ; però chia-
mando propraetor Centenio, egli fa vedere di aver avuto contezza
anche del Centenio di Appiano e di Cornelio Nepote, e di aver con-
fuso l'uno coll'altro. C'è ancora un'altra traccia che conferma questa
asserzione : Livio narra che Centenio fu rotto da Annibale 'secondo
Polibio fu rotto da Maarbale). Ce n'è una terza: Livio narra che
Centenio, inteso Tesito del combattimento sul Trasimeno, entrò nel-
l'Umbria, una circostanza mancante in Polibio e che si trova in Ap-
piano. Ripeto adunque che il racconto di Livio nel punto essenziale
è quello stesso di Polibio, contiene però elementi secondari di quello
di Appiano.
— :m -
mobilizzate, e che gli otto mila uomini spediti , secondo
Appiano, a sbarrar la via ad Annibale in caso che si fosse
voltato contro Roma, erano per V appunto coteste legioni
stesse, e non hanno che fare coi quattro mila uomini a
cavallo mentovati nel racconto polibiano-liviano. — 3" Infine
c'è il ragguaglio breve ma importantissimo di Appiano sulla
condizione di Centenio:, secondo il racconto di Appiano questi
era persona privata quando ebbe il comando di otto mila
uomini. Questo ragguaglio dimostra prima di tutto che il
Centenio di Polibio è diverso da quello di Appiano. Esso
prova altresì che gli otto mila uomini eran davvero le due
legioni urbane •, infatti se le legioni urbane, destinate a ri-
manere a Roma , nel corso dell' anno si mandavano in
campo, ciò avveniva per bisogno improvviso, e la conse-
guenza ne era che conveniva affidare il comando , essendo
già occupati altrimenti i magistrati e promagistrati ordinari,
a persone private, innalzandole alla dignità di comandanti
straordinari (i).
Così sono separati i due racconti Tuno dall'altro. Quello
di Appiano, calunniato (2) quasi fosse una cattiva versione
di quello di Polibio, e invano voluto conciliare con questo,
è invece un racconto a sé, che contiene un nuovo brano
di storia romana. Resta ora che mettiamo nella debita luce
cotesto brano di storia.
I due eserciti consolari erano già arrivati a Rimini e ad
(i) Due volte Livio ricorda espressamente la mobilizzazione delle
legioni urbane, e tutte e due le volte il comando venne conferito ad
un privato, cioè a L. Manlio Acidino nel 547 di Roma (Livio , 27,
43, 8; cf. 27, 5o, 6) e a M. Valerio Levino nel 549 (Liv.,28, 46, i3).
(2) Il prof. Gottlob Egelhaaf [Jahrbucher filr Phil. und Pad.
Supplementband, 10, 473) vede, nella discordanza del racconto di Ap-
piano da quello di Polibio, la prova più manifesta del nessuno va-
lore storico di Appiano !
— 307 —
Arezzo nelle regioni loro assegnate , quando le mosse di
Annibale, che pareva volesse correre difilato sopra Roma ,
indussero i Romani a mandargli incontro le legioni ur-
bane, dandone il comando ad un privato di nome Cen-
tenio (i) (investito a quest'uopo del grado di propretore
straordinario (2)), senza servirsi né del pretore urbano, né
del pretore peregrino (3). Dove collocaronsi le due legioni
(t) Chi trovasse poco naturale l'omonimia del capitano in questione
coll'ufficiale del quale Servilio si servì per mandare i quattro mila
uomini a Flaminio, può credere che il nome di Centenio fosse quello
di una sola persona e venisse poi esteso per errore a tutte e due le
persone. Ma viceversa non si potrà mai fare la seguente supposizione :
Centenio fu un solo, dunque tanto il racconto polibiano-liviano.
quanto quello di Appiano concernono un medesimo fatto.
(2) Questo era il grado solito del comandante le legioni urbane.
Propretori furono appunto, nel 647 di Roma, L. Manlio Acidino, e,
nel 549, M. Valerio Levino. S'aggiungano, nel 459, i propretori Cn.
Fulvio e L. Postumio Megello (Livio, io, 26, 14) messi a capo di
eserciti di riserva, dunque di legioni urbane. — Noto, a questo pro-
posito, che Cn. Fulvio e Postumio Megello erano perciò persone
private innalzate alla proprelura ; il Mommsen discorre , Staatsrecht,
2, 633, seconda edizione, degli imperii conferiti ai privati, ma questi
due esempi gli sfuggirono.
(3) Qualche volta, anche il pretore urbano e il pretore peregrino,
benché destinati ad amministrare la giurisdizione in Roma, ebbero
tuttavia il comando di un esercito. C'è qualche cosa che a • questo
proposito non fu ancora osservato bene. Cominciamo dal pretore ur-
bano.
Finché il pretore urbano fu il solo pretore, egli ebbe spesso il co-
mando di un esercito. Quattro sono gli esempi raccolti dal Mommsen
{Staatsrecht, 2, 186, seconda edizione): il primo dell'anno di Roma
404 (Livio, 7, 23), il secondo del 4o5 (Livio, 7, 25), il terzo del 469
(Livio, Epit., 12; Orosio, 3, 22; Agostino, De civit. d.,3, 17, 3;
Polibio, 2, 19; Appiano, Gali., i), il quarto del 5i2) Zonaras, 8, 12),
Io ne trovai un quinto del 459 (Livio, io, 3i , 3 , App. Claudius
praetor cum exercitu Deciano missus). — Quando fu istituita la pre-
tura peregrina, si preferì, trattandosi di imprese militari a molta
distanza da Roma, servirsi del pretore peregrino. Ma questa fu con-
suetudine generale, non però, come l'intende il Mommsen (ivi.p. 187),
una regola così assoluta, che noi dobbiamo dubitare della verità del-
l'incarico dato al pretore urbano P. Lentulo (che fu console nel 592
— 308 —
urbane per sbarrare il cammino ad Annibale, e che cosa
fecero, e clie sorte ebbero ? Sulle mosse e sulle gesta loro
abbiamo presso gli antichi parecchi cenni, che forse sono
di Roma), e attestato dagli scrittori (Lìciniano, pag. i5, Bonn; cf.
Cicero, De leg. agr., 2, 3o, 82), come l'autore fa. Non solo non vedo
ragione di non credere che P. Lentulo sia stato mandato, mentre
era pretore urbano, in Campania, ma io credo che fatti simili siano
accaduti spesso, specialmente durante la seconda guerra punica. Ciò
che m'induce ad asserire questo è la storia del 538/2 16, coli' esame
della quale credo poter dimostrare che il pretore urbano di questo
anno, chiamato P. Furio Filone , fu spedito , dopo la battaglia di
Canne, in Sicilia ed in Africa a capo di una fiotta; e lo dimostro
nel modo seguente.
Livio, 22, 56, 6, narra che il governatore di Sicilia fece sapere al
Senato essere il regno di Siracusa molestato da una flotta cartaginese,
sé non poterlo proteggere dovendo tenere in rispetto un'altra flotta
nemica, la quale altrimenti avrebbe assalito Liiibeo , essere adunque
necessario che il Senato mandasse un'altra flotta romana nelle acque
della Sicilia. Lo stesso Livio narra poco dopo (22, bj, 8) che Mar-
cello , pretore e comandante di una flotta ancorata ad Ostia, con-
segnò al pretore urbano Furio Filone questa flotta. Lo stesso Livio
narra poi (23, 21, 2j, che il governatore di Sicilia scrisse al Senato
essere Furio Filone ritornato dall'Africa a Liiibeo. Che cosa dicono
questi ragguagli ? Dicono, in primo luogo, che a richiesta del gover-
natore di Sicilia il Senato mandò il pretore urbano Furio Filone con
una flotta in Sicilia. Dicono un'altra cosa ancora: siccome in principio
dell'anno il Senato avea fatta facoltiÀ a T. Otacilio, che comandava la
flotta di Sicilia, di fare uno sbarco in Africa (Livio, 22, 37, 1 3); ma T.
Otacilio ebbe che fare in Sicilia perchè la flotta cartaginese minacciava
Liiibeo; di qui si pare che lo sbarco in Sicilia fu effettuato dal pre-
tore urbano. Se né Livio né i moderni scoprirono che il nesso dei
detti ragguagli è questo che io dico, la colpa non è mia. Una con-
ferma della mia asserzione e' è in Appiano ; questo storico narra
{Hann., 27) che Marcello diede parte della sua flotta al collega P.
Furio Filone mandandolo in Sicilia. La cosa non potrebbe esser più
chiara ; e nondimeno il Weissenborn commentando Livio non ha
capito nulla di tutti questi ragguagli di Livio e di Appiano (veggasi
il commento del Weissenborn ai luoghi liviani ora citati ; il poco
spazio non mi permette di ripetere gli errori suoi e di confutarli, ma
dopo quello che abbiamo detto, ognuno li vedrà di per sé). Anche
al Mommsen sfuggì quel nesso ; egli crede (Staatsrecht, 2, 224, nota i*)
che P. Furio Filone succedesse semplicemente a Marcello nel co-
-309 -
sufficienti al nostro scopo. Appiano, come abbiamo detto,
narra che le legioni urbane vennero mandate al lago Pie-
stino in Umbria-, d'altra parte però c'è Zonaras (8, 25)
mando della flotta stazionante ad Ostia; non vede che Filone parli
per la Sicilia , e quindi novera questo fra gli esempi di un pretore
urbano adoperato a poca distanza da Roma.
Finisco di parlare del pretore urbano notando che ora abbiamo
avuto una nuova prova del valore delle notizie di Appiano (del che
abbiamo parlato nel capitolo precedente), e che se Livio non si ac-
corse del nesso dei fatti da lui esposti, ciò significa che egli si servì,
in questo luogo, di più fonti contemporaneamente, trascurando poscia
di ridurre ad unità il suo racconto.
Passiamo al pretore peregrino. Il Mommsen [Staatsrecht . 2, 201,
seconda edizione), a proposito del comando di eserciti conferito di
preferenza , come osservammo or ora, al pretore peregrino invece
che al pretore urbano, nota che il primo esempio di un tale fatto è
del 539/215 (Livio, 23, 32, i5). Quest'osservazione ha bisogno, se
non mi sbaglio, di una correzione. Io credo che nel 538/2i6, dopo
la battaglia di Canne, e prima ancora che il pretore urbano P. Furio
Filone fosse mandalo in Sicilia , il pretore peregrino Pomponio
sia stato messo a capo di un esercito ; credo perfino di poter dire
dove fu mandato, cioè nella Gallia che avea per capoluogo Rimini.
È noto che pochi giorni dopo la battaglia di Canne l'esercito che si
trovava nella Gallia ed era comandato dal pretore Postumio fu di-
strutto insieme col suo capitano (Polibio, 3, 118, 6; Livio, 23, 24,
6 segg.). Or bene tutto mostra che nella Gallia fu subito mandato un
altro esercito, e che il pretore peregrino Pomponio fu assente da
Roma, cioè fu il comandante di quell' esercito. L'invio di un nuovo
esercito nella Gallia, in luogo dell'esercito peritovi, non era cosa da
trascurare ; se il Senato pensò a proteggere Siracusa, come or ora
vedemmo, tanto più avrà pensato a tener a segno i Galli inviando
delle truppe a Rimini. Ma c'è anche un indizio positivo: il dittatore
M. Giunio Pera, elevato alla dignità dittatoria dopo la battaglia di
Canne, arruolò quattro nuove legioni (Livio, 22, Sy, 9), lasciandole
però a Roma, e prendendo seco, all'uscirne, le due legioni urbane
state arruolate fin dal principio dell'anno (Livio, 23, 14). Che cosa
succede di quelle quattro nuove legioni ? Se noi esaminiamo la divi-
sione delle legioni fattasi in principio dell' anno seguente , cioè del
539/215, noi non ne troviamo memoria; solo nelle due legioni ur-
bane del 539 possiamo e dobbiamo riscontrare due di esse; ma le
altre due ? erano dunque state mandate nella Gallia. La divisione
delle legioni pel 539 ù* esposta presso Livio, 23, 25, 6 segg.; 2?, 3i,
- 310 -
che scrive che Centenio fu rotto a Narni. Bisogna decidere
prima di tutto se il luogo occupato da quelle legioni , per
sbarrare il cammino al nemico, sia stato sul lago Plestino o
3 segg.; 23, 32, i segg.; 23, 32, i3 segg. Il console Sempronio ebbe
un esercito composto di volontari e di soci. Il console Q. Fabio
Massimo le legioni del dittatore Giunio Pera, quelle due colle quali
il dittatore era uscito di Roma. Il pretore M. Valerio Levino certe
legioni richiamate dalla Sicilia e altre truppe trovantisi in Apulia.
Il pretore di Sicilia ebbe le reliquie degli eserciti romani stati tru-
cidati a Canne. Il pretore di Sardegna non ricevette nessun nuovo
esercito, come non ne ricevette il proconsole Terenzio Varrone. Il
proconsole Marcello ebbe due legioni urbane^ cioè quelle due, fra le
quattro legioni nuove, che erano state dapprima destinate a rimanere
di presidio e di riserva a Roma, e che poi si mobilizzarono dandole
a Marcello ; di quelle quattro nuove le altre due, come asserivo,
erano senza dubbio state mandate nella Gallia molto prima. —
Cerchiamo adesso gl'indizi che dimostrano l'assenza da Roma del
pretore peregrino nella seconda metà del 538. Dopo d' aver isti-
tuita la pretura peregrina, i Romani preferirono servirsi , fuori di
Roma, del pretore peregrino, e non dell' urbano ; perchè dunque
il pretore urbano Furio Filone venne mandato in Sicilia e in
Africa con una flotta? Io dico perchè il pretore peregrino Pom-
ponio avea già ricevuto un'altra incombenza. Secondo indizio: il
Senato romano fu convocato , in quel tempo , da T. Sempronio
che era rnagisier equitum del dittatore Giunio Pera (Livio, 23, 25,
2; 22, 57, 9); ma ciò, se non erro, significa che a Roma non
c'era più nessun pretore, altrimenti questo affare sarebbe stato di
competenza dei pretori, che in grado erano superiori ai maestri di
cavalleria. Che i pretori fossero superiori ai maestri di cavalleria si
deduce da quei luoghi dove è fatta l'enumerazione degli uffici in or-
dine gerarchico. Su ciò vedi, fra i moderni, specialmente Mommsen,
Staatsrecht, 1, 542, seconda edizione. Che poi il convocare il Senato
non competesse ai maestri di cavalleria, se non quando non si po-
teva fare di meno, si deduce dalla discordia che e' era fra i dotti a
Roma, in proposito di questo principio di diritto pubblico; infatti
mentre Cicerone, De legibiis, i, 3, 6, crede che la convocazione del
Senato fosse anche un diritto dei maestri di cavalleria, Varrone ci-
tato da Gellio, 14, 7, credeva di no. Mi pare dunque cosa indubi-
tata, che, distrutto l'esercito di Postumio nella Gallia, vi siano state
mandate due altre legioni sotto Pomponio pretore peregrino. E e' è
anche un' ultima prova di valore assoluto : quando Livio espone i
provvedimenti sulle provincic, presi in principio del 540/214, egli
- 311 —
sia stato Narni. E qui, siccome le circostanze locali non si
possono facilmente inventare, io credo che ambedue i cenni
di Appiano e di Zonaras siano storici, e che si tratti sol-
tanto di conciliarli in modo probabile. La conciliazione poi
si trova nella posizione strategica di Narni e in un'analogia
storica. Narni, forte per natura (Livio, io, 9, 8), conqui-
stata, per la stessa cagione, a tradimento quasi un secolo
innanzi dai Romani, fatta subito colonia ed eretta così a
baluardo contro gli Umbri (Livio, io, io, 5), diventò
poscia un punto strategico di grande importanza, quando nel
534/220 fu costrutta la via Flaminia che la toccava. D'allora
in poi un esercito romano che avesse voluto proteggere Roma
contro un nemico veniente dall'Umbria e dall'Etruria, non
avrebbe trovato luogo più acconcio di Narni-, e lo dimostra
la storia-, nel 547/207 scese in Italia Asdrubale per con-
giungersi col fratello Annibale , e Roma, messa in grande
spavento, fece provvedimenti straordinari mobilizzando le
legioni urbane, e mandando così in campo un nuovo eser-
cito, oltre ai due che erano accampati in Etruria (Livio ,
27, 35, 2) e nella Gallia (Livio, 27, 35, 10); e a Narni ap-
punto accamparonsi allora coteste legioni urbane(i).La storia
narra fra l'altre cose che a M. Pomponio fu prorogato l'imperio nella
Gallia (Livio, 24, io); dunque Pomponio avea comandalo nella Gallia,
nel 35g/2i5: ma nella storia del 5'ig ciò non è detto; dunque l'invio
dì Pomponio, dimenticato da Livio e più tardi da lui presupposto,
risale al 538/2 16. So bene che una delle deliberazioni prese dopo la
distruzione dell' esercito di Postumio era stata di non presidiare la
Gallia (Livio, 23, 25, 6); ma la deliberazione non sarà stata posta ad
effetto, come non lo furono più altre deliberazioni (le deliberazioni
per l'anno iSg furono prese in più volle e cangiate più volte; cf. Livio,
32,25, 6 segg.; 23, 3i-32).
(i) Livio, 27, 43, 8: « Literis Hasdrubalis F^omam ad Senatum
missis, simul et ipse paires conscriptos, quid pararet , edocet , ut,
cum in Umbria se occursurum Hasdrubal fratri scribal, legionem a
Capua Romam arcessant, dilectum Romae habeant, exercitum urba-
num ad Narniam hosti opponant ». Cf. 2y, 5o, 6.
- 312 -
del 547 rischiari ora questa del óSy che ci occupa; anche
nel 537 il nemico veniva da quella parte stessa, anche nel
537 TEtruria era presidiata da un esercito e la Gallia da un
altro; dunque anche nel 537 le legioni urbane si accampa-
rono a Narni, come del resto ci fa intendere Zonaras. Il
motivo, perchè poi Appiano abbia scritto che le legioni ur-
bane furono mandate al lago Plestino, troveremo adesso in-
vestigando le gesta di esse. — Anche sulle gesta loro i cenni
lasciatici dagli antichi, quando siano interpretati bene, sono
atti a farci sapere qualche cosa fin qui ignorata. Secondo
Appiano (citato sopra) Centenio venne rotto al lago Pie-
stino, secondo Zonaras (1) a Narni. Diremo adunque, sempre
per la ragioni che le circostanze locali non sogliono così
facilmente inventarsi, che e a Narni e al lago Plestino ac-
caddero fatti d'arme. Resta solo a scoprire un motivo plau-
sibile dell'esser diventato anche quest^ultimo luogo un teatro
di operazioni. Gettando Tocchio sopra una carta geografica
si vede immediatamente che il lago Plestino giaceva, posto
com'era tra Foligno e Camerino, ad uguale distanza da
Rimini e da Arezzo , dove erano accampati i due eserciti
consolari ; inoltre il lago toccava, come la toccava Narni ,
la via Flaminia ; di qui io argomento che le legioni ur-
bane, giunte a Narni, in attesa di quel che gli eserciti con-
solari avrebbero fatto, si dividessero in due parti, rimanendo
runa a Narni e Taltra procedendo innanzi sulla via Fla-
(i) Luogo citato. Ecco le parole testuali : « Annibale, dopo aver
vinto e ucciso Flaminio al lago Trasimeno, ètri tì'iv 'Piu,ur|v l'iTreiTeTo,
KOÌ laéxpi Mév Napviai; xriv re Ynv t^ilivijuv TrpofìXee, Tdióv xe évraOGa
KevTHViov axpaTTiYÒv èveòpeuóvxa Tiepiaxùjv èqpeeipev. L'èvToOBa si
deve riferire non a Spoleto come si fa (Ihne, RÓtn. Gesch., 2, 179,
nota 198), ma a Narni. Si è incominciato a dire che Narni è soltanto
il punto estremo a cui giunse l'avanguardia nemica, e si continua a
ripeterlo (Ihne, ivi; Duruy , Histoires des Romains, i, 564, ecc.),
ma ciò è inesatto.
- 313 -
minia sino al detto lago, per potere, alPoccorrenza, dare una
mano all'uno dei consoli. Così avvenne la rotta di una parte
delle legioni urbane anche al detto lago (donde Appiano
poco precisamente scrisse poi addirittura che esse erano
state spedite colà). Ma per intendere bene le mosse di An-
nibale dopo la battaglia del Trasimeno bisogna ricordare
anche l'assalto ch'egli diede a Spoleto (i). Anche Spoleto
toccava la via Flaminia. Di qui appare adunque, che il Carta-
ginese, vinto e ucciso Flaminio al Trasimeno , si volse al
Nord-Est, e prese la via Flaminia , colTintenzione di correre
a Roma o almeno fin presso a Roma (2). Per via egli compì
i tre fatti accennati (oltre a quelli dei quali non ci è per-
venuta notizia alcuna), cioè ruppe parte delle legioni ur-
bane al lago Plestino, assalì invano Spoleto, e fece a pezzi
il resto delle legioni urbane a Narni, giungendo così per lo
meno fin là, e non soltanto fino a Spoleto (3).
Roma, settembre, 1881.
Alessandro Tartara.
(1) Livio, 22, 9: « Hannibal recto itinere per Umbriam usque ad
Spoletium venir. Inde cum perpopulato agro urbem oppugnare adortus
esset, cum magna caede suorum repulsus » ecc. Zonaras, 8, 25 : (jb(;
bè TU) ZiTOjXriTiuj irpoaPaXuJv àTreKpouaGr).
I2) Polibio, 3, 86, 8, dice die Annibale mise da banda l'idea di
assalire Roma. Ma probabilmente non la mise da banda prima di
esser giunto fino a Narni.
(3) Come parrebbe doversi inferire da Livio che continua, dopo
le parole citate nella noia precedente : « coniectans ex unius coloniae
haud prospere temptatae viribus, quanta moles Romanae urbis esset,
in agrum Picenum averlit iter ».
Notiamo ora una cosa. Di questi fatti minori svoltisi allato dei
principali e da noi spiegati , rimangono traccie, adunque , oltre che
in Appiano, anche in Zonaras, in Cornelio Nepote (che chiama
praetor Centenio), e perfino, come avvertimmo testé, nello stesso
Livio, il quale compendiò essenzialmente il racconto di Polibio, ma
lesse anche quello donde provenne il racconto di Appiano derivan-
done anzi nella sua narrazione più d'un tratto.
'Hji'ista di JiloìOLiia ecc.^X.
- 314
D'UN RECENTE LIBRO DI DELBRUCK
E DELLA TRADUZIONE ITALIANA DEL MERLO
E DI DUE NUOVE DISSERTAZIONI DEL WHITNEY
I. Einleitung in das Sprachstudium, ein Beiirag ^ur Geschichte iind
Methodik der vergleichenden Sprachforschung, von B. DelbrUck ;
Leipzig, Breitkopf u. Hiirtel, 1880 (pp. VIII-i4'2, in-S").
II. Introdmjione allo studio della scienza del linguaggio : Contributo
alla storia e alla metodica della glottologia comparativa di B.
DelbrUck, traduzione del dott. Pietro Merlo; Torino, Loescher,
1881 (pp. XII-I58, in-8°).
III. On inconsistencj in views of language (pp. 21, in-8"); Logica
consistency in views of language (pp. 17, in-8'') : by W. D.
Whitney.
Gran bel libro questo di Delbruck : degno frutto di un ingegno
quanto ardito nell'analisi altrettanto prudente nella sintesi, e come
ricco di concetti suoi propri così espertissimo degli studj altrui. Vi
si trova esposta, con grande equanimità e con la solita lucidità ele-
gante, la storia della glottologia indoeuropea da Bopp a Schleicher ;
e vi son poi indicate e giudicate le varie correnti nuove, venute
dopo prevalendo nella scienza, in modo arrendevole verso le no-
vità e i novatori e insieme riverente e giusto verso i vecchi maestri.
Che se qua e là puoi discordare in qualche modo da lui, e deside-
- 315 -
rare maggior fede in certi antichi postulati della nostra scienza, in
complesso però devi convenire che maggior rettitudine di mente e
d'animo, e un piìi giusto temperamen-to di fede e di scetticismo, nes-
suno avrebbe potuto portare nella trattazione d' un soggetto quanto
attraente altrettanto spinoso.
Noi vogliaaio qui riassumere in breve questo bel libro , aggiun-
gendo qua e là parecchie nostre osservazioni.
Si comincia dunque col Bopp. — L'affinità della lingua greca e
della latina, e d'altre lingue indoeuropee, con la sanscrita, era stata
già vista da Federico Schlegel, e prima, e più correttamente, dal
Jones. 11 merito di Bopp fu il dimostrarla, ch'ei fece, con una com-
parazione sistematica, che dal verbo si estese via via a tutta la lingua,
e che aveva uno scopo ulteriore: spiegare come le forme grammati-
cali protoariane fossero nate. Per ispiegarle , dapprima mantenne la
idea di esso Schlegel, che la flessione fosse uno sviluppo organico
della radice, cioè nascesse da variazioni interne di questa; e solo
v'aggiunse di suo il concetto che i tempi formati con un s, come
l'aoristo, fossero risultati da una composizione della radice col verbo
' essere ' (rad. as-] ; il che gli dovè parere tanto più verosimile, in
quanto che allora correva una dottrina sulle parti del discorso, se-
condo la quale 'essere' era il verbo per eccellenza, e in ogni altro
verbo 1' 'essere' c'era incluso, se non altro ellitticamente. Ma già
nel rifacimento del suo primo libro (il Conjugationssystem, 1816) in
lingua inglese (Analytical comparison, 1819), Bopp avea abbandonata
l'idea di Schlegel e spiegava quasi tutte le forme come nate da com-
posizione. Fu soprattutto il concetto dell'originario monosillabismo
delle radici, che già da Adelung in poi s'era fissato, quel che servì a
staccare Bopp da Schlegel. Perchè, se, p. es., la radice della forma
&o9riaóiae9a non è che òo, come mai credere che tutta la enorme ap-
pendice -9)iao|ue6a nascesse da uno svolgimento interno di òo ? E
d'altro lato, la somiglianza di molte terminazioni personali del verbo
coi pronomi personali (p. es. quella di mi terminaz. di i* pers. sing.
col pronome me , è,ué ecc.) faceva nascere troppo imperiosamente il
concetto che le persone del verbo fossero una composizione della ra-
dice con un pronome (^ ai-mi andare-io); e un tal concetto era altresì
troppo naturalmente raccomandato dall'esempio (già invocato da Len-
nep e. da altri) della grammatica semitica, in cui l'equazione tra gli
afformativi e preformativi dei verbi ed i pronomi è addirittura pai-
— 316 —
pabile (t). Modulazioni interne della radice credea il Bopp doverne
ancora vedere solo in poche forme, p. es. nel raddoppiamento, e nei-
1' -ai del medio, che allora gli pareva un semplice guna dell' -i del-
l'attivo. Ma negli ulteriori scritti, e infine nella Grammatica Com-
parata, V -ai stesso gli comincia a parere anch'esso una composizione
(-mai = *-maìni = ' io-me'), 1' -s del nominativo gli pare il pro-
nome sa affisso, il -/ dell'ablativo e del neutro il pronome ta ecc. ecc.
Insomma allarga sempre più il campo della composizione; e sempre
più raramente trova ancora in qualche forma la rappresentazione
simbolica del concetto formale. Nello -nti della S" plur. egli vede,
p. es., il -ti del singolare col t ingrossato mercè un inserimento na-
sale, il quale sarebbe per la consonante quel che è l' allungamento
per la vocale: l'ingrossamento di ti in nti simboleggerebbe material-
mente l'accrescimento ideale che c'è dal singolare al plurale. — Del
resto, i suoi progressi teorici Bopp non li segnala con lunghi ragio-
namenti generali: quanto v'è in lui di teorico (così le più volte av-
viene nel vero scienziato) è incarnato nelle concrete spiegazioni dei
particolari, o sprizza solo qua e là a proposito di qualche particolare
nel quale meglio riluce l'idea generale. Le stesse frequenti compara-
zioni prese dalle scienze naturali non han nulla di rigoroso : sono pure
immagini; le quali facilmente gli si presentano perchè egli considera
ormai scientificamente la parola, considerata fin allora quasi solo
letterariamente. Forse un più diretto influsso delle scienze fisiche si
può riconoscere nella scoperta eh' ei credette fare d'una legge m e c-
canica d'equilibrio, per cui la radice pesante sia voluta da una
terminazione leggiera , e la radice leggiera dalle terminazioni pe-
santi , come si vede confrontando il sanscrito émi io vado (gr. eTiut)
col sscr. imds noi andiamo fgr. l'|uev); la quale oscillazione però oggi
si spiega come effetto dell'oscillazione dell'accento, cioè si tiene che
la radice s'alleggerisca quando perde l'accento (il gr. l)aev è un'accen-
tuazione posteriore turbata). Nel modo invece come Bopp considerò
le leggi fonetiche, raramente cioè come leggi assolute quali oggi
s' inclina a tenerle, e il più delle volte come semplici tendenze sog-
(1) Per es. iu ebraico noi' al nominativo è '(inàchnù ecc. e all'accu-
sativo è nu ; e dalla rad. qfltàl uccidere abbiamo qdtàl-niì uccidiamo e
ni-qtGl uccidevamo, e così via.
- 317 -
gette a quante eccezioni si vogliano, ci si vede l'intiusso della tradi-
zione grammaticale d'allora, la quale ammetteva eccezioni in qualsi-
voglia numero alle regole, e quasi non ammetteva vi potess' esser
regola senza eccezioni. Del rimanente, in Bopp, preoccupato com'era
dello spiegar la genesi delle forme, e del dimostrar l'affinità tra le
varie lingue ariane con l'addurne i termini corrispondenti cui anche
la sola intuizione gli facesse scoprire, il lavoro fonologico, che è in-
somma un lavoro ulteriore di sistemazione di quelle corrispondenze
raccolte e accumulate, era necessariamente incipiente ed immaturo.
Se anche l'ingegno del Bopp fosse stato più inclinato alla fonologia
che al resto, non era però quello il momento di fermarsi a far ri-
cami fonologici, poiché si trattava piuttosto di scoprire e di ricono-
scere il terreno; e il suo grande ingegno lo doveva fare avvertito di
attendere a quello che era allora più urgente e più opportuno.
Giacché una delle cose che caratterizzano il grande ingegno è , mi
pare, il senso dell'opportunità, nella scienza non men che nella po-
litica. Il Delbrùck ha fatto quindi assai bene a rilevare i mancamenti
e le contradizioni fonologiche di Bopp senza scandalizzarsene. Come
pur bene ha fatto ad osservare che, se in Bopp il sapere filologico e
letterario era in seconda linea, perchè di qualche lingua , per la cui
classificazione egli ha meriti immortali (celtico, slavo), avea egli una
cognizione filologica scarsa, e della stessa buona latinità non si mo-
strava mai curante nei suoi scritti latini, ciò è però spiegabilissimo
in chi era tanto assorbito dalla considerazione dello stato natu-
rale delle lingue. E quando conclude che il grand'uomo si segnalò
più per l'ingegno scopritore e per l'intuizione acuta e geniale che per
il metodo rigoroso, avrebbe forse potuto aggiungere, cosa del resto
facile a sottintendere, che il simile si può dire di chiunque sia stato
primo fondatore di una scienza.
Il bel giudizio di Delbriick sul Bopp, sebbene elaborato con uno
studio diretto ed originale delle fonti, coincide però In grandissima
parte con quello datone dall'Ascoli nel primo dei suoi Studj Critici
(voi. II); e se di questa coincidenza il Delbriick non fa motto, egli
è perchè il suo libro vuol essere svelto e rapido , e deve correr dis-
impacciato il più possibile da citazioni.
Bopp ebbe molta gratitudine e entusiasmo per Guglielmo di Hum-
boldt, come l'ebbero di poi anche Pott, Schleicher, Curtius. Eppure,
nota il Delbriick, un preciso influsso di Humboldt su di loro non si
— 318-
può additare in nulla, e l'entusiasmo ch'egli ispirava si spiega con
le grandi qualità morali di lui, con la sua coltura universale, con la
larghezza e perfezione del suo spirilo, sempre inteso alla sintesi ma
sempre nutrito dell'analisi. Del resto, sempre il benefico influsso di
uomini, come l'H., larghi di mente e di cuore, é difficile, credo,
concretarlo in modo spicciolo, perchè consiste soprattutto in quel
loro dar altrui coraggio e impulso, con l'aver l'animo sempre pronto
e lo spirito sempre adatto a finamente intendere e a calorosamente
lodare ogni ricerca nuova, ogni acuta analisi, ogni ardita sintesi ,
ogni alto pensiero : sicché ognuno è sicuro di trovar sempre in
loro corrispondenza, ajuto, difesa, incoraggiamento , anche in mo-
menti che tutti gli altri uomini fossero duri e chiusi. Dall'Ascoli
poi, che è un altro dei grandi ammiratori dell' Humboldt, ho più
volte sentita un'osservazione assai piena di verità; che 1' H. è ve-
nuto troppo presto , poiché all' opera sintetica, a cui niuno è stato
mai- più adatto di lui, non erano ancor maturi i tempi in che egli
visse.
Anche con Augusto Guglielmo di Schlegel era il Bopp assai legato
dapprima, ma dopo, per l'umor battagliero dello Schlegel, si guasta-
rono, e si scambiarono parecchi frizzi. Lo Schlegel fu il fondatore
della filologia sanscritica ed è quindi « dovuta a lui una gran parte
di quella gratitudine che la grammatica comparata deve alla filologia
sanscritica ». Ma dal Bopp, che in mezzo ai suoi grandi lavori com-
parativi trovava pure il tempo di far buoni libri per lo studio filo-
logico del sanscrito, lo Schlegel pretendeva troppo , quando lo bia-
simava pel poco studio diretto che Bopp facesse dei grammatici in-
digeni dell'India; studio per il quale né c'erano allora tutti gli ajuti
necessari, né il Bopp avea tutta la debita propensione o il tempo di-
sponibile. D'altro lato, anche col Bopp in quanto comparatore cre-
dette doversela prendere A. G. Schlegel quasi per obbligo di famiglia,
posciaché il Bopp sempre più s'allontanava da Federico Schlegel nel
modo di considerar la genesi delle forme grammaticali. Minacciò
egli. Augusto Guglielmo, una grand'opera, un Etymolopiciim noviim
delle lingue ariane, ma non ne fu nulla. Bensì lo schlegeliano Lassen
attaccò con molta ironia, in una recensione, fredda benché equa, dei
lavori grammaticali del Bopp, la dottrina di questi intorno alla detta
genesi : un attacco però semplicemente negativo, che in ultimo non
sortì alcun effetto.
J
- 319 —
Mentre Bopp fondava la grammatica comparativa, contem-
poraneamente Jacopo Grimm dava un primo e stupendo esempio di
grammatica storica nella sua Grammatica tedesca ; ove abbracciò,
giusta l'espressione dell'Ascoli « con gigantesco amplesso », tutte le
fasi idiomatiche della parola tedesca dal gotico fino ai dialetti mo-
derni; sicché da lui più che dal Bopp derivano, come nota lo stesso
Ascoli, il Diez (gramm. neolatina), il Zeuss (gr. celtica), il Miklosich
(gr. slava), ed anche, come ricorda il Delbriick, l'Ahrens (dialettologia
greca). E siccome il Grimm non doveva scovrire e riconoscere, come
Bopp, il terreno, essendo l'affinità del gotico, del tedesco, dell'olan-
dese, dell' islandese, dell' inglese, ecc., un fatto d'evidenza intuitiva e
da nessuno mai disconosciuto, cosi egli potè rivolgere tutta la sua
attenzione alle leggi fonetiche secondo cui la parola tedesca s' era
alterata e divariata nel tempo e nello spazio, e soprattutto a quella
gran legge della rotazione dei suoni (Lautverschiebung) che era stata
già suppergiù affermata dal danese Rask, e che diventò la bussola
della grammatica tedesca in sé stessa e nelle sue attinenze. II Grimm
« non divenne mai un glottologo alla maniera del Bopp, né dall'opra
di questo trasse tutti quegli ammaestramenti che avrebbe potuto »;
ma da lui e da Bopp insieme deriva certo l'indirizzo storico in-
sieme e comparativo che Io studio della favella ha definitiva-
mente assunto, nonostante le resistenze che per un pezzo opposero i
vecchi maestri di lingue classiche (tra cui primeggiò per dottrina e
per ostinazione il Buttmann).
Sommo fra i seguaci di Bopp è Augusto Federico Pott, che nelle
sue Ricerche Etimologiche , disciplinando sempre più rigorosamente
la fonologia, dette il più sicuro fondamento alla etimologia, e gettò
le basi del lessico comparativo. Più vicino a lui il Delbruck pone
Teodoro Benfey, riconoscendo però che in quanto a fonologia questi
non segnò alcun progresso, e che alcune sue teorie son troppo arri-
schiate, e che il maggior merito suo fu nella filologia indiana , spe-
cialmente per l'avere ei primo offerto ai glottologi materiali sicuri
del dialetto vedico. Altri con lui (Rosen, Roth , Westergaard , Max
Moller, Kuhn, Aufrecht...) contribuirono all'accertamento dei mate-
riali indiani, levando cosi di mezzo una causa potente d' errore pei
comparatori, che non aveano usata sufficiente diffidenza verso i così
detti indici di radici sanscrite ; finché si venne al gran monumento
del dizionario sanscrito petropoliiano di Bòhiiing e Roth , che fa
- 320 -
epoca per la glottologia non meno che per la filologia indiana. E
intanto anche pel lituslavo e pel celtico gli studi progredivano.
Ma oltre l'allargamento delle cognizioni da servire di fondamento
alla comparazione, questo periodo della nostra scienza, del quale ora
si parla, fu contrassegnato da una più rigorosa determinazione dei
caratteri individuali propri de' singoli rami della famiglia indoeu-
ropea. Nel suo studio complessivo di tutta questa famiglia Bopp non
badò sempre a riconoscere e rispettare quei caratteri; ed è naturale,
poich'egli era tutto inteso alle conformità tra le lingue sorelle.
Egli era capace di confortare un trapasso fonetico, da lui voluto per il
latino, con un parallelo armeno ; e di ridurre, p. es., xéxuqpa, e si-
mili perfetti aspirati, a perfetti in -Ka come lutti gli altri, facendoli
risalire a un "■ xeruTT-Ka e simili, di cui il k si fosse ridotto a h
(T€Ti)n-lia, TCTUcpa) al modo germanico (cfr. ted. e ingl. horn =i lat.
conili, gr. Képa<;). Or fu il Curtius che dette nel campo greco il più
bell'esempio di reazione a quel non infrequente sincretismo boppiano,
soprattutto con la sua classica opera sui Fondamenti della etimologia
greca (i). E il Corssen farebbe bene il pajo con lui, come principe
(1) Sul Curtius il Delbriick avrà occasione di ritornar più volte nei
corso del libro, sia per considerare la soluzione dal Curtius tentata del pro-
blema , come via via si formasse il sistema grammaticale dell' idioma
protoariano, sia per lodare o discutere alcuni criteri metodici da esso rac-
comandati per le ricerche glottologiche in genere. Noi intanto non pos-
siamo qui tenerci dal ricordare quanto la Grammatica Greca del Cur-
tius abbia giovato in Italia, sì a ravvivai'6 e raddrizzare gli studi greci,
e sì a suscitare e diftbndere, insieme alle belle Letture di Max MuUer,
l'amore per gli studi comparativi- E quando dalla grammatica sou ri-
saliti agli Schiarimenti alla f/rammaticai ai Fundamenti di etim. (jr.,
e agli altri scritti del Curtius, gli studiosi italiani hanno trovato in esso
un geniale manoduttore, e quasi un seduttore, agli studi linguistici : in
grazia soprattutto dello stile suo limpido, tranquillo, lontano insieme
dalla esuberanza e dalla soverchia densità, e non privo di tratti vivaci
ed arguti (e sugl'Italiani le qualità dello stile hanno di solito molta ef-
ficacia, sia attraente, sia repellente); ed in grazia anche di quella sua
serenità e rettitudine d'animo, di quella mitezza senza fiacchezza, di quella
dignità senza orgoglio, che traspajon sempre da ogni pagina dei suoi
libri e per poco non ho detto perfin dai paradigmi delle sue gramma-
tiche , e che fan lui amato non mon che ammirato da tanti a lui scono-
sciuti, sì che qualcosa di simile a quel che si disse dello Schiller, che
cioè se anche non era il più grande era il più simpatico tra i poeti te-
deschi, si potrebbe dire di lui tra i tedeschi glottologi.
- 321 —
nel campo italico, se insieme a grandi pregi non fossero stati in lui
gravi difetti, dimostrati soprattutto dall'Ascoli, e s'egli non avesse
avuto il torto di spingere quella reazione ad una esagerazione gran-
dissima.
Il terzo capitolo è consacrato ad Augusto Schi.eicher, così imma-
turamente rapito alla scienza ! Mostra il Delbruck assai giustamente,
ma con più insistenza forse che non bisognasse, che sullo Schleicher
l'influenza dell' Hegelismo negli anni giovanili, e delle scienze natu-
rali (in cui era più che un dilettante) nell'età più provetta, fu molto
estrinseca e superficiale, e si fé' risentire piuttosto nella terminologia
e nelle comparazioni e nelle immagini, che nel pensiero scientifico
vero e proprio. Se nella classificazione ternaria delle lingue, in iso-
lanti, agglutinanti e flessive, lo Schleicher fu lieto di
ritrovare i tre momenti hegeliani, quella classificazione però gli era
risultata per via dell'osservazione, e sulla traccia già data da Federico
Schlegel e da Guglielmo di Humboldt ; e in sostanza poi aveva la
sua vera base nel concetto boppiano che la flessione sia in fondo com-
posizione. Anche nel considerare tutte le favelle ariane, sin le più an-
tiche e superbe, come aventi già compiuto il terzo momento e come
entrate nel periodo della decadenza e della dissoluzione, Schleicher
seguiva Bopp; e tutt'al più hegelizzava nell' affermare che le fasi a-
scensive del linguaggio siano state percorse tutte nell'epoca preistorica,
e che nell'epoca storica sia già cominciata la tendenza discensiva (i).
Dal naturalismo dello Schleicher deriva invece la sua persuasione
che la lingua sia un organismo naturale, vivente come tale, e che la
linguistica sia una scienza naturale, e da trattarsi col metodo natu-
ralistico. Tre sentenze inesatte, perchè né la lingua è un vero o r-
g a n i s m o : se mai, è una funzione; né può essere una scienza
naturale quella che studia un fatto umano, sociale, storico, qual è il
linguaggio; né infine esiste propriamente un metodo che sia comune
a tutte le scienze naturali.
(1) Bisognava forse meglio specificare perchè in questo concetto vi sia
dell'Hegelismo. Perchè quanto al concetto del preistorico, non pare in
verità ch'esso giuochi troppo nel sistema dell' Hegel. Piuttosto, siccome
per Hegel ciò che risulta dalla triplice evoluzione dà luogo poi a una
nuova triplice evoluzione, così può parere hegeliano il concetto che la
lingua, dopo i due stadi anteriori divenuta flessiva (terzo stadio), entri
poi in un nuovo svolgimento discensivo.
- 322 —
Oltre i suoi lavori d' indole più speculativa , lo Schleicher coltivò
il campo slavo, con grandissimo successo; e infine diede col suo ce-
lebrato Compendio un quadro di tutta la famiglia ariana, in forma
rigida e concisa, dando il debito risalto a ciascuna favella nei suoi
tratti individuali, e sviluppando largamente la fonologia. Molto di-
verso così dal Bopp per la forma, giacché Bopp avea scrittola Gram-
matica nel calore della scoperta, sotto forma d'indagine, e Schleicher
scriveva colla tranquilla precisione di chi espone una dottrina già da
un pezzo acquisita. Rimase però boppiano nelle dottrine e nelle opi-
nioni ; pur ritoccandole qua e là o accettando i ritocchi di Pott e di
altri. II suo ingegno, più metodico che intuitivo, lo portava a guar-
dare con poca simpatia le ricerche etimologiche e a dare alle leggi
fonetiche già acquisite un valore troppo definitivo: dimenticava un
poco che le scoperte etimologiche son sempre la vera fonte, dell'am-
pliamento della grammatica comparata e possono dar luogo a nuove
leggi fonetiche, più larghe o più strettamente condizionate di prima
(nella qual via etimologica è stato poi tanto benemerito il Pick).
Trattando poi la materia in modo teorematico anziché problematico,
cioè applicando la form-i deduttiva a dottrine trovate dal Bopp e da
altri per la via induttiva, naturalmente lo Schleicher venne a dare
maggiore importanza alla ricostruzione del termine protoariano, che
gli dovea servire di punto di partenza per la trattazione del termine
indiano, iranico, greco, latino, germanico, ecc. E così nella cura,
che mise nella ricostruzione ipotetica del linguaggio indoeuropeo an^
cora indiviso, consiste la maggior parte della sua originalità. Certo.
talora eccedette ricostruendo una forma più integra e perfetta di quel
che la comparazione delle varie lingue additerebbe: p. cs., come proto-
tipo de' nominativi màter, inriTrip, sscr. mata, ant. alto ted. muoter ecc.,
stabilì màtars, dove invece bastava màtàr, che è l'immediato proge-
nitore del termine latino, greco, sanscriiico, ecc., anche se in una
fase più antica sia stato màtars. Inoltre, egli partecipava alla ten-
denza di parecchi altri linguisti, nel supporre che l'idioma originario
avesse un numero più ristretto di suoni, che poi nelle singole lingue
venisse più o meno aumentando; dimodoché lo stato del vocalismo
protoariano fosse rappresentato dal sanscrito, e quel del consonantismo
dal greco. Ora invece prevale fra molti linguisti una sentenza op-
posta ; la quale, ascrivendo un più gran numero di suoni alla favella
originaria, di cui alcuni si sarebbero poi in alcune lingue nuova-
— 323 -
mente sperduti, vuole che il vario e ricco vocalismo greco rappre-
senti suppergiù il vocalismo ariano originario, e per converso il con-
sonantismo originario sia suppergiù conservato dal sanscrito. Una
volta si diceva : — la lingua originaria avea solo a , i qò. u , poiché
a questo stato è rimasto il sanscrito, e in un certo senso lo zendo,
e IV, che le lingue europee mostrano in molti vocaboli comuni, s'è
sviluppata in esse dopo la loro separazione del ramo asiatico. E
quanto alle consonanti, la lingua ariana originaria avea solo il k gut-
turale, come è in greco, in latino (non neolatino) ecc.\ il e' palatale
e la sibilante e, che sottentrano talora al k in sanscrito e in zendo,
si sono sviluppati nel ramo asiatico quando questo era già staccato
dall'europeo. E il lituslavo, che solo tra gl'idiomi europei ha la si-
bilante là dove l'ha il ramo asiatico, l'ha svolta per conto suo, o
la ha per aver convissuto un po' di più col ramo asiatico. — Ora
invece si dice: il k era già intaccato in alcune parole nel lin-
guaggio indoeuropeo ancora indiviso, e questo intacco è che ha dato
quei risultati comuni al lituslavo e all'indoirano, ma nelle altre lingue
europee l'intacco è sparito, ed il suono gutturale s'è risanato. E
Ve, siccome non è estranea interamente all'Asia, perchè c'è nell'ar-
meno, così la dev'esserci stata nella lingua fondamentale, e solo nel-
l'India e neirirania in epoca più o meno antica essersi poi fatta o ri-
fatta a. Tanto più che s'è osservato come bene spesso in Asia il suono
palatale sorga dal suono gutturale per influsso di un / seguente, come
p. es. nel sscr. ògijàn comparativo di iigri'is ; ovvero per influsso di
un'^, ma di quella sola a cui corrisponde nelle lingue europee un'e,
come p. es. nel sscr. c'akara perfètto di kar- fare, cui si confronti
KÉKauKa perfetto di kou- bruciare; il che dunque vuol dire che quell'a;
fu e. Il ka- di raddoppiamento, insomma, prima che il linguaggio
indoeuropeo si scindesse sarebbesi fatto ke, e poi ce o almeno k^e ^
donde da un lato il sanscrito posteriore c'a- con la vocale risanata,
dall'altro il greco K^-{ke) con risanata la consonante. E anche l'o do-
veva essere già nato nell'idioma ariano, soprattutto nelle terminazioni.
L'autor primo e vero della dottrina concernente la gutturale ariana
è stato l'Ascoli, appresso al quale sono andati il Pick, l'Havet, e altri
glottologi stranieri. Ed io, come italiano, non posso pensare senza
un certo orgoglio che l'Italia, ultima venuta negli studi linguistici, sia
stata già in grado, grazie all'Ascoli, di fare una così cospicua espor-
tazione di nuove dottrine in paesi stranieri, anche in quelli dove
— 324 —
la glottologia è nata e divenuta adulta. Né posso senza vivo compia-
cimento legger parole come quelle che il Curtius scrive nella quinta
ed ultima edizione del suo capolavoro: « erst Ascoli's mit ebenso
staunenswerther Gelehrsamkeit, wie bewundernswurdigem Scharfsinn
auf klare Ziele gerichtete Uniersuchungen brachen hier neue Bahnen » ( i •
E l'Ascoli è pure l'autore indiretto, 1' air\oc, se non l'autore, dell'altra
dottrina concernente 1' e protoariana, con tanto acume e tanta copia
d'indagini proposta e propugnata da dotti tedeschi e da qualche fran-
cese. E le due dottrine sono strettamente connesse, infatti, oltreché da
contatti reali, anche da congruenza metodica; sicché non si può
senza maraviglia vedere come il Curtius, che tanto buon viso fa alla
dottrina de! duplice A-, guardi ancora con tanto sospetto e malavoglia
la dottrina dell' e {2). Il disgusto ch'egli mostra per la complicazione
che nasce dalle notazioni a*, a^ (3) — disgusto inverila che si può
ammettere dal punto di vista didattico, ma dal punto di vista scien-
tifico non si sa capire — si potrebbe e dovrebbe con altrettanta ra-
gione, o meglio con altrettanto torto, mostrare anche verso i A-, , A,
e simili notazioni, contro i quali il Curtius non è insorto! E un altro
po' di contradizione noi la troviamo in ciò, che egli ai fautori dell' e
protoariana oppone che la gran mobilità che é propria delle vocali
renda molto difficile il fissare qual ne sia il suono più antico (op.
cit., p. 9? , mentre questo scrupolo non ha mai impedito a lui di
fissare che il suono della vocale ariana fosse solo a (e non e , 0 \
Senza dire poi che simili massime scettiche colpirebbero di sterilità
prestabilita tutti i piìi nobili e ingegnosi conati dei ricercatori. An-
cora vorrei dire che l'osservazione, in sé giustissima, ch'egli fa, come,
essendo l'alfabeto sanscrito tanto ricco e minuto e preciso nella distinta
rappresentazione dei suoni , debba parere strano che giusto esso si
rassegnasse a confondere nel segno ^ tre suoni diversi [a,e,o], perde vjfia
parte del suo valore se si consideri che almeno Va breve non è espressa
(1) « Prime ad aprir qui nuove vie furou le ricerche dell'Ascoli, in-
dirizzate da lui ad una meta precisa, con una erudizione che reca stu-
pore e con un acume maraviglioso »: Grundznge'', p. 83.
(2) Vedi Grundzuge, ^83-94.
(3) Con a' indicano alcuni dei novatori Va ariana che suonava, se-
condo essi, già quasi e ^altri .scrivono a' ; con a* 1' a che a parer loro
inclinava al suono 0 (a").
— 325 —
direttamente dall'alfabeto sanscrito se non quando fa sillaba da sé,
che del resto ogni consonante o gruppo di consonanti porta con sé
sottintesa, come tutti sanno, la sua a breve, se altra vocale non è
espressamente notata ; il che potrebbe indicare, o almeno ammettere,
l'oscillazione nel timbro di questa vocale, che, considerata come sem-
plice appoggio della consonante, non si scriveva neppure. Molto più
valore ha invece l'altra objezione del Curtius, che cioè la storia del-
l' a in altre favelle, p. es. nelle romanze, nelle germaniche, dimostri
come sia infinitamente più facile che 1'^ s' annebbi e si restringa in
e e in altre vocali, anziché le altre vocali assurgano ad a, il che non
si verifica se non in linea affatto eccezionale. Apparisce dunque un
po' strano che nell'indo-perso avvenisse un così pieno ritorno al suono
chiaro della, quando questo fosse già stato in date parole abbando-
nato. Né questo ritorno si può evitare dai fautori dell' e protoariana,
poiché, come fu già da altri osservato, checché si pensi del sanscrito,
certo le favelle dell'India moderna hanno chiaramente 1' a.
Ma una consimile argomentazione può, mi sembra , applicarsi in
un certo senso anche contro la dottrina del duplice k indoeuropeo ;
e mi si consenta d'insistere qui un poco su questo punto. Veramente,
molte ragioni, tra cui principalissima la molta esitazione ch'io debbo
avere a metter bocca in così ardue questioni , mi vorrebbero disto-
gliere dall' aggiunger più parole intorno ad esse. Ma io non intendo
qui formulare se non dei dubbi, nella speranza che essi mi sien tosto
risoluti da qualcuno dei molti che ne san più di me o dei pochi che
ne san più di tutti; e pur questi meri dubbi mi parrebbe arroganza
il presentarli in altro scritto che non fosse, come questo, un discorso
bibliografico molto alla buona.
In primo luogo, senza affermare recisamente con il Bréal che in
fonologia non si abbia esempio « di un suono che, dopo essersi al-
terato, abbia fatto ritorno alla sua primiera purezza » (i), perchè di
tali esempi invece ve n'è ormai parecchi, ei non si può però disconve-
nire che il caso di un e più o meno palatale o palato-dentale che si
rifaccia k limpidamente gutturale, se occorre in questo o quel dia-
letto (2], non si può però dire un fatto fonetico di natura generale e
(1) Citato dal sig. prof. Pezzi nella Glottoloqia aria recentissima,
p. 8-9.
(2 Per es.,nel sardo logudorose dulchi; (dulko) e sim. abbiamo il la-
-326 -
normale, bensì ha tutto l'aspetto d'un'affezione sporadica e quasi mor-
bosa (morbosa, benché si tratti d'un risanamento; che incolga in via
affatto eccezionale qualche singolo linguaggio. Di regola, una guttu-
rale, una volta fatta più o men palatale, non ritorna allo stato pri-
miero gutturale. Mentre qui si tratterebbe di un ritorno che sarebbe
successo su larghissima scala, nientemeno che in quasi tutte le fa-
velle europee di origine ariana I
Ma, in secondo luogo, anche si trattasse di un fenomeno semplicis-
simo, usuale, come può essere, p. es., la degenerazione delle aspirate in
spiranti ; anche se il ripristinamento della gutturale piia o meno palata-
lizzata non fosse un fatto di carattere anormale ed insolito; resterebbe
sempre questo da dire : poiché codesto risanamento sarebbe comune
al greco, all'italico, al celtico, al germanico, dovrebb' essere stato fatto
tiuo dulce- dulke-) che fattosi prima dulc'e- in tutto il romano volgare
s'è poi rifatto dulke nel Logudoro lArch. Gioii., II, 143;; e qualcosa di
simile si ha nel dialetto dell'isola di Veglia nel Quarnero {Arch. GL, I,
437 n.). Anche nel k piccai'do e normanno a fronte del eh (che fu e' e
poi sh] francese-comune in cheval e simili, vede 1' Ascoli un semplice
ricorso (in questa Rivista, X, p. 34 n.). — Pel rumeno invece son da
vedere le osservazioni del DiEZ nella Grammatica; e vedile anche per le
forme come l'it. rudicn., il uapol. jureche ecc., per le quali confrontisi
pure Arch., II, 435; e pel preteso or ritorno or rinforzo di palatale in
gutturale nelle forme verbali italiane come fuggo, salgo, rimango ecc.
si può vedere la mia Grammatica Portoghese , p. 38 n.; e mera illu-
sione, come avrò occasione d'insistere altrove, sono i gh [g] notigiani di
Sicilia per g = g [e, i) latino, il valor dei quali fu già stremato dal-
l'AscoLi, Arch.. II, 457. — Notevole pure, sebben di natura alquanto
diversa dal fatto del sardo e del veglioto, è quello del napoletano rashco
e del leccese rascu, io raschio, e simili, di fronte all'abruzzese rashchjo
e simili (con chj s'intende rappresentato un unico suono palatino che si
avvicina al e" ladino, e non e un bel k -\- J come quello del toscano ra-
schio]-^ e forse anche quello del valacco chcm'' chiamare, ghem glomus,
e simili. — Ma ciò che soprattutto importa qui notare si è, che codesti fe-
nomeni di gutturale ricorrente sono, come si vede, fatti locali, speciali
di singole favelle neolatine, le quali in ciò stuonano non solo dalla in-
tera famiglia romanza ma anche dal particolai'p ramo di questa a cui
ciascuna di esse appartiene. Ed appunto perchè si tratta di vezzi locali,
rarissimi, isolati in mezzo all'uso, generale nel campo romanzo, delle
palatali e lor succedanei, è parso in fine strano il più ravvisarvi la con-
servazione arcaica e diretta dell'antica gutturale latina; la quale non si
capirebbe come, alteratasi in tutto 1' ambiente neolatino, si preservasse
solo in due.o tre punti o piccole strisce idiomatiche.
- 327 —
in comune da tutti codesti idiomi, vale a dire in un'epoca in
cui vivessero ancora di identica vita, e costituissero ancora un unico
idioma. È stato sempre un postulato concordemente ammesso nella
nostra disciplina, anzi è il postulato su cui essa addirittura si fonda,
questo: che un'alterazione fonetica, una forma grammaticale, un dato
vocabolo, che sia comune a tutte o quasi tutte le lingue di una data
famiglia, debba essere stato proprio anche della rispettiva lingua
madre, prima che si scindesse nelle singole lingue. E questo postu-
lato, soggetto certamente ad alcune riserve (vedi p. es. Ascoli, Siudj
Crii., II, p. 83 segg.), non pare sia per perder credito, che pur jeri
l'Ascoli nella sua bellissima Lettera Glottologica pubblicata in questa
stessa Rivista, lo applicava all' no romano volgare da o latino. Né
può poi dirsi che non sia da applicare a questo caso nostro, in cui
si vedrebbero greco, italico, germanico, cello, accordarsi così per-
fettamente in un fatto fonetico così cospicuo , quale il risanamento
della gutturale già intaccata nella fase ariana. Bisognerebbe dunque
supporre che un tal risanamento avvenisse in quella che il Lottner, il
Curtius, il Fick e gli altri, han chiamata lingua europea fon-
damentale. Ma allora, è il caso di dire, perchè il lituslavo non
vi partecipa ? Ed ecco che quella stonatura che faceva il lituslavo
tra le lingue europee per aver sol esso fatti in comune coll'indoirano
una serie d'intacchi del k, si viene a riprodurre, sotto un opposto
punto di vista, se ammettiamo che quegl'intacchi fossero stati già co-
muni a tutte le lingue europee e che tutte si accordassero a risanarli
eccetto il lituslavo (i). Sempre il lituslavo fa parte per se stesso, e,
quale sfinge, getta in faccia ai glottologi il suo enigma.
L'esempio del sardo logudorese che l'Ascoli ha ricordato (2), —
con tanto più di diritto in quanto è stato lui a mostrare che nel
(1) Questa piccola argomentazione non l'ho tolta a nessuno, essendomi
sorta in mente fin da quando uscirono 1 Corsi di Glottologia. Ma vedo
che essa traspare anche da alcune concise parole del Bréal riferite dal
Pezzi, op. cit.,-p. 9: « l'ipotesi non vale che a spostare il problema,
perocché, s'ella ci mostra per qual causa l'alterazione esista nelle me-
desime parole in slavo ed in sanscrito, non ci fa comprendere la cagione
per cui la guarigione ebbe luogo uniformemente in latino, in greco, in
gotico, in celtico ».
(2) Studj Critici^ II, p. 28.
- 328 -
sardo diilche e simili non s'avesse più a vedere la continuazione di-
retta del suono latino come volea il Diez (i), — l'esempio, dico, del
sardo, e gli altri esempt che poco fa ho io ricordati in nota, se qua-
dran benissimo per dimostrare la possibilità del ritorno della
palatale a gutturale, non son certo adeguati, limitati come sono a sin-
goli subdialetti neolatini, a dimostrare la probabilità del fenomeno
stesso in una così vasta estensione geografica e idiomatica, qual sa-
rebbe quella che risulta dal greco, latino, celtico, germanico, som-
mati insieme. Perfino il risanamento del kv in k si mostra soltanto
a strisce qua e là, cioè nel lituslavo, nel neojonico (kujc; kóte; ecc.),
e nell'ibernio tra i dialetti celtici fi): eppure, esso è ben più facile
intrinsecamente che non sia quello di e' o A"' in A' ! Nò giova troppo
il dire che fosse un A- molto leggermente intaccato, e quindi assai
facile a ricondursi ' in pristinum ' quel ìc^ da cui sarebbesi svolta in-
dipendentemente la sibilante indoirana da un lato e la sibilante litu-
slava dall'altro. Senza dire che un cosiffatto sviluppo conforme e in-
dipendente della sibilante dalla palatale in due diversi rami idiomatici
presenterebbe non poca difficoltà anche se al momento di separarsi
essi avessero avuto un vero e' palatale, e che tanto più cresce questa
difficoltà quanto più il A" intaccato si suppone ancora lontano dal-
l'esser giunto sino a un vero e' palatale (3) ; ei c'è inoltre questo da av-
vertire, che in tutti i modi quell'intacco, toslochè sarebbe stato capace
di condurre o avviare, in quei due rami diversi, ad una degenera-
zione COSI profonda qual è quella in sibilante, non potrebbe mai es-
sere stato così misera cosa, da dileguarsi poi con tanta facilità nelle
altre lingue europee. In altri termini, o quest'intacco è quasi niente
e poco si capisce come abbia avute cosi gravi conseguenze in due
separati rami della famiglia ariana, ovvero « pensando l'alto effetto
ch'uscir dovea di lui » noi ce lo rappresentiamo come qualcosa di
cospicuo, e allora non si capisce come esso si sia cosi ben dileguato
(1) E come avea ripetuto pur allora il Joket nel suo libro ])u C dans
les langnes romanes.
(2) Cf. Ascoli, Corsi ecc., p. 76, 89-90. — Qui naturalmente prescin-
diamo dal k z= qu nelle fasi moderne della parola latina lital. chi , sp.
quien l:=kien], calidad ecc.), di che vedi l'Ascoli stesso in questa Ri-
vista, X, 14 segg.
(3) L'Havet lo fa vero e'.
4
— 329 -
in tutti gli altri rami. Insomma, a non preoccuparsi di conseguenze
ulteriori che possan venire dalla storia delle gutturali, a guardare ai
soli fatti che avvertiti da Bopp son poi stati ridotti a così splendida
evidenza dall' Ascoli, la cosa più verisimile sarebbe, che da un lato
l'indoirano e il lituslavo abbiano condotto in comune, prima di se-
pararsi, la gutturale fino a suonar sibilante, e dall'altro le altre
favelle europee abbiano serbata la gutturale primitiva senza averla
mai, neanche transitoriamente, alterata o intaccata (i). Sennonché, è
egli poi necessario il dedurre da questo, come faceva il Bopp, che il
lituslavo fosse rimasto in Asia più a lungo di tutte le altre lingue
europee ? O quel dualismo che è tra il k europeo e la sibilante ario-
slava non potrebbe farsi risalire alla stessa lingua madre indoeuropea,
ammettendo che questa fosse già suddivisa in dialetti, un gruppo dei
quali tenacemente conservasse il prisco /e , e un altro l'avesse già al-
terato ? — Io ben vedo che, sdrucciolando così dai miei dubbi nega-
tivi in un'altra serie di dubbi che si potrebbero dir positivi, io vengo
a meritare sempre più la taccia d'indiscreto ; ma è proprio vero quel
che disse Cicerone (fam. 5, 22, 9), che « qui semel verecundiae fines
transierit, eum bene et naviter oportet esse impudentem ! ».
Che la lingua madre indoeuropea dovesse essere già suddivisa in
parecchi dialetti, sembra doversi affermare a priori. Noi non cono-
1) Qui parliamo dell'una serie di k. Quanto a quell'altra serie che
suol esser rappresentata da kv europeo, noi non abbiamo bisogno d'oc-
cuparcene. Stando a una dottrina esposta da- Giovanni Schmidt [Kuhn's
Ztschft, XXV, 135 segg.\ e che infine mette capo anche ad alcune con-
fessioni dello stesso Curtius [Griindz., '444, ^486), il doppio esito greco,
cioè l'esito labiale in una classe di parole (irÓTepoc, ecc.) e dentale in
un'altra (tiì;, ecc.) proverrebbe dal trovarsi nella prima classe il k avanti
a vocale aspra, e nella seconda avanti a vocale dolce (e, /) e a j. Cioè
che avanti e, i, J, si sai'ebbe avuto un e' palatale ario-greco, che poi in
greco si sarebbe fatto t. Anche avanti a _; s'è detto , giacché per lo
Schmidt la forma ■niaow, p. es., riverrebbe non già a *TTe7T-ja), bensì a
un *iTeT-juj, che starebbe, p. es., a ireTiTÓc; , irÉTriJuv ecc. come tic; a uó-
Tepo<; ; e di cui il t corrisponderebbe al e' del sanscrito pac'jf'té, comi;
il T di TG risponde al e' di c'a. Se questa dottrina, sulla quale non son
in grado di portare alcun giudizio, com'è atti'aente in molti punti, così
potesse dirsi sicura, noi avremmo che anche il greco avrebbe avuto ab
origine le sue palatali; ma beninteso in quell'altra serie di ^, che non è
quella che finisce a sibilante ario-slava.
'Hivisla di filologia ecc., X. 22
- 330 -
sciamo in questo mondo alcuna favella che non presenti suddivisioni
dialettali ; e sebbene in massima queste mettano capo principalmente
a incrociamenti etnologici, come ha con molta energia insistito
l'Ascoli in questa stessa Rivista (X, p. i segg.'), i quali incrociamenti
possono non aver avuto luogo nel popolo indoeuropeo ancora indi-
viso, tuttavia esse dipendono insieme da altre cause concomitanti,
che assolutamente devono aver avuto luogo anche per quel popolo.
È generalmente ammesso che parecchi secoli dovettero correre perchè
il tipo linguistico indoeuropeo si formasse e fermasse quale era al
momento che la lingua madre si scisse nelle varie lingue indoeu-
ropee. Ed è pure necessario ammettere che fosse già considerevol-
mente numerosa la popolazione indoeuropea in tal momento, perchè
potesse andarsi spargendo su tanta parte d'Asia e d'Europa, e assor-
bire anche in sé le popolazioni indigene che per avventura incon-
trava nelle sue immigrazioni, senza smarrire, se non in parte, il suo
carattere etnico e idiomatico (i). Ora, ei non è concepibile che una
popolazione abbastanza numerosa elaborasse via via per molti secoli
la comune favella, senza venire a quelle divergenze dialettali che
anche il semplice scorrer del tempo e la semplice mancanza del con-
tatto quotidiano vien sempre a determinare fra i parlanti una me-
desima lingua, tanto più quando manca una letteratura vera e propria
che allarghi e moltiplichi i contatti e faccia argine alle forze altera-
tive. Le divergenze dialettali protoariane potranno esser concepite
come lievi e scarse, quando si creda che il sangue ariano nel periodo
unitario si sia conservato purissimo e scevro da ogni mescolanza
straniera, e quando si pensi che quella stirpe geniale , destinata ad
essere sovrana nel mondo, dovca fin d'allora avere una vivacità
grandissima, e rifondersi e riaftVatellarsi di continuo per via dei
commerci, del culto religioso, delle tradizioni mitologiche ed eroiche,
e serbare così viva ed accesa la coscienza della sua unità. Ma, per
quanto minime, quelle divergenze ci dovettero pur essere; e ormai
(Ij Vedi su ciò l'AscoLi neirarticolo Lingue e Nazioni, nel Polite-
cnico (XXI, 77-100) ; soprattutto a pag. 77 segg. e a pag. 90. Quivi
veramente insiste piii sulla scarsità degli Aborigeni europei, che sulla
abbondanza degli Arii immigranti; ma nel complesso egli vuole una im-
migrazione aria relativamente copiosa. Adesso poi egli dà anche mag-
gior valore a quegli Aborigeni {Lett. Glott.).
- 331 ~
non si trova, credo, nessun glottologo che intenda negarle, e se ne
trova più d'uno (non dico molti) che mostra di ricordarsene (i). Se
non che, mentre le ammettono in teoria, difficilmente poi , quando
si viene al concreto, i glottologi s'inducono ad attribuire ad esse di-
vergenze la causa prima di qualsivoglia anche minimo fatto fonetico
o grammaticr.le o lessicale individualmente proprio di qualche sincoia
lingua o gruppo di lingue indoeuropee, e si sforzano sempre di tro-
vare una causa più recente, e insomma fanno sempre come se il lin-
guaggio indoeuropeo indiviso fosse stato perfettissimamente eguale in
tutta la sua estensione geografica e demotica. Somigliano un po' l'a-
varo, che dopo avere, a parole, messa tutta la sua casa a disposi-
zione altrui , nega poi risolutamente a una a una tutte le cose , per
quanto insignificanti, che altri si facesse a domandargli ! Ma questa
cosiffatta avarizia dei glottologi è, come criterio metodico, molto
giusta e naturale, chi ben consideri; poiché l'arrendevolezza ch'essi
mostrassero verso quelle spiegazioni di fenomeni che s' appellassero
alle suddistinzioni dialettali protoariane, cioè dire verso ipotesi che
non ammettono alcuna verificazione estrinseca o controllo indiretto,
comincerebbe davvero a compromettere la severità dei metodi e la
serietà della scienza. Gl'inesperti ricorrerebbero troppo facilmente a
tali ipotesi, perchè riuscirebbe loro molto comodo il rimandare tutte
le difficoltà a quel periodo oscuro; il quale diventerebbe per le pigre
audacie dei glottologi quel che i fondi segreti posson diventare
per gli arbitri dei governi. Tutto questo sta bene (2): ma insomma
un criterio metodico non è mai un criterio reale; e il voler
per forza prescindere da quella articolazione dialettale della lingua
madre, che pure in teoria si ammette, potrebbe condurre a voler
talvolta r impossibile o almen l' improbabile. Una bella prova delle
attraenti applicazioni a cui si può prestare, in mani ben esperte, la
ipotesi delle , chiamiamle cosi, dialettalità proetniche della parola
ariana, ce l'ha data l'Ascoli stesso in un luogo del citato scritto
Lingue e Nazioni. Ivi (p. 86), rifiutata l'infelice opinione di Grimm
T) Vedi Ascoli, Lhigue e Naz.^ p. 83; e Bbéal nel Journal des sa-
vants, 1876, p. 633-4.
(2) Uà caso di troppo pronto appello alle varietà dialettali protoariane,
e in persona di un dotto assai rispettabile, lo ricorda e discute l'Ascoli
negli St. Crit., II, 390.
— 332-
secondo cui la ' Lautverschiebung ' sarebbe avvenuta tra i Germani
nella seconda metà del primo secolo dell' èra volgare per un inga-
gliardimento delle consonanti mute corrispondente all' afForzamento
allora avutosi della coscienza nazionale, l'Ascoli ricordava come degli
spostamenti delle mute conformi a quelle che presenta il gotico ne
oflra anche 1' osseto (J?i = pater, con-e il gotico fadar . e perfino in
dati incontri lo zendo [fra = Trpó, come il germ. fni-, for], ed argo-
mentava che la evoluzione germanica fosse un carattere dialettale
« di una qualche sezione della gran patria comune » ariana, nell'epoca
anteriore al distacco degl' Italo-greci dall'Asia. Or non si potrebbe,
ripeto, argomentare allo stesso modo circa la sibilante arioslava ?
Sui rapporti che si debbano supporre tra le singole lingue indo-
europee e la così detta lingua madre le opinioni dei glottologi hanno
molto variato da Bopp in poi. Il Delbrlick ne discorre nel settimo
ed ultimo capitolo del suo libro (i), ma noi ne anticipiamo qui i
cenni, condottivi dal nostro discorso. Il Bopp stesso , dopo vari on-
deggiamenti, venne da ultimo nel concetto, che dalla lingua madre
primi si distaccassero il celtico, il germanico, il greco e il latino,
più tardi il litushivo; e piìi tardi il residuo asiatico di essa si scin-
desse in indiano e medopersiano. Lo Schleicher poi, considerando (a
torto) casuali le coincidenze tra il lituslavo e l'indoirano, e stabilendo
invece certe coincidenze tra slavo e tedesco, opinò che dalla lingua
madre prima si distaccasse lo slavo-tedesco , più tardi il greco-italo-
celtico, lasciando come residuo asiatico 1' indoirano. 1 quali gruppi
si sarebbero poi suddivisi col tempo alla lor volta, il primo in slavo
e tedesco, il secondo in greco-albanese e italo-celtico, il terzo in in-
diano e iranico. Così ei venne a rappresentarsi tutta questa succes-
siva divisione e suddivisione colla immagine di un albero, da cui
spuntino tre rami, qual più vicino al suolo , qual più alto, che poi
si ramifichino di nuovo. Vennero poi il Lottner e il Curtius, i quali,
notati certi caratteri comuni a tutte le lingue europee (2), stabilirono
(1) Anclie il prof. Pezzi ne fa una esposiziono piuttosto larga nell'ul-
timo capo della sua opera citata.
2) Il primo notò specialmente 1' l spesso europeo-comune di fronte
air r asiatica (per es. ttoXuc;, plus , got. filu, [ted. viel] ecc. contro al
sscr. piiriis, ant. pers. paruft molto); l'altro notò T e che molte voci eu-
ropee contrappongono all' a lielle corrisponfienti asiatiche fp. es. opépai,
- 333 -
che la madre lingua si scindesse prima in europea ed asiatica, e di
poi la lingua europea fondamentale, dopo un periodo di vita unica,
si scindesse in settentrionale e meridionale, suddividendosi poi nuo-
vamente la settentrionale in slava e tedesca, la meridionale in greca,
italica, celtica. — Ma tutte e tre codeste opinioni, da Bopp a Curtius,
hanno, oltre le congruenze minori, questa base comune : suppongono
che sempre la determinazione d'una singola lingua importi il distacco
di un popolo dal popolo complessivo. Indiani e Slavi parlano la
stessissima lingua finché convivono in Asia; anzi non ci sono final-
lora, a propriamente parlare, né Indiani né Slavi, ma Ariani; il
giorno che un gruppo di Ariani lascia l'Asia e viene in Europa, ei co-
mincian a essere un popolo e una lingua a sé, e diventano gli Slavi
coloro, se il distacco è avvenuto in un certo momento, a un certo
modo, e se si sono andati a stabilire in un dato luogo d'Europa; e
così via. — All'ipotesi dei distacchi si oppose Giovanni Schmidt;
il quale, notato come tra le ling.ue europee meridionali la piìi orien-
tale, cioè la greca, sia pure la più affine alle lingue dell'Asia, e come
anche tra le europee settentrionali la più orientale, la lituslava , sia
del pari la più conforme alle asiatiche ; e come il lituslavo abbia
dall'altro lato conformità speciali col tedesco in modo da parere
quasi un passaggio dal tipo asiatico al tipo tedesco; e il greco abbia
conformità con l'italico, sicché anch'esso paja un colore intermedio
tra italico e asiatico; e il celto si mostri da un lato affine al tedesco,
dall'altro all'italico; si risolse a credere, che tutti questi linguaggi
formino una serie continua, e abbiano un rapporto graduale intrin-
seco corrispondente al rapporto geografico, sicché il celtico per es.
sia, come il più lontano dall'Asia, così il più dissimile dall'idioma
asiatico, e il più sbiadito nella sua arianità; allo stesso modo che,
quando il tonfo d'un corpo in uno stagno genera l'onda che via
via si allarga in cerchi concentrici, questi come più s'allargano più
s'attenuano. Meglio ancora la dottrina dello Schmidt si può rappre-
sentare coir immagine (usata da Ebel, e da Schmidt accolta oltre !a
fero, got. baira ecc. contro a bhi'iràmi sscr.). Questo secondo carattere
europeo si dileguerebbe, in parte almeno, se son vere le dottrine, oggi
in voga, sul vocalismo ariano e paleoasiatico, sulle quali piti avanti ri-
torneremo.
- 334 -
sua « onda») di una catena che muove dall'Asia e all'Asia ritorna,
e di cui gli anelli sono: indoirano, (armeno), lituslavo, germanico, cel-
tico, italico, greco, e daccapo indoirano. Se non che, questa bella
dottrina che si fonda sui fatti molto più che non paja al Delbrlick,
sempre troppo scettico nel riconoscere affinità speciali tra lingue e
lingue (tra greco e latino, ecc.), incontra pure un'objezionc: se le
varie lingue indoeuropee non sono che sfumature dialettali successive,
digradanti via via 1' una nell'altra, come mai sui confine tra l' un
dialetto e l'altro, tra slavo, p. es., e germanico, non vi sono dei sub-
dialetti intermedi dei quali si resti incerti se ascriverli allo slavo o
al germanico? come mai tra questo e quello v'è un taglio così netto
e preciso? non è chiaro che ognuna delle lingue indoeuropee ha una
individuazione determinatissima e propria ? — Orbene, una dottrina
conciliativa potrebb'essere questa. Quella catena di dialetti supponia-
mola esistente nella stessa madre patria ariana, supponiamo che un
dialetto ariano progenitore del futuro idioma slavo si sia in essa tro-
vato geograficamente e linguisticamente intermedio tra un dialetto
proavo dell'indiano e un altro proavo del germanico; e così via. Son
poi cominciate le emigrazioni ; e queste saran successe in quell'ordine
che la posizione stessa geografica delle tribù e dei dialetti indicava. E
ad ogni data emigrazione avran partecipato naturalmente quelli cui
già un vincolo comune collegava, cioè tutti i parianti uno stesso dia-
letto, o, aggruppati, i parlanti di più dialetti affini e contermini. Da
molti, in passsato, le emigrazioni àrie sembra s' immaginassero così,
che di quella materia perfettamente omogenea, che era, secondo loro,
la stirpe ariana, oggi se ne staccasse una certa quantità e andasse in
nuove sedi, domani un'altra quantità, e così via. Ma in realtà i coe-
migranci di oggi doveano avere legami omoglottici ecc., perchè coe-
migrassero, e così quei di domani. Non si tratta dunque, sia lecito
anche a noi di ricorrere a un paragone, di una cannella d'acqua
della stessa fonte che ogni tanto s'apra e butti un tanto d' acqua che
in nulla si differenzi dall'acqua del butto antecedente, bensì si tratta
di grappoli diversamente grandi e diversamente maturi, che via via
si distacchino da una vite. Questi dialetti protoariani, poi, incontra-
vano, emigrando, linguaggi diversi di genti non ariane, già stanziate
nelle regioni d'Europa e d'Asia, e così, per la reazione di quelli, su-
bivano alterazioni per cui si rendeano , assai più che prima non
fossero , divergenti dai dialetti ariani ab antiquo loro conter-
— 335 —
mini (i); aumentandosi poi sempre la divergenza per effetto degli
anni, dei climi, delle vicende storiche, ecc. Volendo dunque rappre-
sentare quest' ordine d' idee con una formola, si direbbe : posto che
G sia il greco, quale noi lo conosciamo ; noi rappresentiamo con
g quel dialetto protoariano che parlavano quegli Arii che vennero a
occupare la Grecia , con mg il miscuglio eteroglottico che ad essi
potè toccar di subire, con a tutte le altre cause che soglion produrre
la divergenza di un linguaggio da un altro originariamente affine o
identico, e avremo la formola
G = g (mg + a).
Così il celtico darebbe :
C ^ e [me -\- a).
Se non che, poi, questa omologia tra le varie formule, venendo al
concreto, nasconde una gran differenza di condizioni reali e di ri-
sultati , giacché quel coefficiente che rappresentiamo con me per il
celtico avrà un valore numerico altissimo, mentre per il greco l' mg
sarà invece molto vicino allo zero. — Secondo questa ipotesi, in cui
si concilierebbe la vecchia teoria dei distacchi con la teoria schmid-
tiana della serie continua, e che trovo accennata pure da un dotto
autorevolissimo, il Leskien (2), noi avremmo che due linguaggi in-
doeuropei possono aver comune tra loro soli un fenomeno fonetico
o una forma o un vocabolo, non solo per speciali mutui contatti nel
loro progresso emigrativo o nella loro situazione definitiva, ma anche
per conformità dialettali protoariane. Noi oggi abbiamo (per pren-
dere un esempio dal campo neolatino) che il toscano pronunzia come
spirante gutturale [h] il k di poco e simili, e come sibilante linguale
(quasi sh) il e' di pace e sim.; invece il napoletano pronunzia esatta-
mente, senz'alcuna degenerazione, tanto la gutturale di poco quanto la
palatale dì pace : e infine il romano tramezza come geograficamente cosi
foneticamente, fra il dialetto che gli è al nord e il dialetto del sud, e
(1) Su questo punto, degl' incrociamenti etnologici, vedi 1' Ascoli in
questa Rivista, anno X, fascicolo 1.
'2] Citato da Delbruck, pag. 135 (145 nella traduz. del ]ìIerlo), e un
po' più largamente da Curtius, Gruvdz., ^8G. Non so come il Le.skien
sviluppi l'ipotesi, non avendo ancor potuto vedere il suo libro.
- 336 —
pronunzia poco come il napoletano, e pace come il toscano. Or non
potremmo immaginare una situazione pressappoco consimile nel pro-
toariano, cioè che quella varietà dialettale Is , che poi divenne dopo
l'emigrazione V LS fil lituslavo), avesse comune colla varietà n', pro-
genitrice di // (indoirano), l'alterazione di k in sibilante nelle voci
'dieci' 'cento' ecc., avendo d'altro lato comune con t (futuro te-
desco) con g (futuro greco) altre proprietà ; le quali poi si poterono
anche aumentare in seguito, quando , emigrando più o meno in co-
mune Is diveniva LS , e g G, e t Ti
E qui è finita la mia parentesi sull'ultimo significato storico che
si possa attribuire alle congruenze arioslave della sibilante, e son fi-
niti i miei dubbi: meri dubbi, ripeto. Sarebbero cioè finiti, se non
mi rimanesse quest'altro ancora: non era meglio che io sorvolassi
sopra una così ardua questione ?
Quanto alle nuove dottrine intorno al vocalismo protoariano e pa-
leoasiatico io non mi sento in grado di formulare neanche dei dubbi.
Esse hanno avuta l'ultima espressione in un lavoro, ispido in verità,
ma dotto assai e ingegnoso, di Giovanni Schmidt (Kuhns Z., XW.
1-179); pure han bisogno di ulteriori discussioni e complementi.
Certo che la dottrina dell' a suonante e in molte voci e forme asia-
tiche ha il vantaggio di dare alla genesi delle palatali asiatiche una
ragione fisiologica assai sufficiente, e pienamente conforme a quella
che risulta d'una evidenza indiscutibile nelle lingue romanze (il ganas
sscr., p. es., avrebbe il g perchè la prima a avrebbe un tempo anche
in Asia sonato e come negli europei y^voc e gemis, cioè per la stessa
ragione ond'è sorto il g dell'italiano genere, e così via). È vero che.
anche quando si teneva che in ganas e simili la prima a sonasse pu-
ramente a, si poteva ricorrere, come faceva l'Ascoli (Corsi, p. 45),
all' esempio della palatale francese che si sviluppa avanti a in char
carro, in j ambe gamba, e simili; ma restava sempre che mentre in
ischietto francese è questo un fatto fisiologico costante, nell'indoirano
invece appariva come fatto sporadico, limitato, non si sa perchè, ad
alcuni vocaboli o serie di vocaboli solamente (1'. Sennonché, anche
(1) Fiuchè si trattasse di raddoppiamenti soltanto, come c'akdra fecit,
per *kahó.ra, si poteva forse ancora tentar di spiegar la cosa com' ef-
fetto di dissimilazione i nter sii labica, consimile a quella che è
- 337 -
con la dottrina dell' e bisogna poi ammettere perturbazioni analo-
giche della legge fisiologica in un così gran numero, che non ha
riscontro nelle lingue romanze. Nelle quali i casi di gutturale analo-
gica , come in fuggo per *fuggio (fugio), salgo, vengo ecc. (ij; in
grechi, fichi per greci, *fici\ in esco per *escio (exeo) (2) — dove ve-
ramente si tratta di sk da uno sC già ridotto a 5/2 — ; o viceversa di
palatale analogica, o di sibilante in tutto o in parte succedanea sua,
come nei veneziani stren:fo, cresso per stringo, cresco , e piemontesi
finissii finissa , e francesi je Jinis , qiie je finisse per finisco, finisca
ecc. (3), non sono frequentissimi. Tuttavia, nulla infine vieta di am-
mettere per le antiche lingue asiatiche, che anche per altri rispetti
presentano alterazioni più profonde che non sian quelle delle moderne
lingue europee, quel numero più esorbitante di perturbazioni analo-
giche che si richiede per istabilire la legge che la palatale asiatica
sia dovuta ad e, z, j seguenti. Quel che invece resta sempre duro ad
ammettere si è, come notavamo più sopra riferendo le osservazioni
de! Curtius, che 1' e ivi ritornasse poi a su tutta la linea. Con tutto
ciò la fede nelT a ab origine rimasta intatta del periodo unitario e
delle lingue d'Asia è per lo meno non poco scossa dalle recenti dot-
trine.
Neppure mi sembra potersi pronunziare ancora un sicuro giudizio
intorno alle « scoperte » o meglio congetture d'una r sonante in-
doeuropea al modo indiano, la quale si rifletterebbe per ap e pa nel
greco (éTpaiTOv p. es. sarebbe da un anteriore *etrpon), e d'una nasale
sonante, formante sillaba da sé nel protoariano (il sscr. bharantam e
il gr. cpépovra metterebbero capo a un *bheronim].
Ma ritorniamo oramai a riepilogare il libro di Delbrlick. 11 quale
segnala a una a una tutte le altre principali tendenze che dalle nuove
dottrine risultano. Una è 'quella di considerare con un certo scetti-
cismo le spiegazioni, che da Bopp in poi si danno, o che ancora si
in TÌ9r||Lii, dadhdmi ecc. per * 6i6r||ai, * d/tadhdmi ecc. Lo stesso poteva
anche sospettarsi per c'akrds kùk\oc, KipKcc;. Ma non si tratta, ognuno
lo sa, di soli raddoppiamenti.
(1) Vedi la mia Gramm. Portogli., p. H8.
(2) Vedi Ascoli, Ardi., Ili, 447 n.
f3; Nei meridionali e romaneschi diceno, finfjeno ecc. la palatale ò a-
nalogica. L' e che vien dopo non ci ha avuta nessuna parte.
- 338 -
vanno escogitando , della genesi delie singole forme grammaticali.
Ben resta in piedi la dottrina complessiva di Bopp , secondo cui le
forme devono essere risultate da una composizione di radici con ele-
menti ascitizi! ; resta, nonostante le teorie contrappostele da West-
phal e da Alfredo Ludwig (i). Ma nelle applicazioni a singole forme
le incertezze son venute sempre crescendo, oppure le vecchie dottrine
sono state capovolte. La stessa natura delle radici non è esente da
disputazioni. Ecco alcuni cenni.
L Le radici nelle lingue ariane, e nella stessa madre lingua nel
suo ultimo stadio, non esistono più allo stato di purezza, come di-
rebbe un mineralogo: sono estrazioni che fa il grammatico, sono
preparati scientifici come quelli del botanico e dell'anatomico.
Certo, in origine esse furon parole, esistettero per se stesse; seb-
bene non solo alcuni dotti balzani, ma lo stesso Pott, salvo qualche
rara resipiscenza, abbia concepita la radice come nata a un parto
colle terminazioni. Ma, oramai, sono semplici estrazioni del gram-
matico, e il modo di formulare, di postulare la radice, può riu-
scir vario a seconda del concetto che noi ci facciamo del vocalismo
ariano e del suo movimento, e d'altre cose. Prima, p. es.,si diceva,
sulla scorta anche dei grammatici indigeni dell" India, che la radice
pura si trovasse in i-mds andiamo (ìl-|U6v) e che in é-mi vado (cioè
*ai-tni, gr. eTiui) la radice fosse rafforzata e ampliata. Ora invece si
suppone che la forma ampia sia la forma fondamentale (eì-,_ Xem-,
qpeuy- ecc.) e che la forma più leggiera fi-, Xitt-, qpuy- ecc.) sia un
posteriore assottigliamento. — Senza voler contrastare questo criterio,
sul quale non intendo portar giudizio, voglio però avvertire che non
mi par giusto il ragionamento di Begemann, accettato da Delbruck,
fi) Il Delbruck espone e confuta codeste teorie con una cura e una
larghezza, che può parer soverchia, visto che son mere stravaganze.
Anche il Curtius confuta Westphal, nel primo volume del Verbo Greco,
troppo largamente. Sennonché, in primo luogo codeste esposizioni e con-
l'utazioni fanno l'ufficio delle ombre nel quadro, e dan meglio risalto alle
dottrine sane; e dipoi, in Germania sono usi a discutere tutto, senza
troppe impazienze; tanto più che anche le stravaganze lì soglion esser
presentate col debito corredo della molta dottrina, e non è comoda noi
dove la bizzarria è quasi sempre accompagnata dall'ignoranza.
à
- 339 -
che cioè se da "eimi imr'S si ricavasse /- come radice, si dovrebbe
conseguentemente da àsini io sono, smàs siamo, ricavare una radice 5-,
cioè una radice impronunziabile. Bisogna, credo, considerare che, se
al sanscrito imds risponde in greco i,uev, a smós invece non corri-
sponde uno *a,uév, bensì ècr^év, il che vuol dire che nello smds e in
tutto il plurale e duale sanscritico la radice ^5- può aver subita una
aferesi per un procedimento tutto individuale di quella lingua, come
è quello che ha dato sum^ sumiis ecc. al latino. Così il sanscrito ha
dadmàs , dadhmds ecc. di fronte a d'dcimi , dódhùmi (do , pongo),
mentre il greco ha. certo più etimologicamente, òiòoiuev. xiGeiaev. di
fronte a òiòiwiui. xiGrifii.
II. La distinzione tra radici verbali e pronominali è difesa da
Delbrlick per ciò che non trova soddisfacente nessuna ragione teorica
addotta in contrario, né plausibile alcuna delle derivazioni escogitate
di singole radici pronominali da radici verbali {ma- io da ma pen-
sare, ecc.). Piuttosto, egli dice, forse queste due categorie non ba-
stano: perchè i numerali son poco chiari, e così molte delle prepo-
sizioni : e certe particelle infine, come ad es. \xr\, potrebbero avere
un carattere più interiettivo che pronominale.
III. Del monosillabismo delle radici adduce la ragione filosofica
messa innanzi da Adelung, Humboldt, Curtius, che cioè l'uomo pri-
mitivo dovesse naturalmente esprimere con una sola sillaba l'impres-
sione sintetica che gli faceva nell'animo il lampo d'un concetto; ed
adduce la prova sperimentale che molte radici, tolti gli elementi for-
mali , restano monosillabiche. Sennonché, dice, qualche volta si può
non saper di sicuro dove gli elementi formali propriamente comin-
cino, e taluno potrebbe dire che gamati, egli va, piuttosto che pam-
-a-ti sia da divider gama-ti. E qui passa ad esporre la teoria del Fick
e dell'Ascoli, riconoscendo la priorità del nostro Italiano, intorno
alia natura degli elementi, come li chiamano, determinativi,
da cui le radici originarie più semplici sono spesso ampliate fp. es.
ga andare = Pa, è poi anche gam-, e così via) (i); la qual teoria im-
il) Circa il seaso troppo generico che vengono ad assumere le radici
fondamentali, specie sottratti i determinativi, si possono vedere alcune
buone osservazioni anche in Kréal, scritto cit., p. 635-6, 648.
- 340 -
porta che quei determinath i sieno in origine intere sillabe (p. es.
ma), che, se in certe voci verbali perdon la vocale , in altre la ser-
bano, come in ga-ma-li. 11 Delbruck biasima però giustamente il
Fieli, perchè questi anche a proposito delle radici av-, as-, an-. am-,
mette in campo, non volendo saperne dell'esistenza del suffisso -a.
le dissezioni a-va-ti ecc., le quali condurrebbero a mettere tante di-
verse radici, suonanti tutte una semplice a. Avrebbe dovuto quindi
lodare la cautela dell'Ascoli, il quale, pur ammettendo, e prima del
Fick, la dissezione f^a-ma-ti ecc., tien però ferma l'esistenza d'un
suffisso -a per i verbi come av-a-ti ecc., e anzi trova quel suffisso
amalgamato in dà dare , ma, misurare ecc., facendo dà =^ dei rad. -(- a
sutì'., ma = »?'/ -|- il ecc., appellandosi anche alla pronunzia bisillabica
richiesta spesso in simili radici dalla metrica del Veda [Stiidj Crii.,
II, 54) (i). — Resta pur sempre possibile, crede il Delbruck, che
da gama si passasse a gam, e quindi questo ripigliasse 1' a come suf-
fisso, onde s'avesse pur gam-a-ti come av-a-ti. Possibile , è , non lo
nego; ma probabile no.
W . 11 Bopp divideva senza scrupolo bo-9ri-oó-f.ieea^ e simili, come
se fosse possibile che sul suolo greco si venissero per la prima volta
ad aggregare tali elementi primordiali. Prima che il linguaggio ario
si scindesse avca già le sue flessioni belTe stabilite, constava già di
parole non più radicali, ma coniugate, declinate, ecc.; quindi eran
bensì possibili in greco nuove aggregazioni e nuove forme, ma solo
fatte analogicamente. — Aggiungo qualche spiegazione. La radice òo,
p. es., risultava, traluceva, da òiòo|nev, da òoTóq ecc.; esisteva dall'altro
lato Qr\ao\xa\ ecc.: così s'è fatto l'aggregato nuovo òo6naoM"i- Pari-
mente, nelle lingue romanze si è bensì coniato un futuro novello
sentirò ecc. (sentire - habeo), ma da un infinito e dal presente di
'avere' cioè da parole esistenti; e i condizionali son probabilmente
(1) Nou vi sarà, spero, nessuno che voglia trovare strana la fusione di
una vocale-suffisso , cioè avente un propiio significato, con la vocale
della radice. Non avviene la fusione istessa tra la vocale che costituisce
l'aumento dei tempi passati e la vocale iniziale della radice, nel cosi
detto aumento temporale del greco e del sanscrito, in fjyov , in
'''sarn ecc.? Dove si tratta, come ognun sa, di * a-ago-m ecc., cioò ' al-
loi'a-conduceute-egli ' ecc.?
- 341 -
venuti dopo : sentir-ei fsentire - habui), seiitir-ia isentire - habebam),
sull'analogia di sentirà. Chi dividesse sentiremo in senti-re-habe-
-miis, mettendo tutte queste molecole foniche (senti, re ecc.) a uno
stesso livello cronologico, commetterebbe appunto quella inesattezza
che si vede nelle dissezioni òo-9rì-ffó-,u69a e simili.
V. Secondo la dottrina definitiva del Bopp la maggior parte dei
suffissi formatori dei temi nominali avrebbe origine pronominale, e
sol una parte deriverebbe da radice predicativa. Schleicher e Curtius
cercarono derivarli tutti da radici personali : p. es. il tar dei nomina
agentis {datar-, òoTrip-, datar- e sim.) che Bopp derivava dalla rad. ver-
bale tar- (sscr. tarami oltrepasso, xépiua, termo, trans), 'oltrepassare',
applicata a significare ' compiere' l'azione (sicché da-tor sarebbe 'quel
che compie il dare'), lo Schleicher io deriva invece dall'abbinamento
dei suffissi ta e ra. Ma il Delbrlick, d'accordo in ciò con Scherer (ed
anche col Corssen , Ausspr., 1', 567-8 n.), preferisce in massima le
derivazioni da radici predicative, impressionato soprattutto dalla de-
rivazione certamente predicativa di certi suffissi tedeschi, -bar, -heit,
-thiim (come il nostro -mente). Deve però convenire egli stesso che
la coincidenza materiale di molti suffissi con radici pronominali è
innegabile; benché gli faccia nodo questo, che tanti diversi pronomi
occorrano in diversi suffissi di significato identico o quasi identico,
e che nulla questi mostrino dal senso speciale dei pronomi (i). —
Accenna, ma naturalmente rifiutandola, l'ipotesi del Benfey, secondo
cui tutti i suffissi sarebbero rifrazioni diverse e molteplici dell'unico
-ant che è suffisso del participio [bharant- cpepovT-, ferent-] e che alla
sua volta sarebbe estratto dalla terza plurale dei verbi [bharanti, qpé-
povTi onde qpépouai, /<^rin?f): ipotesi bisbetica e contraria ad ogni cri-
terio fonologico. Rigetta pure l'ipotesi di Scherer, secondo cui il suf-
fisso tematico -a sarebbe un suffisso locativo , onde bhara- direbbe
'chi è nel portare', quindi 'portante'; la rigetta, perchè un suffisso
locativo -a non è provato; e perchè tanto meno è provato che la de-
clinazione de' nomi abbia preceduto la tematizzazione di essi ; e perché
\] Per es. tra il suffisso che è in òòup-uó(; e il -ma del pronome di
prima persona è innegabile l'identità fonica; e tuttavia elio lapporto
ideologico apparisce tra essi ?
- 342 -
ad ogni modo bhara- direbbe tutt'al più 'nel portare' quindi un
'portamento' piuttosto) e non includerebbe punto il 'chi èl
Vi. Circa il valore primo e l'origine degli esponenti dei Casi,
regna la maggior incertezza. L'esempio delle lingue agglutinanti por-
terebbe a supporre che un segno ci dovess'essere per ogni singolo Caso
indipendentemente dal Numero, e che il Plurale s'indicasse con un
segno unico che s'aggiungesse all'occorrenza a qualsivoglia Caso (i).
Lo Schleicher s'è sforzato di provare che codesto segno della plura-
lità nell'indoeuropeo fosse s (2), ma invano. Si pensi a irobó;, ttoòujv,
padils paddm : e alla stessa varietà dei suffissi d'un Caso anche nello
stesso Numero , p. es. ttoòó^ e iTTTtoio I'ttttou, padds e ócvasja ! Che il
numero dei Casi fosse maggiore in origine, e quindi in uno stesso
Caso ora s'abbiano i ruderi di diversi Casi livellatisi nella funzione ? (3),
Nelle spiegazioni che si tentano di un Caso, si oscilla più o meno
tra due ipotesi: o si vede nel suffisso del Caso un significato prepo-
sizionale o pronominale, o vi si vede un suffisso tematico divenuto
suffisso casuale (4). Ma la difficoltà, più che nella teoria, è nelle sin-
gole spiegazioni concrete; delle quali nessuna soddisfa davvero.
VII. I temi temporali pure dan luogo a dispute, sebben meno
sostanziali. Il tema del presente, p. es., coincide spessissimo con un
(1) PcM" es. iu turco ev è 'casa', ev-ler ' case , ev-den 'da casa o'i-
Koeev), ev-ler-den 'dalle case'. Cfr. Whitney, The Hfe and r/roth of
language, p. 232; della mia traduzione, 282.
(2) Che ò vei'o nell'accusativo plurale: XÓTOU(; = *XoYov-(;.
(3) Anche il Bréal nel citato artic. del Journ. d. 5., p. 038 segg. in-
siste sul concetto che i casi indoeuropei debban raccogliere in sé l'ei'e-
dità di una ben più lussureggiante declinazione originaria; e ne deduce
rimpossibilità che riescano a bene i tentativi di Delbrùck e di altri, di
trovare la originaria e fondamentale funzione di un dato caso, mentre
si sa che ogni caso cumula su di sé la funzione anche di altri casi moi ti
[cfr. il dativo greco] .
(4) In questo secondo modo, per es., alcuni spiegarono il sja del geni-
tivo, paleggiando, mettiamo, il genitivo all'omerica òn.uoio col tema del-
l'aggettivo hiiiuóaioe;; e richiamando perciò alcuni confronti della decli-
nazione pronominale, per es., lat. nostrum, ted. unser = di noi. — Ma
perchè allora il -cj- sarebbe rimasto nell'aggettivo mentr'è sparito nel
genitivo? Il vero è che il genitivo è in sscr. -sja e il suffisso dell'agget-
tivo v'è -tja-, cioè son due cose distinte !
— 343 —
tema nominale (i, : cfr. p. es. àyo-iaev e à^óc,. Ora da questo fatto Io
Schleicher dedusse che cotali temi in origine non siano né nomi-
nali nò verbali, ma indifferenti, come le radici ; il Fick ne ha piut-
tosto dedotto che essi temi sieno primamente verbali, volti poi a uso
nominale; l'Ascoli per contrario, che sien primamente nominali, e
propriamente <i nomina agentis », ed estende la co^a al punto, che
in fondo al verbo vede sempre il nome. La dottrina dell'Ascoli a-
vrebbe dovuto essere più largamente riferita dal Delbriick, nelle cui
parole è appena adombrata.
Accenna alle congetture sui temi deli'aoristo e del futuro, cioè sul-
l'origine dell'elemento sigmatico di essi, e preferisce ancora l'ipotesi
di Bopp, che deriva questo dalla rad. ^5-, a quella dell'Ascoli che vi
trova un suffisso nominale -sa. Rileva, ad ogni modo , il carattere
sommamente ipotetico di tali speculazioni tutte.
Non so perchè il Delbriick non abbia fatta alcuna menzione del A"
del perfetto greco e dei tre aoristi , sul quale v' è un accordo ben
maggiore. Forse non ne trattò perchè è cosa esclusiva del greco (i
perfetti con k che il Corssen credette vedere in alcune voci etrusche,
come turce ecc., sono ben lungi dall'esser provati o probabili!); ma
al lettore, sgomento da tante incertezze su questa specie di questioni,
avrebbe egli portato qualche conforto col fargli sapere o richiamargli,
che Ascoli e Curtius s'accordano nel considerare il -ka di X,éX.uKa ecc.
come un suffisso tematico nominale (2).
VII. Tocca rapidissimamente delle speculazioni fatte sull'origine
(1) La coincidenza veramente appar minore adesso che non paresse
prima quando si credeva che nelT indoeuropeo ancora indiviso non vi
fosse altra vocale che a. Ora che si ritiene anteellenica la differenza
della vocale radicale che è tra qpepai e qpopóc;, evidentemente una diffe-
renza tra cpepo- e qpopo- la c'è. Se non che, io domando, anche se l'in-
doeuropeo ancora indiviso avea già e ed o, non può esso avere avuto in
una fase più antica — quella in cui il suo verbo si formò — la sola a
[bhara] ?
(2) Fu il primo 1' Ascoli ad accennarlo negli Studj Ario-semitici ; e
dipoi il Curtius, senza ricordarsi dell'Ascoli (com'egli avverte nei Grund-
zi'ige, ^61 n,), rimise in campo la cosa, e la lumeggiò largamente nel suo
Verbo Greco (v, a p. 203 segg, del 1° voi,, prima ediz.ì, mentre per il
s dei tempi sigmatici seguita ad insistere sulla compcsizioue con la rad.
as- (v. la stessa opera: II*, p. 245 segg.;.
~ 344 -
dei Modi congiuntivo e ottativo [i Modi obliqui, come li chiama fe-
licemente il Curtius, Griech. Verb., II']. Tocca qualcuna delle diffi-
coltà che stanno contro la tradizionale spiegazione boppiana del ià
od i dell'ottativo dalla radicela- andare; e rimettendo ad altro
scritto la questione, riconosce intanto la possibilità che l'ottativo fosse
in origine un semplice futuro, e che il senso soggettivo del desi-
derio ecc. vi si aggiungesse dopo (i). — Quanto al congiuntivo, il
1; Che è la tesi già da un pezzo sostenuta dal prof. Merlo in questa
Rivista. Il Merlo v'aggiunse anche una nuova interpretazione e specifi-
cazione della dottrina (troppo concisa epperò facilmente frantesa) dello
Schleicher, cioè che il jà sia in fondo quella radice pronominalo da cui
derivò il pronome relativo, aggregata al tema vei'bale nel senso avver-
biale di ' là, un giorno, olim \ accennante a tempo futuro. Allo stesso
modo r a del congiuntivo sarebbe per il Merlo un'altra radice pronomi-
nale in funzione avverbiale, nel senso di ' qui, fra poco '; e così il con-
giuntivo sarebbe un futuro più prossimo dell'ottativo, anche al qual fu-
turo si sarebbe aggiunto poi il valore soggettivo di deliberazione ecc.
ln.somma il congiuntivo ayuj {^= *aqa-a-nii ■=. conducente — frappoco
— io) e r ottativo «yoii^i (= '^aga-jà-mi z^ conducente — un giorno —
io), avrebbero significato dapprima semplicemente 'condurrò ora' e
'condurrò poi', e quindi: ' fia ch'io conduca; ch'io conduca' e 'fosse
ch'io conducessi; condurrei '. — Codesto genere di speculazioni e di con-
getture sopra, quasi direi, le prime cellule della granomatica ariana, la-
sciano sempre il lettore molto perplesso ; ma non è che le proposte e i
raziocini del prof. Merlo abbiano nulla di particolarmente arrischiato o
di pili arrischiato che molte altre congetture, le quali si vanno tuttora
ripetendo in simil soggetto, e metton capo ai più venerali maestri della
nostra scienza. Ma nocque ai lavori del Merlo, ai quali io accenno, l'an-
datura troppo concitata e farragginosa, la esuberanza delle citazioni, e
qua 0 là un po' di prolissità: la mancanza insomma di quella misurata
sobrietà, la quale, buona e bella sempre, era qui più che mai necessaria,
trattandosi di superare con un eccesso di virtù nella esposizione le molte
diffidenze che naturalmente suscitavano e il soggetto trascendentale e la
gioventù dello .scrittore. Che del resto sarebbe ingiustizia disconoscere
che anche in quei primi lavori non apparisse già chiaramente molta e
sicura coltura generale, copiosa e precisa dottrina speciale al soggetto,
ingegno acuto e svelto, animo gentile e modesto. — E così del Merlo si
potesse ancora dire: tenet mine Parthenopel Purtroppo Ticinenscs ra-
puere, con molto loro vantaggio, e con altrettanto rammarico di noi
partenopei ; i qua^i sopportiamo questo ratto con una rassegnazione che
rassomiglia a quella di Brabanzio, allorché diceva al moro: / here do
give thee t\at ìcith ali my heart, Which, bui thou hast already,
tcith ali my heurt I would heep from thee [Oth.^ I, 3).
— 345 —
Delbrlick inclina sempre, benché con minor risolutezza che non fa-
cesse nelle sue Ricerche Sintattiche, all'opinione del Curtius, che esso
sia originariamente un semplice indicativo, cioè tra due forme d'un
indicativo la forma più piena (i), venuta perciò ad assumere un
senso più durativo, dal quale il senso di congiuntivo sarebbe
derivato.
IX. Quanto alle terminazioni personali, egli riconosce che la loro
connessione coi pronomi, se è abbastanza chiara per il singolare e
per la prima e seconda plurale, non lo è del pari per la terza plu-
rale e per il duale. Anche, del resto, l' equazione si = tva- , che non
è punto impossibile, importa però tal mutazione fonetica, di cui si
vorrebbe avere altri esempì nella lingua madre per ismettere ogni
perplessità intorno ad essa. Quanto poi allo n/z della 3» plurale [bhd-
ranti, q^épovri, cpépouai ecc.) non è soddisfacente né la spiegazione
simbolica, già citata, del Bopp , né quella compositiva del Pott
[nti ^ na -{- ta radici pronom.); e d'altronde, poiché la 3» plur. ha
col participio presente una somiglianza che colpisce, non si può non
guardar di buon occhio l'ipotesi di Ascoli e Brugman , secondo cui
bisognerebbe dividere bharant-i , cioè: tema del participio, più un i
desinenziale verbale ricavato dall'analogia del singolare (^/zar^f/ ecc.).
E delle desinenze mediali non si può dir nulla di sicuro, se non
che somigliano e son certamente coordinate alle attive. Ma se |aai,
aai ecc. siano |ua-|ni, 0a-CTi ecc., o siano un 'guna' di |ui, ai ecc., non
è punto chiaro.
Nulla dice il nostro autore della controversia che v' è intorno alle
terminazioni -uu, lat. -o, dei più dei verbi greci e latini. Corse prima
il concetto che qpépuj fosse tronco da un *cpépuj)ui pari al sscr. bha-
ràmi; poi, ritenuto specificamente asiatico l'allungamento della vocale
tematica, si pensò che cpepiu e fero siano un *bhara-mi originario ri-
dotto a *bharam , *bharav , *hhàraii (cfr. òktu) = ashtàu ssc.) più o
meno europeo (Ascoli, St. Cr., II, Di un gruppo di desinenze ecc.);
ed ora finalmente vien prevalendo 1' opinione dello Scherer, secondo
cui *bharà (q)épuj) ecc. sarebbe la forma prima e vera della prima per-
(1) Per es. io|uev è congiuntivo rispetto a l'uév, come cpépuu,uev rispetto
a (pépo|uev.
lijvista di filologia ecc., X. 2 3
— 346 -
sona singolare dei verbi del tema in -a, la quale avrebbe solo po-
steriormente assunto in sanscrito e zendo il -mi per influsso
analogico dei verbi in -ini come asmi, addami ecc. (i).
X, Regnando tanta incertezza nelle singole ipotesi che si fanno
per spiegare le singole forme, non possono sottrarsi ad altrettanta
incertezza le ipotesi più complesse e generiche circa l'ordine onde le
varie forme della flessione sian nate, circa i vari strati di formazione
della lingua madre indoeuropea. Il Delbrìick resta perplesso avanti
al bel lavoro del Curtius su coJesto argomento, e alle ipotesi dello
Scherer, e alle connessioni aculamente rintracciate dall'Ascoli tra
r ario e il semitico. Conclude che tutta questa parte più sublime
della scienza né si può sopprimere del tutto come vorrebbero i po-
sitivisti della linguistica, né può ridursi a una certezza apodit-
tica che dissipi ogni dubbiezza.
Nel sesto capitolo — che è assai bello, nonostante quel troppo la-
sciare e ripigliare certi argomenti che in esso s'avverte anche più che
negli altri — il nostro autore ritorna sul soggetto già toccato nel
capo quarto, cioè sulla rigidità che si debba attribuire alle leggi fo-
netiche, sulle cagioni onde le alterazioni fonetiche muovano, sulla
forza che si possa ascrivere agi' influssi analogici nel perturbare le
dette leggi, insomma su tutte quelle questioni metodiche a cui
si riferiscono le sentenze che oggi con molto sussiego si vanno ban-
dendo dai COSI detti neogrammatici. Per questi il Delbrìick
ha un'evidente propensione; la quale però non gli turba la piena li-
bertà-dei giudizio, né lo distoglie dall'esser giusto verso i così detti
grammatici vecchi. Difatti egl' incomincia dal difendere il Curtius
dagli assalti dei giovani, mostrando come l'onorando professore di
Lipsia sia stato dei primissimi a voler rendere più rigorosa la fono-
logia e a riconoscere l'efficacia dell'analogia. Discute poscia il prin-
cipio propugnato dal Curtius e dal Whitney, che le mutazioni fone-
tiche siano logorìi e facilitazioni di pronuncia derivanti dalla pigrizia
umana che spinge a cercare la maggior comodità, la maggior economia
di forza nell'atto dell'articolazione. Che se il Curtius intende questo
principio in un senso troppo esclusivo, quasi che la comodità pro-
(1) Vedi ScHMiDT, art. cit., p. 7; Bréal, art. cit., p. 043 seg.
— 347 —
vochi sempre suoni più deboli e più dolci (i), nel qua! senso il prin-
cipio non è vero, e riuscirebbe<subito insufficiente a spiegare tutti i
fatti fonetici ; ei si può invece, intendendolo in più iato senso, spin-
gerlo, mi pare, lino ad estremi limiti, e farlo bastare a spiegar quasi
tutti que' fatti ; perchè si può dire: — se un suono più debole si muta
in uno più fjrte per via di adattamento ai suoni vicini, questo rin-
forzo essendo effetto d'assimilazione è perciò efletto di studio di co-
modità; e la maggior forza può essere in dati casi più comoda del
rilassamento; e l'armonia stessa è comodità; — la comodità è cosa
relativa: per un popolo il suono A più forte è men comodo, ed esso
quindi l'indebolisce nel suono B ; per un altro popolo il suono più
debole B è più incomodo epperò Io rinforza in A. — Eppure e' si
arriva in ultimo a tali mutazioni fonetiche che col principio della co-
modità non si spiegano. La ' Lautverschiebung ' per esempio! Applico
ad essa il principio della comodità, per mostrare a che assurdi si
riesce per tal via.
Il d greco-latino, p. es., diventa t in inglese {duo: hvo] perchè
pegl'Inglesi il d è men comodo del t, ma il i stesso però è
pegl' Inglesi men comodo del tli perchè essi mutano il / classico in
th [tu: thoii), e il th finalmente alla sua volta è per loro men comodo
del d perchè mutano il th classico in d (0e-: do); che è come dire
che il <i è più comodo del th, che è più comodo del /, che è più co-
(1) Il Delbrùck adduce alcune applicazioni del Curtius (che forse nella
quinta edizione dei Grundzuge questi ha smesse, poiché non l'iesco a
i-itrovarcele): che cioè il suono che si profferisce nella parte più interna
della bocca si carabi volentieri in un suono più innanzi, ma non vice-
versa, sicché p sorga da k , ina p non si farebbe h. Ma invece si fa,
all'occorrenza; come p. es. nel napol. chiù ^z più ; e come il t si fa fa-
cilmente k nei gruppi il, cr, fin da epoca romana, nel latino e nelle fa-
velle che ne deiivano [craindre -^ tremeve, ecc.). Né si reggel'altra ap-
plicazione che le esplosive si mutino in fricative ma non viceversa: basta
solo ricordare, nel campo neolatino, gl'it. crebbi, cono&6i = crevi, co-
finovi , gli abruzzesi e sannitici 'mpaccia in faccia, 'mponne infondei-e
(per 'bagnare'), e l'it. zampogna =:symphónia, e gli spagnuoli dipioìigo,
cue'tiano = cophinus, e gl'it. nerbo, corbo, e le serie ^l'd, (/iovane ecc.,
da jam, juvenis, ecc., e il tipo gabbia := cavea, e rado = raro , arma-
dio := armarium, il friulano roda m rosa, ecc. E il Curtius stesso ha ac-
cettata la mutazione di oa in tt voluta dall'Ascoli. Cfr. anche Stiidj
Crit., II, p. 517, Indice, s. ' AfRevolimenti progressivi '.
— 348 —
modo del d; o insomma il i è pegl'Inglesi (cioè pei loro progenitori
germanici) il più comodo e il più incomodo dei suoni! Veramente,
questo circolo vizioso si può forse rompere. L'Ascoli inclina a cre-
dere che l'evoluzione della aspirata classica in media inglese o gotica
si debba intendere diversamente da quel che si suol fare: invece di
prendere a termine di confronto l'aspirata sorda greca, si prenda l'aspi-
rata sonora indiana e protoariana: si confronti l'inglese do non con
e€(Ti0r|)ni) ma con dhà {dddhàmi); e allora la detta evoluzione si ridurrà
a semplice perdita dell'elemento aspirante, del /;, quale ha luogo non
solo in germanico, ma anche in lituslavo, in celtico, ecc. [Lingue e
Nar^ioni, p. 86", Corsi, p. i54-5 n.). Di veramente germanico, dunque,
non rimarrebbe che questo: t da d, th da t ; le quali due evoluzioni
rappresenterebbero un cgual grado di rinforzo, d' « incrassimento »;
ossia tanto più forte è th rispetto a t, quanto ù t rispetto a d\ sicché
dal gotico tunthus al sscr. dantas ci sarebbe «equidistanza» in quanto
alle mute [Lingue e Nazioni, p. 86). — Sennonché, se noi dal primo
stadio della rotazione delle mute, cioè dallo stadio gotico, inglese,
bassotedesco, passiamo allo stadio altodesco, il circolo vizioso ci si
ripresenta. Difatti in questo secondo stadio, d gotico-inglese [do fare)
diventa t in tedesco [tun, o con 1' abusiva ortografia che corre: tliun),
e il th (ingl. thou, three...) diventa d [du,drei), e t '[ìn^ì. tyvo, gotico
masch. tvai) diventa th e per esso ^ (ted. pvei). Or, se noi poniamo
che t sia sostituito anche qui , come nel primo stadio , a «i , perchè
più forte o crasso di esso d, e che th [;[) sia anche qui come nel
primo stadio sostituito a t perchè più forte o crasso di esso f, ci resta
poi che d sarebbe sostituito a th come più forte o crasso di th] ossia
che d sarebbe da un lato più crasso di quel th, che pure è più crasso
di t, e dall'altro sarebbe men crasso di t (i). La contradizione è an-
cora più evidente nella 'Lautverschiebung ' armena, dove, p. es., in
Dikran rispetto a Tigranes la tenue si fa media e la media si fa
tenue ; sicché si dovrebbe dire che la tenue è più comoda della media
(1) Si può rappresentare la cosa con queste tre ' ineguaglianze ', che
nessun algebrista accetterebbe :
d > th
th > t
«> d.
— 349 -
e viceversa ! Che se credessimo di risolver la questione, dicendo che
si tratta di una comodità relativa perchè l'organo vocale di quel po-
polo trova più comoda la tenue là dove dovrebbe profferire la media,
e viceversa, dovremmo poi convenire che appunto questo quasi 'spi-
rito di contradizione ' della glottide è quello che non intendiamo,
e che ci ricorda il 'natura abhorret a vacuo' degli scolastici. La
lej;ge di Grimm objettivamente è chiara, bella, simmetrica, è un
trasporto musicale « che non turba l'a r m o n i a » come ha detto
l'Ascoli (in questa Rivista, X, 5 1-2 n.); ma una ragion sufficiente su-
biettiva, psicologica o fisiologica, non se ne trova. E la ragione della
comodità qui più che mai è insufficiente.
Non so se queste mie osservazioni parranno acconce. Quelle di
Delbriick mi son parse qui, contro il solito, languide e indecise.
Così pure egli mi pare che ondeggi troppo tra l'ammettere che le
alterazioni della pronuncia comincino da un individuo o da pochi,
e da questi si estendano agli altri, ed il riconoscere che l'efficacia
dell'individue non può esser molta, in ispecie trattandosi di pronunzia
e non di vocaboli. Assai meglio lo Schuchardt, con quella sua ar-
guzia piena di senno, scrisse nel ' Vokalismus ' che le mutazioni fo-
netiche son come le rivoluzioni politiche : cominciano quasi contem-
poraneamente in vari punti qua e là, finché dopo un poco tutto il
paese è in fiamme; ben inteso se la rivoluzione è matura e non è
una bizzarria locale o personale. Ricordo intanto le osservazioni giu-
stamente ironiche dell'Ascoli intorno alle ipotesi delle ' spinte indi-
viduali' (in questa Rivista., X, 45-6).
Rileva il Delbriick come nella pronunzia essendoci molto d'incon-
sapevole, ci debba quindi essere una specie di forza irresistibile nel-
l'alterazione dei suoni. E perciò la legge fonetica non debba a rigor
di termini patire eccezioni. E se queste appajono, devano essere ef-
fetto di certe speciali correnti che perturbino 1' azione della legge, o
di cause affatto particolari alla singola parola. Dalla coscrizione, se
il paragone mi è concesso, delle leggi fonetiche, vi posson esser pa-
role esenti per legittimi motivi, non refrattarie per renitenza capric-
ciosa. Certo che come più la fonologia progredisce, più il campo
delle eccezioni inesplicabili si restringe, sempre più si vengono a rin-
tracciare le ragioni perchè una voce o una serie di voci si sottragga
alla legge ; donde nasce la presunzione che anche sotto alle eccezioni
apparentemente capricciose siavi una ragion sufficiente, quantunque
— 350 —
nascosta, forse per sempre, agli occhi nostri. Soprattutto la fonologia
romanza, — perchè tratta lingue viventi, nelle quali è ancora in
parte vivo il sentimento delle ragioni che ne determinano i fatti sin-
goli, e dove si scerne meglio ciò che è indigeno da ciò che è im-
portato, e le correnti dotte perturbatrici dalle correnti schiettamente
naturali; lingue che partono da una lingua madre ben nota, qual è
la latina, non già ricostruita per sforzo d' induzione come la pro-
toariana o la protogermanica, e insomma si sono svolte suppergiù
sotto gli occhi della storia, — ha fatto un continuo progredire nella
dichiarazione delle leggi e dei casi eccezionali; e qui da noi l'Ascoli,
e tra i giovani il Canello, hanno lavorato da più anni in questo
senso, senza averne presa l'imbeccata da nessun neogrammatico.
Quanto alle cause perturbatrici delle leggi fonetiche, il Curtius ne
rilevò soprattutto due. L'una è che i suoni e le sillabe portatrici di
un dato significato formale son più restie a sparire e resistono quindi
alla tendenza fisiologica che le vorrebbe soppresse; così, dice il
Curtius, il i tra vocali spariva in greco (pel tramite di j), come si
vede nei verbi in -auj ecc. e ne' genit. in -oo -ov (= oio), ma resistè
in òoii-|v, in Xéfoiev e simili, poiché ivi il significalo d'ottativo punta
giusto sul i. No, dice Delbriick , tali voci han serbato il i per sem-
plice simmetria con boì|uev, òoìxe ecc., dove il i è avanti consonante e
non poteva sparire. Ma tra il concetto suo e quel del Curtius e' è
meno differenza, mi pare, di quello egli vorrebbe: c'è un punto ul-
teriore ove i due concetti coincidono, ed è che insomma se òoiriv ecc.
non perde il i, gli è perchè non è una parola isolata bensì una forma
grammaticale che fa sistema con altre. Del resto, io non direi col
Delbruck che nella coscienza dei parlanti non vi sia più il ricono-
scimento di ciò che un suono o una sillaba importi per una data
forma. Non vi sarà il ricordo del valore originario di quel suono o
sillaba, e del come sia venuto a significare quel tempo o modo o
caso ecc.; ma la coscienza del suo valore attuale c'è : altrimenti la
llessione non esisterebbe. In a]'rci V italiano non riconosce più che
r -ci è ebbi, ma sente che su quest' -ei poggia la condizionalità, per
così dire, di quella voce verbale ; e così in cresca egli sente che il
congiuntivo è tutto afiidato all' a. Del pari il greco non ricordava
più che in òo-ùi-v vi fosse un jà radice verbale o pronominale o che
altro si sia, ma sapeva che quelT -in- caratterizzava l'ottativo, come
il -9iv caratterizzava l'aoristo passivo. — L'altra causa perturbatrice
- 351 —
è l'analogia, e il Delbrlick ne tratta a lungo e giudiziosamente , am-
mettendo che bisogni riconoscerla più largamente che non si solesse
fare in passato, ma insiem rilevando, come s'è già detto, che i vecchi
linguisti le avean già fatta ampia parte, e così riprovando implicita-
mente le esagerazioni dei grammatici giovani (cui ora tengon dietro
i 'giovanissimi'; e, chi sa, tra poco anche i puerili). Alle quali io
non vorrò consacrar troppe parole, specialmente dopo le efficaci
quanto temperate osservazioni dell'Ascoli in questa stessa Rivista (X).
Ho sempre, e'i tk; koì d\Xoq, creduto che « la scienza non progredisce
solamente per vere e proprie scoperte, ma anche per il rilievo nuovo
che un nuovo ricercatore dia ad un punto riconosciuto ab antiquo,
e per la luce abbondante che egli getti sopra un lato rimasto prima
come in penombra » (i); e quindi non posso voler negare ai neo-
grammatici quella lode che loro spetta per aver mostrato più di pro-
spetto una faccia della scienza che finora si vedeva più di profilo. E
ho pur sempre creduto che il movimento della scienza sia rappre-
sentabile da un 'parallelogramma delle forze ' dove a far procedere
la scienza nel senso della risultante contribuisca non solo l'opra
dei dotti temperati che la tirano più o meno in quel senso appunto,
ma altresì quella degli eccessivi che si sforzano di tirarla nel senso
delle componenti (2). È legge di natura codesta. Sennonché è
anche legge di natura che l'arroganza provochi un disgusto che non
si può del tutto dissimulare. Tra quelli che aderiscono più o meno
alla nuova scuola vi sono ricercatori esimi; e, p. es., il Leskien e
Gustavo Meyer avranno ammiratori più competenti assai ch'io non sia,
ma più caldi certamente no. Sennonché non mancan tra loro quei che
ci parlano quasi di una « instauratio ab imis fundamentis » che sia da
fare dell'edifizio innalzato dai vecchi linguisti, e si danno l'aria d'aver
inventata la polvere, mentre essi tutt'al più tirano verso un punto
bersagliato finora un po' meno del dovere, con un fucile che i vecchi
han messo loro in mano, e col quale più volle essi giovani falliscono
il colpo scottandosi le dita! Una, p. es., delle grandi massime loro
è, che le condizioni naturali del linguaggio umano si verifichino
(1) Da un mio volume di Saggi Critici, a p. 518.
(2) Si veda, 0 meglio noa si veda, uà mio proemietto alla traduzione
del citato libro di Whitney.
— 352 —
meglio studiando un dialetto vivente che un vecchio idioma letterario
giunto a noi in monumenti scritti. Ma, lasciando da parte il Grimm ecc.,
si potrebbe domandare a quei fieri dialettofili (non so se anche dia-
lettologi) se, p. es., credono che quella massima debba essere incul-
cata anche all'Ascoli, uno dei vecchi grammatici, il quale interrom-
peva i Corsi di Glottologia per i Saggi Ladini e per tutto « quel che
è poi aggiunto ». I neogrammatici dovrebbero specchiarsi in un
esempio moralmente buono, nel modo cioè che tengono i cultori della
glottologia romanza, i quali, intesi tutti a correggere, ad aumentare le
dottrine di Federico Diez loro maestro, son però sempre ben lontani
dall' atteggiarsi a riformatori davanti a lui. Né ne mancherebbero i
pretesti. Lasciando i molti errori di fatto e di criterio che tutti oramai
notiamo nella Grammatica e nel Vocabolario del grand'uomo, ci sa-
rebbe anche, volendo , da ingrossar la voce per certe parti del suo
metodo in genere. 11 Diez si fermò sulle lingue letterarie, e sui dia-
letti die magri cenni; e non solo non si prese la briga di girare un
po' i paesi neolatini per erudirsi sopra luogo delle parlate neolatine,
ma neanche spogliò tanti scritti in dialetto che sarebbero bastati per
cavarne altrettante grammatiche dialettali; sicché, p. es., di certi fatti
fonici o morfici o lessicali, che son subito avvertiti da chiunque di-
mori qualche giorno a Napoli, o legga un brano della copiosissima
non dico ricca) letteratura napoletana, il Diez alle volte non ne sa
se non quel pochissimo che se ne può cavare da una poesia ducen-
tistica dì scuola meridionale. Eppure, mentre c'ingegniamo juro viribiis
di fare quel eh' ei non fece, tutti, dai più gagliardi ai più umili,
riconosciamo che egli non poiea fare altrimenti né di più; che ab-
bracciando un campo più vasto lo sguardo e la lena non gli pctean
bastare ; che era naturale cominciasse dalle grandi lingue letterarie
che più premeva dichiarare. Ma forse questa riverente discrezione
verso « il grandissimo dei romanisti » proviene da ciò, che c'è ancora
molto da fare nel campo romanzo, e non c'è quindi bisogno di far
rodomontate per chiamar l'attenzione sopra di sé; mentre il campo
indoeuropeo, coltivalo da tanti robusti cultori, e in tutti i sensi, non
facilmente dà luogo a esuberante messe di vere novità.
Ma lasciamo gli analogisti e torniamo all'analogia (i). Sulle tracce
(1) Dice il Delbrùck che non si sa bene se anche la parte tematica
d'una parola possa subire qualche modificazione fonetica per influsso aua-
- 353 —
del Misteli il Delbriick enumera le varie categorie di analogie possi-
bili, e manifesta un temperato desiderio che sia fatta una classifica-
zione e un'esemplificazione più compiuta dei fenomeni analogici,
perchè serva di norma ai ricercatori. Il mio desiderio , lo confesso,
è anche più temperato del suo; poiché cosiffatte collezioni non sono
molto di più che belle curiosità scientifiche, piacevoli a leggersi e
onorevoli per chi le fa bene, ma di poco effetto sul criterio metodico
dello scienziato; il quale più che altro ha bisogno di naturale senso
del probabile e del possibile per decidere volta per volta, quando si
imbatte in certi casi, se sien determinati da analogia e come.
Una specie particolare di eccezioni fonetiche sono i così detti dop-
pioni o forme allotropiche. Alcune di esse si spiegano con ciò che
una forma è popolare, l'altra è letteraria, come, p. es., padrone epa-
troìw; o una indigena, l'altra importata, come graticola e il france-
sismo griglia (entrambi da craticula); le quali spiegazioni , che ri-
sultano facilmente evidenti nelle lingue moderne , son difficili ad
applicare alle antiche. Altre volte la spiegazione è invece in questo,
che una voce, tenuta in riga dalle voci della stessa stirpe in quanto
la si usa come voce libera {grato , influito da gratitudine ecc.), si
abbandona meglio all' alterazione quando è incastonata rigidamente
in una frase fissa, dove perde il suo vero e vivo significato [grado
in 'saper grado', 'malgrado'). O accade il rovescio, come si vede nei
latini quaeso e qiiaero. Ma altre volte i doppioni sono solamente ap-
parenti. Il Curtius, p. es., spiegava il doppio accusativo jLieiZIova ,
ineiluj (i), così: che la forma madre *|Liei2;ov(j-a (cfr. sscr. mahìjdns-am)
si sarebbe sdoppiata, facendosi, colla soppressione del a, |u£iZov« (cfr.
gen. firivòi; = mensis , xnvó<; =: anseris , e colla soppressione del v,
logico di una parola correlativa. In fondo al volume, poi, fa una specie
di rettificazione, ricordando che la Michaelis ha osservato come l'ita-
liano greve (e grieve] debba il suo e per a all'attrazione del suo anti-
tetico lieve. Ma questa osservazione è già fatta dal Diez fin dalla se-
conda edizione almeno della Grammatica (1856, voi. 1, Vocali latine, A);
non so se fin dalla prima. Io poi ci ho aggiunto melo (malum) fatto su
pero [Arch. Gì., W, 147). E T Ascoli da un pezzo ha notato che in molte
parlate più o meno italiane i riflessi di péjus mostrano una vocale to-
nica che supporrebbe un' <? breve (compreso 1' ital. peggio con e aperta ,
per influsso di mclius. E altro ancora si potrebbe aggiungere.
(1) Perchè il Delbrùck ragiona sui genitivi jaeijovot; |U€ÌZ:ou; ? Dov'è
questo genitivo in -ouq?! — Cfr. G. Meyer, Gr. Gr., p. 269.
- 354 -
*[xi\Zoaa *|ueiZoa lueiZuu. Il Delbriick respinge questa biforcazione per
una questione di principio; che la nuova scuola giustamente ripugna
ad ammettere che una forma si biforchi così nello stesso linguaggio,
applicando due leggi fonetiche diverse. La forma jueiZuj, dice il Del-
briick, è la vera continuatrice della forma originaria (*ne\Zo[v']aa); e
lueiZova sarà una forma analogica plasmata sul nominativo ineiZoiv.
Cosi respinge pure che una legge fonetica si possa verificare in una
serie di parole, lasciandone immune un'altra, senza ragioni speciali.
E tocca un'altra questione. Quando un suono si muta in un altro,
si muta dappertutto di punto in bianco, o si oscilla per un certo
tratto di tempo tra il vecchio e il nuovo ? L'oscillazione ci dev'essere
di certo, massmie se si noti che in ogni comunanza, per quanto pic-
cola, v' è sempre un certo numero di 'conservatori' più tenaci in
quanto a pronunzia, i quali cedono a poco a poco, e spesso non ce-
dono se non perchè se ne vanno da questo mondo.
In conclusione, han ragione i novatori quando gridano che le leggi
fonetiche non patiscono eccezioni? Lasciando da parte le pronunzie
antiquate , le forme fonetiche di non indigene penetrate da un dia-
letto in un altro , e le forme letterarie , e restringendosi a quelle
forme che sono veramente e attualmente proprie e native d'una data
parlata, e tra queste stesse eliminate quelle eccezioni che son deter-
minate da influssi analogici, o da condizioni particolarissime della
parola [spinta assimilativa, dissimilativa, ecc.), e tanto pili eliminate
quelle eccezioni che costituiscono una intera serie, cioè una sub-legge
fonetica; — in tutto quello che resta si ha la legge fonetica a verificare
in un modo assoluto, come dicono, infallibile? Certamente che sì.
Ma intendiamoci bene ; a rischio di cadere in qualche ripetizione.
Questo può essere un postulato; il quale ora noi poniamo, da un lato
perchè l'esperienza particolare della fonologia ci ha mostrato che
come più essa acuisce lo sguardo più le eccezioni capricciose si dile-
guano e scemano, e dall'altro perchè un'esperienza più generale della
stessa natura umana ci ha condotti a negare che le azioni degli uo-
mini procedano veramente da 'libero arbitrio'. La legge fonetica
non è inesorabile e fatale come una legge fisica, poiché il linguaggio
è opera della volontà ; ma appunto la volontà non opera se non d e-
terminata da motivi fi). Ciò è vero della volontà individuale
(I) Sarebbe un lavoro curioso da fare questo: raccogliere tutti i passi
— 355 —
non meno che della volontà sociale, collettiva; ma i motivi che
muovon quest'ultima devono in massima esser più forti, più logici,
più facili a scoprire, a rintracciare. Ora il linguaggio è giusto opera
della volontà collettiva, e consta quindi di atti di cui in parte si ve-
dono, in parte s'intravvedono, in parte si vorrebber vedere i motivi.
E il fonologo adesso è determinista; egli è persuaso che, quando in
certe parole la volontà non cede al solito motivo fisiologico da cui
nelle altre parole essa è tratta a modificare un dato suono in un dato
modo, deve ella a una tal ribellione essere indotta da un altro mo-
tivo, o pur esso tìsiologico, o psicologico; e la fonologia progredisce
sempre in quanto riesce e a capire il motivo della legge, e a indo-
vinare i motivi delle eccezioni. Il non potere adunque la legge to-
netica subire eccezioni capricciose , può essere , dicevo, un postulato
ragionevole; e il riuscire a spiegare, a motivare tutte le eccezioni,
anche le apparentemente capricciose, può e deve essere il nostro
ideale scientifico. Ma che poi questo ideale sia già raggiunto , o sia
pur raggiungibile, è un tutt'altro conto. Che la ineccezionalità asso-
luta delle leggi fonetiche sia un teorema pienamente dimostrato, un
fatto positivamente liquidato, da proclamarlo trionfalmente, è una
presunzione peggio che ingenua; e le applicazioni che taluno n ha
di scrittori sommi o insigni, i proverbi e le sentenze popolari ecc., in
cui si trovi inconsciamente professato e attestato il determinismo, che
pure a molti fa ancora paura. Io ne noto qui due. L'uno è il primo ter-
zetto del canto quarto del Paradiso di Dante;
« Intra duo cibi, distanti e ìnozenti
D'un modo, prima si morria di fame.
Che liber uom l'un si recasse ai denti ».
Non è un'ironia quel 'libero' attribuito ad un uomo che obbedisce
talmente al motivo, da non risolversi più ad operare quando i motivi
«.liversi sien due, e così eguali che nessuno preponderi? L'altro luogo è
nel Romanzo del Manzoni, là dove Agnese, lamentatasi di don Abbondio
presso il Cardinale, a questo che promette di rimproverare il curato,
risponde: a No signore, no signore; non ho parlato per questo: non lo
gridi, perchè già quel che è stato è stato; e poi non serve a nulla: è
un nomo fatto così: tornando il caso farebbe lo stesso » (cap. XXIV).
Qui il naotivo determinante è un motivo costante, è il temperamento.
— 356 —
fatte sono un bel saggio di precipitazione (i). Quella proclamazione
cosiffatta mi ricorda un poco quella che noi Italiani facemmo il 1861
di Roma capitale, sicché perfino nei nostri manuali di geografia per
le scuole si trovava scritto molto tranquillamente: Italia, capitale
Roma ! Dove però occorre una differenza notevole, e tutta a danno
dei neogrammatici ; cioè che l'unione di Roma all' Italia era final-
mente un fatto possibile, sebbene non ancora avvenuto; tanto possi-
bile che dopo nove anni divenne una realtà; laddove, che la scienza
riesca mai a sgroppare tutti i nodi che le si presentano, è cosa pra-
ticamente impossibile. La sistemazione piena e precisa di tutti i fe-
nomeni che noi studiamo è solo il limite, direbbe un matematico, a
cui noi ci avviciniamo indefinitamente senza raggiungerlo mai I
Il Delbrlick in questo stesso capitolo sesto, sul quale abbiam troppo
e troppo male ricamato per conto nostro, tratta pure della questione,
se il clima infiuisca nel determinare le caratteristiche fonetiche dei
singoli linguaggi. Prima, a questo influsso si credeva molto, poi
venne lo scetticismo; ma ora tra i più zelanti novatori v' è chi ri-
parla del clima. Il D. resta perplesso, poiché, dice, mentre da un
lato « un influsso del clima sugli organi vocali, come su tutto il
corpo, non può mancare, dall'altro si dovrà pur concedere che i fi-
siologi non hanno osservato tale diversità degli organi vocali che
possa chiarire le differenze di pronunzia dei singoli suoni ». Ma può
slare, io direi, che il clima non influisca al punto da modificare la
costituzione anatomica della laringe ecc., bensi faccia risentire i suoi
efletti sulla funzione, sul modo di operare degli organi vocali.
Certo è, che per quanto i nostri vecchi eccedessero con quel loro ri-
tornello della mollezza delle lingue meridionali e della durezza delle
nordiche, e per quanto la scienza nostra abbia verificato che anche
il nord può presentare afficvolimenti di suoni, e il sud può darci
degl'indurimenti di essi, e per quanto gl'influssi del clima possano
essere neutralizzati od oltrepassati da una forza ben più potente, qual
è la tradizione idiomatica della razza; tuttavia qualcosa di vagamente
vero l'abbiam da riconoscere anche noi oggi. O il vocalismo, p. es..
(1) Uua di esse è esaminata dall'AscoLi in questa Rivista (X, 12segg.);
e un'altra da Sch-MIDt nel citato lavoro [KZ., XXV, 3 segg.), precorso
in ciò dairAscoLi (St. Crit., Il, 254-5).
— 357 —
pieno e limpido dell'italiano, dello spagnuolo, del greco, rispetto al
vocalismo ridotto, scarno, e spesso turbato, della Gallia, dell'Anglia,
della Germania , s'avrà a dire indipendente dalla ragion dei climi ?
Sennonché i fenomeni di origine presumibilmente climatica sono tal-
mente intrecciati con quelli di provenienza etnologica, che è un'im-
presa poco men che disperata il volere nella trama d'un linguaggio
distinguere i primi fili dai secondi, e peggio il voler fondare sopra
il fatto del clima le divisioni delle lingue.
Dell'ultimo capitolo del nostro autore s'è già fatto cenno più sopra.
Non mi resta se non da confessare il mio stupore per lo scetticismo
che egli mostra avanti alla affinità speciale tra il greco e il latino.
Le prove per questa si riducono, secondo lui, al comune possesso di
nomi femminili di 2,^ declinazione {pinus, òòó<;), e alla comune limi-
tazione dell'accento alle tre ultime sillabe della parola; e anche queste
due dopo le revoca in dubbio e le fa sfumare! Mentre si tratta di
tante conformità specifiche tra greco e latino, e d'una comune aria
di famiglia di un'evidenza intuitiva e immediata! Lavoro utilissimo
e non molto agevole farebbe chi raccogliesse metodicamente e va-
gliasse tutte le conformità e disformità che sono tra le due gramma-
tiche e i due lessici dei due grandi popoli dell'antichità. Ma, anche
prima che un tal lavoro sia fatto, non si possono chiudere gli occhi
alla luce del vero (i).
Le troppe parole spese su questo bel libro mi costringono a dirne
poche sulla traduzione, — buona, com'era da aspettarsi, sott'ogni ri-
spetto, — che ce n'ha fornita il prof. Merlo. Che se l'opra di questi
è stata non poco agevolata dalla limpidezza dello stile dell'originale
tedesco, d'altro lato essa è stata resa più difficile da ciò, che il Merlo
ha dovuto, per ragioni che non importa dire, sbrigarsi della tradu-
zione in pochissime settimane, e per di più non ne ha potuto neanche
rivedere le prove di stampa. Se però egli avesse avuto più agio, ne
(1) Vedi su ciò l'AscoLi in questa Rivista (X, 52).
— 358 -
avrebbe fatte sparire alcune poche scabrosità e parecchie sviste che
ora qua e là la macchiano. Anche così com'è, può riuscire utilissima
agli studiosi; ed è una nuova prova della perizia del Merlo nel te-
desco e neir italiano e nella scienza glottologica. Ma è pur vero che
questa traduzione è paragonabile ad un bello e onesto viso, che avea
bisogno semplicemente d'esser lavato.
Farò alcune osservazioni sulle prime dieci pagine. — A p. i dice:
« Jones, che fa il primo presidente di una società per le ricerche
« asiatiche, sorta a Calcutta fin dal 1786, si esprimeva a questo pro-
« posito nel modo seguente »; mentre son le parole di Jones che ri-
salgono al ijSb: la società asiatica fu fondata il 1774, se mal non
ricordo; difaiti il testo dice. « ...batte... der erste Priisident einer
« in Calcutta zur Erforschung Asiens gestifteten Gesellschaft , sich
« ijber diesen Punkt schon 1786 folgendermassen geiiussert >^ . O
forse tutto si riduce allo spostamento d'una virgola? — Ibid.
Non è felice la dicitura nel periodo: « Con esse la stringe una
« parentela cosi stretta, che non si può farla dipendere dal caso, e
« che è tanto certa da imporre ad ogni filologo... la convinzione ecc.» .
Era meglio dire, p. es.: « Con esse la unisce una parentela cosi
« stretta, che non si può farla dipender dal caso, e tanto certa, da
« imporre, ecc. >^ ; come non è felice l'espressione: <: che abbiano
avuto col sanscrito la stessa origine », dovendosi dire 0: « la stessa
origine del sanscrito » o: « col sanscrito un'origine comune >. — A
p. 2, e passim : < giovani lingue ■> < forme giovani » ecc. a tutto
pasto, ha l'aria d'un tedeschismo : per noi è più proprio « recenti ;>,
in tali casi. — Ibid. Dove dice: < innanzi al giudizio del tempo fu-
turo, dovrà far epoca senz'alcun dubbio Topera dovuta all'ingegno di
Bopp », oltre alcune altre lievissime imperfezioni, mi par ambiguo
queir « opera » che potrebbe parere un determinato libro, mentre
qui vuol dire l'indirizzo, l'attività. Difatti il tedesco dice: « die cpo-
chemachende Leistung des Bopn'schen Genius » cioè « l'opra, che fa
epoca, del genio di Bopp ^> . Anche quel « futuro •> , e qui e altrove,
e anche senza la compagnia di tempo », per dir 1' e avvenire >^ 'die
Zukunft) non è troppo opportuno, massime in un lavoro grammati-
cale. Né poco più giù è molto acconcio quel « notizia -> per <; no-
zione » (Erkenntniss), né « la cognizione » per « lo scandaglio , il
penetrare » e che so io (Einsicht). — Ibid. <■ Che fu introdotta dal
Klaproih (?^ » si legge nella nota, dove il tedesco ha (von Klaproth
— 359 —
aufgebrachte ?) >^ . Il testo esprime il dubbio se K. sia stato l'intro-
duttore-, invece la traduzione, dando ciò per certo, domanderebbe
invece chi sia codesto Klaproth. — A p. 3, il testo direbbe: Basti
ricordare il giudizio di W. (e qui lo riporta), e citar poi l'afferma-
zione di B. (e la riporta); e il traduttore, forse per spezzare il lungo
periodo, scrive: « Basta ricordare, ecc. Ma si aggiunga, ecc. ». In
altri modi, anche con espedienti tipografici, si potea provvedere alla
chiarezza, senza commetter questa piccola infedeltà. Né mi piace di
più quella spezzatura che il traduttore ha messa nel periodo largo e
simmetrico del Benfey. Questi dice: « scopo di quest'opera (la Gr.
Comp. di Bopp) direi che fosse l'intelligenza della origine delle forme
grammaticali delle lingue indoeuropee , la comparazione di queste
lingue come mezzo per intender quella origine, la ricerca delle leggi
fonetiche come mezzo per quella comparazione. Il Merlo ha rotto il
legame coordinativo tra queste tre cose , sostituendovi la subordina-
zione della seconda alla prima, e la separazione della terza da tutte
e due. — A p. 4. < Ogni vento a caso e di leggieri può, ecc. »; sa-
rebbe meglio propriamente : « il vento del caso facilmente può ecc. ».
— A p. 5. Non mi par bello « visibilmente, ...lo Schlegel, ecc. »
per <. evidentemente... Io S., qcc. »; né <^ si avea formato la convin-
zione » per <: s' era persuaso »; né quel <-. s'immagina » per e s'im-
maginava » (sich dachte), perché toglie il colorito narrativo. — A
p. 5-6, abbiamo un periodo non molto felice: « Che Schlegel chia-
« masse -poi, ecc., questo avveniva pienamente secondo lo spirito del
« filosofo romantico, 2 cui pensieri e le formole erano a lui tanto
« famigliari •■> . Qui, fra l'altre cose, pare che il filosofo romantico,
z cui pensieri eran familiari a Schlegel fosse una persona diversa da
Schlegel. Avrei preferito, p. es.: < Che Schlegel chiamasse, ecc., era
cosa pienamente conforme allo spirito del filosofo romantico, del
quale egli aveva tutto il modo di pensare e d'esprimersi ». — A p. 8
si legge: « Sotto il nome di Verbo [parola del tempo) è da inten-
dere, ecc. ». Or questa parentesi riesce priva assolutamente di senso
per il lettore italiano, salvoché egli non sia pratico di tedesco e così
s'immagini subito che il testo debba avere, come difatti ha : « Unter
Zeitwort oder Verbum... ». — ^A p. 9, dove dice che il verbo essere si
nasconde « intellettualmente in ogni verbo », era meglio dire men-
talmente, o idealmente (begrifflich). Poco più giù il testo dice che
il Bopp in un certo suo periodo si rimette al lettore per la soluzione
— 360 -
d'una questione che sarebbe toccato a lui di risolvere, e propria-
mente: « ...dem Leser die Losung einer Schwierigkeit :^ugeschoben
wird, die, ecc. »; e il Merlo traduce che « viene riferita al lettore la
soluzione, ecc. », e poi nell'errata emenda: « attribuita al lettore ».
Doveva, io credo, scrivere: « deferita al lettore ». — E qui io mi
fermo. Il resto lo dirò in privato al Merlo s'egli lo vuol sapere; e
non vai poi la pena ch'egli voglia, poiché si tratta o di piccoli nei
di stile, o di sviste (poche delle quali capaci di tirar in errore il let-
tore) tutte dovute alla fretta; e il Merlo le avvertirà da sé, se rivedrà
con pace il suo lavoro. Il quale, tutto sommato, è eccellente.
In lingua turca sono espresse dentro il verbo istesso, mediante sil-
labe formali, certe idee accessorie che in altre lingue si esprimereb-
bero con apposite parole. E il cumulo di queste idee accessorie può
arrivare a tal punto, ossia in una sola voce verbale se ne possono
concentrar talora tante, da aversi, p. es., dalla radice sev , amare,
una forma cosi : sevishdirilememek, la quale significa ' non esser ca-
paci di essere resi amici reciprocamente'. Questa voce, aggiungeva
taluno, si applicherebbe, per esempio, benissimo allo Czar e al Sul-
tano, che non e' è verso di far stare in pace tra loro. Ma essa, che è
riferita tanto da Max Muller nelle sue Letture, quanto dal Whitney
nel suo libro sulla Vita del linguaggio, si applicherebbe pur troppo
non meno bene anche agli stessi Muller e Whitney, che non possono
stare senza pungersi ogni tanto l'un l'altro ! Non abbiam qui debito
né potere né voglia d'andar rivangando il diritto e il torto di questo
o di quello. Il certo è che tutti deploriamo assai questo malumore
interminabile tra due valentuomini, degnissimi entrambi dell'estima-
zione e della riconoscenza dei dotti. Lo deploriamo, nonostante che
di quando in quando esso ci frutti qualche cosa di bello e di buono,
cioè le critiche aggiustate, stringenti, argute, del Whitney, contro a
qualcuna delle dottrine linguistiche troppo vaporose ed avventate del
Muller. Il Whitney ha un ingegno logico, dialettico, coerente, scevro
di fantasticherie, ed un buon senso veramente americano; e quindi
ha facilmente buon gioco contro il Muller, uomo dotto, certamente,
e ingegnosissimo, ma facile, per la sua natura d'artista, a lasciarsi
- 361 -
sedurre da concetti e da dottrine più speciose che vere, e spesso con-
traddicenti ad altri concetti e dottrine da lui stesso accolte.
Una nuova prova di tutto ciò l'abbiamo nella bella dissertazione
del Whitney « sull'incocrenza nelle teoriche intorno al linguaggio ».
La quale intanto s'apre con alcuni colpi, bene assestati, contro il
Renan. Sostiene questi (in quel suo mediocre libro suU' origine del
linguaggio) come i dialetti affini non sieno divariazioni posteriori di
un unico linguaggio primordiale, ma ogni linguaggio sia ab origine
franto in varietà dialettali; e di ciò adduce un esempio nei linguaggi
polinesiaci, che sono estremamente vari. Risponde il Whitney che
non sa perchè questi debbano servire come esempi di un linguaggio
primordiale, quasi fossero nati or ora; e osserva che col criterio del
Renan anche dei dialetti romanzi si dovrebbe dire che non ri.salgano
a una lingua unica, e se dal Renan non si dice, gli è solo perchè su
questo soggetto egli è raffrenato dall'esplicita testimonianza contraria
della storia. E quando il Renan dice che ogni dato tipo linguistico
(p. es. l'indoeuropeo) non s'è formato lentamente, ma è surto intero,
tutto d'un colpo, con tutta la struttura che gli è propria, « come Mi-
nerva dal cervello di Giove », il Whitney risponde con ragionevole
ironia che egli trova giustissimo questo paragone, poiché davvero
tanto è buona linguistica l'ammetter quel cosiffatto nascere dei
linguaggi, quanto è buona ostetricia il ritener possibile quel cotal
parto di Giove ! Anche Max Mijller sostien la tesi renaniana della
dialettalità originale, , per rispetto alle lingue germaniche, non am-
mettendo egli vi sia mai stato un idioma protogermanico co-
mune, e neppure u n idioma altotedesco e u n bassotedesco, mentre
pure conviene che i dialetti tedeschi, quanto più si risale indietro
nei secoli, più si trovan rassomiglianti e convergenti. E il
Whitney risponde ch'egli ha sempre saputo che le linee conver-
genti s' incontrano, non importa poi se il punto d'incontro sia,
all'occorrenza, fuori della nostra visuale ; e che del resto l'appuntarsi
di molte favelle, convergenti, in un'unica favella originaria, s'è più
volte trovato dentro la nostra visuale storica (lingue romanze, ecc.).
E intìne, dove il Muller,come nuovo argomento contro l'esistenza di
un idioma protogermanico , aggiunge il fatto che i vari popoli ger-
manici quando invasero l'impero romano avean già i loro proprj dia-
letti, il Whitney risponde, che quest'è un argomentare simile a quel
che farebbe un Inglese che dall'essere Max MiJller emigrato in In-
'Bjvista di filologia ecc., X. 24
- 362 —
ghilierra già uomo fatto ne deducesse ch'egli non sia mai stato bam-
bino. — Tutta l'erronea dottrina nasce, dice il Whitney, dall'imma-
ginarsi, che fa il Mailer, una Germania e una Scandinavia semibar-
bare, fin dal principio popolatissime e formicolanti di tante tribù
affini ma ostili; mentre di certo quei paesi furono dapprima occu-
pati dalla immigrazione di una piccola comunità, di lingua e costumi
omogenea, la quale poi moltiplicandosi, e sparpagliandosi, e forse as-
sorbendo in sé popolazioni indigene anteriori, venne da ultimo a scin-
dersi in tante tribù serbanti solo in parte la primiera omogeneità.
Ma il più bello è, dice il Whitney, che il Miiller nega l'unità origi-
naria dei dialetti germanici mentre crede pienamente alla unità ori-
ginaria del germanico col celtico, col latino, col greco , ecc.l Nega
l'unità minore e il principio su cui essa si fonda, e consente che su
questo stesso principio si fondi una unità ben più cospicua qual è
l'unità protoariana! Ecco le contradizioni, le inconseguenze, la ' in-
consistency '.
Né il Miiller, continua il suo avversario, ha un'idea precisa di ciò
che significhi una ' famiglia ' di lingue, là dove arriva a dire che non
è maraviglia che le famiglie sicn tre sole, perchè già sisa che esse non
possono esser la regola, ma solo un'eccezione! Perchè delle lingue
costituiscano insieme una famiglia non occorre ch'esse sien molte nò
che vi sia, in esse tutte od in alcune, splendore di lettere, antichità
di monumenti, ecc.: questo ci vorrà perchè sia una 'famiglia nobile'!
Ma una famiglia insomma si ha subito appena vi sia un qualche nu-
mero di dialetti affini , cioè risalenti a un unico linguaggio origi-
nario; sien poi selvaggi o poco numerosi quanto si voglia. E se un
linguaggio apparisce isolato, ei può essere ultimo avanzo d' una fa-
miglia distrutta, o aver troppo perdute le tracce della sua fratellanza
con altri idiomi ; e quindi o f a o sembra fare famiglia da sé. Ma lungi
dall'essere le famiglie un'eccezione, sono la regola; e quel che ap-
punto si sforzan di fare i linguisti è di ridurre più famiglie ad una
famiglia sola, per non averne un numero esorbitante (i). Per il MùUer
(1) Dice il "NY. che la famiglia turauica del Miiller è una specie di
' olla podrida ', di intruglio di lingue diverse che il M. non sapeva
dove mettere. Egli dice veramente: « a sort of omnium gatheì'um , or
refuse-heap », dove è notevole quel motto di 'latino maccheronico' al-
l'inglese, che s' intende solo pensando al verbo inglese gather, racco-
e'iiere ecc.
- 363 -
invece si ha nel mondo un' immensa massa galleggiante, fluttuante,
di linguaggi selvatici, effimeri, bastevoli ai bisogni mentali d'una sola
generazione; e solo si formarono tre oasi linguistiche (ariano, semi-
tico, turanico), perchè tre razze sentirono spontaneamente la necessità
di consolidare, di render permanente e tradizionale, di petrificare,
di concentrare il linguaggio, e farlo, di naturale che era, storico.
Tutte idee vaghe e inesatte, dice il Whitney, dappoiché ogni lin-
guaggio è tradizionale , anche se è selvaggio, e nessun linguaggio è
petrificato, neanche se è coltissimo.
Intanto mostra il Whitney il cattivo influsso delle idee vaghe del
IMuller sopra altri , p. es. sul Sayce (Introduzione alla scienza del
linguaggio, in due voi.); che, mentre usa di continuo la voce famiglia
nel senso che tutti i linguisti le danno, ed enumera 76 famiglie,
salta poi tutt' a un tratto a dire che le famiglie sono eccezioni. E
mentre parla sempre di ' lingua-madre' , di 'primeva comunità ariana ',
in cui Lituani e Indiani fossero ancora un popolo solo ecc. ecc., a
un bel momento scappa a dire che una tal lingua-madre è una e o-
struzione affatto ipotetica. E già, dice il Whitney;
quando lambendo le coste di un paese ignoto noi vediamo sboccare
un fiume e crediamo subito che esso scenda da quei monti che al-
l'orizzonte si mostrano ai nostri sguardi, noi allora facciamo una
ipotesi, perchè la sorgente non la vediamo ; potremmo anche farne-
ticare che si trattasse di una coalescenza d'atomi d'ossigeno e d'idro-
geno prodotta da speciali condizioni magnetiche! Eppure
Il Sayce dice : più barbara e più antica è una società, più è frazio-
nato il suo linguaggio; più indietro andiamo, e più numerosi, infi-
niti, sono i dialetti. Il Whitney qui ricorda quel dotto francese, il
quale, considerando che ognun di noi ha due genitori, quattro nonni,
otto bisnonni, argomentò che più si risale indietro e più numerosi fos-
sero gli xiomini sulla terra; e il W. dice al Sayce: ecco, quel Francese,
v'ha giusto preparato quei tanti uomini necessari per parlare i vostri
infiniti dialetti! — In altri termini, e fuor d'ironia, è vero che è la
civiltà che accomuna uno stesso linguaggio a società diverse, e che
nella barbarie ogni società ha la sua propria favella, sicché se noi
risalgbiamo ad un tempo di minor civiltà che non sia la presente,
ma di egual popolazione, noi troviamo più frazionamento di loquela
che non adesso ; ma se noi poi risalghiamo su su, a tal epoca in cui
la popolazione era ben minore , non ancora troppo moltiplicatasi e
— 364 —
propagatasi, noi troveremo assai minor numero di linguaggi che norr
ora; perchè ogni società parlava, è vero, il suo, ma le società appunto
eran poche !
Insomma il Whitney non vuol che si prenda subito per stato ori-
ginario uno stato tanto o quanto anteriore al nostro. Non bisogna
parlar d' origini vere, se non si oltrepassino tutte le origini più o
men prossime, tutti gli stadj intermedi, per antichi che sieno. Risa-
lire per dieci scalini, mentre per arrivare alla cima ve ne sono quin-
dici, e proclamare che dalla cima si veda solo quel che si vede dal
decimo scalino, è un solenne errore. Il Whitney si sa bene collocare
in tutte le diverse situazioni dei diversi momenti storici e preistorici
del linguaggio, e perciò non casca, come altri, in teoriche unilate-
rali, paradossali, insufficienti. Ogni nuovo fatto, e ogni ipotesi giusta,
trova subito modo d'allogarsi nel suo sistema ragionevolmente largo
ed elastico. E perciò tutto il ragionamento suo contro la dialettalità
originaria dei linguaggi non mi è parso punto smentire quello che
io ho fatto più sopra sulla dialettalità già sviluppata nel protoariano
ancora indiviso. È questione puramente cronologica. Certo c'è stata
una fase primordiale in cui l'idioma ariano non era suddiviso in dia-
letti; ma ciò non vuol dire che la suddivisione in dialetti non sia
successa prima del distacco delle varie lingue indoeuropee dalla lingua
madre.
Sull'altra memoria del nostro autore, « Coerenza logica nelle teo-
riche sul linguaggio », non mi fermerò a lungo, poiché essa non è
che un riassunto limpido, preciso, conciso, delle teoriche già esposte
da lui nel suo bel libro da me tradotto. Gioverebbe tradurre anche
questo riassunto, ma io non ho tempo, e qui non ho neppure luogo.
Spigolerò alcuni periodi qua e là, che mi pajon più degni di nota.
Circa il principio dclTeconomia e della comodità come ragion suf-
ficiente di tutte le mutazioni fonetiche egli qui fa più riserve che non
ne facesse nel libro, epperò concorda con quel che noi abbiamo detto
più sopra sullo stesso soggetto: «nearly evcrything in pho-
netic change is to be ascrived to the working of the tendency to
economy; but the deiails of this working are sometimes very intri-
cate, and, in our present imperfect comprehension of the physical
— 365 —
processes of utterance, not a little obscure ». Circa la teoria boppiana
della genesi delle forme mediante l'agglutinazione, egli dice che se
in sole poche forme si vede chiaro quali fossero gli elementi agglu-
tinati, ciò non infirma il principio boppiano, allo stesso modo che
l'esserci molte persone che non hanno attestato un fatto non distrugge
la testimonianza di poche che l'assicurano ; ed osserva che è troppo
naturale che la etimologia delle forme sia spesso oscura come lo è
spesso la etimologia delle parole. — Circa il trilittero semitico, « il
più arduo problema, forse, nella storia del linguaggio » , egli con-
sente che esso dev'essere uno sviluppo secondario e peculiare, anche
se non si riuscisse « a rintracciare con soddisfacente chiarezza i passi
di questo sviluppo ». Le quali parole implicano, se non un'adesione
concreta, almeno un riconoscimento di principio delle
ricerche ario-semitiche dell'Ascoli. — Ammette che nessun esempio
si dia di un linguaggio che diventi agglutinante o flessionale sotto
gli occhi nostri; ma ciò contrasta con le affermazioni del Bohtling
sulle lingue turaniche riferite da Delbruck nel libro di cui abbiam qui
discorso (p. 71 seg., della traduz. 76 seg.j.
Nonostante le divergenze che ogni scienza naturale o storica non
può non avere, la glottologia è ad ogni modo una di quelle in cui
maggiore è la concordia sostanziale tra i varj coltivatori; e checché
possa parerne, in certe ore di sgomento, ad alcuni fra i più autore-
voli suoi maestri, come Delbruck e Whitney, essa batte ancora, fi-
dente e sicura, quella via regia che le aperse a principio di questo
secolo il genio sovrano di Francesco Bopp.
Napoli, ottobre 1881.
F. d' Ovidio.
D. S. — A p. 322, a metà, nella parentesi che finisce con c( Pick »
aggiungi: « e nel campo neolatino il Flechia )). — E a p, 347, dove in
nota ho toccato deiropinioue del Curtius circa la gutturale che non possa
mutarsi in altra consonante più avanzata verso le labbra, devo avvertire
che il Curtius v'ha ora fatto notevoli e giusti ritocchi [Gruììdc.^, 446-7).
F. d'O.
366
"BI B LIOG%AFIA
Studi di Filologia Greca pubblicati da E. Piccolomini. Voi. I, fa-
scicolo I, pp. vii-106. Torino (Loescher) 1882.
Con questo fascicolo inizia il prof. Piccolomini la pubblicazione
di lavori di filologia greca, così suoi come dei suoi scolari , e ci dà
per ora: 1° Osservazioni sopra alcuni luoghi delle Rane di Aristo-
fane (E. Piccolomini). 2» Alcune favole dello ZTecpaviTi]; koì Mxvii-
Xàxriq, secondo una redazione inedita di Prete Giovanni 'EoKaiLijLiaTia-
luévoc (Vittorio Puntoni). 3" Saggio sulle glosse Aristofanesche del
Lessico d' Esichio (Francesco Novati). Ai tre lavori è premesso un
'preambolo' del Piccolomini, in cui si diì ragione della pubblicazione
e si esprime la speranza, naturalmente anche in noi vivissima, che
non manchino collaboratori bravi e volenterosi pei futuri volumi.
Io credo che il Piccolomini abbia avuto un'ottima idea, e non
avrei riputato necessario che la giustificasse nel preambolo. Ho de-
plorato anche io altrove che l'attività dei nostri giovani filologi vada
per lo più spesa in lavori di poco men che pura compilazione, e non
posso quindi che applaudire ad un tentativo diretto a far diventare
abitudine generale della gioventù filologica italiana quella che sven-
turatamente è stata finora aspirazione di pochissimi, e tradotta in
atto ha meritato persino disdegni orgogliosi e insolenti sarcasmi. Si
ha un bel parlare di diversità di razze, di diversità d'inclinazioni, di
diversità d'ingegni : il metodo scientifico non è che uno, e non vi ha
scienza che possa e voglia annoverare fra i suoi cultori chi parassiti-
camente intenda coglierne i fiori senza aver contribuito ne punto né
I
— 367 —
poco a farli germogliare. O sarebbe forse la filologia classica più fa-
cile ed arrendevole delle sue altere sorelle? Se dunque fosse proprio
vero che noi non si avesse attitudine alla critica verbale e alla in-
terpretazione metodica e, in generale, alle ricerche minute e noiose,
se fosse proprio vero che noi non si sapesse far cosa che richiegga
non solo acutezza di ingegno, ma anche pertinacia di volontà, abne-
gazione e conoscenza non dilettantesca della base di ogni filologia,
della lingua, ci sarebbe senza dubbio un consiglio da dare ai nostri
concittadini, ma non sarebbe già quello di far della filologia a buon
mercato, a spese di chi ha lavorato per noi, bensì quello di rinun-
ziarvi addirittura ! Fortunatamente queste non sono che comode ipo-
tesi di inerti e boriosi personaggi, e le smentiscono a pieno i lavori
di chi, senza scuola, con le sole risorse dell'ingegno e della passione
per gli studi classici, seppe indovinare il metodo filologico e da quella
stessa cattedra, onde oggi così degnamente insegna il Piccolomini,
infervorarci efficacemente per questa vecchia scienza che non pro-
mette né agi ne onori e che in Italia, a preferenza di qualsivoglia
altro paese, esige dai suoi adoratori non meno disinteressato che caldo
amore.
Dalle Osservazioni del Piccolomini sopra le Rane di Aristofane,
anche se noi non dicessimo verbo , si aspetterebbero senza dubbio
molto quelli dei lettori che conoscono i suoi studi critici sulle Nubi
e sugli Uccelli. Evidente mi è sembrata la prima osservazione riguar-
dante l'interpretazione delle parole (v. 67) Kaì xaùTa toO xeGvriKÓToi; ;
e del noto scolio su questo luogo. Se finora proprio nessuno dei mo-
derni interpreti si è accorto che con quelle parole si distingue l'Eu-
ripide morto dall'altro Euripide figlio o nipote del morto, vuol dire
che ciò sarà avvenuto per influenza delle parole xai TaOxa, le quali
portano abbastanza facilmente alla falsa interpretazione : 'senti (amo-
roso) desiderio di lui quantunque morto ? '.
Non senza interesse sono anche le osservazioni sui vv. 167 sgg.,
quantunque il P. stesso non è sicuro di aver trovato il vero. Certo
nessuno vorrà più sostenere l' atetesi dell' Hamaker, anche non es-
sendo contenti delle congetture òotk; aùxóa' epxexai ovvero Sariq èitì
toùt' è'pxeTai. A me sembra che il precedente èKqpepojuévtuv basti per
sé solo ad indicare la via dell'Hades : si potrebbe allora pensare, po-
niamo, ad òOTiq èTTiTàt èpxefai oa qualche cosa di simile. Per èiriTdS
si vegga Nauck, Trag. Gr. Fragm.., p. 355 (EuR., Fr., 294, 2).
— 368 •-
Sotto ogni rispetto soddisfacenti mi sembrano invece la emenda-
zione (vv. 100 sg.) :
AIO. T0O6' è'9' 7]TT0v Gaxépou.
10' rJTrep è'pxei. ZAN. òeOpo òeOp', iL òéOTroTa —
in luogo di :
ZAN. ì'B' iiTtep è'pxei- &eOpo òeOp', Oj òéaTTora — ,
e la interpunzione (v. 655) :
OIK. èireì TTpOTi,ua(; y' ovbév — AIO. oùòév |aoi |ué\ei.
OIK. pabiaxéov làp' èarìv ktX.
Per contrario lascia incerti cosi noi come il P. stesso la conget-
tura, ottima del resto quanto a senso, |Lifi Katpil) Tilibe irpéirouffiv
(v. 358), e forse anche la diversa distribuzione dei personaggi nel
V. 749. In questo luogo anzi crederei che con la distribuzione
EAN. TI he -noXÌM irpaTTiuv ; OIK. die; |uà Ai' oùòév. ZAN. o'iò' è'f'JU,
ó|uÓYvie ZeO kt\.
la parafrasi che ci dà il P. toOto ttoilùv outuj; fi6o|Liai, iJu; |nà Ai' oùòèv
TToiAv l'iòo.uai non significherebbe già, come P. vuole, 'ci prendo tanto
gusto quanto in niun'altra cosa', ma forse piuttosto 'ci prendo tanto
gusto quanto a non far nulla '.
E neppure pel lociis conclamatus (v. 790) il P. mi toglie ogni
dubbio. Si tratterebbe, a suo credere, di una antichissima interpola-
zione ; ma questo antico interpolatore, che doveva pur sapere me-
diocremente il suo greco, avrebbe scritto senza scrupolo KÒKeìvoc; ed
ÙTtexwp^tJev ? E a che scopo avrebbe interpolato ? Ero piuttosto pro-
penso a credere che sotto KÓKeivo^ si celasse il nome di un poeta; ma mi
avvedo ora che cosi si andrebbe incontro a difficoltà anche maggiori.
Finalmente pel v. 1124 il dubbio del P, mi sembra giustificato;
non può non farci una certa impressione che con tòv èE 'Opeareiat; si
indichi lino dei tre prologhi dell' Oresica. Ma non vorrei neppure io
mutare tòv in tiv' (mutazione proposta, del resto, già dal Wieseler),
e opterei col P. per la ripetizione del v. 112G innanzi al v. 11 25.
Alle Osservazioni tien dietro una collazione del codice Cremonese
— 369 -
12229, L. 6, 28, fatta dal Novati sulla edizione del Meineke ; e una
tavola delle discrepanze fra la collazione del cod. Ambros. L. 39 sitp.
pubblicata dal Velsen nella sua recente edizione delle Rane e quella
eseguita non ha molto dallo stesso Novati. Ma dell'importanza di
queste collazioni potrà dare giudizio soltanto chi si sia occupato sul
serio di critica Aristofanea.
Nel lavoro del Puntoni abbiamo trovato molta accuratezza e dot-
trina, e saremmo troppo fortunati se molti giovani facessero con la-
vori di cgual merito la loro prima apparizione nella così detta re-
pubblica letteraria. In una non breve introduzione il Puntoni deter-
mina il valore della redazione da lui pubblicata rispetto alle altre
redazioni conosciute, che egli ha tutte accuratamente studiate, e ac-
cenna senza esagerazioni alla importanza che essa in singoli casi
potrebbe avere per la recensione dello Zpeqpavixric; Kaì 'lxvviXdTr|<; di
Simeon Maestro, donde appunto Prete Giovanni ha tratto le sue 21
favole, per lo più frettolosamente epitomando, sempre aggiungendo di
suo èm|avi6ia spessissimo insulsi. E con opportuni raffronti stabilisce
infine che la redazione di Prete Giovanni deriva da un codice assai
diverso dall'Amburghese, su cui si fonda la recensione Starkiana
dello Stephanites, e molto-più vicino ai codici Valicano, Laurenziano
e Barberiniano , dei quali il Puntoni possiede collazioni in parte
proprie e in parte favoritegli dai professori E. Teza ed 1. Guidi. .
Ho letto non affatto disattentamente queste favole, e per quanto
mi manchi tutto il corredo di cognizioni necessario (i) per giudicare
di un testo di tal natura, oso nonostante assicurare che dal punto di
vista filologico l'editore ha fatto il suo dovere. Ma non vorrei con
ciò garentire che proprio tutte le sgrammaticature che il Pun-
toni, con prudenza lodevolissima, il più delle volte non ha voluto
neppur tentare di correggere, sieno davvero imputabili a Prete
Giovanni piuttosto che ai copisti. Non ho gran stima di lui, ma
stento, per esempio , a credere che , pur conoscendo e adoperando
talvolta, secondo grammatica, il così detto genitivo assoluto, e' si
permetta altre volte, in senso analogo, un nominativo che è troppo
assoluto per non essere spt-opositato. Valga ad esempio òaKoOcra
(X, 3). E in quella stessa favola (X, 8 sg.) dovremo proprio tollerare
TTop' l'iuìv cpepo|uévr| per -rrap' ìtuuùv cpepof-iéviT ? Ma naturalmente io temo
;i) Cfr. E. Teza nel Giornale Napoletano, 3 (1881), voi. VI, p. 161-171.
- 370 -
di citare i moltissimi altri luoghi che a me, come ad ogni profano
di quella specie di greco, sembrano corrotti; esorto anzi ad avere
molto maggior fiducia nel Puntoni che in me, che giudico soltanto
da quello che egli ha pubblicato. Così nella nota favola della scimia
{mQr\KOc,) spaccalegna, di cui si dice (III, 5) che èv oauj fjv óaxoXoù-
.uevoi; Ti^ axioei toO Eù\ou ovvé^x], tùjv jbriYiadTUjv toOtou àiropXriBévTuuv
Tójv TTctXujv, K par ri 9 fjv ai toù<; òpxeir. aùtoO, io avrei avuto la tentazione
di correggere KaxepxSiivoi o KaBepxOfìvai : e probabilmente avrei avuto
torlo, perchè Io stesso verbo KpaxdaGai ricompare insistentemente in
altre favole in significato identico o affine, e forse sarà già nell' ori-
ginale donde epitomava il nostro buon Prete. Nonostante non so del
tutto resistere al ' demone della congettura ' (sempre preferibile, del
resto, aìVangelo della pigrizia intellettuale), e neirènijaù9iov della fa-
vola II : ó juOGoc; òriXoi òri ttoWcìki^ tlù alqpviòiui xoù TrpctvuaToc; òou-
Xovvrm tò cppóviiiLia (oi lax^poi?) kt\., al bouXoOvrai per me quasi
inintelligibile propongo di sostituire òrjXoOvTai (o anche GoXoOvxai (i)),
e chiedo scusa se, a proposito di Prete Giovanni, richiamo alla
memoria di qualcuno il qppevoòaXi'ic; Eschileo.
Il nome del Nevati non è nuovo agli studiosi di Aristofane, i quali
ebbero già da lui, oltre gli studi sul codice Cremonese, la grata sor-
presa di un indice di commedie Aristofanee scoperto in un codice
notissimo e da molti studiato, fra i quali dall' Elmsley ! Il Novati è
una vera speranza per gli studi non solo di filologia classica ma
anche di filologia italiana, anzi è da un pezzo ben più che speranza ;
ed io che non ho avuto sinora occasione di occuparmi seriamente
né degli Scolii ad Aristofane né del Lessico Esichiano, non ho dav-
vero il coraggio di servirmi di quello che ho imparato dal suo scritto
per muovergli volgari obbiezioncelle, le quali potrebbero provocare
il sorriso delle persone competenti. Invece nessuno sperabilmente
troverà da sorridere o deridere, se dirò che il lavoretto del N. è dei
più interessanti che si potessero fare sull'argomento, e che alcuni dei
suoi resultati hanno tali caratteri di evidenza da imporsi egualmente
(1) V. i Lessici s. V. GoXoùv ed èiriGoXoOv e Dion. Cass., 38, 2: xà
ILièv Y«P ùrrèp xùjv óXXoxpiujv XeYÓueva, òtto òpGrc; koì óòiaqpGópou xfiq
•fvuOuii^ TTpo'iùvxa, Koipòv iq xù .udXiaxa XauPdvei • oxav he. òi'i TraGr^d xi
xi'iv vuxùv xaxaXdpi;i, GoXoOxai koì ffKoxoOxai Kai oùòèv f;ùvaxai
KHipiov èvvonaai.
- 371-
a profani e ad iniziati. Fra questi resultati evidenti metterei anzi
anche quello che il N. pare consideri soltanto molto verosimile, la
ricostituzione di un articolo iTo\e|uiaT)'-ipia tratta da Esichio, da Fozio
e dai nostri Scolii (p. 86). Degna di ogni lode e scritta molto luci-
damente è la introduzione storica sul Lessico di Esichio, e in ge-
nerale tutta la dissertazione si raccomanda per chiarezza di forma e
di concetti. Che se in un annunzio bibliografico è proprio indispen-
sabile dichiararsi meno contento di qualche cosa, ho anche io una
inezia da notare. A p. 83 il N. parla del xe^'^óvoiv .uouaeìa come
espressione di Euripide parodiata da Aristofane, in quanto questi la
avrebbe volta ad altro significato: io per conto mio non ho potuto
mai dubitare che la parodia consistè nel sostituire xe^^i&óvujv alla pa-
rola àrjòóviuv adoperata da Euripide, e ad Euripide (Fr. 89, 2) re-
stituita per felice divinazione del Meineke.
In conclusione noi ci auguriamo che i futuri fascicoli degli 'Studi
di Filologia Greca' valgano sempre quanto il primo, e crediamo così
di non avere espresso tiepidi auguri per l'avvenire dell'Ellenismo in
Italia.
Firenze, gennaio i8?2.
G. Vitelli.
La Pitia X di Pindaro. Saggio di G. Fraccaroli. Verona, 1881.
È questa una versione ed un comento del primo lavoro, che si co-
nosca, di Pindaro. L'A. prende le mosse indagando quale potesse es-
sere l'età del poeta allorché scrisse quest'ode; dà un breve sunto del
carme, e lo fa seguire da alcune osservazioni estetiche , le quali pa-
rendomi qua e là soggettive, meriterebbero più ampia discussione di
quello che i limiti d'un resoconto non mi consentano ; sviluppa in-
fine una questione che i critici hanno sollevata da un pezzo, sopra
il significato fondamentale della digressione che forma il mezzo del-
l'ode, nella quale il poeta ci canta d'un viaggio di Perseo agli Iper-
borei col favore di Minerva. Suppongo che il lettore conosca il com-
ponimento Pindarico. Però basti dire riassumendo, come il Dissen le
attribuisce un valore puramente morale, di persuadere la temperanza
nei desideri, perocché gl'Iperborei sono felicissimi, non per altro se
- 372 —
non perchè sono altresì molto pii, e si contentano di quel che pos-
sedono. Il Boeckh congetturava che Perseo, progenitore di Ercole,
avesse culto speciale presso gli Alevadi. per commissione dei quali
r ode stessa fu scritta. 11 Rauchenstein faceva notare di proposito,
come il punto principale della digressione consista nel contrapposto
che si fa spiccare tra la felicità del vincitore e del padre suo, che ha
toccato gli ultimi confini prescritti all'uomo; e quella di Perseo, il
quale col favore degli Dei (ma solo con questo) era potuto giungere
a quei paesi fortunati.
Succedeva Ticone Mommsen, al quale aderiva il Rauchenstein, e
voleva vedere nella digressione Pindarica un'allusione alle condizioni
politiche della Grecia : Scoppiava, così egli, in quel torno la ribel-
lione delle città ioniche in Asia coU'aiuto degli Ateniesi; e non è
improbabile che ambasciatori persiani si trovassero alla corte degli
Alevadi, amici, perchè principi, dei Persiani e degli ottimati, e poiché
i Greci facevano derivare i Persiani da Perseo, viene da sé che Pin-
daro facesse profetare da Perseo il castigo dei Nassi che nell'Ol. 69
avevano scacciata la nobiltà. « Poiché Perseo porta la morte agli
isolani. Quando gli Dei ti sorreggono nulla è meraviglioso. Ma chi
è poi la Gorgone? Il popolo dalle molte teste ».
Il Fraccaroli accenna bene a tutte queste opinioni, ma non vi si
acqueta, e si domanda : Perchè mai Pindaro fa volgere a settentrione
Perseo, mentre la Gorgone, cui l'eroe doveva uccidere, stava, secondo
alcuni, ad occidente all'estremità della Libia, e, secondo altri, nelle
parti dell'Eritreo e dell'Etiopia a mezzodì? E soggiunge: « Nell'an-
data di Perseo agli Iperborei, io ci vedo adombrata la spedizione di
Dario contro gli Sciti. Perchè mai, se fosse altrimenti, avrebbe il
poeta fatto andar l'eroe fin lassù? Per giungere all'occidente? Se al-
lude all'impresa di Dario, mi par tutto chiaro; allora l'escursione
contro gli Sciti non è che il prodromo d' una spedizione nell' occi-
dente »; e qui il Fraccaroli accennando che l'impresa di Dario non
ebbe, è vero, grande successo, conchiudc (così interpretando il par-
lare di Pindaro) « badino dunque a se i^Visolani (nota che non dice
quelli di Serifo) che non sopraggiunga loro rovina ».
Non ho riportato così per disteso le due ipotesi del Mommsen e del
Fraccaroli, se non perch'elle mi sembrano presentare la soluzione
della questione, ma non esporla nella sua luce. Non dirò col Mezger,
come l'ipotesi del primo, che nobili Persiani si trovassero alla corte
- 373 -
degli Alevadi, e che per compiacere ai medesimi Pindaro inserisse
questa disgressione, non ha per sé veruna prova di fatto che la con-
forti. Ma osservo che Pindaro, proprio nel principio della digres-
sione, esclama :
vauoì ò'oure jì^Zòc, Iùjv dv eupoi<;
èq 'Yueppopéujv ófiùva Gauucxxàv óòóv.
che il F. stesso così traduce :
« La strada
Cercar dell'Iperborea contrada,
In terra o in mar non vale ».
Or bene, o si supponga che V ode sia stata scritta mentre si face-
vano in Persia i preparativi per la spedizione contro gli Sciti, o du-
rante, o dopo la medesima, la digressione intesa a modo del Frac-
caroli, riesce un appunto al re di Persia, dopo i versi surriferiti.
Perchè alla perfine anche Dario era un uomo, e non gli stava bene
tentare imprese superiori alle forze dell'umana natura; molto meno
che ad ogni altro a lui, il quale succedeva a Perseo ritenuto capo-
stipite della nazione persiana. Ma Pindaro ha voluto stabilire una
proporzione: come Perseo andò agli Iperborei, cosi Dario agli Sciti.
Senonchè questo riscontro che cosa importerebbe all'argomento del-
l'ode ? Chi non vede come questa supposizione noccia all'effetto este-
tico del componimento? Che Pindaro abbia potuto fare assegnamento
sull'interpretazione possibile delle sue parole, non è solamente pos-
sibile, ma forse ancora verosimile, perchè ci spiega il tocco legge-
rissimo, e proprio di sfuggita, col quale accenna agli isolani spenti
da Perseo colla testa della Gorgone ; ma questo senso non doveva
essere il più appariscente e principale del mito, il quale non doveva
avere essenzialmente altro valore dal morale accennato di sopra.
Infine, il sig. F. ci ha dato una versione in versi del carme Pin-
darico. Versione che merita lode, sebbene si scosti un po' troppo
qua e là dall'originale. Così al verso 4 il kot' fiKaipov è reso con un
insano anziché con inopportuno; particolarmente poi il verso io e segg.
sono tradotti con troppa libertà :
— 374 —
"AttoWov, -{Kvkv b' dvSpuuTTUjv tìXoc, àpx« Te óaiuovoc òpvOvxoc aù:£Tai'
ó |uév TTOU Teàc, ye jai'ibeai toOto e-rrpaEev "
Tò he auYyevè^ €|Lij3éPaKev ìxveaiv irarpòi; —
E il F.:
« Liete le mosse auspice Dio, — si cura
La meta dei mortai : — Febo, è tua cura
Questa, che lo incorona.
Ed è del padre la virtù », ecc.
Nella quale versione, a tacer d'altro, ognun vede come vada lungi
dal senso del testo il F. interpretando il y^ukù doppiamente per lieto
e per sicuro.
Convien però dire come questo sia tra i luoghi più intralciati del-
l'ode; e a me sia lecito proporre a questo luogo una nuova lezione,
la quale, secondo me, agevolerebbe l'intelligenza di questo luogo,
perchè colla semplice apocope del v di àvBpuurrujv, avremmo il duale
óvepiUTTCu, o potremmo tradurre così :
O Apollo, il fine ed il principio soave dei due uomini (d'Ippocle
e di suo padre), sarà abbellito viemmeglio, procurandolo un Dio :
l'uno toccò il primo (cioè il fine) per opera tua; e il discendente si
è già avviato sulle orme del padre.
Quest'interpretazione, a mio avviso, spiega meglio d'ogni altra quel
T^Xoq ópxd Te, riferendolo a pjtfre e. figlio: réXo^ del padre, ópxoi del
figlio. Permette di tradurre quel irou che altrimenti non ha senso,
di contrapporre 1' ó \xiv al tò hi, e di voltare la voce auYTevé(; in
modo semplice e piano; perchè l'intenderlo per un accusativo di re-
lazione : ad virtutem innatam quod attiuet, è un darle il senso di
èjLiqpuri<;, eMTrecpUKiOi;, ejuqpUTO^.
Chiudendo questi cenni, colla severità colla quale li abbiamo con-
dotti, noi non vorremmo leggere frasi e dizioni come queste: ma
non è mica neanche dovere con tanti n che si danno sulle calcagna :
ovvero: se non si sapesse... si potrebbe interamente convincersene per:
chi non lo sapesse... potrebbe ecc. Non lo vorremmo, diciamo, perchè
vediamo nel sig. F. un amoroso cultore degli studi classici contem-
poranei ; né a siffatti è permesso di essere né affettati, né trascurati.
Torino, gennaio 1882.
Alessandro Arrò.
375
Zakonische Grammatik von Dr. Michael Deffner , Erste Halfle.
Berlin, Weidmann, iS8i.
È un fatto che lo studio del neogreco e principalmente quello dei
dialetti fino ad oggi parlati nelle diverse contrade abitate da' Greci,
può riuscire di grandissima importanza per la conoscenza del greco;
ma è pur anche vero che la maggior parte de' filologi che rivol-
gono le più minute cure allo studio d'ogni avanzo antico, poco o
nulla si curano della lingua ancor viva. Una delle ragioni di questa
trascuranza, non potendo qui accennarle tutte, n'è certamente il ben
piccolo numero di lavori veramente scientifici che possediamo in-
torno ai dialetti neogreci; come fino a questi ultimi tempi, per la
mancanza di convenienti edizioni di testi della grecità medioevale, fu
eziandio impossibile il seguire lo svolgersi della lingua letteraria at-
traverso i secoli tenebrosi della decadenza e dell'oppressione straniera
della Grecia. Ma quanto più scarso è il numero di lavori che ci pos-
sono informare intorno agli svariati dialetti parlati dagli odierni
Greci, con altrettanta cura, mi sembra, debbonsi fare conoscere gli
studi che sono diretti a riempire una lacuna nel corredo nostro per
lo studio della grecità in tutta la sua estensione. Ed è perciò che vo-
gliamo fare un breve cenno dell'opera sopraindicata intorno ad un
dialetto, il cui studio riesce della massima importanza per la cono-
scenza del dorisrao, o per meglio dire, del dialetto laconico, di cui
il zacone è il continuatore. Niuno meglio del prof. DefFner poteva
fornirci un lavoro che a nostro parere verrà accolto col massimo
favore. Glottologo di vaglia e da anni stabilito in Grecia, ha potuto
fare lungo soggiorno nel distretto montuoso, tra Nauplia e Monem-
basia, ove in una città, sei villaggi ed alcuni casolari isolati, dodici
o tredici mila uomini parlano questo dialetto, per lo studio del quale
la bocca del popolo è l'unica fonte a cui attingere; popolo la cui
esistenza in queir angusto tratto di terra è anco un interessante pro-
blema isterico. Le prime notizie di questo dialetto son dovute ad un
greco del XV secolo, il Mazaris , poi ne parla il Gerlach (1574); il
Villoison nei Prolegomeni agli scolii dell'Iliade è il primo che rico-
nosce la sua vera natura, il Thiersch prova che è un dialetto vera-
mente greco, il Deville francese ne dà una notizia più completa (1), e ne
tratta anche M. Schmidt negli Studi di G. Curtius, III, p. 345-376. Ma
ora soltanto possiamo, per l'opera del Deffner, sperare uno studio ve-
ramente completo, fatto con tutto il corredo della scienza moderna,
studio che era urgente, dacché il dialetto stesso sta per iscompa-
(1) Vedi la recensione della sua « Étude sur le dialecte Zaconien »
inserita dal nostro Comparetti nel voi. XVIII della Zeitschì'ift di Kuhn.
-37G —
rire e a cedere il posto al neogreco comune. Il valente docente della
università d'Alene aveva già inserito nel suo Archivio filr mittel-und
neugriechische Philologie (Atene, 1880, fase. I e II) due dissertazioni
[Das Zaconische ah Fortentwicklung des laconischen Dialects — Das
^aconische Verbiim iind seine Formen), ma ora espone, in una gram-
matica di questo dialetto, di cui però finora non è comparsa che la
prima parte, la fonologia, i risultati de' suoi studi, dei quali ci oc-
cuperemo estesamente appena sia uscito tutto il volume. Per ora ci
limitiamo ad annunziare brevemente l'importantissima pubblicazione
agli studiosi italiani, ed aggiungiamo che s'attende un altro frutto
delle ricerche fatte dal Deff'ner con sacrifizio ed abnegazione in quella
interessante parte del Peloponneso in cui per lungo tempo Venezia
ebbe dominio diretto, cioè una « descrizione pittorica della Zaconia »,
di cui finora non abbiamo visto che il programma.
rVeci^ologia,.
Da Parigi ci è giunto il doloroso annunzio della morte di CARLO
GRAUX. Giovanissimo, egli aveva già molto lavorato pel pubblico ;
e in tutto quello che conosciamo di lui , dai primi tentativi critici
negli Esercizi della Conferenza filologica del Tournier sino ai suoi
piia recenti articoli nella « Revue Critiquc », nel suo Coricio non
meno che nel suo Plutarco, nelle pazienti ricerche sticometriche del
pari che nello splendido volume sui mss. greci dell' Escuriale, dap-
pertutto trovammo perspicacia, erudizione, carattere di vero e pro-
prio scienziato. Ma dei suoi meriti di filologo e di paleografo meglio
di noi parleranno i suoi amici francesi ; noi non vogliamo che espri-
mere il sentimento di dolore che abbiamo provato.
Carlo Graux è morto vittima di violenta febbre perniciosa, soltanto
pochi giorni dopo che egli era tornato a Parigi da un viaggio scien-
tifico in Italia. Quanti in Firenze lo conobbero, ne ammirarono le
cortesi maniere, la dottrina, l'entusiasmo di filologo e di paleografo.
Tutti ora lo rimpiangono con vero afi"etto, e tutti contrista il sospetto
che dalla nostra Italia e' riportasse in patria il germe del terribile
male che lo spense cosi giovane, cosi pieno di vita e di non vanitose
speranze ! Io che scrivo queste linee avevo trovato in lui un amico,
ed è soprattutto l'amico che ora rimpiango. Nel tornare da Roma
ripassò per Firenze il 20 dicembre, oggi è un mese; e non lo vidi,
perchè appunto in quei giorni la morte aveva visitata anche la casa
mia. Mi scrisse un biglietto che mi fu di consolazione, e mi rimane
ora come doppiamente mesta memoria.
Auguro di tutto cuore alla Francia che presto si trovi chi occupi
degnamente il posto che il Graux ha lasciato vacante nella Filologia
francese; ma non meno caldamente le auguro una schiera di dotti,
che possano contendere al nostro caro estinto il vanto dell'essere
molto amato.
Firenze, 20 gennaio 1882.
G. Vitelli.
mTniiniiiiiiiwTMMi— iMT—nrn-nrrHimiiiiiii ii iiiiiniiiii iiinii iiiiwii imi "'
Pietro L'ssello, i^'creiitc rcspoitsatile.
QUAESTIOV^ES C%ITICAE
Ut inde quaestiones meae proficiscantur, unde totius an-
tiquitatis studiorum principia ducuntur, primus Homerus
tractetur.
Constat dogma esse insitum doctis illis, quos Lachman-
nianos appellant philologi, esse in primo Homeri Iliadis
libro diversorum carminum contaminationem neque res sic
esse compositas, ut piane Inter se cohaereant. Idque cum
aliis argumentis tum e v. 490 intelligi putant
àXX' ÒT6 bri p' èK ToTo buiubeKatri févej r\[bc,
quem versum defendi suo loco non posse, nisi quid sit,
quo 'èK ToTo' referatur. nihil auteni est in superioribus ver-
sibus dictum, ad quod pertinet, neque versu Q, 3i excu-
satur, ubi similem difficultatem habemus atque hoc loco;
nam ne eum quidem versum iusto loco esse patet. Sed ut
id omiltamus, non convenit temporum ratio^, qualem nunc
habemus in v. 423-425, cum aliis rebus, quas poeta nar-
ravit. Eis enim versibus luppiter reversurus esse dicitur
duodecimo die, postquam Thetis ad fìlii colloquium venerat.
Et revertitur sane die duodecimo, sed 'èK toTo', id quod quo
Tiivisla di filologia ecc., X 2 5
— 378 -
loco nunc legitur tantum potest referri ad Ulixis expedi-
tionem, quae antea descripta est. Ergo si dies accurate nu-
meramus, cum v. 475-477 dies et nox praeterierit, luppiter
re vera non duodecimo die post illud colloquium redit, sed
die decimo quarto seu quinto. At enim viri doctissimi, pe-
ritissimi carminum Homeri ab liac scntentia dissentiunt,
quorum auctoritatem aputi multos hoc tempore plurimum
valere intellego. Quid igitur dicunt illi viri ? consentiunt
rectissime Lachmannum vidisse, sed putant hoc loco tem-
porum rationem non habuisse nec poetam nec auditores.
Quid? num ipsos effugit illa contradictio ? an dubitant, num
id quod ipsi viderint, alii item perspiciant ? vereor, ne qui
librum primum lliadis, qualis nunc est, defendant, cum
illas res inter se repugnantes animadverterint, se ipsi re-
fellant. lam vero musae Homeri quae potest medicina in-
veniri? insani medici sunt, qui aegrotum si vident nunquam
piane posse sanari, priusquam mortuus sit, in partes dis-
secare volunt: sic ne bestiam quidem tractare fas est. Quae
cum ita sint, remedia adhibenda vel desperatissimis et ea
semper vitanda, quae ipsam mortem afferant. Atque illud
in primis iure me semper aegre tulisse puto, quod eo qui
nunc est in libro primo rerum ordine Ulixis navigatio in-
terrumpitur non modo exercitus piaculo, sed etiam Bri-
seidis ex AchiUis tabernaculo deductione, quae deductio a dei
conciliandi Consilio prorsus aliena est. Exspectaveris enim
post exercitus purgationem Ulixis expeditionem ad tinem
perduci-, et id ipsum poetam voluisse certissime puto, cum
praesertim videam hunc rerum contextum facillime esse re-
stituendum loco qui legitur v. 430-487 tralato in medium
versum 3 18, ita ut versus 3 18 initium e.xcipiatur exitu v.
43o hoc modo
LÒq 01 |uèv rà TrévovTO Karà arpaióv aùtàp' Oòu(Jcr€Ù(; cet.
- 879-
Multo vero verisimilior fit res, quod etiam nunc posse
videtur intellegi, quomodo Carmen simili duarum particu-
larum initio distortum sit. Ncque enim dubito, quin post
V. 487 poeta superiore versu ex usu Homerico repetito (cf.
VII, 442) perrexerit olim (v. 3 18)
ijù? 01 |uèv TtévovTO Karà (JTpaióv • oùò' 'ATOtiué|uvujv cet.
usque ad v. 428 et 429
a)? àpa qpuuvi'icraa' àrrePìiaeTO, tòv ò' l\\n aÙToO
Xuuó|U6vov Kaià 9u|uòv èuZiuQvoio YuvaiKÓ<g.
Quibus versibus iam ea subiungenda esse, quae a versu
493 usque ad finem totius libri leguntur, patet. sunt enim
quae incipiunt inde a verbis
àW OTC òri p' Ik toTo òuuuòeKaTri Tévei' lìo)^,
Kal TÓte hi] -apòq "OXu|uttov iCav Geoì aièv èóvteq.
Dimidium versus 430 : xriv pa pu] déKOVTO(; ÓTrriupuuv cum
Lachmanno Lehrsii observatione adiuto expungendum, quia
speciem additamenti prae se fert, quod a quodam diasceuasta
videtur inlatum,ut disiecta carminis membra consueret. Re-
liquum est, ut de loco qui versus 488-492 complectitur panca
dicam. ego enim existimo eos versus , quos et ipse Zeno-
dotus riOéniae, removendos esse a Carmine , in quo neque
contio quam Achilles adire neque pugna commemoratur
cuius particeps esse potuisset, ut toti libro contradicant ea
quae leguntur v. 491-492.
oute TTOT eì<; aYopfiv TTuuXéaKeTO Kubidveipav
oute ttot' èc, TTÓXe|uov.
— 380 —
Satis mihi multa verba fecisse videor, qua ratione esset
hoc Carmen restituendum : restat, ut de sententiarum con-
textu qualis exoritur versibus transpositis pauca exponam.
Chryseidem postquam Agamemnon dimisit, convocato exer-
citu omnibusque militibus ad lustrationem adhibitis (v. 3o'S-
317) celerìter mandata Agamemnonis peregit Ulixes (v. 480-
487). Agamemnon autem, ubi altero die Ulixis adventum
cognovit, Briseidem iubet adduci, qua re permotus Achilles
cum procul ad oram maritimam abiisset, matrem suam
Thetinad lovem mittit rogatum, ut ipsum ulciscatur (v.3i8-
429). Postquam id animum advertit, fìlium suum Thetis
relinquit seque die duodecimo ad Olympum confert (v, 493
seqq.). Qua ratione praeterea res sunt ita compositae, ut
id quod Achillis mater dixit, deos 'heri' ad Aethiopes de-
cessisse bene conveniat cum isto 'die duodecimo'; nam die
postquam filia sacerdoti reddita erat, quominus Thetis cum
filio coUoquens dicat 'deos', in iis Apollinem et Minervam
'beri' ad Aethiopes profectos esse , nihil prorsus obstat,
quoniam causa non est, cur negemus Apollinem cum Graecis
reconciliatum eodem die ceteros deos prosecutum esse. Li-
cuit tamen deo usque ad vesperum in Olympo preces Grae-
eorum atque paeanes audire, licuit quoque altero die, ubi-
cumque erat, Graecis i'K)iievov oupov mittere.
Atque ita simul efficitur, ut v. 428-429
Còg cipa q)U)vr|(yao' àirePricyeTO, tòv b' èXm' aÙToO
XUJÓ|Lievov KttTà Gu|uòv èuZiùvoio YuvaiKÓq
recte excipiantur ab isto
àW ore òr] p ìk toio òuiubeKain Tévei' rnju(;.
Ncque vero timeo, ne quis contra me praesentia proferat
in V. 389-390
— 381 —
THV |uèv Tàp crùv viii Gorj éXiKiUTTeq 'Axaioi
è? Xpiicfiiv TTe'jLiTroucriv, aYOudi òè biijpa avaKTi,
quamquam v. Sqi poeta praeterito tempore pergit
tfiv òè véov KXiaitiGev è'pav KripuKei; ctYOVTeq
Koupriv Bpicrfìoq, Trjv )lioi bóaav viec, 'Axaiuùv.
nam cum desint apud Homerum praesentia historica quae
vocantur, patet hoc loco poetam praesenti tempore dedita
opera adhibito exprimere voluisse : Achillem Ulixis expedi-
tionem, utrum iam prorsus peracta esset necne non amplius
curasse, cum ira incensus a ceteris sese secrevisset interque
Myrmidones suos succenseret Achaeorum rerum incuriosior.
Facile autem intellegitur vitia eiusmodi solis tribuenda
esse tribus illis viris, qui Homeri carmina redegerunt Pi-
sistrato iubente, quibus nuper tandem quartum rectissime
videtur addidisse Italorum summus philologus Comparetti.
In lectorum faciliorem usum infra versus Homeri eo
ordine secuntur, quo ego ponendos arbitror.
'Aipeiòri? ò' apa vfiot Gonv aXaòe Trpoépucrcrev.
èi; ò' èpéTa(; è'Kpivev èeiKoaiv, ic, b'éKaTÓ|upriv
Pnae 0€uj, dvà òè Xpuariiòa KaXXmdpt^ov 310
eicTev aYwv èv ò' àpxò? è'pri TToXùjuriTK; 'Oòucrcreiii;.
Oi |uèv è'TTeiT àvapdvTeq èTréTrXeov ÙTpà KéXeu9a,
Xaoùi; ò'Atpeiòri? àTToXi))Liaivtcr6ai àviwYev '
01 ò' àrreXuiuaivovTO xaì ei^ aXa XófLiai' è'paXXov.
epòov ò"A7TÓXXujvi TeXrié(y(Ja(; éKaTÓ|uPa<; 315
Tttupuuv ììò' aÌYuJv Tiapà 6iv' àXò<; àipuTéioio*
KVicyri ò' oùpavòv kev éXKJffoiiiévn irepl Kairvo).
(b<; 01 |uèv TTÉvovTO Kaià cripaTÓv aùiàp 'Oòu(T(y€Ù? 430
è<; Xpucrriv iKavev ciyujv lepfiv eKaróiLipiiv.
- 382 -
01 ò' oie òr] Xi)iévoq Tro\upeveéo(; èvTÒ(; ikovto,
laiia |ièv aieiXavTO, eécrav ò' èv vifi |neXaivt,i,
iaiòv ò' icTTOÒÓKìi TréXacrav TipoTÓvoiaiv ócpévieq
KapTraXimjuq, inv ò' eìq òp)Liov rrpoépeaaav èpeiiaoT?.
èK ò' eùvà? èpaXov, Kaià òè npuiniiai' èòiiaav 436
ÈK òè Kal aÙTOÌ ^aivov èm priYMÌvi tìaXdcrari?,
èK ò'éKaTÓ|upriv piìcrav éKiipóXiu 'ArróXXuuvr
èK òè Xpuarik vt]òc, Pn ttovtottópoio. 439
tììv )ièv eTieiT' ètti Puj|lIÒv òìyujv TToXu|ui"iTiq 'Oòua(jeù(^
Tiaipi cpiXuj èv xep<5ì TiGei, Kai )iiv rrpoaéeiTrev •
i( 'Q Xpuari, TTpó |u' èrreiLiqjev dvaE dvòpuùv 'A'fajuéuvuuv
iraiòà Te croi àTé|Liev, Ooi^iy 6' lepiiv eKaTÓja^riv
péHai ÙTtèp Aavaujv, òcpp' iXaaójU6cr0a cévaKia,
oc, vOv 'ApTcioicTi TToXucfTOva Kìiòe' ècpfìKev )). 445
"Q? eÌTTÙJV èv xepcJÌ TÌ9ei. ó ò' èòégaio xaipuuv
Traìòa cpiXr|V xoi ò' u)Ka Geoi KXeiifiv éKaiójaPnv
é.te\r]C, èciricrav èuò|ai"iTOV irepl Pai)Liòv,
XepvivpavTO ò' eneiTa Kaì oùXoxùiai; dvéXovTO.
Toìaiv òè XpucJiK ^le-fóX' eùx^TO xeip«? àvaoxójv 450
.( KXOGi laeu, àprupÓToE'. 6q Xpuanv à,uqpipépiiKac;_
KiXXav Te laQér\v, Tevéòoió Te icpi àvàaaeiq'
lìiuèv òn TTOT è)LieO Txàpoc, eKXueq eùEauévoio,
TÌ|Lir|(J«? Mèv èiaè, )LiéYa ò' iVao Xaòv 'Axaiuùv
r\ò' eri Kaì vOv |uoi tóò' èrcmpririvov èéXbuup" 455
libri vGv AavaoicJiv àeiKéa Xorfòv ajuuvov ».
~^Q<; è'cpaT' eùxójiievoq, toO ò' ckXuc OoT^o? 'AttóXXluv.
aÙTÒp ènei p' euEavTO Kai oùXoxuxaq irpopdXovTO,
aùépuffav \ikv TipwTa Kai èacpaEav Kai eòeipav,
ILiripoùq t' èEéTa|Liov KaTa Te KViOri èKdXuipav 460
òiTTTuxa TTOiriOaviec;, èir' aÙToiv ò' iij|uo9éT»i(Jav.
Kttie ò' èirì ox\lì}<; ó Tépujv, èm ò' aiGoTta oivov
Xeipe • véoi òe nap' aÙTÒv èxov irejUTTiupoXa x^ptJiv.
aÙTàp èrrei Katà jaiìp' èKdn Kai ajrXdfxv' èTidoavTO,
jiiiaTuXXóv T dpa TÙXXa Kai d)aq)' ò^eXciffiv èireipav,
— 383 —
ujTTTiiadv T€ TTepicppaòéujq, epùcravTÓ re Travia. 466
aÙTÒp èrreì TtaùaavTO ttóvou tétùkovtó le òaTia,
òaivuvi', oùòé TI Qvixòc, èbeueio òaiTÒ(; èiar|(g.
aùiàp èireì iróaiot; Kaì èòriTuoq è? èpov evxo,
KoOpoi jdèv KpTiTfìpa(; érreaTéqiavTO ttotoio, 470
vijO|uii(Jav ò' dpa Tiaaiv è7TapEd)aevoi beimecrcriv,
01 òè Travii.uépioi .uoXttii Oeòv iXdaKovTo,
KttXòv deibovre? iraiiiova, KoOpoi 'Axaiujv,
jjeXTTOVteg eKdepYOV ó bè qppéva TépTret' dKOuuuv.
'H|ao(; b' iiéXioi; xatébu Kal ètri Kvécpa? fìXBev, 475
bri TÓxe KOi.uricravTO rrapà npuiuvricria vìióc,.
f\}xo<; b' rìprréveia qpdvn pobobdKtuXo? 'Hòx;,
Kal tòt' eTteii' dvdTOVTO (LieTÙ aipaTÒv eùpuv 'Axaiujv
TOÌ(Jiv b' iK|Lievov oijpov \'ei eKdeproi; 'AttóXXuuv. 479
oi b' icTTÒv CTTricravi' dvd G' laTia XeuKd rréTaaaav
èv b' dve)ao(g Trpfiaev luéaov laiiov, d|ucpl bè i<0)aa
aieipi] TTopcpupeov lueTdX'ì'axe \r\ò(; louarii;"
fi b' eGeev Kaià KO)ua biarrpnaaouaa KéXeuOov.
auTàp èTiei p' i'kovto xaid aipaiòv eùpùv 'AxaiOùv,
viìa laèv orf€ uéXaivav èrr' lìneipoio epucraav 485
ùu»oO èiTÌ vpajudGoK;, òtto b' epuaia |uaKpà Tdvuaaav *
aÒTOì b' ècTKibvavTo Kaid KXiaia^ Te véa<; xe.
'Qq oi )aèv Td ttévovto Kaid cfTpaTÓv oùb"ATa|ué)Livujv 318
XrÌT' epibo^, Triv rrpaiTOv ènriTreiXria' 'AxiXfji,
dXX' 6-fe TaXeùpióv Te Kaì EùpupdTrjV -rrpoaécmev,
Tiu 01 èaav KripuKe Kaì òxpripdj GepdrcovTe" 321
( "EpxeaGov kXktìtiv TTriXr|idbeuu 'AxiXfioq'
Xeipò<; éXóvt' dTé|uev Bpi(Jrii&« KaXXirrdpriov
ei bé Ke lufi buui;i(Tiv, è^ùj bé Kev aÙTÒq eXujjaai
èXGùjv aùv TtXeóveaar tó ol Kai pi-fiov ioiai ». 325
"Qc, eÌTTÙJv Kpoiei, Kpaiepòv b' éirì )a06ov èieXXev.
tùj b' déKOVTC pdTriv rrapà 6ìv' dXòt; dipuféToio.
Mupjiibóvujv b' èm le KXiaiai; Kaì vna*; kéffOriv.
TÒv b' eupov Trapd Te KXiaiii Kaì vr|ì )aeXaivi;i
- 384 -
fi|i€VOV* ovh" àpa Toi-fe ì^wv Yn6^<Jev 'AxiXXeuq. 330
TÙJ |uèv TapPncravTe Kai aìòojuévuu paaiXfia
Gty\tx\v, oùòé TI |Liiv TipoffecpOuveov Oliò' èpéovTO •
aÙTÒp ó ^Tvuj rjcfiv évi cppedi, (puOvricrév xe*
« Xaipete, Ki'ipuKC?, Aiòq àfTeXoi lìòè Km àvòpuùv,
acrcrov ìV* outi luo'i v^ixe<; èiraiTioi, àW'AYaiuéiuvujv,
6 (Jcpijùi TTpoiei BpKJniòo? e'iveKtt Koupi-|<;. 336
dXX' ctTC, AloYevè? TTaipÓKXei^, eSaxe Koùpnv
Ktti cTcpuuiv hòc; ttYeiv. tùj b' aÒTÙj luapiupoi ècTiaiv
Tipóc, xe Gea)V |uaKdpuuv 7Tpó(g xe GvrjTujv àvGpóiTTUJV
Kttì npòq xoO pacTiXfio? òiTTìivéoq, einoxe ò' auxe 340
Xpeiùj è|aeTo yéviixai àeiKéa Xoiyòv à|aOvai
xoT? ctXXoi?. f| Y«P ot' òXoivìai cppem Guei,
oùbé XI oiòe vofìcrai à^a Ttpócrcruj Km òmcsauj
ÒTTTTUjg 01 Ttapà vriucTì (Jóoi luaxéoivxo 'Axctioi )).
"Qg qpdxo* TTdTpoKXo(; òè qpiXuj èTreTreiGeG' éxaiptu, 345
èK ò' dYttYÉ KXicriii<g Bpicrniòa KaXXmdpi;iov,
òujKe ò' ciYCiv, xùi ò' auxK; ì'xtiv Ttapà vfia(g 'Axmuùv,
fj ò' àKéoua' a|jia xoTai Yuvfi Kiev, aùxàp 'AxiXXeùq
òaKpù(ya(; éxdpiuv ctcpap elexo vócTqpi Xia(JG€i(S.
Giv' èV à\òc, TToXifiq, ópóuuv in àTteipova iróvxov 350
TToXXà bè MTiTpi cpiXi;) npn^^aTO xeipac, òpeYVu<; •
(f MfiTep, èTtei |u' è'xeKétg yc juivuvGdòióv irep èóvxa,
Ti|ur|V irép |uoi òqpeXXev 'OXu|LiTTioq èYYuaXiHai,
Zeù<; \jijJippe|uéxn<;' vOv b' oùbé |ue xuxGòv exicrev.
Y] Ydp M 'Axpeibriq eùpuKpeiuuv 'AYaM^MViuv 355
rixi)iiricrev ' éXòiv Ydp è'xei Yépaq, aòiòq àrroupa»; ».
"Qq (pdxo baKpuxéuuv, xou b' eKXue TTÓxvia |ur|xrip
fiiuévri èv pévGecraiv dXò^ Txapà Tiaxpi Ytpovxi.
KapitaXiiauuc; b' dvébu ttoXiìì»; dXòq iiux' ò^ixXn,
Ktti pa rrdpoiG' aùxoio KaGéZieTO baKpuxfcOVxoq, 360
X€ipi xé mv KaxépeSev, l-noq t Icpax è'k x' òvóiaaZiev
« TéKVOv, XI KXaieKj: xi bé ere cppe'vaq iKexo TrévGo?;
èHaùba, )ufi KeOGe vóuj, 'iva eibo|uev d)aq)a) ».
- 385 -
Triv bè papuarevaxujv irpocrécpii ■nóbaq wKvq 'AxiX^eug
« oTcrea* tiri toi laOia ìòuii] Travi' àYopeuoi; 365
djXÓ|ue9' ic, 0riPiiv, lepnv nóXiv 'HeTiiuvoq,
THV òè bieTrpdOojLiév te Kai fiYOjuev èvGàbe Travia.
Kttì là )iièv eù òdcfcravio jueià (jqpicriv vieq 'Axaiuùv,
ÈK ò' eXov 'Aipeìòr) Xpuariiòa KaXXmdptjov.
Xpuaiiq b' au9\ lepeùg éKaiiiPóXou 'AttóXX(juvo(;, 370
rjXBe 6oà<; èTil vfia<; 'Axanjùv xcXkoxituuvuuv
Xu(JÓ|Lievó? Te GuTaipa qpépuuv i' àTiepeicri' aTioiva,
cfiéiuiuaT è'xiwv èv x^P^^'iv éKriPóXou 'ATtóXXuuvog
xpucréuj ava (JKnTiipuj, Kai èXicrcreio Travia? 'Axaioù?.
'Aipeiba bè judXicfTa buuu, KO(T|urÌTope Xaojv. 375
ève' dXXoi |uèv TTdvie<; èTreuqprmri^yttV 'Axaiol
aìbeTa6ai G'iepna Kai dTXaà béxOai arroiva*
dXX' oÙK 'Aipeibi^ 'A-fajué)uvovi iivbave Gujuuj,
dXXd KaKuJ? dcpiei, Kpaiepòv b' èttì juOGov è'ieXXev.
Xujó|U€vo<; b' ó Ycpuuv rrdXiv ujxeio • loTo b' 'AttóXXiuv
eùHaiuévou tikouctcv, èTrei ladXa oi (piXo(; fìev, 381
Ve b' CTi' 'ApYeioiai kokòv péXo(;* oi bé vu Xaol
GvfjcyKov èTTaacruiepoi, id b' èTTÓixeio ufiXa GeoTo
TidvTi;! dvd (Tipaiòv eùpùv 'AxaiuJv. djLi)ui bè ludvin;
evi eìbib? dYÓpeue GeoTTpoTria(; eKàioio. 385
aòiÌK ÉTib TipujTO? KeXójuriv Geòv iXdffKeaGar
"Aipeiuuva b' èTieiia xóXoq Xd^ev, aiijja b' avacTiài;
riTTeiXi-ìCTev juOGov, o òr\ leieXecTiuévo? ècriiv.
T»iv fièv Ydp crùv vrjì Gorì éXiKUJTre(; 'Axaioi
ic, XpucTriv rré|LiTTOucriv, aYOuffi bè bujpa dvaKir 390
TTiv bè véov KXi(Jir|Gev è'pav Kì'ipuKeq aYovieq
Koùpiiv Bpi(jfìO<; tì'tv )Lioi bócrav vxec, 'Axaiujv.
dXXd aò, ei buvacrai y£, Tiepiaxeo Traibò<; ir\oq'
èXGoOa' OuXu|LiTTÓvbe Aia Xicrai, emoie bri ti
il eTtei ùjvricrai; Kpabiiiv Alò? lìè xai epYtu. 395
TToXXdKi Ydp creo Ttaipò? évi lueYdpoicriv dKouffa
eOxo|uévri?, oi' èqpr|(JGa KeXaiveqpéi Kpovicuvi.
— 38t> —
oi'r) èv à9avdTOi0iv àeiKéa Xorfòv dfiùvai.
òTTTTÓTe mv Euvòfiaai 'OXOfamoi qGeXov dWoi,
"Hpr| t' TÌÒè TToaeiòduov Kaì TTaXXàq 'A6nvri. 400
àXXà cu TÓv y' èXSoOaa, 6eà, ÙTreXucrao òecriaujv,
ujx' éKaxÓYX^ipov KaXéaaa' èc, iitaKpòv "OXu|l17tov,
6v Bpidpeujv xaXéouai Geoi, dvòpeq bé re iràvie^
Ai-faiuuv' — ó "fdp aure piri ou rrarpòq d|ueivujv —
6q pa TTapd Kpoviuuvi Ka6éZ;eT0 KÙÒei 'fctiuuv 405
TÒv Kaì ÙTTé'òòeKJav iLidKapeq 0eol oùòé t' ebr]CSav.
Tujv vOv mv jLiVìiCTaaa -napéleo Kaì Xa^è touvujv,
ai KÉv TTOig è9éXì;i(Tiv erri TpubedcTiv dpnEai,
Toùg òè Kaid irpùiuva? le Kaì à|Liqp' dXa è'Xaai 'Axaioùq
KT€ivo)iévouq. iva nàvrec, èTraupuuvtai paaiXfjOc;, 410
■fVLÙ òè Kaì 'Atpeiòiiq eupuKpeiouv 'AYa|aé)avuJV
iìv diriv, òt' dpicfTOV 'Axaiujv oùòèv etiaev ».
Tòv ò' lì^eipei' eTreita Qéxic, Kard òdKpu xlouaa
e 01)1101, TÈKvov è)Liòv, TI vu (j' èipccpov aìvd TCKOucra;
aì9' òcpeXeq irapà vnuaìv ftòdKpuTO<; Kaì dirnuoiv 415
fjaSai, ènei vu xoi aiaa inivuvBd irep, outi )LidXa òì'iv •
vOv ò' d)Lia t' ujKÙ|uopo(; Kaì òiZiupò? nepì TrdvTUJV
errXeo* tlù (Je KaKi^ aicTi] xéKOv èv jneYdpoiaiv.
toOto òé Toi èpeouffa erroq Aiì TepiriKepaùvu)
eiiu' aìiiri npò<; "0Xu|U7T0V àfàvvicpov, ai' Ke TiiGiiTai,
dXXd (Jù uèv vOv vriucJì iTapii|uevo<; djKUTtópoiaiv 421
ur|vi' 'AxaioicTiv, -rroXèuou ò' àrrorraùeo TidiLinav "
Zeòq -fdp iq 'QKeavòv juei' d,ui))Liovaq Aì9iOTTna<;
XQi^òq è'pii Kaid òaiTa, Geoì ò' d|Lia TrdvTe? cttovto"
òuibeKairi òé toi aÙTi<; éXeùcreTai OuXu|littóvÒ€, 425
Kttì tòt' è'rreiTd toi eim Aiò<; ttotì xaXKO^aTèq ÒOù,
Kai |Liiv YOuvdao).iai, Kai )aiv TreicreccGai òiuj ».
"Q<g dpa cpujv\]aaa' dire^naeTO, tòv ò' eXm' aÙToO
Xiwò,uevov KaTd 9u)aòv èuZiuuvoio YuvaiKÓ<;.
'AXX' òtc òr\ p ìk Toio òuujòeKdTii TcveT' nuuq, 493
xaì TÒTE òr] npò? "OXuurrov ìaav Geoì aièv èòvTec; eie.
— 387 —
Quoniam de vetustissima arte epica verba fecimus ,
recte nemini ineptum videbiiur, quod tetigimus infra etiam
epicum quendani posteriorcm.
Duentzerus qui primus quod sciam fragmenta graecorum
epicorum collegit, Pisaudri cuiusdam praeclarum fragmen-
tuni protulit ex Zosimo historico (V, 29) : Toùq 'Ap-fovautaq
cpaalv ÙTTÒ ToO AiiiTou òiaiKOjaévou? laiq ei<; tòv TTóvtov èK^oXaìq
ToO "IcTipou TTpocropiaia9fivai Kpivai le Ka\u)q è'xeiv òià toutou
Ttpò<; àvTiov TÒV poOv àvaxBiìvai Kai luéxpi xoaouTOu òiaTTXeOaai
TÒV TTOTaiLiòv eìpeaitt Kai TTveufAO.TOc; èmTiibeiou cpopd, M^XPi<S «v
Ti] QaXàaO)} rrXiiaiaiTepoi tévoivto' TipaEavTeq òè òirep è'-fvujaav,
èireiòii KttTà toOtov èTévovTO tòv tóttov. juviiiaiiv KO.TaXiTróvTe*;
Tqq acpeiépaq dcpiEeuu? tòv ti^ TTÓ\euj(g okiaiiiòv )urixavaT<; èTTi-
eévxag Tfiv 'Ap-fi-u Kttì xeTpaKoaiuuv aTaòiuuv òòòv àxpi OaXó.cr(Tri(;
éXKvaavrec;, outuu TaT<; GecrcyaXiuv aKTaii; TipoOujpjJi'KJQ^Oav, tbq
ò TroiiiT]ì(; icTTopei TTiaavòpo<; ò tìì tlùv iipuuiKUJV GeoTamiùv
ÉTtrfpacpìì irdcrav ójq einexv icfTopiav TrepiXa^uòv. Quo loco cum
mare, cui Argonautae appropinquant, Hadriaticum fuisse
constet idque quin etiam Olympiodorus historicus nomina-
verit non dubium relinquat Sozomenus ecclesiasticae hi-
storiae scriptor non spernendus, prò GecraaXujv ?eu potius
OeTTttXujv haud dubie scribendum est 'iTaXuDv, ut sententia
recte procedat, Vidit enim Duebnerus qui paucis septimanis
post Duentzerum in fine voluminis editionis Didotianae,
quod primo loco Hesiodum a fratre Lehrsii Regimontani
recensitum complectitur , eadem fragmenta contulit , re-
petisse illa Sozomenum idque ut rectissime Duebnerus 1. e.
contcndit ex Olympiodori Silvis, unde extremam partem
suarum historiarum etiam Zosimum hausisse Inter omnes
nunc satis constat. Neuter virorum doctorum cognovit etiam
a Plinio H. N. 111, i<S ed. Detlefs. similia narrata esse. 'De-
ceptos credo, inquit, quoniam Argo navis fiumine in mare
Hadriaticum descendit non procul Tergeste, nec iam constat
- 388 -
quo flumine, umeris travectam Alpes diligentiores tradunt,
subisse autem Histro, dein Savo, dein Nauporto, cui nomen
ex ea causa est Inter Aemonam Alpesque exorienti\ Quam
narrationem ex Pisandri cannine fluxisse nemo negabit, cui
notitia est Argonauticorum. Quae cuni ita sint, dubitatio-
nibus vel coniecturls, utri duorum Pisandrorum, quos no-
vimus, fipujiKai 6eoYa|aiai vindicandae sint, non amplius opus
est ; neque enim dubitari potest, quin Suidas s. v. TTeiaav-
òpo? Carmen illud iuniori Pisandro sub Alexandro impe-
ratore vivente tribuens erraverit, quem errorem quidem
nonnulli cognoverunt, sed certis argumentis non comproba-
verunt. Idque maximi momenti est, quod Heynius olim in
excursu primo ad lib. ii Vergilii negaverat Carmen Pisandri,
quem Vergilio fontem excidii Troiae fuisse Macrobius te-
status est, et quod quin idem sit, quod Zosimus comme-
morat, dubitari nequit, senioris Pisandri esse, sed omnia
a Macrobio de ea re exposita temere esse dieta. Kinkelium
qui nuper denuo Graecorum epicorum fragmenta coUegere
coepit, res prorsus effugisse videtur.
Postquam de Homero et poesi epica nonnulla disputa-
vi mus, transibimus ad illos , qui leiadxn tuùv 'Ojui'ipou lueta-
Xuuv òeiTTvuuv collegerunt. Atque primum quidem lectores
relegamus ad Sophoclis Oedipum Regem qui vocatur v. 420
seqq.
pofì<; bè Tr\c, (yf\c, Txo'wc, oùk èaiai Xi,uiiv,
7ToTo<; Ki0aipdjv oùxi cfu|Li(pa)VO(; idxa,
OTttv KaiaidGri tòv ij|uévaiov, ov bó.uoiq
avopiuov eìaÉTrXeucrai; eÙTiXoiai; lux^v;
- 389-
Ut nunc alia omittam, quae interpretationi difficultatem
attulerunt, Tiresias caecus vates iam montes, inquit, Oedipi
lamentationes repercutient, cum cognoverit nuptias suas,
quales sint infaustae ncque similes putandae navi in se-
curum quendani portum intranti. Sed ad singula accedamus.
Omnes adhuc quantum scio u|névaiov tralata notione prò
ipsis nuptiis acceperunt, ov autem idque quidem accuratius
descriptum avopiuov attributo accusativum esse voluerunt in-
terioris obiecti quod grammatici recentiores vocant. Aó-
Iliok; denique cum eiaériXeuGac, coniungi solet, ut tamquam
meta navigandi significetur. At qualis est illa meta? domus
est, inquit poeta. Esto, sed cuius? Lai et locastae dixeris.
Id tamen non legitur apud poetam. Sunt qui contendunt
supplendum esse et facile suppleri posse. Fieri posse prorsus
nego*, nam si eam supplendi rationem sequeremur, quaelibet
ubique ex silentio scriptorum supplere liceret. Neque autem
fieri potest, ut òó|uoi in universum prò domo accipiantur,
quoniam Tiresias commemoratione dignum non potest putare
Oedipum omnino domum quandam nuptiis sortitum esse,
sed domum illam certissimam, unde ipse natus est. Quo-
cumque igitur òó)uujv interpretationem vertimus, ad rectam
sententiam cum non perveniamus, postquam levi mutatione
YdjLioi<; prò òójuIOk; scriptum est, ujuévaiov primaria notione
carminis nuptialis accepto, hoc modo putamus interpre-
tandum esse : omnes regiones Oedipi clamorem repercutient,
cum cognoverit, quo hymenaeo infausto ac tamquam im-
portuoso cantato quamvis felicem navigationem nactus in-
sanarum nuptiarum portum ceperit. Ad "fÓMOi? non opus
est supplemento, ut eae nupiiae significentur, in quibus
totius fabulae cardines vertuntur. Cf. v. i4o3, ai tómoi,
TajLioi.
— 300 -
Ad graecarum rerum scriptores pervenimus, c\ quorum
numero Thucydidem et Xenophontem tractabimus.
Thucydides postquam narravit (II, (3) Thebanos a Pla-
taeensibus captos interfeciosesse, pergit: toOto òè Troii'icravTeq
(scil. TTXaTaifÌ!;) è? re jàq 'fK9r]vac, uTf^Xov eTteiaTrov Kai toù<;
v€Kpoù(; ÙTTOcfTróvòou? àTTÉÒocTav ToTq 0riPaioi<;. Miserunt igitur
Plataeenses legatos; sed ut quid nuntiarent? mortem ni-
mirum Thebanorum, cum non esset alia causa, cur post
victoriam Athenas mitterent. At id non nuntiaverunt, nam
infra Thucydides ipse testatur duos nuntios Athenas missos
esse, quorum neuter Thebanorum mortem in notitiam Athe-
niensium pertulerat, ut eorum legatus cum Plataeas ve-
nisse!, praeter exspectationem mortuos inveniret. Quid?
tertius nonne dimitti potuit a Plataeensibus ? potuit sane,
concedo, sed non missus est, nam aut Athenas re vera ve-
nisset: tum Athenienses non ignari fuissent Thebanorum
interfectionis (cL infra) -, aut si non advenisset id tantum
reliquum esset, ut praeconi Atheniensium eum obviam
factum esse putaremus; quod si fuisset verum, praeco ad
Thebas viam neque perfecisset ncque id Thucydides silenti©
praetervectus esset.
Atnarrat:où Tàp lÌTT^XOn aÒToT?(='A0rivaioi(;),6TiTe6v»iKÓT€q
eiev (scil. OriPaToi)" a|ua T^p xr) èaóòuj YiTVO|uév)] tujv Gii^aiiuv
ó TTpu)TO(; à-ffe^^oq èE(iei , ó he bemepoq apri veviKimévuuv le
Km Huvei\ri|Li|iiéva)V ■ Kaì tuùv ucTtepov oùbèv ijòeaav. outuu bi]
oÙK eìòóieq 01 'A9r|vaToi ènéarikXov • ò òè Ki^put àcpiKÓinevoq
riupe Toùq àvòpac, òieqpBapi^évouq. Quae cum ita sint, vitium
latet in Tà<; 'A9iiva(S, cuius loco scribendum est 'zà<; Gì'iPaq ,
ut h. 1. nuntius signitìcetur missus qui interfectos esse The-
banos traderet.
In pestilentia describenda Thucydides, II, 48, 3 : Xeréruu
|Lièv oiov, inquit, nepì aùroO \hq eKa(JTO(; YiTVÓ)(JKei Kai ìaipòq
Kttì ìòiLUTri?, à(p' OTOu eÌKÒq fiv YtvéffGai aOtò Kaì tàq a'iTÌa<;
— ;m -
àaxivaq vo|uiZ:ei locfauTii^ jueiapoXiìq kavà^ eivai òùva|uiv {eiq
TÒ laeTacTTiìvail crxeìv. Quo loco cum verba.toaauniq lueia-
po\fi<; ita sint comparata , ut a relativo dependere possint
(cf. Krueg, 47, 9, 5), ita tamen non comparata sint, ut
eorum notio accurate sit disiungenda a notione verbi ineia-
(Tifivai quod sequitur, sed tautologia exoriatur, quae ferri
nequeat, quis dubitabit, quin haec tanta '•mutandi' verborum
coacervatio, quae nobis hoc loco ofFertur, in contextum li-
brarii interpolatione irruerit? At de illorum verborum re-
latione de quibus nunc agitur , doctus Thucydidis inter-
pretum Nestor ita exposuit, non ut in enuntiatione relativa
ea verba posita esse videantur, sed ut videantur dependere a
làc, aWmc,. Sed tamen vir peritissimus Thucj^didis interpre-
tationis, cum ToaauTri<; luexapoXfi^ de a(yTiva(; pendeat, illa
verba manere semper partem enuntiati relativi negare non
poterit, ut etiam tautologia in eo remaneat, praesertim cum
propter ea quae secuntur non possit dubium esse, ad quam-
nam rem iKavà^ aÌTÌa<; scriptor referre voluerit. Quare
quamquam viri doctissimi auctoritatem etiam apud me plu-
rimum valere confiteor, tamen in hac causa interpretandi
viam mihi intrandam esse putavi, quam post Gesnerum
Stahlius denuo nobis praeivit, qui nuper peregregie Thu-
cydidis libros recensuit. Qui vir doctissimus eadem haud
dubie ratione perductus, quam supra demonstravimus , in
adnotatione critica iure reiecto exemplo, quod Poppo olim
ad locum nostrum defendendum ex Thuc, vi, 20 attulerat,
interpretamentum esse iudicavit òùvajuiv èc, xò lueracTTnaai
(JXeiv et inclusit.
Multo vero id magis laudaverim, quia ne Reiskio quidem
divo illi Lipsiensi philologo contigit, ut kkI post eivai inter-
iecto sententiam restitueret ; nam qui locus ex Demosthenis
oratione OU^nthiaca (II, § i3) a Wyttenbachio collatus est,
TToWnv bri ifiv |Li€Tà(JTa(Jiv Kal jueYaXnv beiKiéov rriv iLierapoXfiv,
- 392 —
eum locum dico prorsus alienum esse ab eo, de quo agitur,
quoniam cum Demosthenes oratoris gravitate usus copiosius
saepe soleat loqui, Thucydides res gestas graviter sane nar-
rat, sed procul ab illis verborum ornamentis, quae spectant
ad forenseni usum et publicum. Reliquum est, ut id paucis
exponamus, quod in Stabili lectione vituperandum esse pu-
tamus. Est sane interpretamentum quoddam removendum,
sed cavendum, ne nimia resecemus. Si quid est in me iu-
dicii, aut TocJauTri? laeTapoXfì? aut è<; tò lueTacTifìvai expun-
genda sunt -, cur reliqua verba bùva)niv axeìv in suspicioneni
vocemus, causa non est, cum iis tautologia efliciatur nulla,
Utrum autem eorum cxpungendum sit, non difficile est ad
intellegendum. Ego enim existimo, alterum esse interpola-
tum, quo remoto, postquam ToaauTriq |ueTapo\fì(; cum buvajuiv
coniunximus, optima sententia evadit-, nam indicantur causae,
quas aptas esse putant , quae facultatem habuerint tantae
mutationis.
Et quoniam de rerum scriptoruni principe egimus, unum
quoque locum tractabimus Xenophontis anabasis, qui diffi-
cillimus est habendus.
Quo loco graecorum transitus in Carduchos describitur,
legitur, IV, 2, 6 : )aa(JTÒ(; r[V uTtèp aÙTUJV Trap'ov nv r\ oxevr\
autri òboe,, èqp' f] éKdGnvTO oi cpù\aK€<;* è'cpobo(; uevroi aùróGev
erri TOvc, noXeniovc, r\v oì èm Tri qpavepo. óòuj èKd9»iVT0. Ca-
rolus Schenkelius , Annal. Vindob, Acad., 18G9, p. 606:
(Ttevriv óòòv eandem esse voluit atque 9av€pàv óòóv, utqpu-
XaKe(; et TToXéjuioi non essent diversi. Quod si recto dixisset
vir doctus, eodem iure irap' ov — 01 cpù\aK€(; interpolationem
expunxisset. At cum Vollbrechtio, .1;;;^ Flcck., 1874,
p. 622 altera via ab altera accuratissime discernenda est,
cum sit cTievii óòói;, quam viam voluntarii Graecorum in-
traverant Carduchos circumveniendi causa, cpavepà autem
óbó<; supra nominetur iLiia auiii óbò<; nv bpàc, òpSia, in qua
— 393-
cpuXdxToucTi Tf]v èK^acriv (IV, i, 20). Quam rem vir doctus
mathematicorum subtilitate demonstrare potuisset , si (IV ,
2, 8) contulisset, ubi Cheirisophum copiis progredientem le-
gimus avuu Kaià xiiv cpavepàv óòóv. Age vero qualis sit crievri
òòóq consideremus. Xenophon enim ipse (IV, 2, i3) de suo
itinere narrat èm ttoXù ò' fìv là vnolv^ia aie òià aTevfi(g i?\<;
óòoO TTopeuójueva, quam viam non esse diversam ab altera
via , in qua hostium custodes stationem habebant , verba
nos docent , quae ibid, § 9 leguntur Eevoqptùv bè — è-rro-
peueio TÌTTep 01 tòv fixeuóva è'xovT€(;.
Cave ne credas cum Schenkelio viro doctissimo nostrae
sententiae ea repugnare quae ibidem secuntur eùoòuuTdTri
ToT^ uTToZiuTiouq ; nam iumenta alterum post alterum etiam
in angustiis satis commode progredì posse patet*, quae
ascensu non difficiles sunt. lam vero viis accurate distinctis
etiam Breitenbachii conatum, Zeitsch. Gymn., 1868, p. 69
seqq. praeterire possumus , qui idem duas illas vias di-
versas esse negavit.
Reliquum est, ut de eq)0Ò0(; quam definire nemo conatus
est, pauca exponamus. In tabulis pictis Voilbrechtius, 1. e,
p. 620 et in editione sua , Rehdanzius in adnotationibus
cTievriv óòòv et è'cpoòov secrevisse videntur. Languescit tamen
ista sententia silentio Xenophontis multo magis quam aliis
rebus refutata; nam tale trivium , si ilio loco vere fuisset,
Xenophon facere non potuit, quin commemoraret. Quid
multa? brevissime dicam, ecpoòov aditum esse, quem aievrì
bhóc, ad illos, o'ì èm Trj qpavepa óòiL èKd9riVT0, eis dabat qui
aievriv óbòv fecerant.
Novam autem difficultatem praebet ibid. § 9. Dicit enim
Xenophon de se ipso: ènopeueTO f^Tiep oi tòv x\^^\x.óva. exov-
Te<; • eOo&uuTaTri -fàp ^v toTq uttoZIutìok; (cf. i , 24) , quae
eadem res 2,§ lorepetitur bisce verbis : kkì aùioi i^èv av èiro-
peuGricrav fJTrep 01 dXXoi, td òè unoW-fia oùk fìv dXX)] f| tauTri
'Rivista Ji filologia ecc., X 26
— 394 —
èKPnvai. Verbis , quae postremo loco descripsimus , etiam
narrationis contextus prorsus interrumpitur. Xenophon
enim hostibus in clivo viae imminenti inventis timet, ne
milites dimoverentur àirò tujv àWuuv 'EWiivoiv id est ab re-
liquis Graecis, quos Cheirisophus altera via secum duxerat.
Errare patet , si qui hoc loco apud Xenophontem excusa-
tionem viae exspectent, Verbis igitur quibus Xenophon ti-
morem expressit, ne a Cheirisopho intercluderetur, statim
subiungenda sunt ea quibus Xenophon narratur milites
cohortatus esse , ne se admodum animo dimitterent , sed
impetum in clivum facerent. Idque suadet etiam particula
è'v9a òri, unde incipit alterum enuntiatum. Quae cum ita
sint inclusis iis quae interpolata puto atque spuria esse,
locum hoc modo scribo (§ io): TTopeuó|uevoi b' èvtuYXavoucri
Xóqpuj iiTièp Tfì<; óboO KaieiXTiiuiaévuj ijttò tujv TroXe^iuuv , o\)<; r\
ÓTTOKÓvpai r\v àvdYKri r| biaZieOxOai òtto tujv aWujv 'EXXrivuJV.
[Ktti aÙTol |uèv av èiropeuGiiaav f^rrep oi àXXoi. là he ÙTioZiuYia
oÙK iiv aXXii fi TauTri èKpfivai]. evGa hi] irapaKeXeuadiaevoi àX-
XriXoi<s TtpocrpaXXoucyi 7Tpò<; tòv Xócpov cet. Schenckelio autem
teste utor , qui praeclara dlssertatione 1. e, p. 6i3 seqq.,
plurimis exemplis docet , quam multis locis Xenopliontis
scripta interpolationibus foedata sint.
Hoc loco Demosthenis locum sequi volui simili modo sa-
nandum , qui legitur prima oratione in Philippum habita
§ 20: Kttì Tpocpìiv TauTì;) TTopi(Jai KeXeuuj* è'cTTai ò' auTii tic, fi
òuvajUK; Ktti TTÓcrri Kal rróGev tiiv Tpocpìiv eHei Kal ttOlk; toOt' è9e-
Xrjcrei TTOieTv, i^(b cppdauj , Ka9' eKacTTOv toùtujv òieHiùJV x^J^Pi?-
Habemus igitur hoc loco enumerationem earum rerum,
quas orator clarissimus infra tractaturus est. Atque primum
quidem interrogationi eatai ò' auTr) ti^ fi òuva|Lii<;; locus re-
spondet qui legitur infra inde a verbis Eévou? |uèv \éfw,
deinde alteri iróaii; inde a Xéru) bn Toùq rrdvTag 0'TpaTHJÓTa(;
òicrxiXiou?. De duabus denique postremis quaestionibus agitur
~ 395 —
inde a 7TÓ9ev bx] toutok; f) ipocpfi Tevricretai; Quae cum ita
sint, non intellegitur, quid sibi verba velint, quae partitioni
supra praemittuntur xal xpoqpfìv lauiri nopiaai KeXeuuu : sunt
enim praeter omnem conexum cum iis quae secuntur. Ne-
quaquam vero coniungi possunt cum verbis antecedentibus.
Postulat enim Demosthenes superiore oratione òuvainiv, r\
ir\c, TTÓ\euj(; ecTrai, kccv v}.xeic, èva kcxv TrXeiouq kcxv tòv òeTva Kai
óvTivoOv xeipoTovricrriTe arpairiTÒv, toùtuj Treicrerai Kaì aKoXou-
Gncrei. Cui postulationi subiungi non possunt illa verba,
quae sequi iam diximus Kaì xpocpriv rauxii Tropicrai KeXeuuu
cum in verbis commemoratis insit non ferenda TrpóXrin/n;
tertiae particulae divisionis quae sequitur. Ergo nihil restat,
quam ut illa verba Kal xpoqpfìv xauxri Tropicrai KeXeOuj expun-
gamus. Est enim lemma , quod librarius quidem in mar-
gine notavit sive ad eum locum, quem supra descripsimus,
sive ad § 22 iTÓOev — Y^vricrexai.
In transcursu denique commemoro vix sanum esse in
§ 2 1 xòv aùxòv xpÓTTOv. Ut enim superiore loco Demosthenes
voluit axpaxiuOxa(; xpóvov xaKxòv crxpaxeuo|Liévou(; nulla re de
bellandi ratione addita, sic puto eum etiam infra equites
significasse non xòv aùxòv xpótrov , sed xòv uùiòv xpóvov
(Txpaxeuojuévoug. Sed haec hactenus de Demosthene.
Ne desint christiani inter paganos, nonnulla de ecclesia-
sticis graecis scripsi, quos quod viri docti qui illius aetatis
res gestas conscripsere, nimis neglexerunt, studiis historicis
detrimento fuit maximo.
Et vetus quidem est controversia, uter prior scripserit
historiam ecclesiasticam, Socratcs an Sozomenus? Uterque
enim eadem tempora enarravit, praeterea consentit alter cum
— 396 —
altero non modo in rebus earumque ordine, sed etiam non
paucis locis fere verbo tenus. Valesius doctissimus ille Gal-
lorum causidicLis, ut decebat virum a Socictatc Jesu pro-
fectum , credo, inquit, Socratem Sozomeni auctorem fuisse,
ncque fìdem suam argumentis comprobavit. Prorsus vero
nihil profuit Holzhausenus, qui libellum academico praemio
Georgiae Augustae ornatum eumque tamen deterrimum
edidit qui ne dignus quidem est, cuius titulum hoc loco
commem oremus^ voluit autem utrumquescriptorem eundem
fontem adhibuisse. Valesii sententiam denuo nuper exce-
perunt Gueldenpenning (Theodosius Magnus imperator, scri-
pserunt Gueldenpenning et Ifland 1878) et Sarrazinus (de
Theodoro Lectore in commentt. phil. lenens, 1881, p. 166)
paulo confidentius. Sed etiam Gueldenpenning vir sane
summae industriae id tantum demonstravit scriptores illos
miro modo nonnullis locis inter se convenire. Omnes ef-
fugit Socr., I, IO et Sozom., i, 22. Quibus locis contro-
versia tandem diiudicatur secundum Valesium. Socrates
enim postquam 1. e. narratiunculam quandam coUoquii
inter Constantinum imperatorem et Acesium episcopum
commemoravit, Toùtujv, inquit, ouie ó TTaiaqpiXou Eùaépioq,
ouTe àWoc, TE è|uvri)Lióveucr€ TTiWTroTe' ì^Oj òè irapà àvòpòg TiKOuCa
otibajnujq qjeuòo)aévou, oc; TtaXaióq Te rjv (Jcpóòpa Kal dig \axo-
prjaaq TÙ Kaià Trjv 0uvoòov è'XeYev. Exspectaveris quidem
apud Sozomenum rem praetermitti. Immo vero, etiam apud
Sozomenum legitur neque is verborum convenientia caret.
* Eccum qucm quaeris ' fraudulentum homunculum.
Hoc quod sequitur satis luculentum omnibus excmplum
numeralium corruptionis esse duxi. Hausit enim non pauca
Sozomenus ex Philostorgio , cuius membra quod misere
tantum mutilata nunc habemus, valde dolemus. Locus au-
tem de Joviani morte apud Philostorgium frgm. Vili, 8,
legitur hic : aòròq òè lueià toù? ùiroXeicpeévTa? KaiaXa/apavei
— 397 —
là Attòdciava " è'v rivi òè Karakvaac, araGiua) Kai ipocpiìc; |Lie-
TttCTxùJV èv oiKi'iiuaTi xivi àpii KeKOVia)oiévuj KaiaKXiveTai 7xpò<;
UTTVOV. TTupòq ò' àva(p0évTO(; , ùjate àXéav èYYevéaBai tuj oìkii-
\xan. VOTI!; |aèv tuìjv veocTxpi^JTuuv toixujv óvcòiòoto' iìpé|ua òè
olà tOùv pivujv napaòuojuévii Kal toù<; àvarrvuaTiKÒuc; rrópouq
eTTicppdTTOucJa Kal àTTorrviToucra òiaqpGeipei tòv pacfiXéa.
Sozom. VI. 6, de eadem re scripsit: èHaTTivri(; èv Aabaard-
voi<; x^PiMJ Tiii; BiBuviac; KaG' óòòv èTeXeùiricFev • ìì àcpeiòécnepov
ùj<; Tive<; XéYOuO"i, òei7TViiaa(; ìì uttò tìì^ òò)ufi<; toO oÌKrijLiaToq
èv li) eKdeeuòev, dapéatLU TTpocyqpdTUJig èTXPi(J9évT0(;" è7TiYevé(J9ai
Yàp ÌKjLidòa Kal voTiaGfìvai xoùq toixou? a|uéTpuu(;, ttoXXujv dv-
GpdKujv aÒTÓGi Kaio)aévuiv, uji; èv ujpa xeiM^Jvocg bià Tr|v dXéav.
Qui scriptorum consensus multo magis cognoscitur , si
comparatur Marcellini locus xxv, io, 12, qui non prorsus
cum illis convenir: 'cum enim venisset Dadastanam,. qui
locus Bithyniam distinguit et Galatas, exanimatus inventus
est nocte. super cuius obitu dubietates emersere complures.
fertur enim recenti calce cubiculi illiti ferre odorem no-
xium nequivisse, vel extaberato capite perisse succensione
prunarum immensa aut certe ex colluvione ciborum avida
cruditate distentus'. (Cf. Aur. Vict., ep. e. 44 cruditate sto-
machi, tectorio novi operis gravatus repente interiit).
At summa tamen differentia inter Philostorgium et So-
zomenum eodem loco intercedit, ut primo obtutu compa-
ratio, quam fecimus, irrita videatur. Subiungit enim Phì-
lostorgius òiavuaavxa èv irì paaiXeia jufìvaq èYYÙ<; òÉKa , cum
Sozomenus loco, quem descripsimus, praemittit ò òè 'lopiavò(;
d)aq)l ÒKTib jufìvaq èv paffiXeia òiaYevó)Lievo(g (scil. èreXeuTtìaev).
Locus Philostorgii autem corruptus est, quae corruptio de
itacismo qui vocatur posteriorum Graecorum a nobis de-
ducitur. Signa enim numeralium i' et ri' sunt, quae eodem
modo illis temporibus pronuntiata et audita a quodam li-
brario inter se oculis quoque commutata sunt. Gf. de men-
— 398 —
sium numero Zosim., Ili, 35, yi?\\ac, \xkv òktuu paaiXeuaavii
(se. mors venit) et Eutr., X, 18, minus accurate ' decessit
imperii mense septixno \ Et quoniam Zosimi est facta
mentio , qui Eunapium descripsit cum aliis locis , tum eo
loco , quem commemoravimus , etiam panca dicemus de
Philostorgio qui Eunapium legisse videatur. fuit enim con-
stans ususecclesiasticis graecis paganorum historias eorumque
etiam pervicacissimorum legendi , quam rem cum Rosen-
steinius accurate demonstravit de nono Sozomeni libro, tum
ego demonstrabo opuscolo peculiari paulo post in aedibus
B. G. Teubneri proferendo. Sed si accurate quaerimus ,
cur etiam Philostorgium putaverimus in rebus profanis ,
quae dicuntur, scribendis hausisse ex Eunapio, causam re-
periemus verissimam: quod Theodosii Magni ingenium et
natufam aeque condemnavit, ac Zosimus fecit seu potius
Eunapius , cuius verba ipsius nonnulla ea de re facta in
Suidae lexico conservata sunt. Cf. Mueller, Fì'g. hist. g-7\^
IV, p. 36, 49. Dicit autem is qui excerpta ex Philostorgio
confecit : laOia Xéf wv ó bucfcrepriq -rrepl toO eiiaepeffraTou 0eo-
boaiou oÙK aìffx^veTai KuuiaLUÒeiv aùiòv iit" òiKpacria piou xaì
ipucpiì»; àiieipia, hi tìv aùiòv aXoivai Ypdqpei Kal tuj toO iiòépou
vocri'maTi. Ad quem locum velini lectores conferant praeter
ea quae Muellerus, 1. e, commemoravit, Zosim., IV, 5o,
qui de Theodosio dixit: qjucrei Tàp u)V èKjieXfiq, paGujaia re
Ttdai] èKKeiiaevo? et paulo inferius mQiaTapievoc, de, àvÓYKriv
craXeueiv Kaid ti là KaGecTToiia TTpoaòoKUJ|Liévìiv àTtexieeTO |Lièv
Tfiv pa8u)aiav Kaì tri Tpucprj x«ipeiv eÌTTUJV cet. Cf. Guelden-
penning, Ifland, 1. e, p. ■236(de veritate eius iudicii). Frustra
Sudhausius contendit, ut ea similitudo, quae Inter Ammia-
num et Zosimum (i. e. Eunapium) intercederet, inde orta
csset, quod uterque eorum Oribasium medicum illum lu-
liani praeclarissimum, qui sibi in bello Parthico ùttoiìvii-
laaia notaverat, excripsisset. Iure enim Th. Opitz (Ritschl.,
- 399 -
Act. II, p. 260, adn. 83): '■Ei,inquit, sententiae hoc obstat,
quod Ammiano et Zosimo etiam de rebus ceterorum prin-
cipum convenir , Oribasii autem ùiróiuvnMa res unius lu-
liani compleAum esse videtur'. Ergo ad Martini sententiam
revertamur necesse est, qui multis locis Eunapium Am-
miani vestigiis insistere recte iudicavit. Quae cum ita sint,
non mirum est, quod quibus locis Sozomenus plus habet
quam auctor suus Socrates ecclesiasticus cum Ammiano
saepius consentit. Ncque enim dubito, quin id plerumque
factum sit eo, quod Sozomenus Philostorgium legerit, qui
Eunapio usus est. Quomodo diiudicandum sit de praeclaris
illis ecclesiasticorum locis qui ad Ulphilam episcopum per-
tinent Maroldius Fridericiani collegii 'Gothicus' peculiari
libro iam est explicaturus.
Sed restant alia, quae ad Latinos scriptores pertinent.
Et primum quidem locus Ciceronianus a me tractabitur,
qui legitur in oratione de imperio Cn. Pompei, § 18. Quo
loco nunc ex Mommseni auctoritate apud Kayserum 'etenim
illud parvi refert, nos republica bis amissis [vectigalia] po-
stea Victoria recuperare'. Quamquam in Mss. traditur *nos
publicanis amissis vectigalia postea Victoria recuperare'.
Quae verba ut rectam sententiam efficiant, tantum abest,
ut ne verti quidem possint. Quid hoc loco Cicero sibi vo-
luerit, si quid video, non potest dubium esse. Dixit enim,
si ea quae res publica ex Asia cotannis in publicum usum
accepisset, perdidisset, postea Mithridate vieto recuperasset,
tamen facultates eorum, qui in Asia pecunias magnas con-
locatas habuissent, non restitui, cum eorum fides et pecunia
semel periisset. Quare gravioribus mutationibus , quas
— 400-
praeter Mommsenum alii conati sunt, non opus est, sed
scribendum est, lenissima litterarum mutatione 'etenim illud
parvi refert, nos publicis agris amissis vectigalia postea
Victoria recuperare'. Sententia, quae desideratur, eo modo
efficitur. lam enim, inquit Cicero, parvi refert, nobis qui
rempublicam representant, publicis agris primum bello
amissis, sed postea Victoria recuperatis vectigalia, quae c.\
illis agris in aerarium confluunt, denuo comparari, nam eo
modo nequaquam restituuntur privatorum et maxime quidem
publicanorum res semel amissae. Sic igitur probatur id
quod praecedit: humanitatis futurum esse populi magnum
numerum civium, qui in Asia provincia pecunias coUoca-
verant, a republica non seiunctum putare. Tévecri? quae
vocatur corruptelae quamvis antiquae facillime cognosci po-
testi scriptum olimerat, ut fitetiamin inscriptionibus, PVBL.
AGRIS vel PVBL. AGR. quod compendium posterioris
aetatis librarius non perspexit ut prò uno vocabulo legeret
et in PVBLICANIS corrumperet. Potuit quoque fieri, ut
vitium evaderei ex 'publicis agris' minusculis litteris exarato
sillaba 'is' postquam casu quodam vel librarli temeritate
omissa est, duabus voculis in unum contractis.
Nuper legi secundi Titi Livi e. 3o 'Multis, ut erat, hor-
rida et atrox videbatur Appi sententia*, rursus Vergini
Larciique exemplo haud salubres, utique Larcii putabant
sententiam, quae totam fìdem tolleret'. Quem locum inter-
polatum esse viderunt onines fere qui Livium ediderunt.
Sunt enim qui verba 'putabant sententiam' a contextu pu-
tent esse removenda, ut quamvis Vergini Larciique sen-
tentiae haud salubres fuerint, tam noxia Larcii sententia
videatur fuisse, quae totam fidem toUeret. Sunt quidem
quoque qui nuUam censeant in hoc" loco inesse corruptionem,
sed interpretandum esse : quamquam Vergini Larciique
exemplo haud salubres videbantur sententiae, tamen Larci
— 401 —
sententiam talem esse putabant, ut totam tìdem tolleret.
At in utraque earum lectionum duplex illa Larcii nominis
repetitio maxime offendit, cum primo loco "haud salubris'
eius sententia nominetur, altero autem multo gravius 'quae
totam fidem tolleret'. Id ferri nequit, cum praesertim Appi
Vergini Larci sententias, sicut singulae antea enumeratae
sunt, ita hoc capite singulas a scriptore recensitas esse con-
textus facile doceat. Quae cum ita sint, non dubito uncis
includere 'Larciique' et 'salubres' mutare in 'salubris', ut
illa quam deesse supra diximus, sententiarum distinctio ef-
ficiatur. Sed ne sic quidem locus sanatur, sive priorem
quam commemoravimus rationem interpretandi sequimur,
sive alteram-, nam cum scriptor dicat Larcii sententiam,
quae totam fidem tolleret, omnino non potuisse accipi, ita ut
patres eam prorsus statim reicerent, vocabulum desideratur,
quod 'multis' respondeat et 'omnes' significet. Si tale quid
deesset, locus de ea sententia defiecteret, quam Livium
exprimere voluisse patet : nemini Larci propositum pla-
cuisse. Ex 'multis' enim ad ea quae secuntur, nihil liceret
supplere, nisi iterum "multi', quae res eo non mutatur, quod
'utique' particula addita est. Ergo in 'utique' latere puto
'cunctique' saepissime compendio 'cùctique' in Mss. exa-
ratum et prò 'putabant' scribendum esse 'repudiabant', quod
ante me etiam ab altero quodam scriptum nuper vidi. Id
autem rectissime factum esse propterea prò certo habeo,
quod verba 'utique Larcii putabant sententiam, quae totam
fidem tolleret' prorsus a latinitatis usu abhorrere videtur.
Restat, ut locum qualis a melegitur, infra describam : 'Multis,
ut erat, horrida et atrox videbatur Appi sententia -, rursus
Vergini exemplo haud salubris, cunctique Larcii repudia-
bant sententiam, quae totam fidem tolleret'.
Legenti mihi deinde permirum videbatur, quod editores
initium capitis XL eiusdem libri silentio praeterierunt vel
- 402 -
pauca modo dixerunt, quae interpretationem parum adiu-
vabant. Nunc enim legitur ille locus hoc modo: *tum ma-
tronae ad Veturiam matrem Coriolani Volumniamque
uxorem frequentes coeunt, id publicum consilium an mu-
liebris timor fuerit, parum invenio'. Quid ? num putemus
Livium frequentem matronarum convemum dixisse 'esse'
publicum consilium vel timorem muliebrem? Id fieri po-
tuisse omnino negamus ; nam tantum abest, ut ille con-
ventus consilium vel timor quidam *sit', ut Consilio vel ti-
more quodam 'efficiatur'. Quare iam ne caecum quidem
loci corruptela, ubi sit, effugerit. Latet enim in 'fuerit' prò
quo scribendum est 'fecerit', ut loci postrema particula sic
egartur 'id publicum consilium an muliebris timor fecerit,
parum invenio'. Sana ilio modo evadit sententia : Livium
apud scriptores quos adhibuit, non invenisse, utrum illum
Romanarum matronarum conventum effecisset reipublicae
consilium an timor mulierum.
Regimonti, mense decembri 1881.
LuDoviCLS Jeep.
— 403 —
AD EURIPID. HERC, 190
Amfitrione, ad onore e gloria di Herakles, vuol dimostrare
a Lieo quanto meno di un TolÓTr\c, valga un Ó7t\ÌTr|(; :
àviip ótt\ìtit<; òoO\ó<; èaii tuùv ottXuuv 190
Kaì ToTai auvTax6£i(7iv oucTi ixx] aTaGoiq
aÙTÒi; TÉGvnKe òeiXia ir) tujv TreXai;,
epaùaaig Te Xóyxhv oùk è'xei tlu auujaaTi
0àvaTOv à|nuvai, juiav exujv àXKfjv |uóvov.
Che il luogo sia corrotto mi pare lo abbia dimostrato il
GoMPERz, Beitrdgc ;. Kì'it. u. ErkL, 2, 20 [767], alle cui
parole non posso né aggiunger nulla ne togliere. Ma ardisco
separarmi da lui quando egli afferma che Euripide abbia
dovuto scrivere invece :
àviìp Ó7TXiTri(; òoOXóq ècrii tuùv ottXuuv
Ktti TctEeoiv Taxtìei(g èv ouai ktc.
Credo fermamente che si debba emendare in questo senso,
ma credo anche che Euripide non abbia scritto un trimetro
così cattivo come è questo che il Gomperz si è veduto co-
stretto a prestargli. E se si vorrà pensare anche alla vio-
— 404 —
lenza dei rimedii adoperati dal Gomperz, non potremo es-
sere soddisfatti neppure del palliativo ritmico Tax6eii; t èv
oijtfi, proposto non ha guari dal Mekler nei Wiener Stu-
dien, III, i,p. 41 sg. Ne d'altra parte vorrò contentarmi
della trasposizione ammessa dal Wilamowitz (v. 190, 193-
194, 191 -192), perchè essa richiede anche la mutazione
del Kttl in Kdv (così già Dobree prima del Kirchhoff), e
dopo tutto attribuisce una pesante ed impacciata TtapaiaSi?
appunto a quel disinvolto poeta che sa ridurre a cruvxaEi^
vivace persino le più noiose enumerazioni.
La correzione vera è, se non m'inganno, la semplice so-
stituzione di una costruzione più rara alla volgarissima di
Òo0\o(; con genitivo :
àviip ÓTTXiiriq òoOXó<; ècrri toTc^ ottXok;
Kal ToicTi cTuvTaxOeìcTiv oucTi lafi aYaGotq •
amòq xéGvriKe Kté.
Cf. EuR., Tro., 25o(cfr. iS5):fi toì AaKeòai|uovia vuficpa òou-
Xav; loji., 1 3o: kX€ivÒ(; ò'ó ttóvo? jioi Oeciffiv òouXav xép' ex^iv.
Kruger, 48, i3, 6. KiiHNER IP, § 423, i5. E vero che in
espressioni analoghe a quella di cui abbiamo parlato, Euri-
pide, per quanto so, adopera sempre il genitivo, ma in tesi
generale nulla mi sembra dovrebbe avergli vietato di usare,
p, es., tanto del suo YvaBou òoOXoq (Fr. 284, 5 Nk.), quanto
anche di un faajpx òoOXoi;, come pure dovrebbe aver scritto
DiODORO DI Sicilia, 8, 18, i Dind. (ed. Lips. II, p. i33),
per cui V. CoBET, Collectanea Critica^ p. 238.
Firenze, dicembre, 1881.
GlROL.\MO ^'ITELLI.
— 405 —
'ArAOArrEAOi
Wer schafft aber von Florenz die kol-
lation des griechischen textes ?
Lag ARDE (G. Ab., 43).
Di quella storia di re Tiridate e di san Gregorio che corre sotto
il nome di Agatangelo noi abbiamo il testo armeno e un'antica ver-
sione in greco. L'armeno fu stampato a Costantinopoli (1709-1824),
poi, sulla scorta di sette codici, a Venezia nel i835, e nel 1862 fu
tradotto da' Mechitariani, e anche esso, come il corenese, con ele-
ganza rifatto da Niccolò Tommaseo; di nuovo, per salti (i), lo mise
in francese Vittorio Langlois, aprendo qua e là un occhio sul testo,
tutti e due spalancandoli sull'italiano, guida che non si volle appiat-
tare (2). Il greco diede fuori la prima volta Giovanni Stilting, con
versione latina e buone annotazioni, negli Atti de' Bollandisti (3) ; e
lo trasse da un codice laurenziano, forse l' unico, sopra una copia
procurata a' suoi colleghi dal P. Daniele Papebroch ; finalmente gran
parte ne ristampò per quei luoghi che rispondevano a' capitoli ar-
meni che egli aveva prescelti, il Langlois. Dolevasi lo Stilting, critico
avveduto, di non avere che una copia riboccante di errori di quella
istoria ; istoria che il Papebroch Florentiae cum Henschenio excri-
bendam curavit non propria manti {4) excripsit, excriptamve cum co-
X; Ne dà ragione il Langlois nel suolibro (I, 102); ma al Gdtschmid
non parevano salti fatti con prudenza [ZMG., 31, 1, nota),
(2) Collection des historiens anciens et modernes de V Armenie,
Paris, 1867. I, 99-194. Ne uscirono due volumi.
(3) Acta sanctorum, sept. voi., Vili, 320-402.
(4) Non va dunque detto, col Langlois , copie par le P. Papebrock
{Coli. I, 201).
— 406 —
dice contulit : sed iitrumqiie factum, continua lo Stilting, marni inihi
ignota magisqiie festinanter qiiam diligenter, nisi multa in codice sint
menda (p. 3o6).
Al Langlois venne in soccorso un valoroso grecista, nel correggere
gli antichi testi esercitatissimo, Francesco DUbner; il quale non solo
a suo luogo ripose parecchi accenti sviatisi nella stampa Stiltingiana,
ma spesso propose emendazioni e accettò quelle del predecessore ;
COSI che nella Collection, per quelle buone' lezioni che ti vengono in-
nanzi, fra parentesi, non sapresti, senza altri riscontri, a quale dei
due critici spetti il merito e la lode (i).
Il greco, in que' capi ne' quali Gregorio l'Illuminatore dà prin-
cipio alla lunga predica, non credè opportuno di intrattenerne i let-
tori; come altrove, di suo, accorcia o n'esce con un xai tu Xomd
(part. 57) ; non ci resta dunque di quella santa istruzione che il testo
armeno (2), non tradotto da' Mechitariani , dal Langlois, da nes-
suno (3j. E a questo luogo sarà acconcio il rammentare una scrittura
di armeno che, sulle dottrine del grande convertitore del suo paese,
ci parla a lungo, e promette darci una versione di tutta la catechesi,
utile di certo alla istoria dei dommi e alle vecchie, non sopite, di-
spute de' Monofisiti. Il libro al quale rimando è questo : Agathan-
(1) Avverte il Langlois [Coli. I, vai) dovere esser grato al signor
Dubner che s'est obligeamment chargé de revoir les textes r/recs et d'y
apporter toutes les améliorations qu'on est en droit d'' attendre d' un
critique aussi éclairé. — A riprova delle mie parole citerò qualche passo.
Nel par. 1 xà èv TTcXàYecfiv è corretto dal Dubner in toXc, è. ir.; lo stesso
aveva già fatto lo Stilting, e anzi il primo amanuense che copiò il lau-
renziano. — Del Dubner è il auYYpóqpaiv iTÓ\e|uov ;, accettato anche dal
GuTSCHMiD [ZMG., pag. 4). — Di tutti e due, nel par. 2, il TTdp9oi e
r 'ApoaKiòuJv , non contando che Io St., per errore di stampa , ci dà
TTdpToi, e, con peggiore accento, 'ApaoKiòiuv. — Solo del Dubner è il
Zaaavibai, nel par. 3, ove il codice scorrettamente legge ZaoaiaiKav.
(2) Nella edizione del 1862 da pag. 194 a pag. 539.
(3) La predica cadrebbe nel par. 106, tra le parole ó\o6u|uiuc; àKoiioare
e quelle altre òeOxe ouv àòeXqpoi. II laureuziano l'avrebbe alle carte 81 :
unico segno della lacuna è questo che , nel manoscritto, il òeOxe oOv è
a capo della riga, ed è scritto con A maiuscolo, che non è l'uso del-
l'amanuense.
Anche il s. L.4.uer traducendo dall'armeno Fausto da Bisanzio Ge-
schichte Armeniens , Kòln, 1879) ommette un discorso dommatico che
crede di poca importanza 'p. IV).
— 407 —
gelos et la doctrine de V église arménienne au F*" siècie : thèse prés.
à la fac. de tliéol. de l'église libre du cantati de Vaud par Garabed
Thoumaian (i), Lausanne, 1879.
Intorno alle fonti, dalle quali attinse il narratore armeno, scrisse
con quella erudizione e quell'acume e quella sobrietà che tutti cono-
scono, il prof. Alfredo v. Gutschmid in una dissertazione che ebbe
posto nel giornale degli orientalisti di Germania (2), tradotta in parte
nell'armeno, con qualche nota del volgarizzatore, nel Bapnavep (3).
Qui il critico (4) spartisce le vecchie storie, delle quali crede pro-
babile sia composto il racconto, in tre; senza contare i luoghi tolti
a Koriun. Le tre sorgive sarebbero: una vita di san Gregorio, di un
tarònese (p. 33) ; gli Atti del santo e delle sante Rhipsime , libro
greco (p. 35-36), rifatto da un prete armeno del Valarsciapatiano
(p. 39), e qui si frappone anche la Dottrina (p. 'ì-j] ; finalmente l'Apo-
calisse dell'Illuminatore, di un altro sacerdote di Valarsciapate, verso
il 462 (p. 42). Dell'ultimo riordinatore sono il prologo e la chiusa
(p. 44).
Nessuno giurerebbe che ogni frammento fosse parte proprio di
questo o di quel libro ; nuove ricerche , nuovi ricercatori possono
trattenerci o spingerci piìi in là ; ma che l'opera non uscisse di getto
parrà certo supposizione ragionevole a chi la studi minutamente. Gior
vera anche paragonare quello che dice su queste origini e le obie-
zioni che fa il Thoumaian, meno pieghevole de' critici non armeni
a disossare l'antico libro.
(1) Karapet 0 Garabed, secondo la pronuncia degli armeni di po-
nente, è di que' nomi che confondono; è veramente- il Precursore, il TTpó-
òpo|LiO(; de' Greci, non più usato, che io sappia, come nome di battesimo.
Anche gli ebrei spesso, guidati dall'orecchio, traducono i nomi nostri con
altri che pare assomiglino tra quelli del V, T.; gli armeni, trovando
affinità con Carolus, cambiarono spesso il Karapet in Carlo, benché a
questo risponda nell'uso degli scrittori il Karolos.
(2) ZMG., 1877. XXXI, 1-60.
(3) Nell'annata del 1878 (pag. 297-304) e in quella del 1879 (pag. 10-
16, 97-101). Ma la traduzione non va più in là della pagina 20 del testo
tedesco, e chiude con le parole unterwiesen habe.
(4 Poiché si tratta di erudito così sagace ed accurato, avvertirò che,
facendo dire ai mechitariani i luoghi citati dalla Bibbia in Agatangelo,
essere gam conform alla versione della chiesa, andò troppo in là. Af-
fermavano solo che sono inolio conformi, e per la storia del libro non
va trascurato.
— 408 —
Quello che oggi mi propongo è cosa di poco momento. Mi pre-
meva riconoscere quali aiuti avrebbe un nuovo editore del greco da
una diligente revisione del laurenziano : se lo Slilting e il Dlibner
avevano sempre corretto il codice antico o solo le negligenze della
copia venuta in mano de' Bollandisti : se, tìnalmente, tutti gli argo-
menti che il prof. Gutschmid traeva dalle parole del greco reggevano
davvero, o se non aveva a sparire d' un tratto o a disdirsi il testi-
monio invocato. È strano poi che il Langlois preposto a così utile
impresa, come era quella di raccogliere le istorie d'Armenia, abbia
schivata la piccola briga; e non la schiverò io che, per favore del
signor ministro , e per la cortesia del dott. Anziani bibliotecario,
posso con mio agio consultare il codice laurenziano qui in Pisa, e
posso dire, a chi ne abbia la curiositù, due parole.
Il codice (plut. VII, cod. 25) (i) è del secolo XII , in quarto pic-
colo , in pergamena; è di -buona lettera, e se togli gli scambi delle
vocali, così frequenti ne' testi per la mutata pronuncia del greco, e
non ti curi di qualche accento che non posa sopra il suo luogo, è
mediocremente corretto (2). Di altri manoscritti da poter riscontrare
non so (3), nò potrei, per la povertà delle nostre librerie, assicu-
rarmene.
La prima considerazione vuole esser fatta intorno a' luoghi racconci
dai due editori , e l'amore della giustizia, che non va negato nemmeno
(1) Per isvista, nel Langlois, è VII, 27 {Coli. I, 101).
(2) Di troppa correzione non potrebbe vantarsi un galantuomo che
forse fu padrone del codice 0 credeva poter far da padrone e scrisse
quattro parole alla fine della Vita, cioè a carte 135, e dicono così :
« Istud Librus non intentet
nullus qmt esset Bonus
Litteratus nisi non esse in
Deus et debet essere si
sicut sanctus pauolo fuit ».
E accanto, con molta umiltà, pone il suo nome: Bernardus Fatuus.
È mano, se non erro, del trecento.
(3) Il Langlois dice il laurenziano le plus ancien manuscrit connu
(I, 101). Ripeto che non so dove sieno i più giovani; se però il francese
non avesse nell'intenzione di dire che il Codice fiorentino serba la più
vecchia redazione.
— 409 —
ai poveri amanuensi, domanda che, dove il codice legge chiaro come
il senso la grammatica i correttori vorrebbero, s'avverta. Questo farà,
naturalmente, chi pensi a nuova recensione ; ora basti qualche ap-
punto. L' eùeuiuiai; dello Stilting (par. i) è felicemente corretto dal
Dlibner in eùGriviat;; ma 6ù0r|v{a(; aveva già il codice, e nel codice
stesso sono le parole ttpxovto (per rjpxóv te, par 7); tòv èiaauroO [per
errore èjLiauxòv] kóttov (par. 23); ó yap (anzi che ó laév, par. 9, 27);
irpòt; Ti'iv TiiJv GeuJv (par. 58, 16). E così altrove.
Prendiamo intanto in mano la Memoria del Gutschmid. Fra le la-
cune che egli avverte, paragonando il greco con l'armeno, sarebbero
anche le parole (par. 142, 2) irpocpriTou koì PaTtTiaToO 'luudwou Kal
'AQevoyévouq xoG judpTupoq, Kaì cpQàaac,-..; ma il codice le ha tutte alle
carte no (cfr. GuTSCHMm, p. 3). — Trattandosi di lezione dubbia,
noterò che il Dlibner, al par. io, ha solo lovàpov, da correggere in
KaZoudpou ; laddove, così i Bollandisti come il nostro ms. (f. 11),
danno Kaì Zoudpou (Gut., p, 8). — Altrove (p. n, nota) il Gutschmid
tocca dello OTriAIrai, e gli piacerà sapere che il laurenziano legge al-
trimenti , cioè oiTr|XÌTac; (f. 120), voce che sarà agevole mutare in
0TTrj\a'iTa(;, e così cascano i ragionamenti che posavano sull'età di Si-
meone.
Un luogo principalmente mi tormentava nelle stampe, e fu quello
appunto che m' invogliò a consultare il laurenziano. Solo il greco,
come accennavano il Langlois (p. ii5)ed il Gutschmid (p. 3) ha nel
capo X" àvaKàjJL^iac, òè è-ri' 'EpacreveTt;, onde le note sul campus araxemis-
dello Stilting (p. 327) e del francese; ma anche qui soffia un vento
e tutto sparisce; il codice ha queste parole, óv. òè èrrépadev el; xriv
lòiav irarpiòa. La correzione era così ovvia che non se ne avvide
nessuno !
Ma prima di attendere a quello che abbiamo nel codice, discorrerò
della parte che manca, ed è una lacuna tra il capo Vili ed il IX
che lo Stilting ed il Langlois riempiono con la versione latina di un
luogo corrispondente nella vita di Gregorio che troviamo tra quelle
di Simeone il Metafraste. Il codice in fatti ha due pagine (9 B e
IO A) che non si leggono più; la raschiatura è tale che in molti
luoghi è sfaldata la pergamena, e, nelle altre parti, delle lettere rimane
appena una fuggevole traccia. Dalle cose raccontate da Simeone , se
veramente vi rispondeva la narrazione del nostro testo, non si sco-
prirebbe la ragione che movesse un nuovo lettore a cancellare le
liivista di filologia ecc.,X. 27
— 410 —
tradizioni de' suoi vecchi ; né l'armeno ci può aiutare perchè in questo
principio va solo, per la sua strada, il greco. Forse a migliori occhi
riescirà di raccapezzare i periodi compiuti ; io non leggo che parole
staccate, e con fatica trovo nella prima pagina qualche proposizione
monca e da non contentare che i curiosi. Spesso non restano che gli
accenti, di sotto a' quali puoi indovinare, con probabilità, che cosa
intendesse lo scrittore.
1. 'ApToPàvnv 'ApT[aai]pà(;
2. éauTuj
3
4 TÒ aoO
5. Kai KÙpio^ ÒTTCtpxei
6. biòou è|uoì éKÙJv TÒ oréuua qpopeì . . .
7. Trpoobujpnao|uai gou xwpav juiav èv fj
8. piuuaric; KaXuJs" |Lié,uvri<To òè tlDv aOùv
y. /iiìiadTUJv ì^viKU eipr|Ka<; tì] ^aa\Xr\o-
10. ai} ÙTTOpXéi^jat; eìq xoùq bpóp.ovc, tòjv ai-
11. Tépuuv év èKeivr) tq l'Tiuépa ii|ueì^
12. àx[ouov]Tei; òè tò óp-
13. )ariaa|uev èTriaTduev[oi] . . . |uèv
14. Ijuiiv viKriv ai'iv he àTTuuXeiav x-'- • P^i
lo. eie, To. . . Gr|vai. 'ApTa^dvìr; &è TTpò;;
16. Toùc à
Il òpóuou<; al V. io non ho potuto mutarlo perchè le lettere sono
assai chiare; facile è il correggere airépujv in éxépujv. Per ora non ho
potuto fare nò meglio né più.
Vengo ora alle lezioni; scelgo e non do ogni cosa; vedremo come
spesso megliora, peggiora qualche volta, il testo delle stampe; gio-
veranno gli appunti o a chi studia il greco o a chi ama compararlo
all'armeno. Di accenti errati, di sgorbi di penna, di errori manifesti,
non tocco ; e perchè non tutti hanno alle mani i Bollandisti , andrò
per ordine. citando quo' paragrafi che si trovano nella edizione Dii-
bncriana; serbo gli altri alla fine (i).
;i) Cito il capo e le righe, poi le carte (f) del manoscritto.
- 411 —
I, i6, de, toioOto ouv, f. 4 | 3, 3, Kara-{ó}Ji^vo<;, e 3, 22, KOTa-fóiaevoi,
f. 4, 5 I 3, 20. PaaiXiòa, f. 5 | 4, ig, luexà Tf]<i oiKCiac;, f. 6 | 4, 20, eXeyev
oÙTLue;' ópaxo Geia, f. 6 | 7, 9, toù<; tu òeivà t:., f. S | 8, 8, èv òx^poi-
TctTi;!, f. 8 I 8, i5. Il DLibner, non già lo Stilling , suppone lacuna;
non così lo scrittore del codice. Abbiamo forse a leggere : TTépaai te
KOi TTdp9oi, f. 9 1 8, 22, TidXiv irpòc; TTÓ\e);iov eÙTpeirrie;. Veramente il
cod. ha eÙTpeiTÓc ; il Dijbner eurpeTrToi;, f. 9 | 8, 23, lurivaK;, f. 9 | 8,
23, TiapoxnowvTujv, gli editori; è oscura la lezione nel ms. f. 9 | 9, 7.
Luogo dubbio. 11 cod. f. 9, Xoa..a tuj 'A. 11 Gutschmid ne parla in
nota alla pagina 4 | 9, i3, èlé\(.\nev ó xpòvoc,, f. lO | 9, 20, avvevibaac,
(non 0uvap,uu)aa<;), f. 11 | 9, 3i, per djua xe ecpr) proponeva il D'ubncr
àveaxpdqiri, e infatti il cod. legge àvaaxpéqpei f . 1 1 | io, 10, koì ei^
óqpaviaiaòv iiiexaBeivai xàc;, f. 11 | 11, 3, Geujpi'iaavxec, f. 12 | 11, io, xi^v
TTepaÙJv | 11, io, koì xait; tt., f. 12 | 11, 17, ÒTToaxaXfivai, f. i3 | i3, 2,
TTdpGuuv, non TTepaiùv; come l'armeno, f. 14 | 14, 16, è-jTeòeiKvuxo, f. 14
I i5, 21; 19, 21, vouinevapxoi, già corretto dal Dubner | i5, 32, ire-
pieTTou'iaaxo, f. 16 | Nel ms. la fine del capo XV è congiunta al prin-
cipio del capo XVI, e a me pare assai meglio : Kai èyevexo wc, ^Kovae,
f. 16 I 16, i3, xoO xÓTTOu èKàKei. Forse il prototipo aveva xò òvo|ua x.
X. è, f. 17 I 16, 9, e le stampe e il codice, f. 16, où laiKpóxaxov Tiai-
òiov : ma il nome che precede è Kouodpuu, scritto, quanto alle finali,
in modo spesso oscuro ; credo dunque che ou, o segno che assomi-
gliava, appartenesse a quel nome, e si debba leggere lu. x. tt. Cosi
risponderebbe meglio all'armeno (p. 42, 2) che vuole appunto mankik
mi phoqrik, cioè un bimbo piccino | 17, 9, tt. ò. éauxóv, f. 17 | 17, 16,
òiarpópouq d'favaKxricren; , lezione ottima, f. 17 | 18, 12, ùiroKXivavxec;
(non ÒTioK.), f- iS I 18, fine, mancano nelle stampe le parole del co-
dice: fjv òè Kai Trjpriòàxri^ oùv aùxoì^, f. 18. Allo stesso modo dice
l'armeno (p. 45, 23) | 20, 20, q)paYeXuuaavx€c , f. 19 | 20, 23, xòv xiùv
r., f. 19 1 21, 17. Forse avanzo di migliore lezione, il codice ha
questa: ÈKKXriaiav l'ìv Xey, f. 20 | 23, 6, TrpoaeòÓKOUv, f . 2 1 | 23, i3. Che
mancasse una parola si accorse lo Stilting; il Dubner suppose oe-
Póvxyjv. Ecco la lezione del ms.: xiiui^v xuùv òoEoXotoOvxuuv èv è. x.,
f. 22 I 23, 27. Le stampe oùx i\ ^m à\K' ovhevòc, ì\ èXtrit;; il codice in-
vece: oùx n èfiii dXXfic; f^ èXin'c;, f. 2", e correggeremo à)X i) oi] èXiii^.
Così anche l'armeno (pag. 53, 24) I 24, 8. Cancella il |Liév, f. 22 ! 28,
I 5, eirappiiaidau; dXÓYoui;, f. 26 | 3i, 3, ènì KeqpaXiìq Kpe.uaiuévou, f. 27 |
Nota che il D. salta, al par. 48, 5, tra òeivuùc e oùkoOv, nove righe
- 412 —
che puoi vedere nello Stilting | 48, 8, KoXdjuivov à, f. 40 | 49, 2, a-rrap-
TÌoi<; Tùjv óoKÒiv, (f. 40), come aveva già lo Stilting | 49, 3, KaTOKé-
cpaXa, f. 40 I 5o, 7. Qui il D. fa congettura di un èKaXivòouv; l'èKKd-
XiTTTOv dello St. è proprio del codice, f. 41 | 53, 3, Karaxeeiv Kaxà
ToO adj}j.aTO<; aùxoO, koI KateKàri òXov tò auJina aùtoO, f. 43 | 54, 18,
Kupiou Kttl auuxfìpoc;, f. 44 | 55, 4, KaTéoTpevjiev, f. 44).
Alla fine del capo LVIII leggiamo le parole, citate già dal Ban-
DiNi nel suo Catalogo (I, 276), e trascurate dallo Stilting: 'EvTeOGev
TÙ Kaxù THc; à^fiac, fvvaìKac,.
60, IO, yaiuiKriv (non YuvaiKeiav); f. 48 | 62, 3. Va restituito l'àYiorpó-
qpon; del manoscritto (f. 49), mutato in àYiorpóiron; dagli editori; il
quale risponde alla voce armena srbasne'li (pag. 116, 2) | 56, 19. Di
chiara lezione è nel codice ùeXoupYeìv, f. 52 | 57, 16, tòv èE aÙTùv
eàvarov ùirò toO GeoO oùtujv òótav, f. 53 | 68 , 3, òieòiiGr), f. 53 | 68,
5, Ti?iv biòaxnv aÙTuJv, f. 53 | 70, 9, ùnò tujv ireZùJv, f. 55 | 71, 5. Na-
turalmente eù|Liopqpia(; aÙTn<;, come ha il codice, f. 56 | 75, 12. Pare
dica èitiiOpac;; leggerò èirì ujpa<; (non è-rtì ópS), f. 59 | 75, 21, koì tu
Yevó|ueva. Migliore lezione che il XeYóiueva, f. 59 | 77, 5-9. Il D. pro-
pone riordinare e correggere. Avverto solo che lo Stilting segue alla
lettera il nostro codice, f. 60 | 71, 12, TrapaGriKri, conservato anche
dallo Stilting, f. 60 | 78, 5. 11 Diibner àvaYKciaai (come l'armeno, che
dice stipe'l, 145, i3); il ms. legge, e cosi la vecchia stampa, ài:aTf\om,
f. 61 1 78, 16, nvcxYKa^ov aÙTì'iv eìireìv uoieìv tò 9., f. 61 (cf. nell'ar-
meno fa le voglie di lui, p. 145, 17 | 85, -23, eì|ai èYuù, f. 66 | 88, 4.
aùXiaKOi^, f. 67 I 88, 17, r^ àYia faiavri, f. 68 (come nell'armeno siirbn
G. p. 163, 21) I 89, 14, audYpuuv àXXaY£Ì<; , f. 68 | 90, 6, ù)uùv, f. 68
(non i^juiijv. Anche l'armeno s'accorda al ms. p. 166, 3 | 90, i3, épi-
v|;a|aev, f. 69. (La stampa dice come l'armeno) | 90, 14, òaià aùroO,
f. 69 I 90, 23, èvtJxXei (le stampe èv òxXuj), f. 69 | 91, 4, àndvTncriv ,
f- 69 1 91, 7, 5pu Z:ri, f. 69 (le stampe 5. aù. L'armeno s'accosta al
ms. chi sa ci sia? p. 167, 17) | 91, 9, xà Yevójueva è'pYa, f. 69 | 92, 8,
aÙTuJv b., f. 70 I 93, 12, oùbè |Li>'iv uj., f. 70 I 108, 6, rioav bé, f. 84 |
110, 7, 8, xóxe eqpeacrev, f. 85 | no, 12. Il Diibner era dubbio; il
ms. PpùZiwv, f. 85 I iio, 24. Il Diibner corregge in irepiKeKXeiajuévoc; il
iTepiKeKXuu,uevo(; dello Stilting; il ms. TtepiKeKaXumuévOc; (come l'armeno
patate'al , Y^. 5bo,23 \ 1 1 1, 5, eù90,uujqj f. 86 | 1 1 1, 3 1, ùttò t. 6., f. 87
-413 -
I 114, i8) oxH^a ójc, OKrivi'iv è. veq^oqpavf], f. 88. Non c'è luna, come
non c'è nell'armeno, p. 556, i3 | ii5, 7, óiaérpoiv, f. 89 [ 121, 8,
TrpòaTÉTaYiuévoK;. Cfr. anche 122, 6 | 121, 8, ai irepi, f- 94 | 124, 10.
Il Koi è già nel codice, f. 96 | 124, 24, toO èpTou, f. 97 | 126, 17, tòv
TTOu'iaavTa, f. 98 | 126, 18, àTreXGùiv eie, tòv tóttov, f. 98 (cfr. l'armeno,
p. 578, 25) I 129, 9, TÒV èKeìae Puuiuóv, f. 100 (onde, nelle stampe, tòv
06Paa|Lióv) I Sulla fine del § 129 è a vedere quello che propone lo
Stilting , e poi il Diibner, e gli avvertimenti del Lagarde [Gesam.
Abhandl., p. 294). Noto solo che il codice legge eù|uà6riToc;, f. 100 |
i3o, 2, ^Kttuaav (non eKXacrav), f. 100, come l'armeno (ajre'al, p. 5S4,
i5) I i32, 19, Bapaajurivri^, f. 102 | i33, 2, 'lavi (non Maui), f. io3. A
non dire Ani può essere stato trascinato dal leggere in fretta il suo
testo armeno, cfr. p. 590, 8, 72^4»!') | i33, 22, ©laòia; (armeno Thil,
p. 591, iG) I i34, 6, jaeTa^aXeìv, f. 104 | 134, 9, koì oiKeiou?, f. 104 |
134, II, BaYoapiS (non BapadpiZ;, f. 104 (armeno Bagajar'ic'] | 136,
i3. Il ms. ópxujv toOtluv 'AyTm e correggeremo toO tujv 'A., f. io5 |
i36, 22, fipxuuv ó Tf|i; K apxwv ó Tfìc, Z., f. 106 | i36, 24, cancella
il KOI 1 i36, 25, ó Tea. fipxujv | i36, 27, MaXxaJiOùv, f. 106 | 140, 11,
TUJV èTTiaKÓTruuv, f. 109 I 141, I, Kai Stg ^qpGaaev Tà opri, f. 109 (anche
l'armeno e'kn, p. 606, 9 | 141, 2, 1 3, Oùaunioc, f. 109 | 141, 14, Le
parole in parentesi nel D. appartengono al codice \ 142, 14, kotò
TrpóaTaEiv, f. in i 143, 11, tóttov toO lepoO, f. in | 143, 19, per l'è-
7T6\9óvTa<;, il ms. vuole àiTeXGóvTa^ che non quadra ; ma forse il greco
aveva, come l'armeno (cfr. p. 618, 18) partiti da Cesarea | 144,
12, àòeXqpriv aÙToO, f. 112 ] 149, 6, k. aÙTOTTpoaipeTon;, f. 116 | 1 5o, 5.
èv6x6évTuuv luaprupoiv, f. 117 (anche l'armeno dice cosi, p. 623, 8) |
i5i, 7, àpoupai; èv toìc; xujpioi?, èv òè -zalc, Kuj|uoTróXeoiv éiTTà àpoOpat;
eie,. Parole che sono già nello Stilting e dimenticate dal Dubner j
i5r, 9, èKÉXeuaav, f. 118 | i5i, i5, òià TriaTiKtuTdTriq óbriYiai;, f. 118 |
i52, 9, Tiaiòevo.uévoui; uJaTe, f. 118 | 154, 6, irevGoOai koi, f. 120 | 159,
12, KOÌ Totq TTveuiuaTiKOK, f. 124 I 160, 3. Il ms. TaaÓTriq 'A0OU1V wv
TTapTiòoc; con accenti sopra uuv che sono rifatti e cancellati si legge-
rebbe 'AoourjvJjv, f. 125. L'armeno Asìwt:ikh (p. 641, 8) | 161, 8, koI
TiXeìov èv Tri TtiaTei OTripiEri, f. 126. L'armeno, come le stampe, solo
il raffermare (p. 643, 7) I iG3, 7, oùto/i;, f. 127 | i63, io, iravTec; Tri
àXrjBeia TnaTeùauucJiv, f. 127 | i63, 17, AiKiavóv (cfr. l'armeno, 046, 21,
e le correzioni proposte dagli editori) | iG5, iG. Come le stampe legge
il codice, ma è a vedere la congettura del Lagarde [Ges. Abh., 1S8),
- 414 -
MaaaxoÙTuuv | iG6, 8, trepl toùtujv, f. 129 ] 166, 14, oÌKou.ueviKi'ì, f. 166
I 166, 10, ùvaTTauaovxai (leggi -aaivxai) | 1Ò7, i , Aióirep 9au,udaa<; ,
f. i3o I 167, 19, èEeÌTiev òè koì | 168, i3, 'Apapàx koì rróXei, f. i3i |
169, 17, TriaxeoK; Kal à'fiac,, f. i32 | 172, 3, xPl^xcùc; xpovoYpaqpéac; xó-
luoui; òiÉ'fX^JM'aiuev, f. i33 j 172, 12, òiexctsaxo | i63, 16, 0 iravaYioc; A.|.
Due volte rammentai il Lagarde, e gioverà porre qui tutti i luoghi
delle sue Disscrta:;ioni (Leipzig, 1866) che toccano del testo armeno
o del greco di Agatangelo, e sono : pag. 40, su hangaman, ènixnòeuoK;
(armeno, p. 568, greco, § 121); p. 43, su Palhav (arm., p. 36, 39, gr.,
§ i3, 14); p. 49, su tag'ar', TTaXdxiov (arm., p. 65o, gr., § i65); p. 68,
su Shahap, fcGvdpxrn; (arm., p. 65o, gr., § i65); p. 69, su Shahapivan
(arm., p. 65o, gr., § i65); p. 179, sul mese di Sahmi (arm., p. 611,
gr., § 143); p. 186, sullo spar'apet, oxpaxoTrfòdpxriq (arm., p. 65o, gr.,
§ i65), e p. 1S7, su bdeashkh (arm., p. ó5o, gr., § t65).
Vengo ora a' capitoli del greco che il Langlois mise da parte e per
i quali abbiamo a ricorrere alla edizione dei Bollandisli ; se non che
mi asterrò da lunghe citazioni, scegliendo solo nelle mie note quei
passi ne' quali la revisione diede qualche buon frutto.
Capo XXVII, 19. Il luogo della Scrittura (Salmi CXUI, i5 = CXV, 7)
è citato più ampiamente: oùk òaqppavBnaovxai. x^ìpcc; e'xo'JOi koI où
xjjriXaqpnaouaiv, f. 25. (Così pure l'armeno, p. 60, 8}.
Capo XXXIII, 26. 'Eyévexo uuc; >i,ueìi; (invece che è. eùaepfi;), f. 3o.
(E l'arm., p. 71, 5).
Capo XXXV, 16. Tò aT|ua xiùv Gucriùjv, f. 3i.
Capo LXIV, 20. La stampa: èv »ì,uépa xfjq biKaioKpiaia; xr;(; bóErjq
aou ; il manoscritto (f. 5i): è. i^ x. ò. koI àTTOKaX.0v|;eLU(;, e dopo una
riga raschiata: Tr\<; òótn; crou. Sotto alla raschiatura si vede chiaro
che c'erano le parole stesse, ripetute per errore di copista. L'armeno
infatti nulla ha di più del laurcnziano (p. 120, 14).
Capo LXV, 2[. La stampa: irapaòoOvai PaadvoK;, dW'iva xàt; \\ivxà(;;
il ms. (f. 5i), tra Paodvon; ed dXX' iva, ha una riga cancellata, e legge.
— 415 —
per di più, oùòè Yòp e,ue\\ev avralc, (non aÙTùv). L'armeno oltre ai
tormenti ha la maldicoi^^a (p. 122, 2). Anche lo Stilting avverte le
due lacune.
Capo LXXIX, 20. La stampa: é'veKev aÙToO GavÓTOu. lueS'òXiiv ti'iv
i*)|.iépav ; il ms. è. a. eavaTou|ue9a òXriv t. iV, f- 62. (L'arm., p. 148, 12).
Capo LXXXII, i3. Oùk è-rreeOuiiaa, f. 64. Manca la negazione alla
stampa, e se n'era avveduto lo Stilting. (Arm., p. i53, 25).
Capo XCVIII, 25. Pilli ha la stampa che l'armeno (p. t8o, 11), e
più della stampa il laurenziano : -nrpòe; 'laaiv vjjuxùjv Kaì aiuiaÓTUJv ■ Kai
ì5où èpTKTiKÓx; exoiiuoi èa\xev xriv yhv tòjv hjuxujv ìijuujv, f. yS.
Capo CVIII, 2. Leggi : eie; àvóitauoiv xal èv eiprivi] ÙTTvajffaxe, f. 83.
Così anche l'armeno (p. 544, 23).
Capo CVIII, 28. La stampa: xà xfic; dXr|0ivf|i; TrapaòujaeuK; toO Xpia-
ToO, Kaì Toùc; TTveujLiaTiKoÙ!; ttóvoui;, e nella versione : cum vera tradi-
tìone de Christo, et vilam illoriim et spirituales labores.
Non c'è nel greco che un salto fatto dal compositore ; certo l'apo-
grafo aveva, come il laurenziano, koì tòv piov aÙTiI)v, f. 84. (Arm.,
p. 546, 26).
Cap. CXVII, 16, 17. Il ms.: aùxujv (f. 90) invece dei due aùxoO
della stampa, accordandosi con l'armeno (p. 36 1, 12, 14).
Capo CXVIII, IO. La stampa: òvyriXn èaxiv rj KaBoXiKr] èKxXiiaia; il
ms.: ù. è. ty\c, KaBòXiKnt; èKKXriaiat;, f. 91. Comparando l'armeno (pativ,
p. 562, 23) leggeremo y\ hòtO. xf|^ k. e.
Capo LXXXVÌI, 2. Le parole Eìkòiv xì^i; èmaxoXvìc; sono nel ma-
noscritto (f. 106) in lettere maiuscole, e a capo della pagina. Come
fanno nella edizione armena (p. 598) i mechitariani.
Capo CXLV, 3i. Come la stampa, così il codice. Ne fo cenno
perchè lo S. suppone perduto un iravxae;, che non ha nemmeno l'ar-
meno (p. 6 [5, 9).
Capo CXLVllI, i3. Leggeva lo Stilting xà irap' aùxiLv irpoaxe-
xa"f]néva, ma avrebbe desiderato rrap' oùxoO, e cosi appunto ci dà il
laurenziano (f. i i 5).
Capo CLVI, I. La stampa : Toùxujv éauxuj èmxeeriKuuc; : manca piov
(x. p. é. e.) che è già nel codice (f. 121) e che suggerito anche dal-
l'armeno, che bisogna con attenzione comparare (p. 632, 21).
Capo CLVIIl, 7. EÌTTÓvxoe; e non ttoiouvxoc; (f. 122).
Panca quidem fateor, ma il lettore si contenta. Né dovrei qui ri-
— 416 —
fare la storia delle ricerche inlorno ad Agatangelo, alle quali ho in
parte accennato. Un desiderio mi nasce sempre più vivo: che i me-
chitariani, così operosi illustratori delle cose nazionali, ci dieno di
quelle antiche istorie una nuova edizione, nella quale pongano il
greco accanto all' armeno, seguendo per l'uno, anche nelle cose pic-
cine , il laurenziano , e avvertendo chi corregge e perchè -, e vorrei
che per l'originale, stampassero a pie di pagina quante varianti danno
i codici anche dove, specialmente ne' nomi propri, ci vorrebbero tra-
scinare ad errore. Ve, per esempio, un nome di paese non sufRcien-
temente spiegato: la stampa del 1862 legge Er'otantak (p. 626, 20),
e la traduzione italiana dà in nota: nome in varii modi scritto nei
codici e in tutti male (p. 176). Se avessimo tutti questi sgorbi sotto
gli occhi non potrebbero forse giovare? Il codice greco ci dà una
mano appena: di quel nome non c'è ombra; esso ci offre (f. 119),
come le stampe (§ i52): èqp6aff€v oOv koì èv rolc, ttpujtok; laépeaiv ó
ópxieTTiaKOTTo; èv xr) 'Apapàx Trarpiòi. Insomma, nella giacitura delle
parole, a quella voce oscura dell'armeno, risponde V arcivescovo \
nasce dunque il dubbio che un prototipo dicesse per modo che il
greco poteva farne una chiara traduzione, e un altro codice, male
letto e peggio ricopiato da altri, tramandasse un enimma. Dò la con-
gettura che so bene non reggersi sopra basi salde come vorrei.
Che il greco sia versione, originale l'armeno s'ammetteva con qualche
dubbio dal Somal {Qjtadro,p. 11); con più sicurezza dai mechitariani
che ebbero cura della versione italiana (p. X) ; e da ultimo ripetè e
accrebbe le ragioni che ce lo confermano il P. Gare'gin nella sua
Storia della letteratura armena (i) (I, 116). E sono: a) l'uso di
'Epaadx (p. 40, § i5, p. 17); b] Kpóvo^ per Arama^t (p. Sgo, § i33,
p. i5i); e] "Hcpaiaro^ per Mihr (p. SgS, § i34) ; d) l'armeno Maadx
(p. 598, § i38, p. i53); e) il oao\xi (p. 611, § 143, p. i65)-, /) il plu-
rale Hevob£KTù)v eeÙJv (p. 623, § i5o); g) il Mavadpx (P- ''H^j § '60);
h) il TTaoKaTTexéiJUv (p. 65o, § i65, p. 172); e lìnalmente i) il lapa-
KnVUJV (p. 587, § l32, p. 149).
Anche contro l'autenticità della Lettera d'alleanza combatte il nuovo
(1) In armeno, stampata a Venezia; il I" volume nel 1865, il 2° nel
1878, e si aspetta il terzo. — In queste citazioni dò la pagina del testo
di Agatangelo, il paragrafo del greco, e la pagina dell'italiano, quando
le note di questo s'accordano col dire del p. Gare'gin.
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storico (i], come un suo collega respinge nel Ba^mawep (1878,
pp. 229-232) la supposizione che ci fosse un testo greco rifatto in
armeno nel secolo VII da Eznik il prete; così per lui come per gli
altri mechitariani, e intendo dire i nostri veri maestri, lo stile del
libro ci porta al quattrocento, alla età d'oro dei traduttori.
Pisa, 1° febbraio 1881.
Emilio Teza.
SE I GRECI ODIERNI
SIENO SCHIETTA DISCENDENZA DEGLI ANTICHI
[a proposito d'una recente pubblicazione)
È nota la conclusione a cui, dopo il Kopitar (2), fu tratto il Fall-
merayer dai vasti, ma non sempre abbastanza profondi suoi studi sulla
storia e suU' onomastico topografico della Grecia medievale : — Nei
primi secoli del medio evo finoall'Boo ha luogo in questa contrada una
continua e forte intrusione di elementi etnici stranieri ; dappertutto,
salvo nelle città marittime, 1' antica popolazione, la ellenica, è so-
praffatta e scompare; quasi dappertutto l'odierna popolazione è pro-
venuta da quei diavoli in carne ed ossa che sotto i nomi di Sciti,
Sciavi (Sclavini, Sclavesiani), Bulgari, Unni, Avari, Pazinachi , Cu-
mani, Alani, ecc., invasero la penisola sterminandone gli indigeni, e
specialmente dagli Slavi. I quali però vennero a poco a poco, nel
(1) Vedi lo Stilting (Vili, 401) e l'Agatangelo italiano (p. 194). Una
parte di questa lettera si può vedere nel Galano [Concil., I, 31-35).
Noto qui, chiudendo, che il Patkanov nel suo Bibl. Oc'erk (pag. 28)
rammenta anche una versione in latino, stampata a Venezia nel 1835.
Ma il dotto armeno fu tratto in errore da qualche catalogo che citò in
latino il testo armeno stampato appunto in quell'anno.
(2) V. Deffner, Aì'chiv f'ùr mittel- und neugriechische Philologie,
I, p. 3 (1881;:.
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corso tii sei o settecent' anni, ellenizzati nei costumi e nella lingua,
come nella religione, dalla Chiesa sempre potente e dal Governo bi-
zantino nelle sue diverse epoche di rifiorimento (i).
Fin dal principio, a dotti anche non greci siffatta conclusione parve
eccessiva e temeraria. Già, in opere ben note, l'Hopf, il Rambaud, il
Paparrigopulos e ultimamente Bern. Schmidt (2), Enr. Kiepert (3),
G. F. Hertzberg {4) e Lor. Diefenbach (5) la ridussero entro confini
più modesti e ragionevoli. Se fosse vero infatti che un tempo la
Grecia , non eccettuato il Peloponneso , fu presso che tutta slava,
dovrebbesi poter affermare (il che non si può) che nell'ordine antro-
pologico il tipo slavo è quello che oggi vi domina (6), e non si sa-
prebbe spiegare come gli idiomi che oravi si parlano sieno continua-
tori legittimi della lingua antica; come questa, se non si è propagata in
essi tal quale col suo primitivo organismo, secondo che quasi vorreb-
bero far credere i dotti d'Oltre- Jonio, siasi però alterata e trasformata
conforme a leggi organiche indipendenti da ogni influsso straniero ,
analoghe a quelle per cui si convertiva il latino, p. e., nell'italiano; e
come assai poche [lo vedremo più sotto) sieno le voci slave che vi
si odono, nel tempo stesso che rimangono pure di elementi slavi
la fonetica e la morfologia non m.eno della sintassi. E non è ammissi-
bile d'altra parte che una Grecia slava sia stata riellenizzata poi al
risorgere della potenza bizantina e sotto l'influsso della Chiesa, perchè
in tal caso noi vi troveremmo oggi una lingua comune, uniforme, por-
tante, per così dire, in fronte il carattere di tale origine, in luogo
della più grande e viva varietà dialettale ch'essa ci presenta (7). Nes-
suno però di quei dotti mise in dubbio che abbondante sangue slavo
(1) Welchen Einfluss hatte die Besetzung Griechenland' s durch die
Slaven , ecc. (1835), Geschichte der Ealhinsel Morsa wrihrend des
Mittelalters (1830-36) ; Fragmente aus dem Orient, ecc. (1845).
(2) Das Volksleban der ]<!eugriechen und das hellenische Alterthum
(1871).
(3) Lehrbuch der alien Geographie (1878).
(4) Geschichte Griechenlands seit dem Absterben des antiken Lebens
bis zur Gegenioart (1876-79).
(5) Voelkerkunde Osteuropas , insbesondere der Eaemoshalbinsel
und der unteren Donaugebieten, I (1880).
(6) Diefenbach, Op. cit., p. 142.
(7) Schmidt, Op. cit., p. 4.
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col tempo si fosse trasfuso nell'ellenico. Or la medesima quistione sol-
levò dianzi e intese di risolvere in senso affatto negativo il valente
erudito greco Costantino Sathas (i); egli volle lavar via quella che a
lui pare una macchia ignominiosa dal corpo della sua nazione e di-
mostrare come il sangue ellenico, il neo-ellenico, nominatamente nel
Peloponneso, sia puro d' ogni miscela straniera. Perciò doveva egli,
da una parte, dimostrare che l'Ellenismo nel Peloponneso era persi-
stito continuo e inalterato dall'antichità fino ai nostri tempi e, dal-
l'altra, che non erano punto Slavi gl'invasori medievali di questa
regione, cui dicono Slavi gli scrittori bizantini.
Abbastanza facile era il primo compito, a cui avevano ben prepa-
rato il terreno le opere degli eruditi su citati e massime quelle del-
l'Hopf (2) e dell' Hertzberg e la grande opera in cinque volumi, in
greco, del Paparrigopulos, di cui in Occidente, in generale, non si
conosce se non il sunto pubblicato in francese dall' autore mede-
simo (3). Ecco qui, in sostanza, come ragiona il Sathas.
— Sebbene per origini e lingua e tradizioni unita all'impero bizan-
tino o, com'esso intitolavasi, romaico, l'Eliade da questo non fu mai
voluta riconoscere per madre, giacché il pernio della politica bizan-
tina, come ora dell'austroungarica, era la negazione d'ogni naziona-
lità, della preminenza d'una nazione sulle altre. Nel quale disdegnoso
procedere la Corte aveva per compagna la Chiesa, che non poteva
facilmente dimenticare l'antica tradizione che nel motto Ellenismo
le faceva vedere un sinonimo di Paganesimo; tanto più che questo
in Eliade ebbe infatti vita assai lunga e tenace e anzi non era ben
morto neanche dopo il secolo X. Di qui tra Elleni e Bizantini un
antagonism.o che si andò facendo sempre più evidente e violento: i
Bizantini davano un significato di spregio al nome di Occiden-
tali col quale chiamavano gli Elleni, e questi a! nome di Orien-
tali che applicavano a quelli. Per più di undici secoli l'impero si
ostinò a credersi e a dirsi romano, e gli Elleni, quieti dai tempi di
Alarico fino a tutto il VI secolo e poi fino alle Crociate ostili e
1) Mvriiueìa xf]^ éWrjviKiìi; iaropiae; , Bocuments inédits relatifs à
Vhistoire de la Grece au Moyen-Age^ T. I. (Paris, 1880), prefazione.
(2) Griechenland im Mittelaltcr und in der Neuseit [vi^WEncycl. v.
Ersch. u. Grubek, voi. 83, 18(36).
(3) Histoire de la civilisation h'zllénique (Paris, 1878).
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apertamente ribelli a Costantinopoli, non esercitano su di esso in-
fluenza alcuna. Ma ciò non vuol dire che gli Elleni fossero estinti.
Non mancano indizi e altresì buone prove ch'essi erano pur sempre
vivi e vitali. Bastino queste. Essi tennero sempre , come tengono
tuttavia, la medesima dimora e parlarono sempre, come parlano tut-
tavia, la medesima lingua dei loro antenati viventi prima della con-
quista romana. Nel secolo XI un uomo politico , Psello, e al prin-
cipio del XV un filosofo, Pletone, asseveravano che gli abitanti della
Grecia dei loro tempi erano della stirpe degli Elleni , che tali erano
stati sempre in particolare gli abitanti del Peloponneso, non mai da
altri espulsi e soppiantati , fedeli conservatori della lingua e delle
istituzioni avite. E tanto in qualche modo confermavano i governa-
tori dei domini veneziani della Morea, ricordando che quei di Tri-
polizza erano vera progenie degli Arcadi e che i Mistraoti si glo-
riavano di sangue spartano.
Or come avvenne che si formasse l'opinione che nell'età di mezzo
il Peloponneso, se non quasi tutto, come vorrebbe il Fallmerayer,
almeno, come credono presso che tutti gli altri dotti stranieri alla
Grecia, in buona parte venisse colonizzato e rinsangualo da Slavi?
È un fatto che i cronografi bizantini ci parlano di Sciavi che in
quell'età invasero il Peloponneso. Ma erano essi veramente Slavi ? —
11 Sathas dice risoluto di no. Ed ecco perchè: — I. Questi invasori
(ai quali va attribuita l' introduzione in Eliade del sistema feudale,
così contrario allo spirito dell'antichità ellenica) da quei cronografi
propriamente più spesso che IkXciPoi (i= IXdPoi) sono chiamali ZGXapoi,
voce contenente una lettera (0) ignota a tutti gli idiomi slavi antichi
e moderni. II. La cronica greca metrica della Morea (BipXiov -rfic, Kouy-
KéoTac, Tiìt; 'Puuinaviai; koì toO Moipaioit; o Lirrc de conqueste} il più im-
portante tra i documenti del linguaggio parlato colà dal popolo nel
secolo XIII, mentre pur menziona sovente gli Slavi, contiene bensi
voci latine, albanesi e persino turche, ma non una slava , non una
della schiatta che avrebbe, secondo il Fallmerayer, estirpato da quel
suolo la ellenica. III. Falsa è l'etimologia, immaginata dagli Slavo-
fili, di Mdvri o Mdvia (volgarm. Maiva) dallo slavo inandjak, mentre
non vi si ha a vedere altro che una continuazione di Mavia =: MdXia,
nome originario del promontorio tra il golfo laconico e 1' argolico,
estesosi nel medio evo al Tenaro. E invano si cerca un'etimologia
slava al nome di Morea; il quale è semplicemente quello dun'antica
— 421 —
città marittima d'Elide, estesosi via via all'intera regione al di qua
dell'istmo di Corinto coll'estendersi della importanza politica di quella;
il nome d'una città esistente di certo nel 1 1 1 1 e ancora alla metà del
sec. XIII (ó Mopaiac;, corrispondente forse alla MapYdXa o Mapyaìai del-
l'antichità classica) e riguardata come la vera capitale del Peloponneso
da Ibn-Sayd (morto nel 1274) citato da Abulfeda; ecclissata poi da
Andravida, la capitale di Villhardouin, come questa da Clarenza ; e
infine scomparsa affatto. Quei così detti Sciavi dovevano essere di
stirpe non molto diversi dagli EUeni. Se i Bizantini infatti, pel so-
lito antagonismo cogli Elleni, vedevano degli impuri e detestabili
Barbari in quegli invasori d'una delle più ricche province dell' im-
pero; gli Elleni li consideravano all'incontro come fratelli e libe-
ratori e si sottomettevano al giogo dei costoro capi (toparchi) più
volontieri che consentire a riconoscere la legittimità del sedicente
impero romano di Costantinopoli. Secondo Costantino Porfirogen-
nito (i) avevano essi occupato Elide e Laconia. L'Epitome di Stra-
bone, che non è posteriore all' 8o3, dà come occupati da Sciti-Sclavi
gli antichi territori di Olimpia e di Pilo. Or un documento più mo-
derno, la Bolla d'oro attribuita, se pur è autentica, all'imperatore
Niceforo, chiama non già Sciavi ma Avari quelle schiere che al prin-
cipio del secolo IX invasero l'Acaja, e vinte, come si credette, per
intercessione dell'apostolo S. Andrea, si sottomisero in condizione
di servi della gleba alla Chiesa arcivescovile di Patrasso. Un altro
esempio di confusione di Avari con Slavi lo abbiamo nel e. 29
dell' opera citata di Costantino Porfirogennito. — Certo è che
gli Avari, dopo il secolo VI, accampati oltre il Danubio, se-
condo ogni probabilità intorno a Pest, scorrevano di lì rapinando
e devastando in Macedonia, Tracia, Illirico e anche più a mez-
zogiorno. E così fecero poi anche gli Slavi. E loro s'univano o
almeno con loro si concertavano nelle imprese contro i Bizantini i
popoli ch'essi stessi avevano vinti e ridotti in condizion di vassalli :
Valachi, Albanesi, Bulgari, Macedoni. I quali, solitamente nemici al
par degli Avari e degli Slavi ai Bizantini, venivano da questi confusi
or cogli uni or cogli altri e chiamati or Avari or Sciavi secondochè
questi o quelli tenevano tra i barbari della penisola balcanica l'ege-
monia. Di questo numero, non veri e propri Avari né Slavi, dovettero
(1) De admin. imp.^ e. 60.
' — 422 —
essere i barbari che dal secolo VI in poi attraverso a Macedonia,
Tessalia e Beozia, si spinsero fino in Peloponneso. Essi riconobbero,
anche dopo che si furono insediati colà, l'alto dominio degli Avari
sino alla fine del secolo Vili, sino alla distruzione del costoro
impero effettuata da Carlo Magno, epperò conservarono sino al
XV secolo (come risulta da parecchie e buone autorità) il nome
di 'ApdPoi, evidente metatesi di 'A^apoi, od 'Apapaloi, quasi Ararci.
Si trovano infatti cosi chiamati ('ApóPoi) da Gregorio Abulfarag'
(Barebreo) e non già XGXcipoi o IkXci^Joi, come hanno i Bizantini, i
prigionieri che Stauracio, generale dell'imperatrice Irene, prese ai
così detti Sciavi di Macedonia e Peloponneso da lui vinti, intanto
che Carlo Magno prcparavasi ad assalire gli Avari nel cuore di
loro potenza. Laonico Calcondila poi ci leva ogni dubbio intorno
alla nazionalità degli stranieri che già vedemmo acquartierati in
Elide. Rammentandoli a proposito della conquista del Pelopon-
neso fatta dai Turchi, li chiama 'Apapaìoi 'AXPavoi (Avari-Albanesi).
Sono gli stessi che vediamo dapprima in buoni termini con Murad II,
dal quale si fanno riconoscere « legittimi possessori della terra dei
loro padri » (così denominavano essi la parte del Peloponneso da
loro abitata) e poi all'incontro alleati di Costantino Paleologo (anno
1446), e infine vinti dai Turchi e fuggiaschi in Sicilia, ove ancora
rimpiangono nei loro canti la bella Morea. I così detti Avari o Sciavi
del Peloponneso non sono altro adunque che Albanesi; come, secondo
uno scritto di Giovanni vescovo di Nicio, nel secolo VI, non erano
Sciavi, ma A 1 v a r i k i , cioè ancora Albanesi, gli alleati degli Avari
nel famoso assedio che questi posero in quel secolo a Tessalonica. —
Di più. È noto che i conquistatori Franchi incontrarono la più per-
tinace resistenza da parte dei pretesi Sciavi stabiliti sulla catena e
intorno ai passi del monte anticamente chiamato M i n t h e, tra Elide
e Arcadia. Orbene, i nomi dei costoro principi che soli ci furono
tramandati {But:;aras e Vranas) sono albanesi, e albanese la denomi-
nazione medievale del classico monte Minthe , che è Scorta malja ,
rispondente a capello, nel significato, alla neoellenica Kovropoùvia
« monti brevi »; per tacere che nella denominazione di Albacna,
che trovasi data pure al monte medesimo, si continua quella appunto
del popolo invasore (i). — E altri scambi di Albanesi e anche di
(1) Gli Albanesi, com'è noto, chiamano se stessi propriamente Schhi-
— 423 -
Greci con Slavi ci occorrono in altri punti dei Peloponneso. Degli
Sciavi, durante la peste del 747, a detta di Costantino Porfirogenito,
presero stanza su ambo i versanti, messenico e laconico, del Taigeto;
e terra sclavinica è detto il territorio abitato dagli odierni Tsàconi
dal pellegrino franco S. Winibaldo che passava per Monembasia
(Malvasia) nel 723; e terra degli Sciavi la chiamano i documenti ve-
neziani fino al 1485. Ora, Laonico Calcondila e Melezio dicono Va-
lachi gli Sciavi del Taigeto, ma merita più fede l'indigeno Doroteo,
arcivescovo di Monembasia, del secolo XVI, il quale identifica questi
altri Sciavi coi Manioti o Mainoti ; e noi sappiamo dal già citato
Costantino che questi erano anzi degli antichi Romei, cioè dei Greci,
a cui i vicini davano in proprio il titolo di Elleni per essere stati in
Grecia i più restii ad abbandonare l'idolatria. Niun dubbio poi che
sieno Elleni i Tsaconi. — E circa agli altri supposti Slavi dimoranti
isolati, per quanto appare dal Livre de conqueste^ in mezzo a popoli
d'origine greca, dai documenti veneziani del secolo XV, come anche
da parecchi nomi di tipo albanese che s' incontrano tra quelli degli
antichi feudatari del Peloponneso [Rendacio, Bua, Sgitro) e dal nome
speciale, pur albanese (ApÓYYO(; = AóYTO<;)) che la or citata Cronica dà
all'aspro montuoso paese da loro abitato tra Mainoti e Tsàconi, si
argomenta che fossero appunto semplicemente Albanesi. Che infine,
presso ai Tsàconi sieno dimorati da tempo remoto degli Albanesi, è
attestato dalle tracce profonde d'infiuenza dei costoro dialetti sul lin-
guaggio di quelli: tracce che erroneamente si facevano risalire agli
antichi Pelasgi o si attribuivano agli Albanesi maomettani che nel
1770 furono fatti entrare dalla Porta nel Peloponneso per punirlo
della sua rivolta ; e che degli Albanesi sieno stati per lungo tempo
vicini dei Mainoti, lo dice il barbaro costume della vendetta del
sangue, che, ignoto a tutto 1' Ellenismo, ritroviamo sol presso gli
Albanesi e i popoli che si mescolarono con questi o coi Mainoti, p. e.,
in Corsica, in Sicilia, in Calabria; e altresì il nome di cpainéTioi che
questi, i soli tra i Greci che serbino qualche traccia di feudalesimo,
danno ai clienti d'una casa aristocratica, nome che dev'essere dal-
l'alban. faljmeja, « servitù ». Il Sathas trova pure a che tribù ap-
petar ; ma conoscono ed usano pure talvolta, rifoggiato a lor modo
[Arher ecc.), l'altro nome, d'origine certo antichissima, che lor danno i
Greci di 'A?i(3avìTm, dond'è venuto pure il turco Arnaut.
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partenevano questi Albanesi di Laconia; trova ch'erano affini a quelli
che occupavano un tempo, in condizion di pastori, il versante lessalo
ed acarnanico del Pindo allato o insieme coi Valachi, che, sebbene
poi rimasti soli, continuano a chiamarsi o ad essere chiamati 'Ap^a-
viTÒfBXaxoi ; onde gli pare spiegato perchè essi poi, in Peloponneso,
non volessero riconoscere al di sopra di sé né Bizantini né Franchi,
ma solo i Despoti d'Epiro, sotto la giurisdizione dei quali stava ap-
punto la Tessalia, e si conservassero amici a Venezia finché questa
li protesse contro gli uni e gli altri senz'attentare alla loro indipen-
denza. Conchiude ripetendo ormai asseverantemente che questo ramo
peloponnesiaco degli Albanesi per tutto quel medio evo ch'ebbe tanto
in orrore il nome di Elleni non vollero mai essere altro che EUeni,
e che appunto per tali vennero, come vengono tuttavia, considerati,
non già per istranieri, dagli indigeni, e che sol i Bizantini, per igno-
ranza o per disprezzo e odio ai Peloponneso, che volentieri facevano
causa comune cogli invasori, davano a questi il nome di Sciavi.
Ora, per ciò che riguarda la prima tesi, il Sathas la svolge così
bene, che ormai non è più permesso il dubbio intorno alla persi-
stenza dell'ellenismo in Grecia dall'antichità fino a noi. Ma quanto
alla seconda, si può chiedere se gli sia riescilo di provare (i) che
ormai non va più parlato di invasioni slave in Eliade , nominata-
mente in Peloponneso, e 2) che quelli che i Bizantini dissero Sciavi
non erano altro che Albanesi. Fermiamoci alla prima parte di questa
seconda tesi. È da dire innanzi tutto che non è ben chiaro che valore
egli dia al fatto, che negli scrittori bizantini allato a IkXóPoi leggesi anche
ZGXdpoi. Il 9 può essere qui, anzi è di certo, al pari del k, una con-
sonante anorganica richiesta dall'eufonia, inserita nella voce straniera
dai Greci stessi per conciliare tra loro in qualche maniera i due ele-
menti della combinazione (J-X, difforme dall'indole del loro linguaggio.
Non pare ci sia qui nulla a sostegno dell' opinione delI'A. — Nò si
può affermare in modo assoluto che voci d'origine slava manchino
nel Livre de conqueste, se, p. e., è tale (come opina il Miklosich [i])
f)oOxov « roba, veste », ch'era del resto allora, com'è oggi, del lin-
guaggio comune. — Sarebbero poi importanti di certo , se fossero
vere, le etimologie che il Sathas addita di Maina e Morea. Ma,
[1) Die slavischen Elementi! im Neitjriechischen , Wien, 1870.
— 425 —
prima di tutto, è ben lecito dubitare della seconda n); e, in ogni
caso, se valgono a restringere il campo d' azione dello Slavismo in
Grecia, non si ponno pretendere bastevoli a provare che questo
non vi è mai esistito.
Lo stesso va detto dell'argomento che TA. accampa nella seconda
parte della sua tesi. È grandemente probabile (non oserei dire, senza
altre prove, pienamente sicuro) ciò eh' egli pel primo ha supposto :
che, nei casi da lui accennati, sotto il nome degli Avari e degli
Sciavi si debbano intendere gli Albanesi. Ma ad ogni modo si tratta
di pochi casi e non sarebbe lecito tirarne la conseguenza, ch'egli sot-
tintende, ch'erano Albanesi tutti gì' invasori del Peloponneso noti
nella storia sotto il nome di Avari e di Sciavi. Ma è sol lecito ti-
fi) In un articoletto infatti del Bulletin de Correspondance hellé-
nique (Athènes-Paris, mars, 1881), C. Paparrigopulos nega sia mai esi-
stita una città dal nome di Morea in Elide o in altra parte qualunque
del Peloponneso , sì perchè nei versi del Livre de conqueste che il
Sathas cita in suo favore, come in altri due luogbi, col nome di ó
Mujpaia(; è chiaramente indicata non una città, ma una regione ; sia
perchè di una città siffatta nulla sa il geografo Edrisi , del XII secolo,
di gran lunga più autorevole del suo connazionale, a lui posteriore,
Ibn-Sayd. — Dallo stesso Paparrigopulos si apprende che anche Zachariae
VON LiNGENTHAL [Deutsche Literaturzeitung, 1880, n» 6) la pensa qui
come lui e che del nome di Morea propone una nuova etimologia. Ve-
dendo cioè che nei più antichi documenti questo nome ci appare sotto
la forma di Amorea, egli volentieri lo deriverebbe da à,uópeio<; = àvó-
peio?, aggettivo qualificativo della bassa Elide, bene corrispondendo la
denominazione r| à)uópeiO(; 'HXic; alla KOÌXr| ^HXii; dell' antichità classica.
Ma bene avverte il P. che non si spiega perchè sia entrato nell' uso
questo nome piuttosto che un altro, se non si prova almeno ch'era ado-
perato in Elide all'epoca che vi arrivarono i Franchi ; e conchiude che
questa sfinge non ha trovato ancora il suo Edipo. — Aggiungerò, per
esaurire l'argomento, che l'etimologia ora preferita del nome di cui si
tratta è questa : eh' esso sia metatesi del nome 'Puj)aaia che un certo
tempo sarebbesi applicato in particolare al Peloponneso. A questa eti-
mologia, contro la quale pure, a dir vero, stanno non lievi difficoltà
(perchè, p. o., ó Mujpéac; invece di i^ Mmpaia?), inclinano, rigettate de-
finitivamente le antiche spiegazioni da |uujpéa (gelso moro) e dallo slavo
more (mare), I'Hopf [Monatsber. der k. Berlin Ahad., ]862, p. 487), il
BuRSiAN [Geographie von Griechenland, li, p. 3) e T Hertzberg [Op.
cit., Il, p. 85). L' ultimo avverte che già l'aveva proposta nel sec. XVI
il Porcacchi.
TiivisLa di filologia ecc., X 28
— 426 —
rame questa : che in compagnia e al séguito di costoro (ai quali
erano soggetti) vennero in Eliade, e quindi anche in Peloponneso, e
vi si stabilirono delle schiere di Albanesi e verisimilmente pure di
Valachi. Certo è che nel medio evo Valachi, Albanesi e Slavi della
penisola balcanica furono spesso e per lungo tempo tra loro stretta-
mente uniti; lo attestano, oltre la storia, i rispettivi loro linguaggi.
Anche al principio dell'evo moderno noi li vediamo emigrare insieme
e insieme stabilirsi in regioni diverse, p. e., in Istria e in Dalmazia (i).
Non è credibile quindi (se anche prescindasi dalle prove sicure di
Slavismo in Grecia di cui faremo cenno bentosto), non è credibile,
dico, che fossero tutti Albanesi i così detti Avari che invasero l'Elide
nel 588 e furono domi nell' 8o5 ; e i così detti Sciavi eh' entrarono
in Peloponneso verso la metà e poi ancora verso la fine del sec. VI
e ancora alla metà dell'VIII, soggiogati quindi nell' 860 da Teoctisto,
generale di Michele III ; quando di una parte di essi (dei Melingi e
degli Ezeriti), Laonico Calcondilas (citato dall' A. stesso) nel 1456,
allorché ben noti erano gli Albanesi e non più possibile confonderli
con altri popoli, dice ch'erano i soli Sciavi superstiti in Peloponneso;
quando un altro bizantino, Mazaris (2), al principio del secolo stesso
espressamente distingueva tra gli abitatori del Peloponneso, a' suoi
giorni, gli Sclavini e gli Illirii. Né si può, credo, senz' altra prova,
tenere per certo che gli Albanesi a cui accennano i documenti vene-
ziani del secolo XV siano proprio i discendenti di quelli che sette
od otto secoli prima il Sathas vede stanziarsi in Elide, mentre sap-
piamo che già alla metà del secolo XIV ha principio il movimento
dell'emigrazione moderna degli Albanesi verso mezzogiorno.
Che il Peloponneso poi sia soggiaciuto ad una notevole invasione
di elemento slavo, non si può mettere in dubbio, anche se non si
voglia tenere in nessun conto l'autorità, pur non sempre oppugna-
bile, degli scrittori bizantini. Rimarrebbero pur sempre fermi in
tutta la lor forza contro gli oppositori questi due argomenti che il
Sathas ha passato sotto silenzio : i) le voci slave entrate nel lin-
(1) V. MiKLOSiCH, Ueber die Wanderungen der Rùmùnen in den dal-
matischen Alpcn und den Karpathen (Wien, 1879), e v. nella Romania,
aprile, 1880, la recens. di quest'opera fatta dal prof. Ive.
(2) V. Bar. Ow, Die Ahstammung der Griechen und die Irrthuemer
und Taeuschungen des Dr. Ph. Fallmerayer (Muenchen, 1848J, p. 103.
— 427 —
guaggio dell'Eliade e ancor in uso pur nel Peloponneso; 2) i nomi
di origine slava di luoghi abitati, monti, corsi d'acqua, ecc., di cui
abbonda l'Eliade e massime appunto il Peloponneso. II Miklosich (i)
ha trovato nel vocabolario neo-ellenico qualcosa più d'un centinaio
di quelle voci. Anche Bern. Schmidt (2), non men geloso d'un greco
della purezza della nazione ellenica e non men renitente ad acco-
gliere le conclusioni degli Slavofili , è costretto ad ammetterne pa-
recchie, cioè, per lo meno (oltre ^oOxov su citato) : PoupKÓ\aKa(; vam-
piro, ZoKÓvi costume, KÓKKOTa<; -oc, gallo , XÓTYoq bosco, aavóc; fieno,
axàvr] giaciglio e gregge e tootx- TaouTiàvoi; -r|C pastore. Si aggiunga
che ne ricorrono alcune eziandio nel dialetto dei Tsàconi, che sono
forse oggidì i più puri rappresentanti degli antichi Elleni (3) ; e non
mancano del tatto (v., p. e., ciiscia capra e ^{ambatdri pastore) nem-
meno nelle colonie bizantine d'Italia, il cui nucleo primitivo dev'es-
sere anteriore al looo (4]. — Quanto ai nomi topografici che accusino
origine slava, chi è vago di conoscerli ne trova dei lunghi elenchi
nell'opera citata dell'Hopf, il quale, si avverta bene, riscontra e cor-
regge qui il Fallmerayer (5). Ne citerò qui in prova (oltre Scla-
vochóri] alcuni fra i moltissimi spettanti al Peloponneso : CUnova^
Vipovo, Aracova, Passava, Liesinova, Cosava, Anastasosova, Varsova,
Cracova, Glogova; Gurnitsa, Cernit:^a , Vorbit^a, Goritsa , Granitsa ,
Planit^a , Pirnatsa; Tecnica, Servianica , Zagara ecc. — Nomi si-
mili (che certo non si potranno attribuire tutti agli Albanesi, la cui
lingua, com'è noto, subì non leggermente l'influenza slava) appaiono
perfino nel territorio abitato dagli Elleni per eccellenza, dai Tsàconi.
Lo stesso Bar. Ow, accanito avversario del Fallmerayer e facile a
battezzare per schiette greche altresì delle parole turche, è costretto
a confessare che qualche denominazione topografica del Peloponneso
ha sembiante slavo.
(1) Nell'op. cit. Die slav. Elem. im Neugriech.
(2) Op. cit., p. 3.
(3) V. Schmidt, Op. cit., p. 12; Deffner, Op. cit., p. 5: contro Hertz-
BERG, il quale [Op. cit., I, p. 200) erroneamente chiama ancora i Tsàconi
« einen slavischen Stamm «.
(4) V. Morosi, Studi sui dialetti greci di Terra d' Otranto, p. 190
segg., e / dialetti romaici del mandamento di Bava in Calabria,
p. 72 segg.
(5) V. p. 296 segg.
— 428 —
Ma i dotti d'Oltre-lonio non si danno facilmente per vinti. Loro
sta sempre a cuore di purgare ad ogni costo la loro nazione dal-
l'onta che, secondo loro, le si fa, di crederla non immune da me-
scolanza d'elementi stranieri; così appunto come sta lor a cuore di
ricondurre, a ritroso dei fati, la loro lingua letteraria al tipo della
lingua classica, di fare di tutto per iscostarla, con gravissimo danno
della coltura generale del loro paese, dalla viva sorgente della lingua
parlata. Eppure la miscela dei sangui non sarebbe punto una macchia
propria del popolo ellenico, poich' è un carattere comune a tutti i
popoli odierni di Europa. Qual è tra essi quello che possa vantarsi
d'essere giunto da una remota antichità attraverso ai secoli fino a
noi esente d'ogni contatto con altri? Forse che i Tedeschi, p. e., si
reputano a disonore il fatto che nel loro sangue germanico s'è infil-
trato molto sangue slavo e celtico? O forse è cagione di rammarico
a noi Italiani il sapere che nel nostro organismo etnico quale si era
costituito sotto la dominazione romana si sono introdotti, e in ab-
bondanza, elementi germanici, greco-bizantini, arabi ? il sapere che
ancora oggigiorno vivono tra noi delle colonie francesi o provenzali,
tedesche, greco-bizantine, albanesi, e persino, in Molise e in Friuli,
proprio delle colonie slave? E poi il fatto dell'avere non già gli
Slavi assimilato a se i Greci, ma i Greci gli Slavi, nella lingua, nella
religione, nei costumi, nella coltura (i), non è la prova più evidente
e conclusiva di quella persistenza della nazionalità ellenica che 1' A.
e i suoi compaesani tanto si studiano di assodare e mettere in piena
luce? E, in ogni caso, se anche si riescisse a dimostrare la Grecia
pura d'elementi slavi, forse che con ciò la si dimostrerebbe immune
d'ogni elemento straniero? Nessuno vorrà dire molto affini agli El-
leni i pastori erranti Tsintsari o Cutsovlachi, un tempo così nume-
rosi sui due versanti del Pindo, che si nominava una Gran Valacliia
in Tcssalia e una Piccola Valachia in Epiro e che il loro capo, tra
l'XI e il XII secolo, portò il titolo di Gran Vlaco ; i quali ancora
oggi vivono in parecchie migliaia, più o meno segregati dal con-
sorzio ellenico, e ivi e nella valle dello Sperchio e ncU' Eparchia di
Calcide d'Eubea e non iscarseggiano neppure nel centro e nel mez-
zogiorno della penisola (2). E che si dirà degli Albanesi ? Li incon-
(1) V. ScHMiDT, Op. cit., p. 2 segg.
(■2j DlEFENBACH, Op. cit., p. 187.
— 429 —
triamo in tutte le eparchie, tranne (almeno ora) in Etolia, Acarnania
e Laconia, e in parecchie isole; furono sino a poco fa, se non sono
ancora, il nucleo principale, l'elemento preponderante della popola-
zione, non già solo dell' Epiro, ma altresì del regno ellenico, donde
si spiega nella parte maschile di questa l'uso comune dell'albanese
fiistanela, e come (il che è di gran lunga più importante) nel suo
complesso questa riproduca il tipo fisico albanese piuttosto che il
greco classico. Essi furono qua e là assai bene ellenizzati, ma gene-
ralmente sono ancora abbastanza distinti dagli EUeni nei costumi
e anche nella lingua, continuando di solilo ad usare in privato la
propria anche quando l'hanno smessa in pubblico (i). Il Sathas ,
come già il Paparrigopulos (2), afferma che i Greci non considera-
rono mai come stranieri questi discendenti degli Illiri o dei Mace-
doni, se non anzi dei Pelasgi, venuti a stabilirsi tra loro ; che accol-
sero anzi come fratelli e liberatori dalla odiata dominazione bizantina
già quei primi che apparvero nella penisola sotto il nome di Avari
o di Sciavi. Questa asserzione non parrà a tutti, così senz'altro, am-
messibile. Ma, se anche si ammettesse, ne verrebbe forse* cancellata
la differenza glottologica e proprio etnica che tra i due popoli inter-
cede ? Sì, gli Albanesi calati in diversi tempi in Grecia furono e
sono a poco a poco attirati nell'orbita della civiltà della patria loro
adottiva e di questa non men degli Elleni si mostrarono e si mo-
strano amanti, né men pronti a versare per questa il loro sangue;
ma è pur vero, checché dica la scuola capitanala dall'Hahn, che essi
in sostanza [derivino o no dagli antichi Illiri o dai Macedoni], sotto
l'aspetto glottologico ed etnico insieme, differiscono dai Greci, non
dirò col Fallmerayer quanto gli Afgani, ma certo non meno o poco
men degli Slavi.
E che fa ciò ? Per un popolo — piaccia che io ripeta qui le pa-
role che un vero amico dei Greci odierni, Ulrico Koehler, pronun-
ziava nella seduta de' i3 dicembre 1877 dell' Istituto Archeologico
Germanico ad Atene (3) — per un popolo è un privilegio ben dubbio
(1) DiEFENB., ibid.; e Schmidt, Op. cit., p. 14 segg.
(2) Op. cit., p. 395.
(3) TJeher die Zeit und den Ursprung der Grabaiilagen in Mykenoe
und Sputa, nelle Mittheil. des deutsch, archaeolog. Jnstitutos in Athen,
Athen, 1878.
— 430 —
quello d'avere un albero genealogico assolutamente puro. Mentre delle
nazioni che superbamente rifuggono da ogni mescolanza con altro
sangue si veggono fiorire per poco e di buon'ora scadere, insegna la
storia d' ogni tempo che sono i più atti a vivere e incivilirsi quei
popoli che hanno saputo accogliere elementi stranieri e assimilar-
seli. I Greci fino al giorno d'oggi tale attitudine la mostrarono. E
qui appunto è una delle più sicure guarentige ch'essi vivranno e sul
cammino della civiltà andranno via via progredendo.
*
Firenze, gennaio 1882.
Giuseppe Morosi.
DELLA LUNGHEZZA DI POSIZIONE
NEL LATINO, NEL GRECO E NEL SANSCRITO
I. La questione ch'io sto per trattare non è forse senza impor-
tanza, come quella che può dall'una parte interessare il filologo e il
glottologo, e dall'altra chi si occupa di studi metrici. E se considero
che in questi ultimi anni ne trattarono il Corssen, il Baudry, il Pezzi,
il Cannello, lo Schmidt, non mi resta alcun dubbio che la sua im-
portanza ce l'ha veramente e non piccola. Piuttosto temo di aver
mirato a troppo arduo segno prendendo a studiare un argomento,
intorno al quale già si esercitarono tante belle intelligenze. E di questo
chiedo venia anticipata.
Intorno alla lunghezza di posizione delle sillabe gli antichi gram-
matici Pompeo e Prisciano ci lasciarono una teoria che il Corssen
espone diligentemente nella sua opera capitale : Ueber Aussprache,
Vocalismus iind Beionung der lateinischen Sprache (2» edizione, II,
p. 6i3-i4 e segg.). Pompeo e Prisciano ci insegnano che ogni con-
sonante semplice, paragonata con l'unità di misura metrica ossia con
- 431 -
una inora (il xpóvoi; TipOùToc; di Aristosseno), vale un mezzo tempo,
cioè una mezza mora ; e che ogni consonante doppia, e a fortiori due
consonanti che si seguono immediatamente valgono una mora intiera,
e perciò hanno il valore metrico di una vocale breve. Questa teoria
si ricava dai passi seguenti: Pompeii, p. ii2Keil: « e brevis unum
habet tempus, t dimidium tempus habet, 5 dimidium tempus habet
T consonans est et omnis consonans dimidium habet tempus... X, quae
duarum consonantium fungitur loco, unum habet tempus Illud
etiara sequitur, esse aliquas syllabas plurimas, quae et plura habent
tempora, quam oportet, ut est lèx. Ecceèipsum naturaliter duo tem-
pora habet ; ,v , quae duarum consonantium fungitur loco, unum
habet tempus; ecce invenitur ista syllaba habere tria tempora ».
Ne avviene che quando alla durata di una vocale breve si aggiunge
la durata di due consonanti semplici che le tengono dietro imme-
diatamente, queste due durate, sommate insieme, equivalgono alla
durata di una vocale lunga; di qui nasce la lunghe^^^a di posi:^ione
delle sillabe. Pompeii, p. ii2Keil: « quae positione fit longa, duo
habet tempora. Quomodo ? unum habet a vocali, et unum habet a
duabus consonanlibus, quia duae consonantes dimidium et dimidium
habent tempus et faciunt longam syllabam praecedentem ».
I grammatici latini ci insegnano eziandio che vi sono consonanti
di una durata incommensurabile, ossia consonanti irra:[ionali . Tra le
quali consonanti irrai^ionali essi annoveravano le liquide r ed / :
Cledon., p. 27 k: « liquidae eo dictae quia liquescunt in metro ali-
quotiens et pereunt »; quando cioè, spiega il Corssen, in unione con
la muta e la vocale breve precedente, non producono lunghezza di
posizione. Lo stesso dicono dell' 5 iniziale seguito da muta, dinanzi
al quale s la vocale finale della parola precedente rimane breve :
Pompeii, p. io8: « 5 littera hanc habet potestatem, ut, ubi opus
fuerit, excludatur de metro: « ponite spes sibi quisque »; ergo talis
est 5 quales sunt liquidae ».
Adunque, conchiude il Corssen, da questa incommensurabilità o
irrazionalità di r, /, s dipende se queste consonanti spesso con una
muta e una vocale breve precedenti non compiono la durata di due
tempi, e quindi non producono lunghe^^a di posizione.
Questa è la teoria insegnataci dai grammatici antichi ed esposta
dal Corssen. Eccone la sostanza: una vocale breve vale un tempo;
una vocale lunga, due tempi; una consonante mezzo tempo. Perciò
— 432 —
una vocale breve seguita da due consonanti semplici o da una con-
sonante doppia, diventa liaiga per posii^^ione : perchè la durata della
vocale breve (un tempo) sommata con la durata delle consonanti (un
tempo) ci dà due tempi ossia la durata di una vocale lunga. Però i
suoni r, l, s hanno valore incommensurabile; di qui ne viene che
spesso, quando a una vocale breve tengono dietro due consonanti di
cui l'una è r o / o 5, non abbiamo lunghe^^a di posizione ; perchè
la somma della durata della vocale e delle due consonanti non è
uguale (non essendo da tener calcolo dell' r o l o s] che a un tempo
e me:f:io, cioè non è tale da potersi considerare come durata di una
vocale lunga.
Questa teoria è talmente empirica che già fu combattuta da tutti
coloro che in seguito si occuparono di quest'argomento ; ed io dubito
ancora che il Corssen 1' abbia voluto patrocinare come vera e soste-
nibile, ma che semplicemente egli 1' abbia esposta per far conoscere
quali fossero a questo proposito le opinioni degli antichi.
È al tutto empirica l'affermazione che il suono d' una consonante
valga la metà di una vocale breve. A ogni modo, bisognerebbe sempre
distinguere se nella sillaba la consonante è preceduta o seguita dalla
vocale : p. es. in ta il valore del t è ben diverso che in at. Ma di
questo, pila tardi.
Ancora, su qual fatto possiamo noi fondarci per dire che i suoni
r, /, s sono irra:;ionali ?
E ammesso pure che lo siano, cioè che siano più brevi di un
mezzo tempo, perchè dunque r ed / fanno sempre posizione quando
essi precedono la muta, e quando sono doppi ? Se tr può non far
posizione con la vocale breve precedente , perchè dovranno farla
sempre rt ed rr ?
Il Baudry [Grammaire comparée des langues classiques, p. lo-i'i)
dichiara insufficiente la teoria suddetta, ed espone una sua idea, a
vero dire, un po' vaga e un po' confusetta. Egli in sostanza attribuisce,
mi pare, la lunghezza di posizione alia difficoltà di poter pronun-
ziare più consonanti di seguito: « on s'en peut faire une idée quand
on entend les Orientaux qui parlent aujourd' hui notre langue ; un
Persan qui parie francais prononce ferancais, obejet... Il suffit qu'une
difficulté semblable se soit rencontrée dans la prononciation des lan-
gues anciennes pour expliquer l'allongement d'une syllabe qui, à sa
• voyelle briève valant un temps, ajoutait un rctard cquivalant à une
— 433 —
fraclion d'un autre temps ». Io non so perchè queste medesime dif-
ficoltà non si dovessero incontrare nella pronunzia di quelle conso-
nanti che talvolta non fanno posizione [s, r, /) ; tanto è vero che il
Baudry stesso ci porta di tali esempi : f{e]rancais, ecc.
Né credo che i Latini pronunciassero am{e)nis per amnis, lon[e)gus
per longiis^ f{e)remere, t{e)remere, né i Greci Xa|u(e)iTd<; per Xa,uTrd<;,
€p(€)yov per 6pYov,q)(e)paZ;uj, P(e)poTÓ<;, ecc. Di più, già notava il Corssen
(Op. cit., IP, 6i8) che l'ipotesi della inserzione d'un e irrazionale fra
le due consonanti facienti posizione, per ispiegare la lunghezza di
posizione, è inutile, e non è in alcun modo confermata né dalla scrit-
tura né dalla metrica latina.
Veniamo ora alla teoria esposta dal nostro professore Dome-
nico Pezzi, il quale (ne sono certissimo) nella franchezza con cui io
discuto le sue opinioni non vorrà vedere che un attestato, il più alto,
il più sincero ch'io gli possa dare, della mia stima e della mia rico-
noscenza. Egli adunque, dopo analizzate minutamente e respinte le
teorie del Corssen e del Baudry, soggiunge [Gram. storico-comp. della
lìngua lat.. p. io6) : « ci sembra assolutamente necessario in questa
investigazione tener conto del posto occupato dalla liquida e sup-
porre che la medesima possa esercitare sulla muta precedente (che le
si addossa) un'azione abbreviatrice, quasi la pronunzia, impaziente di
giungere al secondo elemento della combinazione fonetica, sorvoli
sul primo. Restringendo il nostro discorso, oramai troppo lungo, su
questo argomento al solo studio del suono r, a cui principalmente
si riferisce il fenomeno che investighiamo, noteremo che l'azione da
noi attribuitagli ipoteticamente trova, se non ci apponiamo in fallo,
riscontro degno di nota nella potenza, ch'esso rivela già nel campo
latino e maggiore in quello degli idiomi neo-latini, di affievolire
suoni esplosivi precedenti, facendo si che esplosive sorde s'indeboli-
scano nelle sonore corrispondenti, e tanto le prime quanto le seconde
in certi casi si dileguino compiutamente senza lasciar traccia di sé ».
Non é dubbio che 1' r tenda ad affievolire, e qualche volta riesca
anche a far dileguare i suoni esplosivi che immediatamente lo prece-
dono. Ma, notiamo, questo fatto avviene sopratutto nel campo neo-
latino, mentre nel campo latino ci sono pochissimi esempi di digra-
damento, nessuno, ch'io sappia, di dileguo d'un suono esplosivo in-
nanzi ad r. Resta adunque sempre, sebbene talvolta digradata, resta
sempre nel campo latino una consonante esplosiva dinanzi ad r , né
— 434 —
mi pare che sia sufficiente spiegazione della posi:^ioiìe debole (i) il
dire che 1' r tende ad abbreviare la muta precedente. E la stessa spie-
gazione potrebbe poi valere per 1' /? per 1' s seguito da muta? var-
rebbe pel campo greco?
Del resto il Pezzi stesso credo abbia rinunziato a questa spiega-
zione, poiché in una sua opera posteriore [Glottologia aria recentis-
sima, p. 28, nota i) parlando della teoria immaginata dallo Schmidt,
la dice « la migliore di quante illustrazioni furono tentate di questo
fenomeno (posizione debole) ».
Vediamo adunque quale sia la teoria esposta dallo Schmidt, che è
anche la pilli recente ch'io conosca intorno a questo argomento.
Lo Schmidt consacra il secondo volume della sua opera Ziir Ge-
schichte des Indogermanischen VoJcalismus (Weimar, 1875), all'investi-
gazione della azione esercitata da r ed / sulle vocali vicine. Egli trova
che nella più parte delle lingue indogermaniche il suono vocale ine-
rente ad r ed / (der stimmton des r, /) si manifesta con tal forza che
sotto favorevoli condizioni si può svolgere in una vocale indipen-
dente tra la liquida e le consonanti vicine (p. i). Questo suono vo-
cale così sviluppato è detto dai grammatici indiani svarabhakti, e lo
Schmidt conserva questa denominazione perchè più esatta delle greche
èTrévGeoiq àvàTrtuEic; e del russo pollnoglasie.
Egli si accinge quindi a studiare la svarabhakti nel campo sanscrito,
nello slavo e ne' suoi vari rami, nel lettico, nel lituano, nel prus-
siano, neir antico cranico, nel greco, nel latino, nell' irlandese, nel
germanico. Noi lo seguiremo nel campo sanscrito, nel greco e nel
latino, lasciando gli altri che non fanno al caso nostro.
Sanscrito [Op. cit., 11, voi., p. 1-8): Dopo avere accennato alle varie
opinioni sulla qualità del suono che si svolge dopo ?" ed / (poiché il
Whitney, per es., lo paragona alla vocale indetcrminata dell' inglese
bui, mentre il Benfey lo identifica con 1' e dell'ant. battriano svol-
gentesi tra r e consonante, es.: dadareca = skr. dadarca) , il nostro
autore soggiunge che negli inni vedici non ci sono tracce sicure della
rappresentazione grafica di questa svarabhakti. Ce ne sono però in
opere posteriori; egJi trova:
(1) Avverto per maggior chiarezza che si dice esservi posizione de-
bole quando una vocale breve dinanzi a due consonanti (cons. -f r, l,
s -j- cons.) può restar breve.
— 435 -
dhùrusadam per dhursadam ;
paracii per parca ;
bhurag per *bharag, *bharg.
carad-, caradu, autunno, anno, deve dedursi per svarabhakti da
card.
palavi, specie di vaso, lat. pelvis^ gr. Txe\\i(;, iréXXa da *TieXF; —
senza svarabhakti palva-Ia-s, piccolo recipiente da acqua.
kararas, corvo, lat. corviis.
palàvas, loppa, pula, gr. TrdXri, sorta di farina, da *TTaXFr|, come
òXot; da * òXFoc;.
Gli aoristi akàrisam, anvakàrisam per akàrsam. anvakàrsam.
varisa-, karisa- invece di rarsa-, karsa, e pochi altri.
Anche dinanp a r (prego di notare queste parole) si trova svara-
bhakti (auch vor r findet sich svar.) : il trovare computato indra ,
riidra, ecc. di tre sillabe , ci accenna a indara o indira, ritdara, ecc.
Troviamo ancora tarasanti per trasanti, palava per piava.
Greco (p. 307-342). Questo capitolo non contiene molto che faccia
al caso nostro ; si estende invece moltissimo a proposito dei muta-
menti, delle metatesi, degli allungamenti e dei vari coloramenti di
vocali cagionati da r ed /.
Esempi di vocali lunghe parassite che stanno dopo r ed / :
OKapiqpoe; accanto a OKapqpiov, KÓpqpoe;.
àpriYu), àpuuYÓi; accanto ad ópKéu;.
àXujq)ó<;, bianco = àXqpò<;, albus.
KoXujvó(;, collina, lat. collis da * colnis, lit. kdlnas, monte.
èpuuòióc; accanto ad ardea.
Queste vocali lunghe parassite dovettero anch'esse dapprima esser
brevi ; ma quando ebbero acquistata una piena esistenza individuale,
allora sotto la sempre crescente influenza del suono vocale inerente
al p, esse divennero lunghe (p. 3 11).
Esempi di vocali brevi parassite dopo r ed l : òpÓYuict : òpfuict; òXe-
yeivóq : àXYeivóc, ecc. (p. 3i3}.
Da questo fenomeno della svarabhakti lo Schmidt fa dipendere la
posizione debole : « È influenza delia svarabhakti non ancora svoltasi
in una vocale piena e da calcolarsi metricamente, se una consonante
momentanea seguita da una liquida non fa posizione. In tal caso non
c'è veramente una doppia consonanza ; le due consonanti, per mezzo
del debole suono vocale ancora metricamente irrazionale, sono così
— 436 —
separate 1' una duU' altra, che solamente la prima si può computare
con la sillaba precedente » (p. 3i3}.
Latino (p. 342070;. Anche qui la massima parte del capitolo non
fa per noi. Teniamoci strettamente al fenomeno della svarabhakti.
Eccone alcuni esempi :
balairones : blaterones , magistaratum : uìagistratinn , Terebonio :
Trebonio, trichilinio : triclinio, iirebem : urbem , Militiades : Miltiades.
Lo Schmidt, contrariamente al Corssen, connette roliip, ani. rolop,
con lÀTToiuai, e quindi abbiamo un altro caso di svarabhakti.
Abbiamo nell'osco : sakarater = lat. sacratur , alafaternum accanto
al lat. alfaterna^ aragetud = lat. argento, ecc.
Parlando della posizione debole (p. 343) combatte la teoria del
Corssen che la vuole spiegare per mezzo della irrazionalità dei suoni
r, /, e soggiunge svarabhakti e mancan-{a di posigliene si determinano
a vicenda.
Questi sono , molto succintamente , i risultati degli studi dello
Schmidt in ordine alla mancanza di posizione che spesso occorre
quando dopo una vocale breve segue una consonante muta e una li-
quida. Le vaste investigazioni del dotto professore di Berlino, delle
quali tralascio ogni elogio che in bocca mia suonerebbe ridicolo o
superbo, serviranno certo, in molteplici maniere, ai glottologi e
anche ai filologi ; ma mi pare di potere affermare che esse non rie-
scono punto a spiegare il fenomeno della posizione debole.
Anzitutto io faccio osservare :
1" Gli esempi di svarabhakti recati dallo Schmidt sono molti in
sé, ma sono assai pochi se si considera il grande numero di parole
sanscrite, greche e latine, in cui s'incontra il gruppo r, / -|- conson.
oppure cons. + r, /. Quindi io non so se da questi pochi esempi ac-
certati noi abbiamo il diritto di dedurre che sempre, in tutti i casi,
si svolse la svarabhakti.
2° Ammesso pure che in latino non si pronunciasse supra ma
sup[e)ra o sup'ara, io mi domando : perchè non conteremo noi questa
parola come avente tre sillabe? e se vogliamo ridurre le due prime
a una sola, non sarà questo un motivo di più perchè questa una sia
lunga? Non abbiamo noi visto in sanscrito, a cagione della svara-
bhakti, indra e riidra computati di tre sillabe?
3° Se la svarabhakti nella combinazione cons. + r, / produce
posizione debole, perchè questa posizione debole l'hanno solamente il
— 437 —
greco e il latino, e non si trova nel sanscrito, dove pure la svara-
bhakti ha molta azione ?
4" Faccio ancora osservare che la svarabhakti si trova pure, anzi,
come lo stesso Schmidt dichiara e come appare dagli esempi recati,
è assai più frequente nel gruppo r, / -\- cons. (es. artis, altus) che non
nel gruppo cons. -r ^i l {patris, delubrum). Perchè dunque nel primo
caso non fa posizione debole, ma solamente nel secondo?
Quando noi ci troviamo davanti a un fenomeno, il quale alcune
volte è accompagnato e altre volte non è accompagnato da certa
condizione, possiamo noi affermare che questa condizione è la causa
di quel fenomeno? Esempio : se un patologo, esaminando cento ca-
daveri tubercolotici, incontra in alcuni certe alterazioni al fegato,
negli altri non le incontra, mi pare non abbia il diritto di dire che
quelle tali alterazioni epatiche sono inseparabili dalla tubercolosi,
tanto meno poi che esse sono causa della tubercolosi. Noi siamo
in presenza d' un fatto analogo : noi abbiamo un certo numero di
vocaboli affetti da svarabhakti; gli uni ci presentano posizione de-
bole, gli altri no ; possiamo noi dire che questi due fenomeni sono
inseparabili o che l'uno è la causa dell'altro? Se la logica vale qual-
cosa, mi pare possiamo rispondere recisamente no.
5'' Infine noi troviamo talvolta posizione debole anche quando a
una vocale breve tien dietro il gruppo 5 -{- cons.; il che gli antichi
spiegavano dicendo che anche 1' 5, come 1' / e V r è un suono irra-
zionale. Come spiegherebbe lo Schmidt questa strana posizione de-
bole ? Qui la svarabhakti non serve, perchè non so davvero e non
credo che il gruppo 5 -|- cons. abbia mai svolto alcun suono paras-
sita.
Conchiudo : la teoria della svarabhakti non serve a spiegare la lun-
ghezza di posizione né debole né forte.
Fin qui m'è toccato di fare l'ingrata parte dello spirito che nega.
Ora m'accingo molto volentieri a vedere se è possibile di affermare
qualche cosa, con la speranza che, se non altro, avrò almeno dato
prova di buona volontà.
II. Nella teoria della lunghezza di posizione io credo sia avve-
nuto quello che avvenne nella teoria della elettricità dinamica. È noto
che Alessandro Volta attribuiva la for:^a elettromotrice, come egli la
chiamava, al contatto di due metalli; si vide più tardi che c'era con-
— 438 -
tatto, ma e' era insieme reazione chimica, e questa, non il contatto,
era la sorgente dell'elettricità. Lo stesso errore, dicevo, mi pare sia
avvenuto nella teoria della lunghezza per posizione. Ognuno avrà os-
servato che tutte le teorie precedentemente esposte partono da questa
definizione : è lunga per posizione quella vocale breve che è seguita
da due consonanti, oppure: è lunga per posizione quella sillaba che
contiene una vocale breve seguita da due consonanti. Vediamo se
queste definizioni sono conformi alla realtà delle cose. Consideriamo
questi due esempi :
dicit aeque
dicit bene.
Nel primo caso noi abbiamo la sillaba cit breve, nel secondo caso
essa diventa lunga. Perchè ciò ? Io non trovo altra ragione all'infuori
di questa : nel primo caso noi leggiamo
di-ci-tae-que
nel secondo
di-cii- be-ne.
Mi pare impossibile si possa dare un'altra ragione probabile. La vo-
cale i di cit non diventa lunga per posizione se non perchè, venen-
dole dopo il b, noi non possiamo unire il t con la sillaba seguente,
ma siamo costretti a sillabarlo col ci precedente; mentre nel primo
caso noi uniamo, pronunziando, il t con la sillaba seguente ae.
Mi si dirà: è sempre la stessa cosa; anche a questo modo si am-
mettono due consonanti perchè una vocale breve si allunghi per po-
sizione. Pare, ma non è : e' è anzi una notevole differenza. Per gli
altri il b di bene viene unito col t di dicit., e per spiegare la lun-
ghezza di posizione aggiungono il suono tb a ci ; per me invece il b
fa sillaba, com'è naturale, con 1' e che gli tien dietro [bene)., e, per
rispetto a dicit, il b non ha altro valore che quello di costringere il
t a far sillaba con ci. Non è dunque citb che ci dà la lunghezza per
posizione, ma semplicemente cit.
Perciò io credo che all'antica si debba sostituire questa definizione:
« È lunga per posizione quella sillaba la quale contiene una vocale
breve ed è chiusa da una consonante ».
- 439 -
Ora veniamo alla posizione debole. Consideriamo questi due esempi:
legiinto
patris.
La sillaba gun è sempre lunga per posizione perchè io non posso
sillabare in altro modo che le-gun-to, e non mai, per es., le-gii-nto.
La prima sillaba di patris invece può essere breve o lunga perchè si
può con tutta facilità sillabare pa-tris e pàt-ris.
Mi pare quindi si possa spiegare il fenomeno della posizione de-
bole osservando che, per la natura della liquida, la muta precedente
può unirsi in sillaba tanto con la vocale precedente quanto con la
seguente : pa-tris e pàt-ris, pub-licus e pU-blicus, ecc.
Si noti ancora che, come già ho avvertito, talvolta anche il gruppo
s -\- cons. non faceva posizione. E questo mi pare si spieghi natural-
mente se si osserva che 1' 5, per la sua natura, può far sillaba così
con la vocale precedente come portarsi sulla sillaba seguente. Quindi
noi troviamo: vettis-tatis e vetu-statis, scelès-tus e scele-stus, fenes-tra
Q fene-stra (Corssen, IP, p. 66o).
Lo stesso si dica del greco dove fenomeni identici si spiegano con
identiche ragioni. Anzi qui troviamo un fatto che ci conferma nella
nostra spiegazione. Il Curtius [Grani, greca, % 78) dice che quando
in un composto la muta è finale di una parte, mentre la liquida è
iniziale della parte seguente del composto, allora c'è sempre posi-
zione; es.: 'eK-XéYiu. Ora questo fatto non può dipendere da altro se
non da questo, che il greco, sentendo ancora la forza di ciascuna
parte del composto, sillabava sempre èK-Xéyiw, non mai è-K\éYUJ.
Per r opposto, tanto nel greco quanto nel latino r, / + cons. fa
sempre posizione, perchè non si può far a meno di sillabare la li-
quida con la vocale precedente: partem, artem, altus, è\Tc{(;, 6pvi<;...
non si possono sillabare altrimenti che par- te jn, àr-tem, àltus, 'eX-iri^,
"op-vt<;...
E se in sanscrito non troviamo la posizione debole, vuol dire che
gli Indiani univano sempre la muta alla vocale precedente, cioè sil-
labavano sempre pit-ra, mit-ra, riid-ra, piit-ra, ecc.
Mi pare adunque che il fenomeno della posizione debole si possa
così spiegare molto semplicemente senza ricorrere né alla irraziona-
lità delle liquide né alla azione della svarabhakti.
— 440 —
10 era arrivato a questo punto del mio lavoro, quando, seguendo
una nota del prof. Pezzi alla sua Glottologia aria recentissima (p. 28),
ebbi a consultare la Rivista di filologia classica, anno II, p. 226
e segg. Ivi trovai, con mia grata sorpresa, che già il prof. Cannello
aveva proposto la spiegazione della posizione debole con la possibi-
lità di sillabare, per es., pa-tris e pat-ris. Senonchè il Cannello, an-
ziché risalire ai primi principi della questione, ebbe il torto di fer-
marsi alla prima idea; tanto che dopo avere avuto il merito di
dichiarare che pa di patris può essere breve o lungo perchè si può
sillabare pa-tris e pat-ris, misconosce egli stesso il valore del suo
pronunziato, si impaccia nelle more e nelle mezze more, e finisce
per darsi la zappa sui piedi, affermando (p. 223) d'accordo col Corssen
e con Prisciano che il latino « aveva consonanti d' una durata in-
commensurabile, nulla per la prosodia : e a questa categoria di suoni
appartenevano la 5 davanti a muta e la r dopo muta >> (perchè non
anche V l ?).
Per me queste consonanti che, in certi casi dati, hanno un suono
incommensurabile, nulla per la prosodia, sono un mistero che non
riesco a spiegare e neppure a credere ; tanto più quando considero
che, anche in quei dati casi, l'orecchio li avverte, li misura né più
né meno che qualunque altro suono.
11 Cannello inoltre non ha avvertito che non si può parlare di va-
lore metrico delle consonanti senza considerare la loro posizione ri-
spetto alle vocali; poiché, come già dissi, ben diverso, per es., è il
valore del t in ta e in at. Egli invece seguita col Corssen e col Pri-
sciano ad attribuire alle consonanti, qualunque sia la loro colloca-
zione, il valore di vie^j^a mora (fatta eccezione, s'intende, dei suoni
5 ed r che in certi casi sono incommensurabili o nulli . Egli adunque
date le parole
sprè — tii — s a — ìuò — re /rè — tii — s
le calcola a more cosi :
3\', - I V, - l'A- ^-V-2 - l'A - 3 - iVi- (Vi)-
Donde risulta evidente che, se per es. 1' e di spretus fosse breve
per natura, avremmo spre = more 2 Vj. cioè mi par chiaro che questa
— 441 —
sillaba spré dei valore di more 2 7-i dovrebbe essere computata come
lunga ; il che invece è contrario a quanto vediamo avvenire nella
metrica. Infatti noi troviamo strìi-o, stre-po, stm-men, stro-pha, sira-
men, ecc.
E a questo inconveniente egli cerca di rimediare ricorrendo alla
incommensurabilità dell' 5 innanzi a muta e dell' r dopo muta. Lad-
dove a me pare che basti avvertire un fatto naturale, fisiologico, e
che ha la propria spiegazione nella natura delle consonanti, il fatto
cioè che una consonante, o anche un gruppo consonantico, quando
precede a una vocale nella stessa sillaba, si pronunzia così aderente,
quasi direi cosi compenetrata con la vocale, che il valore metrico di
questa non ne viene alterato in modo sensibile. Per contro, quando
la consonante tien dietro alla vocale con cui fa sillaba, il nostro or-
gano vocale è costretto a una tensione più grande e più durevole per
far sentire dopo la vocale anche il suono della consonante ; onde ri-
sulta che quando abbiamo da pronunziare una sillaba composta di
una vocale breve e di una consonante {et, at, ecc.), il tempo impie-
gato a pronunziare la consonante aggiungendosi al tempo impiegato
a pronunziare la vocale, ci dà un tempo, un valore metrico eguale a
quello di una sillaba lunga.
Alle proposizioni del Cannello il Pezzi fece sei obbiezioni, a cui
egli non rispose. Di queste obbiezioni alcune sono rivolte a conside-
rare l'affievolirsi delle mute dinanzi all' r, e queste non fanno al caso
nostro. Ci tocca però, e molto da vicino, la quinta obbiezione. Se
fosse vero, dice il prof. Pezzi, che 1' a di patris può restar breve
perchè si può sillabare pa-tris, perchè troviamo lungo 1' e di re-
stringo, r e di rèsto, V e di respiro, ecc.? « Né vi ha mezzo di con-
futarci se non insegnando che simili composti debbono essere divisi
per sillabe nel modo seguente: res-tringo, rès-to, rès-piro ■» .
Confesso che alle prime rimasi alquanto imbarazzato. Ma poi mi
parve di scorgere in queste parole, più che un ostacolo, un aiuto,
più che una obbiezione che atterra, un fatto che conferma. Ognuno
mi vorrà concedere agevolmente che il re di redico, di reduco, di
réjìcio è al tutto lo stesso re che troviamo in restringo, in resto, in
respiro. Ora come va che il re in reduco, redico, reficio è breve,
mentre in restringo, rèsto, respiro è lungo ? Siccome non è probabile
che i fenomeni della metrica avvengano a caso, una ragione ci ha da
essere. Ora, in fede mia, non posso immaginarne altra se non am-
Tiivista di filologia ecc., X. 29
— 442 —
mettendo che i latini pronunziassero res-tringo, res-to, res-piro. Né
questo mi fa meraviglia: anzi, mi pare che di regola i latini doves-
sero sillabare 1' 5 seguito da consonante con la vocale precedente ;
tanto è vero che il gruppo s + cons. fa quasi sempre posizione,
mentre sono pochissimi i casi in cui non fa posizione {vetìistatis, ve-
nustatis, scelestus], casi che non mi paiono spiegabili se non ammet-
tendo che r 5 qui venga unita, pronunciando, con la sillaba seguente.
Ancora un'osservazione. Se è vero che una vocale breve può restar
breve dinanzi a 5 + cons. e a cons. + r, /, perchè questi gruppi con-
sonantici possono trasportarsi sulla sillaba seguente, è ovvio dedurne
una conseguenza la quale permette d'allargare la regola a questo
modo: ci è posizione debole ossia « può esserci mancanza di posi-
zione ogniqualvolta il gruppo consonantico che tien dietro a una
vocale breve si può con una certa agevolezza sillabare tutto con la
sillaba seguente ». E, per ristringerci al campo latino, i gruppi con-
sonantici che (oltre s -\- conson. e conson. -|- '", i) si possono con una
certa agevolezza sillabare con la sillaba seguente sono specialmente
pt, ps, et. Orbene, di ognuno di essi noi abbiamo degli esempi, dove
non fanno posizione :
volìiptatis, volìiptatem (Corssen, II', p. 662);
tpse, ìpsius (Corssen, 11% p. 63o);
sencctutetn (Corssen, IP, p. 662).
Non reputo opportuno di entrare a parlare delle cagioni per cui
la posizione debole, di uso quasi costante presso i poeti comici la-
tini, sia spessissimo trascurata presso i poeti dell'evo augusteo. Nep-
pure mi fermerò sulle frequenti violazioni della legge di posizione
che occorrono presso i comici latini, perchè, lasciando stare che ho
inteso come il signor Edom ne fece poco fa il soggetto di una let-
tura all'Accademia di Francia, io sono persuaso che qualunque pos-
sano essere le ragioni o stoniche o artistiche o glottologiche o me-
triche con cui si vorranno spiegare queste varietà dell'uso, esse non
potranno influire direttamente sulla soluzione del problema onde
nasca la lunghezza di posizione.
Torino, ottobre, 1S81.
Federico Gari.anda.
— 443 —
CO:;^GETTUTiE CA70U^IAV^E
I. Oltre a tutte quelle varie obbiezioni che da Gio. Matt. Gessner (i)
in poi furono messe in campo per dimostrare che il libro De re ru-
stica di M. PoRCio Catone subì un grande rimaneggiamento nell'or-
dine e nella lingua ; obbiezioni alle quali risposero per buona parte
Gio. Ugo di Boihuis (2) e Rinaldo Klotz (3); nell'edizione dei
Rustici latini volgarizzati (Venezia, stamperia Palese, 1792-94, voi. I,
p. 148, n. 4) si legge la seguente, ch'io credo gravissima, alla quale
i critici non hanno per anco tentato di dare una risposta: « Ca-
tone comincia così il suo libro : « Est interdum praestare (populo ag-
giunge un cod. della libreria di S. Marco) mercaturis rem quaerere,
ni lam periculosum siet etc. ». Per me un tale modo di cominciare
un'opera non va a garbo. Infatti veggo che i commentatori si sbrac-
ciano a trovarvi il senso vero. Ma checché sia della giustezza di
questo modo di cominciamento, le ultime linee del Proemio sem-
brano sciogliere, a mio favore, la questione. Catone termina così :
« Nunc, ut ad rem redeam, quod promisi institutum principium hoc
erit ». Che è quanto dire: Ora, ritornando al proposito, ecco come
do principio a quanto promisi. Se noi non vogliamo riguardare Ca-
tone come un babbuino smemorato, che crede d' aver detto ciò, che
non ha detto per nissun conto, siccome apertamente consta, che in
(1) Scriptores rei rusticae. Lipsiae, MDCCXXXV, prefaz.
(2) Diatribe literaria in M. Porcii Catonis Censorii quae supersunt
scripta et fragm., Trajecti ad Rhenum. MDCCCXXVI, p. 17G-187.
(3) Ueber die urspr. Gestalt von Cato^s Schrift de re rustica. Jahn's,
Jahrbb., Suppl. X, 1844, p. 5 sg.
— 444 —
tutto il proemio suo nò ha specificato di voler trattare dell'agricol-
tura, né lo ha promesso, forza è concludere che realmente manca
buona parte del proemio scritto da Catone, e che questo, che ora ci
rimane, è mutilato ».
Sorvolando alle parole « est interdum praestare mercaturis rem
quaerere e. q. s. » che non è il caso di giustificare, con moltissime
altre, dalle accuse di commentatori, i quali per colpa tutta loro non
intendono Catone (i), vengo a proporre una variante nella chiusa del
proemio: « nunc, ut ad rem redeam, quod promisi institulum prin-
cipium hoc erit »: dove invece di promisi leggerei promsi , modifi-
cando il senso nel modo seguente : « Questo che [finora] ho detto
sarà (opp.: valga per) l'introduzione ch'io aveva divisato [di premet-
tere all'opera mia] ».
Per tal guisa sarebbe tolto il sospetto di una lacuna, la quale del
resto non si saprebbe dove ammettere: non in principio del proemio,
perchè esso è troppo solenne, se posso dirlo, per doversi considerare
mutilato: non in mezzo, perchè la successione logica delle idee non
è affatto interrotta.
Per altro contro questa congettura sorge una difficoltà. Nel periodo
Catoniano precitato, si legge il verbo redeam, il quale naturalmente
parrebbe implicare l'idea di ritorno ad una cosa alla quale l'autore
sia di già venuto; ma di ciò si può dare spiegazione.
Catone, l'uomo pratico per eccellenza, che va sempre diritto, senza
ambagi, al suo scopo, tanto nella vita come nelle opere sue e segna-
tamente nel libro De re rustica, dove precetti sono aggiunti a pre-
cetti, spesso perfino senza legame, dopo aver premesso una prefazione
alquanto larga e generica, accennando ai pericoli del commercio, alla
disonestà dell'usura, all'eccellenza dell'agricoltura, che fa gli uomini
forti ed onesti e i soldati valorosi, ed alla ingenua semplicità de' co-
stumi presso i maggiori, i quali per lodare un uomo dabbene lo
chiamavano « bonum agricolam bonumque colonum >^ , s'accorge di
aver fatto una digressione che lo ha allontanato dal dare principio
all'argomento tutto pratico ch'egli si era proposto di svolgere nel
(1) Chi volesse consultare l'opera da me citata, avrebbe più volte oc-
casione di osservarvi die i saggi di spirito frequentissimi e inoppor-
tuni, si conciliano mirabilmente colla scarsa cognizione del linguaggio
Catoniano.
— 445 —
De r. r., e quindi, come pentito, ritorna ad esso « nunc, ut ad rem
redeam, quod provisi inslitutum principium hoc erit ».
Questo va detto qualora s'intenda il verbo redire nella significa-
zione primitiva di ritornare. Se poi piacesse invece considerarlo come
usato semplicemente nel senso di venire, venire realmente, ecc., giusta
parecchi esempi classici, la difficoltà sarebbe anche minore.
II. Forse perchè in Prisciano, lib. VI, p. 226 e 266, ediz. Hertz,
si legge: « M. Cato in censura de vestitu et vehiculis... », Enrico
Jordan (i) credette che il titolo dell'orazione Catoniana, alla quale si
allude, fosse « In censura de vestitu et vehiculis »; mentre è da ri-
tenersi, con molta probabilità, per solo titolo genuino : « De vestitu
et vehiculis ».
Le parole in censura sono state aggiunte, a mio credere, dal gram-
matico per indicare che Catone avea pronunziato quell'orazione ìnentre
era censore.
Che poi la cosa stia veramente così lo proverebbe Prisciano stesso,
il quale al libro XIll, p. 8, dice semplicemente: « xMarcus Cato de
vestitu et vehiculis... » senza aggiungervi che l'orazione era stata
detta in censura, perchè l'avea già accennato due volte.
Parimenti, dalle parole di Gellio, lib. V, i3, 4, ediz. Hertz « M.
Cato in oratione quam dixit apud censores in Lentulum », se ne è
ricavato il titolo « In Lentulum apud censores » che ancora si legge
nelle edizioni catoniane, compresa quella, del resto diligentissima, di
Enrico Jordan a p. Sq, mentre il vero titolo parmi « In Lentulum ».
III. Conosceva Tito Livio l'orazione Catoniana « De lege Oppia »?
Feder. Lachmann (2) dice : « An Catonis prò lege Oppia orationem
legerit Livius incertum est. Non in omnium manibus erant Catonis
orationes. Ciceronem scimus quasdam data opera invenire non po-
tuisse. Illa Catonis prò lege Oppia oratio quae libro 34, 2 et sq. le-
gitur, Livii debetur ingenio, apte, ut Fabricius dicit, ad rem et Ca-
tonis personam expressa, et in aliis locis Livius, ubi orationes a
(1) M. Catonis praeter lihruni de re riist. quae exAant. Lipsiae,
MDCCCLX, p. LO.
(2) De fontibus Ilistoriarum T. Livii, commentano altera. Gottingae,
JVIDCCCXXVllI, p. 18.
— 446 —
magnis viris habitus superesse sciret, alias ipse suo ingenio proferre
noluit. Cfr. 45, 25 ubi dicit: non inseram simulacrum viri copiosi
quae dixerit referendo. Ipsius oratio extat Originum quinto libro in-
clusa. Idem facit jq, 42, 43 ubi nonnulla commemoratur e Catonis
in Flamininum oratione desumpta, etiam 38, 64 ubi extare dicit ora-
tionem de pecunia regis Antiochi, et 43, 2, de qua re Catonis extabat
oratio in P. Furium (non Lucium, ut in fragm. coli, legitur), prò
Lusitanis dieta s. Lusitanis Hispanis, ut Charis, p. 198 dicit, qui
locus ad hanc orationem referendus est. Et hi sunt loci, in quibus
Catonis orationibus usus est Livius e. q. s. ».
Ora tutto questo si riduce, a parer mio, a dire in altre parole che
Livio quando conosce le orazioni di Catone non le riferisce; ma
quella « De lege Oppia » la riferisce, dunque non la conosce. Il
quale ragionamento non sembrami intieramente giusto, poiché altro
è dire che nei quattro esempi (il secondo e il terzo si riducono ad
uno) citati da Lachmann, Livio mostra di conoscere le orazioni Ca-
toniane senza riferirle, altro è dire che ogni qualvolta le conosce non
le riferisce. Livio potea in quei luoghi conoscere le orazioni di Ca-
tone e non riferirle, ed altrove, pur conoscendole, riferirle se gli
pareva opportuno. Per cui, chi vorri\ derivare da pochissimi esempi
una legge certa alla quale si attenesse strettamente Livio senza riser-
vare alcuna libertà al suo ingegno, non foss' altro per variare? In
que' tempi la storia non era ancora una scienza, ma. come parte del-
l'epopea, opera d'arte (i) e quindi non si può riscontrare in essa il
metodo costante, la precisione rigorosamente scientifica dei lavori
storici recenti.
Enrico Jordan (2) che di Catone pubblicò con molta diligenza i
(1) Cfr. QuiNTiL., X, 1, 31-32, ediz. Bonnell: « Historia est enim
proxiraa poetis, et quodammodo Carmen solutum, et scribitur ad nar-
randiiin non ad probandum ; neque illa Livii lactea ubertas satis do-
cebit eum qui non speciem expositionis sed fidem quaerit )ì.
(2) Op. cit., p. LXIV, proleg.: « Praeclara extat oratio a Livio, XXXIV,
2, composita, quo auctore quod ne titulutn quidem orationis agmea re-
liquiarum ducere passus sum, scio fora qui reprehendaot. "Veruni cum
Livius ubicunque Catonis orationum memiuit ibi fere, quoniani integrae
etiam tuni extarent, « simulacrum viri copiosi », ut ait XLV, 25, aa-
nalibus inserero quasi religiosnm habeat, Oppiae legis suasionem, quam
uberrime exposuit, a Catone scriptam ignorasse videtur ».
— 447 —
frammenti superstiti, non fa che ripetere l'argomento di Lachmann.
Per questa ragione non aggiungo parola intorno ad esso.
Ermanno Peter (i), dopo aver rifatto il riscontro che Jordan (2)
avea già tentato fra quello che dicono i frammenti Catoniani della
orazione « Dierum dictarum de consulatu suo > (3), e Livio nel
lib. XXXIV, 8-21, esce in queste parole: « Vix enim mihi persua-
dere possum, Livium, cum omnes res a Catone gestas conlectas et
dispositas in Originibus videret, ipsum quae opus erant, ex oratio-
nibus laboriose conquirere maluisse, praesertim cum perpaucos libros,
qui non essent annales, in scribendo ante oculos habuisse videatur,
origines autem noverit atque ita eorum mentionem fecerit, ut ma-
gnam eius auctoritatem habitam cognoscamus, Accedit quod con-
sensus fragmentorum Catonis et Livii non est talis, ut quin Livium
ipsis orationibus usum esse statuere cogamur. resconcinunt,non verba.
atqui Catonem consulatum suum in Originibus silentio non praete-
riisse eademque narrasse quae in illis orationibus apertum est: quid
ni igitur hanc rerum expositionem Livium secutum arbitremur?»
Prima di tutto osserverò che se perpauci erano i libri consultati
da Livio air infuori degli annali, non si può a tutto rigore negare
che fra que' perpauci si annoverassero anche le orazioni, molte delle
quali avevano stretta relazione colle cose narrate nelle Origini.
In secondo luogo ancorché si ammettesse, per voler essere più se-
veri dello stesso Peter, che Livio non abbia consultato altri libri che
annali (4), colla congettura non infondata che farò più sotto, Livio,
leggendo le Origini Catoniane (che spesso sono anche dette annali)
leggeva pure implicitamente molte delle di lui orazioni, e fra queste
(1) Historicorum romanor. relliquiae. Lipsiae, MDCCCLXX, voi. I,
p. CLIV-CLVI.
(2) Op. cit., p. LXVI-LVII, proleg.
(3) Vedili a p. 33-3G, Jordan, Op. cit.
(4) Oltre a non poche ragioni si potrebbe addurre in contrario anche
la seguente osservazione: Livio al lib. XXXIII, 15, 9, dice; a Calo ipse
haud sane detrectator laudiim suarum «, la quale espressione pare allu-
dere alle orazioni di Catone anziché alle origini, perchè con quelle ebbe
spesso a lodarsi, ad opporre, come realmente faceva, la propria condotta
a quella degli altri e a difendersi quaranta e più volte ; cfr. 1' orazione
« de suis virtutibus centra Thermum », « de sumptu suo » « ad litis
censorias » (p, 43. 37. 51 Jordan, Op. cit.] ed altre.
— 448 —
quella « De lege Oj'fpia » perchè, per l'importanza sua, conferiva ad
illustrare un punto non oscuro della vita di Catone, il consolato. Al
che parrebbe pure arrecar luce il seguente frammento da Pesto (i) :
« Mulieres opertae auro purpuraque: arsinea, rete, diadema, coronas
aureas, rusceas fascias, galbeos lineos, pelles, redimicula... »,
Per quanto riguarda 1' orazione « Dierum dictarum de consulatu
suo », alla quale accenna il Peter nel passo precitato, non dovendo
discorrerne qui, mi limiterò ad osservare che mentre si trova pieno
accordo se non nelle parole, almeno nelle cose, fra Livio e Catone,
non vedo la necessità di far congetture sulla possibilità che Catone
abbia narrato ciò stesso nelle Origini, e che Livio abbia quindi tolto
da esse quanto ci riferisce.
Né ciò basta; perchè dall'esame stesso dell'orazione che sì legge
presso Livio credo poter rilevare qualche cosa di più. L' orazione
comincia cosi:
« Si in sua quisque nostrum matre familiae, Quirites, ius et ma-
iestatem viri retinere instiluissent, minus cum universis feminis ne-
gotii haberemus; nunc domi vieta libertas nostra impotentia muliebri
hic quoque in foro obteritur et calcatur, et quia singulas non do-
muinus, universas horremus. Equidem fabulam et ficiam rem du-
cebam esse, virorum omne genus in aliqua insula coniuratione mu-
liebri (2) ab stirpe sublatum esse ; ab nullo genere non summum
fi) Pag, 265, ediz, Mùller. Nolo che l'espressione auro purpuraque,
tutta catoniana, si riscontra più volte nell'orazione stessa riferita da
Livio,
(2) Da questa orazione che Livio mette in bocca a Catone, come pure
dal primo paragrafo del libro XXXIV ed. Madvig, al quale essa appar-
tiene, risulta chiaro che le donne avevano fatto allora una specie di con-
giura: « Matronae nulla nec auctoritate nec verecuudia aec imperio vi-
rorum contineri limine poterant ; omnes vias urbis aditusque in forum
obsidebant, viros desceudeutes ad forum orantes, ut, fiorente republica,
crescente iu dies privata omnium fortuna, matronis quoque pristinum
ornamentum reddi paterentur ». Per cui mi fo lecito di congetturare che
all'orazione Catoniana « De lege Oppia », anziché ad un'altra supposta
« De coniuratione », come finora si è sempre creduto, appartenesse la
parola precem conservataci da Festo, p. 242 M.: a Preccm singulai'iter
Cato iu ea quae est de coniuratione >.
Cose più ceite non dissero Enrico Meyer (Orator. romanor. fragni.,
Parisiis, 1837, p. 129), Enrico Jordan [Op. cit., p, LXXVII, proleg.;.
— 449 —
periculuni est, si coetus et concilia et secretas consultationes esse
sinas... »,e più giù, al § 3, i-3: « Recensete animo muliebria iura,
quibus licentiam alligaverint maiores vestri, per quae cas subiecerint
viris; quibus omnibus constrictas vix tamen continere potestis. Quid?
si carpere singula et extorquere et acquari ad extremum viris pa-
tiemini, tolerabiles vobis eas fora creditis? Exteraplo, simul pares
esse coeperint, superiores erunt ».
Che così abbia veramente parlato Catone non oserei dire; ma però
le idee, per lo meno, sono tutte Catoniane e mi paiono avere una
certa relazione con quello che ci racconta Plutarco (i): « TTepi òè xfiq
YuvaiKOKpaxiai; òia\6YÓ]uevoq, Travres;, eiitev, óvBpuuTroi tujv yuvaiKtJùv ap-
Xouaiv, »ì|uei(; he. iràvTUJV àvBpujmuv, iì|aù)v òè ai YVJvaÌKe<; ».
Nel quale raffronto bisogna, ben s'intende, tener conto di una cosa:
che cioè tanto l'uno quanto l'altro dei due autori riferiscono, chi sa
con quali modificazioni, il testo Catoniano, per cui non si può pre-
tendere una coincidenza tale da togliere affatto ogni dubbio.
Inoltre al § 4 di detta orazione trovo scritto : « Saepe me que-
rentem de feminarum, saepe de virorum, nec de privatorum modo,
sed etiam magistratuum sumptibus audistis, diversisqiie duobiis vitiis,
avaritia et hixiiria, civitatem laborare, quae pestes omnia magna im-
peria everterunt... », dove oltre ad un'immagine fedele del severo
romano che volea, al dire di Livio stesso, « castigare nova flagitia
et priscos revocare mores » (2) trovo anche una sentenza che Livio
deve quasi sicuramente aver tolto da Catone e che Sallustio, diligente
imitatore di lui (3), ritrasse, a mio credere, nel Catil. cap. 5 ed.
quali credettero si alludesse ai Baccanali (cfr. Livio, XXXIX, lo, 16),
né Greg. Maians [Ad triginta iurisconsultor. commentarii, Genevae,
1764, voi. I, p. 42) che volle riferirla ai tumulti degli ostaggi Cartagi-
nesi « qui Setiae custodiebautur » fLiv. XXXII, 26).
(1) Yita di Cat., VIII, 2. ediz. Blass.
(2) XXXIX, 41.
(3) Cfr. iu QuiNTiL., Vili, 3, 29, il nolo distico d'incerto autore :
« Et verba antiqui multum furate Catonis
Crispe, lugurthinae conditor histuriae «.
e SvETON., Oct., 86; De ili. gramm., 10 e 15; Front. Epist. ad Caes.,
IV, 3; GusT. Brùnnert, De Sallustio imitatore Catonis, Sisennae..,^
Jenae, 1873.
— 450 —
DiETSCH , in questo modo : « Incilabant (Catilinam) praeterea con-
rupti civitatis mores, quos pessuma ac divorsa inter se vitìa, luxiiria
atque avaritia vexabant ».
I frequenti « maiores nostri » {2, 11); « maiores vestri » (3, i) ;
« maioribus nostris » (4, 7); « patrum nostrorum memoria » (4, 6),
che pur si riscontrano di sovente in Sallustio, ci ricordano il famoso
lodatore del passato, il quale nel nuovo non vede altro che corru-
zione.
Di più ricorre l'espressione: « auro et purpura » (3, S; 4, 14);
« aurum et purpuram » (4, io), che si legge nei frammenti Cato-
niani : « auro purpuraque » (p. 28, i3, Jord.) , « in auro atque in
purpura » (p. 69, 2 Jord.).
Per ultimo, la chiusa stessa dell'orazione (4, 21): « vos quod fa-
xitis, deos fortunare velim » ha un sapore d'arcaismo purissimo, che
Livio avrà forse affettato ad arte, come del resto può anche avere
del Catoniano (i).
Per tutte queste ragioni non credo improbabile che Tito Livio
abbia letto l'orazione Catoniana « De lege Oppia » e che da essa
abbia tolto più di quello che, nella mancanza assoluta dell'originale,
non ci è lecito congetturare.
IV. Fra tutte le orazioni Catoniane, Alb. Bormann (2) ed Enrico
Jordan (3) credono che due sole, quella «Pro Rhodiensibus » (lib. V) (4)
(1) Anche altrove sembra aver Livio riprodotto Catone; per es. al
lib, XXXIX, 42, dopo aver riferito il fatto di L. Quinzio Flaminio, che
egli lesse cortamente, come dice, nell'orazione Catoniana, esce fuori col
seguente periodo che egli probabilmpnte tolse da Catone, se si deve giu-
dicare dall'impeto oratorio ed anaforico tutto proprio delle orazioni di
lui: '.( Facinus... saevum atque atrox : inter pocula atque epulas, ubi
diis dapes, ubi bene precari mos esset, ad spectaculum scorti procacis
in sinu coasulis recubaatis, mactatam humanam victimam esse et cruore
mensam respersam »; cfr. Bolhuis, Op. «7. , p. 137.
(2) M. Porcii Catonis Orir/inum libri septetn, Brandenb. MDCCCLVIII,
p. 41.
(3) Qitacstionum Catonian. capita duo, Beroliui, MDCCCLVI , p. 14
e sg., e Op. cit., p. LVIII, pioleg.
(4) Cfr. Liv., XLV, 25: « Non inseram simulacrum viri copiosi quae
dixerit referendo: ipsius oratio scripta extat originum quinto libro in-
clusa »; Gellio, vi, 3, 7.
— 451 —
e quella « In Galbam prò Lusitanis » (lib. VII) (i) facessero parte
delle Origini; e la ragione di ciò, secondo lo slesso Bormann, è che
se anche altre orazioni fossero state introdotte da Catone nelle Ori-
gini, gli scrittori romani che le citano non avrebbero detto solo per
le due accennate, che si trovano nelle Origini.
A queste due Aug. Wagener (2) ne aggiunse per congettura, una
terza, quella « Adversus Carneadem » che sarebbe stata nel lib. VI,
quando si riferisca ad essa il frammento: « Itaque ego cognobiliorem
cognitionem esse arbitror » che Gellio (3) dice appunto essere registrato
in quel libro medesimo.
Io però a codeste opinioni che limiterebbero a due o, al massimo,
a tre il numero delle orazioni riferite rielle Origini, muoverò alcuni
dubbi.
È da notare per prima cosa, che non avendo né tutte, né tutte in-
tiere le opere degli scrittori romani, non si può affermare in modo
veramente sicuro che soltanto le predette orazioni facessero parte
delle Oricini.
(1) Cic, Brut., 23, 89, ediz. Piderit : « Calo legem snadens in Galbara
multa dixit ; quam orationem in Origiues rettulit, paucis antequam uior-
tuus est diebus an mensibus »; De Orat., I, 53, 227; Epit. Liv., XLIX;
Valer. Max., Vili, 2, ediz. Halm ; Gellio, XIII, 25, 15.
(2) il/. Porcii Catonis Originum frar/m., Bonnae, MDCCGXLIX, p. 65.
(3) XX, 5, 13: « Hoc ego verbura : Euvexoì '{àp eìaiv quaereus uno iti-
dem verbo dicere, aliud non repperi, quam quod est scriptum a M. Ca-
tone in sexta origine: « itaque e. q. s. ». — Jordan (Qitaest. Cai.,
p. 60) accettando la congettura Wagneriana tentò di completare le pa-
role di Catone in questo modo : « Cognobiliorem cognitionem esse puto
iuris, historiae etc. quam philosophiam , quam vos, Athenienses, lau-
dibus celebratis ». Però nei Proleg. della seconda opera non ne tiene
neppur parola.
Che Catone abbia pronunziato, come risulta da Plutarco (Vila di Ca-
tone, XXII) un'orazione contro i filosofi greci, sebbene altri pensi di-
versamente, non trovo ragione per negarlo ; anzi sarei d'avviso che con
essa abbiano qualche relazione le parole di Gellio (XIII, 23,2): « Graecae
istorum praestigiae, philosophari sese diceutium umbrasque verborum
inanes fingentium » e quelle che dice al lib. XVIII, 7, 3: « Ego gram-
niaticus vitae iam atque morum disciplinas quaero, vos philosoplii mera
eslis, ut M. Cato ait, mortualia ; glosaria namque conlegitis et lexidia,
ras taetras et inanes et frivolas, tamquam mulierum voces praeficarum.
Atque utinam, inquit, muti omnes homiues essemus ! miuus improbitas
instruiuenti haberet ».
— 452 —
In secondo luogo non pare probabile che due o tre orazioni sol-
tanto fossero da Catone registrate nelle Origini, mentre ne aveva pa-
recchie non certo inferiori a quelle per importanza : per es. quella
« De bello Karthaginiensi » (i) ed altre.
Inoltre, allo stesso modo che Cicerone (Brut. 20, 80), Gellio (I, 12,
17) e Quintiliano (11, i5, 8), rispetto all'orazione « In Galbam prò
Lusitanis » che noi sappiamo certamente aver fatto parte delle Ori-
gini, non dicono nulla in proposito, una trascuranza consimile può
anche aver avuto luogo in ordine alle altre orazioni, tanto più che
allora citavasi di frequente con poca precisione e anche a memoria.
Per ultimo, come si può pretendere che ci venga indicato dagli
scrittori sommi l'opera cui appartenevano le orazioni di Catone, se
vediamo spesso non esserci neppur conservati con precisione i veri
titoli di esse ?
11 perchè, io credo, che parecchie orazioni fossero da Catone in-
tercalate nelle Origini : tutte quelle cioè che potevano avere una im-
portanza storica speciale, ed attinenza colle cose narrate nelle Ori-
gini stesse, le quali venivano a ricevere per cotal guisa una luce mag-
giore (2).
Molte poi di codeste orazioni od anco tutte saranno, com"è pro-
babile, state estratte dai grammatici a comodità e utilità de' lettori
e delle scuole, sia per l'importanza storica, come dissi, sia perc'nè
presentavano certe particolarità degne di considerazione : per es. fi-
gure, sentenze, locuzioni, ecc.
Ad Oj'ni modo se vogliamo stare unicamente alle testimonianze
(1) Io favore della mia opinione sta il framni. 4 della orazione (p. 56,
JoRD.) conservatoci da Solino, Poli/hist.,21 : « Urbem istam (Kartha-
gineni), ut Calo in oratione senat(;ria (cfr. Plut., Vita di Cat., XXII,
4: a uapeXeiJùv el<; ti')v auTKXriTOv è,uéuij;aTo k. t. X. ») autumat, cum rex
lapon rerum in Libya potiretur, Elisa mulier extruxit domo Phoeniix et
Karthadam dixit, quod Plioenicum ore exprimit civitatem uovam ». Il
quale passo ci mostra, a mio avviso, come l'orazione « De bello Kar-
thaginiensi » facesse parte delle Origini, nelle quali appunto si trattava
« uude quaoque civitas orta sit ».
(2) A questa opinione, sebbene in modo meno determinato, si avvicina
Peter, Op. ci^, CXXXXllll, dove dice: « Sed postea quam ad res a se
gestas perveuit, non soliim ipsas rcs enarravit, sed otiam oratioues a se
habitas addidit 0. q. s. ».
— 453 —
superstiti, si può affermare che l'orazione « Pro Rhodiensibus » ai
tempi di Gellio si leggeva seorsinn (i).
Questa ragione può benissimo aver cooperato a far dimenticare in
pane le Origini (2), delle quali ne attesta Cicerone (3), che a' suoi
tempi mancavano gli amatores.
Riguardo alle altre orazioni poi, non parrebbe lontano dal vero il
credere che Catone le raccogliesse insieme e correggesse in vecchiaia,
per lasciarle come una specie di memoriale (4) della sua vita poli-
tica ed oratoria.
Savona, 28 gennaio 1882.
Giacomo Cortese.
"BI ELIOGRAFI A
Virgilio — La Georgica, versione di Angelo Lo Jacono,
Catania, 1881.
Si potrebbe far questione se a' tempi nostri coli' indirizzo severa-
mente scientifico che hanno preso gli studi filologici, colla necessità
che si fa ogni giorno più sentire in Italia di moltiplicare gli sforzi,
di tener deste tutte le energie dello spirito per non esser lasciati
(1) Gellio, VI, 3, 7; Jordan [Quaest. Cat., p. 18, e M. Catonis quae
extant, p, LVIII, proleg.) dalle parole di Gellio, XIII, 2o, 15: « Cato
ex originupa VII iu oratione, quam contra Servium Galbam dixit » cre-
dette poter rilevare che anche questa si leggeva separatamente; ma forse
a torto, giacché anche altrove (XIII, 3, 6) dice « quartum ex historia
librura », il che equivale a « quartum historiae librum ».
(2) Cfr. Jordan, M. Catonis quae extant, p. LVIII, proleg.
(3) Brut., 17, 66.
(4) Cfr. MoMMSEN, Róm. Gesch., Berlin, 1874, voi. I, p. 925.
— 454 —
troppo addietro dagli stranieri in quegli studi, si possano conciliare
certe pubblicazioni della natura di quella che sto per esaminare,
fatta, come ce lo dichiara lo stesso signor Lo Jacono, « per esercizio
di poetico stile ». Io comprendo benissimo che piuttosto che ad altri
lavori volgano alcuni le forze dell'ingegno a tradurre o questa o quella
delle più segnalate opere che ci lasciarono e Greci e Romani ; ma è
pur d'uopo confessare che lavori simili sono comportabili, anzi sono
da valutarsi assai, quando al loro artistico pregio vada congiunta una
perfetta interpretazione dell'opera tradotta, cosa questa che difficil-
mente si riscontra e di cui non v'è neppur l'ombra nel libro del Lo
Jacono. Il quale, come colui che pensa « che in un tempo che i clas-
sici studii si van tra noi facendo sempre più radi, non dovrebbe cer-
tamente parere inutile intento quello d'incitar coli' esempio la gio-
ventù studiosa ad esercizii di questo genere» da lui reputati « necessarii
a ritemprare in Italia il prosaico e snervato eloquio delle Muse o-
dierne », avrebbe provveduto assai meglio a quella gioventù, dato il
caso che il suo libro le capitasse nelle mani, e, dirò anche, a se
stesso, e non avrebbe col proprio esempio confermato quel decadi-
mento degli studi, di cui par che si lagni, se avesse aspettato a far
di pubblica ragione il suo lavoro sino a quando, per aver acquistato
una migliore conoscenza del testo virgiliano ed una ben maggiore
padronanza dello stile poetico italiano, avesse potuto purgarlo degli
errori e delle innumerevoli imperfezioni che si riscontrano quasi ad
ogni verso.
Di questi errori e di queste imperfezioni darò parecchie prove con-
frontando colla novella versione l'originale latino.
Virgilio (I, loi-io'i) dice :
« hiberno laetissima pulvere farra,
Laetus ager ; nullo tantum se Mysia cultu
lactat, et ipsa suas mirantur Gargara messcs » (i).
(1) Nelle citazioni dell'originale latino mi servirò in generalo del testo
pubblicato da E. Benoist (Paris, lib. Hachotle, 1876, nella Collection
d'éditions savantes des principaux classiques latins et grecs], senza
tenermi però strettamente ad esso qualora per qualche rispetto non mi
paresse accettabile. Avverto a tale scopo ch'io tengo pure sott' occhio le
edizioni del Ribbeck, del Forbiger (4») e del Ladewig (sechete Aufl. von
C. SCHAPERÌ.
— 455 —
Ora ecco in qual modo questo passo è recalo in italiano :
« di polve iberna
Van lietissimi i farri, e lieto il campo:
Né per veruna altra coltura tanto
Superbisce la Misia, e di sue messi
Il Gargaro si loda » (i).
Chi capisce quel Ne per veruna altra coltura con quel che segue?
Che cos'è (\\xc\V altra se non un'assurda superfetazione? Se il tradut-
tore avesse pensato al valore di quel nullo cultu, il quale, come ben
avverte il Forbiger « non stricte capiendum, sed prò perexiguo cultu
positura esse patet » (2), e come interpretano altresì il Ladewig , il
Benoist, il Fornaciari (3) e quanti han buon senso in capo, avrebbe
facilmente veduto, collegando mediante il tantum i versi citati con
-quello che precede, cioè :
« Umida solstitia atque hiemes orate serenas
Agricolae » ,
avrebbe veduto, dico, che il poeta intese dire che con pochissima
coltura possono la Misia e le contrade del Gargaro tanto vantarsi,
quanto fanno, di lor fecondità, perchè favorite da quell'acconcia di-
stribuzione di temperatura che trovasi accennata nell'espressione or
ora citata.
Più sotto l'espressione
« cumulosque ruit male pinguis arenae »
(v. io5)
vien tradotta: « e i cumuli arrovescia » (p. i 5), verbo questo che non
ci dà punto l'idea del ruit di Virgilio, significante « appianare rom-
pendo», come interpreta il Forbiger (4), o, ma forse meno bene,
« appianare facendo cadere », come si rileva dal Forcellino.
(1) Pp. 14, 15.
(2) Nota al luogo citato.
(3) Nell'ediz. delle Georgiche per uso delle scuole, Firenze, 1868.
(4) Anche il Ladewig interpretando « die gròsseren allzutrocknen Erd-
schoUen zerschlàgt » dà al verbo ruit un significato pressoché identico.
- 456 —
Virgilio poco appresso dice :
« Et, cum exuslus ager morientibus aestuat herbis,
Ecce supercilio clivosi tramitis undam
Elicit ».
(vv. 107-109).
La traduzione suona così :
« e quando
Adusta alle morenti erbe la terra
Bolle, ecco d' alto di pendente via
Elice un fonte » (i),
dove s'ha a notare che il primo verso intero non è né chiaro né ita-
liano, e nel secondo non è indovinato, non che esser bene espresso,
il pensiero del poeta, specialmente per non aver capito il significato
di quel clivosi tramitis mal tradotto in pendente via, essendo chiaro
che indica il rivo che a guisa di sentiero si fa discendere giù dal de-
clivio. L" aver poi tradotto in alto il supercilio di Virgilio dimostra
chiaramente come il Lo Jacono non gusti punto le bellezze artistiche
del poema che traduce. È noto che la metafora significata da quel
vocabolo ò tolta da Omero :
« oi b' érépiuae KaBtZiov èrr' òtppùai Ka\XiKoXu)vr|<; »,
(Y, i5i)
verso stupendamente tradotto dal Monti :
« Sul ciglio anch'essi s'adagiar dell'erto
Callicolon gli opposti numi ».
(vv. 184, i85).
Ora perchè non poteva il traduttore valersi del vocabolo ciglio?
Non poteva usare tale metafora, mentre lo Strocchi non dubitò di
tradurre :
« Ecco dal ciglio di supino clivo »?
(1) Pag. lo.
- 457 -
Veggasi come e ben tradotto il v. iii dello stesso libro I:
« Quid, qui, ne gravidis procumbat culmus aristis »,
sono otto monosillabi e due parole bisillabe in un verso:
« E che di lui, che acciò che poi non cada
Col pondo delle spiche il gambo a terra » (i).
Nel verso seguente, il 112:
« LuKuriem segetum tenera depascit in herba »,
il Lo Jacono non ha capito il valore di quel depascit, volgendolo in
italiano con decima :
« Decima in erba tenera il rigoglio
Soverchio delle biade »,
senza punto pensare al mezzo, accennato dal poeta, di togliere il
soverchio rigoglio delle biade portandovi a pascolare le pecore, mezzo
questo ricordato anche da Plinio colle parole: « Luxuria segetum
castigatur dente pecoris in herba dumtaxat ; et depastae quidera, vel
saepius, nuUam in spica iniuriam sentiunt » (2).
Più innanzi, sempre nel medesimo libro, i due versi :
« Ut varias usus meditando extunderet artes
Paulatim, et sulcis frumenti quaereret herbam >
(vv. i33, 134)
son cosi tradotti
« Affinchè vìa dì studi esperienza
Gisse le varie in luce arti traendo
A mano a mano ; e l'erba del frumento
Cercasse ai solchi » (3);
(1) Pag. cit.
(2) H. N., XVIII, 45, 4.
(3) Pag. 16.
n^vistj dijilolo^ia ecc.,X-
3o
-458 —
dove, tralasciando quel via di studi che, a cagione del meditando di
Virgilio, vorrà forse dire ;?(??• via di studi, si vede una cotale pretensione
di riprodurre alla lettera il pensiero del poeta; ma appunto per co-
testa pretensione s' ha il diritto di domandare se sulcis frumenti
quaereret hcrbam significhi proprio « l'erba del frumento Cercasse
ai solchi », e se non sia grave colpa l'ignorare come la parola 5i//c?/s
per sineddoche significhi non di rado l'aratura stessa, onde sulco
quaerere vale quanto aratione parare. Ma che il Lo Jacono conosca
pochissimo i varii significati dei vocaboli ce lo dimostra un altro
grave errore commesso nei versi su riferiti, consistente nell'avcr cre-
duto che Vusus di Virgilio significasse esperienza, mentre salta agli
occhi la sua esatta corrispondenza al greco xP^i"? che, oltre ad uso,
significa anche bisogno, necessità. E non ha veduto il traduttore che
il poeta stesso gì' indicava il vero valore del vocabolo sou'giungcndo
poco sotto :
« Labor omnia vicit
Improbus et duris urgcns in rebus egcstas »?
(vv. 145, 146).
E tanto meno poi sarebbe caduto in tale errore se avesse conosciuto
il seguente luogo di Lucrezio, al quale senza dubbio ebbe l'occhio
Virgilio :
« Navigia atque agri culturas, mocnia, legcs,
usus et impigrac simul expcrientia mentis
paulatim docuit pedetemtim progredientis » (i),
dove trovandosi appunto i due vocaboli usus ed e.vperientia, spicca
assai meglio il loro diverso significato, sebbene io creda che Vusus
di Virgilio non sia precisamente nel senso deir2/6;/6" di Lucrezio, che
forse non inchiude l'idea di bisogno, di necessità, inchiuso invece
nell »ii/.s' virgiliano, che perciò sarebbe propriamente Vuso necessario.
Ma dal libro primo passiamo ai secondo e propriamente all'episodio
contenente le lodi della vita campestre, che serve di chiusa. Fa vera-
(1) V, 1446-1451, ediz. Bernays.
— 459 —
mente pietà a vedere come sia orribilmente maltrattato dal traduttore
questo passo che è de' più belli del poema. Metterò sott' occhio al-
cuni versi dell'originale con accanto la versione corrispondente :
« O fortunatos nimium, sua si bona norint,
Agricolas I Quibus ipsa procul discordibus armis
Fundit humo facilem victum iustissima tellus ».
(vv. 438-460].
« O fortunato veramente assai
Il villanel, se conoscesse i beni
Che gli pendono intorno ! Ei, cui la terra,
Lontano alle discordi arme, dal seno
Profonde più che giusta un facil vitto! » (i).
E qui, oltre alle gravi improprietà ed alle viziose aggiunte, non si
può non notare il poco criterio di chi tradusse il iustissima di Vir-
gilio in più che giusta, e non vide che quella ragione stessa, che in-
dusse Virgilio ad adoperare il superlativo, doveva essere rispettata dal
traduttore. Sappiamo di fatto che il poeta dovette certamente aver in
mente un passo di Senofonte: « aùiòc, OKdiTTujv kkì OTreipiuv Kal |udXa
jLUKpòv ^Y\b\ov, où juévToi TTOvripóv fé, àWà Tràvxuuv òiKaiórarov »
(Cyr. Vili, 3, ?S), ed un passo di Filemone: « AiKaiÓTOTov
KTy]ì.i ècfTiv àv9pujTToi; aYpó:; » ^406 — Meineke). Onde bene tradusse
lo Strocchi :
« A cui lontan da discordate insegne
La giustissima terra il cibo apporta », (2)
e male il Delille, per avere ommesso quell'aggiunto iustissima assai
signiticativo, o, meglio, per averlo stemperato in un verso intero:
« Fidèle à ses besoins, à ses travaux docile,
La terre lui fournit un aliment facile » (3).
(1) Pag. 64.
(2) L'Arici tradusse quindi non beno « equa terra ».
(3) (l'Jtivrcs de Vin/ll,: trad. en rcr5. Paris et Lyon, MDCCCXXXVIII,
p. 43.
- 460 -
I versi 461, 462 :
« Si non ingentem foribus domus alta superbis
Mane salutantum totis vomit aedibus undam »
sono tradotti :
« Se di porte superbe alto palagio
Un'immensa il mattin da tutti f;li atn
Non gli versa di gente onda che venne
Per lo saluto » (i);
dove, prendendo il totis nel significato che avrebbe omnibus^ invece
di tradurre dal pieno atrio si dice nientemeno da tutti (!) f^li airi.
Lasciamo stare « Inlusasque auro vestes » (v. 464) tradotto in
« adombrate di bei scherzi d'oro Vesti » (2), ? secura quies » (v. 4G7)
in « pace sicura » (3), ed osserviamo come il detto :
« Me vero primum dulces ante omnia Musac,
Quarum sacra fero ingenti percussus amore,
Accipiant » (vv. 475-477)
venga così recato in italiano :
« Ma "primamente me le dolci Muse,
Me sopra tutto accolgano, che, preso
D'amore immenso, al ministero sacro
Di lor cose mi reco » (4).
Facciasi grazia al Lo Jacono dell'orribile cacofonia del primo verso,
ma veggasi se si possa comportare ante omnia riferito a me invece che
a dulces, quando la disposizione stessa della frase non lascia alcun
dubbio; e se non sia un prender lucciole per lanterne tradurre in
quel modo il quarum sacra fero, che significa semplicemente quarum
sacerdos sum : onde lo Strocchi ha :
« Degnino accoglier me lor sacerdote ».
(1) Pag. cit. - (2) Pag. cit. — (3) Pag. cit. — (4) Pag. Gr>.
- 461 -
Per non esser troppo lungo citerò solo pochi altri svarioni relativi
alla versione dell'episodio stesso. « Hic petit excidiis urbem » (v. 5o5)
è tradotto con « ai miseri Penati Altri cerca l'eccidio »; « hunc plausus
hiantem Corripuit » (vv. 5o8, 5 io) con « uno sgomentò Grato sor-
prende » (i), dove, oltre al non aver capito nulla, viene affatto tra-
lasciato il lììanlem, di cui non so quale ostrogoto non comprende-
rebbe la bellezza e quindi l' importanza che ha in quel passo. Tra-
ducendo poi più sotto: « quinci la sua patria e i suoi Figlioletti
sostien » (2), il Lo Jacono ha certamente preferito la lezione « par-
vosque nepotes » (v. i54), e forse non ha fatto male, ma non ha capito
quanta tenerezza vi sia nel ricordare, non i figli, ma i figli dei figli, ed
ha quindi guastato interamente il delicato concetto del poeta. Che dire
inoltre di chi scrive « i porci sazii Gli riedono da ghianda » per
tradurre « Glande sues laeti redeunt » (v. Sio)? Dove, oltreché si po-
trebbe osservare, malgrado l'autorità del Wagner e del Benoist , che
non è molto bello il far dipendere filande da }-cdeimt , è egli ad ogni
modo comportabile il dire riedono da ghianda?
Noterò ancora parecchi degli errori o delle gravi imperfezioni che
ho trovato nella versione dei primi i3i versi del libro IV.
La proposizione « nam pabula venti Ferre domum prohibent »
(vv. gè io) è tradotta con « che non fanno i venti Cibo a casa portar »
(pp. io5, 106); « picti squalentia terga lacerti » con « splendenti al
tergo Stelleggiate Incerte » (id.), espressione questa che si può sola-
mente aspettare da chi non conosca quale sia il valore del verbo
squalere in questo ed altri luoghi del poema virgiliano. Che questo
valore sia ignorato dal traduttore, e che egli perciò non conosca
un passo di Aulo Gellio, da cui viene chiaramente spiegato (3), lo
dimostra la espressione « squalentis conchas » (II, 348) tradotta con
« squallidi nicchi » (p. 58) , non che un altro passo del medesimo
libro IV (v. 91) :
« Alter erit maculis auro squalentibus ardens »,
dove il traduttore scrivendo (p. 110):
(1) Pag. 67. — (2) Pag. cit.
(3) « Quicquid uimis inculcatura obsitumque aliqua re erat, ut incu-
terei visentibus facie nova horrorem, id squalere dicebatiu-. Sic in cor-
poribus incultis squamosisque alta congeries sordium squalor appella-
batur ». N. A., 11, 6; 24, 25.
- 402 -
« L'uno di macchie ì'ifnlgenti d'auro
Tutto fiammante »,
viene a dire una cosa molto diversa da quella che si deve intendere,
per quanto, come avverte il Forbiger (i), il Wagner creda che squa-
lentibus abbia il valore di fulgentibus (2), nel qual caso non ci sa-
rebbe più il contrapposto tra le due specie di re delle api e di api
stesse che il poeta ci descrive, giacché
« elucent aliae, et fulgore coruscant
Ardentes auro et paribus lita corpora guttis ».
(vv. 98, 90).
Ma su questo passo ritorneremo tra poco. E rifacendoci indietro no-
tiamo il « nidis immitibus » (v. 17) tradotto con « nidi inquieti »
(p. 106); « obvia arbos » (v. 24) con « offerente alber » (id.); « fu-
coque et tloribus oras Explent » (vv. 39, 40) con « e d'alida e fiorì Ne
s[»almano i vivagni » (p. 107), dove, oltre al non aver compreso len-
diadi/i/co^u(? et fioribiis che sta per fiicoque ex floribits confecto, non
si può intendere quale significato dia il traduttore alla parola alf^a
per farla corrispondere al latino fuco qui non altro significante che
melligine e certamente sinonimo di propolis.
Continuando notiamo « giardini e selve » (p. 108) corrispondente
a «saltus silvasque » (v. 53); «e dei dipinti fiori Fan messe » a « Pur-
pureosquc mctunt fiores » (v. 54); « i figli e il nido covaìw » (id.) a
« Progeniem nidosque fovent » (v. 56) ; « Se avvien poi, che sorti-
scano alla guerra » (p. 109) a « Sin autem ad pugnam exierint »
(v. 67); « Che il suon rassembra di squarciate trombe» (id.) a « fractos
sonitus imitata tubarum » (v, 72), mentre ò tanto chiara e naturale
l'interpretazione dell' Heyne seguita dai migliori commentatori (3).
(1) Nota al v. 91 del lib. IV.
(2) Molto meglio il Ladewig al v. cit.: « mit Gold iiberdeckt, dena iu
squalere liegt auch — und zwar seit V. — der Begriff der Fiille ».
(3) Quindi il Ladewig al v. cit. spiega « der gebrochene, bald stàr-
kere, bald schwàcheio Ton »; il Forbiger ed il Benoist danno la stessa
spiegazione. Giacomo Fontano in Sijmbolarum libri XYII, quibus P.
Virgilii Maronis Bucolica, Georf/ica, Aeneis, ex probatissimis aucto-
ribus declaraniur, etc. (Liigduni, MDCIIII) scrive a tal riguardo: « In-
nuit fragorem Virgilius et stridorem qui rurapi et refringi magis.
quam edi videtur: quem murmur tumultuantium apum quodammodo
imitatur » (p. 547).
— 4G3 —
Passando oltre ai bei versi :
« Animo grande in picciol petto menano ;
E sì son pertinaci altrui non cedere,
e questo tanto
Arder di guerra a solamente un getto
Di poca polve si faranno queti »
(p. no),
dove non v'è nemmeno una pallidissima idea d'eleganza e di grazia;
torniamo al passo testé citato, in cui Virgilio stabilisce un confronto
fra le due specie di re. Ecco le sue parole :
« Verum ubi ductores acie revocaberis ambo,
Deterior qui visus, eum, ne prodigus obsit,
Dede neci ; melior vacua sine regnet in aula.
Alter erit maculis auro squalentibus ardens ;
Nam duo sunt genera; hic melior, insignis et ore,
Et rutilis clarus squamis ; ille horridus alter
Desidia latamque trahens inglorius alvum ».
(vv. 88-94).
È evidente che nel verso « Alter erit ecc. si vuol indicare il re de-
terior qui visus, e che Vhic melior ecc. si riferisce all'altro re di cui
il poeta scrive melior vacua sine regnet in aula ; così che nei versi
sopra citati con chiaro ordine si accenna prima alla specie peggiore
(si intende di figura) da Deterior a neci, poi alla migliore da melior ad
aula, quindi nuovamente alla peggiore da Alter ad ardens, alla mi-
gliore da hic melior a squamis, e finalmente ancora alla peggiore da
ille horridus ad alvum.
Ora di questo ordine bellissimo e che mi sembra tanto chiaro, il
Lo Jacono ha nulla capito iraducendo :
« Ma poi che richiamato hai dalla pugna
Ambo quei duci : qual ti par da meno,
Quello metti a morir, perchè non viva
Ad altrui spese; e nella vuota reggia
Lascia quello regnar, ch'c di piìi merto.
L'uno di macchie rifulgenti d'auro
— 464 --
Tutto fiammante (che due son le specie),
Ed è migliore, e nobile d'aspetto,
E di splendide anella : orrido l'altro
D'infingardia, che dietro si trascina
Una lunga ventraja inonorato » (p. cit.).
Tiriamo innanzi e vediamo altre belle interpretazioni : « ceu pul-
vcrc ab allo Cum venit viator » (vv. 96, 97) = « Qual da lontano
tutto polveroso Vien pellegrino » (p. cit.); « caeli tempore certo »
(v. 100) == « A tai punti dell'anno » (p. iii); « Dulcia mella prcmes,
ncc tantum dulcia, quantum Et liquida et durum Bacchi domitura
saporem » (vv. loi, 102) =r: « avremo.... il dolce miele, A^'è dolce più,
che in sua purezza ancora Domar non sappia il gusto aspro di Bacco »
(p. cit.); « niger Galaesus » (v. 126) = « V ombrato Galeso » (p. 112);
« vcscumque papaver » (v. l'ii) ■=^ « eduli papaveri » (p. cit.). Arre-
stiamoci un istante a questo vescumque papaver che è qui veramente
una pietra di paragone per valutare la conoscenza che il traduttore
ha della lingua latina. L'aggettivo vcscus non ha mai il significato
di edule accettato dal Lo Jacono seguendo una falsa interpretazione
di parecchi commentatori, ma bensì in un passo di Lucrezio
« nec, mare quae impendent, vesco sale saxa peresa » (i)
ha il significato di edace. E probabilmente Lucrezio faceva nascere
vescus da vescor, quasi vescens. Comunque sia, è certo che vescus non
ha mai il significato di edule, ma, derivando da un ve privativo e da
esca, e non da vaf^ari, come vascus, secondo il Doederlein (2), signi-
fica : che soffre tedio nel mans^iarc, gracile, minuto, esile, piccolo^
magro e simili. Un esempio di Ovidio comprova quanto affermiamo :
« Vegrandia farra colonae
Quae male creverunt, vescaque parva vocant » (3).
E basti il fin qui detto. Scusi il lettore se sono stato un pò" lungo.
Non voleva dire che la versione del Lo Jacono è un cattivo lavoro,
senza appoggiare la mia affermazione a parecchie prove.
Ettore Stampini.
(1) I, 326. — (2) Benoist al v. cit.
(3) Fast., Ili, 445, 44G, ediz. Merkei-. Vedi anche, riguardo al signi-
ficato di vescus, A. Gellio, N. A., XVI, 5; 6 e 7.
Pietro Ussello, gerente responsabile.
A%IS TOFAV^E
II.
Le Nubi ossia Aristofane e Socrate.
Abbattere opinioni che sono il frutto d' una convinzione
tradizionale e che da personaggi nella scienza eminenti
hanno ricevuto, per così dire, la loro sanzione, è cosa sovra
ogni altra malagevole. L' animo nostro è cosi fatto che ,
senza pensare più oltre, trova comodo adagiarsi tranquil-
lamente in quella antica convinzione, per quante ragioni le
si vogliano opporre, avvalorate da fatti incontestabili. E pur
nondimeno si va affermando che la scienza dev'essere pro-
gressiva, che non devesi acquietare in nessun fatto, se prima
con un severo esame non ne ha accertata la realtà , che
deve apprezzare le teorie giusta il grado di probabilità che
in sé contengono ! Non dico che negli altri rami della scienza
ciò non sia avvenuto: ma in quello della storia, dove la
materia il più delle volte ha di già ricevuto dal passato una
forma determinata e fissa per ragioni non sempre e total-
mente intrinseche, il principio di autorità , checché se ne
dica, possiede ancora un vasto dominio. A toccare alcune
Tiivisla di filologia ecc., X 3i
— 466 -
splendide figure innalzate dalla credulità fin sopra gli altari,
a spogliarle di quell'aureola onde sono state circondate, e a
strappar loro quel velo di misticismo, che le avvolge, per
poterle conoscere quali furono, è pericoloso ancora ai nostri
tempi perchè facilmente s'incorre nella taccia di eretico.
Ma ora io non voglio levare tanto in alto le mie pretese:
in primo luogo perchè sento che i passi miei nel campo
della filologia non sono ancora abbastanza sicuri , e in
secondo luogo perchè un siffatto lavoro, in quanto a So-
crate ed Aristofane, da alcuni anni fu di già felicemente
compito (i). Io mi limiterò ad accennare i risultati ottenuti
per valermene nella spiegazione di un fatto di storia letteraria
che fin ora , malgrado i molti tentativi fatti, rimane ancor
ravvolto nelle tenebre. Questo mio lavoretto sarà diviso in
tre parti : dopo di avere esposto lo stato della questione,
mostrerò i° come Aristofane doveva comportarsi di fronte
alla sofistica; 2° come Socrate poteva colle sue dottrine po-
litiche e morali offendere la suscettibilità d'un patriota ate-
niese -, 3° in qual modo e Aristofane e Socrate si adope-
rassero per il benessere d'Atene; per ultimo seguirà la so-
luzione della questione propostami, quale può unicamente
derivare dal loro modo di pensare e dal loro modo di ope-
rare nella vita politica a cui presero parte.
Stato della questione. — Fra i dieci argomenti alle Nubi
d' Aristofane , havvene due di capitale importanza per la
storia di questa commedia, e sono i seguenti (2):
Argomento quarto. — Ai Trpuàiai NecpéXai èv àciei èòiòà-
X6r|crav èm apxovTO^ Mcfdpxou \0l. 89, i =423 a. Cr.], ote
(i) ¥oKC»H\uuEK, Die Athener und Socrates. Berlin, i837; Muller-
Strubing , Aristophanes und die historische Kritik. Leipzig, 1873.
(2] Vedi la raccolta premessa all'edizione delle Nubi del Dindork.
- 4G7-
KpaTTvo(g |Lièv èvka TTuTivri, 'AjLieiipiaq òè Kóvvlu. òióirep 'Api-
OT0cpàvr]c, dTToppicpBeì<s TrapaXÓTuuq ujr|Gr| òeiv dvabiòdtai làq
NecpéXa^ [làc, òemépac,] Kaì àTT0)ué|U(pea6ai tò Géaipov. aTTOTUxùJV
òè TToXù ludXXov Kaì èv toi(; eireiTa oÙKéii tììv òiacJKeufiv elffn-
YttYev. al òè òeùrepai NeqpéXai ini 'A|ueiviou dpxovTO(;.
Argoincnlo sesto. — Touto laùTÓv ècrii tuj Tipotepiu, òie-
cTKeuacyTai òè èm luépouq, u)? dv òri dvabiòdSai juèv aÙTÒ toO
TTOiriTOu Trpo6u|uriGévTO(;, oÒKéii òè touto òi' r|V ttote aÌTiav ttoi-
il(JavTO(;" KaGóXou |uèv ouv cTxeòòv Trapà rrdv \xi^oc, YeT£vri|uévr|
òiópGujcriq. Tà )uèv ^dp irepiripriTai, Td òè TTaparcéTrXeKTai, Kai èv
Tri TÓHei Kai év Ti] tujv TTpoauuTTOJv òiaXXaT»] ineTeaxnMdTiaTai.
là. òè óXoaxepoOq xx\c, òiadKeufi»; TOiaÙTa òvTa T6Tuxr|Kev. aÙTiKa
f) Ttapdpaaig toO xopoO fiiuemTai, xai ottou ò òiKaioq XÓYoq npòg
TÒv dòiKOV XaXeT, Kaì TeXeuTaTov, ottou KaieTai r\ òiaTpipf) Zuu-
KpdT0u<g.
Confrontando fra di loro questi due argomenti , noi ve-
diamo che manifestamente in due punti s'accordano : i ) clie
Aristofane scrisse non una, ma due commedie intitolate
NeqpéXai, cioè le irpijùTai e le òeuTepai; 2) che nelle irpujTai
(rappresentate Tanno 423 av. Cr. — 01. 89, i, rimasto de-
luso nelle aspettazioni sue , credette necessario riporre in
scena la sua commedia per cancellare V onta ricevuta.
L'autore delF argomento sesto, è vero , non ci dice che
Aristofane avesse in pensiero nelle sue seconde Nubi di
far di queir onta acerbi rimproveri a' suoi spettatori ; ma
pure se badiamo all' indole stizzosa del nostro comico, io
credo che ciò si potrebbe facilmente sottintendere. Ma egli
ci porge invece una notizia molto più importante ; vale a
dire, che Aristofane dovette introdurre parecchie modifica-
zioni nella sua commedia prima di rappresentarla una se-
conda volta. E che esistesse presso i poeti comici la con-
suetudine di ritoccare Topera loro quando si trovavano nella
- 468 -
condizione di Aristofane, è confermato da una testimonianza
di Camaleonte, citato da Ateneo (i), il quale narra di un
tale Anassandride : ttikpòi; ujv tò fi9oq èTToiei ti toioOtov irepi
là? Kuj)aujòia(; • ore fàp }xf\ viKUjri, Xaia^àviuv è'biuKev eie, tòv
XipaviuTÒv Katareiueiv, Kal où lieiecTKevjaZiev , ùjffTrep oi ttoXXoi.
La qual cosa era assai naturale ; poiché altrimenti né l'ar-
conte gli avrebbe potuto concedere un nuovo coro per la
seconda rappresentazione, ne il popolo ateniese avrebbe tol-
lerato che si rimettesse in scena una commedia che egli
aveva di già riprovata e condannata, senza che prima Fau-
tore non l'avesse emendata come le convenienze esigevano.
— Le correzioni introdotte da Aristofane nelle sue Nubi,
secondochè avverte per di più lo stesso autore del sesto ar-
gomento, furono essenzialmente di due specie: le une con-
sistenti in semplici ritoccamenti -, le altre in vere ritratta-
zioni, come nella parabasi (v, 5 1 8-562), e in sostituzioni di
scene, come quella della contesa fra il Xóyoq òiKaio? e il
XÓTog àbiKog, e dell'incendio dello studio di Socrate. Delle
seconde (che sono pel nostro assunto le più degne di con-
siderazione) noi abbiamo parecchie prove. Lo Scoliaste alle
Nubi Ci afferma anch'egli al v. 5 20, che la parabasi fu to-
talmente rifatta, che persino venne mutato il metro : oùx n
aùrfi òé èaiiv (fi irapapacTiq), oùòè toO aÙToO jaérpou xrì èv raiq
NecpéXaiq TrpiuTaig ; e al v. 643, che la commedia non ter-
minava affatto coirincendio della òiaipiPn di Socrate: ictuj?
éauTUJ (TrapoveiòiZiei), ènei TreTTOiriKev èv tuj réXei toO òpa)iaTO(;
KaiO)iévr|v rfiv òiarpipiìv luuKpdTOu? — èv òè Toiq TTpuOraiq Ne-
cpéXai? toOto où TreTtoiriKe. Che poi anche la contesa fra il
XÓTO(; òiKaio^ ed il XÓT05 dòiKog sia una scena introdotta da
Aristofane nelle seconde Nubi, mentre nelle prime non esi-
steva, si può chiaramente rilevare da un passo dcWApologia
(I) IX, p. 374 AB.
— 469 —
di Platone, dove si parla delle vecchie accuse che a So-
crate si movevano (cap. Ili): ZouKpdxrn; àòiKei kkI irepiepTa-
Z^eiai ZiriTUJV xd xe urtò yh? ^^^ fa èTTOupdvia , Kal xòv fixxiu
XÓYOV KpeiTxuu TTOiujv, Ktti dXXouq xaùxà òiòócjkujv. xoiauxri xii;
ècTxr xaOxa y^p éuupaxe Kai aùxoì èv xr] 'Apicrxoqpdvouq kuu|uuj-
òia K.x.X. Secondo queste parole, Aristofane avrebbe nelle
prime Nubi rappresentalo Socrate come un sognatore di cose
strane, un cavillatore, ma non come un antesignano delle
nuove idee, della riforma, delTeducazione antica, quale ap-
pare appunto dalla contesa e dalla prevalenza del Xóyo? d-
òxKoq sul òiKaiO(g nelle seconde Nubi. — Dove però gli au-
tori di questi due argomenti discordano , si è intorno alla
rappresentazione delle seconde Nubi. L'autore del quarto
argomento ci dà come positivo che le seconde Nubi sono
state realmente rappresentate, adducendone persino Tanno;
ai òè òeùxepai NeqpéXai èm 'Ajueiviou dpxovxog; e per contrario
quello del sesto ce lo nega recisamente: oìiKéxi òè xouxo òi'
iiv TTOxe dxiav xroiricravxo?. Ma che V asserzione delT autore
del quarto argomento sia addirittura falsa si può sufficien-
temente provare. Lo Scoliaste alle Nubi (v. 549) insegna,
che veramente non si sa né in qual anno, ne in quale so-
lennità siano state rappresentate; Eratostene (i) di più ci
dice, in termini assoluti, che le sole prime Nubi sono
state rappresentate : xà(; Òiòax9eicra(; ; e come prova maggiore
di ciò sta il fatto stesso che nelle seconde Nubi si trovano
incongruenze e lacune, ed Aristofane, nel caso di una
rappresentazione, avrebbe necessariamente dovuto provve-
dere che scomparissero. Tali sono la mancanza del coro
dopo il verso 888, parecchie disgiunzioni sul processo della
azione, come dopo il v, 1104, ed anche non poche con-
traddizioni qua e là, dove di Cleone, ad esempio, ora si
(I) Scoi, alle Nubi, v. 552.
- 470 -
parla come vivente ed ora come di già defunto. — Se le
cose adunque stanno veramente in questi termini, io do-
mando, perchè Aristofane non ha persistito nel suo pro-
posito ? perchè non ci ha voluto dare un rifacimento com-
piuto della sua commedia ? quali sono stati i motivi potenti
che hanno potuto distornelo ? Tale questione, più grave
assai che a prima vista non paia, quando venisse sciolta, ci
potrebbe porgere la chiave per conoscere le relazioni che
intercedettero in fatto di sentimenti politici fra Aristofane
e Socrate. E io pertanto tento, per quanto mi è possibile,
questa soluzione, ricorrendo a tutti quegli argomenti che la
critica e la storia mi possono somministrare, senza punto
entrare nel campo delle teorie preconcette, che, invece di ap-
portarvi la luce, ne accrescerebbero maggiormente Toscurità.
Ecco i punti che si debbono dilucidare per riuscire
con qualche probabilità nelTintento mio. C era alcun che
nella sofistica che potesse eccitare la suscettibilità di Ari-
stofane ? E perchè in tal caso se la pigliò con Socrate an-
ziché con qualche altro sofista ? In qual rapporto stanno le
accuse mosse da lui nelle seconde Nubi con quelle di Me-
leto? Quali furono le vere cagioni per cui Socrate venne
condannato a morte ? Quale fu l'indirizzo tenuto dal nostro
filosofo durante la breve sua vita politica? Se mi verrà fatto
di dare a queste domande un'adeguata risposta, allora bal-
zerà fuori, come di per sé, la soluzione che io ricerco.
i) La sofistica ed Aristofane; Aristofane oligarchico.
Come nel secolo VI av, Cr., dallo scemare della fede nelle
credenze patrie era nata la filosofia ionica, cosi dai dispa-
rati e inconcludenti sistemi escogitati per isciogliere l'arduo
problema delle origini cosmiche , nasceva pur necessaria-
mente nel secolo V, la sofistica. La quale segna quel
— 471 —
punto in cui il pensiero ellenico, sfiduciato delle proprie
forze, dà un eterno addio alla contemplazione metafisica
e rientra decisivamente nel campo della pratica. La si
potrà definire la parola nell'arte ; con che si verrebbe ad
accennare a quel turgido vuoto che erasi formato nella co-
scienza del popolo greco dopo lo sfacelo del vecchio mondo
religioso e morale. Se non che, per la ragione che non si
ha così un'idea chiara dello stesso modo con cui è venuta
formandosi, mi par meglio ricorrere alla definizione seguente:
la sofistica fu specialmente Tapplicazione degli effati di due
sistemi filosofici, che sebbene contrari ed opposti, nell' uni-
versale scetticismo si accordarono su un unico e identico
risultato, la negazione della verità assoluta.
Uno di questi due sistemi appartenne alla scuola eleatica,
che ebbe il suo più grande campione in Parmenide e dal
quale ricevette la più rigorosa e completa interpretazione
in un libro intitolato: TTepl qpùaeuug (i). Esso dividevasi in
due parti : nella prima , come risulta dai frammenti rima-
stici, trattavasi della verità, nella seconda, dell'apparenza :;
o in altri termini, nella prima trattavasi dell'ente, nella se-
conda dei fenomeni, chiamata dal Bertini fisica-fenomeno-
logica. L'ente, secondo Parmenide, è l'unico reale, l'unico
assoluto Intelligibile, principio, condizione, legge ed oggetto
essenziale del pensiero eterno, infinito, semplice, immobile,
indivisibile, perfettissimo, identico colla sua idea. Il nascere
e il perire sono fenomeni fallaci: tutta la natura sensibile
è un'illusione (2). Ogni essere dell'universo non è altro che
un fenomeno; a costituirlo concorrono due principi da lui
detti forme : la fiamma dell'etereo fuoco, lieve, tenuissimo,
(i) Come ben fa osservare il Berlini, il vocabolo cpuaic; fu qui tolto
da Parmenide in senso universale ed analogo alla natura naturante
di Spinoza.
(2) V. La filosofia greca prima di Socrate, p. i33.
— 472 —
simile per ogni parte a sé stesso, e la notte oscura, materia
densa e pesante; i quali essendo di natura del tutto opposta
e contraria, debbono perciò essere conciliati fra loro da Ve-
nere o r Amore (attivo e passivo) (i). Analoga e conscguente
alla fisica è pure V antropologia di Parmenide. « L'uomo
non è, secondo lui, un composto di due sostanze, spirito e
materia , ma consta di quegli stessi due elementi onde
risulta il mondo, cioè di calore e freddo » (2Ì. L'anima
non è distinta dal corpo ; gli stati e le azioni dell' anima
per conseguenza vengono determinati dalT elemento predo-
minante nel corpo (3). Per cui, <( Tanima, cioè il soggetto
pensante, essendo materiale, ed ogni attività della materia
riducendosi ad una mera esistenza oggettiva, cioè ad esi-
stere ad un soggetto che in qualche modo la apprenda, ne
segue che il sentimento e il pensiero immanente non può
essere altro che esistenza, e che dove trovasi esistenza ivi
è pure sentimento e pensiero; ne segue altresì che ogni sen-
timento e pensiero nuovo, avventizio, non può esser altro che
una alterazione della maniera di esistere, e viceversa, ogni al-
terazione è necessariamente sentita e pensata» (4). Onde ve-
niva ad essere logica la deduzione che trassero da questa dot-
trina i due zelanti seguaci di Parmenide, Melisso e Zenone;
cioè, che la percezione sensibile non è un verace testimonio,
e che la coscienza volgare è insussistente per tutte le con-
traddizioni intime onde viene travagliata. — Ciò posto, se ogni
sentimento, ogni pensiero nuovo ed avventizio non è altro
che un'alterazione della maniera di esistere, ne risulta evi-
dentemente che la verità e Terrore non sono altro anch'essi
(i) V. Bertini. Op. cit.,p. l'ib. Col vocabolo di /orme? egli inten-
deva non solamente due maniere di essere ma due diverse sostanze :
così il Bertini al passo citato.
(2) V. Bertini, Op. cit., p. 140.
(3) V. Bertini, Op. cit., p. 140.
{4) V. Bertini, Op. cit., p. 141.
- 473 -
che un'alterazione della maniera di esistere, e possono
quindi essere sentiti e pensati -, ne risulta che tutto è per noi,
quale ci apparisce in ogni alterazione della sua maniera di
esistere e come lo sentiamo e come lo pensiamo. E di tale
opinione era appunto Gorgia Leontino, il quale riusciva
così facilmente a provare che nulla vi ha, o se pure qualche
cosa vi ha, non potrà mai essere da noi conosciuto , o se
si potrà conoscere , non si potrà tuttavia ad altri comuni-
care ; così che, venendo egli a dire , in altri termini , che
la conoscenza non può essere la mira dell' uomo sapiente,
altro non prometteva ai discepoli suoi che di farli valenti
oratori. Con queste teorie Gorgia si recava in Atene, Tanno
secondo delTO/. 88 = 427 av. Cr., quattro anni prima della
rappresentazione delle Nubi di Aristofane.
L'altro sistema, di cui mi rimane a discorrere, venne pro-
fessato da Eraclito di Efeso. — Contro la determinatezza
e l'immutabilità di una natura, in cui si trova concreta la
essenza astratta dell'essere, egli dichiarò che l'essenza del-
l'essere consiste nel non averne alcuna, nel non rimanersi
fisso e chiuso in alcuna forma, ma nell'uscire sempre d'una
per entrare in un'altra (i). — Nel nascere d'una cosa, nel
mutarsi, nel diventare, nel fievi^ egli ammise quel punto,
in cui coincidono e si riuniscono i due contradditori del-
l'essere e del non essere (2). — La tesi dell'identità dei con-
trari , pare che da Eraclito sia stata trattata con grande
amore, e di essa abbondano i frammenti, piiì che di qua-
lunque altra parte del suo sistema filosofico. Secondo Era-
clito, tenebre e luce, male e bene, nascere e morire, il
regno dei viventi e il regno dei morti è tutt'uno; Dio è
tutto, giorno e notte, estate e inverno, guerra e pace,
(i) V. Bertini, Op. cit., p. 222.
(2) V. Bertini, Op. cit., p. 220.
— 474 —
sazietà e fame, ecc. ecc. (i). Nascere e vivere è un cor-
rere alia morte -, dar vita a figli è avviarli alla morte •
la malattia rende piacevole la sanità ; la fame il saziarsi ;
la fatica il riposo, gcc. ecc., dappertutto egli trovava la co-
incidenza dei contrari (2). Persino Tuomo stesso risulta,
secondo Eraclito, dalla coincidenza e riunione di due con-
trari-, dal corpo terreno e dall'anima di natura ignea e ra-
zionale, diametralmente opposti fra loro. Ed è questa la
ragione per cui egli era di parere che Tanima umana con-
giunta al corpo sia meno capace di percepire le cose nel loro
vero essere, cioè nel loro continuo mutarsi, e vada soggetta
air inevitabile illusione di apprendere come stabili le cose
che si mutano, che si muovono continuarnente (3). — Ora, se
l'essenza dell'essere consiste in un continuo mutarsi dove
coincidono fra di loroi contradditort, ne segue di necessità che
ogni cosa dev'essere per noi quale ci apparisce in ogni istante
del tempo e quale noi la sentiamo, ancorché sotto aspetti
opposti. E da questa deduzione ecco Protagora formulare
quella sua famosa sentenza, che Tuomo è misura a se stesso
di ogni cosa. Per lui ogni cognizione è subiettiva e soltanto
ha valore per un determinato uomo, il quale può giudicare
delle cose sul modo che meglio gli talenta , perchè tali si
presenteranno a' suoi sensi. Onde per una via del tutto
opposta a quella di Gorgia, anch'egìi veniva a togliere ogni
differenza fra la verità e l'errore; egli apertamente diceva
che sopra un medesimo obbietto, secondo le sensazioni di-
verse che vengono da esso impresse nella successione del
tempo, si possono dare due giudizi allatto contrari. Di qui
le lagnanze di Platone in alcuni de' suoi dialoghi, come nel
(1) V. BeRTINI, Op. Cit., p. 22 1.
(2) V. BeRTINI, Op. CÌt.,p. 221.
{3} V. Bertini, Op. cit., p. 228.
— 475 -
Teetete e nell' Eutidemo. Protagora fu il vero fondatore
della sofistica^ fu il primo che considerò la filosofia come
una coltura universale in servigio della facoltà intellettiva
per la pratica della vita (i).
Fra Gorgia e Protagora, i quali rappresentano le due
principali direzioni della sofistica, si collocarono Prodico ed
Ippia. Meno entusiasti di natura, e più temperati nelle loro
deduzioni e nei loro pronunciati, sebbene internamente as-
sentissero alle teorie di Gorgia e Protagora, perchè anche
essi avevano disperato di potersi acquistare un vero sapere
intorno alla verità assoluta, tuttavia ad esse non diedero
mai alcuna conferma coir autorità del proprio nome; essi
mirarono esclusivamente a procacciarsi idee e principi sa-
lutari per la loro vita pratica. Quindi è che sotto questi
aspetti considerati si avvicinano più che gli altri, special-
mente Prodico, a Socrate.
Errerebbe nondimeno a partito chi credesse che Gorgia
e Protagora si fossero lasciati trascinare nella pratica a tutte
quelle estreme conseguenze che nei loro principi si trova-
vano implicitamente. Se Platone non fa di loro così grandi
elogi come di Prodico, ne rispetta tuttavia il loro carattere
personale, siccome quelli che sopratutto tennero in conto la
virtù e la venerazione degli Dei. Protagora aveva spogliato
bensì di ogni realtà l'assoluto vero, ma riguardo alla virtù
non si era mai pensato di fare altrettanto (2). E riguardo
(i) V. E. Ferrai, Proemio alla tradupoìie del Protagora , p. 426.
(2) Platone nel Protagora si limita a mostrarne solamente la va-
nità; della perversità di lui in fatto di virtù non ne fa mai parola.
Al cap. XXII induce Socrate a beffarlo in certo qual modo, ed egli
è perchè Protagora studiavasi ne' suoi discorsi .di celare con divisioni
e sottodivisioni ed antitesi le sue sofisticherie. Se della virtù non
avesse tenuto qualche conto, non lo avrebbe detto Plotone? E la gio-
ventù ateniese lo avrebbe cotanto stimato, come ci fa sapere lo stesso
Platone al cap. VI del suo Protagora ?
— 476 -
agli Dei, se ne pose in dubbio l'esistenza in quel suo libro
intitolato TTepì Geujv, che gli valse il bando da Atene , tut-
tavia non la negò giammai, come si può ricavare da un
passo del Protagora (cap. XI), dove Platone ci dice che
egli valevasi dei miti nelle sue dissertazioni, come di luoghi
comuni. Lo studio di Protagora, come di Gorgia e degli altri
sofisti, era specialmente quello di ragionare prò e contro
sopra qual si fosse argomento •, ma nel tempo stesso che
ei dimostrava, conformemente a'suoi principi, che la ve-
rità non esisteva , la riduceva a certi sentimenti , dietro ai
quali si sarebbe, secondo lui, dovuta regolare la vita. —
Egli è di Prodico che Platone ha maggior considerazione
che di qualunque altro sofista. Prodico dilettavasi sopra-
tutto delle ricerche grammaticali e linguistiche, massime di
sinonimia (i). Possedeva una bella parola e dava buoni
insegnamenti, per cui, oltre ad una sostanza cospicua gua-
dagnossi parimenti una grandissima fama {2). Socrate
gli mandò a scuola molti de' suoi discepoli (3), e non du-
bitò nemmeno di annoverare se stesso fra i discepoli di
lui (4). — Quanto ad Ippia, pel contrario, non si sa ve-
ramente per quaU ragioni Platone ci faccia di lui un ritratto
co' peggiori colori. Egli era molto vano-, si compiaceva di
sfoggiare dappertutto la sua immensa erudizione, si vantava
di aver fatto più denari che non tutti gli altri sofisti; ma
non facevano anche gli altri sofisti press'a poco altrettanto?
(1) V. Carmide, Lcichete, Eutidewo, Menane e Cratilo.
(2) Protagora, cap. \'lll. Prodico veniva considerato come uomo
quasi divino.
(3) V. il Teetete, cap. VII, p. i5i B.
(4) V. Protagora, Cratilo, Carmide e Menane. Intorno alla no-
tizia di Platone che Socrate sia stato discepolo di Prodico, nota assai
acconciamente il Ferrai che devesi ciò intendere con molta restri-
zione; cioè che Socrate abbia attinto bensì alle dottrine di Prodico,
ma che non le seguisse in tutto e per tutto.
- 477 —
Sarei inclinato a credere, che la causa dell'animosità di Pla-
tone contro Ippia sia stata quella di aver cominciato forse,
nell'attuazione delle sue teoriche, a gettarsi giù per la china,
per la quale si precipitarono ciecamente i sofisti che ten-
nero dietro a queste prime.
Costoro veramente non badando molto a tutti gli scru-
poli che avevano frenato i loro maestri, si diedero anima
e corpo alla rettorica, che sola poteva guidare al possesso
dell'eloquenza (òeivóiriq), che era la molla per elevarsi a po-
tenza in mezzo alla democrazia ateniese. Fin a questo tempo
l'eloquenza aveva avuto per base la santità dei principi reli-
giosi e morali;, ma essi ne la spogliarono e la convertirono
poco a poco in un semplice giuoco di parole e cavilli.
Poscia, progredendo nella loro audace impresa, si occu-
parono altresì degli altri rami dell'umano sapere, e in o-
gnuno aprirono la via al dubbio ed alle ipotesi; tutto, com-
presa la religione , divenne soggetto di disputa , e ad ogni
problema si volle rispondere. Sottentrò così l'arbitrio del-
l'individuo alla suprema legge naturale -, l'opinione subiettiva
alla verità obbiettiva (i). Si sostenne che la giustizia e la
credenza negli Dei erano state inventate dai primi domina-
tori per frenare le moltitudini, che le leggi erano state fatte
da loro pei deboli, col fine di procacciare a se stessi sicu-
rezza. E cos'i evidentemente spianavasi il cammino alla ti-
rannide, al diritto del più forte (2).
Con tale fermento di idee rivoluzionarie, la sofistica ve-
niva necessariamente a porsi come un nuovo e più ter-
ribile nemico che non fosse la democrazia, di fronte alla
fazione aristocratica. Non erano più alcuni uomini che
(i) V. Ferrai, Proemio alla tradu:[ione del Protagora, p. 410.
(2) Vedi De Orat., Ili, 59; I, 21, 102 -^ Accade7n.,]l, 23, y3 ; De
Finibus, II, I, I.
— 478 -
questa doveva combattere, persone che, col pugnale o con
la calunnia, si potevano in qualche modo togliere di mezzo ;
era un movimento generale che penetrando nella stessa
moltitudine , minacciava di far crollare insieme colle basi
delle antiche credenze, pur quelle degli antichi privilegi e
diritti, I soli rimedi che in siffatti frangenti potevano sem-
brare efficaci contro il male, erano due: arrestarlo in sul
principio , accusandone gli autori di empietà, ovvero favo-
rirlo per valersene a vantaggio suo proprio. Credette più op-
portuno prescegliere il primo, e quindi Aristofane, il quale
aveva già rotto qualche lancia in servizio della parte ari-
stocratica nei Daitaleis , negli Acarnesi e nei Cavalieri
(commedie tutte inspirate a sensi altamente aristocratici),
comparire l'anno 423 av. Cr, colla commedia delle Nubi.
Che Aristofane siasi indotto a questo passo di proprio
moto , perchè colpito dai pericoli che minacciavano la so-
cietà, fu opinione universale degli eruditi fino a questi ul-
timi giorni. Per essi Aristofane è l'ardente patriota, pieno
di entusiasmo per Tetà dei Maratonomachi, nemico di ogni
innovazione che avesse potuto danneggiare la fede nelle cre-
denze proprie e la vecchia educazione. Secondo il Bergk(i),
Aristofane alTetà di anni 17 « iuvenis admodum qui pueris
excesserat » già dimostrava di conoscere perfettamente
quanta fosse la corruzione dei tempi suoi, e quindi sor-
geva come l'index acerrimus di quella beata età. Di anni
18 il nostro comico, a quanto dice il Ranke (2), era già
assai versato nella conoscenza della amministrazione pub-
blica: « artem... suam non vi comica solum, sed regendae
reipublicae scientia non minus niti credebat ^), cosa che ri-
pete e maggiormente conferma lo stesso scrittore là dove parla
(i) Presso MEINEK.E, Fragm. comic, 11, p. S96.
(2) Vita Aristophanis, p. ^yS.
- 479 -
degli Acarnesi : « Acharnensibus dociis bis cunctis in rebus
se non esse tyronem ac rudem luculenter demonstra-
verat »•, per cui non dovrebbe far meraviglia, soggiunge
il Muller-Striibing (da cui ho tolto queste citazioni delle
opere del Bergk e del Ranke), se Aristofane all' età di 20
anni siasi sollazzato nei Cavalieri intorno a Cleone ! (i).
Come pure non dovrebbe far meraviglia, se egli vedeva che
le nuove dottrine sofistiche andavano poco a poco minando
tutte le basi degli ordinamenti sociali e politici ! « Aristo-
phanem non fugit, dice il Bergk, latius iam serpere pestem
illam (novitiae disciplinae) et quam rerum privatarum, eam-
dem esse publicarum perniciem et corruptelam ». Ma chi
sovr'ogni altro esalta Aristofane è specialmente Carlo Kock,
il quale ne fa veramente un apostolo del bel tempo antico(2).
Ma queste son opinioni, che non possono essere da altro
(i) Vedi quante ne dice in proposito anche Teodoro Kock nella
sua Introdupone a Cavalieri, p. 7 e seg.
(2) « Ar. ist nicht fUr oder gegen bestimmte einzelne Einrichtun-
gen, er ist ein Feind der Gesinnung seiner Zeit, mag sie sich auf
dcm Gebiete des Staates, der Religicn, der Sitte oder der Kunst aus-
sern. In seinem Geiste ist eingeboren die unsterbliche Schonheit der
alten Zeit, das reale Dasein , wie er meint , des hellenischen Ideals.
Sein Herz gliiht fiir den festen , gebundenen Geist des alten Staates,
fiir dea massigen Sinn und unbezwinglichen Mut der Marathonkam-
pfer, fiir den alten , naiven und heitern Volksglauben und fiir die
strenge, unverweichlichte und ungeschminkte Kunst. Doch gibt diese
Charakteristik uns die Grundlagen seines Wesens an, dessen aussere
Erscheinung unter den wechselvollen Geschicken des Staates eine
zeitweìlige Umwandlung erlitt. Wiihrend der Strom neuer Ideen in
dem gleissnerischen Gewande der Sophistik von alien Seiten mit
Macht auf das gesamnte athenische Leben einwirkte, wahrend der
ganze Staat die gewaltigsten Krisen einer stlirmischen Uebergangs-
epoche durchmachte, und selbst fast daran zu Grunde gieng, ist es da
ein Wunder, wenn der klare Spiegel des Dichtergemuths von dem
Wehen das neuen Geistes voriibergehend getrlibt erscheint ? » . Die
VÓgel des Aristophanes-Besonderer Abdriik aiis dem ersten Supple-
mentbande der Jahrbiìcher fiir classische Philologie, p. 11, E così se-
guita di questo passo.
— 480 —
derivate tranne che da un' inconsulta e cieca ammirazione
per Aristofane, la quale non ha lasciato scorgere chi Ari-
stofane fosse, in quali tempi vivesse ed a quale partito, se
a quello della verità oppure a quello d'un'idea politica ap-
partenesse (i).
Non pertanto, io sono ben lungi dal voler negare col MiiL-
ler-Strììbing una tal quale precocità al genio di Aristofane,
checché ne vada quegli dicendo (2). Non si hanno forse esempi
di genii precoci nelle storie letterarie? Non fu il nostro Tor-
quato altrettanto precoce nelle creazioni sue, quanto il comico
Ateniese ? Ben so , che altro è comporre un poema , dove
la fantasia senza freno può liberamente spaziare, ed altro
è distendere una commedia, massimamente di quelle del
genere aristofanesco, in cui la facoltà riflessiva deve preva-
lere ad ogni modo sopra la fantasia. Ma noi non dobbiamo
dimenticare giammai che la politica era il principale ele-
mento di vita pel popolo ateniese-, che nelle famiglie, nelle
scuole pubbliche, nelle vie, nei fori, nei comuni ritrovi era
il soggetto su cui versava generalmente la discussione, perchè
la politica sola poteva somministrare i mezzi per conser-
vare la supremazia sopra la confederazione ionica, dalla quale
dipendeva la stessa esistenza d' Atene. — Se non che, per
quanto ci pare, il MùUer-Striibing confonde insieme due cose
fra loro diversissime, le quali possono stare congiunte bensì,
ma anche andare V una dair altra separate : vale a dire la
(i) Per conferma di queste mie parole si legga, di grazia, la prima
parte dell'opera già citata del Muller-Strlibing.
(2) V. Op. cit., p. 73: « Wahrhaftig, es wird uns Modernen schon
schwer genug, eine solche Fruhreife des poetischen Talents, wie sie
uns schon in den « Acharnern », dem frùhsien der auf uns gekom-
menen Stiicke. in ubermuthiger und dennoch planvoll besonnerer
Ausgelassenheit , in maashaltender Zugellosigkeit mòchte ich sagen .
entgegeniritt, aus dem Leben jener Avunderbaren Zeit heraus zu ver-
stehen, und in ihrem ganzen Umfange zu wLirdigcn !
- 481 -
maturità e la giustezza d' un giudizio medesimo. Non può
essere un giudizio qualsiasi, maturo e falso nello stesso
tempo ? specialmente quando vi ha esercitata una qualche
influenza lo spirito di parte ? E questo è appunto il caso
di Aristofane. Onde si può giudicare quanto valore abbia
queir argomento che a mo' d'esempio adduce il Mùller-
Strubing in sostegno della sua asserzione (i). A nostro giu-
dizio, Aristofane mette alla rinfusa Pericle con gli altri
demagoghi a bello studio e non per mancanza di giusto
discernimento, perchè Pericle veramente fu anche un av-
versario di quel partito che egli così accanitamente sosteneva.
Ciò posto, se Aristofane non era quel patriota, quell'apo-
stolo degli antichi principi, che da tanto tempo si è procla-
mato che sia, chi dunque era egli ? quale scopo proponevasi
colle sue commedie ? Secondo il Miiller-Strùbing Aristofane
altro non era che un giovane pieno di vita, ardente e appas-
sionato, artista per natura, tutto correttezza nei modi, ele-
gante e di squisito sentire. Odiava egli la democrazia in-
sieme con tutti quanti i demagoghi ? Non era tanto perchè
svolgendosi pienamente la democrazia sarebbero minati i
privilegi di casta che gli aristocrati con ogni sforzo avevano
procurato conservare; quanto perchè in essa scorgeva un
ostacolo insuperabile, che gPimpediva di goder nella pace i
piaceri della natura, per cui la sua indole aveva un così
grande trasporto. Sentivasi egli per istinto spinto ad odiare
fra i demagoghi particolarmente Cleone ? Questi era un rozzo
cuoiaio. Odiava anche Socrate ed Euripide? L'uno era un
(i) «Nicht blos die Kriegspolitik des Pericles ist es, was er beson-
ders bekiimpft, vielmehr ist ihm Pericles ein Demagoge ganz von
demselben Schlage wie Kleon und Hvperbolos, ja selbst Euathlos
und Kleonymos, und wie sonst scine demokratischen Gegner alle
heissen — er machtkeinen Unierschied, fiir ihn gehoren sie alle in den-
selben Sack > (V. Op. cit., p. 74).
lifvista di f Mogia ecc.,X. 32
- 482 -
sistematizzatore, e V altro un poeta dialettico, improvvisa-
tore, a cui poco importava la eleganza del dire. Di politica
Aristofane non s' intendeva affatto, e non se ne era mai
occupato^ il suo scopo precipuo era veramente quello di
poter realizzare nella vita l'ideale che andava accarezzando
nella sua fantasia. Se egli prese parte alla vita politica, fu
perchè venne spinto dagli amici suoi. Erano costoro giovani
al par di lui eleganti, gioviali e pieni di spirito, figli delle
primarie famiglie di Atene, che pensavano specialmente a
godersi la vita , e della politica non si curavano o se ne
curavano solo in quanto loro porgeva un' occasione per ri-
dere alle spalle dei demagoghi. Da questi Aristofane la-
sciavasi guidare ed imporre -, con essi rideva e li faceva
ridere, ricorrendo senza alcuno scrupolo ai più luridi e li-
cenziosi motti , calpestando la religione, la morale, quan-
tunque mostrasse di sforzarsi per conservarne il prestigio!
Il che viene a dire, che il poeta in mezzo a quella sfacciata
e spensierata società, faceva la parte da buffone, pronto, ad
un cenno di chicchessia a versare il ridicolo su tutto quanto
vi poteva essere di più santo e venerabile (i). — Riguardo
(i) Ecco il passo da cui particolarmente ho tolto queste idee: —
« Er, der lebensvolle, heissblutige JUngling, liebt den Frieden um
des Friedens willen , schon deshalb, weil der Friede alleili ihm den
Genuss der Natur und des Landlebens, fiir dessen Reize er ein so
tiefes poetisches Gefuhl hat, in Ruhe und Freudigkeit gestattet. Da-
rum hasst er den Gegner des Friedens, Kleon, gewiss mit Fanatismus,
aber mit dem naiven Fanatismus des Temperaracnts, wie denn ihm,
dem Kijnstler , der ganze Mensch mit seinem unfeinen Wesen . mit
seinen uneleganten Formen von vornhercin instinctmlissig zuwider
gewesen sein wird-ganz ahuiich, wie auch sein Hass gegen Sokrates,
den systematisirenden, und gegen Euripides, den poetisirenden Dia-
lektiker, urspriinglich aus der tiefen innerlichen Antipathie des schaf-
fenden Dichters. des unmittelbar producirenden Kunstlers, mit voUer
Naturberechtigung hervorgegangen ist
« Dies nun, das damals in ihm dominirende GefUhl gegen Kleon,
— 483 —
a questa teoria, che pure ha un lato di verità, poiché Ari-
stofane ha realmente voluto militare in servigio della fa-
zione oligarchica, io vorrei fare alcune osservazioni di non
poca importanza. E primieramente ripeto che la politica
non era soltanto un' occupazione esclusiva di pochi , ciò
che vorrebbe farci credere il nostro critico , ma eziandio
(sempre parlando dei tempi che allora correvano) di qua-
lunque dei cittadini d'Atene, come appare dalla commedia
le Vespe -, poiché la politica era V unica base su cui reg-
gevasi l'esistenza di quella repubblica, tolta la quale sa-
rebbe essa precipitata nel nulla. In secondo luogo, io
voglio dimandare : chi era adunque e donde usciva questo
Aristofane, così ignaro di politica in mezzo ai compagni e
coetanei suoi, che pure di politica erano intelligenti, e dai
quali doveva tutti i momenti attendere l'imbeccata ? Egli ci
pare che 1' educazione stessa, quale Aristofane dimostra di
aver ricevuto, contraddica manifestamente all'asserzione del
nostro critico. E finalmente, quando anche volessi con-
bringt ihn denn iiaturlich in frijhe Berìihrungg mit denen « die den-
selben Mann hassen, wie er » {Ritter, 5 io) und als ein achter Dich-
ter, hochst eindrucksfahig und leidenschaftlich, giebt er sich diesen
Genossen und Freunden in voller Sympathie hin , und lasst sich in
dem, wovon er nichts versteht, auch schon dem Alter nach nichts
verstehen kann , und womit er sich doch als komischer Buhnen-
dichter beschaftigen muss , beeinflussen und leitcn, niimlich in der
Politik.
« Wer waren nun diese Genossen und Freunde, die denselben Mann
hassen, wie er ? — Doch gewiss Niemand anders — denn das Gleiche
sucht sich und ziehtsichan — als die geistvollsten, lebenslustigsten, ge-
bildetsten Junglinge von Athen ! — und diese waren nalUrlich die
Sóhne der ersten Familien in Athen , die Bliithe der besten Gesell-
schafi, die Tonangeber, wie das in der Natur der Sache liegt, in ge-
selligen Verkehr , auch in litterarischen Dingen, kurz , die jungen .
reichen, ubermiithigen Aristokraten, denen, ebenso natiirlich, ein so
unterhaltender, so witziger, zu jedem Uebermuthe, zu jeder genialen
Tollheit aufgelegter Gefàhrte iinsserst willkommen gewesen sein muss!»
(V. Op. cit., p. 112 e 1 13).
~ 484 —
cedere al Miiller-Strùbing che quella società elegante dei
giovani aristocratici di Atene avesse per precipuo scopo di
godersi liberamente la vita e spassarsela, ridendo alle spalle
dei demagoghi (e avverto che in siffatta guisa parimenti
cooperavano per quel fine che le loro famiglie volevano
raggiungere, cioè la caduta della democrazia e per conse-
guenza la ruina di Atene), rimarrebbe da spiegare come
mai Aristofane, plebeo di nascita — che tale appare nella
teoria del nostro critico — riuscisse a farsi ammettere, sia
pur anche in qualità di buffone, nei circoli segreti di quella
società, che in lui certamente doveva sospettare e temere
un delatore.
Ma, checché sia di ciò, senza divagare in ipotesi che
pel mio assunto non sarebbero affatto proficue, ritengo sol-
tanto che Aristofane serviva la fazione aristocratica e che
quindi aveva qualche interesse a combattere la democrazia
e tutti quelli che anche apparentemente avessero voluto
darle incremento.
Alcuno vorrebbe forse sapere la ragione per cui Aristo-
fane volle prendere specialmente di mira Socrate anziché
Protagora o Gorgia , Prodico od Ippia, che della sofistica
erano i grandi maestri. E una tale ragione, a mio cre-
dere, sta principalmente nell'indole della commedia ateniese.
L' arma di questa era lo scherzo liberissimo, la caricatura
sconfinata, che estendevasi a colpire persino le più minute
particolarità della vita. E perciò niun altro sofista di quei
tempi avrebbe potuto somministrare ad Aristofane la ma-
teria per una commedia in proposito, tranne Socrate. Quale
degli altri era Ateniese ? Non erano forse tutti forestieri
che percorrevano T Eliade insegnando a pagamento le loro
dottrine , e che in Atene si trovavano soltanto di pas-
saggio ? Quindi Aristofane, anche nel caso che ne avesse
avuto r intenzione , non poteva assolutamente servirsi di
— 485 —
loro, perchè nuU'altro di essi conosceva che una qualche parte
delle loro dottrine sofistiche, delle quali ogni altro poeta
comico, nonché Aristofane, avrebbe creduto bene di va-
lersi con assai discrezione. Il popolo, che va al teatro per
trovarvi un sollazzo, in qual modo si sarebbe comportato
alla rappresentazione di una commedia di questo genere, in
cui non r individuo nelle sue dottrine, ma le dottrine nel-
Findividuo, se così mi posso esprimere, fossero state messe
in burla dal comico ? Giudichiamo ora del popolo ateniese,
così amante del riso, così appassionato per le feste e per la
allegria ! — Invece riguardo a Socrate la cosa mutava, di
aspetto. Non solamente era egli in ogni particolare della
vita conosciuto da tutti, ma per di più la natura stessa di
lui, i costumi, le consuetudini, tutto quanto Socrate in-
somma poteva diventare nelle abili mani di un comico ma-
teria di ridicolo. Ed Aristofane, colla perspicacia che aveva,
non dubitò menomamente di appigliarsi al partito d'inveire
contro Socrate, per inveire contro le dottrine sofistiche.
Quelli che affermano, quasi per addurre una qualche scusa
in discolpa di Aristofane, che questi, punto filosofo od a-
mante di filosofia, non abbia saputo distinguere e giudicare
i principi di Socrate e perciò Tabbia messo in fascio cogli
altri sofisti, mostrano di ignorare del tutto il processo dello
svolgimento delle dottrine di Socrate. Egli fu dapprima
un pretto sofista; fu seguace in qualche modo di Prodico
e di Anassagora, lo fu pure di Protagora, da cui tolse
il principio, che l'uomo è misura a se stesso di tutte le
cose ; negò anch' egli ogni valore agli Dei della religione
tradizionale :, attese anch'egli all'esercizio della facoltà della
parola, in quanto che pose il fondamento alla dialettica
che poi sempre, dal nome di lui, venne chiamata socratica.
Quindi Aristofane veramente non ha, come si dice, errato,
ma ha bene colpito nel segno, se nelle sue prime Nubi rap-
— 486 -
presentò Socrate qual « syllabarum aucupem, artis dicendi
putridLim magisirum, de coelestibus rebus inaudita quae-
dam somniantem, praeque iis patrios deos contemnentem »,
come appunto risulta dagli studt fatti da insigni filologi (i).
A questa mia opinione a prima vista si opporrebbe un fatto
che non è bene passare sotto silenzio perchè intimamente
con questi miei studi connesso; voglio dire il fatto della
prima sconfitta che toccò ad Aristofane Tanno 420 av. Cr.
allorquando entrò in gara con Gratino rappresentando le
sue prime Nubi. Ma mi piace fin da principio far osservare
che le ragioni di ciò sono del tutto estrinseche alla com-
media di Aristofane. Noi sappiamo con certezza che la
commedia rappresentata in questa occasione da Gratino
portava il titolo di TTiBùvn o la Bottiglia.^ e cosa rara per le
opere di Gratino, persino quale ne sia stato l'andamento. L'an-
tica moglie di Gratino che era la commedia, a cagione dei cat-
tivi trattamenti del marito, il quale Taveva abbandonata per
correre dietro ad un'altra donna, che era la Bottiglia, tutta
adirata s'indirizza all'Arconte portandovi un'accusa per ot-
tenere il divorzio. E Gratino ridotto a mal partito, per non
potersi difendere, rientra allora nuovamente in sé, si pente
e ritorna a' suoi antichi amori (2). Un tema siffatto era
nuovo nel suo genere pel popolo ateniese; non sappiamo, per
mancanza di sufficienti notizie e frammenti, se un tale tenta-
tivo fosse già stato fatto prima da altri; ma quello che è certo,
si è, che Aristofane non l'ha fatto mai; dal che potrebbesi
in qualche modo inferire che ricorrere a temi di questo ge-
nere , in cui il soggetto è lo stesso poeta, non era in uso
presso i comici ateniesi. Quindi pensi ognuno quale acco-
(1) V. Teuffel, Introduzione alle Nubi, p. 7.
(2) V. Gratini Fragmenta , coli. Runkel ; Meineke , Hist. crii,
com. graecae, p. 5i.
— 487 —
glienza dovesse trovare il vecchio Gratino, allorquando per
Tultima volta compariva in scena con questa commedia,
rivolgendo la sua satira non più contro il popolo o qualche
noto cittadino, ma addirittura contro se stesso. AlFincontro,
assai meno dilettevole impressione fece la commedia d'Ari-
stofane, perchè (oltreché la sofistica era ancora poco cono-
sciuta, trovandosi solo allora ne^ suoi primordi) essa sem-
brava manifestamente contraddire alla stessa verità. E di
ciò possediamo una qualche prova in un passo di Plutarco,
in cui è detto, che rappresentandosi le Nubi d'Aristofane e
trovandosi per caso presente Socrate, un tale, avvicinatosi
a lui, gli domandò perchè non isdegnavasi contro il co-
mico, il quale divertiva alle spalle di lui gli spettatori; e
che Socrate gli rispose ridendo : 'Qq tàp èv auiurroaiiu jne-
YttXuj TU) Geórptu aKuuTTTO|Liai (i). Non si potrebbe veramente
provare che il fatto sia reale \ tuttavia risulta da questo
racconto , che il popolo ateniese non prestava menoma-
mente fede alle accuse ed alle calunnie che Aristofane sca-
gliava contro Socrate*, giacché, in caso contrario, quel tale,
anziché domandare al filosofo se non isdegnavasi, gli avrebbe
piuttosto dovuto dimandare, se non pensava a mutare in
avvenire il tenore della sua vita. E se Platone nel Prota-
gora (2) ci dice che grande sia stato Todio portato dal volgo
ai sofisti, noi dobbiamo riferire questa asserzione sua non
al tempo in cui vennero rappresentate le Nubi, ma ad un
tempo molto posteriore, in cui si era già conosciuto di quali
effetti potevano essere causa le dottrine sofistiche. Invece al
tempo della rappresentazione delle Nubi, i sofisti venivano
piuttosto ammirati dal volgo, come pur li ammirava la gio-
ventù che in folla accorreva alle scuole loro; quelle grandi
(i) V. Plutarco, De educand. lib.^ e. 14.
(2) V. cap. IV.
— 488 —
ricchezze acquistate giorno per giorno cogli insegnamenti,
dovevano abbagliare e sbalordire il popolo, e procacciare
ai sofisti grande stima e venerazione. Inoltre, Platone stesso
ci fa sapere (i) che il titolo di sofista tardò molto ad essere
ricevuto fra i Greci -^ e ciò dimostra ancora più chiaramente,
che il popolo a nessun costo poteva rassegnarsi in sulle
prime a dar questo titolo ai sofisti che suscitavano il suo
entusiasmo e formavano la sua ammirazione. Considerate
adunque tutte queste ragioni, si deve affermare, che se Ari-
stofane colle sue prime A^ubi ha ricevuto uno smacco che
giammai non si sarebbe aspettato, converrà attribuirlo a
nuiraltro che alForiginalità della produzione di Gratino ed
all'entusiasmo del popolo pei sofisti allora non ancora esat-
tamente conosciuti.
2) Socrate filosofo.
Socrate e l'accuse di Meleto — Socrate e- le seconde yiibi.
Se Socrate, come ho detto di sopra, fu un pretto sofista,
non era però uomo tale che nelle vane ciancie, neir arte
fina della parola, unica cura dei sofisti, potesse acquietarsi e
trovar sufficiente appagamento a quella facoltà religiosa che
noi portiamo innata da natura. Tutto il mondo olimpico
degli Dei eragli caduto in frantumi-, il dubbio lo tormentava
senza posa-, il vuoto che gli era rimasto nella coscienza
voleva essere colmato -, egli pensò al mezzo di riempirlo e lo
trovò. Già due principi fra loro affini gli aveva inculcato la
sofistica-, quello di Protagora, che Tuomo a se stesso è mi-
sura di tutte le cose, e quello di Eraclito: cerco me stesso.
D'altra parte la religione tradizionale facevagli ancor ricor-
(i) Prot., cap. III.
— 489 —
dare il delfico : rvuj6i (TauTÓv, sebbene con significato ben
diverso da quello che confusamente cominciava a intrave-
dervi. Ed egli colla scorta di questi tre principi si accinse
a studiare se stesso, per rifornire alla morale, alla verità as-
soluta, quella base fondamentale che colla ruina dell'Olimpo
si era perduta, ponendo Tio come centro di tutto il mondo
morale. Se non che per questo studio gli faceva di bisogno
una qualche norma certa e sicura che lo salvasse da ogni
pericolo di errore , in cui tanto facilmente sarebbe potuto
cadere; poiché Tio, siccome affatto individuale e perciò di-
pendente in gran parte dalle impressioni esteriori, si muove
non in piena libertà di se stesso, ma va soggetto alle pas-
sioni che nell'animo continuamente si sollevano e determi-
nano il modo di pensare ed operare. Perciò Socrate si
propose di studiare la coscienza dell' uomo che sa e può
frenare i suoi sensi e le sue passioni , cioè la coscienza
delPuomo puro, onesto e prudente, perchè questa sola può
essere del tutto libera e indipendente. In questo modo si fece
a indagare le leggi della vita morale. E ne seguì, qual con-
seguenza immediata, che di fronte al criterio individuale
di Socrate, ogni relatività dei principi di Eraclito e Pro-
tagora venne immantinente a dileguarsi -, e si ricostituì la
•verità assoluta su basi ben più solide che non quelle som-
ministrate pel passato dall'Olimpo degli Dei, e nel mede-
simo tempo altrettanto universali, essendoché Tuomo onesto
e saggio pensa ed opera sempre allo stesso modo in tutti
i luoghi ed in tutti i tempi. Di qui l'origine del così detto
baiiauuv di Socrate. Che cosa era mai questo òaiiaujv ? Nul-
r altro se non una voce interiore che dall' armonia della
vita, ottenuta mediante la compressione dei bassi istinti,
risuonava nella sua coscienza di uomo probo ed onesto.
Ora, il principio del criterio individuale di Socrate, poteva
urtare col modo di sentire di un Ateniese allevato nella re-
- 490-
ligione patria, che pure di tutti i Greci era quello che faceva
in siffatta materia le più larghe concessioni? Vediamolo. Ogni
giovane ateniese, pervenuto all'età di anni diciotto, doveva
pubblicamente prestare un giuramento, col quale impone-
vasi il nuovo cittadino due obblighi assolutamente infran-
gibili : quello cioè di venerare la religione patria e di farla
venerare, e Taltro di procacciare alla repubblica tutte le mi-
ghorie possibili, difendere in ogni modo la costituzione vi-
gente , ed obbedire e far obbedire alle leggi che il popolo
avesse creduto opportuno introdurre. Ciò posto, Socrate,
colla sua dottrina del criterio individuale, non veniva a far
direttamente a cozzi coi due obblighi suddetti? Egli non
credeva più nelle divinità greche, la cui esistenza per lui
era diventata un assurdo ; seguiva invece Eraclito ed
Anassagora nelT opinione di una divinità astratta, d' una
mente ordinatrice dell'universo :, e se non poneva manife-
stamente in discredito gli antichi Dei, cercava tuttavia di
mutarne il concetto, come la ragione richiedeva (i). Egli
disprezzava la costituzione patria, perchè basata su principi
democratici -, non avendo mai voluto assumere alcun inca-
rico pubblico, se non quando la democrazia cominciava a
soggiacere ai sempre crescenti trionfi dell' oligarchia che la
aveva, per così dire, minata* non che desiderare e favorire
il miglioramento della patria sotto il governo democratico,
egli non credette che si potesse raggiungere altrimenti che
nella prevalenza della fazione aristocratica. Ben a ragione
dice adunque il Forchhammer, laddove comprova la giu-
stizia delle accuse di Meleto, che il nostro filosofo era un
gesetiìvidriger Oligarche cioè un oligarca che osteggiava la
costituzione in vigore (2).
(1) V. P'ORCHHAMMER. Op. cit., p. IO.
(2) V. Forchhammer, Op. cit., p. 54.
— 491 —
Con tutto ciò non credasi che io voglia in qualche modo-
scemare i meriti incontestabili di Socrate. Egli fu un grande
riformatore -, vide tutto il marcio della società fra cui vi-
veva ; sentì il bisogno di principi" che avessero forza di rial-
zare il grado morale dei corrotti suoi concittadini-, e questi
principi escogitò colla potenza del suo genio e difese col sa-
crifizio della propria vita. Ma egli con questi principi veniva
ad offendefe la costituzione e l'educazione patria-, e perciò
ben giusto fu il biasimo che si tirò adosso da' suoi concit-
tadini e dai posteri. Se vogliamo portar un adeguato giu-
dizio delle relazioni di un insigne personaggio colla vita
pubblica de' suoi tempi, noi non dobbiamo misurarlo alla
stregua dei nostri principi moderni o della bontà delle sue
dottrine:; noi dobbiamo far invece astrazione da ciò, dob-
biamo trasferirci colla nostra fantasia nel tempo in cui visse,
in mezzo alla sua società, fra quei principi religiosi e civili^
sanciti da un rispetto e da una osservanza tradizionale di
qualche secolo. Se no, 1' aureola del grand' uomo ci abba-
glierà, la sua superiorità mentale ci si imporrà, e noi pro-
nunzieremo giudizi pienamente erronei. È questo un pre-
cetto per lo storico ornai abbastanza trito ;, eppure quanti
ancora lo pongono in non cale! Voglio qui, ad esempio,
citare Ernesto Curtius, 1' autore della più briosa storia
della Grecia che la filologia moderna possegga, il quale
parlando della giustificazione della condanna di Socrate,
dopo aver riferito il giuramento che la gioventù ateniese
doveva prestare, soggiunge : « Ora non serbò Socrate fede
e fede non comune a questo venerando giuramento in tutte
le sue parti ? Non vi si mostrò devoto fino al sacrificio di
se stesso ? Di fronte a Socrate quindi e accusatori e giudici
non avevano giustificazione di sorta. Egli pagò il fio di
colpe, delle quali non era reo, condannato da alcuni per
malvagità d'animo, da altri per accecamento e strettezza di
— 492 —
mente. Egli fu vittima di un fanatismo politico, che aspi-
rava a far rivivere 1' Atene dei tempi antichi, senza avere
un'idea chiara de' mezzi e del fine » (i). Che sia stato vit-
tima di un fanatismo politico, come la intende Ernesto Cur-
tius, non saprei veramente come spiegarmelo, essendoché la
sofistica aveva già nella coscienza del popolo ateniese semi-
nato il dubbio e lo scetticismo, lasciandovi dell' antica fede
soltanto la mera apparenza. Crederei invece che si possa
dire, che sia stato soltanto vittima di un fanatismo di parte,
che malgrado l'amnistia concessa ai colpevoH dopo la caduta
dei Trenta, cercava un qualche pretesto per isfogare l'odio
che nutriva contro coloro i quali manifestamente avevano
cospirato pel trionfo dell' abborrita aristocrazia. Ma, dopo
ciò che ho detto intorno alle teorie di Socrate, potrò io
ammettere che egli abbia pagato il fio di colpe delle quali
non era reo ? E di che mai altro fu giudicato colpevole ?
L'accusa portata da Meleto innanzi al tribunale dell' ar-
conte re, la primavera dell'anno 399 av. Cr., sul principio
del mese Targelione (che fu T ultimo dell' arcontato di La-
chete), come ce l' ha conservata Senofonte , era formulata
nei seguenti termini : 'AòikeT ZoiRpàrri? ove, niv f\ nóXiq vo-
}x\l€i Qeovq , où vo)liìZ:ujv , eiepa bè Kaivà òaijuóvia eicrcpépoiv '
àòiKCi òè Kal toìk; véovq òiacpGeipuuv. Come vedesi, due capi di
accusa si facevano a Socrate: 1" che egli non avesse degli Dei
quel concetto che la religione dei Greci imponeva, e nuove
divinità andasse introducendo ; 2° che egli corrompesse la
gioventù. Or bene , del primo capo di accuse , può dire
il Curtius che Socrate non fosse reo ? Credeva egli negli
Dei della città ? Non voglio negare che credesse negli Dei,
essendo un fatto incontestabile^ ma non erano essi quegli
(i) Fase. XI, p. 119, della versione italiana di G. Mììller e G.
Oliva.
- 493 —
Stessi Dei che la città venerava, poiché il loro concetto era
stato interamente mutato. E poi, se fosse stato veramente
manifesto, come dice Senofonte, che Socrate credeva negli
Dei della città, che li venerava ed a loro sacrificava al
pari di ogni ahro buon Ateniese, come mai avrebbe potuto
Meleto accusarlo ? Non sarebbe stata questa una men-
zogna infame che a Meleto avrebbe costata la vita ? — E
del secondo capo di accusa, quello cioè di corrompere la
gioventù, non si può dire, ugualmente colpevole Socrate ?
L'accusatore su questa parte dell'accusa di esso ha voluto
maggiormente diffondersi dividendola in cinque punti di-
stinti. Egli affermava che Socrate, i° induceva gli scolari
a disprezzare le leggi vigenti (ossia la costituzione dello
stato), come quegli che tacciava di pazzi i suoi concittadini,
che affidavano alla sorte T elezione dei supremi magistrati
della repubblica, essi che non avrebbero alla sorte lasciato
la scelta di un artefice per un loro bisogno (i); col quale
insegnamento egli rendeva intolleranti e violenti quei gio-
vani che alla sua scuola si recavano -, 2° che tali appunto
furono due scolari di lui, Alcibiade e Crizia, i quali reca-
rono, Tuno durante la prevalenza della democrazia, e l'altro
durante quella dell' oligarchia , il maggior male possibile
alla patria (2)-, 3° che insegnava a' suoi discepoli a maltrat-
tare i padri loro, perchè divenuti più sapienti di essi, come
egli persuadeva a fare, avrebbero potuto, secondo le leggi,
legarli (ossia loro comandare), quando li avessero convinti
dinanzi ai tribunali, d'imbecillità, essendo del tutto legale,
che r ignorante e lo sciocco venga legato, cioè diretto, dal
sapiente (3); 4° che Socrate parimenti insegnava a tener in
(i) V. Memorab., lib. I, cap. II, § 9.
(2) V. Memorab., lib. 1, cap. 11, § 12.
(3) V. Memorab., lib. 1, cap. II, § 49.
— 494 —
poco conto i congiunti, giacché, nel caso di una malattia
o di una citazione dinanzi ai tribunali, ad esempio, non
essi, ma i medici o gli avvocati avrebbero potuto prestare
qualche soccorso; e che pure a proposito degli amici di-
ceva, a nulla servire la benevolenza loro, quando non po-
tessero anche recare qualche utilità, ed essere degno di a-
more solamente colui che conosce ciò che a noi è necessario
ed è in grado di potercelo procacciare, al che aggiungeva
esser lui il più grande sapiente e il più capace di render
tali tutti gli altri, ed a far conoscere le cose suddette (i);
5° finalmente, che Socrate scegliendo qua e là nei più il-
lustri poeti i peggiori brani, se ne valeva per indurre i di-
scepoli suoi ad essere malvagi e tirannici -, poiché spiegava
il verso d'Esiodo :
"EpYov ò' oùòèv òvexboq, àepTiri òè t' òveiboq
nel senso che il poeta stesso avesse voluto esortare a non
astenersi da qualunque azione anche ingiusta, purché fosse
tornata di qualche utilità-, e dal passo di Omero che tocca
di Ulisse, da Senofonte a bello studio non riferito per in-
tiero nella sua apologia, come il Forchhammer opportuna-
mente ha notato , ricavava che il poeta consigliasse a per-
cuotere (cioè ad opprimere) il popolo (2).
Contro questi cinque punti del secondo capo di accusa, Se-
nofonte a tutto potere si studiò di difendere Socrate, mettendo
in campo quelle ragioni che in una causa tanto difficile
il suo ingegno gli sapeva additare. Ma che siavi riuscito,
non posso addirittura affermarlo. Molte volte a bella posta
sorvolò suir essenziale, fermandosi soltanto a sofisticare su
(i) V. Memoriib.. lib. I, cap. II, § ii-b2.
(2) V. ///.. II, V. 18S-206.
— 495 —
qualche parola deir accusa; molte volte non trattò la que-
stione che con grande superficialità; come ognuno può di
leggieri convincersi, ove legga con qualche attenzione il primo
dei Memorabili e lo confronti poscia con la bella operetta
del Forchhammer, già da noi più volte citata, dove Tau-
tore difende il popolo ateniese cotanto infamato per la con-
danna di Socrate. Checche ne dica Ruggiero Bonghi nel suo
Proemio alP Apologia di Platone, le accuse mosse da Meleto
a Socrate, sono pienamente conformi alla giustizia ed alla
verità. Senofonte istesso ci conferma che Socrate aborriva
l'elezione dei pubblici magistrati a sorte, perchè la sorte è
cieca e non fa distinzione alcuna tra il valente e il dap-
poco. Che se volessi fermarmi un momento su questa que-
stione, potrei domandare se tutte le magistrature ateniesi
erano affidate alla sorte. Quelle che per la pratica esige-
vano dal concorrente una debita conoscenza e attività, non
erano forse abbandonate alle disposizioni del popolo , e
poscia l'elezioni dei magistrati sottoposte alla docimasia ? (i).
Senofonte ci dice riguardo a Crizia ed Alcibiade che Socrate
fu ingiustamente creduto causa della loro malvagità, poiché
furono essi che vollero essere istruiti puramente sulla po-
litica, lasciando da parte la morale, come cosa di nes-
suna utilità per loro (2). Ma che potrebbe lo stesso Seno-
fonte addurre in sua discolpa, qualora noi volessimo ac-
cusarlo di tradimento per essersi recato presso il nemico
della patria sua, presso quel Ciro che, traditore egli pure,
mirava a privare del regno il proprio fratello Artaserse, suo
legittimo signore? La così detta calocagatia, insegnata da So-
crate, di grazia, in che mai consisteva ? Forse non nel pro-
(i) V. S>cHOEM\u^, Antichità greche, voi. II, p. n3 della versione
italiana di Rodolfo Pichler.
(2) V. Memorab., lib. I, cap. II, i^ 17.
— 496 —
prio utile ? Era questa una conseguenza logica del principio
del criterio individuale che dovevasi da ognuno , secondo
Socrate, porre a base di tutte le azioni, E perciò, vediamo
in qual modo consigliasse i propri scolari. Nel caso che
fossero diventati più sapienti dei loro genitori (specioso pre-
testo !) potevano strappare loro di mano V amministra-
zione domestica, e tenerli, quasi come servi, soggetti.
Volendo procurarsi qualche amico , dovevano cercarlo fra
quelli che avessero potuto essere di una qualche utilità (i).
Che anzi persino il culto della divinità riposava per Socrate
sulle teorie del proprio utile; noi veneriamo gli Dei, fac-
ciamo loro sacrifizi", non perchè vi abbiano qualche ti-
tolo, bensì perchè ci possono esser utili (2). Quindi non
dovrebbe far meraviglia neppure, se egli, volendo in ogni
modo spingere i suoi discepoli alla sovversione del go-
verno democratico, valevasi dei passi dei più illustri poeti,
come Esiodo ed Omero (3)-, questa non era che una con-
seguenza di quei principi politici che Socrate voleva legit-
timare con qualche autorità. Il popolo ateniese non poteva
possedere quelle giuste norme ch'egli richiedeva per rele-
zione dei magistrati supremi della repubblica ;, non po-
teva sottrarsi all' impero delle proprie passioni, e volubile
ed entusiasta qual era , non poteva sfuggire alle arti che
molti ambiziosi ponevano in opera per soddisfare alle loro
mire segrete. E perciò Socrate odiava il governo demo-
cratico, desiderava che l'oligarchia od anche qualche tu-
pavvo? (nel significato greco della parola) carpisse il potere,
perchè T amministrazione pubblica sarebbe venuta nelle
mani di chi avrebbe certamente posseduto maggiori cogni-
(i) V. Memorab., lib. II, cap. II, cap. V, cap. VI.
(2) Memorab., lib. I, cap. IV, § 18.
(3) V. FORCHHAMMER, Of. cit., p. 54 C SCgg.
- 497 —
zioni in siffatta materia che non un popolo aggirato dai de-
magoghi. Ciò è tanto vero che il suo discepolo Platone,
il quale era stato imbevuto di questi principi, sulla mede-
sima base voleva costrurre uno stato, che, sebbene per na-
tura fantastico, nondimeno era in aperta contraddizione collo
stato ateniese, perchè fondato su principi del tutto aristo-
cratici. Ma Platone era forse V unico dei discepoli di So-
crate che nutriva questi sentimenti ? Di Crizia non vo-
gliamo parlare, e nemmeno di Senofonte. Che diremo di
Teramene, il così detto coturno a due piedi? E di Caricle,
di Carmide ? Di Alcibiade dirò più tardi quello che penso.
Anch' essi, come Platone, furono scolari di Socrate ed oli-
garchici.
Ecco le ragioni ed i fatti, che si dovrebbero avere di-
nanzi agli occhi per giudicare se giusta od ingiusta sia stata
la condanna di Socrate. Sofisticare e sottilizzare sulle dot-
trine di lui colle nostre idee moderne , oppure attribuirgli
certe idee e vedute che furono il frutto dei tempi seguiti,
ponendo in non cale i fatti che ne furono la conseguenza
diretta, pare a me, che non possa veramente essere la giusta
via da tenersi in siffatta disamina. E venir oggi a dire che
Socrate intendeva un detto, un principio, come Tha poi in-
teso la riflessione de' suoi discepoli, e antichi e moderni,
senza citare fatti e testimonianze che ne possano essere una
qualche conferma, è cosa, mi si scusi il termine, assai pue-
rile. Chi potrebbe negare che la teoria delT utile non sia
stata da lui escogitata e promossa ? Non lo dice chiara-
mente in pili luoghi' Senofonte ? Nondimeno si odono an-
cora da un insigne personaggio, qual è Ruggiero Bonghi,
le parole seguenti: Un verso di Esiodo, il quale, par-
lando del lavoro dei campi , dice , che « nessun lavoro è
vergogna, e bensì è vergogna l'ozio », egli, dicono, l'inter-
pretava, come se il poeta avesse voluto dire, che non bi-
'^iijvista di filoloi;ia ecc., X. 33
— 498 —
sognava astenersi da nessuna azione, anche ingiusta e turpe,
anzi anche questa commetterla, se ci si guadagna. Ora , il
vero è, che Socrate cominciava col dimostrare, che non si
fa, se non quando si fa il bene , e non si ozia , se non
quando si ^i il male- e posto ciò, conchiudeva, che chi fa,
checché faccia, è buono \ dove chi fa il male, checché faccia,
è ozioso )) (i). Non si accorge egli, il Bonghi, che Seno-
fonte vuol farci fraintendere le cose ? Qui non si parla di
morale, ma di politica, e il verso dì Esiodo veniva da So-
crate spiegato nel senso che, pur si alterasse il governo po-
polare e si sostituisse un qualche altro governo più saggio,
ogni mezzo, qualunque si fosse, era pienamente giustificato.
Ad avvertirlo di ciò, a quanto pare, avrebbe dovuto ba-
stare, non dico la parola dello stesso accusatore , ma an-
cora la citazione dei versi di Omero, per i quali nessuna
altra spiegazione, fuorché politica, si potrebbe accettare! (2).
Ma intanto che siffatti principi", morali e politici si fissa-
vano e determinavano nella mente di Socrate, e quasi con-
temporaneamente venivano da lui propalati per le vie e per le
piazze, Aristofane andava spiando e scrutando in ogni verso
il filosofo. Lo stimolava non tanto il rincrescimento della
sconfitta alcuni anni indietro toccatagli, quanto la brama in-
tensa di abbattere in Socrate, come già prima aveva tentato,
la nemica acerrima della aristocrazia , vale a dire la sofi-
stica. Ed egli non tardò molto ad accorgersi nella sua per-
spicacia , che Socrate poco a poco andavasi discostando
dagli altri sofisti , che nuove dottrine da quei principi ve-
niva deducendo, le quali manifestamente si contrappone-
vano alle credenze religiose del popolo, ed all'antica educa-
zione, più ancora che non le stesse teorie sofistiche. Allora
(1) V. Proemio alV Apologia tradotta da Ruggiero Bonghi, p. 1S2
(2) V. FORCHAMMER, Op. C?7. ,p. Sj.
— 499 -
probabilmente si pose per la seconda volta all'opera, e ri-
fece la sua commedia delle Nubi, procurando di adattarla
alle nuove esigenze. Noi abbiamo di già veduto quali ac-
cuse si potevano muovere a Socrate dopo la riforma da lui
introdotta nelle sue dottrine;, vediamo ora, come siasi com-
portato Aristofane dal canto suo. — L'argomento delle se-
conde Nubi, quali ci sono pervenute, è il seguente: « Stre-
psiades, senex rusticus, sed per bellum nunc in urbem
pertractus, quum aere alieno uxoris ac filli prodigis moribus
conflato liberar! cupiat, Phidippidem filium hortatur ut a So-
crate addiscat novas disputandi et dicendi artes, quibus ut in-
iuria verti soleat iniustum ita debita quoque devolvendi spes
sit. Quod quum nequeat filio persuadere senex semetipsum in
Socratis disciplinam traditurus adit eius domum, -confirma-
turque in proposito omnibus iis rebus quos ante fores ac
statim ab introitu audit ex aliquo discipulo. Quibus in
summam expectationem adductus postremo ipsum magistrum
conspicit ab coque edocetur vulgarium deorum nuUam apud
ipsos esse auctoritatem, sed prò diis coli nubes *, quae post-
quam Strepsiades, ut earum adspectu dignus fiat , sordidis
quibusdam caeremoniis initiatus est, a Socrate invocantur
(TTpóXoToq, V. 1-274). Invocatae audiuntur primum (TTópoòo?,
275-3 1 3), paulatim etiam cernuntur mulierum habitu in-
dutae, et eas esse deas adeo probatur Strepsiadi ut ab iis
se voti compotem fore iam prò certo habeat omniaque quae
postulentur earum gratia in se recipere paratus sit. Ita
postquam de eius voluntate res est comperta et deinde mens
quoque paululum explorata , ad erudiendum introducitur
Strepsiades ('Erreiaóbiov TtpujTOV, 3i4-5oq). Vacuefacta scena
canitur fi TTapdpaai<s {ò 10-626). Interea Strepsiadem suas
artes docere conatus Socrates parum profecit ^ et quum nec
ea quae nunc cum eo molitur melius procedant , postremo
abiecta spe negat se eum amplius edocturum. De rebus
— 500 —
suis desperanti Strcpsiadi Chorus suadet ut prò ipso filium
mittat ('Eireiaóbiov òeuiepov , 627-800) , Socratem autem
monet ut oblata opportunitate gnaviter utatur (804-813).
Minis precibusque patris tandem victus Philippides, quamvis
invitus, a se impetrat , ut Socratis disciplinae se tradi pa-
tiatur ('ETTeicTóòiov Tpixov, 814-888). Nullo interposito cantico
iustus et iniustus orator ineunt inter se certamen, uter sit
potior magisque dignus qui adolescentem accipiat eru-
diendum. Abducit eum qui victor evasit iniustus ('ETreia-
óòiov xéiapTov, 889-1104) et Socrates (i 105-1014). Post
breve tempus (quod expletur epirrhemate (iio5-ii3o) re-
versus Strepsiades recepto Alio penitus erudito exsultat suos-
que creditores male habet ('ETreicróòiov tcilitttov, 1 i3i-i3o2).
Sed cele»iter subsequitur paena, quam pracdixerat Chorus
(i3o3-i32o). E domo enim proripit se Strepsiades, se mul-
catum conquerens a filio , qui rem non modo fatetur sed
recte factam esse pollicetur se demonstraturum. Quo pro-
bato quum matrem quoque iure mulctari a filiis docere
paret Phidippides, iam pater perspicit quid sit re vera haec
nova sapientia et quo perducat , eiusque auctores incensa
domo expellit » ("EHoòo^, 1 32i-i5io) (1).
Esaminiamo ora diligentemente la commedia del nostro
comico e specialmente quelle scene che toccano più da vi-
cino le dottrine di Socrate. Strepsiade bussa alla porta della
scuola di Socrate, ma in modo così villano, da far cadere
ad uno scolaro un concetto che aveva trovato. Questi si
adira e ne dice il perchè. Allora Strepsiade preso da cu-
riosità, vuole conoscere questo concetto. Lo scolaro s'ar-
(i) V. Teuffel, lììtrod. alle Nubi, p. 14. Ho creduto bene di togliere
dal Teuffel questo argomento delle Nubi, perchè nel tempo stesso
che è breve e preciso, offre anche una chiara idea di tutto l'anda-
mento della commedia.
— 501 —
rende al desiderio di lui, ma prima Tammonisce che deve
tenere ciò che nella scuola s' insegna e si specola in conto
di misteri (v. 143), i quali non si possono svelare se non
agli iniziati. Strepsiade ascolta avidamente la rivelazione di
alcuni ritrovati di Socrate, e, viemmaggiormente confermato
nel suo proposito , dimanda di essere in quei misteri ini-
ziato ^ cosa che Socrate volentieri gli concede. Del tutto
secondo i riti prescritti per gli altri misteri, Socrate gli
chiede, se desideri veramente di conoscere le cose divine
(là Geia, v. 25o-25i) e di venire a colloquio colle Nubi ,
sue òai|iiove(;, così chiamate da Aristofane in allusione al
òaìinuuv di Socrate. Avutane risposta affermativa , com' era
da credere, Socrate lo fa sedere sul sacro letticiuolo, da
lui destinato a servire per T iniziazione dei nuovi disce-
poli (v. 254) e poscia gli presenta una corona e gli or-
dina di mettersela in testa (v. 2 56), perchè, come Socrate
stesso soggiunge (v. 2 58), così debbono fare tutti quelli che
vengono da lui iniziati. — Da queste due scene del prologo
cominciamo a vedere , che Aristofane vuol rappresentare
Socrate come ierofante di nuovi misteri, da lui introdotti, a
somiglianza dei misteri di AriiLiriTrip e TTepO'eopóvri; e che le di-
vinità di Socrate , in onore delle quali questi misteri ven-
gono celebrati, sono le Nubi, NecpéXai. — Chi siano, ce lo
dicono esse stesse più tardi : sono quelle divinità che con-
cedono ai mortali i maggiori beni (v. 8o5), cioè abilità nel
parlare, intelletto, ciarlataneria, loquacità, arte d'ingannare
altrui, fare stupire gli uditori e cattivarsi i loro animi (i).
E perciò son esse le Dee alimentatrici di molti sofisti, degli
indovini di Turi, dei moderni cerretani, di quelli che por-
(i) Vedi V. 3i7-3i8 e l'interpretazione dello Scoliaste a pag. 6;
delle Nubi del Teuffel.
- r:02 -
tano le dita cariche d'anella, dei noiosi cantori di canti ci-
clici e di cori, e di quelli ancora che ragionando delle cose
celesti e divine, si beffano degli altri; ossia Dee che pascono
oziosi, i quali le lodano nei loro versi (v. 33 1-334), ^ ^^^
essi viene pure annoverato Socrate, vecchio annoso che va
a caccia di discorsi cari alle Muse , sacerdote di sottilis-
sime baie, che tutti gli altri sorpassa in questo mestiere,
e a cui le Dee si manifestano e prestano volentieri l'orec-
chio, poich' egli va superbamente per le vie, lanciando lo
sguardo qua e là, senza calzari, molti mali sopporta, e
da esse pigliando T esempio (v. 358-363) compone a gra-
vità il suo volto. — Non par egli , che dipingendo So-
crate in questo modo, Aristofane voglia far ancora allusione
agli insegnamenti dei sofisti, fra i quali seguita a com-
prendere anche Socrate ? Una maggiore conferma di ciò noi
Tabbiamo nella scena, in cui Socrate si sforza ad inse-
gnare certe inezie al rozzo Strepsiade, come i ritmi, le mi-
sure dei versi, e il genere dei nomi (forse qui e' è un' al-
lusione agli insegnamenti di Prodico), e, per ultimo, il
modo di vincere le liti. La spiegazione di questo fatto , a
mio credere , non può esser altra se non la seguente :
questa scena doveva appartenere di già alle prime Nubi ,
da cui Aristofane credette bene di toglierla , aspettando a
correggerla quando avesse interamente abbozzata la sua com-
media. E vedremo più sotto quanto essa stuoni colle rima-
nenti, dove Socrate viene ritratto con maggiore verità, cioè
come filosofo che corrompe la gioventù, impartendole una
educazione contraria alle leggi. — Strepsiade, costretto ad
abbandonare, perchè troppo ottuso, la scuola di Socrate,
corre difilato a casa, e dopo molti sforzi finalmente riesce
a persuadere suo figlio Fidippide a recarvisi in vece sua ,
come il coro l'aveva consigliato. Allora innanzi a Fidippide
s' impegna una viva lotta fra il Xófo^ òiKaioq e il Xófoq
— 503 -
àòiKO<;, rappresentanti Tuno Tantica e l'altro la nuova edu-
cazione-, vince r cibiKo^, e Fidippide si consegna nelle mani
di Socrate per essere educato conforme ai nuovi principi
ed i nuovi metodi. Qui mi viene in acconcio di fare notare
che Socrate non figura come un abile precettore che sia di-
sposto indifferentemente ad impartire tanto l'antica quanto
la nuova educazione , ma come il rappresentante esclu-
sivo dell'ultima, alla quale tutto si è dedicato-, che altri-
menti, r effetto, che Aristofane si studiava di raggiungere,
non l'avrebbe punto ottenuto, essendo in tal caso da im-
putarsi i fatali risultamenti della nuova educazione a chi
voleva frequentare la scuola di Socrate. Tale, per con-
trario , ossia rappresentante e dell' una e dell' altra educa-
zione, sebbene alquanto più propenso per l'antica, dobbiamo
dire che sia il coro delle Nubi, dal quale dipendono en-
trambi i logoi. Egli vede il trionfo del \óto<; àòiKOt^, e fin
d'allora predice malanni allo sciagurato Strepsiade (v. 1 1 13).
Quando compaiono in scena i due creditori Pasia ed Aminia,
e Strepsiade duramente li scaccia, il coro ai giusti rimpro-
veri che gli muove , aggiunge ancora nuovi pronostici di
future disgrazie. Di più , veniamo agli effetti dell' insegna-
mento socratico. Entra in scena Strepsiade tutto in lamenti
per le percosse ricevute dal figlio in seguito a un diverbio
che era nato fra di loro da un diverso modo di pensare sugli
antichi poeti, e le Nubi nobilmente gli rispondono: incol-
pane te stesso che ti sei volto a malvagio operare (v. 1454 e
1455) i poiché noi vogliamo precipitare nelle disgrazie tutti
quelli che vediamo amanti del mal operare, affinchè im-
parino a temere gli Dei (v. 1458-1461). In questo modo, a
parer mio, si viene a toglier di mezzo la contraddizione
apparente che esiste fra la negazione assoluta di ogni divi-
nità, fuorché delle Nubi, per parte di Socrate, e la credenza
in Giove e in tutti gli altri antichi Dei per parte del coro:
— 504 —
esso, e voglio ripeterlo, rappresenta sì T antica come
la nuova educazione; Socrate invece è un ministro delle
Nubi bensì , ma solo per diffondere i nuovi principi e le
nuove idee , che noi vediamo comicamente esposti da Fi-
dippide nella penultima scena. — I vecchi sono due volte
fanciulli, egli risponde a suo padre: or bene, se tu hai ba-
stonato me quand' era fanciullo, ragion vuole che bastoni
ora io te e ti faccia piangere tanto più, quanto meno è
giusto che i giovani cadano in errore (v. 141 5-14 19). Le
leggi deir antica educazione per lui hanno cessato di esi-
stere ; furono uomini quelli che le fecero, e perciò può egli
pure , siccome uomo al pari di loro , farsene altre a suo
talento (v. 142 1-1424). E poi non deve egli tener conto
delle battiture ricevute quand'era fanciullo ? deve senz'altro
condonarle ? Gli dice il padre , che potrà poi rifarsene sui
propri figli -, ma egli risponde : e qualora non ne avessi,
dovrò avere inutilmente pianto? (v. 1436-37). E perchè
non abbia a dolersi di essere stato lui solo bastonato , gli
promette di bastonare anche la madre. — Tali dovevano
essere i risultati d'alcuni principi socratici, quando veni-
vano presi alla lettera. E forse di questi fatti Aristofane
ne avrà avuto alcuni sotto gli occhi , se ce ne ha dato un
esempio nell'ultima parte della sua commedia, che è la più
stupenda.
Riassumiamo ora brevemente quali accuse muove Aristo-
fane a Socrate nelle seconde Nubi. Due son esse , come
quelle di Meleto, ma non tutte e due come quella com-
plete: r una , risguardante la religione patria, e l'altra la
educazione antica, considerata però soltanto dal lato morale:
Socrate nega le antiche divinità, e altre nuove ne introduce:
Socrate corrompe i giovani instillando loro principi fatali,
come quello di poter battere i genitori, ove di questi essi siano
- 505 -
diventati più sapienti (i). Orbene, come va clie Aristofane
non fa nessuna menzione dei principi" politici di Socrate che
pure erano avversi alla costituzione d^Atene ? Ne ha forse
Aristofane a bello studio taciuto ? E allora perchè non va-
lersene e quindi condurre a termine il rifacimento della sua
commedia ? Chi mi ha seguito fino a questo punto non avrà
nessuna difficoltà a dare un'adeguata risposta. Ma il Teuffel
crede bene spiegare nel seguente modo il fatto del rifaci-
mento incompleto delle Nubi d'Aristofane: « ut rectc
videtur coniecisse Sch. ad v. 691, Aristophanem per ali-
quantum temporis spatium suum agitasse consilium fabulae
in scenam reducendae ideoque ad intermissum aliquandiu
opus retractationis alio tempore esse reversum, ita eodem
iure coUigas poetam illud consilium postremo abieciisse ,
quippe qui non fuisset passurus ut in eadem fabula tam
diversorum temporum vestigia remanerent, partim cum no-
tatione iam non amplius congrua, utve in eadem Gleo et
vivus et mortuus esse narraretur, in eademque et impugna-
retur Hyperbolus et de assiduis eius impugnationibus ri-
deretur. Abiecisse autem videtur istud consilium restincto
per interlapsum tempus paulatim operis studio et amore ,
cum modo composita inseguentibus rebus statim antiqua -
rentur, ut Cleonis morte epirrhema de aliis poetae dubitatio
oriretur num starent cum ventate , ut de ìis maxime cre-
dibile est quae finxerat de Socrate (2). — Che nelle seconde
(i) Al V. 1400, dove Fidippide esclama in tuono di compiacenza:
« Come è dolce aver dimestichezza con nuove cose ed astute, e poter
fare nessun conto delle leggi esistenti ! Ma non havvi nessuna allusione
a idee politiche imparate da Socrate, per le quali si permettesse di
disprezzare la costituzione dello stato, ma sì bene ai nuovi principi
morali, con cui egli poteva calpestare quelle leggi naturali sanzionate
dal comune ateniese, che imponeva al figlio il rispetto del padre ».
(2) Teuffel, Introduzione alle Nubi, p. lo-ii.
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Nubi realmente esistano siffatte incongruenze e contraddi-
zioni non si può contestare -, ma che appunto per V esi-
stenza di queste incongruenze e contraddizioni , Aristofane
debba avere smesso il pensiero di compire l'opera sua, ci
pare assolutamente inammessibile. Non avrebbe egli potuto
facilmente superare, quando T avesse voluto, tutte queste
difficoltà, come ha pur fatto per la commedia del Pluto ?
Mi risponde il Teuffel, che gli è venuto meno il buon vo-
lere, senza avvedersi che in tal caso fa un gran torto ad
Aristofane. Socrate continuava intrepido nella sua via, per-
fezionava e propalava fra il popolo, con sempre maggiore
alacrità, le sue dottrine, nuovi e gravi danni ogni di più an-
dava recando alle antiche idee religiose e politiche; ed Ari-
stofane, il campione dell'educazione antica, come il Teuffel
lo reputa con molti altri, spaventato da così leggiere diffi-
coltà, se ne stava spettatore inerte dei progetti di questo in-
novatore ! Io invece vorrei a ben altre ragioni attribuire
questa inerzia d'Aristofane, ragioni né inerenti né relative
all'intreccio dell' azione, ma totalmente estrinseche alla sua
commedia. Ma prima di addurle è necessario dare un ra-
pido sguardo agli ultimi anni della guerra peloponnesiaca,
dove troveremo fatti che manifestamente le comprovano.
3) Socrate ed Aristofane nella loro vita pubblica.
Corre\a Tanno 418 av. Cr. {01. 91, 3). Per i disastri
toccati in Sicilia, Atene trovavasi ridotta agli estremi. Non
possedeva più armate; eran vuoti gli arsenali, e l'erario com-
pletamente esausto; le città della confederazione ionica, sia
per i danni sofferti in quella malaugurata spedizione, sia
per la brama di scuotere una buona volta il giogo pesante
che le opprimeva , rialzavano il capo baldanzose più che
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mai. Il nemico, per consiglio di Alcibiade, aveva occupato
Decelea, situata a tre miglia da Atene sul monte Parnete-, e
così, non solamente le era stata tolta ogni comunicazione per
terra coll'Eubea, ma ancora correva rischio di perdere quel-
l'isola, che forniva alla città la maggior parte de' suoi ap-
provvigionamenti. Un terzo del territorio dell'Attica non
era più nelle sue mani, ed il rimanente era divenuto incolti-
vabile per le continue scorrerie dei nemici che si avanzavano
fin sotto le mura della città, mentre essa era piena di una
popolazione rustica, la quale era stata costretta ad abbando-
nare le campagne per sottrarsi alle spade nemiche, inetta
alle armi, costernata e lamentevole, soltanto capace di in-
ceppare maggiormente qualunque deliberazione si fosse
presa. — Non si volevano più udire gli oratori popolari •,
i personaggi eminenti che godevano di qualche autorità si
erano dileguati; con ansia febbrile si andava in cerca di
chi avesse voluto porsi, in mezzo a tali frangenti, al timone
sconquassato della repubblica. Solamente gli oligarchici pro-
vavano fra tanti mali un certo qual interno sentimento di
compiacenza e di soddisfazione; or finalmente era giunto quel
momento decisivo da tanto tempo sospirato, di riprendere
sulla democrazia la loro rivincita. Avevano essi accortamente
seguito gli andamenti della guerra; ogni mezzo per man-
dare a vuoto qualsiasi provvida deliberazione avevano, senza
scrupoli, posto in opera. Di Alcibiade, che solo avrebbe
potuto sorreggere e condurre a buon termine quell'impresa
arrischiata, colla scusa del mozzamento delle Erme, ave-
vano fatto senz' altro un nemico della propria patria ; di
più, per tutta quanta la confederazione, d'accordo colla ri-
vale Sparta e colle fazioni aristocratiche delle città ioniche,
essi avevano ordito una trama scellerata che aveva per
iscopo di demolire la base su cui posava la potenza di
Atene. E in conseguenza di tali maneggi la caduta d'Atene
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-era divenuta ora certa più che mai-, il loro intento stava per
essere infallantemente raggiunto. Ma pur sempre Atene,
anche in questi estremi momenti, non era tale da pigliarsi
a giuoco con tanta facilità. E perciò gli oligarchici astuta-
mente cominciarono ad unirsi col partito moderato che
osteggiava anch'esso gli ordinamenti liberi. Fecero inten-
dere al popolo che la cagione di tutti i patiti rovesci era la
grande leggerezza, con la quale si era presa ogni delibera-
zione neir assemblea*, non esservi guarentigie di buon suc-
cesso nel consiglio dei cinquecento, così com'era costituito^
esservi bisogno urgentissimo di qualche riforma per impedire
che certe proposte potessero pervenire alla deliberazione del-
Tassemblea, senza prima essere state accuratamente esami-
nate (i). E la cittadinanza, da tanti mali oppressa e resa
docile e pieghevole, facilmente si persuase ; per universale
consenso venne subito istituito un magistrato che, a somi-
glianza dell' Areopago, esercitasse una specie di sindacato
sulle proposte che si dovessero presentare all'assemblea po-
polare. Così venne creato un nuovo magistrato che fu quello
dei Probuli, dieci di numero, forse eletti dalle dieci tribù.
Per tal modo venne ristabilito l'ordine, e l'infelice Atene
cominciò nuovamente a respirare-, guidata dal partito mo-
derato riprese animo, si dispose volenterosa ad ogni sacri-
fizio ed improvvisò un'altra armata, con la quale, mercè
la irresolutezza di Agide, le discordie dei partiti di Sparta,
l'interesse personale dei Corinzi e la baldanza generale dei
Peloponnesi, abbatteva la flotta nemica che dal golfo Saro-
nico salpava per la Ionia, come se Atene gicà non fosse più
esistita.
Ma a trattenere ed arrestare Atene a mezzo della sua
(i) V. Ernesto Curtius, Op. e//., fase. X, p. (144 della traduzione
italiana di Giuseppe Muli.er e Gaetano Oliva.
— 509 -
precipitosa ruina ogni sforzo era ornai iniuilc; si oppone-
vano gli oligarchi ; mancavano gli uomini capaci a resi-
stere alla ostile e prepotente attività di Alcibiade, che non
sazio ancora di aver ferita nel cuore la sua patria, la vo-
leva ad ogni costo, nella sete di vendetta, prostrata ai suoi
piedi. Vedendo egli l'inazione di Sparta, cagionata in mas-
sima dalla recente sconfitta, con sole cinque navi parte
alla volta della Ionia-, approda a Chio e la fa insorgere;,
ed Eritre e Clazomene seguono V esempio. Vi accorrono
gli Ateniesi con una nuova armata (poiché l'altra bloccava
quella dei Corinzi) allestita mediante i mille talenti che
erano stati posti in serbo da Pericle-, ma non riescono a
rallentare i progressi di Alcibiade. Egli continuando nella
sua impresa, naviga verso Mileto-, gli Ateniesi si fermano
a Lade, e i Milesi da lui guadagnati si ribellano. Sparta
desiderava, per proseguire la guerra, di valersi dell'oro della
Persia -, ed egli senza nessuno scrupolo, la collega con ver-
gognoso trattato alla Persia. Quindi altre nuove città fa
insorgere, come Lesbo, Mitilene e persino la fida Metinna.
Si accosta anche a Samo-, ma il popolo aiutato da tre sole
navi ateniesi sterminò gli oligarchi, ch'erano i fautori del
moto. Sembrava che l'aura volesse nuovamente spirare fa-
vorevole agli Ateniesi. Partendo da Samo, come da un si-
curo punto d'appoggio, riacquistarono Mitilene e Clazomene
e punirono severamente Chio. Sul finire dell'estate (412
av. Cr.) sopraggiungeva Frinico con una nuova armata nelle
acque della Ionia, e venuto a battaglia coi Milesi, Pelo-
ponneso e Persiani, aveva la fortuna cosi favorevole, che
già, coi vantaggi ottenuti si accingeva ad assediare la stessa
Mileto. Ma, sventuratamente per Atene, pervengono ad Al-
cibiade inaspettati aiuti. Era Ermocrale , il quale spinto
dal suo odio contro Atene , per continuare la guerra nel
mar Egeo, entrava con una liotta peloponnesiaca nel golfo
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di laso. Alcibiade accorre colà, e con essa si reca in tutta
fretta a Mileto che di gic\ pericolava. Gli Ateniesi allora si
ritirarono e la vittoria riportata rimase senza importanti ef-
fetti.
Ma la fortuna voleva ancora ad ogni costo illudere per
qualche tempo le speranze di Atene. La posizione di
Alcibiade nel campo nemico si era andata poco a poco
mutando. All' odio personale di Agide si era aggiunta
la gelosia pubblica di Sparta , a cui sapeva male di esser
debitrice ad uno straniero di tutti questi grandissimi suc-
cessi. Quindi i suoi nemici ottennero facilmente da Sparta
che si mandasse l'ordine segreto ad Astioco, il coman-
dante della fiotta dei Confederati, di togliere di mezzo in
qualche modo Alcibiade. Ma egli ne ebbe avviso dalla moglie
stessa di Agide; abbandonò subito il campo dei Peloponnest,
e si rifugiò presso Tissaferne, tutto pieno di veleno contro
Sparta per tanta ingratitudine. E per vendicarsi tanto quanto
eran grandi i servigi prestati, pensò di distaccarla senza altro
dall'alleanza colla Persia, e sostituirle la sua stessa patria.
Grandissima era certamente la difficoltà-, ben egli sapeva
che Tissaferne non avrebbe giammai acconsentito ad una
alleanza con Atene, finché fosse durata nel governo la pre-
valenza della democrazia. Ma il genio di Alcibiade era tale
da sormontare ogni ostacolo-, egli si volse a far introdurre un
rimutamento nella costituzione della sua patria. Il terreno era
preparato-, in Atene, da una parte si era sfiniti da una già così
lunga guerra e che non sembrava ancora vicina al suo ter-
mine, si bramava la pace, qualunque essa fosse, per avere
un sollievo da tanti mali; dall'altra si era certi omai, che per
venire ad un accordo colla rivale, dovevasi necessariamente'
abolire il governo democratico. E queste voci che venivano
sparse fra il popolo a bello studio dagli oligarchi, ricevet-
tero un valido impulso da Alcibiade. Egli si pose in rcla-
- 511 —
zione con gli oligarchi dell' armata di Samo e promise la
alleanza della Persia, qualora venisse loro fatto di riuscire ad
una riforma che fosse andata a versi al gran re. Gli oligarchi,
com''era da prevedersi, si entusiasmarono di quel disegno e
malgrado Topposizione di Frinico furono continuati i segreti
accordi con Alcibiade* quasi certi, che anche la gran folla
se ne sarebbe persuasa, come di già la flotta, a cui avevano
fatto balenare la speranza di un aumento di soldo, inviarono
in Atene Pisandro colle debite istruzioni. — Ora, a rag-
giungere questo scopo anche Aristofane, siccome di principi
oligarchici, doveva concorrervi colTopera sua-, doveva cioè
rappresentare una commedia, dove si confermasse maggior-
mente l'idea della necessità di modificare la costituzione ,
per venire ad una pace -, e questa commedia fu la Lisi-
strata. Così T ardente patriota, come s' ostinano molti a
chiamarlo ancora oggidì, patrocinava la costituzione politica
di Atene ! — Rassicurati i più devoti alla libertà, e gua-
dagnati alla causa anche quegli oligarchi che avversavano
Alcibiade, sia in causa di motivi personali, sia per diffi-
denza verso quell'uomo, che avevano già fatto bandire dalla
patria, si mandarono messi a Magnesia per le trattative
colla Persia. Se non che Alcibiade aveva promesso più di
quello che era in suo potere di mantenere , e Tissaferne
non era tale da lasciarsi tanto facilmente abbindolare da
lui, sebbene lo tenesse per suo confidente. Il satrapa vo-
leva ruminazione completa di Atene , e gli inviati che ave-
vano ottenuto dal popolo i più gravi sacrifici, inducendolo
persino a rinunciare a tutta la Ionia ed a tutte le ìsole adia-
centi, non avevano facoltà di soddisfare alle esorbitanti pre-
tese di lui. Ritornarono adunque in Atene a mani vuote.
Tuttavia ciò non fu di ostacolo agli oligarchi, i quali vo-
levano ad ogni costo una riforma della costituzione:, la quale
se prima veniva fatta sentire come un mezzo necessario per
— 512 -
Ottenere la vittoria e la pace, ora diventò Tunico scopo , a
cui essi miravano a viso scoperto. L'esito infelice dell'am-
basceria spedita a Magnesia fu tenuto celato a bello studio-,
si lasciava credere al popolo che le trattative si fossero
conchiuse secondo le sue speranze, acciocché più facilmente
s'inducesse a favorire le loro mire. Molte ragioni furono
messe in campo; alcune derivate dai difetti intrinseci della
costituzione medesima, ma la maggior parte consistenti vera-
mente in vie di fatto, mediante le quali si toglievano d'in-
nanzi senz' altro tutti quelli che avessero potuto suscitare
contro gli oligarchi una qualche opposizione. E la folla
in parte persuasa, in parte atterrita lasciava fare; i Pro-
buli, o erano della combriccola , oppure inetti ad oppor-
visi. — E intanto Aristofane rappresentava le Tesmoforia-
:{use! Invece di scuotere il popolo da quel mortifero letargo,
egli sollazzavasi dolcemente a far la satira del dramma
euripideo e delle donne ateniesi ! — Pisandro propose,
che si eleggesse una commissione di venti consiglieri oltre
i Probuli, con poteri illimitati, ai quali si dovesse affi-
dare r incarico di eseguire le convenienti riforme. Ma vi
si opponeva una legge che concedeva il diritto d'intentare
un'accusa pubblica contro chiunque avesse voluto introdur
modificazioni nella costituzione dello stato , e questa legge
con un decreto venne allora subito abrogata. Poscia si
convocò il popolo fuori d' Atene, sul Colono, perchè la
Pnice offriva uno spazio troppo ampio ; e i punti principali
delle riforme credute necessarie ed esposte a quell'adunanza
di cittadini, che per la maggior parte eran favorevoli agli
oligarchi , furono i seguenti : cessata ogni indennità pub-
blica, tranne quella richiesta pel servizio del campo; si for-
masse un consiglio di quattrocento membri elettivi , con
pieni poteri di governar la repubblica; si sostituisse all'as-
semblea generale un corpo di 5ooo cittadini da convocarsi
— 513 —
a piacere del consiglio dei quattrocento , e fossero tutte le
cariche indistintamente gratuite. E il popolo, così com' era
sul Colono rappresentato, le approvò!... Allora, dopo sif-
fatte deliberazioni, le persone poco gradite furono allonta-
nate dagli uffici oppure tolte di mezzo, e l'oligarchia sfac-
ciata e impudente si pose a sgovernare a suo talento.
Ma nondimeno i quattrocento erano in gravi apprensioni,
per timore che Tarmata di Samo non riconoscesse le sud-
dette riforme. Siccome essa rappresentava il nerbo della po-
polazione ateniese, che si doveva fare nel caso che si fosse
dimostrata contraria alle misure prese in favor delToligarchia?
E queste apprensioni maggiormente s'accrebbero allorquando
s'intese in Atene che a Samo la congiura ordita da Pisandro
era stata sventata e repressa. Balenò allora alla mente degli
oligarchi, qual più efficace espediente in siffatti frangenti,
impedire ogni comunicazione all' armata di Samo dei mu-
tamenti introdotti nella costituzione, fintantoché anch'essa
non fosse stata persuasa di tale necessità. Perciò i marinai
della Paralos che aveva recato quella novella in Atene,
furono subito in parte carcerati e in parte collocati su
altre navi. Ma Cherea, che ne era il comandante, riuscì a
fuggire: andò in tutta fretta a Samo e, forse con qualche
esagerazione, espose alla flotta la situazione di Atene. L' im-
pressione che fece la relazione di Cherea, fu oltre modo
grave. L'armata giurò subito di tenersi salda alle antiche
libertà, e con ardita ma generosa deliberazione, erigendosi
a corpo deliberante, costituì se stessa come il vero rappre-
sentante di Atene. I generali, per sospetto che aderissero
ai mutamenti introdotti dagli oligarchi, vennero subito mu-
tati, e scelti in loro luogo Trasibulo e Trasiilo, la cui fede
alla costituzione antica era a tutti manifesta. Ma con questo
passo, un nuovo nemico veniva ad aggiungersi al vec-
chio ; le difficoltà, già enormi, ancora aumentavano. E fu
T{ivist.i di filologia ecc., X. 34
- 5U -
allora che Trasibulo riconoscendosi inabile a sormon-
tarle, propose all'armata di richiamare Alcibiade, come
quegli che solo poteva ancor essere la salvezza di Atene ,
perchè il ritorno di tanto personaggio, mentre da una
parte a\Tebbe gettato lo spavento e la discordia fra gli oli-
garchi, dair altra avrebbe pur ricondotta la vittoria alle
armi ateniesi. Il sentimento comune, è vero , gli era con-
trario: ma le ragioni addotte da Trasibulo e forse molto più
gr imminenti pericoli prestamente prevalsero, e il richiamo
di Alcibiade fu acconsentito e determinato. L'effetto che si
aspettava da siffatta deliberazione realmente fu ottenuto: si
rialzarono gli animi, gli Spartani perdettero ogni criterio
direttivo rispetto a Tissaferne, e gli oligarchi gravemente si
impensierirono.
Frattanto in Atene quella condizione di cose non poteva
a lungo durare. Già i quattrocento per natura erano fra
loro discordi, perchè parecchi erano stati scelti senza essere
aflatto a pane di quella congiura. E allorquando s'intese
che l'armata erasi posta a difesa della costituzione antica,
e che n' era alla testa Alcibiade, si generò subito nel seno
stesso di quel consiglio una controrivoluzione in favore della
democrazia; la cittadinanza irritata contro gli oligarchi, che
non paghi di aver dato nelle mani del nemico TEubea, vo-
levano ancora tradire la stessa loro patria, spontaneamente
r appoggiò-, e quindi nell'anno 411 si aboliva il consiglio
dei quattrocento, e si restituiva al popolo la sua sovranità.
Ma che veramente la costituzione antica sia stata richia-
mata in vigore nella sua piena integrità, non si può affer-
mare. Si tentò invece di contemperare, come era possi-
bile, i principi aristocratici ed i principi democratici in una
nuova specie di governo ; poiché fu bensì ricostituito il Se-
nato dei cinquecento di Clistene, eletti dalia sorte, ma la
assemblea generale doveva venir sostituita da' cinquemila
— 515 —
cittadini, disegnati fra i più facoltosi, com'era già stato sta-
bilito sotto i quattrocento. Dopo di ciò, per cattivarsi la
flotta, Crizia proponeva il richiamo ufficiale di Alcibiade.
— Così veniva provvisoriamente stipulata una specie di
compromesso per toglier Toccasione a più gravi dissidi, per
ricondurre la pace interna e riamicare la flotta alla patria di
cui era il necessario ed unico sostegno ! Ma era questo un
compromesso che imponeva ali" oligarchia sol un debole
freno, giacché, continuando ad essere le cariche gratuite,
restavano esse esclusivamente nelle mani dei facoltosi, i
quali soli, com'era richiesto, potevano provvedersi di una
completa armatura. Però, se non altro , in qualche modo
se ne frenavano gli arbitrii , che nello spazio di quattro
mesi non avevano avuto limiti. Ed il popolo ridotto alle
strette dal più profondo bisogno, qual era quello dell' ali-
mento, di cui ogni via gli era stata preclusa colla perdita
della Ionia e dell" Eubea, facilmente si accontentò! — Ed
Aristofane taceva !
Alcibiade frattanto venne rivestito di poteri illiinitati; dì
lui si era concepita la speranza che avrebbe salvata la pa-
tria, ed egli ben tosto fece conoscere a' suoi concittadini che
non aveva punto in animo di venir meno all'aspettazione.
Incrociava con una flotta di ventidue navi nelle acque della
Caria , riduceva all'obbedienza le città ribelli della costa,
dalle quali riscuoteva somme enormi, di molto superiori
all' importo dei tributi, e poscia fortificava l' isola di Coo.
Indi, quando ebbe esercitate in rapide corse le sue triremi,
muoveva a settentrione dov'erasi oramai trasportato il teatro
della guerra e donde l'Attica poteva ancora trar copia di
frumento. Egli giungeva in tempo assai opportuno. Trasi-
bulo e Trasiilo erano venuti a battaglia con Mindaro presso
Abido (la quale già era caduta in poter dei nemici) ed ave-
vano sconfitto la flotta peloponnesiaco-siracusana. Se non
— 510 —
che Mindaro, senza punto darsi per vinto , rinforzatosi di
nuove navi offriva nuovamente battaglia agli Ateniesi. E
già la vittoria cominciava a piegare in suo favore, allor-
quando sopraggiungendo Alcibiade ne faceva mutare ad un
tratto le sorti. Mindaro fu completamente sconfitto -, le sue
navi fuggirono precipitose verso la costa , e forse anche
sarebbero state prese, se con le sue genti Farnabazo, a
cui si era accostata Sparta, non le difendeva ponendo a
rischio persino la propria vita. Malgrado questa seconda
vittoria, r Ellesponto non rimaneva ancor libero agli Ate-
niesi • il nemico possedeva alle spalle un forte esercito di
terra, e gli Ateniesi si trovavano in grande penuria di ogni
cosa. Ed allora Alcibiade pensò di ricorrere per aiuti a
Tissaferne, recandosi egli stesso da lui, che ancora se lo
credeva amico. Ma fu proditoriamente fatto prigioniero e
condotto a Sardi. Riesce egli nondimeno a fuggire e si
reca a Clazomene, e di là con una flotta di sei navi a
Lesbo. Ma gli Ateniesi mancanti del loro capo avevano
intanto perduto i pochi vantaggi riportati colla recente
vittoria di Abido, e si trovavano già in tale condizione
da abbandonare celatamente Sesto per sottrarsi ad una
completa ruina. Il momento era decisivo; quando ecco
ricomparire nuovamente ed inaspettato Alcibiade. Egli ra-
duna la flotta ateniese, prende i provvedimenti necessari,
dispone tutto con fine accorgimento, e poi dà il segnale
dell'assalto contro la flotta nemica. Molti furono gli sforzi,
e molte le prove d'inaudito coraggio; alla fine gli Ateniesi
riescono vincitori, e il giorno dopo occupano Cizico (anno
410, 01. 92, 2), dove trovano un immenso bottino. — L'an-
nunzio di così insigne vittoria, com'era da aspettarsi, ridestò
in Atene gli antichi spiriti popolari ed ogni limitazione nel-
l'esercizio dei diritti politici si volle abolita ; le misure in-
nanzi prese non essere stato altro che uno espediente qua-
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lunque per sopperire ai bisogni delle finanze •, or nuove vie
per far danaro essere state aperte; esser risorta ormai la
antica Atene; epperò essere nuovamente mestieri che ri-
sorga r antica costituzione colla sua eguaglianza non solo
civile ma anche politica. E Toligarchia credette conveniente
non fare alcuna opposizione. Ciò, perchè sperava di non
perdere del potere se non Tapparenza, e di continuare ad
occupare le principali cariche dello stato. Ricomparvero
all'assemblea i focosi demagoghi, e il popolo trascinato dalla
sua fantasia, credendosi nuovamente pervenuto all'apice della
potenza, rifiutava la pace che Sparta affranta di forze offeriva,
ed osava aprire una seconda campagna per la riconquista
della Ionia! La fortuna pareva favorir davvero le sue spe-
ranze; Alcibiade nell'Ellesponto correva di vittoria in vittoria,
prendeva Calcedone, stringeva una pace con Farnabazo che
faceva ormai della politica propria, e poscia con uno stra-
tagemma s'impadroniva, senza colpo ferire, di Bisanzio; la
sorte di Atene pendeva da Alcibiade. Ed egli fu in questo
tempo che il popolo ateniese entusiasmato per tali progressi
lo richiamava solennemente in patria , cassava tutti i de-
creti fatti contro di lui, gli restituiva ogni avere e lo eleg-
geva a comandante assoluto di tutte le forze di terra e di
mare col potere di valersi a beneplacito suo di tutti i mezzi
dello stato; maggiori onori e maggior soddisfazione egli
non avrebbe potuto desiderare. — Intanto Aristofane in
questa occasione (a. 408, 01. 98, i) rappresentava il primo
Plitio, in cui (se pensiamo che nel rifacimento di questa
commedia non avvennero modificazioni così radicali come
in quelle delle Nubi) egli mostrava che il Dio dell'oro era
capitato nelle mani degli uomini peggiori ! — Così la demo-
crazia si era ristabilita; l'aristocrazia ora doveva ritirarsi in
disparte ed abbandonare a quella la direzione del governo.
Di qui, ecco risorgere l'odio antico contro Alcibiade; se vo!e-
— 518 —
vasi toccare la meta, vicina ornai, conveniva nuovamente e
per sempre disfarsene. Ma come? Finché rimaneva in Atene
sotto r egida del favor popolare, egli era certamente in-
vulnerabile. Bisognava dapprima cercare d'allontanarlo da
Atene, lasciare sbollire Tentusiasmo del popolo e poscia ri-
correre a quelTarma, che aveva fatto già sì buona prova nel
processo delle Erme. Per questa infame e scellerata im-
presa gli oligarchi traevano coraggio dal fatto che alla testa
della flotta nemica era stato collocato Lisandro, il quale ri-
cevendo questo incarico si era deliberato di condurre la
guerra una buona volta a termine:; per cui aveva stretto
alleanza con Ciro, il nuovo satrapo dell'Asia Minore e, ad
esempio di Brasida, si era messo in comunicazione con tutte
le società oligarchiche della Ionia. Non posero tempo in
mezzo •, col pretesto che non si doveva trattenere il loro
generale nel corso delle sue vittorie, cominciarono ad otte-
nere che fosse inviato contro Lisandro. Egli avrebbe voluto
venir subito a battaglia per ritornare prestamente in patria,
sapeva che il suolo per lui non era ancora molto ben
fermo -, se non che Lisandro, sia perchè conosceva qual ne-
mico aveva di fronte, sia perchè doveva essere a parte dei
disegni della fazione aristocratica, nemica di Alcibiade, an-
dava a bello studio temporeggiando, onde Alcibiade fu co-
stretto a perdere molto tempo prezioso presso Andro. E
intanto la moltitudine che da lui si aspettava ormai l'im-
possibile, stimolata dagli oligarchi cominciò a impazientirsi
e mormorare per questo procedere cosi per le lunghe. Ci
volevano ancora altri tristi avvenimenti ! Alcibiade per to-
gliersi dalla sua inoperosità si era assunto l'impresa di ri-
conquistare ad Atene la Ionia, ed aveva lasciato una parte
della flotta ad Antioco per bloccare Lisandro , con ordine
di evitare qualunque occasione di venire a battaglia. Ma
Antioco venne tratto in inganno e rimase gravemente scon-
- 519 —
fitto. Inoltre, un tale Trasibulo figlio di Trasone, che era
stato guadagnato dagli oligarchi, lascia V esercito e si reca
in Atene per accusare Alcibiade a cagione della condotta
che teneva. E in prova di ciò , sempre per alimentare le
incertezze e i dubbi del popolo, venivano fatti capitare in
Atene continui messaggi spediti appositamente da quegli
oligarchi che si trovavano nella flotta. Per tal modo si riuscì
a persuadere il popolo che Alcibiade invece di prendersi
cura degli interessi comuni, mirava, mediante gli aiuti della
Persia e Tamicizia del satrapo che aveva il comando delle
Provincie dell'Ellesponto, a fondare una signoria indipen-
dente nella Tracia, dove aveva già fatti fortificare parecchi
punti. E in conseguenza del buon esito di tali maneggi,
Alcibiade veniva una seconda volta destituito e cacciato in
bando da quella patria, che nuovamente aveva fatto risor-
gere ! Da questo punto la stella di Atene volse definitiva-
mente al tramonto. — Ed Aristofane taceva !
Venne sostituito nel comando della flotta Cenone -, ma
questi non era pari in perspicacia e larghezzza di ve-
dute al suo predecessore. Egli lasciavasi chiudere da Calli-
cratida , successo a Lisandro , nel porto settentrionale di
Mitilene. Fu avvisata Atene del pericolo per mezzo di due
navi, che Conone, mediante uno stratagemma, riuscì ad in-
viarle -, e facendo estremi sforzi gli mandava in soccorso
una nuova flotta che potè mettere insieme con quelle navi
che Alcibiade aveva tolto al nemico. Ma era questa l'ultima
armata che Atene inviava nei mari della Ionia. Si venne a
battaglia presso le isole Arginuse (a. 406, 01. ()3, 3) e. la
vittoria per Tultima volta sorrideva ad Atene. La flotta ne-
mica fu così completamente disfatta, che gli Spartani atter-
riti spedirono nuovamente ambasciatori ad Atene per trat-
tare della pace. Ma per consiglio di Cherofonte le offerte
furono respinte-, non si voleva dar tempo agli Spartani di
- 520 -
riprendere forza e coraggio, si voleva continuare la guerra sino
ad una decisione finale. Infelice Atene, che non si accorgeva
qual serpe covava in seno ! Per la vittoria delle Arginuse più
ancora che non gli Spartani furono atterriti gli oligarchi, i
quali avevano creduto di avere colla cacciata di Alcibiade pri-
vato Atene deirunico generale che potesse trionfare di Sparta;
invece di uno parecchi ne vedevano ora sorgere airimprov-
viso, se non uguali a quello, tuttavia abbastanza formidabili.
Che occorreva adunque per rovinare il più presto possibile
la loro patria ? Disfarsi di essi, come già si erano disfatti di
Alcibiade. Ed ecco, che ricorrono alla loro arma scellerata,
fanno accusare i dieci generali vincitori di non avere pen-
sato a raccogliere e seppellire i cadaveri di quelli che erano
caduti nel combattimento. 1 generali degli Ateniesi in quella
battaglia erano stati i seguenti: Aristocrate, Diomedonte, il
giovane Pericle, Erasinide, Protomaco, Trasiilo, Lisia ed
Aristogene-, i trierarchi, Trasibulo e Teramene. Due di loro,
Trasiilo e Teramene avevano ricevuto Tincarico di attendere
appunto a quel pio dovere, come voleva la religione patria,
mentre gli altri sarebbero andati celeremente al golfo di Mi-
tilene per liberare dal blocco la fiotta di Conone, che era il
nucleo dell'armata ateniese. Ma in causa delle forti agitazioni
del mare i loro tentativi erano riusciti inutili, e quindi i ge-
nerali avevano scritto ad Atene che avevano bensì riportata la
vittoria, ma che il salvamento dei naufraghi era stato reso im-
possibile dalla furia della tempesta. A un determinato giorno
si doveva leggere la loro lettera alFassemblea. Ma in questo
frattempo il popolo fu così astutamente sobillato dagli oligar-
chi, che invece di accoglierne la lettura con quella gioia e con
quell'entusiasmo che parevano naturali, scoppiò in un terribile
furore contro i generali, perchè avevano trascurato il loro do-
vere. Subito fu spedita a Samo la nave Salaminia con l'or-
dine pei generali di abbandonare all'istante il loro comando
- 521 -
e recarsi in Atene-, due di loro presentirono la tempesta da
lungi e fuggirono in luogo sicuro-, ma Pericle, Erasinide,
Trasiilo, Lisia, Aristofane e Diomedonte, consapevoli della
propria innocenza, ubbidirono. E furono appena giunti in
Atene, che con un primo atto d'illegalità vennero tosto in-
carcerati. Qualcuno doveva intentare contro di essi Taccusa,
e questi fu lo stesso Teramene, il coturno a due piedi, che
sentendosi più di tutti colpevole, era nuovamente passato al
partito oligarchico colla speranza di salvarsi. Ai generali fu
soltanto concesso per loro difesa di esporre il fatto in bre-
vissimi termini. Nondimeno il popolo si commosse a quella
succinta narrazione -, già la maggioranza inclinava a respin-
gere l'accusa-, quand'ecco, sotto pretesto che la notte si ap-
pressava il processo venne ad un tratto aggiornato per le
mene degli oligarchi. A favorire maggiormente i loro raggiri
avvicinavasi anche la festa così detta delle Apaturie (che
cadeva nel mese di ottobre), nella quale si riunivano tutti
quelli che appartenevano alla stessa tribù , s' inscrivevano
nella fratrie i neo-nati, e verosimilmente i giovani e le don-
zelle facevano le loro promesse di matrimonio da celebrarsi
nel prossimo mese di gennaio-, inoltre, si ricordavano i
membri mancanti delle famiglie, e per loro si facevano sa-
crifizi alle divinità sotterranee. Teramene e gli oligarchi
colsero quesf occasione per eccitare i sentimenti di uma-
nità della cittadinanza. Alla seconda apertura del consi-
glio, con un decreto formulato da un tale Calosseno, stru-
mento della combriccola, in cui accusa e difesa si dovevano
considerare come un fatto già deciso, si invitò il popolo a
giudicare se i generali avessero trasgredito il loro dovere non
prendendosi cura dei naufraghi -, il giudizio dovevasi dare
complessivamente su tutti i generali e con votazione palese.
A questa scelleratezza si oppose vivamente Eurittolemo, il
figlio di Pisianatte, col dire che in questo modo si sarebbero
— 522 -
violate le norme della procedura giudiziaria; ma il popolo
infuriò contro di lui. Allora egli ricorse ad un'altra via-,
oppose a quel decreto una contro-proposta, ed ottenuta la
parola, procurò di fare una qualche difesa degli accusati.
Già lo stratagemma stava per avere un esito felice , allor-
quando i congiurati fanno sorgere un nuovo incidente, per
cui la votazione viene una seconda volta differita. In questo
frattempo il popolo fu da essi così bene persuaso, che, ri-
presa la votazione, la contro-proposta venne subito respinta,
fu accettata la proposta del Consiglio, ed i generali furono
condannati a morte. — Aristofane, intanto, assisteva impas-
sibile a così nefando giudizio, a così scellerata condanna.
Forse per amor della pace, come vuole il MuUer-Strlibing ?
Noi dobbiamo avere in mente che i Pritani del Consiglio
erano per natura oligarchi o fautori degli oligarchi, di opi-
nioni politiche contrarie alla democrazia-, il Consiglio era
stato così composto dai congiurati per dare V ultimo colpo
all'infelice Atene! — Fra costoro quale dei personaggi che
noi di già conosciamo troviamo pure? Troviamo anche So-
crate. Egli, è vero, fu il solo membro del Consiglio che
diede il suo voto favorevole per Tassoluzione di quegli scia-
gurati ; ma perchè era un « buon uomo » come lo chiama
il FoRCHHAMMER (i)', però ciò non viene a dire che non fosse
egli pure palesemente avverso alla democrazia perchè in
caso contrario non l'avrebbero fatto membro di quel con-
siglio che doveva decidere la ruina di Atene (anno 406 av.
Cristo).
Nuovi generali vennero tosto nominati invece dei condan-
nati-, ma essendo tutti del partito dei congiurati, nessun pro-
fitto vollero trarre dall'insigne vittoria riportata alle Arginuse,
e se ne stettero con 1 80 triremi inoperosi a Samo per dare
(i) Op. cit., p. 32.
- 523 -
tempo al nemico di riaversi. Ciro inviò a Sparta un'amba-
sceria-, il partito favorevole alla guerra nuovamente prevalse,
e Lisandro fu rimandato alla flotta, apparentemente col grado
di epistoleo , ma in realtà, come navarca , poiché Araco
non lo era che di nome. Ed egli, siccome non aveva più di
fronte Alcibiade, quand'ebbe compiuti gli armamenti mosse
rapidamente nelle acque dell'Ellesponto, assaltò Lampsaco
dov'era un presidio degli Ateniesi, e la costrinse ad arren-
dersi. I nuovi generali accorsero, e si accamparono ad
Egospotamo a i5 stadi da Sesto-, Alcibiade, che erasi ri-
coverato nella Tracia si presentò loro coli' offerta di aiuti
dalla parte di alcuni re di quella regione^ ma essi li re-
spinsero : volle che almeno accettassero il consiglio dì non
isbandarsi per la costa, come facevano, perchè avrebbero
offerta l'occasione a Lisandro di una facile vittoria-, ma essi
lo derisero : erano manifestamente complici di Lisandro 1
Ed ecco che, dopo quattro giorni, questi coglie il momento
opportuno che le navi ateniesi si trovavano senza difensori
e dà r ordine dell' assalto. Poche navi gli poterono sfug-
gire : le otto di Gonone colla Paralos, quelle di Nausimaco
di Palerò, e altre due triremi staccate-, le rimanenti cad-
dero in suo potere con 3ooo prigionieri, che trasportati a
Lampsaco furono tutti condannati a morte. — Per un si grave
disastro l'infelice Atene si sentì annichilita. Nulla di meglio
poteva fare in così triste circostanze, che attendere lo svol-
gersi degli avvenimenti. Ma la stella di Atene era tramontata
per sempre ! Gli oligarchi, cogliendo l'occasione favorevole e
cotanto sospirata, afferrano il timone dello stato, e volgono
i loro pensieri a modificare la costituzione a loro talento,
senza punto curarsi delle tristi novelle, che venivano ripor-
tate in Atene, di sempre crescenti disastri (i). Le città fede-
(i) Aristofane rappresentava le Rane nell'anno 4o5.
- 524-
rate poste alle strette dagli oligarchi si ribellano e si gettano
in braccio a Lisandro. E questi ne lasciò uscir liberaniente
i fautori della democrazia, affinchè si recassero in Atene ad
accrescerne di più lo sgomento, persuaso che in tal modo
Tavrebbe avuta senza fatica a sua discrezione. Se non che
veramente s'ingannò: cessato il primo spavento, i cittadini
si rincorarono e si prepararono air assedio imminente.
Ma che potevano fare contro due nemici ? Si era affidato
l'incarico delle opere di difesa agli ufficiali dello stato ; e
gli oligarchi ne rendevano nulla T azione, e queir incarico
si recavano in loro potere-, mentre che un tale Patroclide,
per accrescere maggiormente la confusione, sorgeva a pro-
porre un decreto di amnistia per tutti quelli che avevano
perduti i diritti di cittadinanza. — Intanto, Lisandro si av-
vicinò ad Atene e vi pose il blocco. — La penuria di viveri
che già pel rigurgitare della gente arrivata di fresco si era fatta
sentire, allora diventò spaventevole : nessun rimedio rima-
neva, tranne quello di stipulare una pace qualunque con la
rivale, e di ciò fu incaricato appositamente Teramene 1 Le
pretese di Sparta furono esagerate, ma bisognò cedere. Ecco
le condizioni : distrurre le lunghe mura, smantellare il Pireo,
consegnare tutte le navi da guerra airinfuori di dodici, di-
chiarare libere le città alleate e dipendenti, riamettere i
fuorusciti, e far lega offensiva e difensiva coirabborrita ri-
vale, con patto di seguirla dovunque, e per terra e per mare.
Dopo si provvide al riordinamento della costituzione in modo
che potesse soddisfare ai desideri di Sparta; si collocarono
al governo trenta personaggi, eletti fra i più ligi a lei, co-
nosciuti nella storia col nome dei trenta tiranni, fra cui si
trovavano pure Teramene e Crizia, discepoli di Socrate.
Che anche durante questi ultimi avvenimenti della guerra
peloponnesiaca Socrate abbia continuato a prendere parte
alla amministrazione dello stato, per mancanza di notizie.
non si potrebbe in alcun modo affermare. Nondimeno egli
è indubitato, e noi lo sappiamo da Platone (i) e da Se-
nofonte (2), ad esempio, che sotto lo sgoverno dei Trenta
occupava qualche carica. I Trenta seguendo il loro si-
stema orribile, col quale volevano disfarsi di tutti quelli
che nutrivano ancora sentimenti democratici, avevano dato
l'incarico a Socrate e ad altri quattro funzionari pubblici,
di condurre da Salamina in Atene Leone il salaminio per
esservi giustiziato. L'esecuzione di un tal ordine ripugnava
ai principi morali di Socrate*, perciò egli, senz'altro, si recò
alla sua abitazione, abbandonando fors'anco la carica. Certa-
mente è da lodarsi una tale disubbidienza-, essa mostra chia-
ramente che Socrate aveva un ben fermo carattere. Ma non si
potrebbe dimandare se egli non poteva anche fare qualche
cosa di meglio ? Primieramente, perchè non parlar contro
a quell'ordine scellerato ? E poscia, perchè non pensare
menomamente allo scampo di Leone ? Perchè non ha con-
sultato allora il suo demone, come ben dice il Forchham-
MER (3), che gli avrebbe senza dubbio risposto : Affrettati,
Socrate, va tu stesso a Salamina, oppure mandavi qualcuno
che ne rechi la novella a Leone. V'era adunque una ra-
gione che induceva il nostro filosofo ad operare così ; e
questa non era altra, fuorché l'odio cordiale che portava
alle istituzioni democratiche ed a chiunque le favoriva ; odio
tale, che gli aveva off"uscato la vista in modo, da non ve-
dere piìi quanti malanni si erano precipitati sulF infelice
sua patria per cagione di quel partito, al cui trionfo aveva
anch'egli cooperato.
Ora che noi abbiamo veduto in qual modo Aristofane e
(1) V. Apologia, cap. XX.
(2) Hellenica, II, 3, 3g.
(3) Op. cit., p. 34 e più oltre.
— 526 —
Socrate si sono comportati in mezzo agli ultimi avveni-
menti della guerra peloponnesiaca, che hanno preparata ed
effettuata la ruina completa di Atene, dovremmo forse an-
cora tenere come strano quel fatto che Aristofane abbia
deposto il pensiero di condurre a termine il rifacimento
delle sue Nubi ? Doveva egli essere così malaccorto da non
accorgersi di aver preso un abbaglio riguardo alle idee po-
litiche di Socrate, da non conoscere che era un dottrinario
di sentimenti oligarchici, e quindi che in fatto di politica
veniva a porsi pienamente d'accordo con lui e co' suoi Ca-
valieri ? Per simile ragione, e non per altra, come comu-
nemente si crede, parimenti si astenne dall' inveire contro
i Trenta e specialmente contro Crizia e Teramene-, quando
vide che quel partito, per la cui causa a tutto potere s'era
adoperato, aveva trionfato, allora abbandonò il campo della
politica e si diede tranquillamente alla critica letteraria,
checché voglia dire il Suevern (i) in contrario. Egli è di opi-
nione che Aristofane deve pur aver inveito contro Crizia,
Teramene e gli altri dei Trenta in commedie andate sventu-
ratamente perdute, e che anche in quelle che ci son rimaste
si potrebbero trovar allusioni istoriche e satiriche al loro
sgoverno, che noi non siamo più in grado di potere sco-
prire. Ma bene a dovere confuta e respinge il Mùller-
STRliBiNGuna siffatta opinione con la sua pungente ironia (2).
Perchè, egli dice, Aristofane ha voluto ravvolgere nell'oscu-
rità quei motti che toccavano gli oligarchi, mentre che lasciò
così manifesti i suoi assalti contro la democrazia ? E sog-
giunge ancora : molto strano invero sarebbe poi, che a noi
siano pervenute solamente quelle commedie che contengono
(i) Ueber die Wolken des Aristophanes. V. il passo citato dal
MUller-Strììbing a p. it6.
(2) V. Op. cit., p. I iC, 117, "iiS-
— 527 -
la satira della democrazia, e che le altre siano andate total-
mente perdute, senza che nemmeno una notizia, un fram-
mento ci sia giunto per mezzo di Ateneo, di Plutarco, per
mezzo degli Scoliasti alle altre commedie, a Platone, ad Ari-
stide, a Luciano, per mezzo di Eliano, Esichio, Snida ed altri,
che in qualche modo ci possa comprovare resistenza di tali
commedie. — Io anzi sostengo col Mùller-Strùbing , che
nemmeno contro Alcibiade, per vart motivi anche politici, non
ebbe mai in pensiero di scagliarsi Aristofane , quantunque
la pensi diversamente il Forchhammer (i), il quale vorrebbe
vedere nei due personaggi delle Nubi^ Strepsiade e Fidippide,
i pseudonimi di Clinia e di Alcibiade (2). Se non che mi
(1) Op. cit., pp. 24 e 25.
(2) Ecco le ragioni che adduce, in proposito il Mìjller-Strubing
{Op. cit.,Tp. 34G) : « Hier ist es'nur noch als charakteristisch her-
vorzuheben , wie sich der Dichter ftìr jetzt zu Alkibiades stellt. Er
ist offenbar mit seinem politischen Treiben und seinem Auftreten in
der Gerichtsverhandlungen nicht zufrieden, abcr er wagt es entweder
nicht, oder, was mir wahrscheinlicher ist, er kann es nicht iiber sich
gewinnen, da ihm des Alkibiades ganze Natur sonst sympathisch ist,
ihn scharf und entschieden auzugreifen. Und dennoch kann er der
Versuchung nicht widerstehen, ihm halb schuchtern im Vorbeigehen
einen kleinen Hieb zu versetzen. Mehr ist es ja nicht ! Denn dass
er, wenn er ihn auch nicht direct als Euryproktos bezeichnet, ihn
doch in verdiichtige Nahe eines solchen setzt [toIc, véaiq b' eùpuirpujK-
Toq Kai XdXo^ Koì ó (xùj) K\€iviou), das hat in des Dichters Augen nicht
viel auf sich, und batte er sicherlich auch nicht in den Augen des
Alkibiades — man denke nur an dessen widerwartige Erziihlung in
Plato's Gastmal, die doch, wenigstens dem Tone nach und in dem,
was die Charakteristik des Sprechers anbelangt, wohl nicht ganz aus
der Luft gegriffen ist. Denn der Vorwurf, den dies Wort implicirt
[das iibrigens , um das gegen Herrn Deimling's Auffassung in Schwei-
zer Museum (III, 5, 314) beilaufig zu erwlihnen, nicht der « Eh-
renname der Ehebrecher » ist, wenigstens nicht immer, und hier
gewiss nicht!] ist in ja unserm Dichter hochstens der einer liebens-
wiirdigen Schwache ! Man denke nur an den Schluss der Contro-
verse zwischen den beiden Logoi in den Wolken! Denn wenn der
Dichter auf den Vorwurf, ein Euryproktos zu sein, den Beschuldigten
so antworten lasst : Freilich bin ich's ! aber wer ist's denn nicht?
- 528 -
pare veramente, non essere la prima ragione addotta dal
Miiller-Strubing abbastanza plausibile. Fino ad un certo
punto può essere accaduto, che Aristofane sia stato amma-
liato da Alcibiade, ma secondo il mio modo di pensare l'as-
serzione mi pare troppo assoluta. Chi era Alcibiade ? La leg-
genda della sua fanciullezza ce lo rappresenta dì una tale na-
tura da farci argomentare che in lui esistesse in germe, per
così dire, la stoffa di un principe assoluto. Or bene, che in
realtà così fosse, noi lo possiamo dedurre da uno dei capi di
accusa che gli vennero mossi, allorquando la seconda volta,
come abbiamo veduto, venne per gì' intrighi della fazione
oligarchica bandito da Atene -, cioè che egli macchinasse di
crearsi, mediante Tarmata ateniese e T aiuto della Persia,
una signoria nella Tracia. Ad un tale disegno la fazione
oligarchica doveva essere necessariamente contraria, perchè
esso incagliava i proprii progetti. Ma la fazione oligarchica
non era tutto il corpo dei Cavalieri, a cui serviva Aristo-
fane. Il corpo dei Cavalieri, come dice lo stesso MùUer-
Strùbing, componevasi di giovani appasionati pel piacere,
che solo indirettamente si occupavano di politica. Quindi,
noi crediamo, che forse costoro insieme ad Aristofane non
avrebbero veduto di mal occhio che il loro compagno d'in-
fanzia e di gioventù si fosse costituito signore di Atene.
Sarebbe stata questa la riproduzione del fatto dei nobili
giovani romani che desideravano la ricostituzione della ti-
rannide di Tarquinio, perchè sotto di lui potevano vivere a
sind's nicht die Dichter, die Redner, die Staatsmanner ? und untcr
den Zuschauern dort , isl's nicht der da? und der ? und der ? sind
sie's nicht alle ? oder doch bei Weitem die meisten ? — wer so ant-
worten lasst , sage ich , der bricht dem Vorwurf die Spitze ab , der
stellt durch diese Verallgemeinerung die Sache als harmloss dar und
beschonigt sie-wie das ùbrigens, wenn ich mich recht erinnere, schon
K. A. Becker im Charikles richtig erkannt hai » (Cfr. il suo Excursus
alla quinta scena, voi. II, p. 290 e seg.).
- 529 —
loro beiragio. Ed una prova che Aristofane abbia deside-
rato di vedere Alcibiade signore di Atene noi la possiamo
ricavare da un passo delle sue Rane, dove invita gli Ate-
niesi in mezzo alle calamità, da cui erano stati oppressi,
a piegarsi al genio prepotente di Alcibiade (i) :
ou xpn Xe'ovToq (TKU)uvov èv iróXei xpécpeiv.
[jLiaXicrta \ikv Xéovia \xx\ v iróXei ipéqpeiv],
\\v ò' èKTpaqpfì TI?, ToTi; xpóiroK; ùrnipeTeiv,
E che sotto la tìgura di questo leone sia appunto nascosto
Alcibiade, è l'opinione del Meier e di Ottofredo Mììller (2).
Ma di ciò basti.
Concludo. Dapprima Socrate fu un pretto sofista , ed
Aristofane lo tolse ad argomento delle sue Nubi \ di poi ,
Socrate mutò indirizzo e diventò filosofo, ed Aristofane an-
cora persuaso in sulle prime di vedere in lui un nemico del
suo partito, intraprese, per non darsi vinto, a raffazzonare
le prime Nubi -, alla fine poi accortosi che Socrate, come
lui e gli altri oligarchi , osteggiava la costituzione demo-
cratica , e vedutolo anche occupare qualche carica nella
prevalenza oligarchica , depose il pensiero di condurre a
termine il rifacimento della sua commedia. Ecco la ra-
gione probabile, a mio giudizio , di questo fatto , ragione
che emana dallo stesso svolgersi delle dottrine socratiche,
e dal posto che il filosofo occupò in alcuni tempi nella
amministrazione dello stato.
Piazza Armerina, 11 marzo 1881.
Michele Oddenino.
(i) Ranae, v. 1431 seg.
(2) V. Meyeri , De Aristoph. Ranis commentatio tertia , Halac ,
i852, e Ottofredo Mììli.er , Storia della letteratura greca tradotta
da Giuseppe Mììller ed Eugenio P'errai, voi. II, p. 2'35.
lifviila di Jilolo^ia ecc., X. 35
— 530 —
^/ IJV^A ISCRIZIONE ET%USCA
TROVATA L\ MAGLI ANO
Lettera al comm. prof. Ariodante Fabretti
Cjto collega.
A Magliano ( i ), o per dir meglio, a Magliano in To-
scana, si scoprono da qualche anno anticaglie-, vasi pietre (2)
monete. Ne donò spesso agli amici il signor Gustavo Bu-
satti, e fece bene: ora invece raccoglie con amore ogni
cosa, e fa meglio. Appunto in un suo podere, a Santa
Maria in Borraccia (che vedrete chiamato anche Monastero
Diruto)^ in un campo che ha il nome di Pian di Santa
Maria, si trovò il mese scorso, lavorando (2 5 febr.), proprio
a fior di terra, una piastra in piombo, opisthographa : e
con molta cortesia, me la portò, lasciando che io ne usi
(1) Si aiuterebbe un forestiere avvisandolo di cercarlo tra Grosseto
e Orbetello, dentro terra, e propriamente a 42°, 35 lat. 28", Sg long.
(Ferro).
(25 Una, con iscrizione, fu regalata, ma nessuno rammenta a chi.
Un'altra, con incisavi una testa di animale, è in casa.
- 531 -
come più giova alla scienza, il dottor Luigi Busatti, aiuto
alla cattedra di mineralogia, qui in Fisa: siamo dunque in
famiglia,
1 vasi furono dissotterrati qua e là: ma in questo Pian
di Santa Maria la nostra iscrizione è il primo segno che
n'esca dell'antica vita, e speriamo che non sarà l'ultimo:
né di altre piastre trovate in luoghi vicini si sa nulla. Se
ne occupano e il dott. Busatti, e il suo padre, e il suo fra-
tello; e quando verrà fuori qualcosa di buono ce ne avvi-
seranno (i).
La piastra ha forma quasi di cuore (2): l'orlo è irregolare,
fatto proprio così e non guasto dal tempo: ha una patina
di carbonato al diritto (come lo chiamerò, per esser breve)
con quella tinterella di bigio chiaro che agevola la lettura
e che ricoprì il piombo dopo che fu inciso-, più leggera è
la patina, qua e là interrotta, al rovescio : torno torno si
veggono poi macchioline rossastre che accennano ad ossidi
di piombo. Questo dico aiutato da buoni colleghi : e posso
anche aggiungere, come pare che il piombo fosse gettato
in terra, che vi lasciò impronte di sassolini o di grossa
sabbia, poi si spianasse a martello la piastra, nella quale
rimarrebbero segno di quel getto certe grinze che calano
d'alto in basso, presso all'orlo, a destra e a sinistra.
La iscrizione è in etrusco. Nel diritto va a spire, come
serpente che si raggomitoli, e, dove il margine fa seno, lo
(i) Ebbi in mano tre monete che ci conducono al primo e al terzo
secolo, a Domiziano e a Cerino. Nell'una non si ravvisano più ne le
immagini né le parole; una seconda è rosa da una parte, nell'altra
si legge o indovina IMP. CAES. DOMIT. AUG. GERM. COS. XIII.
GENS. PERP. Meglio conservata è l'ultima: CARINVS NOBIL.
CAES. I PRINCIPI IVVENTVT. — Sono in rame.
(2) D'alto in basso ha otto centimetri; poco più di sette dove il
cuore è più largo.
— 532 —
segue e si ristringe, comincia in alto a sinistra e, lungo
Torlo sinistro, scende ravvolgendosi in cinque giri, e chiude
nel centro. Le righe si addossano fitte fitte, ma tra V una
e l'altra corre un solco che le divide. Di buona forma, ar-
caica, sono le lettere; ha sempre il punto nel mezzo il ///,
spesso gli angoli acuti il e, e tra parola e parola il punto
si vede quasi dapertutto, o ve ne sono due, e anche tre. Di
ogni cosa pòi, e dei dubbi e di quello che suppongo, farò
minute avvertenze dopo che vi avrò messo sotto gli occhi
la iscrizione. Ed è questa :
CAUTHAS . TUTHIU • AVILS • LXXX • EZ •
CHIMTHM • CASTHIALTH • LACTH • HEVN •
AVIL . NENL . MAN : MURINASIE • FAL TATHI :
AISERAS . IN • ECS • MENE • MLATHCEMARNI •
TUTHI . TIU . CHIMTHM • CATHIALTHI .
ATH : MARISLME NITLA • AFRS • CI • ALATH •
CHIMTHM . AVILSCH • ECA • CEPEN • TUTHIU •
THUCH . ICHUTEVR • HESNI • MULVENI • ETH •
TUCI . AM . ARS
Caiithas (v. i): il e non è angoloso, ma somiglia al la-
tino; come più sotto, in mlathccmarni ed in cca. — Nel
numero LXXX (v. i), come è naturale, il cinquanta è rap-
presentato da un lamda colTasticina che cala dal vertice. —
Murinas'ic (v. 3): logore e oscure le tre ultime lettere: m
— 533 —
con Tasta destra che scende più delle altre (come poi in
-me di maris'lme). Si leggono con difficoltà la finale dxfal,
e l'iniziale di tathi : dubbio è se li divida un punto. —
Tilt (v. 5): prolungato in basso V i. — Maris'lme (v. 6):
fra questa e la parola che segue c'è spazio vuoto; ma senza
punti. — Avilsch (v. 7): proprio avils e un eh : non già
il segno per cinquanta. — Mulveni (v. 8): mi par di ve-
dere -ni e non -m. — Tra eth e tuci (v. 9) c'è una specie
di / che viene sotto la linea : pare un frego fatto per errore.
Più dà a fare il rovescio. Nel quale si cammina pur
sempre a spira ma il solco che ci guidi non e' è più ; le
lettere, più grandi, più brutte, più irregolari, si leggono
a fatica. Da questa parte la iscrizione, fatti tre giri, muta
il verso, e, nel bel mezzo della piastra, chiude con tre
righe, naturalmente da destra a sinistra, l'una sopra l'altra.
Nella copia sono le ultime quattro parole.
MLACHTHAN • CALUSG • ECNIA • AVIL • MI-
MENICAC . MARCALURCAC . ETHTUTHIUNESL •
MAN . RIVACH • LES'CEM . TNUGASl • SURISES <
TEIS . EVITIURAS • MULSLE • MLACH . LACHE -
TINS . LURSTH . TEV
AUVITHUN
LURSTHSAL
EFRS . NAC
- 534 -
Comincio da destra, all^ orlo, quasi a metà : e il mlach-
than è inciso in lettere più piccole assai delle altre. Ma ho
colto nel segno ? principia proprio di qui ?
Poco chiaro è il s'uriscs (v. 3) : forse è s'iiriseis e po-
trebbe parere anche s'urisvis. — Tra evithiras e miilsle
(v. 4) non si può dire esattamente se vi sieno punti :
tutte le lettere sono accostate. — Prima di lacìic (v. 4) c'è
un segno: forse ilache. — Oscuro V r in liirsihsal (v. 7).
So come abbondino le imposture tra coloro che amano
di fare o chiasso o quattrini-, ma per questa piastra, vi ri-
peterò solo che siamo in famiglia, e famiglia di galantuo-
mini.
Ogni parola che di lontano ci dicono i nostri vecchi va
raccolta, anche quando si legge e non s'intende; anche la
parola etrusca che non mi vergogno dire come mi si rav-
volga di tenebre ogni di pili. Non già che io chiudessi gli
occhi, o non facessi come gli altri :; la tentai di certo con
meno acume, ma forse ancora con timidità più grande, e
non me ne pento. Se della iscrizione mi riuscirà cavare
buone immagini in fotografia ne farò dono ai pochi studiosi
che possono goderne-, intanto si contenteranno di meno, A
voi non ho bisogno di dir altro, né perchè mandi a voi
una mia lettera; un buon italiano, se v'avessi dimenticato,
m'avrebbe detto che facevo male. Vogliatemi bene e cre-
detemi
Pisa, 5 aprile 1882.
Vostro amico aff.mo
E. Teza.
— 535 —
DELLA « POSIZIONE DEBOLE » NEL LA TINO
11 signor F. Garlanda ha di recente messo a nuovo e confortato
di buona dottrina una mia vecchia spiegazione Della posizione de-
bole nel latino ; ed io gli sono grato eh' egli si sia ricordato di me,
che già da tempo avevo dimenticato quello scritto (iSyS). Se non che,
tra le cose ch'egli afferma a mio riguardo, ve n'ha taluna che non
sembra del tutto vera; e siccome l'esperienza m'insegna che chi tace
fa credere d'aver torto, questa volta parlerò.
Dice il sig. Garlanda che alle obbiezioni mossemi dal dott. Pezzi
io non risposi; e lo dice in modo che fa supporre io non abbia ri-
sposto, perchè non avevo che rispondere. Ora sta invece il fatto, che
il mio esemplare di quei fascicolo della Rivista reca in margine alle
obbiezioni del Pezzi parecchie mie osservazioni, che non pubblicai
supponendo ogni accorto lettore le avrebbe potuto pensare da sé. Né
le riprodurrò io qui, ora specialmente che il sig. Garlanda ne ha
fatto il debito apprezzamento. Ad una sola di quelle obbiezioni darò
qui la mia risposta ; all'obbiezione che i Latini non potessero affatto
sillabare: res-to, res-tringo e simili; e la dò, perchè neanche il sì-
gnor Garlanda la ribatte abbastanza. Per quanto io so, nulla ci di-
cono i grammatici latini su questo punto ; e però noi siamo ridotti
a cercare il modo della sillabazione latina nelle succedanee sillaba-
zioni neolatine. Ora è noto, per primo, a tutti quanti che i Francesi
sillabano : res-ter, es-prit e simili, e che gli Spagnuoli scrivono : des-
nudo, des-pacho, ves-tir. Ed è pur noto che nel francese e nello spa-
gnuolo si ovvia all' 5 impura col preporle un e, così che spiritus di-
venta esprit, espirito ecc.; e che la stessa tendenza fonetica si rivela
anche nell' italiano, quando si dice : in ispirito, in isciiola e simili.
Che cosa provano questi fatti ? Provano che una grossa parte della
— 536 —
Romania non riusciva a pronunciare il nesso st sp ecc., e però nel-
r interno delle parole Vs alla vocale precedente, e in principio di
parola profferiva una lieve vocale, alla quale qui pure allora si ap-
poggiava quel s incomoda, che finì poi col cadere del tutto nel
campo francese (scìiola = escole = école). Che queste condizioni glot-
tiche sieno nel campo romanzo assai antiche è provato dagli esempi
riferiti dallo Schuchardt ; e noi siamo indotti a credere che pur i
Romani dell'età classica sillabassero: res-tat, res-tringo, cosi che
queir e, naturalmente breve, divenisse lunga per posizione.
Nota poi il sig. Garlanda (p. i3 dell'Estratto) che io dopo aver
data la vera ragione per cui 1' a di patris poteva essere o breve o
lungo secondo che si proferiva pa-tris o pàt-ris^ m'impaccio poi colle
more e colle mezze more e finisco col darmi la zappa sui piedi
(grazie della gentilezza !). Ed è vero in fatti che io mi lasciai per un
momento arrestare dalla difficoltà di spiegare come mai 1' e di strepit
contasse per una sola breve, mentre nella teoria delle more in sire-
si avrebbero ben due tempi e mezzo ! Ma io, senza saperne dare una
buona spiegazione, notavo pure che « il nesso STR [in strepit] pe-
sava non più di mezza mora, ossia quanto una semplice consonante »
(p. 232). E più innanzi venivo a questa conclusione : « che la vocale
sia preceduta da un iato, o da una consonante semplice, o da un
nesso di consonanti, la sillaba non può venirne allungata che d'una
sola mezza mora ; ed è per questo, io credo, che i grammatici latini
trascurarono di calcolare nella sillaba questa quantità, la quale era
costante » (p. 234). Ora io posso bene ingannarmi; ma sono ancora
d'opinione che questa dichiarazione sia ancora meglio accettabile di
quella del sig. Garlanda, il quale afferma che « una consonante, o
anche un gruppo consonantico, quando precede a una vocale nella
stessa sillaba, si pronuncia cosi aderente, quasi direi così compene-
trata con la vocale, che il valore metrico di questa non ne viene al-
terato in modo sensibile » (p. 14 dell'Estratto).
Padova, maggio, 1882.
U. A. Canello.
- 537 —
"BIBLIOGRAFIA
Augusto Franchetti. Le Nuvole di Aristofane tradotte in versi ita-
liani con introduzione e note di Domenico Comparetti. Firenze,
Sansoni, 1882.
L'Introduzione del Comparetti è scritta con rigore scientifico e in-
sieme con facilità popolare. Si divide in due parti : nella prima si
parla della commedia antica in generale ; nella seconda delle Nuvole
d'Aristofane in particolare. — La Commedia antica nasce nei festevoli
e liberi ritrovi della villa; gli Ateniesi la sollevano ad opera d'arte:
essa ritiene tuttavia le tracce della origine rusticana, specialmente
nel coro e nella paratasi. Anche il suo contenuto seguita a basarsi
sul satirico e sul ridicolo, e il suo ambiente è la società grossolana
e plebea. Ciò non toglie che i grandi poeti, come Aristofane, non
la rivolgano a scopi seri e d'alto interesse cittadino. Anzi tu ammiri
qui il sommo dell'arte: giungere al serio per la via del ridicolo e
del triviale. Questa era la Commedia antica; però essa, a differenza
della tragedia, chiusa ne' suoi temi tradizionali, godeva di libertiÀ
d'apone e di caratteri. Vi si mostravano in giuoco tutte le passioni:
le passioni, dico, volgari, non le nobili e delicate. Così l'amore non
entra mai nell'antica commedia: v'entra invece l'oscenità, e v'entra in
modo anche troppo indecente : però la donna o non figura in questa
commedia, o vi figura in modo trivialmente ridicolo. La stessa libertà
che c'è nell'invenzione e nell'organismo dell'azione, la si ha pure nel
coro; anch'esso si tiene generalmente nell'ambiente del ridicolo: ta-
lora peraltro, quando s' accosta ad un' idea per se stessa solenne e
poetica, osa togliersi per un momento la maschera comica e far sen-
— 538 —
tire versi ammirabili di sublime poesia : di che si hanno bellis-
simi esempì nelle Nuvole, negli Uccelli e nelle Rane di Aristofane.
— Lingua e metro sono di purissima lega; la dizione è tutta spe-
ciale, e va distinta coH'appellativo di comica : l'ufficio del traduttore
è quindi spinosissimo, e spesso bisogna accontentarsi di approssima-
zioni, massimamente chi pensi che talora il linguaggio comico non
è che una fine parodia del linguaggio tragico.
Nella seconda parte dell'Introduzione, il Comparetti dà in breve il
tessuto della favola delle Nuvole, mostrando che si divide in due
parti, ciascuna di tre scene principali. Analizza quindi il contenuto.
Scopo precipuo d'Aristofane è di satireggiare la dialettica nuova dei
sofisti, presa nel suo peggior senso, come arte, cioè, di far parere
diritto «ciò che è storto; giusto ciò che è ingiusto, abbattendo così
ogni principio di religione e di moralità. Luogo rilevantissimo della
commedia delle iVz/vo/e è il dialogo tra i due parlari, il giusto e l'in-
giusto, dove viene anco satireggiata l'educazione contemporanea in
confronto dell'antica, mettendo in rilievo le tristi conseguenze di
quelle teoriche nuove. Oltre che la dialettica, i sofisti promovevano
in genere ogni studio, sia fisico sia speculativo. Al commediografo
conservatore tutte queste paiono vanità (e in parte non avea torto),
e però le mette in burla colla creazione delle Dee Nuvole. Le Nu-
vole, Socrate, Strepsiade, e Fidippide sono i quattro caratteri della
commedia, e Strepsiade, dopo che è stato a scuola nel Pensatoio
(cppovTiOTfipiov) non vuol più saperne di pagare i suoi debiti, e si
beffa de' creditori. Indarno Pasia incollerito gli grida :
« Ah no! pel sommo Zeus, per tutti i Numi,
Non t'hai da pigliar giuoco impunemente
Di me ! » .
Strepsiade ormai non crede più a Numi, e gli risponde:
« Mi svaghi proprio co' tuoi Numi,
Udir Zeus invocato in giuramento
Fa ridere oggimai color che sanno ».
Il figlio Fidippide, che prima non ci voleva andare, per accontentare
il padre, alla fine si piega e va anch' egli al Pensatoio, e vi impara
- 539-
l'arte così bene, che si mette a picchiare il padre, e dice che vuol
battere anche la madre, e prova che ha ragione lui. In tal maniera
Aristofane colpisce e satireggia nella sua applicazione pratica, l'idea
che egli ha tolto a combattere. — Una cosa sola non può non pa-
rerci per lo meno assai strana, il vedere cioè Socrate posto qua come
tipo de' vani e cavillosi sofisti. Su questo punto le osservazioni del
Comparetti sono acute e belle. È un fatto, egli dice, che Socrate,
sia pur giustamente, combatteva le abitudini del popolo ateniese, e
i vecchi pregiudizi del pensiero comune, usando il metodo della di-
scussione e del fino raziocinio: come poteva non parere parados-
sale? Quanto non era facile allora mettere a fascio il suo con quel
raziocinare ardito e falso, proprio dei sofisti, e dal quale vedeva
Aristofane derivare tanti mali ? L'attività e l'influenza d'un uomo
grande può essere giudicata ben diversamente dai contemporanei e
nel suo paese, che da uomini lontani che dopo ventiquattro secoli
contemplano il suo nome e veggono il suo vero posto nella storia della
umanità civile. E si noti che il Socrate delle Nuvole è bensì il So-
crate reale, ma è insieme il tipo di quel genere di filosofanti, contro
cui, con tutta ragione, Aristofane appuntava i suoi dardi satirici :
però alcuni tratti caratteristici del Socrate reale qui non si trovano,
e se ne trovano invece altri che non sono propri del Socrate della
storia. Vuoisi anche osservare che Aristofane non inveisce contro So-
crate, e non lo tratta alla maniera con cui tratta Euripide e Cleone.
Da ultimo è bene osservare che non fu solo Aristofane che abbia
preso di mira Socrate, ma altri comici lo attaccarono nei loro
drammi e più violentemente di lui. Epperò il Comparetti crede di
poter affermare che tra la commedia delle Nuvole e la morte di So-
crate , avvenuta ventisei anni dopo, non ci sia alcuno special rap-
porto di causa ed effetto, e osserva che in Platone vediamo che i
discepoli stessi ed amici di Socrate erano ben lungi da attribuire ad
Aristofane alcuna responsabilità di questo fatto. — Il Comparetti
chiude la dissertazione mostrando come la commedia nello stato in
cui è a noi pervenuta, non potè essere rappresentata : in esso infatti
si rileva un rifacimento cominciato e non terminato, per cui vi si
notano lacune e contraddizioni. Non mancano memorie antiche che
ci dicono, che le Nuvole, in seguito all'insuccesso avuto nella prima
rappresentazione, furono dall'autore rivedute e corrette.
La versione del Franchetti, ha i due grandi meriti della fedeltà e
- 540 -
della evidenza. Leggendola tu vi senti il sale comico del testo, per
cui ci pare d'essere trasportato in Atene ai tempi d'Aristofane, e nel
tempo stesso non vi trovi stento nessuno né di lingua, nò di metro.
Voglia il Franchetti continuare e condurre a termine la traduzione
d'Aristofane, e l'Italia gliene sarà grata.
Verona, marzo 1882.
Francesco Cipolla.
Uguale giudizio favorevole sulla versione del Franchetti dà nel
Giornale napoletano V egregio collaboratore di questa Rivista, il pro-
fessore Francesco D'Ovidio, chiamandola ottima e fedelissima, es-
sendo egli in complesso riuscito a tutto, salvo all' impossibile, anzi
un po' anche a questo. Egli ha confrontata la traduzione parola per
parola col testo, con pochissima speranza di trovare tante imperfe-
zioni da smentire la diligenza del traduttore ed ha dato nel citato
giornale il piccolo numero delle osservazioni che aveva da fare.
L'ho confrontata anch'io coli' edizione di F. Kock (Berlin, 1862) e
registro qui le mie osservazioni ed i miei dubbi tanto per dimo-
strare al Franchetti il vivo interesse che m'ha ispirato il suo la-
voro. Egli farà poi delle mie osservazioncelle quel conto che crede.
Quanto al verso 24 il Franchetti si è attenuto alla lezione del Ku-
ster, èEeKÓTrri, ma pare assolutamente preferibile la lezione èEeKÓTrriv;
mi fosse stato cavato un occhio, cioè successo qualsiasi altra maggior
disgrazia. L' èEcKÓirti si capisce a stento. Verso 28, credo si tratti
d'una gara, SpinaTi iroXeiiiiaTripiuJ (vedi Senof., Hipparch. 3, 5), per cui
s' intende TÒ uoXejniaTi'ipia se. àTuuvia|uaTa , curule certamen. Incli-
nerei poi di leggere èXóti; per èXa. v. Sy, òÓKvei |H6 Tiq ò. Iy. twv axp.
è tradotto : « m'ha pinzato fra le coltri » , ma è più espressivo il greco :
«mi morde sì, da farmi balzar dal letto», v. 44, eùpiuTiiùv, ÒKÓpriToc;,
eÌKfj Kei|Lievo(;, « vita volgare, senza lussi e senza pene » son parole
troppo gemili per Strepsiade, che si rimane contento adirittura nel
sudiciume. Al v. 47 vedi l'osservazione di D'Ovidio, v. 55 il Fr.
traduce : « Io colla scusa di mostrarle questo abito da lei fatto » .
Mi pare sbagliato. Strepsiade mostrava alla moglie l'abito sdrucito e
lacero, che porta anche ora (xoòi), per rimproverarle la sua noncu-
— 541 —
ranza del marito e delle cose sue. v. 70, Zvaxic, è un abito splendido in
genere, v. 71, qjeWéiuc, probabilmente non è un nome proprio, ma dinota
in genere un pendio scosceso, sassoso e con poca vegetazione. Arpo-
CRAZiONE : Tà irerpiOòri Kaì aÌYiPoTa x^wpia qpeXXéa^ èxdXouv. Confr. Se-
nofonte, Cineg. 5, 18. Pel V. 140 vedi D'Ovidio, v. 180-82, avoiy' ó-
vvoac, TÒ qpp. Kaì òeììov iu<; Tdx- |uoi tòv Z. è tradotto troppo liberamente
con : « Fammici entrare nel pensatoio. Sbrigati a presentarmi a
Socrate ». Lo Scoliasta dice: ire-n-oiriKe tò TrpooxaxQèv ó cpi\óaoqpo(;
Kaì óvéiuHe toc; GOpaq. ó òè eìaeXGÙJv koì Geaad|uevo^ aÒTOù<; ibxpoùi;
Ka6ri|uévou(; Te0aO|naKev. Mediante 1' lKKÙKX|U|aa, gli spettatori vede-
vano l'interno della casa, senza che gli scolari uscissero, v. 271, vedi
D' Ovidio e la versione latina : « in gratiam et honorem nym-
pharum ». Riguardo al v. 272 veda poi il Franchetti, se non abbia
ragione il Kock colTosservare che è strano quel itpoxoalc; senza pre-
posizione e che pare mancare un epiteto all' òòdriuv, p. e., Tpocpi|uu)v
da sostituire al Trpoxoaìq, il che renderebbe certamente più espressivo
il verso. È strana pur la lezione del v. 282, Kapuoùq t' dpòoiuévav ecc.,
e non dà un senso soddisfacente. Il Kock propone di leggere per
KapTTOiiq -KprivaK o Kpouvoìi;. II Bergk legge KapiToO<;, cioè il nome del-
l'Ora Carpo. Cosi è pure poco soddisfacente la lezione del v. 336, elr
depiac;, òiepó? ecc. Fra le conghietture de' più recenti interpreti
alcuna potrebbe per avventura rendere il verso più vigoroso, v. 375,
li) Trdvra toXhujv : « sfacciato » è troppo debole, verso 407 : « Forza
è (confr. il b' dvdyKvii; del verso 377) ch'esca violento per la densità »
è tradotto: «e poi che violento le ha rotte (le nubi), per V avversa
densità », V avversa è di troppo, v. 417, il yuiuvaaiaiv è certamente
falso, dacché non ha da astenersi dai ritrovi del ginnasio chi vuol
rendere robusto il suo corpo. Diogene Laerzio legge : dòriqpaYiai;, il
Kock propone paXavedjuv. Anche nel verso 461 il lesinante dà da pen-
sare. Il Fr. s'è attenuto alla lezione vulgata : luanoXoixòc;, il Bentley
ha proposto iuottuoXoixóc;. In ogni caso « il lesinante » è poco adat-
tato come ultimo di quella serie di titoli dati all' avvocato, v. 486-
487. V era da avvertire il poco nesso, in cui i due versi si trovano col
resto della scena. Non sarebbe forse stato inopportuno l'accennare, che
in questa parte specialmente si rinvengono le traccie di una seconda re-
dazione, cfr. il Kock ai versi e il n. 44 della sua introduzione, v. 528.
La lezione ole, ì^òù Kaì Xéyeiv tradotta con : « che è già piacere l' in-
dirizzarsi ad essi » dà un senso poco conveniente. L'errore in cui il
— 542 —
Fr. è incorso nella traduzione del v. 53o ha già avvertilo il D'Ovidio.
Per i V. 595 e seg., e 624 e 767 conf. le osservazioni del D'Ovidio.
L'ultimo di questi versi è tradotto da G. Hermann : « Tu ipse p^rimus
aliquid inveni idque mihi espone » . v. 66 1 , l'ètciiuapTe non mi par tra-
dotto con « svagati a tuo piacere » . Str. vuol dire, che il figlio poi potrà
scialacquare a suo piacimento, dacché frodi ed inganni gli procure-
ranno i mezzi per farlo. Per il v. 925 e seg. avrei desiderato qualche
nota ; così come si leggono comunemente danno luogo a grandi dubbi
e rimangono oscuri non meno dei v. 912-913. Il v. gb5 è tradotto,
forse in causa della rima : « che a grave cimento gli amici porrà ». Il
concetto del fjt; (aoqpiaq) uépi Toìq èfaoìe; qpiXoic; èaxiv à^ùjv .uétic^to; esprime
meglio la versione latina dell'ed. Didot: «de qua meis amicis maximum
est certamen ». A tal condiscendenza alla rima attribuisco anche il
irpòc; toùtok; del v. 1022, tradotto con: « per tal cagione ». Vorrei
dire anche contro l\ echeggiavano » del v. 968, con cui rende l'èv-
Tewaixévovc, « ed intuonavan l'armonie ». Nel v. 920 il Fr. non rende
r apirdZeiv « servirsi prima ». Il KixXiZeiv presso gli Attici vuol dire
mangiar tordi, ed in genere cose ghiotte, cioè quasi lo stesso cheòvjjo-
(payelv, nella posteriore grecità vale anche « ridere sottecchi »; tratte-
rebbesi di ragazzi che discorrendo tra loro scherzano, ridono e sghignaz-
zano, il « darsi ad oscena risata» è certamente troppo forte. Al v. loot
osservo che il Kock cita solo due figli d'Ippocrate, Telesippo e De-
mofonte, mentre lo Scoliaste aggiunge Pericle; i passi de'comici che ad
essi si riferiscono e son citati dal Kock, hanno il plurale, non il duale,
v. 1040, il Toìaiv vófioiq tv Tale, òìkok; Tàvavri' dvriXéEai «io pel primo
mi son accinto a contraddire le leggi ne' processi » non è certamente
ben tradotto con « primo a contraddir mi feci le leggi e la giu-
stizia », segue un xal, e non « ma ». Nel v. 112Ó non è tradotto l'u-
ao|aev. v. 1242, pare che il Fr. legga fj luèv av ttóvtuuv, lezione che
non trovo registrata ; la comune è toutoiv, il Kock seguendo il co-
dice di Ravenna legge toùtoi, e lo riferisce all' antecedente Zevc,,
contro il quale ha egli massimamente peccato. La traduzione del
V. 1255 è sbagliata, come ha osservato il D'Ovidio. Quanto ai versi
1 365-1 368 credo che sia da accettare la trasposizione del Kock, i365,
i367, i368, i366. Il 1418 è certamente guasto, e poco hanno giovato
le emendazioni fin qui proposte, per il senso però è quello che ne
dà il Fr. Nel v. 1435 guardi il Fr. se il suo « e busse io prendo »
possa stare. I versi 14SS-89 si potrebbero per avventura tradurre piìi
- 543 -
fedelmente. Per il v. i5o6 confr. il D'Ovidio, che fece pure osservare
altre minori cose, che il lettore vorrà vedere nel citato giornale, in cui
il nostro egregio collaboratore esprime ancora il desiderio, al quale
mi associo, che cioè il Comparetti fosse stato meno parco colle sue op-
portune note, dacché parecchi passi potrebbero pur abbisognarne per
il lettore, che vuol gustare 1' Aristofane reso italiano dal Franchetti,
senza ricorrere al testo ed ai suoi commentatori. Ne' pii^i recenti di
questi il traduttofe, confrontandoli fra loro, potrà per avventura rin-
venire proposte di lezioni ed emendamenti, di cui giovarsi in una se-
conda edizione e nella continuazione della sua nobile fatica.
Torino, maggio, 1882.
Giuseppe Mììller.
D. Comparetti, On tivo inscriptions front Olympia. Reprintcd from
the Journal of Hellenic studies. London, 1881.
Già altra volta la Rivista ha reso conto delle dotte fatiche che il
Comparetti dedica all'illustrazione delle iscrizioni greche, dovute agli
scavi di Olimpia. Ora non può che brevemente accennare al lavoro
inserito in uno dei volumi di « Studi ellenici » che si pubblicano in
Inghilterra ed in cui intraprende in contradittorio coi Kirchhoff e
col Purgold, che se ne sono occupati nella «Gazzetta archeologica di
Berlino », l'illustrazione nelle due epigrafi n" 882 e 383. Il Kirchhoff
trascrivendole aveva addirittura dichiarato di non poter interpretare il
loro contenuto. Il Comparetti, sebbene dovesse soltanto lavorare con
un facsimile, è riuscito, a parer mio, ad una lezione di molto migliore
del Kirchhoff, emendando con molto acume e con vasta dottrina i
non pochi errori dei due bronzi che portano le iscrizioni, ed a giun-
gere ad una intelligenza generale dei due frammenti, di cui il primo,
secondo lui, è il frammento d'una legge, concernente i GeoKÓXoi (ca-
rica intorno ai diritti e doveri, dei quali si sperano ulteriori notizie
dalle iscrizioni d'Olimpia, ancora inedite). Sembra che essi, oltre al-
l'ufficio sacro, avessero anche parte nell'amministrazione del terri-
torio appartenente al tempio, e fossero persino possessori di porzione
- 544 -
di esso, e che il frammento contemplasse il caso in cui potessero ad
altro cedere parte del loro diritto. Il frammento della seconda iscri-
zione sembra quello d'una legge intesa a guarentire al Dio il rispetto
dovutogli. L'importanza particolare dello scritto del Comparetti con-
siste poi nelle sue considerazioni sui singoli vocaboli dei due fram-
menti, considerazioni che accrescono notabilmente le nostre notizie
sul dialetto dell'Elide, ancora si poco conosciuto.
Torino, maggio, 1^82.
G. MuLLER.
M. PoRcii Catonis, De agri cultura liber — M. Terenti Varronis,
Rerum rusticarum libri tres ex recensione Henrici Keilii, voi. I,
fase. I, Lipsiae, MDCCCLXXXII.
Nella mancanza assoluta di un'edizione critica degli Scriptores rei
rusticae, non è a dire se la presente, annunziata .già da qualche
anno (i), fosse attesa vivamente da chi si occupa dì tali studi.
11 primo fascicolo, di cui ora discorro, è unicamente dedicato al-
l'opera di M. Porcio Catone, per la quale il Keil si è attenuto quasi
per intiero all'edizione di Pier Vettori (Lugduni, 1541}, e agli Ex-
cerpta che Angelo Poliziano avea fatto dal codice Marciano, collazio-
nandolo coll'edizione principe (2).
Ciò mi risulta dall'esame del lest9 ; che il presente fascicolo non
porta prefazione.
Già fin dal 1849, nelle Observationes criticae in Catonis et Varronis
de re rustica libros (p. 66-67) i' K. avea detto che per vero titolo del
libro Catoniano era da ritenersi De asrricultura anziché De re ru-
(1) Cfr. Teubner's, Mittheilungen, 18~8, Nr. 2, S. 25.
(2) Cfr. A. M. Bandini, Ragionamento (storico sopra le collasioni
delle fiorentine Pandette fatte da Angelo Poi.izianu, Livoruo, 1762,
p. 67.
— 545 —
stica : ed oggi, col fatto, mostra di essere della medesima opinione.
Ma non parmi che la cosa sia così definitivamente decisa come l'as-
serzione del K. potrebbe far credere.
Ecco le testimonianze che riguardano la quistione :
Varrone (r. r., I, 2, 28, ed. Gessner) dice: « An non in magni
illius Catonis libro, qui De agriciiliura est editus, scripta sunt per-
multa similia? ».
Ed Aui.o Gellio {N. A., Ili, 14, 17, ed. Hertz): « M. Cato in
libro quem De agriciiltura conscripsit » (1).
Peraltro lo stesso Gellio (X, 26, 8) dice: « Cato in libro De re
rustica » e Catone presso Cicerone [De se}ìect.,XV, 54, ed. Meissner):
« Quid de utilitate loquar stercorandi ? Dixi in eo libro quem De
rebus rusticìs scripsi ».
Di fronte a tali testimonianze, sebbene si possa restare a prima
giunta indecisi sul vero titolo del libro, cionondimeno mi pare che,
con tutto il rispetto dovuto all'autorità dell' eruditissimo Varrone
(giacché bisogna escludere Gellio, come colui che non decide né per
l'uno né per l'altro dei due titoli), si potrebbe con maggiore proba-
bilità ritenere per vero il titolo De re rustica ; cui mi sembra poter
anche ricavare dalle parole precitate di Cicerone, il quale non avrebbe
osato mettere in bocca a Catone stesso un titolo di una di lui opera,
se, per la conoscenza ottima ch'ei mostra spesso di avere degli scritti
catoniani, non fosse stato certo che quello era il vero.
Né contro questo varrebbe il dire che Cicerone usando De rebus
rusticis e non De re rustica dia prova con ciò stesso di non riferirci
il vero titolo, come parrebbe credere il K. [Op. cit., p. 67); giacché
devesi ritenere che a Cicerone erano grati codesti plurali, come egli
medesimo ne attesta dicendo ad Attico {XVI, ep. XI) di preferire a
De officio il titolo De officiis, che per lui è « inscriptio plenior ».
(I) Il passo di Plinio (XIV, 4, 44, ed. Detlefsen) : « Catonum ille
primus triumpho et censura super cetera insignis praeceptisque
omnium rerum iuter prima vero agrum colendi, ille (al. illius) aevi
confessione optimus ac sine aemulo agricola... », e quell'altro di Colu-
mella (/•. r., I, 1, ed. Gessner^ : « M. Catonem Censorium illuni me-
moremus qui eam (agricolatiouem) latine loqui primus instituit > che
altri citano a sostegno del titolo De agricultura, sembrano doversi tra-
scurare affatto, come quelli che non riguardano il titolo dell'opera Ca-
toniana.
Kjvista di filologia ecc., X. 36
— 546 —
In quanto ai codici, non mi varrò della considerazione che i3 (i)
di essi portano il titolo De re rustica e soli 6 De agricultura, perchè
accade talvolta che i più numerosi non sieno i migliori e i più auto-
revoli ; ma mi basterà notare che il codice Marciano, il più antico ed
autorevole, portava il titolo De re rustica, secondo mi parrebbe do-
versi ricavare dalle parole seguenti di Pier Vettori, che del mede-
simo si valse per la sua edizione : - Vetuslissimum volumen est in
divi Marci Bibliotheca, in quo M. Catonis unus liber est, quem De
re rustica scripsit : ac tres M. Terentii Varronis rerum item rusti-
cariim. Is unus liber, ut verum fatear, et ut veris laudibus ornem,
maiores mihi utilitates praebuit, quam universi alii : superai enim
reliquos, quos habui, longo intervallo, et vetustate et fidelitate » (2).
Ma alcuno potrebbe chiedere : se vi sono maggiori probabilità per
credere che il titolo dell' opera Catoniana fosse De re rustica piut-
tostochè De agricultura, come si spiega l'uso di quest'ultimo ?
A ciò si potrebbe dare con verosomiglianza una spiegazione, sup-
ponendo che ogniqualvolta fu mantenuta la denominazione De agri-
cultura, siasi badato più al contenuto che al titolo vero : cosa non
infrequente presso gli antichi, allorché il contenuto si connetteva al-
l'argomento da essi trattato.
Premesso questo pel titolo vengo subito all'edizione, che del resto
è per molti risguardi commendevole.
Anche qui il K. mantiene, forse senza sufficiente ragione, l' indice
dei lemmata, che si legge in molte precedenti edizioni.
Io sarei invece d'avviso, e in ciò mi conferma un esame non indi-
ligente dell' opera, che sebbene si possa ammettere la divisione per
paragrafi (dico divisione e non nimiera'^ione], codesti lemmata, o co-
munque si vogliano chiamare, che il K. ne riproduce, sieno piut-
tosto le parole stesse con cui Catone cominciava a trattare di una
data materia, variamente modificate e redatte a guisa di indice dai
(1) A completare le notizie forniteci dal K. [Op. cit., p. 5-12) intorno
ai codici, noterò che il Ricardiano, cart. n. XXVII ora lo3, non consul-
tato dal K., è autografo di Bartolomeo Ponzio e porta la data del 26 set-
tembre 1476. Contiene una raccolta di excerpta dal De re rustica di
Catone, come pure da Varrone e parecchi altri scrittori latini e greci.
(2) Cfr. ExpUcatio suarum in Catoìiem, Yarronem, Cohtmellam ca-
stigationiim, Lugduni, 1542, prefazione.
— 547 —
grammatici per comodità dei lettori. E prova ne è pure il discor-
•dare stesso dei codici su questo punto e il trovarsi non di rado le
stesse cose ridette con pressoché identiche parole nell'indice, in prin-
cipio e dentro ai paragrafi del testo.
Né difficile mi sembra a rintracciarsi la ragione di questo fatto.
Dapprima si sarà condensato in breve, per così dire, e possibilmente
con parole Catoniane, il contenuto di ogni paragrafo e fatto quindi
un indice a comodità dei lettori ; poscia per facilitare anche più, le
parole dell'indice si saranno ripetute dentro al libro, o nel margine
o in capo ad ogni paragrafo, distinte dal testo con colore diverso ;
ma col procedere del tempo, sia per ignoranza, sia per negligenza,
trascurata tale distinzione, quello che era opera di grammatici, ebbe
l'onore di far parte del lesto.
Inoltre io non intendo perchè il K. non faccia corrispondere la
numerazione dell'indice a quella dei paragrafi del testo. Con ciò si
genera confusione non poca (i), e l'indice ch'egli premette diventa
quasi inservibile. Mi si potrà dire, è vero, che l'indice serve anco a
far conoscere per sommi capi il contenuto dell'opera; ma allora
perchè la numerazione ?
In quanto al testo farò alcune brevi osservazioni.
Farmi che i pochi wnis, tres^ quinque ecc. si potrebbero ridurre
a I, III, V, giacché è cosa incoerente scrivere (X, i): « ...operarios
quinque, bubulcos III, asinarium I, subulcum I... ».
Al II, I, dove si dice: « Ubi cognovit, quo modo fundus cultus
siet. operaque quae facta infectaque sient », antica congettura che il
K. accetta, leggerei operaque facta, infecta quae sient.
Nel XVI, I : « Calcem partiario coquendam qui dant, ita datur »
con qualche codice e colle antiche edizioni scriverei dant e non
datur; cfr. il proem. 2: « Virum bonum quem laudabant, ita lau-
dabant amplissime laudari existimabatur qui ita laudabatur ».
Nel XXI, 2, anziché lamnis metterei lamminis che è pur di qualche
codice e che il K. accetta per tre volte di seguito nel medesimo pa-
ragrafo.
Nel LXXXXV, 2, invece di sub dio caelo leggerei semplicemente
sub dio come si legge al CVIII, 2 e CXII, 2,
(1) Per es, il lemma XLII (indice, p. 5): « Quae mala in segete sint »
corrisponde al paragrafo XXXVII,
- 548 —
Nel CLVII, i5, invece di « Si polypus in naso intro erit , leggerei
introierit, giacché altrimenti avrebbe dovuto dirsi intiis. In quanto
alla costruzione del verbo introire coll'abl. cfr. Holtze , Syntaxis
priscorum scriptoriim latinor., voi. I, p. 85, e Draeger, Historische
Syntax der latein. Sprache, voi. I, p. 652.
Inoltre parecchi 5// e sint che il K. accoglie nella sua edizione di
fronte a 72 tra siet e sient, parmi che si dovrebbero, senz'essere
troppo audaci , ridurre alla loro forma arcaica. Per es. nel V, 2 :
« Vilicus ne sit ambulator, sobrius siet » non si potrebbe mutare il
ììe sit in ne siet, non foss'aitro, per analogia del CXLIII, i : « (Vi-
lica)... neve ambulatrix siet... > ?
lì posueris del XXXVII, 3, si potrebbe ridurre a posiveris ; cfr. po-
siverunt (proem. i), posiveris (UH, i), imposivi (framm. dell'orazione
De sumto suo, presso Jordan, M. Catonis praeter librum de r. r. qiiae
extantf p. 87, 8).
Al XLVI, I e XLVIII, i, anziché bipalio vertito, leggerei bipalio
vortito come si trova al VI, 3 e GLI, 2.
Così pure in analogia a vorsum, versato, quoquo vorsum, susiim
vorsinn, avrebbe dovuto ridurre a forma arcaica : versus, adversus,
adversum, quoquo versutn, transversum ecc.
Le forme poi acerviis, alvus, ervum, novus, ovum, servus, vulnus si
sarebbero potute scrivere: acervos, alvos... volnus\ cfr. convolvolus ^^^
del LXXXXV.
Nel CXXIV, accanto ad obmoveris, obmoveto, obmovenda stuonano
le forme assimilate onunoveto, ommovenda; lo stesso dicasi di alli-
gato , corrupta eie, accanto alle forme più accettabili: conligato,
conlibrato, conlatis, adponito , adpetet, subripiatur [subrupiaturl], in-
rigivus ed altre.
Ma di ciò basti per ora: che io non intendo di far qui un'edizione
del De re rustica di Catone, né togliere a quella del Keil il valore
che ha meritamente.
Savona, 25 maggio 1882.
GiAco.MO Cortese.
— 549 —
Le Qiierolus, comédie latine anonime. Texte en vers restitué d'après
un principe nouveau et traduit pour la première fois en francais, ecc.
par L. Havet, Paris, 1880 (Bibliothèque de l' École des Hautes
Etudes, 41* fascic).
È noto come dell'età imperiale sia a noi pervenuta una sola com-
media latina, così che ben a ragione può dirsi che, tolti pochi fram-
menti, quanto ci rimane del teatro comico latino appartiene a Plauto,
a Terenzio ed all'autore del Qiierolus. Ora intorno a questa com-
media molte questioni si sono agitate, le quali non sono ancora to-
talmente risolte. Si tratta in fatti di sapere chi ne sia l'autore ed in
qual tempo sia vissuto; se l'abbia destinata al teatro; se la sua pri-
mitiva redazione sia quale è a noi pervenuta, vale a dire in prosa.
Intorno all'autore ben si può dire che la questione è risolta nega-
tivamente. Sebbene il Qiierolus sia una commedia designata nei ma-
noscritti colle due parole Plauti Aididaria, non ostante basta leggere
poche righe del Prologo per convincerci che Plauto vi è affatto
estraneo.
« Aululariam hodie sumus acturi, non veterem at rudem,
Investigatam atqiie inventam Plauti per vestigia.
Sed Querolus an Aulularia haec dicatur fabula,
(_ ^ _) vestrum hinc judicium, vestra erit sententia » (1).
D'altra parte il vedere citali Cicerone ed Apicio ed il trovarvi allu-
sioni a passi di Virgilio, di Seneca, di Marziale e di Giovenale in-
(1) Nelle citazioni mi servirò del testo quale è stato l'estituito dal-
l' Havet stesso : per tal guisa il lettore potrà farsi un' idea più chiara
del suo metodo. I segni metrici indicano, come si vedrà pure appresso,
che alla redazione in prosa manca, per soppressione di vocaboli, certo
numero di sillabe e talora di piedi per ricostituire il verso primitivo. Ciò,
s'intende, secondo l'opinione dell' H., opinione che ci pare assai discu-
tibile.
— 550 —
sieme con parecchi altri indizi abbastanza chiari, provano che il testo
appartiene all'epoca del basso impero. L' Havet sostiene a ragione
che l'autore doveva vivere in Gallia e propriamente nella metà me-
ridionale di essa e che s'indirizzava ad un pubblico gallo fp. 4), ma ci
avverte che « jusqu' ici nous n' avons absolument aucune lumière sur
le nom de l'auteur. Il est peut-ètre sage de ne pas prétendre à percer
ce mystère » (p. 7). Resta quindi incerto il nome, ma non incerta la
patria, sebbene il Blicheler abbia trovato nel Qiierolus un' origine
africana per certi versi analoghi che offrono alcune iscrizioni barbare
dell'Africa (i), opinione questa che fu del pari sostenuta da Gaston
Paris (2), ma senza ragione di sorta.
Riguardo all'autore rimane a sapere a quale epoca possa apparte-
nere. Per tal rispetto l'H. nota assai ragionevolmente come un'allu-
sione, che si trova nella commedia, ai briganti delle rive della Loira,
vale a dire ai Bagaudi, accordata colla dedica che 1' autore fa della
sua commedia ad un Rutilio da lui detto venerando e vir inlustris (3)
(il quale non può essere altri che Rutilio Namaziano) ci conduca al-
l'epoca dell'impero di Arcadio ed Onorio. L'H. anzi crede che si
possa assegnare alla commedia una data nei venti o trenta primi anni
del quinto secolo (pp. 5 e 6).
Dall'autore passiamo alla commedia stessa e vediamo che si debba
dire della questione che abbiamo posta, se cioè il Querolus sia stato
destinato al teatro.
« Nos hunc fabellis atque mensis librum scripsimus >>,
dice l'autore nella Dedica (v. 17, p. i85), e perciò ben dice l'H. che « Le
Querolus est ce qu'on appellerait de nos jours unecomédie de salon »,
giacché « la salle à manger des anciens était l'équivalent de nctre
salon » (4). Era dunque un pubblico assai differente dell'ordinario
quello a cui s'indirizzava l'autore, erano gli amici di casa Rutilio gli
unici spettatori, e quindi al gusto, alla coltura del padrone di casa
e de' suoi convitati doveva accordarsi interamente la commedia. In-
(1) Rheniìsches Miiseum, 1872, p. 474.
(2) Revue Critiqiie, p. 376, nota 2.
(3) Dedica, v. 18.
(4) Pag. 11, testo e nota 2'.
- 551 -
gegnosamente l'H. nota che quest'origine artificiale si riconosce su-
bito all'incoerenza dei dati (p. cit.), essendoci da una parte un in-
trigo assai bizzarro, che l'autore deve certamente aver tolto da un
originale greco, come colui
« Qui Graecorum disciplinas ore narrat barbaro » (i),
e dall'altra un lungo diverbio filosofico tra il Lare domestico e Que-
rolo, cosa questa che ci spiega perchè l'autore nella dedica a Rutilio
abbia detto :
« Sermone ilio philosophico ex tuo materiam sumpsimus » (2).
Non convengo tuttavia con 1' H. riguardo al giudizio che dà del
valore della commedia. Certo egli non giunge all' esagerazione del
Magnin, a dire cioè che « Cast à la fois une comédie de caractère,
de moeurs et d'intrigue, étincelante d'esprit, de verve et de poesie » (3);
ma sebbene egli vi riconosca non pochi difetti, non dubita però di
asserire che il poeta anonimo del Qiieroliis sostiene la vicinanza di
Plauto « sans en étre trop accablé », aggiungendo che « Piante a un
genie plus puissant, mais notre auteur a peut-étre un talent plus
égal » (p. 20). Credo pertanto che sarebbe più prudente accostarsi
all'opinione di Gaston Paris che giudica il Qiierolus, malgrado l'in-
trigo ben concepito, una cosa mediocre (loc. cit.).
Veniamo ora alla questione mollo seria e che riguarda la natura
del testo. L'H. dedica a tale questione il 3° capitolo della sua In-
troduzione prendendo ad esame le opinioni diverse dei filologi e pro-
ponendo una nuova soluzione egli stesso, soluzione che in massima
sembrami ragionevolissima. Delle tre supposizioni che si possono
fare intorno alla natura del testo, se cioè originariamente fosse scritto
in versi, o in prosa o parte in versi e parte in prosa, egli accoglie
la prima, come quella che è resa più verosimile dall'andamento stesso
della prosa in cui ci è pervenuta la commedia, non che dalle parole
stesse dell'autore che cosi conchiude il prologo:
(1) Prologo, V. 2, p. 186.
(2) V. 12, p. 184.
(3) Revue des Deux-mondes, 1835, t. Il, p. G73.
— oo2 —
« Prodire autem in agendum non elodo auderemus cum pede,
Nisi magnos praeclarosque hac in parie sequeremur duces » (i).
Certo sarebbe una vera stravaganza il credere che con l'espressione
elodo Clivi pede si designasse lo scrivere prosaico ovvero un fluttuare
tra verso e prosa. D' altra parte quei magoni praeclarique duces che
l'autore dice di seguire non poterono certo scrivere altrimenti che in
versi, non essendo in uso presso l'antichità classica la commedia in
prosa. È questa un' osservazione che mi pare debba avere un Certo
peso nella questione e che dà ragione all'ipotesi dell'H., sebbene non
mi sembri che egli ne abbia tenuto conto.
Stabilito con l'H. che il Querolus nella sua forma primitiva do-
veva essere versificato, rimane a vedere che cosa sia quel pes clodus
e quante specie di versi si possano ravvisare nel testo. Convengo con
l'H. in quanto riferisce il pes clodus al '{évoc, óvictov, considerandolo
come un piede Trepiooói; o Trópiaot;, ma non mi limiterei, come egli
fa, al solo févoc, òmÀdaiov, ma comprenderei del pari 1' i^fiióXiov ; e
quindi, oltre al giambo ed al trocheo, accoglierei anche i piedi di ge-
nere peonico, come a dire il eretico ed il bacchio che hanno tanta
parte nella metrica di Plauto. Così la parola pes indicherebbe il ge-
nere e non una particolare specie, come del resto ammette evidente-
mente r H. stesso, dicendo che « 1' oppose de pes clodus (iambe ou
trochèe) est tzoxic, fipxioq (dactyle, anapeste, spondée) » (p. 54, n. 4). E
però non posso assolutamente indurmi a credere che nel Chterolus non
ci sieno che due sorta di versi, il tetrametro trocaico catalettico ed il
tetrametro giambico acataletto in un numero press'a poco uguale (2).
E non è certo una ragione sufficiente per provare tale asserto il dire
che la pronunzia dei tempi dell'autore era essenzialmente mutata da
quella dei tempi di Plauto e di Terenzio e quindi era imperiosa-
mente richiesta una serie ritmica uniforme (nel nostro caso, di mi-
sure quadruple a 6/8), un carattere musicale identico da un capo al-
l'altro della commedia. Tanto più che il pubblico non era, come
ammette Io stesso H., l'ordinario pubblico de' teatri, ma « un public
I
(1) Pag. 188.
(2) Pag, 51 — Vedi anche la nota 2 alla stessa pagina.
- 553 —
peu nombreux, forme de personnes choisies et toutes éminemment
cidtivées, très-capable de goùter les mérites de \a fonne » (p. ii), e
che poteva quindi gustare la varietà dei metri nel Qiterolus come in
qualunque altro genere di poetici componimenti.
Ad ogni modo, posto pure che il pes clodiis si riferisse al giambo ed
al trocheo soltanto, e che perciò l'autore del Qiierolus si accostasse
piuttosto a Terenzio, che dà pochissima parte ad altri piedi (i), per
le ragioni dette non sembra assai verosimile che nel Querolus non
si desse luogo ad altre specie di metri giambici e trocaici che quelli
dall'H. supposti.
Perciò dalle premesse fatte dall'H. e poste come fondamento della
questione, che egli tenta di risolvere, dovrà necessariamente seguire
un metodo poco sicuro nella ricostituzione del testo nella sua pri-
mitiva forma poetica. Di fatto il suo testo non risultando di altri
versi che di que' due, che ho sopra menzionato, non ci può guari
soddisfare per le notevoli lacune che è costretto a riconoscervi; ed
io non credo verosimile che colui che volse la commedia in prosa
sia giunto persino al punto da tralasciare intere, sebbene brevi, par-
late. Ammettere una cosa simile s'intende facilmente quando si vuol
far servire un testo ai propri preconcetti. Diamo qualche esempio.
All'atto li, scena III, pezzo 45, parlano il Sicofanta e Mandroge-
ronte. Quegli d'accordo con questo per ingannare Querolo lo sup-
plica di rivelargli l'avvenire et ea tantum modo quae sunt bona (v. 2).
Mandrogeronte esponendo le cose a capite (v. 3) gli dice che egli è di
nobile schiatta, che ab initio era un uomo nequam, che ora è mise-
rabile, che è minacciato da pericoli di varia specie, e finalmente ci
troviamo a questo punto :
Mand. Datum tibi est
De proprio nihil habere. Sycof. Intellego.
Mand. Sed de alieno plurimum.
(vv. 7, 8).
A queste ultime parole viene naturalissima la risposta del Sicofanta:
(1) ìiseWAndria sono bacchiaci i vv. 481-484 (ediz. Flecreisen e 637,
638; il v. 625 è dattilico, e 626-634 eretici; negli Adelphi sono coriambici
i versi 612 e 613: tutti gli altri versi sono trocaici 0 giambici.
— 554 —
« lam istud nobis sufficit >;
• . (v. 9)
ma IH., il quale non trovava modo di fare i suoi giambici secondo
il suo sistema, ecco come ristabilisce il dialogo :
ìMand. Datum tibi est
8 De proprio nihil habere. Sycof. Intellego.
Mano. Sed de alieno plurimum.
9 Stcof. I w II - v,^ - ^. Mano. - .^ - v.,-.
Stcof. I lam istud nobis sufficit.
In verità non credo che una cosa simile si possa prendere troppo sul
serio. Altrove (è il Lare che parla a Querolo) così il testo è rista-
bilito l'p. 204, atto I, scena II, pezzo 8).
« Quanto mallem, labcretur ut sermo, et staret fides !
Tune credis absolutum, Querole, verbis esse te ?
Pejerat [^ _ ^ _ ^ - J saepe qui lacet.
Tantum enim tacere verum est, quantum et falsum dicere »,
dove non si sa capire come ci possa stare una lacuna, mentre l'ul-
timo verso citato, che deve spiegare il contenuto del precedente, non
ci lascia supporre una qualche ommissione in quel Peìerat saepe qui
tacet, espressione proverbiale, significativa e chiarissima per se stessa.
Di questo passo potrei moltiplicare gli esempi: ma bastino i due
recati per dare un'idea del, secondo me, erroneo procedere dell' H.
Qui per altro voglio aggiungere un'osservazione, ed è che non sempre
mi pare che, anche col presupposto dell' H., vale a dire che non si
debbano ammettere più di due specie di versi, si debbano ritrovare
parecchie delle non poche lacune da lui ammesse, e che quindi, pure
seguendo il prestabilito concetto, si sarebbero potute ridurre ad un
numero minore. Per es., l' H. avrebbe potuto ridurre a quattro i
versi 18-22 del pezzo 7 della scena 11 dell'atto I (pp. 199, 200), che
tali sono a me riusciti coli' aggiungere un semplice monosillabo sic
e col cangiare postime in post, aggiunta e cambiamento che egli può
concedere, avendone dato non pochi esempi nella sua edizione.
{
i
— oco —
Ad ogni modo resta all'H. un merito indiscutibile e grande, quello
cioè di aver indicato una nuova via per risolvere l'ardua questione : e
quantunque un malaugurato preconcetto gli abbia impedito di giungere
egli stesso ad una totale soluzione, è certo tuttavia che difiRcilmente
potrebbe altri mettersi alla difficilissima impresa con maggior copia
di erudizione, con maggiore conoscenza della lingua e della metrica
latina, per non parlare della diligenza usata nel riscontrare le va-
rianti di parecchi manoscritti e nel confrontare egli stesso il codice
Parigino che sembra essere del principio del secolo XII. Se non che
pur troppo l'aver relegalo le varianti in appendice al libro (pp. 327-
363), anziché al piede di ciascuna pagina del testo, ne rende assai
malagevole l'uso, obbligando il lettore a cercare per ogni verso le
varianti in quattro distinti luoghi.
Torino, i" febbraio 1882.
Ettore Stampini.
Tre letture sul grado di credibilità della Storia di Roma nei primi
secoli della città di Luigi Schiaparelli. Torino, E. Loescher, 1881
(Estratto dal voi. XVI degli « Atti della R. Accademia delle
Scienze di Torino >).
Malgrado le diligenti ricerche sinora fatte da strenuissimi cultori
delle scienze storiche, archeologiche e linguistiche, è cosa inconte-
stabile, come r egregio autore osserva, che quel rimoto periodo di
storia italica indicato nel titolo del suo lavoro « rimane tuttora in
buona parte un vero problema storico ed etnografico in molti parti-
colari » (p. 2), sì che può lasciar largo campo a ricerche ulteriori, a
studi pazienti, a nuove rivelazioni. D'altra parte, allorquando intorno
ad un'ardua ed intricata questione, come è quella della storia dei
primi secoli di Roma, si sono scritte tante cose in tempi diversi
e con opinioni tanto varie , è sempre assai utile che taluno si
ponga all'impresa di riassumere brevemente e chiaramente quanto da
altri s'è già fatto, affinchè piili distinto e spiccato risulti lo stato
— ooC —
della questione e si possa vie meglio misurare il campo che ancora
si deve percorrere.
Per questo secondo rispetto io credo sia specialmente degna di
considerazione la dissertazione del professore Schiaparelli, senza per
altro negare che qualche osservazione nuova, qualche nuovo punto di
veduta non s'abbia a trovare, come non di rado ne' suoi eruditi scritti.
Una succinta analisi della dissertazione proverà il nostro asserto.
Anzi tutto l'A., dopo aver notato la tendenza di molti scrittori
delle diverse contrade d'Europa ad occuparsi della storia primitiva di
Roma con diversi risultamenti, passa ad esaminare i caratteri delle due
scuole storiche dei tempi moderni, la tradizionale e la critica, osser-
vando che « se i partigiani della credibilità assoluta mostrano talora
grave difetto di storico acume, non è men vero che i più illustri dei
moderni critici della storia romana eccedettero bene spesso tanto
nella parte negativa quanto nella positiva ; sostituendo talora le pro-
prie congetture e l'interna loro convinzione ai monumenti che man-
cano, e interpretando nello interesse ed appoggio del proprio si-
stema quelli che ci rimasero » (p, 3). Da queste parole si può facil-
mente dedurre il sistema che tiene l'A. nella sua disamina, sistema
che chiamerei quasi di conciliazione, per cui, senza negare una certa
importanza alla tradizione nelle sue parti meno inverosimili e spe-
cialmente in ordine alle istituzioni, si accettano le più ragionevoli
conclusioni che si sono proposte dalla scuola critica coli' efficace
aiuto degli studi preistorici, dell'antropologia, della linguistica, della,
epigrafia, ecc. È una prudente riserva che vai certo meglio delle con-
getture arrischiate e delle teorie chimeriche, ma che, mi pare, viene
talora dall'egregio A. spinta tropp'oltre ai giusti limiti, come si potrà
rilevare da quel poco che qui si dirà.
Accennati a guisa di introduzione e dichiarati i due fatti più emi-
nenti della politica interna dei Romani, cioè lo « spirito di aggre-
gazione degli alleati e dei vinti nel loro consorzio civile e politico »
e lo « spirito di espansione dei proprii cittadini colle colonie» (p. 4),
e fatto un cenno del sentimento religioso che dominava in Roma
(p. 7-10), viene tosto a notare la scarsità e poca antichità dei fonti
della primitiva storia romana, e per dar ragione di questi fatti, dà
alcuni brevi cenni sulla introduzione nella penisola italiana, special-
mente nel Lazio, delle lettere e della scrittura alfabetica (p. 11-16),
conchiudendo che « Rispetto a Roma ed al La^io, la scrittura alfa-
— 557 —
betica era certamente nota nel principio della monarchia » p. i5);
ma soggiungendo tosto « che l'uso della scrittura doveva essere som-
mamente raro, secondo la esplicita indicazione di Livio < tiinc lit-
terae erant parvae et ad modum rarae », riferendosi non solo al pe-
riodo della monarchia, ma ancora al primo secolo della repubblica,
anzi fino alla invasione gallica » 'p. i(>), della quale espone accura-
tamente le conseguenze. Quindi, notata la poca importanza degli au-
tori etruschi, greci e italioti riguardo a quel periodo di storia ro-
mana, mette in rilievo la mancanza assoluta di storici contemporanei
nazionali prima del sesto secolo di Roma. Così termina il primo
capitolo.
Nel secondo capitolo si tratta di parecchi monumenti incisi e scritti
anteriori all'incendio gallico, come il trattato coi Latini sotto Servio;
il trattato di Roma coi Gabinii ; il trattato politico e commerciale
« conchiuso dai Romani coi Cartaginesi nel primo anno della re-
pubblica e prima della invasione etrusca »; il trattato imposto da
Porsena ai Romani; i patti di alleanza coi Latini nell'anno 261 di
Roma; la legge Icilia dell'anno 298; la lista delle ferie latine; il
foedus ardeatinum dell'anno 3ii ; e finalmente, nono documento, la
cora^^a di Lino di Volunnio ; monumenti tutti « contemporanei agli
avvenimenti, ai quali accennavano... autentici e sfuggiti alla distru-
zione gallica » (p. 27) e perciò « pervenuti in tutta la loro autenti-
cità ai romani annalisti, anzi agli storici del secolo di Augusto >
(p. 24). Né si dimenticano i monumenti muti; ma l'A. dà loro forse,
come ad alcuno dei precedenti, troppo grande importanza, affer-
mando senza sufficienti ragioni che < concorrono... a scuotere dalle
fondamenta il sistema della incredibilità assoluta della storia dei primi
secoli di Roma e dei primordii della medesima » [p. 28). Tali sono le
muraglie di Romolo ; il carcere Tulliano e Mamertino ; le muraglie
di Servio; la cloaca massima ecc. Ancora io non posso capire come
l'A. si limiti solo a dare importanza minore e non osi risolutamente
negare un vero valore storico ad una serie di monumenti della vecchia
Roma, come le statue degli otto re, quella di Aito Navio, di Ora:{io
Coclite, di Clelia ecc., oltre ad altri monumenti « esistenti ancora sul
fine della repubblica e ricordati piia volte dagli scrittori » [p. 29),
come la casa di Romolo, ed il suo bastone augurale ; // fico ruminale;
gli anelli 0 scudi di cui uno caduto dal cielo ; i sandali e la conoc-
chia di Tanaquilla ecc., cose tutte che uno storico non può prendere
— Ó5S —
sul serio, e sono, come l'A. stesso inclina a credere, da considerarsi
« come il risultamento di leggende posteriori » ai fatti cui accenne-
rebbero.
Passa quindi 1' A. a parlare degli annali massimi o dei pontefici,
che chiama di poco valore in ordine ai primi secoli della città (p. 32),
dimostrando che quelli del periodo anteriore all'incendio gallico do-
vettero essere distrutti per quest'avvenimento, ma che, d'altra parte,
sia che sfuggissero alla distruzione dell' incendio, sia che venissero
restaurati, la loro importanza, come storico documento, era assai
poca, perchè « dovettero limitarsi a contenere i nomi dei consoli e
dei principali magistrati, che nel principio della repubblica erano po-
chissimi, colla semplice indicazione dei fenomeni fisici, che essi chia-
mavano e consideravano come miracoli, di cui Livio fa menzione
anche nei primi cinque libri, e di qualche straordinario politico o
civile avvenimento » (p. 35).
Fa pure menzione dei commentarii pontificum, dei libri poutificuin,
dei libri augurali, ariispiciui e fulgurali,.àeì libri sibillini; delle
leges regiae ossia del ius papirianum, negando a ragione « che an-
teriore all'incendio esistesse una collezione di leggi scritte, quale esi-
stette veramente in tempi posteriori » col titolo menzionato (p. Sg),
e sostenendo giustamente che « La prima collezione di leggi scritte a
Roma fu senza dubbio quella delle dodici tavole » (p. 40). Parimente
menziona i commentarii dei re e dei magistrati ; le tavole censorie,
i libri di lino ; i fasti consolari e calendari urbani e rustici ; le me-
morie e cronache pubbliche e private; gli elogi funebri, immagini,
titoli e nenie ; le tavole delle leggi ; gli atti del Senato e del Popolo ;
le tavole di bronzo; le iscrizioni ed i canti popolari nazionali.
Cosi , dopo aver fatto tale rassegna da me qui molto sommaria-
mente indicata, 1' A. domanda : < Con tanta copia di storici monu-
menti come mai puossi da un lato accusare di assoluta incredibilità
la storia dei primi tre o quattro secoli della città di Roma, e ne potè
dall'altro venir fuora una narrazione di quel periodo così piena di
contraddizioni, di assurdità e d'incertezza rispetto ai fatti, mentre
riuscì così fondata, ragionevole ed istruttiva in ordine alle istitu-
zioni ? » (p. 56). — Il capitolo III è appunto destinato « a distrug-
gere questa evidente contraddizione con progressive osservazioni di
fatto e col ragionamento ad un tempo » (id.).
A tale scopo, accennate le cause dell'incertezza della storia romana
— 559 —
nei primi secoli della città rispetto agli avvenimenti, passa ad esa-
minare la massima di Newton e di Volney relativamente alla durata
della tradizione orale in un popolo, presso cui non sia in vigore
l'uso della scrittura; ma la crede <> applicabile per Roma, in ordine
ai fatti anteriori alla fondazione della città con piccola riserva, ma
non ugualmente rispetto agli avvenimenti posteriori > (p. Sg). Ad
ogni modo però « Non havvi... alcun dubbio che la storia tradizionale
di Roma fu spesso sistematicamente alterata e falsificata dallo spirito
di vanità e d'orgoglio municipale più ancora che nazionale dei Ro-
mani » (p. 60), dall' esagerato patriottismo, dal sentimento religioso
popolare, dall'interesse del Senato, ecc. Pisone Frugi, Dionisio, Po-
libio, Livio stesso. Cicerone mostrano bene spesso pochissima fede
quanto ai primitivi fatti a quelle tradizionali narrazioni; d'altra
parte, né da questi né da altri presso i Romani, o annalisti, o sto-
rici, o antiquarii, fu istituito un lavoro critico su quel primo pe-
riodo della storia romana, per parecchie ragioni ; tra cui gli ostacoli
gravissimi che un somigliante lavoro presentava per le enormi e ra-
dicali mutazioni verificatesi in Roma in quattro o cinque secoli, ri-
spetto a lingua, religione, costumi, commercio e istituzioni. Oltre a
ciò gli « annalisti romani del VI e VII secolo furono quasi tutti uo-
mini politici, che di quel lavoro critico non avevano né voglia, né tempo,
né attitudine » (p. 68), per non dire « che opponevasi indirettamente
alle conclusioni negative, le quali da un serio lavoro critico su quel
primitivo periodo della storia romana sarebbero derivate, il senti-
mento religioso e nazionale del popolo » (p. 71). Quindi sembra al-
l'A. « di potere con tutta sicurezza conchiudere, che la storia di Roma
fino alla ricostruzione della città per Io spazio di 364 anni, quale noi
troviamo negli antichi scrittori, rispetto ai fatti, è piena d'incertezza
ne' generali, di contraddizione e di favole in molti particolari, a cui
neppure gli antichi scrittori prestavano molta fede » (p. cit.).
Ma quanto alle istituzioni l' A. non crede ugualmente giusta né
applicabile una tale conclusione ; giacché, considerati parecchi fatti
di diverso genere ed irrefutabili, si vede che il caratare della pri-
mitiva storia di Roma rispetto alle istituzioni contiene « tutti gli
elementi di quella certezza morale e relativa, di cui anche la critica
più esigente si contenta e debbe contentarsi nella storia antica, nella
quale la certezza assoluta, specialmente nei particolari, è più desi-
derabile che possibile, tranne rarissime eccezioni » (pp. 73, 74).
— oGO —
Da questo rapido cenno può ognuno farsi un'idea dell' importanza
che ha questa nuova pubblicazione dello Schiaparelli, specialmente
per noi Italiani che difettiamo, rispetto a tali studi, di pubblica-
zioni che riassumano quanto sparsamente si è fatto e detto dagli uo-
mini più competenti. E sebbene relativamente ai fatti dei due primi
secoli della storia romana, talora l' A. mi sembri troppo conser-
vatore e troppo perplesso nell' accettare parecchie conclusioni della
scuola critica che non mi sembrano affatto destituite di fondamento,
certo è che la sua Memoria riuscirà di non poca utilità agli studiosi
dell'antica storia di Roma non solo, ma pur anche a coloro che
amano conoscere il movimento degli studi storici in generale e de-
siderano non ignorare, come molti pur troppo fanno, gli ultimi ri-
sultati delle indagini odierne.
Torino, io febbraio, 1S82.
Ettore Stampini.
Roma nella memoria e nelle immagina^jioni del Medio Evo di Ar-
turo Graf. — Volume I, Torino, Loescher, 1882.
Uno de' sentimenti più spiccati che si manifestano nella letteratura
romana, sotto qualunque forma la si riguardi, è, come è noto, il
sentimento patrio. L' idea di Roma, della sua gloria, della sua po-
tenza, della sua immobile ed eterna grandezza è costantemente fissa
nella mente dei romani scrittori, non pur ne' tempi più splendidi
dell'impero, ma anche nella sciagurata età, in cui, per un formidabile
concorrere di dhuse dissolventi, minacciava da ogni parte rovina l'im-
menso colosso innalzato dalla virtù, dalla costanza, dal senno, dalla
fortuna della stirpe latina. Roma è non solo paragone di ogni gran-
dezza, ma si può dire quasi che l'idea di essa incombendo sugli spi-
riti s' identifichi con quella dell' eternità ; tanto che, quando il poeta
esaltandosi nella coscienza della propria grandezza intravvede nel
— 561 —
buio dell' avvenire una gloria imperitura, si augura che possano i
suoi carmi durare
« Dum domus Aeneae Capitoli immobile saxum
Accolet imperiumque pater Romanus habebit ».
(Vero., Aen., IX, 448, 449).
Così pure Orazio, inneggiando alla propria grandezza, al monu-
mento che colla sua poesia ha innalzato
« aere perennius
Regalique situ pyramidum altius »
[Od., Ili, 3o; I, 2)
esprime questo voto :
« usque ego posterà
Crescam laude recens, dum Capitolium
Scandet cum tacita virgine pontifex »
(id., id., 7-9).
E Rutilio Namaziano, per tacere di Claudiano i cui scritti palesano
uno straordinario entusiasmo per Roma, anche dinanzi agli orrori
dell' Italia scorazzata dai barbari, di Roma saccheggiata e rovinata da
Alarico, non può credere che questa possa perire e le innalza nel
principio del libro I del poemetto De redini suo un inno stupendo,
in cui, fra le altre cose, le dice in tono fatidico :
« lUud te reparat, quod cetera regna resolvit:
Ordo renascendist, crescere posse malis.
e Aeternum tibi Rhenus aret, tibi Nilus inundet :
Altricemque suam fertilis orbis alai.
« Fortunatus agam votoque beatior omni,
Semper digneris si meminisse mei. »
(i 39-164, ediz. L. Mueller).
Né sarebbe senza grande interesse uno studio in cui si venissero
Tiivista di filologia ecc. , X. '7
— 562 —
raccogliendo diligentemente tutti quei luoghi degli scrittori romani,
ne' quali più si manifesti il sentimento, la coscienza di Roma e della
sua grandezza, sentimento e coscienza che perdura e, quasi direi, si
accresce anche dopo la caduta ignominiosa dell'impero.
Il libro del prof. Graf è lì per provare la verità di quanto affer-
miamo. Il suo libro con una quantità innumerevole di fatti ci di-
mostra chiaramente « la tendenza degli spiriti nel medio evo a stringere
intorno a Roma l'errante popolo delle favole, a raccorlo sotto la sua
alta dominazione morale » (p. 244); le svariatissime leggende da lui
esposte « affermano la virtù attrattiva di quella Roma medesima,
divenuta centro di gravitazione a tutto il pensiero dei tempi » (id.).
Non bastano poche parole per tessere di questo libro un elogio a-
deguato. Basii il dire che è una pubblicazione della quale il nostro
paese deve andare orgoglioso ; che non saprei quale altro libro, nel
suo genere, gli si possa metter di sopra, sia per ' molteplice erudi-
zione e dottrina, sia per acume di vedute e profondità di osserva-
zioni, sia per una esposizione chiara, linda, senza presunzione e senza
fronzoli, ma cheti alletta e ti fa talora quasi parer romanzo un libro
severamente scientifico. La mente del Graf domina sull'immenso ma-
teriale da lui raccolto, vi domina ordinandolo acconciamente, facendo
vedere i nessi tra i fatti, traendone le leggi, le ragioni intime : il suo
libro è un vero edifizio dove il materiale ha già avuto quel posto
che gli spetta e adempie gli uffizi che gli competono. Enorme è la
quantità dei libri e dei manoscritti letti e studiati dal Graf: lo atte-
stano i numerosissimi estratti da lui dati di opere e codici in varie
lingue che egli andò a cercare nelle principali biblioteche italiane ed
estere, a Firenze, Roma, Bologna, Modena, Milano, Venezia, Parma,
Novara, Torino; Vienna, Monaco, Parigi, Londra, Oxford, Berna.
Cosi che, se taluno per avventura non potrà convenire con lui nell'in-
terpretazione di qualche leggenda, nelTorigine che le assegna, nelle
ipotesi che talora è costretto a sostituire al fatto che manca, nessuno
potrà certamente disconoscere 1' importanza della sua pubblicazione
che colloca il poeta della Medusa fra i più chiari critici ed i più
eruditi uomini del nostro paese.
Diamo un breve riassunto di questo insigne lavoro, avvertendo però
che per la mole straordinaria dei fatti che vi sono raccolti ci rie-
scirà appena di dare una pallidissima idea delle cose principali,
tanta è la moltitudine dei fatti raccolti, tante le osservazioni acute e
- 563-
profonde colle quali l'autore cerca di leggere nell'immenso libro
delle leggende.
Il volume è» diviso in ii capitoli. Nel primo, che ha per titolo
La Gloria e il Primato di Roma (pp. i-43), l'A. mostra come nel
medio evo « Principio e fonte di ogni potestà, Roma è il simbolo
della universale cittadinanza, è la patria comune in cui tutti si rico-
noscono » (p. 2). Esaminando come « nel medio evo si ricordasse la
grandezza di Roma, e quali sentimenti, e quali atti si generassero
dal ricordo » (p. 4), ci fa vedere come dai titoli che le si davano,
di aurea, di mater orbis, di mater imperii, di domina mundi e spe-
cialmente di caput mundi, si possa riconoscere che essa era la più no-
bile, la massima fra le città del mondo. Il suo primato « è ricono-
sciuto da tutti, Italiani e non Italiani » (p. 9). Anzi il concetto che
se ne ha è tale « che in Roma s'immagina quasi tutta raccolta l'an-
tichità » (p. II). Ammirata e magnificata da tutti, l'eterna città « di-
venta come il naturai paragone di ogni umana grandezza » (p. 18),
onde le città andranno a gara « per potersi fregiare, quasi titolo
singolare di nobiltà, del nome di Nova Roma, o di Roma secunda »
(id.). « Città e popoli si studiano di tenersi stretti a Roma quanto
più possono » (p. 21); popoli diversissimi per lingua e per costume
tentano di far risalire a' Troiani le loro origini per dirsi consan-
guinei di Roma (p. 22) : anche « famiglie patrizie, e persino dina-
stie » cercano « in qualche romano illustre il primo loro stipite »
(p. 29).
Ma accanto a questo sentimento di ammirazione un altro si eleva
ed è «quello di una profonda tristezza e di un vivo rammarico al co-
spetto della formidabile rovina di Roma » (p. 33). Ecco dunque sor-
gere « tutto un mondo di colorite finzioni » che si raggira intorno
alle mura di Roma, alle sue maggiori vicende, agli uomini « che
più con l'opre ne illustrarono o ne offuscarono il nome » (p. 38). Ma
il ricordo della passata grandezza, del perduto splendore rende più
amara negli spiriti la coscienza del presente miserabile stato dell'in-
signe città; quindi « le voci che nella età di mezzo suonano intorno
a Roma, non tutte sono di ammirazione e di lode » (p. 39).
Il secondo capitolo (pp. 44-77) ha per argomento Le rovine di
Roma e i «Mirabilia » . In esso, dopo aver parlato delle rovine de' mo-
numenti, della decadenza morale ed economica, della scarsa popola-
zione, della profonda notte d' ignoranza che pesava su Roma, delle
— 564 —
« grandi aree spopolate, invase da tìna selvaggia vegetazione, o co-
perte d'acque stagnanti » (p. 48), delle mortifere esalazioni che in-
fettavano l'aria, dei terribili contagi, ma soprattutto della quoti-
diana opera distruttrice dei grandi e superbi monumenti, a cui « si
aggiungono le devastazioni subitanee e generali » fp. 5o), ci fa co-
noscere come quegli avanzi qua e là sparsi commovessero « col trista
e solenne aspetto gli animi dei riguardanti » e li levassero « alla
contemplazione delle glorie passate ^> (p. 5i). Ma quelli che « dove-
vano di certo rimanere più profondamente impressionati alia vista
delle rovine che non gli stessi Romani » (p. 56), erano i pellegrini,
ai quali crede l'A. che si debbano « la maggior parte delle imma-
ginazioni raccolte nei Mirabilia e nella Graphia ■» (id.). Dal sec. VII
in giù si facevano sempre più numerosi i pellegrinaggi a Roma :
dalle menti dei pellegrini « riscaldate dal sentimento religioso e dalle
peripezie del viaggio » dovevano certo nascere molte strane imma-
ginazioni, dalle quali « dovettero avere origine, almeno in parte, i
Mirabilia » (p. 58). E qui l'A. si accinge a trattare una serie dì
questioni intorno ai Mirabilia ed alla Graphia, e le tratta da par suo
con profonda dottrina, prendendo ad esaminare le opinioni di mol-
tissimi dotti. Riguardo ai Mirabilia poi accenna alle diversità più o
meno rilevanti che ne presenta il testo negli innumerevoli mano-
scritti ed alle variazioni cui esso andò soggetto in processo di tempa
(p. 68 e segg.); quindi passa a discorrere della Polistoria di Giovanni
Cavallino de' Cerroni che l'A. crede si possa considerare «come il
primo trattato di antichità romane che siaci rimasto » (p. 77).
Argomento del capitolo terzo (pp. 78-108) è La fonda^fione dì
Roma. Fatto un cenno di parecchie leggende risalenti all'antichità
classica e degli autori che ce le conservarono, l'A. nota come per
l'intimo legame che stringeva nelle menti del medio evo le sorti di
Roma con quelle del cristianesimo, « ragion voleva che la leggenda
si prolungasse innanzi e indietro, nel futuro e nel passato, sino a
quegli estremi termini a cui la storia stessa, cosi com'era figurata e
limitata nel dogma, le poteva concedere di pervenire. Per una parte
dunque la leggenda si stende sin quasi alla catastrofe del gran dramma
dell'umanità, il Giudizio Universale: l'Anticristo porrà fine al sacro
romano impero. Per un'altra essa rimonta indietro sino a Noè » (p. 80).
La leggenda di Noè primo fondatore si trova per la prima volta no-
tata nella Graphia aiireae urbis Roiìiae (p. 81) : ne parlnno molti scrit-
— 565 —
tori del medio evo, sebbene non si possa dire che attingano sempre
alla stessa fonte (pp. 82, 83). Riportata quindi una « ingarbugliatis-
sima storia di Giovanni d'Outremeuse » e toccate parecchie altre leg-
gende, specialmente una rabbinica assai curiosa (pp. 91,92), passa
alle leggende di Romolo e Remo, lasciando a parte i successori di
Enea ; alla favola della lupa nutrice ; alla fondazione di Roma per
opera dei due fratelli ; alla morte di Renio dopo aver fondato Reims;
alla leggenda orientale riguardante 1' « espiazione del fratricidio com-
piuta da Romolo nelle feste Lemurie » (p. 106); al matrimonio di
Romolo, altrimenti detto Armelo, con Bisanzia, figlia di Bisas re di
Bisanzio, leggenda parimente orientale; ai sepolcri di Romolo e
Remo, ecc.
Assai interessante è il capitolo quarto (pp. log-iSi) riguardante Le
meraviglie e le curiosità di Roma. La celebrità delle sue rovine è
assai grande e diffusa nel medio evo. « Nei Mirabilia alle sette
meraviglie del mondo, fra cui è il Campidoglio, fanno degno ri-
scontro le sette meraviglie di Roma, le quali sono : l'Acquedotto
Claudio, le Terme di Diocleziano, il Foro di Nerva, il Palazzo Mag-
giore, il Pantheon, il Colosseo, la Mole Adriana » (pp. 112, 113). 11
Palazzo maggiore, sotto il cui nome « si comprendevano, pare, tutte
le rovine del Palatino », « si credeva fosse stato sede ordinaria degli
imperatori e della suprema potestà del mondo » (p. cit.). Celebrità
ancor maggiore ebbe il Colosseo, che « fu nel medio evo, com'è
tuttora, la rovina più cospicua della città, e la più acconcia a inspi-
rare un alto concetto della ricchezza e della potenza de' suoi co-
struttori » (pp. I i"^, 119). Passando poi a discorrere del colosso di
Nerone (p. 120), che il medioevo sapeva come rappresentasse il Sole,
l'A. nota che per « una certa attrazione, provocata, se non altro, dalla
somiglianza dei nomi » (p. 122), il colosso del Sole « finisce per en-
trare nel Colosseo che gli sta dinanzi, e il Colosseo diventa a dirit-
tura il Tempio del Sole»(id.). Notate parecchie altre leggende che si
riferiscono al Colosseo, prende a parlare del Pantheon (pp. i3o-i32),
della cui sontuosità peraltro non si narrano nel medio evo gran me-
raviglie ; del Mausoleo di Adriano (pp. i33, i34); del Circo Massimo
(pp. i35, i36); dei palazzi ricordali nei Mirabilia, neWa Graphia, ecc.
Viene poscia a discorrere delle terme; degli acquedotti; dei ponti;
dei due gruppi colossali di Monte Cavallo, su cui racconta una strana
favola contenuta nei Mirabilia (pp. 141, 142), ecc. Detto della Co-
— 566 —
lonna Antonina (p. 146), riferisce l'A. alcune stravagantissime imma-
ginazioni degli Arabi intorno a Roma : alle quali fan degno riscontro
le rabbiniche con cui si chiude il capitolo.
Nel quinto (pp. 1 52-181) si parla dei tesori di Roma. « La fama
della ricchezza di Roma era pari alla fama della sua potenza » (p. i52).
Si credeva che ne' suoi bei tempi dovesse riboccare di tesori; e questa
opinione veniva avvalorata dalie monete, dai vasi, dalle gemme che
si ritrovavano qua e là per l'Europa e che risguardavano la romana
opulenza (p. i55). Era perciò naturale che si credesse del pari che
sotto le sue rovine dovessero essere sepolti grandi tesori. Di qui una
serie di leggende curiose e diverse, parecchie delle quali hanno in
comune una statua « che copertamente indica il tesoro » (p. 167).
E « poiché Roma toccò il sommo della prosperità e della gloria
sotto il magnifico reggimento di Augusto così per quella consuetu-
dine propria del medio evo di tutto riferire al principe quanto v' è
di più spiccato nella vita di un popolo, si cominciò a considerare il
primo imperatore di Roma come un rappresentante, anzi come un
depositario della universale ricchezza romana » (pp. 171, 172). Ed
ecco nascere una quantità di leggende di tesori inestimabili ammas-
sati da Ottaviano e che « giacciono sepolti entro certe cavità della
terra, affidati alla custodia di spiriti maligni, o di singolari ingegni,
artifiziosamente e per arte magica composti » (p. 173). Non è quindi
a stupire che nelle immaginazioni medievali a poco a poco il libe-
rale e magnifico Augusto, come dice l'A. (p. 180), si trasformi in un
principe cupido e avaro.
La potenza di Roma è argomento del capitolo sesto (pp. 182-229).
« Durante lutto il medio evo, nei tempi più sciagurati, in fondo alla
maggior miseria, Roma serba un' aria di signoria che impone ri-
spetto » (p. 182). Tuttavia « quella potenza, che non ebbe l'eguale
nel mondo, appare agli spiriti inesplicabile e miracolosa » (p. i83).
Ed ecco che si ricorre alle spiegazioni soprannaturali : ed ecco sor-
gere la famosa leggenda della Salratio Romae. della quale discorre
diffusamente l'A. allontanandosi, quanto all'origine di essa, dalle opi-
nioni del Massmann, del Bock e del Comparctti. Egli crede questa
leggenda nata in Roma nel quarto o nel quinto secolo (p.20i)daun
complesso di cause che qui sarebbe troppo lungo riferire, ma che,
a parer mio, rendono non inverosimile l'opinione dell'A., cui sembra
dare conferma anche la narrazione dell'Anonimo Salernitano (pp.
20 5, 206),
_ 567 -
Di fronte alla Salvatio ed alle leggende molteplici cui diede nasci-
mento troviamo « alcune leggende di carattere al tutto opposto, le
quali mostrano Roma esposta a pericoli, o vinta da nemici di cui
la storia non serba ricordo >■> (p. 214). Riguardano tali leggende e
Alessandro Magno e Davide e i Sicambri e i re della Persia, gli Un-
gheresi, i Danesi, Attila, ecc. È da dirsi però che nella credenza del
medio evo Roma non doveva soltanto agli aiuti sovrannaturali del-
l'arte magica la sua grandezza e la sua signoria ; che « La giustizia,
il senno e il valore dei Romani sono ricordati continuamente, e pro-
posti come nobile esempio da imitare » (pp. 222, 223). « Il senno la-
tino è riconosciuto e ammirato » (p. 227).
Gli altri cinque capitoli (pp. 230-402) riguardano gl'imperatori.
Nel settimo si discorre della Leggenda degli imperatori in generale :
Giulio Cesare, Ottaviano Augusto e Nerette sono ciascuno argomento
di un capitolo; di Tiberio, Vespasiaito , Tito si paria nell'ultimo
capitolo.
L' A. divide in due classi le leggende imperiali: « la prima, di
quelle che si appiccano a imperatori reali, la seconda, di quelle che
creano imperatori immaginarii » (p. 238). Di questi ultimi si tratta
nello stesso capitolo settimo già citato. Non solo si notano trasposi-
zioni d'ogni maniera nelle liste degl'imperatori (pp. 238-244); ma tro-
viamo in libri del medio evo una lunghissima filza di imperatori
fantastici dei quali l'A. dà un cenno.
Venendo a Cesare (cap. Vili), ci dice l'A. che « è generalmente
considerato nel medio evo quale primo imperatore » (p. 248). La sua
celebrità è maggiore di quella di Augusto : moltissimi libri del medio
evo trattarono delle sue imprese. La fantasia lavora intorno al suo
nome, alla sua nascita, alle sue guerre; s'inventano nuove guerre da
lui combattute ; sono celebrati i suoi trionfi : gli si fanno fondare
molte città, ecc. La sua morte violenta è poi il fatto che sopra tutti
gli altri si ricorda, e viene narrata e spiegata in varii modi. Né meno
notevole è quanto s'inventò riguardo al suo sepolcro, creduto anche
da taluno opera di Virgilio. Insomma Cesare « è agli occhi degli
uomini del medio evo la più grande e nobile personificazione della
potenza >> ; e la sua gloria « oscura quella di Alessandro Magno »
(p. 302).
Il capo IX è consacrato ad Ottaviatto Augusto. La sua celebrità
< nasce di due cagioni principalmente : 1' avere egli levata Roma al
- 568 -
più alto grado di prosperità; l'esser nato sotto il suo reggimento il
Redentore del mondo » (p. Sog). Di qui la leggenda della sua visione
e della origine di Ara Caeli (pp. 3o9-32i), cui se ne aggiungono pa-
recchie altre riguardanti ora la bellezza dell' imperatore, ora le sue
crudeltà e la sua lussuria, ora costruzioni che fece di templi che ro-
vinano la notte del nascimento di Cristo, la cui venuta è annunziata
da molti segni e vaiicinii ; ora la sua morte e la sua sepoltura.
Non meno celebre è nel medio evo Nerone (cap. X), ritenuto dopo
Giuda « l'uomo più empio e scelerato che sia mai vissuto al mondo »
(p. 332). Di lui si ricordano inaudite crudeltà ed infamie. « Quasi
che i delitti da lui veramente commessi non fossero abbastanza nu-
merosi, altri gliene sono imputati che non commise, e non poteva
commettere » (p. 334). Di lui si nota il lusso stravagante e l'insensata
prodigalità ; le dissolutezze e le lascivie, al che si lega la strana leg-
genda della sua gravidanza (pp. 338-342) e dell'origine del Laterano ;
la condanna a morte di san Pietro e san Paolo >< per vendicare l'a-
mico suo Simon Mago » (p. 347), del quale 1' A. discorre alquanto;
la sua morte ignominiosa, il suo sepolcro, la sua futura risurrezione
precedendo immediatamente l'Anticristo; i monumenti cui è legato
il suo nome , sebbene viva pure nel medio evo la memoria de' suoi
buoni principii sino a « fare di lui un amico di Cristo e quasi un
credente » (p. 345).
Molta importanza ha il capitolo XI ed ultimo, come quello che
tratta ampiamente, con ingegnose osservazioni e verosimili ipotesi
basate su fatti molteplici, della 'Vendetta di Cristo considerata nella
sua forma piena e finale, vendetta cui nelle immaginazioni medievali
sono legati i nomi di Tiberio, Vespasiano, Tito, da cui s'intitola il
capitolo, lo credo che questa sia la parte del libro del Graf ove
meglio si può scorgere la singolare sua attitudine a coordinare fra
loro i fatti leggendarii, a scoprirne i punti di contatto e le diver-
genze ; a rintracciare il nucleo primitivo di ogni leggenda e quindi
seguitare le molteplici accessioni onde si venne ampliando ; a notare
gl'incontri e le fusioni, gli scambii, le variazioni avvenute in quel
mondo bizzarro e cotanto interessante. Di fatto la leggenda della
Vendetta di Cristo è molto complessa e risulta di diverse parti che
vennero aggregandosi in tempi diversi, lo non posso qui darne nep-
pure un'idea, che la troppa complessità della leggenda richiederebbe
anche in un riassunto uno spazio assai grande. Dirò solo che l'A.
— 569 —
riconosce in quella leggenda cinque gradi ; che la leggenda di Ti-
berio, il quale prima propone, per gli onori divini, Cristo al senato
e poi diventa a dirittura suo vendicatore, si fonde con quella della
Veronica, ed, insieme con questa, finisce per fondersi con quella
della distruzione di Gerusalemme. — Al capitolo XI sono aggiunte
tre appendici (pp. 403-460); la prima contenente importanti indica-
zioni sulle versioni e redazioni che di quella leggenda si hanno nelle
varie letterature d' Europa ; la seconda contenente una leggenda di
Pilato in vecchio francese (482 versi) tratta da un codice della Na-
zionale di Torino; la terza contenente in 1189 versi un racconto,
anche in vecchio francese , tratto da un codice della medesima bi-
blioteca, della vendetta che Vespasiano fece di Cristo.
Conchiudo facendo voti che il chiaro professore possa presto pub-
blicare il secondo volume. Gliene sapranno grado quanti amano una
solida e larga coltura, non che quelli che desiderano accrescere le
proprie cognizioni riguardo ad un argomento che ha tanti punti di
contatto cogli studi dell'antichità classica.
Torino, 1" marzo, 1882.
Ettore Stampini.
La filosofia morale di Aristotele. Compendio di Francesco Maria
Zanotti con note e passi scelti òeìVEtica Nicomachea per cura di
L. Ferri e di Fr. Zambaldi professori nella R. Università di Roma.
— Ditta G. B. Paravia, Torino-Roma-Milano-Firenze, 1882.
I nuovi Programmi per le scuole secondarie (16 giugno, 1881), nei
quali è prescritto che l'insegnamento della Filosofia morale sia impar-
tito sui libri di Aristotele a Nicomaco avrebbero dovuto parere assai
meno strani di quello che furono comunemente giudicati, se fossero
stati esaminati più tranquillamente e spassionatamente, senza quella
— 570 —
profonda preoccupazione, che valse a fuorviare la mente di alcuni,
che cioè con essi s'accampava la pretesa che i dottori in filosofìa
avessero conservato e coltivato quella notizia di greco, che d'altra
parte, a vero dire, avevano potuto e molti anche dovuto apprendere
nel corso dei loro studi universitari. Non fu la prima l'Italia ad in-
trodurre nelle scuole quest'opera aristotelica, sulla quale omai passa-
rono ben ventidue secoli senza che ne deformassero le molte bellezze ;
ma essa era già in parte stala prevenuta dalla Repubblica Francese,
che appunto, due anni or sono, volle che nelle classi di filosofìa si
facesse la lettura di alcuno tra i libri della medesima (Cf. Revue
Critique dliistoire et de littérature, 1881, p. 82, art. 161). Una inva-
sione delle più strane e disparate dottrine era incominciata e si stava
compiendo nelle nostre classi liceali ; con Aristotele tutto scompare,
e mentre dall'un lato i nostri giovani sono invitati a meditare sopra
uno de' più pregevoli scritti del più grande pensatore che sia mai
sorto tra gli uomini, dall'altro si presenta loro una dottrina, che
certo non è. senza imperfezioni, ma che pur non dà luogo a quei
molti inconvenienti che si lamentavano in altre. Né devesi badare
più che tanto alla difficoltà opposta, che i dottori di filosofìa non
debbono dar prova di saper interpretare il greco difficilissimo dì Ari-
stotele ; innanzi tutto quel non debbono vorrebbe essere, come ognun
vede, un po' meglio determinato; quel difficilissimo poi non è altro
che una esagerazione. Cito a sostegno delle mie parole quelle di
F. Figliucci (1) : « Sono ancora le scienze morali più agevoli che
le speculative, perchè con più facilità le ha trattate il filosofo (Ari-
stotile) e con termini più usati e con stile piano e chiaro, dove negli
altri suoi libri è stato oscuro e breve, ecc. » e quelle del Ramsauer(2):
« ... quumque intellexissem, plerumque ad Nicomachea legenda ac-
cedere qui librorum Aristotelicorum paene rudes essent, non tan-
tum, etc. ».
Appena pubblicati i programmi, si procacciò subito da uomini vo-
lonterosi di venire in soccorso degli insegnanti con opportune pub-
(1) Della filosofia inorale, libri dieci sopra i dieci libri deW Etira di
AristotiU, p. 4, Venezia, lr52.
(2) Aristoteus, Etìlica Nicomachea., edidit et commentario continuo
instruxit G. Ramsauer, p. V, Lipsiae, 1878.
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blicazioni ; l'editore Berardino Ciao di Napoli fece stampare dalla
tipografia Festa un libro che portava sulla copertina il seguente titolo:
ARISTOTILE
La morale a Nicomaco.
Versione italiana fatta sull'edizione del Bekker
per
Francesco Maria Zanotti
proposta come libro di testo ne' licei d'Italia col regolamento Baccelli
del Giugno 1881.
Non occorre neppure che io metta qui l' una di fronte all'altra le
due date, della morte dello Zanotti e della nascita del Bekker, per
rendere palese la sciocca menzogna ; ma soggiungerò che poi vera-
mente il libro non contiene altro che la morale dello Zanotti senza
note e senza grande accuratezza tipografica ; note ed accuratezza ti-
pografica che non mancano nell'edizione fattane dal Barbèra, quan-
tunque le note siano una ben povera cosa (i). Una vera tradu-
zione àeW Etica a Nicomaco fu pubblicata nel passato novembre in
Torino dal Paravia (2); non voglio negare che il giovane autore della
medesima abbia dato una cotal prova del suo ingegno, della sua pe-
rizia nella lingua greca e, aggiungerò anche, del suo singolare ardi-
mento coU'accingersi a tradurre in italiano quest'opera in tale spazio
di tempo che ad altri sarebbe parso troppo breve per intenderne a
dovere poche pagine; ma, come era naturale, furono tante le cadute,
che ad enumerarle tutte converrebbe trascrivere qui buona parte
(1) La filos. mor. ecc., nuovamente pubblicata per uso delle scuole
per cura di un dottore in filosofia, Firenze, 1881.
(2) Aristotile, La morale a Nicomaco, traduzione letterale italiana
fatta sull'edizione del Bekker.
del volume ; taccio de' periodi fieramente distratti fra loro e ince-
denti ciascuno per conto proprio (l'autore del sillogismo ci appare in
questa traduzione uno sconclusionato parolaio) e cito solo alcuno dei
gravi errori che trovo disseminati qua e là, aprendo a caso il volume.
A pag. 1 1 si legge questo periodo : « Più finale poi diciamo il ri-
cercabile per sé, del ricercabile per altro, e il non mai eleggibile per
altri dei fini e per sé, e per quello eleggibili e semplicemente fi-
nale, il fine sempre eleggibile per sé, e non mai per altro »; mentre
si poteva e forse si doveva rendere italiane le parole di Aristotele
{log-ja 3o} nel modo seguente : « Diciamo poi che quel bene, che
si ricerca per sé, è più perfetto di quello che si ricerca per ca-
gione d'altro bene, e che quel bene, il quale non si elegge mai per
cagione d'altro, è più perfetto de' beni che si eleggono e per sé e per
cagione di questo ; ed è poi senza dubbio perfettissimo tra i beni
quello che sempre si elegge per sé stesso e non mai per cagion
d'altro ». — Nella medesima pagina (1097 Z» 14): « ora stabiliamo
essere bastante a se stesso ciò che da sé solo preso fa [in nota: co-
stituisce), la vita e di nulla abbisogna »; mentre si poteva e forse si
doveva dire : « per ora teniamo fermo che sufficiente per se stesso è
ciò che anche da solo fa la vita desiderabile e di niuna cosa biso-
gnevole »; a pag. 29: « Ma quello prima si accordi che, ogni di-
scorso intorno alle cose operabili, in genere, e non con esattezza,
conviene sia fatto, come anche riguardo ai principii dicemmo, che,
secondo la materia si devono esigere i ragionamenti »; mentre pur si
poteva e forse si doveva dire {iio'ib 34): « Ma questo ci sia innanzi
tutto concesso, che ogni ragionamento intorno alle cose agibili debba
procedere a un digrosso e non con esattezza, perchè, secondo quello
che s'è detto fin da principio (i), i ragionamenti si debbono esigere
tali, che rispondano alla materia ». — Quindi io conchiudo che se si
(1) 11 Kax' àpxà; è reso dal traduttore malaineute per secondo i prin-
cipii \ bene invece il Segni per sì come da prima fu detto; cioè a
p. 1094 6 13, dove si legge : « imperoccliè l'esattezza non s'ha da cercare
a un modo in tutti i ragionamenti, ecc. ». Sembra aver fatto intoppo
al traduttore il plur. ópxóc, e non doveva, se si fosse ricordato del Cur-
tius [Gramm. Gr., 459, B, b] o meglio, se avesse consultato I'Eucren
{Ueber die Sprachgehraxich des Arisioteles, li, p. 41, Berlino, 1868),
che fa un utile paragone fra Kax' àpxa; e kot' àpX'ìv ed èv ùpxfl-
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voleva una traduzione letterale, era meglio ripubblicare quella del
Lambino, e che, se se ne voleva un'altra più elegante, era meglio ri-
pubblicare quella del Segni, oramai fatta rarissima.
Sembra che gli egregi professori Luigi Ferri e Fr. Zambaldi abbiano
degnamente provveduto ai bisogni delle nostre scuole col libro che
qui si annunzia, curando il primo un'edizione con note del Manuale
dello Zanotti , commentando il secondo una serie di capitoli, rac-
colti daìV Etica a Nicomaco dal Ferri, i quali contengono la parte
capitale della dottrina aristotelica.
Dapprincipio il Ferri riassume la vita dello Zanotti, toccando delle
principali sue opere; a pag. 12 facendo speciale menzione dell'aureo
libretto di lui intorno alla morale de' Peripatetici, mostra in che dif-
ferisca la dottrina aristotelica da quella dello Zanotti, il quule si al-
lontana dal suo maestro specialmente sopra quattro punii, che sono:
1 Ma legge morale; 2" il piacere e la sua relazione col bene; 3Me idee e
le verità ideali ; 4" la vita futura. — Per dare una chiara idea del libro
e del modo con cui venne acconciamente preparato per uso delle
scuole, accennerò qui alle note più importanti che corredano la prima
parte. — A p. 24 si tratteggia a grandi linee la vita di Aristotele e si
tocca brevemente delle opere di lui ; a pag. 39 si fa particolare men-
zione de' suoi scritti etici, indicandone il diverso scopo. (Qui avrei
aggiunto, a far cessare la meraviglia degli scolari e forse anche quella
di qualche insegnante, il perchè 1' Etica detta grande sia poi la più
piccola di tutte). A pag. 40 si mostra come A. per determinare il
concetto di fine ultimo dell'uomo o sommo bene muova dalla divi-
sione delle specie fondamentali della vita, vegetativa, sensitiva e ra-
zionale, indicandone le funzioni; a pag. 41 {nota 2) si espone da
quale ragionamento sia stato condotto A. ad immedesimare il sommo
bene colla felicità perfetta o beatitudine; a pag. 43 si nota l'oscilla-
zione che si trova nelT Etica di A. fra l'elemento sensibile e il ra-
zionale, oscillazione che creò sempre un grande impaccio a' suoi
espositori ; dalla nota che è a pag. 46 trascrivo le seguenti parole,
che mi paiono molto assennate: « Zanotti, fedele ad Aristotele, tratta
le due parti del bene sommo da lui chiamato felicità, come se fos-
sero due concetti di ugual valore, come se si potessero sommare, al
pari di due quantità omogenee, per ottenere il perfetto bene; mentre
il bene è un genere, che comprende la specie del piacere (bene sen-
sibile) e della razionale attività pratica (bene morale) ». A pag. 49
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{nota i] ed a pag. 5o {nota i) ed a pag. 5i {ìioia i) si fanno utilis-
simi paragoni delle dottrine platoniche colle aristoteliche; a pag. 54
si citano, dal capo Vili del lib. I deWEtica a N., alcune importanti
proposizioni che affermano l'unione della felicità colla virti^i. Il libro,
come era da aspettarsi dal Ferri, è fatto con grandissima diligenza
ed acutezza ; molte notizie storiche, attinte ad ottime fonti, chiari-
scono, quanto ò necessario, le dottrine dei filosofi menzionate dallo
Zanotti (i).
Né è da dire che sia venuto meno all'ufficio suo il prof. Zambaldi,
il quale, seguendo di preferenza il commento di C. L. Michelet (2),
ci dà con piena competenza la dichiarazione delle più diffìcili frasi
aristoteliche. Egli fece con buon criterio una scelta dei più impor-
tanti passi ddVEtica a N., e questi poi viene corredando di oppor-
tune note, con utili confronti di luoghi paralleli e citazioni di an-
tichi commentatori; se non che, quei luoghi paralleli e queste cita-
zioni avrei preferito che fossero ridotte in un italiano semplice e fa-
cile, che alleviasse la fatica dell' insegnante e spianasse la strada al
buon volere de' discenti ; nel che non tenne sempre eguale misura,
perchè mentre ci dà la versione di frasi semplicissime, ad esempio, di
Tr\c, avTr\c, >^|uépa<; (p. 257), non ci dice poi nulla di altre che hanno
maggior difficoltà. Leggendo le note dello Z. mi vennero in mente
alcune osservazioni ; in esse, come si vedrà, non si vuole già cogliere
in fallo il chiaro Ellenista, ma soltanto fargli qualche proposta, che
a me non parrebbe senza alcuna utilità. A pag. 194, data la in-
terpretazione dello Zeli e del Gifanio, potevasi molto utilmente citare
il passo della Metafisica (1, i, q'^ia 3o), dove sono fra loro parago-
nati gli ópxiTéKToveq ed i x^ipoTcxvai , col relativo commento del
Bonitz ; a pag. iq5 si spiega la frase cip' oi3v coU'autorità grandissima
del Mureto; ma il fatto che A. usa talvolta di interrogare in luogo
di affermare è molto meglio dichiarato dal Bonitz (Ind. Ar., gob
38): « ipsum fipa in interrogationibus simplicibus non raro ita usur-
(1) Del Ferri si potrà anche molto utilmente consultare lo scritto pub-
blicato nella Filosofia delle scuole italiane (anno XIII, voi. 25, disp. 2')
col titolo: « Dottrina aristotelica del Bene e sue attinente colla ci-
viltà Greca e Italiana >i.
(2) Caroli Ludovici Michelet, Cowm(?M<a>-ìa in Aristotelis Ethicorum
Nichomacheorum libros decem., Ed. Il, Berolini, 1848.
— O/O —
patur, ut interrogatio vim habeat enunciati modeste vel dubitanter
affirmantis »; nella medesima pagina per far meglio intendere il va-
lore di TUTTUJ irepiXaPeTv potevasi addurre la spiegazione del Trende-
LENBURG [Elementa Log. Arìst., -^as,. 5o, Ed. VI), e poi paragonare
tOttiu irepiXaiuPàveiv, òiopiZeiv, Gempeìv con ùiroYpàqpeiv (le due espres-
sioni irovansi accoppiate nel D^ ^»nn(3, II, i,4i3a io: tvjttuj toùti^
GeujpeiaGuu koX ÙTT0YeTP<iqp9uJ frepi qpux>ì<;), per conchiudere che A. alla
trattazione ampia e precisa della materia talvolta ne contrappone o
premette un'altra così in di grosso, in abbozzo (ciò che egli indica
con frasi tolte ad imprestito dallo scultore, p. e., tùttuj iiepiXaiLiPdveiv
o semplicemente ùttotuttouv, o dal pittore ùnofpdqpeiv oppure àva^pd-
qpeiv) e che finalmente tùttlu XÉYeiv viene a significare un ragiona-
mento probabile in opposizione ad un altro certo ed esatto., come nel-
l'esempio : Tiàc, ò irepl tùjv irpaKxiùv Xóyo^ tuttuj koì oùk àKpiPOLn; òqpeiXei
Xé^eaQai [Eth. a Nic., I, 2, 1104^ i). A pag. 197 si legge: « il pre-
dicato è neutro come spesso nelle sentenze, ecc. »; molto meglio il
BoNiTZ {Ind. Ar., 4.84 a 5o) : « Apud Aristotelem perinde atque apud
omnes scriptores Graecos (Matthiae, Gr.Gr., § 4?7) adiectivum prae-
dicati loco positum interdum non sequitur genus subiecti, sed sub-
stantivi instar genere neutro ponitur Peculiaris Aristoteli videtur
esse negligentia quaedam et inconcinnitas in coniungendo genere
neutro cum aliis generibus ». — A pag. 198 è bellissima l'osserva-
zione : « Dopo la vita sensitiva non ricorda qui, come fa altrove la
vita appetitiva, 1^ òpeKxiKn luuri , forse perchè V òpe£i<;, in quanto è
istintiva, è compresa nell' alaBriTiKri ecc. », ma potevasi dare maggior
fede a questo breve ragionamento riferendo dal De Anima (II, 2,
413^ 20) le parole seguenti: « perocché ciascun segmento (degli in-
setti) ha sensibilità e moto locale, e, se sensibilità, anche fantasia ed
appetito (òpetic;); perchè dove è sensibilità, ivi è anche piacere e do-
lore, e dove piacere e dolore, necessariamente anche desiderio ».
Connettendo in tal modo le facoltà dell'anima, non è meraviglia che
A. talvolta nella enumerazione delle medesime ne ommetta qualcuna,
come fece, per es., nel De Anima (II, 2, 4i3b 12), dove erroneamente
lo Steinhart a Kivt'iaei vorrebbe far seguire òpéEei (1).
(1) Quosta osservazione ci aiuterà a sciogliere un piccolo nodo che si
incontra nel Convito di Dante. Ivi (Tratt., IV, 7; pag. 431, 83, ediz.
— 576 —
Come già dissi più innanzi, a me sembra molto lodevole la scelta,
che il Ferri fece dei passi commentati dallo Zambaldi ; citerò il ti-
tolo di quelli che sono ricavati dal libro I :
Gap. I, Diversità dei fini e dei beni. Fine ultimo e bene sommo.
Ordine delle scienze e delle arti conforme a quello dei fini e dei
beni.
Gap. VII. 11 fine ultimo e la felicità.
Gap. X. Elementi costitutivi della vita felice: virtù, piacere, beni
esterni e di fortuna.
Ma a questo punto non avrei tralasciato quel tratto del cap. XIII
(ii02a 27 — noia io) in cui si ricerca la natura delle due parti
dell'anima, perchè « secondo la differenza, dice A., di queste due
parti si dividono pure le virtù, e così diciamo che alcune di esse
sono intellettive, e alcune sono dette morali: la sapienza, l'intelli-
genza e la sagacità sono virtù intellettive ; la liberalità e la tempe-
ranza sono morali » .
Torino, 18 maggio 1882.
G. B. Barco.
Giuliani) leggiamo : « Siccome dice Aristotile, nel secondo delV Anima,
vivere è l'essere dalli viventi ; e perciocché vivere è per molti modi (sic-
come nelle piante vegetare, negli animali vegetare e sentire, negli uo-
mini vegetare, sentire e ragionare ovvero intendere], e le cose, ecc. ».
Gli editori milanesi, seguendo un unico codice, a seyìtire aggiungono
muovere. Contro tal lezione non solo si può citare l'altro testo di Dante
[Conv., III, 2) : Aristotele « dice che l'Anima principalmente ha tre po-
tenze, cioè vivere, sentire e ragionare', e dice anche muovere \ ma
questa si può col sentire fare una, ecc. », dove quell'anche rischiara
subito ogni cosa; ma potevasi far meglio, recando innanzi queste bel-
lissime parole del filosofo di Dante [De A«., Il, 2, AVÒh I): « Pertanto
la vita è negli esseri viventi mediante questo principio (vegetativo), e
Vanimale poi è essenzialmente costituito tale per via della sensibilità;
ed invero, noi diciamo animali e non soltanto esseri viventi anche
quelli che non si muovono e non mutano posizione, ma che sono dotati
della sensibilità ».
Pietro Ussello, gerente responsabile.
PA
9
P.55
vao
Riviste di filologia e di
istruzione classica
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